Opera al Nero di Dira_ (/viewuser.php?uid=35716)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitoli XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXX ***
Capitolo 32: *** Capitolo XXXI ***
Capitolo 33: *** Capitolo XXXII ***
Capitolo 34: *** Capitolo XXXIII ***
Capitolo 35: *** Capitolo XXXIV ***
Capitolo 36: *** Capitolo XXXV ***
Capitolo 37: *** Capitolo XXXVI ***
Capitolo 38: *** Capitolo XXXVII ***
Capitolo 39: *** Capitolo XXXVIII ***
Capitolo 40: *** Capitolo XXXIX ***
Capitolo 41: *** Capitolo XL ***
Capitolo 42: *** Capitolo XLI ***
Capitolo 43: *** Capitolo XLII ***
Capitolo 44: *** Capitolo XLIII ***
Capitolo 45: *** Capitolo XLIV ***
Capitolo 46: *** Capitolo XLV ***
Capitolo 47: *** Capitolo XLVI ***
Capitolo 48: *** Capitolo XLVII ***
Capitolo 49: *** Capitolo XLVIII ***
Capitolo 50: *** Capitolo XLIX ***
Capitolo 51: *** Capitolo L ***
Capitolo 52: *** Capitolo LI ***
Capitolo 53: *** Capitolo LII ***
Capitolo 54: *** Capitolo LIII ***
Capitolo 55: *** Capitolo LIV ***
Capitolo 56: *** Capitolo LV ***
Capitolo 57: *** Capitolo LVI ***
Capitolo 58: *** Capitolo LVII ***
Capitolo 59: *** Capitolo LVIII ***
Capitolo 60: *** Capitolo LIX ***
Capitolo 61: *** Capitolo LX ***
Capitolo 62: *** Capitolo LXI ***
Capitolo 63: *** Capito LXIII ***
Capitolo 64: *** Capitolo LXIII ***
Capitolo 65: *** Capitolo LXIV ***
Capitolo 66: *** Capitolo LXV ***
Capitolo 67: *** Capitolo LXVI ***
Capitolo 68: *** Capitolo LXVII ***
Capitolo 69: *** Capitolo LXVIII ***
Capitolo 70: *** Capitolo LXIX ***
Capitolo 71: *** Capitolo LXX ***
Capitolo 72: *** Capitolo LXXI ***
Capitolo 73: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Tutto quel
che accade una volta potrebbe non accadere mai più.
Ma
tutto
quel che accade due volte, accadrà certamente una terza.
(L’Alchimista,
Coelho)
15 Giugno 2028
America.
Milo
Meinster.
Ogni
giorno, appena cadeva dal letto il
suo stupido cervello scandiva quel nome. Come se avesse bisogno di
ricordarsi
chi era!
Lo
so benissimo chi sono da più di dieci anni, grazie
tante…
Sbadigliò e
aprì le imposte
della finestra su una gloriosa giornata di sole; merce rara nel buco
piovoso
dove era finito ad abitare.
Non doveva esser
però pretenzioso:
Lubecca con il suo clima da congelarsi le palle era stato un soggiorno
di gran
lunga peggiore. Per non parlare di un certo
castello.
Aveva viaggiato per quella
che
si poteva definire una vita – almeno in termini di esperienze
– e se aveva
deciso di metter radici da quattro anni un motivo c’era.
Motivo che quella mattina
non
gli andava di ricordare, visto che il
motivatore l’aveva fatto dormire poco o niente.
Rompicoglioni.
Quelli della sua schiatta son tutti dei gran
rompicoglioni.
Scavalcò la
finestra con un
salto e finì sul balcone che faceva il giro di tutta
l’appartamento. Lì, con la
schiena e le gambe nude scaldate dal sole, si buttò su una
vecchia sedia di vimini
lasciata dai precedenti proprietari – Babbanofili o Babbani,
direttamente – e
lì dimenticata.
Nella sua visuale
entrò l’ansa
di uno dei due fiumi che bagnavano la città, il Charles.
Scorreva placido nel
riverbero solare e sembrava che nulla al mondo potesse disturbare il
suo corso.
Passò un dito sulle mille scaglie che vi si riflettevano e
lo invidiò.
Dormito
un cazzo.
Dalla finestra alle sue
spalle
afferrò a tentoni il porta tabacco, le cartine e
l’erba. Per certe cose l’erbologia
magica non riusciva ad eguagliare quella Babbana. O forse era lui che
di tutte
quelle piante strane di cui era pieno il Mondo Magico proprio non si
fidava.
Chiamatemi
scemo. Alcune son capaci di bruciarti il
cervello, altre di fartene crescere uno sotto le ascelle.
Sbriciolò,
scaldò, mischiò con
il tabacco e leccò. Poi accese e finalmente si concesse un
sorriso.
Ecco.
Buongiorno, adesso.
Non aveva sul serio dormito,
ma non aveva importanza: non aveva impegni durante la giornata e per
quanto
riguardava Il Principino,
quest’ultimo
sarebbe stato via fino a sera. Per cena si sarebbe riscaldato qualcosa.
Sempre
che non dia fuoco alla casa nel tentativo di
usare il microonde.
Quattro anni prima non
avrebbe
mai pensato di finire a fare quella vita, ma tutto sommato non poteva
lamentarsi. Aveva un tetto sopra la testa, la pancia sempre piena e
tutto il
tempo del mondo per curare i suoi affari e il Suo Amore – la
sua arte, ma era
così trito chiamarla a
quel modo.
Quello che gli veniva chiesto, rispetto ai lavori che aveva avuto in
precedenza,
era niente.
Per
non parlare del penultimo
lavoro … È un miracolo
se non mi ci son giocato le chiappe.
La vita era un continuo
mutamento, precisamente come l’acqua del Charles, che non
aveva forma e che
dunque non poteva essere irreggimentata.
Cioè,
sì, teoricamente può, ma alla prima
pioggia… Un
disastro. La vita è così. L’essere
umano, magico o no, è così. Costringilo in
un sentiero che non è il suo e prima o poi esonda.
Quel giorno si sentiva
piuttosto filosofico. O forse era l’erba. L’erba,
decise. Soffiò il fumo sulla
brace dello spinello e lo fece riaccendere con un guizzo. Ne
fumò metà però,
per non inficiare i suoi esercizi mattutini. Dopo pochi minuti di
raccoglimento
interiore per ritrovare un minimo di concentrazione, con lo stesso
movimento
all’indietro prese la custodia di cuoio lucida che faceva ben
mostra di sé sul
davanzale alle sue spalle. Ci passò un dito e poi fece
scattare la chiusura
svegliando il violino dal suo letto di cuoio e materiale isolante.
L’archetto
passò con piacere sulle corde e da esse ne trasse le prime
note della giornata.
Si alzò in piedi, perché suonare a sedere era una
bestemmia.
Buongiorno
America. Paganini, Capriccio numero 13, la
risata del diavolo.
Ridacchiò. Che
fosse sotto
l’effetto dell’erba o meno, gli piaceva annunciare
i suoi pezzi ad un pubblico
immaginario o, nel migliore dei casi, ignaro.
Al
violino Milo Meinster. Magonò, strafatto e nel tempo
libero, babysitter. Un’esecutore, Signore e Signori,
d’eccezione.
Godetevelo.
****
Inghilterra,
Londra, Center London. Charing Cross Road.
Paiolo
Magico.
Erano giorni che
l’ospite
della diciannove non usciva di camera; nessuno aveva il coraggio di
dirlo ad
alta voce, ma tutti pensavano fosse morto.
Deirdre Santini era una
delle
tante cameriere che si occupava del piano superiore della locanda. Ogni
giorno
entrava nelle stanze, le puliva, rifaceva i letti ed arieggiava. Anche
sua
madre aveva fatto quel lavoro, e la madre di sua madre, sebbene fosse
stata
Babbana e avesse dovuto usare le mani invece che la bacchetta.
Deirdre era stata assegnata
all’ala ovest – dava prestigio, secondo Tom,
chiamarla a quel modo – e quindi
le camere dalla dieci alla venti erano di sua competenza. Sua e di una
ragazzina Maganò che avrebbe dovuto esser un aiuto, ma nei
fatti era imbranata
come poche.
“Signora, io
lì dentro non ci
voglio entrare, signora…” Balbettò
questa con forte accento gallese. “Quel tipo
io l’ho visto e faceva paura si…”
“Ho capito Daisy, ci andrò io!”
Sbuffò esasperata, dandole il carrello fornito
di stracci e spazzolone. “Almeno prendi questo!”
Arrivata di fronte alla diciannove si sentì però
molto meno coraggiosa di
quanto avesse dato a vedere. Daisy aveva ragione; quel tipo, dal primo
giorno
che aveva alloggiato lì, aveva messo a tutti una gran
inquietudine addosso. Si
faceva portare i pasti in camera, ma i vassoi non tornavano mai
indietro.
Quando Tom aveva provato ad entrare per reclamarli era stato aggredito
da
rauche parole e una borsa piena di Galeoni sonanti. Dopo essersi
consultato con
la moglie aveva detto loro di non chieder più indietro un
bel niente.
Però adesso eran
giorni che i
vassoi restavano intoccati di fronte alla porta e Deirdre non era una
stupida.
Qualcosa era successo e anche se Tom assicurava loro che il non gradito
ospite se
ne sarebbe andato presto, non sembrava che quel presto
fosse destinato ad arrivare.
“Signore?”
Bussò alla porta.
“Signore, pulizie in camera! È lì
dentro? Mi risponda!” Bussò un altro paio di
volte e poi, scambiandosi un’occhiata con la sguattera, fece
un sospiro pescato
direttamente dal robusto petto scozzese. “Bene Daisy,
va’ a chiamare Tom. Io
entro.” Decise su due piedi. Per quanto sinistro le fosse
sembrato quel mago
poteva comunque essersi sentito male o essere in difficoltà.
Ci
manca solo un morto nella locanda. Come fa colare a
picco gli affari un cadavere in una stanza…
Aveva due ragazzini che
andavano ad Hogwarts, una piccola che la aspettava a casa e un marito
sfaccendato. Non poteva permettersi di vedersi decurtato lo stipendio o
peggio.
Prese quindi una chiave dal grosso mazzo appeso al carrello delle
pulizie e
fece scattare la serratura; quando vide che la stanza era immersa
nell’oscurità
più completa, accese subito un Lumos
vivace.
Quella faccenda cominciava a
puzzare. Puzzare di pozioni bruciate, resti stantii di cibo e un odore
che le
sue narici, seppur allenate alla selva di odori presenti in una
locanda, non
riuscirono ad identificare.
“Signore…?”
Vide qualcosa muoversi nel
buio, simile ad un ratto, simile ad un serpente, simile a …
niente, niente che
avesse mai visto in vita sua.
Allora gridò.
****
Londra,
Farringdon, West Smithfield.
Mattina.
Tim Colvile era un tipo
metodico.
Ogni mattina si svegliava
alle
prime luci dell’alba, abbandonava l’umido
appartamento che condivideva con
almeno una mezza dozzina di coinquilini dalle parti di Camden Town e si
recava
di buona lena a prender la metro per raggiungere
l’università che aveva scelto
di frequentare non appena aveva avuto abbastanza senno in zucca da
capire che
il paesino da cui proveniva era troppo stretto per le sue ambizioni.
Ramanujan –
coinquilino numero
sei - gli aveva consigliato di allentare quella sua presa puntigliosa
su orari
e riti, così da potersi trovare finalmente una ragazza.
Lui dissentiva.
Perché non era
il solo al mondo ad apprezzare la metodicità. Non era
l’unico che ogni mattina che
Dio metteva in terra prendeva la colazione da asporto e la consumava
seduto su
una delle caratteristiche panchine di legno del West Smithfield
Garden¹, nome
pomposo che designava una piccola isola erbosa in mezzo al caos della
metropoli.
Non era solo
perché ogni
giorno alle otto in punto una ragazza si sedeva sulla panchina accanto
alla sua.
Era il genere che entrava subito nell’occhio anche se eri
preso dai tuoi
casini.
I capelli rossi, tanto per
iniziare. Erano di un rosso violento persino alla luce diretta del
sole, ma non
era una tinta – Tim lo sapeva bene, con una sorella minore
che aveva la testa
di un camaleonte.
La ragazza era sempre
allegra,
come se non avesse un problema al mondo. Era un piacere guardarla
mangiare con
appetito e sentirla ridere alle battute che ogni tanto si scambiava con
i suoi
improvvisati vicini di panca. Era piccoletta, ma sprizzava energia
concentrata
come una supernova.
Si era anche chiesto se non
fosse
da stalker fissarla tutti i giorni senza tentare un approccio, ma del
resto la
Ragazza della Colazione – l’aveva ribattezzata
così - non aveva mai dato segno di
aver fatto caso alle sue occhiate.
Sperava fosse single. Certo,
almeno
una volta a settimana faceva colazione con un ragazzo, ma questo non lo
preoccupava: prima di tutto, da come si vestiva e comportava, il tipo
sembrava dell’altra
sponda. Dopo un accurato origliare, aveva inoltro dedotto con minimo
margine di
incertezza che fosse il fratello maggiore. Sentendoli chiacchierare di
cene di
famiglia e amici comuni aveva scoperto parlassero con
l’accento del Devon, a
lui tanto familiare. Ecco, quello
avrebbe potuto essere un argomento di conversazione: la
difficoltà di vivere
nella Capitale venendo da un posto che aveva più campagna
che centri urbani.
Oggi
vado lì e mi presento. Sicuro. Ci vado.
Lo diceva tutte le mattine,
ma
mai una volta che avesse trovato abbastanza coraggio per farlo.
Quel giorno Tim, dopo
essersi
seduto e aver posato la colazione accanto a sé, si accorse
che la sua compagna
di spuntino non c’era. Deluso si guardò attorno,
scandagliando le panchine e
occhieggiando le gradinate che portavano alla fontana. Nessuna traccia.
Dovrebbe
già essere qui…
Ma non c’era. Che
avesse
deciso che quel parco non le piaceva più? O se si fosse
accorta delle sue
occhiate e ne fosse rimasta turbata? O forse aveva preferito
abbandonare Londra
per prepararsi alla sessione di esami estiva?
Le possibilità
erano
molteplici e una più deprimente dell’altra.
Hai
perso la tua occasione bello mio. Un anno che sei
qui ed un anno che non manca un giorno. Hai mai fatto qualcosa? Ben ti
sta,
coglione.
Sospirò
profondamente
abbandonando la colazione e preferendo accendersi una sigaretta.
“Ciao,
questo posto è occupato?”
Quasi gli cadde la sigaretta
dalle labbra quando si rese conto che la Ragazza della Colazione non
era seduta
da nessuna parte perché era dietro
di lui.
“Io …
oh, sì, certo!” Balbettò
quasi gettando a terra lo zaino per farle spazio.
“Prego!”
Tim aspirò il suo
buon profumo
floreale e pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa per
rompere il ghiaccio, che
l’occasione era troppo buona per esser buttata al vento.
Ovviamente non
riuscì a
spiccicar parola.
La ragazza diede un morso
alla
ciambella – che era sempre la stessa, integrale e con i
frutti di bosco – e
bevve un sorso dal suo bicchiere di cartone. Poi parlò.
“Tu vieni qui tutti i
giorni, vero? Per colazione.”
Mi ha notato!
Si sentì ghignare come un idiota.
“Sì, tutti i giorni! Come …
cioè, come
te.”
L’altra annuì. Guardava la fontana che si ergeva
in mezzo allo spiazzo erboso
con aria meditabonda. “Sei del Devonshire?” Forse
l’aveva capito dalle poche
frasi che le aveva balbettato contro? “Ti ho sentito
rispondere al cellulare
una volta, l’accento di casa si riconosce sempre.”
Gli spiegò quasi gli avesse
letto nel pensiero.
“Già,
sì … Sono di
Ilfracombe.” Fece un sorrisetto.
“Devonshire², è tanto che non lo sentivo
chiamar così!” Si accorse di aver detto qualcosa
di sbagliato quando la vide
guardarlo stranita.
“Perché,
tu come lo chiami?”
“ …
Devon?” Suggerì. Doveva
aver detto qualcosa di decisamente idiota se l’altra lo
fissava così.
Per fortuna il suo imbarazzo
durò
poco perché l’altra gli sorrise con aria di scuse.
“Giusto. È che nella mia
famiglia abbiano questa fissa di chiamarlo col
nome…” Esitò.
“Arcaico?” Offrì volenteroso.
“Cioè, credo lo chiamassero così
nell’ottocento o
giù di lì.”
La ragazza annuì
facendo un
sorriso proprio carino, del genere che faceva venire il desiderio
impellente di
chiederle il numero. Si controllò piuttosto bene.
“Mi chiamo Timothy.” Disse
porgendole la mano dopo essersi premurato di pulirla doverosamente sui
jeans. “Ma
tutti mi chiamano Tim.”
“Lilian.”
Non poteva che avere
un nome adorabile. “Ma tutti mi chiamano Lily.” Lo
imitò scherzosamente.
Sentendosi insolitamente
disinvolto
si arrischiò a rivolgerle qualche domanda.
“È il tuo primo anno qui a Londra?”
“No, il terzo. Studio solo da un anno
però.”
“…
cioè?”
“Mi sono presa un paio d’anni … come si
dice? Sabbatici?” Tim si stupì. Non
aveva affatto l’aria di una ventenne. Aveva pensato sul serio
andasse a scuola finché
un giorno non l’aveva vista tirar fuori dalla borsa libri di
testo che nulla
c’entravano con l’istruzione superiore. A dirla
tutta quei libri non avevano
l’aria di centrare con niente.
Vecchi
e persino rilegati in cuoio – nell’epoca dei tablet
esistevano ancora esemplari
simili in commercio?
Comunque sia la notizia che
fosse più grande di lui di ben due anni lo smontò
un po’. L’avrebbe considerato
uno sbarbatello adesso?
Lily, forse notando la sua
espressione, lo guardò divertita. “Pensavi andassi
ancora a scuola?”
“Beh…”
Borbottò preso in
contropiede. Era già la seconda volta che anticipava i suoi
pensieri. “No, è
solo che … Dove studi?” Preferì
glissare.
“Qui
vicino.” Un breve attimo
di incertezza poi indicò di fronte a sé. Tim
collegò quell’indicazione
approssimativa con il Barts³, l’ospedale del
quartiere, la cui università di
riferimento era anche la sua.
“Ah, ma allora
studi alla
Queen Mary, come me!”
“Sì,
Mag…” Si bloccò e fece un
altro sorriso iper-carino. “Studio Psicologia.”
“Forte.”
Forse era per questo
che i suoi vestiti avevano un taglio un po’ stravagante, dal
vintage evidente delle
cose che indossava alle svolazzanti stole colorate con cui si era
coperta per
tutto l’inverno. Dopotutto era risaputo che chi studiava i
matti era un po’
eccentrico. “Non ti ho mai visto in giro per il campus
però…” Di certo
l’avrebbe notata. L’altra non ribatté,
così decise di cambiar discorso prima
che sopravvenisse un silenzio disagiante. “Quale parte del
Devon?”
Lily inclinò la testa da un lato, in una buffa posa
interrogativa. “Ottery St.
Catchpole. Normale se non l’hai mai
sentito…” E infatti era così.
“… è un
villaggio, poche case, tante fattorie, una chiesa e un
fiume.” Snocciolò. “Dev’essere
bello vivere vicino al mare invece.”
“Non se comunque
vivi vicino a
poche case, tante fattorie ed una chiesa.” Non era troppo
bravo nel dire
spiritosaggini ma l’altra ridacchiò e quindi era
un punto andato a segno,
giusto?
Non credeva alla propria
fortuna comunque. La Ragazza della Colazione gli si era seduta accanto
e stava
parlando con lui, in una versione decisamente più
soddisfacente delle
simulazioni che aveva fatto nella sua testa. Doveva dunque tirare fuori
le
palle e farle la fatidica domanda. “Senti … stai
spesso da queste parti?
Intendo, hai un appartamento qui?”
“No, torno a casa
tutte le
sere.”
“…
Tutte le sere?” Forse non
aveva capito bene. “Ma da qui al Devon sono un milione
di ore in treno!”
La ragazza per un attimo sembrò non sapere che pesci
prendere. Poi sorrise di
nuovo e scosse la testa. “Abito vicino a Charing Cross,
questo intendevo.” E
diede un consistente sorso al suo caffè. “Più
o meno vicino.” Soggiunse.
Tim si trovò
nella scomoda
posizione di non sapere cos’altro dire. Dietro
l’aria amichevole l’altra non
sembrava disposta ad intavolare una reale conversazione, anzi. Forse
era il
genere di tipa che si aspettava che fosse il ragazzo a fare la prima
mossa.
Coraggio,
vecchio mio. Ora o mai più.
“Te lo chiedevo
perché … cioè,
io sto qui da un anno e abito a Camden che non è proprio a
due passi, no? Mi
piacerebbe conoscere qualche altro posto che non sia il quartiere in
cui vivo
e…” Non stava andando tanto male se Lily lo
guardava con interesse. In realtà lo
guardava come lui avrebbe studiato un esperimento al microscopio, ma
decise di
soprassedere. “… e mi chiedevo se ti andasse di
prendere un caffè.” Concluse
pregando di non essersi mangiato le parole. “Con
me.” Puntualizzò.
Lily batté le
palpebre e poi
fece un sorriso, quel genere di sorriso che il povero Tim conosceva
bene dato
che gli era stato propinato in più declinazioni da ragazze
che si credevano troppo per lui.
“Mi dispiace, ma
mi vedo già
con qualcuno.”
Per
l’appunto.
Curiosamente però
l’altra non
aveva ventilato l’ipotesi che potesse essere
un’uscita amichevole.
Tentò dunque quella carta perché imbranato
sì, ma non
sprovveduto. “Guarda che non parlavo di un
appuntamento.” Riuscì persino a
suonare ironico. “Solo…”
“Sì invece.” Lo congelò sul
posto. Poi gli strinse leggermente la mano. “Sei
carino Tim, ma credi a me, non potrebbe funzionare. Siamo troppo
diversi.”
“Ma se non mi
conosci neanche!”
Era questo che non andava, con le ragazze. Non potevano fare a meno di
rifilare
palle elaborate perché non avevano il coraggio di dire la
verità alla persona
che avevano di fronte. Non avrebbe potuto semplicemente dirgli che non
era il
suo tipo?
“Vero.” Convenne con l’aria di non
convenire affatto. “Allora facciamo così,
fidati sulla parola.” Si alzò in piedi e
recuperò la borsa di tela. Era
stracolma e doveva pesare tantissimo ma la portava con leggerezza,
quasi fosse
imbottita di nulla.
“Grazie per la
compagnia!”
Non gli diede il tempo di
aprire bocca che era già scomparsa oltre le siepi che
recintavano il parco.
Proprio così, scomparsa come se fino a cinque secondi prima
non fosse stata
seduta accanto a lui. Solo un po’ di briciole e la busta
appallottolata della
ciambella testimoniavano che la Ragazza della Colazione gli avesse
davvero rivolto
la parola.
****
Ministero
della Magia, Secondo Piano, Dipartimento
Applicazione della Legge sulla Magia.
Ufficio
Auror. Mattina.
Una palla di carta,
debitamente pressata per avere il peso specifico e la massa di un
proiettile,
sfrecciò tra le scrivanie dell’ufficio Auror
puntando verso la nuca dell’Auror
Malfoy, numero distintivo duemilaottocentoquarantacinque.
“Pre…”
Si sentì esclamare
dalle retrovie. La voce sfumò presto in delusione quando la
vittima si girò di
colpo e fece Evanescere la pallottola. “… so? Ah,
andiamo!”
“Potty,
dovrà ancora nascere
l’uomo capace di prendere alle spalle Scorpius
Malfoy!” Ghignò il ragazzo,
dondolandosi sulla sedia girevole. “Comunque ho vinto
io.” Si indicò. “Oggi la
scrivania è mia.”
“Non vale, è facile per te arrivar prima, a casa
hai il camino collegato
direttamente con il Ministero!” Si lagnò
l’Auror Potter, numero distintivo …
non riusciva mai a ricordarselo, aveva poi importanza?
“Non capisco
questa smania di condividere
le scrivanie! Vabbeh, che non abbiamo spazio,
però…” Continuò, sedendosi
sull’angolo del tavolo e mettendo un broncio da decenne.
“… e poi, sei tu il
pivello!”
“Oh, oh. Ben tre anni di servizio effettivo contro i miei
miseri due!” Replicò
l’altro sgranchendosi voluttuosamente sulla sedia.
“Sono intimorito.”
“Va’ a farti divorare dagli Inferi,
Malfuretto.” Fu l’affettuosa risposta,
corredata da un tentativo di pugno sulla spalla che l’altro
eluse finendo di
stiracchiarsi all’indietro.
Scorpius sorrise. Ogni
mattina
che Merlino metteva in terra era sempre la stessa storia. Non se la
prendeva
mai perché sapeva che dietro le lagne del suo migliore amico
c’era sincero
piacere di averlo a fianco.
Era
persino più contento di me quando ha saputo che
sarei venuto ufficialmente a lavorare qui.
L’Accademia non
era stata una
passeggiata. Gli Auror erano una forza di polizia magica speciale, e
avevano criteri
di selezione trai più duri del mondo Magico. Per quanto
fosse passato al primo
colpo, aveva poi trascorso tre anni a sputare sangue e sudore sotto un
istruttore che ce l’aveva avuta a morte con lui per motivi
che non gli erano mai
stati chiari.
Anche
se scommetto venti Galeoni che mi ha odiato dal
momento che ha letto il mio cognome nella
lista degli ammessi.
Oppure
perché sono biondo e bellissimo.
Alla fine tutte le palate di
cacca patite erano state ripagate da un superbo
risultato al test finale, che doveva aver fatto mangiare il distintivo
a quel
trippone dell’Istruttore Auror Anderson.
E
visto che la commissione era composta da Auror veri, non
ha
potuto proprio farci niente.
Passato
con punteggio massimo. Attaccati al mio manico
di scopa.
L’unica nota
dolente di tutta
la faccenda era suo padre:
continuava
a mal digerire il fatto che avesse preferito una rude carriera fatta di
incantesimi e distintivo a quella ben più elegante e
soprattutto, politica
nell’Ufficio Cooperazione
Magica Internazionale.
Credo
che mi butterò dalla finestra se alla prossima
cena in famiglia mi parlerà ancora di quanto
si trovi bene Mike a lavorar
là…
“Ohi, Malfuretto,
ti sei
incantato?” Vide la mano dell’altro ondeggiargli
davanti e scosse la testa,
rientrando nella caotica realtà che lo circondava:
promemoria ministeriali che
svolazzavano ovunque, gente che parlava ad alta voce, odore di
caffè tostato e
sudore.
Ah
… Delizia.
“Stavo pensando.
So che il
verbo ti sfugge…” Schivò un nuovo
tentativo di pugno, ridendo.
Il fatto è che adorava essere un Auror. C’era
azione,
c’era pericolo, c’erano uniformi fighissime e
cameratismo. E quando veniva
pronunciato il suo cognome aveva sempre quel meraviglioso suffisso.
Auror.
Auror Malfoy.
Nessuno in ufficio lo diceva
con sospetto o disgusto, ma con simpatia e stima. Era la sensazione
più
meravigliosa del mondo.
Vorrei
solo che papà lo capisse … Ma temo che per certe
cose saremo sempre distanti continenti.
“Ohi,
concentrati!” Lo
riscosse di nuovo James. “Prima che arrivi il Sergente e ci
trascini verso
l’ignoto mi devi dire cos’hai intenzione di fare
per il tuo addio al celibato!”
“Eh?” Gli uscì piuttosto
intelligentemente. “Celi che…?”
“Secondo me ti ci diverti, a fare il Purosangue
scemo.” Sbuffò l’altro.
“Sbaglio
o qualcuno si sposa con mia cugina questo Agosto?”
“Io!”
Esclamò compiaciuto. “Io
con Rosie!”
“Sì, forse c’è ancora
qualcuno nell’emisfero australe che non lo
sa…” Motteggiò
James, ma con divertito affetto più che con sarcasmo.
“Dobbiamo fare una festa prima,
tra uomini, così dirai addio alla
tua condizione di uomo libero come si deve. Ci arrivi?”
“Sono fidanzato ufficialmente, non credo di potermi
considerare libero da
anni.” Gli fece notare,
scoccando un’occhiata ad una foto appiccicata con lo scotch
magico alle pareti
del box. Tra i miliardi di cianfrusaglie con cui l’aveva
intasato James, spiccava,
almeno a parer suo, l’enorme sorriso di Rose e il bacio da
film che si erano
dati alla cerimonia dei Diplomi cinque anni prima. L’altro
aveva tentato di
scoraggiare le effusioni dei due avatar, ma aveva ottenuto solo di
intensificarle di più.
Sono
ganzo anche in foto.
“Non fare il
guastafeste!” Lo
riprese, dandogli uno scappellotto. Chiunque li vedesse temeva sempre
che
quelle schermaglie finissero in rissa. Erano pochi quelli che li
conoscevano e
sapevano che non si sarebbe mai verificato.
A
meno che non
ci sia di mezzo una bottiglia di Ogden Gran Riserva e il
Campionato di
Quidditch.
“Dai, che ti va di
fare?
Prenoto qualche Incantatrice? Una bella danza dei sette
veli?” Lo incalzò. “Mio
cugino Freddie dice che quella roba dei sette veli è una
figata.”
“Rosie finirebbe
per pugnalarmi
sette volte se me ne facessi fare una, lo sai.”
James fece una smorfia.
“Beh, allora
fatti venire qualche idea che non preveda la tua morte. In quanto tuo
testimone…”
Ogni volta gonfiava il petto d’orgoglio, era uno spettacolo
esilarante. “… sarà
io ad occuparmi di ‘sta roba. Quindi vedi di dirmelo per
tempo!”
Scorpius sorrise.
“Promesso.”
Gli diede una pacca sulla gamba. “E tu, a quanto il lieto
evento con Lupin?”
L’altro fece una
smorfia
sbalordita. “Malfoy, gli uomini non si sposano tra di
loro!”
“Sai, per essere in parte gay sei proprio omofobo.”
Schivò il conseguente
lancio di un tagliacarte “Ti farei anche da
damigella!”
“Per essere quello etero sei una femminuccia!”
“Dirò a
Rosie di lanciarti il
bouquet, vedrai che poi mi ringrazierai. Ti vedo benissimo, in
bianco.”
“Fottiti!”
“Avrò
mai il piacere di non
vedervi litigare, Matter?”
Il sergente Liam Flannery guardò i suoi due sottoposti con
un misto di
esasperazione e divertimento. Aveva coniato per loro quel nomignolo
– fatto
dall’unione dei due cognomi – quando aveva
realizzato che sarebbero sempre
stati inseparabili come una chiappa con un pantalone. Si narrava che
persino il
Capo avesse apostrofato Malfoy – per una volta da solo - con
il nome di
battesimo del figlio, assolutamente certo che l’altro fosse
nei paraggi.
“Dubito!”
Esclamò Malfoy con
uno dei suoi sorrisi spigliati, alzandosi in piedi e facendo scattare
il taglio
della mano sulla fronte, nel classico saluto formale. Per certe cose
era terribilmente
legato alla forma. “Sergente, Bobby.”
Apostrofò il terzo e ultimo auror della
loro squadra che li guardava con la rassegnazione tipica di chi subiva
quei
diverbi dall’adolescenza. “Buongiorno!”
Al di là di tutto, erano una buona squadra. La calma del
giovane Jordan
controbilanciava gli eccessi di Potter e le polemiche di Malfoy. Era
una buona
cosa quando ci si stimava tra compagni e quei tre ne erano la prova.
“È che
Malfuretto è un
coglione.” Replicò serenamente Potter, tirandogli
un ceffone sulla spalla. “E
non sa rispettare la gerarchia.”
“Ma se siamo entrambi Auror Semplici!”
“Gerarchia d’età.”
Anni di onorato servizio
avevano insegnato a Liam Flannery che era meglio non assecondare le
teste
calde, quindi si limitò a scuotere la testa. Dopotutto non
facevano neanche
mezzo secolo in due ed erano stati grifondoro: non poteva pretende
maturità
dove doveva ancora arrivare.
Malfoy
non sarebbe così matto se non si alimentasse
dell’energia di Potter. Ma va bene così
… Sanno salvarsi la pelle a vicenda e
pensare con un mago solo. Non si può chiedere di meglio ad
un giovane Auror.
Batté le mani per
richiamarli
all’ordine. “Fatevi belli, oggi iniziamo col
botto.”
Vide una scintilla di
eccitazione percorrere lo sguardo di entrambi. Potter quasi
saltò dalla
scrivania. “Sì?” Chiese infatti.
“Abbiamo ricevuto una chiamata? Quindi niente
scartoffie stamattina!”
“Evvai!”
Gli fece eco il
biondo dandogli il cinque. “Giorno glorioso!”
“Dal Paiolo
Magico.” Convenne
fingendo di non aver notato il palese lassismo burocratico di entrambi.
“È
arrivato un Gufo Espresso dal vecchio Tom. Abbiamo una segnalazione per
Arti
Oscure.”
“Arti
Oscure?” Chiese Malfoy
tornando serio. Per quanto la loro fosse la divisione ministeriale
dedicata, era
raro dovessero affrontare maghi davvero Oscuri.
Più che altro si trattava di assicurare alla giustizia gente
che aveva provato
a passare al lato sbagliato della Magia, ma con più danni
per sé stessi che per
gli altri.
Grazie
a Merlino il mondo sta diventando un posto
migliore. Meno malvagi, più idioti.
Ad ogni buon conto per i tre
giovani Auror sarebbe stato il primo vero caso, quindi poteva capire
l’eccitazione che trapelava dalle loro espressioni.
“Segnalazione, non
certezza.”
Replicò per non farli surriscaldare nel caso si fosse
dimostrato un buco
nell’acqua. “Mettetevi i Mantelli, assicuratevi che
la fondina non sia
slacciata e andiamo.” Fece un sorriso. “Si
va’ a far un po’ di luce!”
****
Farringdon,
Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale
San Mungo per ferite e malattie magiche.
“Albus, ehi!
Aspetti tua
sorella?”
Il ragazzo ormai ventiduenne
che rispondeva a quel nome alzò lo sguardo dalla
contemplazione dei propri
zoccoli ortopedici. Comodi ma orrendi, questo riusciva a capirlo
persino lui.
Ho
dovuto spiegare dieci volte a Mike che dobbiamo
portarli tutti, senza nessuna eccezione …
Fece
un mezzo sorriso all’interlocutore,
allungando le gambe sotto il tavolo.
“Ciao
Seamus.” Sospirò appena.
“Caffè con zenzero?”
Occhieggiò la tazza fumante dell’altro Guaritore,
decano
ed eroe di guerra, nonché amico del padre. “Un
giorno ti esploderà lo stomaco.”
“Lo dici ad un irlandese? Deve ancora arrivare bevanda capace
di mettermi al
tappeto!” Esclamò l’uomo, passandosi una
mano tra la folta zazzera color sabbia
che si stava progressivamente imbiancando ai lati. “Guarda
che rischi di
arrivare in ritardo, Smethwyck ti farà a pezzi.”
Soggiunse canzonatorio.
Il ventenne
deglutì, e a
ragion veduta, pensò l’uomo. Il Guaritore in
carica nel reparto Lesioni da
Incantesimo era un tipo arcigno, incapace della minima empatia, come
capitava
spesso a chi esercitava quella professione da tanto tempo. Il figlio di
mezzo
di Harry era uno dei suoi tirocinanti e, a detta delle voci di
corridoio, una
delle sue vittime predilette.
“Ho ancora tre
minuti … e una
manciata di secondi, credo.” Si dondolò sulla
sedia per occhieggiare l’orologio
a pendolo accanto al tavolo delle bevande. “…
Okay, due minuti.” Si corresse.
“Non l’ho mai vista saltare una lezione.”
Gli fece notare con un sorriso. “Non
serve che controlli tutti i giorni, sai.”
Il ragazzo
aggrottò le
sopracciglia. “Non dirlo ad alta voce … se sapesse
che la aspetto per questo
motivo mi ucciderebbe. Anche se oggi ho una scusa da favola. Deve
portarmi i
biscotti di nonna.”
Seamus vuotò la
sua tazza e
diede una pacca sulla spalla dell’ex serpeverde. Gli pareva
incredibile che un
ragazzo tanto mite e disponibile come Al fosse stato appartenuto a
quella Casa.
“Tempo di andare.” Lo informò.
“Alza il sedere, Guaritore Tirocinante Potter.”
Imitò il tono di voce del Professor Smethwyck con gran
divertimento dell’altro.
“Ho promesso a tuo padre che ti avrei tenuto fuori dai guai
… ed incorrere
nelle ire di Smeth è finirci a testa bassa!”
Albus ridacchiò, ma scosse la testa. “Come se
avessi accettato.”
“Come vuoi, ma nel
caso avessi
bisogno di un posto in cui nasconderti…”
Ghignò. “Il mio ufficio è sempre
aperto.”
Al si congedò con
un cenno
della testa dal Guaritore più anziano, rilasciando un lungo
sospiro subito
dopo. Sua sorella era in ritardo e stava facendo far ritardo anche a
lui. Un
classico che si ripeteva ormai da un anno, ovvero da quando Lily Luna
aveva
deciso che il suo futuro lavorativo apparteneva alla Psicomagia.
Il primo a rimanere di
stucco
era stato proprio lui. L’altra non aveva mai mostrato durante
la scuola una
predilezione verso la magia curativa, per quanto avesse avuto un
discreto
talento in Pozioni e non fosse stata una completa incompetente nel
resto delle
materie necessarie per iscriversi al corso.
Oltre a questo aveva sempre
detto di non voler continuare a studiare, tanto che persino i loro
genitori si
erano rassegnati a vederla ammazzare il tempo tra lavoretti saltuari,
feste e
vacanze in giro per il mondo.
Lily aveva vissuto di fiore in fiore – espressione
eufemistica
utilizzata da nonna Molly – per i due anni successivi al
diploma. Poi l’estate
prima aveva sganciato la bomba, innescando una serie di reazioni che
erano
variate dalla sorpresa allo sbigottimento.
Vuoi
continuare a studiare? Psicomagia, sul serio? Ma
intendi lavorare al San Mungo poi? Non avevi detto che non avresti
più preso in
mano un libro in vita tua? Perché Psicomagia?
Ricordava l’aria
disinvolta
con cui l’altra aveva risposto all’ondata di
domande, come ricordava l’urlo di
trionfo che era conseguito alla consegna della lettera di ammissione
all’Accademia di Medimagia.
Ricordava soprattutto di
aver
pensato una cosa.
Sul
serio? Ma soprattutto, perché?
Forse era questo a farlo
rimanere in caffetteria tutti i giorni. Era certo che prima o poi Lily
si
sarebbe stufata della mole di lavoro, dell’odore perenne di
pozioni che impregnava
tutto, e delle ore di lezione tediose. Senza contare quelle in reparto.
Sua
sorella aveva molti pregi, ma tra questi non vi era la costanza,
né la
pazienza. Non vi era mai stata, e con l’età questo
suo difetto si era solo
ingigantito.
E
invece. Continua a frequentare. Ha quasi finito il
primo anno. Fa esami, viene a lezione.
Certo,
non fosse sempre in ritardo…
Sentì una pacca
sulla testa
che lo fece sobbalzare sulla sedia.
“Ciao
pelatino!”
Sua sorella aveva la
disagiante abilità di arrivare alle spalle senza far rumore,
neppure fosse
stata un Auror con la licenza di maledire. “Lils!”
Esclamò passandosi una mano trai capelli. Perché
non era vero, non era pelato.
“Sei in ritardo!”
“Tu sei in ritardo. Nessun
professore
mi aspetta per iniziare la lezione … è te che
aspettano per il giro di visite
mattutino.” Ritorse frugando nella borsa ed estraendo un
pacchetto legato in
più giri da spago. “Direttamente da nonna
Molly.” Ghignò occhieggiando la sua
povera testa. “Ti serviranno per consolarti del fatto che
sei…”
“Rasato.” La
anticipò afferrando
l’involto e lasciandolo scivolare nella propria tracolla.
“E ti sarei grato se
la piantassi, non è come se avessi avuto scelta.”
Borbottò ricordando l’orrore
provato quando gli era stata diagnosticata un’infestazione di
Chizpuffle⁴ … in
testa.
Era uno dei lati negativi di
lavorare in ospedale; bisognava mettere in conto lo scoppio di qualche
epidemia
che, anche se immediatamente contenuta, a volte finiva per colpire
anche il
personale curante.
Anche
se in questo caso sono l’unico ad essermi
ammalato … Gli altri hanno avuto problemi solo con le
bacchette perché gli altri
non
hanno i capelli pieni di magia che hanno i Potter.
O
semplicemente, non ne hanno la sfiga.
“Tom ti fa ancora
dormire sul
divano, eh?” Lily quel giorno sembrava propensa
all’ironia stronza,
quindi preferì non offrirle ulteriori spunti, scrollando
le spalle evasivo.
Certo
che mi fa ancora dormire sul divano, il bastardo.
Non riesce proprio a capirlo che non mi sono preso la versione magica
dei
pidocchi. E che comunque mi è passata.
La sorella dovette leggere
qualcosa nella sua espressione perché gli diede una
pacchetta consolatoria sul
braccio. “Ci vediamo a pranzo?” Offrì in
segno di pace.
“A
pranzo.” Confermò. “Ah,
ricordati che stasera è il compleanno di Fergus e
Abigail!” Soggiunse vedendola
in procinto di correre via, verso le aule di lezione.
“Sì, lo
so, alle nove al pub.
Vorrei ricordarti che Gail è mia amica da dodici anni, ma
non lo farò.”
“Perfetto,
così non dovrò
ricordarti che hai la memoria del Signor Allock.”
Rintuzzò sapendo che l’altra
avrebbe colto la presa in giro, dato che il paziente in questione lo
conoscevano
entrambi. Un signore distinto, di facile parlantina e, a causa di un
Incantesimo di Memoria finito male, incapace di ricordarsi dal giorno
alla
notte e per questo lungo degente nel reparto Thickley⁵.
L’altra
ridacchiò. “Povero
Gilderoy, non esser cattivo … e non esserlo con
me.” Gli mostrò la lingua.
“Lo sono troppo
poco.” Replicò
dandole un colpetto affettuoso sulla fronte. “Fa’
la brava.” Quella
raccomandazione ormai era un marchio di fabbrica del loro rapporto.
E
cos’altro potrebbe essere visto di chi stiamo
parlando?
Lily roteò gli
occhi al cielo.
“Aye aye sir!”
Esclamò abbozzando un
saluto militaresco.
Albus osservò la
figura della
sorella finché non uscì dalla caffetteria. Non
avrebbe mai smesso di controllare,
per quanto la razionalità
gli intimasse di smettere da anni.
Sono
passati cinque anni … Smettila di fare la
chioccia. Ormai ha smesso anche papà.
Con Lily era più
facile a
dirsi che a farsi.
****
Londra, Charing Cross Road.
Paiolo
Magico.
“Eccovi!”
Li accolse Tom, unico
e fiero proprietario della porta per eccellenza tra il Mondo Babbano e
quello
magico. “Signor Flannery, finalmente! Posso offrirvi
qualcosa?”
James e Scorpius si
scambiarono un’occhiata divertita; l’anima da
locandiere del mago era talmente
radicata che persino di fronte ad una situazione d’emergenza
non poteva fare a
meno di cercare di raggranellare qualche zellino; infatti chiunque
conoscesse
il corpulento sergente irlandese sapeva che al primo giro offerto dalla
casa ne
sarebbe seguito presto un altro, pagato.
“Siamo in servizio
amico.” Lo
apostrofò l’uomo dandogli una pacca sonora sulla
spalla. “Dov’è la camera?”
“Al piano di sopra
Signore.
Nell’ala ovest.” Si inserì una panciuta
strega con capelli rosso fiamma acconciati
nella crocchia tipica di chi non voleva sporcarli o perderli in giro.
Nascosta
dietro di lei c’era una ragazzina di massimo tredici anni,
con enormi occhi
sgranati e una cuffietta troppo grande. Una delle cameriere della
mattina e una
sguattera Maganò, stimò Scorpius. Sorrise
all’adolescente che diventò
rapidamente dello stesso colore dei capelli della strega.
“Ala?”
Stralunò l’irlandese. “Di
che diavolo stiamo parlando?”
“A sinistra
Sergente.”
Chiarificò Bobby. “La scala che porta alle camere
sulla sinistra.” Tradusse.
“Per tutte le Banshee Tom, da quand’è
che hai ‘ste pretese da grande albergo?”
“Ai clienti
piace…” Si
giustificò l’uomo stringendosi nelle spalle.
“Deirde, accompagnali su.”
“Io?” La donna perse rapidamente colore.
“Nossignore, non ci metto piede in
quel posto indiavolato!” Sbottò di cuore.
“Non ci andrei manco sotto Imperio!”
“Cos’è
successo?” Si informò
Flannery, adottando il tono professionale che richiedeva
l’occasione. Dietro
l’espressione cordiale di Tom e quella anodina della donna
traspariva evidente
nervosismo. Paura.
I due si lanciarono
un’occhiata,
poi fu il proprietario. “L’ospite della diciannove
…”
“Nome?” Bobby, chiamato anche il Registratore
Vivente, era già pronto con il
suo fedele taccuino. Si narrava lo tenesse anche sotto il cuscino e
sopra il
gabinetto. “Generalità?”
“Sam Howe
e… non so altro.
Davvero!” Esclamò vedendoli scettici.
“L’ho visto solo il primo giorno, quando
si è presentato. Ha sempre voluto i pasti in camera e non
è mai sceso. Ha
pagato in anticipo però e quindi non ho potuto chiedergli,
insomma… Non abbiamo
pensato che fosse corretto dirgli di andarsene solo perché
non metteva mai
fuori il naso dalla porta.”
“Avremo dovuto farlo invece!” Replicò la
cameriera in un tono e modo
che sia a James che a Scorpius ricordò
Molly Weasley. “Quel tipo puzzava di guai lontano un
miglio!”
“Ora che la
bacchetta è rotta
è inutile aggiustarla.” Replicò il
locandiere spiccio, anche se era chiaro che
la pensasse come la dipendente. Si rivolse di nuovo a loro.
“Il fatto, agenti,
è che da qualche giorno il Signor Howe lascia i piatti a
freddare fuori dalla
porta. Così ci siamo preoccupati, e…”
“Ed io sono andata
a
controllare, e per poco non son morta!” Si inserì
la cameriera.
“Deirdre! Chiudi quella ciabatta, pensa se ti sentissero i
nostri ospiti!” La
redarguì l’uomo, ma la strega tirò
avanti come se nulla fosse.
“Morgana mi
protegga,
quell’uomo…” Il poco colore che le era
tornato per ribattere sparì di nuovo, e
un nuovo sospiro uscì dal petto robusto.
“… quell’uomo non è
più una creatura
di questo mondo!”
“Sarebbe a dire?” Il Sergente Flannery era un tipo
concreto, per quanto potesse
esserlo un mago. Scorpius non poteva che sposare la sua confusione: un
uomo rimaneva
uomo, a meno che, certo, non si verificassero circostanze particolari.
La licantropia? È l’unica
che mi viene in
mente, ma … che c’entra? Il plenilunio
è lontano.
“Se è
un caso di Licantropia
se ne occupa la Divisione Bestie.” Suggerì
comunque.
“Non è
un licantropo!” Ribatté
la cameriera, quasi ritenesse quell’ipotesi un affronto
personale. “Nossignore,
niente occhi gialli e zanne, e comunque quelli si trasformano una volta
al
mese, no?” Affermò sicura “Manco li aveva
gli occhi, quello. La pupilla era tutta bianca e… insomma,
sì. Brillava.” Si
torse uno straccio – come da copione – tra le mani.
“Mi ha urlato qualcosa in
una lingua che non conoscevo … e a me son sembrate tanto
… ecco, tanto formule
di Magia Oscura.”
“Una possessione spiritica?” Suggerì
Bobby con aria meditabonda. “Parlare in
altre lingue, un mago incosciente… Potrebbe essere,
no?”
“E da quando chi
viene
posseduto ha gli occhi bianchi?”
Replicò pescando dai ricordi dell’Accademia e
quelli ancora più remoti di
Hogwarts. Non era facile; di solito era piuttosto svelto nei
collegamenti
quanto nei rimandi bibliografici – anche se in questi il
primato sarebbe sempre
stato della sua Rosie. Ne andava fiero, ma stavolta gli indizi forniti
erano … assurdi.
Non gli restò che
sospirare,
vinto. “Delle possessioni comunque se ne occupano quelli la
Sezione Spiriti.”
Si limitò a dire. “Mi pare di ricordare che
tengano un Catalogo delle
Apparizioni …”
Jordan fece una smorfia perplessa. “Se ci fosse qualche
Entità Extracorporea
aggressiva a Diagon Alley lo saprebbero prima di noi, anzi, sarebbero
già qui.”
“Sì,
svegli come sono!” Lo
apostrofò James sbuffando. “Secondo me se
c’è qualche fantasma incazzato in
giro per Londra sono gli ultimi a
saperlo!”
“Ragazzi, non date il via alla scopa prima di esserci
saliti.” Li riportò
all’ordine Flannery. “Credo che una possessione sia
improbabile, la locanda non
è infestata. La cosa migliore è verificare di
persona senza abbassare la
guardia.” Sorrise all’aria imbarazzata dei tre.
“Forza, stanza diciannove?
Conosciamo la strada.” Fece cenno a Tom e alle due donne di
servizio di
rimanere dov’erano e salì le scale, presto imitato
dai tre giovani Auror.
“Se non
è una possessione cosa
può essere?” Scorpius fu così
apostrofato da Bobby, tra di loro il più propenso
a mettersi in discussione. Non gliene sarebbe mai stato grato
abbastanza.
Tra
me e Potty facciamo a gara per chi è più
Primadonna
… Lui, per inciso.
“Sempre che sia
vero quel che
ci ha detto quella là.” Sbuffò James
tamburellando con le dita sul fodero,
l’impazienza fatta Auror. “Lo sai come son fatte le
donne. Suggestionabili.”
“Se ti sentissero quelle valchirie delle tue cugine ti
toglierebbero la pelle
dal sedere a furia di maledizioni, Jimmy. Per non parlare di tua
sorella.”
Ghignò il ragazzo di colore, dandogli una spallata.
“Non ci diventare misogino,
eh!”
“Miso … che?”
“È
strano…” Meditò Scorpius
osservando la schiena enorme e silenziosa del Sergente. Nonostante
avesse
mostrato calma e sicurezza di fronte agli spaventati locandieri, alla
fine
della storia gli era sembrato persino più confuso di loro.
“… ma se è Magia
Oscura è roba brutta. Ve lo ricordate no, a lezione, quando
dicevano che se un
Mago perde le caratteristiche umane vuol dire che ormai è
andato oltre il punto
di non ritorno?”
“Sei tu il
secchione, mica
io.” Replicò James scrocchiandosi il collo, ma si
rabbuiò leggermente. “Però
questa lezione me la ricordo. Roba da brividi.”
“Io direi che stasera una bevuta al Finnigan’s non
ce la toglie nessuno.”
Borbottò Jordan controllando per l’ennesima volta
che la fondina fosse al posto
giusto e debitamente pronta ad estrarre la bacchetta.
“Cazzo, mi son
scordato il
regalo per i gemelli!” James abbassò la voce, dato
che erano ormai vicini alla stanza incriminata. “Vabbeh, mi aggrego a Albie o Lils.”
“Al non te lo lascerà fare e Lily potrebbe regalar
loro qualcosa di osceno. Ti
conviene sul serio?” Ridacchiò Bobby.
“Dai, nessun problema Jimmy, lo fai con
me e Janet.”
“Sei un
amico!”
“Ragazzi,
silenzio.” Li
richiamò Flannery. A volte sembrava che il
buon’uomo li considerasse come una
cucciolata di labrador festosa ed agitata. Perlomeno, era quello il
modo in cui
li trattava.
Non
posso dargli tutti i torti…
“Bacchette alla
mano.” Li
istruì e poi fece cenno a James, il più rapido in
attacco, di nascondersi
dietro uno dei due stipiti della porta, mentre lui faceva lo stesso.
“Malfoy,
Jordan, copriteci le spalle.” Si schiarì la voce e
poi esplose nel tono
stentoreo per cui era famoso in tutto l’ufficio.
“Sam Howe!” Esclamò. “Sono
l’Auror Liam Flannery, apra questa porta!” Non vi
fu risposta. “Howe, in nome
del Ministero della Magia Inglese sono autorizzato ad aprirla anche
senza il
suo consenso. Se non è intenzionato si faccia indietro e
getti a terra la
bacchetta!”
Stavolta qualcosa
cambiò: vi
fu un forte tramestio, come se l’occupante della stanza
tentasse di nascondersi
… o fuggire.
“Potter,
ora!” Sbottò il
sergente, forse pensando la stessa cosa. James non se lo fece ripete:
lanciò un
Confringo – ormai
quell’incantesimo
era diventato il suo marchio di fabbrica – che fece esplodere
la porta con
precisione netta, tanto che cadde dai cardini senza seminare una sola
scheggia.
“Dentro!”
Scorpius si lanciò dietro i mantelli svolazzanti dei due e
tossì all’odore acre
che lo investì. “Ma cos’è
morto…” Non fece in tempo a formulare la domanda
che
vide cosa, o meglio chi emetteva
quell’odore nauseabondo di decomposizione.
Era Sam Howe. Alla luce
lasciata entrare dalla porta era ben visibile, riparato dietro il
letto.
“Porca
Morgana…” Sussurrò
Bobby, che non era incline ad imprecare. Di solito.
La pelle chiazzata da un
reticolo di vene gonfie, gli occhi bianchi – non erano
rovesciati all’indietro
come aveva supposto la cameriera, la pupilla proprio non
c’era! - e l’odore di
cadavere.
È
un Infero?
Scorpius si trovò
nella
scomoda posizione di volersela dare a gambe, e non credeva di essere
l’unico a
giudicare da come tutti gli altri si erano congelati nelle loro
posizioni,
fissando la creatura che fissava
loro
di rimando.
Cosa
… che diavolo è?
La stasi fu rotta proprio da
quest’ultimo. Con un sibilo si lanciò oltre il
letto, verso James. Questo
rinculò immediatamente, lanciando uno Schiantesimo dei suoi,
potenti e precisi
come un colpo di pistola.
Non servì a nulla.
O meglio, il colpo lo prese
in
pieno ma una sorta di scudo si materializzò direttamente
dalla pelle dell’uomo,
come un bolla
gassosa priva di una forma
definita.
Merda!
Scorpius
lo pensava solo quando la
situazione lo richiedeva, che ricordava bene l’educazione
ricevuta.
Lo pensò moltissimo.
Howe, o quel che rimaneva di
lui, aveva ormai puntato James con una tenacia che aveva del
sovrannaturale e
Scorpius si trovò a colpirlo più volte insieme
agli altri, sebbene questo non
si difendesse, non tentava neppure di levare la bacchetta, sempre che
ne avesse
una. Avanzava soltanto, e e verso James con quella che sembrava proprio
bava
alla bocca.
Potty
manicaretto?
Li fece arrivare alla porta
prima che il Sergente spintonasse il moro a lato e tentasse
l’ennesimo
Stupeficium. Stavolta funzionò perché finalmente
la Cosa – chiamarlo mago era
assurdo – fermò la sua corsa. Si bloccò
e poi, sotto i loro sguardi si sgretolò.
Si sgretolò come
avrebbe fatto
una statua di gesso, dapprima crepandosi, poi crollando in una cascata
di
cenere.
Rimasero in silenzio un paio
di attimi buoni, prima che James parlasse. “Cosa diavolo era?!”
Sussurrò pallido come la morte. “Cazzo, sembrava
avercela solo con me!” Fece una pausa.
“Perché sempre a
me?”
Scorpius capì che
era giunto
il momento di sdrammatizzare. Con il lavoro che facevano
c’era sempre bisogno
di una sana dose di coglionaggine
–
almeno così la chiamava Rosie – per non avere gli
incubi ogni notte. Gli si
avvicinò tirandogli un consolatorio ma virile schiaffo sulla
nuca. “Piantala di
fare l’egocentrico!” Esordì.
“Sarà stato per via della tua Magia incasinata.
Com’è che ti chiama Dursley?” Lo vide
riprendere colore e indignazione alla
menzione dell’insopportabile cugino acquisito.
“Luminaria pacchiana del Mondo
Magico? Sei la vittima perfetta per i mostri assurdi!”
Perché
diavolo, sembrava proprio volerti mangiare…
“Ma
vaffanculo.” Masticò
malmostoso, mentre Jordan tentava una risatina, sebbene non
distogliesse lo
sguardo dal mucchio di cenere, quasi dovesse rianimarsi per attaccarli
di nuovo.
Il Sergente Flannery si
avvicinò alla cenere che era stata Sam Howe. Dalla poltiglia
grigiastra di
vestiti e residui organici tirò fuori un orologio da tasca e
un portafoglio.
Effetti personali veri, appartenuti ad una persona che si supponeva
fosse stata
normale. Da quest’ultimo
oggetto estrasse
un foglietto, che lesse. Poi sospirò.
“Non so cosa
diavolo fosse, ma
sappiamo da dove veniva.” Aggrottò le
sopracciglia. “America.”
****
Note:
Più che un prologo, è un capitolo!
Ci siamo quindi. Siamo
ufficialmente nella terza (e ultima, giuro!) parte.
La canzone del capitolo
è
questa
perché se arriva il nuovo album dei Mumford&Sons,
non si può non
utilizzarlo. Punto.
La cover del capitolo e del profilo autore è stata fatta
dalla bravissima Daphne Kerouac.
E ora, le note.
1. West
Smithfield Garden: una rotonda al centro delle direttrici
viarie principali di Smithfield, nella parte nord-ovest di Londra, zona
famosa
per ospitare l’ultimo mercato della carne ancora presente in
città. Si trova nel
distretto (o quartiere?) di Farringdon. Il giardino, una volta sito di
esecuzioni pubbliche (dov’è la statua adesso
c’era il patibolo) è pubblico, con
panchine, alberi. Qui una foto.
2. Devonshire:
una delle tante incongruenze temporali del Mondo
Magico. Devonshire è il modo in cui veniva chiamato il Devon
secoli fa (ovvero
‘Contea di Devon’).
3. Barts:
contrazione dell’ospedale di San Bartolomeo, famoso per aver
avuto trai suoi alunni un certo John Amish Watson, almeno, secondo
Sherlock
Holmes di Doyle. ;)
4. Chizpuffle:
parassiti minuscoli dall’aspetto di un granchio. Si
nutrono di magia, ed è quindi frequente trovarli nelle
bacchette o nella
pelliccia di creature magiche come i Crup. Solitamente sono eliminabili
tramite
pozioni, ma quando si nutrono troppo diventano pervicaci. Motivo onde
per cui
Albus ha dovuto rasarsi. Con i capelli che si ritrova –
ereditati dal padre,
capace di farseli ricrescere in una notte – gli animaletti
sono andati in overdose.
5. Reparto
Thickley: si riferisce al reparto Janus Thickley per i
lungodegenti di Lesioni da Incantesimo. Annovera trai pazienti, oltre
ad
Allock, anche Frank e Alice Paciock.
Infine, alcune precisazioni
doverose.
Precisazioni: Molte delle immagini
usate, linkate e manipolate
non appartengono a me, ma le ho trovate sul web. Chiunque le
rivendicasse, è
pregato di inviarmi un pm, sia se voglia che le ritiri, sia che voglia
essere
creditato. Thanks!
Le canzoni, frasi e
varie
citazioni non appartengono a me, ma a chi le ha ideate.
E per finire, l'impianto dell'intera storia, luoghi, personaggi etc
appartengono a J.K. Rowling, Dio l'abbia in Gloria.
Considero questa
storia una sorta di ‘tributo’
alla sua opera, niente più che il lavoro di una fan.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Capitolo I
So when you look
in the mirror
Reflecting back at you someone that you don't
know
Oh, that's just made your head spin around
(Same
Jeans, The View)
Inghilterra,
Londra, Ministero della Magia, Secondo Piano.
Dipartimento
Applicazione della Legge sulla Magia, Ufficio
Auror
Pomeriggio.
“Davvero dobbiamo
fare
rapporto a quei rompipalle di Cooperazione? Maddai!”
Scorpius alzò gli
occhi al
cielo suggendo la dose quotidiana, quanto necessaria, di Prince
of Wales. Dato che gli era precluso il caffè da
quando aveva
ricordo – ti rende troppo
eccitabile, non
pensarci neppure – la chiusura di una giornata
lavorativa almeno per lui si
concretizzava con lo scolarsi mezzo litro di the mentre Bobby e James
si
ingozzavano di malvagia caffeina.
Secondo
me dovrebbero proibirlo anche a Potty. Lo rende
nevrotico.
“È la
procedura, ragazzo.”
Replicò Flannery mentre riguardava il rapporto stilato da
quest’ultimo. Erano tre
anni che il buon irlandese affidava quel compito a James, nel tentativo
di insegnarglielo.
Fallendo miseramente ogni volta. Tirò l’ennesimo
frego su una frase sballata e
lasciò che l’inchiostro magico la cancellasse
prima di riscriverla da capo.
“Ogni morte riguardante un mago non-inglese va segnalata
all’Ufficio
Internazionale della Legge Magica.” Spiegò
paziente. “Spediamo loro un rapporto
e aspettiamo che dall’altra parte dell’Oceano
mandino un agente che ci starà
trai piedi per qualche giorno, si prenderà una copia di
tutto e alla fine si
porterà via la salma. Procedura, come vi ho
detto.” Ripeté.
“Sì,
però quel che è successo
non era la solita procedura.” Si inserì Bobby
fissando il fondo scuro della
propria tazza. “Quel tipo, Howe … insomma sembrava
… Non abbiamo ancora capito
cosa diavolo avesse, no?”
“Prima aspettiamo il referto dal San Mungo, poi vedremo come
muoverci.”
Consigliò saggiamente il sergente, firmando il rapporto e
passandolo a James
che lo chiuse in una cartellina su cui colò ceralacca e
impresse il sigillo del
Dipartimento.
“Fatto!”
Esclamò con aria
palesemente sollevata. Era rimasto in silenzio per tutto il tragitto
verso il
Ministero e Scorpius non aveva potuto biasimarlo. Rischiare la vita era
qualcosa che si doveva mettere in conto quando si prendeva
quell’uniforme, ma
constatarlo era sempre poco piacevole. “Comunque secondo me
al San Mungo lo
troveranno pieno di schifezze oscure fino ai capelli e buonanotte.
È morto,
certo non può più far danno a nessuno!”
Scorpius non disse nulla;
aveva pensato e ripensato all’episodio di quella mattina, a
pranzo come durante
un sopralluogo di rito a Notturn Alley.
Come
diavolo ha fatto a rimanere in piedi per tutto
quel tempo? Gli abbiamo scaricato addosso qualcosa come una cinquantina
di
schiantesimi! Senza contare gli occhi … e la faccia. E la
puzza di morto.
Che
diavolo aveva fatto per combinarsi in quel modo?
“Jordan, porta le
prove in
archivio.” L’irlandese si stiracchiò con
uno sbadiglio. “E controlla che le
cataloghino nel modo giusto. Alle volte fan fatica a trovarsi il sedere
con le
mani, là dentro.”
“Un orologio da tasca, un portamonete con soldi di taglio
misto e una ricevuta
per una passaporta da Phoenix, Arizona per Inghilterra, Londra.
Ricevuto,
sergente.” Snocciolò questo con un sorriso. Era
famosa la puntualità con cui
riusciva a elencare, prendere appunti e fare interrogatori. A detta di
James era
una cosa che aveva fin dai tempi di Hogwarts.
Quest’ultimo si
dondolò sulla
sedia che Scorpius aveva avuto la magnanimità di ridargli a
fine giornata. “Viene
con noi al Finnigan’s stasera?” Chiese
all’auror più anziano. “È il
compleanno
di due nostri amici, ci facciamo un paio di Whiskey
incendiari!”
Il mago
ridacchiò. “No,
ragazzi … bevetene uno anche per me, io torno a casa, sono a
pezzi.” Sospirò,
alzandosi in piedi. “Comincio a non avere più
l’età per l’azione.”
“Ma se ha solo quarant’anni!” Rise James.
“Non
vorrà finire a fare il timbracarte come mio
padre spero!”
Flannery gli rifilò uno scappellotto sulla nuca.
“Il capo ha avuto più cervello
di me e te messi assieme, Potter. Dietro una scrivania ci si
annoierà pure, ma
almeno si rimane interi.” Si voltò poi nella sua
direzione. “Mi raccomando
Malfoy, quel rapporto dev’essere giù alla
Cooperazione entro stasera, mi affido
a te.”
“Sissignore!” Proclamò allegramente,
strappandolo di mano all’amico. “Lo
difenderò con il mio corpo dalle zampe sgrammaticate di
Potter!”
****
Ministero
della magia, Quinto Piano
Dipartimento di Cooperazione Magica Internazionale, Ufficio
Internazionale
della Legge Magica
Ora
di cena.
Michel Zabini si massaggiò le tempie, notando come la mole
di carte ufficiali,
relazioni e promemoria non fosse calato che di pochi centimetri
dall’inizio
della giornata.
Certo,
perché per quanto smaltivo, inevitabilmente
arrivava altro.
Non era stata una buona
giornata.
Occhieggiò la
pendola di
fronte alla sua scrivania e constatò sconfortato come anche
quel giorno avesse
accumulato ore di lavoro in più. Non che avesse importanza
nel dedalo dipinto
di bianco che era diventato la sua seconda casa. Gli orari erano
flessibili,
quanto erano inflessibili coloro che li redigevano.
E
che importanza ha se Michel Zabini, funzionario di
terzo livello, rimane oltre l’orario d’ufficio?
Nessuna.
Avere quel posto di lavoro
era
stato facile, certo. Era bastato avere la raccomandazione giusta, nel
suo caso
incarnata nella persona di suo padre, Blaise Zabini, vice-direttore, a
pari
livello con Lord Draco.
Il problema era un altro:
salire
di grado. Per farlo si doveva sgomitare e calpestare e in generale,
combattere
con la sottigliezza delle parole.
Non
che questo per me abbia mai rappresentato un
problema. Non è questo il punto.
Alla sua entrata aveva
progettato di compiere quel cursum
honorum in cinque anni, ma quei cinque erano arrivati e
stavano passando
senza che nulla fosse cambiato.
Non
cambierà nulla finché mio padre si
rifiuterà di
perorare una mia promozione.
I motivi erano sempre i
soliti.
‘Non
sei ancora pronto, Michel. Abbi pazienza, fa’
esperienza. Sei giovane, hai tempo.’
Non
sarò giovane per sempre … e comunque
l’esperienza è
solo una scusa.
Come
se non l’avessi capito. Come se non sapessi perché
ritieni sia giusto abbia una posizione di rilievo ma non abbastanza in
alto da farmi notare.
È
lo stesso, identico motivo per cui ho sempre e solo
partecipato ai ricevimenti ufficiali al Ministero, gli unici in cui non
potevi
non portarmi.
Chiuse gli occhi, sentendo
un
principio di emicrania mandargli fitte lungo le tempie e la fronte; non
vedeva
l’ora di salire in superficie e respirare un po’ di
aria fresca.
È
giovedì. Giovedì vuol dire Londra babbana, Soho,
discoteche. Ragazzi.
L’unica nota
stonata di quella
serata era il compleanno dei gemelli Finnigan, amici di Al, a cui
avrebbe
dovuto fare una comparsata. Per fortuna solo un paio d’ore,
quelle sufficienti
a prendere l’amico e portarlo verso una serata più
stimolante.
Devo
ricordarmi di avvertire Mael per dirgli che faremo
tardi … Anche se troverà il modo di lamentarsi
comunque.
Fece l’ennesimo
sospiro e
allungò la mano verso l’ennesima pratica.
“Ehilà!”
La sua collega di stanza
sfarfallò le ciglia chilometriche – dannato
mascara magico, faceva più danni
della grandine – quando Scorpius
‘Esaltato’ Malfoy entrò fornito di
uniforme e
sorriso abbagliante.
“Sy.” Lo
salutò neutro. “Anche
se hai un aspetto splendido devi comunque pulirti le scarpe dal fango
della
strada. Nessuna eccezione. Questo è un ufficio, non la
stalla in cui lavori.”
“Sempre delizioso!” Sghignazzò,
salutando poi con un cenno allegro e del tutto
disinteressato la strega. “Salve Hilary.” Come
riuscisse a ricordare il nome di
ogni singola creatura incrociasse sul suo cammino per Michel sarebbe
sempre rimasto
un mistero. “Come sta tuo marito? Clint?”
Anche
il marito. Notevole.
“Bene, caro, bene
… Una tazza
di the?”
Una
sveltina? Morgana, donna, abbi un po’ di decenza.
“No, sono solo di
passaggio,
ti ringrazio.” Si sedette di fronte alla sua scrivania
slacciandosi i primi
bottoni dell’uniforme, ignorando del tutto
l’occhiata lasciva che gli venne
lanciata.
E
non da me.
Era sconfortante notare come
l’altro non calcolasse minimamente l’universo
femminile da quando aveva avuto
la disgraziata idea di accoppiarsi con la Weasley.
Sul
serio? Eri un dongiovanni notevole, mio Sy, e ti
sei trasformato in un devoto cagnolino…
“Con le tue doti
da
investigatore sopraffino avrai sicuramente dedotto che ho da
fare.” Con la
piuma indicò la mole minacciosa di carta pergamenata tra di
loro. “Perché non
vai a disturbare tuo padre? È a solo due uffici da
qui.”
“Oh, lo sai com’è fatto, odia vedermi in
uniforme. Gli ricorda che lavoro
faccio.” Sorrise svagato afferrando la targa con il suo nome
e facendola
levitare con la bacchetta. “Che fai di bello? Andiamo a farci
una birra? In
questa bara bianca avete una caffetteria? E una mensa? Vendono
Burrobirre?”
Sparò in rapida successione.
“Scorpius.”
Interagire con l’amico di infanzia era sempre stato come
tentare di sedare un bambino strafatto di Piume di Zucchero. Ci voleva
polso.
Afferrò la targa e la rimise al suo posto. “Posso
sapere il motivo della tua
visita?”
L’altro fece una
smorfietta.
“Non sei mai contento quando ti vengo a trovare …
Scommetto che se fossi il
mini-Potter saresti molto
più
gentile.”
Michel provò il fortissimo impulso di conficcargli la punta
della piuma nel
bulbo oculare, ma si contenne egregiamente.
“Scorpius.” Ripeté con un sorriso
urbano lisciandosi il risvolto dei polsini. Odiava quando per
l’irritazione
finiva per sgualcirsi la giacca. “Ti posso assicurare che i
miei anni come
Capitano del Club dei Duellanti non sono finiti nel dimenticatoio
quindi, a
meno che tu non voglia uscire di qui privo di testicoli, ti consiglio
di venire
al sodo.”
L’altro gli lanciò un’occhiata attenta.
“Oggi siamo di cattivo umore…”
“Felice che tu te ne sia reso conto.”
“Bastava dirlo subito!” Roteò gli occhi
al cielo, tirando fuori dal mantello un
plico di carta bollata. “Per te!”
Un altro.
Fantastico.
Davvero fantastico.
“Dall’ufficio
Auror. Mago
americano, mago stecchito.” Snocciolò con
disinvoltura, ma con un lampo nello
sguardo che Michel registrò con curiosità. Era
preoccupazione? Non dispiacere,
Scorpius riusciva piuttosto bene a separare il lavoro dalle sue
emozioni.
Come
tutti i Malfoy del resto. Lui è solo più
rumoroso,
tutto qui.
Sfogliò il
rapporto
sommariamente. Era scritto da cani, sia per via della grafia che per le
tante
cancellature da piuma correttiva. Fece una smorfia doverosamente
disgustata
prima di posarlo in cima alla pila. “Fammi indovinare,
l’ha scritto Potter.”
“È già tanto che non ci si sia soffiato
il naso!” Esclamò tutto allegro.
“Vabbeh,
facci sapere quando arriva l’agente americano per ficcanasare
okay?”
“Procedure di cooperazione delicatissime riassunte in una
sola, rozza frase.
Complimenti Malfoy, sei diventato una testa di bacchetta a tutti gli
effetti.”
“Grazie!” Si alzò in piedi, battendo le
nocche sulla scrivania. “Mi raccomando
Mike, è prioritario.” Soggiunse mentre la
sfumatura del sorriso cambiava. Vi
lesse un’implicita raccomandazione e maledì la
facilità con cui quella ridicola
accozzaglia di bestioni in mantello rosso si muoveva tra le maglie
della
giustizia magica.
Il
loro occhialuto capo in primis.
Lord
Malfoy ha ragione ad odiarlo a morte.
Calpestano
le regole come una mandria di Centauri, e
noi della Cooperazione dobbiamo aggiustare i cocci. O, preventivamente,
cercare
di non farglieli rompere.
“So benissimo come
funziona.”
Replicò acido con l’emicrania che ormai pulsava a
ritmo della sua irritazione.
Era in giorni come quello
che Hogwarts
gli mancava terribilmente: la spensieratezza, le lezioni semplici, e la
lontananza da qualsivoglia decisione o responsabilità.
Incredibile
come in un posto che esigeva l’uniforme e
l’uniformità di pensiero mi sentissi
più libero che qui, come adulto.
“Ehi
Mike…” L’espressione di
Scorpius si era fatta seria. Era sempre strano vederlo senza uno
sciocco
sorriso stampato in faccia. “Va tutto bene? Hai una
faccia…”
“Sì,
certo.” Solo uno come Malfoy
poteva fare domande del genere sul posto di lavoro e pensare di
ottenere una
risposta sincera. “Andrebbe ancor meglio se mi lasciassi
tornare ai miei
compiti.”
L’altro fece una
smorfia.
“Okay, umore pessimo,
ricevuto.” Sorrise
di nuovo, perché era Sy e
non poteva
farne a meno. “Ti vediamo stasera al
Finnigan’s?”
“Certo.” Sorrise suo malgrado. Nonostante si stesse
trasformando in un
cavernicolo privo di cervello il ragazzo di fronte a lui rimaneva
comunque la
prima persona che gli era stata amica, per quanto imposta dal volere
genitoriale.
Ma
nessuno mi ha imposto di essergli amico sul serio.
“Vedi di non
sparire subito
però!” Soggiunse. “Violet non ti vede da
mesi, mi ha detto, e stasera ci sarà. Abitare
tutti e due a Londra, com’è possibile che non
riusciate mai a beccarvi per un
drink?”
Perchè dovremo? Non credo gli
manchi
qualcuno con cui trascorrere del tempo.
Non
manca a lei, come non manca a te, ad Albus o
chiunque altro delle persone che conosco a parte Loki.
Non
che Loki sia un tipo da relazione stabile … e non
che lo sia io.
“Va bene, ora
va’ o rischi di
non vedermi davvero stasera.” Lo scacciò con un
cenno della mano. L’altro
ridacchiò, guardandolo con aperto affetto. Si sentiva
meschino quando lo
guardava così, perché era in momenti come quello
che lo detestava.
Ha
un lavoro che ama, è felice della posizione che
ricopre e sta per sposarsi. E vuole
sposarsi.
Come
ci riesce?
Era quel genere di domanda a
cui uno come lui non avrebbe mai avuto risposta.
****
Londra,
Diagon Alley
Appartamento
di Albus Severus Potter e Thomas Dursley
“Ah, sei
qui!”
Non pervenne risposta, ma Al sapeva benissimo che la testa nera che
spuntava
dal divano Chesterfield era quella di Thomas Dursley, al secolo Tom,
suo
ragazzo e divoratore estremo di libri vista la pila nutrita posizionata
pericolosamente sul bracciolo.
Varcò il piccolo ingresso che faceva ambiente unico con il
salotto, liberandosi
della tracolla e del mantello. Era stata una giornata relativamente
buona.
Pochi pazienti e Smeth si era limitato a cercare di metterlo in
difficoltà con una
raffica di domande su un caso anomalo di Nausea da Smaterializzazione.
Certo
potrebbe anche cominciare a realizzare che non
sono un raccomandato… Sono due anni che lavoro sotto di lui!
Diede una carezza distratta
a Zorba,
il gatto di casa, che oltre ad esibire un muso schiacciato –
secondo la strega
che glielo aveva venduto, una certa Figg, era un mezzo Kneazle
– aveva una
fedeltà devota al suo coinquilino che si manifestava nel
stargli sempre nelle immediate
vicinanze. Quasi a sposare quel suo pensiero il felino saltò
in grembo al suddetto
che si limitò ad una carezza distratta in cambio di fusa
appassionate.
L’altro
gatto di casa. Il capobranco.
“Hai staccato
prima?” Tentò di
nuovo, ottenendo stavolta una specie di brontolio. Vista che la
conversazione
non partiva Albus si spostò in cucina e mise il bollitore
per il the, togliendo
dalla dispensa pane e roast-beef per un pasto leggero in previsione
dell’abbuffata alcolica al Finnigan’s.
Tornò poi in salotto, controllando che
il lucernario che dava luminosità all’intero
ambiente fosse chiuso: sia lui che
Tom lo dimenticavano sempre aperto, con il rischio di allagare la casa
negli
infiniti giorni di pioggia che bagnavano la gloriosa terra
d’Albione.
E
ora vediamo di farsi dar udienza.
Gli si piazzò di
fronte e notò
che la sopracciglia dell’altro si aggrottarono di colpo.
“Che
leggi?”
“Studio.”
Fu l’irritata
precisazione. “Ciao.” Aggiunse vinto.
Al sorrise, calciando via le
scarpe e aggirando il divano. Si chinò sullo schienale e
baciò la testa
ordinata dell’altro, inspirando odore di cera per bacchette e
shampoo. “Guarda
che finirai per diventare cieco.”
Questo alzò la testa, rivolgendogli un’occhiata
spassionata. “Ti sono passati i
pidocchi?”
Al frenò l’impulso di tirargli uno schiaffo sulla
nuca. “Se sei steso sul
divano, teoricamente infestato dato che ci ho dormito per una settimana, deduco che non te ne
importi granché.”
“Ho letto qualcosa in merito.” Stese un sorrisetto
deliziosamente stronzo. “A
quanto pare è rarissimo che si attacchino ai maghi. La tua
solita sfortuna,
Potter?”
“Stronzo.”
Trovò giusto
notificare, anche se accettò di buon grado lo strattone che
diede alla sua
maglietta e il bacio lento e languido con cui finalmente
gli diede il benvenuto a casa. Sentiva il pizzetto
dell’altro – geometrico, non poteva esser
diversamente – pungergli il mento ma era
piuttosto piacevole – almeno sul viso.
Mmh.
Si però in questa posizione rischio di slogarmi
una vertebra…
Si tirò indietro,
ignorando
l’occhiata scontenta che gli venne rivolta. “Dai,
chiudi quel libro e vieni a
mangiare. Tra mezz’ora dobbiamo essere al
Finnigan’s!”
Tom si adombrò,
mettendo su
una smorfia che poteva essere solo classificata come broncio. Davvero
non
capiva come Rose e gli altri la considerassero inquietante.
“Ti ho già detto
che non ci vengo.”
“Ed io ti ho già detto che non hai scelta.
È il compleanno dei gemelli e ti
hanno invitato. E poi stasera suona il gruppo di Meike, non vuoi farla
rimaner
male, vero?”
“Meike e Louis hanno in programma di fare almeno altri dieci
concerti entro la
fine dell’estate. Non posso partecipare a tutti e lei lo
sa.” Fu la
preparatissima risposta. Avrebbe dovuto immaginare che si fosse
già messo
d’accordo con l’altra per mettersi al riparo da
eventuali recriminazioni.
Dopotutto la piccola tedesca, ormai quasi sedicenne, passava la maggior
parte
delle sue vacanze estive nella loro camera per gli ospiti, tranne
Luglio, mese
dedicato a Putgarten e a sua nonna Cordula.
Mi
hanno battuto sul tempo… Del resto, che dovevo
aspettarmi da due serpeverde?
“Abitiamo
a due case di distanza dal
locale.” Tentò di nuovo.
“E quindi?” Si sistemò meglio sul
divano, con calcolata indolenza. “Tu comunque
lascerai la festa a metà serata per andar dietro a
Zabini.”
“Non vado dietro…” Sospirò,
arrendendosi all’evidenza che la gelosia del suo
ragazzo sarebbe sempre stata parte integrante del loro rapporto. Doveva
ammettere che si conteneva, per quanto poteva.
Ma
sulle uscite serali con Mike proprio non riesce a
frenarsi…
“Guarda che vado
solo a fargli
compagnia e a ballare. E poi c’è anche
Mael.”
“Ovvero il suo amichetto.” Ritorse con un
sorrisetto sarcastico. “Uno dei
tanti, per giunta.”
“Tom…”
“Dovrei esser contento che ogni giovedì torni a
casa ad orari impossibili
perché vai in giro con lui e i suoi compagni di
letto?” Si tirò a sedere di
scatto cacciando così il gatto che si lamentò con
un miagolio ugualmente infastidito.
Andavano in risonanza, quei due.
Al guardò il
proprio ragazzo;
non riusciva a capire come potesse
esser
geloso – e quindi insicuro - e al tempo stesso estremamente
consapevole del proprio
fascino. Persino
con un maglione di un
colore smorto e in pantaloni scuri riusciva ad essere più
affascinante di un
modello di StregaOggi.
E
non si sforza nemmeno, lo stronzo. Di mattina già
è
fighissimo, mentre io sembro una specie di ameba con gli occhi gonfi e
i
capelli a covone di paglia…
Sua
attestazione questa.
“Prima di tutto,
Mael è anche
amico mio.” Si sedette sul ciglio del divano, passandogli una
mano sul fianco e
subendo paziente lo schiaffo con cui venne allontanata.
“… secondo, mi piace
ballare e tu lo detesti. Con chi altro potrei andare?”
“Con Lily, per esempio.”
“Con Lily non posso andare per locali gay.”
Inarcò le sopracciglia. “Cioè potrei,
ma sai quanto è ingestibile. Sarebbe
proprio un bel divertimento passare la serata starle dietro!”
“Almeno non
dovresti
preoccuparti di vederla sparire in bagno in compagnia di
qualcuno.” Replicò
evitando una cuscinata con un movimento allenato della testa.
“Va bene.” Concesse
infine. “Verrò alla festa. Ma torni a casa con
me.”
“Non posso … lo sai che mi sono già
impegnato con Mike.” Gli prese la mano,
intrecciandola forzosamente alla sua visto che veniva divincolata come
un’anguilla. “Ascolta, sta passando un periodaccio
al Ministero e il lavoro lo
stressa molto. Ha bisogno di qualcuno con cui parlare.”
“Compagni di
letto?” Suggerì ironico.
“Servono a questo, no?”
“Servono ad
altro.” Replicò
con un sorriso stanco. Per Mike i ragazzi con cui faceva sesso erano
poco più
di una valvola di sfogo di natura idraulica.
Era esasperante e allo stesso tempo tenero
l’incapacità di Tom di considerare
l’intimità con qualcuno inscindibile dalla
confidenza.
Non
è affatto così nella maggior parte dei casi. Noi
siamo fortunati.
L’altro fece una
smorfia. “Se
non gli piace la vita che fa, la cambi.”
Al sospirò: Tom
non poteva
capire visto che aveva scelto senza interferenze come entrare
nell’età adulta, diventando
l’Apprendista di Rupert Stevens, uno dei pochi Fabbricanti di
Bacchette ancora
operante in Gran Bretagna.
Ha scelto,
ecco il verbo. Mike ha sempre saputo che
avrebbe lavorato con suo padre, fin da quando era un bambino.
È quello che ha
sempre voluto, ma credo che la realtà attuale sia un
po’ diversa da come se
l’era immaginata.
Molto.
“Come sta
Rupert?” Cambiò
discorso e alla faccia scocciata dell’altro
scoppiò a ridere. “Dai, si chiama
così. Sei stato tu a non chiederglielo mai,
poverino!”
“È evidente
che preferisca esser
chiamato per cognome.” Replicò pieno di sussiego e
quindi imbarazzato. “Sta
bene, comunque. Abbiamo in pendenza un ordine da cinquanta bacchette
per
Brooke.” Comunicò con una punta di sadismo dato
che il povero negoziante era
perennemente alla loro porta in attesa di ordini che nel migliore dei
casi
arrivavano in ritardo di mesi.
Poveraccio,
avrà pensato che con un Apprendista la
bottega avrebbe migliorato la velocità del servizio
… Invece da quando c’è Tom
è addirittura peggiorata. È già tanto
se da là esce fuori una bacchetta al mese.
Gli accarezzò il
fianco sotto
il maglione. C’era pelle nuda dato che l’estate
stava cominciando finalmente a
scaldare Londra. Stavolta non si beccò neppure uno schiaffo
o un pizzicotto. “Siete
due irresponsabili.” Ridacchiò. “Un
giorno o l’altro Brooke deciderà di rivolgersi
a qualcun altro.”
“Già lo fa, ma le nostre bacchette sono le
migliori. Le vende a peso d’oro e ci
guadagna il doppio.” Fu la risposta. “Per legni
dozzinali sa che deve
rivolgersi a Kiddell¹.”
Albus non ribatté
perché sotto
sotto era felicissimo che il suo ragazzo avesse trovato un mentore
– checché ne
dicesse, questo Rupert Stevens era per lui. I gemelli Finnigan gli
avevano
raccontato di averli visti più volte passeggiare per Diagon
Alley immersi in
conversazioni di cui si evinceva a stento qualche parola.
Almeno
un mago adulto, oltre a papà e zia Hermione, che
ha la sua stima e fiducia… Non male.
Si chinò su di
lui. “Allora,
vieni? Per favore?” Gli chiese schioccandogli un lieve bacio
sull’angolo delle
labbra. Si era di nuovo abbuffato di marmellata di mirtilli, a
giudicare dal
sapore.
Ah,
ecco perché non ha fame… Lui e la sua dieta
sballata a base di marmellata, caffè, the e qualche
biscotto.
“Solo se posso
andarmene prima
del tempo.” Rispose passandogli un braccio attorno alla vita
e premendoselo
contro. “E solo se saltiamo la cena per fare qualcosa di
più interessante.” Ad
Al non ci volle molto per capire cosa intendesse, non stretto a quel
modo.
Sei un Guaritore … devi evitare che
l’idiota svenga per aver saltato i pasti principali.
Certo
che però se ha tanta
vitalità da certe parti,
tanto debole non dev’essere…
“Smettila di fare
l’educanda
coscienziosa.” Gli venne sussurrato all’orecchio,
in un tono basso e vibrante
che gli mandava scariche di eccitazione dalla colonna vertebrale fino
all’inguine.
Sempre,
da sempre e per sempre.
“Accidenti a
te… Non so
neanche cosa sia un’educanda, ma so che è un
insulto.” Mugugnò facendolo
ridacchiare. “È colpa delle tue fobie da igienista
se è una settimana che…”
“Posso rimediare?” Gli passò le dita
lungo il fondoschiena e lo fece scivolare
a cavalcioni. Al non si lamentò della posizione, come non
avrebbe fatto nessun
ragazzo gay sano di mente.
“Vedi di rimediare
come si
deve.” Ci pensò. “Se svieni dalla fame
però ti ammazzo.”
“Prendo nota.”
****
Londra,
Diagon Alley.
Pub dei gemelli. Sera.
Lily adorava il
Finnigan’s
Wake.
Era un pub irlandese e per
quanto magico,c’era molto delle radici babbane dei due
proprietari. Dalla tv a
schermo piatto che trasmetteva partite di calci e rugby –
sport amatissimi da
Fergus – alle selezioni di alcolici, che variavano da birre stout a Burrobirre aromatizzate.
Era un buon posto in cui
passare la sera. Un posto dove eri sempre certa di trovare un viso
amico e una
consumazione gratis, dove la musica non si fermava neppure con
l’avvicinarsi
dell’orario di chiusura.
In parole povere, era
diventato il ritrovo ufficiale della gioventù magica
londinese. Una gioventù
nata dopo la guerra, che aveva voglia di divertirsi ed era curiosa del
limitrofo mondo Babbano.
Oscillare tra moda babbana e
tradizioni magiche come faceva il Finnigan’s era diventato
quindi un must, e non era quindi
strano trovare
chi rispondeva al cellulare mentre scriveva un messaggio sul proprio
Specchio
Comunicante. Le tuniche erano sparite, in favore di jeans, tacchi e
scarpe da
ginnastica ed era ormai raro trovare qualcuno che non conoscesse gli
Stones o
le ultime tendenze in fatto di London look.
A Lily quel mondo fuori
dall’universo ristretto di Hogwarts piaceva; a volte le
mancava l’aria pulita
delle montagne scozzesi, ma certo non ne rimpiangeva
l’isolamento e la mancanza
di divertimenti.
Sedendosi su uno degli
sgabelli del bancone salutò con un sorriso Gail,
affaccendata a preparare un
cocktail. “Gail!” La salutò.
“Sono la prima ad arrivare?”
“Sono tutti
nell’altra sala …
Lou e il suo gruppo stanno montando gli strumenti.” Le
rispose sporgendosi per
baciarle la guancia. “Ti faccio il solito?”
“Stasera voglio stare leggera, una Burrobirra.”
Stornò facendo scattare la
borsetta e tirando fuori lo specchietto per darsi un’occhiata
sommaria. Gli
incantesimo di Trucco Ventiquattrore erano una manna dal Cielo.
“Comunque non
dovresti essere a festeggiare?”
L’amica si
raccolse i
voluminosi capelli ricci con un elastico che portava al polso in caso
d’emergenza. “Sì, certo, ora lascio
tutto a Stella.” Una delle cameriere. “È
che ci tengo a servire almeno…”
“Guarda che vengo là dietro!” La
minacciò facendola ridere. “Dico sul
serio!”
“Arrivo!” Le assicurò senza tuttavia
smettere di rimestare in zona preparazione
drink. “Tu va’ avanti … Tra parentesi
tuo fratello ha già chiesto due volte di
te.”
“Scommetto Al.” Alzò gli occhi al cielo.
“Ce l’ha nel sangue questa cosa di
fare la chioccia.”
“Vorrei avere io
due fratelli
come i tuoi.” Sbuffò occhieggiando verso la sala
con aria tra il rassegnato e
l’esasperato. “Invece mi ritrovo quello
scansafatiche di Gus. E devo pure
festeggiare con lui!”
“Meglio
scansafatiche che
stalker.” Scrollò le spalle. “Ci manca
solo che Jamie cominci a pedinarmi e poi
siamo a posto.”
“Ora che sei una donna impegnata non si sono un po’
rasserenati?” La prese in
giro.
Lily sorrise, scuotendo la
testa e prendendo la Burrobirra che l’altra le porgeva.
“Penso che rimarrò
sempre una cinquenne incapace ai loro occhi. Persino papà si
fa meno fisime!”
“Il dramma dei
fratelli
maggiori…” Scosse la testa. “Comunque
pensavo venissi con Scott.”
“Difficile quando lui vive nel Somerset ed io nel Devon.
È già arrivato?”
“Certo, sei l’ultima, come al solito.” Le
strizzò l’occhio divertita. “Stavolta
ti sei contenuta però, solo mezz’ora di
ritardo!”
“Ah, la Metropolvere!” Replicò con la
disinvoltura di anni di menzogne innocue.
“Comunque ricevuto, scappo di là, ma non senza di
te.”
“Finito!” Aprì il bancone e la prese
confidenzialmente a braccetto. Poteva,
perché era davvero una delle poche depositarie delle sue
confidenze. Un’amica
vera, per capirsi. Sentiva ancora Aimee e Jane, le due corvonero con
cui aveva
trascorso gli anni scolastici, ma i rapporti si erano molto raffreddati
dopo il
suo personalissimo e apocalittico Quinto Anno.
Si
sono legate al dito il fatto che non abbia voluto
raccontar loro per filo e per segno cosa mi era successo. Carino da
parte
loro.
Abigail al contrario non
aveva
mai preteso, né fatto una singola domanda. Si era solo
assicurata di starle
vicino quando ce n’era bisogno e dal suo punto di vista
questo l’aveva resa più
preziosa del milione di attestazioni di accorata amicizia che le eran
state
rivolte dalle due.
“Buon compleanno, Galway girl.” Le sorrise
stringendo
appena la presa. “Stasera Lou te la canterà come
se non ci fosse un domani!”
“È un ragazzino.” Sbuffò
l’altra arrossendo però sulle guance. Il fascino
Veela
dell’appena diciottenne era un dato di fatto che nessuna
strega poteva negare.
“E poi lo sai come se la prende Hugo.”
“Oh, lo so … il ramo geloso di zio Ron
è tutto suo. Ma a ben pensarci anche
Rosie… Voglio dire, ti ricordi la festa di Natale
dell’anno scorso? Quando è
venuta alle mani con quella ragazza di Manchester che pretendeva un
bacio sotto
il vischio da Malfoy?”
Gail convenne con una risatina. “Abbiamo dovuto separarle io
e Hugo. Poverino,
si è anche preso una fattura!”
“Oh, ma ha avuto
un’infermiera
sollecita…”
“Ma smettila!” Esclamò non riuscendo a
nascondere un sorriso complice. Dopo
cinque anni di tira e molla estenuanti alla fine quel tordo di suo
cugino aveva
imbroccato la strada giusta per il cuore dell’amica e Lily
doveva ammettere che
formavano una coppia carina, per quanto inusuale.
Lei
così concreta e lui sempre con la testa tra le
nuvole … Però funzionano.
Immerse nella conversazione,
lei e Gail entrarono così nella seconda e ultima sala del
locale; era più
grande e illuminata rispetto alla prima grazie
all’illuminazione elettrica –
l’impianto l’aveva montato Hugo. In fondo, davanti
ad una parete coperta di
vetrate colorate, c’era il palco, una semplice e spartana
pedana rialzata.
La sala era già
piena,
constatò Lily, intravedendo tra la selva di teste
multicolore la sagoma
familiare dei fratelli e quella alta e allampanata di Tom,
l’uomo capace di
vestirsi solo in colori cimiteriali. In fondo Louis, Meike e il loro
batterista
stavano facendo il sound-check. I
Banshees, ufficialmente fondati dall’anglo-francese erano
stati invece ufficiosamente
portati alla ribalta dalla tedesca che da brava serpeverde –
ricordava ancora
il trionfo dipinto sul volto di Tom alla notizia dello Smistamento,
anni prima
– era riuscita a toglierli dalla massa di gruppetti
amatoriali e fin troppo
legati al wrock per farli approdare fino alle frequenze di Radio Strega
Network.
È
venuto fuori che fare canzoni che parlano d’amore
invece che di pozioni e calderoni paga molto di più.
Del
resto chi meglio di una ragazza nata e cresciuta
con i Babbani può saperlo?
Senza
contare tutta l’influenza di quell’autistico
musicale di Tommy…
“Scott dovrebbe
essere qui in
giro.” La avvertì Gail prima di fare un sorriso
luminoso ad Hugo venuto ad
accoglierle come al solito spettinatissimo e dall’aria
imbronciata.
“Ohi, stavo per
venire a
prenderti, stanno per iniziare.” Borbottò facendo
un cenno anche a lei.
“Ci ho pensato io
a portartela
Gogo, contento?” Ghignò facendolo arrossire mentre
scoccava un bacio impacciato
alla propria ragazza. “Falla divertire stasera e soprattutto
tienila lontana
dal bancone, a meno che non sia per versarsi da bere!”
“Lils!” Rise questa dandole una spintarella.
“Va’ a cercare il tuo ragazzo
prima di combinare qualche guaio!”
“Oh, come se cambiasse la solfa!”
“Beh,
spero proprio che la cambi!”
Lily si voltò in direzione della voce maschile che
l’aveva richiamata
all’ordine. Sorrise al giovane uomo in maglione e camicia che
le sorrideva di
rimando.
“Chi è
questo esempio fulgido
di bravo ragazzo?” Replicò scherzosa.
“Aspetta, mi è familiare…”
Questo inarcò le sopracciglia. “Ti do un indizio,
è il ragazzo che ti chiederà
di ballare stasera.” Replicò avvicinandolesi e
passandole le mani attorno alla
vita.
Scott
Ross. Il mio ragazzo.
Si alzò in punta
di piedi per
baciarlo languidamente. Le piaceva come ogni volta l’altro
facesse del suo
meglio per chinarsi data la differenza d’altezza.
Oh,
ci sono molte cose che mi piacciono di lui…
“Buonasera.”
Lo salutò
passandogli le mani lungo le spalle. “Mi hai aspettato
molto?”
“Il tempo di un
paio di birre
e un po’ di minacce da parte di tuo fratello. James
ovviamente.” Fu la replica
pacata. “Il solito direi.”
Lily alzò gli occhi al cielo: per quanto Scott incarnasse le
qualità più nobili
di un mago (era stato persino un tassorosso come Teddy!) suo fratello
maggiore
non perdeva l’occasione per investirlo di frecciatine.
Lo
frequento da sei mesi e son sei mesi che porta sfiga
perché ci molliamo.
“Ho preso un
tavolo e spero
non ti dispiacerà se è lontano da quello dei tuoi
fratelli.” La prese per mano
e la riparò da un’orda di amici di Gus in cerca di
sistemazione. “Senza offesa,
ma mi danno angoscia.”
“Nessuna intesa ed hai fatto benissimo. Andrò a
salutarli dopo.”
Scott era il suo ragazzo. Lo era sul
serio anche se era la prima a trovare quella situazione
sorprendente. Aveva
passato cinque anni senza un solo legame e nessuna delle sue storielle
era
sopravvissuta a qualche settimana. Poi era arrivato Scott. Scott che,
come
urlavano nome e cognome, era scozzese dalla punta delle scarpe fino a
quella
dei capelli castano-rossicci. Scott che aveva un accento adorabile e
che le
ricordava terribilmente la professoressa McGrannitt, di cui peraltro
era nipote
alla lontana.
“Burrobirra?”
Le chiese
strappandola ai suoi pensieri. “Zenzero, cannella?”
“Zenzero.” Decise distratta.
“È questo il punto in cui dovrei chiederti
com’è
andata al lavoro?”
L’altro
ridacchiò facendo
guizzare gli occhi chiari. Aveva sempre l’aria di un bambino
quando era
divertito. “Immagino che dovrei risponderti nulla di nuovo.
La vita di un
archivista del Ministero non è piena d’emozioni,
il massimo che può accadermi è
che mi cada in testa una scansia.”
“Molto sexy.” Gli assicurò con aria
serissima, facendolo ridere di nuovo.
“Zenzero comunque.”
“Arriva!” Replicò alzandosi in piedi e
inserendosi nella calca.
L’aveva conosciuto
proprio
grazie alla vecchia professoressa. Minerva – ehi, aveva il
suo consenso a
chiamarla per nome – aveva concluso l’anno
scolastico come promesso ma poi era
tornata a casa, nella sua sperduta Caithness.
Lei non l’aveva dimenticata. Non aveva potuto quando la donna
aveva passato il
suo anno di supplenza a vigilare su di lei nel pre e sopratutto nel post.
Ero
proprio incasinata in quel periodo…
Ritornare ad Hogwarts dopo
gli
eventi trascorsi era stato tremendo. Si era sentita smarrita, confusa e
soprattutto
arrabbiata perché tutti sembravano vivere una vita aliena
alla sua – Tom aveva
fatto del suo meglio per starle vicino come promesso, ma era Tom. Minerva l’aveva aiutata,
anche solo
chiamandola nel suo ufficio per offrirle una tazza di the e dei
biscotti di
tanto in tanto.
Però
sempre quando la notte prima l’avevo passata a fissare
il soffitto per paura di addormentarmi.
Quando se n’era
andata per far
posto ad una nuova, giovane insegnante di Trasfigurazione, Lily non
aveva fatto
trascorrere molto tempo prima di scriverle e ancor meno per andare a
trovarla.
Se le prime volte
l’anziana
strega si era lamentata delle sue improvvisate, alla fine si era
rassegnata ad
averla per casa nel fine settimana dedicato ad Hogsmeade.
E
sotto sotto son convinta che sia stata felice di ricevermi
… Checché brontolasse.
Era durante una delle visite
a
Minerva che aveva incontrato Scott, allora appena entrato al Ministero
dopo un
periodo trascorso da parenti in Australia.
Non era stato amore a prima
vista, né alla seconda. In effetti la loro storia aveva
avuto una progressione
piuttosto classica: partita con un caffè era proseguita con
un paio di cene e
la visione di una rassegna cinematografica sull’Asia
– il cinema era una
passione che condividevano entrambi.
Scott aveva tentato la prima
mossa solo dopo aver chiarito le sue intenzioni, con una decisione
così
serafica che Lily non aveva semplicemente potuto dire di no.
Se
gli avessi detto di no l’avrebbe accettato. Avrebbe
continuato tranquillamente ad essere mio amico.
Niente
complicazioni. Me l’ha solo chiesto per sapere
se era possibile.
Era stato questo a
conquistarla.
Scott era pulito.
Non aveva mai dovuto usare il suo essere LeNa con lui,
perché le bastava guardarlo per capire cosa gli passava per
la testa.
E
poi ha un gran bel sedere.
Per questo quella storia si
declinava in mesi e non in settimane.
Sentì il ragazzo
tornare e
baciarle la sommità della testa. “Ecco
qua.” Le porse la Burrobirra bollente.
“A te invece com’è andata?”
“Sono stata da
Frank e Alice,
per quanto Gilderoy mi permettesse di parlar con
loro…” Sbuffò divertita. Una
visita al reparto Thickley era parte integrante della sua routine
universitaria, studiando Psicomagia.
“Non ha tutti i
torti ad esser
geloso delle attenzioni di una bella ragazza.” Le
strizzò l’occhio. “Sei o non
sei la sua preferita, tra le studentesse?”
“È ovvio, sarà pure senza memoria, ma
ha buon gusto!” Risero insieme prima di
scambiarsi un doveroso e gustoso bacio.
Scott si staccò,
occhieggiando
il palco quando udì le prime note. Era un fan piuttosto
accanito della nuova
corrente musicale magica che andava sotto il nome di Brock
– banalmente, Rock Babbano – rappresentata dai
Banshees e
altri gruppi sui generis.
When we were younger we thought
everyone was on our side
Then we grew a little bit and romanticized the time I saw flowers in
your hair
Lily si perse con piacere
nelle melodie semplici ma accattivanti– nonostante il nome
minaccioso, facevano
musica essenzialmente romantica. Louis aveva una bella voce e quando
cantava
quel suo buffo accento francese spariva del tutto. Ricambiò
l’occhiolino di
Meike, che data la versione acustica del brano suonava il violoncello,
e poi si
guardò attorno. Riconobbe nella folla un paio di visi
conosciuti e rise
dell’aria palesemente frustrata di Tom, costretto a dividere
il tavolo con Al e
Zabini.
Era una buona, tranquilla
serata.
“Jamie, potresti
smetterla di
guardare male Scott? Lo metti a disagio!”
Il suo ragazzo fece una smorfia maledettamente incline al broncio,
incrociando
le braccia al petto. “Tanto mica mi vede … si
è nascosto tra la folla, quel
furbo!”
“Non si è nascosto, sta cercando di evitare il
conflitto.” Sospirò con uno dei
suoi sospiri più pazienti. “Più che
furbo lo definirei ragionevole.”
“Voi di Tassorosso fate sempre comunella!”
Il quasi-ormai-trentenne Ted Lupin fece un lieve sorriso, ormai vinto
all’evidenza che la persona con cui divideva casa e vita era
irragionevole come
un mulo, e come tale andava dunque trattato.
Carota,
più che bastone…
Gli accarezzò una
gamba, conciliante.
“Non è questione di essere stato un
tassorosso.” Anche se certo, era
un’incidenza curiosa. “Il punto è che fa
bene a Lily e non puoi negarlo. Da
quando si frequenta con lui si è molto
tranquillizzata.”
James sbuffò, limitandosi a bere un sorso consistente della
sua Tennent’s, birra
babbana recentemente eletta nell’Olimpo delle preferite.
Non
può negarlo perché l’evidenza
è sotto gli occhi,
sollevati, di tutti.
Lily aveva trascorso quattro
anni e mezzo piuttosto turbolenti. Per eufemizzare.
I
ragazzi, le feste, il letto perennemente vuoto
durante le vacanze estive … Quel viaggio folle in Brasile
per i suoi
diciassette anni … quanto si sono preoccupati Harry e Ginny!
La più piccola
dei Potter era
sempre stata affascinata dall’infrangere la routine, ma dopo quel Quinto anno la sua vena ribelle era
deflagrata, e solo grazie alle pressioni congiunte degli amici e
genitori era
riuscita a prendere i MAGO.
Meno
male, perché altrimenti avrebbe seguito quel tipo
italiano conosciuto ad Hogsmeade. Un pittore di dieci anni
più grande di lei
del tutto intenzionato a portarla a Roma e farne la sua Musa.
Zio
Harry stava per avere un infarto.
Poi nella sua vita era
entrato
Scott, poco più grande, dalla nutrita cultura e equilibrato.
Un Perfetto Bravo
Ragazzo che sembrava non avere un solo scheletro nell’armadio.
Nessuno
avrebbe scommesso uno zellino su di lui. Troppo
tranquillo per i gusti di Lily, e invece…
Non solo si erano messi
assieme, ma la ragazza l’aveva addirittura portato in
famiglia. Lentamente, ma
con costanza, la compagnia del giovane scozzese la stava facendo
tornare ad
essere la persona spensierata che era stata prima del suo rapimento.
Noi
bravi ragazzi siamo terapeutici.
“Cos’hai
da sorridere?” Lo
scrollò James che a quanto pareva non stava ascoltando la
musica come sembrava.
“Tutto soddisfatto poi!”
“Niente, niente… Pensieri
tranquillizzanti.” Bevve la sua tazza di the con
totale dignità nonostante attorno a lui scorressero fiumi di
alcool.
Sono
troppo grande per continuare a sentirmi
inadeguato. Decisamente.
“Giornata buona ad
Hogwarts,
eh?” Replicò l’altro, fraintendendo. Non
se la sentì di smentirlo e si limitò quindi
ad annuire. “Beato te, io oggi ho avuto una giornata di
merda!”
“Ho saputo da Scorpius di quel mago
oscuro…” Convenne ricordando il motivo per
cui aveva supplicato il Professor Finch-Fletchley di sostituirlo quella
sera. “Ero
preoccupato. Perché non mi hai mandato un Gufo?”
James fece una smorfia insofferente. “Per dirti cosa?
Piuttosto Malfuretto
dovrebbe imparare a tener chiuso quel calderone che ha al posto della
bocca…”
Borbottò lanciando un’occhiata di fuoco al
suddetto seduto al tavolo a fianco. Era
preso a cantare a gola spiegata sotto lo sguardo divertito della
propria
fidanzata e di Dominique e di Violet, ma quando James si
voltò squadernò
fulmineo una linguaccia e Ted dovette frenarsi dal sorridere.
“Sì,
però…” Tentò recuperando
contegno.
“Dai, Teddy,
è la roba per cui
mi danno la paga a fine mese! Si è trattato di un mago che
ha pisciato fuori
dal vaso e che per questo è morto. Tutto qua. Non si
è fatto male nessuno!”
Ted si mordicchiò appena il labbro ma lasciò
perdere. James non aveva tutti i
torti, tuttavia la facilità con cui parlava di morte lo
metteva a disagio.
Io
non sono diventato Auror proprio per questo … Non
sarei riuscito a veder morto nessuno, neppure per salvarmi la vita.
“Capisco.”
Si limitò a dire.
“Verrà aperta un’indagine? Il mago era
americano, no?”
James si strinse nelle
spalle.
“Già, ed è un casino perché
ci troveremo sia quei rompipalle di Cooperazione
sia gli americani trai piedi.” Vuotò la propria
birra e si dedicò a strapparne
l’etichetta lanciandogli un’occhiata imbarazzata.
“Però sai che non te ne
dovrei parlare … Sono indagini ufficiali.”
“Lo so, è solo che…”
Mi
preoccupo. Da morire. Specie perché so di cosa
preoccuparmi.
Ed
ho anche l’impressione che Scorpius non mi abbia
raccontato tutto.
L’altro si sporse
nella sua
direzione, sia per sentirlo meglio – sapeva di aver
borbottato – sia per
cingergli le spalle con un braccio. “Qual è il
problema mio Teddy?” Gli
sorrise. “Hai fatto anche tu questo lavoro … beh,
quasi. Sai come funziona.”
“Certo, lo so.” Convenne. “Sta’
attento, okay?” Si risolse a raccomandargli un
po’ inutilmente.
“Quello sempre!” James si sporse a baciarlo e Ted
sentì la lingua allapparsi al
gusto del malto della bocca dell’altro. Prolungò
il bacio finché non si sentì
risarcito dello spavento che si era preso.
James si staccò
ridacchiando.
“Ripensandoci, Malfuretto può raccontarti tutto
quel che vuole, se il risultato
è questo!”
My minds not perfect but it's
sincere
You'd be amazed at what you can achieve in some years
And I know you try so hard but your hearts on a switch
****
America,
Massachusetts, Boston.
Sera.
Jay Massari era sempre stato
il genere di mago non in regola. Non in regola con la famiglia, con la
scuola,
con gli affari. Soprattutto con gli affari.
Per questo quando si era
ritrovato un cadavere in casa per colpa di quello psicopatico del suo
socio
aveva pensato bene di darsela a gambe con la sacrosanta intenzione di
non far
più ritorno.
Sfortunatamente non aveva
messo in conto che i vicini avevano occhi e orecchie e lui non era
esattamente
quello che poteva essere definito un tipo sottile.
Quindi correre, correre
verso
il più vicino punto di materializzazione e lì
urlare il nome di una qualsiasi
città oltre il confine messicano. Il
piano era questo. Rozzo, ma efficace.
Il punto di
materializzazione
a West End² – qualsiasi bostoniano lo conosceva, era
dietro il Garden, lo
stadio dei Celtics – era
ormai vicino
e Jay già pregustava il sole e il sapore acidulo della cerveza che avrebbe trovato in Messico
quando impattò a muso duro
sull’asfalto. Le gambe avevano smesso di funzionargli, prese
in un dannato
incantesimo di Pastoia.
Solo
le teste di latta lo usano! Merda!
Facendosi forza dei suoi
riflessi diede un colpo di reni, si voltò e
scaricò la maledizione peggiore che
riuscì a pensare contro la figura scura che era apparsa
sulla strada.
Lo
stronzo mi si è Materializzato dietro!
Il
lampo viola andò ad infrangersi in
una miriade di schegge senza che sfiorasse neppure il suo aggressore.
“Arrenditi.”
Per un attimo Jay
rimase instupidito, notando come non ci fosse un solo punto di colore
nei
vestiti dell’altro. Ecco perché non
l’aveva visto. Aveva lo stesso colore delle
ombre del vicolo da cui era spuntato.
Oppure,
semplicemente, è vestito di nero ed ha i
capelli neri.
“Ehi
stronzo!” Cercò di
mantenere contegno, tentando di sciogliere l’incantesimo.
Inutile, sembrava che
le sue gambe fossero state prese nella morsa più stretta del
mondo. “Se non sei
della polizia molla il colpo!”
L’altro aggrottò le sopracciglia. “Sono
della polizia.” Attestò, scoprendo un lato del
trench per mostrargli il
distintivo. Jay impallidì. Un’aquila che reggeva
una bacchetta su uno sfondo
pieno di frecce.
La
SAGITTA? Questi tizi si occupano di maghi Oscuri.
Oscuri sul serio! In che cazzo di casino mi ha infilato quel figlio di
puttana?
“Ehi, ehi! Io non
ne so niente
di quel cada…”
“Ogni parola potrà essere usata contro di lei in
sede di giudizio.” Lo
interruppe il tizio, facendo scaturire dalla propria bacchetta una lama
di luce
che gli serrò i polsi. Manette magiche, quanto le odiava!
“Le consiglio quindi
di aspettare l’arrivo di un…” Si
fermò, guardandolo con espressione vuota.
“Legale?”
Gli suggerì,
pensando fosse un completo idiota. Idiota sì, ma
sufficientemente forte da
tirarlo in piedi come se non pesasse nulla – e non era
così. Gli sciolse la
Pastoia alla gambe e lo afferrò sotto il gomito, nella
classica presa da
pulotto.
“Legale,
sì.” Convenne. “La
prego di seguirmi.”
Sono stato fottuto da questo fesso?
Era umiliante.
Però, se fosse
stato abbastanza svelto di testa – che era evidente
l’altro non lo fosse -
forse sarebbe riuscito a seminarlo, manette o meno. A quelle avrebbe
pensato
dopo.
Fece qualche passo per
convincerlo delle sue buone intenzioni e poi si voltò,
tirandogli un calcio
nello stomaco con tutte le proprie forze. L’agente, non
aspettandoselo, si
piegò in due con un lamento.
Grande
Jay!
Scattò in
direzione
dell’agognata Passaporta, ma non fece che pochi centimetri
prima di sentire una
fortissima scarica di dolore alla schiena. Con orrore si accorse che
adesso non
solo aveva le gambe immobilizzate, ma anche il resto del corpo.
“Non mi piace
ripetere le
cose.” Lo informò la voce dell’agente,
di colpo gelida come un bagno nel Charles
a Capodanno. Jay sentì il sudore congelarglisi sulla schiena
e pregò di non
averlo fatto incazzare troppo, perché gli aveva arpionato il
collo con una mano
scaricandogli magia direttamente lungo la spina dorsale.
Magia
senza bacchetta. Pulotti di merda, da quando la
sanno usare?
Comunque.
Qui finisce che passo il resto della mia vita
a sbavarmi addosso!
“Mi …
arrendo?” Biascicò.
“Okay? Mi arrendo amico, sono tutto a tua
disposizione!”
“Bene.” Gli lasciò il collo e si
voltò in direzione di un repentino stridio di
freni. Dalla sua posizione da statua greca Jay intuì
soltanto che si era
accostata un’auto. A giudicare dalle fusa del motore
modificato sia magicamente
che meccanicamente nel vicolo era appena entrata una Ford Crown
Victoria. Usata
sia dalla polizia Babbana che da quella magica – sebbene
quest’ultima la usasse
senza lampeggianti o colori riconoscibili – era il segnale
universale che eri
fottuto, ti avevano beccato.
E
addio Messico.
Jay vide entrare nella sua
visuale un giovane ispanico dall’aria agitata. Questo lo
guardò e poi schioccò
le labbra soddisfatto. “L’hai beccato, grande!
Scusami guey³, ti avevo
proprio perso per questi cazzo di vicoli!”
L’agente dalla presa mortale scosse la testa.
“Agente Estevez.” Lo salutò
formale. “Mi sono materializzato. Supponevo che il sospetto
sarebbe venuto qui,
era il punto di Materializzazione più vicino.”
Ma
come minchia parla? Sembra un libro stampato!
“Già,
ma ad arrivarci in macchina con
il traffico che c’è a quest’ora
… stasera giocano i Celtics, questa zona è un
macello.” L’ispanico si rivolse poi a lui,
lanciandogli un’occhiata sardonica. “Andiamo
bello, si va a fare una chiacchierata in centrale. Gli hai letto i suoi
diritti?” Non aspettò la risposta.
“Certo che l’hai fatto … muoviamoci che
non
voglio perdermi la fine!”
Presa Mortale
aggrottò le
sopracciglia verso lo stadio. “I Celtics sono quelli che
giocano con quel
pallone arancione?”
Cosa?!
L’altro agente
alzò gli occhi
al cielo, quasi fosse abituato a sentirsi rivolgere domande simili.
“Prince, basket.
Si chiama basket. Per tutte le
streghe di Salem,
voi europei!”
****
Note:
Dai, ci ho messo praticamente tutti!
(Credo)
Quindi, insomma, si entra ufficialmente nel primo capitolo di spero non
moltissimi (meno di AUL, dai)
La canzone all’inizio del capitolo e alla fine della scena al
Finnigan’s è
questa, che
volevo utilizzare da tipo un anno.
Incarna
l’Inghilterra magica e cazzara che mi immagino, ecco.
La canzone cantata dai Banshees ovviamente è una canzone vera e non inventata da me, ma di uno
splendido piccolo gruppo
chiamato The Lumineers. Eccola
(tra l’altro rispecchia la formazione dei Banshees. Tra
l’altro.)
Per chi vuole vedere il
distintivo del SAGITTA (tutto sarà spiegato, promesso)
è
questo qua.
1.Kiddell:
Altro fabbricante di bacchette, quest’ultimo, si suppone meno
capace rispetto a
Olivander in quanto nel libro nessuno dei personaggi ha una sua
bacchetta. Tom
la pensa allo stesso modo, pare.
2.West End:
è un quartiere di Boston, delimitata
da Cambridge Street a sud e dal fiume Charles a
nord. La zona è
molto conosciuta per
lo stadio Boston Madison Square Garden (detto anche Garden) dove
giocano le
partite le squadre di hockey e basket locale.
2. Guey:
letteralmente la versione di ‘dude’
(amico, fratello, tipo) in spagnolo/sudamericano.
Riguardo al cast dei volti,
mi
son fatta furba ed ho creato una cartella ad
hoc su facebook.
Questo link dovrebbe funzionare dopo
avermi chiesto l’amicizia
(specificate tramite messaggio privato chi siete!)
Altra curiosità:
ho fatto una
piccola mappa dei “luoghi magici”, un po’
curiosando sul Lexicon un po’
inventandomeli di sana pianta (nel caso dei miei, di sicuro). Volta per
volta
aggiungerò posti e strade che uso nella mia storia.
Sì, sono idiota. Enjoy!
|
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
Capitolo II
Some
nights, I stay up cashing in my bad luck
Some nights, I call it a draw
Some nights, I wish that my lips could build a
castle
Some nights I wish they'd just fall off
(Some
Nights, Fun.)
16 Giugno 2028
America,
Boston. Ufficio operativo del SAGITTA. Celle
detentive.
Due
del mattino.
“Ehi, aspettate! Ehi! Ho diritto ad un legale!”
La cella si richiuse con un clangore metallico dietro il sospetto del
caso
Ushowitz.
Enrique Estevez, al secolo
semplicemente Rico e nonostante questo chiamato tenacemente Agente Estevez dal proprio partner e
collega, fece una smorfia derisoria in direzione del mago al di
là delle
sbarre. “Non prima di domattina, gringo.
Non vorrai tirar giù un onesto cittadino americano come un
Magi-avvocato a
quest’ora di notte? Fatti una bella dormita … e
attento ai topi! Qua sotto ne
siamo pieni!” Sghignazzò allegro
all’aria orripilata di quest’ultimo.
“Agente
Estevez.” Lo richiamò
all’ordine la figura sullo stipite della porta.
“Andiamo?”
“Subito da te, guey.” Gli diede una pacca
sulla spalla
e si avviarono verso il vecchio ascensore cigolante che li avrebbe
portato alla
sezione operativi della Centrale – così chiamato
per brevità il centro
operativo del SAGITTA.
Il
SAGITTA… Veloci come un dardo, silenziosi come lo
scoccare di un arco.
Metà della sua
numerosa
famiglia non sapeva neanche pronunciarlo e l’altra
metà non era certa di cosa
facesse per contribuire all’ordine e alla sicurezza delle
comunità magica
nord-americana. Pure lui ne aveva sentito parlare per la prima volta
all’Accademia di Polizia. Ma era normale: il SAGITTA era un
ufficio giovane,
formatosi solo cinque anni prima sotto il comando del loro attuale
Capitano
Eleanor Gillespie, una strega del Sud dai sani principi e la mano di
ferro. Era
nato sulle ceneri di una precedente task-force interamente dedicata ad
una
setta magica internazionale, tale Thule, che era stata smantellata
proprio da
quest’ultima e un pugno stretto di agenti oltre-Oceano.
Mentre prima qualsiasi
crimine
veniva seguito dalle forze ordinarie di polizia magica, adesso era la
SAGITTA ad
occuparsi specificatamente della feccia che si annidava nei lati
più oscuri
della Magia.
Ovviamente i casi complessi
erano pochi, e non certo affidati ad agenti dalla bacchetta ancora
fresca. A
lui e Prince infatti rifilavano pendejos
con un capo di accusa che oscillava dalla Maledizione all’uso
improprio di
manufatti oscuri.
Robetta
come quella di oggi, insomma.
Tuttavia era orgoglioso di
portare il distintivo della loro task-force, come di essere
apostrofato, anche
se in maniera ironica, come ‘arcere’.
E poi, poco da fare, era un
lavoro figo: permetteva di girare tutta l’America senza aver
bisogno di bolle
speciali per Materializzarsi, per non parlare del budget per le spese
di
equipaggiamento, molto più alto che in altre
unità.
Ehi,
siamo il baluardo contro il male o qualcosa del
genere. Dateci più Taler¹!
Perso nei suoi pensieri non
si
accorse che il collega fissava ostinatamente un punto di fronte a
sé senza
spiccicare parola. “Ohi, voi europei siete malinconici per
natura o è solo il
clima?”
“…
Prego?”
“Sta’
allegro!” Gli diede una
gomitata mentre l’ascensore si apriva di colpo con uno
scossone. “Abbiamo
appena arrestato se non un sospetto, almeno un uccellino che cantando
ci
porterà al vero colpevole!”
“Stavo pensando.”
Rico lasciò perdere. C’era troppo del suo partner
che non capiva e molto che
non aveva intenzione di approfondire.
Sören
Prince. Un nome assurdo, un cognome piuttosto
banale e un armadio pieno di scheletri.
Un
cimitero, ad essere onesti.
Erano partner solo da un
anno e
doveva ancora inquadrarlo. Non era facile visto che già di
suo era un tipo di
pochissime parole, molte delle quali andavano cercate in un dizionario.
Oltre a
questo, la sua storia personale era avvolta in un alone di mistero che
nessuno
fino a quel momento era riuscito a penetrare.
Chi
è stato Prince prima di venire a lavorare qui?
Che avesse fatto i due anni
d’Accademia preparatoria era ovvio, e che quello era il terzo
da fare sul campo
anche, ma prima?
Veniva dal vecchio
Continente,
ma questo era facile. Era lui stesso a spiegarlo senza problemi.
Germania,
aggiungeva sempre, anche se poi diventava fumosissimo quando si
trattava di
localizzare la città.
Non
che abbia importanza. Metà di noi manco sa dove sta
la Germania. Me compreso.
Era un novellino, ma
anagraficamente i conti non tornavano dato che gli aveva detto di aver
ventiquattro anni.
Non
ha fatto direttamente il passaggio scuola-lavoro
oppure è stato bocciato. Ma visto il tipo, dubito. Uno come
lui sarà stato il
cocco dei professori!
Era un Purosangue. Questa
era
stata difficile, e c’era voluta Ama, loro sergente e figlia
del capo, per
capire che l’anello che portava al medio della mano destra
raffigurava
nientemeno che il blasone – sì, era una parola
vera! – della sua famiglia.
E per finire,
c’era la forza.
La magia sembrava scorrergli addosso come una seconda pelle, e persino
chi come
l’agente Murphy non
era dotato di
particolari doti percettive se ne rendeva conto.
Magie
senza bacchetta e con la bacchetta non sbaglia un
colpo. Dovunque abbia vissuto prima di venire in America, in quel posto
l’hanno
addestrato come un cazzo di marines.
Tutta
l’unità era incuriosita
da Prince, dalla sua storia e dal perché fosse venuto in
America. Oltre la
curiosità c’era però anche la
diffidenza. Specialmente i
più anziani, quelli che con il Capitano
Gillespie avevano fondato la squadra, gente tosta e
d’esperienza come l’agente Murphy,
non perdevano occasione per infastidirlo con domande e provocazioni.
Persino lui,
all’inizio, aveva
fatto fatica ad entrarci in confidenza.
Rico
Estevez era sempre stato un lupo solitario, sin da
ragazzino. Socievole per natura, certo, ma quando si trattava di
diventare
operativo non voleva persone trai piedi. Lavorava meglio. Che fosse
troppo
zelante o troppo poco, un partner gli avrebbe comunque pestato i piedi.
Quindi
era stato felicissimo quando il Capitano gli aveva comunicato che, a
causa del
poco organico ancora in formazione, avrebbe lavorato senza un partner.
Poi
era arrivato il primo novellino fresco d’Accademia
per conseguire l’anno di specializzazione. E
l’avevano appioppato a
lui.
“Agente
Estevez, non poteva pensare di lavorare da solo
per sempre.” Aveva tagliato corto il Capitano Gillespie.
Rico
aveva lanciato un’occhiata al Novellino, seduto
nella sedia accanto alla sua. L’aspetto era okay, anche se un
po’ gracile, ma forse
era la testa rasata. La moda dell’Accademia di rasare
chiunque faceva sembrare
una buona fetta dei cadetti dei completi cretini.
E non sei scampato neppure
tu,
bello. Sembri appena uscito da una lunga malattia.
Il
problema non era l’aspetto. Il problema era l’attitudine.
Sembrava essersi seduto su un cactus a giudicare dalla postura e
fissava di
fronte a sé senza emettere suono.
Forse
neppure respirava.
“Sul
serio? Ho dato una media d’arresti da favola
questo trimestre! Non ho bisogno di …
di…” Si era sentito fissato e si era
voltato. Il tizio lo guardava senza una sola espressione in volto.
“Cosa?”
Aveva
detto a brutto muso; se si fossero azzuffati di fronte al Capitano,
magari quest’ultima
avrebbe desistito. Magari.
L’altro
aveva aggrottato le sopracciglia, squadrandolo
come se si trovasse di fronte una creatura completamente
incomprensibile. “Sono
ordini.” Aveva scandito con un accento che neppure lui,
portoricano cresciuto
nel quartiere multietnico di China Town, aveva mai sentito.
Rico
aveva visto qualcosa di terribilmente simile ad un
sorriso sulle labbra di solito sigillate della creola.
“L’agente Prince ha
ragione. Sono ordini, Estevez. Mostragli dove sarà la sua
scrivania e fagli
fare un giro dell’ufficio. Lo affido a te.”
Rico
si era alzato di scatto per protestare e l’altro
l’aveva imitato. Per un secondo aveva pensato che volesse
attaccarlo ma poi
aveva semplicemente teso la mano.
“Spero
lavoreremo bene assieme, Agente Estevez.”
“Seh…”
Rico gliel’aveva stretta di rimando dato che non poteva far
altro di fronte al
Capitano. Ma aveva pensato.
Sto cazzo.
Invece…
Era quasi dodici mesi tondi
che lui e Prince lavoravano assieme e si era dovuto ricredere.
Come nel più
scadente dei
polizieschi babbani l’aveva fatto quando l’altro,
durante un appostamento che
si era rivelato essere una trappola, aveva fatto fuori un tipo
intenzionato a
fargli esplodere la testa con una Maledizione. Non aveva ceduto sulle
sue
posizioni perché gli aveva salvato la vita però.
Tra agenti era doveroso
quell’assioma. Aveva ceduto per l’espressione
sorpresa e genuinamente contenta
che era seguita al suo
ringraziamento.
Era
stato in quel momento che aveva realizzato
che era la prima volta in tre mesi che lo vedeva sorridere.
Così aveva capito
che Prince sì, era strano un botto, ma non era un cattivo
diavolo e se l’intero
ufficio diffidava di lui, lui non poteva farlo.
Siamo
Partner. Se lui para il culo a me, io lo paro a
lui.
Che
ne ha un gran bisogno.
Rico si buttò
sulla sedia
della propria scrivania, stiracchiandosi. “Dios,
non vedo l’ora di tornare a casa … e fare
colazione, vista l’ora!” Sbuffò,
occhieggiando il collega che, sedutosi alla scrivania gemella aveva
preso carta
e un rotolo nuovo di inchiostro. “Non avvicinarti a quella
macchina da
scrivere!” Lo minacciò.
Prince alzò lo
sguardo
perplesso. “Dovremo redigere il rapporto.” Gli fece
notare.
“Sì, ma
dovrei farlo io e non
sono hombre che se lo fa
scrivere.”
Squadernò un dito e poi un secondo. “In secundos,
bello mio, ce ne andiamo a letto e lo scriviamo domani. Il nostro turno
è
finito sei ore fa.”
“In
secundis.” Lo corresse con l’ombra di un
sorriso nello sguardo.
La bocca no, quella stava sempre ferma in una linea retta.
“Ma hai ragione…”
Ammise, rilassando le spalle e concendendosi persino di abbandonarsi
sul comodo
cuoio della propria sedia girevole. “… sto
accusando lo scontro.”
“Il bastardo era tosto, eh?” Intrecciò
le mani dietro la nuca. “Forse dovresti
andare a farti dare un’occhiata in infermeria. Forse
c’è ancora qualcuno.”
L’altro
scrollò le spalle.
“Non serve. A casa posso chiedere a Milo.”
“Uh, già, il tuo servitore…”
Ghignò, perché sapeva quanto gli desse fastidio.
“… principino.”
Preciso come un orologio, si adombrò. Rico ovviamente non
era contento della
reazione, ma del fatto che ne avesse una.
Per
i primi mesi sembrava avesse la faccia scolpita
nella pietra. Adesso, no. Per niente. Gli si legge tutto in faccia. Mi
sa che
significa che si fida di me.
“Non chiamarlo e
non chiamarmi
così.” Replicò secco. “Milo
ed io condividiamo la casa.”
“Ecco.” Gli puntò il dito contro,
perché essere partner era pararsi le spalle
in qualsivoglia situazione. “… a proposito di
questo. Smettila di dirlo.”
“Perché?”
“Perché così sembra che condividiate
anche altro!”
Alzò gli occhi al cielo. “Prince, ma che devo fare
con te?”
L’altro lo fisso
meditabondo.
“Temo di non capire.”
“Il letto!”
“Perché dovremo …” Fece una
pausa, poi scosse la testa. “Non siamo amanti. È
Milo a preferire gli uomini, non io.”
“Ecco, non dire
neanche che il
tuo coinquilino è gay, specialmente ad una donna. Voglio
dire, evita.” Quando
vide che l’altro lo fissava come se non capisse neanche la
lingua in cui si
stava esprimendo aggiunse. “Ti ricordi con la ragazza del bar
qualche settimana
fa?”
Incrociò le
braccia al petto,
quasi infastidito al ricordo, ma poi annuì.
“Sì. Mi aveva chiesto chi fosse
Milo ed io gli ho risposto. Poi se n’è
andata.”
“Ci credo che se n’è andata!”
Scoppiò a ridere. “Gli hai detto che vivevate
assieme e poi quel cretino ha cominciato a palpare il sedere del tizio
di
fronte a voi!”
Prince inarcò il sopracciglio. Era la tipica espressione che
faceva quando
pensava che la persona di
fronte a lui
fosse un idiota. Di solito mandava chiunque in bestia, soprattutto gli
indagati. “Milo non è in una relazione stabile.
Forse è eccessivamente esplicito,
ma non giudico i metodi di approccio di nessuno.”
Rico provò il forte impulso di seppellire la testa tra le
mani, sia per ridere,
sia per disperarsi un po’. L’altro si fidava
abbastanza di lui da parlare in
maniera totalmente onesta, e questo gli faceva piacere.
Però
capisco perché con gli altri sta sempre zitto. Non
è che sia idiota, è solo … che non
capisce un sottointeso che sia uno. E credo
lo sappia. Se se ne esce con frasi del genere con uno come
Murphy… Essere preso
per omosessuale sarebbe la meno.
Si alzò quindi
dalla sua
comodissima seduta e gli mise una mano sulla spalla. Lo
sentì irrigidirsi, ma
lo faceva sempre e aveva imparato a non badarci. Anche se certo, dava
da
pensare.
Come
taaaante altre cose …
“Senti,
dà retta a tìo
Rico.” Gli sorrise incoraggiante. “Non parlare del tuo
coinquilino gay quando sei
con una ragazza che vuole finirti nel letto. O, almeno, non portartelo
dietro!”
Sören fece una lieve smorfia e assunse un’aria
imbarazzata. Lo si capiva solo
dal rossore sulle guance.
“Farò
tesoro del consiglio.”
Si limitò a dire.
Rico gli diede una pacca
sulla
spalla e poi Appellò la giacca. “Andiamo europeo.
Si torna a casa.”
L’altro fece un mezzo sorriso ed annuì, seguendolo.
****
Boston,
Freedom Trail
Ministero
della Magia Americano.
“Cosa significa
questo?”
Ethan Scott inarcò le sopracciglia all’entrare
irruento e poco cerimonioso del
Capitano del SAGITTA nel suo ufficio. Con un sorriso
accomiatò la sua
segretaria e quella, intuendo l’aria che tirava, si
dileguò velocemente.
“Posso fare
qualcosa per te,
Nora?” Le fece cenno di accomodarsi in una delle due poltrone
di fronte alla
scrivania. “Ti chiederei di esser celere però
… Il nostro Presidente ha un
incontro con il Primo Ministro del Bangladesh tra una ventina di minuti
e…”
“Sei una carogna, Ethan. E non serve che dica
altro.” Lo apostrofò mentre dagli
occhi chiari – così particolari sulla pelle
mulatta – sprizzavano scintille di
rabbia mal contenuta. Era una bella donna, la vedova Gillespie. Peccato
per il
carattere.
“Ah, il fascicolo
verde.” In
gergo così era chiamata qualunque pratica venisse da altri
continenti, sia che riguardasse
un invito ad un ricevimento o un caso che necessitava della
supervisione
americana.
Quest’ultimo,
direi.
“A chi altri
potevo rivolgermi?
Forse all’Ufficio Interno? Quei poveri ragazzi non credo
abbiano mai preso una
Passaporta Continentale in vita loro. Siete voi della SAGITTA, quelli
internazionali. E poi a te piace viaggiare, no?”
La strega non replicò alla frecciatina evidente. Si
limitò a gettargli di
fronte la cartellina senza troppe cerimonie. “Sai benissimo
che ho l’intera
squadra mobilitata per il caso Norton. Ho quindici uomini, Scott. Quindici. Tre sergenti e dodici agenti
semplici.” Sottolineò con forza. “Devono
coprire l’intero territorio
interfederale e occuparsi di altri
casi. Dimmi, dove trovo il sedicesimo che vada in
Inghilterra?”
“Ti suggerirei una riorganizzazione delle risorse.”
Replicò tamburellando con
le dita sul cartone morbido della copertina per poi spingerla indietro
con le
dita lungo il ripiano liscio del tavolo. “Sono certo che non
sarà un problema
privarti di un semplice agente.”
“Lo
è!” Sbottò, e a Scott
ricordò una fiera leonessa di montagna in procinto di
divorare una preda. Per
un momento si prese a libertà di esserne persino un
po’ impressionato. Questo,
prima di ricordarsi che posto ricopriva lui e che posto invece
ricopriva lei.
Sarai
pure un Capitano, avrai pure il tuo piccolo
ufficio speciale. Ma sei una semplice testa di latta, mia cara.
Oh,
se non ti fossi mischiata a quelle teste calde
inglesi … Forse avresti potuto avere questa poltrona.
E
invece.
“Nora…”
Intrecciò le dita e vi
appoggiò il mento. “… Capisco, credimi.
Ma supponi ci rifiutassimo di
collaborare. Cosa penserebbero di noi in Inghilterra? Che lasciamo che
i nostri
maghi oscuri varchino i loro confini senza muovere un dito? Che non ci importi?”
La strega serrò
le labbra.
“Immagino sarebbe una pessima immagine da dare per
l’Ufficio Cooperazione.”
Commentò sardonica.
“Per
l’intero Ministero
Americano.” La corresse gentilmente. “Fa’
la tua scelta. Puoi mandare anche un
semplice agente, non c’è certo bisogno di un
graduato per un indagine di
routine.”
La donna giunse
all’illuminazione piuttosto in fretta dall’occhiata
che gli lanciò. “Non vorrai
che mandi…”
“Io non voglio nulla.” La anticipò.
“Però lui e il suo partner non stanno
lavorando al vostro grande Caso Norton, mi sembra.” Finse di
pensarci. “Enrique
Estevez. Dicono sia poco propenso alla diplomazia. Ti suggerirei di non
pensarci neppure … Sai quanto gli Auror poco apprezzino le
teste calde. Ne
hanno fin troppe nelle loro fila.”
“Non posso mandare lui.”
Nora non era
una donna stupida, ed era questo che l’aveva fatta restare a
galla dopo il
disastro diplomatico che aveva combinato durante il caso Von Hohenheim.
Ma per
quanto fosse brillante, rimaneva pur sempre una strega dietro un
distintivo.
E
come tale, non sa parare certi colpi di scherma …
“Perché
vuoi mandarlo in
Inghilterra?” Soggiunse con tono da interrogatorio.
Scott si limitò
ad una
scrollata di spalle. “Io non voglio nulla, te l’ho
già detto. È una decisione
che devi prender tu, come Capitano.”
Vedendo l’espressione dell’altra per un momento
temette davvero che l’avrebbe
Schiantato senza colpo ferire. Invece si limitò a
riprendersi la cartellina e
scoccargli un’occhiata di fuoco.
“Qualunque siano i tuoi piani, Scott, conosci
l’accordo.”
“Prince è tuo, lo so.” Fece un
sorrisetto. “Non affezionarti troppo però. Sai
come funziona con i randagi. Un giorno scodinzolano, quello dopo
mordono.”
****
Fermata
metro di Boylston² Street.
Ora
di pranzo.
C’erano molte cose
che Sören
non capiva dell’America. Talmente tante che se avesse dovuto
scrivere una lista
gli sarebbe servito perlomeno un mese.
Tuttavia, per quanto al di
fuori dei suoi schemi di ragionamento, l’America gli piaceva.
Erano ormai quattro anni che
vi abitava ed aveva cominciato ad abituarsi al modo di parlare schietto
e senza
peli sulla lingua dei suoi nativi, come della loro assoluta mancanza di
classi
sociali.
Essere
un Purosangue, qui, è come essere una creatura
mitologica.
I maghi americani erano
molto
più integrati dei loro corrispettivi europei. Vivevano in
case dotate di
tecnologia babbana, si confondevano ai party di quartiere, guidavano
macchine
ed utilizzavano cellulari. Anche nel vestirsi: non aveva mai visto un
mantello
od una tunica.
Vivere
con gli armadi chiusi, lo chiamavano. Vivere una doppia
vita.
Non
è lo Statuto di Segretezza, ma funziona.
Osservò con
sospetto il
sacchetto di carta marrone che conteneva il pranzo suo e del collega;
questo gli
aveva praticamente ordinato di andare a prendere qualcosa al Four
Burgers, una
tavola calda vicino all’ufficio che era spesso meta doverosa
per il portoricano.
Dice
che la mensa è terribile. Io non trovo, ma …
Avevano chiuso un caso che
si
trascinavano dietro da quasi due mesi quella mattina. Per questo non
aveva
protestato quando il collega l’aveva supplicato di
festeggiare in quel modo.
Sospirò,
imboccando le scale
dell’entrata metro e superando una fila di suore
dall’aria sovra-eccitata.
Babbani
…
Ormai riusciva a mischiarsi
a
loro senza destare occhiate stranite. Forse era merito dei vestiti
– era Milo
ad occuparsi del suo guardaroba – oppure del taglio di
capelli. Non ne aveva
idea, ma sentirsi parte di quella folla gli dava
tranquillità.
Nessuno
qui sa chi sono. Cosa faccio. Cosa ho fatto.
Neppure se lo chiedono.
L’America in fondo
gli piaceva
proprio per quello.
Raggiunse la banchina dei
treni, ma invece di attendere la prossima corsa si diresse verso il
muro, tra
un manifesto di un concerto rock e una pubblicità di una
nota marca di
dentifricio. Aspettò il momento esatto in cui
l’attenzione della folla di
pendolari fu calamitata dall’arrivo del treno e si
tuffò trai due cartelloni.
Sentì l’impatto colloso e denso del passaggio
magico stringerglisi addosso e
poi lasciarlo andare.
Quando riaprì gli
occhi era
all’interno dell’ufficio SAGITTA, comodamente
ubicato in un ramo in disuso
della metropolitana di Boston. Estevez gli aveva spiegato che il
municipio
sapeva della loro esistenza, almeno a livello di sindaco e di giunta
stretta, e
c’era un accordo che si rinnovava ad ogni elezione
riguardante la locazione di
uffici magici all’interno della città. Una
clausola recente del suddetto
specificava di non aprire i due binari morti della fermata Boylston.
Perché
sono occupati. Da noi.
L’ufficio era
stato quindi costruito
nel vecchio tunnel di transito e ne aveva la caratteristica forma
allungata.
Chiuso alle due estremità da colonne di cemento era spoglio,
ma spaziosamente
diviso in una serie di cubicoli di legno che potevano ospitare le
scrivanie di
due agenti. Al piano superiore, nel locale che un tempo ospitava i
meccanismi
di scambio, c’era l’ufficio del Capitano, e i
vecchi magazzini ospitavano le
celle detentive provvisorie. Per l’illuminazione e
l’aereazione era sfruttato
invece l’impianto stesso della stazione.
Organizzazione
perfetta.
Sören
l’aveva pensato appena
entrato e continuava a pensarlo. Si diresse verso la sua scrivania,
dirimpettaia a quella del collega e vi posò il pranzo,
sorridendo all’aria
famelica dell’altro.
“Alla
buon’ora! Stavo
digerendomi lo stomaco!” Esclamò scartando e
pescando all’interno. “Ti sei
ricordato i sott’aceti?”
Confermò con un
cenno della
testa e si sedette al suo posto, prendendo l’insalata e la
bottiglietta d’acqua
che aveva scelto per sé. Ignorò forzosamente lo
sguardo allibito dell’altro.
Ci
risiamo.
“Un’insalata?”
Esclamò quasi
gli avesse appena insultato la madre. “Prince, finirai per
diventare
anoressico, già sei un mucchio d’ossa! Questa
storia deve finire!” Afferrò un
cartoccio dall’aria unta e glielo agitò davanti al
naso. “Prendi le mie patatine!”
“Non digerisco
questo genere
di cucina, lo sai.” Replicò cauto. Sul cibo il
portoricano era estremamente
permaloso: era riuscito a non parlargli per giorni quando aveva
rifiutato dei polvorones fatti da
sua nonna. Milo gli
aveva spiegato che era una questione di identità culturale e
da allora non si
era più azzardato a tentare di contraddirlo apertamente.
“Sono solo
patatine!”
“Davvero, come se
avessi
accettato…”
“Non hai accettato!”
“Agente Prince.”
Estevez ironizzava spesso dicendo che la voce del Sergente Ama
Gillespie era
come seta su un coltello. Forse non ironizzava, forse era un
complimento dato
che la strega era universalmente riconosciuta come attraente. Comunque
fosse, non
aveva mai compreso la metafora. Scattò comunque
sull’attenti, grato per
l’interruzione. “Comandi.”
La giovane donna di colore lo squadrò da capo a piedi. Anche
se in generale
aveva un atteggiamento piuttosto freddo con chiunque, nei suoi
confronti era platealmente
ostile.
Lei
sa.
“Il Capitano ti
vuole nel suo
ufficio.” Si voltò verso il portoricano, che si
incuneò nella sedia quasi
volesse sparire. O far sparire l’hamburger gigante e il
milk-shake al
cioccolato che si stava divorando. “Estevez, niente macchie
di grasso sui
rapporti.”
“Sissignora!” Annuì guardandosi attorno
freneticamente, sperando forse di non
aver già effettuato il danno.
“Ma…” Lanciò
un’occhiata nella sua direzione. “…
solo Prince?”
“Solo
Prince.” Confermò, prima
di dar loro le spalle ed incedere in direzione delle scale.
“Buona fortuna guey.” Gli venne sussurrato con
un
conseguente morso al panino.
Il Sergente lo detestava e
c’era poco che potesse fare, a parte eseguire pedissequamente
i suoi ordini ed
evitarla durante le occasioni di socializzazione organizzate dagli
altri
colleghi.
Sa.
Sa benissimo da dove vengo, chi sono e cos’ho
fatto. Sa di Nurmengard, di mio zio, della Thule.
Sa
che ero lì quando suo padre è morto.
Il Capitano aveva fatto
segretare il suo file, come dettato da accordi bilaterali tra governo
tedesco e
quello americano, ma aveva chiesto che sua figlia, che militava nella
task-force e si era candidata anche per lavorare nella SAGITTA, venisse
a
conoscenza della storia.
Mi
ha chiesto se ero d’accordo … ma
cos’avrei potuto
dire? Non era questione di poter scegliere. Ama Gillespie aveva il diritto di sapere.
Quando si erano presentati
la
giovane donna era stata professionale e gli aveva stretto la mano
immediatamente, senza esitazioni.
Ma
gli occhi…
Le aveva letto nello sguardo
la rabbia di saperlo a lavorare con loro e specificatamente sotto di
lei.
Sperava solo che un giorno sarebbe stato capace di dimostrarle che era
ormai
molto distante da quella vecchia, orribile persona.
Si arrestò di
fronte alle
scale, scostandosi. “Prima lei sergente.” Disse, in
osservanza della regola
generale di condotta secondo cui ad una donna si doveva sempre cedere
il passo.
Gli venne lanciata
un’occhiata
raggelante. “Ti piacerebbe, Prince.”
“… Prego?” Doveva essere una di quelle
regole che nel mondo moderno, e
specialmente in America non venivano apprezzate, pensò
sconfortato. “Non era
mia intenzione…”
“Non fare il finto tonto. Sali e muoviti.”
Obbedì, chiedendosi che razza di gaffe aveva fatto per
meritarsi un’occhiata da
castrazione – così l’avrebbe chiamata
Milo perlomeno.
Ricordati
di chiederglielo. E di sopportare le sue
sicure, conseguenti risate.
L’ufficio del
Capitano
Gillespie era aperto e vi entrò, scattando
sull’attenti quando la donna posò lo
sguardo su di lui.
Eleanor Gillespie. Avrebbe
potuto usare un intero panegirico di frasi per descriverla, ma
ciò che la
rappresentava al meglio, almeno per lui, erano solo due parole.
Seconda
possibilità.
“Sedetevi.”
Sorrise. Aveva
l’aria stanca, e doveva esser per via del caso Norton,
un’efferata serie di
omicidi ad opera di un mago oscuro con il pallino di usare le sue
vittime come
carne da esperimenti. Sapeva che sia lei che i decani della task-force
vi
lavoravano giorno e notte, anche se su fronti diversi.
“Sören
… spero di non averti
strappato al tuo pranzo.” Esordì.
Scosse la testa, ignorando i primi crampi della fame.
“Nossignora. Sono a sua
completa disposizione.”
La strega annuì con aria meditabonda. Di fronte a lei
c’era un fascicolo di
carta verde bottiglia, ben diverso da quelli che di solito stazionavano
sulle
loro scrivanie. Sören cercò di leggere il sigillo
impresso sopra, ma fallì dato
che era coperto dalla mano di quest’ultima.
Incrociò il suo sguardo ed esitò.
Che
sta succedendo?
Il Capitano lo guardava come
se lo stesse soppesando, e questo non gli piacque. Affatto.
“Capitano.”
La riscosse la
figlia. “Io e l’agente Prince abbiamo del lavoro da
fare, e…”
“Hai ragione.” La fermò prima che
potesse continuare. “Sören, quello che sto
per chiederti è qualcosa che puoi rifiutarti
di fare. Vorrei che questo ti fosse ben chiaro.”
Annuì. La strega spinse così la cartellina verso
di lui e quando finalmente poté
vedere la serigrafia del sigillo sentì il respiro
fermarglisi in gola.
“Il Ministero
britannico? È un
fascicolo degli inglesi?” Fu il sergente a parlare per lui e
gliene fu grato,
dato che si sentiva la bocca secca come il deserto del Nevada.
“Un’altra
consulenza?”
“Un cittadino americano è morto a Londra, con
l’accusa di aver utilizzato Magia
Oscura. Uno di noi deve recarsi sul posto, identificare il corpo e
possibilmente chiudere il caso senza troppo clamore. Come potete ben
immaginare
questo genere di pubblicità non aiuta le relazioni
anglo-americane.”
Perché io? Siamo una dozzina di
agenti.
Perché proprio io, considerando ciò che ho fatto?
Agli
auror. Alle loro famiglie.
A…
lei.
“Perché
lui?” Lo anticipò il sergente.
“Deve ancora sostenere l’esame di
qualificazione!”
“È
comunque un agente di
polizia. Deve semplicemente concludere il suo anno di
specializzazione.”
Replicò l’altra strega con calma. “Si
tratta di un’indagine condivisa di
livello uno, Sören è perfettamente in grado di
occuparsene.”
La donna più
giovane serrò le
labbra, mentre un lampo di rabbia le attraversò le iridi
chiare, gemelle con
quelle della madre. “Prince non è pronto a
lavorare da solo. È nella mia
squadra ed uno dei miei compiti è giudicare i miei uomini.
Non è pronto.” Ripeté.
Sören non disse nulla. Persino lui intuiva che in quello
scontro di volontà non
c’era spazio per un suo intervento.
Anche
se in fin dei conti sono io quello che vogliono
mandare in Inghilterra…
Sentiva il sudore scorrergli
gelido lungo la nuca e si concentrò quindi nel fissarsi le
mani ed ignorare il
resto del mondo. Da sempre quella tecnica lo aiutava a gestire
l’angoscia,
nonché ciò che comportava a livello fisico.
Sentì quella mano
formicolare e la nascose prontamente nella tasca dei
pantaloni prima che cominciasse a seminar scintille di magia.
“Non possiamo
sprecare risorse
già convogliate nel caso Norton.” Gli venne
lanciato uno sguardo penetrante che
non riuscì a decifrare. “Ma come ho detto,
Sören può rifiutarsi.”
“Posso avere un paio di giorni per pensarci?” Si
sentì dire, e gli parve quasi
che la voce non fosse la sua. Diversa, lontana.
“Naturalmente.
Dovrò dare una
risposta entro questo lunedì. Hai tempo.”
“Signore…”
Tentò di nuovo il sergente,
ma l’altra donna la tacitò con una mano.
Capitolò, anche se l’espressione
tempestosa parlava di tutt’altro.
Teme
forse che metta in cattiva luce la nostra squadra.
Non aveva tutti i torti.
L’ufficio gemello al loro, in Gran Bretagna, era quello
Auror. Un ufficio guidato
dal Salvatore del Mondo Magico e in cui vi lavoravano anche il figlio
maggiore
e il cognato. Persone che aveva conosciuto, persone che aveva ingannato
e
contro cui aveva combattuto.
In
parole povere, la famiglia Potter.
“Prendi pure il
fascicolo.
Studialo con calma, fatti un’idea. Poi dammi una
risposta.” Era una sua
impressione o il tono di voce del Capitano si era ammorbidito?
Fu con lo stesso tono che
gli
chiese poi di restare quando l’altra strega lasciò
l’ufficio.
“Non avrei voluto
chiedertelo,
credimi.” Esordì quando furono soli.
Sören scosse la
testa.
Tatticamente la scelta del Capitano Gillespie era perfettamente
sensata. Era
dal lato umano che sentiva come se la strega gli avesse appena lanciato
uno
Schiantesimo in pieno petto.
“La mia assenza
è quella che
darà meno problemi. L’agente Estevez
potrà lavorare ai nostri casi anche senza
di me. Il contrario invece sarebbe più difficile
… ho ancora molto da imparare.”
Attestò pacato.
La strega sembrò
voler dire
qualcosa, poi lasciò perdere limitandosi ad un sospiro.
“Ascolta. Capisco che
tu non voglia. Visti la tua storia personale con il Ministero
britannico una
soluzione alternativa si può trovare.”
Sören era a conoscenza del fatto di essere, agli occhi di
molti, una sorta di
alieno precipitato da un altro secolo. Un pivello fuori dal mondo,
avrebbe
commentato Murphy. Ma non era uno stupido.
Sono
stato cresciuto da un uomo che usava la menzogna e
la mistificazione come pane quotidiano.
“Non mi menta. Non
c’è
un’alternativa.” Replicò pacato.
“Il SAGITTA è giovane e dipende
dall’approvazione dell’ufficio Cooperazione, almeno
per quanto riguarda la
giurisdizione interfederale. Se ci rifiutassimo di
andare…”
Il Capitano annuì con aria grave. “Già.
Qualcuno coglierebbe la Pluffa al
rimbalzo.”
“Sta parlando di
Ethan Scott,
suppongo.”
Non gli venne risposto
apertamente, ma non servì. Sören conosceva il
mellifluo burocrate dietro quel
nome; partito come agente operativo si era buttato in politica,
collezionando discreti
successi – spesso non suoi, secondo le voci di dipartimento.
Al momento collaborava
gomito a gomito con il Gabinetto del Presidente Interfederale, ed era
purtroppo
la loro unica via di comunicazione con il potere costitutivo.
Per
farla semplice, se lui parla male di noi … la
SAGITTA non avrà vita lunga.
Era nauseante, ma era
così che
andavano le cose.
Se
non ci fosse stata il Capitano sarei finito nelle
sue mani. E non credo avrei potuto avere un distintivo. Né
la mia libertà.
Il Capitano Gillespie
l’aveva
voluto per il SAGITTA, e questo l’aveva messo a riparo da
qualsiasi mira avesse
l’altro mago.
Fino
ad ora. Sapeva che avrebbe scelto me?
No. Era molto più
probabile
che il burocrate avesse invece tentato di giocare un tiro mancino al
loro
ufficio. La rivalità tra lui e la strega risaliva dai tempi
dell’anti-Thule e
non perdeva occasione per deflagrare.
“La
politica è qualcosa che va al di sopra
delle necessità personali. Specialmente quelle di noi agenti
interfederali.” Lo
riscosse la donna tornando dietro la scrivania. Aveva il viso tirato e
Sören
provò il subitaneo istinto di rispondere affermativamente
alla sua richiesta. Si
fermò appena in tempo.
…
Riflettere. Devo riflettere. Non è una scelta che
posso prendere a cuor leggero. Affatto.
“All’ufficio
Auror lo sanno?
Che potrei essere io?”
“Solo se
accetterai
l’incarico.”
Non c’era molto
altro da dire
a quel punto. “Le farò avere una mia risposta
entro domani.”
“Non è necessario…”
“Mi prendo la libertà
di interromperla,
Capitano. Non sono avvezzo a procrastinare nelle mie
decisioni.” Riflettere sì,
ma tentennare, quello mai. “Non più.”
****
North
End, Commercial Street
Appartamento di Milo e Sören. Notte.
Se c’era una cosa
che Milo
adorava dell’America era che ogni città,
ogni singola città, aveva il suo quartiere gay
dedicato, e se non il
quartiere, perlomeno una via di riferimento. Non che in Europa fosse
diverso,
ma in America era talmente manifesto che era difficile non individuarlo
subito
a colpo d’occhio.
Boston non faceva eccezione.
Da quando era arrivato, Tremont Street era diventato il suo territorio
di
caccia. Si era fatto una strategia dei posti da frequentare e di cosa
indossare
in ciascuno di essi per impersonare l’avventore perfetto:
quella sera era
toccato al Hot Mess! e alla sua folla colorata di drag e di ragazzi da
confraternita. Per l’occasione si era quindi messo in
camicia, sfoderando
l’aria di un’affascinante, giovane professore della
Berklee³. Era così finito a
divorare le labbra di un promettente kicker
di Harvard prima nel retro del bar e al momento contro la porta del suo
appartamento.
“Wow amico
… vivi proprio in
una zona da urlo.” Mormorò quello, slacciandosi i
jeans già troppo stretti. A
giudicare da quanto poco nascondevano, quella era la sua sera
fortunata. “Ci
vivi solo in questo schianto d’appartamento?”
“Sì,
sicuro. Te l’ho detto,
sono un musicista pieno di soldi.” Mentì
afferrandogli una manciata di capelli
e leccandogli la curva muscolosa del collo. A giudicare da come gli si
strusciava e miagolava contro gli sarebbe toccata la parte del
conduttore.
Non
che mi spiaccia, beninteso, ma preferisco la
democrazia delle parti.
Evvabbeh.
Non si può avere tutto dalla vita.
Infilò la chiave
nella toppa e
la fece girare. Il ragazzo quasi crollò
nell’ingresso, ma lo riacchiappò piuttosto
agevolmente, tirandolo per la maglietta in direzione della sua stanza.
Poi lo
sentì irrigidirsi e guardare alle sue spalle.
Oh,
no. No. No. No.
Perché?
“Chi cazzo
è quello?” Esclamò
oltre i fumi delle pinte di birra che si era scolato alla salute del
suo
portafoglio.
Sören sostava
nell’ingresso di
cucina con quella sua odiosa espressione priva di espressione.
“Dobbiamo
parlare.” Esordì
come se non stesse parlando ad un tipo con le mani infilate nelle
mutande di un
altro e le camicia in prossimità di esser lanciata via.
“Adesso?”
“Scusa.”
Si premurò di dirgli.
“Ti aspetto in cucina.” Aggiunse prima di sparire
in direzione della suddetta.
Aaaaaaargh!
L’urlo lancinante dei suoi lombi per un attimo
sovrastò qualsiasi altro
rumore.
“Ehi, avevi detto
di viver da
solo!” Sbottò il kicker, togliendosi dalle sue
mani e guardandolo storto. “Chi
cazzo è quello?” Ripeté.
“Praticamente un fidanzato.” Borbottò
arruffandosi i capelli. “Scusa, ma te ne
devi andare.”
Il conseguente ‘vaffanculo’ e la porta sbattuta
furono solchi indelebili
lasciati nella sua anima di povero artista romantico.
E
che voleva farsi una grandiosa scopata.
Entrò in cucina
tirandosi su
la zip dei pantaloni stretti e neri da artistoide, decretando
così la fine di
una serata gloriosa. Trovò il principino seduto al tavolo
della colazione
intento a guardarsi le mani con l’aria patibolare che
precedeva i grandi guai.
E
di solito io ci finisco in mezzo senza neanche sapere
come. Grandioso.
Posso
picchiarlo?
“Estevez dice che
devi
smetterla di fare certe allusioni sul nostro rapporto.”
Esordì in tedesco. Parlava
sempre nella loro lingua madre quando aveva l’umore sotto le
scarpe. “Non sono
il tuo fidanzato.”
“Sei impegnativo uguale.” Replicò a
tono. “Solo, senza scopate ad addolcire il
carico. Lasciami il piacere di farci ironia sopra almeno.”
Recuperò tabacco,
cartine ed erba dal cassetto a fondo doppio della credenza. Aveva idea
che ne
avrebbe avuto un gran bisogno.
“Non mi
interessano gli
uomini.”
“Grazie per aver notificato l’ovvio. Hai visto che
razza di bestia da letto mi
ero portato a casa?” Sospirò di fronte
all’espressione minimamente colpita
dell’altro. “Neanche un’occhiata gli hai
dato. Io sì però. E avevo delle
aspettative. Soffiate via, nel vento…”
Canticchiò, afferrando uno sgabello e
accomodandosi di fronte a lui. Poi gli fece cenno di parlare.
“Devo prendere una
decisione.”
“Se mi hai interrotto perché non sai cosa mangiare
domani a pranzo giuro che ti
castro con un cucchiaio.”
Sören ebbe il buongusto di sorridere appena alla sua battuta.
Era pallido però,
e grosse occhiaie violacee gli contornavano il viso. Sarebbe stato un
tipo
carino, se non fosse sembrato mediamente un malato di tisi in stadio
avanzato.
Il
carcere non si scrolla di dosso così facilmente,
Milo.
Sospirò,
imponendosi di non
impietosirsi. “Qual è la decisione da prendere,
coraggio.” Sbriciolò i fiori di
canapa e li mischiò al tabacco prima di chiudere la cartina.
“Sono tutto
orecchi.”
“Il SAGITTA vuole
che vada in
Inghilterra ad identificare il corpo di un mago americano.”
Lo sputò fuori
quasi fosse un boccone amaro, serrando le dita così forte
che le nocche
sbiancarono a lasciar intravedere le ossa.
“In Inghilterra? Quella Inghilterra? Quella dove piove
sempre, si vestono di merda e bevono the dalla mattina alla
sera?”
“Ti prego di non ironizzare.”
“E chi ironizza. Nora si è bevuta il
cervello?” Si accese lo spinello e ne tirò
un paio di energiche boccate. “Se attraversi le bianche
scogliere di Dover c’è
gente che potrebbe appenderti per le palle alla torre più
alta di Londra!”
E
con quanto energie e tempo ho speso per rimetterti in
sesto lo prendo come affronto personale.
“Sono stato
prosciolto da
tutte le accuse, sono un mago libero. Non mi farebbero
niente.” Fraintese
passandosi una mano trai capelli già tirati indietro dal
gel. Lo facevano
sembrare un idiota anni ’50 del vecchio secolo, e non era mai
riuscito a
farglieli lasciare liberi, come il taglio originale che gli aveva fatto
prevedeva.
“Stiamo parlando
di gente che
cinque anni fa hai…”
“Lo so.”
Sbottò con forza, serrando
la mascella. “Ma il Capitano Gillespie mi ha dato ad
intendere che non ho
possibilità di scelta. Non possono mandare altri agenti,
sono già tutti
impegnati in casi in corso.”
“E Rico?”
“L’agente Estevez ha più esperienza di
me e deve quindi esser lasciato a
gestire le emergenze. Non sono io quello che può esser
lasciato qui.” Fece una
pausa, poi abbassò il tono di voce. “Il Capitano
mi ha detto che devo dargli
una risposta entro lunedì, ma ho idea che la risposta fosse
già allegata alla
richiesta.”
Vedi
il principino. Sembra un fesso, ma poi sotto
sotto…
Non trovò
null’altro da ribattere
e Sören smise di parlare. I rumori delle auto e della notte
fecero così da
sottofondo al loro silenzio. Milo osservò la brace del suo
spinello baluginare
un paio di volte, poi lo prese tra indice e pollice e, girandola nella
direzione
dell’altro, gliela passò.
“No.”
Mormorò continuando a
fissarsi le mani come se da esse potesse provenire una soluzione.
“Non fumo
droga.”
“È perché sei così palloso
che ti si infinocchia facilmente, principino…”
Ghignò usando l’inglese pastoso di quelle parti
per sottolineare il concetto.
Non vi fu la minima
risposta,
o accenno di incazzatura.
Merda,
sta proprio sotto.
“Cosa vuoi che
faccia?”
Propose, con un po’ di morte nel cuore ma neppure molta. Era
quello il lato più
deprimente e insieme affascinante del suo lavoro.
Il
fatto che non è un lavoro. Non ho idea di cosa sia
… forse
una specie di volontariato.
“Non ti sto
chiedendo di
venire con me.” Fu la replica. “So che ti piace
stare qui, e comunque non credo
sarà un soggiorno lungo.”
Non
sto chiedendo … Lo stai facendo invece!
Fece
un profondo sospiro, commiserando
se stesso. “Ho sempre voluto andare a Londra. Dicono che gli
immigrati africani
di là ce l’abbiano…”
“Milo.”
“Cosa?” Allargò le braccia.
“Qualcuno deve pur trovare il lato luminoso della
faccenda!”
Sören abbozzò una mezza risata, passandosi la mano
sul viso. Poi lo guardò, con
quel suo assurdo e disagiante sguardo intenso. “Sei
sicuro?”
La
gente non si guarda così se non la si vuole
picchiare o portare a letto, principino.
E
poi sono io quello insinuante.
No,
cioè, sono io, ma tu dovresti davvero controllarti
con quegli occhioni neri.
“Certo,
va’ pure da solo. Non
sai neanche stirarti una camicia, e sei un mago.”
Scrollò le spalle. “E poi un viaggetto fuori
continente non mi spiace. La
bistecca americana sta cominciando a venirmi a noia.”
L’altro stavolta
riuscì quasi
ad esibirsi in un’imitazione di sorriso convincente.
“Grazie.”
“Non ringraziarmi, la Passaporta Continentale e il resto
delle spese me le
paghi tu.”
Sören si
limitò ad annuire,
alzandosi e andando a prepararsi un the. Milo non aveva mai capito
quella sua
passione, dato che il the non era bevanda che sembrava gli si addicesse
granché.
Lo
faccio più tipo da vodka incendiaria, o whisky. Roba
alcolica, roba per stordire i ricordi.
C’è
da dire che la varietà di the che beve lui è
molto
apprezzata dai maghi e dalle streghe inglesi.
Mmh.
Fu
riallacciandosi a quel pensiero che
glielo chiese, poco prima che uscisse dalla cucina.
“E con lei cosa intendi fare?”
Sören si
immobilizzò, tazza
fumante e incedere compreso. “Il
caso
non mi impegnerà più di qualche
giorno.” Esordì con un tono così piatto
che non
avrebbe sfigurato come messaggio registrato in una segreteria
telefonica. “Non
credo avrò occasione di incontrarla. È impegnata,
e lo sarò anche io.”
“Quindi non le dirai che sei a Londra?”
La risposta fu il lasciarlo
senza risposta.
Indovinate
chi passerà la notte a fissare il soffitto?
Si stiracchiò e
prese un’altra
boccata dallo spinello.
Un
indizio. Non io.
****
Inghilterra,
Londra
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche.
Padiglione
Autopsie.
“Ehi, io stacco!
Ci vediamo
domani!”
“Grazie a Merlino domani è venerdì! Una
pinta al pub?”
“No gente, stasera dritto a casa! O chi la sente mia
moglie!”
Risate, rumore di passi,
porte
chiuse e luci spente.
Lo scambio di convenevoli tra i Mortuari – chiamati
così quei Guaritori che si
occupavano di indagare le cause della morte di un mago o una strega
– era il
segnale ufficiale che la giornata lavorativa era appena finita. La sala
operatoria veniva chiusa, gli uffici spenti e in tutto il padiglione
veniva
attivato un incantesimo antifurto.
Non che questo potesse
fermare
chi era dotato di mezzi superiori.
C’erano delle cose
da sapere,
prima di poter procedere. Prima di tutto, che non doveva cercare un
corpo, ma
le sue ceneri. Tutti le salme di maghi o streghe sospettati di Magia
Oscura,
dopo gli esami di rito e lo stilare del rapporto conseguente, venivano
fatti
cremare e chiusi in piccole urne di pietra. Era una procedura
inaugurata dopo
la Seconda Guerra Magica e da lì portata avanti.
In secondo luogo, si doveva
trovare l’ufficio degli schedari e lì cercare la
sezione delle urne. Non fu
difficile trovarla.
Samuel
Howe
Il ladro fece un sorriso,
afferrò l’urna, e la nascose dentro il mantello.
Ora toccava al cartaceo.
****
Note:
Capitolo Ren-centric.
Comunque
il perché e il percome sia finito a fare il bravo ragazzo
col distintivo verrà
spiegato. Con calma. Suuspance!
Questa
la
canzone del capitolo. Come ho detto su effebbì,
era tanto che volevo usarla, specificatamente per Sören. Ha un
ritmo da
soldatini. xD
GRAZIE per le
meravigliose recensioni che mi lasciate. Le leggo tutte una per una
(soprattutto
al lavoro, quando non dovrei, con effetti che potete immaginarvi. Mi
licenzieranno in tronco prima o poi) e non so dirvi quanto vi sono
grata per la
risposta che sta avendo OAN!
Per le risposte ci sto lavorando. Se le volete subito, magari
perché avete
delle domande, specificatelo nella recensione … giuro che
farò di tutto per
rispondere!
1. Taler:
moneta magica usata in America. Mia invenzione,
naturalmente, deriva proprio dalla parola
‘dollaro’. So che il Tallero
esisteva. Il dollaro è chiamato così proprio per
quel motivo. :P
2. Boylston: la fermata della metro
si riferisce ad una strada che è forse una delle vie
più conosciute di Boston,
nel cuore della città e nei pressi del parco cittadino. Una
Charing Cross
americana, se si vuole.
Per capire come vedono
l’ufficio
SAGITTA i Babbani, fatevi un giro qui.
Dio benedica internet.
3. Berklee College of Music:
fondata
nel 1945, è una scuola di musica indipendente, a Boston. La
missione originale
di Berklee fu quella di fornire un insegnamento formale sul jazz, sul
rock e su
altre musiche popolari non disponibili in altre scuole di musica.Tra i
suoi
studenti più famosi annovera Keith Jarrett, i Dream Theater
(formazione
attuale) e John Mayer.
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
Capitolo III
La
rosa
rossa grida: “ È qui vicina, vicina!”
e quella bianca piange:
“no, è in ritardo”;
la consolida ascolta: “io
la sento, la sento”;
ed il giglio sussurra:
“io l’aspetto"
(Da
"Maud", Alfred
Tennyson)
17
Giugno 2028
Inghilterra, Londra. San Mungo. Reparto J. Thickley.
Mattina.
Grazie a Merlino era
venerdì.
Lily non poteva riassumere
meglio l’umore di quella giornata.
Svegliarsi ogni giorno
prestissimo per arrivare in tempo utile al camino nascosto nella
stazione di
Farrindgon cominciava a diventare seccante, specie da quando non poteva
più
fermarsi al solito giardinetto per la colazione.
Spero
che quel ragazzo non continui ad aspettarmi…
Fortunatamente quella sera
non
sarebbe dovuta tornare nel Devon, ma avrebbe potuto comodamente
appoggiarsi a
casa di Al e Thomas e passare poi il resto del fine settimana con
Scott, nel
suo piccolo cottage rustico nel Somerset.
Dopo
una settimana di Londra ci vuole una fuga in
campagna …
Tralasciando
che ogni sera in campagna ci torno. Ma
comunque.
Vivere ancora a casa con i
suoi non era esattamente rilassarsi. C’era sempre qualcosa da
fare, sempre
qualcuno da accontentare, che si trattasse del milione di faccende di
casa che
pendevano sulla testa di tutti, essendo giustamente sua madre una
lavoratrice o
le visite di nonna Molly che portavano torte, chiacchiere e ore e ore
di
frecciatine sul fatto che ‘nessuno di voi ragazzi si
è ancora sistemato, tranne
beh … sì,
Jamie a modo suo’.
Convive
con Teddy e prima o poi si troverà sposato alla
Babbana, parola mia.
Tom
e Al invece … beh, loro continueranno a farsi i
fattacci loro fino alla tomba, con la compiacenza di tutti.
Papà specialmente.
Le speranza di sua nonna di
veder un mucchio di pro-nipotini a sgambettarle intorno erano quindi
tutte
concentrate su di lei, almeno da quel ramo della famiglia.
Ansia.
Ho solo vent’anni miseriaccia … evvabbeh che
mamma ne aveva più o meno altrettanti quando è
rimasta incinta di Jamie. Ma no,
grazie. Evolviamoci un po’.
A pensare a figli
improbabili
e impegni certi le stava venendo l’emicrania, quindi fu con
un sorriso grato
che prese il caffè forte e tostato dalla signora del
carrello, una versione in
veste medica di quella del treno per Hogwarts.
“Mia cara, la
caffeina fa
venir le rughe, non le è mai stato detto?” La
informò la voce squillante di
Gilderoy Allock, paziente lungodegente del reparto.
“Ma sveglia
anche.” Replicò voltandosi
per un galante baciamano, un piccolo rito che il mago adorava e che
nessuna
delle studentesse di Psicomagia si sentiva di negargli; era stato
votato come
il mago più affascinante per anni in gioventù e
se ne intravedevano ancora i
motivi.
“Buongiorno
Gilderoy, come si
sente oggi?”
“Benissimo ora che posso vedere il suo incantevole
visino!” Sfoderò il sorriso
per cui era stato tanto famoso. “La vedo un po’
sciupata però. Sta mangiando
correttamente? Una buona dieta è la base per una salute di
ferro. Me lo diceva
sempre mia madre …” Fece una pausa rivolgendole
una smorfia di scuse. “Almeno
credo. Non ricordo. Forse l’ho letto da qualche
parte.”
“È comunque un ottimo consiglio. Anche se credo
che il mio esser sciupata
derivi dal fatto che ho una settimana di lavoro sulle spalle”
Replicò scherzosa.
“Che ne dice, andiamo a compilare la cartella di
oggi?”
Il mago fece una lieve smorfia insofferente. “Gradirei una
passeggiata invece.
Londra è incantevole d’autunno!”
Abbassò il tono di voce in un tono garbato ma
cospiratorio. “Potremo uscire io e lei, mia cara, le giuro
che sarei una tomba!”
Lily sorrise. Con quei modi affettati e le parole galanti era
inevitabilmente
il suo paziente preferito anche se sapeva come non fosse stato
esattamente un
modello di virtù e correttezza morale. “Ne sono
sicura, ma siamo a Giugno.” Replicò
prendendolo a braccetto e portandolo verso la sua stanza.
“Abbiamo voltato il
calendario su quel bel quadro impressionista giusto qualche settimana
fa. Mi ha
raccontato di come abbia aiutato l’attuale proprietario del
museo a
recuperarlo, si ricorda?”
L’espressione
dell’uomo si
fece per un attimo vuota e Lily ne approfittò per condurlo
verso il letto e
farlo sedere. “No,
non ho…” Annaspò, poi
scosse la testa rassegnato. “Naturalmente è
Giugno, è tutto in fiore. Che
sciocco.”
“È tutto a posto.” Replicò
tranquilla; mai mostrarsi preoccupata dalla poca
lucidità di un paziente, era la prima regola da imparare se
si voleva lavorare serenamente
nell’ala Thickley. “Vogliamo iniziare?”
“Naturalmente
cara, non si
faccia scrupolo. Sono a sua disposizione.” Si
sistemò la vestaglia e fece cenno
di procedere. Gli rivolse quindi le domande di rito e si
occupò di lanciare gli
incantesimi diagnostici di routine. Quella era il genere di procedura
che più
detestava, perché ancora legata alle vecchie
modalità di cura. Per i degenti
della Thickley poi, la parola cura
per lungo tempo era stata un eufemismo che significava
l’aggirarsi in vestaglia
e ciabatte per il reparto e farsi coccolare da Medistreghe corpulente.
Per
troppo tempo c’è stata l’idea che i
danni alla
mente siano incurabili. Irrisolvibili. Una volta che la Magia ti ha
sconvolto
la mente sei fregato.
E
invece no.
Questo era ciò
che sosteneva
la sua professoressa, la direttrice del corso di Psicomagia e fonte
principale
di ispirazione per tutti gli aspiranti Psicomaghi della Gran Bretagna.
La
Guaritrice Padma Patil.
Ex-corvonero, studentessa
brillante e studiosa capace, aveva trascorso gli anni successivi alla
Battaglia
di Hogwarts nel Mondo Babbano. Tornata indietro era riuscita prima a
diventare
assistente, e poi collega della vecchia guaritrice Strout, una donna
adorabile,
ma assolutamente convinta che l’unico metodo di cura per
‘quei poveri cari’
fosse un ambiente neutro e privo di ogni stimolo.
La Patil invece nel giro di
una quindicina d’anni aveva rivoluzionato la Psicomagia per
come la si
intendeva. Aveva istituito un corso specializzato per la materia
– prima veniva
trattata come una specializzazione per chi aveva voglia di fare
‘da babysitter
ai matti’.
Il risultato più
importante
era stato però aver dato il via ad una terapia sperimentale
per trattare i casi
come Gilderoy o i genitori di Neville.
Una terapia vera.
Quando durante il suo ultimo
anno ad Hogwarts le era capitato di leggere una sua intervista ne era
rimasta irrimediabilmente
affascinata. Era stata la capacità di quella strega di
capire la mente umana a
farle leggere il lungo e prolisso articolo fino in fondo. Quella ed un
paragrafo.
“Cercare
di riportare queste persone alla condizione
originaria è come cercare di dissotterrare uno splendido
castello immerso nella
sabbia. Si deve fare attenzione, consolidando punto per punto,
perché ogni cosa
disvelata potrebbe nel giro di poche ore esser sommersa di nuovo se non
si usa
un’architettura di scavo solida. Dobbiamo essere archeologi
della mente, per
dirla con parole semplici.”
Non era poi così diverso da quello che faceva lei con i suoi
non richiesti
poteri. O meglio, era diverso ma
era
il risultato finale ad essere lo stesso.
Non
siamo Guaritori, e non si può guarire la follia con
una pozione … ma si può farli tornare indietro.
O
almeno, provarci.
C’erano
però voluti anni prima
che realizzasse che era quella la strada che voleva percorrere.
Ho
avuto i miei motivi per aspettare e i miei motivi
per decidere.
In
fondo noi Potter siamo un po’ tutti paladini in cerca
di una causa. Ecco la mia.
“Devo lasciarla
adesso.” Gli
strinse le mani all’espressione delusa che gli vide apparire
sul volto. Tralasciando
i Gufi che ogni tanto qualche vecchia fan dalla lunga memoria gli
mandava, il
mago non aveva contatti esterni con nessuno.
“Tornerò verso le undici con la guaritrice
Patil per la terapia. Okay?”
“Certo, certo.
Può ricordarsi
di prendermi la Gazze… oh, grazie!”
Esclamò quando gliela porse, dato che il
quotidiano era esattamente sopra il suo comodino, insieme al romanzo
autobiografico che aveva scritto dopo l’incidente che
l’aveva portato lì. Le
Medistreghe del reparto le avevano raccontato che la maggior parte
delle copie giaceva
nel magazzino dell’editore.
Uno
dice la verità su chi è, o più o meno
ricorda di
essere, ed ecco che nessuno è più interessato.
È
un po’ triste.
Infilò la
cartella
nell’apposito contenitore ai piedi del letto e
lasciò la stanza, stirando con
le dita il camice verde in dotazione a tutto il San Mungo, studenti
come lei
compresi.
Il giro delle visite del
venerdì era di sua competenza, e dopo la stanza di Allock
– il primo in ordine
alfabetico – sarebbe toccato ad un’altra decina di
pazienti. Dopo questo,
sarebbero iniziate le terapie e la sequela infinita di domande a cui
avrebbe
dovuto rispondere per dimostrare alla psicomaga Patil che non era una
rossa
senza cervello – o semplicemente, una studentessa preparata.
Si stiracchiò.
Oggi
è una giornata da due tazze
di
caffè.
Fece comunque un mezzo
sorriso
vedendo che la pioggia mattutina era stata portata via da un sole
robusto che
faceva scintillare i tetti delle case vicine. Si avvicinava il
finesettimana ed
anche il giorno che avrebbe dedicato alla posta – durante la
settimana non
aveva mai tempo per leggere o rispondere.
Non era tanto male, il
venerdì.
****
North
End, Commercial Street.
Appartamento
di Sören Prince e Milo Meinster. Mattina.
Ogni mattina che Dio
– o chi
per lui – metteva in terra, Milo si svegliava sapendo di
avere tre compiti a
cui assolvere prima di dedicarsi agli affari suoi.
Il primo, svuotare la
vescica.
Mica roba da poco se la sera prima l’avevi passata a scolarti
bicchieri che
variavano dalla grandezza di due nocche a quella di un boccale.
Secondo, arieggiare
l’intero
appartamento, che un certo principino aveva l’ansia se appena
alzato trovava
tutto sbarrato. Quello però non gliel’aveva mai
contestato, visto che poteva comprendere
la claustrofobia di una persona che aveva vissuto in una cella non
più grande
del loro attuale gabinetto.
Terzo, doveva preparare la
colazione.
Tre compiti molto semplici,
ma
che risultavano complicati quando si aveva un post-sbornia da record.
Fu quando notò
che le omelette
che avrebbe dovuto servire erano decorate con i gusci che avrebbe
dovuto
buttare che capì che Sören, per una volta, avrebbe
dovuto accontentarsi di
integrare liquidi per cominciare la giornata.
“È
pronto!” Esclamò facendo
una smorfia alla fitta alla nuca che l’esclamazione gli aveva
provocato. “Cioè,
più o meno…” Bofonchiò
puntellandosi al ripiano della cucina e accendendosi
doverosa nicotina.
Sentì rumore di
passi
provenire dal balcone e sospirò.
Un'altra
notte insonne passata sul balcone? Grandioso.
Se qualcuno gli avesse
giurato
sulla testa di sua madre che avrebbe finito per occuparsi del nipote
dello
stregone pazzo che l’aveva quasi fatto morire tra le fiamme,
avrebbe riso di
gusto.
Questo, quattro anni prima.
Poi una donna insopportabile
di nome Eleanor Gillespie si era impicciata in fatti non suoi e lui era
finito
incastrato.
La
storia della mia vita … È perché sono
un bravo
ragazzo. In fondo.
Certo, in cambio viveva in
America, aveva un loft nella zona più trendy di Boston
– aveva chiesto e aveva
ottenuto - e veniva
persino pagato, ma…
Ma.
Eggià.
Guardò
l’aria smunta e pallida
del suo coinquilino e allargò le braccia. “Ciao.
Hai la faccia di un dipinto
cubista. Cioè stai di merda.”
Chiarificò. “Comunque rispetto a quando ti ho
visto a Nurmengard sei un fiore.” Lo consolò
perché Milo Meinster aveva sempre
una buona parola per tutti.
Per tutta risposta si beccò un’occhiataccia
dall’ingrato, che si sedette poi
allo sgabello del ripiano cucina. Occhieggiò
l’omelette funghi e formaggio –
una sua specialità – in silenzio. “Ci
sono i gusci.” Decretò con voce
arrochita.
Qui
qualcuno ha fumato tutta la notte. Media di due-tre
pacchetti. Miei, probabilmente. Avrei dovuto evitare di portarne in
casa.
Tossico.
“Dovresti
ringraziare che non
ci ho messo dei pezzi di vetro dentro.” Schiacciò
la sigaretta nel posacenere e
si arruffò i capelli. “Per colpa tua ieri notte ho
usato il letto per dormire.
È inammissibile il giovedì
sera!” Gli lanciò un’occhiata sommaria;
non che ce ne fosse bisogno. “Tu invece
il letto neppure lo hai toccato, vedo. Con tutto l’amore che
ci metto per
rifartelo potresti almeno tentare di usarlo!”
“Me lo rifaccio da solo.” Puntualizzò
cominciando a spulciare le uova alla
ricerca del boccone sano. “Ho dormito.”
Sospirò. “Un paio d’ore.”
“E sei giunto ad una soluzione? Andrai in
Inghilterra?”
La risposta fu
un’eloquente occhiata
torva persa nel vuoto. Non che si aspettasse confessioni a cuore aperto
da quel
piccoletto pieno di segreti e problemi. Non che non avrebbe provato ad
estorcergliele.
“Dovrei saperlo
per preparare
i bagagli, sai.” Esordì rompendo due uova in un
bicchiere e mischiandole alla
salsa Worcester che trovò in frigo. Ignorò lo
sguardo disgustato dell’altro e
trangugiò il suo perfetto rimedio anti-sbronza con gusto.
Non
ho scopato ma ho il post-sbronza. La mattinata
peggiore di sempre.
“Io ci
andrei.” Tentò infine,
anche se la strada dell’amico comprensivo lo metteva sempre
un po’ a disagio.
Metteva in gioco un’intimità che non ci teneva ad
avere con Sören, per una
serie di motivi che andavano dall’auto-preservazione al fatto
che si era
imposto di concedersi solo contatti intimi che iniziavano e si
concludevano con
una scopata.
Sören
alzò lo sguardo e lo
fissò. “Perché?”
“Perché
hai tutta quella
situazione assurda laggiù.” Si strinse nelle
spalle. “Dovresti mettere un
punto, soprattutto con lei.”
L’altro si
irrigidì in un
fascio di nervi, tanto che Milo avrebbe potuto tirargli un pugno, ne
era certo,
e farsi male come se avesse sbattuto contro una putrella
d’acciaio. “Ti pago
per badare alla casa, cucinarmi i pasti e fare la spesa.”
Fece una pausa. “Non
per darmi pareri.”
“Sto cazzo,
principino.”
Replicò spassionato. Era precisamente per quello che in
realtà era lì.
Per
farti da coscienza, visto che la tua è ancora,
tipo, neonata.
Sören non disse
niente,
limitandosi a bere un sorso di caffè. Ci mise altri dieci
minuti e una
tonnellata di sicuri pensieri tetri prima di parlare. “Non ci
voglio andare.”
Emise infine. “L’Inghilterra non è posto
per me.” Fece una pausa,
contemplandosi le mani e stringendole l’una
sull’altra. “Non lo è.”
Ribadì.
Milo acconsentì
con un cenno
della testa. “Però l’hai detto tu che
sostanzialmente non hai scelta.” Gli
ricordò. “Sarà uno schifo, specie se
incontrerai i Potter, o quel tuo cugino …”
“Thomas.”
“Sì, Thomas … ma in fondo sono solo un
paio di giorni, no?”
“Già.”
“Ed è
probabile che avrai a
che fare, almeno direttamente, solo con gli Auror. Gli altri, a meno
che non li
incroci per strada non li vedrai.”
“È corretto.”
“Perché
non vuoi vederli.”
Attestò.
Ci fu un lieve esitare, ma poi un’inevitabile assenso.
“È così.”
“Allora non farti
problemi.
Fai il tuo lavoro, pulito, e ce ne torniamo qua.”
Sei
un pessimo bugiardo, principino. Magari non vuoi
vedere i
Potter. Comprensibile. L’ultima
volta avevi un paio di manette ai polsi
e loro erano appena scampati alla follia di Von Hohenheim. Magari sono
ancora
un po’ incazzati.
Ma la Potter
… tutt’altra storia, ah?
Sospirò
afferrando il piatto
di dell’altro e buttandolo nel cestino. “Te la
rifaccio.” Agitò la spatola
nella sua direzione. “Basta che la pianti di mangiare con
quella faccia
disgustata, o giuro che un giorno di questi ti ci metto il
topicida!”
Sören inarcò le sopracciglia. “Non lo
faresti. Altrimenti dovresti abbandonare
la casa e questo tenore di vita. Ti servo vivo.”
Ed
ecco a voi l’uomo che crede che semplice ironia
siano vere minacce di morte.
E
non batte ciglio.
“Oh, va’
al diavolo.” Ignorò
l’emicrania del post-sbronza addizionata all’appena
arrivata emicrania Sören –
un particolarissimo tipo di mal di testa che si concentrava sulle
tempie – e
ricominciò da capo nella preparazione della colazione.
“Oggi sei di turno?”
“Sì,
stamattina io ed Estevez
dobbiamo interrogare un probabile testimone chiave e ho un paio
d’ispezioni congiunte
con l’agente Murphy a China Town.”
Snocciolò passandosi una mano sulla barba
ancora da rasare. “E poi voglio dare la risposta al Capitano
Gillespie. Non
posso procrastinare.”
Milo girò l’omelette e gliela lasciò
scivolare nel piatto, stavolta
perfettamente soddisfatto del risultato, specie perché lo
schizzinoso
principino l’attaccò con gusto. “Una
perfetta giornata da bravo ragazzo quindi.”
Attestò con un tono da presa in giro, perché ci
voleva ironia in certe
situazioni. “Ricordatelo che sei uno di quelli.”
“Di quelli chi?”
“Bravi
ragazzi.” Sogghignò
“Mica come me.”
L’altro fece un
accenno di
sorriso e diede un boccone al piatto. Aggrottò le
sopracciglia, come preso da
un pensiero repentino. “Puoi annotarti di spedire la mia
corrispondenza?”
Milo roteò gli occhi al cielo. “Lo faccio ogni
mese, pensi che non me lo
ricordi?” Ovviamente lo pensava a giudicare
dall’espressione scettica. “Piuttosto,
hai bisogno di carta, inchiostro? Tanto, visto che vado al Ufficio
Postale
Continentale…”
“Non mi serve
nulla. Ricordati.
È sul mio comodino.”
“Sia mai!”
****
Inghilterra,
Londra.
Ospedale San Mungo. Reparto Lesioni da Incantesimo. Ora di pranzo.
“Come si tratta
una lesione da
incantesimo Elettro, allievo
guaritore Potter?”
“Dipende. Nel caso della vittima andrà evitato un Innerva per scongiurare uno shock
fisiologico. Dovrà invece esser trattato
con un’opportuna terapia farmacologica. Nel caso di chi ha
scagliato
l’incantesimo, è da raccomandarsi un impacco di
Cardamono per curare l’ustione
a polso e metacar…”
“Nel caso del ricevente, Potter, la terapia farmacologica.
Non mi dia risposta
a metà!”
“Nel caso del ricevente, la terapia farmacologica
sarà da concordare con il
Pozionista del reparto, considerato età, peso e storia
medica del soggetto. Una
base dovuta sarà data dalla Densa Pozione Dorata, seguita da
un numero
variabile di gocce di Essenza di dittamo sulle ustioni, a seconda del
peso e
dell’età del soggetto.”
Accanto a lui sentiva gli altri allievi trattenere il respiro, mentre
il volto
arcigno di Smethwyck lo scrutava come a volergli trapassare la scatola
cranica.
Albus si chiese se volesse farlo davvero, per poter così
capire se al suo
interno ci fosse qualche trucco che lo rendeva un allievo valido e non
il
bamboccio raccomandato che credeva fosse.
Potrebbe
chiedere a mia sorella. È una LeNa, saprebbe
dirglielo.
Peccato
che sia mia sorella, suppongo.
“Mh.” Fu
il commento finale
del Guaritore, dandogli le spalle e riprendendo ad incedere trai
pazienti allettati.
“Ottima parata,
Potter.” Gli
sorrise Achille Light, un massiccio ragazzone di colore con cui
condivideva il
corso. Era stato a Serpeverde un paio di anni avanti a lui e tentava
l’esame da
Guaritore da altrettanti. “Smeth poteva darti un
po’ di soddisfazione però.”
“Dovrebbe congelare l’inferno prima che
accada.” Replicò con un sospiro.
“È
così ingiusto con te…”
Mormorò con tono di autentico dispiacere Sofia Chang,
ex-Corvonero, una delle campionesse
in lizza per l’ultimo Tremaghi e Meretrice
per vocazione a sentire Tom.
Credo
che non sia mai andato oltre ai cioccolatini di
San Valentino e l’invito ad uscire che mi ha fatto due anni
fa.
“Noi Potter non
siamo nuovi
alle ingiustizie da parte dell’autorità
costituita.” Scherzò, ma neppure
troppo. “Dai, non rimaniamo indietro, o passeremo la pausa
pranzo a svuotare i vasi
da notte dei pazienti. Senza magia, come l’ultima
volta.”
Gli altri due, gli unici allievi assieme a lui che Smeth avesse ammesso
al suo
cospetto, si affrettarono di fronte alla disgustosa prospettiva.
Sempre
un grosso incentivo …
La visita giornaliera
continuò
senza scossoni, tranne qualche occasionale frecciatina del Guaritore
più
anziano alle loro risposte, secondo lui perennemente incomplete. Al si
era ormai
abituato al modo di fare dell’uomo e sapeva come arginarlo,
ovvero con un bel
sorriso e la risposta pronta sulla lingua. Essere stato un serpeverde
gli aveva
insegnato a tenere a bada personalità simili.
Non
devo piacergli, e non mi deve piacere.
Ad ogni buon conto, alla
fine dell’anno
accademico avrebbe sostenuto l’esame di qualificazione per la
professione
Medimagica; non vedeva l’ora.
Diventerò
un collega e non un allievo. E poi ha una
certa età … Ritirarsi a vita privata potrebbe
essere un’opzione molto
presto.
Fece un sorriso distratto a
Sofia
dato che gli stava chiedendo di pranzare assieme. “Mi
dispiace, non posso. Ho
già un appuntamento per pranzar fuori con mia
sorella.”
“Ma se la mensa
è buonissima!”
Esclamò Achille, che da bravo Purosangue poco apprezzava il
mondo Babbano per
quanto non vi fosse particolarmente ostile. “Che bisogno
c’è di uscire?”
“Vallo a dire a Lily.” Si strinse nelle spalle.
“Comunque devo dire che Hyde
Park in questo periodo è stupendo per passarci la pausa
pranzo. Un giorno venite
anche voi…” Vedendo il viso di Sofia accendersi
d’entusiasmo si affrettò a eludere
elegantemente. “… quando non sarò
motorizzato.” Assaporò la parola perché
la
trovava incredibilmente buffa.
“Davvero Potter, proprio non ti capisco.”
Sospirò Achille scrollando le grosse
spalle. “Uno di quei cosi babbani con le ruote …
Non è meglio una scopa?”
“Certo che è meglio.” Riconobbe.
“Ma la scopa dovrei disilluderla, e ci
vorrebbe un sacco di burocrazia per farle sorvolare Londra. E poi non
potrei
portarci nessuno. Il suo corrispettivo Babbano non è
così male, sai?”
“L’ho visto, sai.” Gli fece il verso.
“Quel tuo coso è rosso.
Quale serpeverde cavalca rosso?”
“È un
gran bel colore!”
“Sei sicuro di essere stato un nostro Caposcuola?”
Achille fece una smorfia
esagerata, facendo ridere persino Sofia, che da corvonero non poteva
cogliere a
pieno certe loro frecciatine. “Come ti pare comunque. Ci
vediamo dopo.”
“A dopo Albus.” Sorrise la ragazza.
“Però uno di questi giorni organizziamo per
mangiare fuori con te e Lily, va bene?”
Se non vuoi essere aggredita in un vicolo
scuro da quello psicopatico geloso del mio ragazzo credo di no.
“Sicuro.”
Sorrise dismissivo.
“Buon pranzo ragazzi.”
Se c’era una cosa
che adorava quando
capitava che lei ed Albus pranzassero assieme era la
modalità di viaggio. Per
arrivare ad Hyde Park dal San Mungo il percorso più rapido
era con la metro ma
il fratello non aveva particolarmente in simpatia quel mezzo di
locomozione; la
trovava claustrofobica.
Per
quanto trovo assurdo che a dirlo sia una persona
che ha vissuto per sette anni in un sotterraneo.
Per lo stesso motivo non la
usava per nessun tipo di spostamento all’interno di Londra.
Usava invece Sally,
il favoloso motorino italiano che si era comprato poco dopo il suo
arrivo
ufficiale in città. Lily lo adorava, perché oltre
ad avere una forma buffa era
di un rosso accesso, il suo colore preferito.
L’altro le aveva
anche spiegato
come fosse un’edizione aggiornata di un modello che andava in
voga durante gli
anni ’70 del vecchio secolo e che fosse una rarità
trovarla al buon prezzo a
cui l’aveva trovato, grazie alla mediazione della sorella di
Tom, Alicia.
Ha
detto anche un mucchio di altre cose ma ho smesso di
ascoltarlo … Che tu sia un mago o un babbano o che usi una
scopa o un motocoso
… Beh, sempre noioso sei dal mio punto di vista.
Maschi.
Comunque Sally le piaceva.
Le
piaceva sentire il vento sul viso e, anche se non apprezzava le
condizioni dei
suoi capelli dopo aver indossato un casco, le piaceva la
velocità come la
possibilità di non ingoiare insetti di varia taglia come
quando si cavalcava
una scopa.
Anche in quel momento, con
le
braccia strette attorno alla vita dell’altro, si vedeva
sfrecciare la città ai
lati e pensava che era proprio una buona giornata.
Le
cose mi vanno bene. Voglio dire, bene sul serio.
Faccio qualcosa che mi piace, qualcosa di utile, hanno tutti smesso di
guardarmi come se fossi una povera ragazzina traumatizzata ed ho
persino un
ragazzo presentabile.
E
non ho infranto quella promessa.
Sto
diventando un membro propositivo della società e mi
fa meno orrore di quanto pensassi!
Appoggiò il mento
sulla spalla
dell’altro. “Stasera mangiamo
giapponese?” Gli urlò per farsi sentire oltre la
selva di motori, smog e clacson. Al aveva una guida piuttosto
spericolata e
spesso e volentieri si faceva inseguire da una cacofonia di
automobilisti
infuriati.
“Te l’ha
chiesto Tom?” Replicò
sterzando bruscamente per evitare di investire una serie di operai nei
pressi
di un tombino. “Perché sta diventando una specie
di ossessione quel dannato
pesce crudo!”
“È raffinato e buonissimo. Raffinati!”
Replicò punzecchiandogli un fianco e facendolo quasi
sbandare. Da fuori
potevano sembrare due folli su due ruote, specialmente considerando che
Al
obbligava chiunque salisse su Sally ad indossare degli enormi occhiali
protettivi, gli stessi che usavano i giocatori di Quidditch e gli
aviatori
babbani. Forse era questo il motivo per cui Tom non ci era mai salito.
Questo
e il metodo di guida tipico di noi maghi: credo
che violi circa una cinquantina di norme sulla sicurezza stradale.
“Va bene, va bene!
Viene anche
Scott?” Quasi inchiodò per evitare una coppia di
anziani che li guardò spaurita
prima di essere lasciata alle spalle con un gran stridio di gomme.
“No, non credo,
avrà da fare
fino a ta … Camion!”
Gridò indicando
l’enorme tir il cui muso puntava nella loro direzione. Al
sterzò di nuovo e
quasi finirono sul marciapiede seminando terrore trai poveri pedoni.
“Ehi,
evitiamo la polizia come l’ultima volta magari!” Si
sentì in dovere di fargli
notare.
“Ah,
già!” Convenne mettendo
il broncio, poteva vederlo dallo specchietto sul manubrio.
“Non che non potrei
seminarla…” Soggiunse con un sorrisetto
inquietantemente sereno.
In
qualche modo, è un Potter-Weasley anche lui.
“Sì, ma
anche no.”
Replicò mettendo le frecce dato che
l’altro se ne dimenticava puntualmente. “A
proposito, ho lasciato detto a mamma
di mandarmi la posta di oggi a casa tua visto che ieri ero da Roxie e
Dion.
Stamattina è arrivato niente?”
“No, non mi
sembra!”
“Dall’America?”
Lo sentì
irrigidirsi come un
ciocco di legno sotto la sua presa. Sospirò appena,
perché conosceva il motivo.
Tra
lui e Jamie sarei diventata miliardaria se solo
avessi ricevuto uno Zellino per ogni volta che hanno tentato di farmi
una
ramanzina in merito.
“Aspetti una sua
lettera?”
Solo Al riusciva a suonare calmo e cortese e al tempo stesso farti
capire
quanto male considerasse la persona di cui parlava.
“Come tutti i venerdì. Ma probabilmente
arriverà domani mattina.” Replicò
tranquilla, per quanto potesse esserlo urlandogli nel timpano.
“Non fare quella
faccia!” Non poté trattenersi.
“Quale
faccia?” Fu l’ovvia
risposta. “Non faccio nessuna faccia. Sono concentrato, sto
guidando!”
“Concentrazione e guida non sono due cose che metterei
assieme quando parlo di
te.” Ironizzò. “Dai, son solo lettere.
Non è come…”
“Non ti sento bene. Me lo dici quando arriviamo,
okay?” Tagliò corto, cocciuto
come il mulo che era. Lily sospirò e lasciò
cadere l’argomento. Anche perché fu
più occupata a strillare di togliersi dalla corsia in senso
inverso che avevano
appena invaso.
****
Ospedale San Mungo
per
ferite e malattie magiche.
Padiglione
Autopsie.
“Ehi, speriamo che
l’agente
americano sia almeno una bella ragazza!”
“Potty, davvero? Sei un giovanotto impegnato, io certe uscite
le eviterei.”
“Ah, andiamo! Teddy sa che ho gli occhi, diversamente da
Rose.”
“Lo sa anche lei, per questo me li caverebbe nel caso facessi
pensieri del
genere. Sai, per sicurezza.”
“Malfoy, sei uno zerbino.”
“Uno zerbino che fa un sacco di sesso, ergo…”
“Ah, Merlino! Non azzardarti ad affiancare quella parola a
mia cugina! È disgustoso!”
“Sesso!”
James si premurò
di rifilare
una gomitata al costato di Scorpius, il quale evitò il colpo
ed aprì le porte a
molla del reparto autopsie del San Mungo per lasciar passare sia lui
che l’altro.
Era la prima volta che Potter lo accompagnava a prelevare il referto di
un autopsia
e poteva esser ovvio per chiunque a giudicare dalla faccia disgustata
che
aveva.
Dev’essere l’odore di
formaldeide.
“Non vomitare,
Potty. Qualcuno
qui ha il nasino delicato?”
“Fottiti.”
“Con molto piacere.” Ghignò allegro.
“Comunque su una cosa hai ragione …
Anch’io spero che ci mandino una donna. Se capita una tipa
dritta come quella
che ha curato le indagini durante il Tremaghi siamo sulla scopa. Non
dovremo
neanche parlare lentamente per farci capire!”
James annuì solidale. “Il sergente …
no, adesso credo sia capitano … Gillespie
è in gamba. È riuscita persino a far cambiare
idea a mio zio Ron riguardo agli
americani e alle streghe nelle forze dell’ordine!”
“Sì, avevo notato che era un tipetto pieno di
pregiudizi infondati.” Frecciò stiracchiandosi.
“Quando dovrebbe arrivare la nostro controparte yankee?”
“Mercoledì della prossima settimana, a sentire il
sergente Flannery.” Replicò
distratto, occhieggiando la serie di teche lungo il corridoio che
avevano
macabramente esposte parti anatomiche sotto spirito. “Questo
posto mi mette i
brividi. Cioè, credi siano vere?”
“No, sono fedeli
riproduzioni
in scala. Certo che sono vere.” Inarcò le
sopracciglia. “Se questo posto ti
mette i brividi dovresti vedere il laboratorio di pozioni privato al
Manor.” Sfoderò
un sorriso sfavillante. “Abbiamo anche delle teste.”
“Voi Malfoy siete
degli
squilibrati…” Borbottò incrociando le
braccia e serrandole al petto protettivo.
“Con quale psicopatico dobbiamo parlare per farci dare il
referto?”
“Lascia fare a
me.” Lo
rassicurò dandogli una pacca sul braccio. “Vuoi
che ti tenga la manina?”
“Ci sono momenti
in cui mi
chiedo perché te l’ho stretta in primo luogo
Malfuretto…”
“Semplice, avevo appena consolato il tuo povero cuoricino
infranto. È stato
amore, non negarlo.” Gli strizzò
l’occhio rimediandosi un gestaccio. “Ah, ecco
là! È l’ufficio del Capo Mortuario.
Gravestone.”
“Si chiama davvero
così?” James
spalancò la bocca avendone conferma dal nome impresso a
lettere dorate sul
vetro della porta. “Dai, non ci credo! L’hai
modificato tu adesso!”
“Nomen
omen.” Ghignò bussando. Cercò
di non ridere quando sentì il
respiro brusco e la risata trattenuta alle sue spalle quando venne loro
aperto.
Il capo mortuario Gravestone sembrava uno dei cadaveri che esaminava
per
professione; pallido, altissimo e ossuto aveva radi capelli bianchi e
enormi
occhiali che rendevano le pupille capocchie di spillo. Aveva sentito
dire che
era stato soprannominato amichevolmente Infero
dai suoi colleghi.
Come
non dargli ragione?
“Buongiorno
Miles.” Sorrise
affabile, stringendogli la mano con moderata forza dato che aveva
sempre paura
di sbriciolargliela in un nugolo di polvere. “Come va la
sciatica?”
“Sempre tremenda.
Temo che
ormai l’ora che finisca su uno dei miei lettini sia
giunta.” Sospirò l’uomo la
cui voce gli ricordava incredibilmente quella del professor
Rüf.
“Via, via, sei
ancora un
giovanotto!” Lo rassicurò ignorando il rumore
nasale proveniente dal compagno,
che sicuramente aveva cercato di mascherare una risata tirandosela su
per il
naso. “Allora, siamo qui per quel mago americano, Sam Howe.
Referto e tue
considerazioni personali, come al solito.”
Il mago sospirò, quasi gli costasse un enorme fatica
voltarsi verso gli
schedari. Prima di farlo però puntò gli occhi
miopi su James e lo sguardo gli
si accese di colpo. “È nuovo?”
“Chi, lui?” Scosse la testa. “No, non
è un allievo. È uno dei miei compagni di
squadra.”
“James Sirius
Potter al suo
servizio!” Si annunciò l’altro tutto
tronfio. Era impossibile non notare come
calcasse sempre sul cognome e come godesse nel vederne le reazioni.
Scorpius
gli voleva troppo bene per farci ironia feroce come faceva invece suo
padre
appena ne aveva l’occasione.
Gravestone fece un
sorrisetto
sottile, simile ad uno strappo su una pergamena. “Potter, eh?
Non ha un
colorito che definirei sano.” Esordì con gli
occhietti che scintillavano. “È
andato a farsi il check-up annuale ai piani superiori?
Perché con tutte le
maledizioni che affrontate per lavoro… Ti ho mai raccontato
di quell’auror che
sembrava godere di una salute di ferro fino a quando non è
caduto stecchito
durante un appostamento?”
Prima che Potter si credesse definitivamente ammalato di un orribile
morbo letale,
Scorpius scosse la testa. “Su, smettila di spaventarmi il
collega. Ne ho solo
due e lui è il mio preferito.” Indicò
verso gli schedari. “Referto.”
Mentre l’uomo si allontanava con il passo di una lumaca James
gli fu subito
addosso. “Ohi, ma ho davvero una brutta cera?
Cioè…”
“La prima volta che Miles mi ha visto ha predetto che sarei
finito su uno dei
tavoli operatori entro la fine dell’anno. Son due anni che
vengo qui. Adesso
capisci perché il Sergente è stato ben lieto di
lasciarmi il compito e così
Bobby?”
James lasciò
scivolare la mano
tra le gambe con aperta disinvoltura. “Totalmente.”
“Come sei volgare
Potty.”
“Mi preservo!”
“Nel punto massimo
del tuo
sviluppo, capisco.” Ghignò facendogli riprendere
colore, almeno quello
bastevole per sembrare in dirittura di placcarlo in una morsa
stritolante. Fece
due preventivi passi indietro. “Dai, sta’ allegro,
ho quasi scelto cosa voglio
fare per il mio addio al celibato!”
“Era ora!” Sorrise sollevato abbandonando
l’idea di pestarlo. “Pensavo di
doverti mettere sotto Imperio. Vuoi
le Incantatrici, vero?”
“Voglio vivere per arrivare alla prima notte di nozze, quindi
no.” Replicò
ignorando il suo sguardo esasperato. “Poker.”
Tanto
ho in progetto di chiedere a Rosie di indossare
uno di quei completini… Se non mi ammazza al primo colpo,
è fatta.
“Poker, sul
serio?” Esibì una
smorfia delusa. “Ti facevo meno tradizionalista.”
“Sigari, whiskey incendiario e gioco d’azzardo. Non
fare quella faccia solo
perché all’addio al celibato di Dion, mini-Potter
ti ha lasciato in mutande.”
“Mio fratello
bara!”
“È un Serpeverde, sarebbe strano non lo
facesse.” Ridacchiò. “Sul serio, devi
considerare il fatto che almeno tre delle persone che conosciamo si
annoierebbero a morte di fronte a dei seni nudi danzanti. Al, Mael e
Michel,
per non parlare di Lupin … potrebbe implodere
dall’imbarazzo, temo. Quasi non
ci si crede che abbia avuto uno schianto di fidanzata per
anni.”
James gli lanciò un’occhiata prevedibilmente
raggelante. “Infatti si è trattato
di un’allucinazione collettiva. In realtà mia
cugina Vitro non esiste.”
Poi sbuffò, annuendo suo malgrado. “Comunque hai
ragione, non ci avevo pensato. Però dobbiamo
avere delle cameriere procaci che ci riempiano i bicchieri. Altrimenti
non è un
vero addio al celibato!”
“Perché pensi che abbia scelto il
poker?” Ghignò e fu naturale darsi un cinque
soddisfatto. Il sorriso gli si spense sulle labbra quando il Capo
Mortuario
tornò lentamente verso di loro a mani vuote.
Quando
si è a mani vuote di fronte ad una richiesta
ufficiale della polizia non è mai un buon segno.
“Non
capisco…” Mormorò l’uomo
togliendosi gli occhiali e tamponandosi la fronte con un fazzoletto per
togliersi la polvere di anni ed anni di materiale cartaceo che aveva
spulciato.
“… non riesco a trovarlo.”
“Che significa?” Esclamò James,
abbandonando l’espressione gioviale per
sostituirla con quella da battaglia. “Cosa
non riesce a trovare?”
“Il referto.” Esplicitò il mago.
“Non è dove dovrebbe essere. Cataloghiamo ogni
sera le cartelle e chiudiamo gli schedari a chiave. Senza contare le
protezioni
magiche che mettiamo alle porte del reparto. Non
c’è. E quando ho provato a
vedere se qualcuno dei tirocinanti l’aveva lasciato assieme
all’urna delle
ceneri …” Fece una pausa, poi scosse la testa,
quasi non credesse a quello che stava
per dire. “Non ci sono neanche le ceneri. Né i
suoi effetti personali. È come
se il vostro cadavere non fosse mai esistito.”
“Sto
cazzo!” Tuonò James.
“Altro che non esistito. Vi siete persi la sua
roba!”
Il mago si erse in tutta la sua altezza, lanciandogli
un’occhiata indignata
insolitamente vitale. “È impossibile che perdiamo
qualcosa. Ogni referto ha un incantesimo Tracciante, se fosse stato
lasciato da
qualche parte mi sarebbe bastato appellarlo. Lo stesso vale per
l’urna e gli
effetti personali. Siamo professionisti.”
Scorpius inspirò;
quello
decisamente non era un buon segno.
Perché
rubare il referto autoptico e le ceneri di un
mago?
Evidentemente
parlava troppo anche da morto.
“Non
stiamo mettendo in discussione le
vostre capacità, Miles.” Intervenne conciliante.
“Comunque, per favore, ribaltate
l’intero padiglione, se necessario.” Ed era un
ordine mascherato da richiesta.
Dopotutto, avevano un distintivo. “Se trovate il referto,
l’urna o anche solo
il suo portafoglio mandateci subito un Gufo. Noi torniamo in
ufficio.” Diede un
colpetto al gomito dell’altro e
dopo
essersi accomiatati uscirono dalla stanza.
“Perché
diavolo qualcuno
dovrebbe rubare un mucchietto di polvere e una cartella?”
Sbottò James
aggrottando le sopracciglia. “Cosa ci poteva esser mai
scritto a parte che era
morto ed era sicuramente pieno di magia oscura?”
“Altro.”
Sospirò passandosi
una mano trai capelli. “Indubbiamente, Potty, ben
altro.”
****
America,
Boston.
Ufficio SAGITTA. Pomeriggio.
“Così
te ne vai una settimana
in Inghilterra! Ti darei del fortunato, ma dicono che le bellezze
locali non
siano ‘sto granché e che piova sempre!”
“Non è
una settimana, sono appena
tre giorni.” Parve rifletterci. “In merito alle
bellezze locali non saprei
dirti. Non ho mai visitato musei o siti archeologici
britannici.”
Rico guardò con autentico dolore il proprio partner.
“Dimmi che non sei serio
…”
“Prego?”
Sospirò, sedendosi meglio sullo scampolo di scrivania che si
era scelto per
fare il terzo grado a Prince, che dal canto suo stava finendo di
scrivere il
rapporto senza degnarlo di un’occhiata; dalle borse sotto gli
occhi e il viso
tirato era un miracolo gli rispondesse persino.
“Comunque si vede
che sprizzi
entusiasmo!” Poi chiarificò. “Sono
ironico.”
“L’avevo intuito.” Replicò
sfilando dalla macchina da scrivere l’ultima pagina
del corposo rapporto sul caso Ushowitz. “Non mi piace
lasciare a metà i casi a
cui sto lavorando. È questo il motivo del mio
malcontento.”
Ceeerto.
E dovrei anche crederci!
“Non abbiamo casi
pendenti, questo
l’abbiamo appena chiuso con l’arresto del
sospetto.” Aggrottò le sopracciglia.
“Non è che hai fifa da Passaporta?”
“No.”
Compattò la massa di
fogli e la spillò con tanta forza da far risuonare il rumore
metallico per
buona parte dell’ufficio. Rico osservò meditabondo
l’operazione.
Cattivo
umore da record.
Non lo disse ad alta voce
però, limitandosi a schioccare le labbra. “Vista
la tua imminente partenza, dobbiamo
fare una serata con i ragazzi.”
Gergo virile per intendere un giro di bevute al pub. “Se
parti mercoledì
potremo farla martedì sera. O questo fine settimana, che
dici?”
“Starò
via solo per pochi
giorni, non c’è nulla di rilevante da
festeggiare.” Tese le labbra in un
sorrisetto tutto fuorché allegro. “Anche se sono
certo che Murphy e gli altri
saranno ben lieti di celebrare la mia assenza.”
“Dai guey, ora non vedere
tutto
storto … Non è che ce l’abbiano con te,
devono solo giocare a fare i duri
poliziotti di quartiere.” Stornò anche se non se
la sentiva di dargli tutti i
torti: Sören non era particolarmente bravo ad ingraziarsi le
persone, sia per
il suo passato misterioso sia, soprattutto, per
l’atteggiamento rigido con cui
si interfacciava all’universo mondo. Più che
vederci riservatezza la maggior
parte delle persone ci vedeva arroganza.
Che
sì, secondo me è pure un po’ vero che
guarda
dall’alto in basso, ma dai … Chissà
come l’han cresciuto! È un Purosangue, no?
Come
i cavalli!
“Senti, possiamo
anche andare
solo io, te e Milo.” Lo incoraggiò dandogli una
pacca sulla spalla. “Non lascio
partire il mio compagno senza averlo salutato con un paio di birre, está claro?”
Sören sorrise
appena, stavolta
sincero. “Claro.”
Non si vedeva dalle
labbra, ma dagli occhi. Non aveva mai visto nessuno averli tanto
espressivi.
Ed
è un maschio. Insomma, è un po’
imbarazzante, ma
dopotutto con uno così è difficile esser
maliziosi.
La sua abuela
l’aveva conosciuto, quando lo scorso Natale era finalmente
riuscito ad invitarlo al cenone familiare. La donna aveva parlato con
Sören a
lungo durante la cena, o meglio, gli aveva fatto un sacco di domande a
cui
l’altro aveva risposto a monosillabi, ma sempre
impeccabilmente cortese, come
si trovasse di fronte la regina d’Inghilterra e non una
vecchietta in sedia a
rotelle.
Poi
mi ha preso da parte e mi ha detto che era contenta
che avessi un amico del genere a pararmi le spalle. Lei, che odia il
lavoro che
faccio.
Gli aveva anche detto che
Sören
aveva gli occhi di un niño ed era
per questo che si fidava a lasciarlo nelle sue mani.
Non
ho capito il nesso, ma diavolo se è vero. Ha gli
occhi di un bambino.
Non
li avuti sempre così però… Non quando
era appena
arrivato qui.
Non si vergognava ad
ammettere
che si sentiva un po’ come se gli stesse partendo un
fratellino minore.
Specie
perché è ovvio che non ha nessuna voglia di
tornare nel Vecchio Continente.
Chissà
se ci sono ancora i suoi fantasmi, laggiù…
“Però
niente locale gay come
l’ultima volta! Il posto lo scelgo io!”
Esclamò, per affrancarsi da quella
serie di pensieri troppo melensi.
“Non sapevo fosse
un locale
gay, Milo non me l’aveva detto.” Fece una smorfia
irritata. “Ti ho già chiesto
scusa.”
“Era pieno di uomini vestiti di pelle! Solo
di pelle! Con le chiappe al vento! Avrei voluto bruciarmi i globi
oculari…”
“Avrai visto
uomini nudi in
vita tua, suppongo.” Inarcò le sopracciglia e non
c’erano storie, adesso lo
stava prendendo in giro. Non che non fosse un tipo ironico, Prince.
Bastava
conoscerlo meglio per capire che di umorismo ne aveva, solo talmente
sottile da
esser frainteso il più delle volte. “Trovo
eccessivo il tuo turbamento.”
“Ammiccavano! Ho
ricevuto
delle proposte oscene!”
“Finalmente
avete deciso di dichiararvi, colombelle?”
Sören non aveva mai capito perché
l’agente Murphy ce l’avesse con lui. O
meglio, sapeva il motivo per cui lo disprezzava.
Deve
aver capito che il mio cursus honorum
ha
ben poco di onorevole.
Il motivo per cui lo
omaggiasse continuamente con frecciatine e battute volgari degne della
peggiore
bettola nell’irrisolto tentativo di scontrarsi fisicamente
con lui invece
proprio non lo comprendeva. Non gli sembrava di aver mai fatto nulla
per
inimicarselo, anzi; era sempre stato corretto nei suoi confronti.
Dopo i loro primi approcci
aveva semplicemente imparato a non badarci troppo e a limitarsi ad
ignorarlo.
Non
voglio esser costretto a fargli male se si scalda
troppo.
“Dai, non fare il
coglione
Eoin…” Sbuffò Estevez. “Che
poi le voci girano ed io e Prince ci troviamo con
una lista nozze entro la fine dell’anno.” Soggiunse
evidentemente per
ingraziarselo.
L’altro agente, la
cui testa
rasata brillava alla luce dell’illuminazione artificiale
dell’ufficio, fece un
verso sarcastico. “Beh, ma mi pare steste organizzando
qualcosa di soppiatto …
Il vostro primo appuntamento?” Cercò approvazione
dai colleghi nelle scrivanie
dietro di lui che ridacchiarono in risposta.
Ottica
del branco. La conosco bene. Mai appoggiata.
“Prince se ne va
in
Inghilterra per seguire un caso come agente di collegamento.”
Spiegò il
portoricano stringendosi le spalle. “Volevo offrirgli un giro
di bevute prima
della traversata, tutto qua.”
“Ah,
già … Ti fai un viaggetto
a spese dei contribuenti, Prince?” Lo apostrofò
piazzandosi le mani sui fianchi
e tirando fuori il petto. Non si accorgeva di farlo ovviamente, era
piuttosto un
movimento inconscio che parlava di aggressività.
Non
è ancora arrivato allo stadio successivo, in cui
diventa platealmente aggressivo. Potrebbe però.
Meglio
non dargliene motivo.
“Qualcuno sarebbe
comunque dovuto
andare.” Replicò neutro.
“Inghilterra … Mai stato?”
Sören si
frenò dal rispondere
a tono, ignorando la serie di occhiate che gli vennero lanciate sia dal
suo
partner che dagli altri agenti. “Sì, ci sono
stato.” Aveva fatto una promessa
cinque anni prima. Mai mentire. A volte era dura da rispettare.
“Sempre loquace,
ah?” Schioccò
la lingua squadrandolo dal basso all’alto. “Saresti
un osso duro, da
interrogare…”
Sören sentì la mano formicolare e l’ansia
crescere. C’erano ombre che non si
erano ancora diradate nel suo animo, avrebbe detto con
un’ampia metafora Milo.
Era vero. Sapeva di essere un mago libero e che avrebbe continuato ad
esserlo
se si comportava secondo coscienza.
Questo
non toglie che non sia sempre stato così. Te li
ricordi sì, gli interrogatori?
“Falla finita,
Murphy.” Lo
apostrofò duro il collega, con un tono che usava raramente e
solo per i
sospettati più recalcitranti. L’aveva guardato un
bel po’ prima di usarlo.
Chissà cosa aveva letto nella sua espressione.
Credevo
di essermi Occluso. Credevo.
“Oh, via, non fare
Mamma Oca!”
Tuonò l’altro, aggressivo nel tono ma non
nell’atteggiamento. Si ripresentava
quindi l’ipotesi che ce l’avesse solo con lui. Con
Estevez era guascone e
sardonico, ma mai ostile. “Stavo solo scherzando!”
Gli lanciò un’occhiata
sarcastica. “Il principino non se l’è
presa, vero?”
Sören nascose il
pugno serrato
nella tasca dell’uniforme. Lo sentiva bollente.
C’era una sola
persona che
poteva chiamarlo così, e quando lo faceva comunque non aveva
lo stesso,
maledetto tono di John Doe. Milo se n’era sempre guardato
bene.
“Ehi, sto parlando
con te!”
Perché tipi massicci come Murphy, nonostante fossero dotati
di bacchetta e
magia, avevano sempre l’istinto primario di gonfiare i
muscoli?
Ti
potrei spezzare il braccio all’altezza del gomito e
farti usare la bacchetta coi denti per il resto della tua vita.
Se
volessi.
“Sei diventato
muto?” Lo
incalzò. Doveva essere stata una brutta giornata,
rifletté Sören vedendo la
vena della fronte dell’altro mago pulsare. Magari un mancato
arresto o un
litigio con la moglie.
Temo
quindi di essere il suo perfetto capro espiatorio.
Non che la cosa gli
arridesse.
Non che non potesse reagire, date le premesse.
Non
cerco la rissa. Ma sono un Prince. Non mi faccio
umiliare.
“Non sono
muto.” Replicò
cercando di controllare l’irritazione che provava. Murphy era
un buon agente,
ma non un essere umano degno di nota. “Ti prego
però di indirizzare la tua
rabbia in modi più costruttivi che cercare di litigare con
me.” Sapeva che non
avrebbe dovuto aggiungere altro, che già così
rischiava, ma … “Mi hanno detto
che i corsi di gestione controllo della rabbia organizzati dal
Ministero fanno
miracoli.”
Pessima
idea.
Perché si
sentì afferrare per
il risvolto della giacca dell’uniforme e tirare su di peso.
Concentrò quindi ogni
sua singola energia nello strenuo tentativo di non far scattare i
riflessi.
Anni.
Anni in cui mi hanno insegnato che neutralizzare
l’avversario era l’unica via.
Non
è facile non farlo.
Forse quei corsi servirebbero anche
a me.
“Murphy,
piantala!” Sentì la
voce di Estevez e il suo conseguente scattare in piedi come
l’agitarsi degli
altri agenti, pronti a separarli in caso di rissa.
Fortunatamente, non
servì.
“Che diavolo state
facendo?”
Era leggendaria la poca pazienza del sergente Ama Gillespie. Difatti
Sören si
sentì mollare di colpo, mentre Murphy faceva un rapido passo
indietro.
“Niente
Sergente.” Borbottò,
quasi fosse uno scolaro colto sul fatto e non un armadio pieno di
tatuaggi di
fronte ad una ragazza che era esattamente la sua metà.
“Io e l’agente Prince stavamo
facendo due chiacchiere.”
Sören di fronte
all’aria scettica
della strega emise un lieve sospiro.
Ha
mai funzionato una scusa così patetica? Dubito.
“Dev’esser
così…” Lo stupì invece.
“Dato
che due agenti come voi sanno benissimo che porterebbe ad una
sospensione
disciplinare comprensiva di sequestro della bacchetta.”
Inarcò le sopracciglia.
“È giusto?”
“Giustissimo.” Deglutì l’uomo,
dandogli una forte pacca sulla spalla per
nascondere forse il desiderio di lussargliela. “Vero
Prince?”
Si scambiò un’occhiata con Estevez e poi
annuì. “Sì.”
Ci
sono dei casi in cui dire la verità è
semplicemente
stupido.
“Lo
immaginavo.” La strega incrociò
le braccia al petto e Sören si sentì trafiggere dal
suo sguardo. “Posso sapere
anche di cosa stavate parlando? Vi si sentiva per tutto
l’ufficio.”
Ama Gillespie aveva gli
occhi
chiari, esattamente come sua madre. Una rarità nelle donne
creole e in generale
in quelle di colore. Solo che invece di averli celesti come il Capitano
li
aveva verdi.
E Sören aveva un
conclamato
problema con quel colore.
“Io…”
Aprì la bocca ma uscì
suono. Preferì abbassare lo sguardo, sentendosi perso e
infuriato in egual
misura. C’era un motivo per cui evitava di confrontarsi con
il Sergente, a meno
che non fosse strettamente necessario; primo, l’evidente
ostilità dell’altra e
secondo quei maledetti occhi, troppo simili a quelli che gli avevano
stravolto
l’esistenza.
Sono
un idiota.
“Prince voleva
dare una
festicciola di commiato senza invitarci.” Intervenne Murphy.
Avrebbe voluto Schiantarlo,
ma supponeva fosse il genere di cosa che gli avrebbe strappato la
bacchetta di
mano in direttissima.
E
anche se potrei teoricamente farne a meno, meglio
mantenere le apparenze.
“Non è
vero che non voleva
invitarvi!” Si intromise a sua volta Estevez.
“Stavamo solo decidendo il posto!”
L’espressione di pietra della giovane donna era
indecifrabile, e come tale
portava inevitabilmente al fraintendimento. “Siamo tutti invitati, lei compresa
Sergente!”
Cosa?
Prima che potesse lanciargli
un’occhiata linciante che molto avrebbe esplicitato senza dir
nulla la strega
inaspettatamente parlò.
“Bene. Ci saremo
tutti allora.
Quando?”
… Cosa?
Non era il solo ad essere
sconcertato,
a giudicare dalle espressioni gemelle di Murphy e Estevez.
“Ma …
martedì.” Balbettò il
suo partner, prima di riprendersi. “Martedì sera,
appena smontato dal turno.
Pensavamo al Connor’s sulla Columbus, il solito.”
“Perfetto.”
Lanciò loro
un’occhiata riassuntiva. “Ora che avete preso una
decisione, smettete di far
salotto e tornare a lavorare.”
Ci
fu un coro mite di ‘sissignora’ e poi la strega se
ne andò. Murphy seguì
velocemente il suo esempio non prima di avergli sussurrato
all’orecchio ‘mi
aspetto due giri di bevute, pivello’.
Finalmente soli, Estevez
crollò sulla sedia scuotendo mestamente la testa.
“Giuro sulla testa dei miei
futuri hijos che quella strega
proprio non la capisco!”
Sören annuì, troppo stupefatto per avercela con
l’altro. “Credevo non volesse
avere nulla a che fare con me fuori
dall’ufficio…” Tentò di
rifletterci, ma
senza esito. “Cosa le ha fatto cambiare idea?”
“A saperlo!” Esclamò l’altro
alzando significativamente le braccia al cielo.
Gli scoccò poi un’occhiata valutativa.
“Non è che … sai, chi disprezza
compra?”
Sören fece una
smorfia: era
uno di quegli irritanti modi di dire che non riusciva mai a decifrare.
Perché
nessuno si ricorda che la mia lingua natale è il
tedesco e che l’inglese è pieno di metafore che
per me non significano
assolutamente nulla?
Non
proprio nessuno. Lilian se n’è sempre ricordata.
“Potrebbe
essere.” Replicò
tanto per dir qualcosa e mettere a tacere la deriva dei suoi pensieri.
“Ad ogni
buon conto festeggiare non era nelle mie intenzioni e mi ritrovo ad
organizzare
una festa con tutto l’ufficio.” Trovò
del tutto legittimo scoccargli un’occhiata
densa di sottotesto. Sapeva che era più svelto di lui a
carpire quel genere di
cinestetica. “Com’è successo?”
Estevez si mosse a disagio
sulla sedia. “Sfiga?” Tentò.
“Dai, alla fine sarà una bella serata ne son
sicuro.” Fece un’oculata pausa poi assunse
un’aria imbarazzata. “Beh, sempre
che Murphy non faccia il coglione.”
Il silenzio che ne conseguì fu più che eloquente.
****
Londra,
Diagon Alley. Appartamento di Al Potter e
Thomas Dursley.
Ora
di cena.
“Questo sashimi
è delizioso
Tom. L’hai preso al Tokyo Diner?”
“Precisamente.”
“Delizioso? È
pesce crudo!”
“Pensa al tuo disgustoso kebab, Al. Ah, e lavati i denti
prima di venire a
letto. Non ho intenzione di tollerarti con quell’odore
addosso…”
“Cosa? E tu, che avrai l’odore di una
pescheria?!”
Lily scoppiò a ridere; assistere all’ennesimo
battibecco tra Tom e suo fratello
era sempre uno spasso, specie perché raggiungevano picchi di
creatività notevole.
Meike, ormai una presenza
fissa a casa dei due ragazzi, le scoccò
un’occhiata divertita: quando arrivava
l’estate spostava i suoi effetti personali da Hogwarts
direttamente a Londra ed
era la prima ad ironizzare sul fatto che la coppia l’avesse
sostanzialmente
adottata.
“Che dici, li
lasciamo soli?”
Chiese leccandosi le labbra su cui campeggiava un piercing che Tom non
gli
aveva ancora perdonato.
Dice
che è tutta influenza di Lou. Ma l’ha visto Lou,
con il suo look da contadino folk? Ed ha visto quanto invece Meike
aborra
camicette e vestitini in favore di calze rotte e magliette oversize di
gruppi punk?
Che
tra l’altro mi risulta gli freghi.
“Prima che si
strappino i
vestiti di dosso a vicenda?” Replicò facendola
ridere di nuovo, specie alla
faccia paonazza di Al. “Forse dovremo.”
“Non stiamo
sempre… oh, andate
al diavolo anche voi! Se vi ricoverano per un intossicazione alimentare
riderò.
Tanto.” Specificò dando un morso alla sua cena e
innaffiandola con una generosa
dose di Diet-Coke, bevanda per cui
andava sfrenatamente pazzo da quando era venuto a conoscenza della sua
chimica
esistenza.
“Mutti,
ma lo sai come lo fanno il kebab?” La quindicenne si
scambiò
un ghigno con Tom. “Non è che il posto in cui vai
a prenderlo brilli per norme
igieniche.”
Tom assunse
un’aria deliziata.
Lo si capiva dallo sguardo visto che il resto del viso era anodino come
al
solito. “Ho sentito che quando finiscono l’agnello
usano i ratti.”
“Okay, saputelli, lasciatemi mangiare in pace ed affogatevi
nel vostro dannato
salmone!” Sbuffò Al, lanciando comunque
un’occhiata preoccupata al suo pasto.
Il morso conseguente fu assai meno convinto.
“Dai Albie, ti
prendono in
giro.” Si sentì in dovere di rassicurarlo.
“Se fin’ora non sei morto…”
“È Al, e comunque grazie per avermi appena fatto
passare l’appetito.”
Lo sguardo di Tom si fece
quasi dolce. Poi gli passò la sua vaschetta assumendo
un’aria che poteva essere
definita solo come mefistofelica. “Sashimi?”
“Ti
odio!”
“Lo so.”
Lily lo vide
occhieggiare alle sue spalle e ritornare privo di espressione.
“C’è posta per
te.” Le comunicò con la verve di un morto vivente.
“Eh?” Si
voltò e vide una
civetta fornita di coccarda dell’Ufficio Postale Gufico di
Londra che teneva
tra il becco una lettera.
Era decisamente per lei.
“Scusate!”
Si erse dalla marea
di cuscini disseminata sul tappeto del salottino e andò ad
aprire la finestra.
Quando si voltò con la lettera in mano si scontrò
con lo sguardo arrabbiato di
suo fratello.
Ci
risiamo.
Si
risedette in silenzio e allontanò
la sua cena dagli occhi bramosi di Zorba, appostata poco distante.
Quando vide
che gli occhi di Al non si staccavano dalla lettera che si era messa in
grembo
trovò del tutto sensato farla scivolare nella tasca
posteriore dei jeans.
Occhio
non vede…
“Cosa?”
Gli chiese con un
sorriso conciliante. “Rispondo dopo e finisco di cenare, da
brava bambina.”
“Vorrei vedere.” Fu la replica prossima allo zero
assoluto.
Il silenzio che ne
conseguì fu
più pesante di un troll svenuto e Lily sentì
l’impulso di abbracciare Meike
quando saltò su dicendo che voleva far loro ascoltare un
nuovo gruppo che Lou
le aveva passato.
Mentre le prime note si
diffondevano nella stanza e Meike costringeva Al a prendere
metà di una serie
di involtini thai stordendolo di
chiacchiere, Tom si chinò per parlarle
all’orecchio.
“Potresti evitare
di farle
recapitare qui, visto come reagisce.” Non era
un’aperta accusa eppure provò
comunque una punta di fastidio.
“Sono solo
lettere. Non è come
se avessi a che farci di persona, no?” Sospirò.
“Gliel’ho spiegato cento volte
che si tratta solo di una
promessa che sto mantenendo. Se lui mi scrive, non posso non
rispondere!”
“Perché
no?”
Lily si morse le labbra. Spiegare un concetto del genere ad una persona
che
deficitava in empatia sarebbe stato come insegnare la cerimonia del the
giapponese ad un Troll di Montagna.
Irrealizzabile.
“Sono maggiorenne
e so a chi sto
scrivendo.” Tagliò corto. “Una
lettera al mese non lo rende un rapporto pericoloso. Non lo rende niente.”
Tom aggrottò le sopracciglia, poi si strinse le spalle.
“Come dici tu.”
“È come dico
io.”
La conversazione si chiuse
lì
e Lily si limitò quindi ad ascoltare la serie di canzoni
selezionate da Meike
senza un solo pensiero in testa.
Era il modo in cui era
riuscita ad andar oltre, ed era un gran
bel modo.
You were
never supposed to leave
Now my head's splitting at the seams …
****
Inghilterra,
Devon. Il Mulino.
Dopocena.
Harry alla fine si era
convertito al televisore.
Più che
convertito era tornato
alle origini, anche se i ricordi dai Dursley non glielo avevano mai
fatto
prendere in simpatia. Ricordava bene come gli fosse proibito guardarlo
e come
fosse costretto a sbirciare il telegiornale estivo dal giardino curato
di
Petunia.
Non
è che abbia bei ricordi in merito, ecco.
Non
ne aveva quindi mai sentito la
mancanza. Poi Lily si era diplomata, era tornata a casa in pianta
stabile e pochi
mesi dopo gliene aveva regalato uno per Natale – ovviamente
per poterne
usufruire.
Sua moglie aveva accolto
quella novità con la consueta dose di curiosità
mista a scetticismo con cui si
interfacciava alla tecnologia Babbana, e dopo un’attenta
analisi della faccenda
aveva decretato che era piacevole guardare un film sul divano di tanto
in
tanto. Si era così scoperta a prediligere i film
d’azione e ad apprezzare il
calcio, tifando i Saints di
Southampton per prossimità geografica.
Quella era una delle sere
deputate ed Harry avrebbe voluto davvero seguire
la trama del film, che si prometteva interessante dai commenti fuori
campo di
sua moglie…
Il
problema è che ogni volta che mi metto davanti alla
tv … Beh, mi addormento.
“Harry, guardare
un film con
te è meno stimolante di avere una pila di cuscini
accanto!” Commentò questa con
un sospiro.
“Mh.”
Emise allo strenuo delle
sue forze. Non era colpa sua se aveva passato la mattina a timbrare
carte e
ricevere rapporti dai suoi sottoposti.
È
più sfiancata che esser sul campo.
Sprofondò in un
appagato
dormiveglia e fu solo dopo il quinto squillo del telefono che
capì che stavano
ricevendo una chiamata vera.
“Harry!”
Ginny indicò lo
schermo. “Vai tu.”
“Agli ordini…” Bofonchiò
togliendosi gli occhiali e massaggiandosi gli occhi
appannati. Afferrò maldestramente la cornetta e ci mise
qualche secondo per
ricordare la parola di rito.
Non
che la usi granché.
“Pronto?”
“Harry, sono
Eleanor.”
Batté le palpebre recuperando un minimo di
lucidità. “Nora, che piacere
sentirti!” Sorrise: avrebbe dovuto ricordarsi che
l’americana era una delle
poche ad utilizzare quel mezzo di comunicazione con lui.
I
maghi americani probabilmente hanno cominciato ad
usare il telefono nell’anno in cui è stato
inventato.
La sentiva ogni tanto,
soprattutto a compleanni e feste comandate. Con quel che avevano
passato
assieme non poteva non considerarla un’amica a cui avrebbe
affidato la sua stessa
vita. Sapeva che per l’altra era lo stesso.
“Spero di non aver
chiamato ad
un orario scomodo. Faccio sempre fatica a calcolare il fusorario
… Dovrebbero
essere le nove da te, giusto?”
“Corretto.” Convenne stiracchiandosi.
“Sono io che ho la brutta abitudine di
addormentarmi davanti al televisore. Come stai?”
“Impegnata, come
sempre.” Fu
la risposta del tutto comprensibile visto il ruolo che entrambi
ricoprivano. “Ah,
salutami Ginevra.”
Occhieggiò la moglie che distratta sillabò la
stessa frase. “Ricambia. È molto
presa da un film d’azione … credo
l’Ultimo dei qualcosa?”
“Moicani.” Replicò divertita
l’americana. “È una gran bella
pellicola.” Fece
un’oculata pausa e Harry percepì distintamente
esitazione. Se ne preoccupò. “Se
hai tempo, ti dovrei parlare.”
Ah, ecco.
Non potevano essere problemi
personali; lui e Nora non avevano quel genere di rapporto, vuoi la
lontananza
vuoi il fatto fosse comunque un uomo sposato e l’altra una
vedova attraente.
Non se l’era mai sentita di approfondire la conoscenza a quel
livello, né la
strega l’aveva mai pretesa.
Quindi possono solo essere grane di
lavoro…
“Sono a
disposizione.”
Rispose. “Tanto temo di essere pessimo, come compagno di
film…” Sorrise
all’annuire conseguente di Ginny. “A proposito di
cosa?”
“Ho preferito
contattarti per
telefono, piuttosto che mandarti un Gufo Continentale. Con il week-end
di mezzo
sarebbe arrivato lunedì e se c’è una
cosa che detesto è quando le notizie mi
arrivano troppo tardi. Mi pare di ricordare sia lo stesso per
te.”
“Ricordi bene.” Convenne dando le spalle alla
moglie con un movimento che sperò
fosse percepito come casuale. “Riguarda il lavoro?”
“Il lavoro e non
solo.” Fece
un profondo respiro. “Penso ti sia arrivata sulla scrivania
una nostra
richiesta di accesso ad uno dei vostri casi.”
“Sì, dovevo autorizzare un vostro agente di
collegamento e l’ho fatto. Ieri mi
pare. Credo sia un caso di giurisdizione congiunta … un mago
Oscuro americano,
forse?” Tentò di ricollegare. Ogni giorno che
Merlino metteva in terra gli
arrivavano tonnellate di pergamene; quella la ricordava solo
perché trattava di
un caso assegnato alla squadra di James.
Diciamo
che rispetto agli altri i suoi casi mi
rimangono più impressi…
“Esatto.”
Fu la risposta. Eleanor
non era tipa che amava girare attorno ad un concetto e gli sembrava
quindi strano
fosse così riluttante a parlar chiaro. “Quello che
ti sto dicendo non te lo sto
dicendo come Capitano della mia task-force, ma come amica. Vorrei che
questo ti
fosse chiaro.”
Non
una buona premessa…
Per via dell’ufficiosità dei loro rapporti
lavorativi durante il caso Von
Hohenheim l’altra era quasi stata spedita alla sotto-sezione
Centauri.
Un
modo di dire ovviamente. Non credo in America abbiano
un ufficio del genere … Ma di certo ha rischiato di far da
timbra carte per il
resto della sua vita.
Dev’esser
qualcosa di grosso.
“Allora non
ascolterò come
Capo dell’Ufficio Auror.” Replicò
fingendo una tranquillità che era ben lungi
da provare. Era in momenti come quello che la pensione gli sembrava
un’allettante traguardo. “Avanti Nora, qual
è il problema?”
“Chi è,
piuttosto.” Avendo
avuto modo di lavorarci gomito a gomito anni prima ricordava bene il
vezzo
della donna ti passarsi una mano tra la criniera leonina che sfoggiava
orgogliosa. Ci avrebbe scommesso la sua camera blindata che era
ciò che stava
facendo in quel momento. “L’agente di collegamento
che vi manderò lo conoscete
bene.”
E per Harry non ci fu bisogno di dire il nome dato che era
l’unico motivo di
screzio tra lui e la persona al di là del filo.
“Lui?”
Poteva quasi percepire la moglie voltare la testa di scatto e
irrigidirsi.
Non poteva darle tutti i torti.
“Sì,
Harry. Sören.”
****
Note:
Capitolo abbastanza di passaggio, ma necessario per definire rapporti
di forza
e personaggi.
Questa
la canzone del capitolo. Un ringraziamento a Blankette_Girl
per avermela fatta conoscere!
La seconda canzone, quella
che
ascoltano i ragazzi su consiglio di Meike è questa
Un chiarimento. Per quanto
riguarda le professioni mediche nella Rowling si capisce poco o niente quindi ho fatto una mia
classificazione
estrapolando informazioni e non-detti dall’HP
Wiki e il Lexicon.
Guaritore/Guaritrice: equivalente di un dottore Babbano.
Medimago/Medistrega: equivalente di un infermiere o un
paramedico.
Psicomago/Psicomaga: equivalente di uno psichiatra.
È sempre un dottore, ma segue un corso
di studi più specifico sin dal primo anno.
Accademia
di Megimagia:
dura cinque anni. I primi tre sono di Medimagia
generale, gli ultimi due di specializzazione, il cui ultimo
è interamente sul
campo (ovvero nel reparto in cui si è deciso di lavorare e
specializzarsi. Per
Al è lesioni da incantesimi e anche per Lily, sebbene lei
andrà a lavorare
specificatamente nell’ala Thickley). Alla fine dei cinque
anni viene sostenuto
un esame di abilitazione che, se passato, ti iscrive automaticamente
all’albo
dei Guaritori.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
Capitolo IV
Ho
anestetizzato i miei sentimenti a lungo
e
ora ho il desiderio di provare qualcosa e non ci riesco.
E
sai perchè?
Perché
dovunque vada, qualsiasi cosa mi inventi,
gira
e rigira è sempre con te che mi trovo a fare i conti.
(Invisible
monster, C.
Palahniuk)
20
Giugno 2028
America, Boston. Ufficio del SAGITTA,
Mattina.
“Questi sono i
permessi di
indagine, i biglietti per la Passaporta Continentale e il rimborso per
i tre
giorni di spese.”
“Il rimborso …”
“So che puoi pagarti il tuo soggiorno a Londra,
Sören, ma sono le regole. La
tua presenza lì sarà spesata dal
Ministero.”
Il ragazzo
rilassò i
lineamenti, accennando ad un assenso prima di prendere quanto
riepilogato,
Ridurlo e farlo scivolare in tasca.
“Sissignore.”
Nora ricambiò con
un sorriso
che in realtà era quanto di più lontano dal suo
stato mentale; quella
situazione era ridicola e frustrante. Ridicola perché era
chiaro che trai
coinvolti non ci fosse una sola persona che non provasse disagio.
Frustrante
perché nonostante questo, non si poteva evitare.
Chiamare Harry la sera prima
era stato doveroso, ma non facile. L’uomo non aveva preso
bene la notizia e
aveva cercato di fare ostruzione in ogni modo, cadendo nel suo forse
principale
difetto, ovvero quello di considerare se stesso e il suo ufficio fuori
dalle
regole del diritto internazionale magico.
“È
impossibile che tu non possa mandarci
qualcun’altro!”
“Ti ho già detto che ci ho provato, Harry.
Purtroppo non ho grande capacità
decisionale, non ancora. Il SAGITTA è molto più
giovane dell’Ufficio Auror e proprio
per questo siamo ancora dipendenti dall’approvazione del
Ministero. Quando
qualche ramo non funziona, qui viene tagliato.”
“E questo cosa c’entra con quel bastardo di Scott?
Perché ti ha fatto scegliere
proprio lui?”
“Sören.”
Era comprensibile che l’inglese avesse
sentimenti ostili verso Prince, ma il ragazzo era pur sempre un agente.
Un suo agente.
“Scott sta cercando di sabotare sia me che lui. Non ha mai
digerito il fatto
che sia riuscito a toglierglielo dalle mani.”
C’era stato un lungo silenzio al di là del filo,
ma Nora era una tipa paziente
e aveva ormai capito come ragionava l’Eroe dei Due Mondi.
Come un padre preoccupato.
Principalmente, Harry è questo ed è
ciò che lo rende l’ottimo mago che è.
“In
che senso?” Aveva chiesto infine in tono più mite.
“Spera
che portando Sören in Inghilterra e inserendolo
nella vostra squadra la pressione sia talmente forte da fargli fare un
passo
falso, uno qualsiasi.” Aveva spiegato.
“Considerando il suo passato, basta
poco. Se sbaglia lui, io sbaglio come Capitano. Se sbaglio a
giudicarlo, a
dargli le responsabilità che ha, non è dunque
sotto la mia supervisione che
deve stare. Capisci che intendo?”
Aveva
sentito un profondo sospiro. “Sì, ma
sarò franco
con te … Non ho mai capito perché tu
l’abbia tirato fuori da Nurmengard.” Era
riuscito a inserirsi prima che potesse ribattere. “Non che
non dovesse avere
una seconda possibilità, non fraintendermi. Tutti ne abbiamo
il diritto, se c’è
volontà di cambiare. E secondo mia figlia,
c’è.”
Era stato il suo turno di rimanere in silenzio. Era a conoscenza della
corrispondenza tra Sören e Lily Luna Potter, ma non aveva mai
espresso giudizi
in merito. Non l’avrebbe fatto neppure quella volta.
In un certo senso,
l’ho
favorita. E credo che questo Harry non me l’abbia mai
perdonato.
“Quello
che non ho mai capito è stata la tua decisione
di farlo diventare un agente di polizia. Quel ragazzo ha combattuto dal
lato
opposto dello schieramento fino a qualche anno fa. Se fosse diventato
un
collaboratore di giustizia avrebbe avuto senso,
ma…”
“Harry, Sören non potrà mai essere un
civile” L’aveva fermato. “Von Hohenheim
l’ha
formato per avere capacità magiche, militari e tattiche che
difficilmente si
trovano persino tra noi professionisti. Imporgli di vivere una vita
normale sarebbe
stato non capire il suo valore.” Non ci furono obiezioni;
Harry era un uomo
testardo, ma possedeva un’empatia fuori dal comune e doveva
dunque aver colto i
rimandi al suo passato.
Anche lui è
cresciuto sotto un
mago che l’ha preparato per essere un guerriero.
In fondo lui e Sören non sono diversi, hanno servito solo
cause opposte.
“Il
problema, Nora, è che il caso lo segue mio figlio
James.”
Aveva tagliato corto. “Non posso toglierglielo, né
tantomeno posso pretendere
che accolga Sören a braccia aperte. La posizione in cui mi
metti non è facile.”
“Non mi aspetto che siate cordiali. Pretendo però
che venga trattato con
rispetto. È un agente delle forze di polizia magiche
americane e un dipendente
del Ministero. Rappresenterà l’America.”
“Questo
mi sembra ovvio.” Era stata la replica ferrea.
“Non vogliamo dare motivi ad uno dei vostri burocrati, Ethan
Scott
specialmente, di avere la meglio.” C’era stato un
sorriso dietro quella frase e
Nora l’aveva ricambiato. Su certe cose lei e il Capo
dell’Ufficio Auror
avrebbero potuto esser gemelli separati alla nascita.
“Ho
la tua assicurazione che Sören sarà trattato con
correttezza?”
“La
hai. Ma non sarà facile, Nora …” Una
lieve
esitazione. “Posso ordinare a James di comportarsi bene come
Auror, ma non
posso bacchettarlo perché prova dei sentimenti.”
“E non lo pretendo. Mi dispiace solo di avervi incastrato in
questa
situazione.”
“Non pensarci.” Era stata la replica tra
l’ironia e la rassegnazione. “Da
quando sono nato, credimi, questa è un po’ la mia
situazione tipo.”
Avevano
riso, forse più per allentare la tensione che
per reale spontaneità. Il tono di Harry era tornato poi
serio. “Riguardo a mia
figlia…”
“Sören non ne ha parlato, e lo conosco abbastanza
per sapere che sarebbe venuto
a chiedere l’approvazione di entrambi nel caso avesse
voluto…”
“Non vuole incontrarla quindi?” L’aveva
interrotta. Era più che evidente il
sollievo nella voce del mago.
“Così
sembra.” Non si era sbilanciata. Da quei
frangenti familiari ed emotivi preferiva tenersi fuori. “Hai
intenzione di
informarla?”
“No.”
Il tono era stato categorico. “Non voglio entrare
nel merito dei loro rapporti. Né per ostacolarli, dato che
l’ho promesso … ma
neppure per favorirli.”
E come madre, Nora non aveva potuto obbiettare.
“Ha già
chiamato l’ufficio
Auror per avvisarlo del mio arrivo?” La domanda di
Sören, ancora di fronte a
lei, la riscosse dalla deriva che avevano preso i suoi pensieri.
“Sì, ho
avvertito il
Capo-ufficio e mandato i documenti necessari.”
Annuì e lo vide irrigidirsi
appena.
Conosceva da quattro anni,
quello strano, imperfetto ragazzo e aveva imparato a conoscere i suoi
silenzi
ed apprezzare la sua quieta intelligenza, come a salutare ogni piccolo
progresso che faceva nella sfera emotiva.
Non esagerava a dire che era
stato come veder crescere un bambino: Sören Prince era capace
di esser vecchio
cent’anni su certe emozioni e poco più che decenne
in altre, di possedere una
conoscenza tematica della Magia vasta quanto quella di un erudito e di
ignorare
al tempo stesso le basi del vivere sociale.
Com’è
che l’ha chiamato Meinster? Un controsenso di se
stesso?
Era più che
palese che Von Hohenheim
non si era mai preso cura del suo sviluppo emotivo, relegandolo come
secondario, se non addirittura inutile.
Un’arma.
Perché aver cura dei sentimenti di un’arma?
Un trattamento simile
avrebbe
fatto inaridire il cuore di chiunque; invece Sören era
riuscito a mantenere
intatta la sua umanità, nascondendola persino agli occhi di
suo zio. Nora non
aveva alcun dubbio sul fatto che Von Hohenheim non avesse mai capito
che razza
di mago fosse il nipote ed era stata quella la causa principale della
sua rovina.
Tuttavia nonostante avesse
raggiunto un equilibrio psichico piuttosto stabile non era
assolutamente pronto
per l’Inghilterra e soprattutto per i suoi abitanti.
Non
ci vuole un genio per intuire che questo potrebbe
riflettersi anche sul suo operato. Scott è un bastardo, ma
un bastardo furbo.
“Non
c’è altro, puoi andare.”
Lo accomiatò. Presa da un pensiero forse frivolo, ma
perlomeno allegro,
soggiunse. “Ho sentito dire che stasera festeggi con i
ragazzi dell’ufficio…”
“È stata un’idea dell’agente
Estevez.” Si affrettò a dire con
un’ombra di
palese disagio dipinta in volto. “Io
non…”
“Non c’è niente di male a bersi una
birra in occasione di una partenza. In
America è quasi un rito imprescindibile, temo.” Lo
rassicurò divertita. “Mi
raccomando però, domattina voglio vedervi tutti qui alle
otto e in punto.”
“Sissignora.”
Osservò le schiena fasciata di blu chiudersi la porta dietro
e pensò per
l’ennesima volta che Ethan Scott era un grandissimo bastardo.
****
Inghilterra,
Londra. Diagon Alley.
Ora di colazione.
“Indovina chi
sono!”
Rose sospirò alle mani che andarono poco intelligentemente a
coprirle gli
occhi.
“Se non riuscissi a riconoscere la tua voce dopo anni che ne
ho le orecchie
piene sarebbe un problema, Scorpius.”
Il ragazzo ridacchiò, appoggiandole le mani sulle spalle e
dandole un bacio
sulla testa. “Era solo per fare un’entrata ad
effetto, lo ammetto!” Fece il giro
del tavolo e le si sedette di fronte, chiamando con un cenno da piccolo
Lord
spocchioso il cameriere della tavola calda a cui avevano deciso di
darsi
appuntamento per un veloce brunch
tra
un caso da Auror e un’udienza al Wizengamot.
“Ciao, mia
bella!”
“Ciao, mio scemo.” Replicò con un
sorriso, sporgendosi per rispondere al bacio
che le venne consegnato affettuoso sulle labbra. Scorpius Hyperion
Malfoy: capelli
biondissimi, sorriso enorme e tatuaggio truce a spuntargli dal colletto
dell’uniforme
impeccabile.
Non l’avrebbe
cambiato con
nessun altro.
Specie
alla vigilia del matrimonio. Sarebbe comunque un
po’ tardi…
Lo vide stiracchiarsi e
guardarsi attorno, quasi fosse compiaciuto della folla rumorosa, della
giornata
accesa di un sole ormai estivo e persino delle piante di fiori che
separavano i
tavolini dalla trafficata e tortuosa strada principale di Diagon Alley.
Ammirava sinceramente la
capacità dell’altro di gioire di ogni
insignificante particolare che la vita
gli metteva davanti.
Capisco
il valore di qualcosa che non ho.
Per lei era stata una
mattinata di udienze serrate, e non aiutava il fatto che
nell’ufficio di
MagiAvvocati in cui faceva da praticante venisse perennemente
apostrofata come
‘la figlia di Hermione Granger’.
“So che sono
stupendo baciato
da sole, caramellina, ma fissarmi e non aprire bocca alle mie
interessate
domande mi ferisce…”
Si riscosse, facendo una smorfia imbarazzata. “Scusami, ero
sovrappensiero.”
“Lavoro?”
“Cos’altro?” Poi si ricordò
dell’appuntamento con il fiorista che aveva dovuto
rimandare per l’ennesima volta, visti i gli impegni.
“E ah, credo che dovremo rivolgerci
a qualcun altro per i fiori della cerimonia. Oggi il Signor Brown mi ha
praticamente mandata all’inferno quando ho tentato di
spostare di nuovo l’appuntamento.”
“E fuori il terzo!” Fu il commento allegro.
All’arrivo del cameriere indicò con
un paio di cenni sul menù le loro ordinazioni, dato che
erano sempre le stesse.
“Ma vuoi che ci vada io?” Propose quando
quest’ultimo si fu allontanato.
“No, ho promesso a tua madre che avremo fatto questa cosa
assieme.” Sospirò.
“Non serve spiegarle che io di fiori non ne capisco nulla,
vero?”
“Per questo
suggerisco di
scambiarci i ruoli. Tu pensi alla mia festa di addio al celibato, io ai
fiori!”
Rose fu indecisa se baciarlo o colpirlo con il primo oggetto
contundente che
aveva a portata di mano. “Certo, perché
no?” Interloquì sardonica. “Potrei
chiedere a qualcuno dei miei colleghi sposati di suggerirmi qualche
buona
Incantatrice… Pare facciano un gran bene alla salute di un
futuro matrimonio.”
“Tra tu e Potty siete fissati con queste
Incantatrici!” Esclamò l’altro
roteando gli occhi al cielo. “Tranquillizzati. Io e i ragazzi
faremo una
partita a poker in cui ci giocheremo quasi tutti i nostri stipendi,
berremo
come ippopotami e finiremo per correre nudi in strada.”
Rose scoppiò a
ridere,
sentendo che non era solo il sole a scaldarla in quel momento.
“Fate pure
allora. Se tu devi occuparti di imbrigliare la fantasia perversa di
James, io
dovrò farlo con Violet. A proposito, dovrei ucciderti solo
per averle messo in
testa l’idea di farmi da damigella
d’onore.”
“Potevi
rifiutarti!”
“Con Violet?”
Inarcò le sopracciglia.
“Conosciamo la stessa persona?”
Scorpius sbuffò. “Andiamo, ti conviene che te
l’organizzi una donna che ha poca
simpatia per i muscoli guizzanti. Pensa se ti fossi trovata in uno di
quegli
spettacolini con maghi che si vestono da Babbani e poi si svestono ed
agitano i
loro cosi al vento…” Rose tentò di non
ridere all’espressione minacciosa che
assunse. “Non è che ne vuoi uno, vero?
Perché il mio coso è tipo l’unico coso
che dovrai vedere per il resto della tua
vita.”
“Sei un idiota.” Replicò
perché era l’unica risposta sensata che poteva
dare ai
suoi deliri. “È solo che
Violet…” Erano amiche, incredibilmente, e colleghe
–
questo era più credibile dato che avevano frequentato
entrambe Magisprudenza.
Stimava l’altra professionalmente ma umanamente oscillava tra
l’irritazione e
la comprensione per i suoi difetti– sin troppo simili ai suoi
a volte.
Il
fatto è che è più schizzata di me
sulla questione
matrimonio. Sarà la forma mentis
Purosangue?
“Mettiamola
così.” Tagliò
corto Scorpius. “Preferivi che te l’organizzasse la
piccola Lilian?”
Si scambiarono un’occhiata significativa e poi decisero di
comune e silenzioso
accordo per un cambio d’argomento.
Rose, per quanto fosse
assalita quasi ogni notte dall’ansia pre-matrimonio, non
vedeva l’ora. La sola
idea di potersi svegliare tutti i giorni con quel casinista che saltava
fuori
dal letto cantando, chiacchierando o cercando le sue mutande in giro la
riempiva di felicità.
Perché
finalmente potrò evitare di svegliarmi al Manor.
E di farlo svegliare con mio padre che canta sotto la doccia che
sciaguratamente è attaccata alla camera per gli ospiti.
Scorpius infatti aveva fatto
un accordo con suo padre, accordo che era stato approvato con autentica
gioia
dal suo e che quindi anche lei aveva dovuto accettare per buona pace
comune.
Finché
non ci sposiamo, ognuno a casa propria. E letti
separati.
Argh.
Le visite erano autorizzate,
ma il disagio di dover far colazione con i rispettivi suoceri era
terrificante.
Sia
per me che per lui.
Per questo invece di
mangiare in
un disagiante clima di cortesia imposta e con gli occhi puntati addosso
preferivano vedersi direttamente per il brunch.
“Ti immagini
quando finalmente
potremo fare colazione da soli? In
una casa abitata solo da noi due? E
potremo fare sesso mattutino?” Mormorò Scorpius
con tono sognante, quasi le
avesse letto nel pensiero. Essendo un Occlumante eccellente e un
Legimante non
male poteva essere un’opzione. “Sarà
bellissimo!”
“Sperando che tuo padre o il mio non si nascondano dietro le
tende.” Replicò
sorseggiando il suo cappuccino e sorridendo alla risata incredula
dell’altro.
“È
divertente perché è vero,
potrebbero farlo.” Fece per avventarsi sul cumulo enorme di
salsicce ed uova
che aveva nel piatto ma poi si bloccò, lanciandole
un’occhiata allarmata. “Non
potrebbero farlo davvero,
vero?”
“No,
perché penseremo a delle
barriere magiche potenti, tipo quelle a casa di Jam e Teddy.”
Replicò sullo
stesso tono. “Piuttosto, ho parlato con Al e sto valutando
seriamente l’idea di
sedarli per la cerimonia.”
“Geniale!”
“Lo so.” Ridacchiò. Scherzarci su era
l’unico modo in cui potevano affrontare
la tensione che intercorreva tra le loro famiglie. Era stato Scorpius
ad
iniziare, quando avevano annunciato il loro fidanzamento. Alla lunga,
era stato
l’atteggiamento vincente.
Ha
anche aiutato che le nostre madri ci abbiano dato
subito il loro assenso. Non credevo che Lady Astoria fosse capace di
gridare, battere
le mani ed abbracciarsi con mia madre, e invece…
Certo,
i Corvonero son sempre stati un po’ gente
strana.
“Io te
l’ho detto che dobbiamo
offrire un rinfresco prima, e
drogarli con la Bevanda della Pace…” Si
grattò una guancia.
“Comunque…” Si
bloccò di nuovo, sgranando gli occhi. “Dai, Rosie,
non è possibile!” Sbottò.
“Tuo padre ci pedina!”
“Cosa?” Si voltò, salvo per veder
entrare il genitore in questione seguito da
suo zio Harry. Collegò i discorsi che aveva fatto quella
mattina in cucina e
capì. “No, è che gli ho parlato io di
questo locale, gli ho detto del bacon
favoloso che fanno e sai che ne va matto…” Si
sarebbe morsa la lingua di fronte
all’aria indignata dell’altro.
“Scusa?”
“Era il nostro
locale!” Borbottò, allontanando
il piatto con un gesto innervosito. “Non potrò
più guardare la pancetta con gli
stessi occhi, sapendo che è stata lei il pomo della
discordia!”
Rose gli prese la mano, intrecciandola con la sua. “Scusami,
dai … Ne troveremo
un altro.”
“Non con il brunch così buono!”
Morgana
… la pazienza.
In
compenso suo padre non sembrava
minimamente averli notati, del tutto preso a confabulare con
l’altro mago. Rose
notò anche come sembrassero entrambi tesi e come suo zio
tentasse di portare a
miti consigli l’altro mettendogli una mano sul braccio per
invitarlo ad
abbassare il tono di voce.
“Ma stanno
litigando?”
Occhieggiò Scorpius succhiando rumorosamente il suo succo di
zucca con la
cannuccia. Gli diede una botta sul braccio, perché sapeva
che lo faceva solo
per irritarla.
“No, credo che zio
Harry stia
cercando di convincere papà a far qualcosa. O a non farla.” Aggrottò
le sopracciglia, cercando di distinguere nella
cacofonia di voci quelle dei due. “Penso si tratti di lavoro
… e credo che
abbiano fatto anche il nome tuo e di Jam.” Si sarebbe morsa
la lingua quando
vide l’espressione del proprio fidanzato, ma ormai aveva
parlato.
“Oh, sul serio?” Chiese con un preoccupante tono
spigliato. “Beh, è un buon
motivo per sapere cosa dicono.”
“Non origlieremo!
Se stanno
parlando di lavoro…”
“E di me.”
“No!”
“Ti amo anch’io.” Si alzò con
disinvoltura mettendo la quantità necessaria di
Zellini sul tavolo e aggiungendo una generosa mancia. A Rose non
restò che
seguirlo.
Visto che il locale si era
riempito non fu difficile nascondersi tra un tavolo e
l’altro. Fu altrettanto
facile considerando il fatto che i due maghi sembravano non essersi
minimamente
accorti di chi gli stava attorno.
“Devi rifiutarti!
Harry, non
puoi permettere che quel moccioso disgustoso entri nel nostro
ufficio!”
“Se avessi potuto farlo l’avrei fatto,
Ron.” Il tono di suo zio Harry era
pacato, ma l’espressione tempestosa dietro gli occhiali
parlava di tutt’altro.
“Se rifiutassi metterei in una posizione difficile Nora.
Ethan Scott non
aspetta che l’imbeccata … Sai quanto ha lavorato
duramente per uscire dai guai
in cui l’avevamo cacciata durante il Tremaghi, non possiamo
farle questo.”
“Non l’abbiamo obbligata
però…” Borbottò suo padre,
con una smorfia
insofferente. “Voglio dire, abbiamo ricevuto tutti
sanzioni disciplinari.”
“Noi non abbiamo rischiato di vedere le nostre carriere
gettate alle ortiche.”
Rimbeccò l’altro strofinandosi la fronte. Un
tempo, Rose lo sapeva bene, lì
c’era stata la cicatrice.
Lo
fa sempre quando è sotto pressione.
“Nora si
è bevuta il
cervello!” Fu la veemente replica e Rose sentì una
spiacevole sensazione
chiuderle la bocca dello stomaco. Suo padre era un tipo testardo, ma
anche un
uomo leale e un Auror ligio alle regole. Normalmente non contestava le
decisioni di suo zio, non in modo così violento.
Cosa
l’ha fatto scaldare così?
“È lei
la persona costretta,
Ron.” Fu la replica non più tanto pacata.
“Perché noi, come Auror, possiamo
rifiutarci di collaborare. Farlo
però significherebbe questionare il giudizio di
Nora.”
Nora
… ma si tratta di quell’americana?
“Non è
l’agente americano che
ha aiutato durante le indagini del Tremaghi?” Chiese a
Scorpius, il quale
schioccò le labbra.
“Sì,
James mi ha detto che in
America dirige una specie di ufficio Auror versione yankee.”
Le spiegò. “Aspetta. È
per noi.” Realizzò battendo le palpebre
sorpreso. “Per questo hai sentito i
nostri nomi, prima! L’agente verrà per un caso di
giurisdizione congiunta che
stiamo seguendo io e Potty!”
“Si tratta solo di
tre giorni.
È il tempo canonico per un indagine congiunta di
routine” Spiegava intanto suo
zio in tono conciliante. “Dopo il caso resterà a
noi e il SAGITTA lo seguirà a
distanza.”
“E James e Scorpius?” Eccoli che suo padre li
citava di nuovo. Rose lanciò
un’occhiata al fidanzato che la ricambiò
altrettanto confuso. “Quei ragazzi lo
hanno affrontato cinque anni fa, Harry.”
Ma di chi diamine stanno parlando?
“È una
situazione spiacevole
per tutti.” Suo zio sembrava ad un passo dal perdere la
pazienza a giudicare da
come si era incupito. Davvero l’altro voleva rischiare di
fargli perdere le
staffe? “Te l’ho detto per avere il tuo appoggio,
non per contribuire ad
esasperare gli animi. Già l’idea di parlarne a
Jamie non mi fa
dormire la notte.”
“Okay, chi diavolo
è l’agente
di collegamento che ci assegneranno?” Sussurrò
Scorpius al suo orecchio. “Diavolo,
è come se ci stessero per mandare Von Hohenheim in persona!
Solo che è mort…”
Si guardarono negli occhi e capirono in una frazione di secondo di chi si trattava. C’era una
sola persona
che corrispondeva ai pochi indizi che eran stati loro forniti.
Ed
è un Von Hohenheim. Un Von Hohenheim vivo e vegeto.
“Non
può essere Sören Von
Hohenheim!” Sussurrò incredula.
“Dovrebbe essere in prigione, in America!” Vedendo
che l’altro non sapeva che rispondere, stupidamente lo
incalzò. “Da quando
lavora per il DALM?”
Il ragazzo scosse la testa.
“Non ne ho idea … Io pensavo fosse ancora a
Nurmengard. Lo pensavamo tutti,
credo.” La guardò perplesso. “Aspetta,
tu sapevi che era in America?”
“Sì, me l’ha detto Lily non so quando.
Non so neanche come ho fatto a fargliene
parlare, lo sai com’è lei con quella
faccenda.
Forse è stata alla festa del nostro diploma…
Aveva bevuto un bel po’.”
“Non se ne parla, non è
mai successo.”
Recitò l’altro. “Però si
scrivono, no?”
“Sì, ma
non pensavo stesse
scrivendo ad un mago libero.”
Disse
sbalordita. Albus si lamentava puntualmente una volta al mese in merito
a
quella faccenda, quindi Von Hohenheim e la cugina dovevano scriversi
con quella
cadenza. Possibile che il mago tedesco non l’avesse informata
del fatto fosse
un membro attivo della comunità magica oltre Oceano?
Talmente attivo che era un
agente?
No.
Lily deve saperlo. Solo
non l’ha detto a nessuno. A parte zio Harry, ma forse lui lo
sa
per altri motivi evidentemente…
Merda, ma non doveva esser chiusa questa storia?
Purtroppo così
non era; la
faccenda dei Von Hohenheim non si era conclusa con la morte del
capofamiglia e
lo smantellamento della sua orribile setta, né tantomeno con
la damnatio memoriae ad opera del
loro
intero clan.
Non
è perché abbiamo deciso tutti di non parlarne
più
che la faccenda si sia conclusa. Anzi.
Basta
vedere Lils.
E poi c’era quella
faccenda
della corrispondenza; non era una cosa sana,
da nessun punto di vista.
Due tavoli più in
là, suo
padre continuava a parlare ignaro di essere ascoltato.
“E come hai
intenzione di
informare i ragazzi che quel mostriciattolo non è
più in prigione ma è un
attivo membro della comunità magica?” Chiese,
usando le sue stesse parole senza
volerlo. “Come pensi reagirà Jamie?”
“È un
mago adulto quindi mi
aspetto, anche come mio sottoposto, che sappia comportarsi
civilmente.” Più
facile a dirsi che a farsi, pensò Rose; James dopo il
rapimento di Lily era
diventato ancora più protettivo e territoriale nei suoi
confronti.
Non
si fida manco di Scott, che è la rettitudine morale
fatta ragazzo. Figuriamoci di un tipo che incarna la causa di tutti i
mali!
Suo padre fece un profondo
sospiro, il suo modo per arrendersi all’inevitabile
– di solito una discussione
con sua madre. “Tre giorni, eh? Si può
fare…”
“Si deve.”
“Va bene, va
bene…” Levò le
mani in segno di estrema resa. “Ma cosa intendi fare? Obbligare Jamie e Scorpius al silenzio
stampa?”
“Precisamente.”
Lo sguardo era
talmente freddo che Rose sentì un brivido attraversarla. A
volte dimenticava
che il mite ed occhialuto uomo che l’aveva fatta giocare da
bambina era a capo
di un ufficio di maghi addestrati per combattere il Male, oltre ad
essere la
rappresentazione stessa di quel concetto.
A
volte mi scordo che zio Harry è un guerriero.
Cioè,
nel vero senso della parola.
“Lily, Albus, Tom
… non
dovranno sapere della venuta di Sören. Specialmente
Lily.” Rose sentì il
fidanzato muoversi a disagio accanto a lei. Poteva capirlo: aveva
imparato a
considerare il clan Potter-Weasley come una seconda famiglia, e dietro
i suoi
lazzi e i nomignoli era leale a tutti loro.
“Ma…
non pensi che glielo
scriverà?” Si informò suo padre
formulando una domanda che lei stessa aveva
sulla punta della lingua. “Voglio dire …”
“No, non
è intenzionato ad
incontrarla. E francamente, approvo.”
Rose a quel punto ritenne
che
avevano ascoltato abbastanza; esser scoperti dai due Auror sarebbe
stata solo la
ciliegina della torta. “Andiamo.”
Aspettarono di esser ben
mischiati nella folla affaccendata di Diagon Alley prima di commentare,
anche
perché Scorpius era piuttosto pallido e ci mise un
po’ prima di tradurre i suoi
pensieri in parole. “Okay.” Mormorò.
“Mi stai dicendo che dovremo tenere un
segreto del genere? Passi mini-Potter e Dursley, ma Lily.”
Inspirò. “La piccola Potter è una
Legimante Naturale, per
tutte le sottane di Merlino!”
“Basta evitarla per quel lasso di tempo …
Dopotutto son solo pochi giorni, no?”
Tentò con il sorriso più convincente che le
riuscì. Probabilmente era una
smorfia poco credibile.
Scorpius infatti non rispose
al sorriso, ma sospirò. “Non saranno solo tre
giorni.”
“Come?”
“A meno che non
riusciamo a
ritrovare il referto dell’autopsia, le cenere e gli effetti
personali
dell’americano.” Fece una pausa e si
passò una mano sul viso con un lamento.
Teatrale, forse, ma incredibilmente d’effetto.
“Sono state rubate. Non sappiamo
da chi, non sappiamo perché. Dovremo fare indagini ulteriori
e, al momento
attuale, non abbiamo niente da dare
in mano agli americani.” Aprì uno spiraglio dalla
mano con cui si copriva gli
occhi e la guardò. “Pensi saranno solo tre
giorni?”
Merda.
C’era modo
migliore per
riassumere quella situazione?
****
Somerset,
casa di Scott Ross.
Ora di cena.
“Ehi, sei
già tornata?”
Lily fece un sorriso in
direzione della voce che si stava avvicinando dall’ingresso.
Sentì Scott
chiudere la porta, appoggiare le chiavi e togliersi la leggera giacca
estiva. Erano
movimenti che ormai si era abituata a sentire, che la tranquillizzavano
quanto
l’ovvio sorgere del sole ogni mattina. Voltò
appena il viso per ricevere il
bacio di saluto e indicò la cucina.
“Sento odore di
cibo.
Miraggio?” Motteggiò l’altro.
“Affatto Scotty … Qualcosa sta
cucinando in forno e l’ho fatto io.
Non è fantastico? Meriterebbe una
bottiglia di vino, credimi.”
L’altro fece un
lieve sorriso
sorpreso. “Dobbiamo festeggiare qualcosa o ti sei solo alzata
bene stamattina?”
“Mi sono alzata con te ed
abbiamo folleggiato
tra le lenzuola.” Proclamò tranquilla facendolo
ridacchiare. “È già un buon motivo
per festeggiare, ma no. Sono solo tornata presto e mentre rispondo alle
mie
lettere posso anche seguite un arrosto con patate. Sono una ragazza
multi-funzionale, sai.”
“Lo so, lo
so.”
Scott fece una capatina in
cucina, salvo per tornare con due bicchieri e la bottiglia in questione
che gli
levitava dietro. “Intendi questa
bottiglia di vino?” La indicò con un cenno
divertito della testa. “Oggi hai
davvero finito presto.”
“Ehi, sono ancora una studentessa, dammi del tempo libero
prima di esser
trascinata nel vortice del mondo del lavoro!” Gli prese uno
dei bicchieri guardandolo
accomodarsi sullo stipite dello scrittoio. “Ma se vuoi
continuare a nutrirti di
cibi da microonde fa’ pure.” Soggiunse.
“So che i Babbani che seguono questa
dieta muoiono grassi ed infelici.”
“Tremenda prospettiva.” Replicò
minimamente turbato. “Preferisco la cucina in
salsa magica, non preoccuparti. Non vedo l’ora di assaggiare
la tua prodezza.”
“Se non moriremo
di un
intossicazione alimentare potrei anche ripetere la sconvolgente
esperienza di
fare la brava streghetta di casa.” Replicò
sorseggiando il fresco vino bianco
che aveva comprato un po’ a caso ad un supermercato vicino al
San Mungo. Non
era male.
Era stata una buona,
tranquilla giornata di routine, e poter finire le lezioni e filare
spedita dal
suo ragazzo l’aveva messa di buon’umore.
Papà
non si è neppure lamentato quando gli ho detto che
a casa sarei tornata domani, non prima.
Di
solito dopo un week-end in cui non ci vediamo
diventa nostalgico.
Scott approfittò
del suo
sorseggiare per sbirciare tra la mole composita della sua
corrispondenza. “Sai,
sei l’unica strega di vent’anni che conosco che
ancora scrive Gufi su base
regolare…”
“È che ho un sacco di amici sparsi per i quattro
angoli del mondo.” Si strinse
nelle spalle. “Guarda, questa è dei gemelli
Scamandro.” Gli mostrò una
cartolina magica raffigurante una lussureggiante isola tropicale dove
le onde
si muovevano su una spiaggia battuta dal sole. “E poi lo
ammetto, per certe
cose sono vintage.”
“Vedo…” Replicò picchiettando sulla
cartolina per far levare uno stormo di uccelli variopinti.
Come lei, il giovane
scozzese
aveva frequentato prevalente il Mondo Magico, almeno fino al diploma.
Poi però aveva
deciso di conoscere l’altra faccia del mondo –
così la chiamava – passando
diversi anni a lavorare in Australia da certi suoi parenti babbani.
Anche tornato
in Gran Bretagna non aveva mai rinnegato il suo amore per la
tecnologia, per il
cibo spazzatura e per l’elettricità.
“Guarda che
scrivere lettere e
soprattutto, riceverne, è bello.” Gli
accarezzò una gamba divertita dalla sua
espressione scettica. “Fa parte della nostra tradizione, ed
è bello mantenerla.
Per esempio so per certo che in America è rarissimo che
scrivano, anche se
hanno ancora degli uffici Magici Postali nelle città
principali, come Boston o
San Francisco.”
“Ah-ah.”
Ribatté l’altro con
aria distratta dato che aveva appena Appellato il telecomando per
scorrere i
canali alla ricerca di qualcosa su cui focalizzare
l’attenzione in previsione
della cena.
Maschi…
“Ehi, ti sto
raccontando una
cosa interessantissima!”
Scott fece un sorrisetto senza distogliere lo sguardo dallo schermo
illuminato.
“Lo so, infatti me lo ricordo, me l’hai
già raccontato. Te l’hanno detto gli
Scamandro, no?”
Lily sentì una
fitta di
disagio passarle lungo la spina dorsale come una scossa. La
ignorò. “Sì,
esatto.” Senza volerlo fece scivolare quella
lettera sotto le altre. Non che il suo ragazzo l’avrebbe mai
notata.
Perché
non sa a chi corrisponde al nome Sören Prince.
Non gli aveva mai raccontato
del suo Quinto Anno. Sapeva ciò che sapevano tutti, ovvero
del mago oscuro che
aveva fatto quasi esplodere il Tremaghi dall’interno nel
tentativo di
riprendersi Thomas e di come lei ci fosse finita in mezzo. Sapeva
cos’aveva
comportato per lei; ma nel post.
Non
gli ho mai raccontato chi c’era nel mentre. Se sa
di Sören, sa solo quello che sanno tutti.
Che
era uno dei cattivi, uno del mucchio.
Guardò il profilo
gentile dell’altro
e il modo in cui sorrise soddisfatto quando trovò il
programma che cercava.
Sapeva che se gli avesse parlato di Sören avrebbe avuto
udienza, come sapeva
che avrebbe fatto di tutto per comprendere i motivi per cui gli
scriveva. Perché
la amava e non l’aveva mai giudicata una volta da che lo
conosceva. Poteva
dirlo con cognizione di causa: era una LeNa.
Ma
riuscirei a spiegargli lui?
“Vado a
controllare la nostra
cena prima che bruci.” Gli accarezzò una spalla e
lo vide annuire,
completamente preso dall’inizio di una partita di rugby,
sport per cui andava
matto e che aveva praticato a livello dilettantistico nei suoi anni
australiani.
“Apparecchi?”
“Sissignora!” Replicò abbozzando un
saluto militare. “Ti ho parlato del Sei
Nazioni¹? Dovremo andarci il prossimo anno, ti
piacerebbe.”
“Maschi in provocanti calzoncini corti che si rotolano nel
fango? Andata!” Ribatté
facendolo ridere.
Quando fu nella piccola
cucina
fissò lo sguardo sul forno elettrico che stava rosolando
diligentemente il loro
pasto e finalmente si poté permettere un sospiro.
Riuscirei
a spiegargli Sören se ho fallito nel farlo con
tutto l’universo mondo?
Nessuno dei suoi amici,
né
tantomeno dei suoi parenti era stato mai d’accordo con la sua
decisione; dai
suoi fratelli maggiori, che si erano lamentati e opposti in
più modalità, a
persone come Gail e Roxie che non si erano risparmiate in commenti e
raccomandazioni. Non l’aveva neppure detto a tutti.
Che
seccatura … come se fossi ancora una quindicenne.
Non c’era niente
di
preoccupante o controverso nello scambiarsi lettere con Sören
Prince. Il
contenuto, se letto, avrebbe rilevato l’innocenza
più totale.
Ci
raccontiamo il mese, ci scambiamo consigli sui
libri, cerco di fargli capire che la musica non finisce nel 1700
… È una semplice
corrispondenza di Piuma.
Sì,
peccato però non sia un amico di Piuma qualsiasi.
Serrò gli occhi
castigando
mentalmente quella vocetta nella sua testa che altri non era che la sua
coscienza. Sentendo che Scott stava commentando la partita ed era
dunque
distratto, Appellò la bottiglia e si riempì di
nuovo il bicchiere, sorseggiandone
il sapore acidulo e rinfrancante.
Non
è che son subito partita con l’idea di
riallacciare
i contatti, dai …
Finita tutta quella storia
l’ultima
cosa che aveva voluto fare era stata avere a che fare con
Sören, il vero
Sören e non la sua imitazione a
beneficio del piano di Von Hohenheim. Aveva deciso così di
cancellarlo dalla
sua testa eliminando sistematicamente ogni oggetto che glielo
ricordasse: molto
era bruciato nel camino della sala opportunamente vuota di Grifondoro.
Anche se aveva fatto una
promessa a sua nonna Lily, o più probabilmente ad una sua
allucinazione, aveva
deciso con freddezza liberatoria di ignorarla. Del resto neppure
l’altro si era
fatto vivo sebbene gli avesse chiesto il permesso di scriverle. Aveva
pensato
fosse una delle sue ennesime menzogne, forse atta a pulirsi malamente
la
coscienza.
E
invece no. Non è che non voleva. Non poteva. Era
rinchiuso a Nurmengard e lo è stato finchè gli
americani non l’hanno portato
via per farlo diventare uno dei loro.
A
Nurmengard non hanno in simpatia la corrispondenza
dei carcerati…
Represse un brivido.
Per
eufemizzare.
Ad ogni buon conto un solo
motivo l’aveva riportata su quel rapporto disastroso, ed era
lo stesso motivo
per cui aveva cominciato a toglier macerie per cercare di ricostruire
qualcosa,
sebbene con sentimenti diversi.
Perché
se tenti di spezzare un legame così, quello
sanguina come un braccio tagliato.
Lei e Sören aveva
un legame. Senza
aggettivi, senza compromessi o descrizioni. Era un legame, punto.
Ignorare quel fatto era
insensato. Sören era un Prince, e lei era una Potter.
Sören era stata la prima
persona di cui si era fidata ciecamente, il primo ragazzo a cui aveva
regalato
il cuore. L’aveva ferita talmente a fondo che non avrebbe
potuto dimenticare il
suo viso neppure in un milione di anni.
Per
questo non posso fingere che non sia mai esistito e
andare avanti con la mia vita. Quando l’ho fatto è
stato persino peggio.
Sören e lei avevano
adesso un
rapporto fatto solo di pergamena e inchiostro; l’unico
rapporto che potessero
avere senza distruggersi a vicenda, probabilmente. Scrivergli era avere
la
certezza che fosse vivo, che si era ripreso e stava diventando una
persona
decente, mentre rispondergli era assicurargli che fosse lo stesso per
lei.
Sapere
che entrambi stiamo bene, per questo ci
scriviamo. Cosa c’è di così difficile?
Spense il forno con un colpo
della bacchetta, vedendo che la cottura era ormai ultimata.
“Scott! Hai
apparecchiato?” Gridò al suo ragazzo.
“ … Quasi!” Arrivò la
risposta e l’immediato trambusto causato
dall’alzarsi di
scatto per eseguire il compito nel più breve tempo possibile.
Lily sorrise.
Sì,
Ren. Senza di te sto bene.
****
America,
Boston.
Connor’s pub, Columbus Avenue. Sera.
La serata stava andando meno
peggio di quanto avesse pensato.
Ovviamente doveva
ringraziare
Milo e Estevez: i due avevano fatto gli onori di casa, accogliendo gli
altri all’entrata
del pub, e indirizzando le persone a sedersi in modo tale che Murphy
fosse ben
lontano da lui. Estevez aveva poi stordito tutti con un fiume di
chiacchiere e
battute allegre, approfittando del clima rilassato per prendere le
ordinazioni
e consegnargliele.
“Primo giro paghi
tu,
collega.” Gli aveva sorriso con una supportiva pacca sulla
spalla. “Tranquillo,
non ti manderemo in rovina.”
“Dubito potreste.”
“Non lo sai Rico?
Il nostro è
un principino ricco!” Spiegò Milo, espanso per
metà divanetto e occhieggiante
Allison, un nuovo acquisto della squadra che aveva puntato non appena
si erano
stretti la mano. Sembrava fosse il periodo degli uomini afroamericani,
a
giudicare dalle sue ultime conquiste.
Meglio
del periodo ispanici … Era impossibile tenerli
allo stesso tavolo senza che Estevez avesse una crisi isterica.
“Certo, i principi
mica posson
essere poveri!” Gli fece eco il portoricano.
Sören
intuì che lo stavano
canzonando e preferì quindi andare a depositare le
ordinazioni presso il
barista.
Non
mi definirei ricco, secondo i criteri di ricchezza
di un mago. Benestante, piuttosto.
Milo argomentava sempre che
non gli sarebbe servivo lavorare per poter mantenere un tenore di vita
dignitoso. Era vero; quando gli era stata riconsegnata la sua
libertà, al tempo
stesso era stato informato che le fortune di suo padre, Elias Prince,
erano
state sbloccate in suo favore. Quando aveva chiesto il
perché non ne fosse
venuto in possesso prima, gli era stato spiegato che la decisione di
assumere il
cognome di suo padre aveva innescato il Principio di
Eredità, cavillo della
Legge Magica Inglese.
Io
prima non ero un Prince, ma un Von Hohenheim. Almeno
sulla carta.
Visionando i documenti
ufficiali speditigli dalla Gringott aveva anche scoperto di esser
proprietario
di un maniero sperduto nel Nord dell’Inghilterra, Prince
Manor.
Anche
se dubito che dopo decenni di incuria sia rimasto
qualcosa in piedi, protezioni magiche o meno.
Comunque,
non ho intenzione di andarci.
Con un vitalizio del genere
avrebbe potuto viver di rendita. Ma non voleva: non sarebbe riuscito a
vivere
una vita di contemplazione, non con l’educazione che gli era
stata imposta e
soprattutto, non con gli obbiettivi che si era posto quando finalmente
Nurmengard aveva chiuso le porte dietro di lui.
‘Diventa
una persona decente…’
Lanciò
un’occhiata verso il
tavolo di agenti lì riunito. Erano tutti in borghese e si
amalgamavano in
maniera naturale all’ambiente babbano del pub. Milo stesso,
vissuto per la
maggior parte della sua vita nei bassifondi della società
magica – per sua
stessa ammissione – sembrava perfettamente a suo agio.
Interazione
umana…
Era consapevole del fatto ci
fosse una sorta di schermo tra lui e il resto del mondo. Era una
carenza,
qualcosa che avrebbe dovuto svilupparsi durante la sua infanzia e che
invece
era mancata.
Aveva
ragione Johannes. Se cresci come un’arma, non
puoi morir mago.
Per questo l’idea
di andare in
Inghilterra lo gettava nello sconforto; non aveva idea di come
affrontare la
situazione dal punto di vista interpersonale.
Nella
migliore delle ipotesi dovrò avere a che fare con
persone che non si fidano di me.
Nella peggiore la sua
autorità
sarebbe stata screditata, rendendogli impossibile fare il suo lavoro.
Perché
proprio la squadra di James Potter?
Quando
il Capitano gliel’aveva
comunicato aveva dovuto frenarsi per non chiederle di mandare qualcun
altro al
suo posto.
Come
posso guardare in faccia una persona a cui ho
quasi ucciso metà famiglia?
E poi c’era
Lilian. Era
improbabile che Potter sarebbe corso ad avvertire la sorella della sua
presenza; se era protettivo la metà di quel che pensava, non
gli sarebbe neanche
passato per la mente.
Ma
potrei incontrarla senza volerlo … il Mondo Magico
britannico non è così grande.
Ne aveva il terrore,
perché
vederla avrebbe significato infrangere una promessa che le aveva fatto,
sebbene
mai esplicitata.
Possiamo
scriverci, ma solo questo. In fondo cinque
anni fa le ho detto addio.
Lei
non vuole vedermi.
Le lettere erano
l’unico
contatto che gli era rimasto con la prima persona amica della sua vita,
e si
sarebbe maledetto con le sue mani piuttosto che rovinare tutto.
Non
posso perderla. Non posso perché…
“Ehi!”
La pacca sulla spalla
lo fece quasi sobbalzare. Estevez aggrottò le sopracciglia
perplesso. “Guey, ma
t’ho spaventato?”
“Ero
sovrappensiero.” Replicò.
“Sto aspettando le ordinazioni.”
“E infatti son venuto a darti una mano a portarle al
tavolo.” Gli sorrise. “Sai
cosa? Pensi troppo. Stasera dovresti solo scolare birra e parlare di
cazzate!”
“Due cose per cui non sono esattamente tagliato.”
Replicò ironico. “Farò del
mio meglio.”
“Bravo!” Lo lodò lanciandogli
un’occhiata complessiva. “Sembri anche meno
ingessato … Hai fatto qualcosa ai capelli?”
“Milo.” Riassunse.
Il portoricano
sghignazzò.
“Ah, vorrei avere io un consulente di moda … pare
funzioni. Un paio di tipe ti
hanno fatto la radiografia quando sei entrato!”
“Se non mi vesto
come vuole
lui, non mi fa uscire.” Replicò con un sospiro
sebbene fosse grato per le
attenzioni che il coinquilino rivolgeva al suo armadio e alla sua vita
in
generale. Inizialmente l’aveva preso a viver con
sé perché era stata una
richiesta del Capitano Gillespie; non aveva capito il perché
finché non aveva
realizzato quanto poco sapesse del mondo.
Milo era il suo ponte di
collegamento con la vita reale, quella che non aveva mai vissuto sotto
la Thule
e suo zio. Senza di lui l’America sarebbe stata un puzzle
impossibile da
decifrare. Certo, era irritante ed invadeva senza remore i suoi spazi,
pretendendo peraltro di esser pagato profumatamente. Portava uomini in
casa e
suonava ad ogni ora del giorno e della notte, incurante delle sue
necessità.
Era un Magonò e nonostante avessero differenze di classi
palpabili era la
persona più strafottente che conoscesse.
Però
non ha paura di me. Sa di cosa sono capace, e non
ha paura.
Estevez prese uno dei due
vassoi in precario equilibrio, dandosi un piccolo aiuto con la magia.
“Sicuro
che tu e lui…” Prese un’aria imbarazzata
al suo sguardo esasperato. “Sì, lo so
che non ti piacciono gli hombres,
ma andiamo!
Praticamente vivete come una coppia sposata. E ti sceglie i
vestiti!”
Sören prese la sua parte usando quella
mano per stabilizzare l’equilibrio incerto del vassoio di
metallo. “Nella
nostra relazione manca l’elemento di attrattiva fisica. Non
mi attrae e non lo
attraggo. Oltre a questo, non sono emotivamente coinvolto in quel
senso.”
Spiegò paziente.
Credo
smetterebbe di chiedertelo se gli dicessi da chi
sei emotivamente coinvolto, principino…
“Come sai
spiegarle le cose
tu, Prince! Riesci a ridurre la poesia del sentimento in un tomo di
anatomia.” L’altro,
ignaro dei suoi pensieri, sbuffò sconsolato.
“Povera la ragazza che si
innamorerà di te!”
Sören sapeva che
erano
esternazioni prive di vero livore, quindi ghignò.
“Curioso. Non è la stessa
cosa che dicono della tua?”
“Ah!”
Rise l’altro. “Fai tanto
l’innocentino e poi sei uno stronzo!”
“Si chiama usare
il sarcasmo,
agente Estevez.”
“Ehi, le nostre
ordinazioni!”
Berciò Murphy, interrompendoli con la sua voce da baritono.
Il portoricano gli
lanciò uno sguardo di scuse.
Sì,
sono doverose.
“Facciamo
che il prossimo giro lo pago
io?” Offrì. “Eddai, Eoin, non essere
così impaziente!” Esclamò rivolgendosi
al
corpulento agente. “Il tuo fegato mi sta
ringraziando!”
“Non se vi mettete
a tubare
come due innamoratini!” Gli rivolse un ghigno sarcastico.
“Ti ricordi la nostra
promessa, Prince?”
“Non ricordo di aver promesso niente.”
“Senti un
po’…”
“Birra!” Si intromise Milo gettandosi sulle
ordinazioni. “Okay, di chi è la
Lager?”
Sören mentre distribuiva pinte e shots
di tequila, notò con la coda dell’occhio che il
gruppo aveva subito una nuova
aggiunta, nientemento che Ama Gillespie. Deglutì disagio.
Questa
serata sta andando di male in peggio.
“Sergente,
buonasera.” Mormorò
ignorando la precisione maligna con cui Murphy si allungò
per prendere una
birra urtando il suo bicchiere e facendone tracimare almeno la
metà.
“Siamo in
borghese, chiamami
Ama.” Fu la fredda replica.
Saremo
anche in borghese, ma come diavolo può
pretendere una cosa simile? Con quel tono?
“Come
preferisce.” Le obbedì
comunque. “Posso offrirle qualcosa, Ama?” Si
riparò dietro la cortesia vecchio
stampo che gli era stata insegnata; Milo diceva sempre era una carta
assicurata
per il letto di una donna, ma a lui più che altro serviva
per non sprofondare in
un abisso di disagio.
Con
Lily ha sempre aiutato.
“Un
Jack on the Rock.” Forse fu una sua impressione, ma i
lineamenti ferrei
della giovane strega si rilassarono leggermente. “Posso
andare a prenderlo da
sola, comunque. Sta’ seduto, è la tua
festa.”
“È mia ospite, mi permetta quindi di
insistere.”
Stavolta non fu un’impressione, il Sergente sembrò
davvero preso in
contropiede. Per la prima volta da che la conosceva, distolse lo
sguardo dal
suo. “Va bene.” Si limitò a dire. A
Sören non restò quindi che tornare verso il
bancone, non prima però di aver notato come gli sguardi di
tutti si fossero
calamitati nella loro direzione. Era forse la sorpresa di sentirlo
ribattere?
Probabile.
Di solito evito con il Sergente, ma ha detto
lei che siamo in borghese.
Ergo,
le regole del SAGITTA qui non valgono.
Ad ogni buon conto, era
davvero curioso di sapere perché Milo gli avesse appena
strizzato l’occhio.
****
Scozia,
Highlands, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter.
Ted guardò con
impazienza l’orologio
da muro che faceva bella mostra di sé sul camino.
Il fatto che James facesse
tardi era da mettere in conto; chi meglio di lui, che aveva provato le
gioie
dell’Accademia, poteva capire quanto i turni lavorativi di
quella particolare
categoria di agenti fossero elastici?
Per
fortuna ho gettato un Incantesimo di Riscaldamento
sulla cena…
Finì di
correggere l’ennesimo
sciocco errore dall’ennesimo compito giornaliero;
l’estate si stava avvicinando
e così la fine della scuola. Amava il suo lavoro e adorava i
suoi alunni, ma
non dover avere a che fare con l’ignoranza galoppante di
certi soggetti per due
mesi sarebbe stato un sollievo senza pari.
Osservò il sole
tuffarsi tra
le cime fitte e scure della Foresta Nera con un sorriso rapito;
spostare la sua
scrivania di fronte alla finestra, come aveva suggerito il compagno
agli inizi
della loro convivenza, era stata un’idea brillante.
Mi
conosce meglio di quanto non mi conosca, alle volte,
io stesso.
Dopo aver chiuso la finestra
per evitare i primi insetti della sera, mise via la pila di pergamene
scarabocchiate in più gradi e afferrò la Gazzetta
del Profeta, che quel giorno,
tra lezioni e incontri con gli altri docenti, non aveva avuto tempo di
leggere.
Lesse distratto un articolo
della sezione ‘cronaca locale’ di Hogsmeade; Mister
Langdon, loro vicino di
casa, lamentava la perdita di una nutrita parte del suo pollame. Lo
stesso un
certo Signor Benson. Si chiese pigramente se non sarebbe stato
all’ordine del
giorno del prossimo consiglio cittadino.
Stavolta
ci mando Jamie. La volta scorsa si è finto
ammalato, ma stavolta va’ lui ad ascoltare ore e ore di
lamentele su come
dovrebbe esser smaltita la spazzatura nella High Street.
Sorrise quando
sentì lo
schiocco vivace della Materializzazione all’ingresso; avevano
deciso di comune
accordo di mettere degli incantesimi Anti-Smaterializzazione
all’interno della
casa pochi mesi dopo che ci si erano ufficialmente trasferiti.
Dopo
che Harry è piombato in salotto mentre beh …
È
sembrata la soluzione più logica.
Non
se n’è lamentato nessuno, anche se Lily ne ha riso
per mesi.
Quando però non
sentì le
chiavi girare nella toppa della porta, né il tono chiassoso
del suo compagno
annunciare la sua presenza, si alzò dalla sedia confuso. Si
stava avvicinando quel periodo del
mese e i suoi sensi
erano più sviluppati del solito, quindi tese le orecchie in
ascolto di
ulteriori rumori rivelatori.
James era fuori, sentiva i
passi.
Perché
non entra?
Preoccupato si diresse verso
l’ingresso ed aprì la porta.
“Jamie?” Lo chiamò. Lo
individuò subito, anche
perché era impossibile non notarlo dato che stava
letteralmente arando il giardino
avanti e indietro,
talmente teso da sembrare prossimo ad uno scontro fisico su un ring.
“James!”
Lo chiamò con più
forza. L’altro si voltò di scatto, sgranando gli
occhi come se gli avesse
tirato un colpo. Si riscosse subito però, schioccando le
labbra e passandosi le
dita trai capelli. Erano arruffati e completamente sparati in tutte le
direzioni. Non doveva essere la prima volta che faceva quel gesto.
Lo raggiunse in due falcate.
“Che succede?” Sembrava furioso, con
l’intero corpo in tensione sotto
l’uniforme. Gli mise una mano sulla spalla e la fece poi
scivolare sul collo,
in una carezza che sapeva esser calmante per l’altro. Sotto
le sue dita le
pulsazioni dell’altro erano accelerate, forti.
“Ehi…”
James era famoso per
esplodere, urlare le sue ragioni ed imporle fisicamente quando le
parole non
bastavano. Vederlo così contratto e taciturno era uno
spettacolo inquietante.
“…per favore, parlami. Mi sto
preoccupando.”
Questo batté le palpebre sorpreso, quasi si fosse reso conto
solo in quel
momento del suo comportamento e soprattutto della sua presenza.
“Mio Teddy… non
fare quella faccia.” Mugugnò scoccandogli
un’occhiata di sottecchi. Gli prese
la mano e ne baciò il palmo. “Non è
successo niente di grave. Non è morto
nessuno, okay?”
Ted sentì
l’ansia diminuire in
maniera consistente. “Sei arrivato qui e non sei entrato in
casa…” Tentò,
sentendosi un po’ sciocco. Non aveva il coraggio di guardarsi
i capelli per scoprire
di che colore erano diventati. “…
Entriamo?” Propose. “Metti qualcosa sotto i
denti e poi mi spieghi. Se puoi farlo, natural…”
“Anche se non
posso, chi se ne
fotte! Ho bisogno di dirlo a qualcuno o esplodo!”
Sbottò superandolo ed
entrando in casa. Ted lanciò un’occhiata al
giardino, pieno di solchi lasciati
dagli stivali di James. Erano state calpestate anche delle povere,
innocenti
begonie che aveva piantato quella primavera. Sospirò e lo
seguì.
Dopo che James
divorò
letteralmente la cena con la furia di un Crup a digiuno da giorni, Ted
venne
finalmente a conoscenza della causa del suo incredibile malumore.
“Non ci
credo…” Riuscì
soltanto a commentare.
James si passò la lingua trai denti in cerca di rimasugli
della cena, un gesto
che l’intera famiglia Potter aveva sempre cercato di
correggergli senza
successo. “Già, la stessa cosa che ho detto io
quando papà ha chiamato me e i
ragazzi per darci la lieta fottuta
novella.” Motteggiò feroce. “Ma dobbiamo
far atto di fede, mio Teddy. Perché quello
è un agente e verrà da noi con
questa qualifica.”
Ted passò le dita
lungo la
tovaglia del tavolo, raggruppando le briciole per tenere le mani
occupate. Lo
aiutava a pensare. “Sapevo che il DALM americano
l’aveva preso sotto la sua ala
visto che ha accettato di collaborare per lo smantellamento della Thule
… ma
pensavo collaborasse con loro, non che lavorasse per
loro.”
“Sorpresa!”
Ted guardò gli
occhi nocciola
di James. Solitamente caldi come l’autunno adesso erano una
tempesta, come era in
tempesta il suo proprietario; ovvio considerando che si stava parlando
di un
mago oscuro che aveva fatto del male alla loro famiglia.
E
in special modo, ne ha fatto a Lils. James e Al vanno
d’accordo solo su una cosa. Sull’adorare e
proteggere Lily come cavalieri serventi.
Che lei lo voglia o meno.
Si alzò in piedi
cominciando a
riordinare mentre l’altro, con le braccia incrociate al
petto, guardava quel
che restava dello spezzatino di cacciagione come se fosse la causa di
tutti i
mali. “Lily lo sa?” Gli chiese.
“No, ovviamente.”
Sottolineò l’ultima parola con forza.
“Papà ci ha
detto di non far parola con nessuno della venuta dell’unto
bastardo crucco,
specialmente con lei, ma non ce n’era bisogno.” Lo
sentì di nuovo schioccare la
lingua. Non se la sentì però di riprenderlo, non
con il rischio di vedersi
lanciata addosso qualche suppellettile. “Piuttosto mi strappo
la lingua con i
denti.”
“Non esagerare adesso.” Lo riprese blandamente,
spedendo piatti e bicchieri a
lavarsi e appoggiandosi al ripiano della cucina mentre ne osservava
dispiaciuto
la schiena rigida. “Immagino non ci fosse modo per evitare
questo incontro.”
“Secondo papà no.” E la questione si
chiuse lì. James poteva essere una testa
calda – anzi, bollente
– ma aveva un
rispetto per l’autorità di Harry, sia come padre
che come capo, che sfiorava la
devozione. Poteva borbottare, lamentarsi, ma non l’aveva mai
visto eludere un
ordine o non approvare una scelta. Né come Auror,
né come figlio.
Non potendo offrire altro
alla
conversazione, trovò più proficuo eliminare la
distanza tra di loro per passargli
le mani sulle spalle contratte, in un massaggio. Quando
percepì la gratitudine
scorrere sottopelle, si mise all’opera.
“Merlino, come
farò a non
ammazzarlo non appena me lo troverò davanti?”
Mormorò. “L’unica cosa che mi ha
impedito di andare a cercarlo anni fa è stato sapere che era
già a marcire in
prigione, ma adesso…”
“Non credo che gli americani abbiano deciso di dargli il
ruolo che ha a cuor
leggero.” Premette il pollice su un muscolo particolarmente
nodoso e sentì
l’altro mugolare di piacere. Anche se non si riteneva un
esperto nella
disciplina dei massaggi, James aveva sempre gradito enormemente, e
questo
bastava.
E
pensare che con Vic credevo di aver le mani pesanti…
Forse le ho, ma su una capretta del genere non faccio gran danni.
“Sì,
vabbeh … cazzo me ne
frega degli yankee?” Borbottò, il tono di voce
notevolmente meno acceso. “Ti
rendi conto? Cinque anni fa scodinzolava dietro un bastardo di prima
categoria
ed ora è uno dei buoni.”
“Non esistono confini così definiti nelle
persone.” Obbiettò ragionevole, anche
se non era del tutto convinto che quel principio si applicasse tout court.
Vedesi
Voldemort. O il padre di Tom. O tutti gli
psicopatici, pazzi assassini che popolano il mondo, sia Magico che non.
James reclinò la
testa per
guardarlo e inarcò le sopracciglia con aria sardonica.
“No?”
Dovrei
chiedergli se non ha cominciato a prendere
lezioni di Legimanzia da Scorpius, perché quando fa
così sembra proprio di sì.
“Non
sempre.” Ammise passandogli un
dito sull’accenno di barba che gli ombreggiava il mento.
“Non credo che Sören
appartenesse alla categoria degli irrecuperabili, era succube di
Alberich Von
Hohenheim, ma da solo non credo rappresenti un pericolo. ”
Lo sentì irrigidirsi. “Quindi
sei…”
“Non sono favorevole al fatto che venga in
Inghilterra.” Lo fermò prima che
potesse partire per una crociata immotivata nei suoi confronti, dato
che era
preoccupato quanto lui dell’arrivo del mago tedesco su suolo
britannico; perché
Harry aveva dato il permesso? “Dico solo che, visto che
dovrete comunque lavorare assieme,
avere un
atteggiamento meno ostile porterà benefici anche a te. In
termini di resa
lavorativa e serenità personale.”
James lo fissò
meditabondo. “Sei
così razionale…”
Ted sorrise lievemente al complimento mascherato da insulto, o
viceversa. Si
chinò e gli baciò la punta del naso per poi
passare alla fronte: scottava della
magia che gli ribolliva nelle vene. “Non darmi del
professorino.” Lo anticipò.
“Però
lo sei. Sei un cazzo di
professorino.”
“James…”
Per tutta risposta si
sentì
afferrare per il colletto della camicia e tirare giù di
nuovo, stavolta per un
bacio che, sebbene rovesciato, fu totalmente travolgente. Dovette aggrapparsi allo schienale della sedia
per darsi contegno.
James poi si
leccò le labbra
come il provocante bastardello che era. “Allora mi sa che te
ne ruberò un po’,
di ‘sta razionalità, perché ora sento
di non averne addosso neanche una
goccia.”
Ted ridacchiò.
“Sono a tua
disposizione.”
****
America,
Boston.
Notte.
Sören non aveva la
minima idea
di come fosse finito ad accompagnare il sergente Gillespie, al secolo
Ama, a
casa.
Sapeva solo che in suo onore erano stati fatti molti giri di birra,
altrettanti
di whisky e svariati di shots dai
nomi improbabili e vagamente insinuanti. Al contrario dei colleghi, lui
si era
limitato a bere sempre la stessa quantità e
qualità di liquore, proprio per
evitare scene come Murphy che intonava vecchie canzoni country o Milo
che trascinava
il bagno il povero Allison, ormai convinto che il biondo fosse
l’uomo della sua
vita.
Sì,
per una notte.
Anche il Sergente aveva
bevutoe per questo quando l’aveva vista alzarsi con la
cautela tipica di una
sbronza sostanziosa, l’aveva afferrata pronto. Gli era venuto
istintivo, e per tutta
risposta si era quasi beccato un malrovescio.
“Ah, sei tu
Prince!” Aveva esclamato
mettendolo a fuoco. “Che stai facendo?”
“Evito che lei
cada?” Gli era
uscito poco felicemente, ma stranamente era stata la frase giusta,
perché la
strega gli aveva sorriso.
“Allora
è vero quel che dicono
di te le ragazze dell’ufficio…”
“Come?”
Non gli aveva risposto,
limitandosi a guardarlo. Sören non ci aveva messo che qualche
attimo per
abbassare lo sguardo.
Se
ti fanno effetto occhi verdi che non sono quegli
occhi verdi … Se te li trovassi di nuovo davanti?
Ah,
ragazzo mio.
Il Bourbon – una
sorta di
whisky Babbano – doveva aver un tempo di assimilazione lento,
perché quando
Estevez gli aveva consegnato la giacca ordinandogli di scortare il
Sergente a
casa, non aveva mosso obiezione. Non si era neppure stupito quando
aveva visto
Milo ghignare, prima di tuffarsi nuovamente in una fitta ed esplicita
conversazione con il povero Allison.
Così
torniamo al momento attuale…
Ama – bene, aveva
imparato –
aveva insistito per andare a piedi, dacché un taxi le
avrebbe messo lo stomaco
in subbuglio, per non parlare di una Materializzazione. Si erano
così trovati a
camminare fianco a fianco lungo un marciapiede anonimo in direzione del
quartiere di quest’ultima.
Sören conto circa
la centesima
crepa nel marciapiede, non avendo la minima idea di come rompere il
ghiaccio,
dato che la ragazza – a ben vederla, senza uniforme e con i
capelli sciolti si
vedeva che era sua coetanea – non apriva bocca. Avrebbe
dovuto di qualcosa?
Oppure era più saggio rimanere in silenzio?
Ma
non siamo in servizio…
Trovare un argomento di
conversazione dato quelle premesse era pressoché
impossibile, quindi si risolse
a prendere una sigaretta e ad accendersela con un gesto di quella mano.
“Lo fai sempre
senza
bacchetta?” Lo stupì la voce dell’altra.
“Dico, accendere le sigarette … ho
visto che lo fai anche per altre cose.” Spiegò,
forse alla sua espressione
perplessa.
“Sono piccole
magie … Mi è più
facile non estrarre sempre la bacchetta” Spiegò
stringendosi nelle spalle: non
poteva certo spiegarle che usare la bacchetta per magie così
elementari avrebbe
solo moltiplicato l’effetto della magia, rischiando di
bruciare non solo la
punta della sigaretta, ma anche metà della sua faccia.
“Vecchia abitudine.”
Capì troppo tardi che quella frase li avrebbe condotti in un
terreno in cui
nessuno dei due si sentiva a suo agio. Per eufemizzare.
Vecchie
abitudini significano Thule e Johannes. Merda.
Ama infatti si morse le
labbra, stringendosi le braccia al petto, in una posa di difesa
così palese che
si sentì in dovere di scusarsi.
“Smettila.”
Lo freddò con il
consueto tono glaciale. “Smettila di scusarti.
Dio!” Sbottò di colpo. “È
così
irritante!”
Sören deglutì un grumo di disagio ed
espirò fumo; gli sembrava un buon metodo
per non sembrare un perfetto idiota. “Temo di non capire.
È irritante il fatto
che mi scusi?” Tentò.
“Sì!”
Fu la risposta, prima che si
voltasse per fronteggiarlo. Smorzò un po’
l’effetto il fatto che si dovette
puntellare su di lui per non perdere l’equilibrio.
“Ama…”
Tentò. “Non mi pare il
momento per affrontare questo genere di…”
Lo ignorò. “Devi piantarla di comportarti come se
dovessi scusarti solo per il
fatto di esistere!”
“Io…” Era così che si
comportava con lei? Possibile.
Ho
causato la morte di suo padre, dopotutto.
“Non era mia
intenzione farla
arrabbiare.” Iniziò, anche se sapeva che con le
donne la ragionevolezza spesso
era un concetto piuttosto astratto. Non che avesse avuto particolari
esperienze
con l’universo muliebre, ma ne aveva conosciuta una che forse
riassumeva alla
perfezione quell’immagine.
Lily.
Quando
si arrabbiava con me … Quando si arrabbia ancora con
me per
lettera…
“Dammi del tu. E
smettila di
essere così spaventato.” Gli ordinò.
Sören ebbe l’impressione di camminare su
una lastra di ghiaccio sottilissimo, ma del resto non poteva neppure
lasciarla
in quelle condizioni in mezzo ad una strada.
“Va
bene.” Acconsentì. Era
chiaro fossero arrivati ad una sorta di momento della
verità, e dato che voleva
evitare di girarci attorno – odiava i lunghi giri di parole,
specie perché
puntualmente ci si perdeva dentro – andò dritto al
punto. “Non sono spaventato.
Mi sento a disagio.” Esordì tentando
disperatamente di suonare convincente
senza guardarla in viso. Non era facile.
“A
disagio?”
“Conosci il mio
passato, sai
cos’ho fatto alla tua famiglia.” Ci volle tutto il
suo coraggio per continuare,
perché si sentiva lo stomaco annodato e aveva voglia di
vomitare. E non era il Bourbon;
erano ricordi. “Non sono mai riuscito a chiederti scusa per
la morte di tuo
padre, perché non me l’hai mai permesso. Per
questo non posso fare a meno di
chiedertelo sempre, anche se può sembrar sciocco.”
Ama lo fissò con espressione indecifrabile e per un attimo
Sören temette di
dover evitare una maledizione. Poi la vide mordersi le labbra e
stringersi di
nuovo le braccia al petto. “Non sei stato tu ad aver ucciso
mio padre, ma Il
Camaleonte.” Mormorò.
“È vero, ma ero suo complice. Se non mi avesse
incontrato e non l’avessi…”
“Va bene, è vero.” Eruppe vinta.
“Per un periodo non sopportavo di vederti
indossare la nostra uniforme. Detestavo il fatto che ad una persona
come te
venisse dato il compito di proteggere e servire questo paese.”
Lo sapevo.
Si impose di non lasciar
trasparire la ferita che l’altra gli aveva appena inferto. Se
la meritava, del
resto.
“Però
non ti odio.” Lo stupì.
“Odio il Camaleonte, Von Hohenheim e tutti quelli della loro
risma, è il motivo
per cui sono entrata all’Accademia.” Il viso prese
un’espressione che la rese
fotocopia di sua madre. “Ma sei un mio sottoposto, e tale ti
considero. Io…”
Inspirò. “Senti, non sono nelle condizioni adatte
per parlarne adesso.”
L’avevo notato.
Ma non disse nulla, preferendo rimanere in compito silenzio.
“Però
fammi un favore.” Aggiunse.
“Piantala di chiedermi
scusa. Non
voglio più sentirlo. Sei scusato.”
Sören sentì un notevole peso cadergli dalle spalle.
Fino a quel momento non
aveva capito fino a che punto fosse stato doloroso averlo addosso.
“Va bene.” Sorrise
appena. “Grazie Ama.”
Ama ricambiò
inaspettatamente
il sorriso. A ben vedere, Estevez aveva ragione: quando sorrideva
sembrava
molto più giovane. “Beh, sempre meglio di
scusa.”
Sören sapeva che
dietro quel
sorriso doveva esserci altro. Milo
gli aveva spiegato come dietro i sorrisi delle ragazze ci fosse tutto
un mondo di
sottotesti. Sfortunatamente non era mai riuscito a capirne neppure uno.
Quando arrivarono a
destinazione tirò un respiro di sollievo; quella serata era
stata emotivamente
stressante e non vedeva l’ora di tornare a casa per poter
esser solo.
Chi
ha detto che l’essere umano è per sua natura
sociale dovrebbe conoscere me.
Ama – ormai
padroneggiava
anche quel nome – dopo aver girato le chiavi nella toppa del
portone si girò a
guardarlo. “Vuoi salire a prendere un
caffè?”
No.
È già stato abbastanza sconcertante quel che ci
siamo detti in venti minuti di camminata, grazie.
“Non bevo
caffè la sera, ma
come se avessi accettato, ti ringrazio.” Le sorrise con la
massima cortesia
atta a deflettere un’offerta.
L’altra assunse
un’aria
incredibilmente seccata, che non comprese. Questo prima che
l’afferrasse per il
bavero della giacca. “Il tuo amico biondo ha ragione, mi sa
che devo esser
esplicita.”
“Prego?”
La risposta fu baciarlo.
La sorpresa fu tale che ci
mise più di qualche attimo a realizzare che il suo Sergente, la donna che lo comandava in
ufficio e che fino a quella
sera sera sembrava averlo detestato cordialmente, lo stava baciando con
trasporto alcolico ma non per questo meno autentico.
Non
dovrebbe esserci un codice di condotta atto ad
evitare relazioni tra colleghi?
Era una domanda idiota, gli
urlò Milo nella sua coscienza. Gli consigliò
anche di rispondere, perché le
forme dell’altra sembravano perfettamente incastrarsi con le
sue, il Bourbon
era davvero un alcolico notevole e dopotutto quel codice di condotta
non era
mai veramente rispettato.
Sarebbe stata solo una
notte,
era il sottotesto che prima aveva mancato. Una notte di compagnia
reciproca e
soddisfacente. Da quando era in America non era nuovo a quel genere di
rapporto,
anzi, era l’unico che intraprendesse con il sesso opposto, ma
non era quello il
punto.
Non
è una ragazza qualunque incontrata in un bar. Tu questa
strega la rispetti. La vedrai anche domattina, e se tutto va bene, per
il resto
della tua vita.
Ah,
tra l’altro ha gli occhi verdi. Non
è il
caso di stimolare quel lato della tua fantastia, vero?
Sentì un maglio
freddo
artigliargli lo stomaco e fu quello a dargli la forza di prendere i
polsi
dell’altra e staccarla gentilmente da sé. “No.” Si
impose, perché il desiderio era
qualcosa di difficile da disciplinare quando arrivava la notte.
“Non è una
buona idea.”
La sentì gelarsi sotto il suo tocco e staccarsi bruscamente,
inspirando. “Sì…
io. Hai ragione.” Sussurrò ravviandosi i capelli
con una mano. “Non so cosa…”
“L’alcool.” Suggerì
volenteroso.
“Esatto,
l’alcool.” Confermò rapida,
anche se un guizzo di orgoglio femminile le balenò nello
sguardo. “È per via
del codice di condotta? Perché…”
“Non è
per quello, non solo
almeno.” La verità, sempre la verità.
Decisamente era una promessa scomoda.
“…
C’è un’altra?”
Indovinò. Le
donne in quanto a sesto senso avrebbero potuto esser tutte Legimanti.
“Sì.” Confermò, sentendo un
sapore spiacevole sulle labbra. “Sì, è
così.”
Ama annuì, passandosi una mano sul viso. “Di
quello che è appena successo…”
“Non deve preoccuparsi Sergente.” La
anticipò. “Non ne farò
parola.”
Erano stati di nuovo messi i
paletti e Sören vi si sentì meravigliosamente a suo
agio. Si lasciò sbattere la
porta in faccia e poi si affrettò a Smaterializzarsi.
Quando riaprì gli
occhi nel
suo appartamento tirò dritto verso il balcone; era la parte
che preferiva della
casa, essendo spazioso, completamente aperto e con una vista notevole
sulla
città. Da lì poteva respirare l’aria di
mare che, anche se più rarefatta
rispetto a quella della sua infanzia, aveva comunque il pregio di
ricordargliela.
Alla brace della sua
sigaretta
presto se ne aggiunse un’altra.
“Beh?”
Lo apostrofò Milo, a
torso nudo e presumibilmente solo in intimo. Altrettanto presumibile
era il
fatto che qualcuno in quel momento occupasse il suo letto. Il povero
Allison,
forse. “Cazzo ci fai qua?”
“Tu ed Estevez
avete
complottato perché andassi a casa con il Sergente,
vero?” Ritorse.
“Più che altro, perché entrassi nel suo
letto. Lei sarebbe stata meno acida e
tu meno depresso. Due piccioni con una fava!” La brace
illuminò un paio di
sopracciglia inarcate in piena incredulità. “Si
può sapere quale scrupolo
imbecille t’ha assalito? Alla tipa piaci! Fare
l’algida stronza era solo una
tecnica!”
Non rispose e non ce ne fu
bisogno perché infatti dopo qualche attimo l’altro
fece un profondo sospiro. “Se
è per il motivo che penso, sei un coglione.”
“Milo, non pretendo obbedienza, ma almeno
risp…”
“Vaffanculo maghetto.” Fu la replica serena.
“Votarti ad una persona in ‘sto
modo è da
coglioni.”
“Non mi sono votato. Quello lo fanno i sacerdoti Babbani, ed
io non lo sono.”
“Quanto sei poco romantico.” Gli
picchiettò il petto, all’altezza del cuore.
“Parlo di questo.”
Sören si
scostò, mettendo
anche distanza fisica tra sé e l’altro. Era il suo
coinquilino e la cosa più
simile ad un amico che avesse in quella terra che a volte gli sembrava
ancora
straniera, ma non era abbastanza.
Non è lei.
“Quando ti
troverai nella mia
situazione, allora potrai giudicarmi. Prima, non
ascolterò.”
Milo sbuffò, schiacciando la sigaretta sulla ringhiera e
facendo così baluginare
tanti fiocchi di cenere incandescente nell’aria.
“Mica sono così coglione.”
Fu l’ultima cosa che gli
disse prima di rientrare.
Sören fece
evanescere il suo
mozzicone e premette i palmi delle mani sulla ringhiera fredda
finché non la
sentì incandescente.
She said, I'm okay
I'm alright, thought you have
gone from my life,
You said that it would, now
everything should be alright...
****
Note:
Altro capitolo di passaggio?
Forse. Ma serve ai fini della storia! ;D
È un capitolo che
spero renda
esattamente come voglio, visto che c’è tanta carne
al fuoco e tante
spiegazioni. Spero siano sensate. :)
Questa
la
canzone del capitolo.
1.Sei Nazioni: è
il più
importante torneo internazionale di rugby a quindici
dell'emisfero settentrionale. Vi Partecipano Scozia, Irlanda,
Inghilterra,
Francia e Italia.
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
Capitolo V
Se
è scritto
che due pesci nel mare debbano incontrarsi,
non servirà al
mare essere cento volte più grande.
(Stefano
Benni)
21
Giugno 2028
Inghilterra,
Diagon Alley.
Casa
di Thomas Dursley e Al Potter. Mattina.
Albus non era tipo da
sensazioni.
Non si riteneva neanche un
tipo materiale, però. Sapeva che il cosiddetto sesto senso era cosa vera, tanto
più nel Mondo Magico dove c’erano
persone, maghi e streghe, capaci di avere percezioni talmente nitide da
tramutarsi in realtà. Non era Divinazione –
materia che peraltro aveva sempre
velatamente snobbato – quanto piuttosto la
capacità di intuire quando c’era
qualcosa che increspava il tessuto solitamente liscio della propria
esistenza.
Quella mattina infatti si
era
svegliato con la sensazione che avrebbe fatto meglio a spalancare
immediatamente gli occhi e ricapitolare i compiti che avrebbe dovuto
svolgere
durante la giornata. L’aveva fatto e non vi aveva trovato
nulla di insolito: il
quotidiano giro di visite, i pazienti, un pranzo veloce con i colleghi
e poi
andare a prelevare Tom dalla bottega di Stevens prima che vi
trascorresse la
notte, tra alambicchi beccheggianti e tomi giganteschi. Infine, la cena
in
famiglia settimanale.
Niente
di fuori dall’ordinario.
Eppure c’era
qualcosa che non
gli tornava, come se avesse dovuto far qualcosa, chiamare qualcuno,
assolvere
ad un compito.
Ma
no, direi proprio di no.
Insonnolito, si
trascinò in
bagno dopo aver rifatto con un colpo di bacchetta il proprio letto; non
un
compito difficile dato che la parte del proprio compagno era
già fatta, con il
cuscino stirato e il pigiama ordinatamente piegato sopra le lenzuola.
Maniaco
compulsivo…
Continuando a rimuginare in
direzione della cucina quasi inciampò su Zorba, che
soffiò indispettito
lanciandogli un’occhiata che non sarebbe sfigurata sul viso
di Tom, al momento
al tavolo della colazione, ma non consumante; era invece preso a
spulciare uno
dei suoi libri con espressione morbosa.
“Buongiorno.” Disse e fu ricompensato
dal silenzio di colui-che-non-l’aveva-minimamente-notato.
Buongiorno
anche a te, amore. Come stai? Dormito bene?
Lascerò subito questo stupido libro per sorriderti e
ringraziare Merlino di
avermi concesso la tua compagnia.
…
Proprio.
Meike, loro ospite per
l’estate e faccendiera per natura, girò con un
colpo sapiente di polso un
pancake – cucinava alla Babbana per via di Cordula
– salutandolo con un sorriso
che gli riscaldò il cuore. “Mutti, güten
morgen! Diresti a Tom di mangiare prima che svenga
d’inedia?”
Al annuì,
strappando il libro
dalle dita dell’altro e facendoselo arrivare in mano con un Accio ben riuscito. Ignorò
l’occhiata
furente che gli venne scoccata. “Tom, il tavolo di cucina
serve per mangiare, non
per leggere.”
“Ridammelo.”
“Non appena avrai
mangiato la
colazione che ti è stata gentilmente
cucinata.” Lanciò il tomo alla
suddetta e Tom sbiancò come se stessero lanciandosi un
neonato emofiliaco e non
un semplice agglomerato di colla e carta. Dovette trattenere una
risata. “Mei,
è tuo ostaggio.”
“Ricevuto!”
Ghignò senza
remore la sedicenne serrandoselo al petto. “Dai, Tom, li ho
fatti per te! Dopo
potrai leggere quanto vuoi, promesso.”
L’altro li
fissò come se fosse
indeciso se cavar loro il cuore a mani nude o decapitarli; nulla di
nuovo sotto
il sole dacchè quello era il suo umore medio quando si
alzava la mattina. Dopo
una sorta di brontolio che probabilmente conteneva qualche maledizione,
obbedì.
“Ogni giorno la
stessa storia,
guarda che diventi anoressico!”
“Il cibo non mi
interessa.” Fu
la gelida risposta. Lanciò un’occhiata di
sottecchi all’espressione delusa che
ne conseguì e sospirò. “Comunque sono
buoni, Meike. Grazie.”
Al sorrise alla piccola
tedesca, in realtà minimamente scalfita da come gli
strizzò l’occhio non vista;
Tom, anni prima, aveva avuto perfettamente ragione ad inquadrarla nelle
loro
file.
Ha
una bella testa, ma non la usa per speculare come un
Corvonero. La usa per ottenere ciò che vuole con il minimo
sforzo consentito.
Ditemi
se questo non è Serpeverde…
Era questo che gliela
rendeva
tanto cara; Meike, con i suoi piercing, le maglie oversize,
le calze strappate e la passione bulimica per la musica,
palesava un cervello indipendente e ben fisso sui propri obbiettivi.
E
non ha neanche sedici anni …
È
un sollievo aver qualcuno di maturo che ti gira per
casa, ogni tanto.
La guardò mentre
serviva una
seconda porzione di Pancake all’altro inquilino, spiegandogli
le proprietà
nutritive dello sciroppo d’acero.
E
poi, è riuscita ad addomesticare Tom. Non è un
primato che chiunque detiene.
“Sono anche per
me?” Chiese
pescandone uno dalla pila.
“Quanti ne vuoi,
visto che Mister
Musone si ostina ad affamarsi. Un giorno passerà dalle porte
senza doverle
aprire.” Motteggiò, prima di stiracchiarsi.
“Comunque sono tutti per voi, io
devo scappare alle prove.”
“Di mattina?” Interloquì Tom aggrottando
le sopracciglia. “Tu e Louis non avete
niente di meglio da fare? Come studiare?”
“Che noioso che sei!”
“Sono il tuo
tutore, secondo
la legge magica e tua nonna.” Replicò grave,
guardando poi nella direzione
dell’altro. “A dirla tutta, lo siamo entrambi.”
Sottolineò, come a cercare appoggio.
Al, certo che dietro il Mutti che
la
piccola tedesca gli aveva affibbiato anni prima si nascondesse una
maledizione,
si sentì deplorevolmente intenerito dagli occhioni supplici
di quest’ultima.
Era vero, Cordula li aveva nominati tutori ad
interim, ma forse per via del poco divario di età,
non si era mai sentito a
suo agio in quel ruolo.
Tom
invece l’ha preso terribilmente sul serio. Vai a
capirlo, con sua sorella è la persona più
condiscendente del mondo.
“Beh,
l’importante che abbia i
compiti fatti entro la fine dell’estate, no?”
Meike si illuminò a quell’attesa breccia.
“Esatto! E così sarà! E comunque
è
inutile che fai quella faccia Tom, so che ti piace la musica che
faccio!” Gli
scoccò un bacio sulla guancia, a cui l’altro si
ribellò con una smorfia che
forse avrebbe voluto esser indignata, ma che risultò simile
a quella di un
cinquenne schifato. Al a volte si soffermava a pensare che finita
Hogwarts – e
soprattutto l’orribile storia di Von Hohenheim –
Tom aveva cominciato
progressivamente a mostrare più emozioni. Era come se molto
del grumo che gli
opprimeva lo spirito si fosse sciolto con la morte di suo padre.
E
poi ci sono giorni come questo, in cui è il solito
gatto stronzo.
“Dovrebbe
studiare.” Borbottò in
un’imitazione piuttosto smaccata di un
bollitore quando la ragazza se fu andata. “Altrimenti la
declasseranno ad una
tassorosso. E Cordula mi ucciderà.”
“Perché
diventerà una
tassorosso?” Non poté fare a meno di stuzzicarlo.
Vedendolo rabbuiarsi, si affrettò
a tornar serio. “Dai, ha comunque buoni voti! E poi, cucina
divinamente…” Quasi
a sostenere l’affermazione, inondò la sua
colazione di un effluvio di panna
liquida e marmellata ai mirtilli: Tom poteva ridursi alla fame, ma lui
aveva
un’intera giornata di lavoro davanti e una brutta sensazione
da combattere.
Devo
fare il pieno di zuccheri.
“Imbroglia. Si fa
passare le
risposte dei test dai ragazzi dell’anno prima.”
Al chiuse gli occhi all’esplosione zuccherina di cui furono
investite le sue
papille gustative: la capacità di Meike ai fornelli era
inestimabile in quella
casa, dove i pasti principali erano composti da conserve e cibo da
asporto. “Immagino
dovremmo essere indignati.” Sospirò, leccando la
forchetta e catturando una
goccia di panna con la lingua. Finse di non notare lo sguardo da camera
da
letto che gli lanciò l’altro dato che
sì, era
invitante, ma la mattina non era foriera di sesso; non nei giorni
lavorativi
almeno.
“No.”
Rese manifesto beccandosi una smorfia densa di disappunto.
“Niente sesso, maniaco.”
“Allora evita di
leccare
lascivamente la forchetta.”
“Sto mangiando.”
“Mi stai provocando.” Fu la replica stizzita e Al
suo malgrado sorrise alzando
le mani in segno di resa e prendendo a sorseggiare onestamente il suo
the. A
posteriori dovette ammettere che non fece granché resistenza
quando l’altro
aggirò il tavolo, lo afferrò per un polso e lo
trascinò verso il divano, ovvero
la prima superficie comoda disponibile.
Dai,
mi sono alzato presto oggi … posso
anche permettermi di perder tempo.
Decisamente.
Fu con il sudore ancora
sulla
pelle e le labbra di Tom che gli baciavano piano la nuca che quel
dannatissimo
pensiero fisso tornò.
Cosa
devo fare? C’è qualcosa
che devo fare, solo…
“Che
c’è?” Tom doveva aver
registrato il suo irrigidirsi. “Hai un pensiero in
testa.” Soggiunse.
Okay,
questo non doveva saperlo. Non mi sta neanche
guardando in faccia!
“Ti prego, dimmi
che non stai
diventando un Legimante.” Borbotto affondando la faccia in
uno del milione di
cuscini che infestavano il salotto.
“Credo di esserlo stato.” Replicò
pacato, poi scosse la testa quando si voltò
per guardarlo sconvolto. “Non ho detto di esserlo ancora. Sei leggibile anche senza magia,
Potter. Nella tua famiglia
indossate i vostri sentimenti come giacche vistose.”
Al sospirò,
riconoscendo il
punto. “Non lo so … è una sensazione
più che altro.” Ammise mentre con le dita
tracciava percorsi casuali sul petto dell’altro: troppo
magro, l’avrebbe
definito qualcuno. Non lui. “Mi ci sono svegliato
… è come se dovessi impedire
qualcosa. Un evento, una decisione…”
Sospirò alle sopracciglia inarcate che gli vennero rivolte.
“Lo so, non ha
senso spiegata così.”
Tom lo guardò a
lungo senza
dir niente, con quel suo singolare sguardo fisso che metteva a disagio
buona
parte dell’universo creato, oggetti inanimati compresi. Lui
ci era abituato sin
dall’infanzia – e gli era sempre piaciuto,
perché presupponeva il fatto che
qualcuno finalmente lo notasse nella moltitudine berciante della sua
famiglia -
quindi aspettò sereno il verdetto.
“No, non ha il
minimo senso.” Si
risolse a dire.
“Grazie tante, ci
arrivavo da
solo!” Tuffò di nuovo la faccia nel primo cuscino
disponibile. “Non riesco a
togliermelo dalla testa!”
“Va tutto be…”
Albus sentì un
brivido freddo
ficcarglisi su per la nuca come uno spillo, quindi trovò del
tutto sensato
bloccare le parole del compagno mettendogli una mano sulla bocca.
“Non lo dire.”
Sussurrò terrificato.
Tom aggrottò le
sopracciglia e
schiaffeggiò via la mano. “Cosa?” Un
lampo di comprensione gli illuminò il
viso. “Ah, naturalmente.” Alzò gli occhi
al cielo. “Non credi sia ora di
finirla con questa tua fissazione?”
“Sto parlando con
la stessa
persona che di secondo nome fa paranoia?”
Fissò il sole feroce che esplodeva sopra le loro teste e
oltre il lucernario
prima di distogliere lo sguardo abbacinato. Chissà
perché, quella vista lo
rassicurò meno di quanto non facesse di solito; ma del
resto, molti dei casini
a cui aveva assistito o che aveva vissuto in prima persona erano
accaduti in
giorni meteorologicamente gloriosi.
“Lascia
perdere.” Si risolse a
dire. “Solo, non dire che va tutto bene, perché lo
sai come funziona … Smette
di esser così nel preciso istante in cui lo dici.”
Tom lo guardò con espressione platealmente divertita. Gli
prese la mano e ne
baciò il palmo, quasi a ringraziarlo del momento esilarante
che gli stava per
regalare.
Eh?
“Al,
cos’hai appena detto?”
“Di non dire che va tutt…” Si
bloccò, spalancando la
bocca in muto grido d’orrore, cosa che fece scoppiare
l’altro in una risata davvero
inappropriata e stronza viste le
contingenze.
Dannazione!
Press
my nose up to the glass around your heart
I should’ve known I was weaker from
the start…
****
Diagon
Alley, Paiolo Magico.
Mattina.
“Non capisco
perché abbiamo
preso la camera con vista sulla strada. Costa il doppio.”
Un’altra lamentela e lo uccido.
Milo Meinster si considerava
un tipo estremamente paziente; tale doveva essere per sopportare il
proprio
coinquilino, assistito e sciagura personale ovvero il nanerottolo
dall’aria deperita
che rispondeva al nome di Sören Prince.
Da quando erano stati
Materializzati al Centro Smistamento Passaporte del Ministero inglese
quest’ultimo
aveva infatti alternato fasi cupamente taciturne a fasi altamente
iperattive,
in cui si guardava attorno come un falco strafatto argomentando e
criticando
tutte le sue scelte, dalla decisione di prendere un taxi babbano invece
della
Metropolvere – Milo aveva una camicia che gli era costata
metà stipendio
dell’ultimo mese, col cazzo
che se la
sarebbe fatta riempire di fuliggine – a quella di scegliere
una stanza che non
sembrasse il set di un film dell’orrore.
La taverna caldamente
consigliata dal Capitano Gillespie, il Paiolo Magico, era risultata
essere una
specie di agglomerato di assi fatiscente, con un personale che
oscillava tra
l’esser pietoso e il semplicemente inquietante. Il solo fatto
che la ragazzina
che li aveva accompagnati alla stanza fosse Maganò e avesse
l’aria di non
lavarsi da giorni gli aveva fatto salire il nervoso.
Qua
non starei neanche a smaltire una sbronza!
“L’abbiamo
presa perché mi
rifiuto di aprire la finestra e trovarmi di fronte un muro di mattoni
che puzza
di piscio. E tu?” Lo apostrofò salacemente,
vedendolo rabbuiarsi.
Ricordi
lieti da Nurmengard? Ci avrei scommesso.
“Sì, ma
dà sulla via
principale.” Borbottò Sören osservando i
propri bagagli come se da essi potesse
trarne conforto. Erano solo due borsoni purtroppo. “Se
aprissimo la finestra…”
“Potrebbero vederci?” Suggerì prima di
andare alla suddetta e spalancarla con
un colpo secco.
Per tutta risposta lo vide
quasi rinculare verso al porta. “Milo.”
Ringhiò con tono d’avvertimento.
Sì,
sì … non tirare troppo la corda e blablabla. Ma
si
sa, can che abbaia…
“Tranquillo, se
vuoi puoi
comodamente rintanarti nell’angolo più buio. Io ho bisogno di luce per la mia Arte e
genericamente per non
ammuffire.”
L’altro fece un
profondo
sospiro, poi si tolse il mantello da viaggio e prese a sfare
accuratamente la
propria valigia. “Non eri costretto ad
accompagnarmi.” Non riuscì a trattenersi
mentre riponeva i suoi pochi effetti personali nell’unico
armadio della stanza.
“Sei proprio
stronzo.” Ribattè
spassionato. “Se ti avessi lasciato andare da solo ti saresti
lasciato rifilare
un pulcioso sottoscala.”
Sören piegò le labbra in una smorfia che riusciva a
stravolgergli i lineamenti
in un pesante sarcasmo. Era raro vedergliela fare, ma dimostrava che
dietro la
sua cronica insicurezza a volte baluginava qualcosa che parlava di
orgoglio e
pretesa superiorità. Dopotutto, era
un Purosangue.“Questa stanza non mi sembra una reggia,
Milo.”
“È la loro suite.” Si
stiracchiò, sedendosi sul davanzale e frugando nelle
tasche dei jeans per trovare cartine e accendino. Una sigaretta per
iniziare,
uno spinello se la situazione fosse peggiorata nel corso della giornata.
Probabile
accadrà quando andrò in cucina per parlare
della dieta che deve seguire il principino…
Chissà
se conoscono la parola ‘cibo fresco’ da queste
parti?
Si infilò la
sigaretta dalle
labbra, sfilandola con una certa classe ed accendendola con un
fiammifero – non
era tipo da accendino, lui. Se c’era una cosa che lo
tranquillizzava, era
misurare i movimenti e compiere azioni banali senza sbavature. Era un
metodo
che aveva imparato dal violino.
La
precisione delle battute trasposta anche per
soffiarsi il naso. Ehi, funziona.
Sören intanto
fissava un punto
qualsiasi del pavimento consunto ed era uno spettacolo talmente
desolante che
quasi si sentì dispiaciuto dell’ironia spiccia con
cui l’aveva liquidato poco
prima. “A che ore devi andare al Ministero?”
“Tra due
ore.”
“Non dirmi che hai anche contato i minuti!”
Un vago rossore gli si diffuse sulle guance. “Ventisette
minuti.” Borbottò
fissando con astio il baldacchino di uno dei due letti singoli.
Milo sapeva di non poterlo
accompagnare; la sua ingerenza si fermava sulla soglia del loro
appartamento;
era un tacito accorto che avevano stipulato agli inizi della loro
convivenza e
non vi erano mai venuti meno.
Te
la devi cavare da solo, principino. E speriamo che
tu non faccia troppi danni.
“Nervoso?”
Sören
serrò le labbra. “Mi
prendi in giro?” Si passò una mano trai capelli.
“Sarà assolutamente sgradevole,
senza contare che anche se sono stati avvertiti potrebbero comunque
fare
ostruzione.”
“Intendi dire i Potter?” Milo scrollò la
cenere della sigaretta fuori dalla
finestra. Il davanzale non aveva bisogno di sembrare ancora
più miserabile. “Devono
collaborare con te, no? Altrimenti son guai per il loro Ministero. Hai
la legge
dalla tua.”
“Ma non la ragione.”
“Che palle!” Sbottò, perché
qualcuno doveva farlo. “Ti stai piagnucolando
addosso.” Impostò la voce in un tono lagnoso
d’eccellenza. “Merlino
come mi sento derelitto, i cattivi
inglesi mi inseguiranno con i forconi e mi picchieranno
perché sono brutto e
cattivo!”
Un lampo oltraggiato passò nelle iridi del mago, che
alzò la testa di scatto e
cambiò postura. Benedetto il giorno in cui aveva scoperto
che possedeva una
coda di paglia che neppure dodici mesi di prigione avevano potuto
spezzare. “Piantala
di ironizzare su qualcosa che non capisci.” Stavolta al posto
del borbottio
c’era un sibilo e andava molto meglio.
“Non sto
ironizzando, sto
dicendo la verità.” Replicò
serenamente, sorvolando sul fatto che l’altro avesse
ragione. Non ne capiva niente e neanche ci teneva: ma il punto era un
altro. “Devi
tirare fuori le palle.” Allargò le braccia
significativamente. “Perché credimi,
mostrarti tremolante non aiuterà a farti prendere sul
serio.”
“Io non sono…” Inspirò
bruscamente. “Non ho intenzione di mettere in una
posizione scomoda il nostro Ministero. Farò il mio lavoro e
non mi serve la tua
faciloneria.”
“Favoloso.” Replicò. “Passando
ad argomenti più frivoli, chi utilizza la doccia
per primo?” Si indicò e lo indicò.
“Tu,
decisamente. Nel caso piovessero ratti dal diffusore fammi un
fischio.”
Sören fece una smorfia, ma non ribatté, prendendo
la borsa in cui gli aveva
radunato le sue cose per il bagno e marciando via come il maledetto,
piccolo
soldatino che era.
Milo sospirò,
soffiando in
alto il fumo della sigaretta; sarebbero state cinquantasei ore
estremamente
spiacevoli, ma per fortuna destinate a finire a breve.
L’Inghilterra
me l’immaginavo diversa … un po’
bohémien,
una specie di Parigi con più pioggia, ecco.
Invece fino a quel momento
Londra gli era sembrata ben poco invitante, con il suo caos grigio,
puzzolente
e umidiccio.
Ma
non disperiamo. Devo ancora vederla in versione
notturna. Quella che poi mi interessa.
Si sporse per occhieggiare
la
folla che percorreva la cosiddetta Diagon Alley – in effetti,
era una strada
tortuosa quanto un sentiero alpino. Lo facevano sempre ridere i
mantelli in
appropriatamente colorati che sfoggiava il Mondo Magico europeo, in
fantasie
che non sarebbero sfigurate su un tendone da circo Babbano; fu quindi
naturale
che gli cascasse l’occhio su un ragazzo vestito sobriamente,
abbastanza
perlomeno da mostrare almeno un’infarinatura su come
accostare una giacca e un
paio di pantaloni dal taglio formale. Lavori di sartoria magica,
sicuramente a
giudicare dal taglio quasi vittoriano, ma comunque confezionati per
esaltarne
la figura alta e slanciata.
Ed
è pure di colore. Pancia mia fatti capanna …
peccato
sia tipo a venti metri in linea d’aria e non ci si possa
rompere l’osso del
collo per un bel faccino.
Trovò
però del tutto sensato ficcarsi
le dita in bocca e fare un gran bel fischio d’apprezzamento.
Michel voltò la
testa di
scatto, avendo la netta impressione che qualcuno avesse fischiato al
suo
passaggio. Con un certo disappunto, tra un paio di vecchiette e una
fila di
Folletti dall’aria arcigna, non riuscì a trovare
il cafone, probabilmente
dileguatosi nella folla dopo la bravata.
Peccato.
Umiliare pubblicamente un idiota sarebbe stato
rinfrancante.
Rinfrancante
perché in modo
irritante era iniziata quella giornata. Per cominciare il suo amante
della
notte non era uscito alle prime luci dell’alba come etichetta
imponeva,
imponendosi invece a colazione, e Loki, che si era ormai installato a
casa sua
come la muffa in bagno, gli aveva chiesto l’ennesimo prestito
per l’ennesima assurda
impresa finanziaria ai limiti della legalità.
Che
non importa che mi porti i guadagni duplicati, sono
certo che li centuplica e a me lascia solo le briciole. Razza di
gazza ladra.
Dulcis
in fundo,
mentre indulgeva in una doccia bollente era stato interrotto dallo
sparviero di
suo padre che, fastidioso come il genitore, aveva picchiato nei vetri
smerigliati del vano doccia finché non gli aveva aperto.
Li
ha rigati tutti, con quel dannato becco.
Aveva un appuntamento con Lord Zabini tra una ventina di minuti e
sperava solo non fosse per affibbiargli l’ingrato compito di
supervisionare
l’agente di collegamento americano al caso di Potter e
Scorpius.
Con
la fortuna che mi bacia nell’ultimo periodo, sarà
precisamente per questo.
You’ll
build your walls and I will play my bloody part
To tear, tear them down…
****
Scozia,
Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter. Mattina.
Ted era seriamente
preoccupato
per l’intera faccenda dell’arrivo di Von Hohenheim.
James quella mattina era stato più elettrico del solito;
aveva a malapena
toccato la colazione, si era ingozzato di caffè e aveva
spiccicato sì e no
qualche parola prima di baciarlo frettolosamente e infilarsi nel
camino, direzione
Londra. Per chiunque lo conoscesse, quello voleva dire avvisaglia di
tempesta.
Speriamo
Scorpius e Bobby sappiamo tenerlo a bada.
Anche il sergente Flannery dovrebbe aiutare …
Perché se fossero solo lui e Von
Hohenheim…
Non riusciva neanche ad
immaginare l’esito di un incontro a due; James aveva un
carattere limpido e
onesto, ma prono alle esplosioni di collera se l’oggetto che
gli stava davanti
veniva identificato come nemico.
E
di certo Von Hohenheim lo sarà.
Sistemò quello
che restava
delle povere begonie, detergendosi il sudore dalla fronte con la manica
della
vecchia camicia che usava per far quel poco di giardinaggio che serviva
a
mantenere il loro giardino presentabile. Era una mattinata
già rovente e non
vedeva l’ora di fare una pausa all’ombra della
cucina e riprendere la lettura
di un saggio che aveva iniziato qualche giorno prima.
Prima
però finiamo qui vecchio mio… e magari mettiamo
qualche incantesimo di protezione stavolta, casomai alla capretta
venisse in mente
di replicare la scena di qualche giorno fa.
Era così preso a
sistemare il
terriccio attorno alle piantine che quasi non si accorse del gufo che
planò
dolcemente nella sua direzione. Asciugandosi le mani sporche su uno
strofinaccio lanciò un’occhiata al volatile: non
sembrava un Famiglio, quanto
piuttosto uno di quelli in dotazione all’Ufficio Postale
locale data l’aria
efficiente e particolarmente stressata. Prese dalla terra un paio di
vermi e
glieli porse, strappando poi la ceralacca della missiva.
Una
convocazione per un consiglio cittadino d’emergenza
per questo pomeriggio?
Hogsmeade era una
comunità
tranquilla, quale avvenimento repentino aveva scosso la prevedibile
routine del
villaggio?
“Che
strano…” Ragionò ad alta
voce e in quel momento, quasi un deux ex
machina, Neville spuntò dal viottolo che passava
davanti al suo giardino
con al guinzaglio il cane di famiglia, un gigantesco San Bernardo
chiamato
ironicamente Little John. “Ehi Nev!” Lo
salutò avvicinandosi alla staccionata.
Il primo accorgersi di lui fu il cane e dovette indirizzare bene le
carezze per
non finire con una mano ricoperta di bava. “Passeggiata
mattutina?”
“Inevitabile, visto che Cedric adora Johnny ma molto meno
occuparsi dei suoi
bisogni primari.” Sorrise l’uomo stringendogli la
mano. “Che è successo al
giardino?”
“Non sei l’unico ad avere un animaletto
particolarmente vivace in casa.”
Replicò facendogli aggrottare le sopracciglia, prima che
capisse e scoppiasse a
ridere. “Hai sentito della convocazione di stasera?”
L’uomo tornò serio, strattonando appena il
guinzaglio per evitare che Little
John gli saltasse in braccio con venti chili di adorazione pelosa.
“Sì, ho
letto il Gufo giusto prima di uscire… È strano,
vero?”
“Molto.” Convenne. “Il Sindaco non
è tipo da riunioni all’ultimo minuto.”
Neville si strinse nelle
spalle. “Credo che sia per gli attacchi ai pollai e alle
conigliere di Langdon
e MacTaggart. Giù ai Tre Manici non fanno altro che
parlarne, si son convinti
che…” Fece una smorfia, grattandosi la nuca, un
movimento che lasciava
intravedere il vecchio adolescente insicuro che Teddy aveva sempre
fatto fatica
ad immaginare. Per lui Neville era stato prima un mentore poi, in
quegli anni
accademici, un amico solido come una roccia.
Non
credo avrei preso a cuor sereno certe decisioni,
senza aver prima parlato con lui. Mi ha sostenuto e consigliato quando
ho
definito il mio orientamento sessuale … e quando ho deciso
di andare a
convivere con Jamie.
Mica
cose da poco.
“Di cosa sono
convinti?” Era proprio
perché lo conosceva sin da bambino che quella titubanza lo
metteva in allarme;
il buon’uomo era solito parlargli schiettamente.
“Nev?”
Questo sospirò,
grattando il
testone di Little John, evitando una lappata bavosa a tradimento. Poi
gli
lanciò un’occhiata in tralice. “Pensano
che ci sia di mezzo un branco di
Mannari.”
Ah.
Adesso capisco.
Ted sentì una
sensazione
spiacevole alla bocca dello stomaco, ma sorrise nel modo più
rassicurante che
riuscì. “Beh, allora è una riunione che
non vogliamo perdere, giusto?”
****
Londra,
Ministero della Magia.
Ufficio Auror. Mattina.
Harry aveva pensato che
trovandosi davanti Sören avrebbe fatto fatica a tenere la
bacchetta nel fodero
e in un certo senso così era stato; quando Grace lo aveva
fatto accomodare
aveva davvero dovuto frenarsi per non far scivolare la mano dentro la
giacca.
Il problema, supponeva, era
come
comportarsi ora che ce l’aveva davvero davanti.
Sören Von Hohenheim
non era
una figura astratta verso cui indirizzare astio e recriminazioni, ma un
giovane
che, pallido e silenzioso, era in piedi davanti alla sua scrivania,
indossando
peraltro la stessa uniforme di Nora, un’uniforme che aveva
imparato a riconoscere
come amica. Quell’uniforme sembrava sfidarlo a ribattere, a
trovare un motivo
per allontanarlo come la persona sgradita che era.
Non
puoi. È un agente, caro il mio Salvatore, uno dei
ragazzi di Nora. Semplicemente, vecchio mio, non puoi.
“Agente
Von…” Iniziò, ma una
lieve contrazione nella mascella del ragazzo lo fece fermare.
Capì dopo qualche
attimo che non avrebbe spiccicato parola senza il suo esplicito
permesso. “C’è
qualche problema?”
“Prince,
Signore.” Disse e
Harry notò come l’accento tedesco fosse quasi
scomparso in favore dell’inglese
pastoso d’Oltre Oceano. Lo stesso
di Nora.
“Ho assunto il nome della famiglia di mio padre. Non sono
più un Von Hohenheim.”
Non
credo proprio.
Schioccò le
labbra ma si
mangiò accuratamente la frase. Meglio limitarsi a pensarla.
“Molto bene.” Disse
invece, sfogliando la documentazione che l’altro gli aveva
consegnato non
appena entrato.
“Agente Prince
dunque…”
Tamburellò le dita sull’incartamento. In qualche
modo doveva sfogare la
tensione e togliersi gli occhiali gli sembrava un gesto troppo
distensivo. “Hai
familiarità con la procedura che comporta questo genere di
indagini?” Andò
dritto al punto: approntare dei convenevoli di rito sarebbe stato
ridicolo per
entrambi.
“Ho studiato gli incartamenti, ma no, non ho mai partecipato
ad un’indagine
condivisa.” Fu la risposta pacata. Gli occhi, scuri come due
maledetti pozzi,
non riflettevano nulla, esattamente come la prima volta che si erano
incontrati.
“Le procedure
amministrative
verranno svolte dalla nostro ufficio e dal tuo.”
Iniziò a spiegare; dopotutto
era Capo dell’Ufficio Auror e come tale doveva comportarsi.
“Non sarà del
lavoro di scrivania che dovrai occuparti.” Si rese conto di
non avergli ancora
chiesto di accomodarsi. “Siediti.”
Per tutta risposta i lineamenti anodini del tedesco tremarono di
qualcosa di
indefinito, molto simile all’incertezza. Era a disagio,
realizzò di colpo: a
ben guardarlo si potevano intravedere le tempie bagnate di sudore e il
tendine
del collo scattare ad ogni sua minima replica.
Come
quando l’ho chiamato con il cognome di suo zio. Non
è così tranquillo come vuole dimostrare.
In un certo senso fu un
sollievo constatarlo.
Significa
che posso esercitare più controllo di quanto non
credessi.
Quando si fu seduto,
continuò.
“Quello che dovrai fare sarà farti spiegare il
caso dalla squadra che sta
seguendo le indagini, farti dare una copia del loro rapporto e dei
referti
autoptici. Poi prenderai in consegna gli effetti personali della
vittima e li
porterai alla famiglia. Questo, a grandi linee. Il Capitano Gillespie
mi ha
detto che avete avviato una ricerca sulla sua storia
familiare…” Lo imbeccò,
vedendo che non aveva la minima reazione.
“Sì,
è così.” Si riscosse di
colpo e poi, quasi avesse premuto un pulsante, snocciolò una
serie di
informazioni senza quasi prendere fiato. “Sam Howe risulta
essere privo di
famiglia, nessun congiunto stretto, né ascendente
né discendente. È stato
sposato, ma ha divorziato dalla moglie sette anni fa. Non hanno
mantenuto i
contatti e non hanno avuto figli. Lavorava…”
Cerca
di impressionarmi?
Harry detestava le persone
troppo zelanti. O meglio: apprezzava il duro lavoro e stimava chi
riusciva a
farne la sua primaria ragione di vita – dopotutto era amico
di Hermione da
tempi ormai immemori.
Ma
odio chi cerca di ingraziarsi le mie simpatie …
“Se
è scritto sul rapporto tanto mi
basta.” Lo fermò gelido. “Per ragguagli
più approfonditi non devi parlare con
me, ma con il sergente Flannery.”
Che
oggi si è dato malato. Tanto per aggiungere
carburante all’incendio.
“Sissignore.”
“Oggi il Sergente non sarà presente. Ha preso un
paio di giorni per malattia, e
dovrebbe tornare domani.” Aggiunse e Prince parve capire al
volo cosa avrebbe
comportato da come serrò appena le dita sul cuoio della
sedia.
Già.
Nella squadra rimangono solo gli Auror più
giovani, e James è quello con più
anzianità di servizio, se tale si può
chiamare esser entrato dodici mesi prima. Sarà a lui che
dovrà riferire oggi.
…
e per fortuna che Ron ha il giorno libero.
“Penserò
io a portarti dalla
squadra e fare le presentazioni, vista la delicatezza della
situazione.”
Prince si limitò
ad un lieve
cenno della testa. Dopo la debacle
di
poco prima, era tornato composto come un feretro. La sensazione di
disagio che
aveva percepito al suo ingresso si riacutizzò, mettendolo di
nuovo in guardia.
Nora si fida di lui, e Von Hohenheim
è
morto. Ma meglio mettere le cose in chiaro.
Doveva pensare a proteggere
la
sua famiglia, anche quando il pericolo non sembrava poi pericoloso.
Ho
fatto lo sbaglio di sottovalutarlo una volta. Non
accadrà ancora.
“Un’ultima
cosa…” Lo fermò
prima di aprire la porta. “Il capitano Gillespie te
l’avrà già detto, ma preferisco
ripetermi.” Si assicurò che lo guardasse negli
occhi prima di continuare. “Non
dovrai avere altri contatti, tranne me e la squadra investigativa. La
tua
presenza qui è un favore che faccio al tuo
Capitano.”
“Sissignore.”
Fu l’ovvia
risposta. Senza emozioni, senza anima.
Si
sta Occludendo.
Come
poteva fidarsi di un ragazzo che
usava una tecnica simile con la stessa naturalezza con cui respirava?
Afferrò
il pomello della porta in un muto gesto di ostacolo. “Hai
capito ciò che ti ho
detto? Non voglio che tu abbia niente a che fare con Al, Tom o
Lily.” Mormorò
senza distogliere lo sguardo, anche se quegli occhi gli ricordavano
altri,
forieri di ricordi che probabilmente mai avrebbe digerito.
“Nessuno di noi ha
dimenticato.”
Gli
occhi di Severus Piton. Dannazione, se gli
somiglia.
Non era tanto la somiglianza
fisica, comunque presente, quanto piuttosto una somiglianza spirituale:
come Severus
Piton, il giovane Prince riusciva a chiudere le sue emozioni dietro un
castello
inespugnabile. “È
nel mio stesso
interesse, Signore.” Fece una pausa, poi aggiunse.
“Non contatterò nessuno di
loro.”
Non si fidava delle promesse di un ragazzo che era stato cresciuto da
uno
psicopatico del calibro di Alberich Von Hohenheim, ma per il momento,
decise, non
poteva far altro. Aprì la porta e gli fece cenno di seguirlo.
Doveva cercare di
controllare
la respirazione. Doveva impedire al cuore di battere come una
grancassa, perché
era impossibile che Harry Potter non lo sentisse. Lui perlomeno lo
percepiva
come un maledetto frastuono.
Era all’interno
del Ministero
Inglese. Era nell’ufficio Auror. Era nell’ufficio
comandato dall’uomo a cui
aveva minacciato la famiglia. Metaforicamente, era nella fossa dei
leoni,
ferito e disarmato.
Sei
un agente. Te ne sei scordato? Sei uno di loro,
servi la Giustizia. Stai pagando i tuoi debiti. Stai cercando di
diventare una
brava persona. Sei uno dei loro. Calmati.
Se lo ripeteva come un
mantra
da quella mattina, ma non stava funzionando granché
perché quando era entrato
nell’ufficio dell’uomo per un momento aveva
dimenticato il suo distintivo, la
SAGITTA e persino il faldone di documenti che aveva con sé.
Per un attimo,
quando aveva incrociato lo sguardo del Salvatore, era tornato ad essere
Sören
Von Hohenheim; la spia, il giovane mago oscuro, il bugiardo.
Era stato orribile.
Ad ogni buon conto, dopo
quello sguardo raggelante, Harry Potter gli aveva stretto la mano,
senza
lasciar trapelare una sola recriminazione, una parola astiosa o una
battuta:
era anzi stato perfettamente educato. Il problema non era stato
ciò che gli era
uscito dalla bocca in effetti: ma gli occhi. Se uno sguardo avesse
potuto
uccidere come un Avada, quello del
Salvatore dei Due Mondi ne sarebbe stato fulgido esempio.
Incedendo dietro di lui
aveva
solo voglia di fuggire il più lontano possibile. Di tornare
in America, dove la
sua vita era cominciata solo pochi anni prima.
L’Europa
conosce il vecchio me. L’Europa sa.
Ma non poteva; poteva invece
mettere un passo dietro l’altro e continuare a controllare
ogni singola
reazione fisiologica del proprio corpo, disciplinandola, ingabbiandola.
Incontrerai
le persone che hai rischiato di uccidere
seguendo gli ordini di tuo zio. Come ti senti?
Serrò le mani,
nascondendole
dentro le tasche e chinando la testa; sapeva che era un atteggiamento
sconfitto
in partenza e naturalmente l’avrebbe abbandonato non appena
arrivato nel fitto
dedalo di cubicoli che era l’ufficio operativo…
Solo
un po’. Posso crollare solo un po’?
Harry Potter lo
aspettò, passando
poi tra la decina di separé di legno che nascondevano
scrivanie e sedie
occupate da Auror con le tipiche uniformi cremisi. Erano molti di
più rispetto
a quando era entrato e l’ufficio adesso sembrava immerso nel
caos, tra
promemoria viola svolazzanti e sbuffi di Camini Portatili.
Sören si sentì
numerosi sguardi addosso, ma li ignorò; molto probabilmente
i maghi presenti
erano incuriositi dal colore e la foggia della sua uniforme,
più che dalla sua
persona.
“Non capitano
spesso indagini
condivise, suppongo.” Osservò neutro.
L’uomo si
voltò, quasi stupito
dal fatto di sentirlo parlare. “È vero.”
Confermò. “Credo siano anni che non
indaghiamo su un Mago Oscuro straniero.
L’ultimo…” Si bloccò e a
Sören fu
chiaro che l’ultima persona non inglese su cui gli Auror
avevano indagato era
proprio lui.
“Andiamo, la
squadra ti sta
aspettando.” Si risolse a dire, dandogli nuovamente le
spalle. Sören ne fu
sollevato. Perché guardarlo in faccia era vedere Lily.
Guardarlo era sapere che
respirava la stessa aria della ragazza che per lui incarnava
l’idea di redenzione
– e che Milo ne ridesse pure. Guardarlo significava
realizzare che era tornato
in Inghilterra e che, nonostante questo, non avrebbe potuto vederla.
Era frustrante; aveva saputo
sin da principio che sperare in un incontro, anche solo fortuito,
sarebbe stato
come maneggiare una lama a doppio taglio, perché incontrarla
avrebbe
significato strappar via tutte le barriere che la giovane Potter gli
aveva
imposto per tentare di recuperare la loro amicizia.
O
costruirla da capo.
Anni prima, agli esordi
della
loro neonata corrispondenza, aveva letto tra le righe il bisogno
dell’altra di
mettere dei paletti: aveva compreso e accettato.
Ma
adesso sono in Inghilterra… e vorrei vederla.
È
così sbagliato?
Quella deriva di pensieri fu
bruscamente arrestata quando entrarono in uno dei cubicoli.
Sören si fece
scivolare via dalla faccia ogni emozione e tirò fuori le
mani dalle tasche: era
arrivato il momento.
Rivedere James Sirius Potter
e
Scorpius Malfoy fu duro esattamente come si aspettava; i due ragazzi
non erano
cambiati molto in quei cinque anni. Potter aveva sempre la stessa
espressione
di calcolata strafottenza con cui l’aveva brevemente
conosciuto e il rampollo
dei Malfoy era ugualmente alto, biondo e dall’aria brillante.
Entrambi non
sembrarono particolarmente sorpresi dalla sua apparizione, anzi, a
giudicare da
come erano già in piedi, dovevano esser stati avvertiti del
suo immediato
arrivo. Rivederli fu come ricevere una secchiata d’acqua
gelida addosso – e
aveva provato quel genere d’esperienza; rivederli fu come
essere immerso a
pieni polmoni in ciò che aveva fatto e ciò che
era stato.
Dannazione.
“Ragazzi…”
Harry Potter
sembrava a corto di parole, il che doveva esser sconcertante da come
vide il
ragazzo di colore – il terzo della squadra –
fissarlo smarrito. “… credo che le
presentazioni formali non siano necessarie. L’agente Prince
è qui per collaborare
all’indagine. In questi tre giorni…”
Sören percepì distintamente l’atmosfera
cambiare. Fu James Potter il primo a
parlare e non ne fu granché stupito. Era ovvio che non fosse
solo una questione
di anzianità; la presenza del fratello maggiore di Lily
sembrava irradiarsi ed
ingombrare l’intero cubicolo, schiacciando o rendendo
marginali quelle altrui.
Ricordava ancora il modo in cui l’aveva aggredito, il naso
rotto e il sapore
del sangue. Indubbiamente, era lui la persona con cui sarebbe stato
più
difficile avere a che fare.
“Non saranno solo
tre giorni.”
Disse; non tentò un approccio canonico, neppure fece il suo
nome o commentò la
frase del padre, semplicemente gli piantò lo sguardo addosso
e parlò. Fu
abbastanza. Un disgusto così plateale e spudorato lo aveva
visto solo negli
occhi delle guardie carcerarie Magonò di Nurmengard.
Non
sopporta di vedermi indossare un uniforme. Non
sopporta di vedermi qui. Non sopporta di dover lavorare con me.
Vorrebbe
ammazzarmi, ma non può.
C’era un intero
mondo
condensato nello sguardo di James Sirius Potter.
Harry Potter, forse
inconsapevolmente, interruppe il loro silenzioso confrontarsi, dando
segno di
sorpresa. “Che significa che non saranno solo tre
giorni?”
“Oggi abbiamo
ricevuto la
conferma dai Mortuari. Gli effetti personali di Sam Howe sono spariti,
qualcuno
li ha trafugati dal Padiglione Autopsie.” Intervenne Malfoy
con il tono
professionale e pacato di chi voleva solo svolgere al meglio il suo
lavoro; non
percepiva ostilità da parte sua, ma sapeva da Lily come
fosse un Occlumante di
talento. Poi
registrò il significato di
quella frase e delle precedenti.
Che
significa che gli effetti personali sono stati trafugati?
…
Significa che non saranno solo tre giorni,
principino.
Sören sapeva di non
poter
lasciar trapelare nulla di ciò che pensava, eppure, per la
prima volta in vita
sua, capì perché Estevez salutava eventuali
complicazioni in un caso con robuste
imprecazioni da taverna.
****
Hogsmeade,
Scozia.
Pub ai Tre Manici di Scopa, Pomeriggio.
Se c’era una cosa
che Ted
odiava erano le assemblee del villaggio.
Certo, era un buon esercizio per la democrazia, ed era giusto che
chiunque
avesse qualcosa da dire avesse la possibilità di esprimerlo,
che fosse una
lamentela, una perplessità o un’iniziativa. Lui
stesso trai suoi Tassorosso
incoraggiava quel genere di aggregazione e infatti i Prefetti erano
sempre
stati scelti all’unanimità dai suoi studenti, non
da lui.
Pur
vero che se vieni Smistato da noi, una certa
capacità democratica ce l’hai per indole.
Qui
invece…
Hogsmeade, per quanto fosse
una
comunità piccola, racchiudeva un microcosmo di indoli e
interessi molto diversi
ed era per questo che al momento la sala dei Tre Manici era stracolma
di gente
che gridava per farsi ascoltare, mentre il sindaco batteva inutilmente
il
martello su una sorta di podio improvvisato.
“Dovremo prendere
le bacchette
e ricacciarli dall’inferno in cui sono venuti!”
Tuonava MacTaggart, un corpulento
omone dal naso rubizzo, nelle cui mani il legno sopracitato sembrava
svanire
come uno stuzzicadenti. “Quanto ci vorrà prima che
scendano in città ed entrino
nelle nostre case!?”
“I
bambini!” Singhiozzò Mary
Landers, la proprietaria dello Scrivenshaft, stropicciandosi un
fazzoletto tra
le mani in una posa da eroina vittoriana. “Pensati ai
bambini! Quei mostri li mordono!”
“Come diavolo fate
a sapere
che si tratta proprio di Mannari? Qualcuno di voi occhi
d’aquila li ha visti?”
Sbottò salace Aberforth Silente, con un ghigno che lasciava
trasparire cosa
pensasse dell’intera faccenda. Ted, nonostante la frase
avesse innescato una
nuova ondata di proteste e grida, provò un moto di istintiva
simpatia per
quell’anziano testardo, ma dalla mente lucida.
Anche
perché, per quel che ho sentito, non credo si
tratti di Lupi Mannari.
Aveva ascoltato con
attenzione
e privo di pregiudizi i racconti di MacTaggart e Langdon. Entrambe le
storie
avevano punti in comune, certo: molte galline e conigli spariti, sangue
nelle
gabbie, animali terrorizzati e tracce che sparivano nel folto della
Foresta
Proibita. Ma mancavano altri elementi.
Prima
di tutto, il fatto che quando rubano i Mannari
distruggono. Le loro staccionate, come le gabbie ancora piene invece
sono
intatte, le ho viste passando. Sono palizzate robuste, da cui
né una persona,
né un animale di grossa taglia potrebbero passare, se non
fossero rotte.
E
poi hanno preso troppi pochi animali. Se sono un
branco dovrebbero aver bisogno di più cibo.
Sentì Neville,
seduto accanto
a lui con la moglie, dargli di gomito. “Ted, che ne
pensi?” Sembrò quasi
leggergli nel pensiero. “Qui gli animi si stanno scaldando, e
non vorrei
partisse una spedizione punitiva.”
“Ci
mancherebbe!” Esclamò
Hannah scuotendo la testa. “La Foresta Proibita è
già pericolosa da sola … Vi
immaginate un gruppetto di queste teste d’uovo là
in mezzo?”
“Credo che debba
esser fatta un’indagine
più approfondita.” Si lasciò sfuggire,
realizzando solo dopo il significato
intrinseco di ciò che aveva detto. Impallidì
all’aria folgorata di
consapevolezza del vecchio amico. “Io parlavo della Divisione
Bestie del
Ministero…” Tentò debolmente.
“Sciocchezze, quelli non hanno mai tempo per spostare i loro
sederoni dalle
sedie!” Sbottò Hannah che aveva un cugino che
detestava proprio in
quell’ufficio. “Tu saresti perfetto per capire che
sta succedendo!”
“È
vero!” Confermò Neville attirando
l’attenzione – ahimè
– anche dei
vicini. “Sei un professore di Difesa, e ti intendi anche di
Magizoologia o mi
sbaglio?”
“Sì, ma
…” Si sarebbe mangiato
le mani, vedendo come tutti intorno a lui si giravano e prendevano a
fissarlo
con curiosità.
Queste
sono le mie vacanze!
Oltretutto, aveva
già una
situazione abbastanza rovente in casa, con James e tutta la disagiante
faccenda
della seconda venuta di Von Hohenheim. L’idea di impelagarsi
in una caccia ai
Mannari non gli arrideva particolarmente.
Per
eufemizzare.
Con orrore si accorse che
anche Aberforth aveva sentito la conversazione. “Ah, il
figlio del Mannaro!”
Esclamò come uno sparo in mezzo alla folla. Come in un film,
le voci scemarono
di colpo. Non era difficile che tutti l’avessero sentito dato
che il tono di
voce di Silente si diceva rivaleggiasse con quello del defunto
fratello. “Tu
che ne pensi, ragazzo?”
Dannazione.
Se avesse potuto, si sarebbe
Smaterializzato nelle viscere stesse dell’Inferno, ma non
aveva scelta con
centinaio di occhi piantati addosso. Facendo strusciare rumorosamente
la sedia
sul pavimento si alzò, schiarendosi la voce.
“Penso che sia troppo presto per
giungere alla conclusione che si tratti di un branco di Lupi
Mannari.” Esordì
con il suo tono più pacato, lo stesso che usava a lezione e
che per fortuna
sembrava funzionare anche sugli studenti più disattenti.
Non
che qui ce ne siano. Non ho mai visto interlocutori
più attenti.
Merlino,
almeno mi avesse chiamato per nome…
Non si vergognava di suo
padre, non l’aveva e non l’avrebbe mai fatto. Per
lui non era mai stato una
vittima, né un carnefice, ma un uomo coraggioso con un peso
enorme da portare
sulle spalle. Non odiava la parte di patrimonio genetico che lo rendeva
irritabile durante la luna piena, ma ne ringraziava invece la
resistenza e
l’istintività naturale.
Io
sono fiero di essere figlio di un Mannaro.
Il problema, supponeva, era
spiegarlo alla folla morbosamente attratta da quel particolare.
“I Mannari, il
Signor MacTaggart ha ragione, si muovono in branco.”
Continuò. “Proprio per
questo mi sembra improbabile che abbiano attaccato, ci sono troppi
pochi danni…
Se fosse stato un branco non avremo trovato neppure le
gabbie.”
“Ma il sangue?” Argomentò Langdon, meno
agguerrito ma comunque ben deciso a far
valere quella teoria. “Solo i Mannari mangiano sul posto la
propria cena! E poi
c’era odore di lupo, nessuna storia. Io li ho visti i
Mannari, c’erano durante
la Battaglia di Hogwarts … la loro puzza non si
scorda!”
Ah
… certo, il branco di Greyback.
Inspirò
leggermente,
approntando il miglior sorriso remissivo che gli riuscì: gli
animi erano
surriscaldati, se lo sentiva sulla pelle come una scarica elettrica.
Non
credo lo percepirei, se non fosse stato per i geni
di papà…
“Infatti ho detto
è
improbabile, non impossibile. Credo che la cosa migliore da fare sia
contattare
la Divisione Bestie del Ministero.”
“Quegli idioti non sanno trovarsi il sedere con le
mani!” Sbottò Aberforth,
subito seguito da un coro di lamentele non dissimili.
“Ragazzo, non verranno
mai per una segnalazione. Quelli arriverebbero solo se avessi un
Mannaro morto
in giardino!”
Ted serrò appena
le labbra;
non avevano tutti i torti. La Divisione Bestie era forse
l’ufficio più
inefficiente del Ministero. Sotto-sezione del Dipartimento Regolazione
e
Controllo delle Creature magiche, il secondo in quanto a grandezza del
Ministero, difficilmente mandava i suoi funzionari su richiesta di un
cittadino.
I
Mannari continuano ad essere un po’ terra di nessuno.
C’era
sì un’unità appositamente
istituita per la loro cattura, ma i membri erano spesso ri-allocati per
pattugliare i cosiddetti ‘punti caldi’ della Gran
Bretagna.
Vedesi
territori di caccia dei draghi. Quelli sono
un problema
… Dopotutto, i Mannari lo sono solo una notte ogni trenta.
“Per il Ministero
un Mannaro
non è mai una priorità!”
Ruggì infatti MacTaggart. “E se arrivassero fino
in
città? La Luna Piena è tra pochi giorni,
potrebbero ucciderci tutti nel sonno!”
“L’unico branco conosciuto dimora stabilmente nel
Galles meridionale, quindi
non credo…”
“Possono esser migrati!” L’omone
sembrava ormai averlo
designato come suo principale opponente. “E poi tu che ne
sai, ragazzetto? Ne
hai mai visto uno? Qui noi vecchi ce li ricordiamo tutti quelli della
Battaglia
di Hogwarts! Solo perché ne hai visti dipinti su qualche
libro…”
Ted serrò la
mascella, combattendo
il fiotto di irritazione che l’aveva scosso quasi glielo
avessero iniettato in
vena. Se c’era una cosa capace di fargli saltare i nervi era
proprio
l’arroganza sciorinata come verità assoluta.
Quando a questa si aggiungeva l’ignoranza
tronfia, davvero cominciavano
a prudergli le mani.
I
Mannari non sono dannati uccelli. Non migrano, sono
stanziali.
Con gli anni – e i
ripetuti
battibecchi con James avevano aiutato – era diventato forse
più insofferente
verso le sparate altrui, ma non riusciva a trovarlo un difetto.
Qualcuno
direbbe che ho imparato finalmente a tirar
fuori le palle.
Lo
stesso James, probabilmente.
“Li studio,
come c’è gente che li ha studiati prima di me.
L’unico
branco esistente, come ho detto, è stanziale e si trova in
Galles. Troppo
distante da qui, non si spostano su grandi distanze. E forse non
è chiaro quel
che ho detto, ma gli attacchi non seguono il modus
operandi del branco.” Sentiva accanto a
sé Neville muoversi
inquieto; doveva essere per i suoi capelli visto le occhiate che gli
lanciava. Essendoseli
accorciato all’inizio dell’estate non poteva sapere
di che colore fossero
diventati, ma optava per un rosso fiammante come la carrozzeria di una
Ferrari.
“Potrebbe invece
essere un
singolo? Un solo Mannaro?” Interloquì Hannah,
l’unica che fino a quel momento
avesse fatto una domanda sensata. L’avrebbe abbracciata.
“Potrebbe.”
Ammise. “Se il
problema è avere delle prove per la Divisione Bestie,
possiamo chiedere aiuto alle
Creature della Foresta Proibita.” Sentendo levarsi una serie
di proteste sgomente
si affrettò a specificare. “Parlavo dei Centauri.
Non c’è foglia che si muova
nella Foresta senza che loro lo sappiano. Il Professor Fiorenzo
potrebbe avere
le risposte che cerchiamo dato che al momento si trova con il suo
branco.”
Quella serie di frasi provocò, come si aspettava,
un’ondata di mormorii e
perplessità, ma nessuna reale obiezione.
Nessuno
ha il coraggio di contestare apertamente la richiesta
d’aiuto ad un Centauro, che peraltro insegna ad Hogwarts.
Farebbe troppo
razzismo magico e grazie a Merlino, non va’ più di
moda.
“È una
buona idea.” Gli diede
manforte Neville. “La cosa migliore è chiedere a
chi già ci abita, senza andare
a disturbare gli equilibri della Foresta con delle ronde
cittadine.” Con uno
sguardo abbracciò la platea. “Siamo tutti
d’accordo?”
Alla fine c’era
voluta
un’altra ora e mezza prima che fossero tutti davvero
d’accordo.
Ted, nella via verso casa,
sentiva un’emicrania pulsare violenta e aveva solo
l’immenso desiderio di
riempire una vasca d’acqua bollente ed immergercisi sino alla
punta dei
capelli. Era stata dura rimanere gomito a gomito con gente
sovra-eccitata per
tutto quel tempo, specialmente considerando il fatto che il plenilunio
si stava
avvicinando.
Calma
e serenità. È quello di cui ho bisogno quando
arriva quel periodo del mese…
…
ha ragione Jamie, sembro una donna mestruata.
Svoltando per il viottolo
tortuoso che collegava le ultime case della città, la loro
compresa, alle
montagne, vide il compagno; era già arrivato e stava fumando
seduto sul
portico. Sospirò, dato che indulgeva
in
quel vizio solo quando era in una situazione di allegra compagnia o in
uno
stato di forte stress.
E
direi che questa è la seconda ipotesi…
Si chiuse dietro il
cancello,
salutando con il suo miglior sorriso senza chiedergli come fosse andata
la
giornata dato che poteva intuirlo dai capelli arruffati e
l’aria temporalesca. James
rispose con un cenno della testa, gettando il mozzicone; doveva esser
tornato
da un po’ a giudicare dal fatto si fosse cambiato, indossando
un paio di jeans
e una sdrucita maglietta dei Chudleys che aveva subito tanti lavaggi da
esser
diventata color salmone.
Forse
un bagno caldo e una tazza di the serviranno
anche a lui.
Gli si sedette accanto,
attendendo paziente. James aveva i suoi tempi e forzarlo a parlare
sarebbe
stato uno spreco di energie inutile.
E
sono già abbastanza stanco di mio, grazie.
“Che giornata di
merda.”
Esordì qualche minuto dopo. “Comunque non
è successo niente. Se ti aspettavi
che gli saltassi alla gola … Non che non volessi farlo, ma
c’erano troppi
testimoni. Papà non si è scollato un attimo da
noi, oggi. Il Sergente è malato
e mi sa che non si fidava a lasciarci soli con quello…”
Era una serie di frasi scollegate ma davano un quadro tinteggiato del
primo
incontro con il giovane Von Hohenheim. Qualche domanda però
a quel punto era
doverosa. “Il Sergente Flannery è
malato?” Iniziò prendendola alla larga.
“Si è
preso un paio di giorni
di permesso. Un tempismo del cazzo …”
Aggrottò le sopracciglia. “Deve star
davvero di merda per averci lasciati soli visto che conosce la
situazione.”
“Lo immaginavo.” Annuì, riflettendo
ancora un po’. Ci voleva un tatto estremo
in quel caso. “Quanto avete lavorato oggi?”
“Quasi niente. Quello è subito dovuto andare
via per
regolarizzare non so che roba giù a Cooperazione
Internazionale.” Si passò una
mano sul mento e quasi trovasse il principio di barba fastidioso fece
una
smorfia. “Ah, gli abbiamo detto che non saranno solo tre
giorni.”
“Perché sono stati rubati…”
“Già.”
Sospirò; non c’era mai fine al peggio, era proprio
vero. Non solo Von Hohenheim
era lì, ma finché non avessero fatto luce sulla
sparizione dei referti autoptici
della vittima non se ne sarebbe potuto andare. James
gliel’aveva comunicato in
via del tutto confidenziale la sera prima, in un momento di particolare
scoramento, e Ted non aveva potuto fare a meno di pensare che una sorta
di
nuvola nera aleggiasse sulla loro famiglia.
Sfiga
Potter-Weasley. Proprio vero.
“Harry come
l’ha presa?”
“Era
più incazzato di noi, ma
che vuoi farci? Non m’è piaciuto dirgli che ce lo
troveremo trai piedi fino a
data da destinarsi davanti a quello
…
ma dirglielo prima senza avere il rapporto dei Mortuari non sarebbe
stato da
procedura.” Fece l’ennesima smorfia. Non aveva
altre espressioni da giorni. “L’unica
cosa da fare adesso, è indagare su questo casino e
risolverlo il più in fretta
possibile.”
Ted non poté far
altro che
annuire. In confronto, tutta la faccenda del branco di Mannari
che-forse-tale-non-era
risultava una bazzecola. “E Von Hohenheim? Come si
è comportato?” Chiese
fermandogli la mano prima che prendesse un’altra sigaretta
dal pacchetto. James
gliela scacciò infastidito, ma rinunciò anche ad
accendersela.
“Adesso si fa
chiamare
Prince.”
“Prince?”
“Te lo ricordi,
no? Quel
bastardo è imparentato con Piton da parte di padre, tanto
per aggiungere
assurdità all’assurdo. Principe
Mezzosangue?” Suggerì e alla sua
espressione consapevole, scrollò le
spalle. “Beh, lui principe
lo è tutto
anche se un viscido, piccolo stronzo. Vuole affrancarsi dal suo passato
schifoso, e cambiar cognome dev’essere stato il primo
passo.” Replicò con un
sorriso che proprio non gli piaceva. Era sarcastico, cattivo e gli
storceva i
lineamenti. Non gli piaceva perché dietro sapeva ci fosse
dolore.
James
non è mai riuscito a digerire il fatto che Lily e
Al siano stati feriti e che lui non abbia potuto farci niente e adesso
che Von
Hohenheim è tornato è come se potesse rivivere
tutto da capo. Stavolta però in
prima linea.
Non era una situazione
facile
e Harry doveva averlo intuito se aveva lasciato la sua scrivania per
seguirli
da vicino durante il primo contatto.
Solo
che non potrà esserci sempre…
Rimasero in silenzio mentre
il
tramonto si tuffava oltre la linea delle montagne, ognuno perso nei
propri
pensieri. Alla fine, come sempre, fu James a rompere la quiete.
“E tu? Pensavo
di trovarti a casa, e non c’eri … Dove sei
stato?”
“Il Sindaco ha
indetto un
consiglio cittadino straordinario.” Esordì e poi
spiegò l’intera faccenda per
sommi capi, risparmiandogli i suoi stati d’animo dopo e
durante dato che se li poteva
benissimo immaginare. Infatti alla fine James aveva l’aria
più divertita che
preoccupata.
Sicuro
si starà immaginando quante volte mi sono andati
a fuoco i capelli. Lo ha sempre fatto ridere, sin da quando era
bambino.
Infatti con una mezza risata
gli
passò un braccio attorno alle spalle, stringendo appena.
“Merda, mio Teddy,
manco a casa si può star tranquilli … Mannari, ti
pare?”
“No, non mi pare,
ma vallo a
dire agli altri.” Sospirò, socchiudendo gli occhi
quando l’altro, pur con tutto
il suo malumore, gli passò le dita trai capelli in una
carezza affettuosa.
“Abbiamo avuto
cinque anni di
tregua…” Sogghignò James tirandolo a
sé per mordicchiargli l’orecchio. Il suo cattivo
umore, se ben indirizzato, portava anche a conseguenze non del tutto
spiacevoli. “Era ovvio che prima o poi i casini sarebbero
arrivati.”
“Ingenuo da parte mia desiderare che le cose continuassero
così, immagino.”
James sorrise con un fondo
di
amarezza che poteva comprendere solo chi era nato e cresciuto portando
uno dei
loro famosi e scomodi cognomi.
“Sai come si dice,
mio Teddy.
Attento a quel che desideri …”
****
Note:
Lo
so.
Due
settimane non sono un tempo accettabile per 12 misere pagine. Ma
complice
l’arrivo di un nuovo lavoro, che si somma a quello che
già facevo ha causato il
ritardo. Però ho messo un sacco di Jeddy!
Questa
la canzone. No, non c’entra niente il fatto che mi sia
già aggiudicata i
biglietti per questi omini meravigliosi, quando verranno nel 2013. Per
niente.
Leggetevi il testo. Solo, leggetelo.
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
Capitolo VI
Please
let me take you out of the darkness and into the light
There's no need to go and blow the candle out
I'm
reaching out to let you know that you're not alone
(Lullaby, Nickelback)
Inghilterra.
Da qualche parte nel Lancashire.
Sera.
“Mia
Regina…”
“Ah, ecco il mio giullare. Sei tornato presto, non ti
aspettavo prima di
sabato.”
“Non per usare facile ironia, ma Londra è un
po’ troppo grigia per i
miei gusti.”
“Mi porti buone
notizie?”
“Ho fatto
ciò che dovevo, di
Howe non esiste più traccia.”
“Eccellente!”
“Certo, non è
stato facile … al
Ministero Inglese sanno il significato della parola proteggersi, nessun
dubbio
su questo.”
“E per i tuoi sforzi sarai ricompensato, non preoccuparti.
C’è altro?”
“Sì,
un’altra buona notizia.
Ha tutto funzionato come previsto … È
arrivato.”
****
America,
Boston.
Ufficio SAGITTA, 10:30 PM.
“… e
quindi, per questo
motivo, non si tratterà solo di tre giorni.”
“Capisco.”
Nora Gillespie aveva molto su cui riflettere in pochissimo tempo. Prima
di
tutto doveva mantenere la calma, perché era evidente che il
Capo Auror Harry
Potter fosse un passo da perderla. Come genitore poteva capirlo, ma
come
ufficiale del Ministero non poteva scusarlo; Harry era un uomo retto e
giusto,
dalla forte fibra morale e dalla grande empatia, ma tutte queste sue
nobili caratteristiche
venivano offuscate quando la sua famiglia veniva tirata in ballo.
“Harry,
Sören resterà il tempo
necessario a chiudere le fasi preliminari dell’indagine. Per
potersene andare
ha bisogno della salma, o delle sue ceneri e dei referti autoptici. Se
manca
uno solo di questi elementi…”
“Lo so.” Fu la
replica serrata,
mentre le fiamme del Fuoco Portatile beccheggiarono come scosse da un
forte
vento. Persino ad un Oceano di distanza la potenza magica del Salvatore
riusciva a farsi sentire. “Ma la situazione qui potrebbe
diventare ingestibile.
Devi capire che mio figlio…”
Nora frenò l’istinto di rispondergli per le rime.
“Ti ho detto che comprendo la
situazione alla perfezione, Harry.” Il tono fu forse
eccessivamente duro, ma
non poteva permettersi di farsi schiacciare dall’ego
dell’altro. “Tuttavia la
risposta non cambia, il mio agente
rimarrà il tempo necessario.” Fece un profondo
sospiro. “Se non sai gestire
l’esuberanza dei tuoi uomini non devono essere i miei a
rimetterci.”
Il silenzio denso che conseguì alla sua frase le fece capire
che Harry aveva
accusato il colpo. Forse si stava preparando a sferrarne un altro
– per certe
cose era terribilmente settato su una mentalità da
battaglia, oltre che
naturalmente testardo – quindi si affrettò a
continuare. “Dato il ruolo che ha
giocato nella sicurezza della tua famiglia, cinque anni fa,
è naturale che non
vi fidiate di lui.” Era più un attestazione che un
riassunto, e l’Auror non
poteva ribattere. Era vero. “Però mi rifiuto di
credere che il motore di questi
sentimenti sia semplice pregiudizio.” Fece una pausa
calcolata. “Non sei forse stato
tu a dire che il pregiudizio è il cancro più
radicato, nella società magica?”
Dopo un secondo attimo di
silenzio profondo, sentì un sospiro. Harry era appena
capitolato di fronte alla
logica. Poteva quasi immaginarselo passarsi una mano trai capelli mai
domi e
togliersi gli occhiali per massaggiarsi la sella del naso.
“Sei sempre stata
brava con le
parole.” Mormorò con un’ombra di
sconfitta nella voce. “Hai mai pensato di
buttarti in politica?”
“Preferisco agire.” Rispose quieta.
“Quello che ti chiedo è fidarti della mia
capacità di giudizio. L’hai già fatto
quando ti ho chiesto il permesso di far
corrispondere Sören con tua figlia Lily…”
“Più che permesso, sembrò una questione
di vita e di morte.” Rintuzzò senza
troppa acrimonia. Sapevano entrambi che era vero: lo era stato.
“Non odio
Sören. Rispetto ciò che ha fatto per
cambiare.” Ma non rispetti lui
– pensò Nora, ma non lo disse. “Sono
soltanto preoccupato
per le conseguenze che la sua presenza porterà qui. Devo
proteggere la mia
famiglia, Nora. Ho già sbagliato, non lo farò
ancora.”
“Temo sia persino
più
spaventato di te dall’eventualità di ferire uno
solo dei tuoi figli.” Sospirò.
“È un bravo ragazzo, Harry. Merita che tu lo
conosca, che tu capisca che può
essere un acquisto per noi tutori della Legge Magica, e non una
sottrazione.”
“L’hai
sempre pensato…”
“E credimi, sto avendo riprove concrete.” Prese un
respiro per lanciare il
colpo basso per eccellenza; ma a volte, come in un match di boxe,
bisognava
usare anche quelli. “Ti chiedo di dargli una seconda
possibilità. È una cosa
per cui sei famoso, no?”
Lo sentì
respirare forte con
la bocca ed immaginò la sua aria annichilita con una certa
dose di
divertimento.
Non
serve esser Legimanti o aver davanti una persona
ogni giorno per capirla. Basta somigliargli.
“Sei una vera
strega…” Si
lamentò con un borbottio che glielo fece quasi immaginare
adolescente e
ombroso. “… e intendo nel senso Babbano
del termine.”
Nora fece una breve risata, ringraziando quella pausa distensiva. Non
lo
avrebbe mai ammesso che a se stessa, ma ricevere quella chiamata via
Fuoco
Magico era stato stressante quanto una riunione inter-Dipartimento con
Scott.
Anzi, forse di più.
“Gli amici servono
anche a far
notare gli errori.” Replicò ignorando il borbottio
incoerente che ne seguì. “E so
che Sören potrà far affidamento su di
te. Dovevo solo ricordarti…”
“… che posso essere una persona migliore di un
padre infuriato che serba
rancore?”
“L’avrei
detto meglio, ma sì.”
Trattenne una risata all’ennesimo sbuffo sconfortato
dell’altro, intuendo che
non doveva troppo tirare la situazione per i capelli. “Ti
ringrazio Harry.”
“Non sarà facile, ma cercherò di
…” Esitò. “… di
farmi un’idea onesta su Sören.
Te lo prometto.”
“Bene.” Al momento non poteva chieder di
più, quindi preferì cambiare
argomento, tornando su un territorio più fattuale.
“Piuttosto, come intendete
procedere con le indagini?”
“Non lo stai chiedendo alla persona giusta. Non mi occupo dei
casi singoli
delle mie squadre … Non ultimamente almeno.”
Aggiunse con una nota divertita
che registrò e condivise con un sorriso. “Il
Sergente Flannery avrebbe dovuto
prendere in mano il caso, ma ha preso un paio di giorni per malattia.
Domani
mattina i ragazzi faranno il punto della situazione e vedranno il da
farsi. Ti
arriverà comunque un rapporto esplicativo a
giorni.”
“Sören è una risorsa utile,
dovreste…”
“Lo utilizzeremo.” Tagliò corto.
“Non sono stato ragguagliato approfonditamente,
ma i ragazzi per ora mi hanno detto di non avere indizi. Non avendo
visionato
il referto autoptico non sanno neppure di cosa sia morta la
vittima.”
“Il Capo
Mortuario?”
“Sempre domattina.
Non è un
caso coinvolgente persone vive, quindi da procedura non ha la
precedenza.” Le
spiegò un po’ inutilmente dato che facevano lo
stesso lavoro, ma Nora glissò
per buona pace comune. Dopo aver parlato qualche altro minuto di nulla
in
particolare si salutarono.
Bene.
È almeno questa è fatta.
Essendo sola in ufficio a
quell’ora antelucana, si permise un lungo sospiro, reclinando
la testa sullo
schienale della poltrona.
Questa
non ci voleva …
Avrebbe dovuto considerare
quel caso esattamente come tutti gli altri e preoccuparsi quindi il
minimo
sindacale. Dopotutto Sören era solo uno dei suoi agenti.
Sì,
certo.
La realtà
è che non riusciva
ad esser imparziale; quel ragazzo magro e solitario era qualcosa di
più di un
semplice sottoposto. Era una preoccupazione,
ma non nel senso negativo del termine.
Adesso
capisco cosa Harry prova per Thomas.
Inconsciamente fece ruotare
al
dito entrambe le fedi: la più grande era tenuta ferma dalla
più piccola, la
sua.
L’ultima
persona che ha visto Jeremiah vivo…
Subito dopo la morte di
Alberich
Von Hohenheim, Sören era diventato la sua ossessione. Tale
perché gli era stato
strappato via nel momento stesso in cui gli agenti tedeschi gli avevano
chiuso
le manette ai polsi. Il giovane mago era stato infatti portato al DALM
di
Berlino e lei era stata fatta rimpatriare piuttosto forzosamente nel
giro di
una notte. Poi erano arrivate le richieste di spiegazioni, la rabbia
del suo
Dipartimento per le sue continue e plateali ingerenze nei Ministeri
altrui,
altre richieste di spiegazioni, il quasi licenziamento da cui si era
salvata
solo grazie al fatto che aveva effettivamente
portato alla caduta della Thule. Se l’era cavata con una
robusta sanzione
disciplinare che aveva finito per ornare abbastanza sterilmente la sua
scheda-agente e l’interdizione alla carriera politica; non
aveva rimpianto le
scelte fatte neppure per un secondo. Aveva calcolato con estrema
precisione la
conseguenza dei suoi gesti.
Se
vuoi avere giustizia, devi anche esser risposto a
rischiare. Calcolando, ma rischiando.
Durante la costituzione del
SAGITTA – la sua impresa poteva averla messo in una posizione
scomoda con i
palazzi del potere, ma le aveva fatto guadagnare la stima di molti, nel
Dipartimento – non aveva mai dimenticato il giovane mago
tedesco. Non tanto
perché avrebbe potuto esser utile per chiudere le indagini.
Sua obbiettivo principale
era stato un altro.
Sapere
dalle sue labbra le ultime parole di Jeremiah.
Sören
nell’anno dopo la morte
di Von Hohenheim era stato – e se ne vergognava ancora
– un oggetto a cui
aspirare, un qualcosa da cui pretendere
delle risposte in qualità di agente, ma prima di tutto, in
qualità di vedova.
Si era detta che solo così avrebbe potuto chiudere con i
demoni del suo passato
una volta per tutte. Ma come per tutte le cose, quello che aveva
desiderato si
era rivelato proprio ciò che non aveva ottenuto.
Stranamente,
però, è andata bene lo stesso …
Non era stato facile
arrivare
al ragazzo; i tedeschi, dopo aver capito che Sören era stato
nient’altro che
uno strumento cieco nelle mani dello zio, avevano realizzato che non
sapevano
cosa fare di lui. Non potevano lasciarlo a piede libero, ma neppure
consegnarlo
alla sua Task-force; troppo era stato fatto sotto il loro naso e per
orgoglio
avrebbero preferito gettarlo in mare che metterlo su una Passaporta
Continentale.
Poteva quasi immaginare i
pensieri dei funzionari incaricati di interrogarlo e scrivere il
rapporto
conseguente, come poteva immaginare i pensieri che avevano preceduto la
sentenza dei giudici dello Zaubergamot¹:
il giovane Von Hohenheim non solo era inutile persino come informatore,
ma
anche presumibilmente pericoloso, avendo il nucleo di una bacchetta
impiantata
nel braccio ed essendo quindi impossibile privarlo della
capacità di usare la
magia.
Quel particolare, quando
l’aveva scoperto tramite i suoi contatti tedeschi, per la
prima volta gli aveva
fatto provare pena invece che rabbia. Oltre
al desiderio di poterlo interrogare, per
la prima volta, la sua indignazione di madre aveva surclassato la
rabbia di
vedova.
Sören
è stato usato né più né
meno che una bacchetta. E
si sa che fine fanno le bacchette dei Maghi Oscuri.
Un
ragazzo-bacchetta. Un giovane mago addestrato per
uccidere, rubare e non avere remore morali. Molto meglio buttarlo, che
cercare
di riutilizzarlo.
Era con quello spirito che
doveva esser stata presa la decisione di spedirlo a Nurmengard con una
sentenza
vita natural durante; come si nascondeva lo sporco sotto un tappeto,
così il
Ministero tedesco aveva nascosto il frutto della follia magica di Von
Hohenheim
nel luogo più buio e impenetrabile che conoscesse.
Sören era rimasto
tredici mesi
a Nurmengard con la certezza che avrebbe dovuto trascorrerci tutta la
vita e
ancora, negli occhi, gli si poteva leggere quella condanna.
Solo
nell’ultimo anno ha smesso di sembrare sorpreso di
essere libero.
Doveva comunque ammettere,
in tutta
onestà e nel silenzio del suo ufficio, che il suo primo
pensiero non era stato
tirarlo fuori di lì, quanto piuttosto riuscire ad avere le
sue risposte. Niente
di più.
Pensavo
anche io che non valesse la pena … Dopotutto,
rimaneva sempre il nipote di Alberich Von Hohenheim.
Era stato solo dopo aver
visto
quello che Nurmengard stava rischiando di fare ad un ragazzo la cui
unica colpa
era stata aver avuto un’educazione sbagliata, che aveva
capito che era suo
dovere in quanto essere umano
dargli la
possibilità di riscattarsi. Come aveva detto ad Harry, stava
avendo riprova
ogni giorno della giustezza della sua decisione; Sören, tolta
la presenza
asfissiante di Alberich Von Hohenheim le stava provando di essere un
giovane
dall’animo retto.
Si
potrebbe dire che l’ho scoperto io … Anche se,
ammettiamolo, non sono stata io a salvarlo.
Metaforicamente, era stata
niente più che una mano tesa verso una
possibilità, perché chi l’aveva spinto
a
stringerla non era certo stata lei, ma bensì una lettera
firmata.
I
salvatori, dopotutto, pare abbiano sempre lo stesso
cognome.
****
Quello
che lo faceva impazzire era il continuo fischio
del vento.
Era
come avere un punteruolo di ghiaccio a grattargli i
timpani tutto il giorno, senza che potesse far nulla per potersene
liberare. A
volte il vento smetteva, ma non sempre. A Nurmengard si doveva comunque
accogliere con sollievo quei giorni di quiete e fare il pieno per
quanto il
vento avrebbe ripreso.
Una
prigione era una prigione. Esistevano molte
declinazioni di quel concetto, certo, ma la sua ne era sicuro, era la
più
orribile di tutte.
Era
Nurmengard.
Il
vento, il freddo. C’era tanto freddo, ma mai
abbastanza per causare danni. Quello che bastava per non riuscire mai a
prendere sonno senza rabbrividire e continuare a sentirlo. Quel freddo.
Una
cella, pasti consumati insieme ad una torma di
disperati incattiviti e il braccio, quel braccio che non smetteva mai
di far
male, stretto in una morsa fatta di acciaio e rune magiche. Alla fine
erano
riusciti a neutralizzarlo: cosa importava se la pelle suppurava, se il
dolore a
volte era così forte da tenerlo sveglio la notte?
Sören
Von Hohenheim, prigioniero numero ottantatre.
Ottantatreesimo in un centinaio. Un numero, una divisa e una cella
grande
quanto un armadio per le scope.
Dovevi aspettartelo,
principino. I cattivi non meritano perdono. Mai.
Meritavano
Nurmengard.
Aveva
già detto che era il vento a farlo impazzire? E
il buio in cui era perennemente immerso quando non mangiava in
refettorio
anche. La chiamavano deprivazione sensoriale, gli sembrava di
ricordare…
Nurmengard per tutta la vita; così diceva la sua sentenza ed era
inutile
segnare i giorni e tenerne il conto, perché lo avrebbe perso
prima o poi. Che
senso aveva contare quella che sembrava l’eternità?
Nessun senso.
Avevano
paura di lui.
Sì,
avevano paura di lui. Non solo gli altri
prigionieri, ma anche le stesse guardie. Non era mai stato bravo a
decifrare i
sentimenti altrui, certo, ma la paura, il sentimento che ti faceva
storcere le
labbra e ti rendeva lo sguardo di pietra, quello lo conosceva bene.
Erano un
vecchio amico, dopotutto.
Le
guardie ogni sera, quando controllavano i
braccialetti metallici che avevano salutato il suo arrivo, lo facevano
con
rabbia, strattonando il braccio
fino a farlo quasi urlare.
(Non
urlava mai. Aveva provato a protestare una sola
volta e gli era arrivato un pugno in bocca che gli aveva spaccato le
labbra.
C’era voluto un mese prima che guarisse.)
Il
problema con le guardie, aveva capito, era proprio a
sua magia; a volte la notte la sentiva incendiargli le vene, gridare
per essere
liberata dalla costrizione a cui le manette runiche la costringeva.
Allora lo
stomaco gli si rovesciava e doveva trattenere i conati per non sporcare
la
branda.
(Nessuno l’avrebbe pulita).
Le
guardie Magonò avevano paura di lui, ma al tempo
stesso sapevano che era innocuo. Non c’era bisogno di dire
altro per terminare
l’equazione.
Era
quella la sua realtà, quindi aveva imparato a
stringere i denti e far passare le ore, i giorni, le settimane come se
fossero
tutto un lungo incubo. Dagli incubi ci si svegliava prima o poi, no?
Era
così che ricordava quei mesi. Come un lungo,
allucinato incubo e dunque era normale che alle volte i ricordi e il
sogno si
mischiassero assieme. Quando succedeva non era mai sicuro se stesse
ricordando,
sognando, o se fosse ancora là dentro…
“Ecco il nostro
mago
preferito… Avanti, carogna! Ti credi migliore degli altri
prigionieri? Di noi?
Nossignore, carogna di un mago, qua comandiamo noi. Se ti diciamo di
tenere gli
occhi bassi e farti i fatti tuoi, tu che fai?”
Non
rispondeva mai. Rispondere gli era costato tre
giorni di sangue in bocca e le costole ammaccate.
Johannes
gli aveva detto che la prigione tirava fuori
il peggio da un mago, ed era vero.
Se solo fossi libero
… Se
solo… Li ammazzerei tutti.
Lo
stava tirando fuori anche da lui.
“Hai voluto
prendere le difese
della tua amichetta in refettorio, vero? Com’è che
si chiama? Lily?”
Lily?
Lilian? No, non era possibile.
Il
carceriere aveva detto proprio il suo nome però. E
non aveva volto, solo un taglio enorme sulla faccia che ghignava.
Ghignava. A
ben guardarlo, sembrava quello di Johannes.
Il
guardiano era Johannes?
“Mi sono proprio
divertito con
la tua gallinella…”
No, non poteva essere che Poliakoff. Non era morto? Se era morto, forse
era
morto anche lui.
Poliakoff
e Johannes erano proprio il genere di persone
che avrebbe potuto fare male a lei.
Ma
Lily che ci faceva a Nurmengard?
Doveva
esser colpa sua.
“Strillava e
piangeva, sai?
Chiedeva aiuto e tu dov’eri, principino?”
Aveva
provato ad alzarsi, a gettarglisi contro, ma le
manette ai suoi polsi sembravano incatenate alle viscere stesse della
Terra.
Allora aveva capito che doveva supplicarlo, ma sentiva la bocca piena
di
sangue, come se gli avessero di nuovo tirato un pugno.
Non
era proprio in grado di aiutare nessuno.
“Sei sicuro di non
averla
ammazzata tu?”
Quello era davvero un buon
momento per gridare.
****
Inghilterra,
il Paiolo Magico.
Notte.
“Ehi! Svegliati,
è un incubo,
è tutto a posto! Calmati!”
Cosa c’era di
meglio che esser
tirati giù dal letto da qualcuno che urlava allucinato? Milo
se lo chiedeva con
scoramento totale mentre tentava di svegliare Sören, in preda
a quello che era
un robusto incubo terrorizzante a giudicare da come si agitava e
tentava di
liberarsi delle coperte che gli si erano attorcigliate ai piedi.
“Svegliati!”
Sören, finalmente libero dalle costrizioni del letto, invece
che ringraziarlo
sbarrò gli occhi come un completo psicopatico e con un
ringhio gli tirò un
potente spintone in mezzo al plesso solare. Milo crollò
tirandosi dietro
coperte e un paio di cuscini, impattando duramente contro il pavimento.
Ma
vaffanculo!
Il suo grido oltraggiato
sembrò però servire. L’altro
batté le palpebre e lo mise finalmente a fuoco.
“…
Milo?” Chiese con voce stentata.
“Cosa…”
“Stavi sognando, imbecille!” Esclamò
massaggiandosi la nuca, dato che cadendo
aveva tirato una craniata non indifferente contro il comodino che
divideva i
loro letti. “E per svegliarti mi son quasi rotto la
testa!”
Doveva però ammettere che un po’ se
l’era cercata; con i riflessi da soldato
traumatizzato che l’altro aveva avrebbe dovuto ricordarsi che
quando aveva un
incubo doveva esser tenuto a distanza.
E
mi è andata bene che mi sono beccato solo uno
spintone.
Gli lanciò
un’occhiata
valutativa: Sören lo stava fissando con occhi enormi di paura
e con il respiro
corto, quasi si stesse chiedendo se classificarlo come nemico o come
amico; era
di nuovo cosciente, ma fosse dannato se era in sé.
“Okay, hai bisogno
di una
pozione Soporifera” Stimò pratico, alzandosi in
piedi ed infilandosi i
pantaloni. “Vado a chiedere se nei dintorni
c’è una Medimago di guardia. Ce li
hanno qua in Inghilterra?”
“No.”
Il tono era roco, ma stabile. “Non voglio prendere pozioni.
Sto bene.”
Sì,
come no.
Merda,
pensavo che gli incubi se ne fossero andati.
Non ci aveva mai sperato
troppo; il mago durante il loro primo, ridente anno di convivenza aveva
avuto
il sonno completamente devastato da incubi che variavano dalla sua
morte a
quella delle persone a cui aveva voluto bene o a cui stava imparando a
volerne
– non che glielo avesse detto, lo aveva dedotto dalle sue
grida.
Dopo i primi tentativi di
calmarlo finiti in un buco nell’acqua, ne aveva parlato con
Eleanor Gillespie,
la mammina putativa del matto e questa, senza il minimo tentennamento
– era americana -
l’aveva spedito da uno
Psicomago che per tutta risposta gli aveva rifilato una lista di
Pozioni lunga
sessanta centimetri.
Americani
… pensano che le Pozioni risolvano tutto.
Sören aveva stretto
i denti
per sei mesi prima scaricare tutto nel gabinetto e cominciare a mentire
persino
al suo adorato Capitano inventandosi di notti serene come uno specchio
d’acqua.
Non
che non funzionassero. Funzionavano. Peccato che
nelle ore diurne lo facessero sembrare vitale come un Infero. Ah
sì, e poi
danno assuefazione.
Alla fine, un po’
con l’aiuto
della medicina Magonò, un po’ per testardaggine,
gli incubi se n’erano andati,
anche se più lentamente di quanto non fosse stato
millantato. Se n’erano
andati, forse, perché Sören aveva realizzato che
non sarebbe più tornato nel
posto che glieli generava.
Solo
che mi sa che anche l’Inghilterra genera mostri.
Per questo Milo se li era
aspettati, per questo si era coricato ancora vestito e per questo aveva
rimandato la sua prima uscita nella Londra notturna.
E
poi mi si dà del cattivo ragazzo…
“Hai
l’aspetto di un topo
caduto nel fiume.” Disse spassionato, incrociando le braccia
al petto. “Ti
servirebbe proprio, una Pozione.”
“Ti ho detto che non la voglio. E poi, non mi faccio dare
consigli da un drogato.”
Digrignò i denti passandosi
una mano trai capelli appiccicati alle tempie. Sören era
spesso la
rappresentazione vivente di quello che gli strizzacervelli babbani
chiamavano sbalzi d’umore:
quando era sotto
pressione era capace di passare in pochi attimi dall’apatia
all’aggressività, e
se preso per il verso sbagliato poteva diventare piuttosto problematico
da
gestire.
Beh,
l’han represso da quando era in culla. Tutto
sommato, se ogni tanto tenta di mordere, è quasi normale.
“Ci diamo al
sarcasmo?”
Replicò tranquillamente. “Comunque, se non vuoi i
miei consigli, almeno fatti portare
una tisana.” Sbuffò raccogliendo coperte e cuscini
caduti per terra.
Londra
gli sta davvero avvelenando il sangue. Grandioso.
“Va
bene…” Capitolò con una
piccola smorfia. “Una tisana va bene. Va’ a
prendermela.”
Milo obbedì: avrebbe voluto coprirlo di insulti per averlo
svegliato, avergli
quasi rotto la testa e soprattutto per avere quel tono da padroncino
odioso, ma
sarebbe servito?
La
risposta è no.
Si infilò un
maglione e scese
fino alle cucine, sperando di trovare qualcuno ancora alzato.
Fortunatamente la
locanda era aperta fino a tardi e riuscì quindi a trovare
una delle sguattere
Magonò ancora alzata. Si fece quindi scaldare un
po’ d’acqua e chiacchierando
con lei il tempo sufficiente per farle capire che remavano sulla stessa
barca
dei senza-bacchetta riuscì a farsi dare una mistura di erbe
sufficientemente
potente da stendere un bisonte.
Noi
Maghinò non avremo le pozioni o le bacchette, ma in
compenso in quanto a metodi alternativi siamo dei re. Un po’
la differenza tra
la roba da farmacia e quella da erboristeria.
Quando tornò in
camera
reggendo una tazza fumigante trovò Sören nella
stessa posizione, sebbene con un
pigiama pulito e l’aria meno malsana: doveva essersi fatto
una doccia. “Vuoi
parlarne?” Gli venne spontaneo chiedergli.
“Di cosa?” Accettò la tazza con un cenno
della testa e ne bevve un piccolo
sorso, facendo una smorfia schifata quando si rese conto che era amara
come il
fiele.
“Lo so, potevo
zuccherarla, ma
mi hai svegliato quindi devi soffrire.” Gli
comunicò sereno, ignorando l’ennesima
occhiataccia e tornando sul binario del discorso precedente.
“Dell’incubo
intendo. Pare che parlarne faccia bene.”
Sören fece un
sorrisetto
stiracchiato. “Abbiamo già affrontato questa
discussione … Tu parli mai dei
tuoi? Non dico a me, ma in generale.”
“Touché.”
Si stiracchiò, togliendosi il maglione dato che con il
camino acceso dal pomeriggio quella camera era un discreto inferno di
calore. Sören
odiava il freddo. “C’è altro che posso
fare per te, mio Signore e unico
padrone?”
Maaai
chiamarlo principino dopo gli incubi. Mai.
“No.”
Gli concesse dall’alto
della sua magnanimità, poi esitò leggermente,
scoccandogli un’occhiata di
sottecchi. “Suoneresti? Per me?”
“Ed ecco che con
questa frase
abbiamo raggiunto un livello di ambiguità oltre il
tollerabile.”
Sören lo
fissò neutramente;
per certe cose sembrava totalmente privo di malizia o retropensieri.
“Ti ho
solo chiesto di suonare qualcosa per me.” Obbiettò
infastidito. “La musica è
stata provata avere un effetto calmante e oltre a questo sei un
pregevole esecutore.”
“Sono un fantastico
esecutore.”
Scrollò le spalle divertito andando a recuperare la custodia
del violino e
gettandola sul letto per aprirla con uno scatto allenato.
“Sai che
probabilmente verranno ad ucciderci per il rumore?”
“Ho lanciato un Mufflatio alla
stanza, non ci sentirà nessuno.”
“E ora anche con le allusioni sessuali!”
“Milo.”
Rise, perché vedere la faccia infastidita
dell’altro era molto meglio che
vederlo rattrappito nel letto. “Allora, padrone, che pezzo
desiderate per
conciliarvi il sonno?”
Sören
riuscì quasi a prodursi
in un’ombra di un sorriso. “Al momento non mi viene
in mente nulla, scegli pure
tu.” Togliendo la malizia, le allusioni sessuali e il suo
essere un cinico
convinto, era il sorriso più triste e fragile che avesse mai
visto.
Ah,
altro che cinico. Sono un romantico. Incompreso, ma
tale.
“Debussy?
Sì, direi che è un
momento da Debussy, Sonata in Sol minore.” Stimò e
quando l’altro aggrottò le
sopracciglia confuso scosse la testa con riprovazione.
“Ignorante, componeva
anche per violino, sai?”
“Ora lo
so.” Si riadagiò sui
cuscini chiudendo gli occhi. “Comincia pure.”
Quel mago si fidava di lui, pensò imbracciando il violino e
sfiorando le corde
con l’archetto; di certo non avrebbe abbassato la guardia in
quel modo di
fronte a chiunque. Era una strana sensazione, quasi disagiante per
certi versi.
Nessuno
si è mai fidato del sottoscritto. Nemmeno dei
miei. E non che avessero tutti i torti.
Non
è che vien fuori che siamo amici? Cielo, che
orrore. No, eh!
Accantonò quel
pensiero veramente disagiante
concentrandosi
sulla musica che gli scivolava tra le dita e, come ogni volta, si
trovò a sorridere;
il principino non aveva avuto tutti i torti a dire che aveva un effetto
calmante. Era come acqua fresca, capace di lavare via lo sporco
appiccicoso
della vita reale. Almeno per lui era sempre stato così;
suonare non era solo
tenere le dita elastiche e bearsi della propria bravura tecnica.
Suonare era
ricordarsi che, persino quando era nel suo momento più
basso, più miserevole,
poteva innalzarsi ed essere di nuovo umano.
Quando finì di
suonare il
terzo ed ultimo movimento l’altro era ancora sveglio, sebbene
l’espressione
rilassata indicasse come fosse ormai prossimo a scivolare nelle maglie
del
sonno.
Grazie
musica e grazie tisana …
“Molto
bello.” Disse battendo
le palpebre per tenerle aperte. “Posso farti una
domanda?”
Sospirò,
sedendosi sul proprio
letto. “Non puoi semplicemente entrare in coma come fai di
solito?”
Sören lo ignorò. Non faceva altro da che lo
conosceva. “Perché rimani?” La
domanda era seria, una di quelle domande che non dovevano essere fatte
alle due
di notte pena la defenestrazione.
Ma
figuriamoci se questo lo capisce…
“Con
te?” Scrollò le spalle, mettendosi
il violino sulle ginocchia e versando qualche goccia di trielina su un
panno morbido
per pulire le corde dalla pece² della quale si erano
impregnate sfregando con
l’archetto.
Posso
pur fare manutenzione, tanto ormai son sveglio…
“Perché
mi paghi uno stipendio
niente male, se paragonato alle paghe da fame che voi maghetti date
solitamente
a noi Maghinò.” Disse spassionato. “E
perché mi lasci usare la tua ricca
eredità. A proposito, per questa bella gitarella nel regno
dello squallore
voglio una macchina. Una Cadillac potrebbe andar bene.”
Sören
sospirò, nascondendo poi
uno sbadiglio in una mano. “Sono certo che avresti potuto
servire persone meno
… complicate.”
“Sicuramente.” Confermò. “Il
fatto è che mi piacciono i tuoi soldi.” Fece un
mezzo sorriso, riponendo lo strumento e i suoi accessori con attenzione
nella
custodia. “Ma vuoi una risposta seria?”
Non vi fu risposta; si era
addormentato e Milo finalmente si permise di tirare un sospiro di
sollievo.
Perché
rimango?
Perché Eleanor
Gillespie era
un’impicciona, prima di tutto: la strega americana era
irrotta nella sua
tranquillissima vita post-castello-degli-orrori chiedendogli un favore
in
cambio di una sacca di monete tintinnanti. Fin lì, nulla di
eccezionale: non
era la prima persona con cui concludeva affari del genere.
Sono
sempre stato un tipo socievole…
Il problema era
l’entità del
favore.
Caro
Milo, aiutami a convincere le guardie carcerarie
di Nurmengard a farmi entrare a Nurmengard. Del resto voi
Maghinò vi conoscete
tutti…
Non aveva detto proprio
così;
aveva usato un sacco di belle parole e giri semantici da professionista
della
favella, ma il significato era quello.
Che
poi è vero. Siamo tutti una grande, disgraziata e
derelitta famiglia del cazzo.
Credo
che se lo sapessero gli zingari Babbani ci
chiederebbero i diritti per l’idea…
“Momento.
Prima domanda. Come mi avete trovato?”
Era
un quesito legittimo, aveva pensato Milo
considerando che era riuscito a scappare in modo piuttosto epico dalla
corte di
poliziotti e adolescenti problematici riunita di fronte al castello dei
Von
Hohenheim. Ad un anno dall’accaduto pensava di essersi
lasciato quella storia
allucinante alle spalle, e invece…
“Io ti ho
trovato. Non c’è nessun altro, nessun
Ministero. Solo io, Nora.” Aveva specificato fastidiosa fino
alla punta dei
capelli leonini, a giudicare da come si era accomodata al suo tavolo
perfettamente
a suo agio, nonostante fossero in una bettola che vantava un pubblico
di
avventori che oscillava trai semi-umani e i tagliagole.
No, non me la sto passando
bene. Ma quando la borsa diventa vuota, è qui che finiscono
quelli come me.
“Favoloso
Nora, ma non ha risposto alla mia domanda.”
Si era acceso una sigaretta, un po’ per darsi un tono
– non si faceva la barba
da giorni e si sentiva
puzzare - un po’ perché
gliel’avrebbe potuta
spegnere addosso e crearsi una vita di fuga se le cose si fossero messe
male.
“Ho
chiesto alla coppia di Maghinò che ha servito con
te di dirmi dov’eri finito.”
“Etzel e Hilda.” Aveva realizzato. “Avrei
dovuto lasciarli tra le fiamme…”
Aveva borbottato e stranamente l’americana aveva sorriso.
“Non
credo l’avresti fatto. Parlano di te come il loro angelo
custode. Mi hanno raccontato che gli hai dato una mano a sistemarsi qui
a
Berlino.”
“Sì, beh, tutti fanno errori.” Aveva
replicato dando un consistente sorso al
suo boccale di birra. “… Senta, dobbiamo tirarla
ancora per le lunghe? Mi
arresti, altrimenti mi lasci tornare alla mia birra.” Aveva
indicato con un
cenno della testa la custodia logora del suo violino, sperando che
fosse mossa
a pietà per il suo nuovo lavoro di giullare da osteria.
“Ho suonato un’ora e
mezzo per guadagnarmela.”
“Non
voglio arrestarti.” L’aveva preso in contropiede.
“Non mi interessa quello che hai fatto o non hai fatto per
Alberich Von
Hohenheim.”
Non vuole arrestarmi?
Milo
aveva cercato di nascondere la curiosità
spegnendola con l’ennesimo sorso. “Allora cosa
vuole da me?”
“Un
favore.”
“Io
non faccio favori.” Aveva allargato le braccia.
“Non se la prenda, ma non sono nella posizione di permettermi
gesti gratuiti.”
“Allora
diciamo che ti chiedo di lavorare per me.”
Non gli aveva dato la possibilità di
ribattere perché aveva continuato. “So che sei ben
inserito nella comunità Magonò.”
“Sono un Magonò … In Germania
saremo un centinaio di anime, ci conosciamo
tutti.” Aveva replicato cauto. Giocare al ribasso era una
tecnica che non gli
aveva mai dato un grattacapo; invece di gente in delirio di onnipotenza
ne
aveva vista finir sottoterra fin troppa.
“Etzel
e Hilda mi hanno detto che li hai aiutati a
trovare un alloggio ed un lavoro in una taverna qui vicino …
Non penso ci
sarebbero riusciti da soli.”
“Quindi?”
“Quindi
voglio sapere se conosci qualcuno a Nurmengard
che potrebbe aiutarmi.”
Milo
aveva aggrottato le sopracciglia. “Prigionieri?”
“No, agenti di guardia. Come sai, tutto il personale tranne
il Direttore è
Magonò.” Aveva fatto una pausa ed aveva osservato
con curiosità la custodia del
violino quasi fosse foriera di spunti per la loro conversazione.
“Voglio
entrare a Nurmengard.”
“Non è un agente del DALM?” Aveva
chiesto, ricordando nebulosamente di averla
vista in mezzo alla selva di uniformi al castello. “Chieda al
suo Ministero!”
“Non posso usare vie ufficiali.” Aveva replicato
con una schiettezza che
l’aveva sorpreso. “Non mi è possibile,
quindi devo trovare vie alternative.”
“Illegali?”
“Alternative.”
Aveva ripetuto calma. “Puoi aiutarmi?”
“Chi c’è lì dentro di
così importante?” Era la prima volta che una
strega che sembrava
mangiare magia a colazione si degnava di considerare uno come lui,
quindi
significava che la posta in gioco era alta.
E posso tirar su il prezzo.
Vedendola
esitare, aveva sbuffato. “Se vuole che la
aiuti devo saperlo. Niente mezze informazioni.”
“Sören Von Hohenheim. Devo parlargli.”
…
il principino? Quindi l’hanno
sbattuto al gabbio. Comunque, gallina dalle uova d’oro.
Si
era accomodato meglio sulla sedia con un largo
sorriso. Era ufficialmente diventata la sua buona giornata.
“Okay.
Andata. Ora però parliamo del prezzo…”
Milo aprì la
finestra quanto
bastava per poter fumare senza creare una cappa spiacevole
all’interno della
stanza. Ormai si sentiva sveglio come un grillo e quell’ora
notturna gli
stimolava i ricordi.
Quindi,
ricordiamo.
Alla fine Nora non gli aveva
mai pagato quanto pattuito; solo la prima tranche di pagamento era
stata
incamerata e spesa per un passaggio dal barbiere e un mese
d’affitto in una
appartamento decente a Berlino.
Peccato
poi non ci abbia mai trascorso un solo giorno
dato che son venuto in America con La Piaga.
Quindi
si torna alla domanda. Perché rimango?
Aveva
schiacciato l’ennesima sigaretta sotto il tacco
della scarpa, guardando senza particolari motivi uno stormo –
si chiamava
stormo poi? – di corvi compiere larghi giri attorno al
perimetro dell’unica
torre che componeva Nurmengard. Seduto ad uno dei tavoli
all’aperto della
locanda magica del piccolo agglomerato urbano ai piedi della prigione,
ammazzava il tempo.
Trovare
un vecchio compagno di bevute berlinesi che
indossasse l’uniforme della polizia carceraria di Nurmengard
non era stato
difficile. Neppure particolarmente complicato era stato corromperlo con
una
manciata di galeoni.
Magari
un’evasione sarebbe stata una sfida, ma una
semplice intrusione per un colloquio?
Per niente.
Un
po’ ostico era stato convincere Bert –
l’amico di
bevute in questione – ad introdurre l’americana
all’interno della struttura.
Aveva dovuto spergiurargli sul loro sangue Magonò che la
strega non avrebbe
dato problemi e che, soprattutto, non avrebbe menato la bacchetta per
liberare
qualcuno.
Se dovessimo fare una stima,
qua c’è un campionario di Magonò
più incattivito della media.
Venivano
selezionati, aveva sentito dire; Bert stesso
aveva fatto carte false per esser preso a lavorare là dentro.
E quando mai ti capita
un’occasione di rivalsa così? Conosco persone che
accoltellerebbero il proprio
fratello per poter prendere a calci legalmente qualche deretano magico.
Si
era stiracchiato sulla sedia. Nora non aveva
richiesto la sua presenza e alla fine Bert si era convinto a portarsela
via da
sola; sollevato da ogni incarico, aveva quindi dato a lei il paniere di
cibarie
che Etzel e Hilda gli avevano affibbiato quando avevano saputo
–
presumibilmente dalla maledetta yankee
– che sarebbero andati a trovare il
principino.
Figuriamoci se quella roba
arriverà mai a destinazione … Sicuro se la
intascherà Bertie.
Non
se l’era sentita però di dirglielo, dato che i
vecchi lo avevano tenuto mezz’ora a spiegargli ogni singolo
alimento o capo di
vestiario per il povero padroncino.
Sono finalmente liberi e
ancora lo chiamano in quel modo del cazzo…
Beh dopotutto non era male.
Ha
preso le tue difese, ha provato a curarti … e poi ha preso a
calci quei
Mercemaghi che volevano pestarti come un tappeto.
Aveva
fatto una smorfia scontenta, chiedendosi se il
clima cupo di quel posto lo stesse facendo impazzire.
Non hai imparato come, se
potessero, i maghi vi cancellerebbero tutti?
Non te lo ricordi tuo padre?
Tuo fratello? Pensi che Von Hohenheim junior sia meglio di loro?
Vista
quella china di pensieri, era stato ben felice
quando aveva intravisto l’americana sulla via del ritorno.
“Allora,
com’è anda…” Si era bloccato,
vedendo
l’espressione della strega. Era talmente livida da far
spavento. “Che è successo?”
Non aveva potuto fare a meno di chiedere. “Qualcosa
è andato storto?”
“No!”
Aveva esclamato Bert, serrando istintivamente le
dita sul borsello agganciato alla cintura. “Io ho fatto quel
che dovevo Milo,
l’ho portata dal prigioniero ottantatre! I patti erano
questi, niente scherzi!”
“Sì,
lo so, tranquillo Bertie…” Lo aveva placato,
scrutando l’espressione della donna ancora in silenzio.
“Non ha ottenuto ciò
che voleva?”
“Precisamente
ciò che volevo.” Aveva replicato
stupendolo. “Devo mandare una serie di Gufi.” Aveva
detto poi riscuotendosi di
colpo e sorpassandoli con brevi ma efficaci falcate.
Era
il momento giusto per mollare il colpo. Aveva fatto
quel che doveva e quindi doveva andare per la sua strada, che a Berlino
lo
aspettava un appartamento lindo, pulito e…
… e dannazione.
Aveva
seguito la strega che incedeva verso l’Ufficio
Postale Gufico e si era dato dell’idiota circa ottanta volte
prima di
afferrarla per un braccio. Questa l’aveva fissato sorpresa
quando l’aveva
riconosciuto.
“Che
è successo là dentro?” Si era umettato
le labbra,
sentendo l’impulso di sbattere la testa contro il tronco di
un albero. “Come
sta il principino?”
Ti ha salvato la vita. Si
è
preoccupato per te quando stavi agonizzando per le frustate di suo zio.
Suona come un debito, vero?
“Il
princi … intendi Sören.” Aveva intuito.
Si era
rabbuiata. “Non sopravvivrà un’altra
settimana.”
“L’hanno…” Bert stesso, per
chiunque dei loro avesse voglia di ascoltare,
raccontava sempre della volta in cui si era divertito come una
‘strega puttana
che aveva osato dargli dello sporco Magonò’.
Milo
non era mai riuscito ad ascoltare quella roba,
neppure con diversi boccali in corpo. Odiava la Magia, detestava i
maghi, ma…
“La
scorsa settimana in refettorio ha preso le difese
di una prigioniera che un paio di guardie avevano preso di mira. Ne ha
spedite tre
in infermeria prima che lo fermassero… Ti lascio immaginare
la reazione delle
altre.” Aveva spiegato con gli occhi che se avessero potuto
avrebbero sprizzato
scintille.
“Ah.”
Non aveva saputo cosa ribattere, troppo
meravigliato.
È
un prigioniero, probabilmente vive
nel suo stesso piscio e fa anche il cavalier servente?
Ma che cazzo di problema ha?
“Lo
hanno pestato a sangue.” Aveva continuato la donna
in tono grave. “Non gli hanno prestato cure adeguate, se gliele
hanno
prestate.” Aveva fatto una pausa maledettamente
d’effetto. “Lo stanno lasciando
morire dentro la sua cella.”
“No, un momento. Non lo possono fare, è un
reato!” Aveva esclamato sentendo un
nodo stringergli lo stomaco.
Cioè, vien fuori
che è lui
quello che si è comportato bene?
L’americana
aveva scosso la testa. “Pensi che qualcuno
aprirebbe un’inchiesta per la morte del nipote di Alberich
Von Hohenheim?”
Aveva fatto una faccia strana, quasi si sentisse in colpa per questo.
“Credo
che sia la soluzione che molti al Ministero si auspichino. Che segua
suo zio
anche nella morte, intendo.”
Milo
aveva deglutito: da che parte si supponeva dovesse
stare in quel caso? Da quella dei suoi, o dei maghi?
Da quella di nessuno. Da
quella degli esseri umani.
“Cosa
intende fare?”
“Portarlo
via.” Aveva tagliato corto. Poi, quasi si fosse
resta conto lei stessa di averla sparata grossa, aveva sospirato.
“Tenterò di sollecitare
un intervento del mio Ministero. Sören Von Hohenheim potrebbe
essere un
prezioso informatore per lo smantellamento della Thule, e oltre a
questo, c’è
quel suo braccio…”
“Potrebbe
tenermi informato degli sviluppi?” L’aveva
interrotta, ignorando l’espressione meravigliata che ne era
conseguita.
“Lo
conosci bene?” Gli aveva chiesto infatti.
“Per
niente, ho lavorato per la sua famiglia per poco
tempo. Però…” Aveva scrollato le
spalle, senza sapere come spiegarglielo senza
farsi tirar dentro. Che era ovvio fosse quello l’obbiettivo
finale della
maledetta yankee. “… Me lo faccia sapere e
basta.”
La strega gli aveva sorriso, prima di annuire. “Certo, ti
spedirò un Gufo.”
Aveva fatto una pausa. “Potrei aver ancora bisogno di te,
Milo.”
“Per
cosa? Quello che potevo fare l’ho già fatto e
dopotutto, sono solo un Magonò.” Sempre giocare in
ribasso: era quello il modo
giusto di vivere.
“Si
ha sempre bisogno di alleati.”
Alleati … Io che mi alleo con dei maghi tutti distintivo
e buone intenzioni. Bello. Davvero bello.
Milo
aveva sospirato, sentendosi ormai in trappola. “Sa
dove trovarmi.”
Perché
rimango?
In fondo era semplice,
pensò
stendendosi a letto e cercando di prendere sonno.
Perché
come te non riesco, dopotutto, a non restare
umano.
****
Inghilterra,
Somerset.
Casa di Scott Ross, Mattina.
A Lily piaceva guardare la
gente dormire.
Okay,
detta così suona un po’ da maniaca…
Il fatto è che le
piaceva
guardare qualcuno respirare piano ed essere completamente indifeso; in
qualche
modo le dava la misura della tranquillità in cui era
immersa.
Passò un dito sul
profilo del
suo ragazzo che occupava la stragrande maggioranza del letto. Come
compagno di
sonno era piuttosto rumoroso, ma tutto sommato non poteva lamentarsi
perché di
notte poteva rannicchiarglisi contro e bearsi del suo calore di essere
umano.
Certo
che è quasi una settimana che dormo qui… Credo di
non ricordarmi neanche dove ho messo la biancheria sporca.
Fece una smorfia perplessa
allo specchio di fronte a sé che le restituì un
immagine infagottata nella
t-shirt di Grifondoro celebrante dell’unica vittoria della
Case a cui aveva
assistito, con i capelli arruffati e metà del contenuto del
borsone da fine
settimana sparso per la stanza.
Sì,
direi che si vede che son qui da un po’.
Il che era strano: suo padre
di solito cominciava a lanciar frecciatine sulla sua assenza
lunedì e arrivati
a martedì già arrivava la chiamata via Specchio
Comunicante di James, puntuale
come una tassa, a chiederle se lo Scozzese Gigante non
l’avesse per caso rapita.
Almeno
Albie, anche se fa la chioccia psicotica, se ne
frega di dove dormo.
Invece
siamo già a giovedì e silenzio stampa totale.
Ripeto,
strano.
Infilandosi i calzini e una
felpa sportiva dell’altro si diresse in cucina per preparare
la colazione;
Scott si sarebbe alzato tardi, ma non lei.
Nossignore, la Psicomagia non aspetta.
Oppure la Guaritrice Patil, che sa farti sentire minuscola e inadeguata
in
maniera deliziosamente crudele …
Osservando il sole baciare
il
pratino all’inglese fuori dalla finestra pensò che
nonostante tutto gridasse
pace e serenità, lei non si sentiva affatto dello stesso
avviso.
Se avesse dovuto definirsi
con
una parola, avrebbe detto insofferente.
C’era qualcosa che non le tornava e il fatto di non riuscire
ad inquadrarlo la
innervosiva.
Poi, mentre beveva un sorso
di
caffè amarissimo – si scordava sempre
dov’era lo zucchero in quella casa – un
fulmine di consapevolezza la investì.
Sören non aveva
ancora
risposto alla sua lettera.
Diavolo!
Era quello
a non tornarle; le lettere arrivavano sempre entro il
martedì sera dell’ultima settimana del mese,
cascasse il mondo.
Tranne quella settimana.
Lily, non sapendo come
reagire
né esattamente cosa pensare, si limitò a
continuare a bere caffè ascoltando le
notizie giornaliere alla radio.
Gli
sarà successo qualcosa?
Era la prima cosa che le
veniva in mente; Sören lavorava per una sorta di ufficio
gemello a quello
Auror, e non come timbra-pergamene, ma come agente operativo e non
c’era certo
bisogno che qualcuno le spiegasse quant’era pericoloso.
Ho
metà della mia famiglia che rischia la vita in prima
linea, grazie tante.
Era un’ipotesi
probabile, e
per questo posò il caffè ed ispirò,
interrompendo con un colpo di bacchetta il
vuoto ciarlare della WWN. Se fosse successo però, Nora
Gillespie l’avrebbe
avvertita.
Già,
Nora…
La
strega americana era la persona a
cui il Ministero Tedesco aveva affidato Sören dopo aver
tramutato la sua
condanna a vita in un anno di ‘servizi alla
comunità’ americana; servizi che
poi, per quanto ne sapeva, non erano mai stati fatti dato che il
tedesco dopo
pochi mesi di permanenza nel Nuovo Continente si era iscritto
all’Accademia di
Polizia Magica.
Non
ho mai capito com’è avvenuto il passaggio
… Ma
meglio così. Quello che gli hanno fatto a Nurmengard non se
lo meritava. Per
niente.
Se fosse successo qualcosa,
Nora avrebbe fatto in modo di farglielo sapere, era una specie di
accordo non
scritto, dato che in un certo senso era stata proprio la strega
americana a
dare il La alla loro seconda – ma stavolta reale –
corrispondenza.
Si ricordava ancora giorno,
ora e luogo della conversazione. E come avrebbe potuto essere
altrimenti?
La
Burrobirra allo zenzero si era ormai freddata, ma a
lei non importava, anzi, l’idea di berla calda le stava quasi
dando la nausea.
Accanto
a sé suo padre si stava pulendo gli occhiali da
cinque minuti e sembrava aver voglia di menare incantesimi a destra e a
manca.
Sua madre sembrava tranquilla, ma batteva il piede impaziente, come
sempre
faceva quando voleva nascondere la preoccupazione. Per finire,
l’agente
americano di fronte
a loro sembrava
studiarla come una pozione.
Lei
invece si sentiva confusa; i suoi genitori quella
mattina l’avevano prelevata da scuola con aria mortalmente
seria e senza
neanche darle il tempo di togliersi l’uniforme
l’aveva portata al Paiolo dove
si era trovata di fronte ad un’allucinante richiesta.
“Se
ho capito bene … mi state chiedendo di rispondere
alle lettere di Sören?” Aveva detto molto
lentamente, perché era certa di aver
capito male. Si era arrischiata a lanciare un’occhiata a suo
padre, ma l’aveva
visto di umore talmente nero che aveva lasciato subito perdere,
preferendo
cercare gli occhi di sua madre, che le aveva invece sorriso
meravigliosamente
quieta.
Grazie mamma.
“Sì,
è così.” L’americana non ci
aveva girato attorno, e
di questo le era stata grata. “Hai ricevuto le sue lettere,
immagino. Sören mi
ha detto di avertele spedite.”
“No, un momento … Dov’è
adesso, da voi in America?” Le mancava un intero anno
di vita dell’altro e fino a quel momento la cosa non le aveva
dato il minimo
fastidio. Aveva cercato di dimenticarlo, in ogni modo possibile. Non
parlandone, non citandolo, gettando tutto ciò che aveva a
che fare con lui, il
suo braccialetto, gli appunti che aveva redatto con lui, i libri e
persino i
vestiti.
Fino
a quel momento aveva funzionato a meraviglia.
Diavolo.
Aveva
una voglia infinita di mandare al diavolo la
strega di fronte a sé, ma la curiosità era
più forte di tutto.
Quindi non l’hanno
messo in
prigione. Scorpius aveva ragione, è riuscito a patteggiare?
“È
in America perché il nostro Ministero l’ha preso
in
custodia. Dove era prima la sua incolumità era fortemente a
rischio.”
“Dove
…” Aveva aggrottato le sopracciglia.
“Non è
sempre stato da voi?”
“No,
Lily. L’arresto è stato fatto dalle
autorità DALM
del Ministero tedesco, e fino a un mese fa era detenuto a
Nurmengard.” La donna
le aveva sorriso e in quel sorriso vi aveva intravisto, a chiare
lettere, senso
di colpa. L’americana si sentiva in colpa, ma morisse se
riusciva a capire
perché.
“Però
adesso l’avete preso voi … È in
prigione?”
Sentiva lo sguardo di suo padre su di sé, ma non se la
sentì di ricambiarlo.
Aveva paura di cosa avrebbe potuto trovarci dentro, leggendolo da brava
LeNa.
“No,
al momento è in ospedale.”
“...
Sta male?”
“Si
sta riprendendo.”
“Riprendendo da cosa?”
“Nora.” Era intervenuto con forza. “Le
hai fatto la tua proposta, ora sta a
Lily decidere.”
“Ho solo risposto alle sue domande, Harry.” Aveva
ribattuto la strega con
calma. “Per decidere bisogna aver chiara la
situazione.”
“Proposta?”
Aveva sentito la rabbia esploderle dentro
come una specie di fuoco. Le succedeva troppo spesso ultimamente e
anche se Tom
le aveva detto che era una reazione normale, che era successo anche
lui…
niente, non riusciva a controllarla. “La proposta
è chiedermi di rispondergli?
Perché?”
“Sören
ti aveva fatto una promessa Lily, è corretto?”
Certo
che lo era come era ovvio che la maledetta yankee avesse origliato la
loro
conversazione un anno prima.
Dopotutto era vicinissima
…
brutta stronza.
“Beh, non
l’ha
mantenuta!” Era sbottata, ignorando gli sguardi allarmati dei
suoi genitori.
Che andassero al diavolo anche loro. Perché
l’avevano portata lì? “Quindi a
cosa cavolo dovrei rispondere?”
“Lily
… è vero?” Le aveva chiesto suo padre
ed
improvvisamente aveva capito il motivo per cui si era rifiutato di
interfacciarsi
con lei fino a quel momento.
“Pensavi
gli stessi scrivendo di nascosto?!” A quel
grido metà degli avventori della locanda si erano voltati e
persino Hannah, al
bancone, aveva lanciato loro un’occhiata preoccupata.
“Tesoro,
calmati.” Sua madre le aveva preso una mano e
stretto forte finché non l’aveva ricambiata.
Aiutava, almeno un po’, il
contatto fisico. Anche di questo Tom l’aveva avvertita.
“Ve
l’ho detto, non ho mai ricevuto niente!” Aveva
afferrato la Burrobirra e ne aveva dato un sorso dato che si sentiva la
gola in
fiamme. “Le avrei bruciata tutte!”
“Davvero?”
Il tono dell’americana non era stato
scortese, quanto piuttosto rassegnato. Come se si aspettasse quella
reazione,
ma non l’avesse sperata.
Perché a questa
donna importa
di Sören?
…
Perché, a te non importa?
E
in quel momento si era resa conto che no, per quanto
fosse infuriata quelle dannate lettere non le avrebbe bruciate.
Perché non
sarebbero state come i regali, gli appunti o il braccialetto che le
aveva
regalato prima del Ballo del Ceppo.
Quelli me li ha dati
Sören
Luzhin. Le lettere invece … sarebbero di Sören.
Si
era leccata le labbra, sentendole secche come il
deserto del Sahara. “Non … no.” Era
capitolata, stringendo la stoffa della
gonna tra le dita. “In effetti non l’avrei
fatto.” Aveva sospirato, ma poi non
era riuscita a trattenersi. “Sta … sta
bene?”
“Starà
meglio. Il Ministero tedesco non l’ha trattato
con giustizia.” Aveva fatto una pausa, prima di addolcire il
tono. “Non ti sto
chiedendo di perdonarlo. Solo di rispondere alle sue lettere.
Significherebbe
molto per lui. È pentito per quello che ti ha
fatto.”
Lo
so. È proprio questo il problema.
“Per
quanto riguarda il fatto tu non le abbia
ricevute…”
“Spesso i carcerati non hanno il diritto alla corrispondenza,
Nora.” Era
intervenuto suo padre, pratico e senza particolari emozioni.
“È probabile che
non siano mai state spedite, dovresti controllare a Nurmengard. Se non
se ne
sono sbarazzati, ce le hanno ancora loro.”
“Controllerò.”
Replicò la donna. “Posso fartele arrivare
allora?”
Lily
aveva guardato entrambi i genitori e dalle loro
espressioni aveva capito che quella decisione era stata rimessa
interamente
nelle sue mani. Nonostante il carico emotivo di quel gesto, li aveva
ringraziati con un sorriso muto.
Credo che mamma abbia fatto
una lunga conversazione con papà. Lunga giorni e forse pure
settimane.
Comunque, è vero,
sta a me
decidere.
Sören
l’aveva ferita e a distanza di mesi la stava
ancora ferendo. Dentro di lei qualcosa si era spezzato e ci sarebbero
voluti
forse anni per riuscire a ad incollarlo di nuovo.
Però
sapeva di non essere l’unica ad esserne uscita
male. L’americana aveva cercato di eludere i fatti con le
parole, ma lei era
una LeNa e sfortunatamente certe cose la gente gliele sbatteva in
faccia proprio
quando tentava di nasconderle.
Sören
starà meglio perché
adesso sta malissimo. In prigione devono avergli fatto qualcosa. E se
gli
americani se lo son preso perché la Germania ‘non
è stata giusta’ vuol dire che
quel qualcosa è stato terribile. Un mese
d’ospedale. Un mago con una capacità
di recupero come la sua che si fa un mese
d’ospedale…
“Gli ho detto
che gli avrei risposto se mi fosse stato possibile.” Aveva
sospirato. “Lo farò.”
Nelle sue intenzioni di
sedicenne avrebbero dovuto essere un paio di Gufi non impegnativi.
Invece
ho continuato a rispondergli. Inizialmente
perché mi dispiaceva per lui, ma poi … Poi beh,
mi sono resa conto che volevo farlo.
Voleva farlo per sapere che
si
stava riprendendo, per aver conferma che non fosse la persona orribile
che
sembrava avergli ventilato quel mostro di suo zio. Che fosse stata una
vittima,
come lei.
Perché
se è riuscito a voltare pagina lui, mi sono
detta, perché non posso farlo anche io?
Okay,
io ho proprio cambiato libro. Un paio di volte.
Ma alla fine ha funzionato. Ora sono sulla pagina giusta.
Solo
… Perché diavolo non mi ha risposto?
Il rumore della doccia la
strappò alle sue tortuose riflessioni; Scott doveva essersi
alzato per fare
colazione con lei. Quasi volesse sancire la fine di quella deriva di
pensieri,
si passò una mano trai capelli mettendo a scaldare
l’acqua per il the e
riaccendendo la radio sugli ascolti di Martin Miggs. Sorrise notando
come
stessero trasmettendo niente meno che i Banshees di Lou e Meike.
E
bravi ragazzi.
If you could only see me 'cause
I want you to know
It's a long way, out of my own town into your own
town¹…
Che
importanza ha se non ti ha scritto? Avrà avuto da
fare.
…
Anche se è un maledetto tedesco precisino. È
persino
riuscito a scrivermi quando era in missione in mezzo al deserto
Messicano!
“Ehi, sbaglio o
sento profumo
di pancetta?!” Fu l’urlo proveniente dal bagno.
“Sei peggio di un
cane da
tartufo!” Lo prese in giro. “Oggi colazione
completa e incrocia le dita!”
“Lo dici sempre,
ma poi cucini
benissimo.” Fu la replica. “Falla
finita!”
“Vedrai! Moriremo
tra atroci
spasmi!”
“Bugiarda!”
Non sapere il motivo della
mancata lettera la rendeva nervosa; non era una reazione razionale,
anzi, e se
l’avessero saputo i suoi fratelli le avrebbero rotto
l’anima da morire.
Lo
vedi Lily? Questo vostro rapporto è nocivo!
… Okay, non ho una
seconda voce nella mia testa, e non
ha il tono di quel rompipalle di Al.
Sören era diventato suo amico; il verbo era
importante dacché la loro
corrispondenza era iniziata fredda e forzata da parte sua, per poi
sciogliersi
progressivamente fino a diventare amichevole e a volte persino
complice.
Perché, per
quanto le facesse effetto
ammetterlo, Sören Prince era
il Ren che gli era stato amico
prima che la
realtà rovinasse tutto. Era sempre ugualmente riservato,
amava la musica
classica, idolatrava la letteratura norrena e quando gli aveva
consigliato
Tolkien se l’era letto in tre notti e aveva passato i tre
mesi successivi a
citarlo. Non capiva i doppi sensi e si risentiva quando capiva di non
averli
capiti. Poteva scrivere venti righe di particolari assolutamente
incomprensibili su chissà quale procedura
d’indagine per poi scusarsi
profusamente e riprendere al rigo successivo. Al tempo stesso
però leggeva
tutto quello che gli scriveva e non c’era una volta in cui
non analizzasse i
suoi sciocchi problemi da studentessa con assoluta serietà e
ne venisse fuori
con una soluzione che – ehi!
– finiva
sempre per essere quella giusta.
E
ora che le cose si sono sistemate, che finalmente sono
riuscita a perdonarlo …
Sicuramente c’era
una
motivazione del tutto sensata, una che l’avrebbe fatta
sentire incredibilmente
meschina una volta esposta.
Ma
intanto. Nessuna lettera. Non pensa che possa
preoccuparmi? Le lettere sono l’unico contatto che abbiamo!
Quando sentì le
mani di Scott
cingerle la vita fece uno schizzo istintivo, del tutto idiota, che la
portò
quasi a spalmarsi contro la parete. Si rifletté nello
sguardo sbalordito del
suo ragazzo, e si sentì, tanto per cambiare, stupida.
“Ehi, ti ho
spaventata?” Scott
la guardò con apprensione. “Scusa, avrei dovuto
ricordarmi che non ti piace
esser presa alle spalle…”
No,
non mi piace. Sì, mi terrorizza ma non è colpa
tua.
Sei un bisonte, tesoro, di solito ti sento arrivare anche con la radio
a tutto
volume.
“È
tutto a posto.” Lo fermò
con il sorriso più sicuro che le riuscì di fare,
andando a cingergli la vita
con le braccia: era la sua posizione preferita, la faceva sentire
protetta.
“Ero solo sovrappensiero. Mi hai colto di sorpresa, tutto
qui.”
“Sì, ma…”
“Davvero Scotty, tutto regolare.” Lo
rassicurò stampandogli un bacio sulle
labbra. Sperava funzionasse dirlo ad alta voce, perché no,
non c’era nulla di
regolare al momento. “Colazione?”
****
Londra,
Paiolo Magico.
Mattina
“Come hai potuto
dimenticartene?!”
“Cavolo, datti una calmata, ti ho detto che mi
dispiace!”
“Non me ne faccio
niente delle
tue scuse!”
“Allora frustami e vaffanculo!”
Sören si
bloccò nell’atto di
incedere di fronte al camino, inspirando ed espirando la furia
mischiata al
panico che si sentiva divampare nello stomaco. Milo, reo confesso, lo
fissava
dal davanzale della finestra con espressione altrettanto ostile.
Sì, probabilmente
suo zio
avrebbe reputato la punizione corretta.
Ma
io non sono lui.
“Non essere
stupido, sai che
non farei mai una cosa del genere.” Replicò
freddamente, sentendo un brivido
spiacevole attraversargli quel braccio; avrebbe preferito amputarselo
che
usarlo per uno scopo tanto vile. Milo era forte fisicamente ed aveva
nervi
allenati, ma di fronte ad un mago dotato di bacchetta era poco
più che un
bambino inerme. “Ti rendi almeno conto del disastro che hai
combinato?”
Gli venne rivolta una
smorfia
insofferente. “Tu lo chiami disastro, io la chiamo
opportunità.”
“In che modo può essere considerata
un’opportunità il fatto che ti sei
dimenticato di spedire la lettera per Lily?!” Sentiva di
nuovo salirgli il
fuoco al viso e dopotutto, se non poteva usare la bacchetta, almeno
tirargli un
pugno…
“Beh…”
“Non ho mai mancato un mese, potrebbe
insospettirsi!”
“Non puoi spedirgliela ade … oh, già.
Avrebbe il timbro postale di Londra.”
Fece un sorrisetto divertito, assolutamente inadeguato alla situazione.
“Opportunità in questo senso. Perché
non gliela consegni di persona?”
“Ti ha colpito un
Incantesimo
di Memoria? Non deve sapere che sono qui!”
Quella mattina Milo doveva esser di pessimo umore, perché
non stava neanche tentando di
mettersi nei suoi panni … o
fornirgli una soluzione, per quel che valevano le sue alzate di ingegno
quando
fumava quella sua orribile droga.
“Secondo me la fai
troppo
lunga … Insomma, è una lettera. Avrà
di meglio da pensare che al fatto che non
le hai scritto.”
Se gli avesse infilato una lama nello stomaco avrebbe fatto
probabilmente meno
male.
Eh
… non è che abbia tutti i torti, caro il mio
Sören.
Ha una vita, un fidanzato e degli amici. Non si sarà neanche
accorta che la
lettera non è arrivata. O se l’ha fatto non se ne
sarà preoccupata.
L’altro dovette
accorgersi
della sua faccia, perché per una frazione di secondo
sembrò quasi dispiaciuto
di essersi lasciato sfuggire una frase tanto infelice.
“Senti…”
Ha
ragione. La fai troppo lunga. Sì, tu aspetti le sue
lettere con trepidazione ogni mese, ma puoi dire che sia lo stesso per
lei?
“Scendo a fare
colazione.” Lo
interruppe gettandosi il mantello sulle spalle; odorava di naftalina e
lo
sentiva pesante sulle spalle, non essendovi più abituato.
Saranno
anni che non lo indosso.
Non degnò Milo di
una seconda
occhiata, scendendo le scale velocemente. La taverna era praticamente
vuota di
clienti, ad eccezione di qualche sparuto ed insonnolito ospite; era
ancora
presto e a quanto gli era stato dato di capire molti degli avventori
abituali
non si facevano vedere prima di pranzo. Si accomodò quindi
con relativa
tranquillità ad uno dei tavolini ed ordinò la
propria colazione, aprendo il
giornale locale nel tentativo di distrarsi; senza successo, non
riusciva ad
andare oltre la terza riga del primo articolo. Tentò allora
di ascoltare la
radio, tenuta ad un volume piuttosto alto da una delle cameriere che
intonava
il motivetto della canzone trasmessa; fallì anche stavolta.
Well it was just too much for me, I found no
help in talking
Who can show me where to go, I have to keep on walking
And you're the only one in my mind
Perché
non gliela consegni di persona?
Lily stava respirando la sua
stessa aria in quel momento. Data l’ora, doveva essere appena
arrivata alla stazione
di Farringdon: poteva quasi immaginarla camminare per le vie babbane
con la
musica nelle orecchie, diretta verso il San Mungo. Gli aveva spedito
sufficienti foto per poter ricostruire fotogramma per fotogramma la
scena.
Camminiamo
lo stesso asfalto … e non possiamo vederci.
Io
non posso, lei non vuole. Sono sicuro che non vuole.
Perché vorrebbe vedermi?
Cercò di
sorridere alla
piccola cameriera che gli servì la colazione, ma ottenne
solo di farla scappare
terrorizzata; Milo diceva sempre che la sua faccia era arcigna
quando era troppo pensieroso.
Grazie
tante. È la mia espressione, non posso
controllarla.
“Ehi …
non ci posso credere.
Ma sei tu Sören?”
Si ghiacciò sul
posto,sentendo
una voce maschile, giovane e con un forte accento straniero, chiamarlo.
Perché
era ovvio che chiamasse lui; a Londra quante persone ci potevano essere
che
rispondevano a quel nome?
Serrò le dita
sulle gambe,
ispirando appena e alzando lo sguardo. Sgranò gli occhi
quando collegò di colpo
la voce ad un viso. Un viso che conosceva bene.
“ …
Radescu?”
****
Note:
Yep, finisco così perché sono stronza, e
perché vi avevo detto che il buon
Dionis sarebbe tornato alla ribalta. ;D
Capitolo dove sostanzialmente non succede una mazza, ma ci sono
taaaanti
flashback. Non sono proprio convinta della successione delle scene, ma
spero di
aver fatto un buon lavoro – più che altro, che sia
riuscita a spiegarvi i missing years.
ATTENZIONE: La bravissima Agnes Dayle ha dedicato un fan video alla mia saga. Godetene tutti (se non l'avete già fatto su effebbì).
Qui
la canzone del capitolo, e qua
quella che sentono sia Lily che Ren (che ovviamente non è
dei Banshees né di
mia invenzione, ma degli adorabili 77 Bombay Street).
Per l’esecuzione
di Milo,
invece, proprio una parentesi. Vi passo l’interpretazione che
ne ha dato
l’immenso David Oistrakh. La
meraviglia. È l’ultima sonata
che Debussy ha composto ed eseguito
(nella parte del pianista) ed è nota per la sua
brevità – tutti e tre i
movimenti eseguiti assieme non durano più di un quarto
d’ora.
1.Zaubergamot:
traduzione in tedesco di Wizengamot.
2. Pece:
non la pece che ci si può immaginare. In realtà
è una resina ricavata
dalla distillazione delle trementine, nota anche con il nome di colofonia. Viene utilizzata per ottenere
l'attrito dell'archetto sulle corde degli strumenti ad arco. Il
violinista la
sfrega sui crini prima di suonare ed è buona regola, secondo
alcune scuole di
pensiero, toglierla dalle corde del violino dopo che si è
finito, visto che ne
rimangono impregnate. Milo è di quella scuola. ;)
|
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Capitolo 8 *** Capitolo VII ***
Capitolo VII
All these years
later and it's
killing me
Your
broken records and words
Don't
need convincing at all
I love
this place enough to have no doubt
(Take Back the City, Snow Patrol)
22
Giugno 2028
Inghilterra,
Bambury.
Casa
Flannery. Mattina.
Megan Reilly in Flannery era
una donna di buon senso; non si era mai lamentata del lavoro del
marito, mai
una volta che avesse fatto rimostranze per i mancati compleanni o i
ritorni ad
ore antelucane, come mai si era permessa di suggerirgli di lasciare un
lavoro
che dava l’inquietante diritto ad un letto prenotato al San
Mungo. Sapeva che William
amava stare in prima linea, e che stare ancorato ad una scrivania
l’avrebbe
fatto soffrire più che ogni altra cosa al mondo.
Detto questo, era ben felice
quando aveva la possibilità di tenerselo a casa, anche per
malattia.
Detto questo, era
maledettamente preoccupata. Aveva passato due giorni a cambiare
lenzuola zuppe
di sudore, a sentirlo respirare male, come se avesse qualcosa che gli
ostruiva
la gola. Una banale febbre non faceva questo. Una banale febbre non
alzava la
temperatura come se dovesse bollire il corpo, più che
estirpare un virus, e non
faceva delirare come se si vedessero mostri invisibili.
Non era una Guaritrice, e
mai
lo sarebbe stata, ma se c’era una cosa che aveva, quella era
il buonsenso.
Quindi quando quella mattina non aveva visto miglioramenti aveva
spedito un
Gufo al San Mungo chiedendo l’intervento di un Guaritore a
domicilio.
“È da
ieri notte che non
riesco a fargli dire una parola sensata … La febbre
è molto salita, e sembra
che gli Incantesimi Decongestionanti non gli facciano nulla, anzi!
Credo sia
peggiorato.” Spiegò al mago in camice che le era
appena spuntato dal camino.
“Va bene, Signora,
capisco. Il
paziente?” Replicò quello con aria efficiente.
“Da questa
parte.” Replicò
sollecita, ben grata che anche quel servizio fosse coperto dal
contratto del
marito; far venire un camice verde fin casa costava molto.
E
non voglio chiedere certo ai ragazzi un prestito … Se
solo Liam avesse accettato quella promozione. Certo, sarebbe stato un
lavoro da
scrivania, ma anche Galeoni in più.
Aprì la porta
della camera e
attese fuori; il medico aveva bisogno del suo tempo per fare una
diagnosi e lei
certo non avrebbe contribuito alla faccenda.
Se
avrà domande verrà a farmele, io ho una casa da
mandare avanti.
Fece per tornare al piano di
sotto quando il Guaritore uscì fuori dalla porta e la chiuse
rapidamente alle
sue spalle.
“Che
succede?” Chiese
allarmata.
L’uomo aveva un cipiglio confuso, ma indubbiamente
preoccupato. “Signora, credo
sia il caso di chiamare l’Unità Trasporto
Medimagico. Non sono in grado di
curare qui suo marito. Dobbiamo portarlo subito al San Mungo.”
****
Londra,
Diagon Alley
Il
Paiolo Magico, mattina.
“Ehi,
non ci posso credere, ma sei tu Sören?”
Di tutte le persone al mondo che avrebbe creduto di poter incontrare a
Londra,
Dionis Radescu era decisamente una delle ultime. Eppure eccolo
lì, in carne e
bacchetta, esattamente come ricordava di averlo lasciato cinque anni
prima in
una sala gelida di Durmstrang.
Aveva un atteggiamento
rilassato e genuinamente sorpreso ed era piuttosto ovvio che non fosse
più
l’allievo inquadrato e marziale di un tempo, eppure dietro i
cambiamenti fisici
vedeva ancora la cortesia decisa di un tempo.
Cortesia che gli si stava
palesando ma a cui lui non aveva ancora risposto. Si alzò
quindi in piedi per
stringergli la mano cercando al tempo stesso di sorridere senza
sembrare afflitto
da paresi. “Dionis, quanto tempo.”
Lasciò scivolare la lingua nei suoni
familiari della sua lingua madre, sperando che l’altro non
l’avesse abbandonata
assieme all’uniforme e al taglio di capelli. “Non
sapevo fossi a Londra.”
“Nemmeno io sapevo lo fossi tu.” Replicò
in un perfetto, confortante tedesco,
prima di lasciargli la mano – la stretta era ancora risoluta
come un tempo.
Poi Sören
registrò la frase ed
andò letteralmente nel panico.
No
che non lo sa. Perché non lo sa nessuno tranne gli
Auror. Perchè non deve
saperlo nessuno.
L’altro dovette
accorgersi del
suo pallore – perché era impallidito, se lo
sentiva – e assunse un’aria
imbarazzata. “Sei qui in incognito? Indagini?”
Battè le palpebre
sbalordito; come
sapeva che stava svolgendo delle indagini?
…
razza di idiota, è ovvio che lo sappia. Lilian sa che
sei un agente, quindi molte sue cugine sanno che sei un agente. La sua
cugina
preferita è Roxanne.
Con
chi si è sposata Roxanne l’anno scorso?
Con il ragazzo che gli stava
di fronte, ecco con chi. Non ricordava le circostanze in cui Radescu
aveva
incontrato la cugina prediletta di Lily – anche se gli
sembrava c’entrassero i
Mondiali di Quidditch tenutisi in Romania qualche anno prima e un colpo
di
fulmine repentino - ma ricordava sin troppo bene le infinite lettere di
Lily
pre-matrimonio; avendo ricoperto il ruolo di damigella
d’onore aveva quasi
rischiato un tracollo nervoso a causa dei molteplici impegni che si era
dovuta e
soprattutto voluta assumere.
“Sì,
è per un caso di
giurisdizione congiunta con il Ministero britannico.” Sorrise
cercando di
rilassare i lineamenti per non sembrare un completo manichino, o
peggio,
colpevole di qualcosa. Assumere un atteggiamento sfuggente non avrebbe
aiutato.
“Temo però di non aver usato accortezza scendendo
a colazione in un luogo
pubblico.”
“A quest’ora non viene quasi nessuno
qui.” Si strinse nelle spalle l’altro
mago. “Io sono di passaggio per mangiare un boccone prima di
andare in
Accademia. Lily ti ha detto che insegno all’Accademia
Nazionale dei Duellanti?
Vi scrivete, no?”
Confermò con un
cenno della
testa, facendogli cenno di sedersi. “Ho appena ordinato la
mia colazione, vuoi
unirti a me?” Chiese come se fosse cosa che facevano
abitualmente.
E
non è così.
Dionis anche se
sembrò stupito
dalla sua proposta, si sedette comunque, togliendosi il mantello e
consegnandolo alla cameriera apparsa dietro di loro. Sören
notò che portava
tracce di polvere volante sulle spalle.
Ha
usato una Passaporta, forse per questo non ha fatto
colazione a casa … È appena tornato da qualche
altro posto.
Forse era sciocco dedurre
una
cosa tanto banale, ma lo aiutava a tenere la mente occupata.
“Sai, non avrei
mai pensato di
vederti ancora.” Disse il rumeno interrompendo il silenzio
creatosi. “So più o
meno cosa ti è successo dopo la morte di tuo zio, dato che
Lily ha raccontato a
Roxie molto della tua storia. Non tutto, ma molto.”
Sören non seppe
cosa
rispondere, quindi pensò ad una frase di circostanza;
aiutavano quando si
supponeva dovesse dir qualcosa. “Tra marito e moglie immagino
non ci siano
segreti.”
Dionis lo guardò perplesso, prima di sorridere.
“Tra me e Roxanne non ci sono
segreti, è vero, ma le tue vicende non sono state
esattamente materiale da
tener nascosto. Mi ha fatto molte domande su di te, quando ha scoperto
che ti
avevo conosciuto … Credo fosse per sincerarsi che la
corrispondenza tra te e Lily
non fosse…” Esitò, assumendo
un’aria imbarazzata.
“Dannosa?”
Lo anticipò non
particolarmente turbato; immaginava fosse quello che si erano chiesti
tutti
quando era cominciata. Non che gli fosse mai importato.
Mi
importa solo dell’opinione di Lilian. Non è quella
che conta?
“Sì.”
Annuì il rumeno.
“Comunque l’ho rassicurata delle tue
intenzioni.” Gli fece un sorriso
incomprensibilmente amichevole.
Come
fai a sapere che sono oneste? Come fai a dedurlo data
la
mia storia personale? Ti ricordi
cos’ho fatto? Perché mi sorridi?
“Ti
ringrazio.” Si risolse a
dire, prima che arrivasse la cameriera con le loro ordinazioni a
risparmiarlo
dall’imbarazzo di cercar di articolare qualcosa di
più significativo.
Cerca
di capire se può tener il becco chiuso con Lily.
È questo che ti interessa!
Non era solo quello in
realtà;
Radescu era stata una singolare presenza nella sua vicenda personale
durante il
Torneo Tremaghi. Diversamente dagli altri allievi non era mai stato
ostile, né
l’aveva ignorato come se fosse aria. Aveva anzi cercato di
stabilire un
contatto, di capire le sue motivazioni dietro gli ordini di suo zio e
infine
era stato un prezioso alleato – in altro modo davvero non
poteva definirlo.
Non
l’ho mai ringraziato per avermi aiutato …
“Sei ancora di
poche parole,
vedo.” Ridacchiò il rumeno strappandolo alle sue
riflessioni. “Devo dirlo, non
mi sembra passato che un giorno da quando ci siamo visti
l’ultima volta.”
Aggrottò le sopracciglia, poi scosse la testa. “O
meglio, sei cambiato, si
vede. Sei più sereno. Ma parli sempre poco.”
“Tu invece sei diverso.” Replicò di
getto, sentendosi fuori luogo subito dopo. Forse
non era la cosa giusta da dire, forse poteva esser vista come un
insulto. Come
si supponeva dovesse approcciarsi a situazioni simili? Non gli era
ancora capitato
di rivedere qualcuno del suo passato in quei cinque anni.
Non
ci sono poi molte persone del mio passato che avrei
piacere di rivedere. Comunque la maggior parte sono morte, o in fuga o
in
prigione.
Radescu in compenso
annuì,
sempre con quell’aria divertita che non ricordava di avergli
mai visto addosso;
ma forse, riflettè, era la situazione in cui
l’aveva conosciuto a non esser stata
particolarmente divertente. “Sì, è
naturale che lo sia.” Diede un sorso al suo
caffè. “Mi sono diplomato, mi sono sposato e vivo
e lavoro sotto un Ministero
diverso…” L’espressione si
addolcì e Sören pensò che nonostante
tutto, quella cinestetica
gli si addiceva. “… e poi sto per diventare
padre.”
Forse
è questo il vero Dionis?
Registrò la frase
e se ne
stupì prima di ricordare che Lily gli aveva accennato al
fatto che sua cugina
fosse incinta. Era difficile ricordare tutti gli input che
l’altra gli dava in
ogni lettera. “Sì, ricordo.”
Mormorò tentando disperatamente di richiamare alla
memoria la frase adeguata da pronunciare in quell’occasione.
“Congratulazioni?”
Tentò speranzoso.
“Grazie.”
Doveva andar bene a
giudicare dall’espressione compiaciuta dell’altro e
quindi si permise di tirare
un sospiro di sollievo. “Comunque a proposito di
cambiamenti… Lo ribadisco, ne
hai fatti anche tu.” Sembrò esitare di nuovo
passando ad una postura un po’
rigida, che glielo ricordò adolescente e impettito.
“Sono contento che tu sia
uscito fuori da quella situazione e tu abbia avuto modo di
riscattarti.”
Sembrava in imbarazzo, ma parlava con fermezza. “Ho sempre
pensato che fossi
migliore delle persone per cui lavoravi, e sono felice di non essermi
sbagliato.”
Onesto
e schietto. Decisamente due aggettivi che gli si
addicono. Non è questo che Lily dice abbia conquistato sua
cugina?
Sören si
concentrò sulla
propria colazione per evitare che la piccola bolla di calore che gli
era
esplosa nel petto raggiungesse il viso e lo palesasse come commosso.
Non era il
genere di esternazione da fare di fronte ad altri uomini, a parer suo.
“Ti
ringrazio.” Replicò nel suo miglior tono cortese.
“Ne sono felice anch’io.”
“Bene, lo siamo entrambi.” Ironizzò il
rumeno prima di dare qualche forchettata
al suo piatto. “Quanto rimani?” Chiese poi.
“Perché potresti venire a cena da
me e Roxanne una sera di queste.”
No, assolutamente no.
Aspettò di bere
prima di
parlare, dato che si sentiva la bocca desertificata
dall’ansia. “Ti ringrazio,
ma temo di esser costretto a declinare. Non resterò
molto…” Almeno nelle sue
intenzioni. “… ed a questo proposito, la mia
presenza qui non è stata…”
C’era
un modo per dirlo senza che suonasse malissimo? “…
segnalata.”
No,
non c’è.
“Vuoi
dire che Lily non lo sa?”
Ricordava fosse un tipo pronto di mente, ma non fino a quel punto. Con
terrore
si accorse peraltro che l’aria cordiale di cui
l’aveva graziato fino a quel
momento era stata sostituita dal vecchio cipiglio da allievo.
“Il mio Capitano
ha fatto un
accordo con il Capo-ufficio Auror affinchè la mia presenza
rimanga nascosta
agli occhi della popolazione magica britannica…”
La prese alla larga, sperando
di dissimulare senza dover apertamente mentire.
“Dell’intera
popolazione
magica o solo della famiglia del Capo-ufficio Auror?”
Roxanne, a quanto gli aveva
detto Lily, era una persona piuttosto critica
dell’autorità costituita. Era
quindi probabile che avesse raccontato al neo-marito di una certa
tendenza del
Salvatore dei Due Mondi a dettar legge.
Che
è quello che ha fatto, alla fine. Ha dato il
permesso di farmi venir qui solo a condizione di non entrare in
contatto con
Albus Severus, Thomas e Lily.
Poteva capire quella
decisione, e in linea di massima la appoggiava dato che non si sentiva
assolutamente pronto a rivedere il fratello maggiore
dell’amica e soprattutto
suo cugino.
Però…
preferirei morire che far loro del male. Lo ha
capito questo?
“Sì,
Lily non lo sa.” Tagliò
corto. “Ed è meglio così. Visti i
nostri trascorsi è meglio evitare contatti.”
“Scusa se ti interrompo.” Lo fermò
perplesso. “Ma voi avete già
dei contatti. Vi scrivete.” Si passò
una mano trai capelli. “Sinceramente non capisco.”
Sören non seppe
cosa
ribattergli; una parte di sé sposava in pieno le parole del
mago che faceva
colazione accanto a lui, e urlava oltraggiata che non era giusto.
Ho
fatto tanto per diventare la persona decente che
avrei dovuto essere. Che tu e
solo tu credevi potessi essere. Perché non posso mostrartela
Lily?
Un’altra parte
invece aveva il
terrore che l’altra, sapendolo a Londra, non volesse vederlo.
Che non si
sentisse pronta come invece lo era lui, o semplicemente che non ne
avesse
voglia.
Era tutto lì
infondo; non
c’era nient’altro capace di dargli tanta ansia.
Dionis fraintendendo la sua
espressione assunse un’aria imbarazzata.
“Perdonami.” Scosse la testa. “Non
sono affari miei.”
“È
complicato.”
“Lo
capisco.”
“Lo hai sempre fatto.” Replicò alzando
la testa dalla contemplazione delle sue
personali miserie. “E non ho mai capito
perché.”
Il rumeno lo
fissò
attentamente, poi sorrise. “Te lo dissi, no? So riconoscere
un guerriero quando
ne vedo uno e tu lo sei sempre stato.”
“Cosa
significa?” Doveva
chiederglielo dato che era sempre stato un tarlo nello strano rapporto
che si
era creato tra loro durante il Tremaghi.
Radescu assunse un’aria sorpresa, poi ridacchiò.
“Sì, immagino di dovermi
spiegare meglio … allora mi era difficile, anch’io
avevo i miei limiti. Non era
facile essere un allievo a Durmstrang.” Si girò la
fede attorno all’anulare con
aria meditabonda, quasi fosse al momento il centro dei suoi pensieri.
“Quello
che non potevo dirti, forse perché non ero sicuro che fosse
vero, è che ti
vedevo, in un certo senso, come un mio pari ed era questo che intendevo
per
guerriero. Una persona che combatte, come combattevo io.”
Fece una pausa
continuando a rimirare l’anello. “Ero un ragazzo
molto solo. Le persone che mi
stavano affianco miravano a tirare acqua al proprio mulino, o nelle
ipotesi
peggiori, a tentare di distruggere il mio per alimentare il loro. Il
mio unico
desiderio era uscire il più presto possibile da
lì, con la testa alta e il mio
codice morale intatto.”
“L’hai
fatto.” Gli uscì di
getto. “Sono certo che l’hai fatto.”
Simile
… Mi considerava un suo simile?
Il
rumeno annuì con aria perfettamente
seria. “Ed è stata dura. Non compromettermi mai,
essere il primo senza per
questo dover calpestare una pila di corpi sotto di me. Non avevo amici,
e
pensavo che oltre a me, nessuno capisse quant’era difficile
mantenere il
proprio spirito quando tutto cospirava per piegarlo.” Lo
guardò dritto negli
occhi e Sören fu felice di non sentire più
l’impulso di doverli abbassare come
un tempo. “Tu eri come me. Oltre ciò che si
diceva, oltre ciò che ti ordinavano
di fare, lottavi. Per questo, un
guerriero.”
Il mio codice morale …
L’ha visto. Mi ha
visto, come Lily.
“Ho risposto alla
tua
domanda?” Gli chiese e stavolta Sören
trovò perfettamente inutile tentare di
nascondere la commozione.
“Sì.”
Ci doveva essere una
formula per ringraziare che non fosse sterile come quella che si usava
di
solito, anche se ovviamente lui non la conosceva e non aveva mai
pensato di
chiederla a Milo o a Estevez. Tentò.
“Anch’io ho pensato cose simili di te e…
mi sarebbe piaciuto esserti amico.”
Radescu non sembrò troppo perplesso dalle sue parole, anzi
annuì
tranquillamente. “Siamo ancora in tempo. Sarebbe
un’onore per me esserti amico,
Sören.” Gli tese la mano, in una
gestualità che era incredibilmente simile alla
sua.
Allora
i miei modi di fare non sono alieni come Milo
millanta sempre che siano. Dovrò farglielo notare.
Gliela strinse, sentendosi
sorridere. Chissà se era normale, per gli altri, avere la
percezione di farlo o
era per loro una contrazione automatica della muscolatura che
corrispondeva ad
un’emozione?
Questa
sarebbe una domanda per Lily. Se poi non dovessi
raccontagli come hai incontrato Radescu.
Vedendo la sua espressione
rabbuiarsi, l’altro sciolse la presa e lo scrutò
perplesso. “C’è qualche
problema?”
“Lily.”
Non c’era molto che
potesse nascondere a chi praticamente sapeva già molto della
situazione. E poi,
forse, avrebbe potuto aiutarlo.
Milo
di certo non aiuta, dimenticandosi di imbucare le
lettere e facendo inadeguata ironia.
“Già,
Lily.” Replicò l’altro
con un sospiro. “Non credo che se scoprisse che sei qui ne
sarebbe contenta.”
Era quello che immaginava, ma sentirselo dire in faccia fu come essere
preso a
pugni quando era già malconcio. “Lo penso anche
io.” Inspirò. “Scrivermi è
una
cosa, vedermi dal vivo…”
Radescu sgranò gli occhi, fermandolo con una mano.
“No, mi hai frainteso.”
Scosse la testa. “Non intendevo dire che non vuole vederti.
Certo, non sono
nella sua testa, ma sono sicuro che il problema non sia quello, quanto
piuttosto il fatto che glielo stai tenendo nascosto.”
“Sì,
immagino potrebbe non
piacerle…”
“Potrebbe non piacerle?”
Ripetè
inarcando le sopracciglia sbalordito. Per un attimo lo
guardò con quello che
sembrava proprio compatimento, e poi fece un grosso sospiro
strofinandosi al
tempo stesso il pollice sulla fede nuziale. “Non mi ritengo
un’esperto
dell’universo femminile, ma ho sposato una donna che viene
definita Weasley,
prima che con il suo nome di battesimo. E credimi.” Lo
sguardo di compatimento
tornò in tutto il suo disagiante splendore. “Il
problema, con loro, non è aver
fatto qualcosa di sbagliato. Ma non averglielo detto.”
****
Scozia,
Hogsmeade.
Foresta Proibita. Mattina.
Sembrava che la Foresta
Proibita non considerasse l’estate come una stagione degna
della sua
attenzione.
Ted si strinse alla leggera giacca che aveva incautamente deciso di
indossare
per addentrarsi fino al territorio dei Centauri, e lanciò
un’occhiata empatica
a Nevile, altrettanto poco vestito e altrettanto infreddolito.
“Avremo dovuto
aspettarcelo …
Con tutti questi alberi, quando mai qui batte il sole?”
Sospirò l’uomo
serrandosi le braccia al petto. “Sono in momenti come questo
che vorrei
prendere una casa in Italia, o non so, nel Sud della Francia!”
“Non so dirti molto sull’Italia, ma il Sud della
Francia non è così mite come
si pensa.” Replicò osservando le macchie di luce
illuminare scarsamente il
sottobosco di fronte a loro. “Caraibi. Albus
c’è stato per studio ed ha detto
che è tutto baciato sole.”
“Che meraviglia!” Sospirò Neville
alzando gli occhi al cielo. “Qua invece siamo
sempre preda della pioggia. Spero solo che il tempo regga fino alla
festa di
Frankie.”
Ted sorrise; Frank Junior era l’ultimogenito
dell’amico e compiendo a Luglio il
suo primo anno di vita, la famiglia Paciock stava organizzando per lui
una
festa che si prometteva grandiosa. “Sono certo che
reggerà, Nev.” Lo rassicurò.
“E anche se fosse, sarà bello festeggiare anche al
chiuso.”
“Non sai come sono i miei figli, Ted.”
Ridacchiò l’uomo. “D’estate
non deve
piovere, e se piove in qualche modo è
un’ingiustizia insanabile.” Si ficcò le
mani in tasca, evitando per un pelo di calpestare una radice, in cui
lui invece
platealmente inciampò. “Essere padre ti fa sentire
colpevole anche dei fenomeni
metereologici, credimi.”
“Ci credo.” Ridacchiò occhieggiandosi
attorno. A giudicare dalle orme di
zoccoli sul sentiero che si snodava in mezzo all’incolta
vegetazione e alle
frecce piantate a mo’ di avvertimento su alcuni tronchi
dovevano essere ormai
entrati nel territorio dei Centauri; Fiorenzo sarebbe venuti a
prenderli in un
punto convenuto che stavano rapidamente raggiungendo.
Speriamo
sappia dirci qualcosa di risolutivo, così la
smetteremo con questa ridicola faccenda dei Mannari.
“Hai mai pensato
di diventare
padre?”
Ted inarcò le
sopracciglia,
sorpreso dalla domanda, che per quanto non fosse fuori contesto
– avevano
parlato di figli fino a poco prima – era comunque bizzarra.
L’amico stava
guardando assorto un Billiwig volteggiare nell’aria
coloratissimo e sembrava
averlo detto tanto per far conversazione.
“Beh, non
saprei.” Ammise senza
rifletterci molto. “Certo, quando stavo con Vic avevo anche
considerato la cosa
… Sposarmi, avere una famiglia era ciò che
avevamo deciso di costruire.” Scosse
la testa. “Naturalmente adesso la situazione è
cambiata.”
Neville aggrottò le sopracciglia. “Beh, quello con
James è comunque un rapporto
stabile, no?”
Ted inarcò le
sopracciglia,
sempre più sbalordito. “Sì …
ma siamo due uomini.”
Sottolineò il concetto. “Per quanto la magia
abbatta molte barriere fisiche non
credo possa farci avere figli. Non ho mai letto niente in
merito.”
E non penso neanche di voler sapere se
esiste un metodo e come funziona.
Neville si strinse nelle
spalle. “È vero, ma si può sempre
adottare. Ti ricordi Ernie, vero?”
“Certo.”
Ricordava soprattutto
l’imbarazzantissima conversazione avuta con l’uomo
in merito alla propria
sessualità anche se mascherata da innocenti consigli
pedagogici.
Tranne
quando alla fine mi ha detto apertamente che il
professor Fetchley mi trovava attraente.
Non
sono più riuscito a guardarlo in faccia da allora.
“Beh, lui e il
marito hanno
adottato una bambina, Sarah. Nel Mondo Babbano purtroppo credo si stia
ancora
combattendo per permettere alle coppie gay di avere figli, ma nel Mondo
Magico
il problema non si è mai posto … Si racconta che
Tosca Tassorosso fosse stata
cresciuta da due donne druido.”
“Sì, lo so, ma…” Certo, avere
una famiglia era sempre stato un suo desiderio,
però…
“Tu e James siete
ancora
giovani, è normale che non vi sia ancora venuto in
mente.” Gli venne in
soccorso il vecchio amico, con la consueta espressione pacifica.
“Non volevo
turbarti.”
“Non l’hai fatto.” Non era turbamento
quello che provava, decise, quanto
piuttosto sorpresa. Aveva davvero dimenticato quel desiderio?
Eppure era una priorità tirarlo
fuori
quando io e Vic parlavamo di futuro…
Forse era quello;
lasciandola lo
aveva sepolto una volta per tutte, perché non aveva mai
creduto di poter
trovare un’altra donna con cui desiderare una famiglia.
Infatti
ho trovato un uomo.
“Teddy, senti,
lascia perdere
quel che ho detto.” Neville lo strappò alle sue
riflessioni con aria
dispiaciuta. “È stata una domanda importante fatta
con leggerezza.”
Lo era stata, ma supponeva
che
prima o poi se la sarebbe fatta da solo; non desiderava più
dei figli dunque?
No,
non è questo.
Ted non si considerava un
tipo
dalle decisioni fulminee; non era un idiota, ma aveva bisogno di tempo
per
affrontare argomenti di quella portata e tirare le somme per
raggiungere una
conclusione.
Ho
davvero smesso di volere figli?
Un rumore di rami spezzati
cancellò le sue riflessioni facendolo voltare in allerta;
Fiorenzo era in mezzo
alla radura che avevano appena sorpassato e presi dalla conversazione
né lui né
l’altro mago l’avevano sentito arrivare.
“Neville,
Ted.” Li salutò con
la consueta calma serafica. “Benvenuti. Spero non sia stato
troppo difficoltoso
arrivare fin qui.”
“No, affatto.” Gli sorrise reprimendo un brivido di
freddo. “Ti ringrazio per
averci ricevuto.”
“Vi ringrazio per aver rispettato il mio desiderio di non
allontanarmi dal
branco.” Replicò guardando un punto distante tra
di loro e Ted immaginò che
altri Centauri li sorvegliassero dal folto del bosco; che fossero
colleghi con
il compagno probabilmente aveva poca importanza.
Non
è affatto inquietante. Proprio per niente.
“Nessun
problema.” Scrollò le
spalle Neville. “Ti abbiamo spiegato la situazione tramite
Gufo, vero? Qualcuno
di voi ha visto o sentito qualcosa che possa far pensare che un branco
di
Mannari si sia stabilito da queste parti?”
“L’unico branco esistente in Gran Bretagna mi
è stato detto sia ben lontano
dalla Scozia.” Replicò il Centauro e Ted trattenne
l’impulso di esclamare un
liberatorio ‘te l’avevo detto’.
“Tuttavia…”
Tuttavia?
“Tuttavia?”
Ripetè ad alta
voce.
“Abbiamo
interrogato gli altri
residenti della Foresta. C’è una presenza, qui che
prima non c’era.” Spiegò la
creatura fissandoli con gli enormi occhi zaffiro. Non sembrava
particolarmente
preoccupato, ma era difficile leggere nella testa di un Centauro.
“Non sappiamo
dirvi però se sia un Mannaro. Si muove di notte, e si sposta
verso Hogsmeade.
Si nasconde ben lontano dal nostro territorio … Credo che
abbia vissuto a
contatto con alcuni di noi, perché sa come rendersi
invisibile persino ai
nostri occhi.”
“Quindi è dotato di raziocinio.”
Realizzò Ted. “Potrebbe
essere un Mannaro.” Ammise suo malgrado, scoccandosi
un’occhiata con l’altro mago.” Perdono la
ragione soltanto durante il
Plenilunio.”
“Potrebbe.” Concesse Fiorenzo con un sospiro.
“Quello che è certo è che ha
disturbato gli equilibri della Foresta, e questo al branco non
piace.”
“Ma se fosse un
essere umano…”
Ted inspirò leggermente, cercando di radunare le idee il
più velocemente
possibile. “Sono state trovate delle orme?”
“No, come ho
detto, è abile a
nasconderle. È qualcuno che ha già vissuto in una
foresta.”
“Le foreste del Galles sono simili a queste.”
Intervenne Neville meditabondo.
“Potrebbe davvero trattarsi di un Mannaro. Perché
è uno, Fiorenzo?”
“Questo
è molto probabile.” Il
che, nel linguaggio dei Centauri, era praticamente una certezza.
Okay,
prendiamo per buono il fatto che lo sia. Una sola
volta al mese però. Il resto del tempo è umano, e
solo.
Se
lo trovassero i Centauri…
Non tutti nel branco di
Fiorenzo avevano un atteggiamento aperto verso gli esseri umani,
specialmente
dotati di poteri magici. Certo, con gli anni e la mediazione del
docente di
Divinazione erano diventati più tolleranti, e lo dimostrava
il fatto che
avessero avuto il permesso di entrare nel loro territorio,
ma…
Ma
un invasione in
quella che considerano la loro
foresta … No, potrebbe non finir bene. Tra
i Mannari e i Centauri poi non è mai corso buon sangue.
“Il Plenilunio
sarà tra una
settimana.” Esordì nel silenzio che si era creato.
“Quella notte sarà più
difficile che passi inosservato.”
“Immagino di sì.” Convenne Fiorenzo
scutandolo attentamente. “Tuttavia devo
sconsigliare l’intervento del Ministero. Come sapete il
nostro territorio è
auto-amministrato.”
I nostri problemi ce li risolviamo da
soli. Chiarissimo.
“Non parlavo di
chiamare il
Ministero, ma se potessi chiedere al tuo capobranco di aiutarmi a
trovare il
Mannaro per portarlo via dalla Foresta te ne sarei grato.
Sarò solo io, nessun
ministeriale.” Ignorò l’occhiata
sbalordita di Nev dato che non poteva
pretendere che capisse al volo il repentino cambiamento di programma.
Avevo
detto che non volevo aver nulla a che fare con
questa storia, è vero, ma non si sta parlando un branco. Si
sta parlando di un
individuo solo e forse spaventato.
Era suo dovere in quanto
docente
di Hogwarts, Magizoologo dilettante e soprattutto, di figlio
fare tutto il possibile per aiutare la persona che quella
creatura era per la maggior parte del tempo.
Fiorenzo rimase a lungo in
silenzio – il che non era precisamente una novità
– prima di annuire, facendo
balugginare i lunghissimi capelli bianchi alla poca luce che filtrava
dalle
fronde. “Ne parlerò con Magnus.” Ovvero
il Capobranco. “Vi farò arrivare la
risposta via Gufo.”
“È quello che speravo, grazie Fiorenzo.”
Si strinsero la mano e poi non restò
loro che accomiatarsi.
Quando furono ben addentrati
nella via del ritorno, Neville finalmente parlò.
“Non vorrai affrontare un
Licantropo da solo, vero?”
“Se Magnus mi concede il suo aiuto non sarò solo,
ma circondato da Centauri
armati. Sono le creature più letali che si possano trovare
in una foresta
magica, persino più delle Acromantule, quindi non
correrò grossi rischi.”
Sospirò. “Non posso chiederti di venire con me,
Nev … non sarebbe sensato.”
“Sì, ma sarebbe amichevolemente
corretto.” Replicò con un sorriso.
“Avanti,
lasciami fare il Grifondoro.”
Ted rise. “Questo
dovrebbe
convincermi?”
“Se dici pericolo,
dici
Grifondoro!” Replicò con un guizzo divertito negli
occhi. “Avanti, regala un
po’ di brivido a questo monotono padre di
famiglia!”
Avendone uno in casa e conoscendo la testardaggine insita nel dna di
chi aveva
indossato rosso-oro, non potè far altro che allungargli una
pacca sulla spalla
e annuire.
“Però
lo dici tu ad Hannah.”
****
Ministero
della Magia. Ufficio Auror.
Sören
tirò un profondo respiro
prima di varcare le grosse porte dell’Ufficio Auror. Anche
quella mattina,
sarebbe stato solo ad affrontare una torma di demoni dal passato, con
il solo
aiuto del suo buonsenso e della sua capacità di controllare
le proprie emozioni.
Ho
affrontato ben di peggio. Posso farcela.
Passò le dita
sull’uniforme,
stirandola con un leggero strattone e poi scivolò tra la
fila di cubicoli, più
o meno occupati da insonnoliti Auror che tra la lettura dei propri
rapporti e
il bere caffè si stavano preparando ad una giornata di
attività. Quando
finalmente individuò una testa biondissima capì
di aver trovato il box giusto e
vi si avvicinò.
Scorpius Malfoy era seduto
all’unica sedia presente e stava terminando di scrivere
qualcosa, dandogli le
spalle. Sentendolo canticchiare a bassa voce e non sapendo come
approcciarsi
dato che sembrava non aver notato la sua presenza, si
schiarì la voce.
“Ehi,
Prince.” Sorrise
voltandosi e palesando il fatto che invece l’avesse sentito
arrivare.
“Buongiorno!”
“Buongiorno.” Replicò ringraziando
silenziosamente Merlino in persona di non
averlo fatto accogliere da James Potter; Malfoy sembrava meno
indisposto nei
suoi confronti.
Forse
lo disgusto in ugual misura, ma quantomeno è
civile.
Non
per usar razzismo, ma secondo me una certa forma mentis
Purosangue aiuta.
“James e Bobby
devono ancora
arrivare. Nel frattempo posso offrirti qualcosa da bere? Un
caffè?” Chiese il
ragazzo, arrotolando la pergamena e facendovi colare sopra della
ceralacca prima
di imprimervi il sigillo del Ministero che trovò frugando
tra la marea di
ciarpame che infestava la scrivania. Sören osservò
quelle operazioni tra il
curioso e il sottilmente divertito.
Anche
Estevez ha la stessa incapacità di tenere in
ordine la postazione…
Poi si ricordò di
rispondere,
dato che l’altro lo guardava in aspettativa. “No,
ti ringrazio. Non bevo
caffè.”
“The allora?” Sembrava studiarlo, ma senza
l’aperta acrimonia di cui l’avevano
omaggiato i Potter durante la visita del giorno prima.
“Non
disturbarti…”
“Nessun disturbo, lo faccio anche per me.”
“The
allora.” Convenne non
sapendo bene cosa fare di se stesso. Non c’era sedia su cui
si potesse sedere
così si limitò a rimanere accanto ad uno degli
stipiti mentre l’altro spariva, probabilmente
diretto verso la piccola cucina dell’ufficio – ne
avevano una anche a Boston.
Per ingannare il tempo
alzò lo
sguardo verso il soffitto, ammirando come fosse incantato per
riflettere una
cartina luminosa dell’Inghilterra. I punti con più
attività magica erano
contrassegnati da piccole fiamme viola.
“Ecco
qui.” Lo sorprese Malfoy
scivolandogli accanto senza far rumore. Ne fu sconcertato, dato che non
era
facile coglierlo in fallo in quel modo. Quasi gli avesse letto il
pensiero,
l’altro mago fece un sorrisetto allungandogli la tazza
bollente. “Spero di non
averti spaventato!”
“No.” Replicò cercando di non suonar
stizzito, anche se l’impulso fu forte.
“Stavo guardando il vostro soffitto.”
“Forte,
vero?” Annuì
sorseggiando il suo the e alzando lo sguardo. “La prima
settima che ero qui
l’ho passata con il naso per aria. Devo ammettere, distrae
persino di più di
quello di Hogwarts.”
“Quello di
Hogwarts ha una
magia più complessa dietro, specialmente alla luce del fatto
che sia stato
incantato secoli fa.” Replicò.
Malfoy parve sorpreso.
“Anche
tu hai letto Storia di Hogwarts?
Pensavo fosse un flagello riservato solo agli studenti
inglesi.”
Sören
annuì. “È stata una
lettura interessante, e poi mi è …” Si
bloccò realizzando la frase infelice che
stava per pronunciare. “… servito.”
Terminò rassegnato, sentendo un maglio
artigliargli le viscere.
Per
il mio compito. Per non essere impreparato ad
interpretare Sören Luzhin.
“Io l’ho
sempre trovato un
libro noiosissimo.” Gli venne incredibilmente in soccorso
l’altro. “Penso di
non esser mai andato oltre le prime venti pagine, per quanto la mia
ragazza non
me l’abbia mai perdonato.”
Stavano parlando del
più e del
meno, realizzò sgomento. Scorpius Malfoy si stava sforzando di avere una conversazione con
lui. La sorpresa gli fece
quasi scottare la lingua quando prese un secondo sorso.
“So che vi state
per sposare.”
Era un argomento lieto, quindi supponeva non particolarmente spinoso.
“Congratulazioni.”
L’inglese a quella frase si illuminò
letteralmente; era sbalorditivo vedere
come non avesse problemi a manifestare le proprie emozioni.
Questo
non significa che non le controlli. È un
Occlumante, lo sento. Lascia trapelare solo ciò che vuole,
anche se più che
trapelare le fa esplodere.
“Grazie.”
Si passò una mano
trai capelli corti. “Tra qualche mese sarò un uomo
sposato, oltre che
innamorato.”
Sorrise appena, pescando nella poca varietà delle frasi
fatte che conosceva.
“Sei un mago fortunato.”
Gli venne sorriso di rimando. “Sì, lo sono. E
tu?”
“Prego?”
Gli uscì rigidamente,
prima di realizzare che doveva essere una frase fatta quanto la sua.
“No, non
ho un rapporto stabile al momento.”
“Avuto?”
Sören battè le palpebre, pregando che il rossore
non si stesse diffondendo sul
suo viso come gli sembrava invece stesse succedendo. “No.
Suppongo che si possa
dire che il lavoro per me venga prima di tutto il resto.”
Immaginava di doversi aprire
per poter instaurare un rapporto quantomeno decente con quelle persone,
e
comunque Malfoy non sembrava tipo da usare le informazioni dategli come
arma.
Non
che lo conosca in alcun modo, ma Lily dice che è
una persona corretta.
L’altro mago
scosse la testa.
“Fai male. Ci vuole un po’ d’amore nella
propria vita oltre al distintivo.”
Lo so. Ma non penso di poterlo
pretendere.
Non lo disse
però, limitandosi
a finire il the in silenzio. Quasi a dare uno stop a quella tutto
sommato
piacevole conversazione, James Potter irruppe nel cubicolo seguito a
ruota dal
ragazzo di colore che rispondeva al nome di Bobby Jordan.
“Ah, è
già qua.” Esclamò come
se fosse invisibile o una creatura priva di coscienza. “E
tu?” Chiese a Malfoy
che si limitò a sorridere urbanamente.
“Arrivo in orario, a vostra differenza. Comunque buongiorno,
com’era la
colazione da Fortebraccio?”
“Potevi venire
anche tu, il
Gufo te l’ho mandato.” Replicò
l’altro con una scrollata di spalle; Sören
riflettè e giunse alla rapida conclusione che
quest’ultimo aveva organizzato
una colazione doverosamente lunga proprio per farlo aspettare come un
idiota,
solo, in ufficio.
Era infantile ed irritante,
ma
la cosa a lasciarlo sorpreso era il fatto che Malfoy avesse boicottato
l’intera
faccenda.
Lilian
te l’aveva detto che è una persona corretta, no?
Era troppo presto per tirare
le somme sul ragazzo accanto a lui, ma non saperlo completamente ostile
era
comunque un sollievo. “Aspettiamo il Sergente?”
Chiese quest’ultimo,
grattandosi il tatuaggio sul collo con aria svagata. A differenza di
Potter,
che ne esibiva due paralleli sul collo e uno che spuntava dalla manica
dell’uniforme, sembrava essersi fermato al riprodurre lo
stemma di famiglia –
lo ricordava perché durante l’infanzia aveva
dovuto memorizzare lezioni intere
di araldica magica europea.
“No, è
ancora in malattia.”
Sospirò il moro afferrando una cartella apparentemente a
caso dalla pila
accanto a sé. Doveva esserci una sorta di metodo in quella
follia, perché si
rivelò essere quella del caso Howe. “Ci muoviamo
da soli anche oggi. Andiamo
prima di tutto a parlare con i Mortuari, Gravestone e quelli del turno
serale,
l’ultimo prima del furto. Vediamo se qualcuno ricorda
qualcosa…”
“Perfetto!”
Esclamò Malfoy
afferrando il mantello e drappeggiandoselo addosso. Di loro, sembrava
l’unico a
non percepire la tensione dell’ambiente.
E
dire che si potrebbe tagliare con un Recido…
“Bene.”
Fece eco Potter
continuando ad ignorarlo come se fosse fatto d’aria.
Supponeva fosse il
comportamento più disponibile a cui potesse aspirare quindi
non se ne lamentò.
“Ci muoviamo.”
****
San
Mungo, Ultimo piano.
Pausa caffè di metà mattina.
“Credo che
papà e Jam si siano
rassegnati al fatto che ho un ragazzo.”
La frase ci mise un po’ a raggiungere Albus, dato che durante
la pausa caffè il
fratello scivolava in una sorta di torpore post-adrenalinico; con il
Guaritore
in carica che si trovava per mentore era sempre sul filo del rasoio e
quella mezz’ora
era l’unica isola felice della sua mattinata lavorativa.
Povero,
povero Albie. Comunque si difende bene … Credo
che trami per spodestarlo non appena la vecchiaia darà le
prime avvisaglie.
“Davvero?”
Esclamò rimediandosi
un’occhiata perplessa da Sophia e Achille che con loro
stavano dividendo il
tavolo della caffetteria. “Perchè?”
“Non sono venuti a
rompere i
boccini perché dormo ancora da Scott.”
Replicò stringendosi nelle spalle e
appoggiandosi alla poltroncina per stiracchiarsi a dovere. “O
si sono
rassegnati, o mi stanno nascondendo qualcosa.”
Al aggrottò le sopracciglia. “Cosa dovrebbero
nasconderti?” Sembrava genuinamente
confuso, quindi probabilmente non era coinvolto nell’intera
strana faccenda del
silenzio omertoso del resto della sua famiglia.
Ho
provato anche a sondare mamma ieri sera, nella
nostra chiamata serale. Niente. Pur vero che mamma ha una faccia di
bronzo da
paura. Son quelle come lei che rendono inutile il mio dono.
“Non ne ho idea,
ma non ti
sembra strano? Voglio dire, passi papà che comunque so che
pensa che in fondo
Scott sia adatto a me, ma Jamie? Sai quant’è
rompiscatole…”
Albus scrollò le spalle. “Credo che siano tutti e
due oberati dal lavoro. Rosie
mi ha detto che la squadra di Jam e Scorpius sta seguendo un caso di un
tizio
che si è polverizzato in una stanza del Paiolo
Magico.”
“Polverizzato?”
Si inserì Achille.
“Merlino, la Magia Oscura è spaventosa!”
Al annuì con aria
piuttosto
seria; se non lo sapeva lui…
“Sì, per
questo penso che non abbiano tempo per indagare su dove
dormi.” Finì il suo
caffè inondato di panna e altre schifezze dolciastre.
“Non è una buona notizia
comunque?”
“Lo è,
certo!” Ma non le
tornavano comunque i conti; forse era troppo paranoica, ovvio effetto
collaterale di esserlo stata poco o nulla durante il suo Quinto anno.
Morgana,
diventerò come Tom?
C’era poi la
faccenda di Sören
ad aumentare il suo nervosismo: anche quella mattina aveva atteso
inutilmente una
sua lettera e aveva quindi finito per scrivere a Nora.
E
speriamo che lei sappia dirmi qualcosa.
Rosicchiarono via quel che
restava della pausa chiacchierando del più e del meno e, nel
caso di Albus,
tentando di non farsi coinvolgere nella avances piuttosto palesi quanto
inutili
della Chang. Saliti in ascensore, Lily rimase in disparte, troppo presa
dall’affastellarsi di pensieri per poter serenamente
scherzare con gli altri.
E
se gli fosse successo qualcosa? Dev’esser per forza
successo qualcosa che esula dalla sua routine. E il Gufo non
può esser andato
perso, se ne sarebbe accorto, paga sempre per la ricevuta di ritorno!
Ecco,
sono ufficialmente preoccupata.
Non era un sentimeno nuovo
peraltro; da che lo conosceva, sin da quando si era finto Luzhin,
Sören l’aveva
fatta preoccupare, per quanto in gradi e forme diverse.
Immersa nelle sue
riflessioni
neppure si accorse dell’ascensore che si aprì in
fretta e della barella che
entrò come un Bolide all’interno; fu Albus a
tirarla indietro e a salutare con
un cenno della testa il Guaritore Finnigan. “Sam.”
Aggiunse brevemente visto
che l’uomo era impegnato nel lanciare incantesimi diagnostici
sul paziente che
giaceva esanime di fronte a loro.
“Oh,
ragazzi!” Sorrise loro
distratto. “Come va?”
“È
metà mattina … potrebbe
andare peggio.” Sorrise Al, prima di abbassare lo sguardo e
impallidire di
colpo. Lily lo guardò confusa prima di notare quale fosse la
causa del suo
pallore.
Oh,
Merlino.
Disteso di fronte a loro non
c’era un paziente qualunque, ma nientemeno che il Sergente
Flannery,
capo-squadra di James.
“Cosa…”
Esalò suo fratello
sempre più pallido. “… cosa gli
è successo?”
“Non era in
servizio.” Lo
anticipò l’altro guaritore, intuendo il motivo
della sua reazione. “È arrivato
da casa.”
Lily sentì un peso sparirle dallo stomaco, sciolto come neve
al sole. Strinse
brevemente la mano di Al; erano cresciuti in una famiglia di servitori
della
legge magica, ed erano ovviamente preparati
all’eventualità di vedere qualcuno
che conoscevano o peggio, con cui dividevano lo stesso sangue, disteso
su una
delle tante barelle che levitavano per l’ospedale.
Questo
non significa che riusciremo mai ad abituarci
all’idea.
“Che
cos’ha?” Si informò
mentre il fratello era occupato a riprendere la capacità di
respirare.
“Malattia?” Indovinò, considerando che
Seamus era il guaritore in carica del
reparto Malattie Magiche.
“Stiamo cercando
di
scoprirlo.” Replicò il mago con il solito tono
pratico e rassicurante. “Lo
portiamo ai laboratori per delle analisi.” Le mascelle
dell’ascensore si
aprirono al piano terra e la barella veleggiò sicura verso
l’uscita. “Vi tengo
informati?”
“Sì,
grazie.” Convenne Al
tornato al solito, collaudato, tono tranquillo. Aspettò
però che i due colleghi
fossero distanti prima di parlarle. “Puoi fare una chiamata
via Specchio
Comunicante a Scorpius? Giusto per…”
“Certo che lo faccio.” Era esattamente la sua
intenzione. “Ti trovo al tuo
piano?”
“E dove altro vuoi che sia?” Sbuffò.
“Segui le urla di Smeth, io sarò
lì.”
Lily annuì, prima
di
abbracciarlo stretto e assicurarsi che l’altro ricambiasse.
“Bello spavento,
eh?”
“Salazar, se odio
il mestiere
di Auror…” Borbottò prima di lasciarla
andare. “Fammi sapere.”
“Contaci!” Lo salutò con la mano e si
assicurò che prendesse l’ascensore prima
di lasciare andare un lungo sospiro.
Era
un po’ che non avevo preoccupazioni per la testa,
eh Merlino? Carico doppio quindi, mi sembra giusto.
****
Londra,
Diagon Alley.
Laboratorio di Bacchette Stevens. Mattina.
“Che significa che
non sarà
pronta prima della prossima settimana?”
“Quello che ho detto. E considera che ti sto facendo un
favore.”
Michel schioccò le labbra, cercando nella memoria
un’incantesimo non-verbale
capace di incendiare la testa di un uomo. Perché sentiva il
fortissimo impulso
di incendiare quella di Thomas Dursley.
“Come pensi che
possa andare
in giro senza bacchetta?” Lo apostrofò con il tono
più calmo del suo al momento
risicato repertorio, strofinando al contempo il pollice
sull’anello di famiglia
per tenere le mani occupate.
L’altro non
alzò lo sguardo
dalla bacchetta di cui stava dissezionando il nucleo; a vederlo seduto
in un
angolo angustissimo dell’enorme stanza piena di alambicchi e
scaffali, ad un
tavolo pieno di trucioli e serpentine che sobbollivano, era la
raffigurazione perfetta del topo da
biblioteca che in
fondo era sempre stato.
O
meglio, topo da bottega.
“Puoi chiedere a
Stevens se te
ne può dare una in comodato d’uso.”
Prese un paio di pinzette lunghe e sottili
come le gambe di un ragno e cominciò a sfilare i crini dal
corpo cavo del
legno.
Probabilmente
l’intero mondo magico dovrebbe esser
grato del fatto che disseziona bacchette e non persone …
vive.
Roteò gli occhi
al cielo. “È
appartenuta a mia nonna, e da quando ho undici anni non ne ho
utilizzate altre
quindi non ho piacere ad impugnarne una di seconda mano. Conosci
benissimo la
storia.”
Te
l’ho raccontata quando ancora eravamo in rapporti
civili.
Se solo la sera prima non
avesse fatto l’errore di portarsi in casa un ragazzo il cui
unico pregio era un
notevole fisico e l’incapacità di tenersi i
vestiti addosso, forse la sua
povera bacchetta sarebbe stata ancora integra.
Invece
nella foga di scoparmi quel bisonte idiota ci si
è seduto sopra.
Credo che trovarsi steso, nudo, ad Hyde Park stamattina sia stata una
brutta
sorpresa.
“Ah,
certo.” L’altro si tolse
gli occhiali da lavoro – che avevano più lenti
montate in sequenza e lo
facevano sembrare un insetto gigante – e gli rivolse un
sorrisetto inequivocabilmente
stronzo. “Mi ricordi come si è spaccata in
due?”
“Non te lo posso ricordare perché non
è un informazione
di cui ti ho messo a parte.” Replicò salace.
“Potete farmela avere riparata
entro stasera o no?”
“No.” Fu
la serena risposta.
“Se non vuoi una bacchetta di cortesia, puoi sempre
acquistarne una nuova.”
“Sei proprio diventato un bottegaio.” Ritorse
facendolo adombrare. Fu una
soddisfazione di breve durata, perché poi l’altro
scrollò le spalle e tornò al
suo dissezionamento inquietante.
“Come
preferisci.” Replicò
suonando estremamente soddisfatto della sua disperazione. “Se
hai finito con le
lamentele, puoi andare … ti manderò un Gufo
quando sarà pronta.”
Odioso
bastardo…
“Può
essere riparata?” Spiò
preso da un’improvviso ma comunque atroce dubbio.
“Da me
certamente.” Fu la
replica boriosa. Sfortunatamente, la sparata corrispondeva anche alla
verità;
per quanto si tollerassero come fumo negli occhi ormai da anni, doveva
riconoscere che l’altro aveva un vero talento con le
bacchette.
Al
mi ha detto che ci sono pochi Fabbricanti che si specializzano
nella riparazione … Si è creato una nicchia di
mercato ancor prima di essere
ufficialmente entrato nel club.
Non
lo ripeterò mai a sufficienza. Odioso. Bastardo.
Anche se dopotutto doveva
ammettere, era un modus operandi
degno di un serpeverde.
“Non
più di una settimana.” Lo
minacciò un po’ sterilmente prima di lasciarlo ai
suoi legnetti e uscire dal
laboratorio; l’odore pungente della cera per bacchette e dei
trucioli gli dava
la nausea e aveva bisogno di respirare un po’
d’aria fresca.
Fuori si immise nella via
principale, lasciandosi fagocitare dalla calca bollente. Fece una
smorfia,
passandosi un fazzoletto sul collo, sentendosi già
sudaticcio; l’estate era
iniziata e lui si sentiva più stanco e frustrato che mai.
Come se non bastasse,
il caso che gli aveva rifilato Scorpius si era rivelato un calderone
sul fuoco.
Bruciato.
L’agente
di collegamento che dovrò supervisionare è
nientemeno che Sören Von Hohenheim, quel
Sören Von Hohenheim. Quello che a
seminato caos, lacrime e distruzione cinque anni fa.
A quanto sembrava
l’America aveva
voluto dargli una possibilità di riscatto, cosa a cui
avrebbe
disinteressatamente plaudito, se non fosse stato per il fatto che
adesso se lo
ritrovava trai piedi per un’operazione congiunta coperta da
segreto cooperativo
internazionale.
Quindi
non posso parlarne con nessuno. Soprattutto con
Albus e la sua famiglia, forse le uniche persone che dovrebbero sapere.
Avrebbe tenuto la bocca
chiusa
naturalmente; era ciò che ci si aspettava dovesse fare, e
ciò che avrebbe fatto.
Non
posso certo rischiare di perdere il favore dei miei
superiori … Al capirebbe. Forse.
No,
sicuramente no. È così onesto.
Non potè fare a
meno di
sentire un peso in fondo allo stomaco e dunque strinse i denti.
Da
quando sono diventato questo genere di persona?
Forse lo era sempre stato,
riflettè
accendendosi una sigaretta e lasciando che la nicotina Babbana gli
riempisse i
polmoni e gli schiarisse la mente. Gli Zabini avevano una naturale
propensione
a metter da parte i sentimenti personali per raggiungere gli obbietti
prefissati.
Effettivamente
… C’è stato un tempo in cui agivo mosso
solo dai miei sentimenti?
Se c’era stato,
risaliva a
molto tempo prima.
Poi
sono cresciuto.
Immerso nei suoi pensieri fu
quasi spintonato al muro dalla spallata vigorosa di un passante. Si
voltò inviperito
ma quello, un ragazzo con un cappello calato sugli occhi, gli rivolse
un
sorriso fulmineo e beffardo. “Scusa tanto!”
Esclamò prima di sparire tra la
folla. Michel si infilò immediatamente una mano nel mantello
e con sollievo vi
ritrovò il proprio portamonete.
Sembrava
proprio volesse derubarmi … no, troppo
benvestito per essere feccia.
Lo colse a svoltare
l’angolo e
si permise un apprezzamento al fondoschiena, reso sodo da un paio di
jeans, prima
di tornare ai suoi pensieri.
Milo si tolse la vecchia
coppola frusta dei suoi tempi da girovago – era un monito,
non l’avrebbe mai
buttata, anche perché gli donava - e si passò una
mano dietro la nuca,
occhieggiando l’orologio della Gringott, la banca dei maghi.
Aveva passato una
mattina piuttosto proficua esplorando la Londra Babbana, ma era tempo
di
tornare al lavoro.
Il
principino dovrebbe finire presto con gli Auror
brutti e cattivi. Sarebbe capace di perdersi per stada se non vado a
prenderlo
a quel cavolo di ospedale.
Non era del tutto vero,
dovette ammettere; poteva essere drammaticamente incapace nei lavori
domestici,
ma fuori dal perimetro di una casa era più sveglio della
maggior parte della
gente che conosceva.
Oh,
ammettilo vecchio mio. Sei preoccupato.
Fece una smorfia prendendo
una
sigaretta dal pacchetto che aveva appena sfilato al moretto
affascinante che
gli era passato affianco.
Davidoff?
Gusti altalocati!
Che poi, non
l’aveva già visto
da qualche parte?
Ah,
ma sì … È quello a cui ho fischiato
dalla finestra!
Certo
era proprio vero; il mondo
Magico era una noce.
****
San
Mungo. Padiglione Autopsie.
Ora
di pranzo.
“Questo schifo di
interrogatorio è stato un buco
nell’acqua!”
James Potter era un tipo che amava evidentemente lamentarsi ad alta
voce per
smaltire lo stress. Sören, sempre a due passi di distanza
dagli Auror lungo l’asettico
corridoio del padiglione autopsie, gli lanciò
un’occhiata in tralice,
limitandosi a quella dato che qualsiasi sua esternazione sarebbe stata
ignorata, o ancor peggio, travisata.
“Vero.”
Sospirò l’Auror Jordan
con gli occhi incollati al proprio taccuino, quasi che rileggendo
potesse
giungere ad una soluzione. “Nessuno ha visto o sentito niente
di anomalo quella
sera. I Mortuari hanno chiuso come sempre e messo gli incantesimi di
protezione.
Com’è possibile che qualcuno sia riuscito ad
entrare e non farli scattare?”.
“Evidentemente
è stato
qualcuno che sapeva come disincantarli.” Si strinse le spalle
Malfoy
stiracchiandosi. “È proprio un bello Kneazle da
pelare, eh?”
Lo era. Sören aveva assistito in qualità di
osservatore – come da accordi– e
doveva ammettere che tutte le domande erano state fatte e tutte le
proposte
vagliate. Non vi erano testimoni oculari dell’accaduto e
questo, nel Mondo
Magico, era un guaio persino peggiore che in quello Babbano.
“Secondo me, la
vera domanda è
… Cos’aveva di particolare
quell’Howe?” Soggiunse il biondo; aveva una bella
testa, pronta ai collegamenti logici. Dietro quell’aria da
lord in vacanza era
decisamente intelligente.
“A parte essersi ridotto in cenere dici?” Fece una
smorfia Potter premendo il
pulsante di chiamata dell’ascensore. “O il fatto
che sembrasse completamente
strafatto di Magia Oscura?”
“In che senso strafatto?” Non potè
fare a meno di
trattenersi; quel caso, oltre che spinoso da un punto di vista
personale, era anche
oggettivamente interessante. Un mago con una fedina penale praticamente
intonsa
che da un giorno all’altro decideva di cambiare Continente e
di passare al lato
oscuro della Magia.
Non
cosa che si vede tutti i giorni.
Potter aggrottò
le
sopracciglia. “Non hai letto il rapporto?” Lo
apostrofò seccato.
“Naturalmente
l’ho fatto.”
Replicò. “Solo che trovo il caso singolare. Certi
cambiamenti non avvengono con
un’escalation così rapida. Non si tratta di
premere il grilletto di un’arma
Babbana, ma di imparare a praticare incantesimi oscuri… e
Sam Howe non ha mai
dato problemi al Ministero della Magia americano in quel senso o
sarebbe stato
documentato. Secondo le nostre informazioni era un cittadino
modello.”
“Sì, ho
letto il vostro
rapporto.” Rintuzzò l’altro premendo di
nuovo il pulsante di chiamata; un gesto
inutile dato che non l’avrebbe fatto scendere più
in fretta, ma Sören intuì che
era un modo di incanalare il nervosismo.
Io
lo rendo nervoso.
La
cosa è reciproca.
Fortunatamente fino a quel
momento i rapporti tra di loro erano stati tesi, ma comunque civili;
supponeva
che persino una testa calda di quel calibro sapesse comportarsi in
maniera
professionale.
Malfoy si
appoggiò alla parete
accanto alle mascelle meccaniche dell’ascensore, infilandosi
le mani in tasca
come se stesse aspettando la propria fidanzata. “Okay, visto
che l’ascensore ha
deciso di aprirsi a tutti i piani tranne il nostro cerchiamo di tirar
fuori qualcosa
di concreto da stamattina.” Esordì.
“Bobby, abbiamo interrogato il Mortuario
che ha fatto l’autopsia, no? Punti essenziali.”
Il ragazzo di colore
sembrò
ben lieto di aprire per l’ennesima volta il proprio taccuino.
“L’autopsia …”
Aggrottò le sopracciglia e fece un sorrisetto ironico
“… se così si può
chiamare visto che erano solo ceneri è stata fatta dal
Mortuario Gates. Ha
detto di non averci messo molto perché effettivamente
c’era ben poco da
esaminare. Ricorda però di aver rilevato una concentrazione
anomala di Magia
Oscura passando i resti allo MagiSpettrometro di massa.”
Potter sembrava seriamente intenzionato a prendere a calci le porte
dell’ascensore da quanto lo guardava male, ma
sembrò ripensarci perché di colpo
si voltò e prese a parlare. “Okay, questo lo
sappiamo … È roba oscura, ce ne
dobbiamo occupare noi. È tutto il resto che manca. La causa
del decesso tanto
per cominciare!”
“Non avete detto di avergli lanciato uno
Stupeficium?” Si inserì nuovamente; il
suo buonsenso gli diceva di rimanere in silenzio e lasciarli alle loro
speculazioni.
Ma
prima ritrovo le ceneri di Howe, prima me ne vado di
qua. E per trovare le ceneri, si suppone si debba trovare il ladro.
Potter serrò la
mascella; era
evidente lo sforzo che stava compiendo per non voltarsi e guardarlo in
faccia. “Gli
Stupeficium non disintegrano una
persona.”
“Può
aver accellerato la causa
del decesso però.” Replicò nel tono
più neutro e professionale che gli riuscì;
sentiva gli sguardi di Malfoy e di Jordan puntati su di loro e avrebbe
dato un
braccio – quel braccio
– per essere
da tutt’altra parte.
Specie
perché Lilian potrebbe essere qui, e così Albus
Severus. Soprattutto Lilian.
Considerando che era il
momento della mattinata che la ragazza dedicava alle visite dei, non si
sentiva
particolarmente preoccupato dalla possibilità di incontrarla
per sbaglio.
Il
reparto Thickley è ai piani alti. Io devo soltanto
arrivare al piano terra per poi uscire.
Allora perché
l’ansia sembrava
aver preso posto d’onore in ogni fibra del suo essere?
Perché
la vuoi incontrare, ecco perché. Perché adesso
le sei vicino pochissimi metri in linea d’aria. Qualche
piano,
niente di più.
Potter fece per ribattergli
quando finalmente l’ascensore arrivò, risparmiando
a tutti l’ennesimo scoppio
di tensione. Sören si infilò
nell’ascensore per ultimo, mettendosi nel punto
più lontano possibile dagli altri.
Meglio
non rischiare.
Era maledettamente
avvilente,
ma nulla che non avesse previsto; non poteva pretendere, neppure nella
più
rosea delle previsioni, che gli inglesi si fidassero di lui e
accogliessero i
suoi suggerimenti come validi in meno di quarantotto ore dal suo arrivo.
Non
quando ho mentito loro per un anno intero,
suppongo.
La cosa che lo irritava di
più
era in realtà la smaccata mancanza di rispetto di Potter, ma
anche lì doveva stringere
i denti.
Voglio
evitare guai. Guai significa mettere in cattiva
luce il SAGITTA e il Capitano.
“Il problema
è che senza un
referto o le ceneri abbiamo le mani legate.”
Esordì Malfoy con un lungo
sospiro. “Voi in America come fate quando accade qualcosa e
non ci sono testimoni?”
“Ci appoggiamo ai
Babbani.”
Replicò rimediando una collettiva aria sbalordita.
“O meglio, ci serviamo dei
loro sistemi di sorveglianza. Quasi tutte le grandi città
sono costellate da
telecamere, che siano di banche, uffici, quindi privati oppure del
Dipartimento
di Polizia cittadino. Scarichiamo le registrazioni dei luoghi ripresi
che ci
interessano.”
“E i Babbani lo
sanno?” Spiò
Malfoy sorpreso. “Oppure non se ne accorgono?”
“Lo sanno. Abbiamo
alcuni
accordi con la Polizia locale … Ovviamente non sanno chi
richiede veramente le
registrazioni. Nell’America Babbana ci sono innumerevoli
agenzie governative e
private che hanno la possibilità di aver accesso a questo
genere di
informazioni. Ci spacciamo per una di esse.”
Il silenzio che ne conseguì fu piuttosto soddisfacente; era
evidente che i
meriti americani erano un terreno in cui neppure Potter poteva metter
becco.
Anzi, dall’aria malcelatamente incuriosita sembrava proprio
ne volesse saper di
più.
Persino
da me.
“E per gli edifici
magici?”
Chiese Jordan. “Voglio dire … Lì come
fate? Ci sono le telecamere? Non si
friggono con tutta la magia che emaniamo?”
“Ci sono delle
protezioni
adatte, non dissimili da quelle che usate qui per i cellulari e gli
apparecchi
tecnologici di svago, anche se più potenti.”
Sören sospirò; se l’Europa avesse
fatto gli stessi passi verso il mondo Babbano che aveva fatto
l’America forse
non si sarebbero trovati in quella situazione.
“Se qui ci fossero
state delle
telecamere di sorveglianza sapremo chi ha trafugato il referto e le
ceneri di
Sam Howe.” Mormorò. “Non saremo ad un
punto morto.”
“Beh, non le
abbiamo.” Replicò
il figlio del Salvatore con una smorfia. “Dobbiamo
arrangiarci, quindi adesso
ce ne andiamo all’accettazione e mettiamo sotto torchio
chiunque era di turno
quella sera. Il ladro non può essersi direttamente
Materializzato nel
Padiglione Autopsie, ci sono delle…” Lo sguardo si
fece vuoto prima che
esplodesse in un’imprecazione. “…
Può aver eluso anche quelle!”
Qualcuno
ha scoperto da che parte si tiene una bacchetta…
“Punto
morto, come avevo detto.”
Mugugnò Scorpius. “Credo proprio che questo
diventerà quello che voi yankee
chiamate un cold case.”
Sören
serrò le labbra; un
fallimento, ecco cosa sarebbe diventato. Non imputabile direttamente a
lui, ma
supponeva non importasse granchè a gente come Ethan Scott.
No.
Non posso permetterlo.
“Le barriere
… Erano potenti
immagino.” Meditò. “Difficili da
spezzare.”
“Ovvio!” Sbuffò Potter. “Va
bene che siamo arretrati, ma sappiamo ancora come
produrre incantesimi di qualità!”
“Non ho detto che
non ne siete
in grado…” Esser paziente sì, ma forse
complice lo spazio ristretto dove erano
rinchiusi, sentiva le sue capacità di controllo erodersi
molto velocemente.
“Cosa intendevi
dire?” Si
inserì Malfoy.
“E’ solo una riflessione.” Mise le mani
avanti, comunque grato per avergli
almeno concesso udienza. “Non credo che esistano molti maghi
in Inghilterra
capaci di eluderle tutte, mi sbaglio?”
“Vero, incantesimi del genere hanno formule estremamente
complesse.” Replicò l’Auror.
“Per proteggere il Manor
abbiamo
ingaggiato una ditta specializzata … Credo che sia
l’unica del suo genere,
approvata dal Ministero e tutto quanto.”
“È la stessa ditta che si è occupata
della sicurezza del San Mungo?” Si informò
cercando di non sperare troppo su quella nuova, inattesa pista.
Jordan battè la
piuma sul
proprio taccuino. “Questo è facile da
controllare!”
Potter fu l’unico
a non
sembrare entusiasta della sua idea. “Fermi tutti …
e quando abbiamo trovato la
ditta a cui hanno commissionato le barriere protettive?”
“Questo genere di
formule sono
protette da segreto industriale Potty … Non è che
le scrivono sull’inserto
domenicale del Profeta.” Replicò Scorpius con gli
occhi che brillavano; a
quanto sembrava, sapeva apprezzare una buona pista. “Chiunque
le abbia
disattivate, evidentemente l’ha fatto con o senza il consenso
della dita in
questione. Se hanno rubato i contro-incantesimi,
c’è un precedente su cui
lavorare. Se non c’è stato, qualcuno glieli ha
venduti. È una pista!”
L’altro Auror esitò, poi annuì.
“Sì, ha senso. Bobby, contatta il proprietario
della ditta, senti se ha lavorato qui e se sa qualcosa. Comunque un
giro
all’accettazione merita farlo.” Si mise davanti
alle porte dell’ascensore in
dirittura di arrivo e sbuffò. “Questa storia
è uno schifoso …”
Non riuscì a terminare la frase che improvvisamente le luci
dell’ascensore
lampeggiarono violentemente e poi si spensero di colpo. Con esse, anche
la
cabina diede un forte strattone e si arrestò.
“Che
diavolo!” Esclamò,
premendo la pulsantiera, morta come tutto il resto. “Che
succede adesso?”
“L’ascensore
ha perso
potenza.” Replicò sbigottito Scorpius.
“Credo? Si è fermato, no?”
Castarono immediatamente una
serie di Lumos, guardandosi in
faccia
in più gradi di stupore. Sören rifletté
velocemente: che gli ascensori si
bloccassero non era esattamente un avvenimento fuori dal comune, forse
c’era
stato un guasto all’impianto elettrico o addirittura un
blackout.
No
… un momento. Il San Mungo non ha un
impianto elettrico.
“Con cosa
è alimentato quest’ascensore?”
Chiese rimediandosi una serie di occhiate sconcertate.
“Con cosa vuoi che
funzioni?”
Sbottò Potter perplesso. “Con la magia,
no?”
Sören
sentì la bocca secca; ci
potevano essere innumerevoli spiegazioni innocue a ciò che
era successo. Peccato
che nessuna di esse lo convinceva a pieno.
Non c’era un modo
giusto per
dirlo, quindi lo disse e basta. “Dov’è
finita la magia allora?”
****
Note:
E si entra nel vivo dell’azione!
Scusate, al solito, per il ritardo, ma la vita reale rompe le scatole.
Questa
la canzone del capitolo.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo VIII ***
Capitolo LVIII
Camminavamo
senza cercarci/
pur
sapendo che camminavamo per incontrarci.
(J.
Cortàzar)
San
Mungo. Ala Thickley.
Ora
di pranzo.
Quando la luce
saltò Lily
pensò ad uno scherzo di James.
Questo prima di realizzare che era al San Mungo, suo fratello era
presumibilmente al lavoro e non c’era nessun motivo per
pensare ad una
goliardata, dacché togliere la luce in un ospedale poteva
solo essere
classificato come un tentativo di far rischiare
l’incolumità a moltissime
persone tra pazienti e staff.
Rimase inebetita a guardare la stanza improvvisamente precipitata nel
buio;
subito un lamento la fece voltare in direzione di Alice Paciock, una
delle
lungodegenti del reparto e madre di Nev.
Intuendo il motivo del grido accese la bacchetta e le si
avvicinò, sentendola
fremere spaventata. Le prese le mani dalle sue per evitare che se le
serrasse
forte tra di loro rischiando di farsi male. “Va tutto bene
Alice.” Le mormorò
cercando di imprimere un sorriso nel tono. “È solo
andata via …”
La luce? A dirla tutta, se va’ via
la
luce vuol dire che sono stati tolti gli incantesimi che mantengono
accese le
lampade.
È
andata via … la magia?
Le sembrava
un’ipotesi
talmente assurda da non essere neppure vagliabile. Fece di nuovo sedere
la strega,
voltandosi verso il marito che fissava la finestra vuota con
intensità; vuota e
sbarrata perché ogni singola apertura del reparto era stata
sigillata da quando
uno dei pazienti si era gettato da una delle finestre.
Di
solito le finestre sono incantate per simulare il
paesaggio fuori. Ma adesso…
Adesso erano solo tanti
occhi chiusi.
E c’era buio ovunque.
“Frank, vieni qui
da me e
Alice, vuoi?” Lo chiamò. L’uomo con
passo strascicato obbedì, forse più
interessato alle caramelle che gli porgeva che ad eseguire
l’ordine.
“Mia cara Lilian,
finalmente
l’ho trovata!” La voce squillante di Allock ebbe il
potere di farla sobbalzare
come se qualcuno l’avesse colpita alle spalle.
Calmati.
“In tutto il mio
splendore.”
Gli rispose a tono. “Lo sa però che non deve
uscire dalla tua camera a
quest’ora, no? Poteva farsi male, non si vede ad un palmo dal
naso.”
“Non c’è luce, il fenomeno è
quantomeno singolare!” Replicò l’uomo
come se non
l’avesse sentita, guardandosi attorno quasi se trovasse
quella faccenda
esaltante. “Ma non si preoccupi, mia cara, andrò
immediatamente ad
investigare!”
Eh no! Ci manca solo che me lo perda!
“Perché invece non resta qui a fare
compagnia a Frank ed Alice?” Alla sua
espressione scontenta, tirò un sospiro teatrale,
avvicinandoglisi e sporgendosi
al suo orecchio. “Temo che la povera Alice sia molto
spaventata … la presenza
di un mago del suo calibro sicuramente la rasserenerebbe.”
Gli occhi dell’uomo si illuminarono compiaciuti.
“Ma certo, capisco benissimo.”
Convenne in tono cospiratorio. “Signora Paciock!”
Sorrise alla strega che gli
restituì un’espressione che persino nella suo
essere inespressiva riusciva ad
esser perplessa. “Le ho mai raccontato di quando ho rubato a
quel crudele
stregone indiano la fiamma di Isildur?”
Che
è in un romanzo di Tolkien, quello scrittore
Babbano dalla logorrea infinita. Come lo conosco? Ren.
Merlino,
lui saprebbe cosa fare … Certo, sì. Peccato
che non c’è. Quindi falla finita e attivati.
Non trovò di
meglio quindi che
Evocare un paio di grosse candele che accese e posizionò
attorno ai tre
pazienti per non lasciarli al buio completo.
Si affacciò poi
sul corridoio
con un Lumos spianato di fronte a
sé
e come immaginava lo trovò deserto; a quell’ora,
quella che precedeva il pranzo
e l’arrivo della Guaritrice Patil, l’ala Thickley
era affidata nelle mani di
una sola magi-infermiera e di una studentessa.
Che
poi sarei io. Dove diavolo è Becca?
Ricordò
improvvisamente di
aver visto l’infermiera uscire dalla stanza in direzione
degli ascensori; doveva
esser scesa ai piani inferiori per ritirare le pozioni giornaliere dei
pazienti.
Se
è così sono sola… Favoloso. Davvero
favoloso.
Si mordicchiò le
labbra,
incerta. Poteva lasciare Frank e Alice con Allock e andare a
controllare gli
altri pazienti.
Se
la mancanza di luce ha spaventato Alice, potrebbe
spaventare qualcun altro. Non avranno la bacchetta, ma hanno ancora la
magia.
Magia che reagisce all’istinto.
Non poteva rischiare che uno
dei loro assistiti diventasse pericoloso per sé stesso o
ancor peggio per gli
altri. Anche se era solo una studentessa e il suo camice era
più una posta che
una vera qualificazione, aveva il dovere
di piantarla di esser così spaventata e cominciare a
preoccuparsi piuttosto per
chi era sotto le sue momentanee cure.
Fosse
facile.
“Gilderoy,
fa’ attenzione alle
candele e fa’ in modo che Frank e Alice rimangano nella
stanza, va bene? Mi
affido a te.”
“Naturalmente mia cara!” Replicò
distratto il mago, ormai assorto nel suo
racconto. “Va’ pure, ho tutto sotto
controllo!”
Beh, felice che qualcuno lo abbia.
Tirò un ennesimo
profondo
sospiro e si incamminò per il corridoio buio; il San Mungo
non era quello che
poteva essere definito un edificio arioso. Era pulito, efficiente e
aveva un
buon odore, ma i corridoi erano piuttosto stretti e completamente
rivestiti di
legno scuro.
Che
senza le lampade … Dovrei coniare una nuova,
scintillante definizione di inquietante.
Non riusciva a calmarsi, per
quanto ci provasse con tutte le sue forze e con tutta la sua
razionalità; sapeva
di starsi autosuggestionando, ma quel buio spesso e
quell’assenza di rumori,
tranne qualche occasionale lamento dei degenti, la catapultava nei
propri
ricordi, in una cella umida e dall’odore di mare e le faceva
di nuovo sentire
in gola il terrore dei momenti passati al castello dei Von Hohenheim.
No.
No! Un flashback è l’ultima cosa di cui ho bisogno
adesso!
Serrò tra le dita
la
bacchetta, sentendola piacevolmente tiepida, a differenza delle sue
mani,
gelide.
Ho
una bacchetta e sono in un ospedale pieno di
persone. Probabilmente qualcuno verrà subito, la Patil o
Becca. Sempre che
prima la manutenzione magica non risolva il problema.
Fece qualche passo incerto,
prima di tirarsi un volontario schiaffo sulla guancia per riprendere
lucidità;
sarebbero arrivate, certo, ma non erano lì in quel momento.
Adesso
ci sei solo tu … quindi piantala. Forte e sicura
di te. Forte e…
Quando una mano le si
posò
sulla spalla cacciò un grido che la spaventò
più del tocco stesso.
“Lils!”
Esclamò la voce di suo fratello Albus, voltandola di scatto
e prendendola saldamente per le spalle. “Calmati, sono
io!”
Fu consequenziale gettargli le braccia al collo e stringerlo come se
fosse
sull’orlo del precipizio. “Brutto deficiente, mi
hai spaventato!” Bofonchiò
contro la stoffa grezza del suo camice.
Al ricambiò l’abbraccio saldamente.
“Scusami, ho provato a chiamarti … Non mi
hai sentito?”
“Ero presa a fare
training
autogeno per evitare una crisi isterica.” Replicò
alzando il viso e
stiracchiando un sorriso. Al indossava il suo ormai famigerato
– per lei –
cipiglio delle Grandi Preoccupazioni.
“Sto bene.
È solo…” Cercò le
parole. “È il buio, Al. Non ho un buon rapporto
con il buio, lo sai.”
Suo fratello le mise una mano sulla spalla, limitandosi ad un lieve
cenno della
testa. “Sei sola? Dov’è la
Patil?”
“Deve ancora
arrivare e la
maginfermiera del turno non è ancora tornata … Ma
che sta succedendo?”
L’altro si passò una mano dietro la nuca.
“Non c’è luce su nessun piano e gli
ascensori non funzionano.”
“Non c’è magia allora?”
Al le scoccò
un’occhiata
indecifrabile. Una volta tanto, era evidente che non sapesse che Snaso
pescare.
“Non lo so…” Ammise. “Non ho
mai visto una cosa simile. Per fortuna non siamo
in un ospedale Babbano e non è mancata la corrente
elettrica, altrimenti avremo
avuto un sacco di problemi. Anche se forse i Babbani hanno misure di
emergenza
in quei casi…”
“Gli incantesimi sui pazienti hanno retto?” Lo
interruppe.
“Non sono gestiti
dalla
manutenzione magica.” Sorrise divertito, facendola arrossire.
“La dinamica è
diversa.” Le prese la mano stringendola appena. “Tu
stai bene? Davvero?”
No,
per niente.
“Certo.”
Mentì. “Ma Frank, Alice e gli
altri sono confusi e spaventati … Sai che non è
una bella combinazione per chi
non controlla la magia. Pensavo di riunirli tutti in una stanza e
accendere un
bel po’ di candele. Credo li tranquillizzerebbe
molto.”
“Ottima idea, ti do una mano.”
Lily sorrise sollevata; per
una volta lo spirito da chioccia di Al era stato provvidenziale.
“Allora io
prendo le stanze a destra, tu quelle a sinistra. Cerca di non mettere
loro
fretta, specialmente a…”
“No, andiamo assieme.” Fu la replica netta.
“Ma così ci metteremo il doppio del
tempo!”
“Ci metteremo più tempo se lo perdiamo per
discuterne.” Al sapeva essere
testardo come un Crup quando ci si metteva, e non poteva davvero
stare minuti interi a cercare di convincerlo che era
perfettamente in grado di controllare i pazienti persino in quella
situazione
sfavorevole. Pensò di rinunciare, ma l’irritazione
mischiata alla paura che
stava provando equivalsero a benzina sul fuoco.
“Non riesci
proprio a fidarti
della mia capacità di giudizio?” Sbottò
liberando la mano dalla presa dell’altro.
“Sono perfettamente in grado di …”
“Non sto dicendo che non lo sei.” La
fermò quieto. “Solo che mi sento più
sicuro a saperti vicina a me. Specie perché non
stai bene affatto. Non con quelle pupille dilatate.”
Touché.
Guaritore del cavolo.
Ispirò
bruscamente, cercando
di regolarizzare il respiro. “Questo è un colpo
basso.”
Al sorrise appena, con un’aria così triste che
quasi non se la sentì di
colpirlo con il manico della bacchetta. Dopotutto era vero; dopo la sua
prigionia aveva avuto problemi a dormire a luci spente. Dopo le prime
volte in
cui aveva cercato di convincere chiunque che poteva farcela, aveva
dovuto
arrendersi all’evidenza; ogni volta che le luci si spegnavano
si sentiva come
se qualcuno le togliesse il terreno da sotto i piedi.
Sto migliorando, sicuro, adesso almeno
dormo tranquilla … ma in questi casi…
Al le strinse di nuovo la
spalla. “Non devi mostrarti coraggiosa per nessuno, tantomeno
per il
sottoscritto.”
Infatti lo faccio per me. Per dimostrare
a quella ragazzina di quindici anni che dalla paura di morire in una
cella
scura e che sa di mare si può guarire.
Più
o meno.
“Okay, hai vinto
tu.” Si
arrese. “Rimarrò attaccate alle tue vesti,
mammina. Ma sbrighiamoci!”
****
“Dov’è
finita la magia?”
Essere chiusi in un
ascensore
con Sören VonQualcosa o Prince o come diavolo si chiamava
doveva essere una
punizione per crimini commessi in una vita passata, di questo James era
assolutamente convinto.
“Dove vuoi che sia
finita?”
Replicò con una smorfia. “Sarà saltato
l’incantesimo che fa funzionare questi
affari!” Tentò di nuovo di premere i pulsanti
dell’ascensore. “Ci mancava solo
questa! Come diavolo usciamo di qui?”
Scorpius, già
seduto a terra
come il pigro che era, fece girare la bacchetta trai pollici con aria
rassegnata. “Potty, datti tregua. Violentare dei pulsanti che
non funzionano non
risolverà la
situazione. A proposito di questo, qualcuno ha mai visto fermarsi un
ascensore?” Chiese come se fosse un simpatico aneddoto da
pub. “Perché per me è
la prima volta!”
James ci rifletté e con un certo grado di sgomento
realizzò che non ricordava
di esser mai rimasto chiuso in una di quella scatole infernali.
“In effetti è
la prima volta anche per me. Si sarà rotto?”
“La magia si
è rotta?”
Replicò il biondo lanciandogli
un’occhiata di sufficienza che avrebbe meritato un calcio nel
sedere.
“E basta con
‘sta storia della
magia! È l’incantesimo che ha smesso di
funzionare!”
“È la stessa cosa.” Gli fece notare
Scorpius perplesso. “Comunque gli ascensori
Babbani si fermano?”
“Se non la pianti
ti do un
pugno.” Lo minacciò, rimediandosi un gestaccio.
L’avrebbe preso a schiaffi su
quella zucca ossigenata, ma rinunciò.
Ringrazia
che ti voglio bene, Malfuretto.
“Può
succedere quando c’è un
calo di potenza nella rete elettrica o un blackout.” Rispose
Prince per lui
aggrottando le sopracciglia. “O
un
guasto, naturalmente.”
James si frenò dal chiedergli cosa mai ne potesse sapere; in
America, a sentir
Lily, i maghi avevano un rapporto stretto con la tecnologia babbana
quindi era
probabile che gli fosse capitato di doverne prendere uno.
Inspirò,
intimandosi di
raffreddare i bollenti spiriti; per quanto quella situazione fosse
sostanzialmente merdosa era pur sempre l’agente con
più anzianità e sbraitare
non avrebbe migliorato la situazione.
Anche
se miseriaccia, mi calmerebbe i nervi!
“C’è
un pulsante di chiamata
per ricevere assistenza?” Chiese Prince guardandosi attorno.
Non sembrava
particolarmente seccato da quell’intoppo, come del resto non
sembrava esprimere
nessuna emozione in particolare. Era questo a dargli ai nervi.
Ha
la faccia espressiva come un cazzo di muro.
Scommetto che dentro di sé non fa che pensare a quanto siamo
idioti ad agitarci
per una cosa così!
“Un interfono
dici?” Scorpius
annuì, indicando pigramente uno sportellino vicino alla
pulsantiera ed
aprendolo con un colpo ben mirato della bacchetta. Tentarono di
azionarlo senza
successo; il microfono rimase inequivocabilmente morto.
“Beh, ovvio
… Se non funziona
l’intero ascensore, perché dovrebbe funzionare un
suo pezzo?” Sospirò Bobby
scivolando accanto a Scorpius. “Non ci resta che aspettare la
manutenzione …
Non appena si accorgeranno del guasto verranno a prenderci.”
James scosse la testa e si appoggiò alla parete dietro di
sé ficcando le mani
in tasca; Bobby aveva ragione, non c’era molto che potessero
fare in quelle
condizioni, anche se era profondamente frustante che un auror
rimanesse bloccato in una dannata scatola di legno e metallo
sospesa nel vuoto. Tentò qualche vuoto incantesimo contro la
pulsantiera,
sentendo lo sguardo del dannato Ragazzo Pipistrello – si era decisamente un buon nomignolo
– su di sé
come una coperta umidiccia.
La
sensazione di fastidio è la stessa.
Alzò lo sguardo.
“Beh?” Lo
apostrofò senza riuscire a trattenersi; aveva promesso a suo
padre di cercare
di mantenersi distaccato, ma come poteva quando l’altro non
faceva che
piantargli quei maledetti sguardi da psicopatico addosso?
“Sto solo pensando
che potremo
aprire la botola sul soffitto ed uscire da lì.”
Disse con la solita
faccia-non-faccia. Sul serio, sembrava gliel’avessero saldata
con un
Incantesimo di Pastoia.
“E
perché dovremo arrampicarci
come scimmie?” Non poté impedire alla sua lingua
di far scivolare via un
pensiero. “Datti una calmata, non sappiamo che farcene qui in
Inghilterra della
tua voglia di riscatto.”
Seppe di aver esagerato quando vide l’espressione fiacca del
tedesco accendersi
di colpo di pura rabbia. Fu una frazione di secondo, ma James
sentì la colpa e
la paura mischiarsi in un’unica sensazione di allarme.
Istintivamente fece
scivolare la mano vicino al fodero della bacchetta legato alla coscia,
ma poi
un improvviso, violento scossone della cabina lo mandò a
gambe all’aria.
“Per tutti gli
Inferi
brulicanti!” Esclamò Bobby che essendo
già seduto riuscì a mantenere più o
meno
l’equilibrio. “Che cazzo è
successo?!”
Scorpius lo
afferrò per un
braccio per impedirgli di alzarsi. “Credo che
…”
Un secondo scossone rese chiaro a tutti che alzarsi non era
più una priorità a
meno di non voler finire con un osso rotto.
Dannazione, che sta succedendo?
Prince, l’unico che non fosse rovinato
scompostamente limitandosi ad
accovacciarsi a terra, serrò le labbra e guardò
verso il soffitto. “Sono sbalzi
d’energia magica.” Si massaggiò il
braccio con una smorfia. “Qualcosa sta
interferendo con il campo magico dell’ascensore.”
James rifletté
velocemente;
qualunque cosa volesse dire, rimanere chiusi in quella bara rischiava
di farli
diventare sul serio delle salme pronte per esser seppellite.
Non
voglio scommettere sulla mia capacità di
sopravvivere ad un volo nel vuoto se questo affare precipita.
Prince gli rivolse un
sorrisetto inequivocabilmente borioso. “Credo che adesso la
mia precedente idea
non sia da scartare.”
Argh!
“Sono
d’accordo.” Si inserì Bobby.
“Non
possiamo restar qui e aspettare che questo affare ci shakeri come un
frullato!”
James intercettò
un’occhiata
di Scorpius ed ad un suo cenno della testa capitolò di
fronte all’evidenza. “Va
bene, usciamo da questo buco.”
La botola non fu difficile
da
forzare, e venne infatti scardinata con un veloce e miratissimo
incantesimo
Esplosivo. Il vero problema fu infilarsi nello strettissimo passaggio
che
serviva ai maghi della manutenzione per salire sul tetto
dell’ascensore: dovettero
stringersi per non precipitare negli interstizi.
“Qualcuno soffre
di
vertigini?” Chiocciò querulo Scorpius,
stiracchiandosi come se fosse sulla cima
di una salubre montagna alpina. Un po’ lo detestò
e un po’ lo adorò; senza quel
biondastro cretino quella situazione sarebbe stata solo al sapor
d’angoscia.
Invece
mi vien voglia di ridere. Siamo tre auror e uno
stronzo e siamo bloccati sul tetto di un fottuto ascensore!
Prince passò una
mano su una
delle spesse corde metalliche che tenevano la cabina sospesa nel vuoto.
“Dovremo
trovarci vicini al piano terra, è corretto?”
Chiese a nessuno in particolare;
aveva notato che non si rivolgeva mai direttamente a lui o agli altri.
Un’altra
delle sue stranezze?
“Una cinquantina di metri più in basso in
realtà.” Bobby era l’uomo dalla
risposta pronta, e James non gliene fu mai tanto grato; a lui sembrava
di
essere semplicemente sospeso nel nulla.
“Il Padiglione dei Mortuari, da cui siamo venuti, si trova
sotto i laboratori
di pozioni che sono circa all’altezza della
metropolitana.” Emise poi un
lamento. “Arrampicarmi era la cosa che mi riusciva peggio
quando ero in
Accademia!”
“Perché dobbiamo arrampicarci? Usiamo la
magia!”
Prince scosse la testa. “Se l’ascensore
è danneggiato è preferibile evitare
incantesimi finché siamo in sua
prossimità.” Parve leggergli nello sguardo la
sua obiezione perché aggiunse: “Naturalmente se
qualcuno di voi vuol provare, è
libero di farlo a suo rischio e pericolo.”
Ma vaffanculo!
Avrebbe voluto dirglielo in faccia, ma doveva arrendersi al
fatto che
l’altro non era un pivello appena uscito
dall’Accademia; o meglio, lo era sulla
carta, ma non in quanto ad esperienze di vita vissuta.
Quando
io ricevevo una scopa giocattolo, ‘sto tipo
andava a menar la bacchetta per conto di quello psicopatico di suo zio.
Era quindi probabile che non
stesse dando aria alla bocca per farsi bello. Si strofinò le
mani, si tolse il
mantello che gli avrebbe impacciato soltanto i movimenti e
sospirò.
“Forza gente. Si
sale!”
Scorpius era certo che
Sören avesse
capito cosa stava accadendo, ma che preferisse tenere il becco chiuso.
Inspirò una breve
e secca
boccata d’aria, continuando ad arrampicarsi lungo le funi
dell’ascensore senza
una parola.
Beh,
adesso è meglio risparmiare il fiato, lo capisco.
La faccia che aveva fatto
dopo
che l’ascensore aveva preso a ballare era stata
però piuttosto indicativa. Non
ci voleva un Legimante per capire che si era spaventato; non avrebbe
altrimenti
stuzzicato la coda di paglia di James per tirarli fuori di
lì.
Mi
sa che fa solo finta di fare la Testa di Bacchetta.
Mi sa che non è scemo per niente.
“Merlino, ho
voglia di
vomitare…” Mugugnò dietro di lui Bobby,
l’ultimo a chiudere la fila. “Sicuri
che non si può usare la magia?”
“Io non ci
proverei.” Gli
suggerì sentendo il sudore scivolargli lungo le tempie e
finirgli
sgradevolmente sul collo. Tornò quindi alle sue riflessioni;
quelle almeno non
gli toglievano il fiato dalla gola.
Qualcosa di anomalo stava
accadendo nell’ospedale e l’istinto gli diceva
fosse qualcosa di assolutamente
sinistro.
Stupito
istinto.
Arrivare a destinazione fu
un
sollievo senza pari e Scorpius fu ben felice di poter estrarre la
bacchetta e
forzare le porte metalliche del piano. Posati però i piedi a
terra si resero
subito conto che il buio era anche lì.
“Ancora?”
Esclamò tirando lunghi e densi sospiri d’ossigeno.
“La
luce è svanita ovunque?”
“A quanto
sembra.” Commentò
Prince senza una sola goccia di sudore sulla camicia
dell’uniforme e per
questo, supponeva, del tutto inviso ad un boccheggiante James.
“Dov’è
l’accettazione? Lì forse sapranno dirci
qualcosa.”
“’Fanculo.”
Sbuffò
quest’ultimo, inspirando forte con il naso.
“Cerchiamo di capire che cazzo sta
succedendo.” Sentendosi probabilmente fissato dal tedesco
alzò gli occhi al
cielo e lo sorpassò senza degnarlo di uno sguardo.
“L’accettazione
è da quella
parte.” Si sentì in dovere di spiegargli.
“Dove sta andando James e stiamo
andando tutti.”
Prince gli
restituì un mezzo
sorriso. “Ti ringrazio.” Si limitò a
dire prima di seguirlo.
Se
fossi al posto suo avrei già preso a calci in culo
Potty. E se lo dico io…
“Che
tipo.” Commentò Bobby
finendo di asciugarsi il viso con il fazzoletto.
“È inquietante in maniera
strana.”
“Inquietante non presuppone già il concetto di
stranezza?” Chiese perplesso,
accendendo la bacchetta in Lumos e
seguendo la scia degli altri due maghi.
“No, non
direi.” Considerò il
ragazzo di colore pensieroso. “Mi inquieta, ma non
è che mi mette ansia, come
se dovesse tirar fuori qualche roba oscura dal Mantello. Capisci che
intendo? È
che non riesco a collocarlo in un concetto. Era cattivo, ma adesso
è uno dei
nostri. Una roba del genere, no?”
“Una roba del genere, sì.” Convenne; non
era così semplice, ed era forse questo
ad incuriosirlo, in Prince.
Si
riempiono tutti la bocca della parola ‘scelte
sbagliate’. Ma un poveraccio che ha vissuto come un mago
oscuro e
tendenzialmente psicopatico come figura di riferimento, che scelte mai
potrà
aver avuto?
Poche,
ho idea.
Arrivare
all’accettazione fu
una specie di percorso ad ostacoli; i pazienti e il personale
dell’ospedale si
erano riuniti al primo piano e in via del tutto eccezionale erano state
accese
lanterne e candele, il che oltre a dare un’aria un tantino
spettrale
all’ambiente faceva inciampare ad ogni piè
sospinto.
James si diresse con
sicurezza
verso la strega dietro il bancone e Scorpius lo vide scambiarci qualche
parola
prima di tirare fuori il distintivo e spiegargli stizzito chi era,
considerando
l’aria scettica di quest’ultima.
Ma
le scelgono apposta antipatiche da morire o cosa?
Prince d’altro
canto si guardava
attorno con aria nervosa e ad un certo punto prese anche a mangiarsi le
unghie.
Chissà
… Oh, ah. Eh, già.
Lily e Al, le
persone-con-cui-non-doveva-assolutamente-interagire, dovevano essere
lì in
mezzo. Lo vide infatti scivolare in un cono d’ombra e
lì rimanere.
Certo
che tutta questa segretezza … Alla fine che
potrebbe mai succedere? Che lo riconoscano e lo salutino? La piccola
Potter poi
gli scrive pure.
A
volte i Potter proprio non li capisco.
James tornò
indietro con
un’espressione poco invitante. “La
stro…” Iniziò, prima di ricordare che
erano
comunque in servizio e tornare a più miti pareri.
“… l’infermiera
all’accettazione dice che è partito
tutto dal Secondo
Piano.”
“Da Malattie Infettive?” Interloquì
Bobby. “Cioè?”
“Cioè pare che il black-out sia partito da
lì.” Ribatté guardando verso il
soffitto. “Quindi andiamo a dare un’occhiata.
È vero che di questa roba non ce
ne occupiamo, ma siamo anche la squadra di polizia magica
più vicina a
disposizione.”
Bobby annuì,
lanciando
un’occhiata in direzione di Prince. “E con lui che
facciamo?”
“Può
andare a farsi una
passeggiata, per quanto mi riguarda.” Replicò
pronto stringendosi nelle spalle.
“Tanto non è il suo ca…”
“Vengo con voi.” Lo fermò
l’interpellato, affiancandoglisi. “Sono
anch’io un
agente.”
Scorpius vide James frenare
la
lingua in una frazione di secondo; era evidente stesse trattenendo una frecciatina.
“Fa’ come ti pare, l’importante
è
muoversi … Qua stanno andando tutti nel panico.”
“Stavolta
però prendiamo le
scale.” Borbottò Bobby.
Scorpius aspettò
che gli altri
due auror fossero distanti qualche passo per toccare con un colpetto
delle dita
la spalla del tedesco. Quello sussultò, evidentemente
talmente perso nei suoi
pensieri da esservi stato strappato a forza. “Hai bisogno di
qualcosa?” Era
sempre cortese però.
E
per me questo è un punto a suo favore.
“Lo sai che non
sei tenuto a
venire con noi, vero?”
“Quando ho preso il distintivo ho giurato di proteggere e
servire la
popolazione magica.” Gli rispose fissandolo sorpreso.
“Che sia quella americana
o quella britannica, non fa differenza. È un mio
dovere.”
“Ah beh, certo.” Lasciò vagare lo
sguardo attorno a sé con intenzione,
scandagliò ed ebbe la conferma che cercava. “Non
c’entra quindi il fatto che
Albus e Lily Potter non si vedano da nessuna parte, vero?”
Ma
avrei potuto nominare solo la Piccola Potter e avrei
ottenuto lo stesso effetto.
Per essere un tipo poco
espressivo, quando esprimeva era abbastanza divertente,
rifletté vedendolo deglutire
nervosamente. “Guarda che non sei il solo ad averlo notato
… Cerchiamo magari
di non dirlo a James però. O di non ribadirgli il concetto
se già lo sa. Si
agita quando si
parla dei fratelli …
L’avrai notato.” Non poté fare a meno di
aggiungere.
Prince si limitò
ad una
leggera smorfia. “Sì.” Fu
l’unico commento che riuscì a strappargli.
“È meglio
muoversi.”
Non poté che
dargli ragione.
****
“Grazie.”
Al si voltò stupefatto quando si rese conto che quelle
parole erano state
pronunciate nientemeno che da sua sorella.
Erano seduti a terra, con la
schiena che aderiva scomodamente al muro; l’unico posto
più o meno confortevole
in realtà, dato che tutti i letti della stanza in cui
avevano radunato i
pazienti dell’Ala Thickley erano già occupati.
“Di
cosa?” Chiese passandosi
tra le mani una delle candele che stavano utilizzando per illuminare
l’ambiente. Lanciò un’occhiata ai
degenti, ma per fortuna erano completamente
assorbiti dalle chiacchiere roboanti di Allock.
E
chi l’avrebbe mai detto che un tipo del genere
sarebbe potuto tornar utile. Per distrarre sicuramente.
“Di esser venuto
qui.” Lily si
strinse nelle spalle. “Anche se non sono sicura di voler
sapere perché.”
“Perché ero preoccupato per te, mi sembra
ovvio.”
L’altra alzò gli occhi al cielo. “Per
l’appunto. Sai quando ti dico che so
cavarmela perfettamente da sola?”
“Sì,
ma…”
“È anche a questo genere di situazioni che mi
riferisco, però…”
Lasciò la frase in sospeso prima di rivolgergli un
sorrisetto divertito. “… però devo
ammettere che stavolta non ho motivo per
esserne seccata.”
“Perché ti sono servito?”
Sospirò. “Magnanimo da parte tua!”
Lily ridacchiò, toccandogli la spalla con la sua.
“Comunque … pensi che tornerà
presto? Dico, la luce.”
“Certo!” Replicò con una sicurezza che
era ben lungi dal provare; in realtà non
riusciva a capire perché nono fosse ancora venuto nessuno a
controllare la
situazione.
Dopotutto
questo piano è pieno di maghi instabili, e là
sotto devono sapere che a guardarli è rimasta solo una
studentessa del primo
anno.
Si tenne però
quel genere di
considerazioni per sé; far preoccupare sua sorella era
l’ultima cosa che voleva.
“A che stai
pensando?” Lo
riscosse quest’ultima con il classico tono che presupponeva
lo stesse
scandagliando a fondo.
Eh,
no.
“Al fatto che ho
la dispensa
vuota.” Mentì serenamente. “Dubito che
oggi Tom si sia ricordato di far la
spesa anche se gli avrò lasciato qualcosa come trenta
promemoria sparsi per
casa.” Concluse e l’idea del suo ragazzo gliene
fece venire nostalgia; al
momento doveva trovarsi sepolto nel laboratorio di Stevens, con il
cervello che
lavorava a pieno regime e lo stomaco quasi del tutto vuoto.
Speriamo
che Rupert gli abbia fatto far pranzo.
Avrebbe voluto averlo
lì; Tom
avrebbe saputo dare una spiegazione logica alla mancanza di luce. Lo
avrebbe
fatto sentire stupido, ma sarebbe stato meglio che sentirsi strisciare
addosso
l’ansia.
“Io sto pensando a
Sören.” Lo
riscosse la sorella, evidentemente solo
per farlo irritare.
“Non dovresti
pensare a
Scott?” Replicò sullo stesso tono. “Non
è carino pensare ad un altro ragazzo.”
“Scott non c’entra niente.” Fu la replica
neutra, ma la sentì cambiare
posizione accanto a sé, e in Lily nulla era lasciato al
caso. Neppure le
reazioni fisiche. “Sören non ha ancora risposto alla
mia lettera.”
“E quindi?” Premette la cera sul bordo della
candela, per evitare che gli
sgocciolasse sui pantaloni del camice.
“Quindi
è strano.” Anche senza
vederla aveva la certezza che l’altra si stesse
attorcigliando una ciocca di
capelli tra le dita. Era il suo modo di gestire il disagio.
“Mi ha sempre
risposto.”
Davvero
vuoi parlare di Von Hohenheim con me Lils?
“Avrà
da fare.” Si strinse
nelle spalle, suo malgrado trascinato in quella conversazione; ma del
resto,
meglio parlare del tedesco che riflettere sul fatto fossero soli e
tagliati
fuori dal mondo. “Sarà in qualche missione fuori
sede.”
“Sì, ci avevo pensato … ma no.
Troverebbe comunque il modo di rispondermi. È
come è fatto, sai.” Soggiunse con un lieve sospiro
che poteva voler dir tutto o
niente. Non poteva saperlo, non era un Legimante, lui.
“Non mi
preoccuperei se fossi
in te, penso sia perfettamente in grado di badare a se
stesso.” Ribatté
neutramente dato che non aveva idea di cosa dirle; da parte sua non
aveva mai
amato quella strampalata corrispondenza. La trovava sbagliata su un
sacco di
livelli.
È
vero, può essere che Von Hohenheim, o Prince …
insomma, Sören, sia diventato una persona a posto, ora che il
padre di Tom è
morto. Sicuramente lo è se gli hanno dato un distintivo.
Ma
solo io penso che sia malato che continuino ad avere
contatti?
No, era certo di non essere
il
solo. Il problema era la volontà di Lily. Non aveva mai
visto sua sorella
intestardirsi tanto su qualcosa o, ancor peggio, qualcuno.
Quando
gli abbiamo chiesto perché volesse scrivergli ha
risposto che glielo aveva promesso.
Questo
e basta?
Dubitava. Ma a parte fare
silenziosa ostruzione non poteva far molto.
Per
quanto poco mi piaccia … sono l’ultima persona che
può parlare . Di decisioni cretine ne ho prese parecchie.
La sua unica consolazione
era
il fatto che il tedesco vivesse ad un oceano di distanza da
lì; lontano in
fondo non poteva fare molti danni.
“Sören
non sa badare a se
stesso.” Replicò sua sorella serrando la ciocca di
capelli tra le dita. “Te lo
posso assicurare.”
“Credo che Von Hohenheim l’abbia cresciuto per
sapersela cavare…”
“Non parlo di cose fattuali come sopravvivere alla
giornata.” Lo interruppe
scuotendo la testa. “Parlo di altr-”
Un improvviso lampo seguito
da
un tremendo rumore che non riuscì ad identificare, ma che
sembrava quello di
una porta violentemente sbattuta, troncò la frase a
metà. Al si alzò in piedi
di scatto, controllando con un’occhiata la reazione dei
degenti, potenzialmente
una bomba più pericolosa di quella che sembrava essere
esplosa in corridoio.
“Che
cavolo…” Mormorò Lily, in
piedi anche lei e con la bacchetta pronta alla mano.
Brava
sorellina.
“Resta qui Lils,
io vado a
vedere.”
“Scherzi?”
Beh…
In realtà non
aveva la minima
voglia di farlo, ma non era quello il punto; se uno di loro aveva il
dovere di restare
con i pazienti e tranquillizzarli visto che sembravano piuttosto scossi
e
innervositi, l’altro doveva necessariamente controllare che
non stesse andando
a fuoco il piano o amenità simili.
“Tu studi
Psicomagia, non io.
Se uno dei pazienti perdesse il controllo io non saprei cosa
fare.” Obbiettò
sentendosi molto razionale. E terrorizzato. “Vado a
controllare, magari è
arrivato qualcuno della manutenzione … Controllo e torno, va
bene?”
Lily gli lanciò un’occhiata linciante che
sentì di meritarsi appieno. “Mi
sembra l’idea più cretina del secolo.”
Lo era, ma rimanere fermi in
attesa di qualunque cosa lo sarebbe stata ancora di più.
“Torno subito.” Le
strinse appena la spalla e poi uscì senza darle tempo di
ribatterlo o fermarlo.
Il corridoio era ancora
immerso nel buio e fin lì, nulla di strano. Al mise la
bacchetta ben tesa di
fronte a sé, per illuminare quanto più pavimento
poteva. “C’è nessuno?” Gli
pareva una frase cretina da dire, tuttavia necessaria.
Se
ci fosse davvero qualcuno …
magari non malintenzionato. Merlino, se odio
il buio. Mi fa pensare cose ridicole.
Continuò ad
avanzare e fu un
sollievo notare come nulla stesse andando a fuoco;
l’esperienza al castello dei
Von Hohenheim gli aveva lasciato un brutto ricordo in merito.
Pensò quasi di
tornare sui suoi passi, imputando quel bagliore alla rottura di una
grosse
lampade tonde che costellavano il soffitto, quando qualcosa
attirò la sua attenzione, o meglio,
qualcuno. C’era una persona all’imbocco del
corridoio; non l’aveva vista subito
semplicemente perché non aveva la bacchetta accesa in un Lumos.
Un
paziente?
Era l’ipotesi
più probabile,
anche se non doveva essere uno della Thickley, considerando che erano
tutti con
sua sorella. Forse qualcuno venuto a chiedere aiuto dai piani
superiori? “Ehi.”
Disse avvicinandosi e abbassando l’intensità del Lumos per non accecarlo. “Ehi,
va tutto bene?”
Quando la luce
illuminò il
mago – perché era alto e piazzato come solo un
uomo poteva essere – Al inspirò
bruscamente. “Sergente Flannery!”
Esclamò sconcertato . “Cosa ci fa qui?”
Già,
cosa ci fa qui? Era esanime!
Oltre
a quello il reparto Lesioni da
Incantesimo era più in alto rispetto a quello di Malattie
Infettive.
Perché
è salito? Se la luce manca in tutti i piani, la
prima cosa da fare è cercare di scendere
all’accettazione.
Il mago non gli rispose.
Respirava faticosamente e sembrava reggersi in piedi a stento.
“Sergente…” Lo
chiamò di nuovo eliminando la distanza che li separava;
qualunque fosse il
motivo della sua presenza lì, era tenuto ad aiutarlo. Prima
di farlo però si
lanciò un incantesimo sterilizzante addosso; una leggera
patina magica che gli
avrebbe impedito di respirare la stessa aria dell’uomo.
Se
viene da malattie infettive …
Beh. È sensato.
Gli sorrise, usando il suo
tono più calmo. “Venga con me, deve
stender…” Si bloccò, quando
l’uomo, forse
finalmente accortosi della sua presenza, alzò il viso.
I
suoi occhi!
Fece un immediato ed
istintivo
passo indietro ma fu troppo tardi. Con un ringhio che ben poco aveva di
umano,
il sergente Flannery, un mago che conosceva da una vita, gli si
avventò contro.
No!
Non
c’era altro da pensare, e solo i
suoi vecchi riflessi da Cercatore gli permisero di scivolare via dalle
mani
protese dell’altro e indietreggiare.
“Fermo!” Gli intimò levando la
bacchetta.
“La prego, si calmi! Non mi costringa a
Schiantarla!”
Che
gli prende?
Non capiva come potesse
muoversi con quella rapidità e sicurezza nonostante il buio
e l’evidente fatica
con cui si teneva in piedi.
E
che diavolo ha agli occhi?
Erano bianchi, completamente
privi di pupilla, quasi li avesse rovesciati indietro dopo aver perso i
sensi mentre
la pelle attorno all’orbita era solcata da vene bluastre in
rilievo.
“Sergente
Flannery! Liam!” Lo
chiamò di nuovo tentando
disperatamente di attirare la sua attenzione. Il problema, suppose, era
che
quell’attenzione l’aveva già.
È
me che punta!
Non gli restò
quindi che
levare la bacchetta e pronunciare uno Schiantesimo. La luce rossa si
abbatté
sulla figura dell’uomo … e si dissolse.
…
Cosa?
L’incantesimo
diventò fumo di fronte
ad una sorta di barriera
biancastra emanata proprio dal sergente che non vacillò di
un centimetro.
Cosa?!
“Al!”
Come nel peggiore dei mondi possibili, sentì la voce di sua
sorella chiamarlo
allarmata. Si voltò e vide che Lily era uscita dalla stanza,
uscita esattamente
come non avrebbe dovuto fare.
Tu
non avresti fatto lo stesso sentendo tutto questo
chiasso?
“Lily, torna
dentro!” Riuscì a
dire prima che un lampo violento esplodesse al lato della sua visuale.
Mai
dare le spalle al pericolo. Mai. – Sentì la
voce di suo padre nelle orecchie.
Sentì il terreno
scollarglisi
da sotto i piedi e poi più niente.
****
“Che cazzo
è successo qui?”
Quello che stavano vedendo era il risultato di un Incantesimo
Esplosivo, non
c’era altra spiegazione che potesse giustificare lo stato del
corridoio in cui
erano entrati; il reparto Malattie Magiche sembrava aver affrontato
quello o
una mandria di Centauri incazzati.
Una
delle due. Comunque vada, la faccenda si fa
pericolosa.
James
schioccò la lingua, facendo
cenno a Scorpius, che chiudeva la fila, di tenere gli occhi aperti.
L’aspetto
più spettrale della faccenda in realtà non era il
caos, le sedie rovesciate e i
quadri che foderavano le pareti vuoti e a terra. No, quello che metteva
più
inquietudine addosso era il fatto che le grosse lampade a forma di
Pluffa sopra
le loro teste baluginassero come vecchi neon scassati della
più fetida delle
stazioni metropolitane.
Peccato
che non vadano ad elettricità, ma a magia.
Se la sentiva crepitare
addosso, quella magia, come energia statica prodotta dallo sfregare di
qualche
fibra sintetica sulla propria pelle. Deglutì sentendosi la
gola secca. “Occhi
aperti.” Ripeté per la ventesima volta in quei
pochi minuti.
“E vigilanza
costante!” Gli
fece eco Scorpius con tono giulivo. Lo conosceva abbastanza bene per
sapere che
nascondesse tutt’altro stato d’animo.
Se
la sta facendo sotto. E come biasimarlo, cazzo.
Avrebbe voluto essere
ovunque
tranne che lì; non c’era traccia di anima vivente
ma era ovvio che qualcosa
fosse accaduto prima del loro arrivo.
Qualcosa
di anormale. E qui nel Mondo Magico quando
qualcosa è anormale lo è alla grande.
Sentiva il respiro quieto e
regolatissimo del tedesco dietro di sé e ebbe quasi
l’istinto di voltarsi e
intimargli una doverosa distanza. Lasciò perdere, pensando
che in effetti l’altro
stava solo seguendo la procedura.
Ranghi
serrati, pivelli.
Era l’unica frase
che il
Sergente Flannery aveva detto loro quando erano usciti per la prima
volta in
missione. Ne aveva fatto tesoro, perché alla fine molto di
quello che facevano
era tutto lì.
“Pensate ci sia
ancora
qualcuno qui in giro?” Chiese Bobby facendo saettare lo
sguardo da un lato
all’altro del lungo corridoio. “Forse dovremo
controllare nelle stanze … O
nelle sale operatorie.”
“Buona idea.” Convenne. “Tu e Malfoy
andate a controllare le sale operatorie, io
e Prince ci occuperemo delle stanze.” Non ci aveva riflettuto
molto prima di
prendere la decisione di mettersi sul groppone il tedesco, dato che non
aveva
la minima intenzione di lasciarlo gironzolare da solo per il San Mungo.
Se questo fu stupito dalla
sua
decisione non lo diede a vedere. Si limitò a salutare con un
cenno della testa
gli altri due, ed affiancarglisi.
“Okay,
seguimi.” Gli ordinò e
fu quasi contento della situazione di tensione; il desiderio di azione
era più
forte delle loro reciproche divergenze.
E
non può fare lo stronzo quando potenzialmente la sua
vita dipende dalla mia.
…
E viceversa?
Ignorò
quella vocetta irritante nella
sua testa, raddrizzando la schiena e dirigendosi verso la prima delle
stanze. Spalancò
con una manata le porte a molla e poi inspirò bruscamente.
Qualsiasi cosa fosse
successa
nel corridoio sembrava che fosse partita da lì; i letti
erano stati divelti, i
materassi erano stati rotti in un nugolo di piume, mentre il carrello
delle
pozioni – era l’ora delle medicazioni quella, lo
ricordava – era stato
rovesciato a terra in una maleodorante confusione. Prince si
coprì il naso e la
bocca con la manica della camicia, distogliendo il viso. “Non
respirare.” Gli
intimò. “Deve essersi rotta una grossa
quantità di Pozione Soporifera.”
Come ha fatto a riconoscerla a colpo
sicuro dall’odore?
A
quanto pare dall’Untuoso Piton non ha preso solo i
capelli.
Si lanciò un
incantesimo
Testabolla e scandagliò l’ambiente umbratile con
lo sguardo in cerca di feriti.
Okay,
ad un paziente magari è partita la brocca. Ma ci
sono delle misure di sicurezza per questi casi …
Notò poi qualcosa
che si
muoveva vicino alla finestra, sepolto tra un materasso e un comodino.
Serrò
quindi la presa sulla bacchetta, scavalcò la pozza di
pozioni e lo raggiunse;
smise di farsi problemi quando vide che indossava il camice del
Guaritori.
“Fermo, stia fermo. Ci pensiamo noi. Prince!”
Chiamò l’altro. “Dammi una mano a
sollevare questa roba!”
Il tedesco gli fu subito a fianco, e senza usare magia – non
sembrava
stranamente opportuno a nessuno dei due – riuscirono a
liberare l’altro. James
appena riuscì a prenderlo per un braccio per aiutarlo a
tirarsi su lo
riconobbe. “Sam?”
Era Seamus
Finnigan, amico di famiglia da una vita e Capo Guaritore del reparto.
“Che
diavolo…”
“Oh, Jamie.” Lo riconobbe battendo le palpebre
stordito. “Grazie a Merlino …
voi Auror siete dei lampi ad intervenire.”
“Vorrei vantarmene, ma eravamo qui da prima.”
Ribatté controllando che non
fosse ferito. Sembrava solo stordito dalla caduta, tanto che
riuscì a tirarsi in
piedi da solo. “Che è successo?”
L’uomo si guardò attorno come se non credesse a
ciò che vedeva. “Per tutte le
Banshee d’Irlanda…” Mormorò
sgomento. “Io … è
stato…” Si umettò le labbra
guardandolo in modo strano. “… Credo sia
stato…” Esitò.
“È
stato chi?” Lo incalzò.
“Sam, l’intero San Mungo è senza
magia!”
“…
Cosa?”
Sì, era assurdo, concordava. “Senti, fai prima a
dirci chi ha combinato questo
casino.”
L’irlandese scosse
la testa,
appoggiandosi al davanzale della finestra come se non riuscisse a
mantenere
l’equilibrio. E forse era così a giudicare dal
repentino pallore del suo volto.
“È stato uno dei vostri, ragazzo.”
“Cosa?!”
“William Flannery è stato portato qui
stamattina… in questo reparto. Avevamo finito
gli esami preliminari, e non essendo venuti a capo di un accidente
abbiamo
deciso di assegnargli una camera in attesa dei risultati delle analisi.
Gli ho
portato io stesso una Pozione Decongestionante e…”
Tacque, scuotendo di nuovo
la testa. “Non ricordo altro.”
“Il sergente?” Si sentiva come se qualcuno
l’avesse colpito forte in testa e
stesse ancora cercando di capire da che parte era arrivato il colpo; il
Sergente Flannery doveva essere a casa a smaltire una febbriciattola.
Non
qui. Non accusato…
“Quali
erano i suoi sintomi?” Prince
prese la parola e per
la prima volta in
quella giornata non se la sentì di togliergliela.
“Febbre alta,
delirio … Non ha
ripreso coscienza per tutta la mattina.” Rispose il
Guaritore. “Abbiamo pensato
anche a qualcosa di Babbano, ma…”
“Potrebbe essere
pericoloso?
Aveva con sé la bacchetta?”
“No, niente bacchetta e …” Ci fu una
lieve esitazione e un nuovo sguardo
sommario alla stanza. “… credo che sia stato lui a
combinare questo casino,
quindi sì, direi che è pericoloso.”
“In che direzione è andato?” Le domande
di Prince erano corrette anche se
troppo brusche per un uomo che aveva appena ripreso i sensi. James
avrebbe
dovuto intervenire ma si sentiva ancora stordito: il sergente era per
lui una
sorta di gigante buono perennemente in controllo della situazione.
Che
sta succedendo?
Scorpius e Bobby entrarono
in
quel momento. “Il resto delle stanze è vuoto
… Devono essere tutti scappati.”
Spiegò quest’ultimo. “Ci sono
però tracce di qualcuno che ha preso
l’ascensore.”
L’ascensore?
“Ma non era fuori
uso?” Il
tedesco stava mantenendo la lucidità mentre James se la
sentiva scivolare dalle
dita.
Forse
perché è la prima volta che una figura di
riferimento fa cilecca, eh ragazzone?
Si passò una mano
trai
capelli, imponendosi di rientrare nella sua pelle, ovvero quella del
Caposquadra in interim. “Sì, non
c’è magia, che cavolo state blaterando?”
Bobby e Scorpius si scambiarono un’occhiata densa di un
sottotesto che non
colse. “Cosa, cazzoni?” Li apostrofò
nervoso. “Qual è il problema adesso?”
A
parte il fatto che stiamo dando la caccia alla
persona che di solito ci guida e al fatto che non ho la minima idea del
perché.
Fu Malfoy a parlare, con un
tono calmo e composto che in realtà nascondeva
l’agitazione più totale;
assomigliava a suo padre in maniera impressionante in quei frangenti.
“Quello
che ti abbiamo appena detto. L’ascensore, quello che prima
abbiamo usato e
abbandonato vicino al piano terra, adesso è al
Quarto.”
“A
Lesioni da Incantesimo?” Non fece in tempo a farsi
venir in mente
che Albus e Lily bazzicavano quel piano, né tantomeno a
ricordarsi che non li
aveva visti prima al piano terra, che vide il tedesco irrigidirsi come
se
qualcuno l’avesse appena pugnalato in pieno petto. Per una
frazione di secondo
sembrò quasi stesse per vomitare o svenire ma poi
l’adrenalina ebbe la meglio:
Sören Prince perse la sua irritante compostezza di granito e
corse via come se
avesse un drago alle calcagna.
Non gli restò che
imitarlo.
****
Sören
pensò che se gli fossero
esplosi i polmoni neppure se ne sarebbe accorto.
Tutto le sue funzioni vitali
erano concentrate su unico obbiettivo, quello di arrivare il
più velocemente
possibile al quarto piano, il piano in cui Lily passava buona parte
delle sue
giornate come studentessa di Psicomagia. Sentiva il sangue rombargli
nelle
orecchie e quando sbatté violentemente la spalla contro il
corrimano delle
scale antincendio provò a malapena fastidio.
Potrei
anche essermela rotta, per quanto ne so.
L’ascensore
funzionante poteva
non necessariamente portare a conseguenze nefaste; una parte del suo
cervello,
quella razionale, argomentava vivacemente come potesse essere stato
azionato da
un mago della manutenzione.
No,
non è così.
Se lo sentiva nelle ossa che
c’era qualcosa di sbagliato là dentro. Nelle ossa
e nel braccio che non aveva
smesso di lanciargli fitte dolorose da quando era andata via la luce.
È
la magia. C’è Magia Oscura.
Era come se quel
braccio fosse l’ago di una bussola
puntato strenuamente verso un Nord che lui non conosceva.
“Prince!”
Si sentì chiamare. “Dannato bastardo,
aspettaci!” Era la
voce di Potter, ma la udiva come un eco insignificante. Fisicamente
però gli
era vicino, dato che sentiva il suo respiro affannato contro la
schiena. Si
sentì poi afferrare per la cintura, e strattonare indietro.
“Fermati, cazzo!”
“Lasciami!”
Ruggì in tedesco,
scordandosi che l’altro non poteva capirlo. “Toglimi le mani di dosso!”
Doveva arrivare da Lily
prima
che il responsabile di quello scempio la trovasse sulla sua strada.
Perché lo
sapeva, se lo sentiva; Lily Potter non poteva essere da nessuna parte
se non al
quarto piano.
“Cazzo hai detto?” Fu l’ovvia,
sconcertata replica. “Non parlo la tua lingua
barbara!”
“Ha detto di lasciarlo andare, credo.”
Sentì la voce di Malfoy e vide poi la
sua testa bionda spuntare dal resto delle scale. “Prince,
calmati, stiamo
andando tutti al quarto piano. Non fare l’eroe, che non hai
la minima idea di
quel che ti aspetta là sopra.”
Cosa
mi aspetta…
Vedere
l’aria tesa di Potter, così
diversa dall’espressione strafottente che aveva avuto fino a
poco prima, fu
come esser colpiti da uno schiaffo d’acqua gelida.
“Che vuol dire?” Mormorò
sentendo il costato dargli delle fitte. Era urgenza.
Devo
andare. Fatemi andare.
“Il
Sergente Flannery è un auror
addestrato.” Soffiò a denti stretti
quest’ultimo, quasi gli costasse togliersi
ciascuna parola di bocca; poteva capirlo, era un suo diretto superiore
e adesso
era diventato ufficialmente un nemico. Lo capiva, ma non gli importava.
“Fottutamente
svelto e forte … Qualsiasi cosa gli sia successa, non
sarà facile da…”
“… da neutralizzare.” Gli venne in
soccorso Scorpius. “E molto probabilmente
non è in sé. Anzi, di sicuro.”
Soggiunse e Sören lesse smarrimento nella sua
espressione. Si riprese subito però, da bravo Occlumante.
“Ci serve un piano, o
rischiamo di far saltare in aria metà San Mungo.”
“Lily…”
Gli uscì dalle labbra
senza che potesse fermarsi. “Lei…”
“Lo sappiamo.” Tagliò corto Potter
indurendo la mascella ma non facendo
ulteriori commenti. “Pensi che non sappia che i miei fratelli
sono rimasti
lassù? Lils era di turno stamattina all’ala
Thickley e Al non sarebbe mai sceso
senza di lei o i lungo degenti.”
“Ci sono
però delle procedure mediche
quando un mago perde il controllo di sé.”
Intervenne Jordan piegato sulle
ginocchia e con il fiatone, ma non per questo meno disposto a dir la
sua. “I guaritori
tirocinanti e anche gli studenti le conoscono … Sapranno
come calmarlo.”
Come,
se non c’è riuscito neppure un Guaritore fatto
come quello che abbiamo soccorso prima?
“Se
hanno incontrato il sergente e se
non sono riusciti a calmarlo, dobbiamo avere un buon piano o
finiamo nella loro stessa situazione.” Argomentò
Malfoy e Sören si rese conto
che stavano tutti cercando di farlo ragionare. Si accorse anche che la
sua mano
formicolava come se l’avessero coperta di Polvere Urticante e
vedendo le prime
scintille scaturire dalla punta delle dita e non
dalla bacchetta fu costretto a serrare il pugno e infilarselo
in tasca.
“Avete
ragione.” Si sentì dire
come da una caverna profondissima. Ma la avevano; non poteva lanciarsi
in un
salvataggio scriteriato quando la posta era così alta in
gioco.
Malfoy tese il braccio e poi
sentì una stretta alla spalla, un gesto distensivo che non
capì, ma comunque
apprezzò. “Dì un po’ cowboy.” Lo
apostrofò con calma surreale e un nomignolo
improbabile. “Qualche
suggerimento?”
****
Albus era svenuto a terra,
il
sergente di suo fratello pareva essersi tramutato in una belva fuori di
testa e
lei era rimasta sola ad affrontare l’intera faccenda.
Che
gradevole sensazione di deja-vu.
Ironizzare su quel momento
era
fuori luogo, se ne rendeva conto, ma lasciarsi andare alla paura
sarebbe stato
persino peggio.
Lily sentiva
l’immediata
urgenza di darsela a gambe senza voltarsi più indietro e
l’avrebbe fatto,
davvero, perché il Sergente Flannery sembrava guardare
proprio verso di lei.
Ma
non posso abbandonare i pazienti!
Non Frank e Alice,
né quel
chiacchierone di Gilderoy. Non poteva abbandonare suo fratello, che era
venuto
a cercarla quando avrebbe potuto benissimo essere al sicuro in quel
momento. “Al!”
Tentò di nuovo.
Dannazione!
Decise
di passare alle maniere forti.
Prese quindi la bacchetta e … lo Appellò. Non gli
fece fare che pochi metri
come se fosse trainato da una fune invisibile, ma le bastò
per fare qualche
passo e afferrarlo da sotto le braccia, per tirarlo in direzione della
porta.
Dai!
Dai, accidenti! Dannazione, se pesa!
Aveva
imparato proprio al San Mungo
che una persona, a corpo morto, era praticamente inamovibile.
Sentì le gambe
lamentarsi ma non poteva perdere tempo; il sergente si era fermato, ma
per
esperienza sapeva che la stasi delle persone fuori di sé non
durava molto.
Non
sono io, che lavoro in una gabbia di matti?
Fece appena in tempo a
sentire
un ringhio gutturale partire dalla gola dell’uomo che
spalancò la porta della
stanza da cui era uscita e se la richiuse alle spalle.
Lasciò Albus a terra
mentre si occupava di chiuderla con un Colloportus.
Non
basterà … è un auror, sono addestrati
per entrare
ovunque! Non basterà!
“Mia
cara!” Esclamò Allock trotterellandole
accanto. “Che sta succedendo?”
“Gilderoy, devi darmi una mano a bloccare la porta con
… con qualcosa!” Esclamò
sentendo il panico placcarla come un Bolide tenace. “Non
basterà un Colloportus!”
Vedendo le espressioni
spaventate e agitate dei degenti si rese conto di che razza di
situazione
fosse.
Una
situazione di merda. Di nuovo!
“Mia
cara…” Farfugliò l’uomo
più agitato di lei. “…Con …
con cosa?”
“ …
letto…” Il lamento di Al
fu come un coro di angeli discesi dal paradiso. Suo fratello aveva gli
occhi
spalancati alla luce tremolante delle candele e sebbene fosse ancora
steso e
con l’aria smarrita, era cosciente. E soprattutto pensante. “Dobbiamo usare un
letto.”
Tutte
le botte in testa che ha preso a Quidditch devono
avergliela resa dura. O forse tutte le volte che è stato
sbattuto come un
calzino da qualche mago cattivo?
“Letto! Spostiamo
un letto a
contrasto con la porta!” Ripeté a beneficio
dell’uomo. “Gilderoy, muoviti!”
Con l’aiuto del mago riuscirono a metterlo a contrasto,
mentre Al si tirava su
e si passava una mano trai capelli con una smorfia stordita.
“Ho preso botte
peggiori.” Disse
indovinando la sua espressione. “Sembra uno schema che si
ripete quando finisco
nei guai … la mia testa è la prima cosa che
rischia di rompersi.” Sorrise
debolmente prima di tornar serio. “Avresti dovuto lasciarmi
lì.”
“Non sei l’unico con la sindrome della chioccia,
sai.” Frecciò facendolo
sorridere divertito.
“A quanto
pare.” Convenne
guardando verso la porta e facendole poi cenno di tener bassa la voce.
“Credo
di essermi perso la parte in cui ti lasciava entrare qui
dentro…”
“Non si è mosso quando l’ho fatto. Credo
… Merlino, Al, che gli è preso? E
cos’ha agli…”
“Non lo so.” La fermò scuotendo la testa
e indicando non visto Allock, che
sembrava bersi ogni loro parola. “Non ha importanza comunque.
Quello che
dobbiamo fare è-”
Non riuscì a finire la frase perché la porta
tremò come squassata da un tifone.
I degenti gridarono e si rannicchiarono gli uni sugli altri, Gilderoy
compreso
visto che lo vide sparire sotto uno dei letti.
Non che si sentisse di
biasimarlo; le sarebbe tanto piaciuto imitarlo. Purtroppo quel
trucchetto aveva
smesso di funzionare quando aveva cinque anni. “Al, che
facciamo?!” Disse
invece con urgenza.
Suo fratello
deglutì. “Non
prendere la bacchetta.”
“Cosa?”
“Prima ho tentato di schiantarlo ma non ha
funzionato.” Parlava velocemente,
con gli occhi incollati alla porta e Lily realizzò che era
nel panico quanto
lei. “Ho come l’impressione che lo Schiantesimo se
lo sia…” Tentennò.
“… se lo
sia mangiato.”
“Cosa?”
Al gli restituì un’occhiata vuota prima che la
porta vibrasse di nuovo
violentemente nei cardini, spostando il letto di qualche centimetro.
Altre
urla, un altro spaventoso colpo e i cardini cedettero.
Come in una sorta di incubo
a
rallentatore – e lei di incubi se ne intendeva –
lei e il fratello
indietreggiarono per far scudo ai pazienti. Erano Potter, non
c’era altro che
potessero fare se non gli eroi, persino in una situazione che non
prevedeva
altro che una bruttissima fine.
Serrò forte gli
occhi
pregando, implorando che qualcuno venisse a salvarli, perché
no, non era
giusto, doveva essere tutto finito, quindi perché ancora?
Un urlo, un lampo, il rumore
di qualcosa di pesante che veniva scaraventato via. Poi, niente.
Niente?
“Lily…”
Ho le allucinazioni.
Non c’era altra
spiegazione
perché la voce che l’aveva chiamata apparteneva a
qualcuno che aveva parlato
con lei molto tempo prima.
Cinque
anni.
Spalancò gli
occhi e vide
capelli neri, spalle magre quanto forti e una bacchetta. E quando il
suo
salvatore si voltò, il taglio degli occhi scurissimi,
inconfondibili.
Ah,
Ren –
Pensò con la tranquillità dello shock –
ecco
dov’eri finito.
****
Note:
L’avevo detto che arrivava l’azione! ;D
Ormai sono incorreggibile.
Perdonatemi, ma qui tra lavoretti e ore extra, sto perdendo la
capacità di
avere del tempo libero che non preveda collassare su un letto.
Un grazie infinito
e
continuo a chi mi recensisce: so di
essere una merdaccia ingrata, e di non rispondere bene e celermente
come vorrei
… il problema è sempre il solito: Real Life. :(
Questa
la canzone del capitolo.
|
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Capitolo 10 *** Capitolo IX ***
Capitolo IX
"They
never tell you truth is subjective. They only tell you not to lie"
(Something Else, Gary Jules)
San Mungo.
Quarto
Piano. Lesioni da Incantesimo.
Non c’era motivo
per cui Lily
dovesse credere ai propri occhi.
Sören avrebbe
dovuto essere ad
un oceano intero di distanza, con un impermeabile nero e il compito di
vegliare
su degli onesti cittadini magici americani.
Invece.
Invece si trovava a pochi
centimetri da lei, senza impermeabile e con le spalle scosse da respiri
profondi.
“Lily…”
Mormorò, e anche dopo
cinque anni riconobbe quella voce come la sua. Meno accento, molto
meno, e più
roca di quanto se la ricordasse – fumava troppo, lo aveva
capito dall’odore di
sigarette sulle lettere che fumava troppe sigarette babbane.
“Io…”
Avrebbe dovuto dire
qualcosa?
Fortunatamente la risposta
le
fu risparmiata perché suo fratello James irruppe nella
stanza come un Bolide,
seguito a breve distanza da Malfoy e Bobby Jordan.
Auror?
Sì, c’è decisamente bisogno di Auror.
“Lils!”
La apostrofò, prima di cercare con lo sguardo anche
l’altro
fratello che ricordò solo in quel momento di avere.
“Al!” Sul serio, il mondo
aveva improvvisamente perso assetto, non ci si poteva aspettare
ricordasse cose
simili. “Ehi, siete … state bene?”
“Stati
meglio.” Rispose quest’ultimo
alzandosi in piedi e raggiungendola. Stava guardando Sören
assorto in pensieri
che neppure lei, provandoci, sarebbe riuscita ad intellegire. Ad Al non
serviva
essere un Occlumante per chiudersi nel suo mondo riflessivo.
“Siete stati
veloci. Vi hanno avvertiti?”
“Cosa?”
James aggrottò le
sopracciglia in piena confusione. “No, noi …
eravamo già qua. Per un altro
caso. Sicuri di stare bene?”
“Sì.”
Ripeté Al irritato,
massaggiandosi il punto della testa che aveva sbattuto prima.
“Che sta
succedendo?” Si risolse infine a dire e sì, era
l’unica domanda sensata da fare.
James ebbe il buongusto di
mordersi
un labbro e scuotere la testa. “È una storia
lunga. Molto lunga.
Voi…”
“Il Sergente Flannery.” Lo interruppe Al.
“Cos’ha?”
Dov’è? Perché
Sören è qui e sembra che
stia lavorando con voi?
Che
sta succedendo?
Sören
tentennò ma alla fine fu
lui ad aprire bocca nel silenzio totale. “Non lo sappiamo.
È stato messo in sicurezza.”
“L’abbiamo immobilizzato.” Tradusse
Scorpius lanciando un’occhiata fuori dalla
porta, dove Jordan stava facendo la posta a quello che doveva essere il
corpo
esanime del mago; riluceva di una strana patina traslucida che Lily
identificò
come un Incantesimo molto potente di Pastoia, probabilmente lanciato da
più
bacchette. “È l’unica cosa che ci
è venuta in mente…” Aggrottò
le sopracciglia.
“E che stranamente ha funzionato.”
James scrollò le
spalle. “Ve
l’ho detto, non eravamo qui per questo e
non…” Il tono di voce fermo si perse
in un’espressione confusa. “… Quando
è andata via la luce siamo venuti su per
vedere chi non era sceso e aveva bisogno di aiuto. Abbiamo trovato Same
un gran
casino giù a Malattie Infettive. Abbiamo fatto due
più due e …”
“E? Lo incalzò Al.
“E non ci abbiamo
capito un
cazzo.” Concluse con uno sbuffo scorato.
“Piuttosto, perché eravate qui da
soli?”
“Facevamo il
nostro lavoro.” Ribatté
Al con naturalezza ed era davvero tutto lì.
“Questa tipologia di pazienti non
può esser fatta muovere con leggerezza. Ci sono persone
catatoniche … e persone
pericolose se messe in mezzo ad una folla.” Quelle cose
avrebbe dovuto
spiegarle lei, riflettè distratta. Non lo fece.
“Qualcuno doveva occuparsene e
quel qualcuno siamo risultati essere noi.” Suo fratello ebbe
l’accortezza di
voltarsi verso di lei. “Vero Lils?”
Annuì
meccanicamente. Ogni sua
funzione mentale era concentrata sulla figura magra e a disagio che
cercava di
rintanarsi nella tanta ombra della stanza.
“Che ci fai
qui?” Mormorò, ma
le sembrò di gridare. “Che sta
succedendo?”
Fu come se la sua voce
avesse
fatto spegnere tutti i suoni nella stanza. Sören si morse le
labbra quasi a
trattenere le parole che volevano uscirgli dalla bocca ed era proprio
da lui quel gesto.
Non
è cambiato affatto. È qui.
Se avesse teso una mano
avrebbe potuto afferrarlo; era una sensazione così assurda
che si sentiva più
frastornata di quando era mancata di colpo la luce. Sapeva che avrebbe
dovuto
reagire in maniera più composta che quella di un cervo prima
di essere
investito da un tir, ma non riusciva a far altro che guardarlo. E a
farsi
guardare di rimando.
Poteva essere diverso, lei
stessa si sentiva diversa dalla quindicenne che lo aveva cercato con lo
sguardo
nella fila degli allievi di Durmstrang secoli
prima … ma gli occhi. Quei maledetti occhi scuri erano gli
stessi che l’avevano
inchiodata ad una panca della Sala Grande.
Per
lettera è facile dimenticarli, eh?
C’era un fuoco
nudo che vi
bruciava dentro, qualcosa che i suoi poteri potevano
percepire; sarebbe stato semplice in quel momento toccarlo e avere le
risposte
che cercava.
No.
Autoconservazione vinceva su
tutto; distolse lo sguardo. Il tempo riprese così a scorrere
normalmente perché
sentì James sbuffare. “Te l’ho detto
Lils, è una storia lunga e neanche avreste
dovuto saperne niente…”
“Del suo arrivo?” Lo incalzò Al e dal
tono era sul punto di perdere la calma.
“Del Sergente Flannery? Perché scusa la franchezza
Jamie, ma sembra che ci
siamo cascati con tutte le scarpe. Gradirei delle spiegazioni visto che
abbiamo
appena rischiato la vita. Ancora.”
Soggiunse con un tono che solo un Potter poteva padroneggiare con
disinvoltura.
L’altro fece una
smorfia sconfortata,
ma non ribatté. “Dopo, okay? Adesso cerchiamo di
far funzionare le cose … O di
dargli un senso almeno.” Si guardò attorno.
“Vi serve una mano con i pazienti?”
“Ci servirebbe più luce, sì.”
Convenne Al ed era una resa momentanea, ma pur
sempre una tregua. “E magari controllare che nessuno si sia
fatto male quando
Liam è entrato.”
Scorpius fece un passo
avanti
con un meraviglioso sorriso, tale perché appunto, un
sorriso. Nessuno lì aveva
qualcosa di diverso da un’espressione tesa dipinta in volto.
“Okay, che
dobbiamo fare?”
“Vado a
sorvegliare il
sergente Flannery.” Disse Sören e prima che qualcuno
avesse il tempo di
ribattere, uscì dalla stanza sorpassando un esitante Bobby.
Lily non reagì;
qualsiasi cosa
avesse detto tanto non avrebbe avuto il minimo senso. Si
limitò piuttosto ad
affiancare James. “Mi dai una mano con Alice? La signora
Paciock?” Lo
apostrofò. “Quando è spaventata non
riesce a muoversi e dovremo alzarla di
peso.”
Normalità.
Razionalità. A volte sono le uniche cose che
contano.
“Sicuro!”
Convenne l’altro con
una strana espressione sollevata. Strana per chi non era lei.
Ci
sono momenti in cui odio essere
me. Tipo,
adesso.
Chi
ha detto che l’ignoranza è un difetto?
“Non mi dirai
perché Sören è
qui.” Stimò chinandosi su Alice per sorriderle e
separarle le mani che si
stringevano convulsamente tra di loro. “Non vuoi
dirmelo.”
“Lils…” Esitò suo fratello
spostando il peso da un piede all’altro. Lo faceva
sin da quando era bambino quando qualcosa lo metteva in una posizione
scomoda.
Quando qualcosa lo frenava dall’assecondare i propri istinti.
“Non potevi dirmelo.” Ci
rifletté e giunse all’ovvia soluzione.
“Allora
è stato papà.”
“Lils, per favore…”
“Avrò le mie spiegazioni.” Sapeva che
era una mossa vile, e che suo fratello non
si meritava la sua rabbia. Non le importava.
Perché
Sören è qui e perché nessuno me lo ha
detto, lui
per primo?
“Le
avrò comunque James.
Quindi comincia a parlare.”
****
Londra,
Ministero della Magia.
Ufficio
Auror.
Era
un giorno come un altro all’ufficio Auror.
Quel genere di frase non
suonava mai bene nella testa del Sergente Ron Weasley.
Era forse una sorta di
scaramanzia di fondo che si portava dietro dalla prima adolescenza, o
forse
semplicemente il fatto che al secondo piano nessun giorno era mai
uguale
all’altro se indossavi la fodera della bacchetta con la
certezza di usarla.
Le scartoffie, certo, quelle
erano sempre le stesse ed erano insopportabili.
Quindi quando sul ciglio
della
porta apparve il Capitano dei Tiratori Scelti Zacharias Smith non finse
sorpresa; quello voleva dire
vivere
un giorno come un altro.
“Capitano
Smith.” Sospirò
notando come l’altro avanzava verso di lui con falcate
furiose; c’era sempre
quella sorta di inadeguatezza di fondo ad animare la
rivalità dei Tiratori…
E
certo nessuno di noi ci tiene a migliorare le cose. O
le opinioni.
L’altro fece un
sorrisetto
storto. “Buongiorno a te, Weasley. Mi chiedevo quanto ci
avrebbe messo un
membro del tuo ramificato clan a combinare l’ennesimo
casino…”
“Non ti seguo.” Replicò con aria
annoiata, incrociando le braccia al petto e
fingendo che la sua squadra non stesse origliando a poche scrivanie di
distanza.
“La squadra di tuo
nipote
James…”
“Ah, la squadra del Sergente Flannery.”
Rettificò tranquillo, sentendo comunque
una punta di soddisfazione all’idea che quella testa
arruffata di Jamie si
fosse già fatto un nome nel Dipartimento.
Non
mi aspettavo di meno da lui, che diavolo!
“C’è
stato un black-out al San
Mungo, e tutta la squadra è lì. Abbiamo cercato
di contattarli e non abbiamo
avuto risposta.” Inarcò le sopracciglia.
“Andate a dir loro che casi del genere
non sono di vo…”
“Nostra competenza, lo so. Sono lì per un altro
caso, credo.” Sbuffò annoiato.
Poi registrò il primo termine usato dall’altro
mago. “Black-out?”
Chiese perplesso.
“È quel
che mi è stato detto.
Mettetevi in contatto con loro e ditegli che sta arrivando una nostra
squadra e
che devono levarsi dai piedi.” Ripeté irritato
dalla sua costruita ottusità;
lavorando gomito a gomito per anni, volente o nolente, era naturale che
il
Tiratore conoscesse tutte le sue tecniche interrogatorie.
Solo
che stavolta è vero, non ci sto capendo niente!
“Ma che vuol
dire?” Insistette
e dall’espressione stizzita e confusa dell’altro
capì che non avrebbe avuto
risposta. “Sembra una parola Babbana…”
Si voltò verso Marchwell, uno della sua
squadra che vantava orgogliosamente origini Babbane da ben sette
generazioni. Non
finse neanche di non
essersi accorto che li stava ascoltando. “Ehi March
… idee al riguardo?”
“Se è
riferito ad un impianto
elettrico vuol dire che salta la luce.” Spiegò
pronto il ragazzo senza la
minima traccia di imbarazzo; erano agenti, origliare era un
po’ una
deformazione professionale. “Ha presente quei grandi edifici
che mandano
energia nelle case attraverso dei fili? Beh, quando il collegamento si
interrompe per qualche motivo e i Babbani di una certa casa, o area o
palazzo
rimangono senza elettricità … ecco, quello
è un black-out!” Concluse.
Ron si voltò
verso il Tiratore
Scelto. “E questo che cavolo c’entra con il San
Mungo? Siamo maghi, non usiamo
l’elettricità!”
Smith scrollò le
spalle. “È
questo il termine che è stato usato per inoltrare la
segnalazione. Che vuoi che
ti dica? Il San Mungo sarà rimasto senza magia!”
La portata dell’affermazione li investì in ugual
misura; Ron se ne rese conto
perché vide l’altro agente sgranare gli occhi.
“Ma non è una cosa possibile.”
Soggiunse scoccandogli un’occhiata.
Ron non era un tipo che
amava
riflettere troppo sulle cose; solo gli scacchi si meritavano lunghe e
articolate riflessioni. Ma lì non erano di fronte ad una
scacchiera, ma piuttosto
ad un fenomeno che poteva essere un errore di comprensione di un
Telegramma
Gufico oppure…
Beh.
Non che abbia molto da fare, al momento, a parte
mettere mettere ordine tra i miei rapporti.
E ogni Auror scopriva, non
appena prendeva il distintivo, che ogni scusa era buona per abbandonare
la
pergamena in favore dell’azione.
Harry
è forse l’esempio più fulgido.
Smith dovette indovinare la
sua risoluzione dallo sguardo, perché roteò gli
occhi esasperato. “Fammi
indovinare Weasley. Stai per dirmi che potrebbe servirci una squadra di
Auror
in più?”
“Non sono
così sadico, Smith.”
Sogghignò. “Pensavo di limitare la faccenda alla
mia sola presenza.”
****
Diagon
Alley, Laboratorio di Stevens.
Al era in ritardo.
Tom aggrottò le
sopracciglia,
osservando con odio la porta del laboratorio, chiusa e silente come
quella di
una chiesa di lunedì mattina.
Albus non era mai in
ritardo;
per quanto fosse capace di dimenticarsi di zuccherare il
caffè la mattina o di
allacciarsi le scarpe dopo che per tre volte gli era stato detto di
farlo,
sugli orari era puntuale come uno svizzero. Di solito.
Quello era il giorno in cui
veniva a prenderlo per andare poi a fare la spesa settimanale nella
Londra
Babbana dato che costava meno comprare da Marks¹
che a Diagon Alley. Era quello il giorno, nessuno sbaglio o
incomprensione.
Eppure.
Sentì alle sue
spalle Stevens
muoversi ed uscire dal magazzino. “Sei ancora qui?”
Lo apostrofò, girando
involontariamente il dito nella piega del suo cattivo umore
“Dov’è…”
“È in ritardo.” Ripeté a
parole. “Allo Specchio Comunicante non risponde.”
Soggiunse immaginando sarebbe stata quella la prima obiezione.
Il mago passò le
dita sulla superficie
del suo tavolo da lavoro per misurare lo spazio.
“Arriverà. Non c’è motivo di
agitarsi, Thomas.”
Stevens era l’unica persona che conoscesse a chiamarlo con il
suo nome
completo, senza far nessuno sconto; la cosa non gli dispiaceva.
“Non sono
agitato.” Disse sentendosi irritato come un bambino colto con
le mani nella
marmellata.
Perché
lo sei. Agitato.
Detestava quando qualcuno
gli
scombinava la routine e l’insofferenza raggiungeva picchi
altissimi quando a
farlo era la persona con cui condivideva tutto – soprattutto
sé stesso. Erano
quelli i momenti in cui rimpiangeva Hogwarts e i suoi orari ferrei.
Era un atteggiamento
indisponente? Da bambino viziato? Certo. Non cambiava i fatti.
Potrebbe
essergli successo qualcosa. Potrebbe.
Sentì la mano
nodosa
dell’artigiano sulla spalla. “Una tazza di the
mentre aspetti?”
Annuì,
incrociando le braccia
al petto e sperando che la porta non avesse la brillante idea di
prendere fuoco
mentre la fissava.
Per
noi maghi è un’eventualità che si
può presentare. E
per me.
…
e se gli fosse successo qualcosa?
Era auto-suggestione,
ovviamente; Al era al San Mungo e probabilmente si era fermato a
chiacchierare
con i colleghi. Non correva nessun rischio, se non quello di inciampare
sui
suoi piedi.
Eppure
… ammettilo. È il suo discorso di stamattina. Ti
è entrato in testa, che tu volessi o meno.
Albus era sembrato
sinceramente
convinto che qualcosa nel tessuto della loro quotidianità
stesse mutando, e per
quanto fosse per indole impermeabile a sciocchezze quali Divinazioni e
Profezie, era comunque dotato di un certo grado di intuito, ereditato
nientemeno che da Harry in persona.
L’antenna
per le grane dell’Inghilterra Magica.
…
Se avesse ragione?
Nel flusso rutilante dei
suoi
pensieri entrò una tazza fumigante che accettò
con un cenno della testa.
“La bacchetta per
quello
Zabini …” Gli chiese Stevens, forse per distrarlo.
“Ricordami per quando deve
essere pronta.”
“Mai.”
Sogghignò di rimando.
“Il più tardi possibile.” Concesse.
“Quel giovanotto deve averti fatto uno sgarbo non
indifferente.”
“Ha toccato le mie cose.” Replicò senza
impegno, pensando divertito alla
reazione di Al se l’avesse sentito.
Probabilmente
un pugno.
“Una
metafora?”
“Una metafora.” Convenne con gli occhi ormai
incollati alla porta senza
soluzione di continuità. Sentendosi fissato si
voltò in direzione dell’altro
mago. Essendo cieco così non era, ma era capace di dargliene
la completa
impressione. “Cosa?”
“Oggi hai dei
pensieri. E
prima che tu mi fermi … è la tua intera persona
che lo grida.”
“Non credo di esser così leggibile.”
“Non lo sei.” Sorrise. “La tua bacchetta
lo è.”
Tom ne sfiorò l’impugnatura: aveva imparato a
lasciarla allacciata ai passanti
della cintura con un fodero dato che non voleva lasciarla in giro con
il
rischio di vedersela agguantare dai clienti.
È
in vendita questa? No. Assolutamente
no.
“Le bacchette
parlano e solo
tu riesci a sentirle.” Replicò sentendo una punta
di irritazione all’idea che
non stesse scherzando; Rupert Stevens riusciva davvero a sentirle
sussurrare.
“Quando avrai i
miei anni sarà
lo stesso per te, Thomas.” Ribatté con il tono del
maestro di fronte ad uno
scolaro impaziente. L’avrebbe permesso solo a lui.
“La genialità non può sopperire
all’esperienza. Mai.”
“Grazie per il
geniale.”
“Non fare il modesto.” Sorrise quieto.
“Non essere ciò che non sei.”
Tom non poté fare a meno di ricambiare il sorriso,
sentendosi un po’ meno
propenso a dar fuoco alla porta. Dopo una pausa generosamente
innaffiata da Russian Caravan²
bevuto dalle tazze
sbeccate che aveva cercato più volte di sostituire senza
successo – Stevens
riusciva ad essere più attaccato di lui alle cose - non poté fare a
meno di vuotare il sacco.
Forse era non esser mai visto a stimolargli le parole, in quel posto.
“Credi nelle
sensazioni?”
“Intendi dire
quelle
sciocchezze divinatorie?”
“Se volessi insultare la tua intelligenza troverei altri
argomenti.”
L’uomo ridacchiò, finendo poi per annuire.
“Penso…” Si passò una mano
sul
mento. “…Penso che la realtà sia molto
di più di ciò che i nostri sensi
percepiscono.” Decretò. “Noi maghi,
rispetto ai Babbani, conosciamo certamente una
parte del mondo che a loro sarà sempre preclusa …
Conosciamo di più, ma non conosciamo
tutto. Certe sensazioni, anche se
non
hanno una base logica, ci sono … ed è da sciocchi
ignorarle.”
“Quindi ci credi.”
“Non lo escludo a priori, è differente.”
Sorrise l’artigiano usando le sue
stesse parole. “Perché questa domanda?”
“Al stamattina si
è svegliato
con una delle sue brutte sensazioni.” Fece una smorfia.
“Ho cercato di
minimizzarla, ma so che ci avrà pensato tutta la
giornata.”
“E questa brutta sensazione di cosa parlava?”
“Cambiamenti. E
non del genere
buono.”
“Capisco.”
L’uomo si alzò,
riponendo tazze e teiera e facendole levitare fino alla piccola cucina
al piano
di sopra, dove viveva. “E tu ne sei rimasto
influenzato.” Stabilì con certezza
granitica.
Tom pensava che fosse un filino irritante che il suo datore di lavoro
riuscisse
a sondarlo in modo così preciso. Irritante e straordinario.
E in qualche modo,
consolante.
A
volte non è male essere compresi.
“Sì.”
Convenne. “E adesso non
è qui.” Borbottò.
“Potrebbe…”
“Come non potrebbe.”
Tom fece una smorfia. “A volte penso che avere qualcuno da
aspettare sia uno
svantaggio … emotivamente parlando.”
Stevens ridacchiò sfiorandogli la spalla con la punta delle
dita, un gesto che
era persino più condiscendente che se gli avesse arruffato i
capelli. Ma molto
più elegante, doveva ammetterlo.
“Non lo è affatto, e non lo pensi.”
“ …
No.” Convenne: ci aveva
messo anni per realizzarlo, ma ogni tanto non gli dispiaceva lamentarsi
sapendo
di non esser preso sul serio. Era una cosa insopportabile, sosteneva
Al, ma
sorrideva sempre quando lo diceva, quindi supponeva in
realtà fosse l’esatto
contrario. “Vado.” Soggiunse alzandosi e slegandosi
la fondina per infilarla
nella propria tracolla; usando la metro avrebbe suscitato non poche
occhiate.
“Torni a
casa?” La cosa che
più lo divertiva di Stevens era la sua continua ed
incessante curiosità;
normale, sosteneva Al, dato che viveva la sua vita dentro il
laboratorio.
Eccezionale,
considerando che neppure la guerra e i
lutti gli hanno tolto la voglia di farsi gli affari degli altri.
“Al San
Mungo.” Replicò con un
sospiro vinto. “Odio aspettare.”
****
Farrindgon,
Magazzino Purge&Dowse.
Milo si tolse la coppola
dalla
testa passandosi le dita trai capelli sudati; se qualcuno gli avesse
detto che
le estati inglesi potevano essere tali, gli avrebbe riso in faccia.
Invece
possono diventare persino roventi. Diavolo.
Si asciugò il
sudore con il
bordo inferiore della maglietta, dando una panoramica dei propri
addominali ad
un paio di ragazzette che ciondolavano sedute sugli scalini della
vicina metro.
Ricambiò i loro sorrisi con un ghignetto e una strizzatina
d’occhi.
Senza
offesa, ma non siete la mia area. Non con almeno
qualche litro di birra in corpo, poi beh … ogni buco
è trincea.
Comunque faceva davvero caldo. Fortuna voleva fosse
arrivato a destinazione; non c’era dubbio, quel grosso
magazzino in disuso, con
le grandi finestre sbarrate e rotte dal primo all’ultimo
piano fosse il San
Mungo.
Era un po’
preoccupato, poteva
ammetterlo senza sentirsi la versione bionda e maschile di una mamma
apprensiva; il principino era un tipo che amava farsi macerare le cose
dentro,
ma quella mattina era sembrato insolitamente comunicativo,
nell’essere livido e
con l’aria di uno che voleva suicidarsi.
Forse
avrei dovuto spedirgliela, quella stupida
lettera… Ed io che pensavo di fargli un favore!
Lo conosceva da
più di tempo
di quanto e avesse passato con chiunque, ad eccezione della sua
famiglia – secoli prima
– e si era francamente
stufato di vederlo struggersi dietro una ragazza che viveva ad un
oceano di
distanza.
Lui
e quella rossa… Che okay, caruccia è caruccia, e
poi si sa che dicono delle rosse …
Ma
deve metterci un punto. O passerà la vita a sognare
una persona che forse non esiste fuori dalla sua testa.
Per questo aveva volontariamente evitato di spedire la
lettera, proprio in virtù del fatto stessero salpando per la
Terra d’Albione.
Ed
oggi dividono pure la stessa aria. Chissà se la
becca. Chissà se andrà a cercarla.
No,
dovrebbe sbattergli contro perché il miracolo
avvenga. È troppo onesto, il coglione.
Sospirò,
grattandosi la nuca e
incamminandosi lentamente verso quella che gli era stata detta fosse
l’entrata,
ovvero una vetrina corredata da manichini in avanzato stato di
decomposizione.
Ma
com’è che nessun Babbano si è mai
chiesto perché
quest’edificio non vengs fatto saltare in aria? Sembra che
stia per crollare da
un momento all’altro … Sarà dovuto alla
magia?
Ma
soprattutto, perché ogni cosa magica in Inghilterra
sembra cadere a pezzi?
Si ficcò il
cappello nella
tasca posteriore dei jeans e cercò di ricordare la
modalità d’entrata.
Okay,
devo parlare con uno dei manichini … quello
vestito peggio. Per Faust, la fanno facile … gli inglesi non
sanno vestirsi per
default.
Doveva sembrare un idiota
agli
occhi della folla che gli sfilava accanto sul marciapiede, accaldata e
ingurgitante gelati o bevande provenienti dai vicini e refrigerati
negozi: ci
si sentiva anche lui. Poi lo trovò.
Indossi
una blusa marrone su toni di nero? Sei
definitivamente tu, bellezza.
Si avvicinò al
manichino
prescelto. “Devo entrare … err,
all’accettazione.” Proclamò un
po’ a caso, già
pregustandosi gli Incantesimi Refrigeranti all’interno della
struttura.
Non accadde niente.
Okay,
devo aver sbagliato qualcosa.
Fece la stessa domanda a
tutti
i manichini presenti. Cambiò la richiesta. Tentò
un linguaggio più formale.
Alla fine, disperato e anche imbarazzato dalle occhiate divertite e
perplesse
che gli venivano lanciate dalle persone che gli camminavano affianco,
bussò al
vetro scheggiato.
Niente.
Un cazzo di niente.
Poteva essere per via del
suo
essere Magonò? Scacciò l’idea
esasperato; per quanto la sua mancanza di poteri
gli aveva chiuso molte porte in faccia, mai quella di un ospedale.
I
maghi non sono razzisti fino a questo punto. Non di
questi tempi almeno. E non nella benpensante Inghilterra.
Tirò fuori il
cellulare e fece
una smorfia; c’era pochissima probabilità che
Sören rispondesse dato che
definiva il suddetto ‘un attrezzo incomprensibile’
nonostante all’Accademia gli
fossero stati forniti rudimenti sulla tecnologia moderna e in seguito
corsi di
aggiornamento periodici al Distretto.
Per
quanto l’impianto stereo di casa schifo non gli
faccia. Quello no, eh.
Schiacciò il
tasto di chiamata
rapida – oh, aveva il cuore pieno della speranza che un
giorno quell’idiota
anacronistico quando un quadro da museo imparasse ad usarlo –
e aspettò.
Ci volle almeno mezzo minuto
prima che Sören capisse che la musica che proveniva dai suoi
pantaloni in
realtà usciva dal cellulare che aveva riposto accuratamente
nella tasca quella
mattina – e lì dimenticato.
Nel frattempo
riuscì a far
uscire in corridoio Malfoy, che gli rivolse una strana occhiata
esilarata.
“Hot
Stuff? Come suoneria?” Ghignò.
“Inaspettato.”
“Non
l’ho scelta io.”
Cercando di non implodere
dall’imbarazzo premette sullo schermo a caso, nel vano
tentativo di zittirla;
la situazione era orrenda e quell’affare infernale e
berciante stava
contribuendo a renderla anche umiliante.
Non
dovrei essere qui. Sarei dovuto rimanere
all’accettazione. Avrei dovuto andarmene.
Come
si chiude questo affare?!
Non
dovrei essere qui.
Invece c’era
perché la sola
idea che Lily si potesse trovare nei guai gli aveva reso bianco il
cervello dal
panico.
Hai
fatto esattamente quello che ti era stato ordinato
di non fare.
Complimenti.
Malfoy allungò la
mano
impietosito. “Da qua.” Stava palesemente
trattenendo una risata epocale. “Il
fratello della mia fidanzata ne ha uno e mi ha insegnato un
po’ ad usarlo.”
“Devo rispondere,
potrebbe
essere l’ufficio.” Borbottò
allungandoglielo e non potendo fare a meno di
lanciare un’occhiata verso la porta della stanza; Lily non
era uscita e non
l’avrebbe fatto, l’aveva capito nel momento stesso
in cui aveva distolto lo
sguardo dal suo.
Avevo
ragione, non vuole avere niente a che fare con
me. Possiamo avere un rapporto solo se è per lettera. Solo
così.
Realizzarlo era stato peggio
di prendere un pugno in faccia.
Malfoy premette qualcosa
sullo
schermo e poi glielo passò finalmente silenzioso. Con un
cenno grato della
testa se lo portò all’orecchio. “Qui
Sören Prince.”
“T’è piaciuta
la suoneria?” Era la
voce di Milo e per un attimo Sören dovette reprimere
l’impulso di lanciare
l’aggeggio infernale lungo il corridoio o progettare
l’omicidio di quello che a
regola avrebbe dovuto essere un suo dipendente. “Credo ti si addica!”
“Sei un idiota.” Ribatté in tedesco,
preferendo tagliar fuori dalla
conversazione l’Auror occhieggiante. “Cosa
vuoi?”
“Sono
fuori dal San Mungo, ma non riesco ad entrare!”
Sören
inspirò, sentendo un
principio di emicrania piantarglisi nella nuca come un punteruolo.
“Che ci fai
fuori dal San Mungo?”
“Dieci
punti per la simpatia, principino. Ero venuto a prenderti! O a
raccattare quel che resta di te visto che hai incontrato la rossa.”
“Come sai…”
“È
il karma, maghetto. Ci hai sbattuto contro, non è vero? Come
in una
commedia romantica!” Sembrava immensamente
soddisfatto dalla cosa e Sören
ringraziò Merlino di non averlo a portata di mano in quel
momento dato
difficilmente si sarebbe trattenuto dal torcergli il collo. “E comunque si capisce dal tono di voce.
Com’è andata?”
Sören si
voltò verso la stanza
e nonostante le candele disposte illuminassero poco o niente colse un
riflesso
ramato. Capelli. Lily.
Serrò gli
occhi, massaggiandosi la sella del naso. “Ci sono problemi
… di natura magica.
Penso che la barriera all’entrata non sia attiva,
è per questo che non riesci
ad entrare. Torna alla locanda, ci vediamo là.”
Ripeté.
“Non
è quello che ti ho chiesto!”
“Milo.” Il tono dovette fare effetto,
perché lo sentì sospirare.
“Okay,
okay. Ma toglimi una curiosità … se io non entro,
tu riesci ad
uscire?”
… Ah.
La realizzazione lo
investì
come uno Schiantesimo lanciato in pieno petto; era bloccato
lì dentro finché il
problema – qualunque esso fosse – non sarebbe stato
risolto.
“Mi
sa che non l’avevi realizzato…”
La voce di Milo era un’eco
distante e non solo per via del mezzo da cui proveniva. Ci fu una breve
pausa.
“Lei è lì?”
“Sì.”
“Okay…”
Un’altra pausa. “Stai bene?”
“No.”
Chiuse la chiamata e poi
si voltò verso Malfoy che stava guardando il proprio
Sergente con espressione
assorta. L’uomo era esanime ed immobilizzato e Merlino solo
sapeva come doveva
sentirsi il giovane auror all’idea di averlo dovuto mettere
violetemente fuori
gioco.
Un
uomo che ha perso il controllo di sé e della sua
magia. Ha rischiato di uccidere delle persone innocenti …
Perché?
“Dobbiamo
spostarlo.” Esordì,
perché darsi degli obbiettivi era l’unica cosa che
avesse senso in quel
momento.
Il ragazzo si riscosse,
annuendo. “Ah… sì, hai
ragione.” Aveva l’espressione smarrita, ma
Sören finse
di non notarlo. Al suo posto non avrebbe voluto che qualcuno glielo
dicesse. “Okay.
Dove?”
“Andrà
bene una stanza
qualunque … L’incantesimo dovrebbe durare
abbastanza a lungo da riuscire a
trovare un Guaritore di Malattie Infettive che venga quassù
a prendersene cura.
Uno di noi rimarrà con lui … per motivi di
sicurezza.”
“Il
Sergente…” Si umettò le
labbra, passandosi poi una mano trai capelli. “Il Sergente
è un pezzo di pane …
Voglio dire, se non per lavoro, non ha mai fatto male ad una mosca.
È un uomo
pacifico, non capisco…”
“Riusciremo ad
avere delle
spiegazioni.” Cercò di rassicurarlo, non sapendo
neppure da dove cominciare.
Non era quello che di solito ci si aspettava da lui; in America era
Estevez
quello deputato ai rapporti interpersonali.
Io
sono il braccio armato. Da sempre.
Malfoy gli rivolse un mezzo
sorriso, poco convinto ma almeno tale. Era un tipo che non mancava mai
di
esternare quel genere di mimica; chissà perché.
“Lo so.” Disse.
“Tu…” Guardò
verso la stanza e a Sören fu immediatamente chiaro verso chi
fossero diretti i
suoi pensieri. “Andrà bene.” Disse un
po’ goffamente. “Cioè, sai …
La cosa tra
e te e la Piccola Potter. È solo che non se
l’aspettava.”
Solo?
“Già.”
Non voleva pensarci. Doveva
rimanere focalizzato su qualcosa di diverso; la situazione in cui si
erano
involontariamente ficcati, per esempio. “Mi ha chiamato la
persona che mi ha
accompagnato qui. Dice che il San Mungo è bloccato
dall’esterno, e temo che
all’interno sia lo stesso.”
L’auror lo
squadrò incredulo,
prima di ragionare ed esplodere in un’imprecazione a mezza
bocca. “È vero … per
entrare c’è una barriera magica, tipo quella ai
binari di King’s Cross! Se la
magia è andata…”
“… è andata anche
l’entrata.” Fece loro eco James Potter, uscendo
dalla stanza
con le mani ficcate nelle tasche e l’espressione tempestosa.
“Quindi siamo
bloccati qui finché non rimettono a posto le cose?”
“Così
pare.” Sbuffò Malfoy
scrollando le spalle. “È solo questione di tempo
però … ormai fuori se ne
saranno accorti che qualcosa non va, qualcuno avrà mandato
un Gufo.”
“Bah,
speriamo.” Masticò a
mezza bocca. Lanciò un’occhiata al proprio
sergente e inspirò bruscamente.
“Dobbiamo spostarlo di qui, non può stare in mezzo
al corridoio.”
Era quello che aveva detto
anche lui, ma non trovò proficuo notificarlo dato che gli
animi erano già
abbastanza esacerbati. Si limitò quindi ad annuire e a
suggerire semplicemente
di farlo senza magia.
La
magia non è sicura. Per Faust, non credevo l’avrei
mai detto.
Lo afferrarono in tre e
Sören
si trovò così spalla contro spalle con Potter. Il
ragazzo aveva i lineamenti
tesi, e non per la fatica di spostare un corpo esanime.
“Gliel’ho dovuto dire.”
Mormorò e gli fu subito chiaro cosa e a chi. “Ho
dovuto farlo … cazzo, stai
qua, non aveva più senso stare zitti.”
Sören non rispose, sentendo un maglio artigliargli le viscere,
come il sudore
scorrergli gelato lungo la schiena. Avrebbe davvero voluto che
qualcuno,
chiunque, gli dicesse cosa fare; avrebbe dovuto andare a parlare con
Lily?
Avrebbe dovuto cercare di spiegarle? O era meglio il contrario?
Cosa
devo fare?
“Cosa devo
fare?” Anche se
stava rivolgendo la domanda forse alla persona meno indicata, non gli
importava. Aveva bisogno che qualcuno gli desse un ordine.
È
così che sono vissuto, sempre. Ha ragione Milo, sono
una testa di latta.
“E io che diavolo
ne so?”
Sbottò Potter con una smorfia. “Merda, non mi ha
piazzato un pugno in faccia
solo perché aveva le mani occupate! Stesso vale per Al
… cavolo.”
“È arrabbiata?”
“Mia sorella? Tu
che dici, crucco?”
Schioccò le labbra e lasciò andare un sospiro
quando scaricarono il peso del
sergente Flannery sul primo letto in cui si imbatterono. “Sai
cosa? Avrebbero
dovuto saperlo.” Non era un’accusa dal tono dolente
più che rabbioso: era
un’attestazione.
“Sì.”
Lo realizzò in quel
momento nella sua interezza; dirlo a Albus Severus in nessuna ipotesi
sarebbe
stato tra le sue priorità, ma Dionis aveva ragione, Lilian
avrebbe dovuto
essere avvertita, anche disobbedendo agli ordini di Harry Potter e del
Capitano
Gillespie.
Avrei
dovuto. È mia amica. Ci scriviamo. Le avevo
promesso di comportarmi in modo diverso, stavolta.
Uscirono dalla stanza e Lily
era
in corridoio; doveva aver finito di occuparsi dei pazienti, oppure era
uscita
proprio per prendere una boccata d’aria dai suoi doveri.
Oltre
i suoi doveri. È solo una studentessa…
Era appoggiata al muro, le
braccia conserte e i capelli tirati indietro in
un’acconciatura improvvisata
che prima non aveva; doveva averla approntata per evitare di tenere le
dita
perennemente impegnate a strattonare via le ciocche dal viso.
Vorrebbe
tagliarseli ma non trova mai il tempo… Quando
è nervosa ci passa le dita. Detesta farlo, le fa perdere la
piega. Le dà
fastidio avere i capelli in disordine.
Sapeva tanto di lei, ma quel
tanto era infinitesimale avendola davanti in carne ed ossa; era niente guardandola respirare, passarsi
la lingua tra le labbra e serrare le dita sulla stoffa del camice. Gli
piantò
di colpo gli occhi nei suoi e Sören sentì come se
tutta l’aria gli fosse stata
d’improvviso risucchiata fuori dai polmoni. Quello sguardo
chiaro esprimeva una
sola cosa … e non gli sarebbe piaciuto averci a che fare.
“Io e te dobbiamo
parlare.”
****
Milo si stava gustando un
frullato gelido al cioccolato osservando l’andirivieni di
maghi e streghe di
fronte al San Mungo. Aspettare stava quasi diventando divertente.
Nonostante gli inglesi si
fossero ormai arresi al fatto di cercare di confondersi con i loro
Babbani, era
inevitabile mancassero sempre in qualcosa. O un cappello invernale
quando
facevano cinquanta gradi all’ombra, oppure un costume da
bagno indossato con
disinvoltura. Si riconoscevano lontano un chilometro.
Ma la parte più
esilarante
erano i tentativi di passare la barriere del San Mungo: c’era
chi tentava di
rivolgere la parola a un qualsiasi manichino nel raggio di due strade,
convinto
di aver sbagliato edificio, chi invece perseverava gridando contro
quelli della
vetrina e infine c’era chi si guardava attorno sperduto e
chiedeva aiuto ai
passanti facendosi conseguentemente squadrare come un pazzo furioso.
Maghi
… avere la magia ti rende un po’ idiota.
Mordicchiò la
cannuccia con
voluttà, comodamente stravaccato su una poltroncina in
vimini del caffè
dirimpettaio al vecchio magazzino. Avrebbe potuto passare ore a godersi maghi dare testate
metaforiche contro la mancanza del
centro stesso della loro esistenza.
Sono
un po’ stronzo?
No, considerando che non era
una situazione grave; probabilmente sarebbe stata risolta nel giro di
una mezza
giornata, e l’unico fastidio percepito sarebbe stato dover
attendere che
qualcuno della manutenzione magica ci
capisse qualcosa. Il problema era che stavano cominciando ad assieparsi lungo la stradina e persino i
Babbani, solitamente ciechi come talpe, iniziavano a farsi delle
domande.
Certo,
vedere tutta questa gente vestita con colbacchi
e bikini dev’essere singolare, è ovvio che ti fai
delle domande.
Un
lavoraccio per … come si chiamano … quelli degli
Incantesimi di Memoria…
Tra la piccola folla
spuntò
poi un volto conosciuto, tale da fargli sentire il familiare brivido
del fuggiasco
lungo la schiena. La testa rossa che aveva individuato era stato uno degli agenti
inglesi presente al
palazzo di Von Hohenheim.
Auror?
Sì, Auror. Non ha l’uniforme e niente mantello,
ma è definitivamente uno di loro.
Riscuotendosi dai suoi
pensieri, si accorse che adesso i volti conosciuti erano due.
L’altro
apparteneva ad un moretto alto, vestito come se dovesse far sapere a
tutti che
era intriso di cultura dalla punta dei capelli tagliati
all’ultima moda a
quella delle scarpe sciupate ad arte – seriamente, detestava
i radical-chic.
Guarda
un po’ … Thomas Dursley, il cugino-non-cugino
del principino. Diavolo, hanno la stessa aria da poeta tisico e
tormentato,
dev’essere un marchio di famiglia…
La faccenda si stava facendo
interessante, così Milo inforcò gli occhiali da
sole, abbandonò la frescura del
caffè e si incamminò di buona lena verso il
grande magazzino.
Non ci volle che qualche
metro
per cspire che Dursley si stava dirigendo con decisione verso
l’auror fulvo. “Che
sta succedendo?” Gli si rivolse senza mezzi termini.
“Oh,
Tom.” Non sembrava
affatto contendo di vederlo. “Stiamo cercando di capirlo. La
manutenzione
magica è al lavoro, ma finché non
verrà riattivata la barriera non si può
entrare … Torna a casa, ti farò chiamare da
Albie, okay? C’è già troppa folla
…
vattene almeno tu.”
“No.” Il tono era petulante come quello di un
moccioso di cinque anni. “Aspetterò.”
“Merlino, senti
…” Si bloccò e
fece un grugnito esasperato. “Okay, fa’ come ti
pare, basta che non mi stai
trai piedi.” Concluse allontanandosi per andare a parlare con
un tizio
spelacchiato che teneva il proprio mantello goffamente occultato sotto
il
braccio.
Il cipiglio sprezzante di
Dursley si sgretolò nel momento stesso in cui il parente gli
diede le spalle;
lanciò infatti uno sguardo angosciato al fabbricato di
mattoni rovinati, quasi
sperasse di vedervi uscire la persona che evidentemente era venuto a
cercare.
Lo vide poi frugare nella tracolla e tirar fuori uno Specchio
Comunicante, ma quando
la chiamata non andò a buon fine si morse le labbra con
forza e mormorò
un’imprecazione a bassa voce.
Sören
mi ha detto qualcosa sul fatto che si impalma uno
dei cugini acquisiti. Mai prestato attenzione. Forse il fratello della
rossa? Sarà
mica il tipo che mi ha quasi fatto bruciare vivo? Occhi da Cerbiatto?
Lavora
qui? Sì, certo che lavora qui. È Albus Qualcosa
con la S Potter.
Milo così
pensando si nascose
con naturalezza dietro un folto gruppetto di giapponesi che
gesticolavano
attorno ad una cartina: a quanto pareva gli altarini sarebbero stati
presto
scoperti.
Tutte
le persone che non devono sapere del principino
sono nello stesso chilometro quadrato.
Divertente. Se
non fosse che è sfigato di suo, direi che qualcuno ha
orchestrato la
cosa…
Non c’era molto
che potesse
fare a quel punto ed essendosi già stufato di tutta
quell’agitazione maghesca,
diede le spalle al folto gruppetto pensando di fare un veloce giro in
zona
Soho.
Beh,
si anima di notte, ma non è che non possa trovare
qualcosa da fare mentre aspetto che il principino si sia tolto dai
casini.
Fu un attimo; voltandosi i
suoi occhi agganciarono una figura che stava discosta dagli altri, ma
di certo
magica visto che i suoi neuroni la riconobbero come tale. Non si
scordava mai
un viso, lui.
Oh
merda.
I suoi ricordi parlavano di
un
castello battuto dal vento e dalla salsedine, di un ghigno e del
terrore di
trovarsi con un personaggio simile nella stessa stanza.
Oh.
Merda.
Il mago dopo
un’occhiata al
San Mungo – e un sorriso
– venne
inglobato dalla folla accaldata ed estiva. Milo tentò
qualche passo nella sua
direzione, ma fu costretto a fermarsi dal suono violento di un clacson.
“Attento a dove
guardi
idiota!”
Fece un rapido passo indietro, ma quando alzò di nuovo lo
sguardo nel punto in
cui l’aveva visto, l’uomo che assomigliava
drammaticamente a Johannes era già
scomparso.
****
Note:
La canzone è questa,
che riutilizzerò anche (e soprattutto) nel prossimo
capitolo.
So che è un
capitolo più
piccolino rispetto al solito, ma voglio dividerlo in due parti visto
che la
scena secondo me si arresta meglio qui.
Nel prossimo capitolo:
chiarimenti e drama a manetta!
(*trollface*)
1. Mark’s:
l’abbreviazione con cui gli inglesi chiamano
Marks&Spencer, una catena di grandi magazzini famosa per la
merce di
livello medio-alto (e per i costi).
2. Russian
Caravan: miscela intensa di the indiani e cinesi. Il nome
è
un omaggio alle antiche vie carovaniere che giungevano dalla Cina fino
a Mosca.
Si beve di pomeriggio.
Per quanto riguarda la
suoneria di Ren, voglio ringraziare Zia
Cissa from NA, che con il suo suggerimento ha causato
un’ondata di
imbarazzo nel povero crucco e un’ondata di ilarità
nella sottoscritta. Questa
la canzone.
Ovviamente la suoneria inizia dalla prima strofa. Il testo gente, il testo.
|
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Capitolo 11 *** Capitolo X ***
Capitolo X
You
are the silence in between what I thought and what I said
I
never knew daylight could be so violent, a revelation in the light of
day
(No Light, No Light,
Florence & The
Machine)
Londra, San Mungo.
Lily avrebbe davvero voluto
sapere cosa dire.
Sarebbe stato bello, rifletté sentendo la presenza di
Sören dietro di lei,
avere ben chiaro in mente il discorso da fare all’altro,
senza che ci si
mettessero di mezzo i sentimenti, o più in generale, il
grumo di rabbia
incandescente che le scavava lo stomaco.
Dovevano parlare, questo era
incontrovertibilmente vero; Sören era lì e non solo
calcava i piedi su suolo
inglese, ma lo faceva in compagnia di metà della sua
famiglia.
E
io non ne sapevo niente. Niente!
Più James le
aveva spiegato,
più si era sentita presa in giro, tagliata fuori e trattata
come una ragazzina
traumatizzata.
Non
sono più quella ragazzina. Cosa pensavano facessi? Scappassi
in un altro Ministero?
Si diresse con decisione
dentro la stanza che le magi-infermiere del piano utilizzavano come
sala relax
e quando l’altro l’ebbe seguita si chiude la porta
alle spalle ed Evocò una
mezza dozzina di candele per illuminare l’ambiente. Mentre lo
faceva Sören si
limitò ad avvicinarsi al divanetto, rimanendovi
però accanto, in piedi e dritto
come se pensasse fosse irto di chiodi arrugginiti.
Lily accese
l’ultima candela e
poi alzò lo sguardo; erano cinque anni che non lo vedeva,
fatta eccezione per
qualche foto, e un’analisi era doverosa.
Era sempre magro e non aveva
guadagnato molti centimetri, ma aveva un’aria più
solida. La camicia
dell’uniforme gli si tendeva infatti sulle spalle
sottolineando i muscoli e non
gli stava abbondante come quella di durmstranghiana memoria. Sapeva che
era
Milo a tagliargli i capelli – Sören le aveva
confessato di sentirsi a disagio
quando qualcuno gli agitava la bacchetta attorno alla testa, pur che
fosse un
innocuo parrucchiere – e doveva ammettere che quel taglio gli
donava, anche se
tirato indietro dall’intramontabile balsamo per capelli
Purosangue.
È
diverso, sì.
L’espressione
d’altro canto … Si
stava Occludendo esattamente come faceva un tempo: per una che faceva
il suo
lavoro e aveva il suo potere era palese come osservare la pioggia
bagnare il
prato di casa.
Lily si sedette su una delle
poltroncine e rilasciò un sospiro.
Ci
sono momenti in cui vorrei essere un sasso. Sasso,
nessuna emozione. Dev’essere bello.
Avrebbe potuto toccarlo,
rifletté
vedendolo guardarla in aspettativa; avrebbe potuto toccarlo e sapere
tutto ciò
che le serviva, oltre le informazioni che le aveva fornito un
riluttante James.
Era come funzionava il suo
potere; le sarebbe bastato sfiorargli la punta delle dita per percepire
le
emozioni che si nascondevano oltre il muro di Occlumanzia che aveva
eretto.
Cinque
anni fa non ci riuscivo. Ora sì. Beh, almeno in
linea teorica.
La Guaritrice Patil aveva
premuto molto affinché non lasciasse ineducata quella parte
di sé. Le aveva
spiegato, una delle prima volte in cui ci aveva avuto a che fare in via
privata,
che ignorare il suo potere sarebbe stato come pretendere di andare a
piedi
quando si aveva un vero talento per stare in sella ad una scopa. Ci
erano
voluti però due mesi di lezione e di occhiate dense di
significato prima che si
piegasse a delle lezioni extra-curriculari che si tenevano ogni primo
giovedì
del mese a casa della donna – impegni di
quest’ultima permettendo.
Mi
ha insegnato a non avere più paura del mio potere.
Mica male.
C’erano comunque
delle cose
che poteva intuire anche senza usarlo, semplicemente avendo un buono
spirito di
osservazione. Sören si stava girando l’anello col
blasone della sua famiglia
tra le dita, ossessivamente. Nervoso.
Aspetta
che io chieda. Non pensa di avere il diritto di
iniziare la conversazione.
Decisamente
da lui.
“Dai,
siediti.” Gli ordinò e
l’altro fu veloce ad obbedire con un’espressione
quasi sollevata.
Ovvio.
Visto come è stato cresciuto e l’ambiente in cui
è inserito adesso si sente sempre più a suo agio
quando qualcuno gli dice
chiaramente che deve fare. O glielo ordina.
Si rifiutò di
sentirsi
dispiaciuta: non era quello il sentimento che doveva predominare.
“Ho parlato con
James.” Iniziò
in tono neutro. Gridare e richiedere generici perché non
sarebbe servito a
nulla. “Mi ha spiegato per sommi capi il motivo per cui ti
hanno chiamato qui.”
“Per lavoro.” Mormorò passando le dita
sul bracciolo del divanetto. “Sono qui
per una missione.”
Si stava palesemente costringendo a non guardarla negli occhi. Lily si
chiese perché,
poi decise che doveva essere disagio, o senso di colpa.
“Lily, io …” Si morse
l’angolo del labbro. “… io avrei voluto
dirtelo.”
“Però non l’hai fatto.”
“Mi è stato ordinato di non farlo.”
“E tu esegui sempre gli ordini.” Non era
un’accusa, se ne stupì lei stessa, ma
oltre la rabbia che provava sapeva
che era vero. Sören prima di essere una persona si sentiva un
soldato. Si era
sentito così ancor prima di diventarlo a tutti gli effetti
servendo il
Ministero Americano.
E
se ti senti prima un soldato, i rapporti che hai come
persona sono secondari.
“Quando non
è arrivata la tua
lettera mi sono preoccupata.” Ribatté e poteva ben
compiacersi del suo tono
distaccato: era esattamente quello che avrebbe dovuto usare. Allora
perché le
sembrava così inadeguato? Curioso. “Avevo capito
che eri in missione, e pensavo
che qualcosa ti avesse impedito di avvertirmi, ma non avrei mai
immaginato che
sarebbe stato essere qui.”
“Lily.”
Sören aveva un tono di
urgenza nella voce e quando lo guardò – le sue
mani erano molto più
interessanti, visto che le si era scheggiato lo smalto – vide
che stavolta la fissava
apertamente. “Non era mia intenzione mancare di risponderti.
C’è stato un
disguido con la posta, lo avrei fatto…”
“… non appena fossi tornato in America?”
Concluse per lui con asprezza. C’era
una piccola parte di sé che cercava di avvertirla del fatto
che Sören,
dopotutto, non aveva granché colpa in quella storia di
stupide macchinazioni.
Ha
solo obbedito agli ordini. Dovresti prendertela con
tuo padre e Nora, non con lui.
Era una parte piccola
però, e
debole. Tutto il resto invece premeva perché tirasse un
pugno a quello stupido,
sporco bugiardo.
Avevi
promesso. Avevi promesso che non mi avresti più nascosto
niente! Questo allora cos’è?
Sören
inspirò bruscamente e
l’espressione si ruppe in qualcosa che fece fare una capriola
al suo stomaco. Non guardarmi
così, dannazione! Non
guardarmi come se ti avessi appena preso a calci!
Chiunque pensasse che
Alberich
Von Hohenheim avesse cresciuto un’arma anodina probabilmente
non si era mai preso
la briga di spendere qualche attimo in compagnia della
‘suddetta’: l’emotività
di Sören era sviluppata come quella di chiunque altro ed anzi,
persino più
nuda.
Ed
io lo so.
“Lilian…”
Si era dimenticata
come il suo nomignolo suonasse nella bocca dell’altro.
Stranamente con esso
l’accento tornava in tutta la sua forza, facendolo suonare
molto più dolce che
nelle armoniche anglosassoni.
Le era sempre piaciuto come
pronunciava il suo nome.
Per
questo mi fa tanto incazzare che lo stia facendo
proprio adesso.
“Smettila di
ripetere il mio
nome!” Sbottò alzandosi in piedi. “Ero
preoccupata per te, lo capisci?” Certo
che lo capiva, ma non era quello il punto purtroppo. “Non ti
sei trovato un
lavoro tranquillo come smistare i Gufi, pensavo ti fosse successo
qualcosa, ero
pronta a chiamare Nora!” La stanza improvvisamente le
sembrò troppo piccola e
soffocante. Voleva davvero evitare una crisi isterica, ma ci si stava
avvicinando ad ampi balzi. “Invece eri qui, a Londra, a pochi
passi da me … a
lavorare gomito a gomito con mio fratello e miei amici!”
“Mi
dispiace.”
Pessima scelta di termini, pensò la parte razionale di
sé. L’altra trovò del
tutto appropriato tirare un calcio al basso tavolino trai divani che
sbatté
violentemente sull’angolo del divano su cui era seduto
l’altro. Sören si
irrigidì e le lanciò un’occhiata di
cauto allarme, ma non mosse un muscolo.
Oh,
sa benissimo che non costituisci il minimo pericolo
per lui. Lo sa perché ti conosce, no?
“Non azzardarti a
dirlo.”
Sussurrò sentendo che la palla bollente di rabbia le stava
risalendo fino in
gola. “Ti riesce troppo facile.”
Sören
aprì la bocca per dire
qualcosa, ma poi la richiuse. “Però è
la verità.” Mormorò dopo un attimo di
silenzio. “Non volevo farti preoccupare … o
arrabbiare. Non volevo…”
“Troppo tardi.” Le uscì dalla bocca
prima che potesse davvero vagliare se era
la cosa giusta da dire. Non lo era per niente
dall’espressione di dolore che
vide trapelare dai lineamenti dell’altro, come
un’onda in un mare liscio come
una tavola. “Come cavolo
pensavi
reagissi?” Aveva un gran mal di te sta: era tutto troppo. Avrebbe voluto tanto dar retta
alla parte di sé che le
diceva di andarsene, lasciare quella stanza, prendersi una vacanza, ma
l’aveva
fatto per anni e alla fine dei giochi non era servito a molto.
I
problemi rimangono ad aspettarti comunque.
“E mio padre!
Perché non mi ha
voluto dir niente?!”
La bocca di Sören si serrò appena in una smorfia.
Non aveva mai alzato la voce
una volta, né tentato frettolosamente di giustificarsi. Di
questo doveva
dargliene atto ed era proprio questo che rendeva più
difficile incanalare la
sua rabbia per farla diventare giusta.
“Pensava di fare
la cosa
giusta, credo…” Disse infine lisciando con le dita
il copri-divano a fiori
senza prestarvi davvero attenzione. “È tuo padre,
vuole solo proteggerti.”
“Non ho bisogno di essere protetta. Da chi, poi? Da te? Non
dire sciocchezze!”
Obbiettò sentendo la voce ammorbidirsi, che volesse o meno.
La rabbia non
smetteva ma la razionalità stava guadagnando punti.
È
così calmo. È sempre stato più
razionale e maturo di
te, no?
Sören la
guardò dritta negli
occhi e Lily dovette far appello a tutta la sua forza di
volontà per non essere
lei, stavolta, ad abbassare lo sguardo; si era dimenticata di come
l’altro
riuscisse a dare l’impressione di vederti davvero, e di non
limitarsi ad
un’occhiata di forma.
“Sono
felice.” Disse infine.
“Non della situazione. Di vedere te.”
Bingo.
E
adesso? Cosa rispondi?
Era felice di vederlo?
Naturalmente no. Ma erano le condizioni del cavolo in cui si erano
ritrovati, o
la faccenda in sé?
Condizioni.
Condizioni, mia cara. Condizioni.
“Ci saremo visti
prima o poi.”
Obbiettò debolmente. “Voglio
dire…”
“Sai che non è vero.” Replicò
con un’ombra di sorriso sulle labbra. “Un oceano
è la misura che ci siamo dati e che tuo padre ci ha concesso
per interagire.”
Touché Rossa. Come potevi pensare
di
essere l’unica ad aver dedotto la natura del vostro rapporto?
Lily sentì
l’improvviso,
violentissimo, impulso di eliminare la distanza fisica tra di loro e
prendergli
la mano. Era ancora infuriata a morte e aveva solo voglia di tornare a
casa e
infilarsi a letto… ma la persona che gli stava davanti era Ren.
E
vuoi toccarlo. Più di quanto vuoi tirargli un pugno,
in effetti.
Voleva sapere cosa
l’altro
provasse oltre i sorrisi educati e il nervosismo, realizzò,
voleva sapere se
toccandolo il grumo di sensazioni che le si aggrovigliava dentro
avrebbe avuto
finalmente un senso, perché a volte capire cosa pensavano
gli altri la aiutava a
capire sé stessa.
Perché
davvero, onestamente, non so che diavolo fare.
“Lily?”
L’altro la riscosse
dai pensieri in cui si era immersa senza rendersene conto. Avrebbe
dovuto
rispondere qualcosa?
“Credo…”
Inspirò. “Non so cosa
pensare. Del fatto che sei qui, intendo. È stato
così … inaspettato, che…” Le
parole le morirono sulle labbra e tacque.
Cavolo.
“Capisco.”
Era un’ombra di
delusione quella che gli aveva visto passare nello sguardo? Sembrava,
ma non
poteva averne la certezza – tra l’altro con tutta
quella penombra. Se solo
l’avesse toccato … perché i suoi poteri
funzionavano solo in quel modo? Era
maledettamente scomodo.
Non poteva far altro: si
avvicinò quindi al divano e Sören si
congelò di colpo. Era ovvio che non
sapesse che Snaso pescare vedendola venirgli vicino senza una parola e
per un
momento Lily pensò che avesse anche smesso di respirare.
Non era una situazione
normale, quella della loro ‘seconda’ amicizia
sviluppata su carta … era dunque
ovvio che le reazioni tra di loro fossero fuori scala, goffe, assurde.
Beh,
che hai intenzione di fare?
Non fece in tempo a trovare
una soluzione che la luce pensò di tornare in tutta la sua
gloria; esplose sia
dalle finestre, incantate in una perenne giornata assolata, sia dalle
lampade.
Urgh!
Sören
stesso emise un lamento,
schermandosi il viso con una mano. “È
tornata.” Disse poi, battendo le palpebre
come un gufo. Lei non si sentiva dissimile dato che vedeva danzare
lampi
dolorosi. “È tornata la magia.”
“Che
tempismo…” Replicò
facendo un passo indietro quando sentì un rumore concitato
di passi fuori dalla
porta. Prima che Sören potesse rispondere però,
James e gli altri entrarono.
“Ehi! Quelli della
manutenzione hanno fatto il miracolo!” Esclamò con
tono che grondava sollievo e
solida allegria. Lily, anche se non riusciva a vederlo con chiarezza
capì che
li stava squadrando. “Ma non vi siete coperti gli
occhi?”
“Se qualcuno ci
avesse
avvertito, magari.” Replicò stizzita.
“Tu che dici?”
“Noi scendiamo a
vedere se
l’uscita è di nuovo attiva.” Disse la
voce di Scorpius da qualche parte, paciere
come sempre. “Mini Potter è con i pazienti,
Piccola Potter. Vuoi che chiami
qualcuno?”
“La Guaritrice
Patil. Falla
venire qui … se non sta già salendo.”
Rispose pronta.
Sentì
Sören muoversi accanto a
lei. “Vado anche io.” Si risolse a dire, con un
tono che esprimeva una robusta
dose di sollievo.
Non
vede l’ora di andarsene di qui. Lo capisco. Se
potessi …
Sorrise appena quando
sentì suo
fratello avvicinarsi. “Tu resta qui e non andare in giro, che
rischi di
romperti il collo.” Le disse con il tipico tono da
capobranco, così ridicolo
eppure strambamente consolante. “Di che avete
parlato?” Soggiunse stirando le
ultime sillabe, mormorandole imbarazzato.
È
questo che volevi chiedermi da quando sei entrato,
eh? Ah, Jamie …
Leggere suo fratello era
come
leggere un libro per bambini, corredato di illustrazioni semplici e
intuitive.
Non
ci sono sorprese da lui. Mai. Che meraviglia.
“Mi ha detto
più o meno le
stesse cose che mi hai detto tu.” Replicò pacata,
perché fingere a volte era la
strategia migliore. “Dovevo parlargli, non credi?”
L’altro sbuffò. “Sì,
forse.” Concesse. “Scendiamo allora, e ti mandiamo
su la Guaritrice
Patil.” Riassunse dandole una pacca sulla spalla.
“Ci sentiamo dopo, okay?”
“Okay.”
Sören doveva essere da
qualche parte vicino alla porta, a giudicare dalle ombre sfuocate che i
suoi
poveri occhi stavano cercando di mettere a fuoco.
“Sören.” Lo chiamò e lo vide
fare un passo in avanti, come se fosse stato appena chiamato durante
un’adunata.
Era da lui. Così
tanto che dovette
intrappolare trai denti un sorriso. Non voleva sorridere. Non poteva. Non finché non
identificava
decentemente ciò che provava in merito alla sua presenza.
“Ne riparleremo.” Si
risolse a dire.
Parlare.
Non scrivere. È strano. Merlino, è strano.
“Sì.”
Fu la risposta netta,
senza esitazioni. Quella promessa sarebbe stata mantenuta, almeno da
parte
dell’altro.
Ora
devo solo capire cosa voglio fare io.
****
Al aveva un buon rapporto
con
la paura, la teneva in grandissima considerazione.
Era la paura che ti salvava
la
vita, e questa era una massima che gli era stata chiara sin da bambino;
mentre
i suoi cugini avevano passato l’infanzia a rischiare la pelle
in più
declinazioni lui si era sempre fatto una domanda di fronte a qualsiasi
esperienza foriera di guai.
Devo
aver paura?
Se la risposta era
affermativa, correre via o rifiutarsi di farsi trascinare dentro
l’esperienza
in questione era sempre stata la decisione più saggia. Si
era preso del fifone
da James, si era visto guardare con pena e compatimento da Dominique e
Freddy,
ma non gli era mai importato.
La
paura è una buona amica.
C’erano
però dei momenti in
cui la suddetta falliva nel suo compito di angelo custode; erano i
momenti che
Tom chiamava, con una buona dose di ragione, momenti-Potter.
Erano attimi di totale mancanza di lucidità in cui
faceva cose totalmente idiote come prendere la Bacchetta di Sambuco,
sfidare le
fiamme in un castello spaventoso o…
…
O dimenticarmi della botta che ho preso e sanguinare
in giro per il San Mungo.
Si era accorto del camice
sporco quando Achille, che aveva incrociato all’accettazione,
glielo aveva
indicato spaventato.
È
solo un taglietto! Dovevate vedere che mi succedeva
quando giocavo a Quidditch!
Aveva cercato di
spiegarglielo, ma la sua mancanza di convinzione aveva portato Sofia ad
andare
a chiamare nientemeno che Smethwyck.
Certo,
è vero che è il Guaritore Capo di Lesioni ed
è
anche il nostro supervisore, ma … proprio lui?
“Avevi intenzione
di svenire
come un povero idiota in mezzo alle corsie?!”
Sbottò l’uomo torreggiando sopra
di lui come un avvoltoio di fronte alla carcassa mentre se ne stava a
bocconi
su un lettino del Pronto Soccorso Magico. “Voi Potter pensate
di essere refrattari
alla caducità umana?”
“No
signore.” Mugugnò
lanciando un’occhiataccia ai colleghi, che osservavano la
lieta scena dal separé
mal chiuso: probabilmente il mago voleva usarlo come cattivo esempio.
“Mi scusi
signore.”
“E dove diavolo eri finito?! Avevamo bisogno del tuo aiuto a
spostare i
pazienti!”
“Stavo aiutando
mia sorella
nell’ala Thickley…” Soffocò
un lamento quando l’uomo gli passò la bacchetta
sul
taglio fresco. “… nessuno era salito a controllare
i loro pazienti, era rimasta
sola ed è una studentessa…”
“Tu sei un Guaritore di Lesioni, non una balia per gli
sciroccati!” Ringhiò il
mago. “La tua presenza era richiesta al mio fianco, non
altrove!”
Dissento. La mia famiglia verrà
sempre
prima di qualsiasi altra cosa.
Rilasciò un
minuscolo sospiro,
estraniandosi dai borbottii per fissare i pensieri su ciò
che era appena
accaduto: la magia era tornata al San Mungo e la maggior parte degli
incantesimi era stata di nuovo lanciata. Tutto sembrava esser tornato
alla
normalità.
Un
cavolo.
Il Sergente Flannery si era
svegliato e li aveva violentemente attaccati. Suo fratello James e la
sua
squadra erano venuti in loro soccorso ed erano sembrati davvero scossi
dall’intera
faccenda, ma scossi in maniera consapevole, quasi sapessero i motivi di
quel
gesto estremo. Sören, il cugino di Thomas,
l’ex-braccio destro di Von
Hohenheim, era lì e collaborava con gli l’ufficio
Auror.
E
nessuno ha pensato di avvertire me e Lily. O Tom.
Erano successe troppe cose,
e
si sentiva la testa scoppiare. Serrò gli occhi e poi li
riaprì sulla punta
della bacchetta di Smeth. Si immobilizzò sgranando gli occhi
e l’uomo lanciò
uno sbuffo scocciato.
“Potter, alzati. A
quanto pare
hai la testa sufficientemente dura per non doverti preoccupare di una
commozione cerebrale.” Quando lo vide saltar giù
dal lettino scosse la testa.
“Evita di sbatterla da qualche parte nei prossimi
giorni.”
“Significa che domani posso avere un giorno libero?”
“Assolutamente
no.”
Ecco, mi sembrava.
“Sissignore.”
Convenne
ubbidiente, sorridendo all’aria dispiaciuta dei due colleghi.
Li raggiunse e si
guardò attorno; James non era in vista e Lily era rimasta al
quarto piano.
A
quanto pare non ho altro da fare qui … Posso andare.
Chissà che ore sono.
Con orrore stimò
che il suo
orologio interno gli segnalava un clamoroso ritardo nella sua solita
tabella di
marcia.
Oggi
dovevo andare a prendere Tom da Rupert!
“Achille, che ore
sono?”
Chiese all’altro Tirocinante, quasi placcandolo.
“Dimmi che non è già sera!”
“Beh, dipende.” Replicò quello lanciando
un’occhiata al suo orologio da
taschino. “Sono le sei.”
Le
sei. Porca Morgana. Le sei!
“Devo
scappare!” Esclamò quasi
travolgendo la povera Sophia – un po’ era colpa
sua, doveva sempre stargli
tanto vicina quando parlavano?
Ignorò il
richiamo dei suoi
effetti personali al piano di sopra e vestito di uniforme e zoccoli si
diresse
verso l’uscita schivando pazienti, Guaritori, infermiere
sollecite e gente che
gli stava trai piedi.
Il
mio turno è finito un milione di ore fa, fatemi
tornare a casa! Da Tom!
Tom, di per sé,
non era una
persona apprensiva; detestava i cambiamenti di routine, da sempre, ma
se una
persona spariva dal suo radar erano più le volte in cui non
vi faceva caso che
quelle in cui mostrava qualche segno di interesse.
Non
con me.
Era inutile usare falsa
modestia; Tom aveva processato l’intera faccenda di cinque
anni prima
risolvendola in una costante preoccupazione per le persone che gli
erano care.
Aveva smesso di contare le volte in cui l’aveva trovato ad
aspettarlo vicino
all’ingresso dopo che Smeth l’aveva tenuto oltre
l’orario di lavoro con gli
occhi inquieti, come aveva fatto finta di non notare come diventasse di
pessimo
umore ogni qual volta qualcuno della sua cerchia di affetti elettissimi
si
rendeva irraggiungibile.
Credo
che papà abbia ripreso ad usare lo Specchio
Comunicante proprio per lui.
Abbrancò un
ragazzetto della
Manutenzione Magica, riconoscibile dall’uniforme color blu
scuro. “Ehi, la
barriera funziona?”
“Sì, ma
solo per uscire.”
Replicò quello con l’aria di averlo ripetuto un
centinaio di volte negli ultimi
minuti.
“Grazie!”
Esclamò
oltrepassandola e soffocando un’imprecazione quando la
sentì stringerglisi
addosso con più violenza del solito, quasi il muro non
avesse ancora ritrovato l’elasticità
della magia.
Ahi!
Uscì fuori
incespicando e
quasi centrando un bidone della spazzatura con la faccia.
Tutto
normale.
Si guardò attorno
e vide una
piccola folla attendere ordinatamente al lato opposto del muro.
Trotterellò via
prima che qualcuno, forse attirato dal suo camice, lo bloccasse con
domande o
richieste di spiegazioni. Ebbe un’esitazione solo quando vide
suo zio Ron
occhieggiare attorno a sé, in compagnia
dell’orribile e pelato Capitano dei Tiratori
Scelti.
È
qui per tutto il casino, di sicuro.
L’istinto del Clan
gli diceva
di avvicinarsi e mettersi a disposizione, ma un’altra parte
di sé, quella che
ormai veniva riconosciuta come Serpeverde, lo fece tirare dritto.
C’è
pur sempre James. È lui quello che fa l’auror, per
oggi ho fatto abbastanza il Potter-Weasley!
Svoltato il vicolo per
fortuna
vide esattamente quello che sperava di vedere; Tom, la metà
insopportabile e
indispensabile della sua vita, se ne stava appoggiato ad una
saracinesca di un
negozio a fissare l’entrata del San Mungo come se non
esistesse altro punto
focale al mondo.
Non
mi ha visto uscire? No, certo che no. C’è tutta
quella gente di mezzo.
Si ficcò le mani
in tasca e
attraversò la strada. Non appena entrò nella sua
visuale alzò la mano e mosse
le labbra in un ‘ehi’ che gli sembrava del tutto
sensato date le contingenze.
L’espressione di
Tom non mutò
di una virgola. Si limitò a staccarsi dalla saracinesca e
andargli incontro con
un unico, fluido movimento che terminò in un abbraccio che
lo strinse con una
forza capace di togliergli il respiro.
Ma
va benissimo. Davvero, davvero benissimo.
“Ciao anche a
te.” Mormorò
sentendo che gli ultimi scampoli di quell’orribile giornata
si dissipavano come
neve al sole. L’odore di cera per bacchette, legno e
deodorante babbano di Tom
era più reale di qualsiasi altra cosa al mondo e il cotone
sottile della sua
maglietta era più consolante di un letto morbido dopo una
giornata passata a
pelare radici nei laboratori. “Sto bene.” Gli
accarezzò la schiena sudata: a
giudicare dal fatto che l’altro solitamente non percepisse
gli sbalzi di
temperatura era chiaro fosse lì da un po’.
Da
un po’ troppo.
“Hai sentito quel
che è
successo, vero?” Continuò sentendolo respirargli
nei capelli e muovere le dita
lungo la garza imbevuta di pozione che Smeth gli aveva applicato dietro
la
testa. “È solo un graffio. Sono caduto ed ho
sbattuto la testa. Niente che non
mi sia già successo, no?”
Deve
aver sentito della magia. Avrà saputo del sergente
Flannery?
“Scusami se ti ho
fatto
aspettare.” Trovò che fosse il momento buono per
staccarsi dall’abbraccio per
guardarlo. Lo sguardo dell’altro era ancora privo di
espressione e le labbra erano
ancora serrate in una linea tesa come la corda di un pianoforte . Gli
passò quindi
le mani sulle guance e spianò gentilmente la ruga delle
sopracciglia. Tom
chiuse finalmente gli occhi e rilasciò un sospiro
intrecciando le dita alle sue
e stringendo con la presumibile intenzione di non lasciarle andare per
le
prossime ore.
“Torniamo a
casa.”
****
Scorpius sentiva
l’impellente
bisogno di farsi una doccia, cambiarsi d’abito e seppellire
il viso nella
morbida cascata di capelli castagna della sua fidanzata.
Non
necessariamente in quest’ordine.
Sfortunatamente il mondo
delle
intenzioni non era quello reale, così reclinò la
testa sul duro rivestimento
del corridoio e si sistemò sulla scomodissima poltroncina
della saletta
d’attesa dei pazienti del secondo piano, Malattie Magiche
Infettive.
Erano lì da
almeno … beh, da ore, e
i primi crampi della fame,
come della stanchezza si facevano sentire.
Lanciò
un’occhiata ai propri
compagni di ventura; Bobby scarabocchiava un disegno piuttosto
pregevole sul
proprio imprescindibile taccuino mentre James era seduto accanto a lui,
con la
spalla premuta contro la sua e addormentato come sempre gli succedeva
dopo un
grosso rush d’adrenalina. Era crollato dopo aver fissato per
venti minuti
filati la porta in cui era sparito il Sergente Flannery.
Sergente
… Andiamo, qualcuno esca da quella porta e ci
dica come sta il Sergente!
Si
leccò le labbra nervoso, lanciando
infine un’occhiata all’ultimo membro della loro
compagnia; Prince era seduto
nella poltrona più distante da loro e fissava il tappeto con
l’aria di qualcuno
che avrebbe trovato sollievo dall’esservi inghiottito in un
sol boccone.
Poveraccio.
La chiacchierata con la Piccola Potter non
dev’essere andata tanto bene.
Si sentiva un po’
in colpa
all’idea di non aver fatto nulla per impedire quella riunione
inaspettata; lui
e Rose avevano saputo prima di tutti – origliando, certo, ma
rimaneva il fatto
– ma avevano deciso di comune accordo di far orecchie da
mercante.
Avremo
dovuto dire qualcosa?
Non era il caso di piangere
sulla pozione versata, ormai. L’unica cosa che poteva fare
era cercare di tirar
su di morale il tedesco, approfittando del fatto che Potter gli stesse
sbavando
incosciente su una spalla. “Ehi.” Lo
apostrofò e l’altro si riscosse
bruscamente, quasi fosse stato colpito da uno schiaffo.
“Scusa, non volevo
spaventarti!”
“Non l’hai fatto.” Replicò con
una certa stizza. “Solo … ero perso nei miei
pensieri.”
“Già. Che giornata, eh?”
Sospirò contento del fatto che Bobby li stesse
beatamente ignorando; adorava la capacità
dell’altro di farsi i fatti propri.
È
una dote troppo spesso sottovalutata.
Prince si tolse
l’anello col
blasone che portava al dito e prese a giocherellarci.
“Sì.” Disse. “Spero che
il vostro sergente si rimetta.”
Scorpius non rispose; per quanto volesse credere alla forte tempra
irlandese aveva
gli occhi.
Sembrava
… sembrava avere la stessa cosa di quel tipo
americano.
No,
non sembrava. Ce
l’aveva. Si è comportato
nello
stesso modo. Aveva la stessa roba in faccia. Sparava
gli stessi incantesimi ed è stato difficile buttarlo
giù.
“Auror
Malfoy.” Lo richiamò:
stavolta era il suo turno di avere la testa per aria.
“C’è qualcosa che non
va?”
“Potresti
chiamarmi
semplicemente Scorpius, sai.” Replicò con un
sorriso disimpegnato. “E poi … sì,
c’è.” Lanciò
un’occhiata in direzione di Bobby che gliene
restituì una altrettanto
attenta. “Riguarda il Sergente, e credo debba saperlo anche
tu.”
“Ma
James…” Iniziò
quest’ultimo occhieggiando il suddetto esitante.
“Dovremo…”
“Non dovremo svegliarlo, no.” Replicò
tranquillo; conosceva la testa matta che
gli riposava comodamente addosso e sapeva che avrebbe complicato una
situazione
che in realtà era semplice.
Prince
è incaricato di indagare sulla morte
dell’americano. L’americano è morto
nello stesso modo in cui il sergente sta
male. Prince deve sapere.
Separare i sentimenti
personali dal loro lavoro era la prima cosa da fare se ogni sera si
voleva
tornare a casa interi, sia di corpo che di testa.
Speriamo
che un giorno anche Potty lo impari. Magari
velocemente. Magari con Prince.
Quando finì di
esporre le sue
idee al tedesco, quello aveva il cipiglio tipico di chi stava
riflettendo a
velocità della luce.
“Quindi qualsiasi
cosa avesse
Sam Howe adesso ce l’ha anche il Sergente
Flannery.” Riassunse.
“Non mi spingerei fino a questa conclusione … ma
è un’ipotesi, sì.”
Replicò per
non ammettere platealmente che una malattia sconosciuta aveva
attecchito su uno
della loro squadra. Non era carino.
È
spaventoso.
Prince annuì.
“Sì. E credo
anche un’altra cosa … l’assenza di magia
nel palazzo è collegata al fatto che
si è svegliato ed ha attaccato.”
“In che modo?” Bobby aveva definitivamente messo
via il suo taccuino. “Voglio
dire, cosa c’entra … Hanno detto che è
stato un malfunzionamento, no?”
“Così
dicono quando le cause
non sono spiegabili.” Sorrise l’altro con
l’aria di chi sapeva molto e non era
del tutto contento della cosa. Era per via di ciò che gli
era stato detto e
insegnato prima che diventasse uno dei buoni? Forse,
rifletté Scorpius.
“L’aura
magica del vostro
sergente era sballata, fuori scala. Non ho mai sentito nessuno emettere
tanta
magia.”
“Sentito?”
Lanciò un’occhiata verso la porta della sala
operatoria
in cui Seamus e il resto dei Guaritori del piano erano entrati
accompagnando il
mago esanime. “Tu riesci a sentire la magia?”
Prince si passò
una mano sul
braccio e Scorpius si accorse in quel momento che sotto la manica della
giacca
si delineava qualcosa di rigido, simile ad un bracciale ma
più ingombrante. “Ho
la possibilità di farlo.” Disse semplicemente e
dal tono non avrebbe aggiunto
altro. “Anche voi siete in grado di sentire quando un posto
è magico, no?”
“Sì,
beh … ma non una persona.”
Replicò Bobby sconcertato.
“Voglio dire, non c’è abbastanza magia
in una persona perchè… Non riesco a
credere che sia stato il Sergente a combinare questo casino!”
Prince scosse la testa:
c’era
qualcosa in lui, rifletté, che dava l’impressione
dicesse sempre e solo cose
sensate. Una serietà d’animo che non doveva certo
renderlo un tipo da portare
ad una festa, ma sicuramente a cui affidarsi in una situazione come
quella.
“C’era
comunque qualcosa che
non andava in lui.” Replicò. “E anche
Sam Howe … riusciva ad usare la magia
senza bacchetta con facilità,
non è
vero? Non è una tecnica che tutti possono
acquisire.”
“È vero.” Convenne suo malgrado
Scorpius. “Eravamo in quattro e non siamo
riusciti a schiantarlo. Credi sia la malattia?”
“Credo che questo
non sia un
semplice caso di magia oscura.”
“Allora
cosa credi?” Scorpius si irrigidì quando
si rese conto che
la voce proveniva dalla sua spalla.
E
la mia spalla non parla, di solito.
James aveva gli occhi aperti
e
stava fissando in direzione del tedesco con un’espressione
indecifrabile. “Cosa
credi?” Ripeté.
Questo ricambiò
l’occhiata per
una manciata di secondi, poi parlò. “Credo che se
la magia oscura è coinvolta,
è a livello molto più profondo di qualche
semplice incantesimo o pozione. La
resistenza dimostrata da Sam Howe e il sergente Flannery non era
naturale,
neppure per i canoni di un mago.”
James si stiracchiò, occhieggiando la porta e poi scuotendo
la testa. “Non
credi nient’altro?”
Non
sai nient’altro? Pensa che ci stia
nascondendo
qualcosa?
Il sottotesto dovette
intuirlo
anche Prince, perché aggrottò le sopracciglia.
“Non so altro.” Replicò pacato.
“Questa è un’indagine condivisa. Quello
che sapete voi, devo sapere io … ma è
anche vero il contrario.”
James non disse nulla,
limitandosi ad alzarsi e fare qualche passo distratto.
“Allora non ci resta che
aspettare il responso dei Guaritori, no?”
“Ehi!”
L’arrivo di Ron
Weasley fu
quasi un sollievo, e se a dirlo era lui, significava che era vero.
L’uomo andò
a stringere la mano di James e lanciò loro
un’occhiata complessiva. “Ragazzi,
ho saputo del casino. Siete stati grandiosi!”
Abbassò il tono di voce con un’aria
di complicità che a Scorpius
sembrava sempre un po’ inadeguata data la sua posizione, ma
che in effetti non
gli dispiaceva. “Non date retta a quell’idiota di
Smith … Di là ci sono i
Tiratori ad indagare sulla faccenda e quando verrà a farvi
storie sulla vostra
presenza e sul fatto che non dovevate intervenire voi, in quanto Auror
e blablaba…”
“L’hai seminato, eh zio? Grande!”
Ghignò James dandogli una pacca sulla spalla
e a volte Scorpius si fermava oziosamente a pensare come i difetti
peggiori del
suo migliore amico fossero l’esatta fotocopia di quelli del
suo futuro suocero.
Sono
un tipo ben strano.
Il sergente Weasley
lanciò poi
un’occhiata in direzione di Prince. “Oh, sei ancora
qui?” Chiese perplesso e, non
poi molto velatamente, infastidito. “Sai che hanno
ripristinato l’uscita?
Dovresti andare, visto che…”
“Già, a proposito di questo.” Si
intromise James a disagio. “Lils e Albie ci
hanno beccati.”
“Cosa?”
James deglutì a disagio, ma poi prese il coraggio a quattro
mani e spiegò. Alla
fine dell’intero racconto le orecchie dell’uomo
erano rosse.
Se
do retta alle orecchie della mia fidanzata, quando
un Weasley le ha così, non
è un buon segno.
“Non avrebbero
dovuto
saperlo.” Borbottò lanciando un’occhiata
astiosa in direzione di Prince. “Che
diavolo ti è saltato in mente di andare al quarto
piano?”
L’espressione di
questo si fece
sorpresa per poi trasformarsi in una di rabbia. “Avrei dovuto
lasciarli in
balia del sergente Flannery? Il motivo per cui ho preso il distintivo
è
proteggere la popolazione magica…”
“Americana.”
Lo fermò. “Non britannica! Avevi degli ordini! Con
il
casino che hai appena combinato dovremo rispedirti da dove sei
venuto!” Il che
era assurdo, come era assurdo sottolineare ordini e doveri quando era
chiaro
che nessuno avrebbe mai pensato a roba del genere in una situazione
come
quella. “Hai già fatto abbastanza, vedi di levarti
dai piedi!”
Salazar,
a volte capisco perché mio padre ha sempre
trovato gli Weasley degli idioti.
Un
po’, quando si scaldano, lo sono.
Prince serrò le
mani in un
pugno e Scorpius capì che stava per crollare, per sbottare e
mandare al diavolo
la compostezza che si era imposto da quando doveva aver messo piede in
Gran
Bretagna. Fortunatamente – allora c’era
qualcuno
lassù – la porta della sala operatoria si
aprì e lasciò uscire il Guaritore
Finnigan.
“Sam!”
Esclamò il sergente
Weasley, l’attenzione improvvisamente calamitata altrove.
“Come sta Liam?”
Scorpius vide con la coda
dell’occhio il tedesco andarsene senza una parola, e
francamente non lo
biasimò.
Credo
abbia preso abbastanza mota per oggi.
Milo vide uscire
Sören
dall’ospedale come una specie di uragano. Quasi gli
sbatté contro dato che
stava tentando di entrare proprio per cercarlo.
“Ehi,
principino!” Lo stoppò
piazzandogli una mano sul petto per arrestare la sua corsa.
Sören per tutta
risposta afferrò la fondina tra le dita e la
slacciò con un movimento allenato.
I suoi sensi da Magonò cominciarono a strillare come
ossessi.
Pericolo!
Mago incazzato a ore dodici!
“Ehi!”
Lo richiamò deglutendo
nervosamente e astenendosi da fare movimenti bruschi; con Prince si
doveva
usare l’accortezza dei domatori di leoni. “Ehi,
sono io, piantala di fare il
soldato pazzo.”
L’altro batté le palpebre e finalmente lo
riconobbe. “Milo?” Ebbe il buongusto
di sembrare imbarazzato mentre abbandonava le mani lungo i fianchi.
“Non
pensavo fossi ancora qui.”
“Avevo degli affari in zona.” Mentì con
disinvoltura. “Allora, com’è
andata?”
Gli lanciò
un’occhiata
totalmente incolore. Brutto, brutto segno. “Forse mi
rimanderanno indietro
perché ho fatto esattamente l’opposto di quel che
dovevo fare.”
“Cioè?”
“Salvare la vita a
qualcuno.”
“Scherzi?”
Sören chiuse gli occhi ed era il suo modo per recuperare la
calma. Non sembrava
averne addosso neppure un’oncia. “Ho visto Albus
Severus e … Lily.” E
quest’ultimo nome, aveva tutta un’altra intonazione.
“E ti rimanderanno
indietro
per questo?”
“Non lo
so.” Scosse la testa.
“Credo di no. Forse.”
Ah,
beh.
Milo era un tipo dalle gioie
semplici e dalle soluzione altrettanto terra terra.
“Birra?” Propose.
“No.” Fu
l’immediata risposta.
“Voglio qualcosa di più forte.”
Non c’era molto da obbiettare.
****
Inghilterra,
Somerset.
Casa
di Scott Ross.
Non le aveva neanche
sfiorato
la mente l’idea di tornare a casa, quella sera.
Lily sapeva che a casa avrebbe trovato suo padre e una litigata sicura.
Suo
padre che le aveva nascosto volontariamente la presenza di
Sören in
Inghilterra. Suo padre che continuava a considerarla una bambina
incapace di
affrontare le difficoltà. Suo padre che decideva per lei.
Dannato
manipolatore!
Aveva voglia di prendere a
calci qualcosa, ma non sarebbe servito a molto, se non a rovinarle il
nuovo
paio di tacchi che indossava. Così, dopo una
Materializzazione fatta talmente
male che dovette reprimere un conato di vomito, aprì gli
occhi sul cottage di
Scott, osservando con una certa dose di sollievo il giardino ben ordinato e le siepi curate.
Quiete.
Quiete, ho bisogno di quiete. Devo pensare.
Doveva pensare e casa del
suo
ragazzo era il posto perfetto, immersa in un meraviglioso e ordinato
nulla.
Prese la chiave da sotto lo zerbino e fece scattare la serratura con un
movimento ormai allenato.
Mi
verso un bicchiere di vino, mi metto in salotto,
metto uno dei suoi cd e spengo il cervello.
Quando
lo riaccenderò si spera funzioni a dovere.
“Lily!”
La voce di Scott la sorprese come un fulmine a ciel sereno, il che era
stupido
visto che quella era casa sua. “Oh, ehi.” Sorrise
debolmente alla figura in
corridoio, in tuta e capelli arruffati. “Ciao
ragazzone.”
Ah,
giusto. È il suo giorno libero, che idiota. Me ne
ero completamente dimenticata.
Le si avvicinò
con espressione
preoccupata. “Come stai? Ho saputo del casino al San
Mungo.” Le passò una mano
calda sulla guancia. “Stavo pensando di venire a prenderti,
ma poi ho chiamato
in ospedale e mi han detto che eri già uscita. Pensavo
tornassi a casa dei …”
“No.” Lo
bloccò. “Ti dà
fastidio sia qui?”
“Scherzi? Certo
che no!”
“Ah…” Premette le dita sulla mano
dell’altro. Era tiepida, forte e presente.
Scott era lì e in quel momento incarnava quanto di
più reale e normale ci fosse
sul pianeta terra. Gliene era così grata che faceva quasi
male. “Sto bene. È
stato piuttosto strano e spaventoso, ma sto bene.”
Scott non era un Legimante,
ma
neppure uno stupido. Aggrottò le sopracciglia.
“Sicura?”
No,
per un cavolo.
Lo afferrò per la
maglietta e
gli fece cenno di tirarsi giù. Baciarlo fu come trovarsi
sulla terra ferma dopo
un mese di naufragio. Si aggrappò a quel bacio e,
esattamente come un naufrago,
l’avrebbe tirato giù disperata se
l’altro non fosse stato la roccia che era.
“Ehi,
ehi… piccola.” Si staccò
con il fiato corto, guardandola con l’aria di chi aveva
apprezzato ma non fosse
certo dovesse farlo. “Ma che è successo?
È per il buio?”
Scott sapeva molto, ma non
sapeva tutto.
Non
sa di Sören. Non gliel’ho mai detto. Non avrei mai
voluto dirglielo, ma… Morgana, devo parlarne con qualcuno. E
non con la mia
famiglia. Decisamente non con la mia famiglia.
“No,
cioè … forse sì, ma non
solo.” Sospirò, desiderando sparire tra le braccia
dell’altro. Era piuttosto
consolante come prospettiva. “Senti, hai del vino in
casa?”
“È rimasto quello che hai portato tu, sai che sono
più un tipo da birra. Ti
prendo un bicchiere?”
Scott, con la sua lager, le partite di rugby e il suo
solido lavoro da archivista: represse l’impulso di
coinvolgerlo in un altro
bacio e schiacciarlo sulla prima superficie orizzontale disponibile. Il
sesso
era una buona risposta, ma non in quel momento.
“Solo se ne prendi
un altro
per te.” Suonava male tracannare alcolici in solitudine dopo
una giornata come
quella.
Puzza
di crisi. Troppo.
“Okay.”
Le lanciò un’occhiata,
ma poi dovette decidere di darle spazio e tempo. “Torno
subito.”
Lily andò in
salotto e lasciò
che il grosso divano comodo la inglobasse a sé senza darle
la minima
possibilità di alzarsi; non che ne avesse voglia. Chiuse gli
occhi e ascoltò
Scott muoversi in cucina e aprire e chiudere ante alla ricerca di vino
e
bicchieri.
Come
diavolo affronto questa faccenda? Anche volendola
fare facile … Sören è qui e devo
decidere cosa fare. Non posso far finta che
non ci sia. Beh, una cosa è sicura. Devo far fuori
papà.
Che
razza di casino…
Sentì i passi di
Scott
avvicinarsi e il suo peso scivolare accanto a lei. Quando
aprì gli occhi
accettò grata il bicchiere di vino.
“Allora…” Esordì il ragazzo,
con quel mite
sguardo intelligente che le aveva fatto capire che poteva essere altro,
oltre a
qualche settimana di divertimento tra le lenzuola.
“Cos’è successo?”
“Un
disastro.” Era un buon
modo per tirare le somme, ma non abbastanza dall’espressione
perplessa
dell’altro. “È una storia che inizia da
lontano…”
Scott sospirò paziente. “Lils, parlamene e basta,
okay?”
Okay.
****
Londra,
Mayfair.
Casa Weasley – Granger.
Rose sapeva che le uniche
persone a poter bussare alla porta della sua camera, che si trovava al
quarto
piano di un grazioso palazzo bianco e rosso a Mayfair, erano maghi.
Probabilmente
maghi dai capelli biondi, la parlantina facile e con generazioni alle
spalle.
Lasciò quindi il
libro che
stava leggendo e gli appunti che stava compilando e andò a
tirar su il vetro,
trovando esattamente ciò che si aspettava: Scorpius
galleggiante nel vuoto
grazie alla fedele scopa da corsa, con i capelli scompigliati dal vento
estivo
e gli occhi brillanti alla luce dei lampioni.
“Ciao
fiorellino!” Sorrise
abbozzando un saluto militare che aveva cominciato ad usare con urbi et orbi dopo averlo visto in un
film di guerra, di quelli che piacevano ad Hugo. “Fai entrare
il tuo promesso
sposo?”
“Sto
studiando.” Replicò
incrociando le braccia al petto. “Ti avevo detto che stasera
dovevo studiare.”
“L’avevo dedotto dall’uso degli occhiali
da vista.” Si sporse per spingerglieli
delicatamente sul naso. “Però ho davvero bisogno
di farti perdere un po’ di
tempo.”
Rose notò in quel
momento
l’espressione dietro il sempiterno sorriso
dell’altro. Notò e registrò e non le
restò altro che scostarsi e fargli spazio.
Scorpius appoggiò
la scopa
vicino alla finestra, pronta all’uso nel caso qualcuno li
avesse sorpresi e si
buttò sul letto con un gemito di soddisfazione.
“Giornataccia? Ho
saputo del
black-out al San Mungo…”
“C’è qualcuno che non
lo sa?” Mugugnò
passandosi le dita trai capelli. “Cos’è,
hanno fatto un’edizione speciale del
Profeta?”
“Già.”
La indicò sulla
scrivania con un cenno del mento. “Piuttosto … Voi
come ci siete finiti in
mezzo?”
“Un caso e un
pizzico di sfiga
Potter. Metti tre persone con quel cognome nello stesso posto e come
minimo ci
scappa un’esplosione.” Ghignò ad occhi
chiusi, ma senza reale divertimento. “La
situazione è un pochino più seria di un
malfunzionamento però.”
“È il genere di notizia che non dovrebbe uscire
dall’ufficio Auror?” Chiese per
sicurezza, sedendoglisi accanto e tirandosi le gambe al petto.
“Decisamente, ma
tu non hai
quella roba del segreto professionale?”
“Non sono ancora
un
MagiAvvocato, Malfoy. E comunque non c’entra
niente.” Sospirò divertita
osservando come le dita magre dell’altro risalissero lungo la
china della sua
caviglia nuda, sfiorandola appena in una carezza. “Dai,
cosa?”
“Il sergente
Flannery.”
Inspirò. “È malato … e
nessuno riesce a capire cos’abbia, ma qualsiasi cosa sia
l’ha presa dal tizio morto del caso che stiamo
seguendo.”
Rose sentì come se le avessero appena tirato uno schiaffo.
La sensazione era
quella, ma mantenere la calma era doveroso. “Vuol dire che
è qualcosa di
infettivo?”
“Non si sa
… a Malattie
Infettive non ci hanno ancora
capito
niente. È in stasi magica, sai, quando ti mettono a nanna
per sicurezza. Per
ora la sue condizioni sono stabili, ma non si sveglia.”
Scorpius non riapriva
gli occhi e adesso Rose sapeva il perché. “Ci
hanno controllato, ovviamente,
tutta la squadra. Sembra che siamo apposto.”
“Sembra?”
“Lo
siamo.” Aprì gli occhi e
si tirò su per portare il viso all’altezza del
suo. “È solo che … abbiamo
bisogno di risposte. E non sarà facile averle.”
Rose aveva bene in mente cosa dire e cosa no. Certo, a volte era
difficile
reprimere l’impulso di preoccuparsi mostruosamente, ma la
palestra fatta con
suo padre aiutava molto.
Tutti
auror in famiglia. Che fortuna.
“Sono sicura che
ci
riuscirete.” Tentò il suo sorriso migliore.
“E sono sicura che il Sergente
Flannery si rimetterà.”
Scorpius la fissò
indecifrabile, poi le baciò il naso, appoggiando la fronte
contro la sua. “I
fratellini Potter ora sanno tutti della presenza di Prince.”
Mormorò
dolcemente.
“Cosa?”
“Te
l’avevo detto che era
stata una giornataccia.”
“Una giornata di merda.”
“Rosellina, che scurrilità!”
Scoppiò a ridere e poi scosse la testa,
trasformando l’allegria in un sorriso mesto, più
reale di tutto il resto. “Sì,
penso anch’io che ce la caveremo … ma
sarà una partita dura.”
Rose guardò fuori
dalla
finestra, fuori dalla strada, i lampioni disegnare forme intricate sui
palazzi
di fronte. Londra era avvolta in una calda serata estiva, di quelle che
ti
facevano pensare che niente di terribile potesse accadere al mondo.
Col
cavolo.
“Stasera dormi
qui.” Proclamò brutalmente,
tirando fuori dall’armadio il cambio e gli effetti personali
da bagno dell’altro,
stipati al sicuro dagli occhi genitoriali. “Dì al
Manor di non aspettarti.”
Scorpius sorrise, schiacciandosi il cuscino dietro la nuca.
“Già fatto.”
Sospirò beato. “Me lo merito, no, il riposo del
guerriero?”
****
Diagon
Alley. Casa di Al Potter e Tom Dursley.
Dopocena.
Albus si lasciò
scivolare nel
tepore dell’acqua, stando ben attento a non bagnare la nuca.
Era una vera seccatura essersi ferito proprio lì e
l’unica nota positiva era
poter usare la vasca senza sentir Tom lamentarsi per lo spreco
d’acqua.
Sì,
perché trai suoi molti lati
positivi c’è il fatto
sia un totale spilorcio.
Lui dice che è per via delle riserve idriche limitate che
esistono al mondo, ma
… Maddai. Come se gliene fregasse qualcosa.
Quella
giornata orribile era
finita e non vedeva l’ora di scivolare sotto le coperte e
svenire,
letteralmente. Tom non sembrava del suo stesso avviso però,
a giudicare da come
non riusciva a fermarsi un attimo, al di là della porta; lo
sentiva muoversi
per la stanza, mettere a posto oggetti e cambiare ogni tanto musica
dall’impianto stereo.
“Tom?”
Lo chiamò con un
sospiro, rinunciando alla quiete meravigliosa che si meritava.
“Vieni qui.”
L’altro aprì la porta, aggrottando le sopracciglia
alla quantità smodata di
vapore che lo investì. “È una
sauna.” Rintuzzò infastidito. “Era
necessario?
Fuori fa caldo.”
“Siamo in Inghilterra, non fa mai
caldo e se vuoi rilassarti il bagno non te lo fai certo
freddo.” Replicò. “Mi
fai compagnia?”
Gli venne restituita
un’occhiata infastidita quanto quella di un gatto a cui si
prospettava una
lavata fuori programma. “No.”
“Ah, già, con quelle gambe da fenicottero non ci
entri…”
“Ci entro.” Sottolineò fissandolo con
astio e dunque nascondendo mortale
imbarazzo. “Sei tu che l’hai voluta prendere
piccola perché avevi paura di
affogarci, mingherlino come sei.”
“Io?” Scosse la
testa. “Parla quello
che ha carenze vitaminiche!”
Si fissarono imbronciati prima che l’altro rilasciasse un
lungo e – nei suoi
piani – magnanimo sospiro, finendo poi per sedersi
sull’angolo dell’oggetto
della contesa. “La testa?” Gli sfiorò la
fronte con le dita fredde e quindi
estremamente piacevoli visto che se la sentiva scottare.
“Meglio.”
Mentì perché non
smetteva di pulsare e la sola idea di dover mettere assieme una pozione
per
alleviare il fastidio gli sembrava un’impresa impossibile.
Sonno.
Sonno ristoratore.
“Sei un pessimo
bugiardo.”
Al sorrise, abbandonandosi
alle
inaspettate carezze. “Mh, forse … Cosa stai
ascoltando?” Voleva parlare di
nulla, di sciocchezze, perché la normalità era
una cosa ampiamente
sottovalutata da chi non viveva con un eterna spada di Damocle che
portava il
suo cognome sulla testa.
E
ogni tanto la spada cade. Tipo oggi.
Non gli aveva raccontato con
dovizia di particolari quanto accaduto al San Mungo; Tom aveva
già carpito
molto solo ascoltando le persone fuori e per parte sua non aveva
trovato
sensato raccontargli del tentato omicidio ad opera del Sergente
Flannery. Si
era limitato a dirgli che era diventato un po’ aggressivo
quando lui e Lily
avevano tentato di riportarlo al suo piano.
“Smashing
Pumpkins.” Gli rispose intanto.
“Perché tutti i gruppi che ascolti contengono nel
loro nome parole come
distruzione, suicidio, morte e disperazione?”
“Pensavo
apprezzassi il mio
umorismo nero.” Ghignò l’altro.
“Questa canzone per esempio si chiama il mio
amore è inverno.”
“Bello. Pieno di speranza.” Lo prese in giro
baciandogli la punta delle dita e
facendone scivolare una tra le labbra, mordendone piano il
polpastrello. Era
divertente vedere come ogni volta Tom gli scoccasse uno sguardo che
prevedeva
inevitabilmente delle lenzuola, un letto e il non rispondere a Specchi
Comunicanti,
Gufi o telefono per molto tempo.
Suonerà
da centenario … ma Salazar, è bello essere
giovani. E fare sesso.
…
quest’ultima parte suona da Lily in realtà.
“Pensavo stessi
male…” Deglutì
l’altro cercando di mantenere un tono discorsivo.
“O stai cercando di punirmi
per qualcosa?” Soggiunse aggrottando le sopracciglia.
“Nessuna delle
due.” Gli
sorrise affettuosamente, perché non riusciva a togliersi la
sensazione che
l’altro stesse rimuginando troppo e non volesse darlo a
vedere, soprattutto a
lui. “Sai, a proposito l’arrivo di
Prince…”
Tom ritirò subito la mano, mettendola a riposare in grembo,
al sicuro. Aveva
scommesso giusto, quindi.
“Te l’ho
detto prima …” O
meglio, aveva borbottato qualcosa prima di infilarsi in cucina a dar la
cena a
Zorba. “Sono sorpreso che Harry abbia acconsentito, ma
il fatto che sia
qui non cambia niente per me.”
“È tuo cugino.” Osservò
tirandosi su e prendendo la bacchetta per riscaldare
l’acqua dato che stava diventando fredda.
“È parte…”
“Non è parte della mia famiglia.”
Concluse per lui, raddrizzando la schiena e
serrando la mascella, in una posa di chiusura così evidente
che non sarebbe
neppure servito chiedersi se l’avesse presa male.
“Voi siete la mia famiglia.”
Albus sentì un groppo alla gola, come sempre gli capitava
quando Tom se ne
usciva con frasi che nessuno oltre la sua cerchia familiare pensava
potesse
pronunciare di sua sponte.
Appunto.
La riprova più evidente che ci considera le
sue persone è dirlo senza tentennamenti.
Certo,
ci ha messo un po’, però meglio tardi che mai.
“Lo so.”
Gli prese la mano,
che teneva serrata sull’altra e vi intrecciò un
po’ forzosamente le dita. Non
la tirò via. “Volevo solo essere sicuro di cosa
pensassi di tutta la faccenda.”
“Mi è indifferente.” Replicò
scuotendo la testa. “È vero, Sören Prince
condivide parte del mio corredo genetico…”
“Eh?”
“Sangue,
Al.” Sospirò alzando
gli occhi al cielo mentre sulla faccia gli si formava chiaramente la
frase All’ignoranza dei Maghi non c’è mai fine
“… Ha parte del mio sangue esattamente come
Von Hohenheim. In che modo può essere considerata una cosa
positiva?”
“Penso sia un po’ diverso.”
Osservò suo malgrado: Prince non gli piaceva
tutt’ora, ma non poteva dimenticare come fosse passato dal
minare la sicurezza
della società magica a diventarne parte integrante. Lily
perlomeno era disposta
a spiegare a chiunque le desse udienza per più di cinque
minuti cosa e quanto avesse fatto
per cambiare.
La
madrina della cause perse …
“Non avresti
voglia di
rivederlo?” E forse lo era un po’ anche lui,
madrina. Le poche manciate di
minuti che aveva passato in compagnia di Prince gli avevano lasciato
uno
spiacevole senso di colpa addosso.
Si
è comportato … bene. A dirla tutta, ci ha salvato
la
pelle. Non è facile avercela con qualcuno che fa
l’eroe della situazione. Non nella
mia famiglia, almeno.
“Credo che Harry
non sarebbe
d’accordo.”
“E da quando dai retta a papà?”
Tom fece una smorfia,
accettando il punto e passandogli l’accappatoio quando glielo
indicò con un
cenno. “Non trovo l’utilità di un nostro
incontro.”
“Non è questione di utilità.”
Uscì dalla vasca e si frizionò oculatamente la
testa. Stupida ferita. “Ma è … come hai
detto tu, parte del tuo sangue. Credo
che al posto tuo cercherei di conoscerlo per il mago che è
adesso.”
“Mi sembra di sentir Lily…”
Quello era un colpo basso e Al non
si
premurò dunque di dargli risposta, infilando la porta di
camera per evitare di
tirargli in testa una scarpa o la schiuma da barba. Tom fu lesto a
seguirlo e
lo afferrò per la cinta dell’accappatoio.
“Al.”
“Sei uno stronzo.”
“Non è una novità.”
Sospirò. “È che…”
Eccola, stava per arrivare la confessione
e dunque l’aspettò in religioso silenzio, ma
comunque a braccia incrociate e
cipiglio giudicante.
“Le uniche persone
di cui mi
importi al mondo siete voi.” Disse con una tale
serietà che sembrava gli stesse
annunciando la partecipazione al funerale di un congiunto stretto.
“Con voi so
come comportarmi, so cosa aspettarmi. Non con Prince.”
“Forse è questo il punto focale dei rapporti
interpersonali?” Lo prese blandamente
in giro. “Per costruirne di nuovi bisogna lavorarci sopra? Sforzarsi?”
Si rese conto che voleva
davvero che Tom cercasse un contatto con Prince: non tanto per
quest’ultimo,
quanto per lui. Sin da quando aveva memoria aveva sempre disperatamente
cercato
risposte sulle sue origini, sulla sua famiglia e sul suo passato.
Prince forse
non era un modello di virtù, e Merlino solo sapeva come
volesse tenerlo il più
lontano possibile da sua sorella …
Però
è l’unico parente di Tom. Nel senso, ancora in
vita e presentabile. E che non cerchi di ucciderlo.
Forse era per via della sua
famiglia enorme, ingombrante, ma calda e sempre presente che voleva che
Tom non
abbandonasse quella flebile traccia della sua.
Nel frattempo il centro dei
suoi pensieri lo stava fissando senza una parola e Al si chiese se non
fossero
arrivati ad un punto della loro relazione in cui l’altro
riusciva a leggergli i
pensieri solo fissando la forma della sua testa.
Sperava di no.
“Beh?”
Chiese con un mezzo
sorriso. “Uno zellino per i tuoi pensieri.”
Tom sorrise appena.
“Non è che
vuoi liberarti di me e mandarmi in America con Prince?”
Ha
indovinato almeno
i soggetti. Inquietante.
Ridacchiò,
allacciandogli le
braccia alla vita magra e baciandogli il petto. Era imbarazzante, ma
era lì che
arrivava e sarebbe sempre arrivato. “Se bastasse
così poco…”
“Al.”
“Se bastasse così poco ti prenderei a calci nel
sedere.” Terminò tirandolo giù
per schioccargli un bacio a labbra chiuse. Stava cominciando a non aver
la
forza neanche per tenere gli occhi aperti, figuriamoci per qualcosa di
più
complesso di un’effusione da terza elementare.
“Prometti che ci penserai?”
“Ci
penserò.” Acconsentì con
un sospiro. “Ora vattene a letto. Devo studiare e tu devi
riposare.”
“Con questa
priorità, eh?”
“Esattamente.”
Albus non si
sentì
particolarmente disposto a disquisire dato che si sentiva
più o meno vitale
come uno straccio usato. Gettò l’accappatoio alle
sue spalle – sentì il
conseguente lamento indignato di Tom e ghignò
– e strisciò sotto le coperte. L’ultima
cosa che vide fu l’altro accomodarsi
alla scrivania e infilarsi le cuffie per poi prendere uno dei mostruosi
tomi
che gli prestava Stevens e cominciare a sfogliarlo.
Sorrise e si
addormentò.
Credete
a me. Quando si è Potter si apprezza la
normalità più di ogni altra cosa.
There
is love enough for the both of us
There is more than prayers made to be with you
****
Diagon
Alley, Il Paiolo Magico.
Notte.
“Lo sai?
È seccante.”
“Cosa?”
Milo si buttò sul letto senza neanche preoccuparsi di
togliersi le scarpe.
Aveva il corpo zuppo d’alcool e l’ultima cosa che
gli interessava era togliersi
i vestiti.
Tanto,
non che servirebbe a molto vista la compagnia.
“È
seccante…” Si frugò nelle
tasche finché non trovò il pacchetto di
sigarette. “… che tu abbia bevuto quasi
il doppio di me e sia ancora sobrio!”
“Infatti non lo sono.”
“Mi prendi per il culo!” Sbuffò
osservando la figura scura del mago sedersi sul
davanzale della finestra; forse aveva ragione. Da sobrio non si sarebbe
seduto
in modo così rilassato. “Se cadi di sotto giuro
che mi piscio addosso dalle
risate.”
“Soprattutto la parte sul fartela sotto, suppongo.”
Sì, doveva essere sbronzo a
giudicare dal redivivo umorismo nero che gli dipingeva i lineamenti.
Prince aveva letteralmente
svuotato il portafogli quella sera, non aprendo bocca per protestare
neppure
quando l’aveva trascinato in un posto che vantava una fauna
piuttosto querula
di drag-queen. Si era limitato a tracannare bicchieri su bicchieri e
non aveva
smesso finché non era stato proprio lui – di tutti
– a sequestrargli l’arma
impropria che era diventata la carta di credito magico-babbana del
Dipartimento.
Non
che non fosse in grado di essere autosufficiente.
Solo avevano uno sguardo che faceva paura.
“È una
roba magica?” Chiese
guardando afflitto il pacchetto vuoto prima di lanciarlo da qualche
parte nel
buio della camera. “Dico, la tua resistenza.”
“No, è sempre stato così.”
Fece una pausa tirando fuori un pacchetto nuovo da
chissà dove. Era uno dei suoi, ne era certo: il principino
non si abbassava mai
a comprare da lerci drugstore. “Comunque semplicemente riesco
a mantenere il
contegno, a tua differenza.”
“Sì, comincio a capire come funzionano le tue
sbronze…” Argomentò con spirito,
reclinando la testa sul cuscino e godendosi il lento fluttuare delle
sue
sinapsi. “Diventi più stronzo e basta.”
Non avevano parlato
granché.
Anzi, a ben vedere non avevano parlato affatto
di quello che era successo all’altro, tranne uno sterile
resoconto che non
sarebbe sfigurato su un rapporto di polizia. Concluso quello
Sören si era
limitato a fissare un punto nel vuoto per il resto della serata.
Ehi,
non mi paga per fare da confessionale.
…
Certo, però, un po’ di
curiosità…
“L’hai
vista quindi.” Esordì e
dal sussulto che l’altro fece era chiaro che
l’avesse già dato per
profondamente addormentato. “La tua principessina.”
Non vi fu risposta, ma Milo
non era tipo che amava arrendersi, specie se aveva passato la serata a
cercare
di animare un tipo brioso come un cadavere. “È
stato tanto brutto?”
“Era
arrabbiata.” Una pausa. “Non
è felice che io sia qui.”
Ah, ecco. Ci siamo.
“E come fai a
dirlo?”
“Me l’ha fatto capire.”
“Perché tu sei così
bravo a leggere
le intenzioni altrui!” Sospirò quando vide che
l’altro non aveva reazioni
percepibili, solo l’orrenda faccia malaticcia che si era
tenuto su tutta la
sera. “Okay. Te l’ha detto chiaro e
tondo?”
“…
No.”
“Allora non puoi saperlo!” Ne stavano parlando, e
Faust solo sapeva quanto non ne
avesse voglia, dato che forse era
l’ultima persona al mondo a poter dar consigli sulle
relazioni interpersonali. Però
era lì, ed era chiaro che il mago avesse bisogno di buttar
fuori l’amaro, checché
ne dicesse lui. “Voglio dire … non ti è
passato per la testa che fosse
arrabbiata per tutto il fatto della segretezza, più per il
fatto che tu sia
qui?” Non lo lasciò interloquire, anche se
dubitava l’avrebbe fatto. “Le donne
sono fatte strane, principino, hanno un sacco di sub-strati. La tua,
poi, per
quanto ne ho capito, è stratificata come una
torta.”
“Non è
mia.”
Sempre
a puntualizzare. Puntualizza troppo spesso. E
quando si puntualizza troppo spesso…
“Non lo
è, okay.” Convenne con
un’aria che sperava fosse saggia e propositiva.
“Però vorresti che lo fosse.”
“È fidanzata. Siamo solo amici.”
Esalò con il sentimento di una segreteria
telefonica. Faceva tenerezza ed era decisamente triste.
Tirò un profondo sospiro, aggiustandosi il cuscino sotto la
nuca. “Senti, poche
seghe. Vuoi rivederla?”
Ci fu un lieve bagliore
dalla
sigaretta dell’altro. Aspirava coraggio assieme alla
nicotina? Probabile. Era
un buon metodo. “Sì.” Disse talmente
piano che dovette sforzarsi per sentirlo.
“Voglio rivederla.”
“Allora manda a
fanculo i
parenti-serpenti e fa’ quel che ti senti. Credo sia ora di
smettere di essere
carino con quella gente … Non hanno più diritto
di tirarti merda addosso. Oggi
hai pure salvato loro la pelle, no?”
“Non…”
“Fatti rispettare e trova il modo di rivederla,
perché un altro giro come
stasera il mio fegato non lo regge.” Sentiva arrivare il
sonno, quindi
sbadigliò sonoramente. “Buonanotte.”
Disse con tono che sperava fosse
definitivo.
“Buonanotte.”
Gli fu
fortunatamente risposto. Una lieve esitazione.
“Milo?”
“Se stai per
ringraziarmi non
farlo.” Proclamò brusco, perché
bisognava metter certi paletti. Sempre. “Mi
paghi per badare a te, ed è quello che sto
facendo.”
Un altro lungo silenzio e Milo stava quasi per scivolare nel sonno
quando sentì
l’altro alzarsi e accendere la lampada dello scrittoio.
“Le scrivi una
lettera?”
Borbottò con un ghigno premuto sulle labbra. “Sei
un romantico senza speranza.”
“Non è
una malattia.”
“Fidati, lo è.”
Non aggiunse altro, pensando
che davvero, tutta quella faccenda dei sentimenti e più in
generale,
dell’amore, fosse largamente sopravvalutata.
Non
credo proprio ne valga la pena. No?
****
Inghilterra. Da
qualche
parte nel Lancashire.
“Così
c’è un altro infetto…”
“Sì, mia Regina. Pare si tratti di un membro della
squadra Auror che ha
incontrato Howe, William Flannery.”
“Questa non è una buona notizia.”
“Non è del tutto vero, mia
Regina…”
“Spiegati.”
“Non siamo riusciti a recuperare molto di Howe, e non abbiamo
potuto scoprire
niente dalle sue ceneri. Perché, appunto, sono una manciata
di cenere.”
“Risparmiami i giochi di parole e vieni al punto.”
“C’è un nuovo Infetto e a quanto ho
avuto modo di vedere, per quanto la sua
magia fosse fuori controllo … la capacità magica
era beh. Mettiamola così.
Oltre Ogni Previsione.”
“Implementare
questo aspetto
era il nostro obbiettivo primario. Trasformare un mago in una belva
fuori
controllo decisamente no.”
“Ed è questo il punto. Con il nuovo infetto
abbiamo la possibilità di studiare
cos’è andato storto prima che succeda agli
altri.”
“Sì, capisco.” Una pausa.
“Bene. Occupatene tu.”
“Come sempre, mia Regina, uno è lieto di poter
servire.”
****
Note:
Capitolo farcito per farmi perdonare del ritardo!
Tra lavoro, nuovi fandom che mi prendono come uno spogliarellista
brasiliano su
una spiaggia di Cuba, ho davvero faticato a far prendere la forma che
volevo a
questo capitolo. Spero il risultato sia di comune gradimento! ;D
Questa
la
canzone del capitolo, la stessa dell’altra volta visto che
l’ho spezzato
praticamente in due parti. La canzone invece che ascolta Tom
è questa
ed è adorabilmente tetra.
|
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Capitolo 12 *** Capitolo XI ***
Capitolo XI
If
love is just a game then how come it's no fun?
If love is just a game how come I've never won?
(2 Atoms in a Molecule, Noah
& The
Whale)
23 Giugno 2028
Londra, Ministero
della
magia, Quinto Piano
Dipartimento di Cooperazione Magica Internazionale, Ufficio
Internazionale
della Legge Magica
Mattina.
Michel Zabini rivolse
un’occhiata
esasperata in direzione dell’Agente americano che stazionava
di fronte alla sua
scrivania senza avere le minima intenzione di sedersi, rendendosi
quindi simile
ad un avvoltoio in attesa.
Che poi ne aveva anche un
po’
l’aspetto.
Non
gliel’ha detto nessuno che i capelli in quel modo
non si tengono più da prima della Seconda Guerra?
Sfogliò il
rapporto che Sören
Prince – l’avvoltoio in questione – gli
aveva fatto recapitare quella mattina
via Gufo. Riguardava quant’era successo al San Mungo e
descriveva piuttosto
efficacemente la mole di casini che era esplosa in un posto che mai
avrebbe
dovuto vedere esplosioni e maghi-zombie.
“È
tutto?” Chiese chiudendo il
fascicolo con un colpetto delle dita.
“C’è niente che vuole aggiungere,
agente?”
“Non
c’è altro.” Ed era ovvio
che non fosse così da
come
occhieggiava nervoso e senza vera intenzione gli oggetti sulla sua
scrivania.
“Se ha qualche
domanda…”
Iniziò sentendo l’emicrania cominciare a dare le
prime avvisaglie. Aveva
scordato com’era svegliarsi tutte le mattine senza sentire un
cerchio alla
testa. Era stress, secondo i Guaritori del San Mungo. Era una grossa
seccatura,
secondo lui.
Seccatura
che nasce dalle seccature … Stasera Soho.
Tassativo, Soho.
Prince intanto si
leccò le
labbra, prima di sospirare. “Riguarda al mio intervento.”
Ah, per quello? Penso che dovrei
ringraziarti. Se non fosse stato per te ad Al sarebbe successo qualcosa
di
brutto.
Lo pensò, ma non
lo disse,
limitandosi a guardarlo con neutra aspettativa.
“So che
è stato un errore di
valutazione, e che non avrei dovuto interferire.” Lo
stupì. “Avrà delle
conseguenze?”
Michel inarcò le
sopracciglia
perplesso. “Lei è un agente di polizia magica
sotto mandato internazionale. Ha
fatto ciò che doveva, ha protetto dei
civili.”
Fatemi
indovinare. James Potter o qualcuno del suo clan
deve aver avuto una crisi isterica quando l’ha visto prendere
l’iniziativa.
Quanto odiano
quando le cose non vanno come vogliono loro…
“Non ci saranno
ripercussioni
disciplinari. Ha fatto solo il suo dovere.” Soggiunse,
perché l’altro sembrava
non aver capito l’antifona. “Nessun provvedimento
disciplinare verrà posto in
atto, Prince.” Sottolineò un po’
scocciato. Fino a che punto avevano
terrorizzato quel poveraccio?
Gli venne finalmente rivolta
un’occhiata di sconfinato sollievo, prima che
l’americano tornasse alla solita
espressione da soldatino impettito. “È quello che
pensavo.” Si lasciò sfuggire.
Michel si trovò
suo malgrado a
sorridere. “Pensato o suggerito
da un
Potter-Weasley?”
L’espressione che gli restituì valeva
più di mille parole. Trovò dunque giusto
ricompensarlo con una piccola concessione amichevole. “Se
posso permettermi un consiglio
in qualità di referente…”
“Prego.”
“È meglio non dare troppo ascolto alle
attestazioni dei membri di quella
particolare famiglia. Tendono ad essere spesso guidati dalle proprie
emozioni,
più che dalla riflessività … o
professionalità.” Aggiunse con la leggerezza che
gli permetteva di insultare urbi et orbi
senza troppe conseguenze.
Specialmente
gli ex-grifondoro. Il Cappello deve
sceglierli in base all’incapacità di captare
insulti che non siano triviali o
plateali.
Prince non disse nulla, ma
il
lampo divertito nello sguardo fu esplicativo. Non era un tipo
di
molte parole e per questo gli andava piuttosto a genio, anche se
inizialmente
l’aveva visto solo come foriero di grane infinite. Certo,
continuava ad essere una bomba che, se maneggiata con incuria, poteva esplodergli in faccia...
Sono
il referente di un mago che Harry Potter vorrebbe
lontanissimo dai confini britannici.
Sì,
è un Incantesimo Esplosivo innescato.
… tuttavia era
anche il suo
biglietto di sola andata per uscire da quell’ufficietto
angusto.
L’America
fa sempre una bella impressione sul proprio
curriculum vitae.
“Mi aspetto un
altro ragguaglio
alla fine della prossima settimana.” Raccomandò, ma
era piuttosto inutile dato
che a guardare l’uniforme, stirata e con ogni
singola asola al
suo posto, pareva che l’altro si fosse ingoiato il manuale
del perfetto servitore
della legge.
Almeno
lui.
Quando Prince si fu
accomiatato, Michel poté concedersi un lungo sospiro. Quella
mattina la sua
amabile collega era rimasta a casa e poteva quindi fumare in santa
pace, senza
sentire la voce dell’altra rimproverarlo come se fosse un
ragazzino
capriccioso.
Dopo essersi acceso una ben
meritata sigaretta, tolse lo Specchio Comunicante dalla tasca interna
della
giacca, misurando a passi lenti l’ufficio. Chiamò
Albus: non l’aveva ancora
contattato e il pungolo d’ansia che l’aveva colto
quando aveva letto il
rapporto di Prince non l’aveva abbandonato per tutta
la mattina.
Possibile
si metta sempre nei guai?
Il nome dell’altro
galleggiò
in una bruma verdastra prima di sfumare nel viso pulito che conosceva
da più di
dieci anni.
“Mike!” Fu l’esclamazione allegra e piena
di salute. “Ciao!”
Grazie
a Merlino…
Sentì
la tensione scivolargli via
dalle spalle in maniera alquanto imbarazzante. “Buongiorno a
te dolcezza.” Salutò
di rimando. “Ho saputo della tua piccola avventura mortale di
ieri sera.”
“Oh, è già di pubblico dominio?
Favoloso…” Borbottò. Da quel che vedeva
dietro di
lui doveva trovarsi nella caffetteria dell’ospedale e quindi
in pausa. “Mi
avevano assicurato che sulla Gazzetta non era uscito niente su me e
Lils!”
“No, in effetti.” Replicò per
tranquillizzarlo, ben sapendo quanto detestasse
dover gestire la pubblicità che proveniva dal suo cognome.
“Sono il referente
ministeriale dell’agente Prince.”
“Ah!” Esclamò sorpreso. “Sul
serio?” Pareva poco interessato, ma era solo una
dell’ennesime difese che metteva di fronte a sé
quando un argomento poteva
essere foriero di guai.
Ditemi
se questo non è un serpeverde…
“È un
favore che viene dritto dal
Piccolo Lord Malfoy.” Replicò. “Un caso
oltre-oceano, come puoi immaginare, è
un buon incentivo per la carriera.”
“Questi accordi sottobanco …” Sorrise
divertito. “Davvero increscioso.”
“Fammi causa.” Ghignò tornando dietro la
scrivania e lasciandosi scivolare
sulla sedia di pelle. “Come stai? Davvero.”
Soggiunse cercando di non mostrarsi
troppo apprensivo e fallendo miseramente.
L’altro sorrise,
di quei suoi
sorrisi perfettamente sani e pieni d’affetto. Dovevano avere
a che fare con
l’aver ricevuto una famiglia funzionale e
un’educazione all’insegna di sani
valori campagnoli. “Sto bene Mike, tranquillo. Ho passato
momenti migliori,
certo, ma poteva andarmi molto peggio.”
“Dubito, conoscendo la tua sfortuna.”
Sospirò. Voleva vederlo e sincerarsene, e
sapeva che suonava patetico in qualunque modo lo si mettesse, ma non
poté fare
a meno di notificarlo riuscendo persino a suonare ansioso.
“Possiamo vederci
stasera? Niente di eccezionale, solo un drink in un posto
tranquillo.”
L’altro sorrise
apertamente all'idea, dato che adorava uscire nella Londra notturna, esattamente come qualunque
ragazzo con
una capacità sociale nella norma, che fosse Babbano o
magico. Non che fosse un
tipo particolarmente festaiolo: persino nei locali più
affollati e densi di
conoscenze interessanti si limitava a sorseggiare qualche cocktail
fruttato e
sorridere disimpegnato, ascoltando più che esternando.
Apprezzava però
l’atmosfera di
libertà e disimpegno che si respirava a Soho quanto lui.
Nel
Mondo Magico dev’essere il perfetto figlio del
Salvatore, quello che studia come Guaritore ed esce solo con una
compagnia
selezionata di cugini e amici. Nel mondo Babbano no, nessuno lo conosce.
E poi a Soho, Dursley non
veniva.
Per quanto Al non l’avesse mai ammesso apertamente, era
chiaro come ogni tanto
avesse bisogno di prendere una boccata d’aria dal proprio
compagno di vita.
Io
sono la sua boccata d’aria.
Era un pensiero meschino, ma
inequivocabilmente vero.
“Mi piacerebbe, ma
stasera
preferisco restare a casa.” Lo sorprese stringendosi nelle
spalle. “Tom…”
Ecco, appunto.
“Cos’è,
devi restare dove può
vederti?”
“Dai, non fare lo
stronzo!”
Sbuffò senza traccia di vero fastidio nella voce.
“Ieri sera si è preoccupato a
morte. È rimasto ore di fronte all’ospedale
perché non ero venuto a prenderlo. ”
“E questo non è minimamente inquietante
perché…”
“Mike.” Stavolta
il tono di voce era
definitivo e ad un passo dalla reprimenda. “Vediamoci domani,
vuoi?”
“Domani lavoro in
ufficio fino
a tardi.” Replicò con fastidio. “Lo sai,
ho il tempo libero centellinato.”
“Lo so.”
Sembrava dispiaciuto,
ma non disposto a compromettere. “Senti … mi
farò perdonare, okay?”
“Per la
preoccupazioni che dai
dovresti.” Ritorse cercando di non suonare troppo deluso o
– Merlino ne volesse
– ferito. “Va bene, ci aggiorniamo. Prenditi cura
di te.”
Patetico.
Sei patetico.
Al fece un altro di quei
suoi
sorrisi da persona fottutamente – sì,
l’imprecazione era appropriata - felice e
lo salutò, chiudendo così la comunicazione.
Michel rimase un po’ a guardare il
nome dell’altro galleggiare sul vetro dello Specchio prima di
chiuderlo con uno
scatto secco.
Non era l’unico
posto dove
quel maledetto nome continuava a stare, purtroppo.
****
Diagon
Alley. Mattina.
Hugo le chiamava le ‘quattro
dell’Apocalisse’ tirando fuori una citazione
biblica che solo Rose, tra loro, aveva colto.
Forse suo cugino aveva
ragione, rifletté Lily guardando Dominique, Rosie e Roxanne
schierate di fronte
a lei. A ben vederle, erano diversa dall’altra a livello
così profondo da non
sembrar condividere neppure una goccia di sangue.
Eppure.
La colazione mensile tra di
loro era diventata una specie di istituzione da quando Dominique era
tornata a
vivere in Inghilterra. Non era stata esattamente decisa, piuttosto
capitata
dato che Roxanne viveva a poche strade di distanza
dall’anglo-francese, mentre
Rose aveva piacere a bersi un caffè senza doverselo combattere
con la madre,
caffeinomane quanto lei.
Lily quando non aveva
lezioni
al mattino si accodava ben volentieri. Ultimamente poi gli argomenti
ruotavano
tutti attorno al matrimonio di Rose, il genere di atmosfera che
preferiva,
quella che precedeva un grande evento corredato da massicci
festeggiamenti. Era
grata che fosse capitata il giorno dopo il gran casino con
Sören.
“Insomma, per
farla breve quel
tuo crucco t’ha fatto una sorpresa del cazzo.”
Esordì dal nulla Dominique
sorseggiando un abominevole miscuglio di panna, zucchero e una
tonnellata di
biscotti sbriciolati – a volte supponeva che la sua presenza
fosse dovuta al
fatto che Violet la spedisse fuori per non doverla vedere compiere quegli orrori a colazione.
“Eh?” Le
uscì acutamente; fino
a dieci secondi prima avevano parlato di bouquet e vestiti –
con gran noia di
quest’ultima – e di colpo era lei
l’argomento di conversazione principale?
Okay,
forse non è un caso che la colazione sia oggi.
Sembra tanto una riunione di emergenza. Per me. Forse volevano girarci
attorno
… ma si sa che Domi non è tipa.
Notando come tutte la
stavano
fissando in attesa, cercò di mettere assieme qualche parola.
“Sì … cioè… Se
vogliamo chiamarla così.” Balbettò
maledicendo l’incapacità familiare di farsi
i fatti propri.
“Avrei voluto esserci.” Sospirò la
guardiana di draghi, guardando un punto
distante da sé e grattandosi il piercing al sopracciglio.
“Dev’essere stata una
botta di adrenalina pazzesca!”
“Come se tu ne avessi bisogno con il lavoro che
fai.” Ritorse Rose con un
grugnito. “Drogata.”
“È
meglio di una scopata!”
Declamò allegra facendo girare un paio di avventori e
facendo implodere Rose in
una bolla di imbarazzo. “Quasi.” Soggiunse
massaggiandosi la testa
schiaffeggiata dalla suddetta.
Roxanne fissò la sua tazza di deteinato – era
diventata una specie di nazista
della salute – con aria assorta, prima di piantarle gli occhi
nei suoi. Diversamente
dalle altre aveva ascoltato in completo silenzio il suo racconto.
“Quanto
rimarrà qui?” Che era
un’ottima domanda, ma di cui non aveva la risposta.
“Finché
le indagini degli
auror non saranno finite, penso.” Replicò
scuotendo la testa. “Non che abbia
chiesto. Non ho intenzione di parlare a papà per i prossimi
sei mesi considerando che ha pensato di non dirmi neppure una parola su Ren.”
“Non esagerare adesso.” Si inserì Rose
con una punta di disagio che le tingeva
la voce.
E
ora, questo da dove viene?
“Pensi che abbia
fatto bene a nascondermelo?”
“No, è che…” Fece una comica
faccia desolata, prima di scuotere la testa.
“Okay. Io e Scorpius lo sapevamo. Abbiamo origliato zio e
papà parlarne qualche
giorno fa proprio qui.” Notando la sua espressione
arrossì, distogliendo lo
sguardo. “Mi dispiace…”
“Sei una stronza.” Disse spassionata, sentendosi
troppo stanca per arrabbiarsi
di nuovo. Era logorante rimanere in quello stato per troppo tempo. E
poi non
riusciva ad avercela con sua cugina sapendo che ciò che la
muoveva era il suo
goffo e ingombrante senso di lealtà.
Rose ebbe il buonsenso di
non
ribattere, limitandosi a giocherellare con la stanghetta degli occhiali
da
vista che portava quando era in periodo particolarmente denso di
letture.
Doveva star preparando una causa o qualcosa del genere.
“’Sta
faccenda sa un po’ di cazzata
in effetti.” Riprese Dominique infilandosi in bocca
l’ennesimo biscotto rubato da
un piatto altrui. “Comunque ormai è
qui.” Scrollò le spalle, da meravigliosa
anima semplice qual’era. “Mi piacerebbe rivederlo,
è stato tosto al Tre Maghi.
Quand’è che lo inviti per una bevuta al
Finnigan’s?”
“Io … non lo so.” Ammise a disagio.
Dominique
aggrottò le
sopracciglia in piena e palese confusione. “Come non lo
sai?”
Tacque, perché sapeva che se avesse aperto bocca avrebbe
finito per boccheggiare come una
trota appena pescata.
Non aveva ancora fatto chiarezza dentro di sé; aveva passato
tutta la notte con
gli occhi incollati al soffitto della stanza di Scott ma non era
arrivata a
nessuna conclusione.
Scott, già…
C’era
anche la faccenda del suo
ragazzo; gli aveva raccontato tutto, dal principio alla fine, senza
risparmiare
niente.
A
parte il fatto che mi fossi presa una cotta per Ren.
Regola numero uno. Mai parlare agli attuali degli ex.
Scott l’aveva
ascoltata
facendo domande e non dando giudizi. Avevano finito per concludere la
conversazione a letto ed era stata una delle poche volte in cui ci
erano
arrivati vestiti.
“È
stata la
prima persona con cui mi sono davvero aperta, a parte la mia famiglia.
È venuto
fuori che non è stata un’idea poi così
brillante.”
Scott era seduto con la schiena contro i cuscini e fissava
l’armadio come se
fosse la pellicola di un film interessantissimo. “Allora
perché hai continuato
a tenerti in contatto con lui?”
Lily sapeva che sarebbe arrivata quella domanda. Scott poteva essere
una
persona comprensiva, ma era pur sempre un ragazzo, il suo ragazzo
e
dunque perfettamente legittimato a chiedere delucidazioni.
“All’inizio perché
la prigione l’aveva lasciato uno schifo, e sembrava che le
mie lettere lo
facessero stare bene…”
“In che senso?”
“Era solo al mondo.” Aveva inspirato sentendo il
familiare nodo allo stomaco.
“Non aveva più nessuno, né famiglia
né amici. L’unica persona che si
preoccupava per lui era un agente di polizia che voleva delle risposte.
Per
quanto Nora sia una bravissima persona non poteva essere un gran
sostegno
emotivo, ti pare? E Milo è arrivato
dopo…”
“Sì, ma perché proprio tu?”
Lily si era sporta per accarezzargli i capelli dietro la nuca e per
riposare la
guancia sulla sua spalla.
“Perché
se lui mi ha sconvolto la vita, io l’ho
sconvolta a lui. È per salvare me che ha deciso di
allontanarsi da suo zio. Non
me la sentivo di abbandonarlo.”
La
mascella dell’altro si era irrigidita. “Lo sai che
non gli devi niente, vero?”
“Certo
che lo so.” Aveva convenuto, mentendo.
“Entrare nella
vita di
qualcuno, anche per una serie di circostanze che non dipendono da noi,
significa prendersi delle responsabilità. Non vale solo per
chi è in torto, in
un’amicizia… ”
“Di cosa sarei
responsabile?”
“Sei responsabile
di essergli
diventata amica. Di avergli teso la mano quando credimi, nessun altro
l’aveva
mai fatto.”
L’incontro
con sua nonna Lily cinque anni prima era
stato certamente un’allucinazione dovuta allo shock e al
colpo alla testa che
si era presa. Ma fin troppo lucida, e veritiera.
Scott aveva voltato la testa per posargli le labbra sui capelli.
“E adesso?”
“Adesso
cosa?”
“Hai detto che inizialmente gli scrivevi perché
era solo al mondo. Adesso?”
“Adesso
perché siamo amici.” Si era stretta nelle
spalle, sciogliendosi dall’abbraccio. “Per questo
ci sono rimasta male … Voglio
dire, mi aveva promesso che non avrebbe avuto più segreti
per me!”
Scott
aveva abbozzato un sorriso. “Dai Lils, lo sai anche
tu che è una promessa impossibile da mantenere.”
E
questa era stata una frecciatina bella e buona. Non
aveva avuto il coraggio di ribattere.
Lily inspirò, finendo il suo the con un sorso, ringraziando
Merlino che
l’argomento di conversazione si fosse spostato sulle nozze
imminenti di Rose.
Lo
so che le persone hanno dei segreti e che Ren ha
solo eseguito degli ordini. Lo so bene.
Allora
perché non riesco a trovare il coraggio di
mandargli un Gufo per chiedergli di vederci?
Sentì la mano di
Roxanne
coprire la sua. La sua fiera cugina aveva finalmente pronto il verdetto.
“Allora?”
Le chiese stancamente.
“Che dovrei fare con tutta questa faccenda?”
“Ciò che vuoi.” Replicò con
la solita onestà a bruciapelo. “Non importa cosa
ne
pensino gli altri … Sai tu che genere di rapporto hai con
Sören.” Lily
l’avrebbe abbracciata; supponeva che tutta la faccenda di
aver salvato la vita
a lei e Albus cambiasse un po’ le cose per Roxanne.
È
sempre stata una tipa che fa caso a queste cose. Tipo,
salvi le persone a cui tengo e ti meriti perlomeno una
possibilità.
…
Morgana, a volte mi chiedo se funzioni così per
tutti, o è un privilegio solo Potter-Weasley.
“È un
gran casino.” Ammise a
malincuore passandosi le dita trai capelli. Era frustrante.
“Sono arrabbiata,
ma…”
“Io non credo tu sia arrabbiata.” La sorprese.
“E cosa
sarei?”
“Sei
spaventata.” E fu come beccarsi
uno schiaffo in faccia. Perché era vero oltre il suo
desiderio che non lo
fosse. “Ci ho preso Rossa?”
Lily serrò le
dita sulla tazza
vuota. “Eccome.” Ammise. Ora che Sören era
a Londra non c’era più la barriera
della carta e dell’oceano a separarli.
Ora
potrò finalmente sapere se vale la pena portarla su
un piano ulteriore o lasciarla così … Per quanto
potrà durare poi, visto che
non s’è mai sentito di un’amicizia di
Piuma durata una vita.
Era spaventata quanto era
eccitata e sapeva per esperienza che quelle due sensazioni, mischiate
assieme,
non portavano mai a niente di buono.
“Perché
non la pianti?” La
voce di Dominique la colse di sorpresa, e si accorse con orrore che non
era
vero che le altre due cugine avevano lasciato cadere
l’argomento.
Hanno
solo lasciato a Roxie lo spazio per intervenire.
Maledette!
Ma del resto, il sangue non
era acqua.
“Scusa?”
Dominique sbuffò sonoramente. “Massì,
ti fai troppi problemi. Mandagli un
cavolo di Gufo, fatevi una cena, o una passeggiata e vedi che tipo
è.”
“So che tipo è, gli scri…”
“Come se scrivere a qualcuno te lo facesse
conoscere!” Esclamò incredula.
“È
parlando con qualcuno, vedendo come gli si muove la bocca, che profumo
ha o
come gesticola che lo capisci, mica leggendo due righe del cazzo su una
pergamena!”
“Quello che voleva
dire Domi è
che il banco di prova del vostro…” Rose
esitò ma quando vide che non voleva
ucciderla per aver osato dare un parere nonostante il suo tiro mancino,
continuò. “… rapporto è
vedervi dal vivo.” Il viso le si contorse in una
smorfia sofferente. “Così magari ci metti una
pietra sopra.” Tentò di rimediare
per non tradire il suo disaccordo nell’intera faccenda.
“Sentito?
È d’accordo pure
Mamma Oca!” Disse invece Dominique accarezzando la testa
della cugina castana
come ad un cagnetto che si era esibito in un’acrobazia di un
certo livello.
“Non sono
d’accordo!” Scosse
la testa. “È solo che ormai il latte è
versato.”
“Che cavolo c’entra il latte?”
“È un modo di dire!”
“Ma non ha
senso!”
Roxanne ignorò il
bisticcio
appena sorto e inarcò invece le sopracciglia in una smorfia
che faceva di rado,
ma la faceva assomigliare in modo incredibile a suo padre George.
Stessa
malizia. “Non dirci che non sei un po’
curiosa.”
E quello era definitivamente un touchè.
****
Ministero
della Magia. Ufficio Auror.
Ora di pranzo.
L’ufficio Auror
era pervaso da
una tensione inscalfibile persino da un Recido.
Sören mostrò il proprio distintivo alla ragazza
all’accettazione e notò come
avesse gli occhi rossi e le dita aggrappate ad un fazzoletto.
Dev’essere
per via del Sergente Flannery …
Gli
Auror non erano molti, al massimo
una ventina di elementi ed era piuttosto palese che il cameratismo tra
di loro
fosse forte. I visi che incontrò erano tirati, cupi e non
c’era nessun accenno
di risata o battuta che rimbalzava tra le pareti dei cubicoli.
Era dispiaciuto per
ciò che
era accaduto, ma non particolarmente colpito. Durante gli anni della
Thule
aveva visto molti uomini al suo fianco esser feriti o perdere la vita.
Ma
li hai mai considerati tuoi commilitoni? Quindi cosa
puoi saperne?
Pensa
se succedesse una cosa simile all’agente Estevez
…
Non doveva farsi distrarre:
quella mattina si era svegliato memore del discorso fatto con Milo,
memore di
tutto quello che era successo con Lily.
È
ora che le cose cambino.
Quando arrivò
alla scrivania
di Malfoy e Potter notò la presenza di Ron Weasley.
Trattenne con tutte le
proprie forze una smorfia, lasciandosi scivolare dal viso ogni
espressione.
L’uomo gli dava le spalle ed era concentrato a ragguagliare i
sottoposti:
Potter era seduto sulla sedia, mentre Malfoy era appoggiato alla
scrivania,
sorseggiando svogliato una tazza di the. Fu Jordan a notare la sua
presenza ed
ebbe il buonsenso di sembrare imbarazzato.
Un
briefing sul caso iniziato prima del mio arrivo. Naturalmente.
Sentiva
l’acidità corrodergli
lo bocca dello stomaco e risalirgli fino alla bocca. Quando era di
quell’umore
– che Milo chiamava da grandioso
bastardo
– doveva mettersi di impegno per tenere i propri pensieri per
sé.
Perché
di solito finisce con un tentativo di rissa da
parte del mio interlocutore. Murphy ne è l’esempio
più eclatante.
Sapeva di non avere quella
che
veniva chiamata, a suo parere impropriamente, diplomazia; giostrarsi
con le
parole e fingere di trovare interessante le uscite di chi non lo
interessava o
peggio, provocava, non era mai stato uno dei suoi punti di forza.
“Signori.”
Comunicò la sua
presenza, facendo sobbalzare l’auror più anziano.
“Buongiorno.”
Questo gli rivolse un’occhiata sorpresa, chiaro come il sole
che non l’avesse
sentito arrivare. “Prince.” Disse cercando di
recuperare compostezza. “Non
dovresti essere a Cooperazione Magica?”
“Ci sono stato, Signore.” Replicò
quieto. “Ho consegnato il rapporto al mio
referente e adesso sono a disposizione.”
“Non…” Si schiarì la voce.
“La tua presenza qui non è necessaria.”
Non credo proprio.
“Mi permetta di
dissentire.”
Replicò visualizzando una spiaggia assolata. Milo gli aveva
consigliato di
usare quel genere di immagini mentali quando rischiava di perdere il
controllo
sulle sue emozioni e neppure l’Occlumanzia sembrava aiutare.
A volte
funzionava. “Il caso Howe è di mia
competenza.”
“Non stiamo discutendo di quello.” Fu la replica
sostenuta. Ron Weasley gli era
stato descritto dal Capitano Gillespie come un uomo retto e un auror
eccellente. Sfortunatamente a questi ovvi meriti si dovevano aggiungere
le
stesse tare caratteriali di James Potter.
È
una testa calda. Un’irrazionale, impulsiva e cocciuta
testa calda. Gli si legge nello sguardo, nel tono
e nella postura. Proprio il genere di
persona con cui vado d’accordo …
“Stiamo discutendo
riguardo a
ciò che ha fatto il Sergente Flannery, sai, il
black-out.” Si inserì Scorpius,
ignorando con nonchalance le occhiatacce combinate di Potter e
di Weasley.
“Sono arrivati i risultati degli esami fatti sul sergente
… Hanno settato
un’allerta per l’ufficio perché pare che
abbia usato Magia Oscura.”
“Malfoy, Prince non segue questo caso, ma quello di Sam Howe,
queste
informazioni sono strettamente confidenziali!”
Ringhiò l’auror più anziano.
“Non è tenuto ad essere informato. Finiamo la
riunione e poi potrete tornare a
lavorare al caso Howe.”
“Se non fosse che il caso Howe e ciò che
è accaduto al Sergente Flannery sono
collegati.” Replicò Sören aggiungendo
qualche dettaglio alla spiaggia immaginaria.
Delle palme, una sdraio … poi ricordò che su una
spiaggia lui non c’era mai
stato e la cosa smise di aver senso.
Il Sergente Weasley gli
scoccò
un’occhiata che si poteva riassumere solo come sospettosa.
“Come fai a
dirlo?”
Perché
ho un cervello?
“Il Sergente Flannery ha attaccato Lily e
Albus Severus con la stessa modalità in cui Howe ha
attaccato voi.” Disse
invece, e notò come persino Potter lanciò
un’occhiata un po’ interdetta al
superiore.
Forse
non è completamente irrecuperabile.
Stava scivolando
inesorabilmente nella modalità grandioso
bastardo, ma francamente aveva smesso di importargli non
appena aveva
realizzato di aver davanti l’ennesimo, ottuso ostacolo che gli impediva di
compiere il suo
dovere. “Ho letto il rapporto, ho visto il secondo attacco
con i miei occhi.
Qualsiasi cosa avesse Howe, adesso ce l’ha il Sergente
Flannery.”
L’uomo impallidì di colpo, serrando la mascella.
La paura che lesse nel suo
sguardo valeva più di mille parole. “Le prove,
ragazzo.” Disse secco. “Non
costruiamo casi su supposizio…”
“Per questo sto parlando di fatti.”
Lo interruppe. “Avete detto che gli esami hanno evidenziato
la presenza di
Magia Oscura nel corpo del Sergente, è corretto?”
Si rivolse a Malfoy, che fu
lesto ad annuire.
“Sì,
una concentrazione anomala
per un solo mago, tra l’altro.” Soggiunse
aggrottando le sopracciglia. “Abbiamo
mandato a far analizzare la bacchetta e stiamo aspettando i
risultati.”
“La troverete pulita. Non ci ha attaccato con quella
perché non l’aveva
addosso. Non sarei stupito se la Magia Oscura presente nel corpo del
Sergente
avesse causato il black-out al San Mungo interferendo con gli
incantesimi di
manutenzione. Sono i più potenti, ma anche quelli
più facili da spezzare.”
L’auror
più anziano aprì la
bocca prima di richiuderla. Era chiaro fosse combattuto tra
l’ascoltarlo o
decidere a priori che il suo aiuto non valeva la pena venisse usato.
Alla fine
il risentimento personale parve prevalere, perché
storse la bocca.
“Se, e dico se il caso Howe e quello che è
accaduto al Sergente avranno
qualcosa da spartire, sarai il primo ad esserne informato. Fino a prova
contraria quello che devi far qui è occuparti
dell’americano.”
Sören sentì il controllo cedere. Non era niente di
eclatante, non sentiva
rumori nella testa, né particolari avvisaglie come capitava
a chi aveva
problemi come lui a passare fluidamente da uno stato emotivo
all’altro. Semplicemente
smetteva di importargli.
“Mi permette una
parola in
privato?” Tentò, davvero l’ultima
spiaggia per non far diventare le lievi
scintille che si sentiva formicolare sulla punta delle dita qualcosa di
molto
più evidente. Infilò la mano in tasca ma
notò come gli occhi di Malfoy e di
Potter fossero puntati in quella direzione.
Il mago più
anziano parve
captare qualcosa nel suo tono perché fece un cenno della
testa, scostandosi dal
gruppetto e dandogli voce di seguirlo. Non si allontanarono di molto,
giusto un
paio di cubicoli vuoti e in direzione di una finestra che rifletteva un
panorama
boschivo – magico ovviamente. “Avanti,
parla.”
“Posso farlo
liberamente?”
L’uomo
alzò gli occhi al
cielo. “Parla, ragazzo.”
“Lei è un imbecille.”
Attestò. La faccia dell’altro era talmente
sbalordita che
probabilmente ci avrebbe messo qualche momento prima di riprendersi.
Decise quindi di
approfittarne. “Lei e chiunque pensa che la mia presenza qui
sia un peso, o un
favore che state facendo al Ministero Americano per evitare di avere
grane.”
“Come…”
Le orecchie del
Sergente Weasley erano paonazze, ma ammirò il fatto che non
avesse già tirato fuori
la bacchetta. Forse aveva sbagliato a giudicarlo impulsivo come Murphy.
“Cosa
diavolo ti salta in mente per rivolgerti così ad un tuo
superiore?!”
“Lei non
è un mio superiore.”
Chiarificò e davvero, era una bella sensazione poter essere dalla
parte della ragione e
vantarsene. Quando lavorava per Von Hohenheim non era mai successo.
Meglio, non
gli era mai stato permesso.
“Io
riferisco al Ministero Americano e quando sono in trasferta estera
all’ufficio
Cooperazione. In quanto agente di collegamento mi si può
considerare un
consulente con capacità di intervenire quando è
opportuno, e questa decisione
spetta comunque a me, e non a voi.”
Il viso dell'altro mago
si contorse
in una smorfia di rabbia. “E
quindi?”
“Quindi sono
stanco di essere
trattato come un ospite sgradito.” Milo aveva ragione: doveva
piantarla di
nascondersi dietro i suoi sensi di colpa per ciò che aveva
fatto e cominciare a
lavorare seriamente. Non solo perché ne andava del prestigio
del Ministero che
gli aveva dato una seconda possibilità, e perché
lo doveva al Capitano
Gillespie e alla fiducia che gli aveva accordato.
Ma
perché Lily è stata coinvolta. E'
personale,
adesso.
Sören leggeva negli
occhi del
superiore una diffidenza infinita, e fu come veder concentrate tutte le
sue
paure più grandi.
Non
importa quello che stai facendo. Quello che hai
fatto basta e avanza per una vita.
Non era vero. O meglio, lo
era,
ma rimanere ancorato a quel fatto non gli avrebbe dato la
possibilità di essere
nient’altro che una vecchia arma arrugginita, senza un
padrone e dunque senza
uno scopo.
Io
sono il capitano della mia anima …
Era
il verso di una poesia che gli
aveva fatto conoscere Lily e ne aveva tratto grande conforto nei
momenti più
neri di quei cinque anni.
A
volte i poeti Babbani la sanno più lunga di qualsiasi
mago.
“Non puoi
aspettarti un comitato
di benvenuto, ragazzo, la fiducia va guadagnata.”
“Voglio che mi sia
data la
possibilità di guadagnarmela allora, non la devo
elemosinare. Non sono un
cane.” Non lo era, non lo sarebbe più stato
finché avesse avuto fiato nei
polmoni e magia nelle vene. Non aveva paura di fronteggiare il
pregiudizio che
vedeva riflesso negli occhi dell’uomo, non più.
Alla fine, doveva solo
combattere e in questo era sempre stato bravo.
Non
so far altro, forse. Ma so farlo bene.
“Questo
è il mio caso quanto è
il vostro.” Fece scivolare le dita sulle linee del distintivo
e vi trasse forza
prima di continuare. “Oltre a questo…”
Ed era un azzardo, ma come aveva detto,
aveva smesso di importargli. “…è stata
coinvolta una persona a cui tengo. A cui
tengo molto.” E l’auror, a giudicare dal modo in
cui si era teso, aveva capito
a chi si stava riferendo. “Spero che la faccenda adesso sia
chiara a lei e al
suo capo-ufficio, o preferisce che a spiegargliela sia una lettera
bollata del
mio Ministero?”
Che poi era un bluff, ma era
palese che l’uomo non fosse avvezzo alle procedure di
collaborazione
internazionale.
Il silenzio che cadde tra di
loro poteva voler dir due cose: o che il Sergente Weasley stava
riflettendo su
quel che gli aveva detto o che non gliene importava nulla e si
preparava a Schiantarlo.
Potrebbe
trovare difficoltà a fare l’ultima cosa.
“Bene.”
Disse asciutto come il
deserto, ma vinto. “Spero tu non abbia preso impegni per la
giornata.”
Sören si frenò dal qualsiasi esternazione emotiva o
cinestetica. Il trionfo
poteva esser goduto anche internamente.
“Sono qui per
servire.”
****
Ministero
della Magia. Ufficio Auror.
Ora
di cena.
“Mi ha minacciato,
te ne rendi
conto?”
Harry osservò
svogliato
l’ennesimo faldone di carte bollate che doveva firmare. Era
il trentesimo della
giornata e stava processando un principio di emicrania niente male.
Si aggiustò gli
occhiali sul
naso e lanciò uno sguardo all’amico di una vita,
troppo nervoso per sedersi di
fronte alla sua scrivania e dunque marciante dalla porta fino a lui in
larghi
giri infuriati.
“Me ne rendo
perfettamente
conto.” Convenne. “Anche se minacciare non credo
sia il termine corretto.”
“Intimidire allora, come ti pare!”
Sbuffò mentre le orecchie stazionavano in un
rosso paonazzo piuttosto vistoso. “Quel moccioso …
non ha che un anno di
esperienza sul campo e si mette a fare la voce grossa?”
“Forse non ha esperienza sul piano lavorativo, ma sul campo…” Harry vedendo
l’espressione confusa dell’altro si rese conto che
non poteva continuare a
lasciarlo parlare a ruota libera, per quanto sapesse che era quello il
modo in
cui riusciva a sfogare le proprie preoccupazioni.
E
lo siamo tutti, preoccupati. Con la faccenda di Liam
… Con il fatto che un auror ha attaccato dei civili, al San
Mungo. Trenta
pratiche e quindici erano solo su questo. Senza contare i Gufi dai
giornalisti
…
Dovrei
organizzare una conferenza stampa?
Sören Prince al
momento era
l’ultimo dei suoi problemi; certo, avrebbe voluto fosse il
primo dato che sua
figlia si rifiutava di tornare a casa o rispondere ai suoi Gufi proprio
a causa
dell’intera faccenda che lo coinvolgeva … ma, da sempre, aveva
un lavoro che non si piegava
facilmente alla sua vita privata.
Proverò
a chiamarla anche stasera.
“Ron, Prince, che
ci piaccia o
meno, è un agente di collegamento. Se
c’è una pista che collega Howe a Liam, ha
tutto il diritto di essere informato.”
“Non abbiamo certezze che ce ne sia una!”
“Ma come ha detto lui stesso, Liam sembra essersi ammalato
della stessa cosa
che aveva l’americano.” Ragionò sentendo
la spiacevole sensazione che la
faccenda non si sarebbe risolta in pochi giorni. “È una pista. Va seguita, e non
possiamo permetterci di perdere
tempo a decidere chi ha il diritto di farlo o meno.”
L’amico
inspirò, scoccandogli
un’occhiataccia più per posa che per reale
intenzione. Si sedette infatti sulla
sedia e incrociò le braccia al petto.
“Sì, hai ragione.” Convenne infatti con
un borbottio. “Ma vedila dal punto di vista dei ragazzi
… Se lo troveranno trai
piedi anche per un altro caso!”
“James e gli altri sono auror.”
Sottolineò riponendo la Piuma nel proprio calamaio e tirando
un sospiro. “Hanno
il compito di difendere il Mondo Magico e non importa se non gli piace
chi lo
fa con loro. E poi ho sentito Albus … Prince ha agito per il
meglio, li ha
messi in sicurezza.” Si massaggiò una tempia,
pensando con ardore alla Pozione
Alleviante che Ginny gli avrebbe preparato una volta tornato a casa.
“Abbiamo
reso ben chiaro che la sua presenza qui non è gradita.
È ora di lasciarlo
lavorare in pace, anche per correttezza verso Nora.”
L’altro emise una smorfia, ma alla menzione
dell’amica comune non replicò.
“È
solo … Non m’è piaciuto come mi si
è rivoltato contro, ecco tutto.” Ammise.
“So
che sembra assurdo, ma m’è sembrato di esser
ripreso da un fottuto professore!
Potrei essere suo padre!”
Harry alzò gli occhi dalle pratiche, inarcando le
sopracciglia. “Da un
professore.” Constatò lentamente senza riuscire a
trattenere un sorriso
divertito. “È stato così
verboso?”
“Sembrava Piton.” Sbottò
l’altro, tra l’esasperato e l’incredulo.
“Mi ha dato
dell’imbecille e ti giuro, sembrava di ascoltare il vecchio
pipistrello!”
Harry non poté fare a meno di lasciare andare una breve
risata: era un modo per
scaricare la tensione di quelle ore come per ignorare quanto
quell’affermazione
lo colpisse.
Ho
sotto il mio comando il cugino di Piton … E tanto
per cambiare, tra di noi non corre buon sangue.
…
Forse qualcosa dovrebbe cambiare.
“Domattina lo
chiamerò nel mio
ufficio. Questo detto, per favore…” E qui
lasciò andare gli occhiali per
massaggiarsi le palpebre pesanti. “… cerchiamo di
rendere le cose più semplici
per tutti, specie alla luce di quanto è successo al San
Mungo, okay?”
L’amico ebbe un
lampo
consapevole nello sguardo. “Va bene. I ragazzi
però adesso sono senza un
Sergente e avranno bisogno di un superiore per continuare le
indagini.”
“Pensi di potertene occupare?” Non aveva tempo per
scegliere un sostituto e
l’altro era la persona più affidabile che
conoscesse, oltre ad essere già
informato dei fatti. “Questo oppure … sto pensando
di passare il caso nelle
mani di un’altra squadra, considerando il coinvolgimento
emotivo.”
Ron scosse la testa. “Mi sembra una pessima idea, Harry.
Jamie e gli altri sono
coinvolti, è vero … Ma proprio per questo non
puoi tagliarli fuori. Era il loro
sergente, e Howe il loro caso.”
Harry sospirò,
con un breve
cenno affermativo. “Domani mattina prenderai servizio sul
caso. Pensi che la
tua squadra possa andar avanti in autonomia?”
“Senza di me?
Sì, al momento non
abbiamo nulla di grosso tra le mani.” Convenne.
“Non di così grosso, almeno.”
Soggiunse con una smorfia.
Dovette dargli ragione.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Ora di cena.
Ted mise piede in casa e
rese
grazie a uno svariato numero di maghi leggendari per
l’odore delizioso che sentiva provenire
dalla cucina.
James aveva preso molti
difetti dei Weasley: l’impulsività, la
facilità di giudizio e l’incapacità di
controllare i propri scoppi emotivi, ma un solo grande pregio oscurava
tutto.
Sa
cucinare.
Era stata una scoperta, dato
che l’aveva sempre visto solo in veste di assaggiatore entusiasta della
cucina della nonna, della madre e di quella ad Hogwarts. Una scoperta
recente
ma piacevole, dacché il suo ragazzino era capace di non
rovinare quasi nulla di
quello che metteva a cuocere in pentola.
Nessuno
vuole ricordarsi il disastro del Christmas
Pudding, ma ehi … anche dopo esploso era commestibile.
“Sono a
casa!” Proclamò
scrollando il leggero mantello estivo dalla pioggia che
l’aveva sorpreso sulla
via di ritorno.
Ed
io che pensavo ad una bella passeggiata … Mi scordo
sempre quanto il tempo riesca a far schifo in Scozia.
“Ed io in
cucina!” Gli fu
annunciato. Bene, sorrise, James sembrava di buon’umore o se
non altro non
particolarmente incazzato dalla giornata.
Beh,
certo, peggio di ieri non poteva andare…
Vederselo tornare tutto
intero
dopo aver ricevuto una serie di inquietantissime notizie da Londra era
stato un
sollievo senza pari e aveva passato tutta la sera a tenerselo stretto
sul
divano con scuse patetiche che non avevano convinto nessuno, lui per
primo;
James non si era però lamentato, limitandosi a godersi le
carezze e i baci e
sghignazzare dandogli della ‘mogliettina
apprensiva’.
Ero
troppo contento per mandarlo al diavolo come
meritava.
Entrando in cucina Ted si
prese un momento per ammirare la testa arruffata del compagno, le spalle
toniche coperte
da una semplice canotta sdrucita e i pantaloni di una vecchia tuta che
gli
cadevano sui fianchi, lasciando scoperta abbastanza pelle da essere
platealmente allusivi.
Credo
sia per questo che non li ha buttati.
“Cosa si
mangia?” Si informò
neutramente, avvicinandosi per dargli un bacio sulla nuca ed aspirare
l’odore
di bagnoschiuma in cui doveva essersi affogato.
Shampoo,
questo sconosciuto…
“Italiano!”
Esclamò l’altro
mulinando il cucchiaio in qualcosa che sembrava salsa o marmellata: Ted
non si
era mai fatto troppe domande circa gli esperimenti a cui veniva
sottoposto
quotidianamente. Di solito finivano con la sua pancia piena e James che
ghignava tronfio e ben disposto a passare sul divano per smaltire,
quindi perché preoccuparsi? “Cioè pasta
… con …
qualcosa.”
“Commestibile?” Non poté fare a meno di
stuzzicarlo.
“Scassapalle.”
Fu il ghigno di
risposta, mentre gli scaricava il peso addosso con intenzione. Era
più un
crollare, ma Ted vi era abituato e dopotutto, esser stato graziato
dalla Natura
di una certa resistenza doveva pur servire a qualcosa. Gli
passò un braccio
attorno alla vita e lo sostenne, non prima comunque di avergli
allungato un
pizzicotto che gli costò un pugno giocoso e un bacio a in
ugual misura.
“Dai,
cos’è?” Chiese
annusando. Non registrò nessun odore preoccupante, anzi.
Nonna
Molly e i suoi geni … grazie.
“È tipo
quella ricetta di
quella vecchietta … in quel posto in cui siamo stati in
vacanza.” Fece una
pausa. “Ricordi?”
“Intendi dire la ricetta della pasta alla sorrentina, che hai
ottenuto intrufolandoti
nella cucina di quel ristorante a Minori, in Italia, dove siamo stati
in
vacanza un anno fa?” Tradusse a beneficio di entrambi,
sentendolo ridacchiare.
“Non mi sono intrufolato.” Gli diede uno
schiaffetto
sulla guancia. “Bugiardo Teddy. La proprietaria era pazza di
me!”
“Dopo che hai chiesto il bis. Due volte. Di tutte le portate?
Sfido qualsiasi
ristoratore a non adorarti.” Gli ricordò
passandogli le braccia attorno alla
vita; sapeva di essere una stramaledetta chioccia, ma sentirlo vicino,
caldo e
presente era un sollievo.
Specialmente
quando rischia la vita due volte nel giro
di due settimane.
James parve intuire dalla
stretta i suoi pensieri, perché voltò il viso di
tre quarti per lasciargli un
lieve bacio sull’angolo della bocca per poi guardarlo con
occhi caldi, e vivi.
“Abbiamo consumato un sacco in
quella vacanza, mio Teddy, e non mi sembra che tu ti sia mai lamentato
della
mia scorta d’energia.”
“Sono meno stupido
di quanto
sembri, sai.” Replicò facendolo ridere.
“Com’è andata oggi? Come sta
Liam?”
Lo sentì irrigidirsi e maledisse la sua appena ritrovata
stupidità. “Non si sa
ancora niente di certo … Prima di tornare a casa sono
passato a vedere come
stava, e ho parlato un po’ con Meg, sua moglie. Non si
è più svegliato da quando…”
Tacque, chiudendo con un colpo della bacchetta il fuoco sul grosso
pentolone in
cui bolliva la pasta. “… cazzo, è un
vero casino.”
Ted gli posò un bacio sulla nuca, senza sapere cosa dire. In
certi casi
qualsiasi rassicurazione suonava sterile e chi meglio poteva saperlo di
persone
come loro? “Mi dispiace.” Si risolse a dire.
“Il caso?”
James stavolta non tentò di metter
su la commedia del
io-auror-tu-civile. Parlò veloce, svolgendo i pensieri come
gli venivano e
facendo forse chiarezza nella sua testa in prima istanza. “Fase preliminare.
Abbiamo
esaminato tutto quello che abbiamo fatto al San Mungo,
dall’inizio alla fine e abbiamo
ascoltato le testimonianze dei Guaritori, però
finché non arrivano i referti
medici del Sergente non possiamo capire su cosa stiamo lavorando. Si
tratta
quasi di sicuro di magia oscura, ma finché non abbiamo la
certezza dai
laboratori…” Si massaggiò la nuca con
una smorfia, e riprese. “Per quanto
riguarda il caso Howe, invece … Beh, abbiamo una mezza pista
su chi possa aver
disattivato le barriere nel Padiglione dei Mortuari. Domani facciamo un
salto
alla ditta che ha realizzato il sistema di sicurezza interno al San
Mungo.”
“Quello che
è stato
disattivato per rubare le spoglie dell’americano?”
Intuì mentre prendeva un
paio di piatti e la tovaglia. James poteva esser un fedele
adepto al
sacro principio dell’Entropia, ma quando mangiava era nipote
di Molly in tutto e per tutto; una
tavola apparecchiata a dovere era imprescindibile.
James mandò la
pasta a scolare
e annuì. “Prince crede che qualcuno della ditta
possa aver fornito i
contro-incantesimi per disattivarle. È una pista, ed
è sempre meglio di
niente.”
Ted sorrise: già
solo il fatto
che l’altro ammettesse che un’idea del tedesco era
buona era un buon passo
verso l’armonia di quella nuova, traballante squadra.
“A proposito di
Prince, hai
sentito Lily?”
L’altro fece una
smorfia,
continuando ad armeggiare tra padella e pasta. “Silenzio
radio. Oggi non aveva
lezione né tirocinio, quindi manco Albie l’ha
vista … Spero solo non sia troppo
incazzata.”
Stavolta si astenne da qualsivoglia commento.
“È
sicuramente incazzata come
una biscia, eh Teddy?” Mugugnò sconfortato,
lasciandosi cadere sulla sedia
accanto a lui mentre la padella colma di pasta levitava sopra le loro
teste e
li serviva copiosamente.
“Le
passerà.” Replicò diplomatico,
dando una forchettata al proprio piatto. Non era come essere a
Sorrento, ma ci
si avvicinava. James cucinava soprattutto per distrarsi, per scrollarsi
di
dosso i brutti pensieri e doveva ammettere che apprezzava quella sua
nuova
abitudine, essendo assai meno distruttiva che lanciarsi come un pazzo
in sella
ad una scopa.
Morgana,
grazie per i geni di nonna Molly. Grazie.
“Buona
eh?” ghignò l’altro
compiaciuto, strofinandogli il piede nudo contro la caviglia.
“Sono un ragazzo
da tenere fuori e dentro ad un letto, ah?”
“Per tutte le stanze. Ed è fantastica, Jamie, sul
serio.” Convenne divertito,
gradendo quel cambio di argomento. Parlare dei casi era un modo per
l’altro di
tirare le somme della giornata e non glielo avrebbe mai negato, ma in
generale
a tavola preferiva argomenti … più frivoli.
“Domani
andrò nel bosco con
Nev.” Disse. “Sai, per quella faccenda del supposto
lupo mannaro…”
“Uh-uh.” Convenne l’altro mentre
trangugiava succo di zucca. “Me lo ricordo …
riunione cittadina, tu che mandi a fare in culo gente a
caso…”
“Jamie…”
“No, dai, me lo ricordo sul serio!”
Ghignò. “Quando è? Di notte? Con la
luna
piena?”
“Andare a cercare
un Lupo
Mannaro durante il Plenilunio può essere chiamato solo
tentativo di suicidio
assistito.” Replicò scuotendo la testa.
“No, il Plenilunio è tra tre giorni. Ma
se c’è un Mannaro in forma umana in giro per la
Foresta Proibita … beh, diciamo
solo che sarà più facile vedergli i segni della
licantropia addosso adesso che
lontani dal Plenilunio.”
“Vuoi che venga
anch’io?” Lo
stupì. “Possono sempre servire un paio di occhi in
più, no?”
Ted ci rifletté:
una caccia al
Mannaro non era quella che poteva esser definita una tranquilla serata
post-lavorativa ma James non era il genere di persona da camino e
pantofola,
non importava quanto stressante fosse stata la giornata. E
l’idea di averlo
vicino in quei frangenti lo rassicurava, oltre a dargli la piacevole
sensazione
di fare qualcosa per cui entrambi, seppur in modi diversi, erano
naturalmente
portati.
“Mi piacerebbe, ma
sicuro di
non esser troppo stanco?”
James ghignò,
servendosi
un’altra generosa dose di pasta. “Mio Teddy, mi
conosci! Mi perderei mai
l’occasione di vederti versione cacciatore sexy?”
****
Londra,
Charing Cross.
Notte.
Alla fine Soho era servito
solo come base. Il che, a dire il vero, era la norma.
Michel aveva raggiunto Mael e i suoi amici dell’Accademia
Beery per un veloce
cocktail al The Edge, locale adorato dal francese per via della
concentrazione
di Babbani modaioli e di tendenza, salvo poi spostarsi oltre il fiume
per farsi
fagocitare dentro l’Heaven, night-club dalla musica
sufficientemente alta per soffocare
conversazioni di facciata e soprattutto brutti pensieri.
Di
solito…
Michel era appoggiato al
bancone e stava sorseggiando la sua ordinazione svogliato, ignorando
forzosamente i tentativi di attaccare bottone di un tizio in maglietta
a rete e
troppo kajal.
Provvidenziale, Mael gli si
appoggiò contro, passandogli un braccio attorno alla vita.
“Ehi splendore.” Gli
mormorò all’orecchio per farsi sentire oltre la
musica. “Cos’è quel muso
lungo?”
Michel sospirò,
passandogli le
dita trai capelli corti e sudati. “Se te lo dico adesso mi
daresti retta?”
“Proprio
no!” Rise
schioccandogli un lieve bacio sulle labbra. “Dai, vieni a
ballare!”
Michel sorrise, accettando
la
mano: Mael non era il genere di persona da cui andare per fare grandi
discorsi
o chieder consiglio. Da lui si poteva avere solo fatti, che fossero su
un letto
o su una pista da ballo. Non che non la ritenesse una
qualità: era sinceramente
affezionato a quel piccoletto pieno di energia e capricci e la loro
amicizia
funzionava proprio perché non aveva pretese di esser
profonda.
Il
problema è che non è abbastanza. Specialmente
stasera.
Qualcuno
qui si sta avvicinando
all’auto-commiserazione?
No, decretò con
una smorfia scontenta,
non andava bene. Non andava bene affatto.
Tirò a
sé Mael per la cintura
dei jeans stretti come un guanto e lasciò che la musica,
forte e ritmata,
avesse la meglio su di lui. In fondo, era il motivo per cui era venuto.
Dopo un paio di canzoni e la
perdita della maglietta giunse ad una grama conclusione.
…
Definitivamente non va.
Aveva bevuto per lasciarsi
andare, il corpo flessuoso e caldo di Mael era invitante, la musica era
perfettamente stordente e l’odore di sudore, profumo e
testosterone avrebbe
dovuto fargli azzerare ogni capacità cognitiva …
tutto cospirava perché quella
fosse la solita serata senza pensieri. Invece no.
Stava ancora pensando: al
lavoro, a suo padre, a come le pareti di casa sembravano
schiacciarglisi
addosso ogni volta che vi rientrava, ad Albus e al fatto che la
relazione più duratura
che avesse fosse quella con la sua bacchetta. Che si era rotta.
Quando sentì le
labbra
dell’amico lambirgli il collo scattò
all’indietro, come bruciato.
Merlino,
non ti trovi un po’ patetico? Il grande Michel
Zabini. Mmh?
Mael gli scoccò
un’occhiata
preoccupata, oltre i fumi della propria sbronza. “Che
succede?” Gli sillabò
muto dato il frastuono. Michel scosse la testa, infilandosi la
maglietta e
facendo cenno verso l’uscita: prendere una boccata
d’aria fresca gli avrebbe schiarito
le idee. Almeno sperava.
L’uscita di
sicurezza del
locale era fortunatamente a portata di mano e ben visibile con una
popolazione
Babbana piuttosto prona al fumo. Scivolò fuori con
facilità, respirando l’aria
fresca della quieta serata estiva. Attorno a lui c’erano
persone chiacchieranti
o impegnate a far altro, ma benché ne conoscesse
più di un paio, tirò dritto
verso la fine del grosso terrazzo che finiva con la scala-antincendio.
Si
appoggiò alla balaustra di metallo, osservando il Tamigi
brillare di mille luci
elettriche e luminosissime.
Uno
dei motivi per venire in questo posto, a parte
scopare, è anche la vista…
Si accorse quasi subito
però
che la sua scelta misantropa era stata piuttosto stupida: aveva
dimenticato
l’accendino.
E,
tanto per girare il dito nella piaga, niente
bacchetta.
Quasi il Fato avesse deciso
di
dargli tregua, una mano comparve dal nulla tendendo
l’agognato accendino.
“Serve?” Chiese una voce densa di un accento che
non riconobbe.
Michel alzò lo
sguardo per
squadrare l’interlocutore. Era un bel tipo,
classificò con sicurezza. Alto,
spalle larghe e allenate, ma non pompate da ore di inutile palestra, e
con una
zazzera di capelli biondi non flagellati dai coloranti chimici. Anche
l’abbigliamento non era particolarmente appariscente per i
canoni dell’Heaven:
un paio di jeans slavati ma dall’aria costosa e una maglietta
sportiva. Il
genere di stile fatto a posta per non sembrare impegnativo quando in
realtà
calzava come un guanto.
“Grazie.”
Sorrise chinandosi
per dare un tiro alla propria sigaretta e lasciarsi riempire la bocca
di fumo.
“Uno è
qui per servire.”
Tedesco, stimò, doveva esser tedesco per come pronunciava in
modo nasale alcune
sillabe. Michel sorrise al cliché involontario che
rappresentava: alto,
dall’aria sana e biondo. Anche le guance erano accese di un
rosa piuttosto
intenso, dovuto alla calura della sala da cui doveva esser appena
uscito. Era niente
male. Anche portarselo a casa lo sarebbe stato altrettanto.
“Servire
… Non mi
sembri far parte dello staff. Neanche del
paese, se è per questo.” Obbiettò senza
particolare voglia. Ma era la sua
educazione Purosangue: bisognava riempire i silenzi quando la persona
davanti a
te non dava cenno di volersene andare.
“America.”
Disse stupendolo.
“Vengo da Boston quindi non faccio parte del Continente.”
“Avrei detto fossi tedesco.”
Un lampo di sincero piacere si accese nel sorriso disimpegnato
dell’altro.
“Abbiamo un esperto di accenti, ah?”
“Di tedeschi,
forse.”
Motteggiò facendolo ridere. “E poi, spero tu non
ti offenda, ma rappresenti il
prototipo in modo eccellente. Sono solo stupito dalla mancanza di
bretelle e
calzoni alla zuava.”
L’altro scoppiò a ridere più forte e
Michel plaudì silenziosamente alla risata
franca e sincera. Era raro che qualcuno prendesse nel verso giusto il
suo
umorismo, specie quando i cocktail erano troppi per apprezzarne le
sfumature.
“Mi dispiace deluderti, ma non ne ho mai indossati in vita
mia.” Ghignò,
arricciando le labbra e squadrandolo per intero. “E poi, come
rimorchierei
conciato in quel modo?”
“Giusta
osservazione.”
Convenne. “Ed io che pensavo che si venisse qui per la buona
musica.”
“Dio, ma se è una schifezza!”
Esclamò spalancando gli occhi. Niente cliché
lì:
li aveva scuri alle luci di Londra. “A volte mi chiedo se
qualcuno la ascolti
fuori da posti come questo. Senza avere l’impulso di prendere
a calci l’impianto
che la spara, intendo.”
“Palestre, saune…” Elencò
divertito. “… è settoriale.”
Si stupì della facilità
con cui stava rompendo il suo fioretto serale. Non era uscito per avere
una
conversazione sterile eppure …
Stasera
ti devi sentire proprio solo, mio buon Mike.
“Puoi dirlo
forte.” Scrollò le
spalle l’altro. “A te piace?”
“Non è
questione di piacere, è
questione di … colonna sonora, suppongo. Non puoi certo
mettere musica classica
in posti come questo.”
“Sì, vero.” Disse avvicinandoglisi di
qualche passo. Era poco più alto di lui,
ma aveva una corporatura più massiccia. Immaginò
il peso dei muscoli
schiacciarlo contro le lenzuola e un fuoco gli divampò
dentro. Finalmente. “Hai
finito qui?” Gli venne chiesto. “Con la sigaretta,
dico.”
“Mi stai chiedendo
di
ballare?” Ribatté abbandonando la suddetta alla
consunzione spontanea.
“Non con quella
merda di
sottofondo.”
Michel sentì la
mano
dell’altro passargli lungo il basso schiena, calda e
presente, ma non sudata.
Piacevole, stimò. “Un valzer allora?”
Mormorò sentendo che finalmente il
cervello cominciava a puntare in unica, disimpegnata direzione.
Il biondo ghignò
chinandosi
nella sua direzione. “Una specie.”
****
Note:
Di tutto e un po’!
Questa
la canzone del capitolo. Tanto per andare su robina allegra. Ce ne
servirà come
scorta per l’inverno! ;D
|
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Capitolo 13 *** Capitolo XII ***
Capitolo XII
I look
around, but I can't find you If
only I
could see your face
Instead
of rushing towards the skyline
I wish
that I could just be brave
(Rabbit
Heart, Florence &
The Machine)
24
Giugno 2028
Victoria
Embankment. Casa di Michel Zabini.
Mattina.
La vita era fatta di alti e
bassi. Dove c’era una giornata di merda, c’era
sempre la possibilità che
arrivasse una notte niente male.
E così era stato
per Michel,
che si svegliò sentendo il piacevole languore che
testimoniava lenzuola sgualcite,
sudore a raffreddarsi sulla pelle e un uomo che sapeva come muoversi e
soprattutto cosa toccare.
Inspirò
seppellendo il viso
contro il cuscino, seta fresca contro il suo viso ancora accaldato; la
barba
pungeva ma non riusciva a trovarla fastidiosa come al solito.
Era la prima volta da
… mesi … che
non si svegliava con il
malditesta. Certo, svuotarsi dava sempre i suoi buoni effetti, ma
quella notte
era stata come se finalmente il mazziere della sua partita personale
gli avesse
allungato una mano sublime. O un antidolorifico potente.
Merlino,
che meraviglia.
Con la coda
dell’occhio vide
la luce del bagno accesa e dall’acqua intuì che il
tedesco – o americano? – si
stesse facendo una doccia prima di togliere le tende; doveva essere
l’alba.
Ottimo,
sa quando andarsene.
Dovrei
chiedergli il numero comunque. È un’esperienza
che va ripetuta, questa.
Si stese sulla schiena,
osservando i vestiti del tipo gettati su una delle sedie ultra sottili
che
decoravano il suo appartamento uscito dalla testa hi-tech di
un’architetto
Babbano. Suo padre quando vi era entrato la prima volta aveva storto la
bocca e
aveva passato la successiva mezz’ora a criticare tutto
ciò che gli si era
parato davanti.
A
ben pensarci, è stato questo il motivo per cui
l’ho
fatto arredare così… Per fargli dispetto.
Stese una mano sul comodino
per cercare le proprie sigarette, e quando non le trovò
cercò la bacchetta per
Appellarle. Gli ci volle più di qualche secondo di nebbia
post-coitale per
rendersi conto che non c’erano nessuna delle due.
Cosa
diavolo…
Si alzò di scatto
a sedere
mentre scandagliava la stanza con lo sguardo; ricordava di aver
lasciato la
bacchetta sul comodino, come faceva ogni notte, oculatamente nascosta
dalla
sveglia digitale.
Dov’è
finita?
La sola idea che il suo
ospite
potesse averla vista gli dava l’ansia; un Babbano poteva
farsi sospettoso
vedendo un legno istoriato e dalla forma strana in un appartamento come
il suo.
Come
se non bastasse la mia bacchetta di riserva è una
vecchia bacchetta di papà. Merlino, penso anche abbia delle
protezioni
anti-Babbano sopra …
Protezioni del genere
aggredivano
chiunque non fosse il proprietario con effetti terrificanti quali
fuoco,
scariche di magia e amenità simili.
Ci
manca solo che debba chiamare una squadra di
Obliviatori … o un carro funebre perché ha
toccato la mia bacchetta.
Sono
un idiota. Un errore da novellino.
Cercò di
ricordare dove l’avesse
lasciata prima di uscire con Mael e la sua compagnia, ma tra
l’alcool e il
fatto che avesse passato tutta la notte a spegnere il cervello nel modo
migliore che conosceva non gli sovvenne nulla.
“Ehi,
cos’è quella faccia?” Lo
sorprese una voce. “Tanto devastato all’idea che me
ne vada?”
Milo – erano
riusciti a
presentarsi prima di mettersi gloriosamente le mani addosso nel taxi di
ritorno
– se ne stava sullo stipite della porta del bagno ed era una
visione, tra il
vapore della doccia, l’assoluta mancanza di vestiti e i
capelli biondi
arruffati come un’aureola. Per un attimo ogni suo senso fu
investito dai ricordi
delle mani e dalla bocca del ragazzo di fronte a sé.
“No,
io…” Inspirò, realizzando
di essere al centro della stanza, coperto solo dalla propria vestaglia
e con
un’espressione di puro terrore. Non andava affatto
bene. Ne andava della sua reputazione.
“Buongiorno.”
Riuscì a dire
lasciandosi scivolare un sorriso languido sul viso. “Devo
ammetterlo, mi sarei
offeso se tu fossi sgattaiolato via come un ladro…”
L’altro ridacchiò, staccandosi dalla porta e
afferrandogli i lembi della
vestaglia, quasi volesse chiuderli. Finì invece per
tirarselo contro. “Non sono
così stronzo.” Ghignò. “Non
con chi ha un culo come il tuo.”
“Sempre così diretto?” Passandogli le
braccia attorno al collo cercò di
occhieggiare all’interno del bagno. Niente, non ve
n’era traccia.
Dannazione.
L’ha vista? Non l’avrà presa? Se solo
non
avesse il manico intarsiato d’argento… Potrebbe
balzare all’occhio, potrebbe
pensare di venderla ad un robivecchi.
Era un’ipotesi
assurda, ma non
così tanto se si considerava il fatto che avesse fatto
entrare in casa un perfetto
sconosciuto.
Quante
volte Albus ti ha detto che potresti metterti
nel letto uno psicopatico? O svegliarti senza mobili?
Milo intanto pareva
più
occupato a lasciargli una calda scia di baci sul collo e Michel dovette
appellarsi a tutto il suo autocontrollo per mantenere la
lucidità. “Senti … hai
…” Come poteva chiedere una cosa assurda come
quella? Forse avrebbe dovuto
trovare una scusa per frugare trai suoi vestiti?
Di
certo non l’ha addosso…
“Hai
visto…”
“Vedo te, e lo spettacolo mi piace
Michel…” Il modo in cui arrotolava il suo
nome sulle lingua lo faceva impazzire, perché per la prima
volta dopo anni veniva
pronunciato correttamente.
Non
mi chiamo Michael, mi chiamo Michel.
Grazie.
No,
aspetta. La bacchetta.
Con il cuore ricolmo di
dolore
si staccò dalla massa di muscoli, pelle e ossa bollenti del
ragazzo di fronte a
sé. “Hai visto … sto cercando la
mia…”
Sarebbe più semplice se glielo
potessi
spiegare senza essere guardato come un pazzo.
Non ebbe il tempo di dire
una
parola che l’altro lo schiacciò letteralmente
sopra il letto, in un movimento
fluido e allenato, di chi sapeva come rendere maledettamente eccitante
persino quello
che alla fine era un placcaggio.
Era sconcertante; si
riteneva
una persona con un’esperienza tra le lenzuola, ma il tedesco
stava premendo
tutti gli interruttori giusti, e senza troppi sforzi dal ghigno beato e
dalle
mani che sembravano conoscere la mappa esatta del suo corpo.
Oh,
Merlino … Un animale da letto. È un animale da
letto.
Chiuse gli occhi esalando un
respiro breve e secco quando sentì i palmi ruvidi passargli
sulle gambe e
stringere, con fermezza e senza fare male.
“La mia
bacchetta…” Mugolò
mentre una parte del suo cervello urlava sconcertata e
l’altra osservava
placida lo svolgersi degli eventi.
“È una
metafora?” Chiese
l’altro, alzando il viso minimamente turbato. “O
intendi l’altra?”
…
Come?
“Perché
è a terra, vicino alla
scrivania e visto che non volevo farmi saltare in aria una mano
l’ho lasciata
dov’era. Mi sembrava protetta da qualcosa.”
Michel ritrovò di
colpo la
lucidità. Sbattè le palpebre cercando di
ritrovare contegno e soprattutto,
cervello, perché si sentiva ridotto a deliziosa gelatina.
“Sei un mago?” Fu la
prima cosa che gli venne in mente.
Milo inarcò le
sopracciglia.
“Ti pare mi porti dietro legnetti che fanno
scintille?”
“Non sei un
mago…” Quella
mattina si sentitiva deplorevolmente ritardato perché gli
stava sfuggendo
l’intero quadro della situazione. A sua differenza il tedesco
lo guardava con
un sorrisetto beffardo, simile a quello di un bambino pestifero.
“Non sono un
mago.” Confermò.
“Ma tu sì, vero dolcezza? Dovresti aver
più cura delle tue cose.” Si chinò fino
a far toccare il naso con il suo. Aveva gli occhi castano chiarissimo,
un
castano che gli sembrava di aver già visto, secoli prima.
Dove?
No,
non distrarti.
“Non sei neppure
un Babbano
però…”
“Ti sembro così sprovveduto?”
Ghignò. “E no, prima che tu me lo chieda, non ho
parenti che menano bacchetta.”
Michel sentì il
cervello
incepparsi come una vecchia macchina che aveva fatto troppi chilometri
in poco
tempo. Incepparsi e poi riavviarsi di colpo con un gran sferragliare.
Magari non
l’avesse fatto.
“Sei un
Magonò.” Realizzò
sentendo il corpo congelarsi come se l’avessero appena
gettato in una fontana
di Hyde Park.
L’altro
scrutò per un attimo
la sua espressione, poi fece una risatina, staccandosi.
“Dalla velocità con cui
ti s’è ammosciato direi che non sei un fan della
categoria.”
“Sei un Magonò.” Ripetè come
un disco rotto; com’era possibile? I Magonò erano
poveri, cenciosi e si nascondevano agli angoli delle strade per
aggrapparsi ai
cordoni della borsa con patetici sguardi acquosi. I Magonò
erano Mastro Gazza,
il bidello di Hogwarts dallo sguardo arcigno e dall’igiene
dubbia.
I Magonò non
erano un dio
fatto di muscoli, sorriso irriverente e capelli biondi come il grano.
L’altro gli
rivolse
un’occhiata orribilmente divertita, togliendosi da lui e
dirigendosi verso i
propri vestiti e dandogli una visuale panoramica del suo fondoschiena.
I
Maghinò non hanno un culo perfetto.
“Quando ti sarai
ripreso dal
trauma trovi il mio numero di cellulare sullo specchio del
bagno.” Lo informò.
Specchio del bagno?
Era talmente agghiacciato
che
neanche si chiese con cosa ce
l’avesse scritto. Nel frattempo l’altro si
ravviò i capelli arruffati e umidi
con una mano – la stessa mano che aveva fatto cose
innominabili ad ogni singolo
muscolo del suo corpo la sera prima – e gli sorrise come se
fosse la cosa più
esilarante del mondo. “Sta’
allegro,
maghetto, non ti ho scopato via la
magia.”
“Lo
so…” Riuscì ad esalare. Si
sentiva paralizzato e nella sua testa c’era solo un coro di
voci che urlava di
lavare l’offesa nel sangue. “Mi hai
ingannato.” Tirò fuori cercando di
recuperare dignità, perché era Michel Zabini e
nessun dannato Magonò si prendeva
gioco di lui.
“Io?”
Chiese con la voce più
innocente del mondo. “Ci siamo presentati, ti ho offerto da
accendere e mi hai
portato a casa tua per fare sesso. Quando ti avrei ingannato? Mi sembra
abbiamo
ottenuto tutti e due ciò che volevamo.”
“Non mi hai detto
cosa sei!”
Un’ombra passò sul viso dell’altro e per
un attimo Michel pensò di aver
esagerato. Anche se ovviamente non l’aveva fatto:
l’altro era un Magonò, aveva
solo detto la verità.
L’ombra
passò comunque, e
tornò il sogghigno. “Alla faccia del
razzismo!” Esclamò. “Fammi indovinare,
sei
Purosangue?”
“Non è
affare che ti
riguardi.”
“Curioso,
è la stessa cosa che
avrei detto io.” Scosse la testa e Michel finse di non
sentirsi in qualche modo
oggetto della delusione dell’altro. Come se gli importasse,
poi. “Ero pronto a
non avere pregiudizi.”
“Forse perché non hai diritto
ad averne.”
Ritorse.
Il Magonò gli
rivolse
un’occhiata di scherno e poi si avvicinò.
Tentò di mettersi in piedi ma venne
risbattuto contro il materasso con un movimento fulmineo. Voleva
aggredirlo?
Non fece in tempo a chiederselo che sentì una mano premergli
sul petto, con
decisione ma non violenza. Gli occhi dell’altro erano davvero
chiari, ambra.
Era assurdo, specialmente in quel momento, pensare che li avesse
già visti
altrove.
No,
impossibile. Io non frequento la feccia.
“Sei proprio uno
di quegli stronzi,
ah?” Sospirò a pochi centimetri dalle sue labbra e
Michel si impose di non far
tornare l’eccitazione. Non che fosse esattamente facile: il
suo corpo non
pareva turbato dalla nuova scoperta. “Peccato. Ti avrei
offerto volentieri la
colazione.”
Come l’aveva
sbattuto sul
letto si rialzò lasciando la stanza senza un’altra
parola.
Michel rimase a lungo steso, finendo per trovare la bacchetta, a terra
esattamente dove il Magonò aveva detto fosse. Dopo qualche
attimo rilasciò
un’imprecazione trai denti.
L’emicrania era
tornata.
****
Inghilterra,
Devon, Il Mulino.
Mattina.
Non poteva trasferirsi a
casa
del suo ragazzo.
Lily l’aveva
pensato quella
mattina e così, più o
meno alle prime
luci dell’alba, aveva infilato la sua roba nel borsone che si
era portata dal
Mulino e ci era tornata, al Mulino. Scott, svegliatosi per il
trambusto, aveva
cercato di farla rimanere, assicurandole che per lui non
c’era il minimo
problema, che sarebbe potuta rimanere lì anche un mese, che
la casa era grande
e tutto il resto…
Magari.
Ma da certe beghe non si può scappar per
sempre.
“Non
è questo il problema, Scotty.” Gli aveva sorriso,
baciandogli la testa arruffata dal sonno. “È che
devo tornare a casa per …
questioni familiari, mettiamola così.”
“Tuo padre, eh?” Aveva indovinato nascondendo uno
sbadiglio dentro una mano.
“Cerca di non esser troppo dura con lui, alla fine pensava di
farlo per il
tuo…”
“Non ho bisogno che qualcuno prenda decisioni per
me.” L’aveva interrotto,
perché non aveva voglia di litigare con chi
l’aveva ospitata beccandosi pure un
pacco di paturnie che non avrebbero neppure dovuto sfiorarlo.
L’altro
aveva sospirato, ma aveva avuto più cervello
che tentare di infilarsi in un argomento simile. “Okay.
Colazione?”
Si
era chinata per baciarlo a fior di labbra, cercando
di infondere in quel breve contatto tutta la gratitudine che provava.
“No, hai
già fatto più che abbastanza … grazie.
Ci sentiamo stasera, okay?”
Aveva abbandonato il porto sicuro che era casa Ross per tornare al
Mulino e
facendo scattare le chiavi di casa pensò che forse non era
stata una buona
idea; avrebbe sempre potuto riparare a casa di uno dei fratelli per
ancora
qualche giorno mentre aspettava che la bufera del suo cattivo umore si
mitigasse.
Non
mi va di litigare con papà e so che appena lo
vedrò
finirò per farlo.
Era il suo eroe, lo era
sempre
stato e non avrebbe smesso di esserlo, tuttavia dovergli spiegare per
l’ennesima volta i limiti che non doveva oltrepassare le dava
ai nervi.
È
un maniaco del controllo. Deve sapere che siamo in un
luogo sicuro, che facciamo qualcosa che non ci mette in pericolo e che
non
siamo, soprattutto, con gente pericolosa.
E
se c’è il solo sospetto che una di queste
condizioni venga
meno…
Entrò in cucina
e, dato il
sonno che sentiva, fu inevitabilmente attratta dalla caffettiera
bollente che
emanava fragrante odore di colazione.
Meravigliosa
caffettiera americana … Lasciati amare.
“Lily.”
Era una trappola!
Si voltò verso la voce di suo padre e lo
trovò appoggiato allo stipite
della porta, senza occhiali, con i capelli fuori controllo e ancora in
pigiama.
Era il suo giorno libero?
O
forse è presto sul serio. Quando passi la notte
insonne la sfasatura temporale si fa sentire.
“Era una
trappola?” Chiese
puntando sullo scoprire subito le proprie carte
L’uomo
sospirò passandosi una
mano dietro la nuca. “Cosa?”
“Il
caffè … era per attirarmi
in trappola?”
Suo padre le rivolse uno
sguardo confuso. “No, l’ha preparato tua madre
prima di uscire … Ci sono le
selezioni dei Portieri del Puddlemere oggi, e le fanno
all’alba.”
Lily strinse la tazza tra le
dita, sentendosi piuttosto sciocca. “Vado a mettere le mie
cose in camera…”
Iniziò.
“Aspetta.”
Rovinò tutto
l’altro. “Dobbiamo parla…”
“Assolutamente no.” Lo bloccò sentendo
il familiare nodo di rabbia serrarle lo
stomaco. “Non c’è niente da dire. Niente
che non mi farebbe litigare con te.”
“Lily, per favore.” Sembrava stanco, e non della
stanchezza dovuta a una
sveglia troppo mattiniera. Riconobbe le familiari occhiaie sotto gli
occhi e
capì che all’ufficio Auror doveva essere uno di quei periodi.
Non
farti impietosire. Non osare! Mantieni la
posizione, soldato.
“Mi hai nascosto
delle cose.” Si
appoggiò al frigorifero, cosciente ormai del fatto che
quella conversazione non
si poteva evitare. “Hai preso decisioni al posto mio.”
“Lo so, l’Agente Prince…”
“Sören.”
Lo corresse. “Gli hai fatto
promettere di tenere la bocca chiusa, e me lo sono trovato di fronte
comunque.
Londra è una città piccola, pensavi sul serio che
non ci saremo imbattuti l’uno
nell’altra?”
“Era proprio
quello che volevo
evitare. A te e ai ragazzi.” Ribattè gettando un
paio di bustine di the in una
tazza come se tutta quella faccenda fosse colpa loro.
“Perché?”
Suo padre si
passò una mano
trai capelli, tentando senza successo di dargli un ordine. Era un tic,
come
mordersi le unghie o aggiustarsi gli occhiali.
“Perché non voglio che le vostre
vite vengano di nuovo…”
“Cosa, sconvolte?”
Non lo lasciò
finire, abbandonando la tazza di caffè nel lavello, casomai
avesse la brillante
idea di rovesciarsela addosso: non si fidava a tenere liquido bollente
tra le
mani, non in quel momento. “Non sarebbe successo niente del
genere! A Tom non
sarebbe fregato nulla, Al neppure … ed io al massimo
l’avrei visto per un
caffè!”
Sei
sicura? Allora perché continui a tentennare?
Codarda.
Decise di accantonare quella
voce nella sua testa per l’ennesima volta. Quella voce che le
diceva che forse
suo padre aveva ragione, forse l’arrivo di Sören in
Inghilterra, nella sua Inghilterra,
la stava mandando fuori
fase più di quanto avrebbe dovuto.
Non
ho bisogno di dargli ragioni per credere che abbia
fatto bene.
“Ho
vent’anni, sono abbastanza
grande per sapere cosa voglio!”
L’uomo le
lanciò un’occhiata
che era un misto di incertezza, senso di colpa e qualcosa di
più ferreo, di più
interiore, una cocciutaggine da padre di famiglia detentore di ogni
certezza.
Morgana,
quanto odio quando fa così.
“Bene.”
Disse calmo. “Allora voglio
che tu mi assicuri che rivederlo non ti ha dato il minimo
pensiero.”
“Mi ha sorpreso,
tutto qui.”
Mentì. “Questo non significa che mi devi
proteggere come una cavolo di
ragazzina traumatizzata!”
“È quello che sei stata e Merlino solo sa se non
darei un braccio, o tutta la
mia magia, perché non succeda di nuovo.”
C’era sincero dolore nel tono di voce
e Lily sentì la rabbia cominciare a defluire come una marea.
Chiuse gli occhi e
sospirò.
“Sören
non ha colpa dei miei
incubi…”
“Ma ne è stato parte.” Lo
percepì avvicinarsi e poi sentì la sua mano,
forte e
salda, sulla spalla. Avrebbe voluto scrollarla, ma la realtà
e che ne aveva bisogno.
“Non sto dicendo che ho fatto
bene a nasconderti delle cose, tesoro.” Aggiunse.
“Ho solo cercato di evitarti
dei pensieri … Nei piani originali sarebbe dovuto rimanere
non più di trentasei
ore.”
“Adesso non è più
così?”
“Complicazioni con il caso.” Non si
sbottonò, ma non lo pretese. Quelli davvero
non erano affar suoi. “Resterà più di
quanto previsto, non era pianificato, ma…”
“Se l’avessi saputo prima sarebbe stato
diverso?”
“Non lo
so.” Ammise e questo
lo apprezzò. “Voglio solo che tu, Al e Tom viviate
sereni.” Ripetè. “Ma hai
ragione, era tuo diritto sapere.” Scosse la testa.
“Non interferirò più,
qualunque cosa tu decida di fare d’ora in poi, te lo
prometto.”
Lily lo abbracciò d’impulso, perché
sì, la rabbia non era passata, non del
tutto, ma le intenzioni, quelle le poteva capire e scusare. Non era
più una
quindicenne arrabbiata con il mondo.
Dovevo
solo ricordarmelo, credo.
La stretta di suo padre era
calda, presente e aveva l’odore del sonno e di casa. Non
aveva realizzato fino
a quel momento quanto le fosse mancata; sentì la tensione
scivolare via come
una coperta troppo larga e finalmente potè permettersi di
essere stanca.
“Mi dispiace
tesoro.” Le mormorò
trai capelli. “A volte non tutto quello che faccio risulta
essere la soluzione
perfetta.”
“Decisamente.” Convenne con una risatina che
sperò non fosse troppo acquosa.
“Non offederti, ma davvero, stavolta no.”
“Nessun offesa intesa.” Si staccò per
accarezzarle la guancia. “Colazione?”
“Merlino, sì, sto morendo di fame.”
Sorrise perché non riusciva a restar
arrabbiata con nessuno dei suoi familiari troppo a lungo, specialmente
suo
padre, con quell’aria perennemente arruffata da ragazzo
imbranato.
“Voglio una vera colazione.” Pretese
mettendosi a
tracolla il borsone, precedentemente abbandonato su una sedia nella sua
ricerca
di caffè. “Tanta, vera colazione.”
“Agli ordini!” Ridacchiò prima di
mettersi docilmente ai fornelli. Ma c’era
ancora qualcosa di indeciso nella linea delle sue spalle e Lily si
prese un
momento in più. “Lils…” Disse
infatti, e c’era esitazione, ma anche una strana
rassegnazione nel tono di voce. “Ti è arrivata una
lettera.”
“Un Gufo?”
“Te l’ho lasciata sulla scrivania, in camera
tua.” Si limitò a dire prima di
voltarsi a prendere il necessario per cucinare.
Lily non fece altre domande,
sapendo che non avrebbe ricevuto risposta dalla persona che gli stava
di fronte
– quando voleva suo padre riusciva ad esser persino meno
comunicativo di Tom; corse invece
al piano di sopra,
lanciando la borsa sul letto. Sulla scrivania faceva ben mostra di
sé una busta
pergamenata.
Sören
E.Prince,
Diagon
Alley, Paiolo
Magico, Londra.
****
Londra,
Diagon Alley.
“Odio quando
scappano!”
Sören non era
propenso, in
linea di massima, a dar retta a James Potter ma in quel momento assolutamente sì.
“Fermo!”
Urlò accanto a lui Malfoy, cercando di lanciare un
incantesimo in direzione del loro sospetto fresco di interrogatorio;
nientemeno
che il figlio del proprietario della ditta degli incantesimi Protettivi.
Erano
bastate un paio di domande incalzanti e la richiesta di vedere dove
venivano
archiviati i contro-incantesimi, perché il ragazzo, nervoso
sin da quando erano
entrati nel piccolo ufficio sopra la fabbrica, saltasse in piedi e si
gettasse
fuori dalla finestra come se avesse le ali ai piedi.
(In realtà un Incantesimo Levitante piuttosto ben riuscito.
Il tipo non doveva
esser nuovo alle fughe precipitose.)
Sören si
infilò nella tortuosa
via principale di Diagon Alley, masticando un’imprecazione a
mezza bocca,
quando si accorse che il sospetto aveva scelto quella soluzione di fuga
proprio
per la calca che premeva da ogni lato, rendendo difficoltoso il
passaggio di
quattro agenti armati.
“Levatevi dai
piedi!” Gridava
inutilmente Potter, cercando di evitare anziani e tirando energici
spintoni a
chi gli sembrava in grado di spostarsi ma non sembrava averne
l’intenzione.
“Potty, non
uccidere nessuno!
Ricordati i richiami disciplinari!”
“In culo i richiami!”
Sören
cercò di concentrarsi
sull’azione e sul regolare il respiro, dato che altro non
poteva fare che
seguire pedissequamente le mosse degli auror.
Non
conosco il terreno d’azione. Non so come muovermi.
Non aveva neppure fatto in
tempo a lanciare un Incantesimo Localizzante sul sospetto; Londra e le
sue
strade, così come la sua popolazione magica, gli era nuova e
si sentiva ancora
sbalestrato.
Non
ha importanza. Hai un compito, eseguilo.
Razionalmente sapeva cosa
fare: seguì Jordan che gli scoccò
un’occhiata stupita ma non fece rimostranze.
“Seguimi!” Disse invece. “Sbucheremo a
Notturn Alley, lì dovrà fermarsi, oggi
c’è il mercato, sarà pieno di
banchetti!”
Si limitò ad
annuire
stringendo con forza la bacchetta in pugno e riparandola dalla gente
che gli
sfrecciava accanto.
C’è
una pista. Finalmente. Qualcuno ha pagato o
minacciato il sospetto per farsi dare i contro-incantesimi per le
barriere del
Padiglione Mortuari. Qualcuno che ha trafugato tutto ciò che
era Sam Howe.
È
una pista. Finalmente.
Jordan lo guidò
con sicurezza
tra vicoletti angusti e ingombri di cianfrusaglie, quanto di maghi che
gli
ricordavano sin troppo bene la sua infanzia in Germania.
Il
tempo si è fermato in Europa.
Fu un pensiero fugace prima
che il vicolo si aprisse su una piazzetta ingombra di bancarelle e teli
stesi
per ospitare merce di molteplice provenienza, da cibo ad artefatti
magici.
Sören non si lasciò distrarre; in un lampo vide il
mantello del ragazzo sparire
dietro un banchetto traboccante libri . “Lì!”
Esclamò. Scattarono e con la coda dell’occhio vide
Potter e Malfoy sbucare da
un altro vicolo.
Non
deve Smaterializzarsi. Sta correndo troppo veloce
ed è terrorizzato, non si è ancora
smaterializzato, ma appena troverà un buco
in cui infilarsi…
Realizzò che
quella piazzetta,
per la sua confermazione, era un buco perfetto. Occultato dalla merce e
dalle
bancarelle il giovane mago aveva tutto il tempo per lanciare un
incantesimo; lo
vide tirar fuori la bacchetta, puntarsela addosso …
… e poi
l’intero banchetto di
libri gli franò addosso.
Sören si
bloccò appena in
tempo per non essere travolto e lo stesso fecero gli auror dietro di
lui.
Che
diavolo…
Dai lamenti che si udivano
provenire sotto i chili di carta il sospetto non era stato altrettanto
fortunato.
“Woah!”
Esclamò Potter
affiancandoglisi con un ghigno. “Che culo! Viva i banchetti
marci di Diagon
Alley!”
“…
Perché la fortuna bacia sempre gli idioti, vero
James?”
Sören sentì un brivido lungo la nuca: quella voce
l’avrebbe riconosciuta tra milioni
di altre dato che era fatta della stessa materia dei suoi incubi
peggiori,
quelli che gli ricordavano quanto e come avesse sbagliato a seguire quell’uomo.
No,
non è…
Non era Alberich Von
Hohenheim, perché era morto, certo. Era invece
l’unica traccia rimasta sulla
terra. Era suo cugino Thomas.
“Dursley!”
Esclamò Malfoy
sorpreso. “Sei stato tu?”
“Sembrava avere
troppo fretta
per essere in cerca di una lettura.” Replicò
questo infilando la bacchetta nel
fodero attaccato ai jeans. “È vostro?”
“Già,
sempre che tu non ce
l’abbia spappolato!” Esclamò Potter con
una smorfia che malcelava il fastidio
di non esser stato lui ad aver avuto quella pensata. Fece cenno a Bobby
e
Malfoy e i due si misero all’opera nel liberare il sospetto.
“Che ci fai qui?”
“A Notturn Alley? Sono alla ricerca di manifatti oscuri, mi
sembra ovvio.”
“Cosa?”
“Ironia, questa
sconosciuta…” Sogghignò
scuotendo la testa come se avesse di fronte quattro bambini tardi. Poi
si voltò
nella sua direzione, scoccandogli un’occhiata che non
riuscì o forse non volle
premurarsi di decifrare.
Era dura, pensò
sentendo la
bocca diventare asciutta come il deserto; rivedere Dursley era dura
perché era
rivedere suo zio, gli stessi occhi gelidi e gli stessi lineamenti
scolpiti
nella pietra. Distolse lo sguardo, non riuscendo a far altro.
Patetico…
“Vedo che avete
una nuova
aggiunta.” Osservò lentamente, chinandosi a
raccogliere un libro da terra e
spazzolandolo con cura prima di metterlo nella propria tracolla. Era
babbana,
di tela e Sören ne fu stupidamente sollevato; più
punti di differenza trovava trai
due più si sentiva in grado di respirare.
“Sì,
è un agente di
collegamento, Albie te l’avrà detto.”
Tagliò corto Potter. “Dai, levati dai
piedi, dobbiamo lavorare.”
“Se per lavorare intendi travolgere metà Diagon
Alley e vandalizzare un
mercato…”
“Ma vaffanculo!”
Non è mio zio. Non è
lui, è solo … suo
figlio. È mio cugino.
C’era un modo
corretto di
comportarsi in quei casi? Perché sembrava che Londra stesse
cospirando per
fargli incontrare le persone più scomode con cui interagire.
Lui,
Lilian… Lilian avrà ricevuto il mio Gufo?
“Dai, abbi
pietà di noi povere
teste di latta!” Sorrise Scorpius raddrizzando il sospetto
semi-incosciente e
ciondolante. “Grazie per l’aiuto,
comunque.”
Thomas spianò
l’espressione in
un’ombra di sorriso, sebbene avesse ancora con ampie tracce
di scherno a
tingerlo. “Sempre a disposizione per le forze del
Bene.” Mormorò: era il genere
di persona che non doveva evidentemente alzare la voce per essere
ascoltato.
“Dannazione, riesci ad essere un rompipalle anche quando sei
d’aiuto… Levati
dai piedi o ti portiamo in ufficio!” Esclamò
Potter con un grugnito che sapeva
di esasperazione ma anche di uno strano, contorto rispetto.
“Agli
ordini.” Replicò
placido, prima di rivolgergli un’altra occhiata.
Sören avrebbe davvero voluto
trovare qualcosa di utile o sensato da dire, ma si limitò a
ricambiare lo
sguardo e ad un cenno della testa. Non che l’altro sembrasse
aver voglia di
rimanere per conversare dato che non impiegò che pochi
attimi per sparire
nell’oscurità del vicolo.
“Idiota…
tutta questa
segretezza e poi sarà venuto qui per ficcare il naso in
qualche libro muffito.”
Borbottò Potter scuotendo la testa. “Si diverte
a fare il coglione inquietante!”
“Il solito, no?” Replicò Malfoy
stringendosi nelle spalle con un sorriso rassegnato.
Era strano, considerò, ma provava invidia per la
facilità con cui i due si
rapportavano all’altro, apparentemente al lato opposto del
loro carattere.
Lo
conosco da una vita, è normale. Fa parte della loro
cerchia di amici, della loro famiglia e per questo non lo giudicano.
I rapporti umani erano
complicati, pensò con un sospiro interiore: ne sarebbe mai
venuto a capo?
“Portiamo il
nostro amico in
centrale e gli diamo un paio di colpi di Innerva?”
Suggerì Jordan rompendo il silenzio creatosi.
“Buona
idea.” Convenne Potter.
“Ci deve ancora delle risposte.”
****
America,
Boston.
Ufficio SAGITTA. Mattina.
“… e
per questo motivo
l’Agente Prince prolungherà il suo soggiorno in
Inghilterra.”
Eleanor sapeva di aver dato una notizia piuttosto sconcertante e per
questo
aspettò con calma che sua figlia e l’Agente
Estevez ne assimilassero tutte le
implicazioni.
“Diavolo!”
Esclamò il
portoricano. “Certo mi lascia un bel po’ di
scartoffie da sistemare e che sia
dannato se non gliele spedirò tutte!”
Ghignò. “Che non pensi di potersi
rifugiare in Europa!” Detta la battuta tornò
subito serio e le scoccò
un’occhiata indagatrice. “Ma è solo
perché le indagini si sono complicate che
non torna, vero?”
“Quali altri
motivi potrebbero
esserci, Agente Estevez?” Replicò pacata,
studiando nel frattempo il viso serio
e contratto della figlia. Era una sua sottoposta, ma anche la sua
principale
ragione di vita e conosceva le sue reazioni a fuoco lento a menadito.
“Non so, forse il
fatto che
gli inglesi vorrebbero mettergli il più possibile i fermi
alla scopa?” Replicò
quest’ultima salace. “Prince non
dev’essere nella lista delle persone preferite
di molti di loro, Harry Potter in testa. Non mi stupirei se stessero
cercando
di sabotarci.”
“È questo genere di pregiudizio che non rende
facili i rapporti oltre-oceano,
Agente Gillespie.” Doveva mantenere il tono di comando
così come la giusta distanza
emotiva dalla figlia. Non era semplice. “Il Capo Potter
è un uomo corretto, e
così lo sono i suoi auror. È opportuno che
l’agente Prince rimanga perché le
indagini hanno preso una piega complessa. È suo dovere
prestare le proprie
competenze per risolvere il caso, specie considerando che la
risoluzione dello
stesso porterà a riavere indietro le ceneri e gli effetti
personali di Samuel
Howe.”
Sua figlia le
scoccò
un’occhiata talmente scettica che fu costretta ad ignorarla
per non doverla
riprendere di fronte ad Estevez.
“Agente Estevez,
al momento
dovrà fare a meno del suo compagno … Sergente
Gillespie, voglio che riorganizzi
i prossimi turni calcolando l’assenza dell’agente
Prince. Per qualsiasi
ulteriore cambiamento della situazione sarete informati.”
Fece una pausa,
sorridendo appena all’aria sconsolata del portoricano.
“È tutto, potete
andare.”
Chi
avrebbe mai pensato che Estevez avrebbe sentito la
mancanza del proprio partner?
I due si diressero verso la
porta dopo aver ricevuto la consegna, ma sua figlia
all’ultimo momento si
attardò, facendo cenno imperioso all’altro agente
di scendere senza di lei.
C’era
da aspettarselo.
“C’è
qualcos’altro che vuoi
dirmi Ama?”
La ragazza serrò
le labbra.
Era chiaramente combattuta tra il lasciar perdere e parlare. Alla fine
si
decise per la seconda opzione, perché chiuse la porta dietro
di sé e vi si
appoggiò per buona misura, quasi volesse rendere, con quel
gesto, la
conversazione privata.
“Cos’è
successo? Perché Prince
non vuole tornare?” Chiese. “Quando è
partito sembrava avviarsi verso il
patibolo… Cosa gli ha fatto cambiare idea?”
Nora esitò; aveva notato come sua figlia, dopo un lungo anno
di lavoro gomito a
gomito, avesse cominciato a considerare Sören sotto
un’altra luce.
Non
è più il complice dell’assassino di
Jeremiah.
Non sapeva fino a che punto
Ama avesse preso a cuore il tedesco, ma non aveva nessuna intenzione di
scoprirlo:
come madre e soprattutto, come Capitano, era quasi costretta a chiudere
un
occhio.
“Si tratta di
quella ragazza,
vero? Di Lily Potter.” Ama sapeva la storia di Sören
ed era veloce nei
collegamenti, quindi Nora non si stupì della sua
perspicacia. “Pensavo gli
fosse stato proibito di contattarla.”
“Sono successe
alcune cose per
cui è stato inevitabile il contrario.”
“C’entra
con il caso?” Lanciò
un’occhiata al fascicolo che le era stato dato.
“È quello che troverò scritto
qui? Che il caso di cui si sta occupando uno dei miei agenti
è appena diventato
personale?” Non vedendola
negare le
scoccò un’occhiata incredula. “Come puoi
lasciarglielo fare?” Sbottò.
“Ama, è
diventato personale
non appena ha messo piede in Inghilterra. Avremo dovuto fermarlo prima, ma sai che non era possibile.
Dobbiamo solo sperare che sappia prendere le decisioni
giuste.”
“Sperare? I casi non si
risolvono con
la speranza!” Fece una smorfia. “Forse qualcuno
potrebbe…”
“Nessun’altro andrà in
Inghilterra.” La fermò.
“L’ufficio non può permettersi
altre defezioni. So che sei preoccupata per lui … lo siamo
tutti.” Sorrise
dell’aria imbarazzata ma colta sul fatto della figlia.
“Ma penso che questo sia
il caso per Prince, quello che
dimostrerà al Dipartimento, a noi e soprattutto a lui che è meritevole di
vestire l’uniforme.”
“È una scommessa quindi.”
“No, è
dargli fiducia.”
La ragazza rilasciò un lungo sospiro, prima di aprire la
porta. “Noi possiamo
anche dargliela, ma lo faranno gli inglesi?”
“Possiamo solo
sperarlo.”
La figlia a questo non
rispose, limitandosi ad uscire e chiudersi la porta dietro con
veemenza. Nora inspirò:
si sentiva a disagio perché sapeva di aver contribuito al
formarsi del legame
tra Prince e la figlia di Harry; era stata la sua fame di risposte
sulla morte
di Jeremiah a dare la possibilità ai due di riallacciare i
rapporti. Era stata
lei, con un colpo mirato delle dita, ad innescare una reazione a catena.
Non era stata una richiesta
partita dal giovane tedesco, tutt’altro. Quando
l’aveva trovato a Nurmengard
difficilmente sarebbe stata capace di esprimere un desiderio simile; ne
ricordava con rabbia il corpo esanime ridotto ad un fagotto di ossa
squassate
dalla febbre, incapace persino di rispondere al proprio nome.
Chiuse gli occhi, sentendo
un
nodo allo stomaco.
È
stato quello il momento in cui ho deciso che Sören
Prince sarebbe stato un mio affare.
Per questo, persino a cinque
anni di distanza, non riusciva a scacciare l’inquietudine di
saperlo dove non
aveva piena capacità di intervento.
Anche
se si trova proprio nel paese che mi ha permesso
di salvarlo. In molti sensi.
Il Ministero Inglese finita
la
guerra era stato il principale promotore della nuova legislazione
internazionale sui prigionieri: era quel pugno di leggi che le avevano
permesso
di pretendere la scarcerazione di
Sören.
Un
prigioniero deve essere detenuto, non ucciso o
spinto al suicidio.
Occhieggiò il
rapporto del
ragazzo, le linee pulite della sua scrittura e la fermezza con cui
vergava la
sua firma. Quando l’aveva visto la seconda volta, in una
stanza pulita e areosa
dell’Ospedale Magico Generale di Berlino, c’era
voluto tutto il suo ottimismo
per credere che sarebbe potuto tornare ad essere una persona.
“Hai
poi scritto a Lily Potter?”
Aveva lasciato andare quel nome quasi senza pensarci. Era stato un
tentativo
dettato dall’esasperazione di averlo interrogato per quasi
una settimana senza
riuscire a cavargli di bocca una parola.
La
reazione era stata immediata; Sören Von Hohenheim
aveva staccato gli occhi dalla finestra schizzata di pioggia,
guardandola come
se la vedesse per la prima volta. E forse era così: per
giorni aveva parlato ad
un guscio vuoto. Gli Psicomaghi e i Guaritori le avevano detto che
chiudersi
nella propria testa per allontanare il dolore fisico fosse una reazione
naturale
alle privazioni patite, ma lei aveva solo pensato, cinicamente, che non
sarebbe
stata una spiegazione sufficiente per il suo Ministero.
Un informatore deve parlare.
E
se non parla …
“Hai mai provato
a scriverle?” Aveva ripetuto cercando di non lasciar
trasparire sorpresa o
sollievo. Sören aveva schiuso le labbra e poi aveva
semplicemente scosso la
testa.
“Non
ti hanno dato carta e piuma, immagino.” Aveva
supposto prima di fare una pausa per valutarle le reazioni; gli occhi
del
ragazzo non avevano dato segno di perdere lucidità.
Continuava a fissarla come
se fosse l’esatto centro del mondo.
Anche se non è me
che guarda.
Era
ad una possibilità che guardava e Nora era disposta
a concedergliela, se questo significava avere finalmente le sue
risposte e che
Morgana la perdonasse, la figlia di Potter era forse la chiave di
volta. “Vuoi
ancora metterti in contatto con lei?”
Le
aveva rivolto uno sguardo indecifrabile prima di
aprire bocca e schiarirsi la voce. Quando aveva parlato era stato come
sentire
carta vetrata sul legno. Un suono che le aveva spezzato il cuore.
Da quanto questo ragazzo non
parla con qualcuno?
“Sì.”
Aveva mormorato. “Può farlo?”
“Posso
tentare.” Non si era sbilanciata: prima di dare
assicurazioni doveva parlare con Harry, quello era insindacabile.
“Risponderai
alle mie domande?”
Un semplice cenno affermativo della testa e l’accordo era
stato sancito.
Con il senno di poi Nora
sperava davvero di aver fatto la cosa giusta e di non essersi lasciata
trasportare dalle emozioni; al tempo aveva creduto che dare un
po’ di conforto
a quel povero, rovinato ragazzo non avrebbe arrecato danno a nessuno,
ed Harry
stesso alla fine si era convinto, forse mosso a compassione
anch’esso.
Anche
se immagino non pensasse che sua figlia
continuasse a scrivere a Sören.
Chiuse il fascicolo verde
sulla sua scrivania e girò la sedia per osservare il
panorama di fattura magica
fuori dalla sua finestra; il Charles scorreva placido, perfetta
antitesi del
suo stato d’animo.
La sua paura più
grande era
che sua figlia avesse ragione e che le priorità
dell’agente Prince, dopo aver
visto Lily Potter, si fossero settate in modo completamente diverso
rispetto a
prima.
Avrò
fatto bene?
****
Londra,
Paiolo Magico.
Ora di pranzo.
Cercare di tirar fuori dalle
corde del proprio violino una Ronde des
Lutins² dallo staccato perfetto era un ottimo modo
per farsi passare il
nervoso, perché Faust solo sapeva quanti diavoli si sentisse
in corpo da quella
mattina.
Milo sentì una
goccia di
sudore scivolargli lungo la guancia e interruppe solo per asciugarsela
sulla
spalla. Le dita scivolavano veloci ma continuava a mancare la
precisione esatta
per fermare le corde a dovere.
Maghi
del cazzo. Maghi. Purosangue. Del. Cazzo.
Non riusciva a credere che
una
sontuosa scopata potesse esser finita in modo così schifoso.
Michel.
Che nome del cazzo per un inglese.
Aveva avuto tra le mani un
uomo, uno vero e non una checca gemente che indossava un paio di
pantaloni per
puro caso. Aveva avuto tra le dita pelle scura, bollente e due occhi
che gli avevano
tolto il respiro più di un paio di volte.
Peccato
che tutta ‘sta roba sia attaccata ad un
cervello da stronzo.
Aveva passato tutta la notte
a
baciare, leccare e succhiare ogni centimetro di quella pelle color
caffellatte
e Merlino, era stato grandioso. Stringendosi contro quel perfetto
sconosciuto –
anche se gli sembrava di averlo visto a Diagon Alley - era stato come
eseguire
un pezzo per la prima volta ed azzeccarlo tutto;
intese del genere erano merce rara.
Per questo quella mattina,
svegliandosi con la pelle premuta contro quella dell’altro
aveva pensato.
Ancora.
Per questo gli aveva
lasciato
il suo numero scritto sullo specchio con la schiuma da barba. E
com’era stato
ripagato? Con un patema d’animo per il suo piccolo problema
di non-magia.
Sembrava
volesse gettarsi nella lava solo perchè aveva
ancora il mio odore addosso.
Vaffanculo
coglione.
Avrebbe dovuto aspettarselo,
rimorchiando nel Vecchio Continente; se in America il fatto di non
avere la
magia tra le lenzuola era ininfluente ai fini del rapporto –
e lui l’aveva
sempre fatto influire zero – in Europa …
…
in Europa un mago non se lo può far venire duro per
uno sporco Magonò.
L’archetto
scivolò male sulle
corde lanciando uno stridio acuto che lo fece brontolare infastidito.
Inspirò,
abbassando le braccia indolenzite da ore e ore di esercizi.
…
Ti ha umiliato. La sua espressione, il modo in cui
s’è smontato. Ti ha umiliato, eh?
Premette il mento sul
fazzoletto di lino che separava la pelle dal legno laccato:
c’era voluta tutta
la sua buona volontà per impedirgli di spaccare la faccia
del tipo.
T’ho
fatto passare una notte da urla ma
probabilmente sarai ancora sotto la doccia a pulirti.
Vaffanculo.
Avrebbe voluto fargliela
pagare, ma a che pro? Uno come quello doveva avere il culo parato da
centinaia
di Galeoni e conoscenze opportune. L’unico modo per
vendicarsi sarebbe stato
contattare un paio di gente fidata, svaligiargli casa e pisciargli sui
mobili.
Ma
non faccio più quella roba.
Chiuse gli occhi e
attaccò
l’ultima parte del brano con furia, infischiandosene dei
muscoli doloranti e
del sudore che gli colava sulla faccia.
Fu fermato da un lieve
bussare
alla porta. Masticando un’imprecazione a mezza bocca
andò ad aprire; si
trattava della piccola servetta Magonò della locanda, che a
quanto gli era
stato detto era un po’ una tuttofare che non sapeva in
realtà far granché.
L’avranno
presa per pietà. Che anime nobili, questi
maghetti britannici.
“Ciao
scricciolo.” Disse,
cercando di stamparsi un sorriso addosso. Dall’espressione
intimidita della
piccola non doveva essergli riuscito granché. “Che
ti serve?”
“C’è una visita per Sören
Prince.” Disse occhieggiando alle sue spalle e
puntellandosi sui piedi. “C’è il tuo
…” Esitò, senza sapere come
qualificarlo.
“Il mio datore di
lavoro?”
Replicò con un sospiro. “No, non
c’è. Chi lo cerca?”
La ragazzina si strinse
nelle
spalle, arricciando una ciocca di capelli tra le dita. Sul serio,
nessuno le intimava
di farsi una doccia almeno una
volta
a settimana?
Pare
che i Magonò da queste parti abbiano problemi con
l’acqua corrente.
Puoi
biasimare il Purosangue adesso?
Ignorò quella
vocetta
fastidiosa nella sua testa perché . “Non ti ha
lasciato detto il nome?”
“No.”
“Okay, descrivimelo.” Non aveva la minima
intenzione di fare da Pr al
principino, non in quello stato
mentale e soprattutto non se il visitatore era un pezzo grosso di
qualche
Ministero.
Ho
fatto il pieno con i maghi, oggi.
“È una
ragazza.”
…
Ah?
“Niente nome,
sicura?”
“Mica serve, la
conoscono
tutti.” Sgranò gli occhi incredula che lui non
potesse saperne nulla “È la
figlia di Harry Potter!”
Milo battè le
palpebre; quella era una sorpresa
che rivedeva i
suoi piani. “Okay … sai che ti dico? Scendo
io.” Si passò una mano trai capelli
per dargli una piega sommaria e la seguì. Non gli ci volle
molto per notare una
testa rossa in mezzo alla folla di avventori: Lily Potter era seduta al
bancone
con una tazza di caffè freddo tra le mani, vestita e
truccata con una cura che
meritava perlomeno un applauso, dato l’orrore dilagante della
moda magica europea.
Si avvicinò.
“Ehi.” Esordì.
“Cerchi Sören?”
La ragazza si
voltò senza
mostrare particolare sorpresa. Strano. “Sei
…” Lo indicò senza troppe
cerimonie. “Milo, mi ricordo bene?”
“Memoria di
ferro.” Abbozzò un
leggero inchino, il più ironico che gli riuscì.
“Lily Luna … Ti trovo bene
rispetto all’ultima volta che ci siamo visti.”
Okay,
pessima battuta. L’ultima volta era dentro una
cella, legata e terrorizzata a morte.
“Già,
anche tu.” Fu la replica
giustamente asciutta, poi guardò
alle
sue spalle all’evidente ricerca di qualcuno che non era lui.
“Sören …”
“ … non è qui, sta lavorando al
Ministero.” Terminò per lei. “Vuoi che
gli
faccia sapere che sei qui? Forse può sganciarsi,
è ora di pranzo.”
E
fargli prendere una sincope quando ti troverà ad aspettarlo?
Oh, sarebbe fantastico.
“No, non fa
niente, ero solo
venuta …” Esitò di nuovo e sembrava
agitata sebbene tentasse di dissimularlo
con un sorriso che doveva esserle valso più di un
complimento. Persino chi,
come lui, era ben poco interessato all’universo femminile
riusciva a trovarlo attraente.
Il
genere di sorriso che vorresti vedere addosso alla
tua ragazza.
“Solo venuta a
fare cosa?” La
incalzò divertito. “A farti dire che non
c’è?”
Gli venne lanciata un’improvvisa occhiata valutativa, e Milo
si sentì piuttosto
analizzato. “Una specie.” Replicò
frugando nella borsa. “Puoi dargli questa?” E
gli porse una lettera.
“Sapete, sarebbe
tutto molto
più semplice se realizzaste che adesso potete parlarvi,
visto che siete nella stessa città.”
Sospirò prendendola
e ficcandosela in tasca.
L’altra
inarcò le sopracciglia
sorpresa, prima di ridacchiare. “Hai ragione.”
Ammise. “Ma temo che ci voglia
quello che chiamerei un periodo di assestamento.”
“Ed è finito?”
Gli venne rivolto un sorriso
che addosso ad un uomo gli sarebbe valso due drink offerti e una porta
aperta
in direzione del suo letto. Il Principino sapeva in che guaio si stava
andando
a ficcare?
“Sören mi
aveva detto che eri
impiccione.”
“Ti ha anche detto che sono la sua balia, Zenzero?”
Ghignò di rimando e
registrò come il nomignolo fosse stato apprezzato: sembrava
il genere di
ragazza che amava i vezzeggiativi. “Farmi gli affari suoi
è il motivo per cui
mi paga.” Battè la mano sulla tasca dei jeans.
“Sarà recapitata, non
preoccuparti.”
“Bene.”
Prese la propria borsa
e lasciò scivolare qualche moneta vicino alla tazza di
caffè, intonsa: saggia
decisione a giudicare dallo stato della suddetta. “Stavolta
cerca di non
dimenticartela per strada, okay?”
Milo ci mise più di qualche attimo a registrare il
sottotesto. “Sören ti ha
detto che mi sono dimenticato di spedire il suo Gufo?” Chiese
con l’aria che
sperava fosse più disinteressata del mondo.
“Andiamo, non te lo sei dimenticato.”
Replicò quietamente e Milo si trovò nella
scomoda posizione di guardare due occhi enormi, verdi e consapevoli.
Ah,
già. Legimante Naturale. Cazzo.
Lily ridacchiò.
“Guarda che
non mi serve essere una LeNa per capirlo, l’hai detto tu che
ti occupi dei suoi
affari.” Inclinò la testa da un lato, simile ad un
cagnetto adorabile, ma
maledettamente pericoloso; sapeva che non era davvero
capace di leggergli i pensieri, più le emozioni, ma
rimaneva comunque disagiante rimanere sotto quello sguardo chiaro.
“Non so di cosa tu
stia
parlando.” Replicò scrollando le spalle.
Sì, decisamente Sören si stava
ficcando in un ginepraio. “Ma se così fosse
… forse finirete per ringraziarmi.”
“Magari.” Non si sbilanciò.
“Sicura di non
voler restare?”
“Sono in pausa
pranzo, devo
tornare in Accademia.” Scosse la testa. “Ci
vediamo.” E com’era arrivata se ne
andò, portandosi via una ventata di profumo leggero.
Gigli.
Davvero?
Oh,
principino … quanto sei
nei guai.
****
Ministero
della Magia, Ufficio Auror.
Ora di pranzo.
Harry non fu sorpreso quando
vide Sören Prince chino sulla scrivania di Scorpius e di suo
figlio,
completamente assorto nel redarre un rapporto e completamente da solo;
a
giudicare dall’ufficio semi-deserto doveva esser ora di
pranzo e né lui né il
tedesco dovevano essersene accorti.
Io
perché ho passato la mattinata a rispondere a Gufi
di giornalisti, ministeriali e generici idioti che mi chiedevano di
rilasciare
una dichiarazione su quanto successo al San Mungo …
Ma lui?
Si
avvicinò in silenzio, ma dalla
postura improvvisamente rigida dell’altro, capì
che la sua presenza era stata registrata;
Prince infatti si voltò, lanciandogli un’occhiata
sorpresa prima di scattare in
piedi in posizione di attenti.
“Riposo.”
Disse con un cenno
imbarazzato della mano: sarebbero potuti passare decenni e non si
sarebbe mai abituato a quegli
ossequi; gli
sembrava assurdo gli fossero dovuti. “Resta pure seduto, non
volevo
disturbarti.”
Alla luce di quanto successo in quelle ultime quarantotto ore non
sapeva come
comportarsi; sapeva di dover almeno tentare
di istaurare un rapporto con il giovane agente di collegamento.
Ma
francamente? Non so da dove iniziare…
“Ho quasi finito,
Signore. Il
rapporto per…”
“Il tuo Ministero immagino.” Occhieggiò
il fascicolo verde senza vero
interesse. “Ci sono novità?”
“Abbiamo interrogato Mason Wolpert, figlio del proprietario
della Wolpert
Incantesimi.”
“Vendono Incantesimi di Antifurto?”
Ricordò sommariamente.
Annuì, chiudendo
il fascicolo
e passandoci le dita sopra per evitare angoli arricciati. “Il
ladro lo ha
pagato per fornirgli i contro-incantesimi. È così
che è penetrato nel
Padiglione Mortuari ed ha trafugato gli effetti personali di Sam
Howe.” Vedendo
che lo ascoltava, continuò. “Wolpert figlio
è un forte scommettitore, gare
abusive di scope…”
“E fammi indovinare, non del genere fortunato.”
“Esatto. Grossi
debiti, di
quelli che contrai dalle persone sbagliate.”
“Questo compratore … Ha un nome?”
“Luther Blissett¹.” Scosse la testa con un
sospiro, ma quando vide che da parte
sua non c’era il minimo segno di aver capito assunse
un’aria imbarazzata. “Non è
un nome vero. Nel Mondo Babbano è utilizzato come pseudonimo
di Signor Nessuno.”
“Quindi il ladro
ha origini
Babbane?”
“Non è una domanda a cui posso rispondere a questo
punto delle indagini.” Non
si sbilanciò. “Abbiamo chiamato un MagiSketchista,
Mason Wolpert si è detto
disposto a darci un identikit del ladro… Se tutto va bene
dovremo avere un
volto per domani mattina.”
“Bene.”
Convenne, poi memore
del discorso con Nora e soprattutto con sua figlia, sospirò.
“Hai mangiato?”
Il tedesco parve cadere dalle nuvole, quasi si fosse scordato di
trovarsi in
una fascia oraria in cui avrebbe dovuto percepire i morsi della fame.
Scosse la
testa. “Gli altri sono andati a mensa, io dovevo finire il
rapporto.”
“In questo caso
credo che abbiamo
entrambi bisogno di una pausa.” Proclamò con una
naturalezza che era ben lungi
dal provare. “Non ho tempo di scendere in mensa, e temo
neppure tu … Credo però
che nell’angolo caffè ci sia qualcosa da mettere
sotto i denti. Mi fai
compagnia?”
Gli venne scocchiata un’occhiata incredula e in buona dose
scettica e Harry non
potè biasimarlo.
Non
abbiamo fatto altro che trattarlo come spazzatura
indesiderata da quando è qui. Comprensibile pensi ad un tiro
mancino…
“Sissignore.”
Gli rispose
però, anche se con la stessa verve con cui avrebbe
probabilmente acconsentito a
lucidare il pavimento dell’ufficio con il solo ausilio di uno
spazzolino da
denti.
“Non è
un ordine Sören.” Tentò
di usare il suo nome di battesimo con quanta più
affabilità gli riuscì; gli
ricordava sin troppo un se stesso adolescente e poco convinto della
buona fede
della maggior parte degli adulti. Era straniante.
“No?” Ed
ecco il sarcasmo; Ron
aveva avuto ragione, lo faceva assomigliare a Piton in maniera
allarmante. Lo
stesso inarcarsi delle sopracciglia, lo stesso lieve arricciarsi
scettico delle
labbra.
Il
sangue non è acqua.
“No.”
Confermò tranquillo. “Non
mi offenderò se rimarrai a finire il rapporto. Credo
però che si lavori meglio
a stomaco pieno.”
Il tedesco gli
lanciò
un’occhiata valutativa, poi senza un’altra parola
lo seguì nel piccolo cucinino
attrezzato. Evidentemente già istruito da qualcuno
– forse Malfoy – mise su del
the e mentre Harry rovistava nella dispensa alla ricerca di qualcosa
che non
fosse lì dalla fondanzione dell’ufficio,
parlò.
“Ho scritto una
lettera a
Lily.”
Harry non rispose,
preferendo
estrarre dalla dispensa un pacchetto di gallette che sembrava non aver
sorpassato il mese di permanenza. Quando si voltò
riuscì anche a sorridergli.
“Non vi ho mai impedito di scrivervi, mi sembra.”
“Le ho scritto per chiederle di vederci.”
Harry si trovò
nella scomoda
posizione di non sapere se arrabbiarsi o ammirarlo, perché
era palese che il
ragazzo non fosse più disposto a sottostare alle condizioni
poste dopo la sua
scarcerazione.
“Se hai
già deciso, perché me
lo dici?” Si informò scartando il pacco di
gallette e verificandone lo stato:
non sembravano muffite, il che non si poteva dire del resto del
contenuto della
dispensa.
Dovrei
fare quattro chiacchiere con i ragazzi … Ci sono
forme di vita aliene qua dentro.
“Perché
lei è suo padre.” Fu
la risposta concisa.
Doveva dare un merito a quel
ragazzo: non diceva mai una parola in più o una in meno di
quanto fosse
necessario. Decise quindi di giocare a carte scoperte.
“Perché vuoi vederla?”
Prince spense il fuoco
passandovi sopra la mano e fece poi Levitare il bollitore per riempere
le due
tazze di fronte a loro. Harry finse di non notare come il liquido
tracimò.
È
nervoso.
“Sono a Londra per
una
sfortunata serie di eventi … e questa forse sarà
la mia unica possibilità di
parlarle. Quando me ne andrò, alla chiusura del caso
… Dubito che potrò
tornare.”
“Nessuno te lo vieta.”
“Ma nessuno lo
desidera.” Fece
un mezzo sorriso, ben lontano dall’allegria. “Lily
tuttavia merita delle
spiegazioni e delle scuse appropriate. Voglio poter avere
l’occasione di
fargliele di persona.”
Harry bevve un sorso di the
e
si tolse gli occhiali per massaggiarsi le palpebre. “Lo
capisco.” Ammise e poi
prendendo il coraggio a quattro mani, aggiunse. “Anche se la
persona a cui tutti
dobbiamo delle scuse sei tu, Sören.”
Il silenzio che ne conseguì avrebbe potuto tagliarsi con un
coltello, ma Harry non
si fece scoraggiare. “Sei venuto qui per fare il tuo lavoro,
e non abbiamo
fatto altro che metterti in difficoltà. Ti prego di
accettare le mie scuse.”
Ingoiare l’orgoglio e il senso di allarme che gli ispirava
era dura, tuttavia
doveva; lo doveva a Nora, che era forse un giudice migliore di quanto
lo fosse
lui, lo doveva a sua figlia, che per prima si era fidata nonostante
fosse stata
la persona più ferita, lo doveva a Piton, in uno strano
contorto modo che non
era certo di voler sviscerare e infine, lo doveva al giovane di fronte
a lui
per la dignità con cui aveva affrontato quelle lunghe
giornate di indagini.
È
inutile nasconderlo. Abbiamo cercato di vendicarci di
Von Hohenheim tramite lui.
Il ragazzo non diede cenno
di
particolari emozioni e Harry indovinò che si era Occluso;
stavolta non per
diffidenza, ma per mantenere il controllo. “Accetto le sue
scuse.” Asserì un
po’ bruscamente. “Se lei accetta le mie.”
Lo vide inspirare ed espirare
velocemente. “Per quello che ho fatto alla sua famiglia e per
il dolore che le
ho causato.”
“Scuse accettate.” Lo imitò prima di
lasciare la presa e tornare al suo the.
“Ti chiedo solo una cosa e lo faccio come padre.”
Nora l’avrebbe preso a calci,
ma in fondo il più grande merito dopo aver sconfitto
Voldemort era aver
contribuito a mettere al mondo quei tre splendidi individui che aveva
per
figli. “Non ferire Lily. Mai più.”
Qualcosa nell’espressione controllata
dell’altro si incrinò e Harry ne fu sia sollevato
che impensierito. “Ha già
sofferto abbastanza, non credi?”
“Sissignore.” Il modo in cui esitò
pareva nascondere centinaia di parole non
dette, ma quello che gli uscì fuori fu stringato come al
solito. “Preferirei
morire.”
“Sono certo che non arriveremo a questo punto.”
Cercò di alleggerire la
tensione, dandogli una lieve pacca sulla spalla. “Avanti,
metti qualcosa sotto
i denti. Il tuo Capitano non mi perdonerebbe mai se ti lasciassi
affamare.”
Sören gli rivolse
un cenno con
la testa, accettando le gallette che gli porgeva. Erano ben lontani
dall’aver
fiducia l’uno nell’altro ma Harry sentì
che perlomeno avevano messo un punto di
inizio.
Ora si poteva costruire.
****
Diagon
Alley, Paiolo Magico.
Ora
di cena.
“Da quanto provi
quello
staccato?”
“Da tutto il
giorno. E il
fatto che tu lo sappia riconoscere mi riempe il cuore di genuina
gioia!”
“Hai passato cinque anni a pretendere che capissi la
differenza tra quello e il
legato. Ho imparato.”
Milo sorrise, accennando ad un motivetto disimpegnato per accordare il
violino
mentre Sören abbandonava il mantello
sull’attaccappanni ed entrava
ufficialmente in camera.
“C’è
posta per me?” Chiese
sbottonandosi la giacca dell’uniforme e rimanendo in maniche
di camicia: doveva
cominciare anche lui a malsopportare la calura appiccicosa che aveva
investito
la città.
“L’ho messa sulla scrivania.” Rispose
cercando di frenare il ghigno selvaggio
che si sentiva affiorare sulle labbra.
È
un po’ patetico che sia così su di giri per la
vita
sentimentale di Mister Emotività Danneggiata. Ma ehi, sempre
meglio che
piangere sulla mia vita sessuale.
L’improvviso
silenzio da Troll
svenuto rischiò quasi di farlo voltare e rovinare
così la recita.
“…
Questa quand’è arrivata?” Chiese
lentamente l’altro, quasi si stesse riprendendo da una grossa
botta in testa.
Aveva una sigaretta tra le labbra ma non l’aveva ancora
accesa.
E
dubito che si accorgerà di averla lì per le
prossime
… Diciamo tre ore? Il tempo di riprendersi.
“A pranzo, assieme
a chi l’ha
scritta.”
“Lilian è stata qui?”
Lo poteva quasi
sentire andare in apnea. O iperventilare. Si voltò e lo vide
impalato di fronte
al tavolo e fissante la busta come se fosse stata Maledetta.
“È
quello che ho detto.”
Convenne roteando l’archetto tra le dita. “Me la
ricordavo un bel tipetto, ma è
migliorata …” Abbozzò
un’appropriata introduzione del Clair
De Lune e Sören lo fulminò con lo
sguardo. “È proprio una
rossa di testa e di pensiero.” Non pago,
fischiettò il motivetto, accennando le
parole della canzone. “Au clair de
la
lune, mon ami Pierrot prête-moi ta plume pour
écrire un mot… Che
c’è, il
mio francese è arrugginito?” Lo
canzonò.
“Piantala.” Si
umettò le labbra. “Che
c’è scritto?”
“Dimmelo tu, la
lettera è
indirizzata a te!”
“So che l’hai
aperta.” Ritorse con
una smorfia. “Hai fatto un lavoro maldestro nel reincollare
la busta.”
“Piantala di fare il cacasotto e leggila.”
Gli venne rivolta
l’ennesima
occhiata linciante, ma poi Sören obbedì. Lo vide
scorrere febbrile le righe per
poi aprirsi in quella che poteva essere classificata solo come
un’espressione da
vittoria alla Coppa del Mondo di Quidditch; non era un tipo da
sorridere o fare
grandi esternazioni, ma quando era davvero felice qualcosa lo
illuminava
dall’interno, rendendo i lineamenti austeri … beh,
felici.
Okay,
fa ufficialmente tenerezza.
“Anche lei vuole
vedermi.”
Mormorò. “Stasera, alle dieci.”
“Ottimo!” Replicò cercando di non
mettersi a ridere perché gli sembrava di
avere a che fare con due bambini pre-scolari e non con un mago
letalmente addestrato
e una tipa che sembrava respirare malizia assieme
all’ossigeno.
Sören
annuì distratto,
riponendo la lettera nello scrittoio e continuando a fissarlo assorto
nei
propri pensieri. Dovevano sfrecciare a velocità della luce,
ci avrebbe
scommesso una borsa di galeoni.
Prima che diventasse
materiale
per ragnatele posò il violino e gli si avvicinò.
“Beh?” Inquisì. “È
quello che
volevi!” Gli diede una pacca sulla spalla, perché
anche se tra di loro era
richiesto contatto minimo, quello era uno dei casi in cui era doveroso.
“Non
fartela sotto!”
“Va’ al diavolo.” Fu l’ovvia
replica. Un’altra densa pausa. “Credo di dover
cominciare a prepararmi.”
Sì, sei ore prima.
“Verissimo.”
Convenne comunque.
“Che ne dici di iniziare dal darti una sistemata ai capelli?
Sono orrendi.”
****
Note:
Pare che la colonna sonora ufficiosa di ‘sta storia stia
diventando Florence +
The Machine.
Ecco
la
canzone.
1. Luther
Blissett: qui
per maggiori info.
2. Ronde
des Lutins: scherzo fantastico per violino di Antonio
Bazzini, compositore e musicista italiano, una delizia che ho scoperto
cercando
di capire esattamente come funziona un violino e soprattutto, lo
staccato. (Che
è una figata) Qui
l’esecuzione che mi ha ispirato quella di Milo.
|
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Capitolo 14 *** Capitolo XIII ***
Capitolo XIII
Oh
these little earthquakes
Here we go again…
(Little
Earthquakes, Tori Amos.)
Londra,
Farringdon, magazzino Purge&Dowse, ovvero…
San
Mungo, Ora di cena.
Ad Albus piaceva
l’odore di
erba medica del San Mungo; sin da quando era bambino aveva adorato quel
misto
pungente e fresco che molti, persino trai Guaritori, trovavano
stomachevole.
Con gli anni l’aveva solo apprezzato, dovendo spesso ficcare
la testa in
pentoloni di pozioni ribollenti dall’odore poco invitante.
Per questo al San
Mungo si sentiva a casa; i pannelli di legno scuro, le luci regolate
sempre in
un alone basso e avvolgente, gli odori, le parole a bassa voce e i
tappeti
imbevuti di Pozioni Sterili che ricoprivano l’intera
superficie lo facevano
sentire al sicuro.
È
un ambiente che capisco, è mio.
Non era posto per tutti, se
ne
rendeva conto: molte persone, dovendo a che fare con le malattie e con
la morte
– anche se statisticamente meno ricorrente che negli ospedali
Babbani – si
intimorivano, e affibbiavano al posto sentimenti negativi.
Noi
qui salviamo le persone. Certo, non tutte e non sempre.
Ma ehi, magie non miracoli.
Per questo si era sentito
personalmente invaso quando la Magia era venuta a mancare e Liam
Flannery li
aveva attaccati. Era stato un attacco che l’aveva colpito
nelle fibre più
intime del suo essere, quelle che probabilmente condivideva con suo
padre e
James perché in quei giorni si era sentito arrabbiato e
piuttosto agguerrito.
“Stasera
Finnigan’s?” Lo
apostrofò Achille, riscuotendolo dai suoi pensieri.
Tornò sulla terra e chiuse
con un colpo leggero l’armadietto dove riponeva ogni sera il
camice e gli
attrezzi del mestiere. Lo fece con cura, controllando di non essersi
lasciato
scivolare nulla in borsa per sbaglio; quando Smeth aveva scoperto che
la sera
del black-out era uscito dall’ospedale vestito come se
dovesse operare per poco
non gli aveva staccato la testa con una Maledizione.
Ehi,
fuori c’era Tom, non è che esattamente abbia
capacità di pensiero razionale quando quel cretino
è nei paraggi e si ammazza
di pare mentali.
“Altro
impegno.” Sorrise
dismissivo. “Londra Babbana.”
Michel e i suoi Gufi depressi.
Chissà che
diavolo gli è successo per chiamare un meeting di emergenza.
“Babbanofilo.”
Ghignò l’altro
dandogli una spallata giocosa. “Dì un
po’, non è che un giorno ti ritroviamo
con un coltello in mano a squartare senza-magia in nome della loro
scienza?”
“Non
sarò mai un chirurgo
Babbano, mi fa troppa impressione il sangue.”
Ridacchiò di rimando.
“Sofia
sarà molto delusa.”
Osservò Achille mettendosi la borsa a tracolla e seguendolo
fuori dagli
spogliatoi. “Sono mesi che cerca di vederti seduto al suo
stesso tavolo con
qualcosa di alcolico in mano.”
“È dall’Accademia che cerco di spiegarle
che sono gay. Nessuno ha mai ciò che
vuole, pare.” Sospirò alzando gli occhi al cielo.
“Beh, non
è che tu glielo
abbia mai detto chiaro e tondo.”
“E l’ultimo party di San Valentino?”
“Vuole convertiti al culto delle Sacre Tette. Non
disprezzarlo, ha tradizioni
millenarie.” Gli assicurò
con gli occhi
che brillavano di divertimento.
Sì,
scommetto sia stato esilarante vedermi
giostrare impazzito tra Sofia e il mio ragazzo che voleva trasfigurarla
in una
gallina.
“Non è che lo disprezzi, non lo
comprendo, tutto qui.”
“E di questo noi adepti al Sacro Culto ti saremo sempre
grati!” Ghignò
passandogli un braccio attorno alle spalle con fare cameratesco.
“Senza offesa,
Potter, ma tra te e tuo fratello … beh, è un
sollievo avervi fuori dal mercato.”
“Come sei
serpeverde, Light.”
“Orgogliosamente tale!”
Ridacchiarono, scendendo le scale e parlando del più e del
meno. Era grato al
collega; erano le persone come lui, con pensieri ordinari e vite
comuni, che
gli ricordavano cos’era la normalità e quanto
fosse dannatamente importante che
non lo dimenticasse mai.
Eroi,
figli di eroi, maghi incredibili e complotti
internazionali … È dura essere un Potter.
Entrando
nell’ascensore rifletté
e tentennò un po’ prima di schiacciare il pulsante
del piano Malattie
Infettive. “Faccio uno stop a vedere come sta il Sergente
Flannery.” Spiegò all’occhiata
inquisitoria dell’altro. “Ci vediamo
domattina.”
Vedere il Sergente Flannery,
che nei suoi ricordi di ragazzino era sempre stato un gigante dalla
risata
tonante e le braccia salde come querce, ridotto ad un corpo esanime
dentro una
teca di vetro era … terrificante.
Albus si morse un labbro,
distogliendo lo sguardo e appoggiandosi alla parete dietro di
sé; sin
dall’infanzia avere qualcosa di solido a cui sostenersi era
sempre stata una
grande consolazione.
Miei
amati muri.
Uno dei privilegi di
lavorare
in quel posto era non dover badare all’orario delle visite e
potersi muovere a
suo piacimento.
E
soprattutto, capire che cavolo c’è scritto nelle
cartelle mediche.
La prese dal fondo del letto
a
cui era agganciata e la scorse con lo sguardo; confermava le sue paure.
Non
c’erano stati miglioranti nelle condizioni
dell’auror e l’Incantesimo di Stasi
che lo teneva sospeso in un limbo di sonno forzato non aveva vacillato
o aveva
dato segno di allerta.
Non
si sveglia. Non si sveglia ed era nella squadra di
Jamie e di Sy …
Sentendo una mano sulla
spalla
sobbalzò violentemente; si tranquillizzò solo
quando vide a chi apparteneva.
“Ciao Sam.” Salutò con aria imbarazzata
il Capo Guaritore, ricordando che la
sua presenza lì non fosse esattamente autorizzata, sebbene
neppure vietata.
Di
certo però non dovrei sbirciare in cartelle mediche
che non seguo … Se lo sapesse Smeth.
“Non lo
dirò a Smethwyck Al,
non fare quella faccia spaventata!” Ridacchiò il
mago indovinando il corso dei
suoi pensieri. “Anche se potevi avvertirmi che eri qui. Gli
Allievi non
dovrebbero visitare non accompagnati…”
“Ho avvertito l’auror di guardia.”
Borbottò stringendosi nelle spalle.
“Come se una
recluta fresca di
Accademia potrebbe mai fermare il figlio del proprio capo.”
Ghignò senza cattiveria
l’uomo. “Siamo a Malattie Infettive Al, ci sono
procedure da seguire.”
“Se intendi l’Incantesimo
Disinfettante…”
“So che te lo sei lanciato addosso, non sto dicendo che sei
un idiota.” Lo
fermò lanciando uno sguardo al paziente di fronte a loro.
“Solo che … qualunque
cosa abbia il Sergente Flannery non è niente che
conosciamo.” Aggrottò le
sopracciglia. “E da quel che non si conosce è
sempre meglio stare all’erta, lo
sai meglio di me.”
“Certo.” Convenne. “Quindi …
le analisi?”
“A parte una
concentrazione
anomala di magia del sangue non abbiamo riscontrato nulla di
insolito.”
“E gli occhi bianchi? Sembra essere sintomo di un
virus… Cambiamenti somatici,
come per la Spruzzolosi.”
“Infatti.”
Convenne. “Si
comporta come un virus, ed è chiaramente trasmissibile se
l’ha contratto da
quell’americano, ma non sappiamo come e non sappiamo,
soprattutto, cos’è.”
Si passò una mano trai capelli
con aria stanca. “Abbiamo mandato dei Gufi
all’Archivio Infettivo Generale.”
“L’Archivio Centrale delle Malattie Infettive
Magiche? Quello a Bruxelles?”
Indovinò anche se non conosceva bene la materia.
“Pensate che ci siano dei
precedenti?”
“Vale almeno un
tentativo.” Si
strinse nelle spalle. “L’unico sintomo importante
che abbiamo è l’aumento del
livello di magia del sangue. Quello di Howe conteneva la magia di
almeno cinque
maghi, quello del Sergente Flannery … beh. Dieci.”
“Esponenziale?” Quella non era una bella notizia.
Per niente.
“Forse
è dovuto anche al fatto
che è un auror.” Fu la replica razionale.
“Come sai la capacità magica di un
mago è come un muscolo. Più viene utilizzata
più si rafforza, ha resistenza e
potenza. Sam Howe era un mago normale, Liam Flannery un agente
addestrato, sono
differenze sostanziali da cui partire.”
Al annuì. “Qual è la
virulenza¹?”
L’irlandese ci rifletté, scorrendo la cartella che
aveva preso in mano con lo
sguardo. “Non abbiamo ancora dati certi … Ma non
credo ci sia da preoccuparsi
di un contagio diffuso, non finché il Sergente rimane
confinato qui.”
“Periodo di incubazione?”
“L’abbiamo stimato dai tre ai cinque giorni. Certo,
senza altri casi e con il
fatto che hanno rubato le ceneri di Sam Howe…”
“È difficile fare una statistica.”
Concluse per lui. “Ho capito. Grazie per le
informazioni.” Sorrise. “So che non mi sono
esattamente dovute.”
“Non credere, sai.” Lo stupì.
“Sto pensando di chiedere un consulto a Smeth.
Questa malattia si comporta in modo anomalo, e intacca le
capacità magiche, più
che un organo in particolare. Sembra quasi il risultato di un
incantesimo.”
Scosse la testa. “Se vogliamo venire a capo di qualcosa
è il caso che mettiamo
le teste assieme per farle funzionare.”
Tom sapeva esattamente
quando
ad Albus frullava qualcosa in testa; e non cosa ordinare per cena o
cosa
chiedere a Meike di mettere assieme per non farli morire di carenze
vitaminiche. Qualcosa di grosso, come un pensiero tenace che cancellava
tutto
il resto.
Me
compreso.
Il che era un po’
seccante, ma
nulla che non potesse comprendere, quindi non fece particolari
rimostranze
quando l’altro varcò l’ingresso del
laboratorio per salutarlo a malapena,
rivolgendo un cenno distratto a Stevens. L’artigiano, cieco e
forse per questo
sensibile alle atmosfere che una persona poteva portarsi dietro, fece
un
sorrisetto consapevole e si eclissò.
Sì,
le grandi menti pensano in modo simile.
“Sei pronto ad
andare?” Venne
apostrofato con uno sguardo a tutto e niente in particolare.
“Stasera cucina
Mei e sai com’è sugli orari.”
“Tedesca?” Ironizzò. “Sto
finendo e non me ne vado con un lavoro fatto a
metà.”
Al batté le palpebre, riconoscendola. “Allora stai lavorando sulla bacchetta di
Mike.”
“Per quanto la frase suoni inappropriata, sì.
È il mio lavoro.”
“Cretino.” Replicò con un sospiro,
sedendosi sul ciglio del tavolo e ignorando
di essersi appena riempito i pantaloni di trucioli di segatura.
“Bravo,
comunque … credo che la bacchetta che usi adesso non gli
piaccia un granché.”
“Ovvio, è di suo padre.”
Replicò sistemandosi due lenti progressive per poter
ingrandire una sezione del nucleo della suddetta. Ripararlo invece di
sostituirlo era un grattacapo, considerando
l’entità del danno, ma Zabini era
stato estremamente puntiglioso su quello e dopotutto non poteva non
dire di
capirlo.
Se
cambi il nucleo ad una bacchetta è come farla morire
e usarne le spoglie per crearne un’altra.
“Già
… non che quei due vadano
molto d’accordo.” Considerò
distrattamente Al, passando un dito sul ripiano da
lavoro per raccogliere i trucioli. “Specie da quando si
è risposato ed ha avuto
un figlio.”
“Lo si evince dal fatto che nessuno di noi sa il nome del
fratellastro.”
Replicò non particolarmente prono a far conversazione, ma
solo per capire
quanto l’altro fosse immerso nei suoi pensieri.
“Già…”
Appunto. Tu il nome lo sai.
“Stavo pensando di
auto-proclamarmi Signor dell’Universo Conosciuto entro il
finesettimana.” Disse
con tono discorsivo. “E magari schiavizzare
l’intera popolazione magica.”
“Sarebbe carino…”
“Sì,
infatti. Aspetta cos’ho
da dire sui Babbani, sono idee innovative e sicuramente destinate al
successo.”
“Oh, ce … cosa?”
Si riscosse di colpo
squadrandolo sconcertato. “Quanto sei imbecille.”
Brontolò. “Sul serio, questo
tuo umorismo nero…”
“Non mi stavi ascoltando.” Il che era semplicemente
seccante. “Cosa c’è?” Gli
premette un dito sul fianco facendolo sobbalzare. “Quale
delle ventimila cosa
che non dovrebbero riguardarti ma di cui non puoi fare a meno di
impicciarti ti
preoccupa?”
“Stai rischiando
di esser
Schiantato, ti avverto.” Sbuffò irritato, ma il
lampo di sollievo che gli
attraversò lo sguardo c’era e doveva voler dir
qualcosa.
Qualcosa
che non mi piacerà.
Lo prese per il polso e lo
tirò a sé, facendolo docilmente scivolare sulle
sue ginocchia; l’unico lato
positivo di averlo in quello stato d’animo era poterlo
maneggiare agevolmente.
Infilandogli infatti una mano sotto la maglietta per accarezzargli la
pelle del
fianco gli valse solo uno schiaffetto ininfluente.
“Al.” Lo richiamò
all’ordine. “Cosa succede?”
“Potrei occuparmi
di Liam …
dico, come Guaritore. Allievo Guaritore … assieme a Smeth,
potrei
chiederglielo, perché sono un Allievo, no?”
Snocciolò in fretta. “Sam vuole
chiedere un parere a Lesioni, e…”
“No.” Lo
fermò prima che potesse
continuare. “Non pensarci neppure.”
“Sarebbe un’esperienza altamente
professionalizzante!” Esclamò
con un luccichio pericoloso negli occhi.
Ambizione.
Ci ha messo anni a venir fuori, ma è sempre
stata lì …
Il che lo rendeva
immensamente
attraente ai suoi occhi, ma non era quello il punto. “Lo fai
solo per quello?”
L’espressione che
gli venne
restituita fu quella di una volpe presa dentro una gabbia delle
galline.
Identica. “Beh…” Borbottò.
“… è davvero un caso medico senza
precedenti e un
virus di cui non si sa niente, e…”
“Non lo fai quindi per essere informato del caso in cui
è accidentalmente
coinvolta metà della tua famiglia.”
“Beh…”
“Non so neppure da
dove iniziare
per definire l’idiozia della cosa.”
“Tom!” Gli diede uno schiaffetto sulla spalla, ma
c’era più senso di colpa che
reprimenda. “Liam è un amico di famiglia, e
… sì, è vero, sono preoccupato per
Jamie, ma al di là di tutto è
un’occasione notevole, e Achille e Sophia sono
ottimi Allievi, ma…”
“Non sono alla tua altezza.” Ghignò
accarezzandogli le vertebre con la punta
delle dita e facendolo rabbrividire. C’era qualcosa di
eccitante nel modo in
cui Al si sentiva palesemente superiore agli altri senza mai darlo a
vedere.
È
un bel passo da quando da bambino pensava di essere l’esatto
contrario. Finalmente se n’è reso conto.
Del resto non
l’avrebbe mai
scelto come compagno se non l’avesse pensato suo pari.
“Non ho detto
questo.” Fu la
replica come al solito diplomatica. “È che non
sono stimolati quanto lo sono io
e sì, anche perché ci sono persone a cui voglio
bene coinvolte.”
Tom glissò sulla
propensione
Potter-Weasley a mettersi di traverso quando c’era qualche
familiare coinvolto.
Non aveva voglia di litigarci sopra.“Cosa ti dà la
certezza che Smethwyck vorrà
un Allievo trai piedi?”
“Niente.”
Convenne con un
sospiro. “Ciò non toglie che possa comunque
propormi.”
“Ti
darà dell’esaltato.”
“Dove sarebbe la novità?” Gli
passò le braccia attorno al collo. “Pensi che non
dovrei farlo?”
Non era una vera domanda. Al
aveva già deciso, esattamente come aveva fatto anni prima
quando aveva deciso
di seguirlo nella faccenda di Von Hohenheim. La
cosa lo spaventava e faceva infuriare al
tempo stesso e fu per questo che lo sciolse dall’abbraccio
facendolo alzare. Al
lo guardò esitante, forse intuendo il suo brusco cambiamento
d’umore.
“Tom?”
“Penso che non ti
interessi
davvero il mio parere.” Rispose infine con una smorfia.
“Non è vero!”
“Che io non sia
d’accordo, che
io pensi tu sia troppo coinvolto, influenzerà la tua
decisione?” Chiese allora
guardandolo dritto negli occhi e Al finì inevitabilmente per
distogliere lo
sguardo, troppo trasparente per riuscire a dissimulare con lui. “Come
immaginavo.”
L’altro rimase
perso nella
contemplazione delle sue scarpe per una manciata di secondi, prima di
chiudere
gli occhi. “Hai ragione.” Ammise piano.
“Ma non riesco a togliermi dalla testa
… Se succedesse…” Inspirò
bruscamente e si passò una mano sul viso.
“… se si
ammalasse James? O uno della loro squadra? Io … io ho
bisogno di sapere che sta
succedendo. Voglio poter essere in prima linea … per fare
qualcosa, e non
rimanere a guardare.”
Hai bisogno di controllare la situazione.
Ecco l’eredità che ti ha lasciato Harry. Quello in
cui ti ho trascinato cinque
anni fa l’ha solo esacerbata.
Al mosse qualche passo verso
di lui. “Sei arrabbiato?” Chiese con
un’espressione che gli sarebbe valsa un
Oscar come capacità persuasiva. Era quella dannata faccia
contrita ad averlo
fregato sin da bambino e l’avrebbe probabilmente messo nel
sacco fino alla
demenza senile.
“Tu al posto mio
lo saresti?”
Ritorse.
“Furioso.”
Convenne con un
sorriso leggero. “Non ti parlerei per giorni.”
“Non tentarmi.” Lo minacciò sentendosi
assolutamente poco credibile. “Ciò
non toglie che
possa comprendere le tue
motivazioni.” Ammise, sebbene a malincuore, passandogli un
pollice sulle
labbra: avrebbe voluto rinchiuderlo in una torre altissima e essere
l’unico
essere al mondo ad avere la chiave; la parte oscura di sé
non faceva che
plaudire a quei pensieri.
Se
solo potessi tenerti fuori da tutto …
È
quando impari a tenere a qualcuno, che cominci ad
avere paura.
Naturalmente non poteva e
non
era giusto, questo lo sapeva. Gli baciò quindi le labbra e
ricambiò la stretta
in cui lo serrò l’altro. “Promettimi che
starai attento.”
“Non è come se dovessi andare in un campo di
battaglia.”
Sospirò. “Per voi Potter è sempre
questione di un campo di battaglia.”
****
Scozia,
Hogsmeade, Foresta Proibita.
Dopocena.
La Luna mostrava il suo
quarto
più rotondo quella sera e James si trovò ad
ammirarla e ringraziarla
silenziosamente per rischiarare la cupa foresta in cui camminava da una
buona
oretta.
Luce
nelle tenebre. Ehi, è un bel messaggio.
Ted a sua differenza
sembrava
guardare solo di fronte sé; da
bambino invece
lo aveva spesso colto in giardino, seduto sull’erba e con il
naso per aria,
quasi volesse cercare di capirla,
più
che limitarsi alla mera contemplazione.
È
la Luna che faceva trasformare Remus. Penso che sia
sempre stata un po’ speciale anche per lui.
Accanto a sé
Neville inciampò
su una radice con un lamento soffocato. “Ehi, tutto
okay?” Lo apostrofò
afferrandolo per un gomito.
“Sì,
sì…” Assicurò con un
sorriso imbarazzato. “È che non ci vedo ad un
palmo dal naso, a differenza di
qualcun altro.” Sospirò divertito guardando la
schiena coperta da un neutro
maglione color bosco di Ted che aveva una vista notturna superiore a
chiunque
altro conoscessero, uno dei tanti lasciti paterni.
Di
notte è meno goffo che di giorno.
Questo, sentendosi
osservato,
si voltò. “Mi dispiace.” Disse in tono
di scuse. “Ma un Lumos
qua attorno sarebbe come avere un faro in una notte di
bonaccia.”
Neville assentì.
“Dove
dobbiamo incontrare Fiorenzo e gli altri?”
“Ci siamo
quasi.”
E c’erano davvero. Fatte poche decine di metri si inoltrarono
in un ampio
spazio erboso, delimitato da rocce posizionate in modo troppo ordinato
per
essere casuale. Era un luogo di incontro e poco dopo infatti vennero
circondati
da un compatto rumore di zoccoli. “Magorian.” Ted
salutò con deferenza il più
grosso dei Centauri, dotato di una lunga criniera corvina e la faccia
pitturata
di bianco; dai segni distintivi James intuì fosse il
capobranco.
Mai
visto in vita mia, manco quando ero studente … Beh,
neppure io ero tanto cretino da andare a disturbare tipi
così.
“Mezzolupo.”
Lo apostrofò, più
constatazione che insulto, anche se a James non piacque comunque il
tono. “Sono
questi gli umani che hai portato con te?”
Ted aveva
l’espressione calma
delle grande occasioni ma James registrò come
l’attaccatura dei capelli stesse
sfumando rapidamente nel viola. “Ne avevamo
parlato.”
“Lo ricordo.” Confermò il Centauro.
“Abbiamo acconsentito alla loro presenza
solo a patto non ostacolassero la caccia. Spero lo
ricordino.” Concluse
scoccando loro un’occhiata tagliente e James si
sentì particolarmente preso in esame.
Puzzo
di auror?
“Non è
una caccia, Magorian.
Siamo qui per aiutarvi a riportare equilibrio nella foresta.”
Fu la risposta.
“Il Mannaro
uscirà vivo di qui
solo se non tenterà di attaccare uno di noi. Cosa che credo
sia destinata a
succedere, Mezzolupo.”
James si scambiò
un’occhiata
nervosa con Neville. Ted aveva genericamente un buon rapporto con le
creature
della Foresta, avendo passato i suoi anni di studente a leggere sotto
l’ombra
di qualche suo albero.
Ma
i Centauri … beh, non è che siano le creature
più
diplomatiche del pianeta.
“Sono certo che
non dovremo
arrivare a dover prendere decisioni in merito all’una o
l’altra opzione.” Il
tono di Ted era quieto e le parole non particolarmente dure, ma il
messaggio
sottopelle era chiaro.
Niente
caccia, niente vittime sacrificali.
James si sentì
piuttosto pieno
d’orgoglio; c’era un sacco di gente che era
disposta a classificare sbrigativamente
Ted come un tipo poco pronto a farsi valere e invece amante del quieto
vivere.
È
tutto il contrario, cazzo. Tira su la testa quando è
il caso di farlo.
Un lungo silenzio
seguì quella
frase e James sentì Neville muoversi nervosamente al suo
fianco; poteva
capirlo, l’idea di far incavolare il capobranco era
abbastanza terrificante.
Vorrei
evitare di menare la bacchetta contro dei Centauri.
Siamo pure svantaggiati numericamente, e di brutto.
Chi risolse la situazione di
stallo fu Fiorenzo: si staccò dal gruppo di arcieri per
sussurrare qualcosa
alle orecchie di Magorian. Qualunque cosa fosse funzionò,
perché il Centauro
più imponente, anche se sembrò inizialmente
infastidito dall’intrusione, finì
per annuire seccamente. “Venite.” Disse.
“Vi mostreremo dov’è la tana.”
James scivolò
accanto a Ted,
posandogli una mano sulla spalla. La sentì incredibilmente
contratta e premette
piano le dita in un massaggio poco funzionale, ma presente. Gli venne
restituito un breve e grato sorriso. “Tutto a
posto?”
“Sì
… prima troviamo il
Mannaro e lo convinciamo a seguirci, meglio sarà.”
“E se non volesse?” Intervenne Neville ed era una
buona obiezione.
“Dobbiamo solo
sperare che sia
ragionevole allora.”
Questo
tizio non è Remus … se è vissuto nel
branco del
Galles sarà abbastanza selvaggio. E di sicuro poco
collaborativo.
Non lo disse
però, perché
aveva la netta impressione che il compagno fosse già
abbastanza teso di suo,
senza aggiungere ulteriori pensieri a quelli che già stava
macinando tra le
sinapsi.
La Foresta Proibita non era
mai un bel posto in cui essere quando calava il sole e solo la luna che
quella
sera splendeva, seppur incompleta, riusciva a non far sprofondare Ted
nel
nervosismo.
Aver coinvolto i
centuari, in quel
momento rappresentati da
una compatta mezza dozzina armata fino ai denti, stava cominciando a
sembrargli
un’idea balorda; Magorian era un capobranco giusto, ma
maledettamente tenace
nei suoi pregiudizi verso chiunque non fosse una creatura di quella
foresta da
secoli.
Credo
non abbia accettato neanche le Acromantule, e
perché sono qui solo da cinque
generazioni…
Fiorenzo aveva fatto un
ottimo
lavoro di mediazione, tuttavia era ovvio che l’altro Centauro
e i suoi
fedelissimi non fossero assolutamente disposti a scendere a patti su un
loro
intervento armato nel caso le cose gli fossero sfuggite fuori controllo.
Devo
assicurarmi che chiunque abiti nella tana esca
vivo di qui. Devo.
“Non ci
sentirà arrivare?”
Chiese James che gli camminava affianco. “Voglio dire, tutto
questo rumore di
zoccoli… e poi i Mannari non hanno tipo il
fiuto…” Fece una lieve smorfia. “Non
mi ricordo bene.”
Ted sospirò. “Siamo sottovento, ma a parte questo
il rumore degli zoccoli
coprirà quello dei nostri passi.”
“Stile specchietto
per le
allodole?”
“Esatto.”
Magorian alzò il braccio in maniera inequivocabile e la
piccola comitiva, loro
compresi, si arrestò. “Oltre quella fila di
massi.” Spiegò indicando di fronte
a sé. “C’è il greto secco di
un torrente e poi una serie di grotte. Il Mannaro
ha trovato rifugio lì.”
Ted si scambiò
un’occhiata con
James e Neville: era ovvio e sottointeso che i Centauri non avrebbero
sceso il letto
ripido di un fiume e lasciavano quindi a loro il compito di andare in
avanscoperta.
Meglio
così.
“Bene.”
Replicò. “Andremo
avanti noi.”
“Vi copriremo le
spalle.”
Disse Fiorenzo con un lieve sorriso. “Cercate di spingerlo
nella nostra
direzione … faremo in modo di catturarlo.” Fece
una breve pausa e poi forse,
indovinando i suoi pensieri, soggiunse. “Cercheremo di
evitare l’uso della
forza per quanto ci sarà possibile.”
“È
umano adesso, non sarà
difficile immobilizzarlo.” Trovò proficuo
puntualizzare, prima di incamminarsi
verso il folto della vegetazione.
“Alla fine
c’era davvero…”
Borbottò James passandosi una mano trai capelli.
“Teddy, senti … ma com’è
possibile che un Mannaro si sia spinto fin qui?”
Bella
domanda.
“Fino alla Scozia
dici?”
Aggrottò le sopracciglia scuotendo la testa. “Non
ne ho idea … L’unica cosa che
mi viene in mente è che sia stato cacciato dal proprio
branco.”
“È una cosa che accade spesso?” Chiese
Neville scostando una fronda ed
occhieggiando il declinare accidentato di fronte a sé.
“Meno spesso di
quanto non si
pensi.” Spiegò incastrando la bacchetta tra la
fibbia della cintura e i
pantaloni, per aver presa sicura nel caso si fosse palesato un
pericolo.
Sperava davvero di non doverla usare. “… in
realtà un Mannaro viene bandito per
pochi motivi. Perché ha sfidato il capo per prenderne il
posto ed è stato
sconfitto o perché ha detto chiaramente che non vuole
più far parte del branco.”
“E succede spesso?
Che un
membro si allontani spontaneamente?”
“Il senso di coesione interna è molto forte Nev,
quindi no.” Scosse la testa,
glissando sul far loro notare che un Mannaro, specie se cresciuto nel
branco
del Galles, aveva pochi posti in cui riparare e che quindi era poco
incline a
certe decisioni. “Glielo potremo chiedere quando lo
vedremo.”
Vide l’uomo e
James lanciarsi
occhiate incerte e sospirò; non era così ingenuo
da credere che la persona che
si sarebbero trovati di fronte avrebbe acconsentito docilmente a
seguirli,
tuttavia a loro differenza sapeva che non avrebbero avuto a che fare
con una
creatura irrazionale.
Adesso
è un essere umano.
Inoltre non
c’erano stati più
attacchi, il che significava che aveva rinunciato a spingersi fino ad
Hogsmeade,
forse allertato dalle chiassose ronde cittadine che erano state
organizzate.
Non
mangerà qualcosa di consistente da giorni. Qua
attorno ci sono solo muschi e licheni.
Scesero lungo la parete del
fiume aggrappandosi a sassi e arbusti per non cadere e Ted
capì che era quello
il motivo per cui il Mannaro aveva scelto quel posto per farne il suo
rifugio;
le caverne di fronte a loro erano inaccessibili agli zoccoli dei
Centauri.
“Come ci
muoviamo?” Chiese
James passandosi la bacchetta tra le dita con fare nervoso; era chiaro
mordesse
il freno per mettersi in azione, ma al tempo stesso fosse consapevole
del fatto
che quello non fosse un terreno di sua competenza.
“Tu cosa
suggeriresti?” Le sue
nozioni tattiche erano comunque più aggiornate di quelle che
ricordava dei suoi
anni d’Accademia.
“È una
persona, quindi
proverei a convincerlo ad uscire con le buone, più che
stanarlo come
suggerivano i nostri amici lassù.”
Osservò meditabondo, guardando verso
l’agglomerato di rocce di fronte a loro. “Anche se
è meglio non far parlare me,
l’auror. Certa gente salta subito alle conclusioni
sbagliate.” Ghignò facendolo
ridacchiare di rimando.
“Provo io
allora…” Si schiarì
la voce e poi puntandosi la bacchetta al collo lanciò un
Sonorus. “So che sai
della nostra presenza.” Iniziò con voce pacata.
“Mi chiamo Ted Remus Lupin e
sono un insegnante di Hogwarts, ma non sono qui per conto della scuola,
né
tantomeno del Ministero. Sappiamo anche che non mangi da giorni e che
ti stai
nascondendo dai Centauri … vogliamo aiutarti, dacci la
possibilità di farlo. Se
uscirai fuori ti prometto che non ti verrà fatto alcun
male.”
Non vi fu ovviamente
risposta;
Ted se l’era aspettato e passò le dita sul manico
della bacchetta. “Okay.”
Pronunciò dopo ancora qualche attimo d’attesa.
“Dividiamoci e cerchiamolo. Non
può essere andato troppo lontano.”
“Sicuro che non sia fuori a caccia?”
Interloquì Neville.
Ted sorrise appena
picchiettandosi il naso e James alzò gli occhi al cielo
mentre l’altro lo
guardò senza capire.
“L’odore,
Nev.” Spiegò un po’
imbarazzato. “Lo sentono i Centauri, ma lo sento anche io.
È qui vicino.”
“Non sai quanto
diventa
rompiballe in questo periodo.” Gli fece eco James.
“Come una fottuta donna
incinta.”
“Jamie!”
“Dì che
non è vero, dai!”
Neville
ridacchiò. “Io prendo
la sinistra.” Propose conciliante prima di prendere ad
arrampicarsi di buona
lena.
Rimasero soli e Ted si
sentì
piuttosto sciocco di fronte all’aria divertita di James,
sicuramente più
preparato di lui in quei frangenti.
“Se
senti o vedi qualcosa non … insomma. Non fare niente di
avventato.” Non poté
trattenersi.
“Mio Teddy, ti ricordo che caccio maghi oscuri. Se fossi
avventato la metà di
quanto credi che sia non sarei arrivato alla fine del mio primo
caso!” Rise
prima di prendergli il viso tra le mani e stampargli sulle labbra un
bacio
veloce. “Mi prendo il centro, tu va’ a destra.
Fidati dell’auror qui presente,
okay?”
Touché.
Non
gli restò che obbedire di buon
grado. Salire sul lato opposto del greto non era facile, tra la roccia
liscia tipica
della zona e il fatto che il terreno fosse coperto per la maggior parte
da
muschio scivoloso e radici umide. Scivolò un paio di volte e
solo i riflessi
gli impedirono di ruzzolare giù. Quando riuscì a
risalire si ritrovò di fronte
ad un apertura buia ed umida, abbastanza grande per far passare una
persona
accovacciata. Poteva essere l’entrata usata dal Mannaro.
Non fece in tempo a
chiederselo che vide qualcosa muoversi nell’ombra, qualcosa
di piccolo e molto
svelto. “Ehi!” Chiamò cercando di
addentrarsi senza sbattere contro qualcosa.
Senza un Lumos, con
quell’oscurità,
era difficile vedere anche per lui.
Capì troppo tardi
di aver
abbassato la guardia proprio nel momento in cui non doveva; qualcosa lo
strattonò prendendolo per il retro della camicia e perse
l’equilibrio, cadendo
all’indietro.
****
Londra, Diagon Alley.
Dopocena.
In five years time I might not
know you
In five years time we might not speak
In five years time we might not get along
In five years time you might just prove me wrong
Tom sosteneva che a volte la
musica era incapace di capire lo stato d’animo del proprio
ascoltatore. A volte
invece la capiva sin troppo bene.
Lily stoppò
l’incedere
digitare del proprio lettore mp3 – regalo tra
l’altro di quest’ultimo –
mordicchiandosi le labbra.
Cinque
anni.
Erano tanti.
Un’eternità dal
suo punto di vista, un lasso di tempo in cui le era successo di tutto,
in cui
era cambiata e diventata una persona diversa dalla piccola Lils, con la
testa
piena di idee assurde sulla vita che avrebbe dovuto vivere in quanto
figlia del
Salvatore, piena di avventure e incontri emozionanti. Cinque anni prima
era più
spensierata, felice e più sciocca. Cinque anni erano un sacco di tempo.
Aprì gli occhi
sull’angolo di
strada che poteva osservare appoggiata al muro di mattoni che divideva
l’ingresso di Diagon Alley con Londra: la via era quasi
deserta, tranne
occasionali bande di ragazzi che facevano spola trai pochi locali
notturni
della zona. Un gatto nero le passò affianco e le rivolse
un’occhiata di
sufficienza prima di saltare dentro un vicolo buio come la pece e Lily
vi perse
lo sguardo per un po’ prima di specchiarsi ad una vetrina
illuminata dal
lampione sopra di sé: aveva un vestito delizioso, i capelli
avevano una piega
perfetta e i tacchi nuovi la facevano sentire una regina.
Stato
d’animo giusto per incontrare i ricordi. Per
incontrare Ren.
Tuttavia aveva smesso di
ascoltare la musica per ammazzare il tempo perché aveva paura e anche se era un sentimento che
detestava sentirsi addosso,
il punto restava: aveva paura che quell’incontro non andasse
per il verso
giusto.
E se non
sappiamo cosa dirci una volta l’uno davanti
all’altro? Se siamo troppo
condizionati da chi eravamo? Se le lettere ci avessero ingannato? Se la
nostra
amicizia non avesse senso e se fosse sbagliata
come dicono tutti?
Se,
se, se …
Odiava quella particella
perché aveva paura di restare delusa. Sören poteva
non essere all’altezza dell’idea che si era fatta
di lui in quegli anni e lei poteva
non rispondere alle
aspettative di un ragazzo che le aveva chiaramente detto più
volte di esserle
grato per averle indicato la giusta via.
Che
poi non ho fatto un accidente. Sono solo dal lato
giusto per nascita, tutto qui.
Inspirò ed
espirò lentamente;
esser arrivata un quarto d’ora prima non era stata
un’idea brillante. Si stava
innervosendo fuori misura.
È
solo Sören, solo una chiacchierata e una passeggiata
per Diagon Alley. Niente di cui esser preoccupati.
Davvero.
Se lo ripeté
circa una ventina
di volte ma non funzionò neppure una.
Quando stava quasi per
andare
a fare una passeggiata per scrollarsi di dosso l’ansia
sentì dei passi
avvicinarsi e poi la presenza di Sören la investì
come una corrente d’aria
calda dopo una doccia fredda.
“Lilian.”
Sei
l’unica persona che ancora mi chiama così. Non ti
ho mai corretto … e non è che non ne avessi avuto
la possibilità, credo.
Sorrise al ragazzo di fronte
a
lei e rimase stupita dall’aria assolutamente normale che
aveva; con i capelli
liberi dal gel e vestito di un paio di pantaloni scuri e una maglietta
su cui
era stato buttato un giubbotto di pelle sembrava un banalissimo
ventenne, forse
solo un po’ troppo magro e dagli occhi un po’
troppo penetranti.
Ciao
ragazzo normale.
…
sì, i vestiti deve averglieli scelti Milo. Gli stanno
troppo bene.
Non seppe come reagire alla
cosa, quindi si limitò a scivolare nell’abitudine.
“Buonasera Ren.” Salutò con
il migliore dei suoi sorrisi. “Mi avevi detto che eri passato
al lato Babbano
della moda, ma non ci avrei mai creduto!”
L’altro la
fissò spaesato per
un attimo. “Ah, i vestiti.” Intuì.
“In America risulterei un po’ ridicolo abbigliato
altrimenti. Sono stato informato che i mantelli e le tuniche non vanno
più di
moda, oltre ad essere poco pratici per la mia professione.”
“Milo?” Indovinò; al San Mungo aveva
notato come l’accento tedesco fosse meno
forte di una volta, ma non si era accorta che avesse adottato quello
americano:
amalgamandosi con i suoni duri della sua lingua madre dava alla voce un
tono
più profondo. Era piacevole.
Ha
sempre avuto una bella voce.
“Già.”
Lily si sentì scomodamente
nuda di fronte allo sguardo dell’altro. Sapeva che non lo
faceva apposta, che
era il suo modo di rapportarsi con la persona che gli stava davanti
– anni
prima a quegli sguardi si era addirittura abituata – ma non
poté impedirsi un
nodo allo stomaco e una vaga sensazione di allarme.
“Ho qualcosa fuori
posto?”
Chiese forse un po’ troppo bruscamente.
Certo
che no, ho passato tre ore barricata in bagno.
Papà credo abbia dovuto andare a farla nel bosco.
L’altro
avvampò come ricordava
solo lui sapesse fare. Era un colorarsi violento delle guance e niente
da fare,
lo trovava ancora maledettamente carino.
“No … stai benissimo.”
Mormorò. “È solo che non pensavo ti
avrei rivista.”
Eh, no, non cominciamo con frasi del
genere!
“Invece eccomi
qua!” Sorrise
smagliante perché era ciò in cui era
più brava. “Allora … facciamo quattro
passi? Scommetto che non hai ancora visto Diagon Alley come si
deve!”
Sören le
restituì un sorriso
quieto, di quelli che avrebbe approntato per chiunque
e Lily registrò il fatto con una punta di fastidio.
“No,
infatti.” Convenne. “Vuoi
fare gli onori di casa?”
Parla
ancora come un libro stampato quando è in
imbarazzo.
Quel fatto invece era
consolante. “Assolutamente!”
****
Scozia,
Foresta Proibita.
La forza che
l’aveva spinto
all’esterno della grotta aveva mantenuto la presa anche
durante la caduta.
Ted impattò con
dolore contro
il declivio del fiume e la botta che sentì alla spalla
destra e al gomito lo
fece quasi svenire. Non ebbe il tempo per realizzarlo però,
che rotolò in un
intreccio di gambe e pugni serrati con il suo aggressore. Sbattendo con
forza
contro il letto asciutto del fiume cercò immediatamente di
rialzarsi, mentre le
narici gli si riempivano dell’odore di sudore selvatico che
solo un essere umano
che non era avvezzo al sapone poteva emanare.
Odore
di Mannaro.
La persona che torreggiava
di
lui, tenendolo fermo aveva una corporatura magra, ma forte e i tendini
dei
muscoli sembravano corde d’acciaio coperte di stracci.
“Fe…”
Tentò con la voce ridotta
ad un sussurro sfiatato, tanto forte era stata la botta.
L’altro respirava a
tratti secchi, ma sembrava in migliori condizioni di lui che aveva
fatto da
cuscino ad entrambi. La luce della luna che filtrava tra le fronde
illuminò
lineamenti scavati dalla fame e una barba secca e stopposa, forse
chiara. “…
per favore!” Tentò levando una mano e cercando a
tentoni la bacchetta con
l’altra; non era naïve fino al punto di non rendersi
conto che il suo
aggressore non si sarebbe fermato
ad
un semplice richiamo verbale.
L’altro parve
intuire le sue
intenzioni perché con un ringhio che molto aveva di animale
e poco di
civilizzato gli afferrò il polso e strinse. Il dolore
esplose in mille schegge
dal polso fino al cervello e Ted urlò sentendolo spezzarsi.
Cercò di scrollarselo
di dosso, ma il tipo sembrava fatto di piombo o forse era lui che per
il colpo
riusciva a malapena a muoversi.
Doveva chiamare aiuto,
doveva
chiamare James e Neville, anche se dovevano essersi addentrati come lui
all’interno dei cunicoli e non l’avrebbero comunque
sentito. I Centauri? Erano
al di là del greto, e sperava che si fossero accorti dei
rumori, sperava…
Tentò di gridare
dato che non
poteva lanciare l’allarme con la bacchetta ma la mano grande
e callosa del
Mannaro gli tappò la bocca. Aveva occhi selvaggi, scuri come
tizzoni e pieni di
paura.
Uccidere
per non essere ucciso. Crede che voglia
ucciderlo. La legge della Giungla, vecchia e vera come il cielo.
Con il naso e la bocca
schiacciati contro il palmo dell’altro non respirava ed era
orribile, la morte
peggiore che potesse capitare ad un essere umano. Con un ultimo guizzo
disperato
morse la pelle del palmo fino a sentire il sapore del sangue e
l’aggressore con
un urlo scattò indietro, quanto bastava per fargli gridare
due sole sillabe, le
prime che la sua mente sconvolta gli suggerirono.
“James!”
Il Mannaro era di nuovo
sopra
di lui; la forza animalesca e la crudeltà umana erano un mix
letale. Questo levò
il braccio, in mano un sasso capace di spaccargli la testa come una
noce e Ted capì
che stava per morire, lì, a pochi passi dall’uomo
che amava e da casa loro.
No!
Poi qualcosa
saettò al lato
del suo orecchio destro. Qualcosa di sottile, rapidissimo e non un
incantesimo.
Lo sentì e poi vide il Mannaro irrigidirsi e lanciare un
guaito simile a quello
di un cane crollando a terra per la forza d’impatto della
freccia che lo
trafisse in pieno petto.
“Teddy!”
Libero, udì come
sott’acqua la
voce di James arrivare dall’alto, seguito dal rumore
concitato di qualcuno che
scendeva nell’alveo del fiume senza badare alla propria
sicurezza.
Jamie.
Si voltò e di
colpo le sue
braccia furono piene di James. Lo strinse con forza, sentendo il
tranquillizzante
profumo del compagno, di casa.
Strinse di rimando, ignorando le fitte che mandava ogni singolo osso o
muscolo
del suo corpo. “Sto bene.” Mormorò con
la bocca impastata. “Sto bene, amore,
sto bene…” Che era anche un rassicurarsi.
L’altro gli prese
il viso tra
le mani, controllandolo con occhi attenti e spaventati. “Non
ti ho sentito,
cazzo … eravamo dentro alle grotte, ho sentito solo quando
hai urlato … È
davvero tutto a posto? Sei caduto e…”
Esitò lanciando un’occhiata spaventata
alla strana angolazione che aveva preso il suo polso.
“È
rotto, tutto qui.”
Minimizzò. Udendo un secondo guaito provenire dove il
Mannaro era caduto si
liberò gentilmente della presa dell’altro.
L’uomo – perché era
un uomo – aveva gli occhi spalancati, vitrei e il respiro
affrettato di chi cercava di non perdere conoscenza. E sangue, sangue
ovunque. “James,
la bacchetta!”
Centauri.
È una freccia dei Centauri.
Guardò verso
l’alto e vide il
branco di Magorian sul ciglio del ripido declinare; era proprio il
capobranco a
reggere l’arco che sembrava ancora vibrare del colpo.
“È
qui!” Gli fece eco Neville
porgendogliela. “Teddy…”
“Sta perdendo troppo sangue!” Tentò di
lanciare un incantesimo Emostatico ma
non ebbe che un effetto palliativo. Il pallore del volto del Mannaro
era
inequivocabile.
Neville gli si
affiancò. “Teddy,
le frecce dei Centauri sono avvelenate, serve
l’antidoto.”
“L’antidoto
… dobbiamo portarlo
ad Hogwarts allora!”
“Teddy.” Neville aveva un’espressione
strana, che non riusciva a decifrare. Era
calmo, troppo calmo considerando che un uomo stava morendo davanti a
loro. E
poi perché continuava a ripetere il suo nome? “Non
faremo mai in tempo.”
“Possiamo Materializzarci lì!
L’infermeria…”
“Non sopravvivrebbe al trasporto.”
“Allora…” Notò lo sguardo
dell’ex grifondoro e improvvisamente capì.
“Non possiamo lasciarlo
morire!”
“Possiamo fare in
modo che non
soffra.”
“Non è un animale!” Ruggì
spintonandolo via – senza trovare resistenza tra
l’altro. Si affiancò al Mannaro e gli lesse negli
occhi un terrore infinito.
No,
no … non morirai.
Si trovò a
premere sulla
ferita a mani nude, come un Babbano, come un Babbano che non aveva la
minima
idea di quel che stava facendo mentre sussurrava rassicurazioni
assolutamente
vuote.
Il Mannaro non distolse lo
sguardo da ciò che stava facendo – aveva capito
che stava tentando di salvargli
la vita? Poi mormorò qualcosa. James gli scivolò
a fianco. “Sta tentando di
parlare.” Lo riscosse, chinandosi per ascoltare. Lo
imitò perché doveva essere
la cosa giusta da fare.
“Ben…”
Sussurrò con un sibilo.
Polmoni lacerati, pensò. La freccia lo aveva trafitto
lacerandogli i polmoni e
riempendoglieli di sangue mentre il veleno doveva aver fatto il resto.
“… Ben.”
Ripeté prima di essere scosso da un lungo brivido. Poi
più niente.
Era
il suo nome. Mi ha detto il suo nome?
Ted, a posteriori,
giustificò
la serie di azioni che intraprese come il risultato dello shock,
perché solo lo
shock poteva avere il potere di farlo scattare in piedi e risalire il
greto del
fiume per dirigersi verso il branco di Centauri come se fossero il nemico.
“Non
c’era bisogno di
ammazzarlo! Stava solo difendendosi!” Urlò in
faccia a Magorian la bacchetta
stretta nella mano sana fino a vederla sprizzare scintille.
“L’avete ammazzato
come un cane!”
Il Centauro gli
scoccò
un’occhiata di fuoco. “Ti ho salvato la vita,
mezzolupo. Dovresti essermi
grato.”
“Lo avete ammazzato!”
Sentiva il
sangue bagnargli la mano e gli veniva da vomitare. Vide Fiorenzo
staccarsi dal
gruppo.
“Professor Lupin, lei era in pericolo e non c’era
altro che potessimo…”
“Non dovevate fare niente!”
“Ted.”
La mano di James si
posò sulla sua spalla con forza. Da quanto era accanto a
lui? “Ted, basta così.”
Era forse la prima volta, da che ricordava, che l’altro lo
chiamava con il suo
nome di battesimo e non il nomignolo per cui era conosciuto in
famiglia. Fu
talmente straniante da farlo voltare. Gli occhi di James erano tristi,
ma pieni
di una calma che lui non sentiva di avere.
E
che forse dovrei avere.
Tornando di colpo in
sé si
rese conto che aveva appena minacciato con la bacchetta un branco di
Centauri.
Dall’espressione furiosa di Magorian e quella seria di
Fiorenzo dovevano essere
sull’orlo di un incidente diplomatico.
“Io…”
Si umettò le labbra. “…
il corpo. Non possiamo lasciarlo…”
“Me ne occupo io.” Esordì Neville alle
sue spalle. “Non preoccuparti.”
Annuì, perché non restava altro da fare dato che
aveva probabilmente minato
dalle fondamenta i rapporti con il branco di Centauri ed era ad un
passo
dall’essere cacciato dalla foresta; buffo era il
fatto che non
gliene fregava nulla.
Accettò la mano
di James e
chiuse gli occhi quando sentì la familiare stretta della
Materializzazione. Quando
li aprì si ritrovò nel centro del salotto, ed era
una sensazione dannatamente
straniante essere lì, in mezzo alle tranquille cose di tutti
i giorni, quando
fino a pochi secondi prima aveva tenuto tra le mani la vita di un uomo
e
sentito il calore del suo sangue sulle mani. Si guardò la
mano ancora sana e
strinse la presa finché James non la chiuse tra le sue.
“Ted…”
Iniziò.
“Teddy.” Mormorò con un sorriso stanco.
“Per te solo Teddy.”
James fece una risata che aveva poco d’allegro.
“Fammi vedere il polso,
avanti.” Alla sua espressione sconcertata sbuffò.
“Ti ricordo che ho giocato a
Quidditch in maniera agonista per anni. Ne so più io di ossa
rotte che chiunque
altro nel raggio di miglia!”
Era un buon punto. Si
lasciò quindi
medicare senza un lamento anche se lo schiocco del polso che tornava al
suo
polso fu doloroso; davanti agli occhi non aveva altro che
l’espressione
spaventata di quell’uomo.
Ben.
Si chiamava … Ben?
James lo spinse poi su per
le
scale e in camera e Ted non trovò nessun motivo valido per
protestare o per
restare in alcun altro posto. Si sedette sul letto e si
guardò di nuovo le
mani; l’altro gli aveva steccato il polso con un Ferula ben fatto e aveva ripulito ogni
millimetro dal sangue del Mannaro.
“Avevi ragione.
Sei bravo.”
Commentò neutramente.
“Ehi…”
James gli si
inginocchiò davanti e gli passò una mano bollente
dietro la nuca per poi
premere senza un’altra sillaba le labbra sulle sue, senza
approfondire, ma facendogli
sentire che c’era.
Il
mio splendido uomo.
“Andiamo a letto,
okay?” Disse
senza chiedere spiegazioni, senza tentare paralleli, senza cercare di
dare un
senso a quello che gli aveva visto fare.
“Grazie.”
Mormorò scivolando
sotto le coperte mentre l’altro gli passava un braccio
attorno alla vita e
stringeva. “So di aver combinato un
casino…”
“Sta’ zitto.” Borbottò contro
la sua tempia. “Se apri bocca per dire stronzate,
giuro che ti Silenzio.”
“Jamie…”
“È la prima persona che ti sei visto morire
davanti.” Tagliò corto passandogli
una mano sotto il cotone della maglietta e accarezzandogli la schiena.
Se fosse
stata un’altra situazione, Ted avrebbe finito per fare quelle
che l’altro
definiva scorrettamente ‘fusa’.
Purtroppo non era quella
situazione.
“Ti ricordi quando
il mio
terzo caso?” Disse dopo un po’. “Quello
stregone che tentò di impalarmi con una
fottuta spada?” Le labbra si muovevano contro la sua tempia e
il respiro caldo
era maledettamente reale. Gli era così grato …
“Fa schifo veder morire qualcuno
per la prima volta e continua a
fare
schifo. Ho avuto dei cazzo di incubi per mesi, e quel tipo voleva tipo
usarmi
come spiedino. Idem per il Mannaro.”
“Era solo spaventato…”
“Lo spavento non giustifica il volerti ammazzare.”
Non avrebbe compromesso su
quello e Ted non tentò di levare obiezioni. Non ne sarebbe
stato comunque in
grado. “Quello che voglio dire è che nessuno si
aspettava te ne stessi
tranquillo dopo essertelo visto morire tra le mani. Manco Magorian
… o non se
ne sarebbe stato buono.”
“È stato Fiorenzo a calmarlo…”
“Rimane il punto. Non hai incasinato nulla. Ti sei solo
comportato come un
essere umano decente, Teddy, e va bene così.”
Ted sentì
l’adrenalina scemare
di colpo e finita quella, lo sapeva, sarebbe arrivato il sonno. Ne era
felice:
non sarebbe stato riposante, ma avrebbe comunque spento i pensieri.
E
Merlino solo sa quanto ne ho bisogno.
****
Diagon
Alley. Notte.
Lily gli aveva mostrato ogni
singolo locale, negozio, finestra di amici o lampione di Diagon Alley;
diversamente
da come si era immaginato al suo arrivo non era un quartiere magico
vero e
proprio, solo una via principale con un paio di laterali strette come
vicoli. Le
case vi si affastellavano una addosso all’altra in un
concatenarsi di balconi,
torrette e finestre, quasi la metropoli Babbana che lo conteneva le
avesse
lasciato poco spazio in cui svilupparsi. Era un posto bizzarro, ben
diverso da
quello bostoniano di North End, dove ormai Babbani e maghi convivevano
gomito a
gomito tra appartamenti di due piani in mattoni e ristoranti italiani.
“Non mi ero mai
accorto che in
Europa fossimo così isolati.” Osservò
mentre concludevano il tour per
l’ennesima volta sulla piazzetta in cui terminava la strada.
Avevano camminato
molto e Lily non aveva smesso un attimo di parlare.
Allora
perché ho l’impressione che non ci siamo detti
niente?
“Statuto
di Segretezza Ren!” Si
strinse le spalle; era deliziosa quella sera, con i capelli acconciati
in tante
morbide onde ramate e un vestito di leggera stoffa estiva, con
fiorellini
bianchi su sfondo blu. Ricordava nebulosamente di averglielo visto
spesse volte
in foto; doveva essere il suo preferito.
Bellissima.
Un dato di fatto. Un dato di fatto
oggettivo.
Chiunque dotato di un paio
d’occhi l’avrebbe detto, persino Milo, indifferente
alle grazie muliebri.
“C’è
anche in America.” Ribatté.
“È uno stato firmatario, anche se con una clausola
di opting-out che permette
di
non dover tenere separate le case private magiche da quelle Babbane.
Per questo
i quartieri magici non necessitano di essere nascosti. Io abito in uno
stabile
Babbano.”
Ma
che bella lezioncina…
Arrossì alla voce
malevola
della sua coscienza.
Lily gli rivolse un sorriso divertito, apparentemente non infastidita
dal tono
cattedratico che aveva usato. “Penso tu sia l’unica
persona al mondo che studia
Cooperazione Internazionale Magica per divertimento.”
Disse chinandosi per immergere la mano nell’acqua illuminata
da riverberi di un
azzurro elettrico della fontana; doveva essere incantata.
“Sono un agente
con mandato
internazionale, fa parte del bagaglio di conoscenze che si suppone
debba
avere.”
“Sì,
vallo a dire a persone
come Jamie o zio Ron!” Sbuffò. “Penso
che non si ricordino neppure quando è
stata scritto, lo Statuto.”
“Nel…”
“Ren.” Inarcò le sopracciglia.
“Io lo
so.”
“Sì, naturalmente, scusami.”
Deglutì sentendo un peso in fondo allo stomaco; il
disagio andava ad ondate. Finché Lilian parlava riusciva a
dimenticarlo, occupato
ad ascoltare il suono della sua voce cristallina e
dell’accento che così tanto
gli ricordava le loro lunghe passeggiate nel prato immenso di Hogwarts.
Ma quando lo guardava o
rimanevano
in silenzio – anche se solo per pochi attimi,
l’altra trovava subito un nuovo
argomento di conversazione – eccolo che tornava potente.
Cinque
anni. Scriverci non è la stessa cosa. Mi riesce
più facile, quando scrivo.
Si rendeva conto di essere
manchevole
sul piano relazionale; glielo aveva reso ben manifesto maghi come
Johannes e
Murphy e anche se in modo meno crudele anche Milo e il Capitano.
Sì,
ma non sei neppure irrimediabile. Tira fuori il
coraggio. Parla.
Si impose dunque di prender
la
parola per la prima volta in quella serata. “Come
… come sta il tuo ragazzo?
Scott?”
Sul serio? Chiedergli del suo ragazzo? Di
tutti gli argomenti che potevi scegliere e ti avrebbe fatto piacere
ascoltare …
Il suo ragazzo?
Sei
un idiota.
Lily fissò il
ragazzo di
fronte a sé presa in contropiede: onestamente non si sarebbe
aspettata che
prendesse la parola. Era stata un’ora e mezzo di dialogo
unilaterale e anche se
se l’era aspettato – Sören non era un
chiacchierone, mai stato – aveva dovuto
attingere a tutte le sue doti di conversatrice di nulla per non far
cadere il
silenzio.
Non
è semplice.
C’era una barriera
tra di
loro, dovuta al reciproco imbarazzo, al loro passato e al fatto che non
si
vedevano comunque da cinque anni.
Non
sta andando totalmente da schifo … ma speravo
andasse meglio.
L’aveva pensato e
poi Sören se
ne era uscito con quella frase.
“Bene.”
Disse senza
rifletterci troppo dato che comunque era la verità.
“Lavora, fa un mucchio di
sport selvaggiamente Babbano e si comporta da perfetto, bravo
ragazzo.”
“Sono contento,
sembra una
brava persona.” Si schiarì la voce ed era
… Ren.
Fino alla punta dei capelli corvini, con la schiena dritta come un
bastone e lo
sguardo troppo serio e il vizio di mordersi l’unghia del
pollice destro –
sempre il destro - quand’era nervoso.
Non
ha mai finto, neppure quando si supponeva dovesse
farlo. Non con me, non ci riesce.
Come aveva potuto pensare di
rimanere arrabbiata con lui?
“Lo
è.” Assentì e si trovò
nella curiosa posizione di non sapere cosa dire.
“Lui …
sa …”
“Di te?” Indovinò.
“Sì, gliel’ho detto due giorni
fa.”
“Due giorni fa?” Il tono si tinse di
incredulità e Lily provò un inspiegabile
senso in colpa. “Non gli avevi…”
“Non ho mai parlato di te a nessuno dei miei ragazzi. Devi
ammetterlo, non sei
un argomento facile da trattare.” Cercò di suonare
tranquilla ma lo sguardo
ferito la colpì come uno schiaffo – Merlino per
essere un Occlumante l’altro
neppure tentava di nasconderle le
sue
emozioni. O forse era il suo potere?
Non
guardarmi così!
“Non intendevo
dire…” Si
umettò le labbra ignorando l’impulso di
abbracciarlo; non erano neanche
lontanamente vicini a quel punto della loro amicizia e no, non era
comunque il
caso. “…
Ren.” Sospirò, e si sedette su
una delle panchine che chiudevano circolarmente la fontana. Le sembrava
una
buona idea, ma l’altro rimase in piedi, fermo come un palo. “Siediti.”
Dovette ordinargli perché lo
facesse. “Sei mio amico, e mi piace
parlare di te, okay? Solo non con chiunque.”
Non
con il mio ragazzo. Merlino, suona male, eh?
“Non devi
giustificarti,
Lilian.”
“Non lo sto
facendo.” Morgana
glielo risparmiasse. Stava solo puntualizzando.
“Sono…” Si voltò verso di lui
e gli prese una mano, di scatto, repentina. Era
impulsivo? Forse. Ma in fondo era solo prendergli una mano, e non era
come se
volesse leggerlo con il suo potere. “Sono fiera di
ciò che sei diventato. Te
l’ho scritto per lettera e lo penso. Lo sai, vero?”
Davvero,
Ren. Se solo molti idioti tirassero fuori la
testa dal sedere capirebbero quanta strada hai fatto.
Erano le parole giuste
perché
l’intero viso si rischiarò. Si era scordata di
quanto riuscisse a cambiare
faccia quando degnava l’universo mondo del suo sorriso. “Certo.”
“Bene.”
La pelle dell’altro
era bollente. Si era scordata anche di quello.
Fatti
un bel recap, Rossa.
“È solo
che con Scott … Beh,
non eravamo ancora a quel punto
del
rapporto. A dirla tutta a quel punto
ci sono arrivata solo con lui.”
Sören fece una
smorfia
impercettibile, forse infastidito dalla cripticità della
frase. “Quale punto?”
Lily ridacchiò.
“Sai, dove
tiri fuori un po’ di Mollicci dall’armadio e speri
che l’altro non dia di matto
e fugga a Waikiki?”
“Stai dicendo
che sono un Molliccio?”
“Cosa? No, ma che
ti viene in
men…” Poi capì da come stava inarcando
il sopracciglio – marchio di fabbrica
che lo accomunava a Piton ed era davvero sconcertante come riuscissero
a
somigliarsi somaticamente avendo solo una manciata di geni in comune
– che la stava
prendendo in giro. “Quanto sei scemo.”
Sbuffò. “Parlavo della mia adolescenza
scervellata.”
Sören si
limitò ad un sorriso.
“Niente Passaporta sola andata per Waikiki dunque?”
Gli diede un colpetto sul
fianco. “Già, pare che sia abbastanza
testardo.”
“Sono contento per
te.” E lo
era, perché Lily meritava un ragazzo che non scappasse in
nessuna dannata
località remota; che la amasse alla luce del sole e non
fosse intimidito dalla
fama della sua famiglia o dalla corazza da ragazza frivola che
indossava per chi
non aveva la pazienza di volerla conoscere.
Lo
sono.
“Grazie.”
Gli passò una mano
sul braccio ed era bello. Il
contatto
fisico non lo saziava mai abbastanza e probabilmente era una delle cose
che
prima o poi avrebbe dovuto tirare fuori con la sua Psicomaga. Non che
lo
volesse da chiunque, ad ogni buon conto.
Certo
non da Murphy. O da Potter.
Lily si abbandonò
poi sulla
panchina. “Ci siamo riusciti finalmente.” Disse con
un mezzo sorriso.
“A far
cosa?”
“A parlare di
qualcosa di
serio e non di aria fritta.” Ghignò appena e
Sören capì che la stessa
sensazione che aveva avuto lui per tutta la sera l’aveva
avuta anche l’altra.
Sorrise di rimando.
“Sì.”
Assentì. “È …
difficile.” Azzardò.
“Diavolo, lo
è!” Esclamò l’altra
con un’aria di buffo sollievo. “E giusto per la
cronaca, sono ancora
arrabbiata.”
“Ne hai il diritto.”
“Non
assecondarmi!”
Gli venne da sorridere ancora più spontaneamente quando
capì che lo stava
prendendo in giro.
È
una cosa buona. Quando mi prendeva in giro, ad
Hogwarts, era un buon segno.
Doveva esserlo ancora.
“Pensavo che farlo garantisse la chiave per entrare nelle tue
grazie.” La
stuzzicò ottenendo una risata franca, pulita e vera.
“Oh, certo che
sì!” Gli occhi
presero una sfumatura calda e Sören sentì la pietra
che aveva nello stomaco
sgretolarsi come se un fiume l’avesse erosa per mille anni.
Ed erano passati solo
pochi minuti.
Le
parole hanno tutt’altra forza quando sono dette, e
non scritte.
“So che non mi
sono comportato
bene. Mi dispiace.” Disse dopo un po’, mentre
entrambi contemplavano lo
zampillare quieto dell’acqua. Non era più un
silenzio pieno di pesantezza.
Certo, era sempre un po’ disagiante ma andava bene
così. “Ti avevo fatto una
promessa, e non l’ho mantenuta.”
Ci
sono margini di miglioramento.
“Non è
stata colpa tua. Hai
solo eseguito gli ordini … E non preoccuparti, mi sono
lamentata con chi di
dovere.” Scosse la testa, passandosi le dita trai capelli.
“Non succederà più.”
Attestò e Sören non poté far altro che
annuire.
Suo
padre. Forse è per questo che ha voluto parlarmi
questo pomeriggio?
“Non eri tenuta ad
incontrarmi.”
Obbiettò perché se avevano cominciato a parlare
come due amici e non come due
estranei dentro un ascensore bloccato, dovevano farlo fino in fondo.
Lilian gli scoccò
un’occhiata
perplessa. “Tenuta? Siamo
amici, non
sei un obbligo!” Se solo fosse stato così
semplice, pensò, ma non lo disse. Era
stato edotto del fatto che c’erano momenti per parlare e
momenti per stare in
silenzio. Era bravo soprattutto in quest’ultimi.
“Solo che … beh, l’hai detto
tu, non era facile.”
“Non siamo
più davanti ad una
lettera.” Commentò e dovette essere la cosa giusta
da dire perché l’altra
assentì.
“Infatti.”
Fece poi un
movimento con le mani per abbracciare un palco immaginario; aveva
dimenticato
quanto gesticolasse. La rendeva molto buffa e decisamente meno
irraggiungibile.
“Dal vivo, caro il mio Ren. Niente prove, pura
improvvisazione.”
“Non sono bravo
nell’improvvisare.”
“Te la stai cavando alla grande.” Gli
strizzò l’occhio dandogli un colpetto
alla spalla. “Sai già quanto rimarrai?”
Si strinse nelle spalle.
“Abbiamo delle piste da seguire, ma in questi casi
è difficile dare una
tempistica esatta.”
“Qualche
settimana?”
“Forse.”
Non si sbilanciò. “Perché?”
Venne guardato con
sufficienza. Cos’aveva detto di sbagliato?
“Perché forse
vorrei farti vedere la Gran Bretagna!” Sören si
impose di non
registrare la capriola che fece il suo stomaco. “Per
metà sei inglese … Hai mai
visto le scogliere di Dover?”
Finse un quieto interesse.
“Lo
sai, no.”
“Appunto.” Gli diede un altro colpetto sulla spalla
e stavolta fu più sicuro,
meno sperimentale. “Certo, sei qui per lavoro, ma nulla
toglie che tu possa
fare il turista, no?”
Ci
stiamo provando. Stiamo provando ad essere amici davvero.
Si sentiva come quando il
Capitano Gillespie gli aveva consegnato distintivo e bacchetta; provava
la
stessa ebbrezza. “Suppongo tu abbia ragione.”
“Certo, ce l’ho sempre!”
Scrollò le spalle alzandosi in piedi. Una lieve
esitazione le tremò nei lineamenti che sì, erano
così diverso dal vederli in
foto. Erano vivi, e vibranti. Poi gli tese la mano.
“Bentornato in Gran
Bretagna, Sören.”
La prese e la strinse e si
scordò anche che era quella
mano
perché, incredibilmente, con Lily non aveva mai avuto
importanza.
“Felice di essere
qui.”
But
you and I now, we can be alright
Just hold on to what we know is true
You and I now, 'though it's cold inside
Can feel the tide turning…
****
Note:
In fandomese
questo capitolo può essere considerato solo come fluffangst. Decisamente.
Capitolo abbastanza musicale
visto che questa è la canzone ad inizio
capitolo, questa
quella che si ascolta Lily aspettando Sören e infine questa
quella
alla fine. 1. Virulenza:
capacità di
un agente patogeno (anche virus) di diffondersi in un organismo. Quanto
si
attacca insomma. Il raffreddore per dirsi è molto virulento.
Info qui
Ringrazio Marta
Nalesso per le dritte che mi ha dato sulle patologie, virus e
roba varia. È stato un discorso abbastanza traumatico, ma
cavolo, se mi ha
aiutato nel plotting! XD
Grazie MOSTRUOSAMENTE anche a chi mi recensisce; purtroppo come al
solito
riesco a malapena a scrivere, tra il lavoro e i mille casini che mi
trovo a
gestire in questo periodo. Credetemi, le vostre recensioni sono uno dei
momenti
più belli della giornata! <3
|
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Capitolo 15 *** Capitoli XIV ***
Capitolo XIV
It's
hard to compromise when I see through your eyes
It's just a common view, I guess it's lost on
you
(I Can
Talk, Two Doors Cinema
Club)
27
Giugno 2028
Londra,
Diagon Alley
“Perché
stiamo entrando in un
negozio di giocattoli?”
James Potter non si riteneva
un tipo paziente; certo, riusciva a simularlo con gente come Malfoy,
perennemente agitata come un ragazzino strafatto di Piume da Zucchero,
ma in
toni generali non sopportava domande che riteneva stupide e quella di
Prince era
appena schizzata in cima alla sua personale top - ten.
Il suddetto in compenso si
era
bloccato a braccia incrociate a pochi metri da loro.
Spiccava, non c’era nulla da fare: era sia
l’uniforme blu, dalla foggia
diversa, sia il
fatto che urlasse straniero da
ogni poro della pelle. Aveva
un bel dire suo padre che dovevano cominciare ad andarci
d’accordo.
Non
ci riuscirò mai. Mi sta troppo sul cazzo, scusate
tanto.
“Perché
prima di tutto non è
un negozio di giocattoli.” Puntualizzò seccato.
“Ma di scherzi magici.”
“La differenza?”
Ora
lo Schianto.
“La differenza
è nella merce.”
Gli venne in soccorso Scorpius con una scrollata di spalle.
“Comunque non siamo
qui per quella parte del negozio. Ce n’è
un’altra … Il laboratorio di Hugo, e
lui potrà darci una mano.”
“Con le telecamere di sicurezza da montare al San
Mungo?” La voce del tedesco
suonava scettica e fu di nuovo Malfoy a parlare perché era
un tipo dannatamente
diplomatico.
“Hugo ha avviato
un’attività
un po’ particolare…” Spiegò.
“Si occupa di rendere funzionanti gli oggetti
Babbani nel Mondo Magico. Fa in modo che la tecnologia riesca a
sopravvivere ai
campi magici emanati dai palazzi, dalle nostre case, da noi.”
“Lo facciamo anche in America.”
Ah, la perfetta America!
“Sì, ma qui è una cosa
piuttosto nuova.” Fu l’obiezione pacata; davvero,
come riusciva Malfoy a non aver voglia di prenderlo a calci? Doveva
essere
tutto l’allenamento che aveva fatto con tizi sgradevoli come
suo padre, forse.
“Se vogliamo far funzionare delle telecamere di sicurezza al
San Mungo senza
farcele spedire dall’America e perdere tempo ad aspettarle,
è lui la persona
giusta.”
Prince rimase in silenzio,
quasi avesse bisogno di pensarci, quando era chiaro che era
l’unica soluzione
praticabile sia per proteggere il sergente Flannery, sia per non
continuare a
girare a vuoto; l’identikit redatto da Mason Wolpert era
infatti stato un
glorioso buco nell’acqua, dato che all’atto di
descrivere il tipo era venuto
fuori che Wolpert era stato nientemeno che affatturato.
Una
roba potente. Quando ha provato a parlare gli si è
annodata la lingua. Letteralmente.
A Lesioni da Incantesimo ci stanno
lavorando da quanto, quattro giorni?
Era frustrante. Sembrava che
quel caso non avesse neanche uno spiraglio a cui affacciarsi,
né una pista su
cui svoltare. Come se non bastasse la stampa aveva fiutato il sangue ed
era
solo questione di tempo prima che i segugi della Gazzetta collegassero
il
black-out all’intera faccenda dell’americano e del
Sergente.
Lanciò
un’occhiata al proprio
Specchio Comunicante; allo scioglimento della fattura sarebbe stato
immediatamente contattato.
Nessuna
notizia fin’ora.
“Capisco.”
Disse il tedesco
distogliendolo dai suoi pensieri. “Va bene,
entriamo.” Disse passandogli
accanto e ignorandolo come se fosse fatto d’aria.
Coglione.
Fece una smorfia scontenta:
sapeva che avrebbe dovuto trovare il modo per andarci
d’accordo; suo padre
glielo aveva fatto promettere qualche giorno prima con un discorsetto
durato
tutto un dopocena.
Sicuramente
gliel’avrà imboccato quella scema di Lils.
Solo che quella
raccomandazione non lo prendeva in un momento tranquillo: era stata una
settimana schifosa, piena dei problemi che più odiava al
mondo, ovvero quelli
senza soluzione.
Tipo,
il mio ragazzo si è rintanato in mezzo ad una
pila di libri alta quanto un pony e non vuole parlare di quanto
successo nella
Foresta Proibita. E oggi andrà a seppellire quel Mannaro. E
non posso farci niente.
Intercettò
un’occhiata
preoccupata da Malfoy e gli allungò una pacca sulla spalla.
“Tutto a posto,
Malfuretto.” Mentì.
“Con questa faccia? Non prendermi in giro.” Lo
sgamò subito. “Ne vuoi parlare?
Birra dopo il lavoro?”
“Preferisco
tornare a casa.”
Scrollò le spalle, per quanto quella frase suonasse stonata
per le sue corde. “Sai,
Teddy.”
L’altro,
già a conoscenza di
tutto dato che quella birra se l’erano presa più
volte in quei quattro giorni,
annuì. “Okay, ma domenica ci sei per il mio
compleanno al Finnigan’s, vero?
Trascinaci anche lui.” Gli suggerì con un sorriso
cordiale. “Vedere un po’ di
gente lo tirerà su di morale!”
“Ci
provo.” Concesse spingendo
la porta ed entrando nel caotico ambiente dei Tiri Vispi; furono
così assaliti
da un tripudio di colori, suoni e luci. James sorrise divertito ai
fuochi di
artificio che sfrecciavano ovunque e alle torme di ragazzini che si
asserragliavano attorno agli scaffali, chiedendo a gran voce ai
commessi,
vestiti di tutti i colori dell’arcobaleno, di provare la
merce. Ne schivò un
paio, tirando uno scappellotto distratto ad un moretto che
tentò di aggrapparsi
alla sua cintura, troppo in prossimità del fodero della
bacchetta.
“Questo posto
è un casino come
al solito. Un giorno salterà in aria dalle
fondamenta.” Sghignazzò l’amico con
gli occhi che gli brillavano. “Lo adoro.
Da bambino mamma mi parcheggiava qui e Calzino poi ci metteva ore per
trovarmi.”
“I miei una volta
mi hanno
perso sul serio … Sono stato ritrovato nel retro dopo un
paio giorni,
abbracciato ad una cassa di Detonazioni Deluxe!” Rise Bobby,
che come loro aveva
passato l’infanzia tra quegli scaffali.
A metà tra il
negozio e una ludoteca,
i Tiri Vispi Weasley erano la summa
perfetta del negozio a misura di piccolo mago e James aveva sempre
ammirato la
capacità dello zio di non arrabbiarsi mai quando, alla
chiusura del negozio,
dentro sembrava esserci passato un uragano.
Ma
dopotutto il casino pare divertirlo a morte.
Avanzando in mezzo a Fuochi
ad
Innesco ad acqua che esplodevano ad ogni piè sospinto in
cascate multicolori ci
misero più di qualche secondo a notare che Prince era
sparito. James si voltò e,
per la prima volta dall’arrivo dell’altro,
provò qualcosa di simile alla compassione;
il poveretto non si era mosso dall’entrata, con gli occhi
sgranati in piena e
terrificata confusione.
“Sembra che non
abbia mai
visto un negozio di scherzi magico!” Ironizzò
Bobby.
“Di certo non così. Questo posto
è un simbolo fulgido
della follia umana. Vado a prenderlo.” Esordì
Scorpius risalendo il fiume di
pre-puberi. Raggiuntolo gli parlò qualche breve istante in
un tripudio di
sorrisi rassicuranti che avrebbero convinto un Mangiamorte ad adottare
gattini;
Prince cominciò a riprendere colore.
“L’ha
preso in simpatia, eh?”
Considerò Bobby incuriosito.
“Probabilmente gli
ricorda suo
padre o roba del genere.” Scrollò le spalle
facendo un cenno di saluto a suo
zio George, occupatissimo a mostrare uno dei nuovi scherzi ad un
capannello di
bambini entusiasti.
“Beh,
però è meglio
di Lord Malfoy.” Alla sua
occhiata si strinse nelle spalle, a disagio. “Avrà
fatto degli errori in
passato, ma non così grossi.”
“Dillo alla mia
famiglia.”
Masticò malmostoso, trovandosi nella scomoda posizione di
non sentirsi più così
legittimato.
Papà,
Al, Lils e mamma non me la rendono facile.
Merlino, me lo troverò davvero a tavola alla Tana, una di
queste domeniche.
Scorpius lo raggiunse con
l’altro, che si guardava attorno come se avesse paura che
qualcosa potesse
saltare in aria da un momento all’altro.
Paura
legittima bello.
“È qui
il laboratorio?” Chiese
riuscendo comunque ad approntare un tono fermo, gliene dovette rendere
atto.
“No,
dietro.” Fece un cenno
alle sue spalle. “Diamoci una mossa.”
Alla follia degli inglesi
non
c’era mai fine.
Respira.
Occhieggiò la
fila di scaffali
da cui stava passando, dalla quale esplodevano cose
emettendo rumori raccapriccianti tra la pernacchia irriverente
e il fischio acutissimo.
Lilian gli aveva raccontato del negozio di scherzi di suo zio George,
una vera
e propria peculiarità di Diagon Alley che attirava curiosi e
clienti anche dai
Ministeri vicini, tuttavia non avrebbe mai immaginato si trattasse di
una
specie di parco giochi per strafatti di Pozione Stimolante.
O
per bambini…
- gli suggerì la voce della sua coscienza; bambini
iper-stimolati e chiassosi a
giudicare dalle squadriglie di ragazzini che rischiavano di farlo
inciampare ad
ogni passo, brandendo bacchette di gommapiuma che si trasformavano ad
ogni piè
sospinto in ombrelli o merluzzi, dolciumi e fuochi
d’artificio.
“Questo posto non
dovrebbe vendere scherzi?
Perché lascia che i
clienti saccheggino gli scaffali?”
“Sono i campioni
di prova,
credo.” Gli rispose Malfoy, che esibiva
un’espressione curiosamente simile ai
piccoli avventori. “E se prendi qualcosa che non è
in prova, paghi all’uscita.
È un metodo che funziona, George Weasley ci ha fondato una
specie di piccolo
impero!” Si strinse nelle spalle. “Ci sono sedi dei
Tiri Vispi sparse un po’
per tutta Europa.”
Sören fece una smorfia; non capiva tutto quel chiasso e ne era
maledettamente
frastornato.
“Non hai mai
comprato una
Caccabomba da ragazzino?” Gli venne chiesto con divertimento.
“Avevo il Piccolo
Pozionista …
Lo ricevetti da mio padre quando avevo sei anni.”
“Anche io. Feci
saltare in
aria il letto di camera mia e per punizione il mio mi fece dormire sul
tappeto
per una settimana!” Sghignazzò allegramente.
“Tu cosa hai distrutto invece?”
“Niente.”
Aggrottò le
sopracciglia. “Seguivo le istruzioni.”
“Oh, ci credo.” Sorrise di rimando indicandogli poi
con un cenno della testa
una porticina rossa, alla fine dell’enorme stanzone su
più piani. “Eccola là.
La porta per il regno di Hugo.”
“Cugino di Lily?”
“Gli Weasley sono
più o meno
tutti cugini tra di loro. Sono una specie di enorme conigliera
rosso-crinita.”
“Guarda che ti
sento,
cazzone!” Lo riprese Potter facendogli un gestaccio e
bussando al battente
della porta rossa. “Speriamo che Hugo non si spari quella sua
roba in cuffia o
non ci sentirà mai.” Borbottò
scrocchiandosi il collo.
Fortunatamente il ragazzo in
questione aprì subito; Sören lo riconobbe al volo,
perché a parte l’altezza e i
lineamenti più maturi era lo stesso ragazzino arruffato che
aveva conosciuto ad
Hogwarts. Questo abbassò le grosse cuffie Babbane sul collo
e li squadrò uno
per uno. “Ohi. Che ci fate qui?” Esordì
con il tono di chi era appena stato
strappato dal sonno.
Riesce
a dormire con quello che succede dietro la sua
porta?
“Consulenza,
Hughie!” Esclamò
Potter battendogli una pacca consistente sulla spalla magra.
“Ci serve una mano
con una roba tecnologica.”
“Ah, okay.” Esalò lanciandogli
un’occhiata piuttosto truce, ma doveva essere la
sua espressione usuale perché non la cambiò
neppure per salutare Jordan e
Malfoy. Sören da un mondo caotico fu trascinato in un altro,
completamente
diverso eppure regolato dagli stessi principi dell’entropia.
Era un
retro-bottega, spazioso ma completamente invaso di ciarpame, tra
computer,
televisori al plasma e stereo. Weasley non era solo, dacché
nel laboratorio si
affaccendavano una mezza dozzina tra ragazzi e ragazze che chini su
tavoli da
lavoro erano per la maggioranza presi a dissezionare plastica e
microchip. I
tre auror salutarono una ragazzina bionda ancora in piena adolescenza e
vestita
come se dovesse presenziare ad un concerto punk, tra piercing e
abbigliamento
ribelle.
Più
che un laboratorio magico sembra una sala giochi
Babbana.
Lo stesso proprietario
sembrava uno di quei giovani geni della Silicon Valley californiana, in
t-shirt
dal motto ironico e Converse bucate.
“Che posto
è questo?” Chiese.
Malfoy fece un sorrisetto
svagato.
“Il Grande Sogno di Hugo.” Gli rispose.
“Tutti i ragazzi inglesi vengono da lui
per far funzionare cellulari e impianti stereo ad Hogwarts o a casa
della nonna
che vive solo di bacchette e incantesimi. Ha anche lavorato alla
messaggistica
degli Specchi Comunicanti, anni fa, quando era ancora a
scuola.” Gli lanciò
un’occhiata perplessa. “Non hai detto che esistono
posti così anche in
America?”
“Sì, ma
sono meno …
sperimentali.” Si risolse a dire, suo malgrado affascinato.
Non capiva un
negozio di scherzi, ma un laboratorio dove venivano sviluppate nuove
idee per
rendere due mondi tanto diversi capaci di comunicare …
quello sì, poteva
capirlo. “È stupefacente.” Ammise.
Hugo dovette averlo sentito
perché si voltò per scoccargli un sorriso tutto
denti che lo rese
definitivamente cugino di Lilian. “Sicuro che lo
è!” Esclamò. “È il
primo
laboratorio di conversione Tecno-Magica in Europa!”
Spiegò gonfiando il petto
d’orgoglio. “La WizardTech!”
Esitò
solo un attimo, prima di lanciare un’occhiata guardinga a
Potter. “Vuoi farti
un giro?” Propose.
A
quanto pare lodare gli Weasley ripaga sempre.
Era disposto a continuare su
quella china, se significava portarne un altro dalla sua parte.
“Volentie…”
“Magari
un’altra volta, Hughie,
stiamo lavorando.” Li mise in riga Potter. “Ci
serve sapere se puoi fare un
lavoretto su delle…” Tentennò cercando
chiaramente di ricordarsi il termine.
“Telecamere di
sicurezza.” Gli
venne in aiuto Malfoy. “Una roba del genere.”
“Di video-sorveglianza cioè?”
Intuì subito il tecnico. “Dove volete
piazzarle?”
“San
Mungo.”
Il ragazzo incrociò le braccia al petto, pizzicandosi il
mento. “Okay. Non
dovrebbe essere difficile, anche se dipende da che risoluzione volete
che
abbiano. I campi magici potenti come quello del San Mungo smarmellano
un sacco
la qualità video.” Spiegò senza
spiegare nulla, tra colloquialismo e termini
tecnici.
“Come ti pare.” Sbuffò Potter a disagio:
doveva essere difficile per lui non
essere padrone di un argomento. “Basta che si veda la faccia
di chi entra ed
esce da una stanza ventiquattro ore su ventiquattro. Pensi di poterlo
fare?”
“Sicuro.” Convenne l’altro con un cenno
evasivo della mano. “Per quando le
volete pronte?”
“Il prima possibile.”
“Per stanotte le avrete funzionanti.” Promise con
una tranquillità incoraggiante.
Almeno
non dovremo preoccuparci anche di questo.
“Bella pensata
comunque.” Aggiunse.
“È
la prima volta che sento che l’ufficio
Auror le usa. Di chi è stata l’idea?”
“Di
Prince.” Rispose Malfoy.
“In America le usano da anni.”
Il ragazzo gli rivolse un’occhiata valutativa e poi
azzardò un sorriso. “State
un sacco avanti là, eh? Mi piacerebbe venire a vedere quanta
roba ci stiamo
perdendo nella vecchia Inghilterra.”
“Idee come le tue sarebbero le benvenute.”
Sperò che la lode non risultasse
troppo smaccata – e a giudicare dalla smorfia di Potter forse
lo era. A sua
differenza però il cugino avvampò di autentico
piacere.
Tutti
gli Weasley arrossiscono sulle orecchie?
“Bene, le avrete
per stasera.”
Ripeté stropicciandosi il viso con le dita. “Mi ci
metto subito.”
“Da
quant’è che non ti fai una
dormita ad orari decenti, Hugh?” Ghignò Potter
arruffandogli i capelli con il
piglio di un fratello maggiore. Doveva avercelo nel sangue.
“Non vogliamo esser
responsabili se poi Gail ti sgrida!”
Ci fu un nuovo arrossamento in zona orecchie. “Gail ce
l’ha già con me per
qualche diavolo di motivo.” Borbottò
“Devo chiedere a Lils che le è preso
stavolta. Con le donne a volte serve un dannato traduttore!”
Lily.
Si erano sentiti in quei giorni, anche se solo tramite
messaggi su
cellulare – non era mai stato tanto grato a Milo per avergli
insegnato ad usare
quell’aggeggio dallo schermo sin troppo sensibile. Non erano
ancora riusciti a
vedersi, ma non si sentiva inquieto; se c’era un lato
positivo di quella lunga
indagine tortuosa era avere un buon margine di permanenza su suolo
inglese.
La
rivedrò. Posso vederla adesso. Vuole vedermi.
Sapeva di non dover tirare
la
corda ma al tempo stesso non aveva voglia di attendere un invito da
parte
dell’altra: la conosceva abbastanza bene da sapere che
prendere l’iniziativa
non era nelle sue corde.
Il
suo invito di domenica è stata un’eccezione.
Un
caffè. Suppongo che un caffè vada bene.
Milo aveva suggerito una
cena,
ma gli sembrava troppo. Doveva fare piccoli passi ed un invito per una
consumazione veloce e un po’ di chiacchiere era un buon
compromesso.
Ha
detto che vuole farmi vedere l’Inghilterra, ma …
Lilian era una ragazza dalle
iperboli facili; per quanto fosse stato felice di sentirglielo dire non
era
sicuro che avrebbero davvero finito per Materializzarsi assieme nei
principali
luoghi storici o di interesse della Terra d’Albione.
Ha
una vita, degli impegni, degli amici e un ragazzo.
Goditi i momenti che ti dedica, ma non illuderti.
Mai.
Sì, un
caffè era un’opzione
appropriata; nessuno avrebbe potuto muovere obiezioni.
Tranne
Potter. Ma che vada francamente al diavolo.
Uscendo dai Tiri Vispi
Weasley
lo sentì parlottare a bassa voce con Malfoy; udì
il suo nome nella frase e
finse di non averlo fatto. Era la strategia migliore da seguire.
Io
ignoro lui e lui ignora me.
Fu Malfoy alla fine a
girarsi
e fargli un sorriso amichevole a cui ritenne doveroso rispondere.
“Ehi, hai
piani per questo venerdì sera?”
Confuso, scosse la testa.
“No,
non direi. Perché lo chiedi?”
“Perché è il mio compleanno e faccio
una festicciola al Finnigan’s Wake, il
pub…”
“… dei gemelli Finnigan, Lily me ne ha
parlato.” Concluse per lui, non credendo
a quello che stava implicando. Una cosa era esser civili in orario di
lavoro,
un'altra includerlo nel proprio tempo libero. “Lo
conosco.” Concluse non
impegnativo.
“Fantastico,
allora ti sarà
facile trovarlo.” Vedendo la sua espressione
chiarificò tranquillo. “Sei
invitato, e porta pure chi vuoi. Più siamo, meglio
è!”
Non sapendo cosa rispondere
senza mostrare le sue deficienze relazionali, si limitò ad
un rigido cenno
della testa. “Molto volentieri.”
Dopotutto, forse, non gli serviva una scusa per rivedere Lilian.
****
Dipartimento di
Cooperazione Magica Internazionale, Ufficio Internazionale della Legge
Magica
Mattina.
“Signor Zabini,
c’è una
chiamata via Fuoco Magico per lei.”
Michel alzò lo sguardo, squadrando perplesso il giovane
Fuochista – mestiere
che nel Mondo Babbano prendeva il nome di centralinista –
affacciato alla porta
dell’ufficio.
“Arrivo subito.” Disse abbandonando volentieri la
scrivania per sgranchirsi le
gambe. Il ragazzo gli fece spazio facendolo passare e Michel si godette
l’occhiata
al fondoschiena che gli venne lanciata. Quel nuovo completo, uscito
fresco
dalle mani capaci di George McClan era stato un acquisto decisamente
oculato a
giudicare dallo sguardo affamato dell’altro.
Abbiamo
già avuto il nostro tempo Kyle, e dato che non
è stato niente di che, nessun bis, spiacente.
“Se si tratta di
Nott ho già
detto di non farmi passare le sue chiamate.”
Non gli spedirò denaro,
né favorirò la
sua estradizione nel caso gli spagnoli avessero finalmente realizzato
che sta
mettendo su una delle sue baracconate illecite a casa loro.
“No, è
dall’America.” Replicò
il fuochista. “Michel…” Tentò
di raggiungerlo. “Hai un momento…”
“America, Kyle.” Inarcò le sopracciglia.
“Scusami, temo sia importante.”
Chi
diavolo mi chiama da là?
Fu con quella domanda in
testa
che si posizionò nella nicchia dedicata al focolare da cui
era arrivata la
chiamata, sedendosi sullo sgabello basso e scomodo.
Scomodissimo
se hai passato una notte a folleggiare per
poi tentare di scordartela con le successive, tra le braccia di tizi
che non
valevano neanche una sveltina nei gabinetti.
Scacciò quel
pensiero come
sporco sotto un tappeto, chinandosi all’altezza del focolare
baluginante.
“Parla Michel Zabini.” Esordì.
“Buongiorno Signor Zabini, spero di non averla
disturbata.” Gli rispose una
voce dal forte accento americano. “Mi chiamo Ethan Scott e la
chiamo
dall’ufficio Cooperazione del Ministero Americano.”
“Buongiorno.”
Salutò
perplesso; era la prima volta che si occupava di un caso di
giurisdizione congiunta,
ma non gli risultava cosa abituale che i colleghi americani si
facessero vivi.
“Come posso esserle utile?”
“Sì, mi può essere utile.”
Convenne l’altro con un tono sciolto, di chi era
abituato a parlare con tante persone di diversa estrazione sociale e
per questo
approntava un tono neutro e genericamente amichevole.
“È lei ad occuparsi del
caso congiunto Howe, è corretto?”
“Corretto.”
Confermò, ed era
un po’ sterile visto che era l’unico caso che
supervisionava al momento. Che diavolo
voleva quel tipo da lui? Non che non apprezzasse una diversione dalla
pila si
scartoffie che lo aspettava, ma quella chiamata era strana.
“Si occupa di
monitorare le
indagini del nostro agente di collegamento, Sören Prince,
giusto?” Sembrava
voler ribadire cose ovvie, ma Michel decise di assecondarlo mentre
cercava di
capire il sottotesto.
La
mia professione è fatta tutta di
sottotesto.
“Mi occupo di questo al momento,
sì.” Ripeté diligente. “Avete
ricevuto i
rapporti con le mie note, spero.”
“Certo.” Assentì. “Un lavoro
eccellente. La professionalità è una dote che
viene molto apprezzata nel nostro ufficio.”
“Lei mi
lusinga.” Non si
sbilanciò, cominciando a capire che l’altro stava
facendo ampi giri attorno ad
un argomento. “Ethan … posso darti del
tu?” Chiese scivolando in un tono accattivante,
quello che riservava per i pezzi grossi o per amanti degni di nota.
“Stavo per
proportelo io,
Michel.” Abboccò l’uomo con un sorriso
che poteva essere percepito anche oltre
le fiamme verdognole. “Ho letto la tua scheda. Giovane ed
intraprendente. Ragazzi
come te sono linfa vitale per la nostra professione.”
Sì,
vallo a dire a mio padre o a Lord Malfoy.
“Riguarda il caso
Howe,
Ethan?” Chiese pacato, cercando di capire dove voleva andare
a parare l’americano.
Se aveva chiamato lui e non l’ufficio Auror era evidente che
avesse bisogno di
un favore.
E
chiunque frequenti i corridoi del Ministero sa che
favori e Ufficio Auror non stanno nella stessa frase.
A
meno che tu non appartenga al grande Clan Potter-Weasley,
ovvio.
“Riguarda
Sören Prince.”
“Prince?” Inarcò le sopracciglia preso
in contropiede. “È un vostro
agente.” Sottolineò. “Cosa posso
dirvi che già non sapete?”
“Molto.”
Michel aggrottò le
sopracciglia tentando di riflettere il più velocemente
possibile. “Come ho
detto, in America sappiamo valutare le persone che ci sono davanti,
Michel … e
anche quelle che non possono esserlo per motivi geografici. E una buona
opinione è cosa ben spendibile nei nostri
ambienti.” Fece una breve pausa.
“Spero di essere stato chiaro.”
Ah.
Un
favore per una buona parola. Chiarissimo.
“Prince non
è un agente
qualunque, Michel, se conosci la sua storia non potrai che
convenire.” Continuò
l’americano in tono discorsivo, amichevole. Doveva essere
pericoloso avere a
che fare con un uomo così, se ti trovavi dalla parte
sbagliata della sua
bacchetta.
O
se gli dai le spalle.
Chissà cosa aveva
fatto Prince
per finirci. Non che gli interessasse; non era affar suo dopotutto.
Non
sono certo la sua balia.
“Quello che
vogliamo sapere da
te è un’opinione sul suo operato, niente di
più. Che tu lo tenga d’occhio e che
ci riferisca i suoi movimenti.”
“E le mie impressioni devo inviarvele assieme alle mie note
sul caso?” Domandò
ironico; non c’era bisogno che notificasse il suo assenso: quella era la sua occasione per avere un
biglietto di sola andata
per uno scatto di carriera prima dei venticinque anni e non se la
sarebbe
lasciata sfuggire per nulla al mondo. Ethan Scott doveva aver studiato
la sua
storia professionale prima di contattarlo.
Vuole
usarmi. Benissimo. Io userò lui.
L’americano
ridacchiò. “Ti
chiamerò io. Una chiacchierata una volta a settimana, non
sarà nulla di
impegnativo. Avere buoni amici in questo mestiere è il
metodo migliore per fare
strada.”
“Mi è stato detto.” Sorrise di rimando
anche se non poteva vederlo. “Puoi
contare su di me, Ethan.”
“Pausa pranzo, mio
buon Mike?”
Michel fece una smorfia,
entrando in ufficio e notando come la sedia di fronte alla sua
scrivania fosse
occupata da una giacca a strisce stravaganti e dagli occhi bicolori di
Loki
Nott.
“Pensavo ti fossi definitivamente stabilito in
Spagna.” Sbuffò aggirando
l’amico e sedendosi. “Se non altro per sfuggire
alla giustizia.”
“Sentivo nostalgia
dell’umida
estate londinese, che vuoi farci. Sono un tipo abitudinario.”
Replicò con un
mezzo sorriso indolente, di quelli che si accoppiavano ad uno
stiracchiarsi
dopo una lunga dormita. “Non ti sono mancato?”
“In questa
settimana? Affatto.”
Ironizzò afferrando una cartellina spessa e aprendola con un
tocco delle dita.
“Non posso venire a pranzo, ho da fare.”
“E salti un pasto principale? Sai, credo che in qualche
nazione sia
considerabile un delitto capitale. Andiamo, l’affare
è andato in porto. Offro
io.”
Michel era piuttosto certo che la maggior parte dei funzionari del
Ministero
non aveva amici fastidiosi come i suoi. Tra Nott e Malfoy era difficile
decidere chi era il più pronto a trascinarlo via dai suoi
compiti.
Non
oggi che è una giornata che sembra finalmente fuori
dalla mia solita, avvilente routine.
“Grazie,
come se avessi accettato.”
“Stiamo diventando maniaci del lavoro?” Lo
stuzzicò come era solito fare, ma
quel giorno Michel era poco incline ad indulgere nei loro soliti
battibecchi.
“Diversamente da
persone di
mia conoscenza ho un lavoro che richiede la mia completa
dedizione.” Buttò
fuori forse con eccessiva stizza, tanto che la sua collega
alzò la testa per
controllare la situazione – e probabilmente sparlarne durante
la maledetta
pausa pranzo.
Nott d’altro canto
non diede
segno di aver notato lo sfogo, passando un dito sulla targa lucida che
informava l’intero piano del suo nome, cognome e grado
ministeriale. “Ti
ricordi quando al Quinto anno giurammo che fuori da
quell’isolamento barbaro
tra le montagne saremo vissuti per diventare i re della Londra
Magica?” Chiese
invece.
Michel inarcò le sopracciglia, non capendo dove
volesse andare a parare; era piuttosto raro che Loki si
perdesse in
discorsi nostalgici. “Ne abbiamo fatte molti, di discorsi del
genere. Pensi che
me ne ricordi uno in particolare?”
“Non è
quello il punto.”
Inclinò la testa per guardarlo e Michel si sentì
investire da qualcosa di
simile all’inadeguatezza. Il che era ridicolo,
perché Loki, diplomatosi con il
minimo dei voti, viveva alla giornata e del frutto dei proprio imbrogli
– il
patrimonio di famiglia non era mai stata un’opzione,
sperperato da Nott Senior
in una serie di investimenti scriteriati prima che figlio e nipote
nascessero.
Io
sto costruendo il mio futuro. Prestigio, importanza,
far combaciare il mio nome con le aspettative che porta il mio cognome.
Lui
passa il suo tempo in bettole con Goblin strozzini
e scommettitori.
Perché
dovrei essere io quello a sentirsi inferiore?
“E quale sarebbe,
di grazia?”
Ritorse serrando le dita sulla pratica, quasi fosse una maledetta
coperta
confortante dopo un tuffo gelido nel Lago Nero.
“Vivere.”
Tagliò corto
l’amico. “Ultimamente pare tu ti sia scordato come
si fa.”
Michel si rifiutò
di sentire
lo stomaco contrarsi in una morsa. Si rifiutò di provare
angoscia, e dunque
provò rabbia. “Non dire sciocchezze.”
Sibilò. “Oggi ho ricevuto un’ottima
opportunità e non permetterò che tu mi rovini il
buon’umore con discorsi
insensati.”
“Ah, perché adesso sei di buon’umore? Ti
ricordavo diverso.”
Michel represse
l’impulso di
rispondergli per le rime. Non aveva davvero tempo, né
tantomeno voglia. “Se hai
tempo per scocciarmi perché non ne fai buon uso e ti occupi
del regalo di
Scorpius?”
Loki si passò una
mano trai
lunghi ricci scomposti e Michel intuì il gesto distensivo;
si conoscevano da
troppo tempo per infilarsi in una discussione sui rispettivi sentimenti
offesi.
“Come preferisci.” Fu infatti la replica quieta.
“Solo, pensavo volessi esserci
anche tu.”
“Non
ho…”
“… tempo, avevo afferrato il concetto a due
lamentele fa.” Si alzò in piedi,
recuperando l’estroso bastone da passeggio che portava
ovunque – era un ottimo
posto dove nascondervi la bacchetta quando doveva condurre affari ai
limiti del
lecito. “Lasci dunque nelle mie mani il regalo per il nostro
festoso amico, arbiter elegantiae?”
Motteggiò con
eleganza, ed era una delle cose che più apprezzava di lui.
E
che lo lascia libero di vivere in casa mia senza
spendere uno zellino né una sterlina.
“Mi fido del tuo
buon gusto,
una delle poche doti che hai, Mastro Zabini.”
Replicò accettando l’offerta di
pace con un sorriso che sperò risultasse sincero.
“È la
stessa che mi permetterà
di avere la tua auto sportiva per questo fine settimana?”
Interloquì
impenitente.
“Scordatelo.” Ribatté sapendo che
avrebbe finito per capitolare; differentemente
da un certo Dursley, non era poi così attaccato alle sue
cose. “Specie se usi
il bagagliaio come hai fatto l’ultima volta.”
“Era solo una fornitura di pozioni!”
Protestò con tono falsamente offeso. “Passare
il confine le Asturie è stato un gioco da ragazzi e te
l’ho riportata sana e
salva, o mi sbaglio?”
Alzò gli occhi al
cielo.
“Levati dai piedi, Nott.”
“Ai tuoi ordini.” Sogghignò
disimpegnato, prima di fare un cenno di congedo sia
a lui che alla collega e Smaterializzarsi con un sonoro crack.
Michel con un sospiro si
apprestò ad ignorare il vuoto che la presenza
dell’amico e dell’ennesima
rinuncia avevano appena lasciato.
****
Notturn
Alley, Black Goose.
Ora di pranzo.
L’universo
Magonò era
largamente sottovalutato da chi aveva la magia e questo era un dato di
fatto
per chiunque si prendesse la briga di controllare.
Cioè
nessuno.
Milo
si calcò il vecchio berretto in
testa e aprì la porta del Black Goose, pub decrepito a
Notturn Alley, segnalatogli
come il ritrovo per eccellenza degli scarti della società
magica. Al suo
ingresso si voltarono in simultanea una dozzina di teste. Milo
ignorò le
occhiate che gli vennero lanciate e si diresse verso l’unica
persona con cui
voleva parlare lì dentro, ovvero il suo nuovo, scintillante
contatto londinese.
“Figgins?”
Apostrofò un ragazzo
dai capelli rossi a cui mancava solo il kilt per essere la perfetta
rappresentazione dell’anglosassone. Quando abbassò
lo sguardo mascherò una risata:
il kilt il tipo lo aveva davvero. “Sei Figgins, giusto? Mi
manda Kreutzer.”
“Figg per gli
amici, e tu devi
essere Meinster.” Replicò quello in forte accento
londinese, tanto che capì
solo il suo cognome. “Kreutzer mi aveva detto che eri grosso
… Cazzo, quanto
sei, due metri?” Esclamò stringendogli la mano.
“Cos’è, in Germania vi fanno
bere Pozione Ingozzante dalla nascita?”
Milo si sedette ed
ordinò
subito due birre al bancone; l’entrata in scena era
importante, così come l’immediata
offerta di un dono, in quel caso alcool. “Uno e
novanta.” Sorrise amichevole.
“Ti offro il primo giro se dici ai tuoi amici di piantarla di
guardarmi come se
volessero ficcarmi un coltello nella schiena.” Non appena
ebbe terminato la
frase, come voleva il codice del perfetto malvivente, i più
corpulenti della schiera
fecero il gesto di alzarsi, mani dentro le tasche, ma il ragazzo fece
un brusco
cenno e tornarono in un batter d’occhio alle loro
consumazioni.
Guardaspalle.
“Siete nervosetti
da queste
parti.” Osservò prendendo la propria pinta e
dandone un sorso; trattenne una
smorfia.
Tra
americani e inglesi non so chi ha il peggior piscio
caldo.
“Solo
prudenti.” Gli fu
risposto. “Kreutzer mi ha detto che volevi parlarmi. Di
cosa?”
Dritto
al punto. E andiamo.
“Non posso cercare
di
conoscere altri Maghinò?” Interloquì
con noncuranza. “Sono in città da una
settimana e volevo stare in famiglia.”
Quello diede un vigoroso
sorso
alla sua Stout. “Non raccontarmi palle, biondo. Le uniche
cose che bevo sono
whiskey e birra.” Replicò asciugandosi la bocca
con il dorso della mano.
Sorrise, ma era un sorriso affilato come un rasoio; Milo conosceva
abbastanza
la logica della strada per sapere che chi esternava in quel
modo e aveva la stazza di un adolescente aveva buone
probabilità di essere un bastardo più pericoloso
dei troll armati di prima.
“Kreutzer mi ha
detto che sei
un lupo solitario.” Continuò in tono discorsivo.
“E che è un po’ che sei fuori
dal giro.” Lanciò uno sguardo al suo
abbigliamento. “E ti dirò, sembra abbia
ragione, sembri un Babbano.”
Milo prese una manciata di
secondi per riflettere: quel Figgins, a dispetto
dell’età, doveva essere una
specie di capoccia dei Magonò londinesi ed era dunque un
contatto da farsi. Il
problema, supponeva, era evitare che l’altro si facesse lui.
E
non in senso buono. In senso farmi a filo di lama.
“Vivo in America
adesso … là
le cose funzionano in modo diverso.” Spiegò con
tutta la nonchalance che
possedeva. “Bisogna adattarsi.”
L’inglese
appoggiò il gomito sul
bancone per sporgersi nella sua direzione e Milo rilassò la
postura per non
mostrarsi troppo guardingo. “Adattarsi è una cosa
furba da fare, garantito …”
Iniziò vago. “Kreutzer dice però che ti
sei adattato talmente tanto da esserti
scordato chi sei.” Ghignò.
“Dì un po’, Meinster, è
vero?”
“Falso come la
moneta di un
Leprecauno.” Rispose pronto. “Non ci si
può scordare di essere Maghinò.”
Scrollò le spalle. “E se fossi in te, non darei
retta quello che esce dalla
bocca di Kreutzer. Ce l’ha con me perché ho sempre
scopato più di lui.”
Figgins scoppiò in una risata sgangherata e questo fece
visibilmente rilassare le
persone attorno a loro. Milo, che aveva tenuto d’occhio
l’atmosfera, si trovò molto
sollevato.
Se
finisco con un coltello ficcato in pancia perché
sono troppo poco cencioso poi chi lo spiega al principino?
Quello
è capace di farmi lavorare anche con
un’emorragia interna in corso.
“Sei simpatico. Mi
piacciono i
tipi simpatici.” Stabilì sciogliendosi in un
sorrisone che lo fece sembrare un
monello troppo cresciuto. “Avanti, crucco, dillo a Figg. Cosa
ti serve?”
“Un’informazione.”
Ammise, ora
che i paletti erano stati messi e il rapporto avviato. Aveva bisogno di
una
conferma molto specifica e l’unica soluzione che gli si era
affacciata alla
mente era stato chiedere a chi in strada ci stava tutti i giorni.
Non si era scordato quanto
visto al San Mungo, il giorno del cosiddetto black-out. Non aveva
dimenticato
neppure un secondo la faccia che aveva visto.
Fottuto
Johannes. O come diavolo si fa chiamare qui.
L’unico motivo per
cui non era
corso a gridarlo ai quattro venti – specialmente al
principino, che aveva
incubi abitati dal tizio in questione – era perché
prima doveva esser certo di
non aver preso un abbaglio. Aprire quel vaso di Pandora sarebbe stato
un
suicidio senza avere certezze.
“Quindi vediamo se ho afferrato … Mi stai
chiedendo di guardare in giro e
trovare un mago che cambia faccia a seconda di come gli
gira?” Riassunse Figg
con un’espressione scettica dipinta sulla faccia
lentigginosa. “Amico, non
faccio magie né miracoli!”
“Ha una faccia sola quando non lavora, la sua.”
L’altro
Magonò fece un
sospiro. “Okay, ho afferrato. Sulla trentina, testa rasata,
accento come il tuo
e un gran chiacchierone. Mago, ma tiene un profilo basso e veste da
Babbano.”
Si strinse nelle spalle. “Io e miei ragazzi terremo gli occhi
aperti e faremo
domande… Ma dì un po’, che problema hai
con il tipo?”
Milo schioccò la
lingua e
ordinò un’altra birra. Come si era abituato alle
bottiglie di vetro americane,
poteva abituarsi alla robaccia tiepida britannica. “Io?
Nessuno. Diciamo solo
che se quello sta in giro per Londra, i casini possono arrivare per
tutti.”
****
Inghilterra
Sud-occidentale, Godric’s Hollow, Cimitero.
C’è
sempre qualcosa di beffardo quando il sole splende
ad un funerale…
Ted l’aveva sempre
pensato.
Con la bacchetta
calò la bara
di semplice legno sotto terra, aiutato da Neville e il sacerdote; non
era stato
facile trovare un posto dove seppellire Ben – aveva deciso
che quello, in
mancanza di certezze, sarebbe stato il suo nome.
Nel nascondiglio del Mannaro
non erano infatti stati rinvenuti né una bacchetta
nè documenti che potessero
testimoniare la sua appartenenza al mondo magico. Era stato il buon
Neville,
efficiente come sempre, a trovare il modo di farlo seppellire al
cimitero di
Godric’s Hollow.
Il
cimitero dei maghi per eccellenza.
Ascoltò con
metà orecchio il
salmodiare trito e impersonale del sacerdote; del resto, cosa avrebbe
mai
potuto dire di un uomo che nessuno di loro conosceva?
Non
ho fatto abbastanza.
Era questo il pensiero che
lo
tormentava, togliendogli ogni capacità di concentrazione. Razionalmente sapeva che i
suoi margini di
manovra erano stati minimi dato che il Mannaro l’aveva
attaccato con l’intenzione
di ucciderlo. Tuttavia la conclusione a cui giungevano le sue
riflessioni era
sempre la stessa.
Non
ho fatto abbastanza.
Sentì dei passi
affrettati lungo
il selciato ghiaioso del piccolo cimitero di campagna e con la coda
dell’occhio
vide James avvicinarsi e inspirare, arruffato da una Materializzazione
forse
troppo veloce. “Ehi.” Sussurrò senza
fiato. “Scusa il ritardo.”
Scosse la testa. “Non fa niente.” Ed era vero
perché gli bastò vedere tutta
quella vivacità repressa per sentirsi meno anestetizzato
dall’ambiente
Odio
i cimiteri.
Avendoci passato buona parte
delle feste comandate della sua infanzia, con la mano stretta a quella
di sua
nonna o a quella del padrino, sentiva di avere le sue buone ragioni.
Percepì le
dita di James insinuarsi tra le sue; sorrise. Quella stretta era ben
diversa.
Grazie.
Glielo disse con gli occhi
ma
l’altro parve capire perché gli
restituì il sorriso e gli sfiorò le labbra con
un bacio leggero.
Era davvero beffardo quel
dannato sole che gli scaldava la schiena mentre si dirigeva verso le
tombe dei
suoi genitori. Rimase a fissare le due lapidi ben curate per un tempo
infinito,
non pensando a nulla di particolare; con gli anni aveva imparato che
quello era
il modo migliore per affrontare quel genere di visita.
Rimugino
già abbastanza quando sono fuori di qui.
James gli si
affiancò, la
giacca dell’uniforme buttata indolentemente su una spalla.
“Sono passato a
salutare Sirius.” Disse passandosi una mano trai capelli.
“Papà dev’esserci
stato di recente. Ci sono fiori diversi rispetto all’ultima
volta.”
“Ci passa ogni
settimana.” Gli
fece eco con un sospiro. “Dovrei farlo anch’io.
Vengo troppo di rado.”
“Non credo.” Fece una smorfia. “In posti
del genere ci devi venire solo quando
ne hai voglia.”
“Non funziona
proprio così…”
“Invece sì.” Ritorse con la decisione
tranciante che lo contraddistingueva. “Non
penso che ai tuoi farebbe piacere che tu venga a trovarli per
dovere.”
Ted ci rifletté
poi non poté
trattenere un sorriso. “Non hai tutti i torti.”
“Come ti senti?” Gli chiese. A James non poteva
mentire o dissimulare la
verità; con l’esperienza aveva capito che era
solitamente un’idea imbecille.
Visto
che sa leggermi come un libro.
“Non riesco a
togliermi dalla
testa la sua espressione quando ha capito che doveva morire.”
Serrò le labbra.
“È stato … orribile.”
L’altro annuì ma non disse niente e gliene fu
immensamente grato. Per quanto
James dimostrasse spesso una mancanza di tatto degna di nota, negli
argomenti
seri era capace di misurare le parole come pochi, sceglierle e farle valere. Era una dote che aveva ereditato
da Harry e Ted non l’aveva tanto apprezzata come in quel
momento.
“C’era
qualcosa … che non mi
dà pace.” Confessò.
“Cosa?”
“Avermi attaccato … non aveva senso,
Jamie.” Si voltò verso di lui, non
riuscendo più a tenerselo dentro. “Ci ho pensato e
ripensato, avrebbe potuto
scappare, o nascondersi.”
“C’eravamo
noi che cercavamo
nelle grotte e i Centauri dall’altra parte del greto
… Era un po’ difficile
passare inosservato.” Gli fece notare aggrottando le
sopracciglia. “Nascondersi
non era un’opzione.”
“Lo era però scappare. Invece è
rimasto. I Mannari non trasformati non si comportano
così, evitano il confronto diretto se possono. Non hanno la
bacchetta e molti
di loro non hanno mai imparato a sviluppare le proprie
capacità magiche. Contro
un mago o una creatura come un Centauro è partita persa e lo
sanno bene.”
Spiegò cercando di esprimersi nel modo più chiaro
possibile. Il guizzo negli
occhi castani dell’altro gli fece capire che
l’analogia era andata a segno.
“Sì, me
lo ricordo.”
Sogghignò. “Sono le tue vecchie lezioni, Teddy. Ce
le ho stampate a fuoco nella
memoria.”
“Esagerato.” Sbuffò sentendosi suo
malgrado lusingato. “Quindi, cosa ne pensi?”
“Penso che la tua
idea non sia
poi così assurda.” Ammise. “È
stato un comportamento anomalo in effetti.
Attaccarti è stato come dipingersi un bersaglio sulla
schiena.”
Un’idea
illuminante arrivava
in molte forme e spesso tramite commenti del tutto casuali, Ted non ne
fu convinto
tanto come in quel momento, quando capì perché
l’uomo di nome Ben gli si era
gettato addosso come se non avesse nulla da perdere.
“Voleva l’attenzione su di
sé!” Esclamò. “Mi ha
attaccato per portarvi via
dalla grotta!”
L’altro batté le palpebre stupito, assimilando
l’informazione. “Cazzo, ha
senso.” Convenne. “Questo spiegherebbe anche
perché non è scappato quando ci ha
sentiti arrivare.” Gli scoccò
un’occhiata perplessa. “Ma cosa doveva
difendere?”
“Non ne ho
idea.” Scosse la
testa. “Ma qualunque cosa sia, è ancora
lì.”
****
Londra,
Ministero della Magia. Refettorio.
“Lo devo dire
… Tutta questa
storia non ha il minimo senso. E sta diventando inquietante.”
James sperò ardentemente che Scorpius non stesse tirando
fuori il dannato caso
Howe proprio mentre si apprestava a gustarsi il proprio pranzo,
momentanea
isola felice tra le preoccupazioni del lavoro e quelle che aveva a
casa, con un
Teddy che aveva deciso di imbarcarsi in un’indagine al sapore
di Mannaro,
Foreste Proibite e Centauri incazzati.
Ma
sono troppo ottimista, vero?
Prince, ignaro dei suoi
pensieri e dunque inopportuno come un Babbano ad un raduno di
Mangiamorte, smise
di massacrare la propria insalata. “Stai
parlando del caso Howe?” Chiese abbandonando il suo patetico
tentativo di
pranzo.
Troppo
ottimista, già.
Scorpius annuì,
abbandonandosi
sullo schienale delle scomode sedie che costellavano il refettorio
ministeriale.
“Pensateci.” Esordì squadernando il dito
teatrale. “Arriva un mago
dall’America, malato e prima di crepare riesce ad infettare
uno dei nostri di
qualcosa che neppure il San Mungo e tutti i suoi Guaritori riuniti
riescono a
classificare. Come se non bastasse, tutto quello che avevamo sulla
prima
vittima, vittima compresa, è sparito, rubato da un tipo che
non ha lasciato la
minima traccia ed ha legato la lingua all’unico testimone con
una maledizione
da Ordine di Merlino di Prima Classe.” Fece un cenno a
Prince. “Come hai detto
giustamente, il passo successivo sarebbe occuparsi del
sergente.”
“Ma a questo ci abbiamo già pensato …
Non facciamo montare quelle cavolo di
telecamere di sorveglianza apposta? Per vedere se riusciamo a beccarlo
con le
mani nel calderone?” Si inserì, dato che ormai il
discorso era inesorabilmente avviato.
“Sì.”
Convenne il tedesco.
“Questo però significa che
c’è qualcosa di più grande
dietro.”
“Un esperimento di Magia Oscura andato male,
forse?” Ipotizzò Scorpius
dondolandosi sulla sedia con pericolosi scricchiolii che sembrava
ignorare con
un certo compiacimento. “Voglio dire … Howe era
forte come un Centauro, e anche
duellare con il Sergente è stato come duellare con tre di lui.”
Sospirò. “Mi sa tanto di potenziamento magico o
roba
del genere. Esistono incantesimi simili in America?”
“Non che io sia a
conoscenza.”
Non si sbilanciò ma James notò come si mosse a
disagio sulla sedia e tentò di
inforchettare per l’ennesima volta l’insalata
praticamente intonsa.
Ma
mangia o di solito si nutre d’aria?
Non che avesse importanza in
quel momento. “Non ne conosci?” Ritorse fissandolo
negli occhi. Non vi leggeva
mai nulla e Scorpius gli aveva dato una spiegazione complicata in cui
entrava
l’Occlumanzia, cosa che l’aveva reso ancora
più sospettoso.
Che
bisogno c’è di Occludersi con gente che sta dalla
tua parte?
Prince si morse
l’angolo delle
labbra. “Esistono.” Ammise. “Non so
però se il Ministero americano abbia mai
condotto studi sull’incremento delle capacità
magiche.”
“La Thule
però l’ha fatto,
eh?” Fu come aver trascinato un troll svenuto per i piedi ed
averlo piazzato
sul tavolo con un tonfo e un gran lavoro di muscoli. James non se ne
pentì:
quel caso andava risolto alla svelta se si voleva tornare alla
normalità, al
diavolo i riguardi.
Così
te ne torni in America.
“Sì, la
Thule ha condotto
alcuni studi in merito.” Rispose con la pacatezza di chi
avrebbe esposto un
quadro ad una torma di turisti tardi. “Io stesso ne facevo
parte.”
“Cosa?”
Notò con la coda dell’occhio Malfoy lanciargli
un’occhiata d’ammonimento,
ma la ignorò. “E quando pensavi di dirci che hai
studiato questa roba?”
“Non facevo parte
del progetto
come studioso, ero una cavia.”
Il silenzio che ne scaturì risultò piuttosto
opprimente e una parte di sé si
sentì piuttosto idiota. La tacitò. “Non
cambia il fatto che hai già sentito parlare
di maghi che vanno fuori di testa e diventano delle macchine da guerra
fuori
controllo!”
“La cambia invece, perché il modus
operandi di Howe e del sergente Flannery non
c’entrano nulla con quello che
mi è stato fatto.” James capì che
l’Occlumanzia stava cedendo quando lo vide
serrare la mascella.
“Cosa riesci a
fare?” Il tono
gentile di Scorpius suonava fuori posto eppure in qualche strano modo
funzionò,
perché dopo avergli lanciato una lunga occhiata
indecifrabile, il tedesco si
slacciò il polsino dell’uniforme e tirò
su la manica. James occhieggiò e non
trovò nulla di strano nel braccio pallido
dell’altro; era solo ornato da un
bizzarro bracciale metallico. Vi contò tredici rune
dall’aria complicata che neppure
tentò di decifrare.
Rune
Antiche mi ha sempre fatto schifo.
“Cosa?”
Chiese perplesso. “Che
c’entra il tuo braccio?”
“La Thule mi ha impiantato il nucleo di una bacchetta
nell’arteria radiale.”
Non gli diede il tempo di fare domande, che continuò, con la
freddezza di
un’esposizione clinica. “Se uso il braccio gli
incantesimi che lancio hanno una
potenza di fuoco superiore a quelli che lancerei con una normale
bacchetta. Il
nucleo attinge direttamente al sangue arterioso, e dunque alla
magia.”
James provò
disagio; aveva
sentito mezze voci sulla sua capacità di non usare la
bacchetta, certo…
Ma
da qui a pensare che ce l’avesse nel braccio!
“E il
bracciale?” Chiese
Scorpius sporgendosi e occhieggiandolo. “Sembra Magia
Runica.”
Prince fece un pallido sorriso, tirato ma comunque genuino. Sembrava
che la
quantità di domande non lo infastidisse.
Forse
ha preso Malfuretto in simpatia.
“Controlla le
fuoriuscite di
magia accidentale. È stato ideato e costruito
all’Istituto Magico Sperimentale
di Boston.” Lo osservò con espressione assorta.
“Neppure io so bene come
funzioni, credo sia simile alle valvole di controllo che vengono
inserite nelle
bacchette.”
James non aveva idea di come
fossero finiti a parlare della triste storia del crucco ma si
trovò nella
posizione di non poter aver voce in capitolo.
Dai,
ammettilo. Sei curioso.
Fece una smorfia preferendo
addentare con noncuranza il proprio sandwich mentre Scorpius si
informava per
entrambi.
“Come facevi prima
di arrivare
in America?”
“So
controllarmi.”
Pure
troppo, Ragazzo-Occlumanzia.
“Quanti anni avevi
quando ti
hanno…” Scorpius esitò.
“Avevo nove
anni.”
“Eri solo un cazzo di ragazzino!”
Esclamò di getto. L’espressione che gli
restituì il tedesco era sorpresa quanto la sua, anche se
immaginava per motivi
diversi.
Ehi,
non sono un totale pezzo di merda insensibile,
sai?
“La mia giovane
età era una
variabile a favore della riuscita dell’operazione, non il
contrario. Certi
esperimenti hanno più probabilità di successo se
condotti su soggetti che non
hanno ancora sviluppato a pieno la propria capacità
magica.” Spiegò con tono simile
a quello di uno scolaro costretto a recitare un brano delle guerre dei
Troll a
memoria. James però non si fece imbrogliare.
Basta
guardargli gli occhi. Dissimula di merda.
La qual cosa era stranamente
rasserenante.
Non
è psicopatico quanto pensavo fosse. Ce le ha delle
cose che lo mettono fuori fase. Buono a sapersi.
“Mi
dispiace.” Mormorò
Scorpius spoglio di ogni sorriso e lo intendeva al cento per cento
perché
persino Prince se ne accorse, restituendogli un sorriso.
“Grazie.”
Disse. “Vorrei che
capiste questo … Le sperimentazioni tramite Magia Oscura non
conoscono regole
morali, o paletti. Qualsiasi cosa abbiano fatto ad Howe potrebbe essere
…
estremamente sgradevole da molteplici punti di vista. Quello morale
è solo il
principio.”
A James passò
l’appetito; il
crucco aveva ragione, stavano avendo a che fare con un caso che era
come un
maledetto salto nel vuoto, e non aver fatto il minimo progresso
cominciava ad
essere un problema.
E
non solo perché non c’è lui. Poche
seghe, la sua
presenza è il minore dei nostri problemi.
“Inquietante, come
avevo
detto.” Sospirò Scorpius grattandosi la fronte.
“Quello che mi chiedo…” Si
umettò le labbra pensieroso. “Questa roba che ha
infettato il Sergente e Howe …
che cos’è? Al San Mungo pensano sia una malattia,
ma voglio dire, aumenta la
capacità magica di un mago,
giusto?”
“Questo
è l’unico dato di
fatto che abbiamo.” Convenne il tedesco.
“Allora non torna!
I virus non
dovrebbero indebolirla?”
Prince intrecciò
le dita sotto
il mento e fissò un punto oltre le loro teste con aria
assorta. “È chiaro che
chiunque abbia trafugato gli effetti personali di Howe voglia tenere la
faccenda lontana dagli occhi e dalle orecchie della popolazione magica.
Forse è
un esperimento andato storto e il virus è un effetto
collaterale.” Prince non
era un idiota. Aveva una bacchetta infilata su per il sedere ed era
antipatico
da morire, ma sebbene fosse seccante ammetterlo, sapeva usare la testa
meglio
di molti idioti che indossavano la loro stessa uniforme.
Dovette ricordarsi con tutte
le forze che lo detestava. “E come può un virus
nascere da incantesimi e
pozioni?”
“Non lo
so.” Ammise l’altro. “Non
mi intendo di questo genere di cose.”
“Al San Mungo ci
capiranno
sicuramente di più.” Si inserì Scorpius
speranzoso. “Dobbiamo solo dargli
tempo, il Capo Guaritore Finnigan e gli altri di Malattie Infettive ci
stanno
lavorando. Quando sapremo come funziona il virus … o quel
che è … sicuramente
sapremo anche qualcosa di chi l’ha creato!”
“Ehi!”
La voce di Bobby li
sorprese, facendoli voltare in direzione del ragazzo di colore.
“Siete qua!”
“Hai già mangiato?” Chiese vedendo che
l’altro aveva l’aria di uno che avrebbe
potuto divorare ciò che restava dei loro pasti con un solo
boccone. “Siediti,
avanti.”
“Dopo magari.” Rifiutò.
“È arrivato un Gufo Espresso dal San Mungo. A
Lesioni
sono riusciti a liberare Wolpert dalla maledizione. Abbiamo
l’identikit.” Tolse
dalla tasca interna della giacca un foglio e James fu lesto a
prenderglielo,
sbattendolo senza troppe cerimonie tra di loro.
“Grandioso!” Poi però
aggrottò le sopracciglia quando riuscì a dargli
un’occhiata completa. “Così questo
è il tizio che ha pagato Wolpert per
vendergli i contro-incantesimi delle barriere?” Aveva un viso
anonimo, le
sopracciglia folte e una testa piena di capelli. Un tipo come ce
n’erano tanti,
che chiunque avrebbe potuto trovarsi di fronte mentre faceva la fila
alla
Gringott o al mercato.
“Abbiamo
già fatto un
riscontro con l’archivio?” Chiese Scorpius
grattandosi la nuca, probabilmente
pensando la stessa cosa.
“Cosa pensi che abbia fatto invece di fare la pausa pranzo
Sy? L’ho passato a setaccio.”
Sospirò Bobby. “Nessun riscontro comunque, risulta
incensurato per il nostro
Ministero.”
“Tocca farlo
girare al San
Mungo allora. Magari qualcuno l’ha visto.” Si
voltò verso Prince. “Spediscilo
ai tuoi per vedere se è americano come Howe
e…” Si bloccò quando vide che il
suddetto era diventato pallido come un lenzuolo –
più di quanto non fosse già
di suo; fissava il disegno come se avesse appena visto un Infero.
“Che
c’è Sören?” Chiese
Scorpius. “Lo conosci?” Indovinò.
Questo fece per parlare ma
le
parole dovettero morirgli in gola più di un paio di volte
prima che riuscisse a
formulare una frase compiuta. “Sì.” Si
risolse a dire ed era un caso o il suo
accento era più marcato? “Non è
necessario che chieda un riscontro al mio Ministero,
posso dirvi io chi è.”
James non era assolutamente tipo da
apprezzare la suspense. “Tira fuori il nome
avanti!”
Prince gli restituì uno sguardo vuoto e Merlino, non doveva
essere un buon
segno.
“John
Doe.”
****
Note:
Se qualcuno mi tira una pietra … beh, me lo merito.
Questa
la canzone del capitolo. Prometto che il prossimo sarà
più cazzaro!
(È anche il compleanno di Sy, quindi…)
|
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Capitolo 16 *** Capitolo XV ***
Capitolo XV
And
the walls kept tumbling down in the city that we love
Great clouds roll over the hills bringing
darkness from above
But if you close your eyes, does it almost
feels like
Nothing changed at all?
(Pompeii,
Bastille)
30
Giugno 2028
Farringdon,
Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale
San
Mungo per ferite e malattie magiche.
Il buio l’aveva
fatta
svegliare con un urlo bloccato in gola.
Con il cuore che le batteva
come una grancassa, il respiro irregolare e brividi freddi come se
fosse stata
gettata nell’acqua gelida, Lily si svegliò dai
propri incubi.
Ci mise più di
qualche attimo
a realizzare che erano tali, dato che prima dovette mettere a fuoco la
stanzetta degli allievi guaritori in cui si era addormentata alle prime
luci
dell’alba, dopo un lungo e noiosissimo turno di notte.
È
tutto a posto. È tutto a posto, sei al San Mungo,
è
giorno. È tutto a posto.
Si alzò a sedere
sulla
brandina, togliendosi ciocche fradice di sudore dal viso, pregando che
nessuno
oltre a lei fosse presente; ebbe fortuna, gli altri letti a castello
erano
vuoti come era vuoto quello sotto di lei.
Okay.
Vatti a sciacquare il viso, ora.
Scese con gambe malferme e
si
diresse verso i bagni al lato opposto del corridoio tenendo gli occhi
bassi ed
ignorando l’ambiente circostante. Fu solo con il viso
rinfrescato e la
bacchetta sicura nella sua presa che riuscì finalmente a
respirare e a non aver
voglia di rimettere la colazione che aveva fatto prima di addormentarsi.
Sapeva benissimo
cos’era
accaduto ed era una paura totalizzante, che per quanto irrazionale le
faceva
venir voglia di scappare il più lontano possibile.
Incubi.
Incubi di quel che è successo cinque anni fa …
di quel che è successo con il Sergente Flannery.
Pensava di averli superati.
Pensava che con il tempo, la terapia e la certezza di vivere in un
mondo
tranquillo e ovattato non sarebbe più tornato niente di
quello che aveva
vissuto dopo il rapimento.
Sbagliato.
Era probabile che fosse
stato
l’episodio al San Mungo ad averle innescato quella reazione
dato che il
cocktail delle sue peggiori paure si era realizzato alla perfezione.
Buio,
incantesimi e un’aggressione. Non ci siamo fatti
mancare niente, eh Rossa?
Chiuse gli occhi e li
riaprì
cercando di tornare alla realtà, una realtà di
una luminosa mattina estiva in
un ospedale sorvegliato e sicuro.
Non funzionava.
Non
lo è. Nessun posto è sicuro.
Per un attimo
sentì il respiro
bloccarsi in gola e desiderò con tutta se stessa
Smaterializzarsi in un posto
aperto, più luminoso, persino accecante.
Il
buio. Odio il buio, lo odio … lo…
Quasi saltò in
aria quando
sentì la porta del bagno aprirsi. Si ricompose al meglio,
voltandosi per
incontrare le iridi d’ossidiana della Psicomaga Patil.
“Potter.”
La apostrofò con
aria sorpresa. “Va tutto bene?”
Ti sei ricomposta una meraviglia, direi.
“Sì
… io. Sì.” Balbettò con
un’incoerenza che avrebbe rivaleggiato con quella della
povera Alice Paciock. “Cioè
… no.” Buttò fuori riluttante.
“… per niente.”
“Vedo.”
La strega le si
avvicinò con la stessa accortezza che avrebbe usato per un
paziente e questo la
rasserenò e inquietò al tempo stesso. Le mise poi
una mano sulla spalla
stringendo, facendole sentire che c’era e che il tocco era
reale. “Hai fatto il
turno di notte.” Ricordò pensierosa. “Ti
sei svegliata adesso?”
“Se svegliarsi
è il termine
giusto…” Mormorò.
“… avere un infarto e quasi cadere dal letto direi
che è più
adeguato.”
“Incubo?”
“Peggio.”
“Uno dei tuoi.” Stimò
la Psicomaga scandagliandole il viso
con l’espressione acuta con cui l’aveva conosciuta
e imparata a stimare. Era
stata proprio lei a curarla, quando al Sesto anno aveva cominciato a temere il sonno come il suo
peggior
nemico.
E
quando sono collassata a colazione perché erano
giorni che bevevo Pozione Stimolante mischiata al succo di zucca per
non
addormentarmi mamma e papà mi hanno spedito da lei.
Certo,
mi era piaciuto il suo articolo, ma non avrei
mai pensato che mi avrebbe aiutata davvero.
E
invece…
“Credo sia per
quel che è
successo la settimana scorsa… il black-out.” Si
passò una mano trai capelli
sentendosi un pochino più stabile. Parlarne con qualcuno che
trattava quei
problemi di mestiere la faceva sentire meglio.
La strega annuì, guardando il suo orologio da polso.
“Ho una lectio magistralis
a Madrid tra venti
minuti, ma tornerò con la Passaporta di mezzogiorno. Ad ora
di pranzo vieni nel
mio ufficio.”
“Non
è…”
“Non voglio
sentire scuse,
Potter.” La redarguì, prima di concederle uno dei
suoi rari sorrisi. “Non devo
fare la ramanzina ad una mia allieva sull’importanza di non
sottovalutare
un disturbo da stress post-traumatico, spero.” A volte le ricordava sua
cugina Roxanne ed
era questo ad averle sempre reso facile parlare con lei.
Vado
d’accordo con chi parla poco e ascolta tanto.
“Adesso
però mi sta parlando
come ad una paziente.” Osservò ricambiando
debolmente il sorriso.
“Allora sai che
non ha senso obbiettare.
Sciacquati il viso e prenditi il tuo tempo. Se ti fai vedere dai nostri
pazienti con quella faccia si preoccuperanno per te.”
Lily annuì, cercando di sorridere finché
l’altra non fu uscita dal bagno, poi tornò
al lavabo e si schiaffeggiò di nuovo con l’acqua
gelata del rubinetto.
****
Ministero
della Magia, Ufficio Auror.
Mattina.
Harry aveva pensato ad uno
scherzo di cattivo gusto.
Ci aveva pensato, poi aveva
realizzato che Ron, per quanto fosse un tipo facile
all’ironia, non avrebbe mai
portato alla ribalta quell’argomento in una battuta.
John
Doe.
Il braccio destro di Von
Hohenheim
non solo era vivo e vegeto – ancora
–
ma era coinvolto in un caso sotto la giurisdizione
dell’ufficio Auror, in
collaborazione con niente meno che la nuova versione della task-force
Anti-Thule.
Solo
una coincidenza?
La materia era la stessa;
Magia Oscura, della più disgustosa e moralmente
raccapricciante.
Perché
cambiare settore quando passi una vita sempre
nello stesso?
Ron di fronte a lui, a
braccia
incrociate e cipiglio d’occasione, aspettava una sua
reazione. Nonostante gli
anni, l’esperienza e il suo ruolo, Harry si trovò
nella posizione di non sapere
cosa dire.
“Cosa
facciamo?” Lo incalzò;
aveva ragione. Non c’era tempo da perdere.
“Informiamo la
SAGITTA.”
Rispose; Nora doveva essere la prima a sapere, sempre che Prince non
avesse già
pensato a spedire un Gufo Transcontinentale.
Già.
Come se non bastasse è stato lui a riconoscerlo.
Ordinò alla
propria segretaria
un Camino Portatile e aspettò che la chiamata si
connettesse, osservando le
fiamme verdognole senza vederle veramente.
“Miseriaccia, come
diavolo fa
ad essere ancora vivo?” Sbottò l’amico
dopo qualche attimo. “Ha nove vite come
i gatti?!”
“Gli agenti
tedeschi non hanno
mai trovato il corpo.” Gli fece eco senza distogliere lo
sguardo dal focolare
in miniatura. “Hanno pensato fosse bruciato e sepolto sotto
le rovine del
castello dei Von Hohenheim e Sören stesso ha giurato di averlo
lasciato esamine
nelle segrete…”
“Ha mentito?” Scattò subito con sguardo
allarmato.
Scosse la testa.
“No, penso
abbia detto la verità. Ma ci hai parlato tu, sembrava
sorpreso dall’averlo
riconosciuto?”
Ron ci rifletté,
poi sospirò.
“Sembrava essersi trovato un infero nel gabinetto. Era
così pallido che pensavo
stesse per sentirsi male.” Fece una pausa e poi aggiunse a
voce più bassa. “Era
sorpreso quanto noi. Non si può fingere fino a
‘sto punto.”
John
Doe. Johannes. Il Camaleonte. Un mercenario e poi
il braccio destro di Von Hohenheim … Per chi sta lavorando
adesso?
Erano domande che non
avevano
ancora una risposta, ma ne suggerivano diverse, tutte con conseguenze nefaste.
Un
virus che modifica la capacità magica, John Doe,
l’America coinvolta…
Avrebbe dovuto passare il
caso
ad una squadra più esperta, rifletté. Suo figlio
e gli altri ragazzi erano in
gamba, ma alle prime armi ad eccezione di Prince. Avrebbe dovuto e
tuttavia c’era
una parte di lui che non era convinta. Dare un caso simile a chi non
conosceva il
Camaleonte e non aveva vissuto sulla propria pelle i piani della Thule
non
sarebbe stata una mossa saggia.
Perché
lasciarlo nelle mani di quattro ventenni sì?
Non si sentì
affatto pronto quando
la voce di Nora attraversò la cortina verdognola di fiamme.
“Ci sono novità…”
Esordì e poi lasciò che fosse Ron a parlare e
aggiornare la
strega sulla situazione. In certi frangenti non era mai stato un bravo
comunicatore. Quando il breve dialogo si concluse la voce di Nora era
prossima
allo zero assoluto, in completo assetto da battaglia. Fu stranamente
consolante.
Non
essere soli genericamente lo è.
“Potreste farmi
parlare con il
mio agente?”
“Certamente.” Convenne. Scrisse un Promemoria
Ministeriale e lo fece librare
con la bacchetta; il ragazzo doveva essere al piano di sotto con la
squadra perché
non ci mise che una manciata di attimi per bussare alla porta.
“Avanti.”
Prince entrò ed ogni espressione sembrava essergli sparita
dal volto pallido; era
la copia del Luzhin che era stato cinque anni prima, ma stavolta Harry
non ne
fu inquietato. Ne fu amareggiato.
John
Doe è il suo molliccio personale. E come potrebbe
essere diversamente? Incarna tutto ciò da cui è
scappato.
“Sören.”
Il tono di voce di
Nora era formale, ma comunque tinto di un affetto che non voleva
nascondersi e
Harry, per la prima volta da quando conosceva il ragazzo, fu felice che
la
strega lo avesse preso a cuore.
“Comandi,
Capitano.” Rispose
questo, il tono di voce controllato e
propositivo; quanto doveva Occludersi per avere ragione delle sue paure?
“Sei assolutamente
certo di
aver riconosciuto il Camaleonte?” Andrò dritta al
punto.
“Sissignore.” Fu la replica priva di incertezza.
“L’identikit è fedele, si
tratta di Johannes.”
“Un tuo parere
sulla
questione?”
Il ragazzo serrò
le labbra
come se non fosse sicuro di poter davvero dar voce ai suoi pensieri.
Harry
immaginò fosse una cosa a cui doveva ancora abituarsi.
“Johannes è nato come
Mercemago.” Disse infine. “È cresciuto
in seno alla Thule, ma privo di un ruolo
definito. Si occupava degli affari sporchi di mio zio …
È diventato col tempo
il suo principale sodale, ma questo perché mio zio gli
assicurava grosse
entrate finanziarie e libertà di azione.”
“Pensi quindi che
adesso si
sia legato ad un’altra organizzazione? O un altro
mago?” Chiese Harry.
“Non lo escludo.”
“Avevi detto che
era morto.”
Esordì Ron, rimasto in silenzio fino a quel momento.
“L’hai detto agli agenti
tedeschi, no?”
C’era un’accusa dietro, e neppure troppo velata.
Prince dovette coglierla
perché il tendine della mascella scattò violento.
Ron,
dannazione.
“Lo
pensavo.”
“Non hai
controllato?”
“Ero
più occupato a salvare la
vita di sua nipote.” Ribatté con uno scatto
rabbioso che Harry si era
aspettato, ma non Ron che lo squadrò come se gli avesse
appena rivolto un
affronto personale.
“E di
chissà…” Iniziò.
No,
non riusciremo mai ad andare avanti così…
“Il punto
è che è vivo.” Lo
interruppe lanciandogli un’occhiata ammonitrice.
“Per qualsiasi lavoro sia
stato ingaggiato, chi l’ha fatto non dev’essere un
mago da pochi galeoni, è
corretto?”
Prince annuì.
“Pochi maghi
possono permettersi i suoi servizi.”
“Quindi chiunque
lo abbia
assoldato ha mezzi finanziari notevoli.”
“Se
posso…” Aspettò un suo
cenno prima di continuare. “Stilerò una lista
degli alias usati da Johannes. Per
i pagamenti potrebbe aver usato una
banca magica.”
“Faremo controlli anche noi.” Gli fece eco Nora.
“È una buona idea Sören,
mettiti subito al lavoro.”
“Sissignore.” Rispose pronto il ragazzo. Sembrava
che l’idea gli avesse dato
forza perché uscì dalla stanza con un
po’ più di colore addosso e l’aria meno
stravolta. Quando si fu congedato, Harry si massaggiò la
fronte, sentendo il
lieve rilievo della cicatrice. Non avrebbe mai pensato che quella
gestualità
potesse diventare confortante.
“Questa non ci
voleva.” Ron
diede voce ai suoi pensieri. “Se è coinvolto
quello psicopatico … Quant’è grave
la situazione?”
La risposta di Nora non si fece attendere.
“Molto.”
Era come se qualcuno gli
avesse costretto la testa sott’acqua. I rumori, le voci, i
suoni tutti attorno
a lui rimanevano un rumore sfuocato.
Johannes era ancora vivo; il
braccio armato di suo zio, il mago con cui aveva lavorato per anni,
rubando e
uccidendo in nome della Thule, l’uomo che più di
tutti aveva capito e sfruttato
i suoi punti deboli … era vivo.
Se
scoprono che mi crea problemi … il Capitano, Harry
Potter … Mi considererebbero ancora una persona affidabile?
Dubitava che la risposta
sarebbe stata affermativa.
“Ehi!”
La voce di Malfoy che
lo chiamava dallo stipite della porta lo riscosse bruscamente.
“Sei qui allora.”
“Mi sto preparando del the. Ne vuoi?” Ottimo, il
tono era fermo come avrebbe
dovuto.
“No, grazie. Se ne
bevo più di
due tazze mi agito e comincio a diventare molesto, secondo
l’opinione comune.”
Gli sorrise avvicinandosi e saltando sul ripiano accanto a lui con
l’agilità di
un gatto.
Rimasero brevemente in
silenzio, ma alla fine l’altro lo ruppe per chiedergli quello
che voleva
evidentemente sapere da quando era entrato nella stanza. “I
Capi ti hanno fatto
il terzo grado?”
“Mi hanno chiesto
di
confermare l’identità del ladro.”
Replicò ma poi vedendo che l’altro non era
soddisfatto dalla sua risposta, soggiunse. “Devo stilare una
lista di tutti gli
alias di John Doe, può
aver aperto un
conto a nome di uno di essi per farsi pagare la …
prestazione.”
“Cioè
il furto?”
“Il
furto.” Confermò.
“Pensi abbia aperto un conto
alla
Gringott?” Malfoy aveva tutte le ragioni a fare domande,
tuttavia dovette
reprimere l’irritazione.
Non
può aspettare che lo dica davanti agli altri?
Ignorarlo sarebbe
però stato
scortese, e non gli sembrava il caso dato che era l’unico che
si fosse sempre comportato
in modo corretto ed amichevole con lui. Non voleva rischiare di
rovinare tutto
con uno scatto di nervi. “Forse una banca straniera
…” Ipotizzò. “Forse
addirittura Babbana.”
“Mai cose semplici.” Commentò
l’altro schioccando la lingua. Gli lanciò poi
un’occhiata di traverso. “Tu … stai
bene?”
La domanda lo
spiazzò. Era
sincera però e gli doveva dunque una risposta.
“No.” Tolse il bollitore dal
fuoco e si versò una generosa tazza di Earl Grey, unico the
presente nella
dispensa. Non gli piaceva granché. “Johannes
… o come lo chiamate voi, John Doe
… è un mago che avrei preferito saper
morto.”
“Come non darti ragione.” Sospirò.
“Hai … lavorato …”
Apprezzò il tentativo di
farla sembrare una cosa normale. “… con lui,
vero?”
“Da quando ero
bambino.” C’era
un modo per non provare quella nausea feroce all’idea di aver
aiutato Johannes a
compiere la triste serie di atti per cui era famoso in tutto il Mondo
Magico?
Temo
di no.
“Lo conosci bene
allora.”
“Come si può conoscere un uomo che finge di
esserne dieci.” Replicò con un
sorrisetto amaro; nessuno sapeva davvero
chi era Johannes, neppure la famiglia che gli aveva dato i natali.
“Non abbiamo
nessun vantaggio su di lui, se è questo che speri.
Saprà già che stiamo
conducendo le indagini.”
“Intendi proprio noi?” Soffocò
un’imprecazione. “Ne sei
sicuro?”
“Conosco il suo modus operandi. Sa sempre chi
è il suo
antagonista.”
Malfoy gli lanciò una lunga occhiata valutativa.
“Sei pallido come uno
straccio.” Stimò estemporaneo ma neppure troppo;
sembrava che la sua capacità
di osservazione andasse oltre i suoi doveri di auror.
“Dovresti prenderti la
giornata libera.”
Ha
capito come mi sento?
Era un Occlumante come lui
dopotutto. “È quel che mi è stato detto
di fare.” Posò la tazza sul ripiano
ancora piena di the bollente. Davvero, non gli piaceva
quell’Earl Grey. “Sai
dove posso trovare un Accademia di Duello?”
“C’è
quella a Diagon Alley, e
come agente di Polizia Magica puoi entrare senza bisogno di iscriverti,
perché?”
Provò sollievo a quella notizia; svuotarsi la testa dai
brutti pensieri
attraverso la bacchetta era ciò di cui aveva bisogno in quel
momento. “Voglio
andarci. Puoi darmi l’indirizzo?”
L’auror parve
capire al volo, perché
non commentò. “Non serve è proprio
accanto al Paiolo Magico. Però stasera ci
vediamo alla mia festa?”
Non era affatto
dell’umore, ma
Milo gli aveva detto che certe manifestazioni sociali non potevano
essere
accantonate, neppure quando si aveva il profondo desiderio di rimanere
soli.
“Certo.”
Il biondo gli diede una
pacca
sulla spalla che si impose di non vanificare spostandosi o
irrigidendosi.
È
un gesto amichevole, idiota. Non vuole farti del
male.
“Sta’
tranquillo Sören.” Disse
con un tono che doveva essergli valso l’appellativo di
persona affidabile.
“Prenderemo quel bastardo.”
Non credo.
Non espresse parere,
limitandosi a lasciare la stanza: l’Occlumanzia non bastava
più.
****
San
Mungo. Ora di pranzo.
“Pensavo fossero
passati.”
Esordire con un tono lamentoso e debole era l’ultima cosa che
voleva, tuttavia
l’unica che le riusciva di fare; aveva passato la mattinata a
rifugiarsi sul
terrazzo – il punto più luminoso
dell’ospedale - senza riuscire ad avere un
solo pensiero sensato in testa.
Non
possono ricominciare. Non adesso. Non adesso che sto bene.
La Guaritrice Patil si
limitò
a lanciarle un’occhiata da dietro la sua scrivania.
“Sai bene quanto me che non
esiste cura, per quanto efficace, che dia effetti definitivi. Non la
abbiamo
noi maghi, non la hanno i Babbani.”
“Lo so.” Serrò appena le labbra.
“Ma avevo fatto progressi. Ne ero fuori!”
“E lo sei.” Convenne pacata. “Sei una
persona molto diversa dalla ragazza che
ho incontrato nel mio studio quattro anni fa… Spero che tu
ne sia cosciente.”
“…
Certo.” Guardò fuori dalla
vetrata; era un ufficio arioso, quello della Guaritrice Patil, pieno di
luce e
mobili chiari. L’aveva fatta sentire a suo agio sin dalla
loro prima seduta. “È
solo … è trascorsa una settimana e pensavo
…”
“La mente umana non ha scadenze. Ha tempi di reazione che
variano da persona a
persona.” Le fece notare passandosi le dita sul vezzo di
perle che aveva al
collo, l’unico gioiello che la natura austera della sua
personalità le aveva
concesso. “Parlami di quello che è
successo.”
“Lo sa cos’è successo. A Londra non si
parla d’altro!” Ritorse bruscamente.
Arrossì quando capì che non era un resoconto
giornalistico quello che le chiedeva,
ma quello che era successo a lei.
“Quando
c’è stato il black-out
… Mi sono controllata.” Esordì.
“C’era … mio fratello, c’era
Al. Stavo per
andare nel panico quando è arrivato. E poi dovevo badare ai
pazienti. Mi sono
tenuta occupata, in quel momento non pensavo … Non pensavo a
me.” Spiegò
precipitosamente, mangiandosi le parole, ma non importava. Con una
Psicomaga
per fortuna non importava mai.
“Pensavi ai
pazienti e a tuo
fratello.” Ripeté la donna. “E
poi?”
“Poi sono arrivati gli auror e…” Si
bloccò. L’altra sapeva di Sören, ne
avevano
parlato a lungo dato che era stato spesso parte dei suoi incubi e
inevitabile
personaggio recitante dei suoi traumi.
Solo
che non le ho dato l’ultimo aggiornamento.
“… e
Sören.” Mormorò.
“Sören
Prince?” L’espressione
di sorpresa fu comprensibile ma non vide nient’altro. Una
delle cose che più
apprezzava della sua mentore era il non gettarle mai addosso i suoi
sentimenti.
Riusciva a tenerli per sé non con l’Occlumanzia,
ma con una predisposizione
naturale a non lasciar trapelare niente di ciò pensava: era
un pregio nel loro
lavoro.
Un’Occlumante
Naturale, in un certo senso. Se
esistessero, sarebbe una di loro.
“Adesso collabora
con
l’ufficio Auror per un'indagine.”
Spiegò stringendosi nelle spalle.
“Non sapevo fosse qui finché non me lo sono
trovato di fronte, in pratica, ma…”
“E come ti senti?”
Lily esitò, poi
scosse la
testa optando per la brutale verità. Non aveva mai avuto
paura di offendere o
turbare i sentimenti di nessuno in quell’ufficio. Neppure i
suoi. “Confusa.
Preoccupata e … spaventata, anche.” Si
passò le dita trai capelli, chiudendo
gli occhi e sentendoli bruciare. Nei suoi piani avrebbe dovuto passare
la
mattinata a dormire, ma così non era stato. “Sono
contenta di vederlo, certo,
ma non so come comportarmi. Abbiamo mantenuto i rapporti, ma
finché erano su
carta era … semplice.”
“Era una giusta distanza?”
“Era
l’unica che pensavo di
poter sopportare.” Confessò. “Adesso non
posso permettermi il lusso di
scegliere. È qui e mi ha chiesto di vederci
ancora.”
“Vuoi vederlo?” Erano le stesse domande che si era
fatta e che le erano state
fatte. La differenza era che nel tono della Guaritrice non
c’era pregiudizio o
morbosa curiosità.
Sono
solo domande.
“Sì. Ma non è solo questione di
volontà, credo…” Aggrottò le
sopracciglia,
mentre un pensiero orribile, sbagliato le si affacciava alla mente. Non
era la
prima volta che usciva fuori, durante quella lunga mattinata, ma
stavolta aveva
qualcuno con cui affrontarlo quindi lo tirò fuori,
all’impietosa luce del sole.
“Pensa che Sören
possa essere la causa scatenante?”
La strega inarcò
le
sopracciglia. “Tu cosa pensi?”
“Lo sto chiedendo
a lei!”
“Ed io non ho
risposte a
questa domanda.” Fu la replica inevitabile. Lily lo sapeva,
studiava la
Psicomagia e conosceva la strega di fronte a lei, eppure fu comunque
frustrante.
Sarebbe
bello se qualcuno avesse sempre la risposta che
cerchi.
Quella
giusta però.
“Beh, neanche
io.” Mormorò
guardando il London Eye stagliarsi nel familiare profilo della
città. “O forse
non voglio cercarla…” Dire certe cose ad alta voce
faceva più male che Maledirsi
con la propria bacchetta.
“Hai paura di
Sören?”
La domanda la
colpì come un
pugno allo stomaco. Una parte di sé le imponeva di
protestare e gridare con
tutte le forze che no, non avrebbe mai avuto paura di quel ragazzo
dagli occhi
intensi e il cuore gentile, perché conosceva la sua anima e
la apprezzava come
poche. Un’altra parte di sé, la patetica ragazzina
spaventata che era stata, non
riusciva invece a chiarirsi le idee in merito senza aver voglia di
raggomitolarsi da qualche parte e piangere.
“Ho paura
… di quello che mi
ricorda.” Mormorò infine, perché era un
buon compromesso ed in fondo era vero.
“Hai paura che
Sören possa
farti del male?”
“Non fisicamente,
ma lo ha già
fatto.” Abbassò lo sguardo, vergognandosi dei suoi
stessi pensieri. “Voglio
solo sbagliarmi.”
****
Diagon
Alley, Appartamento Thomas Dursley e Albus
Potter.
Sera.
Tom non apprezzava
l’atmosfera
che precedeva una festa.
Che la festa in questione si
tenesse a casa sua – mai successo per fortuna – o
che dovesse presenziare la
sostanza non cambiava; detestava la prospettiva di passare
un’intera serata
lontano dai suoi libri e dalla sua musica in favore di un
ipersocialità che non
sarebbe mai stata nelle sue corde.
“Ma Mutti
non è ancora pronto? Sono ore che è barricato in
bagno!” Si
lamentò Meike, in tenuta da concerto e dunque con troppa
pelle esposta e troppo
trucco. “Non è che ci è morto
lì dentro?”
“L’unica cosa morta ce l’ha in
testa.” Replicò facendola sghignazzare. Si
sistemò la sottile cravatta nera allo specchio e
considerò meditabondo l’idea
di cambiare la camicia grigio fumo di Londra in una ancora
più scura, per
dimostrare cromaticamente il suo stato d’animo.
Il
compleanno di Malfoy … Esploderanno cose e la gente
finirà per togliersi i vestiti di dosso.
Se
c’è una cosa che odio più dei
grifondoro sono gli ex-grifondoro.
Non
c’è cura.
Meike lo distolse dalla
tragica deriva dei suoi pensieri voltandolo e allentandogli senza
troppe
cerimonie la cravatta. “Guarda che non è mica un
funerale, Ian Curtis.” Lo
prese in giro ricordando ad entrambi il falso nome con cui si era
presentato a
lei e Cordula. “Lo sanno tutti che alla fine non ti fa poi
schifo.”
“Tutti si
sbagliano.” Non vacillò,
tirandole uno schiaffetto per liberarsi dalla sua presa spiegazzante.
Si sistemò
la camicia e chiuse i polsini che gli aveva dispettosamente sganciato.
“E
smettila di starmi attorno.”
“Ingrato… Cercavo di non farti sembrare un
manichino.” Roteò gli occhi al
cielo. “Ma dimentico sempre che solo Mutti
può osare sfiorare la tua nobile pelle.”
“E anche altro.” Sogghignò facendola
avvampare orripilata.
“Troppe
informazioni!” Sbuffò
buttandosi sul letto e dondolando le gambe. Sospirò: il suo
folletto di Rügen
era cresciuto per diventare una teppistella linguacciuta e con troppo
kajal.
Poteva
andare peggio. Poteva diventare come Lily.
“Anche se
…” Esitò aggrottando
le sopracciglia su cui brillavano i più lustri dei suoi
piercing. “Lo sei più
del solito.” Osservò.
“Non direi, mi
sento
disgustato dall’umanità come sempre.”
Motteggiò sedendosi sul davanzale per
godere della poca brezza che quella serata aveva loro concesso.
Da
quando fa così disgustosamente caldo in Inghilterra?
“Ed è
affascinante, davvero.”
Celiò Meike arricciando il naso. “Non è
che tu e Al avete litigato? Devo
preoccuparmi che i miei mutti e vati divorzino?”
Sgranò gli occhi in
un’imitazione passabile di cerbiatto ferito, sebbene in
quella casa fosse Al il
campione. “Mi farete passare un’adolescenza
tormentata!”
“Mi pare tu faccia
un’eccellente lavoro già da sola.”
“Quello che tu
chiami periodo
turbolento io lo chiamo avere una vita
sociale.” Ritorse con una boccaccia, prima di
tornare seria. “Va tutto
bene, vero? Cioè … Al sta bene, no?
Perché anche lui mi è sembrato un po’
fuori
fase in questi giorni. È per quel che è successo
al San Mungo?”
Tom guardò fuori
dalla
finestra; da lì si vedeva un angolo di strada e persino il
Finnigan’s: nei
pochi secondi che lo fissò la porta dipinta di un acceso
color verde questa si
aprì per lasciar entrare almeno una mezza dozzina di persone.
Grandioso.
“Al sta bene.
È abituato a
rompersi la testa per mano di maghi psicotici.”
Sono
io che non mi abituerò mai.
“Non
pagherò per le tue
consumazioni selvagge stasera.” Stornò il
discorso. “Quindi vedi di non
dimenticarti il portafoglio.”
“Ci pensa Scorpius a pagarci, bacchettone! Noi suoniamo, lui
sgancia. Accordo
vecchio come il mondo.”
Il campanello della porta le
evitò
per un soffio uno scappellotto, dato che si precipitò ad
afferrare chiodo di
pelle e custodia del basso per raggiungere Louis e il resto degli amici
venuti
a prenderla. “Ci vediamo dopo, Signor Misantropia!”
Gli gridò prima di
sbattersi rumorosamente la porta di casa dietro.
Quindicenni.
Tom tornò alla
finestra,
lasciando che Zorba gli saltasse in grembo e pretendesse la sua
quotidiana dose
di vezzeggiamenti.
Al
sta benissimo, sì. Ha un obbiettivo. Sono io che
vorrei Maledirlo per le sue idee imbecilli.
Non poteva mostrarsi
però
apertamente contrario; cinque anni prima aveva imparato che scontrarsi
in campo
aperto con l’altro era una partita persa in partenza.
Come
ogni Potter che si rispetti odia sentirsi dire che
sta sbagliando.
Se Al avesse fiutato il suo
opporsi
avrebbe finito per nascondergli delle cose e cercare di minimizzarne
altre. La
sola idea era sufficiente a farlo infuriare.
Non
fasciarti la testa prima di essertela rotta. Non ha
trovato ancora il momento giusto per parlare il Capo Guaritore ma
quando lo
farà, dovrai solo lasciare che l’antipatia di
quell’uomo faccia il suo corso.
La porta del bagno si
aprì e
Albus, neppure i suoi pensieri l’avessero richiamato,
uscì.
Due
ore e mezzo. Neppure Alicia ci mette tanto.
Sentì
però un sorriso premere
sulle labbra, perché il ragazzo stupendo che gli sorrideva
di rimando era suo ed era una
considerazione capace di
soddisfarlo ogni singola volta, non importava quanto pessimo fosse il
suo umore.
È
mio.
“Due ore e
mezzo.” Trovò
giusto notificare.
“Colpa dei capelli
corti.” Fu
la spiegazione serena. “È sempre un inferno
cercare di dargli un senso!” Gli si
avvicinò e gli mise le mani sulle ginocchia, chinandosi per
un bacio languido e
spodestando così il gatto che miagolò
infastidito. “Non è personale, Zorba. A
giudicare dalla faccia del tuo padrone devo farmi perdonare.”
Scherzò.
“Tu e il gatto conversate abitualmente?”
“Solo quando devo
sottolineare
chi appartiene a chi.” Tom gli passò una mano
sulla stoffa sottile della
maglietta che si tendeva su un fisico armonioso e asciutto. Mal
sopportava il
Quidditch che l’altro si ostinava a praticare nei fine
settimana con i vecchi
compagni di squadra, ma ne apprezzava gli effetti.
Al sospirò
deliziato quando
gli baciò la curva del collo. “Ehi, se
è arrivato Lou a prendere Mei siamo davvero
in ritardo.”
“Nessuno noterà la nostra assenza in quella bolgia
dantesca. Abbiamo del
margine ed io ti ho aspettato.”
Mormorò tirandoselo contro per avere un accesso migliore a
tutta quella pelle
morbida e profumata di doccia.
“Come se potessi
affrontare da
solo la temibile folla …” Sogghignò
l’altro passandogli le dita trai capelli e
serrando appena la presa, tra il fastidio e il piacere. Tom dovette
ingoiare
quelle che sarebbero sembrate impropriamente
fusa.
“Infatti eviterei.
È un favore
che faccio a te … e mi aspetto sia ripagato.”
Sussurrò contro la pelle della
sua clavicola nuda.
Tom sapeva bene di essere
sistematicamente manovrato, con uno sguardo, un tocco o un
incresparsi malizioso delle
labbra; Al non era mai troppo manifesto nei suoi desideri, per un
irrisolto
desiderio di essere studiato, investigato e infine scoperto
– crescere in nel clan Weasley ti dava la malata idea di
essere parte di un gruppo a scapito della tua unicità.
E
Al è un individualista. Come me.
“Cos’è
che vuoi?” Gli chiese
infatti con un desiderio vorace annidato negli occhi verdi.
Indovina.
“Te.”
Disse semplicemente tirandolo
contro di sé. “Da sempre.”
Se doveva farlo desistere
nell’insana idea di seguire il caso Flannery doveva iniziare
colpendo i punti
deboli. Sarebbe stato un compagno supportivo, sì. Ma alle
sue condizioni.
****
Diagon
Alley, Finnigan’s Wake.
Sera.
And this is me trying to be
kind I want you to know
You seem to pardon all my favours now
Sometimes!
Le feste magiche inglesi ci
provavano, bisognava dar loro credito di questo; si sforzavano di
assomigliare
a quelle Babbane, sia nella musica che nelle bevande dai nomi estrosi,
ma
mancavano sempre di qualcosa. Di
stile, solitamente.
Milo dovette ammettere
però
che il compleanno a cui il principino era stato invitato –
trascinandoci di
riflesso anche lui – prometteva di esser decente. Se eri un
tipo che amava
scolarsi pinte su pinte ululando il ritornello di qualche canzone in
compagnia
di gente ubriaca quanto te, era la festa perfetta.
Posso
essere quel tipo stasera.
Il principino
d’altro canto
non sembrava pensarla come lui; era vestito e pettinato a dovere, ma
aveva il
viso grigiastro tipico dei suoi peggiori umori umbratili. Quel
pomeriggio era
tornato alla locanda sudaticcio e con gli occhi vuoti e non gli ci era
voluto
molto per capire che qualcosa era andato terribilmente storto.
Solo
che quando sono riuscito a cavarglielo finalmente
di bocca…
“Allora
avevo visto bene.” Aveva commentato quando
Sören, dopo essere tornato da una doccia gelida vista la pelle
illividita,
aveva vuota il sacco.
L’altro
ci aveva messo qualche attimo per capire il
significato della frase. “Sapevi di
Johannes?”
“Non
ne ero sicuro!” Aveva messo le mani avanti vedendo
i lineamenti dell’altro accendersi di rabbia. “Ho
fatto un paio di domande in
giro e nessuno sembrava aver notato gente strana girare per i
bassifondi, e
quel tipo è un tipo da bassifondi,
quindi…”
“Perché non me l’hai detto? Lavori per
me, devi dirmi tutto!”
“Tutto?”
Aveva inarcato le sopracciglia. “Anche
chi mi porto a letto?”
Con orrore aveva visto il braccio dell’altro emettere
inquietanti scintille
rosse. “Non prendermi in
giro.” Aveva
ringhiato. “Rispondi. Perché non me
l’hai detto?”
Merda. Okay. Momento
verità.
“Perché
avevo paura di questa reazione!”
Aveva sbuffato cercando di ignorare i campanelli d’allarme.
Se fossero stati
spaventati in due non sarebbe finita bene. “Avevo paura che
tu perdessi la
testa … e per qualcosa che non ero certo di aver visto.
Volevo avere delle
certezze prima di far rapporto, fammi causa!”
Il
mago aveva serrato le labbra, prima di afferrare
l’asciugamano che gli porgeva e strofinarselo violentemente
sui capelli ancora
stillanti acqua. Era una resa e Milo aveva tratto un sospiro di
sollievo.
“Non
ho perso la testa.”
Sì,
certo.
Infrangendo
una delle sue regole d’oro che recitava di
non iniziare mai contatti fisici con gente che non voleva scoparsi,
afferrò
l’asciugamano e glielo strattonò via di mano.
“Calmati.” Aveva detto. “Johannes
è ancora vivo, e allora? L’hai preso a calci in
culo una volta. Puoi farlo
ancora.”
La linea tesa delle spalle di Sören era sembrata cedere
leggermente. “Cosa ci
fa qui?” Aveva sussurrato. “Perché
è in Inghilterra?”
“Che
ne so.” Si era stretto le spalle. “Lo scoprirete.
Non è il vostro lavoro?”
“Sì.”
Gli aveva scoccato un’occhiata valutativa. “Hai
detto che hai chiesto in giro … A chi?”
“Gente.”
Non si era sbilanciato. “Ho qualche contatto.
Ce l’ho sempre, lo sai.”
“Continua
a farlo.” Gli aveva ordinato prima di indossare
i vestiti che gli aveva accuratamente preparato sul letto. Li aveva
messi con
furia, quasi fossero una punizione contro un crimine.
“Continua a chiedere.
Chiedi anche ai morti, se necessario. Devo sapere perché
è qui.”
Non gli era restato che annuire.
Poteva capire
l’ansia, ma
rompersi la testa in quel modo non gli avrebbe giovato.
Pensare
ad altro invece sì.
Non era riuscito
però a farsi
dar retta e mentre entravano nel locale, Milo si chiese se non fosse il
caso di
riportarlo a casa.
Con
un umore così è pronto per un funerale. E poi chi
la regge la sua sbronza triste?
“Chi è
il festeggiato?” Chiese
lanciando un’occhiata complessiva; erano nel classico pub
inglese, legno appiccicoso
ovunque, musica assordante e bicchieri pieni di birra in dirittura di
rovesciarsi. La fauna maschile però era passabile.
Abbastanza
jeans stretti e bei sederi … Sì,
c’è un buon
margine di manovra anche per me.
“Scorpius Hyperion
Malfoy.” Gli
fu risposto con tono assente. “È
l’ultimo erede dei Malfoy … una delle famiglie
magiche più influenti d’Inghilterra.”
“Purosangue?” Indovinò.
“Com’è allora che tutto qua grida Amiamo i Babbani?”
“È un
tipo particolare.”
Riassunse cominciando finalmente a guardarsi intorno. Era ovvio chi cercasse, dato che quel genere di
evento attirava sempre un tipo particolare di ragazza.
E
la sua Rossa è un animaletto da party tanto quanto
me.
Lasciò quindi
perdere la sua
caccia per aiutare quella dell’altro, perché era
un bravo ragazzo e perché
soprattutto non vedeva l’ora di potersi sganciare. Non ci
misero molto a
trovarla; Lily Potter era in mezzo alla pista da ballo con un vestito
che
avrebbe seccato le ghiandole salivari a qualsiasi maschio eterosessuale
dotato
di occhi.
I'm a sober boy, you're a
lonely girl
So let's give it up and stay out of each other's worlds!
Milo cercò di non
ridere
quando vide ogni tragicità eroica cancellarsi dalla faccia
del mago,
rimpiazzata dalla classica espressione ebete del ragazzo a cui era
partito
l’ormone.
Potrà
dire a destra e a manca che la considera solo un
amica, ma qui si tratta di chimica, di desiderio sessuale. E quella
ragazzina è
una calamita per la bava.
Grazie
Rossa.
La ragazzina in questione
ballava
però allacciata ad una montagna di muscoli.
Mmh
… dev’essere il ragazzo.
La cosa doveva averla notata
anche Sören da come si irrigidì distogliendo lo
sguardo. “Ah,
ecco Zenzero.” Indicò girando il dito
nella piaga.
Ma
ehi, è divertente.
“Zenzero?”
Il tono di voce
uscì strozzato, prima che si ricomponesse. “Di chi
stai parlando?”
“Di Lily
Potter.” Ghignò.
“Trovo sia un nomignolo appropriato. Ragazze come quella
… beh, pizzicano.”
“Non dire cose insensate.” Lo redarguì
brusco mentre le guance sembravano
prendergli fuoco. “Cercami piuttosto un tavolo.”
“La fai facile tu!” Sbuffò guardandosi
attorno. “Non so se hai notato, ma sarà
un miracolo se riusciremo ad arrivare al bancone per prendere da
bere.” Si
passò le dita trai capelli e sospirò.
“Non possiamo aggregarci a qualcuno?”
“No.” Fu
la risposta
immediata, prima che facesse una smorfia rendendosi conto esser stato
forse
troppo tranciante. “Malfoy mi ha invitato, ma non sono in
buoni termini con
nessuno qui, lo sai bene.”
“E con Lily?”
Lo sguardo
dell’altro scivolò
di nuovo sulla pista da ballo, dove l’inglesina sembrava
divertirsi un mondo a
volteggiare tra le braccia del suo cavaliere. “Sta ballando,
non voglio
disturbarla…”
“Sei scemo?” Gli uscì naturale.
“Dobbiamo passare l’intera serata a fare da
tappezzeria
perché non hai il coraggio di andarla a salutare e chiederle
se possiamo
sederci con lei e i suoi amici?”
Sören
aggrottò le
sopracciglia, serrando le labbra. “Tu non capisci.”
“Non rifilarmi lo sguardo da adolescente incompreso,
perché hai venticinque
anni, principino. Sei un po’ fuori fascia.”
“Ne ho
ventitré.” Lo corresse
sostenuto, come se dovesse passare i suoi giorni a contare quelli
dell’altro.
“Quello che
è. Vai a
salutarla.”
“No.”
Dodici anni. Lavoro per un ragazzino di dodici
anni che pensa che le ragazze abbiano appena smesso di avere i pidocchi
per
diventare santuari irraggiungibili. A meno che non gli si buttino
addosso, ma
non è il caso della Potter.
…
quanto mi manchi, Boston.
“Allora sei da
solo, bello.” Comunicò.
“No…”
Lo bloccò prima che potesse
partire con la storiella che era compito suo occuparsi di quelle cose.
“… non posso
sempre pararti il culo. Mi paghi per lavarti le mutande, non per farti
fare
amicizia.” Ignorò l’espressione
sconvolta dell’altro e si tuffò tra la calca.
Un
giorno mi ringrazierai principino. Una statua.
Davvero, sarò materiale da statua di bronzo.
Cause if I take your words in
the song I sing,
Like the rock the paper, the scissors that sort of thing
The question is how long has it been since you've fell in love with a
boy like
me?
“Katy
Perry.”
“Come scusa?”
“Prima
… hanno messo Katy
Perry. Oltre il tollerabile, me ne torno a casa.”
“Non ho idea di chi diavolo sia, Tom. Falla finita e dammi
una mano a trovare
Scorpius.”
A
volte portarlo alla feste equivale a trascinarci un
ippogrifo morto. Stessa verve.
“Ehiii!”
Sentirono una voce
squillante alle loro spalle, e Al dovette reprimere una risata quando
vide
l’espressione del proprio ragazzo mutare da morente a morente
patibolare. A quanto sembrava
Scorpius
aveva trovato loro. “Ci sono i miei Serpeverde
preferiti!”
Albus venne così strizzato in un abbraccio che lo
staccò di qualche centimetro
da terra. Si sarebbe arrabbiato per essere maneggiato come un pupazzo,
se non
fosse provenuto da quel ragazzone innocuo come un labrador. Lo
ricambiò affettuosamente.
“Buon compleanno Sy.” Lo salutò dandogli
una pacchetta sulla testa. “Grazie per
i preferiti.”
“Oh, in
realtà lo siete tutti,
voi verde-argento. Genetica!” Sogghignò mollando
la presa e mostrando così la
maglietta che indossava, recitante un ovvio ‘baciate il
festeggiato’. Meno
ovvia era la frase aggiunta sotto a pennarello ‘e
sfidate l’ira della mia promessa sposa.
“Carino.”
Commentò divertito.
“È stata un’aggiunta tua o di
Rosie?”
“Comune
accordo!” Replicò
con un gran sorriso; Al ricordava come non
avesse festeggiato fino al Sesto anno quindi non trovava esagerata
quell’euforia alcolica.
Per
anni ha avuto solo una cena formale con i suoi,
Mike e Lo. È in debito.
“Rendi utili le
tue feste imbarazzanti
e trovaci un tavolo, Malfoy.” Lo apostrofò Tom,
tenendolo fisicamente a
distanza con una mano dato che l’altro sembrava intenzionato
ad abbracciarlo.
“E non toccarmi.”
“Un
tavolo?” Ridacchiò l’altro
scuotendo la testa. “Chiedi troppo, Dursley. Continua ad
entrare gente e credo anche
di aver calpestato qualche quindicenne mentre andavo in bagno. Sul
serio, non è
tutto meravigliosamente fuori controllo?”
Cinguettò con gli occhi che gli
brillavano.
“E non sono ancora
le dieci.
Meriti la palma per sobillatore dell’ordine
comune.” Si inserì la voce di sua
cugina, già sgocciolante via pazienza. “Violet ti
sta cercando per darti il suo
regalo da mezz’ora. Tra poco te lo lancerà in
testa e considerando che è
dall’altra parte della sala potrebbe uccidere qualcuno.
Vieni?”
L’altro le
passò un braccio
attorno alla vita e le baciò la fronte. “Ricevuto,
non vogliamo morti stasera.”
“Non li
vogliamo.” Confermò
sorridendo loro con aria falsamente esasperata; come tutti gli Weasley
era
cresciuta nel caos e quel genere di eventi non la sconvolgevano
più di tanto.
Lo
fa solo per farsi coccolare da Sy.
“È
troppo chiedere un posto a
sedere?” Le chiese vedendo che Tom cominciava a spazientirsi,
e lui purtroppo
non fingeva.
“Direi.”
Convenne la cugina
con aria dispiaciuta. “Credo che finirò io
per sedermi sul registratore di cassa se continua con questo ritmo.
Quanta
gente hai invitato, demente?” Si rivolse al fidanzato che
comunicava ad ampi
gesti di prendergli da bere a qualcuno nei pressi del bancone; a
giudicare
dall’aggiunta di gesti osceni doveva trattarsi di James.
“Mah,
chiunque.” Scrollò le
spalle disinteressato, allungando una pacca ad un tizio che nessuno di
loro
aveva mai visto. “Ehi, non so chi sei, ma penso che tu voglia
sapere che sono
il festeggiato!”
“Tanti auguri
amico!”
“Oh mio Dio…” Sussurrò Tom
ormai sull’orlo di una crisi di nervi.
Rose dovette intuire lo
stato
d’animo di quest’ultimo, perché
sbuffò indicando con un cenno verso il fondo
della sala, dove i Banshees stavano finendo di cenare prima di montare
la
propria attrezzatura. “Provate a chiedere a Lily, ha un
tavolo enorme vicino al
palco.” Gli si rivolse.
“Ha sempre la capacità di trovarsi uno scranno da
cui fare la regina, quella
stronzetta.”
“Ricevuto.”
Intrecciò le dita a
quelle gelate del suo misantropo e gli sorrise incoraggiante.
“Andiamo a
vedere?”
“E chiuderci
così ogni via di
fuga? Un piano brillante.” Borbottò malmostoso.
Quando però strinse la presa sulle
dita fece una smorfia ed annuì.
Da
quando è così accomodante? È sospetto.
Ignorò quel
pensiero: al
momento la cosa più sensata da fare era approfittarne senza
farsi troppe
domande.
Stasera
voglio rilassarmi. Me lo merito. Ce lo
meritiamo tutti.
“Ancora buon
compleanno
Malfoy!”
Take me with you when you go, I
don't want to stay here alone
Remember when we were golden? Well, that was a long time ago…
“Stasera non ti
fermi un
attimo, eh?”
Lily rivolse un sorriso al suo ragazzo, che era dovuto rimanere in
canottiera
per evitare di avere un colpo di calore in mezzo alla pista da ballo.
Sapeva di esserne la
responsabile,
ma perché avrebbe dovuto sentirsi in colpa? Gli
allacciò le mani dietro la
nuca, puntellandosi sugli stiletto
per baciarlo. “È quello che si fa di solito ad una
festa, Scotty!”
L’ex-tassorosso sbuffò divertito, stringendosela
contro. “È difficile starti
dietro quando salti come un grillo, Lils.”
“Sei stanco?” Lei non lo era; si sentiva elettrica,
come sempre le succedeva
quando era in mezzo ad un caos di luci, suoni, colori e persone. Se non
era il
suo ambiente naturale quello, beh, ci andava maledettamente vicino.
Ne
avevo bisogno. Bel tempismo, Sy.
“Non
sono mai stanco di averti tra le
braccia.” Rispose preparato. Era un ragazzo sveglio.
“E devo ammetterlo…” Si
guardò attorno. “… Malfoy sa come
organizzare una festa. Di questa se ne
parlerà per settimane.”
“Oh, ha imparato dai migliori. E con migliori intendo la mia
famiglia.” Gli
strizzò l’occhio. “Vuoi tornare al
tavolo e bere qualcosa? Reintegrare
liquidi?” Lo punzecchiò.
“Idea
meravigliosa.” Convenne
passandole un braccio attorno alla vita per allontanarla gentilmente
dall’ennesima canzone trascinante. “Speriamo di
averlo ancora, il tavolo…”
“Ho messo a presidio Hughie, morderà chiunque si
avvicini … Andiamo al bancone
ad ordinare!” Lo rassicurò, guardandosi attorno
per trovare il passaggio
migliore per arrivare a destinazione.
E poi il mondo diede una brusca frenata.
Sören era
appoggiato alla
balaustra del piano superiore, quello dell’ingresso e del
bancone. Era lui,
nessun dubbio persino in mezzo a tutti quei volti; fumava una sigaretta
assorto
nei suoi pensieri e sembrava impermeabile all’atmosfera che
lo circondava, come
un ritaglio incollato in un quadro che non gli apparteneva.
Ren?
Cosa ci fa … oh, certo. Malfoy ha invitato tutta
l’Inghilterra magica e non. Perché non lui?
Ciao
Ren.
A quel punto i loro sguardi
si
incrociarono, perché lo facevano sempre, indipendentemente
da quante persone ci
fossero tra loro a far muro. L’altro fece un cenno impacciato
con la mano e
tentò un sorriso. Ricambiò automaticamente.
“Scott?” Chiamò il suo ragazzo.
“Ci
vediamo al tavolo, devo andare a salutare una persona.”
“Mh?” L’altro parve cogliere qualcosa
nella sua espressione perché aggrottò le
sopracciglia. “Chi?”
“Sören.”
Disse semplicemente
perché era semplice, non importava l’espressione
che aveva appena messo su
l’altro.
“È
qui?”
“Sy
l’avrà invitato, lavorano
assieme.” Rispose stringendosi nelle spalle. Vedendo che non
dava segno di
allontanarsi capì. “Vuoi che te lo
presenti?”
“Sì, mi piacerebbe.” Il tono
dell’altro era gentile come sempre ma era anche macchiato
di evidente desiderio di fare l’uomo della situazione.
Gli diede un bacio sulla
guancia. “È tutto a posto ragazzone. Ren
è uno dei buoni adesso.” Inarcò le
sopracciglia. “Te lo presento, ma tu devi fare il
bravo… Ha ricevuto già troppi
pesci in faccia.”
“Sarò bravissimo.” Confermò
poco convincente ma era comprensibile, quindi non
protestò e lo portò verso l’argomento
di conversazione in persona. Si
incontrarono a metà strada dato che Sören
si mosse verso di loro.
“Ciao
Lilian.” La salutò,
trincerato dietro il muro di Occlumanzia più massiccio che
avesse mai visto.
Come
mai adesso? È per la festa, la gente? Ho capito
solo che il vestito ha fatto colpo, ma grazie tante, è fatto
apposta.
“Ehi.”
Salutò sentendo la
presenza massiccia di Scott alle sue spalle mentre le posava le mani
sui
fianchi. Era come avere una specie di orso bruno che la considerava una
delle
sua cucciolata. Sarebbe stato esilarante se non si fosse sentita
così
stupidamente nervosa. “Precettato per la festa anche
tu?”
“Malfoy mi ha invitato, quindi sì.”
Convenne lanciando un’occhiata alle sua
spalle e dunque allo scozzese. “Scott Ross
immagino.” Gli tese la mano con la
cortesia un po’ fuori moda che Lily ricordava usasse quando
si sentiva a
disagio. Più era convincente più era sulle spine.
Occlumanzia
… cortesia … Molto a
disagio.
“Sì, il
suo ragazzo.” Sottolineò
e forse non era necessario, ma Lily glissò. Erano
rivendicazioni testosteroniche
e la sapeva più lunga che defletterle. “E tu devi
essere Sören. Lily mi ha
parlato di te.” L’aspetto che più
apprezzava del suo ragazzo era la capacità di
essere cordiale con chiunque, indipendentemente dai suoi sentimenti
personali.
Scott rispose infatti alla stretta di mano come se fosse un autentico
piacere
aver a che fare con lui e Sören, che vi credesse o meno, si
rilassò
visibilmente. “Stavamo andando a prenderci qualcosa da bere
… Com’è al
bancone?”
…
Troppo dialetto, troppe metafore.
“Come
scusa?” Sören lo guardò
perplesso prima di lanciarle un’occhiata confusa e desiderosa
di spiegazioni.
“Si riesce ad
ordinare al
bancone o c’è troppa gente?” Tradusse
divertita. “Scotty, non lasciarti
ingannare dal suo ottimo inglese, il ragazzo è tedesco fino
alla punta dei
capelli!”
“Non si direbbe, non dai capelli. I tedeschi non sono tutti
biondi?” Replicò
ironico. “Scusa comunque, mi scordo sempre che il mio inglese
non è esattamente
quello della Regina.”
Sören tentò un mezzo sorriso nervoso.
“Non è un problema. Vivo in America, ho
sentito di peggio.” Si voltò verso il bancone,
tornando alla domanda che gli
era stata posta. “Ho mandato Milo a prendermi da bere quindi
non saprei.”
“C’è anche Milo?” Fu contenta
che non fosse venuto lì da solo. Non aveva mai
capito con esattezza la natura dei rapporti trai due, ma sapeva che il
Magonò
si occupava dell’altro abbastanza per essere un punto di
riferimento.
“Potevo portare
una persona …
La scelta non poteva cadere molto lontana.” Si strinse nelle
spalle. Calò
quindi il silenzio, fortunatamente ovattato dalla musica e dal rumore
delle
chiacchiere altrui. “Vi lascio alla vostra serata.
È stato un piacere, Scott.” E
prima che potesse avere il tempo di dire o fare qualcosa,
l’amico si accomiatò
e sparì tra la calca di persone.
Ma
che cavolo …
Inspirò quando
sentì le labbra
del suo ragazzo sulla fronte. Dovette frenarsi per non scostarsi.
“Va tutto
bene?” Le chiese con aria preoccupata.
“Sì,
certo. È stato … strano,
tutto qui.” Sospirò. “Devo ancora
abituarmi a trovarmelo davanti.”
“Ti ha dato
fastidio?”
“No!”
Lo
guardò confusa prima di
realizzare il motivo della domanda. “Perchè, ho
dato quest’impressione?”
Scott si strinse nelle
spalle.
“Sei stata un po’ fredda.”
… ecco perché se
n’è andato. Come riesce
a sentirsi indesiderato lui…
Dannazione.
Excuse me if I spoke too soon
My eyes have already followed you around the room
I'm holding on and waiting for the moment to find me
La faccenda aveva del
ridicolo. Se era stata fredda, non era stato perché la
presenza del vecchio
amico l’aveva infastidita, tutt’altro. Era stato
perché, per l’ennesima volta, non
aveva saputo cosa fare di tutte le sensazioni che l’avevano
travolta come un
Centauro infuriato.
“Scotty?”
Richiamò l’altro. “Ti
secca se vado a cercarlo?”
L’altro fece un mezzo sorriso e scosse la testa.
“No che non mi dispiace … Solo
non passare tutta la serata a preoccuparti di averlo fatto restar
male.” Fermò
le sue proteste. “È un mago adulto e a quanto mi
hai detto ti conosce. Capirà.”
No che non capirà. Non ti sei reso
conto
che era solo? È sempre così, e io l’ho
mandato via.
Non lo disse però perché a dare
spiegazioni quando aveva l’urgenza di far
altro non era mai stata brava. Preferì
invece ringraziarlo con un bacio. “Ci vediamo
dopo.”
I know you didn’t realize that
the city was gone
You thought there would be advertisements
To give you something to go on
“Ho finito le
sigarette.”
Dirlo a Loki era come parlare ad un muro. L’altro ragazzo
infatti si voltò a
malapena, ridacchiando di qualcosa che la tizia sulle sue ginocchia gli
aveva
detto. “Mio buon Mike, vuoi il mio tabacco?” Chiese
togliendosi la pipa di
corno dalle labbra.
“Il tuo tabacco ha un gusto atroce.”
Sbuffò Michel. “No, vado a comprarle. Non
mi va di elemosinarle in giro.”
“Bel problema quando a fumare quella roba orribile siete solo
tu e i Nati
Babbani, non è vero?” Ghignò Violet
sorseggiando il suo Melatini con
una certa, femminea perfidia. Era questo il lato che
più apprezzava di lei, oltre all’occhio che aveva
per la moda; dubitava che
esistessero altre Purosangue educate come tali capaci di indossare un
mini-abito di Alexander MacQueen come se fosse una cosa che facevano da
tutta
la vita.
Mi
fa quasi dimenticare il suo cattivo gusto in fatto
di donne, cioè la … cosa … che tiene
nel letto.
La suddetta Cosa, che aveva
invaso il tavolo di boccali di birra dozzinale, gli rivolse un ghigno.
“Sei
assurdo, lo sai cioccolatino?” Disse. “Fai tanto il
sang-pur e poi ti incatrami i
polmoni con roba Babbana!”
“Nicky, tais-toi…” La
riprese blandamente Violet. “Lascialo nei suoi
controsensi ipocriti.”
Michel roteò gli
occhi al cielo,
rifiutandosi di registrare il
commento come un’offesa.
Però
ha ragione. Fumi sigarette Babbane e ti porti a
letto Magonò.
…
Sì, ma quest’ultimo non era previsto.
“Tenetemi il
posto.” Raccomandò
sperando che il messaggio fosse chiaro alle due, se non a Nott.
Scivolò in mezzo
alle persone,
registrando visi sconosciuti e poi, perché una serata al
Finnigan’s non poteva
esser altro che foriera di malessere, vide Albus nei pressi del
bancone,
ridacchiare con la fronte reclinata sulla spalla ossuta di Dursley: da
come lo
tirava sembrava cercare di portarlo a ballare.
Dieci
Galeoni che alla fine ci riesce.
We can’t escape the basic facts
how cold it can get
There’s nothing to protect ourselves
when
the rain gets us wet
Per quanto non avesse mai
smesso di pensare che Albus era sprecato con Thomas, non poteva non
notare la
spontaneità con la quale si toccavano e come il viso torvo
di quest’ultimo si
addolcisse quando posava lo sguardo sul compagno. Sin da quando erano
bambini
si erano ronzati attorno, cercati e ancor prima che lo sapessero,
amati. Chi
meglio di lui, che era stato spettatore della loro storia, poteva
saperlo?
Qualcuno
ti ha mai guardato così? Non con lussuria,
desiderio o passione … ma con amore.
Fece una smorfia, scacciando
quella deriva di pensieri. Sarebbe stato più semplice se i
suoi sentimenti
verso Albus si fossero spenti anni prima, di fronte
all’evidenza che non
avrebbe mai potuto averlo.
Non
come lo ha Dursley almeno.
Era innamorato di Al?
Naturalmente lo era, lo era sempre stato. Gli era chiaro di non avere
speranze?
Certo, dallo stesso lasso di tempo, da quando aveva capito che dove
c’era il
secondogenito dei Potter c’era inevitabilmente anche un
ragazzino torvo che gli
stava dietro come un’ombra.
C’erano teorie
secondo cui per
ogni persona al mondo ne esisteva un'altra, sua esatto complemento.
Ed
io non sono quella di Albus Severus Potter.
Si infilò le mani
in tasca ed
uscì dal locale prendendo un grosso e grato respiro, dato
che l’aria calda
della sera estiva era un venticello fresco rispetto al magma bollente
all’interno
del pub.
Sigarette.
Gli era stato detto come ci
fosse una sorta di emporio Babbano a Notturn Alley, messo su dal niente
ma con
una vasta selezione di vizi, dall’alcool ai tabacchi.
Meglio
che mi sbrighi. Se mi perdo il taglio della
torta Scorpius sarebbe capace di mettersi a piangere.
È
talmente sentimentale…
Ci mise una manciata di
minuti
irritanti per trovare il posto, incuneato tra una taverna e un palazzo
in
rovina. Entrando si coprì il viso con un fazzoletto; il
tanfo di miseria
aleggiava su tutto dandogli la nausea, anche a causa della massaccia
dose di shots che si era fatto in
compagnia di
Violet e la Weasley.
“Buonasera.”
Apostrofò il
ragazzetto brufoloso a presidio del posto. “Un pacchetto di
Davidoff Light.”
“Come?” Chiese quello squadrandolo con grossi occhi
bovini. Notò anche
l’occhiata che lanciò al suo abbigliamento ma
decise di ignorarla. “Che hai
detto?”
“Sigarette.”
Indicò lo
scaffale. Vedendo che non recepiva sospirò. “Un
pacchetto di B&H allora, sono
quelle col pacchetto color oro.” Specificò
vedendolo rovistare dietro al
bancone senza speranza di trovarle.
Quando finalmente
uscì la
prima cosa che fece fu cercare l’accendino per accendersene
una. Con sconforto
si accorse di non averlo.
Deve
avermelo sfilato Loki mentre ero seduto. Lo fa
sempre.
Considerò di
tornare dentro il
negozio per acquistarne uno quando accanto a lui apparve un tipo
coperto da un
mantello estivo che sembrava però servire per ogni stagione
a giudicare
dall’usura. “Serve da accendere amico?”
Indovinò, anche se il balletto di
cercarselo nelle tasche doveva essere stato abbastanza esplicativo.
“No,
grazie.” Non era così
sciocco da fermarsi in quel genere di posto, specialmente con chi si
prendeva
troppa confidenza. Non era mai un buon segno. Fece per allontanarsi
quando la
strada venne sbarrata da un altro tipo, altrettanto cencioso.
Oh,
fantastico.
“Non ho denaro con
me.” Doveva
trovare un modo per cavarsi d’impaccio da quella situazione
senza tirare fuori
la bacchetta; se suo padre avesse saputo che aveva duellato con gli
amabili
residenti di Notturn Alley non gli avrebbe dato pace per settimane.
Pensa
al buon nome della nostra famiglia, Michel. Che
diavolo ci facevi a Notturn Alley poi?
Il cencioso numero uno fece
una smorfia derisoria mostrando carenze igenico-dentarie preoccupanti.
“Ci
prendi per il culo? Sei appena uscito dalla bottega di Swill!”
“E lasciatemi indovinare, vi ha avvertito il vostro amico
Swill che sono pieno di grana?”
Replicò sarcastico
scimmiottando il cockney strascicato dell’altro.
“Potrei far chiudere quella
bettola fetida con un Gufo entro domani. Lasciatemi passare.”
Il cencioso numero due
tirò
fuori la bacchetta, puntandogliela contro e rendendo la cosa
immediatamente più
preoccupante. “Tira fuori la borsa frocetto, o
l’ultima cosa che potrai fare
domani sarà scrivere un Gufo.”
Michel lanciò uno
sguardo
dietro di sé e vide che anche l’altro mago aveva
tirato fuori la sua. L’idea di
perdere tempo con
quei due lo riempiva
di rabbia, ma supponeva di non avere scelta. Fece per infilare la mano
dentro
la giacca, quando sentì un dolore lancinante ai reni. Si
piegò in due,
realizzando che il cencioso numero uno l’aveva colpito con un
pugno ben
piazzato, un colpo che non si era aspettato.
“Voi Nati Babbani
del cazzo
siete tutti uguali, sembrate cascarci tra le braccia! Non te
l’hanno detto che
Notturn Alley è un postaccio per quelli come voi?”
Come?!
L’equivoco doveva
esser stato
dato dai suoi vestiti, Babbani fino all’ultima fibra di
cotone costoso. Non
fece in tempo a protestare che il cencioso numero due gettò
la bacchetta a terra;
con sorpresa Michel si rese conto che era falsa come l’oro
dei Leprecauni; era
un prodotto dei Tiri Vispi, riconoscibile dal marchio
sull’impugnatura.
Una
bacchetta giocattolo? Ma allora sono Magonò!
Era caduto nel trucco come
un
idiota. I due lo afferrarono di malagrazia, trascinandolo
nell’ombra di un
vicoletto parallelo. Si divincolò cercando di sferrare pugni
alla cieca, ma il
risultato fu di farsi bloccare da quello più corpulento dei
due. “Sta’ fermo stronzo!”
Lo apostrofò rudemente mentre qualcosa di freddo, metallico
e appuntito gli si
appoggiò sulla guancia. Si immobilizzò,
agghiacciato: quello di fronte a lui gli
stava puntando addosso un maledetto coltello. “Scommetto che
ci tieni ad avere
la faccia che non sembra una grata metallica, ah?”
Indovinò questo, forse il
cervello del duo.
“Vi
farò pentire di avermi
toccato, feccia!” Gli sputò addosso, umiliato
perché terrorizzato. Capì subito
di aver fatto un grosso errore quando il coltello dalla guancia si
sposto sul collo,
premendo talmente forte che sentì il dolore del taglio in
prossimità della
giugulare.
“Mi sa che ti
sgozzo come un
maiale.” Ringhiò questo furioso e la puzza di
whiskey incendiario nel fiato lo
identificò come piuttosto sbronzo. “Le lingue
lunghe non mi sono mai…”
Non riuscì a terminare la frase che qualcosa lo
colpì alla testa, facendolo chinare
con un’imprecazione roboante. Michel vide con la coda
dell’occhio qualcuno entrare
nelle vicolo; capelli biondi e fisico ben piazzato. Ci mise
più di qualche
attimo a riconoscerlo.
E
lui che diavolo ci fa qui?
“Ehi.”
Sogghignò la sua
ex-conquista di una sera, nonché Magonò. Lanciava
e riprendeva quello che
sembrava un ciottolo di ghiaia sottile e appuntita. Doveva averla presa
dalla
piazza poco distante. “Perché non lo lasciate in
pace, eh?” Si rivolse al Cencioso
Capo che non ci mise molto per decidere che la cosa migliora da fare
era
neutralizzarlo, caricandolo furiosamente a coltello spianato.
L’altro però
doveva esserselo aspettato perché schivò con
facilità il fendente diretto
orribilmente allo stomaco. Michel vide poi brillare un lampo argentato
e il
Cencioso soffocò un grido crollando in ginocchio, tenendosi
la coscia.
È
armato anche lui. Certo, ovvio, quale Magonò non lo
è? Loro non possono usare la magia come arma di offesa.
Il tedesco si
allontanò di
qualche passo, con la lama in pugno, prima di farla rientrare nel
manico con
uno scatto. Gli lanciò un’occhiata spazientita.
“Devo salvarti per caso, signorina?”
Come?
Realizzò di colpo
che la presa
sulle sue braccia si era allentata perché il Cencioso numero
due aveva
abbassato la guardia quando il primo si era accasciato a terra. Doveva
approfittarne, subito. Sfilò quindi la bacchetta dalla
giacca e si voltò quel
tanto che bastava per puntargliela al petto.
“Stupeficium!”
Un lampo rosso dopo
c’erano due
corpi accasciati nel vicolo.
“Figlio di
puttana!” Gridò
l’accoltellato, ancora cosciente, in direzione del tedesco.
“Sei uno di noi! Da
che parte-”
Michel lo
schiantò con
autentica soddisfazione.
Il Magonò in
compenso inarcò
le sopracciglia. “Wow.” Commentò.
“Ti eri accorto che non poteva muoversi,
sì?”
“Sì.”
Replicò rinfoderando la
bacchetta. “E quindi?” Prese da terra il suo
borsello, spazzolandolo dalla
sporcizia. L’avrebbe potuto fare anche con la magia ma non si
fidava delle sue
mani in quel momento: tremavano troppo.
Dannazione.
Potevo morire.
Realizzarlo gli fece girare
la
testa e dovette appoggiarsi al muro dietro di sé per non
crollare
vergognosamente con il sedere a terra. “Ehi.” Si
sentì apostrofare e poi la
mano dell’altro fu sotto il suo braccio a sorreggerlo.
“Va tutto…”
Svicolò dalla presa. “Non ho bisogno
d’aiuto!” Sibilò sentendo il viso
accendersi di vergogna.
Lo fissò
perplesso, prima di
fare una smorfia. “Non hai bisogno d’aiuto
… da me?”
Indovinò con un tono di voce che grondava sarcasmo.
“Certo
che sei proprio stronzo. Avrei dovuto farti riempire di legnate da quei
due,
sarebbe stata giustizia karmica!”
Michel si morse le labbra.
“Avrei
potuto cavarmela da solo.” Replicò sostenuto ma
rimpiangendo al tempo stesso il
tocco gentile di poco prima. Aveva paura di staccarsi da quel muro in
autonomia.
Credo
non mi reggerebbero le gambe.
L’altro si strinse
nelle
spalle, mentre l’espressione sarcastica non mutava di una
virgola. Doveva in
effetti offrire un ben misero spettacolo, pallido e tremante
com’era. “Se lo
dici tu.”
“Cosa…” Si passò la lingua
tra le labbra, sentendole aride. “… cosa ti ha
fatto
cambiare idea?”
Perché mi hai aiutato se ti ho
trattato
come spazzatura?
“A differenza loro e tua, io
sono
un essere umano decente.” Persino alla luce malaticcia e
lattiginosa delle
lampade all’acetilene il biondo dei capelli
dell’altro sembrava brillare,
enfatizzato dalla t-shirt scura e dai pantaloni dello stesso colore.
“Io…”
Era la prima volta si
trovava in una posizione di debolezza così smaccata di
fronte ad uno
sconosciuto ed era frustrante; la sua solita sicurezza elegante
sembrava essere
stata sovrastata dalla sensazione orribile di un coltello alla gola.
“ … volevo
ringraziarti.” Terminò, perché andava
detto. C’era un codice preciso quando
qualcuno rischiava la vita per salvare la tua, ed intendeva
rispettarlo.
Il biondo batté
le palpebre
sorpreso, prima di ghignare. “Allora quella bocca non serve
solo per sparare
stronzate razziste!” Gli si avvicinò di nuovo,
fino a che non furono a pochi
centimetri di distanza. Profumava di colonia costosa e di bucato
pulito. La sua
pelle aveva un odore inebriante.
Non
ha senso. Lo ha?
“Che ci facevi
qui?” Gli uscì
poco intelligentemente, ma era l’unica cosa sensata a cui era
riuscito a
pensare, avendo quel corpo vibrante e caldo premuto contro il suo.
“La
stessa cosa che ci facevi tu, avevo finito
le sigarette.” Si voltò verso l’emporio.
“Se è per questo ero anche alla festa
di quel tizio matto.”
“Non ti ho visto.” Deglutì quando si
specchiò nelle iridi dell’altro; erano
castane, ma c’era qualcosa di dorato all’interno,
qualcosa che aveva già visto,
e non in un letto.
Com’è
possibile? Prima di portarmelo a letto non lo
conoscevo, ne sono sicuro.
Dove
l’ho visto?
“Io
però ho visto te.” Ignaro
dei suoi pensieri, il Magonò piegò le labbra in
un sorrisetto indolente. “Sei
un pezzo di merda, ma sei uno schianto. Avrei voluto metterti le mani
addosso,
sai…” Si chinò per lambirgli
l’orecchio con le labbra. Bruciavano. “…
anche là
in mezzo, con tutta quella gente.”
Michel percepì un
principio
d’erezione premergli lungo i pantaloni e soffocò
un sospiro. Non era un
ragazzino alle prime esperienze eppure di fronte a quel tipo vi
regrediva
inesorabilmente. Avrebbe dovuto scostarsi, ringraziarlo formalmente e
andarsene
con una dolorosa erezione tra le gambe.
Proprio
no.
Afferrò una
manciata di stoffa
dalla sua maglietta e lo tirò giù per un bacio
violento e senza garbo.
L’adrenalina, lo sapeva come sportivo, giocava brutti
scherzi. L’altro soffocò
un ghigno sulla sua bocca, prima di ricordargli quando fosse
dolorosamente
bravo a mandargli il cervello in panne con la lingua, con le labbra e
con le
mani che gli afferrarono il basso schiena premendoselo contro.
Come esplose quel bacio
però
finì. Di colpo il biondo si staccò da lui,
tenendogli una mano sul petto.
“Scusa.” Disse con il tono di voce di un ragazzino
che stava combinando una
marachella e se la godeva fino all’ultima goccia.
“Non mi scopo i Purosangue.”
Cosa?
Non fece in tempo a capire
che
diavolo stava succedendo che l’altro gli aveva già
dato le spalle,
incamminandosi tranquillo in direzione di Diagon Alley.
“Tu!” Gli uscì
strozzato. “Fermati!” Il tono imperioso
suonò ridicolo alle sue stesse
orecchie.
Il Magonò si voltò quanto bastava per fargli
vedere che se la stava ridendo.
“Ce l’ho un nome, sai?”
“Milo.”
Ricordò. Come avrebbe
potuto dimenticarselo? La sua erezione aveva una memoria fotografica.
“Non puoi
lasciarmi così!” Poteva eccome, quindi
cercò di essere razionale. “Sei … lo
vuoi anche tu!”
“Certo che lo voglio, sono un ragazzo di sana costituzione e
tu sei provocante
come l’inferno.” Fece spallucce. “Non
è questo il problema.”
“Allora qual
è, di grazia?!”
Nessuno l’aveva rifiutato con quella tranquillità.
Mai.
Beh,
tranne Albus. Ma Albus non è mai venuto a letto
con me.
“Il problema non
è il tuo
corpo, maghetto.” Milo si picchiettò la tempia.
“È la tua testa che non mi tira
neanche un po’. Buona erezione!” Soggiunse allegro
prima di voltarsi e tirare
dritto.
Michel non credeva nelle
voci
interiori e, in generale, nella coscienza; ma per la prima volta in
vita sua
ebbe la distinta sensazione che la suddetta gli avesse dato del coglione.
****
“Tra poco dovremo
usare una
scacciacani.”
“Eddai, Rosie! Che festa è, se non si rischia il
collasso della struttura che
la ospita!”
“Tu hai passato troppo tempo con i miei cugini.”
Scorpius ridacchiò, perché sapeva che dietro il
cipiglio sconfortato della sua
fidanzata si nascondeva divertimento perché Rose Weasley
amava le feste
rumorose esattamente quanto lui. La strinse a sé, mentre i
Banshees facevano
ballare e cantare l’intero pub.
Would you write? Would you call
back baby if I wrote you a song?
I been gone but you're still my lady and I need you at home
“Mia amata
rosellina… Ho
passato tanto tempo anche con te.” Le baciò la
punta del naso facendola
ridacchiare, cullandola e sentendola sua
tra le braccia: sul serio, come diavolo potevano i novelli sposi aver
paura
dell’avvicinarsi della data del proprio matrimonio?
Okay,
quel giorno vomiterò e vorrò morire, ma ehi,
quella è ansia da prestazione, non c’entra niente.
L’altra fece un
sorrisetto,
posandogli la testa sul petto. “Mh, anche questo è
vero. A sentire tuo padre ti
ho irrimediabilmente rovinato.”
“Oh, sono sempre stato favoloso di mio.”
Scrollò le spalle. “Ci voleva però,
no?” Soggiunse. “Questa festa dico … Son
successe cose un po’ orribili e
destabilizzanti.”
Rose alzò il viso
e fece una
piccola smorfia. “È vero.”
Confermò. “Anche Teddy … con tutta
quella faccenda
del Mannaro.” Guardarono verso quest’ultimo che
chiacchierava con Bobby Jordan
e fidanzata. I capelli erano settati su un tranquillo celeste pastello,
ma
forse era dovuto al fatto che James ci stava passando oziosamente le
dita.
“Perché ho l’impressione che si stiano
profilando casini all’orizzonte?”
Mugugnò stringendosi a lui.
Le appoggiò una
guancia sulla
testa, sapendo che l’altra aveva una capacità
tutta particolare di fiutare i
guai. “Ssh, fingiamo che non stia accadendo. Carpe
diem, no? Godiamoci l’attimo o roba del
genere.”
“Molto Grifondoro, ma poco pratico.” Scosse la
testa.
“Aspettiamo il
matrimonio e
scappiamo a Honolulu?” Suggerì.
“Ancora, poco
fattibile.”
Sospirò alzando gli occhi al cielo con una
tragicità assolutamente comica. “Sai
che finiremo sempre per preoccuparci, io e te. E rimanere a raccogliere
i cocci
di questo branco di pazzi.”
“Siamo le uniche persone sane qui attorno.”
Confermò. “Il che la dice lunga.”
“Lunghissima.”
Scorpius le diede un bacio grato e innamorato, perché era la
festa dei suoi ventidue
anni e stringeva tra le braccia la strega più favolosa della
sala, anche se
aveva una famiglia che attirava guai come una calamita gigante e
sfigata.
Quando si staccò vide con la coda dell’occhio un
paio d’occhi bastonati e
capelli neri.
Tho,
parli di guai e spunta Prince.
Il ragazzo era a bordo della
pista e beveva la sua consumazione come se non la sentisse neanche,
immerso nei
suoi pensieri. Sembrava esser lì più per dovere
che per vero piacere.
Certo
che come non sa godersi la vita lui…
“Rosie, ti
abbandono un
attimo.” Avvertì l’altra.
“Vado a fare i miei doveri di padrone di casa.”
“Tralasciando che non è casa tua ma un
pub…” Aggrottò le sopracciglia e
seguì
la direzione del suo sguardo. “Hai invitato Sören?”
Inarcò le sopracciglia, mentre il pregiudizio le esplodeva
nello sguardo.
“Perché?” Preferì
però chiedere invece di accusare.
Ah,
la mia bambina sta imparando. Non la cambierei per
niente al mondo … ma certe sue eredità paterne,
per Merlino, sì.
“Perché
c’è, ed ignorarlo mi
sembra brutto tanto quanto avercela con lui.”
Spiegò stringendosi nelle spalle.
“Se ci perdi tempo due minuti capisci che è un
bravo diavolo. Ha solo
frequentati cattive compagnie, tutto qui.”
Rose esitò, avvertendo il pesante sottotesto che le aveva
appena sbattuto
addosso. Fece un sospiro, alzando le mani in segno di resa.
“Vado a controllare
che nessuno si spogli o spogli qualcuno. Lily potrebbe fare
entrambi.” Sbuffò
facendolo ridacchiare. “Mi devi ancora molti balli Malfoy!
Ricordatelo!” Lo
accusò puntandogli il dito addosso.
Scorpius non poté
fare a meno
di sorridere. “Tutta una vita di balli, mia Rosey.”
Quando fu certo di averla
fatta letteralmente sciogliere se ne trotterellò via.
Prince se parve sorpreso di
trovarselo davanti fece del suo meglio per non mostrarlo.
“Malfoy.” Sorrise
alzando il bicchiere. “Buon compleanno.”
“Grazie!” Come faceva qualcuno ad essere la
rappresentazione stessa della
mestizia quando c’era alcool gratis e musica dal vivo, per
lui rimaneva un
mistero.
Ma
del resto io sono un tipo che si fa trascinare dalle
cose. Anche troppo.
“Dov’è
la tua dama?” Chiese
scherzoso. “Ti avevo detto che ne potevi portare una, ma ehi,
tu hai
esagerato!”
L’altro lo
guardò preso in
contropiede, prima di capire lo scherzo ed arrossire come avrebbe fatto
un
dodicenne ritroso. C’era qualcosa di dolorosamente tenero in
quel tipo
dall’aria rigorosa. “Ho portato il mio
servi…” Si bloccò, scuotendo la testa.
“… il mio assistente personale. Ma adesso non so
dove sia.”
Scorpius a quel punto
ritenne
inevitabile passargli un braccio attorno alle spalle. Era un
po’ brillo, quindi
lo si poteva perdonare per la confidenza eccessiva, no? “Non
si passa una
serata del genere da soli! Hai preferenze?”
“Prego?”
“Sulla
ragazza!” Squadernò un
ghigno, sperando con ardore che nessuno del Clan Potter Weasley fosse
in
ascolto. Rose odiava che qualcuno le ricordasse che non gli si era
votato sin
da tenera età e che c’erano state altre
prima di lei. “Ci sono un sacco di tipe che conosco che
farebbero follie per il
tuo sguardo che conquista! Te le faccio conoscere, ed ehi, nessuna
pressione!”
“Il mio cosa…?” Mormorò il
tedesco sconcertato. “Malfoy…”
Tentò.
“Dai, è un momento di maschia condivisione, dammi
retta!” Chiocciò querulo
trascinandolo via dalla sua triste posizione di stasi. “Che
tipo di ragazza ti
piace? Bruna, Bionda, Castana, lentiggini, senza … alta,
bassa?” Snocciolò
cercando di non ridere all’aria disorientata
dell’altro. “Dai, qual è il tuo
ideale? Tutti ne abbiamo uno!”
Prince aggrottò
le
sopracciglia, come se ci stesse riflettendo. “Tu ce
l’hai?”
“La mia fidanzata,
mi pare
ovvio.” Rispose a colpo sicuro. “Beh?”
“Ce
l’ho, certo.” Alla sua
espressione incalzante capitolò con un sospiro.
“È …” Si
immobilizzò e Scorpius
sentì tutti i muscoli tendersi di colpo per poi rilassarsi.
“… Lilian.”
Lilian?
È la piccola Potter?
Poi realizzò che
la suddetta
ce l’avevano davanti, sorridente e con gli occhi brillanti e
accaldati. Avendo
passato la serata a saltellare sulla pista da ballo era uno spettacolo
piuttosto ovvio, ma comunque notevole.
Non.
Guardarle. Le. Tette.
“Ehi.”
Sorrise loro, sfumando
un ghigno nella sua direzione. Beccato. “Buonasera splendori.
Festa da sballo
Sy, i miei complimenti.”
“Sempre a
disposizione del
divertimento Piccola Potter.” Le diede il cinque.
“Dove hai lasciato il tuo
gigante delle Highlands?”
“A tenermi il posto, la borsa e da bere.”
Replicò con nonchalance, prima di
occhieggiare Sören con qualcosa che sembrava, incredibilmente
data la persona,
timidezza. “Hai un momento Ren?”
“Sì.”
Fu svelto a rispondere
l’altro. Era sollievo quello che sentiva nel suo tono di
voce? “Malfoy, ti
dispiace…”
“No, per niente!” Scosse la testa. “Devo
comunque andare a sedare la mia
ragazza. Credo di averla sentita urlare contro Dom a proposito di non
lanciarsi
da palco o qualcosa del genere.”
Lily gli rivolse un sorriso
radioso. “Grazie, a dopo!”
Vide i due andarsene e si
grattò la nuca, perplesso.
Ma
ha salutato la Piccola Potter o ha ammesso che è il
suo ideale di ragazza?
O
entrambi?
Romeo, Juliet, balcony in
silhouette
Makin o's with her cigarette, it's Juliet
Non riusciva a capire
perché
Lily fosse venuta a cercarlo.
Non che non gli facesse
piacere, tuttavia pensava che dopo il mortificante incontro di poco
prima non
l’avrebbe più rivista per l’intera
serata, se non di sfuggita, un lampo di
fiamme in un nugolo di volti senza importanza.
Una
cosa è vedersi da soli. Un’altra è
farmi interagire
con i suoi amici. Forse non vuole.
Lily si chiuse la porta del
locale alle spalle, appoggiandosi ad una delle vetrate coloratissime
con la schiena.
Si voltò nella sua direzione e gli sorrise.
“Ehi.” Esordì. “Mi sa che ti
devo
delle scuse.”
She'll lie and steal and cheat,
and beg you from her knees
Make you thinks she means it this time
Batté le
palpebre, confuso,
mentre pescava una sigaretta dal pacchetto. Dentro il locale la musica
suonata
dalla band stava sfumando in un’atmosfera intima, fatta per
le coppie e per i
discorsi a bassa voce.
“Per
cosa?”
“Per …
prima.” Esitò
lanciandogli un’occhiata incerta. Stava tentando di leggerlo,
riusciva a percepirlo
anche senza tenere le difese dell’Occlumanzia alzate.
“Scott mi ha fatto notare
che sono stata un po’ fredda.”
Scott. Scott Ross, il tuo ragazzo.
Si sforzò di fare
un sorriso
disimpegnato, mentre sentiva i polmoni gonfiarsi di fumo.
“Non mi è sembrato. A
proposito, mi ha fatto piacere conoscerlo, state bene
assieme.”
Scott
Ross.
Era un uomo fortunato e
sperava che se ne rendesse conto; perché riuscire ad
arrivare alla confidenza
di Lily, poterla tenere tra le braccia e farsi ammettere nel suo cuore
doveva
essere meraviglioso.
È
meglio per lui che se ne renda conto.
She'll tear a hole in you, the
one you can't repair
But I still love her, I don't really care
“Grazie, ce lo
dicono tutti.
Anche se la differenza d’altezza secondo me è un
po’ buffa.”
“Non ci ho fatto caso.” Aveva fatto caso ad altro;
al modo in cui lo scozzese
cingeva la vita morbida dell’altra, come le dita si posassero
con sicurezza
sullo stomaco piatto di lei.
Basta.
Smettila.
Strizzò gli
occhi, incolpando
il fumo che l’aveva infastidito. “Lily, non devi
preoccuparti … So che ci vorrà
un po’ prima che tu ti senta a tuo agio con me. Lo
accetto.” Fece una pausa,
sforzandosi mantenere un tono neutro. “Se la mia presenza
qui, stasera, ti ha
in qualche modo turbato…”
“Ren, falla finita.” Tagliò corto
brusca. “Hai il diritto di divertirti alla
festa di Scorpius come ce l’ho io e mi fa piacere che tu sia
qui, non è questo
il punto.” Si passò una mano trai capelli,
scoprendo il collo. Sören sentì la
salivazione azzerarsi e si diede dell’imbecille. Quante volte
l’aveva vista
fare quel gesto cinque anni prima?
Cinque
anni fa lei era una bambina e tu un disadattato.
Non sapevi neanche cosa volesse dire approcciarti ad una donna. Starci
assieme.
Adesso è diverso. Adesso puoi immaginare come sarebbe
chinarti e…
Inspirò, pregando
Merlino che
l’altra fosse troppo concentrata su di sé per
badare a lui. Per fortuna
sembrava di sì, perché si morse un labbro e lo
guardò di traverso. “Tu soffri
di incubi, vero?”
La domanda fu come una
doccia
fredda. “Sì.” Mormorò
confuso. “Sì, ne soffro da anni purtroppo.
Perché me lo
chiedi?” Seppe la risposta non appena ebbe formulato la
domanda. “Lily…”
“Sono tornati.” Buttò fuori stringendosi
le braccia attorno al corpo, quasi
l’aria tiepida della sera si fosse fatta gelida.
“Stamattina … sono stata poco
bene, mettiamola così.”
Fu come se qualcuno gli
avesse
tirato un pugno allo stomaco. “Per via del
black-out?”
“Penso di
sì.” Fece un sorriso
nervoso. “Il buio … e poi come se non bastasse
sono anche stata aggredita.” Si
morse un labbro. “Scusa.” Scosse la testa,
allontanandosi di qualche passo.
“Merlino, scusa … Non so neanche perché
te l’ho detto. Non sono affari tuoi, lo
capisco e…” Cominciò a parlare come un
fiume e persino dopo cinque anni
ricordava come fosse il suo modo di mettere una barriera contro il
mondo che le
si stringeva addosso.
“Lilian.” Eliminò la distanza fisica tra
di loro abbastanza per non essere
invadente, ma neppure distante e gettò la sigaretta a terra
perché forse
l’odore poteva infastidirla. Quando fu certo che non sarebbe
schizzata via, le
posò una mano sulla spalla coperta dal leggero tessuto
luccicante del suo
abito. “Lily, guardami.”
It's better to feel pain, than
nothing at all
The opposite of love's indifference
Altro pugno nello stomaco.
Gli
occhi della sua piccola amica erano grandi e spaventati. La sola idea
di aver
contribuito alla sostanza di quegli incubi gli faceva venir voglia di
spaccare
qualcosa a mani nude. “Stai dicendo delle
sciocchezze.” Bisbigliò, perché certe
cose andavano dette a bassa voce. “Sono
affari miei. Sei mia amica, sei la prima amica che ho avuto al
mondo.” Ed era
vero, ed era una cosa che poteva dire, giusto? “Quello che ti
fa star male sarà
sempre una mia preoccupazione. Puoi dirmi tutto.”
Lily piegò le
labbra in un
sorriso piccolo e delicato, niente a che vedere con quelli che
squadernava a
beneficio delle masse. Amava quel sorriso, e pensava di averlo perso.
“Ren il
cavaliere…” Sospirò divertita.
“È così che incanti le
ragazze?”
Se
dipendesse da me? Soltanto te. Ci sei sempre stata
solo tu.
Era come avere un ferro
incandescente ficcato nel cuore. Essere innamorati, per quanto ne
sapeva lui,
era tutto lì.
Per
te, mio caro, sarà sempre tutto qui.
Perché
l’amava. Cinque anni
prima non l’aveva capito, non era arrivato a pensare che il
grumo di sentimenti
che gli si era incollato addosso come una febbre fosse amore.
L’aveva
realizzato quando aveva capito che nessuna donna, per quanto bella,
intelligente e amorevole avrebbe mai potuto battere
l’immagine di Lily che
aveva scolpita nel cuore. L’aveva cercata nelle braccia di
altre, le prime
volte, prima di realizzare quanto non servisse a
niente.
Nessuna
è lei. E tu puoi avere chiunque … tranne lei.
Lily dovette leggere
qualcosa
nella sua espressione perché gli mise una mano sul braccio.
“Scusa, dico un
mucchio di sciocchezze quando sono nervosa. C’è
qualcosa, vero? Anche tu
stasera mi sembri un po’ fuori fase.” Per fortuna
con i suoi poteri di LeNa non
poteva arrivare fino a quel luogo
nella sua testa. Quel posto segreto che aveva custodito per anni
l’affetto di
suo padre e che ora proteggeva anche lei. “È per
il lavoro?”
“Non posso dirti
come stanno
andando le indagini, lo sai.”
L’amica fece una
smorfia
amara. “Stanno diventando pericolose, vero?”
“Lilian,
non…”
“Io ti ho raccontato dei miei incubi, tu dimmi i
tuoi.” Il tono era acciaio
adesso, come lo era la sua espressione. “È questo
che fanno gli amici, Ren.”
Vuotò il sacco.
Non riuscì a
frenare la corsa delle parole, del terrore che provava
all’idea che la strada
di Johannes fosse tornata ad incrociare la sua. Della paura che aveva
di dover
vedere il viso di un uomo che era il simbolo stesso dei suoi sbagli.
Se ne pentì nel
momento stesso
in cui finì di parlare; Lily era stata una vittima, e dai
soprusi di quell’uomo
orribile e di suo zio non si era ancora ripresa.
Te
l’ha appena
detto idiota. Perché le hai
vomitato
addosso i tuoi problemi?
Non
ne ha abbastanza per colpa tua?
“Sören.”
Si rese conto di aver
abbassato lo sguardo solo quando mise di nuovo a fuoco il mondo. Lily
gli aveva
circondato il viso con le mani e premeva le dita fresche sulla sua
pelle
accaldata. “Va tutto bene.”
“Non va tutto
bene.” Come
poteva?
“No, è
vero, va da schifo, ma
ora sei tu che devi guardare me.” Obbedì e vide
che non sembrava arrabbiata, paventata
o tradita. Lo guardava … era compresione quella? Lo capiva?
Era sempre stata la
più forte
tra loro due.
Era uno
schifo. Lily sentiva il cuore minacciarle di esploderle nel petto.
John
Doe.
Era spaventata, negarlo
sarebbe
stato stupido. Spaventata per James, Scorpius e Bobby … per
Sören e chiunque
avrebbe dovuto avere a che fare con quel mostro. Ma
non importava quello che provava lei,
nella solitudine dei suoi pensieri.
“Siamo proprio
messi male, io
e te.” Sospirò passandogli le dita trai capelli:
quando non erano imprigionati
in un litro di brillantina Purosangue erano morbidi e lisci.
L’altro socchiuse
gli occhi, gradendo il contatto. Quando sembrava che il mondo ti
crollasse
addosso era un modo per stare meglio.“Se facciamo una prova,
forse abbiamo
paura anche delle nostre stesse ombre.”
“Lily…”
“Ma non importa.” Inspirò.
“Non importa, perché siamo più forti di
Johannes e
di quello che ci succede quando ci addormentiamo, giusto? Abbiamo
più coraggio
di così.”
Aveva imparato in quei cinque anni che chiedere aiuto era sensato, mai
stupido.
Lasciare Sören a gestire da solo quel carico emotivo sarebbe
stato crudele,
insensato, quando l’altro pronto a farsi carico del suo.
Non
ho paura di te. Non ho mai avuto paura di te. Ho
paura delle stesse cose di cui hai paura tu.
Ho
paura con te.
Realizzarlo faceva tutta la
differenza del mondo. “Non … non lo so.”
Le confessò. “Credo invece di essere
un coda…”
“Non dirlo.” Lo fermò perché
quella parola era orribile, era un insulto a tutto
ciò che avevano passato. “Non azzarti a darti del
codardo davanti a me. Non con
quello che hai fatto.”
“Cos’ho fatto?” Fece una smorfia amara.
“Cose orribili.”
“Mi hai salvata.” Sospirò.
“Alla fine, Ren, mi ha salvata.”
Lasciò che le parole si depositassero tra di loro, che
prendessero forma e
importanza. Poi gli mise le mani sulle spalle, stringendo la presa.
“Adesso ho
bisogno di un abbraccio.” Lo avvertì
perché era una cosa di cui in realtà
avevano bisogno entrambi. Il modo in cui la strinse di rimando fu una
risposta
piuttosto ovvia.
“Grazie.”
Lo sentì mormorare
trai suoi capelli. Il respiro caldo le diede qualche brivido che
classificò con
certezza come logico. Era un abbraccio bello, saldo e Lily si
trovò a inspirare
l’odore della pelle dell’altro. Era assurdamente
confortante.
“Siamo migliorati
nel contatto
fisico.” Lo prese in giro per stemperare
l’atmosfera. “Una volta mi abbracciavi
con le braccia ad un miglio di distanza l’una
dall’altra!”
Sören
riuscì persino a
sorriderle quando si staccarono. “Non volevo fare brutta
figura per quando ti
avrei rivista.”
Morgana, è adorabile.
Stemperò il
desiderio di
abbracciarlo di nuovo – piccoli passi, era importante
– con una scrollata di
spalle. “Ti meriti un Oltre Ogni Previsione.” Si
voltò verso l’entrata. “Per
farmi perdonare di essere stata un’amica terrificante posso
rimediare offrendoti
una sedia, un drink e un po’ di chiacchiere assolutamente
vuote?”
Sören stavolta
sorrise sul
serio e diavolo, se gli si illuminava lo sguardo.
So keep your head up, keep your
love
Keep your head up, my love…
****
Note:
Non mi sembra vero, ho finito ‘sto capitolo! XD Devo
ammettere che ci voleva,
credo sia un buon punto di relax e anche di svolta.
La canzone che fa da
apripista
è questa.
Ho creato una
playlist con le canzoni della festa, che comunque
sono le seguenti.
Grace,
The
View
How Long, The View
Square Peg Round Hole, Wakey!Wakey!
If I Had a Gun, Noel Callagher’s High Flying Birds
Only The
Horses, Scissors Sisters
Flapper
Girl, The Lumineers
Stubborn
Love, The Lumineers.
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Capitolo 17 *** Capitolo XVI ***
Capitolo XVI
It
doesn't matter what you did, who you were
hanging with
We could stick around and see this night through
(Young
Folks, Peter Bjorn &
John)
Londra,
Mattina.
Casa
di Roxanne e Dionis Radescu.
Svegliarsi il giorno dopo
una
festa come quella di Scorpius era sempre piuttosto orribile.
Lily si svegliò
infatti con
un’emicrania formato famiglia che le rimbalzava da sinapsi a
sinapsi e con il
braccio pesante del proprio ragazzo che le bloccava la respirazione.
Scalza, sgusciò
fuori dal letto tentando di non svegliare l’altro –
anche se a giudicare da come
era inerte avrebbe potuto innescare uno degli scherzi di suo zio George
senza
avere reazioni. Fu dunque in pieno stordimento che scivolò
lungo il corridoio
della gigantesca casa di Roxanne e Dionis alla ricerca di qualcosa da
mettere
sotto i denti.
Salato.
Ho bisogno di cibo salato e succo di arancia.
Litri. Morgana, la mia testa…
Non ricordava quanto avesse
bevuto, ma per dormire della grossa dati i suoi recenti
incubi…
…
molto. Limitiamoci al molto. Al locale e poi qui. Lily,
cattiva cattiva ragazza.
Ricordava che la festa, come
tutte quelle che coinvolgevano il suo multiforme clan, era finita a
casa di
Roxanne, quella tra di loro con più metri quadrati a
disposizione e pochi
problemi ad ospitare gente alticcia e schiamazzante.
Ehi,
stiamo parlando della figlia di George Weasley, il
magnate dello scherzo.
Aveva anche vaghi ricordi
del
fatto che Sören li avesse seguiti di buon grado dopo aver
ritrovato Dionis, con
il quale si era salutato amichevolmente.
Dion
è sempre stato dalla mia parte se facevo il suo
nome. In effetti, a ben pensarci, un po’ si somigliano.
Rigorosi, bravi
ragazzi.
Avevano quindi passato il
post-festa sul grande divano del salotto a parlare e dare fondo al
carrello
della spesa – sul serio, un carrello
– di bevande Babbane che Dominique aveva Materializzato dal
24/7 più vicino. A
dirla tutta Sören aveva cercato del whisky e si era versato
solo quello, ma non
l’aveva giudicato nonostante fosse un alcolico da vecchietto:
ognuno aveva i
suoi modi per concludere la serata.
Era stato strano, ma bello;
complice forse l’atmosfera rilassata e la notte fonda,
nessuno della cerchia
ristretta dei sopravvissuti al party era sembrato a disagio o
infastidito dalla
presenza del tedesco.
È
stata un bel fine serata … Sul serio.
Solo che non aveva memoria
di
come fosse veramente finita.
L’ultima
cosa che ricordava era di essersi accoccolata sul divano, cullata dalla
voce dell’amico
e di Scott, quest’ultimo seduto a terra, che discutevano di
chissà quale libro
complicato che entrambi avevano apprezzato. Aveva poi sprazzi di
immagini dove
qualcuno la prendeva in braccio e la portava a letto, sfilandole le stilettos con cura: a giudicare da chi
si era ritrovata affianco quella mattina doveva essere stato Scott.
Entrata in cucina fu
graziata
dal profumo di pancetta croccante e pane tostato. Roxanne in vestaglia,
capelli
raccolti e soprattutto cucinante era una visione paradisiaca.
“Meravigliosa
cugina.”
Borbottò tendendo le mani. “Ti amo.”
“Buongiorno Rossa.” Rispose senza distogliere gli
occhi dalla cottura. “Sei la
prima.”
“Ad amarti? Dion
dissentirebbe.”
“Scema.”
Sbuffò. “Intendevo a
venir qui … Se non conti Malfoy.”
Indicò qualcosa a terra e Lily, con una
risatina, notò il biondo addormentato; stava russando della
grossa, abbracciato
a quello che sembrava un enorme cane di peluche.
Da
dove diavolo l’ha preso? Meglio non chiedere.
“Se
sono la prima cosa vinco?” Chiese invece
dirigendosi verso lo scaffale della dispensa dove era posto un perenne
Incanto
Refregerante – era come avere una versione magica di un
frigo. Vi tolse la
caraffa di succo d’arancia e meditò se scolarsela
senza la mediazione di un
bicchiere.
“La
possibilità di fare
colazione in pace prima che i miei ormoni di donna incinta abbiano la
meglio e
vi cacci tutti fuori di casa.” Replicò
l’altra con una serietà preoccupante,
prima di stemperarla nel famigerato ghigno paterno. “Hai una
faccia orribile.”
“Pozioni per
alleviare le
conseguenze del mio comportamento dissoluto?”
“Prima colazione,
poi
pozione.” Recitò automaticamente e
si
scambiarono un sorriso; la citazione era tutta di nonna Weasley.
“Dovresti vedere Scotty comunque.”
Esordì dopo qualche attimo di silenzio
passato a bere salvifico succo. “Credo rimarrà
clinicamente morto fino all’ora
di pranzo. Per essere così grosso è un peso
piuma, lo immagineresti mai?” Scivolò
su una sedia, dando un calcetto leggero a Scorpius che
grugnì, rigirandosi con
uno sbuffo. “Bella festa comunque.”
Roxanne confermò con un cenno della testa. “Avrei
voluto godermela di più.”
Chiuse il fornello con un colpo della bacchetta e spedì la
padella a servirle
la colazione. “Essere
l’unica strega
sobria della serata mentre persino tuo marito ormai risponde nella sua
lingua
madre?” Scosse la testa con una smorfia. “Non
è divertente.”
“Sì, mi ricordo che ad un certo punto lo capiva
solo Ren. Ha dovuto fare da
traduttore.” Aggrottò le sopracciglia.
“A proposito, è ancora qui? È rimasto a
dormire?”
“È
stato l’ultimo ad
andarsene, prima ci ha dato una mano a mettere ordine nel caos che
avevate seminato.”
Rispose puntellando le mani sul ripiano dei fornelli.
“È un bravo ragazzo.”
Osservò.
Lily sorrise, sentendo un
piccolo, interno moto di trionfo.
L’altra notando la
sua
espressione sbuffò. “Okay, avevi
ragione.” Concesse. “Dion lo adora. Finalmente
qualcuno che sembra esser piombato come lui da un romanzo di cappa e
bacchetta.”
“Questi cavalieri
senza paura.
C’è da cadere fulminate, vero?”
Roxanne fece un mezzo
sorriso
schivo, il suo modo per mostrarsi innamorata senza venir meno alla sua
fama di
strega tutta di un pezzo. “Tu ne sai qualcosa.”
Ritorse, ma lo fece senza
troppi pensieri quindi Lily scrollò le spalle e le rispose
con lo stesso
sentimento.
“Già.”
Diede una forchettata
di pancetta e la masticò con voluttà
perché era ciò di cui aveva bisogno.
“Scott ha dormito
con te?” Le
chiese poi con uno strano tono di voce che Lily non riuscì
ad inquadrare.
Poteri
di LeNa e post-sbronza non vanno
d’accordo.
“Dove vuoi che
abbia dormito?”
Si strinse le spalle. “ È stato lui a portarmi a
letto.”
“Veramente no, non
ti ricordi?
È stato Sören, Scott ti ha seguita dopo.”
Lily ricollegò di
colpo le
braccia salde, ma non massicce che l’avevano cinta nel
dormiveglia, come le
mani bollenti che le avevano sfilato le scarpe per metterle
ordinatamente
accanto al letto – Scott le avrebbe lasciate sparse per la
stanza senza
preoccuparsene troppo, disordinato come e quanto lei.
“Oh.”
Non trovò di meglio da
dire. “Gentile da parte sua.”
“Gli sei finita sulle gambe mugolando che avevi sonno, che
avrebbe dovuto
fare?”
Lily pregò un
pantheon di
divinità magico-babbane di non star arrossendo,
perché il calore delle sue
guance e l’espressione sbigottita di sua cugina non erano un buon segno. “Che
altro ho fatto?” Chiese con tutta la
nonchalance che poteva simulare.
Oddio,
Scotty mi ucciderà. Cioè, non è
geloso, e lo sa
che divento espansiva quando bevo, però …
No,
chi prendo in giro, non è per Scott. È per
Sören.
Chissà cosa avrà pensato!
Roxanne
indossava un’espressione ilare
che pochi erano in grado di farle fare: lei e le sue cavolate ne
avevano la
palma. “Niente di tremendo.” La consolò.
“Era solo la tua solita sbronza con
carenze affettive.”
“Che avrei dovuto
evitare con
un ragazzo che non è il mio
ragazzo.”
Borbottò trai denti finendo quello che rimaneva del suo
succo. “Morgana, che
imbecille!”
Roxanne si strinse nelle spalle, mettendo poi a cuocere uno sterminato
esercito
di uova: avendo vissuto per un periodo della sua vita con quel goliarda
di
Freddy Junior aveva imparato a gestire l’alba del giorno dopo
meglio di
chiunque altro e dai rumori che si sentivavano per la casa –
imprecazioni e
lamenti - il resto della truppa si stava svegliando. “Da
quando ti fai
problemi?” Le chiese. “Perché mi ricordo
che la leggendaria pazienza del tuo
scozzese emerge soprattutto in questi contesti.”
“Ne parli come se
mi
ubriacassi e mi buttassi addosso a sconosciuti tutti i fine
settimana!”
“C’è stato un periodo in cui
succedeva.” Fu la replica impietosa. E veritiera.
“Da quando stai con Ross no, è vero, ma Prince non
è uno sconosciuto.”
“No.”
Seppellì la testa tra le
braccia in cerca di sollievo. “Certo che non lo è.
È proprio questo il punto.”
Siamo
amici … E dovrà accettare anche questo lato di
me, credo.
…
Dovrei mandargli un Gufo per spiegarglielo?
Era straniante fare quel
genere di pensieri; aveva amici maschi, ma non aveva mai dovuto
preoccuparsi
del fatto che il suo comportamento avrebbe potuto esser visto come
sconveniente
da uno di loro.
Forse
perché la metà sono tuoi parenti mentre gli altri
hanno un rapporto blindato con le loro ragazze. O ragazzi.
Il tedesco non si ascriveva
a
nessuna di quelle categorie; era un amico, puro e semplice.
E
questo rende tutto più complicato? Forse. Anzi, mi sa
di sì.
“Non dire
niente.” La avvertì
percependo che stava per arrivare una delle ramanzine per cui la cugina
era
famosa. “Perché so
che non mi
piacerà.”
“Stai facendo
tutto da sola.” Fu
la perfida replica. “Dico solo … Scott deve
preoccuparsi?”
Eh?
“Eh?”
Ripetè acutamente. La
risposta le fu risparmiata dall’ingresso scaglionato del
resto degli ospiti,
una piccola armata di zombie barcollanti e poco comunicativi.
Scott, l’ultimo a
chiudere la
fila, le si sedette accanto, con un’aria così
terminale che non ebbe cuore di
farci ironia. Gli versò piuttosto una dose massiccia di
caffè per passargli poi
le dita trai capelli schiacciati dal cuscino. “Buongiorno
bellissimo.” Non potè
fare a meno di motteggiare. “Come ci sentiamo?”
“Domanda di
riserva?” Borbottò
strofinandosi le mani sul viso. “La prossima volta toglimi la
birra di mano,
sul serio piccola. Costringimi fisicamente
a non bere.”
Rise sollevata perché sembrava che l’altro non
avesse registrato nulla di
sconveniente la sera prima.
O
mi terrebbe il muso.
Potere in post-sbronza o
meno,
Scott era sempre meravigliosamente semplice da leggere; era una delle
cose più
amava di lui. “Promesso ragazzone.”
“Tu non dovresti
neanche
essere qui e in ‘ste condizioni, c’hai dieci anni.
Gail e Gus dovrebbero
mettere un Incanto della linea dell’età
all’ingresso del pub … Che diavolo.”
Diceva
intanto Hugo rivolto a Meike, la quale esibiva degli strategici e
preoccupanti
occhiali da sole.
“Ma falla finita,
sto messa
meglio di voi vecchiacci.”
“E gli occhiali da
sole?”
“Sono
fotosensibile.” Replicò
con un sussiego che sembrava aver copiato da Tom, mentre si sedeva
afferrando
pezzi di toast a manciate. “E se lo dici a vati
ti tolgo il saluto.”
“Dai cugino,
abbiamo bevuto
succo di zucca fino a quando non ha schiodato assieme a Sissy. Non
rovinare
tutto!” Le fece eco Louis sprofondando le dita nella massa
incolta dei propri lunghi
ricci prima di reclinare la testa sullo schienale della sedia.
“Sono troppo
bello per morire Maledetto da quel paz-ahia!”
Piagnucolò quando la serpeverde gli tirò uno
schiaffò velenoso sulla nuca.
“Sta’ al
tuo posto,
tassoscemo.”
“Sei perfida Serpico, mi fa male la testa!”
“Perché,
ne hai una?”
“Meike
è minorenne e Tom, che
Morgana abbia pietà delle nostre anime, è il suo
tutore legale quindi dovrebbe
saperlo.” Sospirò Rose
tenendosi una mano sulla fronte ed ignorando il bisticciare dei due
adolescenti.
“Non è
già abbastanza brutto
svegliarsi così?” Sbuffò Hugo.
“Possiamo evitare?”
“Infatti. Meike
non è mai
stata qui.” Borbottò mentre la quindicenne annuiva
allegramente. “Sul serio, parliamo
piano, mangiamo, prendiamo le dovute pozioni e fingiamo di non stare
morendo,
okay?” Si guardò attorno e poi
localizzò Scorpius con un lamento scornato.
“Fatemi capire, il mio promesso sposo è
l’unico demente che dorme per terra?”
La risposta di Dionis fu in
rumeno e nessuno si prese la briga di tradurla.
La colazione si svolse in un
ruminare di mascelle e qualche commento o battuta smorzata dando
così la
possibilità a Lily di distrarsi dalla conversazione avuta
mentre la WWN
trasmetteva a basso volume un successo piuttosto azzeccato.
Sunday morning and I'm falling
I've got a feeling I don't want to know
Perché la mattina
del giorno
dopo si doveva declinare solo così.
Non
pensando.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Casa di James Potter e Ted Lupin, mattina.
James rotolò sul
fianco e
scoprì che tutto quello che rimaneva di Teddy nel loro letto
era la forma sul
cuscino. Aprendo gli occhi realizzò che il tatto non
l’aveva ingannato: si era
svegliato da solo.
Ma
che cazzo…
Perplesso si rese anche
conto
che la sveglia digitale che aveva comprato al professorino
per buttarsi giù dal letto durante l’anno
scolastico
segnava le nove di mattina.
Da
quando Teddy si sveglia prima delle undici? Siamo in
estate!
Era una faccenda bizzarra e
in
quanto tale, da auror, era suo dovere investigarla. Si alzò
e beatamente senza
vestiti cominciò a girare per la casa alla ricerca del
proprio compagno; c’era
qualcosa di glorioso nel poter stare con le chiappe al vento senza
doversi per
questo beccare reprimende materne o battutacce fraterne.
Adoro avere
una casa mia.
La sera prima era stata
…
rilassante. Aveva evitato di ingozzarsi di alcolici come Malfoy e i
cugini e si
era dedicato completamente all’altro, ignorando i richiami
alla goliardia
sfrenata che provenivano da ogni dove; aveva avuto i suoi momenti pazzi
e
sapeva quando rinunciarvi quando era il caso.
I suoi sforzi erano stati
ripagati, dato che l’altro era riuscito finalmente a
togliersi le ombre dallo
sguardo e persino a ridere e divertirsi.
Trovò Ted in
salotto, di
fronte allo specchio vicino all’ingresso, preso ad
allacciarsi la cravatta,
accessorio che metteva solo in rarissime occasioni.
Okay.
Eh?
L’intera storia
stava assumendo
contorni inverosimili.
È
in vacanza! Che sta succedendo?
“Teddy!”
Lo richiamò all’ordine. “Stai
uscendo?”
L’altro si
voltò e per un
secondo, mentre lo guardava in tutta la sua ovvia
bellezza statuaria, i capelli sfumarono nel rosso. Poi si
schiarì la voce. “Vestirti
immagino non sia contemplato…” Osservò.
“Buongiorno Jamie.”
“Buongiorno.” Replicò urbanamente.
“Fa troppo caldo e non abbiamo ospiti che
possa traumatizzare con la mia vigorosa virilezza.”
“Virilità.”
Lo corresse reprimendo un
sorrisetto da professorino stronzo. “Ti ho lasciato la
colazione in caldo, uomo
virile.”
“Sarà il caso … Dove stai
andando?” Si avvicinò e gli afferrò la
cravatta, sia
per stuzzicarlo sia per impedirgli seriamente di mettere piede nel
camino, visto
come lo occhieggiava irrequieto. “Odio svegliarmi e non fare
sesso la domenica.
È una bestialità!”
“Lo dici trecentosessantacinque giorni
l’anno.” Gli fece notare passandogli un
braccio attorno alla vita e baciandogli la testa affettuosamente. Il
modo in
cui gli passò un dito sul tatuaggio lungo il collo fu invece
molto meno innocente. “Non
volevo
tirarti giù dal letto, so che è
presto.” Alla sua occhiata perplessa, aggiunse.
“Ho un appuntamento al Ministero.”
“Di domenica? Chi
è l’idiota
che lavora di domenica?”
“È un favore che ho chiesto ad un mio ex-compagno
di Casa.” Gli spiegò.
“Malcolm Whitby, ti ricordi?”
“L’ex di
Lenny?” Aggrottò le
sopracciglia ma non espresse commenti, anche se per colpa di quel
coglione
dalla mascella enorme cinque anni prima avevano quasi mandato al
diavolo ogni
ipotesi di convivenza; era amico dell’altro ma morisse se
riusciva a farselo
piacere. “A proposito di cosa?”
Ted lo guardò
impaziente, ma
la sua incapacità di eludere una domanda ebbe la meglio
ancora una volta. “Devo
parlare con un funzionario della Divisione Bestie per la faccenda di
Ben.
Voglio scoprire qualcosa in più … Sai che ogni
Mannaro è registrato al
Ministero, no?”
James si dovette mordere la lingua per non fare una smorfia scontenta;
Ted
aveva passato una bella serata grazie a lui, sì, ma non si
era affatto tolto quel peso dalle
spalle.
Lo
ha solo posato per un momento. Cavolo.
“Vuoi che ti
accompagni?”
Tentò perché anche se tutto quello che voleva
fare era divorare la colazione e
strisciare di nuovo a letto non poteva sottrarsi ai suoi doveri di
compagno
suppportivo.
L’altro scosse la
testa. “No,
fa’ colazione e torna a letto … Potrei dover
aspettare un bel po’ senza fare
niente. So che odi le sale d’attesa.”
“Con tutta la mia dannata anima.” Convenne
sollevato che l’altro avesse capito
l’antifona. “Sicuro?”
“Sicuro.”
Gli diede un leggero
pizzicotto sul sedere che lo fece sobbalzare infastidito e gli piacque
in egual
misura. Il dannato Tassorosso lo sapeva.
“Cercherò di sbrigarmi, te lo prometto.”
“Ti conviene,
perché questo …”
Si indicò in basso in maniera impertinente
“… non resterà in vetrina a
lungo.”
L’altro
inarcò le
sopracciglia, mentre gli occhi sfumavano – letteralmente dato
che era un
Metamorfomago – in una sfumatura nera e densa. “La
tua propensione al nudismo
non è cosa di oggi però.”
Constatò. “Problemi?”
“Non di quelli
spiacevoli.”
Ridacchiò prima di baciarlo. James sapeva che tutta quella
tranquillità d’animo
apparente nascondeva in realtà un lavorio interiore da
paura, ma preferì glissare.
Se
gli rompessi l’anima non sarei tanto diverso da una
fidanzatina rompicoglioni. E se c’è qualcuno che
lo è, qua, nossignore, non
sono io.
…
Non mi facesse preoccupare ci crederei di più, cazzo.
Lo lasciò andare
dandogli un
pugno giocoso sulla spalla. “Tempo contato, Teddy. Torna a
casa presto.”
Che razza di domenica era,
altrimenti?
****
Diagon
Alley, Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Mattina.
Albus sorrise quando
sentì le
labbra di Tom sfiorargli la nuca in un bacio leggero. Nel stato di
dormiveglia
in cui si trovava al mattino si scopriva spesso ad apprezzare quanto
ormai
fosse naturale levare la mano e sentire la guancia liscia di rasatura
dell’altro.
“Se è
l’alba ti ammazzo…” Bofonchiò
comunque, inarcandosi in un delizioso sfregamento contro il tessuto
spugnoso
dell’asciugamano che l’altro indossava.
“È domenica, è il mio giorno
libero.”
“L’unico giorno in cui puoi celebrare la tua
accidia.” Replicò con un mormorio
di una significativa ottava più bassa. Quel tono era capace
di mettere sull’attenti
ogni suoi singolo ormone. E altro.
“Svegliati
e renditi utile. Sono già le nove e mezzo.”
Le
nove e mezzo? Di domenica non esistono
le
nove e mezzo.
“Non sono la sua geisha, Signor Dursley.”
Sbuffò schiacciando il viso
contro il cuscino. “Dico sul serio, dovrai far meglio di
così per convincermi
ad alzarmi.”
La risposta – e
dovette
ammettere che se l’era cercata – fu una mano
congelata che gli si piazzò sul suo
povero e sensibile interno coscia. Con uno schizzo fu a sedere.
“Tom! Come diavolo fai ad
avere le mani
gelate a Luglio?”
Piagnucolò
tirandosi le coperte al petto come una scolaretta pudica e
traumatizzata.
Il bastardo, in tutto il suo
splendore di pelle pallida ed espressione malvagia,
sogghignò con la pigrizia
di un gatto assopito sul davanzale. “Cattiva
circolazione?”
“Spero tu muoia
d’infarto
allora.” Grugnì tirandogli un cuscino fiaccamente.
“Di solito la gente sveglia
la propria dolce metà con una colazione a letto! Non con una
mano da cadavere
tra le gambe!”
L’altro inarcò le sopracciglia. “Io non
sono la gente.”
Osservò. “Comunque hai ragione. Ho fame.”
“Dov’è Mei? Non ti ha preparato
qualcosa?”
“Ieri sera
è rimasta a intossicarsi
a casa di tua cugina Roxanne in compagnia di quel debosciato di
Louis.” Spiegò contrariato,
come se la quindicenne gli avesse fatto un torto personale a non
essersi
presentata padella alla mano al suo risveglio.
Chioccia
pretenziosa.
Albus sospirò,
liberandosi
delle coperte e dirigendosi verso il bagno. “Metti su almeno
il the, vuoi?” Lo
apostrofò. Aprì poi l’acqua calda della
doccia, liberandosi con un paio di
lanci mirati della maglietta e dei boxer. Sogghignò quando
sentì un ringhio
provenire dalla stanza, la cui porta era stata lasciata aperta; Tom
odiava che
seminasse roba in giro quanto odiava che gli finisse in testa.
Centro.
Non fece in tempo ad entrare
nel vano doccia che si sentì voltare e schiacciare contro il
muro opposto. Con
una risata trai denti intrecciò le dita trai capelli lisci
dell’altro, di nuovo
bagnati dal getto d’acqua che scorreva su di loro.
“Non avevi
già fatto la
doccia?” Chiese tirandoselo contro. “Non ti senti
mai un po’ maniaco ad
insidiarmi così?”
“No.” Fu
la risposta immediata
come immediato fu il passargli le mani lungo il basso schiena,
esplorando e
causandogli un gemito di intenso apprezzamento. “Non quando
sei così
consenziente.”
Touché.
Non era sciocco,
né si
riteneva tale; aveva capito che il comportamento di Tom in quei giorni
era
sintomo di qualcosa.
L’attacco
al San Mungo. Sì, certo, anche. Ma non solo.
La testa della
metà della sua
anima era un susseguirsi rutilante di piani, congetture e modi per
volgere a
favore ogni situazione: era fatto così sin da bambino.
Calcolatore
come un politico di professione …
Non si sarebbe stupito se al
momento si fosse trovato nel bel mezzo di una delle sue macchinazioni,
se
non il suo centro.
Ma
finché questi sono gli effetti, perché
lamentarsene?
Aveva imparato che cercare
di
indagare nelle intenzioni dell’altro fosse spesso sterile,
oltre che nocivo
dato che Tom, se pressato in richieste di spiegazioni, finiva sempre
per
giocare in difesa.
Me
lo dirà. O se lo lascerà sfuggire ed io lo
capirò.
Stessa cosa.
“Perfetto,
moriremo di fame…”
Mormorò soffocando un ansito quando la lingua
dell’altro scivolò lungo il
collo, sulla clavicola e sempre più in basso.
“Questo o un giorno finiremo per
divorarci a vicenda.”
Lo sentì sorridere. “Come adesso?”
Il rumore di qualcosa che
sbatteva contro la finestra del bagno attirò la sua
attenzione mentre era preso
a cercare di dare una forma passabile ai suoi capelli dopo che
l’altro ci aveva
passato le dita innumerevoli volte.
Sesso
mattutino. Grandioso, ma tremendo per i miei
capelli.
Tom, ora impeccabilmente
vestito, gli lanciò un’occhiata mentre asciugava
meticoloso la doccia, onde
evitare che rimanessero aloni sul vetro. “Apri, o quel
dannato Gufo la
sfonderà.”
“Questa tua malattia ha un nome, sai?”
Indicò il vetro della doccia e il modo
in cui l’altro ripiegò millimetricamente il panno
che usava esclusivamente per
quello scopo.
“Avere una mente
organizzata?
So che il concetto ti è estraneo.”
“No, essere
ossessivo -
compulsivi.” Ritorse andando ad aprire la finestra: il
volatile, non appena
sciolta la lettera dalla sua zampa, volò via. Doveva essere
una raccomandata
ufficiale se non aveva tentato di cavargli un occhio per avere un
croccantino.
Aveva
l’aria affamata quanto e più di me.
Lesse il contenuto e di
colpo
essersi svegliato a quell’ora disgraziatamente mattiniera
ebbe un senso.
“Esco.” Comunicò. “Ti faccio
arrivare la colazione a casa, se vuoi. La prendo
da Fortebraccio?”
Tom aggrottò le
sopracciglia,
spiando sopra la sua spalla. “Da dove viene?” Si
informò con noncuranza, salvo
prendergliela di mano per leggerla. “Dal San
Mungo.” Realizzò e il conseguente
tono di voce sembrò provenire dagli abissi. “A
quanto pare ci sei riuscito, il
Sergente Flannery è tuo paziente.”
“Non è mio, è di Sam e del Guaritore
Smethwyck.” Replicò aggiustando alla
bell’è meglio i capelli. “Io sono solo
un tirocinante, mi limiterò ad
assistere. Ci sono degli sviluppi … è positivo
che me lo abbiano fatto sapere!”
“Congratulazioni.”
Albus si morse la lingua, perché ad un tono del genere non
si poteva rispondere
che con un insulto o un silenzio offeso. Per buona pace comune non fece
nessuna
delle due cose. “Tornerò per pranzo,
okay?” Cercò il suo sguardo e non si
arrese finché non l’ebbe trovato. “Non
vorrei perdermi le polpette di zia
Robbie per niente al mondo!”
La risposta fu lasciarlo
senza
risposta, mentre marciava in direzione della sua scrivania.
Prima di uscire si
fermò a
salutarlo e lo trovò irrigidito e piuttosto ostile tra tomi
di libri e una
tazza di caffè fumante. “Ci vediamo a
pranzo.” Ribadì. “Avverti i tuoi che
arriverò per via camino … L’ultima
volta ho sbattuto la faccia contro il
parafuoco e mi sono quasi rotto il naso.”
La risposta un borbottio non impegnativo. Gli baciò la testa
asciutta, a
differenza della sua, e scappò via.
****
Londra,
Ministero della Magia.
Mattina.
“È
permesso?”
“Se riesci ad entrare!”
La frase che gli venne rivolta era assurda, ma dato che era evidente
che dietro
la targa di vernice scrostata che indicava
“l’ufficio relazioni con i Mannari” ci
fosse qualcuno, Ted obbedì. Se ne pentì
immediatamente, dato che gli finì
addosso un quintale buono di pergamene di vario genere e taglia.
Abituato alla
sua stessa goffaggine riuscì a rinculare ed evitare quindi
la commozione
cerebrale, spalmandosi contro la porta.
Che
diavolo!
Gli
sembrava di essere appena capitato
nell’occhio di un ciclone, a giudicare dalla
quantità di carta, foto e referti
sparsi per la stanzetta angusta. A questo si aggiungevano un vecchio
divano
sfondato e scatole di cibo take-away disseminate ovunque. Sorvegliava
tutto
dall’alto un ventilatore attaccato al soffitto.
Merlino,
questo posto sembra una discarica…
Neppure nei suoi momenti
peggiori di disordine aveva mai visto niente del genere.
“C’è
nessuno?” Chiese
facendo qualche passo incerto trai
detriti.
“Ehi!”
Emerse la stessa voce
di prima, stavolta alle sue spalle, facendolo sobbalzare. “Tu
devi essere Lupin!”
Si voltò e si
trovò di fronte
una ragazza asiatica sulla trentina, viso tondo e ispidi capelli da
porcospino
incorniciati da un paio di occhiali dalla montatura squadrata. Sembrava
spuntata dal nulla, ma probabilmente era emersa da uno degli scaffali
strabordanti in cui era diviso l’ambiente. “Io sono
Flynn Lin.” Si presentò
tendendogli la mano e stringendogliela con una forza degno di nota per
una
persona tanto minuta. “Non ti ricordi di me, vero?”
“Hogwarts?”
Tentò per andare
sul sicuro.
“Mai andata,
educata a casa.”
Inarcò le sopracciglia quasi trovasse sconcertante che non
avesse memoria della
sua persona. “Conferenza sui diritti dei lupi mannari, a
Brighton, nel 2004.
Eri un ragazzino in uniforme scolastica e con i capelli blu, come
quelli che
hai adesso.” Indicò la sua testa.
“Più brillanti però.”
Ted sorrise imbarazzato.
“Mi
dispiace, non sono famoso per avere una memoria di ferro.”
“Si vede!” Esclamò senza
nessun
riguardo. Gli ricordò un po’ le sparate del suo
James e questo lo rilassò: non
era bravo con gli estranei che non fossero studenti.
Se
parlano tanto e senza filtri un po’ aiuta.
“Malcolm ha detto
che sarei
passato?” Preferì stornare. “Spero di
non averti disturbato.”
“Sì, sì.” Si
grattò la testa con la piuma che teneva in mano dalla parte
del
pennino. I capelli neri come inchiostro probabilmente lo mascheravano,
l’inchiostro. “E no, non hai interrotto niente,
siediti!” Lo invitò e Ted si
trovò nella disagiante posizione di non sapere dove.
“Sto bene
così.” Non trovò di
meglio da dire. “Ti ha detto perché sarei venuto?
“No, per niente ma
non importa
…” Lo stupì. “Mi ricordo le
tue domande a quella conferenza. Facesti nero
il relatore.” Ghignò allegramente.
“Quando ho capito chi eri, ehi, mi
casa
es tu casa.”
Ted esitò a
quella
dimostrazione di simpatia. “Mi dispiace, proprio non mi
ricordo di averti
conosciuta…”
“Ah, ma quello
perché non ci
parlammo neanche, schizzasti fuori appena finita la conferenza, penso
per tornare
a scuola. Riuscii a capire solo che eri uno schianto.” Gli
lanciò una
panoramica sfrontata, anche se meno invasiva di quelle che subiva da
alcune
alunne intraprendenti o dalle loro – ahimè
– madri. “Lo sei ancora, per inciso.
Da come ti vesti però mi sa che sei uno di quelli che non se
ne rende conto,
eh?”
“Io…”
Si schiarì la voce,
tentando miseramente di non arrossire; quando aveva chiesto
all’ex compagno di
Casa di fargli parlare con il funzionario capo dell’ufficio
Licantropi aveva
pensato ad un vecchio e accidioso ministeriale con cui avrebbe dovuto
accapigliarsi,
non una ragazza dalla parlantina sconcertante.
Il
mondo è pieno di sorprese.
Doveva fare in modo di
volgere
quella situazione in positivo però, perché al di
là delle battute, Flynn Lin
sembrava bendisposta verso di lui. “Mi ricordo che anni fa in
questo ufficio
c’era un certo Morrison.” Cominciò
alla
lontana.
“È
andato in pensione cinque
anni fa.” Scrollò le spalle voltandosi per cercare
qualcosa nel mucchio
selvaggio che la circondava. “Adesso sono io a capo
dell’ufficio … l’unica
dipendente di me stessa!” Si voltò per strizzargli
l’occhio. “Non è un lavoro
che la gente smania di avere, come puoi immaginare.” Fece un
sorrisetto amaro e
Ted si trovò a condividerlo; conosceva bene il poco
interesse che la Comunità
magica nutriva per i Mannari.
Solo
una cinquantina di elementi, un unico branco e per
giunta confinato in una zona sperduta del Galles.
Niente
di cui preoccuparsi, niente di cui interessarsi.
“Come mai ti sei
interessata alla
materia?”
La ragazza, dopo aver
saltato
un basso tavolinetto ingombro di confezioni vuote di asporto thai, si
stravaccò
sull’unica poltrona della stanzetta che non fosse invasa da
qualcosa. “Mio
nonno.” Esordì. “Morso quando aveva
diciassette anni.” Fece una risatina alla sua
espressione sorpresa. “Non hai mai conosciuto un altro figlio d’arte come
te?”
“No.”
Ammise. “Pensavo…”
“Di essere il solo mago con dei parenti Mannari?”
Scrollò le spalle. “Non siamo
abbastanza neanche per una squadra di Quidditch, è vero, ma
lo siamo per essere
annotati su questi quadernoni qua.” Indicò con un
cenno della mano una serie di
registri impilati su una mensola sopra la sua testa. Ted li
ricordò con una
certa amarezza; la prima e l’unica volta che era stato in
quell’ufficio era
stato prima del suo ingresso ad Hogwarts. Sua nonna aveva dovuto
portarlo lì per
dimostrare che non era affetto dalla Licantropia.
Con
tanto di certificato del San Mungo alla mano… Nonna
sprizzava scintille dalla bacchetta.
“Ibridi…”
Fece una smorfia:
era quello il modo in cui quelli come loro venivano registrati al
Ministero,
per via di una legge che neppure l’illuminata guida di
Shacklebolt era riuscita
ad abrogare, non con un’opinione pubblica ancora ostile a
quel morbo spaventoso.
Anche
se sei portatore sano e non ululi alla luna,
anche se nessuno ha mai chiesto di consultare questi registri
… Per essere
ammesso ad Hogwarts come studente devi presentare un certificato di
sana
costituzione.
Certo, compiuta la maggiore
età c’era la possibilità di richiedere
la cancellazione del titolo nei propri
documenti ufficiali, ma lui non l’aveva mai fatto.
È
un monito. Un monito a quanto può diventare orribile
la tua realtà quando ti credono tutti un diverso.
“Tu …
sei…” Sondare
quell’argomento era difficile: molti figli di Mannari erano
portatori sani di
Licantropia come lui…
Altri
non sono stati così fortunati. Altri sono nati
malati.
La strega intuendo il suo
pensiero gli sorrise. “Sono portatrice sana, come te.
Ma…” Prese
la bacchetta e se la puntò al viso: le
iridi scure sfumarono in un oro inconfondibile.
“Atavismo.” Spiegò. “Li
Trasfiguro quasi sempre … Certi colori danno alla gente idee
sbagliate.” Fece
una pausa, quasi si fosse ricordata di qualcosa. Del filo del discorso,
forse.
“Comunque per rispondere alla tua domanda, i Mannari sono letteralmente la mia famiglia. Mio nonno
ha vissuto con loro fino a
quando ha conosciuto mia nonna. Storia avvincente, un giorno te la
racconto.”
Inclinò la testa da un lato. “Ma anche tu hai
belle storie, no? Il figlio di
Remus Lupin, eroe di guerra!”
“Magari
un’altra volta.”
Non
adesso.
L’altra
capì l’antifona perché
cambiò discorso. “Allora, il buon vecchio Whit
è il mio imbrattacarte preferito, e visto che gli devo
riportare metà di questa
roba da … parecchie
lune, sono
piuttosto propensa a farmi corrompere per aiutare un suo
amico.” Lo indicò con
un cenno della mano. “Specie se poi è uno come
te.”
“Come
me?”
“Morgana, sei
tonto!” Sbottò
incredula. “Hai idea di quanto sia difficile parlare con un
ragazzo carino da
queste parti? Vecchi in gonnella, ne siamo pieni!” Scosse drammaticamente la testa.
“Dopo ti prendi un
caffè con la sottoscritta.”
Alla
faccia dell’essere diretti!
Ted non sapeva se mettersi a
ridere o spaventarsi di quell’atteggiamento senza peli sulla
lingua. Era
propenso verso la prima ipotesi: essendo stato cresciuto dal clan
Weasley era abituato
a certe sparate. “Se è solo un caffè
volentieri, altrimenti devo avvertirti che
sono già felicemente impegnato.” Non ci
girò attorno. “Con un meraviglioso
ragazzo di nome James.”
La strega roteò
gli occhi al
cielo, come se gli avesse appena detto di avere una moglie e due
gemelli in
arrivo. Apprezzava persone del genere: non ce n’erano mai
abbastanza, neppure
nel Mondo Magico. “Grandioso.”
Fece
un sospiro profondo. “Grazie per la chiarezza comunque. Non
avrei potuto parlar
di cose serie pensando di spogliarti sulla scrivania.” Non
aspettò di vederlo
recepire la frase che tornò di colpo seria.
“Parliamo d’affari?”
Frastornato da quel
repentino
cambio di discorso si limitò ad annuire; doveva essere
un’impresa star dietro
ad una strega come quella, etero o meno. “Sono qui per
chiederti un favore…”
Esordì prendendo un grosso respiro.
“Oh, non sei il primo, sai.” Lo fermò
divertita. “Che tu ci creda o no, persino
in questo buco dimenticato dal Ministero la gente viene a
scocciare.”
“Di solito i
favori di che
genere sono?”
La strega scrollò
le spalle.
“Il più delle volte è gente che vuole
che confermi che c’è un Mannaro nella sua
zona per poter avere la possibilità di sparare incantesimi
al primo bersaglio
mobile quando si fa notte. Non hanno la licenza di caccia e sperano di
cavarsela mascherandosi da vigilanti dell’ordine
comune.”
“Ma l’unico branco…”
“È stanziale in Galles, lo dici a me?”
Rise, ma poi le pupille, che erano
rimaste dorate, si posarono rapidamente su di lui, taglienti e dirette
come
quelle di un lupo. “Però Whitby mi ha detto che tu
un Mannaro te lo sei davvero
trovato dietro casa.”
“Sì, ma è morto.” Strinse i
pugni per impedire ai ricordi e ai sensi di colpa
di togliergli le parole di bocca.
La strega lo
scrutò con quelle
disagianti iridi gialle. “Sono sicura che hai fatto tutto il
possibile per
aiutarlo.” Disse alla fine.
“Come fai a
saperlo?” Gli uscì
fuori più stizzito di quanto avesse voluto. Era il
retrogusto amato della
speranza.
Di
poter essere perdonato. Da chiunque.
“Istinto?”
Suggerì scuotendo
la testa. “Sembri un bravo ragazzo e Malcolm mi ha parlato
bene di te. Poi voi
Tassorosso non lo siete tutti?”
Ted suo malgrado distese le
labbra in un sorriso. “Così dicono.”
“Avanti, Lupin,
togliti il
peso dallo stomaco. Di cosa hai bisogno?”
“Voglio poter
parlare con
qualcuno del branco.” Inspirò. “Voglio
sapere chi era il Mannaro che mi è morto
tra le braccia, sapere se c’era qualcosa da cui è
scappato, o con cui stava
scappando.”
Flynn batté le palpebre. “Credo di non seguirti
… qualcosa con cui stava
scappando?”
Ted le espose
così i fatti,
nudi e crudi, senza mediare o cercare giustificazioni. Aveva bisogno di
chiudere quella storia, non soltanto per Ben – se quello era
il suo nome – ma
soprattutto per sé stesso.
Non
posso più tornare indietro, quindi devo andare
avanti.
“… per
riassumere, non sai
cosa Ben ha lasciato nella grotta perché i Centauri non ti
fanno entrare nella
foresta dopo che te la sei presa con loro. Se sapessi
cos’è pensi che
riusciresti a convincerli a farti passare.” Flynn concluse
per lui. “Sempre
stati permalosetti, quelli là.”
Si
grattò di nuovo la testa con la piuma, meditabonda.
“Certo, posso organizzare qualcosa
se mi dai un paio di giorni … ma penso che sia meglio se
sono io a far da
tramite. Sono abituati a me, conoscono il mio odore.”
“Voglio esserci anch’io.” Su questo
sarebbe stato irremovibile. “Per favore.”
La strega sospirò. “Se è importante
… potrei far venire qui Moscardo. È il vice
di Vulneraria, l’attuale capobranco. Non dovrebbe fare troppe
storie, è un tipo
alla mano … Ben hai detto?”
“Credo
si chiamasse Ben.” Ammise. “È
l’ultima cosa che mi ha detto
prima di morire, il suo nome … ho pensato si trattasse del
suo nome.” Riflettè
su un pensiero che l’aveva colto più di una volta
in quei giorni. “Pensi che si
riferisse a qualcun altro?”
“Beh, un Mannaro
dopo La
Rinascita perde la sua identità di mago e di essere
umano.” Osservò Flynn
grattandosi il mento. “Via il nome, via la bacchetta, via la
tua vecchia vita.
Credimi, dovendo tenere i loro registri anagrafici lo so bene
… È davvero come
se nascessero una seconda volta.” Si voltò e prese
un paio di grossi faldoni
polverosi da sotto quello che sembrava un ficus malcurato.
Evidentemente c’era
un metodo in quel caos. “Queste sono le anagrafiche. Ci sono
le foto, dagli uno
sguardo e vedi se lo trovi.”
Ted non dovette penare molto per trovare ciò che cercava.
Dopo una ventina di
pagine e fotografie isolò Ben; in foto sembrava meno patito
e privo di barba,
ma indubbiamente era il Mannaro che l’aveva attaccato.
“È lui.” Disse indicando
la scheda. “Sono sicuro.” Lesse poi il nome vergato
in inchiostro sbiadito,
vecchio di decenni. Lesse e
sbatté le
palpebre stranito. “Lunastorta?”
Chiese. “Si chiamava Lunastorta?”
Era
il soprannome di mio padre.
Era una coincidenza
così
curiosa che lo fece rimanere senza parole.
Flynn si sporse oltre la sua spalla per guardare. “Ah,
sì … te l’ho detto, si
ribattezzano. Nel suo caso non ne ha neppure avuto bisogno.”
Scorse con lo
sguardo la scheda e poi annuì. “Come pensavo,
è nato nel branco e non ha mai
avuto un nome da essere umano.” Aggrottò le
sopracciglia. “Non mi ricordo di
averci mai parlato, doveva amare starsene sulle sue.”
“Non li conosci tutti?”
“In teoria. Nella
pratica no.”
Si strinse nelle spalle. “Ho buoni rapporti con Moscardo, e i
cuccioli sono
quelli più curiosi, ma il resto del branco quando vado a
fare le ispezioni
mensili neanche si fa vedere.”
Ted rimase in silenzio,
assimilando le informazioni sconcertanti che gli erano appena state
date.
Ben
ha conosciuto mio padre? Sembrava avere poco più
della mia età, all’epoca doveva essere un bambino
di massimo uno, due anni.
Perché
ha il suo nome?
Lo sguardo della strega
andò
alla foto e poi a lui. “Qual è il
problema?” Indovinò.
Glielo disse e
l’espressione
dell’altra sembrò più confusa di lui.
“Se tuo padre ha vissuto con il branco
all’epoca di Greyback…” Si
fermò di colpo con un’espressione nello sguardo
che
non riuscì a decifrare. “Beh,
può essere
che Moscardo se lo ricordi … è una specie di
vecchio saggio della comunità. Potrebbe
sapere perché quel Mannaro si chiamava come il tuo
vecchio.”
Ted annuì, e mentre guardava la foto di Ben – o
meglio, Lunastorta - sentì lo
stomaco stringersi in una morsa. Aveva come l’impressione di
essere incappato
in qualcosa di più grosso di un Mannaro morto.
****
Surrey, Little Whining.
Privet
Drive n°4, Dopo pranzo.
“Cos’è
quel muso?”
Tom alzò la testa
per
incontrare gli occhi scuri e sempre troppo truccati – secondo
i suoi gusti – di
sua sorella Alicia. La ragazza era appoggiata al tronco
dell’albero su cui una
volta era appesa l’altalena della sua infanzia e adesso un
più classico dondolo
su cui si era sdraiato per leggere.
“Non capisco a
cosa tu ti
riferisca.” Le fece eco tornando al suo libro.
L’altra non si fece
impressionare e gli si sedette senza troppe cerimonie sulle gambe.
“Alicia.”
“Invasione degli spazi personali? Oh, povero
bimbo!” Ghignò beffarda. “Senti,
hai a malapena spiccicato due parole in croce per tutto il pranzo. Non
che di
solito tu sia un chiacchierone…” Inarcò
le sopracciglia spingendo il dondolo in
un irritante movimento ondulatorio. “… ma visto
che ci degni della tua augusta
presenza potresti almeno essere socievole.” Fece una smorfia
espressiva. “Per
mamma, sai.”
Tom serrò le
labbra tra di
loro; sua sorella non aveva tutti i torti. Il suo umore era talmente
pessimo
che era dovuto scappare dal salotto
per non esplodere in qualche commento acido all’ennesima
battuta stupida di
Vern o alle domande piene di buone intenzioni ma troppo pressanti di
Robin.
L’unico che sembrava aver capito che vento tirava era stato
suo padre.
Alicia si accese una
sigaretta
e reclinò la testa sul legno dipinto dello schienale.
“Momento confessione?”
Spiò dandogli una pacchetta sul ginocchio. “Non
dirmi che è per via di Albume.”
“Non chiamarlo così.” Sbuffò
al nomignolo infantile, prima di ricordarsi che ce
l’aveva con lui e che quindi non avrebbe dovuto aver voglia
di difenderlo. “E
non pretendere di sondare i miei umori.”
“Oh, qui lo facciamo tutti da una vita, è
diventato lo sport di casa, piccolo
principe viziato.” Alzò gli occhi al cielo.
“È perché non è riuscito a
farcela
per pranzo?”
La domanda non valeva neppure una risposta.
No,
perché è un bugiardo.
“Sai fratellino,
sei adorabile.”
Se ne uscì fuori e fu piuttosto insultante. Adorabile
lui? “Metti il broncio perché perdi di
vista il tuo preziosissimo Al per
qualche ora?” Ignorò la sua occhiata linciante e
continuò. “Non doveva
lavorare? È una specie di medico magico, no?”
“Un Guaritore, ed
è solo un
assistente.” Avrebbe davvero voluto
addentrarsi
nel nuovo romanzo che l’altra gli aveva prestato: aveva a che
fare con troni,
spade e personaggi deliziosamente perfidi, proprio il suo genere, ma
sembrava ci
fosse modo per liberarsi delle attenzioni non richieste di
quest’ultima. “Sto
leggendo.” Tentò.
“Se non mi dai retta ti dico come finisce.” Vedendo
che non cedeva ghignò
malvagia. “Muore uno Stark.”
“Ti ammazzo.”
“Gnègnè.”
Fu la replica significativa.
“Avanti, che è successo? Non me ne
andrò finché non me lo dirai!”
Se
Meike fosse qui sarebbero in due. Non pensavo
l’avrei mai detto, ma … grazie a Dio deve ancora
smaltire la sbornia.
“Al aveva promesso
di venire a
pranzo e non è venuto.” Buttò fuori
malmostoso.
La ragazza fece una risatina che le sarebbe valso un calcio se solo
fossero
stati ancora bambini; come sua madre, era a conoscenza del fatto che la
sua
convivenza con Al poco aveva a che fare con la virile amicizia e molto
con il
mettersi le mani addosso, ed esattamente come l’altra aveva
accolto la notizia
come se l’avesse sempre saputo.
Perché
uscire fuori dall’armadio se non ci siamo
apparentemente mai stati?
“Confermo, sei
adorabile.”
Ghignò.
“Lasciami in
pace.” La
apostrofò sentendosi ridicolo e pienamente scontroso.
“Va’ a postare foto di
dubbio gusto sui venti social network che infesti.”
Sopportò
stoicamente lo
schiaffo che gli arrivò sulla gamba. “Sei il
solito stronzo, Dio solo sa come
fa Al a sopportarti tutto il giorno!” Esclamò
esasperata per poi alzarsi di
colpo. Era un record che, con il temperamento che aveva, fosse rimasta
a
cercare di farlo parlare tanto a lungo.
Dovrei
ringraziarla?
La lasciò
comunque andar via,
perché il suo malumore non poteva essere scalfito neppure da
quello.
Al
adesso è al San Mungo, in mezzo ai camici verdi, a
Flannery e qualsiasi diavolo di cosa abbia contratto.
Ad
impicciarsi di cose da cui dovrebbe star lontano.
Chiuse gli occhi passandosi
una mano trai capelli e non fu sorpreso quando sentì
qualcuno avvicinarsi. La
sorpresa fu constatare che si trattava di suo padre che reggeva un
piatto con
la sua porzione di dolce. “Tua madre ci si è
impegnata” Borbottò con l’aria di
stare sui carboni ardenti. “Potresti almeno
provarci.”
L’accusa era ben formulata, quindi fu costretto a subirla.
Prese il piatto e ne
diede una forchettata. “È delizioso.”
Sospirò, tirando via le gambe per far
sedere l’uomo.
Se
è venuto a parlarmi lui quanto sono stato
sgradevole?
“Com’è
che riesci sempre a far
saltare i nervi a tua sorella?” Considerò
l’altro dopo qualche momento passato
a guardare le siepi perfettamente curate del giardino.
“È una
dote che si acquista
con l’esperienza.” Ironizzò godendosi il
sapore fresco della menta
nell’impasto; era il suo dolce preferito e questo lo fece
sentire ancora
peggio. “Oggi non sono dell’umore.”
“L’abbiamo notato.” Convenne con piglio
brusco, salvo lanciargli un’occhiata impacciata.
“Tua madre mi ha spedito a vedere se avevi bisogno di
qualcosa…”
“Di parlare?” Fece una smorfia. “Di
quello ne ho sempre poca voglia.”
Suo padre fece un sorrisetto divertito, annuendo, quasi comprendesse il
suo
stato d’animo.
Da
ragazzino viziato a ragazzino viziato…
Era
seccante che la sua voce
interiore, quella della supposta ragione, avesse il tono di Albus.
“Va tutto bene? Al
lavoro, a
casa?”
“Sì.
Per adesso.” Il che era
ancora più frustrante. Sapeva che stava arrivando un pacco
di problemi delle
dimensioni di una casa, se lo sentiva nelle ossa e non poter far nulla
per
ovviare a quel problema lo faceva infuriare. “È
solo…” Esitò ma aveva bisogno
di buttarlo fuori e ammetterlo era forse più difficile che
farlo. “… Al sta
lavorando a qualcosa che mi spaventa.”
“Qualcosa di pericoloso?” Indovinò al
volo l’uomo, che Babbano era e sarebbe
rimasto, ma sapeva troppo della storia familiare per non avere la
capacità
innata di capire quando un Potter si buttava nei guai con il piglio di
un treno
in corsa.
“Potenzialmente.”
Convenne
stuzzicando quel che restava del suo tortino alla menta.
Suo padre fece uno sbuffo
empatico. “Diavolo, non ne ha avuto abbastanza?”
“Sembra di
no.” Ritorse
sarcastico. “Deve sapere tutto ed essere invischiato in
tutto.”
Ed è colpa mia. Ho mentito e sono
sparito. Abbastanza per far sviluppare una paranoia.
…
La cosa peggiore è che è colpa mia.
“Figlio di suo
padre…” Considerò
l’uomo con un sospiro, ignaro dei suoi pensieri, dandogli una
pacca sul
ginocchio. Fu breve e impacciata, ma non fastidiosa. “Riporta
il piatto in
cucina quando hai finito.”
Il momento di condivisione
padre-figlio era stato spossante per entrambi e suo padre sembrava
pronto ad
infossarsi nella sua poltrona per una maratona di spazzatura televisiva
domenicale; non era stato male però essere compreso da chi,
prima di lui, aveva
avuto a che fare con la follia Potter. Questo non significava che
l’interrogatorio fosse finito però,
pensò rientrando e chiudendosi la porta
della veranda alle spalle.
Ora
è il turno di mia madre.
“E tu non sei
d’accordo …”
Come aveva immaginato, Robin
Castellario in Dursley non aveva aspettato che di vederlo posare il
piatto nel
lavello per aprire le danze.
Dovrei
cominciare a riconsiderare Vern. Ci ignoriamo
meravigliosamente.
“Sono
preoccupato.” Incrociò
le braccia al petto e guardò verso il camino che si
intravedeva dal salotto;
ciò che era spuntato da lì durante gli antipasti
non era stata la testa
arruffata di Albus, bensì una lettera di scuse.
Imperdonabile.
“Glielo hai
detto?”
“Non gli
importa.”
Gli diede uno schiaffo
sulla spalla,
quasi trovasse riprovevole quel pensiero. “Non dire
sciocchezze.” Lo apostrofò
infatti. “Albus non ha fatto altro che ascoltarti da quando
eravate bambini
… mi
sbaglio?”
No.
“Non lo ritiene
comunque un
motivo per rinunciare.” Non avrebbe voluto parlare di quello;
avrebbe voluto
essere in giardino a lasciarsi distrarre da un tomo cartaceo, non in
una cucina
tirata a lucido, con sua madre che lo guardava come se fosse un enorme
infante
cresciute e capriccioso.
Bello
e irrealizzabile, questo tuo mondo delle
intenzioni…
“Che la ritenga
importante o
meno … a conti fatti, che differenza fa?”
“La fa
eccome.” Sua madre gli
rivolse un sorriso, quasi non credesse a quanto sciocco potesse essere.
Nei
rapporti interpersonali forse lo era; era stata questa la sua croce e
la sua
salvezza. “Thomas in un rapporto non è questione
di convincere l’altro che
sta sbagliando, non sempre. Siete due teste
dure, vi arroccate sui vostri obbiettivi … Se lo ostacolassi
non ne verrebbe
fuori nulla di buono.”
Fece una smorfia.
“E quindi
cosa mi suggerisci di fare? Assecondarlo?” Odiava sentire la
campana della
ragione quando non era la sua. Odiava sentirsi nell’infinita
schiera di coloro
che non avevano diritto di replica perché avevano fatto di peggio. “Stai dicendo che
devo star zitto perché anch’io ho
commesso la mia dose di sbagli?”
Sua madre non parve turbata dal suo sarcasmo. Era una dote rara.
“Non è la prima
volta che succede … Stavolta è lui a far qualcosa
che preoccupa te e non
viceversa. Avete già affrontato questo genere di problema
… Come l’avete
risolto?”
Assieme. Lo abbiamo affrontato e risolto
assieme.
Sospirò, mentre
il sorriso dell’altra
diventava consapevole e si ampliava. “Vorrei solo esser
lasciato in pace.”
Confessò perché era la donna che
l’aveva cresciuto e non avrebbe approfittato
delle sue debolezze. Era una certezza che gli lasciava uno strano
calore allo
stomaco. “Non me lo merito, ma lo voglio comunque.”
“Sul merito non mi
trovi
d’accordo, ma su una cosa sì … con la
famiglia di tuo zio non l’avrai mai.” Gli
passò un braccio attorno alla vita e strinse appena. Aveva
capito e non
servivano parole: non ne servivano nella sua famiglia e per questo si
riteneva immensamente
fortunato.
Harry
mi ha dato a loro forse con leggerezza.
Nemmeno
riflettendoci avrebbe potuto far cosa migliore.
****
Londra, Farrindgon,
magazzino Purge&Dowse, ovvero…
San Mungo.
Pomeriggio.
Al guardò
l’orologio da polso
che Tom gli aveva regalato per il suo ventunesimo compleanno e
pensò che
sarebbe stato ucciso dall’altro non appena avesse messo piede
in casa.
Ho
saltato il pranzo con la sua famiglia quando gli
avevo promesso che ci sarei stato.
Odia
quando non mantengo le promesse.
Guardò
demoralizzato l’enorme
mole di fascicoli che erano stato spediti dall’Archivio
Centrale delle Malattie
Infettive Magiche di Bruxelles e calcolò mentalmente quando
gli ci sarebbe
voluto per spulciarli tutti alla ricerca di una casistica che avrebbe
potuti
aiutarli con il sergente Flannery; non aiutava il fatto che Sam e il
Guaritore
Smethwyck lo avessero lasciato da solo in quel compito.
Sono
Guaritori di ruolo … non hanno tempo. O voglia. E
indovinate chi viene chiamato?
Secoli.
Ci metterò secoli.
Gli sarebbe stato benissimo se solo non fosse stata domenica
e non avesse
sentito lo stomaco come una caverna profonda e vuota.
“Ehi!”
La voce di Sam fu
celestiale quanto l’odore di sandwich al tacchino che vi era
associato. “Ho
pensato di venire a sfamare il povero ricercatore.”
“Ottima pensata.” Sorrise alzando la testa dai
fogli e facendo fatica a mettere
a fuoco la figura dell’altro mago nella penombra della
biblioteca del reparto;
se avesse continuato così fino alla specializzazione avrebbe
rischiato gli
occhiali da vista.
Come
papà … e come Lils anche se si ostina a
dimenticarseli ovunque.
L’uomo si sedette
al tavolo
con lui, allungandogli anche una tazza di fumigante cioccolata calda.
L’avrebbe
baciato. “Allora … trovato qualcosa?”
“Nulla, per
ora.” Scosse la
testa addentando il panino con gusto. “Ci hanno mandato di tutto … Forse avremo dovuto
essere un po’ più selettivi con le
chiavi di ricerca.”
“Aumento di magia
e Cambiamenti somatici è
un po’ troppo
generalistico, eh?” Fece una smorfia l’irlandese
reclinando la schiena sulla
sedia. “Ma purtroppo sono gli unici sintomi che hanno un
senso, dal punto di
vista medico.”
“Già.” Sospirò. “E
se fosse qualcosa di nuovo?” La sola idea lo gettava nel
panico, ma ignorare quel pensiero sarebbe stato più
deleterio che dirlo ad alta
voce. “Qualcosa che nessuno ha mai visto o sentito?”
Il Guaritore di Infettive
fece
una smorfia. “È raro che una malattia magica esca
fuori dal nulla, Al. I virus,
come sai, sia che siano magici o Babbani esistono dalla notte dei tempi
e dallo
stesso tempo creano malattie legandosi a batteri o alle cellule del
corpo umano…
Però le nostre malattie nascono molto più
lentamente di quelle Babbane… I
nostri virus sono pochi.” Scosse la testa. “Ci devono essere dei precedenti. Forse
semplicemente non in
Inghilterra.”
“Lo so,
è solo … ci sono di
mezzo gli auror.” Si morse le labbra e addentò di
nuovo il proprio pranzo,
anche se gli era passata la fame. “Uno dei sintomi
è l’aumento di capacità
magica e gli auror si occupano di magia oscura
… Se fosse un virus creato attraverso di essa, questo
cambierebbe le carte in
tavola.”
Un
virus creato con la magia oscura … Significa
modificare qualcosa che è già nocivo, che
è già portatore di malattie per
renderlo … Ancora più letale?
“Non
fasciamoci la testa prima che il
Bolide ci abbia colpito, okay?” Gli sorrise l’uomo
più anziano stringendogli
appena il polso. “Al momento le condizioni del Sergente sono
stabili. Abbiamo
tempo per trovare la cura e restituirlo alla sua famiglia.”
Al sorrise, capendo che non
avrebbe spuntato quella discussione; l’indole positiva del
Guaritore Finnigan
era stata temprata dalla guerra, e non sarebbe stato una malattia
sconosciuta a
scalfirla. Gliene fu grato, ma non poté fare a meno di
pensare che tra una Maledizione
e un virus, decisamente avrebbe scelto di passare per la prima.
****
Diagon
Alley. Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Sera.
Zorba fu il primo ad
accorgersi che Al era tornato a casa. Drizzò le orecchie e
con un miagolio
lieto saltò giù dal grembo di Tom per dirigersi
verso l’ingresso.
I due umani con cui
condivideva l’esistenza da quando era stato preso dal rifugio
erano
particolari. Erano giovani, sempre presi a litigare su tutto, ma in
quella casa
non c’era mai l’uno senza l’altro e dal
punto di vista di un animale da
appartamento era una buona cosa.
Significa
che almeno uno dei due prima o poi si ricorda
di darmi da mangiare.
Erano divertenti, i suoi
umani: c’era l’Umano Alto e
dall’espressione torva – aveva un nome ma a Zorba
non piaceva – il più raggirabile, nonostante
sembrasse sempre in conflitto con
il mondo. Era il suo preferito.
Poi c’era Albus,
che dei due
si occupava di non mandare in malora la casa e di non farli morire
tutti di
fame. Gli piaceva, ma aveva un po’ troppe regole, come quelle
di non farsi le
unghie sui mobili o non masticare i lacci delle scarpe.
Strusciandosi contro le gambe di quest’ultimo
percepì stanchezza, soprattutto
per il fatto che si rifiutò di prenderlo in braccio come di
solito amava fare.
“Ciao Zorba.” Lo salutò chinandosi per
un grattino comunque dovuto. Era il
pegno per entrare. “Dove sono Tom e Mei?”
La ragazzina bionda non
c’era–
e gli stava benissimo dato che era fastidiosa come una batteria di
coperchi,
lei e il rumore che si portava sempre dietro, musica
la chiamava – ma l’Umano Alto era nello studio e
trovò
quindi giusto guidarci l’altro.
Albus lo seguì
sbadigliando e
stirandosi come se fosse un gatto – non con la stessa grazia,
ovvio – e sorrise
quando vide la schiena dell’altro. Cosa trovasse di bello in
quella schiena
ossuta Zorba non lo capiva, ma doveva avere a che fare con il fatto che
vi
passava spesso le mani o la abbracciava.
“Ehi.”
“Sei tornato.” Il tono era simile al soffio di un
gatto, ma Zorba aveva capito
da tempo che era tutta scena. Poteva vederlo balzando sulla scrivania;
l’Umano
Alto era contento quando Albus tornava a casa, gli sorridevano gli
occhi. “Pensavo
ci saresti morto là dentro.”
“Lo pensavo anch’io.” Albus si
avvicinò e gli baciò la testa, serrando la presa
in un abbraccio che non venne però ricambiato.
“Sei ancora arrabbiato?”
“Dovrei?”
“Non rispondermi
con un’altra
domanda … Lo so che ti avevo promesso che sarei venuto, ma
sono stato bloccato
fin’ora.” Sospirò. “Dimmi che
hai dato da mangiare al gatto … o a te stesso.”
Non avendo risposta Albus
alzò
gli occhi al cielo, e la piega nervosa delle labbra la diceva lunga su
quanto
si stesse frenando per non arrabbiarsi. “Non ho la forza
neanche per scaldare
una pizza, Tom, dimmi che riesci ad alzarti, prendere il telefono
e…”
“Ho lasciato la cena in caldo.”
Dovendo condividere la
propria
esistenza di Famiglio con un corvo sociopatico – chiunque
avesse a che fare per
più di cinque minuti con Kafka sapeva che doveva stargli
lontano se aveva cara
la vita – e un Gufo, Cleto, stupido come un mucchio di sassi,
Zorba provava determinato
affetto per i suoi umani e fu dunque felice di vedere che la piccola
sorpresa dell’uno
era andata a segno nello sguardo dell’altro.
“Hai cucinato?”
“Ho scaldato gli
avanzi del
pranzo, mia madre ci ha sommersi.”
“Merlino la grazi!” Esclamò chinandosi
per baciarlo – un gesto antigenico che
dalla sua infinita saggezza felina non avrebbe mai capito.
“Ti amo.”
“Immagino la tua giornata sia stato un incubo.”
“Mi sanguinano gli
occhi … mi
hanno messo a controllare qualcosa come un milione
di referti medici, non scherzo.” Fece una pausa.
“Mi dispiace essermi perso il
pranzo dagli zii, sul serio.”
L’Umano Alto scrollò le spalle; non sembrava del
tutto convinto ma prese la
mano dell’altro e lo condusse in cucina come avrebbe fatto
con un bambino
insonnolito. Zorba non li seguì, preferendo andare in camera
da letto – gli
umani la chiamavano loro, ma in realtà era una sua
dependance, quella che usava
quando voleva rilassarsi dopo una lunga giornata di niente.
Fu svegliato dal peso di
Albus
sul letto, o meglio, dal fatto che gli franò vicinissimo.
Protestò con un
miagolio e per tutta risposta si beccò un colpetto
irrispettoso sotto la pancia.
“Dai Zorba, fammi posto … Devo riuscire a dormire
almeno quattro ore stanotte.”
“Ti sei portato
delle cartelle
a casa.” Osservò l’Umano Alto,
già in direzione della sua scrivania. “Pensavi
di continuare?”
“Essere assuefatti
al lavoro è
una malattia, non serve che tu me lo dica…”
Bofonchiò con la bocca sui cuscini,
ormai prossimo al sonno. Zorba fu magnanimo; gli concesse di farlo
anche se era
il suo posto preferito. “Volevo avvantaggiarmi ma non ce la
faccio. Le leggerò domani
mattina.”
Fu l’ultima cosa
che disse
prima di cominciare a dormire della grossa. L’Umano Alto, che
era tornato alla
scrivania che usava quando voleva star vicino all’altro, si
alzò e andò a
frugare nella borsa di tela di quest’ultimo, estraendo fogli
spillati assieme. Dovevano
essere i cosiddetti referti.
Li portò alla
scrivania e Zorba,
che gli saltò in grembo sia per avere attenzioni, sia per
controllare che non
fossero pericolosi, lo vide consultarli con attenzione.
“Gli esseri umani
sono
stupidi.” Gli venne confessato a mezza bocca. Fare da cassa
di risonanza
silenziosa a quei due era un altro dei suoi compiti e lo svolgeva
ovviamente al
meglio. “Facciamo cose assolutamente idiote per chi
amiamo.”
Zorba si acciambellò su quelle gambe magre e fece le fusa;
era un buon modo per
assentire.
****
Note:
Non ho potuto fare
l’alba del
giorno dopo di tutti i ragazzi, ma non preoccupatevi, avrete pensieri e
seghe
mentali anche di due tedeschi e di un Mike. Tutto a suo tempo. ;)
I nomi dei Mannari: sono
stata
a lungo indecisa se metterli in inglese o usare la traduzione italiana.
Ho deciso
per la seconda ipotesi perché alla fine ho usato sempre la
terminologia
italiana per le Case, i cognomi e gli incantesimi.
Per quanto riguarda il
secondo
battesimo, e ‘i nomi’ degli OC … beh,
tutta farina del mio sacco.
(Anche se i nomi Moscardo e
Vulneraria sono tratti da un libro. Un cioccolatino a chi lo riconosce.
:P)
Qui
la
canzone del capitolo.
Per chi volesse vedere Zorba
qui
|
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Capitolo 18 *** Capitolo XVII ***
Capitolo XVIII
Oh and
if there's any love in me, Don't let it show.
Oh and if there's any love in me, Don't let it
grow.
(Shape
of my heart, Noah &
The Whale)
2
Luglio 2028
Londra,
Diagon Alley.
Il
Paiolo Magico. Mattina.
Era un grigio
lunedì mattina,
umidiccio e piovoso come poteva essere solo in un’isola
flagellata da un clima
orrendo.
Milo, che in
un’isola ben più
grande e variegata adesso viveva, si stiracchiò, varcando
l’ingresso fumoso del
Paiolo Magico.
Cosa
c’è di meglio dell’odore di uova e birra
stantia
la mattina? Ti rimette a posto con il mondo.
Se
vivi in un cassonetto.
Con una lieve smorfia
alzò gli
occhiali da sole per non vagare nella penombra del locale –
erano scomodi anche
fuori, con quel tempo, ma era una questione di immagine - e andò alla
ricerca del motivo per cui era
tornato in quella bettola sudicia; il principino, che consumava la
colazione
con la solita aria da eroe tragico, ma con il tovagliolo sulle
ginocchia e ogni
singola posata disposta.
“Ti manca una
cappa che ti
nasconde il viso e una candela e sei un perfetto
cospiratore.” Lo salutò
stravaccandosi sulla sedia di fronte a lui. “Buon
lunedì, padrone.”
Sören alzò appena lo sguardo dal suo piatto di
porridge – Merlino, davvero?
“Dov’eri finito?”
“Dici sabato sera o tutta questa domenica? A prendermi il mio
giorno libero.”
“Non hai giorni liberi.”
“Curioso, mi sembrava di sì.”
Ghignò agganciandosi i Ray-Ban al taschino e
tirando una sigaretta fuori dal pacchetto sgualcito. “Sentito
la mia mancanza?”
Lo guardò attentamente e registrò i cerchi
attorno agli occhi e l’aria tirata.
“Delle mie pozioni post-sbronza?”
Suggerì ignorando l’occhiata luciferina che
gli venne scoccata. “Qualcuno ha passato un’alba
del giorno dopo niente male,
vedo.”
“Non pensavo di aver bevuto così tanto.”
Mormorò rimestando nella poltiglia
grigiastra che aveva di fronte con aria assente. “Non penso
di aver mai bevuto così
tanto.” Si corresse.
“Perché ne sento ancora gli effetti?”
“Perché
è la tua prima vera
ciucca!” Ridacchiò accendendosi la sigaretta e
passandogliela magnanimo; era
certo che non fosse strisciato a comprarsele in quei due giorni.
L’altro la
prese con un guizzo grato negli occhi arrossati.
“Complimenti, sei diventato un
ometto!”
“Ti prego di
evitare
inadeguata ironia.” Borbottò con il tono di un
bambino con il mal di pancia.
“Penso di aver contratto un virus. La promiscuità
a quella festa…” Avvampò
quando notò come lo
stava guardando.
“… intendevo lo scambio di bicchieri.”
“Sì, certo.” Convenne facendo aderire la
schiena contro la sedia; con un guizzo
schifato si accorse che vi aderiva fin troppo. “Non ti sei
ammalato, è che non
sei abituato alle bombe che confezionano i tuoi amici maghetti durante
le
feste. Alcool magico con quello babbano? Senza una Pozione Anti-Sbronza
ti senti
un cadavere per le trentasei ore successive.”
“Te ne intendi.”
“Ehi, io so
divertirmi.”
Sören fece una smorfia infilandosi una coraggiosa cucchiaiata
di quella sbobba
in bocca. Inghiottì con la fermezza di un soldato con il
proprio rancio. “Mi
servirebbe quella pozione.” Mormorò con un
sospiro.
“Sì,
sì ricevuto.” Convenne
godendosi il semplice fatto che si sentiva da urlo mentre il maghetto
si
sentiva uno straccio.
Per
una volta, lunedì i ruoli sono invertiti. Ah!
Aveva passato una domenica
niente male, in giro per una città che si era dimostrata
piuttosto
interessante. Aveva dormito nel letto di un architetto Babbano che si
era poi
offerto di accompagnarlo in giro e di pagargli ogni singolo pasto,
commosso
dalla sua storia strappalacrime di modello la cui fortuna aveva smesso
di
baciarlo. Era stata una buona domenica sì, ma soprattutto
era stato un grandioso sabato sera.
Ho
smerdato quel coglione di Purosangue. Ho chiuso la
storia, garantito.
Meglio
di una scopata!
Ora però era il
momento di
rientrare nei panni della balia. Batté le mani, facendo
sobbalzare l’altro con
una smorfia di dolore. “Allora, raccontami
com’è andata.”
Sören distolse prontamente lo sguardo, in una ritrosia
adorabile se non fosse
stato per il tono da piccolo dittatore che ne seguì.
“Non sono affari che ti
riguardino.”
“Per favore.”
Alzò gli occhi al
cielo. “Parliamoci chiaro, principino … Mi hai
trascinato a quella stupida
festa di bambocci magici. Il minimo è dirmi se sei riuscito
finalmente a
mettere le mani addosso…”
“Ti avverto.” Ringhiò, ed era talmente
teso che sembrava una frusta pronta a
schioccare. “Se osi mettere in mezzo…”
“… Insomma, hai scopato o no?”
Stornò perché aveva capito l’antifona e
non
aveva intenzione di farsi Maledire, non di lunedì mattina.
Meglio dunque tenersi
sul generale.
Sören si
rilassò visibilmente.
“No.” Scosse la testa, imbarazzato ma non
più aggressivo. “Come ho detto, non
ero in me e preferisco essere nel pieno possesso delle mie
facoltà mentali…”
“… e fisiche…” Lo
stuzzicò e per un momento pensò che gli avrebbe
tirato un
calcio.
Questa
faccenda londinese ci sta avvicinando? Ugh. No.
“…
delle mie facoltà mentali
quando mi approccio ad una
donna.” Concluse pieno di sussiego. “E comunque ho
passato la serata a
chiacchierare con Lily e il suo ragazzo.”
… Merlino, che fesso.
“Ah,
sì?” Interloquì
diplomatico. Fare battute sarebbe stato come sparare sulla croce rossa.
“Beh,
che tipo è? A parte avere un culo da sogno ma molto etero,
si intende.”
“Ha una cultura
notevole.” Non
si sbilanciò ed era chiaro non volesse parlare di quello.
Diede infatti un
sorso al proprio caffè – un po’
inquietantemente color inchiostro – e serrò le
labbra. “Ad ogni buon conto questo ho fatto. Poi sono tornato
alla locanda.”
“Ti sei divertito?” Un’ombra di sorriso
passò negli occhi dell’altro e Milo si
trovò a sorridergli di rimando. “Che
t’avevo detto? Questi britannici non sono
poi tanto male.”
“Non ho mai
sostenuto il
contrario. Non di tutti, almeno.” Ammise con un sorrisetto
che gli cancellava
dalla faccia almeno dieci anni. Quando si ricordava di fare battute
sembrava
finalmente avere vent’anni e non cinquanta.
“Scorpius è stato un ospite
eccellente.”
Ah, ora lo chiama per nome. Buon segno.
Si sentiva tremendamente
una bambinaia apprensiva.
“E Zenzero?”
Sören sbuffò al nomignolo, ma non lo corresse.
“Lilian è stata meravigliosa.”
Ed era una constatazione che veniva così naturale da far
tenerezza.
“Ci
mancherebbe.” Si passò una
mano trai capelli, che li sentiva già appiccicarsi
sgradevolmente sulle tempie.
Questo
posto fa schifo. Se dobbiamo star qui più di una
settimana conviene trasferirsi.
“E tu
invece?”
Milo batté le
palpebre
sorpreso; era raro che l’altro si informasse circa i suoi
spostamenti,
informasse sul serio, e non per dar aria alla bocca o colmare un
silenzio. Dallo
sguardo però sembrava sinceramente incuriosito.
“Non ti ho visto tornare, sei
andato via con qualcuno?”
“Sì e
no.” Si strinse nelle
spalle. “Diciamo che ho fatto un po’ di guai a
Notturn Alley e poi sono andato
a fare il bravo nel letto di qualche Babbano non impegnativo.”
Sören inarcò le sopracciglia con aria divertita.
“Come al solito insomma.”
“Ho anche fatto il turista.” Aggiunse sulla
difensiva, perché di
fronte allo sguardo dell’altro realizzò
che la sua domenica non era stata poi tanto esaltante.
Al
diavolo, lui l’ha passata sulla tazza del cesso.
Almeno io ho scopato.
Sören
annuì. “Ho capito.”
Dietro l’aria stordita sembrava diverso dal solito, lo
registrò incuriosito.
Meno ombre nello sguardo, più vita.
Qualcuno
finalmente ha avuto un sabato sera autentico.
Ne era contento, il che fu
un
po’ spiazzante. Accantonò quell’anelito
filantropo e lo classificò come
l’opportunità di potersi fare i fatti propri.
Se
non rimane chiuso in se stesso a rimuginare io ho
più giornate libere. Semplice.
“Allora
… pozione!” Si alzò in
piedi. “Vado a preparartela. Per quando ti serve?”
“Subito.”
Tornò in modalità
padroncino pretenzioso. “Io lavoro.”
Fece schioccare la lingua, trattenendosi per non mandarlo al diavolo.
Ecco,
quello era il botta-e-risposta che ricordava e che lo metteva a suo
agio. “Stessa
situazione qui, Prince. E credimi, non è un lavoro
part-time.”
Quando Milo l’ebbe
lasciato
solo, Sören si permise di emettere un basso lamento,
passandosi una mano sul
viso; l’emicrania non gli dava tregua da ormai quarantotto
ore e non aveva la
minima idea di come sarebbe riuscito a presentarsi
all’ufficio Auror in quelle
condizioni.
Se
non mi riprendo sarò facile vittima per Potter.
Non era pentito
però; per
quanto male si sentisse, quello che aveva vissuto e provato era
qualcosa di
annoverabile trai suoi pochi, buoni ricordi.
Lily
mi ha accettato. Perdonato forse non ancora. Ma mi
ha accettato.
Normalmente non si sarebbe
spinto in considerazioni così audaci, ma l’amica
aveva passato un’intera serata
con lui e non c’era stato momento in cui, alzando lo sguardo,
non l’aveva vista
sorridergli. Non si era sentito lasciato a sé stesso o alle
sue paure neppure
una volta. Lily era una LeNa: aveva avuto modo di mostrargli la sua
vicinanza
anche senza parlare.
E
poi…
Ficcò il
cucchiaio nella zuppa
di avena ormai fredda: poi c’era stato un episodio che non
sapeva come
classificare e che aveva semplicemente accantonato come effetto
dell’alcool.
La
vista aveva cominciato a sfuocarglisi ed aveva
dunque lasciato il bicchiere ancora colmo di whisky al suo destino,
preferendo
concentrarsi sulle parole di Scott Ross. Non aveva idea di come fosse
finito a
parlare di linguistica indoeuropea con il fidanzato di Lily, ma era una
conversazione interessante e gli dispiaceva intenderne che pochi
sprazzi.
“Amico,
sei cotto.” Gli aveva detto ad un certo punto
lo scozzese di fronte a lui, con un sorriso storto. “Mi
segui?”
“Temo di no.” Aveva confessato, sentendo il peso di
Lily appoggiarglisi alla
spalla; quel contatto aveva smesso di turbarlo almeno un paio di
bicchieri
prima. La ragazza si era fatta insolitamente silenziosa, limitandosi ad
ascoltarli con un pigro sorriso dipinto sulle labbra rosse.
“Vado
a prenderti un bicchiere d’acqua.” Lo scozzese si
era alzato un po’ scoordinato, appoggiandosi alle sua spalla
per tirarsi
dritto. “Oops!”
“Nessun problema.” Aveva trovato giusto notificare,
che il contatto fisico
davvero non gli stava dando problemi, ed era fantastico, meraviglioso.
Non gli
era mai successo. “Sei sicuro?”
“Credo
di averne bisogno anch’io.” Aveva scrollato le
spalle. “Tienila d’occhio, okay?” Aveva
indicato Lily che profumava di gigli
esattamente come quando aveva quindici anni.
Non ha mai cambiato
profumo…
Perché dovrebbe? Le sta bene.
Quando
Scott se n’era andato aveva abbassato lo sguardo
sull’altra. “Come ti senti?” Aveva
chiesto, perché era il genere di cose che si
supponeva si dovesse chiedere. Aveva
sentito Scorpius domandarlo alla propria fidanzata mentre la suddetta
aveva la
testa ficcata fuori dalla finestra ‘per prendere
aria’. “Hai bisogno di un
bicchier d’acqua?”
Lily
per tutta risposta gli era scivolata addosso: non
c’era stato termine migliore per descrivere
l’evento, dato che un momento prima
gli era accanto e quello dopo sulle sue ginocchia a cingergli il collo
con le
braccia mentre nascondeva il viso contro il suo petto.
Un
lontano, lontanissimo campanello d’allarme era
risuonato nella sua testa. Avrebbe dovuto preoccuparsene? Forse no.
“Ho sonno.”
Aveva bofonchiato. “Ho bisogno di dormire.”
“Credo non sia opportuno che tu ti
addormenti…”
“Ren, chi era la ragazza da party di noi due? Chi se ne
intende?” Aveva
argomentato con un sospiro che gli aveva solleticato il collo, caldo
come il
vento del Messico. Da ubriachi – perché lo erano,
nessun dubbio su questo – i
paragoni venivano così facili…
Da
qualche parte l’impianto stereo suonava imperterrito
ed era tutto perfetto.
Memories fade, like looking
through a fogged mirror
Decisions too, decisions are made and not bought…
“Tu.
Sei tu l’esperta.” Aveva convenuto. Il campanello
continuava a trillare, e doveva dargli un senso. Andò a
tentativi. “Vuoi che
chiami Scott?”
“Perché? È conciato peggio di noi due
messi assieme, starà con la testa sotto
il rubinetto adesso, lascialo perdere.”
“Allora…”
C’era sicuramente una risposta alla domanda
che aleggiava tra di loro, ma non l’aveva e quindi aveva
aspettato che fosse
l’altra a trovarla: era sempre stata più brava di
lui in quelle cose.
Come
un tempo, Lily non l’aveva deluso. “Portami a
letto.”
Il campanello aveva cominciato trillare insistentemente ma
l’aveva ignorato,
perché aveva un ordine ed era un agente e quello che
facevano gli agenti era
obbedire. “Ce la fai a stare in piedi?”
“Domanda
stupida, Ren. Se fossi in grado, credi che te
l’avrei chiesto?”
C’era
un metodo nell’ebbrezza di Lilian, molto più che
nella sua, quindi vi si era affidato, passandole un braccio sotto le
gambe e
tirandola su. L’aveva sentita ridacchiare, deserto del
Messico contro la sua
pelle. “Come una principessa, eh Ren? Un principe e una
principessa!”
“Nessuno di noi due è di sangue reale.”
“Non mi freghi, con il cognome che ti ritrovi.”
Era
parsa ad entrambi una battuta molto divertente,
perché avevano ridacchiato salendo le scale. Avevano
così incrociato la
ex-Campionessa di Beaux Batons nonché una delle innumerevoli
cugine che aveva
ghignato loro facendoli passare mentre cercava di aiutare una brunetta
a
tirarsi in piedi. “Ehi Rossa, ti sei trovata un altro
cavalier servente?”
“Sono
una principessa, vero Ren?” Aveva ribadito
l’altra con una felicità così alcolica,
ma tenera che Sören si era trovato ad
annuire.
“Sì,
lo sei.”
“Ed eccone un altro. Convinci proprio tutti i maschietti a
stendere il mantello
per farti saltare la pozzanghera, ah?” Aveva ribattuto la
francese
strizzandogli l’occhio. “Buona fortuna
mangiapatate!”
Lo
sono. Sono fortunato.
L’aveva poi portata nella prima
camera
indicatagli e Lily si era lasciata posare sul letto per poi
rannicchiarsi tra
le coperte. “Lilian?” L’aveva chiamata.
“Non puoi dormire con i vestiti addosso,
devi cambiarti.”
Non
vi era stata risposta e dubitava che l’avrebbe
avuta a giudicare dal respiro denso e regolare dell’altra.
Aveva quindi
sospirato, sedendosi sul ciglio del letto sia per far smettere la testa
di
vorticare impazzita sia per …
Per guardarla.
Non
aveva ancora avuto modo di farlo adeguatamente,
sempre preso a non esagerare, a non mostrare, a non far capire quanto e
come
gli fosse mancata in quei cinque anni.
Ti può mancare
una cosa che
non dovresti avere?
Forse persino più
di quanto dovrebbe.
Era
bella Lily. E non era solo il suo aspetto a
renderla tale, ma l’aura luminosa che emanava, il raggio di
luce che aveva
bucato l’oscurità in cui era stato immerso dalla
morte di suo padre.
Era
molto ubriaco per fare considerazioni simili, se ne
rendeva conto. Era molto ubriaco o non le avrebbe mai tolto una ciocca
di
capelli dalla fronte per sfiorarle lo zigomo, sentendo le lacrime
pungergli gli
occhi per il semplice fatto che l’altra fosse lì,
con lui. Che fosse venuta al
mondo.
Grazie.
Si
riscosse quando la vide battere le palpebre. “Ehi,
soldatino…” Gli sorrise cercandogli la mano per
stringergliela. “Mi fai la
guardia?”
“Pensavo più che altro a come farti stare
comoda.” Aveva risposto, schiarendosi
la voce e ringraziando le luci soffuse della camera.
“Sto
benissimo.” Aveva sbadigliato, cercando di
calciare via i tacchi elaborati e dall’aria scomoda che
indossava. “È più
semplice di quel che sembra.” Motteggiò scoccando
loro un’occhiata frustrata,
prima di premere di nuovo il viso sul cuscino. “Puoi andare
Ren, non devo
essere uno spettacolo esaltante…”
Non
c’è altro posto in cui vorrei
stare.
Non
lo disse però, limitandosi a sfilarle quelle che
ormai avevano assunto le dimensioni di trappole per piedi, cercando di
non
rimanere turbato dal gesto. Non aveva calcolato quanto potesse essere
intimo
sfiorarle le caviglie e la pelle morbida delle gambe nude, quasi
…
Erotico?
Le
posò a terra, dove la mattina dopo l’altra avrebbe
potuto trovarle e si passò una mano sul viso.
Alzati e vattene. Hai
assolto
al tuo compito soldato, adesso va’.
Non
voleva.
“Ah, siete
qui!”
La
voce di Scott Ross era stata una vera e propria
doccia fredda. Sören aveva alzato la testa di scatto e aveva
visto il ragazzo
stagliarsi sulla porta con un bicchier d’acqua in mano.
È per me.
Si
era sentito una carogna, e si era affrettato ad
alzarsi. “L’ho portata a letto, aveva
sonno.” Aveva accettato il bicchiere e ne
aveva dato un grosso sorso. “Spero di non aver fatto
male.”
“No, per niente. Quand’è così
è l’unica cosa da fare…” Gli
aveva sorriso: era
un bravo ragazzo. Molti altri uomini l’avrebbero
antagonizzato, trovando facile
odiarlo per aver fatto soffrire la ragazza che amavano. Ross aveva
voluto
conoscerlo.
E tu hai desiderato rimanere
con la sua donna.
Che razza di mago sei?
Vergognati.
“È
il caso che vada.” Si era scollato dal palato. “Se
si sveglia dille che…”
“… che la saluti.” Lo aveva interrotto,
dandogli una pacca sulla spalla. “Grazie
per esserti preso cura della mia
ragazza.”
…
Ah, ecco.
Era
giusto. “Nessun problema, siamo amici.” Aveva
chinato la testa in un saluto. Perché tutto quello aveva il
sapore di una resa?
Era ridicolo. “Buonanotte.”
Scendendo
le scale aveva sentito uno schianto e un
freddo dolore alla mano; era dovuto arrivare in cucina per rendersi
conto che aveva
spaccato il bicchiere tra le dita.
Il moto di invidia che aveva
provato nei confronti dello scozzese era stupido, se ne rendeva conto. Doveva essere felice che Lily avesse
trovato un ragazzo capace di amarla e rispettarla; sembrava serena ed
era questo
che doveva importargli, nient’altro.
Strinse la mano che aveva
curato non appena era riuscito ad utilizzare la magia senza aver voglia
di vomitarsi
sulle scarpe.
Ti
può mancare una cosa che non puoi avere?
Persino
più di quanto dovrebbe.
****
Chelsea Embankment, Old Church
Street.
Mattina.
Michel non riusciva a
togliersi dalla mente il Magonò. Il che era umiliante.
Scacciò via per
l’ennesima
volta quel pensiero, arrotolando la Gazzetta del Profeta e mettendosela
sottobraccio mentre entrava nel suo caffè preferito il
quale, oltre avere il
pregio di un proprietario che non mancava mai di offrirgli la
colazione, era a
due passi da casa sua. Fece scivolare il quotidiano magico nella borsa
di pelle
e individuò a colpo sicuro la massa di ricci mollemente
acconciati del suo
inquilino abusivo. Sorrise quando vide un’altrettanto
familiare testa scura e
spettinata.
È
riuscito a farcela.
“Al, questo taglio
sta andando
fuori controllo…”
“Lo
so!” Mugugnò l’interpellato
riavviandosi i capelli corti con un
delizioso rossore sulle guance. “È quella mezza
lunghezza impossibile. Mi
raserei se non dovessi affrontare gli sfottò di
metà della mia famiglia!”
“Con che faccia osano? Metà di loro ha roba
assolutamente riprovevole in
testa.” Replicò facendolo sorridere con affetto.
“I capelli rossi sono
volgari.”
“No, sono
deliziosi. Sapete
cosa si dice delle donne coi capelli rossi, no? Rosse di capelli, rosse
di
pensieri.” Si intromise Loki con un sorriso lascivo,
schivando un calcio dall’amico,
la cui sorella era baluardo di quell’affermazione.
Credo
anche che siano stati a letto assieme, lei e
Loki. Ma francamente, chi non è stato a letto con la Potter?
Al si
spostò per fargli posto.
“Abbiamo ordinato anche per te. Cappuccino di soia,
giusto?”
“Sai come prendo il caffè, pulcino, sono
commosso.” Ironizzò contento; la
giornata, nonostante il tempo metifico, si prospettava rilassante. Al
lavoro lo
aspettava la solita pila di scartoffie ma la sua vicina di scrivania
era ancora
malata.
Potrò
fumare come e quanto voglio. Accontentiamoci
delle piccole cose.
“Abbiamo fatto
colazione
assieme per sette anni, avrei la memoria fallata se non fosse
così.” Rispose Al
scrollando le spalle. “Posso restar poco però
… Ho da fare al San Mungo.”
“Il nostro scricciolo ambizioso!”
Sogghignò Loki mettendosi una mano sul petto.
“Ti ricordo timido e buono a nulla … Con la nostra
paziente guida sei diventato
un vero arrampicatore sociale.”
“Voglio solo fare
bene il mio
lavoro!”
“Non essere modesto. Dillo a zio Loki, quante persone hai
calpestato fin’ora?
Rendimi fiero di te.”
“Lo!”
Michel ridacchiò ascoltando il battibecco giocoso trai due e
mentre consumavano
le loro flagranti ordinazioni – il proprietario non si era
smentito e aveva
dato loro una dose extra di cornetti a testa, con gran gioia di Albus
– il
pensiero scivolò di nuovo
nei lidi in
cui era stazionato per tutto il finesettimana.
Il Magonò. Chi diavolo
è? A parte … un
Magonò, certo.
Al
diavolo, sono sicuro, l’ho già incontrato.
Non riusciva però
a ricordare
dove: non aveva mai frequentato senza-magia, neppure nelle sue
spedizioni più
sordide appena uscito dalla claustrofobia di Hogwarts.
Ho
degli standard, grazie tante.
“Mike?”
La voce di Al lo
riscosse bruscamente. “Son dieci minuti che parliamo con te e
non ci rispondi.
Va tutto bene?”
“Sì,
ero solo perso nei miei
pensieri.”
“Voli pindarici dal mago più materialista di
Londra? È sorprendente.” Gli diede
manforte Loki sorseggiando il suo the con un piglio che gli stava
valendo occhiate
lussuriose da tutta
la popolazione
femminile presente nel locale. Sarebbe probabilmente uscito di
lì con almeno
cinque o sei numeri scritti sul complicato smartphone Babbano che usava
per
andare a caccia di gonnelle.
“Hai conosciuto
qualcuno?”
Sorrise Al e normalmente sarebbe stato un fraintendimento grossolano.
“Forse.”
Non si sbilanciò
staccando un pezzo dal proprio croissant: l’idea di
confidarsi con quelli che
riteneva i suoi più cari amici doveva venirgli naturale,
supponeva, ma Loki aveva
la deprecabile tendenza alla presa in giro.
Ti
chiederebbe sotto quale Pozione Stordente sei.
Penserebbe ad uno scherzo.
E lo avrebbe pensato anche
lui
a ruoli invertiti. Al tempo stesso non poteva però smettere
di pensare a quel corpo
bollente, alle dita che tracciavano la sua pelle come se ne
conoscessero la
mappa e…
“Mike?”
Albus sembrava
estremamente divertito dalla situazione e ne aveva ben donde.
Ti
stai comportando come un idiota.
“Nessuno di
interessante,
pensavo al lavoro.” Allungò un paio di sterline
sul tavolo per chiudere la
conversazione. Sperava non sembrasse una ritirata. “A questo
proposito temo di
dover scappare, sono in ritardo.”
“Lo sono anche io.” Fu lesto a ribattere il
moretto, gettando alla rinfusa un
paio di monete che valevano il doppio della sua consumazione.
“Ti accompagno!”
No, non è finita qui per Albus
Severus
Potter.
Salutato Loki,
già preso ad
ammiccare fascinosamente ad un gruppo di studentesse del vicino Chelsea
College,
si incamminarono di buona lena in direzione della City;
Albus avrebbe poi preso la metropolitana e proseguito per Farrindgon.
“Non ti Smaterializzi vicino alla fermata di South
Kensington?”
“No, preferisco
camminare con
te.” Fu la risposta allegra, nonostante il piccolo diluvio
che si stava
scatenando sopra le loro teste. Michel
non poté frenare un moto di sciocca contentezza; passare del
tempo con l’amico
era sempre più difficile trai rispettivi impegni e passarlo
da soli, senza
l’ingerenza di Dursley, Mael e Nott era merce ancora
più rara.
Fu Al a riprendere la
conversazione. “Insomma, lui chi
è?”
“Lui
chi?” Tentò senza troppa convinzione.
Aveva bisogno di parlarne con qualcuno, realizzò, e
l’amico era la persona più
indicata dato che aveva l’innata capacità di non
giudicare mai le scelte di
cuore altrui.
Con
le sue non può permettersi giudizi.
“Si chiama
Milo.”
“È un
nome carino.” Osservò
dandogli di gomito. “È carino anche lui?”
“Non carino. Bollente.” Ammise suo malgrado
facendolo
ridacchiare di rimando. “Il genere che non ti fa venir voglia
di alzarti dal
letto.”
“Già mi piace!” Ammiccò.
“L’hai conosciuto all’Heaven?”
“Sì, ma
non è un Babbano…” Lì
veniva la parte difficile e decise dunque di prenderla alla lontana.
“Credo di
averlo già incontrato.”
“Beh, noi maghi
inglesi non
siamo quella che definirei una popolazione numerosa.”
“È straniero, ma non è questo il punto.
Non riesco a capire dove l’ho
conosciuto, e di certo non l’ho fatto di recente …
Mi sarei ricordato di un
tipo simile, ho buona memoria tra le lenzuola.”
Al alzò gli occhi al cielo. “Magari
non te lo sei portato a letto. Forse l’hai semplicemente
visto in giro.”
“No.” Scosse la testa. “Non frequentiamo
gli stessi ambienti.”
L’altro gli restituì un’occhiata
confusa, tentando di schivare una pozzanghera
e finendoci comunque dall’imprecazione che mormorò
a mezza voce. “Ma scusa … se
vi siete incontrati al club…”
“Pensavo fosse un Babbano.” Inspirò
mentre la necessità di sfogarsi faceva a
pugni con l’umiliazione e lo sconcerto.
“È un Magonò.”
“Oh.” Se Albus era rimasto shockato non lo
mostrò, limitandosi ad una blanda
espressione sorpresa.
“Non assomiglia ad
un Magonò.”
Si ritenne in dovere di spiegare. “Non ne ha
l’aria, o il linguaggio … Il
cockney è il rifugio degli illetterati.”
“Michel…”
“Avanti, dimmi che
non è così.”
Sbuffò. “Comunque neanche lui pensa bene dei
Purosangue.”
“Allora…”
Al si grattò una
guancia. “… come diavolo siete finiti
assieme?”
“La prima volta
perché nessuno
dei due aveva capito cos’era l’altro.”
Dovette ammettere, perché riflettendoci
era ovvio che il Magonò non l’aveva rimorchiato
credendolo un mago. Gli aveva reso
ben manifesto il fastidio che provava per la sua categoria.
“La seconda…”
“C’è stata una seconda?” Gli
occhi enormi di Al diventavano tali quando era
sbalordito e Michel si chiese cosa ci fosse di così
sorprendente prima di
realizzare che probabilmente aveva frainteso.
“Non tra le
lenzuola. L’ho
incontrato a Notturn Alley, la sera della festa di Sy, mentre andavo a
comprare
le sigarette. Mi ha … salvato.”
“Salvato?” Al
fece quasi un saltello
per evitare la seconda pozzanghera e stavolta si inzaccherò
fino alle caviglie.
Ignorò la cosa e lo strattonò leggermente.
“Cavolo, racconta!”
Capitolò, un po’ per l’espressione avida
sul volto dell’altro – era raro
vederlo davvero interessato a qualcosa che non fosse il suo lavoro o
Dursley –
un po’ perché aveva ancora bisogno di
metabolizzare.
Sai
com’è, ti ha salvato il borsello … e la
vita.
“Wow.”
Commentò alla fine
quando erano ormai nei pressi della fermata metro.
“È stato una specie di
principe azzurro!”
“Hai saltato la parte in cui mi ha insultato?”
Ritorse sentendosi un po’ preso
in giro, specie dall’occhiata paziente che gli venne rivolta.
Se solo sapesse l’erezione che ti ha
lasciato per un’intera serata…
“Beh, tu hai fatto
un po’ lo
stronzo.”
“Io?”
“Dai, sei sei
stato piuttosto
sgradevole, e sono certo che non mi hai racconta
tutto…” Inarcò le sopracciglia
con un sorrisetto malizioso. “Comunque sembra un sacco
sexy.”
“È un Magonò.”
Ribatté fiacco perché lui, primo tra tutti, si
era stufato di
sottolinearlo. “Vorrei solo sapere perché mi
sembra così familiare.”
“Beh, ma non tutti i Magonò nascono
tali!”
Michel batté le
palpebre,
chiudendo l’ombrello e appendendoselo al braccio dato che si
era affacciato un
pallido sole. In estate era bene approfittarne.
“Ovvero?”
Albus lo guardò come se fosse un po’ tardo.
“Non tutti i Magonò nascono da
Magonò! Molti nascono in famiglie interamente
magiche … Anzi, l’incidenza statistica
è maggiore.” Lo guardò pensieroso,
prima
di schioccare le dita. “Ehi, senti se ha senso …
Puoi averlo incontrato prima degli
undici anni. So per certo che, anche per legge, prima degli undici anni
non
puoi essere considerato Magonò.”
“Prima degli undici anni?” Aggrottò le
sopracciglia; sì, aveva più senso di
tante altre teorie che aveva vagliato in quelle quarantotto ore.
“Ma prima di
Hogwarts ho frequentato solo famiglie come i Nott o i
Malfoy.”
“Appunto!”
“Pensi che sia un
Purosangue?”
In effetti c’era stato qualcosa nel tedesco che gli aveva
fatto pensare ad
un’infanzia agiata; il modo di parlare, farcito di
colloquialismi ma comunque
corretto, la postura dominante, il corpo curato e i vestiti
impeccabili. Poteva essere
cresciuto nel suo ambiente
e dunque la sua avversione per i maghi poteva essere stata scatenata
dal
rifiuto per un mondo a cui era appartenuto.
Terribilmente romanzesco, ma
aveva
senso.
“Quindi vi siete
incontrati da
bambini?”
“Se è
successo non me lo
ricordo.”
Ma a quel punto della
faccenda
era sua intenzione farlo.
****
Ministero
della Magia, Ufficio Auror.
Metà
mattina.
Scorpius sapeva che la
chimica
in un gruppo era cosa precaria. Certo, per anni era stato il paria di
Grifondoro, ma nella primavera della sua età adulta poteva
dire di avere amici
veri e compagni a cui avrebbe affidato la vita – e visto che
non voleva rendere
Rose vedova ancor prima del matrimonio non era cosa da poco.
Erano riflessioni che
l’avevano colto mentre consumava il primo the della sua
giornata lavorativa
seduto alla scrivania e, a giudicare dallo sguardo assorto di Jordan
accanto a
lui, erano condivise.
La mancanza del Sergente
Flannery
si faceva sentire; con il suo carisma innato e la capacità
di trattarli tutti
come cuccioli entusiasti era sempre riuscito a far funzionare le cose.
Il sergente Weasley era
invece
tutt’altro paio di maniche: non lo diceva solo
perché sarebbe diventato suo
suocero e perché era Ronald Weasley,
ma perché non era il coordinatore giusto, non per loro
almeno.
Vedendolo entrare in quel
momento, scherzando con James come il nipote che era e non come
l’auror che
avrebbe dovuto essere, fu avere l’ennesima riprova.
L’uomo non aveva capito che
per tenere buono il figlio del capo
bisognava
tenerlo emotivamente a distanza.
Diavolo,
James è un dannato maschio alfa. Come potrà
pensare di tenerlo buono quando avrà uno dei suoi momenti di
stronzaggine
acuta?
Sul
serio.
“Buongiorno.”
Salutò comunque
di buon grado. “Potty, devo comprarti una spazzola per
vestiti? Sei pieno di
cenere come un camino!”
“Oh, va’ al diavolo Malfuretto.”
Scrollò le spalle questo dandosi comunque una
veloce spazzolata al mantello. “Sono comunque uno
schianto.”
“Seminando nugoli di cenere sulla nostra scrivania,
certo.” Ribatté facendo un
cenno di saluto all’auror più anziano.
“Jordan è rimasto bloccato nel
traffico.” Notificò. “Mi ha mandato un
messaggio allo Specchio Comunicante
qualche minuto fa.”
“Lui e quella sua macchina su strada … Gli ho
detto mille volte che quelle
volanti sono migliori!”
“Costano anche il triplo, Potty.”
James si strinse nelle
spalle.
“Che ne sai tu, piccolo ereditiere?”
“Tra poco
diventerò un
capofamiglia, dovrò economizzare sulle mie enormi
fortune.” Ghignò notando come
le orecchie del futuro suocero fossero diventate paonazze.
Coprirò
la mia rosellina di Galeoni e gioielli. Fammi
causa.
“Qualcuno vuole un
caffè?”
Sorrise sentendosi molto ipocrita e molto soddisfatto.
“No, meglio
iniziare subito.”
Borbottò il mago quasi avesse letto nel suo empio cuore
Malfoy. “Voglio fare il
punto della situazione prima di lasciarvi. Ho un sopralluogo a
Birmingham alle
dieci, non voglio Smaterializzarmi all’ultimo
momento.” Fece un cenno a Bobby
che con il fiatone si stava dirigendo verso di loro, schivando sedie e
auror. “Dov’è
Prince?”
Era un po’ la
domanda che
aleggiava tra di loro ma che nessuno, neppure James, aveva ancora
formulato.
Si
apra il vaso di Pandora.
“Non lo so,
avrà avuto un
contrattempo.” Suggerì notando la smorfia
soddisfatta sul volto del migliore
amico; anche se aveva tagliato sensibilmente le esternazioni rabbiosa e
recriminatorie, nei confronti del tedesco continuava a tener vivo il
ridicolo nonnismo
da Accademia.
Ma
non gli si può chieder di più, però.
Potty è un
bullo. Se la prende solo con quelli della sua stazza e con chi crede
che se lo
meriti …
Ma
quello rimane.
“Magari
è stato bloccato a
Cooperazione.” Gli diede manforte il buon Jordan.
“Come agente di collegamento
non deve fare un rapporto settimanale ogni lunedì?”
“Macché,
secondo me non s’è
svegliato. Del resto questo sabato ci ha dentro coi
festeggiamenti.”
“In che senso?” Si informò il sergente e
Scorpius sospirò interiormente; era
ovvio che entrambi non vedessero l’ora di trovare una macchia
nella perfetta
corazza del poveretto.
“Nel senso ha
fatto meno
brindisi di quanti whiskey s’è scolato.”
“Non è
stato l’unico. Era una
festa in un pub irlandese.”
Osservò
blandamente. “Per esempio, domenica mattina io mi sono
svegliato abbracciato ad
un cane di peluche.” Quando vide che aveva
l’attenzione di entrambi fece il suo
miglior sorriso brillante. “Nessuna idea di come sia potuto
succedere!”
L’espressione di
James si ammorbidì,
perché non riusciva a non capitolare quando si metteva in
ridicolo a suo
beneficio. “Coglione.” Ghignò divertito.
“C’avrei scommesso.”
“Malfoy, non è il genere di cose che dovrei
sapere.” Sbuffò l’uomo più
anziano
con aria scocciata. “Non farmi pentire di averti dato la mia
benedizione.”
“Mai Signore, preferirei la morte.”
“Va bene, adesso
falla
finita…” Scosse la testa rassegnato prima di
arricciare le labbra in un
evidente moto di insofferenza. “Ah, alla
buon’ora!”
“Mi dispiace, ho avuto un contrattempo.” La voce
del tedesco era spossata
mentre compariva alle loro spalle; aveva l’aria di uno che
aveva passato tutta
la domenica con la testa dentro il gabinetto, al di là
dell’uniforme
impeccabile e i capelli in ordine.
Qualcuno
non ha preso la pozione Anti-sbronza quando
doveva…
Il Sergente Weasley gli
scoccò
un’occhiataccia ma per fortuna non infierì,
preferendo schiarirsi la voce. “Ora
che siete tutti, facciamo il punto
della
situazione.” Esordì. “Se
c’è un autorizzazione che va firmata per un
sopralluogo è il momento di metterla sul banco.”
Si voltò poi verso l’agente di
collegamento. “A che punto siamo con la lista degli alias di
John Doe?”
“Bastardo
immortale…” Borbottò
James riassumendo il sentimento comune. “Roba da pazzi,
avrà un miliardo di
pseudonimi!”
“Sono quarantadue.” Corresse
l’interpellato. “Sto facendo un controllo
incrociato con il mio ufficio. Abbiamo richiesto i movimenti bancari di tutti i conti
aperti a suo nome e
tramite pseudonimo. Per ora nessun riscontro, non
c’è attività.”
James inarcò le sopracciglia. “Quel tipo ha ancora
delle camere blindate a suo nome?
È un ricercato
internazionale, come diavolo è possibile?”
“Una volta aperta
è
impossibile chiuderla.” Spiegò Scorpius, che sulle
camere blindate e
impossibilità di disfarsene si era fatto una discreta
cultura sin dall’infanzia.
La
camera della biszia Bella. Sono anni che papà cerca
di liberarsene, anche solo per quanto ci tocca sborsare di
manutenzione. Un
giorno o l’altro la farà saltare in aria.
“Sono una specie
di deposito
per l’eternità. Scomodo, se non sei
interessato.” Concluse mentre Prince
annuiva a conferma.
“Usa un nuovo
pseudonimo
quindi.” Intuì il sergente Weasley aggrottando le
sopracciglia. “Idee su quale
potrebbero essere?”
“Posso lavorarci,
dobbiamo
comunque finire di controllare i movimenti bancari.” Il
tedesco non si
sbilanciò, ma a Scorpius non sfuggì la
contrazione nervosa che gli attraversò
le labbra; non pareva molto sicuro di poter venire a capo di quella
pista.
E
come dargli torto. Quel tizio ha avuto quarantadue
identità diverse. Inventarne di nuove dev’essere
un gioco da ragazzi per lui.
“Fallo…
A questo proposito, è
uscito niente su Sam Howe, la prima vittima?” Il mago
più anziano scorse con lo
sguardo il taccuino che teneva tra le mani e Scorpius provò
un moto di simpatia:
seguire due squadre, la sua e la loro, non doveva essere facile, specie
visto
che il caso che avevano tra le mani era criptico, per eufemizzare.
Dell’uomo
poteva non piacergli l’attitudine a giudicare e il nepotismo
smaccato di cui
omaggiava James, ma non poteva dire che non si facesse in quattro per
supervisionarli.
Prince scosse la testa
“Incensurato
per il nostro Ministero, ma il SAGITTA sta scavando a fondo. Se
c’è qualcosa, uscirà
fuori.”
“Le registrazioni
della video…video…”
“La videocamera montata di fronte alla stanza del Sergente
Flannery?” Venne in
soccorso Bobby che a giudicare dalla prontezza della risposta doveva
essersi
ingoiato il libretto delle istruzioni. “Le ho visionate io
ieri sera, lo faccio
giornalmente. Nulla di sospetto, Signore.”
Già,
nulla di sospetto. Perché diavolo John Doe non ha
ancora cercato di attaccare il Sergente Flannery?
Se
lavora per qualcuno che vuole mettere a tacere tutta
la faccenda del morbo, perché aspettare?
O
forse sta solo studiando la situazione…
“Aggiornamenti dal
San Mungo?”
Scorpius che era la persona
preposta a quello scosse la testa. “Nessuno. Le condizioni
del Sergente sono
immutate. Stanno facendo una ricerca storica del morbo per poter
risalire alle
cause scatenanti. Pare che non ci sia storia medica, quindi
è buona l’ipotesi
secondo cui sia stata creata in laboratorio.”
“Il fatto che ci
sia un tizio
della Thule di mezzo lo rende quasi certo.” Sbuffò
James.
“Bene.” Concluse l’uomo con
l’aria di non trovarsi affatto d’accordo con la sua
affermazione; comprensibile dato che anche quel giorno era iniziato con
un
nulla di fatto. “Aggiornatemi se ci sono
novità.” Fece un cenno al nipote.
“Jamie, a te il comando.”
Quando l’uomo se
ne fu andato
quest’ultimo si scrocchiò il collo, cercando di
non dare a vedere quanto lo
esaltasse essere stato considerato l’agente più
anziano e dunque meritevole di
comando ad interim; in sua difesa
ci
stava provando e si vedeva, ma il luccichio soddisfatto negli occhi era
altrettanto evidente. “Mettiamoci al lavoro, abbiamo altri
casi che ci
aspettano.” Esordì afferrando un fascicolo dietro
la scrivania su cui si era
seduto. “Ci hanno affibbiato un’ispezione ad un ex
burro birrificio a Reading.
Da soffiata certa sappiamo che un paio di stronzi stanno usando i
vecchi
impianti per raffinare Pozione Corroborante di contrabbando.”
“Partiamo subito?”
“Subito.”
Gli rispose
lanciando un’occhiata di sbieco al tedesco per poi sfoderare
un ghigno perfido.
“Crucco, per te scartoffie!” Indicò una
pila di fascicoli su cui fino a quel
momento aveva posato il gomito per puntellarsi. Era mostruosa.
“Dal tuo
Ministero.”
“Le aspettavo. Sono i movimenti bancari delle camere blindate
di Johannes.”
Rispose questo senza tradire il minimo scoramento all’idea di
dover seppellire
il naso in quel mare di carta polverosa. Forse gli piaceva.
“Ho pensato che
potevo dare una mano nella ricerca anche da qui.”
Meglio
che girarsi i pollici finché non torniamo,
suppongo…
Scorpius trovò
giusto fare la
parte del poliziotto buono anche in quel caso. “Puoi usare la
nostra
scrivania.” Ignorò l’occhiata
oltraggiata del partner e sorrise all’altro. “Per
qualsiasi cosa puoi trovarci agli Specchi Comunicanti.”
“Ti
ringrazio.”
“Non è la prima volta che lo lasciamo solo, non
fare la chioccia!” Grugnì James
con espressione tradita: c’erano momenti in cui, nonostante
tutto l’affetto che
provava per quella testa di Potter,
la tentazione di tirargli un calcio negli stinchi era fortissima.
“Siamo una
squadra, mi
preoccupo dei miei compagni, che c’è di
strano?” Replicò con un sorriso al
tedesco che ricambiò con aria rassegnata.
Solo
a me vien voglia di abbracciarlo? Mi ricorda papà,
solo meno incazzato col mondo. Proiezione. Psicologicamente
interessante.
James roteò gli
occhi al
cielo, ma si astenne da qualsiasi commento; per gli equilibri di una
squadra, lo
sapeva persino con tutta la sua tracotanza, sapere quando tacere era
cosa
importantissima.
****
Londra,
Diagon Alley.
Primo
pomeriggio.
“Questo
è perfetto.”
“No, è osceno.”
“Non è osceno, ti lascia intravedere un
po’ la scollatura, non fare
l’esagerata!”
“Se intravedere vuol dire mostrare le mie tette al mondo…”
“Ora la ammazzo.”
“Violet, porta pazienza, è una bigotta. Hai un bel
seno, mostralo!”
“Non sono te,
razza di donna
scarlatta!”
“Di capelli e di fatto, cocca.”
“Ragazze…”
“Mamma, dì loro qualcosa!”
Avrebbe dovuto sapere che
farsi
accompagnare da Lily e Violet nella boutique da spose di Madame Yvette
– dove
tutte le streghe per bene andavano a cercare l’abito del
Grande Giorno - avrebbe
significato uno stillicidio senza
fine. Avrebbe dovuto saperlo, pensò Rose fissando scornata
le sue tette balzare
fuori dal corpetto, eppure anche sapendolo … avrebbe potuto
fare qualcosa?
No,
non se la prima è la mia damigella d’onore e la
seconda è la rappresentanza sboccacciata di tutte le
mie cugine. Oltre che
un’impicciona.
Gli arbitri di quella
disputa
ad armi impari erano sua madre, che sorvegliava tutto con un sorriso
divertito
lanciando solo fugaci occhiate ad una cartellina di un caso che stava
seguendo
e Lady Astoria che per l’occasione aveva un inquietante
brillio negli occhi,
quasi fosse una bambina di fronte all’insegna di Mielandia.
“È
già il ventesimo vestito da
sposa che mi provo … A me piaceva…”
Annaspò sotto lo sguardo di ben quattro
donne. “… Boh.” Sussurrò
affranta mentre Violet alzava gli occhi al cielo.
“Sei un disastro
Weasley. Ma
come scegli di solito nel tuo armadio, ad occhi chiusi?”
“Nel suo armadio
trovi solo
jeans, magliette a tinta unita e maglioni monocolore. Una precauzione
visto la
sua totale mancanza di senso estetico. Qui però è
difficile, le sembreranno
tutti uguali…” Ghignò Lily passando le
dita su uno degli abiti accatastati
tutti attorno a lei.
“Tesoro,
l’abito nuziale è un
passo importantissimo.” Rincarò la dose sua madre,
mentre Lady Astoria annuiva
con aria distratta; era l’unica che non l’aveva
ancora subissata di pareri e le
era molto grata per quello, se non fosse che sembrava una silenziosa
sfinge
ieratica.
Che
tutti giudica dall’alto della sua eleganza.
“Non posso proprio
mettermi il
tuo, di vestito? Non è tipo una tradizione passarlo di madre
in figlia?” Tentò
per l’ennesima volta, cullandosi nell’idea di poter
mettere fine a quel
supplizio.
“Te l’ho
già detto tesoro, non
abbiamo la stessa altezza e proporzioni.”
Stupida spilungaggine Weasley!
Stava per avere un crollo di
nervi, se lo sentiva. Voleva
sposare
il suo Malfoy, non vedeva l’ora, ma tutta la follia
precedente al matrimonio se
la sarebbe volentieri risparmiata. Non riusciva a capire come persone
come
Violet e Lily ne fossero così estasiate; per lei saltare da
un negozio
all’altro, scegliere il colore di fiori che non aveva mai
sentito o indossare
abiti che le prudevano da tutte le parti era un motivo di ansia non di
gaudio.
Era ansia da prestazione
sopratutto: al matrimonio avrebbero presenziato tutti i suoi parenti,
sopportabili
quando una mandria di Quintaped, più i Malfoy al gran
completo – quelli non
linciati dalla guerra o dalle loro scellerate scelte di vita. Riunire
due
famiglie del genere sotto lo stesso tendone continuava a sembrarle una
follia.
Solo
perché hanno accettato il fatto che mi sposerò
Scorpius non vuol dire che ne siano contenti.
E
sto parlando dei miei.
La data si avvicinava e
forse
per questo le sue paranoie aumentavano in maniera esponenziale.
Sospirò mentre
Violet la volgeva bruscamente verso i camerini.
Scorpius,
aiuto…
Il suo fidanzato, con quella
sua meravigliosa capacità di sorvolare sui problemi e di
aver sempre un sorriso
in bocca, riusciva a calmarla. Ma non era lì;
c’erano piuttosto quattro arpie
pronte a farle provare l’intero assortimento del negozio, se
necessario.
“Ho bisogno di una pausa.” Sussurrò
terrificata quando la commessa entrò
nell’area camerini con l’ennesima bracciata di
vestiti.
“Ne hai fatta una
mezz’ora
fa!” Esclamò Violet, che aveva assunto
egregiamente il ruolo di poliziotto
cattivo. “Piantala di lamentarti tanto, devi solo entrare e
uscire da dei
vestiti!”
“Solo?”
Lily sorrise scioccamente al
suo cellulare raggomitolata su uno dei lezioso divanetti color crema.
“Ti
guarderanno tutti Rosie, non vuoi apparire al meglio? Penso di
sì.”
Stronza.
“Ehi,
siete qua?”
Non
c’era ma adesso c’è.
La voce del suo fidanzato
era
un balsamo per le orecchie, per quanto in realtà fosse una
voce come un’altra.
Rose fece appena in tempo a allentare la smorfia in un sorriso che fu
schermata
da Violet che si frappose tra lei e l’ingresso del ragazzo.
“Scorpius, levati
dai piedi!”
Sbottò. “Non devi vedere l’abito del
matrimonio!”
“Vergogna Malfoy.” Replicò Lily, che
dietro il tono serio certo se la stava
sghignazzando perché non faceva altro da che era nata.
Continuava a guardare
quel dannato cellulare come se ne andasse della sua vita e Rose
ricordò che
Scott era più un tipo da chiamate, che da messaggi.
Non
voglio sapere. Non. Voglio.
Alzò lo sguardo
il tempo
sufficiente per dire la cosa sbagliata. “Vuoi portare
sfortuna alla tua
promessa sposa?”
Gli occhi grigi di Scorpius
si
fece enormi, mentre faceva un passo indietro e se li copriva rapido con
una
mano. “No, mai!” Esclamò e Rose non
capì se stesse scherzando o fosse serio. In
ogni caso, era adorabile. “Volevo solo godermela un
po’ dopo una lunga giornata
di lavoro.” Fece una pausa. “Mi è uscita
male … Non mi è parso di aver visto mia
madre e la Signora Weasley all’ingresso, quando mi sono
Materializzato, vero?”
“Invece
sì, Scorpius.” Sospirò
da qualche parte della stanza principale sua madre mentre il ragazzo
diventava pallido
come un lenzuolo. “Farò finta di non aver
sentito.”
“Le sono mostruosamente
grato!” Si
era cambiato dall’uniforme da auror, indossando come al
solito un accozzaglia
di roba Babbana, da un gilet ad una camicia elegante ma manchevole di
qualche
bottone. Rose adorava quello stile sofisticatamente trasandato perché Scorpius
indossava ciò che si sentiva
di essere, dai suoi sentimenti a roba recuperata da una bancarella. Era
uno dei
molti motivi per cui lo amava: riusciva ad infischiarsene
dell’opinione altrui
come mai lei sarebbe riuscita a fare.
Lo
dimostra il fatto che mi sto facendo fare mobbing.
“Rosie?”
“Aiuto.”
Si limitò a dire: una
volta tanto fare la principessa in attesa di essere salvata non le
pesava affatto.
“Fammi uscire di qui.”
“Ma il
vestito…”
“All’inferno il vestito.”
Scorpius allargò le dita per lanciarle un’occhiata
valutativa. Dovette annusare
disperazione perché fece un sorrisetto furbo.
“Chiedo scusa in anticipo per
rovinare questo momento di muliebre condivisione.”
Esordì prima di
Smaterializzarsi alle sue spalle. “Torniamo tra un
po’, fate una pausa anche
voi al caffè qui accanto, offro io!”
Prima che le due ragazze potessero protestare, Rose sentì la
familiare
compressione della Materializzazione e di colpo la boutique fu ben
lontana. Quando
riaprì gli occhi si trovò nel bel mezzo la
campagna inglese, in un meraviglioso
nulla geografico disseminato di enormi prati verdi, staccionate e
alberi
ombrosi.
“Dove
siamo?”
Libertà!
“Da qualche parte
vicino alla
casa in campagna di Bobby. Oxford forse? Siamo ad un’ora di
scopa da Londra, so
solo questo.” Rispose l’altro sciogliendola dalla
sua presa e stiracchiandosi
con un lamento soddisfatto.
Rose sorrise, assaporando a
pieno l’odore d’erba e d’estate che le
riempiva i polmoni. Era bello respirare
dopo una giornata passata a strizzarsi in corpetti dalle dubbie
capacità
ortopediche.
Scorpius si
guardò attorno.
“Ombra?” Suggerì strizzando gli occhi al
sole. “Mi sono dimenticato i tuoi
occhiali da sole a casa.”
Rose guardò il voluminoso vestito che ancora indossava e le
venne da ridere.
“Forse avrei dovuto cambiarmi prima di farmi
rapire.” Osservò. “Dici che si
sporcherà da qui al primo albero?”
“Con quanto ha piovuto puoi giurarci rosellina, ma non ti
giudicherò.” Fece un
sorrisetto. “L’intera
Sorellanza del
Perfetto Abito lo farà.”
Rose lasciò andare un lamento, prima di soffocare
un’esclamazione sorpresa
quando l’altro si chinò e la prese tra le braccia,
come un perfetto, scoppiato
gentiluomo di altri tempi. “Scorpius!”
“Cosa?” La guardò con aria innocente.
“Ti soccorro come mi hai chiesto.”
Inarcò
le sopracciglia incredulo. “Dovresti ringraziarmi.”
Rose alzò gli occhi al cielo. “E come pensi di
portarmi fin laggiù?” Indicò la
grossa quercia che distava ad almeno cinquanta metri da
dov’erano.
“Con i miei
possenti muscoli?”
“Se mi fai cadere
nel fango ti
ammazzo.”
La camminata fu
più agevole di
quanto non avesse previsto: spesso dimenticava che l’altro
fosse, a conti
fatti, un Auror e dunque prendesse parte settimanalmente ad un
programma di
esercitazioni fisiche non indifferente.
Senza
contare il regime da soldato pazzo che ha avuto
durante l’Accademia.
“Suppongo di
doverti dare più
fiducia.” Concesse quando la posò su una coperta
che aveva Materializzato con
un colpo di bacchetta. “Non sei inciampato nei tuoi piedi
neppure una volta.”
“Mica faccio Weasley o Potter di cogno-ahu!”
Si lamentò quando trovò giusto rifilargli un
pugno sulla spalla. “Sono aggraziato,
fammene una colpa!”
“Se prendi in giro
la mia
famiglia di certo.”
“Solo la sua scarsa coordinazione motoria. Sai che vi
adoro.” Ribatté stendendosi
accanto a lei e facendosi aria con il cappello di feltro leggero che
indossava
d’estate per atteggiarsi, secondo James.
Assolutamente
sì.
“Grazie per avermi
salvato, non
ne potevo più.”
Scorpius le sorrise disimpegnato, infilando una mano sotto la spessa
gonna di
tulle e ricevendone uno schiaffo. La guardò imbronciato.
“Mi merito questo per
essere stato un cavaliere?”
“Se lo sgualcisco
lo pago, e
vorrei evitare visto che è orrendo.”
Guardò un paio di pecore che curiose brucavano
nella loro direzione dietro la loro robusta staccionata di legno
inglese. “Oggi
sei uscito presto dal lavoro … Come mai?”
“Uscita premio,
visto che
abbiamo passato tutta la mattina ad inseguire due idioti che si erano
asserragliati in un ex birro burrificio. Ci siamo dovuti cambiare
perché finito
l’arresto puzzavamo come … beh, come una burro
birreria. Tuo padre quando ci ha
visti ci ha dato il resto del pomeriggio libero. Credo gli facessimo
pena.” Si
puntellò su un gomito e Rose notò che
nell’incavo del collo, poco discosta dal
tatuaggio, aveva una scottatura da incantesimo piuttosto grossa.
Si morse le labbra,
preoccupata. “Non vi siete fatti male, vero?”
Scorpius le accarezzò un fianco. “Nulla di grave
fiorellino. Avevano una mira
schifosa.” Rotolò con la testa sulle sue
ginocchia. “Ma sono molto traumatizzato
e voglio conforto.”
Rose represse una risata, passandogli le dita tra le ciocche sottili e
sentendosi in pace con il mondo: non avrebbe potuto essere
così ogni giorno
prima del matrimonio?
Perché
devo passare le mie giornate ad angosciarmi del
fatto che le petunie non sono dei centrotavola adeguati?
Sul
serio.
“Possiamo sposarci
a Las
Vegas?” Le uscì fuori prima che riuscisse a
frenarsi, facendo sgranare gli
occhi all’altro.
“Rosie?
È una cosa che direi
io!” La guardò divertito prima di leggere le
intenzioni dietro la sparata. Aggrottò
quindi le sopracciglia. “Va tutto bene?”
“Penso di non
essere tagliata
per i preparativi.” Sospirò scornata ed ammettere
quella manchevolezza era un
po’ umiliante.
Non
posso essere la sposa meno eccitata dal vestito e
dai fiori della storia.
Scorpius fece spallucce.
“L’importante è essere tagliati per il
grande giorno, no?”
“E se combinassi
un casino? O
se uno dei nostri parenti decidesse che è una splendida
occasione per lanciare
una nuova faida familiare?”
“Ci penseremo a
tempo debito.”
Le passò una mano sulla guancia ed era fresca e confortante.
“Ehi, non avrai
dato retta alle frecciatine di quelle due streghette! Violet sbava su
questa
roba da quando era una nanerottola e Lily è una specie di
organizzatrice di
eventi mancata … Per loro è divertente, tu sei
fatta diversa.”
“Troppo diversa.”
“Ed è
questo il motivo per cui
mi sposo te, e non loro.”
Rose si chinò e
nonostante il
corpetto si stesse lamentando – quella stronza di Violet le
aveva rifilato
tutti abiti di una taglia inferiore, con un messaggio neanche troppo
velato –
baciò Scorpius a lungo e con soddisfazione. Probabilmente al
dannato affare
erano saltate delle cuciture ma se ne fregò.
“Comunque sai,
sono stato un
po’ egoista.” Riprese Scorpius dopo un paio di
minuti di rinfrancante
silenzioso interrotto solo dallo stormire delle fronde sopra di loro.
“Anche io
oggi ho avuto la mia buona dose di Puzzalinfa da ingoiare.”
“Sarebbe? Burrobirra sui vestiti?”
Scorpius sbuffò,
scuotendo la
testa. “James.” E il fatto che lo chiamasse per
nome era indicativo. “Ha avuto
una scopa piantata nel sedere per tutta
l’ispezione.”
Era il momento di ricambiare
il favore e farsi confidente. “Come mai?”
“Per
Prince.” Si morse un
labbro, aggrottando le sopracciglia. “Sto cercando solo di
essere umano con il
ragazzo, e lui non lo sopporta.” Emise un verso esasperato,
strofinandosi le
mani sul viso. “A volte capisco mio padre quando dice che i
Potter sono le
creature più irritanti dell’universo. Diamine, lo
sono!”
Rimase in silenzio
perché
codice familiare le imponeva di non esprimere giudizi negativi su
nessuno
portante quel cognome. Era una specie di riflesso pavloviano.
Se
lo faccio mi vien voglia di sbattere la testa contro
uno spigolo come un Elfo.
Cattiva
Rosie, cattiva.
“Prince ti
piace?” Chiese
invece, prendendola da un altro verso.
Scorpius ci
rifletté, poi
annuì. “È un tipo in gamba.
È umile, lavora sodo e porta a casa la giornata
senza un lamento, e t’assicuro che a volte James è
una spina nel fianco. M’ero
scordato quanto potesse esserlo…”
Sospirò. “Rimane il fatto comunque. Mi vien
voglia di picchiarlo con il manico della scopa.”
“Jam sa essere un vero stronzo.” Convenne
perché quella era una verità
condivisa. “E la sai la situazione con Prince … Fa
fatica a venire a patti con
il fatto che è dalla parte dei buoni adesso.”
Non
è l’unico.
“Buoni,
cattivi…” L’altro si alzò a
sedere con una smorfia. “Il mondo non si divide
così! C’è gente che fa scelte
sbagliate e gente che cerca di rimediare. Prince è nella
seconda categoria, e
non riesco a capire perché quella capra non ci arrivi.
Avremo tutti una
situazione lavorativa migliore se lo facesse!”
“Lo
farà.” Non ne era del
tutto convinta, ma del resto suo cugino aveva cambiato idea su Scorpius
al
punto di farne il suo migliore amico: poteva farlo anche con il tedesco.
Certo,
con quello che ha combinato con Lily non ne farà
magari il suo testimone di nozze …
“La situazione in
squadra è
tesa. Il Sergente Flannery è ancora al San Mungo e le
indagini sul tizio
americano sono in stallo.” L’altro si distese sulla
coperta strizzando gli
occhi. “È dura essere quello che vede sempre tutto
positivo … specie quando non
si ha granché materiale su cui lavorare.”
“Stanco di essere RaggioDiSole Malfoy?”
L’altro fece un
pallido
sorriso. “Te l’ho detto, oggi non sei stata
l’unica ad aver avuto voglia di
scappare.”
Rose si stese accanto a lui, posandogli la testa sulla spalla.
“L’ipotesi Vegas
è sempre aperta.”
****
Diagon
Alley, Accademia Magica di Duello.
Pomeriggio.
Finire le sue giornate
all’Accademia Magica di Duelli stava diventando una routine.
Sören chinò la testa verso il ragazzo che si era
offerto di fargli da compagno
di allenamento in quelle due ore, stringendogli la mano.
“Buon movimento della
bacchetta.” Offrì anche se le barriere e i
contro-incantesimi che gli erano
stati lanciati non l’avevavano mai messo in seria
difficoltà.
Ma
almeno mi sono sfogato.
Il
ragazzo fece un breve sorriso
stanco e dopo aver eseguito l’inchino di commiato si
slacciò il corpetto
scarlatto che tutti gli allievi indossavano e si allontanò
verso gli spogliatoi
lasciandolo solo.
Sören tornò quindi alla pedana, stirandosi il collo
e le spalle per scacciare
gli ultimi rimasugli di tensione rimasta. Era ancora presto; poteva
spostarsi
nella sala attigua dove, grazie ad una serie di manichini incantati da
un Locomotor, avrebbe potuto
allenarsi senza
dover chiedere assistenza di nessuno.
Di
solito preferisco avere qualcuno di vivo a parare i
miei colpi…
Non
gli andava però di disturbare uno
dei maestri per chiedergli un incontro, dato che molti erano impegnati
ad
insegnare. Quello e il fatto che non gli andava di attirare troppo
l’attenzione
su di sé. Si rendeva infatti conto da solo che le sue
tecniche di duello erano
un po’ troppo avanzate, se non violente – come
aveva sentito sussurrare ad uno
dei ragazzi che aveva sfidato in quei giorni.
Non
puoi biasimarli. Queste persone si allenano per diletto
o per migliorare le proprie capacità magiche. Tu ti allenavi
per uccidere.
Serrò le labbra:
aveva bisogno
di scaricare la tensione accumulata al lavoro e quello era
l’unico modo che
conosceva.
Per
quanto possa spaventare gli allievi.
Venire a sapere che Johannes
era ancora vivo e che le loro strade si erano di nuovo incrociate
… no, non era
ancora riuscito a metabolizzare la cosa; non avere punti fissi su cui
indagare
peggiorava solo la situazione.
“Sören!”
Lo sorprese una voce
accentata che conosceva bene. Voltandosi si trovò infatti di
fronte al sorriso
franco e sincero di Dionis che lo spinse a ricambiare; era raro essere
accolto
da un’espressione simile.
Per
il lavoro che faccio e per chi sono, nessuno è mai
troppo contento di vedermi.
“Dionis.”
Gli strinse la mano.
“Lieto di vederti.”
“Mi hanno detto che c’era un tedesco dalla
bacchetta veloce e dalla tecnica
impressionante che sfidava tutti i nostri allievi migliori …
Ho subito pensato
a te.” Inarcò le sopracciglia con aria di
rimprovero. “Perché non mi hai detto
che venivi ad allenarti qui?”
“Non volevo disturbarti, so che segui molte classi di
pomeriggio.”
“Si trova sempre tempo per un amico.” Rispose
l’altro con serietà facendogli
sentire un discreto calore al petto. Doveva essere questa la sensazione
di
essere apprezzato da qualcuno che stimavi. “Ti sei battuto
con Cooper, ho
visto. È uno dei miei, che te ne sembra?”
“Rapido negli
attacchi, ma le
sue barriere contro-incantesimo sono piene di sbavature, deboli. Si
distrae
quando pensa di aver messo a segno un punto.”
Osservò, prima di registrare
l’ultima frase. “Non intendevo
dire…” Annaspò a disagio.
Dionis lo guardò
divertito.
“Hai perfettamente ragione. Si culla troppo del successo a
breve termine e non
capisce che ciò che conta è il risultato finale.
Capita spesso, con questi
inglesi …” Si strinse nelle spalle con una lieve
smorfia. “Vengono da club di
Duellanti dove insegnano che l’importante è
partecipare e mettere a segno
quanti più punti possibile. E sono delle vere teste dure,
non riescono a capire
che il principio su cui si basa il Duello magico è
completamente diverso.”
Sören
aggrottò le
sopracciglia. “La vittoria dell’uno, la sconfitta e
probabile morte dell’altro?”
Dionis annuì come
se avesse
detto una profonda verità sconosciuta ai più.
“Purtroppo qui hanno smesso di
duellare seriamente da così tanto tempo che se lo sono
dimenticato.” Gli
rivolse un nuovo sorriso. “Volevo offrirti un
caffè, ma credo tu preferisca allenarti
ancora. Mi sbaglio?”
Sören sorrise di rimando. “Non sbagli.”
Battersi con Dionis era
stato
rinfrancante.
Con il fiato corto, i
polmoni
in fiamme e le ossa doloranti Sören si sentiva più
vivo che mai. Si era già
battuto con il rumeno, durante il suo soggiorno infausto ad Hogwarts,
ma era
felice di constatare che per l’altro quei cinque anni non
erano stati d’ozio;
aveva anzi lavorato su suoi punti deboli, migliorando i suoi talenti,
soprattutto la capacità di attacco – quella che
probabilmente insegnava come
prima cosa ai suoi allievi. Lo aveva messo in serie
difficoltà più di una volta
e l’incontro si era concluso con un punteggio pari.
Sören si
inchinò in un saluto
rispettoso, per poi andare a stringere la mano dell’altro,
sperando di trasmettere
con quel gesto la gratitudine che sentiva.
Erano
… giorni … che non mi sentivo così.
“Mi avevi promesso
uno scontro
ad armi pari.” Esordì. “Ti
ringrazio.”
“Felice di non aver deluso le tue aspettative.”
Rispose l’altro con aria
soddisfatta. “Una birra?” Ridacchiò alla
sua esitazione. “Non Burrobirra. Vicino
a dove abito c’è un piccolo emporio che importa pilsner ceca artigianale, ne ho qualche
bottiglia in fresco nel mio
ufficio. Davvero pensavi ti avrei offerto quella roba
dolciastra?”
“Confido che tu
abbia gusti
migliori.” Ironizzò accettando la pacca che gli
venne data sulla spalla. Si
sentiva meglio, indubbiamente.
Ma
almeno l’ho finita in compagnia di un amico.
Fu dopo una doccia e con un
boccale di birra meravigliosamente gelata in mano che, seduto su una
comoda
poltrona di cuoio nell’ufficio del rumeno, sentì
il proprio cellulare trillare
allegramente. Tirandolo fuori dalla tasca ci mise più di
qualche attimo a capire
che aveva ricevuto un messaggio.
Da Lily.
Si affrettò a leggerne il contenuto.
‘Buongiorno
Ren! Sopravvissuto al fine settimana?’
Sorrise, ignorando
l’espressione incuriosita del rumeno. “Scusa, un
messaggio.” Borbottò cercando
di premere sui tasti inesistenti per comporre una risposta.
‘Sì,
ti ringrazio, e tu?’
Non
sarebbe mai venuto a capo di quel
genere di comunicazione, sarebbe sembrato sempre un ritardato,
ormai se ne era fatto una
ragione.
‘Direi
di sì, visto che sto guardando Rose avere una
crisi isterica sul proprio abito da sposa. La promessa sposa
più divertente di
Diagon Alley!’
Lanciò
un’occhiata di scuse a
Dionis. “È Lily.” Spiegò.
“Una crisi familiare, credo.”
“Ah, sì … ce ne sono di continuo, ti ci
abituerai.” Scrollò le spalle l’altro,
dando un sorso al suo boccale. “Nulla di grave,
spero.”
“Dal tono del messaggio non direi.”
‘Ho
sentito parlare dell’agitazione tipica delle
promesse spose. Sei lì per consigliarla?’
‘Ridere
di lei, in realtà, ma la scusa ufficiale è che
sono qui in veste di consulente, sì.’
‘Chissà
perché, non lo mettevo in dubbio.’
‘Il
mio vero ruolo o quello supposto?’
‘Entrambi.’
‘Cattivo
Ren! Sono molto, molto offesa!’
“Le cose stanno
andando bene
tra di voi, mi sembra di capire.”
Sören oscurò lo schermo sentendosi stupidamente
imbarazzato dalle parole dell’altro.
Non c’era nessun motivo di temere un giudizio, tuttavia
sentiva che proteggere
quella neonata amicizia era suo dovere. “Sì, alla
fine ha perdonato le mie …
omissioni.” Non si sbilanciò. “Come hai
visto alla festa, stiamo cercando di
essere amici.”
Dionis annuì.
“Sono contento,
Lily Luna è una brava ragazza. A volte penso che molti degli
atteggiamenti che
ha servano per mascherare quelle che ritiene debolezze e che in
realtà, a mio
avviso, sono pregi.” Sorrise alla sua aria stupita.
“Lei e Roxanne si
somigliano molto.” Guardò una delle fotografie che
teneva sulla scrivania,
quella del suo matrimonio, a giudicare dalla preponderanza di bianco e
gente
coi capelli rossi presente nell’inquadratura. “Sono
donne che vanno scoperte.”
Gli lanciò un’occhiata strana. “Sono il
genere di sfida di cui un mago ha
bisogno.”
Sören non sapendo
come
rispondere senza rivelarsi drammaticamente, scrollò le
spalle. “È una visione
romantica.”
“Non la condividi?”
Sperò di non
essersi messo a
boccheggiare, perché sarebbe stato fin troppo palese.
Non fece in tempo ad
indagare
che qualcuno bussò con forza alla porta.
“Avanti.” Rispose l’altro guardando
perplesso il ragazzo affannato che vi si affacciò. Era
l’allievo con cui si era
battuto prima, Cooper. “Dionis, mi chiedevo se …
oh, perfetto!” Esclamò
individuandolo. “Lei è un auror, vero?”
Gli si rivolse.
“Non esattamente,
in America
non esistono…” Vedendo che non era il caso di
lanciarsi in spiegazioni data
l’aria agitata del mago, si alzò in piedi.
“Cosa succede?”
“Uno degli
allievi, Signore. È
impazzito. Si stava battendo quando è crollato a terra,
credevamo si stesse
sentendo male, ma poi ha aggredito il suo compagno di allenamento
e…” Si fermò,
squadrandoli con aria confusa. “Non riusciamo a farlo
ragionare, né a
fermarlo.”
“Avete chiamato i
Tiratori
Scelti?” Che erano gli agenti che lì, in
Inghilterra, gli sembrava di ricordase
si occupassero dell’ordine e la sicurezza dei cittadini.
La polizia Babbana.
“Stanno
arrivando.” Confermò. “Ma
…”
“Ho capito.” Si lanciò uno sguardo di
intesa con Dionis che gli si affiancò immediatamente,
quasi gli avesse letto nel pensiero. “Fa’
strada.”
La situazione si prospettò grave nel momento stesso in cui
mise piede nella
sala che aveva lasciato solo mezz’ora prima;
l’ambiente fortunatamente deserto era
stato messo a soqquadro, come se un Incantesimo Esplosivo fosse stato
scagliato
dove ora era fermo il mago aggressore.
A Sören ci volle
una semplice
occhiata per capire cosa stava succedendo. Un’occhiata e con
lo stomaco
contratto e la bacchetta a portata di mano si voltò verso
Dionis, alle sue
spalle. “Chiama gli auror.” Disse. “Il
caso è loro.”
E mio.
Perché
l’allievo che stava in
mezzo alla sala distrutta aveva la stessa, identica cosa di Howe e
Flannery.
****
Note:
Capitolo un po’ di passaggio, ma dal prossimo si entra di
nuovo nel vivo
dell’azione.
La canzone della festa è questa
mentre questa
la
canzone ad inizio capitolo.
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Capitolo 19 *** Capitolo XVIII ***
Capitolo XVIII
All my
fear is coming home, And it’s ripped out for the show.
You can’t be me, I will become you.
(Crush,
Pendulum)
Londra,
Diagon Alley. Laboratorio di Rupert Stevens.
Pomeriggio.
Those who came before me lived
through their vocations
From the past until completion they will turn away no
more¹…
“Non dovresti
essere a casa a
quest’ora, Thomas?”
Tom si impose di non sobbalzare quando sentì la voce del
proprio datore di
lavoro invadere il suo spazio personale; doveva essere un po’
che tentava di
attirare la sua attenzione, perché di solito
l’uomo si guardava bene dal fare
quell’errore.
“Perdonami.”
Disse infatti
quando abbassò di malavoglia le cuffie con cui aveva cercato
di isolarsi dai
clienti; non si era accorto che se ne fossero andati. “Ti ho
chiamato tre
volte.”
“Stavo leggendo.” Chiuse il plico di fogli
spillati, copia delle cartelle
mediche che Albus ormai si portava in giro come se fossero
un’estensione di sé
stesso. “Non volevo essere interrotto.”
“L’avevo capito.” Sorrise
l’altro sfiorando con dita leggere la carta sparsa
sul tavolo. “Non mi sembra una bacchetta.”
“Perché non lo
è.” Convenne
per niente turbato dall’essere
stato scoperto a non lavorare.
Se
sono qui, non è per guadagnarmi un salario. Sono qui
perché amo l’Arte delle Bacchette.
Che
al momento non è una mia priorità.
“Stai battendo la
fiacca?”
Ironizzò infatti senza acrimonia. “Di cosa si
tratta? Non è un libro, sembrano
documenti.”
“Sono referti medici.” Alla sua espressione
sorpresa si strinse nelle spalle.
“Sto dando una mano ad Albus con un caso.”
L’artigiano aggrottò le sopracciglia.
“Questo tipo di documenti non è coperto
da segreto professionale?”
La domanda non meritava neanche una risposta e quello dovette intuirlo,
perché
fece un mezzo sorriso. “Cosa ha attirato la tua attenzione,
Thomas?”
Quello che gli piaceva di
Rupert Stevens era la curiosità: se gli interessava qualcosa
non c’era niente
che potesse frenarlo: in questo erano maledettamente simili.
“In teoria,
nulla.” Fece una
smorfia tirata, aprendo il blocco degli appunti su cui aveva annotato i
suoi
pensieri. “Il sergente auror dell’unità
di James è stato contagiato da una
malattia apparentemente mai vista né sentita … e
ovviamente, neppure curata.”
“Albus non si occupa di Lesioni da Incantesimo?”
L’artigiano Appellò una sedia
e vi si sedette sopra, avvicinandola al suo tavolo da lavoro. Tom non
poté
nascondere un sorriso: era un miracolo che riuscissero a finire le
proprie
consegne con solo qualche mese di ritardo data la reciproca propensione
a distrarsi.
“Sì, ma
hanno chiesto un
consulto al suo Capo Guaritore e lui ha colto l’occasione
… Sai com’è con la
sua famiglia.”
“Niente viene prima, niente viene dopo .” Convenne
divertito. “E tu come
rientri nell’equazione? Albus ti ha chiesto di aiutarlo a
smaltire del lavoro?
Non sembra da lui.”
“Non sa che ho
copiato le sue
cartelle.”
“L’ha fatto di nascosto, mentre dormiva?”
Non si scompose. Era per questo che
aveva deciso di bussare a quella porta e mettersi al suo servizio:
Stevens non
faceva mai domande sui mezzi a volte opinabili che adoperava, solo sui
risultati che raggiungeva. Non era stato affatto sorpreso –
piuttosto
rinfrancato – quando aveva scoperto che aveva militato nelle
file gloriose dei
verdi-argento.
“Pensavo la
Medimagia non ti
interessasse.”
“Infatti, la trovo
noiosa.”
Confermò. “È tutto un distillare
pozioni, ascoltare idioti convinti di avere
morbi incurabili e sopportare le loro lamentele. Non è come
voglio impiegare il
mio tempo e la mia intelligenza. Però … questo
caso è diverso.” Serrò le
labbra, perché in quel rompicapo vi era caduto con tutte le
scarpe: aveva
sempre amato le sfide mentali e Medimagia o meno, quei referti urlavano
battaglia di ingegni ad ogni riga.
Capisco
perché Al si sia convinto che è
un’opportunità
d’oro per il suo curriculum.
“Di solito una
malattia altera
o indebolisce le capacità magiche di un mago …
questa no, le aumenta al punto
che la persona perde coscienza di sé e diventa un
agglomerato di potere fuori
controllo.” Spiegò riassumendo quando aveva
appreso in quei giorni di letture e
riflessioni. “Il periodo di incubazione è breve e
i sintomi non sono stati
riscontrati in nessun altra malattia conosciuta fin’ora
… Quelle che ho copiato
sono cartelle di casi provenienti da tutti i Ministeri del Mondo che
presentano
casistiche simili.”
“Ma non uguali, quindi sono state un buco
nell’acqua.”
“Esatto.” Guardò la propria bacchetta
posata sul tavolo, silente e fedele
compagna da quando era diventato un mago. “La cosa
più sconcertante è l’uso di
magia senza bacchetta … Né Samuel Howe, il primo
paziente, né il Sergente
Flannery, l’auror che è stato contagiato, erano
capaci di usarla eppure hanno fatto
magie che hanno messo in difficoltà degli agenti armati.”
“Non sembrerebbe una malattia se non facesse
ammalare.” Ironizzò l’artigiano.
Tom ricambiò il
sorriso,
pensando a cosa si doveva provare a padroneggiare il proprio dono senza
il
bisogno di avere un ausilio.
Non
esistono molti maghi al mondo capaci di esser tali
senza una bacchetta.
Sia Harry che Hermione,
rispettivamente
il mago e la strega più potenti e precisi nei loro
incantesimi che conoscesse,
non vi riuscivano e lui stesso, con tutto ciò che era stato
in un’altra vita, a
meno che non fosse in preda alla rabbia sapeva a malapena scaldarsi una
tazza
di the.
“È
stato ipotizzato che si
tratti di un esperimento di Magia Oscura andato storto
…” Aggiunse per radunare
i pensieri. Avere un interlocutore, aveva scoperto, aiutava.
“Ma non si riesce
a capire come si sia passati da un esperimento Oscuro ad una
malattia.”
“Pensi di
riuscirci tu?”
Era una domanda neutra e non vi era sarcasmo, tuttavia Tom si
sentì a disagio:
non era un guaritore né un auror e non aveva le competenze
né il diritto di
mettersi in mezzo.
Solo
che lo stai già facendo, vero? E ti piace.
Hai
tanto criticato Albus perché si è immischiato
rinunciando alla vostra serenità… Ma tu?
Ipocrita.
Questa faccenda ti affascina, non negarlo.
“Penso di aver
affrontato
misteri e problemi peggiori.” Si limitò a dire.
Stevens non
commentò,
limitandosi ad un cenno della testa simpatetico; quell’uomo
dai sensi offuscati
ma dalla mente brillante era la perfetta spalla per pensare. Tom non
l’avrebbe
mai ammesso apertamente – non era nelle sue corde
né mai lo sarebbe stato – ma
tornare a casa dopo una giornata in laboratorio e realizzare di aver
fatto un
discorso più lungo di qualche frase con qualcuno che non
fosse Albus o Meike
era … gradevole.
“E come la si
contrae?” Gli
chiese. “Perché è il punto della
faccenda, non credi? Una malattia sconosciuta
e per ora senza cura … C’è da chiedersi
se il mago della strada debba preoccuparsi.”
“Non hanno ancora
scoperto la
modalità di contagio.” Fece una smorfia.
“L’unico ad essersi ammalato della
squadra auror è stato Flannery.” Scosse la testa.
“Cos’aveva di diverso?”
Era una frase che aveva
sentito borbottare ad Albus durante quei giorni ed era la stessa che
gli era
rimbalzata tra le sinapsi, in gran segreto, per lo stesso lasso di
tempo.
Perché
Flannery e non James … o Malfoy?
Stevens si strinse nelle
spalle. “Una predisposizione?” Suggerì.
“A costo di sembrare razzista,
differenza tra Purosangue e Mezzosangue? È cosa nota che
alcune malattie, come
il Vaiolo di Drago, colpiscono i Purosangue con maggiore
incidenza.”
“Perché vi è una predisposizione
ereditaria.” Obbiettò. “È per
via degli
incroci tra consanguinei, non accade solo ai maghi. Non è
questo. Non riesco…”
E gli costava dirlo. “… a capire.”
“Perché
non sei un guaritore,
Thomas, né lo sono io. Siamo artigiani.”
Sospirò l’altro alzandosi in piedi e
orientandosi per tornare al proprio tavolo da lavoro.
“Capisco la curiosità e
la tua voglia di aiutare Albus, ma temo che non riusciremo a venirne a
capo con
il solo aiuto dei nostri, seppur notevoli, cervelli.”
Concluse con un sorriso
che sfumò in una palese frecciatina.
Tom non la
contestò, per
quanto trovasse frustrante esser finito di fronte ad un muro che non
era capace
di superare. “Con le bacchette non mi è mai
successo.” Sbottò sentendosi
piuttosto ridicolo e non riuscendo comunque a frenarsi.
Stevens inarcò le
sopracciglia. “Questo perché, se permetti, hai
avuto chi ti ha guidato e ti ha
introdotto all’arte. Molto rimane inavvicinabile da
autodidatti senza
qualcuno che si prenda sulle spalle la
responsabilità di introdurti ad uno studio o ad una
professione.”
Se l’accendersi della famosa lampadina – o Lumos
– non fosse stata solo una figura retorica, Tom se la sarebbe
vista apparire
davanti. “La responsabilità.”
Mormorò. “Il Sergente Flannery aveva la responsabilità della
squadra.”
Ricordò di colpo quanto James aveva raccontato durante il
compleanno di Malfoy;
Al lo aveva obbligato a sedersi allo stesso tavolo del fratello e Lupin
(‘Perché non possiamo
passare tutta la serata
a ignorare gli altri, sì, anche se li consideri capre
indegne della tua regale
attenzione, razza di misantropo’) e aveva
così finito per ascoltare
l’intero resoconto della battuta di caccia
all’americano.
“Liam Flannery è stato l’ultima persona
a colpire Samuel Howe.” Si alzò in
piedi e fece levitare i fogli fin dentro la la sua tracolla,
passandosela su
una spalla. “So qual è il veicolo di
contagio.”
Stevens batté le palpebre in piena confusione, ma quando lo
sentì muoversi
verso di lui e in direzione dell’uscita si scostò
per lasciarlo passare. “Temo
che il filo logico mi stia sfuggendo completamente
…”
“È stata davanti al nostro naso e a quello dei
guaritori per tutto il tempo.
Naturalmente era invisibile.” Prese la bacchetta per
Smaterializzarsi, perché
aveva fretta di condividere la scoperta con Albus: se fosse stata
corretta - e
lo era – sarebbe stata un’informazione da pestare
nella zucca degli auror il
prima possibile.
O
rischiamo di avere una maledetta epidemia.
“È la
magia.”
“È
la magia.”
Chiunque
conosceva Tom quanto lui sapeva
quanto adorasse le entrate ad effetto; annunciarsi e far capire ad
un’intera
platea che era lui l’evento era una delle sue gioie segrete.
Al lo aveva sempre
saputo, come aveva sempre saputo di essere mago.
Una
di quelle certezze della vita.
Alzò lo sguardo
dalla cartella
medica del paziente che stava seguendo, un brutto caso di Spaccamento
che aveva
lasciato il poveretto di fronte a lui privo delle orecchie e di due
dita della
mano.
“Sto visitando un paziente…”
Tentò indicando l’uomo che ad onor del vero non
sentiva assolutamente nulla e fissava Tom come se fosse
un’allampanata
apparizione.
Sospetto
trauma cranico? Bene … quello o trova il mio
ragazzo interessante.
Propendeva per la prima
ipotesi considerando che Tom non era molto attraente nella sua tipica,
sebbene ormai
rara, aria allucinata.
“Il tuo paziente
può
aspettare!”
“No, non
direi.” Incrociò le
braccia al petto. “Cosa succederebbe se entrassi nel
laboratorio di Rupert
gridando così quando lavori?” Non
aspettò la risposta. “Mi trasformeresti in un
pollo o mi sbaglio?”
L’altro ebbe il buongusto di non ribattere.
“È importante.” Ripeté
cocciuto,
passandosi la tracolla da una spalla all’altra: era
così piena che le cuciture
erano sotto sforzo ed era strano, visto che padroneggiava con
disinvoltura
l’incantesimo di Estensione Irriconoscibile.
Era
così di fretta da non lanciarlo sulla roba che ci
ha messo dentro?
Forse
la faccenda era meritevole di
qualche domanda in più. Sospirò, agganciando la
cartella al lettino del
paziente e mimando che sarebbe tornato tra qualche minuto.
“Non provare mai a
prendere la
patente per la Materializzazione per corrispondenza … Questi
sono i risultati.”
Disse. L’altro per tutta risposta lo tirò
nell’angolo più buio del corridoio
guardandosi attorno con fare sfuggente.
“Che hai
combinato?” La
domanda era inevitabile e venne ricompensato da uno sguardo da gatto
che si era
fatto le unghie sui mobili.
“Premetto che ho
preso le
cartelle mediche che hai portato a casa e le ho copiate con un Gemino.”
“Cosa?” Si
impose di non urlare né di
mettersi le mani nei capelli, perché il reparto Lesioni
aveva occhi e orecchie
ovunque. “È un reato!”
“Solo se viene
scoperto.” Fu
la sconfortante replica. “E prima che tu decida che debba
dormire sul divano
per il prossimo mese…”
“Troppo tardi.”
Tom fece una smorfia irritata ma continuò come se non
l’avesse ascoltato. “…
forse ti interesserà sapere cos’ho
scoperto.”
Oh.
Non sciolse però
le braccia
che aveva serrato al petto, in un’imitazione che avrebbe reso
fiera nonna
Molly. “Hai fatto una scoperta dall’alto della tua
profonda conoscenza della
Medimagia?”
“Si tratta di ragionare.” Ritorse e non fu
una sua
impressione, benché le luci del piano fossero soffuse,
arrossì. “E se
permetti…”
“Taglia corto, ho un paziente senza orecchie che mi aspetta e
Morgana solo sa
come farò a mimargli di prendere le pozioni senza
infilarsele dalla parte
sbagliata.” Poi fece mente locale sulla frase con cui il
disgraziato era
entrato in scena. “Cosa c’entra la magia?”
Il suddetto si
stampò in
faccia un sorrisetto soddisfatto che gli sarebbe valso un pugno, se non
fosse
stato tremendamente affascinante.
Ho
un debole per il suo cervello. Un tremendo debole.
“È il
veicolo del contagio. Il
virus si è trasmesso attraverso di essa.”
Spiegò come se fosse ovvio e lui
fosse scemo: erano in momenti come quello che gli prudevano le mani
dalla
voglia di pestargli in zucca un po’ di diplomazia.
O
almeno insegnargli come non far sentir cretino
l’umano creato. Un giorno qualcuno gli farà
saltare le chiappe con una Maledizione.
E
sarebbe un peccato.
“In che
senso?”
“Liam Flannery
è stata l’ultima
persona a scagliare uno Schiantesimo su Samuel Howe, giusto?”
Gli chiese ed era
retorico dato che sapevano entrambi com’era andata grazie al
resoconto cruento di
James la sera della festa di Malfoy.
“E con
questo?”
“Uno dei sintomi
è l’aumento
abnorme di capacità magica …
Come se il sergente fosse una pila e fosse stato caricato oltre la sua
capacità
di tolleranza. Albus, immagina un fulmine che colpisce una centralina
elettrica!” Si stava spazientendo e avrebbe tanto voluto
dirgli che nessuno di
quei paragoni aveva senso per lui, ma cercò invece di
ricordare qualcosa della
massa di nozioni Babbane che l’altro gli vomitava a getto
continuo a casa,
pretendendo anche che se le ricordasse.
Ah.
Già. La faccenda
dell’elettricità…
La realizzazione lo
colpì come
un Bolide. “Vuoi dire che la magia dell’americano
è entrata dentro Liam
facendo impazzire la sua?”
“Non è
quello che succede
quando un mago si scontra con un altro?” Gli chiese,
afferrandogli una mano e
premendosela sul petto, quasi volesse simulare l’atto.
“Attraverso le bacchette
si scontrano i flussi magici, e una parte della magia
dell’uno finisce addosso
all’altro … Pensa a quello che è
successo a tuo padre, alla sua cicatrice e al motivo per cui ha
imparato il
Serpentese.”
Al boccheggiò
perché quelli erano
paragoni che poteva capire,
finalmente. “Ma … Liam ha poi attaccato la sua
squadra, e nessuno si è
ammalato.” Obbiettò perché qualcuno
doveva fare la parte dell’avvocato del
diavolo. “La persona che lo ha fermato alla fine è
stato Prince, ma i suoi
livelli di magia sono stati testati ed erano nella norma. Sta
bene.”
Tom scosse la testa.
“Prince
non è un mago normale.”
“Non spiega
tuttavia perché
non si è ammalato.” Replicò, ma quella
teoria aveva senso, più senso di
qualsiasi altra vagliata fino a quel momento. “A meno che,
certo, non siano
cambiate le tempistiche … Il Sergente Flannery si
è ammalato nel giro di pochi
giorni mentre Sam Howe era in Inghilterra da settimane.
Non è arrivato qui con qualcosa di conclamato.”
“Non con i
controlli del
Ministero all’entrata di ogni mago straniero tramite
Passaporta Continentale.”
Convenne Tom: entrambi conoscevano quelle procedure dato che Meike
prima di
prendere la cittadinanza ufficiale del Ministero Inglese aveva passato
anni a
fare da spola tra Londra e la Germania.
“Quindi Prince
dovrebbe esser
già malato, se il periodo di incubazione si è
ridotto. Non lo è, quindi è sano.”
Tom non concluse la frase e Al vide un guizzo di sollievo
affacciarglisi nello
sguardo.
Non
hanno rapporti e non si sono considerati alla festa
di Sy … Però è pur sempre suo cugino.
Abbandonò ogni
proposito di
fare il suo lavoro per quel giorno e sospirò.
“Vieni con me.”
Scesero fino a Malattie
Infettive e non trovarono nessun ostacolo nell’oltrepassare
l’auror di guardia
alla stanza del sergente Flannery.
Perché
non c’è?
Capì il motivo
della defezione
quando vide che James era seduto al capezzale dell’uomo.
“Ehi.” Lo salutò
disimpegnato, sperando che l’altro non si ricordasse che
quella stanza era
accessibile solo agli auror e agli addetti ai lavori: voleva evitare di
veder
lui e Tom arruffare le penne.
“Che ci fate voi
qui?”
Dannata
memoria da elefante.
“Il mio reparto
segue questo
caso in congiunzione con Malattie Infettive.” Gli
rammentò pazientemente. “Sono
venuto a visitarlo.”
James sbuffò,
stringendosi
nelle spalle. “Non me lo ricordavo.”
Indicò con un cenno della testa Tom dietro
di lui. “E Tommy?”
“Ha una
teoria.” Si limitò a
dire. Si avvicinò al capezzale del sergente e gli prese il
braccio destro esaminandolo
con attenzione.
“Al!”
Lo richiamò l’altro affiancandoglisi, ricordandosi
improvvisamente che il suo compito era far rispettare le regole.
“Non dovreste
stare qui! Tu dovresti essere accompagnato da Sam e lui è un
aggiusta -
bacchette, non un medico!”
È
meno scemo di quanto uno pensi … me ne dimentico
sempre.
“Come,
prego?”
“Chiudete il becco. Entrambi.” Li fermò
esasperato prima
che potessero mettersi a misurare la lunghezza delle rispettive
bacchette. Quando
ebbe trovato ciò che cercava non poté frenare
un’imprecazione. “Tom, hai
ragione. È la magia.”
L’altro si avvicinò, ignorando lo sguardo di fuoco
che gli venne lanciato da
James. “Cosa ti ha convinto?”
Per tutta risposta gli
mostrò una
bruciatura che ricalcava le vene che dall’incavo del braccio
si diramavano fino
all’attaccatura del polso. “Avevamo pensato che si
trattasse di una semplice
bruciatura da contraccolpo di incantesimo.”
Spiegò. “Ne vediamo di continuo
sulle braccia degli auror e in quelle dei Tiratori
Scelti…”
James aggrottò le
sopracciglia,
chinandosi per studiarla. “E non è
così? Perché a me sembra quello!”
“Liam è
stata l’ultima persona
ad aver lanciato un incantesimo a Samuel Howe prima che si riducesse in
cenere,
giusto?”
Suo fratello
spalancò gli
occhi. “È per questo che si è
ammalato?”
Al si scambiò uno
sguardo con
Tom e poi riassunse quello che l’altro gli aveva detto,
spiegando e
approfondendo il discorso quando vide che James era un osso assai
più duro da
convincere. Ma il ragionamento era corretto e alla fine suo fratello si
risedette sulla sedia accanto al capezzale del sergente Flannery,
fissandolo inespressivo.
“Merda.” Commentò passandosi una mano
trai capelli. “Questo non facilita le
cose.”
Non c’era una
risposta che non
rendesse la situazione ancora più angosciante. “Ne
devo parlare con Finnigan e
Smethwyck.” Si risolse a dire. “Per ora sono solo
speculazioni.”
James annuì.
“C’è sempre più
puzza di Magia Oscura, eh?” Non aspettò risposta,
forse perché la poteva
indovinare dalle loro espressioni. “Quante malattie magiche
nascono dagli
intrugli Oscuri?”
“Non molte. Le
poche che sono
state documentate sono state create centinaia di anni fa, da stregoni
che
volevano sottomettere villaggi o farla pagare a re che avevano fatto
loro un
torto. Storie… Il problema è uno solo.”
Si strinse nelle spalle ma non poté
impedirsi un leggero brivido. “Tutte le malattie attuali
derivano da quelle.”
“Quindi si
può guarire!”
Fece un sorriso dolente. “Da quelle attuali.”
Sottolineò. “Dopo anni di studio per trovarne la
cura.”
Suo fratello
sgranò gli occhi,
mentre il peso delle sue parole lo investiva a pieno. Poi
masticò
un’imprecazione tra i denti. “Perché
creare una roba del genere? Prince dice…”
Si fermò, stupito lui stesso dal voler quotare quello che
riteneva il
depositario ultimo di tutti i suoi malumori. Con un grosso sospiro si
fece
forza e continuò. “Prince dice che potrebbe essere
stato un incidente, qualcosa
venuto fuori per sbaglio cercando di creare
qualcos’altro.”
“Non sarebbe la
prima volta
che il Mondo Magico deve affrontare un problema per via di uno sbaglio
di
laboratorio. O di chi usa la Magia oscura come se fosse il Piccolo
Pozionista”
Osservò Tom con una smorfia ironica che Al capì
fin troppo bene e lo spinse a
stringergli appena la mano nella sua.
Prima che potessero
però
esplorare ulteriormente quel pensiero un Gufo batté
violentemente il becco
contro la finestra, agitando le ali per farsi dare udienza.
James slegò la
pergamena che
l’animale aveva tra le zampe. “È
dall’ufficio.” Sbuffò rompendo il
sigillo con
l’unghia. “A volte vorrei che si ricordassero che
abbiamo degli Specchi
Comunicanti e i cellulari, e tutti e due sono molto più
veloci!”
“Il Ministero è un’istituzione
reazionaria per principio, dubito che
cambieranno certe modalità in tempi brevi.”
Osservò Tom.
“Reache?”
“Lascia perdere, Jamie.” Al dovette frenarsi per
non ridere, perché conosceva
fin troppo bene la coda di paglia del fratello e la sua propensione a
diventare
fisico quando questa gli veniva
pestata.
Ci
manca si mettano a litigare per concludere in gloria
questo siparietto orrendo.
James scorse le righe della
lettera e sbiancò di colpo. “Merda.”
Ripeté. “Ne abbiamo un altro!”
“Cosa?!”
Com’è
possibile? Non torna con le tempistiche, Howe è
morto da troppo tempo e il Sergente si è scontrato solo con
…
“È
qualcuno che conosciamo?”
Mormorò sentendo il cuore battere come un tamburo.
“No.”
James afferrò la giacca
e se la infilò, controllando con un movimento oliato di
avere la bacchetta e il
distintivo, da come premette le dita sulle tasche.
“È partita una segnalazione
dall’Accademia di Duello, pare sia uno degli
allievi.” Fece una smorfia. “La
chiamata è stata fatta in via prioritaria, tramite un numero
di distintivo, c’è
un agente lì. Ci ha chiamati Prince.”
Tom fallì miseramente nel sembrare disinteressato.
“Prince è all’Accademia?”
James prese la bacchetta e
fece un sorriso storto, indecifrabile se non nella sua
rassegnazione.“E dove
diavolo non è, quel tipo, ultimamente?”
Albus lo afferrò
per un
braccio prima che si Smaterializzasse. “Cercate di non
fermarlo usando la
bacchetta.” Gli raccomandò: se il loro
ragionamento era corretto, era la prima
cosa da non fare.
James lo guardò stralunato. “E come dovremo fare
secondo te? Siamo maghi!”
“Potreste
rischiare di venire
contagiati!” Tenne duro. “Trovate un modo, James
… per favore.”
L’altro
esitò, ma finì per
annuire perché si fidava del suo cervello quanto lui si
fidava dei suoi
muscoli. Era sempre stato uno scambio equo. “Va
bene.” Sospirò. “Tu cerca
conferma dal tuo capo … o da Sam, da chiunque possa darci
delle risposte
concrete e non speculazioni da cervelloni.” Rivolse a Tom
l’occhiata che gli
riservava quando era colpito dalle sue intuizioni ma troppo infastidito
per
volerlo ammettere.
Cioè
come lo guarda sempre.
“Va bene. State
attenti Jam.”
Lo pregò. “Tornate tutti interi.”
“Sei un po’ naïve se lo dici ad un auror,
sai.” Ghignò l’altro.
“Piuttosto, voi
due … vedere di non cacciarvi nei guai.”
Sbuffò. “Anche se dirvelo pare che non
serva mai ad un cavolo.”
Detto questo si
Smaterializzò
con uno schiocco potente, lasciandoli soli.
“Naïve
… Non pensavo avesse un
vocabolario che sorpassasse le quindici parole.”
Esordì Tom dopo uno scomodo
silenzio fatto di pensieri poco felici, almeno da parte sua.
Suo malgrado sorrise.
“L’avrà
sentita dire da Teddy.” Guardò il sergente
Flannery, manifesto stesso della
situazione orribile che si stava delineando.
“Usciamo.” Decise. “Ho bisogno di
prendere una boccata d’aria.”
Il tetto del San Mungo,
nascosto dalla giungla di palazzi della City, ma comunque
sufficientemente
assolato per esser gradevole, era il rifugio di tutti gli assistenti e
studenti
stressati e
normalmente Al, sedendosi su
una delle panchine, vi avrebbe trovato sollievo.
Non
stavolta. Un altro ammalato. Un altro ammalato che
non riusciremo a curare e che potrebbe mettere in uno dei nostri letti
la
squadra di James. O James.
Tom gli si sedette a fianco
senza dire niente e gliene fu grato, perché in quel momento
qualsiasi tentativo
di conforto sarebbe suonata stupido.
Fu lui alla fine a prendere
la
parola, perché gli era rimasto un quesito che doveva esser
soddisfatto.
“Pensavo non volessi essere coinvolto…”
L’altro si strinse
nelle
spalle. “Mi conosci. Ho un debole per i rompicapo.”
“Tom.”
L’interpellato
distese le
gambe, fissandosi la punta delle scarpe con profondo interesse.
“Vorrei dire
che l’ho fatto per te, per aiutarti.”
Aggrottò le sopracciglia. “Ed è
così. È il motivo per cui
ho…”
“Rubato.”
“Copiato…” Corresse con un borbottio.
“… quelle cartelle in prima istanza.”
Gli fece scivolare la mano
lungo la gamba. “Lo so.” Mormorò
sporgendosi per baciargli la linea della
mascella, perché in fondo se lo meritava. “Le
intenzioni le avevo capite.”
“Immagino quindi dormirò sul divano per i
mezzi.”
“Ci puoi giurare.” Sorrise. “E cosa ti ha
fatto continuare invece?” Lo vide
mordersi le labbra, in bilico tra la confessione e il riottoso
desiderio di
tenersi tutto per sé. “Ti era mancato,
vero?” Indovinò perché era quello il
segreto inconfessabile. “Essere nel bel mezzo della
tempesta.”
La
tranquillità è meravigliosa. Ma …
tranquilla. E non
è una parola che alla lunga, per chi siamo, rimane
totalmente positiva. Dovrebbe
essere così … ma non lo è.
Questa
faccenda mi toglie il sonno, ma l’adrenalina …
“Morgana, abbiamo
dei
problemi.” Mugugnò. “Seri.”
“Non mi manca la
parte in cui
uno di noi due rischia la vita.” Replicò
l’altro tentando di dare una parvenza
di sanità mentale all’intera rivelazione.
“La parte…”
“… in cui scopri l’inghippo e fai scacco
matto al nemico, qualunque esso sia?”
“Smettila di finire le mie frasi.”
Inarcò le sopracciglia sardonico. “Ci fa
sembrare una vecchia coppia sposata.”
“Solo sembrare?” Gli posò una testa
sulla spalla, perché per quanto magra e
spigolosa, era la spalla di Tom e seppellirci senza ritegno il naso era
molto
più consolante del sole che gli scaldava il viso.
“La qual cosa, per inciso, rende
ridicola la nostra propensione a finire nei guai.” Gli
borbottò contro il
collo.
“Non farlo sembrare come se ci inciampassi sopra …
Tu li attiri.” Ghignò passandogli
le dita trai capelli corti che gli si arruffavano sulla nuca.
“E in questo
caso, li hai addirittura cercati.”
“Touché.”
Si scostò per guardarlo in viso e doveva ammetterlo, per
quanto quella situazione fosse brutta, averlo a fianco la rendeva meno
spaventosa. “Grazie.”
L’altro sorrise
passandogli un
dito lungo la linea della sopracciglia, spianandogli la ruga di
preoccupazione
che doveva essergli di sicuro spuntata. “Per aver evidenziato
la demenza che
contraddistingue voi Potter?”
“Lo sai per cosa,
vanesio
rompiscatole.” Replicò sporgendosi a sfiorargli le
labbra con le sue per
ringraziarlo, ma non abbastanza per dargli ad intendere che aveva
già scusato i
suoi metodi ambigui. “E comunque dovresti piantarla visto che
coinvolge anche
te. O vuoi essere definito un Potter?”
Tom fece una smorfia che
avrebbe potuto commentarsi tranquillamente da sola. Specie
perché era piuttosto
rassegnata.
****
Diagon
Alley. Accademia Nazionale di Duello.
James si
Materializzò di
fronte all’imponente edificio vittoriano che ospitava
l’Accademia Magica di
Duello, controllò di avere la bacchetta a portata di mano,
ma non in mano ed
inspirò.
E come faccio a non usare la magia per
fermare un mago?
Tuttavia non se la sentiva
di
ignorare le raccomandazioni della coppia d’oro di Serpeverde;
per quanto fosse
un insopportabile saccente, la Medimagia era il suo campo e la secchionaggine quello di Tom, quindi
prendere sottogamba le loro intuizioni sarebbe stato da stupidi.
Rompipalle…
Sorpassò
l’ingresso dove erano
custodite bacchette appartenute a Duellanti leggendari e trofei vinti
dagli
stessi: da bambino aveva sognando di vincerli come aveva sognato di
avere tra
le mani qualsiasi cosa luccicasse e potesse portare il suo nome sopra.
A
volte penso che avrei dovuto buttarmi sul Quidditch.
Diamine, sarebbe stato una perdita per il Ministero, ma mi sarei
risparmiato una
tonnellata di schifezze!
“Jimmy!”
Si sentì chiamare, e
si voltò per trovare la testa ricciuta e gli occhi
intelligenti di Bobby. Si
salutarono con una pacca vicendevole, troppo tesi per sorridersi ma
comunque
rassicurati dalla presenza dell’altro. Si guardò
attorno, cercando l’ultima e
familiare testa bionda che componeva il loro terzetto.
“Dov’è
Malfoy? Se è rimasto tra
le sottane di mia cugina…”
“Quanto sei irrispettoso, Potty, dovrei Schiantarti! Sono
arrivato prima di voi
e ho efficacemente diretto la folla
terrorizzata.”Gli rispose la chiacchiera querula
dell’interpellato mentre li
accoglieva in fondo alla scala dell’ingresso, quasi fosse un
padrone di casa
venuto a fare gli onori della sua magione. “Sono tutti in una
sala al piano
terra.”
Sbuffò per darsi
un tono di
comando, togliendogli con una manata lo stupido cappello di feltro che
si
ostinava ad indossare anche quando non era opportuno.
“Perché non hai fatto
evacuare l’edificio?”
Scorpius inarcò
le
sopracciglia. “Con un aggressore che può aver
infettato chiunque?”
James schioccò la
lingua,
rendendosi subito conto della sciocchezza pronunciata.
Siamo
in un Accademia di Duelli … qui la gente si
lancia incantesimi addosso in continuazione.
Merda.
Potrebbero essere stati tutti contagiati.
“Già,
la situazione è
piuttosto incasinata.” Gli fece eco Scorpius giocherellando
con la bacchetta
per mettere freno al movimento nervoso delle mani.
“L’aggressore si è
asserragliato in una delle sale … Prince è con
lui.”
E
ti pareva.
“La situazione
dentro com’è?
Siete riusciti a contattarlo?”
Scorpius scosse la testa
tradendo un’espressione inquieta. “Dionis mi ha
detto che Sören ha fatto
allontanare tutti e poi si è chiuso la porta alle
spalle.”
“Cosa?”
“Ha senso, se si vuole limitare il contagio. Il Sergente
Flannery si è ammalato
proprio così.” Osservò Bobby con tono
grave, ma realista come sempre. “Ha meno
senso se si pensa che è da solo e che la persona che sta
affrontando non riesce
a controllare la propria magia.”
“Quel coglione!”
Potrebbe
rimetterci la pelle. Dannazione!
Soffocò
un’imprecazione,
mentre la necessità di trovare un piano in tempi brevi si
faceva improrogabile.
Fece cenno a Scorpius di far loro strada e quando, sfilandogli
affianco, lo
vide tirar fuori la bacchetta capì che doveva mettere tutte
le carte in tavola.
“Quell’impiastro
di mio
fratello se n’è uscito con una
teoria…” Esordì.
“Mini - Potter sta curando il Sergente, giusto?”
Scorpius emise un lamento,
salendo due a due la scala che portava al piano superiore e alle sale
d’allenamento. “Perché so che non mi
piacerà?”
“Cervello fino,
Malfuretto.”
Ghignò amaro. “Albie crede che il contagio avvenga
scaricandosi addosso
incantesimi. Se incroci la bacchetta con un malato,
c’è rischio che ti ammali.”
Bobby boccheggiò, prima di porre La
domanda. “E come facciamo a fermarlo se non possiamo usare la
magia?”
“Bella
domanda.” Fermò
l’ennesima corsa verso il fodero della bacchetta; prenderla
ed afferrarla era
un movimento talmente rassicurante che non poterlo compiere gli
stringeva lo
stomaco in una morsa. “Fatevi venire in mente una
risposta.”
Sören
impattò per l’ennesima
volta contro il muro cercando di frenare la caduta senza rompersi le
ossa. Cercò
anche di ricordare come si respirava mentre sentiva il dolore
irradiarglisi
lungo la schiena e le costole.
Dannazione.
Affrontare da solo
l’Infetto
non era stata un’idea poi così brillante.
Il mondo smise di danzargli
attorno e mentre la vista gli tornava a fuoco vide il suddetto
avvicinarsi a
lui con la cadenza di un ubriaco ma la tenacia di un maledetto Infero.
Diede un colpo di reni e si
rimise in piedi, ignorando il lampo di dolore alla testa che lo
lasciò quasi
senza fiato.
Commozione
cerebrale, qualche costola ammaccata…
Non era il momento di fare
il
conto dei danni, lo capì in tempo per erigere una barriera
quando un lampo
violaceo gli saettò a fianco, puntando verso il lato
sinistro del suo corpo,
verso la bacchetta.
Vuole
disarmarmi. E poi?
Non riusciva a capire la
logica delle azioni del suo opponente, perché non ve
n’era alcuna; l’allievo
Duellante non era in sé, immerso in una sorta di trance in
cui la magia che gli
scorreva nelle vene faceva da padrona. Ogni volta che tentava un
incantesimo
offensivo la barriera attorno alla pelle dell’altro mago
crepitava, inglobando
il suo attacco come una Chimera che veniva nutrita dopo giorni di
digiuno.
Si nutre della
mia magia.
Arrivare a quella
realizzazione era stato spaventoso, perché significava che
per quanto spingesse
la leva sulla sue capacità e sulla potenza dei suoi
incantesimi non avrebbe mai
potuto farcela con le sue sole forze: Flannery doveva essere caduto
perché
sotto il fuoco di ben quattro agenti.
Non
importa. Non puoi farlo uscire di qui. Fuori di qui
ci sono civili, civili che potrebbero essere attaccati, uccisi
… o contagiati.
Con l’aiuto di
Radescu era riuscito
ad entrare nella sala e a farla sgomberare, ma non sapeva cosa stava
succedendo
fuori; sperava che gli auror fossero arrivati, anche se non aveva idea
di come
farli entrare, avendo chiuso la porta con un Colloportus
tenace.
Falla
finita, hai sempre lavorato da solo, anche quando
c’era Johannes. Hai sempre combattuto e vinto le tue
battaglie senza l’aiuto di
nessuno.
Perché
adesso dovrebbe essere diverso?
Perché lo era,
pensò in una
frazione di secondo, schivando l’ennesimo fiotto di magia
incontrollata e
letale del Duellante, rispondendo con uno Schiantesimo che si infranse
in un
centinaio di scintille rosse che colpendo un paio di vetrine le fecero
esplodere in una miriade di schegge.
“Prince!”
La voce di Potter era fastidiosa quanto la sua persona,
roboante e impossibile da ignorare. Fu un sollievo sentirla.
“Prince, sei lì
dentro?”
“Affermativo!”
Rispose. “L’infetto
è con me!”
“Lo so, razza di idiota! Che ti è saltato in testa
di entrare da solo?!”
Insultarlo pareva un esercizio quotidiano per l’auror, ma
stavolta si trovò
nella posizione di non poterlo biasimare. “Hai qualche
malattia mentale?!”
Sören
serrò un’ingiuria trai
denti, allontanandosi con passi misurati dal mago di fronte a lui.
Respirava
come una belva braccata, gli occhi bianchi rivolti verso nessun punto
in
particolare: uno spettacolo inquietante persino per i suoi standard.
Che
non sono quelli di una persona normale, suppongo.
“Dovevo mettere in
sicurezza i
civili!” Urlare non era il suo metodo preferito di
comunicazione, ma la pesante
porta in noce che lo separava dalla squadra era una barriera non
indifferente.
“La priorità…”
“La priorità era non farsi ammazzare o beccarsi
quella schifezza, coglione!” Ci
fu una pausa, poi il testimone della conversazione passò a
Malfoy.
“Sören,
ci sono brutte
notizie.” Esordì la voce pacata del biondo.
“Pare che il veicolo del contagio
sia la magia … Più rispondi ai suoi attacchi e
incroci i flussi magici, più
rischi!”
Cosa?
Guardò la
bacchetta e realizzò
di colpo la portata dell’informazione.
Come
faccio ad uscirne vivo?
“Facci
entrare!” Il tono di
Potter aveva senso nella sua urgenza. “Non ti vogliamo
rispedire in America in
una scatola da scarpe!”
Sören
guardò la pesante porta
alle sue spalle, a troppi metri di distanza perché potesse
tentare una corsa
per andare ad aprirla. Se avesse tentato un Alohomora
invece avrebbe lasciato il fianco scoperto per un attacco.
“Prince, non fare
l’idiota! Apri!”
“Non posso!”
Gridò di rimando, alzando
la voce come raramente gli capitava. Era frustrazione e una buona dose
di
panico. “Non sono abbastanza vicino e mi avete appena detto
che non posso usare
la bacchetta!”
Potter non doveva aver aspettato che quella frase perché il
portone venne fatto
esplodere in un nugolo di schegge e segatura. Vide poi tre figure
entrare nella
foschia causata dall’esplosione, ma come le notò
lui lo fece anche l’Infetto
che con un ringhio si avventò sui tre. Sören non ci
pensò due volte prima di
puntare un grosso armadio e spedirlo a schiantarsi tra di loro, in una
sorta di
barriera improvvisata.
“Ti avevo detto
niente magia!”
Sbottò Potter quando lo ebbero raggiunto sani e salvi, anche
se impolverati
fino alla punta dei capelli. “Sei sordo o cosa?!”
“Avevi idee migliori?” Ritorse. “Come non
la posso usare io, non la potete
usare voi.”
L’inglese lo
guardò storto, ma
non ribatté. Guardò poi verso il cumulo di
macerie che ostacolava l’Infetto dal
raggiungerli. “Non reggerà per molto …
Dobbiamo trovare un modo per stenderlo!”
“A mani nude?” Sbottò con forse troppa
acredine. Si sentiva sbilanciato, nudo
con quella sconcertante consegna.
Perché,
diciamocelo, cosa sei senza magia?
“Beh, i Babbani
catturano
criminali dall’alba dei tempi e se la sono sempre cavata alla
grande.” Osservò
Malfoy inarcando le sopracciglia come a voler sottolineare la loro
scarsa
capacità di riflessione. “Cosa farebbe un Babbano
al nostro posto?”
“Scapperebbe a
gambe levate
perché un tizio lancia lampi dalle mani?”
Replicò Potter alzando gli occhi al
cielo. “Dai, sii serio Malfuretto, che
cazzo…”
La frase fu interrotta da un
lampo violento che spedì la carcassa dell’enorme
armadio che fino a quel
momento li aveva protetti sopra le loro teste. Sören si
sentì afferrare per il
retro della camicia e trascinare via. Quando fu sbattuto sotto una
serie di
panche, in compagnia degli altri, al sicuro, capì che James
Potter lo aveva
appena salvato dall’essere schiacciato vivo da una quintale
di legno, vetro e
ferro. Si scambiarono uno sguardo.
“Vedi di non
crepare.” Sbottò questo
con evidente malavoglia. “C’è fin troppa
gente che mi farebbe il culo se
succedesse.”
“Ragazzi, ci serve
un piano.” Si
inserì Jordan rimasto in silenzio fino a quel momento.
“Non ci vorrà molto
prima che ci trovi.”
“Che ci trovi?”
Potter si voltò verso
il compagno. “Gli serve una mappa? Siamo proprio qui sotto!
Se non è cieco…”
“Appunto. Credo che lo sia, guardate i suoi occhi.”
Osservò il ragazzo di
colore. “Credo che ci localizzi tramite il rumore.
L’avevo notato anche con il
Sergente, ma pensavo fosse disorientato per via del
black-out.”
“Questo gioca a
nostro favore!”
Si inserì Malfoy con gli occhi che saettavano da un lato
all’altro della
stanza. “Finché rimaniamo immobili per lui siamo
invisibili, giusto?”
“Non possiamo
rimanere sotto
una panchina in eterno però.” Borbottò
Jordan. “Può sentirci se ci muoviamo o
lanciamo incantesimi … Che facciamo?”
Sören
cercò di analizzare la
situazione; non era semplice perché ai suoi calcoli doveva
aggiungere adesso la
variabile di altri agenti.
Con
Estevez ci siamo sempre divisi, anche quando
dovevamo inseguire qualcuno o arrestarlo.
Gli inglesi si erano invece
settati
su muoversi come un sol mago e così doveva far lui per
quanto gli riuscisse
difficile riflettere in quei termini.
“Serve
un’esca.” Disse infine
calamitando l’attenzione dei tre. “Scontrandomi con
lui ho notato un punto
cieco, dietro al testa. Se riusciamo a distrarlo per un tempo
sufficiente ad
avvicinarlo…”
“E come pensi di colpirlo se non puoi usare gli
incantesimi?” Replicò Potter,
scettico. “È come se fossimo disarmati!”
Sören a questo
poteva
ribattere. Poteva essere manchevole in molte cose, inadatto per natura
in
altre, ma non in quello; l’adrenalina, il dolore, la magia e
un obbiettivo da
abbattere erano stati per tanto tempo tutto il suo mondo.
“Ho un
piano.”
Luce. Cercava disperatamente
la luce e non la trovava.
Il buio era pieno di dolore,
desiderio e fame. Non c’era luce, ovunque guardasse, solo
brevi lucciole
impazzite verso cui barcollava come un assetato.
Erano in quattro. Due
lucciole
che non l’avrebbero sfamato e poi due lampi, due lampi che
erano pieni di luce
ed era ciò che voleva, bramava e desiderava.
L’infetto che era
stato Henry
Price sentiva la magia mugghiargli nelle vene come vento in tempesta,
domandare, pretendere quella luce.
E poi.
Erano sparite. Di colpo, non
c’erano più … sapeva che erano
lì con lui, ma non riusciva a vederle.
E questo lo faceva infuriare.
Come un pazzo, come un
animale
– se avesse avuto coscienza tale si sarebbe definito
– ringhiò il suo bisogno.
E poi la vide. Una delle
luci
più grandi, bucare il buio e avvicinarglisi.
“Ehi,
sono qui! Cos’è, ti hanno legato le gambe con una
Pastoia!?”
Era lì, proprio
davanti a lui
e quindi vi si scagliò contro con la speranza e la
disperazione di chi sapeva
che non avrebbe avuto altre possibilità.
Si sentiva divorare, aveva
fame.
Si sentiva bruciare, voleva
sollievo.
Quindi lasciò
ancora una volta
che la sua magia avesse la meglio. Del resto era lei sua signora e
padrona, lei
che comandava.
Era vicino, così
vicino alla
luce … che non si accorse quando qualcuno spense
l’interruttore.
“Prince!”
James non sapeva se mettersi a ridere o … in effetti, far
solo quello. Guardò sbigottito
l’uomo a terra, esanime, mentre tutto attorno erano sparsi i
cocci di quello
che era stato uno dei cimeli decorativi che disseminavano la stanza.
Scorpius che si
precipitò
assieme a Bobby a controllare che il mago svenuto fosse tale,
alzò la testa
trattenendo una risata trai denti. “Gli hai spaccato un vaso in testa amico!”
Constatò allegro. “Sei un genio.”
Il tedesco parve perplesso dalle loro esternazioni. “Usare
l’ambiente che ti circonda
e gli oggetti in esso contenuti per difenderti è una delle
lezioni base di
qualsiasi disciplina marziale. Non ve l’hanno
insegnato?”
“Un
vaso!” Sottolineò
incredulo; non avrebbe mai pensato che un tipo del genere, che sembrava
essere
nato con un manuale per le istruzioni incorporato, avrebbe mai potuto
utilizzare un escamotage creativo.
Era quasi disturbante.
Diavolo,
lo è.
Bobby, che aveva
Materializzato
un paio di manette dall’aria Babbana – idea
brillante non agitar la bacchetta
in prossimità del tipo, per quanto privo di sensi
– le serrò con forza. “Beh,
ha funzionato … È decisamente nel mondo dei
sogni.” Sorrise con aperta
approvazione. “Bel colpo Sören!”
Sören?
James
si trovò nella scomoda posizione
di considerare che in effetti
quello
era il nome del ragazzo che aveva appena risolto la situazione senza
causare
ulteriore spargimento di sangue … o di magia.
“Sì, già. Bella pensata.”
Sbuffò
trovandosi tre paia d’occhi puntati nella sua direzione. Era
una sua
impressione o il bastardo stava gongolando?
È
parente del Pipistrello. Ovvio che
lo sta
facendo.
“Ti
ringrazio.” Gli rispose
con un sorrisetto che avrebbe voluto cancellargli dalla faccia a suon
di calci.
Si voltò poi verso gli altri due agenti, dismettendolo per
un’espressione seria.
“… e vi
ringrazio. Senza di voi non
sarei uscito vivo da questa sala.”
“Non dirlo
neanche!” Esclamò
Scorpius alzandosi e dandogli una pacca sulla spalla, gesto che
dispensava con
oculatezza nonostante la sua natura cordiale. “Siamo una
squadra.”
No
che non lo siamo!
L’atmosfera
cameratesca era però
innegabile e James si sentì indeciso: essere indignato per
quel cambio di
trincea o sentirsi stupido perché era ormai rimasto da solo?
Optò per la
soluzione meno umiliante, ovvero ignorare l’intera faccenda.
“A questo punto
direi di chiamare il San Mungo e farlo portare via.” Disse
barricandosi dietro
al suo ruolo. “A proposito, che diavolo
è successo?”
Il tedesco
osservò il caos di
oggetti distrutti e vetri sparsi tutto attorno a loro. “Ero
nell’ufficio di
Radescu, non so com’è iniziata.”
Spiegò. “Mi è stato detto che ha perso
i sensi
mentre duellava e quando li ha ripresi… Era fuori di
sé.”
“Come il
Sergente.” Osservò
Bobby. “Ma per essersi ammalato deve aver avuto contatti con
lui o con Samuel
Howe, no?”
“Howe è
morto da più di una
settimana e il sergente non frequentava
l’Accademia.” Si inserì Scorpius
liberando
con la punta delle scarpe una porzione di pavimento. Indicò
con un cenno della
testa la a terra trai detriti. “… Anche se sembra
la stessa roba. Niente
bacchetta.”
“Le tempistiche
non
coincidono.” Replicò Prince suonando confuso
quanto loro. “Dobbiamo chiamare il
San Mungo.”
James annuì,
facendo cenno a
Bobby che fu lesto a tirar fuori di tasca lo Specchio Comunicante per
una
chiamata prioritaria all’ospedale.
“C’è un altro
problema…” Esordì e per una
volta non provò nessun piacere maligno a dare una cattiva
notizia al tedesco.
“… Hai duellato con lui?”
Gli venne rivolta
un’occhiata
perplessa. “Sì,
l’ho…” La consapevolezza parve
investirlo come un treno. “Potrebbe
avermi contagiato?” Chiese con un tono di voce che gli fece
onore, nella sua
tranquillità.
Non
è un codardo, questo devi riconosceglierlo.
Gli doveva almeno una
risposta
concisa. “Sì. E come te, possono essere stati
contagiati tutti quelli che si
sono battuti con lui in questa Accademia.” Si
voltò verso Bobby, che aveva
sentito la conversazione e restava in attesa, mentre
all’altro capo dello
specchio una magi-infermiera gli stava chiedendo per la seconda volta
generalità e motivo della chiamata.
“Che gli
dico?” Chiese
lanciando un’occhiata preoccupata verso il tedesco; era
ufficiale, che gli
piacesse o meno, Jordan e Malfoy lo consideravano della squadra.
E
per quanto sei preoccupato? Qualche dubbio lo sollevi
anche tu.
Sospirò vinto.
“Che ci servirà
più di un’ambulanza.”
****
Giardini
di Victoria Embankment,
Pomeriggio.
I giardini di Victoria
Embankment erano un buon posto per passare il tempo se
l’ansia ti rodeva lo
stomaco: erano dotati di panchine, fiori e statue di poeti morti da
secoli ma
cosa ancora più importante di un ameno chioschetto dove
fingere che bere the e
mangiare pasticcini era tutto ciò che si desiderava dalla
vita. Per questo Lily
aveva accettato di accompagnarvi Violet ad aspettare l’arrivo
di Dominique, che
come ogni giorno sarebbe scesa dal traghetto che collegava la
comunità magica
dell’isola di Skye con la sua gemella londinese.
Gettò qualche
briciola ai
passerotti accorsi ai suoi piedi non appena aveva deciso che non era
abbastanza
affamata per voler finire il suo crumble
di mele.
Neanche
per iniziarlo se è per questo …
Accanto a lei Rose sembrava
ancor meno convinta di ciò che le era stato servito,
sorseggiando la sua tisana
calmante con le sopracciglia corrugate e lo sguardo sprofondato negli
abissi del
portatovaglioli.
“Che voi siate
silenziose è
quasi un’oscenità.” Osservò
Violet in quel particolare modo che voleva
ostentare disprezzo e gridava invece apprensione da chioccia.
“Non è la prima
volta che la squadra di Scorpius viene chiamata fuori dal turno
ordinario!”
“Sì, ma
quando mi ha riaccompagnato
al negozio c’era qualcosa che non
andava.”
Rose pronunciò le ultime parole con tono drammatico.
“Mi stava nascondendo
qualcosa!”
“È un
auror, Weasley. In
teoria stava facendo il suo lavoro.”
L’altra scosse la
testa. “Scorpius
è una radio rotta, non tace neanche quando dorme. Quando ha
letto il Gufo invece
ha perso il sorriso e…” Diede un vigoroso sorso
della sua tisana ormai fredda.
“… e non è che lo perda tanto spesso,
ecco. Succede per cose gravi.”
Violet tradì
un’espressione
compartecipe, prima di serrare le labbra e agitare la mano dismissiva.
“Siete
esagerate! Capisco che il melodramma sia nei vostri geni, ma non vi ho
invitate
per annoiarmi di fronte ai vostri musi lunghi!”
“L’hai
fatto per preoccuparti
assieme a noi
infatti.” Le fece eco
Lily, godendosi la sua espressione imbarazzata. “Ti
dimentichi sempre che sono
una Legimante.” Sorrise. “Sei carina.”
La ragazza
arricciò il naso
infastidita. “E tu fastidiosa.” Inarcò
le sopracciglia. “Per chi sei
preoccupata tu piuttosto? Ho sempre pensato che avessi la testa troppo
vuota
per emozioni simili.”
Lily ridacchiò.
“Oh, questa è
solo l’eccezione che conferma la regola.”
Tentò un morso al suo dolce, dal
sapore un po’ troppo artificiale per i suoi gusti. La
produzione industriale
dolciaria dei Babbani non l’aveva mai entusiasmata.
“Quella squadra è parte
della mia famiglia. Letteralmente.”
E adesso c’è anche
Sören. Peggio di così.
“Almeno voi non
convivete con
una tizia che si coccola bestioni dall’indole
sanguinaria.” Borbottò la
francese di rimando. “Mai che resti un giorno a compilare
scartoffie, sempre in
prima linea a sfidare la morte!”
“Suona un sacco
sexy.”
Sorrise. “Ma Domi lo è, Merlino la
benedica.”
“Con certe uscite,
Potter,
rischi l’ambiguità.”
“Tesoro, io la anelo.”
Rose le guardò
male, quasi
fosse un delitto capitale cercare di alleggerire la situazione e
godersi la
frescura di quel pomeriggio senza nuvole. Lily le mise una mano sulla
sua,
sentendo di capirla più del solito.
Mio
fratello e quello che considero uno dei miei più
cari amici sono stati chiamati per un’emergenza di Magia
Oscura.
Che.
Ansia.
Fino a qualche settimana
prima
avrebbe dovuto preoccuparsi solo di James; ora si era aggiunto
Sören, che non era
più un pugno di lettere, ma una persona vera, che rischiava
la vita a neppure
un miglio di distanza da dove lavorava e viveva lei.
“Voi
sponde e margini del bel fiume Doon, Come riuscite a fiorire
così
fresche e belle? Come riuscite a cantare, voi uccelli, mentre io sono
qui,
stanca e piena di preoccupazioni²?”
Canticchiò, un po’ per scuotere sua cugina dal
torpore ansiogeno in cui era sprofondata
un po’ per farsi coraggio. “Dai, Rosie,
è del Bardo scozzese!” Indicò la statua
di Robert Burns che scintillava alla luce del sole proprio alle loro
spalle.
“Faccio una citazione colta per una volta e non me la
cogli?”
“Credo sia
sconvolta proprio perché
è uscita dalle tue labbra.” Motteggiò
Violet con un guizzo grato nello sguardo.
Per quanto prendesse in giro Rose le era affezionata ed era protettiva
nei suoi
confronti; lo testimoniava il fatto le avesse invitate lì.
“Il tuo scozzese a
letto ti seduce con terzine gaeliche?”
Lily rise senza rispondere,
perché
in realtà non ricordava se a parlargli del popolare
componimento trasformato
poi in canzone fosse stato Scott, da bravo abitante della Caledonia
… o Sören.
Scotty
non è tipo da poesie però, mentre Ren
sì, le
adora. È un romanticone.
Mi
sa che è stato lui.
“I mezzi di
seduzione di Domi
invece quali sono?” Celiò inarcando le
sopracciglia perché sentiva che era
meglio spostare l’attenzione da sé. “Ti
porta in dono pelli di animali morti e
artigli di drago?”
“Non
scherzare.” Sbuffò Violet
con aria esasperata. “Non sai che ansia prima di ogni San
Valentino.”
“Ehi.”
La voce di Dominique le
fece sobbalzare come uno scoppio di incantesimo, mostrando al mondo
intero
quanto in realtà fossero tese.
“Tu e questa mania
di arrivare
alle spalle!” La sgridò la compagna, mentre
l’altra pareva orgogliosa come uno
scolaro appena lodato dalla propria maestra preferita.
“Ehi, colpa mia se
siete tutte
nervose come lepri?” Ghignò in un tripudio di
lentiggini, pelle dorata dal sole e pantaloni attillati di
pelle di
drago; a giudicare dalle occhiate che stava ricevendo metà
del caffè doveva
chiedersi quale servizio fotografico stesse per esser messo in atto.
Dannati
Weasley Delacour, slanciati e affascinanti come
ninfe dei boschi. Vi odio.
Lo pensò
però con affetto,
mentre Violet attirava a sé la guardiana di draghi per un
bacio che gridava
territorialità ai quattro venti. “Woh,
Piggie!” Esclamò l’altra compiaciuta.
“Per
cinque minuti di ritardo già ti manco
così?”
Lily vide
l’espressione di
Violet aprirsi in un sorriso che conteneva un sacco di parole non
dette. “Ma
sta’ zitta squilibrata, è un’ora che ti
aspetto.” Sbuffò.
Ciò che stava
provando Violet
le vibrava addosso – quando era agitata le sue
capacità si intensificavano – ed
era quasi violento nella sua intensità. Le sembrò
di entrare in un’intimità che
non capiva e questo la mise a disagio.
Io
non so amare così. Non credo neppure vorrei. È
…
troppo.
Dominique pareva comunque di
fretta. “Avete sentito del casino successo
all’Accademia di Duello?” Chiese a
nessuno in particolare. “Degli auror?”
“Eh?”
Cadde dalle nuvole,
scambiandosi un’occhiata con Rose. “Con auror
intendi Scorpius…”
“La squadra di Jam, sì.”
Confermò giocherellando con le chiavi della macchina,
quasi fremesse per infilarle nel quadro d’accensione.
“Loro stanno bene, sono
tornati in ufficio.” Anticipò a Rose, dandole una
pacchetta sulla spalla perché
in pochi secondi quella aveva perso due toni di colore dal viso.
“Mi ha
chiamato Rox però … dice che Dionis è
stato portato al San Mungo e con lui
un’altra decina di perso…”
“Sören dov’è?” La
interruppe senza riuscire a frenarsi. E perché poi avrebbe
dovuto? “È con mio fratello?”
“Non lo
so.” Si strinse le
spalle l’altra. “Rox mi ha parlato solo di Dion.
Sto andando a prenderla in
macchina, non può Smaterializzarsi né usare la
Polvere Volante incinta com’è.”
“Vengo con
te.” Prese la sua
borsa e ignorò le occhiate perplesse e congiunte di Violet e
Rose. “Roxie avrà
bisogno di me.” Si affrettò a spiegare, anche se
non era solo quello che muoveva i
suoi gesti; per l’agitazione quasi
dimenticò il portafoglio sul tavolo.
Perché diavolo,
se era
agitata.
Se
Sören non è con la squadra di Jamie …
È in ospedale?
****
Farrindgon,
Magazzino
Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale San Mungo
per ferite e malattie
magiche.
Avevano chiuso
metà intera del
reparto Malattie Infettive per non stiparli in una delle stanzette dove
di
solito alloggiavano i lungo-degenti. Erano troppi, rifletté
Sören osservando le
persone sedute sui lettini o in piedi a scrutare oltre la barriera di
liquida
magia impenetrabile che serviva a precauzione sanitaria.
Si sentivano in trappola e
non
ci voleva una Legimante Naturale come Lilian per capirlo; la situazione
era
stata spiegata e le famiglie contattate, ma lo spettro
dell’epidemia ormai era
cosa concreta.
Chissà
quanto ci vorrà prima che i giornalisti prendano
d’assalto l’ospedale e l’Ufficio
Auror…
Non era cosa che sarebbe
toccata a lui gestire, e di questo ne era contento.
Devi
solo aspettare.
Aveva passato
l’infanzia e
tutta l’adolescenza a disciplinare la propria impazienza,
quindi non gli era
difficile; lo stesso valeva per Dionis, attorno a cui gli altri si
erano istintivamente
radunati cercando di trovare rassicurazioni
nell’atteggiamento pacato e
propositivo del ragazzo.
Dionis
è una persona che dà tranquillità. Io
no, temo.
Incrociò le
braccia al petto
per tenerle da qualche parte, che le sentiva inutili come pezzi di
legno e poi
alzando lo sguardo incrociò quello del rumeno che gli
restituì un sorriso
empatico.
Ha
una moglie e un figlio in arrivo … Se qualcuno deve
ammalarsi, è meglio che sia io.
L’altro, dopo
essersi scusato
con le persone con cui parlava, si sedette sul lettino vuoto accanto al
suo e
rilasciò un sospiro che doveva aver imparato ad
imbottigliare grazie alla
disciplina dell’Istituto. “A quest’ora
avranno avvertito Roxie.” Mormorò strofinandosi
la fede nuziale con il pollice. “Non le fa bene agitarsi
nelle sue condizioni e
la conosco … Sarà
già qui con l’intenzione
di rivoltare l’ospedale.”
La preoccupazione
dell’altro pareva
genuina e doveva averla evidentemente occultata a beneficio degli altri.
Si
confessa con te perché ti ritiene un amico. Sii
supportivo.
Sören si
sforzò quindi di
trovare le parole giuste anche se pensava a tutt’altro.
“Mi hai detto che
Lilian è con lei … è brava a
tranquillizzare le persone.” Tentò. “Con
me ha
sempre fatto un lavoro eccellente, anche quando ero ad un passo dal
perdere il
controllo.”
Gli venne rivolto uno
sguardo
di amaro divertimento, quasi fosse un ragazzino un po’ tardo.
“Sören, Lily non
è la persona più indicata da cui cercare
rassicurazioni quando è preoccupata
per qualcuno.”
“Né lei
né Roxanne hanno
motivo per preoccuparsi, starai bene.”
“Ti ringrazio.” Gli sorrise. “Ma per
quanto Lily mi consideri un amico, non è
per me che sarà sicuramente preoccupata.”
Di
chi allo … Ah. Per me?
Il rumeno dovette intuire i
suoi pensieri, perché fece un mezzo sorriso indulgente.
“Non hai la
minima idea dell’effetto che le fai, vero?”
Cosa…
Non fece in tempo a trovare
una reazione adeguata a quella frase che sentirono chiamare il nome
dell’altro.
Dionis scattò in piedi perché oltre la barriera
magico - sanitaria c’era
nientemeno che sua moglie, accompagnata da Albus Severus Potter in
camice verde
acido dei Medimaghi e
…
E
Lily.
“Dragostæ!”
Esclamò nella sua lingua madre, in un vezzeggiativo che
trovò riscontro nello sguardo sollevato della compagna
mentre si fermava ad un
passo dalla barriera. Da come serrava i pugni era palese che volesse
oltrepassarla
per stringerla a sé. “Non saresti dovuta venire
…”
“Non dire sciocchezze, come potevo restare a casa mentre tu
aspettavi qui da
solo? Per che razza di moglie mi hai preso, una che ti è
arrivata per piuma?”
Sbottò con le lacrime impigliate nelle lunghe ciglia scure.
Era bella, considerò
Sören, ma mai quanto l’insolitamente silenziosa
chioma rossa che le stava
affianco.
Non
hai la minima idea dell’effetto che le fai, vero?
Ad onor del vero, aveva
provato a mantenere la calma.
Da quando Dominique le aveva
scaricate di fronte al grande magazzino in disuso con la
raccomandazione ‘di
non fare cazzate’ – lei,
poi – aveva
fatto di tutto per essere d’aiuto: aveva evitato che sua
cugina si mangiasse
viva la magi-infermiera all’accettazione e aveva suggerito di
andare in cerca
di Albus, l’unica persona con un camicie che le avrebbe
assecondate in tutto,
scavalcando la ridicola regola per cui non si poteva visitare un
congiunto nel
reparto Malattie Infettive a meno che un Guaritore non desse il
permesso.
Suo fratello, da bravo
parziale ex-Serpeverde, non le aveva deluse: non solo non aveva battuto
ciglio,
scortandole a destinazione ma aveva anche intercesso per loro con il
Capo
Guaritore Finnigan – che neanche a dirlo, aveva un debole per
lui.
Lily, nella sua posizione di
persona non direttamente coinvolta, avrebbe potuto fare effettivamente
di più.
Come
far aspettare Roxanne con tutti gli altri
familiari dei pazienti invece che far valere le nostre conoscenze, che
è
sbagliato …
Al
diavolo, non potevo. Sören.
Era stato quello il suo
unico
pensiero da quando Dominique aveva aperto bocca.
Sören
deve stare bene.
E vedendo adesso di fronte a
lei, con qualche livido e la fronte fasciata, ma in piedi e con un
colorito
migliore del suo, tirò un sospiro di sollievo.
Bene,
favoloso, perché deve stare bene.
Deve
stare bene perché dobbiamo vivere tutti e due.
Aveva sempre saputo che se
all’altro fosse mai successo qualcosa lei si sarebbe sentita
come una
sopravvissuta, perché avevano attraversato un inferno
assieme e vivi e in
salute dovevano rimanere entrambi per la fine dei loro lunghi giorni da
maghi.
Era un maledetto legame a doppio filo e quando era teso in quel modo
repentino
faceva male.
Adesso
che è qui è ancora più forte, niente
da fare …
Se l’era
aspettato: ora doveva
solo abituarcisi.
Sentiva lo sguardo di Albus
su
di sé, come sentiva la conversazione tra Dion e sua cugina
ma erano rumori di
fondo.
Fu Sören ad
iniziare la
conversazione. “Ciao Lilian.” Era un tentativo
incerto, come insicura era la
sua espressione. Sembrava non saper che Snaso pescare. “Come
stai?”
Le venne da ridere, ma si
trattenne perché aveva la sensazione che avrebbe finito per
farsi venire gli
occhi lucidi. “Tu lo
chiedi a me?”
L’altro fece un mezzo sorriso. “Sto bene, non
preoccuparti.”
Come
no!
Sören ruppe la
stasi che si
era creata distogliendo lo sguardo dal suo e rivolgendo un cenno
formale a suo
fratello, che le stava dietro le spalle come un maledetto avvoltoio
impiccione.
“Albus Severus.”
“Sören.” Al ebbe il buongusto di esser
cortese. “C’è qualcosa che possiamo
fare? Avete bisogno di qualcosa?” Almeno riusciva a fingere
di essere una
persona educata. Era un sollievo. “Faremo il possibile per
mettervi a vostro
agio.”
Lode a lui e alla suo distacco emotivo da
guaritore …
“ …
Nulla che mi venga in
mente, ma ti ringrazio.” Aveva esitato e non doveva esser
stata la sola ad
averlo notato, perché Al inarcò le sopracciglia.
“Non farti
problemi, so per
esperienza che aspettare è logorante.”
Ed era una frecciatina bella e buona.
Distacco
emotivo un corno.
Sören la colse
quanto lei dalla
faccia che fece e Lily dovette frenarsi per non tirare uno schiaffo a
cinque
dita alla serpe in seno che aveva per fratello.
Sta
aspettando di sapere se è ammalato di una cosa
orribile, potevi risparmiartelo!
“Albie,
perché non vai a sentire a che punto sono con le analisi di
laboratorio?”
Chiese a voce sufficientemente alta perché anche Roxanne e
Dionis sentissero.
“Puoi sapere
qualcosa?” Si
riscosse la cugina, con un cipiglio che prometteva orribili ritorsioni
nel caso
avesse tentando di mentire o eludere. “Puoi dirgli di dare la
precedenza alle
loro analisi?”
Al deglutì
facendo un passo
indietro. “Conosco i pozionisti, sì …
potrei…” Aggrottò le sopracciglia.
“E
comunque è Al.”
No, è Albie se ti comporti da
coglione.
Roxanne era ad un passo dall’afferrarlo per il
bavero del camice e
scuoterlo come un pupazzo, ma Lily finse di ignorarlo. Dionis invece si
schiarì
la voce, pacifico e solido come sempre. “Roxanne, non
metterlo in difficoltà, sono
certo che stanno tutti facendo il possibile.”
“Possono farlo
anche facendolo
in fretta!” Sottolineò l’altra con un
borbottio. Poi sbiancò di colpo ed emise
un lamento totalmente dal nulla, posandosi una mano sulla pancia.
“Roxie!”
Le fu subito accanto,
sorreggendola perché le stavano crollando le ginocchia.
Cercò con lo sguardo
suo fratello e, serpe o meno, lo trovò esattamente dove
doveva essere, ovvero
dall’altro lato ad afferrare il braccio libero della cugina.
“Ehi, che c’è?”
“Credo…
È solo una contrazione,
non è niente, sono giorni che le ho.” Non guardava
loro, ma Dionis, trattenuto
per un braccio da Sören; Lily non ne capì il motivo
finché non vide la barriera
addensarsi e tremare per lo sforzo di bloccare il rumeno.
Sta
cercando di uscire e neanche se n’è accorto.
È
normale, Roxie ha gridato…
Fece un sorriso grato
all’amico, che le rispose con un lieve assenso.
Bravo
Ren, ha più riguardo e riflessi di tutti noi
messi assieme.
“Da quanto
hai queste contrazioni?” Chiese Al con il tono attento del
medico di professione: sarebbe stato più rasserenante se non
fosse apparso
terrorizzato.
Ad
Al han sempre fatto paura le donne in dolce attesa. Pare
che sia un trauma risalente alla mia nascita.
“Sta scadendo il
periodo, è
normale. Non preoccupatevi, so
quando
deve nascere mio fi…” Sua cugina si
bloccò per lanciare un mezzo grido
sorpreso. “Non sono mai state così
forti!” Disse con chiaro panico consapevole
nella voce.
Perché
panico consapevole? Stupido potere. Mi dici che
cos’è e non mi dici mai perché!
Si sarebbe date
dell’idiota da
sola nel momento stesso in cui formulò quel pensiero.
Perché era ovvio da come
sua cugina le stritolava la mano.
A Roxanne si erano rotte le
acque.
****
Note:
Nel prossimo capitolo il
mistero di Teddy e di Lunastorta svelato e altre amenità! ;D
Qui
la
canzone del capitolo.
Così è
come immagino l’Accademia.
1. La canzone che ascolta
Tom
qui
2. Le strofe che canticchia Lily sono in realtà di una
poesia di Robert Burns ‘Ye Banks and
Braes o' Bonnie Doon’.
È stata musicata e resa una ballad
tipica
della tradizione scozzese. Qui
per maggior info e questa
la versione della canzone che canticchia Lily. Una
curiosità: la statua di
Burns, considerato Il poeta
scozzese,
tanto da esser chiamato ‘il bardo di Scozia’,
è davvero nei giardini di
Victoria Embankment.
Qui una foto.
|
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Capitolo 20 *** Capitolo XIX ***
You
only need the light when it's burning low
Only miss the sun when it starts to snow
Only know you love her when you let her go
(Let her
go, Passenger)
Londra,
Ministero della Magia.
Ufficio Auror, Ora di cena.
Doveva trattarsi di un
incubo.
Quello oppure la situazione
che gli si era presentata davanti, a pochi minuti dal finire
quell’ennesima
giornata lavorativa, era reale e lui si trovava a dover gestire una
crisi in
piena regola.
Lanciò
un’occhiata a Ron,
l’amico di sempre, che sostava grave di fronte alla sua
scrivania. Accanto
aveva James che esibiva una ferita al sopracciglio curata malamente e
l’aria
tesa di chi avrebbe preferito trovarsi a faccia a faccia con un Troll
di
montagna che dover affrontare le conseguenze di un attacco con almeno
una
trentina di testimoni, tutti al San Mungo ad attendere di sapere se
erano stati
contagiati dalla stessa malattia dell’uomo che aveva
attentato alla loro vita.
“Cosa sapete dirmi
di questo…”
Merlino, non ricordava neppure il nome del mago ammalato.
“Price. Henry
Price.” Borbottò
suo figlio tamburellando le dita sulle gambe, guardandosi attorno con
l’evidente speranza che un meteorite si schiantasse su di
loro.
Poteva capirlo.
“Non
molto.” Aggiunse. “Bobby
ha interrogato i testimoni ed è venuto fuori che si
è iscritto all’Accademia qualche
mese fa. Non viene da nessuna scuola di Duello locale, ma è
entrato comunque
nella rosa dei favoriti per il Torneo Inter-Ministeriale che si
terrà a
Settembre.”
“Però!” Osservò Ron.
“Non succede spesso ai Signor Nessuno.”
“No, infatti… Però Dionis mi ha detto
che capitano, alle volte, i talenti naturali
e che quel tipo gli aveva detto che si era allenato in privato per
anni. Ah, ha
frequentato Hogwarts più di dieci anni fa. Niente di
eccezionale però, non è
stato né Prefetto né Caposcuola, nessuna menzione
d’onore. Grifondoro.”
“Non l’hai incrociato?”
James scosse la testa.
“Si è
diplomato prima che entrassi. Chi lo conosce dice che è un
tipo che sta sulle
sue, non è sposato, né ha figli.”
“Qualche collegamento con Howe? Con Liam?”
Le spalle di James sprofondarono impercettibilmente, ma
l’espressione smarrita
era tutta lì per gli occhi allenati di un padre.
“Nessuno … per ora.” Ripeté.
“Malfoy e Bobby stanno aspettando i permessi per perquisire
casa sua. Ma,
almeno per ora, sembra non abbia avuto nessun contatto con il sergente
e
l’americano.”
Harry si strofinò la fronte ignorando la compressione alle
tempie che
minacciava un’emicrania di tutto rispetto. “Le
persone che erano all’Accademia
… Si sa qualcosa dei risultati delle analisi?”
“È un
sacco di gente, papà.”
Sospirò. “Ho sentito Albus via Specchio Magico
… Hanno dato massima priorità ma
ci vuole tempo.” Prima che potesse chiedere, aggiunse la
risposta. “Non si sa
quanto.”
“Sören?”
Avrebbe dovuto chiamare
Nora ed informarla della situazione, perché non solo il caso
aveva avuto una
svolta drammaticamente repentina, ma quella svolta coinvolgeva in prima
persona
il suo agente.
Altra
cosa da aggiungere a quest’agenda da incubo.
Si sporse dalla porta e
cercò
lo sguardo della sua segretaria. “Grace, programma una
chiamata via Camino per
l’America tra cinque minuti.”
“Subito Signore.”
“È con gli altri.” Gli rispose James
quando richiuse la porta. “Prince, dico. Sta
bene per ora … insomma, così mi ha detto Al.
Papà…” Esitò.
“Credi che … Credi
che possa essere stato contagiato?”
“Non lo
so.” Ammise sentendosi
impotente di fronte all’atteggiamento smarrito del suo
ragazzo; Ron gli aveva
detto come avesse organizzato i soccorsi e fatto del suo meglio per
contenere
la situazione, ma ora, nell’intimità
dell’ufficio era chiaro fosse frastornato
e spaventato. Gli mise una mano sulla spalla e tentò il suo
miglior sorriso.
“Avete fatto un ottimo lavoro, laggiù. Liam
sarebbe fiero di voi.”
James ricambiò il
sorriso e si
scostò quando sentì bussare la porta. Quando
venne aperta senza chiedere il
consueto permesso, inarcò le sopracciglia.
“Mamma?” Domandò confuso
all’apparire della suddetta.
“Ginny.”
Salutò con un cenno
la moglie. “Vieni, stavo aspettando te.
Com’è la situazione al San Mungo?”
Sua moglie, che amava anche per la sua mancanza di peli sulla lingua,
scosse la
testa. “Pessima. C’è un asserragliamento
di giornalisti all’accettazione e sono
sicura che quello Snaso di Hawkins è riuscito a oltrepassare
la barriera di
infermiere per ficcare il naso un po’ ovunque.”
“Stampa? Stiamo
parlando della
stampa?” Ron
sgranò gli occhi,
impallidendo data la portata dell’informazione.
“Vuol dire che il Profeta sa
già tutto?”
“Tutti i
quotidiani magici del
paese, da quelli a tiratura di cento copie a quelli di diecimila, lo
sanno
Ron.” Replicò la sorella con un sospiro
impaziente. “Trentacinque persone, tra
staff dell’Accademia e Duellanti sono sia testimoni oculari
che probabili
vittime. Queste persone hanno dovuto chiamare i propri cari per
spiegare la
situazione … Non c’era modo per mettere a tacere
la cosa come nel caso di Liam.”
“C’eravamo solo noi auror
quand’è successo, Lils e Al … e i
pazienti dell’ala
Thickley.” Convenne James facendosi scuro in volto.
“Ma adesso…”
Harry si staccò
dalla
scrivania ed inspirò. Se c’era qualcosa da
evitare, era il panico di massa che
sarebbe conseguito a qualsiasi intervista, articolo o servizio fosse
venuto
fuori da quella giornata. “Adesso faremo
una conferenza stampa.” Proferì con una calma che
era ben lontano dal provare;
ma non era quello il punto. Non lo era mai stato da che aveva undici
anni. “Ron,
contatta la Direttrice Jones. Ginny, voglio che contatti tutti i
direttori dei
quotidiani e che tu predisponga la cosa. Credi di poterlo fare? Non gli
daremo
in pasto dei civili spaventati.”
“Gli daremo in pasto te
quindi?”
Mugugnò l’amico, che aveva sempre avuto la
straordinaria capacità di capire le
sue reali intenzioni.
Sorrise appena, stringendo
la
mano della moglie, che supportiva come sempre si era limitata ad un
silenzioso cenno
di assenso. “Beh, se non altro sono un piatto che conoscono
bene.”
****
San
Mungo. Reparto Malattia Infettive.
Sören non aveva la
minima idea
di come confortare quello che era diventato il suo primo amico su suolo
britannico dopo Lilian; Dionis marciava come un soldato di fronte alla
barriera, con le spalle ridotte ad una fune serrata di muscoli; poteva
vederlo
anche senza toccarlo.
“Roxanne
starà bene.” Esordì,
sentendosi piuttosto temerario dato che il resto degli astanti aveva
preferito
allontanarsi intuendo l’aria di tempesta.
È
un padre, ed è la nascita del suo primo figlio …
e
non può assistervi. Immagino sia frustrante.
L’altro diede
appena cenno di
averlo ascoltato. “Dovrei essere accanto a lei. Sono il suo
compagno.” Serrò i
pugni come se volesse aggredire fisicamente la barriera che li separava
dal
resto del reparto. “Invece sono qui, trattenuto come una
cavia da laboratorio!”
“È per la sicurezza stessa di tua moglie e di tuo
figlio.”
“Lo
so!” Gli venne rivolta un’occhiata di
rabbia bruciante, ma
sapeva che non era indirizzata a lui, quanto piuttosto alla situazione,
quindi
non arretrò. Lily non l’aveva mai abbandonato nel
momento del bisogno, neppure
a Durmstrang, e così avrebbe fatto lui con Dionis.
Questa
è l’amicizia, credo.
“Dovrei essere con
lei.” Ripeté
passandosi una mano trai capelli e serrando la presa sulle ciocche
corte. “So
che c’è la sua famiglia … ma ha bisogno
di me.” E c’era una sicurezza così
adamantina in quel tono che a dispetto della situazione lo
invidiò.
Dev’essere
bello esser desiderati a tal punto…
“Capisco la tua
frustra…”
“No che non capisci! Come potresti?!”
Sbottò voltandosi per fronteggiarlo e
Sören fu certo che l’avrebbe fatto se non avesse
trovato le parole giuste.
“Hai ragione, non
lo capisco.”
Replicò quieto. “Ma questo non mi impedisce di
dirti che non c’è nulla che
possiamo fare finché non arriveranno i risultati dei test.
Arrabbiarti non la aiuterà
in alcun modo.”
Il discorso con sua sorpresa
fece immediato effetto, dato che la rabbia dell’altro parve
sciogliersi come
neve al sole. “Hai … hai ragione.”
Mormorò con imbarazzo. “Mi sto comportando
come un idiota. Non volevo prendermela con te. Io
…” Esitò. “Ho usato parole
meschine. Perdonami.”
Cosa… Ah.
Scosse la testa, facendogli cenno di sedersi su una delle
poltrone che
erano state fatte Apparire per rendere più confortevole quel
soggiorno forzato,
e gli versò un bicchier d’acqua.
“Hai solo detto la
verità.”
Osservò sedendoglisi accanto. “Dubito che
diventerò mai un padre di famiglia.”
Dionis vuotò il
bicchier
d’acqua in due brevi, ma grati, sorsi.
“Perché?” Chiese sorpreso.
“Il mio lavoro.
È rischioso,
il tasso di mortalità o di ferite invalidanti è
alto. Con queste premesse non è
facile stringere legami duraturi … Una strega non vorrebbe
mai firmare un
contratto per trovarsi vedova.”
“Dovrebbe valere per ogni agente di Polizia Magica,
no?” Replicò aggrottando le
sopracciglia. “Ma non siete tutti scapoli, anzi.”
Palesemente colto in
flagrante, Sören sentì che si stavano avventurando
in un territorio troppo
personale. L’amico però aveva chiaramente bisogno
di distrarsi, ed era certo
che ogni sua confessione sarebbe stata vista come tale e dunque
custodita. “Non
sono un tipo da … famiglia.” Cominciò,
perché certe cose andavano spiegate.
“Non ne ho mai avuta una, non veramente, dato che i miei
genitori sono morti quando
ero bambino. Mio zio, come puoi immaginare, non era propriamente una
figura
paterna.” Apprezzò il lieve cenno
d’assenso dell’altro. Non voleva esser
compatito.
È
come sono andate le cose.
“Non penso che
sarei in grado
di gestirne una. Non saprei da dove iniziare.” Concluse il
braccio, teatro
degli esperimenti della Thule. Strinse la presa e sentì il
calore irradiarsi
quieto ma sempre presente. “Sarei un pessimo padre e un
pessimo marito.”
“Questo non puoi saperlo!” Ribatté
Dionis senza dismettere quell’aria sorpresa;
gli faceva piacere, ma dimostrava anche la sua ingenuità.
Nessuna persona che
lo conoscesse a fondo gli avrebbe mai affidato la sicurezza affettiva
di altre
persone. “Non puoi saperlo senza…”
“Chi mai mi
vorrebbe?”
Gli uscì prima
che potesse
frenare la lingua e avrebbe voluto Maledirsi; non voleva certo farsi
compatire
per qualcosa che aveva accettato come
una certezza, senza rattristarsi, molto tempo prima.
“No, ti
sottovaluti.” Fu la
replica seria corredata da una pacca sulla spalla: il rumeno era una
persona
che amava il contatto, con tocchi sulle spalle o strette di mano, ma la
sua
fisicità non era mai invasiva. Gli aveva sempre ricordato un
po’ quella di Lilian.
“Conosco persone che non dovrebbero neppure avvicinarsi
ad un impegno simile, eppure lo fanno e le conseguenze sono
pessime. Ma tu,
amico mio, renderesti una donna felice ne sono certo!”
Sorrise, accettando il discorso come un attestato di amicizia parziale,
perché
quello era. “Ti ringrazio.”
“Non ringraziarmi,
dico la
verità!” Sbuffò. “E comunque
una candidata già ci sarebbe.”
… Cosa?
La sua espressione fu
abbastanza esaustiva da far ridere l’altro.
“Sappiamo entrambi di chi stiamo
parlando, no?”
“Veramente
no.” Disse troppo
in fretta, dandosi del perfetto cretino. Di certo Dionis non
intendeva…
“Non facciamo
finta che il
Troll non sia nella stanza, Ren.”
Sentire quel nomignolo da labbra
che
non erano quelle della sua piccola amica inglese lo stranì a
tal punto che non
riuscì a mettere due parole in fila per negare.
Dannazione.
Quello era un ottimo
momento perché le analisi
arrivassero. Sören aspettò speranzoso prima di
realizzare che certe svolte di
trama accadevano solo nei film che Milo si ostinava a fargli vedere
ogni
venerdì sera.
“Credo tu abbia
frainteso la
natura dei rapporti tra me e Lily…”
Iniziò animato dalle più nobili intenzioni
di diniego.
“Oh no, non credo!” Replicò il rumeno
con sguardo divertito: aveva il rigore di
un soldato, ma era pur sempre un ragazzo di vent’anni ed era
naturale fosse
stuzzicato da quegli argomenti.
Non
come te, che sei un soldato fino all’ultima,
dannata, imbranata fibra del tuo essere.
Tu
ne sei agghiacciato, eh?
“Ascolta…”
Tentò.
“Ho visto come la guardi, non è amicizia quella
che provi.” Ghignò. “Lei ti
piace.”
Avrebbe dovuto esser
contento
di averlo finalmente distratto.
…
Se non fossi io l’argomento di conversazione.
“Certo che mi
piace. Provo
gratitudine, rispetto, fiducia…” Cercò
di mantenere il tono più distaccato che poté.
Una volta ne era perfettamente in grado.
Già,
una volta. Poi sei diventato una persona vera,
caro il mio Ren. Con pro e contro.
“… e le
devo la vita.” Tentò
un’ultima volta, dato che l’altro non sembrava
minimamente intenzionato a
mangiarsi la foglia. “Senza di lei non sarei mai stato in
grado di scrollarmi
di dosso il giogo di mio zio. Non avrei mai potuto essere
l’uomo che sono
adesso.”
Dionis annuì,
roteando la poca
acqua rimasta nel bicchiere. “Sì, ma tutto questo
non esclude altri sentimenti,
no?”
No.
Anzi.
Negare era inutile, e dopo
quella giornata allucinante tutto ciò che voleva era poter
abbandonare un po’
della tensione che gli si era accumulata sulle spalle. Se non poteva
avere i
risultati, allora …
“No, non li
esclude.”
Fu liberatorio.
Così tanto che
dovette inghiottire alla svelta il groppo che gli era salito alla gola.
Aveva davvero bisogno di
quei
risultati.
Si alzò,
passandosi una mano
trai capelli, chinando la testa per osservare le profondità
del pavimento. “Come
hai fatto a capirlo?”
“Non è
difficile.” Vedendo la
sua espressione, Dionis si affrettò a spiegare.
“Voglio dire, si capisce che le
vuoi bene, ma … Forse è una cosa mia, forse sia
io che te siamo stati abituati
sin da bambini a leggere oltre le parole della gente che ci circonda
per non
essere sopraffatti, ma …” Gli si
avvicinò. “È che quando sei con lei hai
tutta
un’altra espressione. Ti si legge negli occhi, sei
felice… come lo sono io
quando sto con la mia Roxanne.” Scrollò le spalle.
“Mi sbaglio?”
“No.”
Dionis sorrise. “E
comunque
credo che il sentimento sia reciproco.”
“No.”
Questa era una cosa che il suo interlocutore doveva
capire. “Lily vuole essere mia
amica. Tutto qui. Ed è mio preciso dovere rispettare questo
suo desiderio.”
“Ma come fai a…”
“È una Legimante Naturale.” Lo
fermò. “È brava … lo era
quando i suoi poteri
erano ancora grezzi e li usava senza averne cognizione e lo
è adesso che è
perfettamente in grado di captare e tradurre le emozioni altrui,
tuttavia non
ha mai capito ciò che provo per lei. Pensi che sia
perché non ci riesce, o
perché non vuole?”
Sapeva di avere ragione;
conosceva
abbastanza della Legimanzia per rendersi conto che, se solo avesse
voluto, Lily
sarebbe riuscita a penetrare le sue difese come un coltello nel burro.
Perché
per lei provo qualcosa e l’Occlumanzia è una
magia che si indebolisce con l’emotività.
“Non vi siete
rivisti da molto,
dal vivo intendo. Magari ha bisogno di tempo.”
Ipotizzò il rumeno strappandolo
dai suoi pensieri. “Magari se fossi più
chiaro…”
“Ha un ragazzo che
ama e la
sua tranquillità. Non ho alcun diritto di turbarla con i
miei sentimenti.” E
per quanto lo riguarda il discorso era chiuso.
Vide poi –
ringraziando
Merlino - una figura avvicinarsi, brumosa a causa della magia liquida
che li
separava. Neanche l’avessero chiamata, era Lilian. Dionis,
notandola, scattò in
direzione della barriera. “Lily!” La
chiamò. “Roxanne…”
“Sta bene, sta bene.” Fu lesta a rassicurarlo la
ragazza. “Ha fatto saltare i
timpani a tutte le Levatrici.” Aggiunse con un sorriso,
adesso ben visibile per
via delle vicinanza. Teneva qualcosa tra le braccia, avvolto in una
coperta
rosa e a Sören bastò vedere il sorriso enorme che
si dipinse sul volto
dell’amico per realizzare cosa, o meglio chi,
nascondesse.
“È…”
Mormorò il ragazzo
levando la mano per avvicinarla quanto più possibile alla
barriera senza
toccarla.
“ … una
bambina, caro il mio papà.”
Gli fece eco Lily con un sorriso
gemello. “Roxie non ha voluto sentir ragioni … Ha
detto che dovevi vederla,
subito.” Il sorriso sfumò in un ghignetto mentre
alzava la copertina per
lasciar intravedere un visetto rosso e minuto. “Ha protestato
tanto che gli
altri mi hanno scongiurato di
levarmi
dai piedi.”
Sören vedendo come
l’amico avesse
gli occhi lucidi fece un passo indietro, lasciandogli
un momento. Si sentiva un intruso
in una scena tanto intima.
Quindi
è così che nasce una famiglia.
Non poté fare a
meno di
osservare Lily però, che pareva del tutto a suo agio nel
ruolo di
ambasciatrice; teneva la neonata come se non avesse fatto altro per
tutta la
vita.
Ha
delle cuginette … Si sarà abituata con loro.
I
loro sguardi si incrociarono –
naturale, se fissava una LeNa con quella persistenza – e gli
venne rivolta
un’espressione confusa. “Non
ho la più
pallida idea di quel che sta dicendo.”
Sillabò muta in direzione del
giovane padre che sembrava aver perso la capacità di parlare
inglese in favore
di un fiume di parole nella sua lingua madre.
Sbuffò divertito.
“Si sta
presentando.” Riassunse.
Lily annuì.
“E tu, invece …
come stai?” Gli chiese cullando la bambina che si agitava,
forse infastidita
dalla quantità di magia che percepiva vicino a
sé.
Ha
già le percezioni di una strega … è
straordinario.
Per un momento la deriva dei
suoi pensieri notò la naturalezza con cui Lily teneva
stretta al petto la neonata,
in una rappresentazione involontaria della madre che sarebbe diventata
un
giorno.
Pensa
se quella bambina fosse sua … fosse vostra.
Serrò le labbra,
abbassando lo
sguardo sentendo un maglio artigliargli le viscere.
Sei
un cretino.
“Sto
bene.” Mentì con
disinvoltura. “Aspetto. Sai se ci sono
novità?”
“Albie
è andato a controllare
… Credo abbia il terrore che la nostra dolce cugina si alzi
dal letto e lo
strangoli con la cintura della vestaglia.”
Ridacchiò. “È stata un incubo per
tutta la durata del travaglio e mi ha quasi fratturato le dita della
mano
destra. Fortuna è durato poco, noi Weasley siamo gente
spiccia.”
“Avrei dovuto
esserci.”
Mormorò Dionis con tono dolente. “Se
solo…”
“Beh, mica vi fermerete alla prima, no?” Lo prese
in giro, per poi addolcire
l’espressione. “E Roxie lo sa, non preoccuparti.
Rimarrai comunque il suo
cavaliere dall’armatura lucente.”
Il ragazzo parve sollevato
da
quell’affermazione a quanto pare solo in apparenza scherzosa.
“Grazie. Per
averla portata qui … e per tutto.”
“Se mi lasciate decidere il nome siamo pari.”
Replicò scrollando le spalle. “E
che non vi venga in mente di chiamarla come me … non voglio
concorrenza, ci
sono già troppe Lily a questo mondo!”
Ma nessuna come te.
Lo pensò e poi l’amica, con suo sommo
orrore, voltò la testa di scatto
nella sua direzione.
Mi
ha sentito!
Il
che era impossibile; tuttavia era
una LeNa, dare per scontato che non potesse decifrare i suoi pensieri
come
decifrava le sue emozioni era … incauto.
Non
è che adesso sa leggere anche quelli?
La domanda rimase insoluta,
dato che Albus Severus arrivò accompagnato dal Capo
Guaritore del reparto, tale
Seamus Finnigan.
“Buone
notizie.” Il mago più
anziano non ci girò attorno e rivolse un sorriso agli
astanti, facendo
risuonare la voce con un Sonorus.
“Potete tornare a casa, gli esami sono risultati
negativi.”
Le espressioni di sollievo e
le chiamate via Specchio Magico ai propri cari si sprecarono mentre la
barriera
igienico - magica veniva fatta scomparire con un paio di colpi di
bacchetta.
Dionis quasi si gettò su Lily e l’altra fu lesta,
con una risata, ad affidargli
la figlia.
“Siamo arrivate
proprio al
momento giusto!” Esclamò facendogli
l’occhiolino.
“Già.”
Mosse un passo in
direzione dell’altra, ma la strada gli fu sbarrata da Albus.
Cosa…
“Dobbiamo
parlarti.” Esordì il
ragazzo.
“Perché?”
Si intromise Lily con un tono che spinse il fratello a
fare un istintivo passo indietro. La collera della sua piccola amica
era
leggendaria. “Gli esami non sono risultati
negativi?”
“È
così.” Rispose il Capo
Guaritore. “Tuttavia abbiamo riscontrato delle anomalie in
alcune misurazioni…
e speravamo, signor Prince, che potesse aiutarci a capirle.”
È il mio braccio. E la mia magia.
“Va
bene.” Annuì prendendo la
giacca che aveva lasciato stesa su un lettino ed infilandosela. Diede
una pacca
sulla spalla a Dionis che, per quanto stringesse la figlia tra le
braccia con
un’espressione di pura felicità era riuscito a
tornare sulla terra per
lanciargli un’occhiata preoccupata.
“Ren.”
Lily si mordeva le
labbra ed odiava vederle quell’espressione addosso; le si
addicevano i sorrisi
luminosi e i lazzi innocui, non labbra tirate e sguardo cupo.
“Vuoi che venga
con te?”
“No. Ti ringrazio, ma non credo sia necessario.” La
giusta distanza era
doverosa. Dionis adesso condivideva il suo segreto ma non cambiava
nulla.
Lei
non deve sapere. Ti sei quasi tradito prima … ha
visto come si è voltata? Non devi tradirti.
Era troppo stanco e troppo
deconcentrato
per usare l’Occlumanzia e senza di essa non avrebbe potuto
rivolgerlesi con la
giusta serenità d’animo.
La
giusta distanza.
“Ti
chiamo.” Fece un cenno e seguì
i due Guaritori, ignorando lo sguardo deluso che sentì sulla
schiena.
La
maledetta, giusta distanza.
****
Ministero
della Magia.
Ora di cena.
La conferenza stampa era
stata
organizzata in fretta e furia in una delle salette del Ministero, una
di quelle
in cui si poteva arrivare solo se guidati da un funzionario esperto.
Harry
stesso aveva dovuto memorizzare più di un paio volte la
piantina per arrivare
sano e salvo. Andò a stringere la mano alla Direttrice del
Dipartimento Hestia
Jones, soprannominata da molti M,
per
via della somiglianza notevole con il capo dei servizi segreti dei film
di
James Bond.
“Direttore.”
“Potter.” Lo salutò con un cenno
energico della testa, poi il viso sfumò in
un’espressione tra il divertito e il rassegnato.
“C’è da chiedersi perché mi
stupisco ancora quando succede qualche disastro con portata mediatica e
ti vedo
apparire.” Fece poi un cenno di saluto a Ron, al suo fianco.
“I giornalisti
sono già arrivati. Siete gli ospiti
d’onore.”
“E quindi ci facciamo attendere.” Sorrise
stringendosi le spalle minimamente
turbato; se la sua fama gli era mai servita a qualcosa, era stato come
trattare
con quella particolare categoria lavorativa.
Ironico
che abbia finito per sposarmene una. Anche se una
cronista sportiva forse è un, fortunatissimo, caso a parte.
Notò poi la figura slanciata e chiusa
in un completo di
sartoria di Michel Zabini, e ne rimase sorpreso. Il ragazzo, vedendolo,
si
avvicinò per stringergli la mano. “Capo-Auror
Potter, buonasera.” Lo salutò
deferente. “Sono qui per rappresentare il Ministero Americano
come funzionario
di riferimento assegnato all’agente Prince.”
Soggiunse forse captando la sua
confusione.
“Ah, ma certo.” Ricordò stringendogli la
mano di rimando. “Notizie da Sören?”
“È
ancora al San Mungo.”
Rispose senza particolari emozioni dipinte in volto; ma del resto, da
che lo
conosceva come amico di Al, lo aveva sempre visto indossare una
maschera di
indifferenza.
Albie
dice che in contesti privati non è così
… ma bisogna
ammetterlo. Certi Serpeverde sembrano fatti con lo stampo.
La sua presenza gli
ricordò però
la breve ma intensa chiamata avuta con Nora.
“Mi
fido del tuo giudizio Harry. Purtroppo al momento
Sören non può rappresentarci, manderanno il
funzionario assegnatogli dalla
Cooperazione Internazionale …” E il tono di voce
era carico di apprensione,
sebbene non l’avesse lasciata trapelare con domande o
richieste. Erano in
servizio, i sentimenti personali dovevano essere accantonati.
“Date le nuove
informazioni sulla modalità del contagio, ci metteremo
subito all’opera. Se non
altro, qualcosa di buono è uscito da questo disastro
… Potremo fare ricerche
più precise.”
Addizionato a quello,
l’amica
gli aveva spedito la biografia di Samuel Howe messa assieme dalle mani
capaci
dei giovani agenti della SAGITTA. Al momento riposava sulla sua
scrivania, ma
non appena James, Bobby e Scorpius fossero tornati dalla perquisizione
dell’appartamento di Price gliel’avrebbe affidata.
Dobbiamo
arrivare, se non ad una soluzione, almeno a
qualche risposta, altrimenti la stampa non ci lascerà
vivere…
Entrò dentro la
saletta e fu
immediatamente aggredito da una selva di flash. Distolse lo sguardo e
si
diresse con tutta la naturalezza che poté impostare verso il
tavolo delle
autorità, già rifornito di acqua e cartelline
contenenti i comunicati stampa
dell’intera faccenda.
L’ufficio
stampa del Ministero ha fatto i salti
mortali. Chissà quanta gente non ha cenato
stasera…
Si sedette e
approntò il suo
miglior sorriso da prima pagina, mentre accanto a lui prendevano posto la Direttrice e
Ron.
“Buonasera.”
Esordì la strega
dopo essersi lanciata un Sonorus.
“Il
Dipartimento desidera ringraziarvi per essere riusciti ad essere qui,
dato il
poco preavviso…”
Harry si scambiò un’occhiata con Ron, ed entrambi
nascosero una smorfia
sarcastica, forse più adatta ai due studenti ribelli che
erano stati che a due
uomini adulti, ma non per questo fu meno soddisfacente.
Come
se non avessimo organizzato tutto questo teatrino
proprio per evitare che rimanessero a casa a scrivere
spropositi…
Mentre la strega
predisponeva
una serie di frasi generiche per spiegare la situazione che si era
venuta a
creare, usando termini quali “indagini
approfondite”, “piste
promettenti”, “dispiegamento di forze e di
mezzi” e “sicurezza dei nostri
cittadini”, la mente di Harry si concentrò sulla
preoccupazione di sapere i
suoi ragazzi di nuovo in mezzo a
pericoli tangibili.
James
li investiga, Albus si è fatto assegnare alle
persone malate, e Lils …
Non
riusciva a capire perché sua
figlia si fosse infilata in quella faccenda, dato che a rigor di logica
né per
il lavoro che faceva, né per sua espressa volontà
avrebbe dovuto esser
coinvolta.
È
per via di Prince?
Non era sicuro di volersi
rispondere.
“Una domanda per
il Capo Auror
Potter!” Doveva immaginare che Richie Hawkins, la punta di
diamante della
sezione Cronaca del Profeta, nonché allievo della famigerata
Skeeter, avrebbe
approfittato della sua presenza per sputare domande come Schiantesimi.
“… il
primo caso è stato riscontrato in un turista americano,
ospite dei Tre Manici,
Samuel Howe. Dobbiamo quindi supporre che la malattia venga
dall’America?”
Piccolo,
viscido ratto…
Avrebbe
dovuto immaginarsi che la cosa
sarebbe trapelata, specie alla luce del fatto che al Paiolo vi erano
stati
testimoni, per quanto avvertiti di non parlare con nessuno.
Ma
si sa, Tom di fronte a consumazioni ripetute al suo
bancone diventa una bocca larga …
Pensò rapido ad
una risposta;
l’ultima cosa di cui avevano bisogno è che
l’opinione pubblica pensasse ad una
malattia ‘americana’.
Se
si comincia a pensare che sono gli americani ad
averci fatto ammalare …
Non voleva neanche
immaginare
le conseguenze, sia a livello ministeriale, sia a livello del mago
della
strada.
Ci
manca solo una caccia a stelle e strisce.
“Non abbiamo
certezze del
fatto che il defunto Signor Howe avesse contratto la malattia in
America.”
Iniziò. “Ogni turista in entrata e in uscita dal
nostro Ministero viene
controllato e dunque…”
“Quindi i controlli non sono stati così
accurati?” Incalzò l’uomo mentre
attorno a lui Penne Prendi Appunti scrivevano furiose.
“Il protocollo
è stato
seguito.”
“Beh, non pare
…”
Ora
gli spacco la faccia.
C’erano momenti in
cui capiva
il fiotto d’adrenalina che spesso oscurava il giudizio di suo
figlio James:
l’aveva ereditato da lui.
Incredibilmente fu il
giovane
Zabini a venirgli in aiuto. “I controlli alle frontiere
vengono presi sul serio
da entrambi i nostri gloriosi Ministeri.” Osservò
con un sorriso accattivante e
un tono misurato che lo facevano sembrare più maturo della
sua età. Al gli
aveva detto fosse in gamba, e fu sollevato dal constatarlo di persona.
Se non
altro, Malfoy non gli aveva messo trai piedi un figlio di
papà incapace.
“Naturalmente di fronte a quella che sembra essere una nuova
malattia tali
controlli possono diminuire la loro efficacia.” Soggiunse.
“Il Dipartimento di
Medimagia americano tuttavia è stato allertato e Oltreoceano
sono state prese
le dovute misure. C’è piena collaborazione e
fiducia da entrambe le parti, come è sempre stato.”
La Direttrice a quel punto
trovò opportuno intervenire e da come gli venne lanciata
un’occhiata
ammonitrice che gli intimava di non azzardarsi ad aprire bocca per
vanificare
l’intervento del giovane funzionario, lui non aveva
più voce in capitolo. “Ci
troviamo di fronte ad una malattia nuova, i normali protocolli di
sicurezza saranno
intensificati, sia in entrata che in uscita.”
Spiegò. “Ci teniamo però a
specificare che il mezzo di trasmissione non avviene per via aerea, ma
tramite
lo scambio di flussi magici. Non vi è alcun rischio
concreto, a meno che non si
ingaggi uno scontro diretto con la persona ammalata.”
Le domande e risposte
continuarono, ma Harry si guardò bene
dall’intervenire; come gli aveva
ricordato lo sguardo di M, la sua
presenza lì era esclusivamente a beneficio dei riflettori.
Non era un problema essere
il
riferimento verso cui la stampa avrebbe indirizzato teorie e eventuali
invettive. Se avessero perso tempo con lui, avrebbero lasciato liberi
di
lavorare James, Scorpius, Bobby e Sören.
Sempre
che il ragazzo non sia stato contagiato …
Avrebbe distrutto il morale
della squadra, dopo il contagio di Liam.
C’era una certa
amara ironia
nel constatare che il tedesco, che aveva collaborato gomito a gomito
con il
redivivo John Doe, adesso rischiava di esserne vittima.
Ironico
eppure già visto.
Passare dalla parte giusta
dopo aver commesso errori pareva, per chi aveva sangue Prince, una
caratteristica di famiglia.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Casa
di Ted Lupin e James Potter.
Ted sobbalzò
quando il camino
diede un lampo improvviso seminando una buona quantità di
cenere sul pavimento;
dato che cercava di ammazzare il tempo leggendo un libro
nell’attesa che James
tornasse a casa tutto intero era un miracolo avesse scampato
l’infarto.
“Ehi bellezza!” Sul momento non riconobbe la voce
prima di realizzare che era
quella del funzionario dell’Ufficio Relazioni con i Mannari.
“Troppo tardi?”
Sì, poteva essere
solo la
bislacca ragazza che rispondeva al nome di Flynn Lin. “Flynn,
buonasera.”
Sorrise sporgendosi dal divano per guardarla apparire tra le fiamme.
“Non mi
aspettavo una chiamata via Camino … di solito non lo
usiamo.”
“Si vede, il collegamento fa schifo.”
Replicò quella senza troppi giri di
parole. “Comunque, ripeto. Troppo tardi?”
“Sto aspettando
che James
torni dal lavoro, quindi no, ero sveglio.”
Realizzò il motivo della chiamata e
si raddrizzò, posando il libro che stava leggendo accanto
alla tazza di the ormai
vuota; era la sua ricetta per avere la meglio sulle lunghe attese.
“Ci sono
novità su Lunastorta?”
Merlino,
non mi abituerò mai a chiamarlo così.
“In un certo
senso.” Replicò
sibillina. “Ti avevo parlato, no, di Moscardo?”
“Il vice
dell’attuale
Capobranco?” Ricordò. “Sei riuscita a
spiegargli la situazione?”
“Sì, ed
ha accettato di
incontrarti … ma ad una condizione.”
Non
mi piacciono le condizioni.
Tuttavia non era nella
posizione di contrattare. “Sono tutto orecchi.”
“Ha detto che parlerà con te solo se accetterai di
farlo alla Riserva.”
Ted aggrottò le
sopracciglia
perplesso. “Non c’è problema.”
Non aveva certo paura di mettervi quando per
mestiere aveva dovuto avere a che fare con Creature pericolose, se non
più,
comunque alla pari con i Mannari. “Pensi
che sia un problema?” Si corresse.
La ragazza si morse un labbro, e nonostante la pessima resa delle
fiamme,
riuscì a sembrargli incerta. “Il fatto
è che al momento Moscardo è a caccia con
i giovani, e tornerà domani mattina … Vuole
che passi stanotte alla Riserva.”
“Ah.” La
richiesta era strana,
non c’era dubbio. “E perché?”
“Lo sa
Morgana!” Sbuffò scuotendo
la testa. “Te l’ho detto no, che è una
specie di guru spirituale e palle varie
… Ha queste alzate di ingegno, alle volte. Mi ha bombardato
di domande su di
te, è parso interessato.” Si grattò il
naso speculativa. “La mia opinione?
Credo voglia vedere se riesci a sopportare una notte con il branco. Se
vali la pena.”
“Ho
capito.” In realtà per
niente, ma supponeva non fosse quello il punto. I Mannari che vivevano
nel
branco del Galles avevano, a dispetto di quel che si pensava, un rigido
codice
di comportamento: forse quella era una sorta di prova. “Dammi
una mezz’ora per
prepararmi e poi…”
“… e poi vieni da me, ti ci porto io.”
Finì per lui. “Ho una Passaporta nella
capanna di Moscardo, la incanto e sei là. Siamo
intesi?”
Lo erano. Flynn gli diede’indirizzo di casa sua,
perché vi arrivasse via camino
e si salutarono. Ted salì così al piano di sopra,
preparando uno zaino con le
cose necessarie per una notte all’addiaccio; fu rapido dato
che gli era già
capitato di dormire fuori nelle occasionali esplorazioni dei dintorni
che lui e
James facevano quando il tempo volubile delle Highlands decideva di
essere
clemente.
Jamie…
Doveva
chiamarlo e spiegargli la
situazione prima che tornasse a casa e la trovasse vuota.
Dopo
la giornata che ha avuto un biglietto e qualcosa
in caldo da mangiare non sono un
benvenuto adeguato.
Prese lo Specchio Magico e
scrisse il nome del ragazzo, sperando che avesse la
possibilità di
rispondergli. Odiava davvero lasciare biglietti.
Inghilterra,
Londra.
James sentì la
tasca interna
della giacca scaldarsi mentre parcheggiava l’auto di
servizio, data in
dotazione agli agenti che dovevano spostarsi in aree densamente
popolate da
Babbani senza dare nell’occhio.
È
un peccato che non ce le diano più spesso. Sono
fighe!
“Il tuo bel chiodo
da ragazzo
cattivo si sta illuminando, Potty, chiamata in arrivo!” Gli
fece notare
Scorpius sedutogli accanto, tutto preso a girare le manopole della
radio come
se fosse in gita ad Hogsmeade.
Lo
prenderei a calci se non avessi bisogno di sentirlo
ciarlare dopo la merda che ci è toccato ingoiare oggi.
Se
blatera è ancora tutto okay.
Estrasse lo Specchio
Comunicante e vide il nome del compagno galleggiare sul vetro. Lo
sfiorò con la
punta della bacchetta. “Ehi, Teddy. Sai che sono in servizio,
vero?”
“Sì,
scusami.” Il tono di voce
non era dei migliori, registrò. Suonava agitato, per quanto
potesse esserlo una
persona che considerava il the l’unico stimolante di cui
avesse bisogno per
alzarsi la mattina. “Come stai?”
“Meravigliosamente
di merda,
grazie. La giornata lavorativa più lunga di
sempre.”
“Hai un momento?”
“Per te
sempre.” Scrollò le
spalle, mentre gli altri due auror scendevano dalla macchina.
“Che succede?”
Dimmi
che è tutto okay o prendo a testate il volante,
cazzo.
“Nulla
… È solo che stasera
non sarò a casa.”
Eh?
“Eh?”
Ripeté a voce alta
sbattendo la portiera, prima di rendersi conto che doveva esserci un
motivo ben
preciso se l’abitudinario Ted Lupin decideva di allontanarsi
dal focolare a
notte fonda. “È successo qualcosa? Tua nonna, i
miei?” Snocciolò preoccupato.
“No, no
… Ti ricordi la
faccenda del Mannaro? Sono stato invitato alla Riserva dal vice-capo
branco. Vuole
parlarmi, e vuole che lo faccia alle sue condizioni. Lo
vedrò domani mattina.”
“E stasera devi
dormire lì?”
Quella storia non gli piaceva, ma lontano miglia poteva far poco per
convincere
l’altro a dargli retta.
Tra
l’altro, quando vuole è una gran testa di Bolide e
su questa storia si è impuntato di brutto.
Ted sorrise oltre lo
schermo,
forse intuendo i suoi rivolgimenti interiori. “Non
c’è da preoccuparsi … il
funzionario dell’ufficio intercederà per me, e
comunque non è certo la prima
volta che ho a che fare con dei Mannari.”
“Una cosa è andare ad una conferenza e stringere
le mani a gente come tuo
padre, una cosa è avere a che fare con un branco libero.” Gli fece notare,
facendo cenno a Scorpius e Bobby di
andare avanti. La villetta a due piani dove abitava Price era simbolo
perfetto
del quartiere in cui si trovavano, Brixton¹, dato che accanto
aveva un sexy
shop e un pub dall’aria sinistra. Fortuna voleva avessero
deciso di non
indossare le uniformi per il sopralluogo, dato che vennero squadrati da
un
gruppetto di ragazzi afroamericani che ciondolavano fuori dal pub, da
cui
usciva musica reggae a volume sostenuto.
“Lo so, Jamie, ma voglio chiudere questa storia una volta per
tutte.” Soggiunse
l’altro. “Ho bisogno di
risposte…”
“Sul fatto che
quel tizio si
chiamava Lunastorta?”
“Anche, e
poi…” Non finì e
James ricordò la foresta, i Centauri e il dannato sangue
sulla mani dell’altro.
Okay.
Fanculo, non fare quella faccia. Okay.
“Va
bene.” Sbuffò. “Solo …
Vigilanza costante, ah?”
Ted ridacchiò.
“Contaci.” Guardò
oltre le sue spalle, inarcando le sopracciglia. “Sento della
musica … dove
siete?”
“Nel buco del culo
di
Brixton.” Scrollò le spalle raggiungendo Malfoy
che con un solo colpo sapiente
di bacchetta aprì il portoncino del palazzo, facendo poi
elegante cenno di
precederlo. “E Malfuretto è uno
scassinatore.”
“Potty mi insulta, non ho nessun passato nella malavita!
È solo che quando devo
forzare la porta dell’appartamento della mia rosellina
perché il Signor Weasley
mi ha chiuso fuori…”
“Okay, non sto ascoltando coglione.” Lo
fermò, tirandolo dentro l’ingresso buio
e dal forte odore di spezie. “Stiamo per fare
un’ispezione.”
“Ti lascio allora.” Non poteva vedere il viso
dell’altro a causa del buio, ma
poteva sentirne la voce ed era un po’ imbarazzante esserne
così rassicurato.
“State attenti.”
“Al massimo dovremo preoccuparci di essere morsi da qualche
topo.” Gli fece
eco. “Sta’ attento tu piuttosto e chiamami se
succede qualcosa. Ho una macchina
favolosa che macina miglia.”
“Certo.” Ci fu una breve pausa. “Ti amo
James.”
Ringraziò in ginocchio – metaforicamente
perché ci teneva ai suoi jeans – la
scarsa illuminazione delle scale perché era certo di avere
stampato in faccia il
sorriso più imbecille della storia. Non si
sarebbe mai abituato al fatto che il suo cacasotto preferito avesse
smesso di
esserlo, almeno dal punto di vista emotivo.
“Anch’io.”
Sorrise prima di
salutarlo e chiudere la comunicazione. Ovviamente trovò
Scorpius ad aspettarlo
in cima alle scale con un ghigno saputo.
“Fatti i cazzi
tuoi.” Offrì
diplomaticamente, sperando che il calore sul suo volto fosse imputabile
al
cambio di temperatura con l’esterno. Là dentro si
bolliva.
“Siete così carini quando vi
scambiate tenerezze.” Sogghignò il biondo
rimediandosi un doveroso pugno. “Vi vedo già
vecchietti a raccogliere
conchiglie a forma di cuore sulla spiaggia di
Tinworth…”
“Tu hai problemi
al cervello.”
Brontolò ignorando l’immagine inquietantemente
suggestiva mentre Bobby si
occupava di lanciare incantesimi Silenzianti al pianerottolo, onde
evitare guai
con i vicini Babbani.
“Vi immagino anche
io così.”
Replicò il ragazzo di colore senza battere ciglio.
“O in una foto da rivista,
con un cane e un paio di ragazzini.”
“Quanto siete stronzi.”
Sbuffò
incrociando le braccia al petto. “Chi diavolo dovrebbe
partorire poi?”
“Punto dieci
Galeoni su di te,
mio Potty. Tanto ti è già venuta la panzetta
alcolica.”
“Ma vaffanculo,
non è vero!”
Ridere non era male quando le contingenze erano tutto
fuorché allegre.
Ringraziò comunque Merlino che il crucco non fosse presente.
Siamo
più rilassati quando non c’è.
…
o forse solo io e gli altri si adeguano di
conseguenza?
Mentre Scorpius si occupava
della serratura guardò fuori dalla finestra, dove i lampioni
lanciavano ombre
sulla strada lavata dall’ennesima pioggia estiva. Era
incredibile pensare che
un tipo che aveva quasi fatto saltare in aria un’Accademia di
Duello, e dato
filo da torcere a ben quattro agenti altamente addestrati, vivesse in
un
quartiere così poco magico. “Questo Price deve
essere Nato Babbano.” Osservò
distratto.
“Sì, ma
sa mettere barriere
anti-ladro come se lo facesse dalla nascita…”
Borbottò Scorpius chino sulla
serratura e già in maniche di maglietta. “Per
Salazar, si muore di caldo!”
“I Babbani hanno
condizionatori solo nei loro appartamenti … Non usa il buon
vicinato, pare.”
Replicò Bobby appoggiandosi al muro antistante e nascondendo
uno sbadiglio
dentro una mano. “Ma che ore sono?”
Scorpius, con la bacchetta
in
pugno e con una forcina per capelli trai denti, grugnì un
lamento. “Dieci
minuti a Mostruosamente Tardi?”
Con un rumore secco di
rottura, le barriere magiche finalmente furono spezzate e
quest’ultimo, con
un’esclamazione di trionfo passò a forzare la
serratura. Fu un attimo: un’ombra
nera balzò fuori dalla porta aperta e lo placcò
in pieno petto.
“Scorpius!”
Gridò bacchetta alla mano, mentre Bobby lo imitava
imprecando.
“Fermi!”
Esclamò l’aggredito,
cercando di districarsi dalla massa a quattro zampe che gli era
piombata
addosso. “Fermi, è solo…” Una
risata li congelò sul posto. “…
è solo un cane!”
Il suddetto, beatamente
scodinzolante, si stava adoprando per lavargli la faccia a suon di
leccate e
abbaiò entusiasta quando notò la loro presenza.
Ma
porc…
“Beh, se non altro
non è
un’Acromantula…” Mormorò
Bobby con un sorriso nervoso. “Accidenti, gente,
abbiamo i nervi tesi, eh?”
“Puoi
dirlo.” Sospirò
grattando la testa del grosso Golden Retriever che lo guardò
con canina
adorazione. “Non mangerà da stamattina,
troviamogli qualcosa da mettere sotto i
denti prima che decida che Malfuretto è gustoso.”
“Ci penso io!” Esclamò questo, in piena
simbiosi con quello che evidentemente
riconosceva come suo simile. “Ciao bello, mi dici
dov’è la tua ciotola? Chi è
un bel cagnone?”
James alzò gli
occhi al cielo,
mentre Bobby ridacchiava e lo precedeva all’interno
dell’appartamento. Inarcò poi
le sopracciglia quando riuscì a dare un’occhiata
sommaria al soggiorno, la
prima stanza che si incontrava dopo l’ingresso.
“Un bel
po’ monotematico
l’amico …” Considerò Bobby
fischiando impressionato.
L’intero ambiente
era
tappezzato da poster raffiguranti Duellanti, Duelli, momenti salienti
dei
suddetti e premiazioni. Vi erano bandiere delle principali scuole
dell’Europa
Continentale e teche contenenti foto e pezzi di uniforme.
“A questo tipo
piace proprio tanto menare la
bacchetta!” Osservò Malfoy
uscendo dalla cucina dove doveva aver lasciato il cane a giudicare dal
rumore
di mascelle ruminanti. “E dovete vedere la tabella di
allenamenti pazzesca che
tiene attaccata al frigofero.”
“Frigorifero,
scemo.” Lo
corresse dirigendosi verso una serie di foto che raffiguravano Price
assieme
agli altri allievi dell’Accademia; riconobbe Dionis in
seconda fila e anche
qualche auror. “Sono tutte foto recenti.”
Notò scorrendole con lo sguardo.
“Stessa cosa per
quelle in
camera! Non sembra si vada più in là di un
anno…” Gridò Bobby dalla suddetta,
prima di uscirne. “L’unica cosa che sembra essere
datata è la sua sciarpa di
Grifondoro.”
James aggrottò le
sopracciglia. “Assurdo. Questo tipo ha cominciato a vivere
meno di un anno fa?”
“Forse si
è trasferito da un
altro posto e ha buttato la roba vecchia.”
Ipotizzò l’altro facendo spallucce.
“C’è gente che lo fa.”
“Sì, ma
le foto dei genitori?
Amici? Non è roba che inscatoli o butti!”
“Questo posto
è un culto alla
prestanza fisica.” Osservò Scorpius sedendosi
sulla poltrona e agitandosi un
po’ per trovare la posizione giusta. “E al
presente.” Aggiunse meditabondo. “Credo
proprio che abbia sempre vissuto qui … Almeno, sia prima che
dopo.”
“Prima e dopo cosa?”
“Questa
è una poltrona su cui
si è seduto per un sacco di tempo una persona robusta.
Più grassa che robusta.”
Si dimenò ancora un po’. “Sento ancora
la forma, e credetemi, non è quella del
tipo che abbiamo affrontato oggi.”
Bobby lo guardò stranito, perché in effetti certe
uscite di Scorpius a volte
potevano esser viste come il volo di un fantasia troppo fervida.
“Potrebbe
essere un parente … un fratello?”
L’altro scosse la
testa,
intrecciando le mani dietro la nuca e reclinandosi sul sedile.
“Ho visto il
contenuto del frigo. Un sacco di roba dietetica, proteica …
il genere di cose
che comprano i Babbani quando non vogliono ingrassare. E poi la tabella
di
marcia, e la bilancia sotto il lavello? Fate due più
due.”
“Quindi era forma,
e con
questo? Dobbiamo cercare indizi che sia venuto a contatto con Howe o il
Sergente,
non quanti chili ha perso in un anno!” Gli fece notare per
riportarlo sul
pezzo. L’espressione di Scorpius però era troppo
consapevole per essere stata
una sparata fatta tanto per dimostrare le sue doti investigative.
Si strinse infatti le
spalle.
“Era solo per rispondere alla tua domanda … sul
perché non ci sia niente che
faccia pensare ad una vita passata. Price ha voluto disfarsene assieme
ai chili
di troppo. Ha senso, no?”
In
effetti.
Bobby passò
davanti ai vari
poster, dove Duellanti famosi si mettevano in posa o lanciavano
incantesimi a
beneficio dei fotografi. “Per poter iscriversi
all’Accademia serve un
certificato di sana costituzione dal San Mungo. Devi essere
allenato…”
“Non è solo questione di peso, ma anche di
capacità magica!” Obbiettò.
“Se sei
una mezza sega con gli incantesimi puoi anche diventare tutto muscoli,
ma se
non aumenti…”
Scorpius squadernò un sorriso tutto denti, trionfante.
“… la tua capacità
magica, dici? Scusa, mi ricordi qual è il sintomo
principale?”
“Merda.”
Sussurrò mentre
accanto a lui Bobby giungeva alla stessa, silenziosa conclusione data
l’espressione con cui si voltò. “Prince
aveva detto che la malattia poteva
essere un effetto collaterale successo durante un incantesimo Oscuro
andato
storto!”
“Ma come ha fatto
Price a
lanciarselo e a lanciarlo anche su Howe?” Bobby scosse la
testa.
“Possono aver
lavorato
assieme!” James guardò Scorpius mentre questo si
aggirava per la stanza, preso
da un pensiero da come prendeva libri dall’esigua libreria o
sfogliava una nutrita
pila de Il Maschio
Mago – rivista che Lily aveva ribattezzato
brillantemente Manifesto della
iper-Compensazione Maschile.
Ritornò al punto
della
faccenda. “Malfuretto, Howe secondo le nostre indagini non
è mai uscito dalla
sua stanza al Paiolo. Come diavolo avrebbero fatto ad
incontrarsi?”
“Partite dal
presupposto che
si siano incontrati di recente. E se non fosse
così?”
“Ma se si sono
ammalati nelle
ultime due settimane!”
Scorpius inarcò
un
sopracciglio come solo suo padre avrebbe saputo fare. “Scusa,
ma tuo fratello
non ha detto che il virus è capace di mutare? Che la roba
che ha il Sergente
non è la stessa che ha Price? Quindi i tempi di contagio di
Howe e Price
potrebbero non essere quelli che pensiamo.”
Bobby schioccò le
dita. “Ehi,
questo spiegherebbe perché Howe era a Londra! Si
è ammalato, quindi ha cercato
di tornare dove è stato contagiato la prima volta. Abbiamo
supposto che
viaggiasse spesso da Londra all’America per lavoro, ma se non
fosse stato per
lavoro?”
Oh,
merda.
Era stufo di pensare quella
parola. “Che diavolo stai cercando?” Gli chiese
affiancandoglisi e dando un
colpetto al giornale. “Quella roba è
spazzatura!”
“Price
è un patito dei Duelli,
ma non è come fare un po’ di palestra, ci vuole
concentrazione, sforzo e una
certa predisposizione naturale. Cerco quello che ha cercato
lui.” Cominciò sfogliando
le pagine febbrile.
Bobby prese una delle
riviste,
sfogliandola confuso. “Cosa stiamo cercando?”
La rivelazione
arrivò come un Avada a
ciel sereno. “Sia Howe che Price
non hanno pasticciato con la Magia Oscura come pensavamo …
Hanno rintracciato
chi lo facesse per loro.”
Scorpius lo
graziò di un
enorme sorriso soddisfatto e squadernò di fronte a loro una
pagina segnata da
una grossa piegatura, fatta evidentemente per non perdere il segno. Vi
era
cerchiato un trafiletto corredato da un profluvio di lettere colorate
ed
immagini di maghi dall’aria prestate. “Quello che
stiamo cercando, signori. La
versione magica di allungati il pene!”
****
Inghilterra,
Londra.
Residenza cittadina degli Zabini. Notte.
Dal punto di vista di Dirk
Zabini la venuta del fratello maggiore era un evento assimilabile solo
alle
festività. Era raro che Miki – troppo difficile da
pronunciare altrimenti – si
facesse vedere fuori dalle feste comandate, e se succedeva spariva
subito
dentro l’ufficio del comune genitore per poi prendere il
camino una volta
finito il colloquio.
Raro, occasionale, inusuale.
Erano parole difficili, ma
che
nella testa ricciuta di Dirk, cinque anni e due denti in meno, erano
sempre state
naturalmente associate al fratellastro. Parole affascinanti.
Così, quando
sentì dei rumori
provenire dalle stanze assegnate all’altro, saltò
fuori dal letto e ignorando i
richiami accorati di Tinkie, la sua Elfa domestica, corse a controllare.
E
se è un ladro?!
Era suo dovere scacciarlo:
era
l’assoluto padrone di casa quella sera, dato che i genitori
erano a teatro e
sarebbero tornati molto tardi tesoro, non
devi aspettarci alzato.
Salendo le scale che
portavano
allo studio e alla stanza da letto di Michel gli passò
però il coraggio e
quando arrivò all’ingresso dello studio non ne
aveva più una goccia.
“Padroncino, torni
a letto,
Tinkie le porterà un po’ di latte caldo,
sì?” Lo blandì l’Elfa.
“No!”
Proclamò con fierezza, e
fu più per un punto di principio che reale voglia che spinse
la maniglia ed
entrò nella stanza. “Miki?”
Chiamò.
“Dirk?”
Era la voce di suo
fratello e poté dunque tirare un sospiro di sollievo: era
vicino alla libreria,
vestito come se dovesse andare a far compagnia ai genitori da un
momento
all’altro. Era chiaramente il vestito
bello che usava per andare al Ministero.
Lavoro?
“Sei stato al
lavoro?” Sua
madre diceva che ci voleva sempre una buona domanda per iniziare una
conversazione
o si rischiava di passare per maleducati – massima onta
concepibile per persone
del loro lignaggio.
Quando Michel lo guardava
però
aveva sempre l’impressione di non azzeccarla mai, quella
domanda; non che lo
trattasse male come diceva la mamma alle sue amiche quando pensava che
non
stesse ascoltando. A Dirk pareva che l’altro non sapesse bene
come comportarsi
in sua presenza, come succedeva a lui quando capitava che gli
regalassero un
gioco di cui non conosceva le istruzioni.
Gli piaceva, Miki.
“Perché
non sei a letto? È
tardi.” Aveva un grosso libro di pelle tra le mani, ma lo
chiuse con uno scatto
secco quando vide che lo stava occhieggiando. “Tinkie, non
era a letto?” Chiese
rivolgendosi alla sua Elfa che emise un lamento impercettibile
tappandosi gli
occhi con le mani.
“C’ero
a letto, ma poi ho sentito i rumori … E ho pensato che era
un
ladro!” Rispose in vece della creaturina, sapendo bene che
era un po’ colpa sua
se sarebbe stata punita al ritorno dei suoi. Poteva cercare di evitarlo
però.
“Invece eri tu!”
“Evidentemente.” Convenne con un sospiro.
“Torna a letto, se i tuoi genitori ti
trovano alzato…”
“Ma loro tornano molto tardi!” Considerò
sentendosi molto furbo perché tra le
coperte non ci voleva tornare e doveva dunque giocare
d’astuzia. Aveva scoperto
che se cercava di parlare come i grandi
Miki era più propenso a starlo ad ascoltare. “Ed
io adesso non ho sonno! Che
fai?”
“Dirk…”
Non voleva farlo
arrabbiare, ma c’era ancora un buon margine di manovra dato
che diversamente
dagli altri occupanti della casa, Michel era più tollerante
verso i suoi
capricci. Non quanto Tinkie, ma poteva comunque essere corrotto con
qualche
lacrima ben spremuta. “Dirk.”
Tentò
ancora ma un suo scenico singhiozzo lo fece sbuffare.
“Smettila, ormai sei
troppo grande per fare i capricci.”
Questo
lo dici tu.
Completò la sua
opera sbattendogli
contro le gambe, per abbracciarne una. “Mi fai restare un
pochino?” Doveva
stare bene attento a non sgualcirgli i vestiti, perché era
una cosa che faceva
arrabbiare tutti – i suoi genitori soprattutto.
“Poco!”
Michel roteò gli
occhi al
cielo, stringendo trai denti un’imprecazione
perché primo non era elegante,
secondo era di fronte ad un bambino di cinque anni che aveva orecchie
capaci di
captare la minima esclamazione e spiattellarla di fronte al consesso
meno
adatto nel momento meno opportuno.
Ci
manca solo mi accusino di insegnargli volgarità.
“Cinque minuti e
siediti
vicino al fuoco, fa freddo.” Lo istruì dandogli un
colpetto sulla testa
ricciuta per spingerlo verso la poltrona. L’altro non parve
minimamente aver
sentito il comando perché strinse la stoffa dei suoi poveri
pantaloni tra le
dita e gli rivolse un sorriso a cui mancava un dente.
“Hai perso un
dente.” Attestò
a disagio, tanto per dire qualcosa: non sapeva mai che dire ad una
creaturina
incomprensibile come quella, che faceva le domande più
strane e assumeva gli
atteggiamenti più spiazzanti.
Ovvero
un normalissimo bambino?
“Sì, la
settimana scorsa! Vuoi
vedere il buco?” Tirò su la gengiva, afferrandogli
poi di nuovo i pantaloni con
le dita sporche di saliva. “Hai visto?”
Inspirò.
“Ho visto.” Confermò
rinunciando al proposito di posarlo su una poltrona e lì
dimenticarlo. Lanciò
un’occhiata alla lacrimosa Tinkie. “Puoi andare, ti
chiamo quando abbiamo
finito.” Quando l’Elfa sparì con uno
schiocco fu perplesso dal constatare che l’altro
sembrava essersi illuminato. “Cosa
c’è?”
“Abbiamo.”
Attestò sottolineando la parola. “Facciamo
qualcosa insieme?
Giochiamo?”
“No.” Si
affrettò a dire, ma
di fronte all’espressione delusa che ne conseguì,
si rassegnò a condividere il
motivo della sua venuta. “Devo cercare un album di fotografie
… Dovrebbe essere
qui, dove sono stati catalogati gli altri.” Indicò
la sezione della libreria
che era stata deputata ai suoi ricordi infantili: relegati dietro una
teca di
vetro nel punto meno accessibile c’erano una ventina di album
che sua nonna
aveva personalmente composto per lui. Era anni che non li sfogliava.
A
che pro?
“Ti
aiuto!” Cinguettò
dirigendosi verso la teca e abbassandosi per passare le dita tra le
costole con
una certa grazia – aveva pur sempre sangue Zabini.
“Com’è fatto?”
“L’album che cerco? Sono tutti uguali, dovrebbe
esserci scritto…” Gli sovvenne
un pensiero. “Sei in grado di leggere i numeri?”
Gli venne rivolta
un’occhiata
oltraggiata, buffa perché una perfetta, piccola copia di
quella che approntava
lui a quell’età quando Scorpius o Loki gli
proponevano un gioco sgradito.
“Tinkie mi ha insegnato!”
“Allora prendimi
il numero
nove.” Dato che il dieci già lo aveva in mano e
l’aveva sfogliato senza trovare
niente che facesse pensare che lui e il Magonò si fossero
incontrati. Aveva
ritrovato foto di lui, Scorpius e Loki immortalati nei giochi
più spericolati e
foto con la bellissima Amara Zabini che gli avevano stretto il cuore in
una
morsa che aveva subito ignorato; foto naturali, ben diverse da quelle
che
ornavano lo studio di suo padre e il suo ufficio, dove tutto ovviamente
doveva
rasentare la perfezione Purosangue.
Aveva quindi sperato di
vedervi la zazzera bionda di un ragazzino di circa la sua
età per collocare
finalmente quello che era diventato, a conti fatti, una sorta di
ossessione.
Niente.
Dirk lo riscosse porgendogli
l’album. “Ecco Miki!” Proclamò
con l’aria di aver compiuto un’impresa. Sul
serio, i bambini erano incomprensibili. “Che
cerchiamo?”
“Una
persona.”
Se il tedesco fosse
appartenuto
alla sua cerchia sociale avrebbe potuto giustificare
quell’attrazione scomoda.
Un terreno una volta comune avrebbe potuto rendere tollerabili le
reazioni
inconsulte del proprio corpo come della testa.
E
spiegherebbe inoltre perché mi è sempre sembrato
familiare.
Quando si sedette sulla
poltrona per poterlo sfogliare agevolmente Dirk fu lesto ad
arrampicarsi sul
bracciolo. Ad una sua occhiata sorpresa si esibì in
un’espressione noncurante.
“Lo guardiamo assieme! Chi cerchi?”
“ … Un
bambino. Biondo, un po’
più grande di te.” Si rassegnò a
vederlo invadergli lo spazio personale per aggrapparglisi
alla giacca nell’intento di avere un migliore accesso visivo.
Sarebbe
più semplice se fossero foto Babbane. Lì gli
immortalati non rischiano di scomparire e non si nascondono.
“Allora
se lo vedo te lo dico!” Annuì
compito.
Ennesima
carrellata di foto dunque…
Sfogliò pagine e
pagine,
cercando di notare tutte le facce infantili, purtroppo non molte; gli
unici
bambini con cui aveva avuto a che fare direttamente erano stati quelli che erano
tutt’ora i suoi più cari
amici e quelli che invece aveva solo incrociato erano persone che
adesso evitava
con piacere.
Buona
famiglia non significa necessariamente persona
decente.
“Miki!”
La voce di Dirk
rischiò di fargli saltare un timpano. “Miki
guarda, l’ho trovato!”
Era pronto a negare, dato
che
probabilmente l’altro aveva di nuovo indicato quel platinato
di Scorpius, ma
sgranò gli occhi quando vide che il fratellino gli indicava
tutta un’altra
persona; un bambino biondo che sorrideva impertinente
all’obbiettivo, capelli
color del grano e occhi castani.
Gli
somiglia. Sembra lui.
Il ragazzino si muoveva
all’interno di un salotto dall’aria ricercata, in
uno stile che ricordava il
Roccocò Babbano. Ricordava dov’era stata
scattata: era il salotto di un
conte francese che sua nonna aveva frequentato durante
l’ultima estate che
avevano passato assieme, quella dei suoi dieci anni.
“Sì,
sembra di sì.” Rispose
sfiorando con la punta delle dita la fotografia, che sollecitata parve
animarsi
di colpo; i vari maghi e streghe in mantelli sgargianti presero vita,
parlando,
e ridendo mentre prendeva posto su sedie distribuite in varie file
attorno ad
uno spazio vuoto occupato da un pianoforte e un leggio.
Un
concerto. Un concerto da camera, certo. Nonna amava
portarmici, e quel tipo ne organizzava continuamente per farci piacere.
Come se un Bolide
l’avesse
colpito in testa realizzò chi era il ragazzino, primo a
muoversi nella
fotografia rimasta inerte per anni.
Il
violinista.
Era Emil Von Houten
Meinster,
il piccolo prodigio che gli aveva rubato un bacio. Non aveva scordato
il nome,
e guardandolo entrare in scena e posare il violino sulla spalla
ricordò anche i
suoi occhi da gatto – castano chiaro
– e l’espressione irriverente – con
qualche anno in più sul viso sarebbe
diventata un ghigno eccellente.
“Miki, che
c’è?” La voce di
Dirk suonava sorpresa e poteva ben immaginare perché: doveva
sembrare un idiota
colpito da un fulmine.
Milo il Magonò e
Emil il
violinista erano la stessa persona.
****
San
Mungo.
“Vuoi un bicchier
d’acqua, un
caffè?”
Vorrei poter tornare alla locanda e
dormire.
Sören lo
pensò con robusta
frustrazione, ma scosse la testa alla richiesta; del resto non era
colpa di
Albus Severus se era ancora bloccato al San Mungo dopo quella giornata
da
incubo.
Voglio
solo poter tornare alla locanda e morire,
grazie.
Lanciò uno
sguardo ai due
Guaritori presenti nell’ufficio oltre al fratello di Lily; il
primo era
Finnigan, il Capo Reparto di Malattie Magiche, il secondo, anziano e
dall’aria
infastidita, invece gli era invece nuovo. Gli venne presentato come
Tiberius
Smethwyck, Capo Reparto di Lesioni da Incantesimo.
Un
altro?
“Di quale
chiarimento avete
bisogno?” Decise di andar subito dritto al punto. Era
evidente che qualcosa nei
suoi esami aveva attirato l’attenzione.
E
di ben due luminari. Non è un buon segno.
Fu il Guaritore Finnigan a
parlare, con uno di quei sorrisi rassicuranti che doveva aver imparato
non
appena diplomatosi. Ne aveva visti molti, durante la sua degenza
post-Nurmengard.
Non gli piacevano.
“Albus ci ha detto
del nucleo
di bacchetta che hai nel braccio. Puoi spiegarci come
funziona?”
Sören batté le palpebre confuso;
l’avevano trattenuto per una lezioncina sulla
sua particolarità?
A domanda diretta doveva
però
rispondere. “Ho un nucleo di bacchetta, compatibile con la
mia aura magica,
collegato all’arteria radiale e brachiale. Questo mi permette
di non usare una
bacchetta … esterna, per così dire. La potenza
dei miei incantesimi è maggiore
inoltre, ma è più difficile controllarli. Per
questo il Centro di
Sperimentazione Magica di Boston ha studiato il mio caso
…” Alzò la manica
della camicia per mostrare il bracciale runico che non si toglieva
neppure
quando andava a dormire. Soprattutto
quando andava a dormire. “ … Sono stati loro a
darmi il congegno di
contenimento che indosso. Tuttavia, se volete spiegazioni
più tecniche, è a
loro che dovete chiedere.”
“Stai dicendo che
hai addosso
qualcosa di cui non conosci il funzionamento, ragazzo?” Il
tono del Capo
Guaritore di Lesioni non gli piacque. Era aspro e sputava giudizi
affrettati
che non aveva né pazienza né voglia di ascoltare.
Al
diavolo.
“Ne ho una
conoscenza strumentale. A lei serve
sapere come sta
in aria una scopa per cavalcarla?” Ritorse e non fu una sua
impressione, Albus
Severus voltò la testa di scatto e represse una risatina.
Persino l’altro
Guaritore
trattenne una smorfia divertita, tornando subito serio quando
incrociò lo
sguardo oltraggiato del collega prima di rivolgerglisi.
“Scusaci Sören,
immagino che tu stia chiedendo il perché di queste
domande…” Si alzò in piedi,
abbandonando la poltrona dietro la scrivania per sedersi sulla stessa
in un gesto
di distensione che non lo distese affatto. “ … Ti
parlerò chiaramente.”
“La ringrazio per la franchezza.” Stavolta non
tentò neanche di frenare il
sarcasmo che gli solleticava invitante la gola.
Non
sono un ragazzino traumatizzato. Non trattatemi
come tale.
L’uomo
sospirò, alzando le
mani in segno di resa. “Hai ragione, ci stiamo girando
attorno e tu vuoi solo
levarti dai piedi … Il fatto è questo.”
Incrociò le braccia al petto e sospirò.
“Per come si sviluppa la malattia, per il metodo di contagio
e per
l’esposizione a cui sei stato sottoposto scontrandoti sia con
il sergente
Flannery che con Henry Price, dovresti esserti ammalato.”
“Ma non
è così.” Gli fece eco
sentendo un brivido spiacevole ghiacciargli la nuca. “Avete
detto che le mie
analisi…”
“Sono negative.” Confermò il Guaritore.
“Il fatto è che non ci spieghiamo
perché lo siano. Sei stato esposto per ben due volte, eppure
i tuoi livelli di
magia sono nella norma.”
“Fin troppo perfetti.” Soggiunse il decano di
Lesioni. “Quel tuo bracciale deve
funzionare davvero a meraviglia.”
Sören passò le dita sul metallo brunito, gelido al
tatto grazie alla magia con
cui era stato incantato. “Così pare.”
Confermò.
Visto
che la bacchetta che ho nel braccio è come una
miccia vicino ad una scatola di Fuochi Magici.
“Quello che ci
chiediamo è se
sia stato il tuo bracciale a proteggerti, il nucleo di bacchetta che
hai dentro
di te…” Si inserì il Guaritore
Finnigan. “ … o altro. Perché, fino a
prova
contraria, tu sei l’unico mago fin’ora
immune.”
Capì di colpo
dove voleva
andare a parare quella conversazione. “Pensate che possa
aiutarvi a sviluppare
una cura?”
“È
ancora troppo presto per sperare
in questa direzione, ma…” Finnigan si
passò una mano trai capelli, accennando
un lieve sorriso. “Il tuo non-contagio è la prima
notizia buona da
settimane.”
Sören
ricambiò il sorriso
perché sì, era davvero una buona notizia. Una
notizia che lo faceva respirare di nuovo.
“In questo caso mi metto a
completa disposizione del San Mungo.”
“Per stasera ti
lasciamo
tornare a casa…” Scosse la testa l’uomo
dandogli una pacca sulla spalla. “Fatti
una doccia, una dormita e ci vediamo quando sarai fresco e riposato.
Quando lo
saremo tutti.”
“Domani
mattina.” Aggiunse il
Guaritore Smethwyck. “Avremo bisogno di un campione del
nucleo della bacchetta
e di studiare quel bracciale.”
“In questo non credo di potervi
aiutare…” Quando vide la confusione e il vago
sospetto nel volto di praticamente tutti e tre i Guaritori, si
apprestò a
spiegare. “Non sono di mia proprietà, ma del
Ministero Americano, dunque non è
a me che dovete chiedere l’autorizzazione.”
“Il nucleo di bacchetta nel tuo
braccio non è di tua proprietà?”
Ripeté Albus Severus incredulo.
“Era una delle
condizioni
della mia libertà.” Spiegò sentendo il
disagio strisciargli addosso come una
brutta febbre. Se c’era una cosa che odiava era spiegare la
sua posizione nel
Mondo Magico. “Ogni oggetto magico presente sul mio corpo, o
che utilizzo, è di
proprietà del Ministero della Magia americano. Io ne ho solo
il possesso.”
“Anche della
bacchetta?”
“Esatto.”
Ero
stato condannato al carcere duro a vita. Se sono
fuori, è ovvio che lo sia a patto di avere delle
limitazioni.
Pensava
che mi avessero graziato?
Il livore di James Potter
d’un
tratto acquistava tutt’altra prospettiva.
“Chiederemo al tuo
Ministero.”
Tagliò corto il Guaritore di Malattie Infettive.
“Grazie per la pazienza … ti
lasciamo tornare a casa.” Fece un cenno a Potter.
“Albus, accompagnalo.”
Fu lesto ad alzarsi. “Vi ringrazio, ma conosco
l’uscita.”
L’altro scosse la testa. “Lo faccio con
piacere.”
Non gli restò che
seguirlo;
Albus ad ogni buon conto non ci mise più di qualche passo
fuori dall’ufficio
per voltarsi a guardarlo. “Credo di doverti delle
scuse.” Esordì.
“Prego?” Era troppo stanco per ricordarsi come e
quando il fratello di Lily
l’avesse offeso.
“Pensavo
… beh.” Arrossì mordicchiandosi
un labbro; i Potter quando erano in imbarazzo assumevano tutti la
stessa espressione
di confuso disagio, quasi gli sembrasse assurdo aver sbagliato.
“Pensavamo …
pensavo che ti avessero trattato come una specie di testimone
privilegiato.”
“In un certo senso
è così.” Ammise
seguendolo verso gli ascensori. A quell’ora di notte
l’intero edificio appariva
deserto e silenzioso. “Ho avuto accesso ai capitali della mia
famiglia … dei
Prince, non dei Von Hohenheim.” Chiarì.
“Ho una casa ed uno stipendio, ma la
mia posizione giuridica è quella di un minorenne.”
L’altro lo guardò stralunato. “Mi stai
dicendo che hai la Traccia?”
“Ovviamente. I
miei
spostamenti devono essere individuabili.”
Dopo quel breve scambio di battute scese il silenzio finché
l’ascensore non si
fermò al piano terra. A quel punto Albus si voltò
di nuovo verso di lui. “Sono
contento che tu non sia stato contagiato.” Disse, e poi gli
porse la mano.
“Buonanotte Sören.”
Cercando di non fargli notare la sua sorpresa, gliela strinse.
“Anche a te,
Albus.”
“Non sono ancora
così vecchio
da essere chiamato Il Bianco.”
Lo
corresse con una smorfia. “Al.
Chiami
Al e basta, okay?”
Sören si
accomiatò sentendosi un
po’ meno stanco e amareggiato da quella giornata; lui e Albus
– no, Al – non
erano certo diventati amici, ma
perlomeno sembrava che l’altro avesse cambiato opinione su di
lui.
Un
passo per volta.
Appena uscito dal perimetro
dell’ospedale, mentre respirava l’aria fresca della
sera, sentì la tasca della
giacca trillare insistentemente di mille suoni argentini. Come sempre,
ci mise
più di qualche attimo per capire che quella sinfonia
proveniva dal suo
telefonino.
Scorse le icone colorate e
trovò un messaggio. Da Lily.
‘Tutto
okay? Sono preoccupata, fammi sapere!’
Sospirò. Avrebbe
avuto bisogno
di qualcosa da bere prima di poter rispondere.
Possibilmente, forte.
‘Sto
bene, non c’è bisogno che ti preoccupi. Ti spiego
quando ci vediamo. Buonanotte, Lily.’
E
questo sarebbe un messaggio tranquillizzante?!
Lily represse
l’impulso di
scagliare il suo smartphone – perché lì
chiamavano intelligenti, se erano
ambasciatori di risposte stupide? – contro il muro della
stanza da letto, e si
trattenne solo perché Scott si stava infilando sotto le
lenzuola di fianco a
lei e non sarebbe stato carino colpirlo in piena fronte.
“Piccola,
cos’è quel muso?”
Aggrottò le sopracciglia preoccupato. “Brutte
notizie?”
“No, pessimo il
modo in cui mi
vengono date.” Borbottò accoccolandosi contro
l’altro, che ligio al dovere la
circondò con le braccia e la attirò a
sé. Quando le passò una mano lungo la
schiena, in una carezza rilassante, si sforzò davvero di
sciogliere i muscoli
contratti.
Scott non meritava il suo malumore.
“Sören
sta bene?”
“Okay, siamo
sicuri che non
sia tu il LeNa?” Mormorò contro la sua clavicola,
trovandola interessantissima.
“Sono inquietata.”
Scott ridacchiò. “Beh, non ci vuole un potere
particolare per fare due più due
… Ne abbiamo parlato per tutta la cena, e controllavi
ossessivamente lo
Specchio e il cellulare. Ha risposto?”
Lily si
mordicchiò un labbro.
“Scusa, ho monopolizzato gli argomenti
stasera…”
Scott si strinse nelle spalle. “Un tuo amico è
finito al San Mungo, è ovvio che
fossi preoccupata. E poi, è meglio parlarne che tenersi
tutto dentro. L’ha
detto la Patil, giusto?”
Lily captò il
sottotesto e la
lieve frecciatina. Sorrise appena. “Giusto.”
Ci stava davvero provando a
farlo,
e per quanto amasse quel serio ragazzone, aveva ancora delle
difficoltà
spaventose. Non a fidarsi…
…
quanto piuttosto a lasciarmi andare.
Aveva il terrore che
affidandogli
le proprie fragilità avrebbe finito per rimetterci, in
qualche modo.
E
non un'altra volta. La prima ha fatto davvero un male
cane.
Continuava, in un certo
senso.
Ancora adesso Sören era capace di premere i punti giusti e
farli dolere.
Non come allora, ma comunque…
Non voleva che con Scott
fosse
lo stesso.
È
solo essere prudenti, tutto qui.
“Il messaggio di
risposta … è praticamente
una comunicazione amministrativa.” Spiegò,
passandogli il cellulare per
farglielo leggere. “Penso mi stia mentendo.”
Scott scorse lo schermo con
lo
sguardo e poi, razionale come sempre, sospirò.
“È solo un messaggio, Lils. Non
tutti sono bravi a mettere i propri sentimenti dentro un paio di frasi
scritte.”
Non Ren. Ren sa
scrivere. Quando vuole scrive cose meravigliose. Mi ha scritto per
dovere, non perché ne aveva voglia.
“ … non
hai tutti i torti.”
Disse invece.
Non
è solo il messaggio comunque.
All’ospedale
l’amico gli era
sembrato distante, come se avesse tentato di mettere una barriera tra
di loro –
oltre quella già presente. Certo, ricordava che quando si
sentiva messo
all’angolo dalle contingenze la sua difesa migliore era
prendere le distanze
emotive …
È
comprensibile. Ma non è quello. Non mi voleva lì,
ne
sono sicura.
Scott posò
l’aggeggio malefico
sul comodino, voltandosi verso di lei con un sorriso che non nascondeva
una
certa impazienza. “Vogliamo parlare d’altro
adesso?”
Eh,
mi sa di sì.
Qualcosa
le diceva che era meglio non continuare
a parlare di un altro ragazzo quando era a letto con il suo fidanzato.
Il
mio senso di donna sta pizzicando…
“Assolutamente
d’accordo, ragazzone.”
Gli allacciò le braccia attorno al collo e lo
tirò a sé per lambirgli le labbra
con un bacio appena accennato, sottolineando come fosse un preludio a
ben
altro. “Vogliamo parlare di quanto tu sia un perfetto
fidanzato comprensivo?”
Milo si accorse che
Sören era
tornato al Paiolo Magico quando percepì una nuvola nera
investire l’ambiente
altrimenti festoso, dato che si stava tenendo un’energica open session² di musica
tradizionale in cui si era lasciato ben
volentieri coinvolgere.
Come
musicista si rimedia sempre da bere gratis.
Concluse il set
e poi salutò gli altri musicisti, finendo
con un sorso l’unica birra che al momento riusciva a
tollerare senza che le sue
robuste papille tedesche si ribellassero.
Questa
Belhaven scozzese è la meno pisciosa.
Poi si diresse con la calma
atta ad aggirare una belva ferita verso il proprio datore di lavoro,
che seduto
al bancone, si era fatto portare una bottiglia di Ogden Stravecchio e
un
bicchiere.
“Giornata da lascia pure la bottiglia?”
Iniziò affiancandoglisi
e appoggiando il violino sulla porzione meno lercia.
Sören
sobbalzò, lanciandogli
uno sguardo sorpreso. “Non stavi suonando?”
“Non se
l’hai notato, ma non
c’è musica al momento.”
Replicò divertito, notando come l’altro avesse
fatto
scivolare il proprio cellulare nella tasca dei pantaloni come un ladro
colto
sul fatto. “Mandi messaggi a Zenzero?”
“Solo per dirgli
che sto
bene.” Borbottò vuotando il bicchiere con un
allenato colpo di polso.
Milo si sporse sullo sgabello e tirò a sé la
bottiglia, ignorando l’occhiataccia
che gli venne lanciata. “La requisisco per il tuo
bene.” Lo informò. “Sei un
peso morto da riportare a letto e questo è il mio giorno
libero.”
“Di nuovo, non lo
è.”
“Di nuovo, devo essermene dimenticato.”
L’altro non ribattè contemplando un punto
indefinito di fronte a sé. “Prima …
non eri male.” Mormorò dopo un po’.
“È la prima volta che suoni musica
tradizionale?”
“Irlandese? No, te
l’ho detto,
ho suonato ovunque e per chiunque. È un po’
ripetitiva, ma di impatto.” Si
strinse nelle spalle. “È divertente suonarla
assieme e qui c’è una grossa
tradizione in tal senso.” Lo guardò di sottecchi e
poi chiese. “Stiamo parlando
di questo per non parlare d’altro?”
“Forse.”
Gli concesse sorprendentemente.
Doveva essere davvero uno straccio se si lasciava andare a simili
confessioni.
“È troppo.” Se ne uscì
fissandosi le mani come se vi potesse trovare una
soluzione pratica. “Non ce la faccio, devo allontanarmi da
Lilian.” Appena lo
ebbe detto assunse la faccia tipica di chi si era appena accoltellato
all’addome. “ … Non abbandonarla,
solo…”
“Sì, lo so.” Lo fermò per poi
ripassargli la bottiglia, perché adesso ne capiva
la presenza. “E perché, di grazia?
L’unica cosa buona della tua venuta qui, mi
pare, era vederla…”
“Sono innamorato
di lei.”
Grandi confessioni stasera!
“Gliel’hai
detto?”
“Non essere
ridicolo.”
Ci mancherebbe. Solo amori tragici e mai
confessati per Sören Prince.
Gli riempì il
bicchiere fino
all’orlo e subito venne vuotato di nuovo come se fosse acqua.
Sören si voltò
poi nella sua direzione, con un’espressione che gli sarebbe
valsa un abbraccio
se fosse stato meno duro di cuore.
Sono
un cuore di pietra, io.
“Suona qualcosa
per me.”
Milo si alzò in
piedi, annuendo.
“Agli ordini.” Tornò alla musica,
perché non c’era modo migliore per aiutare un
cuore malandato a non sentirsi tale. Almeno fino alla fine della
canzone.
I’m killing and
I’m drinking my blue
heart to black
But
I swear, oh Lord, I’ll never sin again if you bring her back
****
Note:
Direi basta. XD
Capitolo enorme, ma dovevo finire la giornata. Spero non sia troppo
pesante!
Per quanto riguarda la
faccenda del violinista e di Michel, per chi non l’avesse
chiara, si ricollega
a questa
shot, nella parte dedicata a Michel. ; )
Ci sono un po’ di
canzoni che
mi hanno aiutato nella stesura. La prima è questa
perché anche se avevo deciso per i Bastille, l’ho
sentita e bam! canzone capitolo.
Il brano della session è questa
e quella per Sören è questa bella robetta allegra
qua.
Qui
per chi vuole vedere il piccolo Dirk. Penso proprio che nella storyline
di Milo
e Mike avrà una sua parte.
1. Brixton:
è uno dei quartieri più conosciuti di Londra, nel
bene e
nel male. Situato nell'immediato sud, nel quartiere di Lambeth, è caratterizzato
da un'alta migrazione di origine
caraibica (soprattutto giamaicana) e africana. Negli anni ’80
è stato teatro di
tensioni sociali e scontri con la polizia e tutt’ora,
nonostante la progressiva
gentrificazione, è considerato uno dei quartieri meno sicuri
della capitale.
2. Session:
sono degli incontri informali in cui delle persone suonano
musica irlandese tradizionale. Normalmente in una session un musicista
comincia
un brano e chi lo conosce gli va dietro. Una buona regola è
che non si dovrebbe
suonare se non si conosce il brano; piuttosto si aspetta o si comincia
un brano
che si conosce. L’obiettivo di una session non è
quello di divertire un
pubblico passivo di ascoltatori, principalmente la musica è
per i musicisti
stessi. Qui
per info.
|
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Capitolo 21 *** Capitolo XX ***
Capitolo XX
I want
to come close, I want to come closer
I held your name inside my mouth
Through all the days out wandering
(Animal
Life, Shearwater)
3 Luglio 2028
Galles, Denbighshire. Mattina.
Ted si svegliò
sentendo i
rumori della foresta
Mise a fuoco il mondo,
ricordandosi che aveva passato la notte nel bel mezzo della foresta di
Clocaenog¹, nel profondo nord del Galles ed ad
un’ora di scopa da
Stoke-on-Trent.
Era stato fortunato
comunque; invece
di passare la notte a combattere il freddo umidiccio delle conifere,
aveva
dormito sul pavimento duro ma di legno asciutto della capanna di
Moscardo.
Voltò la testa e
vide che
Flynn si era già alzata, lasciando il proprio sacco a pelo
arruffato vicino al
pagliericcio dove il Mannaro doveva dormire abitualmente. Ted
piegò e ripose
sia il suo che quello della ragazza, decidendo poi che era il caso di
alzarsi e
andare a sgranchirsi le gambe.
È
la prima volta che visito la riserva dei Mannari …
Da ragazzo aveva chiesto
più
volte il permesso al Ministero, ma gli era sempre stato negato sia per
la
minore età, sia per la rarità con cui quella
richiesta veniva fatta.
Si
saranno chiesti se non fossi matto…
Dunque era
un’occasione che
doveva cogliere. Non aveva visto molto la sera prima, arrivando a notte
fonda e
con il fuoco dell’accampamento ridotto a braci sorvegliate da
due figure
insonnolite che avevano a malapena rivolto loro un’occhiata.
Aveva però notato
come quello occhiata, data con gli occhi dorati dei Mannari, fosse
stata indagatrice.
Sapranno
il motivo della mia visita? Quello che è
successo?
Decise di smettere di
arrovellarsi e uscì; l’accampamento era
nient’altro che una serie di capanne di
legno, pietra e paglia radunate attorno ad un grande focolare
delimitato da un
cerchio di ciottoli regolari inscuriti dalla fuliggine; ricordava dai
suoi
studi come fosse l’unico focolare sia per ragioni di
sicurezza che di
aggregazione sociale. Una mezza dozzina di donne vi stavano infatti
cucinando
la colazione: due rimestavano un pentolone che sobbolliva quieto mentre
altre pulivano
radici con dita esperte. Individuò anche Flynn che seduta
con la schiena
rivolta ad un tronco d’albero, fumava una pipa di corno e
parlava con un anziano
imbacuccato in una serie di coperte che dovevano difenderlo dal freddo
umido
del mattino.
L’atmosfera era
rilassata, con
gli uccelli che cinguettavano di ramo in ramo, l’odore pulito
delle conifere e
le donne che sgranavano parole nel loro cantilenato accento gallese.
Cambiò di
colpo quando si accorsero di lui.
Okay.
Tentò un sorriso
finendo di
scendere la collinetta su cui era abbarbicata la capanna di Moscardo.
“Ehi,
splendore!” Lo salutò con
disinvoltura Flynn. “Ben svegliato! Dormito bene?”
“Molto, grazie.” Rispose costringendosi ad un tono
sereno, per quanto tutte
quelle occhiate ai suoi capelli e alle sue mani lo stessero allarmando.
Beh,
di certo hanno capito che sono un mago…
La ragazza asiatica non
pareva
turbata dal silenzio caduto nella radura. “Vieni a mettere
qualcosa sotto i
denti!” Lo spronò. “Le ragazze stanno
giusto preparando per tutti.” Ted
acconsentì, impacciato di fronte a tutte
quelle iridi dorate che lo scrutavano diffidenti – quelle di
Flynn, a ben
vedere, viravano più sul marrone.
Jamie aveva ragione…
Non aveva mai avuto veri contatti con i Mannari; quelli che
aveva
conosciuto alle conferenze erano inseriti nel Mondo Magico, mentre
quelli che
aveva di fronte avevano un’aria … più
selvatica: indossavano vecchie tuniche e
mantelli logori dei colori del bosco e le donne avevano collane di
selce
avvolte in più giri attorno al collo e i capelli intrecciati
di piume colorate.
Non avevano neppure l’aria pallida e poco salubre che aveva
sempre pensato
fosse cifra stessa della loro malattia.
Sembrava che le sue certezze
in materia in realtà non fossero poi così certe.
La funzionaria parve intuire
il suo imbarazzo perché si alzò e gli
passò un braccio sulle spalle con fare
protettivo: a sentire James, faceva spesso quest’effetto alle
donne.
Fai
quella faccia da cucciolo bastonato e bam! Hai
ufficialmente una balia.
Il suo ragazzino era sempre
stato uno stronzetto linguacciuto.
“Questo
è Ted Lupin.” Esordì
come se stesse presentando un bambino brillante ad una serie di adulti
compiacenti.
“È ospite di Moscardo.”
L’atmosfera
cambiò di nuovo. Sembrava
che le decisioni del vice fossero indiscutibili perché le
donne si rilassarono
visibilmente e persino il vecchio imbacuccato accennò ad un
brontolio
d’assenso.
“Buongiorno.”
Salutò sedendosi
su una delle rocce, sedili di fortuna; ringraziò Merlino di
essersi svegliato
presto. Se quelle poche persone riuscivano a farlo sentire
indesiderato,
Morgana solo sapeva come si sarebbe sentito di fronte
all’intero branco.
“Dov’è
Moscardo?” Chiese alla
ragazza dopo aver accettato da una delle donne un piatto contenente una
zuppa
di carne e radici, a giudicare dall’odore.
“L’umano
non mangia?” Chiese
quella più anziana ricordandogli immediatamente Molly
Weasley.
“Si chiama Ted,
non umano.” Corresse
Flynn ficcandosi in
bocca una cucchiaiata di stufato come se lo trovasse delizioso.
E lo era,
constatò stupefatto,
imitandola.
Non
giudicare un libro dalla sua copertina…
“È
lepre. Le hanno cacciate i
nostri uomini.” Gli venne spiegato con orgoglio.
Una delle giovani, forse
incoraggiata dal sorriso con cui le ringraziò, si
accoccolò vicino a lui. Non
doveva avere più di sedici anni, dato che aveva le
proporzioni e la goffaggine
tipica delle sue studentesse. “I tuoi capelli sono
buffi!” Constatò sporgendosi
per toccarli.
Ted la lasciò
fare, ricordando
di aver letto come un contatto fisico iniziato spontaneamente fosse un
buon
segno per i Mannari; la fisicità era il linguaggio
più immediato e naturale per
loro. “Posso cambiargli colore e lunghezza.”
Spiegò gentilmente e poi si
concentrò per farli diventare di un viola acceso che fece
gettare gridolini
sorpresi e divertiti da parte delle più giovani.
“Quindi sei un
mago.” Stimò l’anziana
scoccandogli un’occhiata di nuovo sospettosa. “Sei
qui per fare magie?”
“No.” Fu
lesto a rispondere,
interrompendo con una mano la protesta di Flynn. Le era grato per
l’aiuto, ma poteva
cavarsela da solo. “Mia madre era una Metamorfomaga, ma mio
padre era un
Mannaro.”
Ho
a che fare quotidianamente con adolescenti
diffidenti e in pieno contrasto con il mondo intero.
Questo
è il mio campo.
“Un
mezzo-lupo.” La donna
sembrò sorpresa. “Adesso capisco il tuo
odore.”
“Il mio odore?”
“Sei un mago e non
porti la pelliccia,
ma hai il nostro odore!” Chiarì la ragazza
allargando le narici per annusarlo.
“Buffo!” Ripeté.
Dopo un’iniziale
ritrosia,
vedendo che non aveva cattive intenzioni e che mangiava con gusto,
anche le
altre donne si avvicinarono per toccargli i capelli o rivolgergli
qualche
domanda.
Vivono
segregati in una foresta da meno di duecento
acri per tutta la loro vita, vedendo le stesse facce ogni giorno
… È naturale
che quando arriva un forestiero siano curiosi.
“Come si chiamava
tuo padre?” Gli
venne chiesto dall’anziana che si era poi presentata con il
nome di Mira.
“Remus, ma quando
viveva qui
si faceva chiamare Lunastorta.”
Forse
l’ha conosciuto.
“Non
l’ho conosciuto.” Sembrò
indovinare, voltandogli di colpo le spalle per tornare al pentolone
dello
stufato.
Flynn gli si sedette
accanto,
finendo la sua ciotola con un rumore soddisfatto. “Non far
caso a Mira.”
Esordì. “Se ha conosciuto tuo padre, non te lo
dirà.”
“Perché?”
“Non
farà rivelazioni con
Moscardo che ti deve parlare … C’è una
gerarchia anche nelle chiacchiere, sai.”
“Non c’è problema.”
Sospirò. “Quando…”
“Sì, non ti ho risposto … Dovrebbe
tornare a momenti. Cacciano nei punti meno
battuti della foresta, ma stanno diventando sempre meno.” Si
grattò la nuca,
stiracchiandosi. “Il Ministero ha un bel da fare a tener
Intracciabile questo
posto.”
Un improvviso rumore di
fronte
lo mise in allerta. “Ah, eccoli!” Lo
avvertì voltandosi nella direzione del rumore;
una decina di uomini, il più giovane poteva avere tredici
anni, il più anziano
una sessantina, emersero dal sottobosco. A differenza delle loro donne,
indossavano
pantaloni di stoffa grezza ed erano a torso nudo, nonostante
l’aria frizzante
del mattino. Avevano archi e frecce e lance rudimentali, molto simili
alle armi
usate dai Centauri, anche se più rozze e di certo meno
precise. Uno di loro, il
più anziano, si staccò dal gruppo che invece si
diresse compatto verso la
colazione.
Dev’essere
lui.
“Moscardo,
ehi!” Lo salutò infatti
Flynn andando a dargli una pacca sulla spalla. “Ti ho portato
Ted. Ho passato
la notte a dormire nella tua scomodissima capanna, contento?”
L’uomo gli
lanciò una lunga
occhiata senza dir nulla; aveva una lunga serie di cicatrici che gli
coprivano
parte della gola.
Segni
di unghie. Auto-inflitti o…
“È il
motivo per cui sono il
braccio destro di Vulneraria.” Spiegò quasi gli
avesse letto nel pensiero, o
forse l’aveva capito dalla direzione del suo sguardo.
Più probabile la seconda.
“Sei il figlio di Lunastorta, vero?”
“Io…”
Quale dei due?
“Sto parlando del
Mannaro che
rispondeva al nome umano di Remus.” Chiarì.
“Non serve che tu risponda. Hai il
suo odore.”
Ted sentì un groppo alla gola, come sempre gli succedeva
quando qualcuno lo
comparava a suo padre.
Anche
se è la prima volta che è una questione
… di
naso.
“Lo ha
conosciuto?”
“Sì.”
Non aggiunse altro. Si
rivolse poi a Flynn. “Vulneraria è andato al fiume
con il gruppo di pesca, tornerà
questo pomeriggio. Dovrete aver lasciato il branco per
allora.”
“Ricevuto.” Annuì la ragazza con una
scrollata di spalle. “Grazie per il tempo
che ci concedi, Moscardo.”
Il Mannaro fece un cenno evasivo della mano. “Non posso
rifiutare un favore
alla nipote di Quintilio. Lo sai, il tuo vecchio era mio fratello di
latte.” Si
rivolse poi a lui. “È la tua prima volta nel
branco?”
“Sì.”
Rispose un po’ impacciato. “Non ho mai …
i miei genitori sono morti quando ero bambino, e mio
padre…”
“Non ci ha fatto compagnia per molto.” Concluse per
lui. “Mi ricordo. Indossava
una pelle da agnello, come molti di noi.” Vedendo la sua
espressione, scosse la
testa. “Non fraintendermi, capisco che per chi è
stato allevato dagli umani sia
difficile prendere la decisione di venire a vivere qui. Tuo padre era
un Trasformato,
vero?”
“Greyback lo morse
da
bambino.” Convenne pacato, senza livore o recriminazioni;
sapeva che per
persone come Moscardo, nato da genitori Mannari, la Licantropia non era
una
malattia da curare e tenere a bada, ma una condizione da vivere con
orgoglio.
E
non posso dire che sia un punto di vista sbagliato …
Di certo ha una vita meno infelice di quella che ha avuto
papà.
“Ricordavo bene
allora.”
Annuì. “Per i Trasformati è
più difficile. Né carne, né pesce.
È dura.”
Ted non rispose; non era
lì per
un tuffo nel passato, ma per dirimere un mistero che non gli dava pace.
“Flynn
le ha detto il motivo della mia visita?”
“Sì, si
tratta di Lunastorta
…”
Okay, non ci sto più capendo
niente.
“Mi scusi, ma
… di che
Lunastorta sta parlando? Di mio padre? O del Mannaro che è
stato ritrovato
vicino a casa mia? Perché sta chiamando tutti nello stesso
modo.”
“Lo so.” Fu la replica sconcertante. “Per
il branco i nomi sono importanti.”
Non gli diede il tempo di ribattere, perché si
incamminò verso la sua capanna.
“Vieni con me.” Soggiunse. “Dobbiamo
parlare.”
Ted lanciò uno
sguardo a
Flynn, che si limitò a stringersi nelle spalle e fargli
cenno di seguirlo.
Obbedì.
****
Londra,
Ministero della Magia.
Ufficio
Auror, Mattina.
Sveglia all’alba,
una doccia
gelida per smaltire i postumi del whisky ingerito la sera prima e una
corsa
lungo Charing Cross Road
fino
a Leicester Square. Questo era l’unico metodo che
Sören conosceva per riuscire ad
arrivare puntuale al lavoro senza sembrare un Infero appena uscito
dalla
propria tana.
Così, fresco di
una seconda
doccia e con l’uniforme stirata dalle riluttanti ma capaci
mani di Milo, varcò
l’ingresso dell’ufficio Auror, schivando come al
solito un nugolo di Promemoria
Ministeriali che sfrecciarono fuori con la velocità dei
proiettili.
La scrivania di Potter e
Malfoy era già al completo con i due che si litigavano la
sedia, Jordan seduto
diplomaticamente alla sua e …
Un
cane?
“Di chi
è quel cane?” Chiese
incrociando lo sguardo adorante del suddetto, che pensò bene
di ficcargli il
muso umido nella giuntura del ginocchio, chiedendo attenzioni che non
era
disposto a dargli. Fece un rapido passo indietro.
“Può stare qua?”
“No, per
niente.” Fu l’allegra
risposta proveniente da Malfoy. “Per questo lo nascondiamo!
Si chiama Donnola.”
“Non si chiama Donnola, testa d’uovo!”
Sbuffò Potter come al solito ignorando la
sua presenza. “Avrà un nome ma non
è
un insulto indiretto a mio zio!”
“Non so di cosa tu stia parlando, Donnola è un
nome perfetto per un cane.” Replicò
l’altro con un sorriso zen, afferrando per il collare il cane
e strattonandolo
gentilmente indietro, evitando così che gli lavasse
l’uniforme nella bava. “Non
ti piacciono i cani Sören?”
“Non sono abituato
ad averci a
che fare…” Gli unici con cui aveva interagito in
effetti erano stati i cani da
guardia che aveva dovuto neutralizzare durante le sue missioni con
Johannes.
Per
me non sono certo paragonabili al miglior amico
dell’uomo.
“Lo abbiamo
trovato a casa di
Price.” Spiegò Malfoy grattando dietro le orecchie
dell’animale che guaì
guardandolo con canina adorazione. “Non potevamo lasciarlo
lì, stava morendo di
fame!”
“Non
c’era nessuno che se ne potesse
occupare.” Aggiunse Jordan che ormai nella sua testa
incarnava la voce della
ragione. “Lo porteremo ad un rifugio per animali Babbano non
appena avremo un
momento libero.”
“Ma sono posti
orribili!”
Malfoy scosse la testa come se stessero teorizzando qualcosa di
estremamente
stupido. “Lo tengo io come ieri sera, non
c’è problema!”
Potter roteò gli occhi al cielo, ma sembrava ben disposto
verso l’animale da
come si era chinato per grattargli la pancia. “Sì,
perché nasconderlo in camera
tua al Manor è un piano perfetto sulle lunghe distanze. Tuo
padre ti ucciderà.”
“Papà alleva dei pavoni.
Albini. Come
può avere voce in capitolo?”
“Ci sono
novità sul caso?” Li
interruppe, perché quella scena per lui non aveva il minimo
senso e gli stava
tornando il mal di testa. Intuiva che il tono giocoso della
conversazione era
voluto per distendere i nervi dopo le ventiquattro ore appena
passate…
Ma
io le ho passate a rischiare la vita, non sapere se
ero stato contagiato e infine ho realizzato che dovrò
tenermi alla larga da
Lilian.
Non
ho voglia di scherzare.
Gli altri agenti si
scambiarono un’occhiata, ma fu Malfoy a parlare.
“Ce ne sono, sì.” Esitò, poi
assunse un’aria colpevole che proprio non capì.
“Ma tu come stai?”
Batté le palpebre
confuso.
“Sono stato dimesso ieri sera, vi avranno informato del fatto
che non sono
stato contagia…”
“Lo sappiamo, Prince, è ovvio.”
Grugnì Potter che pareva stare sui carboni
ardenti. “Ma tu come
stai?”
Li fissò ad uno
ad uno
tentando di leggere tra le righe, perché doveva essere uno
quei casi in cui le
parole non esprimevano affatto le intenzioni.
“Sto
bene?” Tentò.
Malfoy gli diede una pacca
sulla spalla come se fosse un caso senza speranza. “Eravamo preoccupati per te.”
Chiarì e persino Potter riuscì a
lanciargli un’occhiata che non prometteva una rissa
immediata. “Siamo contenti
che tu non ti sia ammalato.”
“Già,
non possiamo permetterci
altra gente su un lettino.” Borbottò
quest’ultimo incrociando le braccia al
petto e fissando ovunque tranne che nella sua direzione.
È
in imbarazzo?
“Potty era roso
dall’ansia …” Gli
sussurrò Malfoy con aria cospiratoria, mentre
l’altro gli allungava un calcio
che schivò con disinvoltura consumata. “Se non
c’è qualcuno con cui può fare il
bullo si intristisce. È nei suoi geni, sai.”
“Vaffanculo Malfuretto!” Lanciò
un’occhiataccia ad entrambi come se
l’esternazione del collega fosse anche colpa sua.
“Vogliamo lavorare o no?”
“Tutto lavoro e
niente svago
rendono Scorpius un ragazzo noioso²!”
Cantilenò questo con tono petulante, ma
poi afferrò una cartellina dal caos che riposava in precario
equilibro alle sue
spalle e gliela porse. “Questa è arrivata ieri
sera dal tuo Ministero.”
Sören non poté fare a meno di sorridere quando vide
il logo della SAGITTA
stampato sulla copertina.
Devono
averci lavorato Rico e gli altri…
Non avrebbe mai pensato di
dirlo un anno prima, ma gli mancavano le chiacchiere del partner e
persino
l’imbarazzo che era capace di scatenargli Ama o le battute
irritanti di Murphy.
Erano la sua gente e quel rapporto
gli trasmetteva la stessa familiarità. Andarsene oltre mare
gliel’aveva solo
fatto realizzare. “Si tratta del materiale raccolto su
Howe?” Chiese
sfogliandola e leggendone qualche paragrafo.
“Già!” Convenne Malfoy. “Per
riassumerla, dice più o meno quello che già
sapevamo … Incensurato, neppure una multa per non aver
disilluso la scopa
mentre volava. Viaggiava spesso per lavoro, era un commesso
viaggiatore,
commercio in aggeggi da giardinaggio, roba del genere …
Divorziato con una
Babbana, senza figli.”
“Nessun
collegamento con John
Doe?” Prima o poi avrebbe smesso di sentirsi la bocca secca e
le mani sudate, a
quel nome.
“Nessuno.”
Sospirò,
chiudendo la
cartellina e appuntandosi di visionarla dopo. “Stavate
però parlando di
sviluppi …”
Datemi
qualcosa da fare. Datemi qualcosa da pensare che
non sia … lei.
Concentrarsi sul caso al
momento era la cosa migliore.
Potter interruppe il flusso
dei suoi pensieri. “Ieri sera abbiamo perquisito
l’appartamento di Henry Price
e Malfoy, spremendo quei due neuroni ossigenati che si ritrova, se
n’è uscito
con una teoria…”
“Una fantastica teoria!”
Fece eco il
suddetto. “Ti ricordi quando ci hai detto che il virus poteva
essere un effetto
collaterale? Qualcosa venuto fuori cercando di creare
qualcos’altro con la
Magia Oscura?”
“Sì, mi
ricordo.” Convenne. “Ma
era una considerazione, tutto qui. Avete trovato delle prove a
conferma?”
Malfoy frugò di
nuovo tra la
pila di carte e estrasse una busta di plastica che conteneva un
ritaglio di
giornale. “Dovremo fare ordine, prima o poi.”
Considerò meditabondo, poi gliela
girò. “Abbiamo trovato questo, assieme ad un
inquietantissima collezione di
gadget sui Duelli Magici.”
Sören lesse il
trafiletto
sotto l’immagine di un mago dal fisico prestante e atteggiato
in una posa da
modello.
Ti
senti un mezzo Mago? Un Magonò? Non è la
bacchetta, ma pensi di essere tu?
Prendi in mano la tua vita!
Seguiva un indirizzo postale
e
nient’altro. “È un annuncio
pubblicitario … abbastanza oscuro.”
Osservò
confuso. “Pensate che Price possa aver risposto? E
Howe?”
“Per Howe non lo
sappiamo, ma
di sicuro Price voleva diventare un Duellante più di
qualsiasi altra cosa al
mondo, a giudicare da quello che gli abbiamo trovato in
casa.” Rispose Malfoy
stringendosi le spalle. “Il problema è che le sue
capacità non erano
all’altezza dei suoi sogni.”
“Storia vecchia come la bacchetta di Merlino.”
Sbuffò Potter. “Non è il primo
che casca in una truffa magica. All’epoca dei nostri genitori
c’era quel corso
per corrispondenza…”
“SpeedyMagic.” Suggerì Jordan.
“Una mia zia Maganò ha speso una fortuna per
imparare a scaldarsi il the. E non ha mai imparato, per la
cronaca.” Aggiunse
con una smorfia. “È il brutto della faccenda. Puoi
allenarti quanto vuoi, ma se
non nasci con la magia nel sangue …”
“Price non era un
Magonò
però.” Osservò. “Ha
frequentato Hogwarts.”
Jordan lo squadrò
perplesso. “Non
è che ci dividiamo così. C’è
anche gente che ha magia, ma non ne
ha abbastanza.”
Si sarebbe sentito in
imbarazzo, se Scorpius non avesse dimostrato la sua stessa confusione.
“Mentre
i Magonò non ne hanno per niente, giusto? Sono tipo
rotti.”
“Rotti?” Potter
lo guardo indignato. “Che
cazzo, Malfuretto, non fare il Purosangue!”
“Sono
un Purosangue.” Ribattè stringendosi
nelle spalle. “All’epoca di mio
padre o nascevi con la bacchetta in pugno o finivi come una toppa
bruciata sull’arazzo
di famiglia. Nessuno mi ha mai spiegato un accidente di questa roba. Si
suppone
che non ne abbia bisogno.”
A quanto sembrava, per una
volta la sua ignoranza era questione di educazione
Purosangue e non una personale deficienza: ne fu sollevato.
Jordan per
l’ennesima volta si
assunse il compito di spiegare; era strano pensare che avesse
frequentato la stessa
Casa di Potter; sembrava più adatto a Corvonero.
“Molta gente fa confusione." Esordì diplomatico.
"Il motivo per cui i
Purosangue di solito non sono scarsi è perché
nascono da famiglie con grandi
capacità magiche. Spesso discendono da persone come i
Quattro
Fondatori …
o gente come i Peverell.
Oltretutto fino ad una generazione fa non si mischiavano con Nati
Babbani o
Mezzosangue …” Fece una smorfia. “Gli
ideali che propugnavano i Mangiamorte
erano deliranti dal punto di vista etico, ma la genetica darebbe loro
ragione. Se
immetti nel tuo corredo genetico geni Babbani, il ceppo magico viene
indebolito.
Ci vogliono parecchie generazioni, si capisce, e basta una nuova unione
con un
ceppo magico forte per scongiurare il pericolo, ma
comunque…”
“Sì, peccato che se sposi la teoria Mangiamorte ti
aspetta un futuro di
malattie orrende! Non è che ti puoi portare a letto tuo
cugino e non avere conseguenze!” Si inserì Potter
con l’aria di aver già scelto l’opzione
che
più gli aggradava.
“Io preferirei
diventare un
Babbano.” Borbottò Scorpius. “Non avete
idea di che diavolo ci sia nel mio
albero genealogico.” Represse un brivido. “Una su
tutte, zia Bella.”
“Però
un Purosangue può essere
Magonò.” Obbiettò Sören
incuriosito. Si rendeva conto che c’era tanto
che non sapeva del Mondo Magico, ora che era fuori dalla
bolla in cui la
Thule e suo zio l’avevano tenuto.
Jordan confermò.
“Sì, quello è
in discorso diverso. Non è che siano rotti.” Fece
un sorrisetto indulgente a
Scorpius, che abbozzò un sorrisetto imbarazzato. “
… È che il loro sangue
produce qualcosa che, come dire, annulla
la magia. È una malattia, non c’entra niente con
ipotetiche scale magiche.”
Quindi
per Milo è così?
Sören
ricordò come cinque anni
prima l’altro non avesse tratto giovamento dai suoi
incantesimi curativi e come
fosse poi sembrato stranamente resistente alle Maledizioni scagliategli
dai
Mercemaghi.
Aveva
detto che la magia su di lui funzionava in modo
diverso, che era per via del suo sangue.
Ecco
perché.
“Comunque, dai
documenti
scolastici è venuto fuori che Price era ricettivo quanto una
Scopalinda.” Si
inserì Potter per riportare su di sé il centro
dell’attenzione. Sembrava tipo
che non riusciva a delegarla per lungo tempo. “Poi, sei mesi
fa, è diventato il
re del Duello Magico. La cosa puzza di Magia Oscura, non vi
pare?”
“Pensate che tutto sia partito dal rispondere
all’annuncio?” Lesse l’indirizzo
postale. “È qui a Londra.”
“Ci stavamo
andando.” Potter
si alzò della sedia che era riuscito a guadagnarsi a rischio
di azzoppare il
partner. Passandogli vicino gli diede un colpo con la propria spalla,
ma
leggero e che non sapeva di astio o violenza come quelli di Murphy.
Sembrava
quasi … cameratesco.
“Aspettavamo te,
pipistrello.”
Non sapeva se sentirsi
offeso
o chiedere spiegazioni. Nel dubbio, guardò Malfoy che dava
spesso mostra di
capire il primogenito del Salvatore meglio di chiunque altro.
Questo gli fece un
sorrisetto,
e quando gli si affiancò,gli diede lo stesso lieve colpo
sulla spalla. “Potty
ha un soprannome per tutti.” Spiegò di buon grado.
“Specie quando cominci a
piacergli. Forse tra un paio d’anni si ricorderà
anche come ti chiami. Non è
adorabile?”
Quando
penso a James Potter, adorabile è l’ultima
parola che mi viene in mente.
“Quindi
è un buon segno?”
Chiese invece.
“Cavolo,
sì!” Malfoy agganciò
il collare del cane al guinzaglio e lo Disilluse con un gesto della
bacchetta.
Era ironico,
considerò
seguendo il biondo mentre questo incespicava fuori
dall’ufficio come trascinato
da una forza invisibile che in realtà aveva quattro zampe ed
era canina; era
entrato nel radar di James Potter proprio quando tentava di uscire da
quello di
sua sorella.
****
Chelsea
Embankment, Old Church Street.
Casa
di Michel Zabini, Mattina.
Loki Nott trovava che la
stanza degli ospiti di Michel fosse la cosa più simile alla
definizione di casa
che avesse.
Non che indugiasse spesso in
pensieri del genere appena sveglio, specie se in piacevole compagnia,
tuttavia
l’emotività era una faccenda che doveva mettere in
conto ogni tanto.
Cogito
ergo sum.
Districandosi dalle braccia
morbide della ragazza che gli dormiva affianco si alzò in
piedi e dopo una
doccia scelse con cura i vestiti: l’amico diventava infatti
di cattivo umore se
solo osava essere meno che distinto in sua presenza. Non possedendo al momento fissa dimora - la villa in
Spagna era stata sequestrata dalle autorità locali per un
increscioso incidente
che coinvolgeva una partita di Radici di Belladonna cilene – doveva tenerselo
buono onde evitare
di finire in mezzo ad una
strada.
O
da Sy.
Credo
che Lord Malfoy non abbia mai preso bene
l’innocente corte fatta a sua moglie…
Si sistemò i suoi
gemelli
migliori al polso mentre percorreva il lungo e bianchissimo corridoio
che
portava da camera sua fino alla cucina, un tripudio di acciaio, marmo e
non-colore.
Sembra
il catalogo di un architetto.
La mancanza di
personalità
dell’arredamento era il modo in cui Michel scoraggiava tutti
dal considerare la
sua magione un posto accogliente.
Basta
vedere camera sua per capire che
non ci vuole nessuno in pianta stabile.
Lui
però non era il mondo intero.
“Buongiorno!”
Si annunciò al
ragazzo che gli dava le spalle, assorto nella lettura di qualcosa che
non
riusciva a vedere. “Dormito il sonno dei giusti?”
Michel sobbalzò,
chiudendo con
un tonfo secco ciò che stava leggendo. “Ah, sei
qui.” Esordì in un tono che
nascondeva evidente allarme. “Non ti ho sentito rientrare
ieri sera.”
“Perché
mi sono Materializzato
in camera da letto. Sai, non avendo le chiavi di
casa…”
“ … dato che questa non
è casa tua…”
Gli fece eco con una smorfia appoggiandosi sull’isola di
marmo bianco che
fungeva da tavolo della colazione. “Bella camicia.”
Osservò ironico.
“Grazie.”
Lisciò il tessuto con
una mano. “È una delle tue.”
Michel roteò gli
occhi al
cielo, Appellando dal frigo il necessario per la colazione, ovvero una
serie di
piatti già cucinati dalle mani talentuose – anche
a far altro - di una Babbana che
veniva settimanalmente ad occuparsi della
casa.
Qui
un Elfo sarebbe incongruo. Oltre al fatto che non
ci metterebbe piede.
“Devi farti la
barba comunque.”
Osservò facendogli cenno di servirsi. “O hai
bisogno che lo faccia io per te?”
“Mi raso,
l’effetto di lieve
incuria è voluto. Dà quell’idea di
dissolutezza elegante che piace, mio caro.” Si
versò una tazza di caffè bollente e lo
sorseggiò grato: Michel non sapeva
cucinare, ma il suo caffè era sempre eccellente.
“Cosa stavi guardando prima
che arrivassi?”
Perché
sì, mi sono accorto che stai nascondendo
qualcosa dietro la schiena.
“La
Gazzetta.” Dissimulò con
perfetta noncuranza. “Hai saputo del disastro mediatico
avvenuto all’Accademia
di Duello?”
“Certo
… a quanto pare dovremo
evitare singolari tenzoni per un po’.”
Scrollò le spalle. “Solo è
strano…”
“Da quando è strano il panico da
epidemia?”
“Non quello. Da
quando il
Profeta è rilegato in cuoio verniciato?”
E prima che
l’altro potesse
far Evanescere l’oggetto della discussione lo
Appellò con un colpo di bacchetta
e se lo fece arrivare in mano.
“Loki!”
“Via, via … sai che i segreti sono la mia
droga.” Lo tenne fuori dalla porta
dell’altro con una certa difficoltà, dato che
debitamente innervosito sapeva
essere piuttosto pronto alla violenza. “Mi correggo, non un
libro ma un album
di foto!” Riconobbe sfogliando le prime pagine e frapponendo
tra di loro il
ripiano di cottura. “Nostalgia dei bei tempi
andati?”
“Ti ricordo che
sei un ospite, e che in qualsiasi
momento
posso sbatterti fuori e far mettere barriere in grado di polverizzarti
il
culo.”
“Diventare scurrile di prima mattina, Lord
Zabini, mi delude.” Schioccò la lingua
continuando a stuzzicarlo; quando
l’amico d’infanzia la piantava con la manfrina
dell’algido ministeriale
mostrava una vitalità.
A
volte penso che suo padre abbia fatto un lavoro eccellente
nel renderlo simile a lui.
E non
è un complimento.
Che se si doveva parlar di
nostalgia, ricordava bene la persona che Michel era stato prima che
Lord Zabini
si interessasse della sua educazione, strappandolo
dall’orbita dell’amata
nonna. La persona che nonostante tutto era continuato ad essere durante
la loro
adolescenza.
Solo
che adesso non c’è più Hogwarts a
proteggerlo.
Era come se una fiamma si
stesse spegnendo negli occhi del suo amico d’infanzia,
soppiantata da qualcosa
che non parlava di maturità, ma di inaridimento.
Si scrollò dalle
spalle quei
pensieri fin troppo seri e gli servì un sorriso beato.
“Su, non prendertela …
Sto solo cercando di interessarmi alla vita privata del mio amato
padrone di
casa.”
“Chiama le cose col suo nome. Ti stai impicciando.”
“Ti confidi con il dolce Albus e non con me?
L’altro ieri mi avete lasciato
solo in quel caffè Babbano per spettegolare dei vostri
piccoli segreti gay. Mi
ritengo offeso.”
“Non sei
credibile.”
“Dici? Perché oggi potrei aver voglia di pranzare
con Scorpius e dirgli che ti
sei commosso su un vecchio album di
foto.” Ghignò. “Sai come diventa quando
pensa che un amico sta passando un
brutto periodo…”
Gli scoccò un’occhiata orripilata. “Non
oseresti.”
“Potrebbe
stabilirsi qui per prendersi cura di te.”
“Va
bene!” Sbuffò crollando su
uno degli sgabelli scomodissimi che fungevano da sedie. “Si
tratta … beh.”
Aggrottò le sopracciglia. “In realtà
potresti tornarmi utile.”
“Sempre lieto di esser sfruttato. Al giusto prezzo, si
capisce. Dicevamo di
quella tua decappottabile…”
“Piuttosto mi prendo a balia Scorpius.”
Loki ridacchiò, battendo sul taschino della vestaglia
dell’altro, percependo a
tatto il porta-sigarette e sfilandoglielo. “Scherzavo. In
realtà mi accontento
di poco.”
“Si tratta di
trovare una
persona.” Disse infine, e da come nicchiava
l’argomento si prometteva
interessante.
Ed
io adoro le cose interessanti.
Si accese la sigaretta,
spedendo il fumo a volteggiare trai faretti bianchi che illuminavano
l’ambiente
con l’eleganza di un tavolo da obitorio. “E questa
persona appartiene al nostro
polveroso passato?”
Michel si risedette,
togliendosi ed infilandosi distratto l’anello col blasone di
famiglia. Era un
vezzo nervoso che aveva quando veniva roso dall’indecisione.
“Non al tuo, al
mio…” Sospirò vinto. “La
persona che cerco ha qualcosa che mi appartiene. La
rivoglio indietro.”
Loki studiò l’espressione dell’altro:
non si diventava il mago d’affari che era
senza saper leggere nel comportamento altrui. Non era un Legimante,
né gli
interessava diventarlo, ma dalla postura rigida mal dissimulata, Michel
gli
stava mentendo.
Decise di stare al gioco.
“Perché lo cerchi in un album di fotografie e non
in strada allora?”
“Dovevo essere sicuro fosse lui. L’ho incontrato di
recente dopo … anni. Solo non
ho idea di come rintracciarlo a meno che non ci sbatta di nuovo
contro.” Fece
una smorfia pescando una fragola dal proprio piatto e mordendola
pensieroso.
Gli lanciò un’altra occhiata. “O meglio,
potrei, solo … non appartengo a quel
mondo.”
“Fammi indovinare,
io invece
sì.” Si puntellò sul ripiano con le
mani, inarcando le sopracciglia e godendosi
il delizioso disagio che si dipinse sul volto del dirimpettaio.
Che
razza di persona sta cercando?
“Lo, mi serve un
favore.”
Ammise riluttante massaggiandosi il retro del collo come se il solo
pensiero
gli provocasse dolore. “Ma devi promettermi di non farne
parola con nessuno,
perché la situazione è …
imbarazzante.”
Oh, bene. Benissimo.
Cercò di non
gongolare, perché
tornare a Londra non per svago, ma per evitare la galera era noioso
come
contemplare lo scorrere del Tamigi e Merlino solo sapeva se aveva
bisogno di
distrazioni. “Non preoccuparti.” Lo
rassicurò. “C’è
una categoria di persone per cui sono una tomba e quelli sono i
miei amici.”
Un lieve sorriso gli increspò le labbra. “Lo so,
mio buon Nott.” Si riscosse,
schiarendosi la voce perché era pur sempre Michel Zabini, e
Morgana stessa non
sarebbe riuscita a fargli mostrare un’emozione che non fosse
calcolata al
millimetro. “La persona che voglio trovare è un
Magonò.”
“Oh.” Non mascherò il suo stupore;
mettere nella stessa frase, nonché nello
stesso ambiente un senza-magia e quel bastione Purosangue che era il
suo
migliore amico suonava … strano. “E
cos’ha che ti appartiene, di grazia?”
“Niente che ti
interessi.” Fu
svelto a rispondere. “Tu fai affari con loro, vero?”
“Capita.”
Convenne dando gli
ultimi tiri alla sigaretta e facendola Evanescere con uno schiocco di
dita. “Se
posso però preferisco evitare. Non sei mai dalla parte
giusta dell’accordo con
gente come quella.”
“Me ne sono accorto.” Si tolse l’anello e
lo posò sul tavolo, contemplandolo
assorto per qualche attimo prima di parlare. “Dove
… dove passano la giornata
di solito?”
“Un po’
ovunque.” Si strinse
nelle spalle. “Dipende. Per esempio il Black Goose a Notturn
Alley è un buon
punto di partenza. È un po’ il loro pub di
elezione. C’è un tipo che conosco
…”
“No, niente tipi.”
Lo fermò, un
fascio di nervi: era raro vederlo così, e Loki per un
momento si chiese se non
fosse il caso di smettere di dissuaderlo.
Mike
che cerca un Magonò… Sembra una barzelletta. O un
disastro.
Voleva divertirsi alle
spalle
dell’altro, ma non a spese della sua incolumità.
“Mike…”
“Lascia perdere.” Fece un cenno evasivo.
“Non vale la pena discuterne.”
“Allora perché hai tirato fuori
l’argomento?” Poteva esser serio se necessario,
e il suo istinto gli diceva che era il caso di esserlo. “Se
hai bisogno di
trovare questo tizio posso aiutarti.”
“No.” Si alzò e spedì il
piatto dentro il lavello. “Comunque adesso non ho
tempo, devo essere al Ministero tra venti minuti, sono in
ritardo.”
Non gli diede tempo di ribattere perché se la diede
elegantemente a gambe. Loki
sospirò, dirigendosi verso il lato della casa che
l’altro gli aveva concesso,
dritto tra le braccia delle sua conquista che, a giudicare dai rumori
che
provenivano dalla stanza, doveva essersi appena alzata.
Lasciare
perdere? Come no.
Ti
ho appena dato un posto in cui cercare.
****
Galles,
Denbighshire. Mattina.
La capanna di Moscardo era
nient’altro che assi solide e un tetto di paglia; nulla di
eccezionale, ma più
resistente di quanto non avesse immaginato quando vi aveva varcato la
soglia la
notte prima. Il Mannaro si sedette sul ciglio del letto, massaggiandosi
il
ginocchio con una smorfia. “Ogni volta che deve piovere vedo
l’intero
firmamento.” Spiegò ironico alla sua occhiata.
“Di
cos’aveva bisogno di
parlarmi?” Decise di andare dritto al punto. Aveva aspettato
fin troppo per
avere le sue risposte-
Anche
la pazienza ha un limite. Già superato.
Moscardo lanciò
un’occhiata a
Flynn, che si era appoggiata alla parete osservando distratta nessun
punto in
particolare. “Ho conosciuto tuo padre, Signor
Lupin.”
“Quando ha vissuto qui,
immagino.”
“Quando era un agente mandato da Albus Silente,
sì.” Alla sua espressione
sorpresa, sorrise divertito. “Noi Mannari potremo esser
tagliati fuori dal
mondo, ma non siamo degli sprovveduti. Molti di noi avevano capito sin
da
subito che non si era unito al branco per spirito di aggregazione. Un
Trasformato adulto che arriva nel branco? Succede raramente. Di solito
i
Trasformati arrivano da cuccioli, portati da chi li ha morsi.”
Fenrir Greyback, mangiamorte e Mannaro.
Ha morso mio padre e ucciso il nonno di Scorpius…
Serrò le labbra,
ma non
commentò. “Eppure ha vissuto per mesi con voi
… Greyback non se n’è mai reso
conto?”
“Se l’ha fatto, probabilmente era convinto di
riuscire a portarlo dalla sua
parte, alla fine.” Osservò Moscardo stringendosi
nelle spalle. “Oltretutto, Lunastorta
poteva giustificare quel genere di pensieri … Era diventato
uno di noi. Non mi
arrischio a dire che Greyback si fidasse di lui, ma certo credeva di
averlo convinto
che questa era la sua vera e sola famiglia.”
“In ogni caso, nessuno dei due alla fine ha vinto
…” Ribatté perché sentiva
che
doveva farlo. Greyback e famiglia
era
un concetto osceno, se associato al
genitore. “Mio padre non è riuscito a portar via
Mannari dalla sfera di
influenza di Greyback, e Greyback non l’ha avuto.”
Scosse la testa. “Non mi
fraintenda, ma queste cose già le so.”
“Non credo
proprio.” Lo redarguì
l’altro con un certo fastidio. “Cosa sai del
periodo che ha trascorso qui?”
Ted scoccò un’occhiata a Flynn e fu sorpreso di
vederle distogliere lo sguardo
a disagio. “Cosa c’è da sapere?
È venuto qui per … ma non ne abbiamo
già
parlato?”
“Lo fai sembra
semplice, come
fai sembrar noi dei
sempliciotti.”
Sbottò l’altro. “Pensi che basti essere
un Licantropo per essere accolto a
braccia aperte?” Lo incalzò con una certa durezza
che lo confuse.
“Non
intendevo…”
“Moscardo.”
Si inserì Flynn.
“Ted non conosce il branco come lo conosciamo noi, dagli
tregua.”
Il Mannaro sbuffò, scuotendo la testa ma tornando a
più miti consigli da come
alzò le mani in segno di resa. “Non mi aspetto che
lo faccia, ma neppure che ci
veda come un circolo di Scacchi Magici a libera entrata!”
Fissò le iridi dorate
nelle sue, con serietà. “Il branco è
tutto. È la tua famiglia, è la tua casa
…
È l’unico posto in cui puoi essere al sicuro. Un
estraneo può essere più
pericoloso di un’epidemia. Lunastorta quando è
stato qui non si è finto
uno di noi. Era uno di
noi.”
Ted non sapeva cosa pensare, ma sentiva che il magone che gli chiudeva
lo
stomaco non era un buon segno; era vero, sapeva poco o niente del
periodo in
cui suo padre aveva vissuto lì. Sua nonna non gliene aveva
mai parlato e anche
Harry non aveva potuto essergli molto d’aiuto data la
segretezza della
missione.
“Non intendevo
offenderla, mi
creda …” Tentò di rabbonirlo.
“Solo che non capisco cosa c’entri mio padre con
il motivo per cui sono venuto qui.”
Il Mannaro schioccò la lingua, alzandosi in piedi e
misurando il pavimento in
un paio di passi. “Sei venuto qui per sapere chi era il
Mannaro morto nella tua
foresta, no?”
Non è proprio la mia
foresta…
Ma non era il caso di impuntarsi sui dettagli.
“Sì, beh…”
“Perché?”
La domanda lo spiazzò, anche se in fondo non avrebbe dovuto.
Me
la sono fatta da solo non so quante volte…
“Perché
mi sento responsabile.
Avevo il compito di aiutarlo, ed ho fallito.” Si
passò una mano trai capelli,
sentendosi stanco di colpo; tutto quel parlare non stava portando da
nessuna
parte, se non ad una strana inquietudine che sentiva scorrere
sottopelle.
Avrebbe voluto avere la capacità Potter di tagliar corto.
Mai
avuta.
“E poi, non riesco
a togliermi
dalla testa che abbia voluto dirmi qualcosa prima di morire. Credevo
fosse il
suo nome, Ben…”
“Ben?” Da come
il Mannaro si irrigidì
capì che quelle tre lettere avevano fatto scattare
più di un allarme.
“… Non è il suo nome?”
Tentò.
“Lunastorta è nato e cresciuto nel branco,
ragazzo. Non ha mai avuto un nome da
umano.” Borbottò sfuggendo il suo sguardo come
aveva fatto e stava facendo
Flynn.
Che
sta succedendo? Cosa mi stanno nascondendo?
“Chi era
Lunastorta?” La
domanda gli salì alle labbra prima che potesse mediarla. Ma
doveva farlo, poi?
Era quello che aveva sempre voluto sapere.
Moscardo e Flynn si
scambiarono un’occhiata e di colpo fu come se qualcuno gli
avesse piazzato un
pugno secco nello stomaco. Secondo James le realizzazioni peggiori
arrivavano
così.
Tutto
questo parlare di papà … del fatto che fosse
parte del branco, che i nomi di battesimo sono importanti…
Oh,
no.
No.
Come aveva fatto a non
arrivarci prima?
“Moscardo, la
prego.” Mormorò
al Mannaro, tentando disperatamente di non farsi sopraffare dalla
nausea. “Mio
padre e il Mannaro della foresta … Che rapporto avevano? Ho
bisogno … me lo
dica e basta.”
Moscardo si scambiò l’ennesima occhiata con Flynn.
“Mi dispiace, ragazzo.
Pensavo che lo sapessi.”
Era tutto quello che aveva
bisogno di sentire. Il Mannaro della foresta non era solo un uomo che
gli era
morto tra le braccia senza che avesse potuto fare niente.
Era
mio fratello.
Avevo
un fratello.
L’istinto di
correre via da
quella capanna, le cui pareti minacciavano di soffocarlo, era forte, ma
chiuse
gli occhi e si prese un momento per tornare in sé;
c’era un ultimo punto che
doveva chiarire e gli premeva più di sapere
perché suo padre si fosse portato
un segreto simile nella tomba.
“Ben.”
Doveva avere un’espressione spaventosa a giudicare dalla
faccia preoccupata degli altri due. “Chi
è?”
Moscardo scosse la testa.
“Tuo
fratello ha abbandonato il branco anni fa … Era tornato, ma
non per rimanere.
Vulneraria non gliel’ha permesso.”
Era davvero così difficile dirgli tutto in una volta sola?
Avrà paura che tu perda la testa. A
giudicare da come ti guarda, sembra proprio temerlo.
Fratello
… avevo un fratello.
“Cos’aveva
fatto per essere
bandito?” Incalzò.
Il Mannaro sembrava in
difficoltà, diviso dalla lealtà verso il branco e
la consapevolezza di dovergli delle
spiegazioni. Non
gli importava: gli si avvicinò e ignorò
il guizzo di allarme ferino che gli vide nello sguardo, come il
richiamo
inutile di Flynn. “Chi è
Ben?”
“Suo figlio.” Buttò fuori rassegnato.
“È questo il motivo per cui Vulneraria
non lo voleva. È venuto qui con un bambino.”
“Oddio…”
Mormorò Flynn. “Perché
diavolo non me l’hai
detto? Dovrebbe
essere nei registri!”
“È stato una sorpresa anche per noi!”
Replicò il Mannaro sulla difensiva. “È
arrivato qui con un cucciolo, dicendo che era suo e pretendendo che ce
ne
prendessimo cura … ma aveva la magia,
gliel’abbiamo sentita addosso!” Fece una
smorfia. “Non poteva rimanere.”
“Vuoi dire che il
bambino non
è un Mannaro?”
“È un mezzo lupo. Come voi.”
“Dannazione Moscardo!”
Ted stava ascoltando a
malapena l’alterco tra gli altri due. Era come se qualcuno
gli stesse
insistentemente prendendo a calci il cervello.
Torna
in te. Si sta parlando di un bambino.
Ragiona.
“So
dov’è.” Si sentì dire come
se fosse stato qualcun altro a pronunciare quelle parole. “So
cosa stava
cercando di dirmi prima di morire … Il bambino è
ancora nella Foresta
Proibita.”
****
Londra,
East End.
“L’indirizzo
è questo.”
James lanciò un’occhiata distratta al pezzo di
carta tra le mani di Scorpius,
recitante la pubblicità che aveva attirato Price in quella
che, a conti fatti,
si era rivelata una trappola a scoppio ritardato.
Si trovavano
nell’East End, in
una zona industriale piena di magazzini dismessi e occupati
abusivamente oppure
talmente cadenti da aver attorno un cordone di avvisi di pericolo e
transenne.
Quest’ultimo era
il loro caso;
la loro meta finale era nient’altro che un enorme agglomerato
di lamiere e
cemento che sembrava reggersi in piedi per puro miracolo. Agli occhi di
un
Babbano sembrava un semplice orrore architettonico, con scritte oscene
e vetri rotti.
Agli
occhi di un mago invece…
Con un cenno agli altri
tirò
fuori la bacchetta e salì le scale arrugginite che portavano
all’ingresso di
servizio. Bobby fu il primo ad arrivare alla porta e prese in mano il
pesante catenaccio
con cui era stata chiusa in più giri. “Sembra
proprio roba Babbana, eh?”
“Sembra.
Sono stati lanciati un Repello
Babbanum, un Salvo Hexia
e Clausurum Totalum.”
Esordì Prince, fino
a quel momento in totale silenzio. “Più un
incantesimo di Intracciabilità di
classe uno.”
“Roba
potente!” Ribatté
Scorpius massaggiandosi la nuca con una smorfia dolorante. “E
si sente, per
Merlino.”
James finse di non notare la cosa, nonostante la compressione alle
tempie e il
senso di oppressione al petto parlassero chiaro. “Bobby,
chiama gli Spezza Incantesimi.
Voglio evitare che mi schizzi il cervello fuori dalle
orecchie.”
“Non serve.” Replicò il tedesco,
chiedendo con un chiaro movimento della mano
di fargli spazio. “Posso pensarci io.”
“Sul serio?”
Non poté frenare
l’incredulità e a giudicare
dall’occhiataccia che la nuova balia del
pipistrello – ovvero Scorpius – gli
lanciò doveva aver esagerato anche con il
sarcasmo.
Oh,
dai. Non posso proprio dir niente adesso!
Prince non si scompose.
“Sul
serio.” Rispose invece. “Sono stato addestrato
anche come Spezza Incantesimi.”
“Certo che questi Americani ne sanno una più del
diavolo…”
“Non è stata la SAGITTA ad addestrarmi.”
James si morse la lingua per
evitare una battuta che persino lui avrebbe considerato infelice.
Visto?
Sono stato bravo stavolta!
Scorpius
invece di lodarlo alzò gli
occhi al cielo. “Le barriere sono tutte tue
Sören!” Disse al tedesco dandogli
una pacca sulla spalla.
“Vi fare anche le treccine nel tempo libero?” Non
poté fare a meno di soffiare
quando l’amico gli fu accanto. “Le
barriere
sono tutte tue…” Lo imitò
sentendosi solo leggermente
infantile. “La tua cotta è imbarazzante.”
“Lo so.
È così rigoroso e
tedesco, non posso resistergli.” Ghignò
l’altro. “Ma non preoccuparti, Potty. Rimani
tu il mio preferito.”
James si rifiutò
di farsi
lusingare dalla cosa e si concentrò invece
sull’osservare l’operato di Prince:
questo armeggiò con il bracciale che aveva al polso e poi se
lo tolse,
infilandolo nella tasca dello spolverino di pelle che gli aveva
suggerito il
suo nuovo soprannome.
Dai,
è l’uomo pipistrello. Punto.
Poi l’altro mise
la mano sulla
porta e di colpo la magia attorno a loro fu scossa come da una potente
ondata
di vento. Dalla strada nessuno si accorse di niente, ma James
sentì l’intero
corpo vibrare come una corda.
Woah!
Il rumore di uno strappo
violento qualche momento dopo sottolineò come le barriere
erano appena state tranciate
di netto e senza troppe cerimonie.
“Per tutte le
sottane di
Salazar!” Esclamò Scorpius. “Come
diavolo hai fatto?”
Prince non tentò
neanche di
nascondere il compiacimento da come sorrise. Era piuttosto pallido e
sudato, ma
non sembrava scosso. Una vocetta interiore, che aveva il tono di voce
petulante
di Malfoy, gli suggerì di rivedere l’idea di
trascinarlo su una pedana e
sfidarlo a duello non appena si fosse presentata l’occasione.
Perché
siamo proprio sicuri che saresti tu a fare il
culo a lui e non viceversa?
“Anni di
pratica.” Rispose
intanto quello tagliando il catenaccio della porta con Recido.
“Era uno dei miei compiti quando lavoravo per mio
zio.”
Bobby si voltò inarcando le sopracciglia.
“È una fortuna che adesso lavori per
noi, eh?”
“Come
no.” Borbottò entrando
dentro e accendendo un Lumos per
rischiarare l’ingresso avvolto nella penombra.
L’ambiente, come
c’era da
aspettarsi, era enorme. Non si sentivano i rumori, e l’odore
di pioggia, muffa
e in generale abbandono era ovunque.
“Facciamo un
po’ di luce.”
Esordì e quattro Lumos Maxima
andarono a galleggiare tra le architravi metalliche del tetto. Tra
vecchi
scaffali, bidoni e scatole da imballaggio non sembrava esserci nulla,
tuttavia,
quando gli occhi si furono abituati, James scorse sul pavimento tracce
di suole
da scarpe. “Qualcuno è stato qui di
recente.” Si chinò per osservarle. “Le
tracce non sono state coperte dalla polvere.”
“Questo posto puzza.” Borbottò
Scorpius. “E sembra
voler crollare da un momento all’altro. Come
ha fatto Price a considerare attendibile
l’intera faccenda?”
“A giudicare dalla
quantità di
magia che è percepibile tutt’ora, questo posto
è stato Illuso.” Replicò Prince
passando le dita sulle colonne di cemento mangiate
dall’umidità. “Forse quello
che ha visto Price non è quello che stiamo vedendo
noi.”
Bobby si guardò
attorno
circospetto. “Quindi è stato incantato. Come un
ufficio … un laboratorio,
cosa?”
“Forse
entrambi.” Ipotizzò
James. “Qualunque cosa sia stato comunque ora non lo
è più. È chiaro che
chiunque lo abbia usato se n’è andato da un bel
pezzo.” Fece una smorfia.
“Questo posto è stato ripulito da tutto
ciò che era magico, barriere a parte.”
“Potrebbero
esserci degli
indizi invece.” Obbiettò Prince, con la faccia di
chi l’aveva presa sul
personale.
“Non sto dicendo
di non
controllare.” Replicò esasperato. “Solo
che…”
“Gente,
qua!” Scorpius li
interruppe, indicando di fronte a sé.
“C’è un’altra porta!”
Non mi piacciono le porte.
Indipendentemente dalla sua
antipatia, la porta c’era e faceva chiaramente accedere ad un
altro ambiente,
l’ufficio del proprietario a giudicare da quel che diceva la
targa a fianco. Stavolta
bastò un Alohomora per
farla aprire.
Entrati dentro capirono
subito
che quello era l’ambiente che era servito da base: non vi era
una sola
cianfrusaglia, era pulito dalle ragnatele e arieggiato, mentre un
Incantesimo
Climatico teneva bassa la temperatura e asciutta l’atmosfera.
“È qui
che hanno fatto tutto.”
Mormorò Bobby chinandosi sul pavimento e passandovi le dita.
“Neanche una
traccia di polvere … e ci sono dei segni. Qualcosa
è stato posato qui, pesante
e metallico.”
“Attrezzature?” Congetturò guardandosi
attorno. “Non sentite …”
Allargò le
narici. “ … non sentite un odore
familiare?”
“Sicuro.” Sbuffò Scorpius con un
sorrisetto. “Questo è l’odore che
c’è al San
Mungo. Erbe mediche e disinfettante. Scommetto dieci Galeoni che
è qui che
hanno sperimentato la super-cura su Price e Howe!”
James annuì,
facendo cenno a
Bobby che, recettivo come sempre, prese lo Specchio Comunicante dalla
tasca. “Chiama
i Tracciatori … Devono setacciare questo posto e inscatolare
tutto
l’inscatolabile. Dobbiamo sapere chi e cosa conteneva. Per
quanto ne sappiamo
potrebbero anche averci distillato un decotto per la tosse. Dobbiamo
essere sicuri che sia la pista
giusta.”
Con la coda
dell’occhio notò
che il tedesco non si era mosso dopo i primi cinque passi che aveva
fatto:
stava invece fissando qualcosa ai suoi piedi rigido come una statua.
“Ohi.”
Lo apostrofò e questo
sobbalzò come se gli avesse lanciato un incantesimo Elettro.
“Che c’è?”
Gli lanciò
un’occhiata indecifrabile,
pallido come un cadavere. “Johannes è stato
qui.”
“John
Doe?” Aggrottò le sopracciglia.
“Come lo sai?”
Per tutta risposta si
spostò
per mostrargli la porzione di pavimento che aveva osservato fino a quel
momento; c’erano dei mozziconi di sigarette schiacciati dalla
suola di una
scarpa. “Sono quelle che fumava abitualmente.”
Deglutì e poi il viso prese di
colpo una sfumatura decisamente sudaticcia e malsana.
“Scusate…” Mormorò con un
filo di voce prima di girare le spalle e andarsene a grandi passi.
“Crucco,
ehi!” Lo richiamò
solo per farsi ignorare. “Torna qui dannazione!”
“James.”
Malfoy gli fu subito
accanto, e il fatto che avesse usato il suo nome di battesimo doveva
essere
indicativo. Forse. “Meglio di no.”
“Meglio di no cosa?”
Sbuffò. “Non può
andarsene in giro come gli pare, è…”
L’altro lo guardò come se fosse idiota.
“Stava praticamente avendo un attacco
di panico, dagli tregua.”
Okay,
sono un idiota.
“John Doe
è stato il suo
partner per anni … Lavorare dall’altra parte
dev’essere, non so, strano?”
Considerò Bobby riponendo lo Specchio dopo aver chiuso la
comunicazione con la
Divisione Tracciatori. “Sapete che tipo di rapporto
avevano?”
“Del genere sono la tua cattiva
influenza.”
Rispose Scorpius con un sospiro. “Credo che John Doe fosse il
modo in cui suo
zio lo controllava a distanza … Mi ha anche detto che molto
di quello che sa
gliel’ha insegnato lui. Sapete, duelli, incantesimi
… roba così. Una specie di
mentore del crimine.”
“Brutta storia.” Convenne Bobby.
“Ritrovarselo tra capo e collo, dico …
Anch’io
andrei fuori di testa.”
A quel punto la sua stupida
lingua si mosse da sola. “Qualcuno dovrebbe andare a
controllare che non si sia
impiccato o roba del genere allora.” Fece del suo meglio per
suonare
noncurante, ma dal sorrisetto che gli venne servito dagli altri due
doveva aver
fallito miseramente. Ci rinunciò. “Muovi le
chiappe Malfuretto e va a
recuperarlo.”
L’acqua gelida che
si spruzzò
in faccia con la bacchetta servì poco e niente, ma perlomeno
gli rinfrescò il
viso, dato che lo sentiva bollire come se l’avesse tenuto
troppo vicino ad una
fiamma.
“Ehi.”
Malfoy sembrava avere l’innata capacità di
arrivare proprio quando aveva uno
dei suoi momenti bui. Non che fosse colpa sua, era solo preoccupato, se
ne
rendeva conto, tuttavia…
“Sören
… ehi amico, stai
bene?”
Lasciami
in pace. Lasciatemi tutti in
pace.
Johannes era a Londra.
Certo,
lo sapeva, aveva visto l’identikit, ma una cosa era vedere un
ritratto, una
cosa era realizzarne la presenza
fisica, tangibile. Per questo non era potuto rimanere in quella stanza
e il
panico che lo aveva assalito faticava ancora a dissolversi.
Inspirò,
appoggiando la fronte
alla ringhiera di metallo dell’uscita di servizio.
“Sto bene.” Masticò. “Torna
dentro, non è niente.”
“Senti, se vuoi
parlarne… Ti
farebbe bene.”
“Non voglio
parlarne.” Avrebbe voluto
colpirlo, allontanarlo.
Quello
che ha fatto Johannes là dentro … qualunque cosa
sia, l’ho fatta anch’io. Cinque anni fa quelle
impronte, quei mozziconi di
sigaretta sarebbero state le mie.
Avreste
indagato su di me.
Gli sembrava quasi di udire
la
risata di Johannes soffiargli sulla pelle.
Con
che diritto mi dai la caccia, principino?
Non poteva vedere Malfoy
dalla
sua posizione, ma lo sentì sospirare. “Vuoi
rientrare?”
“Potete fare a
meno di me?” L’idea
di metter di nuovo piede in quel posto chiuso da lamiere, buio come
Nurmengard
gli dava la nausea.
“Penso di
sì … Devono arrivare
i Tracciatori, ma non è che serviamo al completo.”
Fece una pausa. “Vuoi che ti
accompagniamo alla locanda?”
“Non ho bisogno
della vostra pietà!”
Non riuscì a trattenersi.
Si scontrò così con l’espressione
dapprima sorpresa, poi leggermente seccata
dell’Auror. “Nessuno ha pietà di
te.” Obbiettò pacato. “Sono stati giorni
duri
per te … e siamo preoccupato. È quello che fanno
i compagni di squadra.” Sospirò.
“Quelli veri.”
Non capiva e neppure ne
aveva
voglia. Certo, Scorpius aveva ragione, avrebbe dovuto parlarne; era
quello che
la sua Psicomaga gli aveva sempre consigliato di fare quando i pensieri
diventavano troppi e rischiavano di farlo esplodere.
Ma
quando ne avrò parlato? Non cambierà niente.
Johannes continuerà ad essere qui, come i suoi mozziconi,
come i miei incubi…
Mi
spiace Lily, non sono coraggioso. Sono un codardo.
Lo sono sempre stato.
“Se
non avete bisogno di me…” Si staccò
dalla
ringhiera e si passò una mano trai capelli. “Vado
a pranzo.” Non diede tempo
all’altro di ribattere. Si Smaterializzò.
****
Diagon
Alley, Tavola Calda Fortebraccio.
Ora
di pranzo.
“Avevo in mente
tutt’altro
quando ho detto che volevo trascorrere il mio giorno libero
all’aperto.”
“Siamo
all’aperto.”
Albus avrebbe alzato le mani al cielo, chiedendo
l’intercessione di Morgana
stessa se non fosse stato in un caffè affollato, data
l’ora e il sole cocente
che spingeva chiunque in strada a godersi l’estate al suo
pieno.
Chiunque
tranne me.
“Intendevo una
gita fuori
Londra, non trafugare rapporti
medici
per sottoporli all’attenzione del mio ragazzo!”
Tom gli servì un sorrisetto irritante, alzando gli occhi da
quel che stava
leggendo. “Come ho detto, siamo all’aperto, stiamo
per pranzare fuori e indossi
una di quelle tue orribili canottiere da tempo libero che, per inciso,
mi fanno
sanguinare gli occhi.” Alzò un sopracciglio.
“Mi pare un compromesso tutto a
tuo favore.”
“Solo perché a te
non piacciono le
cose colorate, Beccamorto, non significa che sia brutta!”
Puntualizzò per il
puro gusto di protestare, allungando le braccia sul tavolino e
seppellendoci il
viso. “Ho già detto che ti odio?”
“Cinque
volte.” Tom girò la
pagina. “Come si legge questo valore?” Gli chiese
girando la cartellina.
Al suo malgrado alzò la testa e mise a fuoco la serie di
dati numerici espressi
in alfabeto runico, usato in ambito medico per risparmiare inchiostro e
tempo.
Sì,
Rune Antiche serve a qualcosa.
“Significa che tuo
cugino ha
una capacità magica superiore a quella del mago della strada
del … doppio,
circa.” Si pettinò i capelli e dall’aria
esilarata dell’altro probabilmente
senza successo. “Meglio che non si sia ammalato.”
“Ma non sapete perché non è
successo.”
“No, e
finché il suo Ministero
non ci dà il nulla osta non possiamo fargli altri esami, a
parte quelli del
sangue che vedi qui.” Picchiettò sulla pergamena.
“Ci pensi? Non dispone del
suo corpo! È assurdo!”
“In teoria ha una
condanna
vita natural durante sulla testa…”
“Okay, ma a te non darebbe fastidio sapere che non appartieni
a te stesso?”
“Se capitasse a me
non lo
chiamerei fastidio.” Tom
gli lanciò
un’occhiata che riassumeva bene cosa avrebbe fatto lui, se si fosse trovato al posto di
Sören.
Trema,
Mondo Magico.
Si appoggiò poi
allo schienale
della sedia per guardare assorto il via vai di maghi e streghe sulla
via. “È il
braccio.” Affermò senza mezzi termini.
“È il nucleo di bacchetta che ha nel
braccio ad averlo protetto.”
“Sì, ci avevamo pensato. Solo bisogna capire come. Idee?” Domandò
e fu sollevato dal vederlo scuotere la testa.
Per
fortuna. Se risolve un altro pezzo del puzzle poi
chi lo regge…
Si riprese subito, comunque.
“Ma
lo saprò. Del resto, cosa ne sapete voi Guaritori di
bacchette?” Interloquì con
l’aria di un gatto a cui era stato presentata una fetta di
lardo succulenta. “Potrebbe
servirvi una consulenza esterna.”
“Che dovrà prima essere approvata
dall’Ufficio Auror. Scommetto che papà non
vede l’ora di vederti saltare dentro la fossa dei leoni. Ne
sarà estasiato.”
“Non stavo parlando di me, ma di Stevens. Non sono
così auto-referenziale.”
Al sorrise, sporgendosi per avvicinare il volto a quello
dell’altro. “No?” Mormorò
spostando la mano sotto il tavolo ad accarezzargli la gamba.
L’altro inspirò, tendendosi
istintivamente nella sua direzione. “Siamo sicuri che non
useresti Rupert come
ponte?”
“Come ho detto,
non stiamo
parlando di me … io sono solo un Apprendista.”
Coprì la mano con la sua e si
chinò per sfiorargli l’orecchio con le labbra.
“Mi rimetto alle decisioni del
mio mentore con umiltà. Come del resto hai fatto tu con
Smethwyck, non è vero?”
Al era certo che la
cameriera,
venuta a ritirare il suo bicchiere, stesse cercando disperatamente di
non
guardare nella loro direzione. Preso dalla pietà
cercò di raddrizzarsi, ma Tom
gli strinse il polso e lo costrinse a rimanere in quella posizione,
coinvolgendolo in un bacio che era una palese punizione per averlo
stuzzicato.
Ah
sì?
Gli tirò un
pizzicotto
violento nell’interno coscia e mentre l’altro si
piegava discretamente in due, sorrise
alla povera ragazza. “Me ne puoi portare
un’altra?” Indicò il bicchiere.
“E
controllare i nostri ordini? Sono un po’ in
ritardo…”
“Hai la vescica di un cammello.” Mormorò
Tom con un lamento soffocato,
dardeggiando la cameriera e facendola scappare a gambe levate.
“Fa caldo, devo
integrare
liquidi.” Stornò con una scrollata di spalle.
“Comunque l’idea del consulto è
buona … La accennerò ai miei capi.” Si
stiracchiò, esponendo le spalle nude al
sole. “Così almeno la pianterò di
rischiare d’essere radiato dall’albo dei
Guaritori ancor prima di entrarci.”
“Sì, sembri atterrito dalla prospettiva.”
“Sono spaventato dalla prospettiva che un’epidemia
si diffonda nell’intero
Mondo Magico su larga scala.” Gli fece eco occhieggiando la
Gazzetta del
profeta che una loro vicina di tavolo stava leggendo; in prima pagina,
a
caratteri cubitali, c’era una foto di suo padre fatta alla
conferenza stampa. La
notizia era stata trattata con prudenza, e si era quindi evitato fughe
di
informazione al sapor d’Apocalisse, tuttavia
l’allerta era stata settata e se
ci fossero stati altri casi, sarebbe stata solo questione di tempo
prima che il
panico dilagasse.
“C’è
rischio di contagio solo
tramite scontro diretto.” Gli fece notare. “Non
sarebbe classificabile come
epidemia.”
Al si mordicchiò le labbra. “Hanno detto scontro
diretto per non allertare i
cittadini, ma quello che devi leggere tra le righe è scambio di magia.”
“Ovvero?”
“Non
dev’esserci per forza un
duello nel senso classico del termine … Se il veicolo di
trasmissione è la
magia, il contagio può avvenire, per dire, anche quando un
MagiParrucchiere usa
un Recido per tagliarti i
capelli.”
Tom sgranò gli
occhi e rimase
in silenzio per qualche secondo, assimilando l’informazione.
“Dannazione.”
Mormorò. “È
un’epidemia.”
“Già.”
Non ebbero tempo di
approfondire il discorso che qualcosa o qualcuno entrò nella
visuale di Tom che
si raddrizzò e perse espressione, come sempre faceva quando
qualcuno che non
sapeva come gestire entrava nel suo territorio.
Al voltandosi
capì subito chi l’aveva
scatenata: Sören si stava facendo largo trai tavolini,
scortato dal Magonò che
aveva alle sue dipendenze, tal Milo. Dovette percepire
l’occhiata insistente
del cugino, perché dopo una lieve esitazione si
avvicinò, facendo un cenno di
saluto.
“Buongiorno Al,
Thomas.” Salutò
mentre l’altro tedesco era impegnato ad accendersi quello che
aveva tutta
l’aria di essere uno spinello.
…
Okay. Sì, dall’odore lo è.
“Oh, ehi
Sören!” Lo salutò con
un sorriso, tirando un calcio al compagno perché desse un
qualsivoglia segno di
vita. “Come va?”
“Bene.”
Rispose con l’aria di
non aver capito la domanda prima di voltarsi verso il
Magonò. “Ricordate Milo?”
“No.”
Replicò Tom in piena
sgradevolezza, prima di accorgersi della sua occhiata e schiarirsi la
voce. “Ma
so chi è.”
“Ed è difficile non sapere chi siete
voi!” Gli fece eco il biondo in un inglese
fluido che non ricordava avesse avuto al castello dei Von Hohenheim.
“Il cugino
prodigo e …” Gli rivolse un’occhiata di
apprezzamento che lo lusingò e mise in imbarazzo
al tempo stesso. “… il ragazzino che mi ha quasi
fatto bruciare vivo cinque
anni fa. Bella canottiera a proposito. La vendono anche per
adulti?”
Pure
lui!
“Milo.”
Lo redarguì Sören senza
troppa convinzione. Era pallido alla luce diretta del sole, e faceva
saettare
lo sguardo da un lato all’altro del patio come se si
aspettasse l’attacco di un
Dissennatore da un momento all’altro. Inevitabilmente il suo
istinto da
Guaritore fece capolino. “Hai una brutta cera,
stai…”
“Siete soli?” Lo interruppe brusco.
Scusa
tanto se mi preoccupo! Merlino, se sei cugino di
Tom…
Decise che non aveva le
forze
né era dell’umore per mostrarsi offeso.
“Sì, ci siamo presi un giorno libero
e…” Si fermò quando vide che non
sembrava neppure ascoltarlo. “Cerchi
qualcuno?”
Perché
da come ti stai guardando attorno, sembra tanto.
“No.” Fu
veloce a rispondere.
“Vi lascio al vostro pranzo. Buona giornata.”
“Beh, gli siamo proprio simpatici…”
Considerò con una punta di dispiacere
quando i due si furono allontanati; per quanto si fosse sentito a
disagio,
Sören era pur sempre cugino di Tom.
Vorrei
che facessero amicizia. Invece si guardano come se
nessuno dei due capisse la lingua in cui sta parlando
l’altro.
È
… triste.
“Ci ha a malapena
notati.” Replicò
Tom osservando il cugino prendere posto ad uno dei tavolini. Non
sembrava
turbato dalla freddezza dell’incontro ma, come al solito, era
Tom: non bastava
un’occhiata per
decifrare quello che gli passava per la testa.
“Sì,
stava cercando qualcuno,
ma…”
“Pensava fossimo in compagnia.” Ed era vero,
realizzò Albus. Non cercava
qualcuno in giro per il locale, lo cercava vicino a loro. “Di
solito con chi
pranzi durante la settimana?”
“Lily.”
Realizzò. “Credeva che
fosse con noi?” Fece una pausa. “E non vederla.
Perché?”
“Non ne ho idea e
non mi
interessa.” Si scostò quando la cameriera
arrivò con le ordinazioni, radunando
i fascicoli e passandoglieli. “Ma se tua sorella scopre che
il suo adorato Ren
la sta evitando…”
Li fece scivolare nella
borsa
e sospirò. “Non è questione di
sé, è una stramaledetta LeNa. È
questione di quando.”
Tom ebbe
l’accortezza di non
commentare.
“Potevamo unirci a
loro.”
Milo lanciò l’idea aspettandosi una reazione che
non arrivò; Sören infatti si
limitò a scivolare sulla sedia e fissarsi le mani.
“Lo spilungone
è tuo cugino,
no?” Tentò ancora. Stavolta l’altro tese
le labbra in una smorfia, ma non
lasciò scappare una parola. “Non ti somiglia,
è un figo da paura. Mi farei
proprio una cosetta a tre con il suo ragazzo, quegli occhioni da Bambi
mi arrapano
un sacco … Peccato per il guardaroba, sembra abbia
svaligiato l’armadio di una
bambina di due anni.”
Sören
continuò a fissarsi le
mani con aria assente e no, per quanto apprezzasse la mancanza di
reprimende o
minacce, non era un buon segno.
Pure
peggio del solito. Sembra di esser tornati ai
primi tempi, quando cavargli una parola era grazia ricevuta.
Per questo quando se
l’era
visto arrivare alla locanda in quelle condizioni lo aveva subito
trascinato
fuori, sperando che il sole e la bella giornata potessero aiutare, ma
così non
era stato.
Quando arrivarono le loro
ordinazioni fu quindi sorpreso di sentirlo parlare.
“Hai notizie su
Johannes?”
“Dai miei
contatti? No, ancora
nulla …” Esitò: leggere tra le righe
mentre si era fatti come cocuzze non era
la cosa più semplice del mondo. “Vuoi che vada a
sollecitare?”
“Sarebbe
opportuno.” Allontanò
il piatto. “Abbiamo prove certe che sia coinvolto nel caso.
C’erano mozziconi
delle sue sigarette sulla scena del crimine.”
Ah, ecco. Mistero risolto.
Senza
offesa Camaleonte, ma ho passato quattro anni
ad
accudirlo per renderlo un essere umano funzionale. Me lo riduci
così lasciando
delle cicche?
Vaffanculo.
“Ci
vado.” Convenne dando un
grosso morso al suo panino. Cercò di essere positivo,
perché uno dei due doveva
non sembrare la rappresentazione vivente del Tristo Mietitore.
“Ti sentirai
meglio quando lo sbatterete al gabbio, vedrai.”
Sören finalmente lo guardò, ma a Milo parve di non
avere più davanti
quell’imbranato del suo datore di lavoro, ma qualcun altro, e
quel qualcun
altro lo stava fissando come se ogni emozione gli fosse stata lavata
via dalla
faccia. Dava i brividi.
“Ehm.”
Pronunciò acutamente.
“Sì?”
Sono
troppo fatto per un remake dei dolori del giovane
Werther!
“A quanto pare non
sono in
grado di vincere le mie paure.” Bevve un sorso della sua
birra e fece un mezzo
sorriso. Tremava negli angoli, e puzzava di crollo lontano un
chilometro. “Non
mi resta che eliminarle.”
Milo percepì
tutto lo
stordimento dato dalla droga evaporare, rimpiazzato da una lucidissima
realizzazione.
Cazzo.
Vuole ucciderlo.
****
Note:
Andrà tutto bene! Più o meno. Prima o poi. ;)
Ho notato un calo nelle
recensioni, quindi spero davvero che questo capitolo sia migliore dei
precedenti. Mi spiacerebbe dare capitoli loffi a gente che mi segue!
Qui la canzone che fa da apertura al capitolo. Era
una vita che volevo
utilizzarla.Qua
invece quella che la chiude. Non mi ricordo chi me l’ha fatta
conoscere, ma nel
caso, grazie!
1. Clocaenog,
Foresta: è una foresta di cento chilometri
quadrati,
soprattutto di conifere, piantata ai primi del novecento nel Galles.
Qui
per info
(in inglese).
2. Scorpius usa un vecchio
proverbio inglese ‘All work an no
play
makes Jack a dull boy’ che può essere
tradotto sia come ‘noioso’ che
‘cattivo’. Da noi è famoso soprattutto
per essere apparso in Shining di Kubrick.
Qui per info.
|
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Capitolo 22 *** Capitolo XXI ***
Capitolo XXI
And
that's how the story goes,
The story of the beast with those four dirty
paws.
(Dirty
Paws, Of Monster and
Men)
Londra,
Ufficio Auror.
Ora
di Pranzo.
Scorpius si gettò
sulla sedia
della scrivania prima che James riuscisse anche solo a pensare
di arrivarci; saltò il conseguente sgambetto che
ne
conseguì e atterrò con le braccia alzate.
“Vittoria!” Proclamò, mentre sotto di
lui la mole canina di Donnola – era un nome bellissimo
– si accomodava con un guaito altrettanto trionfante.
“Quel cane
è una tua
estensione o cosa? Cazzo!” Grugnì James
appoggiandosi al bordo della scrivania ingollando
quello che restava del suo cartoccio di Fish&Chips.
“Se vuoi ti lascio
sedere
sulle mie ginocchia.” Offrì magnanimo rimediandosi
un gestaccio ingrato.
Succhiò distratto
dal grosso
contenitore di plastica colorato che secerneva una deliziosa bibita
zuccherosissima,
colorata e Babbana. “Mi piace questa Cherry Cola.”
Decretò.
“Non dovresti
neanche berla
Sy, contiene caffeina.” Lo redarguì blandamente
Bobby. “Non finirla tutta.”
“Ma è buona!”
“Piantatela di cazzeggiare.” Sbuffò
James che si stava leccando le dita in
pieno godimento alimentare. “Tra poco arriverà mio
zio.”
“Parli dell’Infero…”
Mormorò ignorando l’occhiataccia che gli venne
rifilata
mentre il Sergente Weasley si avvicinava.
“Buongiorno!” Esclamò sedendosi in
modo tale che Donnola non potesse sbucar fuori e lasciare bava
invisibile, ma
umida, sui pantaloni dell’uomo. Lo strano balletto
destò qualche sicuro
sospetto da come venne guardato, ma cercò di far finta di
niente con il suo
sorriso migliore. “Giorno delizioso, nevvero
Signore?”
“Hai di nuovo
bevuto caffè
Malfoy?” Lo salutò con una smorfia assolutamente
inadeguata data la sua sentita
manifestazione d’affetto. “Cosa vi ho detto sul
dargli da bere caffè?”
James fu lesto ad afferrare
il
bicchiere e cestinarlo, ignorando le sue accorate proteste.
“Non pensavamo
fosse anche nelle bibite gassate!” Si giustificò
pronto.
“Sono perfettamente in me, grazie.”
Replicò un po’ irritato. “A tal punto
che posso far completo rapporto sul
sopralluogo di stamattina!”
Il suo futuro suocero
inarcò
le sopracciglia ma si astenne da ulteriori commenti.
“Fa’ rapporto Malfoy.”
Prima o poi ce la farà a chiamarmi Scorpius?
Chissà se lo chiamassi papà …
Nah, non se lo merita. Io ho un solo papà. Il mio.
“Il sopralluogo ha
confermato
l’idea che ci eravamo fatti su come Howe e Price siano venuti
in contatto.”
Esordì tornando serio. “All’indirizzo
sull’annuncio pubblicitario corrisponde
un vecchio magazzino, e secondo le rilevazioni preliminari dei
Tracciatori è
stato usato come laboratorio. Analizzeranno la magia ancora presente
nell’aria
per scoprire gli incantesimi che sono stati usati, ma possiamo
già dire con
certezza che sono state usate alcune barriere di livello uno per
sigillare il
posto.”
“Livello uno?” L’uomo li fissò
perplesso. “E chi le ha spezzate?”
…
ehm, già. Per quanto siamo fighi non siamo così fighi
da
saper rompere barriere con un livello di sicurezza simile. Son le
stesse che
mettono alla Gringott.
“L’agente
Prince.” Si inserì
Bobby. “Ha detto di aver ricevuto un addestramento da Spezza
incantesimi.”
Fortunatamente il sergente
Weasley non chiese ulteriori spiegazioni, limitandosi ad un cenno di
assenso. “Tracce
della presenza di Howe o Price?”
“Stiamo aspettando
i risultati
delle analisi dei Tracciatori.” Si strinse nelle spalle.
“Ci han già detto che
ci vorrà probabilmente tutta la giornata.”
“Bene.” Si guardò attorno. “Ma
Prince?”
Eh.
Scorpius si
scambiò
un’occhiata con gli altri: per quanto avesse cercato di
alleggerire l’atmosfera
dopo la scomparsa di quest’ultimo, la reazione che aveva
avuto dentro il
magazzino aveva fatto preoccupare tutti. Persino James se
n’era rimasto
pensieroso per un bel pezzo, prima di blaterare che stava morendo di
fame e che
era giunto il momento di riempirsi lo stomaco di junk
food.
“È
andato a pranzo.” Vedendo
che la perplessità nello sguardo del mago più
anziano non accennava a sfumare,
anzi, si faceva diffidente, si affrettò a spiegare.
“È che …”
“ … non aveva voglia di mischiarsi a noi
pezzenti.” Si intromise James. “Se
n’è
andato a mangiare con posate d’argento in qualche ristorante
sciccoso o roba
del genere.” Quando tentò di protestare lo
seccò con un’occhiata singolarmente
seria.
Ma
pensa anche di aver ragione?
Rimase comunque in silenzio,
dato che non gli andava di parlare degli e sugli assenti.
Ha
già problemi per conto suo, senza che la gente che
pianti casini in sua assenza.
Quando l’uomo se
ne fu andato
però si sentì in dovere di difenderlo.
“Si può sapere che problema hai? Già
sono ai ferri corti, non c’è
bisogno…”
“… che sappia che Prince ha avuto un attacco di
panico durante un’ispezione?
Hai proprio ragione.” Lo interruppe di nuovo
l’altro e di colpo Scorpius capì.
Ma
dai.
“Lo
hai…”
“Gli ho parato il culo, assurdo, ah?”
Sbuffò incrociando le braccia al petto
come se dovesse difendersi da un’accusa.
“Riflettici, testa vuota, cosa credi
che avrebbe fatto mio zio sapendo che il crucco ha dato di
matto?”
“Se ai piani alti
lo
ritenessero troppo coinvolto potrebbero togliergli il caso.”
Gli diede manforte
Bobby. “Anzi, a dirla tutta dovrebbero.”
“Non starete
esagerando? Si
tratta di John Doe, è ovvio che fosse scosso!”
James sospirò. “Il pipistrello, per quanto mi
sembri ancora una bestemmia, è
un agente. Deve essere capace di
mettere da parte le sue emozioni. Quello o che si ricordi
l’Occlumanzia, perché
altrimenti lo rispediranno a casa con la prima Passaporta.”
Contemplò con
enorme interesse i lacci delle proprie scarpe. “E non ho
proprio voglia di
rifare tutto da capo con un altro americano.”
Scorpius si trovò
a sorridere,
dandogli un lieve colpo sulla spalla con la propria. “No,
neanche io.”
“Ci credo, tu sei innamorato di quello sfigato.”
“Sei tu il mio
unico amore
gaio Potty.”
“Fottiti.”
“Quotidianamente.”
“Sul serio però…” Li
riportò all’ordine Bobby senza riuscire a
nascondere una
risata. “Pensate che dovremo andare a vedere come sta?
Alloggia al Paiolo
Magico, potremo andarci prima che finisca la pausa pranzo!”
James, finito evidentemente
il
suo momento di empatia, roteò gli occhi al cielo.
“Sì, e magari fargli un
brodino e dargli un bell’abbraccio. È un mago
adulto, Bobby, non un moccioso di
cinque anni.” Sbuffò esasperato di fronte alle
loro espressioni poco convinte.
“Comunque a quanto mi ha detto Lils ce l’ha
già una babysitter, un tizio,
Michael o un nome così.”
“Milo.”
Lo corresse. “L’idea
di Bobby però non è sbagliata …
dovremo cercare di farlo uscire, di distrarlo
un po’. Questa storia di John Doe l’ha davvero
messo a terra.” All’espressione riottosa
che ne conseguì decise di giocar d’astuzia: solo
perché un Cappello aveva
deciso che la sua qualità principale era la cavalleria non
significava non ne
avesse altre. “E poi
… l’hai detto
anche tu, ci conviene che rimanga. È molto più
utile di un normale agente di
collegamento.”
“Grazie tante, quelli sono utili come un Bolide sulle
palle!”
“Appunto. Non è una zavorra, ma una carta
vincente.”
“Sì, di un Mazzo Esplosivo.” Gli fece
eco riluttante, ma sospirò. “Fate come
volete, io non vado a coccolarlo. Ho i miei buoni motivi.”
“Il tuo malriposto
istinto protettivo
verso una sorella che non vuole esser protetta?”
Ghignò schivando il pugno che
rischiò di arrivargli troppo vicino al naso. Fu salvato
dallo Specchio
Comunicante che l’altro tolse dalla tasca.
“Non finisce qui,
coglione di
un Malfuretto.” Grugnì James da bravo maschio alfa
prima di tornare a toni
umani e rispondere. “Zio Nev?” Esordì
perplesso. “Ehi, bello sentirti… Che
succede?” Dall’espressione che fece non
sembrò essere nulla di buono. Lanciò
loro un’occhiata e poi si allontanò abbastanza da
non farsi sentire.
Uh?
E ora cosa?
Quando ritornò
aveva il
cipiglio delle grandi preoccupazioni che gli solcava la fronte.
“Gente, mi sa
che devo allungare la pausa pranzo. Copritemi con mio zio,
okay?” Disse
infilandosi il giubbotto e ficcandosi senza troppe cerimonie la
bacchetta nel
retro della tasca.
Quindi
non è una cosa del clan, se il Signor Donnola
non dev’essere informato.
“Cosa
c’è di tanto urgente da
rischiare di farti saltare una chiappa?”
“Teddy.”
Tagliò corto
scuotendo la testa ma sfilando il legno dalla tasca. “Non lo
so con precisione.
Poi vi dico.” Gli diede una pacca sulla spalla.
“Inventatevi una scusa decente,
stavolta.” Lo ammonì.
“Ehi, una diarrea fulminante è un’ottima scusa!”
L’insulto che ne
conseguì fu
chiaramente meritato.
****
Se zio Nev chiamava dicendo
di
tornare subito a casa, ci dovevano essere almeno dieci ottimi motivi
per cui
doveva muovere il culo.
James schivò una
fila di
folletti dall’aria arrabbiata, diretto verso i Camini
dell’Atrio come se
dovesse correre una maratona.
Teddy.
Era ovvio che fosse per lui
anche se l’amico di famiglia non aveva dato molte
spiegazioni.
“Jam,
stai lavorando?”
“Paura
pranzo, zio. Dimmi tutto!”
“È Ted.”
Aveva
sentito un cazzotto discreto d’ansia allo stomaco
mentre ricordava che l’altro aveva trascorso la notte prima
nella riserva dei
Mannari. “Gli è successo qualcosa?”
“No, sta bene, però…”
C’era stata una pausa in cui il viso solitamente quieto
dell’uomo si era infiammato di preoccupata determinazione.
“Non posso dirtelo
via Specchio, è meglio se torni a casa.”
“Ma
sta bene?” Aveva incalzato adesso seriamente
terrorizzato. “Che gli hanno fatto?”
“Niente,
ti dico.” Aveva ripetuto paziente. “Davvero
preferirei se…”
“Arrivo.”
Fortuna voleva che il suo lavoro non avesse orari, sia nel bene che nel
male.
Una mezza giornata libera, con tutti gli straordinari che aveva
accumulato, non
era poi pretendere molto.
Varcò quindi
l’ingresso del
Camino e scandì con decisione l’indirizzo di casa:
era il metodo più rapido per
viaggiare, benché la Metropolvere non fosse il suo metodo
preferito, dato che
da lì alla Scozia i collegamenti via camino si facevano
piuttosto sporchi e
fuligginosi.
Ci
metto meno che in moto però. Chiederò a Sy di
riportarmela stasera.
Quando, sputando cenere, si
trovò nel salotto di casa sua girò lo sguardo per
trovare il centro dei suoi
pensieri. Sospirò di sollievo quando vide che era
lì, incolume e in compagnia
di Neville, Hannah e una tizia asiatica con degli occhialetti dalla
montatura
squadrata e la generale aria di chi vorrebbe trovarsi da
tutt’altra parte.
“Teddy!”
Esclamò, facendogli
alzare la testa di scatto.
Dall’espressione
che gli
rivolse, e dal colore dei capelli capì immediatamente che la
situazione era uno
schifo.
Cristo,
dov’è il colore? Dov’è il mio
blu?
“Jamie, dovresti
essere al
lavoro…” Mormorò prima di voltarsi
verso Neville e realizzare il motivo della
sua venuta. “Non avreste dovuto chiamarlo.”
“Col
cazzo!” Esclamò
rispondendo al posto dell’altro mago. “Sono il tuo
compagno, qualsiasi cosa è
successa … e ti è
successa … devo
saperla. Ora.”
Ted aprì la bocca, ma la richiuse subito, distogliendo lo
sguardo. “Hai ragione.”
Ammise piano ed era orribile sentirgli un tono così
sottomesso quando aveva l’intero
corpo in tensione e la mascella serrata. “Ma poi dovrete
lasciarmi andare.”
“Andare dove?”
Guardò i due coniugi
che scossero la testa.
“Parlate.” Disse Neville con il consueto piglio
pratico e saldo. “Se James ti
appoggerà allora organizzeremo la cosa, altrimenti dovrai
lasciar fare al
Ministero.”
“Ministero? Di che diavolo
state
parlando? Che sta succedendo?” Si voltò verso
l’asiatica. “E tu chi cavolo
sei?”
“James.”
Lo riprese senza
convinzione il compagno; era seduto sul divano come se un Incantesimo
di
pastoia ce l’avesse incollato ed era orrendo non sentirlo
ammonire come il
maestrino che era.
“Flynn
Lin.” Si presentò
tendendogli la mano. “Tu saresti la nostra
soluzione?”
Gliela strinse.
“Tanto piacere
e pare di sì.” Sospirò; era il momento
di prendere le redini di quella
situazione se Neville non ne aveva l’intenzione.
Il
che, dai, è strano. Voglio dire … è
zio Nev.
Forse c’entrava
qualcosa con
l’aria stravolta di Ted. Decise di non arrovellarcisi troppo.
“Okay, posso
avere un momento da solo con il mio ragazzo?” Da come si
alzarono rapidamente pareva
proprio di sì e persino il suo ex Direttore, per quanto gli
diede una pacca
sulla spalla e lo avvertì che li avrebbero attesi ai Tre
Manici, seguì la
moglie con aria sollevata.
Wow.
A quanto pareva non se
l’erano
sentita di gestire un Teddy in pieno rivolgimento emotivo e non poteva
biasimarli dato che di solito l’altro era la quintessenza del
tipo che
reprimeva tutto con un
gran sorriso
pacifico.
Quando
si stappa è roba da maneggiare con cura.
“Ehi.”
Gli sorrise
avvicinandosi e accovacciandosi davanti a lui, preferendo avere una
visuale
completa della sua faccia piuttosto che sederglisi accanto e vederne
solo il
profilo. “Mi spieghi che è successo?
Perché sembra un gran casino…”
“Devo andare nella
Foresta.”
Fu l’unica cosa che uscì dalla bocca
dell’altro: doveva averlo ripetuto più di
un paio di volte da come lo buttò fuori impaziente.
Uhm.
“Okay.” Annuì.
“Però che i Centauri ce l’hanno ancora
su con te e che
potrebbero riempirti il culo di frecce …
Ronzini insopportabili, ma resta il fatto, non puoi rischiare. Se devi
fare
qualcosa là, posso farlo io per te.”
“No.”
Lo seccò con rabbia, prima di esitare forse vedendo la sua
espressione sorpresa. “James, non è
…” Si umettò le labbra. “Ho
scoperto delle
cose e…”
“Su quel
Mannaro?”
Il silenzio fu eloquente.
“Sono cose che
dovrei sapere?”
Gli chiese aggrottando le sopracciglia. “Non so, visto che
sono il tuo compagno
e che abbiano deciso di dirci tutto.”
L’espressione
anodina di Ted
crollò come un castello di carte; si passò una
mano sul viso e James per un
momento si sentì un discreto verme ad aver spinto proprio
sulla principale
debolezza dell’altro.
Come
sa sentirsi in colpa lui…
“Mi
dispiace.” Mormorò
infatti. “Non so … Non so cosa fare, ho scoperto
… mi sta esplodendo la testa.
Non so cosa fare.” Ripeté.
James invece lo aveva
perfettamente chiaro; Ted Lupin, l’uomo che rimaneva sempre
in sella alla
propria razionalità senza tentennare, lo stava guardando
come se avesse bisogno
di sapere cosa fare e questo lo spaventava, ma non era quello il punto.
Non
conta cosa provo io adesso.
Si sporse e lo
abbracciò,
serrando la presa finché non lo sentì ricambiare.
“Ehi, la risolveremo.” Disse
con convinzione. “Qualsiasi cosa sia. Però me la
devi dire, altrimenti non
posso sbrogliare questo casino.”
“Non
può sbrogliarlo nessuno…
Devo…”
“Ho capito.” Lo fermò passandogli una
mano dietro il collo per appoggiargli la
fronte contro la sua: era un gesto che aveva scoperto lo calmasse
molto. Notò
infatti un affacciarsi timido di azzurro sulle radici dei capelli. Era
già
qualcosa.
“Andremo nella
Foresta,
dovessi mettere le briglie a Magorian, te lo prometto.”
Disse. “Ma parlami.”
E Ted parlò.
Buttare fuori tutto quello
che
aveva scoperto fu terrificante quanto liberatorio, specialmente
perché gli
occhi scuri di James seguirono il discorso bevendosi ogni sua parola
senza
tradire neppure un momento di incertezza o confusione.
Per un folle momento,
pensò
quasi che l’altro già lo sapesse. Poi lo vide
passarsi una mano trai capelli e
crollare seduto di fronte a lui.
“Cazzo.”
Disse lentamente come
in preda ad una serie di pensieri in rapida successione.
Inspirò. “Okay, quindi
pensi che il ragazzino si stia ancora nascondendo nella Foresta
Proibita.”
Riassunse.
“Non penso, lo so.” Ribatté.
“Non può essere andato molto lontano, non conosce
il posto ed è da solo.” Cercò di avere
la meglio sul fiotto di panico e pena
che lo investì. “ … se è
ancora vivo.”
“Ha vissuto nei
boschi con suo
padre sin da bambino, no? Quindi saprà cacciare, accendere
un fuoco …
sfamarsi.” James scosse la testa e la sua convinzione fu un
balsamo dolcissimo.
Perché
diavolo non l’ho chiamato prima?
“Che sappiamo del
padre?”
“Non molto.
Moscardo l’ha
visto di sfuggita una sola volta e ha detto che…”
Forse un giorno avrebbe
smesso di fare male come una pugnalata nel costato. Forse.
“… che Lunastorta non
aveva fissa dimora. Da quando se n’era andato dal branco
viveva alla giornata,
al limitare della società magica, facendo lavoretti saltuari
e vivendo nei
boschi quando non trovava nulla.”
“La madre?”
Ted scosse la testa. “Non ne sapeva nulla, ma Flynn mi ha
detto che si
informerà. Non dovrebbe essere difficile … Quante
streghe farebbero un figlio
con un Mannaro?” Sorrise dolente. “A parte mia
madre.”
“Quindi la tizia era umana …”
Schioccò le labbra. “Il bambino?”
“Pare che sia un
mago, ma non
dà certezza che non abbia contratto la
Licantropia.” Si alzò in piedi, non
riuscendo più a restar seduto. “James, devo
andare.”
L’altro lo imitò. “E allora andiamo. Ma
non da soli.” Ad un suo accenno di
protesta lo fermò con una mano. “Più
siamo, meglio è. Non è più il momento
di
andarci piano e usare la diplomazia … non con un ragazzino a
rischio.”
“Hai ragione, ma … il branco di Magorian lo
vedrà come un’invasione. Sai quanto
sono territoriali…”
“Magorian potrà anche far storie, ma Centauri come
Fiorenzo capiranno e se non
lo faranno, problemi loro. Fammi chiamare i ragazzi.”
“James…” Si vergognava a realizzare che
l’operatività di James lo sorprendeva.
Come
se non sapessi che l’azione è il suo ambiente
naturale.
L’istinto
gli gridava di lasciare
tutto nelle mani del compagno più giovane ed era certo che
fosse piuttosto
sbagliato averne un bisogno così disperato.
Ma
non ce la faccio…
Non
aveva esagerato prima, quando aveva detto che si sentiva la testa
scoppiare: c’erano
troppe informazioni e rivelazioni troppo dure da digerire in un solo
colpo.
Doveva accantonarle, almeno per il momento.
Trovare
Ben è la priorità.
James intanto, ignaro dei
suoi
pensieri, tirò fuori lo Specchio Comunicante dalla tasca del
giubbotto. “Bobby
e Malfuretto sono addestrati anche per questo tipo di casino e non
faranno
domande.” Gli mise le mani sulle spalle, e non seppe se fu
per il sorriso calmo
o per la presa salda che sentì molta della tensione
scivolare via. “Fidati,
okay? Questa roba è il mio lavoro.”
“Mi
fido.” Si chinò per
premergli le labbra sulle sue, in un ringraziamento che
sperò fosse intuibile.
“Avrei dovuto chiamarti io, non Neville. Sono stato un
idiota.” Confessò.
James scosse la testa con
aria
rassegnata ma doveva aver captato il riconoscimento, perché
gli brillarono gli
occhi. “Certo che lo sei. Per fortuna ci sono io!”
Ted sorrise.
“È la mia fortuna
più grande.”
****
Inghilterra,
Londra
Diagon
Alley, Ora di pranzo.
La Biblioteca Magica
Centrale Bathilda
Bath era uno dei posti più polverosi che avesse mai visto
– e per anni Hogwarts era
stata la sua casa. Situata
in un vecchio palazzo vittoriano come tutti gli edifici pubblici di
Diagon
Alley, al suo interno si snodavano dedali tortuosi di scale a
chiocciola e
ballatoi con file infinite di libri e pergamene. Era la prima volta che
Michel
vi entrava dato che neppure da bambino ne aveva varcato la soglia.
La
biblioteca di famiglia ha sempre soddisfatto senza
problemi ogni mia richiesta…
Non era quello il caso
però:
volendo consultare gli arretrati del Profeta quello era
l’unico posto dove
avrebbe potuto trovarli sistematicamente catalogati per anno, mese e
giorno.
Con passo svelto superò una fila di tavolini, dove streghe e
maghi avevano il
naso seppellito tra tomi e calamai; Dursley non sarebbe sfigurato in
quella
ingobbita schiera, pensò con un sorrisetto ironico.
Ne
consegue che qui io sono
fuori luogo come un Troll
in un negozio di porcellane.
Si avvicinò al
banco accettazione
e resi, salutando la ragazza che vi lavorava che, ad onor del vero, gli
lanciò
un’occhiata poco impressionata.
“Desidera?” Chiese con voce antipatica.
Fece la sua richiesta e
quella
gli squadernò davanti un modulo pinzato su una cartellina a
molla. “Compili con
i suoi dati e specifichi che periodo di tempo le serve
consultare.” Recitò
senza alzare gli occhi dal libro che stava leggendo.
Michel obbedì, un
po’ seccato
dal totale disinteresse che stava suscitando; a ben guardare, nessuno
degli astanti
lo aveva degnato d’attenzione, neppure per
un’occhiata fugace al modo perfetto
con cui la giacca gli ricadeva sulle spalle.
Decisamente
un posto da Dursley. Mi irrita oltre
misura.
Gli toccava sopportare
però,
dato che era l’unico luogo dove avrebbe potuto scoprire
qualcosa in più su Emil
Von Houten adesso conosciuto come Milo il Magonò.
Nonna
me lo presentò come un piccolo prodigio … E la
Gazzetta ha sempre tenuto una rubrica sulla cultura di respiro
internazionale.
Un articolo, un’intervista … qualcosa.
Era un’idea forse
sciocca, ma
l’unica che gli fosse venuta che non coinvolgeva lui, il
Black Goose e una
serie di incontri spiacevoli o redivivi tentativi di rapina.
Devo
venirne a capo in qualche modo …
Così, qualora lui
e Von Houten
si fossero rivisti, non sarebbe stato in una posizione di smaccata
debolezza.
Informazione
è potere.
Passò la
cartellina alla
bibliotecaria che lesse e annuì. “Si scelga pure
una postazione. Le verrà tutto
Materializzato sul tavolo.”
Una manciata di minuti dopo il suo tavolino venne letteralmente invaso da qualcosa come una decina di
chili di carta ingiallita. Lanciò un’occhiata alla
ragazza malignamente
soddisfatta. “Buona consultazione.”
Flautò prima di abbandonarlo al suo triste
destino.
…
Bene.
Si slacciò i
bottoni della
giacca e si mise comodo; aveva l’intera pausa pranzo per
trovare ciò che
cercava.
Fu al decimo quotidiano che
riuscì finalmente a trovare qualcosa: un trafiletto di non
più di cento parole,
corredato da una foto talmente minuscola da aver bisogno di una lente
di ingrandimento;
ma non c’era dubbio, il ragazzino che suonava, vestito nel dress-code tipico dei musicisti, camicia
immacolata e gilet nero,
era lui.
La pendola sopra al banco
dell’accettazione ticchettava via la sua pausa, ma Michel non
alzò lo sguardo
neppure una volta mentre cercava, trovava e radunava altri articoli.
Alcuni
ricordava persino di averli letti, nella sua innocente cotta infantile,
e di
averli ritagliati con cura: dovevano ancora essere a casa di sua nonna.
Era
il 1782 quando
il maestro Niccolò Paganini compose col legno e con il fuoco
melodie per violino.
C’è chi dice che la magia sprigionata dalle sue
dita fisse risultato di sangue
magico. Quel che sia, trecento anni dopo, tale magia ha graziato il
giovanissimo Emil Von Houten Meinster …
[…]
Emil ha nove anni e suona abitualmente nei migliori anfiteatri delle
capitali
mittle-europee; prima di lui, grandi artisti si succedono sul palco, ma
nessuno
con il permesso dei genitori ben stretto in pugno.
«Non
so bene
cosa voglia dire essere un musicista prodigio … non me lo
sono mai chiesto. » Dichiara,
ma poi sorride come un vero monello.
«Ma
se tutti dicono che lo sono, forse sarà vero.»
[…]
Una
vita, la
sua, all’insegna del violino: a quattro anni è
stato ammesso col massimo dei
voti al conservatorio di Lubecca, sua città natale. Emil
è il più giovane
violinista nella storia delle istituzioni musicali del Ministero
tedesco, ma la
corona non sembra appesantirlo. «Dopo mangiare e dormire,
suonare è la cosa che
mi viene più naturale. »
[…]
[…]
… Questa stirpe
di maghi musicisti di “sangue blu”, famosi sia per
essersi esibiti di fronte a
Ministri, regnanti, maghi e Babbani è rappresentata al
meglio da Kuno Von
Houten, padre di Emil e suo manager. «Emil è
destinato alla grandezza, ad
essere conosciuto in entrambi i Mondi. Non è qualcosa che ti
permette di avere
una vita normale? Forse, ma
mio figlio
non aspira alla normalità. Nessun Von Houten l’ha
mai fatto. »
E
attorno a
lui, un mondo che non si stanca di ascoltarlo ammaliato.
Perché adesso Emil è
in gara anche per il Premio Vitalij Vonobirsk …
Michel ne lesse un altro
paio
prima di realizzare che erano all’incirca tutti uguali: ne
lodavano il talento
precoce, davano informazioni piuttosto vaghe sulla sua famiglia e si
lanciavano
in panegirici sulle sue capacità di esecuzione.
Il
Profeta ha sempre avuto un debole per i golden-boy.
Basti pensare ad Harry Potter…
Passò le dita
sulla carta
ruvida, sospirando: come gli aveva detto sua nonna, Emil aveva avuto
una
carriera brillante nel piccolo mondo della musica magica.
Almeno
finché non l’hanno dichiarato un
Magonò.
Gli articoli infatti non
andavano oltre il duemilaquattordici, anno in cui doveva aver compiuto
i
fatidici undici anni.
Sapeva per sentito dire
–
certe cose venivano sussurrate nei salotti, mai dette ad alta voce
– che i
Magonò di origine Purosangue venivano spesso esiliati dalle
proprie famiglie,
mandati a vivere in tenute remote di campagna ed eliminati dalla
società come
se non fossero mai esistiti.
È
ciò che gli è successo?
Quel che sapeva
dell’Emil
attuale non era molto: gli aveva detto di chiamarsi Milo – un
nome falso,
evidentemente. Gli aveva anche raccontato di vivere a Boston, e poteva
essere
una bugia come poteva esser vero.
Lo
hanno mandato a vivere in America?
Se così era,
perché adesso era
in Inghilterra e sembrava frequentare il sottobosco Magonò
di Notturn Alley?
Era confuso. Gli articoli
appena letti gli avevano confermato alcune idee che si era fatto, ma
gliene
avevano fatte venire in mente altrettante.
Non
so ancora niente di lui.
Era frustrante. Si
massaggiò
le palpebre, reclinando la schiena sulla sedia e incrociando le braccia
al
petto mentre radunava i pensieri.
Devi
farlo, non c’è scelta.
Doveva andare al Black Goose
e
cercare informazioni di prima mano.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Pomeriggio.
Neville non avrebbe mai
pensato di vedere un Lupin crollare.
Un po’ se ne
vergognava; aveva
assimilato la figura di Ted, un giovane professore brillante e un caro
amico, a
quella di Remus, figura di cui aveva cercato di seguire le orme
nell’esercizio
della sua professione. E non era giusto.
Ted non era suo padre.
Certo,
c’erano in lui lati che potevano ricordarlo a chi
l’aveva conosciuto e amato: la
gentilezza d’animo, la lealtà, la naturalezza con
cui riusciva a stabilire un
contatto con i propri allievi …
Ma c’era una forte
differenza
di fondo: Ted era capace di fidarsi degli altri.
Remus
ha sempre avuto troppi muri per farlo.
Una particolare
conversazione
che aveva avuto con Harry, dopo la guerra, era stata illuminante.
“…
Quello che ha sofferto giustifica in gran parte le
scelte che ha fatto, ma rimane il fatto. Non mi scorderò mai
come fosse pronto
a voltare le spalle a Tonks quando ha scoperto di Teddy. Nev, Remus era
un
egoista.”
“Sì, forse … Ma cosa c’entra
con la fiducia?”
“Non si fidava di sé stesso, dell’amore
che provava per Tonks e Teddy … Li ha
amati, lo credo davvero, ma non penso li abbia mai fatti veramente
entrare
nella sua vita.
Dopo mio padre, Sirius e Peter, non credo abbia lasciato più
entrare nessuno.”
E forse anche in
un’altra cosa
Ted era diverso da suo padre.
Ted
non ha bisogno che un adolescente arrabbiato gli
ricordi che deve prendersi le sue responsabilità…
Hannah gli si
avvicinò, distogliendolo
dai pensieri per porgergli una tazza di the. “Pensi che lo
troveranno?” Gli
chiese. “Quel povero bambino…”
“Penso che se c’è qualcuno che possa
riuscirci, sono questi ragazzi.” Replicò
stringendole una spalla affettuoso. “Hanno buoni
geni.”
Incredibile
a dirlo, ma anche Malfoy.
Che aveva appena squadernato
una grossa cartina geografica della zona spiegandola sul tavolino con
aria
pratica: erano arrivati da solo pochi minuti, il tempo di un saluto
veloce e si
erano subito messi al lavoro senza fare domande o chiedere spiegazioni.
Sempre
parlando di fiducia … È chiaro che ne hanno in
James.
“Okay, la zona
delle caverne è
questa.” Disse Scorpius cerchiando la suddetta con un colpo
di bacchetta.
James scosse la testa.
“È
enorme, quanto saranno? Venti ettari? Dobbiamo restringere il campo. Le
caverne
erano vicine al vecchio letto di un fiume…”
“Qui
allora.” Indicò Robert
Jordan pronto. “Se vedete la conformazione
morfologica…”
“Eh?”
“Potty, la traccia del
letto del
fiume.”
“Ah!”
Ted aveva le braccia
conserte
e contemplava la cartina come se potesse parlargli ma fosse troppo
maleducata
per farlo. “C’era una macchia di querce
secolari.” Mormorò. “Gli siamo passati
affianco.”
“Okay,
grande.” Bobby tracciò
un altro paio di righe colorate con la bacchetta ed isolò
un’area. “Allora
possiamo restringere ancora …” Fece un rapido
calcolo. “Sì, direi che ci
rimangono circa tre ettari da controllare.”
James tentò di dire qualcosa ma si morse la lingua non
appena intercettò lo
sguardo del compagno. “Dai, è una
passeggiata!” Scrollò le spalle riuscendo persino
a suonare credibile. “Potremmo tutti tornare a casa per cena.
E poi mi ricordo
com’erano fatte quelle grotte, quindi, come ho detto, una
passeggiata.”
Era incredibile,
stimò Neville
con affetto. Da quando si era Materializzato non aveva lasciato un
momento il
fianco di Ted, e qualsiasi cosa gli avesse detto quando erano rimasti
soli era
stata risolutoria, perché dopo l’altro era
sembrato di nuovo pronto a
ragionare.
Se all’inizio
della relazione
trai due aveva avuto dubbi su come si sarebbe potuta sviluppare a causa
del
divario di età e soprattutto di maturità, ora
capiva quanto quella
preoccupazione fosse stata sterile.
Jamie
è maturato tanto in questi cinque anni. Sarà
anche quello che ha passato con i suoi fratelli, ma credo
l’abbia fatto anche
per e con Ted.
“Bene.”
Esclamò l’ex-grifondoro
battendo le mani. “Che stiamo aspettando?”
“E i Centauri? Non per fare le pulci all’Ippogrifo,
ma stiamo parlando di
creature armate, veloci e un tantino territoriali.” Si
inserì la giovane
asiatica presentatasi come funzionario dell’Ufficio Mannari:
a parte
quell’intervento, comunque sensato, c’era da
lodarla per non aver mai cercato
di far valere la sua carica o la propria opinione. A quanto sembrava,
era
rimasta molto impressionata dalla reazione di Ted.
Lo
siamo stati tutti … È un tipo così
tranquillo.
Vederlo perdere la calma è stato impressionante.
“Per questo motivo
li
aggireremo.” Gli rispose Bobby con la prontezza con cui si
era sempre distinto
anche da studente. “Potrebbero esserci sentinelle di
pattuglia, ma abbiamo in
tasca un paio di incantesimi di Disillusione che ovvieranno al
problema.”
“Siamo Auror!” Esclamò Malfoy strizzando
l’occhio a beneficio di tutti. “Siamo
gente in gamba.”
I preparativi furono fatti
velocemente; i tre giovani agenti erano praticamente pronti
all’azione e sia
lui che Ted sapevano come muoversi in un bosco.
Viviamo
a due passi, non c’è neanche bisogno di
cambiarsi le scarpe.
Salutò Hannah
rassicurandola
circa il successo della loro spedizione – l’istinto
materno della sua dolce
metà aveva già preso a cuore l’intera
faccenda – e si avviò verso la porta,
seguendo la scia energica di Malfoy e di Jordan. Passò
così di fianco ai due
padroni di casa.
“Lo
troveremo.” Sentì dire al
più giovane. “Ma promettimi che mi lascerai
gestire la cosa.” Al silenzio che
ne conseguì, aggiunse. “Ti fidi, no?”
“Certo che mi fido di te!” Fu la replica immediata.
“È solo …”
“Solo cosa? Parla o ti prendo a calci.”
Dall’espressione che fece l’altro non
doveva essere una promessa a vuoto, e Neville, dovette mascherare una
risata
con un colpo di tosse. Decise che era il momento di lasciarli soli.
Se
la caveranno. Sono insieme.
“…
È solo che non voglio che
vi succeda qualcosa.”
James roteò gli occhi al cielo. A volte era dura essere il
più maturo della
coppia.
Oh,
Teddy, come fai ad esserlo quasi sempre? È palloso
da morire.
Gli prese il viso tra le
mani
e lo portò alla sua altezza. Pochi centimetri più
in basso, solo pochissimi centimetri,
rammentò a sé
stesso.
“Piantala.”
Scandì con decisione. “Cinque anni fa sei stato
disposto
a rischiare le penne per quegli idioti dei miei fratellini …
Adesso lascia che ricambi
il favore, okay?”
Teddy gli
restituì un sorriso
spoglio della patina da bravo ragazzo saldo che approntava per
rassicurare il
mondo di non aver bisogno d’aiuto. Lo faceva sembrare un
bambino, e gli faceva
venir voglia di prendere a pugni chiunque avesse osato tentare di
cancellarglielo.
“ Andiamo a
conoscere tuo
nipote, Teddy.”
****
Londra,
Nocturn Alley.
Pomeriggio.
Milo sapeva di aver fatto
una
stronzata quando aveva preso a calci due Magonò per salvare
il maghetto stronzo,
ma lo realizzò a pieno solo quel pomeriggio, quando al posto
dell’entrata del
Black Goose vide pararglisi di fronte un muro compatto di muscoli e
tatuaggi.
L’hanno
saputo.
“Posso
passare?” Chiese con
tutta la cortesia di cui disponeva, glissando sul fatto lo stesse
chiedendo ad
un energumeno che aveva nocche della grandezza di Boccino.
“Non sei il
benvenuto,
tedesco.” Grugnì quello in un accento
così pastoso che non fu del tutto certo
che non gli avesse invece detto invece tutto il contrario.
“Devo parlare con
Figgins.”
Non si fece spaventare: l’atteggiamento in quel genere di
ambiente era tutto.
Ampliò il sorriso. “Andiamo, posso sapere qual
è il problema? Siamo tutti amici
qui…”
“Non credo proprio.” Ringhiò
l’orango. “Quello che hai mandato al San Mungo due
sere fa era mio fratello.”
Oh, ops.
Principino,
anche tu … tempismo perfetto nel fare
richieste. Sul serio.
Ti
odio.
Allargò le
braccia, e non
reagì quando gli strapparono di mano la custodia del violino.
Non
avrei dovuto portarmelo dietro … ma mi servivano
delle corde nuove!
“Cos’hai
in mano?”
“Non un fucile a
canne mozze.”
Spiegò quando l’aprirono con tozze mani sudice.
“È solo il mio violino, sono un
musicista.”
Il primate fece un sorriso
storto. “Questo lo teniamo noi. Magari per
risarcimento.”
Fottiti, sei morto.
Piuttosto che lasciare il
suo
primo e unico amore a quei bruti si sarebbe fatto tagliare un piede.
Doveva
però giocare d’astuzia. “Tuo fratello
rischiava di farsi vent’anni di prigione
per aver preso a calci il culo di un Sanguepurissimo…”
Inarcò le sopracciglia quando vide l’altro
aggrottarle perplesso. “Non te l’ha
detto? Volevano ripulire un damerino che discende in linea dalla regina
di
Saba.” Inventò un po’ a caso.
Ma
neanche tanto. Quel tipo ha la stessa puzza sotto il
naso.
“Fallo passare,
Shad.” Disse
una voce dall’interno del locale, sufficientemente forte e
d’impatto da far
ripiegare il muro umano come se fosse stato Mosè col Mar
Rosso.
Figgins.
Milo
entrò senza troppe cerimonie: se
a quel punto avesse fatto marcia indietro avrebbe sul serio rischiato
una lama
nel costato. O di non rivedere il suo violino.
Più
o meno la stessa cosa.
“Mister!”
Annunciò Figgins dal bancone, agitando una pinta a
mo’ di
saluto. Milo tentò di nascondere il fremito
d’orrore alla versione anglofona –
e sbagliata – del suo cognome. “Come andiamo,
biondo?”
“Bene.”
Scrollò le spalle
avvicinandosi. “Passavo da queste parti … ho
pensato di fare un saluto.”
L’altro gli rivolse un sorriso che lo fece sembrare simile ad
uno squalo: se lo
immaginava, quel rosso, ad addentare la gamba di qualcuno e
staccargliela di
netto. “E vedere di far incazzare il povero Shad? Non
l’ha proprio digerito
quel tuo numero alla bottega di Swill … Prendere le difese
di un Nato Babbano…”
Schioccò la lingua con riprovazione.
“C’è da chiedersi dove tu tenga il
cuore.”
Fece un cenno alla barista che gli mise davanti una pinta cremosa e
scura.
“Bevi, Mister … e poi rispondi.”
Soggiunse con il tono tranquillo di chi ti
teneva per le palle senza sforzo.
Diede un’occhiata
ai tizi di
prima, che ovviamente l’avevano seguito dentro. Shad aveva
tutta l’aria di
aspettare solo l’imbeccata del proprio capo per venire a
fargli le feste.
Sorseggiò quindi
obbediente. “Ho
il cuore dove deve stare. Qui.” Si indicò il petto
e fu sollevato di vedere
l’altro sogghignare divertito. “Ma ho anche un
cervello. I tuoi ragazzi hanno
aggredito un rampollo Purosangue, non un Nato Babbano. Gli ho fatto un
favore.”
L’informazione
venne
registrata dalla sorpresa che vide negli occhi dell’altro.
“Hai uno strano modo
di far favori, tedesco…” Osservò
pacato.
“E tu hai uno strano modo di insegnare ai tuoi a distinguere
i polli dalle
trappole. Ma ehi, non giudico.” Replicò senza
scomporsi, pregando di non aver
passato il segno.
Per tutta risposta il
capoccia
scoppiò a ridere, esattamente come al loro primo incontro:
pareva trovare la
sua mancanza di peli sulla lingua esilarante.
“Mi piaci Mister,
dico sul
serio.” Proferì infatti. “Se solo avessi
sotto di me cervelli come il tuo non
dovrei preoccuparmi di far da balia a idioti come Shad.” Gli
strizzò l’occhio.
“Grazie.” Ricambiò il sorriso. Vide poi
con la coda dell’occhio l’orango alzarsi
con il suo violino tra le mani. Quando, ad un cenno del proprio capo,
glielo
restituì, Milo tentò disperatamente di combattere
il desiderio di serrarselo al
petto e cullarlo.
Lo
so, tesoro, è stato orribile, ma ora papà
è qui.
“Sei un
musicista… Violino?” Chiese
Figgins con tono interessato che glielo rese immediatamente meno
temibile:
nessuno poteva esser veramente un pezzo di merda se amava la musica.
Beh,
tranne mio padre. Ma le eccezioni esistono sempre.
“Violino.”
Confermò. “Ti piace
la musica?”
Questo roteò gli
occhi al
cielo, scuotendo la testa come se avesse appena detto una
bestialità. “Non si
fanno domande del genere ad un figlio d’Albione, biondo. A
noi la musica scorre
nel sangue!”
Non era ancora il momento di
parlare di Johannes, lo capì da come l’atmosfera
era ancora tesa: doveva
lasciare che si rilassasse, e le chiacchiere dell’altro
Magonò sembravano
suggerirglielo implicitamente.
“Suonaci
qualcosa!” Soggiunse
infatti. “Una buona canzone e una pinta di birra perdonano
quasi tutto.”
Michel inspirò
per forse la
ventesima volta, notando con immutato disgusto un nuovo particolare del
sudicio
pub di cui avrebbe dovuto varcare la soglia.
Da
quant’è che non lavano le vetrate?
Sicuramente da qualche
decennio a giudicare dalla patina scura causata dalla pioggia fuori e
dal fumo.
Dall’odore che ne veniva fuori pareva avessero anche problemi
con il tiraggio
del camino.
Fantastico.
Dovrò bruciare i vestiti, dopo.
Era ormai in palese e
plateale
ritardo al lavoro e quindi poteva accendersi l’ennesima
sigaretta senza sentire
l’ansia di avere i minuti contati.
Piantala
di fare l’idiota. Vattene, che sei venuto a
fare?
Non era neppure certo che vi
avrebbe trovato Von Houten. Non era certo di niente,
ma stare lì non avrebbe risolto nulla.
Al
diavolo …
Si mosse, perché
davvero,
quella faccenda stava diventando ridicola e doveva metterci una pietra
sopra
una volta per tutte, quando sentì una mano posarglisi sulla
spalla.
Mi
hanno scoperto a spiarli!
Si sentì un
autentico idiota
quando vide gli occhi bicolori di Nott guardarlo con aria divertita.
“Qualcuno qui ha i
nervi a
fior di pelle!” Esordì con l’aria di chi
stava trattenendosi dallo scivolare in
prese in giro ben peggiori. “Beccato.”
Sillabò con gli occhi che gli ridevano.
“Va’ al diavolo!” Sbottò
inelegante, dato che per l’improvvisata si era anche
bruciato con la sigaretta. Tentò di riprendersi.
“Apparire alle spalle della
gente solitamente rende
nervosi.”
Soggiunse con tono più calmo.
Loki non parve
particolarmente
impressionato dal suo ritrovato controllo. “Ero qui da almeno
due minuti, ma
eri così preso dai tuoi pensieri che mi sembrava brutto
interromperli …”
Scrollò le spalle. “Però visto che
sarei altrove richiesto…”
“Appunto.” Lo interruppe “Si
può sapere cosa ci fai qui?”
Loki si posò una
mano sul
cuore con aria drammatica. “Pensavo fosse ovvio!”
Vedendo che non recepiva,
scosse la testa dolente. “Vegliare su di te come il perfetto
amico che sono,
no?”
“Sei una comare e
sei qui solo
per divertirti alle mie spalle.”
“Anche.”
Convenne. “Ma pensi
sul serio di riuscire ad entrare lì dentro come se fossi in
un ufficio del
Ministero?” Occhieggiò il suo completo in tre
pezzi e la catena d’orologio che
spuntava dal panciotto e scosse di nuovo la testa come se avesse a che
fare con
un bambino tardo. “Mike, sei un ragazzo sveglio …
Per ogni porta ci vuole una
chiave.”
“E tu saresti il mio lasciapassare?”
Loki non rispose subito,
approntando uno dei suoi sorrisi da sfinge. “Giusto
perché tu abbia un quadro
della situazione … Il posto è di
proprietà di Danny Figgins. È l’ultimo
erede
di una dinastia di Maghinò da qualcosa come sette
generazioni … Ma non è perché
è un figlio d’arte che controlla Notturn Alley
come se fosse il suo parcogiochi
…” Sospirò. “È un
tipo pericoloso, persone che non gli sono andate a genio sono
finite nel Tamigi … e dubito che abbiano ritrovato i
corpi.”
“E perché una persona del genere non è
ad Azkaban?”
“Ad uno come
quello non serve
una bacchetta per evitare il Wizengamot.” Sospirò.
“Mio buon Mike, credimi se
ti dico che dietro quelle decrepite porte c’è un
mondo di cui non sai niente.
Non puoi entrarci e basta.”
Si morse le labbra:
l’amico
aveva ragione, si stava comportando in modo avventato.
Che
diavolo mi prende? Tutto per un ragazzo…
Forse
Al ha ragione, dovrei prendermi una vacanza.
Decise di tentare di
mantenere
almeno una facciata di credibilità. “Cosa mi
consigli di fare allora?”
Loki, per una volta,
sembrò
piuttosto serio. “Se vuoi avere informazioni su quel tuo
Magonò, lascia che sia
io a parlare. Ho fatto affari con Figgins e siamo più
o meno in buoni termini. Mi rispetta per quanto uno come lui
può rispettare un mago.” Si strinse nelle spalle.
“Ma se vuoi far da solo…”
“No.”
Sapeva quando fare un
passo indietro ed era quello il caso: Nott conosceva quel mondo come
mai lui
avrebbe fatto e rifiutare il suo aiuto per orgoglio sarebbe stato
stupido. “Va
bene. Proviamo a modo tuo.”
****
Scozia,
Foresta Proibita.
Pomeriggio.
La foresta poteva anche
essere
luminosa.
James se ne rese conto
quando
dovette schermarsi gli occhi con una mano per l’ennesima volta,
dato che le fronde
mosse dal vento lasciavano filtrare lame di luce dall’alto,
abbacinandoli.
“Almeno non
piove.” Commentò
Scorpius. “Ma in questo posto non c’è
segnale manco a morire, né per il
cellulare…”
“Ovvio, eh.” Gli fece notare Bobby.
“Siamo in mezzo al nulla tecnologico.”
“ … né lo Specchio
Comunicante.” Concluse. Alle loro espressioni sgomente si
strinse nelle spalle. “Siamo anche
nel bel mezzo del nulla magico. Credo che siamo i primi maghi a metter
piede in
questa parte del bosco da … uh, secoli?”
James non rispose, guardando
il profilo del viso di Ted che camminava accanto a lui: era silenzioso
come una
tomba e con un’espressione così determinata che
probabilmente se gli si fosse
parato davanti un Centauro se lo sarebbe mangiato vivo e ne avrebbe
sputato le
ossa.
Non che non potesse capirlo:
l’istinto naturale di protezione che si poteva avere verso un
bambino si era adesso
mischiato a quello del sangue.
Perché
Ben è suo nipote. Per
le mutande di Merlino … è suo nipote davvero.
Teddy aveva cercato, sin
dall’infanzia e neppure troppo segretamente, una propria
famiglia. Nessuno gli
toglieva dalla testa – per quanto fosse un pensiero un
po’ meschino – che
l’interesse tenace che aveva sviluppato per Victoire fosse
stato dovuto al
fatto che sua cugina avrebbe potuto dargli dei figli.
Cosa
che tu non potrai mai fare, manco volendo. E non
vuoi. Urgh.
C’era
però una parte di sé,
microscopica ma presente, che gli ricordava quando quello fosse comunque un difetto.
Perché
sei sexy e tutto quanto, ma non potrai mai
dargli quella roba che desidera da quando ha capito che non era la
norma non
avere mamma e papà.
Grande.
Momento depressione.
Inspirò, e
sforzò una smorfia
amichevole quando Scorpius gli allungò una pacca sulla
spalla.
“Come
stai?” Gli chiese stupendolo.
“Bene. Non sono io
l’ospite
d’onore oggi.”
“Lo so.” Si strinse nelle spalle. “Ma
Potty, sei quello che viene subito dopo.”
Eh?
Non ebbe il tempo di pensare alla frase dell’altro
che notò come il terreno
stesse cominciando a diventare familiare: ricordava infatti una serie
di radici
dalla forma strana, come un paio di massi che formavano una sorta di
cavità
naturale nella roccia.
Ted gli si
affiancò,
guardandosi attorno e annuendo. “Sì, è
qui.” Parve leggergli nel pensiero.
La giovane funzionaria del Ministero, che era rimasta in fondo con
Neville, li
raggiunse allargò le narici come se annusasse un odore
sgradevole. “Si sente
ancora odore di Centauri…”
“Odore?”
Le sopracciglia di
Bobby rischiavano di sparire tra l’attaccatura dei capelli.
“Stai … annusando?”
“Problemi,
dolcezza?”
“No,
no!”
Ted di nuovo non replicò, ma le labbra strette in una
fessura parlavano per lui
e James realizzò che non sarebbe riuscito a ricucire i
rapporti con il branco di
Magorian, Fiorenzo compreso, non in tempi brevi almeno.
Hanno
ucciso il suo fratellastro …
Non se la sentiva
però di
condannare completamente le azioni dei Centauri: al posto loro di
frecce ne
avrebbe scoccate due, per esser sicuro di aver messo a terra il tipo.
Fratello
o meno, voleva farlo fuori.
L’equazione dal
punto di vista
del compagno non doveva essere così semplice.
Che
poi…
Remus aveva avuto un figlio da una donna del branco di
Greyback: questo bastava ed avanzava per far casino nella sua testa. Non riusciva ad immaginarsi
in che stato fosse quella dell’altro.
Non era però il
momento per
far domande o vagliare ipotesi.
È
il momento di agire, cazzo.
“Andiamo.”
Disse facendo cenno
a Scorpius e Bobby. “Ci dividiamo. Adesso che
c’è luce dovrebbe essere più
semplice muoversi.” Si voltò verso Neville e la
ragazza. “Io, Teddy e
Malfuretto prenderemo la sponda destra del greto, voi con Bobby la
sinistra.
Per iniziare cerchiamo nelle vicinanze … poi espanderemo il
raggio di ricerca.”
Neville approvò
con un cenno
della testa. “Nel caso uno di noi veda una sentinella
Centauro lanci tre
scintille rosse dalla bacchetta. Dobbiamo evitare lo scontro diretto ad
ogni
costo.” Ed era maledettamente serio. A James dispiacque dato
che era ovvio che
la situazione tesa con il branco lo amareggiasse: lui e Fiorenzo erano
colleghi
e amici e non doveva essere semplice bilanciare quello con
l’affetto che provava
per Ted.
A
volte si devono fare scelte … e qualunque prendi, fa
schifo comunque.
Che
cazzo di situazione.
Era suo dovere, quindi,
tirarne fuori il meglio possibile.
****
Londra,
Notturn Alley.
The Black Goose.
Suonare il tema di Smooth Criminal – successo
Babbano
passato alla storia – e arrangiarlo per un gruppo di ceffi
pieni di birra gli
era costato una grossa prova di coraggio, ma a quanto sembrava la sua
temerarietà era stata ripagata da una selva di grugniti e
battiti di mani
allegri.
Beh,
almeno un po’ di orecchio musicale lo hanno.
“Complimenti,
Mister.” Esordì
Figgins con un sorrisetto molto più umano e meno disposto a
far seguire un
balenare di lama. “Ci sai fare con quel violino!”
“Uno dei pochi pregi che ho, oltre ad un bel
visino.” Rispose a tono,
strizzando l’occhio ad un paio di tipiche ragazze da bar,
visto che questo imponeva
la recita. Fece scorrere le dita sulle corde dello strumento.
“Ma sono aperto
anche a qualcosa di più tradizionale, se volete.”
“Suona Dacw 'Nghariad!”
Esclamò il tipo di nome Shad, eccitato come un
bambino. Se si evitava di guardare la dimensione dei suoi pugni faceva
quasi
tenerezza. “È la mia preferita!”
“Non dar retta
allo scozzese,
suona Greensleves!”
Tuonò un altro
seguito da un coro di assensi.
“Vincono gli
inglesi.”
Constatò placido Figgins dando una pacca al grosso Shad che
esibì uno
stupefacente broncio da bambino di cinque anni.
Milo chiese quindi che gli
accennassero il motivetto e quando l’ebbe ascoltato un paio
di volte, in più
gradi di stonature, si fece un’idea generale e le dita
presero a suonare la melodia.
Certe
canzonette mi hanno permesso di riempirmi la
pancia per anni…
Non
è la prima volta che mi salvano anche il sedere.
Preso a godersi le
espressioni
mesmerizzate del suo pubblico – ah,
la
musica - si
accorse troppo tardi che
due uomini erano entrati nel locale e si erano diretti verso il
bancone. Fu
quando identificò uno dei due che per poco non
sbagliò nota.
Il
maghetto stronzo?!
Lineamenti esotici
intrappolati nel rigore britannico di un completo tagliato su misura:
era
Michel, non c’era dubbio.
Che
cazzo ci fa qui?
Era in compagnia di un
belloccio alla sono-stravagante-quanto-irresistibile,
dai lunghi capelli ricci e l’aria compiaciuta di un gatto che
si era mangiato
la cena de padrone e nessuno dei due aveva l’aria di esser
lì per bersi una
birra. Maghetto Stronzo poi lo notò, e
dall’occhiata che gli lanciò sembrava
quasi che fosse lui il motivo della sua comparsata.
Eh,
no. Non osare avvicinarti!
Se Figgins o Shad avessero
fatto
due più due le cose avrebbero potuto farsi imbarazzanti.
Molto.
Per fortuna, occhiata o
meno, l’altro
decise di rimanere alle costole del suo accompagnatore mentre questi
ordinava
da bere con la disinvoltura del cliente abituale.
“Ehi Figg, vecchio
mio!” Si
rivolse infatti al capoccia con familiarità.
“Nott.”
Lo salutò il rosso
stringendogli la mano. “Un po’ che non ti si vede
in giro … Ho sentito dire che
eri in Spagna.”
“Che devo dirti, volevo sapere se le scogliere di Dover erano
ancora bianche¹…”
Figgins lo fissò
perplesso. “E
di che cavolo di colore dovrebbero essere, scusa?”
È
una poesia.
La sua condizione diventava pesante sopratutto quando notava
la mancanza di
conversatori stimolanti. Nessuna battuta da taverna, per quanto arguta,
avrebbe
mai potuto rivaleggiare una poesia citata nel giusto contesto.
Il ragazzo di nome Nott non
parve irritato quanto lui dalla mancanza di ricettività del
suo interlocutore,
perché scrollò le spalle. “Giusta
osservazione.” Fece una pausa e non fu una
sua impressione, lo sguardo scivolò con malizia da lui
all’amico.
Che
cavolo…
“Mio buon rosso,
son qui per
l’eccellente birra che spillate ma anche per proporti un
affare che, sono
certo, non potrai rifiutare.”
Ma questo tizio parla solo per citazioni?
Che fosse così o
meno, sparì
nel retrobottega portandosi via metà della banda di Figgins.
Milo si trovò
così a pochi
passi in linea d’aria dal tipo che gli aveva quasi inimicato
la sua stessa
gente.
E
dannazione, è sexy come l’inferno.
La soluzione migliore era
fingere che non ci fosse; si diresse quindi verso il tavolo doveva
aveva posato
quello che rimaneva della sua pinta, ma fu fermato senza troppe
cerimonie; non
doveva essere abituato ad essere ignorato.
“Suoni il
violino.” Iniziò con
il tono di una constatazione.
Si strinse nelle spalle.
“No,
gli faccio prendere aria.”
Il mago serrò le
labbra, ma
non colse la provocazione. “Da quanto lo suoni?”
Ma
che domanda è?
La sua sorpresa dovette
essere
evidente, perché Michel – già, era
quello il suo nome – incrociò le braccia al
petto con imbarazzo. Il che lo rendeva molto meno mago e molto
più umano.
Sì,
ma rimane Maghetto Stronzo. Ricordatelo.
“Hai intenzione di
rispondere?” Lo incalzò con tono antipatico. Ma
era nervoso.
Evvabbeh.
“Da quando so
tenermi in piedi.”
Rispose togliendo con un gesto leggero un batuffolo di polvere che si
era
depositato sulla ghiera. “Perché?”
“Perché
mi ricordo di te,
Emil.”
Se gli avesse tirato un pugno in faccia sarebbe stato meno sorpreso. E
avrebbe
sentito anche meno dolore. I tempi di reazione però erano
gli stessi perché fu
certo di essere rimasto a bocca aperta come un cretino per almeno una
manciata
di secondi.
Riprenditi,
testa di cazzo.
Il panico lo rimise in
carreggiata. “Cavolo, va bene che abbiamo scopato solo una
volta… ma
addirittura sbagliarmi il nome…”
“Emil Von Houten
Meinster.” Ripeté
come se non l’avesse sentito. “Eri il piccolo
prodigio musicale del Ministero
tedesco, ed io ho avuto il privilegio di ascoltarti in Francia, anni
fa.”
Milo vuotò quello che rimaneva della sua pinta: aveva un
sapore schifoso.
E
non perché è diventata tiepida. Era
già piscio.
“Mi sa che mi hai
confuso con
qualcun altro. Sai quanti tedeschi studiano il violino?” Fece
una smorfia. “È
praticamente lo strumento nazionale … Ed io non sono mai
stato un prodigio.
Certo, a meno che suonare canzonette sconce per gente ubriaca non sia
da
considerarsi prodigioso, nel qual caso sono un re.”
“Non prendermi in giro.” Gli rivolse un sorrisetto
saputo. “Hai troppo
controllo sul tuo strumento per essere un suonatore da bettola. Oltre
al fatto
… ” Indicò il violino. “
… che ciò che suoni vale da solo la
proprietà di
questo posto.”
E
dovevi vedere su cosa potevo mettere le dita prima.
Chi
l’avrebbe mai detto comunque … Chiappe
d’oro ne
capisce di musica.
Non che avesse importanza.
Deve
comunque farsi i cazzi suoi.
Fece un fischio per attirare
l’attenzione degli altri avventori. “Signori e
gentili damigelle … Avete
sentito. Il Signor mago gradisce la mia musica! Ne facciamo
altra?” Ricevuti i
doverosi e sguaiati plausi, si rivolse poi all’altro,
scimmiottando un tono
lamentoso. “Se il signor mago vuole sentire qualcosa, il
povero suonatore sarà
felice di accontentarlo.”
Intonò quindi un
motivetto
tzigano allegro quanto fastidioso, con rabbia e senza precisione,
perché no,
non era un maledetto genio, il passato era
passato e nessun figlio di puttana aveva il diritto di scavare nel suo.
A posteriori si chiese
sempre
cosa gli fece cambiare idea: forse fu l’espressione di
delusione sul viso del
mago che diede un potente calcio al suo orgoglio o forse furono gli
incitamenti
che sentì per una canzone che non valeva uno zellino e che detestava suonare …
Fatto sta che
stoppò il maldestro
motivetto da festa di campagna e attaccò Paganini.
Di colpo gli parve quasi di
sentire le corde del suo violino ringraziare mentre sentiva il corpo
più
leggero e le dita più spedite. Le variazioni, le armoniche,
la diteggiatura
funambolica …
È
questa la mia musica. È questa.
Quando concluse si rese
conto
che l’intero locale era piombato nel silenzio e che Michel
era rimasto di
stucco.
Sì,
la voce di un violino fa quest’effetto. Specie se
suonato come se dovesse costarmi la vita.
Ops.
Scrollò le
spalle. “L’ho
capito dalla faccia … sei un tipo da classica,
vero?” Chiese più che altro per
salvare la faccia.
…
Ne valeva la pena?
Forse. O forse no. Ad ogni
buon conto il suo orgoglio di artista era stato salvaguardato e a
questo doveva
plaudire.
Il mago non gli rispose, ma
sorrise e per la prima volta da che lo conosceva sembrò
sincero. “Lo sapevo.” Mormorò.
“Sei tu.”
Non poteva più negare, non di fronte all’evidenza.
“Sì, wow,
fantastico, mi hai scoperto. Notizia dell’ultima ora
… a
nessuno frega un cazzo.” Ripose il violino e chiuse la
custodia con uno scatto
secco. “Aver scoperto che fine ho fatto non è una
notizia da prima pagina.
Forse un trafiletto nella pagina di cultura del vostro Profeta, se ti
va bene …
Non sono stato certo un Harry Potter.”
“Non sono un giornalista, sono…” Si
umettò le labbra e per Faust, se erano
piene, morbide e del tutto peccaminose. Ricordava bene quanto
erano state a sud del suo personale equatore.
Ehi, no, a cuccia laggiù!
C’era qualcosa di
karmico
nell’aver voglia di sbatterlo sul primo tavolo disponibile
quando non era il
momento né il luogo adatto.
Almeno,
a differenza di quanto è successo la sera della
festa di quel tizio, lui non s’è accorto di
tenermi per le palle.
Dall’espressione
cauta e
sincera che aveva dipinta in volto dubitava lo stesse ripagando con la
stessa
moneta. Pareva piuttosto concentrato sulla scoperta appena fatta.
“Immagino non ti
ricordi di
avermi conosciuto …”
“No,
dovrei?” Si rendeva conto
di comportarsi da perfetto stronzo con un ragazzo che, almeno fino a
quel
momento, era stato gentile.
Ma
ehi, chi semina vento…
L’inglese lo
guardò storto ma
mantenne, glielo doveva riconoscere, una certa cortesia. “Non
capisco perché tu
debba essere così sgradevole.”
Perché
prima che scoprissi che ero il Meraviglioso Emil
tu lo sei stato con me, anche quando ti ho salvato le chiappe
rischiando di
esser etichettato come un traditore.
Per
esempio.
“Perché
sì.”
Richiamò l’attenzione del barista scuotendo la
pinta vuota.
Aveva bisogno di un altro buon litro se voleva continuare quella
conversazione.
“E comunque, neanche tu sei stato uno zuccherino con il
sottoscritto.” Si
stampò in faccia un’espressione di puro panico.
“Oh mia Morgana, ho toccato
uno sporco Magonò con il mio
pisello!”
“Mi dispiace.” Si stava davvero
scusando
con lui? Ne fu stupito perché stavolta il tono della frase
era intriso di
autentico dispiacere. “Mi sono comportato
…” Esitò e dovette ingoiare un
discreto quantitativo di orgoglio maghesco dall’espressione
che fece. “… in
maniera riprovevole. Come mi sembra di averti già detto, non
reagisco bene
quando vengo preso di sorpresa.”
“Immagino che esserti scopato un Magonò sia stato
sorprendente, sì.”
“Potresti
smetterla?” Ribatté
con rabbia. Non si poteva dire che non avesse un bel caratterino:
l’educazione da
damerino doveva di solito tenerlo a bada, ma premendo i tasti giusti
non c’era
strumento che non cantasse con le sue reali tonalità.
“No.”
Emise un verso spazientito. “Vorrei solo avere la
possibilità…”
Era stufo. Era stata una giornata stancante e a casa – sempre
che una stanza
ammuffita si potesse considerare tale – lo aspettava un altro
mago pieno di
paturnie e problemi. Non aveva quindi voglia di immergersi in una parte
della
sua vita che aveva seppellito a fondo per la sua stessa
sanità mentale. Neppure
per il ragazzo stupendo che aveva di fronte.
“Di fare cosa?” Scosse la testa.
“Se ti eri preso una cotta per me, come un
altro milione di maghetti felici di avermi tra le loro fila, ti devo
deludere …
Quella persona non esiste. Tanto piacere, sono Milo, un
Magonò.” Gli tese la
mano quasi sbattendogliela addosso e Merlino, se avrebbe voluto
picchiarlo. Che
diritto aveva di venire lì e parlare del suo passato?
Il mago lo guardò
confuso,
quasi non si fosse aspettato quella reazione: pareva esserci rimasto
male.
Ma
cosa sperava?
Il momento patetico fu per
fortuna interrotto da Figgins che rientrò con un gran
vociare, chiedendo che la
sua sete venisse spenta con una parola in slang che non capì
ma che significava
probabilmente birra.
Questo parve riscuotere
l’altro,
che distolse lo sguardo dandosela a gambe senza un’altra
parola.
Ah,
ho vinto!
Era frustrante non sentirsi
un
vincente.
Quando se ne fu andato
assieme
al tipo ricciuto, quest’ultimo gli si affiancò,
passandogli un braccio sulle
spalle. “Beh, cos’è quel muso
lungo?” Chiese. “Un maghetto t’ha fatto
la bua?”
Storse il suo miglior
sorriso
storto. “Non direi. Ho la pelle più dura di
così.”
Ciao,
sono Milo, un Magonò.
****
Scozia,
Foresta Proibita.
Ted non riusciva a dar retta
alle persone attorno a sé; sapeva che doveva ascoltare James
e i suggerimenti
accorti di Neville, che in quei boschi aveva camminato e imparato ben
prima di
lui. In coscienza, si rendeva conto che il suo modo di reagire non era
funzionale a ciò che stava per fare.
Non riusciva a importargli.
La ricerca di Ben era
l’unica
cosa che lo teneva lontano dalle rivelazioni che erano conseguite alla
conversazione con Moscardo. E funzionava, quindi non gli interessava
esser
razionale in materia.
James accanto a lui
balzò su
uno sperone di roccia, indicando una fenditura dove una persona sarebbe
potuta
passare agilmente. “Non è una delle entrate che
abbiamo controllato?”
“Sì.”
Convenne mentre Scorpius
sbuffava e li raggiungeva pulendosi le mani sporche per
l’arrampicata.
“Ci
dividiamo?” Propose questo
guardandosi attorno. “Perché di posti in cui
nascondersi ne ho visti parecchi
salendo.” Si grattò la nuca. “E non
è che rischiamo molto, a star da soli,
credo … Si tratta di un bambino, no?”
“Potrebbe essere un Mannaro.” Gli fece notare,
perché al di là dei suoi
personali sentimenti in materia rimaneva pur sempre suo compito
avvertirli del
pericolo. “Anche se non è Plenilunio, il suo morso
avrebbe comunque degli
effetti.”
“Sì, ma non mi farebbe trasformare,
vero?” Si informò con aria inquieta e Ted
ricordò di colpo come
Lucius Malfoy
fosse morto.
Ucciso
da Greyback. Un Greyback trasformato.
La presenza di Scorpius era
di
colpo molto meno scontata e per questo cercò di sorridergli:
una prova simile
di lealtà poteva e doveva accantonare
i suoi problemi. “Hai presente Bill, il padre di
Louis?” Ad un cenno di assenso
continuò. “Fu morso da Greyback quando era ancora
in forma umana, e non si è
Trasformato. Il morso porta ad una forma completa di Licantropia solo
durante
la luna piena…”
“In compenso ti viene una gran voglia di carne al
sangue!” Gli strizzò l’occhio
James, dandogli una pacca sulla spalla. “Non dirmi che te la
fai sotto,
Malfuretto.”
“Molto, ma fingerò di non voler strillare come una
ragazzina.” Replicò l’altro
tentando un tono scherzoso. Gli riuscì piuttosto bene.
“Comunque, è un bambino.
Dobbiamo trovarlo.” Concluse con tono definitivo.
“Grazie
Scorpius.” Lo disse
perché quel ragazzone non aveva mai avuto tutti i
riconoscimenti che si
meritava.
Meno
della metà se si considera che si è infilato
volontariamente
nei casini di questa famiglia…
Scorpius ricambiò
con un cenno della
testa e un vago rossore
compiaciuto sulle guance. “Beh, io vado a destra!”
James, quando fu il momento
di
separarsi, lo afferrò per un braccio.
“Andrà tutto bene.” Gli
mormorò serio e
fu quasi tentato di crederci; quando abbandonava
l’attegigamento da bulletto di
periferia mostrava al mondo intero come fosse in realtà una
delle persone più
affidabili che conoscesse.
“Lo so.”
Lo baciò perché anche
se non era appropriato data la sua situazione – tra
l’altro, erano in bilico
tra rocce friabili – ne aveva un disperato bisogno. James
parve intuirlo da
come afferrò un pugno di stoffa della sua camicia per
tirarselo contro.
“Preferisco questo grazie a quello di
Malfuretto.”
Ghignò sulle sue labbra prima di lasciarlo andare.
“È più personale. Che non ti
salti in mente di darlo ad altri!”
Non poté fare a meno di sorridere e tirargli uno
scappellotto.
Si separarono e Ted accese la propria bacchetta in Lumos
mentre l’oscurità della caverna lo avvolgeva. Non
ricordava
di esserci entrato, ma era pur vero che la morfologia del posto non era
degna
di nota. Si spinse a fondo e contò di aver percorso almeno
un centinaio di
metri prima di notare, sulla parete, un segno che non pareva fatto
dalla
natura: pareva esser stato fatto con un sasso sfregato con forza.
Qualcuno
voleva esser certo di non perdersi in mezzo a
questi cunicoli…
L’istinto gli
diceva che
doveva trattarsi di Lunastorta: difficilmente i Centauri avrebbero
potuto inerpicarsi
fin lì, ed erano gli unici altri esseri della foresta a
poter maneggiare degli utensili.
“Ben?”
Chiamò, sperando che il
bambino fosse nei dintorni e si fosse semplicemente nascosto sentendolo
arrivare. “Mi chiamo Ted, sono …”
C’era un modo per presentarsi che fosse
adeguato? Dubitava. “ … un amico.” Si
risolse a dire. “Non devi avere paura,
vengo …” Ignorò la fitta che
sentì calciargli lo stomaco. “… vengo
da parte di
papà.”
Prima di morire ha detto il nome di suo
figlio. Ha cercato di dirmi che non era solo, e che il suo bambino
aveva
bisogno di aiuto.
Ed
io non l’ho capito.
Un rumore lo
allertò, ma invece
di alzare la bacchetta, come istinto gli suggeriva, la ripose; la prima
cosa di
cui un bambino Licantropo avrebbe avuto paura avrebbe potuto esser
proprio
quella.
Fece un paio di passi verso
l’origine del suono. “Ben?”
Chiamò di
nuovo e svoltato l’angolo si trovò di fronte a
quello che aveva tutta l’aria di
essere un accampamento di fortuna, ricavato in una rientranza tra due
pareti di
roccia. Contemplò quindi i rimasugli di un falò,
ormai braci fredde che
sorreggevano un calderone pieghevole per una persona, uno zaino di
montagna che
giaceva in un angolo e due pagliericci di foglie dall’aria
umida.
Il cuore perse un battito
quando vide che uno dei due era occupato.
Si accovacciò a
terra, e anche
se l’istinto lo portava a cercare il contatto con il
corpicino esanime, controllò
prima il battito del polso. Un’ondata di sollievo lo
investì quando lo sentì
pulsare, forte e presente. Ben – era così che si
chiamava l’ultima parte della
sua famiglia – al tocco emise un lieve lamento,
più simile ad un uggiolio che
al pianto di un bambino.
Merlino,
non può avere più di cinque anni…
Controllando che non avesse
ferite che sconsigliassero uno spostamento, lo prese tra le braccia e
tentò di
non crollare rovinosamente quando sentì le manine cingergli
il collo
istintivamente. “Ehi Ben.” Mormorò
ignorando le lacrime. Erano ore che
premevano per uscire e le lasciò finalmente libere.
“Sta’ tranquillo … ora sei
al sicuro.”
****
Note:
Angst, lo so. Ma date tempo al tempo. Se non altro, adesso Milo
è stato
stuzzicato nei punti giusti.
(E anche l’orgoglio di Mike)
E c’è
di mezzo un cucciolo di
Licantropo! :D
(Che starà bene,
promesso.)
Prossimo capitolo, avverto, molti feels
Lily/Ren. Mi prendo una pausa da loro e subito mi mancano. Sono i miei
bimbi
disfunzionali.
La cover del capitolo
stavolta
non è opera mia (e si vede): è stata fatta dalla
meravigliosa Gaea. Grazie girl! :D
Questa
la canzone del capitolo. La trovavo adatta ai pezzi nella foresta e
poi, ohi, è
figa.
Ho scoperto un doppelgaenger
di Milo: David Garrett. È pure
tedesco.
Se non sapete chi è, vergognatevi mentre ascoltate la sua
versione di Smooth
Criminal.
La scena del cambio tra musica tzigana e Paganini è presa
spudoratamente dal
film Le Concert. Anche qui,
rimediate
se non l’avete ancora visto. Dico sul serio.
Per quanto riguarda le
canzoni
richieste dai Maghinò, ecco
Dacw 'Nghariad (There
is
my sweetheart) e Greenslevees.
Mentre la prima è una canzone tradizionale scozzese (come
scozzesi sono Shad e
Figgins) la seconda è una famosissima ballata inglese di cui
sono state fatte zilioni di
versioni. Quella linkata è
quella che suona Milo.
1. Loki cita una famosa
poesia
di Rudyard Kipling, chiamata ‘The Broken Men’, e le
strofe finali a cui fa riferimento son
queste (tradotte malamente dalla sottoscritta): “Oh,
Dio! Uno scampolo di Inghilterra — per accogliere la nostra
carne
e sangue — per udire il traffico roboare | Ancora una volta
lungo il fango di
Londra! | Le nostre città di onor sprecato
—Le nostre strade di piacere perduto! | Come sta
il vecchio Lord Warden?
| Le scogliere di Dover son ancora bianche?”
|
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Capitolo 23 *** Capitolo XXII ***
Say
it's true
Or everything that matters breaks in two
(Another
Hearts Call, The All
American Rejects)
8
Luglio 2028
Devonshire,
Il Mulino.
Mattina.
Svegliarsi stordita, quasi
un
Battitore avesse deciso nottetempo che la sua testa era un ottimo
Bolide, non
era mai un modo glorioso per salutare il nuovo giorno e Lily lo sapeva,
ma cosa
poteva farci?
Togliendosi le coperte
estive
di dosso ciabattò fino in bagno senza avere il coraggio di
guardarsi allo
specchio, non prima di essersi gettata una manata piena di acqua gelida
sul
viso.
Ugh.
No, sembro ancora un orchetto tolkeniano.
Dal piano di sotto
sentì i
genitori muoversi, far colazione e chiacchierare nel modo rilassato e
complice di
sempre e questo la rimise un po’ in pace con
l’universo.
Un
altro incubo. Come diavolo si fa ad avere due incubi
in due
giorni? Cos’è, un trend?
Per questo aveva ripreso a
vedere la Patil non solo per motivi strettamente professionali. La
strega le
aveva fatto sviscerare il problema, ne avevano parlato ed erano giunte
ad una
serie di conclusioni.
È
l’effetto rimbalzo dell’attacco al San Mungo.
È il
periodo di stress che sto attraversando nella mia vita personale.
È anche l’arrivo di
Ren. Per farla semplice.
La materia era sempre la
stessa: lei che veniva immobilizzata da John Doe, afferrata e gettata
attraverso lo specchio. Razionalmente sapeva che era improbabile che
l’uomo,
per quanto redivivo e calcante il suolo britannico, si interessasse di
nuovo a
lei …
Ma
questo non mi impedisce di avere i nervi a fior di
pelle ogni volta che sono sola e qualcuno mi arriva alle spalle. Yay.
Non se la sentiva
però di
biasimare Ren per averglielo confidato la sera del compleanno di Sy.
Aveva
bisogno di parlarne … e quel bastardo ha fatto
più danni a lui che a me. In confronto con la sottoscritta
è stato un
simpaticone, tentativo di omicidio a parte.
“Buongiorno
tesoro.” La salutò
sua madre quando entrò in cucina. “Dormito
bene?”
“Sissignora.”
Mentì con
disinvoltura, scivolando sulla sedia e rubando l’ultima
frittella di mele al
padre che le zuccherò il caffè per poi
passarglielo: quando non doveva
trangugiare la colazione per scappare in ufficio era un piccolo rito
che non le
faceva mancare. Lo ringraziò con un sorriso,
perché quel giorno le era più
necessario che mai.
“Hai sentito
Jamie?” Le chiese
quest’ultimo. “Come se la stanno cavando lui e
Teddy con la faccenda di Ben?”
Si strinse nelle spalle:
quasi
a voler dimostrare come le disgrazie non arrivavano mai sole, in quei
giorni
avevano scoperto che Ted, tramite una serie improbabile di circostanze
coinvolgenti Mannari e Centauri, si era trovato ad avere una famiglia
… salvo per
poi perderla quasi tutta.
Ed
io che mi lamento per due incubi…
Scosse la testa.
“Non ne ho
idea. Jam mi ha chiesto di girare a largo per il momento …
Teddy è ancora
piuttosto fuori fase e non vuole gente attorno.”
“Sì, lo ha detto anche a me.” Suo padre
annuì con aria dispiaciuta, ma non
aggiunse altro, riprendendo a fissare pensieroso le siepi oltre la
finestra: se
c’era qualcuno che poteva capire Teddy era proprio lui.
“Se avranno
bisogno di noi
sapranno dove trovarci.” Argomentò tranquilla sua
madre, stringendo la mano del
marito oltre la tavola. Lily li vide scambiarsi uno sguardo e subito
dopo la
linea tesa delle spalle di suo padre si sciolse visibilmente.
Eccolo
qua, l’amore.
Lo pensò con un
sorriso e fu
quel pensiero positivo che le diede la forza di fare una domanda la cui
risposta, era certa, non le sarebbe piaciuta. “Come va il
caso dei ragazzi?”
Suo padre esitò
un momento
prima di rispondere ma poi, sotto lo sguardo congiunto suo e di sua
madre, fu
costretto a capitolare. “Sono ad un punto di stallo, di
nuovo. Hanno trovato un
posto dove sembra essere stato John Doe … ma era pulito come
una sala
chirurgica.”
Ah. E allora Ren perché mi ha detto
di
essere occupatissimo? Non lo è!
Le aveva mentito.
“Capito.” Si
controllò, salvo poi scappare in bagno e sbattersi la porta
dietro per
scrollarsi il nervoso di dosso.
Brutto
deficiente!
Era ufficiale: la stava
evitando.
Ma
perché? Che gli ho fatto?
Era dalla serata del San
Mungo
che qualcosa non andava.
Quale
diavolo è il problema? Viene qui e dice che vuole
vedermi, che vuole portare la nostra amicizia ad un nuovo livello e poi
… mi
molla?
L’unico modo per
avere delle
risposte, decise, era lanciare un sasso e vedere cosa colpiva.
Digitò un
messaggio sul cellulare mentre metteva piede nel camino masticando a
mezza
bocca un saluto ai genitori. “Stasera non ci sono per
cena.” Li avvertì.
“Esci con
Scott?” Chiese sua
madre mentre obbligava il marito a rimaner per cucirgli un bottone
dell’uniforme.
Li
perde sempre. Come diavolo fa?
“No, stasera ha la
sua uscita
settimanale con i ragazzi della squadra di rugby. Adora fare il
Babbano.”
Scrollò le spalle. “Esco con Ren.”
Anche se ancora il suddetto non lo sa.
‘Buongiorno
Ren! Stasera sono libera … ti va di goderti un po’
di Londra notturna?’
****
Londra,
Diagon Alley. Il Paiolo Magico.
“Buongiorno
principino, c’è
posta per te!”
Sören fu accolto dalla voce strascicata del proprio compagno
di stanza, straordinariamente
in piedi vista l’ora. Stava giocherellando con il suo
smartphone – chissà
perché poi li chiamavano intelligenti, se erano complicati
in maniera infernale
– mentre fumava droga altrettanto poco magica.
Son
giorni che questo posto puzza di quella roba.
“Ridammelo. La
posta è privata
per antonomasia.” Argomentò asciugandosi il sudore
con l’asciugamano che
l’altro gli lanciò dopo averlo recuperato da un
cassetto. L’attività fisica,
come sempre, era il rifugio perfetto per i pensieri nefasti e infatti,
ogni
mattina che Merlino metteva in terra, indossava una maglietta lisa dei
tempi
dell’Accademia e si gettava sull’asfalto londinese.
Così
riesco a dormire.
La crisi non era rientrata,
ma
poteva esser gestita. Stancarsi,
dormire e concentrarsi sul lavoro era il metodo migliore di allontanare
ogni
fonte di stress. Non il più efficace, ma l’unico
che al momento a cui riuscisse
a pensare.
Notò poi come
l’altro si
aggirasse per la stanza a piedi nudi e con addosso solo un paio di
pantaloni
slacciati. “Sai bene che non gradisco che tu porti persone
qua dentro…”
“Non mi sono scopato nessuno sul tuo letto,
rilassati.” Gli rispose lanciandoglielo.
“Ho solo caldo e ah … sì, sono
fatto.”
“Anche sulla droga…”
“Ehi, io ti dico come devi rilassarti? No, non mi
pare.” Ribatté con insolita
asprezza. “Non sei l’unico ad avere problemi al
mondo.”
“ … Lo so.” Convenne sentendosi
improvvisamente di troppo in una stanza che, ad
onor del vero, pagava lui. L’altro aveva serrato le braccia
al petto tendendo
le labbra in una linea dura, ostile.
Che
cos’ha?
In quei giorni
l’aveva
incrociato a malapena, con il caso che continuava a girare a vuoto e la
sua
routine di allenamenti massacranti.
E
l’unica volta in cui abbiamo parlato gli ho chiesto
di Johannes e me la sono presa perché non ha saputo darmi
informazioni utili.
“Milo…”
Iniziò incerto. Non si
era mai interessato dei problemi delle persone alle sue dipendenze, e
anche con
il Magonò che aveva davanti si era sempre limitato a dare
più che ricevere
confessioni.
Però
Milo
era
tutto fuorché dipendente qualunque; non gli obbediva mai,
faceva di testa sua e
continuava ad impicciarsi della sua vita privata, specialmente quando
non era
richiesto.
Come
fa Lily. Come fa Dionis, ed Estevez. Come farebbe
un amico.
“Va
tutto…”
“Non vuoi leggere il messaggio?” Lo interruppe
mentre l’espressione tesa veniva
cancellata dal consueto sogghigno sornione.
“Perché credo dovresti.”
Sören, troppo sorpreso per quel repentino cambio
d’umore, obbedì schiacciando
l’icona colorata che gli ricordava la busta di una lettera
sullo schermo. Ed
inspirò. “È Lily.” Fece una
pausa mentre l’altro spegneva lo spinello strisciandolo
lungo il davanzale della finestra. “Vuole uscire,
stasera.”
“Grandioso!”
“No, non direi.” Mormorò posando il
cellulare sul comodino. “Vado a farmi una
doccia. Devo passare al San Mungo.”
“Perché?”
“Indagini.” Mentì. I Guaritori inglesi
avevano avuto il via libera da parte del
Ministero Americano a prelevare campioni di sangue e tessuto dal suo
braccio:
cercare di non sentirsi una cavia da laboratorio era stato piuttosto
difficile.
“Allora potresti
approfittarne
per far colazione con Zenzero! Non studia là?”
“Non è il ca…”
“Ehi.”
Lo bloccò spazientito. “Ti rendi conto,
sì, che prima o poi realizzerà
che la stai evitando?” Fece una pausa drammatica e
mimò l’uso di un paio di
forbici. “Ti taglierà le palle. Zac
zac.”
Suo malgrado deglutì. “Le ho detto che sono
occupato.”
“Lavori con suo fratello,
genio, e l’orario
di ufficio è uguale per tutti. Comunque, il tempo per un
caffè si trova sempre.
Se le rifili un bidone devi avere una scusa valida.”
“Non
posso uscire con lei.” Perché diavolo
l’altro non capiva?
Eppure credeva di esser stato chiaro quando una settimana prima si
erano
ritrovati a dividere una bottiglia alla locanda.
“Non farla tanto lunga.” Milo lo guardò
quasi con simpatia. O divertimento
sadico. Non riusciva a mai a distinguere le due emozioni se erano
dipinte sulla
sua faccia. “Non sei il primo caso di due di picche della
storia.”
“Non usare parole
incomprensibili.”
“Sto solo dicendo
che se vuoi
rimanergli amico…”
“Lo voglio.”
Almeno questo.
“ …
ecco, se vuoi continuare
ad averla attorno, sai … devi permetterle
di starti attorno.”
Aveva ragione. Era questa,
forse, la cosa peggiore.
Voglio
vederla, ma non in queste condizioni. Non con il rischio di
aggrapparmi a lei perché non so dove altro andare.
Lily, con la sua amicizia
pura
e disinteressata, lo aveva liberato dalla schiavitù mentale
che gli aveva
imposto suo zio ed era proprio quello il problema; se c’era
qualcosa che la
terapia magica gli aveva insegnato, era che scivolare da una dipendenza
emotiva
all’altra era facilissimo nella sua condizione, specie quando
il terreno gli
cedeva sotto i piedi come in quel momento. Non poteva rischiare di
trasformare
l’amore che provava per Lily nel desiderio di renderla la sua
personale
Salvatrice.
Assolutamente
no.
Si sedette sul letto,
guardandosi le mani e sentendosi come al solito lento, confuso e
arrabbiato.
Perché per gli altri era tutto così naturale,
semplice mentre per lui assumeva
le dimensioni di una montagna insormontabile?
Sei
sempre in difetto. Sempre.
Si strofinò le
palpebre mentre
sentiva l’altro muoversi per la stanza e dal rumore
intuì che gli stava
preparando il the. Doveva tenere le mani occupate, perché
sentiva il braccio
formicolargli e non era mai un buon
segno. Prese quindi a giocherellare con l’anello di famiglia,
passandoselo tra
le dita e pulendolo con un veloce incantesimo dalla patina dovuta
all’ossidazione.
“Non è
scomodo portarlo sempre
al dito?” Lo sorprese Milo, accovacciato davanti al fuoco
mentre gettava una
manciata di foglie di the nel bollitore. “Io lo detestavo,
non lo portavo mai.”
Sören non fu sorpreso alla notizia che l’altro
proveniva da una famiglia
nobile. Lo aveva sempre sospettato. “È una
tradizione…” Rispose, grato per
quella interruzione. “Come tutte le tradizioni, finisce per
diventare
un’abitudine. E l’abitudine spesso è
fonte di conforto.” Strinse tra le dita
l’argento caldo, familiare. “A chi altri
l’hai visto fare?”
Non
credo frequenti altri maghi in possesso di un
sigillo nobiliare, a parte me.
Milo
scosse la testa. “A nessuno.” Si
alzò, stiracchiandosi. “Allora …
Zenzero.” Tornò in riga, spietato. “Cosa
le
risponderai?”
“È
complicato.” Mormorò. “Non
so cosa fare…”
“Già.” Gli porse la tazza fumante con un
sorriso storto. Aveva imparato
come quello fosse il suo sorriso più autentico e in qualche
modo lo faceva
sempre sembrare … rassegnato. “Benvenuto
nel magico mondo delle persone normali.”
****
Londra,
San Mungo. Mattina.
Ted varcò
l’ingresso del San
Mungo per la quinta volta in quei cinque giorni e come ogni volta venne
aggredito
dal forte odore di erba medica e Pozioni Disinfettanti.
Mentre le porte
dell’ascensore
si chiudeva dietro di lui non poté fare a meno di
controllare lo Specchio
Magico: nessun messaggio. Flynn non era ancora riuscita a trovare
notizie sulla
famiglia di Lunastorta.
(Faceva meno male se non
ricordava come l’uomo che gli era morto tra le braccia avesse
diritto al titolo
di ‘fratello’. Solo un po’.)
Si staccò dalla
parete
dell’ascensore quando le porte si aprirono sul Reparto Ferite
da Creature
Magiche.
Che
ipocrisia …
Era il reparto in cui
avevano ritenuto opportuno portare
Ben e Ted, in
quella notte febbrile, non aveva avuto la forza di combattere contro
quell’ennesimo, sciocco pregiudizio magico.
Se
è un Mannaro, va’ dove vengono trattati i Mannari.
Arrivò alla
stanza che per quei
cinque giorni era diventata una seconda casa e salutò con
cenno della testa la
magi-infermiera che vi era stata assegnata; a giudicare da come stava
uscendo
con un carrello ricco di bricchi e da cui si spandeva un delizioso
odore di
pane caldo doveva aver appena consegnato la colazione.
Ted sperò che
quel giorno fosse
partito con un piede diverso.
“Ha mangiato
qualcosa?”
Quella scosse la testa
dispiaciuta. “Mi dispiace Signor Lupin, non che non abbia
provato, ma temo …
temo che non capisca neppure ciò che dico.”
“Lo capisce.” Le assicurò
d’istinto, anche se da quel che ne sapeva poteva benissimo
esser vero il contrario. “È
solo…”
“Spaventata.”
Terminò per lui
con un sorriso simpatetico e Ted, ancora una volta, si trovò
nell’imbarazzante
posizione di doversi ricordare che
Ben era sì un nome da maschietto, ma apparentemente era
stato dato …
Ad
una bambina.
Scoprirlo era stata un
fulmine
a ciel sereno: quando l’aveva presa in braccio nella grotta,
sentendo tra le
dita i capelli corti, sporchi e arruffati aveva fatto due
più due … deducendo tre.
Solo dopo un viaggio a rotta
di collo verso il San Mungo e dopo una mezz’ora angosciante
in sala d’attesa,
dove James aveva dovuto minacciarlo un paio di volte di Impastoiarlo se
non si
fosse seduto, avevano scoperto la sconcertante verità.
“
… con le dovute cure si riprenderà nel giro di
una
settimana. La luna piena non ha reso le cose semplici …
è stata una fortuna, siete
arrivati in tempo.” Aveva spiegato il Guaritore.
“Completamente?”
Aveva chiesto sentendo la mano di
James posarsi sulla spalla. Avrebbe dovuto fargli una statua
d’oro come
cianciava nei suoi deliri d’onnipotenza, finita quella
storia. Sul serio.
“Completamente.” Gli era stato assicurato.
“Al di là della Licantropia è una
bambina sana.”
… eh?
James
aveva fatto un suono a metà tra l’esclamazione e
il pronunciare un’oscenità. Poi aveva parlato
lentamente, come faceva quando pensava
di non afferrar bene un concetto. “Non abbiamo capito bene
… cioè, io non ho
capito
bene … Ha detto bambina?”
Il
Guaritore era sembrato confuso.
“Sì…?”
“Ne è sicuro?” Gli aveva dato manforte e
agli occhi dell’uomo erano dovuti
sembrare due idioti, tutti occhi, bocche spalancate e nel suo caso,
anche
capelli arancioni. “Si chiama … si chiamerebbe
Ben.”
Il
mago aveva realizzato di colpo il punto della
faccenda, perché aveva sorriso divertito.
“Sarà anche … ma ragazzi, sono
sicuro, quella che ho curato è una bambina.”
Sorpresa…
I Mannari erano una
società a
base patriarcale, dove la nascita di un maschio era tenuta in maggiore
considerazione rispetto a quella di una femmina; forse Lunastorta le
aveva
tagliato i capelli e l’aveva vestita da maschietto nel
tentativo di farla accettare
dal branco.
Qualunque fosse il motivo
per cui
l’uomo aveva camuffato sua figlia ormai non aveva
più importanza.
L’importante
è cercare di farla parlare, di aiutarla a
farci capire da dove viene e se ha un posto in cui tornare.
…
È proprio questo il problema.
Perché Ben non
parlava.
Sentì un nodo
allo stomaco
quando entrò nella stanza, vuota di persone ad eccezione del
fagottino di
coperte nell’ultimo letto.
“Ciao
Ben.” Salutò gentilmente
avvicinandosi e prendendo la sedia su cui ormai aveva messo radici.
“Ho
incrociato l’infermiera e mi ha detto che non hai voluto far
colazione. È
vero?”
Nessuna risposta, ma non si
diede
per vinto. Posò invece i
gomiti sulle
ginocchia per avvicinarsi al letto. “Quella colazione aveva
un ottimo profumo e
scommetto anche un buon sapore … Sei proprio sicura di non
volerne mangiare un
boccone?”
Niente.
Sospirò,
passandosi una mano
trai capelli: la bambina, oltre lo shock e lo spaesamento, non si
fidava di
loro.
Non
si fida di me.
Faceva male, ma poteva
capirlo. Ben doveva aver vissuto sin dall’infanzia ai margini
di una società
che la discriminava, e che doveva aver trattato con disprezzo il padre
o
entrambi i genitori. Per quanto fosse piccola non poteva non essersi
già fatta un’idea
di come girava il mondo.
E
quell’idea non depone a favore di noi maghi…
“Lo so che questo
posto non ti
piace… ma ancora non stai bene e dovrai star qui per un
po’.” Le spiegò perché
sapeva che lo stava ascoltando e lo capiva. Doveva.
“C’è qualcuno che vorresti con te? La
tua mamma?”
Ormai ripeteva sempre le
stesse cose. Levò la mano per toccarle i capelli, un ammasso
arruffato che
nessuno era riuscito a toccare: l’unica volta in cui la
magi-infermiera aveva
provato a portarla a fare il bagno c’erano stati strilli e
pianti talmente
acuti che a detta della povera donna si erano sentiti fino al Quinto
Piano.
Hanno
dovuto farla addormentare per le spugnature…
Vedendo le spalle della
bambina irrigidirsi si ritrasse; come tutti i Mannari, percepiva
l’ambiente attorno
a sé con estrema precisione.
E
non vuole che la tocchi.
Si sentiva frustrato e
impotente. Neppure tutta la sua gentilezza e le sue parole rassicuranti
servivano a penetrare il bozzolo in cui si era rinchiusa la creaturina
che gli
stava affianco.
Si alzò in piedi
non riuscendo
a rimanere oltre senza aver voglia di prendere a calci qualcosa.
Qualcuno.
Chiunque. Se stesso. “Facciamo così…
Vado a prenderti un po’ di latte e
biscotti.” Propose. “Deciderai tu quando mangiarli,
okay?”
Allontanandosi lungo il
corridoio quasi non si accorse che qualcuno lo stava chiamando. Poi si
sentì
afferrare per il retro della camicia senza troppe cerimonie.
Ma
che…
“Buongiorno! Perso
nei tuoi
pensieri?”
Vedere la piccola e
pestifera
Lily, che aveva passato sette anni a sopportare l’uniforme,
indossare un camice
e un paio di zoccoli ortopedici come se fossero una seconda pelle era
sempre un
po’ straniante. “Ciao.” Salutò
impacciato. “Non ti avevo sentita arrivare.”
La ragazza, che teneva per
mano una donna che realizzò essere la madre di Neville,
scosse la testa con
aria dolente. “Fa sempre piacere essere invisibile ai propri
amici d’infanzia
ed ex-babysitter.”
“Scusami.” Sorrise capendo che la battuta voleva
esser distensiva. “Come mai al
Primo piano?”
“Io e Alice ci
stiamo facendo
una passeggiata.” Spiegò sorridendo alla donna,
occupatissima a giocherellare
con i lacci della propria vestaglia. “Siamo andate a
prenderci una fetta di
torta al quinto piano, ma poi non avevamo voglia di tornare subito,
vero?” Si
rivolse alla strega, che con sua sorpresa fissò lo sguardo
in quello della
ragazza e annuì.
Credevo
fosse catatonica …
“Sì,
quando la Gazzetta parla
di progressi nella Psicomagia per una
volta non esagera.” Lo lesse Lily, sorridendo del
suo palpabile impaccio.
“Mi ritengo offesa, professore … dovrebbe
interessarsi della carriera di una
tua vecchia studentessa!”
“Lo sai che sono bravo solo con cose che strisciano negli
anfratti più oscuri
della foresta.”
“Mmh …
sexy.” Chiocciò allegra.
Poi occhieggiò alle sue spalle, verso la stanza di Ben.
“Come sta?”
“Stabile…”
“ …
sì, molto chiaro. Sarebbe?”
Ovviamente, una volta
calmate
le acque, era stato doveroso mettere a parte Il
Clan degli sviluppi di quella faccenda.
In
realtà è bastato che James dicesse a Ron il
motivo
per cui si era assentato dal lavoro.
Dopo l’iniziale
chiasso dovuto
alla notizia, li aveva pregati di aspettare dato che la situazione
familiare
della bambina non era ancora chiara: l’ultima cosa che voleva
per Ben, al
momento, era una massa di teste più o meno rosse pronta ad
intervenire con pareri,
consigli, idee e cibo.
E
fin’ora son stati bravissimi…
Ma data la presenza di Lily
e
il fatto che si fosse inventata una bugia poco credibile sulla sua
presenza al
piano, sembrava che la tregua fosse finita.
“Sarebbe che non
ci sono
novità.”
“Sai… potrei darti una mano.”
Ecco,
appunto.
Non che non apprezzasse
l’offerta, ma si sentiva in dovere di proteggere Ben dalla
curiosità altrui;
persino da quella ben intenzionata del clan che gli aveva fatto da
seconda
famiglia.
“Grazie,
ma…”
“Teddy.” Lo
fermò guardandolo come un
ragazzino un po’ tardo. Era stranamente convincente.
“Non mi voglio impicciare
nei tuoi affari … cioè, in realtà
sì.” Si corresse allegramente. “Ma lo
faccio perché
sono … o diventerò, comunque … una
Psicomaga. Posso aiutarti sul serio.”
Capitolò
perché aveva davvero
bisogno di una mano. Come zio di
Ben poteva tener lontani i servizi sociali del Ministero, ma non a
lungo, e se
non si fossero trovati altri congiunti le cose si sarebbe complicate.
“Non so cosa
fare.” Confessò
passandosi le dita trai capelli. “Non parla … Ci
vuole un incantesimo che la
sedi per farla mangiare.” Doveva evitare assolutamente che il
groppo alla gola
avesse la meglio, soprattutto davanti ad una ragazza che considerava
come una
sorellina minore. “Non si fida di nessuno, e non riusciamo a
trovare sua madre.”
“Wow.”
Mormorò Lily, e le fu
grato per non cercare di rassicurarlo. “Okay. Devo chiedere
un parere, ma …” Parve
riflettere per qualche instante poi annuì. “Penso
di poterti aiutare.”
****
America,
Boston. Ufficio SAGITTA.
Gli mancava Sören.
Non era una cosa virile da
ammettere, Rico se ne rendeva conto, tuttavia pensarlo non
era piagnucolarlo di fronte ad birra, quindi supponeva andasse
bene.
La scrivania di fronte a lui
era vuota e non vedere il collega riordinarla ogni giorno e guardare la
sua con
indignazione era straniante. Sì, gli mancava quel rigoroso
rompiscatole che
mangiava solo insalata e non capiva una battuta di spirito manco se gli
ballava
nuda davanti.
Era preoccupato; Prince gli
aveva scritto solo una volta da quando era partito, una cartolina, e
solo perché
gli aveva fatto promettere di spedirla.
Il
giorno della partenza sembrava aver voglia di
vomitarsi la colazione sulle scarpe.
Non era l’unico a
chiedersi
come se la stesse passando, però. Era accaduto
più di una volta che il Sergente
Gillespie – che sembrava detestare il crucco più
di chiunque altro in ufficio,
eccetto forse Murphy – venisse alla sua scrivania a
chiedergli notizie con la
scusa di strigliarlo per qualche infrazione.
Secondo
Milo, Ama lo detesta come una bambina di cinque
anni spingerebbe giù dall’altalena il ragazzino
che le piace.
Pensavo
fosse una cavolata, ma…
Dalla sera in cui aveva
visto
il collega riaccompagnare la ragazza a casa aveva cominciato a
chiedersi se il
biondo non avesse invece ragione.
Quando udì dei
passi avvicinarsi
si chinò rapido sulla macchina da scrivere, dove stava
finendo di redigere un
rapporto. Con sua enorme sorpresa vide il Capitano Gillespie incedere
tra le
scrivanie, seguita da nientemeno che Ethan Scott.
Non
è il bastardo che ha incastrato Prince nell’intera
faccenda inglese?
Era lui e aveva la solita,
insopportabile, aria compiaciuta stampata in faccia.
Perché
è qui?
…
Ovvio. Per parlare di Prince.
E a giudicare
dall’aria
tempestosa del proprio capo le notizie non dovevano essere buone.
Rico non ci mise che qualche
attimo per decidere il da farsi. Fu così che due minuti
d’orologio dopo aveva
l’orecchio incollato alla porta dell’ufficio del
proprio capitano con un
incantesimo SuperSensore in corso. Non poteva vedere attraverso le
veneziane
tirate ma poteva ascoltare. Tentò di concentrarsi e per poco
non strozzò quando
sentì una mano afferrarlo per il retro
dell’uniforme.
“Cosa diavolo credi di fare, Estevez?” Lo
apostrofò la voce polare di Ama
Gillespie.
Rico si sarebbe Maledetto da
solo: avrebbe dovuto controllare di non esser stato seguito prima di
attuare il
suo proposito. “Ehm…” Cercò
di radunare le idee e alla fine optò per la brutale
verità, sperando che Milo non si fosse sbagliato.
“Origlio il Capitano mentre
parla con l’uomo che ha spedito l’agente Prince in
Inghilterra?”
La ragazza lo fissò anodina, prima di spintonarlo di lato
senza troppe
cerimonie. Rico nascose un sorriso e si mise in ascolto.
“…
autorizzare un mio agente
ad essere trattato come una cavia!”
“Calmati Nora, non è quello che faranno al San
Mungo.”
“Leggo oltre i giri di parole sulla carta stampata, Ethan.
Sei stato tu ad autorizzare la
‘messa a
disposizione della bacchetta in possesso dell’agente
Prince’. La bacchetta è
parte di lui. Dovranno
operarlo. Sarà invasivo, e non gli è stato
neppure chiesto …”
“Cosa, il permesso? Sembra che tu sia scordata che
Sören è proprietà del
Ministero americano.”
Cosa?
Rico sgranò gli
occhi ed
intercettò lo sguardo di Ama che a sua differenza non
appariva sorpresa dalla
rivelazione.
Lo
sa? Beh, è il nostro sergente, ma…
“Che
significa?” Chiese
sottovoce, ma l’altra gli fece cenno di far silenzio.
“L’agente
Prince è una
persona, non un oggetto!”
“Certo.” La voce del funzionario ricordò
a Rico un serpente che danzava attorno
alla preda prima di colpirla a morte. “Peccato che ai fini
della sua
riabilitazione non faccia testo. Conosci gli accordi … non
può disporre di se
stesso come ogni onesto mago americano.”
“Non ancora.” Il tono del Capitano era sferzante e
Rico, oltre la confusione,
si trovò orgoglioso di servire una strega che non si tirava
indietro quando
doveva difendere i propri sottoposti. “Questo caso
proverà al Dipartimento che
ha il diritto ad esser considerato
un
membro della nostra società.”
“Mi sembra ovvio, dunque … è nel suo
interesse assecondare le richieste del San
Mungo.” Il tono prese una sfumatura divertita.
“Eseguiranno una banale biopsia
e un prelievo del sangue … Non lasciare che il tuo istinto
materno abbia la
meglio sulla ragione.”
Rico sentì un
tonfo provenire
dalla stanza ed immaginò che la strega si fosse alzata di
scatto dalla sedia.
Si scambiò un’occhiata sorpresa con il sergente;
il Capitano poteva essere una
donna passionale,
ma non impulsiva.
L’ha
fatta proprio uscire fuori dai gangheri!
“Scoprirò
cos’hai in mente,
Scott.” Stava mormorando ma Rico percepì quelle
parole come il ruggito di una
fiera. “Ma sappi questo. Se stai cercando di infangare uno
dei miei ragazzi dovrai
prima passare sul mio cadavere.”
“Nora, stai esagerando. Al di là delle nostre
schermaglie dovrai riconoscere
che serviamo la
stessa causa e gli
stessi ideali.”
“No, non credo.” Si sentì scostare una
sedia. “Fuori di qui.”
Credo
di essermi un po’ innamorato.
Si
sentì di nuovo afferrare per il
colletto dell’uniforme e tirare indietro; Ama lo fece
nascondere appena in
tempo, perché Ethan Scott aprì la porta e
uscì fuori. Neppure un momento dopo
udirono la voce della donna. “Sergente Gillespie, agente
Estevez … una parola.”
Ma come cavolo ha fatto?!
Ama assunse
un’aria tra
l’irritato e il bastonato che fece ricordare a Rico come, in
effetti, fossero
coetanei. Sembrava una bambina colta a divorare una torta di mele non
destinata
a lei.
Entrarono dentro con il
passo
di due scolari indisciplinati e furono accolti da un’aria
esasperata, ma non
furiosa.
Buon
segno?
“Prima
che possiate chiedermelo, non
occupo questo posto solo perché ho quasi il doppio dei
vostri anni. I vostri
incantesimi sono rumorosi come spari.”
“Capitano…”
Doveva chiederlo.
Sapeva che non erano affari suoi – anche se certo, si stava
parlando del
ragazzo che divideva la scrivania con lui - ma doveva togliersi quella
pulce
dall’orecchio. “… che significa che
l’agente Prince non è un mago libero?”
La strega fece un sospiro,
accomodandosi di nuovo dietro la scrivania. “È
un’informazione riservata,
agente … no, Rico.”
L’uso del suo
nome di battesimo lo stralunò. Gli venne sorriso.
“Ma immagino che questo non
vi fermerebbe dal farvi ulteriori domande.”
“Perché quel funzionario ce l’ha con
l’agente Prince?” Domandò Ama.
“È evidente
che ha un risentimento personale nei suoi confronti.”
“Non verso Sören, ma verso di me. Si può
dire che glielo abbia soffiato sotto
il naso. Ed Ethan Scott non ha mai saputo perdere.”
“Prince è stato incriminato?” La cosa
era sconcertante su un sacco di livelli
ma aveva senso: la riservatezza che lo contraddistingueva, il non
parlare mai
della sua vita nel vecchio continente e la mancanza totale di
informazioni o di
spiragli sul suo passato. Sören aveva fatto qualcosa in Europa
per cui ne
pagava tutt’ora le conseguenze.
Come
restrizioni alla libertà … Non può
manco decidere
cosa fare del proprio corpo e della propria bacchetta. Gente come Scott
decide
per lui.
Il capitano gli
scoccò
un’occhiata. “Finito questo caso l’agente
Prince tornerà.” Esordì pacata.
“E tornerete
a lavorare assieme. Siete una buona squadra e mi rincrescerebbe se le
cose
dovessero cambiare…” Lo fermò prima che
potesse obbiettare. “Voglio solo essere
sicura che tu sia in grado di giudicarlo per chi è adesso, e
non per chi è
stato in passato. Perché, come avete potuto ascoltare, non
tutti ci riescono.”
Rico notò come Ama si era tesa alla frase, ma decise di
glissare. Del resto gli
era appena stata fatta una domanda. “Per me non cambia niente
Capitano. Sören è
e rimane il mio partner.” Rispose senza esitazioni.
Il capitano gli sorrise.
“Bene. Perché nel SAGITTA non abbandoniamo i
nostri compagni.”
“Mai.”
Le fece eco Ama e fu
certo di non esserselo immaginato; negli occhi del sergente si era
appena
formata una decisione.
****
Londra,
Diagon Alley.
Laboratorio di Bacchette Stevens.
“Campione di
nucleo di
bacchetta per voi, Signor Apprendista!”
La voce di Albus lo sorprese quanto la manata leggera che diede al filo
delle
sue cuffie. Tom alzò lo sguardo e si trovò
davanti una boccetta delle
dimensioni di un mignolo con dentro un filo argentato che si avvolgeva
a
spirale attorno a sé stesso.
Eccola.
“Proviene dalla
bacchetta…”
“ … di Sören, sì.”
Confermò Al, che a quanto pare quel giorno provava diletto
nel
finire le frasi al posto suo.
Stevens, che doveva averlo fatto entrare, abbandonò il
lavoro per avvicinarsi.
“È il ragazzo la cui bacchetta dobbiamo studiare,
giusto?”
“Prince,
sì.” Confermò:
qualche giorno prima lui e l’Artigiano erano andati al San
Mungo di persona,
per quanto l’uomo poco gradisse avventurarsi fuori dal suo
laboratorio. La
curiosità verso quella faccenda era stata però
maggiore.
Quello
Smethwyck è sgradevole come racconta Al. Pareva
quasi ci facesse un favore, a chiederci un consulto.
Al passò la
provetta
all’artigiano e poi si sedette sul ciglio del tavolo da
lavoro, mordicchiandosi
il labbro. “Le analisi del sangue non hanno evidenziato nulla
… Così
stamattina l’abbiamo fatto tornare per
una biopsia al braccio. Bisogna capire in cosa è diversa la
sua bacchetta.
Perché le altre non hanno protetto i loro
padroni.” Ricordò qualcosa di colpo.
“Ah, e poi nei prossimi giorni dovrebbe arrivarvi un bel
po’ di pergamena
dall’America…” Si voltò verso
di lui. “Riguarda il braccialetto di controllo
magico che ha al polso.”
Fantastico.
Nuove invenzioni che avrò tutto il tempo di
studiare senza ficcanaso a chiedermi cosa sto facendo e
perché ritardo nelle
consegne.
È
per il bene comune, dopotutto.
Il suo entusiasmo si
rifletteva sul volto di Stevens. “Faremo il
possibile.”
E non vediamo l’ora.
“Ricordatevi anche di lavorare, tra una ricerca ed
un’altra … Non vorrei
davvero che Brooke vi soffiasse tutti i clienti.”
Sospirò Al lanciando loro
un’occhiata paziente.
Stevens, come lui, non parve
turbato dalla prospettiva. Non a caso era il suo mentore.
“Vado a prepararti un
the, Al.”
“Ti ringrazio Rupert, ma sto andando via.” Lo
fermò alzandosi. “Sono passato
solo per fare la consegna.”
Quando l’uomo se
ne fu andato
però non diede cenno di voler prendere la porta,
scivolandogli invece sulle
ginocchia e passandogli le braccia attorno al collo.
“Cosa?” Gli chiese
perplesso. “Avevi detto che dovevi andartene.”
“Sempre carino.” Mugugnò strofinandogli
il naso sulla guancia. “Forse ho cinque
minuti di margine e li voglio passare con te?” Quando Al
cercava il contatto
fisico a quell’ora, di fronte ad altri e senza dar
avvisaglie, di solito era
sintomo di qualche malessere interiore. Chiederglielo però
senza un’adeguata
mediazione l’avrebbe solo fatto irritare.
Non
posso non aver secondo fini Tom?
No.
Se lo strinse contro per
baciarlo a lungo, disciplinando la libido per non far sfociare la cosa
in altro, che comunque avevano
spettatori,
per quanto con sensi offuscati.
Ed
io ho del lavoro da fare.
Lottando contro
l’impazienza
si sforzò di essere gentile. “Al, che
succede?”
L’altro fece un
mugugno poco
contento. “È Sören …
L’ho incrociato quando hanno terminato gli esami. Non ti
preoccupa?”
“Dovrebbe?”
Strinse la presa
passandogli le dita lungo la spina dorsale finché non lo
sentì sciogliersi
contro rilassato. “Cos’ha fatto?”
“Niente in
realtà. È solo che
ha l’aria di una persona … beh, che non sta bene.
Credo che tutta questa
faccenda lo stia logorando.” Fece una pausa. “E
Lils non sapeva che sarebbe
venuto in ospedale.”
“O ve la sareste trovata trai piedi.”
“Già. Mi sa che hai ragione, la sta
evitando.”
E
questi sono affari nostri perché …?
Non
lo disse però. L’ultima cosa di
cui aveva voglia era di litigare con l’altro per via di
Prince. Avrebbe avuto
del ridicolo. “Avresti dato un braccio per questa
eventualità … e adesso vuoi
che interagiscano?” Obbiettò razionale.
“Non capisco.”
“Non voglio che
interagiscano.” Lo corresse poco convinto.
“È che mi dispiace.”
“Per
lui?” Domandò sorpreso.
Albus era una persona empatica, capace di soffrire terribilmente se le
persone
che amava avevano qualche cruccio.
Ma
per le persone che non considera non perde notti di
sonno. Da quanto si è affezionato a Prince?
“È che
siete più simili di
quanto pensi.” Disse staccandosi per guardarlo speculativo.
Non c’era niente da
fare, quando gli piantava addosso quei suoi enormi occhi verdi si
sentiva sempre
in dovere di provargli qualcosa.
Che
me lo merito, forse.
Patetico.
“In che
senso?” Capitolò. “A
parte avere i capelli neri.”
“Scemo…” Sorrise. Gli premette un dito
sullo sterno, nel punto che molti dei
suoi detrattori pensavano avesse vuoto. “Vi tenete dentro
tutto quello e
pensate che non si noti. Invece si nota, eccome.”
“Tu lo noti. Non
presupporre che
l’intero universo sia in grado di decifrarmi.”
Borbottò infastidito. “Altro?”
“Non avete un
briciolo di
auto-ironia e vi credete culturalmente migliori di metà
della popolazione
magica.”
“Ma io lo sono. E si dice culturalmente superiori.”
Al roteò gli occhi al cielo. “Giusto. Anche lui ha
il tuo stesso brutto vizio …
corregge le persone. Ha quasi mandato ai pazzi Jamie.”
“James
è una capra. Il
desiderio di correggere le bestialità che gli escono dalla
bocca è
comprensibile.”
Al gli rifilò uno
schiaffo
sulla spalla. “Sören rimane comunque
più educato e gentile di te.” Soggiunse tentando
di non ridere.
“Questa
rivelazione non mi
farà dormire la notte.” Lo pizzicò di
rimando sul fianco, facendolo sussultare
oltraggiato. “Non mi ami perché sono educato e
gentile.”
“No, proprio per
niente.”
Convenne massaggiandosi il punto dolorante. “Lo so, abbiamo
già fatto questo
discorso … ma vorrei che ci provassi sul serio, a parlargli.
A parte Lily, che
evita, e quel Magonò, non credo abbia degli amici
qui.”
Tom non poté fare a meno di guardarlo perplesso.
“E dovrebbe considerare me
suo amico? Solo perché siamo cugini?”
Sospirò. “Al, renditi conto
che…”
“Va bene.” Lo fermò spazientito
alzandosi dalle sue ginocchia. Era ridicolo, stavano
litigando per Sören Prince. “Sto
solo dicendo che ormai questa faccenda ci ha collegati tutti
… nel bene e nel
male. Forse … forse ho pensato che fosse
un’opportunità per avvicinarvi.
Nessuno di voi due brilla per avere una cerchia sociale
ampia.”
“E quindi? A me va benissimo così.”
Replicò stizzito. Non riusciva a capire
perché Al si fosse tanto impuntato sul far diventare lui e
Prince amici per la
pelle.
Non
quando non vuole che si avvicini a sua sorella.
Perché
due pesi e due misure?
Al si morse un labbro,
afferrando la tracolla e passandosela sopra la testa. “Ti
ricordi quando mi hai
detto che avresti potuto essere tu?” Chiosò
sibillino.
No, non se lo ricordava.
“Essere
io cosa?”
“Sören. Avresti potuto essere come lui. Se Coleridge
non ti avesse rapito e
portato qui in Inghilterra … se papà non ti
avesse trovato…” Buttò fuori e
quella rivelazione sembrava nuova anche alle sue stesse orecchie
perché lo
guardò incerto. “Avresti…”
“Sarei stato io il suo
braccio
destro.” Realizzò e la rivelazione lo
colpì come uno Schiantesimo infuriato.
Prince
ha preso il posto che avrebbe dovuto essere mio.
Von Hohenheim ha ripiegato su di lui perché credeva di
avermi perso. La
bacchetta avrebbe potuto essere nel mio
braccio.
Al esitò, forse
intuendo cosa
gli passava per la mente. “Non sto
dicendo…”
“Lo so che non è colpa mia quello che mio padre
gli ha fatto.” Tagliò corto,
frustrato. Non lo era, ma ormai una serie di obblighi irritanti si
stavano
formando nella sua testa. Non sarebbe servito a niente scacciarli o
tentare di
razionalizzarli. Sarebbero rimasti. “Comunque io
non sarei stato così manipolabile … A ruoli
invertiti, Lily non
avrebbe potuto fare granché per tirarmi dalla parte
giusta.”
“Che c’entra Lily?” Sorrise
l’altro, dandogli un calcetto sulla gamba. “Ci
avrei pensato io.”
Tom gli passò un
braccio
attorno alla vita e premette il viso contro la stoffa della sua
discutibile
maglietta dei Chudleys. “Certo che ci avresti pensato
tu…”
Il cuore di Al batteva calmo e regolare, metronomo stesso di ogni sua
notte,
mentre gli passava le dita trai capelli.
Metronomo
della mia vita.
“Ti ricordi dove
alloggia?” Se
ne sarebbe pentito, ne era sicuro. Non avrebbe saputo cosa dire e
avrebbe
finito per rinunciarvi.
Ciononostante,
doveva almeno provare.
We'd
never know what's wrong without the pain
Sometimes the hardest thing and the right thing
are just the same
****
San
Mungo, Pomeriggio.
James entrò nel
padiglione
Thickey con la speranza di trovarci sua sorella, ma a dirla tutta fu
sorpreso
quando ce la trovò davvero.
Non dovrebbe avere delle vacanze?
Albie quando era una matricola a Luglio se ne stava in giro per il
mondo a
studiare robe puzzolenti, non certo qui.
La sorella minore invece
stava
chiacchierando amabile con un tizio biondo con una vezzosa vestaglia a
fiori e
non sembrava aver voglia di partire per nessun luogo esotico.
Avvicinandosi
notò come stessero passandosi delle carte della grandezza di
tarocchi per
Divinazione, solo con figure come fiori o oggetti.
Lily sentendolo arrivare si
voltò e gli sorrise. “Ehi Jamie!” Si
rivolse poi al paziente. “Gilderoy, questo
è mio fratello James … mi pare di avertene
parlato qualche volta.”
Qualche volta?
“Ohi, guarda che
hai solo due
frate…” Iniziò ma fu tacitato da
un’occhiataccia dell’altra.
Cosa?
Capì
il sottointeso quando il mago
aggrottò la fronte pensieroso. “Temo, mia cara
… di non rico…” Balbettò
incerto, una persona opposta a quella che gli era sembrato
all’entrata.
“Rosso.”
Disse apparentemente
senza senso Lily, ma l’uomo parve trovarci qualcosa di
sensato perché si
illuminò.
“Rosso,
leone, Pluffa e alba!” Recitò come una
filastrocca. “Tuo
fratello James, è stato a Grifondoro, giocava come Cercatore
ed è un
Auror!” Concluse
trionfante.
Lily applaudì.
“Ottimo
Gilderoy!” Gli comunicò allegra, tendendosi oltre
il tavolo per stringergli le
mani. “Oltre Ogni Previsione!”
“Uh …
interrompo qualcosa?” Si
sentì in dovere di inserirsi. Dopotutto stavano parlando di
lui!
“No, abbiamo
finito …
Gilderoy, ti dispiace mettere a posto le carte e aspettarmi? James deve
parlarmi.”
Aagh, odio quando fa la LeNa!
Dopo che si furono
congedati, Lily
gli rifilò un sorrisetto saputello: era la sua adorata
sorellina, ma quando
faceva quella faccetta si sarebbe meritata uno scappellotto.
“Guarda che non
sto usando i miei poteri …” Cinguettò
compiaciuta. “Ti fai vedere qua, dopo
orario di lavoro e hai l’aria di uno che ha un gran bisogno
di una
chiacchierata. È semplice buonsenso.”
“Sei insopportabile lo stesso.” Sbuffò
facendola ridacchiare. Era la prima
volta che metteva piede nella sala ricreativa del padiglione e doveva
ammettere
che era accogliente, con tutti quei disegni infantili, fiori disposti
ovunque e
arredamento allegro e colorato. “C’è un
macello di roba.” Osservò prendendo in
mano quello che aveva tutta l’aria di essere
un’innaffiatoio, infilato in uno
scaffale insieme ad una serie di bambole e un vecchio giradischi.
“Beh, è un po’ il punto della faccenda.
Dovevi vedere com’era prima che
arrivasse la Patil, era tutto bianco.
Queste persone hanno bisogno di stimoli, non di una specie di
limbo.” Lily gli
fece cenno di seguirla, accomodandosi su un divano giallo canarino
dall’aria
sfondata e comodissima. “Hanno tutti aiutato a
decorare.”
“I disegni li hanno fatti loro?” James
staccò dal muro un foglio con una buona
dose di tempere e dita. “Non dei bambini?”
Lily scosse la testa.
“Alcuni
di loro praticamente lo sono.”
“Tipo i genitori
di Nev?”
“Tipo.” Il volto si aprì in un sorriso
entusiasta, come capitava quando parlava
dei suoi pazienti. “C’è questa terapia,
che viene usata interpretando delle
terapie neuro-cognitive Babbane … e funziona.
Sai, il cervello è diviso in aree, e incantesimi come la Cruciatus nella maggior parte dei casi
danneggiano solo il lobo
frontale, ma lasciano intatti i restanti. Se si
esercita…”
“Lils, non ci capisco un accidente … ma sembra
grandioso, sul serio.” Replicò
divertito: era strano sentirla parlare con tanta competenza di qualcosa
che non
fossero vestiti o scarpe.
Sarebbe
stato strano cinque anni fa.
Cioè,
è sempre stata un sacco sveglia, ma della roba da
cervelloni se n’è sempre fregata.
Sua
sorella era una persona diversa
adesso. Era bello e insieme un po’ triste constatarlo.
“Certo che
è grandioso.”
Constatò calciando via gli zoccoli ortopedici e
raggomitolandosi sul bracciolo;
quel posto la metteva a suo agio, lo si capiva da come ci si muoveva
dentro.
Come
se si sentisse … al sicuro.
Forse
è per questo che non vuole andare in vacanza?
Qualunque fosse il motivo
purtroppo non aveva il tempo di indagare. “Volevo parlarti di
quel che hai
detto a Teddy oggi…”
Lily annuì. “Che posso darvi una mano con Ben,
sì.” Prese una pausa, afferrando
un cuscino dietro la schiena e cominciando a sgranarne le frange. Gli
lanciò
un’occhiata e sbuffò. “Non io, ovvio
… sono una studentessa. Pensavo alla
Patil.”
“Ma lei si occupa…” Si morse il labbro
appena in tempo. “… di persone con danni
al cervello, no?”
“Non si occupa
solo dei matti.” Lo
freddò irritata. Assieme alla
McGrannit, la tizia era l’unica strega con cui Lily non
andasse in conflitto,
guai quindi ad insultarla. “È una Psicomaga, e gli
Psicomaghi lavorano anche con
chi ha subito traumi emotivi.”
“Okay, scusa.” Borbottò velocemente.
“È vero, non parla e non mangia.”
Ed era la cosa peggiore di
tutte, forse, perché significava che non voleva neanche provare a stabilire un contatto con
loro.
Teddy
ci sta da cani. Tonto com’è, penserà
che è colpa
sua …
“Pensi che non
abbia mai
imparato? Dico, a parlare.” Chiese, perché voleva
disperatamente avere qualcosa
su cui intervenire, da combattere invece
che fissare impotente un piccolo bozzolo di coperte ostile.
Lily esitò, poi
scosse la
testa. “Non lo so, Jamie … Però
presupponiamo che sia vissuta nella società
magica, anche se ai suoi margini. E suo padre sapeva parlare. I bambini
imparano dall’ambiente che li circonda … a meno
che non sia stata davvero cresciuta
dai lupi, credo
proprio ne sia capace.”
James tirò un
sospiro di
sollievo. Quella era una buona notizia. “Quando pensi che la
Patil possa venire
a darle un’occhiata?”
“Le
parlerò domani.” Rispose.
“Tiene un ciclo di seminari in Svizzera in questo periodo e
oggi non era a
Londra…” Fece un gesto vago della mano.
“Ha lasciato a noi studenti il solito
giro di visite.”
“Anche le
terapie?” Spiò con
naturalezza e l’altra ci cascò con tutte le scarpe.
“No, le terapie
oggi non erano
previ…” Si bloccò, guardandolo male.
“… Cosa?”
“Perché sei qui Lils? Il giro di visite
è la mattina.” Indicò Gilderoy che
stava finendo di mettere via le carte. “Scommetto che stasera
non dovevi
aiutarlo.”
L’altra si strinse
le braccia
al petto, in posa
difensiva. “E quindi? Sono
comunque cose che devo tenermi a mente anche se sono finiti gli esami.
La Patil
mi riempie di domande ogni giorno che Merlino mette in
terra!”
“Ehi, stavo solo chiedendo!” Si difese.
“È carino qui, non fraintendermi … ma
passare tutto il giorno a lavorare?” Le tirò una
ciocca di capelli dispettoso.
“Che ne hai fatto di mia sorella?”
Lily ridacchiò,
schiaffeggiandogli
via la mano. “Mi piace
stare qui.”
Gli assicurò. “Non è lo stesso per te
quando indossi l’uniforme?”
“Quando non devo seguire dei casi del cazzo come quello di
adesso, sicuro.”
Ma
io non ci pianto le tende nell’ufficio Auror.
Non glielo fece notare
però: sua
sorella sapeva che se avesse avuto
bisogno di un orecchio avrebbe sempre avuto il suo. Si
alzò in piedi. “Okay.” Disse in tono
definitivo. “È tutto … grazie per
avermi fatto approfittare di te.”
“Ehi, sfruttare le rispettive conoscenze è
retaggio Potter.” Ghignò facendolo
ridere. “Senti…” Il sorriso le si spense
sulle labbra intuì che era una domanda
seria. “ … come sta Ren?”
Eccerto.
Non è una vera chiacchierata con Lils se quel
Prince non spunta fuori.
“Come vuoi che
stia? È il
solito rompicoglioni.” Mentì con una scrollata di
spalle. Il pipistrello poteva
non andargli a genio, ma non avrebbe spifferato i suoi problemi.
“Non siete
culo e camicia? Perché non glielo chiedi di
persona?”
Lily lo guardò a
lungo, sembrò
accorgersi di qualcosa – che aveva mentito? Diavolo, era
sicuro – e sospirò.
“Sì.” Aveva l’aria un filino
inquietante quando serrò le labbra e fissò il
cuscino che aveva in grembo. Con uno sguardo simile avrebbe potuto
tranquillamente fargli prendere fuoco. Erano maghi: non era scontato
che non
succedesse. “Lo farò.”
****
Diagon
Alley, Paiolo Magico.
Ora di Cena.
Prendere in prestito Sally
da
Albus, indossare uno dei suoi vestiti più carini e
appuntarsi i capelli per non
farli svolazzare ovunque erano tre cose in apparenza banali, ma sommate
assieme
davano il piano perfetto; Lily
parcheggiò il motorino di fronte all’entrata del
Paiolo Magico e dopo essersi
sfilata il casco senza che i capelli accusassero il colpo –
adorava
l’incantesimo PiegaPerfetta – premette i giusti
mattoni ed aspettò che
l’entrata le si palesasse davanti.
Vengo
a prenderti, Ren.
All’interno
intercettò Milo,
seduto al bancone mentre chiacchierava con il proprietario.
“Zenzero!” La
salutò. Da come stava mettendo dell’arrosto e un
boccale di birra su un vassoio
doveva stare per servire la cena a Sören. “Qual buon
vento ti porta in questo
angusto quarto di mondo?”
“Indovina.”
Ironizzò. “Il tuo
amico si è scordato come si usa un cellulare
Babbano?”
“Non ha mai
imparato, è negato.”
Si strinse nelle spalle. “Dai, che ha combinato?”
“A parte
inventarsi scuse
patetiche su improbabili impegni serali?” Replicò
facendolo ridacchiare: come
si aspettava, il biondo era perfettamente a conoscenza
dell’intera faccenda.
E a
quanto pare, tifa per me.
“È di
sopra. La cena gliela
porti tu?” Chiese infatti porgendogliela. “Sei una
cameriera molto più carina
del sottoscritto.” Si guardò e sbuffò.
“Nah, scherzavo. Sono più bello io.”
“No, non credo.” Gli rispose per le rime e si
sorrisero.
Tra
simili ci si riconosce.
“Sicuro che non
disturbo?”
Chiese, perché un intervento forzato come quello aveva comunque bisogno di qualche
rassicurazione.
Milo alzò le
spalle. “Disturbi
solo l’eterno rimuginare di un Goethe con la bacchetta. Ti
prego, salvami dal
trascorrerci una serata assieme!”
Lily sbuffò
divertita,
dandogli una pacchetta sul braccio solido.
“Grazie.” Alla sua aria perplessa
aggiunse. “Per prenderti cura di lui. Stai facendo un gran
lavoro.”
Qualcuno
dovrebbe riconoscerglielo.
Poté quasi
calcolare la
testardaggine con cui l’altro si impose di non arrossire.
“È solo un lavoro.” Ribatté
un po’ fiaccamente. Prima che potesse andarsene
però la richiamò. “Zenzero,
ehi.” E il tono era serio, come l’accento
più denso segnalava disagio. “Vacci
piano con lui, okay?”
Si sentì in
dovere di
rispondere con altrettanta serietà. “Sto facendo
del mio meglio.”
Salì le scale
sentendosi il
cuore in gola e quando bussò era ormai convinta di aver
fatto mortale cazzata.
Ma
ehi, altrimenti non sarei io.
Non ebbe neanche il tempo di
ripensarci, che Sören aprì la porta. Senza
maglietta.
Oh,
addominali.
Distogliendo riluttante lo
sguardo dal fisico asciutto e definito che aveva davanti – e
chiedendo perdono
a Scott un paio di volte – gli rivolse un sorriso a trentadue
denti. “Servizio
in camera!” Trillò con tutta l’allegria
di cui era capace. “Anche se lasciatelo
dire, la cucina qui lascia piuttosto a desiderare.”
“Lilian…”
Non stava aiutando
il fatto che la stesse squadrando come un Babbano avrebbe guardato ad
un
fantasma.
Decise di andarci
già pesante
per scuoterlo dal torpore. “Apri sempre senza maglietta?
Perché adesso capisco
perché ho dovuto fare a botte con tre cameriere per prendere
questo vassoio.”
Prevedibilmente, timido com’era, Sören
avvampò fino alla radice dei capelli e incrociò
le braccia al petto.
Come
se avesse qualcosa da nascondere … Certo, dovrebbe
mettere un po’ di carne, oltre che muscoli su quelle ossa,
direbbe nonna…
Ma io non sono mia nonna.
Non riusciva a prenderlo in
giro quando aveva quell’aria così sconvolta.
“Ren, rilassati, stavo
scherzando.” Gli mise il vassoio in mano. “Volevo
farti una sorpresa.”
“Ci sei riuscita.” Disse brusco, contemplando
l’arrosto come se potesse
contenervi la formula per l’Elisir di lunga vita.
“Che ci fai qui?”
Wow.
Complimenti per il tatto.
Si rifiutò di
sentirsi ferita,
perché sapeva che quando veniva preso all’angolo,
si irrigidiva e diventava
piuttosto antipatico. “Avevo voglia di vederti.” Si
strinse nelle spalle. “E
per inciso, sei un bugiardo.”
“Lily,
non…”
“Straordinari al lavoro? Per favore.”
Tenere la collera a bada non era facile quando molte delle ferite che
l’altro
gli aveva inflitto erano ancora in via di guarigione. “Se non
ti va di vedermi basta
dirlo.”
“Mi va di vederti!” Esclamò e sembrava
arrabbiato quanto lei. “Non è questo!”
“Allora
cos’è?”
Un muro di silenzio accolse
la
sua risposta. Poi Sören sospirò, facendole cenno di
aspettare mentre andava a
mettere via la cena. Quando ritornò aveva indossato una
camicia ma sembrava ancora
sulle spine. “Vuoi entrare?” Le chiese.
“No, voglio farti
uscire.”
Replicò. “Sei a Londra da quanto, un mese? Quanto
hai visto della città …
dell’Inghilterra? Quest’estate pare quasi vera, il
tempo è decente! E tu non
esci.” Non aspettò che ribattesse.
“Rinchiuderti dentro una stanza polverosa
non ti aiuterà a star meglio.”
“Non sto male.”
“Raccontalo a qualcun altro.” Magari stava calcando
troppo la mano e stava
esagerando. Ma non era la sua terapeuta.
Sono
sua amica. Non sono tenuta ad attenermi alle
regole.
“Mi hai detto che
volevi che
diventassimo amici non solo su carta.” Cercò il
suo sguardo, ma non riuscì a
trovarlo dato che lo teneva piantato a terra. “Lo intendevi
sul serio o…” Cercò
di mantenere il tono fermo, ma le uscì tremolante.
“… o stavi soltanto cercando
di spegnere i sensi di colpa?”
L’altro
alzò gli occhi di
scatto e fu il solito, discreto, pugno allo stomaco. Non si sarebbe mai
abituata. “Non è senso di colpa, non è mai
stato un senso di colpa.” C’erano così
tante emozioni che stava trattenendo che
per lei sarebbe stato semplicissimo entrare.
Non
si sta neanche Occludendo.
…
No.
Il suo potere non era
qualcosa
a cui potesse ricorrere ogni qual volta le cose si facevano confuse.
“Parlami.”
Gli afferrò una
mano e gliela strinse. “Non posso e non voglio frugarti
dentro la testa.” Alla
sua espressione sorpresa, sorrise. “Non è
così che funziona quando ci si fida
di qualcuno. Ed io mi fido di te. Non tagliarmi fuori, per
favore.”
Gioca
la carta dell’onestà, Lily. Vediamo se non torna
indietro a morderti il sedere.
Sören le strinse di
colpo la
mano, con forza, senza dosare. Le fece un po’ male, ma lo
ignorò perché era una
risposta. Era un sì.“Non
usi il tuo
potere su di me … per questo?”
Lo guardò
sorpresa. “Per
cos’altro? Non voglio scoprire cose di te che non vuoi dirmi.
Di nessuno in
realtà. Hai idea di che disastro sarebbe? È un
po’ la regola aurea di ogni
Legimante Naturale.”
Sören le sorrise.
Avrebbe
dovuto farlo di più, perché era la sua
espressione migliore. “Non accetterai un
no come risposta, immagino.”
“Immagini bene.”
“Mi dai un paio di minuti? Non credo di essere
presentabile.”
“Con
quest’aria stropicciata
sei sexy, ma lungi da me darti consigli sul look.”
Motteggiò godendosi
l’ennesimo, tenerissimo, rossore. Forse era sbagliato, ma
imbarazzarlo era terribilmente
divertente. “Anche se quella giacca di pelle da cattivo
ragazzo che hai
indossato al compleanno di Sy…”
“Lily, vai.” E il fatto che stesse sbuffando era un
segno distensivo. Lily si
sarebbe battuta un cinque da sola, ma non aveva più quindici
anni.
Però
ho vinto. Ah!
“Ti aspetto
giù!”
Scese le scale molto
più
leggera di quando le aveva salite.
Non aveva potuto dire di no.
Non era riuscito a dire di no
perché
Lily era Lilian, la sua Lilian e non aveva mai tentato di leggerlo
perché si
fidava di lui. Si era fatto delle paranoie inutili: Lily non aveva
scoperto
niente su cosa provasse davvero perché voleva comportarsi
semplicemente come
una persona normale, una persona che a domanda riceveva risposta. Non
lo aveva
letto per riguardo, non perché non voleva saperne niente di
lui.
Sei
un idiota.
Un idiota perdutamente
innamorato, gli ricordò la sua sadica coscienza mentre
scendeva le scale con lo
stupido giubbotto di pelle e con i capelli che gli finivano sugli occhi.
“Oh, guarda un
po’ chi ha un
appuntamento stasera.” Gli fece Milo, seduto al bancone con
la consueta pinta
di birra da un lato e uno spinello acceso tra le dita. “E mi
hai dato
finalmente retta su quella tua orrida leccata di mucca! Alziamo dunque
i lieti
calici e libiamo!”
“Non ho un
appuntamento.” Dovette
ricordargli per ricordarsene lui stesso. “Lilian vuole solo
farmi vedere Londra
di notte.”
“I capelli ti
stanno bene,
smettila di torturarli con le dita.” Fu la risposta.
“Vedi amico mio?” Fece un
cenno al barista che annuì comprensivo, come il ruolo
imponeva. “Il bambino
diventa grande.”
“Sei un idiota.” Lo salutò prima di
imboccare l’uscita.
Lily lo stava aspettando ed
era bellissima, con i capelli raccolti e le gambe affusolate racchiuse
nella
stoffa colorata di un vestito estivo. Era seduta sopra quello che
riconobbe
come essere il motorino di Albus: se lo ricordava da una foto.
“Ren, ci metto
meno tempo io a prepararmi!” Motteggiò porgendogli
il casco. “Andiamo, che la
notte è giovane!”
Lo indossò, scavalcando il sellino e sedendosi dietro
obbediente quando gli
venne fatto cenno.
“Hai la
patente?”
“Mago di poca
fede.” Replicò voltandosi
per abbassargli la visiera. “Noi Potter abbiamo la guida
sicura e spericolata
nel sangue!”
“Sicura e spericolata non dovrebbero stare nella stessa
frase, in teoria…”
“Tu dici?” Il sorriso maniacale con Lily lo
inquietò un poco. Molto. Ma allo
stesso tempo la testa leggera gli impediva di preoccuparsi.
Era proprio un cretino. Ma
aveva sentito dire che gli stupidi vivevano felici e per ora gli
bastava
questo: non erano briciole quelle che gli dava Lily, mai. Era la sua
amicizia.
E bastava.
Almeno
per una sera.
Aveva fatto bene a portar
fuori Sören.
Il motorino di Al era sfrecciato ligio sull’asfalto della City, in un caos multicolore di suoni,
luci e notte e l’amico vi
si era rilassato: occhieggiando lo specchietto
retrovisore l’aveva visto bersi ogni sua spiegazione sui
luoghi che aveva
visto, vissuto e visitato appena uscita da Hogwarts con la
libertà che le
scorreva nelle vene.
Goditela
un po’ anche tu, Ren.
La prova era il fatto che
dall’afferrare distaccato le maniglie ai lati del sellino,
aveva finito per
tenerle le mani sui fianchi. Le aveva sempre calde.
“Ehi, qua. Qui
è perfetto!” Lily
si sedette sul pontile di cemento e sassi del Camden’s Lock;
da sotto il grande
salice accanto alla chiusa si aveva una visuale suggestiva delle luci
sul
canale, mentre la marea vitale e rigurgitante del quartiere si muoveva
senza
per questo disturbare i pensieri. “Tagliava
la vita come una lama e al tempo stesso ne rimaneva al di fuori,
spettatrice.”
Recitò indicando l’ambiente attorno a loro.
“Camden mi fa sempre venire in
mente questa frase, ma morissi se mi ricordo di chi
è…”
“È di Virgina Woolf.” Le rispose pronto.
“Giusto! La Signora Dalloway!”
“La Signora Dalloway disse che i
fiori
sarebbe andati a comprarli lei…”
Recitò Sören divertito. Lui e Scott erano
gli unici con cui potesse parlare di libri senza sentirsi un cagnetto
che
compiva un gioco di prestigio.
Le si sedette poi accanto,
stringendo tra le dita il bicchiere di plastica pieno di lager
che aveva preso ad un vicino chiosco per non lasciarle bere
da sola. In quel momento sembrava un ventenne qualunque, con la frangia
spettinata dal vento e la sigaretta accesa tra le labbra.
Ho
vinto. Di nuovo.
Era una bella vittoria,
perché
faceva vincere anche l’altro. “Allora …
Londra di notte.” Esordì giocherellando
con l’ombrellino che ornava il suo bicchiere. “Cosa
ne pensi?”
“È
bella.” Si voltò per
guardarla. “Ti si addice.”
Immaginava che essere lusingata fosse del tutto naturale.
Cercò di non darlo
troppo a vedere. Quello, e il rossore che le era salito al viso.
“Stupido
perdersela per un mese, eh?”
“Molto.”
Lily avrebbe voluto fermarsi
lì. Quella era la serata di Sören, non la sua o dei
suoi problemi. Ma non ci
riusciva. L’atmosfera rilassata le fece uscire le parole di
bocca senza che
potesse frenarle.
“Continuo ad avere
quegli
incubi.”
L’amico distolse
lo sguardo da
una coppia al di là del fiume, intenta a chiacchierare e
seduta sulle sponde
come loro. “Quanto spesso?” Il tono era tranquillo,
ma da come fece Evanescere
la sigaretta capì che il momento distensivo era appena
finito.
Scusami.
Scusami tanto.
“Tutti i giorni?
No, in realtà
non sempre … ma spesso.” Si girò il
bicchiere tra le dita, ascoltando distratta
le note di una canzone provenire dalle porte aperte di un pub poco
distante. “Sto
vedendo la Patil, di nuovo … aiuta, però
… non lo so.”
Well I
woke up to the sound of silence and cries were cutting like knives in a
fist
fight
And I found you with a bottle of wine
Your
head in the curtains and heart like the Fourth of July
Sono
una stupida … Perché ho rovinato le cose?
Quella serata avrebbe dovuto
essere priva di problemi, solo risate e compagnia, ma se Sören
aveva bisogno di
lei per staccare la spina …
Io
ho bisogno di lui. Solo lui può capirmi.
“Pensavo di essere
andata
oltre.” Rivolse lo sguardo sotto di sé, alle acque
scure e piene di riflessi di
luci del Regent’s Canal. Sentendo freddo – era un
estate quasi mediterranea ma
erano comunque in Inghilterra
– si strinse
le braccia al petto.“A quanto pare mi sbagliavo.”
Sören non disse
niente per un
bel pezzo, poi lo sentì muoversi accanto a lei. Non fu
sorpresa – era così da Ren
- quando le fece scivolare il suo
giubbotto sulle spalle. Conservava parte del suo calore e dovette
frenare i
lucciconi.
Queste
cose mi commuovono a morte.
“Lilian, mi
occuperò di questo.
Te lo prometto.”
Aveva
un’espressione
determinata, come un soldato con un obbiettivo. La stessa espressione
di suo
padre nelle foto che lo ritraevano adolescente, quando ancora Voldemort
era una
minaccia.
Sorrise appena.
“Lo so che lo
farai … Sei un tipo tosto.”
“Non credo.”
“Lo sei.” Ribadì. “Guardati
… Cinque anni fa ti saresti mai immaginato
così?”
Qualcosa di indecifrabile
–
argh, lei e la sua stupida promessa di non guardargli dentro!
– passò negli
occhi dell’altro. “No.” Rispose piano.
“No, non direi.”
Si stava chiudendo di nuovo
in
sé stesso. Era quindi il momento di mettere in atto
l’ultima parte del suo
piano. Magari era un’idea stupida, ingenua, ma se avesse
funzionato…
Se
funziona, se mi dà retta … Potremo davvero
aiutarci
a vicenda. Non saranno solo chiacchiere.
“Come fai a non
avere paura?”
Gli chiese. “Come fai a controllare questa cosa?”
Sören si strinse nelle spalle con un sorrisetto amaro.
“Mi alleno. Mi stanco finché
non ho più un filo di energia in corpo. Tengo la mente
occupata.”
“Potresti
insegnarmelo?”
Se un Ippogrifo si fosse
messo
a danzare il tip-tap di fronte a loro l’altro non sarebbe
sembrato così
sconvolto. “Cosa, ad allenarti?”
Lily frenò una
risatina trai
denti. “Non quella roba massacrante che fai tu …
Penso non arriverei viva al
giorno dopo. Vai spesso all’Accademia di Duello
però. Me l’ha detto Dion.”
Aggrottò le
sopracciglia. “Vuoi
che ti insegni a duellare?”
Lily si strinse nelle
spalle.
“Forse.” Ammise. “A difendermi.
Perché se qualcuno mi prendesse alle
spalle…”
Come
ha fatto John Doe.
“… non saprei da che parte
iniziare per salvarmi
la vita. Anche con una bacchetta in mano. E ci ho pensato …
questo mi
spaventa.” Inspirò perché non era mai
semplice dire la verità. “Quando ero al
San Mungo e l’agente Flannery è entrato
… se non foste arrivati voi ragazzi, se
tu non l’avessi Schiantato via da me … Ero
paralizzata, Ren. Avevo una
bacchetta e potevo…”
“Avresti potuto esser contagiata.”
“Non è questo il punto, e lo sai.”
Sören annuì e gli fu grata quando non chiese altre
spiegazioni. Era quello che
avrebbero fatto molti, forse tutti. Non Ren, che rimase in silenzio per
quasi
un minuto intero, prima di parlare. “Va bene.”
Sembrava essersi convinto perché
l’intera postura si rilassò. “Posso
insegnartelo.”
Lily sorrise: come aveva
immaginato quello era il metodo migliore per prendere la Pluffa e
trovarsi
anche il Boccino tra le mani.
Se
mi fossi offerta di aiutarlo non avrei risolto
nulla. Deve essere lui ad
aiutare me.
È questo che lo fa stare meglio.
Non essere aiutato … ma aiutare.
Non era la prima ad averlo
capito; Nora Gillespie le aveva dato l’idea.
L’aveva reso un agente perché
aveva capito il desiderio più intimo, profondo di un ragazzo
che dopo aver
visto e fatto tanto male voleva disperatamente fare del bene.
È
com’è fatto Ren.
Gli posò la testa
sulla
spalla. “Grazie.”
Le lanciò
un’occhiata di
traverso e un lieve sorriso ironico gli increspò le labbra.
“Aspetta a
ringraziarmi. Sarò un insegnante inflessibile.”
“Persino con
un’allieva carina
come me?”
“Soprattutto.”
Finirono quello che restava
delle loro consumazioni guardando in silenzio lo scorrere tumultuoso di
vita e
risate attorno a loro. Ma era un silenzio buono, di quelli che non
andavano
riempiti con le parole.
Non aveva mai avuto nessuno
come Sören nella sua vita, e ora che stavano ingranando di
nuovo non ci sarebbe
voluto molto prima che qualcuno le chiedesse la definizione di quel
rapporto.
La sua famiglia, Scott, i suoi amici…
Io
stessa finirò per chiederlo.
Ma per il momento andava
bene
così.
If
you're lost and alone or you're sinking like a stone
May your past be the sound of your feet upon
the ground
Carry on…
****
Note:
Devo far qualcosa per ridurre i capitoli. Me ne rendo conto. Argh.
(No, sul serio, diecimila
parole a botta NO.)
Ren e Lily … beh,
si
muoveranno. Baby steps. Anche se
nel
loro caso sono i passi di una giraffa ubriaca.
Questa
la canzone capitolo. Trovo questo gruppo esageratamente tenero.
Questa
invece è tutta colpa della scena Al e Tom, perché
i The Fray sono la loro
colonna sonora
– no, Tom, non metterò nessun gruppo deprimente e
non i Joy Division, capisci i
bisogni del tuo ragazzo.
Questa
invece non può che essere la canzone finale. La volevo usare
da eoni. Chiunque
abbia tirato fino a tardi con un buon gruppo di amici sa che colonna
sonora
perfetta è.
Camden: si
intende Camden Town, zona situata nel Nord di Londra. Spesso viene
chiamata
semplicemente "Camden", ma non per questo va confusa con l'intero
quartiere. Camden Town famosa per
l'affollato mercato e come centro di vita degli alternativi. L'area
è popolare
tra gli studenti, inclusi quelli che vengono da oltremare.
Camden Lock (foto)è
una tradizionale doppia chiusa attivabile manualmente, che opera fra
due
livelli ben separati. Un buon numero di mercati del fine settimana si
sono
insediati lì attorno fin dagli anni '70. Il Regent’s
Canal è invece una via d'acqua che origina dal
Paddington Basin e si fa
strada attraverso Regent’s Park e verso Camden, prima di
piegare a sud per
unirsi al Tamigi.
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Capitolo 24 *** Capitolo XXIII ***
You
said the past won't rest until we jump the fence
And leave it all behind
(Suburban
War, Arcade Fire)
9 Luglio 2028
Inghilterra.
Mattina.
Philippa Davos doveva
fuggire.
Il fatto che la sua vita fosse precipitata da finalmente degna di esser
vissuta
ad un incubo era qualcosa che avrebbe dovuto aspettarsi. Del resto non
era nata
sotto una buona stella, e non aveva mai preso una decisione giusta che
fosse
una da quando aveva lasciato Hogwarts.
Forse era stato il mai
risolto
desiderio di farla, quella scelta giusta, che l’aveva spinta
a rispondere
all’annuncio sul Profeta, a recarsi in un posto dove non
c’era un solo mago
inglese e farsi iniettare una schifezza sotto pelle come una Babbana
qualsiasi.
Philippa Davos aveva paura.
Mentre fino a una settimana
prima aveva ringraziato con tutte le sue forze il progetto Demiurgo, e
i maghi
e le streghe che le avevano permesso di prendere in mano la sua vita,
la sua bacchetta, senza avere il
timore di
combinare un disastro, adesso si trovava nella posizione di dover
rispondere a
dei messaggi che le arrivavano tramite un congegno Babbano chiamato
cellulare.
L’ultimo era
quello che le
stava facendo fare le valige adesso.
Quando aveva letto sul
Profeta
di cosa era accaduto al San Mungo – ad
un
auror! – e poi cosa aveva fatto quel ragazzo
all’Accademia di Duello –
ricordava di averlo incrociato per i corridoi, un tipo così
energico! – il
primo istinto era stato quello di recarsi al Ministero, il Ministero
che
aiutava, accoglieva e proteggeva, ma mentre stava per infilarsi nella
cabina
che ce l’avrebbe portata, un mago che non conosceva
l’aveva presa sottobraccio.
Un uomo alto, biondo e piuttosto piacente.
Le aveva detto di chiamarsi
Johan.
“Buongiorno
Philippa.”
“Lei … lei chi…”
“Calmati. Sono un amico. Non ci siamo conosciuti, credo,
né incrociati.
Progetto Demiurgo?”
“Oh
… lei…”
“Dammi pure del tu.” Un flash di sorriso bianco e
Philippa si era sentita
scioccamente arrossire. L’accento esotico dell’uomo
era piacevole, quasi una
carezza. “È perché sono un amico che ti
dico che stai commettendo un errore.”
“Le persone si sono … le persone si sono ammalate.
Quelle che come me…”
“Philippa, hai paura?”
“Co
… come?”
“Hai
paura.” Un attestazione. La presa sul suo braccio
era gentile e da lontano sembravano proprio una di quelle coppie da
fotografia.
“Ma il Ministero ne ha più di te. Quello che
è successo al San Mungo … uno
spiacevole errore non ricollegabile al nostro progetto.”
“Ma quell’Henry Price … mi ricordo di
lui! L’ho…”
“Vi stanno cercando Philippa.” L’uomo si
era scostato per accendersi una
sigaretta, facendole un cenno di scuse quando aveva mandato un
po’ di fumo
nella sua direzione. “Il Ministero inglese … beh,
in realtà qualunque
Ministero, non è d’accordo con quello che abbiamo
fatto. Il progresso ha sempre
un prezzo.”
“E
il prezzo sarei io?!”
L’uomo
aveva sorriso. “No.” Aveva risposto gentile.
“Non lo sarai se ti fiderai di me. Non vi abbiamo dato la
cura per poi
disinteressarci di voi.” Aveva battuto le nocche contro la
cabina telefonica
del Ministero. “Se scenderai là sotto non saremo
più in grado di proteggerti,
lo capisci?”
“Proteggermi
… da cosa?”
“Dalla
paura.” Si strinse nelle spalle. “Philippa, voi
siete il principio di una scoperta sensazionale. Voi siete rinati,
letteralmente.” Ricordava quella retorica, era quella che
aveva ascoltato
quando aveva preso la decisione di prendere in mano la sua vita.
“Le novità non
sono mai viste come opportunità dal potere, ma come
minacce.” Il tono si era
fatto serio. “Ti rinchiuderanno, ti renderanno una cavia.
Tutto quello che
vedrai sarà il sotterraneo del Ministero. Posso assicurarti
che chi non ci ha
dato retta adesso è lì.”
“ … allora cosa … Che faccio?”
L’uomo
chiamato Johan le aveva sorriso di nuovo,
chinandosi per farle scivolare qualcosa tra le mani. Era piccolo,
rettangolare
e molto lucido. “Sai come si usa un cellulare,
Philippa?”
Philippa Davos
sentì suonare
il campanello tre volte. Era quello il segnale convenuto. Prese la
valigia
facendola levitare e riducendosela per ficcarla in borsetta: questo il
progetto
Demiurgo era stato in grado di fare, e quindi perché non
fidarsi di Johan?
L’alternativa sarebbe stata finire nelle braccia di un
Ministero che l’aveva sempre
relegata ad una vita da invalida.
Non
sono una Maganò. Io ho la magia.
Aprì la porta e
il sorriso di
Johan fu la prima cosa che vide. “Buongiorno
Philippa.” La salutò. “Pronta ad
andare?”
****
Londra,
Ministero della Magia.
Ufficio
Auror, Mattina.
Harry si rese conto di non
essere il primo a varcare le porte dell’ufficio quella
mattina quando notò
qualcuno nel cubicolo di James e Scorpius. Con il Profeta sottobraccio
– che
non aveva ancora avuto il coraggio di aprire, nonostante avesse fatto
atto di
masochismo nel non lasciarlo a Ginny – si apprestò
ad andare a salutare uno dei
due, ma si trovò invece di fronte Prince con il viso
seppellito in una
cartellina piena di cifre e numeri.
Perché
dovrei stupirmi, poi. Sembra il genere di
persona che non dorme fino al suono della sveglia.
Il ragazzo si accorse di
lui,
perché si alzò in piedi. “Buongiorno
Signore.” Salutò deferente.
“A te.” Sorrise con le sue migliori intenzioni dato
che l’altro pareva un
fascio di nervi; per quanto avesse cercato di dimostrargli benevolenza,
Sören
non era ancora a suo agio in sua presenza. “Mattiniero
oggi?” Tentò, ricordando
con un certo imbarazzo come quel genere di chiacchiere vuote non fosse
il suo
forte.
“Sissignore.”
Fu la risposta
rigida e calò subito il silenzio.
Ecco,
appunto.
“Sto
…” Esordì Sören dando
cenno agli incartamenti. “… sto visionando i
movimenti bancari degli pseudonimi
di Johannes.”
“John Doe.” Annuì. “Qualche
risultato?”
“Alcuni.”
Ammise e non doveva
essere la prima mattina che si faceva aprire l’ufficio dagli
addetti delle
pulizie. Aveva l’aria stanca, e la tazza di caffè
scuro posata sulla scrivania
era un’ulteriore conferma.
“Fammi
vedere.”
Sören fece un cenno
rapido
della testa, mostrandogli il taccuino su cui stava prendendo appunti.
“Ho fatto
controlli incrociati negli ultimi cinque anni di movimenti
bancari.”
Harry sgranò gli occhi alla cifra. “Sono
più di cinquanta conti!”
Sören gli restituì un sorrisetto amaro.
“E ce ne sono alcuni che sono certo ci
siano sfuggiti.”
“Johannes è il suo vero nome, almeno?”
Sbuffò scorrendo le annotazioni senza
riuscire a capirci nulla. Con un certo grado di sorpresa – e
nostalgia – notò
come la grafia del ragazzo gli ricordasse quella di Piton. I due cugini
non si
erano mai conosciuti, ma di certo avevano la stessa propensione a
scrivere in
maniera illeggibile.
Sören
ha una grafia un po’ più curata, ma credo gli sia
stata insegnata …
“Io l’ho
conosciuto con quel
nome. Difficile stabilire se sia quello con cui è
nato.” Rispose il ragazzo,
poi vedendo la sua confusione si avvicinò e
cerchiò con le dita passaggi che
per lui erano solo affastellarsi di cifre e numeri. “Ha usato
undici conti
legati a diversi alias in questi
cinque anni. Movimenti minimi … ha prelevato piccole somme
di denaro. Sempre
sotto la soglia dei mille Galeoni annui.”
“Piccole somme o meno, questo dimostra che è
ancora vivo.” Sospirò. “Si sa
anche per cosa li ha spesi?”
Sören scosse la
testa.
“Diversamente dal mondo Babbano non c’è
la possibilità di sapere per cosa il
denaro magico venga usato. Certo, per i grossi prelievi bisogna fornire
una
causale alla maggior parte delle banche magiche ma … con
prelievi così bassi…”
“Capisco.” John Doe era un avversario furbo. Lo era
sempre stato, e lo
dimostrava il fatto che non fossero mai riusciti a catturarlo.
Né
ad eliminarlo. È sembrato morto per ben due volte.
Nove vite, come i gatti.
“L’ultima
banca in cui è
stato?” Chiese invece. “Lasciami indovinare, qui in
Inghilterra?”
“Quella
d’Irlanda in realtà.
Pensavo di proporre alla squadra di farvi visita … Il
prelievo è stato recente,
forse qualcuno dei Folletti ricorda di averlo visto.”
“Sì,
buona idea.” Concordò e
poi notando come l’ufficio cominciasse a popolarsi delle
prime facce
insonnolite decise che era il momento di tornare alle sue scartoffie.
“Ottimo
lavoro, agente Prince.” Si sentì in dovere di
dirgli e fu piacevolmente colpito
quando il ragazzo gli sorrise di rimando.
Ha
ragione Lily … Non è una persona naturalmente
austera.
Non somigliava poi
così tanto
a Piton, in fondo.
“Ho saputo che
darai lezioni
di Duello a mia figlia.”
Sua figlia di certo non
aveva
reso la notizia segreta. L’aveva detto a chiunque avesse
orecchie per
ascoltare.
“Duello…?
E perché?”
Lily l’aveva guardato da sopra la sua cena, con
un’espressione altrettanto
perplessa. “Beh, perché con tutto quel che sta
succedendo … con gli attacchi al
San Mungo e all’Accademia di Duello ho pensato fosse una
buona idea.” Non aveva
dato il tempo né a lui né a Ginny di ribattere,
che aveva continuato. “Non so
neanche lanciare uno Schiantesimo decente. Non ho mai imparato
… cioè, a scuola
con Teddy abbiamo studiato i movimenti della bacchetta, ma
…” Aveva fatto una
smorfia, e Ginny aveva sbuffato di rimando.
“Sì,
il Duello vero è tutt’altra cosa. Non li lasciano
neanche fare pratica, Harry, ti ricordi? Teddy non fa che dirci quanto
sia
ridicolo.”
“Mi
ricordo, è stata una risoluzione del consiglio
scolastico, no?”
Sua
moglie si era battuta per ribaltare quella
decisione assieme ad altri genitori, salvo per poi lasciar perdere
quando la
maggioranza era rimasta arroccata nelle proprie posizioni.
Non si può
neanche non capirli
… Abbiamo tutti vissuto la guerra, e sappiamo cosa uno
Schiantesimo può fare,
se le cose vanno storte.
Comunque
l’idea che la sua bambina fosse in grado di
badare a se stessa non gli dispiaceva. Non aveva mai spinto nessuno dei
suoi
ragazzi ad imparare incantesimi offensivi…
… ma lungi da me
ostacolarli.
“Sì,
è una buona idea. Sono sicuro che Dionis non avrà
problemi a prenderti in una delle sue classi.”
“Veramente
l’ho chiesto a Sören.”
C’era
stato un momento di silenzio sgomento.
“Perché?”
Gli era uscito di getto.
Lily
si era stretta le spalle, ma Harry aveva
registrato comunque una certe rigidità.
“Perché è un Duellante esperto. Non
è
un insegnante, okay … ma mi potrebbe seguire molto
più di Dion. Adesso i corsi
stanno finendo, non ha senso che mi iscriva
all’Accademia.”
“Puoi
comunque chiedere a Dionis, non penso
rifiuterebbe di farti lezioni private.”
“Ha una bambina adesso … Ha la testa e il tempo
libero da tutt’altra parte.”
Harry
si era trovato nella scomoda posizione di non
essere per niente d’accordo, ma di non riuscire a trovare una
motivazione
valida né tantomeno logica. Si era scambiato
un’occhiata con la moglie,
chiedendo aiuto e appoggio.
“Sei
sicura tesoro?” Aveva chiesto Ginny con tono
tranquillo, quasi non stessero parlando di affidare la loro unica,
preziosa
figlia ad un ragazzo che aveva usato la bacchetta per uccidere.
“Le cose tra di
voi…” Aveva fatto una pausa. “Le cose
tra di voi sono sufficientemente
tranquille in questo senso?”
Lily
aveva fatto per rispondere di getto, ma poi si era
morsa la lingua, riflettendoci. Stava crescendo, aveva pensato Harry
con un
pizzico di orgoglio. Un tempo avrebbe gridato le sue ragioni
pretendendo di
esser capita.“Sì, sono sicura.” Aveva
detto. “Mi fido di lui.”
Ritornando al presente,
Sören
lo stava guardando come se lo avesse appena accusato di un efferato
delitto.
“Io…”
Era addirittura
impallidito. “… me l’ha chiesto e non ho
pensato di rifiutare.”
Data la reazione, Harry realizzò di aver usato il tono da
Capo Auror.
O
da padre.
“Non ho detto che
non sono
d’accordo.”
Quanto
male l’ho guardato?
Sospirò.
“Sören … mia figlia
ti ha dato fiducia per ben due volte.” Gli mise una mano
sulla spalla. “Questa
volta la differenza è che te la meriti.” Fece una
pausa. “Prenditi cura di
lei.”
Il ragazzo
inspirò appena e ad
Harry sembrò quasi che si mettesse sull’attenti.
Era davvero un soldato
nell’anima, Lily aveva ragione a piene mani.
“Sissignore.” Mormorò. “Lo
farò.
Grazie.”
“A te.”
Replicò un po’
impacciato, facendo un passo indietro. “E mi raccomando,
vacci piano con lei
o…”
“Non le darei mai motivo di preoccuparsi di questo,
Signore.” Lo fermò
indignato. “Userò ogni riguardo.”
“Ne sono sicuro.” Fece un sorrisetto divertito.
“Ma non mi preoccupo per Lily.”
Prima di andarsene non poteva non prendersi una piccola soddisfazione.
“È
figlia di sua madre. Io mi preoccupo per te.”
Dai
una bacchetta ad una Weasley e insegnale le basi.
Sbatterà il tuo sedere a terra prima che tu possa capire
come.
****
Da
qualche parte a Londra…
Svegliarsi con il fastidioso
trillo
di qualcosa che ti vibrava a due centimetri dalla guancia era forse
peggio che
svegliarsi con la voce fastidiosa del principino che chiedeva cibo e
attenzioni
come un dannato pulcino avrebbe fatto con la propria chioccia.
Milo emise un grugnito e
rotolò
sul fianco, schiacciando qualcosa o qualcuno accanto a sé.
Attorno a lui
sentiva odore di sigarette spente, alcool e succhi gastrici.
Ugh.
Una festa, okay.
Alzandosi a sedere in un
letto
a due piazze non suo, in compagnia di un paio di teste arruffate
– e ovviamente
non sue –
accettò la chiamata.
“Milo.”
E buongiorno anche a te, principino.
“No, ha sbagliato
numero.”
Biascicò passandosi una mano trai capelli e togliendone una
molletta a forma di
farfalla. “Sta parlando con l’anticamera
dell’inferno.”
Il silenzio perplesso che
sentì dall’altro capo del filo gli fece capire che
l’altro non aveva capito la
battuta.
“Mi
scusi.” Iniziò pieno di
riguardo. “Avrei bisogno di parlare…”
“Maddai, sono io. Ti stavo prendendo in giro!” Lo
fermò trattenendo una risata,
che aveva paura che il cervello finisse per esplodergli. “Non
potevi mandarmi
un messaggio?”
“L’ho
fatto.” Fu la risposta
seccata. Sören detestava quando qualcuno gli faceva notare la
sua mancanza di
prontezza di spirito. “Non hai risposto.”
Milo lanciò un’occhiata al display dolorosamente
brillante e colorato su cui
campeggiavano una serie di avvisi. “Ah, ma guarda,
è vero.” Sospirò. “Di cosa
hai bisogno?”
“Devi recapitare
dei documenti
qui al Ministero al posto mio.”
“Se è qui al
Ministero, perché non ci
vai tu?” Si guardò attorno cercando di capire dove
si trovasse. La stanza era
una camera da letto, ma il fatto che ci fosse gente stesa ovunque e una
gigantesca papera gonfiabile gialla che lo guardava non gli dava alcun
indizio
risolutore.
Forse
una residenza universitaria? Diamine, ho un
black-out.
E a
giudicare dal dolore al culo, non di quelli
piacevoli.
“Sono lontano dal
centro…”
Buttò fuori un po’ a caso.
“Ed io non ho
tempo.
Oltretutto devo andare a prenotare la sala da duello per
venerdì.”
“Ah,
giusto.” Non potè fare a
meno di fare un po’ lo stronzo, perché quando
veniva svegliato in maniera così
crudele, ne sentiva il bisogno fisico.
“Certo che il tuo piano di prendere le distanze da Zenzero
sta proprio funzionando
alla grande.”
“Me l’ha
chiesto.” Quando
utilizzava il tono raggelante da Von Hohenheim era
il caso di mollare il colpo. “Okay, ci vado.”
Sbuffò alzandosi in piedi e
chiudendo gli occhi quando sentì la stanza girare come una
trottola.
Stabilizzatosi si dedicò alla ricerca dei propri vestiti
incastrando il
cellulare tra spalla e orecchio, unico movimento sicuro che avesse al
momento.
Lo
faccio tutti i giorni con il violino. Sono il re
dell’incastro.
E a quanto pare era ancora
robustamente sbronzo.
Colazione
robustamente britannica per me.
“Dove devo
andare?” Chiese indossando
i jeans e controllando che non avessero macchie disgustose o sospette;
se
doveva andare nel cuore magico di Londra non poteva esser fuori posto.
“All’ufficio
Cooperazione Magica
Internazionale. Devo consegnare il rapporto settimanale al mio agente
di
riferimento.”
“Non puoi spedirglielo via Gufo?”
“È una
questione di
protocollo. Deve essere consegnato a mano, e se data da terzi
c’è bisogno
di una mia delega,
che ti ho spedito
un’ora fa. L’hai ricevuta?”
Milo si infilò la maglietta e trattenne un gemito quando
vide che era strappata
sulla spalla.
Era
la mia preferita! Calvin Klein, non scontata! E mi
fasciava le spalle da paura!
Non
aveva idea di come fosse successo,
ma il proprietario di quel posto – chiunque fosse –
l’avrebbe pagata. Si fece
quindi scivolare al polso un orologio dall’aria costosa che
vide sul comò.
“Certo che sei
proprio un
genio.” Sbuffò. “Come fa un gufo a
trovarmi se non ho una bacchetta che emette magia?
È così che rintracciano voi
maghi.” Sospirò esasperato. “Noi
Magonò dobbiamo avere un indirizzo fisico e
soprattutto, fisso.”
“ …
Ah.” Il tono mortificato
dell’altro riuscì quasi a spegnere
l’irritazione continua che si sentiva bollire
sottopelle.
Non
è colpa sua se è un disadattato.
Ammirò il
gingillo nuovo che
gli scintillava al polso si sentì un po’
più a posto con il mondo. “Non
preoccuparti, il gufo andrà al Paiolo Magico. Passo di
là prima di andare al
Ministero.” Così avrebbe potuto farsi una doccia e
prendere un cambio di
vestiti. “A chi devo consegnare questa roba?”
“Michel
Zabini.”
Milo quasi scivolò su una pozza di liquido non ben
identificato di fronte
all’ingresso e dovette aggrapparsi allo stipite della porta
per non battere una
solenne craniata. L’imprecazione che ne conseguì
fu dunque del tutto
giustificata.
“ … che
cazzo hai detto?”
La vocetta soffocata da
idiota
invece no.
“Michel
Zabini.” Ripeté con
precisione crudele Sören. “Vuoi che te lo
descriva?”
No,
grazie. Conosco di lui più di quanto ne sappia tu.
O sua madre.
Si schiarì la
voce. “Non … non
serve, basta il nome.”
Certo
che però il caso è davvero una puttana.
L’idea di rivedere
l’unico
mago su suolo inglese che conosceva la sua identità
– e quel che era peggio, ne
era incuriosito – gli faceva venir voglia di prendere il
primo treno diretto
verso il nulla e sparire all’orizzonte. Peccato
non potesse.
Scapperei,
sì. E per andare dove?
“Ti aspetto per
pranzo?”
Chiese per darsi un contegno. “Te lo faccio
preparare?”
“No,
sarò fuori città.” Ci fu
una pausa. “Milo, per te è un problema?”
“Cosa, che pranzi
fuori? Sì, principino,
mi struggerò nell’attesa come una sposina
trepidante.”
“Parlavo della commissione.” Lo fulminò.
“È un problema?”
Per
Faust, se n’è accorto. E se se ne accorge
lui…
Era imbarazzante. Molto.
“Sono
reduce da una serata che a quanto pare ha coinvolto una papera
gonfiabile, tre
manichini e fiumi di vodka … sempre che il saporaccio che ho
in bocca non mi
inganni. Al momento è un problema anche allacciarmi le
scarpe.” Contemplò lo stabile
di mattoni a tre piani da cui era uscito. “Aspetta che chiedo
dove sono.”
Quando chiese al primo
passante disponibile indicazioni e gli venne risposto un enigmatico Battersea gli venne da ridere.
“Okay, è
ufficiale, non so come arrivare a Diagon Alley.”
“Milo…”
“Ehi, ehi. Mi arrangerò.”
Il sospiro che
sentì all’altro
capo del filo era piuttosto inopportuno, considerando che stava
parlando con
una persona che non aveva ancora preso la famigerata tube
perché credeva che sprofondasse nelle viscere della terra.
“Recapita quei documenti prima di pranzo, se ci
riesci.”
Chiuse la chiamata e si stiracchiò.
Nell’operazione, mostrare un dito al cielo
– al Destino, o a un dio minore o chi per lui – fu
doveroso.
****
Irlanda,
Dublino.
Quartiere
Magico.
“Tutto a
posto?”
Scorpius lo chiese a Prince,
che sembrava doversi ancora riprendere dalla Passaporta per arrivare in
Irlanda. Più precisamente a Dublino, dato il proliferare di verde nel quartiere magico dove erano
appena atterrati. Era sul serio tutto verde: dalle insegne dei negozi
alle
decorazioni nelle vetrine. Persino sui muri crescevano grappoli di
trifogli
rigogliosi e, manco a dirlo, molto verdi.
“Non hai aperto bocca da quando siamo usciti dal
Ministero.” Aggiunse.
“È
tutto a posto.” Gli mentì
con disinvoltura.
Si strinse nelle spalle.
“Senti,
lo so che non siamo amiconi o altro … ma sei uno della
squadra, e se c’è
qualche problema … So che ti sembro un’idiota,
ma…”
Sören lo guardò serio. “Non penso tu sia
un idiota. Tutt’altro.”
Wow,
è vero quello che dice la piccola Potter … Quando
parla intende al cento per cento ciò che dice.
“Sei stata
l’unica persona,
assieme a Lilian, che mi abbia sempre trattato con rispetto.”
Continuò. “Te ne
sono molto grato.”
“Per
così poco!”
“Non è poco. Non per me.”
Esitò. “È che … non sono
molto bravo ad aprirmi.”
Sì,
per eufemizzare.
Scorpius
però non insistette,
preferendo un’altra strategia. Si era fatto le ossa, con
amici riluttanti a
confessare i propri crucci. “Sappi che sei hai bisogno
però sto qua, okay? Figurativamente
parlando.”
Sören gli sorrise.
“Avevo
capito.” Fece un’espressione che sembrava
nascondere un mal di pancia e poi gli
allungò un’esitante pacca sulla spalla.
“Grazie.”
Mi ha toccato! Spontaneamente! Sono tutto
emozionato! Quanto lo saprà Rosie!
Non disse nulla però, limitandosi ad un gran
sorriso ed ad entrare
nell’edificio che ospitava la banca centrale irlandese.
Notò subito il Folletto
giusto. “Quello lì. Ci guarda malissimo,
è perfetto.”
Quando arrivarono al banco
la
creatura li squadrò come se fossero cacca di Doxy.
“I Signori desiderano?”
Scorpius, che
c’era abituato
date le visite alla camera di famiglia annuali, prese la bolla di
indagine
assieme al proprio distintivo e glieli mise sotto il naso adunco senza
troppe
cerimonie. “Auror Malfoy e Agente Prince. Veniamo dal
Ministero inglese. Questa
bolla ci garantisce l’accesso alla camera blindata di Ryan
Connor. Abbiamo
bisogno di vederla e di parlare con il Folletto assegnato.”
Il Folletto passò
quello che
sembrò un secolo ad esaminare i documenti e i loro
distintivi. Scorpius sentì infatti
Sören muoversi innervosito al suo fianco. Il modo di fare
sospettoso del
banchiere non doveva metterlo a suo agio. “Torno
subito.” Proclamò prima di
chiudere con un gesto secco la grata che li separava dal bancone.
“Qual è
il problema?” Sbottò quando
la creaturina se ne fu andata.
“Nessuno.”
Lo tranquillizzò. “I
Folletti, da che mondo e mondo, son tutti fatti così.
C’è un motivo per cui non
hanno negozi ma possono fare solo i banchieri. Non sanno proprio cosa
sia il
rapporto con i clienti.”
“Quindi?”
“Aspettiamo che
quella bolla
passi di mano in mano … o per farla semplice, che si stufino
di averci trai
piedi.” Si appoggiò al bancone, scrocchiandosi il
collo e sbadigliando. Quando
aveva deciso di fare domanda per l’Accademia si era
immaginato che fare l’auror
sarebbe stato un lavoraccio, ma non fino a quel punto. Ogni sera
crollava sul
letto con la testa leggera, e neppure quando il letto era della sua
fidanzata trovava
la forza di far cose più creative di una robusta dormita.
Quella mattina ad esempio si
era svegliato solo perché Rose, nella fretta di prepararsi
per uscire, gli
aveva rovesciato addosso la pila di libri che teneva sul comodino.
“Merlino,
scusa!”
“… tanto non avrei avuto reazioni neanche se mi
avessi tirato addosso uno
scaffale.” Aveva bofonchiato con la bocca seppellita nel
cuscino. Aveva aperto
un occhio e aveva avuto una visione della ragazza che saltellava su una
gamba
sola tentando di infilarsi una scarpa. L’aveva trovata
bellissima.
“Sei
bella anche se hai le calze rotte.” L’aveva
informata. “Ti amo molto.”
“Porca Morgana!” Era stata la soave risposta mentre
si era precipitata a
frugare nel cassetto della biancheria per trovarne un paio nuove.
“Ma tu non
sei in ritardo?” L’aveva apostrofato con vaga
accusa.
“Non
stamattina. La Passaporta che devo prendere con
Sören parte alle dieci.” Aveva sbadigliato, e
rotolando su un fianco aveva
ficcato la testa sotto il letto, per estrarre un paio di calze che le
aveva poi
porto. “Metti queste.”
Rose gli aveva sorriso sollevata, chinandosi per baciarlo a lungo.
“Sei meglio
di un segugio.”
“Se ti piacciono i segugi, Donnola sarebbe un perfetto
animaletto per la nostra
nuova casa.”
Rose
aveva alzato gli occhi al cielo, finendo di
indossare le calze e scacciando con una manata leggera il suo tentativo
di
cingerle la vita e riportarla a letto. “Quindi oggi fai
coppia con Prince?” Non
aveva aspettato la sua risposta alzandosi in piedi e Appellando la
borsa.
“Ricordati di chiedergli se pensa di rimanere in Inghilterra
fino ad Agosto.”
“Perché?”
L’aveva
guardato come se fosse tonto. “Perché devo
sapere se verrà al matrimonio.”
Eh?
“Lo
vuoi al nostro matrimonio?”
“Ieri
stavo scrivendo gli inviti con Lily e Violet e
quando non l’ha visto sulla lista ha chiesto
spiegazioni.” Aveva fatto una
smorfia. “In fondo ha ragione, è un tuo collega.
È dalla nostra parte adesso.”
Scorpius aveva sorriso, sporgendosi per tirarla a sé.
“La mia brava ragazza…” Le
aveva baciato il punto più profumato del collo, dove metteva
sempre due gocce
di profumo. “Prince è un tipo fortunato ad avere
un’amica come quella rossa.”
Le aveva appoggiato il mento sulla spalla e aveva contemplato
l’espressione
incerta sul viso. “Cosa, Rosellina?”
L’altra
aveva scosso la testa, baciandolo leggera prima
di alzarsi. “Chiediglielo, okay?”
“…
quindi ci saresti per il
mio matrimonio?”
“Se le indagini
continuano di
questo passo non credo tornerò a Boston in tempi
brevi…”
“Ottimo!
Cioè, non delle
indagini.” Si corresse. “La parte divertente
sarà l’addio al celibato, vedrai.
Sarà bello avere qualcun’altro che apprezza le
grazie femminili. Perché le
apprezzi, mi ricordo bene?”
Sören sorrise
divertito. “Non
è un po’ il punto della festa?”
“Sì, ma
il problema è che
nella nostra generazione c’è stata una specie di
epidemia gay … o forse sono io
che faccio amicizia solo con gente che potrebbe potenzialmente
concupirmi.
Chissà. Dici che mi rende un narcisista?”
L’altro sembrava
ad un passo
dal mettersi a ridere, ma tra il luogo e il fatto che erano in servizio
dovette
sembrargli doveroso controllarsi. “Sei assurdo.”
Disse comunque. “Tu e Milo
andreste d’accordo.”
“Fammi indovinare, è gay.” Ad un cenno
affermativo spalancò le braccia. “Vedi?”
Sören strozzò una risata quando la grata si
alzò e il Folletto li avvertì che
potevano seguirlo; a quanto sembrava era proprio lui ad occuparsi della
camera
blindata di John Doe.
Il viaggio verso la suddetta fu breve e non dissimile da quello che
Scorpius
doveva sorbirsi ogni qual volta accompagnava i genitori alle camere
delle
rispettive famiglie. Quando il Folletto di nome Onci aprì la
gigantesca porta
circolare, si trovarono di fronte al … niente.
“È
stata ripulita.” Sentenziò
Sören mettendovi piede. “Come il
laboratorio.” Aggiunse con una nota cupa nella
voce. “Johannes sta eliminando ogni sua traccia.”
“Comprensibile se
i suoi
datori di lavoro stanno rischiando di scatenare un’epidemia
in Inghilterra …
Come hai detto tu, sa che noi sappiamo che è coinvolto.
Vorrà farsi terra
bruciata attorno.” Commentò di rimando, passandosi
le mani trai capelli in
piena frustrazione. Si voltò verso il Folletto.
“Cosa c’era dentro prima che
venisse svuotata?”
“Varie
cose.” Fu la risposta
lapidaria e Scorpius si morse la guancia per non rispondergli a tono.
Non
fare il Potty della situazione.
“Potrebbe essere
più specifico?”
“Monete, artefatti
magici …
non arte dei Folletti.” Ci tenne a precisare. “Le
solite cose che sono in tutte
le nostre camere.” Gli rivolse un sorrisetto sgradevole.
“Ma forse i Signori
vogliono vedere l’inventario.”
E perché diavolo non ce l’hai mostrato subito?
“Sì,
grazie.” Rispose a denti
stretti.
Odio
i Folletti.
Scorrendo il documento con
lo
sguardo mentre Sören gli si affiancava per imitarlo,
fischiò. “Era piena. Von
Hohenheim lo pagava bene … e anche questo nuovo lavoro
sembra fruttargli un bel
po’.”
“Troppo bene.”
Osservò confuso il
collega. “Vi sono registrati anche manufatti di valore. Che
io sappia non ne ha
mai posseduti, ha sempre preferito denaro contante e dubito che venga
attualmente pagato con quelli.”
“È possibile che li abbia rubati?”
“A mio zio?
Forse.” Convenne.
“Non sarebbe da escludere che in qualche modo abbia avuto
accesso alle fortune
della famiglia e se ne sia appropriato… Non credo che il
Ministero tedesco sia
riuscito a recuperarle tutte. Però non avrebbe tenuto
niente, li avrebbe
venduti. Non è mai stato un collezionista.” Gli
occhi si fermarono su una foto
che documentava una serie di gioielli in particolare e Scorpius lo
sentì
trattenere il respiro. “Questi gioielli … me li
ricordo.” Passò le dita sul
riquadro lucido della foto in bianco e nero. Scorpius vi diede
un’occhiata: si
trattava di due braccialetti di pietre dure e una collana di perle.
Monili da
donna. “Li ho già visti.”
“Dove?”
Sören distolse lo
sguardo e lo
posò su un punto fisso di fronte a sé.
“Addosso a mia
madre.”
Ah…
Certo, non era una cosa
carina
da scoprire.
“Beh, allora li ha
rubati.”
“Non è possibile.” Scosse la testa e se
la confusione aveva un volto, era
quello di Sören Prince. “Mio zio li fece seppellire
con lei.”
****
Ministero
della Magia. Dipartimento Applicazione Legge
sulla Magia.
Ufficio Cooperazione Magica Internazionale. Ora di pranzo.
Michel firmò con
un movimento
preciso e ormai automatico l’ennesima fila di fogli tutti
uguali, facendoli
levitare nell’apposita cartellina che timbrò poi
con un sapiente colpo di
polso.
Un
timbra carte. Loki non ha tutti i torti a chiamarmi
così.
A malapena sentì
bussare alla
porta, e fu la sua collega di stanza che dovette andare ad aprire, non
prima di
avergli lanciato un’occhiata oltraggiata.
No,
me ne frego dell’anzianità.
Appena la megera se ne fosse
andata in pausa pranzo ne avrebbe approfittato per chiamare Ethan Scott
e
ragguagliarlo su Prince; non aveva molto da dirgli, ma gli aveva
promesso una
chiacchierata informale di tanto in tanto.
E
comunque voglio lavorarmelo. Non ho la minima
intenzione di passare i miei giorni qua dentro.
“Michel,
è per te.” Lo
riscosse la collega.
Giusto.
È il giorno di report dell’agente Pri…
Il pensiero rimase bloccato
a
mezz’aria quando si accorse che il mago che aveva di fronte
non era quello che
si aspettava.
Non
è un mago.
Emil Von Houten era a due
passi dalla sua scrivania, con le braccia incrociate e un broncio da
bambino
davanti ad un Decotto Tiramisù. Paragone migliore non poteva
trovarlo. Rimasero
a fissarsi prima che il tedesco si schiarisse la voce e gli porgesse
una
cartellina. “Per te. Da Prince.”
“… Come?” Era certo di sembrare un
ritardato, ma non riusciva a riprendersi
dalla sorpresa.
Pensavo
non l’avrei più rivisto…
Non che fosse contento di
averlo lì, affatto: l’umiliazione era stata troppo
cocente, persino per poter
essere dimenticata con un whiskey incendiario, per quanto insolitamente
offerto
da Loki.
Von Houten si era preso
gioco
del suo tentativo di stabilire un contatto che sì, era stato
forse patetico, ma
certo non aveva meritato tanta acrimonia.
Era furioso, ovviamente.
“Per te. Da
Sören Prince.” Ripeté
con tono annoiato, porgendogli la cartellina.
Ma
va’ al diavolo.
Consapevole della collega a
pochi passi di distanza che li stava occhieggiando fingendo di lavorare
alla
scrivania, si riscosse e approntò la sua migliore smorfia
professionale. Albus
diceva che lo faceva sempre sembrare snob. Al momento era la sua unica
difesa.
“Avrebbe dovuto venire di persona…”
E tu come lo conosci? Va bene, sono
entrambi tedeschi, ma…
“Per questo ho una
delega.
Apri la cartellina, è il primo foglio.” Si strinse
nelle spalle. “Ho bisogno
che tu mi lasci una ricevuta.” Aggiunse.
“Ovviamente.”
Fece il giro
della scrivania, cercando di racimolare idee e contegno.
“Prendo il modulo. Si
accomodi.”
Un lampo divertito passò negli occhi dell’altro.
“Addirittura del lei…”
Mormorò, abbastanza basso da poter essere udito solo da lui.
Michel si rifiutò
di sentire un nodo allo stomaco e la pelle d’oca.
Inutile
che fingi. Sei attratto. È l’unica cosa di cui
sei sicuro, no?
Compilò il modulo
seguendo i
dati contenuti nella delega.
“Milo
Meinster.” Lesse
lanciandogli un’occhiata. “Meinster era parte del
tuo cognome…” Non poté fare a
meno di osservare.
“Meinster
è comunissimo da
dove vengo. È il vostro Johnson.”
“Continui a negare
l’evidenza?” Frecciò e fu soddisfatto
nel vedere come l’altro serrò la
mascella. “Mi sembra di averti già detto che non
sono un giornalista a caccia
di scoop.”
“Questo lo vedo.” Si guardò attorno.
“Sei un topo da Ministero.”
“Un
diplomatico.” Lo corresse
cercando di tenere il tono basso. L’ultima cosa che voleva
era che la megera in
ascolto lo usasse come argomento per spettegolare in mensa.
“Perché sei qui?”
“Un favore ad un amico.” Non si
sbilanciò. Si ficcò le mani in tasca e fece un
passo in direzione della scrivania. Da quella posizione torreggiava
sopra di
lui, e l’impressione era bizzarra. Lo metteva a disagio
quanto lo intrigava.
Nessun
Magonò ha tanto carisma.
“Prince
è tuo amico?”
Emil non rispose, passando
invece un dito lungo la sua targa. “Sei un ficcanaso di
natura o il privilegio
è tutto mio?” Chiese e Michel dovette inghiottire
un grumo di saliva mentre
vergava la propria firma sul documento. La memoria giocava brutti
scherzi quando
gli segnalava a chiare lettere cosa quell’indice aveva
percorso per tutta la
sua lunghezza.
Dannazione.
Tuttavia non era un
verginello
eccitabile e poteva mantenere il controllo, almeno in superficie.
“Mi scuserai
se sono curioso…” Esordì colando la
ceralacca sulla pergamena e premendo il
sigillo del Ministero sulla bolla calda. “ … ma
vorrei sapere come una persona
del tuo talento sia finita a fare da assistente personale ad un ex
carcerato.”
Non sei l’unico ad avere delle carte
nel
proprio mazzo.
Il tedesco per tutta
risposta
si sporse sulla scrivania e Michel sentì distintamente
quella stramaledetta
cretina della sua collega trattenere il respiro. Non poteva biasimarla
dato che
lo stava trattenendo anche lui.
Dicevi
del timido verginello?
“Una buona
paga.” Gli sorrise
pigramente. “E comunque ci sono lavori
peggiori.” Soggiunse. “Tipo
il tuo.”
Non ebbe il tempo di
indignarsi che Emil si tirò su di scatto, sfilandogli la
cartellina da sotto
mano. “Bene, se è tutto le auguro giornata Signor
Zabini. Signora.” Salutò con
un cenno deferente della testa la sua collega e poi si
incamminò fuori.
Michel si morse le labbra,
sentendosi patetico. Perché era
patetico.
Dannazione.
Non gli avrebbe lasciato
quella chiusura, non gli avrebbe permesso di avere l’ultima
parola. Oltre
l’orgoglio c’era l’irrefrenabile
desiderio di rivalsa.
O
di essere notato?
Si alzò e gli
andò dietro,
premurandosi comunque di mantenere un’andatura naturale,
anche se spedita.
Non
gli sto correndo dietro. Affatto.
“Emil.”
Lo chiamò quando lo
raggiunse abbastanza da ricordare che spalle notevole avesse.
“Aspetta.”
Il maghetto stronzo l’aveva seguito. Inseguito a dirla tutta
ed era un fatto
talmente sorprendete che Milo dimenticò la prudenza e si
voltò.
Era dannatamente Purosangue,
con
quel suo completo inamidato e le movenze da casta privilegiata. Eppure
negli
occhi da orientale vi leggeva qualcos’altro, qualcosa che non
sapeva di ricordi
amari e vedute ristrette, ma di…
Sì,
vabbeh. È stata una grandiosa scopata. Non fartici
castelli in aria, sì?
“Cosa
maghetto?” Allargò le
braccia. “Dimenticato qualcosa?”
L’altro
esitò ed era così
evidente che non sapesse cosa dirgli, ora che era riuscito ad attirare
la sua
attenzione, che gli fece quasi tenerezza.
“Io…” Lo guardò stizzito,
come se la
momentanea afasia fosse colpa sua. “A dire la
verità, sì.” Prese una decisione
da come fece un mezzo sorriso. “Ti intendi di strumenti
antichi?”
…
Eh?
Qualsiasi
cosa avesse in mente, valeva
la pena indagare. “È così che di solito
rimorchi? Perché chapeau
per l’originalità…”
Il sorriso dell’altro sfumò in un ghignetto
divertito. “Non mi serve trovare
argomenti di conversazione, di solito …
sono gli altri che lo fanno per me. O mi
sbaglio?”
Touché.
Bisognava dunque
dimostrargli
che sapeva perdere con classe. “Dipende da che strumento
intendi.”
“Diversi in realtà.” Si strinse nelle
spalle. “Mia nonna, Amara Zabini … è
sempre stata appassionata di musica. Una passione che gli ha trasmesso
il suo quinto
marito che, alla sua morte, le ha lasciato una collezione di strumenti
antichi.
Era un italiano. Camillo Guallazzi, forse ne hai sentito
parlare.”
Milo inarcò le sopracciglia, ripescando quel nome tra le sue memorie infantili.
“Guallazzi il
collezionista di…” Tacque, ammutolito, realizzando
la portata dell’informazione
che l’altro gli aveva così graziosamente
scaricato.
“Per il mio
dodicesimo
compleanno me l’ha regalata.”
“La collezione Guallazzi.” Deglutì
cercando di azzerare la salivazione per non
sbavare come un molosso. “Non l’ho vista a casa
tua.” Ritorse.
Michel si strinse nelle
spalle. “Questo perché non sei andato oltre la mia
camera da letto.”
Ma vaffanculo.
C’era una parte di
lui che
però plaudiva al modo in cui gli aveva servito quella
trappola, corredandola
tra l’altro di frecciatine intelligenti e non volgari.
Andiamo,
apprezzi lo stile, ammettilo.
“Quindi?”
Tagliò corto, che
non aveva intenzione di restare un’eternità in
quel corridoio bianco come un
incubo, seppellito metri e metri sotto terra.
“Posso
mostrartela.” E dietro
l’aria condiscendente da grazioso sovrano, Milo lesse
aspettativa, e una buona
dose di speranza.
Guarda
tu … era davvero mio fan allora.
Non sapeva se esserne
inquietato o lusingato. Per buona misura decise di essere comunque
prudente:
era la prudenza che l’aveva fatto rimanere fuori dal radar
per tutti quegli
anni e non aveva la minima intenzione di cambiare le cose, neppure per
un bel
faccino o una collezione di strumenti antichi.
“E se non me ne
fregasse
niente?”
“Ho un
Guarnieri¹ del Gesù del
1719.” Incrociò le braccia al petto e dovette
gustarsi ogni parola che
pronunciò. “Condizioni perfette. Posso fartelo
suonare, se vuoi.”
Milo percepì il suono della sua disfatta; prevedibilmente,
era la voce di un
violino.
****
Diagon
Alley, Archivio Ministeriale.
Caffetteria.
Ora di pranzo.
Scott Ross si riteneva un
bravo ragazzo.
E non se ne vergognava
mentre
sorseggiava the freddo aspettando che arrivasse la sua dolce
metà per pranzare.
C’era questa
sotto-cultura
secondo cui le donne desideravano il tipo tormentato, quello che faceva
loro
piangere fiumi di lacrime di fronte ad un chilo di gelato…
ma aveva sempre
pensato fosse una cavolata; una donna sognava l’amore
appassionato ed epico,
certo. Quello che molti non capivano – e modestamente, lui
sì – e che non era disposta
a tenerselo nel lungo periodo.
Lo insegnavano i libri: i
grandi amori romantici, la totale mancanza di freno e le passioni
travolgenti
si evolvevano, di solito, in finali tragici e morti premature.
E
nessuno vuole morire per amore. Non davvero.
Per questo motivo aveva
sempre
rivendicato il suo essere un tipo coi piedi per terra: le ragazze
normali sognavano
il bello e impossibile, ma poi sposavano quello capace di dar loro una
casa e
dei figli.
Questa sua teoria non aveva
fatto altro che consolidarsi negli anni, tra amori importanti e
storielle
passeggere e poi, nell’inverno dei suoi ventisei anni, era
arrivata Lily Luna.
Lily, minuta, dai capelli
color delle fiamme, il sorriso contagioso e l’intelligenza
vivace. Lily Luna,
consapevole del suo effetto sugli uomini e che gridava guai lontano un
miglio.
Lily Luna, la sua ragazza ideale. L’aveva capito nel momento
stesso in cui sua
zia Minnie gliel’aveva presentata.
“Arrivi
giusto in tempo per il the, Scott.”
Far visita a zia Minnie era un po’ la corvee doverosa di ogni
nipote
McGrannit-Ross, ma Scott non l’aveva mai vista come
un’imposizione. Per questo,
di contraccambio, si era meritato la palma di nipote preferito.
“
… ti presento Lily.” E quando la ragazza si era
alzata, sorridendogli, Scott si era trovato automaticamente a stendere
la mano.
“Piacere,
ma tu sei…”
“Lily
Luna Potter.” Aveva terminato per lui,
stringendogli la mano con la forza che si addiceva alla figlia del
Salvatore. Le
dita morbide gli avevano accarezzato il palmo quando l’aveva
sciolta. Aveva
dovuto ricordarsi di lasciarla andare. “Tu sei il ragazzo
d’oro di Minerva,
invece. Mi ha parlato di te.”
“Beh,
allora siamo pari.”
“Come se già ci conoscessimo.” Gli aveva
sorriso suggestiva: era ufficiale, non
se l’era immaginata la stretta, Lily stava flirtando con lui.
Non ne era
infastidito – sarebbe stato un’idiota, dato che la
ragazza era attraente: era solo
un po’ perplesso dal contesto.
Tra gatti e
tartan…
“Spero
ti piaccia la Dundee Cake.” Si era trovato a
dire impacciato.
Lily non era parsa infastidita dalla sua uscita imbranata, non da come
gli
aveva sorriso gentile. “È la mia preferita. Vado a
tagliarla, Minerva?”
“No, ci penso io. Voi ragazzi siete ospiti …
sedetevi e versate il the.”
E
di colpo Scott si era reso conto di essere stato più
o meno incastrato in un appuntamento al buio.
Quando
si erano seduti, lui e Lily si erano scambiati un’occhiata
consapevole per poi scoppiare a ridere. “Giuro, neanche in
mille anni avrei
pensato che mia zia … beh, si impicciasse della mia vita
sentimentale!”
“Mi sento lusingata di esser ritenuta degna del famoso e
perfetto Scotty allora.”
Aveva replicato l’altra versandogli il the. “Devo
proprio essere un’eccezione.”
Si
era stretto le spalle, capendo che aveva davanti la
tipologia di strega fin troppo sicura di sé e che la doveva
tenere sul pezzo
per non farsi sopraffare. “Ex studentessa?”
“Prevedibile,
vero? Ero terribile con tua zia, penso di
averla fatta impazzire. E l’ho avuta solo per un
anno.” Si era riempita la
tazza e poi l’aveva presa tra le mani, senza bere. Per un
attimo era tornata
seria contemplandola. “Mi ha aiutato un sacco, in
realtà. Lo sta ancora
facendo.”
“È sempre stata una buona ascoltatrice.”
Non si era sbilanciato, ma zia Minnie
sarebbe tornata in pochi attimi, e doveva calare le sue carte in
fretta. Non
aveva intenzione di fare la figura del tipo bisognoso di aiuto esterno
per
combinare con una ragazza. “Se te lo chiedi, lo sono anche
io.”
Lily
gli aveva lanciato un’occhiata complessiva e
doveva esserle piaciuto quel che vedeva perché aveva sorriso
di nuovo. “È una
buona qualità.”
“E si esprime al suo meglio davanti ad un caffè. E
di pomeriggio.”
“Qua
non c’è caffè
però.”
“Beh, allora dovremo rimediare.”
Lily non si era fidata
subito.
L’aveva capito da come, nonostante gli appuntamenti si
fossero susseguiti e che
la camera da letto fosse stata quasi subito un’opzione, la
sua interiorità
fosse rimasta ben protetta. C’era una bella differenza tra il
togliersi i
vestiti e scherzare su un film e sapere di essere importanti
l’uno per l’altro.
All’inizio aveva
supposto che il
problema fosse come la gente di solito reagisse al fatto che era la
figlia di
Harry Potter. Non aveva sbagliato del tutto: quel problema
però era stato
affrontato e risolto dopo il primo mese, quando le aveva fatto capire
che non
era interessato a lei e non a suo padre.
Era stato venire a
conoscenza dell’anno buio
il vero giro di boa.
L’anno in cui la sua ragazza aveva perso fiducia nel genere
umano.
Non che
gliel’avesse mai messa
in quei termini, ma aveva fatto due più due dopo un paio di
allusioni da parte
di amici e fratelli, atteggiamenti sfuggenti e il fatto che fosse una
paziente di
una Psicomaga.
Lily era stata ferita a
fondo,
ed era una sfida continua convincerla che non sarebbe capitato con lui.
Ma
la sto vincendo. O meglio, la stavo vincendo finché
Finché
Sören Prince non aveva
fatto la sua comparsa.
Scoprire chi era il tedesco, cosa aveva fatto e cosa aveva intenzione
di fare
non gli era piaciuto: sembrava un tipo a posto – passato
inquietante a parte –
ma non era quello il punto.
Il
punto è che si è messo in mezzo.
Da quando era tornato in
Inghilterra Lily aveva perso la bussola: aveva fatto un sforzo eroico
nel non
farglielo notare e le credeva quando diceva che non c’erano
motivi di esser
geloso, tuttavia il legame trai due era innegabile. Lily non
l’aveva mai visto
– checché ne dicesse lei – come uno dei
colpevoli. Ma una vittima, come lei.
E
non c’è modo di fargliela pensare diversamente.
Per questo doveva pensare ad
una strategia per non esser tagliato fuori da quella nuova svolta di
trama.
Perché amava
Lily, anche con
le sue paure e la sua ossessione per un ragazzo sbagliato.
“Ehi,
ragazzone.” Sentì un
bacio sulla nuca e si trovò di fronte il sorriso luminoso
della sua ragazza.
“Pensi a me?”
“No, ad
un’altra rossa con gli
occhi chiari e l’abitudine di sorprendermi alle
spalle.” Scherzò tirandosela
contro per un bacio. “Sei in ritardo.”
Lily gli passò un dito sulla guancia. “Elegante
ritardo, prego. Wilkins …”
“Un paziente.” Convenne. “Va bene,
perdonata. Il lavoro è la scusa valida
universale.” Mentre gli si sedeva di fronte spinse il the
ghiacciato nella sua
direzione. “Anche perché hai corso per venir
qui.”
“E una Materializzazione.” Convenne sfilandosi gli
occhiali da sole e bevendo
un sorso grato con un sorrisetto di scuse. “Me lo offri
comunque il pranzo?”
“Sei
più ricca di me, un
povero e spiantato archivista. Parità dei ruoli?”
Propose facendola ridere
perché sapevano entrambi che avrebbero finito per pagare a
metà. Passarono
qualche minuto a chiacchierare del più e del meno e
confrontare le rispettive
giornate lavorative, poi Scott decise che era ora di mettere in atto il
suo
piano.
“Questo Weekend,
Glasgow, che
ne dici? Patrick e Rita ci potrebbero ospitare.”
L’esitazione di Lily fu praticamente una risposta.
“Questo
venerdì dovrei
iniziare quella cosa del duello con Ren…”
“Ah.”
Era importante, e lungi
da lui l’idea di togliere a Lily la possibilità di
sentirsi più sicura; si era
accorto di quanto la faccenda al San Mungo l’avesse
spaventata e non la facesse
dormir bene, per quanto avesse
tentato
di tenerglielo nascosto.
Non
sei sottile come pensi di essere, piccola…
Sarebbe stato il primo a
supportarla se l’intera faccenda non fosse ruotata,
prevedibilmente, attorno al
dannatissimo Sören. “Beh, dai, non fa
niente.” Disse con il suo miglior tono
ferito, convincente perché sincero.
Farla
sentire in colpa non sarà tanto giusto … ma qui
bisogna combattere con quel che si ha.
Lily infatti gli prese
subito
la mano, stringendola. “Senti…”
Iniziò. “Se partiamo sabato potremo restare fino
a lunedì mattina. Posso prendermi una mezza giornata visto
che sto facendo ore
extra.”
“Sicura?”
Lily si sporse per baciarlo.
“Sicura.” Mormorò. “Fare una
pausa da Londra mi farà bene.”
“Sono
d’accordo … Hai bisogno
di staccare un po’, piccola. Questa città riesce a
divorarti il buon’umore.”
L’avrebbe portata anche all’altro capo del mondo se
fosse stato necessario a
farle ritrovare la tranquillità. Per il momento, Glasgow era
un buon
compromesso.
Lily gli sorrise.
“Allora è
deciso!”
“Non ci portiamo
dietro Ren?”
Non poté fare a meno della frecciatina, comunque attento a
mantenersi su un
tono scanzonato. Si rimediò uno schiaffo sulla spalla ed
un’occhiataccia.
Ops,
LeNa.
“Non fare lo
scemo.” Borbottò.
“Posso avere degli amici maschi, sai?”
“Sarò sempre geloso di un ragazzo che passa del
tempo con la mia ragazza.”
Ammise con franchezza intrecciando la mano alla sua.
“Spiacente, è nei miei
geni.”
“Nel tuo
testosterone vorrai
dire.” Sbuffò, ma non era arrabbiata da come
ricambiò la stretta.
Era questo essere un bravo
ragazzo, per Scott: supportare, comprendere … e giocare
d’astuzia.
Senza
offesa, Ren. Ma no, a Glasgow non vieni. Il posto
è già occupato.
****
Piccadilly
Circus, Pomeriggio.
Non avrebbe dovuto accettare
l’offerta del maghetto stronzo di rivedersi appena avesse
staccato dal lavoro.
Milo ne era consapevole ma
un
Guarnieri del Gesù era un’offerta troppo
ghiotta.
Stai
facendo una stronzata. Vattene.
Emil Von Houten risultava
morto
per il Mondo Magico, e l’idea di riesumarlo a beneficio della
curiosità di un
inglesino era una pessima, pessima idea.
Guardò le
lancette del suo
nuovo orologio e buttò la sigaretta.
Vattene
adesso.
Lo stava per fare quando
sentì
dei passi avvicinarsi.
Troppo
tardi.
Voltandosi se lo
trovò di
fronte, in un trench scuro che doveva servire a nascondere gli abiti
magici e
da solo doveva valere due mesi del suo stipendio. Fece per formulare
una
battuta salace al riguardo, quando il ragazzo gli sorrise apertamente.
C’era
sorpresa e sollievo nella sua espressione e non doveva mostrarli troppo
spesso
da come si spense subito, imbarazzato.
Oh,
la vecchia e sana educazione Purosangue … Sii un
costipato bastardo.
“Sei in ritardo,
me ne stavo
andando.” Disse invece.
Il mago inarcò le sopracciglia. “Non sono in
ritardo.” Da lontano, quasi a
conferma, suonarono le campane di qualche chiesa segnalando le sei in
punto.
“Dì piuttosto che volevi trovare una scusa per
dartela a gambe.”
“Se stai cercando di renderti simpatico ti avverto che stai
facendo un lavoro
di merda.”
Zabini – meglio chiamarlo per cognome – gli rivolse
un sorrisetto urtante. “Non
sei la prima persona che me lo dice.” Ammise tranquillo e
prima che potesse
ribattere gli fece cenno con la testa. “Troviamo un posto
riparato.”
“Guarda, sarò sincero, sono in post sbronza
… non ce la faccio proprio ad
offrirti una sveltina.” Motteggiò rimediandosi
un’occhiataccia.
“Per
Smaterializzarmi.”
“Non credo proprio.” Replicò.
“Io quella roba non la faccio. Casa tua, se non
ricordo male, non è molto distante da qua.”
“È ad un’ora a piedi!”
Ribatté sconcertato.
“Beh, possiamo
sempre prendere
la vostra tube.”
L’occhiata che gli venne rivolta sarebbe stata adeguata ad
una minaccia di
morte. “Io non uso mezzi di trasporto Babbani.” Gli
venne sibilato.
“Che peccato. A me
comunque
non dispiace camminare.” E prima di dargli tempo di
rispondere attraversò le
strisce. Dopo una sentita imprecazione l’altro lo
seguì scuro in volto.
Vuoi
conoscermi? Mai detto che ti avrei reso le cose
semplici.
Dopo un paio di minuti di
marcia ostile, Milo realizzò che il maghetto non era
abituato al traffico del
centro di Londra, per quanto vi vivesse a lato; alla seconda volta che
quasi
rischiò di essere falciato da una selva di macchine
impazzite, ebbe pietà di
lui e lo afferrò per la cintura del trench.
“Vuoi che ti tenga
la mano?”
Lo prese in giro. “Andiamo, vivi in un quartiere Babbano
… non dirmi che non ti
sei mai fatto un giretto a piedi.”
“Non di un’ora a mezzo e non nell’ora di
punta.” Soffiò come un gatto a cui era
stata pestata la coda. Che caratterino.
Prevedibilmente, come tutti
i
ragazzini ricchi e viziati detestava essere contraddetto e le
novità fin nelle
profonde fibre del suo essere.
Una
volta anch’io ero così.
Fu per quella sorta di
malmessa
empatia che decise di allentare un po’ la corda.
“Dai, stammi a fianco invece
di camminare tre passi davanti a me. La strada la conosco.”
“Ti ricordi dove
abito?”
Ti prego, non dirgli
che ci sei rimasto tanto scottato da esserti mappato quel
fottuto quartiere per evitare di incrociarlo per sbaglio.
“Ho una buona
memoria.” Tagliò
corto afferrandolo per l’incavo del gomito quando
tentò per l’ennesima volta di
suicidarsi ad un attraversamento pedonale. Si maledì quando
lo vide sorridere
tra sé e sé.
Beh,
non è un cretino e la tua diversione faceva pena.
“Come hai
conosciuto Prince?”
Gli venne chiesto all’altezza del Tamigi, quando il traffico
si era un po’
diradato tra viali alberati e palazzi vittoriani.
“L’ho
rimorchiato in un bar.”
Scusa principino.
“Fammi il
favore.” Sbuffò
l’altro roteando gli occhi al cielo. “È
tragicamente etero.”
Sì,
in effetti non c’è neanche una goccia di sangue
arcobaleno in quel povero ragazzo. Quei capelli … e quei
vestiti. Soprattutto i
capelli.
“Sei il suo agente
di controllo,
sai la sua storia, no? Gli serviva una balia che lo aiutasse a non
inciampare
nei suoi stessi piedi quand’è uscito, ed io ero
disponibile. Non c’è molto da
dire.”
“No, immagino di
no.”
Acconsentì tranquillo, dato che era evidente avesse tirato
fuori l’argomento
solo per non rimanere in silenzio. In quel momento il cielo,
già di un grigio plumbeo
inquietante, decise di graziarli di uno scroscio d’acqua
gelato.
“Voi inglesi avete fatto incazzare madre natura o
cosa?” Sbottò stringendosi le
braccia al petto e maledicendo il suo post-sbronza che gli aveva fatto
dimenticare l’ombrello alla locanda.
Michel gli rivolse
un’occhiata
divertita, prima di far Apparire un ombrello che aprì sopra
le loro teste. “Sei
stato tu a voler camminare.”
Gli avrebbe tirato un pugno.
Il mago, forse intuendo i suoi pensieri, alzò gli occhi al
cielo. “Di solito
sei così charmant o
è un privilegio
che riservi solo al sottoscritto?”
“Non sei
così speciale,
maghetto, tranquillo.”
Si chiusero entrambi in un silenzio maldisposto, e Milo si chiese se i
postumi
della sera prima non gli avessero fatto davvero andare il cervello in
pappa.
Che
cazzo, è ufficiale, fuori da un letto non ci
sopportiamo. Chi te l’ha fatto fare?
Va
bene il Guarnieri, ma…
Quando entrarono
nell’appartamento Zabini sembrò voler dire
qualcosa, ma ci rinunciò preferendo
fargli cenno di seguirlo. “Di qua.”
Si fermarono di fronte ad
una
libreria in acciaio, con dentro abbastanza volumi da non sembrare di
facciata,
ma non tanti da far disordine.
Mi
ci scommetto le palle … Non sono mai stati
sfogliati.
L’altro estrasse
la bacchetta
e dopo un complicato movimento gli scaffali si dissolsero per lasciar
spazio ad
una porta. “Tengo la collezione qui.” Gli
spiegò. “Ragioni di sicurezza.”
Questa
casa ha visto un bel po’ di ospiti di cui il
padrone non conosceva neanche il nome, ricevuto.
Milo si preparò
ad un ambiente
impostato e senz’anima come quello che aveva appena passato;
rimase invece di
stucco quando entrò in una stanza in cui il legno scuro
faceva da padrone, così
come tappeti morbidi e mobili d’antiquariato, restaurati a
tal punto che
sembravano usciti dalle mani di un artigiano solo pochi giorni prima.
Dietro
due poltrone Chesterfield di cuoio rubino, l’intera scena era
dominata da un
pianoforte a coda e un’elegante giradischi con la classica
tromba d’ottone. Non
sembrava esser stato messo lì come mero pezzo
d’arredamento a giudicare dai
casellari ricolmi di dischi che vedeva dietro di esso.
Okay.
È un appassionato.
“Adesso capisco
perché la
nascondi.” Formulò riprendendosi dalla sorpresa.
“Fa a pugni con il resto.”
Il mago sorrise, togliendosi l’impermeabile e gettandolo su
una delle poltrone.
“È la vecchia sala da musica di mia nonna
… Oltre alla collezione mi ha
regalato tutta la stanza.”
“Generosa.”
Un lampo di dolore passò nelle iridi scure
dell’inglese e Milo per evitare
l’imbarazzo di doversi scusare si guardò attorno;
da piccoli oggetti personali,
come una tazza di the ancora mezza piena, un libro aperto di faccia sul
tavolino accanto alle poltrone e un disco ancora sul piatto era chiaro
che quello
non fosse solo un museo di strumenti grandiosi …
Qui
ci passa del tempo.
Si schiarì la
voce, sentendosi
osservato. “Beh, questo Guarnieri?”
L’altro
annuì e si avvicinò ad
una delle vetrinette smerigliate. Con un colpo di bacchetta la
aprì e a Milo si
sentì azzerare la saliva. Accuratamente posati su supporti
in legno stavano un
set parziale di archi.
E
se non sono tutti Guarnieri …
Quella
è una viola d’amore?
Michel gli lanciò
un’occhiata
sopra alla spalla e doveva avere una faccia spettacolare se
abbozzò una
risatina. “Stai sbavando.” Gli fece notare.
“Non
dovrei?” Borbottò. Erano
anni che non vedeva strumenti di quel livello e gli prudevano le mani
dalla
voglia di metterci le mani sopra. Michel parve intuire,
perché prese uno dei
violini e glielo porse.
“Il
Guarnieri.”
Uno strumento non era mai solo uno strumento; quando toccavi un
violino di quel pregio era come respirare la stessa aria degli
esecutori che
per generazioni l’avevano preso in mano e vi avevano tratto
note. Era come
tornare indietro nel tempo.
E diavolo, era la sensazione
più simile ad un orgasmo che ci fosse.
“Ottima
conservazione.”
Mugugnò tanto per dire qualcosa, che lo stava guardando come
se si stesse
godendo un film avvincente.
Vuoi
dei popcorn?
“È
stato messo sotto
incantesimo.” Rispose. “Molto meglio che
conservarlo in una teca climatizzata. È
come il giorno che è uscito dalla bottega
…”
“È sempre stato in mano ai maghi
quindi.” Il che, al di là delle sue
idiosincrasie personali, era il destino migliore che potesse capitare
ad uno strumento
del genere.
Niente
da fare, i Babbani non sanno gestire l’usura del
tempo.
“Che io sappia
sì.” Michel lo
guardò di sottecchi. “È
accordato.”
“Questo lo vedo.” Alzò gli occhi al
cielo, capendo dove voleva andare a parare.
“Vuoi che lo provi?”
“Perché,
ti basta tenerlo in
mano? Non vuoi giocarci?” Milo, che aveva la testa da
tutt’altra parte, non
registrò subito il doppio senso, arrivandoci confuso come un
verginello alle
prime armi.
…
oh. Ah!
Sbuffò.
“Hai anche un archetto o ti
aspetti che lo suoni coi denti?”
“Non ti
azzardare.” Motteggiò.
L’atmosfera si era distesa e mentre Michel – non
Zabini – si chinava per
cercarglielo, Milo si trovò nella scomoda posizione di non
guardargli solo il
sedere, ma di sentirlo affine.
Ama
la musica come te, bello mio. Quanto te.
E questo poteva essere un
problema.
Per quanto fosse un
arrogante
pieno di sé, Emil Von Houten era un professionista o almeno,
una parte di lui lo
era ancora.
Perché quando
prese l’archetto
e appoggiò il violino sulla spalla, chiedendogli un
fazzoletto per non
rovinarlo, trasfigurò nel ragazzino che ricordava.
“Cosa vuoi che suoni?” Gli
chiese, ma doveva essere un riflesso più che una vera
domanda.
Suonava
nelle taverne per guadagnarsi da vivere.
Ma lui non era un avventore
da
taverna. “Quello che vuoi tu.” Replicò
registrando soddisfatto la conseguente
occhiata sorpresa. “Mi piacciono molto i tedeschi, ma non ho
particolari
preferenze.”
“Farsi piacere i compositori tedeschi è
avere una preferenza.” Gli fece notare e Michel
registrò come non avesse colto
l’allusione servitagli su un piatto d’argento.
Quindi
l’aria da idiota strafottente è
una maschera.
“Tu quali
preferisci?”
“Gli italiani.
Sono più
divertenti da suonare.”
“Potresti suonare
Vivaldi…”
“Prevedibile.”
Sogghignò. “Le
quattro stagioni, ci scommetto.”
“Non vedo perché dovrei vergognarmi di amare
musica prevedibilmente
stupenda.”
Per Michel era una
sensazione
inebriante poter chiacchierare di qualcosa che di solito, tra amici
troppo
contemporanei e salotti Purosangue, doveva tenere chiuso dietro una
porta
Disillusa.
E
lo stai facendo con Emil Von Houten.
“Vero.”
Ammise quest’ultimo con
un mezzo sorriso. Poi attaccò quello che riconobbe come il
primo movimento
dell’Inverno di Vivaldi:
un’esecuzione
energica, perfetta sin dalle prime note nonostante non si fosse
scaldato con
degli esercizi preparatori.
I
giornali non sbagliavano, né mi ricordavo male io
… Era ed è
ancora quel prodigio.
Lo lasciò fare,
sedendosi ed
accendendosi una sigaretta. Non contò i minuti che
passò ad ascoltarlo, ma di
certo furono molti perché quando Emil staccò
l’archetto dalle corde fuori era
buio.
Non dovette essere il solo
ad
accorgersene, perché il tedesco sembrò a disagio.
“Bello strumento.” Lo posò
sul tavolino accanto a lui con premura. “Un Guarnieri, nessun
dubbio.” Fece una
pausa. “Dovrei andare…”
Gi stava di nuovo sfuggendo dalle mani: e dopo quello che aveva
sentito, dopo
il talento di cui era stato omaggiato, non poteva accadere.
“Puoi tornare a
suonarlo quando vuoi.”
Emil gli lanciò
un’occhiata
diffidente, ma non era rivolta a lui, quanto a ciò che
rappresentava:
Purosangue, mago e pieno di pregiudizi. “Che ci
guadagni?” Buttò fuori
ficcandosi quelle mani straordinarie in tasca, a fondo, quasi a volerle
proteggere.
Decise di giocare a carte
scoperte. “L’ascoltarti. E prima che tu dica che
non sei una scimmietta ammaestrata…”
Aveva indovinato a giudicare dall’espressione oltraggiata che
gli venne
restituita. “Non organizzerò eventi né
informerò i giornali. Sei la prima
persona che porto in questa stanza e rimarrai l’unica, hai la
mia parola.”
Non
ci siamo scoperti un po’ troppo?
Il tedesco per tutta
risposta
si chinò sulla sedia, mettendo le mani a lato di ciascun
bracciolo e finendo così
per intrappolarlo. “La tua parola?”
Non distolse lo sguardo anche se la posizione lo metteva a disagio.
“Dal tuo
punto di vista l’offerta mi sembra vantaggiosa.”
Non c’erano dubbi
che il
tedesco sottintendesse anche altro da gli stava divorando le labbra con
gli
occhi. “Dì un po’, maghetto …
Sei proprio sicuro di quel che stai facendo?”
Mormorò.
Michel aveva passato troppo
tempo a farsi domande del genere ed era stufo di cercarne le risposte.
Lo
afferrò quindi per la maglietta e se lo spinse contro,
facendo collidere quella
boccaccia irritante con la sua. Come risposta doveva bastargli.
Bastò.
****
Il giardino sembrava essere
stato preso d’assalto dalla natura, in maniera violenta e
trionfante; i
sentieri di ciottoli erano stati inglobati dalla flora tipica della
brughiera,
gli alberi si attorcigliavano carichi di foglie, intrecciandosi a siepi
lasciate incolte da decenni.
Johannes immaginava che quel
genere di paesaggio contorto fosse perfetto per essere ammirato dagli
occhi
della sua regina. La vide infatti passeggiarvi in mezzo, incurante
della lieve
pioggia che graziava quotidiana quelle lande aspre.
Si affrettò a
raggiungerla
Materializzando un ombrello. “Il mio Giullare.” Lo salutò
porgendogli la mano guantata per un
baciamano. “Un ombrello, davvero?”
Johannes, che rispondeva a molti nomi e che non si era mai preoccupato
di
vedersene aggiungere un altro, scrollò le spalle.
“Pensavo vi steste bagnando,
mia signora.”
“Un pensiero premuroso.” Gli sorrise passandogli un
braccio attorno al suo. Gli
occhi chiari vagarono per l’immensa proprietà
senza soffermarsi. “L’Inghilterra
è una terra selvaggia … È buffo come
la sua gente si affanni tanto a dimostrare
il contrario. Questo paesaggio, ad esempio.”
Considerò. “Non ha visto mano
umana per quanto, decenni? Ed ecco che torna alla sua bellezza
originaria. Gli
inglesi mancano di romanticismo.”
“Sì mia signora.” Convenne senza trovare
particolari meriti a quel che vedeva,
né particolari difetti. Per chi aveva viaggiato come lui a
cavallo di due mondi
per tanto tempo i paesaggi finivano per somigliarsi tutti.
La strega gli
lanciò
un’occhiata valutativa, prima di sorridergli di nuovo.
“Sediamoci. Sono
stanca.”
Johannes pulì per lei una vecchia panchina infestata di
erbacce e rimase in
piedi ad osservarla; non vi era dubbio che avesse preso la bellezza
della sua
casata, occhi chiari e incarnato pallido, movenze aggraziate ed
un’androgina
grazia.
Chiunque avesse conosciuto
Sofia Von Hohenheim avrebbe convenuto con lui che superava in bellezza
persino
una Veela.
“Ragguagliami.”
Chiese
tornando pratica, ed era quella la parte che preferiva; non riusciva
mai a
comprendere del tutto i voli pindarici che la mente della sua padrona
faceva.
“Sto prendendomi
cura dei
nostri ex-ospiti.” Spiegò. “Li sto
portando qui … La buona notizia è che sono
venuto quasi tutti di loro spontanea volontà. Succede,
quando l’opinione
pubblica li chiama infetti.”
“Molto bene.” Colse un mazzo di giunchiglie
selvatiche che si intrecciava al
metallo della panchina e lo mondò dalle foglie in eccesso.
“Il nostro
committente non deve sapere che ci sono stati degli errori.
Soprattutto, non
deve collegare a noi quello che è successo a
Londra.” Fece un sospiro. “Se
Elias fosse stato ancora vivo non avremo dovuto andare a
tentativi.”
Johannes strinse la
mascella,
ma come sempre, rispose con un sorriso. La sua regina non amava persone
rancorose accanto a sé. Forse era per questo che non aveva
mai amato il
fratello.
O
il marito.
“Non
avverrà. Abbiamo le
attrezzature e le persone necessarie. Con le cavie qui, studiando le
loro
reazioni, sarà più semplice trovare un modo per
stabilizzare il siero. Capendo
gli errori, potremo lavorare alla soluzione.”
“Lo spero.” Gli tese la mano per alzarsi e
inarcò appena le sopracciglia
divertita, forse intuendo il suo stato d’animo.
“Oh, Johan …” Rise chiamandolo
con il suo nome attuale. “Siamo gelosi di un
morto?”
“Ne avrei
motivo?”
“Elias era un mago eccellente.” Lo
stuzzicò. “Peccato quella sua scomoda
propensione a fare la cosa giusta.”
“Come Sören. Il sangue non è
acqua.” Frecciò di rimando e sentì le
unghie della
sua donna premere con forza contro la pelle del braccio. Si godette il
dolore
assieme alla soddisfazione.
“Sei davvero un
uomo terribile.”
Non c’era nulla di più bello che un ghigno su quel
volto di porcellana,
Johannes lo pensò prendendole il mento tra le dita per
baciarla.
“Faccio del mio
peggio, mia
regina.”
****
Note:
Prima che qualcuno se lo possa chiedere … no, Ren non
è figlio di Johannes. Ugh.
Ha già abbastanza sfighe, povero
amore.
Qui
la
canzone del capitolo.
Stavolta mi sono limitata ad
una, se non si conta il primo
movimento dell’Inverno delle Quattro
Stagioni di Vivaldi. ;) Ovviamente
si parla sempre di David Garrett, ma a chi piace, consiglio anche la
versione
di
Perlman.
Infine, ma stra-importante,
la
piccola
meraviglia
che mi ha regalato la favolosa Gaea. Non è la sola a volere
questa scena, prima
o poi. (Sempre che non la consideriate riferita al primo, disastroso,
bacio al
ballo del Ceppo.)
1. Guarnieri
Del Gesù: chiamato anche solo Guarnieri, prende il
nome
dal liutaio che lo ha creato, detto Del Gesù
perché aveva l’abitudine di
scrivere all’interno della cassa armonica la sigla IHS. Assieme allo Stradivari è
uno dei violini più conosciuti – e
costosi - al mondo. A differenza di quest’ultimo ha un timbro
più scuro e
potente e non a caso è stato chiamato Cannone
da Paganini che lo usò quale strumento personale. Per
maggiori infoqui.
|
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Capitolo 25 *** Capitolo XXIV ***
Capitolo XXIV
I am softly watching you
Oh boy, your eyes betray what burns inside you
(Woodkid, I Love
You)
10 Luglio 2028
Londra,
Casa di Michel Zabini.
Mattina.
Michel
rotolando su un fianco contemplò lo splendido fondoschiena
che gli aveva tenuto
compagnia per una notte intera … mentre se ne andava.
Altro
non poteva essere dato che Emil si stava infilando i boxer e i
pantaloni di
soppiatto mentre fuori baluginava il sempiterno lattiginoso sole
londinese.
Combattendo
con la voglia incipiente di tirargli qualcosa – istintivo
forse, ma non certo
virile – si schiarì la voce arrochita dal sonno.
“Non era mia intenzione
incatenarti al letto.” Esordì. “Potevi
tranquillamente svegliarmi e andartene.”
Stronzo.
Appena
sveglio non riusciva ad essere elegante nel manifestare il proprio
disappunto.
Emil
si voltò per guardarlo: sembrava stupito più che
colpevole e Michel realizzò di
aver frainteso grossolanamente. Anche perché gli venne
restituita
un’occhiataccia.
“Ansia
da abbandono?” Replicò. “Stavo soltanto
scendendo a prendere qualcosa da
mangiare. Non so tu, ma quando salto la cena per stare tra le lenzuola
tutta la
notte la mattina dopo muoio di fame.”
Michel,
che a quel punto doveva rimediare la sua pessima propensione a
giudicare prima
di chiedere, si alzò a sedere sul letto. “Ho fame
anch’io.” Offrì.
Abbiamo
un talento naturale per litigare,
pare.
E
comunque è troppo permaloso.
“Ho
il
frigo pieno.” Aggiunse.
Il
tedesco lo guardò divertito, ma domato da come
lanciò la maglietta su una delle
sedie. “Perché, sai far altro oltre a scaldare
l’acqua per il the?”
Quello
era farsi cadere il calderone sui
piedi. “Forse ho qualcosa di pronto…”
Ipotizzò mentre l’idea di tirargli la
sveglia addosso, o una scarpa, cominciava ad essere sensata. Emil aveva
una
faccia da schiaffi notevole, e il sorrisetto supponente era solo la summa dell’irritazione che
riusciva a
provocargli.
Il
problema, supponeva, era vederlo con i capelli arruffati da una doccia,
il
sorriso di un monello di strada e pensare a quanto fosse
l’incarnazione fisica
del sesso.
“Questi
Purosangue…” Sospirò l’altro
crollando a sedere sul letto e sporgendosi nella
sua direzione, mentre gli passava una mano sulla gamba coperta solo dal
lenzuolo. Michel inspirò, sentendo che non era il solo ad
essere sveglio adesso; la notte
prima era stata
un’esatta ed appagante copia di quello che era successo al
loro primo incontro.
Lui ed Emil potevano beccarsi a morte fuori dalle lenzuola, ma tra di
esse
funzionavano con una naturalezza che non aveva ancora cessato di
stupirlo.
Affinità
elettive?
Qualunque
cosa fosse, anche l’altro doveva averla notata se era ancora
lì.
“Lo
sei anche tu.” Ribatté bloccando la mano nella
corsa al suo inguine. Fare la
perenne figura del ragazzino arrapato non era nelle sue intenzioni.
Anche
se lo è nelle mie voglie. Ma
comunque…
“Sì,
ma a differenza di qualcuno io mi
sono tolto il palo dal culo.” Ghignò il tedesco
prima di tirarselo contro in
modo rudemente delizioso. Emil era consapevole della sua
fisicità, con riflessi
naturali e morbidi. Dubitava fosse mai inciampato in vita sua.
Michel
ruppe quasi subito il bacio
languido
in cui l’aveva coinvolto l’altro: non doveva
dargliela vinta. “Non avevi fame?”
Domandò cercando di mostrarsi distaccato: se il suo corpo
aveva deciso di
gestirsi in ribelle autonomia ormonale, questo non significava che lui
fosse
d’accordo. “Perché posso offrirti la mia
cucina o una colazione fuori, ma al
momento non mi sembri orientato su nessuna delle due.”
Emil per tutta risposta si chinò a baciargli il collo, dando
un discreto scossone
alla sua lucidità mentale. “Vada per la
cucina.” Mormorò contro la sua pelle.
“Cucinerai per
me?”
L’altro
alzò gli occhi al cielo. “La chiudi mai quella
bocca?”
“Non
è
quello che mi hai detto ieri notte.”
“Ehi,
se è impegnata con me, perché dovrei
lamentarmi?”
Touché.
A
Milo
piaceva baciare, era piuttosto chiaro dalla frequenza con cui aveva
cercato le
sue labbra quella notte e in quel momento. Michel, che non apprezza
molto
quell’effusione, si trovò a non lamentarsene.
Quella battaglia, dopotutto,
poteva concedergliela. Baciava in maniera straordinaria.
Un
rapido remake della sessione notturna e una doccia dopo, Michel era
pronto a
godersi quello che era, nei fatti, il suo giorno libero. Questo
finché non
sentì la voce di Nott arrivare dalla cucina.
Quel
dannato idiota non si alza mai prima di mezzogiorno. Perché proprio
oggi?!
Cercare
di evitare l’incontro tra Loki ed Emil era ormai inutile e se
inoltre avesse
fatto capire al suo ospite che non desiderava annunciarlo avrebbe
rischiato di
rompere il fragile equilibrio che si era creato tra di loro.
Finì
di indossare il suo completo da casa – che suo padre
giudicava oltraggiosamente
Babbano perché non prevedeva asole e bottoni, ma una
maglietta e pantaloni di
lino – e si diresse con calma verso la cucina. Aveva ben un
corridoio per
pensare a come comportarsi.
Il
punto non era Emil, naturalmente: il punto era la propensione al
pettegolezzo del
suo migliore amico e il fatto che già sapesse troppo.
Chissà
cosa dovrò scucire o concedergli
perché tenga la bocca chiusa …
Arrivò
alla porta senza avere uno straccio di strategia.
Al
diavolo. Sei Michel Zabini. Non ti serve
una strategia, ma eleganza.
Entrò
e non fu sorpreso
di trovare i due intenti
a chiacchierare; Loki era una lingua lunga di natura ed Emil sembrava
la
tipologia di persona capace di trovare un argomento di conversazione
con
chiunque, quando voleva.
Non
che con me si sia mai sforzato…
Il
suo
ingresso fu subito notato. “Mio buon Zabini!” Lo
salutò Nott seduto ad uno
degli sgabelli con l’immancabile pipa trai denti.
“Buongiorno a te.”
“Nott.” Lo salutò.
“Com’è che non sei a letto a riprenderti
dai bagordi?”
Emil
era ai fornelli come aveva promesso; l’immagine, che avrebbe
dovuto sembrargli
inverosimile – da quando si era trasferito non se ne era mai
servito nessuno se
non per scaldare liquidi – era in realtà
… piacevole. Lo sguardo che si
scambiarono gli fece realizzare che l’altro era in attesa.
Ma
certo. Si aspetta che giustifichi la sua
presenza.
Non
gli avrebbe dato quella soddisfazione. Soprattutto, non avrebbe perso
la poca
fiducia che si era guadagnata.
Non
scherzavo quando ti ho detto che eri il
primo a vedere la mia stanza della musica.
Non
sacrifico qualcosa di mio per perdere,
ma per guadagnarci.
“Sono
stato svegliato dal profumo di fornelli in funzione.” Rispose
nel frattempo
Loki. “Ero talmente sorpreso che sono dovuto venire a
controllare … Casomai
qualche malintenzionato si fosse introdotto nella tua
dimora.”
“Sì,
per cucinarci la colazione.” Ironizzò sedendosi;
gli sgabelli erano più scomodi
del solito. Del resto, una notte di sesso folle rendeva qualsiasi
superficie
diversa da un divano sfondato … fastidiosa. “Che
ci fai qui?”
“Ci
vivo?”
Emil,
che sorvegliava la cottura di qualcosa, si voltò di tre
quarti. “Penso che
intenda in mia compagnia, Loki.”
“Oh.” L’amico ebbe anche la faccia tosta
di sembrare confuso. “Intrattengo gli
ospiti, naturalmente. Non avrei dovuto?”
“
…
Non ho detto questo.”
Complimenti,
Mike. Un asso nei rapporti
interpersonali con gli estranei e quando c’è Nott
e un ragazzo che ti piace
allo stesso tavolo diventi un imbecille.
…
Beh, è la prima volta che accade. E Albus
non è mai contato.
“Mangi
qualcosa maghetto?” La voce di Emil lo riscosse dal perfetto
bozzolo in cui
aveva cercato di rinchiudersi mentre metteva sul ripiano di marmo che
fungeva
da tavolo una serie di piatti ricolmi di cibo. “Oppure hai
bisogno che ti
imbocchi?”
“Quello
non succede da quando aveva sei anni.” Gli fece eco Nott.
Stronzo.
Ed
era
già la seconda scurrilità che pensava quella
mattina. Promise mentalmente una
morte atroce e dolorosa al coinquilino prima di voltarsi verso il
tedesco. “Prendo
solo the e del pane tostato, grazie.”
Non fu la risposta giusta da come gli venne riempito il piatto fino
all’orlo.
Contò le immancabili salsicce e uova, ma anche della verdura
saltata e qualcosa
che aveva l’aria di essere una
quiche di spinaci.
“Avevo
detto…” Tentò ma si mangiò
la lingua quando vide che lo sguardo Emil.
Ha
detto a me che ho un carattere orribile,
ma anche lui non scherza.
“Mi
sa
che ti sei sbagliato, non hai ordinato niente. Non sono il tuo
cameriere.”
Un silenzio orribile invase la stanza. “Non ho
detto…” Ricominciò sentendo che
doveva comunque mantenere il punto, perché non gli aveva
certo chiesto di
cucinare tutta quella roba e…
“Devi
perdonare il mio povero amico. È un idiota che non sa dire
grazie.” Lo
interruppe Loki con brio inappropriato data l’atmosfera tesa.
Non gli diede il
tempo di ribattere o difendersi che aggiunse. “E poi, quando
è in imbarazzo e
posso assicurarti che adesso lo è perché sa di
essersi comportato da cafone,
tende a diventare antipatico.”
Michel non riuscì a trovare motivo di dissentire, anche se
l’impulso di lanciare
una fattura Mollelingua alla massa di ricci ghignante che gli stava di
fronte fu
forte.
Anche
se ti ha appena salvato da una ben
misera figura.
Emil
sembrò accettare la diversione, perché
scrollò le spalle e ghignò. “Averlo
trai
piedi dev’essere una bella rottura di palle.”
“Non sai quanto.”
“Prego?”
“Vedi? Come ti dicevo … del tutto
sgradevole!” Loki sospirò teatrale,
inforchettando una salsiccia e divorandola con gusto.
“È anche un po’ fuori
assetto perché è la prima volta che mi presenta
qualcuno. Ma come ti ho detto,
mi ha tanto parlato di
te.” Fece una
pausa, in cui si godette il suo imbarazzo. “È
tutto squisito, Emil.”
Questo è incubo.
E
come
tale, sperava di svegliarsi al più presto. Ma dato che non
si era ancora
presentata quell’eventualità, non gli restava che
dare tutte le sue attenzioni
al piatto davanti a sé.
…
è delizioso.
Era
evidente che trai meriti dell’ex violinista prodigio
c’era anche saper
cucinare. “È vero … è molto
buono.” Offrì mentre l’altro si
accomodava accanto
a lui e prendeva a divorare la sua parte.
Per
alimentare un fisico del genere di certo
non è un tipo da dieta.
Emil
alzò
le spalle con noncuranza, ma Michel registrò comunque una
certa sorpresa
compiaciuta nella sua espressione. Era sensibile ai complimenti.
“Cucino per un
rompipalle di prima categoria.” Spiegò loro.
“Se non è roba da cinque bacchette
sarebbe capace di morirmi di fame per dispetto.”
Parla di Prince.
Quel
rapporto non l’aveva ancora inquadrato ma al momento non era
importante: era
necessario invece controllare le esternazioni di Nott, che li stava
studiando dall’altra
parte del ripiano come un gatto avrebbe fatto con un gomitolo.
“Vi
lascio alla vostra colazione, dato che anch’io ho
ospiti.” Flautò di colpo, alzandosi
in piedi con un secondo piatto ricolmo. “Milo, grazie mille
per la colazione e
per l’interessante chiacchierata.”
Interessante chiacchierata?
La
sua
espressione doveva parlare da sola perché l’amico
sembrava ad un passo dal
mettersi a ridere. Lo stronzo. “È stato un
piacere.” Aggiunse porgendo la mano
all’altro.
“Lo
stesso per me bello.” Fu la replica con tanto di stretta e
sorriso sincero. “Ci
si vede in giro.”
Ci
si vede in giro?
“Dovevo
lasciarvi soli?” Chiese quando se ne fu andato.
Complimenti
vivissimi, Zabini. Ora sembri
pure geloso.
Come
volevasi dimostrare, il maghetto voleva essere sempre al centro
dell’attenzione.
Viziatello
…
Avendo
a che fare su base quotidiana con il
principe dei viziati, era preparato a tenergli testa.
“Non mi sarebbe
spiaciuto, è un bel tipo.”
“È etero.”
“E
quindi?”
Venne
ricompensato da una smorfia. “Mi spiace deluderti, ma Loki
è un
incorruttibile.”
“Se
lo
dici tu…”
Era
sorpreso: si sarebbe aspettato di vedere panico, diversioni, tentativi
di nasconderlo
sotto il tappeto invece … niente, a parte comportarsi da
spina nel culo.
Pur
vero che il riccetto mi aveva già visto
al Black Goose è negare l’evidenza sarebbe stato
inutile.
Bevendo
un sorso di caffè gli venne spontaneo mettere le carte sul
tavolo. Non era mai
stato tipo da sotterfugi o parole non dette. “Pensavo avresti
panicato a
vedermi chiacchierare con il tuo amichetto.”
Michel non negò di averci pensato e questo gli piacque. La
falsa apertura
mentale era una delle cose che più gli dava ai nervi.
“Loki ti ha già visto al
Black Goose.” Esordì prevedibile.
“Inoltre gli avevo già detto chi sei. Non
è
stupido, non avrebbe avuto senso negare.”
“Niente panico quindi?”
L’altro
fece un mezzo sorriso, sorseggiando il the come l’inglese che
era. “Forse, un
po’.” Ammise quieto. “Ma Loki non ha quel
genere di pregiudizi. Non tutti i
Purosangue europei sono come li ricordi tu.”
“A parte te?” Se ne pentì quasi subito
dalla smorfia sul viso dell’inglese. Non
era divertente fare lo stronzo se non c’era una reazione
adeguata. Alzò le mani
in segno di resa. “Okay, questa potevo
risparmiarmela.”
Le scuse vennero accettate da come l’altro rilassò
le spalle. “Non è facile.”
Replicò stupendolo di nuovo. Era tutta una sorpresa quella
mattina. “Conosci i
criteri con cui sono stato educato. È difficile lasciarseli
alle spalle.”
Sembrava
che stavolta le premesse fossero diverse . Come reagire? Non sapeva
come Michel
si sarebbe mosso. Lo stava prendendo in contropiede perché
aveva sempre pensato
di conoscere quella tipologia di maghi.
Mi
sbagliavo?
“E
perché vorresti farlo con me?” Non era un fan
delle chiacchierate a cuore
aperto ma doveva capire che diavolo lui e Maghetto Stronzo stavano
facendo. Se
non definire tutto, almeno l’ossatura generale.
Scopiamo
alla grande assieme, ma se fosse
solo questo cercherei qualcuno che scopa ancora meglio.
Michel
esitò, poi scosse la testa. “Perché mi
interessi. È la risposta più onesta che
al momento posso darti.”
Milo
annuì. Non amava le chiacchierate a cuore aperto, ma non
sembrava essere il
solo. Afferrò la base dello sgabello dell’altro e
se lo avvicinò senza troppe
cerimonie. “Mi basta.” Lo fermò prima
che potesse protestare di avergli rigato
il pavimento di marmo o stronzate del genere. “E mangia le
verdure che hai nel
piatto, ragazzino viziato.”
Non si stupì quando realizzò che la risata
divertita di Michel era molto più
naturale che le sue moine snob.
****
Londra,
San Mungo.
Mattina.
Lily
chiuse furiosa il proprio cellulare, il metodo migliore per scaricare
la
frustrazione dopo aver parlato per mezz’ora al telefono ed
aver ricevuto solo
brutte notizie.
Chiamare
la Patil in merito a Ben era stato doveroso, ma la risposta era stata
peggiore
di quanto si sarebbe aspettata. La Psicomaga non sarebbe tornata prima
di due
settimane avendo una serie di conferenze serrate per tutta
l’Europa e per
quanto si fosse dimostrata dispiaciuta, era stata irremovibile circa la
possibilità di tornare.
Impegni
accademici, per qualcuno sono
peggio di Incanti Fidelio.
“Non
sono l’unica a cui puoi chiedere. Ci
sono altri due Psicomaghi di ruolo oltre a me.”
Lily aveva cercato di trattenere l’irritazione alle menzione
delle due streghe:
naturalmente aveva chiesto loro aiuto quando aveva capito che la Patil
non
sarebbe tornata nel giro di una manciata di giorni.
Il
punto non era quello.
“Ho
già chiesto, ma si sono rifiutate.”
Prima che la donna potesse chiedergli perché, aveva aggiunto
asciutta. “Ben è
affetta da Licantropia, e non se la sentono di …”
Non era riuscita a finire,
mentre un fiotto di rabbia le aveva chiuso la gola.
“Capisco.”
Era stata grata alla donna per
non aver commentato. “Mi dispiace ma non posso esserti
d’aiuto, non dall’oggi
al domani.” Aveva fatto una pausa e perché la
conosceva aveva aggiunto in tono
serio. “Non prendere iniziative. Sei solo una studentessa, e
non c’è nessuno
che possa prendersi la responsabilità di tuoi eventuali
errori di diagnosi o di
applicazione di una terapia.”
“Perché dovrei sbagliare?” Le era venuto
spontaneo e anche al di là della
Manica aveva percepito il suo mentore alzare gli occhi al cielo.
“Non sto scherzando. Saresti da sola dato che non
c’è un responsabile a
seguirti. Nessuna iniziativa. Sono stata chiara?”
Mi
sa che non le darò retta.
Perché,
e lo pensò mentre scendeva per incontrare Ted, non poteva
dire all’amico
qualcosa come ‘arrangiati e aspetta due settimane’.
Quella
bambina non può aspettare due
settimane per far sentire la sua voce.
I
servizi sociali magici sarebbero arrivati lunedì, e se Ben
non fosse stata in
grado di comunicare il suo disagio sarebbe stata portata in una
‘struttura
idonea’ in attesa che fosse dichiarata ‘non
pericolosa per la comunità’ data ‘la
sua natura’.
Virgolette
del cazzo.
…
e quando ci vuole, ci vuole.
Teddy
era
sull’orlo di una crisi di nervi e secondo Jamie alternava
stadi di rabbia verso
il mondo intero con momenti di cupa auto-commiserazione.
L’idea
di aver proposto e guidato la ricerca
che ha portato alla morte del padre, nonché suo
fratellastro, deve mangiarlo
vivo.
Quando
le porte dell’ascensore si aprirono con un cigolio legnoso,
Lily impostò l’aria
più professionale che aveva – sul serio!
– dirigendosi verso la stanza
assegnata a Ben. Come si aspettava trovò Ted appoggiato al
muro di fronte, con
i capelli color fango di palude e la barba di due giorni.
Qualcuno
qui non riesce a farsela
sparire...
“Ehi,
bellissimo.”
Fu soddisfatta quando lo sentì rilassarsi appena nella sua
morsa stritolante.
Gli abbracci – era provato scientificamente! –
facevano sempre un gran bene.
“Hai un aspetto terribile. Devo chiamare i rinforzi e farti
ingozzare da nonna
Molly?”
Cerchiamo
di rimandare le brutte notizie il
più possibile…
“Ci
sono novità?”
…
come non detto.
Lily
si morse un labbro ma vedendo l’urgenza, la speranza e
l’ansia trapelare dallo
sguardo dell’altro come un fiume in piena non
riuscì proprio a dar retta ai
saggi consigli della Patil.
“Me
ne
occuperò io.” Disse impostando il piglio
più deciso che gli riuscì.
“Non
la Psicomaga Patil?”
Era
ovvio che non la considerasse materiale a cui consegnare Ben; del resto
era
stato spettatore in prima linea quando cinque anni prima si era
comportata come
una cretina senza un grammo di cervello.
Non
penso che se dovesse usare una parola per
descrivermi userebbe affidabilità…
“Non
riesce a tornare prima di due settimane. Ma ehi…”
Soggiunse quando lo vide
passarsi una mano trai capelli in un gesto che puzzava disperazione
lontano due
miglia. “… ho un’idea!”
“Lily, non fraintendermi, non penso che tu non sia brava in
quello che fai … ma
sei una studentessa.” E per un professore
nell’anima come Teddy, era chiaro che
quello fosse il segnale di non serietà per eccellenza.
“Sì,
ma Ben non è un caso complicato, non è come Frank
e Alice.” Ribatté. “Si
tratta, in parole povere, di farla mangiare e farla smettere di urlare
quando
qualcuno tenta di toccarla, giusto?”
“Lily…”
“Teddy, dobbiamo comunicare con lei.”
“È
quello che sto cercando di fare!” Doveva davvero essere allo
stremo se
diventava sgarbato.
“Non
sto dicendo il contrario.” Obbiettò tranquilla.
“È questo il problema, forse …
Ci stai provando troppo. Ti ci stai
consumando! Da quanto non ti fa una dormita come si deve?”
“Non
ha importanza.” Si morse le labbra. “La prossima
settimana potrebbero…”
Potrebbero
portartela via, lo so.
“Non
pensarci.” Gli intimò pur sapendo che non sarebbe
stata ascoltata. “Dobbiamo parlarle
e lei ci deve rispondere, giusto?” Lanciò
un’occhiata alla porta chiusa alle
loro spalle: non avrebbe lasciato che una bambina continuasse ad aver
paura di
chi entrava da una porta.
Altrimenti
tutto quello che ho passato non
avrebbe senso. Le cose brutte servono ad insegnarti qualcosa.
Questo
è il mio qualcosa.
Sören
non era l’unico che trovava nell’aiutare gli altri
il suo scopo primario.
Decise allora di mettere tutte le carte in tavola. “Non
c’è nessuno nel mio
reparto che vuole lavorare con lei. Credimi, ho chiesto a tutti gli
Psicomaghi
di ruolo.”
La
mascella di Ted si serrò in una linea tesa e preoccupante.
“Immagino il
perché.”
Okay,
spaventoso. Teddy sa essere
spaventoso. Wow.
“Io
però voglio provarci.” Ripeté testarda.
“Lasciamelo fare.”
L’altro
le lanciò un’occhiata che non esprimeva certo
convinzione, ma capitolò. “Va
bene… del resto non credo che la situazione possa peggiorare
più di così.”
Scosse la testa. “Cosa ti serve?”
“Un
giocattolo.”
Lo
doveva ammettere, la faccia stralunata dell’amico valeva da
sola l’intera idea.
“Non credo basti questo per…”
“Lo so.” Lo interruppe,
mettendosi le
mani nelle tasche del camice e facendosi forza di
quell’uniforme, come ogni
volta che qualcuno pensava di metterla in discussione solo
perché non aveva
raggiunto un età in cui i suoi pareri potevano essere
considerati rispettabili.
Succederà
mai?
Teddy
però non era chiunque,
ma uno dei
suoi più cari amici di infanzia. Era anche un insegnante e
sapeva che le idee
migliori potevano arrivare da suggerimenti improbabili. “Hai
un piano?” Chiese
infatti.
“Certo
che ho un piano. Ce l’ho sempre.”
L’altro
non commentò. “All’ultimo piano ne
vendono?” Chiese soltanto.
Gli
sorrise. “Prendine uno carino. È una bambina,
niente bacchette esplosive o
scope giocattolo.”
Teddy
annuì, riprendendo un po’ colore –
letteralmente dato che i capelli presero una
sfumatura un po’ più vitale – per poi
allontanarsi deciso.
Date
ad un uomo una missione ed ecco che
ritroverà le forze.
Lily
aspettò che girasse l’angolo, poi
trasfigurò la sua uniforme da Medimago in una
maglietta e un paio di pantaloni di cotone a tinta unita –
cose facilmente
ri-trasfigurabili in caso di necessità – e si
accostò alla porta della stanza,
stando ben attenta che nessuno fosse di passaggio.
Se
devo disobbedire, non posso farlo come
Psicomaga. Oltre al fatto che quella povera bambina ha visto fin troppe
uniformi…
Aveva
una mezz’oretta di pura indecisione Lupin per operare la sua magia.
Entrando
notò subito come il letto fosse vuoto: Ben doveva essere di
nuovo sotto il
letto.
“Oh,
una stanza vuota.” Esordì tranquilla guardandosi
attorno come se cercasse di
capire se lo era sul serio. “Ottimo! Finalmente da
sola!” Si sedette a terra,
perché se Ben era raggomitolata ad altezza pavimento
torreggiarle sopra non era
una buona idea.
E
fin qui … Semplice buonsenso.
Il
respiro della bambina era accelerato e Lily si sentì
stringere il cuore: per
quanto Ted e James avessero provato, per Ben quello continuava a
rimanere un
ambiente ostile, dove chiunque poteva essere un potenziale nemico
venuto a
farle del male.
È
piccola, non ha i suoi genitori e
l’ultima cosa che ricorda è che suo padre
l’ha lasciata per non tornare.
Cavolo.
Non
era più così sicura di poter avere la meglio su
una situazione tanto
complicata; tuttavia doveva provare. Per Ben e per Teddy.
Si
appoggiò quindi con la schiena al piccolo comodino accanto a
letto, senza far
nulla, dandole il tempo di abituarsi al suo odore; se era un licantropo
ed era
nascosta doveva filtrare il mondo attorno a sé con
l’olfatto. Dopo qualche
attimo pescò dalle tasche dei pantaloni un Zuccotto.
E
ringraziamo la mia brutta abitudine di
fare uno spuntino a metà mattinata.
Quando
l’odore mantenuto fragrante dalla magia si diffuse per la
stanza, Ben annusò.
Ai
dolci di Mielandia non si resiste.
Lily
ne
diede un piccolo morso, facendo ben attenzione a goderselo
rumorosamente.
Devo
farla avvicinare. Se non la tocco, non
funziono.
La
Legimanzia Naturale funzionava in due modi: il primo, era
ciò che avrebbe fatto
un Legimante normale con la propria bacchetta. L’altro era
convogliare i propri
pensieri nella mente di qualcun’altro.
Cioè
quello che serve a me adesso. Devo
farla calmare.
…
più semplice a dirsi, che a farsi.
Era
molto più difficile far entrare un’idea, che farla
uscire: ogni mese la Patil
la faceva venire a casa sua per esercitarsi proprio su quella tecnica,
ma era
ben lontana dal padroneggiarla …
…
ma un tentativo. Solo uno.
Presa
da quei pensieri quasi mancò di vedere quando la bambina
fece capolino da sotto
il letto.
Oh,
eccola qui.
Era
davvero piccola, magrolina come gliel’avevano descritta.
Dietro una frangia di capelli
che non vedevano un paio di forbici da tempo c’erano gli
occhioni più grandi e
spaventati che avesse mai visto.
Come
si fa a non volerla aiutare? Teste di
cazzo.
Lily
lasciò
cadere un pezzo di Zuccotto, fingendo poi di non notare quando la
bambina lo
afferrò per tornare gattoni al suo rifugio sicuro. Fece
cadere così il secondo
pezzo vicino a lei e via di seguito fino a che Ben uscì
fuori senza prestarle
attenzione.
“Ah,
ecco
chi rubava tutte le mie briciole. Pensavo ci fosse un
topolino!”
La
bambina sussultò, pronta a rintanarsi, ma
l’apparizione di un secondo dolcetto,
ancora incartato, la fece fermare. “Facciamo a
metà?” Propose. Venne fissata in
piena confusione.
…
ma non capisce quel che dico? Jamie aveva
ragione?
Le
sembrava assurdo.
Spezzò
il dolcetto in due metà e mentre ne metteva in bocca una
porse l’altra alla
bambina. Non guardò nella sua direzione e si
concentrò piuttosto su un brutto
vaso a fiori vicino all’ingresso.
Cercò
di non sospirare di sollievo quando sentì le dita di Ben
chiudersi attorno
all’involucro della merendina.
Eccoci
qua.
Per
un
bambino schermarsi era impossibile e così Lily si
concentrò. Una serie di
immagini – immagini che la Patil le aveva fatto imparare a
memoria e che
parlavano di posti meravigliosi, abitazioni confortevoli, affetto,
amicizia e
in generale di cose belle
– scivolarono
via dai suoi pensieri come acqua di fiume, per confluire nella
testolina
arruffata accanto a lei.
Forse
è più semplice perché è una
bambina.
Non ha ancora muri attorno a sé.
Lei.
Nel
frattempo, perché la Legimanzia Naturale funzionava per
azione-reazione, e non
era possibile mandare pensieri senza riceverne in cambio, vide Ben.
Colline
verdi, una casa in mezzo ai
cipressi, piccola ma confortevole, mamma e papà, una
ninna-nanna cantata ogni
notte, coperte rimboccate, e poi …
Tristezza.
La mamma è morta e papà non può
più restare.
Un
treno, in mezzo a ceste e bagagli perché
papà ha detto che non devono scoprirci, un posto strano,
persone che parlano ma
che emettono suoni incomprensibili, visi cattivi, è meglio
la foresta Benedetta,
meglio la foresta, e poi …
Freddo.
Non ci sono città, né dolcetti, né
il letto e i pupazzi. Solo boschi.
Papà
che ha detto di aspettare, di non
muoversi, che tornerà subito, papà che
però non torna.
Non
torna, e poi delle braccia che
sollevano e portano via.
Lily
ruppe il contatto con un lamento, mentre una fitta di dolore alla nuca
le fece
vedere tutto nero.
Ahia.
Ogni
magia aveva un prezzo, e il suo era il rischio di un collasso se non si
fosse
data una calmata.
Accanto
a lei, Ben, che non si era accorta di nulla, era alle prese con la
carte del
dolcetto. Per quanto fosse stato fisicamente logorante, aveva
funzionato; nella
sua testolina adesso non c’era che un vago segnale di allarme
da come riprese
ad occuparsi dello zuccotto, ficcandoselo tutto in bocca con
soddisfazione.
C’era altro di cui occuparsi adesso. “Tu non mi
capisci, vero?” Mormorò.
“Accidenti… siamo stati degli idioti.”
“Perché
degli idioti?”
Ted
ci
aveva messo meno del previsto, e da come la stava guardando non
sembrava
contento di vederla lì. Poi registrò la presenza
della bambina e il cipiglio si
sciolse in un’espressione sbalordita.
“Ben…”
Lily
occhieggiò il pupazzo a forma d’orso –
un classico sempreverde – e si sentì un
po’ in colpa. “Ben ed io abbiamo fatto una
chiacchierata tra ragazze.” Spiegò
mentre la bambina occhieggiava insistente le tasche dei suoi pantaloni,
ancora
troppo guardinga per verificare di persona non ci fossero dolcetti.
Ma
ci sta pensando.
“Stai
bene?” Nonostante fosse incavolato per la sua iniziativa a
base di inganno,
Teddy non riusciva a venir meno alla sua indole di bravo ragazzo.
“Certo,
perché… Oh.”
Si accorse solo in quel
momento di avere le guance bagnate. “No, tranquillo. Non sono
mie.” Spiegò
tirando su con il naso ed asciugandosele.
“Sono…”
“Ha parlato?” La interruppe.
“Ha…” Guardò verso la bambina
con l’aria di
qualcuno che sperava in un miracolo.
Non
era male dare buone notizie. “No, ma ora so perché
non lo fa. Non risponde
perché non capisce una parola. Non è cresciuta
qui.” Fece un mezzo sorrisetto,
cercando lo sguardo della bambina. “Vero
Benedetta?”
La
bambina spalancò la bocca e la guardò come se il
mondo avesse ripreso ad avere
senso.
Eureka!
E
grazie Rodolfo e alla tua villa in Costa
Smeralda. Le vacanze post diploma più pazze di sempre.
Si
voltò verso Ted, e fece un mezzo sorriso.
“Ehi,
come te la cavi con l’italiano?”
****
Diagon
Alley, appartamento di Albus e
Thomas.
Mattina.
Albus
fu svegliato da una chiamata e dato che la suoneria assegnata a Tom era
piuttosto rumorosa –gliela cambiava ogni mese per far
sì che non si abituasse –
saltò sul letto, inciampò tra le lenzuola e
crollò rovinosamente a terra.
I'm your lover, I'm your zero
I'm the face in your dreams of glass!
Ma
che roba è?!
“Perché
ci hai messo tanto a rispondere?” Fu la domanda che gli venne
rivolta quando
strisciò fino al cellulare per rispondere.
“Va’
all’inferno.” Ed era stato educato. “Non
potevi chiamarmi con lo Specchio
comunicante?!”
Tom
non parve turbato da quel buongiorno. “Non ti saresti
svegliato.” Il che, in
effetti, era vero dato che l’unico segnale di
quest’ultimo era diventare caldo,
del tutto inutile se non lo avevi addosso. “Riesci ad essere
al San Mungo nei
prossimi venti minuti?”
Albus
si tirò a sedere sul duro pavimento della camera. Da qualche
parte sentiva
l’eco di una risata, sintomo del fatto che Meike doveva
averlo sentito cadere.
“Perché dovrei venire in ospedale? Sei
lì?” L’ipotesi che vi fosse come
paziente era da scartare dato il tono vitale e il fatto che
l’avesse chiamato:
se mai si fosse fatto male avrebbe preferito staccarsi un braccio
piuttosto che
notificargli la cosa. “Che ci fai nel mio
ospedale?”
“Possessivo
senza ragioni, vedo.” Anche senza vederlo poteva immaginarlo
ghignante, seduto
su una sedia mentre sorseggiava del the e si beava di avergli fatto
prendere un
infarto con la sua chiamata.
Perché
mi circondo di gente deprecabile?
“Io ci lavoro e tu no.”
Sospirò alzandosi
in piedi e andando allo specchio per notare lo stato dei suoi capelli.
Vi passò
una mano in mezzo e mascherò un lamento quando vi rimase
incastrata. “Non
dovresti essere dai tuoi oggi?”
“Mi
sono svegliato presto.”
“Dì piuttosto che non hai dormito
affatto.”
“Dormire è sopravvalutato.”
“Sì, come nutrirsi. Un giorno avrai un collasso ed
io riderò.”
“No, morirai di preoccupazione.”
“Ti odio.”
Quel breve scambio di battute riuscì comunque a fargli
ritrovare il buonumore e
dopo aver lasciato lo specchio e il suo riflesso umiliante si diresse
in
cucina, dove trovò Meike che apparentemente faceva i compiti.
La quindicenne lo accolse con un’immensa faccia da schiaffi.
“Tom?” Indovinò,
poi cominciò a canticchiare. “Ti
odio, ti
odio così tanto che credo sia vero amore…”
Avendo però pietà della sua
faccia fece levitare la caraffa di succo d’arancia, mandando
in orbita al
contempo una serie di biscotti dal profumo paradisiaco.
“Posso corromperti?”
Al cercò di non ridere mentre si versava un bicchiere di
spremuta incastrandosi
il ricevitore tra orecchio e spalla. “Ripetimelo, Tom,
perché dovrei essere al San
Mungo quando ho venduto l’anima per incastrare i turni in
modo da avere il
giovedì libero?”
“Non
te l’ho ancora detto.” Puntualizzò.
“Comunque è perché ho scoperto
qualcosa.” Fece
una pausa per dare la giusta enfasi alla frase successiva. Era una
regina del
maledetto dramma quando ci si metteva. “Ho delle
novità riguardo al virus. Ora
so perché Sören non si è
ammalato.”
Ho
già detto che lo odio?
La
curiosità lo investì come un Centauro incazzato e
dovette posare il bicchiere
per non rovesciarselo addosso: Meike non aspettava altro da come lo
fissava
piena di aspettativa. “Dammi un’ora.”
“Mezz’ora.” E Tom chiuse la
comunicazione. Al sospirò per l’ennesima volta
– a
volte gli sembrava di essere uno sfiatatoio – e
afferrò un biscotto che gli
ballava sinuosamente vicino al naso: doveva processare un po’
di zuccheri se
doveva passare una mattinata a spremersi le meningi.
“Roba
da cervelloni?” Indovinò Meike masticandone
pensosa uno con più gocce di
cioccolato che farina. “Sul serio … a voi Luglio
non fa pensare alle vacanze?”
Albus
guardò
fuori dalla finestra, notò che era spuntato il sole e
cancellò l’eventualità di
andare a rilassarsi a Hyde Park come aveva pianificato la sera prima.
“No,
Mei. A quanto pare no.”
Il
laboratorio di pozioni del San Mungo, chiamato anche semplicemente
‘Il
Laboratorio’, era cinque volte più grande quello
di Hogwarts ed in Inghilterra era
considerato il luogo per eccellenza dove esercitare la complessa arte
delle
Pozioni.
La
prima volta che Albus vi era entrato aveva quasi baciato il pavimento;
attrezzato con i calderoni più resistenti, provette
infinite, una dispensa di
ingredienti che veniva rifornita quotidianamente da tutti gli angoli
della Gran
Bretagna con materie sempre fresche e di primissima qualità
… Praticamente era il
suo sogno erotico.
Entrando
salutò con un cenno della testa i pozionisti, una dozzina
compatta come una
setta, che conosceva per nome e aveva imparato a rispettare come a
temere, per
via di una certa propensione agli scherzi macabri.
Fortuna
vuole che sono tutti ex-Serpeverde.
“Ehi,
Albus.”
Lo apostrofò Bole, il Capo Pozionista, uomo che aveva sempre
trovato
affascinante rientrando a pieno nella tipologia alti, scuri e con la
tendenza
al sarcasmo mordace. “Il tuo ragazzo è nel tavolo
in fondo.” Inarcò le
sopracciglia. “È uno stronzetto odioso
… Deve ringraziare di esser un ex
Serpeverde, o l’avrei sbattuto fuori a calci.”
“Lo so, fa quest’effetto a tutti.”
Sorrise con un cenno di scuse.
Raggiunse
Tom all’ultimo tavolo, imbronciato e con
l’attenzione ostinatamente rivolta al
microscopio magico sotto di lui. “Buongiorno.” Lo
salutò sapendo che fingeva di
non aver origliato la conversazione appena svolta. “I ragazzi
sono stati
antipatici?”
“Il ragazzetto di Albus.”
Sillabò guardandolo
male. “Ti sei dimenticato di dir loro come mi
chiamo?”
“Oh
no, l’ho fatto.” Scrollò le spalle.
“È solo che sei un esterno. Non hai diritto
ad un nome.”
“Mentre
tu sì.”
Beh. Questo è il mio regno.
Non
lo
disse però, limitandosi a prendere uno sgabello e portarlo
accanto a quello
dell’altro. “Come sei entrato?”
“Mi
ha
fatto entrare uno degli apprendisti.” Mostrò
l’anello con il simbolo di
Serpeverde che avevano dato loro al diploma. “Pare che qui
sia visto come
lasciapassare.”
Si
sorrisero, concordato una tregua silenziosa. Al poi gli si sedette
accanto e
inspirò. Era il momento di parlare del motivo per cui era
stato tirato giù dal
letto. “Allora, cos’hai scoperto?”
Tom
non ci girò intorno, battendo un dito su una pila di
cartelle di fianco a sé.
“Queste sono arrivate dall’America …
riguardano il bracciale magico di Prince.
Ci sono anche gli esami medici che gli sono stati fatti prima che
glielo
facessero indossare per calibrare il dosaggio magico
dell’apparecchio.”
Al
lo
aprì e saltò la parte che non gli competeva
– che riguardava calibrature dei
nuclei magici, per lui valori illeggibili – per andare alla
parte medica. Non
diceva nulla di nuovo: i valori magici di Sören erano gli
stessi rilevati dai
loro laboratori. “Cosa dovrei notare?” Chiese.
“Nulla,
perché sei un Guaritore.” Gli rispose con un
sorrisetto urtante. Era
chiaramente una ritorsione per essere stato apostrofato come
ragazzo-giocattolo
dai suoi colleghi. “Le analisi sul nucleo di bacchetta di
Prince invece mi
hanno fatto capire una cosa…”
Al si frenò dall’alzare gli occhi al cielo. Troppa
era la curiosità. “E cosa?”
“Non
è
il nucleo di bacchetta che aumenta la sua capacità magica
come suppongono gli
americani.”
“Come supponiamo tutti.”
Gli fece eco
aggrottando le sopracciglia. “Allora
cos’è?”
Tom
scosse la testa. “È lui. Il nucleo non potenzia
nulla … è fatto di corda di
cuore di drago, niente che non si possa trovare in commercio. Stevens
ne ha in
bottega almeno una mezza dozzina.” Fece una pausa e poi
aggiunse. “Ed è
d’accordo con me.”
Al incrociò le braccia al petto, perplesso: aveva sempre
pensato che l’unicità
di Sören fosse dovuta a cosa conteneva il suo braccio; credeva
però a Tom.
Se
c’è qualcuno che può dire se una
bacchetta è speciale o no, sono proprio lui e Stevens.
“E
che
mi dici del braccialetto di controllo?”
“È
stato costruito per controllare la magia in uscita, non in entrata. Non
avrebbe
potuto bloccare nulla di esterno. Non è come
funziona.”
“Quindi
se non è stato il nucleo ad evitare il contagio,
né il bracciale …”
“È stato il suo sangue.” Concluse per
lui.
“Ma
questo è…” Si alzò dallo
sgabello, pronto ad un largo sorriso entusiasta, ma
l’espressione di Tom non si era fatta trionfante, come
avrebbe dovuto essere
nel caso avesse scoperto la cura. Tutt’altro: guardava il
microscopio con la
mascella tesa in una linea dura. “ … non
è una buona notizia?” Chiese. “Mi hai
praticamente
detto che è immune! Potremo ricavare una cura dal suo
sangue!”
“Non
ne sarei così sicuro.” Replicò con un
sorrisetto amaro quanto sibillino. Ma non
era per posa stavolta, Al poteva leggere insicurezza nella postura
dell’altro:
di certo doveva aver passato l’intera notte tra fascicoli e
suoi vecchi tomi di
Medimagia senza arrivare ad una conclusione.
Beh,
almeno so perché da un po’ mi sembra
che sparissero fagocitati dalla casa … Me li ha fregati.
“Non
sono un Guaritore, Al … Ho delle teorie, ma devi essere tu a
confermarmele.”
“Per
questo sei venuto qui in laboratorio?” Indovinò,
ignorando il piccolo trionfo:
era raro – quasi un evento – che l’altro
ammettesse di essere secondo in
qualcosa, specie con lui.
Concentrati
su cose serie e non sul tuo
ego.
“Perché
non possiamo usare il sangue di Sören?”
Tom
si
scostò, lasciandogli il posto libero al microscopio magico,
che non di
distingueva da quello Babbano se non per il fatto che analizzava
ciò che gli
veniva sottoposto secondo criteri … magici. “Ho
richiesto un campione.” Iniziò
misterioso.
Al si avvicinò, inarcando suo malgrado le sopracciglia.
“E te lo hanno dato?”
“L’apprendista
di prima. Era due anni dietro di noi.” Scrollò le
spalle. “La sicurezza in
questo posto fa schifo.”
“Dice quello che l’ha violata.”
“Ho
solo manipolato una mente debole.”
Al si premurò di rifilargli una gomitata punitiva prima di
chinarsi per
guardare attraverso le lenti. “Cosa dovrei vedere?”
Tom
sfilò la bacchetta dal fodero legato alla gamba; era
l’unico articolo magico
che indossava, e lo faceva solo perché gridava al mondo
quanto fosse
Fabbricante. Evitò di farglielo notare per
l’ennesima volta, perché era più
concentrato a vedere dove la punta della suddetta stesse mirando.
“Non vorrai
colpire il vetrino?!” Sussurrò terrificato.
“Aggiungi danneggiamento di
materiale medico al banco d’accusa?”
“Falla
finita.” Si abbassò alla sua altezza e fece un
sorriso complice. “Non dirmi che
non vuoi vedere cos’ho in mente di fare.”
Dannazione.
Al
guardò oltre la sua spalla, controllando che nessuno stesse
badando a loro.
“Fa’ in fretta e ti prego, cerca di non far
esplodere il microscopio.”
“Non mi chiamo James Potter.” Sbuffò
prima di toccare il campione, da cui
sprizzò una serie di scintille verdi. “Adesso
guarda e dimmi cosa vedi.”
Al obbedì e quello che vide lo fece rinculare con il rischio
che si rovesciasse
lo sgabello, tanta fu la sorpresa. Tom afferrò la base del
suddetto al volo,
stabilizzandolo.
“Allora?”
Chiese con aria impaziente.
“…
Il
sangue…” Deglutì. “Ha la
stessa distribuzione magico - enzimatica di quello di
un infetto! Ha lo stesso aspetto
adesso.”
Tom
annuì, e l’espressione di compiaciuto trionfo che
aveva poco prima scivolò via
in favore di autentica preoccupazione. “Ho guardato nei tuoi
libri di testo per
vedere che aspetto avesse il sangue di un mago … sano, e poi
ho guardato nella
cartelle di Flannery e del duellante.”
“Quando gli abbiamo fatto il prelievo però non
… non era così. Era sano.”
Si voltò verso di lui. “Perché
hai pensato di colpirlo con un incantesimo?”
Tom
scosse la testa. “Non ho lanciato un incantesimo. Il sangue
ha reagito alla mia
bacchetta. Ho pensato al nucleo nel suo braccio e mi sono accorto che
il quadro
non era completo. Mancava quello.”
“Certo.” Non avevano considerato la
peculiarità di Sören, trattandolo come un
mago qualunque ed era stato questo l’errore suo e degli altri
Guaritori. “Quindi
è questo il vero aspetto del sangue di
Sören…”
Non ci capiva più niente. Si passò
un’altra volta la mano trai capelli, ma
neppure stavolta ne trasse beneficio. Chiuse gli occhi, radunando le
idee. “Questo
spiegherebbe la sua immunità. Non si può
contrarre un virus se si ha già la
malattia.”
Tom
incrociò
le braccia al petto. “Allora perché non ha
mostrato nessuno dei sintomi?”
Ci rifletté. “Un sintomo in realtà
c’è … Solo non lo avevamo considerato
tale.
La sua capacità magica. Ha valori molto alti.”
Sfogliò le cartelle sparse sul
tavolo e tornò a leggere i valori. “Il punto
è che sono stabili, quelli di
Flannery e di Henry Price hanno dei picchi, sono
incontrollabili.” Chiuse la
cartellina e la buttò nel mucchio. “Abbiamo
pensato che fosse come Jamie.”
“L’insegna a neon magica.”
“Già.” Sorrise appena. “Ma
forse Sören non ci è nato
così.” Si morse l’interno
della guancia, colpito da un pensiero. “La malattia
è il risultato di un
tentativo di creare un siero di incremento magico. E se ci avessero
già
provato? Dico, a creare il siero con lui.”
“Quando?”
L’implicazione di quella domanda li investì come
una Bolide.
“Quando
era piccolo.” Mormorò Al. “Questo
spiegherebbe perché con lui la malattia si è
comportata in modo diverso. Il corpo di un bambino ha una fisiologia
diversa da
quella di un adulto…”
Non
c’era bisogno che Tom dicesse niente, da come lo guardava:
sapevano entrambi
chi aveva usato Sören come parco esperimenti. “Von
Hohenheim è morto!” Saltò su,
abbassando la voce subito dopo quando notò come
più di un pozionista si fosse
voltato nella loro direzione.
E
Merlino se sono pettegoli!
Tom
aspettò che fosse di nuovo seduto accanto a lui prima di
parlare. “Mio padre non
era solo, ce n’erano altri, gente che non è mai
stata identificata.” Replicò. “Non
sarebbe un’idea assurda pensare che abbiano continuato a
lavorare, magari sotto
altro nome. La Thule non era soltanto lui.”
Al
fu
sollevato dal sentirglielo constatare: lo spettro di
quell’uomo infernale non li
avrebbe mai abbandonati completamente. “Pensi che gli Auror
sappiano che c’entri
la Thule?”
Tom
fece una smorfia ironica. “Se lo sanno, pensi andrebbero a
dirlo a me?”
Fissò un punto del tavolo da lavoro
come se volesse fargli prendere fuoco: era la sua faccia da decisione
rapida. “Devo
parlargli.” Decise, alzandosi in piedi e afferrando la
tracolla ai suoi piedi
per passarsela su una spalla: Al era certo che contenesse almeno una
trentina
di cose che non sarebbero mai dovute uscire di lì, ma decise
di glissare.
“Con
Sören?” Chiese invece.
L’altro
annuì. “Non era quello che volevi? Adesso abbiamo
perfino un argomento con cui
rompere il ghiaccio.” Gli fece cenno. “Devo
andare.”
“Tom…” All’altro, per quanto
empatico come un fondo di calderone, bastò
guardarlo in faccia per piegarsi sul tavolo e baciarlo.
Ho
bisogno di essere rassicurato quando mi
vengono date notizie emotivamente destabilizzanti, okay?
Okay.
Al
lo
trattenne qualche secondo di più, perché al di
là dei mezzi agghiaccianti che
usava, la sua capacità di pensare fuori dagli schemi si era
riconfermata
preziosa.
Il
problema è che va a braccetto con un ego
ipertrofico. Meglio non farglielo notare.
Tom
gli servì infatti un ghigno compiaciuto che gli sarebbe
valso un pugno in
faccia.
“Non
provocarmi.” Lo avvertì, approfittando della
vicinanza per tirargli uno
schiaffo sulla spalla. “E mi raccomando non accennargli a
niente, non ancora.” Aggiunse.
“Voglio avere la certezza che non stiamo facendo il passo
più lungo della
gamba, che quello che abbiamo scoperto sia vero.”
Tom
fece una smorfia. “Ti piace quando hai il comando, Signor
Guaritore.”
Sì,
ci sono abituato. La vera finezza è non
fartelo notare.
Gli
sorrise. “Già.” Lo fermò
prendendo per un braccio. “Dico sul serio … Se
vuoi
fargli domande sulla Thule va bene, ma rimani sul generico. Digli
soltanto che
abbiamo motivo di pensare che sia stato qualcosa che gli hanno fatto da
bambino
che l’ha salvato dal contagio.”
“So come ottenere informazioni senza rilasciarne.”
Fu la replica indignata:
l’importante era che lo ascoltasse, ed era certo che il
messaggio era permeato,
da quanto sembrava poco contento. “Pensa piuttosto ad avere
delle conferme.
Perché ho
ragione.”
****
Londra,
Diagon Alley.
Pomeriggio.
Sören
tornando dalla sua corsa serale era stato sorpreso da una chiamata di
Lily. Non
era mai stato così grato a Milo e alla sua fissazione di
fargli portar dietro
il cellulare.
“…
sai
che non posso dirti che hai fatto bene.”
“Sì, ma ha parlato! Ed erano giorni che provavano
a cavarle fuori una parola di
bocca!”
Sören, continuando a regolarizzare il respiro dopo la corsa di
quasi un’ora
dentro lo smog londinese alzò gli occhi al cielo, felice che
l’amica non fosse
lì per notarlo. “Avevi degli ordini.”
“Lo so, soldatino, ma gli ordini a volte vanno …
interpretati.”
“Interpretati.” Cercò di non scuotere la
testa. Non era sicuro, dopotutto, che
Lily non potesse trovare il modo di vederlo. La tecnologia Babbana
aveva
funzioni di cui era per la maggior parte ignaro. “Davvero, mi
stai dicendo che
bisogna essere creativi?”
“Sì!
Che ne sai che la Patil non voleva spronarmi? Non fa che dirmi che non
mi
esercito abbastanza e non ci metto impegno!”
“Non
è
che ti stai arrampicando sugli specchi?”
“Oh,
dai, Ren!” Una pausa. “Cavolo. Si nota
tanto?”
Sören
sorrise: Lilian l’aveva chiamato per chiedergli un parere,
dietro l’apparente richiesta
di conoscere gli orari per la loro prima lezione di autodifesa. E non
era la
prima volta; capitava parlassero spesso, senza contare i messaggi o le
improvvisate.
Un
mese fa non avrei mai immaginato potesse
accadere.
“Stai
sorridendo adesso, vero?” Sören si guardò
alle spalle e la sentì ridere.
“Tonto, ti conosco, non ti sto spiando.” La voce
era allegra, e ne era felice:
per quanto Lily si fosse probabilmente messa nei guai fino al collo con
la sua
referente – non sarebbe stata Lily
altrimenti – aveva comunque ottenuto un risultato, e questo
la faceva stare
bene.
Conosco
la sensazione.
“Sono
contento che tu sia riuscito a capire il problema di quella
bambina.” Replicò
mentre entrava nel vicolo che ospitava l’entrata per Diagon
Alley. “Forse
adesso Potter si rilasserà.”
“Non contarci. Mio fratello ha il ciclo come una donna. Solo,
perenne.” Ridacchiarono
entrambi poi la voce dell’amica sfumò in un tono
più serio. “Senti … a parte
gli scherzi, pensi che abbia sbagliato?”
Capiva
che la domanda non conteneva più le tracce
dell’ironia giocosa di prima. Glielo
stava chiedendo sul serio adesso. “Penso che tu abbia preso
una decisione.”
Esordì dopo averci riflettuto. “Volevi aiutare Ted
e la bambina. Il punto non è
che tu abbia sbagliato o meno, ma prendersi la
responsabilità di quello che hai
fatto ed essere disposta a sopportare le conseguenze… oppure
no.”
“Non è che possa evitare che la Patil venga a
saperlo. Ha occhi e orecchie
ovunque, quella Corvonero.”
“E
ne
valeva la pena?”
“Sì.”
Nessuna incertezza; era questo che amava di Lily. La sicurezza con cui
seguiva
il suo cuore, indipendentemente da quello che dicevano o facevano gli
altri per
dissuaderla. Se da un certo punto di vista poteva essere considerato un
difetto
– e lo era se l’aveva portata a Nurmengard cinque
anni prima – dall’altra era
il suo maggiore punto di forza.
Non
sarà mai piegata dalla volontà o
dall’influenza altrui. Farà sempre la cosa che
riterrà giusta.
Dal
suo punto di vista era una qualità. “Allora hai la
tua risposta.” Concluse
passando la mano sul mattone che attivava l’incantesimo di
Rivelamento di
Diagon Alley. La magia si piegò docilmente e fece un passo
indietro quando il
muro si aprì per lasciare intravedere la porta del Paiolo
Magico. “Non ti
servono scuse e giustificazioni se pensavi di agire nel
giusto.” Soggiunse.
“Per
alcuni sì.”
“Non per me.”
Ci
fu
una lieve esitazione al di là dell’apparecchio e
Sören trattenne il respiro: si
era spinto troppo in là?
“Grazie
Ren.” Il tono era caldo e sincero e Sören dovette
ricordarsi per l’ennesima volta
che quel fine settimana Lily sarebbe andata in Scozia con Scott, il suo ragazzo.
Ma
io l’avrò venerdì.
…
no, tu non avrai proprio niente.
Si
schiarì la voce e varcò l’ingresso
della locanda, lasciando che gli occhi si
abituassero alla penombra del locale. “Ci vediamo
domani.”
“Alle
sei e mezzo in punto all’Accademia di Duello!”
Convenne l’altra. “Non tardare!”
“Io?”
La
risata di Lily chiuse la comunicazione e Sören si impose di
togliersi il
sorrisetto da idiota che gli era spuntato in faccia. Non dovette
faticare molto:
gli bastò vedere chi era seduto ad uno dei tavoli in fondo
alla locanda.
Thomas.
Suo
cugino era lì, e stava leggendo un libro con accanto una
tazza di the e un
piatto di biscotti intonso. A
giudicare
dall’ordinazione singola doveva essere solo.
Che
ci fa qui?
Era
ovvio, stava aspettando lui; del resto per quale motivo avrebbe dovuto
star lì
quando aveva una casa a neppure una strada di distanza?
Si
sentì a disagio con la sua tenuta da corsa, il sudore che
gli si stava
raffreddando addosso e il viso congestionato dal caldo. Suo cugino in
confronto
sembrava l’epitome dell’eleganza; un po’
erano i vestiti scuri, ma il resto era
dovuto al fascino carismatico della loro famiglia.
Che
non è passato a me.
Tom
alzò lo sguardo come se l’avesse sentito arrivare
da un bel pezzo e stesse solo
aspettando il momento giusto per farglielo notare.
“Sören.” Lo salutò chiudendo
il libro con uno scatto secco.
Sören
non riuscì a trattenere i muscoli dal farlo sobbalzare come
un idiota; suo
cugino non aveva che l’aspetto fisico di Von Hohenheim,
ma…
“Buonasera
Thomas.” Si sforzò, perché a giudicare
dall’espressione sconcertata dell’altro
il suo malessere doveva essere palese.
“Un
brutto momento?” Gli chiese infatti.
“No.”
Si affrettò a rispondere. “Sono andato a
correre.”
“Lo vedo.”
Non
aveva mai parlato con suo cugino cinque anni prima, se non si contava
le volte
in cui aveva cercato di fargli saltare la copertura.
Non
credo valgano.
Da
allora non avevano avuto rapporti, anche se tramite Lily aveva saputo
del suo brillante
diploma, del lavoro come apprendista di bacchette e del fatto che
vivesse con
Albus. Non erano cose che aveva mai chiesto, ma non gli era dispiaciuto
venirne
a conoscenza.
Pare
che non sia riuscito a rovinargli la
vita, dopotutto.
“Hai
bisogno di qualcosa?” Ruppe il ghiaccio, perché
fissarsi senza spiccicare una
parola oltre a dargli angoscia era anche stupido, immaginava: quasi gli
sembrava di sentire la risata di Lily seguita da un ‘oh
Merlino, come diavolo
fate ad essere così imbranati?’
L’altro
dopo una lunga occhiata inquietante – altro non poteva esser
definita – annuì.
“Devo parlarti. Hai un momento?”
Non
aveva alcun motivo per rifiutare, se non il proprio disagio. Supponeva
non
fosse abbastanza. “Certo. Vado a farmi una doccia e rendermi
presentabile.”
“Fa’ pure con comodo, ti aspetto qui.”
Non gli diede il tempo di aggiungere
altro che riaprì la copertina del suo libro in un gesto di
indiscutibile
commiato.
…
scortese.
Lily
lo aveva avvertito che era quella l’impressione che chiunque
aveva al suo primo
incontro con Tom. Sospirò e salì le scale: non
sarebbe stata una conversazione
semplice.
Tom
era
nervoso e questo non era accettabile.
Lui
non
perdeva la calma di fronte a nessuno; non era come era fatto, non era
come voleva essere fatto.
Tuttavia
con Sören il discorso era diverso; il cugino era un memento in carne ed ossa di quello che
era accaduto durante la sua
adolescenza, un segnale luminoso sugli incubi che ogni tanto si
affacciavano
tra sogno e veglia.
Non
che fosse colpa sua; a differenza di James e il lato ottuso della sua
famiglia,
si rendeva conto che non poteva serbargli rancore solo
perché era stato il
braccio armato di uno squilibrato.
Non
avercela con lui non significava però che volesse stringerci
una salda e
affettuosa amicizia come sperava Albus; avrebbe preferito continuare ad
ignorarlo come aveva sempre fatto, e come continuava a fare riguardo a tante cose.
Per
vivere tranquillo.
Ma
non
poteva; con le scoperte che lui e Al avevano appena fatto non poteva
continuare
a tenere dentro l’armadio suo cugino e sperare che non gli
venisse voglia di
uscire.
Devo
tirarlo fuori io.
“Tom.”
Sören lo raggiunse, fresco di doccia e cambiato. Era bizzarro
constatare che a
differenza di molti maghi Purosangue era in grado di vestirsi alla
Babbana
senza sembrare un idiota o affetto da daltonismo. Poi
rifletté sul fatto che
quei vestiti doveva prepararglieli il Magonò, che sembrava
un tipo modaiolo. Accantonò
il pensiero frivolo e gli fece cenno
di sedersi, chiudendo il libro. “Posso offrirti
qualcosa?”
“No,
grazie.” L’altro aveva
l’espressività di un manichino; si stava
Occludendo e
non doveva neppure accorgersene. “Di cosa avevi bisogno di
parlarmi? Sembrava
importante.”
“Lo è.” Convenne; era lì per
avere delle informazioni, oltre che a darne. Le
avrebbe ottenute barriere occlumantiche o meno.
Bene.
Doveva
solo capire come.
Il
silenzio che si era stabilito tra di loro non gli dava buoni spunti, e
fu
infine Sören a prendere la parola. “Se è
importante…” Iniziò perplesso.
Qualcuno
qui ha problemi ad ottenere
informazioni?
La
voce di Al, se non era seguita dalla sua persona, era la cosa
più fastidiosa al
mondo.
“Sto
collaborando con il San Mungo per sviluppare una cura per il
morbo.” Esordì. “Non
per quanto riguarda il lato medico, non sono un Guaritore.
L’Arte delle
Bacchette studia anche l’incremento della magia
e…”
“Sei stato tu a studiare il campione del nucleo della mia
bacchetta, quindi.”
“Sì.”
Convenne. “Io e il mio mentore, Rupert Stevens. È
una collaborazione esterna.”
“Non mi sono ammalato, e sono stato l’unico
… Pensare che sia stata la mia
bacchetta è sensato.” Soggiunse Sören.
“È così? O è stato il
bracciale di
controllo?”
Tom
scosse la testa. “Nessuno dei due. Né il bracciale
né il nucleo hanno niente a
che vedere con la tua immunità al contagio. Funzionano sulla
tua magia, non su quella degli
altri. E
come sai, il contagio avviene attraverso gli scambi di flussi
magici.”
Sören annuì. “Quindi avete scoperto la
causa?”
Tom fece per aprire bocca, quando si rese conto che non era tenuto a
farlo; il
motivo della sua venuta era fare domande, capire se la Thule fosse
coinvolta e
quanto suo cugino sapesse della sua particolarità.
Sta
succedendo il contrario. È lui
che sta interrogando me.
Sören
aveva rigirato la frittata, avrebbe detto sua madre Robin; non solo non
aveva
scucito una sola informazione, ma era riuscito ad ottenerne alcune
senza che
lui se ne accorgesse.
Ti
sei dimenticato che è un investigatore?
“Non
sono qui per essere interrogato.” Disse brusco, incrociando
le braccia al petto
e avendo la sensazione di comportarsi come un bambino.
Specialmente
perché Sören sorrise ed era un sorriso condiscendente.
“Allora
perché sei qui?” Gli chiese perfettamente in
controllo e, dannazione, in
vantaggio. Non era una vera domanda, perché
continuò. “Spesso mi si accusa di
esser troppo diretto. Mi scuserai, quindi, se non ci giro attorno e ti
chiedo
perché sei qui quando fin’ora non hai mai espresso
il desiderio di avere a che
fare con me.”
Tom sentì una fitta di colpa colpirlo al fianco. Era come
sentire un pugno di
Al sul costato, stessa impressione. “Mi pare che il desiderio
fosse reciproco.”
Ritorse.
Sören
gli lanciò un’occhiata confusa. “Non ti
sto accusando, era una semplice
constatazione.”
“Suonava come un’accusa.”
“Non lo era.”
Rimasero
di nuovo in silenzio; Tom avrebbe voluto avere qualcosa di sagace da
dire, ma
si trovò a corto di parole. Sören non era ostile,
ma non era semplice da
sondare: come cinque anni prima, era un libro scritto in caratteri
incomprensibili. “Stai usando
l’Occlumanzia.” Non trovò di meglio da
dire. “Non
è cortese quando parli con qualcuno.”
Non
si
era accorto di usare l’Occlumanzia.
Il
nervosismo a volte faceva scattare in lui dei meccanismi di difesa che
andavano
oltre la coscienza, e pescavano diretti nei mille muri che aveva eretto
durante
la sua dipendenza da Von Hohenheim.
“Non
lo faccio coscientemente.” Confessò. “Mi
viene naturale quando sono nervoso.”
Aveva
avuto abbastanza confronti con i suoi colleghi, con il Capitano e con
la sua
terapeuta per sapere che se una conversazione era difficile, era
perché c’era
un muro.
E
da qualche parte qualcuno deve cominciare
ad abbatterlo.
Aveva
sempre pensato che suo cugino fosse un tipo difficile – o
così gli avevano
detto – ma constatarlo di persona era stato meno …
traumatico del previsto.
Perché
Thomas non era Alberich; poteva averne i suoi occhi, la voce e certe
espressioni, ma era un ragazzo. Un ragazzo con un brutto carattere e
privo di
tatto …
Ma
è tutto qui.
Non
poteva neppure quantificare il sollievo che provava in quel momento.
L’altro
sembrò sorpreso dalla sua inattesa confessione.
“Sei nervoso. Perché?”
Attestò
più che chiedere.
Lily
mi aveva detto che si comporta come un
piccolo dittatore. Adesso capisco che intende.
“Non
lo immagini?” Rispose con una domanda, sapendo che era
irritante. Aveva visto
Rico far crollare i sospetti in quel modo. Funzionava.
Tom
infatti
lo guardò male, ma decise di lasciar perdere. “Se
sono qui è perché ho pensato
che volessi essere informato sui progressi medici, visto che ti
riguardano.
Purtroppo il fatto che tu sia immune non significa che siamo
più vicini a
trovare una cura.”
Sören intuì il sottotesto. “Significa che
il motivo per cui non mi sono
ammalato non può essere usato per aiutare nessuno.
È così?”
Tom sfuggì il suo sguardo e, come aveva imparato nelle
centinaia di
interrogatori che aveva fatto o a cui aveva assistito, quello era un
segnale di
tensione peggiore dell’Occlumanzia conclamata. “Per
adesso abbiamo soltanto
delle teorie. Non fatti.” Si risolse a dire, scegliendo con
cura le parole. Era
un tratto da apprezzare, in un mondo in cui le persone erano rubinetti
rotti.
“Abbiamo ipotizzato che gli esperimenti che ti abbiano fatto
da bambino possano
essere una delle cause. La magia presente nel tuo sangue non reagisce
come
quella del mago della strada. In sostanza, è per questo che
non ti sei
ammalato.”
Ah.
Sören
sentì di colpo la bocca asciutta come il deserto e si
pentì di non aver
accettato l’offerta di prendere qualcosa da bere. Avrebbe
davvero voluto qualcosa
di forte in quel momento. “Capisco.”
Capisco
fin troppo bene.
Significava
che il progetto Demiurgo lo coinvolgeva più di quanto avesse
pensato, e non
solo perché Johannes ne faceva parte.
“Ne
siete sicuri?”
Thomas
scosse la testa “Come ho detto, per ora sono solo
speculazioni.” Non si sarebbe
lasciato andare ad altre confessioni, era evidente. “Se te ne
ho messo a parte
è solo perché speravo tu
potessi…”
“ … dirvi quale momento della mia vita da cavia mi
ha reso immune? Spiacente,
ero un bambino, non avevo coscienza di ciò che mi facevano
.” Ritorse con
rabbia, senza riuscire a frenarla. Si sentiva sudare i palmi della mani
e non
avrebbe voluto perdere il controllo, non di fronte a suo cugino.
Eppure.
Non
era ancora pronto a parlare di quel periodo buio e dubitava lo sarebbe
stato
mai.
Tom
alzò lo sguardo, e per un momento non disse nulla. Poi lo
stupì. “Scusami.” E
sembrava sincero. “Ho esagerato.”
Già.
“Immagino
che nei prossimi giorni mi aspettino domande di questo genere
… solo meno
informali.”
Tom ebbe il buon gusto di non mentire. “Finché non
avremo delle certezze, no.
Poi ti verranno chieste delle spiegazioni.” Fece una pausa.
Sembrava
improvvisamente molto meno disposto all’inquisizione.
“Non vi saranno accuse.”
Fece un sorrisetto amaro: Thomas aveva sempre militato dalla parte dei
giusti,
non poteva sapere come funzionava nel mondo dove il bianco e il nero
diventavano grigio. “Per quelli come me ci sono sempre
accuse.” Aveva una
domanda però. “Perché sei venuto ad
avvertirmi? Non credo fosse tuo compito
farlo.”
Non
era solo per sapere se la Thule fosse coinvolta o meno.
Tom
lo
realizzò con un certo grado di sgomento; non era solo per
avere delle risposte
che aveva detto quelle cose a Sören.
Gliele
hai dette perché doveva saperle. Perché era suo diritto.
Perché
altri hanno nascosto cose a te … e perché sai
cosa si prova. Conosci quella
rabbia.
Al
aveva detto che lui e Prince si somigliavano, ma non aveva colto il perché. Quello profondo,
almeno: si
somigliavano perché entrambi era nati con lo scopo di
servire una scacchiera,
un gioco giocato da altri. Si somigliavano perché entrambi
si erano ribellati e
ne portavano le cicatrici.
Scoprirlo
era irritante quanto rivelatore: alla fine lui e il cugino non erano
estranei
come aveva sempre pensato. “Perché volevo delle
risposte.” Ammise. “E perché
avresti avuto delle domande.”
Sören
non disse nulla, ma doveva aver capito da come fece un cenno di assenso
impercettibile. “Cosa avevi bisogno di sapere?”
Avrebbe
potuto chiederglielo a quel punto. Aveva abbassato le difese, forse per
stanchezza o forse perché gli aveva chiesto scusa attirando
così le sue
simpatie: sarebbe stato da idioti non approfittarne.
Era
un
idiota.
“Non
ha importanza.” Scosse la testa, prendendo il libro e
infilandoselo in borsa.
Da che era lì non aveva letto una pagina.
“È meglio che vada.”
Fu
quando gli diede le spalle che lo sentì parlare di nuovo.
“Tom.” Lo richiamò.
“Grazie.”
Non
ringraziarmi. Dieci a uno non me lo
merito.
“Di
cosa?” Mormorò a mezza bocca, e non fu certo che
l’altro l’avesse sentito finché
non sentì la risposta.
“Per
non essere come tuo padre.”
Tom
non rispose, anche perché non ce n’era bisogno.
Fece solo un cenno d’assenso e
un saluto.
Approfittarsi
magari era stato da idioti. Ma a sentire Al lui era un idiota: per
fortuna.
Tornato
a casa a turno concluso, Albus trovò Tom a guardare fuori
dalla finestra di
camera loro, con l’immancabile tazza di the scuro come
inchiostro che faceva da
base alla sua dieta e lo sguardo perso nel vuoto siderale.
“Ehi.”
Lo salutò, sfilandosi lo zaino con cui aveva cominciato ad
andare al San Mungo.
Con
tutti i referti e i fascicoli che fanno
avanti e indietro da casa, meglio evitare che mi sloghi una spalla.
“Com’è
andata con Sören?”
Perché
no, non sto affatto morendo dalla
curiosità. Per niente!
Non
avendo risposta gli si avvicinò, occhieggiando la via
gremita sotto di loro.
“Beh?” Lo incalzò.
“È andata così male?”
Non
si saranno lanciati addosso
incantesimi, spero!
“Alla
fine non gli ho chiesto ciò che volevo sapere.” Fu
tutto quello che disse,
dando un sorso alla tazza. Non si era neanche tolto le scarpe. Di certo
era
entrato in casa, si era preparato il the e si era rifugiato nel suo
angolo
preferito dell’appartamento, ovvero il bovindo che fungeva da
finestra – e da
pensatoio – in camera loro.
“In
che senso?”
“Volevo
sapere se la Thule era coinvolta.” Gli passò la
tazza ormai fredda, e si
diresse verso il guardaroba cominciando a spogliarsi. “Ma non
gliel’ho
chiesto.” Ripeté.
Al mollò la tazza sul comodino, ignorando
l’occhiata seccata dell’altro. “E
perché?”
Bizzarro.
Pensavo che avrebbe finito per
beccarsi uno Stupeficium
per aver esagerato con le domande.
Tom
era chino sui lacci delle proprie scarpe e ci mise più di
qualche attimo a
rispondere: era ufficiale, era nel pieno di un rimuginamento mentale.
“Non mi è
sembrato il caso.”
Eh?
“In
che senso?”
Tom
sbuffò irritato; quanto e come odiava che qualcuno
interrompesse il suo lugubre
elucubrare!
“Se non mi rispondi, vado in cucina, prendo un paio di
coperchi e te li suono
nelle orecchie inseguendoti per tutta casa.” Gli propose.
“Dico sul serio.”
Tom aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse, con
aria offesa. “Non mi
sembra che ci sia molto da capire … Non voglio essere io a
dargli brutte
notizie.”
“Brutte notizie?”
“In che altro modo chiameresti quello che abbiamo scoperto,
se lo guardi dal
suo punto di vista?”
Beh.
In effetti.
Ormai
comunicativo, l’altro si passò una mano trai
capelli. “Non ho voluto.”
Ripeté, e aveva il suono di una
rivelazione. “Lo scoprirà comunque, se le nostre
ipotesi sono corrette … e per
quanto riguarda le mie domande, avrò comunque le mie
risposte. Solo, non da
lui.”
“L’hai lasciato in pace…”
Realizzò, perché quello era il succo del discorso
ingarbugliato dell’altro. Sorrise, gattonando sul letto fino
a raggiungerlo ed
abbracciargli la schiena. “Hai capito le sue
difficoltà.”
“Piantala.” Fu il borbottio cupo. “Non mi
piace dare brutte notizie, tutto
qui.”
“Hai empatizzato.”
“Non l’ho fatto!”
Al
ridacchiò, strofinando la guancia contro la stoffa sottile
della camicia
dell’altro: si era messo in tiro per incontrare il cugino, da
bravo snob
qual’era.
“Sono
fiero di te.” Gli mormorò all’orecchio.
“Sei stato bravo.”
Sentirlo sciogliersi, anche se di poco, era sempre una bella
soddisfazione.
“Non ho bisogno che tu mi rabbuffi come un
ragazzino…”
“Certo che no.” Lo stritolò in un
abbraccio perché era vero, era fiero di lui:
e si sentiva anche un po’ in colpa ad aver pensato il peggio.
Tom poteva avere
mille difetti, ma quello che aveva passato l’aveva reso una
persona migliore.
Non la migliore, ma una persona
capace di capire il dolore altrui e rispettarlo.
Quindi,
vergogna per esserti stupito.
Tom
gli lanciò un’occhiata da sopra alla spalla.
“Non pensavi mi sarei comportato
decentemente.” Attestò con un sorrisetto.
“Beh,
lo … speravo?”
“Dannato
Potter. Sconterai la tua malafede.” Soffiò prima
di ribaltarlo sul letto e
schiacciarlo sotto di sé.
Al
accettò il suo destino con doverosa abnegazione.
****
Note:
Qui
la
canzone del capitolo. La canzone della sveglia è
questa perchè Tom è una carogna.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, dubito di riuscire a postarlo
prima
di partire per la Croazia (VACANZE). Nel caso, le notizie arrivano
fresche su effebì! :D
|
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Capitolo 26 *** Capitolo XXV ***
Capitolo XXV
With
you nothing seems impossible / It all seems to fit the frame
So when I'm crying alone, when I'm cold as a
dying stone
Grow me a garden of roses
(Roses,
Poets of the Fall)
11 Luglio 2028
Somerset, casa di
Scott
Ross. Mattina.
Scott si svegliò
perché Lily
stava cercando di non urlare al telefono.
La sentiva persino da dove
si
era rifugiata – in bagno – perché quando
cercava di non alzare la voce la aveva
comunque bisogno di compensare; per questo sbatteva ogni oggetto avesse
a
portata di mano, che fosse il dentifricio o l’anta del
mobiletto delle pozioni.
Con un sospiro si
alzò dal
letto, ciabattando fino alla cucina per preparare la colazione; aveva
imparato
che la cosa che più la calmava era mettere qualcosa sotto i
denti.
Dev’essere
un retaggio familiare.
Mentre metteva a preparare
il
caffè e a tostare qualche fetta di pane guardò
fuori dalla finestra; era una
bella giornata, e quel weekend dava una Scozia sgombra di nubi.
Un
miracolo che non si ripete spesso.
Erano quindi le giornate
perfette per far distrarre la sua ragazza e riportarla sui giusti
binari.
I
miei.
Non si riteneva un tipo
possessivo; non lo era stato
nemmeno da
bambino con la sua scopa giocattolo – il suo primo amore. Ma
Lily … beh, gli
faceva pensare ad una casa e a qualche bambino. Aveva vinto il suo
cuore e la
sua fiducia con una pianificazione da bacio accademico, e lasciarla
andare ad
allenarsi con Sören senza contrattaccare … no.
Semplicemente,
no.
Fece in tempo a far uscire i
toast che l’altra marciò in cucina, ovviamente
attirata dall’odore del caffè. Scott
pensò che non avrebbe mai lasciato che Sören la
vedesse con i capelli
arruffati, una maglia da uomo a coprirle le gambe e
l’espressione di chi
avrebbe ucciso per un po’ di zuccheri nello stomaco.
“Brutto
risveglio?” Indovinò
versandole il caffè.
“Alla
grande.” Sospirò
bevendone un grosso sorso. Era una fortuna glielo avesse zuccherato
prima. “Ero
al telefono con la Patil.”
“Ha scoperto di Ben?”
Lily scrollò le
spalle. “Non
l’ha scoperto. L’ho chiamata io per
dirglielo.”
“Ah.”
Emise sorpreso. A quanto
aveva capito l’operazione era stata non autorizzata.
“Beh, forse l’avrebbe
scoperto lo stesso una volta tornata…”
“Non è
per quello.” Lily gli
lanciò un’occhiata perplessa. “Dovevo
dirglielo. Nascondermi sotto un tappeto sarebbe stata la ciliegina
finale per
giocarmi il suo rispetto.”
Scott rifletté su quanto appena detto, e ancora una volta
non riuscì a capire
come funzionava la testolina della sua fidanzata. “E non si
è arrabbiata?”
“Eccome!”
Sbuffò. “Mi ha fatto
una lavata di capo terrificante!” Vedendolo confuso, fece un
sorriso dolente.
“Vedi, la tecnica che ho usato, quella della Legimanzia
Inversa, è … beh,
pericolosa. Non solo per il paziente, ma anche per lo Psicomago che la
compie.
Più per lui, in realtà. Scambiarsi i pensieri
è un procedimento invasivo e gli
effetti collaterali, se la procedura non viene fatta correttamente,
sono
piuttosto seri.”
Scott annuì,
sentendosi
improvvisamente molto meno contento che la sua ragazza avesse deciso di
aiutare
Ben, per quanto la cosa fosse stata nobile e da
lei. “Se la metti così, capisco
perché era arrabbiata.”
“Penso che
dovrò rimettere a
posto la sala comune del reparto Thickley per i prossimi tre mesi.
Senza magia.”
Sbuffò, ma non sembrava troppo abbattuta dalla cosa. Era fiera di se stessa,
realizzò.
“Spero che almeno
ne valesse
la pena…” Gli sfuggì, e si sarebbe
mangiato la lingua quando vide gli occhi
brillanti di Lily dardeggiargli addosso.
Non
è per quello che ho detto, ma per come
l’ho detto.
“Pensi che abbia
fatto una
cavolata?” Gli chiese infatti, con il tono che urlava allarme
lontano due
miglia. Scott avrebbe potuto trovare un modo per riparare la cosa se
non avesse
avuto una ragazza capace di capirlo solo guardandolo in faccia.
A volte era snervante.
“Penso che
potevano esserci
altre soluzioni che non coinvolgessero direttamente te.” Si
limitò a dire,
sincero il più possibile. “Potevi insistere con le
altre Psicomaghe, potevi
chiedere alla Patil di insistere al posto tuo. È il
capo-reparto, ha influenza
anche in queste cose credo.”
“Non è
questo il punto!”
“No, il punto è che volevi provare che eri in
grado di farlo, a dispetto dei
rischi.” Gli uscì fuori e non riuscì a
frenarsi, perché era vero. Lily aveva
una perenne ansia da prestazione che le scorreva sotto pelle; un
po’ era per
via del suo cognome, che portava dietro di sé un bagaglio di
eroi e eroine,
bastevole per far sentir inadeguato chiunque.
Un
po’ è proprio lei. Si crede migliore di parecchie
persone, solo non vuole ammetterlo.
L’altra
serrò le labbra, ma
non ribatté; non era una stupida, e si rendeva conto quando
qualcuno gli diceva
la verità, per quanto poco piacevole potesse essere.
“Forse.”
Ammise. “Forse l’ho
fatto, ma mi sono assunta le mie responsabilità
perché sono pronta a pagare le
conseguenze. Sören…” E si
bloccò di colpo.
Sören.
Dovevo immaginarmelo. Ha parlato con lui e se
n’è uscita con questa storia assurda.
Fu più per rabbia
che per
reale desiderio di aiutarla, che parlò.
“Sören la pensa così anche nel caso
fosse successo qualcosa a Ben?”
Era un colpo basso e se ne
pentì nel secondo stesso in cui lo pronunciò.
Complimenti
Ross. In queste cinquantasei ore dovevi
essere il ragazzo perfetto, quello che nessuna ragazza sana di mente
pianterebbe … e rischi di farti piantare a colazione.
Lily serrò le
dita sul
tovagliolo e si alzò di scatto. Sembrava volergli urlare
qualcosa, ma si morse
di nuovo le labbra, così forte che di certo si fece male.
“È meglio che vada.”
Borbottò.
“Lily.”
Si alzò in piedi anche
lui, preoccupato. La sua gelosia si era messa in mezzo, ma non avrebbe
permesso
che vanificasse tutto il discorso. Perché aveva ragione.
“Mi dispiace, è stata
una frase proprio da stronzo…”
“Abbastanza.” Il fatto che gli rispondesse era
positivo, sperava.
“È che
sono preoccupato. Il
discorso che ti ha fatto Sören è giusto, non
fraintendermi. È solo che mi
chiedo se fossi preparata ad affrontare le vere
conseguenze.”
Lui
di certo non se l’è chiesto. Non sembra il tipo
che
si fa troppi problemi quando ci sono danni collaterali. Basta vedere
quello che
ti ha fatto.
Lily si fermò
sullo stipite
della porta. Non sembrava arrabbiata, ma neppure particolarmente
illuminata
dalla consapevolezza. “Non mi sono cucita il suo parere
addosso, Scott. Sören
non c’era quando ho preso quella decisione.” Gli
rispose seria. Era in quei
momenti che si intravedeva la sua vera ragazza, dietro i sorrisetti e
le
battute. Una volontà di ferro, come un diamante incastonato
in mezzo a tanti
pezzetti di vetro. “Sapevo che avrei potuto fare male a Ben,
ma sapevo anche
che nessuno la stava ascoltando. Io potevo farlo, e l’ho
fatto. Non mi pento di
questo.”
Non c’era molto
altro da
aggiungere a quel punto. Di fronte a quell’asserzione, che
niente aveva di
ribelle o di ‘sono migliore di voi’,
capitolò. “Scusami … è solo
che mi è
sembrato che il parere di Sören fosse più
importante del mio, per te.”
Confessò, perché la sincerità era
l’unica cosa che pagava di fronte ad una
Legimante Naturale.
Tanto
lo scoprirebbe comunque, in un modo o nell’altro.
E altro che brutte conseguenze.
Lily sciolse le braccia
– le
aveva tenute serrate per tutto il tempo – e gli si
avvicinò. “Non dire
cavolate.” Mormorò. “Sören
è mio amico e tu sei il mio ragazzo.” Fece un
sorrisetto. “Ascolto quello che mi dite, ma alla fine faccio
come mi pare.”
Scott ridacchiò, perché se era ritornata quella
Lily, voleva dire che forse non aveva mandato tutto al diavolo.
“Non ne
dubito.”
Lily gli sorrise,
tirandoselo
contro per la maglietta. “Non essere geloso,
ragazzone.” Lo apostrofò
mettendosi in punta di piedi per posargli il mento sul petto.
“Qui è il punto
dove lo ammetti e mi giuri amore eterno.”
Scott rise di nuovo, sentendosi un autentico idiota. “Sono
geloso e ti amo.” Ripeté
diligente. “Non mi piace che altri ragazzi ti stiano
attorno.”
“Sören
è diverso.” Scrollò le
spalle, sedendosi sul tavolo per continuare a sorseggiare
caffè. “Vuoi la
sconcertante verità? Non mi vede come una ragazza, sono una
specie di … buon
esempio per lui. Una bussola delle buone intenzioni.” Fece
una smorfietta.
“Poverino, eh? Penso di far schifo ad indicare il
Nord.”
“Sì, in
effetti qualche volte
hai avuto problemi a trovarlo…”
Scherzò, anche se una parte di sé trovava
ancora più inquietante quella definizione; una cosa era
avvicinarsi a Lily
perché era una bella ragazza, una cosa era farlo
perché…
È
il suo Nord?
Evitò di
commentare però,
preferendo chinarsi per un bacio e per sentire le gambe esili
allacciarsi alla vita
per tirarselo contro. “Non preoccuparti.” Le
mormorò baciandole il collo. “Per
la Scozia abbiamo il navigatore.”
****
Londra,
Mayfair.
Mattina.
Oh, oh-oh I got a love that
keeps me waiting
I’m a lonely boy
“Cos’è
sta roba?”
“Si chiama musica
rock,
Potty.”
“Lo so che cos’è, mi sto chiedendo
perché siamo sintonizzati su una stazione
Babbana e non sulla frequenza delle radio auror!”
“Me la sono dimenticata.”
“Malfuretto!”
Era in momenti come quello che Sören sentiva la mancanza
dell’agente Estevez;
il cameratismo robusto che intercorreva trai tre auror riusciva a
metterlo a
disagio persino se l’agente Jordan non contribuiva alla
conversazione.
Scacciò quel
pensiero, perché
stava diventando sempre più facile piangersi addosso ed era
una cosa che lo
disgustava. Guardò invece i tanti palazzi in mattoni rossi
che sfrecciavano ai
lati della loro visuale, mentre Babbani ignari venivano sorpassati
dall’auto di
servizio abilmente Disillusa.
“Non cambiarla! Mi
piace!”
Protestò Scorpius scacciando con uno schiaffo la mano di
Potter, intento a
guidare come a cercare di cambiare stazione.
“È
questo il punto! Sei stonato
come una campana, se t’azzardi a
cantare…” Lo minacciò ottenendo
l’effetto
opposto. Ormai anche Sören sapeva che Malfoy era un bastian
contrario per
natura e non c’era cosa che più lo deliziava che
far andare fuori dai gangheri
chi gli dava ordini.
“Ma
io sono qui per amarti, sono invece nato per sanguinare? Ogni volta
mi fai aspettare, aspettare, aspettare!”
Gridò senza troppe cerimonie,
scansando il pugno dell’altro. “Ho
un
amore che mi fa aspettare, sono un ragazzo solitario!”
Jordan fece un mezzo
sorriso,
distogliendo lo sguardo dal finestrino. “Non la
smetterà finché non lascerai in
pace quella radio, Jimmy. Fagli finire la canzone, tanto le
comunicazioni ci
arrivano anche via Specchio Magico.”
“Proprio
così!” Confermò
Scorpius con un sorriso beato, servendo un esplicativo segno di
vittoria allo
sguardo fosco dell’amico. “Siamo stati buttati
giù dal letto ad un’ora
scandalosa … Pretendo di
comportarmi
come un deficiente poco professionale.”
“Non è
che ti comporti, ci sei
proprio.” Grugnì l’altro svoltando su
una stradina residenziale; a quell’ora
del mattino la città era ancora immersa nel torpore e la
fila di macchine
parcheggiate e la mancanza totale di esseri umani nei paraggi ne era la
prova.
“A me la canzone
piace.”
Non fu certo di averlo detto
ad alta voce finché tutti si girarono a guardarlo.
Tentò pateticamente di non
arrossire, perché alla sua età e con il suo
passato era ridicolo. In
compenso quando uscirono dalla macchina per
poco Scorpius non lo abbracciò. Di certo minacciava di farlo
da come gli slogò
una spalla con una pacca. “Visto?”
Gongolò in direzione di Potter. “Sören ha
ottimi gusti in fatto di musica!”
“E chi lo dice?”
“Tua
sorella.” Ghignò il
biondo, mentre Potter sembrava aver voglia di strangolarli a mani nude.
Sören dovette
ammettere che
era divertente vederlo perdere le staffe.
“Stronzi.”
Sbuffò, gonfiando i
muscoli come gli orango che si vedevano nei programmi Babbani alla
televisione.
Sören dovette trattenere un sorriso mascherandolo da crampo
alla mascella. “A
proposito di Lils …” Esordì, ignaro
della deriva dei suoi pensieri. “Mi hanno
detto che ti ha chiesto di insegnarle un po’ di
auto-difesa.”
“Sì, stase…” Non lo fece
neanche finire.
“Se le torci un
capello ti
ammazzo.”
Ovviamente.
Inarcò le
sopracciglia, e registrò
con sorpresa sia Jordan che Scorpius guardarlo in aspettativa. A quanto
sembrava i loro alterchi non avevano più parti schierate in
un'unica direzione.“Il
punto di insegnarle a difendersi è mostrarle come
può essere aggredita.”
Osservò. “Quindi di cosa stiamo
parlando?”
“Pipistrello, sai
benissimo di
cosa stiamo parlando … mia sorella è una
ragazza!” Lo sguardo di puro terrore
nel volto dell’altro lo mosse quasi a compassione.
Non
puoi volerla proteggere più di me. Quanto me,
forse, ma non di più.
“E
quindi?” Sì, era piuttosto
divertente punzecchiarlo. “Lily è una strega. Ha
una bacchetta ed ha una buona
capacità magica. Trattarla come se fosse di vetro non la
aiuterebbe.” Vedendolo
diventare terreo e temendo che avrebbe finito per irrompere nella sala
duelli
con l’intento di salvare la fanciulla minacciata dal crudele
stregone, sospirò.
“Potter, la sua incolumità è mia
priorità assoluta. Non le succederà
niente.”
L’altro sembrò ancor meno convinto, ma
sorprendentemente fece una smorfia e
chiuse la conversazione incamminandosi verso il palazzo da cui era
partita la
segnalazione.
Pensavo
avrebbe reagito molto peggio.
Scorpius gli si
affiancò,
battendogli una pacca sulla spalla: sembrava trovare particolare
piacere ad
usargli quel gesto. “Non farci caso, è una
chioccia apprensiva. Tutti i maschi
Potter lo sono.”
“Me ne sono
accorto.”
“Meglio tardi che mai!” Gli strizzò
l’occhio. “Allora … ripetetemi la
situazione, perché quando Potty l’ha spiegata
stavo cercando di inalare teina e
farla funzionare come caffè. Perché siamo
qui?”
“Ci è arrivata una segnalazione da parte di
…” Jordan, la memoria comune della
squadra, estrasse il taccuino e lesse. “Katy Reynard. Pare
che si tratti del
fratello. È diventato aggressivo, si è chiuso
nella sua stanza rifiutando di farsi
portare al San Mungo e pare che nei giorni scorsi abbia manifestato
episodi di
magia incontrollata.”
“Classici sintomi del morbo, insomma…”
Scorpius schioccò la lingua. “Oggi
proprio una sveglia coi fiocchi.”
“Abita nel secondo palazzo alla fine della strada.”
Sospirò Jordan, passandosi
una mano sulla nuca e dandogli implicitamente ragione. “Al
Camino la donna sembrava
agitata. La chiamata è stata fatta venti minuti fa, ed
è stata tagliata a
metà.”
“Pensate che il fratello l’abbia
attaccata?” Intervenne Sören: le
casualità di
quel genere lo mettevano sempre a disagio. Quando c’era di
mezzo un ostaggio
era la cosa peggiore.
“Non possiamo
escluderlo.”
Confermò Potter alzando il cappuccio del giubbotto per
ripararsi dalla
pioggerella sottile che aveva cominciato a cadere. “Bacchette
alla mano e
cerchiamo di evitare di svegliare tutto il vicinato. Gli Obliviatori
sono dei
veri rompipalle quando li fai lavorar di mattina.”
Entrarono così
nell’edificio,
lanciandosi incantesimi Silenzianti e forzando con facilità
la serratura
elettronica del posto; lo stabile era signorile e chiaramente Babbano.
“L’appartamento
è il numero
12, è al piano terra.” Illustrò Jordan
guardandosi attorno, prima di indicare
con un cenno della testa la fine del corridoio tinteggiato da poco a
giudicare
dall’odore. “Là. La porta è
aperta.” Aggiunse.
“Okay.”
Potter si mise
davanti, facendo loro cenno di aspettare. Pescò dalle tasche
del proprio
giubbotto, incantate con un Incanto di Estensione Irriconoscibile,
quello che
Sören riconobbe come un Avversaspecchio: erano anni che non ne
vedeva uno. Lo
spedì a levitare proprio sopra lo stipite della porta.
Una
buona idea.
Da lì poterono
vedere come lo
specchio fosse sgombro di ombre di persone: l’appartamento
era vuoto.
“Entriamo.”
L’ingresso era
solo
l’anticamera di quello che doveva essere successo nel resto
della casa. Era
stato messo a soqquadro e bruciature di incantesimi striavano la carta
da
parati di colore vivace.
“Siamo arrivati in
venti
minuti … Che diavolo è successo?”
Mormorò Potter, lanciandolo loro uno sguardo
confuso. “E se c’è tutto questo casino,
perché nessuno ha sentito niente?”
“Un Mufflatio.”
Ipotizzò passando le dita sui segni delle bruciature.
“Solo che non capisco chi possa averlo lanciato …
non certo la signora Reynard,
né tantomeno il fratello, se non era in
sé.”
“Ragazzi, venite in cucina.” Li richiamò
la voce di Jordan, e Sören aveva
sentito quel tono già altre volte; non lasciava spazio a
dubbi circa quello che
avrebbero visto di lì a poco.
L’imprecazione
soffocata di
Potter fu infatti il sottolineare lo spettacolo che si trovarono
davanti; la
signora Reynard era distesa a terra, morta. La bacchetta, che doveva
aver
cercato di raggiungere, giaceva spezzata sotto il tavolo della
colazione ancora
imbandita.
Scorpius distolse lo sguardo, pallido in volto. “Per tutti
gli Inferi…” Mormorò
a mezza bocca. “Siamo arrivati troppo tardi.”
“Non c’era modo di arrivare prima.” Si
sentì in dovere di far notare,
chinandosi sul corpo della strega e voltandolo. “Una
Maledizione Senza
Perdono.” Classificò quando vide il volto rigido e
contorto in una smorfia
sorpresa. Le chiuse le palpebre con una mano.
“Un’esecuzione pulita.”
“È
stato il fratello?” La supposizione
di Jordan era legittima, eppure qualcosa gli diceva che non era quella
la pista
giusta da seguire. Si alzò, sorpassando i tre e si diresse
verso le due camere
da letto; scartò quella con l’arredamento
femminile, in favore di quella che
doveva essere del mago. Qualche minuto dopo uscì con una
teoria.
Lo sapevo.
“Gli effetti
personali del
Signor Reynard sono spariti. Mancano la sua bacchetta, dei vestiti
dall’armadio
e dietro la porta c’è lo spazio della dimensione
di una valigia compatta. La
valigia non c’è.”
Scorpius capì
subito dove
voleva andare a parare. “Se aveva perso il controllo come ha
fatto ad avere la
lucidità necessaria a prendere le sue cose, uccidere la
sorella … e andarsene?”
Annuì.
“C’era una terza
persona qui. Qualcuno che ha portato via Reynard … E che
è arrivato poco prima
di noi.” E non c’era bisogno che spiegasse chi
aveva ucciso una donna a sangue
freddo senza lasciare traccia alcuna.
John Doe era la risposta più ovvia.
****
Londra,
San Mungo.
Ora di colazione.
Ted arrivò con la
colazione di
Benedetta.
Per la prima volta in quei giorni non sentì il bisogno di
mettersi le mani nei
capelli quando vide la bambina, perché fu accolto da due
paia d’occhi
guardinghi, ma non spaventati.
“Ciao
Benedetta.” La salutò in
italiano grazie ad un Incanto Traduttore che sperava di aver eseguito a
dovere.
“Come ti senti oggi?”
La bambina non rispose ma lo
capì da come gli diede attenzione; notò anche che
aveva con sé il pupazzo che
le aveva regalato. Se lo teneva a lato, tenendolo per una delle zampe
anteriori
e la cosa gli diede uno sconcertante senso di soddisfazione e dolorosa
tenerezza.
Forse
non ho motivo per arrabbiarmi con Lily e con le
sue trovate. Forse proprio no.
Si sedette sulla solita
sedia,
occhieggiando la ciotola di porridge e il succo di arancia sul tavolo
della
bambina. “Non mangi? È buono.”
L’occhiata
scettica che gli
venne servita gli fece capire che neppure una bambina cresciuta con una
cucina
diversa e dunque poco esperta delle colazioni britanniche era
facilmente
raggirabile. “Neanche a me piace molto.”
Confessò. “Ma se ci metti un po’ di
miele diventa buonissimo.” Inarcò le sopracciglia.
“Vogliamo provare?”
Benedetta si morse le
labbra,
scoccandogli un’occhiata valutativa; al di là
della paura che ancora provava –
gliela leggeva nella postura e nel fatto fosse ancora schiacciata trai
cuscini
– era incuriosita.
“Sì.”
Sentirla parlare, anche se con una semplice sillaba, ebbe il potere di
fargli
venire gli occhi lucidi. Deglutì, frugandosi nella tasca
della giacca e
tirandone fuori un barattolo di miele.
Non
ti interfacci con un bambino se non sei preparato e
con tutte le volte che ho visto Jamie sputare la zuppa
d’avena in faccia ad
Harry…
Stappò il
barattolo e lasciò
colare la densa sostanza dorata dentro la ciotola, osservando divertito
la
bambina leccarsi le labbra. Girò poi il cucchiaio e se lo
infilò in bocca.
“Delizioso!” Esclamò con
l’espressione più convincente del suo repertorio.
Benedetta fu lesta a dare
una
vigorosa cucchiaiata quando posò l’utensile sul
tavolino.
Jamie
e Lily me lo strappavano di mano … È educata.
C’era tutto un
mondo di
informazioni che doveva imparare su sua nipote, e scoprirle
così non gli
dispiaceva.
Anzi,
forse è il metodo migliore…
“Ti
piace?”
Dopo una lieve esitazione
Benedetta annuì. “Sa di biscotti al
miele.” Sentenziò, ed aveva una vocetta
chiara e tranquilla. Ne fu sollevato.
Significa
che non ha vissuto allo stato brado come
avevamo pensato …
Quando si vide porgere il
cucchiaio
la guardò sorpreso. “No piccola, è
tutto per te.”
“Tu non hai
fame?” Era confusa
quanto lui. “Non mangi?”
Ted realizzò di
colpo il
motivo per cui la bambina esitava nel gettarsi sul pasto.
Pensa
che non ce ne sia abbastanza per entrambi … Con
suo padre doveva dividere tutto, razionare il cibo.
Inspirò,
sorridendole al suo
meglio. “Ho già fatto colazione a casa, non
preoccuparti. Mangia tranquilla.”
Benedetta non se lo fece
ripetere, spazzolando la ciotola e bevendo tutto di un fiato
l’aranciata che
aveva fatto zuccherare dalla magi-infermiera.
Non
credo ci sia niente di male a viziarla. Merlino
solo sa come non lo sia da tempo … o forse non lo
è stata mai.
Quando tolse il vassoio dal
letto per posarlo sul comodino, la domanda della bambina –
legittima,
assolutamente tale, ma che aveva sperato di rimandare – lo
bloccò sul posto.
“Dov’è
il mio papà?”
Avrebbe preferito dover
affrontare un Ungaro Spinato con una brutta giornata che dover
rispondere. Si
voltò sentendosi il cuore in gola perché i grandi
occhi dorati della bambina
volevano delle risposte.
Ed
io non so se riuscirò a dargliele…
“Ehi
Lupin, stai qua?”
Essere salvato dal gong
doveva
esser quello; sentire la voce di Flynn Linn e sapere di potersela dare
a gambe
per un motivo del tutto legittimo.
“Flynn,
ehi.” Salutò la
strega, mentre Ben si rintanava fulminea sotto le coperte.
L’inglese era
davvero una lingua così spaventosa alle orecchie di quella
bambina? “Stavamo
facendo colazione.”
“Spero di non disturbare allora!”
Merlino, no.
“Hai bisogno di
parlarmi?” Chiese
rapido, avvicinandolesi.
La ragazza lo
scrutò, forse
perplessa dal suo atteggiamento, ma per fortuna si astenne dal
commentare.
“Sicuro. Ho notizie su…”
Guardò Benedetta. “… quindi non capisce
una parola?”
“Non sa
l’inglese, no.”
“Strano, suo padre lo era.” Obbiettò
l’altra, e dovette ammettere che
un’obiezione sensata.
Ma
non credo capirò mai cosa passasse nella testa di
Lunastorta…
“Andiamo di
là.” La guidò,
perché anche se Benedetta non li capiva non era giusto
tagliarla fuori dalla
conversazione ed agire come se non fosse presente nella stanza.
“Torno subito. Vado a parlare con questa signorina …
Sarò qui fuori, va bene?” Disse
in italiano, e fu felice di vedere la bambina annuire e rilassarsi
appena.
“Beh, abbiamo
fatto
progressi!” Esclamò Flynn dandogli una pacca sulla
spalla. “È grandioso!”
“Lo è.” Confermò con un
sorriso. “Anche se il merito non va a me, ma ad
un’amica.”
“Di chiunque sia,
è una buona
cosa che lo scricciolo sia finalmente tra noi …
Lunedì ci servirà tutta la sua
collaborazione.”
“Già.” Non aveva scordato come trascorso
quel fine settimana, un paio di
funzionari del Ministero assieme ad uno Psicomago sarebbero venuti a valutare Benedetta. La sola parola gli
dava la nausea.
“Hai notizie sulla
famiglia?” Doveva
esser quello il motivo per cui Flynn era venuta fin lì,
lasciando il disordine
esplosivo del suo
ufficio.
La strega annuì
con espressione
soddisfatta; sperò fosse un buon segno. “Ci ho
messo del tempo, ma ho dovuto
smuovere la macchina burocratica di ben due paesi … e credimi, quella italiana
è persino peggio
della nostra.” Sbuffò. “Comunque.
La
dritta sulla sua nazionalità mi ha aiutata parecchio
… ho contattato
direttamente l’ufficio Mannari di Roma.”
“Lo hanno anche loro?”
“Pare che abbiano
avuto a che
fare con tribù di Mannari da ben prima di noi inglesi
… dalla Roma Antica o giù
di lì. Pensa che ai tempi dei romani non era neppure
così terribile essere
affetto da Licantropia. Erano…” Vedendo che la
guardava con impazienza tagliò
corto. “… vabbeh, per farla breve mi sono messa in
contatto con il loro
ufficio. Ben risulta registrata da loro. Benedetta Vanni, nata a San
Quirico
d’Orcia il primo Giugno di sei anni fa…”
“Quindi ha sei anni.” L’aveva fatta
più piccola di quello che era. “Ed ha preso
il cognome della madre.”
“Già … Se non avessimo saputo il nome
per intero sarebbe stato un bel casino
rintracciare le sue origini.”
Doveva decisamente offrire una cena a cinque stelle a Lily.
“Sei riuscita a
trovare sua madre?”
Flynn fece una smorfia che
gli
rese chiaro il motivo per cui stava scuotendo la testa.
“È morta quando aveva
pochi mesi … Incidente stradale.”
Dannazione.
“Era
un Mannaro anche lei? Una
strega…?”
“No,
Babbana.” Sospirò. “Mi
secca dirlo, ma c’era da aspettarselo, no?”
I
maghi difficilmente fanno figli con i Mannari.
Non rispose, preferendo
girargli un’altra domanda. “E il resto della
famiglia? Hai detto che è nata a …
beh, in quel posto.” Che non sapeva pronunciare né
sapeva dove si trovasse. “…
Non ha nessuno lì? Nonni, zii?”
Flynn si strinse nelle
spalle.
“Vacci piano, segugio, non sono arrivata così
lontano … L’unica cosa che so è
che l’unico contatto per le emergenze di Benedetta erano i
suoi genitori.” Fece
una smorfia. “Non un granché d’aiuto
allo stato attuale delle cose.”
Ted si passò una
mano trai
capelli, sbirciando nella stanza lasciata socchiusa, per dare modo alla
bambina
di sapere che era rimasto davanti alla porta. “Come possiamo
scoprire se c’è
qualcun altro?”
La ragazza lo
guardò con aria
impotente. “Non ne ho idea, dato che la madre era Babbana
… Non vengono presi i
dati familiari dei Babbani che si sposano con i Mannari. Basta un nome
e so che
è assurdo, ma…”
“Si erano sposati?”
Una lampadina
accesa sopra la sua testa sarebbe stata una perfetta rappresentazione
di quel
che provava al momento. “Con rito Babbano,
suppongo.”
“Beh, visto che la tipa era Babbana e Lunastorta non era un
mago …”
“Allora ci deve essere traccia nei registri matrimoniali del
Comune in cui si
sono sposati!” L’avrebbe abbracciata, ma supponeva
non fosse il genere di gesto
da farsi con una donna che conosceva a malapena, per quanto sua
principale
alleata in quella battaglia. “Basta andare a controllare
… Si possono trovare i
parenti Babbani di Benedetta!”
“Sì, beh…”
Concordò perplessa l’altra. “Ma chi se
lo fa un giro in Toscana?”
Ah,
è in Toscana. Centro Italia, mi pare.
Le sue conoscenze
geografiche
erano patetiche, esattamente come quelle della stragrande maggioranza
dei
maghi. Era una lacuna che l’aveva sempre imbarazzato
moltissimo.
Specie
perché Thomas non vede l’ora di sottolinearla ad
ogni festa comandata.
“Io. Ci
andrò io, non c’è
problema.” Sarebbe andato anche in capo al mondo pur di
trovare una flebile
traccia di famiglia per quella bambina.
La
sua famiglia sei tu.
Lo era, certo, ma non poteva
farcela da solo; non doveva farcela
da solo, perché la sola idea di avere tra le mani la vita di
Benedetta gli
faceva mancare il respiro.
Flynn gli lanciò
un’occhiata
indecifrabile. “Ti servono rinforzi? I miei incantesimi
traduttori fanno
schifo, ma non credo dovresti andare da solo.”
Concordando, la mente
andò
subito a James; il compagno avrebbe fatto sembrare quella storia
un’allegra scampagnata,
facendolo così sentire più sereno e pronto ad
affrontare spiacevoli sorprese.
Era lui che avrebbe voluto al suo fianco, nessun altro.
…
ma Jamie lavora. Ha un caso terribile tra le mani,
non ha tempo per Passaporte e viaggi nel Vecchio Continente.
“Devo
organizzarmi, ti farò
sapere…” Le sorrise. “Grazie.”
Dopo essersi accomiatato da
Flynn rientrò, ma non ebbe la forza di riprendere la
conversazione con Ben.
Se
solo riuscissi a trovare la famiglia della tua mamma
…
Glielo
dirò. Ma non adesso.
Sorrise alla bambina,
sedendosi sul ciglio del letto. “La signorina di prima
è un’amica.” Le spiegò.
“Sta cercando la tua famiglia…” Non era
una bugia dopotutto. Era la verità ed
era anche una risposta alla domanda precedente. “Mi ha detto
che sei nata in Toscana.
Non ci sono mai stato, è un bel posto?”
Da come Benedetta si
illuminò
intuì di aver appena trovato un argomento di conversazione.
Non era mentire: era solo
allontanare lo spettro di Lunastorta da quella stanza … e
non riusciva a
sentirsi in colpa quanto avrebbe voluto.
****
Boston,
ufficio SAGITTA.
Ora di pranzo.
Rico sentì a
malapena aprirsi
la porta della sala audio-video del SAGITTA, e fu solo quando
sentì il
familiare profumo costoso di Ama Gillespie avvolgerlo che si rese conto
di avercela
alle spalle.
“Sergente!”
Esclamò togliendo
i piedi dalla
postazione e travolgendo
così un paio di bicchieri di caffè vuoti.
“Err, stavo…”
“Guardando le registrazioni a circuito chiuso delle banche in
cui sono stati
scoperti i conti di John Doe.” Terminò per lui
quasi a dargli una
giustificazione del momento di sonnolenza. “Lo so. Mi stavo
chiedendo se non
avessi bisogno di un secondo paio d’occhi.”
Eh?
Per la sorpresa rischiò di non rispondere.
“Io … sì, sicuro!” Si
stropicciò
gli occhi arrossati. “Non faccio altro da ore, avrei proprio
bisogno di un
secondo parere … Stanco come sono potrei vedere Johannes
sbracciarsi sul
monitor e non accorgermene.”
La ragazza annuì, sedendosi e portando la sua attenzione sul
monitor
sofisticato su cui stavano scorrendo immagini che a lui sembravano
uguali da
ore. La tecnologia Babbana era una manna dal cielo per certi versi, ma
per
altri era maledettamente noiosa.
Non potremo
evolverci ancora un po’ e implementare uno di quei programmi
di riconoscimento
facciale che hanno i poliziotti Babbani?
Forse
è chiedere troppo. Magari neanche esistono.
Magari solo nelle serie tv.
Sbadigliò ma non
arrivò
nessuna reprimenda sul contegno da tenere quando si indossava
un’uniforme:
l’altra era completamente concentrata sul video.
Ha
preso a cuore questa storia… È per Prince?
Tiene
a lui più di quanto pensassi.
Non erano in rapporti tali
perché potesse farle domande però. Si limitarono
quindi a restare gomito a
gomito, in silenzio, cercando di dare una mano al collega oltre-oceano.
Fu dopo un’oretta
che Ama
quasi saltò dalla sedia, un movimento così poco
da lei che gli fece prendere un
colpo. “Eccolo!”
Esclamò indicando
una figura in trench che si dirigeva con tranquillità verso
uno dei cassieri
appena liberatisi.
Rico, sfogliando i fascicoli
con tutti gli identikit dell’uomo, riuscì a
trovare la faccia corrispondente.
Era sorprendente che Ama l’avesse riconosciuto al primo colpo.
Neppure
tanto se consideriamo che è l’uomo che ha
ucciso suo padre…
Si avvicinò allo
schermo. “E
non è solo.” Osservò indicando una
donna poco discosta.
“Mi sembra di
averla già
vista…” Mormorò Ama guardandola di
profilo; a Rico non ricordava nessuna
sospetta, né volto noto della Thule. Era una strega
piuttosto bella, sulla
quarantina, dai capelli color inchiostro e l’incarnato
pallido – si capiva
persino con la bassa risoluzione della videocamera. I vestiti erano di
foggia
magica, così come il mantello.
Strega.
Ed europea … nessuna strega americana si veste
così.
Ama si morse il labbro.
“Chiama mia madre.” Disse. “Se non la
ricorda, ha comunque accesso a tutti gli
ex fascicoli della Anti-Thule … ci metteremo meno a trovare
un collegamento, se
c’è.”
****
Diagon
Alley, Accademia Magica di Duello.
Pomeriggio.
Sören
controllò per quella che
forse era la centesima volta la saletta privata che aveva affittato
all’Accademia di Duello: doveva essere perfettamente sicura,
perfettamente
attrezzata e perfettamente…
“Sören, amico mio, l’abbiamo allestita
assieme e controllata due volte.” La
voce paziente di Dionis interruppe la sue riflessioni. “Lily
avrà un
allenamento sicuro.”
“Lo so.” Rispose imbarazzato, voltandosi verso il
maestro duellante che gli
sorrideva divertito dallo stipite della porta. “Voglio solo
essere…”
“Sicuro.” Gli fece eco. “Non credi che
questa parola sia stata fin troppo
abusata?”
“Forse.”
Concesse passandosi
una mano trai capelli, che non si sarebbero comunque mossi di un
millimetro.
Milo poteva lagnarsi quanto voleva, ma durante un Duello avere ciocche
di
capelli ad oscurare la visuale era un errore che poteva costare caro.
A
parte il fatto che nessuno rischierà la vita qui,
stasera.
“Sei
nervoso.” Attestò il
rumeno avvicinandoglisi. “Lo capisco … ma Lily
è in buone mani.”
“È un parere di parte, temo.”
Si sentiva nervoso, e non solo perché di lì a
pochi momenti Lily avrebbe
varcato la porta pretendendo che le insegnasse come difendersi da tutto
quello
che di orribile c’era al mondo – perché
era quella la sua missione, nessun
dubbio.
Le
persone che hanno aderito al progetto delirante a
cui partecipa Johannes ci stanno sparendo da sotto il naso…
Ed era l’ennesima
cattiva
notizia.
“Tutto a
posto?” Dionis gli
posò una mano sulla spalla, guardandolo con gli occhi di un
amico e fu per
riguardo a lui che accantonò quella serie di pensieri.
“Sì,
non preoccuparti …
piuttosto, come sta Alexandra?” Riuscire a ricordarsi il nome
della figlia
dell’amico era notevole dato che aveva la testa da
tutt’altra parte.
Dionis si aprì in
un sorriso
entusiasta da padre al settimo cielo. Come da copione si tolse una foto
dal
portafoglio che ritraeva la creaturina più minuscola e
strillante che avesse
mai visto.“È una meraviglia, vero? È
perfetta!” Soggiunse accarezzando il
riquadro lucido con un pollice. “Lo so, lo dicono tutti i
padri, ma lei lo è
davvero.”
Gli sorrise di rimando. “Lily mi ha detto che è
diventata la principessina di
famiglia.”
L’altro ridacchiò. “La famiglia di Roxie
prende le nascite estremamente sul
serio. Credo di aver partecipato a qualcosa come venti cene celebrative
nell’ultimo
periodo.” Si batté lo stomaco con un sorrisetto.
“È una fortuna che il mio
lavoro sia un esercizio fisico continuo.”
Sören gli sorrise
di rimando.
“Sono contento per te.” E lo era davvero; la
felicità di Dionis Radescu gli
dimostrava che il mondo non era un posto buio come aveva pensato per la
maggior
parte della sua vita.
Possono
accadere anche cose belle.
“Solo che adesso
dobbiamo
scegliere il padrino e la madrina. In Romania non è
così importante, ma in
Inghilterra pare che sia una questione di vita o di morte. Abbiamo
già ricevuto
venti candidature …” Fece una smorfia.
“Penso che faremo un padrino e
una madrina. Così, secondo Roxie,
eviteremo incidenti diplomatici … Certo, mi piacerebbe che
almeno il padrino
fosse rumeno…”
“È cosa
così impossibile?” Lo
stuzzicò, perché parlare di sciocchezze era molto
più sano che ricontrollare
per l’ennesima volta che la pedana da allenamento non fosse
scivolosa o
accidentata.
Dionis gli lanciò
un’occhiata
eloquente. “Diciamo solo che i miei fratelli, vedendo il
vento che tira, si sono
tirati indietro.”
“Capisco.”
Non capiva, ma era
quello che si doveva dire in certi casi. “Buona
fortuna?”
“Me ne
servirà.”
“Ehi
duellanti, sono nel posto giusto?”
Sören fu felice di
avere la
schiena rivolta alla porta, perché data
l’espressione divertita dell’amico
doveva esser come minimo trasalito. La voce di Lily era abbastanza
squillante
per prendere di sorpresa anche un estraneo.
Figuriamoci
te, che l’aspettavi da tutta la giornata.
Si voltò, notando
che aveva sostituito
i tacchi vertiginosi con cui di solito si muoveva fuori dal San Mungo
con un
vecchio paio di scarpe da ginnastica dall’aria comoda. Anche
il resto dei
vestiti era dimesso e fatto per adattarsi al corpetto
d’allenamento.
Mi
ha dato retta.
“Ciao
Lily.” Le sorrise. “Ti
vedo diversa.” La prese in giro.
“Vuoi dire nana.” Stette al gioco rivolgendogli un
sorriso d’apprezzamento. “Niente
tacchi, niente minigonne. Sono stata brava?”
“Bravissima.”
Replicò con la
stessa serietà, prendendole la borsa con il ricambio; la
sentì pesante e le rivolse
un’occhiata perplessa.
“Ah, dopo Scott
viene a
prendermi. Non passiamo da casa, andiamo dritti in Scozia con la sua
auto.”
Spiegò. Si guardò attorno con aria incuriosita,
prima di voltarsi verso di lui.
“Che dici, cominciamo?”
Sì,
prima che Scott ti venga a prendere.
Scacciò con
sconcerto e
imbarazzo quel moto di gelosia – formulato peraltro come una
lagna infantile – schiarendosi
la voce. “Certo, Dionis ti mostrerà dove puoi
cambiarti…”
L’altro sorrise con l’aria di chi aveva appena dato
una sbirciata ai suoi
pensieri e li aveva giudicati esilaranti. Fece poi cenno di seguirlo.
“Vieni
Lily, ti faccio scegliere un corpetto della tua misura.”
“C’è
rosa?” Alle loro
espressioni scoppiò a ridere. “Dai, ragazzi,
scherzavo! Lo sanno tutti che il
rosa è un’atrocità con i miei
colori.” Gli mostrò la lingua, ma Sören
registrò
anche la conseguente occhiata pensierosa.
Sto
bene. Non pensare altrimenti. Ti prego.
“Ti aspetto
qui.” Fece cenno
verso la pedana. “Ci sono alcune cose che devo finire di
mettere a posto…”
Dall’espressione
esasperata di
Dionis intuì che sarebbe stata una lunga lezione; e, temeva,
per colpa sua.
Sören le era
sembrato un
fascio di nervi; del resto, quando era entrata nella sala Duelli
l’aveva quasi
visto saltare in aria, come se qualcuno gli avesse messo uno dei fuochi
d’artificio
di zio George sotto il sedere.
Sorrise a Dionis, che le
passò
un corpetto di cuoio morbido indicandole con un cenno della testa gli
spogliatoi femminili. “Questo dovrebbe essere della tua
misura. Se ci sono
problemi fammelo sapere, te ne prendo un altro.”
“Grazie e…” Esitò, poi decise
che l'amico comune quale era un buon terreno
comune su cui indagare. “Ren sta bene? Mi è parso
un po’…”
“Nervoso? Sta mordendo il freno.”
Sogghignò l’altro. “È per te,
sai. Vuole
aiutarti, ma è in ansia da prestazione.”
“Andiamo bene!” Alzò gli occhi al cielo,
comunque lusingata. Sören l’aveva
sempre trattata come una principessa, persino durante i suoi peggiori
malumori
o le sue crisi di impulsività dannosa. La faceva sentire
coccolata anche se non
si erano scambiati che pochi gesti
d’affetto.“Però…”
Considerò il corpetto tra
le mani e l’onestà di Dionis; erano entrambi
affidabili. “Pensi che abbia fatto
male a chiedere a lui?”
Dionis rifletté per alcuni momenti, prima di scuotere la
testa. “No, penso tu
abbia fatto bene. Sören è un duellante di alto
livello, ma è in grado di
ricordarsi le basi … quelle che poi serviranno a te. E tiene
a te. Farebbe di
tutto per farti sentire al sicuro.”
Lily sorrise di rimando, cercando di non mostrare troppo disagio:
dietro
l’espressione amichevole dell’altro vi leggeva una
sorta di reprimenda, e non
era certa di voler sapere di cos’era colpevole secondo il
codice dei Cavalier
Serventi.
“Lo so.”
Disse. “E credimi,
gli sono riconoscente.” Aggiunse sullo stesso tono. Dovette
funzionare perché
l’espressione dell’altro si addolcì.
“Sii paziente con lui.” Le consigliò.
“Se ha ricevuto la mia stessa formazione
si trasformerà in un insegnante insopportabile.”
Lily sbuffò. “Non ce lo vedo a minacciarmi di fare
venti flessioni.”
Dionis le servì un sorrisetto divertito. “Aspetta
a vedrai.”
Quando torno nella saletta
Sören la stava aspettando; era molto più nel suo
elemento lì, in uniforme e con
la bacchetta sguainata, che vestito alla moda e in mezzo alla
confusione di un
pub. Era un dato di fatto che non sarebbe mai cambiato e che non doveva cambiare.
O
non sarebbe Ren.
“È
della tua misura?” Le chiese indicando il
corpetto. “Ti ci senti a tuo agio?”
“Direi di sì.” Mosse le braccia per
mostrargli la mancanza di impaccio. “È
normale che mi senta come se avessi una coperta di piombo
addosso?”
“È il materiale di cui è
fatto.” Confermò controllando che gli allacci
fossero
stretti. Quell’improvvisa vicinanza –
Sören non era mai il primo ad iniziare il
contatto – la sbalestrò un po’, ma
cercò di ignorare la cosa.
Dopotutto
sta solo controllando che non mi cada di
dosso.
“Serve per
respingere gli
incantesimi?” Ipotizzò per dire qualcosa.
Sören, con i capelli tirati
all’indietro e l’espressione seria sembrava sempre
più grande della sua età.
Mi
fa sentire una bambina…
“Solo quelli
minori. È la tua
bacchetta che deve fermarne la maggior parte.” Le
spiegò pratico stringendo
l’ultima cinghia sul fianco fino a quasi toglierle il respiro.
“Sarebbe un
po’ strettina…”
“Deve
esserlo.” Tagliò corto,
poi vedendo la sua espressione sospirò. “Il
corpetto è la tua protezione
principale, almeno finché non riuscirai a deflettere
completamente i colpi. Se
lo allenti rischi che l’incantesimo penetri attraverso il
tessuto e raggiunga
la pelle. La magia non si ferma ai tessuti, cerca la carne
viva.”
“… fa
piacere saperlo.”
Deglutì. “Credo che non correrò il
rischio.”
Sören le rivolse un mezzo sorriso. “Sei
pronta?”
No, per niente. Sto per prenderne come un
ciocco di legno.
“Assolutamente
sì!”
“Prima di tutto la
posizione.”
Iniziò l’altro. “Fammi vedere come tieni
la bacchetta.”
“Sai come tengo la bacchetta!”
“No, non lo so.” Inarcò le sopracciglia.
“A meno che tu non usi sempre gli
stessi movimenti per tutti i tipi di incantesimo, cosa che dubito tu
faccia.
Ogni incantesimo inconsciamente porta ad assumere una posizione
diversa, a
seconda dei movimenti della bacchetta usati.”
Lily si morse le labbra, capendo il punto della faccenda. “Ma
non ho mai
lanciato un incantesimo da Duello…”
Sören la guardò ironico. “Non dirmi che
non ha mai provato a Schiantare uno dei
tuoi parenti.”
Lily arrossì, e rispose al sorriso. “Veramente era
una Fattura Orcovolante…” Lo
corresse, lusingata dal fatto che l’altro ricordasse
l’episodio felice in cui
aveva messo in riga suo fratello James e quel cretino del cugino
Freddy. “Devo
lanciartene una?”
“Non credo ne
saresti in
grado.” Il sorrisetto di Sören era quello di chi la
considerava una specie di
cagnetto buffo che provava a mordergli l’orlo dei pantaloni.
Per quanto volesse
tirargli uno schiaffo in testa, doveva ammettere che non era
così fuori luogo. “Per
ora limitiamoci alle posizioni. Posizione e movimento della bacchetta.
Non
pronunciare la formula magica.”
Lily obbedì, tirando fuori la bacchetta e ricordando i
movimenti della
bacchetta che servivano per la Fattura. Durante l’azione
qualche scintilla
rossa uscì dalla bacchetta e Lily pregò
intensamente che l’altro non intuisse
quanto la presa in giro l’aveva stuzzicata.
“Va bene,
ferma.” La stoppò
abbassandole il braccio. Aveva smesso di sorridere e questo di certo
non era un
buon segno.
Okay,
quanto ho fatto schifo?
“Ho sbagliato
qualcosa?”
Sören fece un mezzo
sospiro
non molto incoraggiante. “No, se quello che volevi fare era
evocare una nuvola
di fumo.”
Ho fatto decisamente
schifo.
“Ma anni fa ci
sono riuscita!”
“Eri arrabbiata perché ti avevano nascosto i
regali di Natale.” Sì, se lo
ricordava. “Lì sono state le tue emozioni a
prendere il sopravvento.”
“Ma la magia funziona con
le
emozioni!”
“Sì, anche.” Concesse. “Ma
durante uno scontro l’ultima cosa che devi fare è
usarle. Non sono affidabili e non ti fanno rimanere lucida.”
La guardò. “Con
queste premesse forse puoi prendere di sorpresa un avversario, ma non
avere la
meglio.”
…
okay, ha senso.
“Quindi devo
partire dal punto
zero. Wow.”
“Devi imparare
come hai
imparato altre tipologie di incantesimi. Non credo che aspetti di
sentirti
arrabbiata per lanciare un Wingardium
Leviosa.”
“No.”
Ridacchiò. “Ma mi spiace
dirtelo Ren … il nucleo della magia offensiva di un Potter
è perdere le staffe.”
“E tu sei soltanto
una
Potter?”
Lily aprì la
bocca e la
richiuse, presa in contropiede: erano quelli i momenti in cui si
rendeva conto
quanto l’amico sapesse di lei, di come riuscisse a capirla e
seccarla con una
sola frase.
Non aspettò la
sua risposta,
prendendole il polso e abbassando il braccio di qualche centimetro.
Come
insegnante era
molto più naturale nel
contatto fisico, meno in impaccio.
Non le dispiaceva.
“Iniziamo dalla
posizione. È
troppo alta, devi
essere bilanciata
quando lanci un incantesimo dell’intensità di una
Fattura, o rischi di perdere
l’equilibrio per il contraccolpo.”
“In effetti quella volta sono finita a gambe
all’aria!”
Sören annuì. “Oltretutto questa posizione
ti aiuterà a tenere la guardia
all’altezza dei tuoi punti vitali.”
Lily diede un’occhiata al suo braccio; non lo aveva mai
tenuto così basso. “Ma
sono abituata…”
“L’abitudine si può
correggere.” La fermò con tono deciso. Questo
Dionis doveva
aver inteso quando parlava di inflessibilità. “La
proveremo finché non la farai
tua.”
“Potrebbe volerci
un bel po’ …
sono una testa dura.” Lo avvertì e non seppe se
disperarsi o sentirsi rassicurata
quando le venne restituito uno sguardo tranquillo ma irremovibile.
“Non me ne vado da
nessuna
parte.” Le riposizionò il braccio che intanto,
ovviamente, aveva alzato. “Dal
principio.”
****
Ufficio
Auror. Ora di Cena.
Harry stava per varcare la
soglia del proprio ufficio ed iniziare così il suo fine
settimana quando Grace
lo richiamò indietro.
“Capo,
c’è una chiamata via
Fuoco Magico per lei.”
Harry strinse tra le labbra un’imprecazione, voltandosi verso
la ragazza, la
cui unica colpa era essere latrice di cattive notizie. Per sopportare i
suoi
malumori avrebbe avuto diritto ad un cesto di frutta ad ogni fine mese.
“Dì che
sono già uscito.” Sentenziò senza mezzi
termini; non vedeva l’ora di togliersi
la divisa di dosso e dividere il divano con le battute salaci e la
presenza di
sua moglie.
Chiedo
troppo?
La ragazza esitò.
“Capo … è
una chiamata dall’America, e mi ha detto che
qualsiasi…”
“Vado subito.” Tagliò corto,
ringraziandola con un sorriso per non essersi
lasciata intimidire.
Il camino portatile sopra la
sua scrivania – non aveva più
l’età né la posizione per accovacciarsi
di fronte
al focolare, a meno che non fosse a casa – perdeva fumo e
quando lo aprì una
serie di fiamme baluginarono violente.
“Buonasera
Nora.” Salutò
l’amica. “Mi hai trovato appena in tempo, stavo per
andarmene.”
“Meno male.” Tagliò corto quella.
Sembrava scossa e questo lo mise in allarme.
“Che
succede?”
“Sören
è lì? Vorrei che lo
chiamassi nel tuo ufficio.”
“Oggi è
andato via prima …
aveva degli impegni con Lily, non c’è.”
Non si prodigò in spiegazioni, certo
che non fosse il momento. “Perché?”
“Abbiamo delle
notizie … notizie
che lo riguardano in prima persona.”
Harry si grattò
la fronte,
incerto su come muoversi e cosa chiedere. Se era una questione
personale, a
regola non avrebbe dovuto far domande, limitandosi a contattare il
ragazzo.
Ma
Sören non è un agente qualunque…
“Spero non si
tratti di brutte
notizie.” Iniziò prudente. “Posso essere
d’aiuto?”
La strega fece un sospiro.
“Sai
che vi stiamo aiutando a controllare i conti bancari che John Doe ha
aperto qui
in America. A differenza delle banche europee, le nostre hanno delle
telecamere
a circuito chiuso. E imbattendoci nel nastro di una banca di Baltimora
abbiamo
scoperto uno dei collaboratori di John Doe … Se non
direttamente il mandante.
Ha prelevato da uno dei conti in sua compagnia.”
Non era un buon segno che la cosa riguardasse direttamente
Sören. “Si tratta della Thule?”
Indovinò, perché era
la prima opzione che gli veniva in mente.
Del
resto, Von Hohenheim era solo la punta
dell’iceberg.
“No.” Lo
stupì. “O almeno, non
credo che quella persona lavori sotto l’egida della setta.
Non l’ha mai fatto,
come non è mai stata affiliata.”
Quella persona…
“Di chi si
tratta?”
“Abbiamo
confrontato delle
vecchie foto segnaletiche di quando ero
nell’anti-Thule.” Si vedeva come la
donna fosse stanca di portare solo cattive notizie. Il problema era che
quel
particolare compito non si sceglieva mai, ma ti veniva imposto.
“Credimi, ho
controllato per esserne sicura mille volte … ma il confronto
tra le
segnaletiche e i nastri di sorveglianza della Banca non lasciano scampo
a dubbi.”
“Di chi si
tratta?”
“Di Sophia Von
Hohenheim.”
Fece una pausa, ed Harry vi lesse tutto ciò che doveva,
perché la frase
seguente non lo prese di sorpresa. “La madre di
Sören, Harry.”
****
Sören porse a Lily
un
bicchiere d’acqua e sperò che non glielo tirasse
in testa. Da come lo afferrò e
trangugiò grata doveva aver scampato l’attacco, ma
non era sicuro di esser
fuori pericolo.
Forse aveva un po’
esagerato.
Al momento l’amica
era seduta
al lato della pedana e aveva la smorfia sofferente di chi sentiva ogni
singolo muscolo
dolere. Era rimasta zitta per tutto il tempo, dandogli retta e
correggendo per
almeno due ore ogni singola posizione sbagliata.
È
sempre stata testarda. In questo caso depone a suo
favore.
“Come ti
senti?” Le chiese,
incerto se sedersi accanto a lei o meno. “Vuoi un altro
bicchier d’acqua?”
“Quante ossa ha il
corpo
umano?” Gli venne chiesto per tutta risposta.
“Circa
duecento.”
“Bene, mi fanno
male tutte e duecento.”
Mugugnò stendendosi
sulla pedana. Aprì gli occhi. “Sei
cattivo.”
Il tono non era arrabbiato e Sören realizzò che
anche se aveva esagerato,
trattandola come se fosse una specie di soldato, Lily non ce
l’aveva con lui. Era
un sollievo. Le si sedette accanto, slacciandosi il corpetto per
permettere
all’aria fresca di farlo finalmente respirare. Aveva tenuto
il respiro sospeso
per tutta la durata dell’allenamento.
È
stato difficile anche per me.
Lily rotolò su un
fianco, come
se fosse un comodo letto di piume e non una pedana di legno.
“Sono così senza
speranza?” Chiese a bruciapelo.
“No.”
Rispose con altrettanta
rapidità. “Sei partita da zero, e l’arte
del Duello non è tra le più semplici …
ma hai buoni riflessi ed una forte intesa con la tua bacchetta.
Migliorerai.”
“Mah!” Sbuffò soffiandosi via una ciocca
di capelli: anche sudata e con l’aria
distrutta gli sembrava la donna più bella del mondo. Era un
problema, rifletté
distogliendo lo sguardo. “È la tua parola di
maestro o una speranza da amico?”
“Tutte e
due.” Si strinse
nelle spalle. “Riposati questo fine settimana. Se sei
d’accordo riprenderemo
lunedì.”
“Riposarmi…”
Mormorò
distratta, servendogli poi un sorrisetto. “Definisci riposo.”
Una fastidiosissima fitta di gelosia e di rabbia gli scaldò
lo stomaco: non era
un bambino, sapeva benissimo che Lily era in intimità con
Scott.
È
normale, dato che è il suo ragazzo.
Tuttavia realizzarlo lo
faceva
sentire … arrabbiato. Doveva aver fatto una faccia
infastidita, perché Lily lo
guardò perplessa. “Tranquillo, non intendo scalare
le Highlands … Me ne starò
buona, anche perché davvero, sono distrutta.”
Ha
frainteso.
“Spero di non
avervi rovinato
il weekend.” Gli uscì fuori e si sarebbe preso a
pugni – sì, sul serio – quando
realizzò l’idiozia che aveva appena detto.
“Perché
dovresti averci
rovinato … Oh.”
Realizzò orribilmente
e fu altrettanto terribile notare come adesso Lily fosse divertita.
“Non preoccuparti, io e Scott non siamo per il sesso
sfrena…”
“Preferirei non parlare di questo argomento.”
Sbottò alzandosi in piedi come se
qualcuno l’avesse messo sotto Imperio.
“Se non ti dispiace.”
“No,
figurati… cioè, se sei a
disagio lo capisco.”
Il
sesso non mi mette a disagio!
“Non è
l’argomento il problema.”
Chiarì sperando che Dionis, o qualunque altra persona sulla
faccia della terra
venisse lì e mettesse fine ai suoi tormenti.
“È che non voglio parlarne con
te.”
Per
Faust. Complimenti. Ribadiscilo, tanto per non
lasciare dubbi.
Lily adesso lo stava
guardando
come se gli fossero spuntate due teste e dannazione, era una LeNa; se
avesse
forzato un po’ la mano avrebbe capito il vero motivo delle
sue difficoltà.
Non
voglio pensare a te e Scott che fate sesso. Non
voglio pensare a ciò che non potrò mai avere.
Per fortuna
sembrò
accontentarsi della sua spiegazione. “Okay.”
Replicò alzandosi a sedere e
spazzolandosi i pantaloni. “Hai tracciato una linea, sei
stato chiaro. Scusa.”
A terminare quel momento
penoso fu la suoneria di un cellulare – ormai le sapeva
riconoscere. L’amica doveva
esserselo portato dietro dagli spogliatoi, forse in attesa della
chiamata dello
scozzese.
“Ciao
ragazzone!”
Appunto.
Faceva male aver avuto Lily
per tutto un pomeriggio, una Lily che gli aveva dato completa e totale
attenzione, e vedersela portare via per un weekend romantico.
Beh,
potrai sempre passare il tuo fine settimana a
lavorare su Johannes e la sua brutta abitudine di uccidere e rapire.
Ad
ognuno il suo.
L’irritazione,
Milo lo diceva
sempre, lo faceva diventare acido.
“Sì,
arrivo subito … dieci
minuti, okay?” Lily, ignara dei suoi pensieri –
grazie a Merlino – staccò
l’orecchio dal ricevitore per guardarlo. “Gli dico
di salire ed aspettarmi?”
“No, abbiamo
finito.” L’ultima
cosa che voleva era doversi rapportare a Scott Ross. Era certo che non
sarebbe
stato in grado di usargli la solita cortesia. Per eufemizzare.
Lily ripeté la
frase al suddetto.
“Dice di salutarti.” E poi chiuse la chiamata.
“Allora vado a cambiarmi.”
“Buon fine settimana.”
“Ren, sei sicuro
che vada
tutto…”
“È tutto a posto.” Avrebbe preferito
trapassarsi con una delle alabarde che
decoravano la sala che darle un’impressione diversa.
“Buon fine settimana.” Ripeté
con tono definitivo, e Lily finalmente parve capire
l’antifona perché annuì e
gli sfiorò la spalla con una mano.
“Anche a
te.”
Almeno
non si è accorta di niente. Meglio
passare per bacchettone che farle
capire cosa vorresti farne del saluto del suo ragazzo.
“Ehi
piccola!”
Lily sorrise a Scott, scoccandogli un bacio mentre scivolava nel sedile
anteriore della decappottabile dell’altro. Adorava quella
macchina, l’impianto
stereo potente e sentire il vento trai capelli.
“Com’è andata?”
“Dolorante e con
il morale
sotto i tacchi.” Rispose mitigando la frase con un
sorrisetto. “Una prima
lezione da manuale!”
“Sono …
contento?” Chiese incerto
facendola ridacchiare; ce la stava mettendo tutta per non mostrarsi
preoccupato
o troppo ansioso, gliene doveva dare atto. La discussione di quella
mattina era
servita. Lo ricompensò così
con un
secondo bacio, stavolta più lungo.
“Devi esserlo.
È andata bene.”
Lo rassicurò. “Pronto per la Scozia?”
“Sempre!”
Mentre Scott guidava esperto
tra le strette strade di Londra, Lily non riuscì a
condividere il suo stato
d’animo rilassato e pronto al weekend. Gli strinse la mano al
di sopra del
cambio ma aveva la testa da tutt’altra parte. Con la mente
era rimasta a quella
sala da Duelli e alla reazione di Sören.
Era
solo una battuta … Forse ho un po’ esagerato, e
lui
è sempre così serio …
Solo che non era quello il
punto.
Spero
di non avervi rovinato il weekend.
Non
è l’argomento che mi mette a disagio. È
che non
voglio parlarne con te.
Non le era servito essere
una
LeNa per decifrare il comportamento dell’amico. Aveva messo
un muro tra di
loro, e non per pudore. Lo aveva messo perché si era
arrabbiato.
È
geloso.
La sua poteva essere
un’intuizione
femminile; era l’essere LeNa che però glielo aveva
confermato.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Casa
di Ted Lupin & James Potter. Ora di cena.
“Ho ordinato la
pizza!”
Ted fu accolto da quel proclama allegro e anche se era un fan della
cucina di
James, dovette ammettere che quella sera era una sera che preludeva a
cucina da
asporto e birra.
Il suo ragazzo era infatti
stravaccato sul divano, in pantaloncini da corsa e canottiera logorata
dai
troppi lavaggi, mentre fuori la brezza serale rinfrescava
l’ambiente. Lo salutò
con un cenno della testa. “Non mi reggo in piedi …
e cucinare fa venir caldo.” Fece
un gesto vago, girando ‘Quidditch Oggi’ del mese.
“Giornata di merda.”
Aggiunse.
“Come mai?” Chiese calciando via le scarpe e
sprofondando nel divano accanto a
lui. “Lavoro?”
“Oh, sai, il
solito … pare che
qualcuno ci freghi da sotto il naso le persone che si sono fatte
coinvolgere
nel progetto Demiurgo.”
“Che sarebbe?”
“Quella stronzata
dove tutti
hanno finito per ammalarsi della roba del sergente Flannery.”
Riassunse
sommariamente, sospirando subito dopo. “Il pipistrello
è convinto si tratti di
John Doe … è ossessionato, ma non riesco a dargli
torto. Quando c’è un cadavere
di mezzo, la firma sembra sempre la sua.”
Ted gli accarezzò la gamba, sapendo che non c’era
molto che si potesse
commentare. “Ben sta molto meglio.” Disse invece.
“Parla, ed oggi ha mangiato
tutta la sua zuppa d’avena.”
“Grande! Ehi, le ho preso un libro da colorare giù
a Diagon Alley … Credi che
le possa piacere? Potrei portarglielo domani!” Gli sorrise, e
la sua felicità
era sincera e così consolante che avrebbe voluto
rifugiarvisi. Preferì invece
crollare definitivamente e posargli la testa sulle ginocchia.
“Sì, le
piacerà di certo…” Mormorò.
“Domani glielo portiamo assieme.”
“Woah
Teddy!” Esclamò l’altro,
compiaciuto quanto sorpreso; era infatti raro si lasciasse andare a
quei gesti.
Di solito accadeva il contrario. “Dove sono le cattive
notizie?”
Bestiolina
intuitiva.
Decise di vuotare il sacco.
“Benedetta sta bene, e sappiamo anche da dove viene. Italia,
Toscana … un
paesino. Il problema è che l’unico modo che ho di
rintracciare i suoi parenti è
cercarli … nel Mondo Babbano. Sarà come cercare
un boccino in un reparto di
decorazioni natalizie.”
Le dita di James gli passarono trai capelli e un moto di colore, ben
più
allegro di quello con cui era entrato, le seguì.
“Mi rimangio la palma di
giornata di merda.” Sbuffò. “Quindi devi
andare in Italia?”
“Nei prossimi
giorni, sì.
Prima di lunedì, possibilmente … sai,
arriveranno…”
“I ministeriali, lo so.” Terminò per
lui. “Non dovrei essere io a dirlo, visto
che sono uno di loro, ma quelli della Divisione Bestie mi stanno
sull’anima che
non ti dico.”
“Figurati a me.” Borbottò: avrebbe
finito per addormentarsi se l’altro non
avesse smesso di coccolargli la testa in quel modo. Non riusciva
però ad avere
la forza di farglielo notare. “Mi muoverò
domani.”
“Vengo con te.”
Se l’era aspettato e ne era felice, tuttavia James era forse
stressato quanto e
più di lui. “Hai bisogno di goderti il weekend,
lascia perdere.” Doveva essere
maturo e piantarla di comportarsi come un ragazzino bisognoso.
Visto
che sei tu quello più adulto dei due.
Uno
strattone improvviso al suo povero
cuoio capelluto lo fece quasi sobbalzare dal dolore. Guardare dal basso
il suo
ragazzo e vederlo contemplare l’ipotesi di tirargli uno
ceffone in testa fu un
po’ inquietante.
“ …
sì?” Gli uscì poco
intelligentemente.
“Rimanere a casa
come una
mogliettina ansiosa? Vaffanculo Teddy, proprio una gran
pensata.”
“Jamie…”
“Di sto cazzo.” Concluse. “Vengo con te,
non era una proposta.”
L’aumentare delle
imprecazioni
voleva solo dire che l’altro era in dirittura di una crisi di
collera delle
sue, quindi capitolò. Non aveva voglia di mantenere una
posizione in cui non
credeva per primo. “Scusa.” Emise con il suo tono
più mite. “Sto cercando di
tenere sotto controllo la situazione dando meno
incomodo…”
“Di che diavolo stai parlando?” Sbuffò
esasperato. “Senti, quella ragazzina ha
bisogno di una mano e ne hai bisogno tu. Fine della storia.”
“Fine della
storia…” Ted passò
un braccio attorno alla vita dell’altro e strinse. Se aveva
imparato qualcosa
nei primi anni di burrascoso assestamento tra di loro, era che James
Sirius
Potter sapeva sempre prenderlo di sorpresa. E in positivo.
“È
meglio che mi alzi…” Disse
dopo un po’, quando la tensione della giornata era scivolata
via per far posto
al torpore. “Sto per addormentarmi.”
James lo tirò di nuovo giù. “La pizza
è buona anche fredda.”
A quello proprio non poteva
ribattere.
****
Il
Paiolo Magico, dopocena.
Milo notò prima
la bottiglia
accanto al principino e poi il principino.
Sören se ne stava
al bancone
della locanda, a fissare i meandri del suo vuoto personale, ma per
fortuna la
bottiglia sembrava appena iniziata.
L’ho
beccato al preludio di una sbronza?
“Ohi, hai mangiato
qualcosa?”
Gli chiese, sedendoglisi accanto.
Non si voltò
nella sua
direzione, ma parve riconoscerlo da come non si mise in allerta
com’era suo
solito quando qualcuno entrava nel suo spazio vitale.
“Haggins.” Fece una
pausa. “Disgustoso.”
“È stomaco di pecora bollito che
t’aspettavi?” Diede un colpetto alla
bottiglia. “Sai, dovresti passare all’erba. Il tuo
fegato ringrazierebbe e
sciacqua via i pensieri che è una meraviglia.”
“Funziona anche
con quelli
persistenti?”
Ahi.
Milo era molte cose: un
Magonò, un violinista, una lama veloce e un tipo che era
entrato nel radar di
un mago sexy come l’inferno e c’era rimasto per
motivi che esulavano dalla sua
comprensione.
Ma la cosa per cui era
più
portato in quel periodo, sembrava, era ascoltare gli sproloqui del suo
datore
di lavoro.
Lo
mollo a sé stesso per quarantotto ore e lo ritrovo
al bancone.
“Dovremo cambiare
albergo. Questa
bettola sta diventando stretta.” Disse riempiendo il
bicchiere e vuotandolo
tutto di un fiato.
Perlomeno
il whisky sa sceglierselo.
“È un
posto come un altro.”
Replicò impietoso. “Se vuoi puoi cercarti una
sistemazione migliore. La
pagherò.”
Non è questo il punto, coglione. Tu
mi
devi venir dietro!
“E certo, se poi
ti prendi
qualche schifezza continuando a star qui, chi è che
dovrà preoccuparsi che tu
non muoia?”
“Il San Mungo.”
L’Associazione Mondiale delle Balie
mi
autorizza a prenderlo a calci in culo?
“Non vorresti
ricevere Zenzero
in un ambiente che non contenga scarafaggi?” Lo
punzecchiò, perché non poteva sbattergli
la testa contro il legno del bancone. Non avendo reazioni percepibili
continuò.
“Oggi era la vostra prima lezione, com’è
andata?”
Un silenzioso fragoroso
accolse la sua domanda.
“Benissimo
vedo.” Si frugò
nelle tasche e si concentrò nel compito di preparare il
perfetto spinello. Era
un buon modo per fingere di non aver notato come l’altro
volesse strangolarlo.
“Dai, che è successo?”
Sören fece una
smorfia,
contemplando il bicchiere vuoto, prima di rabboccarlo con un cenno di
quella
sua straordinaria – e inquietante – mano.
“Le ho detto che non voglio sentir
parlare di sesso tra lei e Scott Ross.”
Dovette trattenersi con tutte le forze per leccare la cartina e non
scoppiargli
invece a ridere in faccia. “Okay. E come ci siete arrivati a
parlare di
lenzuola?”
“Non ne ho
idea.”
Ecco, mi sembrava.
“Beh, fare la
figura del
fidanzatino geloso di certo avrà aiutato a farle capire
l’antifona.”
Sören gli
scoccò di colpo
un’occhiata allarmata. “Non può aver
capito che sono geloso.”
Mio
Dio. Un moccioso.
Accese lo spinello e ne
diede
un vigoroso tiro, sentendo il sapore dolciastro scivolargli sulla
lingua e
pizzicargliela con gentilezza. Era sempre un buon modo per iniziare in
fine
settimana. “Principino, mi rincresce distruggere la tua
reputazione da stoico …
ma se le hai abbaiato che non vuoi sentir parlare di lei e del suo
ragazzo che
ci danno dentro come conigli, cosa che sono certo facciano visto il
tipino…”
Era così divertente sentirlo ringhiare. Era probabile che
neanche si rendesse
conto di farlo. “ … beh, sei stato
sgamato.”
“No.” Scosse la testa, quasi a sottolineare il
concetto. “Non la conosci,
penserà che mi sono imbarazzato per via
dell’argomento.”
Non
è una rincoglionita della tua risma, principino,
quindi no, se hai fatto il ragazzino offeso e tradito se ne
sarà accorta
eccome.
Decise però di
non infierire.
Era magnanimo, lui. “Ed è meglio fare la figura
del verginello che farle capire
quello che provi per lei?”
Magnanimo
a modo mio.
Sören gli
scoccò
un’occhiataccia, ma vuotò il bicchiere e
annuì. “Sì, è
meglio.”
Scosse la testa, perché il mondo andava a rotoli per colpa
di gente del genere.
Sarebbe
tutto molto più semplice se si scopasse un po’
di più e si pensasse un po’ di meno.
“Sarebbe
così assurdo entrare
in gioco?” Lo incalzò, perché era
curioso; com’era possibile amare qualcuno al
punto da non volerlo?
Non
è un controsenso? Cazzo se lo è.
“Sì, se
non conosco le
regole.” Scosse la testa, spingendo la bottiglia nella sua
direzione ed
alzandosi in piedi. Quella sera non era da sbronza triste:
l’avrebbe quindi
passata a rimuginare da solo, e cupamente, come l’eroe
tragico che era. “Buona
notte.” Gli augurò prima di allontanarsi.
Milo sbuffò, e
una piccola
parte di sé, quella buona parte di solito silenziosa, non
riuscì a star zitta.
“Le regole non
contano un
cazzo, Sören. Non in questa roba.” Chiamarlo per
nome gli faceva sempre un po’
strano. Era abbattere una barriera che non era sicuro dovesse esser
abbattuta.
Ma
fanculo.
L’altro si
voltò, guardandolo
tra il sorpreso e qualcosa di vagamente simile allo speranzoso. Non
sapeva
perché, ma faceva male a guardarsi.
Tutti
vorremmo essere amati da far schifo, è tutto lì.
“E allora cosa
conta?”
Allargò le
braccia. “Quando lo
scopri, fammelo sapere.”
Perché
servirebbe anche a me saperlo.
****
Note:
Chiedo ancora mille scuse per il ritardo, ma vacanze di mezzo!
Comunque qualcosina (ina ina) si sta smuovendo sul lato
Lily/Ren … più la solita barcata di notiziacce
generale.
Qui
la canzone del capitolo. Questa
la canzone ascoltata e amata da Sy.
|
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Capitolo 27 *** Capitolo XXVI ***
Capitolo XXVI
Accadono
cose che sono come
domande, passa un minuto oppure anni,
E
poi la vita risponde.
(Castelli
di Rabbia, A. Baricco)
12
Luglio 2028
Londra,
Ospedale San Mungo.
Mattina.
“Albus, hai un
momento?”
Al alzò gli occhi
dalla ferita
che stava curando: erano le ultime ore del suo turno di notte e non
vedeva
l’ora di tornare a casa e schiantarsi sul letto,
indipendentemente dal fatto
che fosse occupato o meno.
Che
ore sono? Le sette, le otto?
Sorrise comunque di buon
grado
al Capo Guaritore Finnigan, perché era un amico e
perché aveva sempre notizie
fresche sull’unico argomento capace di spazzargli via
stanchezza e voglia di
scappare dall’ospedale.
“Per te sempre,
Sam.” Fasciò
con un Ferula il braccio del
paziente
e gli diede il bicchiere regolamentare di Pozione RimpolpaSangue.
“Lo beva
tutto.” Ordinò prima di lasciarlo nelle mani delle
magi-infermiere del reparto
per seguire l’altro Guaritore. “Che
succede?”
Sam gli diede per tutta
risposta una pacca sulla spalla. “Hai le occhiaie fino alle
ginocchia ragazzo.
Turno serale?”
“Stacco tra cinque
minuti … e
spero la manciata più breve di secondi della
storia.” Rispose facendolo
ridacchiare. “Ci sono novità?” Chiese di
nuovo, perché per quale altro motivo
il Capo Guaritore poteva esser venuto a cercarlo?
“Abbiamo una buona
notizia ed
una cattiva.” Esordì facendogli cenno di entrare
nella saletta ristoro
riservata ai medici del suo reparto. Si sedettero e l’altro
mandò a preparare
due tazze di caffè stretto. “La buona notizia
è che abbiamo ricevuto i
risultati delle analisi su Henry Price. Il fatto di averlo preso
proprio mentre
il morbo si manifestava ci ha permesso di avere accesso ha una
quantità
maggiore di informazioni sul metodo di contagio.”
“Bene!” Accettò grato la tazza fumigante
e dandone un rinfrancante sorso. “Che
novità?”
“La buona notizia
è che il
contagio avviene solo dal momento della perdita di controllo della
persona
infettata.”
Era una buona notizia. Al si
permise un respiro di sollievo: questo significava escludere il
pericolo di contagio
nelle prime fasi della malattia, dove i sintomi erano minimi e
facilmente
equivocabili per quelli di una banale influenza magica.
Qualsiasi
idiota è capace di tenersi alla larga da un
pazzo dagli occhi bianchi e la magia fuori controllo. Ma da un
influenza …
questo significa tra l’altro che la signora Flannery e le
persone che hanno
avuto a che fare con Price e Howe prima che si ammalassero non sono a
rischio.
Era un sollievo.
“Dobbiamo
mandare un comunicato alla Gazzetta.” Suggerì;
questo avrebbe abbassato molto
il senso di allarme che serpeggiava tra la popolazione magica.
E
ci faciliterà anche il lavoro. Niente più
infornate
di persone isteriche perché un familiare ed un amico ha
starnutito ed ha fatto
saltare il pomello della porta del bagno.
“Puoi scrivergli
un Gufo?”
Convenne l’uomo. “Una cosa chiara e alla portata
dei giornalisti, così
eviteremo fraintendimenti.”
“Nessun problema. Appena torno a casa butto giù
qualcosa.” Ma non era finita
lì. C’era altro che doveva sapere. “E la
cattiva notizia?”
“Riguarda il tuo
amico
Prince.” Non ci girò attorno l’uomo.
“E riguarda quello che mi hai detto sulle
capacità magiche del suo sangue e su quello che avete
scoperto con Thomas.”
Incrociò le braccia al petto e fece una smorfia.
“Abbiamo fatto le analisi di
laboratorio necessarie … avete ragione. Il suo sangue
è positivo ai marker
della malattia.”
“Quindi è
malato.” Si passò una mano
trai capelli, inspirando: aveva sperato fino all’ultimo che
le supposizioni sue
e di Tom fossero sbagliate, che in realtà vi fosse una
spiegazione migliore,
meno spaventosa ed avvilente.
“Sam
aggrottò le sopracciglia.
“La questione è più complessa di
così. Da un certo punto di vista, Prince non è
una persona malata. È un portatore sano.”
“Portatore sano?”
“Riflettici. La
sua salute è
ottima, i suoi valori magici sono stabili … la malattia non
lo limita né lo
mette in pericolo. Aumenta la sua capacità magica, tutto
qui.” Inarcò le
sopracciglia. “Quello che sembra avrebbe dovuto fare con Howe
e Price, no?”
“E
com’è possibile? Cosa la
tiene sotto controllo?”
“Come avevate
supposto voi, il
suo sangue. O meglio, facendo analisi più approfondite e
comparate, abbiamo
capito che ciò che combatte gli scompensi di magia sono
degli anticorpi.”
“Anticorpi?” Quei concetti facevano sì
parte dei suoi studi all’Accademia, ma
nella vita di un Guaritore capitava di rado che la Medimagia Comparata
– una
branca della Medimagia che attingeva dalla medicina Babbana –
fosse usata in
corsia. “Hanno la funzione di combattere i virus e batteri
… li isolano dalle
cellule umane a cui si legano per sopravvivere e li combattono,
giusto?”
“Esatto.”
Confermò con un
sorriso. “Qualcuno stava attento alle lezioni di Comparata
vedo.” Aggiunse.
Al sorrise. “Tom è cresciuto con i Babbani
… mi ha fatto una testa così
sull’importanza della loro medicina. Devo dirlo, è
uno dei rari casi in cui mi
trovo completamente d’accordo con lui.”
Suo malgrado era affascinato
da quella scoperta: il corpo di Sören era stato teatro di
esperimenti da parte
della Thule e questo era orrendo e imperdonabile. Dal punto di vista di
uno
scienziato però, era fonte di meraviglie continue.
La
capacità di adattarsi e cambiare del corpo umano,
che sia quello di un mago o di un Babbano, non smetterà mai
di stupirmi.
Cavolo.
Finnigan annuì.
“Questi anticorpi
sono prodotti in autonomia dal corpo di Prince. Dai suoi linfociti B,
per la
precisione. Ti ricordi cosa sono?”
Cavolo,
sembra un’interrogazione.
Non lo disse
però, perché per
fortuna ricordava la risposta. “ Cellule che quando certe
altre cellule vengono
infettate si trasformano e producono la cura.” Fece una
smorfia. “Grossomodo.”
Ehi,
io sono un ragazzo del reparto Lesioni, non di
Malattie Infettive!
“I Linfociti B si trasformano
in Plasmacellule e producono anticorpi. Un processo naturale. Va da
sé quindi
che non glieli hanno iniettati per controllare il virus presente nel
serio di
potenziamento, è stata una reazione spontanea.”
Seamus intrecciò le dita dietro
la testa, con aria speculativa. “Se gli è stato
iniettato il siero da piccolo è
probabile che il suo corpo abbia reagito meglio di quello di un adulto.
Come se
avesse contratto la Spruzzolosi. Qualche macchietta, un paio di giorni
di
Febbre e un Decotto Tiramisù ed è bello che
nuovo. Per gli adulti invece…”
L’ironia. Essere stato usato come
cavia
da bambino gli ha salvato la vita.
“Chiunque stia
lavorando
dietro le quinte di questo casino deve aver supposto che il virus
all’interno
del siero si sarebbe comportato con gli adulti come ha fatto anni fa
con
Prince.” Continuò il Capo Guaritore.
“Secondo me, all’epoca neppure si resero
conto che il ragazzo si era, a conti fatti, salvato.”
Scosse la testa. “Ha sviluppato la cura dentro di
sé.”
“E questa cura … non possiamo usarla?”
L’altro Guaritore
fece un
sorriso dolente. “Gli anticorpi sono specifici per ognuno di
noi … Il suo
sangue e la magia in esso sono così modificati, non solo dal
virus, ma anche da
tutti gli esperimenti che gli hanno fatto, che il rischio di rigetto
sarebbe
altissimo. Invece di curare i pazienti potremmo ucciderli.”
Albus sospirò, chiudendo gli occhi, perché si
sentiva stanco e sconfitto. Era
una cattiva notizia su più piani – come lo erano
tutte le cattive notizie. “Sören.”
Posò la tazza di caffè finita sul tavolino.
“Ha il diritto di saperlo.”
Sam annuì.
“L’ho detto al suo
agente di controllo.”
A Mike?
“Procedure,
Al.” Spiegò l’uomo
alla sua espressione sbalordita. “Prince, a quanto ho capito,
è in una
posizione giuridica un po’ particolare.”
Già,
me l’aveva detto. È come un minorenne. E il suo
tutore inglese, in effetti, è Mike.
“Gli ha
già parlato?” Per
quanto volesse bene a Michel sapeva che non era in grado di sganciare
certe
notizie con la giusta … umanità.
Di
Sören non gli importa. Non sprecherà tempo a
cercare
di capire la sua posizione.
…
cavolo.
“Questo non lo
so.” Ammise
stringendosi le spalle. “So solo che siamo stati bacchettati
dagli americani
quando abbiamo preso Sören da parte per dirgli che ci era
sembrato strano non
fosse stato contagiato. Non è con lui che dobbiamo parlare,
evidentemente. Smethwyck
ha spedito il Gufo con tutte le informazioni appena arrivati i
risultati.”
Quel
gran bastardo.
“Capito.”
Sorrise appena.
“Grazie per le informazioni.”
“Ehi, non dirlo neanche!” Gli fece un sorriso
d’approvazione: a volte avrebbe
voluto fosse lui il suo Capo Guaritore e non quella iena di Smeth.
“Senza te e
Thomas non saremo arrivati così presto a risolvere il
mistero dell’immunità di
Prince. Non era il risultato che volevamo,
ma…”
“Già.”
Si alzò in piedi, dando
una pacca sulla spalla dell’uomo. “Ma è
un risultato.”
“I problemi di essere un Guaritore!” Lo
guardò con aperta simpatia e
comprensione. “Va’ a casa Al, e fatti una bella
dormita.”
Una volta fuori dalla
stanzetta Al non pensò neanche lontanamente al proprio
letto, nè alla stanchezza
che l’aveva bistrattato fino a pochi momenti prima. Si
infilò negli spogliatoi
e cercò il suo Specchio Magico, perché una
chiamata al Ministero, ben lontano
dall’avere una ricezione telefonica, era doverosa.
Sapeva di non avere la
minima
autorità nei grandi giochi di potere inter-Ministeriali, ma
era un Serpeverde:
avere amici significava anche avere voce in capitolo su cose che non
avrebbero
dovuto competergli.
“Al!” La
sorpresa contenta sul
volto di Michel lo fece sentire un po’ in colpa, dato che non
lo chiamava per
farsi gli affari suoi da quasi due settimane.
“Ti
disturbo?” Chiese. “Come
stai?” Aggiunse perché era un amico orribile e
già sentiva il peso della
condanna su di sé.
“Impegnato come
sempre.”
Sembrava però molto più rilassato da come era
pronto al sorriso sincero
piuttosto che a quello nervoso. Si chiese se le cose con quel Milo
fossero
andate avanti e si ripromise di chiederglielo davanti ad un cocktail in
una
discoteca rumorosa. Glielo doveva. “Tu invece hai
un’aria sciupata pulcino, dormi
abbastanza?”
“Domanda inutile
da fare ad un
Guaritore. Lavoriamo quando il resto del mondo dorme il sonno dei
giusti.” Si
sedette su una delle panche. “Mike, mi sento già
orribile, ma devo chiederti un
favore.”
L’altro non parve
turbato
all’idea. “Dimmi tutto.”
“Si tratta di
Prince. Ho
saputo che stamattina ti hanno mandato un Gufo dal San Mungo.”
“Sì, è vero.” Il viso
dell’altro si fece di colpo guardingo, e Al si maledisse
mentalmente. Sapeva che entrare nel territorio
‘lavoro’ con Michel equivaleva a
pestargli i piedi. L’amico divideva la sua vita in scomparti
e detestava quando
qualcuno cercava di aggirare quella classificazione.
“Quindi sai
tutto?”
“So quello che
c’era scritto
nel Gufo, l’ho letto.”
“Gli hai già parlato?”
“Al, qual
è il punto?”
Decise di essere breve ed
indolore, perché non voleva ricordare quanto una parte di
quel suo buon amico
sarebbe stata sempre impermeabile all’affetto che
c’era tra di loro.
L’ambizione
sopra a tutto.
“Quando lo
informerai… senti,
cerca di andarci piano. Non ti sto chiedendo di far niente, solo di
… è un
bravo ragazzo.” Balbettò a disagio: non era ancora
del tutto convinto che Sören
fosse diventato uno dei loro, ma
era
comunque una persona che aveva sofferto troppo per colpe non sue.
Devo
aiutarlo. In qualche modo, lo devo fare.
Il lungo silenzio di Michel
non era incoraggiante. “È un amico,
Mike.” Si risolse a dire. “Per favore,
vacci piano.”
L’altro fece una smorfia. “Per quanto tu mi
consideri una persona incapace di
empatia…” Iniziò, ed era offeso, lo
sentiva dal tono. “… non devi preoccuparti.
Sono stato informato come mero ponte per l’America. Non ho
alcun dovere di
informare Prince, ma solo di riferire a Eleanor Gillespie, il suo
Capitano
nonché sua tutrice legale. Immagino sarà lei a
parlargli.”
“Nora è la sua tutrice?” Cadde dalle
nuvole; ma aveva senso considerando che
l’aveva aiutato da quando era uscito da Nurmengard.
“Non lo sapevo.”
“Ora lo sai. C’è altro?”
Sì, l’aveva proprio fatto incavolare.
“Mike, non penso
che tu sia
privo di empatia.”
“Per fortuna, o mi scambieresti per il tuo
ragazzo.” La frecciatina c’era tutta
e la accettò senza lamentarsi. Se la meritava.
“Comunque, nel caso fosse
toccato a me informarlo, sarei stato professionale.”
“Lo so.”
Si affrettò a
convenire. “È solo che a volte la
professionalità non è quello che serve, ecco
tutto.”
Michel al di là dello specchio inarcò le
sopracciglia. “Perché tenete tanto a
quel tizio?” Chiese, ed era curioso quanto infastidito
adesso. Era un progresso.
“Con quello che ha fatto e con quello che avrebbe potuto fare
alla vostra
famiglia dovresti detestarlo.”
Al ci riflettè,
perché la
domanda era legittima e se l’era fatta lui stesso.
“Credo perché … beh, parlo a
titolo personale, ma perché credo che dimostri che il mondo
non si divide in
buoni e cattivi. Credo di volerlo aiutare perché mi
dà speranza.” Concluse ed
era una buona risposta.
È
la verità.
Michel aggrottò
le
sopracciglia, non evidentemente preparato alla piega profonda che aveva
preso
la conversazione. “Speranza in che senso?”
“Che le persone
possano
cambiare in meglio, che lo vogliano sul serio e che continuino a farlo
a
dispetto di quello che gli capita.” Sorrise imbarazzato,
perché non era il
genere di discorsi che amava fare a quell’ora del mattino. In
generale, a dirla
tutta. “Mi fa stare bene pensare che esistano persone
così.”
L’espressione di
Michel si
ammorbidì. “Sei il solito sentimentale.”
Sbuffò. “Prendo nota comunque, d’ora
in poi lo tratterò con i guanti bianchi.” Fece un
ghignetto. “A proposito, Tom
sa di questa tua cotta?”
“Piace anche a lui
veramente.”
Replicò divertito dell’aria stralunata
dell’altro. “Non che lo ammetterà
mai.”
“Se avete in mente una cosa a tre fatemelo sapere, potrei
essere interessato.”
“Mike!”
“Me ne devi una, pulcino. Le informazioni hanno un
costo.” Non aspettò che
protestasse. “Metti in conto.”
Si salutarono in buoni
termini
e Al ne fu sollevato: qualcosa era cambiata nella routine nevrotica di
Michel o
non avrebbe preso così di buon grado quella conversazione.
Spero
davvero sia un ragazzo. Se lo meriterebbe.
Dopo essersi velocemente
cambiato uscì dall’ospedale, accendendo il
cellulare e chiamando l’unica altra
persona che doveva essere informata in direttissima.
“Sto
lavorando.”
“Non è vero, stai spulciando uno di quei tuoi tomi
polverosi.” Ritorse, perché
dal tono di voce Tom doveva essersi già alzato dal letto, ma
solo per posare le
chiappe davanti alla scrivania. “Ho delle novità
su Sören. Grosse novità.” Fece
una pausa, pensando che non avrebbe mai voluto essere nei panni di Nora
Gillespie: dover essere ambasciatore di quelle notizie doveva esser
tremendo.
“Di che si
tratta?”
“Tuo padre era un
gran bastardo.”
Non ci girò attorno, né uso gentilezza. Non aveva
intenzione di usarne neppure
una goccia per quell’uomo.
Dopo un lungo attimo di
silenzio,
Tom sospirò. “Preparo il the. Torna a
casa.”
Era tutto quello che aveva
bisogno di sentire.
****
Diagon
Alley, Il Paiolo Magico.
Un trillio acuto
rischiò di
forargli i timpani.
Sören
rotolò fino al comodino,
cercando il proprio cellulare, salvo per trovarlo silenzioso come
doveva
essere. Ci mise più di qualche attimo a capire che era Milo,
dalla finestra,
che si stava esercitando al violino nel modo più fastidioso
possibile.
“ …
Perché?” Gli uscì
impastato, alzando la testa dal cuscino per vederlo sveglio e
sogghignante.
“Perché hai sentito il bisogno di
svegliarmi?” Concluse strofinandosi una mano
sul viso.
“Perché
il mattino ha l’oro in
bocca, principino!” Replicò e sembrava di ottimo
umore da come ripose il
violino e gli fece tremare il materasso sedendocisi sopra senza troppe
cerimonie. “A proposito, dobbiamo cambiare locanda.
Stamattina ho visto come
cucina la cuoca e credimi, non è roba per stomaci
deboli.”
“Come ti ho detto ieri sera questa locanda copre le nostre
neces…”
“Le tue, vorrai dire.” Rimbeccò
passandogli un bicchier d’acqua che bevve
grato. Dopo i whisky che si era bevuto la sera prima si sentiva la
bocca arida
come il deserto del Messico. “Dico sul serio, vuoi che mi
prenda i pidocchi?
Hai idea di che disastro farebbero ai miei meravigliosi
capelli?”
Sbadigliò,
uscendo fuori dal
letto e iniziando la prima routine di esercizi fisici della giornata.
Fare
flessioni dava di nuovo lucidità al suo mondo e ne
contò dieci prima che Milo
si accovacciasse alla sua altezza.
“Sei
fastidioso.” Gli
comunicò. “Cosa vuoi?”
“È
appena iniziato il fine
settimana e sono pieno d’energie!”
“Buon per te.”
“Andiamo a far colazione fuori!”
Lo guardò storto,
capendo il
neppure troppo sottile intento dell’altro; voleva distrarlo
dal pensiero di
Lily in Scozia e dal … resto. “Vacci tu.”
“Il solito temperamento delizioso,
vedo…” Arricciò le labbra in un
sorrisetto.
“Sei fortunato, principino, oggi sono di
buon’umore. Quindi scrollati quella
nuvola da Goethe di dosso prima che lo faccia io!”
“Provaci.”
Fu soddisfatto dal constatare che l’altro rinunciò
con un grugnito e un insulto
a mezza bocca. Dopo la cinquantesima flessione si alzò in
piedi, afferrando
l’asciugamano che gli venne lanciato, tamponandosi il viso e
il collo. Quella
giornata, lo si capiva dall’aria che entrava dalle finestre
aperte, si
preannunciava rovente. “Come mai di
buon’umore?” Si informò, anche per
distrarlo dal proposito di impicciarsi dei suoi problemi.
Sarebbe
coerente se tu non andassi a piagnucolare da
lui ogni volta che qualcosa va storto.
Milo era una stampella di
cui
non riusciva più a fare a meno. Se ne vergognava un
po’, ma immaginava non
fosse così tremendo se l’altro non aveva ancora
preso il volo – gli era sempre
sembrato il tipo da non rimanere in un posto o con una persona, se
questa non
gli aggradava.
Milo scrollò le
spalle, e non
fu una sua impressione, sembrò a disagio. “Diciamo
che ho qualcosa che stuzzica
il mio interesse, e sai quanto la noia mi faccia rodere il sedere. Non
sono
annoiato, ecco tutto.”
“Questo interesse
ha un nome?”
Fu sorpreso dall’aver indovinato quando l’altro
distolse velocemente lo sguardo.
Curioso.
Quindi ha un nome e un volto.
“Uhm.”
Esordì suonando
stranamente guardingo. “Mettiamola così
… potresti non approvarlo.”
Approvarlo?
“Come
scusa?” Da quando la
faccia da schiaffi che stipendiava si preoccupava di cosa poteva
pensare lui della sua vita
sentimentale e
sessuale?
Considerato
le orge di cui omaggiava il mio
appartamento?
La cosa assunse una piega
ancora più insensata quando Milo si grattò la
nuca e lo guardò di sottecchi. “Diciamo
che è un mago.”
“Sai che non mi interessa sapere con chi ti
intrattieni.”
“Sì, beh, forse stavolta sì
perché è il tuo agente di controllo.”
“Zabini?” Si dovette schiarire la
voce per togliersi di
torno quel tono acuto, che lo faceva sembrare un ragazzino che beccava
uno dei
suoi genitori con la sua insegnante. Lily lo avrebbe definito un
paragone
perfetto. “Stai andando a letto con Michel Zabini?”
Milo fece una smorfia.
“È una
storia lunga. È un problema?”
Lo era? Ci
riflettè
seriamente, perché la domanda non era campata in aria,
affatto. Notandolo però
letteralmente sulle spine – Milo Meinster, che faceva fatica
a ricordare il
nome di chi aveva nel letto – non potè che
stringersi nelle spalle. “No, non lo
è. In fondo il lavoro che fate, dal mio punto di vista, non
è così diverso …
Sapete di me le stesse cose.”
Milo inarcò un
sopracciglio,
il sollievo così evidente che Sören
pensò fosse giusto non farglielo notare.
“Sa anche che tendi a sbavare sul cuscino quando ti
addormenti ubriaco?”
“… non
in quel senso.”
Gli venne sorriso, e non c’era traccia di ironia o sberleffo.
“Okay.”
Imbarazzato forse dalla piega che aveva preso la colazione,
l’altro gli diede
le spalle. “Vado a prendere la colazione o scendi
giù?”
“Scendo.”
Esitò, poi infine lo
disse anche con il rischio di essere preso in giro come unico
risultato. “Ti
tratta bene?”
Milo lo guardò
confuso, prima
di registrare il significato della frase. Più che offeso o
divertito sembrò
sorpreso. “Beh… sì, uh, direi di
sì.” Iniziò con un tono di voce che
glielo
fece sembrare più giovane del solito.
Mi
scordo sempre che ha due o tre anni meno di me.
Un improvviso frullare
d’ali
bloccò la conversazione. Il gufo posatosi sul davanzale
della finestra veniva
dal Ministero della Magia inglese, considerando che era quello il loro
unico
modo di comunicazione. Prese quindi la lettera e strappò la
ceralacca.“Sono
richiesto entro un’ora all’Ufficio
Auror.” Lesse. “Prepara la mia uniforme.”
Cos’hanno
da dirmi che devono usare le vie ufficiali?
Gliel’aveva
insegnato
l’esperienza. Non era un buon segno.
Quando arrivò
all’interno
dell’ufficio Auror lo trovò deserto. Fu sorpreso
anche dal constatare che la
squadra di Potter non era lì; non c’era infatti
traccia di Scorpius, né di
Jordan né tantomeno del fastidioso fratello di Lily.
Incrociò lo sguardo di un
paio di auror e li salutò con un cenno della testa sulla via
dell’ufficio del
Capo.
“Si accomodi
agente Prince.”
Fu la risposta solerte dopo che si fu presentato alla segretaria
spiegando il
motivo della sua presenza. “La stanno aspettando.”
Mi sta aspettando chi?
Quando varcò la
porta dovette
trattenersi per non sobbalzare o dare voce al suo sgomento: assieme al
Capo
Auror Potter e l’inseparabile Sergente Weasley
c’erano due streghe che
conosceva bene.
“Capitan
Gillespie, Sergente
Gillespie.” Mormorò confuso, guardando
dall’una all’altra; mentre il suo
Capitano gli stava sorridendo con la consueta, solida empatia, Ama
sembrava sul
piede di guerra.
Che
ho fatto?
Anche
se a dirla tutta è la sua espressione standard da
che la conosco…
“Ciao
Sören.” Salutò la donna
più anziana. “Ti trovo bene.”
Annuì, non
sapendo come
reagire a quell’improvvisata fuori programma.
Guardò il Capo Auror Potter e si
vide restuire uno sguardo … dispiaciuto?
Perché?
“Cos’è
successo?” Andò dritto
al punto. “Non che non sia felice di rivederla, Capitano, ma
non capisco il
motivo della sua venuta. C’è qualche
problema?”
Per
quale altro motivo sarebbe qui?
La strega fece sorriso
pallido
e stanco. Ancora, non era un buon segno. Quello e il sentirsi le mani
sudare e
il cuore in gola.
Che
ho fatto?
Non gli sembrava di aver
sbagliato nulla, ma qualcosa di sbagliato c’era, se lo
sentiva nelle ossa.
“Siediti
ragazzo.” Lo invitò
Harry Potter con la stessa voce con cui doveva aver comandato schiere
contro
Voldemort. “Nora è qui perché ho
ritenuto opportuna la sua presenza, in quanto
tua tutrice legale e Capitano.”
Che
diavolo sta succedendo?
Il Sergente Gillespie
– Ama?
In che veste era lì? Ufficiale o meno? – sciolse
le braccia dal petto e lanciò
un’occhiataccia direttamente al Capo Potter.
“Diteglielo e basta!” Esclamò
rimediandosi occhiate sorprese. La sua compresa. “Ha il
diritto di saperlo!”
“Sapere
cosa?”
L’uomo
inspirò. “Dobbiamo
chiederti di lasciare il caso del Demiurgo.”
Cosa?
Era quello il nome con cui
la
stampa e lo stesso ufficio Auror aveva chiamato il caso del morbo.
Fu come se una mano gli
avesse
artigliato le viscere, per strizzargliele senza pietà
alcuna. Si impose di
mantenere un tono di voce pacato. “E posso sapere
perché?”
“Sei coinvolto a
troppi
livelli ragazzo…” Si inserì il Sergente
Weasley e doveva immaginarselo che
l’avrebbe fatto.
Non
mi ha mai voluto qui.
“So che il mio
passato con
Johannes potrebbe causare problemi, ma fin’ora mi sembra non
ce ne siano
stati.” Obbiettò perché non poteva
finire così. Era assurdo. Era umiliante.
“Potete chiedere conferma alla squadra, sono
stato…”
“Non si tratta di John Doe, Sören, né di
qualcosa che hai fatto tu. Stai
svolgendo senza ombra di dubbio un ottimo lavoro, non è
questo il problema.” Il
Capitano lo stava guardando in modo strano, nello stesso modo in cui si
erano
parlati per la prima volta, nell’ospedale vicino a Nurmengard
dove era stato
portato.
“Posso sapere qual
è?”
Il Capitano si
avvicinò alla
sua sedia e gli posò una mano sul braccio. Avrebbe voluto
scacciarla, ma non
poteva. Non era come si comportava un agente in servizio. “Si
tratta di tua
madre.”
In un lampo
ricordò i gioielli
nella camera blindata di Johannes, la sua perplessità e il
discorso con
Scorpius.
“Mia madre
è morta quando ero
bambino. Cosa c’entra con il caso?”
Il Capitano si morse le
labbra
ed era un gesto così poco da lei che lo spaventò
più dell’intero schieramento
di Capitani e Sergenti di fronte a lui. “Sophia Von
Hohehnheim è viva, Sören …
e collabora con John Doe. Abbiamo motivo di pensare che siano loro le
menti
dietro il progetto Demiurgo.”
“Mia madre
è morta.”
Immaginava fosse ottuso continuare a ripetere la stessa frase, ma
c’era solo
vuoto nella sua testa, e pensare a qualcos’altro da dire non
era semplice. “Ho
assistito al suo funerale … ho visto la sua tomba.”
Il Capitano si scambiò uno sguardo con il Capo Potter, prima
di farsi passare
dal Sergente Gillespie una cartellina. “Era la nostra stessa
riserva. Per
questo dobbiamo chiederti di guardare alcune
instantanee…”
“Sono state prese dalla telecamera di sicurezza di una banca
dove il Camaleonte
ha uno dei suoi conti.” Ama gliela porse, aprendola con un
tocco della
bacchetta. “Abbiamo fatto un confronto con altre foto, e per
noi non ci sono
dubbi.”
Sören osservò la fotografia; c’era una
donna matura, alta e non poteva essere
sua madre.
È
morta?
Non la ricordava bene; solo
a
volte, solo frammenti di parole e di espressioni.
Non
mentire a te stesso.
Pechè era lei; la foto poteva essere sgranata,
presa da un angolazione
infelice, ma una parte di sé aveva dato la risposta nel
momento stesso in cui
l’aveva guardata.
Sua madre era viva.
Nora Gillespie avrebbe
preferito spalare letame piuttosto che osservare uno dei suoi agenti
– Sören –
essere fatto a pezzi dal suo passato.
Non solo: aveva anche dovuto
dirgli cosa il San Mungo aveva
scoperto sulla sua immunità. La cosa che però
l’aveva stupita era stato intuire
che Sören già lo sapeva. Poi aveva pensato a chi
aveva lavorato alla scoperta
medica.
Albus
Severus Potter. Il fratello di Lily.
Sören ad ogni buon
conto
l’aveva ascoltata senza dire una parola, seduto come se fosse
stato Impastoiato
alla propria sedia, l’espressione illeggibile; da quando gli
aveva detto di sua
madre non aveva aperto bocca.
“Mi dispiace
Sören…” Mormorò
in conclusione, sentendosi il cuore gonfio d’amarezza.
“Dato l’evolversi delle
cose non posso, in coscienza, far continuare la tua collaborazione con
l’ufficio Auror. Sei troppo coinvolto, su troppi livelli come
ha detto il
Sergente Weasley … Il mio compito non è
proteggere solo i civili, ma proteggere
anche te, uno dei miei agenti. Capisci ciò che ti sto
dicendo?”
Ti
prego, cerca di capire.
Si sentiva presa tra due
fuochi: se da una parte credeva di agire correttamente
nell’allontanarlo
dall’Inghilterra, diventata troppo pericolosa,
dall’altra sapeva che l’intera
cosa sarebbe stata vista come un attestato di sfiducia da parte sua.
Non
è così.
Sören
battè le palpebre, come
se solo in quel momento fosse riemerso dai suoi pensieri.
“Sì, lo capisco.”
Disse. “Se mia madre è coinvolta io, come
familiare diretto, rischio di essere
offuscato dai sentimenti personali e di compromettere l’esito
del caso.”
“Sono felice di saperti d’accordo.”
Sentiva lo sguardo di Harry addosso e
avrebbe voluto voltarsi per chiedergli consiglio, o un intervento. Ma
non
spettava al Capo Auror mettersi in mezzo.
“Posso chiedere
chi mi
sostituirà?”
Quello che la preoccupava
era
la totale mancanza di reazioni. Si sarebbe aspettata rabbia, richieste
di
spiegazioni, indignazione per esser stato messo da parte senza neanche
avere il
diritto di replica. Si sarebbe aspettata di dovergli spiegare che non
era stato
tradito, ma solo protetto.
Invece
… l’ha presa fin troppo bene.
“Io.” Si
inserì Ama e gliene
fu grata. Era stanca di parlare. “Abbiamo pensato che un
agente semplice non
fosse attrezzato, vista la complessità del caso.”
Nora non
commentò, anche se la
decisione non si era svolta con tanta semplicità; Ama aveva
instistito per
essere la sostituta fino allo sfinimento, nonostante le sue molte
riserve.
Ama
è coinvolta per via di suo padre … ma non quanto
Sören.
Sören
la guardò per qualche attimo,
prima di annuire. “Le farò avere le mie
note.” Si alzò in piedi. “Entro quanto
devo lasciare il confine britannico?”
“Non
c’è fretta.” Rispose Harry.
“Puoi prenderti tutto il tempo che ti serve, il tuo visto
è stato rinnovato per
un altro mese.” Fece un sorriso. “Non ti stiamo
cacciando.”
“Bene. Se non
c’è altro, devo avvertire
Milo perché si prepari alla partenza.” No, non
andava bene per niente e non ci
voleva uno Psicomago per capirlo. Sören si stava comportando
come al loro primo
incontro.
L’unica
differenza è che parla. Ma non dice niente.
“Sören…”
Richiamò il ragazzo,
già in piedi e in direzione della porta. “Puoi
rimanere fino alla fine del mese
se vuoi. So che hai degli amici qui, e se ti serve tempo per
salutarli…”
“Non mi serve.” La battuta fu sferzante e per
quanto densa di sentimenti non
esattamente positivi, almeno mostrava delle emozioni. Tornò
subito nei ranghi
però. “Partirò lunedì, e se
è d’accordo riprenderò servizio attivo
al SAGITTA
il giorno stesso.”
Non restava altro da dire. “Naturalmente.”
“Grazie.”
Li guardò ad uno ad
uno e fu certa di vedere con la coda dell’occhio Ron
abbassare lo sguardo.
“Sono congedato?”
“Lo
sei.”
Dopo che la porta fu
richiusa,
Ama fu lesta a scattare in piedi. “Chiedo congedo.”
Non aspettò la sua risposta
e si precipitò dietro l’altro ragazzo.
Poi cadde un lungo silenzio.
Fu Ron il primo a romperlo. “Andiamo!”
Sbottò. “Era la cosa giusta da fare. Ha
praticamente metà parentela coinvolta … Non
sarebbe stato legittimo farlo
continuare.”
Nora sospirò. “Spero solo che capirà,
col tempo, che l’abbiamo fatto per
proteggerlo. Il Camaleonte sa già della sua presenza, e
quindi anche Sophia Von
Hohenheim. Non è questione di sapere se
avrebbero usato la cosa a loro vantaggio, ma quando.”
Harry non disse niente per
un
po’, seduto dietro la sua scrivania e a Nora parve
improvvisamente più vecchio
dei suoi anni, come se quella conversazione gliene avesse aggiunti
parecchi.
Capiva la sensazione.
“Abbiamo fatto la
cosa giusta,
è vero.” Esordì togliendosi gli
occhiali e massaggiandosi le palpebre. “Ma
anche quella più conveniente.”
Già…
Il suo buon amico alla fine
aveva
empatizzato con Sören; molto del loro passato si somigliava
per certi versi. “Sören
non è in grado di affrontare il carico emotivo di questo
caso.” Gli obbiettò.
“Stava già avendo problemi a gestire il fatto che
John Doe fosse coinvolto, ed
ora sua madre…”
“Merlino,
è troppo per
chiunque!” Concordò Ron. “Abbiamo fatto
bene a fargli fare un passo indietro.
Se ne tornerà in America e ritroverà la sua
tranquillità come noi la nostra.” Alla
sua occhiata si strinse nelle spalle. “Sentite, mi spiace
dirlo, ma la sua
presenza qui dava più grattacapi che altro … ha
quasi messo in crisi la squadra
di James. Non si stava adattando!”
“Ci stava
provando, Ronald.”
Si sentì in dovere di difenderlo; Ethan Scott ironizzava
sempre che, quando si
trattava dei suoi agenti, diventava come una leonessa con i propri
cuccioli.
Era una delle poche cose sensate che avesse mai detto in vita sua.
“Del resto
non gli avete reso le cose se…”
“Basta così.” Li fermò Harry.
Anche se non aveva alzato la voce ebbe il potere
di farli sentire entrambi sciocchi, da come anche l’altro
inglese fece una
smorfia imbarazzata. “Sören ha accettato la nostra
decisione e tornerà a
Boston, non mi pare ci sia altro da dire.” Le si rivolse con
un sorriso. “Sono
certo che Ama farà un ottimo lavoro.”
“Lo sono
anch’io.” Si alzò in
piedi, stringendogli la mano. “Grazie per il tuo tempo
Harry.”
“Non dirlo
neanche.” Scosse la
testa. “Ron, accompagna Nora all’uscita. Se mi date
un’ora vi raggiungo per
pranzo.”
Si salutarono, ma prima di
andarsene non riuscì a trattenersi. “Harry
… pensi che abbiamo fatto bene?”
L’amico le sorrise di nuovo, scuotendo la testa.
“Lo spero, Nora.”
“Sören!”
Chiamare per nome un proprio agente quando si era in servizio non era
un’idea
brillante, ma ad Ama in quel momento non riusciva ad importare. La
scena che si
era svolta sotto i suoi occhi solo pochi attimi prima le aveva dato la
nausea.
Non
è giusto!
Se fosse stata al posto
dell’altro avrebbe difeso con le unghie e coi denti il suo
diritto di partecipare
a quel caso.
Perché
lui non l’ha fatto?
Sören sentendosi
chiamare si
voltò, già sul ciglio dell’entrata
dell’ufficio. “Sergente Gillespie, ha
bisogno di qualcosa?”
Quello era un buon modo per
farla sentire un’idiota.
Gridare
come una ragazzina per attirare la sua
attenzione … Datti una regolata. Sei un suo superiore.
“Volevo
solo…” Prese fiato,
perché stava cominciando a mancarle il coraggio.
“… volevo solo dirti che non
sto cercando di soffiarti l’incarico. Mi sono offerta
perché…”
“Non c’è bisogno che mi dia
spiegazioni.” La fermò tranquillo. “Sono
contento
che sia lei a sostituirmi. Sono certo che troverà la squadra
di James Potter
preparata e all’altezza.”
Okay. Che cos’ha?
Va
bene che è Mister Educazione e Calma, ma …
C’era qualcosa che
le diceva
che non era tutto lì.
L’illuminazione
la colpì quando vide che aveva le mani seppellite nelle
tasche dell’uniforme.
La
sua mano … Estevez mi ha detto che quando è
nervoso fa
scintille come una bacchetta!
“Sören,
non ti sto parlando
come tuo sergente.” Sbuffò, perché non
era mai stata capace di essere sottile,
solo diretta fino alla brutalità. “So come ti
senti e volevo solo dirti che ti
capisco, e che mi dispiace.”
Le venne restituito uno sguardo privo della minima emozione.
“La ringrazio.”
Alzare la voce e dare in
escandescenze dove c’era gente che poteva vederla e
commentare era una cosa che
la disgustava ma era troppo preoccupata perché gliene
fregasse qualcosa. Lo
afferrò per un braccio. “Smettila di fare
così, hai bisogno…”
Non terminò la frase che Sören si
strattonò violentemente via da lei. Il volto
tranquillo si ruppe in mille scheggie di una rabbia densa e scura, come
lo era
la magia che sentiva emanare da lui.
“Ho bisogno
di essere lasciato in pace.” Disse lentamente e Ama fece un
passo indietro; non si riteneva una persona impressionabile, eppure in
quel
momento si sentiva il cuore in gola.
Col tempo si era dimenticata
di
chi aveva davanti; Sören Prince era stato il pupillo del
Camaleonte, ed aveva
passato l’infanzia immerso nella violenza e nella Magia
Oscura. Non era
soltanto il ragazzo più riservato e socialmente imbranato
della sua unità.
L’altro dovette
rendersi conto
del suo scatto perché chinò la testa, in quella
maniera un po’ antiquata e solenne
che lo contraddistingueva. Fu un sollievo vederglielo fare
perché era un gesto
da Prince, e non da Von Hohenheim. “ Mi scusi …
non volevo spaventarla.”
“Non mi hai…”
“Ho bisogno di restare da solo, Ama.” Usare il nome
proprio dopo averle dato
del lei per tutta la conversazione era una carognata bella e buona.
“Per
favore.”
Cosa poteva fare a quel
punto?
“Certo. Io … mi dispiace. Non volevo che le cose
prendessero questa piega.”
Ripetè per quanto fosse inutile reiterarlo. Sören
dovette indovinarlo perché le
sorrise.
Aveva il sorriso più bello e più triste che
avesse mai visto; come due termini
simili potessero andare a braccetto rimaneva per lei un mistero.
“Smettila di
dirlo.” Replicò
usando le stesse parole che gli aveva rivolto la sera del suo party di
commiato. “Non ce n’è bisogno. Farai un
buon lavoro, e mi basta questo.” Fece
un cenno con la testa. “Arriverci Sergente.”
Vedendolo andare via con le
mani sepolte nelle tasche, per quanto fosse stupito, sperò
che qualcuno riuscisse
a tirargliele fuori di lì. E stringerle.
****
Diagon
Alley, Casa di Al Potter e Tom Dursley.
Quando Tom metteva la musica
a
tutto volume significava o che era di buon’umore, oppure che
stava dando
battaglia a Meike a colpi di gusti musicali.
Appena aprì la
porta
dell’appartamento fu infatti investito da un muro di suoni,
mentre Zorba, con
un miagolio disperato uscì come un Boccino appena liberato.
“Già.”
Concordò trascinandosi
fino al salotto ed ignorando Tom e Meike che stavano discutendo di
fronte allo
stereo in maniera piuttosto accesa. Sprofondò a faccia in
giù nel divano e si
rifiutò di rispondere a qualsiasi tipo di stimolo, che fosse
acustico o fisico.
“Mutti,
ehi … Mutti? Al?
Tom, che gli hai fatto?”
“Ha varcato la soglia di casa in questo esatto
momento. Spiegami come posso aver fatto qualcosa.”
“Non lo so! Sei
bravissimo a
fare casini anche rintanandoti in casa!”
Ignorali.
L’abbassarsi della
musica fu
comunque un piacevole risvolto di quella sua tecnica
passivo-aggressiva.
Funziona
sempre.
“Vado a metter su
la teiera,
eh? Ho fatto i biscotti!”
“Al.”
“È colpa tua, razza di spaventapasseri! Lo sai che
non gli piacciono i Joy
Division!”
“Al.”
“Mutti!”
Al sorrise, togliendo la faccia dal cuscino quanto bastava per vedere i
suoi
due tormenti personali – nonché suoi inquilini
– guardarlo con un misto di
apprensione (Meike) e irritazione (Tom, che era forse più
preoccupato della
ragazzina). “Sono solo stanco ed affamato.” Disse.
“E davvero, possiamo mettere
qualcosa di un pochino più allegro?”
Nel giro di una manciata di
minuti Meike tornò con la sua colazione e Tom
riuscì persino a ricordarsi uno
dei suoi gruppi Babbani preferiti e a mettere la canzone che preferiva
quando
era reduce da un turno sfiancante.
If you wanna be my friend and
you want us to get along
Please do not expect me to wrap it up and keep it there
“Si tratta di
lavoro.” Spiegò
Tom a Meike, la quale sembrava chiedersi se avesse dovuto misurargli la
febbre
invece di servirgli il the. “Lasciaci soli.”
“C’è qualcosa nella progressione logica
di questa frase che mi lascia perplessa
… ma okay, siete due tipi strani e vi voglio bene anche
così.” Si chinò a
baciargli la guancia per poi tirare un pizzicotto sul braccio di Tom,
che
scartò di lato cercando di afferrarle la coda di capelli.
Al, ignorando il bisticcio
trai due, sorseggiò la propria tazza, ritraendo i piedi per
poi lasciare che
Tom si accomodasse accanto a lui mentre si massaggiava il braccio con
aria
offesa. “Posso finire la colazione prima di aprire il vaso di
Pandora e far
uscire tutte le schifezze di questa terra?” Chiese.
“Erano
sciagure.” Gli fece
notare prima di annuire. “Mangia i biscotti.”
Obbedì di buon
grado, mentre
l’altro gli toglieva le scarpe e le mandava ad allinearsi
ordinatamente nella
scarpiera all’ingresso. Appena ebbe mangiato
l’ultima briciola Tom diede fuoco
alle polveri.
“Hai letto i
giornali di
oggi?”
“Fammi indovinare
… il Profeta
teorizza che il Ministero e nello specifico l’ufficio Auror
stia tenendo i
cittadini all’oscuro di cosa sta realmente succedendo con il
caso Demiurgo e
l’epidemia e così il resto delle testate a lui
affiliate. Per quanto riguarda
il Cavillo invece…”
“Non leggo quella spazzatura.”
“Io sì, e c’è una teoria
interessantissima sulle cause della malattia … Pare la
portino i Sgorgobozzi Antelucani.” Vedendolo tentare di non
scoppiare a ridere
– mai che potesse abbassarsi a trovare divertenti gli
articoli del giornale di
Luna - continuò. “Cosa? Io la trovo una teoria
alternativa, ma valida.”
Tom mascherò
l’inevitabile
risata con un colpo di tosse. “La stampa sta diventando
irrequieta. Harry avrà
un bel da fare per tenere in riga penne come quella di
Hawkins.”
“Richie Hawkins
è uno
scarafaggio … No, sul serio, credo sia un
Animagus.” Aggiunse all’espressione
sorpresa del compagno. “Avresti dovuto tramortilo quella
volta che tentò di
circuirci da bambini.”
“Qualcuno pensò
fosse una cattiva
idea…”
“Ero giovane e
stupido.”
Scrollò le spalle. “Comunque … la buona
notizia, l’unica a dirla tutta, è che
possiamo buttare un po’ di acqua sul fuoco. La malattia
è contagiosa solo da
conclamata.” Spostò la propria attenzione verso la
porta di camera loro ed
Appellò il necessario per scrivere dallo scrittoio. Era
stanco, ma appena
avesse ripreso le forze avrebbe svolto il compito lasciatogli di
Seamus.“A
questo proposito devo scrivere una lettera al profeta piena di paroloni
rassicuranti.”
“Poi te la correggo. Da uno che non riesce a fare lo spelling
di geografia…”
“È successo una
volta!”
Cercare di tirargli un
calcio
ed essere bloccato fu irritante quanto bello; non ringraziava mai
abbastanza
Merlino di avere un posto in cui tornare e la possibilità di
scrollarsi di
dosso le brutte cose tra le braccia del suo sociofobico preferito.
Sören
non è altrettanto fortunato.
Accocolandosi contro
l’altro
spiegò quindi la sua mattinata, le scoperte e le
realizzazioni. Tom ascoltò
tutto in silenzio prima di fare una smorfia che riassumeva cosa doveva
pensare
della faccenda.
Che
è ingiusta e che fa schifo. Yep.
“A quanto pare il
Karma ha
deciso di prendere a calci mio cugino.”
Quella frase, in sé non di particolare rilievo, era in
realtà un bel punto di
svolta. Si guardò bene dal notarlo ad alta voce
però; l’altro avrebbe negato
con tutte le sue forze.
L’ha
chiamato cugino. È la prima volta che lo fa da che sa
che
sono parenti.
“A quanto pare
sì.” Lo guardò
con la coda dell’occhio. “Tom, che
facciamo?”
“Niente.”
Prima che potesse
protestare gli mise una mano sulla bocca senza troppe cerimonie.
“Una cosa è
lavorare al caso Demiurgo una cosa è pestargli i piedi con
aiuto che
probabilmente non vuole.”
Al si morse le labbra,
colpito
che per una volta Tom avesse ragionato considerando il punto di vista
di
un’altra persona.
No,
non è vero … non è la prima volta che
lo fa. Quando
c’è di mezzo Sören pare che ne sia capace.
Dopotutto,
è la sua famiglia.
“Ma
avrà bisogno di parlare con
qualcuno!”
“E non parlerà di certo con me o con
te.” Gli fece notare. “Da quando siamo
stati promossi al rango di confidenti di Sören Prince? Devo
aver mancato di
leggere l’appunto.”
Touché.
“Vero. Beh,
c’è sempre Milo,
quel Magonò…” Considerò
appoggiandogli la testa sul petto ed ascoltando o il
ritmo del cuore dell’altro. Era persino più
rilassante di quello che usciva
dallo stereo. “E Lily.” Aggiunse suo malgrado.
“Mi preoccupo troppo, vero?”
“Vero.”
Lo imitò passandogli
le dita trai capelli, i quali non accennavano a tornare della lunghezza
originaria; non era così grave però, si stava
abituando a quel taglio. “E senza
motivo. Sören non è privo di amici e connessioni
come pensi. Pare che riesca a
farsi apprezzare.”
Al chiuse gli occhi,
nascondendo uno sbadiglio in una mano; i ritmi invertiti di sonno e
veglia
erano un prezzo inevitabile da pagare nella sua professione.
“Mi ricorda
qualcuno…”
“Non so a chi tu
ti
riferisca.”
“Mh-mmh…”
“Non addormentarti su di me. Ho del lavoro in
arretrato.”
Sorrise e – era una dote, senza dubbio – spense
l’interruttore senza troppi
rimorsi.
“Al!”
****
Casa
di Michel Zabini.
Pomeriggio.
“Sai che casa tua
sembra una
cella frigorifera?”
Michel per poco non
rovesciò
il drink che si era portato dalla cucina sul tappeto del salotto.
Voltandosi vide con la coda
dell’occhio una testa bionda e un corpo atletico; in parole
povere, Emil.
“Ciao
maghetto.” Sogghignò
questo, stravaccato su una delle sue poltrone Van Der Rohe, costate uno
stipendio medio ministeriale. Se lo ricordò
perché l’altro, oltre ad usarne una
per il motivo per cui era stata fatta, usava l’altra come
poggia-piedi. Ed
avendo delle Vans consunte
– e con un
dito di fango nella suola – non era cosa che fosse disposto a
tollerare.
“Metti
giù i piedi.” Replicò.
“Come sei entrato?”
“Come sei
carino…” Ribatté
l’altro, stiracchiandosi. “Mi ha aperto Loki prima
di andar via. Lui sì che sa
essere un padrone di casa! Quello cui sto davanti adesso neanche mi
offre da
bere.”
Michel inspirò,
ricordandosi
che in effetti aveva invitato il
ragazzo che gli stava davanti a presentarsi a casa sua ogni volta che
gli
girava.
“Scusami.”
Offrì porgendogli
il drink. “Ho avuto una brutta giornata.”
“Non mi dire.” Lo accettò con un cenno
della testa. Era già qualcosa. “Ti ho
sentito sbattere ante e bicchieri da qui.”
Già…
Albus, con la sua richiesta,
lo aveva irritato oltre ogni misura.
Non
deve impicciarsi del mio lavoro. Lo sa benissimo!
Perché l’ha fatto? A parte per mettere a tacere
quel suo senso di abnegazione
verso il clan allargato di amici e familiari che si ritrova…
“Spostiamoci di
là.” Disse,
perché aveva davvero bisogno di scrollarsi di dosso
l’irritazione e gettarla
addosso a chi tentava di corteggiare non era, in nessun modo, una mossa
vincente.
Emil lo seguì di
buon grado
senza far domande o cercare di sondare il suo umore e questo gli
piacque; avere
amici impiccioni a volte gli faceva dimenticare che la gente poteva
anche
essere perspicace.
Quando fu tra il buon odore di legno e cuoio della stanza della musica
si
permise di allentare un po’ la presa, slacciandosi i bottoni
della giacca e
sedendosi sul divano. Emil lo imitò, appoggiandosi ad uno
dei braccioli e
studiandolo divertito.
Perlomeno
non cerca più di farmi saltare i nervi per puro
spirito di Bastian Contrario…
“Il cambiamento
che hai quando
entri qui dentro è pazzesco.” Gli fece notare
dando un sorso al drink. “Se ti
piace tanto l’arredamento, perché non
l’hai espanso al resto della casa?”
“Non è
l’arredamento.” Sospirò
chiudendo gli occhi e reclinando la testa sullo schienale imbottito.
“È
l’atmosfera.”
“Mh.” Fu
tutto quello che
disse prima di scivolare accanto a lui. Lo sentì posare il
bicchiere sul
tavolino del grammofono e poi percepì le dita arricciarsi
attorno al risvolto
della sua camicia e tirare. Docilmente si lasciò attrarre in
un bacio,
serrandogli una mano attorno alla spalla. Era solida, calda e chi aveva
pensato
che il contatto fisico fosse superfluo nella vita doveva avere dei
problemi
mentali.
Emil lo lasciò
andare, non prima
di avergli mordicchiato un labbro ed avergli spedito un fiotto di
eccitazione
direttamente al cervello. “La musica te lo fa
drizzare?” Domandò ghignante.
Gli tirò una
spinta, perché
era eccitante quant’era idiota. “Non ridurre tutto
ad una scopata.”
“Tutto si riduce ad una scopata, Michel.” Rise
l’altro cadendo trai cuscini.
“Dall’alba dei tempi, o io e te non saremo
qui.”
Non che avesse tutti i
torti.
“Interessante … Dietro le tue sparate sembra che
si nasconda una persona profonda.”
“Scopri
l’acqua calda,
maghetto!” Si tirò su per poi reclinarglisi
addosso. Per quanto l’avesse preso
in giro era eccitato quanto lui. “Vuoi sapere
cos’altro ho di profondo?”
Lo stoppò
mettendogli una mano
sul petto, divertendosi all’espressione da bambino
imbronciato che gli vide
balenare nello sguardo.
Io
non sarò abituato a sentirmi dir no … ma neppure
tu
scherzi.
“Non sei venuto
qui per
suonare?” Chiese fingendo perplessità.
“Credevo fossi pazzo della mia
collezione di archi.”
Emil lo guardò
confuso ed era delizioso
quando abbandonava quell’aria da delinquente di strada. Gli
ricordava
terribilmente il ragazzino compito che aveva visto esibirsi in Francia.
Anche
se è passata acqua sotto i ponti, è ancora
lì.
Era quello ad averlo
convinto
a rendere le armi in prima istanza. Non era però sicuro
fosse più soltanto quello.
Non gli diede tempo di
replicare comunque; lo tirò giù per un bacio,
facendogli capire coi fatti, se
non a parole, che sì, gli archi potevano aspettare.
“Rachmaninoff,
opera 42,
variazione del Tema di Corelli.”
“Un minuto intero per capirlo, maghetto. Troppo!”
“Essando un pezzo pensato per il piano, non credo
proprio.”
Michel sapeva il fatto suo,
doveva ammetterlo. Non sapeva bene come fossero finiti a giocare a
‘indovina il
pezzo’, ma dopo un sontuoso uno-contro-uno sul divano gli era
sembrato doveroso
usare il resto del tempo per suonare.
E
infatti.
Michel, che pareva trovarsi
perfettamente a suo agio con assolutamente niente addosso se non un
sorriso
irritante, scrollò le spalle. “Ho vinto.”
“Che problema hai con la competizione?”
“Nessuno.”
Prese una sigaretta
dal suo pacchetto, pegno della
gara e la accese con un guizzo della bacchetta. “Mi piace
vincere.”
Milo sbuffò, riponendo il violino e poi buttandoglisi
accanto. “Ancora non
riesco a capacitarmi di come tu possa avere una collezione simile
…” Disse per
cambiare discorso. Lui aveva
problemi
con la competizione. Detestava perdere. “Pensavo che la
Guallazzi fosse finita
nelle mani di qualche ricco ciccione russo a prender polvere.”
“Prima che arrivassi tu faceva proprio questo, riccone russo
a parte.” Gli fece
un sorrisetto e Milo si trovò nella scomoda posizione di
guardare verso le
vetrinette con improvviso interesse.
Non
casco come un coglione alle prime armi, bello.
“Tua nonna
l’ha avuta sposandosi
con uno della famiglia?”
Dirlo e sentirlo tendersi
accanto a lui fu tutt’uno.
“Sì.” Disse dopo aver preso un tiro
dalla sigaretta.
“Fu uno dei regali di nozze.”
Milo aveva imparato a leggere le intenzioni dietro la
fisicità di una persona;
era utile, data la vita che aveva vissuto prima di imbattersi nel
principino.
Michel era chiuso dove prima era aperto e rilassato, semplice da
percepire.
E
il motivo è sua nonna. Amara Zabini.
“Qual è
la storia?” Era
curioso: dietro l’essere un gigantesco stronzo snob, Michel
nascondeva molto e
non solo una stanza piena di strumenti prodigiosi.
Tutti
i Purosangue hanno scheletri nell’armadio delle
scope … Pare però che lui ne abbia una soffitta.
L’altro scosse la
testa,
spegnendo la sigaretta con un movimento brusco. “Non
c’è nessuna storia. Da
bambino spesso mio padre mi lasciava a lei. Quando sono cresciuto
abbastanza
per non poter più essere un peso nei salotti e alle riunioni
di amici mi ha
ripreso con sé.”
Alla
faccia del nessuna storia.
Non lo disse
però, perché era
una ferita che doveva ancora bruciare. Di quel genere di piaghe era
praticamente un esperto. “Io parlavo della
collezione.” Indicò con un cenno
delle dita l’intero ambiente. “Regalo di nozze
anche per te?”
Michel riuscì a fargli un mezzo sorriso. Si
rifiutò di esserne orgoglioso. “Mia
nonna viaggia molto. Voleva che la collezione restasse in un luogo
fisso e ben
protetto.” Fece spallucce. “O almeno penso sia
questo il motivo principale per
cui me l’ha affidata.”
“Una fortuna che
io ti abbia
rimorchiato allora. Serendipità¹!”
“Cosa?”
“Mai visto il
film?”
Michel gli scoccò
un’occhiata
confusa quanto divertita. “No, ma sembra tanto una cosa da
commedia romantica
da quattro soldi.”
“Esatto. Le mie preferite.”
L’occhiata obliqua
che gli
venne lanciata era il preludio di una serie di domande che non
tardò ad
arrivare. “E invece tu? La tua storia?”
“Io non ho una
collezione,
maghetto. A malapena posso permettermi un violino che suoni come dico
io.”
“Parlavo proprio di questo.” Occhio per occhio,
pensò Milo meno in allarme di
quanto avrebbe pensato. “Milo.”
Usare il suo nome era chiedere del suo passato senza dirlo ad alta
voce. Doveva
perlomeno plaudire alla finezza. “Nessuna storia.”
Lo imitò. “Solo una
considerazione… Un Magonò non riempie i teatri
per farsi ascoltare.”
Sperò di aver
usato la giusta
dose di sarcasmo, ma non dovette venirgli tanto bene perché
Michel non disse
nulla, limitandosi a guardarlo. Era pronto a tirargli un pugno alla
prima
parola di conforto, quando realizzò che non lo stava
fissando con la carità
pelosa di cui spesso era stato omaggiato nei primi tempi della sua
investitura da
senza-bacchetta. Lo stava guardando e
basta.
Era straniante.
“Ero molto legato a mia nonna.” Disse qualche
momento di silenzio, cominciando
a separare le frange di un cuscino con estrema precisione.
“La adoravo. Mi sono
avvicinato alla musica per condividerla con lei, che la amava tanto
… Ma ero un
bambino, e andare ai concerti a dirla tutta era piuttosto noioso, non
fosse per
la fauna che li frequentava.”
Milo ridacchiò, ricordando come aveva passato la sua
infanzia a sgattaiolare
via dalla buca dell’orchestra per scansare ammiratori
impettiti e
insopportabili cicisbei. Con i fratelli si era divertito molto a
prendere in
giro quella nobiltà che poco ascoltava e molto sfoggiava.
“È
stato quando ti ho
ascoltato che ho realizzato che non mi importava con chi la
condividevo. Per la
prima volta l’ho sentita mia. Penso sia stato il momento in
cui ho realizzato
che la musica mi piaceva al di là di mia nonna.”
Milo si riteneva il tipo
dalla
battuta più pronta che conoscesse, ma capitava a volte che
gli mancassero le
parole.
Tipo
stavolta, eh?
Forse aveva esagerato. A ben pensarci, aveva decisamente esagerato.
Michel si sentì
un autentico
idiota ad essersi scoperto così con un ragazzo che era
ancora guardingo nei
suoi confronti, almeno a livello emotivo. Non aveva idea del
perché avesse
detto quelle cose. Avrebbe potuto imputarle al luogo dove si trovava o
al fatto
che fosse in un piacevole torpore post-coitale, ma…
Ma
non è solo questo.
C’era una parte di
lui che voleva confidarsi con Emil.
Aveva
passato la sua intera vita ad erigere muri e far passare solo una
clientela
selezionatissima e solo fino ad un certo punto. Era stanco.
Ed Emil era lì:
misterioso, sfrontato,
stimolante e appassionato fino nelle fibre del suo essere a qualcosa, a
tal
punto da esserne trasfigurato. Una bella tentazione.
L’altro stava
continuando a
fissarlo in modo strano, come se dovesse decidere se alzarsi e levarsi
dai
piedi o rimanere lì. Poi eliminò distanza fisica
e lo baciò: fu così inaspettato
che Michel fu certo che gli uscì una risposta goffa.
Credo
di averlo morso.
“Ti nomino mio fan
numero
uno.” Gli mormorò sulle labbra. “Sei
anche l’unico attualmente, pensa che
fortuna.”
Sì, se posso tenerti tutto per me.
Questo però si
guardò bene dal
dirlo, preferendo passargli le dita trai capelli corti per approfondire
un
secondo bacio. Fu con le mani dell’altro addosso che
sentì squillare
violentemente un cellulare, da qualche parte.
Da come Emil si
staccò era
chiaro appartenesse a lui. “Suoneria da lavoro.”
Spiegò con un sorrisetto di
scuse alzandosi in piedi. “Il mio lavoro a volte fa
schifo.” Aggiunse,
strisciando il pollice sullo schermo per rispondere. Da come
aggrottò le
sopracciglia era chiaro l’identità
dell’interlocutore all’altro capo del filo
lo avesse sorpreso. “Ehi, Ama Gillespie! A cosa devo
l’onore?”
Gillespie … non è il
cognome del capo
della SAGITTA? Ama però non è il nome…
Non riusciva a mettere in
pausa quel lato del suo cervello, purtroppo. Albus aveva ragione a
dirgli che
era una malattia. Lo era di certo, dato che sentì la
realtà piompargli addosso
quando fu costretto, suo malgrado, a sentire la conversazione.
“Che vuol dire
che Prince è sparito?”
Sparito?
“Ve lo siete
perso? No, non so
se sta alla locanda, adesso sto fuori…” Emil, al
di là dei lazzi, doveva
prendere molto sul serio il suo compito da come stava raccogliendo in
fretta i
propri vestiti. “Non ho idea di dove sia! Che diavolo
è successo? No, carina.”
Se era una Gillespie, possibile
fosse parte dell’unità di Prince? Ed Emil le si
rivolgeva così?
Evidentemente…
“ … non
rifilarmi stronzate
come informazioni riservate e roba del genere, perché se
volete che vi dia una
mano allora ditemi che cavolo avete combinato.”
…
Ah. Certo. La faccenda del San Mungo. E della madre.
E della destituzione.
Come agente di riferimento
sapeva tutto. Aveva scritto, timbrato e approvato tutte le carte del
caso, e
avrebbe anche dovuto congedare ufficialmente Prince in capo alla
prossima
settimana – gli era arrivata una nota ministeriale appena
prima di staccare.
A
quanto pare Prince non ha reagito bene.
Così doveva
essere
dall’espressione che man mano si faceva strada sulla faccia
di Emil. Ascoltò
senza dire una parola la Gillespie, e poi dopo una pausa dovuta ad una
domanda
che riuscì a sentire – puoi
aiutarci?
– fece il sorrisetto che aveva imparato a riconoscere come stronzo.
“No, e andatevene
a fare in
culo.” E riattaccò.
Michel, che non si riteneva
una persona stupida, intuì immediatamente da che parte della
faccenda pendeva l’altro
e si guardò bene dal fare domande. Non servì,
dall’occhiata che gli venne
lanciata. “Tu sei il suo agente di controllo. Sapevi di
questa inculata a
secco?”
Sì,
e vorrei anche tirarmene fuori.
Non poteva mentire
però. “Sì,
ma non ero presente quando gliel’hanno detto.
Cos’è successo?”
L’altro non
rispose,
infilandosi la maglietta e le scarpe al tempo stesso, con una certa
abilità
dovette ammettere.
“Prince deve
sempre segnalare
nel caso si allontani dalle zone geografiche concordate con il nostro e il suo
Ministero. Se
sai dove si trova credo che dovresti dirglielo.”
Tentò.
“Per farglielo ritrovare come un animaletto smarrito?”
Michel non aveva idea di
che rapporto intercorresse tra Prince e Emil, ma di certo non era solo
professionale. La rabbia che vedeva nell’altro era genuina, e
preoccupata.
C’è
qualcosa tra loro?
Non era il momento giusto
per
chiederglielo per quanto fosse qualcosa che voleva
chiarire. “È per il suo bene.” Gli fece
notare pacato. “Se dovessero arrivare
ad usare la Traccia per trovarlo scatterebbe il provvedimento
disciplinare.”
L’altro si morse
un labbro e
dovette capire la portata dell’informazione da come fece una
smorfia. “Non ho la
minima idea di dove possa essere andato. Conosce Londra poco e niente,
può
anche essersi perso in mezzo ai Babbani per quanto ne so.”
Michel prese a rivestirsi,
dato che a quel punto la festa era finita e toccava anche a lui fare
qualche
chiamata Via Camino. “Non c’è nessuno da
cui possa essere andato?”
Un Lumos
dovette accendersi in testa all’altro, perché si
bloccò con
la mano sul pomello della porta. Mormorò
un’imprecazione a mezza bocca e poi
uscì.
Michel, rimasto solo, sospirò. Poteva avere una stanza tutta
per sé, ma il
mondo fuori non ci metteva mai molto per aprirne la porta e farsi
spazio.
****
Inghilterra. Da
qualche
parte nel Lancashire.
Johannes la trovò
esattamente
dove pensava fosse: sotto l’ombra di un albero, seduta su una
panchina ad
osservare distratta il panorama attorno a sé. lesse la
costola del libro che
teneva in grembo e scartò il titolo, non conoscendolo.
Mitologia.
Fiabe per ragazzini…
“Mia
Regina.” La salutò
chinando la testa e prendendo la mano che gli venne porta.
“Una giornata ideale
per star fuori.” Commentò. “Il giardino
sta di nuovo prendendo vita sotto le
vostre direzioni.”
“Sei in ritardo, avevamo un appuntamento.”
Osservò con una lieve smorfia ad
incresparle le labbra rosse. Johannes si era sempre chiesto se fosse
solo la
tinta per labbra a renderle simili ad un frutto maturo.
“Spero tu abbia un buon
motivo.”
“Affari mi hanno tenuto impegnato a Londra. Porto notizie
però.” La blandì e si
sedette quando la strega gli fece cenno di farlo; una Von Hohenheim non
avrebbe
mai chiesto, ma solo preteso.
Era parte
dell’irritante
fascino che aveva condiviso con il fratello.
“Sono certo che le
interesseranno…”
****
Note:
Il prossimo giuro che sarà fluff a manetta! Ma sul serio!
1. Serendipità: neologismo che indica la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un'altra. In realtà la parola pesca dalla lingua persiana, ma è cultura Babbana e ovviamente Michel non la conosce. C'è da chiedersi se non la conosca Milo. Qui per info
Qui
la canzone del capitolo. La trovo particolarmente adatta!
Questa
la canzone voluta da Al. Lo trovo molto un tipo da King of Convenience.
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Capitolo 28 *** Capitolo XXVII ***
And
when I’ve hit the ground, neither lost nor found,
If you believe in me I’ll still
believe.
(Holland
Road, Mumford&Sons)
Cornovaglia,
Newquay
Spiaggia di Fistral, Mattina.
“E quindi devo
salire su
questa tavola di legno, nuotare e poi tirarmi su e cavalcare
un’onda stando
in equilibrio?”
“Yup!”
“No, col cavolo.”
“Ehi, i Babbani hanno fatto di questo sport
un’arte, dagli credito!”
Scorpius fissò
scettico la
tavola da surf – questo era il nome - di fronte a lui,
dipinta di colori
sgargianti e per questo piuttosto rassicurante per il gusto cromatico
di un
mago. Si passò una mano trai capelli e lanciò
un’occhiata a Dominique,
inguainata nella stessa tuta di materiale tecnico e super-Babbano in
cui anche
lui aveva dovuto strizzarsi.
Tutta la faccenda era stata
un’idea dell’anglofrancese: non quella di passare
un finesettimana sulle
spiagge della Cornovaglia ovviamente. Quella era stata sua, per
staccare e
passare quarantotto ore di ottime mangiate di pesce e sesso a non
finire.
Il
surf, quello è stata un’idea sua.
…
forse ha ragione Violet. Domi non ha un cervello, ma
un calderone scoppiato.
“I Babbani sono
pazzi! Quale
persona sana di mente cavalcherebbe un’onda?”
Chiese occhieggiando le onde gonfiare la baia; da lontano, al sicuro,
vedeva
sia Rose che Violet leggere riviste e probabilmente sghignazzare. Ai
loro piedi
stava Donnola, tutto preso a masticare quella che sembrava una vecchia
camera d’aria
o le sue nuove scarpe da ginnastica.
Dominique si strinse le
spalle. “Ti ricordo che noi abbiamo il Quidditch. Figata
quanto ti pare, ma ci
spenzoliamo a decina di metri d’altezza su un bastone di
legno.”
“Ma noi abbiamo la
magia.”
Sottolineò lanciando un’occhiata struggente alla
sua fidanzata, che per tutta
risposta si aggiustò gli occhiali da sole e lo
salutò con la mano.
O
non sa che mi sta per accadere, o forse non le
importa di diventar vedova.
Saltellando per evitare che
le
onde gelate gli investissero i piedi tirò un lungo respiro.
“E tu dici che è
divertente.”
Non era una domanda, ma Dominique la prese come tale. “Sicuro
che lo è!” Gli
assicurò con un ghigno che faceva pensare un sacco di cose,
nessuna delle quali
faceva rima con ‘sanità mentale’.
“Coraggio RaggioDiSole, mi diventi un
cacasotto?”
“No,
più che altro tengo a
vedere l’alba di domani…”
“Scorpius
ti vogliono al telefono!”
Sposava Rose non solo perché era la donna che amava, ma
anche perché aveva il
meraviglioso dono di sapere quando salvargli le chiappe.
“Arrivo!”
Trillò baldanzoso
raggiungendo l’ombrellone. Si chinò
sull’asciugamano, dove Rose, sdraiata tra
un libro e una pila di carta alta due pollici stava tenendo il suo
cellulare
tra due dita.
“È
James. Davvero vuoi fare
surf?” Chiese inarcando un sopracciglio.
“Perché stai sudando freddo.”
“È la
tuta, soffoca le gemme
Malfoy.” Replicò, che comunque il suo orgoglio non
poteva esser scalfito da una
cosa triviale come il terrore di morire. Prese il telefono mentre
Violet alzava
gli occhi al cielo e lo fissava con l’aria di chi aveva
capito benissimo il suo
gioco.
“Malfuretto,
chiami i tuoi
testicoli gemme?” La voce
di James
aveva il tono incredulo di chi era incerto se scoppiare a ridere o
segnalarlo
al reparto Thickley.
“Sono di
inestimabile valore,
porteranno avanti la dinastia Malfoy.” Replicò con
sussiego mentre Rose
sillabava svogliata ‘Weasley’ e
‘Scordatelo’. “Che succede mio bel Potty,
senti
già la mia mancanza? Non preoccuparti, lunedì
potrai di nuovo stringermi tra le
tue braccia virili!”
“Come no
coglione.” Sbuffò e
dietro di lui sentiva il rumore di qualcosa di trascinato.
“Senti, ho ricevuto
ora un Gufo dal Ministero.”
“Non dirmi che
intendono riportare
il nostro povero sedere da funzionari fino a Londra per lavorare anche questo fine
settimana…” Gemette
buttandosi sulla sabbia con l’intenzione di scavare una buca
e seppellircisi.
Forse questo l’avrebbe salvato. “Ti prego.”
“Non io, bello, me ne vado in Italia a star dietro le
faccende di Teddy e Ben.”
Replicò e doveva essere un borsone quello che stava
trascinando allora. “Ho una
Passaporta Continentale per Roma tra dieci minuti.”
“Come sta la piccoletta?”
“Chiacchiera come
una radio
rotta.” Disse l’altro con un tono così
sollevato che Scorpius dovette
sorridere. Era questo che facevano gli amici. “Sta bene, per
fortuna. Andiamo a
Roma per cercare di sbrogliare la sua cacchio di situazione
familiare.”
“Sicuro che non
vuoi una mano?
Perché mio padre conosce un bel po’ di gente al
Ministero Italiano…”
Il grugnito imbizzarrito che
ne conseguì se lo sarebbe dovuto aspettare. “Non
mi servono gli agganci Malfoy
per dar battaglia a un po’ di burocrazia del
cazzo!”
“Non venire a piangere quando ne verrete fagocitati
però.” Replicò
abbracciandosi le ginocchia e scuotendo la testa quando Dominique gli
mimò di
chiudere la telefonata e raggiungerla: la sua scusa faceva schifo, ma
non vi
avrebbe comunque rinunciato. “Dai, tranquillo. Che devo fare
a Londra?”
“Si tratta del
Pipistrello. È
successo un casino e pare che gli abbiano tolto il caso.”
“Il nostro caso? Ma come
cavolo è
successo?”
“C’è
di mezzo la madre. Pare
che faccia comunella con John Doe e che sia viva e vegeta. Una bella
botta … va
da sé che gli hanno tolto il caso.” James
sospirò. “Secondo papà Prince
l’ha
presa parecchio male. Ha lasciato il Ministero stamattina e da allora
nessuno
ha avuto più sue notizie. Hanno provato a contattarlo, ma
zero, non risponde
manco al cellulare.”
“Lo Specchio?”
“Non ha uno
Specchio, è uno
yankee.” Ironizzò ma essendo il libro aperto che
era si capiva lontano due
miglia che era preoccupato. Scorpius ricordò la
conversazione avuta con Sören a
Dublino; quello che avevano visto nella camera blindata lo aveva
turbato.
E
adesso questo. Che cazzo.
“Hanno provato a
chiedere a
Milo? Sono come veste e sottana quei due.”
“Prima cosa che è stata fatta … manco
il Magonò sa dov’è.”
Scorpius si morse le labbra.
“Okay, mi coordino con Bobby e poi ti faccio
sapere.”
James fece un suono a
metà tra
un verso esasperato e un ennesimo sospiro. “Bobby
m’ha detto di dirti che puoi
goderti il fine settimana. Basta uno di voi due, prima o poi
salterà fuori.”
“Siamo suoi amici,
Potty, non
è questo il punto e lo sai benissimo.”
Replicò alzandosi in piedi e
spazzolandosi via la sabbia. “Dobbiamo trovarlo.”
James fece di nuovo quel
suono
curioso e poté immaginarselo a passarsi una mano trai
capelli. “Fa’ come ti
pare, io te l’ho detto.” Borbottò. Fece
una pausa poi sputò fuori. “Fammi
sapere se scoprite dove cazzo è finito.” E
riattaccò.
Oh,
mio Potty … che coglione adorabile che sei.
Sghignazzò e poi
marciò di
nuovo verso le tre ragazze, ora che Dominique si era aggiunta dopo un
tuffo che
l’aveva lasciata bagnata come un salmone, con gran scorno di
Violet che tentava
di allontanarla.
“Sei piena di
sabbia,
sparisci!” Le gridò brandendo uno degli zoccoli di
legno di Rose.
“Devi andare,
vero?” Chiese quest’ultima
ed era incantevole quando tentava di mettere su un’aria
comprensiva per
nascondere un broncio da bambina. Si accovacciò alla sua
altezza per scoccarle
un bacio. Nel mentre sentì il rumore del legno che colpiva
qualcosa di solido,
un urletto e una serie di insulti.
“Lasciami
troglodita!”
Sghignazzò quando vide che Violet era stata presa senza
troppe cerimonie di
peso e trascinata via. “Ci vediamo quando torni
RaggioDiSole!” Gridò Dominique scansando
i calci della propria ragazza. “Mi devi cinque
onde!”
Rose guardò con pigro interesse Violet essere buttata in
acqua, poi si voltò
verso di lui. “È per il caso?”
“Per
Sören, glielo hanno tolto.
Devo andare a controllare come sta, è della
squadra.” Non si sbilanciò, perché
l’argomento ‘genitori bastardi’ era
sempre piuttosto delicato e poco
comprensibile.
Specie
per chi ha una famiglia funzionale come noi.
Rose infatti non
commentò,
limitandosi a togliergli con un colpetto delle dita un po’ di
sabbia rimasta
sulla spalla. “Va’.” Disse semplicemente.
“Non sei
arrabbiata?”
L’altra scosse la
testa, dandogli
un colpetto sulla fronte come se fosse un cane poco sveglio.
“Perché sei un
buon amico? Malfoy, non sposi un’isterica.”
Inarcò un sopracciglio. “Sacro
vincolo Potter-Weasley ti dice qualcosa?”
Ridacchiò,
dandole un secondo
bacio. Rose lo trattenne appena di più accarezzandogli piano
la nuca in quel
modo particolare che lo faceva impazzire, e poi gli sorrise con il mare
e il
cielo che le coloravano gli occhi di pagliuzze dorate. Non gli era mai
sembrata
così sposabile.
“Sei molto
sposabile.” Le comunicò, perché
bisognava, per esperienza, era meglio esprimere
che star zitti.
“Lo
spero.” Replicò divertita.
“Va’ a fare il segugio.”
Prima che se ne andasse,
libero dalla guaina infernale e di nuovo con i suoi vestiti –
aveva dovuto
lottare fieramente con Donnola per farsi ridare la scarpa destra -
l’altra lo
richiamò indietro. “Chiama Lily.” Disse
e alla sua espressione sorpresa fece
spallucce. “Se c’è qualcuno che
può trovarlo, quella è lei.”
“Ma è
in Scozia con Scott, no?”
“Ti ricordo che ha
attraversato un oceano nascosta nel vano bagagli di un treno per
assicurarsi
che stesse bene.” Assunse un’espressione
rassegnata. “E da quel che ho visto le
cose non sono cambiate.”
A questo proprio non poteva
ribattere e una piccola parte di sé – che sarebbe
sicuramente stata presa a
zoccolate se Rose l’avesse saputo – ne era proprio
contenta.
****
Scozia,
Glasgow.
Ashton Lane, Ora di Pranzo.
A Lily Glasgow piaceva.
No, sul serio.
Non c’era niente
di quella
città che non apprezzasse: era ospitale e
l’accento della sua gente la faceva
sentire sempre di buon’umore, ricordandole Hogsmeade e
Hogwarts. Le piaceva
perdersi per i vicoli o passare una serata ad una delle tante
rappresentazioni
teatrali come cenare in un pub ascoltando musica tradizionale. Era come
essere
a Londra, solo senza la congestione e la dinamicità continua
della capitale.
Il problema non era la
città;
non era neppure la compagnia di Scott, dato era il ragazzo
più delizioso del
mondo.
“Insomma, vecchio
mio, prima o
poi qua bisogna sistemarsi!”
Il problema erano gli amici di
Scott;
la coppia che li ospitava, Patrick e Rita, erano cresciuti assieme al
suo
ragazzo e avevano frequentato Hogwarts nello stesso periodo e nella
stessa
Casa.
Ed erano piacevoli come un
calcolo renale.
Scott si mosse accanto a
lei,
sul divanetto del pub nel centro di Ashton Lane a cui gli altri due li
avevano
invitati tenendoci ad offrirle un “vero pasto
scozzese” e poi sorrise
all’amico, come se non avesse appena fatto
un’allusione al matrimonio pesante
quanto un troll svenuto. Notando la sua faccia però fu lesto
a cambiar musica. “Ehi,
Pads, avevi promesso!”
“Era una battuta!” Si scusò
l’altro, ma spedì un’occhiata complice
alla moglie
che per tutta risposta la deflesse a lei.
“ È che
siete così carini
assieme!”
Argh.
Tuffandosi nelle
profondità della
sua birra, Lily pensò che avrebbe presto chiesto una pausa
gabinetto.
Un
vero peccato che ho smesso di fumare due anni fa.
Diamine.
Non che Patrick e Rita
fossero
cattive persone, tutt’altro. Erano la pubblicità
manifesto della loro ex-Casa:
sposati dopo un fidanzamento benedetto da chiunque, innamorati fedeli
l’uno
dell’altra, avevano una casa di proprietà nei
sobborghi e un bambino di due
anni di nome Scott di cui il suo ragazzo era il padrino.
Il tutto le faceva venir
voglia di sbattere la testa contro un muro.
“Beh, risultiamo
bene in foto
in effetti.” Scherzò. La prima volta che li aveva
presentati Scott era stato
così ansioso che andassero d’accordo che aveva
bruciato ogni sua possibilità di
critica.
Del
resto si sciroppa il mio serraglio, dove la persona
più normale quando si deve ubriacare indossa mutande
rosso-oro per poi
potersele mettere in testa.
Merlino
ti benedica, Scorpius.
“Qualcuno ha letto
un buon
libro di recente?” Se ne uscì, perché
il tono della conversazione doveva
cambiare prima che avesse un attacco di panico da
responsabilità emotive – lei
e Scotty stavano assieme da sei mesi,
che problema avevano quei due?
Quest’ultimo le
strinse la
mano sotto il tavolo intuendo il suo disagio. “Avete letto
l’ultimo di Ken
Follet? Cavolo se quel Babbano sa inventare!”
Si sentiva in colpa: il suo
ragazzone era sempre entusiasta e propositivo quando si trattava dei
suoi
amici, ma lei non riusciva a reciprocare.
Morgana,
sono una mocciosa viziata. E pretenziosa. Sono
brave persone!
E sono noiose come l’inferno …
Era il problema di vivere in
una famiglia come la sua, con degli amici come i suoi e dove ogni
cinque anni
‘qualcosa di orribile stava per accadere ai nostri
eroi’. Non era abituata a
sostenere conversazioni con maghi che vivevano una vita tranquilla e
fatta di argomenti
normali. Si sentiva tagliata fuori.
Scott
riesce ad adattarsi ai miei ritmi, perché io non
riesco ad adattarmi ai suoi?
Aveva chiesto
all’altro un
weekend di stacco totale, e ora che l’aveva non vedeva
l’ora di gettarsi di
nuovo nei casini.
Forse
sono io, quella con un problema…
“Lily, mi
accompagni a
fumare?” La voce di Rita la riscosse dai suoi pensieri.
“Vorrei fare quattro
passi prima che arrivino le ordinazioni e dato che gli uomini si sono
messi a
parlare di sport…” Aggiunse ammiccando in
direzione dei due ragazzi.
Non avendo un motivo per
rifiutare la seguì fuori, immergendosi nella strada di
casette basse e bianche,
e ascoltando le mezze conversazioni che le passavano accanto.
Uff!
Respiro.
Il sollievo fu
però di breve
durata. “Sai, a volte penso che mi piacerebbe trasferirmi a
Londra.” Iniziò Rita,
che pareva non riuscire a godersi un attimo di silenzio.
“Rispetto a Glasgow
sembra sempre così piena di vita … e anche il
quartiere magico dicono lo sia!
Il nostro invece è così sonnolento, sembra
qualcuno ci abbia gettato un Confundus
sopra!”
“Beh, Diagon Alley ha i suoi pregi, ma alla fine sono sempre
i soliti tre
locali. La vostra comunità è molto più
ampia. Avete un intero quartiere, noi solo
due strade che si incrociano, e una non è neppure questo
granché.”
È
la gente che fa la differenza.
“Vero, ma sai, il
fascino
della City… È
comprensibile che
Scotty ne sia rimasto folgorato, anche se è un peccato non
averlo qui.”
Soggiunse accendendosi la sigaretta. “Quando è
tornato da Sidney io e Paddy
abbiamo pensato che tornasse a casa, invece è voluto andare
a Londra. Che
sapesse cosa ci avrebbe trovato?” La stuzzicò.
“Dubito, visto che
ci siamo
conosciuti a casa di sua zia.” Replicò sperando di
risultare amichevole: capiva
le intenzioni dell’altra e avrebbe dovuto sentirsi lusingata
dall’esser
considerata materiale da voto nuziale.
Allora
perché ho solo voglia di scappare?
Sapeva che Scott rischiava
di
essere quello giusto; erano innamorati, si piacevano fisicamente e
avevano
gusti ed umorismo speculari. Forse era proprio quello il problema.
Se
è quello giusto quanto ci vorrà prima che tutti
comincino a comportarsi come questi due?
Io
non voglio sposarmi!
“Come hai saputo
che Pad era
quello giusto?” Tentò per stornare di nuovo
l’attenzione da sé.
“Non lo so, siamo
sempre stati
assime fin da bambini … un giorno l’ho guardato ed
ho capito che era lui.”
Si strinse le spalle, dando un
tiro di sigaretta. “Non era solo il ridere e scherzare,
quello l’ho sempre
fatto bene anche con Scotty, era … averlo accanto in
silenzio e pensare ‘questa persona
è fantastica, esiste e la
conosco ed è il mio migliore amico. Wow’.
Non ho mai avuto quel genere di
legame con nessun altro ragazzo con cui sono stata.” Le
sorrise. “Ma penso che
ogni ragazza prima o poi sappia che intendo.”
Lily deglutì,
sentendo come se
qualcosa le chiudesse la gola, partendo dal petto. Le parole di Rita
erano
sincere … e non le capiva. Non aveva provato niente del
genere per nessuno dei
suoi ragazzi.
Neppure
per Scott.
“Certo.”
Mormorò. “Sicuro.”
Guardò la sigaretta e ringraziò Numi sparsi che
fosse in dirittura di finire.
“Sto morendo di fame, pensi che i nostri piatti siano
già arrivati?”
Quando rientrarono
scivolò
accanto all’altro e non le importò dei sorrisetti
sornioni dei suoi amici: lo
coinvolse in un bacio più adatto ad una camera da letto che
ad un pub
affollato. Scott si staccò guardandola sorpreso ma
compiaciuto. “Ed ecco la mia rossa ragazza inglese!” Esclamò
facendoli ridere.
Solo
perché non provi quello che i colombelli scozzesi
provano l’un per l’altra non significa che non lo
ami. Ogni rapporto è
differente. Guarda Tom e Al. Si saltano alla gola ad ogni
piè sospinto e …
…
e sono migliori amici da quando hanno realizzato di
essere al mondo. Esempio sbagliato.
Dom
e Violet!
Rassicurata
dall’esempio
discordante riuscì a gustarsi il pranzo. Cercando poi lo
specchio per
controllare che la smodata quantità di prezzemolo che era
nelle patate non le
fosse finita tutta nei denti, trovò il cellulare e con
sorpresa lesse una
decina di chiamate: tre erano di Scorpius – Scorpius?
– ma le altre provenivano da un numero sconosciuto.
Non
è quello di Ren.
“Ragazzi, uno di
voi mi ha
chiamato prima, quando non riuscivamo a beccarci?” Chiese.
Quando ebbe ricevuto
rispose negative si preoccupò.
È
successo qualcosa a Londra.
Si scusò ed
uscì fuori,
sorridendo rassicurante all’espressione preoccupata di Scott.
Richiamò il
numero e prima che potesse chiedere chi c’era
all’altro capo del filo,
l’interlocutore si presentò. “Zenzero,
sono Milo.”
Milo?
Cos’è successo a Sören?
“Ehi!”
Non doveva pensare
subito al peggio, magari …
Magari
un corno.
“È
tutto il giorno che provo a
chiamarti!” E Lily ricordò di colpo di aver
lasciato che Scott le silenziasse
la suoneria.
“Scusami, non ho
sentito, ero
… lascia perdere.” Tagliò corto.
“Sören sta bene?”
“Sveglia ma
sbadata.” Ironizzò
l’altro. “Ti pare che se stesse bene ti disturberei
durante la tua piccola fuga
d’amore?”
Qualcosa nel tono del
ragazzo
le fece capire che ce l’aveva con lei, anche se non ne capiva
il motivo. “Devo
tirare ad indovinare? Perché potrebbe durare molto, al
telefono non sono la
persona più perspicace del pianeta. Niente poteri LeNa da
qua.” Ritorse
perché ora era seriamente nel panico.
“Sören
è scappato.”
“Di che diavolo
stai parlando?
Scappato da cosa?”
Ci fu un breve silenzio, poi Milo sospirò. “La
buona notizia è che non sei oca
come molti pensano.” Non le diede il tempo di ribattere o
offendersi che
continuò. “Spero solo che l’opinione che
Sören ha di te non sia offuscata dai
suoi pantaloni.”
Oh,
dannazione.
Decise
di prendere in mano la
situazione, perché un ragazzo incavolato per motivi che non
conosceva si stava
mettendo in mezzo tra lei e il suo migliore amico e non era una cosa tollerabile.
Spiacente
cocco, ma neppure un mare, una scuola lugubre
e un mago pazzoide mi hanno fatto desistere.
Figurati
tu.
“La fai troppo
lunga.” Sbottò.
“O mi dici cos’ha Ren e come posso aiutarlo o giuro
che la prossima volta che
ti siederai sarà con il mio nome inciso su quelle tue
chiappette d’oro.”
Ci fu una pausa, poi
l’altro
ridacchiò; in quel momento realizzò che la
telefonata era stata pilotata fin
dal principio. Milo aveva puntato a
farle avere quella reazione da Mamma Orsa.
Oh,
al diavolo!
“Hai
finito?” Sbottò
sentendosi le guance scottare.
“Zenzero, lascia
fare, non ho
neanche cominciato.” Le rispose prima di schiarirsi la voce.
“Senti, a parte le
stronzate…” Continuò tornando serio
perchè era chiaro che l’argomento fosse
grave. “Mi serve davvero una mano qui. Il cretino
è scappato e due Ministeri lo
cercano per tutta Londra. Se la cosa va avanti e diventa ufficiale non
serve
dirti quanto sarebbe nella merda,
no?”
Sören
è scappato …
No,
è assurdo. Sören è un guerriero, non
scappa. Mai.
Sospirò,
perché non era il
momento di fare quel genere di considerazioni sterili. C’era
un dato di fatto e
una sola domanda da fare.
“Perché
è scappato?”
****
Italia,
Roma.
Pomeriggio.
L’Italia era
esattamente
l’incubo burocratico che Flynn Lin gli aveva prospettato.
Forse pure peggio.
Ted accomodò il
peso
sull’ennesima scomodissima sedia dell’ennesimo
scomodissimo ufficio del
Ministero Italiano, situato a Roma e con più precisione
sotto le Terme di
Caracalla, niente meno che un imponente ex-bagno pubblico
dell’epoca romana.
Proprio
come il Ministero inglese. Stessa cosa…
La struttura da fuori era
antica e monumentale; era infatti un museo archeologico a cielo aperto
e mentre
i Babbani usufruivano della parte esterna ed immediatamente interna per
visite
e concerti, i maghi italiani utilizzavano invece una buona porzione dei
sotterranei
come centro nevralgico del proprio potere.
Ted lesse per
l’ennesima volta
la brochure che recitava quella serie di informazioni mentre James, al
suo
fianco, aveva trasformato la sua in una palla informe che si divertiva
a
lanciare e riprendere.
“Se ci rimpallano
in un altro
ufficio pidocchioso urlo.” Borbottò dopo averla
cestinata con una precisione da
ex-Cacciatore. “È tutta la mattina che siamo qui e
chissà dov’è la mensa!”
Comprendeva lo stato d’animo del compagno; appena arrivati al
Centro
Smistamento Passaporte – che si trovava vicino al
Campidoglio, qualsiasi cosa
fosse un Campidoglio – si erano diretti al Ministero, sezione
Ufficio Relazioni
con i Mannari. Flynn Lin aveva detto loro che lì avrebbero
trovato il fascicolo
di Lunastorta, il visto turistico per arrivare in Toscana e le
informazioni
necessarie a trovare la famiglia della bambina.
Certo,
beh, pensare di andare sul posto e chiedere è
stata un po’ un ingenuità da parte mia.
A
che titolo avrei potuto richiedere informazioni su
Lunastorta e sua moglie? Non ho neanche un documento di
identità Babbano con
cui farmi riconoscere.
Ad ogni buon conto, arrivati
avevano avuto la brutta sorpresa di non trovare nessuna di quelle cose,
bensì
uno svogliato funzionario che aveva loro comunicato che per ottenerle
sarebbero
dovuti andare all’Ufficio Relazioni con i Babbani.
Venti svolte di corridoio
dopo
– e la visione di qualche fantasma che parlava solo latino e
che per questo non
era di alcuna utilità – si erano sentiti
rispondere che il fascicolo non era
lì, ma piuttosto a Cooperazione Internazionale, ovviamente, dato che si trattava di un
documento che doveva esser
rilasciato a due maghi stranieri.
Ma
non è finita qui…
Dopo essersi arrampicati per
un numero infinito di scale a chiocciola erano di nuovo stati
rimpallati e
nientemeno che ad una sottosezione; James, che aveva cominciato a dar
segni di
irrequietezza al primo rimando, per poco non aveva Schiantato il
funzionario
occhialuto che aveva dato loro la ferale notizia.
“Italiani
… m’avevano detto che
erano disorganizzati, ma così!”
Brontolò
quest’ultimo a denti stretti e per fortuna in inglese.
“Vogliono farci crepare
di vecchiaia?”
“Te
l’avevo detto che ci
sarebbe stato da aspettare.” Ribatté reclinando la
testa sull’imbottitura
durissima della sedia. “Purtroppo qui siamo dei perfetti
sconosciuti con una
richiesta poco urgente … Potrebbe volerci l’intera
giornata. Se ci va bene.”
James fece una smorfia insofferente anche se cercò, suo
malgrado, di
nasconderla con uno sbadiglio: conoscendolo stava facendo i salti
mortali per
non dare in escandescenze.
“Jamie
… perché non vai a fare
quattro passi e prenderti qualcosa da mangiare?”
“No, non ti mollo qui da solo.”
Ted gli accarezzò la gamba che si muoveva convulsa da
un’ora. “Non credo di
correre rischi, se non quello di addormentarmi sulla sedia meno
ergonomica del
pianeta. Esci fuori e prendi qualcosa anche per me, dai.”
James fu lesto ad alzarsi in
piedi e stiracchiandosi con un gemito soddisfatto.
“Pizza?”
“Pizza
sia.” Gli sorrise.
Almeno
mi fossi portato un libro … O il piano studi da
compilare per quelli del Settimo.
James si voltò,
già pronto a
sparire, quando quasi si scontrò con una donna appena uscita
dalla porta
dell’ufficio a cui stavano facendo la posta da
un’ora: gli arrivava a malapena
al petto e James fece un passo indietro forse preoccupato di
travolgerla.
“Signor
Lupin?” Chiese in
perfetto guardando dall’uno all’altro; possedeva la
stessa cadenza annoiata di
tutti gli altri funzionari, ma il fatto che si fosse alzata per
chiamarli era
incoraggiante.
“Sono
io.”
“Mi segua
allora.” Disse
spiccia sparendo dietro la porta da cui era uscita. Furono
così fatti entrare
dentro un ufficio spoglio, funzionale e distintamente umido –
come lo era del
resto tutto il Ministero. La strega, che esibiva dei notevoli capelli
corti e
color platino, si mise a sedere dietro la propria scrivania e Ted vi
lesse il
nome ‘Carlotta Tenace’.
“Si
accomodi.” Lo invitò, per
poi scoccare un’occhiata a James subito dietro. “Un
altro parente?”
“Il mio compagno,
James
Potter.” Chiarì e vide un lampo di comprensione
affacciarsi negli occhi della
donna: forse aveva riconosciuto il cognome – anche nel
Continente il nome di
Harry era materiale da libro di storia, anche se in misura minore che
nei paesi
anglofoni.
“È qui
per avere informazioni
su una piccola Licantropa attualmente domiciliata in
Inghilterra?” Andò subito
dritta al punto. A giudicare dal pranzo lasciato a metà
accanto alla scrivania
pareva essersi interrotta per loro.
Chissà
cos’è successo … So che per gli
italiani la
pausa pranzo è sacra.
“Sì.”
Confermò. “Sono lo zio.
Vi saranno arrivati i documenti dal San Mungo che
attestano…”
“Ci sono arrivati.” Confermò.
“Firmi qui per il rilascio dei documenti
richiesti che, le ricordo, sono…” E li
snocciolò mentre gli porgeva un plico di
fogli dalla ragguardevole altezza di almeno mezzo pollice.
Sentì James imprecare
piano alle sue spalle.
Per fortuna sono abituato a firmare centinaia
e centinaia di pergamene l’anno… I vantaggi di
essere un professore.
“Ha con
sé un documento di
riconoscimento?”
Ted assentì
tirando fuori la
copia del suo certificato di nascita, l’unico documento
rilasciato dal
Ministero Inglese a ciascun mago.
Ho
dovuto passare un intero pomeriggio in soffitta con
nonna per trovarlo. E chi lo usa mai?
La strega lo prese e
inforcando gli occhiali cominciò a copiare diligentemente i
dati su un grosso registro
di fianco a lei. Poi rilesse. “Edward John Lupin, nato a
Londra il 4 aprile
1998, attualmente residente in Scozia, Hogsmeade…”
James lo
occhieggiò e fece un
sogghignetto. “Eeedward.”
Sillabò
divertito.
Sì,
grazie tante.
Scoprire alla veneranda
età di
diciassette anni, anno del rilascio del documento, che era stato
registrato
all’anagrafe sotto altro nome era stato uno degli shock
più forti della sua
vita; a quanto sembrava i suoi genitori non avevano calcolato che
chiamandolo
sempre e solo Ted avrebbero finito
per far credere a tutti che quello fosse il suo vero nome. Lui compreso.
James conosceva i suoi
pensieri in merito e il ghigno che gli rivolse gli fece quasi venir
voglia di
tirargli un calcio in un tardivo eccesso adolescenziale.
“Sì,
è tutto corretto.”
Borbottò. “Ha bisogno d’altro
o…”
“Che firmi.” Rispose la donna spingendo nella sua
direzione penna e calamaio.
Diede un’occhiata all’orologio a pendolo dietro di
lei per stimare l’ora e fece
un sorriso un po’ troppo largo e compiaciuto –
doveva essere la punizione per
averle interrotto il pranzo. “Penso dovrebbe accettare il
consiglio del suo
amico e farsi prendere qualcosa da mangiare. Ci metterà un
po’.”
****
Londra,
Ministero della Magia.
La prima cosa che Lily
notò
quando atterrò nel Centro Smistamento Passaporte di Londra
fu che la persona
che la aspettava indossava la maglietta al contrario.
Bizzarro.
Lo era perché
Milo sembrava il
genere di persona che sapeva sempre cosa indossava e come gli stava.
La
situazione è davvero grave allora.
Districandosi dalla
tonnellata
di cuscini che avevano reso più agevole il suo atterraggio
si diresse verso il
ragazzo. “Ehi.” La salutò dandole una
mano a salire sulla piattaforma d’attesa.
“Com’è andato il viaggio?”
“Schifoso come
sempre.”
Scrollò le spalle. “Solo perché
è veloce non significa che debba essere anche
piacevole. Anzi, credo che il contrario sia una condizione sine qua non.”
L’altro fece un cenno distratto con la testa, dando segno di
non averla
ascoltata. “Andiamo?”
Sembrava ansioso di mettersi
in moto, quindi lo seguì senza troppe storie.
Ren,
accidenti a te …
Era preoccupata a morte
perché
si rendeva conto che, dal punto di vista dell’amico, la
notizia che aveva
ricevuto doveva esser stata simile ad uno Schiantesimo lanciato su un
costone
di roccia. Soggetto a frane.
Gli
hanno tolto il caso e risolvere casi è la sua
terapia.
Gli hanno tolto il caso per colpa di sua madre, della sua famiglia, il
nucleo
duro di ogni suo problema.
Doveva essere devastato e
lei
non sapeva chi prendere a calci per questo.
“Hai avuto
problemi a venir
via?” La riscosse la voce di Milo. Lily scosse la testa.
Quando aveva spiegato
la situazione a Scott aveva avuto ovviamente il nulla osta; un amico in
difficoltà era una maledetta buona ragione per piantare
baracca e burattini e
tornare a Londra. C’era solo una frase che l’aveva
messa in difficoltà anche se
era stata detta con le migliori intenzioni.
“E
se non vuole essere trovato?”
Scott era la voce della razionalità ed era una cosa che
aveva sempre apprezzato
in lui, essendo lei una specie di Bolide traboccante
impulsività e colpi di
testa.
In
quel momento avrebbe voluto scrollarlo forte.
“Scott,
il punto non è cosa vuole lui … È
chiaro che in
questo momento non sa neanche cosa sta facendo!”
L’altro
si era passato una mano trai capelli ed era
sembrato di colpo piuttosto stanco stagliato contro la vetrina colorata
del
pub. “Sì, hai ragione.” Le aveva
sorriso. “Spero che tu riesca a trovarlo …
anche se conoscendoti non ho grossi dubbi.”
Si erano baciati e si erano salutati per il giorno dopo. Scott non
aveva
gradito l’esser stato messo di nuovo da parte, ma non poteva
farci niente.
Certo,
altra gente può cercarlo al posto mio … e
può
pure trovarlo. Ma è Ren. È uno dei miei
più cari amici ed ha bisogno di me.
Quando Scott aveva deciso di
stare con lei aveva preso tutto il pacchetto ergo
doveva accettare che famiglia e amici, in certe contingenze,
avevano la precedenza su qualsiasi altra cosa.
“L’ho
cercato nei posti che mi
ricordavo conoscesse.” Disse Milo infilandosi
nell’ascensore che li avrebbe
portati all’Atrio del Ministero e quindi alle uscite.
“La locanda, un paio di
posti in cui abbiamo bevuto o mangiato un boccone …
L’ho cercato anche per
quella vostra Hyde Park, perché mi ha detto che gli era
piaciuta. Tra
parentesi, è enorme, porco cazzo, i vostri parchi sono
riserve naturali!”
Milo era stanco, sudato e
con
i vestiti indossati di fretta; Lily pensò che se
c’era una rappresentazione di
amico vero, era quella. “Non manderà a puttane
niente. Ha noi.” Gli ricordò
stringendo la presa sul braccio con gentilezza. “Hai la
maglietta a rovescio.” Aggiunse
per distrarlo. “L’etichetta è
fuori.”
L’altro
abbassò lo sguardo e
soffocò un’imprecazione prima di togliersela e
mettersela per il verso giusto.
Ah,
addominali…
“Voi tedeschi
siete tutti così
prestanti o tu e Sören avete un abbonamento comune in
palestra?”
“Io vado in palestra, il
cretino ha
quel suo regime folle di allenamenti … Credi che altrimenti
avrebbe quel
fisico?” Sbuffò riuscendo persino a sogghignare.
“Non so se te lo ricordi, ma cinque
anni fa era una specie di ranocchia emofiliaca.”
Lily trattenne una risatina.
“Non
saprei, non l’ho mai visto senza vestiti.”
Milo le scoccò
un’occhiata
maliziosa. “Ah no? Avrei scommesso di
sì.”
Lily capì il
sottointeso e
mentre usciva dall’ascensore si sentì un
po’ a disagio. Un po’ tanto, anche se
era una conversazione che si era aspettata di dover affrontare prima o
poi.
“Tra me e
Sören non c’è mai
stato niente in quel senso.” Chiarì.
“Cioè, ho avuto una cotta mostruosa per
lui, ma lo scemo era preso dal suo ruolo di anti-eroe tragico,
perciò…”
Milo si bloccò in mezzo all’Atrio. “Avevi
una cotta per lui?”
Lily si sentì
scottare le
guance: essere guardata come un unicorno che ballava la quadriglia era
un po’
disagiante. “Uh, sì … una ragazza di
quindici anni non fa le cose che ho fatto
io se non è mossa da quel genere di pensieri …
Certo, a parte il fatto che ho
la tendenza a fare cretinate da sempre, quindi forse sono un caso a
parte ma… ”
Si accorse di star blaterando e ci diede un taglio. “Comunque
non mi sembra
questo il momento per parlarne.”
“E lui lo
sapeva?” La ignorò.
“Beh,
l’ho baciato alla festa
di Natale, all’epoca fui abbastanza chiara.” Era
davvero necessario tirare
fuori quei ricordi?
Non
è che abbiano smesso di essere umilianti.
“Per
Faust …” La guardò incredulo e
fece una mezza risata. “Dass ruck!”
Aggiunse
in tedesco rendendosi così incomprensibile. “E
adesso?” Le chiese di nuovo in
inglese.
“Adesso
cosa?” Faceva caldo
all’interno del Ministero e non vedeva l’ora di
prendere uno dei Camini ed
esser risputata fuori – anche se da un gabinetto, il che non
era fatto
piacevole.
“Adesso cosa provi
per lui?”
“Tengo molto a
lui.” Le venne
fuori con una naturalezza. Era facile come recitare una filastrocca.
“Ma non ho
più quindici anni.” Aggiunse. Non voleva fare un
discorso simile in dirittura
di essere risputata da un gabinetto, ma Milo pareva non possedere il
senso
dell’opportunità. Sospirò.
“Sono successe cose ed è passato del tempo
… Ora
sono innamorata di una persona meravigliosa e Ren è un buon
amico.”
Milo la guardò in un silenzio piuttosto scomodo prima di
scrollare le spalle.
“Okay.” Guardò verso i camini.
“Dobbiamo prendere quei cosi? Perché so che
spuntano in un cesso. Io ho preso una di quelle vostre belle cabine
telefoniche
l’altra volta, non possiamo fare il bis?”
Lily ridacchiò. “Mi dispiace, ma è il
mezzo più veloce … Vista l’ora alla
cabine dei visitatori ci
sarà di sicuro
una fila pazzesca e visto che sono la figlia di Harry Potter, beh, pare
brutto
non approfittare del canale ministeriale. Dovrai stringerti a me,
okay?”
Fece appena in tempo a
mettersi in fila di fronte ad un camino che in quello accanto
individuò una
familiare testa bionda. “Sy!” Questo si
voltò sorpreso e Lily vide che era in
compagnia di Bobby e di una ragazza che non conosceva ma indossava la
stessa
uniforme di Sören.
“Lils!”
Il ragazzo ruppe la
fila per andarle incontro. “Ho provato a chiamarti tutta la
mattina!”
“Lo so, ed io ho provato a richiamarti, ma avevi il cellulare
spento… ”
“Quando si entra qui non prende. Hai saputo?”
Allora è per Ren che ha provato a
chiamarmi.
“Sì, me l’ha detto
Milo.” Fece cenno verso l’altro ragazzo che
replicò con
un saluto generale. Lily lo vide anche scambiarsi un’occhiata
con la ragazza. Doveva
conoscerla.
“E tu
saresti?” Il tono
sgarbato con cui la tipa le si rivolse meritò tutta la sua
attenzione. Anche
solo per guardarla bene: era molto attraente e molto americana.
C’era qualcosa
di familiare in lei e lo capì un secondo esatto prima che
Scorpius le
presentasse. “Ama, lei è Lily Luna …
Lils, lei è…”
“Il Sergente Gillespie.” Lo anticipò;
Sören gliene aveva parlato di sfuggita
nelle sue lettere.
Adesso
ricordo cos’ha di familiare … ha gli occhi di sua
madre, Nora.
“Certo. La
migliore amica
dell’agente Prince.”
Quel titolo le scaldò il cuore: se la Gillespie
l’aveva chiamata in quel modo
significava che era Sören a chiamarcela in prima istanza.
“Sono io.” Confermò.
“Tranquilli, ve lo troverò in un batter
d’occhio.”
L’americana la
guardò come se
avesse detto qualcosa di molto stupido. “Sai dove si trova in
questo momento?”
Beh,
ho un paio di idee in merito.
Ma l’istinto le
diceva che non
era il caso di sciorinarle. “No, ma conosco Londra ed
è un vantaggio, non
credi?”
“Se sai dove si trova devi dircelo.”
Lily si rendeva conto di avere un grosso problema con chiunque
incarnasse
l’autorità, che fosse un insegnante, un datore di
lavoro o un arrogante agente
americano.
Non gliene fregava nulla. “Non sarebbe meglio se lo trovasse un amico rispetto ad un agente
incaricato di riportarlo indietro?”
Ama Gillespie per un momento
parve presa in contropiede, poi la guardò male.
“Siamo tutti amici di
Sören.”
“Sono certa che
sarà la prima
cosa a cui penserà quando vedrà le vostre
uniformi.”
Scorpius si mise in mezzo
prima che l’americana potesse replicare, e bruciava dalla
voglia da come era
avvampata di rabbia. “Lils, vogliamo tutti la stessa
cosa.” Le fece notare.
“Puoi aiutarci? C’è un posto in cui
pensi possa essere andato per schiarirsi le
idee?”
Inspirò, cercando
di calmarsi:
aveva ragione, farsi la guerra non aveva il minimo senso.
“Sì, c’è … o
almeno, credo che sia andato
lì.” Si morse le
labbra. “Datemi un’ora. Se entro un’ora
non riesco a farlo tornare a casa giuro
che mi faccio da parte. Ma datemi un’ora per parlarci da sola.”
“Non credo
proprio.” Conosceva
l’americana da una manciata di minuti e già le
stava sull’anima – e non pensava
fosse solo per l’autoritarismo che emanava –
però doveva ammettere che l’altra
non sapeva un accidenti del rapporto che intercorreva tra lei e
Sören. Non poteva
darle fiducia se non gliene dava motivo.
E
quindi diamoglielo.
Sospirò.
“Sentite … parliamoci
chiaro. Gli avete appena tolto un caso a cui si era dedicato con tutto
se
stesso. È la procedura immagino, ma dal suo punto di vista
voi, che siete il
suo punto di riferimento, l’avete appena rifiutato.
Per giunta per colpa di una madre che neanche sapeva fosse viva. Se
qualcuno
deve parlargli, è meglio che non sia un uniforme.”
Quasi si sentì in
colpa quando
il dispiacere dell’altra ragazza la colpì come un
Bolide. Era sinceramente
preoccupata per Sören al di là degli ordini che
dovevano averle dato.
Forse
non ha tutte le cattive intenzioni che le ho
attribuito.
“Non potevamo fare
altrimenti.” Mormorò mordendosi le labbra e
tradendo per la prima volta un’espressione
facciale. “Sören lo sa.”
“Una cosa è saperlo, un’altra
è accettarlo.” Replicò con tutta la
gentilezza
che poté. Non si sparava sulla croce rossa, come diceva
sempre Tom, qualsiasi
cosa volesse dire. “Datemi un’ora, okay?”
“Un’ora
Potter. Ti chiamerò
personalmente tra un’ora.”
“Grazie.”
Fece un cenno a Milo
e quello fu lesto a salutare tutti e venirle dietro.
“Wow.”
Commentò quando non
furono più a portata di orecchio. “Non pensavo Ama
si sarebbe tirata indietro!
È un osso duro.”
“Un amico
è meglio di un
agente, l’avrà capito anche lei.”
“Sì, ma guarda che sono
amici… Lascia
perdere la messinscena del pulotto incazzato.” Milo si
strinse le spalle. “Se
devo dirla tutta, credo che Ama provi anche qualcosa di
più.”
Quasi inciampò sul ferro battuto all’ingresso del
camino magico. “Hanno una
storia?”
Ren
non me l’aveva detto.
Milo sbuffò.
“Nah, sono due
imbranati, si riparano dietro venti miliardi di scuse perché
non sanno come
finire a letto assieme.” Si sporse dietro la sua spalla.
“Che facciamo,
saliamo?”
“Sì,
sì … subito.”
Hai
proprio buon gusto Ren. Peccato per il carattere.
Usciti fuori estrasse la
bacchetta e si voltò verso l’altro. “La
reggi la Smaterializzazione?”
Milo impallidì
come se gli
avesse prospettato un’amputazione senza anestesia –
che poi, a dirla tutta, era
un rischio abbastanza concreto. “Per niente, ma immagino che
sia il metodo più
veloce per andare dove dobbiamo andare, ah? Non abbiamo molto
tempo…”
Aveva ragione;
un’ora era un
lasso di tempo ridicolo per trovare un ragazzo che doveva esser stato
un
maestro nello sparire ai tempi della Thule.
Come
al solito ti sei ficcata in una situazione più
grande di te, eh Rossa?
…
la storia della mia vita.
Non era il momento di farsi
prendere dall’incertezza. Sören aveva bisogno di lei
ed un’ora sarebbe avanzata.
“Aggrappati a me e
chiudi gli
occhi.”
****
Italia,
Toscana.
Pomeriggio.
Avevano noleggiato una
macchina ed era stato comunque il viaggio di tre ore più
lungo della sua vita.
James, alla guida, si sporse
per guardare fuori dal finestrino. “Ehi, non si
può dire che a ‘sta Toscana
manchino gli scorci panoramici, eh?” Disse indicando le
colline che si
susseguivano come onde e in particolare una dove si stagliava un
piccolo
cerchio di pittoreschi cipressi. “Sembra l’Irlanda,
solo senza il clima
schifoso.”
“Già.” Commentò a mezza voce
guardandolo distratto, più preso a ripassare le
cose che avrebbe dovuto dire agli unici parenti ancora vivi di
Benedetta;
Babbani, italiani e genitori della madre. I nonni.
Due
persone anziane …
Non era la notizia che si
era
aspettato; aveva sperato in uno zio, in qualcuno di giovane e con cui
sarebbe
riuscito a rapportarsi meglio. Parlare a due persone che avevano
già perso una
figlia di come avessero rischiato di perdere la nipote non era la sua
tazza di
the. Per eufemizzare.
“Teddy.”
La mano di James si
strinse alla sua. “Andrà bene, in fondo si tratta
della loro nipotina. Saranno
felici di sapere che sta bene!”
“E che suo padre è morto?” Ritorse
sentendosi una carogna subito dopo; James
gli scoccò un’occhiata silenziosa e
lasciò perdere, concentrandosi sulla
strada.
Sei
un idiota.
“Scusami…”
Inspirò
massaggiandosi la nuca, perché si sentiva un malditesta
incipiente da ore.
Stava per scoppiare, ne era certo. “ … questa
storia mi sta facendo a pezzi.”
“Lo so.” Gli rispose abbassando la musica che
usciva dalla radio; doveva averla
messa per coprire il silenzio durato tutto il tragitto.
Avete
passato tre ore con lui che cercava di farti
parlare e te che gli borbottavi contro.
“Jamie…”
“Credo che ci siamo.” Lo interruppe indicando con
un cenno della testa un
gruppo di case inerpicate su una collina più imponente delle
altre, quasi un
altura. Anche da lontano si vedeva, tra le piccole abitazioni in
muratura dai
tetti rossi, un campanile; era un delizioso paesino italiano e in
un’altra
occasione avrebbe fatto fermare la macchina al compagno per poter fare
delle
foto; in quel momento voleva solo arrivarci il più in fretta
possibile.
James si sentiva frustrato e
arrabbiato perché Ted pareva immune ad ogni tentativo di
rassicurarlo: l’unica
cosa che riusciva a fare era seguirlo e parlare al vuoto.
E
cazzo, non è abbastanza.
Dopo aver parcheggiato fuori
dalle mura della città si diressero verso il luogo
dell’appuntamento e dovevano
essere arrivati in anticipo perché a parte qualche turista e
un paio di
vecchietti che giocavano a carte, di fronte allo spiazzo della chiesa
non c’era
nessuno. Si sedettero così sul basso muretto che la
recintava ed aspettarono.
“È
bello qui.” Mormorò Ted
guardandosi attorno. “C’è
così tanta pace…”
“Non è un posto brutto dove crescere.”
Convenne, felice di sentirlo parlare. Si
accese una sigaretta e fu piuttosto deluso – e preoccupato
– quando l’altro non
cercò di dissuaderlo dal fumarla. “Sembra Ottery
… solo, beh, senza la pioggia
continua e il fango. Gli italiani sono fortunati, hanno sempre il
sole!”
“Non so quanto sia vero…” Ted si
interruppe e si irrigidì quando vide un uomo
venir loro incontro; quando arrivò a portata
d’orecchio questo li salutò con un
sorriso tirato. “Salve ragazzi.” Disse e
l’Incanto Traduttore non fece nessuna
fatica ad operare su quella lingua. Non aveva accento o che?
“Sei Ted?” Chiese
poi.
Mi
sa proprio che è la persona che cerchiamo.
Cercò di vedere
qualche
somiglianza con Benedetta, ma non ne trovò nessuna; era un
uomo minuto, con
pochi capelli grigi e miti occhi chiari.
No,
niente … Anche perché, a dirla tutta, la
piccoletta
assomiglia una cifra a Teddy. Avrà preso dalla parte
Lupin…
Ted si alzò,
andando a
stringergli la mano. “Sì, buongiorno …
Lui è James.”
“Beppe.”
Si presentò con
semplicità. “Venite, vi porto in casa, mia moglie
sta preparando la cena. Vi
fermate vero?”
“Veramente non
pensavamo …”
Iniziò Ted, ma James fu lesto a tirargli una leggera
gomitata per farlo tacere.
“Sicuro, grazie!
Sarebbe un
incubo farsi altre tre ore di viaggio a pancia vuota!”
Non
se lo ricorda proprio come funzionano gli italiani?
Evitare la gaffe lo fece
sentire un pochino più utile e per rafforzare quella
sensazione intavolò
un discorso con l’anziano Babbano;
Ted aveva bisogno di un attimo di respiro e diavolo, lavorando con
Malfoy aveva
imparato alla perfezione come dar
aria alla bocca.
Dopo aver attraversato una
serie di stradine talmente strette da poter essere fotografate da cima
a fondo
e un paio di cortili che sembravano cartoline arrivarono alla casa
dell’uomo e
furono accolti da una donna ancora più minuscola, nascosta
dentro in un vestito
che gli ricordava tremendamente quello che nonna Molly metteva ad ogni
festa
estiva.
“Giovanna,
t’ho portato i
ragazzi … questo è Ted e l’altro
è James.”
Questa non disse niente e
con
gli occhi umidi si limitò ad abbracciarli entrambi come se
li conoscesse da
anni. James l’avrebbe anche baciata; Ted trovava conforto nel
contatto fisico
più di qualunque cosa al mondo ed essere toccato
affettuosamente da qualcuno a
cui credeva di aver fatto un torto era la cosa migliore che potesse
capitare.
Lo vide infatti rilassarsi di colpo e fu una fortuna che avesse
Incantato i
capelli a dovere perché la cima della testa ebbe un bagliore
arancione
piuttosto vitale.
“Venite a sedervi,
ragazzi,
sarete stanchi morti per il viaggio. Lo volete un goccio di
vino?” Li accolse,
manovrandoli a sedere e mettendo davanti a loro due bicchieri colmi di
un denso
vino rubino.
Nonna
Molly italiana.
Data l’accoglienza
fu più
semplice per Ted schiarirsi la voce. “Mi dispiace essere
piombato da voi senza
preavviso … ma la situazione è stata inaspettata
anche per me.” Iniziò
accettando il bicchiere e dandone un sorso. “Io e il mio
fratellastro … beh,
non eravamo molto vicini.” Eufemizzò; ma era una
buona mossa, visto che l’ultima
cosa di cui avevano bisogno quelle
povere persone era sapere che la loro nipotina era nelle mani di un
sostanziale
sconosciuto. “Non siamo cresciuti assieme, ma …
era mio fratello.” Inspirò e
diede un secondo sorso che gli mandò colore alle guance.
Non
regge un cazzo…
Lo pensò con
affetto e fu
lesto ad allontanare il bicchiere quando lo posò sul tavolo.
“Com’è
morto?” Chiese l’uomo,
accarezzando con dolcezza le spalle della moglie seduta. “Hai
detto che è stato
un incidente…”
“Incidente stradale.” Era la scusa più
usata dai maghi quando si trattava di
spiegare una morte ad un Babbano; in pratica era l’unica che
potesse adattarsi
alla rapidità con cui la magia riusciva ad ucciderti.
Anche
se in questo caso si è trattata di una freccia
avvelenata dei Centauri.
“Come
Adriana.” Mormorò la
donna. “Povero figliolo … era bravo,
sai.” Sorrise appena. “Non era un
chiacchierone, ma era serio e si ammazzava di lavoro. Ma era malato
… una cosa
…” Esitò. “Una volta ce lo
spiegò, vero Beppe?” Si rivolse al marito che
assunse un’espressione pensierosa. “Un malanno che
si portava dietro fin da
bambino mi pare.”
“Sì.” Non aggiunse altro Ted, che
spiegare la Licantropia a due Babbani non era
certo cose semplice. “Aveva un lavoro quindi?”
“Lavorava con me.
Ho un
piccolo alimentari giù in paese.”
Spiegò Beppe. “Stava al bancone, mi dava una
mano con le consegne.” Fece una smorfia. “Certo,
lavorava quando stava bene …
C’erano giorni in cui non si alzava dal letto.”
I
giorni dopo il Plenilunio. Chissà come cavolo faceva
con la Pozione Antilupo. Chi gliela preparava?
Non erano domande a cui
avrebbero avuto risposta, non in quel contesto perlomeno. Ted
inspirò e poi
disse quello che aleggiava nell’aria da quando si erano
presentati. “Benedetta
sta bene.”
“Mangia?”
Fu l’ovvia domanda
della nonna: tutte le nonne al mondo erano incaricate di chiederlo
durante una
conversazione sui nipoti. “È sempre stata una
buona forchetta! Si sarebbe
mangiata il buio!”
“Sì,
anche se devo dire che la
nostra cucina non è come la vostra…”
Sorrise Ted. “Purtroppo
ancora non sa di suo padre … ho
preferito parlare con voi prima di decidere il da farsi.”
I due anziani si guardarono,
poi fu il marito a prendere la parola. “Lunastorta ci disse
che tornava in
Inghilterra perché c’erano delle persone che
avrebbero potuto aiutarlo a
rifarsi una vita là, a tirare su Benedetta
…” Esitò. “Vedi, quando
c’era nostra
figlia le cose erano diverse. Soltanto con
l’alimentari… non ci si tira avanti
in quattro.” Strinse la spalla della moglie. “Veder
partire Benedetta è stata
dura, ma almeno sapevamo che era con il suo babbo e che stava
bene.”
James guardò di sottecchi il compagno e fu certo che
stessero pensando alla stessa
cosa.
Le
persone che dovevano aiutarlo non erano poi così
affidabili se è finito a morire in una foresta.
La donna si
asciugò le lacrime
con un sorriso triste e prese la mano di Ted tra le sue.
“Meno male che ha
trovato te.” Gli sorrise con calore. “Lunastorta
non ci aveva detto di avere
dei parenti. Siamo stati così sollevati quando ci hai
chiamato! Non ricevevamo
lettere da un mese ed eravamo preoccupati,
pensavamo…”
“Pensavamo giusto purtroppo.” La interruppe Beppe
scuotendo la testa. “Ted,
immagino perché tu sia qui.” Si passò
una mano dietro la nuca e guardò fuori
dalla finestra. “Ma non possiamo.”
…
merda.
James capì dove
il discorso
voleva andare a parare; i nonni di Benedetta erano brave persone, e lo
dimostrava la sincera commozione che provavano a parlare di lei come
alla
naturalezza con cui li avevano accolti a casa loro, due perfetti
sconosciuti. Volevano
bene alla nipote …
…
ma non sono in grado di occuparsene. Non vogliono
occuparsene.
“Siamo troppo
vecchi, troppo
stanchi e troppo malandati per poterci prendere cura di
Benedetta.”
Due ore esatte dopo, con un
tramonto che infuocava le colline di fronte a loro tingendole di rosa e
oro,
Ted guardava il panorama mozzafiato che aveva davanti e non vedeva niente.
Era un peccato,
pensò assente
mentre sentiva la terra umida su cui si era seduto bagnargli i
pantaloni;
doveva essere piovuto di recente.
L’Italia
non è la terra di sole che tutti pensano che
sia. Piove anche qui.
James era seduto sul cofano
della macchina e lo guardava come se avesse paura di vederlo dare di
matto.
Beh,
in effetti è il motivo per cui ci siamo fermati.
Perché ho dato di
matto.
Avevano passato
un’intera cena
a parlare con i nonni di Benedetta; brave persone, oneste e affezionate
alla
nipote … ma anche Babbani e troppo anziani per occuparsi di
una bambina di
cinque anni.
Licantropo
per giunta.
Ted sapeva di essersi
comportato in maniera corretta; non aveva provato a convincerli a
riprendersela
facendo leva sui sensi di colpa, promettendo piuttosto di mantenere
continui contatti,
come di venirli a trovare. In fondo aveva sempre saputo che Ben non
sarebbe
tornata in Italia.
Perché
non ha nessuno, qui, che può occuparsi di lei.
Una cosa era saperlo, una
cosa
era realizzarlo. Così,
dopo un’ottima
cena – che non aveva quasi toccato, ma che era stato contento
di veder divorata
dal compagno – si erano rimessi in strada con la certezza che
nessuno lo
avrebbe ostacolato nell’adozione di Benedetta.
Perché
devi adottarla. Non c’è nessun altro. Tu o
l’orfanotrofio.
Fatti neanche due chilometri
aveva dovuto pregare James di accostare e farlo scendere. A dirla
tutta, glielo
aveva gridato addosso.
Se
non mi molla stavolta, non mi molla più.
Nella sua visuale
entrò una
bottiglietta d’acqua. “Bevi qualcosa, ti
farà bene.” Gli disse accovacciandosi
davanti a lui e oscurando così la vista delle colline. Ma
andava bene perché il
viso preoccupato e bellissimo del suo ragazzino era una vista di gran
lunga
migliore. “Credo anche tu sia sbronzo.” Aggiunse
suo malgrado divertito.
“Il vino era
buono…” Mormorò
vuotando la bottiglietta tiepida in poche sorsate.
“… e visto che non ho
mangiato niente…”
“È proprio questo il punto, scemo!”
Sbuffò. “Senti…”
“Scusa.” Lo bloccò. “Scusa, mi
rendo conto di comportarmi …” C’era una
parola
per descrivere il comportamento abominevole che aveva tenuto nei
confronti
dell’altro per tutta la giornata?
“Teddy, nessuno si
aspetta che
tu la prenda bene!”
Ted accartocciò
la
bottiglietta tra le mani. “Non sono pronto a fare il
padre.” Sussurrò perché
era quello, era tutto lì e se ne vergognava così
tanto che avrebbe voluto
scavarsi una fossa e nascondercisi dentro. “Non so neanche come si fa il padre, il mio non
l’ho neppure conosciuto!”
Doveva smetterla, perché buttare addosso le sue ansie a
qualcuno che stava
cercando di tranquillizzarlo era da veri egoisti. Doveva ma non ci
riusciva.
“Ben ha bisogno di una persona che sappia prendersi cura di
lei e della sua
Licantropia. Tutti i miei libri, i miei studi e le mie belle idee sui
lupi
mannari … A che servono con una persona vera?”
Quando sentì uno
schiaffo al
lato della testa seppe di esserselo meritato. Non fu preparato
però a quello
che ne seguì.
“È chiaro che non sei pronto a fare il
padre.” Replicò James con una
calma che gli invidiò. Non c’era da stupirsi
comunque: era la persona più in
controllo che conoscesse, a parte le occasionali sparate
testosteroniche. “Non
hai avuto nove mesi per abituarti all’idea e non avrai a che
fare con roba
graduale tipo pappe e biberon.” Gli sorrise. “Ma
sarai grandioso lo stesso.”
“Io non credo…”
“Teddy.”
Replicò sullo stesso tono.
“Hai fatto da babysitter a me e a quei fenomeni dei miei
fratellini, ed eravamo
materiale incandescente. Ti occupi di mocciosi in piena crisi ormonali
nove
mesi l’anno … e sai più tu di
Licantropia che un’intera monografia dedicata. Sei
la persona giusta per Benedetta.”
Gli prese il viso tra le mani e appoggiò la fronte contro la
sua. Sentirne il
respiro caldo lo fece sentire meglio. Molto meglio.
“Andrà tutto bene.”
“Davvero?”
“Davvero. Perché ehi, non sei solo.”
Inarcò le sopracciglia. “Farti fare il
padre single? Scordatelo, attireresti streghe e maghi come fottuto
miele!” E
gli ghignò in faccia, come se potesse essere sul
serio tutto semplice. Era quello il vero potere di James:
semplificargli la vita.
Ed
è un potere maledettamente meraviglioso.
Gli sembrava di averne
abusato
fin troppo in quei giorni. Lasciò andare una mezza risata.
“Come farei senza di
te?”
James si strinse nelle
spalle.
“Lo so, sono indispensabile.”
Ted ridacchiò,
passandogli una
mano sulla guancia
ombreggiata dalla lieve barba che non riusciva mai a togliersi del
tutto perché
trovava l’incantesimo di rasatura fastidioso.
“Ti amo.” Era tutt’ora strano dirlo ad
alta voce – neanche con Vic aveva detto
quelle due parole tanto spesso intendendole davvero – ma
l’imbarazzo era
ripagato ogni volta dal bacio in cui veniva coinvolto. Uno di quei baci
che
rendevano il posto in cui erano una scenografia perfetta.
“Ti amo
anch’io, sega mentale
ambulante.” Borbottò dandogliene
un’altro. “Forza, alza il sedere, abbiamo
già
perso la Passaporta delle nove, meglio trovarne un'altra prima di
domattina!”
Ted obbedì
guardando verso il
paese che avevano appena lasciato. “Appena le cose si saranno
sistemate mi
piacerebbe davvero tornarci con Benedetta…”
Considerò. “È così bello
qui.”
James gli sorrise e non
disse
niente, salendo di nuovo in macchina; non ce n’era bisogno.
Era ora di tornare a casa.
****
Inghilterra,
Londra
Camden
Lock, Ora di cena.
Lily si
Materializzò in uno
dei vicoli meno frequentati di Camden; ispirò per calmare il
giramento di testa
e poi guardò Milo per controllare fosse ancora tutto intero.
Lo era, ma si era
anche accovacciato a terra con la testa tra le braccia. “Ehi,
tutto bene?”
“Uuugh!”
Mugolò. “Quanto odio voi
maghi!” Alzò la testa, pallido come gesso.
“Non potevate aver inventato un
incantesimo di locomozione meno schifoso?”
“Siamo delle
persone orribili,
lo so.” Lo consolò. “Ce la fai ad
alzarti?”
“Non sono
così mezza sega!”
Borbottò, facendo qualche passo malfermo lungo il vicolo; a
quanto pareva per
un Magonò la Smaterializzazione era più dura che
per un mago.
In
effetti non ha magia. Viene portato più o meno come
un sacco di patate…
Uscirono nel caos del
quartiere, che di domenica sera era forse più movimentato e
compatto che nel
resto dei giorni; oppure era l’estate che faceva
quell’effetto ai londinesi, chissà.
Si mischiarono così alla folla multicolore di turisti, punk,
artisti e gente
che semplicemente ammazzava il tempo, guardandosi attorno; data la
calca, trovare
Sören era un obbiettivo ambizioso.
“Sei sicura che
sia venuto
qui?” Chiese infatti Milo con aria un po’
sconfortata. “Perché la confusione
non è di certo la prima cosa che cerca quando vuole starsene
per i fatti suoi.”
“Sì, lo
so, ma … l’ho portato
qui sabato scorso e gli era piaciuto.” Spiegò
sempre meno convinta della sua
scelta; dopotutto Sören le aveva detto che aveva gradito, ma
ne aveva la
certezza? Poteva anche averlo detto per farla contenta.
Sarebbe
da lui.
No. Si era rilassato
sul serio e non aveva ancora connesso con la città al punto
di trovare il suo
angolo in autonomia … quindi quello doveva
essere il posto.
Oppure
ho fatto una cretinata.
Si passò una mano
trai
capelli. “Assieme non riusciremo a combinare niente.
Dividiamoci.”
“Sono d’accordo. Chi prima lo trova manda un
messaggio all’altro, okay?”
Deciso, si divisero: Milo si infilò nello stretto tunnel che
una volta ospitava
l’ospedale per cavalli del quartiere, mentre Lily
tirò dritto fino alla chiusa.
Sporgendosi dalla balaustra del ponticello di legno passò in
rassegna con
attenzione ogni singolo bar e panchina. Alla fine, proprio sotto il
salice
piangente che li aveva ospitati una manciata di giorni prima,
notò un vuoto. Il
genere di vuoto causato da persone che evitavano accuratamente di
passare da
lì.
O
è chiuso o c’è qualcosa che nessuno
vuole aver vicino
… oppure un incantesimo. Repello Babbanum.
Scese di corsa il ponte e
scansò le persone che venivano in senso opposto.
Ren,
dimmi che sei lì accidenti a te!
Era lì. Era
seduto su una
delle sponde e nonostante fosse ancora vestito con l’uniforme
della sua unità
la gente che gli passava vicino senza notarlo, rafforzando
l’idea che avesse
incantato il suo intero spazio vitale per non far entrare nessuno di
sgradito.
Beh,
peccato io sia una strega e sia immune.
Non era però
immune dal
dubbio; era giusto cercare di tirarlo fuori dalla sua bolla di
sicurezza?
Cretina.
Sai meglio di chiunque altro quanto rimanere
soli con i propri casini sia … un casino.
Mandò subito un
messaggio a
Milo.
‘L’ho
trovato, ed è da solo.
Che faccio?”
‘Non fare la scema
Zenzero. Va’
a parlarci.’
È
una parola…
Ormai era a due passi di
distanza,
ma non pareva che Sören se ne fosse accorto da come continuava
a fissare le
acque di fronte a sé. Si sentiva stupida a restare impalata
senza sapere cosa
fare così prese una decisione; a volte bisognava aver
coraggio anche se non ci
se ne sentiva addosso neppure un’oncia.
“Lily, guarda che
ti ho
sentito.”
Evvabbeh però!
Fece una smorfia, affiancandoglisi.
“Ciao.” Disse impacciata. “Passavo di
qui…”
Ma sei cretina?!
Sören distolse lo
sguardo dal
canale per guardarla. Sembrava la calma incarnata, nascosto dietro
tutti i bei
muri che quel gran cane di Von Hohenheim l’aveva costretto a
costruirsi. “È la
scusa più sciocca che abbia mai sentito.”
Sciocca … dì pure
demente.
Okay, sono venuta a
cercarti.”
Ammise e si sedette, perché ora che il Boccino era stato
liberato bisognava giocare.
“Ti stanno cercando tutti.”
“Lo immaginavo.” Convenne riportando lo sguardo di
fronte a sé. “E già scaduta
il tempo massimo per l’attivazione della Traccia?”
Lo
sapevo che lo sapeva!
“No …
credo manchino un paio
d’ore.” Era a disagio perché anche se
non la stava cacciando non le stava
neanche dicendo di restare.
È
come se non gliene importasse niente.
Ignaro del suo disagio
Sören
fece un sospiro. “Mi dispiace aver causato dei
disagi.” Si puntellò su una mano
facendo per alzarsi. “Suppongo ti abbiano mandato a
prendermi, quindi è meglio
se…”
Lo afferrò per un braccio e lo tirò
giù con forza. “Uhm.” Esordì
ignorando il
suo sguardo sbalordito. “No.”
“No?”
“No, non ce ne
dobbiamo andare
per forza.” Spiegò. “Che quelli del
Ministero si fottano!”
Sören la
guardò quasi stesse chiedendosi
a che grado di follia fosse arrivata. “Lily,
perché sei qui?”
“Perché
sono tua amica e sono
preoccupata per te. Milo mi ha chiamata dalla Scozia
e…”
“Non saresti dovuta venire.” La fermò
brusco. “Avevi degli impegni.”
“Sì,
beh, non sono mai più importanti
dei miei amici!”
Doveva essere stata la cosa
sbagliata da dire perché l’altro si
irrigidì come se gli avesse tirato uno
schiaffo. “Non voglio la tua pietà.”
Razza
di scemo orgoglioso!
Gli avrebbe dato un pugno in
testa se fosse servito a qualcosa, ma purtroppo quando era in quelle
condizioni
parlarci era come tentare di sfondare un muro di gomma a testate.
Così provò un
approccio diverso. “Pensavo sapessi la mia lingua.”
Ad un’occhiata risentita –
ah! Poteva volgere a suo favore i difetti dell’altro!
– sogghignò. “Ho detto amicizia,
non pietà. Sono due parole
diverse.”
Sören fece una
smorfia. “Lo so
che sono due parole diverse.”
“Bene,
perché il concetto deve
esserti chiaro.” Si voltò a guardarlo e come lo
fece l’altro distolse lo
sguardo; aveva paura che tentasse di leggerlo? Non era quello che
voleva fare,
gliel’aveva promesso!
“Non sono qui per
farti il
terzo grado…” Addolcì il tono,
perché alla fine non riusciva a fare la stronza
quando il suo interlocutore sembrava un cagnolino lasciato sotto la
pioggia.
Come
fa la gente a trovarlo minaccioso e lugubre?
Voglio dire, Tom lo è. Lui è …
beh, lui no.
“Sono qui
perché ho pensato
potessi aver voglia di parlare.” Fece un tentativo di
mettergli una mano sul
braccio e andò a buon fine dato che non si
scostò.
Doveva saperlo
però. Doveva
essere certa di non stare peggiorare la situazione emotiva
dell’altro. Fare di
mestiere la Psicomaga non ti impediva di ferire le persone in quel modo
comunque.
“Se non mi vuoi attorno però me ne vado.”
Silenzio. Ed era
una risposta anche se non era quella
che si era aspettata; era stata una sciocca.
Non
sei così speciale e indispensabile come pensi,
Rossa.
“Okay.”
Fece un sorriso
forzato, tirando fuori il cellulare. “Allora chiamo Milo
… È venuto con me e
devo riportarlo indiet…” Sören non gli
fece finire la frase: le prese il
cellulare di mano e lo spense.
“Resta.”
Mormorò
passandoglielo. “Resta per favore.”
Aveva passato tutto il
giorno
ad osservare come le acque del canale fossero limacciose e quanto la
gente fosse
rumorosa senza un solo pensiero in testa.
Era come esser immersi nella
nebbia: ricordava cos’era accaduto, cosa gli era stato detto
e il risultato
finale della conversazione di quella mattina, eppure non riusciva a
trovarvi un
senso. Non voleva. Era come se tutta quella storia fosse stato un
grande,
orribile scherzo dal principio.
Questo
caso riconferma solo quanto non si possa
nascondere il passato come sporco sotto il tappeto. Perché
torna, sempre.
Lily si mosse accanto a lui,
infilando il cellulare nella borsa da viaggio. “Resto, ma tra
poco dobbiamo
andare.” Gli fece notare. “La
Traccia…”
“Non mi importa.”
Che differenza faceva se
alla
fine della storia avrebbe finito per consegnare il distintivo?
Perché sarebbe
successo, era solo questione di quanto a lungo il Capitano Gillespie
avrebbe
esitato prima di chiederglielo.
“Non ti
importa?” La voce di
Lily era incredula. “Che cavolo stai dicendo? Ti cacceresti
in un mucchio di
guai!”
“Non lo sono già?”
“Secondo te perché ti stanno cercando tutti?
Proprio per evitarteli!” Se gli
occhi avessero potuto sputare fiamme, quelli di Lily avrebbero lanciato
scintille. “Quel poveraccio di Milo ha rivoltato Londra come
un calzino! Io ho
preso una Passaporta saltando il pranzo e…”
“Non eravate tenuti a farlo.”
Lily gli tirò un pugno sulla spalla.
“Se
dici una cosa del genere un’altra volta
giuro che ti Schianto!” Sbottò. “Qui,
davanti ad un trilione di Babbani!”
“Lily…”
Non voleva pensare a
quel che stava succedendo, ma l’amica ce lo stava
trascinando. Prendersela con
lei però non aveva senso dato che le aveva chiesto di
rimanere. “Immagino non
ti sia chiara la situazione. Ho perso il caso perché mia
madre è coinvolta. Mia madre.”
Sottolineò sentendo un
groppo di sentimenti che aveva represso affiorare in superficie; sua
madre era
morta e lui non era riuscito a piangere al suo funerale.
A
quanto sembrava non ce n’era bisogno.
“Sono compromesso,
e non ci
vorrà molto perché venga messa in discussione la
mia posizione all’interno
della SAGITTA.” L’uniforme gli pesava addosso e non
era bastato togliersi la
giacca per posarla accanto a sé. Ogni singolo bottone,
alamare, cucitura, era
un macigno.
Lily scosse la testa.
“Eri un
bambino quando ti hanno costretto a fare quelle cose …
Pensavo l’avessi capito
ormai, quello che hanno fatto e fanno i tuoi parenti non si ripercuote
sulla
tua vita!”
Era quello che amava di lei;
l’incapacità
di pensar male di una persona quando guardava al suo passato. Era
riuscita a
perdonargli cose imperdonabili e stava continuando a farlo.
Ma
tu sei tu, mia Lilian. Il resto del mondo è ben
diverso.
“Siamo le famiglie
da cui
proveniamo.” Le rispose. “Sei la persona che sei
perché tuo padre è un uomo di
valore, fai il lavoro che fai perché le persone che ti
stanno accanto ti hanno
sempre spronata ad aiutare gli altri … Non si può
cancellare il sangue che ci
scorre nelle vene. Io rimarrò sempre un Von
Hohenheim.”
L’altra fece una
smorfia
esasperata; ma aveva ragione, sapeva di averla. “E Tom? Lo
è anche lui, eppure
è riuscito a farsi una vita!”
Sören sorrise
amaramente. C’era
una parte di sé che beveva le parole della sua piccola
amica, sperando che
fossero vere. Era quella parte che aveva sempre avuto fiducia nel
futuro. Forse
troppa.
“Thomas
è stato adottato da
una famiglia Babbana ed ha vissuto una vita normale …
Difficilmente si può
considerarlo altro che una vittima della follia di suo
padre.” Fermò il suo
tentativo di protesta. “Per me è diverso. Ho
lavorato per la Thule, ho creduto
nella Thule … Per la maggior
parte della mia vita sono stato uno di loro e questo è una
cosa che niente può
cancellare. La gente non dimentica, e ora che la donna che mi ha dato
alla luce
è coinvolta, non lo farà di certo.”
L’altra si
passò una mano trai
capelli; aveva imparato che era una cosa che faceva quando era
frustrata.
“Credo che ti sfugga il punto dell’intera
situazione.” Replicò con tono
esasperato, come se stesse parlando ad un bambino testardo.
“Non ti hanno tolto
il caso perché non si fidano di te data
la tua famiglia, te l’hanno tolto perché
non si fidano della tua famiglia. Punto. L’hanno
fatto per proteggerti!”
“Non è
così semplice.”
Si scostò in tempo per evitare un secondo pugno.
“Sta’ fermo lì!”
Esclamò,
quasi fosse offesa dal fatto che non fosse rimasto immobile a farsi
picchiare
con un sacco di stracci.
“Mi stavi per
picchiare!”
Obbiettò sbalordito. “Perché dovrei
rimanere…”
“A subire? Già, perché?” Gli
fece eco.
Ma
cosa…
Capì di colpo il
sottotesto. “Non
sto facendo la vittima.”
“A me invece sembra di sì!”
Rimasero in silenzio per
qualche minuto, sbollendo l’irritazione. Quando Lily
parlò era più calma e lo
era anche lui.
“Non sto dicendo
che non hai
ragione a stare male.” Esordì. “Quello
che ti hanno fatto è orribile e ingiusto.”
Gli prese una mano tra le sue, intrecciandole con una naturalezza che
non
avrebbe mai cessato di stupirlo; per lui il contatto fisico non sarebbe
mai
stato così spontaneo, tolto durante uno scontro fisico.
“Ed è per questo che la
gente capisce. Gli americani, Sy e
Bobby non ti stanno cercando ovunque perché hanno paura che
tu scappi da tua
madre … ma perché sono preoccupati per te. Nora
non ti ha tagliato fuori perché
pensa che tu possa essere influenzato, ma perché non vuole
né lei né John Doe
ti prendano di mira. Ne sono sicura.”
“So badare a me
stesso.”
Tenere la voce ferma stava cominciando a diventare difficile
perché Lily diceva
cose a cui voleva credere disperatamente. E stava cominciando a farlo.
Era sempre stata brava a
dargli speranza.
“Devi capire che
ti vogliamo
bene e che ci fidiamo di te.” Era un po’ difficile
evitare lo sguardo di Lily
quando l’altra lo cercava con tanta ostinazione. Fu costretto
a cedere. “Ren,
sei una delle persone migliori che conosco, e ti sforzi così
tanto ogni giorno
per diventarlo … e lo vediamo, chiunque dotato di un grammo
di cervello riesce
a vederlo! Persino James!” Fece un sorrisetto.
“Finge di non accorgersene solo perché
è stronzo.”
Non ribatté
perché ne era
certo, in quel momento non avrebbe avuto controllo su qualsiasi cosa
gli fosse
uscita dalla bocca. Aveva passato un’intera giornata ad
intorpidire ogni suo
pensiero e ora facevano male.
Ti
prego, basta … non farmi crollare … Non con te.
Supponeva fosse un
po’
ipocrita avere pensieri del genere e supplicare che l’altra
non smettesse.
Sören la stava
guardando: ed
era quel suo sguardo da fine del mondo, quello che la faceva sentire la
prima
persona che l’altro incontrava dopo una vita di solitudine.
La
sto imbroccando, vero? Non sto peggiorando le cose.
Perché tutta la
sicurezza che
dimostrava era nient’altro che paura di far danno, paura che
l’altro non
riuscisse a convincersi di quello che le stava dicendo e che se
tornasse in
America.
Non
te ne puoi andare!
Era quindi il momento di
tirare fuori l’artiglieria pesante. “Ren, sei la
persona che mi hai promesso
che sei diventata, e…”
Non riuscì a finire la frase che Sören la strinse
in un abbraccio. Quando lo
ricambiò sentì qualcosa di umido bagnarle la
spalla, dove l’altro aveva premuto
il viso. Erano lacrime. Come aveva sempre immaginato, l’amico
non era tipo da
pianti a dirotto o scenate isteriche; le stava semplicemente piangendo
quieto
sulla spalla.
Lo strinse con
più forza,
ispirando per evitare di seguirlo a breve distanza. “Ti
voglio tanto bene,
okay?” Le tremava la voce ma supponeva facesse parte del
contratto. “Io, Milo,
il Capitano Gillespie, Scorpius … Chiunque ti conosca
finisce per volerti un
gran bene. E questo dice tanto di una persona, no?”
Doveva aver passato una
giornata d’inferno, chiuso nella sua testa in compagnia solo
dei fantasmi del
suo passato. L’avrebbe tenuto stretto finché ne
avesse avuto bisogno.
Non c’era nessun
altro posto,
al mondo, in cui volesse stare in quel momento.
Supponeva che piangere
addosso
alla ragazza dei propri sogni non fosse il metodo migliore per
dimostrarsi un
uomo capace di aver cura di lei, anche se solo in veste
d’amico.
Tornando lentamente alla
ragione – perché era sicuro di averla persa nel
momento in cui l’altra gli si
era seduta accanto – la sciolse anche
dall’abbraccio, cercando il proprio
fazzoletto per tentare di ricomporsi.
Anche Lily aveva gli occhi
rossi e questo gli diede una sensazione dolce amara alla bocca dello
stomaco;
non gli faceva piacere vederla piangere, ma al tempo stesso si sentiva
meno
stupido perché non era solo.
Le porse il fazzoletto e
Lily
lo accettò con un sorriso ancora un po’ lacrimoso.
“Se provi a chiedermi scusa
ti picchio di nuovo.” Lo avvertì, quasi avesse
capito ancor prima di lui le sue
intenzioni. “E poi credo di averti sbavato tutta la spalla di
mascara quindi
siamo pari.”
Si sorrisero e rimasero in un silenzio confortevole, di quelli che non
avevano
bisogno di esser riempiti con parole imbarazzate. Gli capitava di rado
di
averne. Lily poi gli passò un braccio attorno alla vita e
gli posò la testa
sulla spalla; era una persona fisica e doveva smetterla di vedere cose
che non
c’erano.
Le
piace prendere per mano tutti i suoi amici
probabilmente.
“Cosa
c’è?” Chiese però quando
vide con la coda dell’occhio che si stava mordendo le labbra.
“Non te ne vai
adesso, vero?”
C’erano momenti in cui sembrava ancora la quindicenne che
aveva conosciuto. Era
uno di quelli.
La strinse di rimando,
preferendo riflettere prima di prometterle cose che avrebbe potuto
finire per
non mantenere. Decise di essere onesto. “Non
c’è più motivo per cui io rimanga.
Escluso dal caso devo tornare in America. Comunque vadano le cose,
è la che
devo tornare.”
“Ma io ho bisogno di te!”
“Se si tratta
delle lezioni di
auto-difesa suppongo che Dionis…”
Lily lo guardò
male, quasi
l’avesse offesa. “Non si tratta solo di quello! Ho
bisogno del mio migliore
amico qui, non ad un oceano di distanza!”
Deglutì sperando che non si notasse quanto la cosa
l’avesse colpito. Forte.
“Migliore…”
“Di solito la cosa è reciproca.” Lily
non era poi così brava a sembrare
disinvolta quando era in imbarazzo. Non se n’era mai accorto.
“Io sono la tua, no?”
“Lo
sei.” Una parte di sé si
rendeva conto che alla loro età forse quel genere di termini
erano un po’
infantile. Ma Lily li usava, quindi immaginava andasse bene. Era lei
quella ad
intendersi di quel genere di cose. “Ma il fatto non cambia
… non posso restare
qui senza lavorare ad un caso. Sono le regole.”
“Fanculo le regole!” Non c’era alcun
dubbio che lei e Potter fossero fratelli.
Anche
se i problemi con l’autorità credo li abbiano
presi dal padre.
“Dico sul serio
… non è giusto
che ti taglino fuori da un caso su cui ti sei spaccato la schiena! Devi
riprendertelo!”
“Sono
stanco.” Era stanco di
dover combattere i pregiudizi, le occhiate scoraggianti e le continue,
scomode
scoperte sul suo passato. “Forse dovrei davvero fare un passo
indietro.”
“Sì, ma vuoi
farlo?”
Sören era un
guerriero e non
perché suo zio l’aveva cresciuto per esserlo, ma
perché non si arrendeva mai,
neppure di fronte all’inevitabile.
Dopotutto
è venuto a salvarmi con un castello in
fiamme. Mica roba da tutti!
Non ci mise molto a
risponderle quindi. “No.” Scosse la testa.
“Voglio restare.”
Era egoista essere felice di
sentirglielo dire? Forse, dato che si rendeva conto che Sören
sarebbe stato più
al sicuro ad un oceano di distanza da tutto quel casino.
Ma
non starebbe bene. E a dirla tutta, non starei bene
neanche io.
“Allora
resta.” Si voltò verso
di lui, sciogliendo così l’abbraccio: non fu una
sensazione piacevole dato che
l’altro era sempre piacevolmente caldo alla brezza della
sera. “Hai ancora un
po’ prima che scada il tuo visto, no? Troveremo un modo per
convincere mio
padre e il tuo Capitano a farti tornare a lavorare sul caso, te lo
prometto!”
“Troveremo?”
Inarcò le
sopracciglia ed era tornato ad essere il solito saputello. Finalmente.
“Lily,
non serve che ti dica che non dovresti essere
coinvolta…”
“Blah Blah Blah. Ren, mi
conosci da
cinque anni. Pensi sul serio che sia capace di non
impicciarmi?”
“No.”
Convenne. “Sei la
persona con meno senso del limite che conosco.”
“Ehi, grazie tante!” Rise tirandosi in piedi e
tendendogli la mano. Quando lo
vide esitare cercò di infondere fiducia nel proprio sorriso.
“Dai … è ora di tornare.”
Non che ne avesse voglia: fuori dalla bolla che aveva creato Ren
avrebbe dovuto
avvertire Milo, la Gillespie, telefonare a sua madre per dirle che
avrebbe
cenato a casa e chiamare Scott e scusarsi, di nuovo.
Non aveva voglia di fare
nessuna di quelle cose.
Sören la prese e si
tirò in
piedi, prendendo la giacca. “Devi però permettermi
di scusarmi per averti
rovinato il weekend.”
Fece spallucce. “A dire la verità non hai rovinato
granché … solo un pranzo
molto imbarazzante con gente pesante come Troll svenuti.” Lo
prese a braccetto.
“Devo esser sincera? Mi hai tolto dalle grane!”
“Ne sono
lieto.” E lo sembrava
davvero da come si era illuminato.
Già,
beh, dopo la scenata di gelosia che ha fatto, è ovvio
che sia contento se preferisci stare con lui invece che con Scott.
Scacciò quel
pensiero come una
mosca fastidiosa: era comprensibile che Sören fosse geloso.
Era un amico
maschio e le voleva bene.
Anche
James è geloso di Scott. Sarò come una sorellina
o giù di lì per lui.
“Se proprio ti
vuoi scusare,
puoi offrirmi la cena. Ho saltato il pranzo e sto morendo di
fame.” Suggerì,
perché lasciarlo solo quando aveva cominciato a riprendersi
sarebbe stato …
beh, poco professionale. E da pessima amica. “Io scelgo il
posto, tu paghi, che
ne dici?”
“Dico che va bene.” Era tanto sbagliato provare
orgoglio sapendo che era in
grado di farlo sorridere dopo una serie di brutte notizie? Forse solo
un
pochino.
Quando andarono a riprendere
Milo, che trovarono prevedibilmente fuori da un locale con una birra e
uno
spinello in mano, furono accolti da un largo sogghigno.
“Il bambino ha
finito di fare
il broncio?” Chiese come se la crisi di Sören fosse
stata solo un capriccio.
Forse era il metodo migliore di affrontarla perché questo
parve più occupato a
guardarlo male che a sentirsi a disagio all’idea che
l’altro si fosse
preoccupato a morte.
“Sei un
idiota.” Gli disse
infatti.
“Mi
ferisci.” Scrollò le spalle.
“Beh, torniamo alla catapecchia e tranquillizziamo il resto
dei maghetti?”
“Pensavamo di
andare a cena
prima.” Obbiettò, ricordando come trai maghetti
sopra citati ci fosse anche Ama
Gillespie. Non aveva nessuna voglia di essere sgridata per
non aver immediatamente segnalato la presenza dell’agente
Prince
alle autorità competenti.
E
poi mi sta antipatica.
Milo guardò
Sören e poi annuì.
“Okay, andate. Me la vedo io con il carrozzone.”
“Sei
sicuro?” Sören sembrava
lottare tra l’esser ligio alle regole e il desiderio di
starsene ben lontano.
L’altro gli diede
una pacca
sulla spalla. “Hai dato la tua parola alla principessina,
principino. Andate a
godervi il resto della serata.” Ed aggiunse qualcosa in
tedesco che fece
avvampare l’altro e tirarla via con una certa urgenza.
“Che ha
detto?” Si informò
curiosa. Che Milo stesse cercando di metterli assieme ormai
l’aveva capito. Era
stato un po’ difficile non notare quanto fosse sembrato
esaltato all’idea che
una volta avesse avuto una cotta per l’altro.
Io
me ne sono accorta. Ma Sören?
“Niente.”
Borbottò. “Una
stupidaggine.”
Okay,
se n’è accorto anche lui.
“Sta per caso
cercando di metterci
assieme?” Non era la prima volta
che si sarebbe trovata in una situazione simile, dove un ragazzo le
sponsorizzava un altro.
Certo, anche se sarebbe
la prima volta che il ragazzo in questione è Ren.
Per tutta risposa venne
guardata con un orrore
pari solo a quello che si poteva vedere negli occhi delle vittime di un
Dissennatore. “No!” Sbottò l'altro.
“Come ti viene in mente?”
“Okay, come non
detto! Mi è sembrato, tutto qui.” Alzò
le mani, confusa da quell’improvviso scoppio e anche un
po’ irritata dall'essere considerata assolutamente
raccapricciante come interesse amoroso.
Sören scosse la testa,
borbottando qualcosa di molto tedesco trai denti.
Ci volle un’intera
cena e una
pinta di birra per farlo tornare ad una fluente conversazione in
inglese.
****
Note:
Ci ho messo di tutto, lo so. Ed ho ridotto anche, e questa la cosa
terrificante. Dedico questo capitolo a Claudia, augurandole
un felice, prossimo matrimonio! ;D (Lei sa chi è)
Lily sta friend-zonando Ren?
Yup, lo sta facendo e no, non se ne sta rendendo conto. Credetemi,
è più tonta
di quanto non pensi di essere. Ma ho un’intera pletora di
personaggi pronti ad
aprirle gli occhi.
(Milo, metti giù
la mano,
grazie, ha capito il punto.)
Questa
la canzone del capitolo e questa
la canzone ispiratrice della scena Lily/Ren.
Nota per chi è
interessato: ho
ceduto al lato oscuro del fandom e mi sono fatta Tumblr. Per chi vuole
e lo ha,
può seguirmi qui. Non
serve essere iscritti per guardare le minchiate che posto, tranquilli!
;D
|
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Capitolo 29 *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo XXVIII
When
you have a connection with someone, it really never goes away
You
snap back to being important to each other because you still are.
(Orange
is the New Black)
13
Luglio 2028
Ministero
della Magia, Ufficio Auror. Mattina.
Ama non era ancora riuscita
a
capire se l’Inghilterra le piacesse o meno. Nel dubbio,
pensava fosse una gran
seccatura.
Non era interessata a scatti
di carriera, né credeva nel grande sogno della cooperazione
magica
internazionale, per cui non trovava che aver preso una stanza in un
albergo
Babbano vicino al Ministero per poter aprire tutti i giorni gli occhi
sul clima
uggioso locale fosse poi così emozionante.
Tuttavia l’ufficio
Auror era interessante: a partire
dalla
persona che lo dirigeva, il famoso Harry Potter, l’uomo che
aveva sconfitto la
morte per ben due volte, fino al fatto che fosse l’eccellenza
delle forze di
polizia magiche di tutta Europa.
Dopotutto
detengono la percentuale di maghi oscuri
arrestati più alta del continente.
“Spero che ti
troverai bene
qui, Ama” La apostrofò il Sergente Weasley dopo
esser venuto ad accoglierla
all’entrata. “Siamo gente alla mano e la squadra di
mio nipote James è composta
da ragazzi in gamba.”
“Mi è stato detto.” Rispose cercando di
mostrarsi cordiale mentre lo seguiva
lungo gli stretti cubicoli che dividevano la sala operativa; essendo
amico di
sua madre non voleva essere scortese, ma la infastidiva essere
considerata una ragazza prima che
un agente.
E
so riconoscere il tono di chi mi considera così.
“Se hai qualche
dubbio o
preoccupazione vieni pure da me.” Disse infatti il mago con
tono paterno.
Probabilmente gli ricordava sua figlia.
“Non credo ce ne
sarà
bisogno.” Lo seccò senza troppi sensi di colpa.
Non riusciva a non ricordare
come gli fosse sembrato sin troppo contento di vederla sostituire
Sören.
Prince
…
Era preoccupata per lui,
ovviamente, anche se aveva cercato di tenere un comportamento
professionale
durante la sua sparizione.
Quando l’aveva
chiamatoa suo
ritrovamento, le era sembrato molto più sereno rispetto a
come l’aveva lasciato
ed era stata contenta di scoprire che sarebbe rimasto a Londra fino
alla
scadenza del suo visto.
Lily
Potter ha mantenuto la sua promessa. L’ha rimesso
in piedi.
Non ci voleva un genio per
capire che era lei la misteriosa ragazza di cui Prince si era
innamorato.
È
bella, intelligente senza però essere aggressiva
… Il
genere di ragazza per cui gli uomini perdono la testa, mia cara Ama.
Accantonò quel
pensiero quando
arrivò al cubicolo della squadra.
“Ragazzi,
l’avete già
conosciuta, comunque lei è Ama Gillespie e sarà
il vostro nuovo agente di
collegamento.” Venne presentata. Ama riconobbe e
salutò con un cenno della
testa Scorpius Malfoy e Robert Jordan mentre si presentò con
un sorriso al moro
in maniche di camicia rimboccate – immaginava che avendo
tutti quei tatuaggi sentisse
il bisogno di mostrarli – che doveva essere James Potter.
Non
assomiglia molto a suo padre. Deve aver preso dal
lato Weasley della famiglia.
Il ragazzo non
ricambiò il
sorriso. “Zio, quanti ancora ne dovremo cambiare?”
Si lamentò senza degnarla di
uno sguardo. “Senza offesa bella, ma dover spiegare tutto da
capo…”
Il sergente aprì bocca per rispondere, ma Ama lo interruppe:
sua doveva essere
la mossa. “Mi permette?” Poi si rivolse al ragazzo.
“Forse sei stato male
informato, sono stato il vostro contatto su suolo americano. Seguo il
caso sin dagli
inizi. E il mio nome non è bella,
ma
Ama o ancora meglio Sergente Gillespie.”
Sottolineò e non fu una sua
impressione, vide Malfoy soffocare un ghigno.
Potter arrossì e
abbasso lo
sguardo. Conosceva ragazzi simili; era un ridimensionarsi fisico che
iniziava
dal crollo delle spalle. C’era sempre un margine di
miglioramento in quelli
come loro.
Non
sono cattivi … solo pieni di testosterone.
“Mi scusi
Sergente.” Borbottò
lanciando un’occhiata all’occhiata severa dello
zio. “Non era mia intenzione
mancarle di rispetto.”
“L’agente
Potter è giù di
morale perché gli manca Sören.”
Interloquì Malfoy. C’era sempre un pacificatore
in una squadra e il biondo dai lineamenti sottili doveva essersi
guadagnato
quel ruolo.
“Che cavolo
dici?!” Sbottò
l’altro con aria orripilata. “Chiudi quella
ciabatta Malfoy!”
“Capisco che la sua estromissione dal caso non vi abbia reso
felici.” Rispose
tranquilla. “Tuttavia le contingenze lo hanno reso
necessario. Spero potremo
lavorare bene assieme.”
Il Sergente Weasley le
scoccò
un’occhiata d’approvazione di cui avrebbe
volentieri fatto a meno. “Bene
ragazzi, conoscete la consegna. Voglio un rapporto sulla mia scrivania
per il
fine settimana, okay Jamie?”
“Sissignore!”
Quando il mago
più anziano se
ne fu andato, Ama seppe di avere l’attenzione e la
curiosità dei tre auror
completamente su di sé. Era ora di entrare in scena.
“Ho letto l’ultimo
rapporto…”
“L’ho scritto io!” La interruppe Malfoy
con l’aria di chi voleva ricevere dei
complimenti. “Sai, Potty è analfabeta.”
“Ma vaffanculo.” Fu la risposta poco offesa. Potter
le rivolse un’occhiata e
poi parve decidere di tenderle una mano. “Sergente, qualsiasi
cosa esca dalla
bocca di questo cretino, a meno che non riguardi un caso, non
è da prendere in
considerazione.”
“Lo
terrò a mente.” Rispose a
tono rimediando una serie di sorrisi. Sapeva come stimolare il
cameratismo se
voleva.
E
qui è il caso che lo faccia. Sono un’intrusa e
vado a
scombinare degli equilibri già formati.
“Penso che, dati
gli ultimi
sviuluppi, dovremo concentrarci su Sophia Von Hohenheim.”
Osservò tirando fuori
dalla propria borsa una serie di fascicoli ridotti, che poi
distribuì ai tre.
“Io e l’agente Estevez abbiamo scavato a fondo nel
suo passato …
sfortunatamente non abbiamo trovato molto.” Esordì
con una smorfia; c’era da
aspettarsi che la strega fosse un fantasma come lo era stato il
fratello.
Quella
famiglia è uno scrigno di cui si è persa la
chiave.
A conti fatti, Thomas
Dursley
e Sören erano gli unici a vivere alla luce del sole.
Malfoy aprì il
fascicolo e gli
occhi saltarono rapidi da una riga all’altra. “Ehi,
è giovane!” Esclamò.
“Quarantadue anni … e Sören quanti ne ha?
Venticinque, ventiquattro?”
“Ventiquattro.”
Corresse
Jordan. “Quindi lo ha avuto a quanto? A diciotto
anni?” Fischiò colpito.
“Appena diplomata!”
“Non ha mai
frequentato un
Istituto magico.” Spiegò. “È
stata educata in casa e non ha frequentato circoli
Purosangue fino a che non si è sposata.”
“Con Elias Prince, il padre di Sören.” Le
fece eco Malfoy. “Però … Potty, non
mi hai raccontato tutta quella storia pazzesca sul fatto che il tizio
fosse lo
zio del Preside Piton?” Si rivolse a lei. “Sai,
Severus Piton … uno degli eroi
della battaglia di Hogwarts. Non era uno studente però. Il
padre di Sören
quanti anni aveva?”
“Era un
vecchio.” Disse senza
mezzi termini Potter, girando la sua cartellina così che
potessero vederla – un
po’ inutilmente – tutti. C’era una foto
ritagliata da un quotidiano, che lei e
Rico avevano scovato dopo aver passato un pomeriggio a spulciare tra le
principali testate giornalistiche tedesce. Ritraeva una giovanissima
Sophia Von
Hohenheim in abito da sposa, al braccio di un mago segaligno e
dall’espressione
austera. “Questo tizio deve avere tipo cento
anni più di lei! Ugh.”
Lanciò
un’occhiataccia a Malfoy. “I matrimoni tra
Purosangue sono folli.”
“Ehi, non guardare
me, i miei
genitori hanno due anni di differenza!” Si difese
l’altro un po’ seccato.
“Elias Prince era
un alchimista
noto in certi ambienti, ma in disgrazia a causa di vicissitudini
familiari.” Li
riportò in argomento. Aveva la netta impressione che per
quei due fosse facile
uscire dal seminato. “Von Hohenheim deve aver combinato il
matrimonio con sua
sorella per tenerselo al fianco. Non mi stupirei se avesse collaborato
al progetto
Demiurgo originario.”
Malfoy annuì e
lanciò
un’occhiata alla foto nel suo fascicolo.
“Sören assomiglia un sacco a suo
padre, eh? Stessa faccia e stessi occhi.”
“È vero.” Commentò sentendosi
un po’ a disagio.
Stiamo
pur sempre parlando dei suoi genitori.
Non doveva essere
l’unica a
pensarlo perché Jordan si schiarì la voce.
“Era coinvolta in quello che
facevano marito e fratello?” Chiese. “Qua non vedo
nessun capo d’accusa o
imputazione.”
“Perché è incensurata. Secondo le
nostre indagini e fonti non ha mai
partecipato né all’attività della Thule
né a quelle del fratello. Ad oggi
risultava morta da dodici anni.”
“Dodici anni nel
nulla…”
Considerò meditabondo Malfoy. Sembrava aver qualcosa in
mente e a sentire i i
suoi superiori – si era informata, sì - era il
creativo del gruppo, quello con
le idee. “Ci dev’essere un motivo per cui dopo
dodici anni è voluta uscire allo
scoperto. Voglio dire, è stata beccata da una telecamera di
sicurezza di una
banca … Per una persona che ha fatto di tutto per far
perdere le proprie tracce
mi sembra un errore grossolano, no?”
“Secondo me la
stiamo vedendo
da un’ottica sbagliata.” Interloquì
Jordan. Le sue valutazioni psicologiche –
sì, aveva guardato anche quelle, e quindi? –
parlavano di un’intelligenza
riflessiva come della capacità di saper intervenire al
momento giusto mediando
trai caratteri esplosivi di Potter e Malfoy. Sarebbe stato un alleato
prezioso.
“Cioè?”
Chiese dandogli la sua
completa attenzione.
“La vera domanda
è … da quanto non si
sta nascondendo? Il
fatto è che l’abbiamo trovata solo per via di John
Doe. Nessuno l’ha mai
cercata.”
“Da quando
è morto Von
Hohenheim, no?” Si inserì Potter. “Da
quel che ci ha detto controllava la vita
della sorella a tal punto da darla in sposa ad un tizio che voleva
lavorasse
per lui. Morto perché continuare a nascondersi?”
Ama considerò la
cosa e si
trovò d’accordo. “Rimane allora da
chiarire come sia venuta in contatto con il
Camaleonte e l’intera faccenda del Demiurgo. Secondo la sua
biografia si è
sempre disinteressata dell’attività di famiglia
… Cos’è cambiato?”
Potter schioccò
le labbra con
aria saputa. “Motivo più vecchio del mondo. Soldi.
Se l’intero progetto non fosse andato in vacca …
beh, pensate a quante camere
blindate ci si possono riempire con gli introiti di una simile roba
messa in
commercio!”
“Sempre che il
fine ultimo
fosse la messa in commercio.” Replicò Malfoy poco
convinto. “Ragazzi, stiamo
parlando di qualcosa che rende un mago una specie di Bolide assassino
… Nessun
Ministero sano di mente autorizzerebbe la vendita o la somministrazione
di una
roba del genere. E non sto parlando solo del nostro,
super-conservatore.” Si
voltò verso di lei. “In America
siete
aperti, ma così tanto?”
“No, non
direi.” Confermò.
“Anche se non avesse gli effetti collaterali che sta dando,
una simile
innovazione sarebbe accolta con enorme cautela.” Scosse la
testa. “Ottenere un
brevetto alla luce del sole e in tempi brevi sarebbe
difficile.”
“Facciamo due calcoli.” Esordì Malfoy.
“Sono anni che ci lavorano, dato che
Sören era il paziente zero. Adesso però hanno dato
una bella accelerata visto
tutta la gente che si è ammalata … Stanno facendo
le cose in grande. Credo
abbiano, e scusate l’espressione, il pepe al sedere.
Perché?”
Non si era sbagliata, il
biondo era la mente del gruppo anche se il comando operativo era nelle
mani di
Potter.
“Qualcuno ha
comprato il
siero.” Realizzò di colpo, ispirata dalle parole
dell’altro. “O meglio,
qualcuno ha comprato la ricerca sul
siero.”
Malfoy schioccò le dita, con un sorriso trionfante.
“Per questo hanno potuto
fare le cose in grande … sperimentazioni, strumenti e
l’affitto di un capannone
con tanto di incantesimi protettivi. Adesso hanno i soldi. E credo ne
servano un
sacco per questo genere di roba, no?”
“I beni dei Von
Hohenheim sono
stati devoluti al Ministero tedesco. Lei non avrà niente, se
non quello che è
riuscita a portar via dodici anni fa … e il Camaleonte non
può avere simili
fondi, anche se ha camera blindate sparse ovunque. Sì,
qualcuno ha finanziato
il progetto Demiurgo. Si aspetterà dei risultati.”
“Già, ma non avrà un
granchè, no?” Ribattè Potter confuso.
“Il siero si è
rivelato una schifezza … fa esplodere
le persone!”
Ama esitò,
mordendosi un
labbro. “Staranno di certo cercando un modo per contrastarne
gli effetti
collaterali come stiamo facendo noi. Ci sono state altre visite di John
Doe al
San Mungo?”
“Non sotto i
nostri occhi.” Fu
pronto ad assicurare Potter. “Abbiamo messo delle telecamere
di sorveglianza
nelle camere delle persone malate e ci sono agenti a piantonarle giorno
e
notte. Stesso discorso vale per gli ingressi e il laboratorio di
analisi e
pozioni.”
Riflettè
velocemente. “Quante
persone si sono ammalate fin’ora e quante sono state portate
al San Mungo?”
“Tutte quelle che
si sono
presentate dopo l’annuncio della Gazzetta e sono state
scoperte con i sintomi
sono state ricoverate. Sono circa una ventina.”
Contò Jordan. “Più Henry Price
e il nostro sergente, Liam Flannery. Ventidue quindi.”
“A cosa stai
pensando Ama?”
Chiese Malfoy mentre una ruga di preoccupazione gli solcava la fronte.
Quando
smetteva di sorridere il viso gli si trasformava facendolo sembrare
quasi duro.
“Sto pensando che
non vorranno
chi si è ammalato … Hanno di certo i loro
pazienti. Quel Reynard per esempio …
Tutti quelli che non abbiamo noi, li hanno loro. Per questo non hanno
tentato
di rapire nessuno al San Mungo. Non gli servono. Sto pensando che
invece
potrebbero volere chi ha sviluppato un decorso della malattia
diverso.”
“Il pipistrello!” Esclamà Potter prima
di correggersi ad una sua occhiata
perplessa. “Cioè, Prince … Prince
è il paziente zero e l’unico tutt’ora
immune.” Aggrottò le sopracciglia.
“Significa che è in pericolo?”
Malfoy fece una smorfia.
“Non
necessariamente … Il fatto è che non sappiamo quanto del progetto originario
conoscano. Non sono alchimisti, qualcun
altro lavorerà alla parte scientifica della faccenda.
Potrebbero aver trafugato
la ricerca ed averla usata senza sapere del primo esperimento.
Dopotutto è
stato il San Mungo a scoprire che Sören era coinvolto e solo
perché ha
rischiato di essere infettato da Price.”
“Sì, ma stiamo parlando di sua
madre
… Come fa a non saperlo?” Obbiettò
James incredulo.
Ama si scambiò
un’occhiata con
gli altri due, capendo che nutrivano gli stessi dubbi. “Non
ha mai parlato di
lei.”
“Non è che si ammazzi di chiacchiere.”
Considerò Potter con una smorfia. “
Dobbiamo interrogarlo.” Alle occhiate che ricevette
– quella di Malfoy
prometteva anche il lancio di un oggetto contundente –
alzò le mani in segno di
difesa. “Cazzo, neanche a me piace l’idea, okay? Mi
sembra di fare il bullo o
roba del genere … ma che alternative abbiamo? È
l’unica persona al mondo che conosce
i colpevoli!”
Ama ci mise poco a decidere
il
da farsi. “Gli parlerò io, ma non qui e non come
agente. Interrogarlo come un
civile o peggio … un sospetto … non sarebbe
opportuno.”
“Sarebbe uno schifo.” Concordò Potter
prima di dare una gomitata a Malfoy che
lo fissava con un ghigno divertito per Dio sa quale motivo. Sembravano
una
vecchia coppia sposata. “Cerca di farti dire quel che sa
sulla tizia. Più
inquadriamo il personaggio meglio è.”
Malfoy annuì.
“Intanto noi
cerchiamo di capire se questo finanziatore esista e chi diavolo
sia.”
****
Il
Paiolo Magico. Mattina.
Sören si
svegliò con un peso
sul petto. Preoccupato che si potesse trattare di un malore fece
scivolare la
mano in direzione della cassa toracica, salvo trovarvi …
capelli. Lunghi. E
rossi.
Abbassando lo sguardo quasi lo rischiò,
quell’infarto, quando notò che abbracciata
a lui, dormiente, c’era nientemeno che Lily.
Cosa
…
Erano entrambi vestiti, e
quella era la notizia migliore che il suo povero cervello, sovraccarico
di
confusione e di sonno, potesse dargli.
Erano vestiti ma erano
entrambi
nel suo letto, alla locanda; con fatica ricordò come la sera
prima l’amica avesse
insistito per accompagnarlo, salvo finire per fermarsi per un the. Si
erano
messi a parlare sul letto dopo che Lily si era lamentata della
scomodità delle
poltrone e ricordava di aver chiacchierato con lei fino a tardi, di
cose
importanti come di nulla. Ad un certo punto, quando le tazze erano
vuote e la
notte ormai inoltrata, aveva cominciato a sentire le parole pesanti,
così come
le palpebre.
E
poi mi sono addormentato. Quindi è rimasta con me?
A quanto sembrava
sì: Lily indossava
ancora il vestito estivo della sera prima, mentre le scarpe erano
abbandonate
ai piedi del letto.
Deve
essersi addormentata anche lei …
Infastidita dal suo
muoversi,
o forse dal cambiamento del ritmo del suo respiro – ora era
sveglio e piuttosto agitato
– l’altra mandò un
mugugno e gli si incollò addosso con più tenacia.
Per
tutti gli Inferi.
Per fortuna Milo non si
vedeva
da nessuna parte e, a giudicare dal letto intoccato, non si era neppure
preso
il disturbo di tornare. Sospirò, aggiustando il peso
dell’altra in modo che
entrambi fossero comodi.
Cerchiamo
di rimandare il momento imbarazzante
principino?
Quello e il fatto che in
effetti stesse bene con il corpo morbido e caldo dell’amica
accanto; gli era
capitato di rado di svegliarsi con una donna nel proprio letto, avendo
sempre
preferito incontri occasionali con ragazze il cui unico scopo della
serata era
divertirsi.
Senza
contare che non sono materiale a cui dormire
accanto. Ho incubi e grido.
Quella notte invece era
trascorsa tranquilla nonostante la giornata orrenda; aveva dormito come
un
bambino.
Perché
c’era Lilian.
Sorrise, permettendosi di
sfiorarle i capelli profumati di fiori e di sole con le labbra. Lily
emise un
secondo mormorio incoerente facendo scivolare la propria gamba nuda tra
le sue.
Era ora di alzarsi.
“Lily.”
La chiamò scuotendola
piano per la spalla. “Lily, svegliati.”
Tutto quello che ottenne fu
uno sbuffo che gli spedì una scarica di solletico e altro in svariate, scomode, parti del
corpo. Da quant’è che non
entrava in intimità con una donna?
Troppo.
“Lilian.”
Ripetè con fermezza.
“Ho bisogno di alzarmi.”
L’altra finalmente
aprì gli
occhi, squadrandolo assonnata. “Che buffo.”
Sentenziò. “Dormi con il balsamo
per capelli addosso?”
Indeciso se scuotere la
testa,
alzare gli occhi al cielo o rassegnarsi al fatto di doverla spostare di
peso preferì
rispondere. “No. Ieri sera mi sono addormentato senza aver
tempo di prepararmi
per la notte.”
“Ah,
già! Un momento parlavi
con me di poesia provenzale e quello dopo russavi.”
Sbadigliò districandolo
finalmente dalla presa – piuttosto ferrea c’era da
dire – in cui l’aveva
avvolto. Sembrava perfettamente a suo agio nel suo letto, anche a piedi
nudi,
arruffata e assonnata. Era bellissima ed evidentemente irraggiungibile.
Non
prova il minimo imbarazzo. Mi considera una specie
di fratello putativo.
La cosa lo sconfortava
quanto
confortava. Era possibile? “Io non russo.”
Trovò comunque giusto puntualizzare.
Lily gli servì un
sorrisetto adorabile
che gridava ‘a cinque anni se venivo ignorata davo fuoco alle
cose’. “Sbavi sul
cuscino però, lo sai?”
“No, non lo
faccio.” Si passò
una mano dietro la nuca, trovandola fastidiosamente appiccicosa. Aveva
bisogno
delle proprie abluzioni mattutine in maniera disperata, ma lo stesso
doveva
valere per Lily. “Hai bisogno di farti la doccia? Abbiamo il
bagno privato, se
vuoi.”
“No, me la faccio
a casa.”
Sbadigliò di nuovo. “Scusa se ti ho occupato il
letto. Ho pensato di chiudere
gli occhi per cinque minuti e racimolare le forze per Smaterializzarmi,
ma poi…
bam! Crollata.” Fece un
gesto vago,
mettendosi a sedere e stiracchiandosi. “È comodo
però.”
“Sì, lo
è e comunque non c’è
problema, non sei una compagna fastidiosa.”
Si sarebbe mangiato la lingua non appena ebbe pronunciato la frase,
essendo
l’epitome della fraintendibilità. Da come Lily lo
guardò divertita doveva
essere arrossito. “Anche tu sei un ottimo compagno di
letto!” Trillò allegra.
Mi
sta prendendo in giro. Grandioso.
Ma quella mattina, forse per
la
sveglia da infarto, forse il desiderio di non fare sempre la figura
dell’idiota
alle prime armi, non era disposto a cedere. “Scommetto lo
dici a tutti gli
uomini con cui dormi assieme.”
Lily spalancò gli
occhi e per
un momento ebbe paura di aver esagerato prima che scoppiasse a ridere.
“Ren!”
Esclamò portandosi una mano al cuore nella maniera un
po’ teatrale che la
contraddistingueva. “Mi sento offesa nella mia fragile e
ingenua femminilità!”
“Ingenua non è un termine che ti
attribuirei.” Sorrise di rimando, parando con
un braccio il cuscino che gli arrivò addosso. “E
non sei fragile.” Aggiunse.
“Non lo sei mai stata.”
Lily gli diede un colpetto sulla spalla, scuotendo la testa.
“Come fai a dire
cose tanto carine e tremende nel giro di due frasi?” Ma gli
occhi le ridevano,
quindi andava bene.
“Faccio del mio
meglio.”
Replicò alzandosi in piedi perché stava
diventando difficile rimanere nello
stesso spazio dell’altra senza volerla toccare.
L’abbraccio della sera prima
aveva sbloccato qualcosa e adesso gli riusciva difficile gestire il
desiderio
di stringerla di nuovo a sé.
È
fidanzata. Con Scott Ross. Ti vede come un amico, come
un fratello. Falla finita.
Lily lo imitò,
raccogliendo le
scarpe e saltellando per infilarsele. “Meglio che vada, i
miei pensano che sia
ancora in Scozia, ma ho davvero bisogno della mia doccia e di un paio
di
vestiti puliti.”
Sören
annuì, cercando di
stirare la povera camicia dell’uniforme con le dita, ma senza
successo: Milo
l’avrebbe ucciso per averci dormito dentro. “Allora
ti accompagno…”
Un Gufo interruppe le sue
parole e scusandosi con un cenno della testa andò ad
accoglierlo alla finestra;
portava con sé un grosso pacco che aveva l’aria di
aver attraversato notevoli
distanze e anche un paio di temporali. Capì subito di cosa
si trattava.
È
arrivato.
“Ti lascio alla
posta.” Gli
comunicò Lily già sul ciglio della porta.
“Ci sentiamo stasera?”
“No,
aspetta.” La fermò
liberando il gufo dalla consegna e pagandolo con un paio di falci.
“Il pacco è
per te.”
L’altra battè le palpebre confusa. “Per
me? Ma non aspetto niente!” Lesse
qualcosa nella sua espressione perché si
illuminò. “È un regalo
per me?” Non gli lasciò il tempo di aprire bocca.
“È da
parte tua? Grazie!”
“Sì, è per te, sì
è da parte mia.” Ripetè paziente, non
riuscendo a reprimere
il divertimento quando cominciò a girargli attorno eccitata
come una bambina.
“Dovresti evitare la Legimanzia con un Occlumante. Rischi
un’emicrania.”
“Sciocchezze, non stavi neanche tentando di nasconderlo, sei
troppo
compiaciuto!” Ribattè mostrandogli la lingua.
“Che cos’è?” Gli prese la
scatola
dalle mani e cominciò a disfarla con efficace decisione.
“Il mio compleanno non
è adesso, lo sai sì?”
“Non ho bisogno di
un
compleanno per farti un regalo spero.” Rispose senza pensarci
troppo e fu
sorpreso quando Lily lo guardò di sbieco ed
arrossì.
…
perché?
“Naturalmente non
ti serve.
Amo essere ricoperta di regali!” Replicò e
Sören pensò di esserselo sognato.
Un ragazzo che ti faceva un
regalo era sempre una cosa carina. Un ragazzo come Sören, che
era capace di
dormire con una ragazza tutta la notte senza per questo metterle neanche troppo accidentalmente le mani
addosso era da sposare.
Il
mio cavaliere. Beata chi se lo prende.
Non
quella Gillespie però, eh.
Oltretutto quella mattina non aveva i suoi soliti
muri addosso; forse
perché era sveglio da poco, forse perché la sera
prima si era sfogato dopo
settimane di repressione emotiva e calci nel sedere.
Qualsiasi cosa fosse, Lily
gli
leggeva nello sguardo quanto fosse felice di averla lì. E le
piaceva, la cosa. Anche troppo, Rossa.
Diede uno strattone alla
ceralacca della scatola e fece quasi saltar fuori il regalo; lo prese
tra le
dita, incuriosita. Era un cerchio fatto di fili intrecciati, contornato
di
piume di quella che sembrava un’aquila e pezzi di legno e
perline. Era
particolare e aveva un’aria … magica.
Sören parve intuire
la sua
confusione. “È un acchiappa-sogni.” Le
si affiancò. “Ha una storia curiosa …
è
di origine indiana, forse di una delle tribù del
nord-america. Gli indiani hanno
tentato di convincere i Babbani che sia poco più che un
insegna o una
decorazione, ma nella cultura americana ha preso tutt’altro
ruolo.”
“Acchiappa i sogni?” Intuì.
“Secondo i Babbani
sì. La rete
all’interno del cerchio di legno serve ad intrappolarli e se
buoni, a mandarli
verso il filo di perline.” Lo seguì con un dito,
mostrandogli la fila di
pietruzze colorati e lucenti.
“E quelli
cattivi?”
“Nelle piume di
aquila. Non li
fanno uscire e scompaiono alla luce del giorno.” Fece un
mezzo sorriso. “Magari
è una leggenda sciocca, ma non trovi sia simile a quello che
succede quando
estraiamo i ricordi per vederli in un Pensatoio? Ho pensato che un
guardiano
simile potesse esserti utile.”
Lily sentì qualcosa pungerle negli occhi e potevano
benissimo essere lucciconi;
Sören non aveva preso sottogamba quello che gli aveva detto.
Sören non gli
aveva fatto un regalo carino che poteva sfoggiare.
Sören le aveva
fatto un regalo
per proteggerla.
Cavolo,
se è da lui.
Ripose
l’acchiappasogni nella
scatola e si voltò per abbracciarlo stretto. Era bello
sentirlo subito
ricambiare senza esitazioni. Non ci fu comunque bisogno di
ringraziarlo, perché
Sören non era uno scemo, capiva. La
capiva.
“Si intona alla
perfezione con
i colori della mia stanza.” Ridacchiò per darsi un
tono, anche se non servì a
granchè dato che l’altro gli passò il
proprio fazzoletto con l’aria di chi non
se l’era bevuta. “Comunque non è una
scusa per mollare i nostri allenamenti,
vero?”
Sören scosse la
testa.
“No.” Inarcò
un sopracciglio in una maniera
che segnalava piuttosto chiaramente quanto dietro la cortesia e
gentilezza da
cavalier servente ci fosse anche altro. “Sei talmente
testarda che non avrei il
coraggio di lasciarti nelle mani di Dionis.”
“Sono testarda con chi è più testardo
di me!” Replicò, serrandosi poi la
scatola al petto. “Ma grazie. Davvero.”
Sören le sorrise.
“Non c’è di
che.”
Lily abbassò lo sguardo per prima, intuendo che non era il
caso di rimanere
fermi a guardarsi in silenzio. “Allora … ci
vediamo.” Si schiarì la voce. “E non
andartene da nessuna parte.”
“No, resto qui.” Rispose tranquillo.
“Almeno fino alla scadenza del mio visto.”
“Troveremo il modo per farti riavere
quell’indagine.” E di questo era sicura,
inequivocabilmente tale.
In
fondo servirà a qualcosa che sia la figlia del capo
dell’Ufficio Auror, no? Pressioni, ricatti emotivi?
Morgana,
come mi sento Serpeverde.
Tom e Al sarebbero stati
fieri
di lei. Sören in compenso fece una smorfia. “Lily,
non voglio che tu vada da
tuo padre e gli chieda di farmi di nuovo entrare in squadra.”
“Ma…”
“Non è così che voglio
lavorare.” La fermò. “Voglio lavorare al
caso perché i
miei superiori pensano che sia la persona adatta, non perché
qualcuno ha fatto
delle pressioni.” Scosse la testa. “Apprezzo
l’idea, ma preferirei tu non lo
facessi. Troverò un altro modo per riprendermelo.”
Onesto e retto Ren …
C’era qualcosa di
adorabile,
irritante e insieme affascinante nel modo in cui l’altro non
era disposto a
scendere a compromessi. In ogni caso, era una cosa che rispettava.
“Va bene.”
Annuì. “Ad Hogwarts saresti stato un perfetto
Tassorosso, sai?”
L’altro
aggrottò le
sopracciglia, ma si rasserenò al cambio
d’argomento. “Mi risulta che la
tradizione vuole che certe famiglie finiscano tutte nella stessa casa,
e i
Prince erano tutti a Serpeverde.”
“Beh, mica detto, guarda mio fratello Al! Tutti Grifondoro e
lui il ragazzo
immagine di Serpeverde!” Scosse la testa. “Fidati,
sei un Tasso.”
Sören scosse la testa, facendo per dire qualcosa, ma fu
interrotto dallo
squillo secco del proprio cellulare. Lo prese dallo scrittoio e gli
lanciò
un’occhiata che non riuscì a decifrare.
Ed
ecco tornati i muri.
“Devo rispondere,
è Ama.”
Ama. La chiama per nome ed è una
sua
superiore?
Milo quindi aveva ragione:
c’era del tenero e forse non era
unilaterale.“Niente di preoccupante, vero?”
Scosse la testa con un lieve
sorriso. Era contento della
chiamata?
“No, credo voglia solo assicurarsi che stia bene. Il
messaggio di ieri non deve
averla convinta.”
Era contento della chiamata.
“Fa’
pure!” Esclamò con entusiasmo.
“Devo andare comunque, sul serio, prima che mi diano per
dispersa e non è
proprio il caso che accada, ti pare? Ti chiamo questo pomeriggio per
decidere
un piano d’azione e anche il prossimo allenamento.
Salutamela!” Non gli diede
il tempo di rispondere che infilò la porta e tirò
dritto per le scale.
Wow,
non avevo mai detto tante parole senza respirare.
Imbarazzante. L’ho praticamente aggredito.
Riflettendoci, avrebbe
dovuto
essere grata all’agente americana di averle dato modo di
congedarsi senza
indugiare troppo nello strano imbarazzo che si era insinuato nelle
ultime
battute della conversazione.
Non le era grata per niente.
Sören rispose al
telefono con
la distinta sensazione che qualcosa di poco piacevole fosse accaduto.
Certe
sensazioni facevano parte del suo lavoro.
Anche
quando non sono in servizio.
“Ama.”
Salutò comunque
cercando di suonare cordiale. “Buongiorno.”
L’altra fu veloce a sospirare segnalandogli come non si fosse
sbagliato. “Ehi.
Come stai?”
“Bene …
meglio.” Si corresse.
“Va meglio.”
“Hai già fatto colazione? Perché sto
uscendo adesso dal Ministero ed avrei
bisogno di parlarti.”
“A proposito del caso?” Non ci girò
attorno. Lui e Ama non avevano il tipo di
rapporto che portava ad offrire inviti a colazione tanto naturalmente.
Specie
visto ciò che è successo alla festa per la tua
partenza.
“Sören,
mi dispiace … so che
hai bisogno…”
“Ama, non c’è problema, se posso
collaborare lo faccio volentieri.” La fermò
perché era stanco di esser trattato con la delicatezza
riservata ad un malato
terminale. Lily era l’unica che non l’avesse fatto.
Mi
ha picchiato.
Sorrise al ricordo.
Concordarono così un punto di ritrovo e di trovarsi sul
posto di lì a mezz’ora.
Chiusa la chiamata sospirò; aveva bisogno di una doccia,
vestiti puliti e di
tutta la calma che Lily gli aveva lasciato.
****
Diagon
Alley, mattina.
Ama aveva sempre adorato sua
madre; nonostante la morte di suo padre e il dolore che ne era
conseguito era
riuscita a tirarla su da sola, lavorando al tempo stesso per farsi un
nome all’interno
del Dipartimento che non fosse la vedova
Gillespie. Ama era fiera di essere la figlia di Eleanor
Gillespie e non
avrebbe cambiato quel titolo per nulla al mondo.
Per questo non riusciva a
non
provare disagio all’idea di interrogare Sören a
proposito di Sophia Von
Hohenheim.
Si
tratta di sua madre, dannazione.
Lo vide arrivare alla
caffetteria a cui avevano deciso di darsi appuntamento in perfetto
orario; era
sempre strano vederlo in borghese. Lo faceva sembrare più
giovane.
E
vulnerabile.
“Ciao.”
Salutò impacciata,
maledendosi per essere rimasta in uniforme. Ricordava ancora le parole
di Lily
Potter e per quanto fossero state seccanti, contenevano
verità.
Non
vorrà vedere un’uniforme.
Nonostante le sue
supposizioni, Sören le sorrise tranquillo. “Vogliamo
sederci?”
Scelsero così uno dei tavoli fuori e l’altro le
scostò la sedia con un gesto
naturale.
“Ti hanno mai
detto che sei
l’unico mago della nostra età a farlo?”
Ironizzò e fu contenta di vedere un
lampo divertito nello sguardo dell’altro.
“Sì,
più volte, ma non mi
importa … Mi è stato insegnato che una donna
merita certe attenzioni.” Replicò
prima di sedersi accanto a lei. Non guardò il
menù e tirò invece fuori le
sigarette, accendendosene una.
Ama capì che non
aveva
intenzione di aspettare così andò dritta al
punto. “Abbiamo fatto delle
indagini su tua madre …” Non vi furono reazioni
particolari e sperò che fosse
un buon segno.
“ … ho
bisogno di farti delle
domande. Se non ti senti a tuo agio, lo capisco e…”
“Come ti ho detto, voglio collaborare.” La
stupì. La stupiva sempre notare
quanto l’altro fosse in controllo della propria
emotività, ma in quel momento
sembrava davvero tranquillo. Rassegnato, in parte, ma non gli si
agitava nulla
nello sguardo, nulla che parlasse di sofferenza.
Cos’è
riuscita a fare Lily Potter?
Era invidiosa: chiunque
riuscisse a dare serenità ad un uomo in quel modo doveva
essere una strega
ambita.
“Temo
però di non poterti
essere di grande aiuto.” Soggiunse dando un tiro alla
sigaretta e buttando il
fumo dal lato opposto al suo. “Io e mia madre abbiamo vissuto
vite parallele
finchè non è …” Si
fermò e fece una smorfia. “…
finchè non ha finto la sua
morte.”
“Avevi dodici
anni, vero?”
“Sì,
ero studente a
Durmstrang.” Annuì. “La notizia della
sua morte non mi colse impreparato … era
ammalata da tempo. Mio zio diceva che la mia nascita aveva indebolito
la sua
salute.”
Quel figlio di puttana gli dava la colpa
della malattia di sua madre?!
Si controllò a
stento mentre
l’altro continuava. “Certo, adesso mi chiedo se
fosse vero o fosse solo una
messinscena per preparare la sua sparizione.” Girò
un paio di volte l’anello
che aveva al dito; glielo aveva visto far spesso durante i casi
più ostici e doveva
essere il suo modo di tenere le mani occupate. “Dopotutto
l’unico modo per sfuggire
al controllo di mio zio e ai tentacoli della Thule era la
morte.”
“Frequentava John
Doe quando
eri bambino?”
Sören
aggrottò le
sopracciglia. “Johannes era sempre in casa nostra, ma mia
madre aveva un’intera
ala del castello dedicata solo a lei e non usciva mai. Era raro che
avesse
contatti ad eccezione dei Guaritori e delle sue cameriere.”
“Adesso però stanno lavorando assieme.”
Gli fece notare, indicando con un cenno
la propria ordinazione alla cameriera. Sören ordinò
un caffè allo stesso modo e
ripresero a parlare non appena la ragazza se ne fu andata.
“Collaborando,
almeno.”
“Sì, ma non so quali siano i rapporti tra loro due
… non li ho mai visti
assieme.”
Ama si morse un labbro:
doveva
immaginare che Sören non avesse molte informazioni.
Non
pensavo però così poche.
“Tua madre
è mai sembrata
interessata alle attività di tuo zio?”
“No. Come ho
detto, usciva di
rado dai suoi appartamenti.” Schiacciò la
sigaretta nel posacenere quando arrivò
la colazione e attaccò il bricco del caffè senza
toccare il resto. “Mio zio non
permetteva scendesse quando avevamo ospiti.”
“Perché?”
La guardò preso
in contropiede
prima di realizzare qualcosa e sorridere amaro. “Odiava non
avere controllo
sulle persone che lo circondavano e mia madre…” Si
lasciò andare sulla sedia,
fissando assorto la tazza di caffè scuro. “Aveva
un’indole drammatica. La
mettevano in crisi le piccole cose … mio zio sosteneva che
la malattia avesse
minato anche la sua psiche.” Scosse la testa.
“Anche questa poteva però essere
benissimo una recita. Comunque, non voleva averla attorno.”
“Ma tu potevi visitarla, vero?” Quella non era una
domanda pertinente al caso
ma non era riuscita a frenarsi dal farla.
“Potevo,
sì.” E non aggiunse
altro. Ama capì che non era il caso di scavare in quella
direzione e cambiò
strada.
“Pensi che sappia
che sei il
paziente zero?”
“Dubito. Immagino
sappia degli
esperimenti che mi sono stati fatti, ma non credo sappia
quali.”
“E il
Camaleonte?”
“Era un tirapiedi.
Alto nella
scala gerarchica perché era alle dirette dipendenze della
mia famiglia, ma un
tirapiedi, nient’altro. Non ha mai capito nulla di Alchimia o
Magia Oscura.”
“Quindi come hanno
trovato le
ricerche del siero?”
“Non ne ho
idea.” Rimase
pensieroso per poco prima di rispondere; era evidente che quella
domanda se la
fosse già fatta. “Immagino che abbia avuto accesso
a parte di esse quando mio
zio era ancora vivo e le abbia trafugate.” Fece un sorriso
sarcastico. “Sarebbe
da lui.”
“Quindi credi che ci sia qualcuno ad aiutarli?”
“È
probabile. Johannes non è
un leader, è un gregario. Ha bisogno di qualcuno da seguire
e se mia madre non
ha le conoscenze operative va da sé che le hanno cercate
altrove.”
“Dove?”
“Non lo so.”
Ama rimase in silenzio
assorbendo le informazioni che aveva appena ricevuto. Alla fine
sospirò.
“Dovremo metterti sotto sorveglianza … per la tua
stessa incolumità.” Aggiunse
quando lo vide adombrarsi.
Sören la
guardò poi così lungo
che fu costretta a frenare la lingua per non chiedergli di piantarla.
Riusciva
a metterla in imbarazzo come pochi maghi al mondo.
“Sì, lo capisco.” Disse
infine bevendo un altro sorso di caffè. “Vi
comunicherò i miei spostamenti
giornalieri ogni mattina.”
“Perfetto.” Convenne passandogli il taccuino; aveva
capito che prima diceva le
cose all’altro meglio era. “Intanto inizia da
quelli di questo pomeriggio.”
Sören
battè le palpebre, poi
fece un mezzo sorriso. “Grazie.”
“ … per
cosa?”
“Per
preoccuparti.” Sembrò
imbarazzato quanto lei mentre prendeva la penna cominciando a scrivere.
“So che
ieri facevi parte delle ricerche, me l’ha detto
Lily.”
“Non volevo ti mettessi nei guai.” Rispose brusca.
Ancora quella ragazzina di
mezzo. Decise di giocare in attacco, perché era
ciò che era più brava a fare.
“È lei, vero? La strega di cui sei
innamorato.”
Sören alzò lo sguardo di scatto, con
un’espressione di puro panico dipinta in
volto. “Chi te l’ha detto?”
Mio Dio, è così
trasparente.
“È
chiaro da come ne parli.”
Scrollò le spalle. “E dal fatto che ieri mi ha
quasi Schiantata quando le ho
detto di farsi da parte.”
Vederlo avvampare fu la capitale conferma. A volte le sembrava di avere
a che
fare con un ragazzino ai primi anni di scuola e non con un ex-sicario
di
un’organizzazione spietata. Forse, da un lato, era
così.
“È
fidanzata con un ragazzo di
Glasgow.”
Oh.
Quella era la prima buona
notizia della giornata. “Mi dispiace.”
Dissimulò. “Non hai mai provato a dirle
cosa provi?”
Sören sembrava stare sui carboni ardenti, ma doveva essere
ancora in modalità
interrogatorio dato che le rispose automaticamente.
“C’è troppa storia tra di
noi … A volte le persone che desideri non sono quelle giuste
per te. E
viceversa, tu non sei giusto per loro.”
“Sì,
conosco la sensazione.”
Era la prima volta che parlavano così apertamente e Ama
pensò che non era male.
Erano entrambi persone chiuse, non c’era dubbio, ma Milo
aveva ragione: si
somigliavano. “Quindi progetti di rimanerle fedele fino alla
fine dei tuoi
giorni?” Sapeva di non aver peli sulla lingua ma sembrava che
quel tipo di
approccio funzionasse con la ritrosia naturale dell’altro.
“In che senso?”
“Non parlo di
rapporti
occasionali … parlo di una relazione vera, con qualcun
altro. Non dirmi che non
ci hai mai pensato!”
Sören la
guardò esitante. “Per
essere in una relazione bisogna essere innamorati della persona con cui
la si
ha ed io…”
“Sì, questo l’ho capito.” Lo
bloccò. “Ma le relazioni si costruiscono giorno
per giorno. Anche iniziando da un primo appuntamento.”
Forse non era il momento
adatto per tirar fuori quel genere di idee. O forse sì;
distrarlo dalla sua
situazione era la cosa migliore da fare, quello che avrebbe dovuto fare
un’amica.
Ed
io non sarò la tua Lily, ma non sono poi da buttare.
Quando vide che il messaggio
non era giunto a destinazione, sbuffò. “Prince, ti
sto chiedendo di uscire.” Un
ennesimo rifiuto sarebbe stato umiliante, ma non era mai stata tipa da
arrendersi alla prima difficoltà.
L’altro la
guardò come se
fosse appena sceso da un albero dopo una piena durata anni.
“Ma la sera della
mia partenza hai detto …”
Uomini.
“La
sera della tua partenza ero
ubriaca e mi avevi appena rifiutata. Avevi colpito il mio amor
proprio.” Gli
fece notare pragmatica. “Pensi che a qualcuno del
Dipartimento importerebbe se
uscissimo assieme? Basta che non lo sbandieriamo ai quattro
venti.” Inarcò le
sopracciglia sentendo il cuore battere spiacevolmente.
“Certo, sempre che tu ne
abbia voglia.”
Sören le
piantò di nuovo
addosso quei maledetti occhi scuri; forse in certi contesti era pure
piacevole,
ma al momento la facevano sentire una cretina. “Posso
pensarci?” Le chiese. “Al
momento non sono in grado di prendere decisioni sulla mia vita
personale.”
Quello poteva capirlo. Annuì. “Non metterci troppo
però. Non tutti hanno la tua
tenacia nelle relazioni.”
Sören le sorrise,
alzandosi in
piedi e scostandole la sedia per farla passare. “Te lo
prometto.”
Era già qualcosa.
****
Londra,
San Mungo.
Mattina.
“Dovrei essere
lì dentro.”
Ted si rendeva conto di aver ripetuto quella frase almeno una ventina
di volte
negli ultimi dieci minuti, ma non riusciva ad impedirsi di farlo.
Fortunatamente
con lui, fuori dalla porta e in attesa che i servizi sociali finissero
di
parlare con Benedetta, c’era una persona che sembravano capir
bene la sua
ansia, e per questo lo lasciava giustamente cuocere nel suo brodo. Sua
nonna.
Lanciò quindi
un’occhiata alla
strega, che pareva persa nei suoi pensieri. “Nonna, quanto
pensi che ci
metteranno?” Mugugnò regredendo definitivamente
allo stadio di un cinquenne
fastidioso.
“La valutazione
psicologica di
un bambino può essere lunga, specialmente se riguarda una
bambina timida come
Ben. Non mi è sembrata una chiacchierona.”
Osservò pacata. “E no ragazzo, per
la ventesima volta, non potevi
entrare lì dentro. Devono valutare come ha reagito a quello
che ha passato e
come sta affrontando le novità e devono farlo senza una
persona che possa
influenzarla.”
“Ha solo sei anni.”
“Quindi sa parlare.” Gli fece notare stringendogli
il polso con affetto; era
grato che fosse venuta a tenergli metaforicamente la mano. Si rendeva
conto di
non farcela da solo, e lo realizzava ogni volta che James andava al
lavoro.
Sono
davvero così debole?
Non aveva mai reagito bene
alle
situazioni inaspettate e tutta quella faccenda l’aveva
colpito come un fulmine
a ciel sereno. Cercare aiuto negli altri non gli sembrava sbagliato ma,
ancora,
le sue percezioni erano completamente fuori assetto.
“Dovrai pensare a
costruirle
qualcosa di simile alla Stamberga Strillante.” Lo riscosse.
“Per i giorni di
Plenilunio.”
“È ancora piccola … la sua forza e
resistenza non sono quelle di un Mannaro
adulto.” Obbiettò. “Per adesso
basterà una porta molto robusta e sbarre alle
finestre.” Fece una smorfia. Non gli piaceva l’idea
di rinchiudere una bambina
così piccola in un luogo simile ad una prigione, per quanto
avrebbe fatto di
tutto per non farlo sembrar tale. “Con James abbiamo pensato
di usare delle
barriere magiche, ma i Mannari sono piuttosto resistenti alla magia e
c’è il
rischio che non reggano.”
Sua nonna annuì.
“In quella
casa enorme avete abbastanza stanze per darle sia una camera sia un
rifugio.”
“Sì, non è il caso che sia lo stesso
posto. Non voglio che pensi che …” Scosse
la testa, passandosi una mano trai capelli. “… non
so neanche come Lunastorta
gestiva il Plenilunio con lei.”
“Le stava vicino, probabilmente.” Fece un sorriso
breve, dandogli un’altra
stretta al braccio. “Alla fine è tutto qui,
ragazzo. Ben ha bisogno di qualcuno
che le voglia bene.”
“Lo so.” E già gliene voleva. Era
terrorizzato dall’intera faccenda, ma non
riusciva a non sentire una piccola stilla di felicità
all’idea di non essere più
l’unico Lupin rimasto al mondo. Ben condivideva con lui parte
dei geni di suo
padre.
Riuscirò
a farlo bastare per esserle utile?
Guardò lo
Specchio Comunicante
per vedere se dall’ultimo messaggio che si era scambiato con
il compagno era
arrivato altro.
Starà
lavorando, piantala di fare la mogliettina
ansiosa.
James era una roccia in
mezzo
ad un mare in tempesta e non riusciva a farne a meno.
Ed
ha il suo lavoro e i suoi doveri. Falla finita.
Sua nonna, non volendo,
indovinò il percorso dei suoi pensieri. “Jamie
passa?”
“Se riesce
… a quanto pare
hanno cambiato l’agente di collegamento americano, sai, per
il caso congiunto a
cui stanno lavorando.”
“Quello che occupa perennemente la prima pagina del Profeta?
Il Demiurgo? Il
caso dell’anno.” Rispose con un sorrisetto.
“C’è da non crederci … non
avrei
mai pensato che quella zucca vuota avrebbe finito per diventare un
membro
responsabile della nostra comunità.”
“James è sempre stato una persona
responsabile.” Ritorse protettivo. “Per le
cose importanti.”
Sua nonna sbuffò, dandogli una pacca sulla spalla quasi
volesse concordare
senza dirlo ad alta voce. “Sono contenta che ci sia
lui.” Disse poi. “Vi fate
del bene a vicenda, Teddy, ed è questa la cosa
più importante … è quello di cui
ha bisogno quella ragazzina.”
Ted le sorrise di rimando,
stringendole la mano che gli aveva porto; sua nonna era
un’eremita per indole e
storia familiare, ma quando era il momento c’era sempre.
La porta della stanza di Ben si aprì e quando ne
uscì fuori l’assistente
sociale e Flynn Linn – presente come funzionario
dell’ufficio Mannari – scattò
in piedi e non se ne vergognò affatto.
“Professor
Lupin.” Lo
apostrofò l’uomo con un sorriso cordiale. Non
riuscì comunque a
tranquillizzarlo: non aveva mai visto di buon occhio quella figure,
avendoci
avuto a che fare un paio di volte ad Hogwarts a causa di qualche
studente con
una situazione familiare difficile. Quello di Assistenza Sociale era un
ufficio
sorto dopo la caduta di Voldemort e anche se in linea teorica era uno
sportello
per la gioventù in difficoltà, in pratica era
spesso una spina nel fianco di
Hogwarts e dei genitori.
“Ben come
sta?”
“Sta bene, Lupin, stai sereno.” Rispose Flynn con
un sorrisetto. “È diventata
una chiacchierona, eh?”
Ted sospirò di sollievo, felice che la bambina non si fosse
bloccata di fronte
ad uno sconosciuto, specie considerando che il suddetto doveva
valutarne le
capacità sociali.
“Benedetta è una bambina molto
intelligente.” Disse l’uomo facendo sparire
dentro la borsa una serie di pergamene. “Sono certo che
imparerà in fretta la
nostra lingua.”
“Significa…” Non voleva dirlo ad alta
voce, diviso tra la speranza e il terrore
che la portassero via.
“Voglio dire che,
valutando il
caso, il vostro grado di parentela, la situazione familiare che ha in
Italia e
il fatto che le si sia già affezionata, la scelta sensata
è affidarla alle sue
cure.” L’uomo fermò il suo tentativo di
ringraziarlo alzando una mano. “Questo
non significa che la procedura d’adozione sarà
immediata. Ci sarà un mese di
prova, dove vi visiteremo settimanalmente, concordando un giorno e con
la
possibilità di visite a sorpresa. Nei prossimi giorni, con
l’aiuto della
Dottoressa Flynn, eseguiremo una perizia sulla vostra casa e i
dintorni, per
essere sicuri che sia l’ambiente ottimale per far crescere
Benedetta.”
“Certo, non c’è problema.” Fu
veloce ad assentire. Avrebbe tollerato persino
uno di quei funzionari insopportabili perennemente in soggiorno pur di
portarla
a casa. “Significa che … posso portarla con
me?”
“Non appena il San
Mungo
deciderà per le sue dimissioni.” Convenne il mago.
“Si ricordi di concordare
l’appuntamento con il nostro ufficio per questa
settimana.”
Si salutarono e Flynn, prima
di andarsene lo prese da una parte. “Splendore, lo sai che
adesso devi spiegare
alla piccoletta perché viene a casa con te, vero?”
“Sì,
ovvio e…”
“Devi dirgli di suo padre.”
Non c’era accusa nel tono della strega ma era chiaro che si
era aspettata di
vedere Benedetta già informata. Inspirò,
annuendo. “Sì, avrei dovuto dirglielo,
ma ho passato tutto ieri a venire a patti con il fatto che la
avrò nella mia
vita da oggi in poi.” Fece un sorriso mesto. “Mi
sto comportando come un
idiota, me ne rendo conto.”
“Nah, come un padre novello.” Gli
strizzò l’occhio. “Ricordati solo che
non
devi mirare a sostituire tuo fratello, okay?”
“Okay.”
Ora viene la parte più difficile.
Avrebbe voluto essere miglia
da lì, ma l’istinto di correre via non poteva
fermarlo dal fare quel che era
giusto. Non più. Sua nonna gli si avvicinò una
volta che entrambi i ministeriali
furono andati via. “Vuoi che venga dentro con te?”
Scosse la testa. “No, è una cosa che devo fare da
solo. Ho tergiversato troppo
a lungo … è ora che Benedetta abbia le sue
risposte.”
****
Londra, Ministero
della
magia, Dipartimento di Cooperazione Magica Internazionale
Ufficio
Internazionale
della Legge Magica, Ora di pranzo.
Michel sobbalzò
quando sentì
un discreto bussare alla porta. Considerando che i suoi nervi erano di nuovo in
uno stato pietoso, avrebbe dovuto
aspettarselo.
“Avanti.”
Disse la sua collega
senza preoccuparsi dell’occhiata linciante che le
lanciò; ormai aveva imparato
ad ignorarlo come un ragazzino fastidioso ed umorale.
E
non ha tutti i torti, mio buon Mike.
“Permesso!”
Salutò Albus. Lo
sorprese: non si sarebbe aspettato una sua visita a breve, considerando
che
l’aveva ignorato doverosamente dopo l’ultima
chiamata ricevuta. “Buongiorno
Hilary!” Salutò con un gran sorriso la megera, che
come al solito pareva
felicissima di potersi rifare gli occhi su uno dei suoi amici.
Loki,
Sy e Al … Le piacciono giovani.
“Ciao
Mike.” Lo salutò
infilandosi le mani nelle tasche con aria imbarazzata. Doveva aver
intuito che la
chiamata fatta per Prince era il pomo della discordia, ma sapeva alla
perfezione come ammorbidirlo; lo dimostrava il fatto che per una volta
si fosse
vestito in maniera coordinata e fosse entrato con
l’espressione più adorabile
del suo repertorio.
Piccola
serpe manipolatrice …
“Sono occupato,
hai qualcosa
da dirmi?” Replicò sostenuto, che un minimo di
dignità doveva mantenerla.
“Sì,
chiederti scusa.” Andò
subito dritto al punto, sedendosi di fronte alla scrivania.
“Mi rendo conto di
aver oltrepassato una linea con la chiamata per Sören e
… scusa?” Si
morse appena un labbro. “Lo sai come divento quando
viene messa in mezzo la mia famiglia.”
“Da quando Prince è parte della tua
famiglia?”
Si strinse le spalle.
“È parte
di quella di Tom.”
Già.
Dovevo immaginarlo.
“È
vero, sono cugini.” Asserì
distratto, fingendo che i documenti sulla sua scrivania avessero tutta
la sua
attenzione. Era improbabile che l’amico ci credesse, ma tanto
valeva mantenere
la facciata.
Beh,
visto che ci sei e Al sembra tanto informato su
Prince … Sfrutta la cosa, dopo pranzo deve chiamarti Ethan
Scott.
“Tom finalmente lo
ha
riconosciuto come tale?” Chiese quindi.
“Dice di no, ma secondo me sì.” Fece un
mezzo sorriso. “Si preoccupa per lui …
a modo suo, ovvio, però ne è incuriosito. E sai
com’è Tom quando diventa
curioso…”
“Di solito qualcuno rischia la propria
incolumità…”
“Piantala!”
Ridacchiò, rilassandosi
sullo schienale della sedia. “Anche Sören comunque
… beh, lo pensavo una
persona un po’ diversa. È più portato
al contatto con le persone di quanto
credessi. Si è fatto amico Scorpius…”
“E di chi non è amico Scorpius?”
Al fece spallucce. “Sì, ma anche il resto della
squadra lo ha preso a benvolere,
così come mio padre. Persino Jamie pare esserci rimasto male
quando è stato
estromesso dal caso.”
Michel alzò lo
sguardo dalle
carte. “A questo proposito, come sta reagendo alle
notizie?”
“A parte il fatto
che è
scappato per quasi dodici ore? Lily dice che è scosso, ma
che ha deciso di
rimanere e riprendersi il caso.”
“Davvero?”
Al annuì.
“Pare che l’abbia
presa molto sul personale.” Si strinse nelle spalle,
giocherellando con i lacci
della felpa monocromatica che indossava – un po’
larga, quindi certamente di
Tom. “È comprensibile … del resto
è coinvolta sua madre che si è finta morta
per anni.”
“Per questo motivo dovrebbe starsene lontano.”
Al scosse la testa.
“Per
questo vuole rimanere.” Inarcò le sopracciglia.
“Ma tu queste cose, come suo
collegamento ministeriale, non le sai?”
“Io e Prince
abbiamo rapporti
strettamente professionali.” Replicò tranquillo.
“Non siamo amici … di certo
non si confida con me come può farlo con tua
sorella.”
Al fece una smorfia,
grattandosi la nuca con aria pensosa. “Sono tornati ad essere
fodero e
bacchetta, quei due …”
“Sviluppi romantici in vista?”
Certo
che Prince è monotematico … e a quanto pare,
anche la piccola Potter.
“Nah, Lils
è pazza di Scott.” Lo
liquidò per poi alzarsi in piedi e battere leggermente le
nocche sul tavolo.
“Dai, basta chiacchiere … ti porto a pranzo
fuori!”
“Ho da…”
Al si esibì in uno di quei suoi sorrisi radiosi, da dipinto
preraffaellita a
cui era assolutamente impossibile resistere, almeno per quanto lo
riguardava.
“Non accetto un no come risposta.”
“Sei fastidioso.” Riuscì a borbottare
prendendo la giacca e facendo cenno alla
propria collega che usciva. “Perché mi circondo di
gente fastidiosa?”
Lo prese a braccetto e gli
mostrò la lingua. “Mi pare ovvio.
Perché adori essere infastidito.”
Albus sapeva come
ammorbidirlo. Portarlo nel suo bistrot preferito nella Londra Babbana e
ottenere il tavolo migliore grazie ad una serie combinata di sorrisi e
occhiate
incantevoli al proprietario per poi annunciare che il pranzo era
offerto da lui
… beh, era avere in mano la chiave del suo cuore.
“Sai come viziarmi
pulcino.”
Dichiarò vinto mentre spiegava il fazzoletto sulle
ginocchia. “Sei perdonato.”
Al non nascose la sua soddisfazione. “Sono stato bravo,
eh?”
“Sei un
manipolatore nato e ne
rivendico la paternità.”
“E ne hai tutto il diritto” Gli sorrise
squadernando il menù. “Dai, ordina
tutto quello che vuoi!”
“Posso ordinare te?”
Lo stuzzicò ed
era divertente vederlo avvampare nonostante tutti gli anni di indefesso
e
infruttuoso corteggiamento.
Quando
si dice avere il cuore da un’altra parte …
Dursley lo tiene ben stretto nelle sue grinfie.
Ma era una cosa con cui era
venuto a patti da tempo, e non faceva più così
male. Al si schiarì la voce,
lanciandogli poi un’occhiata di sottecchi. “Come va
con Milo?”
Fare una smorfia fu
automatico. “Non ne ho idea …” Non gli
andava di parlare di quello, ma non
poteva biasimare Albus per essere curioso.
Gli
hai fatto capire che sei preso da quel dannato
idiota. E da quanto non eri preso così da qualcuno?
“…
pensavo ci fossimo
avvicinati ieri. Abbiamo passato il pomeriggio assieme e …
abbiamo parlato.”
Sfogliò distratto le pagine del menù.
“Gli ho raccontato di mia nonna.”
“Non racconti a nessuno di tua nonna!”
Aggrottò le sopracciglia. “Neanche a
me.”
Michel sbuffò. “La tua gelosia è
deliziosa quanto sospetta pulcino, ma sì, è
vero.” Si sentiva uno sciocco ad essersi lasciato andare;
Milo non aveva
neanche pensato di ricambiarlo, preferendo scappare per andare a
cercare quella
spina nel fianco che era Prince. “Ho seguito quel tuo stupido
consiglio… sull’aprirmi
quando sentivo che avevo davanti la persona giusta. Non ha
funzionato.”
Al lo sguardò con
aria
stupita. “Sì, sembra proprio una cosa che direi
… ma quando te l’ho
detto?”
“Quando pensavi
che fossi
innamorato di Mael.”
“Ma è stato anni
fa!”
“Ho una buona memoria.” Ritorse imbarazzato.
Sì,
mi ricordo dei consigli che mi dai anche se sembra
che non ti ascolti. Stupido Potter.
Al gli sorrise, per fortuna
senza dir niente. Apprezzava la sua capacità di esser
discreto talvolta.
Raramente.
“E
quindi?” Lo incalzò
sorseggiando il vino poco convinto: non l’avrebbe mai portato
nel meraviglioso
mondo dell’alcool Babbano, purtroppo. Al era nato e sarebbe
morto mago. “Lui che
ha fatto?”
“Mi ha ascoltato,
non ha
ricambiato.”
Al rimase in silenzio per
qualche attimo e quando arrivarono le portate fissò la
propria ordinazione con
ancora più concentrazione. Non si rendeva conto di aver
ormai assunto la stessa
capacità di Dursley di sembrare inquietante quando era
assorto. “Devi
insistere.” Se ne uscì infine. “Deve
aver avuto una storia personale assurda,
se è finito a fare da assistente a Sören. E prima
ancora era uno dei servitori
di Von Hohenheim … voglio dire, non so cosa facesse prima,
ma penso abbia
imparato a tenersi stretti i suoi segreti. Non deve aver avuto una vita
facile.”
Da stella dei teatri a sguattero …
Direi
proprio di sì.
Bevve un sorso di vino.
“Per
questo non vuole parlarmene. Non crede ne valga la pena,
forse.”
“Le decisioni
altrui non sono
mai definitive … è una questione di ammorbidire
la sua volontà, no?” Fece un
sorrisetto furbo. “E tu sei un corteggiatore straordinario,
mio buon Mike.”
“Se si tratta di portare qualcuno tra le lenzuola.”
Ammise sentendosi carente
ed odiando la sensazione. “L’unica persona che ho
tentato di corteggiare
seriamente è finita nelle braccia di un
sociopatico.” Frecciò. Al per tutta
risposta gli mise una mano sulla sua e strinse la presa, guardandolo
con occhi
pieni di affetto e facendolo sentire ridicolo e vulnerabile al tempo
stesso.
“Mike, sei una persona meravigliosa. Milo si deve ritenere un
uomo fortunato ad
avere la tua attenzione … e se ancora non lo capisce, lo
capirà. Dimostragli
che può fidarsi di te.” Gli lasciò una
mano e dedicò la sua attenzione al
piatto. “Corteggialo sul serio.” Inarcò
un sopracciglio. “Michel Zabini è o non
è la definizione vivente di charmant?”
Albus aveva ragione. Michel,
tornato dal pranzo e dalle chiacchiere che si erano fatte poi
più frivole,
rifletteva su quanto gli era stato detto. Doveva corteggiare
quel maledetto tedesco cocciuto. Non avrebbe ottenuto
niente, neppure nel lungo periodo, se non gli avesse dato ad intendere
che le
sue intenzioni erano serie.
Lo
sono davvero? Con un Magonò?
Era quello che gli avrebbe
detto suo padre. O meglio, era quello che gli avrebbe ordinato di non
fare
Blaise Zabini per non gettare imbarazzo sulla loro famiglia.
Perché
i matrimoni continui, i tradimenti e i figli
illegittimi invece danno prestigio, vero?
Fece una smorfia sedendosi
alla scrivania; no, non avrebbe lasciato che la sua sin troppo spesso
ipocrita
educazione avesse la meglio su quello che voleva.
Ed
io voglio Emil. Emil e i suoi segreti.
“Zabini,
c’è una chiamata via
fuoco magico per lei.” Lo avvertì uno dei
Fuochisti. Doveva aver bussato ma era
talmente assorto da non averlo sentito.
“Dall’America.” Aggiunse.
Ethan
Scott. Puntuale.
A volte se ne dimenticava;
varcata la soglia di quell’ufficio quello che voleva doveva
esser messo da
parte. Momentaneamente.
****
San
Mungo. Pomeriggio.
James non aveva mai capito
se
era lui ad esser bravo coi ragazzini, o erano i ragazzi a riconoscerlo
come suo
pari – secondo Lily la seconda opzione era quella valida. Ad
ogni buon conto
Benedetta era una bambina, e non aveva quindi trovato difficile
connettere con
lei quando finalmente erano riusciti a parlare la stessa lingua; un
paio di
giocattoli e svariate marche di dolciumi avevano portato ad un bel
po’ di
chiacchiere e sorrisi nelle ore che era riuscito a ritagliarsi dal
lavoro per
venirla a trovare.
Ma una cosa era rimpinzarla
di
dolci e farla ridere facendo esplodere apposta un Mazzo Bum,
un’altra era
arrivare al San Mungo e scoprire che Ted le aveva detto di suo padre.
E
che cazzo si fa in questi casi?
“Non riuscivo a
farla smettere
di piangere… alla fine si è
addormentata.” Sussurrò il compagno, pallido ed
esausto di fronte alla stanza, in attesa che l’infermiera del
piano finisse la
visita quotidiana.
James lo
abbracciò d’istinto,
sperando di non bagnarlo con il giubbotto fradicio di pioggia. Non che
poi
avesse così importanza visto come l’altro lo
ricambiò con forza. “Ehi, nessuno
si aspetta che tu possa consolarla su questa cosa, okay?”
Borbottò contro la
sua spalla. “L’importante è che non la
porteranno via chissà dove. Che starà
con noi e … tutto il resto. Si
riprenderà.”
La
sto imbroccando? Cazzo, sto dicendo cose che hanno
un senso?
Perché era dalla
sera in cui
era morto il dannato Lunastorta che pregava Merlino di non dire cazzate.
“Non sono riuscito
a dirle che
verrà a vivere con noi, Jamie … Mi sembra assurdo
dirglielo in questo momento.
Ma devo.” Inspirò staccandosi
e
guardandolo come se fosse il centro del suo mondo. Faceva un
po’ girare la
testa, ma non l’avrebbe deluso. “Mi daresti una
mano? Con te parla volentieri.”
Certo, perché le racconto cavolate.
Il suo mestiere non era
parlare ai ragazzini, era combattere maghi oscuri. Ma avrebbe
improvvisato,
decise. “C’è un modo giusto per
dirglielo?”
Ted scosse la testa.
“Se c’è
vorrei tanto conoscerlo…”
In quel modo non sarebbero
andati da nessuna parte. Gli diede così una pacca sulla
spalla ed inspirò
coraggio assieme all’ossigeno. “Andiamo
lì dentro e basta, okay? Qualcosa da
dire ci verrà in mente … e guarda!”
Mostrò una scatola di gelatine Tuttigusti
più uno. “Ho i rinforzi!”
Tutta la sua convinzione si
sciolse quando vide Benedetta, raggomitolata tra le lenzuola come la
prima
volta che l’aveva vista. Sperò di non essere
tornati al punto di partenza,
perché Ted non avrebbe retto, non una seconda volta. Si
schiarì quindi la voce
e si sedette sulla sedia accanto al letto. “Ciao
pulce.” La apostrofòò con il
nomignolo che le aveva dato durante la loro prima, vera conversazione.
La
bambina aveva gli occhi chiusi, ma a giudicare da come era sobbalzata
appena
non stava dormendo. “Ehi, mi dispiace per il tuo
papà e … beh, so che non hai
una gran voglia di chiacchierare…”
Lanciò un’occhiata incerta al compagno e
quello gli fece cenno di andare avanti. “… ma va
bene, perché siamo noi a
doverti dire una cosa. Basta che ascolti, okay?”
Un piccolo cenno di assenso
lo
rincuorò abbastanza da provare le prime parole che gli
vennero in mente. Andar
dritto al punto del resto era la sua specialità.
“Il ragazzo, qui, ti ha detto
che è tuo zio, giusto? Beh, indovina un po’
… verrai a vivere con lui e con
me.”
Ben aprì gli occhi, avendo evidentemente assorbito
l’informazione. “A casa
vostra?”
“Ti aspetta una
cameretta
nuova di pacca, pulce.” Confermò prima di
rilanciare. “Spero che ti piaccia il
rosso, perché l’ho dipinta come piaceva a
me.”
“Il rosso
è okay.” Quello che
adorava dei ragazzini era la capacità straordinaria di
riprendersi. Benedetta
infatti si tirò a sedere squadrandoli con gli occhi
spalancati. “E ce l’avete
il giardino?”
Lui e Ted ridacchiarono,
scambiandosi
un’occhiata che praticamente urlava sollievo. Non si era reso
conto di aver
trattenuto il respiro fino a quel momento, e probabilmente lo stesso
doveva
esser per l’altro. “Abbiamo una
foresta,
pulce.” Sogghignò. “Tutta da
esplorare!”
“Non tutta.” Ribattè Ted scoccandogli
un’occhiata ammonitrice. “Solo una
piccola, sicura, parte.”
Ben non parve dargli retta. “Adesso?” Chiese invece
suonando eccitata.
“Possiamo andare adesso?”
“Non appena i
Guaritori ci
diranno che puoi uscire.” Vedendola rabbuiarsi Ted le
passò una mano trai
capelli. Era un gesto in cui era bravissimo e Ben parve goderselo
tutto. “Solo
un paio di giorni … promesso.”
“Okay.” Annuì, sembrando scivolare di
nuovo nella malinconia. James però aveva
ancora una carta da giocare per distrarla e quando tirò
fuori la scatola di
gelatine, ridotta in tasca fino a quel momento, Ben fu lesta a sgranare
di
nuovo quei suoi grandi, meravigliosi, occhioni. “Le
gelatine!”
Non
deve essere stata un granchè viziata. Beh, si può
sempre rimediare.
“Sì
nanetta, sono le gelatine
di cui ti ho parlato.” Replicò mettendole la
scatola in grembo e godendosi il
modo in cui la fece a pezzi. “Pronta a provarle? Guarda che
hanno davvero tutti i
gusti.”
Benedetta scrutò
la scatola con
aria pensierosa e poi, coraggiosamente, prese una gelatina verde
ficcandosela
tutta in bocca. “Menta!” Annunciò e non
c’era da sbagliarsi, era aria di sfida
quella che aveva assunto. “Ora voi.”
…
mi sa che non è la brava e educatissima bambina che
Teddy pensa.
“Hai sentito
Lupin? A te l’onore!”
Ghignò tirandolo a sedere sul letto; non sapeva
assolutamente nulla di stadi
del dolore e come farli superare ad una bambina di sei anni –
avrebbe chiesto a
Lily - ma non stavano andando tanto male se Benedetta si era distratta
a sufficienza
dal riuscire a sorridere, no?
Ted doveva pensare la stessa
cosa perché gli strinse la mano in mezzo alle lenzuola, in
un grazie silenzioso. Poi prese una
gelatina e se la ficcò in bocca rapido. La smorfia che fece
fu eloquente. “ Il
giallo avrebbe dovuto mettermi in allerta…”
Mormorò. “… è
cerume.”
James non aveva la minima
idea
se stessero agendo nel modo giusto, ma diversamente da Teddy, non
passava tutte
le notti a chiederselo. In fondo, Benedetta aveva bisogno di una
famiglia.
E
lo diventeremo, cazzo.
Era certo che fossero
già
sulla buona strada.
****
Da
qualche parte nel Lancashire…
A volte capitava che la sua
regina rimanesse troppo tempo chiusa in casa e questo esacerbava la sua
naturale irrequietezza; vederla infatti con lo sguardo perso nella
brughiera
selvaggia che si stendeva al di là della
proprietà era palese sintomo di quanto
il suo animo fosse in tempesta.
Non aveva mai capito Sophia,
nonostante l’avesse desiderata dalla prima volta che aveva
posato lo sguardo sulla
sua bellezza acerba e insofferente. Non capire i suoi desideri
però non
significava dover trattenere i suoi.
Saggiò quindi con
le mani la
vita esile, baciandole il collo e tastandone le pulsazioni con la
lingua.
Subito le dita sottili della donna gli strinsero una manciata di
capelli,
dandogli una scarica di delizioso dolore.
“Johannes, oggi
non sono
dell’umore.” Sibilò con un tono che era
lo specchio di quello del defunto
fratello: velluto sopra un maglio d’acciaio. “Non
toccarmi.”
Per tutta risposta la
voltò
bruscamente, facendo collidere le labbra con le sue. Si
aspettò il morso e
rispose con altrettanta passione. Fu allontanato da una spinta e da uno
sguardo
che sprizzava irritazione come quello di un gatto feroce. “Ho
capito.”
Sogghignò facendo un passo indietro. “Chiedo
scusa.”
L’altra fece una smorfia. “Hai notizie o sei venuto
solo ad infastidirmi?”
“Vi ho portato
notizie.”
Confermò. “Siete dell’umore per
ascoltarle?”
“Ti
ascolto.” Ribattè
allungandosi su una poltrona e facendo cenno verso il servizio da the.
Obbediente
le versò una tazza e gliela portò, sedendosi poi
su uno sgabello vicino.
“Non tutte le
cavie in nostro
possesso hanno conclamato il virus.” Esordì.
“Tuttavia, mi duole informarvi che
sono tutti positive ai marker della
malattia. Sono i tempi di
incubazione che variano … I Pozionisti pensano che sia
dovuto alle capacità
magiche che, come sapete, variano da persona a persona. Quello che
è certo è
che diventano contagiosi non appena la malattia si conclama.”
“Non mi porti nulla di risolutorio, quindi.”
Riassunse per lui, sorseggiando la
bevanda. “Non abbiamo ancora un modo per rendere il Demiurgo
stabile.”
“No, mia signora.” Confermò con un
sospiro impaziente; aveva lavorato giorno e
notte per recuperare le cavie e portarle in quel buco perso nella
campagna
inglese. Il tutto con i dannati auror alle calcagna.
E
con il fiato dei nostri benefattori sul collo…
Non avrebbe mai pensato che
avrebbe finito per rimpiangere Von Hohenheim e le sue manie di
segretezza e
controllo: agire in prima linea era ben più faticoso.
E
pericoloso.
Sentì la mano
della sua donna
sfiorargli il viso. “Povero il mio giullare… Non
sorridi più?” Lo vezzeggiò con
un sorriso sarcastico. “Lasci il mio letto freddo, la notte.
Quanti pensieri
devi avere…”
“Se non riusciamo a stabilizzare il siero in tempi brevi
finiremo le scuse con
cui tener buoni i nostri clienti … Stanno diventando
impazienti.” Sbottò
alzandosi in piedi e prendendo a marciare per il salotto.
“… e non sono maghi
che amano veder le proprie camere blindate alleggerirsi.”
“Hai sentito il nostro caro amico americano?”
“Non
ancora.” Fece una
smorfia. “Si fa attendere.”
“Come sempre…” Quel giorno sembrava che
volesse farlo innervosire a bella posta
ed era una cosa che faceva solo quando era di umore orribile.
E a
nessuno piace un Von Hohenheim di cattivo umore.
Può solo peggiorarti la giornata.
Dominò
quindi la propria irritazione e
tornò a sedersi, prendendole la mano tra le sue, ed esibendo
il suo sorriso
migliore. “Mia Regina, qualcosa vi infastidisce …
Ogni vostro desiderio non è un
ordine per me? Non ve l’ho forse dimostrato?
Ditemi…”
“Voglio
uscire.” Lo interruppe.
“Ho passato la mia intera gioventù dietro una
finestra. Non mi sono liberata di
Alberich per questo.”
Sorrise divertito; così era semplicemente innervosita
dall’immobilità forzata
di quelle lande desolate. A quello, per fortuna, poteva porre rimedio.
“Perché
non me l’avete detto subito? A pochi chilometri da qui
c’è una città dal
pittoresco nome di Cokeworth che…”
“Voglio andare a Londra.”
“A
Londra?” Non potè trattenersi
dal suonare sorpreso. “Non trovate sia pericoloso per la
vostra…”
“Prima o poi gli auror e Sören scopriranno che sono
ancora viva, sempre che non
l’abbiano già fatto.” Tagliò
corto liberandosi dalla sua stretta ed alzandosi
in piedi. “Voglio vedere Londra e tu mi ci
porterai.”
Non gli restò che annuire. “Come
desiderate.”
Il bussare lieve alla porta
li
fece voltare entrambi. “Signor Doe, Signore …
c’è una chiamata per lei via
fuoco Magico, Signore!” Esclamò l’Elfo
domestico, che avevano trovato ad attenderli
assieme ad un’altra decina una volta preso possesso del
maniero. Sophia li
detestava, disgustata dal loro aspetto, ma avevano il pregio di essere
discreti
e leali fino all’ottusità.
Molto
meglio della feccia Magonò.
“Mia Signora,
credo che il
nostro amico abbia appena deciso di farsi vivo. Vi devo
lasciare.” Le baciò la
mano e si accomiatò seguendo l’Elfo.
Londra.
Se lo sentiva nelle ossa:
sarebbe stata una sgradevolissima rottura di palle.
****
Note:
E i due cattivi entrano un po’ più
nell’azione. Che ne pensate? :D
Qua
la
canzone del capitolo.
|
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Capitolo 30 *** Capitolo XXIX ***
Capitolo XXIX
Young and
naïve I never believed that love could
be so well hid
It gets under your shirt like a dagger at work
The
first cut is the deepest but the rest still flipping hurt
(The
Wrong Direction, Passenger)
15
Luglio 2028
Londra,
Whitehall
Vicino al Ministero della Magia, Mattina.
“…
stavolta tu che scusa hai
usato?”
“Ho detto che
sarei andata da
Violet per una serata pizza e film e che poi sarei rimasta a dormire
visto che
siamo in piena stagione d’amore dei draghi e Domi
è barricata alla riserva.”
“Violet non sa neanche cosa sia una pizza!”
“Certo, ma papà non può saperlo
… E mamma, beh… finge. E tu?”
“Pigiama party con
Loki e
Mike. Mio padre c’ha creduto. Li faccio davvero
dopotutto!”
Rose ridacchiò, baciando la testa arruffata e violentemente
bionda del suo
ragazzo, mentre un prepotente raggio di sole filtrava dalle finestre
prive di
tende del loro appartamento; o meglio, quello che avrebbe dovuto essere
il loro
appartamento una volta sposati.
Un materasso Materializzato
direttamente
a terra, cartoni di cibo d’asporto e libri in pile precarie
ovunque componevano
attualmente la loro camera da letto e Rose la trovava bella
così, anche senza
mobili e con le pareti ancora piene di muffa.
Più
o meno.
“Dovremo
ritinteggiare.”
Osservò facendogli un grattino in corrispondenza del
tatuaggio che aveva sul
collo e facendolo mugolare compiaciuto. “Scorpius?”
Per tutta risposta l’altro
la fece rotolare sotto di sé, pelle nuda e lenzuola che
diventarono un
tutt’uno. “Davvero, questo posto è
ancora come l’abbiamo comprato un anno fa! E
c’è una macchia di muffa che sembra un
Lethifold!”
“Forse è un Lethifold.”
“Scorpius!”
“Pallocchetta, abbiamo la magia.”
Osservò tranquillo. “Basta un finesettimana,
il maschio aiuto di un paio d’altri ragazzi e il gioco
è fatto. Tornati dalla
Luna di miele avremo un tetto sotto la testa, non crucciarti!”
“Io non mi cruccio, è solo…”
Si mordicchiò un labbro, poi fece spallucce,
cedendo alla meravigliosa noncuranza che irradiava l’altro:
era un pregio. “Vabbeh.
Che colore vorresti?”
“Non verde
marcio.”
“Traumi infantili, eh?”
Scorpius le servì una smorfia eloquente.
“È il colore dello stemma di famiglia,
ma uh … no. Sbatte terribilmente con la mia
carnagione da eroina
vittoriana.” Scattò a sedere sul materasso e
fissò persistente le pareti, al
momento di un giallo smorto. “Rosso fenice
infuocata!” Decretò con un ghigno
allegro. “Oh, voglio troppo vedere la faccia di
papà.”
“Farai venire un infarto a quel
pover’uomo…” Sospirò; negli
anni, sebbene non
fosse arrivata a trovar simpatico Lord Malfoy, aveva capito perlomeno
quanto
doveva esser stato difficile gestire quotidianamente quel terremoto di
Scorpius.
Il suddetto intanto si
alzò in
piedi, stiracchiandosi e camminando fino alle finestre. “Ehi,
credi che
qualcuno possa vedermi nudo da qui?”
“Probabilmente.”
Convenne
Appellando la propria camicetta ed infilandosela assieme al resto
dell’intimo
che come al solito trovò nei posti più
impensabili della stanza. Scorpius si
divertiva a lanciarlo.
“Non
traumatizzare poveri Babbani indifesi.”
“Darei loro un buongiorno meraviglioso!”
Ribatté offeso, allontanandosi però
dalla finestra. Si accovacciò quindi accanto a lei con un
sorrisetto monello.
“Ehi, perché non saltiamo i rispettivi pranzi
familiari e rimaniamo qui a
rotolarci tra le lenzuola e mangiare schifezze?” Assunse
un’aria da cagnolino
bastonato che aveva ormai perfezionato negli anni. “Per una volta?”
“L’ennesima
vorrai dire.”
Replicò tirandogli un colpetto sulla spalla e
sbilanciandolo, facendolo cadere
così sedere sul materasso. “Dobbiamo essere cauti!
Vuoi che scoprano che stiamo
utilizzando la nostra futura casa come luogo di incontro
segreto?” Scosse la
testa alle sue stesse parole: c’era qualcosa di molto patetico nell’essere
fidanzati ufficialmente e dover comunque
sgattaiolare alle spalle delle proprie famiglie per poter passare del
tempo
assieme.
Stupide
famiglie conservatrici. Papà fa tanto il
progressista su un sacco di roba ma quando si tratta di farmi convivere
con il mio
fidanzato
diventa peggio di zia Muriel …
E
non che Lord Malfoy e Lady Narcissa siano meglio. Se
potessero me la sigillerebbero.
L’altro
sbuffò insofferente ma
annuì. “Ci manca solo ci affibbino uno chaperon.
Tipo, tuo fratello. Quel
povero ragazzo non riesce più a guardarmi negli
occhi…”
“Se solo evitassi di palpeggiarmi davanti a lui…
Sai che Hugo è sensibile.”
“Manca solo un
mese e mezzo
Rosellina.” La consolò. “Poi avremo un
anello al dito e potremo folleggiare con
l’approvazione familiare!”
Rose annuì.
“Il prossimo fine
settimana potremo organizzare per la ritinteggiatura. Con una dozzina
di
persone qua dentro non dovrebbero fare storie.”
Scorpius si mordicchiò un labbro, sembrando di colpo un
grosso bambino che
voleva chiedere ai propri genitori di portarlo ad Hogsmeade.
“Rosellina, senti
… io per il prossimo fine settimana avrei un’idea,
ma mi sa che la troverai
stupida.”
Rose inarcò un sopracciglio, tentata dall’essere
del tutto smontata dall’aria
adorabile del ventenne che le occupava il letto e il cuore e picchiarlo
con una
delle scarpe che teneva in mano. “Cosa?”
“Vorrei fare
l’addio al
celibato.” Sputò fuori.
“Un mese e mezzo
prima?” Scorpius,
alle volte, aveva quelle che venivano chiamate nella loro cerchia di
amici
‘meteore’ : idee improbabili, potenzialmente
pericolose e dal grado persuasivo
altissimo. Poteva essere una di quelle? Ne aveva tutta
l’aria.
Come
fare un bel tuffo nel Tamigi a Capodanno. È riuscito
a convincere persino Dionis!
“Sarebbe per
allentare la
tensione generale.” Obbiettò con l’aria
di essersi preparato alle sue obiezioni.
“In ufficio stiamo tutti passando delle giornatacce visto il
cambio della
guardia americana, Potty ha casini in casa e … beh, poi
c’è tutto il resto.”
Gesticolò
vago, ma entrambi sapevano bene che tutto
il resto era tanta roba. Esitò. “Pensi
che sia stupido?”
Rose ci rifletté:
era una cosa
che aveva imparato a fare con il tempo, faticosamente, soprattutto
grazie alle
‘meteore’ del suo fidanzato e alla sua
capacità di farle capire che spesso
aprire la bocca e lasciar andare non era la strategia migliore da
seguire.
Dopotutto
le sue meteore saranno inaspettate … ma
sempre ponderate. Non gli escono dal nulla come molti pensano.
“Penso che sia una
buona idea.”
Concluse. “Dopotutto il tuo compleanno ha fatto un gran bene
a tutti, quindi
un’altra festa forse ci vuole.” C’era
però un punto da chiarire assolutamente.
“Ma niente di estremo. Non dare retta a Jam e non farti
trascinare in nulla che
possa mettervi nei guai per i giorni successivi … Metti in
mezzo almeno Bobby, okay?”
Scorpius le rivolse un gran
sorriso, chinandosi a prenderle il viso tra le mani per baciarla.
“Promesso! Sei
la fidanzata migliore del mondo!”
“Beh, è il tuo addio al celibato.” Gli
fece notare dandogli un colpetto sul
naso, divertita. “È la tua ultima occasione di
libertà … usala come ti pare.
Non avrei comunque voce in capitolo.”
L’altro scrollò le spalle. “La
libertà è sopravvalutata. A me piacciono queste
catene!” Canticchiò alzandosi in piedi.
“Tu che fai con la tua? Vuoi aspettare?”
“Beh…”
Era una domanda sensata: organizzare un fine settimana privo di maschi,
fuori
da Londra con le sue cugine e le sue amiche più strette
sarebbe stato l’ideale
per prendersi una pausa dalla pressante vita di tutti i giorni.
E
poi siamo in estate, e nessuna di noi è ancora
veramente andata in vacanza…
Farlo un mese prima invece
che
a fine Agosto, con il rischio di scontrarsi con l’ingombrante
compleanno di zio
Harry, poteva in effetti essere l’idea geniale della
settimana.
“Ne
parlerò con le ragazze a
pranzo.” Decise. “Roxie porterà
Alexandra ed è la prima volta che la vediamo da
quando è uscita dal San Mungo … è
l’argomento adatto.”
Scorpius annuì infilandosi la maglietta e andando ad aprire
a Donnola che
uggiolava e grattava alla porta chiusa come se ne andasse della sua
vita –
doveva rassegnarsi, quel cane era diventato la guida spirituale del suo
ragazzo. “Perfetto! Rilasseremo i nervi a tutti, scorreranno
fiumi di alcolici
e finirà tutto con una bella catarsi da ubriachi.”
Esclamò facendo scattare il
guinzaglio al collare dell’animale e regalandole un sorriso
soddisfatto. “Dì un
po’ mia Rosie, siamo o non siamo l’ancora emotiva
della tribù?”
Non poté che
concordare.
****
Diagon
Alley, Accademia di Duello.
Mattina.
Dionis si riteneva un uomo
appagato.
Diventare padre ed essere un
buon marito era sempre stato uno dei suoi sogni da quando aveva
dismesso le
spoglie di un adolescenza dura e spigolosa.
Era un sogno modesto, forse,
ma non gli interessava: non aveva mai desiderato una vita alle luci
della
ribalta come suo fratello Alin, cacciatore di punta nei Voltures. Sin
da
ragazzino aveva sempre saputo che il suo futuro sarebbe stato solido
come una
roccia.
Certo, essere padre di una
bambina meravigliosa e marito di una strega straordinaria aveva i suoi
pro e i
suoi contro: la mancanza di sonno era forse il principale.
Per questo, quando
Sören gli
lanciò un Everte Statim
finì a gambe
all’aria senza riuscire a tirar su una barriera decente.
Ignorando il grido
lacerante della sua dignità lesa accettò la mano
rapidamente tesa dell’amico.
“Grazie.” Sorrise. “Mi hai preso di
sorpresa.”
“È stato facile.” Replicò
l’altro aggrottando le sopracciglia; trovava sempre
piuttosto divertente la totale mancanza di tatto di Sören,
perché non era sintomo
di un cattivo carattere quanto piuttosto della sua
incapacità nei rapporti
sociali. “Sei distratto.”
“Dormo poco.” Rispose spazzolandosi i pantaloni
dell’uniforme e azzerando con
un colpo di bacchetta il tabellone segnapunti, che proclamava una netta
vittoria del tedesco. “Alexandra ci tiene
svegli…”
L’amico assunse un’aria imbarazzata. “Non
immaginavo. Sta bene?”
“Sta benissimo, ma
i neonati
hanno ritmi tutti loro … Roxie non può far tutto
da sola, quindi siamo in due a
dormir poco.” Gli spiegò facendo cenno ad uno dei
suoi allievi di mettere in
ordine la pedana appena lasciata. “Mi avevano detto che
sarebbe stata dura, ma
in confronto il Tremaghi sembra una passeggiata, ti
assicuro!”
“Un bambino
può essere così
tremendo?”
“Incredibile,
vero? Senza
contare che ha già i primi scoppi di Magia Accidentale
… due giorni fa abbiamo
trovato tutti i libri nel salotto Trasfigurati in peluche. Pare che
nella
famiglia di Rox inizino presto…” “Sembra
spaventoso.” Sören sembrava trattenere
un sogghigno e ritenne quindi doveroso dargli una spinta.
“Ogni felicità ha un
prezzo, Dionis.” Replicò ridacchiando.
“Questo è il tuo.”
“Niente di più vero.” Convenne
sorridendogli di rimando: era bello vederlo tutto
sommato tranquillo nonostante
la perdita
del caso. Secondo Roxanne era tutto merito di Lily.
Se
una donna riesce a calmare un mago … Beh. Non
c’è
bisogno di commentare. I fatti parlano da soli.
Ma lungi da lui
l’idea di
intromettersi.
“Stasera hai un
allenamento
con la Rossa?”
Magari
curiosare un po’, questo sì.
“Questo
pomeriggio.” Spogliandosi
e spostandosi nelle docce Sören sembrò esser preso
da un pensiero tenace, perché
passarono minuti prima che riprendesse a parlare. “Ho bisogno
di un parere. Su
una strega.”
“Lily?”
“No.”
Oh.
Sorpreso e terribilmente curioso, si schiarì la
voce e cercò di suonare il
più tranquillo possibile: dal tono di voce era palese che
l’altro fosse in un
abisso di imbarazzo. “Certo, dimmi pure.”
“Una mia
… collega … mi ha
chiesto di uscire.” Il modo in cui stava letteralmente
soppesando le parole
dava la misura di quanto ci si fosse arrovellato.
“È una persona di cui ho
molta stima e…”
“Ti fermo qui
perché ho già la
mia risposta.” Perché andava fatto.
“Esci con lei.”
Il silenzio sgomento
dell’altro durò il tempo di sciacquarsi via lo
shampoo dalla testa. “Non ti ho
neppure detto chi è.”
“Non ha importanza. L’unica vera domanda
è … ti interessa?”
Poteva quasi immaginarlo
boccheggiare. “Sì … penso
…” Fece una pausa. “Penso di
sì. È molto bella e …
ritengo che abbiamo cose in comune.
Però…”
Dionis aveva ben chiaro in mente il però
dell’altro.
“Sören, amico mio, perdonami la
brutalità. Lily sta con Scott Ross. Non puoi
fossilizzarti su di lei se c’è la
possibilità che un’altra ragazza, libera,
possa avere il tuo affetto.”
“Ma non sono
innamorato di
Ama.”
Dionis uscì dal
vano doccia e
Appellò un asciugamano, imitato dall’altro.
Dirigendosi verso gli armadietti
gli lanciò un’occhiata di sbieco; Sören
sembrava autenticamente confuso e una
pacca sulla spalla fu quindi indispensabile. “Non tutte le
storie d’amore
iniziano con … beh, l’amore.”
“La tua sì però.”
Dionis fece un sorrisetto, scrollando le spalle. “Io mi sono
innamorato
all’istante, non appena l’ho vista scendere dalla
scopa, ma Roxanne mi ha fatto
patire le pene dell’inferno prima di ammettere che era stato
lo stesso per lei
…” Scosse la testa. “Vedi, il punto
è che ogni storia è diversa. A volte scatta
all’instante, a volte è una cosa che si costruisce
col tempo.” Capiva le ansie
dell’amico ma non era disposto a scusarle. A volte era davvero troppo melodrammatico.
“E comunque, non devi sposartela, ma
solo uscirci assieme.”
Sören fece una
smorfia,
asciugandosi con un colpo di bacchetta e prendendo a vestirsi con
rapidi
movimenti energici. Dionis suppose fosse il suo modo per gestire
l’imbarazzo
della conversazione. “Mi sembra di tradirla.”
Buttò fuori. “So che non abbiamo
quel tipo di rapporto, ma è ciò che
sento.”
Dionis sospirò. “Ti capisco.” Convenne.
“Però non puoi rimanere legato a
qualcosa che non…” Esitò,
perché quando si trattava di streghe e amore, non
c’era modo per metterla giù leggera.
“… che
non esiste.” Terminò
per lui con una smorfia amara. “Ne sono consapevole. Ed Ama
è … una strega
formidabile. E gli interesso.” Fece un’espressione
incredula. “Faust solo sa
perché.”
“Continui a sottovalutarti.” Decretò
finendo di vestirsi; lo spogliatoio si
stava riempiendo dato che erano appena finite le lezioni mattutine e da
come si
stava irrigidendo l’altro era ovvio che la conversazione
dovesse finire in
fretta. “Sören, se vuoi un parere da amico,
eccotelo. Esci con questa ragazza.
Divertiti, rilassati e non pensare a Lily. Non hai il dovere di
farlo.”
Sören rimase in silenzio, ma stava rielaborando
l’informazione dentro di sé. “Lo
farò.” Decise infine, con l’aria di chi
stava per compiere un’impresa titanica.
Forse dal suo punto di vista era così. “Grazie per
il consiglio.”
Dionis aveva ragione.
Aveva ragione
perché era un
mago sensato, perché aveva più esperienza di lui
in quelle faccende – chiunque
ne aveva più di lui – e perché
… aveva ragione. Punto.
Nonostante questo la
sensazione
di fare qualcosa di stupido era ancora lì.
Perché
dovresti uscire con qualcuno quando è chiaro che
non sei fatto per avere rapporti sentimentali?
Tra
l’altro, Ama non ha smesso di metterti a disagio.
Di cosa potreste mai parlare?
Sarebbe
un fallimento.
Avrebbe voluto chiedere
consiglio a Lily, ma l’idea di raccontarle tutto e domandare
un parere lo
faceva di nuovo sentire un traditore.
Sei
proprio un idiota, principino.
“Pensi che dovrei
parlarne a
Lily?” Gli uscì fuori quando erano ormai lontani
dagli spogliatoi e, per
fortuna, soli. Fuori dall’edificio c’erano due
auror in borghese, di guardia
alla sua incolumità, ma finché rimaneva
lì dentro poteva avere privacy.
Relativamente
parlando.
Dionis gli lanciò
un’occhiata
stupita e poi, inaspettatamente, fece un sorriso.
“Sì, dovresti farlo. Se non
fosse stato per lei, io e Roxanne saremo ancora al via. Può
essere un po’
invadente… e imbarazzante …” Si
scambiarono un sorriso sottintendendo di esser
perfettamente d’accordo su quel punto. “
… ma sa dare buoni consigli.”
“Bene.”
In fondo, perché non
avrebbe dovuto?
Al
di là della mia stupida fedeltà, Lily
è mia amica. E
mi ha spesso detto che vorrebbe vedermi con qualcuno. Dovrebbe, a
regola,
essere contenta.
Si sentiva stranamente
soddisfatto a pensarlo. Lily aveva il suo scozzese e lui sarebbe uscito
con
Ama; sulla carta, era precisamente ciò che era giusto
accadesse.
“Glielo
chiederò.”
****
Diagon
Alley, Mezzogiorno.
Come Rose aveva immaginato,
l’idea di anticipare l’addio al nubilato era stata
presa in più gradi di perplessità;
sedute al solito cafè che, da quando avevano tutte
abbandonato Hogwarts, era
diventato meta fissa dei loro pasti, Violet, Roxanne e Lily stavano
dando la
loro opinione. Molto rumorosamente.
“Non se ne parla!
Così, dal
nulla… con una settimana di preavviso! Scorpius e le sue
idee folli! E tu che
gli dai retta, Weasley!”
“Dai, non mi sembra così tragica … a
trovare un posto carino dove divertirci e
far perdere i vestiti a qualche bel ragazzone ci mettiamo un
attimo.” Una pausa
in cui Lily l’aveva guardata lasciva da sopra la tazza
fumigante di caffè.
“Sottolineo la necessità di bei
ragazzoni. Nu-di.”
“Sta’ zitta sciagurata.” Rose si
massaggiò le tempie, sentendosele dolere:
voleva bene a sua cugina, ma c’erano momenti in cui avrebbe
desiderato
lanciarle un Silencio
più di ogni
altra cosa al mondo. Possibilmente perenne. “Non avremo uno
spogliarello come
Scorpius non avrà delle Incantatrici.”
Lily la guardò
come se
l’avesse schiaffeggiata. “Ma che addio al nubilato
è altrimenti?”
“Uno con del
buongusto.” Si
inserì Violet.
La cugina parve ignorarla
rivolgendo invece un sorriso amorevole ad Alexandra, che pareva del
tutto
mesmerizzata dai riflessi della sua collana da come tentava di
afferrarla per
mettersela in bocca. “Tu che dici streghetta?” La
apostrofò. “Lo affittiamo un
bel maschione unto per l’addio al nubilato di zia
Ro…”
A quel punto trovò necessario lanciarle un pezzo di
croissant attraverso la
tavola imbandita.
“Non parlare di
quella roba
con una bambina in braccio! Roxanne, dille qualcosa!”
L’altra cugina
inarcò un
sopracciglio, apparentemente più interessata a spalmare
marmellata su un bagel che
a preservare l’innocenza di sua figlia. “Lexie ha
poche settimane.” Sbadigliò.
“Non capisce una parola di quel che le dici. Fidati, o
dormirei molto di più.”
Lily sogghignò soddisfatta. “Infatti. Ha tutto il
tempo del mondo per
ascoltare i saggi precetti di zia
Lily.”
Ormai certa del disinteresse di Roxanne, Rose decise di lavarsene le
mani per
concentrare le sue attenzioni su Violet, la quale sembrava sul piede di
guerra
da come infilzava la pancetta che aveva nel piatto. “Letty,
Lily ha ragione … non
credo sarà difficile prenotare un paio di camere da letto in
un resort carino,
magari con una Spa, no?”
“Andiamo in mezzo ai Babbani?” Violet
arricciò le labbra, prima di alzare gli
occhi al cielo quando si vide fissata con disapprovazione da ben tre
paia
d’occhi. “Scusate tanto se non mi fido dei loro
metodi per rilassarsi … Usano vasche
piene di sale e piscine di acqua bollente!”
“Esattamente che
idee hai dei
centri benessere Babbani?” Interloquì Lily
divertita. “Le fai sembrare case
dell’orrore.”
“Perché, non lo sono?”
Replicò l’anglo-francese, inarcando un
sopracciglio da
perfetta aristocratica Purosangue. A volte Rose si chiedeva se lo
facesse più
per posa che per reale convinzione. Per quanto ne sapeva Dominique
andava pazza
per il Mondo Babbano e vi trascinava l’altra di continuo.
Lily prese un biscotto e lo
porse ad Alexandra, con una naturalezza materna che faceva a botte con
la sua
espressione lussuriosa. “Ne ho frequentato uno, a Marrakesh
… Interessante,
specie per la mancanza assoluta di vestiti e per la
promiscui…”
“No.”
Ripeté con forza mentre l’altra
se la sghignazzava beata, spalleggiata dal sorrisetto perfido
dell’altra cugina.
“Niente saune promiscue camuffate da Spa. Pensavo ad un fine
settimana tra di
noi, con la campagna inglese e trattamenti rilassanti. Ne abbiamo tutte
bisogno.” Fece notare. “Roxie, hai due occhiaie che
fanno paura…”
“Se dormissi tre ore a notte le avresti anche tu.”
Mugugnò questa pulendo il
visetto sporco della propria bambina.
“Stamattina pensavo di aver visto una Pluffa in soggiorno
invece stavo solo
avendo le allucinazioni. Dion ci ha messo mezz’ora a
convincermi che non mi
stava puntando.”
“E Letty,
ultimamente in
ufficio ci stanno facendo a pezzi…”
Violet annuì con una smorfia eloquente. “Sono dei
dannati Dissennatori.”
“E per me ogni scusa è buona per scappare dal
grigiore della quotidianità!”
Concluse Lily. “Comunque sul serio, che sia ora o tra un mese
è lo stesso … ci
divertiremo!”
“Niente spogliarellisti però.”
La cugina alzò gli occhi al cielo. “Ma
dai…” Sbuffò lanciando
un’occhiata
supplice a Roxanne, che per fortuna scosse lentamente la testa.
“… oh, va bene,
come volete.” Borbottò.
“I ragazzi cosa
fanno?” Si
informò Roxanne.
Rose scrollò le
spalle finendo
quello che restava della sua colazione, visto che Violet stava
guardando
l’orologio con una certa urgenza: il lavoro di MagiAvvocati
non aveva giorni di
riposo fissi e infatti avevano un’udienza congiunta per quel
pomeriggio. “Credo
una bevuta al pub e una partita a carte con tanto di scommesse forti e
perdita
di indumenti. Conosci i modi di divertirsi di
Scorpius…”
Lily inarcò le sopracciglia. “Posso andare alla
loro, di festa?”
Tentò di
rifilarle un calcio
sotto il tavolo, ma era difficile prendere una persona tanto minuta
attraverso
un intero tavolino. “Eddai! Lo faccio solo per salvare il
pudore dei più
timidi!” Si difese. “Se c’è
una ragazza forse non finiranno tutti a lanciarsi
le mutande da un lato all’altro del locale.”
Rose scosse la testa.
“Ci sarà
Domi con loro, pensi che si fermeranno? Vuoi davvero vedere gente come
Prince
che insegue le proprie mutande perché Jamie gliele ha fatte
volare via?”
Lily arrossì.
“No, no. Forse è meglio se rimango con
voi…”
Eh?
Non doveva essere
l’unica ad
aver registrato il bizzarro comportamento della cugina,
perché lo sguardo di
Roxanne, perso fino a quel momento in allucinazioni da mancato sonno,
tornò
lucido e attento. Lily in compenso non sembrava essersi accorta di
nulla perché
districò le piccole dita di Alexandra dalla sua collana e
continuò. “A parte
gli scherzi, credo che il fratello della madre dei gemelli Finnigan
lavori in
uno di quei posti di lusso vicino a Bath. Mi informo?”
“Sì,
informati.” Tagliò corto
Violet prendendo la valigetta e facendole cenno di fare lo stesso con
la sua.
“Weasley, dobbiamo andare … Ho ricevuto un
messaggio su Specchio proprio
adesso. Pare che il nostro assistito stia avendo una crisi di
nervi.”
“Di nuovo?” Sbuffò, scusandosi con
un’occhiata. “Sì, fallo. Se ha un
indirizzo
web poi mandamelo.”
Rose si allontanò con Violet, chiedendosi se non avesse per
caso mancato un’opportunità
ad indagare sulla strana reazione di Lily.
Lily
che arrossisce quando si parla della nudità di un
ragazzo. E guarda caso, tho, è il solito Prince.
…
la imbarazza pensare a Prince nudo?
Scosse la testa: forse
Roxanne
non era l’unica ad avere le allucinazioni.
E se non lo erano, non erano
comunque fatti suoi. Per fortuna.
Lily sapeva di avere gli
occhi
di Roxanne puntati sulla nuca ma non aveva idea del perché.
Essere una LeNa non
la risparmiava dalle facce di bronzo, e la sua amata cugina rientrava
alla
perfezione nella categoria. Non aveva bisogno
dell’Occlumanzia per rendersi incomprensibile.
Quindi, aspettando che
l’altra
cominciasse a parlare – perché era solo questione
di tempo – finì quello che
restava del proprio brunch.
“Come va con
Scott?”
Inarcò le
sopracciglia,
appoggiando la tazza al tavolino. “Bene.” Fece
spallucce. “Cioè, il solito
direi.”
“È andato bene il vostro fine settimana scozzese?
Non me ne hai parlato per
niente…”
“Beh, sai, c’è stato altro da
raccontare.” Obbiettò. “Comunque
sì, è stato
carino… Cioè, lo sai che non sopporto i suoi
amici, ma lui è un tesoro e Edimburgo
è meravigliosa.” Stava cominciando a intuire dove
voleva andare a parare l’alta
ma non capiva il motivo per cui lo stesse facendo.
Ho
dato qualche segnale per cui si può pensare che sia
insoddisfatta del ragazzone? Non mi pare.
“Hanno continuato
con la
storia che siete perfetto materiale da matrimonio?”
Roteò gli occhi
al cielo,
calmando la stilla di forte disagio che le suscitò il
ricordo. “Sì, lo sai …
Scotty ci prova a farli star zitti, ma quei due paiono non voler altro
dalla
vita che vederlo nel club dei felicemente accasati.”
“Devi proprio piacergli.” Osservò mentre
cullava Alexandra, ormai per fortuna
prossima ad uno dei suoi sonnellini. “A quei due,
intendo.”
“Non lo so…” Scrollò le
spalle. “Certo, sono adorabile e bellissima, ma credo
che più che altro lo vogliano veder sposato. Con
chiunque.”
“E tu?”
“Io
cosa?” Quella
conversazione non le stava piacendo, ma purtroppo non c’era
mai un modo
semplice ed efficace di scappare alle domande trancianti di Roxanne
Weasley-Radescu.
A
dirlo così, sembra una marcia militare.
“Stai assieme a
Scott da un
bel po’ di mesi ormai, un record personale …
L’hai presentato in famiglia e
ormai neppure James si fa partire un embolo quando sa che dormi da
lui.” Inarcò
un sopracciglio. “La pensi sul lungo periodo o aspetti solo
il prossimo?”
“Non aspetto…” Aprì la bocca
per protestare, ma poi la richiuse quando vide lo
sguardo dell’altra. Roxanne non era una LeNa ma era sempre
stata capace di
leggerle dentro con la facilità con cui Nonna Molly avrebbe
sfogliato un libro
di ricette.
Perché
le sa tutte a memoria. Mi sa, tutta a memoria.
“Scott non
è uno qualunque.”
Borbottò incrociando le braccia al petto, in una
stupidissima posa difensiva. “È
… Scotty. Gli voglio bene, ci tengo a lui … ed
è seria. Lo sai che è seria!”
“Sì.” Concordò tranquilla,
alzandosi per posare la figlia nella carrozzina e
lanciandovi sopra un incantesimo per farla muovere appena quando la
bambina
prese a piagnucolare, insoddisfatta dalla nuova posizione.
“Il fatto è che
ultimamente parli poco di lui. Di solito eri una radio rotta su quel
che aveva
fatto, su quel che ti aveva consigliato di leggere e su quanto fosse un
dio del
sesso.”
“Non è che abbia chissà quale vita
avventurosa, ti racconterei sempre le solite
cose … e comunque è ancora un dio del
sesso.” Puntualizzò sentendo il bisogno
di difendere la propria regolarità sessuale. “Ci
siamo ammazzati di sesso a
Glasgow.” Anche
se da allora non si erano ancora visti,
né tantomeno avevano passato la notte assieme.
È
che non abbiamo tempo.
Bugiarda.
La tua giornata lavorativa finisce di
venerdì. Perché ieri notte non sei andata da lui?
La verità è che non hai
neanche pensato
di dormire nel suo letto in questi giorni.
…
in compenso c’è un altro letto in cui hai dormito.
Dormito!
Dormito e basta!
La sua smorfia colpevole
– di cosa poi?
– dovette essere eloquente
perché Roxanne smise di rivolgere le proprie attenzioni alla
figlia e le lanciò
un’occhiata storta. “Che hai combinato?”
“Niente!”
Buttò fuori rapida,
suonando falsa alle sue stesse orecchie. Afferrò il
tovagliolo e trovò del
tutto proficuo stritolarlo tra le mani. “Okay, premetto che
non ho tradito
Scott.”
La cugina si
massaggiò la
sella del naso chiudendo gli occhi: lo faceva ogni volta che stava per
confessarle un’alzata di ingegno.
Che
cavolo, stavolta non ho fatto niente di male!
“Sai che Ren ha
perso il caso,
no, per … per problemi personali.” Non scese in
dettagli, che era roba da auror
e comunque non era il punto della storia. “Ha passato un
brutto quarto d’ora
dopo … Un quarto d’ora durato una giornata e
… beh, morale della storia l’ho
portato fuori a cena per consolarlo.”
“Ci hai fatto sesso da ubriaca.”
“No!” Strillò facendo voltare
praticamente tutti gli avventori del caffè,
compresi i camerieri. Si schiarì la voce, facendo finta di
niente. Era la
strategia migliore. “No, non l’ho
fatto…” Disse più calma. “Mi
sono solo
addormentata nel suo letto. Ci ho dormito assieme, come dormirei con Al
o Jamie,
tutto qui.”
Roxanne crederle da come
rilassò le spalle. “E poi?”
“E poi niente. Ci
siamo
svegliati, salutati e … beh, Ren mi ha fatto un regalo, ma
è tutto qui.” Ribatté
un po’ piccata. Va bene, aveva avuto un’adolescenza
burrascosa dal punto di
vista sentimentale, ma si era calmata. Era maturata.
Non
sono più la diciottenne che rischia di sposarsi a
Las Vegas! Non è che ogni volta che divido un letto con
qualcuno l’esito è uno
solo!
Nonostante le sue idee in
merito, le sopracciglia dell’altra scattarono
all’insù come parentesi
imbizzarrite. “Sören ti ha fatto un regalo dopo che
avete dormito assieme?”
…
okay, questo suona male.
Scosse quindi la testa con
decisione. “Era un regalo che aveva già
deciso di farmi. È solo mentre ero lì.”
Alzò gli occhi al cielo. “Puoi
piantarla di guardarmi come se ti avessi appena detto che ho
partecipato ad
un’orgia?”
“Forse sarebbe
stato meglio.”
Replicò lasciandola di stucco. “Lily, hai un
ragazzo … perché diavolo dormi nel
letto di un altro?”
“È
stato un caso, non…”
“Sören Prince non è tuo
fratello.” La interruppe con il cipiglio delle grandi
occasioni.
“Tralasciando il passato che avete condiviso
assieme…” E dal tono lo stava
tralasciando solo per non aprire una parentesi enorme.
“… non è la persona con
cui si suppone dovresti condividere il letto. Scott lo sa?”
“Perché
dovrebbe saperlo?”
Replicò con una nonchalance che era ben lungi dal provare:
si rendeva conto
che, a vederla da un occhio esterno, quella situazione non era proprio
priva di
malizia. “Ren è il mio migliore amico, non
c’è stato niente di sconveniente.”
Roxanne rimase in silenzio;
quello che apprezzava della cugina era che non partiva subito a razzo
con le
congetture e i giudizi, come per esempio faceva Rose. Ma era solo
questione di
tempo prima che le dicesse la sua.
Roxie
è inevitabile. Come le tasse Babbane … e la
morte.
“Già
solo il non averglielo
detto non è una bella cosa, Rossa. Se dormisse con una sua
amica senza dirtelo,
a te farebbe piacere?”
“Dipende
dall’amica.” Non si
sarebbe fatta mettere sotto; non aveva fatto niente di male e il solo
sospetto
di Roxanne gettava una luce squallida sul rapporto tra lei e Ren. E
questo la
faceva infuriare. “Sören non si approfitterebbe mai
di una situazione del
genere!”
A questo
l’espressione della
cugina si ammorbidì. “Non sto dicendo che avete
fatto qualcosa alle spalle di
Scott … So quant’è corretto lui, e
quanto sei onesta tu quando ti impegni.”
Sentendo Alexandra piagnucolare mise la mano dentro la carrozzina per
sistemarle la coperta. “Ma ti conosco da una vita Lily, e mi
rendo conto quando
le tue attenzioni cambiano binario.”
Si sentiva la bocca secca e la singolare urgenza di darsela a gambe
lasciando
il conto impagato: e visto che toccava a lei offrire non sarebbe stato
carino.
“Che intendi dire?”
Roxanne, sospirando
all’ormai
incipiente pianto della figlia, la prese e cominciò a
cullarla. Nonostante il
gesto materno, gli occhi erano feroci depositari di verità.
“Che da quando è
arrivato Prince, Scott è passato in secondo piano.”
“Non è…”
“Tu non ragioni quando c’è di mezzo quel
ragazzo.” La interruppe per l’ennesima
volta. “Quando c’è lui il resto degli
uomini per te scompare. Scott non l’ha
fatto, è vero, ma…” Ammise e per Lily
fu la scialuppa di salvataggio. Perché si
sentiva affogare.
“Perché
sono innamorata di
Scott.” Sottolineò con
forza. Sperò di non averlo urlato, anche se dalle occhiate
che si sentiva
addosso era piuttosto probabile. “Lo amo, e voglio davvero
costruire qualcosa
di duraturo con lui! Ren ed io abbiamo un rapporto complicato, okay, ma
non
c’entra niente con quello che c’è tra me
e Scott! È lui che voglio!”
Roxanne accolse la sua confessione accorata con la solita, placida
tranquillità
con cui aveva sempre accolto ogni suo tracollo nervoso.
“Allora devi metterlo
in primo piano, Rossa.” Replicò.
“Perché credimi, in quest’ultimo periodo
non
lo stai facendo.”
“Okay,
l’ho un po’
trascurato…” Ammise perché continuare
su quella strada ormai era inutile: era
stata scoperta in flagranza di reato. “Ma Ren aveva davvero
bisogno di me, e
non me la sentivo di lasciarlo solo… Non posso ancora
dividermi in due.”
La cugina non disse niente per qualche attimo, in apparenza
più occupata ad
accarezzare i riccioli ribelli della figlia e mormorarle sciocchezze a
bassa
voce. “Lily.” Esordì poi ed era il tono
delle grandi rivelazioni, quindi si
irrigidì. “Sei sicura che sia Prince ad aver
bisogno di te?”
“Che…”
“Non è che sei tu che hai bisogno di lui? La
storia degli allenamenti, per
esempio…”
“Certo che ho bisogno di lui.” Non era poi questo
gran mistero. “Ci aiutiamo a
vicenda! Io lo aiuto con i casini che ha … e lui mi aiuta
con i miei.”
“E perché non può essere Scott ad
aiutarti?”
Non c’era
cattiveria, né
desiderio di metterla in difficoltà dietro
quell’ultima frase, eppure fu come
se l’altra le avesse tirato uno schiaffo.
La
verità è sempre un ceffone a cinque dita.
“Il tuo mestiere
è capire cosa
c’è dentro la testa delle persone.”
Continuò quieta e spietata. “Forse è
ora
che ti concentri su quello che c’è nella
tua.”
Adorava Roxanne, ma diavolo,
se la odiava quando aveva ragione.
****
Giardini
di Kensington, Ora di pranzo.
Godersi il sole quando si
degnava di uscire era una sorta di imperativo categorico quando eri in
terra
d’Albione perciò Milo quella mattina aveva
afferrato il giubbotto e si era
diretto ai giardini di Kensington, girando senza meta finché
non era arrivato per
puro caso in un delizioso giardino italiano dotato di fontane e
panchine
dirette verso la sua stella gigante preferita. Allungato quindi su una
di esse,
con gli occhiali da sole si godeva il dolce far niente.
Grazie
al cielo il principino è andato a smaltire la
sua Sehnsucht all’Accademia di duello.
Giorno
libero. Ah.
Quando un’ombra
gli oscurò la
luce aggrottò le sopracciglia. “Mi stai facendo
ombra.” Stimò senza aprire gli
occhi. “Chiunque tu sia.”
“È così che passi il fine settimana? Ad
oziare in un parco cittadino?”
Ormai avrebbe riconosciuto
la
voce di Maghetto Stronzo anche in mezzo ad una folla di Babbani.
“Il parco
cittadino in questione è un giardino italiano costruito dai
vostri illuminati
regnanti, ignorantone.” Ritorse con il piacere di sapere che
l’offesa sarebbe
andata a segno. “Anzi, c’è una bella
storia d’amore dietro … pensa che è
stato
costruito dal principe Alberto per la Regina Vittoria. Ho visto il film
un paio
d’anni fa, ho pianto come un bambino.”
Sentì l’altro sbuffare e poi accomodarglisi a
fianco. Girando la testa lo vide
con la schiena dritta e neppure un asola della giacca sportiva
fuoriposto. La
tenuta domenicale di Michel consisteva in qualcosa che sembrava uscita
dalla
settimana della moda di qualche Capitale chic, ovviamente.
La qual cosa gli faceva
venir
voglia di prenderlo sull’erba. “Non ti avrei mai
fatto un tipo da film
romantici.” Rispose infine distogliendolo dai suoi pensieri.
“Ehi, il romanticismo lo abbiamo inventato noi
tedeschi.” Gli strizzò l’occhio,
facendosi scivolare gli occhiali sopra la testa. “Come mi hai
trovato?”
“Ti ho messo
addosso un
incantesimo di Localizzazione.”
“Cosa?”
Michel gli lanciò un’occhiata perplessa.
“Ti pare? Sono andato al Paiolo Magico
ed ho chiesto di te. Hai lasciato detto dov’eri.”
“Sì,
per il principino.”
Convenne rilassandosi: okay, era stato un’idiota e quel suo
scatto meritava
delle spiegazioni.
Ma
devo proprio?
“Stavo solo
scherzando…”
Dall’espressione ferita dell’altro doveva; non
aveva idea della direzione di
quel rapporto, ma di certo non voleva rovinarsi la giornata per
dell’ironia
travisata.
“Sono un
po’ paranoico su
quegli incantesimi là…”
Spiegò ficcandosi le mani in tasca per avere un posto
in cui tenerle. Adorava i jeans, sembravano fatti apposta per ospitarle
vita
natural durante. “… La Traccia e palle varie. Sono
un po’ paranoico sul farmi
rintracciare in generale.” Ammise a mezza bocca.
“Perché?”
Non poteva biasimare la
curiosità del maghetto; specie perché aveva messo
in chiaro fin da subito che
voleva sapere tutto di lui. Scrollò le spalle, sentendo il
solito legaccio
attorno al petto. “Diciamo che c’è gente
che non voglio sappia dove sono.” Si
limitò a dire. “Niente di pericoloso,
né debiti da, eh…” Soggiunse
perché si
poteva pensar male. “Solo … gente che non mi va di
vedere.”
“La prossima volta ti chiamo.” Fu la replica quieta
e quando alzò gli occhi –
detestava abbassarli in quelle circostanze, ma gli veniva naturale
– trovò solo
un sorriso.
Il maghetto bastardo stava
giocando bene le sue carte.
“È
okay.” Borbottò avendo
l’orrenda sensazione di comportarsi come un adolescente
riottoso. Quel giorno
era l’altro in controllo della situazione. Se lo scambiavano
a vicenda. “Ma tu
non hai roba da burocrate da burocratizzare?”
“Oggi è
sabato, anche a noi
colletti bianchi danno un giorno di buonuscita.”
Ironizzò. “E volevo vederti.”
Bene davvero.
Perché non stava
dicendo
niente di che, ma era come lo stava
dicendo. Con la naturalezza di una persona che voleva sul serio passare
del
tempo con lui.
E
non con Milo, bello. Con Emil.
“Guarda che il mio
sabato è
meno entusiasmante di quanto pensi.” Ribatté con
una scrollata di spalle. “La
prima parte, almeno … Mi addormento al sole e poi torno a
casa, o in questo
caso in quel fetido buco che osano chiamare locanda, e mi esercito un
po’. È la
sera che divento divertente.”
“Allora se non hai
niente da
fare posso invitarti a pranzo.”
Si era fregato con le sue mani. Non che fosse una sconfitta
così tremenda. “Sì,
beh … perché no?” Cercò di
suonare più scazzato che poté, ma non stava
facendo
un gran bel lavoro.
Oh,
come se fosse il primo tizio che ti invita a
pranzo!
…
beh, di solito il pranzo lo scrocchi post-scopata.
Questo la diceva lunga su
quanto fallimentare fossero le sue capacità relazionali.
E
poi il principino viene chieder consiglio a me per le
sue pene d’amore. Poveraccio.
“Cos’è,
un appuntamento?” Gli
uscì brusco quando si furono alzati in piedi e Michel si fu
acceso una
sigaretta. Ora suonava ufficialmente come un adolescente riottoso.
L’altro gli
passò il pacchetto
e lo guardò stupito. “Certo che lo
è.”
“Ah.
Okay…” Annuì perché non
aveva idea di come reagire a quella spudorata sincerità. Era
di certo una nuova
tecnica per farlo capitolare.
E cazzo, stava funzionando.
Gli sembrava di
addomesticare
un gatto randagio.
Il paragone era
particolarmente azzeccato considerando che Emil l’aveva
seguito all’interno del
ristorante che aveva scelto – non distante da là e
con una meravigliosa vista su
Hyde Park – con la prudenza di chi si aspettava una fregatura
da un momento all’altro.
Quell’atteggiamento
sfuggente
avrebbe forse smontato qualcun altro, ma lui aveva passato anni a morir
dietro
ad un ragazzo che non voleva saperne di lui.
Ho
esperienza nei rifiuti. E qui non mi si sta
rifiutando.
Chiese quindi al maitre di sala il tavolo migliore e
quello dovette intuire la capienza della sua borsa da come lo
pilotò proprio di
fronte alle vetrate nonostante il posto fosse affollato.
Ottimo.
“Cos’è,
gli hai lanciato un Imperius?”
Borbottò l’altro, ma non gli
sfuggì come si guardò attorno impressionato: al
di là dell’aria trasandata e
l’eloquio di strada, era evidente che
apprezzasse quanto lui i tavoli con vista,
l’eleganza di posate
scintillanti e le tovaglie immacolate.
È
cresciuto nel mio stesso ambiente. Certe cose non
possono non mancarti.
“No, non serve. Ha
guardato
come sono vestito ed ha capito cosa volevo.”
Replicò sciogliendo il tovagliolo
e mettendoselo sulle ginocchia. “Il guardaroba è
il miglior biglietto da visita
di un uomo.”
Emil inarcò le sopracciglia, incrociando le braccia al petto
e scivolando un
po’ sulla sedia. “E il mio allora cosa
dice?”
Accolse la sfida ed
intrecciò
le dita sotto il mento: scansionò i jeans slavati ad arte e
la maglietta tesa
alla perfezione sulle spalle e sui bicipiti. “Sembra che non
ti importi di
quello che indossi, purché riesca a farti rimorchiare in un
club pieno di bei
ragazzi.”
L’altro mise su la
solita
faccia da schiaffi. “Magari è così. Non
sono uno che sta un’ora a mezzo ad
analizzare il proprio armadio come te, maghetto.”
“Invece credo di sì.”
Ribatté. “Quei jeans e quella maglietta
probabilmente
costano quanto quello che indosso io. La differenza sta solo in cosa
esprimono.”
Emil spalancò la
bocca, ma la
richiuse mentre un delizioso rossore gli tinse le guance.
Sì.
Ho vinto io.
Fu un peccato essere
interrotti
dall’arrivo del cameriere con i menù. Dopo avergli
consegnato però le proprie
ordinazioni, l’altro riprese la conversazione di sua sponte.
“Stai dicendo che la
mia è tutta scena?”
Se lui era permaloso, anche
Emil
non era da meno. “Sto dicendo che metti un grande sforzo nel
far passare il messaggio
che sei un tipo frivolo e a cui piace divertirsi.”
“Anche tu ti ci impegni a sembrare uno stronzo pieno di
pregiudizi.”
La frecciatina se l’era aspettata, quindi non se la prese.
Aveva intuito che
Emil mordeva solo quando sentiva dolere. “Perché
è quello che ci si aspetta da
me e non nego di esserlo, in parte. Qual è il tuo
motivo?”
L’altro bevve un
sorso
d’acqua. “È un appuntamento o un terzo
grado?”
“Di solito agli
appuntamenti
ci si scambia confidenze.”
“Beh, non mi va di scambiare questa
confidenza.” Sbottò brusco. Non fece in tempo a
chiedersi se avesse esagerato
che Emil fece una seconda smorfia. “Scusa … te
l’ho detto, non sono tipo da
chiacchierate a cuore aperto. Mi mettono ansia.”
Quella confessione era una
vittoria, anche se piccola. Michel ne gioì in silenzio e
fece scivolare la mano
sopra quella dell’altro. Emil si irrigidì, ma era
più sorpresa che fastidio,
perché non lo scacciò anche se ritrasse appena le
dita. “Non mi aspetto che mi
sciorini tutta la tua vita in tempi brevi … ma ho detto che
voglio conoscerti e
non ho cambiato idea.”
“Sei testardo,
inglese.”
Sbuffò e in quel momento sembrava proprio un gatto randagio
che tentava di
capire se la mano che gli veniva tesa era per strangolarlo o per fargli
una
carezza.
Non era difficile immaginare
quante volte fosse capitata la prima opzione.
Strinse la presa e fu
contento
quando sentì che lo ricambiava. Poco, ma era qualcosa.
“Non immagini
quanto.”
****
Diagon
Alley, Accademia Nazionale di Duello.
Pomeriggio.
Lily avrebbe voluto
lanciarsi
un Oblivio; aveva accarezzato a
lungo
quell’idea, praticamente per tutta la mattina e buona parte
del pomeriggio.
Purtroppo aveva una cosa chiamata spirito di conservazione, e il
maledetto le
impediva di sciacquarsi via di dosso la conversazione con Roxanne.
Inspirò,
stringendo con
convinzione la borsa mentre entrava nella mole vittoriana ed elegante
dell’Accademia Nazionale di Duello. Quel posto gli era sempre
piaciuto – pieno
di bei ragazzi – ma in quel momento le sembrava
l’anticamera dell’inferno.
Dopo
quello che Roxie mi ha detto … Come faccio ad
allenarmi con Ren?
Si sentiva confusa, e vedere
l’amico non avrebbe certo aiutato.
Roxie
dice un sacco di cavolate! Non è perché se
trascuro un po’ il mio ragazzo automaticamente penso a
qualcun altro! Ho solo
avuto tanto da fare.
…
Con Ren.
Cavolo!
Entrando negli spogliatoi
rilesse il messaggio che aveva mandato a Scott e la sua risposta:
quella sera
si sarebbero visti per una semplice cena e un film a casa sua, il
genere di
serata che entrambi preferivano.
Non
può essere sempre tutto piste da ballo e tacchi
vertiginosi.
Aveva bisogno di un
po’ della
serena routine che era riuscita a creare con il suo scozzese.
Passerà.
È che sei abituata a bere le parole di Roxie
come oro colato, ma neanche lei può sempre aver ragione su
tutto. Diamine, non
è l’Oracolo di Delfi!
Dopo essersi cambiata si
diresse verso uno degli specchi che le restituì
un’aria piuttosto graziosa per
una che aveva passato le ultime ore a sbattere la testa.
Forse
avrei dovuto rimandare …
La verità
è che non se l’era
sentita di farlo: quegli allenamenti, per quanto sfiancanti, le
lasciavano addosso
la sensazione di aver fatto qualcosa di concreto per combattere le
proprie
paure e nonostante l’approccio abbastanza dittatoriale di
Sören, per la prima
volta in vita sua aveva controllo completo della sua magia.
Sarebbe
un buon professore. Dev’essere di famiglia.
Per non interrompere il
corso
di quei pensieri positivi entrò nella saletta con un sorriso
stampato in viso.
“Ehi Ren!” Lo salutò vedendolo
armeggiare con il tabellone segnapunti. “Eccomi
qui!”
“Ehi.
Ben’arrivata.” Sembrava
così contento di vederla che si sentì in colpa ad
aver pensato di bidonarlo.
Per
le mie pare mentali poi!
“Fammi controllare
il
corpetto.” Le chiese aggirandola per controllarle le chiusure
dietro la schiena;
era un gesto che faceva ogni volta quindi non c’era alcun
motivo per sentirsi a
disagio.
Si sentì a
disagio.
Non si era mai accorta di
quanto il respiro dell’altro fosse caldo e di come le mani
fossero salde; cioè,
se n’era accorta ma non l’aveva mai notato.
La fisicità tra di loro era sempre stata strana, con momenti
in cui
abbracciarsi e toccarsi pareva inevitabile come altri in cui anche il
solo
sfiorarsi delle dita faceva rinculare l’altro come se
l’avesse ustionato.
È
evidente che ormai si è abituato a toccarti anche in
situazioni normali.
Non sapeva però
se fosse un
bene o un male. Al momento era troppo occupata a tenere i suoi pensieri
in una
direzione che non implicasse una fuga verso il primo drink disponibile.
“Troppo
stretto?” Le chiese facendo capolino dalla sua spalla. Lily
si rifiutò di
sobbalzare e scosse la testa.
“No, va alla
grande. Non
vogliamo che mi restino brutti lividi e bruciature, no?”
Scherzò. “Voglio dire,
con la pelle meravigliosa che mi ritrovo…”
Sören non parve
percepire il suo
imbarazzo. “No, non lo vogliamo.”
Replicò divertito. “Sei pronta?”
“Nata
pronta!”
Oh Merlino, nata pronta. Nata pronta:
l’ho detto sul serio?
Era una fortuna che
Sören non
fosse capace di capire quando una battuta era incredibilmente ridicola;
perché
ne avrebbe fatte altre, ne era sicura.
Almeno
non si è accorto che sono un fascio di nervi…
Lily era un fascio di nervi.
Non bisognava essere esperti
dell’universo muliebre per capire che aveva la testa in un
posto poco piacevole.
E questo ovviamente, facendole sbagliare un movimento di bacchetta che
era
riuscita a compiere senza sforzi la volta precedente, la faceva
diventare
sempre più irritata e confusa.
“Lily.”
La fermò quando la
barriera che tentava di lanciare tremolò e si dissolse in
uno sbuffo argentato
per l’ennesima volta. “Facciamo una
pausa.”
“No, ce la faccio!” Protestò testarda.
“L’altra volta ci sono riuscita …
è una
cosa così stupida!”
“Creare un incantesimo scudo di quarto livello non
è mai una cosa stupida.” La
corresse gentile, eliminando la distanza tra di loro e abbassandole il
braccio.
Dopo una lieve resistenza l’altra cedette. “Non sei
concentrata, così non ha
senso continuare.”
“Sono
concentrata!” Sbottò
guardandolo con rabbia. “Mi sto spaccando la schiena da
un’ora!”
Sören
batté le palpebre
confuso: non si era aspettato quello scoppio ma ancor meno si
aspettò le
lacrime che le riempirono gli occhi.
“Lily…” Mormorò sconcertato.
“Cosa c’è?”
L’altra per tutta
risposta
tirò su con il naso, girò le spalle e
tentò di darsela a gambe allontanandosi a
grandi passi verso l’uscita. “Lily, torna
qui!”
Ma
che ho fatto di male?
Forse era stato troppo
severo,
ma parve funzionare, perché l’altra si
bloccò, voltandosi per guardarlo con
occhi lacrimosi. “Forse è meglio se per oggi la
smettiamo qui, hai ragione.”
Pigolò con una voce così fragile che si
sentì immediatamente un orco ad averle
urlato addosso. “Non… non mi sento tanto in
forma.”
Sören sospirò: qualsiasi cosa fosse successa era
suo dovere indagare e
risolvere, se possibile. “Lilian…” La
chiamò con quello che era diventato ormai
un vezzeggiativo alla stregua del sempiterno ‘Ren’.
“C’è
qualcosa che ti turba, è palese. Puoi dirmi
cos’è?”
Sicuro!
Potresti spiegarmi come mi levo dalla testa
l’idea di preferire te al mio ragazzo?
Era questo che avrebbe
voluto
dirgli, ma ovviamente non era un’idea brillante se non voleva
incasinare le
cose in maniera definitiva, trascinandovi il suo povero, ignaro amico.
Aveva bisogno di riflettere
su
quello che le aveva detto Roxanne, invece di soffiarci contro ed
evitarlo, tutto
lì. Ma non era semplice farlo con lo sguardo preoccupato di
Sören piantato
addosso.
“Ho …
ho avuto una brutta
giornata. Una discussione.” Riassunse. “Con Roxie e
… beh, come riesce ad
entrarmi sotto la pelle lei, nessuno mai.”
“Spero niente di
grave.”
“No, no
… una sciocchezza.”
Stornò agitando la mano e sperando di essere convincente a
gesti, se non con il
tono. “Cose da cugine.”
“Capisco.”
Sören si passò la
bacchetta tra le mani nella tipica maniera impacciata dei ragazzi
quando
cercavano di gestire una crisi isterica femminile.
Tanta
buona volontà, sostanzialmente inutili.
“Posso fare
qualcosa?”
Oh,
Merlino.
L’impulso di
abbracciarlo fu
talmente forte che fu quasi come prendere uno schiaffo in faccia. Non
era una
buona idea, comunque. Non se ne aveva una voglia così
terribile.
A
quanto pare si può sviluppare una dipendenza dagli
abbracci. Graaande.
“No, guarda
… penso che la cosa
migliore è che vada a casa e mi faccia un bel bagno
caldo.” Gli strizzò
l’occhio. “Non preoccuparti, sto bene.”
Non posso scappare da una lezione dopo
che gli ho chiesto espressamente di rimanere per farmi lezione!
Sören
sembrò rilassarsi e annuì.
“Ti accompagno.” Esitò, poi assunse
un’aria decisa ed aggiunse. “Ma prima che
tu te ne vada … posso parlarti di una cosa?”
Okay.
E questa?
“Certo!”
Rispose comunque dandogli
una sana e fraterna pacca sulla
spalla. “A disposizione.”
Di fronte a due bicchieri di
the freddo Sören aveva perso tutto il coraggio.
Una cosa era parlare di Ama
a
Dionis, un ragazzo, una persona capace di capire la sua visione del
mondo una
cosa era parlarne a … Lily.
Senza
sentirti come un traditore.
L’amica in
compenso sembrava
essersi ripresa dalla crisi perché bevve un sorso dal
proprio bicchiere e
squadernò uno dei suoi sorrisi incoraggianti, tali da far
riuscire a confessare
persino un criminale recidivo.
Ogni
riferimento a cose o persone è puramente casuale.
“Beh?”
Esordì. “Di che volevi
parlarmi?”
Sören
giocherellò
distrattamente con l’anello. Decise di averci girato attorno
si troppo, ed era
ridicolo alla sua età e con la sua storia personale,
veramente. “Vorrei
chiederti un consiglio sentimentale.”
L’altra lo guardò come se non avesse capito, la
qual cosa lo fece sentire un
autentico idiota. “Sentimentale?” Gli
ripeté, ma prima che potesse anche solo
aver il tempo di rimangiarsi la frase, aggiunse. “Un
consiglio su una ragazza?”
Ormai
sei in gioco.
“Sì.”
Convenne. “Ama mi ha
chiesto di uscire … per un appuntamento.
Romantico.” Aggiunse un po’
inutilmente. Ma forse no, dopotutto lavoravano assieme, bisognava esser
precisi.
Quest’intera
faccenda è troppo complicata. Torna sotto
il tuo sasso, principino.
Lily in compenso continuava
a
guardarlo con quella buffa espressione di sorpresa dipinta in viso,
quasi
avesse appena visto entrare un Ippogrifo su due zampe.
Non
ti considera neanche capace di avere un
appuntamento.
“Sì,
sono rimasto sorpreso
anch’io.” Ammise irritato: certo, era un disastro
relazionale ambulante, come
sosteneva Milo…
Ma
crede davvero tanto incredibile che una donna possa
ritenermi desiderabile?
Reagisci
cretina!
C’era una vocetta,
lieve ma
persistente, che le urlava di piantarla di fissare Sören come
se fosse una
specie rarissima di Mandragola. Quella vocetta aveva ragione,
naturalmente,
perché l’amico le aveva appena detto una cosa
importante, chiedendole un
parere, e sarebbe stato carino avere almeno una
reazione.
Ama
gli ha chiesto di uscire.
Ovvero la ragazza che era
sembrata così preoccupata dalla sua sparizione da essere
antipatica, la strega
che si era inalberata quando le aveva chiesto di farsi da parte. La
tizia che
aveva una cotta per lui, a quanto le aveva detto Milo.
…
quella grandissima stronza!
Con
il cervello inceppato tentò quindi
la prima cosa che le venne in mente. “È
grandioso!” Esclamò con la stessa
convinzione che avrebbe messo nel convincere Gilderoy che le sue
Pozioni non
avevano un sapore orrendo. Che tra l’altro si trovava al
momento curiosamente
in bocca. “Uhm … ben fatto.”
Che
cavolo sto dicendo?
Sören le
scoccò un’occhiata
perplessa. “Grazie.” Rispose. “Quindi
pensi che debba uscirci?”
No!
…
non fare la cretina.
“Sì
… certo.” Al di là della
sua tempesta emotiva doveva essere una buona amica per Sören,
come lui lo era
stato per lei. E poi rispondere ‘no’ avrebbe
portato a richieste di chiarimenti
troppo scomode. “Voglio dire … quando una ragazza
ti piace e lei fa la prima
mossa, di solito è una buona idea dirle di sì.
Perché … ti piace, giusto?”
Sören si mosse
sulla sedia
quasi fosse irta di aculei, e non rispose.
“Ren,
sì o no?” Chiese con un
tono che doveva urlare interrogatorio e uso illegale del Veritaserum.
Non
riusciva ad importarle. Era troppo arrabbiata.
“Sì.”
Era ovvio. Avrebbe dovuto
immaginarsi che prima o poi sarebbe uscito dal bozzolo di introversione
e
timidezza che l’aveva avviluppato per la maggior parte della
sua esistenza
disastrata per diventare un mago con una vita sentimentale normale. E
ne doveva
gioire, perché finalmente aveva trovato una strega capace di
ignorare il suo
passato per concentrarsi sulla persona meravigliosa che era nel
presente.
Perché
non gioisco?
Perché
sono gelosa.
Realizzarlo fu come esser
traditi dal suo stesso cervello. E non era una bella sensazione.
Inspirò, tentando
di calmarsi
e comportarsi come la Lily di cui l’altro aveva bisogno.
“Allora esci con lei.”
Gli mise una mano sul braccio e lasciò che fosse
l’affetto che provava a
parlare. “Il primo appuntamento fa paura, lo capisco. Pensi
che farai un
disastro, ma non è così, okay? Io sono uscita con
te un sacco di volte, e sei
una compagnia adorabile, posso assicurartelo.”
“Non è la stessa cosa.”
No, non lo è.
Strinse la presa sul braccio
dell’altro. Era un gesto che serviva a lei a dirla tutta.
“Andrà bene.” Lo
rassicurò con il suo sorriso migliore. “Hai il
diritto di essere terrorizzato,
hai il diritto di preoccuparti per cosa ti metterai e di cosa parlerai
… hai il
diritto di essere felice con una ragazza. Quindi fallo se è
quello che vuoi.”
Sören, che
l’aveva guardata
con quei suoi stramaledetti occhi neri per tutto il tempo, le sorrise.
“Grazie,
lo farò.”
Ora sì che aveva
voglia di sbattere
la testa contro un muro.
Roxanne accoglieva il sonno
della figlia come un miracolo. Per questo, quando la bambina finalmente
scivolò
senza scossoni nel mondo dei sogni, si diresse verso il divano e
lì vi franò
dentro, godendosi il silenzio della casa e persino della mancanza di
Dionis,
che per quanto fosse un tesoro, aveva la malaugurata abitudine di
riuscire a
svegliare la piccola ogni volta che metteva piede in casa.
Quindi, quando
sentì il
cellulare vibrare nella tasca della felpa fu tentata di liquefarlo con
un Incendio.
Diede un’occhiata
al display e
ci andò maledettamente vicino.
Lily.
Non aveva bisogno di usare
falsa cortesia con la cugina, quindi andò dritta al punto
della faccenda. “Rossa,
sto cercando di ricordarmi come si fa a dormire e tu mi hai interrotto. Spero che sia
importante.”
“Sono nella merda.”
Lo era.
Si tirò a sedere
e si
abbracciò rassegnata le gambe. “Che hai
combinato?”
“Un
casino…” La voce di Lily
era vicino alla rottura e questo non era un buon segno: sua cugina
poteva
essere emotiva, ma quasi mai arrivava al punto da chiamare qualcuno
sull’orlo
delle lacrime. Era troppo orgogliosa. “Avevi ragione. Come al
solito, hai
ragione tu.”
Capì subito il cuore del problema. E la persona a cui era
associato. “Cos’è
successo con Prince?”
“Mi ha chiesto se
dovesse
uscire con una sua collega.”
Alla
faccia del tempismo.
“E tu che gli hai
detto?” Non
aveva bisogno di dare pareri o dispensare consigli quando Lily era in
quello
stato d’animo. Solo di fare le domande giuste.
“Quello che gli
avrebbe detto
ogni buona amica. Che deve uscirci e che sono felice per
lui.” Un’altra
incrinatura più vicina al pianto. Se la immaginava
raggomitolata da qualche
parte, in camera propria o chiusa in bagno con l’acqua che
scorreva.
La
seconda, sento il rumore.
“E invece cosa
sei?”
Lily di fronte a domanda
diretta capitolava sempre. “Sono gelosa.”
Mormorò e poté immaginarsela chiudere
gli occhi e stringere i pugni: realizzare era un po’ come
irrigidirsi quando si
veniva colpiti da una Pluffa. “Non voglio che esca con
Ama.”
“Perché?”
“Perché
è perfetta per lui.
Finirà per innamorarsene, me lo sento.”
“E non vuoi che
accada.”
“No.”
Ci fu una lunghissima pausa in cui Roxanne si controllò lo
smalto delle unghie
e sperò che finalmente Lily potesse mettersi il cuore in
pace. Che fosse con
Scott o con Sören o con chiunque altro non le interessava.
Rimane
ferma in un punto, Rossa. Smetti di scappare.
“Amo
Scott…”
“Lo so.”
“Ma non voglio che Ren stia con nessuno.”
“Già.”
“Roxie…”
Mormorò infine ed era
piuttosto certa che avesse sbattuto la nuca contro il muro dietro di
sé:
tendeva a farlo quando voleva punirsi. “…
dì la verità, sono una persona
orribile?”
“No,
Rossa.” Sospirò. “È che sei
un casino ambulante.”
Lily ridacchiò,
tirando su con
il naso in maniera sospetta. “Rimani un po’ al
telefono con me?” Chiese con un
tono definitivamente lacrimoso. “Puoi anche
addormentarti.”
…
e arrivederci sonno.
“È
proprio quello che ho
intenzione di fare.” Commentò mettendosi il
telefono nell’incavo della spalla e
preparandosi a passare un intero pomeriggio a parlare.
****
Note:
Dal punto di vista emotivo, le cose si danno una svegliata! ;D
Questa
la
canzone del capitolo. L’ho cambiata all’ultimo
perché praticamente parla di
quel che succede. L’altra, che fa comunque da sfondo al
capitolo è questa
Enjoy!
Poi potrei
aver fatto un fanmix
Al/Tom su 8Tracks. Quei due mi mancano quando non ne
scrivo per un
po’.
Per chi volesse vedere gli Italian Garden dove si sono ritrovati Milo e
Michel
ecco
qui
|
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Capitolo 31 *** Capitolo XXX ***
Capitolo XXX
But
it’s just the price I pay / Destiny is calling me
Open up my eager eyes ‘cause
I’m Mr Brightside
(Mr.
Brightside, The Killers.)
18 Luglio 2028
Somerset,
Casa di Scott Ross.
Mattina.
Scott non aveva mai avuto
intenzione di restare a Londra per sempre.
Quando era tornato non avrebbe mai immaginato
che avrebbe finito per
abitare in pianta stabile in un cottage nel Somerset, né
tantomeno di accettare
il lavoro all’Archivio Ministeriale, inizialmente un semplice
passatempo in
attesa di tornare in Australia.
Se era rimasto, era stato
principalmente a causa di Lily. Era stato con gli occhi della sua
ragazza che aveva
visto Londra e se ne era innamorato, era stato con il suo entusiasmo
contagioso
che era stato inserito nella cerchia dei figli del Salvatore. E non se
ne
lamentava, perché aveva passato un periodo divertente, anche
se un po’ troppo
sopra le righe per i suoi gusti.
Ora però le cose
erano
cambiate e quella mattina vi rifletteva mentre preparava la colazione
per
entrambi, imburrando scones e
mettendo
sul fuoco il bollitore.
Si
sta allontanando.
Non che lo stesse tradendo;
non aveva pensato neppure per un momento a
quell’eventualità, perché Lily Luna
poteva
avere un carattere leggero, ma era corretta.
Se
volesse un altro, me lo direbbe. Non si è mai fatta
problemi a lasciare un ragazzo quando non le interessava più.
Lily lo voleva ancora, ma si
stava allontanando e la colpa era di Sören Prince.
Altre persone avrebbero
confrontato l’americano, ma Scott non era sicuro che avrebbe
funzionato. Gonfiare
il petto ed intimargli di lasciare in pace Lily sarebbe servito?
Dubitava.
Anzi,
se Lils venisse a sapere che ho detto al suo
migliore amico di levarsi dai piedi …
Quindi, dopo la debacle
della
loro mini-fuga in Scozia, aveva preso l’irrevocabile
decisione di riconquistare
il posto che gli spettava nel cuore della sua ragazza. Aveva
già un piano.
Certo, avrebbe semplicemente
potuto
aspettare che Prince tornasse in America, ma non bastava; attendere che
le cose
si risolvessero da sole non era mai stato il suo forte.
“Ehi, non senti
odore di
bruciato?”
La voce di Lily, appena
arrivata in cucina, lo prese di sorpresa. Specie quando si accorse che
aveva
ragione: il fumo che si levava dal tostapane era inequivocabile.
“I toast li
volevi ben carbonizzati, vero?” Chiese recuperando quello che
rimaneva dei
suddetti.
L’altra per tutta
risposta lo
guardò divertita e li fece Evanescere con un colpo di
bacchetta. “Ma dì un po’,
la testa l’abbiamo ancora attaccata al collo?”
“Perfettamente
stabile.” Replicò
sullo stesso tono. “È che mi sono distratto un
attimo a guardare la tv.” La
indicò, benedetta complice della sua messinscena.
Lily parve accettare la
bugia,
perché si sedette a tavola e si servì il the.
“Mangio leggero oggi.” Esordì.
“Ho il terrore di
chiederti se
sei a dieta … cosa a cui non dovresti neanche
pensare.” Suggerì rimediandosi un
sorriso compiaciuto. Sapeva come lusingarla.
È
anche semplice con l’ego che si ritrova, eh.
Lily scosse la testa.
“Oggi la
punizione è finita e rientro ufficialmente nelle grazie
della Patil, e quindi
mi toccherà sgobbare il doppio. Meglio se non mi
appesantisco … e poi questo
pomeriggio vado a dare una mano a Teddy, sai, per la camera di
Benedetta.”
Annuì, con la testa ancora settata sui pensieri di poco
prima. Era il momento
di metterli in azione.
“Stasera pensavo
di andare a
cena fuori…”
Lily alzò lo sguardo dal Profeta che stava sfogliando
distrattamente. “Oh!”
Sorrise. “Dobbiamo festeggiare qualcosa?”
“No, mi va di
portarti in un
posto carino, tutto qui. Giuro che mi metto persino una
cravatta.”
“Ed io
cercherò di non essere
troppo sexy.” Gli strizzò l’occhio di
rimando prima di sporgersi a baciarlo, ma
dovette percepire qualcosa con quei suoi straordinari e scomodissimi
poteri
perché si staccò subito. “Non
è che c’è una fregatura?”
Chiese tra il
divertimento e il sospetto. “Tipo che mi porti a conoscere i
tuoi?”
“Li hai
già conosciuti.” Le
fece notare tranquillo
Lily parve convinta.
“Stasera
voglio mangiare pesce!”
“Ricevuto!”
La fiamma c’era
ancora, nessun
dubbio; avrebbe quindi lottato per tenerla accesa.
****
Londra,
Ministero della Magia.
Mattina.
“Come va la
preparazione
dell’arrivo di Ben?”
“Bene. Cioè, non che io e Ted ci capiamo
granché di arredamento e di camere per
bambine … ma dobbiamo sbrigarci, domani la dimettono. Oggi
viene Lils a darci
una mano. O a prenderci per il culo, non ho ancora capito.”
“Io direi entrambe le cose.” James Potter era una
continua scoperta, pensava
Scorpius. Da quando lo conosceva, e non contava il periodo in cui si
erano
scazzottati per i corridoi di Hogwarts, non aveva mai smesso di
stupirlo. Era
capace di essere il più testardo degli idioti, di masticare
pregiudizi e idee
preconcette a colazione, e poi accogliere nella sua vita una
novità grossa come
avere una bambina senza battere ciglio.
Un
idiota sorprendente!
“Quindi
adozione?” Chiese
mentre passavano le porte dell’ufficio auror. Quella mattina
erano arrivati
nello stesso momento, quasi scontrandosi una volta usciti dai camini
dell’Atrio. Gli era parso esausto – i suoi soliti
capelli impazziti avevano una
piega quasi umana. A sua domanda gli aveva spiegato di aver passato
tutto il
fine settimana a rendere la casa prova di piccolo Mannaro.
James, quasi a sottolineare
quella sua linea di pensieri, sbadigliò.
“Già!” Fece una smorfia. “O
meglio, ci
vorrà un po’ prima che le cose diventino ufficiali
… C’è un periodo di prova o
che so io. Per vedere se possiamo essere bravi tutori.”
“Niente feste
folli quindi?”
Chiese un po’ preoccupato; se si fosse trovato senza il suo
principale braccio
destro festaiolo sarebbe stato un bel problema.
Sabato
c’è la festa!
James gli scoccò
un’occhiata
orripilata. “Scherzi Malfuretto? Non sto mica andando a farmi
monaco. Dovrò
solo … sai … evitare di farle a casa
mia.” Si strinse nelle spalle. “Ma non le
facevamo comunque. Chi ha voglia di andare ad infognarsi ad Hogsmeade
quando
c’è Londra?”
“Parole
sagge.” Convenne
rasserenato. “A questo proposito, ne ho parlato con Rosie
… niente Incantatrici,
neanche se sembra che tu abbia deciso alle mie spalle.”
“Gli hai detto del
nostro
piano segreto!”
“Non ho segreti per la mia dolce gattina.”
“Dolce gattina un cazzo, è uno Kneazle
rabbioso!” Grugnì scornato. “Ti fai
già
mettere il giogo prima ancora di averlo al collo!”
“L’ho
sempre fatto.” Gli fece
notare tranquillo, divertendosi all’occhiata schifata che gli
venne rivolta.
Senti
chi parla … Stai per diventare un padre di
famiglia!
James lasciò
cadere l’idea da
come scrollò rassegnato le spalle. “Allora mi
ingegnerò con quel Nott per far avere
un po’ di roba seria. Se non abbiamo le Incantatrici, almeno
l’alcool!”
“Guarda che ti ho
fatto un
favore. Sei l’unico, assieme ad Al, che ha la sua
metà presente.”
“Teddy non
è geloso.” Alla sua
occhiata poco convinta fece spallucce. “Delle donne.”
Aggiunse. “Sa che preferisco ben altro, anche se continuo
ad apprezzare un paio di tette.” Si buttò sulla
sedia della scrivania e fece
cenno a Bobby, che stava entrando in quel momento.
“È la tua Rosie che è
paranoica.”
“Mi chiedo da che
lato della
famiglia abbia preso…”
“Non dal mio!”
“Ehi ragazzi!” Sorrise Jordan dando loro una
rispettiva pacca sulla spalla,
fresco e riposato come una rosa: era una cosa che gli aveva sempre
invidiato a
morte. “Gran festa di addio alla libertà questo
sabato?”
“Sicuro! Vogliamo
fare o no le
condoglianze al nostro furetto biondo preferito?” James per
sottolineare il
concetto fu lesto ad arruffargli i capelli, cosa che lo divertiva
immensamente da
quando aveva avuto la sciagurata idea di dirgli che era un gesto che
detestava.
“Deve perdere i pantaloni e la dignità questo fine
settimana, non c’è storia
che tenga!”
“Preferirei che mi
rimanesse almeno la
seconda…”
“Scordatelo!”
Fu la corale quanto
inevitabile risposta.
I ranghi furono ripristinati
quando videro arrivare il Sergente Gillespie; per quanto fosse
amichevole con
loro, Scorpius aveva l’impressione che poco apprezzasse il
machismo che veniva
spesso e volentieri sciorinato all’interno del loro ufficio.
Siamo
quasi tutti maschi … è inevitabile il clima da
camerata.
“Buongiorno
Sergente.” La
salutò cortese, subito imitato dagli altri due. James, che
era stato cresciuto
in un contesto di donne forti, sembrava temere di oltrepassare il
limite ogni
volta che la strega era tra di loro.
Prince
potrà anche avergli fatto girare l’anima, ma la
Gillespie gli mette ansia. E si vede.
“Buongiorno
ragazzi.” Li
salutò di rimando. “Piani per una
festa?” Doveva averli ascoltati, o forse
semplicemente era stata investita dal loro chiacchierare; erano famosi
in tutto
il Dipartimento per tenere alti i volumi dei loro discorsi.
“Sì, il
mio addio al celibato!
Il prossimo mese mi sposo con la mia fidanzata.”
Spiegò trovandovi
soddisfazione come ogni volta. “La inviterei, ma è
una cosa uhm … molto maschia.
Comunque la quota americana ci sarà, ho invitato
Prince!”
Venne guardato con sorpresa. “L’agente
Prince?” Alla sua faccia confusa scosse fece
spallucce. “Di solito non è tipo che va a questo
genere di feste … o feste in
generale.”
Lo aveva immaginato e si
sentì
quindi in dovere di sentirsi speciale. “Io e Sören
abbiamo fatto amicizia …
Credo venga più perché l’ho supplicato
che altro.” Ammise. “E poi, è anche un
modo per distrarlo.”
“Sono d’accordo. Iniziamo?” Gli sorrise
voltandosi poi a prendere qualcosa
dalla borsa a tracolla che portava sempre con sé. Ai tempi
della scuola doveva
essere stata una di quelle ragazze con troppi chili di libri addosso.
Gli
sarebbe piaciuta. “Come vi avevo anticipato, la mia squadra
ha fatto una
ricerca sui possibili finanziatori del Demiurgo.”
“È
uscito fuori qualcosa?” Lavorando
a stretto contatto con gli americani era impossibile non rendersi conto
della
qualità superiore delle informazioni di cui disponevano,
nonché dei mezzi con
cui operavano.
A
volte qua sembriamo rimasti a lanciarci incantesimi e
setacciare Notturn Alley finché non troviamo
qualcosa…
Deprimente.
Ma guai a dirlo ad alta voce!
“Delle piste
promettenti.”
Rispose l’americana. “La mia squadra ha fatto una
ricerca nella Pergamena Nera ed
ha ristretto la rosa a cinque possibili candidati.”
“Cinque!”
Esclamò James sgranando gli occhi. “Cavolo, sono
pochi!
Siamo in sella alla scopa!”
“Magari.”
Ama scosse la testa,
mentre Bobby arrivava sospingendo una lavagna di sughero che veniva
usata nei
casi di più ampio respiro, dove non bastavano le pareti dei
propri cubicoli per
appendere foto e informazioni. “Finché non abbiamo
prove che colleghino queste
persone al Demiurgo rimangono solo maghi che corrispondono ad un
profilo.”
“Che
cos’è la pergamena nera?”
Chiese curioso.
“Una lista di
maghi e streghe
che sono stati segnalati dai rispettivi Ministeri per
attività illecite.” Gli
rispose. “In realtà non è una vera e
propria pergamena, ma un archivio
cartaceo presso la sede centrale
dell’Ufficio Interfederale di Giustizia. È
piuttosto utile quando cerchi nomi
fuori dai confini americani … ”
Avere un archivio del genere
avrebbe reso le cose infinitamente più semplici dalle loro
parti. “Che criterio
avete usato per individuarli?”
“Abbiamo fatto una
ricerca
incrociata su quello che avete scoperto qui. Interesse nelle Arti
Oscure,
contatti precedenti con la Thule e una causa a cui servono maghi e
streghe da
usare come soldati.”
“Quindi questi
cinque sono tutte
persone che potrebbero volere il Demiurgo per creare una sorta di
esercito di
super-maghi?” Si inserì Bobby parcheggiando la
lavagna di fronte a loro. “Allora
sono già troppi.”
“È quello che intendevo.” Convenne la
strega con un sospiro, appendendo la
prima foto al pannello. “Il primo è Abdul Faiz
Katib, ventisei anni, cittadino
del Ministero Afghano, figlio di un capotribù Hazara. In
Afghanistan il
territorio magico è diviso in tribù. Non
è un estremista Purosangue, ma la
morte del padre ha portato alla spartizione del suo territorio ad opera
di
altri capotribù, causando la morte di molte persone, molte
delle quali suoi
familiari.”
“Okay, ma quella gente non vive tra le capre?”
Replicò James. “Come sono venuti
in contatto con Von Hohenheim?”
Ama gli rivolse un’occhiata che a Scorpius ricordò
terribilmente quelle che
Prince tentava di tener nascoste quando pensava che fossero un mucchio
di
idioti rumorosi. “Katib è istruito, ha frequentato
Durmstrang grazie ad un
anonimo benefattore… È intelligente, carismatico
e vuole vendetta.”
“Materiale perfetto per Von Hohenheim.” Le venne in
aiuto perché non erano tutti
idioti rumorosi. “Il Signor Thule
aveva un pallino per far istruire giovani maghi di talento, mi pare,
no?”
Ama annuì.
“Il padre era uno
dei Pozionisti più conosciuti del Medio Oriente ed ha
aiutato la Thule a
sviluppare una serie di veleni le cui formule per fortuna sono adesso
in nostro
possesso.” La foto ritraeva un ragazzo dall’aria
anonima, ma con un’espressione
feroce annidata negli occhi a mandorla tipici del proprio popolo, tanto
che a
Scorpius vennero i brividi.
Potrebbe
essere il genere di persona che crea un
esercito, sì …
Ama però non
aveva finito. “C’è
da dire però che Katib ha tagliato i ponti con la Thule non
appena il padre è
morto. Ci sono forti sospetti che fu proprio Von Hohenheim ad ordinarne
l’assassinio.”
Scorpius incrociò le braccia al petto. “Quindi
è difficile che si sia rivolto
ad uno dei suoi ex-scagnozzi per farsi aiutare a vendicare la propria
gente.
Okay, il prossimo?”
Ama appese la foto di un
tizio
di mezz’età dall’aria pasciuta e vestito
con coloratissime vesti africane
nonostante fosse di etnia europea.“Renard Thierry,
cinquantadue anni, cittadino
del Ministero Belga, trafficante di Pozioni e Incantesimi tra il
Mozambico e lo
Zimbabwe. La situazione tra le due comunità magiche
è molto tesa, specie da
quando lo Zimbabwe ha dato il via ad una politica razzista nei
confronti dei
maghi bianchi presenti nel suo territorio. Potrebbe volere il Demiurgo
per
venderlo ad una delle due fazioni. È un uomo molto influente
nell’Africa
Orientale, ed ha a disposizioni mezzi e capitali tali da finanziare una
ricerca
simile per anni.”
“Sulla carta
sembra perfetto.”
Interloquì Bobby consultando il fascicolo con le
informazioni sull’uomo. “Ma
qui dice che si è ritirato a vita privata una decina
d’anni fa.”
Ama confermò con un cenno della testa. “Si
vocifera sia sul letto di morte.”
“Perché fare un colpo grosso quando si ha un piede
nella fossa?” Si inserì
James scrollando le spalle. “No, a meno che non voglia farlo
per lasciare un
bel gruzzolo alla famiglia, direi che non è il nostro
uomo.”
“Non ha
famiglia.” Replicò Ama
con un sospiro. “Devo ammetterlo, ognuno di essi ha qualcosa
che non mi
convince, che mi fa pensare che non sia lui il finanziatore.”
Scorpius sentendo la descrizione degli altri tre sospetti non
poté che darle
retta; due erano trafficanti di Pozioni come Thierry, con i quali la
Thule
aveva collaborato per piazzare i suoi ‘prodotti’ e
l’ultima era una terrorista
cecena che lottava per affermare la supremazia della propria corrente
politica
– neanche a dirlo, Purosangue – su quella
dell’attuale Ministero liberale del
suo paese.
Era spaventoso realizzare
come, nel mondo, esistessero tanti maghi pronti a fare quello che aveva
fatto
Voldemort decenni prima. Dava una prospettiva tutta diversa alle cose.
Noi
abbiamo pensato che il Signor Faccia da Serpente
fosse la minaccia dell’intero
Mondo Magico … ma forse non abbiamo mai
messo il naso fuori dalla porta di casa. Al mondo i pazzi sanguinari
sono
ovunque.
“Non
c’è modo di di parlare
con queste persone faccia a faccia, ah?” James sembrava a
disagio all’idea di
non poter diventare operativo e non poteva biasimarlo.
Ma
qui si tratta di cooperazione internazionale. Papà
lo dice sempre, è come andare a dare un
bell’abbraccio ad un Tranello del
Diavolo.
“A meno che non
abbiamo prove
solide del fatto che abbiano avuto contatti con John Doe non possiamo
pretendere di interrogarli né tantomeno di mettere piede in
un altro Ministero
con queste premesse.” Rispose paziente Ama, che sotto sotto
pareva inquieta
come loro. “Dobbiamo continuare a lavorare sulle prove che
abbiamo in
Inghilterra e trovare un collegamento che non sia solo una
speculazione.”
“A questo
proposito sono
arrivati i risultati delle analisi fatte nella fabbrica usata per
testare il Demiurgo.
Nei mozziconi di sigaretta fumati da John Doe e trovati da Prince sono
state
rinvenute tracce di terriccio inglese.”
James scrollò le spalle. “E quindi? Sappiamo che
è in Inghilterra!”
“Non ne avevamo la
certezza
però.” Obbiettò Ama.
“Fin’ora sapevamo solo che la base operativa era
qui.
Adesso sappiamo che John Doe è qui fisicamente.”
Fece una pausa. “Sono riusciti a circoscrivere
l’aria da cui proviene?”
Bobby scosse la testa.
“Non
abbiamo strumenti così precisi, ma l’analisi ha
circoscritto l’aria ad Ovest
dell’Inghilterra.”
“È
già qualcosa.” Sospirò
l’americana. “Se non altro sappiamo che Il
Camaleonte è stato lì e c’è
stato
più volte se non è riuscito a pulire del tutto i
suoi stivali.”
“Stilo una lista
dei luoghi
magici in quella zona?” Suggerì. “Forse
è da quelle parti che alloggia. Se
hanno problemi con il Demiurgo e stanno usando cavie inglesi, lui e la
madre di
Prince saranno rimasti a supervisionare, no?”
Ama annuì. “Non sarà facile trovare due
maghi che hanno passato la vita a
nascondersi … ma vale la pena provare.”
****
Lincoln
Inn Park, Mattina.
Sören non aveva
ancora trovato
il modo per riavere l’indagine e aveva
l’impressione di aver promesso a Lily
qualcosa che non sarebbe stato in grado di fare.
Era infatti impossibile per uno come lui, abituato sin
dall’infanzia ad
obbedire agli ordini senza fare domande, disobbedire o ancor peggio far
cambiare idea ad un suo superiore facendo valere la propria.
Che
poi qual è la tua idea? Ridatemi il caso perché
voglio vendicarmi della mia famiglia?
Anche se non era solo quello
a
muoverlo; c’era tutto un grumo di sentimenti che non riusciva
a sbrogliare
quando pensava al Demiurgo ed erano così confusi da rendere
la sua mente tutt’altro
che focalizzata sull’obbiettivo.
Non
promette bene.
Doveva trovare una soluzione
e
l’unico modo che conosceva per schiarirsi le idee era
l’esercizio fisico, quindi
quella mattina, visto che Dionis non era in Accademia, aveva ripiegato
sul
correre in un parco vicino, scoperto per caso nei suoi vagabondaggi
serali,
quando non bastavano i suoi classici due bicchieri di whisky
incendiario per
farlo dormir tranquillo.
Il parco era piccolo, ma ben
curato e piuttosto affollato vista la bella giornata estiva. Le persone
oziavano sull’erba che delimitava il sentiero principale e
Sören si perse a
seguire una partita di tennis giocato da un gruppo di ragazzi,
preferendo far
finta di non notare la sua scorta auror, due tizi in giacca e cravatta
seduti
su una panchina vicina. Cominciava a rimpiangere il quieto vivere di
Boston.
Però
là non avresti Lily. Faresti davvero a cambio?
Tranquillità per Lilian?
La risposta che si diede lo
spinse ad accelerare; anche la sua piccola amica era un problema che
non
riusciva – o non voleva - affrontare.
Ti
stai appoggiando troppo a lei. Anche se, in effetti,
te lo lascia fare. Addirittura ti cerca.
Avrebbe voluto che qualcuno
gli spiegasse come interpretare quell’atteggiamento di Lily,
ma dubitava che
Milo avrebbe potuto essergli d’aiuto.
Lui
è convinto che lei mi voglia. Ma non mi vuole. Non
può volermi in quel senso. Ha Scott Ross.
L’unica persona
che al momento
pareva desiderarlo era Ama, e per questo, vincendo le sue ritrosie, si
era
deciso a chiederle un appuntamento per quel venerdì.
Certo,
avresti anche potuto chiamarla invece di
inviarle un messaggio … Ma il punto rimane, no? Ha detto di
sì. Uscirai con
lei.
Se
non altro, non ti farà pensare a Lily per un po’.
Perso nei suoi pensieri non
si
accorse dell’avvicinarsi di un altro corridore, che invece di
sorpassarlo gli
si affiancò. Voltandosi fu sorpreso dal riconoscerne gli
occhi chiari e il
sorriso mite: era Albus Potter.
“Ciao!”
Lo salutò. “Jogging?”
“Buongiorno.”
Non era così
sorprendente trovarlo lì dopotutto; era il primo parco nelle
vicinanze di
Diagon Alley, dove entrambi alloggiavano
“Sì.” Non trovò di meglio da
dire.
L’altro gli
rivolse il sorriso
luminoso per cui era famoso. Sembrava davvero contento di essersi
imbattuto in
lui. Il che era improbabile: Lily gli aveva detto quanto fosse bravo a
fingere
il contrario di ciò che provava. “Bel posto,
eh?” Interloquì. “Ti secca se
faccio un pezzo con te? Mi si è scaricato l’Ipod,
se corro da solo e senza
musica mi annoio!”
Non poteva negarsi senza
sembrare scortese, così annuì; quel gesto gli
diede una sensazione di deja-vu.
Non
è la prima volta che correte assieme. È successo
anche
a Durmstrang.
La situazione si prospettava
imbarazzante.
Albus Severus Potter era
un’ottima persona, ed era questo il problema: emanava
un’aura di correttezza
tale dal fargli realizzare di non essere al suo stesso livello morale
ogni
volta che lo incontrava.
Almeno
James Potter è insopportabile.
Un’improvvisa
fitta al
polpaccio fu l’ennesimo deja-vu di quello scomodo incontro,
anche se non era la
prima volta che un crampo lo sorprendeva durante un allenamento. Era il
modo in
cui il suo corpo rifiutava il carico di lavoro a cui lo sottoponeva
durante
periodi di stress. Rallentò, zoppicando e beccandosi
un’ovvia occhiata
preoccupata.
“Crampo?”
Indovinò l’inglese fermandosi
con lui. “Ti successe anche a…”
“… a Durmstrang, me lo ricordo.”
Replicò più brusco di quanto fosse necessario.
Non riusciva ad importargli mentre claudicava verso la prima panchina
libera. “Mi
succede spesso, non è nulla di grave.”
“Lo so.”
Gli sorrise con aria
paziente, sembrando precisamente il Guaritore che era.
“Però non sono da
sottovalutare. Sono dolorosi e nei casi peggiori invalidanti per giorni
…” Fece
una pausa. “Posso darci un’occhiata? Sai, adesso
sono davvero un Guaritore.”
Sarebbe stato stupido non
approfittarne. Annuì e lasciò che
l’altro si inginocchiasse per toccargli la
gamba. Alzò lo sguardo. “Il muscolo è
molto contratto.” Gli comunicò. “Ti
succede spesso di avere crampi?”
“È
quello che ti ho appena
detto.” Odiava ripetersi.
“Ho sentito.” Lo liquidò con un tono che
pareva avvezzo alle rispostacce. “Ma
con quale frequenza?”
“Non saprei,
spesso…” Si trovò
a borbottare, tentando di non sussultare quando l’altro
premette le dita sul
muscolo dolorante. “… alla fine passa.”
Albus – gli aveva detto di chiamarlo Al, ma non si sarebbe
mai abituato –
scosse la testa con l’aria di considerarlo un bambino
recalcitrante. “Certo che
passa, ma questo non significa che tu debba zoppicare fino ad
allora.” Si alzò
in piedi, spazzolandosi le mani sui pantaloncini da corsa.
“Dai, ti porto a
casa.”
“Come scusa?” Gli uscì sconcertato; non
era certo un gatto randagio da
accogliere nella propria dimora con una ciotola di latte!
Per
chi mi ha preso?!
L’inglese parve di
colpo in
imbarazzo, almeno a giudicare da come arrossì. Arrossiva
come Lily: partiva
tutto dalle orecchie per finire a incendiargli le guance.
“Scusa sai …
l’abitudine.”
“L’abitudine?”
“Tom.”
Sbuffò impacciato. “Non
prenderla per il verso sbagliato, ma fate il broncio nello stesso
modo.”
“Io non faccio il broncio!”
“Beh, veramente
sì.”
Non sapeva se essere
sconcertato o oltraggiato dalla condiscendenza con cui veniva trattato.
Nel
dubbio preferì alzarsi in piedi. “Ho chi si occupa
di me alla locanda, non ho
bisogno del tuo aiuto, ti ringrazio.” Sarebbe stato
più convincente se non
avesse frenato un gemito di dolore trai denti, probabilmente.
“Ti ho
già detto che sono un
Guaritore?” Gli trotterellò dietro e Merlino, era
insistente come Lily nei suoi
momenti peggiori. Doveva essere un tratto comune a tutti i Potter.
A
quanto pare ne hai uno anche tu. Con Thomas.
Accantonò quel
pensiero non
sapendo cosa pensarne, continuando a arrancare verso l’uscita
del parco,
testardo. Albus Severus non fu da meno; lo sorpassò
agevolmente e gli si piazzò
davanti. “Meinster non può rimetterti in piedi con
la velocità con cui lo farei
io.” Dichiarò.
A quanto pare un semplice e
cortese rifiuto non bastava. “Sei insopportabile.”
Decretò, e non si sentì in
colpa. Ogni tanto poteva anche sfogarsi, no?
L’altro ebbe cura di arrossire di nuovo, ma era troppo
compiaciuto per essere sul
serio in imbarazzo. “Solo quando si tratta di lavoro. Dai,
fatti dare una
mano.” Replicò sfoderando un’aria
supplice che lo fece immediatamente sentire
un ingrato.
“Cos’è,
il vostro motto di
famiglia? Aiuta uno sfortunato?” Gli uscì salace.
Vuole
solo aiutarti, smettila di essere così
arrabbiato!
Albus lo guardò
sorpreso e
poi, dal nulla, si mise a ridere come se gli avesse appena raccontato
una
barzelletta.
Gli
piace quando viene trattato male?
Forse era il sarcasmo
ciò che
aveva apprezzato; da come lo stava squadrando divertito e sorpreso,
pareva di
sì.
“Ci hai scoperti.
Se non
aiutiamo una povera anima disperata al giorno ci sciogliamo al
sole.” Replicò
sullo stesso tono, porgendogli la mano. “Materializzazione
congiunta? E ti
avverto, faccio abbastanza schifo quindi reggiti forte.”
Non c’era molto
altro che
potesse fare se non afferrarla e pregare che fosse solo un modo di
dire.
La compressione da
Materializzazione fu terribile e ci volle più di qualche
attimo perché non
avesse voglia di rimettere la colazione. “Avevi
ragione.” Gli uscì soffocato.
“Fai schifo.”
L’educazione,
principino, l’educazione!
Al
diavolo, è stato tremendo. Chi gli ha dato la
licenza?
“Già.”
Aveva la vista ancora
offuscata, ma gli sembrava di essere in un salotto. Gli venne poi
intimato di
sedersi con una lieve pressione della mano sulla spalla.
“Resta qui, vado a
prendere il kit medi magico.” Si sentì dire.
“Torno subito.”
Lasciato solo, Sören si guardò attorno; era
indubitabilmente un salotto, dotato
di ampio camino in mattoni cotti e con sopra una mensola ingombra di
foto e
ricordi scolastici. L’intero ambiente era pieno zeppo di
oggetti e
suppellettili di svariate forme e funzioni, dal vecchio giradischi
all’impianto
cd, dalla miriade di cuscini colorati sparsi persino a terra.
I libri erano ovunque, tanto
che ne fece cadere alcuni non appena poggiò il gomito sul
bracciolo. Ci doveva
essere metodo in quella confusione però, perché
l’impressione generale era confortevole,
calda sebbene il colore dominante fosse il verde della moquette e delle
tende.
Ma era un verde smeraldo, che gli ricordava un brillante sottobosco
primaverile.
Questa
è una casa. Il tuo appartamento in confronto sembra a
malapena abitato.
“Ehi, e tu chi
sei?”
La voce apparteneva ad una
ragazzina bionda che gli sembrò Babbana, dato
l’abbigliamento, il troppo trucco
e la quantità di piercing che aveva addosso. Notò
poi la bacchetta.
Nata
Babbana?
“Sören
Prince.” Rispose, perché
gli era stata fatta una domanda. “Albus mi ha portato
qui.”
…
ti ha portato qui? Come un cane randagio?
La ragazza non parve curarsi
della risposta cretina perché gli si sedette affianco.
“Sì, tende a farlo… È
una specie di chioccia alla ricerca di pulcini da
proteggere.” Disse svagata.
“Ha fatto lo stesso con me. Sono Meike.” Gli tese
la mano. “Ce l’hai la
ragazza?”
“ …
Come?”
“Mei!”
La voce di Albus fece sobbalzare l’adolescente come se si
fosse seduta su un puntaspilli. “Lascia in pace
Sören.”
“Via Mutti, non puoi
portare a casa
tizi carini e poi pretendere che io me ne stia buona. Ho degli ormoni,
sai?”
Rintuzzò con aria di sfida. Dall’accento si rese
conto che era tedesca. E realizzazione
doveva essere reciproca perché quando gli si rivolse per la
seconda volta lo
fece nella loro lingua madre. “Non
capita
mica tutti i giorni di trovare un conterraneo che non abbia la pancia
da birra!”
“Io…”
“Sören si è fatto male, non ha bisogno di
una quindicenne fastidiosa che gli
ronza attorno.” Le fece un cenno imperioso, ma doveva esser
tutta scena perché pareva
piuttosto divertito dal suo imbarazzo.
“Sciò!”
“Eccheppalle
… per una volta che un ragazzo etero varca la soglia di
questa casa e non è Malfoy…”
Mugugnò, ma obbedì lasciando la stanza con passi
pesanti
dovuti ad anfibi che pensava potessero portare solo uomini fatti. Poco
dopo in
tutto l’appartamento risuonò musica rock a tutto
volume.
Decisamente
un adolescente.
“E quella era
Meike, il nostro
angelo del focolare.” Esordì prendendo un
poggiapiedi e sedendosi davanti a lui
con la cassetta medica in grembo. “Anche se sembra
tutt’altro che angelica, me
ne rendo conto.”
“Perché
ti chiama mamma?”
Albus si strinse le spalle,
ma
non gli sfuggì il rossore che gli incendiò il
viso. “Lunga storia … imbarazzante,
anche.” L’espressione si addolcì.
“Per farla breve … Mei è orfana. Ha una
nonna
in Germania, ma io e Tom siamo i suoi tutori quando è qui in
Inghilterra. Io
sono quello più severo e per questo il nomignolo.”
“Le madri di
solito sono più
severe?”
Venne guardato in modo
strano,
ma c’era abituato; quando faceva domande del genere succedeva
sempre.
“Quelle che
conosco io sì.”
Gli sorrise. “Togliti la scarpa, vediamo di rimetterti in
piedi.”
Non apprezzava quel tono condiscendente, ma avrebbe apprezzato ancor
meno dover
zoppicare per tutta la giornata quindi ubbidì. Albus gli
fece quindi posare la
caviglia sulla sua gamba per passargli una densa pomata scura e dal
forte odore
di erbe. Dopo l’iniziale sensazione di caldo intenso
sentì il muscolo rilassarsi
lentamente. Alla sua espressione sorpresa, l’altro
ghignò soddisfatto. “Noi
inglesi non avremo tutta la scienza innovativa che hanno gli americani,
ma
sulla pozioni e gli unguenti sappiamo il fatto nostro.”
“Lo so, per anni
sono stato
curato con metodi tradizionali.” Dopotutto
l’America e la sua medicina
comparata erano arrivate tardi nella sua vita.
“Conoscevi questo
balsamo? Il
principio attivo sono le bacche di Strychnos
Ignatia.”
“Pensavo si usasse come tranquillante. Non sapevo si potesse
usare anche per
curare le contrazioni muscolari…”
“Sì, è una scoperta che è
venuta fuori qualche anno fa!”
Non seppe come ma
cominciarono
a parlare di ingredienti e pozioni come se non avessero fatto altro da
tutta la
vita; Lily gli aveva detto che il fratello era un pregevole pozionista,
ma non
gli aveva detto quanto fosse
innamorato della materia. Un amore che poteva capire dato che aveva
passato la
sua infanzia – la parte migliore – nel laboratorio
del padre.
“Dovresti
riprendere a fare
pozioni, sai. Comprarle è comodo, non lo nego, ma farsele da
soli …” Albus sospirò
mentre gli occhi gli brillavano. “… è
tutta un’altra cosa. E poi puoi
aggiustare le dosi a tuo piacimento!”
“Cosa piuttosto pericolosa.” Replicò
divertito. “Ma immagino che questo per te
non sia un deterrente.”
“Tutto il contrario!” Albus cominciò a
coprire con una garza la parte ormai non
più dolorante. “Aiuterà ad assorbire
quello che è rimasto del balsamo. Tienila fino
a stasera, okay?”
“Che
ci fa lui qui?”
Il tono di suo cugino non
cambiava neppure quando era infuriato. E lo era, a giudicare dal fatto
avesse
varcato la soglia del salotto e stesse guardando da lui al compagno con
l’intero
corpo in tensione, un chiaro messaggio di quanto si sentisse pronto ad
estrarre
la bacchetta. Fece per alzarsi ma Albus glielo rese impossibile,
bloccandogli
la gamba con un braccio.
“Secondo te che ci
fa qui?” Ribatté
con un’espressione che avrebbe fatto sentir un patetico
idiota
Merlino in persona.
“Sentiamo.”
Il cugino, con sua enorme
sorpresa visto che ricordava bene il suo temperamento, non perse le
staffe,
stringendo piuttosto quella che sembrava una borsa della spesa fino a
farsi
diventare le nocche bianche. Sperò che non volesse
tirargliela addosso. “Perché
hai la sua caviglia sulle tue gambe?”
L’altro inglese
abbassò lo
sguardo sulla cassetta medica. “Che lavoro faccio
Tom?”
La risposta fu borbottata.
“Il
Guaritore.”
“E quindi cosa pensi che stia facendo?”
“Quello.”
Non avrebbe mai
pensato di vedere l’erede di Von Hohenheim comportarsi come
un bambino sorpreso
a rubare dalla famigerata scatola dei biscotti, testa china e sguardo
fisso sui
propri piedi compresi. “Ho…”
“Se mi dici che hai frainteso la tua prossima tappa
sarà il divano. Per due
settimane.” Il tono era leggero, ma era palese che la
bacchetta, in quella
casa, la impugnasse Albus Severus. “Va’ a mettere a
posto la spesa.”
Quando Thomas
batté in
ritirata – perché altro non poteva essere - si
voltò verso di lui. “Scusalo.” Disse
liberando la sua povera gamba da una presa che era stata a dir poco
ferrea. “A
volte crede di essere il protagonista di un melodramma.”
Otello
probabilmente.
“Credeva che
stessimo …”
“Già, è un idiota.” Gli diede
una pacca sulla spalla. “Rimani a pranzo, vero?
Tom avrà comprato solo metà delle cose che gli ho
segnato, quelle che piacciono
a lui, ma Mei dovrebbe riuscire a tirarne fuori un pasto
decente.”
“Avrei da fare…”
“Oh.
Cosa?”
Con orrore si accorse che
non
sarebbe riuscito ad inventare una scusa sensata neanche se ne fosse
andato
della sua vita; gli occhi di Albus Potter sembravano ordinargli di dire
la
verità, e nient’altro che quella. E non era mai
stato bravo a disobbedire. “…
niente in realtà.” Ammise. “Ma non
vorrei disturbare.” Tentò come ultima
spiaggia.
L’altro scosse la
testa,
facendo Levitare via la cassetta. “Sciocchezze! Sei il
benvenuto.” Gli assicurò
con un gran sorriso. “Oggi cuciniamo tedesco!”
****
Hogsmeade,
Casa di Ted Lupin e James Potter.
“Sei proprio
sicura? Luci
natalizie?”
“Fanno tanto
effetto cielo
stellato, vedrai, le adorerà!”
Ted, per quanto volesse bene
a
Lily, si fidava delle sue idee quanto si sarebbe fidato a cavalcare la
scopa da
corsa modificata di James, chiamata affettuosamente Il Vessillo Della
Morte.
Tuttavia c’erano momenti in cui doveva fare un passo indietro
in quanto bipede
maschio. Ed era quello il caso.
“Vedrai, le
piacerà!” Ripeté
la ragazza appendendole con piccoli colpi della bacchetta, mentre tutti
attorno
a loro si affastellavano scatoloni già parzialmente svuotati
di oggetti e
biancheria; avere una famiglia adottiva come gli Weasley portava
inevitabilmente ad avere quintali di cose da riportare a nuova vita ed
utilizzo. “Mi passi le tende? Quelle da appendere al letto
dovrebbero essere
nello scatolone rosso.”
“Arrivano.” Si chinò a cercarle,
lanciandole un’occhiata meditabonda; non aveva
ancora avuto modo di ringraziarla per quanto aveva fatto e stava
continuando a
fare per Benedetta.
Certo,
si è impicciata nonostante le avessi chiesto il
contrario, ma è Lily … Le dici di fare una cosa e
fa l’esatto opposto.
“Grazie.”
Disse passandole la
montagna di stoffa ripiegata e dal profumo acuto di canfora.
“Per oggi, e…”
“Non c’è problema. Siamo una famiglia,
no?” Lo bloccò, come se far parlare
Benedetta fosse stata una cosa da niente: era un atteggiamento che le
faceva onore
quanto era irritante. Ma ancora, era Lily.
“Ben è
una bambina fortunata,
ha trovato te e Jamie.” Aggiunse appendendo le tende del
baldacchino con una
maestria che gli ricordò come
fosse la
designata erede di nonna Molly. “Molte persone sono sole al
mondo e lei non lo
è.”
Ted si chiese se stesse
pensando a qualcuno in particolare, ma era un po’ un
esercizio sterile, perché
Lily aveva tanti segreti chiusi in quella sua buffa testolina rossa. Si
sedette
sul materasso e tirò un sospiro. “Hai ragione
… ma mi chiedo se, nonostante
tutto, potrò essere abbastanza.”
“Per
Ben?” Lily finì la sua
opera, la ammirò da un paio di angolazioni e poi gli si
sedette accanto;
nessuno dei due era mai stato un fan del lavoro continuativo.
“Devi volerle
bene e … non fare troppe cretinate quando
comincerà ad uscire con i ragazzi.”
Sogghignò dandogli di gomito. “Tra tu e Jamie
… parlo per esperienza … poverina.”
“Soprattutto
Jamie.”
“Soprattutto.”
Si sorrisero e rimasero in
confortevole
silenzio a guardare le centinaia di piccole luci natalizie che
galleggiavano
sul soffitto. “Hai ragione, sono deliziose.”
Ammise.
“Te l’avevo detto!”
Ted si era accorto di come
l’altra
fosse pensierosa – certo, nei suoi limiti, quindi pareva
comunque il manifesto
della gioia di vivere. “Come va?” Offrì
quindi diplomatico.
“In generale o in
particolare?”
“Tutt’e
due?”
“Così…”
Non si sbilanciò e non
era un buon segno. Lily era un’entusiasta di natura:
qualsiasi sua piccola gioia
diventava trionfale, come, al contrario, qualsiasi problema diventava
teatro di
una possibile tragedia. La quiete emotiva, in lei, era preoccupante.
“Problemi in
ospedale?”
“No, no,
là va tutto bene.
Adoro i pazienti.” Gli sorrise. E sì,
c’era qualcosa che la turbava.
E
allora andiamo per esclusione.
“Con
Scott?”
Ed eccolo lì il
nocciolo del
problema; lo capì da come raddrizzò le spalle ed
assunse la tipica aria
colpevole di quando, da bambina, combinava una marachella. In questo
lei e i
fratelli erano identici. “Il solito…”
Mugugnò. “Cioè, uhm.” E si
bloccò. “Se ti
dico che non ne voglio parlare per mettermi al lavoro sono
credibile?”
“Direi proprio di
no.”
“Cavolo.”
Borbottò buttandosi
stesa sul letto. “Cavolo.”
Ripeté
lentamente, quasi stesse assaporando la parola. “Ti
è mai capitato di sentirti
in stallo?”
“In un
rapporto?” Annuì: aveva
una certa esperienza in materia, per quanto preferisse non pensare al
fallimento che era stato il suo rapporto con Victoire. Erano tornati in
buoni termini,
ma non sarebbe mai più stata la stessa cosa ed era un
rimpianto che si sarebbe
portato nella tomba.
Ho
rovinato l’amicizia con la mia prima e migliore
amica.
“Scotty
è perfetto, no?” Fece
una smorfia, soffiandosi via una ciocca di capelli che le era scivolata
sulla
fronte. “Riesce a gestirmi e credo che sia la prima persona in tutta la mia vita in grado di
farlo.”
“È un
bel primato.” Convenne.
“Del resto, noi Tassorosso…” Non
poté fare a meno di frecciare per allentare un
po’ l’atmosfera. Lily ridacchiò,
dandogli un calcetto con il piede. “Allora
cosa c’è che non va?”
“C’è
Sören.”
Oh.
Non era esattamente un
fulmine
a ciel sereno; il rapporto con il giovane Von Hohenheim era stato un
punto
fisso, una pietra miliare nella crescita emotiva di Lily.
L’aveva resa più
cinica verso l’universo delle relazioni e, in generale, meno
disposta ad
aprirsi, ma al tempo stesso non era riuscito nel suo obbiettivo
principale.
Allontanarla
da lui.
“Credo
… beh, credo di provare
ancora qualcosa per lui.” Mormorò premendosi un
cuscino sul viso; sin da
bambina era quello il suo modo di reagire quando doveva confessare
qualche
tremendo segreto. “Morgana, sono un idiota, vero?”
Ted rifletté; non
si era mai
trovato ad avere il cuore diviso tra due persone. Quando si era
innamorato di
James, Vic era già ben lontana dai suoi pensieri.
“Non sai se scegliere tra
Scott e Sören?”
“No!”
Esclamò saltando a sedere e stritolando il cuscino come se
fosse un salvagente. “Voglio dire, razionalmente è
ovvio che Scott sia l’unica
scelta. Sören ed io … Merlino, siamo troppo
incasinati anche solo per pensare …
e poi non gli interesso in quel senso. Scott è la mia
scelta. È solo … che
vorrei smettere di pensare che ne ho anche un’altra.
Perché non … decisamente
non la ho.” Balbettò e vederla impappinarsi era
uno spettacolo inusuale. E un
po’ inquietante.
Ted non si riteneva un
esperto
in relazioni interpersonali. Era un miracolo fosse riuscito avere James
– e a
riconoscerlo per quel che era, ovvero l’amore della sua vita.
Per questo si riteneva poco
qualificato a dar consigli. Però doveva provarci: era
richiesto dal suo contratto
di fratello maggiore collettivo degli Weasley.
“Mia nonna una
volta mi ha
detto che razionalità e amore non dovrebbero stare nella
stessa frase.” Esordì.
“E vista la mia storia personale, tendo a darle
ragione.”
Lily fece una smorfia.
“Forse,
ma…”
“Non posso dirti se sia meglio rimanere con Scott o cercare
di capire se quello
che provi per Sören possa avere un seguito.” La
interruppe. “Però credo che
dovresti scegliere ciò che ti rende felice … chi ti rende felice.”
“Scott mi rende felice.” Sbottò quasi
con rabbia. “Solo che non posso mollare
Sören per lui. È il mio migliore amico e
c’è tutta questa … roba …
che provo
per lui, solo che adesso sta uscendo con una tizia e non sono mai stata così gelosa di Scott
e … ed è
un casino.” Concluse la tirata soffocando di nuovo il viso
nel cuscino.
Ted le accarezzò
i capelli
perché se qualcuno gliel’avesse chiesto, avrebbe
detto che se l’era aspettato.
Aveva visto crescere Lily, l’aveva vista sognare il principe
azzurro, l’aveva
vista innamorarsi dell’esatto contrario e poi venirne ferita
e nonostante
questo, non serbare rancore. Aveva combattuto per quel suo principe,
che tutti
avevano pensato cattivo e irrecuperabile. Quindi sì, da
divoratore di romanzi e
romantico incallito, non era sorpreso da quella svolta di trama. Per
niente.
“Io
sono un casino.” Soggiunse ad un palese passo dalle
lacrime.
“Perché sono un casino, Teddy? Che
c’è che non va in me?”
“Niente. Lo siamo
tutti.”
Perché era vero: potevi essere mago o strega, Babbano o
magico, ma alla fine
della storia era quella l’unica verità scritta
nella storia dell’umanità tutta.
“Cioccolata?”
****
Diagon
Alley. Casa di Al Potter e Thomas Dursley.
Ora
di pranzo.
Non era difficile capire di
che pasta fosse fatto suo cugino, una volta avuto tempo e modo di
averlo
attorno.
Non che lo volesse trai piedi, beninteso. Aveva poca simpatia per chi
entrava
in casa sua e vi rimaneva più tempo di quanto fosse
opportuno; tipo, per
pranzo.
Albus però la
pensava in tutt’altro
modo, visto e considerato che aveva costretto Prince ad accettare e lo
stava
servendo di liquore alle erbe dopo un pasto a tre portate.
“Ti piace? Lo fa
mia nonna!”
“È molto buono…”
Cos’ha
in mente?
Tom si mosse sulla sedia,
incrociando le braccia mentre considerava la situazione per quella che
era: qualsiasi
cosa stesse complottando Al, Sören, forse per via della sua
educazione, forse
per i traumi lasciati da Von Hohenheim, aveva un istinto tutto
improntato a
dargli retta.
Adora
farsi dire quel che deve fare, è evidente. Del
resto, non è forse diventato una testa di latta al soldo di
un Ministero? È un
gregario. Ce l’ha nel dna.
“Prendine
ancora!”
E Albus, dietro la sua faccetta da bravo ragazzo e i suoi grandi
occhioni da
cerbiatto adorava dare ordini e disporre le truppe. Non che lo facesse
vedere
in giro, preferendo atteggiarsi a mite ragazzo di campagna, ma lui
conosceva la
verità.
Visto
e considerato che ti comanda a bacchetta.
Fece una smorfia, mentre
Sören
si lasciava riempire il bicchiere con una docilità che
confermava a pieno le
sue ipotesi. Meike, una volta realizzato che il compatriota non era
pane per i
suoi denti, era uscita lasciandolo così unico spettatore di
quell’irritante teatrino.
Decise quindi di prenderne il comando.
“Così
ti hanno tolto il caso…”
Al lo fulminò con
un’occhiata
che prometteva divani e ritorsioni silenziose, ma la ignorò,
concentrandosi
invece sulla reazione del cugino. Quest’ultimo a suo favore
raccolse le idee
prima di parlare. “Sì.”
Confermò. “E i motivi immagino tu li
conosca.”
Li conosceva, ovvio, dato che Albus si era premurato di andar a cercare
risposte sia da James che da Lily. “Dovrei?”
Dissimulò.
Sören parve quasi
annoiato da
quella messinscena. “Se c’è una cosa che
ho imparato stando qui è che nessun
segreto o dato confidenziale rimane tale se è coinvolto un
membro della vostra
famiglia.”
Se
vuoi avere a che fare con i Potter Weasley …
abituatici.
Al si mosse a disagio.
“Ci
hanno detto di tua madre … Mi dispiace Sören
… Sappiamo che non sono affari
nostri, ma…”
“Nel mio caso lo
sono. La
testa del progetto Demiurgo è, apparentemente, mia
zia.” Obbiettò. Non era sua
intenzione indagare nella vita del cugino. Era il coinvolgimento della
famiglia
Von Hohenheim in un ennesimo piano di ‘conquista del
mondo’ che lo preoccupava.
“Cosa conti di fare per
rientrare nei
giochi?”
“Sto vagliando
varie ipotesi.”
“Quindi non stai facendo niente.”
“Tom.”
Al sembrava ad un passo dal tirargli la bottiglia del
cordiale di nonna Molly. “Non è così
semplice rientrare in un’indagine!”
“Andare a far
jogging in un
parco cittadino non aiuta di certo.”
“Tu
cosa faresti?”
Sören, da come lo
stava
guardando, aveva realizzato qualcosa. E Tom sapeva cosa: ovvero che il
sangue
che condividevano non era l’unico legame che avevano. Avevano
anche un
obbiettivo, in comune.
La
casata Von Hohenheim. Entrambi vogliamo vederla
estinguersi più di ogni altra cosa al mondo.
Entrambi
vogliamo che sparisca e smetta di inquinare il
nostro futuro.
“Non cercherei di far cambiare idea ai tuoi
capi … È ovvio
che pensano di averti estromesso per il tuo bene.” Fece un
sorrisetto
sarcastico che fu ricambiato. Pareva che il cugino non fosse poi
così pronto a
crogiolarsi nella pietà altrui.
Buono
a sapersi.
Giocando a carte scoperte,
Sören pareva più a suo agio. “Se stai
suggendo che continui a lavorare al caso
per conto mio c’è un problema di fondo, e non
è l’illegalità in
sé.”
Al si morse un labbro.
“È la
tua permanenza qui, vero? Se non lavori, devi tornare in
America.”
“Ho un visto che
non verrà
rinnovato a fine mese.” Confermò. “Tra
dodici giorni dovrò prendere una
Passaporta e andarmene.”
“Se non aiuti,
diventi un
ospite sgradito.” Riassunse. Era un ragionamento corretto
alla luce del rischio
che la madre o John Doe tentassero di approcciarlo, rapirlo o ancor
peggio
sfruttarlo per ottenere informazioni.
Corretto,
ma sbagliato nella sua premessa. Lo
stanno
accusando di qualcosa che non ha ancora fatto.
Era una situazione a lui
familiare. “Come pensi di convincerli a farti
rientrare?”
Sören fece una
smorfia, quasi
avesse ingoiato qualcosa di disgustoso. L’impotenza, in
effetti, aveva un
brutto sapore. “Non ne ho la minima idea.”
Mormorò.
Ovvio
che non ce l’ha…
Sören, come Al
aveva
teorizzato brillantemente cinque anni prima, in
un’immaginaria scacchiera
sarebbe stato un alfiere, non il Re. Le sue capacità
strategiche non si
attivavano senza una direttiva superiore.
Persino
quando ha salvato Lily ha avuto degli ordini.
Salva la ragazza, non importa se muori.
Li aveva avuti dalla sua
coscienza, certo, ma una cosa era una missione suicida, semplice da
attuare una
volta inquadrato l’obbiettivo…
Un’altra
è far cambiare idea a qualcuno. Ben più
difficile.
Si
scambiò un’occhiata con Albus e nel mentre
si chiese se il suo ragazzo non avesse organizzato tutta quella
manfrina del
pranzo proprio per portarli a quel punto.
Ovvero
ad aiutarlo.
Non poteva escluderlo.
E
sono settimane che vuole trovare il modo di aiutare
Prince.
“Devi portar loro
dei
risultati.” Disse decidendo di trattare un problema per
volta. “Devi
dimostrargli che senza di te le indagini non possono andare
avanti.”
“Ma andranno
avanti.” Obbiettò
l’altro scuotendo la testa. “Sono
sostituibile.”
“Devi fargli credere che
non è così
allora!” Replicò Al.
Eccolo
qui, il mio piccolo manipolatore …
Gli rivolse un sorriso che
non
passò inosservato da come le orecchie dell’altro
presero fuoco in maniera
vivace.
“E poi sei indispensabile,
Sören.” Aggiunse perché non era Albus se
non ci
metteva una parentesi automotivazionale. “Conosci la Thule e
John Doe meglio di
chiunque altro, sei stato coinvolto nel Demiurgo ancor prima che tua
madre ci
mettesse le mani sopra … Tagliarti fuori non è
stata una scelta lungimirante!”
“Ma è
quella giusta.”
“Spesso fare la
cosa giusta
non ti porta ad avere ciò che vuoi.” Al
abbozzò un sorriso e lo guardò. E
c’erano
un bel po’ di ricordi e scelte scriteriate dietro
quell’espressione. “E penso
che fermare il progetto Demiurgo sia quello che vogliamo tutti,
no?”
Sören
guardò dall’uno
all’altro ed era chiaro che nella sua testa, settata sul
comando ‘obbedire e
servire e non fare domande’, si stesse lentamente profilando
un’opzione.
Dimostrami
che sei mio cugino, avanti.
“Volete aiutarmi a
riavere
l’indagine…” Era così
genuinamente sorpreso che Tom percepì il momento in cui
gli occhi del compagno di inumidirono di commozione.
Dannati
Potter. Se non raccolgono un cagnolino bagnato
o uno stramaledetto passerotto con un’ala ferita almeno una
volta all’anno non
si sentono a posto con la loro egomaniaca coscienza.
“Sì,
vogliamo aiutarti se ce
lo permetterai.”
“Perché?”
Bella
domanda.
Per quanto lo riguardava di
motivi ce n’erano abbastanza per non farlo riposar la notte,
ma uno spiccava
sopra a tutti: i Von Hohenheim avevano rischiato di rovinargli la vita
talmente
tante volte che vederli tornare, anche se sotto forme diverse, lo
portava a
desiderare di schiacciar loro la testa come avrebbero fatto con una
vipera
velenosa.
E non posso farlo se non aiuto qualcun
altro. O te, o Albus.
Non era il protagonista stavolta, ma poteva comunque entrare
in gioco.
“Perché
ne hai bisogno.”
Riassunse Al con uno di quei suoi sorrisi omni-comprensivi, che
spingevano
streghe e maghi ad affidarsi fiduciosi alle sue cure. “E
perché non sappiamo
farci i fatti nostri.” Aggiunse allegro.
“L’avevo
notato.”
“Abbiamo
già avuto a che fare
con la Thule e le sue macchinazioni.” Gli fece notare.
“Inoltre, siamo già
coinvolti. Chi pensi che abbia scoperto che tu sei il paziente
zero?”
Sören strinse le
labbra,
incerto, ma stava cedendo. Voleva troppo quel caso. E infatti,
parlò. “Se
accetto … come intendete aiutarmi?”
Al gli sorrise.
“Iniziamo
dalle basi. A che punto sei rimasto con le indagini?”
“Hai ottenuto
quello che
volevi?”
Aveva calcolato che Tom
sarebbe rimasto arrabbiato con lui per tutta la sera dopo che aveva
dato sfogo
all’idea che si teneva dentro per giorni senza consultarlo.
Dare
una mano a Sören. Sapere come stanno andando le
indagini. È quello che volevo … ho solo colto la
Pluffa al volo.
Le sue previsioni si erano
però rivelate sbagliate: Tom non solo era venuto a cercarlo
mentre stava dando
da mangiare a Fanny – la quale aveva sempre un posto nel suo
cuore e nella sua
voliera - ma addirittura gli si era avvicinato mentre l’aveva
posata sul
braccio, cosa che non faceva mai a meno che non venisse costretto.
“Più o
meno.” Non ci girò attorno,
intuendo che quel momento di grazia poteva passare com’era
arrivato.
“Vuoi davvero
aiutarlo? O vuoi
solo essere aggiornato sullo stato delle indagini?”
“Entrambe le
cose.” Mise in
libertà la fenice, che con un trillo soddisfatto
mangiò gli ultimi semi dalla
sua mano e poi si librò oltre i tetti, dove avrebbe fatto un
lungo giro prima
di tornare a casa, nella Foresta Proibita. Al si voltò.
“Non dirmi che non vuoi
essere della partita! Ti ricordo che sei stato tu quello a trafugare le
cartelle mediche degli infetti.”
“Infatti è questo il motivo per cui ho tollerato
la presenza di Prince.”
“Tollerato.”
Fece una smorfietta,
tramutandola in linguaccia quando l’altro assunse
un’aria di stoica
convinzione. “Sören ti piace.”
“Piace a te.”
“Forse.” Ammise divertendosi quando
arrossì di rabbia. Era un fenomeno così
raro, e tenero, che era ben felice di essere il solo a riuscire a
scatenarlo.
Gli passò comunque le dita dietro la nuca, con
gentilezza.“L’ho rivalutato che
male c’è? Un mago può cambiare
opinione. Cinque anni fa Lils era l’unica a
vederci qualcosa di buono. Adesso è diverso … e
merita di combattere i suoi
demoni come noi abbiamo combattuto i nostri.”
“Lo dici solo
perché riesci a
convincerlo a darti retta.”
Vivere con una persona da
tutta una vita era come avere uno specchio sempre puntato addosso;
spesso non
era piacevole, a volte era liberatorio. “Touché.”
Confessò. “Sono una cattiva persona se voglio
aiutarlo e usarlo un po’
al tempo stesso?”
“Lo chiedi al mago
sbagliato.”
Tom gli tirò una spintarella che lo fece finire docilmente
schiena sulla
moquette. Il bacio possessivo sul collo che ne conseguì se
l’era aspettato … e
l’aveva voluto. “Tom, sto facendo una cosa
sbagliata?” Ripeté passandogli le
mani sulle spalle e lungo il petto.
Si rendeva conto che il
Demiurgo era tutto fuorché affar suo. Cinque anni prima
aveva ordinato a Lily
di farsi da parte e adesso avrebbe fatto lo stesso, se
l’avesse scoperta ad
entrare in quella faccenda. Ma se per fortuna sua sorella aveva
imparato la
lezione …
…
io no. Al San Mungo la situazione è stazionaria, i
pazienti non migliorano né peggiorano.
Ho bisogno di sapere che succede. E Sören potrebbe essere il
mio alfiere.
“Prince non
è in grado di
rientrare nell’indagine da solo e non chiederà
aiuto a Lily, se è quello che
temi.”
“No,
io…”
“Forse lo stai usando per rimanere informato, ma lui ci
userà per riavere
indietro l’indagine. Non sentirti in colpa per qualcosa che
sarà vicendevole.”
…
ci sarà un motivo per cui sei nella mia vita, no?
Lo tirò a
sé facendoselo
crollare a dosso e, ignorando le sue proteste indignate per la
posizione
indecorosa, lo strinse forte. “Dici cose terribili m mi fai
sentire bene … ti
amo.” Gli mormorò, ridacchiando quando lo
sentì bloccarsi e rassegnarsi ad
essere abbracciato come un ossuto e scomodo pupazzo.
“… tu che intendi fare?”
Tom sbuffò,
puntellandosi per
tirarsi su. Glielo concesse e lo guardò stringersi nelle
spalle. “Non è
coinvolto mio padre, ma come ho detto, si tratta pur sempre dei Von
Hohenheim.”
Fece un sorriso amaro. “Capisco il desiderio di Prince di far
sparire quel nome
dalla faccia del Mondo Magico. E capisco perché vuol essere
lui a farlo.”
Sospirò. “Quindi lo aiuterò.”
****
Da
qualche parte nel Lancashire …
Per Johan c’erano
un paio di
motivi per gioire nonostante stesse preparando l’incursione
della sua Regina in
un posto dove il rischio di essere messi in manette era fortissimo.
(Si riteneva il tipo di
persona che guardava sempre al lato luminoso delle cose.)
Il primo, era che il suo
contatto americano gli aveva dato un’ottima notizia, non solo
per quanto
riguardava il Demiurgo, ma anche personale.
Sören era il
paziente zero: il
marmocchio, a quanto sembrava, era stata la prima cavia in assoluto di
quel
progetto, anche se all’epoca aveva un altro nome ed era sotto
il controllo
dirtto di Von Hohenheim e del suo capo-Pozioni, Elias Prince.
Il marmocchio non solo era
il
paziente zero, ma non si era ammalato. Era stato l’unico
paziente in grado di
adattarsi al virus, permettendogli così di fare il proprio
lavoro, ovvero
aumentargli la capacità magica.
Quel
piccolo ingrato è la soluzione ai nostri guai.
Certo, dovevano ancora
averne
la certezza, e per questo aveva passato le cartelle mediche del ragazzo
ai suoi
topi da laboratorio.
Ma quando la avrò …
Rapirlo tuttavia, anche se
sembrava
la soluzione più ovvia, era quella meno praticabile; non
tanto per le ridicole
misure di protezione messe in atto dagli inglesi…
Due
auror a piantonarlo giorno e notte. Non imparano
proprio mai.
Quanto piuttosto per via
della
Traccia che gli avevano piantato addosso gli americani; con quella era
una
sorta di punto luccicante in un campo buio, rintracciabile in ogni
luogo della
terra.
Se
lo rapiamo con la Traccia addosso sarà come
disegnarci un bersaglio rosso sulla schiena.
Ci
troveranno prima che possiamo Smaterializzare anche
solo un mignolo.
Il suo contatto gli aveva
assicurato che se ne sarebbe occupato, ma che ci sarebbe voluto del
tempo.
Proprio
ciò di cui siamo poveri.
Preso da quei pensieri quasi
non si accorse di essere arrivato al laboratorio; si fece
così aprire la grossa
porta di ferro da due Mercemaghi che la sorvegliavano.
Era stata un’idea
di Sophia
usare il vecchio castello della famiglia Prince come base operativa.
Nessuno
verrà a cercarci proprio nel cuore
dell’Inghilterra
e tantomeno in quello che viene considerato un vecchio rudere
inagibile. Anche
dal proprietario.
Il proprietario era infatti,
per linea diretta di sangue, proprio il marmocchio; ma come tutti i
Purosangue
cresciuti nella bambagia non aveva interesse per i propri immobili.
Dubitava
persino sapesse di averlo, quel grosso e imponente maniero grigio e
dalle
torrette di foggia medievale.
Certo, non era una reggia, e
buona parte era inagibile a causa di crolli e
dell’umidità, ma le segrete e
l’ala padronale erano ancora in buone condizioni, e con
robusti incantesimi di
consolidamento quel posto era diventato il centro operativo del
Demiurgo.
Si vide venir incontro il
capo
ricerca, Helmut Loer, un ometto che aveva lavorato al soldo di Von
Hohenheim e che
non era riuscito a fare nient’altro nella vita, tanto che era
stato ben felice
di salire sul carro. “Signor Doe.” Lo
apostrofò. “Se è qui per le analisi del
ragazzo…”
“Per quale altro motivo dovrei venire qua sotto?”
Replicò di rimando,
osservando distratto le celle che una volta dovevano aver ospitato i
nemici
della famiglia, ma che adesso alloggiavano le cavie debitamente sedate.
“Allora?”
“Le analisi fatte
dal San
Mungo non sbagliano …”
“Quindi? Potete usarlo per creare un nuovo siero?”
“Il problema
è proprio questo.
Creare una versione modificata del Demiurgo partendo da Sören
è … difficile. È
come partire dal prodotto finito per creare gli ingredienti
iniziali.”
“È il motivo per cui la mia Regina ti paga, Loher.
Per renderlo possibile.”
Inarcò le sopracciglia. “Ti ricordi, spero, cosa
succedeva a chi non portava
risultati con il nostro vecchio padrone.” Sorrise dandogli
una pacca sulla
spalla. “…indovina un po’. La canzone
non è cambiata. Vuoi fare la fine di
Elias Prince? No, vero?”
Questo scosse la testa,
mentre
diventava pallido alla luce delle torce magiche. “Mi serve un
campione del
sangue del ragazzo allora … Non lavorare solo su delle
analisi di ospedale.”
Doe analizzò la richiesta, vagliò le ipotesi e
poi, alla luce dei capricci
della sua donna, trovò la soluzione. E sorrise.
“Penso che si possa fare.”
****
Vicolo
che porta a Diagon Alley.
Dopocena.
Era così
arrabbiata che
avrebbe preso a calci il mondo. O lo avrebbe fatto collassare con un
qualche
incantesimo potentissimo che al momento non conosceva. Ma
l’avrebbe imparato.
Lily espirò ed
ispirò, si
drappeggiò lo scialle color crema che andava a paio con il
suo vestito più
carino ed entrò nel vicolo che ospitava il Paiolo Magico.
Toccò con la punta
della bacchetta i mattoni umidicci e aspettò che
l’ingresso si rivelasse.
Lei e Scott avevano
litigato,
e di brutto.
Non avevano mai
litigato. A volte era un po’
frustrante non potersi arrabbiare con tutte le ragioni del caso, ma se
l’avesse
detto a qualcuno probabilmente sarebbe stata considerata fuori di zucca.
Chi
non vuole un rapporto privo di scontri? Rossa, sei
ubriaca?
Quella mattina aveva avuto
sentore che qualcosa era fuori assetto nella loro solita routine, ma
non vi
aveva dato peso. Si era sbagliata.
La sera era iniziata nel
migliore dei modi: una cena squisita, il suo vestito più
carino e lo sguardo di
Scott a mostrarle quando fosse stato un acquisto azzeccato. Avevano
scelto il
vino, avevano cominciato a parlare e tutto quello di cui avevano
parlato era
stata l’Australia.
Per un po’ aveva
semplicemente
pensato che il suo ragazzo avesse un banale attacco di nostalgia. Un
po’
monotematico, ma nulla che non potesse sopportare per una manciata
d’ore.
Come da copione, era stato
al
dolce che aveva capito il motivo di quella cena.
“Allora,
vuoi dirmi come mai hai deciso di alleggerirti
il portafoglio stasera?”
Scott
aveva ridacchiato, prendendole una mano con la
sua e intrecciandovi le dita. “Potresti leggermi e
scoprirlo…” Le aveva
suggerito.
Lily
aveva fatto una piccola smorfia. “Lo sai che non
mi piace farlo fuori dal lavoro.” Non che biasimasse Scott
per ventilare ogni
tanto quell’idea. Da un certo punto di vista poteva essere
liberatorio non
dover cercare le parole.
Sì, ma
così il lavoro lo
faccia tutto io.
“Vero,
hai ragione…” Aveva fatto spallucce. “In
realtà
ho una sorpresa.” E aveva tirato fuori una busta spingendola
nella sua
direzione. “Aprila.”
Lily
aveva obbedito ma quando aveva tirato fuori il
contenuto le si era gelato il sangue nelle vene. Il contenuto era
nientemeno
che due biglietti per una Passaporta Continentale. Per l’Australia.
“Sono
due biglietti per l’Australia.” Aveva mormorato.
Scott
aveva annuito. “Mi avevi detto che un giorno ti
sarebbe piaciuto vederla ed ho pensato … perché
no?”
“Adesso?”
Si
era passato una mano trai capelli, realizzando che
forse non era sorpresa quella che l’aveva congelata sul
posto. “Non stasera,
ovvio. Ma è un biglietto aperto, possiamo decidere di
partire anche domani.” E
poi, quasi a peggiorare le cose. “Ho preso due settimane di
ferie che posso
gestirmi come voglio.”
“Già, ma io no!” Aveva esclamato,
mordendosi la lingua quando un paio di
persone del tavolo accanto li avevano guardati. “Sai che al
San Mungo ho dei
pazienti che devo seguire!”
Scott
aveva aggrottato le sopracciglia. “Lily, le
lezioni all’Accademia sono finite da settimane, quello che
stai facendo adesso
è anticiparti le ore di reparto che farai il prossimo anno,
no?”
Era
vero. La Patil non l’avrebbe certo incatenata
all’entrata
del Thickley se fosse partita. “Sì, ma
… non è … insomma, lo sai, non
è il
momento.” Aveva balbettato infilando i due biglietti nella
busta, quasi
bruciassero.
Una
piccola parte di sé si rendeva conto, da come Scott
la stava guardando confuso e ferito, che la sua reazione era
inaspettata. Era
sempre stata una fan sfegatata delle partenze istintive, fatte con la
valigia semi
vuota e una gran voglia di perdersi in qualche paese esotico.
Ma non posso. Non posso
andarmene.
Erano
rimasti in silenzio mentre il cameriere aveva
portato via i piatti vuoti. Poi Scott aveva continuato.
“Perché no? Entrambi
possiamo andare in ferie senza problemi, e abbiamo sempre detto che
sarebbe
stato bello andarci assieme.”
“Sì,
ma non… C’è il matrimonio di Scorpius e
mia cugina!”
Aveva sbottato alla cieca.
“Il
matrimonio di Scorpius e Rose c’è tra un
mese.” Aveva
ribattuto l’altro spazientito. “Dimmi piuttosto che
non vuoi venire. Almeno
saresti sincera.”
Si era morsa le labbra, sentendo la rabbia incendiarle lo stomaco.
“Possiamo
anche evitare di parlare di sincerità, visto che non hai
neanche pensato di
chiedermi cosa ne pensassi.”
“Hai sempre detto…”
“Una cosa è dire, una cosa è prendere
due biglietti e impormi di seguirti!”
“Non ti sto imponendo niente e non urlare.” Se
c’era una cosa che Scott sapeva
far bene era trattarla come una bambina piccola e irragionevole. Non
aveva mai
detestato quel suo difetto tanto come in quel momento.
Si
era comunque calmata, perché al di là di tutto
non
era un’idea brillante mettersi a litigare in mezzo ad un
ristorante Babbano. “A
casa mia quando qualcuno prende una decisione e ti mette davanti alle
conseguenze
è
imporre.” Aveva detto.
L’altro aveva guardato la busta e poi aveva scosso la testa,
rimettendosela
nella giacca. “Va bene, è stata un’idea
stupida… Pensavo di farti piacere.”
No che non lo pensavi!
“Non è …
Scott, non è questo il punto.” E
non lo era, non davvero; l’idea di andare in Australia per
due settimane poteva
anche essere carina, ma era il tagliarla fuori e presentargliela come
sorpresa
che non andava bene. Perché era ovvio che nascondeva
un’insicurezza che aveva
un’origine ben precisa. “Non posso allontanarmi da
Londra, non adesso.”
“Per
Sören. Non puoi lasciare Londra perché
c’è Sören.”
Gli avrebbe tirato un piatto in testa. Perché lo sentiva vibrare di
irritazione,
gelosia, ma anche compiacimento. Compiacimento nell’avere
conferma che sì,
aveva fatto bene a dubitare di lei.
“Non
metterlo in mezzo.”
Scott
aveva fatto una smorfia. “Non dovrei?”
“No, non dovresti. Merlino Benedetto, abbiamo già
fatto questo discorso!” Aveva
risposto esasperata. “Non ti mollerò per lui, non
stiamo avendo una tresca alle
tue spalle!”
“Lo so!” Era sbottato, mordendosi le labbra quando
si era accorto di aver
alzato la voce quanto e più di lei. “Okay, senti,
mi fido di te.” Aveva
aggiunto più calmo. “È che non capisco
cosa hai paura di lasciare indietro.
Perché non lasci niente.” Gli aveva messo una mano
sulla sua e l’aveva stretta.
Lily si era frenata dal non ritrarla: non era giusto, anche se si era
sentita
come presa da un laccio. “Sei stressata Lily, lo vedo ogni
giorno che passa … E
preferisci andare ad allenarti con lui che parlarne con me.”
…
questo non depone bene, eh Rossa?
“Sören
ci è passato, per questo…”
“Va bene.” L’aveva fermata. “Ma
rimane il fatto. Hai bisogno di staccare, e non
basta un fine settimana in Scozia. Dimmi che mi sto
sbagliando.”
Non
si stava sbagliando, purtroppo. E sarebbe stato
così semplice dire di sì … andar via
per giorni, spegnere il cervello e
lasciare che l’Australia le facesse dimenticare
Sören, Londra e tutti i
problemi in essa contenuti. Aveva chiuso gli occhi, passandosi una mano
trai
capelli.
Sarebbe così
semplice, Rossa.
Scappare. Sei sempre stata un asso in questo.
“Lily,
voglio solo proteggerti.”
E
quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare
il vaso. Scott poteva avere tutte le buone intenzioni del mondo
– e le aveva,
al di là dei metodi discutibili – ma proteggere
non era la parola giusta. “No, vuoi portarmi
via. Come un oggetto.”
L’altro aveva fatto per ribattere, poi aveva semplicemente
sospirato. Non amava
litigare, non era come lei. “No, Lily … ma
immagino che adesso qualsiasi cosa
dica mi verrà ritorta contro.”
“Quindi?”
“Quindi
niente, lascia perdere. È stata un’idea
stupida.”
Erano
rimasti in silenzio, uno di quelli pesanti e troppo
dolorosi per essere lasciati com’erano. “Faccio
portare il conto.” Aveva aggiunto
facendo un cenno al cameriere. “Ti accompagno a
casa.”
Avrebbe preferito amputarsi un piede che mantenere quel silenzio
orribile anche
nel viaggio verso Il Mulino. “Preferisco fare una
passeggiata.” Aveva preso la
borsetta e la stola che fungeva da cappotto, stringendola come se ne
andasse
della sua vita. “Poi prendo una Passaporta.”
Scott non aveva obbiettato;
non che gli avesse dato i margini per farlo, dato che era uscita dal
ristorante
senza voltarsi indietro.
Erano quelli i momenti in
cui
malediceva di essere una Legimante: il suo maledetto potere aveva
piazzato un
gigantesco cartello al collo di Scott, spiegandole per filo e per segno
perché se ne fosse uscito
con quell’idea
dell’Australia.
Vuole
allontanarmi da Sören.
Era furiosa …
furiosa nella
stessa misura in cui si sentiva in colpa. Perché Scott non
era il tipo di
ragazzo da clava, capace di rinchiudere in una torre la propria bella
perché
geloso.
Gli
hai dato motivo di pensare che dovesse
comportarsi come un cretino.
Quindi
… scappare con Scott o rimanere a Londra ed
affrontare quello che provo per Ren?
Aprì la porta del
Paiolo
Magico; non era quella la sera in cui avrebbe preso una decisione.
Tutto ciò
che voleva era togliersi i tacchi, struccarsi ed infilarsi a letto.
Ora
di tornare a casa.
Sperava solo di non
incrociare
Sören alla taverna, anche se era probabile fosse sceso per
ammazzare la serata
con un bicchiere di whisky …
… e infatti era
lì; solo non
era seduto ad un tavolo, era in piedi, aveva un borsone a tracolla ed
era
scortato da due auror in uniforme.
…
cosa?
“Lily!”
Sorrise, sorpreso di
vederla. “Cosa ci fai…”
“ … te ne stai andando.”
****
Note:
:D
Cliff-hanger sentimentale!
Per Milo e Mike temo dovrete aspettare il prossimo capitolo!
Qui
la
canzone ad inizio capitolo, e qua un’altra che mi ha ispirato nella stesura del resto. Per chi
volesse vedere il
castello della famiglia Prince, ho preso a modello il Lowther
Castle. Qui
una foto esemplificativa. Ebbene sì, Ren è
proprio un principino. E dedico questo capitolo ad Ale, complimenti per la laurea!
|
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Capitolo 32 *** Capitolo XXXI ***
Little
soul the world is a cold, cold place to be
Want a little warmth
But who’s gonna save a little warmth
for me?
(Unbelievers,
Vampire Weekend)
19 Luglio 2028
Londra,
Piccadilly Circus.
Mattina.
Cambiare posto in cui stare
era stata, ovviamente, un’idea di Milo.
Altro non avrebbe potuto
essere visto che si
era lamentato fino
al fastidio estremo che il Paiolo Magico – per lui una
locanda del tutto
rispettabile – fosse dotato di scarso igiene, personale poco
qualificato e
odori sgradevoli.
Alla fine
gliel’aveva data
vinta, soprattutto perché la locanda non era un luogo
sicuro, essendo
trafficata come un porto di mare; la scelta era quindi ricaduta
sull’hotel in
cui alloggiava anche Ama.
Sören, alla luce di
una
nottata trascorsa, doveva ammettere che il Royal Inn era un posto
piacevole;
centrale, proprio su Piccadilly Circus, dalle grandi stanze di stucco
chiaro e
con uno scorcio trai palazzi vittoriani che dava direttamente sulla
piazza. Il
posto inoltre era gestito da due Nati Babbani, una coppia che aveva
rilevato l’attività
e l’aveva resa accessibile sia per i Babbani che per i maghi,
con tanto di
barriere ed incantesimi atti ad evitare spiacevoli incidenti
diplomatici. Ama
aveva consigliato loro bene.
Sì,
tutto questo per non parlare del problema
principale …
Sentendo bussare alla porta
si
accostò e guardò dallo spioncino, bacchetta alla
mano; aspettava il servizio in
camera e il piano era piantonato dalla scorta, ma meglio esser
prudenti. Con
sua sorpresa riconobbe la testa bionda di Milo. Aprì
perplesso e questo spinse
il carrello all’interno guardandosi attorno. “Beh,
dov’è la nostra piccola
ospite?”
“Dov’è
il cameriere?” Replicò
facendo per infilarsi le cinque sterline di mancia in tasca.
“Perché ci sei
tu?”
L’altro gli
sfilò la banconota
tra le dita. Prevedibile. “L’ho incrociato mentre
ero agli ascensori. Ho
pensato di venire a portartela io … dopotutto, chi
è il tuo paggio?”
“Va’
via.”
“No.” Gli spinse il carrello praticamente addosso.
“Si può sapere che è
successo ieri sera?”
Già,
ieri sera.
La sera prima, mentre stava
uscendo
dal Paiolo Magico si era scontrato con Lily. Ben poco gli era occorso
per intuire
che stava cercando proprio lui.
“Cosa
ci fai qui?” Le aveva sorriso, stupito di
vederla. Sapeva che quella sera aveva una cena con Scott e per questo
si era
ben guardato da contattarla per la solita chiacchierata serale,
un’abitudine
che avevano preso dopo la loro prima uscita a Camden. A volte si
scambiavano
giusto qualche parola tramite messaggio, altre restavano a
chiacchierare per
un’ora. Era la parte preferita della sua giornata.
Lily
per tutta risposta non solo non aveva ricambiato
il sorriso, ma era impallidita come se l’avesse visto reggere
una testa
mozzata.
“…
te ne stai andando.”
“Come?”
Negli occhi dell’amica si erano affacciati due
grossi, enormi e pericolosi lacrimoni. “Lily!”
Aveva mollato la borsa a Milo,
improvvisamente apparso al suo fianco, e l’aveva presa per le
spalle, anche
perché sembrava intenzionata a darsela a gambe.
Perché non
è con Ross?
“Cos’è
successo?” Le aveva chiesto ignorando le
occhiate curiose non solo di Milo, ma anche dei due auror di scorta.
Poi aveva
interiorizzato la frase dell’altra.
Crede che me ne stia
andando.
In America.
“Non
sto tornando a Boston.”
“No? Ma la borsa…” Si era morsa un
labbro lanciandogli un’occhiata che gli
aveva fatto venir voglia di stringersela al petto e Smaterializzarsi in
un
posto tranquillo. Da soli.
Pessima idea.
“Mi
trasferisco in un albergo a Piccadilly Circus. Ha
misure di sicurezza migliori rispetto ad una taverna, e visto gli
ultimi
sviluppi…”
“… ed è pulito. Più che
altro è quello.” Si era intromesso Milo.
“Zenzero,
cos’è quel faccino lacrimoso? Chi ti ha rubato i
trucchi?”
“Milo!”
Aveva ringhiato tirandola a sé. Quando aveva
sentito la risatina dell’altra vicino al collo aveva
realizzato di averla
abbracciata sul serio.
Sei un idiota.
L’aveva
lasciata con tutta la nonchalance che era stato
in grado di fingere. Per fortuna era bastata, perché Lily
aveva fatto un
corrispettivo passo indietro. “Possiamo parlare
…” Aveva iniziato. “… magari
domani?” Aveva fatto una smorfietta imbarazzata.
“Adesso hai da fare, è meglio
se torno a casa.”
“No.” Aveva deciso su due piedi. Lily era scossa, e
non aveva la minima
intenzione di farla Smaterializzare fino al Devonshire in quelle
condizioni.
“Posso aspettare.”
“Prince, noi non possiamo.” Gli aveva subito fatto
notare Langerman, uno dei
due auror. “Lo spostamento è già stato
notificato all’ufficio Auror. Se resti
qui dovremo…”
“Fate
ciò che dovete.” L’aveva fermato.
“Non ho bisogno
di un permesso per parlare con un’amica.”
“Dai, Ren, non fa niente.” Lily aveva scosso la
testa, facendogli una carezza
sulla spalla. Doveva essere stato piuttosto brusco con i due agenti se
si era
sentita in dovere di calmarlo.“Ci sentiamo non appena arrivo
a casa?”
“Non
ti lascio da sola.” Aveva poi riflettuto, cercando
una soluzione. “Se non ti secca, puoi seguirci.”
“Oh.
Ah … certo!” Lily aveva annuito, guardando ai due
auror. “È un problema se vengo
anch’io?”
“No,
non … direi.” Aveva esitato Langerman. Era chiaro
stesse pesando la problematicità di includere nella loro
piccola scorta la
figlia del Salvatore. “Cioè, forse dovrei
chiedere…”
Lily,
invece di dare in escandescenze come lui, aveva
esibito il suo sorriso più incantevole. “Dai,
Lucas, chiudi un occhio! Diciamo
che Ren mi porta a far vedere la sua nuova stanza?”
Ovviamente l’aveva spuntata; erano arrivati in hotel, fatto
il check-in, e non
appena la sua scorta aveva dato il via libera per la camera avevano
finalmente
potuto parlare.
E
non abbiamo parlato affatto.
Almeno,
non del motivo per cui non ha passato la serata
con il suo ragazzo.
Avevano parlato
dell’offerta
di Albus invece. Lily si era mostrata sorpresa, ma aveva accolto
positivamente
la notizia. A quanto sembrava l’impicciarsi del fratello
negli affari altrui
non era cosa nuova per lei.
“È
ancora nel tuo letto?”
Chiese Milo distogliendolo dai suoi pensieri.
“Teoricamente, visto che non ci ho ancora dormito, non
è mio.”
Venne guardato con quella
che
poteva essere solo pena. “Non dirmi che hai dormito sul
divano…”
E dove avrei dovuto dormire?
Lily gli aveva raccontato di utilizzare come cuscino le
persone che gli
dormivano accanto – l’aveva notato - e questo, al
mattino, avrebbe potuto farle
notare palesi irrigidimenti.
L’altra
volta l’ho scampata solo perché ero troppo
stanco.
Milo alzò gli
occhi al cielo. “È
fantastico che ti finisca sempre nel letto, ma la prossima volta magari
cerca
di esserci anche tu. Magari senza vestiti.”
“Falla finita.” Ribatté senza veemenza;
aveva smesso di arrabbiarsi per le frecciatine
dell’altro. Del resto non erano smesse neanche quando lo
aveva minacciato. Andò
quindi allo scrittoio e finì di scrivere i suoi spostamenti
della settimana per
poi passarglieli. “Portali al Ministero in
mattinata.”
“Non sono un Gufo!”
“Per fortuna, dato che la lettera potrebbe essere
intercettata da Johannes. Non
fermarti in nessun posto, va’ dritto all’ufficio
Auror.”
Milo sbuffò ficcandosela in tasca con
la solita,
collaudata malagrazia. “Altro principino?”
“No, puoi
andare.” Poi preso
da un pensiero improvviso, più simile al panico che alla
curiosità, lo fermò. “Se
ha litigato con Ross, come pensi mi debba comportare?”
Perché a parte offrirle
un letto dove riposare, non aveva la minima idea di come comportarsi.
“Una lite
tra fidanzati non è cosa in cui sia mai entrato.”
“E non devi, prima regola!” Replicò
squadernando un dito. “Seconda regola,
ascoltala. Falla parlare, fatti raccontare tutto e ignorala se si
ripete. Terza
e ultima, dalle ragione qualsiasi
cosa dica.”
“E se non la ha?” E Lily, per quanto fosse la
più fantastica strega che gli
fosse mai capitato di incontrare, sovente non la aveva, specie quando
c’era un
litigio di mezzo.
“Non è
questo il punto, Ren.”
Inarcò le sopracciglia. “Le donne
come la tua rossa hanno sempre ragione. Anche quando hanno
torto.”
Si passò una mano dietro la nuca, cercando di carpire la
logica di quel
ragionamento e fallendo. “Ti rendi conto che non ha
senso?”
“Vuoi godertela
alle spalle di
Ross o no?”
“No!”
Sì.
Milo fece spallucce aprendo
la
porta. “La strategia rimane comunque valida. Buona
fortuna!” Aggiunse
salutandolo con la mano prima di tirarsi la porta dietro.
Inspirò e si fece
coraggio. “Lily.”
Chiamò. “La colazione è
pronta.”
Essere un migliore amico era
una
faccenda complessa.
Aprire le palpebre e
trovarle
incollate dal mascara era sempre una sensazione schifosa. Lily
mugolò qualcosa,
rotolando nell’enorme letto che non era evidentemente suo,
perché le lenzuola
non profumavano di casa ed era enorme. Spalancò gli occhi e
lasciò andare
un’imprecazione mentre la realtà dei fatti la
centrava come un Bolide: aveva
discusso con Scott ed era finita nel letto di Sören.
Di nuovo. No,
Rossa, non ci siamo proprio.
Alla luce di una notte
passata
a dormire e di una lieve emicrania dovuta al troppo vino che non aveva
smaltito
con del sano sesso, si rendeva conto di essersi comportata come una
scema.
Rotolò di nuovo
tra le
lenzuola inamidate e controllò la sveglia digitale sul
comodino: erano le dieci
ed era una fortuna che quel giorno il suo turno fosse di pomeriggio.
Guardando fuori dalla
finestra
vide Londra, in un eccezionale scorcio sul Circus,
e sorrise: di certo Milo era riuscito a farsi valere. Quel posto era
favoloso.
Sören.
Ren.
Era un problema da
affrontare
subito; avrebbe dovuto chiedergli scusa. Si era spaventata
all’idea che se ne
andasse ma questo non giustificava il fatto di avergli rubato il letto.
Lasciamo
perdere a livello freudiano cosa significa.
Era stato bello
però
addormentarsi cullata dall’odore del tabacco aromatico che
fumava l’altro. Si
era sentita tranquilla con le luci di Londra che coloravano le tende e
il
profilo magro dell’amico affacciato al balcone.
Mi
sono sentita nel posto giusto.
Stare in compagnia di
Sören
era la cosa che le riusciva meglio, negarlo era inutile.
Tornata dal bagno,
sentì la
voce dell’altro chiamarla. Forte di una riaggiustatina veloce
al trucco –
benedetta la magia cosmetica – si sentì pronta per
affrontare la prima prova
della giornata.
“Ehi!”
Lo salutò entrando nel salottino
che divideva con la camera di Milo. Di quest’ultimo nessuna
traccia, e ne fu
contenta.
Non
potrei sopportare i suoi ghignetti saputi. Che
sanno, eccome se sanno.
Sören in compenso
era
inappuntabile come al solito, camicia stirata e capelli tirati
all’indietro dal
gel che aveva per fortuna sostituito l’orrido balsamo per
capelli con cui era
arrivato a Londra.
Una mia piccola vittoria. Chissà se
gli
capita mai di ciabattare per casa in tuta e barba di tre
giorni…
“Buongiorno
Lilian.” Le
sorrise finendo di versare quello che sembrava proprio salvifico
caffè. “Ho
pensato di far colazione qui.”
“Hai pensato benissimo!” Lo lodò
sedendosi al tavolo e ringraziandolo quando
gli scostò la sedia. Ormai si era abituata a quei piccoli
gesti antiquati:
erano parte di lui come gli occhi scuri e l’odore di colonia.
“Due zollette e un
goccio di
latte, giusto?”
“Sei un
tesoro.” Doveva farsi
coraggio e smettere di girare attorno all’argomento come
l’altro le stava
permettendo galantemente di fare. “Ti ho di nuovo occupato il
letto … scusa.”
Sören non parve
molto turbato mentre
le si sedeva davanti. “Sta diventando
un’abitudine.” Fece un sorrisetto. “Per
fortuna il divano era comodo.”
“Per
fortuna…” Ridacchiò suo
malgrado, rilassata dal suo essere rilassato. “Comunque sto
cominciando a
pensare che tu intinga le tue federe di Pozione Sonnifera.”
“Di certo aiuterebbero la mia insonnia.”
Replicò sullo stesso tono. “Ma no,
temo piuttosto che sia la mia compagnia ad essere soporifera.”
“Scemo!”
Sbuffò perché
sminuirsi era la cosa che gli riusciva più facile e quella
che meno avrebbe
dovuto fare. “È che ho avuto una serata orrenda, e
non appena mi sono rilassata
sono crollata. Mi succede da quando sono bambina. Dovevi vedermi dopo i
MAGO.
Sembravo narcolettica, mi addormentavo ovunque.”
“Lo so, me
l’hai raccontato …”
Prese un biscotto e ci giocherellò con nessuna intenzione di
mangiarlo. “… sono
contento che la mia compagnia ti rilassi.” Ed era sincero da
come stava
evitando di guardarla in faccia. “Vuoi raccontarmi qualcosa
anche … adesso?”
Era arrivato il momento di
parlarne. Non ne aveva la minima voglia; non tanto perché
era Sören il suo
interlocutore, ma perché si vergognava. Non voleva sembrare
un’isterica.
Che
Scott avrà anche sbagliato, ma io mi sono agitata
troppo.
“Non
c’è molto da dire …”
Iniziò prendendo un sorso di meravigliosa e robusta
caffeina. “Abbiamo litigato
per una sciocchezza … tutte le coppie lo fanno.”
Sören dovette
intuire qualcosa
perché scosse la testa. “Non era una sciocchezza.
Ieri sera eri sconvolta.”
Sì, ma non per Scott, o almeno non
solo.
Pensavo di stare per perdervi entrambi nel giro di una serata.
…
Quanto mi faccio schifo da uno a dieci?
“Mi conosci, sono
un dramma
ambulante, non…” Si bloccò
perché Sören non se la stava bevendo neanche un
po’.
Aveva un modo tutto suo per mostrarsi scettico, ma basilarmente era
guardarla come
se gli stesse raccontando che la luna era fatta di cartapesta.
“… okay. È stato
piuttosto grosso come litigio.” Capitolò.
“Non a livello di piatti tirati da un
capo all’altro della stanza, ma…”
Sören spalancò gli occhi. “Ci sono
persone che fanno cose del genere? Nella realtà?”
Lily ricordò un
litigio tra
sua zia Hermione e consorte che era finito nella distruzione totale del
servizio da the del loro matrimonio. “A volte
…” Non si sbilanciò. “Ma
Scotty
non è il tipo di persona che dà in escandescenze,
ed io ho bisogno di una
miccia per … beh.”
“Tirare i piatti?”
“Già.”
Si sorrisero, bevendo
in contemporanea dalle proprie tazze. “Abbiamo discusso per
… è iperprotettivo.”
Si risolse a dire. “Dall’attacco al San Mungo
è diventato come un grosso cane
da pastore!”
“Ha paura per te.” Osservò.
“È comprensibile. Sei stata aggredita da una
persona infetta di un morbo di cui non si è ancora scoperta
la cura … e la cosa
ti ha turbata.”
“Sì, ma ci sto lavorando, no? Le lezioni con te,
le sedute con la Patil. Gli
incubi vanno molto meglio e per il resto sono fuori dai giochi ed ho
intenzione
di restarci. Lo sa!”
“Allora
cos’è che vi ha fatto
litigare?”
Tu.
Dirlo
però sarebbe stato piazzare una
pozione esplosiva sul tavolo e aspettarsi che non facesse reazione. Non
le
piaceva mentire a Sören, quando gli aveva chiesto di dirle
sempre e comunque la
verità.
Ma
non posso neanche esser sincera.
“Ha preso due
biglietti per
l’Australia.” Che non era poi una bugia.
“Senza dirmi niente. Li ha comprati,
ha preso due settimane di ferie e poi mi ha presentato il tutto come
una bella
sorpresa!”
“ … e dal tuo tono mi sembra di capire che non lo
sia.”
“No!” Si
alzò in piedi, perché
sentiva il fuoco della rabbia risorgere dalle ceneri di quella serata
assurda.
Fece qualche passo avanti e indietro, sapendo di sembrare una specie di
leone
in gabbia. “Doveva chiedermi prima cosa ne pensavo, se ero
disponibile, se ero
d’accordo! È come … Ren, è
come obbligarmi a scegliere se mandare a monte tutto
o assecondarlo! Non è una vera scelta …
è una manipolazione! Ha parlato di
proteggermi, ma è come se volesse rinchiudermi in una gabbia
e portarmi oltre
mare!”
Sören non sapeva
come pensare.
La sola idea di veder andar
via Lily prima di lui lo gettava nel panico quanto lo faceva arrabbiare
– cosa
stava cercando di fare Ross, allontanarli? - non capiva però
perché l’altra
fosse nel suo stesso stato mentale.
Sembra
impaurita. E arrabbiata. Perché?
Il fastidio poteva capirlo:
a
nessuno doveva piacere esser messi di fronte ad una decisione
mascherata da
regalo. Ma non capiva gli altri due sentimenti. E doveva,
perché era
sicuramente un passo importante per decifrare il comportamento di Lily
nell’ultimo periodo. E l’unico modus
operandi che gli portava sempre risposte era far domande
dirette, come
l’agente che era.
“Ho capito che non
ti piace
che gli altri prendano decisioni per te.” Attestò.
“Ma vuoi andare in
Australia?”
“Non a queste
condizioni!”
“Se te l’avesse proposto diversamente avresti
accettato?”
Lily gli lanciò
un’occhiata
confusa. Eppure gli sembrava di esser stato chiaro. “
… non … non lo so!”
Esclamò. “Non è questo il
punto!”
“Qual è
allora?” Fare le
domande giuste non era semplice. Era un vero e proprio talento, e nel
suo
lavoro era una carta vincente. Speculare era altrettanto difficile
– quella era
la specialità di Estevez – ma poteva provare.
“La modalità potrà non esserti
piaciuta, ma trovi sensato il motivo per cui ti ha chiesto di
andare?”
Dovette aver detto qualcosa
di
sbagliato, perché l’amica lo fulminò
con lo sguardo. “Ma da che parte stai?”
Era una domanda stupida.
Troppo stupida per non essere un trabocchetto dettato
dall’evidente irritazione
dell’altra. E se aveva imparato una cosa su Lilian era che,
quando era in
quello stato d’animo, era davvero bravissima a far degenerare
la cosa in lite.
“Sto dalla tua
parte.” Rispose
con tono fermo. “Per questo sto cercando di capire se sei
arrabbiata per l’idea
in sé o per il modo in cui te l’ha
proposta.” Fece una pausa e quando il
concetto sembrò permeare aggiunse. “È
quello che dovresti fare anche tu.”
Ross comunque aveva fatto un
errore da principiante ad agire alle spalle di Lily.
Ha
stuzzicato un nervo scoperto.
Aveva fatto un errore, ma le
motivazioni di fondo erano buone.
Hai
sentito, no? Vuole proteggerla. Vuole essere il suo cavaliere.
Vuole
rubarti il posto.
Era sbagliato aver voglia di
lasciar da parte la bacchetta per spaccargli la faccia a mani nude?
Lily si morse le labbra,
incrociando le braccia e serrandosele al petto. “Non ci ho
pensato…” Ammise con
un borbottio ridimensionato. “Ero più occupata a
dirgli quanto si era
comportato da maschio dominante.” Scosse la testa.
“Ma no, non voglio partire.”
“Perché? Che hai bisogno di una pausa lo dici tu
stessa.” Se doveva essere un
buon amico, doveva far tacere quella parte di sé che stava
gridando di
assecondare il suo malumore – come gli aveva consigliato di
fare Milo, tra
l’altro.
Vuoi
vederla felice? Ross la rende felice. Fa’ il tuo
dovere.
“Sì, ma
… qui ho delle cose in
ballo, ho la terapia, i pazienti, te…”
Esitò, chiuse gli occhi. “… te.” Ripeté piano e
Sören, suo malgrado,
sentì quella piccola
parte di è – che
raffigurava come un mostriciattolo verde – esultare.
“Ti ho fatto una promessa,
Ren. Ti ho promesso che ci sarei stata. Non intendo infrangerla per
l’Australia.”
Non vuole partire perché
è preoccupata
per me.
Aveva sempre immaginato che sentir dire una cosa del genere
da Lily lo
avrebbe reso felice. Si era sbagliato: perché non era quello
il modo in cui
voleva che l’altra lo trattasse.
Come un amico, certo … ma anche
come un
paziente.
Si alzò in piedi,
raggiungendola. “Lilian…” Ne
cercò gli occhi con lo sguardo. “Non
devi.”
“Non è che rimango solo
per te, ma…”
“Che mi riprenda o meno il caso me ne andrò
comunque.” Aveva una voglia
terribile di toccarla. Supponeva che prenderla per le spalle come la
sera prima
andasse bene. Abbracciarla no, e dunque si astenne.
“Tornerò in America. Ci
sentiremo per lettera, come abbiamo sempre fatto.”
Lì ci voleva un sorriso, e
dunque lo esibì. “Non serve che siamo nello stesso
paese per essere amici.”
Lily sembrava molto interessata al suo anello da come lo fissava
ostinata.
“Però non fa neanche male.”
“No, ma
… non devi precluderti
un viaggio perché credi di doverti occupare di me. Non ne ho
bisogno.” Tolse le
mani dalle spalle per ficcarle in tasca. Era una buona idea dato quello
che
stava per dire. “Non ho bisogno di te qui.”
Non
è vero. Ma suppongo di poterne fare a meno. Per te.
Uno schiaffo in faccia le
avrebbe fatto meno male.
Certo, Sören non era contento di vederla partire alle volte
dell’emisfero
australe, ma…
Non
ha bisogno di me.
Roxanne aveva ragione: aveva
bisogno che Sören avesse bisogno di lei. E la ragione era
dolorosamente chiara
a quel punto.
Sono
ancora innamorata di lui.
Per questo ogni volta che
aveva un problema correva da lui e non da Scott. Era ancora una
quindicenne
cretina, innamorata di un principe che esisteva solo nella sua testa.
Il
problema è che esiste sul serio. Questo qui è
Ren.
Cento per cento.
Avevi
visto lungo. È diventato davvero la persona di
cui ti eri innamorata.
Solo che la cosa era
tutt’ora
unilaterale. Sören le voleva bene, un bene che forse non
provava per nessuno,
lo sentiva irradiarsi dal suo sguardo gentile –
perché era un
meraviglioso ragazzo gentile. Ma non la voleva.
Visto
e considerato che ti consiglia di andartene in
Australia con Scott. E che esce con Ama.
L’aveva ferita.
Dalla faccia
era così palese che si chiese perché non
l’avesse ancora mandato al diavolo.
“Non è
che non ti voglio qui…”
Tentò di rimediare. “È che penso che
dovresti prenderti cura di te, prima di
preoccuparti per me. So che posso comunque contare su di te, anche ad
un oceano
di distanza.”
Perché era la vocazione di Lily fare la crocerossina di
tutti i derelitti; e
sapeva di essere il suo preferito, ma supponeva fosse ora di mettersi
in piedi
e lasciare la clinica.
L’Australia
non è solo la sua occasione. Ma anche la
mia.
Lily ispirò
facendo un
sorrisetto forzato. “Non hai tutti i torti. A volte perdo di
vista il quadro
generale.” Sospirò. “Grazie. Per il
letto, la colazione e …” Fece un gesto
vago. “… per avermi fatto ragionare.”
“Figurati.
È quello che deve
fare un amico.”
Vero?
Ho fatto bene?
Trovò
del tutto sensato accendersi una
sigaretta e chiudere gli occhi finché non la
sentì tornare dalla camera da
letto, dove aveva lasciato scarpe e borsetta. “Meglio che
vada.” Gli disse
finendo di infilarsi i tacchi e ravviarsi i capelli con una mano.
C’erano buone
probabilità che quella sarebbe stata l’ultima
volta che gliel’avrebbe visto
fare quindi bevve con lo sguardo ogni movimento.
Non
partire. Non partire troppo presto almeno.
Nessuno gli aveva mai detto
che le buone azioni lasciavano la bocca arida come il deserto.
“Pensi di
partire…”
“Non stasera di sicuro. Questo fine settimana
c’è l’addio al nubilato. Forse
lunedì … vediamo se Scott non ha riportato
indietro i biglietti dopo il mio
numero di ieri sera.”
“Non l’ha fatto.” Le aprì la
porta perché era chiaro come il sole che aveva
voglia di andarsene da come stava giocando nervosa con la chiusura
della sua
borsa.
“Speriamo…”
“Ne sono sicuro. Vuole essere il tuo cavaliere
dopotutto.”
Lily, che si stava
drappeggiando lo scialle sulle spalle, si irrigidì di colpo,
serrando le
labbra. “Scott non è il mio cavaliere.”
Quasi sbottò. “È il mio
ragazzo.”
“Stavo solo usando
una
figura…”
“Ascolta, devo proprio andare, mi sta chiamando.”
Gli mostrò il cellulare dove
stava lampeggiando un segnale di chiamata. ‘Scott
Ross’ vi lesse: prevedibile. “Ci
sentiamo okay? Non è che ci salutiamo
così.”
“Certo…”
Prima che potesse chiedersi
se
doveva salutarla con un abbraccio o meno, fu l’altra a
stringerlo, talmente
forte da fargli credere volesse strozzarlo. “Mi
mancherai.” Mormorò. “So che ti
riprenderai il caso e che ci rivedremo, ma …”
La strinse di rimando,
attento
a dosare la forza, ma aspirando il profumo dei suoi capelli e della sua
pelle.
Sarebbe stata una delle ultime volte, pareva. “Mi mancherai
anche tu.”
Fu una fortuna essere
abbastanza pronto a rilasciarla senza trattenerlo in maniera sospetta.
“Ciao
Lily.”
L’altra abbozzò un sorriso. “Ciao
Ren.”
Sören si chiuse la
porta
dietro e vi appoggiò la fronte, inspirando: quanto sarebbe
stato peggio doverla
salutare sul serio?
“Ti
ho chiamato ieri sera, ma non mi hai
risposto.”
“Avevo bisogno di sbollire.” Lily si strinse nelle
spalle, anche se Scott non
poteva vederla, presa ad attraversare il Circus
con l’inquietante speranza che qualche macchina la
mettesse sotto.
Almeno
la botta dovrebbe schiarirmi il cervello.
“L’avevo
immaginato.” Rispose,
poi un’esitazione. Anche senza vederlo, poteva percepire il
desiderio di
lasciarsi tutto alle spalle. Il tono di voce con cui l’aveva
salutata era stato
abbastanza indicativo: Scott non amava le liti e preferiva seppellirle
sotto il
tappeto. “Piccola, so che ho sbagliato a non coinvolgerti,
ma…”
“Va tutto bene, Scotty.” Suo malgrado sorrise: era
più bravo di lei ad
ammettere gli errori. Lo era sempre stato. “Ho sbagliato
anche io a reagire in
quel modo. Avrei potuto essere più comprensiva. Cerchi solo
di aiutarmi.”
L’altro
sospirò. “Questo
pomeriggio vado a riportare i biglietti …
All’Australia penseremo quando avremo
la mente più sgombra, okay?”
“No.” Lo
fermò. “No, sai, ci
ho pensato … è una buona idea.” Fece
una pausa, permettendogli di assorbire il
concetto. “Però non posso partire domani
… devo esserci per l’addio al nubilato
di Rosie.”
“Okay.” Stava sorridendo adesso. E sentirsi una
carogna ingrata non era mai
stato così facile. “Hai ragione, in effetti anche
io sono precettato per la festa
di Scorpius. Lunedì?”
Se
ne vuole proprio andare…
“Vediamo.”
Non si sbilanciò.
“Potrebbe andare bene, ma devo comunque avvertire un
po’ di gente che me ne
vado e lasciare delle cose in consegna alle altre
Apprendiste.”
“Sei sicura? Perché se lo fai solo per
me…”
“No!”
“Lily, sembra ti stia chiedendo di andare ad un
funerale.”
Ha
ragione. Cavolo se ha ragione. Mettici più impegno!
Inspirò,
concentrandosi sul
fatto che avrebbe potuto dir addio per due settimane – o
forse anche di più,
chissà – alla maggior parte dei suoi casini. E
forse, dire addio a Ren sarebbe
stato più semplice.
…
se sono io la prima ad andarmene.
“Non dire
sciocchezze!”
Sbuffò. “Scotty, è una vacanza. Io adoro
andare in vacanza. Sono ancora un po’ arrabbiata, ma non
certo con le spiagge australiane!”
“Okay.”
Ripeté. Non sembrava
convito ma ci avrebbe lavorato su. Avrebbe aiutato fare sesso, magari,
vista la
mancanza del suddetto da più di una settimana. A letto si
potevano risolvere
tanti problemi senza parlarne. Più o meno.
“Ehi, Scotty
… sarà
grandioso.” Lo rassicurò cercando di infondere nel
tono di voce tutto l’affetto
che provava. Perché doveva
andare
bene. Perdere Sören sarebbe stata dura, ma avrebbe potuto
superarla con il
tempo. Perdere Scott sarebbe stato troppo.
“Non sono stata una brava ragazza in queste ultime settimane,
me ne rendo conto
… ma rimedieremo. Australia, giusto?”
“Australia.”
Confermò con un
sorriso pallido nella voce. Ma era già qualcosa.
“Ti amo piccola.”
Lily chiuse gli occhi e aspettò speranzosa che una macchina
invadesse il suo
lato di marciapiede. Non accadde nulla, quindi rispose. “Ti
amo anch’io.”
Avrebbe voluto crederci come
un mese prima.
****
Scozia,
Hogsmeade.
“Sei sicuro che
puoi prendere
tutte queste ore libere di permesso?”
“Ma sì, vai tranquillo!”
Ted era tutto fuorché tranquillo, ma non gli pareva il caso
di annunciarlo, con
Benedetta nel sedile posteriore della macchina. Sorvolavano in quel
momento la
brughiera spoglia delle Highlands, e la bambina aveva il naso
schiacciato al
finestrino e gli occhi dorati colmi di meraviglia. Non aveva parlato
granché da
quando erano usciti dal San Mungo, limitandosi a seguirli tutta occhi.
Sembra
che veda tutto per la prima volta.
Forse era così,
rifletté
lanciandole un’occhiata: Benedetta non aveva avuto molti
contatti con il Mondo
Magico da quando era nata, vivendo in una famiglia di Babbani e con un
padre
che non era stato inserito nel tessuto sociale di nessuno dei due mondi.
“Ohi
Ben!” La chiamò James, che faceva sempre
più fatica a mantenere
l’Incanto Traduttore, non essendo mai stato bravo negli
incantesimi
linguistici. Per fortuna la bambina sembrava cominciare a capire
qualche parola
di inglese. “La vedi quella roba
scura
laggiù, vicino alle montagne? È la Foresta
Proibita, e subito accanto c’è casa!”
“Casa.”
Ripeté in inglese guardandolo interrogativa. “Casa?”
“Dove
abitiamo.” Le spiegò in
italiano. “Dove abiterai anche tu.”
“Casa.”
Annuì tornando alla
contemplazione sotto di lei. Ripeté la parola più
volte, facendosela rotolare
in bocca e a Ted venne da sorridere.
Le
deve sembrare una lingua così assurda …
Dopo una ventina di minuti
atterrarono nel piccolo spiazzo di fronte alla rimessa degli attrezzi.
“Arrivati pulce!” Proclamò James
rivolgendole un sorriso che venne ricambiato a
trentadue denti.
Ci
sa fare con lei.
Era un sollievo. Era
preoccupato che l’altro stesse facendo troppe assenze, ma al
tempo stesso era
meraviglioso fosse lì e facesse ridere Benedetta.
Quando scesero, la bambina trotterellò nel giardino in
percorsi tutti suoi, da
come andò a controllare le aiuole, ammirò il
vecchio dondolo – ma non ci salì
sopra come si sarebbe aspettato – e annusò
l’aria.
“Sa di
bosco!” Dichiarò.
Ted annuì affiancandolesi. “In realtà
è una foresta.”
Usò volutamente il termine inglese. Era ora che imparasse;
d’ora in poi sarebbe
stata quella la sua lingua. “È molto
più grande e si estende per chilometri.
Sai quanto è lungo un chilometro?”
La bambina
arricciò il naso.
“Tanto?”
Ridacchiò, mentre
James finiva
di scaricare gli effetti personali che si erano accumulati nella stanza
di
ospedale, tutti provenienti dall’esteso clan Weasley.
Con
tutta la roba che le hanno regalato potevamo
tappezzarci l’intero reparto…
“Un chilometro
è lungo mille
metri. Un metro sono quasi tre dei tuoi passi.”
“E uno di Teddy,
che è grande
e grosso!” Replicò James carico di buste e
pacchetti.
Ben li guardò
speculativa.
“Insomma, è grandissima.” Disse
guadagnandosi un’arruffata di capelli da James.
Avevano dovuto tagliarglieli corti dato lo stato in cui li avevano
trovati.
“Esatto pulce
… Questo sì che
è un modo per riassumere la lezione del Professor
Teddy!” Gli mostrò la lingua.
“Avanti, portiamo tutti i tuoi regali nella tua nuova
cameretta!”
“Sì!”
Esclamò con convinzione.
“La mia!”
Non è troppo piccola per reclamare
già i
suoi spazi?
James dovette leggergli nel
pensiero, perché sogghignò. “E aspetta
che arrivi all’età in cui Lily ha preteso
un lucchetto alla porta…”
“Prima arriviamoci.” Borbottò seguendoli
dentro; era nervoso, anche se ormai
era uno stato d’animo a cui s’era abituato. Avevano
reso la casa a prova di
Mannaro, con incantesimi e barriere, ma non era quello a preoccuparlo.
E se non
le fosse piaciuta?
Se
Lily mi ha raccontato giusto, viveva in un piccolo
podere sulle colline toscane …
Pieno di sole, luce e
colori;
per quanto adorasse il loro covo delle Highlands, come lo chiamava
Jamie, si
rendeva conto che anche se poteva essere colorata, per colpa del clima
non era
né assolata né luminosa.
Salì le scale
verso il piano
superiore, seguendo le voci di James e Ben, un miscuglio di italiano e
inglese
che lasciava confusi ma comunque volenterosi entrambi. Trovò
James sullo
stipite della porta della camera, con un sorriso divertito dipinto in
volto.
Gli fece cenno di avvicinarsi. “Penso che le
piaccia.”
A giudicare da come stava saltando sul materasso in grandi balzi pareva
proprio
di sì. “Le stelle!” Gridò
entusiasta indicando le lucette che Lily aveva appeso
sopra al letto. “Ci sono le stelle!”
Tradusse in inglese.
Okay,
sta imparando. Solo gradirei non lo facesse
distruggendo suppellettili…
“Abbiamo
un problema di disciplina…”
Canticchiò l’altro al suo orecchio.
“… che dici Teddy?”
“Dico che hai
ragione…”
Sospirò, ricordando bene quanto avesse combattuto proprio su
quel fronte e
proprio con lui. “Benedetta.” La
richiamò usando il suo tono più fermo, cosa
non facile perché Ben non era Jamie, e aveva sempre il
terrore di spaventarla se
parlava troppo forte. Ben lo ignorò.
“Uh, Teddy, non
penso basti
chiamarla…” Osservò l’altro,
con un’espressione assolutamente compiaciuta
stampata in viso. “Ci vuole il tono delle grandi
occasioni.”
“Temo di sì.”
Ted era nervoso e
spaventato,
ma ricordava bene come funzionasse con un bambino di
quell’età; era tutta una
questione di autorità e limiti che venivano testati. Se le
avesse lasciato fare
ciò che voleva solo per paura di traumatizzarla non avrebbe
assolto al suo
compito.
Che
mi terrorizzi o meno, sono il suo tutore.
“Benedetta, basta.” La bambina si
immobilizzò,
guardandolo tra il sorpreso e il riottoso. “Un letto
è fatto per dormici, non
per saltarci sopra. E non con le scarpe sporche.”
La bambina tentennò, ma se non l’aveva ancora
accettato come autorità, era
comunque tenuta buona dal suo tono. “Okay.”
Bofonchiò con un intonazione che
gli ricordò curiosamente James. Lanciò
un’occhiata al compagno e quello soffocò
una risatina.
Dejà
vu immagino.
La prese in braccio per
farla
scendere e quando la mise a terra diede un’occhiata alle
scarpe.
Okay,
le lenzuola sono da cambiare …
“Sono
sporche?” Le chiese
indicandole. Aspettò di vederla annuire poi
continuò. “Quando sono così voglio
che tu te le tolga e le lasci davanti alla porta, va bene?”
Ben aggrottò le sopracciglia. “Così
posso giocare sul letto bello?”
“Sei sveglia,
pulce…” Commentò
James divertito. “Non vuoi mica dormire nel fango,
ah?” Usò il termine in inglese, e dovette
funzionare perché la bambina scosse
la testa e se le tolse, porgendogliele.
James gli lanciò
un’occhiata
perplessa e Teddy intuì che Benedetta si aspettava che
gliele mettessero
apposto. “Benedetta, puoi farlo da sola.” La
istruì pacato. “Mettile davanti
alla camera.”
La bambina ubbidì anche se l’espressione confusa e
un po’ scocciata era
indicativa.
“Mi sa tanto che
ci siamo
sbagliati sul fatto che fosse viziata.” Commentò
James grattandosi la nuca.
“Non c’è quella storia che i bambini
italiani sono serviti e riveriti dalle
proprie famiglie?”
“Non ne ho
idea.” Ammise. “Ma
è vissuta con i nonni per un periodo…”
Per anni è stata tirata su in una
casa
normale, circondata dai genitori e dai nonni. Forse è stata viziata.
“Oh, che importa
… ti sei
fatto rispettare!” Ghignò dandogli un colpo sulla
spalla con la sua. “Hai visto
come ti ha dato retta?”
“Ho fatto esperienza con bambini molto più
testardi…” Commentò ricambiando il
colpo. “E isterici.”
“Non ero isterico!”
“Eri un piccolo
despota. Oltre
che il caos incarnato.” Continuò bloccando un
pugno diretto al petto e
tirandoselo contro. Bloccarlo in un abbraccio era l’unico
modo per evitare di
essere colpiti, specie dai calci. “Vorrei ricordarti
l’incidente della
libreria… La mia
libreria e la tua scopa, in
collisione.”
“Tentavo solo di attirare la tua ottusa attenzione,
Teddy.” Rispose con uno di
quei sorrisetti monelli che non l’avrebbero mai lasciato,
neppure da anziano.
“Non è colpa mia se non capivi i miei pegni
d’amore.”
“Più
pegni di dolore, direi…”
Fece per baciarlo, perché Merlino, non poteva non farlo
quando aveva quell’espressione
dipinta in faccia, che riassumeva alla perfezione tutte le cose che
adorava di
lui …
“Ho
messo a posto! Ho fame!”
La vocetta di Benedetta per
poco non gli fece venire un infarto. Per essere così piccola
sapeva muoversi
con l’accortezza di un auror in servizio. Con orrore si
chiese se non fosse il
caso di spiegarle perché stava abbracciando James e
soprattutto, perché avesse
una mano sul suo sedere.
Gli
avranno fatto quel discorso? Cosa saprà
dell’omosessualità?
James risolse le cose nell’unico modo
possibile, ovvero facendo
finta di niente. Fece un passo indietro, fluido e a suo agio.
“Okay pulce, cosa
ti va di mangiare?”
“Pasta col
pomodoro!”
“Sei fortunata, ho ancora della salsa dall’ultimo
tentativo italiano … Avanti,
corri di sotto e cerca la cucina.” La istruì,
facendola schizzare via subito
dopo. Poi gli sorrise. “Beh, non va’ troppo male,
no?”
Sorrise di rimando e gli
diede
finalmente il bacio che voleva; a quando sembrava, d’ora in
poi avrebbero
dovuto cambiare un po’ di cose. Non sarebbe stato male, no.
Solo diverso.
****
Ministero della Magia,
Mattina.
L’occasione faceva
l’uomo
ladro, anche se nel caso di Michel non era niente di così
disdicevole.
Imbattersi in Emil mentre
stava per imbarcarsi nell’ennesima giornata lavorativa era
però considerabile una
buona occasione. Ottima, visto che aveva in progetto una sorpresa e
aveva la
sensazione che se gliel’avesse comunicata per telefono
avrebbe ricevuto un
rifiuto.
“Emil.”
Lo chiamò tra le frotte di funzionari che correvano spediti
verso i propri uffici. L’altro, che veniva dal lato opposto,
si bloccò
rischiando di farsi travolgere dal flusso. Conoscendo bene la poca
pazienza dei
suoi colleghi a quell’ora, fu lesto ad afferrarlo per un
braccio e pilotarlo in
una nicchia tra due camini.
“Per Faust, sono
salmoni che
risalgono la corrente o cosa?” Sbuffò questo,
raddrizzandosi la giacca che
portava sopra ad una felpa poco impegnativa. Come ogni volta, rimase
piacevolmente colpito da come non sembrasse mai malvestito, persino con
cose
che sembravano prese da due armadi diversi.
“Paragone
azzeccato.” Convenne
“Commissioni per Prince?”
“Puoi giurarci
… il
rompicoglioni mi ha preso per un Gufo.” Replicò
guardandosi attorno distratto.
“Ho dovuto comunicare all’ufficio auror i suoi
spostamenti.”
“Come sta
affrontando
l’esclusione dal caso?”
“Ronzando attorno
a Lily
Potter e cercando di trovare l’ispirazione per farsi
riprendere…” Focalizzò
l’attenzione su di lui per la prima volta. “Non hai
da andare al lavoro tu?”
Ormai riusciva a capire
quando diventava
aggressivo per mascherare nervosismo.
“È il motivo per cui sono qui ed ho una
ventiquattro ore in mano.” Confermò. “Va
tutto bene?”
Emil fece spallucce ma da
come
tamburellava le dita sulle gambe la risposta era sottointesa.
“Tutta questa gente
… tutta assieme e zero finestre. Quanto cazzo siamo sotto
poi?” Guardò in alto,
quasi stesse tentando di contare i metri che lo separavano dal livello
stradale. Michel si
chiese se quella non
fosse l’ennesima ferita che il suo essere Magonò
gli aveva inflitto.
“Questa
è l’ora in cui tutti i
funzionari entrano in ufficio, per questo vedi tanta gente.”
“Già,
beh…”
Non era quello il posto giusto per parlare. “Vuoi venire nel
mio ufficio?
Cooperazione è scarsamente popolata.” Aggiunse
gentile, passandogli una mano
sul braccio per poi fargliela scivolare lungo la nuca.
L’altro fece scattare
gli occhi nella sua direzione, teso, ma non si scostò.
Ho
passato un anno intero a gestire le crisi di panico
di Al post-Dursley. Niente che non abbia già visto.
“Voglio
uscire.” Fu il mugugno
riottoso con cui lo ricompensò. Vista la sua riluttanza a
mostrarsi debole era
molto. “Ma immagino che questo magma non sia destinato a
finire nei prossimi
cinque minuti.”
“Più del cinquanta per cento della popolazione
magica lavora al Ministero. Fa’
i tuoi conti.”
“…
fa’ strada.”
Se fosse dipeso da lui di
certo non avrebbe seguito Zabini.
O almeno così si
ripeteva
cocciutamente. Si sedette sulla poltrona di fronte all’enorme
scrivania di
mogano, imitato dal mago che fece poi Apparire un bicchier
d’acqua. Lo
trangugiò grato.
“Ti succede
spesso?”
“Non era un
attacco di
panico.” Rispose scocciato; non era semplice spiegare
l’ansia che gli
attorcigliava le budella ogni volta che vedeva troppa gente stretta in
un posto.
Troppi maghi soprattutto.
E
cazzo, zero finestre. Sembra il Centro.
“Non eri a tuo
agio però.”
Non dirmi, Sherlock.
Si strofinò la
nuca e alzò lo
sguardo. Michel lo stava studiando, tanto per cambiare.
“Beh?” Domandò non
impegnativo. “Cos’hai intenzione di fare con me
adesso?”
“Farti
rilassare.” Al suo
ghignetto malizioso alzò gli occhi al cielo. “Non
in quel senso. Sfortunatamente non
mi sono concesse certe attività al
lavoro.”
“Noioso.” Argomentò stravaccandosi sulla
sedia; era comunque un sacco comoda.
“Allora? Ci fissiamo profondamente negli occhi?”
“Volevo invitarti
fuori
stasera.” Lo sorprese. “Ti avevo accennato qualcosa
tramite messaggio…”
“Sì, ed io ti avevo detto che non sapevo se ero
impegnato.”
Michel per tutta risposta
infilò una mano nella tasca della giacca e tirò
fuori una busta. La spinse
nella sua direzione. “Non ti sto invitando a cena.”
Soggiunse sibillino.
“Stai cercando di
comprarmi?”
Ironizzò rimediandosi un’occhiataccia.
“Okay, okay …” La aprì e la
salivazione
venne azzerata quando estrasse il contenuto: erano due biglietti.
Royal
Opera House.
Questa non se
l’era aspettata.
“Ti porto a vedere
il Flauto
Magico.” Spiegò con un sorriso che era
indubitabilmente compiaciuto.
E ne aveva tutte le ragioni,
perché adesso stava sbavando.
Razza
di bastardo…
Erano anni che non ascoltava
quell’opera e, in generale, non metteva piede in un teatro;
non che Sören
glielo avesse mai proibito, né le sue attuali finanze
costituivano un problema.
È
solo che è deprimente andarci da solo.
Avrebbe potuto chiedere al
principino, ma se n’era sempre vergognato; era scoprire una
parte del suo
passato che mal si accordava con l’idea che dava di
sé.
E
non ho mai avuto voglia di spiegarmi.
Con Michel non serviva
però. Da
che lo conosceva, non era mai servito. “Li avrai pagati un
occhio della testa.”
Disse per dire qualcosa. “Specie visto il rischio che ti dica
di no.”
“Non mi dirai di no.” Obbiettò come se
fosse un dato di fatto. Era snervante,
ma diavolo se aveva ragione. “Non sarebbe carino farmi andare
da solo.”
Fece una smorfia, girandoseli tra le mani. “Non ho neanche il
vestito adatto.
Come hai detto tu, mi vesto solo come se dovessi rimorchiare in un
club.”
“Nei nostri teatri
non c’è un
vero e proprio dress code
… puoi
venire come preferisci.”
“Col
cavolo.” Sbuffò non
riuscendo a trattenere il sorrisetto che finirono per scambiarsi.
“Non sono
mica uno zotico come voi inglesi. Cravatta nera e abito, è
la regola.”
“Allora sono
sicuro che
troverai una soluzione entro stasera.” Michel si
alzò, aggirando la scrivania
come un dannatissimo gatto pigro e diavolo, aveva ragione anche
stavolta. Lo
guardò sedersi sul bordo del bracciolo e chinarsi sopra di
lui. “Sei un ragazzo
pieno di risorse, no?”
“E tu sei uno
stronzo
manipolatore…” Soffiò afferrandolo per
il bavero della giacca. “Ti piace
proprio giocare a quello che mi conosce, eh?” Non gli diede
il tempo di
rispondere, baciandolo e trattenendosi per il rotto della cuffia dal
morderlo. Quelle
labbra piene desideravano solo essere assaggiate. Il risultato
lasciò senza
fiato entrambi per qualche attimo.
“Ed è
vero?” Gli chiese,
pupille dilatate e respiro corto. “Le conosco?”
Non poteva mentire visto che
era
una domanda retorica. “Non so quanto ti convenga,
maghetto… Non sono il genere
di persona che la gente freme di conoscere.”
“Io invece credo proprio di sì.”
Parlare per metafore era
quanto
di più simile ad una dichiarazione.
È
preso da te, bello. Andato, del tutto.
…
e la cosa mi sa che è reciproca, eh?
Il bussare alla porta
incrinò
la bolla in cui si erano rinchiusi. Michel si tirò in piedi,
aggiustandosi con
due colpi delle dita la giacca. “Avanti.” E
c’era una differenza abissale tra
quel tono da automa frigido
e quello di poco prima.
Da come si
irrigidì poi capì
che il tizio appena entrato, di colore come lui e altrettanto
inamidato, proprio
non gli andava giù. “Michel, devo farmi tre
corridoi interi per avere una
risposta?”
Michel fece una smorfia che
parlava da sola. “Sono appena arrivato, avrei
risposto…”
“Ti ho fatto recapitare un Promemoria. Io e Draco possiamo
contare sulla tua
presenza a pranzo oppure no?”
“Sì,
padre.”
Ah. È suo padre.
In effetti notava una certa
somiglianza; il tizio era più anziano e aveva la pelle
più scura, ma di certo
da giovane doveva essere stato una bellezza esotica al pari del figlio.
Si
notava ancora negli occhi scuri da orientale e le labbra disegnate. Poi
venne
notato.
“Spero di non aver
interrotto
qualcosa.”
Solo io che mi stavo per scopare tuo
figlio sulla scrivania.
Sorrise disimpegnato,
alzandosi e tendendo la mano. “Nulla di importante, Signore.
Solo un amico in
visita. Me ne stavo andando.”
L’uomo gli strinse la mano di rimando, lanciandogli
un’occhiata che poteva
essere classificata solo come tagliente. “Blaise Zabini. Mi
vanto di conoscere
tutti gli amici di mio figlio, e mi duole non aver ancora fatto la sua
conoscenza, Signor…”
“Meinster.” Non aggiunse altro. Del resto, non
aveva voglia di esser carino con
un Purosangue affetto da un grave caso di bacchetta infilata nel culo.
“È un
mio vecchio amico
d’infanzia.” Tagliò corto Michel con
aggressività inaspettata. Si sarebbe
aspettato piuttosto nervosismo, visto che il suo essere
Magonò poteva notarsi
da un momento all’altro.
Nessuna
bacchetta, la spilletta che ho appuntata alla
giacca che, oh! Recita “Magonò”
così non mi chiedono la bacchetta
all’accettazione …
Blaise Zabini fece
un’impercettibile
cenno con la testa, sorridendo nello stesso modo in cui facevano tutti
quelli
della sua risma. Era un sorriso che non arrivava mai agli occhi.
“Capisco.” Si
voltò verso il figlio. “Conto di vederti a pranzo
allora?”
“Ci
sarò.” Confermò. Quando ebbe
lasciato la stanza, Michel cacciò un lungo sospiro che la
diceva lunga su
quanto lo avesse trattenuto.
“Simpatico
…” Commentò. “Spero
di non averti rovinato il pranzo.”
“Non preoccuparti, dovrebbe esserci prima qualcosa da
rovinare.” C’era qualcosa
di infinitamente triste nel modo in cui appariva indifferente a
ciò che aveva
appena detto.
Fu questo che lo spinse ad
avvicinarsi. Non abbastanza da toccarlo, ma abbastanza da vedere come
la
mascella era tesa in una linea dolorosa. “Tutto
bene?”
Michel tentennò
solo qualche
istante. “No.” Disse pacato. “I rapporti
tra me e mio padre sono difficili … da
sempre. Non approva molte delle mie scelte di vita.”
“L’omosessualità?” Anche se
non era un vero e proprio tabù nella società
magica, i Purosangue erano in generale poco contenti di trovarsi un
figlio
interessato al suo stesso sesso.
Significa
un figlio che non procrea … e
che non porta avanti la linea di sangue.
Bella rogna.
“Tra le
varie.” Annuì tornando
dietro la scrivania. “In realtà da quando
è nato il mio fratellastro è l’aspetto
di me che meno lo infastidisce.”
Posso
vederlo perché vuole farmelo vedere?
“E quali sono gli
altri?”
Michel fece un sorrisetto
amaro. “Si possono riassumere con un semplice concetto. Non
approva me.” Fece un
gesto elegante per
indicarsi. “In toto.”
Non capiva. “Per gli standard da stronzo Purosangue a me
sembri abbastanza
perfetto.”
Michel lo guardò
senza dire
niente per qualche attimo. “Non sei l’unico ad
avere degli scheletri nel baule.”
Disse poi con tono stanco: era come se quell’incontro
l’avesse spento. In quel
momento sembrava davvero indifeso.
Sapeva quando non insistere
–
con Sören aveva fatto una bella palestra – quindi
prese i biglietti rimasti
sulla scrivania e se li infilò in tasca. “A
stasera?”
Sul viso tirato
dell’altro
apparve un piccolo sorriso. Si rifiutò di realizzare che era
a quello che aveva
puntato sin dall’inizio.
“Sì, a
stasera.”
Doveva decisamente trovarsi un vestito.
****
The Royal Inn, Piccadilly
Circus.
Pomeriggio.
Ama aveva capito dal giorno
stesso in cui avevano escluso Sören dal caso che
quest’ultimo non avrebbe mai fatto
un metaforico passo indietro. Non davvero.
Quindi non si
stupì quando
incrociò Scorpius Malfoy mentre usciva dal bar
dell’albergo.
Questo in compenso
strabuzzò
gli occhi e impallidì.
“Sergente
Gillespie!” Esclamò. “Qual buon
vento!”
È qui per aggiornarlo sul caso.
Ci avrebbe scommesso il
distintivo. “Non direi.” Replicò
glaciale. “Alloggio qui.”
Non gli diede tempo di inventarsi una scusa e
andò dritta al punto. “Visita a Prince?”
“…
Già.” Ammise stringendosi
le spalle. “Volevo solo controllare come se la passava, del
resto…”
“Farò finta di non vedere che hai una borsa che
probabilmente andrebbe controllata.”
Alla sua espressione meravigliata fece un secco cenno della testa,
già
pentendosi della sua parzialità.
“Vattene.”
“Sissignora!” Fu lesto ad obbedire. Ama
sospirò: non solo lo aveva ragguagliato
sul caso, ma gli aveva portato anche tutta la documentazione.
Ora doveva solo capire cosa
farne di quella faccenda. Oggettivamente, lo sapeva: avvertire i suoi
superiori
e passare a loro la patata bollente.
Soggettivamente
…
Era curiosa: Sören
era la
persona più ligia alle regole che conoscesse, ma del resto,
nella vita di ogni
agente c’era un caso che rappresentava l’eccezione,
sia alle regole che alle proprie
convinzioni. Il Demiurgo era quello di Prince.
Entrò nel bar, un
profluvio di
oro laccato e specchi a parete giganteschi. Si sentì come un
pesce fuor d’acqua,
ma quando vi trovò l’altro pensò che
invece, a lui, quel posto si addiceva. C’era
qualcosa nella sua postura, nel modo in cui parlava e ti guardava che
ti faceva
pensare che venisse da un altro secolo.
Il
secolo dentro questa stanza.
Sören era
così immerso nella
lettura di uno dei fascicoli che non si accorse del suo arrivo
finché non gli
fu davanti. Quando la riconobbe non tentò di giustificarsi,
né di nascondere le
prove. Si limitò a guardarla e questo la confuse.
“Cosa
stai…”
“Sai benissimo cosa sto facendo, Ama.” Rispose
quieto.
Avrebbe dovuto dirgli chiaro
e
tondo che era nei guai fino al collo, ma fu più forte la
curiosità. “Mi sono
scontrata con l’agente Malfoy entrando … Come lo
hai convinto?”
Sören
esitò, mostrando per la
prima volta del sincero rammarico. “Scorpius è un
bravo ragazzo. Gli ho chiesto
io di prendere le cartelle … Ti prego di non prendertela con
lui.”
“Non è una questione di prendersela!”
Esclamò incredula. “Malfoy rischia una sanzione
disciplinare a passarti
informazioni! Se lo denuncio ai suoi superiori…”
“Non lo farai.”
Boccheggiò e stavolta la rabbia la centrò come un
arciere. “Non lo farò?
Mi stai ordinando…”
“Non ti sto ordinando niente.” Replicò
sullo stesso tono. Non smetteva di
guardarla e dannazione, non poteva farsi convincere da un paio
d’occhi tristi.
È
ridicolo!
“Sono il tuo
sergente, è mio
compito …”
“Perché sei diventata un agente?” La
interruppe.
Ama si morse un labbro,
lasciandosi cadere sulla sedia accanto a lui. Se il discorso doveva
prendere
quella piega tanto valeva fosse seduta. “Sai benissimo il
motivo per cui l’ho
fatto. Non credo non ci sia un solo agente del SAGITTA che non ne sia a
conoscenza…”
“Per tuo padre.” Annuì chiudendo la
cartella che stava consultando; era quella
con i sospetti finanziatori del Demiurgo. Avrebbe strangolato
Malfoy. “E per proteggere le persone che non possono
farlo da sole.”
“Sì, e quindi?”
“E quindi puoi
capire perché
sto mettendo a rischio la mia carriera e la mia già
compromessa fedina penale.
Questo è il mio
caso.” Non avrebbe
dovuto sembrarle così maledettamente eroico mentre reperiva
informazioni e
lavorava alle spalle di ben due Dipartimenti di difesa. Eppure
…
Ama si passò una
mano trai
capelli, chiudendo gli occhi. “Non puoi lasciare che ce ne
occupiamo noi?”
Sören
ignorò la sua domanda. “Thierry
non è il vostro mago.” Disse invece.
Era una partita vinta in
partenza quella. Del resto, non era mai stata d’accordo con
la decisione di sua
madre e del Capo Potter. “E perché?”
“Perché
è morto sette anni
fa.”
“Ma il suo profilo dice…”
“Il profilo non è aggiornato. Ho visto il suo
cadavere, fui incaricato di farlo
sparire. Al momento i suoi possedimenti sono detenuti da un prestanome,
un
lontano nipote … Il cui interesse maggiore è la
beneficienza. Neppure lui è il
vostro uomo.”
Avrebbe voluto prenderlo a
pugni. O baciarlo. Chissà se la Potter provava mai
l’irritazione che provava
lei quando se lo trovava di fronte. Chissà come si
comportava con lei, a parte
morirle silenziosamente dietro.
Non
è questo il momento, Gillespie!
“È
questo il tuo piano?”
Domandò. “Fare indagini in parallelo e farti
giustizia da solo?”
Sören scosse la testa. “Voglio che siate voi ad
arrestare mia madre e Johannes.
Voglio che siano assicurati alla giustizia e che vengano processati.
Non ho
vendette in agenda.”
Sei
una persona migliore di me, allora.
Ma non lo disse, limitandosi
ad una smorfia. “Avresti potuto proporti come
consulente.”
“Il Capitano e Harry Potter non me lo lascerebbero mai fare.
Non adesso almeno.
Devo convincerli che la mia presenza qui è necessaria, ma
devo portar loro un
motivo.” Batté la punta delle dita sul fascicolo.
“Ma ho bisogno di avere
informazioni per mostrargli che sono indispensabile.”
“Hai poco
tempo.”
“Me ne rendo conto.”
Rimasero in silenzio, ognuno
perso nei propri pensieri: una parte di lei avrebbe voluto denunciare
quella
che era una palese infrazione. L’altra però capiva
le motivazioni di Sören. E
le scusava.
“Non
dirò niente di quel che
ho visto oggi.” Decretò, ma lo fermò
prima che potesse ringraziarla. “Ma non ti
coprirò se la cosa verrà fuori.” Si
alzò in piedi. “Se vedo un altro fascicolo fuori
dal Dipartimento o Malfoy che gironzola da queste
parti…”
“Sei stata
chiara.”
“Lo spero.” E pensare che era venuto a cercarlo per
passare un po’ di tempo
assieme. “Non sono venuta qui per…”
Esordì per poi tacere di fronte
all’espressione ancora rigida dell’altro.
“… per spiarti.” Terminò
miseramente.
“Milo mi ha detto dov’eri e volevo
…”
Sören
aggrottò le sopracciglia
in piena confusione. “Volevi?”
Non
ci puoi arrivar da solo?! Dio, che nervi!
Aveva avuto fidanzati e
fiamme
passeggere, aveva flirtato e si era lasciata corteggiare, ma con Prince
era
come camminare in una terra inesplorata con le armi – di
seduzione - spuntate.
Devo
cambiare approccio.
“Ho notato che
indossava un
completo. Andate da qualche parte stasera?” Stornò
per darsi il tempo di
pensare a qualcosa di intelligente da dire.
“Non io,
lui.” Sören scosse la
testa, rilassandosi in un tono più amichevole. “Ha
un appuntamento … mi ha dato
il tormento tutto il pomeriggio perché gli dessi un parere
su cosa indossava.” Fece
una faccia che la fece ridacchiare. “Per una volta i ruoli si
sono rovesciati.”
“Pensavo che
conoscesse solo
il termine rimorchiare.”
“Sì, l’ho sempre pensato anche
io.”
A ben guardare,
l’unica cosa
che aveva sempre funzionato con l’altro era stata la bruta
sincerità. Quindi
decise di provarci. “A proposito di appuntamenti…
Spero che il nostro rimanga
confermato per questo venerdì.”
“Assolutamente.” La guardò di sottecchi,
tornando di colpo all’età che avrebbe
dovuto avere e non a quella di un vecchio guerriero stanco. Aveva
funzionato. “Se
non hai cose migliori da fare, potresti farmi compagnia … Il
the delle cinque
qui è una sorta di rito.”
Ama sorrise e si sedette.
“Volentieri.”
****
Covent Garden, Royal Opera
House.
Sera.
Milo stava cominciando a
pentirsi dell’idea balorda che aveva avuto.
Avrebbe dovuto dire di no,
prima di tutto; dire di no perché …
…
perché sì.
Controllò
l’orologio per fare
qualcosa, giocherellando con la sigaretta che avrebbe voluto sostituire
con uno
spinello, se solo non fosse stato gomito a gomito con almeno un
centinaio di
persone che affollavano l’entrata del teatro, vestite di
tutto punto e in
attesa di entrare.
Chiuse gli occhi e
contò fino
a dieci per tenere la mente occupata e non farla andare nel panico.
Erano più di
dieci anni che
non metteva piede in un posto del genere. Ogni cosa gli tornava
familiare, dalle forme
slanciate e neoclassiche dell’Opera House – che gli
ricordavano certi teatri
del Continente – come il profumo costoso delle donne e il
luccicare delle
scarpe degli uomini.
Faceva male; era un dolore
sordo, simile a quello di un dente cariato. Era nostalgia.
Gli era mancata
quell’atmosfera; le chiacchiere dei melomani,
l’attesa, i programmi
stropicciati tra dita impazienti. Gli era mancata e dunque non andava
bene.
Torna
nella tua fogna, ratto di strada. È a quella che
appartieni.
Avrebbe dovuto andarsene,
togliersi quello stupido abito da sera affittatoe andare al Black
Goose. Trai suoi simili, a farsi apprezzare per
niente in particolare.
Aveva la bocca secca e le
mani
sudate, se la stava facendo sotto eppure era ancora lì, ad
aspettare lo
stronzissimo maghetto. Perché, dietro tutte le sue seghe
mentali, lo voleva.
Avrebbe voluto darsi un
pugno
in faccia da solo.
“Emil.”
La voce del suddetto
apparve come il famoso diavolo di cui tutti parevano parlare. Si
voltò e lo trovò
perfetto.
Anche quello era un problema
da
niente.
“Ehi.”
Gracchiò girandosi la
sciarpa tra le mani. Il principino l’aveva obbligato a
prenderla, considerando
che senza di essa la sua mise non sarebbe
stata completa.
Michel parve notare il suo
nervosismo, ma non commentò. Lo prese invece sottobraccio
con una familiarità
che avrebbe meritato una frecciatina. Avrebbe dovuto, ma…
Non
mi sto aggrappando.
“Paura da
palcoscenico?” Gli
chiese gentile. “Guarda che stasera sei solo un
ospite…”
“Sto
benissimo.” Replicò
sostenuto, rimediandosi un’occhiata perfettamente
consapevole. “Alla grande. Entriamo?”
Mai dimostrare debolezza, neanche di fronte all'evidenza.
Aveva forse fatto il passo
più
lungo della gamba?
Michel lo
considerò
brevemente, guardando il viso pallido e teso dell’altro
mentre si accomodavano
nel palchetto che aveva loro riservato: aveva capito che
l’abbandono delle
scene aveva costituito per lui un trauma, la chiave di volta che
l’aveva
portato lontano dalla sua vecchia vita, ma forse non aveva considerato quanto l’avesse segnato.
Se
è così nervoso…
Eppure era lì.
Aveva accettato
l’invito perché gli era piaciuta l’idea.
Si era illuminato quando aveva visto i
biglietti.
Aveva
solo bisogno che qualcuno lo invitasse.
Doveva quindi continuare su
quella linea, perché Emil apparteneva alla musica e non ad
una bettola o a
vicoli sudici. Avvicinò la sedia alla sua passandogli la
mano sul braccio.
“Abbiamo i posti migliori.” Gli sussurrò
all’orecchio. “L’opera ha ricevuto
eccellenti recensioni ed è la Prima …
C’è ottimo materiale per una serata
perfetta, non credi?”
Emil lo graziò di uno dei suoi sorrisetti.
“Sì, è chiaro che hai speso un
mucchio di soldi.”
Ignorò la
frecciatina perché
era solo l’ennesima difesa senza senso.“Allora
lasciati viziare.”
Non vi fu risposta, ma non ce ne fu bisogno: Emil gli strinse la mano
con più
forza di quella che ci stava mettendo lui. Ed era un buon segno.
“… Non
metto piede in un
teatro da dieci anni.” Mormorò guardando oltre il
palco, verso la platea e
oltre il sipario di pesante drappo rosso. Era sul palcoscenico in quel
momento
e non lì con lui.
“Ricordi?”
Emil fece un cenno nervoso,
passando
le dita della mano libera sul parapetto di velluto. “Ne ho
tanti. In posti come
questo c’ho passato la mia infanzia…
L’odore, mi riporta indietro.” Chiuse gli
occhi ed inspirò. In quel momento era vulnerabile e
bellissimo.
Si chinò per
sfiorargli la
guancia con le labbra e lo vide aprire gli occhi per guardarlo
sorpreso. Sapeva
che baciarlo languidamente non sarebbe stato altrettanto efficace.
Mentre le
luci calavano e i mormorii si spegnevano aggiunse.
“È il momento di tornare nel
presente. Goditi lo spettacolo.”
Emil gli sorrise –
un sorriso
vero stavolta – ed annuì.
****
Da
qualche parte nel Lancashire …
(Vicino Preston)
“Londra, dunque?”
“Spero tu non
abbia pronta una
scusa per, Johan. Voglio Londra.”
“Tutto quello che
comanda la
mia Signora.”
Quello che apprezzava di
Sophia era la naturalezza con cui si piegava alle continue modifiche
del suo
aspetto. Non molte streghe avrebbero apprezzato vederlo ringiovanire ed
invecchiare più volte nel corso di una giornata.
Le baciò il
collo, ispirando
l’odore di fiori che l’accompagnava da quando la
conosceva. Gigli e gelsomino
gli aveva rivelato una volta. Era un profumo che indossava da
quand’era
ragazza.
“No, mia Signora, mantengo le mie promesse …
quando posso.” Le allacciò la
collana che gli porse, accarezzando la schiena nuda. “La
situazione non è delle
migliori, lo sapete.”
“Immagino non sarà possibile avvicinarsi alla
Londra Magica.” Osservò. “Ci
cercheranno.”
“È probabile, sì.” Convenne.
“Tuttavia la Londra Babbana non è di minor
pregio.” La consolò, guardando il riflesso allo
specchio. Sembrava immersa in
qualche pensiero, lo capiva dalla ruga che le solcava le sottili
sopracciglia
scure. Era così da più di una settimana: da
quando Sören aveva scoperto che era
ancora viva per la precisione.“Qualcosa vi turba?”
“No.”
Scrollò le spalle,
chiedendogli con un cenno di prenderle la vestaglia, e facendosela
scivolare
addosso quando gliela porse. Fece qualche passo verso la finestra.
“L’Inghilterra che fin’ora mi hai
mostrato è noiosa.” Stimò.
“È tutta paesaggi
… nient’altro. Spero davvero che Londra sia
all’altezza dei tuoi racconti.”
“Lo è.” Si sedette sullo sgabello della
toeletta, tirando fuori una sigaretta
ed accendendola. “Dovete aver pazienza.” La
blandì per l’ennesima volta. Stava
diventando sempre più difficile farsi ascoltare senza far
sfociare la cosa in
un litigio e quindi, dopotutto, l’idea di visitare la
Capitale faceva meno
danni di quanto ne procurava la solitudine di quei luoghi.
“Non appena avremo
trovato una soluzione per il Demiurgo e avremo riscosso i nostri
Galeoni
potremo salutarlo per sempre. Potremo avere un’isola sperduta
nei Caraibi o un
palazzo indiano. Quello che desiderate e dove volete.”
Sophia incrociò
le braccia al
petto e, anche se con riluttanza, annuì. Del resto,
pensò con una punta di soddisfazione,
con tutti i suoi capricci dove sarebbe potuta andare? La morte di Von
Hohenheim
l’aveva resa libera, certo, ma anche sola al mondo.
“Ci sono
sviluppi?”
“Ci stiamo
muovendo nella
direzione giusta…” Non si sbilanciò;
non aveva certo intenzione di dirle che la
chiave dell’intera operazione avrebbe potuto essere il
moccioso. Per quanto la
strega che gli stava di fronte non avesse mai mostrato un briciolo di
istinto
materno da che la conosceva, non era detto che avrebbe gioito allo
sfruttamento
del frutto dei suoi lombi.
Speriamo
che quel cagnetto rognoso serva a qualcosa …
Fu con quel pensiero in
testa
che, qualche ora dopo, accolse il capo-ricerca Loher.
“Loher, cosa tieni
in mano?”
Domandò gioviale facendolo accomodare nella libreria,
facendosi versare poi dall’Elfo
due dita di liquore che offrì all’ometto che lo
trangugiò di buona lena.
Facile
far lavorare per te chi ha un vizio che puoi
controllare.
“La soluzione che
mi avete
chiesto.” Prese la scatola metallica che gli porgeva e la
aprì. Dentro c’erano
due siringhe ipodermiche. Una vuota, l’altra piena di un
liquido giallastro. “Vedo
che hai seguito il mio consiglio…”
L’altro annuì, versandosi da solo un altro
bicchiere. “Vi lascerà tempo per
prelevare il campione di cui abbiamo bisogno senza danneggiare il
soggetto.” Fece
una pausa e poi prese coraggio da quel che stava bevendo per
continuare. “Ci
serve vivo e in salute, Johan. Se lo ricordi.”
“Lo so.”
Richiuse la custodia
con uno scatto secco. E sorrise.
****
Note:
Insomma, anche questo capitolo-ciccioso. Si fa quel che si
può col tempo che si
ha. :P
Buon Lucca Comics a tutti
quelli che ci vanno! :D
Questa
la
canzone del capitolo, assieme a quest’altra.
Per l’hotel di
Sören e
compagnia mi sono ispirata al Café
Royal,
che esiste ed una cosa da sbavo.
Qui una delle sale su cui ho modellato il bar. Tanto
roba.
Nel prossimo: la festa, una
chiacchierata Al/James, la mattina dopo di Milo/Michel. Non
necessariamente in
quest’ordine!
|
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Capitolo 33 *** Capitolo XXXII ***
Capitolo XXXII
We
cling to love like a skidding car clings to a corner
I tried to hold onto what we are
The more I squeeze, the quicker we're over
(The
Lovers are Losing, Keane)
21
Luglio 2028
Londra, Victoria Embankment. Casa di
Michel Zabini.
Mattina.
Michel fu svegliato
dall’odore
di caffè appena fatto e considerando che la sua camera da
letto distava dalla
cucina almeno un intero corridoio voleva dire solo una cosa.
“Ci credo che vai al lavoro sempre incazzato. Ci vai in
ritardo!”
“Oggi entro un’ora più tardi.”
Rispose cercando il pacchetto di sigarette sul
comodino a tentoni. Trovatolo se ne accese una e si mise a sedere
strofinandosi
una mano sul viso per scacciare la sonnolenza. “È
in programma una ridicola
esercitazione per la sicurezza… La salto sempre.”
Emil posò il vassoio con la loro colazione sulla scrivania
dandogli le spalle e
Michel notò così che indossava solo i boxer.
Sogghignò, buttando fuori il fumo
e godendosi lo spettacolo. “Pensandoci, potrei anche darmi
malato.”
“Mi piace il tuo modo di pensare.”
Replicò l’altro prendendo una delle tazze e
sorseggiandola. “Perché lavorare quando si hanno
scuse da accampare?”
“Per costruirsi un
futuro e
una carriera eccellente?”
Venne ricompensato con una smorfia da bambino. “Come sei
borghese.”
“Purosangue,
prego.” Ridacchiò,
perché quei tempi rilassati cominciavano a piacergli. Un
po’ troppo. “Mi passi
il caffè?”
Emil era diventato una
presenza fissa in casa sua dalla sera dell’Opera; non solo
aveva passato la
notte con lui, ma anche la mattina dopo. E a quella erano seguite altre
mattine, e colazioni preparate a puntino. Emil si era giustificato
dicendo che
visto che Prince aveva una scorta e uno stuolo di camerieri pronti ad
esaudire
ogni suo desiderio aveva più tempo libero. Dubitava fosse
solo quello. E ne era
felice.
“Non hai una
bacchetta
maghetto? Prenditelo da solo.” Replicò servendogli
un sorrisetto beato e
prendendo il suo piatto per bilanciarselo sulle ginocchia. “E
dovresti davvero
comprarti uno di quei vassoi da usare a letto. Sono comodi!”
Michel scrollò le
spalle.
“Fare colazione a letto non è mai stata mia
abitudine.” Esitò poi aggiunse. “Da
quando ci sei tu però non mi dispiace.”
Era scoprirsi non sapendo come avrebbe reagito che stava funzionando;
era una
strategia che prendeva Emil di sorpresa e gli faceva abbassare le
difese di
rimando. Infatti lo guardò con un mezzo sorriso, prima di
fare spallucce.
“Vorrà dire che te ne comprerò
uno.”
“Due.”
“Due…” Sbuffò dando una
forchettata alla sua pancetta. “Come ti pare.” E
gli
lanciò un’occhiata di sottecchi a cui rispose con
un sorriso.
Aveva cominciato ad
interiorizzare Emil; non solo quello che mostrava volontariamente, ma
anche le
piccole cose che non si rendeva conto di fare, come passarsi le dita
dietro una
ciocca sfuggente di capelli poco sopra l’orecchio quando si
infervorava in un
discorso, oppure il fatto che fumasse sigarette tutte schiacciate e a
rischio
rottura perché si dimenticava i pacchetti nelle tasche
posteriori dei
pantaloni. E adesso sapeva come gli piacevano le uova: strapazzate e
piene di
pepe.
Era un buon segno, supponeva.
“Stasera vieni
alla festa di
addio al celibato di Scorpius?” Chiese finendo le proprie
uova. Non aveva invece
mai pensato che lo sciroppo d’acero fosse una delle sette
meraviglie del Mondo
Babbano. “Tu e Prince siete stati invitati, no?”
“Sì, il capo mi ha chiesto di fargli da
spalla.” Annuì prendendogli il piatto vuoto
e posandolo sul vassoio; non cercava mai di sostituirsi a lui in quei
gesti,
specie con la bacchetta. Aveva notato che lo infastidiva.
“Tu?”
“Penso che se
declinassi
Scorpius sarebbe capace di venirmi a prendere di peso.”
Rispose con un sospiro,
ricordando la gioia genuina con cui il vecchio amico gli aveva
consegnato
personalmente l’invito. ‘E
porta chi
vuoi!’ aveva aggiunto con fare malizioso,
facendogli temere che sapesse
qualcosa di lui ed Emil.
Loki
potrebbe aver parlato. Anche se dubito si siano
visti di recente … È troppo occupato a cercare di
non rischiare Azkaban per
l’ennesima volta.
La verità era che
andare senza
compagno era inevitabile, visto che avrebbe sollevato un polverone di
spiegazioni e perplessità, ma non gli piaceva.
Certo,
ti presenti con Emil e poi? Lo sanno tutti che è
un Magonò.
Il problema si era
presentato
più presto del previsto.
Vuoi
nasconderlo? Beh, sicuramente gli farà piacere.
“Allora ci vediamo
lì.” Lo
riscosse Emil finendo di mettere a posto quello che restava della loro
colazione; non sembrava minimamente offeso all’idea che non
gli avesse proposto
di andarci assieme. Meglio, non sembrava neppure gli fosse passato per
la
testa.
…
se ci pensi è ovvio il perché. Quanti maghi
avranno
ammesso di frequentarlo? Ci sarà abituato.
“Hai mai avuto un
ragazzo
mago?” L’espressione perplessa che gli venne
restituita gli fece capire quando
fosse stato estemporaneo. “È un po’ che
me lo chiedo.” Si riparò alla bene e
meglio.
“Intendi
scopata?”
“No, intendo un
rapporto
serio.” Come il nostro,
gli venne da
pensare, prima di realizzare che forse quella classificazione non era
corretta.
Cosa
siamo noi, alla fine? Ancora non l’abbiamo deciso.
Emil aveva assunto di nuovo
quell’aria guardinga che veniva fuori solo quando pensava che
gli stessero
propinando una fregatura. “No, in quel senso no.”
Rispose allungandosi per
fregargli la sigaretta. Glielo lasciò fare, anche
perché si sedette abbastanza
vicino, e il calore di un corpo altrui al mattino era la cosa migliore
dopo un
caffè ben tostato. Ed Emil era una stufa. “Ho
vissuto un sacco di storie
assurde, ma non avevo mai tempo per fermarmi e … non lo so, stare.”
“Perché?”
Le sue domande lo irritavano
quanto intrigavano, si capiva; dovevano essere passati anni da quando
qualcuno
si era interessato a lui come persona.
“Tu hai mai avuto
una storia
seria, maghetto?” Ritorse.
“Ho avuto delle
storie, ma non
ho avuto mai un vero…”
“Amore?” Lo incalzò con un sorrisetto.
“Ti facevo romantico, Michel. Non ti sei
mai innamorato?”
“Sì.”
Ammise piano, perché
quel gioco funzionava così. Una confessione per
un’altra. “Di un amico.”
“Era
etero?” Fece una smorfia
esplicativa. “Un classico.”
“No, semplicemente non mi ha mai corrisposto.”
Rettificò con un mezzo sorriso;
Albus avrebbe avuto sempre posto nel suo cuore, ma non nel ruolo che
aveva
immaginato negli anni di Hogwarts. Andava bene anche così.
“Comunque ti ho
fatto una domanda.”
Emil schioccò la lingua, schiacciando la sigaretta nel
posacenere sul comodino;
così facendo si sporse a sufficienza perché gli
potesse passare un braccio
attorno alla vita per tirarselo contro. Non protestò, ma
quando tentò di
baciarlo spostò il viso. “Sei un
impiccione.” Borbottò e se voleva apparire astioso
suonò più che altro imbronciato.
Michel gli baciò il collo, più accessibile.
“Mi piace essere informato.
Chiamala pure deformazione professionale.”
“Dai, ci arrivi da solo …”
Grugnì accettando la scia di baci come un gatto
avrebbe fatto con un grattino sulla pancia. Socchiuse addirittura gli
occhi. “Per
un mago non sono abbastanza magico, per un Babbano ho troppi segreti
strani. E
prima che tu me lo chieda, no, non ce l’ho avuto manco
Magonò. Siamo già una
minoranza di una minoranza … gay dichiarato e
Magonò? Una vera rarità.”
Adesso era ovvio perché Emil non avesse mai avuto un ragazzo.
Michel si rendeva conto che
per quanto l’altro fosse brillante, intelligente e stupendo,
era materiale
complesso per una storia d’amore. Ma sopratutto, era chiuso
come le sbarre di
una prigione.
Non
lascia avvicinare nessuno perché pensa che nessuno
voglia avvicinarglisi.
Forse era troppo drammatico,
ma rimaneva comunque una riflessione che stringeva il cuore.
Cercò di non
stringerlo in un abbraccio consolatorio – si sarebbe beccato
un pugno o una
battutaccia – e preferì invece prendergli il viso
tra le mani e baciarlo. Baciarlo
era il pregio migliore di svegliarsi con lui. “Il mio
interesse lo hai
suscitato.” Mormorò intendendo anche ad altri tipi
di interesse, e dalla vita
in giù. Sapeva che l’altro avrebbe colto. Era un
maestro nei doppi sensi per
quando l’inglese non fosse la sua lingua madre. “Tu
che dici?”
Emil sogghignò,
rilassandosi. La
metteva più a suo agio una frecciatina che la
serietà in una conversazione.
“Perché sei strano.”
“Lo prendo come un
complimento.”
****
Farringdon,
Magazzino
Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale San Mungo
per ferite e malattie
magiche. Mattina.
Trovare una cura era come
cercare un boccino … in un negozio di boccini.
Tanto per dire. Al si rendeva conto di non avere la formazione
necessaria di un
Guaritore di Infettive, ma era un
Guaritore. E la ricerca della cura usando il sangue di Sören
non stava portando
a niente; i rospi da laboratorio che erano stati usati come cavie erano
tutti
morti.
In
modo orribile tra l’altro.
Il siero ricavato dagli
anticorpi di Sören, come aveva paventato Seamus, invece di
isolare l’antigene
del virus e combatterlo aveva scatenato la reazione opposta, creando
una sorta
di cortocircuito magico che aveva letteralmente fatto esplodere i rospi.
Letteralmente.
Sono
esplosi.
Sospirò,
chinandosi a
compilare la cartella del primo paziente della giornata; non aveva mai
trovato
tanto frustante fare il proprio lavoro come in quel periodo.
Sto
facendo il mio lavoro … eppure no. E il
sergente
Flannery sta peggiorando.
Avevano infatti dovuto
cambiare di nuovo il cocktail di pozioni che usavano per mantenerlo in
stasi
magica; se fosse uscito da esso la malattia sarebbe progredita fino
allo stadio
finale.
Riducendolo
in polvere.
Non voleva neanche pensarci,
ma purtroppo la realtà dei fatti era dura, e solo una; il
progetto Demiurgo
aveva creato una malattia capace di adattarsi ai pochi palliativi che
cercavano
di contenerla.
È
portata da un virus magico … ovvio che si adatti, la
magia è liquida, è sempre in continuo movimento.
“Ehi!”
Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille, perché era stata
la colonna sonora
– a volte molto sgradevole – della sua infanzia.
Suo fratello James gli stava
di fronte, in uniforme e a giudicare dall’aria bellicosa non
era lì per
chiedergli di far colazione assieme.
“Ehi a
te.” Replicò asciugando
la piuma con cui aveva firmato la cartella e mettendosela nel taschino
del
camice. “Hai bisogno di qualcosa?”
“Sì, di
parlarti.” Replicò
brusco, afferrandolo per un braccio senza mezzi termini.
“Seguimi.”
“Non sai orientarti in questo ospedale, forse è
meglio se sei tu a seguire me.”
Rimbeccò liberandosi dalla stretta e mostrando una calma che
era ben lungi da
provare. James aveva molti difetti, ma quello di non avere senso
dell’opportunità sul luogo di lavoro mancava
all’appello; se lo veniva a
disturbare durante un turno era perché la faccenda era grave.
Ed
è arrabbiato con me.
Lo portò in una
saletta per le
visite, vuota in quel momento, chiudendosi la porta dietro.
“Che succede?”
“E me lo chiedi
anche?!”
Sbottò torreggiandogli sopra come poteva fare da quando lo
sviluppo li aveva
distanziati di quasi dieci centimetri. “Prince!”
Ah.
Ops.
James doveva aver scoperto
del
suo accordo con Sören e, da come gonfiava i muscoli e buttava
in fuori il petto,
e la cosa non doveva essergli piaciuta. “Prince? Gli
è successo qualcosa?”
“Non fare il
furbo, Albie.”
Ritorse puntandogli un indice contro e punzecchiandolo sul petto; James
sapeva
essere un perfetto bullo quando voleva. “Tu ci hai parlato. Me l’hanno detto i
ragazzi della sua scorta. L’hai
invitato a pranzo a casa tua un paio di giorni fa.”
Al assunse la sua migliore espressione confusa. Non sarebbe servita con
la
persona che forse lo conosceva meglio al mondo dopo Tom, ma poteva
sempre
prendere tempo. Il tempo era sempre utile in certe situazioni.
“E da quando è reato
invitare qualcuno a pranzo?”
“Non quello,
serpe, il fatto
che tu ci abbia parlato!” Ribadì. “So
cosa combini quando parli!”
“E cosa?” Era sinceramente curioso, tuttavia si
premurò di scivolare via
dall’angolo in cui l’aveva stretto. Era meglio
avere una via di fuga in caso le
cose si fossero messe male. “Lily l’ha fatta lunga
come un’arringa del Wizengamot
sul fatto che fosse sconvolto dall’estromissione dal caso.
Ero preoccupato per
lui, e lo era anche Tom. Gli abbiamo chiesto come stava.”
“Cazzate.” Al intuì che menzionare Tom
non aveva perorato la sua causa. In effetti
non lo faceva mai. “Lo avete convinto ad indagare
sottobanco!”
Ah, però. Il mio fratellino
investigatore.
Incrociò le
braccia al petto,
perché in una gara di muscoli avrebbe perso miseramente, ma
non di ingegno. Mai di ingegno.
“E le prove di quanto
dici?”
James lo guardò
come se volesse
lanciargli una fattura, ma dovette fermarlo il camice, o forse il fatto
che non
erano più due bambini della stessa altezza e
capacità magiche. Un auror non
poteva attaccar briga con un civile per il puro gusto di farlo, primo
per le
regole…
…
secondo perché mi rivolterebbe come un calzino. Ed
è
in servizio, non può farlo. Ah!
“Le
prove…” Iniziò schioccando
la lingua e contraendo i pugni. “Le prove è il
fatto che quel cretino di Malfoy
ha trafugato le cartelle del caso per portargliele!”
“E pensi che
gliel’abbia
suggerito io?”
Ero
certo che avrebbe funzionato, Scorpius ha un debole
per Sören.
“Prince non
è in grado di
pensare a roba così Serpeverde!”
“È bello vedere che dividi ancora il mondo in
dicotomie.”
“Sei stato tu.”
Non c’era molto
che potesse
fare a quel punto per convincerlo del contrario; James era un mastino
quando si
convinceva della colpevolezza di qualcuno.
In
questo è identico a papà. E non che abbia torto,
tra
l’altro.
“E se
fosse?” Si strinse nelle
spalle. “Non l’ho convinto, gli ho suggerito
una strategia. Vuole riprendersi il caso, ed è una decisione
che ha preso da
solo.” Fece una pausa guardando il volto acceso di rabbia
dell’altro, preso di
colpo da un dubbio. “Non dirmi che hai intenzione di
denunciare Malfoy e
Prince.”
“Certo che
no!” Sbottò
guardandolo male anche solo per averlo pensato. “Non sono una
schifosa spia!”
Al non poté fare a meno di sorridere, nonostante avesse
l’impressione di non
essere ancora fuori pericolo. “Certo che no.” Fece
una pausa. “Per questo ero sicuro
che non avrebbero rischiato niente.”
James fece una smorfia. “Che ti è saltato in
mente? Perché ti vuoi impicciare?
Prima qui in ospedale, poi…”
“Non mi sto impicciando, sto aiutando.”
“È questo che pensi?” Fece un suono
sarcastico che fece vacillare appena la sua
convinzione. Solo appena. “Pensi davvero di star aiutando
Sören? Perché cazzo
credi che l’ufficio gli abbia assegnato una scorta?
Perché smaniamo per fargli
da babysitter?” Non gli diede il tempo di rispondere.
“Perché è in
pericolo.”
“Sì, mi rendo conto…”
“No invece!” Sbottò tirandogli una
spinta, come quando erano bambini e il loro
unico modo di litigare era prendersi a pugni. “Non te ne
frega niente della
sicurezza di Prince, ti importa solo di aver tutto sotto
controllo!”
“Questo non
è vero!” Ribatté
con la sensazione che suo fratello avesse capito più di
quanto volesse
ammettere a se stesso.
“Ah no?”
Dimenticava troppo spesso
quanto fosse in grado di investigare e trarre conclusioni. Su un caso
… o su
qualcuno.
Dopotutto
ha capito che Teddy era gay prima di Teddy
stesso.
“Ti conosco come
l’impugnatura
della mia bacchetta.” Scrollò la testa,
guardandolo in un misto di rabbia,
esasperazione e qualcosa che pareva proprio preoccupazione.
“Vai in paranoia se
succede qualcosa di cui non hai il controllo.” Lo
guardò confuso. “Perché non
riesci a farti i fatti tuoi, eh?”
Al inspirò,
appoggiandosi allo
stipite della porta. “Perché ho paura.”
Mormorò piano. Tanto era stato
smascherato bellamente: sia lui che Tom erano gli unici a riuscire a
vedergli
dentro e buttarglielo addosso. Lily era sempre stata così
carina da evitare. “Ho
paura del contagio, ho
paura che vengano di nuovo a cercare Tom … ho
paura.” Si passò una mano trai
capelli. “Non riusciamo a trovare una cura, il sangue di
Sören non funziona. Ed
è al momento l’unica pista che abbiamo. Una pista
che non porta a niente.”
L’altro aggrottò le sopracciglia, quasi non
trovasse senso alle sue parole. “Sì,
ma questo cosa c’entra con te? È un intero
ospedale che ci lavora!”
“Lo so, ma non mi
sembra di
fare abbastanza.” Si sfogò. “Il virus
sta mutando e stiamo facendo i salti
mortali per tenere i pazienti in stasi, per non far progredire la
malattia …
per non farli morire.” Sentì la bocca secca.
“Potrebbero morirci davanti agli
occhi … Liam e gli altri. Mi sembra di non stare facendo niente. Lasciami … lasciami
almeno fare questo.”
“Impicciarti?”
“Jamie…”
James si strofinò
una mano sul
viso. “La cosa divertente…”
Mormorò con l’aria di non trovarla divertente
affatto. “… è che in questo momento
altrettanti topi da laboratorio stanno
lavorando per rendere innocuo il siero. Forse dovremo chiedere a
loro.”
Ironizzò. “Peccato che non riusciamo a
trovarli.” Poi tornò serio. “State
facendo tutto il possibile, Albie. Se qualcuno …”
Esitò, ed era evidente stesse
pensando al sergente. “Se qualcuno non dovessero farcela
… almeno siete
riusciti ad isolare il contagio. Avete salvato un intero Ministero
evitando una
fottuta pandemia.”
Stava cercando di
consolarlo,
ma non stava funzionando granché. “Delle persone
moriranno comunque. E non è
detto che non ne escano fuori altre … Hanno delle cavie,
vero? Sono riusciti a
rapirli. Se facessero dei passi avanti, o se credessero di fare dei
passi
avanti, potrebbero tentare di nuovo di provare il siero su quelle
persone … o
su altre. Chiunque.”
“Okay.”
Lo fermò. “Basta. È
roba a cui abbiamo già pensato. Non dovresti essere tu a
fartici il sangue
amaro!”
“Lo so.” Mormorò.
“È solo che … io non sconfiggo i
cattivi, Jamie. Non sono
bravo in questo.” E la cosa non l’aveva mai turbato
più di tanto. Non fino a
quel momento. “Però posso usare il cervello. In
questo sono bravo.”
“Anche
troppo.” Grugnì. “E
quindi aiutare Prince a rimanere è usare
il cervello?” Non sembrava molto convinto, ma non
aveva più voglia di
picchiarlo. Era un progresso.
“Te ne rendi conto
anche tu o
avresti fermato Scorpius.”
James sbuffò,
infilandosi le
mani in tasca, come quando non voleva dargli ragione per partito preso.
“Niente
più ficcanasare nel Demiurgo, okay?”
Squadernò un dito e glielo picchiettò sulla
fronte. “Occupati dei pazienti. Lasciaci fare il nostro
lavoro. Siamo bravi.”
“So che lo
siete.” Sorrise
appena. “Scusami Jamie, non volevo causare fastidi a
nessuno.”
“Quanto sei stronzo.” Sogghignò con aria
vinta. “Non te ne frega niente dei
nostri fastidi … Se vuoi dare un consiglio al pipistrello,
fa’ pure. Ma
smettila di suggerirgli di infrangere le regole!”
“Pensavo avresti
apprezzato,
da bravo Grifondoro.”
“Sta’ zitto serpe.” Lo guardò
da sotto in su, poi gli rifilò una pacca sulla
spalla piuttosto dolorosa. Strinse i denti perché non
gliel’avrebbe data vinta
facendosi dare della femminuccia. “Ce la caveremo, Albie.
Risolveremo questo
casino e ne arriverà un altro… Come al solito. Ma
è quello per cui siamo
tagliati, e lo sai perché?”
Sorrise appena di rimando.
Conosceva la risposta, gli scorreva nelle vene.
“Perché
siamo Potter.”
****
Somerset,
Contea di Bath.
Lucknam Park
Hotel & Spa.
Mattina.
Alla fine avevano deciso per
un resort a poche miglia da Bath e
solo due ore di macchina da Londra; persino Violet si era fatta
convincere dai
duecento acri di parco, dalla piscina coperta a temperatura ambiente e
dalle
varie amenità tipiche di una Spa di lusso.
Lily si lasciò cadere sul letto della suite che avrebbe
diviso con Roxanne,
lasciando che la cugina scrutasse con occhio clinico l’intera
stanza,
puntigliosa com’era e formasse un giudizio.
“Mi
piace.” Approvò infine
distendendo i lineamenti e palesando quanto avesse bisogno di quello
stacco,
forse più di tutte loro messe assieme.
Beh,
un neonato è impegnativo…
“Certo che ti
piace, questo
posto costa un occhio della testa a sentire le lamentele di quella
spilorcia di
Rosie…” Sbadigliò, calciando via i
tacchi e spedendoli sulla moquette color
crema. “… e dire che siamo le sue damigelle,
dovrebbe esserci grata in eterno!”
“Per non aver invitato spogliarellisti?”
“Esatto!”
Roxanne ridacchiò, tirando fuori la bacchetta –
precedentemente occultata in
presenza dei Babbani della reception – per sfare le valige.
“La minaccia è
servita però.”
“Prospettargli un addio al nubilato fuori di testa per
ottenerne uno da favola.
Sono una ragazza intelligente, mi conosci.” Si
stiracchiò, guardando
affascinata l’enorme giardino all’inglese che si
emergeva oltre le finestre:
aveva sempre amato la campagna inglese, essendoci nata e vissuta, ma i
parchi
ben ordinati di proprietà così lussuose avevano
un posto speciale nel suo
cuore: la facevano sentire coccolata. “Comunque stasera club
a Bath. Tassativo.
Ne ho trovati un paio che non dovrebbero farle avere un tracollo
nervoso. E poi
forse ci raggiunge Domi … Non possiamo mica farla stare a
mollo nei fanghi di
bellezza! Vorrebbe ingaggiare una gara di palle di fango o qualcosa di
simile.”
“No,
direi di no. E Rosie avrà comunque
un tracollo. Lo sai che sta ad
un club e ad un dancefloor come tu stai al ricamo.”
Replicò Roxanne sedendosi
sul ciglio del letto: delle sue cugine era forse la più
bella, rifletté, persino
più di Victoire, e proprio perché non lo
ostentava. Capiva perché Dionis se ne
fosse innamorato all’istante.
Non
c’è bellezza più bella di quella
inconsapevole, è
proprio vero.
…
beh, poi c’è quella come la mia, che impegna due
ore
ogni mattina per rilucere al meglio. Ma ehi.
“Beh, se ne
farà una ragione.
E poi alla fine si diverte sempre.” Rotolò per
abbracciarle la vita, in un
impeto di affetto per quella sua cugina austera e saggia.
“Dion è un mago
proprio fortunato. La maternità ti ha reso figa!”
Aggiunse estemporanea.
Roxanne le diede un buffetto divertito, come faceva sempre da che erano
bambine. Adesso c’era però una connotazione molto
più … da mamma, ed era bello
quanto naturale. “La pensate allo stesso modo, ma a me sembra
di essere un’orca
spiaggiata.”
“Sciocchezze! Sei
longilinea
come una silfide!”
“Non so neanche
cosa sia.” Sbuffò.
“Non è che mi hai dato della balena?”
“Assolutamente no!
È uno
spirito dei boschi tedesco … Sono stupende, agili e
aggraziate e sono delle
divinità dell’aria, quindi ci prende con il tuo
bel mestiere da folli.”
La cugina le
rifilò una
cuscinata sulla testa; mai offendere la sacra disciplina del Quidditch
in sua
presenza. Deflesse il colpo appoggiando poi il mento ad una mano per
guardarla
da sotto in su. “Sono anche pallide ed esangui
però, da come me le ha descritte
Ren, quindi forse non ci siamo.”
Roxanne alzò gli
occhi al
cielo, come sempre faceva quando la riteneva portatrice sana di
cavolate.
“Visto che ti ho sfatto la valigia, Rossa, che ne dici di
smetterla di oziare e
raggiungere le altre?”
“Guarda che il
punto di tutta
la faccenda è proprio questo.”
Puntualizzò. “Però okay,
piscina!” Si diresse
così in bagno, dove trovò un paio di soffici
accappatoi bianchi. Già solo
indossarne uno le spazzò via una buona dose di brutti
pensieri dalla testa.
Questo
addio al nubilato non poteva essere più
azzeccato.
Mentre aspettava che la
cugina
si cambiasse controllò il cellulare: aveva detto a tutti che
l’avrebbe spento
così da non avere seccature, né sul lavoro
… né da altro.
Tanto
è solo una giornata, Scotty se la saprà cavare
anche senza di me. E anche Ren.
Notò un messaggio
e lo aprì.
Era di Sören, e le augurava un felice soggiorno.
Lanciò un’occhiata alla porta
del bagno ancora chiusa, e digitò velocemente. ‘Puoi contarci, ho intenzione di
soffocare nell’inedia!’
La risposta non
tardò ad
arrivare. ‘Scommetto ti
verrà naturale’
Ridacchiò,
perché la
stuzzicava da morire quel lato ironico dell’amico, in
apparenza sempre attento
ad osservare cortesie con chiunque. ‘Stai
dicendo che sono pigra?’
‘Non
sto dicendo che morderai il freno.’
‘Simpatico!
Stasera grande festa alla corte di re
Scorpius … Pronto?’
‘Assolutamente
no. Qualche consiglio su come affrontare
il bagno di socialità?’
‘Sembro
tanto sconveniente se ti consiglio la filosofia
del drink sempre in mano?’
‘È
la stessa conclusione a cui sono giunto io.’
‘Non
bere troppo però … Non farmi
preoccupare!’
‘Mai
Lilian.’
Ci fu una pausa in cui Lily guardò preoccupatissima verso il
bagno e si diede
dell’idiota perché Roxanne non poteva leggere
attraverso le porte e gli schermi
dei cellulari. E comunque non stava facendo niente di male …
anche se aveva
detto che avrebbe spento il cellulare.
‘Ti
devo credere?’
‘Sarò
ineccepibile. E poi, temo che dovrò occuparmi di
portare a casa Milo sulle sue gambe.’
Mascherò
prontamente una
risatina quando la cugina uscì dotata di accappatoio e
capelli raccolti. Lo
sguardo le andò subito al cellulare. “Con chi ti
stai sentendo?” Non fece in
tempo ad inventarsi una scusa che l’altra sbuffò.
“No, non serve che mi rifili
una palla. Come sta Sören?”
“Bene!”
Replicò sullo stesso
tono. Quando lesse il messaggio successivo però dovette
nascondere una smorfia.
‘Stasera
esco con il sergente Gillespie. Consigli?’
Manco
morta!
“Stiamo
parlando del suo appuntamento
con una collega.” Replicò, avendo la magra
soddisfazione di vedere l’altra
perdere interesse. ‘Prima di tutto
chiamala
Ama. E secondo, sii te stesso … o è troppo
scontato?’
‘Abbastanza.’
‘Ma
è così che funziona! Se non le piace chi sei,
allora non vale la pena. Se le piace, giochi in casa!’
‘Lily,
sei una delle poche persone a cui piaccio quando
sono me stesso.’
Quello era un colpo basso,
sleale … e tremendamente tenero. Seguì la cugina
fuori dalla stanza, sperando
di non inciampare dato che aveva il cellulare davanti al naso.
‘Ma
io sono di gusti difficili. Quindi vai tranquillo,
le piaci adesso e le piacerai dopo. E niente gel sui capelli!’
‘Sarà
fatto. Grazie.’
‘Figurati.
Dacci dentro, tigre!’
Certo
che le piacerai, scemo. Perché se non ti amerà
come ti amo io giuro che verrò a Boston a cavarle il cuore.
Personalmente.
Stavolta lo spense sul
serio,
infilandolo nella borsetta di tela con il logo dell’albergo.
Sua cugina non
aprì bocca finché non furono in ascensore, forse
per distrarsi dalla lieve
claustrofobia che si portava dietro sin dall’infanzia.
“Quindi è tutto risolto?
Se lui esce con un’altra ragazza e tu te ne vai in Australia
con Scott…”
Lily si guardo allo
specchio,
che le riflesse l’immagine di una ragazza con troppe occhiaie
e persino qualche
irritante lentiggine. Chissà perché, le venivano
fuori in corrispondenza di
periodi di forte stress. Era la magia? “Sì, tutto
a posto.” Mentì con
disinvoltura. “Crisi rientrata.”
Roxanne era più
occupata ad
aggiustarsi le forcine che non riuscivano a contenere la sua
capigliatura
leonina per guardarla, ed annuì. “Bene
allora.”
“Benissimo!”
Questa sera mi sbronzo.
****
Londra,
Hyde Park.
Pomeriggio.
L’appuntamento non
stava
andando male come aveva preventivato.
Sören era arrivato
davanti
alla statua di un certo Peter Pan, il posto
dell’appuntamento, con largo
anticipo. Era il metodo migliore che conosceva per evitare lo stress,
quello di
arrivare prima e studiare il luogo di incontro da ogni angolazione
possibile.
Anche
se di solito usi questa tecnica con gli
informatori.
Si era comunque informato
con
i passanti che il luogo fosse quello e poi si era seduto su una
panchina ad
osservare un quadrato d’erba in maniera ossessiva
finché non aveva visto
arrivare Ama. Non era la prima volta che gli capitava di vederla senza
uniforme, ma quel pomeriggio era particolarmente bella, con i capelli
freschi
di acconciatura e i vestiti colorati, ben diversi
dall’uniforme monocroma con
cui la vedeva ogni giorno.
Dopo doverosi convenevoli
avevano
passeggiato lungo i vialetti del parco, ed era stata una fortuna che
Lily ce
l’avesse portato qualche settimana prima riempendolo di
aneddoti sul posto: li
aveva ripetuti diligentemente facendo ridere la sua compagna. Da quel
punto in
poi la conversazione si era fatta scorrevole e Sören si era
sentito fiero di
sé.
È
il tuo primo appuntamento e non sta andando male.
Inaspettato.
Adesso erano dalle parti del
Marble Arch e Ama gli stava spiegando come le ricordasse un monumento
che aveva
visto a New York. Sören avvistò un chiosco di
gelati e vista la bella giornata
lo indicò. “Facciamo una pausa? Abbiamo camminato
molto.”
Ama sorrise, con un’inspiegabile sollievo, che gli diede
ansia finché non si
indicò i piedi. “Questi tacchi mi stanno
uccidendo. È un ottima idea.”
“Perché
li hai messi se ti
fanno male?” Chiese e intuì l’idiozia
della sua domanda dall’occhiata
dell’altra. “È strano.” Si
giustificò. “Io non indosserei mai scarpe
scomode.”
“Perché sei un ragazzo.”
Sospirò divertita, scrutando la lista di gelati.
“Voi
ragazzi non avete il dovere sociale di indossare queste trappole per
piedi.” Alla
sua espressione confusa scrollò le spalle. “Le
donne sono considerate più belle
ed eleganti con i tacchi. E non dirmi che non lo pensi anche tu,
Prince.
Saresti un bugiardo.”
“Non faccio caso a queste cose.” Replicò
sentendosi punto sul vivo. “Non guardo
i piedi di una donna, che interesse potrei avere?”
“Si vede che non
sei mai
uscito con una ragazza.”
Sören aprì la bocca per protestare, salvo rendersi
conto che l’altra aveva
ragione.
Avrebbe
anche potuto evitare di farmelo notare.
Non disse niente
però, perché
era chiaro, dal tono leggero con cui l’aveva detto, che non
intendesse
offenderlo. Pagò i gelati senza una parola e poi si
spostarono verso una vicina
panchina. Ama dovette percepire il suo malumore.
“Scusa.” E sembrava
imbarazzata. “Ti sei offeso?”
“No.”
“Invece sì!” Replicò
arrabbiata. Poi si morse un labbro. “È che
… non sono
brava nei primi appuntamenti. Gioco sempre in difesa, se capisci cosa
intendo.”
Stava cercando di far pace, quindi le sorrise. “Mai quanto
me.” Diede un morso
al suo cono e fece finta di non sentire il dolore del freddo. Era un
imbranato.
“E poi … non hai torto. Questo è il mio
primo appuntamento.”
“Da quando?”
“Da sempre.
È la prima volta
che esco con una ragazza.”
Se
si esclude Lily. Ma Lily non conta.
Ama
lo guardò sbalordita. “Stai
scherzando, vero? Io prima dicevo per dire!”
Ah,
per dire. Quindi non pensava … Fantastico. Adesso
lo sa.
Verginello.
La definizione se la sentiva
marchiata a fuoco sulla fronte.
“Sì,
insomma, è vero che voi
ragazzi non fate caso a queste cose, che a volte è tutto
nella testa di noi
donne, ma …” Rimase in silenzio, mangiando un
po’ del suo gelato. “… come
mai?”
Ignorò la cocente
scritta
sulla sua fronte. “Come mai cosa?”
“Come mai non sei
mai uscito
con una ragazza.” Sembrava incredula e Sören non
seppe se sentirsi lusingato o
in imbarazzo. Nel dubbio, optò per entrambe. “Sei
un bel ragazzo, sei gentile e
… beh, le ragazze del Dipartimento ti mangiano con gli
occhi!”
Sören
optò per la bruta
verità. Anche perché non sapeva cosa rispondere
se non quella. “Nessuna me l’ha
mai chiesto.”
“Incredibile. E tu?”
Adesso era più
lusingato che
in imbarazzo: davvero pensava fosse così assurdo che nessuna
gli avesse chiesto
un appuntamento? Era una cosa buona, supponeva.
“Per quanto mi riguarda … fino a
cinque anni fa credevo che non ci
sarebbe stato posto per una donna nella mia vita. Ho semplicemente
continuato a
crederlo.”
“Sei un
idiota.” Disse senza
giri di parole ma non era una vera offesa. Era un po’ come
quando Lilian gli
dava della testa di legno o Milo gli diceva che era uno spocchioso
bastardo.
Sembravano quasi complimenti contorti. “Sören,
potresti avere tutte le ragazze
che vuoi!” Fece una smorfia. “Certo, non tiro acqua
al mio mulino dicendolo,
però è vero … Sei un bel ragazzo
… no.” Si corresse. “Sei una bella
persona.”
Le sorrise di rimando.
“Ci sto
arrivando adesso.”
Ama parve capire,
perché
annuì. “Sì … immagino. Spero
solo che questa tua improvvisa realizzazione non
mi faccia avere delle rivali.” Fece un sorrisetto imbarazzato
ed era davvero
bella. Se n’era accorto dalla prima volta che erano stati
presentati,
ovviamente, ma adesso aveva un’aria più genuina
… e più raggiungibile.
“No.”
Replicò, e il gelato gli
si stava sciogliendo in mano a giudicare dalla roba che si sentiva
colare sulla
mano. “Non sono il genere di persona che divide la sua
attenzione su più
soggetti.” Era un po’ freddino. Doveva aggiungere
qualcosa. Non ci rifletté
molto. Lily diceva sempre che in certe cose non bisognava proprio
pensare. “A
me interessi tu.”
Ed era vero: Ama era la
prima,
dopo Lily, che si fosse mai presa la briga di interessarsi a lui come
persona
che aveva dei sentimenti. Era bello sentirsi desiderato, specie da una
ragazza
intelligente e bella.
Anche stavolta fu Ama a
baciarlo per prima, ma a differenza del post-serata a Boston, le
passò un
braccio attorno alla vita e rispose. Era bello baciare qualcuno; le
poche
avventure che aveva avuto grazie all’alcool e alla mediazione
di Milo avevano
avuto dei baci, ma erano stati più che altro
un’espressione di un bisogno
sessuale, dati in prossimità di un letto, maldestri ed
eccitati. Quello era
completamente diverso.
Quando si staccarono le
sorrise. Gli pareva la cosa migliore da fare dato che non sapeva cosa
dire. Non
si era aspettato quella svolta così repentina. Ama invece
sembrava
perfettamente a suo agio, perché lanciò uno
sguardo alla mano e sbuffò. “Da non
credersi … persino a Londra i gelati si sciolgono. Con
questa falsa estate…”
Sören fece un leggero incantesimo di gratta-e-netta su
entrambe le loro mani –
la sua non vessava in condizioni migliori, scomodamente appiccicosa.
Ama batté
le palpebre sorpresa. “Avere una bacchetta che non si vede
è comodo!” Commentò.
“Già. Ama, io …”
Esitò, perché forse dovevano parlare del bacio o
forse no. Se
solo ci fosse stata Lily …
…
a far cosa, assistere alla scena e consigliarti? Ma
che problema hai?
Era una fortuna che Ama,
trai
suoi molti talenti, non avesse quello della Legimanzia,
perché era abbastanza
sicuro che non avrebbe gradito quella deriva di pensieri.
“Non mi aspetto
niente da un semplice bacio.” Rispose tranquilla, divertita
dal tono. Sperava
disperatamente di non essere arrossito. “Ci stiamo conoscendo
come persone e non come agenti,
okay? Per ora
basta questo.”
Era sensato, ma non poteva
limitarsi ad annuire come una marionetta. “Tu mi
piaci.” Le disse, e sperò di
suonare sincero. “È solo … che
… non sono facile.” Concluse con la sensazione
di non aver spiegato granché.
Dovette bastare,
perché Ama
gli passò una mano sulla guancia. Fu così
inaspettato che dovette evitare di
ritrarsi. Cinque anni e ancora faceva fatica a distinguere una carezza
da un
tentativo di aggressione. Era ancora materiale per Psicomaghi. Per
fortuna Ama
non parve accorgersene.
“Le persone facili
non sono il
mio genere.” Gli sorrise. “E mi piaci anche
tu.”
Si alzarono e Sören
le porse
il braccio. Gli parve sorpresa, ma lo accettò con un sorriso
timido che gli
diede una buona sensazione. “Sei proprio un cavaliere,
eh?” Scherzò.
Sören si strinse
nelle spalle,
ignorando la fitta di senso di colpa; era la prima volta che offriva il
braccio
a una ragazza che non fosse Lily. Certo, era un gesto da nulla,
eppure…
Non
è lei.
Era solo questione di
abituarsi.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Casa
di Ted Lupin e James Potter.
“Sei sicuro di non
voler
venire?”
Ted guardò il
profilo di James
allo specchio, mentre si sistemava una camicia che da sola,
fasciandogli i
fianchi alla perfezione, riusciva a distrarlo dal compito che si era
prefissato, ovvero non togliere gli occhi di dosso da Benedetta, che
giocava
sul tappeto della loro camera. “Sì.”
Confermò per l’ennesima volta. “Non me
la
sento di lasciarla.”
“Nev e Hannah non
avrebbero
problemi, e la nanetta potrebbe giocare con Frankie.” Gli
fece notare e una
parte di lui era quasi pronta a considerare l’offerta, prima
di guardare verso
il visetto concentrato della bambina e capire quali erano le sue
priorità.
“Lo so, ma
… preferisco così.
E poi stasera sono un po’ stanco, non sarei di compagnia per
una serata à la Scorpius.”
Replicò con un sorriso
quando lo vide lottare con un ciuffo di capelli particolarmente
ribelle. “Serve
una mano?”
“Se perdo altri
cinque secondi
sui miei capelli giuro che mi raso a zero.”
Borbottò.
“Preferisco i tuoi
riccioli.”
Replicò prendendo il pettine, utensile sconosciuto al
compagno. “Sta’ fermo.”
James sbuffò,
mettendogli le
mani sui fianchi e giocherellando con l’orlo slabbrato del
suo miglior maglione
da casa. “Non mi diverto se non ci sei
tu…”
“Ti diverti soprattutto
se non ci
sono io.” Corresse gentilmente, lanciando
un’occhiata a Benedetta, presa a
costruire una torre con le costruzioni. Non sembrava particolarmente
curiosa
riguardo alle loro manifestazioni d’affetto: quella mattina
li aveva quasi
sorpresi a baciarsi e l’unica reazione percepita era stata
chiedere una seconda
tazza di cioccolato.
Avrà
già visto altre coppie gay? Dovremo parlargliele o
è troppo piccola?
I
libri che aveva comprato sulla
materia – era sceso fino a Londra per prenderli
- suggerivano di affrontare il problema solo se fosse
stata la bambina a
sollevarlo e di comportarsi nel modo più naturale possibile,
senza nasconderle
niente.
Ma
se non ce lo chiede? Qualcuno prima o poi glielo
farà notare…
Al di là dei suoi
galoppanti
dubbi, in quei due giorni le cose erano comunque andate bene; Ben era
una
bambina vivace e un po’ viziata, non apprezzava che le
venissero date delle
regole o le venisse chiesto di tener in ordine la propria camera, ma
era anche
incuriosita dalla foresta come dalle montagne e dal paese e la sua
natura
allegra riusciva a bilanciare i momenti di buio, in cui ricordava il
padre.
Erano riusciti comunque a controllare la situazione con un paio di giri
da
Mielandia e James sempre pronto a distrarla con racconti o scherzi.
Non
dimenticherà mai quello che ha passato con suo
padre. Però possiamo fare in modo che non le faccia
così male.
“Come
sto?” Lo distrasse il
compagno dandogli un colpetto sulla spalla. “Teddy, torna
sulla terra e
considerami.”
“Eccomi.” Gli sorrise perché bruciava
dalla voglia di baciarlo. “Stai
benissimo.”
James parve leggergli
l’intenzione negli occhi perché si sporse verso di
lui con un sogghigno che
parlava di carognata. “Sicuro
che non
vuoi che resti?”
“…
sicuro.” Mormorò piano:
forse non era stata un’idea così brillante tenere
Ben a portata d’occhio. “Benedetta,
che ne pensi?” La chiamò ad aiuto, visto che non
poteva far altro. “James come
sta?”
La bambina alzò
lo sguardo e arricciò
il naso. “Sta in camera.”
Proclamò in
italiano, fraintendendo. “Dove vuoi
che
sta?”
James si
inginocchiò squadernando
il suo sorriso più affascinante. “Sì,
ci sto, ma ora vado ad una festa. Sono
bello?”
Ben gli lanciò
un’occhiata di
palese sufficienza. “Devi pettinarti
meglio i capelli.” Dichiarò facendolo
ridere, mentre James tentava di
nascondere una smorfia offesa. Quelle conversazioni in italo-inglese si
facevano sempre più miste, ed era una buona cosa: era certo
che nel giro di
poco tempo Benedetta sarebbe stata in grado di sostenere una
conversazione
senza che l’interlocutore dovesse lanciarsi addosso un
Incanto Traduttore.
Almeno
potrà giocare con gli altri bambini.
James si tirò in
piedi e gli
scoccò un sorriso tutto denti mentre gli occhi gli
brillavano di voglia di far
festa. Lo amava anche per non essere un pantofolaio come lui.
“Bene! Vado a
prelevare il festeggiato.”
Annuì.
“Fa’ attenzione e non
…” Si fermò. “Qualsiasi
raccomandazione non avrebbe senso, vero?”
“Esatto!”
Ghignò. “Ehi pulce, io
vado … fa’ la brava okay?”
Ted a posteriori non
capì se
fu l’italiano usato, o proprio quel che gli disse James a
farla scattare, fatto
sta che Benedetta lo guardò con due occhi enormi, congelata
come un cerbiatto
di fronte ai fari di una macchina. Poi gli si gettò addosso,
placcandogli la
vita e abbracciandolo talmente stretto che James, per quanto piazzato,
fece un passo
indietro per bilanciarsi.
“Non
andare!” Strillò con il tono che
precedeva una crisi acuta di
pianto. “Non andare via!”
“Ma che…” James lo guardò con
l’aria di non sapere che pesci prendere.
Erano in due.
“Ben…” Si chinò
per accarezzarle la schiena, cercando di non suonare spaventato, anche
se lo
era. “Cosa c’è?
Perché non vuoi che James
vada via?”
“Fino a due secondi fa era tutta
tranquilla…” Sussurrò
l’altro, dandogli delle
pacchette sulla testa con l’aria di voler scomparire.
Okay.
Che è successo? Cos’è che
l’ha spaventa?
Ben stava tremando e di
colpo
Ted ricordo la caverna .
Dev’essere
la stessa cosa che Lunastorta le ha detto
prima di andarsene.
Dalla faccia che aveva
James, seppe
che doveva intervenire prima che il suo ragazzo fosse annientato dai
sensi di
colpa.
“James
sta andando ad una festa.” Continuò ad
accarezzarle la
schiena: era una cosa che pareva calmarla. “Ehi, guardami un
po’.” Il visetto
pallido e in lacrime di Ben era in
effetti un buon motivo per chiedere all’altro di
restare, ma non era
giusto.
Sono
io lo zio. Non posso sobbarcare tutto a Jamie.
“Jamie
torna. Molto tardi, quando sarai già a letto a dormire, ma
torna.
Controllerò io, va bene? E se non lo vedo tornare,
andrò a prenderlo.”
L’idea parve piacerle perché le lacrime smisero in
favore di qualche singhiozzo
isolato.
“Resto?”
Mormorò James prevedibilmente.
“No.”
Gli sorrise, prendendo
in braccio Ben, che gli si accoccolò addosso dandogli la
forza di continuare. Poteva gestire
la cosa anche senza
l’aiuto dell’altro. Doveva. “Organizzi
questa festa da mesi … Si è solo
spaventata un po’.”
“Ma le ho
ricordato…” James
era pronto a sbattere una testata contro lo spigolo, come un Elfo
indisciplinato, glielo leggeva nell’espressione affranta.
“… cazzo, Teddy,
pensa che sparirò come suo padre!”
“È
normale che lo pensi,
credo. Lo farà ancora per un
po’…” Traumi del genere non sparivano
per una
bella casa e due sconosciuti che si occupavano di te. Ted aveva avuto
una nonna
e una famiglia adottiva piena d’amore, eppure
c’erano state notti in cui si era
svegliato chiamando genitori che non aveva mai conosciuto. Poteva solo
cominciare ad immaginare cosa stava passando Benedetta.
‘Ma
non è sola al mondo. Ha voi.’
Le
parole di Lily gli davano la forza
di spedire James a divertirsi. “Deve abituarsi a non averci
sempre a portata di
mano. E poi ci sono io, sta’ tranquillo.”
L’altro era poco
convinto, si
vedeva, ma sospirò. “Se succede
qualcosa…”
“… ti chiamo.” Mentì,
perché il compagno aveva bisogno di quella serata, forse
più di quanto non realizzasse. “Vai, o farai tardi
e Scorpius andrà da solo.”
“Ci mancherebbe, quello non sa trovarsi il sedere con le
mani.” Sbuffò per poi
dare un colpetto alla spalla di Ben. La bambina si voltò
appena, più occupata a
nascondergli il viso contro la spalla. Lo faceva anche Al da piccolo,
quando qualcosa
lo spaventava.
Niente
di nuovo. Coraggio.
“Ehi, pulce, torno
presto … Ma
tu fa’ la guardia alla casa e a Teddy in mia assenza. Non
è che sia tanto bravo
a star da solo. Gli fai compagnia?” Ad un piccolo cenno
d’assenso le tese la
mano. “Dammi il cinque, coraggio.” La bambina
obbedì, con un sorriso
finalmente. James le arruffò i capelli e poi gli
lanciò un’occhiata determinata
delle sue. “Qualsiasi cazzata. Chiami e torno.”
“Vai.” Ripeté. “Ce la
caveremo.”
Quando l’altro gli
ebbe
finalmente obbedito sospirò, cullando Ben che non sembrava
intenzionata a
scendere. Per essere già grandicella era incredibilmente
pronta ad accoccolarsi
addosso. A volte era difficile distinguere se fosse un lato del suo
carattere o
un’insicurezza dovuta all’esperienza nella foresta.
Due
Lupin lasciati a se stessi.
Poteva essere una
catastrofe,
tuttavia non doveva. “Sai cosa mi piace fare quando sono
preoccupato? Leggermi
una bella storia.” Scese le scale con tutta la calma del
mondo perché il
respiro tiepido di Ben sul collo faceva sembrare tutto più
fragile e incerto.
“Se mi concentro posso immaginare di essere nel libro, e mi
dimentico di quello
che mi fa paura.” Si sedette sul divano del salotto, dove per
fortuna aveva
lasciato il fuoco acceso. Appellò un libro e lo
aprì. Ben non aveva dato segno
di gradire l’idea, ma neppure l’aveva respinta da
come gli si era raggomitolata
in grembo.
Non
mi ricordavo che i bambini fossero tanto minuscoli.
Non aveva importanza. Con un
libro in mano, anche due Lupin potevano cavarsela.
****
Londra, Diagon Alley.
Finnigan’s Wake. Sera.
Il Finnigan’s Wake
aveva
ospitato molti lieti eventi: la propria inaugurazione coincidente con i
festeggiamenti del diploma dei proprietari, svariati compleanni, un
paio di
matrimoni e per fortuna nessun funerale. Che fosse il luogo scelto per
l’addio
al celibato era quindi quasi ovvio.
“A Malfoy, e alla
sua
sciagurata decisione di sposarsi con quello Kneazle pazzo di mia
cugina!”
Berciò James, portando in bilico una serie di boccali,
cocktail e un giro
intero di shots creati dalle estrose mani di Gus. Presi da mani allegre
furono distribuiti,
alzati e trangugiati.
“A
Scorpius!”
Albus prese il proprio drink, un Platano Picchiatore, che la maggior
parte dei
ragazzi evitava ad inizio serata. Era divertente vedere come tutti, ad
eccezione di Tom e Mike, aspettavano di vederlo stramazzare al suolo
ubriaco
dopo il secondo giro.
Spiacente,
ho imparato a bere.
Sorseggiò il suo
drink,
accarezzando distratto la gamba di Tom che era schiacciato tra lui e il
muro ed
era quindi già nervosetto. “Fa’ il
bravo. Stasera ci tocca.” Gli mormorò
all’orecchio, mentre la musica delle potenti casse Babbane
risuonava per tutto
il locale, pieno da scoppiare tranne per la sezione che Gus aveva
chiuso loro.
No
there ain't no rest for the wicked
Until we close our eyes for good
“Ricordami
perché dobbiamo…”
Replicò l’altro sollevando svogliato il boccale
all’ennesima sparata di suo
fratello, salvo però trangugiare con gusto metà
del suo drink.
Speriamo
che si ubriachi. Diventa più silenzioso e
tenta di spogliarmi davanti a tutti, ma almeno smette di fare il
broncio.
“Perché
Jamie ha scoperto che
abbiamo parlato con Sören.” Pescò un
cubetto dal suo drink e lo succhiò
godendosi la frescura. “Mi ha fatto la ramanzina e mi ha
detto che devo stare
alle regole.”
“Come se potesse permetterselo … Ha piagnucolato
da vostro padre finché non gli
è stato assegnato il caso.”
“Tom…”
Gli diede una pacca
sulla gamba. “… non aveva tutti i torti.”
“Quindi siamo
fuori dai
giochi?”
“Certo che
no.” Sorrise a
Sören, entrato in quel momento in compagnia del suo biondo e
muscoloso amico,
Milo. Al si raddrizzò: voleva proprio vedere che combinava
Michel, che era era
appoggiato alla ringhiera che
separava i loro tavoli dal resto della sala. Quella sera
l’amico indossava la
sua migliore aria di eleganza aristocratica, con quella punta di
sussiego che
sembrava prerogativa del suo ambiente, come i completi chiari di alta
sartoria
e i biglietti da visita. Prima di un paio di bicchieri non
c’era mai verso di
togliergliela di dosso. Stavolta non servì: quando il
tedesco gli passò accanto
si lanciarono un’occhiata che avrebbe potuto far prendere
fuoco un tavolo.
…
apperò!
Stava venendo caldo a lui.
Diede
una gomitata a Tom, che stava chiacchierando con Loki,
l’unico che avesse avuto
voglia di sedersi nel suo raggio di malumore.
“Ehi!” Sussurrò. “Ti ricordi
che
ti ho detto che Mike sta dietro ad un ragazzo? È lui il ragazzo.” Lo
indicò con un cenno della testa.
Tom sembrò
inquadrare la
situazione, ma si limitò ad una smorfia non impegnativa.
“Ah,
sì, Emil.” Gli diede
invece soddisfazione Loki, entrano nella conversazione e fregando un
sorso dal
bicchiere di Tom. l’altro lo fissò malissimo, ma
prevedibilmente venne
ignorato.
“Emil? Non si
chiama Milo?”
“Il nostro buon
Mike lo chiama
così …” Si strinse nelle spalle.
“Magari sono già alla fase dei
nomignoli.”
Sogghignò. “Non li avete anche voi?”
“Il mio nome
è già
imbarazzante da sé, grazie tante.”
Replicò per poi tornare a guardare il biondo
teutone che rifilava una pacca allegra a Scorpius come se fossero
cresciuti
assieme. Aveva la stessa socialità fluida e sorridente.
Prince trai due
scompariva come una figura di sfondo.
Un
ragazzo da parete.
Comunque il pettegolezzo era
troppo succoso. “Tu sai in che rapporti sono esattamente?
Mike mi pare
piuttosto preso.”
Loki si accese la pipa, dando una vigorosa boccata, ma fu abbastanza
furbo da
non soffiare il fumo in faccia a Tom, che aveva il bicchiere in mano.
Era già
successo che glielo versasse addosso. “Più che
preso direi ancorato …
Caro il mio pulcino, il nostro Mike è innamorato
cotto!”
Al, ora che era di fronte ad entrambi, e poteva vederli assieme
… era
perplesso. Non che Milo fosse un brutto ragazzo, tutt’altro.
Solo che con i
capelli che sembravano appena usciti da una sveltina e quello che
sembrava uno
spinello tra le labbra…
…
non è proprio il classico tipo di Mike. Pensavo gli
piacessero più alla Mael … e alla me?
Loki parve capire cosa gli
passava per la testa perché si avvicinò col tono
di una confessione. “Se chiedi
a me … quello finge solo di aver passato la vita nel fango
di Diagon Alley.”
“Cioè?”
“Cioè
è un ex Purosangue.”
Tom si stava annoiando a
morte
a sentir spettegolare Al e Loki e conoscendo i due la cosa sarebbe
andata per
le lunghe. Poteva solo sperare che la partita di poker iniziasse
presto, ma a
giudicare da come Malfoy svolazzava di invitato in invitato –
molti dovevano
ancora arrivare – avrebbe comunque dovuto aspettare. A quel
punto, irritato e
già leggermente ubriaco si alzò e si diresse
verso il cugino.
Almeno
non si mette a ciarlare di Zabini.
“Sören.”
Lo salutò e questo
quasi sobbalzò, guardandolo sorpreso. Possibile che non
riuscisse mai a
rilassarsi? “Vieni a sederti.” Concluse con tono
spiccio.
“Sì.”
Replicò obbediente, ma
forse era sollievo quello che sentiva? Fino a poco prima stava
guardando in
direzione di Scott Ross con una faccia strana. “Non pensavo
di trovarti qui.” Aggiunse
quando si furono accomodati nel paio di sedie più lontane
dalla ressa.
“Perché?”
Sören si
guardò le mani,
strofinandosi l’anello che aveva al dito. Continuava a
lanciare occhiate in
direzione del ragazzo di Lily, ma non pareva aver voglia di andare a
salutarlo.
Bizzarro. “Mi è stato detto che non sei persona
che apprezza questo genere di
eventi.”
“Malfoy non capisce i no. Gli unici a cui si sottomette sono
quelli della sua
fidanzata.” Replicò facendogli spuntare
un sorriso. “Immagino tu abbia avuto lo stesso
problema.”
“Già.” Convenne tirando fuori una
sigaretta dal pacchetto. “Ti dà
fastidio?”
“Con la cappa che
aleggia qua
attorno non fa differenza.” Rispose facendogli cenno di
accendersela. Sören
soffiò via il fumo mentre ascoltava i ringraziamenti di
Scorpius, appena
omaggiato di una maglietta con scritte e disegni al limite
dell’osceno. Stavolta
sorrise.
“Gli ho detto che
non sono un
tipo da compagnia, ma non gli importa.” Spiegò.
“Gli piace avere persone
attorno, anche se non sono sulla sua lunghezza
d’onda…” Aggrottò le
sopracciglia. “… qualsiasi cosa voglia
dire.”
Tom era stupito dalla
facilità
con cui l’altro aveva aperto la conversazione, e in maniera
neppure stupida. Non
era … male. Perlomeno con lui per interagire non doveva
trangugiare shots e
intonare canzonette da taverna.
“Malfoy non ha mai
avuto un
pensiero cattivo in vita sua.” Rispose vuotando il bicchiere.
“E trova
divertenti anche persone che non sono considerate l’anima
della festa.”
“È una
fortuna allora.” Fece
un sorrisetto ironico. “O quelli come me non verrebbero
invitati da nessuna
parte.”
Non
preoccuparti, con quell’aria da passerotto ferito
ti troveresti comunque attorno un paio di crocerossine del calibro di
Al e
Lily.
Ma non lo disse,
perché aveva
bevuto.
A
questo proposito.
“Malfoy!”
Quando alzava la
voce era automatico che venisse ascoltato. Non farlo mai portava dei
vantaggi
indiscutibili. “Prince non ha niente da bere. E neppure
io.”
Questo squadernò
un gran
sorriso. “Rimedio subito! Whiskey incendiario e un
Mangiamorte in arrivo!” E si
allontanò verso il bancone trascinandosi dietro la sua ombra
a forma di James
Potter.
Da lontano vide Al guardarlo
con compiaciuto divertimento. Lo ignorò. Si rivolse invece a
Sören, che non
ghignava e stava ad ascoltarlo. Dopotutto, era un tipo simpatico.
“Spero tu
sappia giocare a poker.”
L’altro aggrottò le sopracciglia.
“Conosco i rudimenti di quello magico, me li
ha insegnati un collega. C’è differenza?”
Fece un sorrisetto,
pregustandosi l’idea di spennare James o qualche Grifondoro a
scelta. Dopotutto
era il motivo per cui era lì e non a casa con un nuovo
compendio sui legni di
bacchetta.
“Solo in termini
di perdite.”
La serata si stava svolgendo
esattamente come Scorpius aveva desiderato, ovvero in più
giri di birra e
cocktail, condita da battutacce, gioco pesante e la messa in palio di
cravatte,
qualche orologio e soprattutto della collettiva dignità.
Michel supervisionava
abbastanza
sobrio il gioco – non era suo costume ubriacarsi
indecorosamente come Potter,
che aveva perso la camicia ad inizio serata e stava intonando per
l’ennesima
volta, stonato, un Auld Lang Syne
fuori stagione. Il miglior giocatore, quello più lucido e
letale, era
prevedibilmente Loki, che ne aveva fatto quasi una professione, anche
se in
termini di vincite era seguito a stretta misura da Emil.
Che
sta barando magnificamente.
Il tedesco prese infatti le
sue ultime vincite, godendosi i mugugni scornati dei propri compagni di
gioco.
“E con questo, signori, io mi ritiro. Un buon giocatore deve
evitare di far
perdere la pazienza alla dea bendata!” Schiacciò
la sigaretta ad uno dei posacenere
stracolmi e si alzò in piedi. “Il prossimo giro lo
offro io!”
“Sarà
meglio.” Soffiò Dursley
passandosi una mano sul viso, ubriaco e di cattivo umore per le
continue
perdite. Fu per fortuna distratto da un bacio di Al, che sapeva perdere
con più
classe di tutti loro messi assieme.
Anche
perché è lo scommettitore più
parsimonioso.
Era infatti
l’unico con ancora
tutti i vestiti addosso.
C’è
anche da dire che le sue camice non sono una posta
appetibile.
Prince che in compenso si
era
giocato la giacca di pelle americana con cui era arrivato e buona parte
del
contenuto del suo portafoglio aggrottò le sopracciglia come
se stesse
riflettendo su qualcosa di molto importante. “Io …
credo che sia opportuno …
che ti dia una mano Milo.” Disse staccando con cura le
parole. Visto quanti
whisky si era scolato e quanti shots di Tequila aveva accettato quello
che
aveva detto aveva un che di eroico.
Siamo
nel vivo della festa…
L’alcool scorreva
liquido
nelle gole e la musica da taverna faceva da sottofondo a brindisi e
canzoni
intonate a squarciagola. Persino persone normalmente ingessate come
Dursley si
lasciavano andare, arrivando a posare la testa sul tavolo per farsela
accarezzare dal compagno che, seppur premurosamente, se la rideva come
non mai.
Vide Emil sorridere quasi
affettuoso a Prince. “Resta dove sei principino …
Non vorrei che mi crollassi
culo a terra. Dionis, me lo guardi?”
Il rumeno, senza scarpe e
con
la fede attaccata saldamente al collo con una catenella – per
non indursi in
tentazione dato che aveva cattivi geni, aveva spiegato ad inizio serata
–
borbottò qualcosa di altrettanto rumeno, ma fece anche un
cenno d’assenso.
“Fantastico!” Poi Emil si voltò verso di
lui. “Zabini, ci pensi tu a darmi una
mano?” Gli chiese stupendolo: a parte guardarlo non aveva
fatto altro per tutta
la serata.
Non
che dovesse far altro, ma comunque…
“Certo.”
Rispose, notando come
tutti erano troppo presi dal gioco, dal proprio bicchiere o dalla
canzone che
stava passando per notarli. Scesero così in mezzo alla calca
ben pressata.
“Questo posto
è pieno da
scoppiare … ma voi maghi venite tutti
qui?”
Osservò Emil passandogli una mano sul fianco per dirglielo
all’orecchio.
On the
train feel insane.
What the fuck? Just bad luck
“È
l’unico pub decente di
tutta Diagon Alley…” Rispose facendo scivolare la
mano su quella dell’altro,
dato che stava infilandosi tra la seta della camicia e la pelle nuda.
Represse
un brivido. “… e questo la dice lunga.”
“A me
piace.” Lo pilotò contro
il bancone, spingendo i fianchi contro i suoi. Da quella posizione
poteva
sentire che era eccitato. Inspirò: non era il solo.
“Malfoy mi
perdonerà se mollo
la sua festa etero, ma ho una gran voglia di scoparti.” Gli
sussurrò con tono
discorsivo. Michel dovette trattenere di nuovo il respiro: erano in
mezzo alla
ressa del bancone e nessuno badava a loro.
La sua
razionalità gli stava
facendo notare che non era il luogo adatto per dare sfogo ai loro
ormoni…
… la sua
razionalità poteva
andare all’inferno.
“È
tutta la sera che faccio il
virtuoso a beneficio di nessuno …”
Continuò l’altro. “Credo di meritare un
premio per non averti strappato la camicia di dosso.” Gli
morse leggero la base
del collo e si godette il suo imbarazzante mezzo gemito per poi
attirare l’attenzione
di una delle bariste per chiedere l’ennesimo giro di Tequila,
il liquore
prediletto dal loro comune amico biondo.
“Vuoi davvero
offrirgli il
giro?” Tentò di ricomporsi, anche se era un
po’ difficile farlo con il calore
dell’altro addosso. “Perché avrei idee
migliori.”
“Pazienza maghetto …”
Replicò, staccandosi per raggiungere il vassoio che la
ragazza aveva preparato sul bancone. Nel farlo si scontrò
con le mano di un
altro, miranti allo stesso bottino.
“Ehi bello,
l’ordine è mio!”
Michel si irrigidì quando riconobbe la voce: il pesante
accento scozzese gli
ricordava quello di Terrance Montague. Voltandosi ne ebbe la conferma.
Oh,
meraviglioso
Avendo condiviso per sette
anni la stessa uniforme sapeva che razza di seccatura ambulante fosse
il mago
di fronte a loro e negli anni in cui si erano persi di vista
– per fortuna –
non era cambiato di una virgola: alto, allampanato e con un gran
bisogno di un
parrucchiere.
E
in generale, di una faccia nuova.
“No bello,
l’ordine è nostro.”
Rispose a tono Emil. Doveva aver notato anche lui che Montague era
ubriaco fradicio
e in compagnia di due tizi in condizioni non dissimili, ma non poteva
conoscere
la facilità con cui il suddetto attaccava briga quando aveva
bevuto un
bicchiere di troppo.
“Stai dicendo che
sto
aspettando da mezz’ora il mio giro di Whisky per farmi
passare davanti?” Grugnì
questo con fare sgarbato.
E
pensare che appartiene ad una delle più antiche
famiglie della nobiltà magica scozzese …
…
che vergogna.
Milo ad onor del vero non
perse il sorriso. “Questa è Tequila.”
“È la stessa cosa con ‘sti liquori
Babbani!”
Michel a quel punto si
sentì
in dovere di intervenire. “Terrance, quanto tempo.”
Lo apostrofò. L’altro
aggrottò le sopracciglia con l’aria di un Troll
confuso, poi lo riconobbe.
“Zabini!”
Ghignò rifilandogli
una pacca assolutamente non necessaria. “Cazzo ci fai in
questo posto da
Sanguesporco?”
Perché,
tu? Fammi indovinare, poco presentabile per i
circoli Purosangue? Temo di sì.
Ma non lo disse, limitandosi
ad un sorriso tirato. Accanto a lui vedeva Emil cominciare ad
incastrare i
pezzi e farsi un’idea del loro interlocutore.
Fa’
che non capisca quanto è razzista e non ci attacchi
briga …
“È
l’addio al celibato di
Malfoy.” Spiegò con la cautela con cui avrebbe
parlato ad un pezzo grosso. O ad
un ubriaco instabile. “A settembre si sposa con Rose Weasley,
ne avrai sentito
parlare.”
“Come no! Il matrimonio del secolo!”
Annuì con l’aria di non pensarlo affatto.
“Certo che va’ a capirlo Malfoy… con
tutte le belle fighe della nostra Casa si
va a prendere quella morta di fame.” Si voltò
verso i due amici che Michel non
riconobbe come ex-compagni. Sembravano parecchio più vecchi.
“È sempre stato un
tipo strano … Uno che va’ a finire in mezzo a
Sanguesporco e Babbanofili non è
che ci sta tanto con la testa, no?”
Evitare la lite era la sua
priorità. Dovette ricordarselo. “È
meglio se portiamo questi agli altri.” Prese
il vassoio, facendo cenno ad Emil di seguirlo. Non gli piaceva affatto
il modo
in cui si era rabbuiato. “È stato un piacere
Terrance, buona serata.”
Non fece in tempo a fare un
passo che l’altro gli sbarrò la strada: i due
amici ridacchiavano senza
intervenire, evidentemente divertiti dalla situazione. “Ehi,
ehi…” Sbuffò
questo. “Dai, ci rivediamo dopo secoli e mi molli
così? Un brindisi ai vecchi
tempi Zabini! C’è in giro anche Nott? Fallo venire
qui!”
Stava cominciando a perdere
la
pazienza. “Magari dopo, ho un vassoio pieno, preferirei prima
posarlo.”
Terrance non diede il minimo
segno di aver capito l’antifona perché
afferrò uno dei bicchierini. “E allora
alleggeriamolo, no? Chiama Nott, cazzo! Mica mi vorrai mollare per un
gruppo di
pezze…” Non poté finire la frase
perché Emil gli bloccò la mano.
“Scusa stronzo, questi sono per i
pezzenti.” Disse con una pacatezza che stonava
con la sua espressione.
Per un attimo rimasero tutti
come Impastoiati, poi Montague si riscosse, scrollando via la mano.
“E tu chi cazzo
sei?” Chiese con l’aria di essersi ricordato della
sua presenza solo in quel
momento. “Nessuno t’ha chiesto niente!”
“Emil, lascia perdere, me la sbrigo io…”
Lo pregò a bassa voce, ma quello parve
non averlo neanche sentito.
“Questi drink li
ho pagati io,
e non mi capita mai di voler offrire a degli stronzi. Quindi
giù le zampe.” E
sottolineò il concetto con una manata sul petto
dell’altro.
Dannazione.
Successe tutto in una
frazione
di secondo, perché ci voleva davvero poco ad estrarre una
bacchetta. Montague
la puntò sotto il naso di Emil. “Queste
zampe? Tira fuori il legno, ti sfido!” Esclamò
ringalluzzito. La folla si doveva
esser resa conto del degenerare della discussione perché si
nel giro di pochi
attimi si creò il vuoto attorno a loro e la barista che li
aveva serviti sparì dietro
il bancone, forse a cercare l’aiuto del proprietario.
Spero
sia più sveglia e vada a chiamare l’assemblea di
Auror oltre la pista da ballo.
“Terrance, abbassa
la
bacchetta, non renderti ridicolo.” Gli sibilò e
per un attimo pensò di aver
catturato la sua attenzione da come il vecchio compagno lo
guardò incerto. Era
un idiota, ma aveva un cognome a cui rendere conto e un padre forse
persino più
intransigente del suo.
Notando però come
Emil non reagiva
– e come poteva? – decise che umiliarlo e uscirne
bene con gli amici era più
importante. “Stanne fuori Zabini, non ce l’ho con
te!” Si rivolse all’altro.
“Tira fuori il legno ho detto!”
Emil serrò le
labbra.
“Vaffanculo.” Fu l’unica, idiotica
risposta.
Non
ci posso credere!
“Non
può! È un Magonò, va
bene? Lascialo stare.” Sbottò, ben attento
però a non intervenire fisicamente:
Terrance era famoso per non avere il minimo controllo sul suo legno. Un
sacco
di duelli erano finiti con un viaggio urgente in infermeria
perché l’idiota non
era riuscito a controllarsi.
Montague batté le
palpebre
come un grosso cane stupido. “… E che ci fai tu
con un Magonò?”
Non seppe mai se fu peggio
vedere la faccia che fece Emil alla frase o la frase in sé.
O la sua totale
mancanza di risposta.
Fu salvato
dall’entrata in
scena di un’ombra nera che piombò su Montague, gli
torse il polso, gli fece
cadere la bacchetta e lo sbatté faccia contro il bancone.
“Ohi Prince, vacci
piano!”
Esclamò la voce di Potter, in canottiera e con la cravatta
annodata in testa. Nonostante
questo riusciva comunque ad incutere un certo timore. “Rovini
il bancone a Gus
e Gail.”
“Montague, sempre
un
dispiacere!” Esclamò Scorpius con le mani in tasca
e l’aria di aspettare solo
l’imbeccata per tirarle fuori ed usarle. Accanto a lui
c’era anche Bobby
Jordan, l’unico che poteva passare davvero per un agente
delle forze di
polizia. Non che fosse quello il punto.
Scorpius si voltò
poi verso i
due ceffi: avevano le bacchette in mano ma la faccia era quella di chi
stava
calcolando se una prova d’amicizia era doverosa o superflua.
“Ciao, mi chiamo
Scorpius e siamo tutti auror.” Gli sorrise smagliante.
“E il tizio che sta
soffocando il vostro amico ha avuto una brutta settimana, vero
Sören?”
“Bruttissima.”
Ringhiò Prince
stringendo la presa su Montague che emise un lamento da animale
schiacciato da
una pressa.
Scorpius tirò
fuori il suo
sorriso più folle. “Vi prego, quindi, rimanete.”
Non rimasero.
Michel si permise un sospiro
di sollievo, mentre Jordan gli toglieva il dannato vassoio di mano e
Potter lo
scortava con il prezioso carico oltre la pista da ballo. Scorpius a
quel punto
gli passò un braccio sulle spalle. Era sudaticcio e
caldissimo ma il contatto
solido non gli spiacque. “Loki e mini-Potter hanno visto il
trambusto e ci
hanno spediti a far servizio d’ordine.”
Spiegò. “Cos’è
successo?”
“È
successo Montague. Te lo
ricordi com’era a scuola… Non è
cambiato.” Sbuffò cercando Emil con lo sguardo
per controllare che fosse tutto a posto.
Non lo era,
perché Emil era
sparito. “Dov’è Em …
Milo?” Chiese stupidamente.
“Se
n’è andato non appena
siamo arrivati.” Fu Prince a rispondergli, continuando a
tenere stretto Montague
che doveva aver perso i sensi. Nessuno sentì il bisogno di
farglielo notare.
“Io…”
Esordì cercando di pensare
rapidamente ad una scusa. Fu ancora Prince a parlare:
l’alcool lo rendeva
loquace.
“Va’ a
cercarlo.”
Non apprezzava che gli
venissero dati ordini, ma in quel caso fu disposto a fare
un’eccezione.
****
Era ormai notte inoltrata e
il
volume di persone non accennava a diminuire; sembrava che trascorrere
l’intera
notte al Finnigan’s Wake fosse un must
do
di tutti i giovani maghi e streghe inglesi.
Sören chiese due
carte al
mazziere della mano, Albus, che giocava da ore con un sorriso
imperscrutabile che
gli aveva fatto meritare il soprannome di Monna
Lisa. Aveva da sorridere, visto che era uno dei pochi che non
si era
giocato l’intero contenuto del borsello più un
paio di oggetti personali, finiti
nelle mani di Loki Nott e di Milo, prima che questo sparisse inseguito
da
Zabini.
A
quanto pare tiene a lui. Abbastanza da seguirlo fuori
e farci capire tutto.
Era il primo mago che
conosceva che fosse così apertamente preso dal suo
inquilino-barra-babysitter.
Ne era felice.
Almeno
qualcuno ha avuto un bel fine serata.
Non che non si stesse
divertendo: giocare a carte era un’attività di
strategia, quindi lo rilassava,
e poter stare in compagnia di altre persone senza aver voglia di
accampare una
scusa ed andarsene non era cosa che gli capitava tutti i giorni.
Solo
Scott Ross.
Che era ancora
lì, a lato
della sua visuale, anche se non stava giocando.
In verità non
erano rimasti
molti al tavolo, solo quelli che non riuscivano a fermarsi, come
Scorpius –
avevano dovuto impedirgli di giocarsi le mutande e
il maniero di famiglia – o quelli che continuavano a vincere
quasi tutte le mani, come Nott.
Guardando le sue carte gli
sembrò una buona idea puntare. “Vedo.”
Nel frattempo Scott, che era appoggiato con
Bobby e Dionis alla balaustra che divideva il loro
“privè” dal resto del locale,
continuava a dar aria alla bocca. Altro non si poteva definire dato che
aveva
quella che Milo chiamava ‘una sbronza divulgativa’.
L’argomento principale era
l’Australia.
“E mi manca
… dico sul serio,
quei paesaggi, quei colori, la gente! Non avete idea del numero di
maghi che
c’è laggiù!”
Alto. Le colonie hanno sempre attirato la
nostra gente. Un mondo nuovo, terreno a perdita d’occhio in
cui costruire una
casa lontano dai Babbani…
“Non
fraintendetemi, amo la
Gran Bretagna, e rimarrò sempre uno scozzese fino alla punta
dei capelli, ma
parte del mio cuore è là … Per questo
penso che alla fine ci tornerò.”
Come?
Perse completamente
interesse
nel gioco, e finse di lasciare il giro per poter ascoltare meglio.
Sta
parlando di andarsene?
Jordan, uno degli
interlocutori,
dovette pensare la stessa cosa. “Ma andartene … andartene? Trasferirti?”
“Sì,
perché … beh, là ho certe
opportunità lavorative che … Ce l’ho
anche qui, ma fare l’archivista … Cioè,
la
paga è buona, ma il lavoro è monotono.”
“Già, vorresti fare il cronista sportivo
no?” Gli fece eco Jordan. “Ma non puoi
farlo qui?”
Scott scosse la testa, e al
di
là delle birre che si era scolato, non stava straparlando.
Si ingarbugliava
come un ubriaco, ma il ragionamento che c’era dietro era
stato fatto da sobrio.
“Non c’è lavoro … Come potrei
competere con piume del calibro di Ginny Weasley
Potter? Invece in Australia … beh, mio zio gestisce il
quotidiano sportivo
magico di Sidney. Una testata tutta
sportiva! Mi ha già detto che sarebbe disposto ad ospitare
una rubrica sugli sport
Babbani ed io…” Si strinse nelle spalle.
“ … Non è che parto domani, ma
è
qualcosa … qualcosa di grosso
per me,
capite?”
“E come intendi
fare con
Lily?” Dionis era suo amico, e per questo faceva le domande
giuste. Le stesse
domande che avrebbe dovuto farsi quel dannato scozzese.
Lily.
La tua ragazza, la donna che ami e che ama te. Te
ne vai? La lasci?
Strinse i denti quando vide
un
paio di scintille balenare dalle parti della sua tasca.
Scott perlomeno
sembrò
considerare seriamente la domanda, dall’esitazione che gli
vide sui lineamenti.
“Vorrei che Lily venisse con me.”
Cosa?
Quello era forse peggio che
lasciarla. Fu Jordan a tornare alla carica: doveva essere grato a quei
due
ragazzi, stavano facendo tutte domande che avrebbe voluto fargli lui.
Dopo
avergli lanciato qualche maledizione. “Gliene hai
parlato?”
“No, non ancora
… Abbiamo
organizzato una vacanza di due settimane laggiù, contavo
prima di farle vedere
il posto, farle conoscere i miei amici, farla … okay, suona
brutto,
acclimatare?”
Suona
orrendo.
“Sentite, la
conosco, se ne
innamorerà … E il genere di ambiente giovane,
aperto e stimolante che
adorerebbe!” Scott sembrava cercare appoggio dai due e
Sören fu felice di constatare
che non ne trovò granché “…
e poi ci sono delle ottime scuole post-diploma,
quella di Medimagia è conosciuta in tutto il mondo, ed ha un
corso di
Psicomagia sperimentale, perciò…”
“Penso che dovresti parlargliene già da
adesso.” Osservò Dionis. “Non avete
litigato proprio perché le hai progettato la vacanza senza
avvertirla?”
Scott sospirò,
grattandosi la
nuca. “Voglio proporglielo … non obbligarla.
Insomma, io voglio tornare
laggiù e penso che le farebbe bene cambiare aria.
Non penso di sbagliare a proporglielo, no?”
Se
te ne vai e la metti di fronte ad una scelta non
glielo proponi. La obblighi.
Persino lui riusciva a
capirlo.
“Stai facendo sul
serio, eh?”
Interloquì Jordan perplesso. “Attento che questa
roba per le ragazze prelude al
Grande Passo, quello che sta per fare il nostro amico biondo e seminudo
laggiù.” Indicò con il bicchiere
Scorpius che stava cercando di trascinare
Potter sulla pista da ballo.
Scott doveva essere molto
ubriaco da come fece fatica a raddrizzarsi sulla sedia.
“Ehi…” Disse con tono
cospiratorio. “… io la amo e farei tutti i grandi
passi necessari.” Buttò giù
quello che restava della sua birra e continuò.
“L’Inghilterra le succhia via
l’energia, e non ditemi che è vero. La sua
famiglia, i casini che succedono in
continuazione in cui viene sempre tirata dentro … Le fanno
male. E cambiare
aria, andarsene … non è fuggire, okay?
È … cambiare aria, ecco tutto. E la
renderebbe più serena.”
La sbronza adesso era virata
sul sentimentale, ma Sören non aveva più voglia di
prenderlo a pugni.
Ha
ragione. Può sbagliare a metterle ansia, ma vuole
renderla felice. Come vuoi tu.
L’unica
differenza è che lui può riuscirci.
Aveva bisogno di prendere
aria. “Lascio la mano.” Comunicò agli
altri giocatori, alzandosi in piedi.
“Ehi Prince, non
ti
allontanare!” Gli fece eco uno dei due auror della scorta,
che Scorpius aveva
magnanimamente invitato a festeggiare con loro.
“Vado a fumarmi
una sigaretta
fuori dalla porta.” Sbottò, scappando come il
carcerato che in fondo ancora era.
Uscì fuori e
ispirò l’aria
umidiccia e ancora calda della sera. Ne prese ampie boccate, senza
riuscire a
smettere di aver voglia di prendere a pugni qualcuno, qualcosa,
qualsiasi cosa.
Il bersaglio fu il muro fuori dall’entrata, una,
più volte, finché non sentì
male e non si accorse di aver sbriciolato parte dei mattoni. Li aveva
colpiti
con quella mano.
Sei
un idiota.
Inspirò,
osservando con
sconforto le nocche abrase e il sangue.
Può
riuscirci, e sai perché? Perché non è
un ex
tirapiedi di uno stregone, perché non è un
galeotto fuori per via della pietà
di una strega … Avrà dei difetti, ma è
comunque migliore di te.
Se Ross avesse avuto
abbastanza
accortezza e cervello dal proporglielo nel mondo giusto Lily avrebbe
potuto
accettare.
L’Inghilterra
le sta stretta e ama la sua famiglia ma
non sopporta di averla come biglietto da visita.
E
poi ci sono gli incubi.
È
abbastanza per farti venir voglia di andare via.
Se lo scozzese giocava bene
le
sue carte avrebbe potuto avere l’Australia, il suo bel lavoro
… e Lily.
Perché ai bravi
ragazzi come
Scott le cose andavano sempre bene.
Appoggiò la nuca
contro il
muro e si accese la sigaretta per cui ero uscito, realizzando che la
cosa
peggiore di quella notizia era stata capire cosa davvero significava
per lui.
Non
è l'Australia il problema …
Dopotutto poteva scrivere a
Lily comunque: gli uffici postali magici c'erano anche là.
…
Il problema è che non vuoi che stia con lui. Qui o in
Australia.
Vuoi
che stia con te.
Aveva bisogno di camminare,
muoversi. Non si allontanò molto, giusto una decina di passi nell’ancora
abbastanza trafficata via
centrale: c’erano soprattutto capannelli di ragazzi o
nottambuli che si stavano
facendo passare la sbronza. Passò accanto ad una coppia che
passeggiava
abbracciata, si ricordò il pomeriggio con Ama ed ebbe voglia
di trovare un nuovo muro su cui sfogare la frustrazione.
“Ehi, principino,
qualche
spicciolo?” Chiese un mendicante su cui quasi
inciampò, troppo preso ad
invidiare la coppia di fronte a sé.
Gliene gettò un paio, tirando dritto. Fu solo venti metri
dopo che realizzò.
Venti metri dopo e si rese conto cdi come lo aveva chiamato il
mendicante. Tranne Milo c'era un unica persona che lo chiamava
così.
Quando si
voltò, Johannes già correva.
Fu un sollievo poterlo
inseguire.
****
Note:
Capitolo medio-lungo per farmi perdonare e il prossimo, che
è il seguito diretto di questo, sarà pieno
d’azione! ;D Diamo un senso alla tag 'avventura'! Per quanto riguarda le recensioni sono la solita imbarazzante pigrona, arriveranno le risposte e GRAZIE. Come sempre, gente, siete il carburante e motore di questa storia!
Questa
la
canzone del capitolo. Le altre due utilizzate sono rispettivamente
questa
e questa.
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Capitolo 34 *** Capitolo XXXIII ***
Capitolo XXXIII
So I
bare my skin and I count my sins
And I close my eyes, and I take it in
I’m bleeding out for you
(Bleeding
Out, Imagine Dragons)
Somerset, Bath
Secondbridge Night Club.
“Dovremo essere
già a letto!
Domani abbiamo alzarci…”
“Oh, zitta e bevi!”
Lily ficcò nelle mani poco coordinate di Rose
l’ennesimo shot : aveva
scelto il club più frequentato e apprezzato di Bath,
aveva prenotato un tavolo e aveva fatto sì che persino la
cugina fosse tirata a
lucido e con un paio di tacchi degni di esser chiamati tali. Aveva
organizzato
quella sera a tavolino, non avrebbe lasciato che indugiasse in
velleità da
Grillo Parlante.
“Divertiti,
è una delle tue
ultime notti da single!” Le diede manforte Roxanne mentre
agitava la mano, in
cui campeggiava la fede, all’indirizzo di un gruppo di
studentelli che la
guardavano ardenti. “E Merlino solo sa quanto ti
mancheranno!”
“Ma non sono single!” Protestò confusa.
“E non voglio più ballare sul cubo, rischio
di rompermi l’osso del collo!”
“Sì, in effetti prima ti sei quasi ammazzata.
Quello lascialo a me, okay?” La
rassicurò Lily. Le passò poi un braccio attorno
alla vita, stabilizzandola,
dato che non aveva mai imparato a camminare neanche con i cinque
centimetri di
tacco che stava indossando.
Principiante.
Io se non viaggiassi perennemente sui
dieci sembrerei un’Elfa.
L’atmosfera era
accaldata,
sudaticcia e i neon viola alle pareti confondevano le idee e
allontanavano i
brutti pensieri; era questo uno dei motivi per cui amava tanto andare
per club.
Ed
è un bel po’ che non ci vado! Scott non
è tipo e
dopo un po’ si scoccia a ballare.
“Ehi, a che stai
pensando?” Le
chiese Roxanne con sguardo troppo acuto visti tutti i Cosmopolitan
che si era scolata.
Fu lesta a sorriderle. “A ballare, ovvio!” E la
trascinò sulla pista da ballo,
mentre Rose le guardava dal bordo con l’aria di chi aveva
l’intero mondo che le
girava attorno. “Vieni?” Le chiese.
“Cerco di non
vomitare!” Fu
l’ovvia risposta.
Furono così
accolte da Domi e
Violet, le quali appena si erano viste, all’entrata del club,
non si erano più
staccate. Ancor meno per respirare tra un bacio e l’altro.
Credo
c’entri il tubino nero di Letty e i pantaloni di
pelle attillati di Domi … E il fatto che abbiano una vita
sessuale che è una
bomba.
Fortunelle.
Non avrebbe mai pensato che
un
rapporto come quello, a distanza e sempre pronto ad esplodere in una
litigata
potesse funzionare.
Ma
forse è quello di cui loro hanno bisogno. Dopotutto
ogni coppia è diversa. Voglio dire, anche un rapporto
… calmo … come quello tra
me e Scott funziona.
…
Sì. Cioè. A parte il fatto…
…
a parte il fatto che io stasera non ho ancora bevuto
abbastanza.
Fortunatamente si era
portata
il bicchiere dietro, che finì in un sorso meritandosi un
cinque da Domi, che
poi l’afferrò per farle fare una giravolta.
“Per tutte le palle di drago, Rossa,
ci stai dando dentro!”
“Anche troppo!” Commentò Roxanne vicino
al suo orecchio. “Questo è
l’ultimo!” E
quasi volesse sancire la sua decisione glielo tolse di mano.
Tanto
era vuoto!
Lily
comunque capì che non l’avrebbe
spuntata: la cugina sarebbe stata capace di intimidire ogni singolo
barman del
club piuttosto che farla servire ancora. E i suoi migliori occhi da
gattamorta
non potevano battere, in nessun universo, lo sguardo minaccioso di
Roxanne Weasley
in Radescu. Fece quindi spallucce aggrappandosi al collo di Domi.
“Sei fighissima!”
Le gridò, ma premurandosi
di assicurare lo stesso a Violet che la guardò tra il
compiaciuto e l’irritato.
“Domi, se fossi lesbica e non imparentata con te
ti…”
“No.” Mimò con le labbra Violet.
“Buona, Potter.” Ma sembrava trovarla
divertente perché non tentò di cavarle gli occhi
con le unghie dipinte di un
violento rosso rubino.
Mi
sto divertendo!
Era quello il punto della
serata, no? Lasciare che la musica troppo alta e troppo Babbana
confinasse i
pensieri dove non potevano dar fastidio. Il suo potere in quella
situazione
aiutava: con tutta quell’eccitazione, quella voglia di far
casino, ubriacarsi e
fare sesso che aleggiava nell’aria … beh, non
poteva dire di non subirne gli
effetti.
Ecco
perché forse Scotty non mi porta mai per club.
Furbo.
Ma sapeva di essere al
sicuro:
era in mezzo alle sue cugine, gente assennata, che non le avrebbero
fatto fare
niente di cui potesse pentirsi il giorno dopo.
Domi rise dandole una
pacchetta
sulla testa. “Buona, su … Disperdi meno ormoni o
dovrò tirar fuori una mazza da
Battitore per evitare che ti circondino!”
Lily rise ma capì l’antifona e lasciò
la cugina alla sua legittima dama. “Cubo!”
Gridò ed ignorò l’occhiata di Roxanne
per dirigersi verso uno di quelli rimasti
liberi. Non fu difficile trovare un paio di ragazzotti pronti sia a
tirarla su
che ad essere intimiditi dall’occhiata combinata tieni-le-mani-a-posto di Domi e Roxie.
Strizzò l’occhio a Rose,
dall’altra parte della pista da ballo che scosse la testa
mimandole qualcosa
che assomigliava tremendamente a ‘Donna Scarlatta’.
Ma alzò il bicchiere della
Coca che aveva preso.
Sì,
stasera niente uomini, niente complicazioni.
I don't know just how it
happened, I let down my guard
Swore I'd never fall in love again but I fell hard.
Forse quell’addio
al celibato
era servito più a lei che a tutte le cugine messe assieme.
Perché era un ottimo modo per dimenticare cosa la aspettava
a Londra: le
aspettative sacrosante di Scott, i suoi sentimenti redivi per
Sören …
E fu in quel momento che
realizzò che ci stava pensando. Non poteva farne a meno.
I'm addicted to you, hooked on
your love,
Like a powerful drug I can't get enough of…
L’alcool, il caos,
la gente … Non
servivano a niente. Non poteva scappare da sé stessa.
I couldn't live without you
now,
Oh, I know I'd go insane!
Oh,
grazie tante.
Le venne la nausea e una
gran
voglia di piangere, quindi scese dal cubo e si diresse come un Bolide
verso la
prima uscita, scansando muri di corpi sudati. Quando sentì
lo schiaffo
dell’aria fresca della sera respirò ad ampi
polmoni.
Cavolo.
Qualche attimo dopo una mano
le
serrò la spalla. Era Roxanne. “Ehi, tutto a
posto?”
“Sì…”
Sorrise fiaccamente.
Aveva voglia di abbracciarla ma le si era sbavato il trucco e non
voleva
rovinarle il vestito. “… hai ragione, ho bevuto
troppo.”
“Questo era ovvio, Rossa, ma non sei scappata per
quello.” Roxie la conosceva
troppo bene. “Stai cercando di spegnere il cervello
… una volta avremmo dovuto
staccarti dal primo deficiente che ti dava un po’ di
attenzione, e di quella
sgradevole.”
Lily ridacchiò, appoggiandosi al muro e trovandone conforto.
Le scarpe, proprio
perché splendide Louboutin, la stavano uccidendo.
“Già … adesso scappo via in
lacrime come un’eroina vittoriana.”
“È un
progresso.”
“Non ho rovinato
la festa a
Rosie, vero?”
“No, non
direi.” Sbuffò.
“Quando avrà smesso di aver voglia di vomitare, ti
ringrazierà per averle tolto
le pantofole di dosso.” La guardò di sottecchi.
“Ci stavamo divertendo …
Cos’è
successo?”
“È
successo che non riesco a
togliermelo dalla testa.” Mormorò.
“Lo so.”
Le mise in mano il
bicchiere di Coca tiepido di Rose. Dovevano averla notata proprio tutte
la sua
ritirata ignominiosa. “Cosa intendi fare?”
“Ignorare la cosa
finché non
se ne va?” Bevve il liquido troppo zuccherato con una
smorfia. “C’è Scott e …
tutto il resto.”
Roxanne si
appoggiò al muro
accanto a lei. “Con tutto il resto intendi anche il fatto che
Sören non ti
ricambia?”
Sì.
Forse era da codardi, anzi,
lo
era certamente, ma con Scott aveva qualcosa di sicuro, di solido. Forse
non era
l’amore della sua vita, forse guardarlo non le toglieva il
fiato, ma era
comunque qualcuno che la amava e accettava con tutte le sue stranezze.
Non era
poco e visto come si era comportata di recente doveva essergli grata di
non
averla mandata al diavolo: non voleva ferirlo solo perché
non riusciva a
dimenticare il suo primo amore.
Non
finisci con una persona solo perché la ami.
“Tra le
varie.” Si risolse a
dire.
Roxanne rilasciò
un lungo
sospiro. Doveva aver pensato molto a cosa dirle, perché
aveva lo sguardo calmo
di chi aveva rimuginato ed era giunto ad una conclusione.
“Rossa, per essere
una
Legimante Naturale sei cieca come uno Snaso.”
“…
scusa?”
“Sören è innamorato di te.”
****
Londra,
Charing Cross Road.
Notte.
Non era il tipo di serata
che
aveva pensato di trascorrere.
Non avrebbe mai pensato che
avrebbe finito per inseguire Johannes nella Londra notturna, ma la sua
vita era
sempre piena di sorprese.
Pessime
sorprese. Quelle, e decisioni stupide.
Se c’era una cosa
che
l’Accademia di Polizia Magica gli aveva insegnato era che non
si inseguiva mai qualcuno senza
avere le spalle
coperte. Cosa che invece lui aveva fatto.
Certo, avrebbe potuto
giustificarsi dicendo se fosse tornato al pub a chiedere rinforzi
avrebbe
finito per perderlo, ma la verità era ben diversa.
Voglio
esser solo quando me lo troverò davanti.
Ad ogni buon conto, Johannes
era uscito da Diagon Alley, dirigendosi verso la Londra Babbana. La
gigantesca,
caotica e notturna metropoli che non dormiva mai. Era corso via dal
vicolo,
sfociando su Charing Cross Road e ora si stava facendo scudo con i
passanti,
scivolando tra un gruppo di studenti stranieri in vena di feste e una
coppia.
Perché
non si Smaterializza?
La risposta gli sovvenne
rapida come la domanda.
Non
vuole farlo. Vuole che lo raggiunga. Si è messo
fuori dal pub aspettando che uscissi.
Forse
era addirittura dentro, camuffato.
Sarebbe stato da lui;
osservarlo per tutta la sera e trovare il momento in cui era
vulnerabile per
approfittarne.
Strinse i denti
all’ondata di
rabbia che lo scosse; non aveva con sé la giacca e non
poteva occultare la
bacchetta, ma a quell’ora tarda nessuno faceva troppo caso ad
un uomo con un
legno che sprizzava scintille in mano. Per fortuna.
Johannes continuava a
distanziarlo, mettendo tra loro Babbani, persone indifese che avrebbe
potuto
uccidere o ferire se solo avesse tentato uno scontro in quelle
condizioni. Scontrarsi
era fuori discussione.
E
lui lo sa.
Si rese conto
dell’enormità della
sciocchezza che aveva commesso quando vide dove l’altro stava
puntando; alla
fermata metro di Leicester Square, alla fine della strada. Se fosse
sceso nelle
viscere della città le sue possibilità di
contattare Potter e gli altri si
sarebbero drasticamente ridotte. Si ficcò la mano nella
tasca posteriore dei
pantaloni e imprecò. Aveva lasciato il cellulare al pub.
Non aveva mai avuto troppa
simpatia per quel mezzo di comunicazione, e di conseguenza se lo
scordava
ovunque.
Doveva pensare, e in fretta.
Un
Patronus.
Era forse
l’incantesimo che
più gli dava problemi, ma era anche l’unico che
gli avrebbe permesso di
contattare Potter e gli altri. Si nascose nel vicolo accanto
all’entrata della
metro e si concentrò.
Pensa
a un ricordo felice …
Ricordava cosa gli aveva
detto
l’istruttore.
“Non
perdere tempo a cercare il ricordo giusto, Prince.
Ti arriverà come un flash, e sarà quello che
farà da vettore al tuo Patronus.
Non cercare di capire se è un ricordo felice. Lo sai, e
basta.”
Era semi-ubriaco, pieno di rabbia ed adrenalina. Non era difficile come
in
Accademia, era impossibile.
Doveva provarci comunque.
Pensò al bacio
con Ama quel
pomeriggio, pensò a quando Estevez gli aveva offerto per la
prima volta una
birra, pensò a quando aveva ricevuto il distintivo del
SAGITTA e a quando il
Capitano l’aveva lodato dopo aver chiuso il suo primo caso.
Pensò, ed era tutto
sbagliato.
Smettila.
Non pensare. Trova il ricordo.
Erano due, ma
perché gliene
servivano due: una mano secca, nodosa che gli accarezzava la testa. Suo
padre.
E un’altra, più piccola ed esile, che stringeva la
sua. Lily.
Avrebbero dovuto dirgli, in
Accademia, che la disperazione di non poter aver vicino qualcuno che
amavi poteva
darti la forza di spedire un Patronus nella notte di Londra.
****
Diagon Alley, nei pressi di Notturn Alley.
“Emil!”
Chiamarlo con il suo vero nome non stava sortendo nessun effetto, ma
neppure
chiamarlo con quello d’arte funzionava, quel Milo
che gli faceva sempre pensare ad una versione più beffarda e
triste del ragazzo che occupava i suoi pensieri.
Michel non ci aveva messo
molto per raggiungerlo, nonostante avesse avuto qualche minuto di
vantaggio su
di lui. Emil era uscito fuori in fretta e furia, ma aveva rallentato
vistosamente in direzione dell’entrata di Notturn Alley.
Quando lo raggiunse lo afferrò per un braccio; capiva il
motivo per cui se
n’era andato, ma non riusciva a trattenere il fastidio.
C’era
bisogno che rispondessi a tono a quell’idiota
ubriaco di Montague? Era chiaro che cercasse la rissa!
Non
potevi ignorarlo?
Emil si strattonò
via,
lanciandogli un’occhiata velenosa. “Quale parte del
fatto che non ti sto
rispondendo ti ha fatto pensare che voglia parlarti?”
Parlargli. Era un buon
segno;
non aveva detto che non voleva più avere a che fare con lui,
solo che non
voleva parlare con lui. “Perché te ne sei
andato?” Chiese, inspirando l’aria
malsana che filtrava dal vicolo sudicio. Gli pareva assurdo che il
ragazzo che
aveva di fronte lo avesse eletto a luogo in cui cercare conforto dopo
la scena di
prima.
Perché
è scosso.
Glielo leggeva dal modo in
cui
non riusciva a metter su la solita faccia da schiaffi. Gli occhi erano
cupi,
così come le spalle contratte, pronte ad assorbire un colpo,
a contrattaccare. Adesso
gli era chiaro perché non aveva ignorato Montague.
Era
pronto a far rissa quanto lui.
“Emil.”
Lo pregò.
Il tedesco si sottrasse una
seconda volta, schioccando la lingua. “Non ero una presenza
gradita al tuo
amichetto, no?”
“Terrance Montague
non è mio
amico.” Ribatté senza cadere nella provocazione;
stava testando le sue
resistenze e l’aveva accettato. Tuttavia era stufo di essere
usato come un
manichino per Duelli, pronto ad assorbire ogni colpo o malumore
dell’altro. “Ho
cercato di liberarmi di lui, l’hai visto benissimo.”
Emil serrò le
labbra, in una
smorfia riottosa. “Voglio andare a bermi una birra.”
“Dove, al Black Goose?” Non poté
trattenere il ribrezzo. Come poteva quella
bettola attirare l’attenzione di un ragazzo che si meritava i
locali più belli
di Londra?
Un lampo di collera
incomprensibile
balenò negli occhi del suddetto. “Sì,
al Black Goose.” Sputò fuori, la
voce resa gutturale
dall’accento. “Non è
il posto dove quelli come me devono stare?”
“Tu non
sei…”
“Sono.” Sbottò. “Falla
finita! Sei tu
che vuoi scordartene!” Stavolta urlò tirandogli
una spinta che lo fece
sbilanciare di alcuni passi. Un paio di passanti si fermarono a
guardare, ma ad
una sua occhiata tirarono dritto.
Vi
avranno pensato due disperati appena usciti da
Notturn Alley.
In quel momento non gli
importava; era importante invece quello che aveva appena
l’altro. “Pensi che mi
sia dimenticato del fatto che sei un Magonò?”
“Beh, sembravi
sorpreso quando
il tuo amichetto te l’ha fatto notare!”
“Montague non
è mio amico!” Ripeté
irritato. Non era da lui dare in escandescenze con la
possibilità di aver
pubblico, ma non riusciva ad aver ragione della profonda esasperazione
che
sentiva.
“È solo
un ex-compagno di
scuola. Gli amici me li scelgo meglio.” Continuò
guardandolo dritto in faccia;
essere sinceri era scomodo e imbarazzante, ma doveva
servire a qualcosa, o quelli come Malfoy erano felici per un
puro capriccio del caso. “Di cosa stiamo davvero
parlando Emil?”
“Della faccia che
hai fatto.”
Sì, aveva fatto una faccia. Ma non l’aveva
fatta per le
ragioni che l’altro credeva; era stato incapace di ribattere
a Montague non
perché si vergognava di essere in compagnia di Emil, ma
perché si era reso
conto che agli occhi di tutti avrebbe
dovuto farlo.
Perché
sei Michel Zabini, il Purosangue.
Avevano ragione Loki e
Scorpius,
era davvero diventato come suo padre. E la realizzazione era stata come
uno
schiaffo, secco e forte in faccia, che gli aveva tolto parole e
sentimenti.
Perché
non potrò mai essere come lui.
Inspirò. Farlo
capire a Emil
sarebbe stato un’impresa. “Hai frainteso.
È vero, ho dei pregiudizi che sono
duri a morire ma non li ho verso di te…”
“E perché sarei diverso dagli altri,
ah?” Lo stava canzonando ed era la cosa
che forse più lo feriva. “Perché mi
lavo? Perché non passò le mie giornate in
una taverna? Perché…”
“Anche.”
Lo fermò. Non poteva
negare di aver vissuto per anni credendo che alcuni cittadini del suo
Ministero
non valessero uno Zellino scheggiato. In parte lo pensava ancora.
“Tu sei diverso dagli
altri, Emil … e non
solo dai Magonò.” Continuò.
“Da chiunque, mago o Babbano che sia. Sei diverso
per me. È una
valutazione del tutto
soggettiva, lo capisco. Ma non dire che io e Montague siamo
uguali.”
Milo fece una smorfia e per un attimo Michel pensò che non
ce l’avrebbe fatta,
che gli anni di odio e diffidenza che l’altro aveva
accumulato nel confronti
dei maghi non avrebbero potuto esser cancellati solo da qualche invito
a cena e
da un biglietto del teatro. Al tempo stesso però sapeva che
Emil stava solo
aspettando il momento in cui avrebbe gettato la spugna.
Perché era chiaro, era
così che si aspettava che tutti facessero con lui.
Io
non sono tutti.
Fu il suo turno di
afferrarlo
per il bavero della maglietta; se lo spinse contro però, e
non lo allontanò.
Perché avrebbe dovuto? “Tu
non…”
Emil abbassò lo sguardo sulla mano stretta alla stoffa, e
Michel intuì di aver
fatto uno sbaglio nel momento in cui sentì un pugno
colpirlo. Sbatté contro il
muro, ma si fermò un momento prima di afferrare la
bacchetta. Emil lo fissava
ansante e rosso in viso, confuso, ferito e come sempre, bellissimo.
“Hai
intenzione di startene lì a prenderle?!”
Ringhiò ad un passo dal tedesco.
“Non ho intenzione
di fare a
pugni con te.” Si tirò su, passandosi una mano
sulle labbra e sentendo qualcosa
di viscido imbrattargli le dita. Sangue.
La
mia camicia nuova …
“Odio le
risse.” Lasciò che il
concetto permeasse nelle zucca fradicia di alcool dell’altro
e si avvicinò.
E poi gli sferrò
un pugno
nello stomaco.
Emil, che non se l’era aspettato – nessuno giocava
sul fattore sorpresa meglio
di un serpeverde – si piegò in due crollando in
ginocchio. Lo sentì tossire e
trattenere un conato, ma quando il viso aveva lo sguardo di nuovo a
fuoco.
“Stronzo…”
Tossì. “… da quando
i damerini Purosangue sanno picchiare così?”
Fece un sorriso amaro: una
confessione per un’altra, era così che funzionava,
e forse era il momento
giusto per fare quella più grossa di tutte. Quella che non
aveva mai portata
alla luce neppure con i suoi amici, neppure con Loki. Quella di certo
avrebbe
settato i loro rapporti su un altro livello.
In
bene o in male. Ma vale la pena provare.
Gli tese la mano ed
aspettò
che l’altro, orgoglioso ma dolorante, la accettasse.
“Non lo sanno fare
infatti … ”
Disse. Era così nascosto quel segreto, così tanto
al buio che ogni tanto anche
lui se ne dimenticava.
Però
c’è.
Milo tirò su con
il naso e
cercò le sigarette nella tasca. Quando gliene porse una
delle sue la accettò
senza far storie. “Sì, chiaro sei
l’eccezione.” Borbottò.
“No.
È che non sono uno di loro.” Gliela
accese, ed inspirò coraggio insieme al primo tiro
dell’altro. Si sentiva la
bocca secca e le mani sudate. Ed odiava sentirsi così
debole: ma Al gli aveva
detto che ne valeva la pena. Ed Al aveva una persona da amare. Quindi
…
“Non sono un
Purosangue.”
Emil aggrottò le
sopracciglia,
come se non avesse capito quello che gli aveva detto. Non poteva dargli
torto.
“Come non sei un
Purosangue?”
“È
quello che ho detto.” Prese
il fazzoletto dalla tasca e si tamponò il labbro dolorante.
Vedendo che l’altro
era incerto se mandarlo di nuovo al diavolo o cedere alla
curiosità, aggiunse.
“Mio padre … l’hai conosciuto, lo
è. Orgogliosamente tale. Dodici generazioni
senza una macchia, e considerando la facilità con cui mia
nonna si è risposata,
negli anni, è un traguardo considerevole.”
“Stai…”
“No, non sto scherzando.” Il tono in cui lo disse
chiuse la bocca
all’altro.
“È tua
madre?” Emil finalmente
afferrò il filo del discorso. Da come aveva rilassato le
spalle sembrava più
concentrato sulla nuova rivelazione che ad avercela con lui. Era
ciò a cui
aveva puntato.
Cerca
di non farti sfuggire di mano le conseguenze…
Quello che stava per
spiegare
era la parte oscura della sua infanzia, quello che nessuno
sapeva. Affidare un tale segreto al ragazzo che aveva
davanti era rischioso quanto giocare ad una roulette russa Babbana: in
fondo lo
conosceva da appena un mese.
Eppure
…
Sapeva di potersi fidare di
Emil; forse per i paralleli con la sua situazione, forse
perché aveva bisogno
di affidare a qualcuno se stesso, per una volta, e il ragazzo del
violino gli
sembrava la persona giusta.
È
così liberatorio…
“Mia madre
è Babbana.” Guardò
il sangue che imbrattava il fazzoletto.
Qualunque
proprietà magica abbia … è sempre
rosso.
“Tuo padre ha
sposato… No.” Si
fermò prima di continuare, intuendo. Era un ragazzo sveglio
e aveva vissuto per
undici anni nel gotha della
società
magica. “Una scappatella?”
“Una delle sue
amanti di
gioventù. A quanto sembra era così bella che il
suo stato di sangue passava in
secondo piano.” Fece Evanescere il sangue e ripose il
fazzoletto, pulito, nella
tasca dei pantaloni. “È una lunga storia, e
piuttosto banale … ma per farla
breve quando si lasciarono non gli disse che era incinta. Quando mio
padre lo
scoprì mi prese con sé, dandomi il suo
cognome.” Fece un sorriso stanco, perché
parlare di quello, come aveva immaginato, lo prosciugava di tutte le
energie.
“Ha invece lasciato che tenessi il nome … avevo
già tre anni, difficilmente
avrei risposto ad un nuovo battesimo.”
“E tua
madre?”
“Non avrebbe
potuto occuparsi
di me. Non ha mai avuto veri contatti con il mondo magico. E, per
quanto ne so,
continua a non averne.”
Emil lo guardò
senza parlare
per un po’; poteva immaginare il valore di quanto gli aveva
appena detto.
Per
un Purosangue della generazione dei nostri genitori
fare figli con una Babbana è quasi peggio che avere un
Magonò ad insozzare
l’albero genealogico.
Certo,
a meno di non chiamarsi Weasley.
“Sei la prima
persona a cui lo
dico.” Aggiunse. “Mio padre mi ha fatto giurare di
non farne parola con
nessuno.”
“Dovrei sentirmi
onorato?” Ma
non c’era cattiveria nel modo in cui lo disse. Si era calmato.
“Dovresti.”
Ribatté con un
mezzo sorriso che fu quasi ricambiato. Era un progresso.
“Michel Zabini il
Purosangue
non è un Purosangue.” Ad una sua smorfia si
strinse le spalle come per
scusarsi. “I tuoi amici lo sanno?”
“Te l’ho
detto, non lo sa
nessuno.” Ed era strano, spaventoso parlarne fuori dal
salotto di suo padre. Emil
si accorse del suo turbamento perché gli mise una mano sulla
spalla.
“Ehi.”
La mano era subito
scivolata lungo il collo, in una carezza. Non credeva di averne avuto
bisogno
fino a quel momento. “Non è che vado a spifferarlo
in giro. Un segreto per un
segreto, no?”
Michel sorrise appena.
“Giusto…”
Certo, era un mago, e in confronto ad Emil poteva considerarsi
privilegiato.
Nulla poteva far sospettare le sue origini, eppure era una cosa che era
marchiata a fondo dentro di lui: poteva nasconderla, poteva convincersi
che non
fosse vera … ma era lì, un costante di ricordo di
quanto sarebbe sempre stato imperfetto
agli occhi di suo padre.
Ecco
perché non salirò mai la scala gerarchica di
nessun Dipartimento come dovrebbe fare un vero figlio degli Zabini.
Non
me lo merito.
Ricacciò quel
grumo duro di
rabbia che provava ogni volta che ci pensava e sorrise. “Se
te l’ho detto non è
per farmi compatire … Del resto, la mia situazione non
è poi così tragica.
Fingere è semplice, e credo mi riesca bene.”
“Benissimo.” Ironizzò l’altro.
“Non tutti hanno questa fortuna.”
“La consideri davvero tale?”
Emil non rispose, accettando
il punto. Scrollò le spalle con un’occhiata
indecifrabile. “Ti va di tornare
alla festa?”
Era l’offerta di
pace peggiore
e insieme migliore che gli fosse mai capitato di sentire.
“No.” Ammise. “Sono
stanco e preferirei tornare a casa.”
Emil si ficcò le
mani in tasca
come faceva quando non sapeva dove metterle. Cioè sempre,
quando non era in un
letto o con in mano un violino. La qual cosa faceva tenerezza.
“Allora ci
becchiamo in gi…”
“In giro? E perché?” Lo fermò
perplesso. “Davo per scontato che tu venissi con
me.” All’espressione nuda e sorpresa
dell’altro – era chiaro che non si fosse
aspettato che lo volesse con sé –
scrollò le spalle. “Solo perché
litighiamo
non significa che ti voglia fuori da casa mia. Posso pensare che tu ti
sia
comportato da idiota … ma non cambia il fatto che mi
piacerebbe svegliarmi in
tua compagnia domattina.”
Non
ti abbandono.
Emil
aprì e chiuse la bocca,
fermandosi ad un passo dal dire qualcosa, una battuta forse, per poi
scrollare
le spalle per l’ennesima volta. Teneva le mani
così a fondo nelle tasche da
sformarle tutte. “Sei…”
Iniziò per poi corrucciarsi.
Non
ci crede.
Dietro la sicurezza in
sé
stesso e nelle sue capacità, Emil rimaneva il bambino che
non sarebbe mai stato
abbastanza per far sì che la sua famiglia lo tenesse con
sé.
E anche se le loro storie
erano diverse, la sensazione gli era familiare.
“Strano.”
Concluse per lui. “E
adesso sai perché. Andiamo a casa?” Gli tese la
mano.
L’altro
abbozzò un mezzo
sorriso e gliela prese. “Basta che non usiamo la
Smaterializzazione.”
Non gliela lasciò
neanche
quando decisero di prendere un taxi.
****
Leicester
Square, Metro.
Scendere la metro di
Leicester
Square era stato come entrare
in una
specie di sogno. O incubo, che dir si volesse. Aveva a malapena
realizzato di
aver sceso le scale mobili, lunghe e che sembravano finire nelle
viscere stesse
della terra. Di solito erano il genere di marchingegno Babbano capace
di
mettergli addosso un’inquietudine terribile. Non stavolta:
era stato troppo
occupato a settare ogni suo singolo pensiero su due parole.
John
Doe.
Corse fino ai binari,
tenendo
la bacchetta in pugno e fregandosene che qualcuno potesse vederla; a
quell’ora
per fortuna i Babbani erano pochi e talmente insonnoliti o ebbri da non
badare
a nessuno se non a loro stessi.
Inspirò
bruscamente, sentendo
l’aria viziata di quel sotterraneo dargli uno schiaffo umido
in faccia; c’era
riuscito, era riuscito ad intercettare Johannes prima che prendesse un
treno.
L’uomo se ne stava
a limitare
della linea gialla, osservando con curiosità la
pubblicità squadernata a grandi
lettere di fronte a lui; indossava un vestito di buona fattura, ora che
si era
liberato degli stracci da mendicante e sembrava appena uscito da una
cena
elegante: sbarbato, con i capelli biondi rasati sulle tempie, era
giovane. Era
il Camaleonte, John Doe, Johannes e adesso Johan.
“Johannes…”
Lo chiamò con il
nome con cui l’aveva conosciuto e si stupì del
ringhio basso che gli uscì dalla
gola. Riusciva ad esprimere il suo stato d’animo
perfettamente però.
L’altro mago si
voltò, con uno
di quei suoi sorrisi canzonatori per cui era diventato famoso. Li aveva
visti
tutti i giorni per più di un decennio, li aveva stampati a
fuoco nella memoria,
un eterno memento di quando la gente pensava che li avessero condivisi.
“Sören.
Quanto tempo, eh?” Esordì
in tedesco. “Ti vedo bene … Capelli e vestiti da
Babbano, come piacciono agli yankees.
Ti sei proprio ambientato nel
Nuovo Mondo!”
“Metti la
bacchetta bene in
vista.” Scandì puntandogli contro la sua. Era una
fortuna che la banchina fosse
deserta o non era sicuro di come sarebbe riuscito a muoversi con dei
testimoni.
O meglio, sapeva come comportarsi in presenza di Babbani e con una
caccia
all’uomo in corso, ma quello era John
Doe,
non un mago qualsiasi.
L’altro, che aveva
le mani in
tasca, le alzò, mostrando la sua bacchetta. Quante volte
l’aveva vista in
azione? Bastò il ricordo a fargli scendere un brivido lungo
la schiena.
Hai
ancora paura. Puoi batterlo, l’hai già fatto una
volta, e non sei più quello di un tempo.
Ma
ti fa ancora paura.
“È
così che saluti un vecchio
amico?” Assunse un’espressione ferita. Gli occhi
slavati brillavano di
divertimento: si divertiva perché annusava cosa gli si
agitava dentro. “Non ci
vediamo da cinque anni e tutto quello che sai fare è giocare
al poliziotto?”
“Io non
gioco.” La presa sulla
bacchetta si stava facendo bollente e sentiva il sudore colargli sulle
tempie.
Faceva caldo, in quella Londra maledetta. “E non siamo
amici.”
“Lo siamo stati però, no? Un po’
più gentile in memoria del vecchi tempi?”
“Metti la
bacchetta a terra e
spingila verso di me con il piede.”
Johannes sorrise pigro, ma si chinò come gli aveva ordinato.
“Ti hanno insegnato
bene dall’altra parte dell’oceano, sei proprio una
testa di latta zelante adesso…
ma lo sei sempre stato in fondo. Un bravo e ubbidiente
soldatino.” Osservò come
se stessero scambiandosi parole cordiali; avrebbe pagato oro sonante
per
cancellargli quel ghigno dalla faccia. Per ucciderlo. Ma si rendeva
conto,
nella nebbia della rabbia e dell’ansia che gli ingolfavano il
cervello, che
ucciderlo avrebbe significato perdere la possibilità di
trovare dove
fabbricavano il siero e di salvare le cavie rapite.
E l’uomo che era
diventato non
poteva permetterlo.
Fece un passo in avanti.
“La
bacchetta.” Le scintille che mandarono la sua convinsero
l’altro a calciarla
nella sua direzione con una certa rapidità. La prese,
mettendosela in tasca.
“Che ci fai qui?”
Perché era ovvio
che avesse un
piano, o non lo avrebbe aspettato fuori dal pub per attirare la sua
attenzione
con la pantomima del mendicante.
Johannes alzò le
spalle. “Sono
a Londra di passaggio, e mi è venuto voglia di vedere come
te la passavi.”
“Menti.”
“No, affatto.” Negò divertito.
“Abbiamo passato anni a lavorare gomito a
gomito, ragazzo … Sono un nostalgico, mi conosci.”
“Dimmi perché sei qui.” Ripararsi dietro
la sua uniforme – che non indossava,
ma che sentiva sempre addosso – stava funzionando. Doveva
continuare. Doveva
essere Prince l’agente, e non Sören il mago che non
riusciva ad essere oscuro.
“Perché
le nostre strade si
sono incrociate per tutta questa storia del Demiurgo, no? A proposito,
come
stanno andando le vostre ricerche? Le nostre non tanto bene
… Brutta faccenda
se chiedi a me.”
“Non parlarne come
se fossimo
dalla stessa parte!” Sbottò senza riuscire a
frenarsi. Dal sogghigno che fece
l’altro capì di essere scivolato nello schema
comportamentale che aveva quando
ancora lavoravano assieme. “È colpa vostra se un
mago è morto e se altri stanno
rischiando la vita! Tua e…” Si bloccò
sentendo qualcosa bloccargli la gola. Non
era un incantesimo né opera di Johannes.
Era una parola, un nome per
chiamare una persona che non sarebbe mai stata tale.
L’altro mago
inarcò le
sopracciglia. “… di tua madre? Guarda che non ti
scotti la bocca a pronunciare
il suo nome. Ero a cena con lei, tra l’altro … per
questo sono vestito come un
pinguino.” Argomentò indicando con un cenno del
mento i propri vestiti. “Era
stufa di star chiusa in una stanza … l’ho portata
a prendere un po’ d’aria, Londra
le…”
Abbassò lo
sguardo mentre la
mano tremava per lo sforzo di tener alta la guardia e soprattutto tener
ferma
la bacchetta. Avrebbe finito per spezzarglisi in mano. “Non
parlarmi di lei.”
Sbottò. “Non osare…”
“Sei arrabbiato.” Considerò con un mezzo
sorriso. “Comprensibile. Scoprire da
un gruppo di auror perdigiorno che è ancora viva
dev’esser stato brutto.”
“Ti ho
detto…”
“Sören.” Alzò gli occhi,
trattandolo come il bambino che aveva allenato per
anni. Con la stessa, inadeguata confidenza. “Tu
più di tutti dovresti capire
perché l’ha fatto … Hai avuto a che
fare con il vecchio Alberich. L’unico modo
per sfuggire al vecchio era morire, o fingersi morti. Ha funzionato per
quel
moccioso di suo figlio, ha funzionato anche per lei.”
“Non mi
interessa.” Avrebbe
voluto dirlo avendo la coscienza a posto. Intendendolo davvero. La
verità era
molto più umiliante e complessa e non l’avrebbe
certo discussa lì.
“Non ho mai avuto
una madre.”
Johannes fece spallucce. “Vero. Ma non esser troppo duro con
lei. Anche lei è
stata una vittima di Alberich … Puoi negarlo?”
Rimase in silenzio,
lasciando
che l’altro desse aria alla bocca. Parlare era la cosa che
più gli piaceva. E
anche quella che finiva per tradirlo. “Tutto sommato, sei
venuto fuori a posto
per gli standard del mago comune.” Allargò le
braccia, teatrale e beffardo come
sempre. Non era cambiato di una virgola. “Sei addirittura un
difensore della
legge! Un po’ ipocrita secondo me, ma hai sempre voluto
essere un bravo ragazzo,
chissà perché poi …
Non è noioso?”
Riusciva ancora a ferirlo.
Riusciva ancora a colpirlo dove faceva più male,
distogliendolo da quello che
avrebbe dovuto fare.
Ma a differenza di un tempo,
non doveva sottostare ai suoi lazzi per non contraddire suo zio.
“Faccia a
terra.”
Johannes sospirò
come se non
avesse percepito nulla della rabbia che lo infiammava. “Non
finirà con me alla
centrale Auror.”
“Saresti pronto a scommetterci?” Aveva la sua
bacchetta, lo aveva a distanza di
tiro. Sarebbe finita così.
… ma se aveva
imparato una
cosa di Johannes era che manteneva la parola solo quando si trattava di
smentire qualcun altro.
L’altro di colpo
guardò verso
l’entrata dell’ascensore, che dalla piazza portava
diretto fino ai binari. Non
l’aveva notato fino a quel momento.
Le porte si aprirono e
Sören
realizzò troppo tardi che era perché, ovviamente,
qualcuno stava uscendo. Una
considerazione che Johannes non mancò di fare da come si
spostò rapido come il
serpente che era. Afferrò chi vi usciva, una ragazza,
frapponendolo tra di
loro. Qualcosa di argento balenò contro la gola nuda della
Babbana, che gridò
spaventata.
Un
coltello.
Non aveva pensato a
controllare se avesse un dannato coltello.
“Quale ti ho
sempre detto
essere il tuo difetto principale?” Gli chiese serrando la
presa sulla poveretta
che impallidì e chiuse la bocca, immobile come un cervo di
fronte ai fari.
“Manchi di creatività!”
Mi
ha fatto parlare. Mi ha fatto aspettare non per far
arrivare il treno … Ma perché aspettava un
ostaggio con cui scappare.
“Lascia
la ragazza!” Si sentiva ridicolo
a gridare a vuoto, perché questo stava facendo. Johannes non
avrebbe lasciato
la presa, come lui non avrebbe potuto impedirglielo, non a rischio di
uccidere
l’ostaggio.
L’altro mago fece
un
sorrisetto divertito. “No, direi di no.”
E si gettò trai
binari.
****
Diagon
Alley, Finnigan’s Wake.
James strisciò la
sigaretta
sul muro del pub, soffiando via l’ultima boccata.
“Per le mutande di Merlino,
Malfoy … sei ancora vivo?”
Era una domanda legittima visto che l’amico stava vomitando
l’anima, prezzo
inevitabile da pagare quando non si riusciva a dire di no ai tanti giri
offerti
in proprio onore.
Scorpius emise un gemito, soffocando l’ultimo conato e
rimediandosi così una
pacca sloga - vertebre. “Sto … morendo?”
Si informò pallido come un cencio e con
il viso chiazzato di rosso.
“No, sei solo
ubriaco
fradicio.” Ridacchiò massaggiandogli amichevole la
schiena. Il suo migliore
amico era come un bambino in un negozio di caramelle quando si trattava
di
festeggiare: non riusciva a mettersi un freno, quindi era compito suo
fare la
persona ragionevole. Con tutta la faccenda di Ben stava quasi
cominciando ad abituarsi.
“Alza il culo, ti porto a casa.”
“Ma la mia festa non è ancora finita!”
Si lagnò aggrappandoglisi ad un braccio.
“Voglio ballare!”
“Hai ballato a sufficienza, e con più uomini di
quanto un etero dovrebbe fare.”
Sbuffò divertito.
“Questo
è perché ho promesso a
Rosie di non ballare con le donne, non è che avessi
scelta!” Si imbronciò.
“Comunque tuo fratello è un ballerino migliore di
te!”
“Sì, è una fortuna che Tommy si fosse
addormentato sul tavolo o non avrebbe
gradito tutte le piroette che gli ha fatto fare.” Lo
tirò su, rassettandogli la
camicia alla bell’e meglio. “Avanti, andiamo dentro
e saluti tutti.”
“Non voglio!” Si impuntò.
“È la mia festa! Deve continuare sino alle prime
luci
dell’alba!”
“Non ci arrivi alle prime luci dell’alba Malfuretto
…” Decise di giocare
pesante. “Non vuoi che chiami Rosie, vero? Guarda che la
sveglio e te la passo
incazzata.”
L’altro
boccheggiò con aria
tradita, prima di borbottare qualcosa ed incamminarsi ubbidiente e
basculante
verso l’entrata. Si
scontrarono così con
i due auror della scorta di Prince.
E James realizzò
in quel
momento che era un po’ che non vedeva il pipistrello. Non che
gli avesse dato
molta attenzione durante la serata; anche se condividevano una festa,
questo
non significava dovessero esser costretti a parlare.
E
poi è stato tutto il tempo appiccicato al culo di
Tommy o quello di Dion.
Aveva la coscienza a posto.
Non
che me la debba sentir sporca … Non lavora più
con
noi e non sono la sua balia!
“Ehi,
dov’è Prince?” Chiese comunque
ai due, con un tono di comando che risultò ridicolo visto
che aveva perso la
camicia a carte e sorreggeva a fatica Malfoy, che canticchiava a mezza
voce una
ballata sentimentale su una Babbana di nome Jolene, rea di avergli
soffiato
l’uomo.
I due si scambiarono
un’occhiata nervosa. Non era un buon segno. “Non
è con voi?” Tentò uno dei due,
una recluta dell’infornata di quell’anno.
“Ci ha detto che
usciva a
fumare.” Aggiunse l’altro, più anziano e
autorevole. Si chiamava Cutting ed era
nella squadra di suo zio Ron. “Non aveva una bella faccia e
abbiamo pensato di
lasciargli qualche minuto di privacy.”
In sé quello che
gli stavano
dicendo non era preoccupante, ma lo erano le espressioni ansiose.
“Da quant’è
che è uscito? Perché noi non l’abbiamo
visto.”
Cutting fece una stima veloce a mente. “Una ventina di
minuti, non di più.”
Dichiarò. “Vi abbiamo visti uscire e abbiamo
pensato che fosse con voi.”
“Avete pensato
male.” Ma non
poteva biasimarli; l’atmosfera del pub era rilassata e
quell’angolo di Diagon
Alley era famoso per essere tranquillo, tranne qualche occasionale
scazzottata
tra ubriachi. Oltretutto, Prince era la tipologia di rompipalle che
odiava
esser seguito quando aveva i cinque minuti.
Non
dev’esser stata la prima volta che li ha mandati al
diavolo per starsene per conto suo.
“Chiamo
l’albergo.” Decise
Cutting mentre l’altro stava chiaramente chiamando il
tedesco. “Forse si è
Smaterializzato direttamente a letto.”
“Ha il cellulare
staccato.”
Soggiunse il più giovane con l’aria di chi se
l’era aspettato. “Parte la
segreteria.”
Oh,
dannazione.
Appoggiò Malfoy
al muro, e gli
diede uno schiaffo sulla testa per attirare la sua attenzione.
“Malfuretto,
Prince se n’è andato. Tornatene dentro, chiama
fuori Bobby e fatti portare a
casa da qualcuno, okay?”
Scorpius batté le
palpebre.
“Sören … è cosa?”
Cercò di afferrare il concetto, ma scosse la testa.
“… Dov’è
andato?”
“Va’ a
chiamare Bobby.” Ripeté.
“Io resto qui e chiamo quel suo assistente …
Dentro non c’è
campo manco a crepare.”
Scorpius parve finalmente recepire l’ordine,
perché rientrò. Dopo pochi attimi,
mentre il cellulare di Meinster squillava a vuoto – ma almeno
era acceso - lo
raggiunse Bobby.
“Ehi, Sy mi ha detto che Sören se
n’è andato, qual è il
…” Diede un’occhiata
agli altri due auror ed assunse un’aria consapevole.
“ … Se n’è andato senza
scorta. Fantastico.”
Finalmente Meinster gli rispose. Aveva un tono di voce roco, da letto e
anche
abbastanza scazzato. “Chi è?”
“Potter,
James.” Si identificò
con il tono da auror in servizio. Anche se non lo era. Aveva un gran
mal di
testa però. “Prince è con te?”
“Non me lo porto
dietro quando
scopo.” Fu la risposta ovvia.
James provò
simpatia verso
quel tizio, il cui mestiere era stare dietro alle beghe di
un’idiota con la
sindrome da anti-eroe. Ma non poteva distrarsi. “Prince se
n’è andato senza
notificarlo alla sua scorta.”
Ci fu un breve silenzio all’altro capo del filo.
“… Se ne sarà dimenticato.”
Tentò, ma non aveva più il tono di voce di chi
considerava quella telefonata
una scocciatura. “Non ha detto a nessuno dove
andava?”
“Solo che andava
fuori a
fumare. Secondo i ragazzi sembrava star male, hanno pensato dovesse
prendere un
po’ d’aria.” Il tipo gli sembrava
abbastanza sveglio da poter essere d’aiuto.
“Prince si scorda cose come questa?”
“… no,
di solito no. Magari aveva
finito le sigarette ed è andato a ricomprarle? Si fotte
sempre le mie.”
“È
sparito da quasi mezz’ora.”
Un’altra pausa.
“Controllate
in albergo. Posso farlo anche io, se serve.
Serve…”
“No, ci pensiamo
noi.” Voleva
evitare di coinvolgere civili in una caccia al mago che forse non aveva
neanche
motivo di essere. “Scusa se ti ho disturbato.”
“Non ha bevuto
tanto.” Lo
fermò il ragazzo. “Almeno per i suoi standard. Se
è uscito non credo sia
stato per prendere
una boccata d’aria.”
Rimase un attimo in silenzio. “ … per caso ha
parlato con Ross?”
“Scott?”
Aggrottò le
sopracciglia, mentre Cutting chiudeva il telefono e gli faceva cenno di
no con
la testa.
Merda,
non è neanche in albergo.
“Cosa
c’entra il ragazzo di
mia sorella?”
“…
niente.” Disse in fretta
l’altro. Troppo in fretta, quasi si pentisse di essersi
lasciato andare in
quella che doveva aver considerato una confessione.
“Probabilmente non c’entra
niente. Sentite, mi vesto e vado a cercarlo anch’io. Forse ha
deciso di finire
la serata da un’altra parte. A volte lo fa. Se lo trovo lo
spedisco a letto e
vi chiamo.”
“Ti
ringrazio.”
Chiuse la comunicazione con
l’impressione che quel Meinster non gliel’avesse
contata giusta. Ma Ross non
poteva essere coinvolto nella sparizione del pipistrello.
Non
si sono rivolti la parola per tutta la serata.
La cosa era strana,
però,
considerando che a sentir sua sorella erano in rapporti cordiali.
Certo, non
c’era Lily di mezzo a far da banco come suo solito,
però …
“Che
facciamo?” Lo riscosse
Bobby. “Quelli dell’albergo dicono che Prince non
è ancora rientrato.”
“Secondo il suo assistente può essere andato a
smaltire la sbornia da qualche
altra parte. Hai provato a chiamarlo allo Specchio Magico?”
“Non ce
l’ha, lo sai.”
James si passò
una mano trai
capelli. Avrebbe voluto prendere a calci il culo rinsecchito di quel
cretino
capace solo di mettersi nei guai e farli preoccupare tutti a morte.
Merlino,
che spina nel culo!
“Ehi, ma quello
non è un
Patronus?” Esclamò Bobby attirando la sua
attenzione.
Lo era, perché
solo un
Patronus poteva brillare di luce propria persino in una via illuminata
quasi a
giorno qual’era Diagon Alley. L’essenza argentata
sfrecciò nella loro
direzione, i contorni sempre più nitidi. Era
un’aquila.
Sbatté le ali e si posò sull’insegna
del pub. Quando parlò, aveva la voce di
Prince.
“John
Doe è qui, a Londra. L’ho inseguito fino a
Leicester Square. Sta
scendendo verso la metro, e temo vorrà prendere un treno.
Richiedo assistenza.”
Il messaggio si concluse
quando l’aquila si dissolse nel nulla in uno sbuffo di fumo
argentato.
Richiede
assistenza?!
Quel
coglione!
James
imprecò violentemente e
dall’espressione di Bobby fu certo che
era
tentato di imitarlo, nonostante fosse una tra le persone più
educate che
conoscesse. “Chiamate il sergente Weasley!” Disse,
perché lì non era il caso di
far le cose da soli. John Doe era stato creduto morto per ben due
volte. Non
c’era da rischiare con un tipo del genere.
“Tiratelo giù da letto e ditegli che
Prince è sulle tracce di John Doe, e noi sulle
sue.” Diede una pacca sulla
spalla a Bobby e questo bastò. Si Smaterializzarono,
direzione Leicester
Square.
****
Stazione
metro di Leicester Square.
John Doe si era buttato sui
binari della metro.
Ovviamente erano vuoti e a
Sören era bastato poco per decidere il da farsi;
l’aveva seguito, dando
un’occhiata rapida al tabellone dei tempi di attesa: aveva
solo due minuti
prima che il treno della linea per Piccadilly passasse, rendendo vano
ogni suo tentativo
di inseguirlo. Se un convoglio di quella lunghezza si fosse messo tra
di loro,
Johannes avrebbe potuto dileguarsi nel nulla senza problemi.
“Johannes!”
Gridò nel buio intervallato dagli occasionali neon di
sicurezza. “Lascia la ragazza!”
Il rumore di passi concitati a qualche metro da lui, oltre che i
singhiozzi
terrorizzati della Babbana, non lasciavano dubbi sul fatto che
l’avesse presa
per usarla come scudo umano.
Non
posso lanciargli un incantesimo di Pastoia così. La
tiene troppo vicina a sé, rischio di colpire anche lei.
Incantesimi offensivi del
genere sui Babbani erano pericolosi; non reagivano come i maghi e
c’era un
concreto rischio di danneggiarle il sistema nervoso, con ripercussioni
addirittura
irreversibili.
Non
posso rischiare di paralizzarla per sempre. E lui
lo sa.
La sua priorità
non era più
catturare un ricercato, ma mettere in salvo la ragazza prima che
l’altro
decidesse di disfarsene.
Le
basterebbe spingerla sulle rotaie al passaggio del
treno. Troppe variabili. Variabili ed un ostaggio.
Per come stavano le cose
qualsiasi
decisione avesse preso avrebbe potuto essere fatale per la Babbana.
…
cosa faccio?
Era da solo: non
c’era Estevez
con lui ad indicargli la cosa morale da fare, né Ama a
dargli ordini. Non c’era
neanche quel fastidio continuo di Potter, né i buoni
consigli di Scorpius o
Jordan.
Doveva decidere, e in fretta.
Di colpo sentì un
gran stridio
di freni e un bagliore apparve dove il tunnel curvava bruscamente.
Il
treno!
Era arrivato prima del
previsto. Vide l’ombra di Johannes accelerare il passo
trascinandosi dietro
l’ostaggio e intuì che stava cercando
disperatamente un posto in cui
accucciarsi per evitare un frontale dato che senza bacchetta non poteva
Smaterializzarsi.
Cerca
di evitarlo …
Osservò
l’andamento delle
rotaie, lo spazio che c’era tra esse e il muro.
Calcolò, stimò e realizzò.
Posso
sfruttarlo.
Era una mossa che definire
azzardata era dir poco, ma era anche l’unica che poteva
funzionare.
Corse, proprio mentre il
treno
entrava nella galleria. Dieci, nove, otto … cinque metri. I
fari del locomotore
illuminavano a giorno le rotaie dandogli una visuale perfetta.
Posso
Smaterializzarmi.
Ed è quello che
fece. Sentì
l’aria stringerglisi addosso in una morsa e
visualizzò la meta successiva.
Due secondi dopo Riapparse,
usando la forza di impatto sul lato del vagone per gettarsi su Johannes
e placcarlo
contro il muro. L’uomo ringhiò di dolore e
sorpresa e poi rotolarono entrambi a
lato delle rotaie. Lanciò uno sguardo verso
l’ostaggio: come aveva pianificato
era bastato quello spostamento d’aria per gettarla al sicuro,
ad un paio di
metri da loro. Tenne la bacchetta puntata al collo dell’altro
mago, e alzò lo
sguardo per controllarla con più attenzione. Era sottoshock,
con le calze
strappate ma il treno appena passato non l’aveva sfiorata.
Inspirò sollievo
e poi le si
rivolse. “Va tutto bene.” Ansimò
sentendo un dolore acuto alla spalla destra e
a gran parte del fianco. L’impatto gli aveva dato la spinta
necessaria ma gli
effetti collaterali lo avrebbero reso dolorante per giorni. Forse si
era rotto
anche qualche costola. “Va tutto bene, sono … sono
un agente di polizia. Come
ti chiami?”
La ragazza guardava da lui
alla bacchetta ma rispose. “Olivia…”
“Olivia, devi
andartene. Non
posso accompagnarti.” Non avrebbe fatto l’errore di
lasciare Johannes privo di
sorveglianza. Non più. “Torna indietro, segui le
luci di sicurezza e risali i
binari. Troverai … troverai la mia squadra.” A
quel punto il Patronus doveva
essere giunto a destinazione: Potter e gli altri dovevano essere in
dirittura
d’arrivo. “Si prenderanno cura di te.”
La ragazza, sebbene con le
gambe che le tremavano, ubbidì: la paura di rimanere
lì, al buio e con due
uomini capaci di sparire e riapparire dal nulla, fu più
forte dello shock.
Sören la vide
scomparire lungo
la galleria e finalmente poté dedicarsi a Johannes.
L’uomo era schiacciato a
terra dal suo peso, con la bacchetta puntata alla nuca e sembrava non
aver la
minima intenzione di muoversi, ma aveva imparato a non fidarsi.
“Mi ricordo che
ami le
scommesse.” Esordì voltandolo e puntandogli il
legno alla gola. “Ma hai perso.”
Johannes
ridacchiò. Fu un
suono così strano, così inquietante che gli venne
automatico stringere la presa
sulla bacchetta. Una scintilla rossa ne scaturì bruciandogli
parte della
cravatta. Nessuno dei due ci fece caso.
“Cosa
c’è da ridere?”
“Niente
principino…” Ghignò
con espressione beata. “… se fossi in te mi
preoccuperei dello stato della mia
spalla.”
“La mia spalla sta benissimo.”
“Non vuoi proprio
controllare?
Non che serva, tanto è già in
circolo…”
In
circolo cosa?
Sören
spostò lo sguardo e poi la
vide. Una siringa, di quelle Babbane, era
conficcata nella giuntura della scapola. Il dolore che sentiva non era
dovuto
alla botta presa.
“Cosa mi hai
fatto…?”
L’adrenalina aveva mascherato i sintomi, ma adesso sentiva la
bocca secca e la
testa pesante. La vista cominciò ad appannarglisi e per
quanto tentasse di
mettere a fuoco, per quanto si fosse strappato la siringa …
…
l’aveva drogato.
“Troppo
tardi.” Replicò
tirandogli una spinta che lo trovò inerme: non riusciva
neppure più a stringere
la bacchetta, che rotolò a lato. Cadde a terra mentre
l’altro si rialzava
spazzolandosi i vestiti. “Chi ti ha insegnato tutto quello
che sai? Io.” Si
accovacciò alla sua altezza. “È
come leggere un libro che hai imparato a memoria … Certo,
non mi aspettavo quel
placcaggio da bruto, ma del resto adesso sono gli yankees
a tenerti a guinzaglio, no? Ti devono aver insegnato un
paio di cosette.”
Sören
provò a dire qualcosa, a
parlare, ma il solo tentare gli prosciugò ogni forza.
Precipitò nel buio.
“Non abbastanza
però.”
Guardò il ragazzo
perdere i
sensi e fece una smorfia; davvero quel placcaggio non se
l’era aspettato.
C’è
mancato poco che mi ammazzasse.
Si chinò,
estraendo dalla
tasca della giacca la custodia della siringa. Dopo averla strappata
dall’altro
ve la inserì ed un veloce incantesimo di pulizia la
liberò del narcotico
Babbano che aveva usato.
E
bravo Loher. Ha funzionato alla perfezione.
Una volta sterilizzata lo
voltò di schiena, reclinandogli la testa per scoprirgli la
nuca. Fu lì che
prelevò il sangue: dove nessuno avrebbe potuto vedere il
segno della puntura.
Premette con il fazzoletto il punto in modo che non sanguinasse
vanificando i
suoi sforzi, e poi si alzò: il marmocchio non si sarebbe
svegliato prima di
qualche ora, con un gran mal di testa e nessuna idea su quello che gli
era
stato fatto.
“Sogni
d’oro, principino.”
Era ora di tornare dalla sua dama e continuare la serata.
****
Ron Weasley odiava essere
svegliato nel cuore della notte. Odiava soprattutto esser buttato
giù dal letto
da sua moglie, scarmigliata e di pessimo umore. Ma ciò che
detestava sopra ad
ogni cosa era doversi vestire in fretta e furia e Smaterializzarsi a
Londra
perché un agente si era cacciato in un guaio.
Solo
che stavolta non si tratta di una recluta
dell’Accademia …
Ma
di Prince.
Avrebbe dovuto dar retta ad
Hermione e al suo buonsenso e accettare quel posto di vice al fianco di
Harry
che da anni l’amico gli proponeva.
Almeno
adesso starei dormendo come lui. Timbracarte,
sì, ma con cicli del sonno normali.
“Coprite tutte le
uscite, nessun
Babbano o mago deve entrare!” Ordinò alla sua
squadra. “Hobbs, Wilkins, contattate
la sala macchine di questo posto o quel che è. Devono
chiudere la fermata,
chiaro?”
“Ricevuto Sergente.” Replicarono Trasfigurando
l’uniforme in quella dei bobby
della Polizia Metropolitana.
“Ehi, zio.” James aveva l’alito che
conteneva un’intera distilleria ma era più
sveglio e incazzato di tutti loro messi assieme. Non aveva avuto cuore
di
lasciarlo indietro, né lui né Jordan.
“I ragazzi hanno trovato questa a
terra…”
Gli porse una bacchetta. “Non è di
Sören.”
“John Doe?” Intuì rigirandosela tra le
mani: era una bacchetta poco lavorata,
di quelle che si trovavano nelle botteghe degli Artigiani a poco
prezzo. Era il
classico legno che potevi comprare per meno di un Galeone.
Probabilmente
è quella di scorta.
La porse ad uno degli auror.
“Questa la portiamo in ufficio.” Poi si rivolse al
nipote dandogli una pacca
sulla spalla. “Muoviamoci.”
Scesero le scale mobili e
Ron
fece cenno a due auror di rimanere sulla banchina; per quanto ne
sapevano John
Doe poteva essere ovunque, persino sotto le panche addossate al muro.
“Ci beccheremo un
treno in
fronte…” Borbottò James, la cui poca
passione per i cunicoli bui era nota a
tutti. Non lo biasimava.
“Non se Hobbs e
Wilkins fanno
il loro lavoro.”
“Se fermiamo i treni blocchiamo la circolazione …
Potremmo rischiare d’attirare
troppa attenzione.” Si inserì Jordan. “E
comunque c’è spazio sufficiente tra le
rotaie e il muro per…”
“Va bene, va bene. Vediamo di fare in fretta
allora.” Tagliò corto: tutta
quella faccenda gli ricordava sin troppo il suo primo – e
fortunatamente –
ultimo incontro con le Acromantule. “Andiamo
dentro.”
Scesero le scale di
emergenza
e fu James il primo a mettere piede a terra. Guardò verso
l’entrata del tunnel
ed aggrottò le sopracciglia. “Ehi, mi
sembra…” La sua frase fu bloccata quando
una ragazza, del genere molto Babbano e molto terrorizzato,
uscì correndo come
se avesse degli Inferi alle calcagna.
“Oh,
Dio!” Urlò vedendoli e
gettandosi tra le braccia di James. “Grazie a Dio
… c’è … ci sono delle
persone
… loro…” Balbettò sconnessa.
“Mi crederete pazza!”
“Si calmi.” James se la staccò di dosso
senza troppo garbo. “Come si chiama?”
“Olivia…
me l’ha chiesto anche
quel tipo … Mi ha detto che avrei trovato altri
come lui…” Guardò i jeans e la
canottiera di James con aperto sollievo. Quando
guardò nella sua direzione Ron si sentì
incredibilmente inadeguato in mantello
ed uniforme. “… è una specie di scherzo?
Una candid-camera?! Perché sono stata presa e
trascinata…”
Jordan le mise una mano
sulla
spalla con fare rassicurante. “Va tutto bene Olivia. Puoi
descriverci i due
uomini?”
Il tono dovette convincerla
che, anche se non erano dello Yard,
erano comunque agenti di una forza
dell’ordine. “Uno era alto, con i capelli rasati e
indossava uno smoking …
l’altro era un ragazzo della mia età coi
capelli neri.” Fece una pausa. “Quello alto mi ha
preso dall’ascensore … mi ha
rapito!” Aggiunse e Ron inquadrò la situazione:
Doe aveva preso un ostaggio e
Prince l’aveva inseguito. “Il ragazzo
…” Esitò mordicchiandosi le unghie.
“… sembrava un
poliziotto perchè ha
aggredito il tipo alto e l’ha messo a terra,
ma…”
“Olivia,
l’agente Jordan qui
si prenderà cura di te, okay?” James spinse la
ragazza nelle braccia del
partner senza troppi complimenti. Ron poteva sentirlo scalpitare in
attesa di
entrare in azione.
“Su, è
il caso di respirare un
po’ d’aria fresca…” Gli fece
eco Bobby, e quando gli passò accanto Ron sillabò
la parola ‘Obliviatori’. Il ragazzo
annuì.
Pure
una Babbana di mezzo … Domani mi cadrà la mano da
quante scartoffie dovrò compilare.
Rimasti con il nipote e
altri
due agenti della sua squadra fece un cenno verso il tunnel.
“Muoviamoci. E
bacchette alla mano.”
Si incamminarono nel buio
del
tunnel, inframmezzato dalle fioche luci di emergenza che correvano
lungo i muri
stillanti umidità. “Zio…”
James si fermò
di colpo, indicando qualcosa a ridosso delle rotaie. Era un corpo.
Prince?
Non fermò il
nipote quando
corse verso il tedesco riverso a terra. Fece poi cenno di avvicinarsi
agli
altri due agenti per far luce con le proprie bacchette: Prince non
aveva graffi
o sangue che facessero pensare ad una colluttazione, ma era privo di
sensi.
“L’Innerva non funziona!”
Mormorò pallido James scuotendolo per le
spalle. “Che cavolo ha?”
Nessuno di loro era un
Guaritore, ed era palese che Prince ne avesse un gran bisogno.
“L’unica
soluzione è portalo al San Mungo. Noi continuiamo
… se c’è traccia di quel
bastardo dobbiamo stanarlo.”
Si sarebbe aspettato una
protesta dal nipote, ma fu sorpreso quando questo si caricò
sulle spalle il
tedesco senza aprir bocca. “Tenetemi aggiornato.”
Disse soltanto, e poi si
Smaterializzò.
Scalpitava
perché era preoccupato per Prince?
Non se lo sarebbe mai
aspettato. Inspirò, guardando di fronte a sé le
tenebre che rischiavano di
essere squarciate da treni o da maghi assassini.
Odiava davvero
essere tirato giù dal letto in piena notte.
****
Londra, centro.
Il rumore lieve di
cristalli,
di chiacchiere a bassa voce e della musica jazz suonata da un pianista
stava
cominciando ad annoiarla.
Era rimasta per ben
un’ora ad
attendere Johannes, il quale si era allontanato per ricevere una
telefonata per
poi sparire nel nulla.
“Sophia.”
La mano dell’uomo le
toccò una spalla, scostandole una ciocca di capelli.
Nonostante la serata mite –
una vera rarità in Inghilterra, sempre a sentir lui
– aveva le dita gelate. “Perdona
il ritardo … Ci sono state alcune complicazioni sulla via
del ritorno.”
“Questo posto mi ha tediato a sufficienza, voglio andarmene.
Non sono venuta a
Londra per chiudermi in un’altra stanza.” Rispose,
alzandosi e lasciando che l’uomo
le scostasse la sedia. Non solo aveva le mani fredde, ma anche un
livido
vistoso sul lato destro della mascella e un taglio sul sopracciglio.
Non era
suo costume chiedere spiegazioni, ma il fatto la incuriosì.
Johannes sorrise, chinando
la
testa in segno di scuse. “Hai ragione. Il conto è
già stato saldato, vogliamo
andare?”
Annuì, prendendo
il braccio
che le venne offerto e drappeggiandosi lo scialle sulle spalle.
“Potevi
renderti presentabile prima di tornare … Stai
sanguinando.”
Questo si toccò la fronte, facendo una lieve smorfia e poi
tamponandosi la
ferita con il fazzoletto. “Ho perso la bacchetta.”
Spiegò senza farlo
veramente: di norma avrebbe lasciato correre, non era la
sincerità che
pretendeva nel loro rapporto.
Tuttavia,
Londra.
“Con chi ti sei
scontrato per
avere un aspetto così tremendo?”
Johannes entrò
nell’ascensore,
lanciandole un’occhiata calcolatrice. Aveva lo sguardo sempre
mobile, e una
mente attenta a pesare ciò che gli sarebbe uscito dalle
labbra. Solo chi non lo
capiva davvero pensava parlasse a vanvera. Quindi quando rimaneva in
silenzio
non era un buon segno.
“Ho incontrato
Sören.” Disse. “Una
coincidenza sfortunata.”
Sophia non disse nulla: non
avrebbe avuto motivo. Si limitò quindi a inarcare le
sopracciglia.
“Ero a Diagon
Alley, nel
quartiere magico. C’era anche lui. Mi ha visto e mi ha
riconosciuto.” Sospirò. “Non
molla l’osso quando ce l’ha davanti …
è così da quando era moccioso.”
Continuò.
“Mi ha inseguito per un bel pezzo prima che riuscissi a
seminarlo.”
“Sa che sono
qui?”
“Stasera?
No.”
Quando le porte dell’ascensore si aprirono osservò
il compagno guardarsi
attorno prima di tenderle la mano. La prese.
“Torniamo.” Decise. “Sono
stanca.”
“Di già? Pensavo…”
“Voglio tornare al castello.” Ripeté.
Johannes, lo intuiva
dall’espressione,
tentava di indovinare cosa le passasse per la testa. “Come la
mia Regina
desidera.” Rinunciò infine, facendo cenno ad uno
degli uomini della scorta –
rimasti nella hall – di andare a prendere la macchina. Le
sorrise poi
conciliante. “Ho una buona notizia per farmi perdonare
dell’assenza … L’incontro
era di lavoro. Forse sarò ottimista, ma potrebbe dare buoni
frutti.”
“Bene.”
Sophia non aveva mai avuto
interesse a capire quando il compagno le nascondeva qualcosa; tuttavia
se ne
rendeva sempre conto.
C’è
qualcosa che non mi dice.
Era fastidioso constatare
che stavolta
la cosa non la lasciava indifferente.
****
Note:
Nota per dirvi che nelle prossime settimane sarò talmente
oberata dal lavoro –
non scherzo, farò degli orari da ciuco – che
avrò poco tempo per scrivere. :/
Ci rifaremo nelle vacanze!
Questa
la
canzone del capitolo. Quest’altra
quella che ballano al club.
|
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Capitolo 35 *** Capitolo XXXIV ***
Capitolo XXXIV
And I
feel it's going down, ten feet below the ground,
I'm waiting for your healing hand, one touch
could bring me round
(Just
the Way I’m Feeling, The
Feeder)
22
Luglio 2028
Scozia,
Hogsmeade.
Casa
di Ted Lupin e James Potter. Mattina.
James aveva solo voglia di
entrare in casa e andare a schiantarsi sulla prima superficie
orizzontale.
Anche il pavimento andava bene.
Gettò le chiavi
sul tavolino dell’ingresso,
ingombro di posta e di un’enorme vaso di terra e erbacce che
Benedetta aveva
voluto portare in casa nella speranza che vi nascessero dei fiori, e
trascinò i
piedi fino al salotto.
Passare
tutta la notte al San Mungo … Che merda. Ho
quasi pensato di usare il letto che mi è stato assegnato
come Auror!
Perché
quell’idiota di Prince
aveva pensato bene di
andare all’avventura in solitaria, con il risultato di farsi
ritrovare
incosciente e incapace di risvegliarsi. C’erano volute ore prima che quelli del reparto di
Lesioni capissero che non era
stato un incantesimo a sbatterlo a terra quanto piuttosto
l’uso di un potente
sonnifero Babbano.
E
questo solo perché, grazie a Merlino, qualcuno si
è
fatto venire in mente di fargli delle analisi del sangue.
Era stato Albus, che aveva
montato il proprio turno quella mattina, a svegliarlo dalla sua scomoda
posizione su una durissima sedia della sala di attesa spiegandogli che
Prince
ci avrebbe messo un po’ a smaltire la roba che gli era stata
rifilata e che nel
frattempo lui poteva anche tornarsene a casa.
‘Tanto
c’è la sua scorta a sorvegliarlo e ad evitare che
Doe torni a
finire il lavoro, no?’ aveva aggiunto prima di
afferrarlo per un braccio –
si scordava sempre che nonostante fosse un nanerottolo era in grado di
sollevare pesi con facilità - ed accompagnarlo
all’uscita.
È che non era
tranquillo:
quell’intera faccenda era strana. Perché Doe, che
avrebbe dovuto nascondersi nella
fogna più buia per sfuggire agli occhi di ben due forze di
polizia – tre,
contando quella tedesca – aveva voluto farsi una
passeggiatina nel cuore del
Mondo Magico?
Con
il rischio di farsi arrestare e buttare in cella
per il resto della sua vita?
Non
torna.
Se aveva capito una cosa del
Camaleonte era che ogni sua mossa era studiata al dettaglio e che non
lasciava
nulla al caso.
Voleva
che lo trovassimo? Perché Diagon Alley, di
venerdì
sera. È come se si fosse messo in mostra!
Si passò una mano
dietro la
nuca, sbadigliando e calciando via gli anfibi; il salotto era immerso
nella
tiepida luce del primo mattino e il divano, nelle sue forme comode, lo
attirava
come il canto di una sirena.
Fu sorpreso quando lo
trovò
occupato da due forme profondamente addormentate, ma poi sorrise:
Benedetta e
Teddy erano allungati trai cuscini con un grosso libro che premeva
sulla
costola di quest’ultimo.
Passerà
tutto il giorno con i dolori, come un
vecchietto…
La bambina era espansa come
una piccola stella marina sul petto del compagno, che la cingeva con un
braccio
per non farla cadere. Dovevano essersi addormentati mentre leggevano
una storia
perché le braci del camino, non ancora spente, sembravano
supportare la teoria.
Sogghignò quando
notò come
entrambi dormissero con la bocca aperta e come la camicia
dell’uomo fosse
quindi zuppa di tenera bava infantile.
Mocciosi…
Entrambi avevano comunque
bisogno di un letto vero tanto quanto lui. Districò la
bambina dalla presa
piuttosto ferrea dell’altro e se la caricò in
braccio e quando questa storse il
naso nel sonno, probabilmente annusando l’odore di birra e
fumo di sigarette
che si portava dalla sera prima, ridacchiò. “Eh,
lo so che puzzo pulce … E
dovrai sentire che mi dirà tuo zio. Jamie
sai che non mi piace quando fumi!”
Scimmiottò a bassa voce salendo le
scale.
Una volta deposta a letto e
debitamente coperta – non aveva neanche aperto una palpebra,
iniziando a
russare sonoramente – tornò di sotto per trovare
Ted sveglio e con i capelli
tutti schiacciati e verdi da un lato.
“Ehi.”
Mugugnò con la voce
resa rauca dal sonno. “Che ore sono?”
“Le cinque di
mattina.”
Rispose stiracchiandosi e buttandosi sul divano accanto a lui. Un
ennesimo
sbadiglio fu doveroso. “… e prima che tu mi chieda
se ho fatto baldoria fino
all’alba, magari. Ho
visto sorgere
l’alba sul tetto del fottuto San Mungo.”
Ted nascose educatamente il suo sbadiglio in una mano.
“Quant’è andata fuori
controllo la festa?”
“Non è
stata la festa.”
Borbottò reclinando la testa sullo schienale e chiudendo gli
occhi. “È stato
quel cretino del Pipistrello.”
“Sören?”
Gli raccontò tutto mentre le palpebre si facevano pesanti,
trovando del tutto
ragionevole gettargli le gambe in grembo e scivolare fra il quintale di
cuscini. Se lo meritava.
“Si
rimetterà?”
“Massì
… deve solo smaltire
gli effetti di quello che gli ha rifilato. Domani tornerà
già a rompere i
coglioni.”
“Mh.” Replicò Ted non impegnativo,
accarezzandogli un ginocchio. “Certo che è
strano … John Doe che viene a Londra, mette KO
Sören e poi non se lo porta
dietro? Se gli avete affidato una scorta è perché
temete che lo rapiscano, no?”
“Prince ha la
Traccia.” Si
stava addormentando e avrebbe dovuto trascinarsi a letto, ma le carezze
e la
voce quieta del compagno erano una ninna-nanna irresistibile.
“Se Doe se lo
fosse portato dietro sarebbe stato come attaccarsi una freccia luminosa
alla
schiena … Li avremo trovati nel giro di mezza
giornata.”
“E non poteva
Disincantarla?”
“Per togliere una
magia di
quella complessità ci vuole tempo e uno Spezza-Incantesimi
in gamba. In teoria,
finché ce l’ha addosso, il Pipistrello
è al sicuro… La scorta serve per evitare
che si ripetano episodi come lui che se ne va a fare una passeggiatina
a Camden
Town senza avvertire nessuno.”
“Cioè come ieri sera?” Lo
stuzzicò. “ Pare che Sören non
dia retta a niente e a
nessuno.”
“Quella testa di cazzo.” Confermò.
Ted ridacchiò. “Non l’avrei mai detto,
sembra un ragazzo così posato.”
“È un rompicoglioni.”
Borbottò. “Fa’ preoccupare tutti
… Appena si sveglia dal
suo letto di morte lo prendo a calci in culo.”
“Sono sicuro che si rimetterà presto.”
Replicò senza senso. Perché non era preoccupato
per il crucco o che, era solo stanco.
“Avanti, andiamo a letto … ci spettano almeno un
paio d’ore di sonno prima che
Benedetta si svegli. È mattiniera come lo eri tu da
bambino.”
“La gente sveglia lo è sin di prima
mattina.” Replicò lasciando che lo
accompagnasse su per le scale spingendolo come un mulo poco
collaborativo.
“Com’è andata ieri sera, a proposito? Si
è calmata?”
Ted scrollò le
spalle, ma non
riuscì a nascondere un sorrisetto compiaciuto. “Le
piacciono le storie.”
Gli diede una pacca sulla spalla, contento di essere tornato a casa.
“Il sangue
non è acqua, Lupin.”
****
Devonshire,
Il Mulino.
Mattina.
“Sì,
alla fine siamo riuscite
a tornare senza incidenti … Da non credersi visto che Domi
in dopo-sbronza
guida come se fosse ancora ubriaca … No, no Rosie sta bene.
Cioè, l’abbiamo
scaricata a casa ed ha infilato il portone sbagliato, ma poi
è uscito Scorpius
e se l’è portata dentro in braccio …
Dai Scotty, lo sai che nessuno riesce a
rimettersi in piedi come la sottoscritta. Giusto Roxie … E a
voi com’è andata?”
Lily ascoltò
divertita il
racconto della folle festa di Scorpius, che aveva visto mutande rosso
grifondoro e la perdita di svariati oggetti personali, e diede un
colpetto di
saluto al tettuccio della macchina dove Domi gli rivolse un sonnolento
cenno di
assenso prima di guidare via. Una
scia
di gasolio e Mötley Crüe tenuti a basso volume
– Violet dormiva profondamente
nel sedile posteriore - sparì così nel cielo
azzurro pastello.
Bella
giornata, ottimo. E chi la reggeva la pioggia con
un post-sbronza!
“Quindi
c’è anche stata una
rissa? Ma è delizioso!” Incastrò il
telefono nell’incavo del collo ed infilò le
chiavi nella toppa. “Non avrei mai pensato che Zabini fosse
tipo da menar le
mani, ma è pur vero che all’ultimo anno ha
gonfiato di botte Tom…” Entrò in
corridoio spingendo con il piede la borsa in cui aveva infilato
quarantotto ore
di vestiti striminziti e biancheria sexy. “Sono
a casa!”
Il Mulino quella mattina doveva fervere di attività, con
entrambi i genitori a
casa eppure quello che sentì non fu sua madre che
canticchiava Le Sorelle
Stravagarie mentre faceva le pulizie, né suo padre che
ciabattava per casa con
l’aria di chi si godeva semplicemente il fatto di avere un
paio di ciabatte
addosso. Udì invece la voce di quest’ultimo,
sostenuta, provenire dal salotto.
Uh?
Spedì con un Wingardium Leviosa la borsa su per le
scale e andò a controllare, sporgendosi dallo stipite della
porta: suo padre era
al Fuoco Magico e il tono della conversazione era acceso.
“Nora, capisco che
si sia
sentita messa da parte, ma ti assicuro…”
Nora. Nora Gillespie. Quindi lavoro. Quindi
Auror. Quindi Ren.
Sören, che la sera
prima era
stato argomento di conversazione tra lei e Roxanne.
O per meglio dire, argomento
di discussione …
“Sören
è innamorato di te.”
“… Eh?”
Roxanne
l’aveva guardata come se fosse scema, e per un
momento ci si era sentita davvero, prima di realizzare cosa aveva detto
l’altra.
“Non
è innamorato di me.”
Semmai
di quell’americana insopportabile. O lo sarà.
Non che faccia differenza.
“No?” Roxanne aveva inarcato le sopracciglia,
continuando con quell’espressione
di vago compatimento. Le capitava di rado di aver voglia di prendere a
schiaffi
la cugina.
Erano
stato uno di quei momenti.
“No!”
Aveva detto in fretta. Troppo in fretta, con
troppo panico che le strisciava addosso come un Basilisco. Le
dimensioni erano
quelle perlomeno. “Non mi vede in quel
senso…”
“Gliel’hai chiesto?”
“No,
certo che …” Si era bloccata, intuendo dove
l’altra volesse andare a parare. “ …
Cosa sai?”
“Niente,
non è che sia la sua confidente … quella sei
tu.” Aveva scrollato le spalle. “Ma Rossa, non
posso credere che tu non te ne
sia accorta … perché l’hanno fatto
tutti. Io, Dionis, gli altri…”
“Altri chi?”
Scott?
Era
a lui che aveva pensato in un rush di panico. Scott
pensava che Sören fosse innamorato di lei? Era per questo che
aveva cominciato
a comportarsi come un idiota?
Avrebbe
avuto senso.
“Voi
non conoscete Sören, non sapete…”
“Non serve conoscere qualcuno per capire una cosa del
genere.” L’aveva
rimbeccata. “Come non serve essere una Legimante Naturale.
Lily…” Aveva
sospirato. “… ti guarda come se fossi la stella
attorno a cui orbita. E nessun
uomo, in nessun mondo o universo ti guarda così con
l’intenzione di esserti
amico.”
“Ti…”
“Io posso anche sbagliarmi, ma tu di sicuro ti stai
raccontando un sacco di
palle.” Aveva inarcato un sopracciglio. “E dubito
che c’entri Scott, prima che
tu lo tiri in mezzo. Si tratta di te e di Sören.
Perché hai così tanta paura
che sia innamorato di te?”
Non le aveva risposto e
Roxanne non aveva preteso che lo facesse, limitandosi a rientrare e a
non
sollevare più l’argomento per il resto della loro
permanenza a Bath.
Dannazione,
Roxie …
Aveva accantonato il
pensiero
preferendo chiamare Scott, come gli aveva promesso di fare una volta
tornata a
casa, ma la chiamata di suo padre aveva riportato tutto a galla. E
violentemente.
Ren
non è innamorato di me. O l’avrei …
L’avrei capito.
L’avrei sentito.
Forse.
Perché i suoi
poteri avevano
un unico limite: quello dato dalla sua emotività. I suoi
sentimenti erano
l’unica cosa davvero capace di offuscare le sue
capacità e farle prendere
sonoramente fischi per fiaschi.
In
questo, sono semplicemente una tizia incasinata
qualunque.
Lei era innamorato di
Sören;
questo ormai era stato appurato.
E
se Roxie avesse ragione? Cosa faresti?
Che diavolo avrebbe fatto se
Sören, il suo cavaliere senza macchia, avesse ricambiato i
suoi sentimenti?
…
merda.
Non
era il momento di pensarci, non
con Scott dall’altra parte del cellulare e suo padre che
diceva cose
interessanti.
“Scusa Scotty, ti
richiamo tra
cinque minuti, okay? C’è una mezza crisi familiare
in corso.” Inventò sul
momento per poi riattaccare. Non riusciva a sentire le risposte
dell’americana,
era troppo lontana dal focolare, però poteva sentire quelle
di suo padre ed
immaginare il resto.
“Lo
so che Ama ha ragione.” Sospirò
passandosi una mano trai
capelli, arruffati come di chi si era appena alzato. Erano le undici
inoltrate,
quindi la telefonata durava da un po’. “Avrebbero
dovuto chiamarla e portarla
con loro, ma Ron è stato buttato giù dal letto
alle tre del mattino e non era
esattamente padrone di sé. Hanno pensato ad avvertirla una
volta arrivati al
San Mungo anche se capisco…”
La replica fu piuttosto sferzante ma razionale da come suo padre
assunse
un’aria colpevole. “Fate parte del caso anche voi,
Nora, nessuno sta mettendo
in dubbio questo, e vorrei che al sergente Gillespie fosse chiaro come
a te.
Abbiamo sbagliato, ed offrirò le scuse
dell’ufficio personalmente.” Fece una
pausa. “John Doe è
un problema di
entrambi i Ministeri, le cose non sono cambiate. L’errore che
abbiamo fatto non
si ripeterà, ti do la mia parola.”
John Doe? Hanno trovato John Doe?
Inspirò
bruscamente, mentre
una fitta di panico le scendeva lungo la schiena. Ma era il momento di
rimanere, e capire, non di comportarsi come una bimbetta traumatizzata:
perché
se quel tizio era stato trovato, voleva dire che qualcuno
l’aveva affrontato.
Con
delle conseguenze se si parla di San Mungo. Jamie?
Sy? No, erano alla festa …
…
Ren? È fuori dal caso ed era alla festa.
Non ci capiva niente.
“No, Sören sta bene tutto
considerato…”
Un milione di campanelli d’allarme le esplosero nella testa,
e considerando l’emicrania
che la graziava da quando si era svegliata non erano un bel sentire.
Non importava.
Ren?
Che è successo a Ren?! È lui che sta al San
Mungo?!
L’istinto le
diceva di correre
in salotto e pretendere spiegazioni, ma poteva
non essere un’idea brillante, considerando quanto suo padre
fosse insofferente
alle sue ingerenze in quella storia e, in generale, al fatto che
andasse nel
panico ogni qual volta l’amico era coinvolto.
“Sì, al
San Mungo si stanno
occupando di lui…”
È lui! È finito in
ospedale!
…
di nuovo. Accidenti a te, Ren!
Non c’era tempo da
perdere a
quel punto. Sapeva dove andare: tirò fuori la bacchetta e si
Smaterializzò.
Ginny trovò suo
marito con le
mani sepolte nei capelli mentre fissava corrucciato il camino spento.
“Ehi.” Lo
salutò portandogli una tazza di the: il caffè in
certe particolari contingenze
era poco indicato.
E
questa è una di quelle.
“Ehi.”
Borbottò abbassando le
braccia. “Vorrei appendere tuo fratello per le orecchie.
Pensi che causerebbe
una crisi familiare?”
“Di risa?
Forse…” Considerò
sedendosi sul bracciolo della poltrona dove l’altro era
sprofondato. Gli
accarezzò la nuca, districando con delicatezza i nodi
arruffati che vi trovò.
“… Che ha combinato Ronnie?”
“Ha solo
dimenticato di
portare sulla scena di un inseguimento l’agente di
collegamento assegnato,
lasciando James e Bobby senza referente.”
“Sören?”
Scosse la testa.
“No, la
figlia di Nora, Ama … Sören non è
più coinvolto nel caso Demiurgo.” Fece una
pausa, soffocando una smorfia. “Dovrebbe
essere così almeno. Perché indovina chi
è stato ad identificare e inseguire il
sospetto?”
“Si tratta di John
Doe?”
Preferì chiedere: aveva sentito quel nome dalla cucina,
perché Harry alzava il
tono di voce quando doveva identificare un nemico. “Lo avete
preso?”
“No, è
sparito nel nulla
mandando in ospedale Sören.” Fece una pausa.
“Ma l’aveva quasi in pugno a
sentire i testimoni.”
“Sta
bene?”
“Chi,
Sören? Sì, sì…”
Fece un
gesto evasivo. “… si
rimetterà.”
“Bisogna dire che
quel ragazzo
non getta mai la spugna.”
“È testardo come un mulo.”
“Mi ricordo che lo dicevano spesso di un ragazzo che, guarda
un po’, adesso è
un uomo ed è in questa stanza.” Osservò
con un sorrisetto che le fece meritare
un’occhiataccia.
“Io sono
più simpatico.”
Borbottò incassando la testa nelle spalle come un bambino
colto sul fatto: a
quanto pare non era l’unica ad aver sviluppato un debole per
le alzate di
ingegno del giovane Prince. “E comunque Ron non
l’ha fatto apposta a
dimenticarsi di Ama. Lo conosco, si sarà svegliato di
cattivo umore e … sai
com’è quando si sveglia di cattivo
umore.”
“E i ragazzi? Se
ne sono
dimenticati anche loro?”
“Erano appena
usciti dalla
festa di addio al celibato di Malfoy. Ti lascio immaginare.”
Ginny scosse la testa divertita. “Con Prince, quando era
assegnato al caso, che
succedeva?”
“Niente.”
Scosse la testa.
“Era il primo ad arrivare e l’ultimo ad
andarsene.”
“La squadra
funzionava
quindi…”
Finalmente Harry capì dove voleva andare a parare.
“Ginny.”
“Non è niente a cui tu non abbia già
pensato.” Ribatté fregandogli un sorso di
the. “Sai meglio di me quant’è raro
trovare un equilibrio in un gruppo di
persone. Sia che siano giocatori di Quidditch, sia che siano
Auror.”
“Sì, ma…” Si
strofinò una mano sul viso a cui mancava una buona rasatura
e
sospirò. “Hai ragione, erano un’ottima
squadra … ed è chiaro che si sentano
ancora tali.” Alla sua muta richiesta di spiegazioni,
aggiunse di malavoglia. “Prince
ha trovato Doe e l’ha inseguito fino alla metro, ma prima di
scendere ha mandato
un Patronus ai ragazzi per
avvertirli.
James e Bobby non ci hanno pensato due volte prima di andargli dietro.
E non
hanno chiamato Ama.” Scosse la testa. “E non
perché si sono dimenticati delle
procedure, sarebbe impossibile per uno come il figlio di Lee
… ma perché per
loro è Sören
l’agente di
collegamento.”
Ginny non
infierì. Non troppo
almeno. “Se ai miei tempi avessi avuto dei giocatori che si
comportavano così
con una riserva … Beh, li avrei strigliati per essersi messi
al mio posto, ma
poi avrei ingaggiato la riserva.”
“Lo so, ma
Sören ha metà della
sua famiglia coinvolta!” Scosse la testa. “Non ci
divertiamo a tenerlo fuori
dal caso…”
“… ma lui in compenso fa’ di tutto per
rientrarci.” Si strinse nelle spalle. “Harry,
è una vostra decisione, tua e di Nora, ma sta lottando con
le unghie e coi
denti per rimanere qui. Se avessi avuto un giocatore tanto dedicato a
vincere,
beh, ci penserei due volte prima di metterlo in panchina.”
Harry non disse nulla, ma
dall’espressione che assunse era chiaro che stesse seriamente
riflettendo su
quello che gli aveva detto. Gli baciò la tempia, alzandosi
per lasciarlo ai
suoi pensieri, che era il modo più rapido di farlo giungere
ad una decisione. Mentre
portava via la tazza vuota, l’altro però la
fermò.
“Ho sentito il
rumore di una
Materializzazione prima, Lily è tornata?”
“La sua borsa
è di sopra, ma
non lei … Credo che fosse una Smaterializzazione.”
Replicò tranquilla: Lily era
famosa per non fermarsi un attimo in quel periodo.
Probabilmente
sarà andata da Scott.
…
a meno che…
L’espressione
sconfortata di
suo marito era eloquente. “Mi ha sentito parlare al Fuoco
Magico.” Disse con un
gemito esasperato. “Ho sentito Nora chiedermi notizie sulle
condizioni di Sören!”
Ginny si strinse nelle
spalle,
mascherando un sorrisetto. Harry era in tutto e per tutto
l’epitome del padre
geloso della figlia. Ma non con Scott e i ragazzi precedenti, che aveva
sempre
accolto con gentilezza distaccata.
Con
Sören.
“È
andata a controllare come
sta, non ci trovo niente di strano.”
Harry la guardò
come gli
stesse confessando un indicibile tradimento. “Tifi per
Sören.” Realizzò.
“Non tifo proprio
per
nessuno.” Lo fermò con decisione.
“È rientrato nella vita dei nostri figli
… tenendo
conto della cosa ho voluto ascoltare l’opinione di Lily in
merito, dato che lo
conosce meglio di noi.”
Non solo, aveva chiesto
anche
ad Albus, un pomeriggio che avevano passato a fare dolci, una passione
comune
che permetteva loro di ritagliarsi del tempo da soli: il figlio di
mezzo era
quello che meglio di tutti riusciva a metter da parte i propri
sentimenti
personali, il più analitico. Chiedergli un parere sulla
situazione era stato
quindi doveroso.
“Non
mi preoccuperei di Sören, mamma, è un tipo
… molto
trasparente.”
“Cioè?”
“Non
riesce a mentire, gli si legge tutto in faccia.”
“Ma non è un Occlumante?”
Albus
aveva scrollato le spalle, stendendo uno strato
di pasta da zucchero con precisione. “Non se trovi i punti
giusti da premere.”
“Oh,
Al … non sarai andato a stuzzicarlo…”
C’era
stata una breve pausa imbarazzata. “Beh, dipende
da cosa intendi per stuzzicare … Forse un
pochino.” Si era schiarito la voce,
mangiando tagliando via la pasta in eccesso. “A Tom piace, e
piace anche a me.”
Aveva offerto.
“Che
rarità!” Aveva accettato divertita.
“Vero?”
Erano rimasti in silenzio qualche attimo, poi aveva deciso di
continuare. “Quello
che preoccupa me, ma soprattutto tuo padre, è il rapporto
con Lily…”
Al,
che si era dedicato a girare l’impasto con lena,
alzò lo sguardo perplesso. “Capisco cinque anni
fa, ma adesso? La porta in
palmo di mano, e viceversa Lily lo adora.”
“Lo
so, ma … abbiamo paura che le faccia del male. Di
nuovo. Non intenzionalmente, certo … ma con il passato che
hanno condiviso, e
con quello che sta succedendo … Lily non ha mai superato del
tutto quel che è
successo.”
“Pensate che rischi di farsi coinvolgere come è
successo con Von Hohenheim?” Aveva
scosso la testa. “… non credo. Sören la
tiene a distanza dal Demiurgo e tutta
la faccenda degli allenamenti è più una scusa per
passare del tempo assieme che
altro.”
Ginny aveva sorriso. Aveva fatto bene a chiedere al figlio; non
c’era cosa che
Albus Severus non sapesse quando c’erano in ballo i fratelli,
con gran scorno
di quest’ultimi. “Quindi la loro vicinanza non ti
preoccupa?”
“Mi
preoccupava molto di più quando si scrivevano da
Oltreoceano. Era come se scrivesse ai suoi traumi, al suo
passato… o una cosa
simile.” Aveva aggrottato le sopracciglia. “Adesso
a che fare con Prince in
carne ed ossa, ed è … più se stessa
credo. La vecchia Lily, intendo. Quella che
ficcava il naso ovunque, si infiammava per un nonnulla
… te la ricordi, no?”
“Sì.”
Aveva annuito con un mezzo sorriso: non era stato
un cambiamento plateale, ma una madre e un fratello quelle cose le
potevano
sentire.
“Non ho mai visto nessuno renderla così fragile e
forte al tempo stesso.” Si
era stretto le spalle. “Non credo sia una brutta
cosa.”
Cinque anni prima forse non
si
sarebbe lasciata convincere dai panegirici di Lily su Prince,
né dalle teorie
di Albus, ma adesso le carte in tavola erano cambiate, ed era disposta
a dare
una possibilità al ragazzo.
E
poi, Lily ha smesso di avere incubi da quando c’è
lui.
Cos’altro
può interessare ad una madre?
Suo marito scosse la testa.
“Ricordami perché abbiamo voluto
riprodurci…”
Ginny ridacchiò. “Perché altrimenti la
nostra vita sarebbe stata terribilmente
noiosa, non credi?”
****
Chelsea
Embankment, Casa di Michel Zabini.
Mattina.
“Voglio
licenziarmi.”
Michel alzò lo sguardo dai documenti che stava studiando in
vista di una fin
troppo prossima riunione d’ufficio e notò Milo
sullo stipite della porta della
camera; non si chiese come fosse entrato dato che Loki gironzolava per
casa
facendo telefonate e accogliendo Gufi da tutta la mattina.
Ormai
gli apre per principio. Non sa che non mi sta
facendo un dispetto.
“Come
mai?” Chiese abbassando
il plico di pergamena e dedicandogli l’attenzione che
desiderava vista
l’entrata teatrale. “Cos’ha combinato
Prince?”
Lo ascoltò anche se non gli interessava granché:
ora che l’altro tedesco era
fuori dal caso l’agente di collegamento che doveva
controllare era Ama
Gillespie, non lui. Ed era assai più facile, visto che la
ragazza non si
lanciava in missioni suicide.
Solo
quell’Ethan Scott non ha ancora richiamato per
farmi sapere se devo continuare la sorveglianza ufficiosa o meno
…
“Insomma,
per farla breve ieri sera è
sparito e l’han ritrovato solo per portarlo in
ospedale!” Concluse con un
ringhio, seguito da una sequela di frasi in tedesco di cui non
capì una parola.
“Inglese, ti prego
… Il mio
multiculturalismo si limita al francese.” Gli fece notare
battendo il posto sul
letto accanto a sé.
Emil lo ignorò,
mugugnando di
nuovo qualcosa in tedesco. “Ho bisogno di rilassarmi, ma non
ho il fumo!” Si
lamentò poi in un inglese passabile, sembrando un grosso
bambino biondo ed
imbronciato.
“Non faccio uso
d’erba.” E non
gradiva che l’altro invece avesse quel vizio, ma non si
permetteva di metter
bocca in quel lato della sua vita. Non erano ancora abbastanza intimi
perché
non si infastidisse, figurarsi dargli retta. “Se vuoi posso
chiedere a Loki. Se
cerchi qualcosa, di solito tende a trovartelo.”
“Lascia perdere … per come sto mi salirebbe su il
nervoso e basta.” Borbottò
arruffandosi i capelli già piuttosto maltrattati con una
mano. “Posso usare la
tua stanza?” Chiese poi guardandolo di sbieco.
“Sono giorni che non mi esercito
e … beh, anche quello è un modo per farmi passare
il giramento di palle.”
Erano però
arrivati a quel punto nel loro
rapporto, e Michel
sorrise. Non avevano trascorso la notte assieme, ma ad Emil era venuto
naturale
tornare lì per rilassarsi. Non era un buon segno: era ottimo.
“Certo.”
Appellò le chiavi del
cassetto e gliele lanciò. “Si apre anche con il
metodo tradizionale. Tienile
tu.” Aggiunse prima di tornare ai suoi documenti, fingendo di
non notare lo
sguardo sorpreso dell’altro su di sé.
“ … danke shön.”
“Inglese, Emil.”
“T’ho ringraziato, rompiballe.” E poi
corse via come se le parole gli avessero
scottato la lingua. Poco dopo sentì musica diffondersi per
le stanze della casa
e chiuse gli occhi, godendosela.
“Ehi, Zabini.” Loki fece capolino dalla porta con
la pipa tra le labbra e
sorriso furbastro d’ordinanza. “Il tuo musicista
è tornato?”
“Non lo
senti?” Replicò intrecciando
le mani dietro la nuca e lasciando perdere documenti e doveri solo per
qualche
altro attimo. “E so che sei stato tu ad aprirgli.”
“Mi piace, è così deliziosamente
bohèmienne.” Scrollò le spalle.
“Possiamo
tenerlo?”
“L’intenzione
è quella.”
“Fantastico!” Esclamò giulivo tirando
una boccata di pipa. “Ti prego di non
fare cazzate e fartelo scappare perché potrei piangere se
non potessi più
assaggiare quelle sue omelette paradisiache.”
Ormai Loki tutto sapeva – ma sapeva sempre tutto, o non
sarebbe stato chi
millantava di essere – quindi si limitò a
scrollare le spalle e fargli cenno di
sparire. Quando fu lasciato solo Michel si accorse di aver perso la
voglia di
lavorare e di farsi stressare dal fatto che suo padre sarebbe stato
presente
alla riunione che stava preparando. Seguì quindi la voce del
violino.
“Bach?”
Chiese quando entrò.
“Non ti ho mai sentito suonare Bach.”
“Lo faccio solo quando sono incazzato, gli italiani non sono
adatti.” Sbuffò Emil
con il violino ancora tra spalla e mento. Accarezzò le corde
accennando un
motivetto senza importanza. “Non voglio davvero
licenziarmi.” Aggiunse anche se non gliel’aveva
chiesto. Aveva il suono di una
confessione però e quindi valeva la pena ascoltarla.
“Quel deficiente non si
saprebbe allacciarsi le scarpe senza il sottoscritto!”
“Ci credo.” Lo blandì sedendosi sul
divano e cercando il portasigarette da
tavolo. “Succede spesso che ti rovini le serate?”
“Di
continuo!” Sbottò
riponendo con cura lo Stradivari nelle propria custodia e buttandoglisi
accanto.
“Ha l’istinto di conservazione di un fottuto
salmone!”
Michel ridacchiò,
accarezzandogli la gamba mentre una stilla di gelosia lo pungeva senza
che
potesse evitarlo, neppure razionalmente. “E nonostante
questo, non vuoi
licenziarti.”
“Non è che non voglio, non
posso.” Tirò
un lungo sospiro, fregandogli la sigaretta accesa e dandogli una
tirata. “Non finché
… beh.” Assunse un’aria infastidita.
“… non finché non avrà
trovato qualcun
altro disposto a fargli da babysitter. Non posso piantarlo,
capisci?”
Meglio
di quanto tu non creda. Vedesi Al e il periodo
senza Tom.
“Questo sembra
più il compito
di una ragazza.” Osservò e seppe di aver detto
troppo quando l’altro inarcò le
sopracciglia perplesso.
“Non me lo farei
neanche con
un bastone, maghetto.” Ghignò con aria divertita.
“Tu te lo faresti un tipo
così?”
“Mi è stato detto che alcune persone lo ritengono
… interessante.”
“Sì, per chi ama fare la crocerossina.”
Continuava a contemplarlo come se lo
trovasse estremamente spassoso. “Non me lo sono scopato, se
è questo che pensi
e soprattutto … non me lo sto scopando adesso.”
Eccellente,
hai sbandierato la tua gelosia. Bravo.
“Non intendevo
questo.”
Replicò stizzito riprendendosi la propria sigaretta e
scostandosi con tutta la
dignità di cui era capace. “Non puoi negare che
abbiate un rapporto molto
stretto. Un semplice collaboratore non avrebbe le premure che hai
tu.”
Emil si strinse nelle spalle. “Mi ci sono
affezionato.” Spiegò. “Non che gli
darò mai la soddisfazione di dirglielo … ma
è una delle poche persone a cui
affiderei la mia vita. È l’unico
mago…” Fece una pausa. “…
l’unica persona che mi ha
dato una chance e che
si è fidato di me da … tempo. Forse
perché per certe cose pare nato sotto un
cavolo … ma il fatto rimane.” Quasi si fosse
accorto di aver detto troppo
incrociò le braccia al petto in una posa difensiva.
“E poi se crepa rimango
senza lavoro.”
Il ragionamento aveva senso,
ma c’era un punto che doveva chiarire. “Non
è più l’unico però, no? Che
si fida
di te…”
Gli venne rivolto un mezzo
sorriso. “No.” Ammise guardando ovunque che dalla
sua parte. “Non è più
l’unico.”
Di rimando gli sorrise, cercando lo sguardo e trovandolo finalmente nei
pressi
della vetrina degli strumenti. “Mi fa piacere che la cosa sia
stata notata.”
Emil ricambiò con
una smorfia
ironica della sue. “Già. C’è
anche un certo maghetto stronzo…” Lo
afferrò per
la cintura dei pantaloni e se lo tirò contro, praticamente
sulle ginocchia. Non
se ne lamentò. “…mi han detto sia pazzo
di me.”
“Le chiacchiere della gente spesso son solo
chiacchiere.”
“Ed ogni tanto?”
“Ogni tanto sono
vere.” Forse
fu per gli strascichi della sera prima, della sua confessione, forse
perché, di
nuovo, aveva azzeccato le parole giusta, ma quel bacio fu diverso.
Più lento,
quasi Emil volesse assaporarlo più che limitarsi a godere
del semplice contatto
tra labbra. Quando gli sfilò la maglietta notò
per l’ennesima volta, passandoci
le dita, le cicatrici sottili lungo al schiena e quella più
fibrosa, sul
fianco. Erano bianche, ormai, e segni più che solchi, ma
trovò che quello fosse
il momento giusto per chiedere. Poteva essere rischioso ma poteva anche
essere
un nuovo tassello da svelare.
Frequento
troppi ex-Grifondoro.
“Come te la sei
fatta?” Chiese
toccando l’ultima, quella che gli sembrava meno recente, e
quindi, forse, meno
dolorosa.
Emil si irrigidì vistosamente, con le mani bloccate sulla
fibbia della sua
cintura. Lo sguardo però non gli si indurì,
né cercò di divincolarsi. “Vecchia
storia…” Si limitò a dire a fior di
labbra. “… vecchia e noiosa.”
“Le storie che riguardano le cicatrici raramente lo
sono.” Ribatté passandogli
le dita sulla guancia con un’ombreggiatura di barba dorata.
Non aggiunse altro,
ma Emil non era uno stupido e aveva capito che quello che gli aveva
raccontato
la sera prima valeva un pegno di simil misura.
“Niente di tragico
come
pensi…” Sbuffò, con gli occhi che non
guardavano lui ma un ricordo. “Ero
piccolo ed io e i miei fratelli passavamo le estasi a sfidarci a fare
la cosa
più idiota, quando non eravamo impegnati a studiare. Saltai
uno steccato di
campagna ma presi male la rincorsa, era una palizzata vecchia e
c’erano dei
chiodi che sporgevano … il resto te lo puoi
immaginare.”
“Dal segno
sembrava una ferita
grave.”
“Non
drammatizzare, ero un
marmocchio idiota.” Ghignò. “Ti ho
rovinato l’idea che avevi di me, come
piccolo e leggiadro angelo della musica?”
Michel scosse la testa,
passandogli
le dita trai capelli, facendogli inclinare la testa come un gatto
soddisfatto; Emil
non lo ammetteva, ma le effusioni che non coinvolgevano del sesso
diretto gli
piacevano quasi quanto il sesso stesso. “Sono stato bambino
anch’io, e mi
ricordo l’incapacità di valutare i pericoli di
quell’età.” Replicò.
“Come, non eri un damerino giudizioso?”
“Lo ero, ma non lo
erano i
miei amici.” Ora che stavano parlando, non riusciva a
limitarsi nelle domande.
“Quanti fratelli avevi?”
Emil stavolta non
mostrò il
minimo fastidio alla domanda, più occupato a godersi le sue
carezze. Forse era
vero che aveva passato una nottata da incubo a causa di Prince. Forse
voleva essere
consolato.
“Cinque.”
Mugugnò. “Mio padre
voleva una famiglia numerosa, tanto non avevamo terre o possedimenti
per cui ci
saremmo fatti la guerra … Essendo il fratello minore di tre
non avrebbe
ereditato un accidenti dai miei nonni.” Aprì un
occhio. “Da bambini sembravamo
i protagonisti di quel musical imbecille … tipo, Tutti
Assieme
Appassionatamente?”
“Mai visto.”
Gli
piacciono i musical?
“Biondi
e con nomi del cazzo.” Spiegò
succinto. “Dovevi vedere alle feste comandate, con
l’assemblea di parenti … Ci
ammaestrava come tante scimmiette.” Fece una smorfia.
“A ben pensarci, non solo
alle feste.”
“Ma a te piaceva suonare.”
“Sì, ma non a tutti i miei fratelli piaceva farlo
quanto lo facevo io … Non
eravamo tutti enfant prodige.”
“C’eri tu e …”
“Mia sorella, Elise. Lei suonava … suona, credo
… il piano.” Da come si adombrò
capì che non era il caso di andare a parare proprio
lì. Di fratelli non ne
aveva mai capito molto, nonostante e soprattutto
Dirk.
“Quando hai
iniziato a
studiare?”
“Non me lo
ricordo.” Mormorò
guardandolo appena; aveva la testa da tutt’altra parte, persa
nella propria
memoria. “Nella mia famiglia appena eri abbastanza grande da
aver presa sulle
dita ti mettevano uno strumento in mano.” Aggrottò
le sopracciglia, mentre lo
sguardo gli andava di nuovo alla vetrina degli strumenti. Probabilmente
neppure
si accorgeva di farlo, come quando metteva le mani in tasca.
“Famiglia di
musicisti, vero?”
Ricordava di aver letto un articolo in merito, quando ancora cercava
informazioni su di lui senza averle di prima mano. “Suonavate
tutti il
violino?”
“Una fottuta
dinastia più che
altro… E comunque no, vari strumenti. Decideva mio
padre.”
“Quindi hai
iniziato a
studiare violino…”
“… per caso, sì.”
“Un caso fortunato.” E lo era stato davvero.
Talmente fortunato che nonostante
le sue sfortune, Emil non aveva mai smesso di coltivarlo.
Forse
è tutto quello che gli resta della sua infanzia.
“Sì,
boh … forse.”
La conversazione stava
volgendo al termine dall’impazienza che percepiva nella voce
dell’altro, quindi
lasciò che gli sfilasse la cintura. Con sua sorpresa, Emil
riprese a parlare.
“Non li vedo da un
decennio
buono … e non so che fine abbiano fatto.”
“I tuoi fratelli?” Intuì premurandosi di
mantenere un tono leggero.
“Dei miei fratelli
non me ne
fotte un cazzo.” Sbottò, la linea della mascella
tesa, dura. “Quando sono stato
dichiarato Magonò dal Ministero, con tanto di lettera, si
sono dimenticati il
mio nome insieme alla colazione della mattina.”
… ed è per questo che
non risponde più
quando lo chiamano Emil.
Gli stava parlando di
sé,
finalmente. A forza e con l’aria di chi si stava cavando un
dente, ma lo stava
facendo. Non voleva che smettesse. “Tutti?”
“No, non
tutti.” Chiuse la
comunicazione con un bacio, che sembrava più intimargli di
tacere che altro.
Quando si staccarono, e il
fiatone indicava quanto fosse stata una lotta, Emil appoggiò
la fronte alla sua
e sospirò con l’aria di una persona che si era
ormai rassegnata. “Impiccione.”
Borbottò a mezza bocca. “Sei soddisfatto
dell’interrogatorio?”
Una
confessione per un’altra.
“Sì.”
Ammise cercando di non
suonare troppo compiaciuto. “E grazie.”
Emil rispose con una
smorfia,
così vicino che la distanza era più simile ad un
bacio che al voler parlare.
“Mi fido di te, Michel, vedi di non farmi
stronzate…” Sussurrò, così
piano che
se non fossero stati a quella distanza forse non l’avrebbe
forse sentito. E non
solo: era la prima volta che pronunciava il suo nome senza volerlo
sfottere o
sdraiare su un letto. Il cuore gli schizzò in gola e
maledì Albus per non
averlo avvertito di quant’era spaventoso, essere innamorati.
****
Londra,
San Mungo.
Mattina.
Bobby non vedeva
l’ora di tornarsene
a casa; avendo trascorso tutta la notte a cercare John Doe per i
cunicoli bui e
umidi della metropolitana aveva un robusto bisogno di una doccia
bollente e di
un letto morbido in cui riposare le sue stanche membra da auror che-non-avrebbe-dovuto-essere-in-servizio.
Quel piacere tra
l’altro gli
era stato già brutalmente sottratto, allorché il
sergente Gillespie l’aveva intercettato
di ritorno dalla ricerca sotterranea in questione.
Sono
stato l’unico a tornare al Dipartimento per il
rapporto. Il Sergente Weasley è tornato a casa, Jimmy era al
San Mungo, Sy
sempre a casa e pure sbronzo … Indovinate con chi se
l’è presa.
Non
è stato piacevole.
Si era preso una ramanzina
coi
fiocchi, e non aveva potuto neppure evitarsela dato che, in sostanza,
l’americana aveva ragione.
L’abbiamo
tagliata fuori.
E
cosa c’è di peggio di una strega incavolata?
Aveva quindi dovuto
accompagnarla fino al San Mungo, dato che voleva sincerarsi delle
condizioni di
Prince: se n’era appena andata e lui, finalmente, poteva
Smaterializzarsi
direzione casa.
“Bobby!”
… le ultime parole famose. Cosa
c’è di
peggio di una strega incavolata?
Una
strega ansiosa.
Lily, perché
della sorella di
James si trattava, quasi lo placcò contro la vetrina piena
di brutti manichini.
“Sören!” Gli
gridò come se questo dovesse
spiegare tutto.
“È
dentro!” Riuscì a dire,
indicando vago dietro di sé. “Sta bene!”
Aggiunse alzando le mani in segno di
resa.
“Ah!”
Sbottò ansimando, con il
viso pallidissimo forse dato una Materializzazione troppo vivace.
Notò che
aveva anche gli occhi lucidi. “Ah…”
Ripeté assimilando l’informazione. Fece un
sospiro di sollievo e poi lo squadrò con sospetto
incomprensibile. Sul serio,
aveva smesso di cercare di capire l’universo muliebre in
generale, ma quelle
come Lily Luna erano tutta un’altra categoria. Non erano
incomprensibili, erano
proprio cifrate.
“Può
ricevere visite?”
Riportò
l’attenzione sulla
conversazione. “Che io sappia, sì … ma
non credo sia il caso.” Tentò,
ricordando cosa gli avevano detto i Guaritori.
“Che vuol
dire?” Era chiaro
che non sapesse nulla di cosa gli era capitato, non nello specifico
almeno.
“Sta bene o no?”
“No, è
…” Si strinse nelle
spalle, ed adottò il saggio atteggiamento di lavarsene le
mani. “È complicato
da spiegare.” Le sorrise perché non si poteva non sorridere alla sorella
carina di Jimmy. Anche
se lo stava quasi strangolando dato che lo teneva per il mantello.
“Non credo
che voglia ricevere visite,
capisci?”
“No, per
niente.” Aggrottò le
sopracciglia. “Ma non è una cosa grave, vero?
Perché non sei preoccupato.”
“No, non lo sono.” Confermò cercando di
mascherare il divertimento. La sapeva
più lunga di così. “John Doe
l’ha drogato.”
“… drogato?”
“Gli ha iniettato
un narcotico
Babbano … una droga.” Spiegò
stringendosi nelle spalle. “Ha più senso
così?”
Lily inarcò le
sopracciglia
guardandolo stupefatta. “È …
drogato?” Realizzò di colpo. Mascherò
una risata
in uno spasmo delle labbra, piccolo e involontario.
“Sören è strafatto?”
“Mi sa di sì.” Non poté fare
a meno di ridacchiare, scusandosi silenziosamente
con il tedesco per aver capitolato al codice di riserbo causa lesione
della
dignità che intercorreva tra agenti. “O almeno
così dicono i Guaritori. Dicono
che gli passerà nelle prossime dodici ore. A quanto pare le
dosi non erano
calibrate bene per un mago e poi aveva anche bevuto. Se si mischiano
l’alcool e
le droghe Babbane…”
“Sì, lo so.” Annuì scuotendo
la testa. Sembrava indecisa sul da farsi. “Quindi
non corre nessun rischio … di salute intendo.”
“No, pare di no.” Confermò.
“L’unico rischio che corre è quello di
vedere il
suo orgoglio leso. Te l’ho detto, non è molto in
sé … chiacchiera un sacco e …
uhm. Sorride.”
“Oh … ah.”
Capì e un sorriso che poteva solo definirsi come monello le
dipinse le labbra.
“Beh, non sarei una buona amica se non andassi a fargli
visita. È su un letto
d’ospedale dopotutto!”
Era leggendaria la
capacità di stuzzicare della
sorellina di Jimmy, e Bobby
si sentì dunque
in fraterno dovere di dir qualcosa. Di provare a mitigarla, perlomeno,
anche se
era noto quanto quell'esercizio fosse sterile. “Vacci piano o
quando si
riprenderà vorrà sotterrarsi.”
“Non
preoccuparti!” Gli diede una pacchetta sulla
spalla, voltandosi verso i manichini con l’aria di chi non
l’aveva ascoltato
neanche per sbaglio. “Qual è il reparto?”
La situazione era diventata
da
preoccupante a … meno
preoccupante.
Avrebbe voluto sorridere di
Sören steso da un sedativo Babbano, ma non riusciva a
dimenticare chi era stato
ad iniettarglielo: John Doe.
Meglio
affrontare una preoccupazione per volta.
Prima di tutto doveva andare
a
controllare che l’amico non avesse bisogno di niente; se
l’avevano spostato al
terzo piano, nel reparto Avvelenamento da Pozioni e Piante, era
matematicamente
certo che l’avrebbe trovato in totale balia di sé
stesso.
I
Guaritori là sono sempre occupatissimi …
È
incredibile quanta gente sia totalmente incapace a Pozioni e confidi
comunque
nel fai-da-te!
Arrivata salutò i
due Auror
della scorta con un sorriso – non c’era bisogno si
identificasse, essere la
figlia del capo pagava in quei casi - e bussò alla porta
della stanza: nessuna
risposta.
“Starà
dormendo.” Informò i
due Auror in tono professionale. “Do un’occhiata
per vedere come sta.” E decise
di entrare. “Ren?” Lo chiamò varcando la
soglia: la penombra della stanza la
infastidì. Non c’era abituata dato che al reparto
Thickley le finestre erano
sempre incantate per riflettere un’assolata giornata
primaverile. Faticò infatti
a distinguere la sagoma dell’amico, stesa
sull’unico letto occupato.
“Ehi…” Lo
chiamò piano. Stava davvero dormendo?
Non stava dormendo , dato
che
si voltò ed aprì gli occhi.
“… Lily?” Tentò con voce
rauca di chi si era
svegliato da poco.
“Ehi,
Ren…” Salutò sedendosi
ai piedi del letto; al di là dell’aria rintronata
e le tempie umide di sudore aveva
un colorito sano e il respiro regolare. Era un buon segno.
Per avere ulteriori conferme
appellò
la cartella e vi diede un’occhiata sommaria: non conosceva
molti dei termini
sopra riportati, non era una Guaritrice, ma in generale sembrava che la
prognosi
fosse buona. “Come ti senti?”
“Stanco…”
Mormorò con la voce
impastata mentre gli occhi vagavano da un lato all’altro
della stanza, quasi cercasse
qualcosa senza trovarlo. “… mi ha
drogato.” Attestò con tono stupito che la
fece sorridere. “Te l’hanno detto?”
“Mi hanno
accennato qualcosa,
sì.” Confermò accarezzandogli una mano
e trovandola un po’ troppo fredda per i
suoi gusti. “A parte la stanchezza, tutto in
regola?”
“Mmh,
sì…” Sören assunse
un’espressione
vagamente sognante: quello doveva aver inteso Bobby quando aveva detto
che non
era in sé. Il sorriso che aveva in bocca non aveva niente a
che vedere con le
timide contrazioni di labbra con cui di solito omaggiava la gente.
“Ho caldo, e
sete.”
“Sono gli effetti del sedativo.” Gli
versò un bicchier d’acqua, rincuorata
dalla loquacità e dal fatto che riuscisse a dire cose tutto
sommato sensate.
“Su, bevi.”
Sören
obbedì docile, lasciandosi
tirare a sedere e trangugiando tutto di un fiato, poi
sospirò. “Non mi sento
tanto bene…”
“Lo so tesoro, devi avere pazienza, presto starai
meglio.” Lo aiutò a mettersi
comodo trai cuscini accarezzandogli una guancia ombreggiata di barba:
quando
gli sarebbe ricapitato di poterlo coccolare con tanta leggerezza? Non
era
onesto, ma neppure così terribile approfittarne.
E
poi è così carino così perso!
…
dannato il mio istinto da chioccia!
Sören non le
rispose, ma la
guardò con improvvisa attenzione.
“Lilian…” Scandì lento, come
se si fosse
accorto solo in quel momento della sua presenza. Poi sorrise di nuovo
catturando
una ciocca dei suoi capelli tra le dita. “Bellissima
Lilian… sei qui.”
Ridacchiò, lasciandolo fare perché era evidente
che stava facendo un viaggio
nella propria testa e che non era destinato a finire a breve. Le aveva
risposto
in maniera sensata, ma doveva essere stato un caso.
“Sì,
mio affascinante Ren, in
persona.” Replicò, lasciando che giocherellasse
rapito con i suoi capelli. Non
era imbarazzata da quell’improvvisa vicinanza,o dal fatto che
la guardasse come
l’incarnazione di Morgana: del resto non si comportava molto
diversamente da
alcuni suoi pazienti, tipo Allock.
“Facciamo un
po’ di luce in
questa stanza?” Gli chiese Appellando un fazzoletto dal
comodino e
asciugandogli i capelli sudati. “È una bellissima
giornata, neppure una
nuvola!”
“Sì
…” Fu la risposta
distratta. “… quando la luce ti colpisce
… i tuoi capelli sembrano come fiamme
che danzano.” Aggiunse aggrottando le sopracciglia.
“Mi piacciono, mi sono
sempre piaciuti.”
“Grazie.” Gli ravviò ciocche di capelli
con le dita, dato che rischiavano di
finirgli negli occhi. “Direi che la droga ti ha reso un
poeta, ma so che anche
normalmente sei così.”
Aprì quindi le
cortine delle
finestre e fece filtrare la luce del mattino: non era brillante come
nell’ala
Thickley ma era molto meglio della penombra in cui erano stati immersi
fino a
quel momento. “Meglio vero?” Chiese voltandosi
verso di lui. Distolse lo
sguardo, perché l’altro non stava prestando la
minima attenzione alla finestra,
ma continuava a contemplarla come se fosse la cosa più
interessante al mondo.
Okay,
ce l’ha sta cosa di fissare, sempre avuta.
Rilassati.
Era profondamente sbagliato
pensare a quello che le aveva detto Roxanne la sera prima. In quel
momento era molto sbagliato.
È
strafatto. Guarderebbe così anche Jamie.
Non
è lo sguardo di un uomo innamorato, brutta cretina.
…
Morgana, Roxie, ti odio.
“Hai fame?” Chiese con tono fin
troppo allegro. “Ti vado a prendere
qualcosa in caffetteria?” Fece per alzarsi ma Sören
scattò a sedere, la afferrò
per le braccia e la bloccò. Non era una presa ferma,
dubitava potesse stringere
con forza alcunché in quelle condizioni, ma ebbe comunque il
potere di
inchiodarla sul posto.
“Sören.”
Disse in tono di
avvertimento: non le piaceva essere afferrata in quel modo e
l’amico lo sapeva.
Non
lo sa adesso. Non prendertela con lui.
“Scusa.”
Bofonchiò lasciandola
subito e palesandole il contrario. “Ma non andare
via.” Aggiunse smettendo di
sorridere. “Là fuori … là
fuori non puoi andare. È pericoloso.”
“Fuori dalla stanza?” Chiese rifugiandosi nel suo
ruolo di Psicomaga. “C’è la
tua scorta, siamo al San Mungo … Sono al sicuro,
okay?” Continuò accarezzandogli
la nuca: un approccio materno rassicurava i pazienti agitati e questo
era Sören
adesso. Un paziente.
“Tesoro, Doe non
può farmi del male qui. Su, stenditi un
po’.”
L’altro la ignorò, stingendo la presa angosciato:
nonostante tutto continuava a
non fare male. Anche non in sé riusciva comunque a toccarla
con riguardo. “Non
andare dove non posso proteggerti.”
Inspirò appena, ricacciando il magone che le salì
prepotente alla gola. “Okay…”
Sospirò prendendogli le mani e stringendogliele. Erano un
po’ più calde adesso.
“… resto.”
Sören parve rassicurato perché le sorrise di nuovo
e scivolò steso chiudendo
gli occhi. “Bene.” Disse. “Non sono
riuscito a fermarlo … scusa. Ma se sei qui
…”
“Lo fermeremo assieme.” Gli accarezzò
una spalla. Nonostante la confusione,
Sören aveva ragione su una cosa. Era quello il posto in cui
doveva stare. “Ci
copriamo le spalle a vicenda, giusto? Se solo prova a avvicinarsi di
nuovo a te
gli affatturo il sedere!”
L’amico fece un
sorrisetto un
po’ più ironico e meno sognante. “Quando
ti arrabbi fai paura, mia Lilian…”
“Giuro che lo
faccio.”
Ridacchiò, ignorando il suffisso possessivo. Era strafatto,
era un paziente.
Non significava niente.
Chiaro
Roxie?
Calciò via le
scarpe e
incrociò le gambe per ritagliarsi un doveroso spazio sul
letto dato che a
quanto pare sarebbe stata lì per un po’.
Sören osservò tranquillo l’operazione
e poi, senza colpo ferire, le passò un braccio attorno alla
vita, tirandosela
ancora più vicino. “Stai qui.”
Ripeté con un sorriso felice.
Paziente.
Paziente.
Perché si vedeva
lampeggiare
disperatamente quella parola davanti? Forse perché non aveva
tanto senso.
Da
quando permetti ad un paziente di toccarti così?
Eddai.
“Dov’è
Ama?” Si sentì un
idiota non appena ebbe pronunciato quel nome: non voleva che
l’altro se la
ricordasse nel suo delirio affettuoso. Non voleva che gliene parlasse.
“È
passata a trovarmi prima… È
stata gentile, sembrava preoccupata.” Disse battendo le
palpebre come se
cercasse di scacciare il sonno. Per un momento sperò che si
addormentasse
davvero. Invece continuò. “È bella,
è intelligente…”
Ci
siamo.
“Ti piace,
eh?” Serrò le
labbra. Le morse a dirla tutta. Ma se si aggrappò con una
mano al camice
dell’altro fu invece puro caso.
“Sì,
credo … ma non sono
innamorato di lei.” Era profondamente sbagliato gioirne
selvaggiamente. Di
certo. Ingoiò un sorriso e lo osservò annuendo
con quieta partecipazione.
“C’è
tempo per quello, sai …
non è che ci si innamora subito.”
“È quello che dice anche Dionis, ma io
gliel’ho detto…” Era la voce di chi
stava per sprofondare nel sonno, ma tuttavia si sforzava di tenere gli
occhi
aperti e Lily si trovò ad ascoltarlo sperando sia di vederlo
crollare che di
vederlo continuare. “… che non è lei
che amo, ma lui dice che devo provare…”
Sören sembrava
tormentato
adesso, e non sarebbe stato giusto negargli del conforto. Era una brava
Psicomaga, lei. O almeno ci provava.
Gli strinse una mano.
“A fare
cosa?”
“A
dimenticarti.”
Realizzare qualcosa di solito veniva dipinto come una lampadina che si
accendeva
in testa per i Babbani, e un Lumos
che appariva per i maghi.
Lei vide tutto bianco. Ma
non
bianco illuminazione gloriosa. Bianco panico. E poi gioia, terrore,
confusione
e trionfo.
E paura, di nuovo.
Erano cinque anni che non si
sentiva a quel modo e non credeva ci si sarebbe sentita mai
più. Ne voleva ancora.
“Dimenticarti di
me?” Doveva
chiudere il becco, stare zitta, che non era giusto fare domande del
genere con
la schiacciante probabilità che chi rispondeva non si
sarebbe ricordato nulla
il giorno dopo.
Ma era una codarda, lo era
sempre stata, e non riusciva a fermarsi. “Perché
ti vuoi dimenticare di me?”
Avrebbe dovuto ricordarsi
che
i codardi non ideavano mai a dovere i loro piani: le emozioni si
mettevano in mezzo
e rovinavano tutto.
Sören
aprì gli occhi e la
guardò, e Lily, che lo toccava ed era troppo fuori fase per
mettere il bavaglio
ai propri poteri, vide. Amore,
paura,
desiderio, gratitudine, gelosia, speranza. Amore. Tutto il pacchetto.
Mi
ama.
È
innamorato di me.
Sapeva benissimo cosa veniva
dopo ma non fece niente per fermare Sören quando si
alzò a sedere – da solo
stavolta – e le passò il pollice su una guancia. E
la baciò.
Oh, se la baciò.
La sete non
gli aveva reso le labbra secche, né la bocca arida. La
baciò perché aveva
sete e dubitava c’entrasse
qualcosa l’acqua. Sapeva di colonia e d’erba medica
e la leggera barba della
notte le pizzicò il viso.
Si ricordò troppo
tardi che
non avrebbe dovuto ricambiare. Quando lo fece, ignorò
l’urlo proveniente dal
suo intero essere e si staccò di colpo. “Ren, no
… Okay? Non … no.” Balbettò
come se avesse ricevuto un colpo in testa. Forte.
Ferma.
Che diavolo stai facendo?!
Doveva riprendere in mano la
situazione, lei, perché
l’altro era
fatto come una zucchina e non rispondeva di sé.
Però
i suoi sentimenti sono veri.
…
una cosa alla volta. Dannazione. Una cosa alla volta.
“Non stai bene,
non sai cosa
stai…”
“Ti sto baciando.” Replicò con calma
surreale e non ebbe bisogno di indagare
con i suoi poteri, perché aggiunse. “Ti voglio per
me.”
Oh, dannazione.
“Sì
… io…” Inspirò.
“… Ren, ho
un ragazzo, te lo ricordi?” Tentò di riportare la
conversazione su un piano
ragionevole. L’euforia del momento, gli ormoni impazziti
erano una cosa, Scott
e i suoi doveri verso di lui erano un’altra.
Non
l’hai neanche richiamato stamattina. Tu te lo
ricordi?
Il senso di colpa fu un
secondo colpo, stavolta allo stomaco, e le diede la nausea.
Lui
ti ha baciato… ma tu gli hai risposto. E quella mano
trai capelli? E la lingua?
Brutta
deficiente.
La guardava confuso, ed era
chiaro che lo fosse, perché era il risultato di un sedativo.
Ragionare con lui
era sensato come tentare di ragionare con Gilderoy o con Alice. Le
veniva da
piangere.
Eri
tu che dovevi tener sotto controllo la
situazione. E guarda che hai combinato.
“Ne
riparliamo…” Mormorò
sorridendogli e tentando di non scoppiarci davvero, in lacrime.
L’avrebbe
spaventato, e non voleva. “Ne riparliamo quando starai
meglio. Adesso ti devi
riposare, fa’ il bravo…” Gli mise una
mano sul petto e lo costrinse a stendersi
di nuovo. Era debole come un bambino.
Perché
ha utilizzato tutte le sue energie per baciarti.
E tu dovevi usare le tue per respingerlo.
Non
per ricambiarlo e quasi violentarlo. Imbecille.
Idiota.
“Lily…”
Tentò. “… scusa.”
Oh, no. No, no, no…
Scosse la testa soffocando un singhiozzo isterico. Non ci
capiva più niente
e voleva andarsene. “Non è colpa tua, okay? Non
sarà mai colpa
tua…” Ripeté. “Dormi, va
bene? Riposati.”
Mentre io raccolgo con il cucchiaio i
resti della mia sanità mentale.
Sören stavolta le
obbedì,
anche perché tutto quel parlare e muoversi doveva avergli
prosciugato ogni
forza. Scivolò nel sonno nel giro di pochi attimi e fu
così finalmente libera
di darsela a gambe.
****
Casa
di Roxanne e Dionis Radescu.
Pomeriggio.
Roxanne entrata a casa fu
accolta dall’odore di cibo cucinato, odore di pulito e ordine.
Stralunata, visto che le
cose
non erano andate precisamente in quella direzione nell’ultimo
periodo, percorse
il lungo corridoio che portava fino alla cucina, sperando di trovare il
marito
ai fornelli, dato che era una delle sue insospettabili passioni dopo i
film
comici Babbani.
“Dion!”
Lo chiamò senza osare
mettere piede in cucina per paura che Alexandra fiutasse il suo odore
– la
piccola bestiolina – e reclamasse attenzioni con un vivace
pianto.
Come
tutti gli Weasley, ha ottimi polmoni.
“Dragoste,
sono qua!” Replicò mettendo la testa fuori dalla
porta.
“Alex non è qui, è di là che
dorme.” Disse decifrando la sua espressione.
Batté le palpebre incredula. “A
quest’ora?” Un dubbio si fece spazio nella sua
meraviglia. “Le hai dato una pozione Sonnifera?”
Il compagno scosse la testa
divertito. “C’è Lily.” Disse
invece. “È venuta a trovarci.”
Dionis sembrava riposato, ma al tempo stesso inquieto, come se si
aspettasse
l’esplosione di un ordigno da un momento all’altro.
“E perché?”
Questo si strinse nelle
spalle, asciugandosi le mani in uno strofinaccio. “Non
gliel’ho chiesto … non
aveva la faccia di una persona che voleva domande.” Aggiunse
saggio come
l’aveva conosciuto e come sarebbe sempre stato.
“Avrà
una delle sue paturnie.”
Liquidò la faccenda, dato che era sicura che non fosse
così semplice e proprio
per questo non voleva coinvolgere il marito. “Sei riuscito a
preparare qualcosa
di caldo per stasera che non sia riscaldare la roba di nonna
Molly?”
Dionis annuì con
aria
soddisfatta. “Ben due portate!” Annunciò
con lo zelo di chi sapeva di aver
fatto un buon lavoro. “E ho anche fatto la spesa. Per una settimana.”
“Dovremo obbligarla a servirci come un Elfa per i prossimi
cinque anni di
Alex.”
“Oppure dovremo prendere una babysitter.”
Suggerì per circa la milionesima
volta, salvo alzare le mani in segno di resa. “Dragoste
farsi aiutare non è un delitto!”
“Lo è
per le donne della mia
famiglia.” Replicò sostenuta. La aborriva
l’idea di lasciare nelle mani di
estranei la gestione della sua
casa,
per quanto le loro cospicue finanze familiari potessero permetter loro
un
esercito di persone al loro servizio.
Sarò
un’ereditiera di una fortuna basata sugli scherzi
magici, ma qui non scherzo. È il sangue di nonna Weasley che
si manifesta.
Nel frattempo
l’opzione Lily,
quando la sciagurata non spariva nel nulla siderale delle sue pene
d’amore, era
un buon compromesso.
“Della babysitter
ne riparleremo.”
Concesse accarezzandogli una spalla e baciandogli l’angolo
delle labbra, perché
era il suo bravo e solido soldatino e senza di lui si sarebbe
già ridotta ad
una versione Infero di sé stessa. “Piuttosto,
ricordati che Lily non sopporta
il piccante.”
Dionis la guardò sorpreso. “Come sai che mangia
qui stasera?”
“Come so che il
vino che
abbiamo in tavola l’ha portato lei. È la Rossa,
è prevedibile come un eclissi
di sole.”
Dionis annuì con
l’aria di chi
non aveva capito nulla e di esserne ben felice. “Stappo il
vino.”
“Bravo
ragazzo.” Lo lodò
rubandogli un altro bacio prima di rispedirlo in cucina con una pacca
sul
sedere che questo accettò con un sogghignetto per niente
leso nella sua dignità
mascolina.
Dovevo
andarmelo a prendere in Romania, ma alla fine
l’ho trovato, un uomo vero.
…
a proposito di uomini, e maghi…
Era chiaro che
l’adorabile
cuginetta rosso crinita aveva combinato qualche casino con queste
ultime due
categorie se si era rifugiata nella stanza di una neonata. Di una
neonata dal
pianto infernale per giunta.
Che
casino ha combinato stavolta?
Lily aveva un gran cuore, ed
era proprio quello il problema: ne aveva così tanto che
usava solo quello,
fregandosene di avere un cervello che, quando voleva, funzionava pure.
La peggiore nemica di Lily
era
Lily stessa, con la sua impulsività che la trascinava in
situazioni improbabili
dove non sapeva cosa e chi voleva.
Certo,
fin’ora non ha inferto ferite, tranne quelle che
si porta addosso. Ma adesso…
C’erano due
ragazzi nel mezzo,
adesso, due maghi in gamba; la posta si era alzata.
La trovò sulla
sedia a dondolo
regalata da nonno Arthur mentre cullava una dormiente – o
svenuta – neonata.
Canticchiava qualcosa a bassa voce, una canzone moderna o una vecchia
ninna nanna
imparata alla Tana. Non che avesse importanza: cantava per pensare ad
altro, era
palese come la pioggia leggera che picchiettava sui vetri.
“Beh?”
La apostrofò brusca
facendola sobbalzare. Alex fece una piccola smorfia di disappunto, ma
Lily fu
lesta a cullarla e farla tranquillizzare di nuovo.
Poteri
da LeNa o meno, ce la incateno qui dentro,
giuro.
“Ehi.”
Abbozzò un sorriso
fiacco. “Sono venuta a vedere mia nipote … o quel
che è.” Aggiunse incerta. “È
così carina.”
“È un Acromantula Disillusa, altro che.”
Replicò senza lasciarsi intenerire
dall’aria quieta e disponibile dell’altra.
“Che cavolo hai combinato?”
“L’ho
fatta addormentare?”
“Non intendevo
quello.”
Ultimamente
tutte le nostre conversazioni si aprono
così.
Lily arrossì,
come sempre
faceva quando si rendeva conto di essere in terribile errore ma si
vergognava
troppo per ammetterlo. “Niente … sono …
te l’ho detto il motivo per cui sono
venuta!” Esclamò sulla difensiva. “Non
fai che dirmi quanto tu e Dion dormiate
poco e che non riuscite a pulire la casa e…”
“Poche balle.” Tagliò corto.
“Mi hanno detto di Sören. Sei andata a trovarlo,
cos’è
successo?”
Raccontare i suoi casini a
Roxanne era sempre stata un po’ come andare in terapia: non
dal punto di vista
medico, per quello aveva la Patil.
È che non poteva
raccontare
alla sua mentore le sue convulsioni sentimentali, mentre dirle a Roxie
per lei
era naturale come respirare.
L’espressione
della cugina
però in quel momento era poco invitante, e fece fatica
quindi a finire di
raccontare cos’era successo.
Anche
se non posso certo spiegarti com’è stato baciarlo
o come mi sono sentita quando mi ha stretto a sé e quanta
fatica ho fatto a
staccarmi e dirgli di lasciarmi.
Aveva sempre ritenuto
Sören un
ragazzo attraente, anche cinque anni prima, quando era troppo magro e
aveva i
lineamenti spiritati. Non era solo una questione di aspetto…
Era piuttosto una questione
di
mani, che l’avevano accesa come un fuoco
d’artificio, di quella bocca che,
diavolo, chi l’avrebbe mai detto che era capace di baciare
così … di quegli
occhi mozzafiato e dell’odore della sua pelle, che profumava
di colonia
agrumata e tabacco. Era tutto quello che le aveva fatto perdere la
testa
nonostante fosse stata quella sobria dei due.
Quei baci non se li sarebbe
potuti dimenticare più.
“Quindi vi siete
baciati.”
“L’ho baciato
… Non puoi considerare
quello che ha fatto lui, non era in sé. Non so neanche se si
ricorderà qualcosa
domattina…”
Roxanne assunse
l’espressione
di chi stava trattenendo un ceffone, quindi vigliaccamente si fece
scudo con
Alexandra stringendosela al petto. “Rossa, non fare la scema!
Dopo quello che è
successo ancora pensi…”
“No, ho capito che Sören è innamorato di
me.”
Ed era quella la cosa
peggiore,
perché essere ricambiata era peggio che essere non
corrisposta.
Perché
ecco, adesso sono davanti ad una scelta. E
stavolta sul serio.
Roxanne era in piedi, come
un
giudice silenzioso e fin troppo giusto. “Sei
pentita?”
La
mia buona coscienza…
Scostò una ciocca
di capelli
dalla testolina quasi glabra di Alex. Adorava i bambini,
perché da loro non
poteva leggere niente. Ancora troppo piccoli, ancora troppo innocenti.
“… No.”
Mormorò ma era come urlarlo in mezzo a Trafalgar Square.
“No, Merlino
Benedetto, no. Lo rifarei altre cento volte.”
“Quindi?”
“Quindi non ne ho
idea!”
Sbottò, abbassando subito la voce quando sentì
piagnucolare la piccola. Avere
un bambino in braccio era un buon esercizio per tener sotto controllo i
nervi.
“Non … c’è Scott, e va bene, devo
parlargli visto che ormai c’è tutto questo casino
con Sören, ma mi sento uno
schifo, lui…”
“Beh, dovresti sentirtici comunque visto che hai baciato un
altro.”
Grazie.
Le lanciò un’occhiata velenosa a cui
l’altra rispose con un’inarcata muta
di sopracciglia che esprimeva esasperazione, disapprovazione e il
sempiterno
desiderio di prenderla a calci. Roxanne forse era troppo bianco-e-nero
nei
rapporti interpersonali, per lei un tradimento costituiva un delitto
che non si
lavava neppure con il sangue…
Però
ha ragione. E sì, il suo biasimo me lo merito.
Reclinò la testa
contro lo
schienale di vimini della sedia. “È che con
Sören … come faccio? Siamo così
incasinati io e lui, e … c’è
… ne abbiamo parlato, avanti!” Sbottò
cercando di
trovare un parere, un segno di una via di fuga sul volto di pietra
della
cugina. Non ne trovò, perché non c’era
più via di fuga.
“Ho
paura.” Ammise buttandolo
fuori come se fosse un macigno. Lo era. “Ci abbiamo impiegato
così tanto a
tornare amici, non …” Si bloccò
perché le stava venendo un magone alla gola e
mettersi a piangere non avrebbe certo migliorato la situazione.
Inspirò e
riaprì gli occhi. “Non voglio perderlo. E se mi
sbagliassi, se non fosse amore
quello che proviamo, ma solo un attaccamento fisico
dovuto…”
“Per quanto stai da cani, Rossa, a me pare proprio
quello.”
“Devo prendermi un
paio di
giorni di pausa da Ren.” Decretò. “Devo
dedicarmi a Scotty, capire se voglio
fare quel viaggio in Australia … se voglio stare ancora con
lui.”
Roxanne la omaggiò di uno schiocco di labbra scettico.
“Certo, perché ha funzionato
così bene la lontananza tra di voi…”
“Puoi non essere disfattista, per favore?” Si
scaldò andando avanti e indietro
sul tappeto soffice della stanza. Avrebbe finito per scavarci una
trincea. “Sto
cercando di trovare una soluzione!” Si ravviò per
l’ennesima volta i capelli. “L’amore
non dovrebbe essere così…”
“L’amore è anche
così.” Roxanne
scrollò le spalle e le prese Alex dalle braccia per metterla
nella culla che poi
incantò per dondolarla dolcemente e non farla svegliare.
“Anzi, la maggior
parte delle volte è tutto fuorché una
passeggiata.”
Le rispose con una smorfia
passandosi
le mani trai capelli, pensando che avrebbe dovuto lavarli quella sera;
che si
sarebbe dovuta lavare tutta, reinventarsi,
diventare una persona diversa, migliore.
Né
Scott né Ren si meritano i casini che sto
combinando. Cavolo, devo darmi una regolata.
Doveva parlare con il suo
ragazzo, anche se non aveva idea di cosa dirgli.
“Non
c’è un solo modo di
amare, e nessuna storia è perfetta.” Roxanne
guardò il suo anello di matrimonio
pensierosa. “Alla fine dei giochi, però, conta la
persona per cui decidi di
fermarti e smettere di correre.” Fece una pausa,
perché era sempre stata una
tipa un po’ teatrale dietro i modi burberi. Adorava dir bene
le cose. “Qual è
la tua persona, Rossa?”
“Non potrei
scegliere nessuno?” Si
lamento nascondendo il viso
tra le mani. “Non potrei, chessò, scegliere me
stessa?”
Lo scappellotto che le
arrivò
non la trovò impreparata, tuttavia non reagì.
“Quella è la prima cosa che devi
fare, ovviamente.” La
rimbeccò. “Ma
in questo momento non puoi permetterti di fare solo questo …
Quei due poveri
ragazzi sono innamorati di te!”
“… lo so.”
“Allora parla con loro prima che la situazione ti sfugga di
mano … più di
quanto già non lo sia.” Alzò gli occhi
al cielo. “Sta praticamente rotolando
per le scale.”
“Come faccio?” Non aveva idea di come muoversi,
perché per la prima volta in
vita sua si sentiva il cuore spaccato a metà: come poteva
sapere se Scott era
l’uomo giusto per un futuro sereno o meno … e come
poteva esser sicura che
Sören fosse l’unica persona a poterla rendere
completa?
Non
ho certezze su nessuno, manco su di me. Messa così,
come faccio a prendere una decisione?
Perché cinque
anni prima aveva
preso delle decisioni, ma non erano state quelle giuste.
Anzi,
l’esatto contrario.
Forse aveva una deficienza
congenita, un’incapacità cronica di fare la cosa
giusta. Non le serviva quindi
aiuto, una guida?
Roxanne non le diede il
tempo
di dir altro, la prese senza troppi complimenti per un braccio e la
spinse
fuori dalla stanza. “Avanti, fuori di qui prima che svegliamo
Alex con i tuoi
patemi!”
“Non voglio che
…” Si morse un
labbro e fece un passo indietro, dato che la cugina non si era ancora
tolta gli
anfibi e avrebbero fatto male se l’avesse presa a calci come
prometteva la sua
espressione. “… non voglio che soffrano.”
“Piantala di frignare, qualcuno finirà per
soffrire comunque.” La portò fino in
cucina, dove Dionis, sollecito ed elegante come un maitre,
le offrì un calice di vino. “Puoi salvarne solo
uno.”
…
già.
Dionis le guardò
incuriosito.
“Di cosa state parlando?” La guardò
preoccupato. “Tutto bene Lily?”
Oh,
alla grande. Stiamo solo discutendo di un cavaliere
par tuo che mi ha rapito il cuore … e del mio ragazzo che
pensa di avere quel
cuore al sicuro in valigia.
“Paturnie, ma
abbiamo finito.”
Tagliò corto Roxanne prendendo il suo bicchiere di vino e
sorseggiandolo con
gusto. “La Rossa ha bisogno di distrarsi, dalle la bella
notizia.”
“Quale bella
notizia?” Chiese
perché aveva bisogno di ascoltarle una, qualunque fosse
stata, persino la
ritinteggiatura del salotto.
Dionis le sorrise con il
calore di un neopadre e di un uomo che aveva la donna della sua vita
accanto,
tanto che le cinse la vita con tenerezza e le baciò la
guancia. “Abbiamo
finalmente deciso il padrino di Alexandra … il giorno del
battesimo sarà la
prossima settimana.”
“Oh, di
già?”
“Più
aspettiamo più la cosa diventa
imbarazzante. Abbiamo ricevuto dei Gufi minatori da entrambe le
famiglie.” Si
inserì Roxanne. “Quindi abbiamo messo i nomi dei
padrini in un bussolotto e ne
abbiamo tirato fuori uno.”
“Ah!”
Dionis ridacchiò. “Ma no, per evitare di offendere
i miei fratelli o i vostri
cugini abbiamo semplicemente scelto un mago che fosse al di fuori dei
circuiti
familiari. In fin dei conti era l’unica scelta
sensata…” Aggrottò le
sopracciglia. “… alcune di quelle lettere erano
folli.”
“È
geniale!” Si sforzò di
congratularsi con entusiasmo, perché se era un disastro con
gli uomini non
significava che le cose, per qualcun altro, non potessero funzionare
meravigliosamente. “Io rimango la madrina, no?”
“Non vedo
alternative, sei
l’unica capace di ipnotizzarla.” Replicò
Roxanne esibendo un vago sorriso
indulgente, quasi l’avesse perdonata solo in virtù
della sua bravura con gli
infanti. “Vuoi sapere chi ti farà compagnia
nell’addomesticare la piccola
belva?”
Scrollò le spalle
svuotando il
bicchiere e godendosi la testa leggera. “Basta sia
carino.”
Il sorriso di Roxanne si fece improvvisamente strano, quasi perfido.
Uh?
“Dion, tesoro,
dille chi
abbiamo scelto.”
“Abbiamo pensato a Sören.”
****
Note:
Beh, insomma, era anche ora, no? Scusate per l'attesa, ma tra
il lavoro e le feste, si sa, insomma. Tempo? No data found.
Lily è una deficiente, ma questa, signore e signori, non
è esattamente una
novità. ;D
Qui
la
canzone del capitolo. Old
but gold. Enjoy!
|
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Capitolo 36 *** Capitolo XXXV ***
Capitolo XXXV
My war ships are
lying off the coast of your
delicate heart
And my aim is steady and true as it's been
right from the start
(Little
Hell, City and Colour)
23
Luglio 2028
Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale Magico San Mungo, mattina.
Sören si
svegliò accecato dal
sole che esplodeva fuori dalla finestra. Perché esplodeva,
la cosa era fuori
dubbio. Frastornato ricordò nebulosamente il motivo per cui
era al San Mungo e
perché avesse la testa tanto pesante.
John
Doe…
Doveva averlo conciato per
le
feste se ricordava solo pochi sprazzi di quell’incontro e
aveva invece buio
completo su tutto quello che era accaduto dopo.
Mi
ha colpito con una … siringa? Si chiamano siringhe?
Aveva sete e quindi si
voltò
dove pensava potesse trovarsi il comodino: fu sorpreso quando vide una
figura
seduta accanto a lui: alta, con una macchia nerissima al posto dei
capelli, era immersa
nelle lettura di un libro.
Era Thomas, che si era
allungato nella poltrona riservata agli ospiti per leggere e prendere
appunti
su un piccolo taccuino che teneva in bilico sul bracciolo.
Che
ci fa qui?
La sorpresa fu tale che ci
mise qualche attimo per trovare le parole adatte da rivolgergli.
“Buongiorno.”
Disse con la gola che gli pareva carta vetrata. “…
acqua?”
Nessuna risposta. Gli ci
vollero cinque minuti prima di accorgersi che aveva le cuffie e che non
lo
stava sentendo, e altri cinque perché riuscisse ad attirare
la sua attenzione.
“Thomas!”
Finalmente alzò gli occhi contemplandolo con blanda
sorpresa. “Ah, sei sveglio.”
Da quasi un quarto d’ora!
“Ho
sete.” I convenevoli li
aveva già esauriti prima e non aveva voglia di ripetersi.
“Dammi da bere.”
Il cugino in compenso non si
lamentò della sua scortesia, versandogli invece un bicchiere
che poi fece
Levitare fino a lui. Lo afferrò con mano malferma
– che diavolo di droga aveva
usato Johannes per ridurlo così? – e lo
trangugiò come se non bevesse da mesi. “Sei
qui da molto?” Gli chiese brusco: essere
ignorato era stato irritante, ma essere notato non era poi tanto
meglio.
Non
batte neanche le palpebre. Ne sono sicuro.
“Dalle otto di
stamattina.”
Era troppo stanco per
chiedergli perché diavolo avesse passato tutto quel tempo in
sua esanime
compagnia, così si sollevò sui cuscini per quel
che poteva, dato che sentiva il
corpo pesante come un sasso, e andò dritto al punto.
“La mia diagnosi?”
“Ti hanno
drogato.”
“Sì,
questo l’avevo intuito,
ma con cosa?”
Non avrebbe chiesto
delucidazioni
ad un civile qualunque, ma Thomas era il genere di persona che non
veniva mai
colta di sorpresa: gli avrebbe risposto.
“Le analisi che
hanno mandato
ad un laboratorio Babbano hanno rilevato benzodiazepine nel tuo
sangue.” Disse
infatti. “Una concentrazione che avrebbe steso un mago del
doppio del tuo
peso.”
“Rohypnol?”
Ricordò da un
corso di aggiornamento sui narcotici Babbani tenuto dal suo Ministero.
“Potrebbe essere
quello, sì.” Annuì.
“Sui maghi non ha lo stesso effetto che sui Babbani. Il
nostro organismo lo
smaltisce più lentamente.”
Maledetto
Johannes.
Fece una smorfia, passandosi
una mano tra le ciocche dei capelli che gli piovevano sugli occhi. Si
fermò,
quando ricordò, in un lampo doloroso come qualcuno glieli
avesse sistemati.
Ma
quando?
“Quanto ho
dormito?”
“Due giorni se
conti questo.”
Avrebbe dovuto ricostruire
parecchio. Sospirò, bevendo un altro sorso d’acqua
e tentando di posarlo poi
sul comodino. Quando non ci riuscì, Thomas si
alzò e lo fece al suo posto. Poi
lo studiò con lo stesso zelo di uno scienziato nei confronti
di una cavia. “Hai
un aspetto orribile e dovresti farti la barba.”
Dichiarò.
Altro
che Babbani. È stato cresciuto da un branco di
lupi.
“…
perché sei qui?”
“Al mi ha chiesto
di venire a
darti un’occhiata. Oggi ha un giro serrato di visite e forse
non riuscirà a
passare.”
“Ti ha chiesto di
venire a controllarmi?”
Suo cugino batté
le palpebre
perplesso, poi annuì tranquillo. “Sì, e
poi qui nessuno viene a disturbarmi.”
Indicò il libro e il taccuino con un cenno della mano.
“Sto scrivendo un saggio
per un giornale specializzato sull’Arte delle Bacchette, e
non gradisco
interruzioni.”
“Lieto di averti
fornito una
scusa.” Sbuffò rassegnandosi a quella
conversazione scoraggiante. Poteva capire
il desiderio di star da solo però; la casa in cui abitava il
cugino era
accogliente, ma anche piena di rumore e distrazioni, con una strega
adolescente
e un compagno sempre pronto ad invitar persone senza preavviso.
Thomas inaspettatamente gli
rivolse un mezzo sorriso, poi parve come ricordarsi qualcosa.
“Come ti senti?”
Alla
buon ora.
“Meglio.”
Mentì perché era ciò
che si doveva fare in quei casi. “Ma ho vuoti di
memoria.” Nella sua testa al
momento c’era una voragine enorme e frammentata. Ricordava
John Doe, la metro,
un ostaggio e il treno che aveva rischiato di travolgerli. Del tempo
passato in
ospedale però nulla.
Thomas ad ogni buon conto
aveva terminato i convenevoli da come chiuse libro e gli si rivolse a
bruciapelo. “Perché John Doe era a
Londra?”
“Non ne ho
idea.” Ammise. “Non
credo di aver chiacchierato con lui del più e del
meno.” Ironizzò. “Ci sono
novità?”
“Sul Demiurgo? Se
ci fossero
non sarei certo il primo ad essere informato. L’ufficio Auror
non ama
condividere con noi poveri civili.” Ironizzò
reclinandosi sullo schienale e
passando le dita sui braccioli; se fosse stato un adolescente insicuro
avrebbe
pagato per avere il naturale carisma che il cugino emanava. Come adulto
pensava
fosse un esibizionista, che godesse nel mostrarsi superiore
… e che fosse
nonostante questo innocuo.
È
bello essere adulti.
“Io e Albus
però abbiamo delle
teorie.”
Ci avrebbe
scommesso.“Ovvero?”
In certe cose era proprio un Von Hohenheim, si era addirittura adagiato
sullo
schienale come stesse assaporando la sua curiosità.
“Se non è di troppo
disturbo espormele.” Aggiunse sperando che la frecciatina
arrivasse.
Arrivò da come
l’altro serrò
le labbra con il broncio di un bambino. “John Doe ha scoperto
che sei il
paziente zero ed era qui per rapirti.”
Era l’unica motivazione sensata, anche se gli spediva un
brivido freddo lungo
la schiena. Se così era la scorta adesso aveva una ragione
di esistere che non
fosse proteggerlo da fantomatici incontri con sua madre.
Non
si smette mai di essere una cavia, pare.
“Potrebbe essere,
sì.” Disse
mostrando una calma che era ben lungi da provare. “Ma da chi
l’ha scoperto?”
“Questa
è una domanda a cui
dovrebbe rispondere l’ufficio Auror.”
Il sottotesto era chiaro. “Stai dicendo che
c’è una talpa?”
“Non è
improbabile. Questo
spiegherebbe perché sembrano sempre un passo avanti a
noi.”
“Dobbiamo
avvertire Potter e
gli altri allora.” Lo avrebbe fatto di persona se non fosse
riuscito a scendere
dal letto senza strisciare.
Thomas fece una smorfia.
“C’è
una cosa che non ha senso però …
perché avvicinarti con la Traccia addosso? La
talpa deve averlo avvertito che non può rapirti senza che si
ritrovi l’intero
dipartimento Auror alle calcagna.”
“Può essere che abbia tentato comunque di
spezzarla ed abbia rinunciato quando
si è accorto che non poteva. Ci vuole tempo e uno spezza -
incantesimi
addestrato, due elementi che non ricordo possedesse.”
“Se non li aveva,
perché ha
tentato comunque?”
“Thomas…”
“Non trovi questo blitz assurdo?”
Sören aveva la
testa ancora
confusa, e comunque non aveva mai capito la logica dietro i piani
dell’ex
partner. “Johannes è sempre stato
incomprensibile.” Scosse la testa. “Vorrei
potere avere una risposta, ma …”
“Potresti
sforzarti.”
Si trattenne dall’intimargli di levarsi dai piedi, o da
chiamare una Medimaga
che lo facesse al posto suo. Capiva le intenzioni, ma il carattere del
cugino
era intollerabile come sedersi su una sedia irta di chiodi.
“Credimi, lo sto
facendo.”
Di
non Schiantarti sul colpo soprattutto.
Thomas aprì la
bocca per
ribattere, ma fu fermato. “Tom lascialo stare!”
Albus Severus entrò nella
stanza rivolgendogli un sorriso che rese la sua somiglianza con Lily
fastidiosa
come una fitta allo stomaco.
La
tua presenza non mi interessa. Dov’è Lily?
È venuta
a trovarmi?
Aveva tutto il diritto di
sperare
nel conforto dell’unica persona al mondo capace di
rasserenarlo.
Per mantenere le apparenze
strinse
comunque la mano all’altro ragazzo. “Quanto ci
vorrà perché possa tornare in
piedi?”
Praticità.
È ciò che si pretende da uno come me.
Voleva Lily.
“Entro domani
potrai firmare
il foglio di dimissioni.” Gli strizzò
l’occhio solidale. “La situazione è
fastidiosa, ma passeggera.” Si rivolse poi al compagno.
“L’orario delle visite
è terminato.”
“Non è vero.”
“È terminato per te.”
“Sta
bene.” Borbottò questo
con tono offeso. “Lo stavo aiutando a ricostruire la vicenda
come mi hai
chiesto di fare.”
“Ti ho chiesto di domandargli se avesse bisogno di niente,
non di tormentarlo …
e non mettermi in bocca parole che non ho detto!”
“Ho letto tra le righe.”
“Hai letto quel
che ti
pareva!”
Sören, per evitare lo sfociare dell’alterco in una
lite, trovò opportuno
intervenire spiegando il motivo per cui il cugino era lì, e
le teorie che
avevano sviluppato. Thomas per tutta risposta lo guardò
più indispettito che se
avesse preso le parti di Albus.
Non
deve piacergli esser difeso…
Quindi aggiunse.
“Mi ha anche
dato un bicchier d’acqua.”
Così
impari.
Albus
gli scoccò un’occhiata divertita.
“Quindi ha fatto il bravo!”
“Posso confermarlo.”
“Possiamo parlare di cose serie?” Sibilò
l’interpellato alzandosi in piedi
offeso. Albus gli strizzò l’occhio di nascosto e
Sören si trovò nella scomoda
posizione di dover mantenere una faccia seria. Non gli capitava spesso
ed era
piacevole. “C’è la
possibilità che Sören recuperi la
memoria?”
“Non tutta, per
quando era
incosciente non possiamo fare niente.” Scosse la testa Albus.
“Il resto penso
tornerà, ma con i sonniferi Babbani non si può
mai sapere … Con tutta quella
roba chimica.” Fece una piccola smorfia di disgusto.
“Dipende.”
“Non mi interessa cos’è successo dopo
… Del resto ero qui, non è nulla che
possa aiutare le indagini.” Poi fece mente locale.
“Significa che mi sono
svegliato prima di oggi?”
“Sì,
più volte, ma … non eri proprio
in te.”
“Che significa?”
Si dovette sorbire un
sorrisetto del tutto deliziato da parte di Albus e un vero e proprio
ghigno da
parte di Thomas. “Significa che … beh, come ti
prende di solito la sbronza?”
Ti
prende triste, principino.
Gli sembrava quasi di
sentirlo, Milo. “Non di quelle allegre, se è
quello che intendi.”
“Allora diciamo che quando sei…”
“Strafatto.”
“Tom!”
“Cosa?”
“Sì, insomma … sei tutto il
contrario.” Albus ce la stava mettendo tutta per
non scoppiargli a ridere in faccia, e non avrebbe quindi dovuto
prendersela a
male.
Se la prese a male comunque.
“Spero di non aver
dato
spettacolo…”
“Ma no!”
E
invece sì.
Era ovvio che doveva aver
detto o fatto qualcosa di ridicolo. Era palese
che si fosse messo a fare l’idiota, visto che persino suo
cugino, che aveva la
mobilità facciale di una sfinge, aveva le guance rosee e le
labbra strette per
non lasciar sfuggire uno sghignazzo.
“Abbracciavi
facilmente, ma è
una cosa carina!” Esclamò Albus tentando di
migliorare la situazione e
peggiorandola ineluttabilmente.
Voglio
morire.
Non solo era stato catturato
da John Doe come un novellino, ma era anche riuscito a trasformarsi in
un
oggetto di pubblico ludibrio.
Inspirò cercando
di assumere un’espressione
noncurante e fallendo, probabilmente. “Chi è
venuto a farmi visita quando ero
in … simili … condizioni?”
“Praticamente tutti.”
La finestra era aperta, se vi si fosse gettato forse la magia non
avrebbe fatto
in tempo a salvargli la vita. L’avevano visto tutti,
il che significava quel cretino di Potter, Malfoy, Ama,
colleghi e forse anche amici come Dionis.
Milo l’avrebbe preso per il sedere vita natural durante. Ma
soprattutto, non
poteva non esser venuta una persona…
Lilian.
Se era stato
inappropriatamente affettuoso con chi considerava semplici amici cosa
diavolo aveva
potuto fare con Lily?
“Lily è
venuta a trovarmi?”
Sperava che la naturalezza con cui lo chiese non fosse inficiata dal
fatto che
si sentisse sul punto di vomitare la poca acqua che aveva bevuto.
“Certo!”
Non
mi ricordo niente. Cos’ho fatto? Che cosa le ho
detto? Come mi sono comportato?
“Quante
volte?”
“Beh,
uhm…” Albus aggrottò le
sopracciglia, tentando di ricordare. Lui che poteva. “Una
volta sola, credo.”
Non è tornata.
Ho fatto qualcosa. Ho sicuramente
fatto qualcosa. O le ho detto qualcosa.
Cosa le ho detto?
Nel panico chiuse gli occhi
e
tentò di far riaffiorare la visita, ma come quando John Doe
l’aveva punto con
quella dannata siringa, gli venne restituito solo il vuoto. E un
profumo.
Gigli.
Sì, è stata qui. E poi?
Una fitta alla testa lo fece
gemere e Albus, in pieno istinto da Guaritore gli fu accanto,
posandogli una
mano sulla spalla e facendolo stendere trai cuscini.
“Devo
recuperare la memoria.” Del resto aveva degli ottimi motivi
per volerlo, e nulla che potesse far pensare a Lilian.
“L’ho incontrato e non
riesco a ricordare che sprazzi della nostra conversazione. Potrebbe
essere
utile per le indagini. Non esiste un incantesimo che possa
aiutarmi?”
I due inglesi si scambiarono
un’occhiata, poi Albus sospirò. “Ci
sarebbe…” Si grattò una guancia
pensieroso.
“Si chiama Memento, ma a
meno che non
ce ne sia bisogno si evita di farlo … La mente umana
è complessa, e spesso
forzarla a ricordare non porta ai risultati sperati.”
Lo ricordava bene. Johannes lo usava per estrarre ricordi dalle menti
terrorizzate di maghi e streghe in ostaggio. Represse il ricordo e
chiese. “C’è
qualcuno in grado di farlo?”
“Al reparto di
Psicomagia dovrebbero
essere in grado, lo usano nelle terapie dei pazienti con danni
cerebrali.” Rispose.
“Dovremmo chiedere l’autorizzazione del tuo
Ministero però.”
“Arriverà senza problemi.”
Perché si trattava di John Doe, e il Capitano non si
sarebbe lasciato sfuggire quell’occasione.
Albus pareva poco convinto,
tuttavia annuì. “Allora vado a chiedere un
consulto alla Psicomaga Patil.”
Esitò. “Sei sicuro di sentirtela?”
“Sì, lo sono.” Annuì: la
memoria doveva tornargli. E in fretta.
****
Londra,
Notturn Alley.
Mattina.
Una donna incazzata era
quanto
di peggio ti potesse capitare sul lavoro. Una donna che ti è
superiore di grado
in quello stato d’animo era praticamente una sciagura, e
Bobby Jordan stava
quindi respirando il più piano possibile mentre il sergente
SAGITTA Ama
Gillespie incedeva per lo sporco viottolo di Notturn Alley, facendo
scansare
persino un paio di vecchi relitti dalla bacchetta facile quasi fossero
scolari
spaventati.
Merlino
Benedetto…
Avrebbe voluto essere con
James
e Scorpius a guardare per la milionesima volta i filmati delle
telecamere di
sicurezza della metropolitana piuttosto che dover condividere un
sopralluogo
con l’americana, ma il sergente Weasley aveva deciso
altrimenti, quindi non gli
restava che stringere i denti e sperare di non esser usato come capro
espiatorio.
“Qual è
il pub?” Gli venne
abbaiato.
“In fondo al
vicolo, quello
con l’oca nera nell’insegna.” Rispose
sollecito.
“Ragguagliami.”
“È il
ritrovo della
criminalità magica di Londra, ed è frequentato da
una banda di Magonò che
spesso ci ha fatto da informatori. John Doe può esser anche
passato di lì.
Conosce il posto.”
“È
quello che pensate abbia
fatto o che sperate?”
Domandò
aggrottando le sopracciglia e squadrando il pub; notò che
guardava per le
uscite di sicurezza e provò di nuovo la spiacevole
sensazione di aver fatto una
cavolata a non avvertirla.
Non
è passato in mente a nessuno di noi, e ormai è
troppo tardi per chiederle scusa.
C’era un codice
non scritto
tra agenti, e loro la sera dell’addio al celibato
l’avevano preso a calci.
“Non abbiamo altre
piste,
visto che è un mago capace di cambiare volto e sparire nel
nulla.” Si strinse
nelle spalle. “Vale la pena provare.”
“C’è
qualcosa che devo sapere
prima di entrare?” Secca, diretta. Tutta la
cordialità con cui si era
presentata era sparita.
Rispose con il suo tono
più
mite. “Quello che vale per qualsiasi locale malfamato del
mondo … Non far mai
pesare il distintivo e non lamentarsi di avere il bicchiere
sporco.” Ci rifletté
e poi aggiunse. “L’intero esercizio è in
mano ai Magonò … Il loro capo, Danny Figgins,
non è la classica feccia ottusa.”
“Di cosa si
occupano?”
“Ricettazione di
artefatti
magici, furti, sfruttamento della prostituzione …”
“Tutto in ottica Magonò?”
“No, offrono i propri servizi, se vuoi chiamarli
così, soprattutto ai maghi.”
Quelle domande avevano uno scopo, immaginava, quindi aggiunse.
“Serve che tu
sappia altro?”
“Mi basta.” Ama spinse la porta del locale in
un’unica mossa e Bobby la seguì;
immediatamente entrati cadde un silenzio denso e ostile, con almeno una
ventina
di occhiate dirette come frecce nella loro direzione, seguite da
qualche
insulto a mezza bocca.
Oookay.
Un classico intramontabile del Black Goose.
L’unica nota
positiva era la
non-presenza di James; l’amico era del tutto incapace di
diplomazia in quelle
situazioni.
Le
nostre visite di solito finiscono con una bella
rissa con tanto di boccali spaccati in testa. Se poi
c’è Sy… Almeno stavolta
non ci saranno chiamate al San Mungo.
Ama si limitò a
guardarsi
intorno con la tranquillità di un avventore, curandosi
comunque di lasciare il
fodero ben in vista come le sue intenzioni. Poi gli fece cenno di
passarle
avanti e mostrarle il da farsi.
Per farsi perdonare
– era un
bravo ragazzo lui! – individuò il capoccia
Magonò ad un tavolo dove era in
corso una partita a carte, lo raggiunse e lo apostrofò con
zelo. “Figgins, molla
il gioco, abbiamo bisogno di te.”
Il ragazzo alzò lo sguardo annoiato, quasi una mosca gli
avesse sbattuto sul
viso. “Avevo sentito puzza di Auror…”
Esordì ignorandolo e facendo un tiro dalla
sigaretta che aveva indolentemente appiccicata al labbro inferiore.
“Il naso mi
funziona proprio bene, eh?”
“Ti ho fatto una domanda.”
“… e pure le orecchie mi
funzionano…” Gli servì il ghigno per
cui era tanto
famoso. James l’aveva ribattezzato Jaws
con tutte le maledette ragioni. “Non mi risulta che debba
rispondere se non
voglio. Non ho diritti come cittadino del glorioso Ministero
britannico?”
“Diritti che
potresti perdere
se andassi nel retro di questa bettola a controllare.”
Ribatté senza lasciarsi
intimorire dalla massa compatta di muscoli pronti a scattare ad un solo
cenno
del ragazzo magrolino.
Il quale non rispose.
“Vedo che
oggi sei in dolce compagnia…” Disse invece
guardando Ama come se stesse
scartando una merendina e la cosa gli fece subito venir voglia di
seguire
l’esempio violento di James. “È la tua
amichetta?”
“Sono il Sergente
Ama
Gillespie.” Replicò la strega senza battere
ciglio. “Hai un buon motivo per
mostrarti così ostile a ben due forze di polizia
magica?”
Figgins batté le
palpebre,
quasi sorpreso di sentirla parlare. Parve trovare
l’intromissione piacevole
però, perché si lasciò andare contro
la sedia e la contemplò beato. “E tu chi
sei splendore?”
Ama sorrise. “Non
avevi detto
di avere buone orecchie? Mi sono appena presentata.”
“Ho anche altre
parti del
corpo che funzionano a meraviglia…”
“Lieta di
sentirlo. Ti
funziona anche la bocca per dirci quello che abbiamo bisogno di sapere
o
dobbiamo portarti in ufficio?”
Bobby capì il piano dell’americana, e fu solo per
questo che non si fece suo
paladino come coscienza gli imponeva. Figgins infatti rise.
“Non c’è bisogno di
essere così duri…” Alzò le
mani in segno di resa. “Non è personale. Non mi
piacciono le teste di latta ed io non piaccio a loro, tutto
qui.”
“E cosa ne pensi
dei
parassiti?” Mise la foto di John Doe – quella
più recente che avevano e che
forse neanche lo rappresentava al momento – sul tavolo, tra
boccali, carte
bisunte e mucchi di Zellini. “Perché
quest’uomo rientra nella categoria, ed è
il genere di soggetto che nessuno vuole vedere a piede libero, maghi e
non.”
Fece una pausa ad effetto. “Avrai sentito parlare del
Demiurgo…”
“Come
tutti.” Confermò con una
scrollata di spalle. “È una malattia nuova che vi
beccate voi maghi, che
centriamo noi?”
Ama imitò la sua
alzata di
spalle noncurante. “Il nostro mondo si regge sui maghi come
sui non maghi,
Danny. È un equilibrio che funziona se entrambe le categorie
sono in salute.
Non dirmi che i tuoi affari non ne hanno risentito.”
“Non so a che
affari tu ti
stia riferendo cioccolatino…”
La Gillespie
continuò a
sorridere, ignorando il nomignolo. “Tiro ad indovinare, ma
immagino che le
ragazze che lavorano per te abbiano visto diminuire il numero dei
clienti, e
poi, chi entrerebbe in case di maghi che potrebbero essere infetti per
toccare
la loro roba?”
Ecco
a che servivano tutte quelle domande sui suoi
traffici.
Lo scozzese
Magonò gli lanciò
un’occhiata divertita. “La ragazza mi piace, Auror,
ha le palle. Le fanno tutte
così in America?” Ridacchiò con quella
sfumatura maligna che faceva sempre
saltare i nervi al buon Jimmy. “Ve ne servirebbero un paio
… Non potete sempre
campare della gloria del nostro eroe nazionale.”
Bobby serrò la
mascella e fece
un cenno verso la foto. “Lo conosci o no?”
Figgins fece tutto il
possibile per apparire infastidito mentre la prendeva in mano.
“No, mai visto
in giro … Come avete detto che si chiama?”
“John
Doe.” Vide qualcosa
muoversi negli occhi slavati del ragazzo. “Lo
conosci?”
“No.”
Girò la foto e la spinse
verso la strega. “Ne ho sentito parlare da un amico
però … Anche lui mi ha
chiesto se l’avevo visto.”
“Chi?”
“Per conto di chi volete dire.”
Figgins non levava gli occhi di dosso da
Ama, ma veniva fieramente guardato di rimando quindi fu costretto, con
sorpresa
dello stesso Bobby, a distogliere lo sguardo. “Lo cercava per
conto di un mago,
buona ricompensa se avessi trovato informazioni su di lui.”
“E le hai
trovate?” La strega
si sporse oltre al tavolo in uno scatto che poteva esser definito solo
come
felino e infatti un paio di grossi energumeni fecero un sussulto, senza
osare
però tirare fuori arnesi o lame.
Fa
paura anche a loro.
Figgins invece non mosse un
muscolo. “No, cioccolatino, silenzio radio … e non
che non ci abbia provato. Ho
mandato in giro i miei ragazzi, ma se è passato di qui, non
ha lasciato traccia.”
Schiacciò la sigaretta sul posacenere e se ne accese
un’altra. “La cosa non mi
piace.” Fece una smorfia. “Ho raccolto un
po’ di informazioni però … E
nossignore, non è bacchetta che voglio a giro nel mio
quartiere.”
Ah
però, come chiacchiera con una strega…
Avrebbe
dovuto ricordarsi di portare
un agente donna la prossima volta che aveva bisogno di informazioni.
Ama si
scambiò un’occhiata con lui. “Cosa hai
scoperto?”
“Che è
crucco, che cambia
faccia come cambia umore, e che se ti propone un affare è
meglio se valuti bene
i pro e i contro prima di accettare.”
Come immaginavano, neppure
la
teppa di Nocturn Alley aveva visto il Camaleonte.
Un altro buco nell’acqua
… ma il tipo che
lo cerca per conto di un mago…
“Il mago che ti ha
chiesto
informazioni, come si chiama?”
Figgins sbuffò
infastidito
dalla sua intromissione. “Ti vedo informato, Auror.
È uno dei vostri.”
È Sören. Sören ha
cercato informazioni su
Johannes e non ce lo ha detto.
E dalla faccia della
Gillespie, doveva esserci arrivata anche lei.
Uscirono dal pub senza
scambiarsi una parola, e ci vollero dieci minuti ed un paio di ripetute
richieste di fermarsi da Fortebraccio per prendere qualcosa per
distendere i
nervi prima che l’americana gli rivolgesse di nuovo la parola.
Stavolta
non è colpa nostra!
“Io non so come
fare con
Prince!” Sbottò vuotando un sorso di
caffè bollente come se nulla fosse. “Ti
rendi conto? Indaga alle nostre spalle da … non so, da quando è qui?”
“Non proprio alle spalle…”
Tentò conciliante sedendosi su uno dei tavoli della
veranda. L’altra lo imitò senza pensarci, troppo
infuriata per notare che stavano
facendo.
Buon
per me.
“E come lo chiami
chiedere al
suo assistente di cercare informazioni sul Camaleonte senza avvertirci?
Perché
è Meinster l’amico misterioso, ne sono sicura,
quei due sono fodero e
bacchetta!”
“Beh…”
“A vederlo si pensa che si sia ingoiato un manuale di regole
di buona condotta,
sempre così posato, cortese, pronto a mettersi
sull’attenti!”
“In effetti…”
“Invece è un bambino di sei anni! Testardo per
giunta!” E stavolta il caffè lo
vuotò tutto. “Finge
di ascoltarti, di
darti ragione … e poi parte per le sue stramaledette
crociate solitarie,
tagliando fuori tutto e tutti!”
Ehm.
Di cosa stiamo davvero parlando?
Perché la
Gillespie era furibonda,
ma non come un superiore lo sarebbe stato con un sottoposto.
Sembra
proprio una donna furibonda con … beh.
Secondo Scorpius
c’era del
tenero tra lei e Prince, ma Bobby sperava proprio di no.
Tutti
pazzi per Prince? E insomma…
Comunque non
lasciò trasparire
nulla della sue riflessioni, sorseggiando invece il suo Earl Grey in
britannico
e composto silenzio. Fu una buona strategia perché dopo
qualche attimo la
collera della strega si sgonfiò, lasciandola a fissare la
tazza come se fosse
la causa di ogni male.
“Non so davvero
cosa fare …”
Concluse sconsolata.
“Con me sfondi una
porta
aperta.” Disse e quando fu sicuro di avere la sua attenzione
continuò. “Con
James è la stessa cosa. È un ottimo auror, e il
miglior amico che un mago possa
desiderare … ma quando un caso lo prende sembra scordarsi
che le regole sono
state fatte per essere seguite. Un giorno o l’altro
rischierà sul serio il
distintivo, e forse lo farà rischiare anche a me.”
Fece un mezzo sorriso. “Anche
se non credo che succederà finché avremo Harry
Potter come Capo ufficio.”
“… favoritismi?”
“Non li chiamerei
proprio così
… è che in quella famiglia prender le cose di
petto ed essere sempre in prima
linea è un modo di vivere, non di lavorare.”
Scrollò le spalle. “Sören che
prende iniziative personali senza dire nulla a nessuno da noi sarebbe
un
grattacapo di media entità.”
Ama lo guardò
sbigottita. “E a
te sta bene?”
Sorrise perché
non c’era molto
da fare. La capiva. “Chiudiamo casi, salviamo delle vite
… E che tu ci creda o
no, abbiamo dei limiti. Perché lamentarmi? La vita reale
è molto diversa da
quella che si legge nei regolamenti.”
“Quindi secondo te
Prince ha
agito bene?”
“No, ma capisco
perché l’abbia
fatto … Per lui questo caso è personale, vuole
prendere Doe e chiudere col suo
passato una volta per tutte. Se non può farlo per vie
ufficiali, lo farà da
solo … rischiando la vita e mettendoci tutti nei
guai.” Notò come lo sguardo
dell’americana sfuggisse, e di come la piega delle labbra si
facesse più
stretta: spodestarlo non le era piaciuto più di quanto non
fosse piaciuto a
loro. C’era stato un cambio di atmosfera e Bobby quindi si
azzardò a tirare
fuori l’elefante dalla stanza.
“Non vogliamo che
nessuno di
voi due venga estromesso dal Demiurgo, e parlo sia per me che James e
Scorpius.
Ammettiamolo, siamo impantanati, ci serve tutto l’aiuto
possibile.”
Ama inarcò un
sopracciglio, ma
un sorriso le covava all’angolo delle labbra.
“Quindi cosa suggerite di fare?”
Bobby sorrise di rimando.
“Quello che abbiamo sempre fatto. Collaborare.”
Il sorriso che si
scambiarono
sancì ufficialmente la tregua e la fine della guerra fredda.
E
chi dice che sono un personaggio di contorno, non ha
proprio capito niente.
****
San
Mungo, ora di pranzo.
Tom era bravo nel capire il
comportamento delle persone, ma non il perché
reagissero in un dato modo, tassello indispensabile per riuscire a
leggere il
sottotesto della conversazione con Sören. Infatti mentre
stavano entrando
nell’ascensore che li avrebbe portati fino al reparto
Lesioni, esordì.
“Non ti
è parso strano?”
“Sören?”
Scrollò le spalle. “Direi.
Sta smaltendo gli effetti di un potente so…”
“Parlavo dell’agitazione.”
Fermò le mascelle meccaniche per permettere a lui e
ad una giovane medimaga di passare, ma quando questa fece per
ringraziarlo le
mollò di colpo, rischiando di intrappolarla in mezzo. Albus
fu lesto ad
aiutarla e si scusò con uno sguardo. “Era
agitato.”
“Certo che era agitato, è stato
aggredito…”
“No.” Lo bloccò, offeso dal fatto che
non lo seguisse. “Quando ne parlavamo da
soli era calmo. E quando sei arrivato tu che ha cominciato ad
innervosirsi.”
Aggrottò le sopracciglia. “Come se ti volesse
nascondere qualcosa…”
Albus finalmente localizzò il contesto.“Ah,
certo.” Ridacchiò all’espressione
confusa del compagno. “Non era a causa mia.”
“A causa di chi allora?”
“Lily.”
Disse con semplicità.
“Gli ho ricordato Lily. Associazione di idee? Non ti sei
accorto di quante
volte ha fatto il suo nome?”
“Non ci ho fatto
caso.” Ovviamente.
“Cosa c’entra tua sorella
con…” Si bloccò. Lo guardò e
poi capì. “Ah.”
Eh, alla buon’ora.
“Cosa sta
succedendo tra lui e
Lily?”
“Bella
domanda.” Si strinse
nelle spalle, picchiettando distratto con la punta della bacchetta sul
pulsante
del proprio piano. “Di certo si è spaventato
quando ha realizzato che deve
averla incontrata sotto effetto del narcotico. Dà da
pensare, non credi?”
“Da da pensare
cosa? Perché
teme Lily?”
Rise.
“Oh Merlino, non teme Lily!”
Venne guardando con
irritazione. “Quindi cos’è?”
Albus si strinse nelle
spalle,
perché di non impicciarsi negli affari di cuore dei fratelli
ne aveva sempre
fatto un vanto. Non avrebbe iniziato ora.
Cinque
anni fa era
mio dovere preoccuparmi. Non era una
storia d’amore in divenire, era una storia che rischiava di
diventare una
tragedia shakespeariana. Ora è diverso, Sören
è dei nostri.
“Al…”
Lo scrollò per attirare
la sua attenzione, e si lasciò scrollare, ampliando il
sorriso e non aprendo
bocca. “Albus, cosa sai
che io non
so?”
“Comare.”
Lo prese in giro
mostrandogli la lingua. “Andiamo, l’hanno capito
tutti!”
Tom fece una smorfia, facendo qualche rapido calcolo mentale.
“Lily sta con lo
scozzese.” Dichiarò trionfante. “Non
possono avere rapporti in quel senso.”
“Mi spiace deluderti, ma il mondo non si regge su monogamie
come la nostra.” Era
tenero constatare ogni volta come Tom fosse terribilmente bianco e nero
sulla
questione. Gli accarezzò il risvolto ordinatamente stirato
della camicia,
togliendogli granelli di polvere che non vi si sarebbero posati, non
finché Tom
l’avesse indossata. “Siamo molto
fortunati.”
“Lo so.”
Replicò infastidito.
“Ma tua sorella, per quanto abbia avuto una fase in cui
volava di fiore in
fiore…”
“Per eufemizzare.”
“Per eufemizzare, sì, adesso fa sul serio. Non fa
che dirlo.”
“Intenzione e
realtà dei fatti
non vanno sempre a braccetto.”
“Se non fosse che i fatti constatano la mia teoria. Tua
sorella non è più la ragazza da bar che era una
volta. Esce di rado, sempre in
compagnia del suo ragazzo, e non sono stati uditi né
confermati pettegolezzi
sulla sua infedeltà.” Scesero al piano e Tom gli
si affiancò, finendo il suo
suo ragionamento. “Da questo se ne deduce che, per quanto sia
una ragazza
frivola e dalla sessualità esuberante…”
“Continuiamo con gli eufemismi, ti ringrazio.”
Tom gli diede una spinta per segnalare quanto poco amasse essere
interrotto. “…
non sta tradendo Ross con nessuno. In questo è come te.
Quando fa sul serio, è
seria.”
Al sorrise, sfiorandogli la mano con la sua. “Dimentichi una
cosa.” Fece una
pausa ad effetto, perché poteva esser teatrale anche lui se
voleva. “Sören è il
suo primo amore, ed è nei guai fino al collo. Certe cose
attirano i Potter come
mosche al miele…”
“Quindi ha tradito
Ross con Prince?” La
sfumatura incredula con cui
pronunciò il cognome riassumeva quanto trovasse ridicola
l’idea. E non poteva
dargli torto.
Sören
è un tipo così … corretto. E poi
tratta Lily come
se dovesse dedicarle un sonetto, non come se volesse portarsela a letto.
Neppure lui li vedeva come
amanti fedifraghi.
“Non sono affari
nostri.”
Finse tutta il disinteresse di cui era capace, perché il
compagno era
l’equivalente di uno schiacciasassi quando trattava certi
argomenti.
Ci
manca solo si interessi a quei due. Sarebbe capace
di andare da Sören e chiedergli se ha già fatto
sesso con Lily o se si è
limitato ad avere fantasie erotiche che la coinvolgono.
Gli prese la mano e ne
baciò
il palmo, con affetto ed esasperazione. Come le cose andassero a
braccetto non
l’aveva mai capito. Ma funzionava. “Tom, fattelo
dire da un impiccione.
Stiamone fuori, ci conviene.”
“Non…”
“Di certo il nostro aiuto non è
richiesto.” L’altro accettò
l’appunto anche se
con una certa riluttanza. “Sei preoccupato per tuo cugino, e
lo capisco, ma
concentriamoci sul lato lavorativo della sua vita.”
“Non sono preoccupato!”
Sì, e io sono la Fata Morgana.
Entrarono nel reparto
Thickley
che come sempre era un tripudio di luce e colori; gli piaceva passare
di lì
ogni tanto, perché la Patil aveva fatto un lavoro eccellente
nel creare un
atmosfera che si discostava quanto più poteva da
un’ala di ospedale. Passando
per la sala ricreativa alla ricerca della Capo Guaritrice
trovò Lily che
sorvegliava la signora Paciock, presa a disegnare ad uno dei tavoli con
infantile entusiasmo.
“Ehi, guarda chi
si vede!” Li
salutò allegramente. “Le mie due serpi
preferite!”
“Ehi.”
La raggiunse. “Vi vedo impegnate, non
vogliamo disturbarvi…”
“Alice sta finendo il suo disegno per la mostra che faremo a
fine mese, vero
tesoro?” Apostrofò la donna con affetto.
“È la nostra artista di
punta…” Si
alzò poi in piedi, stiracchiandosi. “Avrei bisogno
di una pausa però. Caffè?”
“Non abbiamo
tempo.” Replicò
Tom senza mezzi termini. A differenza sua quel posto lo innervosiva, e
non era
difficile immaginare il perché.
Tutti
i pazienti dell’età della signora Paciock sono
qui a causa della guerra…
Lily se notò il
nervosismo
dell’altro non lo diede a vedere. “Cosa vi porta
nell’ala più negletta
dell’ospedale?” Chiese curiosa.
“Dobbiamo vedere
la Guaritrice
Patil. Si tratta di Sören.” Spiegò con la
certezza che non avrebbe dovuto
farlo.
Oh,
beh, comunque lo verrebbe a sapere.
L’espressione
della sorella
mutò completamente, perse il sorriso e si
irrigidì. E non pareva solo
preoccupazione quella che le tingeva il viso.
“C’è qualche problema? Sta
bene?”
“Sì,
sì … si è svegliato e
domani lo dimettono. Si tratta dei suoi ricordi però, vuole
recuperarli per
aiutare nelle indagini del Demiurgo … Gli stiamo dando una
mano e… beh,
praticamente stiamo facendogli da portavoce.” Si strinse
nelle spalle. “Dopo contattiamo
papà per far dare l’autorizzazione agli
americani.”
Sua sorella aveva ufficialmente perso ogni espressione. “Ah,
e per cosa?”
“Per il Memento.”
“Non se ne parla!” Buttò fuori. Poi
accorgendosi del loro sbigottimento
aggiunse. “Voglio dire … è un
incantesimo controverso, spesso non funziona ed
ha effetti collaterali da non sottovalutare.”
“Si tratta del Demiurgo.”
Ripeté Tom
come se lo spiegasse ad una bambina tarda. Gli avrebbe dato una
gomitata se sua
sorella, a conti fatti, non fosse sembrato proprio quello.
“Si tratta del caso
a cui sta lavorando metà del mondo magico inglese.”
“Sì…”
Disse piano guardando
ovunque tranne che loro due. Si avvicinò di nuovo ad Alice e
le rassettò lo
scialle che aveva sulle spalle. “… sì,
avete ragione.” Rimase un attimo in
silenzio, e quando alzò il viso era di nuovo lei, un
concentrato di energia e
determinazione. “Vengo anch’io. Avrà
bisogno di me.” Dichiarò con intenti bellicosi,
da come raddrizzò spalle e postura.
Provate
a dirmi di no, vi sfido.
Ah,
Lils… Non ho passato quel che ho passato per non
accorgermi quando qualcuno è spaventato.
Cos’hai
da nascondere sorellina?
“Okay.”
Fermò con un colpetto
sulla schiena il compagno che era sul punto di protestare e sorrise.
“Ci fai
strada per l’ufficio della Patil?”
Non andare nel
panico. Non. Andare. Nel. Panico.
Se l’era ripetuto
come una
specie di simpatica, orribile filastrocca mentre portava Tom e Al
nell’ufficio
della Patil. Continuava a ripeterselo adesso che i due ragazzi, come
una
macchina perfettamente oliata, chiedevano pareti e sollecitavano
l’aiuto della
sua mentore.
Sören avrebbe
recuperato la
memoria. Sören doveva
recuperare la
memoria, perché questo avrebbe reso forse possibile
conoscere i motivi per cui
John Doe era riapparso. Perché sarebbe servito a salvare la
vita di maghi e
streghe.
Però
non può scegliere cosa ricordare. Ricorderà
tutto.
Compreso quello che era
accaduto tra di loro. Il bacio, quello che gli aveva detto, tutto.
Doveva scendere, parlargli
prima che la decisione di usare il Memento
fosse presa, prima che la Patil lanciasse l’incantesimo.
Eppure sentiva i piedi
incollati al suolo e la mente bombardata da una decina di idee,
supposizioni e
risoluzioni, tutte in contrasto l’una con l’altra.
E
se vado giù, cosa gli dico?
Non era solo codardia, era
anche avere la certezza che non sarebbe riuscita a dirgli un bel nulla.
Devo
dirgli che è stato un errore? Che mi sono lasciata
trasportare? Che devo rifletterci? Che ha significato qualcosa?
Era già stata
dura parlarne
con Scott; perché sì, aveva dato retta a Roxanne
e aveva chiarito le cose con
il suo ragazzo.
Ragazzo che al momento non
era
più tale visto che erano in pausa.
Solo a pensarci le saliva il
magone; aveva dovuto farlo e per questo aveva scelto un campo neutro,
Fortebraccio, ma Scott non era uno scemo e quando si erano visti e poi
accomodati al tavolo avevano passato quasi un minuto in completo ed
ostile silenzio.
“Non
vieni in Australia con me, eh?”
Il
tono di voce era pacato, e non sentiva provenire da
lui rabbia. Rassegnazione forse, delusione, anche.
Scott
non si arrabbiava mai. Era molto peggio: era
passivo aggressivo.
“Mi
dispiace … non è il momento…”
“Non mentirmi, Lily, okay?” L’aveva
bloccata con tono fermo. “Tutto, ma non
trattarmi come un idiota.”
“Non
ti sto…”
“Non mi hai neanche richiamato.”
“Quando?”
“Appunto.”
Lily avrebbe voluto sparire dentro una voragine piena di fuoco e lava
in quel
momento, o essere attaccata da un Dissennatore. Avrebbe preferito
quello e ben
altro piuttosto che dover affrontare il cuore ferito del ragazzo che
gli stava
di fronte. Perché no, non era un idiota, e aveva capito.
“A
fine dell’estate vorrei tornare per vedere se riesco
a stabilirmici … perché credo che sia
là il mio futuro.”
Non
ne era rimasta sorpresa: in fondo aveva sempre
saputo che Scott non sarebbe rimasto per sempre.
E se non ci fosse stato
Sören
a farmi capire che sarebbe stato come scappare ti avrei anche seguito.
“Avrei
voluto parlartene con calma, chiederti un parere
… Chiederti se era un’idea che poteva piacerti. Se
volevi seguirmi… Perché
credo che sarebbe il posto giusto anche per te.”
Ci
risiamo.
L’irritazione
le aveva di nuovo serrato la gola. “E
quando pensavi di dirmelo?”
“E tu quando pensavi di smetterla di mentirmi su quello che
c’è tra te e Sören?”
Aveva rimbeccato nello stesso tono. “È questo il
motivo per cui siamo qui, no?”
Lily
si era morsa un labbro. No, non poteva più
nascondersi. “Ci siamo baciati.” E non
c’era altro da aggiungere o spiegazione
più esaustiva da dare.
È successo.
Scott
non aveva fatto scenate, né aveva alzato la voce.
Si era limitato a serrare la mascella ed ispirare profondamente.
“Quante
volte?”
“Solo
una!” Non poteva credere davvero che avessero una
tresca alle sue spalle!
E perché no? In
quest’ultimo
periodo non gli hai dato motivo per fidarsi.
“…
solo una.” Aveva ripetuto mentre le veniva da
vomitare. Era proprio sul punto di farlo, perché non era mai stato
così
difficile.
Perché
è un bravo ragazzo, e
tu sei una persona orribile.
“Non
è Sören il problema, né tu …
Sono io. Ho … bisogno
di chiarirmi le idee, di capire cosa sto facendo, perché mi
sto comportando in
maniera disgustosa, e me ne rendo conto, credimi, vorrei …
vorrei aggiustare le
cose.” Sussurrò evitando di guardarlo. Un vecchio
manifesto di un concerto rock
al di là della strada non era mai stato così
interessante. “Ma non c’è magia
che possa farlo … che sia legale e non immorale almeno. Non
… volevo combinare
questo casino. Non volevo ferirti.”
“Provi
qualcosa per lui?”
Mentire
a quel punto sarebbe stato da idioti. “…
sì.”
“Beh,
hai fatto un gran bel lavoro allora.”
Piangere non serviva ad un bel nulla ma non poté frenare le
due lacrime che le
rotolarono lungo le guance. “Te l’ho detto quando
ci siamo conosciuti … non è
una giustificazione, adesso, ma te l’ho detto… che
razza di casino sono.”
Scott
era sembrato perso in un ragionamento tutto suo,
perché non l’aveva neanche ascoltata.
“Hai detto tu che volevi partire … che
avevi cambiato idea. Pochi giorni fa mi hai detto che mi amavi
… e ora è
cambiato tutto?”
“Non
è cambiato niente!”
“Allora
perché Sören?”
Perché lo amo.
Perché quando
penso a lui mi sento su una voragine, ma non ci sono. Sono a casa.
“Non
lo so…” Aveva detto invece, perché
dirlo ad alta
voce sembrava assurdo, ridicolo e comunque non ci capiva niente neppure
lei.
“Lui
mi pare chiaro che voglia te.”
Già,
l’avevate capito tutti
tranne la sottoscritta. Bella Legimante del cazzo che sono.
“Come
facciamo allora?” L’aveva riscossa.
“È una pausa
che vuoi, giusto?”
“Sì
… io … penso di sì.”
“Allora
dovremo trovare una scusa sul fatto che mancherò
al battesimo di Alexandra.” Scott era sempre stato un tipo
pratico, e ne fu
sollevata. Quel livello di conversazione per quanto penoso poteva
sostenerlo.
“Sì,
mi … mi inventerò qualcosa.”
Scott
aveva annuito, bevendo un sorso del the ormai
freddo. Aveva tentato di trattenersi, ma alla fine non ce
l’aveva fatta. “Sören
ci sarà?”
“È
il padrino…” Qualcosa che parlava di rabbia era
esploso
nello sguardo dell’altro, che si era alzato di scatto facendo
per andarsene.
In
effetti aveva resistito fin troppo.
“Scott!”
L’aveva afferrato per un braccio, perché non
potevano lasciarsi così, era troppo orribile.
“Scott … non è stata una mia
scelta, non l’ho indicato io!” Gli aveva stretto il
braccio e l’aveva
ringraziato con lo sguardo quando non si era strattonato via.
“Non
è per la faccenda del padrino.”
“Lo so.” Era solo stata la goccia che aveva fatto
traboccare un calderone già
colmo.“… vorrei che le cose fossero più
semplici … come prima.”
L’altro
non aveva mosso muscolo, tranne la mascella,
tesa in una linea dura. “Non voglio che tu stia con me
perché è la cosa
semplice. Voglio che tu stia con me perché mi
ami.” L’aveva guardata come se
non la riconoscesse più. Era stato come esser
schiaffeggiata. “Posso vivere
anche senza di te, Lily. Forse non bene, forse mi ci vorrà
del tempo … ma andrò
avanti. Perché sono una persona normale.”
“Stai
dicendo che io non lo sono?”
Scott
aveva scosso la testa. “Sto dicendo che forse non
è quello che cerchi da un mago.”
… eh,
già.
Aveva fatto una
smorfia. “Non sto tirando acqua al mio mulino, me ne rendo
conto, ma è ciò che
ti offro e non ti ho mai mentito su questo.”
No,
sono io che ho mentito a te.
Credevo di volere qualcosa e non era vero.
Scott
aveva ragione, aveva creduto di volere la
normalità che le offriva, ma quando si era ripresentato il
pericolo, la
passione e soprattutto Sören, si era reso conto di quanto le
fossero mancati.
Forse ho davvero bisogno di
sentirmi nei casini per essere me stessa.
Che cogliona.
Il
punto però era un altro: assecondare i suoi desideri,
che cinque anni prima avevano messo sia lei che Sören nei
guai, o scegliere
qualcuno che l’avrebbe messa al sicuro anche da se stessa?
Perché
non era detto che lei e Sören avrebbero potuto
funzionare. Avrebbe anche potuto essere un disastro totale e completo.
Forse dovrei restar zitella
per il resto della mia vita.
“Allora…”
Aveva detto tanto per dire qualcosa. Scusarsi
non le sembrava il caso. “… allora che farai con
l’Australia?”
“Sono
un mago che è disposto ad aspettare che tu faccia
chiarezza nel tuo cuore.” Aveva risposto. “Ma non
per sempre.”
“Suona
come un ultimatum…” Aveva mormorato con un
sorriso fiacco, perché non c’era davvero molto su
cui scherzare.
“Perché
lo è. Prenderò quella passaporta per Sidney,
Lily, e per rispetto a tua cugina lo farò dopo il battesimo.
Se verrai, ricominceremo
da zero … niente recriminazioni, te lo prometto. Nonostante
tutto … credo
ancora in noi. In caso contrario saprò chi hai
scelto.”
Si erano lasciati così, con una decisione che avrebbe dovuto
prendere lei.
Tanto
per cambiare. Perché diavolo mi date capacità
decisionale se non riesco neppure a decidere come prendere le uova la
mattina?!
A proposito di decisioni,
pareva che la Patil e i due ragazzi avessero raggiunto
un’intesa da come i due si
accomiatarono spiegando che avrebbero mandato un Gufo
all’ufficio Auror per
chiedere l’autorizzazione a procedere – Al
spiegò a dirla tutta, mentre Tom
come al solito si limitò ad un contratto cenno di saluto e
sparire in ampie
falcate misantrope.
La Patil richiuse la porta
dell’ufficio dietro di sé, e solo allora Lily
realizzò di esser rimasta sola.
“Torno da Alice.” Disse, ma non poteva, doveva fare
qualcosa prima che Sören
ricordasse.
Merlino,
solo qualche altro giorno … ho già avuto la
mia dose di schifo oggi. Solo qualche altro giorno è
chiedere troppo?
“Sören
ricorderà tutto?”
Chiese senza troppi giri di parole. “Dico, di quel che
è successo da quando è
stato drogato…”
La strega inarcò le sopracciglia. “Se cerca
informazioni su questo John Doe
ricorderà quelle.”
“Ma … ricordi collaterali?”
“È un
incantesimo preciso. Gli
faremo delle domande, e lui darà delle risposte. Vuoi
chiedergli qualcosa
forse?”
“No …
no, nulla.”
Solo qualche altro giorno era chiedere troppo?
****
America,
Boston.
Ufficio SAGITTA, pomeriggio.
“Non posso
autorizzare il
re-inserimento di Prince nelle indagini!”
Eleanor Gillespie credeva di aver trovato un alleato in Harry Potter e
a quanto
pare si era sbagliata.
“Non sto dicendo
che il
pericolo abbia smesso di esser tale.” Obbiettò
l’uomo via Fuoco Magico: l’aveva
chiamata proprio mentre stava per andare finalmente a pranzo. Inutile
dire che
l’avrebbe saltato anche quel giorno. “Sto soltanto
dicendo che le informazioni
e le sua capacità di analisi si sono dimostrate utili
più volte. È il motivo
per cui l’avete mandato qui in prima istanza, no?”
“Sì,
prima che scoprissimo il
suo coinvolgimento diretto nel
Demiurgo.” Ribattè. “Senza contare
quello che mi hai appena detto!”
“Non abbiamo la certezza che ci sia una talpa.”
“Ma avvierai un’indagine interna.”
“Perché è un legittimo sospetto che non
posso ignorare. Da qualche parte
prendono le informazioni e il problema potrebbe
essere da noi.” Anche se dal tono pareva convinto
dell’esatto contrario. Ama
poteva capirlo: per un mago come Harry ogni uomo sotto di sé
era parte della
famiglia.
Ed
è dura accettare traditori in famiglia.
“Harry, hanno
scoperto che
Sören è il paziente zero. Johannes non è
capitato per caso nel vostro
quartiere magico … cercava lui, e l’ha trovato!
La talpa esiste, e le indagini interne non si esauriscono in un paio di
giorni
… non posso rischiare così la sicurezza di un mio
agente!”
E
quel benedetto ragazzo gli è andato dietro senza
pensarci due volte.
Il mago era rimasto in
silenzio per qualche attimo. “Non basterà neppure
riportarlo in America temo.”
Intuì il
sottotesto. “Pensi
che la talpa sia da noi?”
“Non penso
niente.” Ribatté
quieto. “Quello che farò è agire. Se
c’è una talpa nel nostro Dipartimento la
troveremo. Ti suggerisco di fare lo stesso però. Sophia Von
Hohenheim, se i
suoi depositi bancari parlano per lei, ha vissuto in America abbastanza
a lungo
da crearsi dei contatti.”
“Non devi dirmi come fare il mio lavoro.”
“Non…
Okay, ho esagerato.” Si
bloccò e poté immaginarlo togliersi gli occhiali.
Non riusciva a rimanere
arrabbiata con Harry Potter. Era come avere a che fare con
un’esuberante
ragazzo cresciuto che non potevi non trovare irresistibile.
“Apprezzo chi sa
ammetterlo.”
Offrì come segno di pace, ricevendo uno sbuffo divertito.
“Nora, parliamoci
fuori dai
denti, siamo nei guai fino al collo.” Aggiunse con tono
stanco. “Il Demiurgo è
l’argomento preferito della nostra stampa, ho a che fare
quotidianamente con
cittadini spaventati che tempestano l’ufficio di Gufi
… e le indagini sono in
stallo perché John Doe e la Von Hohenheim è come
fossero Intracciabili. Ho
tutti i miei uomini che setacciano l’intero Ministero alla
ricerca di quei due.
Vorrei tener fuori Sören
da questa
storia ma in tutta coscienza non posso.”
Sospirò.
“Così lo usiamo come
hanno fatto quei bastardi?”
Harry dall’altro
capo
dell’oceano non rispose per qualche attimo. “No. La
differenza stavolta è che
ha deciso lui. In autonomia. È talmente convinto di quel che
sta facendo che,
anche se abbiamo cercato di tagliarlo fuori ci sta ancora lavorando. Ed
è
persino riuscito ad ottenere l’aiuto di Thomas e di mio
figlio Albus.”
“Tuo figlio e…”
“A quanto pare sono i suoi portavoce. Sono loro che mi hanno
detto della talpa.”
Disse con il tono di chi aveva visto e vissuto di peggio per colpa dei
suddetti. “Ma non è finita qui. Ron mi ha detto
che ha avuto accesso ai dossier
di indagine … ci ha aiutato ad escludere due dei cinque
possibili compratori presentandola
come un’intuizione geniale di Malfoy. Quel ragazzino
è ovunque ed ha
convinto chiunque
a perorare la sua causa. Persino mia moglie.” Non
le diede il tempo di
inserirsi o ribattere. “A questo punto temo otterrebbe
l’asilo politico dal
Shacklebolt in persona se tentassimo di metterlo su una
Passaporta.”
Era troppo sbalordita per
avere la forza di opporsi.“Ho modi per obbligarlo a
tornare.” Tentò piuttosto
debolmente.
“Ma vuoi usarli?”
Nora inspirò, guardando oltre la scrivania e non riuscendo a
trovare un solo
motivo per controbattere alle parole del capo Auror, anche se avrebbe
tanto
voluto; la realtà è che capiva Prince e il suo
desiderio di far parte del gioco
perché anni prima aveva fatto lo stesso per poter avere tra
le mani Alberich
Von Hohenheim e smantellare personalmente, pezzo
per pezzo, la Thule.
Quel ragazzo le ricordava
una
giovane sé stessa, determinata e con il cuore a pezzi per la
morte di Jeremiah.
“Rifletti su quel
che ti ho
detto.” Disse Harry. “Sei tu la sua tutrice legale
e il suo capo. La decisione
in ultima istanza sta a te.”
“Lo farò.” Non poteva promettere
nient’altro. Avrebbe invece dovuto parlare con
Sören.
“Ho la tua
autorizzazione a
procedere con il Memento?”
“Avrai la copia
dell’autorizzazione sulla tua scrivania tra un paio
d’ore.”
Si salutarono, ma Nora non
aveva ancora finito di palleggiare quella stramaledetta patata
bollente. Dispose
infatti una seconda chiamata via Fuoco Magico e aspettò che
la linea fosse
libera.
“Qui Ethan Scott.”
“Scott, sono il Capitano Gillespie.”
“Oh, Eleanor, carissima!” La apostrofò
con il solito tono falso come una
banconota da tre Taler. “Dammi solo un momento e sono a tua
disposizione.”
Dovette aspettare un paio di minuti buoni prima che l’uomo
tornasse al fuoco.
“Eccomi, dimmi tutto.”
“Ti ringrazio.” Replicò con la stessa
intonazione. “Ho bisogno che timbriate e spediate
un’autorizzazione per un trattamento medico in
Inghilterra.”
“Spero non si tratti di tua figlia…”
“No, il Sergente Gillespie sta bene.” Visto che non
c’era modo di nascondere la
cosa aggiunse. “Si tratta dell’agente
Prince.”
“Avevo intuito … sono gli unici due agenti che
abbiamo in Inghilterra del resto.
Come sta, si è ripreso?”
“Sì, ma
ha vuoti di memoria.
Per essere interrogato e fornici informazioni sul Camaleonte ha bisogno
di
recuperare la memoria tramite magia.”
“Vedo che sta
continuando a
dare il suo contributo. Mi fa piacere, sono certo che non si sta
risparmiando.”
Osservò e Morgana, quanto avrebbe voluto averlo davanti per
poterlo fulminare a
dovere con lo sguardo. “Gli ordini rimangono gli stessi? Lo
farete rientrare a
fine mese?”
“Non ci sono
cambiamenti.”
“Considerando che
è stato
aggredito dal Camaleonte non posso darti torto…
Tuttavia…”
“Il Memento
servirà a far luce sulla
faccenda.” Lo interruppe brusca: non aveva certo voglia di
imbastire una nuova
discussione.
Con
lui meno di tutti poi.
“Naturalmente.”
Rispose
docile. Perché tale sembrava: peccato che le serpi in seno
come lui fossero
maledettamente brave a dissimulare. “Voglio un rapporto
completo il prima
possibile … Il Ministro è stato informato
dell’intera faccenda, e come puoi
immaginare questa è una delle molte preoccupazioni a cui
rivolge constanti
pensieri.”
Nora fece una smorfia. “Lo avrai.”
****
Inghilterra,
Londra.
San Mungo, Pomeriggio.
“E non devi
combattere i
ricordi, nel modo più assoluto. È un processo
guidato, sentirai una voce
esterna che ti farà delle domande, e come ti ho
detto…”
“Albus, ho capito.” Sören
rassicurò forse per la terza volta il giovane
Guaritore di fronte a lui, quasi i ruoli fossero in realtà
capovolti. “Non è la
prima volta che lo vedo all’opera.”
“Ah!” L’inglese parve offeso, ma invece
di guardare verso lui, guardò verso
Thomas che per tutta risposta gli rivolse un’occhiata
insofferente. “E perché
non me l’hai detto?”
“Non me
l’hai chiesto.”
“Merlino se siete uguali voi due!”
Sbuffò scuotendo la testa. Si premurò poi di
aggiungere. “Ma tu sei più simpatico.”
“Molto divertente. Hai finito di fare la chioccia?”
Suo cugino pareva
l’indisponenza fatta persona, con le mani incrociate al petto
e l’aria di chi
voleva trovarsi ovunque tranne lì. Aveva imparato a trovar
divertente quel lato
del suo carattere, come probabilmente molti prima di lui.
O
sarebbe morto di morte violenta anni fa.
“Vi ringrazio per
l’aiuto.” Si
inserì per evitare un secondo battibecco trai due.
“Spero avrò modo di
sdebitarmi un giorno.”
Albus fece un cenno dismissivo. “Oh, lo stai già
facendo!” Gli rivolse un bel
sorriso. “E andrà tutto bene.”
“Hai
finito?”
Roteò gli occhi
al cielo e si
sporge per stringergli il braccio amichevolmente. “Lo porto
via prima che uno
di noi due lo uccida. Buona fortuna!”
“Grazie.” Rispose osservandoli poi uscire dalla
stanza discutendo animatamente sottovoce.
Sorrise e reclinò la testa sui cuscini: avrebbe mentito a
sé stesso se non
avesse ammesso di essere nervoso. Il Memento
era un incantesimo che aveva visto fare più volte a
Johannes, e contro – perché
era stato usato come arma – persone che poi non avevano fatto
una bella fine.
Non aveva bei ricordi.
Non
che possa far niente se non aspettare la Psicomaga
che verrà a farmelo e l’auror che
l’accompagnerà.
Speriamo
non sia Potter.
“Ehilà,
bel ragazzo.” Si voltò
quando udì la voce di Lily. Era proprio lei, sullo stipite
della porta che lo
salutava con le mano. “Sono passata per vedere come te la
stai cavando.”
“Lily…”
Non comportarti da demente.
Si schiarì la
voce e tentò di
suonare amichevole. “Sei la Legimante
che…”
“No, è un incantesimo troppo complicato, roba da
Psicomaghe serie!” Non c’era
bisogno di spiegarle niente, aveva già capito tutto. Si
permise finalmente di
rilassarsi mentre si alzava a sedere sul letto per non sembrare un uomo
in
punto di morte. Perché non lo era.
“Come ti
senti?”
“Bene.”
Mentì per l’ennesima
volta, ma stavolta felice di farlo. Era felice che fosse lì.
Vuol
dire che non ho fatto nulla di inappropriato. O
non sarebbe venuta. Giusto?
Però era Lily; il suo buon cuore le permetteva
spesso di sorvolare sul
comportamento delle persone per aiutarle.
Quante
volte l’hai trattata male ed è rimasta?
Non era ancora detto nulla.
La
guardò, sperando di cogliere nell’espressione o
nel modo in cui aveva le mani
dentro le tasche del camice un segno di disagio o fastidio. Non ne
colse ma,
ancora, questo non significava che non ci fossero.
“Mi hanno detto
che … sei venuta
a trovarmi.” Esordì mentre l’altra
andava a tirare le tende, forse intuendo il
fastidio che gli procurava la troppa luce solare. In quel modo
però non poteva
vederla in viso. “… grazie, anche non ne ho
ricordo.”
Lily gli rivolse un sorrisetto divertito. “Questo
perché eri fatto fino alla
punta dei capelli, Ren.”
“Sì, mi
hanno detto anche
questo…” Si schiarì la voce.
“A questo proposito, se ho detto o fatto qualcosa
di inopportuno…”
“No, sei stato molto carino, tranquillo.”
Qualcosa non andava. Lily gli sorrideva normalmente, si era addirittura
seduta
sulla sponda del letto per stiracchiarsi come faceva sempre dopo tanto
stare in
piedi. Sorrideva ed era a suo agio e…
… qualcosa non
andava.
Non aveva passato una vita
ad
analizzare le espressioni altrui, tentando disperatamente di decifrarle
perché
nessuno gli aveva insegnato un bel niente dell’interazione
umana, per poi non
accorgersi quando la strega che amava gli stava nascondendo qualcosa.
“Sei
sicura?” Insistette
scivolando un po’ troppo nel suo tono da agente, da come
l’altra aggrottò le
sopracciglia. “Perché mi hanno detto che ho fatto
cose abbastanza stupide.”
“Ren, dovresti vedermi quando bevo il famoso cocktail di
troppo!” Sbuffò. “Se
hai paura di avermi offeso … ti assicuro che no, non
l’hai fatto.” Abbozzò un
nuovo sorriso e gli prese la mano, stringendola nella sua.
“Sei stato un
tesoro.”
“Allora
perché non sei tornata
a trovarmi?” Perché non era sicuro di molte cose,
ma dell’amicizia di Lily Luna
Potter sì. In quei due mesi gli aveva dimostrato
più volte quanto fosse pronta
a mollare tutto per occuparsi di lui. Ed era bello doloroso
… e parte di un
ragionamento logico che non poteva ignorare come agente,
perché la logica era
l’arma migliore del suo arsenale. “Ti preoccupi
sempre per me. Anche troppo.
Quindi perché non sei tornata?”
L’espressione
cordiale
dell’altra si incrinò abbastanza per fargli vedere
altro; nervosismo sopratutto.
“Avevo da fare,
Ren, io qui ci
lavoro … Non ho avuto tempo per tornare, mi
dispiace.”
“Non è
per qualcosa che ho
fatto o che ho…”
“Ti ho detto di no!”
C’era sempre un segnale distintivo, differente per ciascuno
sospetto, ma sempre
presente, per notare quando questo stesse mentendo. Per Lily era la
voce che le
tremava di aggressività celata.
“Quindi non devi
dirmi
niente?” C’era qualcosa, c’era
perché glielo diceva il suo istinto. E forse non
era un essere umano decente, ma era un ottimo agente.
“Perché puoi dirmi
tutto.”
“Lo so.”
Lily scosse la testa,
alzandosi dal letto e prendendo a passeggiare per la stanza come se ne
andasse
della sua vita.
Ho
premuto il punto giusto perché il ghiaccio si
rompesse…
Estevez gli aveva sempre
detto
che era un asso a trovare i punti deboli di un sospetto durante gli
interrogatori.
Forse
perché John Doe e mio zio hanno passato anni a
premere i miei.
“È solo
… sì, sono nervosa, ma
non c’entri tu. È una cosa mia … nella
mia testa, principalmente è quello.”
Disse mangiandosi le parole. Era un altro tratto distintivo di una Lily
nervosa:
i pensieri le andavano più veloci della bocca. “Ma
va bene, è tutto sotto
controllo.”
“Non sembra.”
“Invece lo è.” Ribatté con
forza. Gli lanciò un’occhiata arrabbiata, quasi
volesse dirgliene quattro, quasi volesse finalmente sfogarsi
… poi si morse un
labbro e distolse lo sguardo. “Non è niente di
grave. Posso controllarlo.”
Ancora il controllo.
Sembrava fosse la maggiore
aspirazione di un Potter.
Ha
detto che non c’entri però. Perché non
ti fai da
parte?
Perché non le
credeva. E aveva
la netta impressione di aver detto o fatto qualcosa che aveva
contribuito a quello
stato d’animo. “Lily…”
“Dobbiamo concentrarci su di te, adesso.” Disse
forzando un sorriso. “Memento,
giusto? È tosto. Ti hanno detto
come funziona? Devi concentrarti su quella sera. Solo su quella
sera.”
“Albus Severus mi ha illustrato con sufficiente chiarezza i
principi
dell’incantesimo, sì.”
Confermò più per darle ragione che altro. A quel
punto
insistere avrebbe solo fatto peggiorare le cose. E non voleva che se ne
andasse. “Lily, andrà tutto bene.” Era
preoccupata che potesse accadergli
qualcosa? Non capiva, ma sembrava bisognosa di rassicurazioni. Era
quindi suo
preciso dovere dargliele.
Sentendosi un po’
idiota, ma
confidando nella buona volontà dei suoi propositi, le tese
la mano. “Vieni
qui.”
La vide tentennare, ma poco più di qualche attimo. Con suo
enorme sollievo gli
obbedì e gli afferrò la mano. Fu del tutto
naturale sentirsi poi placcare e
stringere in un abbraccio che ricambiò con tutta la sua
forza di cui era
disponibile – poca, fosse dannato Johannes.
“Scusa…”
La sentì bofonchiare.
“… scusami.”
Ora era confuso.
“Di cosa?”
Lily alzò il viso
e avrebbe voluto
avere la sua stramaledetta magia a pieno regime per una Legimanzia
veloce per
poter decifrare cosa si avvicendava su quel visetto
sull’evidente orlo delle
lacrime. Poi notò che gli stava guardando le labbra. E
notò anche che si stava
leccando le sue.
…
Lily?
“Ci siamo
baciati.”
Lo buttò fuori come un’esclamazione di sorpresa,
molto vicina allo stupefatto
dolore. Non controllata, non mediata e tanto meno razionalizzata da
come poi sgranò
gli occhi e lo guardò come se non avesse idea del
perché avesse aperto bocca.
“…
cosa?” Non poteva neanche
pensare di aver capito male, perché Lily aveva precisamente
detto tre parole.
Ci
siamo baciati.
Ed ecco il motivo per cui
non
era tornata a trovarlo.
Il bussare alla porta fu il
corrispettivo di uno sparo di fucile Babbano. Lily, che aveva i nervi
tesi come
una corda, saltò in piedi e guardò con autentica
gratitudine la porta aprirsi e
far passare una Guaritrice, James Potter … e Ama.
Dannazione.
“Ehi Pipistrello,
pronto a
farti rimescolare il cervello?” Vociò quel cretino
di Potter guardandosi
attorno e individuando la sorella. “Ohi, Lils, che ci fai
qui?”
“Interpreto la persona che se ne va.” Disse con un
acuto brillante e totalmente
in preda ai nervi. “Ciao!”
“Lily.”
Tentò ma non venne
degnato di uno sguardo. Lily infilò la porta, salutando
appena e dandosela a
gambe. E non poteva seguirla: non con tre persone davanti, di cui una
era la strega
che attualmente frequentava.
Dannazione.
Era bloccato. Era bloccato e
furioso, confuso e spaventato. Era molte cose, ma nessuna di queste lo
stava
aiutando a chiarirsi le idee.
Ci
siamo baciati.
Non
ha detto che l’ha baciata. Ha usato il plurale.
Il
plurale.
…
non mi ricordo niente.
Il suo mondo era appena
finito
a testa in giù. “Sören.” La
voce di Ama lo riscosse e così la sua espressione
preoccupata. “Ti senti bene?”
Non si era mai sentito in
quel
modo, quindi era difficile rispondere. “Sto bene.”
Preferì ripetere come un
pappagallo.
“Ehi coso, se non
te la senti
…” Anche quel cretino di Potter si era accorto che
non era del tutto in sé.
Frena
la scopa principino. Razionalizza e concentrati.
Non sei qui per i tuoi problemi sentimentali, né per Lily.
Sei qui per
catturare John Doe.
Il
compito, principino. Ricordati del compito.
Come sempre la sua voce
interiore, che aveva ironia e cantilena simile a quella di Milo,
l’aveva
riportato sul pezzo. Inspirò ed espirò mentre
obbligava forzosamente i suoi
pensieri a dare una brusca sterzata su tutt’altro binario. Ma
era bravo in
questo: non gli si dava continuamente della testa di latta?
Senza
contare che otterrai anche ciò che è successo con
Lily.
“No, sono a
posto.” Annuì e si
rivolse alla Psicomaga. “Possiamo cominciare.”
****
Note:
Il cerchio di seghe mentali emotive si sta stringendo!
Qui
la
canzone del capitolo. Per chi vuole invece avere un consiglio musicale
non
richiesto la
canzone che si ascoltava Tommy-boy. Sempre roba
allegra.
|
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Capitolo 37 *** Capitolo XXXVI ***
Capitolo XXVI
I keep
on running, building bridges that I know you never wanted
Look
for my heart, you stole it away
(Burning
Bridges, One Republic)
25 Luglio 2028
Londra, Diagon Alley.
Accademia
Magica di Duello, Pomeriggio.
Non aveva mai visto
Sören così
incazzato.
Il che non deponeva bene;
Milo
ne era sempre più convinto e quella mattina era solo la summa dei giorni precedenti.
Non
mi piace ammettere la sconfitta, ma se non lo
imbustano in una è capace di far saltare
l’Inghilterra intera.
Di certo al momento ne aveva
tutta l’aria, mentre lanciava incantesimi luccicanti e
violenti contro i
manichini da allenamento dell’Accademia. Proprio per evitare
di esser scambiato
per uno di essi si era seduto al davanzale di una delle ampie finestre
della
sala, cercando al contempo di non respirare la puzza di petardi esplosi
provocata dalla magia dell’altro. E aspettava.
Da quando era uscito
dall’ospedale il suo maghetto instabile preferito si era
chiuso in un mutismo
ostile che gli aveva ricordato i primi tempi della loro convivenza.
Due
giorni … e mica gli è passata.
Vide Dionis entrare di
soppiatto come un ninja, squadrare il comune amico per poi decidere
saggiamente
di raggiungerlo alla finestra. “Come va?” Gli si
rivolse diplomatico.
“Come vuoi che
vada, picchia
brutalmente quei poveri manichini e cerca di farsela passare.”
Il mago aggrottò le sopracciglia. “Ti ha detto
qual è il problema finalmente?”
“Nah.
Se apre bocca in ‘sti giorni al massimo è per
abbaiarmi
ordini…”
Poteva essere per via di
John
Doe e tutto quello che l’incantesimo di memoria gli aveva
ricordato; a quanto
pareva il bastardo si era fatto vedere solo per sparirgli di nuovo sotto il naso.
Difficile
da digerire.
“Ma …
Lily?” Suggerì il rumeno,
forse temendo che gli venisse distrutto il posto di lavoro.
“Con lei parla!”
“Eh.” Gli rispose con una smorfia perché
altro non poteva fare. “E questo è un
altro problema. Zenzero non vuole parlargli.”
Ciccò la cenere della sigaretta
fuori dalla finestra e ne diede un’altra boccata.
“Mister Simpatia ha cercato di
contattarla un sacco di volte. Non gli risponde.”
“Perché?”
“Speravo me lo
dicessi tu.”
Dionis spostò il
peso da un
piede all’altro, incerto se far scattare il naturale riserbo
che era cifra del
suo essere oppure immischiarsi. Alla fine sospirò come se
avesse perso una
battaglia terribile. “Non ne ho idea. Lei e Roxanne si
confidano tutto, certo …
ma mia moglie poi non riferisce certo a me.”
E tu te ne tieni giustamente fuori.
Ragazzo saggio.
“Ma Lily
è turbata di
recente.” Aggiunse. “Forse hanno
litigato?”
“No, mi ha detto
di no… ma la
ragazzina è sparita, non è manco in ospedale, ho
controllato.” Scrollò le
spalle. “Francamente non me la sono sentita di chiedere
… È nervosetto.”
“Lo vedo.”
“E oggi sta
facendo qualcosa
di costruttivo. Ieri ha scagliato il telefono al muro dopo
l’ennesima chiamata.
Quelli delle pulizie ci avranno messo mezza giornata a spazzar via
tutti i
pezzi.” Dionis lo guardò incredulo, poi
lanciò una seconda, fugace occhiata
all’altro mago. “Già.” Rispose
al posto suo. “Penso che la visita di John Doe
sia stata la goccia che abbia fatto traboccare la merda di
‘sto periodo.”
“Almeno
è servito alle
indagini?”
“Non ne ho idea, te l’ho detto, non
parla.”
Perché
diavolo Zenzero non sgambetta qui in giro?
Perché me lo devo gestire io?
Se ce l’avesse
avuta davanti
le avrebbe torto il collo come la gallina che era. Sapeva benissimo di
essere l’ancora
emotiva del disagiato e che era l’unica a cui aprisse il
cuore senza remore.
E
sparisce. Sparisce dopo l’incontro con John Doe.
Non
si molla la barca quando è in tempesta, stronza.
Era preoccupato e temeva che
neppure
le sue migliori, scazzate intenzioni avrebbero migliorato la situazione.
“Dovrei
parlargli?” Chiese
Dionis, in un onesto e commovente afflato di amicizia.
No,
bello, a meno che tu non abbia una terza di seno e
i capelli rossi.
“No, in questi
casi bisogna
solo farlo sbollire.” Scrollò le spalle.
“Gli passerà, o comincerà a lagnarsene
presto.”
Per fortuna ha imparato a frignare quando
si fa la bua.
L’altro mago
annuì, abbozzando
un sorriso imbarazzato che non comprese finché non gli porse
una busta da
lettere color rosa brillante. “Forse è meglio se
questa gliela consegni tu.”
“Cos’è?”
“L’invito per il battesimo. Digli di venire un
po’ prima, così gli spieghiamo
cosa fare visto che è il padrino.”
Esitò. “Certo, se ancora se la sente
…”
“Non preoccuparti, se la sentità.” Gli
assicurò con una pacca sulle spalle,
perché il buon Radescu era nello sparuto gruppo di chi si
meritava la sua
gentilezza. “Non farà piangere la bambina con il
suo brutto muso.”
“Grazie.”
Un cenno di commiato
e poi Dionis tornò alle sue faccende. Milo in compenso, dopo
un’intensa e
sofferta manciata di minuti pieni di silenziose imprecazioni, decise
che l’altro
aveva bisogno di pausa.
Dovrebbero
darmi un ordine di Merlino, altro che.
Gli
si avvicinò, stando ben attento a
non infilarsi in qualche angolo cieco che gliel’avrebbe
scatenato addosso come
una belva presa in trappola e sventolò la busta per palesare
la sua funzione di
ambasciatore. “Ehi, c’è posta per
te.”
Sören gli lanciò un’occhiata poco
rassicurante, ma poi parve ricordarsi che non
doveva uccidere ogni cosa nel suo raggio visivo. Fece un respiro
profondo e
abbassò la bacchetta. “Da parte di chi?”
“Del tuo amichetto
slavo che era
qui fino ad un attimo fa.” Gliela porse e fece un
compostissimo passo indietro
quando l’altro si avvicinò per prenderla.
“È l’invito per il battesimo.”
Spiegò.
“Serve che ti stiri l’uniforme?”
Se
c’è una cosa che lo mette di buon’umore
è sfoggiarla
in giro.
“No.”
Gliela ridiede senza
neanche aprirla. “Digli che non ci vado.”
Milo era fiero della sua
ampia
riserva di pazienza e di come riuscisse a tirarne fuori sempre una
nuova oncia
anche nei momenti più disperati.
Certo però non
era infinita.
“Hai rotto le palle.” Gli comunicò
rifiutandosi di riprendere la missiva.
“Credo dovresti saperlo.”
Sören rimase con il braccio teso per ancora qualche attimo
prima di inspirare
come un toro pronto a caricarlo. “Prendila.
Ti ho detto che non ci vado.”
“Ed io ti ho detto che hai rotto i coglioni.”
Ripeté mentre la vita gli
scorreva davanti come un simpatico film muto. Sperava che Michel
l’avrebbe
ricordato ogni tanto, tra una scopata e l’altra.
“Non tollero che
tu…”
“Tolleri un cazzo!” Lo bloccò
esasperato, perché era pagato per piegargli le
mutande e assicurarsi che mangiasse, non per farsi trattare come un
Elfo
Domestico. “Si può sapere perché devi
gettar merda sulle persone che vogliono
aiutarti?”
E
poi sono tuo amico, brutto stronzo, trattami meglio!
Sören lo
fissò smarrito, ma fu
lesto ad assumere un’espressione da lesa maestà.
“Un aiuto che non ho chiesto.”
“Perché comportarsi da bacchetta pazza e girare
con l’aria di uno che vuole
commettere un omicidio non è una richiesta di aiuto stampata
a manifesto,
proprio no!”
Sören a questo non
rispose e
Milo aspettò che l’intero senso della
conversazione si sedimentasse in quella zucca
vuota da porta-bacchetta. Come preventivato, la strigliata fece
effetto: lo
vide abbassare le spalle, allentare la presa sulla bacchetta e
svuotarsi come
un sacco.
“Dammi una
sigaretta.”
Borbottò. Obbedì e gliela accese pure,
perché era chiaro che la magia che gli
guizzava ancora vivace nelle vene rischiava di fargli saltare in aria
le
sopracciglia. Gli fece poi spazio sul davanzale ed aspettò.
La
mia vita è tutta un’attesa.
Dopo quasi un quarto
d’ora di
soffertissima contemplazione del panorama circostante Sören
esalò un lungo
sospiro. “Scusa.” Disse dalle profondità
della sua stronzaggine.
Non gli diede la
soddisfazione
di mostrarsi contento. “Ci vai al battesimo?”
Chiese invece saltando sul bordo
del davanzale perché si era stancato di stare in piedi.
“Non sono
dell’umore adatto.”
“Non sei mai stato un tipo allegro, principino, ma Dionis ti
ha nominato il
padrino di sua figlia… è roba grossa, non puoi
tirarti indietro.”
Sören fece una smorfia, tirandosi indietro ciocche umide di
capelli. Era un
bagno di sudore e la tentazione di infilarlo in una tinozza e sfregarlo
come un
ragazzino sporco di fango era forte.
Cazzo,
sono diventato sua madre.
“Ci
andrò.” Disse infine. “Hai
ragione, non posso mancare di rispetto a lui e a sua moglie.”
Certo
che ho ragione. Ho sempre
ragione!
“Allora ti stiro l’uniforme.”
Avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto del
risultato raggiunto, ma era un essere umano e come tale, era fatto di
istinti e
curiosità. “È troppo chiederti la
ragione per cui mi hai trattato come un sacco
da boxe in queste ultime quarantotto ore?”
“Ti ho
già chiesto scusa, cos’altro
vuoi?”
“Un aumento, mi
pare ovvio.” Rispose
senza acrimonia e da come l’altro tentò un mezzo
sorriso capì che il sottotesto
era stato intuito. Meglio, odiava spiegarsi quanto lui.
“Allora?”
Sören fece
Evanescere la
sigaretta e si staccò dal davanzale. “Il Memento
è stato più…”
Cercò la parola e quando parve trovarla sembrò
più infelice che
mai. “… rivelatorio di quanto pensassi. Pare che
Johannes e mia madre siano
stati informati della mia condizione.”
“Cioè?”
“Che sono il
paziente zero.”
Si slacciò il corpetto dell’allenamento e glielo
passò assieme al resto
dell’attrezzatura, ma Milo era troppo preso dal discorso per
potersi lamentare
di essere usato come un
attaccapanni
per l’ennesima volta.
“Non è
una bella notizia… per
un cazzo.” Mormorò preoccupato. “Che
significa?”
“Significa che ho
la conferma
di essere un bersaglio che cammina.” Ma non vi era rabbia,
solo rassegnazione.
No,
non è stato questo a farlo incazzare. Magari
contribuisce, sì, ma non è questo.
“E
cos’hanno deciso riguardo
al rimpatrio?”
A
questo punto direi che è necessario, porca puttana.
Mettetelo in una torre come Raperonzolo e metteteci un drago a
sorvegliarla!
“Niente, per ora
è tutto
confermato. Partiremo il trentuno con la passaporta delle cinque per
Boston.” E
questa poteva essere la ragione della rabbia, tuttavia no, non era
quella.
“Certo, ho detto
partiremo, ma
tu non sei obbligato.” Aggiunse a sorpresa mentre prendeva un
asciugamano per
asciugarsi il viso e il collo. “Credo che tu abbia ancora
tempo per far
richiesta di un’estensione del visto.”
“E
perché dovrei farlo?”
“Per
Zabini.” Lo guardò
perplesso. “Sei sempre da lui … pensavo volessi
rimanere. Non state assieme?”
Milo esitò: non
aveva pensato
al rimpatrio di Sören come ad un troncarsi della sua relazione
con Michel, per
quanto in effetti avrebbe potuto portare a quella conseguenza.
Due
continenti diversi … e le Passaporte continentali
costano un occhio della testa. Oltre al fatto che non puoi prenderle di
continuo se non vuoi finire in ospedale con un’overdose da
Materializzazione.
Vivere giorno per giorno e
senza fare piani a lunga scadenza era un po’ la sua filosofia
di vita, quindi
non ci aveva pensato.
Ma
forse avrei dovuto.
“È
complicato.” Era partito
con l’idea di farlo cantare, ma sembrava che la situazione si
fosse rovesciata.
“Non so … non so che diavolo stiamo
combinando.”
Sören
inaspettatamente sorrise
e non era un ghigno o un tentativo di presa in giro. “Sei
innamorato di lui?”
“Col cazzo, no!”
Mettici
anche una bella noticina isterica in fondo, da
brava ragazzina coi brufoli, mi raccomando.
Sören ebbe la
faccia tosta di
sospirare con aria vissuta e consapevole. “Se quello che
c’è tra di voi è
qualcosa per cui vale la pena lottare non dovresti far finta che non ti
interessi.”
“Senti chi parla! Vogliamo parlare di Zenzero?”
Fu precisamente la cosa
sbagliata da dire da come l’altro si rabbuiò. Lo
piantò anche in asso,
dirigendosi verso gli spogliatoi.
Per
Faust, che reginetta del melodramma!
Corrergli dietro pieno di
roba
come un attaccapanni fu abbastanza ridicolo. “Ehi!”
Gridò. “Riprenditi la tua
roba, porca puttana!”
Era la Potter, di sicuro. Il
nucleo dell’incazzatura del principino aveva i capelli rossi
e un sorriso
stendi-uomini. Imbecille da parte sua scartarla solo perché
c’erano di mezzo
cose come John Doe e il rischio di finire su un tavolo da laboratorio
come
carne da macello.
“Si può
sapere che cavolo
avete combinato stavolta?” Chiese una volta dentro lo
spogliatoio scaricando
i panni sudati sopra ad una panca per
toglierseli dalle mani. “Dico, a parte girarvi attorno come
due collegiali con
le fregole.”
“Se non la fai
finita ti
ammazzo.”
“Avresti dovuto farlo tempo fa eppure respiro
ancora.” Replicò sullo stesso
tono. “Non sei credibile.”
Sören gli
lanciò un’occhiata velenosa
ma batté in ritirata dentro le docce. Milo lo
seguì implacabile, anche perché
nel mentre avrebbe potuto ammirare qualche istruttore o allievo come
mamma
l’aveva generato e la cosa aveva tendenzialmente aspetti
positivi.
“Non avete
litigato, okay … ma
c’è un motivo per cui è stata
inghiottita nel nulla?” Chiese fermandosi ai
lavandini, perché era vero non esisteva privacy tra di loro,
ma non fino a quel
punto.
Dal box arrivò
solo il rumore
dell’acqua.
“Posso continuare
tutta la
sera principino … E prima che mi minacci di strangolarmi
prova a pensare cosa
sembrerebbe ai tuoi colleghi di bacchetta se ci beccassero avvinghiati
con tu tutto nudo che mi metti le
mani addosso.
Perverso, no?”
“Ci siamo
baciati.”
Momento.
Raccolse le idee, ma ci
volle
più di qualche attimo prima che trovasse la domanda giusta
da rivolgergli.
“E
perché diamine sei
incazzato come una biscia? Che problema hai?”
Ormai la diga era stata
rotta.
“Perché è scappata.”
E calcò
sull’ultima la parola con rabbia … ed eccolo
lì il motivo di quei giorni di Sturm
und Drang. “Ci siamo baciati
mentre ero ancora sotto effetto dei narcotici.” Aggiunse come
simpatica nota di
colore.
“L’hai baciata da sballato, okay.”
Annuì sentendosi comprensivo: di cose senza
i freni inibitori tirati al massimo se ne facevano tante, e a quanto
pareva
Sören non era riuscito a tenere le mani a posto. Nulla di cui
stupirsi.
È
un miracolo che non le sia saltato addosso visto le
palle blu che deve ritrovarsi.
La vera sorpresa
però era
stata Zenzero.
Ma
brava … Scommetto che se l’è
strapazzato ben bene.
“Mi ha ricambiato,
il Memento me l’ha fatto
ricordare.” Per un
attimo il tono di Sören sfumò
nell’incredulità e riuscì persino a
suonare
felice. Poi si ricordò il resto. “Ma invece di
darmi spiegazioni, di parlare …
si è resa irrintracciabile.”
Un
classico. Le è venuta la strizza.
Non era troppo sorprendente,
visto che l’inglesina era un’impulsiva, di quelle
che il cervello a volte lo
usava solo per tener separate le orecchie. Per quel che aveva capito
era anche
piuttosto passionale.
“E come sei
riuscito a
trasformare ‘sta cosa in una tragedia greca?” Era
troppo sbalordito per
avercela con lui nonostante l’avesse fatto preoccupare a
morte per i suoi stramaledetti
patemi sentimentali. “No, perché vi siete baciati
e lei si è fatta prendere dal
panico. Tutto qui. Succede, specie quando uno dei due ha già
un ragazzo.”
“Appunto.”
“Cioè?”
“È
fidanzata e mi ha baciato.
Cosa significa?”
Aah…
Il problema non era il
bacio,
anche se probabilmente aveva contribuito a renderlo eccitabile;
Sören era fuori
di testa perché credeva che la persona di cui era innamorato
si fosse solo
tolta uno sfizio.
E
quando ha cercato di parlarle si è visto sbattere la
porta in faccia, metaforicamente.
Oh,
beh.
“Non sei
l’unico al mondo che
è incasinato, okay?” Sospirò vinto,
perché troppo spesso dimenticava di avere a
che fare con un ragazzo le cui esperienze di vita erano iniziate una
manciata
di anni prima. “Zenzero è umana, fa’
anche lei le sue cazzate. Anzi, a
giudicare dalla tipologia, direi che ne fa pure parecchie.”
Sören non dava
segno di voler
uscire dal box, e probabilmente avrebbe finito per bollire vivo vista
tutta
l’acqua calda che stava consumando. “Quindi pensi
che abbia commesso una
leggerezza. Che non abbia significato niente per lei.”
Oh, eccoci qua. Auto commiserazione.
“E che cavolo ne
so? È a lei
che dovresti chiederlo!”
“Lo farei se
riuscissi a
rintracciarla. Rifiuta le mie chiamate, non ha risposto al Gufo che le
ho
spedito … e al lavoro non c’è. Non
posso certo andarle sotto casa.” Ritorse
rabbioso. “Ha capito. Ha capito che sono innamorato di lei e
mi sta ignorando.”
Fece una pausa e poi una risata amara. “E sai qual
è la cosa peggiore? Che il
suo fidanzato la vuole portare in Australia. Le vuole fare una sorpresa
e
proporglielo … e forse anche sposarla.”
“Ah.”
“Preferivo quando lavoravo per mio zio.” Concluse
cupo.
Oookay…
Sentimentalmente
è nel panico. E non può buttarsi nel
lavoro perché dall’altro lato se non lo
rimpatriano, lo rapiscono.
No, non avrebbe voluto
essere lui
in quel momento. Tra le due però, forse era meglio parlare
di affari di cuore.
“Non l’hai proprio capito, eh…”
“Cosa?”
“Che anche lei
è innamorata di
te. È per quello che ti ha baciato di rimando.
Perché se tu non sei riuscito a
tener le mani a posto, lo stesso è stato per lei.”
Quello fu un buon modo per
farlo smettere di piagnucolarsi addosso; non aveva mai sentito silenzio
così
profondo come quello che usciva assieme all’acqua della
doccia.
“È
cotta di te da quando ha
quindici anni, Casanova.” Aggiunse mettendoci un doveroso
carico da dodici. “Le
hai acceso quel famoso fuoco dentro e appena sei tornato
l’hai attizzato un po’
e l’hai fatta divampare. È roba tosta …
quindi ritieniti fortunato che si è
limitata a darsela a gambe.” Si strinse le spalle
perché forse, solo un
pochino, da quel punto di vista lo invidiava. “E poi,
‘fanculo l’Australia.
Magari lei non ci vuole manco andare.”
Io
mica ce l’ho mai avuto qualcuno che mi ama così.
“Ti lascio alla
tua doccia…”
Si incamminò verso gli spogliatoi. “E oh,
ricordati che comunque la vedi al
battesimo!”
Aveva detto abbastanza e con
quella chiave di lettura forse l’avrebbe piantata di
piangersi addosso come un
personaggio di Goethe. Magari sarebbe rimasto incazzato, ma almeno
sarebbe
stata un’incazzatura sana.
E
chissà che finalmente non si strappino i vestiti di dosso.
Farebbe loro un gran bene!
Dopo aver infilato
l’attrezzatura dell’altro in un borsone e aver
calcolato il posto più economico
dove andare a farla lavare e pulire, sentì il cellulare
trillare allegro.
Rispose quando era già fuori dall’Accademia
perché dentro la ricezione, come in
tutti gli edifici magici, era pessima.
“Emil, sono
io.”
“Sì, maghetto, ti stupirà, ma ho
memorizzato il tuo numero.” Si morse le labbra
per trattenere un sorriso contento. Fosse mai che qualcuno lo stesse
spiando.
“Sei
libero?”
“Ho mollato
Sören alle sue
seghe mentali e devo mandare a far lavare della roba, ma a parte
questo…”
“Ho bisogno di te.”
“Desiderio nudo e crudo, mi piace.”
“Non…” Esitò, come se non
potesse parlare, come se fosse ascoltato. Questo lo
preoccupò un po’. “Puoi venire a casa?
Subito?”
Controllò
l’orologio e fece
qualche calcolo mentale. “Venti minuti e sono
lì.”
“Non
puoi…”
“Non ho una scopa sotto il culo, né una bacchetta,
Michel. Meno di venti minuti
non posso metterci manco se mi faccio spuntare le ali.”
“…
Giusto.” Parve ricordare
finalmente. “Sì, scusa … venti minuti
sono perfetti.”
“Ma va tutto
bene?”
No,
perché non ho ancora imparato a sotterrare un
cadavere.
E il tono sembrava proprio
presagire quello.
“Te lo spiego
quando sei qui.
A dopo.” E riattaccò senza dargli altre
spiegazioni o almeno ringraziarlo
per essersi attivato neanche fosse un maledetto
soldatino a molla in attesa di mettersi a marciare al suono di un
tamburo.
Cazzo,
se odio i maghi!
Masticò
un’imprecazione a bassa voce
ma poi si mise a correre.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Pomeriggio.
“Benedetta! Cosa
ti ho detto?”
C’erano momenti in
cui
sospettava che tutta l’esperienza fatta con James e i suoi
fratelli non fosse
servita a nulla, perché l’arruffata nipotina che
era capitombolata nella sua
esistenza non dava retta a nessuna delle sue collaudate tecniche
educative.
“Non correre, ha piovuto e c’è fango
… potresti scivolare e farti male.”
Ripeté
per forse la decima volta da quando erano usciti di casa.
La bambina si
voltò,
arricciando il naso e tenendo in bilico il grosso ombrello giallo che
aveva
scelto per camminare sotto la pioggerella estiva con cui si erano
svegliati
quella mattina. “Non capisco!” Dichiarò
saltando dentro una pozzanghera e
schizzando fango tutto attorno a discapito dei passanti.
Ted avrebbe dovuto
arrabbiarsi, o almeno tentare una reprimenda. Il problema era che non
riusciva
a rimanere in collera quando quel visetto esprimeva gioiosa
soddisfazione
all’idea di avergliela fatta.
Questa
è tutta colpa di Jamie. Mi ha rovinato.
Non era suo costume
però
arrendersi: l’afferrò quindi per il retro della
salopette rosa che era stata di
Lily e se la mise sottobraccio come un pacchetto particolarmente
vivace. La
risata che ne conseguì non poté che farlo
sorridere. Chiuse poi il suo ombrello
per usare quello della bambina, grande abbastanza da ripararli entrambi.
“Ormai sai parlare
inglese
Benedetta, quindi non dire bugie.” Si premurò
comunque di farle notare. “Se ti
infanghi tutta poi ti aspetta un bagno, lo sai.”
“Bagno
brutto!” Esclamò offesa
e in inglese. “Non mi piace!”
“Temo che tu non
abbia scelta,
hai fango fin dentro alle orecchie.”
“Teeddy!”
Piagnucolò mostrando
un broncio lacrimoso piuttosto convincente se non fosse stato proposto
ogni
qual volta che i suoi desideri venivano ignorati.
“Niente Teddy,
bagno.” Salutò
con un cenno della testa un paio di Tassorosso locali che uscivano da
Scrivenshaft per una preventiva fornitura per l’anno
scolastico: forse avrebbe
dovuto farci una puntatina, visto che doveva ricomprare sia piume che
pergamene.
“Teeddy!”
Non si lasciò intenerire: Benedetta spesso si lamentava per
attirare
l’attenzione, non per reale bisogno o perché era
turbata. Era quando piangeva
zitta zitta che bisognava preoccuparsi.
È
stata viziata. Molto. Ma niente che non si possa
correggere.
Come neonato zio faceva
fatica
a farsi prendere sul serio, essendo ancora una figura incerta, che non
veniva
neppure chiamata con il proprio titolo, ma era fiducioso. Per la prima
volta in
vita sua sapeva di star facendo qualcosa per l’assoluto bene
di un’altra
persona.
Arrivati sotto la tettoia
del
negozio la mise giù, asciugandole i lacrimoni di stizza che
le bagnavano le
guance. “Adesso entriamo e compriamo pergamene e
piume.” La informò. “Su, basta
piangere. Avevi detto che mi avresti accompagnato e avresti fatto la
brava bambina,
no?”
Ben inspirò con
il naso per
niente convinta dal ragionamento. “Voglio casa!”
Pestò i piedi con rabbia. “Sono
stanca!” Aggiunse in italiano.
“Lo sei
davvero?”
“Sì!
Male … tutto, voglio
casa!”
Ted sospirò; non
poteva
neanche chiamarlo vero capriccio alla fin fine.
La
luna piena è domani.
E Benedetta ne era
influenzata
quanto e più di lui: fino ad un paio di giorni prima il
disagio si era
manifestato con semplice iperattività ma con
l’avvicinarsi del plenilunio
l’umore di Benedetta era sprofondato in un’altalena
di irritabilità.
Le passò una mano
trai capelli
che recavano ancora traccia delle mani esperte di Lily, visto che non
erano un
nido arruffato: capiva il suo disagio ma doveva anche abituarla a
controllare
gli impulsi.
Vivrà
con i maghi per il resto della sua vita, è meglio
che inizi da adesso.
“Solo questa
bottega e poi
torniamo.” Tentò di blandirla. “Cosa
vuoi mangiare per pranzo?”
“Casa!”
Come
faceva Lunastorta a calmarla? Viveva con i
Babbani, e con i nonni che non sospettavano nulla…
Non poteva certo chiederlo
al
lei: la morte del padre era ancora troppo fresca, e la sola menzione
dell’uomo
in un discorso era capace di farla rabbuiare e piangere.
Ci
vorranno anni. Forse una vita intera.
Era quindi suo dovere
dimostrarsi all’altezza della situazione.
Anche
se non sarai mai suo padre.
Era suo tutore legale
temporaneo, come diceva il documento del Ministero arrivato il giorno
prima.
Quando l’aveva letto ne aveva gioito con James,
perché significava che
finalmente la presenza in Inghilterra di Benedetta era legale e che era
intitolato da ben due Ministeri ad occuparsi di lei.
Ma
da un lato …
Era insoddisfatto. Non
l’aveva
confessato a James, ma quel foglio di pergamena non era riuscito a
placare la
sua inquietudine.
Temporaneo.
Dovranno trascorrere sei mesi prima che la
situazione diventi definitiva.
In sei mesi ne succedono di cose…
Non era comunque il momento
di
perdersi in ragionamenti, quindi si rivolse di nuovo
all’ostinata figurina al
suo fianco. “Benedetta, basta fare capricci.”
Il tono sortì il
suo effetto
da come la bambina smise di piagnucolare, anche se sgusciò
dalla sua presa per
entrare dentro il negozio in un ultimo afflato di ribellione.
La raggiunse, sia per
tenerla
d’occhio sia per controllare che non fosse oggetto di sguardi
indiscreti visto
che non l’aveva ancora formalmente introdotta nella cerchia
sociale del
villaggio. Non era neppure sicuro di volerlo fare.
Il
sindaco è stato informato da Flynn … dubito
però che
se lo sia tenuto per sé.
…
Se ha parlato me ne accorgerò da come la guarderanno.
La bambina intanto si era
calmata, rapita tra gli scaffali ricolmi di rotoli polverosi e di
scatole in
set da dodici piume. La sua gioia più grande fu
però trovare lo Kneazle della
padrona e chinarsi per accarezzarlo, venendo ricompensata da fusa
rumorose.
“Strano, Bertie
non è così
affettuoso con gli estranei!” Esclamò la Signora
Landers uscendo dal
retro-bottega e rivolgendo un’occhiata incuriosita ad
entrambi. “Buongiorno
Ted, e buongiorno bella signorina… Come ti chiami?”
Benedetta la
ignorò
fieramente, completamente dedita al felino che le si strusciava beato
contro le
gambe.
“Benedetta,
è la figlia del
mio fratellastro.” Servì quella notizia con tutta
la naturalezza di cui era
capace anche se si sentiva sudare la mani: non osava guardare il
riflesso dei
capelli sulle finestre del negozio. “È venuto a
mancare per un incidente
qualche mese fa … vive con me e James adesso.”
“Condoglianze caro, è terribile. E quindi adesso
ti occupi di lei?” La donna lo
guardò con voracità curiosa, palesando il fatto
che il sindaco non avesse
assolto alla sua funzione di Gazzettino.
Che
gli ha detto Flynn per farlo star zitto? Devo
ricordarmi di mandarle un cesto di Mielandia…
“Già.”
Convenne sorridendo a
Benedetta che giocava a rincorrere il suo nuovo, peloso amico.
“È stato uno
Stupeficium a ciel sereno, ma io e James ci stiamo adattando.”
“Non è inglese, vero?” La domanda lo
colse di sorpresa, ma non fece in tempo a
rispondere che la strega si spostò da dietro al bancone per
raggiungere la bambina.
“Cara, non agitare così il povero Bertie,
è anziano…” Si voltò verso
di lui.
“Capisce ciò che dico?”
Di colpo si
ricordò che Molly
Landers era una pettegola e non gli era mai piaciuta
granché.
La risposta di Benedetta lo riempì di orgoglio.
“Io capisco! Io e gatto
giochiamo, non faccio male!” Replicò con piglio
sicuro: portarla a giocare con
i figli di Neville, britannici fino alla punta dei capelli, aveva
sortito i
suoi effetti.
E
questa è la riprova che si diverte a far finta di non
capire. Potrebbe esser figlia di Jamie.
La reazione della strega
però
non fu quella che si sarebbe aspettato. Guardò la bambina
sbalordita e
indietreggiò anche di qualche passo.
Realizzò solo un
secondo dopo
che il colore degli occhi di Ben, miele brillante, erano un segnale
palese
della sua condizione.
“È un
Mannaro?” Chiese
guardandolo sbalordita. “È un Mannaro
o…”
Gli si aprivano due possibilità, due storie completamente
diverse che davano
esiti opposti.
Non ci mise molto a decidere. “No, è frutto di un
atavismo. Molti figli o
nipoti di Mannari hanno le iridi dorate.” Si
indicò il viso con un lieve
sorriso distensivo, la sua arma preferita per tranquillizzare torme di
adolescenti pieni di magia ed emozioni. “Se non fossi un
Metamorfomago le avrei
anche io.”
Non
c’è necessità che tutti lo sappiano.
No, nessuna
legge mi obbliga a dirlo, e Flynn di certo deve aver detto al sindaco
di tenere
la bocca chiusa.
E così lui
avrebbe fatto, per
Benedetta.
La donna scoccò
un’occhiata a
Ben, ma parve trovare nelle sue guance rosee e nella
vivacità con cui giocavano
con lo Kneazle la conferma di quel che le aveva detto.
“Certo, non assomiglia
proprio ad un Mannaro … Quelli fanno sempre avanti e
indietro dal San Mungo,
no?”
Sì,
se hanno contratto la malattia con un morso. Quelli
che sono nati da genitori Mannari scoppiano di salute.
Annuì.
“Benedetta è sana come
suo padre e come me.”
Sulla via del ritorno non
riuscì ad esser partecipe dell’entusiasmo della
piccola, che in un inglese
inframezzato a un robusto italiano gli spiegava quando Bertie fosse
simpatico.
Le teneva la mano e sorrideva però; sperava bastasse.
Ho
mentito. Certo, è ancora piccola, e possiamo gestire
la cosa, tenerla nascosta. Ma quando crescerà …
Fu quasi un sollievo
incrociare Neville che usciva di casa in compagnia del più
grande dei suoi figli.
Benedetta salutò il bambino con entusiasmo e insieme
decisero di sfidarsi a
correre fino alla fine del villaggio poche case più sopra.
“Bambini!”
Li richiamò Neville
prima di scuotere la testa rassegnato e rivolgergli un cenno di saluto.
“Ormai
su Cedric funziona solo la Pastoia.” Scherzò.
“Forse dovrei
provarla
anch’io…” Mormorò senza
riuscire a nascondere il proprio turbamento.
L’altro professore
fu lesto a
notarlo. “Ted, è successo qualcosa?”
Non aveva voglia di
tenerselo
dentro, quindi spiegò per sommi capi cos’era
successo e la decisione che aveva
conseguentemente preso. Alla fine del monologo Neville
sospirò.
“Non so se hai
fatto bene … Certo,
se le persone sapessero che Benedetta è un licantropo
potrebbero esserci
polemiche, alcuni potrebbero anche non prenderla bene.” Non
era mai stato tipo
da minimizzare i problemi. “Ci sarebbe da
combattere.”
“E ci andrebbe di mezzo Ben.” Replicò
serrando la mascella mentre guardava la
bambina arrivare prima alla fine del viottolo che delimitava Hogsmeade
dalla
montagna e fare uno strillo in segno di vittorio. “Non voglio
che sia guardata
come qualcosa da temere … non voglio che venga tenuta
lontana dagli altri
bambini perché le madri pensano che solo a respirarne la sua
stessa aria i
figli possano venire contagiati. Non
è
giusto.”
Il vicino Plenilunio
stimolava
la sua rabbia come un fiume sotterraneo, facendogli venir voglia di
prendere a
pugni qualcosa.
Mio
padre ha vissuto una vita di stenti per colpa dei pregiudizi.
Non Ben. Non deve succedere a Ben.
L’altro mago
annuì con un
sorriso empatico. “C’è ancora tanta
ignoranza … Quindi pensi di tener nascosta
la cosa?”
“Per il momento.” Confermò.
“Finché la situazione con Ben non sarà
stabile.
Sono stato nominato suo tutore legale … ma sono in prova,
dovranno trascorrere
sei mesi prima che la situazione diventi definitiva.”
“Hai paura che le
persone al
villaggio possano dare problemi in questo senso?”
Intuì Neville. “Che inficino
la valutazione del Ministero?”
“Benedetta ha il
diritto di
vivere in un ambiente sicuro. I pregiudizi della gente non
contribuirebbero a
farla star bene.” Fece una smorfia. “Non mi piace
l’idea di mentire … ma
cos’altro posso fare?”
Se
il Ministero decidesse che per Ben questo non è
l’ambiente giusto potrebbero revocarmi il titolo.
Me
la porterebbero via.
Serrò le dita
contro la
staccionata e ignorò la facilità con cui il legno
scricchiolò sotto la sua
presa. “Se lo al villaggio lo scoprissero … beh,
potremo anche trasferirci. La
serenità di Ben viene prima di tutto.”
Perché era certo che James l’avrebbe appoggiato. O
almeno lo sperava.
Neville sorrise, dandogli
una
pacca sulla spalla. “La vuoi proteggere, lo capisco
… Se al posto suo ci
fossero Frankie o Ced farei la stessa cosa. È quello che
deve fare un padre.”
“Non sono suo padre.”
Neville rafforzò
la stretta
sulla sua spalla. “Ora lo sei.”
Fece per ribattere quando
Benedetta gli corse incontro e lo placcò alla vita,
tirandogli anche una
discreta testata allo stomaco. “Benedetta!” La
richiamò ma non riuscì a
mantenere la faccia severa quando gli porse una manciata di sassolini
fangosi
con il sorriso di chi li aveva vinti dopo una dura battaglia.
“Per te! Poi
dividi con
Jamie!” Dichiarò prima di correre di nuovo via,
tutta presa in chissà quale
fantastica avventura.
Ted sentì qualcosa pungergli gli occhi e sperava proprio non
fossero lacrime.
Tanto comunque ci avrebbero pensato i capelli a sbandierare il suo
stato
d’animo.
Neville si strinse nelle spalle. “Conosco quello sguardo e
ripeto. Lo sei, ragazzo
mio. Sei un padre.”
Sì, lo sono.
E avrebbe mentito anche ad
un
intero villaggio per difendere la sua bambina.
****
Victoria
Embankment, Casa di Michel Zabini.
Pomeriggio.
“Grazie a Merlino
sei qui!”
Essere accolti così ogni giorno non sarebbe stato male,
pensò Emil guardando il
viso ansioso di Michel sciogliersi nel sollievo.
Certo,
magari gradirei anche essere sbattuto al muro
per turpi motivi, ma…
L’altro non era
della stessa
idea però, perché si tirò indietro per
lasciarlo passare in anticamera.
Indossava ancora il completo che usava al lavoro, stirato al
millimetro.
L’unica traccia di scombussolamento era in effetti sulla sua
faccia. “Che
succede?” Chiese pratico. Inutile girarci intorno.
Tanto
qua non si scopa.
“È
successo … Dirk.” Lo guardò
smarrito, come se cercasse lui stesso di capirci qualcosa. Prima che
potesse
chiedergli chi era lo stronzo in questione, aggiunse. “Mio
fratello.”
“Hai un
fratello?” Non gliene
aveva mai parlato, o se l’aveva fatto era stato in maniera
talmente marginale
dal farglielo dimenticare. “Vuoi dire che
c’è un altro schianto esotico come te
in giro per Londra?”
Michel lo fulminò con lo sguardo. “Ha sette anni,
ed è il figlio di seconde
nozze di mio padre. Te ne ho già parlato.”
Okay,
gaffe. Marcia indietro, rimedia.
“Gli è
successo qualcosa?”
Vedendolo così turbato temette per il peggio e gli mise
quindi un braccio
attorno alle spalle, tirandoselo contro. “Ehi, sono sicuro
che si risolverà.”
“Dubito.” Mormorò scuotendo la testa.
“È qui.”
“Chi?”
“Dirk! La mia
matrigna me l’ha
portato in ufficio!” Esclamò prima di lanciare
un’occhiata atterrita in
direzione del corridoio; doveva averlo parcheggiato in salotto dai
rumori che ne
uscivano. “La sua Elfa personale si è presa un
raffreddore … non pensavo
neppure che quei cosi potessero ammalarsi… fatto sta che sua
madre doveva uscire
per un the da un’amica, così me l’ha
portato. In ufficio.” Ripeté come se fosse
la peggiore della onte. “Ho dovuto prendere mezza giornata di
permesso per
portarlo a casa!”
Milo inspirò ed
espirò lentamente,
visualizzando un paesaggio alpino con tanto di mucche al quieto pascolo
perché
aveva una gran voglia di prendere rifilargli un pugno.
Mi
hai fatto correre qui perché non sai come gestire
tuo fratello?!
Avrebbe voluto gridarglielo
contro, ma l’espressione scombussolata dell’altro
meritava perlomeno qualche
domanda in più. “Scusa, ma non ci sono altri Elfi?
In Inghilterra ne avete plotoni
interi pronti a servirvi.”
“Non voleva altri Elfi … si è messo a
gridare e fare le bizze finché sua madre
non ha intelegito dalle sue urla che voleva stare con me.”
“E
quindi?”
“Non so
perché!” Il tono era
pericolosamente vicino ad una lagna infantile, così come il
broncio. “Io e Dirk
non siamo certo vicini … a malapena ci vediamo per le feste
comandate! Non ho la
minima idea del perché sia voluto venire da me …
non l’ha mai fatto!”
Purosangue,
tutti uguali. Li metti di fronte ad una
situazione che esula dalla loro routine patinata e vanno nel panico.
Per sua sfortuna la sua
capacità di adattamento era invece eccellente. “Te
la stai facendo sotto perché
un bambino di sette anni ha chiesto di te?”
Michel aprì la
bocca per
protestare, ma per fortuna era meno ostinato di Sören,
perché strinse le labbra
ma lasciò perdere. “Non sono bravo con i
bambini…”
“L’avevo capito.” Si tolse la giacca e la
gettò addosso all’altro che la
afferrò al volo con una presa
niente
male. Ignorò l’occhiata indignata che ne
conseguì e si stiracchiò: quella
giornata si prometteva lunga. “Quindi quando vengono a
prenderlo?”
“Non…”
“… lo sai, ricevuto. Hai detto che si chiama
Dirk?” Fece per incamminarsi
quando venne fermato per un braccio.
“Che vuoi
fare?”
Dio,
che melodramma.
“Conoscerlo?”
Chiese con tutta
la perplessità che era capace di dimostrare. “Mi
hai chiamato in preda al
panico e mi hai fatto correre qui come se avessi ammazzato qualcuno.
È venuto
fuori che hai solo bisogno che qualcuno faccia da babysitter a tuo
fratello …”
Si indicò con un gesto complessivo, un po’
ridicolo ma d’effetto. “Si da il
caso che io faccia questo di
lavoro.
Per un bamboccio più grande e più problematico,
ma rimane il fatto.”
Michel batté le
palpebre come
se avesse realizzato solo in quel momento che si era portato in casa la
soluzione. “Sì … in effetti.”
La presa sul suo braccio divenne più simile ad
una carezza, così come la sua espressione. “Non ci
avevo pensato.”
Lo guardò spazientito. “E perché mi hai
chiamato allora?”
“Perché
avevo bisogno di te.”
Disse con semplicità, togliendogli ogni forza di ribattere;
quando l’aveva
conosciuto per la prima volta l’aveva pensato un algido
stronzetto con troppi
strati, e che anche a sfogliarli sarebbe venuto fuori solo un cuore
rinsecchito.
Invece, nonostante avesse avuto un’infanzia arida da manuale,
Michel aveva ancora
un cuore vivo che gli batteva nel petto. E si vedeva.
E
questo ti manda fuori fase. Prima … e pure adesso.
“Beh, sto qua
no?” Scrollò le
spalle avendo la certezza di avere un cartello al collo che parlava di
robe
come sentimenti e commozione. Fece per infilare le mani nelle tasche,
benedette
tasche, quando Michel intercettò la destra e la
intrecciò alla sua, sporgendosi
per un bacio a stampo che gli fece schizzare il cuore in gola
più forte che si
fosse messo in ginocchio a far altro.
“Grazie.”
Non era attrezzato per la
dolcezza.
Fu quindi con autentico
sollievo che entrò nel salotto dove un piccolo mini-me del
ragazzo che aveva
accanto stava guardando tutto composto un libro di illustrazioni.
Riccioli
perfetti, incarnato color caffellatte e i lineamenti da putto
Pre-Raffaellita;
decisamente era di sangue Zabini.
“Ehi, sei
Dirk?” Lo apostrofò
senza troppi giri di parole o squittii da dementi, certo che il
ragazzino fosse
già abbastanza grande da esser stufo di essere trattato come
un bambolotto.
Dirk alzò la
testa,
squadrandolo da capo a piedi, da autentico piccolo lord
qual’era. Poi però si
aprì in un sorriso da moccioso che era una meraviglia: gli
mancava pure un
dente. “Ciao!” Esclamò.
“Sì, sono io! E tu chi sei?”
“Mi chiamo
Milo.” Gli tese la
mano chinandosi alla sua altezza per farsela stringere. Alle sue spalle
sentiva
Michel trattenere il respiro. “Sono un amico di Michel
… Sei venuto a trovarlo
anche tu?”
“Anche
io!” Confermò guardando
verso il fratello come se fosse un cavaliere con tanto di armatura e
testa di
drago mozzato in mano. “La mia Elfa è malata, e
mamma era impegnata, ed io non
volevo stare con gli altri Elfi … così sono
venuto da Miki!”
“È
ovvio.” Convenne. “E
scommetto che il fratellone non ti ha ancora detto niente della
sorpresa.”
Dirk spalancò gli occhioni – di un azzurro pulito
che l’avrebbe fatto diventare
sogno di ragazzi e ragazze una volta adolescente – e
guardò Michel come se
adesso oltre alla testa del drago gli stesse anche offrendo di partire
in una
nuova avventura assieme. “No! Che sorpresa?”
Milo rivolse un ghigno
all’espressione
palliduccia dell’altro ragazzo; era chiaro che volesse
strangolarlo o perlomeno
smentirlo, ma non trovava la forza di deludere le speranze del
fratellino. “Sono
qui per portare te e Miki in
gita.”
Dichiarò. “È questo il mio mestiere
… fabbrico sorprese.”
“Che
bello!” Il bambino quasi
saltò sulla poltrona come l’età
imponeva, ma si bloccò prima di metterci i
piedi sopra; era deprimente constatare come la schifosa macchina
Purosangue
avesse già cominciato a sgranocchiarlo. Si guardò
smarrito attorno. “Dov’è
l’Elfo con il mio mantello?”
Michel si riscosse dalla
statua di sale che era diventato. “Non ho elfi qui,
Dirk.” Replicò con un tono più
adatto ad un cliente che ad un settenne. “E … dove
ci vuole portare non puoi girare con
il mantello.” Lo guardò
accusatorio.
“Beh, ma Miki sono
sicuro te
lo trasformerà in un bel cappottino alla moda.”
Replicò con un sogghigno e
cercò di non ridere quando l’altro prese il
piccolo mantello foderato di
azzurro e si concentrò scornato per pensare a cosa sarebbe
dovuto diventare.
“Fagli una giacca
come la mia,
sapientone.” Gli venne in soccorso mentre il piccolo andava a
rimettere a posto
il libro con il garbo di un anziano filatelista. “Niente di
troppo pretenzioso,
o gli altri bambini penseranno sia uno sfigato e non vorranno giocare
con lui.”
“Altri bambini?” Michel perse quel poco di colore
che gli era rimasto sulle
guance, diventando di tinta livida. “Di cosa stai
parlando?”
“Del fatto che tuo
fratello ha
bisogno di giocare, e non di restare in un salotto a sfogliare un libro
non
adatto alla sua età. Mi hai chiesto di fargli da babysitter
… è quel che sto
facendo.” Si stinse nelle spalle, perché forse non
era l’uomo migliore del
mondo, ma non avrebbe mai negato quello che un bambino chiedeva a gran
voce e
senza aprire bocca.
“Ma…”
“I ragazzini quando si annoiano diventano molesti.”
Lo avvertì. “Vuoi che
diventi molesto?”
Non osò
ribattere.
Michel si rigirò
tra le mani
il mantello-ora-giubbotto. Non aveva la minima idea del
perché avesse accettato
di assecondare l’idea assurda di Emil; forse
perché non sapeva che Snaso
pescare e ne era piuttosto angosciato, o forse perché
l’altro pareva
terribilmente a suo agio in compagnia di Dirk, come mai lui sarebbe
stato.
Dirk in compenso sembrava
entusiasta della novità, e si fece consegnare il giubbotto
da Babbano senza
troppe storie, specie quando Emil si inventò che erano in
missione segreta per
scoprire moda e usi dei Babbani.
“Ma non sono
pericolosi? Non
ho paura, eh!” Chiarificò lanciandogli
un’occhiata e rivolgendosi incomprensibilmente
a lui. “Miki, ma è pericoloso?”
Si schiarì la
voce. “No, finché
non…” Esitò ma fu incoraggiato da
un’occhiata del tedesco. “… non ti fai
scoprire.”
Emil annuì con
aria
comicamente grave. “È una missione
segreta.”
“Che bello!”
Ma non potevamo restare a casa? Gli davo
da leggere qualcosa e lo tenevamo d’occhio…
Non lo disse
però, e prese la
mano di Dirk, continuando nella commedia. “Non possiamo
Smaterializzarci …
useremo…”
Andare a piedi, vero?
“I mezzi
Babbani.” Si inserì
Emil con squisito sadismo. “Hai mai preso un bus
Dirk?”
“Come il
Nottetempo? Mamma
dice che i bus sono sporchi e hanno le malattie!”
Non che abbia tutti i torti.
Emil si strinse nelle
spalle.
“Basta lavarsi le mani poi. Pronto ad affrontarli?”
“Sì!”
Michel non poté frenare un mezzo sorriso quando vide Dirk
dare la mano anche all’altro,
spontaneamente e in totale fiducia, come se lo conoscesse da anni; e
non era
una cosa da prendere sottogamba considerato che era stato cresciuto per
diffidare di tutti, com’era successo a lui.
Emil
però è speciale.
Era naturale che Dirk ne
fosse
rimasto affascinato all’istante com’era capitato a
lui.
*****
Lancashire,
Preston.
Quartiere magico, Pomeriggio.
“Secondo me il
lillà non va
bene … fa più primavera che tarda estate,
no?”
“Malfuretto, ma
cosa cazzo ne
so io?”
“Non so, pensavo
che essendo
mezzo gay…”
“Ma vaffanculo.”
“Dai, dammi un parere! Rosie vuole un feedback sui vestiti
delle damigelle, e
tua sorella non fa che proporle bikini e shorts!”
“… ed
è una cosa che non avrei
voluto sapere. Sono cazzi tuoi!”
“Per
favooore!”
James fu seriamente tentato
di
strangolare la ciabatta ambulante che il Destino gli aveva affibbiato
come
migliore amico. Sfortunatamente erano in servizio, e la suddetta
ciabatta
bionda era anche suo partner. Lo strattonò quindi per la
camicia, visto che
stava vagolando senza meta per uno dei vicoli più deprimenti
che avesse mai
visto come se fosse in mezzo ad un prato alpino, e gli
indicò l’insegna che
stavano cercando da mezz’ora. “Ci siamo.”
Dichiarò. “L’unico pub magico di
Preston.”
Scorpius guardò
l’insieme e
aggrottò le sopracciglia. “Sembra
Babbano.” Decretò con un certo grado di
ragione visto che sulla lavagnetta affissa fuori, oltre ad un
menù che parlava
di spezzatino e patate, venivano offerti anche la tv via cavo e
un’area wi-fi.
“Pare che il quartiere si sia spopolato durante la
guerra.” Spiegò perché aveva
letto l’appunto che Bobby gli aveva dato prima di partire, lui. “Il proprietario
avrà dovuto arrangiarsi.”
Quando entrarono alla porta tintinnarono una decina di campanelli,
segnale di
benvenuto di ogni bar magico: all’interno
l’arredamento era Babbano Per
Sbaglio, come l’avrebbe
definito Lily. C’era un grosso televisore al plasma sopra al
bancone e una
vetrina di alcolici estrosi illuminati
a neon, ma anche un attaccapanni con un paio di vecchi mantelli appesi
e un
portaombrelli a forma di zampa di troll dietro la porta.
“Benvenuti!”
Li salutò il
proprietario che esibiva un’improbabile camicia a fiori
hawaiani. “Grande il
Manchester ieri sera, eh?”
“Non
sforzarti.” Replicò James
scostando il giubbotto per mostrare il fodero della bacchetta
agganciato sotto
l’ascella, come regolamento imponeva quando si era in una
zona ad alta densità
Babbana. “Siamo auror.”
“Allora
doppiamente
benvenuti!” Il mago, che tale doveva essere da come si
illuminò, fece ampi
gesti verso il bancone. “Sedetevi ragazzi, offre la
casa!”
Accettarono così
di buon grado
un paio di Burrobirre ghiacciate e degli stuzzichini di formaggio che
se
serviti a Babbani avrebbero fatto sicuramente chiudere il posto per
motivi di
igiene. Poi Scorpius, ad un suo cenno, cominciò a cianciare
delle ultime
partite dei Falmouth Falcons dandogli così il tempo di
guardarsi intorno per
capire se quel posto dimenticato da Merlino potesse aver visto il
passaggio di
Doe.
Quartiere
magico in decadenza … Pub in culo al mondo. Sì,
potrebbe essere.
Era con quello spirito che
da
molte mattina a quella parte erano alla ricerca del quartier generale
del
Demiurgo; era un lavoraccio, ma stavano setacciando palmo per palmo
tutte le
cittadine del Nord con una minima presenza magica.
Le
tracce di fango degli stivali del bastardo
provenivano da qui… o forse dalla Cumbria.
A
volte odio il mio lavoro.
“Da
quant’è che non vedi un
mago?” Decise di mettersi in azione.
L’oste si
pizzicò la barba
pensandoci su. “E chi se lo ricorda? Prima della seconda
guerra c’erano venti
botteghe e tre pub … adesso per fare la spesa o farmi
preparare un Decotto
Tiramisù devo andare fino a Manchester o addirittura
Liverpool!” Scosse la testa
con aria rassegnata. “Ormai siamo rimasti in pochi
… io ho dovuto cambiare
insegna, nome e mettere addirittura quel dannato aggeggio sopra la mia
testa
per attirar gente.” Scosse la testa. “Ho sempre
odiato il calcio.”
Scorpius annuì
con aria
comprensiva, passandogli la fotografia di John Doe da sopra al bancone
che
ciascuno di loro si portava dietro ovunque. “Ha mai visto
quest’uomo? O
qualcuno che gli assomigliava, magari.” Ripeté
forse per la centesima volta; la
cosa bella di Malfoy è che riusciva ad essere speranzoso
ogni volta. A lui non
riusciva.
Il barista aggrottò le sopracciglia, prendendo gli occhiali
per dargli
un’occhiata. “No, direi di no … Una
faccia da galera così me la ricorderei.”
Appunto. Minimo ha anche cambiato faccia.
“E
l’ultimo mago che ricorda?”
Non si arrese Scorpius. “O anche un avventore fisso, magari
Babbano…”
“Si tratta di un Metamorfomago?” Intuì
per poi allargare le braccia. “Se è
così, state cercando un boccino in un campo d’uova
ragazzi. Non ho una
clientela nutrita, è vero, ma la sera questo posto in
qualche modo si riempie.
E non sono mai stato bravo a ricordarmi le facce…”
Vedendo le loro espressioni
esitò, forse mosso a compassione dalla stupida faccia da
cane bastonato di
Malfoy. “Ma se mi lasciate quella foto posso fare un paio di
domande in giro…”
“Ci contatti a questo indirizzo o tramite Gufo.”
Scorpius gli scrisse solerte
l’indirizzo dell’ufficio su un tovagliolino di
carta e poi aggiunse anche il
suo numero di cellulare. “E questo è il mio
cellulare. Sono sempre reperibile,
quindi non si faccia problemi!”
“Vi siete modernizzati anche giù al Ministero,
eh?” Ironizzò per poi indicare
con un cenno del mento il fondo del locale. “A me
è toccato, pure … ormai di
magico ho solo del vecchio ciarpame. Laggiù ci sono tutte le
insegne dei negozi
del quartiere per esempio. Dateci un’occhiata,
c’è roba divertente.”
James si era già stufato dell’atmosfera polverosa
e tetra di quell’accrocchio
di strade ormai morte e pure piuttosto mummificate.
“Veramente dovremo…”
“Adoro le vecchie insegne!” Trillò lo
squilibrato con cui condivideva la
scrivania e gran parte della propria vita tirandolo per un braccio.
“Potty, tu
no?” E ce lo trascinò davanti.
“Ma che
cavolo…”
“È un povero vecchietto che vive di nostalgia,
dagli un po’ di soddisfazione,
non fare la testa di latta crudele!” Lo tacitò con
una gomitata che fu ben
felice di ricambiare. “Non hai proprio idea di quanto sia
dura essere gli unici
maghi in un mondo di Babbani?”
“Perché,
tu sì?”
“Io
ho vissuto per anni vicino a quella calamita attira turisti che
è Stonehenge … ma zero maghi. Attorno al Manor
ci sono solo stramaledetti campi pieni di pecore. Il Wiltshire
è un posto
triste come questo.” Replicò con sguardo
accusatorio. “Sii empatico.”
“Che palle.” Sbuffò dando
un’occhiata annoiata alla decina di vecchie insegne
mangiate dall’umidità e dal tempo.
Aggrottò le sopracciglia e mise a fuoco una
delle insegne più in alto, così mal messa che
aveva perso tutto il suo colore
originale in favore di un marroncino virante al marcio.
Però, sotto gli strati
di lerciume, il logo dipinto era ancora visibile e gli era stranamente
familiare: due mani intrecciate sormontate da una corona a tre punte.
Dove
cavolo l’ho visto?
“Potty, io
intendevo
un’occhiata educata, non fissartici come un segugio con un
fagiano…” Lo
riscosse Scorpius perplesso. “Cos’hai
visto?”
“Quell’insegna
lì … il
disegno, mi ricorda qualcosa.” Disse indicandolo. Poi
scrollò le spalle: era
difficile ricordare uno stemma in un mondo pieno di ex nobili pomposi.
Persino
Malfoy ne ha uno!
Avevano già perso
troppo
tempo.
Dobbiamo
ancora finire il Lancashire, che domani ci
tocca la Cumbria e sarà tosta.
Fece per voltarsi ma
l’altro
lo afferrò per un braccio. “Fermo
lì.” Disse. “Anche a me sembra di averlo
già
visto.” Si voltò verso il bancone. “Mi
scusi … ricorda a cosa corrisponde
quell’insegna?”
“Malfuretto, ma
che…”
“Lasciami fare.” Lo interruppe nuovamente,
accogliendo con un sorriso tutto
denti il vecchio barista. “Quello in cima, sulla
sinistra.”
L’uomo si aggiustò gli occhiali sul naso e
strizzò gli occhi un paio di volte
prima di identificarlo. “Ah, certo … è
di una locanda, il Red Crown. Chiuse ben
prima della guerra, se la memoria non mi gioca brutti
scherzi.” Prese la
bacchetta e la staccò, facendola levitare alla loro altezza.
Già
visto, già visto … e pure Malfuretto, pare, da
come
s’è eccitato.
“Cosa ci
può raccontare?”
Rincarò Scorpius con quell’aria a bravo scolaretto
che aveva fatto capitolare
anche i loro più granitici professori. Fuori da Hogwarts
faceva sciogliere la
lingua a chiunque.
“Ah, è
una storia lunga e
risale a qualche secolo fa.” Iniziò
l’uomo e James pestò il piede all’altro,
e
fu altrettanto silenziosamente ricambiato. “Il Red Crown era
una locanda, ma
non di qui, di un villaggio magico nella brughiera, a un’ora
di scopa. Non era
neppure un villaggio a dirla tutta, piuttosto una manciata di case
abitate da
gente che lavorava nelle terre di una vecchia famiglia nobile, sapete,
di
quelle importanti …”
“Tipo i Malfoy, certo.” Si gonfiò tutto
Scorpius.
L’uomo con suo enorme scorno annuì. “Poi
i Babbani scoprirono che sotto quelle
case c’era del carbone e beh … sapete come sono,
in quattro e quattr’otto ci
costruirono sopra una miniera … e poi una città.
I proprietari tentarono di
protestare, ma per il Ministero era un grattacapo troppo grosso
respingere
tutti quei Babbani, così offrirono un risarcimento alla
famiglia per i terreni
perduti e spostarono i fittavoli da un’altra parte.
L’unica traccia che rimane
di quel villaggio è proprio questa vecchia insegna
… e il castello dei padroni,
forse, se è ancora in piedi.”
“Interessante, ora
dovremo…”
“Come si chiama la città?” Era
accanimento terapeutico a quel punto, e avrebbe
dovuto mettere fine alle sofferenze mentali di Malfoy. Fece per dire
qualcosa
quando il vecchio rispose.
“Mi pare si chiami
Cokeworth.”
“Ma è
dove è nata mia zia di
mio padre!” Esclamò sorpreso; ripescando dai suoi
ricordi d’infanzia aveva
memoria di una cittadina grigia, di una casetta brutta da morire e di
un paio
di visite noiosissime alla zia di suo padre, tra l’altro
antipatica da morire.
“La zia di tuo
padre?”
Scorpius lo guardò meravigliato. “Ma …
quella Babbana del Surrey?”
“Sì,
zia Petunia, la sorella
di nonna Lily. Quando è rimasta vedova si è
ritrasferita a casa dei miei nonni
Paterni … erano di Cokeworth.”
Scorpius dovette trarre da
quell’informazione qualcosa terribilmente importante
perché spalancò la bocca
in un’esclamazione muta ed afferrò
l’insegna, contemplandola con l’aria di chi
aveva appena trovato la Pietra Filosofale.
Malfuretto?
“Possiamo
prenderla? Per le
indagini!” Quando il proprietario annuì ci
mancò poco che l’abbracciasse.
“Grazie!” Esclamò e poi lo
trascinò fuori.
Quando furono finalmente
alla
luce del sole, seppur lattiginosa come tempo del Nord prevedeva, si
voltò verso
di lui con un ghigno entusiasta. “Eureka!”
Ebbe una lieve esitazione. “Forse.”
“… ti sei rimbecillito del tutto?”
“Potty di poca
fede!” Gli
squadernò l’insegna davanti rischiando di
sbattergliela sul naso. “Guardala
bene … Davvero non ti ricordi dove l’hai
vista?”
“Se me lo
ricordassi pensi che
giocherei ad indovinelli con te?” Sbuffò
esasperato. “Cos’hai scoperto?”
“Prima di cantar
vittoria devo
fare una telefonata e controllare una cosa …
reggi!” Gliela scaricò tra le
braccia, ma quando fece per protestare l’altro gli mise un
dito sulle labbra,
tirando fuori il cellulare e componendo velocemente un numero.
Lo
ammazzo.
“Ti
ammazzo.” Gli parve giusto
notificare, ma fu ignorato. “Si
può…”
“Zitto!” Poi batté le ciglia ed
impostò la voce nel tono da completo demente
che usava in presenza di una sola e unica persona. “Mio
incommensurabile
pasticcino d’amore … sono io, il tuo
promesso!”
Mia
cugina è una santa.
“So che mi ami
anche se mi
insulti, sì, la taglio corta … Ho bisogno che tu
mi dia un informazione, e che
tu me la cerchi negli archivi anagrafici che avete da voi. Giuro che
sarò il
tuo schiavo per sempre!”
“Già lo sei, Malfuretto.”
“Sì, lo dice anche James.”
Annuì con un sospiro. “Beh, diciamo che
è per il
Demiurgo e … sì, per quello, okay, giusto, avrei
dovuto dirtelo subito. Ti ho appena mandato la foto di uno stemma araldico che vorrei controllassi. Devi dirmi a che famiglia magica appartiene. Sì, certo, aspetto!” Coprì il ricevitore con la mano e
sorrise. “Mi ama molto.”
“Ti ha mandato a fare in culo, vero?”
“Molla la preparazione di un’udienza solo per me,
Potty, questo è amore!” Si
sedette su un bidone della spazzatura e si stiracchiò.
“Tu dovresti capirmi,
con la tua neonata famiglia!”
James sbuffò, sentendo lo strano calore al petto che
percepiva ogni volta che
non si parlava solo di Teddy, ma anche di quel furetto arruffato e
furbo di
Benedetta. “Ben ha fatto amicizia con il piccolo Frankie e
Cedric, i figli di
Neville. Non si fa mettere sotto, però, ha la testa
più dura di loro.” Disse,
tirando fuori il proprio cellulare e mostrandogli una foto scattata
qualche
pomeriggio prima: i Babbani avevano inventato una diavoleria infernale,
ma non
si poteva negare fosse utile.
“Che
carini.” Commentò l’amico
occhieggiando distratto. “Sei proprio diventato un bravo
papà, eh?”
“È Ted il papà, o zio … o
quel che è.” Si strinse nelle spalle.
“Io sono…” Si
bloccò, cercando la parola senza trovarla.
“Cosa?”
Rimase in silenzio, colpito
dalla domanda. La verità è che non ci aveva mai
pensato, a cosa era per
Benedetta: sapeva bene cos’era per Ted, il compagno e
l’indubbio amore della
sua vita.
Ah,
me l’ha detto, mica seghe.
Però Benedetta
era una
questione tutta diversa: era la nipote di Ted, era una piccola e
energica
presenza dentro casa, che aveva un po’ rivoluzionato tutto e,
ne era sicuro, in
meglio. Avere Benedetta a tavola, in giro per il giardino o a cercare
genericamente attenzione da loro era bello, ma…
“Non sono, sono
tipo lo zio
adottivo? Adottato?” Si passò una mano trai
capelli. “Legalmente mi sa che non
sono niente.”
“Però ti si è affezionata …
l’ho visto come ti corre incontro quando torni.”
Replicò l’amico riferendosi alla sera in cui era
venuto a cena con Rose e
altri. Benedetta aveva passato metà della serata a
nascondersi dietro le gambe
sue o di Ted prima di essere conquistata dalla parlantina di Lily e
dagli
scherzi di Domi
“Sì,
beh, mi vede in
continuazione, vivo con lei.”
Scorpius gli rivolse un
sorriso divertito. “Non pensavo mi sarebbe mai capitato di
assistere ad un
evento del genere … tu che ti sottovaluti!”
“Ma di che
cazzo…”
Fu di nuovo stoppato. “Fiorellino, allora?” Il
ghigno di Scorpius si ampliò e
sfiorò pericolosamente la soglia del maniacale.
“Come pensavo, è un’ottima
notizia, grazie! Poi ti spiego, ci vediamo stasera!” Chiuse
la conversazione e
saltò giù dal bidone, lanciando un grido di
trionfo.
“Malfuretto, per
tutte le
Mutande sporche di Merlino, mi devo preoccupare?”
No,
perché secondo me devo.
Il compagno lo
afferrò per le
spalle e lo guardò intensamente negli occhi.
“Prince.” Sillabò.
“… e
adesso cosa c’entra il
Pipistre…”
“Lo stemma è dei Prince!”
Completò. “Lo stemma sull’insegna
appartiene alla famiglia
di Sören!” Non gli diede il tempo di replicare,
né tantomeno formulare un
pensiero che incalzò. “Una delle più
antiche famiglie magiche del Nord! Ramo
scomparso prima della seconda
guerra
magica, come ci ha raccontato il tizio! Siamo stati degli idioti,
è stato per
mezz’ora sotto il nostro naso!”
Prince
… famiglia … Pipistrello …
“Perché
questa dovrebbe essere
una prova del fatto che John Doe è stato qui?”
Scorpius scosse la testa,
senza che l’espressione trionfante cedesse di un millimetro.
“Non passato,
Potty bello, John Doe ha stabilito
qui il quartier generale dell’operazione … per la
precisione, di cosa ha
bisogno? Spazio, solitudine e barriere di occultamento potenti. E dove
puoi
trovare tutte queste cose?”
“Non certo in una
locanda!”
“No, nel castello
dei Prince.
Quello che John Doe deve conoscere,
visto che ha con sé la moglie dell’ultimo Prince
che vi è nato, il padre di
Sören, Elias.”
James provò
l’improvviso,
violento desiderio di baciarlo, perché Scorpius Hyperion
Malfoy aveva sì una
miriade di boccini che gli ronzavano in testa … ma come tali
erano in grado di
far loro vincere la partita.
“Fottuto
genio!” Gli schioccò
quindi un bacio su quella zucca ossigenata dandogli anche uno
scappellotto per
buona misura. Casomai pensasse male. “Come diavolo
ci sei arrivato?”
Sapeva di doverglielo, e
quindi aspettò paziente che l’altro finisse di
fare la ruota e di guardarlo con
superiorità.
“Lo stemma, prima
di tutto …
sai dove l’abbiamo visto?” Si batté un
dito sull’anulare. “Al dito di Sören.
L’ha sempre addosso! Ma non è stato quello a farmi
accendere il Lumos.”
“È
stata Cokeworth.” Si
sarebbe dato dell’imbecille da solo. “Il Preside
Piton è nato a Cokeworth, come
mia nonna, ma sua madre era una Prince … ha conosciuto il
marito perché il
tizio viveva in quelle che un tempo erano le terre della sua
famiglia!”
“Elementare, mio caro Potty!” Schioccò
le dita e si appoggiò tronfio al muro.
“Scattami una foto, sono l’eroe della
giornata!”
Se la fantasia galoppante di Malfoy avesse fatto centro forse avrebbero
risolto
tutti i loro problemi. Forse avrebbero risolto il
Demiurgo.
Non poteva crederci.
“Dobbiamo ancora
trovare il
castello … il maniero, quel che è.”
Disse, perché qualcuno doveva tenere i
piedi per terra e non salire sulla scopa per un giro di trionfo. Era
strano
assumersi quella responsabilità. “Hai sentito il
vecchio … non si sa neanche se
è ancora in piedi!”
Scorpius assunse
un’aria
meditabonda. “Se ci sono degli Elfi Domestici ad abitarlo
sì.” Replicò. “Quelli
resistono a tutto … Ti ricordi Kreacher?”
Fece un mezzo sorriso,
ricordando Hogwarts, le sue ricche cucine e i raid in compagnia dei
gemelli. “E
chi se lo scorda, quel maledetto mostriciattolo cacciava me, Lor e Lys
ogni
volta … ” Fece una smorfia. “E pensare
che ce lo portò mio padre!”
Scorpius annuì. “Già, perché
l’aveva trovato a Grimmauld Place, la vecchia casa
dei Black che aveva ereditato da Sirius Black. Capito? Gli Elfi
rimangono anche
dopo che i maghi se ne vanno … se i Prince non se li sono
portati dietro, sono
ancora là a tenere in piedi la baracca! E avranno accolto a
braccia aperte la
moglie dell’ultimo erede conosciuto!”
“Non correre troppo.” Doveva frenare
quell’ondata di entusiasmo, o avrebbero
finito per rimanere con un pugno di mosche.
Non
sarebbe la prima volta con questo cazzo di caso.
Scorpius suo malgrado
annuì.
“Come ci muoviamo?”
“Direi di tornare
in ufficio e
cercare informazioni sul castello dei Prince. Dove si trova, quali
protezioni
ha, se c’è ancora …” Fece due
calcoli mentali. “Mandiamo Bobby e la Gillespie al
Catasto Magico, quelli di sicuro in mezzo a piantine e pergamene si
sentono a
più agio di noi. E poi…”
Scorpius batté il pugno contro il suo e ghignò.
“E poi li andiamo a prendere.”
****
Londra,
Hyde Park.
Pomeriggio.
“Tuo fratello ci
sa fare con
la palla.”
“Ma se non ha mai giocato ad un gioco Babbano in vita
sua…”
“Beh, c’è sempre una prima
volta.”
Emil era incredibile: non
solo
li aveva portati ad Hyde Park portando in spalla Dirk per tutto il
tragitto,
sia a piedi che in bus, facendolo divertire come un matto. Aveva poi
comprato
loro due gelati – aveva dovuto mangiarlo, perché
Dirk aveva dichiarato che
altrimenti l’avrebbe fatto lui al suo posto – e li
aveva portati in giro,
sorbendosi le chiacchiere a fiume di suo fratello finché non
avevano individuato
un gruppo di bambini; a quel punto lo aveva introdotto ai suddetti e
aveva
giocato con loro finché Dirk non si era sentito
sufficientemente a suo agio da
poter essere lasciato solo.
Emil non era incredibile:
era meraviglioso.
“Va bene, ma
è comunque
eccezionale che mio fratello stia giocando a calcio … con
dei Babbani poi!”
“E con chi
dovrebbe giocarci?”
“Sai che intendo.” Scosse la testa e si
trovò molto meno irritato di quanto
avrebbe pensato.
Emil si
stiracchiò,
appoggiandosi con la schiena allo schienale della panchina mentre
stendeva le
gambe. “Tuo fratello è ancora piccolo …
non ha ancora la testa ingolfata di
stronzate Purosangue.” Ridacchiò quando questo
tirò un calcio particolarmente
potente al pallone spedendolo vicino alla porta, con conseguenti grida
incoraggianti da parte degli altri piccoli giocatori.
“È un bambino … quando
gioca, gioca.”
“Già.”
Diede un morso al
proprio cono. “Sei stato bravo con lui. Dove hai
imparato?”
“Prince?”
“Non credo che tu
prenda sulle
spalle Prince per poi comprargli un gelato.”
“Ti stupirebbe
sapere quante
cose assurde faccio per quell’idiota.”
Sospirò con aria melodrammatica. “Ma no
… avevo solo un bel po’ di fratelli. E i bambini
mi piacciono.” Si infilò una
sigaretta tra le labbra e se la accese. “Sono gente in
gamba.”
“Ti
adora.”
“Dev’esser
di famiglia allora,
no?”
Michel ridacchiò, godendosi il sole che gli batteva tiepido
sul viso. Non
avrebbe mai creduto possibile sentirsi così sereno, libero, in un parco pieno di Babbani
urlanti con suo fratello che si
rotolava con i loro figli. Eppure era lì, con Emil che gli
sogghignava sornione
accanto.
Diglielo.
Diglielo che sei innamorato di lui.
La vocetta interiore di Al
era
fastidiosa come una mosca, e come tale la trattò. Si
passò una mano sulla nuca
e sorrise. “Ti ringrazio … Non avrei saputo come
gestirlo senza di te.”
“Non è un bambino difficile.”
“No, non lo
è… sono io che
sono un fratello maggiore improbabile.” Ammise.
“È figlio di seconde nozze … e
mio padre ha riposto tutte le speranze in lui visto che a mia
differenza è un
Purosangue. E considerando che non approva molte delle mie scelte di
vita…”
“Me l’avevi detto.”
“Già. Considerando anche questo … me
l’hanno sempre tenuto lontano, e la cosa
mi è sempre andata bene.” Ammise. “Non
ho idea di come comportarmi con un
bambino … Perché sia voluto venire da me
è un mistero.”
“Mica tanto.” Gli diede un colpetto sulla caviglia
con la scarpa. “Mentre sua
madre lo scarica per andare a giocare con le sue amichette e vostro
padre
probabilmente non ha manco messo il naso fuori dal suo ufficio
… Tu? Molli il
lavoro per portartelo in casa. Dirk si
rende conto di chi preoccupa per lui e chi invece se ne
frega.” Gli picchiettò
sulla fronte “Sei un bravo ragazzo Zabini.”
“Ma se non
frequento mai casa
… Come può…”
“Mentre tentavi di non farti venire una sincope
all’idea di sederti sul bus mi
ha detto che lo ascolti e che l’ultima volta avete giocato
assieme … A quanto
pare non sei un fratello maggiore così terribile.”
Si sporse per leccargli il
cono guardandolo in un modo tale che Michel si dimenticò di
cosa stavano
parlando.
Dirk.
Fratelli. Giusto.
“Mi ricorda
… mi ricorda me
stesso.” Tirò via il gelato e lo finì
velocemente, onde evitare di farsi venire
un’erezione in luogo pubblico. Dal sorrisetto che
l’altro gli servì pareva che
se ne fosse accorto. “Spero solo che non faccia le mie stesse
scelte.”
“In fatto di
uomini?”
“Non fare
l’idiota.” Sbuffò.
Emil inarcò le
sopracciglia.
“Perché, sei pentito delle tue?”
“Non tutte
… alcune.” Non
aveva davvero voglia di parlare di quello in un parco baciato dal sole
con uno
schianto di ragazzo accanto. Ma si dava il caso che il suddetto ragazzo
fosse
in grado di capirlo molto bene. “… ho sempre
pensato che se avessi scelto il
lavoro di mio padre, che se avessi fatto carriera nel suo settore
… Beh, sarei
stato felice. Sono stato educato a perseguire il successo, come fine
ultimo,
come tutto. Ad ogni costo.” Fece una piccola smorfia,
gettando nel cestino il
cono del gelato. “Ultimamente mi sto chiedendo se
è ciò che voglio.”
“Se non sei felice
nel posto
in cui ti trovi adesso, cambia. Sei una persona, non una pila di
mattoni. Non
crollerà nulla se te ne vai.” Era il genere di
cosa che non faceva che dirgli
Loki, sebbene con altre parole e atteggiamenti. Ma il tono brusco e
perentorio
di Emil lo irritò meno che le quiete allusioni
dell’amico d’infanzia.
“Non
posso.”
“Cosa te lo vieta?”
Scosse la testa, sentendo il
familiare senso di panico e di vuoto che provava ogni volta che pensava
ad una
vita senza il Ministero, senza la scalata al potere o la ricerca
dell’approvazione di suo padre. Non ci rifletteva spesso, ma
di recente molto
di più.
“Potrei crollare
io.”
“Ti ricostruiresti da capo. Forse meglio.” Si
indicò con un cenno. “Guarda me. Le
hanno tentate di tutte per farmi diventare mago … mi hanno
pure rinchiuso nel
Centro.”
Il
centro?
Non era il caso di far
domande:
ormai aveva imparato a segnarsi mentalmente le allusioni che gli faceva
documentarsi in seguito, da solo. “Ho detto vaffanculo
… e sono cambiato.”
“Sei
Milo.” Intuì. “È per
questo che ti sei scelto un nuovo nome?”
“Rinascita dalle
ceneri … una
roba del genere, sì.” Si strinse nelle spalle,
sfregando la sigaretta sul bordo
metallico della panchina fino a spegnerla.
“Magari un po’ teatrale, ma ha
aiutato.”
“Ti penti mai
… delle scelte
che hai fatto?”
Emil rimase in silenzio per
qualche attimo, poi scosse la testa. “Sono la somma della
persona che sono
adesso … e ti dirò, mi piaccio
abbastanza.” Si passò una mano fra le ciocche di
capelli poco sopra l’orecchio. Era un gesto che non sarebbe
riuscito più a
vedere su nessun altro. “Certo, alcune scelte sono state
condizionate … Se c’è
una cosa che mi manca, della mia vecchia vita, è suonare su
un palco.” Si
appoggiò di nuovo indietro e chiuse gli occhi.
“L’adrenalina … i suoni delle
prove. Quella roba mi manca.” Aprì gli occhi.
“Il resto? Per niente.”
Fece un cenno di assenso con
la testa, perché altro non poteva fare; prima di conoscerlo
non gli era mai
passato per la testa di essere infelice perché non era nel
posto giusto.
Ero,
semplicemente. I giorni mi scorrevano davanti e
pensavo che essere il funzionario Zabini che andava per club due volte
a
settimana fosse tutto.
Non era mai stato niente.
“Vuoi mollare il
lavoro?”
Intuì guardandolo di sottecchi; aveva smesso di sorridere e
sembrava per
qualche strana ragione teso.
“Non lo
so.” Ammise. “Sarebbe
un fulmine a ciel sereno per tutti … compreso me. Non
è una decisione che posso
prendere su una panchina di Hyde Park.” Aggiunse nervoso,
strofinandosi le mani
con il fazzoletto per togliersi del gelato che se n’era
andato da un pezzo. “Fino
ad adesso non l’avevo neppure mai detta
ad alta voce.”
Quindi
non era reale.
Emil stava guardando
ostinatamente verso la partita dei bambini e per un attimo
pensò che gli
avrebbe dato dell’idiota per farsi sfuggire un posto sicuro e
occasioni di
carriera irripetibili.
“Forse ti
servirebbe una
vacanza … per svuotarti il cervello e farti riflettere. In
un altro Continente
o roba del genere.”
“Sì,
forse…” Convenne un po’
perplesso. Erano mesi che i suoi amici tentavano di propinargli
l’idea, Loki si
era addirittura spinto a proporgli di partire assieme per
l’America Latina.
Per
qualche suo traffico di sicuro…
… ma
lì era diverso dal
consiglio disinteressato; Emil era teso come la corda del suo violino.
“Vado a vedere
come se la cava
Dirk.” Non gli diede il tempo di ribattere, alzandosi in
piedi come se qualcuno
lo avesse messo sotto Imperio.
Corse dritto
verso il campetto improvvisato senza più degnarlo di uno
sguardo.
Ma
che è successo?
****
Note:
Qui
la
canzone del capitolo. ;D
|
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Capitolo 38 *** Capitolo XXXVII ***
Capitolo XXXVII
Un giorno qualcuno entrerà nella tua vita
e
ti farà capire perché non ha mai
funzionato con nessun altro.
(Bell
Hooks)
27
Luglio 2028
Londra,
Ministero della Magia.
Ufficio Auror, Mattina.
Prince probabilmente
l’aveva
scaricata.
Ama Gillespie si riteneva
una
persona abbastanza sveglia, e di solito era in grado di riconoscere una
battaglia persa in partenza.
Con
Prince ho creduto che non fosse così.
E forse si era sbagliata,
dato
che dal giorno del Memento, in cui
comunque le aveva a malapena rivolto la parola, non l’aveva
più degnata di uno
sguardo.
Vuole
scaricarmi ma non sa come.
Era infuriata. Avrebbe
voluto
prenderlo per il collo e scrollarlo finché non ammetteva di
essersi comportato
come un bastardo, ma si rendeva conto che se non poteva farlo con dei
sospetti
ancor meno poteva farlo con il ragazzo che le piaceva.
Era frustrante, ma non era
il
caso di pensarci quando era in servizio e con un caso che era una bomba
ad
orologeria tra le mani. Un caso che con buona probabilità si
stava avviando
alla conclusione, avendo trovato il covo di John Doe e compagna. Forse
pensare
a Sören era un modo per non pensare a quando si sarebbe
trovata davanti
l’assassino di suo padre.
Forse
molto più che forse.
“Quanto credete
che ci metterà
Prince a scendere giù?” Chiese Potter mentre
andava da un lato all’altro del
cubicolo come una belva in gabbia. “Le ramanzine di mio padre
non durano
tanto!”
… sarebbe stato
infinitamente
più semplice se il soggetto non si fosse trovato
però tra le quattro mura
dell’ufficio Auror, chiamato dal Capo in persona per un
incarico che lo
manteneva sì come civile ma comunque impiegato nelle
indagini.
“Dai, Jimmy, lo
sai che non
possiamo muoverci senza di lui.” Cercò di placarlo
Jordan. “Per accedere alle
mappe del castello serve l’autorizzazione del proprietario
… che guarda caso è
l’ultimo Prince vivente. Cioè lui.”
“No
Sören, no castello.”
Riassunse Malfoy mentre, stravaccato sulla sedia della scrivania,
tirava
palline di carta nel cestino. “Se ci pensate è
ovvio … un castello abitato da
Purosangue ha decine di incantesimi di Occultamento. Le mappe, la
metratura e
l’ubicazione non potevano che essere seppellite alla
Gringotts, lontano dagli
occhi dei comuni mortali. In fondo anche quelle del Manor
sono al sicuro nella nostra camera blindata.”
“E non potevi
ricordartelo
subito invece che far perdere tempo al Sergente e a Bobby?”
Lo apostrofò
stizzito Potter, che mordeva il freno da quella mattina. Dopo quasi due
mesi di
immobilità la svolta era papabile. Poteva capire la sua
impazienza.
“Non
importa.” Cercò di
stemperare gli animi. “Se io e l’agente Jordan non
avessimo fatto un viaggio a
vuoto al Catasto non avremo scoperto di dover andare alla Gringotts e
di aver
bisogno dell’agente Prince. A quanto pare ci sono dei limiti
anche per la Legge
Magica trans-continentale…”
“Con i Folletti ci
sono sempre dei limiti.”
Brontolò Potter
incrociando le braccia al petto e appoggiandosi alla scrivania
più calmo. A
volte sembrava che desiderasse esser richiamato all’ordine.
“E comunque il
Pipistrello è di nuovo trai piedi.” Aggiunse
estemporaneo, con una curiosa
espressione tra lo sberleffo e il sorriso. “È
proprio una testa di cazzo
coriacea!”
“L’ho
incrociato prima però …
non aveva una bella cera. Certo, manco io l’avrei dopo
l’incontro con quel
bastardo di Doe … l’ha stuzzicato come un gatto
col topo.” Osservò di rimando
Jordan guardandola con la coda dell’occhio come a cercar
conferma.
“Prince ha la
scorza dura,
come ha fatto notare coloritamente
l’agente
Potter.” Ironizzò mentre il ragazzo in questione
arrossiva. “Si riprenderà.”
“Mh,
sì, ma non credo sia solo
per il caso.” Si inserì Malfoy tirando
l’ultima pallina del suo nutrito
arsenale. Girò la sedia con un colpo di tacco e si
voltò verso di loro con il
luccichio del pettegolezzo che gli brillava negli occhi.
“Pare che siano anche
faccende di cuore.”
Oh,
fantastico.
“Cioè?”
Potter guardò il
partner con l’aria di cadere da un pero. “Prince ha
qualcuno che gli va dietro?! Chi
è la pazza?”
Eccomi
qui.
Malfoy ridacchiò
con gli occhi
pieni di divertimento: prendersi gioco del partner pareva una delle sue
gioie
più grandi. “Ti rendi conto che stai insultando
tua sorella, mio Potty, vero?”
“Ma che cazzo
dici?” Sbottò
questo con foga, saltando addirittura in piedi. “Mia sorella
non se la fa con
il Pipistrello, ha quel suo scozzese gigante!”
Il biondo dovette percepire
pericolo
tangibile nell’esplosione dell’altro
perché scrollò le spalle dismissivo.
“Non
credo che abbiano una storia o che vadano a letto assieme, ma Rosie mi
ha detto
che Roxanne le ha detto che lui e Lily sono in burrasca. Non ha voluto
dirle il
perché, ma sembrava roba grossa.”
Ah,
ecco. Le cose tra di loro si sono complicate.
Ora
l’atteggiamento sfuggente
dell’altro assumeva senso.
Un
senso deprimente.
“Mia sorella
sta…”
“Ho capito Potty, sta con Ross.” Convenne paziente
Malfoy con il tono di chi
dava ragione ad un matto irascibile. “Ma lei e Sören
hanno tutto quel loro
rapporto alla Ginevra e Lancillotto da anni, e sono inseparabili come
fodero e
bacchetta. Non credo quindi che i problemi di quel poveraccio si
limitino alla
sua famiglia psicopatica. Secondo Rosie c’entra anche tua
sorella.”
Potter fece per aprire bocca
e
ribattere, e a giudicare dalle orecchie rosse e
dall’espressione alterata ci
sarebbero state più imprecazioni che discorsi sensati.
Decise quindi di
intervenire. “Se l’agente Prince ha problemi
personali non credo che questa sia
la sede, né la compagnia adatta a discuterne. Sono affari
suoi.” Decretò
categorica, perché poteva aver voglia di affatturarlo, ma
non era giusto che i
suoi problemi venissero esposti in pubblica piazza.
“Era solo per far
due
chiacchiere…” Mugugnò Malfoy avendo
comunque il buongusto di sembrar
dispiaciuto. “Voglio bene a quel ragazzo, vorrei che trovasse
un po’ di pace e
una brava ragazza con cui godersela.”
“Che non è mia sorella.”
Ribadì Potter definitivo.
Definitivo fu davvero
perché
in quel momento li raggiunsero Prince e il Sergente Weasley. Il primo
era senza
uniforme, e come sempre Ama trovò strano vederlo in jeans e
camicia come un
ragazzo qualsiasi.
Non
mi abituerò mai a vederlo in borghese.
… forse quello
diceva molto
del futuro del loro rapporto.
Il Sergente, dopo averli
salutati con un omnicomprensivo cenno del capo, parlò senza
troppi preamboli. “Conoscete
le consegne. Prince verrà con due di voi alla Gringotts e si
farà aprire la
camera.” Fece cenno a lei e Bobby. “Andate
voi?”
Ama guardò
Sören e notò il
lieve irrigidimento della schiena, come l’immediato infilarsi
le mani in tasca.
Non aprì bocca però, né
tentò di farsi assegnare qualcun altro con una scusa
qualsiasi.
Questo
gli fa onore visto che preferirebbe guadare un
fiume pieno di Inferi che lavorare con me.
Non che sarebbe stata
così
gentile dal toglierlo di impaccio. Fu quindi con autentica
soddisfazione che
rispose. “Comandi Sergente.”
Se
devi darmi un due di picche, almeno fallo
guardandomi in faccia.
****
Londra,
Ministero della Magia.
Ufficio Cooperazione Internazionale, ora di pranzo.
L’invito a pranzo
di suo padre
l’aveva colto di sorpresa.
Michel firmò
l’ultima pila di
scartoffie della mattinata e mise a posto timbro e calamaio per poi
prendere il
proprio mantello e salutare la collega che ancora arrancava tra i
propri
compiti.
Ben
ti sta.
Lo pensò senza
vero motivo se
non per via del vago nervosismo che lo assaliva ogni qual volta suo
padre si
comportava come il genitore che avrebbe dovuto essere.
C’è
qualcosa sotto.
Non che non avessero mai
pranzato assieme, ma di solito era alla mensa dell’ufficio,
mai fuori.
Blaise Zabini non era come
Lord Malfoy, che pretendeva le attenzioni di Scorpius almeno due volte
a
settimana, spesso con la spiacevole conseguenza di dover mangiare in
chioschi
di hotdog Babbani di cui il figlio andava pazzo.
Forse era per quello che era
successo con Dirk: forse voleva assicurarsi che il suo prezioso erede
non fosse
stato contagiato dai costumi immorali del figlio maggiore.
Forse
semplicemente non lo so.
Raggiunse l’uomo
nel punto in
cui si erano accordati di aspettarsi, davanti alla fontana dei Tre
Fratelli, e
lo trovò inevitabilmente con l’occhio
all’orologio del taschino.
“Sei in
ritardo.” Fu il
saluto.
“Preferisco prima finire il lavoro che mi sono
prefissato.” Rispose misurando
il nervosismo, perché se avesse perso subito la calma
avrebbero finito per mettersi
a discutere in mezzo alla piazza.
E
stamattina Emil mi ha preparato la torta di mele.
Francamente non ho voglia di avvelenarmi una buona giornata.
L’uomo non
rispose, prendendo
la propria ventiquattrore e facendogli cenno di seguirlo. “Ho
prenotato al Clos Maggiore, spero
vada bene.”
“…certo.” Era il suo ristorante
preferito nella zona del Ministero, e suo padre
non vi aveva mai messo piede. Curioso quindi che lo conoscesse.
Forse
si è informato. Un paio di volte ci sono andato
anche con Lord Malfoy e Sy…
Rimasero in silenzio
finché il
maitre non li fece accomodare al
tavolo e portò il vino; Michel la sapeva più
lunga che cercare di intavolare un
discorso quando suo padre evidentemente ne aveva in mente tutto un
altro.
Rispose quindi alle vaghe domande sul lavoro e ne propose un paio sullo
stesso
tenore.
Il fuoco fu aperto poco dopo
gli antipasti.
“Dirk è
stato entusiasta della
giornata passata con te.” Esordì.
È
qui per ringraziarmi?
“Mi fa piacere che
si sia
divertito.” Fece spallucce; una parte di sé si
rendeva conto che un rapporto
padre-figlio non avrebbe dovuto essere un campo di battaglia. Bastava
vedere l’affetto
profondo che intercorreva tra Lord Malfoy e Scorpius nonostante le
differenze
di carattere, o la complicità tra Albus e il Salvatore dei
Mondi. Persino Loki
era affezionato a quello che chiamava ‘il suo irascibile
vecchio’ e non mancava
mai di passarlo a trovare quando era a Londra.
La verità
è che avrebbe potuto
amare suo padre se solo fosse stato corrisposto.
Ma
non lo farà mai. Il mio sangue Babbano glielo
impedisce.
“Tuttavia…”
Ecco, appunto.
“…
gradirei se durante la
prossima visita evitassi di portarlo a contatto con i Babbani. La cosa
lo ha
molto agitato.”
Non
poteva proprio lasciar correre, vero?
“Se per agitato
intendi
divertito sono d’accordo.” Ribatté,
perché tenergli testa era l’unico piacere
che potesse trarre da quegli incontri. “Ha giocato con altri
bambini, dov’è il
problema?”
“Dirk è
in un’età molto
delicata e suscettibile ad influenze, sia nel bene che nel male. Non
vorrei si
facesse delle idee sbagliate su chi è opportuno
frequentare.” Fece una pausa.
“Vuole tornare a giocare ad Hyde Park.”
“Non ci vedo nulla di male … Nessuna orribile
malattia lo ridurrà in fin di
vita. E sa cosa dire o non dire in presenza di persone non magiche,
glielo
avete insegnato bene.” Frecciò e non se ne
pentì neppure quando vide il lampo
di collera negli occhi del genitore. “Posso accompagnarlo di
nuovo se lo
desidera.”
“Non è questo il punto, Michel.”
L’uomo si nettò le labbra con un colpo deciso
di fazzoletto. “Io e sua madre vogliamo che
cresca…”
“Pensando che il mondo è ad uso e beneficio dei
maghi? Perché non è così. Le
cose sono cambiate da quando eri giovane tu, e imbottirgli la testa di
elogi
alla superiorità del suo sangue non lo aiuterà
quando arriverà ad Hogwarts. Affatto.”
Visto
che se non fosse stato per Albus sarei diventato
come quell’idiota di Montague.
Prima di conoscere Emil non
avrebbe affrontato così apertamente il problema, nonostante
per anni avesse
avuto prove schiaccianti che lo stato di nascita non era importante
quando si
trattava di valutare una persona.
Prima di Emil sapeva
quelle cose, ma non riteneva
importante dirlo, preferendo adagiarsi nello stereotipo del giovane
mago di
sangue puro e di vedute strette. Era sempre stato più comodo
ripetere la
lezione imparata da bambino che farsi vere domande e darsi delle
risposte.
Le
cose però sono cambiate.
Suo padre non
commentò la sua
sparata, preferendo guardarlo severo. “L’educazione
di Dirk non è affare che ti
riguardi.”
“Naturalmente.”
Ignorò la
rabbia che gli causarono quelle parole, come ogni volta che veniva
rimarcato,
anche per vie traverse, che non apparteneva al circolo esclusivo che
avrebbe
dovuto essere la sua famiglia. “Allora dovreste evitare di
scaricarmelo in
ufficio.”
“Se ti ha dato
fastidio
eviteremo…”
“Non è questo il punto!”
Abbassò subito la voce quando vide il cameriere
occhieggiare nella loro direzione. “Il punto è che
mio fratello…” Ed era la
prima volta che pronunciava quella parola con un po’ di
cognizione di causa. “…
ha come unica compagnia degli Elfi Domestici tutto il giorno. Si
annoia, e
quindi è naturale che trovi esilarante la compagnia di un
paio di piccoli
Babbani. Io almeno avevo Loki e Scorpius.”
Suo padre gli
lanciò un’occhiata
perplessa. “Questo è vero…”
Ammise.
Già,
da quando mi frega qualcosa di lui?
“Stiamo cercando
bambini della
sua età che possano fargli compagnia, ma Geraldine ha degli
standard molto
alti, e nessuno di noi due ha molto tempo da dedicare alla
cosa.” Lo graziò di
una spiegazione. Forse era ancora sorpreso dal suo intervento.
“Ma prenderemo
nota della tua osservazione.”
“Di
niente.” Ritorse con un
sarcasmo colloquiale che non sarebbe stato male in bocca ad Emil.
Suo padre non diede seguito
alla sua frecciatina nonostante la smorfia infastidita di cui lo
omaggiò, e
ripresero a mangiare nel più completo e scomodo silenzio.
“Non ti ho
invitato per
parlarti di Dirk comunque.” Soggiunse dopo qualche minuto e
l’arrivo del
secondo. Estrasse una busta dalla giacca e gliela passò
attraverso il tavolo.
Gli restituì un’occhiata perplessa ma la prese e
la aprì. “Di cosa si tratta?”
“Di una lettera di
raccomandazione per una promozione a funzionario di primo
livello.”
Dovette rileggere due volte
l’intestazione
della suddetta prima che riuscisse a recepire il messaggio.
La
promozione. Quella per cui hai lavorato questi
ultimi quattro anni e mezzo. E non a funzionario di seconda.
Direttamente di
prima. Un gradino sotto a tuo padre e Lord Malfoy.
Era nelle sue mani, nero su
bianco,
in volute di inchiostro che parlavano di lui e dei suoi meriti. E la
scrittura
era di suo padre.
Ammutolì.
“Sono fiero di te,
hai portato
onore al buon nome degli Zabini.” Continuò
l’uomo riuscendo a produrre anche un
vago sorriso. “Non credere che gli sforzi di
quest’ultimo periodo non siano
stati notati. Stai facendo un lavoro eccellente come funzionario di
collegamento e considerando le situazioni delicate che hai dovuto
affrontare una
promozione era all’ordine del giorno.” Il sorriso
prese una sfumatura ironica.
“Ti avevo detto che l’attesa di questi anni sarebbe
stata ripagata.”
Riuscire a mettere due parole in croce gli sembrava un compito
impossibile. “…
grazie.” Si limitò a dire con una voce ridicola da
ragazzino. “Io … non so cosa
dire.”
“Non c’è nulla da dire.”
Confermò riprendendosi la lettera. “Mi hai portato
dei
risultati. Come vedi, mantengo le mie promesse.”
Michel non rispose, sentendo
come se un Battitore avesse appena deciso che la sua testa era un
ottimo Bolide
con cui esercitarsi: aveva tra le mani il risultato al quale aveva
puntato per
tutti quegli e suo padre gli stava sorridendo. Era orgoglioso di lui.
Che
sta succedendo?
“Spedirò
la lettera alla
Direttrice Jones non appena avrò ottenuto la firma di Draco
… è d’accordo con
me fino all’ultima riga.” Aggiunse come a
rassicurarlo. “… poi le solite
formalità burocratiche. Dovrai aspettare la fine
dell’estate.”
“Non
c’è problema.” Scosse la
testa bevendo un forte sorso di vino per stabilizzare i nervi.
Suo padre annuì,
chiamando il
cameriere per chiedere il conto. “Voglio che sia chiara una
cosa però.”
Ecco, c’era un ma.
“Quale?”
Chiese comunque con
buona disposizione d’animo. Erano belle notizie quelle che
gli aveva portato
suo padre, non gli sembrava corretto mettersi sulla difensiva. Non
subito
almeno.
“Essere un
funzionario di
primo livello porta degli obblighi e dei compiti maggiori rispetto a
quello che
hai adesso. Fare questo lavoro significa prestigio, ma anche avere una
porzione
di vita privata molto limitata e sempre sotto il mirino
dell’opinione pubblica.
Dovrai apparire sui giornali, rilasciare interviste e intrattenere
rapporti con
Ministri e Diplomatici a volte coronati. Dovrai essere inattaccabile e
dedicato
al cento per cento.”
“Lo so.”
Annuì perché era un
patto che aveva stretto quando era entrato al Ministero: si era reso
conto
delle conseguenze in un secondo momento, certo, ma ora sapeva cosa
andava ad
affrontare.
È
quello che voglio. È quello per cui ho lavorato in
questi anni. Ho sacrificato tanto, ho perso tanto dei miei
vent’anni. Me lo
merito.
In fondo la confessione che
aveva fatto ad Emil era solo il risultato della sua frustrazione. Voleva quel posto.
Allora
perché non salti di gioia?
Suo padre, che non pareva
essersi accorto del suo rimuginare interiore, guardò il
conto con un’occhiata
distratta, prima di infilarvi accanto il proprio biglietto da visita e
ridarlo
al cameriere che si inchinò allontanandosi.
“Questo significa che non dovrai
più indugiare in frequentazioni che possano metterti in
cattiva luce.”
Aggiunse.
Sospirò perché l’allusione era ovvia.
“Al di là delle sue disavventure
personali, Loki è di ottima fami…”
“Sto parlando del Magonò che stai
frequentando.”
Fu come ricevere una secchiata di acqua gelida in faccia.
Sa
di Emil. Sa di voi due.
Realizzarlo e rendersi conto
di cosa realmente gli stava dicendo suo padre fu tutt’uno.
“Come…” Balbettò
senza riuscire ad organizzare una difesa di qualche sorta.
“Come lo
so?” Chiese con un
sorriso ironico che però non raggiunse gli occhi.
“Te lo sei sempre portato
ovunque, persino in ufficio o alle feste dei tuoi amici. E il fatto che
fosse
un Magonò era palese … quando è venuto
al Ministero non ha mai dovuto
depositare nulla, se non qualche Falce e un serramanico. Ho fatto un
paio di
domande … ho ricevuto delle risposte.”
L’espressione di suo padre era anodina,
ed era quindi possibile capire cosa pensasse dell’intera
faccenda.
Poteva immaginarselo
però.
“Lui…”
Tentò, perché doveva
spiegargli che Emil non era solo un
Magonò. Doveva difenderlo.
Doveva raccontagli della sua
dolcezza spigolosa, delle attenzioni che gli dedicava, di quanto fosse
intelligente e acuto e del modo meraviglioso in cui suonava. Doveva
gridargli che
ne era innamorato, e di come, in qualche incredibile e meraviglioso
modo,
sospettava di essere ricambiato.
Suo padre lo
fermò con un
cenno della mano. “Non mi interessa.” Disse molto
tranquillamente. “È un Magonò.
Cos’altro c’è da sapere?” Si
alzò facendosi portare il mantello e
drappeggiandoselo addosso. “Liberati di lui, e vedi di farlo
in fretta prima
che vengano a saperlo persone che potrebbero ostacolare o rendere nulla
questa
lettera. Draco stesso mi ha espresso le sue perplessità,
anche se gli ho
assicurato che è un capriccio passeggero.”
“Non è un capriccio!” Riuscì
finalmente a dire. “Non puoi chiedermi di
scegliere tra Emil e la promozione!”
Suo padre lo guardò con blanda sorpresa. “Non lo
sto facendo infatti.” Rispose.
“La decisione mi sembra già presa. Vuoi quel
lavoro o no?”
****
Diagon
Alley, Gringotts.
Ora
di pranzo.
La Gringotts era una banca
antica e magica, e come tale era un monumento allo sfarzo, tutta marmo
e
dettagli in oro, con pietre preziose grosse quanto pugni che ornavano
gli occhi
delle statue e i tavoli da lavoro dei Folletti. Quel genere di
strombazzamento
architettonico metteva a disagio, quindi Ama era stata ben contenta
quando erano
stati fatti accomodare in una saletta interna, più sobria,
dove il Folletto-banchiere
a loro assegnato li aveva invitati ad aspettare che tutte le
formalità fossero
espletate. Il problema comunque non era l’ambiente in
sé.
Siamo
io e Sören.
Jordan si mosse nella sua
posizione un paio di volte, prima di tentare l’ennesima
conversazione. “Quanto
credete che ci metteranno?” Chiese prima di ricordarsi che
entrambi erano
stranieri e non vi avevano quindi mai messo piede.
“… cioè, immagino un bel
po’. Sono lenti da morire … infatti si dice lento
come un Folletto!” Quando la
battuta venne ricompensata con un paio di sorrisi tirati
capì l’antifona e
chiuse le comunicazioni.
Dopo cinque minuti di nulla,
il
commesso tornò indietro e li squadrò uno ad uno
con aria arcigna. “È tutto in
regola.” Dichiarò “Venite.”
“Oh, adoro andate sotto…”
Borbottò di rimando Jordan che
aveva assunto un colorito poco invitante.
“Sotto?”
Il Folletto non parve
cogliere
l’ironia nel tono di voce del ragazzo e rispose invece alla
sua domanda.
“I documenti che
attestano il
possesso e l’ubicazione del castello del Signor Prince si
trovano nella camera
blindata 720, nel terzo girone.”
Infernale?
“Da quanto tempo
la mia
famiglia possiede una camera?” Chiese
l’interpellato facendo sentire la propria
voce per la prima volta.
“È una
delle più antiche. Non
avendo mai ritirato la chiave che le spetta, la troverà
com’è stata lasciata
dall’ultimo erede.”
“Mio padre.” Attestò.
“È stato l’ultimo ad aprirla?”
“Così
risulta dai nostri
registri.” Convenne la creaturina e non aggiunse altro,
guidandoli attraverso una
porta che si apriva su una galleria in discesa e illuminata da torce.
Lanciò
poi un fischio di richiamo: dopo pochi attimi arrivò
sferragliando un carrello,
in tutto e per tutto simile a quelli usati nelle miniere Babbane.
Dal
marmo alla nuda pietra. In Inghilterra amano i
contrasti.
“Questo intendevi
per scendere
sotto?” Domandò
a Jordan senza
riuscire a nascondere la sorpresa.
“La Gringotts si
sviluppa in profondità
… sotto è tutto un sistema di caverne, cunicoli,
gallerie, un paio di
strapiombi e curve … di quelle che ne sono proprio
tante.” Mormorò mentre si
asciugava il sudore con un fazzoletto. “Ogni volta che
accompagno mio padre rischio
di vomitare l’anima.” Soggiunse palesando il motivo
del suo sconforto. “Spero
non siate di stomaco debole.”
Ama si sentì in
dovere di
mettergli una mano sulla schiena e dargli un paio di pacche
confortanti. “Forse
è meglio se rimani qui, Robert.”
L’altro
tentennò, diviso tra
il dovere e il malessere. “Sono un auror, certe cose non
dovrebbero…”
“Non servono due di noi per accompagnare Sören.
Prendiamo le mappe e torniamo
indietro.”
“Beh, in questo
caso allora
torno in sala d’attesa.” Le sorrise grato.
Il Folletto non parve
apprezzare il cambio di piani. “Deve aspettare che uno dei
miei colleghi venga
a prenderla.”
“Sì, sì, conosco la
procedura.” Sbuffò il ragazzo prima di sorriderle
di nuovo.
“Buon viaggio.”
Quando si
affiancò a Sören
questo trasalì leggermente, ma si fece indietro per farla
passare. “Lascia che
ti dia una mano a…”
“Ce la faccio da sola.” Tagliò corto
saltando nel carrello: l’ultima cosa che
voleva era permettergli di fare il cavaliere per senso di colpa.
Sören fece una
smorfia
impercettibile, ma la imitò e quando il Folletto si mise al
suo posto le lanciò
un’occhiata di sottecchi. “Ama,
ascolta…”
Fortunatamente non dovette rispondere, dato che partirono a tutta
velocità.
Ama ce l’aveva con
lui e non
poteva biasimarla.
Non
sarò un esperto in relazioni romantiche … ma per
come l’ho trattata, è un miracolo che mi rivolga
ancora la parola.
Con tutto quello che era
successo con Lily, e con il fatto che non gli stesse tutt’ora
rispondendo,
aveva completamente messo in secondo piano la strega che aveva accanto.
L’ho
dimenticata.
E la cosa era un chiaro
campanello d’allarme sulla situazione.
Non
posso pensare di stare con lei se non penso mai a
lei.
Con un ultimo scossone il
viaggio lungo i tunnel della Gringotts si arrestò.
Sören scese con un sospiro
di sollievo, perché tutte quelle curve gli avevano
effettivamente rivoltato lo
stomaco come un calzino.
Perché
gli inglesi non possono avere banche normali?!
Osservò la porta
circolare che
lo separava dalla sua camera blindata: era vecchia, di ferro e
completamente
invasa dalla ruggine che riluceva rossastra alla luce delle torce.
L’ultimo
Prince venuto qui è stato mio padre.
Non si era mai occupato dei
lasciti di Elias, tornati a lui una volta assunto il cognome Prince,
come legge
magica prevedeva. Era sempre stato Milo ad amministrare tutto, dai
mobili agli
immobili.
Se
mi fossi interessato di più forse avremmo scoperto
molto prima del castello e dei suoi nuovi abitanti.
La cosa lo indignava e lo
riempiva di rabbia: non aveva mai conosciuto la sua famiglia da parte
di padre,
ma il loro sangue gli scorreva nelle vene, era una cosa sua.
E
loro sono riusciti ad insozzare anche questa.
“Quante chiavi
rilasciate per
famiglia?” Chiese
Ama distogliendolo dai
suoi pensieri, mentre il Folletto armeggiava con un grosso mazzo di
chiavi
attorno alla porta, probabilmente cercando quella giusta.
La creatura fece un sospiro
spazientito. “Una. Solo il capofamiglia può aprire
la camera, anche se può
delegare un familiare o una persona fidata. Un’altra copia
è tenuta qui, in
banca.”
“Ed è
quella che sta usando
adesso?”
“Esattamente
Sergente.”
“Dov’è
la tua?” Gli si rivolse
con il tono da poliziotto con cui l’aveva conosciuta.
Era più semplice
replicare a
quello che ad eventuali recriminazioni sulla sua condotta privata.
“Non l’ho
mai posseduta.” Rispose. “Milo non l’ha
ricevuta, gliel’ho chiesto, ne è
sicuro.” Fece spallucce. “Non ne ha comunque mai
avuto bisogno … l’eredità di
mio padre non è qui, ma alla Banca Federale Tedesca. Mio zio
gliela fece
trasferire.” Si guardò attorno.
“Probabilmente dentro sono rimaste le mappe del
castello e poco altro.”
Ama aggrottò le
sopracciglia.
“Com’è possibile che la chiave sia
sparita? Avrebbe dovuto essere assieme ai
documenti di successione. Tuo padre non se la sarà di certo
portata nella
tomba, non ti pare?”
Sören
aprì la bocca per
rispondere, ma non riuscì a trovare una spiegazione. E
capì che se non c’era,
qualcosa non tornava. In quel momento il Folletto fece scattare la
serratura ed
aprì la porta tirando energicamente per farla muovere. Ne
fuoriuscì una nube di
fumo viola e Sören lesse sorpresa negli occhi di
quest’ultimo.
“Cosa?”
Chiese brusco,
sentendo il cuore schizzare in gola.
“Dovrebbe essere
verde.”
Sören fece appena in tempo ad afferrare Ama ed il Folletto e
tirarli via. Poi
tutto esplose.
****
San
Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.
Dopopranzo.
“Dì un
po’, ti stai affezionando
a questo posto?”
L’atteggiamento
migliore da
adottare con i pazienti, di ogni età e rango sociale, era
quello di una persona
che non aveva un’incertezza nella vita e che ignorava la
naturale avversione
che il mago medio aveva per gli ospedali.
Come Guaritore Albus si era
sempre trovato bene con quella filosofia di vita, e quindi non se la
prese e
quando Sören invece di rispondergli gli restituì
un’occhiata raggelante.
Devi
far di meglio, tesoro. Vivo con Tom, che la
mattina ha sempre la faccia di uno a cui hanno schiacciato le dita
contro la
porta.
La ragazza fu più
gentile,
rivolgendogli un sorriso cortese e salutandolo.
“Buongiorno Ama,
sono Al e
sarò il tuo Guaritore durante la tua permanenza
qui.” La ricambiò presentandosi.
Diede poi una scorsa alla cartella: vide che a parte un polso rotto e
qualche contusione
non vi era nulla che richiedesse la sua attenzione e alzò
mentalmente gli occhi
al cielo.
Sören
ha il melodramma nel sangue. Come suo cugino.
“…nulla
di grave vedo.”
Aggiunse passandole la bacchetta sul braccio e attorno alla testa.
“Parametri
stabili, cosciente e un po’ dolorante, vero?”
“Non ha sbagliato
nulla.”
Confermò con un sospiro che tradiva esasperazione.
“Come ho detto ai medimaghi
che mi hanno portato qui si tratta solo di qualche graffio. Tutte
queste
premure non erano necessarie.”
“Sei svenuta.” Si intromise Sören come se
volesse dirne quattro ad entrambi. “E
sei rimasta incosciente per tutto il tragitto dalla Gringotts a
qui.”
“Succede quando
vieni
investita da un’esplosione.” Fu la replica
irritata. “Glielo dica lei,
Guaritore.” Aggiunse rivolgendosi a lui quasi fosse colpa sua
la testardaggine
del collega. “Sta reagendo come se fossi sul letto di
morte!”
“Sono semplicemente preoccupa…”
“Beh, non devi.”
Qualsiasi
cosa è successa, dubito che siano ai ferri
corti perché Sören fa la chioccia.
Ma non si poteva impicciare
sempre di tutto, quindi ripose la bacchetta nella tasca interna del
camice e
fece loro un sorriso rassicurante. “Nulla che un paio di
pozioni e un po’ di
riposo non possano aggiustare.” Confermò.
“Rimani comunque qui in osservazione
per la notte, Ama.” Aggiunse per buona misura. “Hai
battuto la testa, non è una
cosa da prendere sotto gamba.” Sören fece un
sorrisetto soddisfatto, quasi
avesse vinto una battaglia personale.“Tu
piuttosto?” Gli si rivolse cogliendolo
di sorpresa. “Tutto a posto?”
A
giudicare dalla fuliggine sui vestiti e dal taglio
che ti hanno curato sulla fronte eravate assieme quando è
esploso quel che è
esploso.
“I medimaghi mi
hanno visitato
sul posto.” Scrollò le spalle. “Sto
bene.”
“Anche se ha subito la maggior parte
dell’esplosione per proteggere me e il
Folletto.” Replicò Ama, quasi stessero giocando a
rinfacciarsi qualcosa.
L’atmosfera tesa perlomeno era quella.
Per buona misura diede una
controllata veloce anche a Sören, che per tutta risposta
cercò di rinculare
sulla poltrona. “Ho detto che sto…”
“Chi è il Guaritore qui?” Gli chiese
retorico. “Su, ci metto solo un secondo.”
Parametri vitali perfetti e si è
beccato
il contraccolpo di una detonazione … Chissà se
è stato il sangue che a
rimetterlo in sesto ancor prima che arrivassero i medimaghi.
La sua curiosità
era destinata
a rimanere insoddisfatta; firmò la cartella della Gillespie
e la rimise nel
contenitore ai piedi del letto. “L’esplosione
è avvenuta alla Gringotts?”
Chiese comunque per avere un quadro generale.
La strega gli
lanciò di colpo
un’occhiata attenta. “Tu sei Albus
Potter.” Realizzò e il sorriso garbato le
scomparve dalle labbra. “Il figlio di mezzo del Capo Potter
… quello che infila
sempre il naso dappertutto.”
Sören fece per intromettersi, ma non aveva bisogno di esser
difeso. Specie
quando era nel giusto. “La mia fama mi precede.”
Scherzò mitemente: con certe
categorie di persone, come gli agenti di polizia, mostrarsi docile era
di
solito la strategia vincente. “Do semplicemente una mano agli
auror quando
posso.”
Ama gli restituì uno sguardo poco impressionato.
“Quando potrò uscire di qui?”
Americani,
inglesi, tutti uguali … Se hanno un
distintivo, quando si spaccano la testa non vedono l’ora di
averla a posto per
farsela rompere di nuovo!
“Come ti ho detto
ti terremo
in osservazione per la notte.” Ripeté paziente.
“ Domani sarai libera di
tornare al lavoro.” Si rivolse poi a Sören, capendo
che dalla ragazza avrebbe
ottenuto al massimo rimostranze sulla sua permanenza in ospedale.
“Cos’è
successo?”
“La mia camera
blindata è
esplosa.”
Non
c’è mai pace sotto il Platano Picchiatore.
“E
perché?”
“Qualcuno ha messo
una carica
esplosiva vicino alla porta, e quando si è
aperta…”
“Prince, sono dettagli di indagine.”
Strattonò il guinzaglio colei che aveva
finalmente assunto il suo vero aspetto: cioè quello di una
megera.
Ci voleva ben altro per
farlo
rinunciare. “Quindi c’entra con il
Demiurgo?”
“Non ho detto
questo.” Rispose
quella sgarbata.
“Me l’hai appena confermato con il fatto che fa
parte dell’indagine.” Osservò
con innocenza, registrando l’affacciarsi di un sorriso
divertito sulle labbra dell’amico.
In compenso la strega parve
seriamente considerare l’idea di torcergli il collo.
“Ed è tutto quello che
saprai sull’argomento.” Decretò secca.
“I semplici cittadini devono stare al
loro posto.”
Semplici?! Se non fosse stato per me e
Tom non avreste mai scoperto metà delle cose che sapete sul
Demiurgo!
Sören gli rivolse una smorfia dispiaciuta, ma
sigillò le labbra finché non
bussarono alla porta. Fu James il primo ad entrare, notarlo e voltarsi
indietro
per parlare all’onnipresente Scorpius. “Ve lo
dicevo, io, che l’avremo trovato
qui a ficcanasare!” Esclamò.
“Sono il Guaritore di turno.” Ribatté
gelido trincerandosi dietro il camice:
del resto loro non facevano lo stesso con uniformi e distintivi?
“E non è
orario di visite.”
Scorpius fece capolino da un grosso mazzo di fiori che gli oscurava
metà faccia.
“Siamo solo qui per controllare che non ci abbiano fatto
fuori la quota rosa,
Mini Potter, stai sereno!”
Bobby chiuse la fila alzando
le mani in segno di resa. “Ho detto loro che c’era
già Sören con lei, ma non
hanno voluto ascoltarmi.”
Eccerto, quando si tratta di fare i
cavalieri chi meglio degli ex-Grifondoro?
James approfittò
del suo
silenzio per passargli un braccio attorno alle spalle e arruffargli i
capelli.
“Non prendertela, Sergente … il mio fratellino
è un impiccione di professione.
Ha una bella testolina, quindi di solito lo lasciamo gironzolare dove
vuole … l’abbiamo
abituato male, che vuoi farci.”
“Siete voi che siete nel mio territorio.” Ritorse
con l’inquietante certezza di
suonare come Tom. “E comunque mi informavo come
guaritore!”
“Sì, un paio di palle…”
Sbuffò James arruffandogli i capelli e andando poi ad
accendersi una sigaretta alla finestra. Solo quello diceva molto di
quanto la
situazione fosse grave: suo fratello non fumava mai in servizio.
“Non hai altre
visite da fare? Smamma!”
Si sistemò i
capelli ormai
inevitabilmente impazziti. “Dillo ancora e vi faccio cacciar
fuori dal servizio
di sicurezza.”
Posso
giocare secondo le regole anche io, se voglio!
James lo ignorò,
emettendo un
sospiro lamentoso. “Vedi Ama? Questo
è
un Serpeverde … quando vuole qualcosa, non chiede.
Ricatta.”
“Ma collabora
anche
all’indagine.” Aggiunse Scorpius, che era un bravo
ragazzo e stava cercando di
sistemare i fiori senza rovesciarli sul comodino. “Quindi
possiamo parlare
liberamente in sua presenza. È una specie di …
consulente.”
La strega parve poco
convinta,
ma poi scosse la testa in segno di resa. Non doveva esser la prima
volta che si
scontrava con la modalità creativa con cui i ragazzi
seguivano le regole. “Ho
smesso di voler capire come funzionano le cose qui da voi.”
Disse infatti e poi
si voltò verso Jordan. “Che dice il
laboratorio?”
Questo si sedette sul ciglio
del letto. “Si è trattato di un ordigno esplosivo
magico, roba sofisticata, non
del genere polvere da sparo e una miccia, ecco.”
Tirò fuori il fedele taccuino
dalle falde del mantello e lesse. “La camera era piena di
gas, e non appena è
stata aperta questo si è sprigionato, facendo reazione con
l’aria presente
fuori e…”
“Boom.”
Riassunse Scorpius. “…non si
è salvato niente.” Esitò per via di
Sören, che però pareva del tutto
estraniato. Sembrava parlassero di un’altra camera blindata,
e non dalla sua,
da come non fece una piega.
“Quindi abbiamo
perso le
mappe.” Si limitò ad attestare, e fu allora che Al
si accorse di quanto a fondo
teneva le mani seppellite nelle tasche.
Ah,
già. La sua mano bacchetta…
“Sono rimasti solo
coriandoli.
Letteralmente.” Gli
rispose James
estraendo dalla tasca del giubbotto un sacchetto di plastica e
gettandolo sul
letto. Era pieno di pezzetti di carta della grandezza massima di
un’unghia. “Tutto
quello che si è salvato.” Concluse amareggiato.
“Come diavolo
hanno fatto a
piazzare un ordigno esplosivo là dentro?!” Ama
Gillespie era ad un passo
dall’alzarsi in piedi e prendere a sberle qualcuno dalla
faccia che aveva.
Temendo per la sua incolumità si spostò dietro la
mole rassicurante di Scorpius.
Il biondo, accortosi della
sua
strategia, ridacchiò, ma poi tornò serio e disse
la sua. “A regola la Gringotts
dovrebbe essere la banca più sicura d’Europa.
Almeno così dice mio padre…”
“Le carte in
tavola cambiando
se hai una chiave autentica e la capacità di cambiare
aspetto senza usare
incantesimi o pozioni.” Il tono di voce di Sören era
basso e pacato, ma ebbe il
potere di farli tutti ammutolire. “Doe aveva la chiave, ma il
Folletto ha detto
che mio padre era l’ultimo ad averla usata.”
“Ha preso le sembianze di tuo padre!”
Realizzò Ama. “Siamo stati degli idioti
…
avremo dovuto chiedergli a quando risaliva l’ultima
apertura!”
“Non potevamo saperlo … Ma loro sapevano che
saremo andati alla Gringotts.”
Sören si alzò in piedi e si diresse verso la
finestra. Sorpreso, Albus vide
James fargli spazio con naturalezza, e senza smorfie da ragazzino
scemo. “Sono
sempre un passo avanti a noi. A questo punto è ovvio,
c’è una talpa in uno dei
nostri Dipartimenti.” Concluse con lo sguardo fisso nel vuoto.
“Hanno avviato le
indagini,
Sören…” Tentò Ama e la vide
indugiare nell’idea di toccargli il braccio, salvo
poi ritirare la mano quando questo si voltò verso di lei.
“Non
basta.” Fu la replica
tetra.
“Non perdiamoci
d’animo!”
Esclamò Scorpius riuscendo a suonare convincente nonostante
l’atmosfera
avvilita. “Ci saranno altri modi per trovare il castello,
no?”
“Di certo meno
facili.”
Borbottò James, ma ad un’occhiata del compagno si
schiarì la voce. “Comunque li
troveremo. Non ci arrendiamo di certo, siamo ad un passo da sbatterli
al fresco
per sempre!”
Sören non rispose,
ma parve
leggermente rincuorato da come smise di contemplare il suo infinito
interiore.
“Posso
… averli?” Chiese
inserendosi nella conversazione. Era rimasto zitto fino a quel momento,
assorbendo informazioni, ma era arrivato il momento di fare la sua
mossa. Se le
cose si stavano davvero muovendo, voleva esser parte della corsa.
Indicò la
busta. “I pezzi della mappa intendo.”
“E che te ne fai, Albie? Sono inutilizzabili, non si legge
niente!” James
scosse la testa. “Pensi di far meglio dei ragazzi del
laboratorio?”
Fece due brevi calcoli e
aggiunse ad essi la meticolosità al limite della patologia
del proprio compagno.
“Potrei in effetti, dopotutto ho anche io un laboratorio a
disposizione.”
Quello
di Tom.
Fu contemplato in vari gradi
di incredulità, tranne Sören che lo
guardò come se trovasse del tutto
ragionevole credergli.
Adorava Sören.
“C’è
qualcuno nella vostra
famiglia che non è in delirio di onnipotenza?”
Rise Scorpius prendendo la busta
e tendendogliela con una strizzatina d’occhio.
“Cavolo, siete unici.”
Al se la rigirò tra le mani. “Meglio non lasciar
niente di intentato, no?”
“Sì,
sì. Ora va a fare quello
per cui sei pagato però, prima che il Sergente ci denunci
alla commissione
disciplinare.” James lo prese per le spalle e lo spinse fuori
dalla porta, ma a
quel punto aveva già ottenuto ciò che voleva.
“Buon
lavoro!” Li salutò
allontanandosi. Era soddisfatto, ma più gradevole ancora era
constatare di aver
fatto rimanere la megera con un palmo di naso.
Semplice
cittadino un accidenti!
Estrasse il cellulare dalla
tasca del camice – al San Mungo ancora non lo consideravano
una distrazione sul
lavoro, forse perché il consiglio direttivo era composto da
vecchietti che lo
chiamavano feletono – e
richiamò
vocalmente il numero che gli serviva.
“Non è
un mio problema!” La
voce di Tom lo accolse nel suo miglior sibilo irato.
“E non ho ancora
detto una
parola!”
“Non
è…” Lo sentì spostarsi,
forse da un lato all’altro del negozio da come sentiva la
voce concitata di un
uomo di sottofondo e il tono conciliante di Stevens subito dopo.
“… ero con un
cliente.”
“È un miracolo che il povero Rupert non sia ancora
fallito.”
Tom sospirò. “Cosa
c’è?”
“Ho un nuovo
lavoretto dall’ufficio
Auror.”
Poteva sentire il sorriso di
Tom anche a quella distanza. “Sta diventando una droga,
mh?”
“L’ho
ottenuto in maniera
legale, me l’hanno commissionato Jamie e gli
altri.” Ribatté appoggiandosi al
muro e stiracchiandosi: la voce di Tom dopo tante ore di reparto gli
faceva
l’effetto di un lungo bagno caldo. “Spero tu abbia
voglia di fare un puzzle.”
“L’importante è che non mi porti a
contatto con James, per il resto sono a tua
completa disposizione.”
“Certo che lo sei.” Mormorò e fu certo
di sentirlo ispirare e alzarsi dalla
sedia dove si era seduto. Sogghignò soddisfatto.
“Mi aspetti a casa?”
“Non fermarti a
chiacchierare
come tuo solito.”
Chiuse la chiamata appena in
tempo per vedere Lily apparire in cima al corridoio, guardarlo,
guardare la porta
da cui era uscito … e poi tornare indietro precipitosamente.
Eh?
“Lils!”
La chiamò indietro, e
quando questa non diede segno di averla sentito gli andò
dietro. “Ehi!”
Sua sorella conosceva le sue reazioni come le tasche del suo mantello,
perché
non appena svoltò l’angolo se la trovò
davanti che lo aspettava. “Sei curioso
come uno Snaso, fratellino.” Lo apostrofò con un
sorrisetto placido. “Questa
tua brutta abitudine di inseguire le persone un giorno potrebbe
ritorcertisi
contro.”
“Già fatto.” Tagliò corto
incrociando le braccia al petto. “Cosa ci fai qui?”
E
perché mi hai attirato lontano dalla camera della
Gillespie?
“Un giro per
sgranchirmi le
gambe?” Suggerì con aria innocente.
Ma
per favore.
“Sören
sta bene, non è lui ad
esser stato ricoverato.” La seccò sul posto.
“Anche se a questo punto dovremo
farlo mascotte dell’ospedale visto che è qui
almeno una volta a settimana.”
Lily abbandonò la messinscena e si mordicchiò un
labbro, cincischiando con i
bordi del camice. “Mi hanno detto … che
c’è stata un’esplosione e che era
là in
mezzo…”
“Solo qualche graffio superficiale.”
Scrollò le spalle. “Perché non vai a
vedere come sta se non ti fidi? È dentro con gli altri, ma
dato che non
dovrebbero neanche star là a far
comunella…”
“No, meglio di no.” Lo interruppe frettolosa. Poi
aggrottò le sopracciglia. “E
poi è la Gillespie l’altro agente, no?”
“Beh,
sì.”
“Comunque ho da
fare.”
Non poteva starsene zitto.
Cioè, avrebbe potuto … ma non sarebbe stato da
lui. “Senti, sono affari tuoi,
ci mancherebbe, ma tra te e Sören…”
“Appunto.” Lo bloccò di nuovo, stavolta
seccamente. “Sono affari
miei.” E detto questo girò i tacchi e lo
lasciò con un
palmo di naso.
Albus sospirò:
non se lo
ripeteva mai abbastanza, ma doveva esser grato a Merlino di avere a che
fare
con le donne solo come sorelle e amiche.
In caso contrario, temo impazzirei.
****
“Posso
portarti qualcosa? Del the?”
Un’altra domanda su quel tenore e avrebbe schiantato
l’idiota che rispondeva al
nome di Sören Elias Prince. Ama non si riteneva una tipa
paziente, ma se c’era
una cosa che la mandava fuori dai gangheri senza possibilità
di ritorno era
esser trattata con i guanti bianchi.
“Non voglio niente.” Disse valutando
seriamente
l’opzione violenza fisica. Non ne poteva più, e il
dolore al braccio e le
contusioni di cui era costellata non miglioravano la situazione.
“Anzi, una
cosa la vorrei.”
“Cosa?”
“Che ti levassi dai piedi!”
Sören serrò le labbra, come un bambino che era
stato sgridato e non capiva il
motivo. Da quando gli altri agenti se n’erano andati era
rimasto inchiodato
alla poltrona degli ospiti con un’ostinazione incomprensibile
visto che non mai
aperto bocca per parlare della loro situazione: solo per chiederle se
poteva
essergli d’aiuto.
“Ama…”
“Cosa?”
Lo apostrofò esasperata. “Piantala di fare quella
faccia da
cane bastonato e sputa il rospo!”
Si rendeva conto di non dover essere così aggressiva, visto
che non avevano
nulla in ballo, se non due baci e qualche tentativo goffo di
rapportarsi fuori
dalle loro uniformi.
E
che mi piace. Mi piace quanto mi dà il nervoso.
Era frustrante
perché non
riusciva mai a raggiungerlo: per quanto avesse tentato di dimostrarsi
amichevole, disponibile … nulla sembrava scalfire la corazza
fatta di
educazione e ansia dell’altro. E doveva ammettere che anche
durante il loro
appuntamento aveva avuto la stessa impressione; come se Sören
fosse lì, a
sorriderle, pagarle il gelato e baciarla, ma al tempo stesso fosse
distante
miglia.
Così
impari a prenderti una sbandata per un tipo
innamorato di un’altra.
Sören, rimasto in
silenzio
fino a quel momento torcendosi le mani, aprì bocca. La
richiuse. Poi finalmente
parlò. “Io …”
Iniziò facendosi coraggio. “… io non so
come comportarmi in queste
situazioni.”
“E queste
situazioni
sarebbero?”
“Io … e
te.” Scosse la testa e
per un momento Ama ne ebbe quasi pena, a vederlo arrovellarsi con tanta
insoddisfazione
solo per piantarla. “Non ho mai
imparato…”
“Queste sono scuse.” Tagliò corto,
perché non potevano continuare in quel modo.
Se dovevano lavorare assieme era meglio mettere un punto, visto che
già il
povero Robert ne aveva sofferto le conseguenze. “Fatti dire
come stanno le
cose. Abbiamo passato un bel pomeriggio assieme, ci siamo baciati e poi
mi hai
buttato nel dimenticatoio. Il motivo non lo so, ma la tua inesperienza
non
c’entra.”
Sören
abbassò lo sguardo con
aria così avvilita che dovette ricordarsi per
l’ennesima volta che ce l’aveva
con lui. “Non era mia intenzione
illuderti…”
Alzò gli occhi al
cielo,
perché c’era poco da fare: aveva di fronte il
tizio più senza speranza della
storia. “L’illusione lasciala ai romanzi
d’appendice.” Gli rispose spiccia.” Non
avevamo nessun impegno l’uno con l’altra, stavamo
solo testando le acque … Abbiamo
provato e non è andata. Succede. Non ce l’ho con
te per questo.”
Sören si arrischiò ad alzare la testa.
“Allora perché sei arrabbiata?”
“Perché
non ti sei preso
neanche il disturbo di dirmelo!” Esclamò
incredula: possibile non avesse neppure
capito perché quella conversazione si stava svolgendo ad
urla – le sue? “Potevi
avvertirmi che non eri più intenzionato ad uscire con me
invece di ignorarmi!”
Sören
aggrottò le
sopracciglia, con una confusione così palese dipinta in
faccia che avrebbe
voluto prenderlo a sberle. Forse aveva fatto il passo più
lungo della gamba a
pensare di poterci avere un rapporto funzionale.
Non
capisce neanche l’abc di un corteggiamento. Aveva
detto di non avere esperienza, ma così…
“Quindi sei
arrabbiata solo
per quello?”
“E ti pare
poco?!”
Deglutì
rapidamente. “No,
assolutamente no.” Si affrettò a dire.
“Mi sono comportato in maniera orrenda e
ti chiedo scusa.” Esitò. “Posso
chiederti scusa in questo caso, no?”
Ama ricordò la
conversazione
avuta prima che partissero entrambi per l’Inghilterra e
dovette frenare un
mezzo sorriso all’idea che avesse avuto significato non solo
per lei. “Mi pare
il minimo.”
L’altro
annuì un po’ più
rincuorato. “Bene … perché mi dispiace,
sul serio. Sono successe un sacco di
cose, e… non che questa sia una
giustificazione…”
“Lo
è.”
“Sì, ma ha il pregio di esser la
verità.”
Ama sospirò: no, non poteva biasimarlo per aver perso la
bussola in quei
giorni. Al posto suo di certo avrebbe dimenticato tutto e tutti.
Solo
che pare che tu abbia perso la testa anche da
un’altra parte.
“Quindi? Vuoi
dirlo o te lo
devo cavar fuori con le pinze?”
Stavolta Sören
cercò il suo
sguardo, e diavolo, una volta che si fosse trovato una strega capace di
sciropparselo, l’avrebbe fatta diventare matta con quegli
occhi scuri e
profondi. “Non credo di essere la persona giusta per te,
Ama.”
“Ti sei ritirato presto dalla competizione.”
Frecciò, ma senza troppo livore.
La delusione sarebbe passata, e i suoi sentimenti … beh,
avrebbero preso
un’altra direzione.
Dopotutto,
si porta dietro un po’ troppi guai per una
ragazza sola.
C’era una pulce
che doveva
togliersi dall’orecchio però. “La Potter
in che misura c’entra?”
L’espressione
dell’altro fu
emblematica da come arrossì e si guardò le mani
come se contenessero la gemma
più preziosa del mondo.
Preferirmi
quella sciacquetta prepotente … Bah, perdita
sua.
“Abbastanza
… molto.” Ammise
sincero. “Le cose si sono complicate e … non
riesco a smettere di pensare a lei
anche se forse non c’è futuro.” Ammise
piano, quasi avesse paura di svegliare
un drago.
Penso
che continuerò a fargli paura per un bel po’.
E la cosa la divertiva
nonostante tutto. Sören non l’aveva mai vista come
una femmina troppo
aggressiva che si voleva avvalere di un potere che non le spettava.
Ha
paura di me perché sono io, punto e basta.
Forse era questo uno dei
motivi per cui se ne era invaghita.
“Quindi vi siete
messi
assieme?”
“Cosa?”
La guardò come se
fosse l’idea più assurda del mondo. “No,
no … non è quello.”
Oh,
Cristo santo.
“Senti,
normalmente non do
consigli a chi mi ha preferito ad un’altra, ma…
risolvila. Questa storia con
lei. Una volta per tutte.” Lo rimbrottò,
perché dopotutto le veniva più
naturale trattarlo come un ragazzino che come un possibile amante.
“O te la
trascinerai dietro per tutta la vita e ti precluderai la
possibilità di trovare
la ragazza giusta.”
“E se fosse lei?
Se fossei lei
… la ragazza giusta?”
Premio
per la costanza allora.
Incredibile
comunque. Do consigli di cuore all’idiota
che mi ha appena dato un due di picche.
Alzò gli occhi al
cielo,
perché anche il suo lato materno aveva dei limiti.
“Ti pare il caso di
chiederlo a me?”
“ …
immagino di aver commesso
una gaffe.”
“Più di
una!”
Sören si morse
ancora un po’
le labbra, poi finalmente decise di alzarsi. “Ti
suonerà ipocrita e … puoi
benissimo rifiutarti, ma…” Esordì.
Ama lo stoppò
prima che ci
mettesse cinque minuti e un panegirico per dirlo.
“Sì, Sören, possiamo essere
amici.” Scosse la testa al sorriso pieno che
spuntò sulle labbra dell’altro.
Diavolo, se era carino. Ora sì che si meritava una sberla.
“Anche perché,
diciamocelo, forse alla fine sarei stata io a piantare te. Sei
insopportabile.”
Concluse, perché doveva uscire con l’amor proprio
meno ammaccato possibile.
“Me ne rendo
conto.” Convenne
tutto tranquillo quasi non l’avesse insultato, poi si mise
sottobraccio la
giacca e le tese la mano. “Grazie … ho passato
davvero dei bei momenti con te,
ti prego di non dubitarne.”
Ama gliela strinse e
sbuffò al
baciamano che ne conseguì, anche se sciolse
l’ultimo cubetto di ghiaccio che
aveva nell’animo.
Stupido,
splendido ragazzo d’altri tempi.
“Levati dai piedi
e non farmi
più perdere tempo, Prince.” Sbuffo, e fu una
vittoria personale restare con gli
occhi asciutti finché l’altro non ebbe chiuso la
porta.
****
Diagon
Alley, Casa di Al Potter & Tom Dursley.
Pomeriggio.
“Stavolta ti sei
superato,
Potter.”
“In meglio o in peggio?”
“Indovina.”
Albus non rispose, passando le dita lungo la curva del collo del suo
compagno
di malefatte preferito: collo, clavicola, giuntura, avambraccio
… ad occhi
chiusi, adorava ripassare le ossa con il suo scheletro personale.
Tom gli baciò la
nuca,
aspirando profondamente chissà cosa, e trovandone gradimento
da come vi premette
anche i denti.
“Ahi!”
“Se ti do fastidio alzati.” Gli suggerì
senza aver la minima intenzione di
liberarlo da quella prigione di gambe e di braccia in cui erano
avvolti: dalle
finestre filtrava poca luce, la solita del grigiore londinese, ma le
tende
beccheggiavano ad un vento fresco e leggero che portava odore di lemon curd e dolci appena sfornati dal
panificio poche case più sotto.
Questo
mi ricorda che ho voglia di scones. Ma chi ha
voglia di alzarsi?
Era così raro
poter passare un
pomeriggio in quel modo. Piacevole, persino con il sudore che si
raffreddava
sulla pelle, e con l’impianto stereo che diffondeva a basso
volume musica che
piaceva ad entrambi.
I wanted to walk through the
empty streets
But all the news reports recommended that I stay indoors
Affondò il viso
nel materasso
e buttò fuori un lamento sentito. “Mi stai sopra,
come faccio?”
“Chiedimi di
alzarmi.”
“Mh, no.”
Contatemi
trai pochi prigionieri che non anelano alla
libertà.
Sdraiato a pancia in
giù tastò
tra le lenzuola finché non trovò la propria
bacchetta. Notandolo, Tom gli morse
la spalla, premendogli un ghigno sulla pelle.
“Sei insaziabile,
Potter.”
“Scemo.” Replicò Appellando la busta di
plastica che conteneva le mappe del
castello: dentro centinaia di pezzi giallognoli e minuscoli di
pergamena. “Tornando
al discorso di prima … in peggio.”
Decretò. “Mi sono superato in peggio.”
“Come, sei in grado di ricomporre le membra di un mago ma non
una pergamena?”
Lo prese in giro continuando con l’esplorazione del suo basso
schiena.
Ah, quando Meike non c’è,
gli ormoni
ballano…
“Per questo chiedo
l’aiuto del
mio ossessivo-compulsivo preferito.” Mandò la
busta a ballonzolargli sulla
testa, e suo malgrado Tom la afferrò per darvi
un’occhiata.
“Rimango del mio
parere, è un
lavoro inutile.” Gli fece notare infastidito buttandola a
lato. “A parte
tirarli ad una festa non vedo come possano essere ancora
utili.”
“Davvero non vuoi
darmi una
mano?”
“No.”
Tom era interessato al
Demiurgo come e forse più di lui, ma diventava terribilmente
svogliato quando
una cosa non aveva soluzione immediata, o anche peggio, non lo
stimolava
intellettualmente.
E
in effetti, ricomporre questa roba sarà una noia
assurda.
“Pensa al Bene
Superiore.”
Pronunciò con tono serio e profondo, ridendo quando
l’altro fece una smorfia
come se avesse masticato qualcosa di cattivo. Si voltò sulla
schiena per
allacciargli le braccia al collo. “Non lo ammetti ma ti piace
fare la parte
dell’eroe!”
“Gli eroi sono
idioti con un
tasso di sopravvivenza ridicolo.” Mormorò
avvicinandosi con l’intento di
baciarlo. Per tutta risposta spostò la testa finendo per
farsi baciare la
guancia. “Al.”
Lo ammonì con un tono
a metà tra la minaccia e la supplica. “Non siamo i
galoppini del DALM.”
“No, ma siamo
bravi a lavorare
dietro le quinte. Molto
bravi.” Gli
fece notare picchiettandogli sul petto e togliendo la mano appena prima
che
gliela schiaffeggiasse via irritato. “Mi avevi detto che mi
avresti aiutato…”
“Non pensavo mi
avresti
chiesto di ricostruire pezzo per pezzo una mappa di un posto che non ho
mai
visto.”
“Abbiamo scoperto
una malattia
di cui non avevamo mai sentito parlare!”
“Quella è intelligenza.” Fu la replica
sostenuta. “Questa è follia. Non so
nulla di mappe.”
Non
è che abbia tutti i torti.
“Questo non
è vero.” Non si
diede per vinto: qualcosa gli diceva che tutta quella carta maciullata
aveva
ancora qualcosa da dirgli . “Mappa del Malandrino?”
“Era di un posto che conoscevamo.”
“Hogwarts? Hogwarts che
cambia il
proprio perimetro a suo piacimento? Sono riuscito a perdermi anche
all’ultimo
anno!”
“Ti perdi anche
quando
facciamo la spesa.”
“Comunque.”
Tom storse le labbra
nell’ennesimo tentativo di opporsi, ma in un letto, senza
vestiti e con la
certezza di non avere Meike trai piedi per le prossime ore era in una
posizione
di debolezza smaccata.
“Per
favore?”
Per tutta risposta
l’altro cercò
di afferrare la busta con l’anelito di disfarsene.
C’erano indubbi lati
positivi nel conoscere una persona profondamente: lo batté
sul tempo e
l’afferrarono in contemporanea.
“Al.”
“Tom.”
Mantenne il punto. “Non vuoi catturare i cattivi?”
Produsse
il suo miglior sguardo deluso, con tanto di ciglio tremulo: sarebbe
stato di
lacrima facile fino alla tomba, tanto valeva sfruttare la cosa.
“Pensavo
fossimo insieme in questa faccenda.”
L’altro
aprì bocca per
protestare, ma allo stesso tempo mollò la presa sulla busta.
Si risolse infine
a incenerirlo con un’occhiata. “Una volta ti avrei
convinto a lasciar perdere…”
Borbottò per mantenere la posizione. Nel frattempo
però si alzò anche a sedere
e cercò i propri pantaloni.
Fa
tanto lo svogliato e poi sarà il primo a lavorarci
sopra. Guardalo, già pensa a come trovare una
soluzione…
“Ti amo, lo
sai?”
“Va’
all’inferno, Potter.”
Capiva la sua poca voglia
però. Lavorare dietro le quinte significava, spesso e
volentieri, non veder il
proprio lavoro riconosciuto. Alla fine dei giochi sarebbero stati gli
Auror ad
esser portati alla ribalta con corone e allori, e a loro sarebbe stata
data
qualche pacca sulla spalla.
Era suo dovere quindi
coccolarsi
e coccolare il compagno. Gli accarezzò la schiena
affettuosamente, posandoci un
bacio proprio al centro. “Lo sai che senza di noi avrebbero
il triplo delle
domande e metà delle risposte? Non lo riconosceranno mai,
ma…”
Tom sbuffò.
“Preferirebbero
gettarsi nelle fiamme piuttosto che proclamare la loro pigrizia
mentale.”
“Non basto io a
proclamare il
tuo indiscusso genio?” Lo prese in giro, ma neanche tanto.
“Perché, sul serio,
a volte sarei perso senza di te.”
“A
volte?”
“Raramente.”
Tom borbottò
qualcosa trai
denti e lo ribaltò, schiacciandolo tra lenzuola, cuscini e
se stesso. Rise, perché
non sarebbe mai riuscito a capire come il compagno facesse mosse tanto
dispotiche e riuscisse comunque a risultare tenero.
Sì,
beh, forse solo a me.
“Non sarei stato
così
sfacciato con Jamie se non avessi avuto la certezza di avere un ragazzo
amorevole e capace al mio fianco.” Disse avendo comunque cura
di afferrargli il
braccio con cui lo teneva fermo per piantarci le unghie. Mai
arrendersi. “Vedrai, ne tireremo fuori
qualcosa…” Lo blandì.
“Lo facciamo sempre.”
“A
volte.” Lo imitò.
“Sempre.”
Corresse, allentando
la presa sul braccio perché Tom aveva fatto lo stesso.
“Come ho bisogno di te.
Sempre. Me lo volevi proprio far dire, eh?”
Bisognava sapere quando dare
la stoccata finale. L’espressione del suo impossibile amore
infatti si
ammorbidì. “Sì.” Lo baciò prima
di
alzarsi. “Vado a mettere il bollitore sul fuoco.”
Albus lo lasciò
andare,
sorridendo e chiudendo gli occhi mentre si abbandonava trai cuscini:
avrebbe
fatto passare qualche altro minuto prima di chiedergli di scendere a
comprare degli
scones per accompagnare il the.
****
Note:
Lo so, lo
so, avevo promesso la svolta in questo capitolo. Ma di mezzo
ci
s’è messa un bel po’ d’azione.
E comunque, alcune cose da chiudere e per questo
ho voluto dividerlo in due parti, in due giorni diversi.
Prometto prometto prometto che nel
prossimo ci sarà il battesimo e un po’ di roba
grossa Lily/Ren. Il confronto,
insomma. Da lì è tutto in
discesa. O quasi. De-eh.
*fugge*
Questa
la
canzone del capitolo. Questa
quella ascoltano Al e Tom.
|
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Capitolo 39 *** Capitolo XXXVIII ***
Capitolo XXXVIII
Mettersi ad amare qualcuno è
un’ impresa.
Bisogna
avere un’energia,
una generosità, un accecamento.
C’è
perfino un momento, al principio, in cui bisogna
saltare un precipizio:
se
si riflette non lo si fa.
(J. P.
Sartre)
28
Luglio 2028
Scozia,
Hogsmeade.
Casa
di Ted e James, Mattina.
“Sei sicuro di non
voler
venire al battesimo?”
James si sentiva un po’ scemo a chiedere tante volte la
stessa cosa: se lo
faceva durante un interrogatorio era un conto, ma farlo con Ted che lo
stava
guardando con l’aria del professorino detentore di certezze
assolute era un po’
umiliante.
“Stanotte
è il plenilunio.”
Disse mentre Ben fagocitava la colazione in silenziosa concentrazione.
“Me lo
ricordo.” Gli rammentò
a sua volta, perché non poteva fare a meno di sentirsi un
po’ in colpa ad
andare ad una festa, per quanto Weasley e quindi inevitabile come un
eclissi di
sole. “Ma non credo che finisca tanto
tardi…”
“La cerimonia forse, ma il rinfresco?” Gli fece
notare il compagno con un
sorriso divertito. “Sai com’è nonna
Molly quando ha tanta gente invitata …
C’è
il rischio che tiri su un altro piano di casa solo per ospitarli
tutti.”
James ridacchiò, perché anche quello era vero.
Oggi constatava tutte cose vere.
Diede una forchettata ai suoi pancake e si strinse nelle spalle.
“Ho solo
pensato che a Ben avrebbe fatto bene distrarsi prima di stanotte,
no?”
“Deve riposare.” Scosse la testa.
“Agitarla non è una buona idea.”
Le mie non lo sono mai.
Inghiottì la
frase, perché non
era giusta nei confronti di nessuno, specialmente di Ted, che si stava
facendo
un culo quadrato per tenere a bada i capricci sempre più
repentini e
imprevedibili di Ben. “Non sarebbe meglio se
rimanessi?”
“Non ce
n’è bisogno, Jamie.
Anche trasformata rimane uno scricciolo di sei anni, penso di poterla
gestire.”
Riempì il bicchiere della bambina di succo
d’arancia quasi a sottolineare il
concetto. “Tu pensa a dare una mano a Molly … con
tutti quegli invitati
serviranno una gran quantità di braccia e bacchette,
no?”
James non rispose,
inghiottendo
la propria contrarietà. Non era stupito dal comportamento di
Teddy, era tipico suo
non fare pesare a nessuno i propri problemi: perché
sì, configurato la faccenda
Benedetta come qualcosa a cui doveva pensare lui soltanto. Avrebbe
voluto convincerlo
del contrario, ma quella volta non era come fargli ammettere i propri
sentimenti.
Per
la prima volta in vita sua ha una famiglia che non
sia solo sua nonna.
Capiva se voleva godersi
Benedetta da solo, anche se questo si traduceva in un lento, ma
inesorabile
metterlo da parte. Era stato un processo lento, ma costante e
acutizzato con
l’episodio da Scrivenshaft: al momento Ted aveva testa e
cuore dediti alla
nipotina e non c’era spazio per lui, né dentro
né fuori da un letto.
Da
quant’è che non facciamo sesso?
Si diede subito
dell’immensa
testa di cazzo per aver dato voce alle proprie parti basse.
C’era una
trasformazione quella sera, e lui pensava a scopare.
Vaffanculo,
è che mi sento inutile.
Non poteva neanche star
vicino
a Benedetta: era un umano, e puzzava di umano a giudicare da come la
piccoletta
gli stava alla larga da giorni, sostenendo che doveva farsi una doccia.
Teddy
è un Metamorfomago e ha geni da lupo. Da lui non
è infastidita.
Era frustrante. La qual
cosa,
ovviamente, lo faceva incavolare. Ma non era il genere di ingiustizia
per cui
potesse protestare: era il genere, tutto nuovo, che lo rendeva confuso
ed
irritabile.
“Come
vuoi.” Finì per dire con
tutta la serenità che poté fingere.
“Quindi secondo te è meglio se rimango a
dormire dai miei stanotte?”
Ted dovette leggere qualcosa
nella sua espressione – okay, non era mai stato bravo a
mascherare il proprio
umore –
perché si sporse sulla tavola
per stringergli una mano. “Magari solo per
stavolta.” Lo blandì. “Devo vedere
come reagisce alla Pozione Antilupo, se rimane aggressiva …
si trasformerà per
la prima volta senza suo padre. Sarà spaventata.”
James guardò la piccola, che alzò la testa, senza
capirli ma sorridendo lo
stesso: non riusciva a credere che una pulce di quelle dimensioni
potesse
essere pericolosa.
Eppure.
“Okay.”
Raddrizzò la schiena, perché
mettere il broncio era da ragazzini e non deponeva a suo favore.
“Hai ragione,
a nonna serve una mano … papà ha dato buca
dicendo che doveva lavorare e mamma
arriverà giusto per la cerimonia visto che deve seguire le
qualificazioni dei
Magpies. Roxie mi uccide se non compongo il trittico di
fratelli.”
“Appunto.”
Ted non era
sollevato, anche se gli sembrava. Di sicuro. “Comunque ti
tengo informato.”
****
Londra,
Casa di Roxanne e Dionis Radescu.
Roxanne trovò
Lily nella più
compromettente delle posizioni, ovvero con una scopa in mano e sporta
sul
davanzale mentre cercava di scacciare un gufo, reo di voler entrare
nella
camera degli ospiti.
“Sciò!”
Gridò agitando la saggina totalmente a caso.
“Via!”
Oh, ma per favore.
Aveva mille cose da fare,
tra
cui preparare Alexandra che al momento le sonnecchiava addosso,
assicurarsi che
Dionis avesse preso in consegna gli invitati rumeni e che nonna Molly
non
avesse esagerato con il rinfresco. Però non c’era
niente da fare, la Rossa
riusciva a monopolizzare la scena anche quando non era al suo centro.
Era così
da quando erano bambine: se Lily aveva un problema, in automatico
diventava un
problema di chiunque avesse a che fare con lei.
Un po’ la odiava
per questo.
“Stai diventando
ridicola.”
La cugina si
voltò, arruffata
e con il viso rosso come una mela. Poteva essere per imbarazzo come per
rabbia.
“Non pensavo mi trovasse a casa tua!” Si
giustificò mentre il pennuto atterrava
trionfante sul bordo del davanzale recando il suo carico postale.
“Potrebbe fallire
solo ti
trovassi in un bunker sotto terra. Forse.”
Le fece notare mentre Alex lasciava andare il ciuccio per infilarsi una
sua
ciocca di capelli in bocca con un gorgoglio estasiato. In quel momento
era in
balia di ben due ragazzine.
E
la più problematica non è mia figlia.
Lily non ribatté,
prendendo la
missiva e rigirandosela tra le mani. “È da parte
di Sören.” Borbottò.
“Forse dovresti rispondergli.”
“Lo vedo stasera, ormai non ha molto
senso…” La gettò assieme alle altre,
una
piccola cascata di carta e inchiostro al bordo della scrivania: erano
giorni
che continuava così. Ogni accenno a Scott o al tedesco
finiva nel silenzio o in
tentativi di difendere il proprio comportamento.
“Oh, per
l’anima di Merlino,
Rossa!” Sbottò, perché i suoi nervi
erano già ridotti ai minimi termini dato
che, oltre al resto, la nutrita famiglia Weasley-Radescu sarebbe stata
al gran
completo.
Due
famiglie gigantesche, chiacchierone e che non
parlano la stessa lingua. Se Domi fa ritardo l’ammazzo. A
parte lei e Dion non
c’è nessun’altro che parli rumeno.
Lily si sedette sul letto
con
aria svuotata. “Okay, la pianto.”
Garantì bugiarda come una moneta da tre Falci.
“È che è tutto un gran casino!
Penso…”
“Pensi.
Sono giorni che
pensi! Morgana maledetta, prendi una decisione!”
“Se l’avessi presa pensi starei
così?!” Esclamò alzandosi in piedi e
prendendo
a passeggiare nervosa per la stanza. Alex, come ogni neonata sensibile
che si
rispettava prese a piagnucolare e le toccò quindi dedicarle
qualche attimo e moina
prima che riprendesse a succhiare volenterosa i suoi poveri capelli.
“Ho fatto
una lista.” Le comunicò. Lily, non Alex.
Spero che il momento di mia
figlia arrivi il più tardi possibile.
“Una
lista?”
“Sì, di
pro e contro …” La sua
espressione dovette essere indicativa perché
arrossì. “Senti, è l’idea
migliore
che mi è venuta e anche se fa schifo, pazienza.”
Non
è che elencando le qualità di un ragazzo capisci
se
è quello giusto per te…
Non lo disse
però, perché
anche lei aveva un limite nell’infierire e si vedeva che Lily
era davvero
armata di buona volontà, per quanto fosse zoppa e
claudicante. “Sentiamo, cosa
ne è venuto fuori?”
“ …
niente di nuovo.” Mugugnò indicando
una serie di fogli appallottolati sopra e sotto la scrivania.
“Scott mi fa
sentire stabile … sicura. Magari niente
batticuore…”
Eh, e dici poco. Se non ti batte il
cuore, di cosa stiamo parlando?
“Però
mi ama ancora e vuole un
futuro con me.” Aggiunse con la stessa intonazione che aveva
da bambina quando si
rendeva conto di aver combinato qualche guaio. “Nonostante
tutto quello che gli
ho combinato.”
Roxanne
destreggiò il peso di
Alex su un’anca: a volte era più difficile tenere
in braccio lei che una cassa
di Bolidi. “Però se ne torna in
Australia.”
“Sì, ma
… non è quello il
punto. Potrei anche andare con lui.”
“Quindi è quello che vuoi?”
“Certe volte penso
di sì …
altre volte penso che anche cambiare aria non migliorerebbero le cose.
Non lo
amo come mi ama lui. E non è giusto che gli prometta cose
che non posso dargli.”
Non avrebbe voluto essere
nei
suoi panni: in un certo senso, era una fortuna che Rupert fosse stato
l’immensa
di cazzo che tutt’ora era. Innamorarsi di Dionis era stato
molto più semplice,
sapendo quanto tossico era stato il rapporto con l’altro.
Almeno
avevo le idee chiare.
Invece
Lily aveva a che fare con due
bravi ragazzi, che con pregi e difetti le volevano bene e tenevano a
lei. Scott
si imponeva troppo e Sören era problematico come
un’operazione di Aritmazia, ma
nessuno dei due meritava di avere il cuore spezzato.
“E
Sören?”
Lily guardò verso
la scrivania
come se da essa potesse arrivargli una risposta, magari sotto forma di
comodo
elenco. “Sören è tutto quello che ho
sempre voluto.”
Ah, eh beh. E questa non
è una
risposta?
“È solo
che … la realtà è
diversa.” Continuò. “Non è
una fiaba, non c’è un lieto fine da
manuale.” Si
passò una mano trai capelli e chiuse gli occhi.
“La realtà siamo io e lui e
questa …forza … che ci spinge sempre
l’uno contro l’altro. Ma non so se è
qualcosa che può renderci felici.” Assunse
un’espressione persa, quasi non si
capacitasse della sue stesse parole. “Non ho mai …
prima che tornasse non avrei
mai pensato di considerarlo…” Esitò.
“Non ho mai pensato che lui potesse ricambiarmi.”
“Beh, hai avuto tempo a sufficienza per realizzarlo
direi.” Le fece notare.
Lily si risedette sul letto,
dato che proprio non riusciva a star ferma, e prese uno dei cuscini
stringendoselo tra le mani e giocherellando con i bordi.
“Sì, ma da qui non
sono in grado di muovermi.”
“Forse
è una decisione che
dovreste prendere assieme.”
“Forse.” Ammise. “Comunque ci sono
arrivata. Devo fare un passo avanti e mettere
la nostra relazione su un altro piano … Non siamo
più semplici amici.” Deglutì,
quasi quella realizzazione fosse un macigno che non riusciva a
digerire. “È
cinque anni che stiamo in questo limbo. Devo farla finita, qualsiasi
cosa
succeda.”
“Mi pare un buon
piano. Anche
se attuarlo al battesimo di mia figlia è di
un’intempestività unica.”
Lily borbottò
qualcosa trai
denti che assomigliava vagamente ad una richiesta di scuse.
“Lascia
perdere…” Sbuffò di
rimando. “Tanto non è che possiate
evitarlo.”
Non c’era altro
che potesse
dire alla cugina a quel punto: una decisione andava presa, e
l’altra ne era
consapevole anche se tentava goffamente di rimandarla. Aveva paura:
glielo
leggeva nell’espressione e nel
modo in
cui ripeteva sempre gli stessi ragionamenti senza ingranare la
soluzione. Il
nocciolo del suo esitare con Sören era proprio la paura.
“Magari non
risolverete le
cose nel giro di una serata … ma metterete un punto. Poi,
qualsiasi decisione
prenderete, partirete da lì.” Le mise una mano
sulla spalla e la strinse,
affettuosa, perché più di ogni altra cosa voleva
vedere l’altra felice.
Certo,
a tutto c’è un limite.
“Ora basta
monopolizzare le
scene, è il gran giorno di mia figlia!” La
sgridò.
Lily rise, annuendo.
“Per
stasera a che ore dobbiamo essere là?”
“Alle tre per le
prove con il
sacerdote. Mi raccomando, niente minigonna.” La
ammonì scherzosamente, per
farle spuntare il sorrisetto che era marchio stesso del suo essere.
“Padre Archibald
ha una certa età, e al mio matrimonio abbiamo
rischiato.”
“Ma se ero vestita da damigella!”
“Sì, ma i vestiti li avevi scelti tu.”
La cugina alzò le mani in segno di scherzosa resa.
“Mi farò bella per Alex,
quindi niente di eccessivo, promesso.”
****
Londra,
Piccadilly Circus.
Royal Inn, Ora di pranzo circa.
“Ti ho fatto
stirare
l’uniforme.”
Dal terrazzo non arrivò nessuna risposta, ma Milo non se ne
ebbe a male; il
principino che teneva il broncio non era precisamente una
novità, semmai uno
stato d’essere costante.
Non si preoccupò
quindi di
bussare, entrando dentro la stanza e posando la suddetta sul letto,
debitamente
impacchettata nella plastica della lavanderia. Controllò che
non vi fossero
pieghe o bottoni fuoriposto, e si tranquillizzò.
Sören riusciva a
passare la
propria ansia e malumore come nessun altro al mondo.
“Cominci a
prepararti?” Cercò
di invogliarlo mettendo la testa fuori dalla porta-finestra. Lo
trovò con le
spalle contro il muro, scaldato dal sole tremebondo
dell’isola e con lo sguardo
perso nel vuoto.
Mimò con le dita una camera
fotografica. “Andiamo,
James Dean, è ora di andare in scena.”
Sören aggrottò le sopracciglia, dandogli finalmente
attenzione. “Chi?”
“Un attore il cui
ruolo
migliore è in Gioventù Bruciata. Dovresti
cominciare a farti una cultura che
esula dai libri, a volte mi sembra di parlare con un
ottuagenario.” Indicò con
un cenno della testa l’interno dato che, dallo sguardo, si
stava di nuovo
perdendo nel nulla siderale delle sue seghe mentali. “Farai
tardi.”
Sören
piegò le labbra in una
smorfia nervosa, ma annuì, rientrando con lui. Ci mise
almeno cinque minuti ad
ispezionare l’uniforme, che non era la solita ma quella di
gala, quindi ancora
più adorata e venerata. “Hai fatto un buon
lavoro.” Gli concesse, riuscendo
persino a produrre in sorriso.
Detto
io che farsi bello gli risolleva il morale. E ce
n’è bisogno. Un gran bisogno.
“Non per rimarcare
l’ovvio, ma
è il motivo per cui mi paghi.” Rispose
compiaciuto. La tolse dal cellophan e
gliela presentò con la mimica di un maggiordomo di alta
classe. “Le calzerà
come un guanto, signore.”
“Smettila.” Borbottò distendendo appena
i lineamenti. “È inquietante quando sei
gentile.”
Milo si strinse nelle
spalle,
perché non c’era molto da dire. La terra
d’Albione aveva ridefinito i loro
rapporti e non era l’unico ad essersene accorto anche se
entrambi facevano
finta del contrario per non spezzare l’ultima barriera che
c’era tra di loro –
roba necessaria, perché altrimenti avrebbero preso a farsi
le trecce e
raccontarsi intimi segreti. Certo, c’era sempre un contratto
e dei soldi che li
legavano, ma se avesse dovuto spiegare il vero motivo per cui era
lì, non
avrebbe pensato ai Galeoni sonanti che gli finivano in tasca ad ogni
fine mese.
Tanto
tra poco torniamo a Boston.
E quello era un altro motivo
per cui nessuno dei due aveva molta voglia di immergersi nel proprio
ruolo, il
primo di padrone pretenzioso, il secondo in quello del servo
impertinente.
Lasciamo
parecchio tutti e due su queste bianche coste.
Non
poteva chiedere a Michel di seguirlo: o
meglio, poteva e in buonissima parte voleva, ma aveva la netta
impressione di
rischiare di commettere fatale stronzata.
Ti
rendi conto, sì, che se lo inviti sarà seria?
Diventerà seria?
Il problema era che
l’idea di
mollare Maghetto Stronzo a Londra, con il padre, i suoi compiti
asfissianti e i
suoi completi inamidati lo faceva star male. Un male che gli faceva
venir
voglia di prendersi a pugni da solo, un male che aveva ridotto il suo
repertorio di esercizi a Mozart, tanto che persino Sören,
seppur nel bel mezzo delle
sue crisi da eroina romantica, una sera era venuto a bussargli per
dirgli di
farla finita e di suonare qualcosa di più allegro.
Aveva rifuggito per tutta la
vita quel genere di coinvolgimento, e c’era sempre riuscito
bene, perché non
era difficile evitare di provare qualcosa se si voleva.
Se era rimasto fottuto con la sua famiglia,
perché avrebbe dovuto esser diverso con una persona singola,
con cui peraltro
non divideva neanche il sangue?
Non
ti sei mai fidato abbastanza. Ma adesso…
Michel gli era entrato nella
pelle, nei muscoli, nelle ossa e nel cervello. I suoi occhi erano nelle
corde
che pizzicava, la sua voce era nel modo in cui l’archetto
scivolava. Era lì
quando apriva gli occhi la mattina e non si schiodava quando chiudeva
gli occhi
la sera. Era intossicato. Anche se non dormivano assieme, anche se non
erano
accanto.
Merda.
Il principino non era
l’unico
ad avere problemi.
…
Come faccio a mollare qualcuno che non voglio
mollare?
Si infilò in
bocca lo spinello
che aveva preparato durante quei rivolgimenti mentali mentre osservava
l’altro
cambiarsi con la precisione di un orologio svizzero.
“Non sto facendo
il guardone.”
Disse tanto per dire qualcosa mentre se lo accendeva con un guizzo
dell’accendino. “Tra
l’altro non è che
ci sia molto da vedere … ma mangi la roba che ti porto o ci
sfami i piccioni
fuori dalla finestra?”
Sören non gli
rispose,
chiudendo la cintura alla vita con uno scatto secco. Si
guardò allo specchio e
Milo vi vide riflessa tutta l’angoscia e la rabbia che doveva
aver accumulato
in quel periodo. Non che facesse facce strane o che.
Basta
conoscerlo.
Ohana,
principino. Un giorno ti devo spiegare il
concetto.
“Lo sai che
Zenzero è una stronza,
sì?” Disse quieto, e stavolta non
arrivò la solita accorata difesa. Solo un
lieve serrarsi della mascella. “È stronza, ma non
è cattiva. Capisci la
differenza?”
“Sì.”
“Le persone si
spaventano
quando c’è l’amore di mezzo.”
Aggiunse soffiando un bel cerchio di fumo
nell’aria. Era proprio ben fatto, e si diede un cinque
mentale. “Non c’entra
l’esperienza, o che. A volte
fa una
paura fottuta. Perché non ti puoi nascondere. Sei
lì, nudo e crudo. È difficile
reggere una cosa così.”
Sören si drappeggiò il mantello addosso,
agganciando gli alamari con un
movimento allenato. Poi lo guardò. “Esperienza
diretta?”
Ma
guarda tu … Il bimbo sta diventando intuivo. Mi sta
diventando grande.
Si strinse nelle spalle.
“Non
fare di me un essere solo istinto e scopate.”
“Non dovresti
avere paura di
Zabini.”
Eh, no!
“Che
c’entra Zabini?”
Sören gli
restituì
un’espressione di sufficienza. Era bravissimo a sembrare un
maestrino
rompicoglioni. Chissà a chi l’aveva rubata. O
chissà se era sua dalla nascita.
“Tu è di Zabini che hai paura.”
Decretò come se svelasse il piano di un
cattivo. “Ma non devi.”
“Ah, no? E da quando sei diventato un esperto di relazioni
umane?” Il tono gli
venne più cattivo di quanto avrebbe voluto, ma era colpa
dello spinello, non
sua.
Sören gli si
avvicinò, sempre
con quell’aria da oracolo di Delfi, nonostante fosse vestito
e leccato come una
vera guardia della fottuta regina. “Sei
innamorato.” Sentenziò.
“Ma manco
morto.” Replicò, un
po’ per fare il bastian contrario, un po’
perché di quella roba lui non
parlava. Era allergico: ora si sarebbe ricoperto di bolle. “E
non ho paura di
Zabini.”
“Sì,
invece. Come io ho paura
che Lily non mi voglia come io voglio lei.” Tutto quel
rimuginare incazzato doveva
aver prodotto dei frutti, perché lo disse in tono
definitivo. “La differenza è
che tu non devi. Zabini ti rende felice.”
Da
quando è diventato lui il confessore e il
confessato? Fermi tutti? Che cazzo mi sono fumato?
Era troppo sorpreso per
poter
ribattere qualcosa di arguto. “Sì …
beh.” Articolò quindi con fatica.
“Sì?”
Oh, cazzo, non chiedergli conferma,
idiota patetico!
“Sì.” Sören gli
sorrise con un guizzo divertito nello sguardo. Si stava
divertendo!
Beh,
contento di averti sollevato il morale con i miei
problemi, testa di cazzo.
“E da cosa lo
avresti dedotto,
Sherlock?”
“Dalla selezione
musicale.” Lo
stava definitivamente prendendo per il culo. E purtroppo, ne aveva
tutte le
ragioni. “Il diario segreto di un artista è la sua
musica.”
Non
si conosce un principino, senza che il principino non
finisca per conoscere te. ‘Fanculo.
“E questa dove
l’hai sentita?”
“Lily.”
Zenzero. Devo farla pagare anche a te!
Soffiò sullo
spinello che si
era spento, perché nel frattempo era stato troppo preso a
fare la faccia da
ebete, e ne tirò una boccata. Oh, se ne aveva bisogno.
“Voglio … voglio
invitarlo a Boston.” Se glielo avessero tirato fuori con un
paio di tenaglie
roventi sarebbe stato meno traumatico. “Non ho mai preso
delle ferie da quando
lavoro per te.”
“È un’ottima idea.”
“È un’idea del cazzo.”
Sören ridacchiò. L’avrebbe voluto
prendere a pugni se non ci fosse stato il
rischio concreto di spaccarsi le nocche su quella faccia di bronzo.
“Credo…”
Disse completando la vestizione e infilandosi la bacchetta nel fodero
agganciato alla cintura. “… credo che entrambi
dovremo provarci.”
“… a
fare cosa?”
Non gli rispose: lo
salutò
piuttosto con un cenno del capo dei suoi, di quelli che non aspettavano
una
risposta, ed uscì dalla camera. Poco dopo sentì
il crack! della Smaterializzazione.
Provare
a fare cosa?!
****
Devonshire, Ottery St. Mary
Chiesa
di St. Edward The Confessor, Wiggaton.
La chiesetta dove Roxanne e
Dionis si erano sposati era la classica, deliziosa cappella rurale
inglese,
immersa nel verde e dominatrice assoluta di una collina da cui si
vedevano
distese infinite di boschi, brughiera e campi coltivati. Alla fine di
tutto,
persino la linea azzurra del mare.
Lily adorava
quell’altura e a
volte da bambina era persino andata a visitarla con i cugini durante le
loro
coraggiose spedizioni nel mondo Babbano.
In quel momento
però avrebbe
voluto essere ovunque tranne che lì. Perché era
pur vero che era arrivata
accompagnando Roxanne e tenendo in braccio un’irritatissima
Alex, quindi piena
di cose a cui dare attenzione, ma adesso si trovava fuori dalla chiesa,
mentre
i neo-genitori erano andati in cerca del parroco.
Fuori con Sören.
Lo avevano trovato ad
aspettarli sul sagrato, in uniforme e serio come se avesse dovuto far
presenza
ad un funerale. Da solo, anche se supponeva che la sua scorta fosse
poco
distante.
Sono
una stronza.
Si era sciolto solo quando
Dionis l’aveva salutato con un abbraccio e quando Alex aveva
smesso di piangere
due nanosecondi per piantargli gli occhietti scuri addosso. Il momento
sereno
era durato poco però, perché la cugina aveva
preso il marito e se l’era filata lasciandoli
soli.
Grandeee…
Si chinò sulla
bambina che aveva
infilato nel passeggino sperando di calmarla, dicendole qualche
sciocchezza per
riempire il silenzio tragico che trafiggeva l’aria. Avrebbe
voluto iniziare una
conversazione, ma tutto quello che gli veniva in mente cominciava con
una
profusione di scuse e finiva più o meno nello stesso modo.
Piantala
di fartela sotto. Devi almeno provarci!
Non aiutava il fatto che
l’amico fosse l’immagine della furia divina. Ormai
lo conosceva, se non apriva
bocca era o per timidezza o per collera.
E
non mi sembra intimidito. Ha tutta l’aria di volermi
conciare per le feste.
“Ren,
senti…”
“C’è un bel panorama.”
Dichiarò con un tono che strideva come unghie sulla
lavagna. “È la chiesa di famiglia?”
La domanda era
così bizzarra,
vista la loro situazione, che non poteva far altro che rispondere.
“No … credo
che neppure mia nonna sia mai entrata in una chiesa prima del
matrimonio di
Roxie. I miei genitori e i miei zii si sono tutti sposati in un tendone
montato
dietro la Tana, sai, la classica cerimonia celtica dei
nastri.”
Sören
annuì, contemplando con
interesse la siepe che delimitava il perimetro della canonica. Lo
sentiva
emanare ondate di malumore come una radio avrebbe fatto con una
canzone. Era
strano qui che si fosse messo a chiacchierare.
È
troppo educato per ignorarti, Rossa, lo conosci. È
una delle cose che ami di lui.
“È Dion
che ha voluto fare il
battesimo qui.” Continuò disperata, ridando il
ciuccio ad Alex dopo che l’aveva
lanciato a terra per l’ennesima volta. Finì per
Incantarlo in modo che tornasse
sempre in mano alla bambina non appena tentava di liberarsele.
“La sua famiglia
è cristiana o roba del genere…”
“Cattolica.” La corresse, perché era
Sören e non avrebbe mai
rinunciato a precisare qualcosa. “La famiglia di Dionis
è di
confessione cattolica.”
“Ah, beh
… sì?” Scrollò le
spalle, sperando che Alex scoppiasse a piangere per fornirle un
diversivo per
allontanarsi. Aveva voglia di urlare.
“C’è differenza?”
Sören si
voltò per guardarla
ed era ovvio che la sua capacità di far finta di niente
aveva appena deciso di
prendersi una vacanza. “Quindi nonostante tutto mi
parli.” Disse con un tono
così odioso che avrebbe voluto prenderlo a schiaffi. E
prendercisi da sola,
anche.
“Certo che ti
parlo.” Borbottò
rivolta alle gambette scalcianti della bambina.
“Perché non dovrei?”
“Dimmelo
tu.”
È
arrabbiato. Cavolo, lo è sul serio.
Era la prima volta che usava
quel
tono gelido e rabbioso con lei, da quando cinque anni prima
l’aveva scovata a
Durmstrang. La differenza stavolta è che non era spaventato
e preoccupato per
la sua incolumità.
Decise di giocare la carta
dell’onestà perché era
l’ultima che le rimaneva nel mazzo. “Avevo bisogno
di un
po’ di tempo per me.”
“Questo
l’avevo capito.” Ribatté.
“Bastava avvertirmi, avrei smesso di darti il
tormento.”
“Non mi hai dato…”
“So benissimo di esser stato pressante, ma avevo bisogno di
risposte e tu mi
hai ignorato. Ho commesso degli errori, ma non pensavo di meritarmi un
trattamento
del genere.” Continuavano a non fronteggiarsi, lei preferendo
il visino
stizzoso di Alex, Sören la stramaledetta siepe. Era orribile.
Avrebbe voluto
scusarsi, abbracciarlo e dirgli che era un’immensa demente
incasinata, ma a
cosa sarebbe servito?
Le
uova di questa frittata le ho già rotte.
“Hai ragione, non
te lo
meritavi.” Ammise sperando che il trucco reggesse ai due
lacrimoni che le
tremavano sulle ciglia. Li asciugò rapida con il fazzoletto
senza farsi vedere.
“Ho sganciato una bomba e me la sono filata … mi
dispiace.”
Sören non disse niente per qualche attimo, ed era talmente
silenzioso che
dovette girare appena il viso per controllare ci fosse ancora.
C’era.
“Non avrei mai voluto
che venissi a conoscenza dei miei sentimenti per te … specie
in quel modo.” Il
tono era neutro e completamente sballato visto la statua di legno in
cui si era
trasformato.
“Non è
stata colpa tua … non
me la sono presa per il bacio.” Serrò le dita
contro la borsetta, e i
brillantini che vi erano incastonati erano piuttosto dolorosi sotto i
polpastrelli.
“Del resto sarebbe un po’ ipocrita, ti ho baciato
anch’io.”
L’espressione
dell’altro si
ammorbidì appena, un cambiamento così
impercettibile che avrebbe potuto notarlo
solo chi lo conosceva bene. Faceva male proprio per quello.
“Sì, me lo ricordo.”
Si infilò le mano nelle tasche e si avvicinò alla
stramaledetta siepe. “Spero
di non averti causato problemi con Ross.”
Sempre che tu glielo abbia detto, Lily.
Era tra le righe, ma diavolo
lei era una LeNa, di righe ci viveva. Si sentì avvampare, ma
ingoiò una
rispostaccia. “In effetti ci siamo presi una
pausa.”
Sören si
voltò di colpo verso
di lei: era chiaro come il sole che non se lo fosse aspettato.
Sei
un po’ stronzo anche tu, eh. Eccheccavolo, per chi
mi hai presa?
“Gliel’ho
detto, sì.” Confermò
sentendosi per la prima volta un pochino meno criminale. “Di
solito non vado in
giro a baciare ragazzi quando sto con qualcuno.”
Le carte erano state calate
e
Sören la stava guardando dritta in faccia. Ma chi voleva
prendere in giro, eccome
se le erano mancati quei perfetti tizzoni scuri e densi! “Non
è mia abitudine
andare in giro a baciare pazienti.” Ribadì piano
perché le sembrava che
l’intero mondo fosse in ascolto. “Eri debole come
un bambino, avrei potuto
metterti a nanna senza fatica.”
“Perché non l’hai fatto
allora?”
Se lo voleva sentir dire e
non
poteva biasimarlo. Fin’ora l’unico ad essersi
scoperto era stato lui.
“Ne vuoi parlare
ora?” Gli
chiese però, perché tre paia di passi si stavano
avvicinando ed erano quelli
degli amici e del parroco visto che provenivano dall’interno
della canonica.
Senza contare la scorta che doveva
essere da qualche parte.
E
gli auror son dei gran pettegoli.
Anche Sören dovette
accorgersene perché raddrizzò la schiena in una
posizione di attenti: lo faceva
sempre quando era a disagio. “No, non ora.”
Convenne. “Ma dobbiamo parlare.”
“…
okay.”
“Bene.”
Era arrabbiato, ma anche
deciso: ed era una parte di lui che non le dispiaceva affatto,
perché metteva un
freno saldo ai suoi tumulti interiori.
Si
è stancato anche lui…
Dionis si
affacciò per far
loro cenno di entrare. “Dobbiamo iniziare, siamo
già in ritardo!” Li avvertì.
Sören fece un gesto
d’assenso
e si incamminò con lei, aiutandola anche a tirar su il
passeggino lungo le scale
della chiesa: quando furono entrambi sulla porta si fermò
pensieroso.
“… che
succede?”
“Stai molto bene
oggi. Scusa
se non te l’ho detto prima.”
Sleale … sleale
come mai
l’avrebbe creduto capace. Specie con quel tono basso e
vibrante che la
rimescolava tutta un po’ troppo
piacevolmente.
Lo seguì dentro
con la
certezza che l’intera serata sarebbe stata un continuo
camminare sui carboni
ardenti.
****
Devonshire,
La Tana.
Pomeriggio.
Per Scorpius la Tana nei
giorni
di festa era uno dei posti più divertenti del mondo. Essendo
stato abituato fin
dall’infanzia a passare le occasioni speciali ingessato in un
rigido codice di
condotta, trovava che il caos che era stendardo della famiglia Weasley
fosse esilarante.
“Scorpius caro,
porteresti le
casse di champagne in cucina?”
“Subito nonna Molly!” Si
premurò di dire a portata d’orecchio del futuro
suocero che si fece paonazzo in tempo record.
“Bravo
ragazzo.” Venne lodato
dalla strega che poi si rivolse al figlio minore con
tutt’altro cipiglio. “Ron,
non stare lì come un stoccafisso, siamo pieni di cose da
fare! Va a vedere se
tuo padre ha bisogno di una mano per distribuire le sedie dentro il
gazebo.”
“Mamma, credo
abbia già tutto
l’aiuto…”
“Fila!”
“Sì, mamma.” Ringhiò
l’uomo guardandolo come se fosse tutta colpa sua. Non gli
restò che rivolgergli un sorriso brillante e scappare dietro
il proprio carico
costoso e fluttuante. Nel tragitto, dentro la casa dalla metratura
più
improbabile del mondo, si scontrò con Dominique che si
riempiva la bocca di
cibo ed evitava i propri compiti, Hugo che cercava di trovare
inutilmente il
segnale internet dal suo portatile, un’altra svariata
genealogia di Weasley e
acquisiti e infine, per fortuna, nella donna della sua vita.
“Smettila di stare
trai piedi
a papà, finirà per ucciderti!” Gli si
rivolse brandendo un mestolo carico di
crema che si sporse lesto a leccare. “Ehi!”
“Buona. Adoro la crema al limone.” La
blandì sbattendo le ciglia. “Ma sentì
un
po’, quanti invitati ci sono?”
Rose aggrottò le
sopracciglia
facendo un evidente e complesso calcolo mentale. “Una
quarantina credo … la
famiglia di Dion è enorme, Rox mi ha detto che ha tipo
cinque fratelli e una
caterva di cugini … ed è il primo che sforna un
erede della nuova generazione,
quindi è un evento anche per loro.”
“Però,
pensavo che solo voi
Weasley vi riproduceste in modo così…”
“Un'altra parola e il mestolo te lo becchi in
testa.”
“Dicevo per dire.” La blandì
contemplando divertito le gemelle Molly e Lucy
sfilare alle spalle di Rose con i maglioncini sospettosamente pieni
bozzi a
forma di muffin. “Sai che vi adoro, siete pazzi. Pensi che
sarà così anche per
il nostro matrimonio?” Perché ci sperava
moltissimo.
Anche
se a papà verrà un infarto.
Rose scosse la testa.
“Anche
peggio. Te li ricordi il matrimonio di Rox e Dion, no?”
“Allora voglio
degli
elefanti!”
“Cosa?”
“Chi vuole degli
elefanti?”
Albus si affacciò alla porta della cucina, in grembiule rosa
forse non suo e con una teglia di
pasticcini
al formaggio fumanti tra le mani.
Dice
che non è in grado di cucinare ma poi alle feste
è
sempre in cucina.
“Io!” Lo
salutò con un cenno
della testa.
“Ah, Malfoy,
poteva venire in
mente solo a te.” Gli sorrise divertito. “Carina
come idea!”
“Non assecondarlo!” Esclamò Rose
inorridita. “Niente elefanti … e non parlarne
alla nonna!”
“Sicuramente…” Aspettò che
fosse rientrata con il cugino e terminò.
“… sì.”
Voleva un gran bene agli Weasley perché erano più
matti di lui.
E
molto.
Tolse da dietro la schiena
la bottiglia
di champagne che aveva preso da una delle casse e la aprì
con un colpetto di
bacchetta, recuperando anche un paio di bicchieri in una delle vetrine
claudicanti che occupavano la sala da pranzo. Aveva lavorato da quando
si era
Materializzato quella mattina, poteva ben permettersi una pausa.
Tanto
non sono l’unico che batte la fiacca.
Trovò James
dov’era sempre
quando voleva fumarsi una sigaretta senza rischiare di esser rampognato
,
ovvero nell’aia sul retro appoggiato a delle vecchie gabbie
da pollaio, ora
vuote. “Ti ho scovato Potterino!” Lo
salutò porgendogli il calice. “Bevutina?
È
francese.”
James sobbalzò come se qualcuno gli avesse tirato un calcio
nel sedere, ma
quando lo identificò si permise un insulto a mezza bocca
piuttosto rilassato.
“Malfuretto, è roba della festa, non fare lo
stronzo avido.”
“Non farlo tu,
l’ho portato
io, ho diritto ad una bottiglia da dividere con chi voglio.”
Ribatté
trangugiando il liquido frizzante e schioccando le labbra.
“È Dom Perignon di
prima qualità sai, mica una roba da pezzenti.”
“Coglione.” Sbuffò annusandolo ma
finendo per berlo in due sorsi. “Mia sorella
è già arrivata?”
“Di capigliature
rosse ne ho
viste, ma non la sua.” Scosse la testa. “Non
dovrebbe esser in chiesa a far le
prove del battesimo?”
“Ah,
già …”
“Certo che è strano.” Osservò
riempiendo di nuovo il calice dell’amico.
“Pensavo di trovarla immischiata
nell’organizzazione, di solito lo adora.”
“È un
periodo che sta fuori
fase.” Ammise l’altro, sebbene con una smorfia, che
sua sorella non poteva che
esser perfetta ai suoi occhi. “Pare che non porti manco il
suo scozzese oggi.”
“Ah no?”
“No, me
l’ha detto Albie, ma
fatti i cazzi tuoi.”
Scorpius non
ribatté, anche
se, a proposito di elefanti, la Rossa ne stava trascinando uno al
guinzaglio da
più di un mese. Si sedette su una cassa di patate vuota e
rovesciata a terra. “La
sua non è l’unica defezione comunque. Dursley non
è in giro.”
James fece un suono non impegnativo. “E pensi che uno come
quello schiodi il
culo dai suoi tomi polverosi per un battesimo? È un miracolo
che mio fratello
riesca a convincerlo a venire a qualche compleanno e ai
matrimoni.”
“E il serioso
biscugino Ted?”
Il tendine della mascella di
James scattò con una prevedibilità tenera.
“Con Ben, a casa. Stasera è luna
piena, venire per loro era fuori discussione.”
“Son stati giorni difficili?”
“Qualche
capriccio.” Tirò una
boccata dalla sigaretta e si sedette a terra senza troppi complimenti,
nonostante indossasse l’uniforme di gala: era codice non
scritto che ogni
agente dovesse tirarla fuori dalla naftalina in occasioni del genere.
“Non
servivamo entrambi, Teddy è capace di gestire la situazione
da solo.”
“Ti ha detto così?”
“Sì,
beh, non voleva che mi
perdessi il battesimo e la festa.”
C’era un altro
elefante nella
stanza, anche se più piccolo e non troppo ingombrante.
Ovvero James che si
sentiva tagliato fuori dalla faccenda di Benedetta.
E
‘sta storia non è iniziata da oggi.
Era una cosa che aveva
notato dalla
sera del suo addio al celibato, e
per
aver conferma gli aveva rivolto, centellinate, domande e allusioni
velate. Non che
fosse stato l’altro a confessarglielo: James Potter era il
genere di persona
che per amore si teneva tutto dentro, stringendo i denti e riversando
il suo
malumore in altri campi.
Tipo
il caso Demiurgo.
“Tu che gli hai
risposto?”
Chiese con il tatto di un diplomatico di professione: l’amico
aveva tante
qualità, ma era morbosamente geloso della sua
emotività.
Nascondere,
non dire.
L’altro
alzò le spalle per
l’ennesima volta. “Gli ho dato ragione, non voglio
mica stargli trai piedi.”
“Trai
piedi?”
“Sì,
dai, hai capito che
voglio dire!”
“Veramente
no.” Replicò
placido riempiendogli il bicchiere per stemperare la sua opera
inquisitiva. Conosceva
i suoi polli. “Per quanto Ted sia professore di Difesa,
dubito che abbia la
conoscenza pratica necessaria a gestire un Mannaro con il plenilunio.
In questo
siete alla pari.”
James gli scoccò un’occhiata adombrata: la sua
diversione non aveva funzionato.
“Che vuoi dire?”
“Quello che ho
detto. Dovresti
saltare il battesimo e stare con loro.” Suggerì.
“Benedetta non è solo affar
suo.”
“Legalmente lo
è.”
Ah, ecco. Ci siamo.
Una piccola confessione,
fatta
a mezza bocca e con aria colpevole. Scorpius scosse la testa.
“E pensi che te
lo ritorcerà contro se andrai ad aiutarlo?”
James avvampò,
incerto se
dargli un pugno o rimanerci male. Optò per una via di mezzo,
alzandosi in piedi
e mollando il bicchiere sui gradini di casa con un tonfo.
“Teddy mi ha chiesto di
andare. Com’è successo alla
tua festa d’addio al celibato.” Incrociò
le braccia al petto e fissò con ostinazione
una gallina che beccava libera l’aia. “Non ha
bisogno di me.”
Ah,
la confessione delle confessioni.
“Lo sai che
è una cazzata.” Lo
informò con la sua espressione più innocente.
“Lupin è un idiota, prima di
chiedere aiuto si farebbe ammazzare. Probabilmente non si è
neanche accorto che
ci sei rimasto male, né oggi né l’altra
volta.”
“Non ci sono
rimasto male!”
“Sicuro.”
“Dico sul …” Diede un’occhiata
alla sua espressione. “Oh, vaffanculo!”
“Anch’io
ti voglio bene.”
Vedendo che tentennava aggiunse. “Potresti rimanere per il
battesimo e
filartela per la festa … Con più di quaranta
persone dubito che qualcuno si
accorgerà della tua assenza.”
“Non conosci la nonna.” Ribatté
lanciando un’occhiata verso la casa: dal volume
delle chiacchiere e da spezzoni di frasi sembrava fossero arrivati
anche il
clan Radescu al gran completo. “E comunque è la
prima trasformazione di Ben
senza suo papà … non si sa come potrebbe reagire
se ci fosse un umano di
mezzo.”
“Scusa, ma Lupin che cos’è?”
“Qualsiasi cosa
voglia in
realtà.” Gli fece notare e Scorpius
ricordò che era in effetti un
Metamorfomago. “Si trasformerà in un animale e le
starà vicino così.” Sbuffò.
“Davvero, Malfuretto, l’unica cosa che mi importa
è che la pulce stia
tranquilla. Se rischio di farla agitare allora è meglio che
me ne stia qui.”
Era un ragionamento
razionale
e maturo, e assolutamente inusuale per James. Quindi un po’
preoccupante. Non
lo disse però, perché l’altro ne doveva
avere abbastanza di quella
conversazione da come aveva tirato fuori l’ennesima
sigaretta. “Okay.” Replicò
non impegnativo. “Credo che il nostro compito di facchini sia
terminato, di là
stanno allestendo le ultime cose. Ce ne stiamo rintanati qui
finché non ci
chiamano per andare in chiesa?”
James lo guardò
come se fosse
scemo. “Mi pare ovvio … chi cazzo ha voglia di
fare pubbliche relazioni con un
mucchio di gente che non parla la nostra lingua? Poi ho visto le cugine
di
Dion. Son tutte cesse.”
Sorrise, perché
si sentiva
molto fiero di averlo fatto distrarre. “Non abbiamo gli
stessi gusti in fatto
di streghe, Potty.”
“Sì,
infatti i miei sono
migliori.” Doveva aver capito che la proposta era fatta
proprio a suo uso e
consumo perché gli diede un pugno sulla spalla che era il
corrispettivo di un abbraccio.
“Comunque grazie Malfuretto.”
“Non
c’è di che, mio bel
Potty.”
****
Non era stato il battesimo
il
problema in sé, quanto il rinfresco che era venuto dopo.
Lily gli aveva raccontato di
come le feste a casa Weasley fossero lunghe, piene di cibo e persone:
gliene
aveva fatto un ritratto tale che era venuto preparato e con la
consapevolezza
che sarebbe stata una sfida per i suoi nervi e per la sua innata
introversione.
In fin dei conti era stato
meno peggio di quanto credesse: le due famiglie erano molto amichevoli
e il
vino che scorreva aveva aiutato ad instaurare un clima cordiale e
rilassato.
Il problema era proprio
quello: nessuno si era infatti chiesto chi fosse o perché
fosse stato nominato
padrino. Con la stessa semplicità con cui avevano accettato
la sua presenza gli
avevano affibbiato il compito di traduttore inglese - rumeno.
Quel ruolo l’aveva
tenuto
lontano da Lily per tutto il tempo: da quando il battesimo, breve e
commovente,
si era concluso, era stato passato di persona in persona come un
vocabolario
ambulante. Non aveva avuto un attimo libero.
Con un bicchiere di succo
d’edera in mano – bere non gli era sembrato
opportuno visto che voleva restar lucido – stava ascoltando una delle numerose cugine di
Dionis, Irina
forse, parlargli delle meraviglie dell’Est Europa.
“Sì,
conosco la Croazia…” Disse
con un rumeno che sapeva essere zoppicante per lo scarso uso che ne
aveva fatto
in quegli anni, ma di certo migliore dei tentativi inglesi.
La famiglia di Lily non si
era
però arresa alla barriera linguistica da come si arrangiava
con Incanti
Traduttori se non c’era qualcuno disponibile a tradurre: era
volonterosa quanto
divertente, considerando che la famosa Nonna Molly tentava
dall’inizio del
rinfresco di chiacchierare con il suo corrispettivo rumeno, una matrona
dai
capelli scuri e l’età indefinibile, senza riuscire
però ad intendersi da come
gesticolavano e scuotevano la testa perplesse.
Gli unici veramente in grado
di dominare la conversazione tra gli inglesi erano Dominique
– la ricordava dal
Tremaghi, difficile scordarsi quella chioma platinata e il tono di voce
squillante – Albus Severus, che conversava amabile in un
capannello di ragazze
che pendevano dalle sue labbra quasi fosse un divo del cinema e Dionis,
che
saltava da un parente acquisito ad uno reale tenendo in braccio la
figlia e
sorridendo radioso persino ai porta-tovaglioli.
Era felice per lui: si
vedeva
che quelle due famiglie erano le persone che più amava al
mondo.
Lily ad ogni buon conto era
sparita da quasi mezz’ora. L’aveva vista svolazzare
per il tendone ad offrire
bicchieri di champagne e tartine e fare quello che le riusciva meglio,
ovvero
stare in mezzo alla gente. Come sempre era bellissima, e gli faceva
venir
voglia di afferrarla e portarla via come l’ultimo dei
cavernicoli.
È
troppo pretendere le sue attenzioni?
Viste le contingenze forse
lo
era.
Era
il posto peggiore in cui potevamo incontrarci per
chiarire.
“Ehi
Sören!” La voce di
Scorpius Malfoy non aveva la miglior intonazione del mondo. Era un
po’ troppo
acuta e tendeva a mangiarsi le parole. In quel momento gli sembrava
avesse il
suono più dolce del mondo, specialmente perché
portava con sé un vassoio carico
di calici pieni. “Il mio amabile, futuro, suocero mi ha messo
a fare il
cameriere come l’ultimo dei Babbani con la scuse che con la
magia potrebbero
rovesciarsi. Quindi approfittane. Dom Perignon?”
Al diavolo la lucidità, un bicchiere non l'avrebbe fatto ubriacare, ma gli avrebbe dato la scioltezza necessaria per trascorrere quella serata. Lo accettò con un
sorriso, e
porse un altro calice alla giovane strega accanto a lui.
“Irina Dimitrova.” La
presentò all’altro ragazzo, che le fece un
baciamano compito con la traccia di
ironia che lo distingueva da un Purosangue standard.
“Certo che siete
tutti belli e
in uniforme qui in Inghilterra, per una ragazza single questo posto
è il
paradiso!” Esclamò la strega in un inglese
passabile da come Scorpius le
sorrise sollevato: non gli piaceva esser tagliato fuori da una
situazione,
persino quando era colpa della barriera linguistica.
“Io e
Sören siamo un raro
esempio di bellezza sassone.” Le rispose. “E il
buon Prince è anche un
ufficiale diplomato a Durmstrang.” Gli diede una consistente
pacca sulla spalla
per motivi che non comprese. “E pensa, a mia differenza
è single.” Mostrò con
orgoglio l’anello che aveva al dito. “Tra meno di
un mese convolo a giuste
nozze.”
“Auguri! Chi è la fortunata?”
Esclamò questa, che sembrava il genere di persona
capace di godersi una conversazione senza impegni. Invidiava le persone
come
lei e Malfoy, lui dopo un paio d’ore di chiacchiere si
sentiva spossato come
dopo un lungo allenamento. Avrebbe tanto voluto fare una lunga
passeggiata nella
brughiera con Lily. Questo, prima di ricordarsi che sarebbe stata tutto
fuorché
una passeggiata rilassante.
Gli stava venendo
l’ansia.
“Sono fidanzato
con la più
bella Weasley che c’è!”
Ribatté Malfoy con un sorriso brillante prima di
guardare oltre le loro teste. “Che sta giusto adesso
reclamando la mia presenza
… Ci sarà da riempire nuovi bicchieri. Torno al
mio compito Irina, ma ti lascio
in buone mani!” E gli strizzò l’occhio,
prima di trotterellare via facendo
oscillare pericolosamente il vassoio in direzione del Sergente Weasley
e
rischiando per questo una pedata nel sedere.
“In che
anno?” Diede di nuovo
attenzione alla ragazza che gli aveva appena detto di aver frequentato
Durmstrang come lui.
“Diplomata
l’anno scorso, non
vedevo l’ora! Dionis è l’unico che si
sia goduto quel posto tetro … Se avessi
potuto sarei andata nell’Egeo a studiare con i greci e gli
italiani. Tutto quel
sole!”
“Sì, in
effetti il tempo era
inclemente…”
“Ciao Ren.”
Non l’aveva minimamente sentita arrivare, troppo concentrato
ad ascoltare
quello che gli veniva detto.
Lily non era brava a
dissimulare quando qualcosa la infastidiva. Il sorriso con cui si era
presentata era gelido come l’alba al Polo Nord. E anche il
modo in cui gli
afferrò il braccio aveva poco a che fare con
l’affetto. “Scusa Irina, devo
rubarti il cavaliere per un secondo.”
Che
ho fatto adesso?
“Di
già?” Replicò allegra
l’altra,
che doveva conoscerla ma non abbastanza bene da capire di star parlando
con una
persona al limite della propria pazienza. “Mi rubi
l’unico ragazzo single e
interessato alle streghe in sala?”
La presa di Lily sul suo
braccio si fece simile ad un arpione. “Mi spiace.”
Flautò con una gentilezza
terrificante prima di trascinarlo via.
“Lily,
cosa…” Tentò, perché
non doveva esser lui quello arrabbiato?
L’altra
allentò la presa, ma
la linea delle labbra era tesa in una linea sottile. “Capanno
degli attrezzi.”
Borbottò. “Sono riuscita a liberarmi, andiamo
là.”
Confuso e irritato in ugual
misura, non gli restò che seguirla.
L’odore di colla
di pesce e
solvente nel capanno di nonno Arthur era fin troppo pungente e le
faceva sempre
venir voglia di starnutire. Come posto non le era mai piaciuto
granché.
Ma
del resto, è l’unico nascondiglio disponibile.
Aveva passato due ore a
cercare di smarcarsi dalle richieste di una serie di parenti ed era
nervosa,
stanca e di pessimo umore.
A quel genere di feste di
solito non le importava di essere usata come facchino,
perché era così che
funzionava nella sua famiglia. Il problema era che quelle infinite
corvee
l’avevano tenuta lontana da Sören; e quando
finalmente era riuscita ad affidare
Alexandra al suo legittimo padre e a svicolare l’ennesima
richiesta di
rifornimento tartine …
L’ho
trovato con quell’oca di Irina.
Che era famosa per concupire
maschi
in età da marito ogni volta che c’era una festa,
fosse anche un funerale.
Le era presa una fitta di
rabbia che per poco non le aveva fatto rispondere il malo modo al
povero Freddy,
reo di averla fermata per chiederle dov’era suo padre. Si era
talmente
incavolata che non aveva trovato neppure una scusa decente con cui
sottrarre
Sören dalle grinfie dell’oca: l’aveva
semplicemente trascinato via.
“Posso sapere
perché mi hai
portato qui?”
Si voltò verso
l’oggetto dei
suoi pensieri, che al momento era in mezzo al caos creativo di suo
nonno con
un’espressione non proprio contenta stampata in faccia.
Non
che abbia tutti i torti, eh. Lo ignori e poi lo
porti via come un pacco.
“Dovevamo
parlare.” Non trovò
di meglio da dire. "A proposito puoi chiudere la porta? Con la magia,
non si chiude da sola."
Le obbedì ma non era ancora convinto. “Per farlo dobbiamo
nasconderci in una struttura fatiscente?” Era ancora
arrabbiato con lei, e la performance
imbarazzante di prima non aveva migliorato la situazione.
Sì,
ma sto facendo del mio meglio!
“Se vogliamo
restar soli, sì.”
Replicò senza riuscire a trattenere il nervoso.
“Se vuoi puoi tornare da
Irina.”
Sören la guardò come se fosse scema, e in effetti
ci si sentì un po’. Ma non
era rimbecillita di colpo.
Era solo gelosa.
Che
per me non è una novità, ma per te sì.
È che son
sempre stata brava a non fartelo notare.
Pure
troppo.
“Non voglio
tornare da Irina.”
Le disse infastidito. “Sono giorni che aspetto questa
conversazione.”
…
eh, beh.
“Scusa.”
Doveva piantarla di
fare la stronza isterica o rischiava di compromettere la situazione una
volta
per tutte. “Ero … sembravi piuttosto
preso.”
“Si chiama esser cortesi.” Ovviamente, e lei era un
idiota mostruosamente
gelosa perché mostruosamente insicura. Spiegarlo
però non era tanto semplice. “Sei
stata proprio tu a rimproverarmi perché non sono
particolarmente loquace in
questo genere di riunioni.”
“È vero…” Se solo avesse
avuto un calice di champagne con sé l’avrebbe
vuotato.
“… Non sono arrabbiata perché stavi
parlando con Irina.”
“E allora perché?”
“Perché
stavi parlando con
Irina.” Si rendeva conto di dire cose senza senso e che
Sören aveva tutte le
ragioni del mondo per mandarla al diavolo e tornarsene al rinfresco.
Fu sorpresa quando
l’altro
invece di darle della pazza e prendere il volo sospirò con
l’aria di aver
afferrato il bandolo della matassa. “Non mi importa nulla di
quella ragazza.”
“No, lo
…”
“Non è di lei che sono innamorato.”
L’aveva detto
ancora, e
stavolta erano entrambi abbastanza sobri e di certo svegli. E vicini,
un po’
troppo vicini da come riusciva a contare quante piume avesse
l’aquila sui
bottoni dell’uniforme dell’altro.
È
quella di gala.
E a nessuno fregava niente.
Si
umettò le labbra perché se le sentiva aride.
“Da quanto?”
Sören
aggrottò le sopracciglia
e distolse lo sguardo. “Da dopo Nurmengard … prima
non ero nelle condizioni
mentali per farlo.”
“Sono cinque
anni…”
“Sì,
Lily, sono capace di
contare.”
L’aveva amata in silenzio per tutti quegli anni,
consigliandola sulla serie di
ragazzi sbagliati che aveva incontrato e congratulandosi quando gli
aveva detto
di aver trovato il ragazzo perfetto in Scott.
Merlino,
che stronza son stata…
“Perché
non me l’hai mai detto?”
Che era una domanda stupida, ma una domanda che doveva esser fatta.
“Perché
pensavo fosse
inutile.” Fece una pausa. “E non volevo rischiare
di rovinare quello che
avevamo costruito con fatica.”
Già.
La stessa cosa che ho pensato io.
“Lo rovineremo
comunque…” Le
uscì di getto perché non riusciva più
a stare zitta. Se non l’avesse detto, ne
era sicura, sarebbe scoppiata. Morta. “… lo
rovineremo comunque perché…”
“Lily.”
“Perché sono innamorata
di te!” Si
strofinò gli occhi che non parevano intenzionati a restar
asciutti. “Sono
innamorata di te da quando ho quindici anni, brutto scemo!”
Le salì la collera
al viso e così il rossore. Le guance le bollivano.
“Non ho mai smesso di
essere innamorata di te!”
“Li…”
Se pensava di fermarla adesso si sbagliava di grosso. “Ed
è spaventoso perché
non riesco a controllarlo, non posso farne a meno e non
c’è fine! Persino
quando ti odiavo per avermi preso in giro ero innamorata di te, persino
quando
ero in quella cella orrenda nelle viscere della terra …
persino quando sei
venuto a salvarmi e avrei voluto ucciderti! Sempre.
Ti rendi conto?”
Sören non rispose, fissandola con un’aria
così incredula che le fece salire
ancora più la collera.
“Ho continuato ad
esserlo
persino quando ho trovato un ragazzo adorabile, intelligente e che
sembrava fatto
apposta per me! Ho tradito Scott nel momento stesso in cui hai messo
piede a
Londra, e Merlino, mi sento così male,
perchè…”
A quel punto, con un certo
grado di buon senso, Sören l’afferrò per
le mani e bloccò il suo tentativo di
tirargli una spinta. Non si era accorta di stare per farlo.
“Lily … calmati.” Disse
con il tono di una constatazione, e avrebbe voluto schiaffeggiarlo.
“No! Come posso
calmarmi?! Ti
rendi conto di che persone siamo? Io sono tutto fuorché la
ragazza dei sogni di
qualcuno, sono un disastro, sono … non
idealizzarmi!” Non le piaceva aver le
mani bloccate, ma in quel caso doveva ringraziare la presenza di
spirito di
Sören, perché era l’unico modo per
evitare che avesse una semi-crisi isterica.
“Perché mi idealizzi! Lo fanno tutti!”
“Non ti
idealizzo.” Perché era
così calmo? Avrebbe dovuto gridare come lei come minimo.
Invece aveva lo
sguardo serio, fermo, come se fosse in missione. Come se avesse
agganciato un maledetto
obiettivo.
Cos’ha
capito mentre io ancora annaspo?
“Tu…”
“Vedo la
persona che ho davanti.” La
fermò e poi le sorrise. C’era qualcosa di speciale
nei sorrisi delle persone
austere di natura. Aveva sempre pensato che il sorriso di
Sören fosse uno dei
più belli al mondo.
Dannazione,
concentrati!
“Sei testarda,
impulsiva,
credi di aver ragione anche quando l’evidenza dimostra il
contrario e non
rifletti mai prima di aprir bocca. Ne è prova questa
conversazione. Quindi,
come vedi, so chi sei.” Allentò la presa sui polsi
e li lasciò andare. Era
libera adesso, e poteva andarsene.
Non mosse un muscolo.
“Stamattina eri
convinta che
se mi avessi rivolto la parola sarebbe stato per allontanarmi. Forse
non volevi
neppure rivelarmi i tuoi sentimenti.”
Dannazione.
Da quando era lui che le
leggeva in testa e non viceversa?
“Però
l’hai fatto. Profusamente.”
Ecco cos’era quel luccichio: Sören, la persona
più posata che conoscesse, si
stava trattenendo dall’esultare.
E
perché gli ho detto che sono innamorata di lui?
Cioè,
gliel’ho urlato come se fosse una cosa orribile …
Come
fa ad esser contento di una dichiarazione così? Fa
schifo.
Lily
cercò con lo sguardo una chiave
inglese tra il ciarpame del nonno: sarebbe stato grandioso darsela in
testa e
troncare quella conversazione. “Lo trovi tanto
divertente?”
“No, non
divertente.” Le tirò gentile
una ciocca di capelli costringendola a dargli attenzioni. Che occhi
brillanti
che aveva. “Sono spaventato anch’io,
Lily.” Continuava a ripetere il suo nome,
ma per quanto la riguardava poteva farlo all’infinito.
“Non mi sembri
tanto
spaventato…”
“Ho imparato a nasconderlo. Mi rendo conto che
un’evoluzione del nostro
rapporto potrebbe avere risvolti positivi come negativi … e
mi rendo conto che
non sono una persona semplice. Che nessuno di noi due lo
è.” Aveva
un tono così carico d’affetto verso di
lei, denso e senza barriere che la paura si sciolse come polvere di
dittamo in un
bicchier d’acqua. Ce n’era ancora un po’
sul fondo, ma poteva gestirla.
“Siamo abbastanza
incasinati
in effetti…”
“Non è questo che ci rende ciò che
siamo?”
“Filosofeggi
ora?”
L’altro
aggrottò le
sopracciglia, un po’ offeso, ma poi sorrise, ancora. Pareva
non riuscisse a
smettere di farlo. “Vuoi concretezza?”
“Almeno uno di noi due…”
“Ti voglio per me.
La domanda
è un’altra…” Fece una pausa
per cui avrebbe dovuto strangolarlo. Poi realizzò
che Sören non stava facendo il cretino, stava esitando. Per
paura, come lei. “…
tu mi vuoi?”
Oh,
dannazione.
Si era stufata di
convogliare
le proprie emozioni attraverso le parole. Poteva usare la bocca per
altro.
E lo fece, afferrando la
povera, perfetta uniforme dell’altro e tirandoselo contro per
un bacio che non
fu né sexy né passionale alla romanza maniera,
quanto piuttosto una quasi -
testata.
Non aveva mai baciato
così
male in vita sua.
Sören
però non se ne ebbe a
male, da come ridacchiò (ridacchiò!)
e si staccò quel che bastava per prenderle il viso tra le
mani e baciarla. Sul
serio. Come aveva detto lui, profusamente.
(Che
bell’aggettivo che era.)
La forma perfetta di quel
bacio durò poco, perché Sören era un
piccolo soldatino di stagno solo in
apparenza. Dietro quella facciata di cortesia nordica si nascondeva ben
altro.
Fuoco, per la precisione. In quell’abbraccio, in quella serie
di baci in cui
era quasi difficile respirare, nelle sue dita che si infilavano trai
capelli
dell’altro, nel modo in cui quasi ribaltarono il tavolo da
lavoro e nel modo in
cui ve la fece salire, rovesciando oggetti e un paio di barattoli pieni
di roba
forse tossica, c’era un’esplosione di sentimenti,
sensazioni, scuse e chiarimenti.
E desiderio.
In fondo, non avevano mai
avuto bisogno di tante parole tra di loro.
“Lily…”
Mormorò con un accento
così pesante che si sentì rimescolata tutta. Per
quello e per il fatto che
glielo stesse dicendo con le labbra appoggiate sul collo. Era tutta un
brivido
caldo-freddo. “Lily, credo…”
Un improvviso, orrido rumore di catenacci e tentativi di forzare la
porta li
fece saltare in aria come due petardi di zio George.
“Ehi, perché diavolo il
capanno del nonno
è chiuso?! E che incantesimo ha usato?”
Era la voce di Freddy, che
stava allegramente tentando di forzare la porta, per fortuna chiusa con
un Colloportus di Sören:
se fosse stato uno
dei suoi di sicuro a quell’ora sarebbero stati in tre in
quella stanza.
“L’avrà
chiuso per evitare che
le gemelle vadano ad ammazzarcisi dentro.”
… quattro.
Era Dominique a parlare.
“Dai
Freddy bello, schiodiamo. Al laghetto sicuro staremo
tranquilli.”
“Cosa non si deve fare per fumarsi una paglia in
pace…” Sbuffò il cugino
lasciando finalmente la presa e allontanandosi.
“Beh.”
Disse con voce
arrochita da ben altro che l’erba che quei due sciagurati si
sarebbero fumati senza di lei.
“C’è mancato poco.”
Sören, che era schizzato ad un paio di passi di distanza al
suono della porta,
si schiarì la voce ma non le rispose, preferendo controllare
lo stato dei suoi
capelli. E strabuzzare gli occhi.
Oh,
tesoro, posso fare ben di peggio.
Era folle quello che era
appena successo, e le tremavano le gambe. Era folle e fantastico.
Ha
ragione, non avrei mai pensato che sarebbe finita
così.
Era felicissima di essersi
sbagliata: o meglio, una parte di sé aveva sperato che le
cose potessero finire
bene invece che con un addio, ma si era anche aspettata di trovare un
Sören
chiuso, quasi passivo.
Non
è più lo stesso ragazzo di cinque anni fa. Siamo
cambiati … e ci ha salvato questo.
Certo, rimaneva pur sempre
l’interrogativo degli interrogativi: come procedere da
lì in poi?
Si era sempre ritenuta una
tipa piena di risorse. Aveva un’idea.
“Ehi.” Lo apostrofò. “Vieni
qui, ci penso
io a quei capelli.”
Sören si
avvicinò docile,
guardandola di sottecchi e in silenzio. Era chiaro che
quell’exploit non avesse
sorpreso e scombussolato solo lei.
“Volevo…” Iniziò.
“Lo volevamo entrambi.” Lo zittì
passandogli le dita attraverso i capelli e
ordinandoglieli a dovere. “Mi sarei offesa se ci fossimo dati
un semplice
bacetto a sancire il discorso.”
“Ah.” Tentò un sorriso e persino
un’occhiata.
“Però
un capanno per gli
attrezzi forse non era il luogo adatto. Un po’
scomodo.” Dichiarò
raddrizzandogli il colletto con un colpo di dita e togliendogli una
traccia di
rossetto dall’angolo delle labbra. Movimenti che aveva
compiuto tante volte con
altri ragazzi, ma che adesso assumevano tutt’altra
proporzione.
Merlino,
con Ren. Sto rassettando Ren.
Il suo Ren, che pareva mezzo
morto d’imbarazzo e tuttavia non riusciva a toglierle gli
occhi di dosso,
soprattutto in direzione del vestito ancora sollevato sulle gambe.
Era normale che il suo cuore
stesse facendo le capriole come un bambino strafatto di zuccheri.
“Piace lo
spettacolo?” Non poté
fare a meno di stuzzicarlo, deliziata dall’avvampare violento
che ne conseguì.
“Lily.”
Borbottò. “Non
prenderti gioco di me.”
Tesoro, non ho neanche iniziato.
“Scusa.”
Rispose conciliante
tirandogli una ciocca di capelli ribelli indietro. “Dobbiamo
tornare di là,
però … Non per altro, ma siamo il padrino e la
madrina della festeggiata,
imboscarsi non è un comportamento molto
responsabile.”
Sören la
aiutò a scendere
porgendole la mano. “Tu, responsabile?”
“Ehi!” Erano sempre loro, e questa era la cosa che
più la tranquillizzava. Si
volevano, erano innamorati (entrambi
stavolta) ma Sören non la stava guardando come un premio
appena conquistato, e
lei non voleva strappargli di dosso i vestiti per dimostrare di avere
il
controllo della faccenda.
Erano cambiati dai due
adolescenti spaventati che erano stati, ma per certe cose erano sempre
loro:
lui che le offriva il braccio, e lei che lo prendeva.
È
proprio da noi.
Uscirono dal capanno e se lo
chiusero alle spalle. Fu allora che Sören la fermò
toccandole una mano,
indugiando a stringerle le dita. Da quando Freddy li aveva interrotti non si
era più azzardato a far niente oltre l’amichevole.
Era un po’ frustrante ma al
tempo stesso terribilmente da lui, il suo cavaliere senza macchia.
“Cosa
succederà adesso?”
Glielo chiese non per avere risposte, ma per sentire la sua opinione.
Lily quindi
decise di essere onesta. “Non lo so … come hai
detto, non mi aspettavo che ci
dicessimo quelle cose e che … beh, ci saltassimo addosso
dentro un capanno.”
Evitò di continuare perché l’altro
sembrava valutare l’idea di correre fino al
laghetto ad affogarsi per la mortificazione. “Comunque non me
ne pento.”
Si rilassò un poco. “Neppure io.” E
c’era altro che voleva chiederle ma non
aveva idea di come fare.
Per
fortuna conosco i miei polli.
“Per
quanto riguarda Scott…” Lo vide
irrigidirsi e gli venne voglia di abbracciarlo stretto. Il suo scemo
geloso. “Devo
chiuderla. Entrambi abbiamo bisogno di voltare pagina, glielo
devo.” Lo guardò
male. “E non sorridere!”
“Non lo sto facendo.”
Gli rifilò uno schiaffo sulla spalla.
“Sì, invece … e non è una
cosa bella.”
Sospirò perché non si era mai sentita
così da schifo all’idea di rompere con
qualcuno. Il problema era come la faccenda fosse controbilanciata da
sensazioni
che le facevano venir voglia di far promesse e dichiarazioni e, in
generale, agire
come sotto Rictusempra.
Non era il caso.
Con calma. Qua è tutto andato a
ramengo,
meglio avere dei punti fissi.
“Mi chiedevo
… stasera hai
qualcosa da fare?” La
mise giù
tranquilla, anche se giocherellare con il cellulare fino a spegnerlo
non era
considerabile come atteggiamento sereno. “Perché
… beh.”
“Anch’io
voglio stare con te.”
Anche stavolta le strinse poco più che la punta delle dita e
Lily si sentì come
la quindicenne che era stata, anzi, peggio, ben più fragile
e felice. Per
togliersi dall’imbarazzo decise di intrecciare la mano alla
sua, sperando di
non essere diventata dello stesso colore dei propri capelli: quello sarebbe stato imbarazzante.
Lo vide poi esitare, quasi
stesse combattendo contro due pensieri opposti. “Vorrei che
fosse chiara una
cosa però … Finché tu e Scott non
avrete chiarito non me la sento di
continuare.”
Avrebbe dovuto mostrarsi offesa per la mancanza di fiducia, ma era in
grado di
leggere dietro le righe. Voleva fare il cavaliere e la voleva tutta per
sé.
Da
scemo, ma comprensibile.
Quindi sorrise.
“Non ti
toccherò con un dito, promesso.”
L’ironia era il modo migliore per sciogliere i crucci
perché Sören finì per
scuotere la testa e sorriderle divertito. “Non è
delle tue reazioni che mi
preoccupo, ma delle mie.”
“Non vedo
l’ora!”
“Lily.”
Forse non era il caso di esser troppo scherzosa visto che la situazione
era
ancora precaria, così lo abbracciò di slancio.
Quello poteva farlo, no? “Ren,
risolverò questa situazione, te lo giuro. Ti fidi?”
Ricambiò
l’abbraccio con la
stessa intensità. Finivano sempre per stringersi un
po’ troppo, forse, ma
andava bene. Era nutrirsi della presenza dell’altro. Dovevano
affidarsi a
quello e sarebbe andato tutto bene. Ne era sicura.
“Sempre.”
****
Note:
E FINALMENTE. Sì, finalmente. Certo, i guai sono appena
iniziati, ma almeno un
punto fisso è stato messo e questi due idioti si sono
dichiarati.
Roxanne sarebbe fiera di me.
Qui
la canzone del capitolo.
Avviso agli utenti e
internauti: causa vita reale, un paio di vacanze e altra roba seriosa
temo che
il prossimo aggiornamento salterà. Non so quanto ci
metterò a scrivere il
capitolo, spero di riuscire a farlo nei ritagli di tempo, ma fino al 10
Marzo
non pensò avrò un momento libero. Have
faith!
Almeno, ora, la strada con la coppia più testarda del secolo
è in discesa. ;D
|
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Capitolo 40 *** Capitolo XXXIX ***
Capitolo XXXIX
Running
through the heat heart beat
You shine like silver in the sunlight
You light up my whole heart
(Love
like this, Kodaline)
29
Luglio 2028
Londra,
Piccadilly Circus.
The
Royal Inn, Mattina.
Milo sentiva che
c’era
qualcosa di diverso quella mattina.
Non aveva idea di cosa
però,
dato che si era svegliato come ogni giorno in una suite superba. Solo
dopo aver
fumato il primo spinello della mattina ed aver suonato un po’
di Tartini aveva
realizzato che più che un cambiamento era accaduta una mancanza.
Sören non si era
ancora fatto
vivo.
Bizzarro.
Il mago si svegliava sempre
prima di lui, a volte buttandolo persino giù dal letto con
le sue pretese
assurde. Non solo non l’aveva mandato a chiamare, ma non
aveva neppure palesato
la sua presenza in alcun modo.
Provò a chiamarlo
sulla linea
interna dell’albergo, ma quando non ebbe risposta decise di
agire: con la
colazione su un carrello e parecchi interrogativi in testa raggiunse la
stanza
dell’altro, dove i due soliti Auror svolgevano la funzione di
piantoni
annoiati.
“Ehi.”
Li salutò, scoccando un
sorriso suadente al più giovane che lo guardò
inorridito. Lo divertivano quei
piccoli lazzi. “Il pacchetto è al sicuro nella sua
stanza?”
“È
tornato ieri sera e non è
uscito.” Convenne il più anziano con un cenno
della testa e senza tradire
particolari emozioni.
Fu il giovane a segnalargli
l’anomalia, sorridendo divertito. “Beh, e
perché mai dovre…” Si bloccò
all’occhiata ammonitrice del superiore.
“… cioè, già.”
Concluse impacciato.
Mmh.
“Vado
a portargli la colazione
allora.” Aspettò che il vassoio venisse passato a
filo di bacchetta e poi bussò
alla porta. Nessuna risposta.
“Siete sicuri che
sia in
camera?” Domandò un po’ preoccupato,
visto che non era la prima volta che l’idiota
decideva di andarsene a spasso senza avvertire nessuno.
“Perché…”
“Siamo
sicuri.” Gli disse il
baffo austero del vecchio.
“È in compagnia.” Svelò
infine il giovane, perché pareva proprio il tipo che
non riusciva a tener la lingua al proprio posto.
“È con la signorina Potter.”
Ma va’?
Quella sì che era
una notizia
capace di gettar luce sul mistero. “Allora meno male che ho
ordinato abbondante
oggi. Con permesso…” Aprì la porta con
il passe-partout che si era fatto fare per
poi chiudersela dietro, praticamente in faccia al giovane che
occhieggiava
curioso all’interno.
Bene,
bene, bene…
Scandagliò
l’anticamera, ma
non c’era alcun capo di vestiario lasciato a morire sul
pavimento, né tantomeno
qualche segnale di sesso selvaggio come sedie rovesciate o
suppellettili
infranti.
Si
sono Materializzati in camera e si sono fatti
Disapparire i vestiti? Ma bravi!
“Buongiorno
principino!” Vociò
con forza, spalancando le imposte della stanza e cominciando a
fischiettare una
nota aria da operetta che ricordava l’altro detestasse.
“Sorgi e cammina!”
Continuando a non avere
risposta sbatté rumorosamente il vassoio della colazione sul
tavolo. Fu
ricompensato di tutti i suoi sforzi, perché pochi attimi
dopo la porta della
camera da letto venne aperta e ne uscì un assonnato e
piuttosto irritato mago
di sua conoscenza.
“C’è
bisogno di far tutto
questo rumore?” Sibilò con i capelli piegati in
angoli irregolari a causa del
gel che non si era tolto. “E
poi che ore
sono?”
“Le nove e mezzo
Signore.”
Rispose in farsesco ossequio, disponendo due tazze e riempiendole
entrambe di
the. A Sören non sfuggì il particolare da come
aggrottò le sopracciglia e perse
un po’ di colore. “Siete in due, no?”
Ghignò con una punta di malvagità del
tutto naturale vista la situazione: e poi prenderlo per il sedere era
una delle
sue più grandi gioie.
“Chi…”
“Posso azzardare la natura del nostro ospite?”
“Te
l’avrà detto Carruthers.” Concluse
infossando le spalle e incrociando le braccia al petto. “E
comunque non sono…”
“… se stai per dire che non sono affari miei ti
lancio la teiera.” Lo
interruppe di nuovo sciaguattandone il contenuto per dimostrargli che
era
piena.
Mi
hai fatto stare in ansia per tutta la notte, mago
idiota!
E la preoccupazione non era
stata smorzata neppure dalla presenza di Michel, perché
l’altro gli aveva
rifilato un picche causa cena di famiglia.
Sto
cominciando a volerlo vedere tutti i giorni. Male,
molto male.
Ma
comunque…
Sören pareva
concentrato sulle
due tazze, quasi da esse dovesse provenire la risposta a tutti i
quesiti
dell’universo. Poi di colpo sorrise e non era uno di quei
suoi sorrisi da
eroina tisica vicina alla morte. Era un sorriso pieno, quasi enorme per
i suoi
standard.
“Le mie
aspettative sono state
disattese.” Disse soltanto.
Tradusse non in linguaggio
di
fine settecento e interiorizzò. Non c’era che una
cosa da dire. “Quindi te la
sei sdraiata!”
Sören diventò dello stesso colore delle tende, un
corposo rosso cremisi, in un
mix di imbarazzo e rabbia deliziosi. “Non essere
triviale.” Sibilò. “Non è
questo il punto.”
“Certo che lo è. È da anni che
vuoi…” Smise perché l’altro
poteva non avere una
bacchetta a portata di mano ma dalla faccia gli stava assicurando che
poteva
comunque fargli molto male. “… okay, dai, che
è successo? Racconta!”
Sören
tornò a quell’espressione
tutta illuminata, da albero di Natale. “Mi vuole.”
“Beh, questo mi pare…”
“No, non hai capito.” Ripeté paziente
sciogliendo le braccia e prendendo la
tazza di the che gli porgeva per darsi un contegno. “Vuole stare con me.”
“Oh.” Le
parole per il
maghetto erano cose importanti, da pesare con cura. E la loro lingua
non era
generica come quella inglese. C’era un intero mondo dietro
quella frase e il
sorriso enorme era
solo un corollario.
Non gli restò che ricambiarlo. “Complimenti
principino … bel colpo!”
Sören
annuì, perché con quel
breve scambio di frasi doveva aver esaurito la sua vena dialettica. Lo
lasciò stare
per qualche minuto limitandosi a servirgli la colazione.
Dopotutto
s’è appena svegliato. Oops.
La curiosità non
riuscì però a
tenerlo zitto per molto. “Senti, te lo devo chiedere
… ma quindi…”
“Cosa?”
“Come te l’ha detto? Dichiarazione con tanto di
violino e tramonto d’insieme?”
Sören inarcò le sopracciglia. “Sei un
ficcanaso.”
“È nel sangue di ogni ragazzo gay.”
Tagliò corto sedendosi sul bracciolo della
sedia opposta. “Racconta.”
Con
tutto quello che ho patito per i tuoi stupidi
patemi, principino, me lo devi!
Sören si
rigirò la tazza di
the tra le mani, ritroso come solo lui poteva essere. Durò
poco però, perché
era evidente volesse raccontare la faccenda a qualcuno. E quel qualcuno
doveva essere lui.
“Dovevamo chiarire
la
questione del bacio in ospedale … l’abbiamo fatto
dopo il battesimo, nel
capanno degli attrezzi di suo nonno.”
Schioccò la lingua. “Torbido, mi piace. E come vi
siete chiariti? A colpi di
lingua?”
Con suo enorme divertimento
l’altro non saltò su per protestare e difendere
l’innocenza di quella
chiacchierata, anzi, diede un vigoroso sorso al the e finse che non
fosse
bollente, nonostante le lacrime all’angolo degli occhi.
Ridacchiò
incredulo, ma
neppure troppo: quei due avevano sempre mostrato una vigorosa quanto
irrisolta
tensione sessuale a
chiunque avesse la
sfortuna di incrociarli assieme. O separatamente, se era per quello. Ci
avevano
messo anche troppo a scoppiare.
“Fammi capire, vi
siete ravanati?”
“Milo!”
Ringhiò.
“Cosa?”
Era comico vedere come
l’altro fosse combattuto tra l’incazzarsi per
l’invasione triviale della sua
privacy o assentire con maschio gongolamento.
Sei
proprio un piccolo etero prevedibile,
principino.
“Ci
siamo lasciati un po’ andare…”
Ammise a mezza bocca, lanciando occhiate nervose verso la porta della
camera
quasi avesse paura di veder spuntare la sua preziosa ospite.
Se
Zenzero fosse qui non solo confermerebbe tutto, ma
mi darebbe man forte.
Mica
l’ho chiamata Zenzero per niente…
“Quindi avete
fatto sesso?”
Sören fece una
smorfia
sdegnata. “Perché per te gira tutto attorno a
quello?”
“Perché
è così?” Allargò le
braccia, chiedendo agli dei perché avesse avuto la sfortuna
di avere un padrone
tanto fesso. “E poi scusami se notifico l’ovvio, ma
te la sei portata in
camera! Cosa dovrei pensare?”
“Che abbiamo solo
dormito
assieme.” Borbottò, forse per la prima volta
mostrando doveroso rimorso
all’idea di non averne approfittato.
Anche
perché francamente Zenzero non mi pare ami
negarsi. Anzi.
“Sicuro che
funzioni tutto là
sotto?”
Per tutta risposta
Sören,
rosso come un peperone maturo, contemplò distratto la pila
di piccoli sandwich
ma non ne prese neppure uno.
“Piuttosto sicuro,
sì.”
Mugugnò. “E poi con una strega si può
anche parlare.”
“Sì, lo so, con loro non faccio altro, ma
tu?”
“Ci sono delle
cose che devono
esser sistemate, deve ancora lasciare il suo ragazzo.”
Vedendo che quella
spiegazione non lo soddisfaceva sospirò. “Non
è stata una decisione che abbiamo
preso a cuor leggero. È stato inaspettato. Non pensavo che
sarebbe finita così,
non immaginavo che…” Esitò, e apparve
di nuovo quell’aria di incredulità
felice, tipica dei vincitori delle lotterie o degli innamorati.
“… non
immaginavo che ricambiasse i miei sentimenti.”
Sbuffò, perché quella storia d’amore e
di esaurimento mentale finalmente aveva
avuto una svolta: aveva anche fatto girare le palle a mezzo mondo
magico, ma
quella era un’altra storia. “Posso dirti te
l’avevo detto?”
Sören cedette alla
frecciatina
con un mezzo sorriso. “Sì.”
Rubò uno dei
sandwich e se lo
ficcò golosamente in bocca. “Quindi aspetti che
Ross sia uscito dalla
fotografia?” Al posto suo avrebbe spinto finché
non l’avesse scaraventato di
sotto, ma ogni essere umano era diverso.
E
sono tendenzialmente tutti più stupidi di me.
Sören si strinse
nelle spalle
come se non fosse un problema. “Gli parlerà il
prima possibile.”
E tu le credi?
Ovvio che sì,
glielo leggeva
addosso come una pergamena stampata a caratteri cubitali.
Sören aveva sempre
avuto un doppio standard con Lily Potter e quella faccenda non
costituiva
un’eccezione.
Fidarsi
di nessuno, tranne che di lei.
Si appuntò
mentalmente di fare
un bel discorsetto motivazionale a Zenzero, e il prima possibile. “E lei
è nel tuo letto adesso?”
“Sta dormendo,
l’hai quasi svegliata
prima.” Lo accusò con il piglio di chi denunciava
un diritto capitale.
“E allora che
cavolo stai a
parlare qui con me? Va’ da lei!”
Era la prima volta che
vedeva
il principino obbedire così rapidamente.
****
Lily era sua.
Cioè, non sua.
Non di sua
proprietà come un orologio o una bacchetta, né
come una casa o qualcosa di
prezioso. Ovviamente no.
Era sua perché
gli aveva
permesso di appartenerle. Era sua da toccare e baciare ed era una cosa
così
strana, così straordinaria che non sapeva cosa farsene e
quindi, una volta
tornato in camera e controllato che dormisse ancora, si era limitato a
sedersi
su una delle poltrone per contemplare lo spettacolo di averla nel suo
letto.
Milo gli avrebbe di certo
dato
dell’idiota, e non poteva negare avesse ragione, ma Lily
l’aveva scelto, non
come amico o povera creatura da salvare ma come uomo e con il tempo,
forse,
anche come compagno.
C’era tanto da
digerire.
Eppure c’era stato
un momento
in cui aveva sperato. Perché quando l’aveva vista
sul sagrato della chiesa, quando
gli aveva detto che non si era tenuta per sé quel loro bacio
come qualcosa di
sporco, da nascondere, ma che l’aveva addirittura detto a
Scott causando la
rottura del loro rapporto, una minuscola speranza gli si era accesa nel
petto.
Non
è stato un errore. È stato un segnale.
Era grazie a quella piccola
fiamma che le aveva parlato nel capanno, che non si era fermato alle
sue paure e
non aveva sbagliato. Lily era innamorata di lui come lui lo era di lei.
Lily lo
voleva.
C’era un caso a
cui doveva
dedicare i propri pensieri, una famiglia che tormentava la sua
coscienza come
una lama avrebbe fatto sulla pelle, ma in quel momento, mentre Lei dormiva raggomitolata tra cuscini e
lenzuola, non riusciva a preoccuparsene.
Ti
ho voluta per così tanto tempo…
Si sporse per contarle le
efelidi, poche e tutte vicino al naso come una piccola corona, e il
desiderio
fortissimo di baciarla lo stordì come uno schiaffo. Non
voleva svegliarla però.
“Guarda che sono
già sveglia…”
Lily era una LeNa e non era facile passare inosservato in sua presenza.
Si
schiarì la voce, piantando lo sguardo sulle tende
perché sì, erano
terribilmente interessanti. “Non me n’ero
accorto.”
La padrona incontrastata del
suo letto gli sorrise e si stirò come un gatto.
“Ren, invece di star lì a
guardarmi che ne dici di venire a darmi il buongiorno?” Tese
le braccia in un
gesto inequivocabile, persino per lui. “Se non è
chiaro, voglio un bacio.”
Era una fortuna che Lily
fosse
per sua natura diretta, perché ci sarebbe voluto un bel
po’ prima che trovasse
il coraggio di avvicinarla di propria sponte. Con
un’autorizzazione invece non
era un problema raggiungerla a letto e prenderla tra le braccia. E
baciarla, a
lungo, con la meravigliosa sensazione di sentirla assonnata e
arrendevole contro
di sé.
È
diverso dal bacio di ieri…
C’erano diversi
tipi di baci,
era evidente: quello della sera prima era stato violento, confuso e poi
appassionato, di una passione che aveva avuto bisogno di tutto il suo
controllo
mentale per quietarsi. Quello attuale invece era languido, ma non meno
pericoloso, perché il modo in cui le mani di Lily vagavano
sulla sua schiena, risalivano
lungo la nuca solleticandola e poi verso il collo, non gli davano molta
stabilità. Soprattutto mentale.
“Lilian…”
Borbottò, perché
aveva fatto una promessa, ed era suo dovere rispettarla,
checché Milo ne
dicesse. “… smettila.”
“Di fare cosa?” Gli venne chiesto con
un’innocenza falsa come l’oro di un
Lepricauno. Gli occhi le brillavano divertiti, ed erano come il canto
di una
sirena per un povero pescatore.
Di quel passo sarebbe finito
affogato.
“Ne sei
perfettamente
cosciente.” Ribatté cercando di suonare
autorevole, nonostante avesse sempre
più voglia di gettare alle ortiche il suo codice
d’onore e lasciare che l’altra
lo ammaliasse senza possibilità di ritorno.
L’osservazione dovette fare il suo
effetto però, perché Lily lasciò
cadere le mani ed annuì, con un piccolo
broncio adorabile.
È
un problema.
“Hai ragione,
abbiamo fatto un
patto.” Convenne trasformandolo in un sorriso di scuse.
“È che sei così…”
“Così?”
“Delizioso.”
Terminò ridendo
della sua espressione contrariata. “Andiamo, è un
complimento!”
“L’inglese non sarà la mia lingua madre,
ma non mi risulta.”
“Molto affascinante allora?” Lo blandì
passandogli un dito sulla guancia. “Che
deve farsi la barba perché pizzica?”
Quello era un buon
suggerimento, perché prima, troppo preso a contenere Milo,
si era dimenticato
di lanciarsi un incantesimo di rasatura e passarsi la lozione
corrispondente.
“Vado…”
“Da nessuna parte.” Lo bloccò
afferrandolo per le braccia. “Mi piacciono gli
uomini barbuti.”
“Ma se hai appena
detto…”
“Imparerai che come ragazza solo molto più
incostante che come amica, Ren. E
adesso ti voglio qui.”
Sospirò: avrebbe
voluto farle
notare che anche come amica era riuscita comunque
a comandarlo a bacchetta sin dal primo giorno, ma la realtà
era che non gli era
mai dispiaciuto. La sua educazione d’altri tempi era un
po’ ingombrante in un
mondo dove i costumi Babbani spesso si confondevano con quelli magici e
quindi
ragazze come Ama, fin troppo autonome, lo rendevano impacciato ed
insicuro. Avere
a che fare con la sua piccola strega inglese era sempre stato facile
invece: viziarla
era poco oneroso oltretutto, perché nelle sue pretese
c’era spesso più gioco
che desiderio reale. Lasciò quindi che gli si accoccolasse
contro passandole un
braccio attorno alla vita e baciandole la testa. Poteva
farlo e quindi lo fece.
“Ho sentito la
voce di Milo
prima… era di là?” Gli chiese dopo un
po’, studiando il suo anello come il
resto della sua mano, dito per dito con la minuzia di un Tracciatore.
“Sì,
è venuto a portarmi la
colazione come al solito … portarci, a dirla tutta. Ha
notato la tua presenza.”
Rispose incerto. Forse avrebbe dovuto riflettere prima di spiattellare
tutto
all’altro.
Lily non diede segno di
essersela presa, ma neanche di averlo sentito dato che continuava nella
sua analisi,
togliendogli l’anello e infilandoselo all’indice,
dove ballò fin troppo largo.
Sören si chiese se quell’invasione del suo spazio
personale, simile a quella di
una bambina curiosa, fosse qualcosa che l’altra voleva fare
da parecchio. Ne
sembrava molto soddisfatta.
“Per te va
bene?” Si azzardò a
chiederle.
“Che tu gli abbia
detto di noi?
Ma guarda che già lo sapeva, cerca di metterci assieme da
quando sei tornato!” Esclamò
dandogli un bacio a fior di labbra che non aveva contesto, ma
gradì moltissimo
proprio per quello. “E poi ti vuole bene e tu ne vuoi a lui.
Se Roxie è stata
la mia confidente Milo dev’essere stato il tuo. Era
inevitabile che facesse due
più due!”
Non le sfuggiva niente.
Forse
avrebbe dovuto far lavorare lei al Demiurgo al posto suo.
“Quindi non è un
problema?” Ripeté, perché non avevano
ancora definito nulla, sebbene la notte
prima avessero parlato a lungo prima di addormentarsi.
Non
abbiamo parlato molto del futuro però.
Anche perché da
lì a due
giorni una Passaporta l’avrebbe riportato a Boston salvo
cambiamenti. E non era
argomento che avevano voluto affrontare.
Perché
di cambiamenti non ce ne sono stati.
Lily dovette indovinare
qualcosa dalla sua espressione, perché saltò a
sedere sul letto. “Ehi, no … certo
che non è un problema.” Mormorò,
perché pareva che certe cose andassero
mormorate. C’era più enfasi in un sussurro che in
un urlo a volte. “Voglio
stare con te, Ren. E intendo sul serio. Tenerci per mano, luce del sole
e
sguardi della gente. Tutto il pacchetto.” Si morse un labbro,
perché quando era
imbarazzata quello era il segnale. E le orecchie rosse anche, ma aveva
i
capelli a coprirle adesso. “… hai aspettato fin
troppo.”
“Posso aspettare
tutto il
tempo che serve.” Obbiettò tranquillo.
Perché si rendeva conto che non sarebbe
stato semplice annunciare al mondo che la figlia di Harry Potter stava
con un
ex-galeotto ex-mago oscuro e tutt’ora Tracciato. Certo, Lily
viveva in una
realtà tutelata, grazie ai paletti che suo padre aveva
sempre imposto alla
società in cui viveva la sua famiglia, ma
nell’improbabile caso l’opinione
pubblica non avesse messo becco sulla loro storia rimaneva sempre il
temibile
Clan Weasley.
Scott
Ross è un mago che chiunque vorrebbe integrare
nel proprio albero genealogico. Io no.
Per tutta risposta e per
tanta
abnegazione, ricevette uno schiaffo sulla spalla e
un’occhiata di fuoco. “Io non
voglio aspettare!” Sbottò la leggiadra dama del
suo cuore puntellandosi per
torreggiargli sopra. “Niente sotterfugi che durano anni come
James e Ted, né
tantomeno il detto non detto di mio fratello Al … Col
cavolo! Io se sto con
qualcuno lo voglio sfoggiare!”
“Sfoggiare?”
Avrebbe dovuto sentirsi
leso nel suo orgoglio di mago, ma le sparate di Lily avevano una vena
comica imprescindibile.
Come faceva ad arrabbiarsi quando la sua interlocutrice gonfiava le
guance come
una bambina piccola?
“Non intendevo
dire come un
trofeo …” Borbottò con lo sguardo di
chi capiva di averla sparata grossa. “…
insomma, hai capito.”
“No, temo di
no.”
Potevano giocare a quel
gioco
in due. Lily inarcò le sopracciglia sorpresa, ma il sorriso
non si spense. “Okay.”
Si arrese assumendo un’aria ragionevole. “Intendo
che voglio render chiaro che
sei il mio ragazzo, così nessun altra strega con manie di
conquista ti si
avvicinerà.”
Cercò di non suonare come un ragazzino eccitato dalla sua
prima scopa da corsa
quando realizzò che l’altra aveva detto proprio ragazzo, e non amico.
“Puoi portarmi degli esempi?”
“La conosci,
è americana e
molto antipatica.”
“Ama
è…”
“Qualcuno di cui non dovrai mai parlare con me.”
Terminò per lui, buttandoglisi
addosso per stringerlo più come un cuscino che come un
essere umano. Non che
avesse di che lamentarsi. “Comunque
ti
ho visto prima io.” Soggiunse picchiettandogli sul petto per
sottolineare il
concetto. “Hogwarts, Sala Grande … e tu non mi
considerasti neanche!”
“Ti ho considerato.” Ribatté
perché non si sarebbe mai scordato quell’incontro,
anche se adesso era una persona talmente diversa da non riconoscersi
più nel
ragazzo che aveva conosciuto la quindicenne Lily Potter. “Non
ho mai smesso di
farlo.”
E questo mi ha salvato la vita in modi
che neppure immagini, mia Lilian.
Sembrò
rasserenata dalla risposta
perché gli lasciò andare i polsi, piuttosto
doloranti, e lo osservò con aria
meditabonda.
“L’appartenenza
è reciproca,
lo sai vero?”
“In che
senso?”
“Che se tu sei il
mio ragazzo
… io sono la tua ragazza.” Esitò.
“Mi sa che lo sono sempre stata.”
In quelle ultime ventiquattro ore c’erano state troppe cose
che avevano mandato
al diavolo tutte le sue certezze. Quella era solo l’ennesima.
“Sì?”
“Tu che
dici?”
Era propenso per un
sì ma non
lo dimostrò a parole. Poteva baciarla e l’avrebbe
fatto finché non gli avesse
detto basta. Cosa che per fortuna non sembrava intenzionata a fare.
Fu l’irritante
squillo di un
cellulare che li fece staccare. “È il
mio.” Borbottò Lily con aria contrariata
allungandosi a prendere la bacchetta sul comodino per Appellarlo.
“Se prendi
una pausa dal mondo, il mondo ti viene a cercare.”
Sentenziò scorrendo lo
schermo con un tocco del pollice. Aggrottò le sopracciglia e
da come si
irrigidì capì di dover sciogliere
l’abbraccio, cosa che fece a malincuore.
“Tutto a
posto?”
“Sì
… è Scott.” Rispose
contraddicendo la frase. Perché non era tutto a posto e si
trovò nella scomoda
posizione di non sapere cosa fare di sé stesso. Decise di
sedersi sul ciglio
del letto, mentre Lily rispondeva al messaggio, si alzava e raccoglieva
le sue
cose.
“Vai a
parlargli?” La domanda
gli uscì più secca di quanto avesse voluto, ma
non poteva evitare di provare
fastidio all’idea che Lily fosse pronta a scattare in piedi
quando Ross la
chiamava.
Sei
la mia ragazza adesso. Non la sua.
Lily si infilò le
scarpe,
evitando accuratamente di guardarlo. “Gli ho detto che ci
vediamo stasera.”
“Gli
parlerai?”
“Ti ho detto di
sì!”
“No, non
l’hai fatto. Hai solo
detto che dovete vedervi.”
“Dai, era sottointeso!” Data la stizza delle
risposta intuì di aver spinto troppo,
ma chiedergli scusa era fuori discussione. Era disposto ad aspettare
che
chiarisse con lo scozzese, ma non era disposto a farlo con il sorriso
sulle
labbra.
“Non ti fidi di
me?”
Alzò lo sguardo e
registrò un’espressione
di sfida: Lily cercava un pretesto per litigare perché il
messaggio di Ross
l’aveva fatta sentire in colpa ed aveva quindi bisogno di una
valvola di sfogo.
Aver analizzato la
situazione
lo fece sentire un po’ meglio. “Mi fido di
te.” Rispose quindi con onestà. “Ma
per quanto necessario, non amo che passi del tempo con lui.”
Lily sbuffò,
incerta se
rispondergli di nuovo male o arrendersi. “Per lasciarlo del
tempo ce lo devo
passare per forza.” Si risolse a dire. “Sei
irragionevole.”
“Sono geloso.”
L’onesta non
pagava sempre, ma
a volte sì. Con Lily aiutava, visto che dirle le cose in
maniera diretta invece
che fargliele capire come LeNa facevano guadagnare punti ai suoi occhi.
Si
abbassò infatti alla sua altezza, mettendogli le mani sulle
ginocchia in un
gesto che sperò fosse di distensione. “Lo
sei?” Chiese retorica, ma non era
quello il punto.
Resa
alle armi.
“Scoprirai che
come ragazzo
sono molto più geloso che come amico.” Rispose
interpretando la frase che gli
aveva detto prima. “Va’ da Scott … ma
poi torna da me.”
“Cavernicolo.”
Le prese la mano e la
baciò, trattenendosi
un momento di più perché poteva.
“Preferisco vecchio stile.”
Lily ridacchiò,
scoccandogli
un bacio sulla guancia che gradì più che se
l’avesse baciato sulle labbra:
c’era una richiesta silenziosa di aspettarla e la
accettò. Non poteva far
altro.
****
Scozia,
Hogsmeade.
Casa di James Potter e Ted Lupin, Mattina.
Non era riuscito a rimanere
alla Tana fino all’ora di pranzo, nonostante avesse detto a
Ted che sarebbe
tornato nel primo pomeriggio. Non c’era riuscito
perché era una chioccia,
avrebbe detto Malfuretto.
Che poi, in fondo, aveva
pure
ragione.
Uscendo dal focolare tra
sbuffi di fuliggine e fiamme verdi si preoccupò di
rinfrescarsi un po’ i
vestiti e l’alito, oltre che togliersi la cenere di dosso;
non aveva la minima
intenzione di farsi bacchettare perché aveva fumato come una
ciminiera in
quelle ultime dodici ore.
“Sono
tornato!” Si annunciò
occhieggiando la posta del giorno impilata sul camino.
Pubblicità e una lettera
dagli Scamandro, tutte buste intonse: Teddy non si era ancora alzato.
Se
c’è andato, a letto.
Andò a
controllare in camera e
come immaginava trovò il letto come l’aveva
lasciato la sera prima.
Okay
… allora è con Ben.
Benedetta, per la quale
avevano adattato una cameretta a piano terra, ricavandola dalla stanza
degli
ospiti, rinforzandola con sbarre e barriere magiche, ma anche con
cuscini e
peluche per non farla sembrare una prigione.
Non annunciò il
suo arrivo,
visto che era molto probabile che i due stessero ancora dormendo.
Preferì invece
togliere il Colloportus alla
maniglia
e infilarsi di soppiatto, anche solo per controllare che fosse tutto a
posto.
È
uno scricciolo … ma non ho idea di che taglia
raggiunga quand’è trasformata.
E non l’avrebbe
saputo, visto
che la individuò subito, raggomitolata tra un mucchio di
coperte, un paio di
peluche e una forma animale dal manto grigio-bianco che era tutto
fuorché un
pupazzo visto la stazza in scala uno ad uno. Strinse la bacchetta,
prima di
ricordarsi a cosa quella sagoma corrispondeva.
Qualcuno
si è addormentato trasformato …
Rimise l’arma nel
fodero della
giacca e si avvicinò con un sorrisetto: Ted aveva usato i
suoi poteri per
diventare un lupo, la cosa più simile ad un licantropo ci
fosse e Ben doveva
aver apprezzato la cosa da come le manine cingevano il grosso testone
peloso.
Prevedibile,
ma ben pensato Lupin.
Si accovacciò
alla loro
altezza, studiando con attenzione i due profili. Entrambi sembravano
stare
bene, e Ben esibiva solo un paio di graffietti superficiali sulle mani
e sulle
braccia, nulla che una pomata non avrebbe potuto far sparire
all’istante. Le
scompigliò i capelli giù arruffati per conto loro
e ridacchiò al brontolio da
animaletto che ne conseguì.
Considerò un paio
di varianti
e poi decise il da farsi. La prese quindi in braccio, aggiustando la
coperta in
modo che non prendesse freddo. La bambina sbatté le palpebre
insonnolita,
identificandolo con occhi che mantenevano ancora una traccia di
ferinità.
“Jamie,
‘ao.” Sentenziò però
in perfetto umanese, afferrandogli
una ciocca di capelli alla base della nuca e strattonando, in uno
strambo
saluto che rischiò seriamente di commuoverlo a morte.
“Ciao
pulce.” Replicò con un
orrido tremolio in fondo alla voce che per fortuna non ebbe nessun
testimone.
“Nottataccia?”
“Sonno.”
Gli venne risposto
con un sonoro sbadiglio. “C’era lupo.”
Si chiuse la porta alle
spalle, perché se Teddy non si era svegliato significava che
aveva ancora
bisogno di farsi qualche buona ora di sonno. “Un
cosa?”
“Lupo.”
Ripeté in italiano prima di aggrottare le sopracciglia e
mimare un ringhio piuttosto efficace.
“Ah, un
lupo!” Tradusse per
lei. “Era Teddy.”
La bimba si divincolò di colpo sveglia e dovette trattenerla
perché non crollasse
a terra. “Teddy è un lupo?”
“È un
Metamorfomago …
significa che è un mago in grado di trasformarsi come gli
gira. Cambiare colore
di capelli, pelle e anche diventare un lupo se gli va. Hai visto che
cose buffe
fanno i suoi capelli, no?”
Ben parve molto
impressionata.
“Sì, visto. Come un superpotere?”
“Preciso come un
super-potere.”
“Bello!”
“Vero?”
Convenne salendo le
scale e occhieggiando che non avesse altre ferite, magari nascoste
dalla
coperta in cui l’aveva avvolta. Da come si agitava era poco
probabile.
Allora
è andata bene.
Era un sollievo cento volte
più forte che vedere i Chudleys parare una Pluffa.
“Io mi trasformo
in un lupo.
Solo.” Replicò sorprendendolo. Quindi sapeva cosa
le succedeva ad ogni
plenilunio.
Lunastorta
glielo ha spiegato? Devo dirlo a Teddy.
“Eh,
già.” Convenne senza
impegno mettendola a letto. “Piuttosto figo anche quello,
no?”
Ben fece spallucce.
“Mi viene
sonno … Dormo ed ho un po’ di fame. È
noioso.”
Solo grazie all’Antilupo piccola.
Altrimenti sarebbero guai.
“Allora
dormi.” Le consigliò portandole
il pupazzo che preferiva, l’orsetto con cui era uscita dal
San Mungo e che Ted
aveva comprato per lei. “Ci vediamo giù quando hai
voglia di riempirti la
pancia. Se ci sono problemi, fai un fischio.” Mimò
il fischio facendola
ridacchiare. “Siamo intesi?”
Ben aggrottò le
sopracciglia,
ma poi con piglio sicuro gli mostrò il pollice come gli
aveva insegnato.
“Okay!” Da qualche parte, il suo piccolo Scorpius
mentale ridacchiava
soddisfatto.
Sì,
rompipalle, sono ad un passo da metterle il mio
cognome. Già mostro le sue foto a tutto
l’ufficio…
Che
cazzo.
Le baciò la
testolina e poi
tirò le tende con un colpo di bacchetta, cosicché
potesse riposare nonostante
il brillante sole mattutino.
Per
quanto mi ricordo da DADA ci metterà tutta la
giornata a smaltire l’Antilupo ora che è umana.
A proposito di Difesa contro
le Arti Oscure, era ora di far visita al suo vecchio-giovane
professore. Tornò quindi
nella stanza degli ospiti, dove Ted pareva ancora del tutto
intenzionato a
rimanere a quattro zampe. Il che era piuttosto divertente.
È
davvero così stanco che non riesce a tornare umano?
C’era una cosa che
però non
poteva esimersi dal fare, vista la situazione; si accoccolò
a fianco dell’altro
e passò una mano tra la folta pelliccia della schiena.
Aw,
morbida! Sembra vera!
Il che era ovvio visto che
Ted
era un mago piuttosto eccezionale e quello era, a conti fatti, il suo
vero
super-potere. “Penso che ti chiamerò
Fuffi.” Sentenziò ad alta voce
svegliandolo. Un paio d’occhi dorati lo fissarono con
un’irritazione che era
tutta umana. “Ehi, sei tu che hai quattro zampe ed un muso,
Signor
Metamorfomago, mica io!” Gli fece notare grattandolo dietro
le orecchie. Con
suo enorme divertimento non gli venne intimato di star buono ma si
trovò una
testa di lupo sulle ginocchia. “Sì, Fuffi
è perfetto.” Ribadì. “Se ci
pensi,
non è peggio di Teddy.”
Un ringhio basso lo
avvertì di
farla finita stavolta, mentre Ted perdeva pelo in favore di capelli e
pelle e i
tratti ferini tornavano umani, in una trasformazione che persino dal
punto di
vista di un mago era stupefacente per la sua naturalezza. Era uno
spettacolo
raro a cui assistere, visto e considerato che Ted difficilmente
arrivava a
compiere trasformazioni complete nella vita di tutti i giorni.
Non
che gli servano, fa il professore. Al massimo si fa
sparire la barba o si fa venire i capelli normali quando è
tra Babbani.
Comunque, ora che lo aveva
di
nuovo bipede, poteva porgli qualche sacrosanta domanda.
“Com’è andata ieri
sera?”
Per tutta risposta il
compagno
si indicò la gola e scosse la testa.
“Non puoi ancora
parlare?” Aveva
senso, se si pensava che aveva passato tutta la notte in
un’altra forma. Era
probabile che parte di lui fosse ancora lupo, aspetto esteriore a parte.
Che
dev’essere la cosa più facile da recuperare.
“Ho portato a
letto Ben…” Ted
annuì come ad intendere che se n’era accorto.
“… abbiamo anche chiacchierato un
po’ anche se era piuttosto stesa dall’Antilupo.
Stava bene però, qualche
graffietto da poco.” Il modo in cui lo sentì
rilassarsi contro di lui gli diede
una misura piuttosto efficace di quanto fosse stata dura la notte
prima. Non
per lo scricciolo, che doveva aver sonnecchiato mansueta per la maggior
parte
del tempo, ma per il compagno che doveva esser stato un fascio di
nervi. Quel
pensiero gli diede il coraggio di continuare. “…
la prossima volta voglio esserci,
intesi?”
Ted batté le
palpebre aprendo
bocca salvo chiuderla contrariato. Non c’era bisogno che
parlasse, poteva
immaginarsi benissimo le obiezioni.
“Non se ne parla.
Non me ne
andrò dai miei o alla Tana al prossimo Plenilunio,
è fuori discussione. Userò
qualche incantesimo di mascheramento se il problema è il mio
odore. Per Ben
puoi bastare tu forse… ” Sospirò e
decise di farla corta. “… ma tu non basti di
certo a te stesso.”
Ted non provò a
trovare la
voce stavolta. Buon segno, significa che lo stava ascoltando e non
stava
pensando a fargli cambiare idea.
“Io e te stiamo
assieme, e stiamo
alla grande. Ci abbiamo messo anni a raggiungere questo punto, ed
è un gran
punto.” Accarezzargli la testa e fissare un mucchio di
cuscini era molto più
semplice che guardarlo in faccia. “Ma non siamo arrivati alla
fine della
strada. Ben ne ha aperta un’altra … ed io non
voglio restare a montare le
tende.” Che era una metafora del cazzo, ma Teddy era un
intelligentone e
l’avrebbe colta. “Quello che sto cercando di dire
è … Voglio che siamo una
famiglia, una vera. Io, te e lo scricciolo. Assieme.”
Non era facile tornare a
pensare come un essere umano quando per ore eri stato
tutt’altro.
Ted era stanco, confuso e
tutto quello che voleva era stringere il suo umano …
cioè, James, il suo
compagno e avere la certezza che tutto andava bene, perché
era così quando
c’era James. Niente di male succedeva quando era in sua
compagnia. E se
succedeva, si poteva affrontare.
Però le parole
che l’altro gli
stavano dicendo avevano un significato, anche se alle sue sinapsi
sembravano
stringhe di suoni senza senso.
“Quello che sto
cercando di
dire è … Voglio che siamo una famiglia, una vera.
Io, te e lo scricciolo.
Assieme.”
Anche con la testa confusa
Ted
capì che James voleva dirgli qualcosa e che se glielo diceva
con quel tono teso
e con quella postura rigida significava che aveva paura di aver detto
la cosa
sbagliata.
No,
Jamie, no.
Quel primato di solito
spettava a lui. Si alzò a sedere –
perché adesso poteva, visto che aveva due
braccia e due gambe, Merlino, non sarebbe rimasto più
trasformato per così
tanto tempo – e mise a fuoco i lineamenti
dell’altro, l’ombreggiatura di barba
morbida e gli occhi nocciola che gli sfuggivano. Aveva paura, il suo
Jamie, e
doveva averla combinata grossa se si sentiva così.
“Se è
… cioè, siamo sulla
stessa lunghezza d’onda.” Prese il respiro solo per
continuare a fiume, tipico
modo dei Potter per tener sotto controllo l’ansia.
“Chiaro, Benedetta è tua
nipote, una Lupin al cento per cento, ma le voglio bene proprio per
questo.”
Arrischiò un’occhiata di sottecchi. “Non
voglio mettermi in mezzo, ma non voglio
esserci solo quando vuole giocare o mangiare qualcosa che non siano the
e
biscotti. Voglio … voglio esserci al cento per cento per
voi, nel bene e nel
male.”
Oh, dannazione.
Aveva capito. Finalmente
l’ultimo sprazzo di lupo era uscito dalla sua testa e aveva
un quadro completo
del casino epico che aveva combinato senza neanche rendersene conto.
L’ho
tagliato fuori. La storia della Trasformazione …
“Jamie…”
La gola gli pareva di
carta vetrata e dovette anche tossire. Meglio esser brevi e concisi.
“… tu sei la
nostra famiglia.”
La faccia che fece fu come un pugno nello stomaco, perché
rifletteva quanto l’altro
avesse temuto di essere un più uno, invece che parte
dell’equazione. “Lo sei.”
Ripeté,
ma anche a costo di rimanere senza fiato era urgente una spiegazione.
“Senza di
te non riuscirei a prendermi cura di Benedetta come sto facendo
adesso… Se non
ci fossi tu, saremo persi. Entrambi.”
“E allora perché mi hai mandato via?”
Perché
sono un idiota.
Non era il caso di
cospargersi
il capo di cenere. Non ancora. Meglio una spiegazione seria.
“Volevo risparmiarti
qualche preoccupazione … hai tanto a cui pensare in questo
periodo.”
“Intendi il
Demiurgo? È un
caso, che si fotta!” Sbottò incredulo.
“Tu e Ben siete la roba importante!”
A quel punto cosa restava da
fare? Lo abbracciò stretto e sentendolo ricambiare con la
stessa intensità si
diede del cretino un altro paio di volte
per buona misura.
James profumava di pulito e
un
vago odore di sigaretta per cui avrebbe dovuto rampognarlo, ma non ne
aveva
voglia. “Non volevo escluderti, ho solo avuto paura che fosse
… troppo. Già
avere a che fare con una bambina è complicato, ma la
Licantropia…”
“Guarda che lo
so.” Lo fermò
serio. “E okay, ammetto che mi preoccupa, ma non tagliarmi
fuori … non ne
capisco molto, ma posso imparare!”
“Va bene.”
“Dico sul
serio!” Fece per
tirargli un pugno sulla spalla, ma gli afferrò il polso con
facilità,
bloccandoglielo. Poteva avere la testa piena di nebbia, ma i suoi
riflessi
erano ancora piuttosto animali. E comodi.
“Anch’io.”
Lasciò la presa
solo quando l’altro trasformò il pugno in una
carezza ai suoi capelli. Ed era
una fortuna non si fosse trasformato in qualcosa di appartenente alla
famiglia
dei felini … o avrebbe fatto le fusa.
“Scusami.”
Si decise a dire
perché nonostante tutto doveva
essere
quello che si inginocchiava sui ceci e dichiarava pentimento. Era un
po’ la
storia della sua vita ed era l’unico modo che conosceva per
dimostrare amore a
quel meraviglioso ragazzino dalla pazienza infinita.
“Siamo alle solite.” Fu l’esasperata
risposta nonostante continuasse a
coccolarlo giocando con le ultime ciocche sulla nuca che di sicuro
dovevano
avere ancora i colori del manto del lupo. “Che ci sto a fare
con te?”
Aprì gli occhi per controllare non dicesse sul serio. Non
diceva sul serio e la
espressione bellicosa lo diffidava da farsi venire idee strane in
merito.
“Preparo un ottimo the?” Suggerì timido.
James sbuffò.
“Fattene venire
in mente una migliore, Lupin.” Ma sorrideva, quindi tutto era
stato perdonato.
La
prossima volta le tue crisi da padre single
tienitele per te, coglione.
Doveva essere
l’unico idiota,
in ben due mondi, a non avere problemi … e riuscire comunque
a crearseli e a
crearli anche al proprio compagno. “Ti amo e voglio farmi
perdonare anche se
non ho idea di come?”
Non era proprio nelle
condizioni mentali per disquisire sui suoi meriti. Il lupo era ancora
acquattato da qualche parte e gli stava facendo notare quando James
fosse
vicino e delizioso.
Da
quanto tempo non avete un momento per voi?
…
Benedetta sarà fuori gioco per tutta la giornata.
James doveva pensare le
stesse
cose perché lo mangiò con lo sguardo, facendogli
ricordare che non aveva molto
addosso, anzi, in effetti proprio niente.
“Non sforzarti
Teddy.” Mormorò
afferrandogli una mano e piazzandosela sul petto. “Qui hai
tutto quello che ti
serve.”
“Puzzo di
selvatico …” Gli
fece notare, perché era giusto notificare la mancata doccia,
perché era da
essere umani civili…
“Chi se ne
frega.” James gli
passò una mano attorno al collo e lo baciò, nello
stesso modo in cui lo aveva
accarezzato quando era ancora lupo, azzerando così ogni sua
capacità di
pensiero. E parola.
Tanto per le successive ore
a
che gli sarebbero servite?
****
Londra,
da qualche parte a SoHo.
Pomeriggio.
Rose non andava spesso ad
iniziative organizzate dagli amici di Al. Anzi, quasi per niente.
Se vi andava doveva esserci
un
buon motivo e in quel periodo c’era, visto che per lei ed il
cugino era
diventato difficilissimo vedersi. Nulla che intaccasse il loro rapporto
visto
che avevano più cose da dirsi una volta finalmente assieme
…
Ma
comunque, uno sforzo bisogna farlo.
Per questo aveva deciso di
accompagnarlo ad una delle tante feste organizzate dal gruppo di
ragazzi che l’altro
aveva cominciato a frequentare al Sesto Anno, capeggiati
dall’imprescindibile
Zabini.
Non aveva gran simpatia per quel gruppo di maghi quasi tutti
Purosangue, fin
troppo azzimati e festaioli, ma non poteva non ammettere che sapessero
come
godersi l’estate.
La festa a cui stava partecipando, ad esempio, era a bordo di una
piscina
gigante, sita nella terrazza di uno di quegli attici extra-lusso che
ogni
rampollo magico che si rispettava comprava vendendo l’antico
e polveroso
maniero di famiglia. Una piscina vera, e non di quelle coperte o ancor
peggio,
comunali, che abbondavano su suolo inglese. Vera e magica, dato che un
incantesimo piuttosto elaborato faceva in modo da potenziare
l’effetto dello
scarso sole che omaggiava le loro coste facendolo bruciare con
l’intensità di
un Agosto a Mali. C’era persino la sabbia.
Rose adorava quel posto. E
come non poteva? Era stesa su un lettino di paglia, con un cocktail
fruttato a
fianco, mantenuto gelato da una serie di finissimi incantesimi, e
poteva
chiacchierare con Al senza esser disturbata da impegni, scadenze,
lavoro o
fidanzato.
Ammirando
tra l’altro gran bei pezzi di mago senza
sentirmi in colpa. Tanto sono tutti gay!
“Alla fine abbiamo
deciso
Grecia come viaggio di nozze. Nell’entroterra ci sono secoli
di storia magica,
per non parlare di quella Babbana … e la sera possiamo
prendere una Passaporta
per le isole, così almeno Scorpius può saltellare
in mezzo a corpi sudati.” Spiegò
all’altro, appoggiato a bordo piscina mentre il resto del
corpo era immerso e
nuotante.
“E tu vai con
lui?” Gli chiese
afferrando il suo Mangiamorte e dandogli un vigoroso sorso.
“Tutta la notte
fino all’alba?”
“Tutta la notte
fino all’alba
neanche morta, ma non voglio neanche seppellirlo in albergo la sera
… Mi si
seccherebbe come una pianta da appartamento.”
Al annuì. “Potevi portare anche lui oggi, gli
sarebbe piaciuto. Adora togliersi
i vestiti di dosso.”
“Deve lavorare. Papà l’ha chiesto come
agente di rinforzo per uno dei casi che
sta seguendo … forse per fargliela pagare per ieri. Ha
finito per rovesciargli
un vassoio pieno di calici sui pantaloni.”
“L’ha fatto apposta?”
“Tu che
dici?” Sospirò
cercando di dimenticare lo sforzo immane che aveva fatto per evitare
che
Scorpius venisse scuoiato vivo
‘come il maledetto piccolo furetto
maligno
che era’.
Al ridacchiò,
appoggiando poi
una guancia sulla mano “Comunque piacerebbe tanto anche a me
andare in vacanza.
Quando sarà finita tutta questa storia del Demiurgo, magari
in qualche isoletta
Atlantica, lontano dalla calca … con tante zone
d’ombra, visto Tom.”
“Volendo potreste
andarci
anche ora.” Gli fece notare, ma rimediò per tutta
risposta una scrollata di
spalle. Decise quindi di non tirare in ballo quel coinvolgimento
dubbio. Fargli
la ramanzina non avrebbe comunque funzionato.
Non
funzionava neppure quando mi ascoltava…
“Almeno
l’opinione pubblica ha
cominciato ad annoiarsi dei titoli allarmistici della
Gazzetta.” Si guardò
attorno: la festa era piena, allegra e rilassata. “Mi pare
che l’allerta
infezione sia rientrata.”
Al fece una piccola smorfia e si calò gli occhiali sul naso.
“Perché tutti gli
infetti noti sono al sicuro al San Mungo e non ne sono usciti fuori
altri. Papà
e il Dipartimento hanno fatto un gran lavoro per rassicurare i
cittadini anche
se le indagini sono in fase di stallo.”
“Informazione di
cui nessuno
di voi due dovrebbe essere a conoscenza.” Si intromise la
voce di Zabini, steso
accanto a loro ma fino a quel momento immobile come una statua.
Speravo
si fosse addormentato. Almeno era un bel
guardare.
Invece era sveglio, da come
si
girò su un fianco per fronteggiare l’amico che gli
rispose con una linguaccia.
“So che il concetto ti riesce difficile da interiorizzare,
Potter … ma sono
informazioni confidenziali.”
“Dillo all’ufficio Auror, non a me!”
Replicò con piglio brillante. “E comunque
Scorpius ha contattato anche Rosie per farsi dare una mano.”
“Certo, qui si fa tutto in famiglia.”
Ironizzò l’ex-serpeverde – non riusciva
a
considerarlo altro che quello. Meglio bere un altro sorso di Patronus
piuttosto
che rispondergli. E così fece.
Al la vendicò
schizzando
l’altro con un colpetto della mano. “Oh, non fare
il bacchettone Mike! Il
Demiurgo ci riguarda tutti. E comunque sono fiducioso, si
chiuderà prima
dell’estate e potremo tutti tornare alle nostre grigie vite
di salariati!”
“Lo spero
proprio.” Commentò,
ma tese anche le labbra scontento, quasi la previsione
l’avesse infastidito. Rose
non ebbe tempo di scambiarsi uno sguardo con Al, giusto per controllare
non fosse
l’unica ad aver notato la cosa, che un’ombra le
oscurò la visuale.
Le venne da piangere.
“Violet, sei la
sciagura della
mia esistenza.” Comunicò at
urbi et orbi
e non solo all’interessata appena apparsa.
Dal
nulla!
“Pensavo
che quella fosse tua cugina
Lily.” Le rispose con un sogghignetto divertito, nascosto a
metà da un enorme
cappello da diva del cinema corredato da occhiali costati come tre loro
stipendi.
Deve
piantarla di farsi fare i regali dal mio fidanzato!
“No, hai
sbaragliato la
concorrenza.” La considerò speranzosa,
perché a ben guardarla non indossava il
tailleur ibrido - magico con il quale ormai quasi dormivano: era invece
in
bikini Babbano e pareo striminzito. Forse si era trattato di un falso
allarme. “Non
ci hanno chiamato dal Ministero, vero?” Se ne
sincerò.
“Sei scema per caso?” La apostrofò con
un certo grado di ragione appoggiando
borsa e telo sulla sua sdraio senza troppe cerimonie.
“Già devo lavorare per
vivere, fammi anche sgobbare in un giorno festivo come una
Maganò!”
Di nuovo un sussulto nervoso da parte di Zabini. E stavolta talmente
forte da
farlo quasi scattare a sedere.
Stavolta non fu
l’unica ad
averlo notato da come Al si issò sul bordo della piscina con
l’aria di un falco
che aveva puntato la propria preda.
Quant’è
pettegolo.
Violet intanto si disfece
del
suo pareo stiracchiandosi con voluttà. “Grazie per
avermi invitato, cheri.”
Apostrofò Michel baciandogli la
tempia. “Nicky segue la cova di una di quelle sue orrende
lucertole giganti e
mi annoiavo da morire a casa.”
“Pas
de problème.” Le rispose con la testa
persa in tutt’altri
pensieri.
Non volendo assistere alla
circonvenzione di incapace ad opera della piccola serpe di famiglia,
adoratissima ma comunque tale, Rose si alzò in piedi.
“Violet, ti va un tuffo?”
“Perché pensi che sia venuta in un oasi di maghi
gay e palestrati?” Fu la
replica. “Persino Potter ha una sorta di muscoli!”
“Io vado a correre
e gioco a
Quidditch tre volte a settimana … è muscolatura
sana, non la devo esibire.”
Rispose il cugino stiracchiandosi e mostrando a mo’ di
scherzo un fisico che
dieci anni prima nessuno avrebbe previsto, neppure Fiorenzo con tutte
le sue
foglie di salvia ed astri.
Credo
che Jamie non gli abbia mai perdonato di non
essere rimasto rachitico.
“Non impressioni
nessuno, Potter.
Di certo non la sottoscritta.” Replicò divertita
Violet, il cui amore per gli
appartenenti alla casa di Salazar era cosa nota. “Weasley, mi
sto squagliando,
sbrigati.”
“Agli ordini.” Sbuffò disfacendosi degli
occhiali e seguendo l’altra lungo il
bordo piscina.
“Allora?”
Albus era quanto di peggio potesse esserci come amico quando avevi un
cruccio
che volevi mantenere personale. Perché non solo si
incuriosiva, ma non mollava
la Pluffa finché non cadevi esausto implorando
pietà.
Lo vide quindi saltare in
piedi e ravviarsi i capelli che rimasero tutti dritti in angoli
imbizzarriti.
Finse di godersi la vista, perché al di là di
tutto quella pelle pallida ma
tonica esposta era un balsamo per gli occhi. “Sì
pulcino, sei una visione per
gli occhi. Credo che Steven stia avendo un’erezione
laggiù.”
Albus neppure si girò a controllare, sedendosi invece sul
bordo della sua
sdraio e chiedendo spazio con un colpetto di dita. “Sto
parlando di te. E di Meinster.”
Si distese dando di nuovo il viso al sole. “Io no.”
“Violet non l’ha fatto apposta, neanche si ricorda
che ti stai… ahia!”
Esclamò quando gli pizzicò il
fianco.
“Non far finta di esser sorpreso!”
Continuò sedendosi al sicuro sulla sdraio
precedentemente occupata dalla Weasley per poi spalmarsi di gran lena
del
balsamo protettivo solare. “E, ti ricordo, sei stato tu a
parlarmene per primo!”
Lo ignorò. Non
voleva parlare
di Emil, perché parlarne avrebbe significato ricordarsi
della scelta di fronte
a cui suo padre l’aveva messo.
Dannato
bastardo egoista. Si aspetta che accetti e vada
avanti.
Si sentiva morire
all’idea di
dover affrontare la cosa, ed Emil soprattutto, quindi aveva preferito
prendersi
un paio di giorni per sé, dato che fortunatamente il loro
rapporto non era tale
da aver delle scadenze giornaliere da rispettare.
Sì,
però adesso ti manca.
“Mike?”
La voce di Al lo
riscosse e quando aprì gli occhi si specchiò in
quelli chiari e affettuosi
dell’amico. “Sul serio, va tutto bene con il tuo
violinista?”
Quei dannati occhi gli
avrebbero fatto effetto sin nella tomba. “No.”
Ammise nascondendosi dietro le
lenti spesse e riflettenti. “Mio padre è venuto a
saperlo.”
E da lì in poi fu
un fiume di
informazioni, di racconti e di rabbia. Al non aprì bocca
finché non ebbe
finito. “Tuo padre è così bastardo che
potrebbe far venire i complessi di
inferiorità a Voldemort.” Commentò alla
fine in tono neutro, ma con gli occhi
che scintillavano di sacra collera e voglia di giustizia.
Potter
fino al midollo. Serpeverde questo non gliel’ha
potuto lavar via.
“Mio padre ha
agito in maniera
prevedibile. Dal suo punto di vista ho un vizio che può
svantaggiami. Vuole che
lo sradichi e per farlo è stato disposto a concedermi quello
che voglio.” Gli
venne quasi da ridere se non avesse avuto voglia di affogarsi nel punto
più
fondo della piscina.
“Rimane un
bastardo.”
“Questo è indubbio.”
“Cos’hai intenzione di fare?” Che era un
po’ la domanda che gli frullava nella
testa impazzita da quando si era congedato da quel pranzo
agghiacciante.
Razionalmente sapeva cosa: aveva lavorato troppo duro e aveva ingoiato
troppi
rospi per lasciarsi sfuggire la sua forse unica possibilità
di carriera in un
campo dove i treni potevano passare una volta sola.
Significava tra
l’altro niente
più pratiche sloga-polso, niente più ridicole
madri di famiglia pettegole come
colleghe o compiti ingrati da scrivano. Significava raggiungere il
gotha del
potere magico e rimanerci, significava pranzi di lavoro con Ministri e
dignitari di corte. Significava prestigio.
Se
rinuncio, non credo proprio mio padre mi lascerà
tentare di nuovo. O con lui, o senza di lui.
Era innamorato di Emil,
certo,
tanto che si
sentiva strappare il cuore
all’idea di dover rinunciare alla sua compagnia, alla sua
musica, alle sue
attenzioni … a lui.
Ma
l’amore viene come se ne va.
Ne aveva l’esempio
davanti:
aveva creduto di amare Albus Potter al punto da non poter concedere il
suo
cuore a nessun altro, eppure era riuscito a farsela passare. Poteva farlo di nuovo.
“Ci conosciamo
soltanto da un
paio di mesi … e non ci siamo fatti promesse. Oltretutto,
tornerà in America a
giorni.”
“Ed è
un Magonò.”
“Anche
quello.” Mormorò
tenendo gli occhi chiusi e lasciandosi arrostire dal sole.
“Perdere
un’occasione simile
per un colpo di testa sarebbe stupido, è vero. E poi, se
erano solo scopate…”
“Non sono solo scopate.” Replicò forse
più asciutto del necessario. Anche se
Albus era in grado di essere insensibile come pochi quando voleva.
“Non intendevo
dire…”
“Invece sì.” Tagliò corto.
“Ma non è solo sesso. Non più almeno.
C’è altro.
Molto altro. Emil riesce a vedermi per quello che sono. Sai
quant’è difficile
trovare una persona così?” Perché
poteva scegliere di lasciarlo, ma non
l’avrebbe mai sminuito. Mai.
Al per tutta risposta
alzò gli
occhiali e lo squadrò da capo a piedi. “Ma allora
di che cavolo stiamo
parlando?”
La domanda lo colse di
sorpresa. “ … come scusa?”
“Se sei innamorato
di lui ti
lasci ricattare da tuo padre senza reagire?” Il tono era
incredulo e capì di
esserci cascato con tutte le scarpe. L’aveva portato ad
un’ammissione fatta per
rabbia. L’aveva manipolato.
Sta
diventando troppo bravo. Ho creato un mostro.
“Non è
così semplice.”
“Per come me l’hai raccontata sembra di
sì. Tuo padre non vuole che tu lo
frequenti, così punta i piedi e ti offre un dolcetto
sperando che tu ti distragga
e perda il giocattolino.”
“Non è…”
“Sì che lo è. Ha fatto questo
ragionamento da sociopatico, te lo garantisco io,
che della categoria me ne intendo.” Ribadì con
tono adeguatamente cattedratico.
“È uno stronzo.”
“Ti intendi anche di quelli?”
“Ovvio, ne amo
uno. Sono il
massimo esperto.” Si infilò di nuovo gli occhiali
e volse il viso al sole
tornando alla posizione di prima. “Comunque segui il mio
ragionamento. Se di Milo
ti fosse importato poco o niente avresti avuto solo da guadagnare. Tuo
padre
pensa che tu abbia perso la testa e ti dà quello che vuoi da
anni? Perfetto! Ma
non si è sbagliato … la testa tu l’hai
persa davvero.”
Non poteva negarlo quel punto. “Quindi in ogni caso perdo
qualcosa.” Mormorò
perché non c’erano altre conclusioni da dare.
Al fece spallucce.
“Dipende
dall’entità della perdita … sempre che
tu voglia ragionare come se stessimo
parlando di finanza e non di ragazzi.” Lo prese in giro, ma
quei termini mettevano
entrambi a proprio agio, quindi continuò su quella riga.
“La promozione è la
tua grande occasione, ma Mike … trovare una persona che ci
fa sentire come se
valessimo qualcosa è il guadagno più enorme del
mondo.” Fece un mezzo sorriso.
“Ci rende persone migliori. Tutto il resto passa in secondo
piano.”
“Ho lavorato da
quando mi sono
diplomato per avere quest’occasione…”
“E non ti ho mai visto così felice come quando
stai rischiando di perderla.
Questo non ti dice niente?” A chiosa si strinse nelle spalle,
facendogli
desiderare tantissimo strangolarlo.
Perché aveva
ragione.
****
Devon,
Il Mulino.
Ora di cena.
Ginny mise
l’ultimo segno
rosso ad un poco promettente articolo di un altrettanto poco
promettente pubblicista
appena assunto e ficcato subito sotto la sua riluttante ala
… e sorrise. Perché,
per quanto correggere bozze zoppicanti non fosse la sua tazza di the,
doveva
ammettere che nel silenzio della cucina, con il profumo lieve di una
torta al
limone che stava cucinando nel forno e una buona tisana profumata, si
poteva quasi
raggiungere il nirvana.
Harry
è ancora in ufficio. Potrei mandargli un Gufo e
gongolare un po’…
Cosa che le avrebbe
assicurato
un marito in vena di fargliela pagare quella notte, il che non era
necessariamente un male. Valutò con serietà
l’ipotesi prima di sentire la porta
di casa chiudersi e i passi della sua unica figlia irrompere nel
corridoio.
Nirvana
interrotto.
“Ciao
Lily!” La salutò ad alta
voce rimediando un mugugno non impegnativo. “Vuoi un
po’ di tisana?”
Perché se sua
figlia tornava
così presto dalla City potevano
significare solo guai.
La suddetta infatti
entrò in
cucina con gli occhi gonfi e rossi. “Sì, mi
farebbe proprio comodo…” Convenne
scivolando su una delle sedie e guardandosi le unghie con grande
interesse.
Ginny pose una tazza
fumigante
a portata di figlia e si risedette. “Tutto bene?”
“No …
cioè. Boh.” Un sorso
vigoroso e un tirar su di naso. “Io e Scott ci siamo
lasciati.”
La sorpresa della notizia la
fece
rimanere in silenzio più di quanto avrebbe dovuto da come
venne squadrata dalla
figlia.
“Mi
dispiace.” Disse sincera perché
Ross era il ragazzo che ogni strega voleva vedere accanto alla propria
figlia. Aveva
sempre pensato fosse un po’ troppo ordinario per la sua, ma
del resto nessuna
strega si innamorava e soprattutto finiva assieme al principe azzurro
dei suoi
undici anni.
Beh,
tranne me, okay.
“Non avevo capito
foste in
crisi.” Continuò cauta, perché era la
prima volta che la vedeva tanto sconvolta
per una rottura.
Vero
anche che il resto dei ragazzi non li ha portati
in famiglia. Di loro ho sempre e solo saputo i nomi.
“Vuole tornare in
Australia.”
Fu la risposta con successivo sorso di tisana. “Io non
voglio.”
“Per quanto
tempo?”
“Una vacanza
… però ha anche
parlato di trasferirsi.”
Ah
sì?
C’era qualcosa che
non le
stava dicendo. “Non avete neanche parlato di un rapporto a
distanza?”
“Non è
roba per me.”
Altra bugia, e stavolta talmente grossa che la figlia si perse nelle
profondità
dei fondi erbacei della sua tazza. “Mi dispiace.”
Ripeté mettendole una mano
sulla sua. “Scott è un bravo ragazzo e piaceva
anche a tuo padre … Ma se hai
deciso che non vuoi continuare, è meglio averglielo detto
subito invece che
aspettare di essere a due continenti di distanza, no?”
“Sì,
infatti.” Fu il borbottio
sfuggente. Si era un po’ ricomposta adesso, e sembrava aver
voglia di fuggire
dalla stanza. “Cioè, voglio che sia felice
… ma non con me.”
Allora non è colpa
dell’Australia. Non è
più innamorata.
Un cambiamento repentino,
visto che fino ad un mese prima era sicura di aver trovato il mago
migliore del
mondo.
E
Lily non esagera mai ciò che prova. Non puoi cambiare
così velocemente idea su una persona …
…
Se non ti innamori di un’altra.
“Hai conosciuto
qualcun
altro?” Le chiese con tono leggero ed ebbe la sua risposta
quando questa
avvampò come se l’avessero accusata di qualche
efferato crimine. Le tornarono
anche le lacrime. “Oh, tesoro, non c’è
nulla di male ad innamorarsi! Non si può
evitare, succede.”
“Ricordati di
averlo detto, mi
raccomando.” Fu la risposta nervosa, prima che si liberasse
dalla sua stretta e
si alzasse in piedi.
Perché
dovrei… Oh.
Ginny si era sempre ritenuta
una persona intuitiva e per questo, quando sua figlia la
guardò come a chiedere
scusa, con il viso rosso e gli occhi che non le brillavano di lacrime
ma di
altro, capì.
“Ti sei innamorata
di Sören.”
Perché chi altro poteva essere? Le tempistiche tornavano, e
così l’incertezza a
parlargliene quando tra di loro non si erano mai nascoste niente.
“Lo sono sempre
stata.” Ammise
con un sorriso nervoso. “Mamma … voglio starci
assieme.”
“Non devi giustificarti con me.” Le fece notare,
anche se l’idea di aver scambiato
un papabile genero come Scott con un ragazzo come Prince non le faceva
fare i
salti di gioia. Per niente.
Per
non parlare di come reagirà Harry…
“No?”
Domandò per poi
schiarirsi la voce un po’ più sicura.
“Perché non voglio nasconderlo, cioè,
però …” Balbettò.
“È Sören, non vi piace.”
“Ti abbiamo sempre insegnato che si deve seguire il proprio
cuore e non l’opinione
altrui. Sarebbe ipocrita da parte mia dirti di fare il contrario,
no?” Fece un
ulteriore sforzo, perché anche se non riusciva a rinunciare
del tutto ai suoi
pregiudizi, fare la madre giudicante non era mai stato il suo ruolo.
“E poi non
è che non mi piaccia … È solo che
è un ragazzo complicato e avete una storia
non proprio positiva alle spalle.”
“Sì, ma
ora è cambiato!”
“È
vero.” Accettò. “Se sei
sicura tu, lo saremo anche noi.”
Le venne risposto con una smorfia. “Anche
papà?”
“Con
papà ci parlerò io …
dopo.” Aggiunse. “La notizia devi dargliela tu. Se
lo scoprisse per vie
traverse … Lo sai come diventa quando pensa che gli si
nascondano le cose.”
Lily roteo gli occhi al
cielo,
scambiandosi un sorriso che parlava di quanto amassero entrambe quel
testone
impossibile e come fosse necessario, per questo, avere tutta la
pazienza del
mondo. “Glielo dirò. Prima però devo
dirlo a Sören.”
“Cioè?”
Lily scosse la testa con
un’espressione così affettuosa che non
poté non tifare un po’ quella neonata
unione. Se Prince riusciva a far sorridere così sua figlia
non doveva esser poi
una scelta tanto scriteriata. “Non ha voluto ufficializzare
niente finché non
avessi chiuso con Scott.” Le spiegò.
“È un mago vecchio stampo.”
“Quindi vi siete
accordati
solo a parole?”
Lily sbuffò.
“Beh, no, quello no.”
Esitò. “Quindi … ecco, è
questo il motivo per cui tra me e Scott è finita.”
“Non l’avrei mai immaginato.”
Ironizzò. “Spero solo che sia una scelta che ti
renda felice… perché è tutto quello
che desidero per te e i tuoi fratelli.”
“Penso di sì.” Le sorrise.
“Penso proprio di sì.”
Avrebbe voluto esser felice
del fatto che si apriva un nuovo capitolo della sua vita, e che
sopratutto
riguardava lei e Sören. Finalmente.
Avrebbe voluto, ma la
realtà è
che non riusciva a godersi quel momento perché per farlo
aveva dovuto lasciare Scott.
Lily si lasciò
cadere sul
letto a peso morto e cercò a tentoni la bacchetta nella
borsa. Quando l’ebbe
trovata sintonizzò la radio su una stazione Babbana sperando
che la musica la
cullasse senza pensieri.
On another love, another love
All my tears have been used up…
Sul serio?!
La
spense irritata e affondò il viso
nel cuscino. Non aveva mai lasciato qualcuno a cui aveva davvero voluto
bene,
quindi quella sensazione di colpa era nuova. E orrenda. Tale che
persino quando
Sören l’aveva chiamata dopo l’incontro
aveva digitato un veloce messaggio di
scuse e poi aveva spento il cellulare.
Non che Scott avesse fatto
scenate o le avesse rinfacciato niente. Anzi. Ed era proprio quello il
problema.
Lasciandolo si era ricordata
del perché si era innamorata di lui.
Si
erano visti al solito bar, quel Fortebraccio che
aveva visto il nascere ed evolversi della loro storia. Lily quando si
era
seduta aveva ricordato come al loro primo appuntamento avessero
scoperto di
adorare entambi il cioccolato.
“Com’è
andato il battesimo?” Aveva offerto Scott con
uno di quei suoi sorrisi miti che non avrebbe mai scordato
finché campava.
“Bene
… cioè, solita festa Weasley.” Non era
riuscita a
dire altro, affondando il naso nel bicchiere. “Scott,
io…” Doveva liberarsi di
quel peso eppure non voleva. Perché non voleva spezzare un
cuore quando si era
impegnata ad accenderlo. Le sembrava di commettere un omicidio.
“L’ho
già capito Lils.” L’aveva fermata
l’altro. “Credo
che oggi serva solo per salutarci.”
“… quindi parti?” Era troppo facile. Non
era giusto. Avrebbe dovuto insultarla,
dirle che era un’ingrata, una persona orrenda, una megera.
“Domani.”
La corresse. “Ho messo a posto le ultime cose
ed ho dato le dimissioni dall’Archivio.”
“Quindi non torni?” E perché avrebbe
dovuto? le disse la voce maligna della
sua coscienza. Hai distrutto tutto quello che di bello
c’era a Londra per
lui. Sei stata tu a portarcelo, e ora sei tu a cacciarlo.
“Non
penso, no.” Si strinse nelle spalle. “Almeno per
un po’ … Te l’ho detto, voglio diventare
un giornalista sportivo, e per ora il
mercato inglese è saturo. Magari quando mi sarò
fatto un nome.” Le sorrise
persino. “Cosa per cui conto di sgobbare duro.”
“Mi
dispiace.” Il succo di edera le si stava scaldando
tra le mani e avrebbe fatto schifo. Non che avesse voglia di berlo.
“Non
volevo…”
“Lo so.” La fermò di nuovo. Sembrava
voler mettere un punto a tutte le sue
frasi prima del tempo. Non che non lo capisse; quello che stava dicendo
era
prevedibilissimo, il classico necrologio di ogni rapporto.
“Neppure io volevo,
pensavo che il nostro futuro sarebbe stato assieme … ma
è andata così.”
Lily
lasciò il succo d’edera al suo caldo destino e
inspirò. Non prese le mani di Scott, perché non
se lo meritava, ma non voleva
neppure star zitta e lasciar che l’altro si assumesse tutto
il peso della
conversazione. Anche se era proprio da lui. “Non ti ho mai
mentito su quel che
provavo, Scott. Ero davvero innamorata di te, e anche io ho pensato che
potessimo … che potessimo durare.” Si
fermò a riprendere fiato, ma non riusciva
ancora a guardarlo in faccia. “… poi è
successo. Sören è tornato e credimi,
l’ultima cosa che volevo era innamorarmi di lui. Ed hai tutto
il diritto di
odiarmi…”
“Non ti odio.” Fu lui a prenderle la mano e
stringerla. Sarebbe stata l’ultima
volta che si sarebbero toccati ed era una cosa così strana,
sapere che una
persona che era stata parte di lei se ne andava per sempre che
scoppiare a
piangere fu cretino, ma inevitabile.
Scott
era e sarebbe sempre rimasto il mago solido e
meraviglioso che era, perché si alzò e le si mise
accanto, abbracciandola.
“Ehi, dai … basta, Lils.” Gli
sentì dire. “… va bene
così.”
Non
andava bene, ma sperava che avrebbe finito per esser
così, e per entrambi.
Quando
si fu calmata non tornò comunque al suo posto,
porgendole un fazzoletto ed aspettando che finisse di singhiozzare a
vuoto.
“Spero che tu sia felice.” Le disse.
“No che non lo speri.” Borbottò
soffiandosi il naso senza troppe cerimonie. Non
doveva certo impressionare nessuno. “… come
potresti dopo quello che ti ho
fatto?”
Scott
sbuffò. “Invece sì. Mi pensi tanto
patetico da
volerti ancora dopo che mi hai detto che non mi ami più? Ho
avuto giorni per
pensaci, sono sicuro di quel che ti dico.” Le fece una
carezza sulla testa,
facendola sentire piccola, sciocca e molto confortata.
“Terrò sempre a te,
piccola inglese pazza. Solo non credo di poterlo fare da qui. Devo
mettere un
po’ di miglia, capisci?”
Meglio di quanto tu possa
credere. Cosa pensi che abbia fatto per togliermi dalla testa Ren?
“Sì.”
Tirò su con il naso, porgendogli il fazzoletto
dopo averlo pulito sommariamente con un Gratta e Netta.
Respinse la sua mano. “Tienilo tu, così almeno ti
ricorderai di aver pianto per
questo povero scozzese.”
“Non mi scorderò di te!”
Esclamò incredula, poi intuì che scherzava e
sorrise
appena di rimando. “Grazie ragazzone.”
Scott
annuì con un sospiro. “Spero che tu abbia preso la
decisione giusta con Prince.” Vedendo la sua espressione si
affrettò a
spiegarsi. “Non credo sia capace di prendersi cura di
qualcuno, specialmente di
una ragazza. Ma magari mi sbaglio.”
“Non
lo so.” Ammise perché essere onesta era
l’unica
cosa che poteva offrirgli a quel punto, e non l’avrebbe
lesinata, neppure per
difendere il mago che amava. “Ma faremo entrambi del nostro
meglio.”
Si
salutarono con un abbraccio. Poi Scott le fece un
cenno della mano e si Smaterializzò. Fuori dal locale e
dalla sua vita.
Stava di nuovo piangendo ed
era francamente imbarazzante. Sentirsi così sollevata di
aver chiuso un
rapporto senza urla era l’antitesi di quello che avrebbe
dovuto provare. O
forse la sintesi.
Faccio
schifo nei rapporti umani. Io e Tom dovremo fondare
un club.
La radio era silenziosa, e
così il resto della casa anche se sua madre era al piano di
sotto. Fu quindi
naturale sentire con chiarezza una serie di piccoli sassolini lanciati
alla sua
finestra.
…
oookay, ho di nuovo sedici anni e Patrick Collins è
venuto a trovarmi di nascosto dalla sua istericissima madre?
Aprì la finestra
e si affacciò
al balconcino: non era Patrick Collins, ovviamente, ma Sören
che cercava di non
pestare i tulipani che sua madre aveva piantato selvaggiamente per
tutto il
giardino.
“Ciao.”
La salutò tutto
tranquillo. “Stai bene?”
“Che ci fai
qui?!”
Venne contemplata con
sorpresa. “Sono venuto a controllare che stessi bene. Hai
staccato il cellulare
ed ai Gufi non rispondi mai.”
“La scorta
è con te?”
Sören
aggrottò le sopracciglia
come se non si fosse aspettato la domanda, quando era la più
logica che potesse
fargli. “No. È per questo che sei
arrabbiata?”
“Preoccupata!”
Rispose di
rimando incredula. “Sbaglio o John Doe ti ha aggredito
neanche una settimana fa?
Hai almeno avvertito Milo che venivi da me?” Non sapeva se
baciarlo o dargli un
calcio e poi baciarlo.
Sören ebbe la
decenza di assumere un’aria imbarazzata. “Milo
sì, gli ho chiesto di non
riferirlo alla scorta. Di coprirmi. Sarebbe stato difficile spiegar
loro perché
volevo Materializzarmi nel giardino del Capo Auror.”
Beh, in effetti.
“Sto
bene.” Rispose
appoggiandosi alla ringhiera e sentendosi di colpo molto stanca. E
bisognosa di
coccole. “È finita con Scott. Ci siamo
lasciati.”
Sören assunse
l’aria
concentrata di chi tentava senza speranza di non esultare.
“Non posso dire di
essere dispiaciuto data la mia posizione nella faccenda.”
Brutto
scemo.
Lo amava così
tanto. Ma non
quella sera, non poteva. “Ren … non me la sento di
festeggiare.”
L’altro con sua sorpresa non sembrò infastidito.
Annuì. “Posso immaginarlo. Ma
non sono qui in qualità di tuo ragazzo.”
“No?”
“Questa
è la mia ultima sera come
tuo migliore amico. È per questo che sono venuto. Sei
triste, non voglio
lasciarti sola.” Si ficcò le mani nelle tasche del
giubbotto da cattivo ragazzo
che non poteva nascondere il fatto fosse la persona più
dolce del mondo. “E …
non è una scusa.”
È
mio, care streghe e Babbane. Sciò.
Sorrise, perché
le stava
dicendo la verità: sarebbe stato sul serio capace di
dividere un barattolo
gigante di gelato e guardarsi un film con lei senza sfiorarla con un
dito.
“Sali. Abbiamo un
film
terribilmente sdolcinato da vedere.”
****
Lancashire,
vicino Preston.
Sera.
“Loher, ho bisogno
di buone
notizie.”
Johannes conosceva la paura. Era quella dipinta sul volto del suo
patetico
interlocutore.
“Doe, devi darmi
tempo di
lavorarci.” Ribatté comunque con una certa
arroganza, dovuta al suo camice e
alla mezza dozzina di assistenti che gli sciamavano attorno come grossi
tafani
curiosi.
Non era il caso di fargli
guadagnar terreno; lo afferrò per il bavero della giacca e
gli puntò la
bacchetta alla gola, mentre gli altri maghi si affrettavano a tornare
ai loro
compiti chinando la testa.
“Ripeto. Buone.
Notizie.”
Scandì con lentezza guardandosi attorno. “Non fate
altro che sembrare
indaffarati, ma non ho neppure un risultato. Ti ho portato il sangue
del
mostriciattolo. Perché non mi hai ancora dato
l’antidoto?”
Il Pozionista
annaspò alla
ricerca d’aria e fu costretto a concedergli del respiro.
“Perché non è così
semplice!” Ansimò tossendo e toccandosi la gola
spaventato. “Il sangue di
Prince è in equilibrio, ma non è una condizione
che può essere riprodotta nelle
cavie senza effetti collaterali. Abbiamo estratto gli anticorpi
presenti nel
campione e li abbiamo iniettati nel loro flusso sanguigno ma ha portato
a
scompensi tali che due di loro sono morti. Inceneriti …
hanno raggiunto il
punto di saturazione prima del previsto.”
“Perché?”
Dubitava che capire perché
la loro cura non stava funzionando avrebbe placato
l’impazienza degli
acquirenti, specie se parlava di cose astruse e filo-Babbane come
anticorpi e
sieri, ma doveva pur trovare un modo per prendere tempo.
O
saremo fottuti.
Loher si rassettò
il camice
nervoso e quando fu certo che non l’avrebbe strapazzato
ancora si arrischiò a
impettirsi un po’. “Gli anticorpi sono personali
come una bacchetta. Non può prenderli
e darli a qualcun altro ed aspettarti che facciano il loro
lavoro.”
“Avevi detto che avrebbe potuto funzionare.”
“Perché nel mondo Babbano c’è
stato un precedente positivo a questo
procedimento. Alcuni pazienti malati di difterite sono stati curati
iniettando
loro del siero estratto da topi di laboratorio immunizzati …
e poi, è
la stessa strada che stanno
percorrendo al San Mungo.” Aggiunse come per giustificarsi.
“Il problema è che
stiamo parlando di una malattia magica. Stiamo facendo il possibile, ma
quando
la Spruzzolosi fu scoperta ci vollero anni prima di trovare una cura.
Tu mi
stai chiedendo giorni!”
“Perché
è ciò che abbiamo.” A
quanto gli aveva detto il suo contatto americano e da quanto aveva
scoperto
quando la camera della Gringott era esplosa forse neppure quelli.
Gli
auror ci stanno accerchiando.
“Ascoltami
bene.” Disse. “Quante
delle cavie sono sopravvissute al trattamento?”
“Tre elementi,
perché?”
“Puoi renderle
operative?”
“Ma se ho appena
detto…”
“Non su basi stabili.” Lo fermò.
“Puoi farlo?”
“Con bracciali di
controllo e
sotto Imperium forse ...”
La testa
glabra di Loher stava lavorando febbrilmente ed era uno dei motivi per
cui non
si era ancora sbarazzato di lui: a volte un solo cervello servivano
più di
decine di muscoli. “… ma sarà comunque
impossibile presentarli ai compratori
senza che notino il problema.”
“Non mi servono
per i
compratori.” Gli mise una mano sulla spalla e
sogghignò: forse dopotutto gli
aveva dato delle buone notizie. Ancor meglio, notizie utili.
“Mio buon
Immanuel, conosci il detto se vis pacem
para bellum?”
“Se vuoi la pace
prepara la
guerra.” Tradusse da diligente ex pupillo di Durmstrang.
“Non capisco.”
“Cosa
c’è da capire, mio topo
da laboratorio? Siamo in guerra. Ed è ora di smettere di
difenderci.” Sorrise. “Attacchiamo,
ti va?”
****
Note:
E non dite che non è enorme! Perché
oggettivamente lo è. Ehm. Le cose mi sono
sfuggite un po’ di mano.
Manca Tom, come avevo
promesso, ma beh, provate a toglierlo dalla stanza in cui mi si
è rinchiuso! Sta lavorando per noi! XD
Questa
la canzone del capitolo. E questa
la canzone che si becca Lily. Insomma, salutiamo Scott come si deve.
Tom Odell farà nuove comparse, perché
è bello, biondo e canta roba che posso
usare. Yay!
Buona domenica di pioggia gente, e grazie per la pazienza!
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Capitolo 41 *** Capitolo XL ***
Capitolo XL
Grow
old with me, let us share what we see
And all the best it could be, just you and I
(Grow
Old With Me, Tom Odell)
30
Luglio 2028
Devon,
Il Mulino. Mattina.
Quella mattina toccava a lei
fare la stalker del povero dormiente.
Lily si era svegliata
all’alba
con un sete indicibile e quando era tornata a letto, dopo un paio di
minuti di
dormiveglia delizioso, la sua testa aveva cominciato ad ingranare e da
allora
non c’era più stato verso di ritornare tra le
braccia di Morfeo.
Sören invece non si
era pressoché
mosso, e tutt’ora dormiva sulla schiena tutto rigido, quasi
fosse pronto a
scattare in piedi al minimo segnale di pericolo: nulla di cui
preoccuparsi, da
che lo conosceva l’aveva sempre visto riposarsi
così.
Contento
lui. Io morirei di maldischiena.
Era rimasta un po’
a
guardarlo, riuscendo persino a rilassarsi al ritmo del suo respiro
regolare.
Non appena però aveva provato a posare la testa sul cuscino
un pensiero l’aveva
infilzata come un pollo allo spiedo.
Oh,
ehi. Te lo ricordi? Se ne va tra ventiquattro ore.
La Passaporta maledetta era
datata 31 Luglio dato che Sören non era riuscito a riavere il
caso e quindi,
secondo le ridicole leggi dell’Inghilterra, addizionate alla
testa dura di suo
padre, doveva andarsene.
Ciao
ciao sonno. Benvenuta angoscia.
Aveva passato ore
a congetturare idee e cercare
soluzioni prima di arrendersi all’evidenza della sua
incapacità di pensare ad
altro che rapirlo e farsi beccare nel giro di due ore. Si era quindi
spostata
sul davanzale della stanza e aveva tentato di distrarsi con un libro
che prendeva
polvere sul comodino da almeno due mesi.
Non era riuscita ad andare
oltre la seconda pagina.
Perché
Sören era lì, dormiva
nel suo letto ma se ne sarebbe andato lasciandola di nuovo sola.
No,
beh, non sola. Ma ad un oceano di distanza, che non
è poco…
Cinque anni prima sarebbe
scesa di un piano per gridare le sue giuste ragioni e pretendere
doverose
attenzioni da suo padre. Cinque anni dopo aveva accettato che le cose
non
funzionavano così.
E
poi Ren mi spellerebbe viva se mi mettessi in mezzo.
Stupido orgoglio maschile!
La razionalità le
diceva di
non pensarci, di godersi quegli ultimi momenti, e magari pure senza
vestiti
visto che Sören si era già portato avanti dormendo
solo con i propri pantaloni
addosso.
Sei
una strega libera adesso. Quindi datti da fare.
Carpe diem!
E forse doveva darle retta.
“Ren.”
Lo chiamò, solo per
provare, solo per vedere se poteva.
Non servì
chiamarlo due volte,
perché l’altro si alzò a sedere con una
fluidità un po’ inquietante visto che
fino a due secondi prima sembrava nel mondo dei sogni.
“Dimmi.” Disse
schiarendosi la voce roca, e molto
maschia.
“… Hai
il sonno leggero.”
Constatò come un idiota.
“Sì.”
Le venne risposto con
uno sbadiglio tranquillo. “Perché non riesci a
dormire?” La faccia era insonnolita,
ma gli occhi erano lucidi e attenti e questo la fece sentire in colpa e
un po’ stupida.
Lo
stai facendo preoccupare. Oltre Ogni Previsione
Potter, complimenti. Non potevi infilarti nel letto e svegliarlo in
modo più
piacevole? Noooo, meglio chiamarlo come una bambina di cinque anni che
deve
andare in bagno.
“Sonno
leggero?” Offrì
stringendosi le spalle e maledicendosi per aver indossato il pigiama
meno sexy
della storia dei pigiami. Era il suo preferito, il più
comodo e rosa, ma non
era un colpo d’occhio conturbante visto dal letto e da un
uomo appena alzato.
Ieri
notte è crollato addormentato a metà del film,
ero
stanca quanto lui e…
E non aveva proprio pensato
di
pianificare una seduzione mattutina dato il senso di colpa verso Scott.
“Tu non hai il
sonno leggero.”
Ribatté Sören passandosi una mano trai capelli e
facendoseli ripiovere
inesorabilmente sul viso. Milo era uno stilista impeccabile, ma non
faceva i
conti con l’insofferenza per il disordine del proprio
assistito. Era comunque
adorabile con i capelli arruffati e il broncio infastidito.
“Certo che
c’è l’ho.” Ribatté
riflettendo sull’ipotesi di Trasfigurare il coso
che indossava con un negligé conturbante non appena
l’altro si fosse distratto
e avesse smesso di guardarla come se fosse l’unico punto
focale della stanza.
“No
invece.” La contraddisse.
“Hai sempre dormito di gusto quando mi hai rubato il
letto.” Le sorrise. “Stavolta
temo sia accaduto il contrario. Sono un compagno tanto
fastidioso?”
“No,
anzi.” Come poteva incedere
sensuale quando il suo pigiama aveva i
coniglietti? Era una cretina. “Ti dispiace se mi
cambio con qualcosa di più
comodo?” Suggerì suggestiva.
Per tutta risposta venne
guardata in totale perplessità. “Più
comodo di quello che già indossi?”
Lo
sapevo, è un ammazza-sesso! Per questo Scott non mi
ha mai visto con questa roba addosso.
“Più
adatto.” Tentò di nuovo
con un sorriso che avrebbe dovuto essere una dichiarazione di intenti
piuttosto
esplicita. All’altro doveva bastar quello: per togliersi di
dosso il pigiama
della vergogna – dannazione, la sua bacchetta era sul
comodino – avrebbe dovuto
infatti sfilarselo dalla testa.
Sören
aggrottò le
sopracciglia. “Più adatto a cosa?”
“A…
dai.”
“Lily, non capisco.”
Oh
Santa Morgana.
“Per andare a
raccogliere
rape! Secondo te?” Sbottò esasperata e
presumibilmente dello stesso colore di ciò
che avrebbe dovuto cogliere. Era la regina indiscussa della seduzione
–
autoproclamatasi, ma comunque – e in quel momento si sentiva
imbranata come un
adolescente al Ballo del Ceppo.
“…
ah.” Capì infine.
“Eh!”
Sören non le
rispose: si mise
a ridere.
Lo
ammazzo. Giuro che lo ammazzo.
Fu tentata di tirargli il
libro, ma poi trovò del tutto ragionevole impugnarlo come un
arma contundente e
andare a sbatterglielo sulla testa. Sören, che era uno
stramaledetto agente
segreto, anticipò la sua mossa da come si coprì
la testa parando il
fendente. “Lily,
basta!” Esclamò tra le
risate. Delizioso: riusciva ad esilarare il tipo più austero
del mondo con i
suoi tentativi di seduzione.
Come
far sprofondare la propria autostima in dieci
secondi.
“Sei un
idiota!” Trovò giusto
comunicargli. “Fuori dal mio letto!”
“Lo farei se
smettessi di
tirarmi cose in testa!” Ridacchiò e poi
afferrò il polso con una
facilità che rese evidente quanto non
avesse neanche bisogno di difendersi. “Perché sei
arrabbiata?”
“Perché
stai ridendo!” Aveva
davanti una stupidissima testa di bacchetto quindi era doveroso
esplicitare.
“Ci hai messo un’ora a capire cosa ti stavo
chiedendo e poi ti sei messo a
ridere!”
Sören a quel punto
assunse
un’espressione colpevole. “Non ridevo di
te.” Si giustificò sfilandole il libro
di mano e posizionandolo al sicuro sul comodino. “Ero
divertito dalla
situazione … e dalla tua faccia.”
“Della mia
faccia?!”
Sören si
schiarì la voce,
segno internazionale di marcia indietro. “Mi sono espresso
male.”
“Riprovaci.” Ringhiò. “Hai una
sola possibilità.”
“Ridevo…” Si guardò attorno
con un certo panico, che sarebbe stato adorabile se
non avesse avuto voglia di appenderlo per gli alluci al segnavento di
casa. “…
ridevo dell’assurdità di quel che stavi
facendo.” Intuendo che non stava affatto
tirando acqua al suo mulino si
affrettò ad aggiungere. “Perché non
serve.”
“Non serve cosa?”
“Che tu ti cambi.
O che tu mi
… mi seduca.” Si schiarì di nuovo la
voce e studiò con interesse la trapunta.
Persino appena sveglio riusciva ad arrossire come un semaforo.
“Basta che tu mi
stia vicina per … per dovermi frenare.”
“Oh.”
Bella giocata, Ren.
Era giusto riconosceglierlo.
“Indosso un pigiama orribile.”
“Non
l’ho neanche notato.” Lei
però notò come l’altro tirò
a sé le coperte dalla vita in giù. Dovette
ingoiare
un ghigno trionfante perché non stava bene in una signorina
di buona famiglia.
“Per me sei sempre bellissima e …
desiderabile.”
Adorava quelle piccole pause
imbarazzate, e le occhiate rapide che le lanciava per controllare la
sua
reazione. “Quindi tutta la fatica che faccio per vestirmi e
truccarmi è
sprecata?” Lo stuzzicò fingendo un tono seccato.
Sören parve
annientato all’idea
di essersi cacciato in guai peggiori. “Non volevo dire questo
… mi piacciono i
tuoi vestiti e quello … le cose che … il
trucco?” Sussurrò atterrito. “Temo di
essermi spiegato male.” Fece una pausa. “Molto
male.”
“Sei stato fin troppo chiaro.” Proclamò
severa. Non gli diede il tempo di
scongiurare perdono che gli passò le braccia attorno al
collo e lo baciò.
Perché sia come amico che come ragazzo era lo scemo
più adorabile in cui si
fosse mai imbattuta. Ma più come ragazzo.
Sei
il mio ragazzo. Mio. Ah.
Se Sören era lento
a capire i
sottotesti verbali non lo era però a capire quelli fisici da
come la rovesciò
tra le lenzuola, incurante del pigiama a coniglietti e tutto il resto.
Ed era
una cosa che si sentiva bene.
Però!
“Le parole tra di
noi, almeno
in questi frangenti, fanno più danni che altro.”
Gli fece notare, socchiudendo
gli occhi deliziata all’iniziativa presa dall’altro
con la scia di baci sul
collo. “Dobbiamo essere più fisici.”
“Tutto quello che
desideri, mia
Lilian.” Le mormorò baciandole la guancia, in un
moto di tenerezza misto a
passione che la fece sciogliere tutta. Lo voleva, e non gli importava
un
accidente di scadenze, di ritorni in patria e pareri genitoriali. Se
cogliere
il momento era tutto quello che avevano, diamine l’avrebbero
colto alla grande.
“Lily,
sveglia! Stai facendo tardi al lavoro!”
Sul serio?!
Era chiaro, viveva in una sit-com Babbana di quarto ordine,
perché non era
possibile che ogni volta tentasse di passare del tempo di
qualità con il suo
tedesco qualcuno li interrompeva. Qualcuno che aveva la voce di sua
madre che
la chiamava dal piano di sotto peraltro ed era dunque in grado di
provocare una
doccia fredda di forte entità a tutti e due.
Sören
inspirò brusco e disse
qualcosa in tedesco che assomigliava ad una parolaccia inglese per poi
staccarsi da lei. “Lily, ti ho detto che sono disposto ad
aspettare…”
“Me lo ricordo.” Rispose abbassandosi il
bistrattato pigiama e ravviandosi i
capelli. “Ancora della stessa opinione?”
“No.”
“D’accordissimo
su tutta la
linea.”
Si scambiarono
un’occhiata e
si sorrisero. “Oggi parlerò con mio padre e
lascerò che i pettegolezzi facciano
il resto. Non voglio perdermi più un solo giorno.”
Ora. A questo punto, ora. È domani.
La
partenza è domani. Al diavolo tutto. E tutti.
Sören si
alzò e prese la
camicia, piegata prussianamente sulla sua scrivania, per infilarsela.
“Vuoi che
venga con te?”
Ahaahahah, se vuoi vivere, no.
“Meglio di no, da
sola riesco
a prenderlo per il verso giusto.” Riassunse per non
spaventarlo. Suo padre non
era geloso alla stregua di zio Ron ma era comunque un po’
prevenuto verso i
ragazzi che gli presentava.
Cioè
solo Scott. E per farglielo digerire … ma
comunque. Pensieri positivi!
“A mamma
l’ho detto ieri
sera.” Aggiunse spiando la reazione conseguente.
Sören
giocherellò con l’anello
che aveva al dito – eccoci, era nervoso – e si
voltò con un sospiro. “Come l’ha
presa?”
Gli sistemò i
risvolti del
giubbotto per avere una scusa per allacciargli le braccia al collo.
“Bene,
tranquillo. Insomma, non può mettersi a far
l’ipocrita quando si è sposata uno
come papà!”
“Tuo padre è un eroe di guerra. L’eroe
di guerra.” Puntualizzò confuso. “Un
mago ideale.”
“Sulla carta sì. Ma è stato anche un
adolescente deficiente che non l’ha notata
finché non l’ha vista in sella ad una scopa e dopo
la guerra passava più tempo
tra uniformi e Auror che con lei. Credimi, come fidanzato deve aver
fatto pena.”
Sören le
scoccò un’occhiata
divertita, rilassandosi. “Quindi sono un termine di paragone
positivo?”
“Per una strega
Weasley ci
puoi giurare.” Gli premette un bacio sulle labbra.
“Non essere nervoso. La mia
famiglia è un po’ spaventosa, ma hai affrontato di
peggio no?”
“Non che io
ricordi.” La prese
in giro accettando di buon grado lo schiaffo conseguente alla spalla.
“Gli
voglio parlare anch’io però.” Aggiunse
serio.
“Per chiedergli il
nulla osta?”
“Una cosa
simile.” Fece una
lieve smorfia. “In ogni caso, se le cose andassero male,
potrò sempre mettere
un oceano tra me e lui…”
Ha realizzato anche lui.
Lo abbracciò e si
fece
abbracciare stretta per tutta risposta. Non c’era molto da
dire del resto.
Sören le fece poi
una carezza.
“Fino a poco tempo fa non sarei tornato in Inghilterra a meno
che non vi fossi
stato costretto. Lo sono stato, in effetti…”
Strinse la mano che la
sfiorava
come se da quello dipendesse la permanenza dell’altro. Forse
un po’ era così. “Ed
ora?”
Sören
appoggiò la fronte alla
sua come aveva fatto tanto tempo prima, in mezzo ad un mare nordico in
tempesta, che era ora metafora della loro situazione. “Che
provino a
fermarmi.”
Erano i sentimenti ad esser
cambiati, evoluti. Il messaggio però era sempre lo stesso.
Non
ti abbandono.
****
Diagon
Alley, Bottega di Rupert Stevens.
Mattina.
“Penso che un
altro Artigiano
al posto mio ti avrebbe già licenziato.”
“Non puoi, ti sono indispensabile.”
“Dici?”
“Dico.”
Tom non alzò la
testa per
controllare che l’espressione di Stevens non segnalasse
fastidio o ben peggio.
Era troppo impegnato a scandagliare i maledetti pezzi di mappa.
Già gli aveva
fatto un favore ad essersi tolto le cuffie quando gliel’aveva
chiesto, visto
che vi si diffondeva un concerto per pianoforte di Einaudi (alla Royal
Albert
Hall, nientemeno) che lo aiutava a focalizzarsi sul compito che si era
prefisso.
Avrò
ragione di questa ridicola mappa prima di stasera.
L’aveva promesso
ad Albus e
l’ultima cosa che voleva era sbugiardarsi: ne andava del suo
orgoglio.
“Sono curioso,
cosa ti distoglie
dal motivo per cui ti ho preso in bottega?”
Non c’era dubbio
che il suo
mentore avesse seguito il consiglio di quella piccola vipera del suo
compagno:
continuare a bombardarlo di domande finchè non capitolava
per esasperazione.
Ne approfittò
comunque per
stiracchiarsi. “Si tratta della piantina del castello dove
gli Auror credono si
stia nascondendo la base operativa del Demiurgo.”
Stevens batté le
palpebre
cieche con sorpresa. “Sarebbe una svolta decisiva.”
“Esatto.”
Convenne anche se
poi fare una smorfia fu inevitabile. “Solo che la mappa in
questione è ridotta
in coriandoli. È esplosa assieme alla camera blindata in cui
era contenuta.”
Stevens sorrise. “Adesso capisco, te l’ha affidato
Albus.”
“Non mi ha
affidato proprio
niente.” Ritorse perché non era a servizio del
Potter di mezzo, per quanto
l’intero mondo ne fosse convinto. Affatto.
“Abbiamo solo pensato che valesse la pena tentare di
recuperarla.”
“Lui non ci sta lavorando?”
Si frenò dal
rispondergli male
o spostargli lo sgabello perché inciampasse.
“È in ospedale adesso.”
Sibilò
infilandosi le cuffie. “Lasciami lavorare.”
L’uomo
ridacchiò, battendogli
odiosamente una pacca sulla spalla per poi andarsene ad accogliere un
fornitore.
Tom, alfine libero da
frecciatine
e dalla realizzazione che stava seguendo i dettami del compagno, si
ributtò sul
lavoro: quel genere di compito lo assorbiva completamente facendogli
persino
dimenticare di mangiare o di bere – infatti non ricordava se
avesse fatto
colazione o meno. Forse Meike l’aveva obbligato a mangiare
qualcosa.
Fu dopo il ripetere in loop
il
concerto per la terza volta, un paio d’ore dunque, che
trovò qualcosa che lo
avrebbe fatto saltare sulla sedia se fosse stato un tipo
impressionabile: una
frase, mangiata in parte dal fuoco, ma tuttavia ancora leggibile.
Invenire
Ingressum: Dices Nochtann an t-ionchur …
Usò le pinze che
adoperava per
sezionare nuclei di bacchetta per distenderne i lembi accartocciati:
sembravano
istruzioni per un incantesimo di localizzazione.
Aveva appena trovato il
frammetto che permetteva di localizzare il maniero dei Prince.
Scoperta esaltante, se non
fosse che non aveva la minima idea di cosa ci fosse scritto.
Non
conosco questo incantesimo. Metà di esso non è
neppure scritto in latino. E ne manca un pezzo.
Tra l’altro,
l’ultima parte
leggibile era in una lingua che pareva gaelico.
Io
non parlo gaelico.
Poteva chiamare Al e
decidere
il da farsi, ma la frecciatina di Stevens bruciava ancora e del resto
aveva una
soluzione che non avrebbe permesso all’altro di rinfacciargli
alcunché.
Chiamò
Sören che rispose dopo
due squilli. “Thomas.” La voce suonava sorpresa, ma
si riprese subito. “Ci sono
novità?”
Uno dei pregi del cugino era
non perdersi mai in chiacchiere inutili. “Sì, ho
bisogno che tu venga alla
bottega in cui lavoro. Ho scoperto qualcosa.”
“Dammi
l’indirizzo.”
Ci fu una breve pausa mentre
gli dettava le istruzioni su come raggiungerlo. “Hai
avvertito gli auror?” Fu
l’aggiunta pedante.
“No, non
l’ho fatto. Prima di
gridare alla scoperta ho bisogno di aver conferme che sia tale. Conosci
il
gaelico, vero?”
“Non al punto di
parlarlo, ma
sono in grado di leggerlo, sì.” Un’altra
pausa. “Parte della mia famiglia veniva
dall’Irlanda.”
Gaelico
irlandese dunque.
Era quello che gli serviva
sapere.
“Ti aspetto.” E chiuse la chiamata. Ora non gli
restava che aspettare.
“Devo
andare.”
“Adesso?”
Sören alzò la testa e nel farlo rischiò
di farsi infilare una forbice ben
appuntita in un occhio. Guardò con dispetto Milo e nel farlo
gli venne
restituita la stessa espressione.
“…
perché starei cercando di
tagliarti i capelli.” Aggiunse questo facendo scattare le due
lame assieme. “Quindi
sta’ buono e fammi finire il lavoro. Capo chino!”
Lo istruì piazzandogli una
mano sul retto della testa e mettendolo in posizione.
“Sei
fastidioso.” Borbottò con
la coscienza sporca. “E comunque devo andare davvero
… Non hai sentito la
telefonata?”
“Non
origlio.”
“Sì che lo fai.”
“Certo che lo faccio.” Ammise con una scrollatina
di spalle mentre sforbiciava
in allegria. “Tu e Dursley siete in combutta? È
una buona cosa, no?”
“Immagino di
sì.” Ci rifletté
un po’, perché la telefonata da parte di Thomas
non se l’era proprio aspettata.
Certo, lui e suo cugino collaboravano ufficiosamente
all’indagine, ma il
tramite era sempre stato Albus. “Non lo capisco molto
bene.”
“È famiglia.” Tagliò corto
dandogli una pacca sulla spalla e facendogli così
cenno di aver finito. “La famiglia, principino, è
importante … quando ne hai
una che vale la pena nominare.”
Sören non rispose:
nessuno dei
due ne aveva mai avuta una per cui valesse la pena perdere tempo ed
energie, se
non peggio, ma entrambi erano in grado di riconoscerne il valore.
“Non riesco a
considerare
Thomas come parte del mio sangue.” Considerò
asciugandosi i capelli con un
colpo di bacchetta e passandovi una buona dose di gel per tenerli
fermi. “La
famiglia sono persone a cui puoi affidare la tua vita … non
siamo ancora a quel
livello.”
Se pensava al concetto non
gli
veniva in mente Dursley, ma il ragazzo che gli aveva appena tagliato i
capelli.
Non che glielo avrebbe mai detto: pareva una di quelle cose
sottointese, da non
dire, previa presa in giro feroce.
Milo infatti
sbuffò con la
faccia da schiaffi tipica che precedeva una canzonatura. “Si
vede che hai fatto
centro con Zenzero … mi stai diventando sensibile.”
Sorrise di rimando.
“Forse, ma
mi puoi biasimare?”
L’altro scosse la
testa con
una scrollata di spalle indulgente. “Gli innamorati sono come
malati … Mi fanno
un po’ pena.”
“Hai compassione
di te
stesso?” L’occhiata che gli arrivò gli
fece ingoiare un sorrisetto, perché
dopotutto era magnanimo e non era inoltre saggio infierire con chi
aveva un
oggetto tagliente ancora in mano. “Mi devi coprire con la
scorta comunque, è
meglio che gli auror non sappiano delle indagini collaterali.”
“No, scordatelo!” Esclamò brandendole
come un’arma ed agitandogliele
teatralmente davanti al naso. “Sono stufo di restar chiuso
qui dentro a far
finta di parlare con il muro! È umiliante e strano
… a volte ho l’impressione
che il muro mi risponda.” Sospirò. “Ma
forse quella è l’erba.”
Alzò gli occhi al
cielo,
perché la sua famiglia era formata da una prima donna di
eccezionale categoria.
“Perché, hai impegni?”
“Sì!”
Venne guardato con
sussiego, ma anche con una certa dose di imbarazzo da come si
impegnò a
lisciare inutilmente l’asciugamano che gli aveva messo
attorno alle spalle.
“Devo vedermi con Zabini.” Ammise a mezza bocca.
“Gli chiederai di
partire con
noi?”
“Frena!” Milo assunse un’aria allarmata,
quasi gli avesse appena proposto di
prender d’assalto la Gringott. Anzi, forse in quel caso non
avrebbe reagito
così nervosamente. “Cioè …
sì, l’idea c’è ma non credo
… oh, ‘fanculo.” Concluse
scoraggiato.
“Dovresti
chiederglielo.”
Suggerì perché era quello che doveva fare un
amico. “Il peggio che può capitare
è che ti dica di no.”
“Dici poco.” Strinse le labbra. “Come
avresti reagito tu, se Zenzero ti avesse
dato picche in quel capanno?”
…
Ah.
“Capisco.”
Due mesi fa
l’avrebbe obbligato a restare e fargli da palo, ma
c’era tutt’altra posta in
gioco adesso. E come mago innamorato non poteva che empatizzare.
“Dirò alla
scorta che devo andare a trovare Thomas. Non è una cosa che
dovrebbe destar
sospetti.”
Milo alzò gli
occhi
dall’asciugamano che stava torcendo con la forza di un rullo
compressore. “…
non mi ordini di restar qua e non fare tante storie?
Cos’è ‘sta novità?”
Sören si
infilò il giubbotto e
non poté frenarsi. “Come hai detto tu, bisogna
aver compassione degli
innamorati.”
****
Diagon Alley, Finnigan’s Wake
Pub.
Ora di pranzo.
Lily voleva confessargli
qualcosa.
Era talmente ovvio che ad
Harry veniva quasi da ridere, ma si tratteneva, perché
vederla apparire davanti
alle porte dell'ufficio per trascinarlo a pranzo era stato bello. Interessato, ma
bello.
“Grazie per il
pranzo.” Disse
invece mettendosi il tovagliolo sulle ginocchia e sfogliando con calma
il menù
giornaliero del Finnigan’s Wake, che data la bella giornata
si era dotato di
tavoli all’esterno e persino qualche timido ombrellone per
ripararsi dal sole.
Lily fece un sorrisetto dei
suoi. “Beh, è un bel po’ che non offro
un pasto al mio povero papà stressato. Come
figlia premurosa, è mio dovere assicurarmi che non lavori
troppo.”
“Temo che non ci
sia modo per
evitarlo.” Motteggiò di rimando togliendosi gli
occhiali e massaggiandosi le
palpebre. “Ma una pausa è ben gradita.”
“Come procede il
Demiurgo?”
Non era lì per chiedergli quello, soppesò; Lily
stava scrutando il menù e
poteva essere un modo per fingere disinteresse, ma sembrava davvero poco interessata. O meglio: gli
interessava, ma di certo non per parlare dell’andamento del
caso.
Vorrà
chiedermi se pensiamo di far restare Prince?
Conosceva sua figlia come il
palmo della sua mano, ma non arrivava ancora a capire il fine delle sue
piccole
strategie femminili, a volte adorabili, a volte piuttosto pericolose.
Uhm.
Domani è il mio compleanno. Forse Al e Jam l’hanno
mandata in avanscoperta per capire cosa possono regalarmi?
Anche quella poteva essere
una
possibilità.
“Pensavamo di
avere una pista
promettente, ma ci hanno messo di nuovo sotto scacco.”
Riassunse per non
tediarla e soprattutto perché gli pareva di ricordare ci
fosse qualche legge
che gli impediva di parlare di certe cose fuori dal luogo di lavoro.
È
Ron che se le ricorda, non io.
“Sono sicura che
finirete per
prenderli.” Gli sorrise incoraggiante, chiamando con un gesto
la cameriera. “I
buoni vincono sempre.”
“Diciamo che i
cattivi tendono
a sopravvalutarsi.” La fece sorridere.
Ordinarono e poi
continuarono
a chiacchierare del più e del meno; Lily era sempre stata
una conversatrice
brillante, e sentirla parlare dell’ospedale, delle sue
amicizie e delle piccole
grandi cose che le accadevano era come volgere il viso al sole e godere
dei
suoi raggi – cosa che tra l’altro stava
materialmente facendo.
Era una buona giornata.
Fu dopo un forte
caffè turco
che Lily gli consigliò di prendere che la
curiosità ebbe la meglio. “Tesoro,
non mi fraintendere … adoro passare del tempo con te, e non
lo facciamo mai
abbastanza, ma hai bisogno di qualcosa?”
Lily si bloccò a
metà della
sua tazzina, scoccandogli un’occhiata che riassumeva
perfettamente quanto
avesse fatto centro.
Non
sono un capo divisione per niente, piccola.
“No,
ehm.” Balbettò
schiarendosi la voce. “Non proprio bisogno …
cioè, tipo.”
Ora era confuso. La sua
bambina aveva perso il sorriso e si era innervosita da come
cincischiava con il
tovagliolo. “Lils, sai che puoi dirmi tutto.” La
incoraggiò con un sorriso che
sperò fosse tranquillizzante, perché quando
vedeva uno dei suoi figli
tentennare così pensava sempre all’ipotesi
peggiore.
Le
è successo qualcosa? Si è messa nei guai? Si
è
ammalata? È incinta? No, questo no. Sono troppo giovane per
diventare nonno.
“Non è
niente di terribile.”
Gli lesse nell’espressione. “Sto bene e
… va tutto bene, sul serio.” Tirò un
grosso sospiro, quasi a inspirare coraggio assieme all’aria.
In questo lei e Al
sembravano due gemelli. “È che mi è
successo una cosa. Bella!” Sottolineò con
un’esclamazione. “Ma non credo che ti
piacerà sentirla.”
“Hai deciso di
partire per
l’Australia?” Ginny gli aveva parlato della
proposta di Scott sul fare una
vacanza con possibilità di prolungarla in una permanenza
stabile. Il sapore
amaro che sentiva in bocca non era solo dovuto al caffè, ma
non poteva opporsi.
Come quando Nora gli aveva paventato l’idea che Thomas se ne
andasse a studiare
in America non poteva che mostrarsi supportivo.
Sono
i miei ragazzi, ma devono volare fuori dal nido se
ne sentono il bisogno.
“No, resto,
l’intera faccenda
è andata a monte.” Disse rischiando un abbraccio
fuori programma. Non partiva!
“Tra l’altro io e Scotty ci siamo
lasciati.”
“Oh.” Quella non era una bella notizia. O meglio,
una piccola, ridicola parte
di sé la considerava tale, perché significava
allontanare lo spauracchio di un
fidanzamento e conseguente matrimonio.
Ma non è questo il punto.
“Mi
dispiace.” Disse sperando
di suonare sincero.
Lily gli rivolse
un’occhiata
di sufficienza. “Col cavolo papà.”
Scoperto.
“Mi dispiace che
tu abbia
dovuto starci male.” E questo era vero. “Ma
l’ho sempre trovato un po’…”
Cercò
di trovare la parola adatta per descrivere Ross, e meno offensiva
possibile. “…
scialbo per te.” Concluse sperando di aver fatto del suo
meglio.
“Disse il
Prescelto, Salvatore
di Due Mondi e Eroe di uno.” L’ironia se la
meritava tutta. “Comunque non ti ho
offerto il pranzo per parlare di Scott.”
“Ma neanche per passare un po’ di tempo con il tuo
vecchio genitore.” Ribatté
scherzoso, rimediandosi un calcetto colpevole sotto il tavolo.
“Dai Lils,
dimmelo e basta.” Perché tolti guai, malattie e
matrimoni in vista quanto
poteva essere grave?
“Io e
Sören ci siamo messi
assieme.”
Molto grave.
****
Diagon
Alley, Bottega di Stevens.
Ora di pranzo.
“Tom, è
per te.”
Così era quello il luogo di lavoro del cugino: un
laboratorio di bacchette
piccolo e raccolto, ingombro di libri, provette e dal denso odore di
cera.
Sembrava in disordine, ma non lo era. C’era una sorta di caos
funzionale e Tom
sembrava amalgamarvisi alla perfezione, seduto ad un tavolo da lavoro
con la
testa china e il cipiglio assorto.
Sembra
l’ambientazione di un dipinto di Van der Bossche.
“Siediti.”
Lo salutò indicando
con un gesto vago una sedia o forse una pila di libri che sostava poco
lontano
dal suo tavolo di lavoro. Optò per la sedia. “Sei
in ritardo.”
“Non ci siamo dati un orario di massima.” Sorrise
impacciato all’anziano che
l’aveva fatto entrare e che tutt’ora rimaneva tra
di loro con l’aria di un gufo
curioso. “Lei … collabora
all’indagine?” Chiese incerto.
Del resto Albus non fa che trascinarvi
persone dentro.
Finché
non si tratta di Lilian…
“Oh,
no.” Gli rispose questo
con una scrollata di spalle, prima di allontanarsi. “Io
lavoro.”
“È Stevens, il mio mentore.”
Spiegò Tom con aria scocciata, quasi il suo arrivo
e il fatto che stesse interagendo fosse stata una fonte di inatteso
fastidio.
E
sono stato invitato. Chissà come reagisce alle visite
impreviste.
Per avvalersi del suo
diritto
di ospite si prese quindi del tempo per ripiegare la giacca sulla sedia
e
trovare un argomento di conversazione che non c’entrasse
niente. “Allora è
questo quello che fai. Sei un allievo Fabbricante di
bacchette.”
“Sì.” Alzò finalmente lo
sguardo. “Al non te l’ha detto?”
“Deve averlo tralasciato.”
“Strano.”
“Non sei l’argomento principale delle nostre
conversazioni.” Replicò beccandosi
un’occhiata arrabbiata. Thomas aveva un indole gelosa e
possessiva, non ci voleva
un Legimante per capirlo ed era quindi divertente stuzzicarlo.
Albus
lo ha educato a dovere se non mi salta alla gola.
“C’è
un motivo per cui ti ho
chiamato qui, e non è chiacchierare. Traduci.”
Sbottò passandogli un pezzo
microscopico della marea di carta pergamenata che aveva davanti.
Sören tornò serio e prese la lente di ingrandimento
che l’altro gli porgeva per
studiare le volute di inchiostro scolorito. La frase era quasi
illeggibile.
Quasi.
“Rivela
l’ingresso.” Tradusse.
“È una versione arcaica di Aholomora
suppongo. Curioso. Non usate
il latino per gli incantesimi?”
“Sì,
come in tutto
l’Occidente.” Confermò l’altro
pensieroso. “Ma alcuni incantesimi di
Occultamento sono ancora in lingua celtica … È un
retaggio che risale ai tempi
dei druidi, quando con la loro magia nascondevano
intere tribù e villaggi agli
occhi dei legionari romani. I Prince sono una famiglia molto antica,
no?”
“Così
mi è stato detto.” Non
che suo padre gli avesse mai raccontato molto, a parte qualche aneddoto
e
memoria d’infanzia. Elias Prince aveva abbandonato
l’Inghilterra per non
tornarvi mai più e solo la nostalgia l’aveva
spinto, talvolta, a condividere
qualche ricordo con lui. “Il gaelico l’ho imparato
da solo.” Spiegò: era stato
un patto silenzioso con suo padre, già morto da anni.
Sono
l’ultimo Prince, dopotutto. Devo conoscere la
lingua dei miei avi.
Tom fece una smorfia.
“Comunque non ci aiuta.” Dichiarò dopo
un breve silenzio. “Abbiamo la formula,
ma non dove applicarla. Non
sappiamo
dov’è l’ingresso.”
“Ci devono essere
delle
indicazioni.” Ricordava il modo in cui era stato occultato il
castello dei Von
Hohenheim, e come aveva dovuto trovarlo nel
fitto della foresta di Rügen. Essendoci vissuto per anni aveva
individuato il
cancello a colpo sicuro, ma per un visitatore qualsiasi la faccenda
poteva
esser stata ben diversa.
Di
certo dovevano avere qualche informazione per
trovarlo.
“Indicazioni di
che tipo?”
“Non lo so. Non le hai cercate?”
La domanda rischiò seriamente di mandare in collera il
cugino da come avvampò e
lo fulminò stizzito. “Ho cercato di ricostruire la
mappa proprio per questo
motivo.”
“È
impossibile.” Gli fece
notare con il tono più conciliante del suo repertorio:
mettersi a litigare con
l’altro era l’ultimo dei suoi desideri.
“La cosa che dobbiamo fare è un'altra.
Dobbiamo focalizzarci su quel che rimane e restringere il campo di
ricerca per
gli auror.” Lo aveva colto di sorpresa, quindi ne
approfittò per dargli un
ordine diretto. “Fammi vedere cos’hai trovato di
scritto.”
“Parole?”
Sembrava poco
convinto e in generale poco contento di esser trattato da subordinato,
ma isolò
una decina di frammenti facendoli Levitare tra di loro in un moto a
trecentosessanta
gradi. “Ancora gaelico quindi del tutto inutili per
me.” Aggiunse
in una giustificazione scontrosa.
“Non è
una nota di demerito ignorare
una lingua pressoché morta.” Gli fece notare.
“Conosci il tedesco, no?” Scorse
con lo sguardo i frammenti. Parole singole, senza significato se non
poste in
ordine.
“L’ho imparato per necessità. Dopo mesi.”
Ingoiò un sorriso per non esacerbarlo ulteriormente:
più aveva a che fare con
suo cugino, più si rendeva conto di quanto
fosse un Von Hohenheim. Era orgoglioso, testardo e odiava chiedere
aiuto.
È
come Alberich, eppure non è lui.
Perché a suo zio
era mancata
la compassione e la capacità di ammettere i suoi limiti che
invece, con
riluttanza, aveva Thomas.
È
proprio vero. Non è il sangue che fa un mago, ma
l’esperienze
e le persone che incontra sul suo cammino.
Selezionò un paio
di pezzi per
porli sotto la lente di ingrandimento. “Guarda.” Lo
spronò. “Da soli non
significano nulla, ma insieme…”
Tom si alzò e gli andò alle spalle, con un unico
fluido movimento. “Insieme
cosa?” Lo incalzò.
“C’è qualche indicazione?”
“Direzione
sud-Est…” Tradusse un pezzo.
“… oltre il fiume
… maggiore.” Alzò lo sguardo,
colto da un’idea. “Hai
un atlante geografico dell’Inghilterra?”
“Qui? No. Possiamo
cercarla
sul cellulare però.” Alla sua occhiata perplessa
aggiunse irritato. “Mai
sentito parlare di app
geografiche?”
“…
più o meno.” A volte
dimenticava che i Babbani avevano spesso soluzioni a portata di mano, o
meglio,
di dita. Consultarono quindi lo smartphone dell’altro
circoscrivendo l’area.
Tom rese poi la mappa digitale – non aveva idea di come, i
movimenti delle dita
furono troppo rapidi –in grado di mostrare rilievi e
depressioni geografiche. .
“Cerca il
fiume.” Lo istruì occhieggiando
lo schermo luminoso con la sensazione che non ne sarebbe mai venuto a
capo,
neppure con ore e ore di spiegazioni da parte di Milo. “Non
un affluente né un
ruscello. Un fiume di una certa importanza.”
“Il
Ribble.” Rispose l’altro
indicando una linea azzurra che doveva identificarlo come tale.
“Deve trattarsi
del fiume che scorre vicino a Preston.” Serrò le
labbra. “Troppo vago … siamo
ancora lontani.”
“Aspetta.” Selezionò un pezzo in cui
l’inchiostro era ancora visibile. “…
bosco.” Gli sembrava di giocare a indovinelli. Per quanto la
situazione fosse
seria, era piuttosto … divertente.
“C’è un bosco vicino.”
Thomas alzò gli occhi al cielo, quasi avesse detto una
sciocchezza. “L’intera
area è coperta da
boschi.”
“È grande.”
“È
grande o si chiama
grande?” L’espressione di
Thomas era quella di chi aveva appena fatto il punto decisivo in una
partita.
Tratteneva un sorriso solo perché aveva ancora bisogno della
conferma finale.
“La seconda. Non
è aggettivo,
è il nome.”
“Bosco Grande!”
Esclamò facendo
voltare persino l’Artigiano e il cliente con cui stava
parlando. Poi gli
sorrise e per uno sconcertante momento parve quasi volergli dare una
pacca
sulla spalla. Probabilmente era abituato così con Albus, il
suo compagno di
ricerche.
Anche no.
Si schiarirono entrambi la
voce, imbarazzati. “Sembra che abbiamo trovato
l’ingresso.” Osservò.
“Sembra di
sì.” Ribadì l’altro
squadernando un ghigno trionfante. “Non è stato
difficile.”
Neanche una passeggiata con il tuo
atteggiamento.
Non lo disse
però, perché a
differenza del cugino sapeva apprezzare il valore di un silenzio
opportuno.
“Dobbiamo andare a riferirlo agli Auror. Vieni con
me?” Propose invece.
Vorrà
pavoneggiarsi e in fondo glielo devo.
Con sua sorpresa non
ricevette
un’immediata risposta affermativa. Lo vide invece guardare
verso l’anziano
Artigiano che stava chiacchierando con animosità con un
cliente dall’aria
alterata. “No.” Rispose. “Ho da fare
qui.”
Sorrise, perché
quel suo
ombroso parente a volte rivelava sorprese. “Pensavo volessi
festeggiare.”
Ha
sempre reso piuttosto manifesto quanto poco ami il
potere costituito.
Gli
venne risposto con uno sbuffo
impaziente. “Non voglio lodi, specialmente da quelle teste di
bacchetta … ad
eccezione di mio zio Harry hanno tutti un cervello inversamente
proporzionale
alla propria boria. Ciò che mi interessava era trovare la
soluzione. L’ho
fatto, mi basta.”
“Lo dirai almeno
ad Albus
spero.”
Tom avvampò e in un attimo rese palese chi
aveva voluto impressionare. “Come se potessi
evitarlo.” Borbottò sostenuto,
afferrandolo per un braccio senza troppi complimenti e spingendolo in
direzione
della porta: glielo lasciò fare perché era troppo
impegnato a non ridere. “Cosa
aspetti?” Lo apostrofò in quello che era ormai
mortale imbarazzo “Corri dai
tuoi amichetti. Avete dei cattivi da prendere.”
“Agli
ordini.”
****
Londra,
Casa di Michel Zabini.
Ora di pranzo.
Tornare
a casa e sentire il suono di
un violino invece che l’assoluto silenzio di un ambiente
vuoto era stato un
cambiamento notevole, ma Michel vi si era abituato presto.
Troppo
presto.
Emil era in casa, e stava
suonando fuori dalla stanza della musica dato che appena aveva aperto
la porta
era stato accolto dal timbro chiaro dello Stradivari che si diffondeva
lungo il
corridoio. Difficile non riconoscerlo visto che ormai era il suo
strumento d’elezione.
Quello
più prezioso e che non dovrebbe mai uscire
dalla
sua teca.
Un tempo si sarebbe
innervosito, se non arrabbiato, e avrebbe preteso spiegazioni, buone
spiegazioni. Al momento invece doveva frenare sorrisi ed entusiasmo.
Si
suppone tu debba
lasciarlo.
Ma le parole di Albus gli
ronzavano in testa come mosche fastidiose, addizionate al trascurabile
fatto
che non voleva farlo. Neppure una
singola cellula del suo corpo, da quelle celebrali a quelle del suo
cuore erano
disposte a piegarsi al ricatto di suo padre.
Come
direbbe Al … che razza di casino.
Entrò nel salotto
che divideva
con Loki – o meglio, che l’amico aveva adibito a suo ufficio visto che aveva sparso le sue
carabattole ovunque – e
fu accolto da questo ed Emil, che impugnava il prezioso violino. La
cosa
sconcertante non era che Loki fosse riuscito a convincere Emil
– Lo sapeva come
lusingare un ego, specie quello di un artista.
…
è che glielo sta facendo suonare e non se
l’è già
portato via.
L’insolito
spettacolo valeva
almeno il suo silenzio. Si sedette così su una delle
poltrone e ascoltò,
lasciando che la testa per un po’ si riposasse e si facesse
semplicemente
cullare dalle note.
Anche
se è una canzone un po’ troppo moderna per i miei
gusti.
Ma non quelli
dell’amico
d’infanzia, che terminata l’esecuzione si tolse la
pipa di bocca e andò battere
una pacca sulla spalla di Emil. “Magnifica!”
Esclamò con insolito tono energico
andando a stringergli la mano per poi depositarvi tre monete sonanti.
“L’hai
azzeccata al primo colpo … Chapeau
carissimo, non è semplice farmi aprire i cordoni della
borsa.”
Il tedesco abbozzò un inchino scherzoso infilandosi in tasca
il denaro. “Mi
lusinghi Loki, ma indovinare i gusti del mio uditorio è
quello che facevo per
vivere fino a pochi anni fa.” Spiegò.
“Hans Zimmer, poi, ha una canzone per
tutti.”
Questo
è il ragazzo che amo.
Si era innamorato
dell’irriverente
teppista di strada, dal coltello pronto e dalla battuta salace e
dell’artista dagli
occhi dorati che accarezzava il mondo con dita leggere. Emil era Milo e
viceversa; se all’inizio vi aveva visto una distinzione
adesso non più. Il
ragazzo che gli stava davanti, guardandolo di sottecchi come se si
aspettasse
una reprimenda – ah già, aveva portato fuori lo
Stradivari – era l’uomo che
amava. Tutto lì.
Quella era una
realtà che
neppure i diktat di suo padre potevano cambiare.
“Scommesse e
trafugazione di
oggetti d’arte … Sapevo che vi sareste intesi alla
perfezione voi due.” Replicò
con aria seria, divertendosi a constatare come Emil fosse davvero sulle spine.
Loki come al solito ghignava
e
basta.
“Non prendertela
con lui, è
colpa mia.” Si inserì l’amico in un
insolito afflato di sincerità. “L’ho
sentito tramite quella tua orrida porta blindata e gli ho chiesto di
farmi
entrare. Pensa che era così preoccupato che potessi
sgridarlo che è uscito
lui.”
“Più che altro mi stavi rompendo le
palle.” Replicò Emil con una smorfia; se
non avesse avuto violino e archetto tra le mani di certo si sarebbe
ficcato le
mani nelle tasche degli immancabili jeans. “Comunque gli
strumenti non sono
fatti per prender polvere.” Aggiunse battendo
l’archetto sulla coscia con
cadenza nervosa.
“Non sono
arrabbiato.” Lo
rassicurò provando un’ondata di tenerezza che lo
spinse a schiarirsi la voce.
Loki intanto continuava a ghignare come un dannatissimo satiro.
“E poi, conosco
i picchi di ostinazione che raggiunge il mio insopportabile
amico.”
“Sei avido, ecco
cosa.” Loki
si alzò in piedi e si accese la pipa con uno sbuffo
maleodorante. “Hai un
piccolo tesoro e non lo condividi.”
Era una sua impressione o Emil era appena arrossito? Di rabbia
però, visto che
aveva anche la faccia di chi era stato punto sul vivo, e non da un
insetto.
Decise di correre ai ripari
prima che l’irriverenza del suo coinquilino creasse un
incidente diplomatico.
Dopotutto
è il mio mestiere.
“Emil decide da
solo per chi
suonare.” Molto diplomatico, anche se Nott sembrava sul punto
di battere le
mani deliziato.
Idiota.
Mai si era pentito come in
quel momento di esserselo messo in casa. “Non hai qualche
truffa da
organizzare?”
Loki mangiò la foglia splendidamente ed era questo uno dei
motivi per cui non
l’aveva ancora messo alla porta. “Ora che mi ci fai
pensare, sì.” Batté una
mano sulla spalla di Emil. “Grazie ancora per la colonna
sonora. Mi hai proprio
motivato!”
Emil ridacchiò. “Non c’è di
che, Riccioli d’Oro. Quando vuoi.”
Con suo sommo orrore
l’altro
sorrise suggestivo. “Potrei prenderti in parola.”
Anche
no.
Loki era un fratello, ma doveva piantarla di fare il balordo con il suo uomo. “Evapora,
Nott.” Sibilò a
denti stretti non riuscendo a trattenersi.
“Vado, vado.”
Una volta che
l’amico se ne fu
andato Emil girò il coltello nella piaga regalandogli un
meraviglioso sorriso
da stronzo. “La prossima volta che vuoi staccargli un braccio
con una fattura
avvertimi, vi lascio soli, pare una cosa privata.”
C’è
qualcuno che non mi ha ancora ridicolizzato qua
dentro?
Si sedette di nuovo,
stavolta
sul divano, tirando fuori il portasigarette e giocherellandoci, troppo
arrabbiato, confuso e depresso per aver voglia di fumare.
Percepì gli occhi
di Emil su
di sé: ovvio, si stava comportando come un troglodita e un
pessimo ospite. “Ti
girano le palle?” Chiese retorico, perché poi
aggiunse. “Ho sbagliato a portare
lo Stradivari fuori, ma…”
“Non è per quello.” Era un codardo, lo
era sempre stato dietro i bei completi e
le parole ricercate. Non voleva lasciarlo e non voleva affrontare suo
padre.
“Ho avuto una discussione.”
Per
eufemizzare.
Emil posò il
violino sul
tavolino da caffè e si sedette sul bracciolo con una
naturalezza che gli fece
solo venir voglia di affondare il viso nella stoffa della sua camicia e
dimenticare tutto.
“Lavoro?”
“Già.”
Fece un sorriso debole
e capitolò quando sentì le dita
dell’altro accarezzargli la nuca. Gli facevano
il solletico dove i capelli avevano cominciato a crescere.
Devo
anche andare dal parrucchiere.
E doveva dirglielo. Doveva
dirgli del ricatto, dirgli che non voleva lasciarlo, ma anche che era
terrorizzato
dalle conseguenze e non aveva idea di cosa fare.
Voleva, e aprì anche bocca per iniziare il discorso, ma
l’altro lo baciò. E non
doveva bastare così poco per farlo desistere …
solo che sì, bastava eccome.
Non fanno che dire che la cosa più
importante
del mondo non è il lavoro, i Galeoni o la magia. Neppure una
bacchetta. È
essere felici.
Perché
non posso esserlo anche io? Senza conseguenze?
“Devo…
c’è una cosa che devo dirti…”
Riuscì a dire tra un bacio e l’altro. Si erano
alzati e si stavano spostando
verso la camera da letto; il nudo bisogno di Emil, espresso senza
parole, era
come il canto di una Veela. E lui era il povero idiota.
“Dopo.”
Mormorò mentre apriva
la porta della camera, il letto a pochi passi. “Adesso pensa
a me.” Fece una
pausa e inspirò, appoggiando la fronte contro la sua.
“Cazzo, mi sei mancato okay?
Pensa a me.”
Ti
penso fin troppo.
Questo avrebbe dovuto
dirgli,
ironizzando e evitando di mettere la cosa su un piano … troppo, semplicemente troppo. Invece se
lo tirò contro in qualcosa
che era più simile ad un abbraccio che ad un preludio di
sesso bollente.
“Anche
tu.” Gli baciò la
tempia, la linea della mascella e finalmente le labbra. Cento volte le
labbra,
e anche mille. Emil gli mancava, gli era mancato anche quando non
sapeva di
essere a metà e di stare aspettandolo. Ora finalmente
completo; quanto avrebbe
fatto male spezzarsi di nuovo?
****
Ministero
della Magia, Atrio.
Ora di pranzo.
Sören non si
sarebbe mai
abituato alla vibrazione del cellulare. Certo, era utile, ma ogni volta
era
come ricevere la scossa in parti poco ortodosse.
Occupato a cercare
l’aggeggio
infernale nelle tasche quasi mancò di prendere
l’ascensore che l’avrebbe
portato fino all’ufficio Auror, dove non era atteso ma dove
sperava di trovare
comunque la soluzione al suo rimpatrio forzato.
Oltre
a chiudere la faccenda di mia madre e Johannes
una volta per tutte. Di persona.
“Ehi
Sören!”
Scorpius si
infilò tra le
porte dell’ascensore con una destrezza che lo rese quasi
liquido, finendo
praticamente in braccio ad un mago corpulento a cui rivolse un sorriso
smagliante. “Scusi!” Cinguettò ottenendo
un’occhiata accondiscendente, tipica per
chi si scontrava con la sua esuberanza e non riusciva a non trovarla
adorabile.
“Ehi!”
Ripeté afferrandogli un
braccio in quello che era un tentativo di salutarlo tarato sulle
contingenze.
“Qual buon vento!”
“Ciao.”
Rispose sperando di
suonare naturale; era difficile riuscire a capire quale registro usare
con
persone come Malfoy.
“Anche tu al
secondo piano?”
Gli domandò e non aspettò la risposta.
“Ti hanno richiamato?!”
La gioia era genuina e lo
fece
sorridere: gli Auror non avevano reso la sua permanenza semplice, ma in
Malfoy
aveva trovato un amico sin da subito.
“Non
ancora.” Scosse la testa.
“Ho delle informazioni però.” E
lì chiuse le comunicazioni, che erano pur sempre
in un ascensore pieno di gente e Johannes poteva avere occhi e orecchie
ovunque.
E
li ha, dato che c’è una talpa.
“Grande!”
Approfittò
dell’uscita di un paio di persone al primo piano per
spostarglisi accanto.
“Salvato in corner, eh?”
“Speriamo.”
Non si sbilanciò,
ma sapeva che Harry Potter gli doveva almeno
un’udienza, data la portata di quello che teneva piegato
accuratamente nella
tasca del giubbotto.
Ulteriori domande da parte
dell’altro gli furono risparmiate dacché il
telefono, dopo essersi quietato per
qualche attimo, riprese a vibrare violento.
Odio
i Babbani. Perché sentono il bisogno di essere
sempre rintracciabili?
Scrutò lo schermo
luminoso.
Lily?
La
voglia di sentirla era
proporzionale alla quantità di gente che sarebbe stata in
ascolto. Scorpius
compreso. Poteva deflettere la chiamata e scusarsi via messaggio,
tuttavia…
È
Lily.
“Buongiorno.”
Salutò
schiarendosi la voce e sperando che le doti di LeNa
dell’altra fossero ben
sveglie. “Hai bisogno di qualcosa?”
“Sì,
insegnarti a rispondere
al telefono come una persona normale.” Replicò con
una risata. La cosa che
forse più amava di lei era la pazienza con cui affrontava le
sue gaffe da
asociale.
“Probabilmente.”
Ammise. “Va
tutto bene?”
“Sì,
avevo … beh, voglia di chiamarti.”
Anche io.
Lanciò
un’occhiata nervosa al
collega che gli restituì uno sguardo di colpo molto
curioso. Voracemente curioso.
Mai
incrociare lo sguardo. È una sfida.
Perché si
ricordava certe
norme sociali, dannatamente utili, sempre in ritardo? “Va
bene.” Disse
meccanico. “Sono in ascensore.”
“E ti stanno guardando tutti?” La battuta stavolta
nascondeva un moto di
irritazione che rischiava di sfociare in altro: non poteva tirare
troppo la
corda dopo il quasi litigio di quella mattina.
“Sono al Ministero
… sto
andando all’ufficio Auror, ho…”
“Da mio padre?” Lo bloccò. E il tono era
di allarme, non c’era dubbio.
“Sì,
perché?”
“Ehm.”
“Lily?” Scorpius intanto lo prese per un gomito e
lo tirò fuori dall’ascensore segnalandogli
che erano arrivati. “C’è qualche
problema?”
“Gli avrei parlato
… di quello
che ci siamo uhm, promessi stamattina. Niente sotterfugi?”
“Gli hai detto di
noi.”
Constatò.
E non è andata bene.
Non ci voleva un genio per
capirlo. Rendersene conto fu comunque spiacevole, perché
questo significava che
le sue paure avevano avuto ragion d’essere.
“Mi
dispiace!” Esclamò Lily e
poi continuò a fiume. “Giuro, l’avevo
studiata benissimo! L’ho portato a pranzo
fuori, l’ho fatto rilassare, ridere, ma poi … beh,
mi aspettavo che non
sparasse fuori d’artificio, ma…”
Ma non vuole che sua figlia stia con un
ex-mago oscuro.
Per quanto la cosa lo
facesse
star male non poteva farci niente: almeno nel breve periodo non poteva
cambiare
l’opinione che Harry Potter aveva di lui. In compenso la voce
mortificata e
abbattuta della sua ragazza – sua,
che il Salvatore lo volesse o meno – era qualcosa su cui
poteva lavorare. “Va
tutto bene.” Disse con una calma che era ben lungi dal
provare. “Non sto
andando a trovarlo come Sören, ma come l’agente
Prince. È un professionista e
da tale si comporterà.”
“Ren, senza offesa, ma no.”
Ormai era davanti alle
pesanti
porte in noce dell’ufficio Auror. Scorpius si
fermò, indicando l’interno con un
cenno della testa. Non era neppure vicino al concetto di
‘pronto’ quindi gli
fece cenno di andare avanti ed aspettò che fosse entrato
prima di rispondere.
“Non lo conosco bene, ma non mi è sembrato una
persona irragionevole.”
“Non lo è ma… non è mai
stato molto bravo a separare il mago Auror dal mago
privato. Non so se capisci cosa intendo…”
Sì, che sono fottuto. Alla grande.
“Siamo entrambi
due uomini
adulti.” Ragionevole, era quella la parola chiave. Con la
ragione si poteva far
molto. In quel caso, poi, era l’unica arma che aveva in
arsenale. “Credimi, indipendentemente
dai sentimenti che prova nei miei confronti vorrà sentire
cos’ho da dire.”
“Oh.”
Lily suonò di colpo
interessata. “C’entra col Demiurgo?”
La sua piccola inglese era
nata e sarebbe morta curiosa. “Segreti
d’indagine.” Riassunse con
un’inflessione seria e poco credibile.
“Dai! Neanche un
piccolo
indizio?”
“No.”
Non voleva illuderla nel
caso il suo apporto non fosse considerato valido per farlo restare in
Inghilterra. Se doveva giocarsela, lo avrebbe fatto da solo.
“Fidati di me.”
“Sempre, mio
cavaliere!”
Replicò scherzosa. “E fammi sapere, sul serio
…” Fece una pausa. “… almeno
se
devo venire a percuotermi il petto sulla tua tomba, come una di quelle
tue
eroine norrene.”
“Mi auguro non
servirà.” Non
gli arrideva molto l’idea di esser sfidato a singolar tenzone
da un padre di
famiglia protettivo che, incidentalmente, era il
Mago Vissuto Due Volte. “Ti chiamo dopo.”
“A dopo, torna
vincitore!”
Intero
soprattutto.
Quando entrò in
ufficio e per
poco non si scontrò con Malfoy.
“Scorpius!” Esclamò distanziandolo con
una mano
perché sì, gli era simpatico, ma non abbastanza
da farlo saltellare nel suo
spazio vitale come un furetto sovraeccitato.
“Non stavo
origliando!”
Esclamò palesando che stava facendo proprio quello.
L’occhiata successiva fu
infatti di scuse. “… mi è
scappato.”
L’avrebbe Schiantato se non fosse stato forse il suo unico
alleato in un posto
pieno di uomini armati e fedeli al proprio capo. E Ama doveva esser
là, da
qualche parte, pronta a ballare sulla sua carcassa. “Quanto
hai sentito?”
Chiese invece.
“Uhm …
tutto? Parlavi a voce
alta.” Borbottò con un sorriso da bimbo scoperto
con la bocca piena di
gelatine. Approfittando della sua mancanza di reazioni gli
rifilò una pacca
sulla spalla. “Ma congratulazioni! Siamo cognati!”
“Non credo.”
“Oh, là è tutta una gran
conigliera…” Fece un cenno vago. Sembrava
così
sinceramente contento che per un attimo dimenticò che stava
andando a morire e
riuscì persino a sorridergli. “La mini-Potter
allora, eh?”
“Già.”
Si guardò attorno,
controllando che parenti e simili non fossero in vista o a portata di
orecchio.
“Ti chiedo discrezione.”
“Conta su di
me!” Non ci
contava affatto, ma non lo diede a vedere. Non voleva farlo rimaner
male. “Comunque
io e Rosie l’avevamo capito dal battesimo, siete spariti per
quasi un’ora!”
“Stavamo
parlando.”
“Dentro il capanno degli attrezzi chiuso con un Colloportus?” Alla sua
espressione disorientata sghignazzò,
dandogli una seconda pacca, sempre più simile ad una
zampata. Dovevano essere
un attestato di virile stima, ma le odiava. “Ehi, non
c’è niente di male!”
Sperò ardentemente di non essere arrossito come un
ragazzino. “Lo so.” Vinse il
disagio e chiese. “Chi altro l’ha
scoperto?”
Scorpius esitò, poi
gli passò un braccio
cameratesco.“Prima lezione, in quella famiglia chi si imbosca
viene sempre
sgamato.” Lo squadrò con autentica compassione
prima di blaterare a fiume. “Tranquillo
comunque, poca gente. Domi, che vi ha sentiti parlare, ma non
l’ha detto a
Freddie, con cui era, perché gli sei simpatico e Freddy
è un pettegolo, ma l’ha
detto a Violet, la sua ragazza, che è la mia migliore amica
e amica-nemica
della mia fidanzata, quindi…”
“Mi è chiaro il concetto, ti ringrazio.”
Lo fermò prima che gli venisse voglia non
solo di scappare dal Ministero a gambe levate, ma anche di anticipare
l’orario
della maledetta Passaporta per Boston.
Scorpius fece spallucce.
“È
una bella famiglia, non credere.”
“Bella?” Non
voleva essere
sarcastico, ma non riuscì a mordersi la lingua. Amava Lily e
trovava Albus una
persona interessante.
Ma
il resto…
Scorpius scosse di nuovo la
testa con energia. “Non sono male una volta che li conosci,
lasciatelo dire da
uno che ci è già passato.” Lo
rassicurò. “Certo, non si capisce un accidente
tra cugini, zie e parenti adottati o acquisiti e con alcuni di loro ti
verrebbe
voglia di comunicare solo a colpi di bacchetta … e a volte
succede. Però una
volta che ti hanno accettato, è per sempre.”
“Come la
mafia.”
“Dai!” Rise. Poi abbozzò un sorriso
strano, piccolo e persino un po’
imbarazzato. “Non fraintendermi, adoro la mia famiglia,
pavoni compresi … ma è
bello essere in mezzo a quella bolgia. Uno del clan. Sono sicuro che la
penserai così anche tu, alla fine.”
Sempre
che decidano di accettarmi come ragazzo di
Lilian, cosa di cui dubito.
Non riuscì a
trovare qualcosa
con cui ribattere. “Devo andare.” Si decise,
rimanendo sul neutro. “Cerca di
non dirlo a nessun’altro, ti dispiace?”
“Promesso!”
Gli mostrò un pugno
con aria combattiva. “Coraggio, faccio il tifo per
te!”
“Grazie.”
Lo salutò con la
verve di chi saliva al patibolo. Ma tenne la testa alta: come avrebbe
detto Dionis,
un guerriero rimaneva tale anche quando doveva affrontare una prova
giudicata
impossibile.
Odio
i Potter.
****
Note:
La mia vita reale è esplosa, e non in senso ludico. Quindi
gli aggiornamenti
saranno lunghiiiii … Alla fine, per evitare di far finire
questo capitolo a
Maggio, ecco qua.
Per chi continua a leggere e mi segue, vi chiedo di avere un
po’ di pazienza.
Tipo, tanta. Vi stradoro.
Questa
la
canzone capitolo e questo
il dipinto a cui Sören si riferisce quando entra nel
laboratorio di Stevens.
|
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Capitolo 42 *** Capitolo XLI ***
Capitolo XLI
I'd
rather go blind than wasting my time without trying
We'll turn the tide using our minds without
tumbling
The
more we love the less we fight, there is no safer place tonight
(Open
Fire, Andead)
Ministero, Ufficio Auror.
Ora
di pranzo.
“Signore,
c’è un agente che
vuole parlare con lei.”
Harry non alzò gli occhi dagli incartamenti che stava
tentando di leggere da
almeno … ore, circa, non ricordava quante, ma di certo erano
molte ed erano
iniziate dopo-pranzo.
“Se non
è nulla di urgente, Rachel,
digli che sono occupato.”
Chiunque sia, anche Ron in persona.
…
specialmente Ron.
Non aveva la minima voglia
di
farsi leggere come un libro dall’amico di una vita, come non
aveva intenzione
di spiegare perché era di umore così nero.
La segretaria
esitò sul ciglio
della porta. “Sembra importante Signore.” Disse.
“È l’agente Prince.”
…
di male in peggio.
Perché temere Ron
quando aveva
davanti –
o meglio, dietro la porta –
proprio il fulcro del suo malumore?
Ha
una bella faccia tosta a venir qui.
“Digli di andare
dal Sergente
Weasley.” Tagliò corto. Non voleva rischiare di
perdere le staffe e dire cose
di cui poteva pentirsi quando aveva l’uniforme addosso. In
quel momento non era
un padre di famiglia amareggiato per le pessima scelte in fatto di
uomini della
sua unica figlia, ma un
funzionario
del Ministero in pieno esercizio dei suoi compiti.
Purtroppo.
“Ha detto che
vuole parlare
solo con lei.” La sua assistente era l’immagine
stessa del disagio e ne ebbe
compassione. Era ovvio che quella testa di legno di tedesco le aveva
imposto un
diktat, magari dandole ad intendere che non se ne sarebbe andato
finché non
avesse ottenuto udienza. Era quindi suo dovere, da adulto e da capo,
cedere.
“Va bene, fallo entrare.” Sospirò
facendo un cenno e riponendo con un colpo di
bacchetta gli incartamenti. Intrecciò le dita sopra al
tavolo ed attese che il
ragazzo entrasse.
Non si fece attendere, da
come
scivolò dentro e chiuse la porta. Sì, aveva
indubbiamente una bella faccia
tosta, nonché una dose una robusta dose di coraggio a
presentarsi dopo il
pranzo avuto con Lily.
Che
di certo quella trappola l’hanno orchestrata
assieme. Mia figlia non mi ha mai detto
nulla dei suoi ragazzi. Scott l’ho
conosciuto dopo mesi che lo frequentava…
L’idea
dev’esser partita da lui.
Prince aveva mandato avanti
la
sua bambina per spianarsi la strada: un atteggiamento codardo.
Non
cozza un po’ con la sua presenza qui?
Ignorò la voce
interiore della
ragione. Perché non
aveva ragione. “Agente
Prince.” Lo salutò freddo. “Spero sia
importante.”
“Sì
Signore, lo è.” Lo salutò formalmente
con un mettersi sull’attenti, nonostante i loro rapporti, da
quel momento in
poi, non sarebbero più stati mai
più
strettamente professionali. “Non è una cosa che
può aspettare.” Aggiunse.
“E ti sembra
questo il posto
adatto per discuterne?”
Sören
aggrottò le
sopracciglia. “Non credo ci sia posto migliore.”
Sfacciato.
Eppure una parte di lui
apprezzava
il fatto che fosse venuto ad affrontarlo a viso aperto. Senza false
modestie,
si rendeva conto come la fama e le voci che giravano sul suo conto
potessero intimidire
i giovani maghi che aspiravano all’affetto di sua figlia.
Forse
è per questo che Lily non mi ha mai presentato
nessuno tranne Ross. Era l’unico contro cui non potevo far
niente. Era
perfetto.
… non come
Prince, che aveva
un passato scuro come un pozzo, problemi a non finire e per concludere
una
famiglia che seminava morte e distruzione in qualsiasi Ministero
mettesse
piede.
Ma mentre Scott l’aveva sempre evitato – con garbo,
ma comunque gli aveva sempre
girato alla larga anche durante le rare occasioni in cui avevano
condiviso la
stessa stanza – il genero più sbagliato del mondo
gli stava davanti senza
tradire il minimo cenno di paura o malessere, se non un appena
accennato
contrarsi della mascella.
Nervi saldi di quel genere
meritavano perlomeno un punto.
Uno
solo comunque.
“Agente Prince,
siamo in un
luogo di lavoro.”
“Ed è questo il motivo per cui la
disturbo.” Ribadì ora con aria smaccatamente
confusa. “Ho novità sul Demiurgo, Signore. Da
Thomas.”
…
ah.
Si
sentì un autentico cretino. Aveva
pensato che quella visita fosse collegata con il pranzo appena avuto
con Lily …
sbagliando alla grande da come il ragazzo sembrò in
imbarazzo e distolse lo
sguardo.
Ha
capito cosa non avevo capito.
Meraviglioso.
Se con lui ci fosse stata
Ginny avrebbe riso di lui fino alla fine dei loro giorni.
“Signore…”
Iniziò questo.
“Riguardo…”
“Dov’è Tom?”
Domandò sbaragliando alla grande la sua personale top ten di
figuracce; non solo si era mostrato prevenuto presumendo una
scorrettezza da
parte di Prince, ma adesso giocava anche il ruolo del superiore
dispotico e
capriccioso.
Prince per tutta risposta
diede prova di un sangue freddo e di – ahimè
– una maturità ben superiore alla
sua. Non cambiò espressione e rispose.
“È rimasto con il suo mentore al
laboratorio, Signore. Avevano una consegna da terminare.”
Fece una pausa, poi
aggiunse come a voler chiarire. “Non voglio prendermi alcun
merito, solo
riferirle un messaggio.”
Sei un idiota, Harry Potter.
Ma non l’avrebbe
mai ammesso
di fronte al nuovo ragazzo di sua figlia. Era una debolezza che non
poteva
permettersi e poco importava se Ginny, nella sua testa, stava
sghignazzando
senza soluzione di continuità. Si schiarì quindi
la voce. “Molto bene.”
Borbottò. “Che messaggio?”
Prince tradì un
sorrisetto, mal
trattenuto e piuttosto trionfante. Non fece in tempo a rifletterci e a
considerarlo un punto di sfavore nella sua personale scheda-genero che
parlò.
“Io e Thomas abbiamo trovato dove si nascondono Doe e mia
madre.”
Il giudizio, a ben pensarci, poteva essere rimandato.
****
Ministero
della Magia, Ora di pranzo.
Refettorio.
“Quella
è la tua lista degli
invitati?”
“Perché, cos’ha che non va?”
James scoccò un’occhiata orripilata al biondo
più scemo del Mondo Magico, a giudicare
dai trenta centimetri di pergamena che stava scrutando appoggiato alle
porte
dell’ascensore che li avrebbe portati dal DALM al refettorio.
“È un papiro!”
“Pergamena.”
Lo corresse con
un cenno vago. “E sono solo un centinaio di
nomi…” Aggiunse stringendosi nelle
spalle. “Credo. Non
l’ho redatta io,
è stata mia nonna.” Gliela sventolò
davanti al naso. “Secondo te come si legge
il ventesimo nome sulla sinistra?”
“Non so neanche trovarlo qua in mezzo!”
“Via, Potty, almeno contare fino a
venti…”
“Mi
rifiuto!”
“Sei il mio testimone, devi
aiutarmi.”
James gli rifilò un calcio che l’altro
schivò con fluidità, visto che erano
soli dentro il vano. “Ti rendi conto sì, che anche
Rosie ha una lista?”
“E scommetto che
è lunga il
doppio.” Replicò quasi fosse una gara.
“Non è colpa mia se la mia famiglia ha
connessioni prestigiose!”
“Ma se siete quattro gatti e vi odiano tutti!”
Gli venne risposto con una linguaccia. “Ma ci temono, anche.
Nonna vorrà
bullarsi con il suo circolo del cucito del mio matrimonio con la figlia
di due
eroi … Puoi biasimarla?”
“Porca Morgana.” Sbuffò scuotendo la
testa perché c’erano momenti in cui capiva
lo sconforto che era preso a zio Ron quando la giovane coppia aveva
ufficialmente annunciato il matrimonio. “Ed io che credevo
che il Demiurgo
fosse il nostro problema più grande.”
Scorpius
ridacchiò,
passandogli un braccio attorno alle spalle. “Stai tranquillo,
mio
insostituibile testimone.” Lo adulò sapendo,
dannazione, di colpirlo nel punto
più debole della sua vanità. “Ho
accettato la pergamena solo per farla contenta
… La sfoltirò. Non voglio gente che non conosco
al mio matrimonio. Solo un
mucchio di peldicarota che fanno gare di rutti, okay?”
“Sarà meglio.”
Batterono pugno contro pugno in un gesto che lo
tranquillizzò sufficientemente
per uscire fuori dall’ascensore con un mezzo sorriso. Quel
giorno il sole
splendeva, Bobby si era portato via quel mastino del Sergente Gillespie
per le
indagini e alla mensa avrebbero servito polpette.
Un
buon giorno.
“Hai risolto le
cose con Ted?”
La domanda lo colse di sorpresa ma non fu difficile ampliare il
sorriso. “Sì.”
Tagliò corto perché non gli andava di ammettere
quant’era stata dura mettersi a
nudo di fronte al compagno. Ne era valsa la pena, sicuro, ma non era
cosa che aveva
voglia di ripercorrere ad alta voce.
Non
siamo due ragazzine che si fanno le trecce. Quella
è roba da Al.
Scorpius, da bravo amico
maschio qual’era, non spinse ulteriormente la sua
curiosità, limitandosi ad una
pacca sulla spalla. “Devo passare uno di questi giorni da voi
… Ho un paio di
cose da dare a Ben. Ho tanti di quei miei vecchi giocattoli che credo
potrei
aprire un negozio.”
“Moccioso viziato.” Rispose con gratitudine aprendo
le porte della mensa e
scansando un paio di colleghi che ne uscivano. “Stanze intere
scommetto.”
“Una buona porzione dei miei
appartamenti.
Ti ho mai detto che mi hanno regalato un unicorno per il mio sesto
compleanno? Si
chiamava Tempest.” Fu la risposta, prima che si sbracciasse
in saluto a
qualcuno. Individuò la cugina, seduta al tavolo con la
Parkinson-Goyle e un
paio di altre colleghe.
Chissà
perché i magi-avvocati son tutti donne.
…
cavolo, quell’ufficio dev’essere un inferno in
terra.
Motivo per cui non aveva
nessuna intenzione di passare la sua pausa pranzo in compagnia di
quelli squali
in gonnella. Scorpius parve però di un’altra idea
perché si diresse senza
indugio verso Rose e compagnia.
Un altro mago avrebbe avuto
qualche riserva di fronte a tutte quelle occhiate muliebri e
scandaglianti ma
l’amico sorrise a trentadue denti a suo agio come non mai.
“Ciao caramellina al
rabarbaro del mio cuore! Letty
ed esimi
avvocati … buongiorno.” Salutò con un
leggero inchino che si meritò espressioni
compiaciute e occhiate di apprezzamento.
“Ciao
scemo.” Lo salutò sua
cugina sporgendosi per baciarlo, per quanto lo facesse brandendo
comunque un
coltello con cui aveva appena martoriato un pezzo di arrosto. Il
completo che
indossava e i capelli raccolti in uno chignon ferreo le davano
un’aria …
crudele.
Quando la beccava al lavoro
non era la cugina imbranata e topo di biblioteca che conosceva ma una
linguacciuta stronza che passeggiava per le aule del Wizengamot.
I
Magi-avvocati non mi piacciono, okay?
Quella categoria dava ben
più
di un grattacapo agli auror in sede d’udienza e a lui in
particolare.
Non
saranno i nostri nemici naturali, ma … beh, ci
vanno vicino.
“Ciao
Scorpius.” Sogghignò la
Parkinson, che di quel branco era forse la più sanguinaria;
ricordava con
particolare dispiacere un’udienza in cui l’aveva
fatto sentire l’ultimo dei
cretini. “Vi sedete con noi o Potter ha troppa
paura?”
Non lasciò che
Malfoy
rispondesse per lui. “Non ho paura di un paio di streghe in
toga.” Disse a
denti stretti.
“Strano, avrei pensato il contrario.”
“Oookay…” Scorpius gli mise una mano
sulla spalla prima che potesse strangolare
la vipera a mani nude. “Ci sediamo solo se istituiamo una
tregua tra gli
uffici. Siamo d’accordo?”
“D’accordo.”
Si affrettò a
dire Rose tirando quello che gli sembrò un pizzicotto
all’amica. “Succo di
zucca?” Offrì in un rimando ovvio ai pasti fatti
in Sala Grande.
Accettò
l’offerta di pace e si
sedette allungando il bicchiere. “Hai visto la lista del tuo
promesso,
cuginetta?” Non poté fare a meno di stuzzicarla,
che anche quello era pur
sempre un rito familiare.
Rose con sua sorpresa
scrollò
le spalle in piena e controllata tranquillità.
“Sarà lunga come la mia e
altrettanto improponibile.”
“Mia nonna ha un sacco di nemici che deve umiliare e tu un
sacco di parenti …
Che coppia facciamo mia Rosie!” Convenne Malfoy infilzando un
paio di patate
dal vassoio che si era appena rifornito magicamente di fronte a loro.
“Già.”
Convenne
l’interpellata. “L’ipotesi di sposarsi a
Las Vegas con un Babbano vestito da
Elvis è sempre più concreta.”
“Non t’azzardare.” Si inserì
Violet. “Dovessi legarti al palo della tenda di
seta cinese che Lady Narcissa mi ha fatto ordinare da Shangai faremo questo matrimonio.”
“Maghi e streghe,
la mia
damigella d’onore.” Ironizzò Rose.
“Tranquilla … penso che ormai siamo
condannati alla cerimonia più elefantiaca del Mondo
Magico.”
“È
troppo tardi per fuggire.”
Canticchiò Scorpius con la bocca piena scambiandosi
un’occhiata affettuosa con
la fidanzata.
James un po’ li
invidiò:
nonostante l’orrore che si prospettava parevano …
contenti.
Beh,
suggellerebbe la loro unione e tutte quelle
puttanate lì. Anello al dito e certezza di appartenersi
davanti al mondo
intero.
Era roba forte, importante,
un
matrimonio. Era una cosa che riconosceva anche lui, cinismo a parte,
perché era
frutto di una di quelle unioni.
“È
questo lo spirito giusto.”
Decretò la Parkinson. “Per Morgana, vi ucciderei
se mandaste a monte qualcosa.”
“Neanche fosse il tuo matrimonio!”
Osservò Rose con aria divertita.
“Rischia di essere
l’esperienza
più simile a cui mi avvicinerò.”
Rispose l’altra con una smorfia. “Non credo
proprio che io e Nicky ci legheremo un nastro al polso a
vicenda.”
“È possibile però … magari
non con un nastro.” Obbiettò Scorpius, la cui
incapacità di vedere ostacoli era irritante quanto
commovente. “Vi potreste
sposare nel Mondo Babbano!”
“Non è
la modalità del rito il
problema.” Sospirò l’altra facendo un
cenno evasivo. “Mi sono legata ad una sciroccata
che cavalca draghi per vivere … In tutta franchezza, non mi
vedo in abito
bianco nel prossimo futuro. Gli unici anelli che Nicky conosce sono
quelli con
cui si trafora la faccia.”
“Potrebbe stupirti!” Continuò
l’amico con quella sua incrollabile fede
nell’assurdo; nessuno sano di mente avrebbe pensato a
Dominique di fronte ad un
altare.
È
strano anche solo vederla con qualcuno, che sia
maschio o femmina. Figuriamoci sposata!
Avrebbe
fatto prima a sposarsi lui con
Teddy piuttosto.
La Parkinson gli diede un
buffetto affettuoso sulla spalla non del tutto in linea con
l’idea di megera
che si era fatto di lei e scosse la testa. “Pensa al tuo
matrimonio, Malfoy, e
sta’ sereno … alla mia relazione scriteriata penso
io.”
James lasciò che
la
conversazione salpasse per altri lidi dato che non lo riguardava
direttamente;
quello che aveva detto la Parkinson e soprattutto, quello che le aveva
suggerito
Scorpius, gli interessava invece molto di più.
Cioè,
che lei e Domi si sposino è assurdo, ma io e
Teddy…
Lui, Ted e Ben stavano
diventando una famiglia. Okay, con scossoni e qualche casino nel mezzo,
ma
stava succedendo. Non era suo dovere fare in modo che quel germoglio
promettente mettesse le radici nel posto giusto?
Metafore
del cazzo a parte…
Voleva che Ted e Ben fosse
le
sue persone, come suo padre aveva scelto sua madre e le aveva messo un
anello
al dito.
Sarebbe
tanto assurdo se mi sposassi anche io?
In fondo nel suo futuro, fin
da quando era un moccioso con le idee poco chiare in materia, si era
sempre
visto sposato: come i suoi genitori, come i suoi nonni e come i suoi
zii.
Non
sono proprio un tipo che canta fuori dal coro in
‘sto caso.
Il suo rimuginare venne
interrotto quando, con la coda dell’occhio, vide qualcosa di
viola sfrecciare
nella sua direzione; prese così al volo un promemoria
Ministeriale, diretto a
lui e Malfoy dato il timbro dell’ufficio Auror.
Lo scorse con lo sguardo e quasi schizzò in piedi: anzi,
quasi senza il quasi.
“Malfoy, sputa il boccone.” Apostrofò
l’amico che aveva la forchetta in
dirittura della bocca. “Demiurgo.”
Bastò quella parola a far compiere la stessa azione
all’altro; quel caso, per
quanto la vita fuori dal lavoro fosse importante e primaria, era capace
di
rimetterli in riga come nessun altro.
“Novità?”
“Chiamata generale
alle armi …
da mio padre. Muovi il sedere.”
Dev’essere roba grossa o non mi
avrebbe
chiamato per pranzo. È un dogma: nessun Weasley deve essere
disturbato quando
mangia.
Scorpius annuì, chinandosi su Rose per baciarla
frettolosamente a stampo.
“Ci vediamo stasera.”
Sua cugina, che conosceva la scala di priorità della sua
famiglia, annuì seria.
“Fate attenzione … tutti e due.”
Scorpius, che non poteva fare a meno di minimizzare, era come una sua
seconda
natura per lui, Merlino lo avesse in gloria, scrollò le
spalle come se stesso
per partire per una scampagnata. “Come potrei far altro? Devo
sposarmi!”
Rose sospirò e guardò lui. “Riportamelo
tutto intero.”
Fece un cenno serio di rimando, perché al di là
delle battute era una promessa
che le aveva fatto quando Malfoy aveva preso il distintivo. Non
l’avrebbe
disattesa: neppure per il dannato Demiurgo.
****
Londra,
Victoria Embankment.
Appartamento
di Michel Zabini, pomeriggio.
Milo a volte avrebbe voluto
non avere il sesto senso che aveva.
Perché accorgersi
che qualcosa
non andava significava, spesso e volentieri, dover chiedere,
impicciarsi e
avere risposte poco piacevoli.
Nel caso di Michel
però, non
poteva proprio sottrarsi; qualsiasi cosa fosse il loro rapporto, in
qualsiasi
direzione fosse diretta, rimanere all’oscuro per evitare
grane non era
un’opzione.
I
rapporti umani sono una scocciatura. Voglio essere un
coniglio. Scopo tutto il giorno, mangio e spero di non finire mangiato.
Spense lo spinello sul
posacenere del comodino e osservò Michel muoversi per la
stanza, togliersi
l’accappatoio con cui si era inutilmente coperto per uscire
dalla doccia e
infine cercare le sigarette.
Gli lanciò il suo
pacchetto.
“Sei peggio del principino.” Lo
apostrofò. “Perdereste la testa se non
l’aveste
attaccata al collo. La magia vi rimbambisce.”
“È
l’Accio che ci
impigrisce.” Gli rispose sfilandone una dal pacchetto
e accendendosela. Aveva la testa da un’altra parte e lo
sguardo sfuggente.
Coniglio.
Quanto vorrei essere un coniglio.
“Non che non
apprezzi il fatto
che, per una volta, tieni la bocca chiusa …” La
prese larga. “… ma cos’è sto
silenzio?”
Ed ecco
l’irrigidirsi della
postura. Se avesse infossato la testa nelle spalle avrebbe completato
il
quadretto del disagio. “Non sono un logorroico.”
“No, ma mi riempi
di domande
post-coito. Normalmente. Una brutta abitudine che ti dovresti togliere
se non
vuoi sfinire i tuoi amanti…”
“Lo ripeto, di solito non amo conversazioni da
letto.” Ribatté con tono
sostenuto. “È con te che…” E
le parole si persero in un mormorio intellegibile.
“Sono
speciale.” Attestò con
tono scanzonato, che però non poté tradire
un’orrenda nota di contentezza.
Era speciale, mica seghe.
“Certo che lo
sei.” Il tono
con cui gli venne risposto però non era saldo come al
solito; stanco,
piuttosto.
Merda,
non posso fare la ragazzina che chiede al suo
uomo cos’è che non va.
Siamo
ragazzi, chi se ne fotte di…
“Qual è
il casino che hai al
lavoro?” Sospirò, perché se non si
faceva le trecce e si radeva il pube di
sicuro faceva da confessionale a tutti i maghi disadattati della sua
cerchia.
“Quello di cui mi parlavi prima.”
Michel soffiò una boccata di fumo verso l’alto.
“Nulla che possa interessarti …
È solo, una situazione.” Si risolse a dire.
“Una situazione a cui devo dare una
risposta.”
“E
dalla.”
“È proprio
questo il punto!” Sbottò
senza ragione, guardandolo come se fosse la causa di tutti i suoi mali.
Non
capiva. O meglio, si rendeva conto che c’era una parte della
vita del maghetto
a cui, volente o nolente, non poteva avere accesso e neanche gli
importava,
perché certo non voleva essere ovunque e comunque nella vita
dell’altro, e
viceversa. Però faceva male lo stesso.
Tirò un sospiro,
battendo il
posto vuoto e piuttosto freddo accanto a sé; la cosa non gli
piaceva. “Come ti
pare, ma piantala di startene impalato in mezzo alla stanza. Hai un
letto, ed
hai uno schianto ad occuparlo. Vedi di non sprecare la cosa.”
Michel fece un mezzo sorriso, tirato dentro al loro solito gioco di
flirt e
parole non dette. Gli si stese accanto, passandogli un braccio attorno
alla
vita e posando la testa sul cuscino. “Non dirmi che sei
già pronto ad un
secondo round…” Lo stuzzicò.
Eccome.
Sono in lizza per diventare un fottuto
coniglio, non lo sai?
“Io sì,
ma tu no.” Indicò in
basso e ghignò alla smorfia irritata dell’altro.
“Ehi, non ti sto dando del
moscio, c’è poca gente che ha la mia
resistenza.”
“Non sono in
vena.” Si difese,
tentando di ritrarsi.
Se lo tirò contro
prima che
potesse inalberarsi e partire in quarta con quel suo amor proprio
mastodontico.
“Falla finita, ti stavo prendendo in giro.” Per
impedirgli di continuare nella
sua sparata gli tappò la bocca con un bacio.
Funzionò, perché un bacio con la
lingua era sempre la soluzione a molti mali. “Non mi importa,
okay?” Poi
continuò in apnea. “Possiamo anche star qui e non
fare niente.”
E non ci stiamo coccolando o cagate
varie. Chiaro? Chiaro.
Michel gli sorrise spontaneo
e
quello, forse, bastava a lenire il senso di profondo imbarazzo che
sentiva. Un
po’, almeno. Non era bravo in quella roba, come abbracciarsi
o accarezzarsi
senza finire in bel altra frizione ed era abbastanza sicuro che avrebbe
combinato un casino.
Michel però non parve turbato e si insinuò tutto
contento in ogni anfratto o
angolo del suo corpo, nascondendo il viso contro il suo collo.
“Non ti avrei
preso per uno che ama le co…”
“Sta’ zitto.” Sibilò
atterrito. “No.”
Lo sentì ridacchiare e non poté fare a meno di
seguirlo, anche se nervosamente.
Cazzo se era nervoso. Però non era male: la vicinanza, il
respiro tiepido, e il
fatto che l’altro fosse davvero contento di essere tra le sue
braccia e basta.
Era strano, comunque. E
forse
stava avendo un principio di infarto.
“Che
cos’è il Centro?”
Ed
eccolo, con le sue domande.
Ma era un buon segno,
significava che l’umore era tornato ai livelli di sempre:
ovvero inopportuno e
dannatamente curioso. Si puntellò con il gomito al cuscino e
sbuffò. “Un
posto.” Non si sbilanciò, perché una
ferita chiusa smetteva di far male solo
quando non ci pensava; qualcuno lo chiamava dolore fantasma, e aveva
ragione.
Michel lo guardò
da sotto in
su, con una petulanza che doveva trascinarsi dietro fin
dall’infanzia. “Questo
era facile da intuire.” Ribatté. “Di
cosa si tratta?”
Non c’era
possibilità di
cambiar argomento, ormai se ne era fatto una ragione. “Hai
mai sentita la
storiella in cui il vecchio zio rimbambito butta dalla finestra il
nipotino e
quello rimbalza, facendo così realizzare a tutti che grande
mago sarà?”
Michel scosse la testa.
“Dev’essere una cosa tedesca.” Poi si
fermò come a ricordare qualcosa, e
aggiunse una smorfia sarcastica. “O qualcosa che avrebbe
potuto raccontare il
mio vecchio professore di Erbologia … Pare che suo zio
l’avesse davvero buttato
dalla finestra per controllare se aveva poteri.”
“Beh, c’era un posto in cui facevano quella roba
dietro pagamento di una laura
retta.” Ignorò l’espressione sbalordita
dell’altro. “Il Centro.”
“Ti hanno buttato da una finestra?”
Suo malgrado
ridacchiò, perché
il tono di orrore e il modo in cui l’altro era quasi scattato
a sedere era
divertente quanto adorabile.
Povero,
piccolo, ignaro maghetto. C’è tanta roba brutta
fuori dalla porta di casa.
Non poteva incolpare Michel
però. Se c’era una cosa che aveva imparato
conoscendolo e stando a contatto con
Sören era che molti maghi davvero non avevano idea di quanto
dura potesse
essere la vita per un Magonò. Non se lo immaginavano non
perché non avessero
problemi, ma perché ne avevano altri.
Avere
una bacchetta non ti risolve la vita.
“No, o non sarei
qui a
raccontartelo. Io non posso e non potrò mai
rimbalzare.” Gli fece notare. “Ma
altra roba … sì, quella me l’hanno
fatta.”
“Era …
una scuola?”
“Era un centro di
correzione.
Ti chiudevano tra quattro mura in mezzo alle Alpi e ti sollecitavano a
tirar
fuori il tuo mago interiore.”
“Ma i
Magonò non hanno magia.”
Osservò incredulo. “Non è questione di
sollecitare nulla, non la possedete, è
come chiedere di farsi spuntare un terzo braccio!”
“Seguivano una
scuola di
pensiero diversa. C’è gente che è
tutt’ora disposta a pagare Galeoni per
credere alle loro promesse.”
Michel non disse niente, ma
gli vide formarsi in testa un’idea molto precisa, e perdere
colore. Era un
ragazzo sveglio e probabilmente anche abbastanza edotto su quel genere
di
coercizione, che nel Mondo Babbano veniva usate dall’alba dei
tempi sotto forme
e nomi diversi.
In
America hanno quei bei centri per insegnarti ad
essere eterosessuale…
“Non ne avevo mai
sentito
parlare…” Mormorò dando ragione alle
sue supposizioni. “Quanto sei stato lì
dentro?”
“Sei mesi, poi
sono scappato.”
Non gli piaceva farsi compatire, né guardare come se fosse
un sopravvissuto.
Anche se in fin dei conti lo era da una vita. Si alzò quindi
in piedi e se ne
andò alla finestra ad accendersi lo spinello che si era
meritato. “La
sorveglianza non era così stretta, immagino che pensassero
che chilometri di boschi
fossero un ottimo deterrente per chiunque. Io sono cresciuto in mezzo
nella Schwarzwald …
non è stato poi questo gran problema.”
A
parte il freddo.
Era uno dei motivi per cui
non
aveva mai preso a calci in culo Prince quando, agli albori della loro
convivenza, lo aveva quasi fatto impazzire con il bisogno compulsivo di
avere
la casa bollente e le finestre sempre spalancate, un controsenso in una
città
come Boston che, in inverno, assomigliava ad un ghiacciolo gigante.
Dolore
fantasma.
L’erba fece un
buon lavoro nel
fargli risalire l’umore, così come
l’espressione preoccupata di Michel. Certo,
l’altro lato della medaglia era che gli scioglieva la lingua.
“Il mio vecchio
ha pagato per farmi tornare la magia, come un allocco qualsiasi sarebbe
attirato dal gioco delle carte … risultati immediati,
guadagni facili. Stessa
roba.”
“È
stato tuo padre a mandarti
là?”
“E chi altri? Pater familias vecchio stampo, ricordi?
Un po’ come il tuo. Il caro vecchio genitore avrebbe dato
tutto per non avere
un figlio storpio.”
Ma la vera ironia non era
stata l’inculata a secco che si era preso suo padre, che si
era visto
alleggerire di mille Galeoni e di un figlio perso nei boschi e
così ritenuto
morto; era stato constatare come, una volta finito in strada nessuno
l’aveva
riconosciuto. Il piccolo prodigio musicale di Lubecca, acclamato
dall’intera
Germania che lanciava scintille da una bacchetta, era diventato uno dei
tanti
ragazzetti di strada che affollavano i quartieri magici di Berlino.
E
in quel momento, bambini, ho capito che Emil non era
mai esistito.
Che a nessuno, specialmente
alla sua famiglia, era mai importato di lui in quanto persona, ma solo
in
quanto metafora.
Cambiar nome e
identità a quel
punto era stato semplice.
Questo non lo disse
però a
Michel: pareva già abbastanza turbato da quello che gli era
uscito dalla bocca.
“Me la sono cavata.” Sdrammatizzò con
una scrollata di spalle. “La società
magica tedesca è abbastanza decente da non lasciare un
bambino a morir di fame
per strada. Sono stato ospitato in un ricovero per orfani fino a
diciassette
anni. A quel punto ero in grado di cavarmela da solo … il
resto lo conosci.”
Vedendo che non reagiva come suo solito, con
un’altra domanda o una considerazione,
continuò. “Ora è il tuo turno,
maghetto.”
Michel alzò la
testa come se
fosse stato colto di sorpresa. “ … Di fare
cosa?”
“Di condividere
uno scomodo
segreto?” Lo prese in giro, ma appena vide la faccia che fece
cambiò idea.
Sembrava sull’orlo delle lacrime.
Cosa…
Michel Zabini non indossava
i
suoi sentimenti come una giacca, anzi tutt’altro, i loro
primi approcci erano
stati disastrosi proprio a causa dalla sua incapacità di
mostrare qualcosa che
non oscillasse tra boria e il disprezzo; ma quel giorno non era partito
con il
solito piede. Per niente.
E
col cazzo che è il lavoro.
“Ehi …
ehi, non fare quella
faccia.” Si staccò dalla finestra per
raggiungerlo. “Non volevo farti restare
di merda con la mia infanzia da piccola fiammiferaia, okay? Me la sono
cavata,
è passata. Sono un adulto funzionale adesso.”
Michel si ritrasse dal suo tentativo di toccarlo e questo non gli
piacque per
niente. “Non è questo … o meglio, mi
dispiace per quello che ti è accaduto.
Davvero. Non … non ti sei meritato niente di quello che ti
è accaduto. Non ti
meriti quello…” E si bloccò,
perché cazzo, la gente doveva sempre bloccarsi sul
più bello.
Sul
più brutto vuoi dire. Non sta succedendo niente di
buono. Affatto.
“Quello
cosa?” Aggrottò le
sopracciglia, perché una brutta sensazione era una cosa, ma
avere conferme era
un’altra. E non aveva una palla di cristallo né la
magia per farla funzionare.
“Qual è il problema oggi?
Cos’hai?”
“Mio padre ha
scoperto che ci
frequentiamo.”
Ah.
E quello spiegava molto.
Spiegava tutto. “Qualche
uccellino ha
cantato?” La prese alla larga perché non voleva
andare dritto al punto. Lo
spinello non l’aveva rincoglionito abbastanza dato che la
bocca secca non era un
effetto collaterale, come non lo erano le mani che gli tremavano.
Lo
sai come finiscono ‘sti discorsi. Te lo puoi
immaginare.
Michel fece una smorfia.
“Non
ci siamo nascosti … non come avrebbe voluto lui
almeno.”
“Non mi era sembrato che ti importasse tanto della sua
opinione.”
“Non mi importa
infatti!”
Sbottò come se fosse colpa sua. Lo era? Forse. Essere
arrivati a quel punto
senza sapere cosa diavolo stavano facendo era una follia e solo in quel
momento
lo capiva a pieno.
“Allora cosa sta
succedendo?”
“Oltre ad essere
mio padre è
il mio capo. Mi ha messo di fronte ad un ultimatum … O
rinuncio a te o saboterà
la mia carriera.” Il tono di voce era basso, quieto. Quasi
sollevato; quasi che
si fosse tolto finalmente un peso.
Avrebbe voluto spaccargli la
faccia.
Michel dovette intuire
qualcosa dalla sua faccia, perché lo prese per un braccio un
momento prima che
si tirasse in piedi. “Non voglio rispondergli
Emil.” Disse in fretta, quasi
avesse paura che scappasse da un momento all’altro.
“Ma devo, perché in caso
contrario sarà lui a prendere una decisione per
me.”
Gli veniva da vomitare, e
considerando che si era appena fumato l’equivalente di sei
antiemetici era
notevole. Si alzò in piedi di scatto, radunando la sua roba
alla rinfusa; una
fortuna che fosse estate e non dovesse che cercare tre capi
d’abbigliamento e
un paio di scarpe.
“Emil?”
Non tentò di
raggiungerlo o toccarlo di nuovo, perché era un tipo furbo.
Non
abbastanza.
“Cosa vuoi che ti
dica?” Si
infilò la maglietta con la certezza di averlo fatto al
contrario. ‘Fanculo, in
quel caso avrebbe lanciato una nuova moda. “Buona fortuna con
la tua
scintillante carriera del cazzo.”
“Non ho … non ho ancora preso una
decisione!” Esclamò sconvolto. Perché?
Non
c’era proprio niente di cui stupirsi. “Volevo
parlarne prima con te!”
“Per dirmi cosa?” Adesso era il suo turno di fare
il finto - stupito. Stupido.
Quel che era. “O meglio, scusa, per farti dire cosa? Vuoi che
ti chieda di
lasciare il lavoro e scappare verso l’orizzonte?”
Michel stese le labbra in
una
linea sottile, segno inequivocabile che si stava arrabbiando. Quanto
tempo ci
aveva messo per leggerlo così bene? Poco, troppo poco.
“Forse.” Disse. “Perché
lo farei, per te.”
“Sei fuori di testa?” Perché se non
voleva tornare sulla terra, nel pianeta
delle persone normali, forse era il caso che gli desse una mano.
“Non sarò io a
prendere decisioni per conto tu!”
“Non te lo sto chiede…”
“Cazzo, sì che lo stai facendo! Se molli il tuo
mondo per stare con me come
cazzo pensi possa funzionare? Te ne rendi conto sul
serio?” Era già la seconda volta che
tentava di allacciarsi le
scarpe. Rinunciò in favore del nodo più patetico
del mondo. Come si sentiva lui
del resto. Il groppo che gli era salito alla gola comunque era
l’erba, non
altro. “Un giorno ti sveglierai e capirai di aver fatto una
cazzata colossale e
indovina chi sarà sulla linea di fuoco?”
“Non è
vero!” La cosa che
faceva più male era l’aria incredula e ferita che
vedeva riflessa nel viso dell’altro.
Perché aveva torto marcio, e non se ne rendeva neanche
conto.
E
non posso farti cambiare idea anche su questo,
maghetto.
Che povero stronzo era stato.
Addirittura
pensavi di chiedergli di venire con te in
America…
Zabini Senior era stato una
carogna, ma anche se con uno schiaffo, gli aveva aperto gli su quanto
il figlio
fosse ancora un maghetto troppo spaventato per avere la forza di
cambiare.
Quindi
si affida al sottoscritto. Fanculo.
Era stufo di fare da balia e
consigliere quando neppure lui sapeva che fare della sua vita,
specialmente in
quel momento, specialmente perché era innamorato come un
pazzo.
“Invece
sì. Qualsiasi cosa ti
dicessi tu la prenderesti per buona … e sarebbe una cazzata,
lo capisci?”
Mormorò fronteggiandolo e sì, non era mai stato
desiderabile come in quel
momento, un fragilissimo bastardo, incasinato quanto e più
di lui. “E comunque,
tuo padre non ha tutti i torti. Che futuro ci potrebbe essere per due
come noi?”
Non qui. In America, forse. Ma tu non
vuoi. Si capisce lontano un chilometro, cazzo, che non vuoi.
Michel serrò le
labbra, gli
occhi asciutti e l’intero corpo in tensione. Quasi si
aspettava un pugno. Quasi
sarebbe stato meglio che vederlo piangere.
Perché veniva da
piangere
anche a lui.
“Non vuoi neanche
provarci?”
Sussurrò. “Non vuoi neanche
che…”
“Ti sto facendo un favore. Io non appartengo a
questo… a questa roba qui. Non
posso.” Indicò l’intero ambiente, lui,
la bacchetta, Londra e il dannato Mondo
Magico che frequentava come un bambino avrebbe saggiato
l’oceano troppo freddo
con la punta del piede. “Comunque me ne torno a Boston con
Prince, quindi… in
un certo senso la decisione è già
presa.”
Non gli veniva in mente
nient’altro da dire, quindi si infilò il giubbotto
e aprì la porta della camera
come se stesse scappando da un inferno fiammeggiante.
Più o meno.
Michel non fece nulla per
trattenerlo.
****
Ufficio
Auror, Pomeriggio.
L’ufficio Auror
era in occulta
frenesia, e Sören doveva fingere di non essere il motivo per
cui una dozzina di
Auror erano scomparsi da quasi due ore dentro la stanza del grande capo.
Dopo aver illustrato le
scoperte
fatte da lui e Thomas, Harry Potter aveva cambiato del tutto
atteggiamento: da
irritato dalla sua presenza – ovvio il perché
– si era tramutato in quello
sperava diventasse, ovvero un leader operativo al cento per cento che
aveva
dato ordine a due squadre Auror, quella del Sergente Weasley e quella
di Malfoy,
di prepararsi ad un blitz al finalmente trovato castello dei Prince.
Peccato
non ti abbiano incluso.
Almeno aveva la magra
consolazione di non essere l’unico, lì dentro, ad
essere tenuto fuori dai
giochi. Harry Potter doveva aver preso la minaccia della talpa
seriamente date
le misure prese per assicurarsi che quanti meno Auror possibile
venissero a
conoscenza di quell’operazione.
Trovarsi però
vestito da
civile e senza ordini a cui obbedire era frustrante.
Se
solo mi avesse dato il permesso…
Il Salvatore
non gli aveva neppure dato il tempo di chiedergli se
poteva far parte della squadra di irruzione; non appena aveva finito il
suo
resoconto era schizzato fuori dall’ufficio alla ricerca del
Sergente Weasley,
lasciandolo ad arrancargli dietro finché non gli era stato
chiaro che non gli
avrebbe dato udienza.
Avrebbe potuto rivolgersi al
suo, di capo: ma il Capitano Gillespie era lontano un oceano e anche
solo per
stabilire una chiamata via fuoco ci avrebbe messo troppo tempo.
A
giudicare dai preparativi si preparano a lasciare il
Ministero il prima possibile.
Con la coda
dell’occhio notò
Malfoy, tornato alla propria scrivania ed armeggiante con il proprio
corpetto
anti-incantesimo che sembrava non chiudersi a dovere.
“Ehi.”
Disse questo con una
smorfia imbarazzata. “Mi daresti una mano? Se lo chiedo a
James o a qualcun
altro sono prese in giro assicurate per almeno un mese.”
“Certo.” Acconsentì dato che tutto era
meglio che restare con le mani in mano. Gli
si avvicinò e gli strinse la cinghia ribelle che in
realtà parve piuttosto
cedevole, almeno alla sua presa. “… Come sta
andando?” Non poté frenarsi dal
chiedere.
“Siamo nel bel
mezzo del
briefing.” Non si sbottonò, e non poteva
biasimarlo. Poi Scorpius abbozzò un
mezzo sorriso apologetico. “È
un’ingiustizia.” Disse. “Nulla contro Ama
… ma
avresti dovuto esserci tu. In fondo hai seguito il caso fin
dall’inizio, e sei
rimasto come consulente.”
“I consulenti vengono consultati,
nient’altro.” Rispose riluttante; era grato
per la solidarietà, ma era come girare un coltello nella
piaga. “Non stanno in
prima linea, e di certo non intervengono in queste
situazioni.”
“Sì, ma…”
“Scorpius, grazie.” Lo fermò per evitare
di avere la tentazione di rispondergli
male. “Va bene così.”
Il ragazzo parve capire che
insistere non era il modo migliore per confortarlo e gli
batté quindi una pacca
sulla spalla. “Li prenderemo. Se vuoi restare in ufficio, la
nostra scrivania è
a tua disposizione … così sarai il primo a
saperlo.”
Annuì: meglio che
restare in
albergo come un civile qualsiasi ad attendere notizie di terza, quarta
mano.
Addirittura, forse, dai giornali il giorno dopo. “Ti
ringrazio.” Gli sorrise di
rimando prima di allontanarsi verso la piccola cucina; se doveva
rimanere lì
tanto valeva che si mettesse comodo.
Fu appena dopo essersi
versato
la prima di innumerevoli tazze di the che sentì il cellulare
vibrare nella
tasca, stavolta quella del giubbotto; stava cominciando ad imparare a
gestire le
chiamate, almeno da quando Lily aveva eletto quell’affare
loro principale mezzo
di comunicazione.
Sorrise, perché era lei. “Ehi.” La
salutò. “Sono ancora
vivo.” Aggiunse ricordando la chiamata ricevuta poco prima.
“Ottimo,
perché non mi sarei davvero strappata
i capelli per la disperazione
di averti perso per mano di mio padre.” Lo salutò
con un tono così allegro che
fece un po’ meno male. Tutto.
“Tuo padre ha ben
altro a cui
pensare al momento.”
“Cioè?”
Sfogarsi, dato il suo stato
d’animo, era quasi obbligatorio. O almeno così gli
aveva detto la sua
Psicomaga. Chi era quindi lui per trattenersi?
“Si stanno
organizzando per
un’irruzione al castello dei Prince.”
“Adesso?”
“Adesso.”
“…
okay. Avevo capito che
c’erano sviluppi, ma wow.”
Lily fece
una breve pausa prima di continuare. “Quanto devo
preoccuparmi da uno a dieci?”
“Per me?”
“No, per il resto della mia famiglia di
poliziotti!” Gli rispose a tono. “Cosa
che ovviamente faccio, ma ci sono abituata … Per te, scemo,
certo!”
Un sapore amaro gli si
annidò
nel retro della bocca. “Non ce n’è
bisogno, non sarò della partita.”
Un’altra pausa. Lily, per quanto avesse una natura impulsiva,
non era mai stata
così sciocca da non realizzare quando la serietà
di un argomento aveva bisogno
di un attimo di riflessione in più.
La amava anche per questo.
“Papà
che dice?”
“Nulla. Sono stato ignorato, più volte. Stesso per
il Sergente Weasley.” Non
lanciò giudizi su nessuno dei due, ma la sua irritazione era
talmente
percepibile che non ce ne fu bisogno. Infatti sentì
l’altra sospirare.
“Vorrei suonare
stupita … ma
non lo sono. Hai provato con la Gillespie?”
“Il Capitano? Non
farei in
tempo a stabilire una connessione con Boston che…”
“No, non con Nora, con sua figlia.” Lo interruppe.
“Non è il tuo Sergente? Non
puoi chiedere a lei?”
Non ci aveva pensato. Non
solo; era stato così preso a piangersi addosso e a mordere
il freno per la
frustrazione che aveva completamente ignorato di avere la soluzione a
portata
di mano.
“Non è
detto che funzionerà.”
Disse però, che i rapporti tra lui ed Ama non erano ancora
rientrati nei ranghi
della normalità, anche se forse, con il tempo, sarebbero
riuscito a parlarle senza
provare la voglia di scappare dalla stanza.
“Per quanto vorrei
che non vi
rivolgeste mai più la parola … devi provarci,
è troppo importante per te.
Giusto?”
Sorrise, posando la tazza di
the. Non gli serviva più. Forse. “Giusto. E non
devi preoccuparti, sarà una
conversazione del tutto professionale.”
“Vorrei vedere!”
Controllò che
nessuno stesse
entrando nella cucina. “È di te che sono
innamorato.” Le fece presente,
abbassando comunque il tono, perché non sarebbe mai stato il
tipo di mago da
proclamare certe cose ad alta voce.
“Lo so…
ed io amo te.” Il tono
di voce di Lily gli fece per un attimo dimenticare l’azione e
il desiderio di
giustizia. Tutto quanto, in effetti. “È che mi
piacere fartelo ripetere in
continuazione.”
“Lo avevo immaginato.”
“Quindi…”
“Ti amo Lily.” Ripeté diligente. E gli
era grato per aver sbrogliato una
situazione che aveva reso inutilmente ingarbugliata. Era quello uno dei
meriti
della sua piccola inglese: sbrogliava matasse.
Come,
in prima istanza, ha sbrogliato me.
Vide Ama passare e seppe che
doveva tornare coi piedi per terra. Letteralmente. “Devo
andare.”
“Salutala da parte mia.” Intuì da brava
LeNa qual’era. “E … lo sai,
no?”
“No,
cosa?”
“Stasera ti voglio tutto intero nel mio letto.”
Disse senza mezzi termini, e fu
contento di non aver ancora varcato l’ingresso
dell’open-space Auror per
fermare Ama; doveva esser diventato dello stesso colore delle uniformi
che gli
sfilavano davanti.
“ … va
bene.” Riuscì a
bofonchiare sentendosi uno studentello con la prima fidanzatina.
Che
a ben guardare è proprio così.
“Ti ho messo in
imbarazzo?”
Lily pareva godersela un mondo. “È che non volevo
usare le solite
raccomandazioni, a casa mia sono pane quotidiano.” La voce
sfumò in un tono
serio. “Ed è sottointeso comunque. Non fare
l’eroe o ti prendo a schiaffi.”
“Ricevuto.”
Esitò poi, ma non
voleva rischiare niente di troppo sentimentale in quel momento. Non
aveva la
testa e, soprattutto, aveva paura che potesse essere di malaugurio.
Non
è come se dovessi affrontare il tuo passato, no?
“Ci sentiamo dopo,
Ren.
Chiamami quando hai finito.” La chiuse per lui Lily,
perché era vero, era nata
e cresciuta in una famiglia di agenti delle forze dell’ordine
e doveva esser
avvezza a quel genere di saluti.
Ne fu molto sollevato.
Uscì
quindi dalla cucina e si diresse verso il Sergente Gillespie.
“Sergente.”
La chiamò e
stavolta non trovò un paio di parole frettolose e uno
sguardo sfuggente, ma
un’espressione sorpresa.
La interpretò
come un buon
segno.
“Prince.”
Lo salutò con un
cenno della testa. “Mi hanno detto della scoperta. Ottimo
lavoro.”
“Grazie.”
Tagliò corto perché
non era lì per farsi lodare. “Ho bisogno di un
favore.”
La ragazza gli
restituì
un’occhiata spazientita, ma era disposta ad ascoltarlo da
come non mosse un
muscolo o tentò di trovare una scusa. Era tutto quello che
gli serviva.
“Sören…”
“So cosa vuoi dirmi.” Passò ad un
registro informale, dato che era stata lei a
scivolarvi per prima. “Ma ho bisogno di esserci. Non mi
importa di metter loro
le manette ai polsi … ma devo essere lì quando
succederà.” Mantenne il contatto
visivo anche se era palese che l’altra tentasse di fare tutto
il contrario. “Tu
puoi capirmi.”
Ama si morse le labbra.
“… Sì.”
Ammise. “Ma è una decisione che dovrebbe prendere
il Capitano, non io.”
“Sei il mio Sergente. Sei un ufficiale di alto grado e hanno
imparato a
stimarti, ti ascolteranno.”
Non era nella sua natura far
pressione in modo così smaccato, ma quell’arresto
era il motivo per cui aveva
calcato piede su suolo inglese in prima istanza. Concludendolo avrebbe
potuto
cominciare a vedere il futuro come qualcosa di concreto. La quadratura
del
cerchio, avrebbe detto qualcuno. Vedere Doe dietro delle sbarre, e
tutto quello
che rimaneva della Thule finire all’inferno era la sua
Passaporta per poter
essere finalmente un mago libero.
E
voglio esserlo.
Per sé stesso e
per essere
l’uomo che Lily meritava di avere al suo fianco.
Ama dovette leggere qualcosa
nel suo sguardo, perché tirò un profondo sospiro.
“Sarai la mia rovina,
Prince.” Borbottò. “Seguimi …
abbiamo degli inglesi da convincere.”
****
Scozia,
Hogsmeade,
Casa di Ted Lupin & James Potter. Pomeriggio.
Ted
intinse la piuma nel calamaio stando ben
attento a non versarsi l’inchiostro sui pantaloni dato che un ennesimo Gratta e Netta
avrebbe sicuramente
finito per farli disintegrare.
Era la sua tenuta estiva, e
non era mai libero come quando poteva indossare vecchi pantaloni
sdruciti e una
camicia a cui mancava più di un bottone; Lily e le altre
streghe di famiglia lo
prendevano in giro per quella sua trascuratezza, ma non gli importava.
Del
resto, mi sono messo in casa un ragazzino arruffato
anche per evitare continue critiche al mio look.
Si pentì un
po’ del giudizio
dato a James e controllò che nessuno fosse lì per
testimoniarlo.
Paranoico.
Del resto cosa poteva andar
storto
in una chiara giornata scozzese, dove il vento era leggero e fresco e
il sole
picchiava su un giardino che appariva come un campo devastato dagli
gnomi?
Gnomi che in
realtà erano incarnati
in una piccola personcina che stava scavando con lena nei pressi del
della
staccionata, evitando le aiuole ma distruggendo tutto il resto.
“Ben, rimani
dove posso vederti.” La ammonì per la ventesima
volta, per venir puntualmente
ignorato.
Con un sospiro
più divertito
che preoccupato riprese la stesura del programma scolastico, cosa che
gli
costava sempre giorni di lavoro noioso e ripetitivo. Ma Materializzando
la
scrivania all’aperto e rifornendosi di limonata poteva essere
quasi
sopportabile. Quasi.
Dopo qualche minuto
sentì una
manina colpirgli con forza il ginocchio, richiamando doverosa
attenzione. Dopo
aver passato un adolescenza a farsi bistrattare dalla triade Potter
sapeva
riconoscere quel segnale. Abbassò lo sguardo e
trovò Ben, che teneva in pugno
una manciata di vermi dall’aria sofferente.
Per
quanto può essere sofferente un verme.
“Per
te!” Dichiarò con
orgoglio. James scherzava dicendo che a volte pareva un gattino che
portava
doni orrendi ai propri umani dopo essersi rifatto le unghie sulle tende
buone.
Indubbiamente
una captaptio benevolantiae.
“Grazie.”
Accettò il regalo
con serietà, posandoli sulla scrivania dove disseminarono
terriccio ovunque.
“Li facciamo fare in padella a Jamie?”
Benedetta
ridacchiò. “Jamie li
mangia poi?”
“Tu li
mangeresti?”
“Noooo!”
Rise dandogli un
secondo colpo alla gamba, stavolta con la testolina, e lasciandola
lì a
riposare. Le arruffò i capelli e riprese a scrivere,
lasciandola
arrampicarglisi in grembo senza reagire. Aveva notato che quanto
più qualcuno
si mostrava interessato ai suoi gesti, o cercava le sue attenzioni,
tanto più, per
dispetto, Benedetta lo ignorava.
Non poteva però
evitare di
sentirsi invincibile all’idea che la nipote fosse ormai
talmente a suo agio con
lui da usarlo come palestra personale.
“Che
fai?” Gli chiese dandogli
schiaffetti sull’interno del braccio.
“Scrivo cose per
la scuola in
cui insegno. Sono un maestro, te lo ricordi?”
“Sì,
della scuola al di là
degli alberi con il nome buffo. Hoggorts!”
Storpiò facendolo ridere. “Hoggorts!”
Ripeté soddisfatta di aver suscitato quella reazione.
“Scrivi tanto e leggi
tanto.” Aggiunse poi. “Sei un secchione.”
Non c’erano dubbi
su dove
avesse sentito quella parola. “Jamie deve smettere di
insegnarti parole del
genere.”
“Jamie diceva che
lo dicevi!”
Ovvio.
“Se io sono un
secchione Jamie
è una capra.” Rispose facendola sbellicare dalle
risate e non provando neppure
un’oncia di colpa per questo. “Vuoi un
po’ di limonata?” Le chiese poi per
distrarla da questioni caprine.
Ben scosse la testa,
perfettamente contenta della sua posizione. Rimase per qualche minuto
in
silenzio, presa a giocherellare con uno dei poveri vermetti,
arrotolandoselo
attorno ad un dito. “Babbo
non
leggeva e non scriveva.” Disse di colpo.
Ted trattenne il respiro:
era
la prima volta che parlava apertamente del padre paragonandolo a
qualcuno di
vivo.
E
soprattutto usando il passato.
Non aveva idea se fosse una
cosa buona o una cattiva: dai libri che aveva letto poteva esser vista
come
buona … ma a volte i libri e le emozioni umane, quelle
reali, erano ad un
oceano di distanza.
“Ah sì?
Cosa gli piaceva
fare?” Chiese incerto: era un campo minato, ma era disposto a
camminarci sopra.
“Non
molto.” Si strinse nelle
spalle. “Lavorava con il nonno e quando tornava a casa
dormiva … Quando c’era
la mamma giocavamo … a palla, e a … a…
quel gioco in cui ti nascondi e lui ti
trova.”
“Nascondino.” Tradusse per lei. “E poi
non giocavate più?”
“Uscivo in piazza
con la nonna, a volte, o a fare la
spesa, e
giocavo a carte con il nonno.”
Continuò come se non l’avesse sentito. Poi
aggrottò le sopracciglia. “No, era
stanco.” Rispose alla fine. “Sempre,
tanto.”
Si impose di non mostrarsi
turbato, ma il quadro che Ben stava facendo di Lunastorta era
tutt’altro che
idilliaco. Comprensibile, certo, che se fosse capitato a lui di perdere
James sarebbe
stata la fine esatta del suo mondo.
Ma
il dolore non ti giustifica a lasciarti andare e fingere
di non vedere tua figlia.
Suo fratello doveva esser
entrato in depressione dopo la morte della moglie. Questo faceva
quadrare anche
la decisione di tornare in Inghilterra e portare Benedetta con
sé.
Si
è trovato da solo, in un paese di persone forse ben
intenzionate, ma all'oscuro della sua licantropia e di quella di Ben.
Tornare a casa, dal branco
che
l’aveva cresciuto, era stata l’unica decisione
possibile … e quella che, alla
fine, gli si era ritorta contro.
“Teddy?”
Lo chiamò riscuotendo
dai suoi pensieri. “Secondo te babbo
è arrabbiato?”
La guardò
sorpreso. Quella
domanda da dove usciva? “Perché dovrebbe
esserlo?”
Ben si morse un labbro, come
se avesse commesso fatale marachella. “Perché
adesso gioco con te e con Jamie e
… e mi diverto. E lui non può
più.”
Il magone rischiò di chiudergli la gola, ma gli diede anche
tempo per
organizzare una risposta sensata. Spesso dimenticava che anche a cinque
anni si
poteva processare il dolore in maniera complessa. E farsi domande che
rischiavano di toglierti la pace. “Sai, anch’io
quando ero piccolo, molto più
piccolo di te, ho perso i miei genitori.” Preferì
passare all’italiano con un
colpo di bacchetta – ormai gli incantesimi di traduzione gli
venivano facili
come un Wingardium Leviosa. Dalla
faccetta concentrata di Ben, era la scelta giusta. “E quando
sono diventato più
grande … ho chiesto più o meno la stessa cosa a
mia nonna. Vuoi sapere cosa mi
ha risposto?” Annuì silenziosa. “Che i
miei genitori erano contentissimi che
potessi divertirmi e giocare.”
Lo guardò poco convinta. “Anche se loro non
potevano?”
Annuì.
“Proprio per questo.
Perché così avrei potuto farlo al posto loro.
Così ogni sera, prima di andare a
letto, gli raccontavo la mia giornata. Mia nonna mi disse che anche se
non li
vedevo, loro vedevano me … come il tuo papà
continua a stare con te anche se
non c’è più.”
“Come la mamma,
dal paradiso
con gli angeli, sì.” Confermò trovando
un parallelo con quanto i nonni Babbani
dovevano avergli insegnato. Fece una piccola pausa. “Meno
male che babbo non è
arrabbiato allora. Perché mi piace stare qui con te e Jamie
… tipo,
tantissimo.”
Non.
Piangere.
Sorrise di rimando, sperando
di non suonare troppo lacrimoso. “Anche a noi fa piacere che
tu sia qui. Ti
vogliamo bene, Benedetta.”
“Okay.”
Disse come una piccola
regina che graziava di risposta un suddito, prima di divincolarsi e
farsi
lasciar andare. “Ti prendo altri vermi!”
Esclamò prima di correre via.
“…
grazie?” Rispose incerto se
mettersi a ridere o telefonare a James e scoppiare a piangere al
telefono come
una neo-mamma. Decise per la risata, che probabilmente
l’altro lavorava.
Gli avrebbe comunque chiesto
di fare una torta di mele quella sera. E poi, baciandolo, gli avrebbe
spiegato
il perché.
*****
Note:
Qualcuno vuole tirarmi un pugno? :D A parte gli scherzi (ma neanche tanto) so che anche questo capitolo è cortino. La buona notizia è che almeno una delle scimmie lavorative che avevo attaccate alla schiena si è dissolta. Da adesso avrò più tempo per curare la storia, yay! \0/
Questa
la canzone del capitolo.
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Capitolo 43 *** Capitolo XLII ***
Capitolo
XLII
Many
times I've walked the line
I've
rolled the dice and questioned my life
And
so I know how it feels when you have to start again
(Redlight
King, Comeback)
San Mungo, Reparto Lesioni da
Incantesimo.
Pomeriggio.
Essere un
fratello di mezzo spesso significava avere una
sorta di sesto senso. Nel caso di Albus era quasi una seconda natura.
E poi mi chiedono
perché sia così
impiccione. Hanno presente che razza di famiglia ho? È una
chiamata alle armi
continua!
Lily era
infatti affacciata alla porta della stanza dove lui,
povero Guaritore oberato di lavoro, stava controllando
l’ultimo paziente del
giro di visite serale, per fortuna senza la presenza castrante di
Smethwyck.
È
andato ad appestare di noia Achille,
ringraziando Morgana.
“Ehi.”
La salutò senza distogliere gli occhi dalla cartella
medica. “Oggi non sei di riposo?”
“È
tutta l’estate che sono di riposo … se vengo, sono
straordinari. Ma sì, in effetti, oggi non ero
richiesta.” Convenne indicando il
leggero vestito a fiori che indossava. Fuori doveva far caldo.
Chissà se
sarebbe riuscito a prendersi un gelato da Fortebraccio prima di tornare
a casa.
Senza che Mei lo
scopra … Mai
rovinarsi la cena con un dolce.
“Quindi?”
Alzò lo sguardo per trovarla a giocherellare con
una ciocca di capelli come se da essa dipendesse le sorti del mondo.
Stesso
livello di impegno. “È successo
qualcosa?” Indagò perché tanto quello
gli era
richiesto.
Lily si
strinse nelle spalle con fare vago. “Un mucchio
di cose.”
Non era una risposta soddisfacente, decise, dedicandole
l’attenzione che
l’altra ovviamente desiderava da come lo graziò di
una smorfietta compiaciuta.
“Sto lavorando, non ne possiamo parlare dopo?”
“Ce la fai ad aspettare?” Continuò a
stuzzicarlo sedendosi sul bordo del letto,
dove un povero Signor Myers stava scontando gli effetti di uno
Schiantesimo che
gli si era ritorto contro durante un litigio con il fratello.
Come ti capisco,
vecchio mio. Come.
“È
come uno Kneazle che si morde la coda. Mi date del
ficcanaso e poi siete sempre qui a raccontarmi le vostre
faccende.” Si lamentò
un po’ sterile, perché quel ruolo gli era sempre
calzato come una divisa di
Quidditch fresca di lavaggio.
Lily aggrottò le sopracciglia. “Perché
uno Kneazle dovrebbe fare una cosa così
stupida? Mica è un gatto!”
“Hai capito che intendo.”
“Sì, ma mi diverte farti saltare i nervi
… Capita così di rado di poterti molestare,
Mister Imperturbabilità!” Lo canzonò
con una traccia di affetto che non riuscì
a non indorargli la pillola.
Lily,
fino alla tomba, sarebbe sempre stata in grado di fargli
andare giù le pozioni più amare con un semplice
sorriso. Ci sapeva fare.
“Non
è imperturbabilità, è
maturità emotiva. Saresti stata
una splendida Serpeverde sorellina, se ne avessi mai posseduta un
briciolo.”
Replicò sulla stessa linea, firmando la cartella e
rimettendola a posto.
Godendosi il broncio dell’altra, e il punto segnata
– Pluffa al centro –
Appellò una sedia e si si sedette.
Niente di meglio
che una stanza piena
di pazienti esanimi per una chiacchierata.
“Forza,
che succede?” La incoraggiò.
“Non
lo dico a te perché sei speciale.” La prese alla
larga.
“Ma perché avrei voglia di dirlo a tutti ma ancora
non posso. Sei solo una
scelta sensata.”
“Grazie…?”
Incrociò le braccia al petto confuso. “Hai deciso
di andare in Australia?”
Perché se è
così Scott è appena diventato
la persona più odiosa del
pianeta.
Poteva
essere un gran bravo ragazzo, ma non se
rapiva sua sorella per portarla in mezzo ai canguri.
Lily
scosse la testa. “Con Scott è finita. Io e
Sören ci
siamo messi assieme.”
Ah!
“Ah.”
Ripeté tentando di fingere sorpresa con una punta di
preoccupazione, visto che era ciò che ci si aspettava da un
fratello maggiore
pienamente investito nel ruolo. “Grandi cambiamenti
quindi.”
Peccato
che Lily fosse una delle poche persone capace di
leggerlo come un libro aperto. “Albie falla finita, lo so che
sei contento.”
“Devo
esserlo?”
Gli venne risposto con un sogghignetto saccente. “Penso di
sì visto che hai una
cotta per Ren e cerchi di inserirlo nella nostra famiglia da quando
è
arrivato.”
“Non ho…” Si schiarì la voce.
Era una fortuna che lui e Tom non fossero davvero
connessi telepaticamente come la
maggior parte dei loro amici sosteneva.
O stanotte avrei
dormito nel
canestrino di Zorba.
“…
mi è simpatico.” Rispose fiaccamente.
“Tranquillo,
non sono mica gelosa, lo divido volentieri!”
Ribatté
Lily con l’aria di divertirsi un mondo. Poi tornò
seria. “Anche perché se c’è
una cosa di cui ha bisogno, è avere amici. Ed io non riesco
più a ricoprire
quella posizione al cento per cento. Ho altri compiti
adesso.”
“Risparmiami
i dettagli grazie.”
Con sua sorpresa l’altra arrossì. Non era da lei
insinuare e poi ritrattare per
timidezza. Quel Prince ci sapeva fare. O forse, aveva davvero catturato
il
cuore della sua incostante sorellina.
Ha giocato sulle
lunghe distanze ed ha
vinto. Chapeau.
“Sono
contento che siate riusciti a risolvere.” Aggiunse
dandole un leggero colpetto alla caviglia con la punta del piede. Un
po’ per
stuzzicarla, un po’ per simulare un abbraccio che al momento
era troppo pigro
per dare.
Non posso alzarmi
… proprio no. Le
poltrone per i visitatori del San Mungo sono le più comode
del mondo.
“Sì,
sono contenta anch’io.” Abbozzò un mezzo
sorriso. “Penso
che chiunque se lo aspettasse tranne noi due.”
“Più
o meno.” Confermò con una scrollata di spalle.
“C’era un
po’ questo enorme elefante rosa di cui nessuno voleva
parlare, ma era difficile
non notarlo. Sören poi non fa granché per
nascondere quanto sia perso di te.
Anzi, mi è sembrato strano che tu non te ne sia resa conto
prima.”
“I miei poteri non funzionano quando sono coinvolta
anch’io. E poi, non c’è più
cieco di chi non vuol vedere … non ammettevo i suoi per non
ammettere i miei.”
Sospirò continuando a giocherellare con la bistrattata
ciocca. Quasi si
aspettava di vedergliela infilare in bocca, come quando era piccola. Ma
non
erano più bambini.
Ma ci comportiamo
ancora come tali.
Specialmente quando si parla di cuore.
Irragionevoli
bambini.
“Bella
fregatura.” Replicò tirandole la piuma che usava
per
scrivere sulle cartelle. “Oppure comoda, a seconda dei punti
di vista suppongo.
Farsi corteggiare non è male, vero?”
Lily la
prese e gliela tirò di nuovo contro. “Se non mi
fossi
comportata da idiota miope forse le cose non sarebbero andate
altrettanto
bene.”
“Ah
sì?”
Gli venne
risposto con una linguaccia. “Sì, e non accetto
consigli da chi ha avuto una sola relazione in tutta la sua
vita!”
“Non conta la quantità, cara sorellina, ma la qualità.” Le fece
notare chiudendole la bocca con soddisfazione. “Ma
sono contento. Per te e per Sören. Siete strambi, ma del
genere strambo che si
compensa. Andrete a gonfie vele.”
Da come gli sorrise sollevata, intuì che era quello che Lily
aveva aspettato di
sentirgli dire per tutto il tempo. “Credi a quel che dici o
sei solo contento
di aver vinto una scommessa con Tom?” Gli domandò
infatti. “Perché ne avete una
in corso, non mentirmi.”
Ridacchiò.
“Non posso essere entrambi?” Tornò
serio, perché
dietro le frecciatine sua sorella gli stava chiedendo un parere vero. E
poteva
capire le sue riserve: al di là di tutto, Sören
Prince non era il ragazzo
perfetto, modello Scott Ross, proprio per niente.
Semmai
è il suo estremo. Bravo
ragazzo, ma non proprio brava persona.
E questo genere
di maghi sono un po’
la mia specialità.
“Mettiamola
così … Se trovi qualcuno che pensa che qualsiasi
cosa dici o fai è degna di nota, e nonostante questo ritiene
che tu sia un po’
idiota … beh, è quello giusto. Non
sarà facile, sorellina, non ti addolcisco la
pozione … ma credo che ne varrà la pena. Faccio
il tifo per voi.”
Lily si mordicchiò un labbro con quell’espressione
magnifica che a volte
avevano le ragazze, e che davano un senso a tutta la faccenda
dell’amore
eterosessuale. “Sören a volte pensa che sia un
po’ idiota.”
Allargò
le braccia in un abbraccio che era davvero
troppo stanco per elargire.
“Congratulazioni allora, hai trovato il tuo principe azzurro.
Non lasciartelo
scappare.”
Lily a
questo si rabbuiò appena. “Quello non dipende da
me …
Lo sai che papà e compagnia bella vogliono rispedirlo in
America.”
“Nessun cambiamento quindi?”
“Forse.”
Esitò. “Non ho capito molto, ma pare che lui e Tom
abbiano trovato il castello dei Prince e che papà stia per
organizzare un
attacco in piena pompa magna Auror.”
“Ah. Ma dai.”
Tom è riuscito a ricomporre la
mappa? E
non mi ha detto niente?!
“Tommy
si è scordato di renderti parte della cospirazione di
cervelloni eh?” Indovinò Lily, dannata piccola
LeNa. “Ops.”
“Ne pagherà le conseguenze.”
Replicò sereno, perché poche cose gli davano
più
gioia di avere un motivo per mostrarsi offeso. “Comunque
… Sören è andato con
la squadra?”
“Lo
spero. Significherebbe che ha più possibilità di
rimanere.” Esitò. “… e
ovviamente non
lo spero, perché si tratta pur sempre di un assalto. E ci
sarà John Doe in quel
castello.”
Il tono in cui lo disse era leggero, ma non poté evitare di
irrigidirsi e
impallidire. I brutti ricordi rimanevano tali anche dopo anni, anche se
si
diventava coraggiosi. Smettevano solo di far paura. Almeno un
po’.
Si alzò e gli tese quindi la mano. “Dai, ho finito
il mio giro di visite per
oggi. Vieni ad aspettare il tuo principe a casa con me.”
Lily la
prese tirandosi su. “Hai intenzione di maltrattare
Tom e metterlo in imbarazzo?”
“E
prepararti il the migliore del mondo. Come puoi
rifiutare?”
Gli
passò un braccio attorno alla vita e così
uscirono dalla
stanza. “Hai ragione, non posso proprio.”
****
Ministero della
Magia, Dipartimento
Applicazione della Legge sulla Magia.
Ufficio Auror,
Pomeriggio.
“Ti
devo ringraziare.”
“L’hai già fatto tre volte.
Basta.”
“Veramente ho soltanto tentato.” Le fece notare
quell’insopportabile maghetto
continentale che aveva avuto la sfortuna di conoscere, apprezzare e di
cui disgraziatamente
era ancora un po’ innamorata.
Ama
alzò gli occhi al cielo, stringendo le cinghie posteriori
del corpetto anti-incantesimo di Sören, un prestito
dell’ufficio Auror.
“Fa’
lo stesso.” Tagliò corto. “Se devo esser
franca, non
pensavo che il Gran Capo ti desse l’okay.” Ammise
mentre l’altro si voltava e
provava vari movimenti per vedere se fosse aderente al punto giusto.
Fece un
piccolo cenno d’approvazione
e poi le
sorrise. “Lo hai convinto tu.”
“Sì, ma non pensavo di riuscirci.”
“Appunto. Grazie.”
Gli rifilò un pugno sulla spalla, che l’altro non
schivò proprio per farle
dispetto. Si massaggiò infatti il punto colpito e le
restituì una faccia da
schiaffi.
Comunque
era rimasta sorpresa sul serio quando Harry Potter
in persona, arrivato durante l’alterco tra lei e il Sergente
Weasley, che
caparbiamente aveva deciso che Sören non sarebbe mai stato
della partita, era
intervenuto.
“Sergente
Gillespie, c’è qualche
problema?” L’aveva richiamata facendola scattare
sull’attenti. Quell’ometto mite
e non molto alto aveva un tono di voce e un atteggiamento che facevano
a pugni
con il suo aspetto.
Forse era quello
a renderlo il mago
leggendario che era.
“No,
Signore.” Aveva scosso la testa.
“Il Sergente Weasley ed io stiamo discutendo se far
partecipare o meno l’agente
Prince.”
“Non se ne parla, è un civile su suolo britannico.
Non mi prendo questa
responsabilità!” Non che avesse avuto tutti i
torti; se Sören fosse stato
ferito, a passare i guai sarebbero stati i suoi superiori.
Ovvero
noi due, in ugual misura.
Harry Potter
aveva assunto l’aria di
chi stava riflettendo. Aveva guardato verso Sören, che distava
da loro la
distanza necessaria a fingere, male, di non star ascoltando.
“Agente Prince.”
L’aveva richiamato e questo era scattato come una molla,
palesando quanto in
realtà fosse partecipe della conversazione.
Idiota.
“Comandi.”
Aveva detto affiancandolesi.
In uniforme o meno, bisognava ammetterlo, sembrava più
marziale di tutti loro
messi assieme.
“Vuoi
partecipare all’incursione?” Gli
aveva chiesto diretto e senza troppi giri di parole.
“Sissignore.”
“Sarà
una vendetta personale?”
All’espressione confusa di Prince il mago aveva aggiunto.
“Rispondimi in
maniera sincera. Devo sapere se sarai un elemento imprevedibile o un
supporto
valido alla mia squadra.”
Sören
aveva avuto una lieve
esitazione, chiara a tutti e soprattutto a lei. “Non cerco
vendetta, Signore.
Ma è personale, sì.” Aveva ammesso
senza abbassare lo sguardo.
Idiota. E
onesto. Sei davvero migliore di me.
Il Sergente
Weasley aveva emesso un
profondo sospiro. “Non fraintendermi ragazzo, ti capisco, ma
è il motivo per
cui non puoi venire.” Si era voltato verso il proprio
superiore. “Harry, non
possiamo avere in giro un ragazzino dalla bacchetta facile.
Sarà un arresto,
questo, non un’esecuzione.”
Sören
aveva serrato la mascella senza
rispondere. A quel punto, era inevitabile, era toccato a lei.
“Per l’agente Prince
è personale, ma lo è anche per la maggior parte
delle persone coinvolte.” Aveva
esordito con calma, che lì andava mantenuta sul serio.
Sören era un fascio di
nervi palpabile e si stava palesemente costringendo a non aprire bocca.
“La
Thule ha rovinato le vite di molte persone. La vostra … la
mia. John Doe ha
ucciso mio padre.” E la morte Jeremiah Gillespie era il
motivo principe per cui
era entrata in polizia. Se non era quella, un’agenda
personale. “Ma ciascuno di
noi confida nel fatto di mantenere il sangue freddo quando
l’occasione di
averlo a portata di mano si presenterà. Siamo agenti, non
vigilantes.”
Harry Potter le
aveva rivolto
un’occhiata lunga e scomoda. Era come se gli stesse leggendo
dentro, il che
poteva pure essere dato che c’era la leggenda metropolitana
secondo cui fosse
il Legimante più dotato dell’intero Mondo Magico.
“Non hai tutti i torti.”
Aveva detto. “L’agente Prince sarà sotto
la tua responsabilità, Sergente.”
Aveva aggiunto tornando ad ordini e forma, cosa che l’aveva
tranquillizzata
molto. Il piglio familiare con cui veniva condotto
quell’ufficio la
destabilizzava.
“Sissignore.”
Aveva ribattuto,
ignorando l’espressione trionfante del suo assistito. Quello
o sarebbe stata
costretta a prenderlo a calci.
“Siamo
pronti ad andare.” La riscosse il tedesco indicando
l’assemblamento di Auror, pronti a prendere una Passaporta
che li avrebbe
portati ad un tiro di distanza dal maniero dei Prince.
Odio le
Passaporte.
Forte di
quel pensiero lo afferrò per il bavero del corpetto.
“Se ti metti nei guai o sparisci dal mio raggio visivo giuro
che te la faccio
scontare. Con gli interessi.” Sibilò, che
terrorizzarlo era una buona strategia
per tenerselo incollato al sedere. “Non un passo senza che io
lo autorizzi,
neanche per andare in bagno, ricevuto?”
“Sissignore.”
Prince annuì con l’aria di aver capito la
serietà della minaccia. Era anche impallidito.
Eccellente.
“E
adesso andiamo a fare quel che sappiamo far meglio.” Gli
diede una pacca sulla spalla. “Prendere i cattivi.”
Era
felice di essere sotto il comando del Sergente Gillespie:
forse come civili non sarebbero mai riusciti ad intendersi del tutto
– temeva
soprattutto per colpa sua – ma come agenti erano da tempo
parte dello stesso
meccanismo oliato.
Mi fido di lei. E
lei si fida di me.
Si
avvicinarono così all’assemblamento di agenti
britannici e
fu immediatamente salutato da un sorridente Scorpius.
“Dei
nostri?”
“Dei
vostri.” Confermò.
“Grande!” Gli strizzò una spalla. A
ciascuna squadra venne assegnata una
Passaporta, e così si avvicinò alla ruota di un
automobile giocattolo che era
toccata alla sua vecchia squadra.
“Prince,
sei tornato.” Attestò Potter con una smorfia
incomprensibile. Non riusciva a capire se fosse di sorpresa o fastidio.
Forse
entrambi. “Ti siamo mancati così tanto?”
“Tu
no.” Rispose a tono, facendo ridacchiare tutti, compresa
Ama che si premurò però di rifilargli una
gomitata nelle costole.
“Cerchiamo
di evitare i momenti da asilo.” Li ammonì
afferrando la Passaporta. “E parlo a tutti.”
“Speranza inutile Sergente, ma una stellina per averci
provato.” Commentò
allegro Scorpius rimediandosi una serie di occhiate esasperate, ma
allentando
anche la tensione che circondava tutti come uno spesso guanto di cuoio.
Ci siamo. Stiamo
per prenderli.
Sören
fu l’ultimo a toccare la Passaporta e poi, al segnale
convenzionato,
sentì il famigerato e poco apprezzato gancio
all’ombelico mentre il mondo
prendeva a girare come una trottola impazzita.
Pochi
secondi dopo si trovarono in caduta, per fortuna non
libera, su quello che era un tipico paesaggio inglese: colline brulle e
altre
ricche di una fitta vegetazione boschiva, un fiume color piombo (il
fiume della
mappa) e lontano la silhouette di una città Babbana grigia e
sabbia.
Così
questa è la casa dei miei avi.
Era un
bel posto dove crescere, pensò, e fu un pensiero
rapido, come abbastanza rapidamente si stava avvicinando alla terra
ferma.
Atterrarono in quello che sembrava un pascolo non utilizzato e
Sören saltò in
piedi solo per cercare con lo sguardo il proprio Sergente, che era a
terra e
piuttosto dolorante.
“Tutto
bene?” Le chiese aiutandola ad alzarsi. Questa
rifiutò
la mano e lo guardò male. Ricevuto il messaggio, la
lasciò alzarsi da sola per non
trovarsi la mano amputata.
“Detesto
le Passaporte.” Borbottò. “Mai stata
brava nella
fase di atterraggio.”
“È perché non hai mai cavalcato un
Thestral … Allora sì che le
apprezzeresti!”
Replicò Scorpius spazzolandosi i pantaloni mentre Potter e
Jordan scendevano
poco distanti con l’aria di chi lo faceva da una vita.
“Anche la mia fidanzata
le eliminerebbe dalla faccia della terra.”
“Io e la tua fidanzata andremo
d’accordo.” Sbuffò Ama facendo un cenno
al
Sergente Weasley che era spuntato dal retro della collina alla cui base
erano finiti.
“Ci siamo tutti.” Gli comunicò.
L’uomo
diede un’occhiata sommaria al gruppo. “Bene.
Raggruppiamoci!”
Sören si inserì nel folto gruppo di Auror, circa
una ventina tra maghi e
streghe, mentre il Sergente Weasley, evitando Sonorus
di sorta, parlava con voce chiara ma naturale. “Gli
Spezza
Incantesimi stanno lavorando sulle barriere.”
Esordì. “La mia squadra sarà
quella di sfondamento, le altre due accerchieranno il
perimetro.” Si rivolse
all’altro team rimasto a parte il loro. “Sergente
Stump il vostro compito, una
volta Disilluso il Castello, sarà di cercare i maghi e le
streghe tenute in
ostaggio … Ricordatevi che sono malati, e se possibile, non
vanno avvicinati.
Devono essere messi in sicurezza in attesa della squadra medica dal San
Mungo.
Agente Potter, la vostra squadra sarà di appoggio a quella
del Sergente Stump.”
“Ricevuto.”
Rispose l’interpellato che tra tutti loro era
quello che deteneva più anzianità, ad eccezione
di Ama che però rimaneva, gradi
a parte, un’osservatrice.
Sören,
dato che era una decisione razionale, tentò di non
provare delusione all’idea di esser relegato come saggina di
scorta; dopotutto
sin dall’inizio la squadra a cui
era stato assegnato contava agenti che avevano al massimo un paio di
anni di
servizio alle spalle.
E non abbiamo
neppure un supervisore.
Ad
occhio, parevano anche i più giovani.
Il
Sergente Weasley interruppe il suo discorso per
controllare lo specchio Comunicante che aveva in tasca. “Gli
spezza-incantesimi
hanno finito. Conoscete le consegne. Squadre in posizione.”
Sören seguì quindi quella capitanata da Potter, che
per l’occasione sfoggiava
un atteggiamento professionale, bizzarro su una faccia da schiaffi che
sembrava
disegnata per farlo sembrare come se stesse sempre per prenderti in
giro.
Sorpassata la collina poté vedere, infine, il castello.
Era come
se l’era immaginato: di pietra grigia, dello stesso
colore del cielo, piombo scuro su una distesa di erba che nascondeva
parte del
primo piano. Decine di torrette, le molte delle quali erano crollate o
erano
state corrose dal vento e dalle intemperie. Tetti di ardesia sfondati e
finestre cieche. Era poco più che un rudere ormai eppure
manteneva ancora una
traccia dell’antico splendore.
O forse sono io
che ce la voglio
vedere.
“Bello.
Messo male, ma bello.” Commentò Malfoy quasi
avesse
indovinato il corso dei suoi pensieri. “Medievale
… roba normanna,
sicuramente.” Gli lanciò un’occhiata.
“C’eri mai stato?”
“No.”
Rispose sentendosi inspiegabilmente in colpa. Fino a
poco tempo prima neppure sapeva di possederlo, eppure si sentiva in
parte
responsabile di quel decadimento. Una volta doveva esser stata una
magione
magnifica, una dimora da re. “La generazione di mio padre
è stata l’ultima ad
averlo abitato.”
“Beh,
quando tutto questo sarà finito tornerà in tuo
possesso
… Cioè, già c’è,
ha solo un problema di occupazione abusiva.”
Esitò.
“Battutaccia?”
Gli
sorrise per mostrargli che non se l’era presa, ma non
commentò.
Ha ragione.
Quella
era la casa natale della parte di famiglia in cui si
riconosceva, a cui guardava quando sentiva che l’influenza di
suo zio ancora
gli corrodeva l’animo.
Guardare
quelle rovine era sentirsene parte e sperare che,
nonostante tutto, fossero ancora buone a qualcosa.
È casa mia. E Johannes
… mia madre … me l’hanno rubata.
Sì,
avere un obbiettivo cancellava tutta l’ansia e il
malessere che aveva provato fino a quel momento.
È casa
mia. Devo riprendermela.
Considerazioni
a parte, era arrivato il momento di entrare in
azione: seguì in silenzio la squadra costeggiare il
perimetro del castello e
poi tagliare all’interno della macchia boschiva che si
sviluppava selvaggia
tutta attorno, chiudendolo in un abbraccio serrato. In molti punti le
mura
difensive, rese visibili dagli Spezza Incantesimi, erano crollate,
inghiottite
dalle sterpaglie.
Il
Sergente Stump, una donna dall’aria volitiva, un
po’ smorzata
dai capelli di un brillante color rosa si fermò, facendo il
cenno convenzionato
per farsi imitare. “Passiamo di qui.” Fece andare
avanti un altro auror che con
la bacchetta si accertò non fossero rimasti incantesimi che
avrebbero allertato
gli occupanti del castello. “Agente Malfoy …
L’uscita sul retro?”
“Ci
dovrebbe essere l’uscita dalle cucine.”
Considerò questo
facendo un passo avanti. “Di solito si trovano lontane dal
maschio centrale …
in questo genere di castelli sono vicine alle stalle, cortile
esterno.” Fece
qualche rapido calcolo mentale e si mise in testa. “Per di
qua.”
“Sa dove sta andando?” Gli chiese a bassa voce Ama,
che da americana era
comprensibilmente confusa e in allerta.
“Sì.”
La rassicurò. “Scorpius è Purosangue,
ha abitato in castelli
simili a questo da quando è
bambino, li
conosce bene.”
La strega fece un cenno di assenso e continuò a camminare.
Il silenzio in cui
erano immersi, e il sole che stava calando illuminando tutto
d’oro e
d’arancione davano un’atmosfera surreale alla
scena, quasi fiabesca avrebbe
detto Lily.
Tra poco
sarà buio.
Punto
positivo se volevano entrare senza esser visti.
Attraversarono
in fila serrata l’erba alta che occultava
quello che una volta doveva esser stato un giardino, a giudicare dal
rudere di
una gigantesca fontana circolare ormai secca e piena di rovi, e
tagliarono
lungo una delle torri arrivando così ad una serie di assi
che dovevano mimare
una porta, chiusa in più giri di catena.
“È
qui Malfoy?” Si informò la strega.
“Mi
mangerei il cappello a punta che al momento non ho.”
Rispose quello beccandosi uno scappellotto da Potter.
“Sì, questa è l’uscita
dalle cucine.”
Sören
rimase in disparte mentre due Auror della squadra
principale cominciarono a lavorare sulla serratura. Il castello era
silenzioso
e, in apparenza, disabitato.
“Ci
siamo.” Disse il Sergente Stump. “Malfoy, rimani
vicino a
me e bacchette alla mano. Non sappiamo cosa ci aspetta là
dentro.”
Io sì.
Per questo si
assicurò di avere la presa salda.
****
Diagon Alley,
Casa di Al e Tom.
Una volta
Loki, in vena di lepidezze causa troppe whiskey
incendiari bevuti, gli
aveva chiesto
perché lui e Albus non avessero ancora stretto il nodo
nuziale.
Tom,
oltre a augurargli una morte prematura per cirrosi
epatica, non gli aveva risposto, ma in cuor suo conosceva il motivo.
Perché
già lo siamo.
Non
servivano riti magici o un prete blaterante in salsa
Babbana. Lui e Albus erano come una coppia sposata perché
solo un appartenente
alla suddetta avrebbe capito che la propria metà era
infuriata da quel che
c’era a cena.
“Bentornato!”
Lo salutò con un sorriso, mentre a tavola
facevano mostra di sé disgustosi cartocci unti di patatine,
pesce fritto e il
temibile kebab. Oltre a questo Lily e Meike erano lì, con
due sorrisetti
identici e famelici, pronte a carpire il minimo segnale di discussione.
“Io
questa roba non la mangio.” Offrì diplomatico,
scervellandosi sul motivo per cui l’altro si era vendicato in
modo così
crudele.
“Allora
muori di fame.” Replicò sereno il compagno
sedendosi
e servendosi generosamente di patatine fritte che innaffiò
con una quantità
imbarazzante di salsa all’aglio.
“A
proposito, la dispensa è vuota e i biscotti sono
finiti.”
È
decisamente incazzato con me.
Mantenendo
un’espressione neutra – anche se Cagliostro
drizzò
il pelo al suo passaggio – optò per una dignitosa
ritirata in salotto. Lily
mise il broncio quasi si fosse aspettata di meglio.
Va’ a
teatro se vuoi uno spettacolino.
C’era
stato un tempo in cui le persone evitavano i suoi
malumori temendoli come tempeste improvvise.
Anche se,
a pensarci bene, quel consesso contava gli unici
tre che se ne erano sempre abbondantemente fregati.
Oh, fortuna.
Si
ritirò quindi nell’unico punto della casa che non
puzzasse
di fritto, fingendo di voler riordinare la nuova-vecchia collezione di
vinili
che aveva iniziato qualche anno prima, complice la vicinanza con negozi
specializzati nella Londra Babbana. Ovvio a dirsi, neanche cinque
minuti dopo Al
entrò con le mani sui fianchi, chiara impronta genetica di
nonna Molly.
“Beh?”
Lo apostrofò.
Non
c’è riposo per i malvagi.
“Cosa?”
Chiese pulendo con un panno The Queen is Dead
dei The Smiths con l’attenzione che riservava ai
suoi oggetti più preziosi e complici
nell’evitargli di alzare lo sguardo e
scontrarsi con le iridi giudicanti del compagno.
Al
sbuffò come se detenesse tutte le ragioni del mondo. E,
purtroppo, in quella casa era così. Il più delle
volte. “Castello dei Prince.”
Scandì.
… ah.
Già.
Si era
totalmente dimenticato di informarlo di quella
insperata svolta di eventi, nonostante Al ne fosse stato il fautore
principale,
spronandolo a dargli una mano con la mappa dopo averla recuperata con
le lusinghe
– e circonvenzione di incapace se chiedevano a lui
– dalle mani degli auror.
“Mi
è passato di mente.” Sì,
c’era decisamente un graffio sul
lato B. Avrebbe dovuto riportarlo al venditore e pretendere il giusto
risarcime…
Gli
arrivò un cuscino in testa che sfiorò
pericolosamente il
disco. Gli lanciò un’occhiataccia che fu
fieramente sostenuta.
“Come
ha fatto a passarti di mente?! Questa storia occupa
ogni angolo del nostro tempo libero da settimane!
Idiota!”
“Non
insultarmi.”
“Ti descrivo!”
“C’era
bisogno di me in bottega.” E non era una scusa. Non
del tutto. “Un tedioso imbecille è entrato
accusandoci di avergli danneggiato
la bacchetta durante la riparazione e se n’è
andato solo quando gli abbiamo
promesso di lavorarci ancora.” Soffocò il fiotto
di collera che provò al
riaffiorare del ricordo. Quel lavoro, Stevens glielo diceva sempre, era
una
buona palestra sulla tolleranza.
Un lampo
di comprensione passò nello sguardo di Al. Ne
approfittò biecamente. “Sono riuscito ad
allontanarlo a parole stavolta.”
Aggiunse.
“Non l’hai spedito fuori a colpi di fattura?
Ammirevole.” Un piccolo sorriso lo
ricompensò della velocità con cui aveva colto la
debolezza nella sua corazza.
“Non riuscirò mai a capire perché
Rupert ti lasci parlare con i clienti … Sei
un disastro nelle pubbliche relazioni.”
“Ho
scelto questo lavoro proprio per non preoccuparmene.” E
entrambi
sapeva che se avesse voluto avrebbe potuto essere il contrario. I suoi
geni e
non ultima, la sua anima, lo avevano dotato di una naturale
capacità di
persuasione.
Preferisco usarla
per portarti a letto
e farti dimenticare che vuoi farmi la pelle.
L’adolescenza
che aveva passato – e la serie di sfortunati
eventi che l’avevano costellata – gli avevano fatto
passare ogni delirio di onnipotenza:
preferiva di gran lunga una ponderata e serena avversione per il
consesso
umano.
“Sì,
ma in questo momento non sei in bottega … ma con me,
quindi preoccupati.” Lo stuzzicò sedendoglisi
accanto. “Sul serio, come ha
fatto a passarti di mente?”
“Cercavo
di non pensarci.”
Aggrottò
le sopracciglia confuso, ma poi capì. Capiva sempre
per fortuna. “Sei preoccupato?”
“No.”
“Provaci ancora.” Sbuffò.
“Stavolta convincimi però.”
Non gli rispose. Nella vittoria del momento si era esaltato
all’idea di aver
finalmente scoperto il covo del Demiurgo, certo. Dopotutto era il
motivo per
cui aveva accettato di aiutare Al in quella faccenda in prima istanza:
fare
scacco matto ai cattivi e vincerà la partita con la forza
del loro
ingegno.
Ma adesso siamo
alla resa dei conti. E
tanto può andar storto.
“Cosa
succede ad un nido di vespe quando vai a stuzzicarlo?”
“Non
mi sono mai posto la domanda … era Jamie l’idiota
che
veniva quasi punto a morte perché pensava di trovarci il
miele.” Gli sorrise.
“John Doe è un cane sciolto, non ha più
la Thule a parargli il sedere. Lo arresteranno
e sarà finita.”
Anche
l’altra volta pareva fosse
finita.
Preferì
non dire niente però, che era una conversazione
sterile perché da quel punto di vista lui e Albus la
pensavano in modo diverso.
Al aveva una perenne, e a volte un po’ irritante, fiducia
nella forze del bene,
nel concludersi della storia con un ‘e tutti vissero felici e
contenti’ …
Io no.
Per
quanto lo riguardava, ‘il felici e contenti’ delle
fiabe
non era che una stortura della realtà, dove le parentesi di
serenità erano
parentesi, appunto. Non se la sentiva però di obiettare. Del
resto quell’intaccabile
fede era uno dei lati che più amava di Albus Severus Potter.
Lo illuminava da
dentro, e Merlino solo sapeva quanto il mondo avesse bisogno di quella
luce.
Di quanto io
ne abbia bisogno. Mi riesce così facile inciampare nel
buio…
“Uno
zellino per i tuoi pensieri.” Lo richiamò
all’attenzione. “Va tutto bene?”
“Sì.”
Scrollò le spalle ma quando l’altro gli
passò le dita
trai capelli buttò fuori un inevitabile sospiro.
“Sono
preoccupato anch’io. C’è pur sempre un
pezzo della
nostra famiglia là in mezzo.”
Accettò la diversione. “Mai stato così
felice di essere adottato, se si parla
di James.”
“Già
… a volte mi chiedo se i miei non l’abbiano rubato
ai
Troll di montagna.” Gli passò un braccio attorno
alla vita e gli posò la testa
su una spalla. Rimasero qualche minuto così, ascoltando le
chiacchiere
intellegibili di Lily e Meike provenire dalla cucina.
“Sono
contento che questa volta siano gli altri a prendersi
meriti … e la prima linea.” Disse dopo un
po’, strofinandogli il naso contro la
stoffa della maglietta. “Ne abbiamo avuta abbastanza per un
paio di vite, vero?”
La crisi
era rientrata quindi poteva finalmente fare la cosa
che più gli piaceva. Prenderlo in giro.
“Ma
come, non sei un Potter? Dovresti esser fuori con i tuoi
valorosi parenti a combattere le forze del male.”
“Crepa.” Gli morse la spalla con un filo di
ragione. Accettò. Anche perché era
tutto fuorché spiacevole.
“No.”
Gli tirò una ciocca di capelli per allentare la presa della
dentatura sulla sua
povera pelle.
“Prometto che al prossimo casino ti consegnerò
impacchettato a tuo padre con
l’assicurazione che ti impiccerai in ogni modo
possibile.”
“Ho
fatto bene a lasciarti digiuno.” Sbuffò
puntellando il
mento sulla clavicola, dove faceva più male.
“Cambiando discorso, mia sorella
si è messa con tuo cugino.” Aggiunse estemporaneo.
Tradusse parentele con nomi. “Lily si è messa con
Sören?” Doveva avere
un’opinione in merito, supponeva.
Se non fosse che
non me ne frega
niente.
…
tranne di sapere che faccia ha fatto
Harry. Sarà stata impagabile.
“Cronaca
di un disastro annunciato.” Commentò per fargli
piacere. “Non vedo l’ora che diventi il principale
argomento di conversazione
alla Tana. Ce ne libereremo verso Natale.”
“Lily
è al settimo cielo, cerca di essere carino o giuro che
ti metto la sabbia nel the.”
“Tenterò.”
“Al,
possiamo mangiarci il sushi di
Tom o sei ancora arrabbiato con lui?”
Tom assaporò l’avvampare dell’altro, che
per giustificarsi trovò doveroso tirargli
uno spintone. “Non è più
arrabbiato.” Rispose ad alta voce schivando un fiacco
tentativo
di tirargli un pugno. “Meike? Se tocchi la mia cena ti
deporto in Germania.”
“Allora
sbrigati, che Lily mangia come una donna incinta!”
“Mei, non provare a tirarmela!”
Perché continuavano ad invitare quella rossa rumorosa come
una batteria di
coperchi? Era un mistero che non avrebbe mai risolto. “
“Loro
due sono parte della punizione immagino.” Sospirò
alzandosi e tirandosi dietro un imbronciato Albus.
“Mei
vive da noi e ci sfama quindi non lamentarti. Per quanto
riguarda Lils …” Gli lanciò
un’occhiata di ammonimento. “Sören fa
parte della
squadra di incursione, ha i nervi a fior di pelle, aveva bisogno di
stare in
compagnia.”
Non commentò, preferendo un cenno di generica comprensione
che gli fece
ottenere un bacio a fior di labbra. Per qualcosa di più
serio, era sottointeso,
doveva impegnarsi di più.
“Accetto
la sua presenza, ma non farò domande sulla loro
neonata, ridicola storia d’amore.”
Borbottò.
“Dovrai
comunque
ascoltare le risposte perché ho intenzione di farle il terzo
grado.”
Giunse ad una terribile realizzazione. “…hai
aspettato me per farlo.”
“È la tua punizione, mio caro.” Gli
sorrise dolce come la serpe tramutata da
tenero cerbiatto che era.
La cosa
deprimente era constatare che, come ogni volta, la
mutazione non lo metteva minimamente in allarme.
Ma ci sono due
seccatrici che non mi
permettono di dimostrarglielo…
“Ehi,
Tom, pensieri casti, grazie!” Lo apostrofò la
dannata
LeNa non appena mise piede in cucina, con ovvio sottofondo
sghignazzante del
folletto di Rügen. “Ci sono minorenni a
tavola!”
“La
mia innocenza è volata via molto tempo fa per colpa di
questi due.” Ribatté Meike intingendo le proprie
patatine in salse orride. “So
più di sesso gay che di quello etero … Cosa che
un giorno, chissà, potrebbe
tornarmi utile.”
Vi odio tutti.
Avrebbe
avuto più senso se fosse stato vero. Si sedette
docile, incrociando lo sguardo di Lily. “Harry come ha preso
la notizia?” Le
chiese a bruciapelo, perché dolce era la vendetta.
Si
beccò un calcio nello stinco da parte del compagno, ma era
un prezzo che si era preparato a pagare per poter gongolare del disagio
di Lily
che impallidì, avvampò e in generale parve
volergli infilzare la forchetta in
un bulbo oculare.
“Come
vuoi che l’abbia presa?” Borbottò.
“Se
ne farà una ragione.” Le venne in soccorso Albus.
“Forse tra un milione di anni.” Scosse la testa.
“Penso che sia stato un colpo
più duro che vedere Jamie infilare un metro e mezzo di
lingua nella trachea di
Teddy.”
“Grazie per l’immagine terrificante.”
Commentò Meike con un moto di disgusto
del tutto condivisibile. “Però Mutti
ha
ragione, gli passerà! In fondo quel tuo
Sören…”
“… è solo il ragazzo che mi ha
ingannato per mesi facendo comunella con le
persone che mi hanno rapito?” Quello che apprezzava di Lily
era nonostante la
femminilità puerile di cui si ammantava non aveva mai coltivato l’illusione che
la persona amata fosse incompresa dal
mondo intero tranne lei.
No, ce
l’ha avuta a morte con Prince
come doveva. Ha capito esattamente che persona era.
Però
al tempo stesso era riuscita a perdonarlo quando aveva
cambiato rotta.
Doveva
ammetterlo, la pasta Weasley tirava fuori donne niente
male.
“È
ultima persona con cui papà vorrebbe vedermi assieme, ma
va bene.” Scrollò le spalle. “Se
bastasse questo a scoraggiarmi non avrei
neanche ricominciato a scrivergli. Papà può avere
le sue opinioni, ma sono le
mie quelle che contano.”
“Potere
alle streghe!” Esclamò Meike simulando un piccolo
applauso. “Lily, sei la mia guru spirituale!”
Per
carità, no.
“Ce ne
basta una al
mondo, Mei.” Gli venne in soccorso Albus prima di tirare
fuori dalla tasca lo
Specchio Comunicante. Una chiamata da Michel, visto che era
l’unico nel loro
gruppo che non utilizzava quotidianamente gli smartphone Babbani, gli
unici
oggetti di telecomunicazione ad avere il pregio di avere segnale in
entrambi i
Mondi.
Stupidità
Purosangue.
“Sì,
è Mike, non fare quella faccia.” Gli disse
baciandolo
frettolosamente sulle labbra e dandogli uno schiaffo sulla spalla
quando fece
una smorfia all’odore di aglio. “Poi mi lavo i
denti rompipalle … no, Mike, non
parlavo con te. Che succede?” E si allontanò dalla
cucina con l’espressione
grave che precedeva una lunga conversazione che l’avrebbe
tenuto fuori dai
giochi per tutta la serata.
Non sarebbe
meglio se vivessi in una
baita isolata nel nulla?
“No,
affatto.” Si intromise Lily, pestando i piedi al suo
malumore e rischiando così di volar via dalla finestra.
“Non
leggermi i pensieri.”
“Non
ti leggo quelli, ti leggo la faccia sapientone.” Sarebbe
morta piuttosto che togliersi il piacere di avere l’ultima
parola. Era una cosa
che nonostante tutto rispettava. “Non vivresti meglio lontano
dalla razza umana
in tutta la sua stupidaggine. Ormai dovresti esserci arrivato da solo
… puoi
detestare qualcosa solo se ci sei immerso dentro, Tommy.”
Aggiunse Lily disinvolta. “Quindi fa’ il padrone di
casa
sgradevole e distraimi dal pensiero che il mio uomo sia in mezzo ai
guai.”
“Posso
metterti alla porta.”
“Per favore, provaci.”
Si sorrisero; il suo essere un misantropo era un fatto appurato, ma
c’era
qualcuno, oltre ad Al, per cui valeva sempre la pena sforzarsi un
po’.
****
Lancashire,
Castello dei Prince.
Dopo il tramonto.
Il
castello era immerso in un buio reso ancora più profondo
dal sole appena tramontato. Non era un problema, avendo più
di un Lumos a disposizione,
ma comunque Sören non si sentiva sicuro.
C’era
qualcosa che non andava nella facilità con cui erano
penetrati all’interno; le barriere erano state disintegrate
nel giro di una
manciata di minuti, e Johannes non era mai stato tipo da alzare difese
così
deboli.
Avrebbe
pensato ad una trappola se non avessero tutti contato
nell’effetto sorpresa di quell’incursione.
Sentì
qualcuno dietro a lui inciampare con conseguente
imprecazione a bassa voce.
“Questo
posto è una discarica!” Sbottò
l’auror ignoto
facendogli serrare la mascella in piena indignazione.
Questa discarica
è casa dei miei avi,
imbecille.
Lo
pensò soltanto, perché non aveva tutti i torti:
il
pavimento pullulava di calcinacci, erba incolta e rifiuti che andavano
dagli
escrementi di animale a suppellettili abbandonate alla rovina.
Ed era
una realizzazione dolorosa, ma che lo teneva distratto
dall’idea di incontrare Johannes, ancora.
Voleva
ucciderlo, aveva sempre voluto ucciderlo da quando
aveva capito che non se ne sarebbe mai liberato, ma
non poteva. Non davanti a dei testimoni. Aveva bruciato
quella
possibilità nella metropolitana, facendosi fregare come un
fesso, avrebbe detto
Milo.
Una parte
di sé sperava
che quel silenzio fosse sintomo di una trappola: una parte
folle, ma che
gli suggeriva che se avessero affrontato un attacco, sarebbe stato
più facile
avere Johannes tutto per lui.
E ucciderlo.
Nessuno potrebbe
sollevare obiezioni se lo uccidessi in duello.
Un
crollo, qualche metro più avanti, fece arrestare le due
squadre: la strada principale era bloccata e da essa di diramavano due
corridoi
che non erano stati presi in considerazione da come il sergente Stump
si voltò verso
Malfoy cominciando a discutere a bassa voce.
“Questa
catapecchia rischia di crollarci in testa da un momento
all’altro…” Borbottò Potter,
facendo saettare lo sguardo da un punto all’altro
dello stretto corridoio in cui si trovavano: nel silenzio si potevano
sentire scricchiolii
e cedimenti provenire da lontano, forse dove la squadra principale si
stava
muovendo. “… E poi dove cavolo ci
troviamo?”
“Nei
quartieri della servitù.” Almeno così
gli pareva, a
giudicare dall’arredamento spoglio, le dimensioni ridotte
della struttura e la
mancanza di arazzi.
Anche se
è talmente conciata male che
potremo davvero trovarci ovunque.
“Questa catapecchia
non ha manutenzione da decenni.” Gli rispose senza trattenere
l’irritazione. “Cosa
ti aspettavi, una villa con piscina?”
“Ehi!”
Sbottò indispettito. “Era una considerazione, che
te
ne …” Poi parve realizzare a chi si era rivolto ed
ebbe la decenza di assumere
un’aria imbarazzata.
“Quando
sarà tutto finito radila al suolo e costruirci
qualcos’altro … un albergo, in America alcuni
maghi vanno pazzi per i vecchi
castelli inglesi.” Pensò di venirgli in soccorso
Ama, da brava americana priva
di storia qual’era. “Magari con il riscaldamento e
un’illuminazione decente.”
Il suo
essere Purosangue forse si misurava anche dall’orrore
che provò all’idea. “No.”
Disse secco. “Non ho idea di cosa ne farò, ma non
certo un parco giochi per maghi annoiati.”
“Ma
ti frutterebbe un sacco di soldi…”
“Ho già un
sacco di soldi.” Tagliò
corto ignorando gli sguardi dei suoi due interlocutori di fortuna:
parlavano
per scrollarsi di dosso la tensione, se ne rendeva conto, specie adesso
che si
erano fermati per decidere il da farsi mentre Malfoy, Bobby e un paio
di altri
Auror erano andati in avanscoperta nella speranza che i due passaggi
fossero
liberi e soprattutto li portassero dove dovevano.
Potter
attirò la sua attenzione sbuffando, con un’aria di
superiorità assolutamente fuori luogo visto che era un idiota. “Si vede che non hai
una strega nella tua vita e nel conto
cassa, o credi a me, saresti già a scegliere dove piazzare
la sauna
finlandese.” Si rivolse ad Ama, come a trovar conferma.
“Quando è successo a me,
di avere una casa e un compagno
… è
stato tosto.”
Ama
confermò con un cenno della testa. “Ho dovuto
ristrutturare anche io con il mio ex … se sei indeciso
è in incubo. Prince è
fortunato, la sua ragazza sembra una tipa decisa.”
L’inglese
si voltò con espressione sbalordita. “Hai una
ragazza?”
Ama
inarcò le sopracciglia e Sören realizzò
con orrore che
doveva aver capito gli ultimi sviluppi con Lily senza che gliene
parlasse
apertamente.
“Non
la conosci.” Sbottò frettoloso rimediandosi
un’occhiata sbalordita
dall’americana e una molto sospettosa
da Potter. Era da codardi forse, ma non aveva la minima intenzione di
far
partire una discussione con il fratello della sua ragazza in quella
situazione.
Per
fortuna fu tolto dall’imbarazzo sentendosi chiamare da
Malfoy. La raggiunse e , con sua enorme sorpresa, lo vide tenere per un
braccio
quello che sembrava…
“…
è un Elfo domestico?”
“L’abbiamo
trovato che ci osservava da dietro un cumulo di
calcinacci.” Spiegò il ragazzo. La creatura non
tentava di divincolarsi e, a
dirla tutta, aveva l’aria abbastanza denutrita e patetica.
“Non
vuole parlare.” Aggiunse il Sergente Stump. “Non
con noi
almeno. Tu sei un Prince, prova a farti dire dove hanno costruito i
laboratori.”
Era la prima volta che aveva a che fare con un Elfo Domestico, dato che
la Gran
Bretagna era l’unica ad usarli come forza lavoro, e non aveva
idea di come
rivolgerglisi. Decide di adottare il registro che aveva usato con i
servitori
di suo zio. “Mi chiamo Sören Prince, e sono il
figlio di Elias, uno dei tuoi
vecchi padroni. Sono quindi l’ultimo proprietario di questo
castello. Sai cosa
significa?”
L’Elfo
lo guardò con giganti occhi gialli e con un lampo di
consapevolezza che parve scuoterlo dal suo stato catatonico.
“Padrone…?”
Sussurrò incerto. “Tipsy pensa che …
Lei è il suo Padrone?”
“Esatto.”
Si schiarì la voce perché quello sguardo di
adorazione lo metteva a disagio essendosi ormai si era abituato
all’insolenza
di Milo. “Questo castello ci risulta abitato al momento.
È così?”
“Sì,
Padroncino Sören!” Confermò eccitato,
quasi di colpo gli
fossero state inserite nuove batterie. “Dalla moglie del
padrone Elias e dal
suo compagno! Se Tipsy avesse saputo avrebbe preparato per il suo
arrivo, Tipsy
va subito ad avvertire …”
“Non devi avvertire nessuno che siamo qui.” Lo
interruppe. “Dicci invece dove
sono i laboratori.”
“Laboratori?” A questo la creaturina
sembrò confusa.
“Dove
tengono dei maghi e delle streghe … dove fanno
esperimenti.”
Gli venne in soccorso Scorpius. “Un posto molto grande, qui
dentro, dove
tengono tante persone.”
L’Elfo annuì di colpo. “Oh, Tipsy ha
capito! Sì! Tipsy vi porterà al
laboratorio!” Si arrampicò lungo
l’apertura del muro da cui doveva averli
spiati. “Venite, seguite Tipsy, padroncino!”
“Beh, è stato più semplice del
previsto.” Commentò Malfoy con un sorriso mentre
il resto del gruppo si muoveva come un solo uomo dietro
all’Elfo.
“Già.”
Quell’improvvisa risoluzione non gli dava una bella
sensazione.
È
tutto troppo facile.
Ma era
anche vero che Milo lo accusava spesso di esser
paranoico e nessuno, a parte lui, pareva pensarla allo stesso modo.
Forse
perché nessuno conosce Johannes
quanto te.
Quindi,
nonostante gli fosse stato ordinato di restare nelle
ultime file, si affiancò a Scorpius per stare dietro
l’Elfo.
“Prince,
torna al tuo posto.” Lo riprese il Sergente Stump
che non sembrava contenta di averlo trai piedi.
Si metta in fila.
Al
diavolo l’esser tacciato di paranoia. “Non mi fido,
Sergente. Potrebbe condurci dritti in una trappola.”
La strega
sbuffò spazientita. “È impossibile che
faccia una
cosa del genere ad uno dei suoi padroni. Non può mentirti o
ingannarti, non è
nella sua natura.”
“Ha
ragione.” Confermò Scorpius dandogli una pacca
sulla spalla.
“È stata una fortuna averne trovato uno ancora
vivo che vagava qua attorno.”
Troppa fortuna.
Per un
momento rimpianse la mancanza di Thomas e Albus; sarebbero
stati ancor più diffidenti di lui e di certo avrebbero
convinto la squadra a
considerare i loro dubbi. Sfortunatamente non erano lì e lui
non era che un
soldato in una missione in cui era stato graziosamente fatto entrare.
L’Elfo
li fece camminare per almeno dieci minuti, tra scale e
stanze dalle tappezzerie mangiate dall’umidità e
dalle tarme. Quando era ad un
passo da far sentire la propria voce, e torchiare la creatura se fosse
stato
necessario, questa aprì una porta e li introdusse in un
ambiente che era
indubbiamente…
“Il
laboratorio!” Esclamò Scorpius voltandosi verso di
lui.
“Che ti avevo detto, mago di poca fede?”
Non
rispose, preferendo esaminare l’ambiente alla ricerca di
punti ciechi. Ce n’erano molti, dato che era un enorme
open-space organizzato
come un laboratorio di pozioni, con tavoli di marmo, scaffali
e…
“Sono delle gabbie quelle?” Mormorò
Potter a pochi passi di distanza, dato che
avevano rotto le file per sparpagliarsi nello stanzone.
“Dannazione, li tengono
nelle gabbie come animali!?”
“Tenevano.”
Lo corresse. “Sono vuote.”
Il
laboratorio era deserto, ad eccezione loro.
“Siamo
arrivati troppo tardi.” Realizzò
l’agente Jordan con
una smorfia incredula. “Hanno tolto le tende.”
“Di nuovo?”
Esclamò rabbioso Potter.
“Non è possibile, come hanno fatto a sapere che
stavamo venendo qui?!”
“La
talpa.” Mormorò Ama. “Li ha
avvertiti.”
Sören
non perse tempo in congetture o recriminazioni. Si
avvicinò con due falcate all’Elfo.
“Dov’è Johannes?”
Ringhiò.
La
creatura si ritrasse intimorita. “Tipsy non lo sa
padroncino, chi è Johannes?”
“L’uomo
che è venuto qui con mia madre. John Doe,
dov’è?” Lo
incalzò afferrandolo per un braccio e facendolo guaire.
“Dove si è nascosto?”
“Sören
lascialo, gli stai facendo male!” Cercò di
allontanarlo Malfoy. “Ti pare che lo abbia detto ad un
Elfo?”
Non
voleva ascoltarlo. Perché avrebbe significato perdere
un’altra
volta e non poteva permetterselo. “Dov’è
Johannes?!” Stavolta lo gridò ma non
fece in tempo ad esser ripreso da chicchessia
che un lampo bianco esplose nella stanza. Poi un tuono.
Incantesimo.
L’onda
d’urto fece cadere a terra molti Auror compreso lui.
Fece appena in tempo a voltarsi che vide delle ombre uscire da dietro
gli
scaffali. Una mezza dozzina, maghi.
Scorpius
si tirò in piedi e tese la bacchetta di fronte a
sé.
“Non se ne sono andati … sono ancora
qui.”
Ed erano sotto Imperius dai
movimenti
rigidi e le espressioni vuote.
Li fanno
attaccare. Li stanno usando
come scudi per pararsi la fuga.
John Doe
è ancora qui.
In quel
momento si accorse che l’Elfo si era liberato dalla
sua presa e stava correndo via, verso l’unica porta, e quindi
entrata ed uscita
dalla stanza.
Era una trappola!
Perché
l’Elfo non aveva più la corporatura sgraziata di
prima, stava mutando in altezza e proporzioni.
Johannes.
“Merda,
è John Doe!” Esclamò Potter.
“Ci ha fatto finire in
una trappola!”
Ve l’avevo detto.
Non era
il momento di recriminare, quindi guardò verso Ama.
Aveva un solo desiderio ma aveva anche degli ordini perché
era e sarebbe sempre stato un
soldato.
“Va’
a prenderlo.” Gli ordinò prima di voltargli le
spalle e
fronteggiare gli infetti. “Qua ci pensiamo noi.”
Comandi.
****
Sophia
Von Hohenheim non era una stupida.
Mai si
era ritenuta tale, mai lo era stata. Era perfettamente
in grado di rendersi conto quando il suo amante, quando
l’uomo chiamato in
molti modi ma che per lei era solo il Giullare, le mentiva.
Da quando
per la prima volta il suo non-compianto fratello
glielo aveva presentato, Sophia aveva intuito che quell’uomo
dal sorriso storto
e la lingua di miele poteva essere la sua salvezza come la sua rovina.
Aveva
deciso di giocare quella partita comunque.
Non
c’erano stati voli romantici in quel che aveva pensato
quando a vent’anni, madre e moglie infelice, si era lasciata
baciare vorace
all’ombra del castello di famiglia; Johannes, ora Johan, le
aveva promesso
quello che aveva desiderato per tutta la vita.
Mi ha giurato che
mi avrebbe liberato.
E quella
promessa l’aveva mantenuta, simulando la sua morte e
portandola nel Nuovo Continente. Ma dopo anni di fughe, anonimato e
case
provvisorie aveva realizzato che quella libertà,
così inebriante i primi tempi,
sarebbe stata la prima e l’unica che avrebbe mai assaggiato.
Si era rassegnata,
tuttavia; del resto, non aveva voluto Johan nel suo letto
perché era un uomo
sincero.
O avrei amato
Elias.
Elias
Prince era stato suo marito per sette anni, ma era stato
come essere sposati ad un’ombra sulla parete.
Quell’uomo segaligno, troppo
vecchio e amareggiato non era stata che l’ennesima falena
soggiogata dalla luce
brillante e tremenda che emanava suo fratello … anche se, a
voler rendergli
giustizia, si era bruciato non per adorazione, ma per salvare
Sören da una fine
ben peggiore che l’esplosione di un laboratorio.
Sören
…
Adesso
doveva essere un uomo adulto. Chissà se assomigliava a
suo padre o aveva ereditato tratti più gentili, i suoi.
Non che
avesse importanza.
No,
sapeva che Johan le stava nascondendo delle cose; neppure
questo era importante, perché c’era solo lui da
quasi vent’anni a quella
parte.
Quindi
non le restava che affidarsi. Come quando pochi minuti
prima era entrato impetuosamente nelle sue stanze con tre Mercemaghi
intimandole di seguirli in un luogo sicuro, in cui poi
l’avrebbe raggiunta.
Aveva
obbedito docile, lasciando tutto in quella stanza che
per mesi le aveva fatto da casa. Dopotutto non era la prima volta.
Si era
fatta portar via e poi, ad un certo punto, mentre le
sue scarpe si sporcavano di fango e la sua veste da camera non la
proteggeva
dal freddo dei piani inferiori, si erano imbattuti negli Auror.
Johan
l’aveva lasciata in balia di tre idioti.
Erano
volati incantesimi e fatture e lei era stata spinta
brutalmente a lato, dietro una serie di suppellettili rovesciate da
chissà
quale crollo. Non si era mossa, perché quella era una
lezione che aveva
imparato tanto tempo prima, quando Alberich aveva ancora le proporzioni
di un
dio tremendo e vendicativo.
Sono sempre stata
brava a sparire.
E
così aveva fatto, allontanandosi dal luogo dello scontro
finché
le esplosioni non si erano attutite in rumori di fondo.
Si era
stretta la vestaglia al petto e aveva realizzato di
essere stata lasciata sola.
“Che
strana sensazione.” Disse, perché sin da bambina
il
suono della propria voce le era sempre stato di grande conforto.
Erano
anni che non la provava, con Johan che non le lasciava
fare un passo fuori dal suo controllo. Era sola e non aveva idea di
dove si
trovava, né sapeva dove dirigersi.
Il mio Giullare
mi troverà.
La
trovava sempre, perché amava terribilmente trattarla come
una bambina spaventata ed incapace. Lo faceva sentire potente.
In questo i maghi
sono tutti uguali.
Sophia
Von Hohenheim non era comunque una
stupida e sapeva che se fosse rimasta lì avrebbe
rischiato un crollo che l’avrebbe seppellita; la struttura
del castello era in
pessime condizioni.
Così
si era avviata; Johannes l’avrebbe di certo trovata.
****
Note:
Un mese. È trascorso un mese.
A dir
poco imbarazzante.
Spero, con l’estate e la fine dei corsi che sto seguendo, di
avere un po’ di
pace – dicesi anche cazzeggio spinto
– da poter dedicare a queste faccende qua.
Non manca molto. Manca ancora un po’ però. Per chi
vuole l’esimia Sophia, a cui
dedicherò un po’ di roba nei prossimo capitoli,
che è arrivato il momento,
questa
è l’idea che ho di lei. Nota di colore, lei e
Sören hanno gli occhi scuri,
mentre Alberich e Tom li hanno chiari.
Per avere
un’idea del castello invece qua
quello che lo ha ispirato.
Questa
la
canzone.
|
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Capitolo 44 *** Capitolo XLIII ***
Capitolo XLIII
Li
dovevi vedere quando si ritrovavano dopo le guerre
del cuore;
lui
l'accarezzava sulla guancia e l'universo non
contava più un cazzo
(Charles
Bukowski)
Lancashire,
Castello dei Prince.
Sera.
Sören aveva
desiderato rimaner
solo per poter avere Johannes alla sua mercé. Ci era
riuscito, alla fine.
Solo adesso stava
cominciando
a realizzare quanto quel suo desiderio fosse una lama a doppio taglio.
Poter avere tra le mani
Johannes e farsi giustizia era allettante, eppure, mentre percorreva
stanze
pericolanti di un castello diroccato, si rendeva conto di avere paura.
Per se stesso, per
l’eventualità di perdere in uno scontro con il
bastardo, per gli altri, che
erano rimasti da soli ad affrontare gli Infetti.
L’adrenalina che
l’aveva colto
nella metropolitana settimane prima c’era ancora eppure non
era la stessa.
Non
è la stessa perché adesso hai qualcosa da
perdere.
Da perdere davvero, a parte te stesso.
Un futuro. Per la prima
volta
in vita sua si rendeva conto di avere un futuro. Con Lily, che lo
aspettava e
gli aveva fatto promettere di tornare tutto intero.
La
posta in gioco si è alzata.
Alzò la bacchetta
per
illuminare l’ambiente ignoto che stava percorrendo: non vi
erano mobili o
arredo che potessero fargli capire in che sezione del maniero si
trovasse.
Forse
una delle sale da pranzo al piano terra?
Intravide i resti di un
lampadario schiantati a terra, dove i piedi crepitavano tra frammenti
di vetro
e quello che pareva cristallo.
Si era perso e aveva perso
Johannes.
Strinse le labbra; non
poteva
esser scappato, non con l’intero perimetro coperto dai
Tiratori Scelti
di rinforzo agli Auror.
Sarebbe stato un suicidio esporsi tanto e neppure le sue
capacità di
trasformismo avrebbero potuto evitargli la cattura.
Non
puoi scappare stavolta. Neppure tu.
Percepì con la
coda
dell’occhio un movimento, il frusciare di una veste. Era
abbastanza perché avesse
un bersaglio a cui puntare.
“Mostrati e getta
a terra la
bacchetta!”
È
un mago, visto che abbiamo appurato che gli Elfi
Domestici non sono compresi nell’equazione.
Chiunque fosse dietro quello
che appariva come un vecchio piano sfondato non si mosse. Eppure era
lì,
percepiva una flebile traccia di magia, inconfondibile: era umana.
“Non mi
ripeterò una seconda
volta.”
Stavolta l’ombra
si alzò,
vestita con un mantello che ne celava le forme e sesso. Poteva essere
chiunque,
poteva essere Johannes.
“La
bacchetta.” Ripeté calmo, nonostante sentisse
sudore gelido scorrergli lungo la
schiena.
È
lui … non lo è?
Si era appena trasformato in
Elfo Domestico, e non sarebbe stato strano vederlo nelle vesti di
qualcos’altro.
La bacchetta venne lanciata
a
terra, e la prese con un Accio che
gliela fece schizzare in mano: non la riconosceva, era intarsiata e
impreziosita con pietre che alla luce del Lumos
brillarono come di luce propria.
“Chi
sei?”
Era forse un altro infetto, scappato dal laboratorio?
No,
impossibile, o mi avrebbe già attaccato.
Il mago o la strega
– ma
quest’ultima pareva l’ipotesi più
probabile giacché quello era senza dubbio un
legno forgiato a gusto femminile – fece un passo in avanti,
ma non rispose.
Come lui, pareva studiarlo. “Chi sei?” Gli
domandò una voce di donna che lo
gelò sul posto.
Non avrebbe mai potuto
dimenticare, nemmeno dopo anni in terra americana i suoni del suo paese.
Questa
donna parla tedesco.
…
No, è un trucco. È un trucco di Johannes.
Eliminò
la distanza che li separava e la
afferrò per un polso facendola lamentare sorpresa. La pelle
era morbida, e la
stoffa che stringeva era sottile, setosa, ricca.
“Se
pensi di ingannarmi con un trucco da due soldi ti sbagli, Johannes.”
Sibilò in tedesco, sentendosi il petto gonfiare di rabbia.
Non quello, non
avrebbe dovuto permettersi di fingersi sua madre. Le puntò
la bacchetta alla
gola, ignorando il sussulto che ne conseguì. “Finite Incantatem.”
L’avrebbe smascherato, gli avrebbe fatto
assumere il suo vero aspetto, quello di un vecchio vizioso e maligno e poi l’avrebbe sradicato dalla
faccia
del pianeta come meritava.
Non successe nulla.
La donna rimase sempre
donna,
e alla luce tenue della luna – filtrava tra le finestre rotte e disegnava ombre e
contorni sulle cose,
anche sui lineamenti – la riconobbe.
Erano più di
dieci anni che
non vedeva quel viso e vi erano rughe in più, occhi
più grandi e sgomenti.
Ma era impossibile non
riconoscere la propria madre.
****
“Ma sono
immortali!?”
La voce di Bobby lo colse di sorpresa, dato che non aveva la minima
idea di dove
si trovasse l’amico
James si sentiva nel bel
mezzo
di una guerra, vera e propria, con lampi di incantesimi che facevano
baluginare
la sala buia, grida e rumore di esplosioni.
“Semmai
invincibili!”
Puntualizzò Scorpius lanciando un incantesimo che
buttò gambe all’aria un paio
di Infetti, salvo farli tornare sui loro piedi in pochi attimi.
Era come con il sergente
Flannery, tutto da capo.
Solo
che sono raddoppiati, triplicati … decupla … al
diavolo!
Mandò a
schiantarsi uno dei
pochi scaffali ancora superstiti su un paio di streghe a cui non
avrebbe dato
un falcio per la resistenza. Riemersero dalle schegge di vetro
mugghiando come
Erinni.
“Ci stanno facendo
a pezzi!”
Ringhiò l’americana, nascosta come lui dietro una
serie di mobili rovesciati.
Non avevano potuto far altro che ergere barricate contro quelli che, a
conti
fatti, erano diventati mostri di magia e furia. Riparati, erano
riusciti a
portare in salvo gli agenti feriti, tra cui il Sergente Stump che aveva
perso i
sensi per una brutta botta alla testa.
Non
riusciamo neanche a curarli … o capire se siano
vivi. Merda!
Era un inferno, e la squadra
principale non arrivava. Avevano provato a mandare qualcuno ad
avvertirli, ma
da quando Prince era uscito nessuno era più riuscito ad
arrivare alla porta,
non con le proprie gambe almeno.
Lanciato
contro però sì. Cazzo!
Si asciugò il
sudore che gli
colava dal viso e lo trovò mischiato al sangue;
chissà da quale ferita
proveniva.
Finita
questa fottuta baraonda sarò tutto un dolore.
Se
ne esco vivo.
Sentì il peso di
Malfoy quasi
crollargli addosso. Per avvicinarsi a carponi era inciampato
nell’ennesimo
cumulo di detriti. Era troppo concentrato a non morire per farglielo
notare.
“Potty, idee?” Ansimò con una faccia
che, alla luce della luna, sembrava
peggiore della sua.
“Non sei tu quello
brillante?”
Rispose a denti stretti: la bacchetta gli bolliva tra le dita come
legno
lasciato troppo tempo sotto le ceneri. Avrebbe avuto delle vesciche
pazzesche
il giorno dopo.
L’amico scosse la
testa, con
un sorriso teso. “Non riesco a pensare quando tentano di
ammazzarmi così
vigorosame…” Le parole furono troncate
dall’ennesimo incantesimo che sfrecciò
sopra le loro teste, mandando in pezzi parte del muro dietro di loro.
La sua esperienza di
ristrutturazione
nella casa di Hogsmeade lo fece pregare che non fosse un muro portante.
“In quanti siamo
rimasti?”
Chiese mentre Bobby e Ama passavano alla controffensiva assieme ad
altri Auror.
Tre, quattro? Sperava di più.
“Mezza dozzina,
forse? Il
Sergente Stump è andato, e così metà
della sua squadra.” Scorpius si massaggiò
la sella del naso come se volesse farsi uscire un’idea.
Sarebbe
tutto più semplice se potessimo farli fuori e
basta.
Ma quella gente era
innocente
dietro la malattia e l’Imperius:
erano come il sergente Flannery, madri e padri di famiglia, persone
oneste che
avevano avuto la sfortuna di essere ingannati da John Doe.
Era tutto fottutamente
difficile.
Era in quei momenti che
capiva
quanto ancora dovesse imparare come Auror: l’adrenalina gli
permetteva di
restare vivo, ma poco altro. La mente vorticava in mille piani, ma
nessuno era
abbastanza geniale da funzionare.
Non con quei demoni.
“Siamo rimasti noi
pivelli.
Grandioso.” Vedendo l’espressione spaventata
dell’amico, per la prima volta
senza l’ombra di un sorriso o una battuta in bocca, si
sentì in colpa. E poi
ebbe un’idea. “… un Patronus.
Malfuretto, possiamo mandare un Patronus alla
squadra principale!”
“Ci avevo
già pensato, ma non
riesco a concentrarmi abbastanza da lanciarne uno.”
Serrò le labbra. “E
comunque sai che sono una schiappa. Mi hanno quasi rimandato
all’esame.”
“Gillespie!”
Urlò in direzione dell’americana. A quel punto i
titoli
servivano a poco. Non servivano a nulla quando si era ad un passo dal
cadere
dietro al Velo. “Come te la cavi con l’Incanto
Patronus?”
La strega si
voltò a metà di
una contro maledizione, i capelli leonini che vorticavano impazziti.
Era una
furia ed era felicissimo di averla trai piedi.
“Perché?”
“Li usiamo come messaggeri per l’altra
squadra!”
La strega annuì. “Datemi il tempo di crearne
uno.”
“Fuoco di copertura!” Esclamò al resto
degli Auror. Dovevano dare il tempo alla
ragazza di estraniarsi, di svuotare la mente e di pensare ad un ricordo
felice.
Mica
facile, cazzo.
Era difficile farlo quando
fuori infuriava l’inferno eppure dalla bacchetta della
Gillespie nel giro di
pochi minuti in cui gli Infetti avanzarono sin troppo –
dannazione, anche la
mancanza di una bacchetta ormai
faceva la differenza – uscì un filo argentato che
si trasformò in quello che
sembrava un grosso gatto dalle orecchie appuntite. La strega gli
sussurrò
qualche parola e poi il felino balzò fuori dalle barricate.
Fuori dalle barricate e a
portata degli Infetti e dei loro incantesimi.
No!
Ama non fece in tempo a
capire
l’errore e richiamarlo che una serie di lampi, di un viola
cupo che non aveva
mai visto, lo fecero a pezzi facendolo dissolvere in una nube di fumo
argentato.
“Merda!”
Esclamò, perché a
quel punto salvare la faccia da bravo ragazzo era inutile. Manco
l’aveva mai
avuta poi.
“Si nutrono di
magia … e un Patronus
è la magia più pura e potente
che ci sia.” Mormorò Scorpius sempre
più pallido. Ormai sembrava un fantasma,
uno di quelli che percorrevano le aule di Hogwarts.
“… siamo fottuti.”
“Non siamo
fottuti.” Lo redarguì con
una spallata. Per fortuna Bobby e gli altri auror erano troppo presi a
contrattaccare
per ascoltarli. “Con tutto il casino che stiamo facendo ci
troveranno, dobbiamo
solo resistere!”
“No. Possiamo
ancora
neutralizzarli.” La faccia della Gillespie pareva quella di
una fiera in
procinto di divorare un incauto bracconiere. Anche i suoi incantesimi
continuavano ad essere potenti e precisi, senza vacillare per la
fatica.
Non avrebbe voluto per niente al mondo trovarsi dal lato sbagliato
della sua
bacchetta.
Seguì la
direzione del suo
sguardo e vide le gabbie. “Bella pensata yankee, ma come
miseriaccia facciamo a
farceli entrare?” Sbottò spedendo
l’ennesima fattura che si dissolse come fumo
di focolare. Ogni volta che provava a buttarne giù uno o la
barriera che li
avvolgeva inglobava la magia o quello si rialzava come niente fosse.
Era folle.
“Non so se hai notato, ma riusciamo a malapena a farli
restare dove sono!”
“La magia.” La Gillespie guardò verso
Malfoy. “Il Patronus ha
attirato la loro attenzione, no? Ci si sono avventati
tutti. Dobbiamo distrarli con quelli. Li useremo come esche!”
“Ho
capito!” Esclamò il
biondo. “Ce li facciamo entrare, come un topo e il
forma…”
Non era il momento per chiacchierare, e James se ne accorse troppo
tardi. La
barricata di mobili e calcinacci che avevano costruito fu fatta
esplodere,
spedendoli in giro come birilli. Si alzò e quello che vide
dietro la foschia
delle macerie gli fece gelare il sangue nelle vene.
Scorpius era sulla linea di
tiro degli Infetti, senza niente dietro cui nascondersi. Non ci
pensò due
volte. “Copritemi!” Urlò sperando che in
tutto quel casino le sue urla fossero
state ascoltate. Fece appena in tempo ad afferrare l’amico e
tirarlo dietro di
sé che si sentì colpire. Il fuoco di copertura
non era arrivato in tempo.
Sì,
ora sono proprio fottuto.
Lo pensò con
lucidità
assoluta, mentre veniva scaraventato dal lato opposto della parete.
Sentì le
urla dei compagni e poi un dolore atroce a metà del corpo.
Non volle guardare:
chiuse gli occhi per il terrore di trovarsi spaccato a metà.
Fu solo quando
sentì di nuovo
miliardi di lame trapassargli la parte destra mentre Scorpius lo
afferrava da
sotto le braccia e lo portava di nuovo dietro quello che restava delle
barricate che tirò un sospiro di sollievo misto ad un
ringhio. Stava patendo i
dolori dell’inferno, ma voleva dire che era ancora tutto
intero.
Vero?
“Gli hanno
congelato metà del
corpo…” Udì l’altro
sussurrare spaventato. “James, ehi, James! Non
osare…”
“Non fare il coglione Malfuretto, sono vivo!”
Gracchiò con un filo di voce per
rassicurarlo e rassicurarsi. “Non pensate a me. Il piano
… pensate al piano!”
Il Sergente Gillespie, con
lui
fuori dai giochi, tirò fuori l’indole dittatoriale
che doveva avere in patria.
Per fortuna. “Malfoy, Jordan, a noi i Patronus.”
Li apostrofò prima di rivolgersi ai restanti Auror.
“Voi due, respingete gli
attacchi e tu crea una barriera di fronte alle gabbie. Non dobbiamo
farglieli
distruggere, dobbiamo farglieli desiderare.”
In gamba, la tipa.
Lo pensò con la
testa che
diventava sempre più leggera. Non poteva schiattare in modo
così stupido.
Speravo
almeno in combattimento all’ultima fattura.
…
anzi, non lo speravo affatto.
Non voleva morire: non
quando
aveva Teddy che lo aspettava a casa, tra le sue pergamene e tazze di
the … non
quando aveva Ben a cui aveva promesso di insegnare a giocare a
Sparaschiocco.
‘Fanculo.
Non ebbe tempo di
spaventarsi
sul serio però. Percepì qualcosa di bollente
cadergli addosso come una coperta.
Era una giacca: la giacca di Malfuretto che non stava eseguendo gli
ordini.
“Il Patronus …
idiota!” Farfugliò
mentre l’altro gliela premeva addosso. Vi aveva apposto
qualche incantesimo
Riscaldante. L’idiota.
“Non ci riesco con
te che stai
congelando a morte, demente di un Potty!” Sbottò
senza degnarlo di uno sguardo,
gli occhi fissi sulla forma argentea che stava tentando di creare.
“Sei il mio
testimone, non azzardarti a morire!”
“Fa’ il tuo dovere allora e tira fuori il pavone
così ce ne torniamo a casa…”
Borbottò sforzandosi di restare sveglio. Gli sembrava si
dovesse fare così in
quei casi. Tremava, e non sapeva se era un buon segno.
Scorpius gli rivolse un
sorriso
tirato. “Tirar fuori il pavone … È una
fantastica battuta sconcia, devo
segnarmela.” Fece una pausa. “Ti riporto a casa,
James. Te lo giuro.”
Gli sorrise di rimando e
chiuse gli occhi: gli credeva, ma era meglio facessero in fretta. Quel
posto
pareva aver voglia di candidarsi come loro tomba.
****
“Tracce di John
Doe?”
“Nessuna Sergente.”
Ron tirò un profondo sospiro di scoramento non appena
l’auror che gli aveva
portato l’ennesima, pessima notizia si fu allontanato.
John Doe aveva preso il
volo.
Di nuovo.
E
ora chi lo dice ad Harry? O ad Ama?
Lanciò
un’occhiata ai
Mercemaghi catturati, legati a doppia fune e messi in sicurezza dai
suoi auror:
nessun membro di quella teppa aveva la minima idea di dove fosse
l’uomo che li
aveva pagati. E gli credeva dato che il tipo riusciva a mantenersi
perennemente
fuori dai radar proprio perché non aveva legami o contatti
diretti che potevano
tradirlo. Erano solo riusciti a capire che era uscito dal castello.
Neppure
i Tiratori Scelti lo hanno visto.
Non era la prima volta che
succedeva e non avrebbe dovuto stupirsene, pensò amaro; se
c’era una cosa che
quel figlio di Megera riusciva a fare era proprio levarsi dai piedi in
fretta e
senza lasciare tracce dietro di sé.
Qualcuno
deve averlo avvertito che saremo venuti.
Non c’era altra
spiegazione
per il fallimento dell’operazione: Harry aveva ragione,
c’era una talpa nel
Dipartimento.
O
ancor peggio, nell’ufficio.
Squadrò uno ad
uno i suoi
uomini: maghi e streghe capaci, che aveva imparato a conoscere e
stimare negli anni.
Ci avrebbe scommetto la propria bacchetta, nessuno di loro poteva
essere il
traditore.
Allora
chi? Forse dall’ufficio americano?
Si passò una mano
trai capelli
e raggiunse l’addetto alle comunicazioni.
“Peterson, sei riuscito a contattare le
squadre di appoggio?”
L’auror in
questione scosse la
testa, chino a terra ad attizzare con la bacchetta un Focolare
Portatile, ben
più preciso di uno Specchio Comunicante in quelle
situazioni. “Nossignore. Ma
devono essere le barriere residue del castello …
C’è magia secolare qui, manda
in tilt il segnale.”
Ovviamente quando una cosa
andava male, poteva andare peggio: poco dopo l’inizio
dell’operazione avevano perso
i contatti con la squadra di James e quella di Artemisia.
Non
abbiamo idea di dove siano.
Si trovavano di fronte ad un
crollo che gli impediva di andare avanti, e gli uomini che aveva
mandato a
seguire le orme delle due squadre li stavano ancora cercando.
Questo
posto è enorme. E pericolante. Ed è notte.
“Dove diavolo sono
finiti…”
Mormorò a mezza bocca, percorrendo il cortile in cui erano
riparati come
una belva
in gabbia. Del resto era così
che si sentiva.
Perché
non hanno mandato un segnale …
un Patronus?
“Da quanto abbiamo
perso i
contatti?”
Peterson guardò
l’orologio da
taschino. “Un’ora.”
“Miseriaccia.”
Sbottò. “Torno
dentro.” Si rivolse ai suoi auror con più
esperienza. “Young, Bhatt, voi venite
con me. Gli altri rimangono qui con i Mercemaghi.”
“Sergente, se chiama il Capitano Smith dei Tiratori cosa
diciamo? Vuole un
rapporto ogni dieci minuti.” Gli fece notare Peterson.
Già.
Quel coglione paranoico. Ci fosse una volta che fa
il suo lavoro senza aprire bocca …
“Se vi contatta
prima del mio
ritorno ditegli di continuare a mantenere le posizioni attorno al
perimetro.
Non ce ne andiamo se non tutti assieme.”
Rientrarono nel complesso,
bacchette accese in un Lumos e
pronte
all’uso: non si sarebbe mai perdonato se James o qualcuno dei
ragazzi fosse
finito in un lettino del San Mungo a combattere la stessa cosa che
stava
mangiando vivo Liam.
Non
avremo dovuto portarli qui.
Anche se era il loro caso e
avevano il diritto di effettuare l’arresto più di
chiunque altro. Era più forte
di lui, non riusciva a considerare James, Bobby e quel cretinetto di
Scorpius
come uomini fatti e pronti a rischiare la vita per il Ministero.
E
non è una colpa.
Immerso nei propri pensieri
non dimenticava però ciò che aveva attorno a
sé. Fu con i riflessi che aveva
sviluppato quando ancora doveva crescergli la barba – che
infanzia del cazzo
che aveva avuto, a ben pensarci – che percepì un
rumore di fronte a sé. Fermò
appena in tempo la bacchetta facile di Young afferrandogli un braccio.
“Chi
c’è?”
“Prince.”
Gli rispose la voce
ormai nota del mocciosetto lugubre. Pochi attimi dopo il suddetto
uscì
dall’ombra tenendo per un braccio qualcuno. Sembrava una
strega dalla
corporatura.
Dannato
buio.
“L’hai
preso?” Gli domandò,
che la speranza era davvero
l’ultima
a morire.
“No.”
Gli rispose. “La squadra
ha bisogno d’aiuto, hanno trovato il laboratorio e gli
Infetti, ma sono sotto Imperius e
fuori controllo. Li hanno
attaccati.”
I suoi peggiori sospetti si erano avverati. Non c’era tempo
da perdere. “Young,
torna indietro a prendere rinforzi. Dov’è il
laboratorio?”
“Posso portarvici.
Dovete
prendere in custodia lei però.” Fece fare un passo
avanti alla donna, che non
aveva ancora aperto bocca. Doveva essere poco più giovane di
lui, e pareva una
nobildonna, di quelle con cui presto, purtroppo, si sarebbe imparentato.
Ignorò ulteriori
deprimenti
pensieri. “Chi è?”
Prince serrò le
labbra in un
espressione vuota che gli ricordò tremendamente cinque anni
prima. O il
Professor Piton, a scelta. “Mia madre.”
“… Cosa?”
“È mia
madre.” Ripeté piatto.
“Sophia Von Hohenheim. Non sa dove sia John Doe.”
Lo anticipò. “L’ho
interrogata, ma non ha aperto bocca da quando l’ho
trovata.”
Troppo sbigottito per trovar
qualcosa da dire fece un cenno muto a Bhatt di prenderla in consegna.
Fu quando
rimasero soli che ritrovò la parola. C’era troppo
da chiedere. “Dove l’hai
trovata?”
“Si stava
nascondendo.
Immagino che abbia perso chi doveva condurla fuori dal castello
… C’erano
tracce di uno scontro.”
“Sì,
siamo stati noi.”
Confermò. “Perché non sei con il tuo
sergente?”
Che era quella la domanda
importante. Non era mai stato d’accordo, sin dal principio,
con l’inserire il
tedesco nella squadra di indagine a farlo curiosare in giro. Era stato
un
sollievo quando era stato sollevato dall’incarico, guarda un
po’, proprio
perché troppo coinvolto.
Non era stato affatto
contento
né d’accordo quando Harry gli aveva ordinato di
tirarselo dietro.
E
infatti, eccolo da solo, a girare per il castello
senza che nessuno lo controlli.
Sono
l’unico a ricordarsi che ci ha preso in giro per mesi cinque
anni
fa?
Il ragazzo non si scompose,
anche se era certo di aver usato un tono da interrogatorio.
“John Doe ci ha
attirati nel laboratorio Trasformandosi in un Folletto. Appena ce ne
siamo resi
conto gli sono corso dietro … su ordine del Sergente
Gillespie.” Aggiunse
perché era un piccolo stronzetto furbo e paraculo. Ne era
certo, non doveva
averci pensato due volte a levarsi dai piedi quando gli Infetti si
erano
palesati. “Ho perso John Doe, ma ho scovato lei.”
“Sei sicuro non si tratti di un ennesimo
travestimento?”
“Ho usato il Finite Incantatem. Sono sicuro.”
“In che direzione è scappato?”
Da come stava serrando le
labbra stava cominciando ad innervosirsi. L’aveva sempre
sospettato, dietro
l’aria da soldatino era un tipetto nervoso. “Non
sono riuscito a capirlo.”
Rispose. “Il castello è buio, e lo conosce meglio
di me. Non sono riuscito a
raggiungerlo in tempo per capirlo. Ho seguito un corridoio fino ad una
diramazione … poi ho capito di averlo perso.”
“E tua madre non
ha detto
niente di utile?”
“Come ho detto,
non ha aperto
bocca.”
“Ritrova suo
figlio dopo dieci
anni, che la cattura e la disarma e neppure è
sorpresa?”
Prince gli piantò
di colpo gli
occhi addosso. Bingo. “Mi
sta
accusando di qualcosa?”
“No.”
Rispose con un mezzo
sorriso. “Mi stavo solo facendo qualche domanda sulla
dinamica con cui ti sei
separato dalla squadra … Mi pareva che i tuoi ordini fossero
altri.”
Stava trattenendo la
collera,
glielo leggeva nell’espressione e nella postura contratta.
Eppure quando parlò
lo fece con tutta la calma del mondo. Quel ragazzino aveva troppo
autocontrollo
per il suo bene. “Seguo gli ordini che mi vengono dati. Il
Sergente mi ha
ordinato di inseguire John Doe e così ho fatto.
Potrà chiederle conferma quando
la troveremo.”
“Lo
spero.” Frecciò e per un
attimo pensò che il giovane l’avrebbe davvero
colpito da come lo guardò. Si
tenne la curiosità perché Young tornò
con i rinforzi.
“Portaci al
laboratorio.”
“Comandi.”
Prince chinò la
testa, docile come mai sarebbe stato davvero, perché mai Ron
Weasley si sarebbe
fidato di chi aveva già tradito una volta.
Il
Mannaro perde il pelo, ma poi lo ritrova. Sempre.
****
Diagon Alley, Casa di Al e Tom.
Thomas era la persona con il sonno più leggero che
conoscesse. A dirla tutta i
suoi cicli di sonno assomigliavano più ad un coma vigile che
non ad un comodo
viaggio tra le braccia di Morfeo.
Non era qualcosa che gli
aveva
mai dato fastidio però; era bello avere qualcuno che
riusciva a sentire il
minimo cambiamento nel tuo respiro e svegliarti prima di un brutto
incubo.
Il rovescio della medaglia
era
che non riusciva a lasciare la stanza senza che l’altro se ne
accorgesse. Aveva
davvero cercato di far piano mentre
Appellava i vestiti. Aveva addirittura tentato di Insonorizzare la
stanza prima
di ricordare che non sarebbe servito a nulla, perché erano
entrambi dentro.
“Che stai
facendo?”
Aveva tentato, sul serio. Al, con il camice infilato
per metà e i capelli che avevano ancora la forma del
cuscino, sospirò. “Dormi,
Tom … non è niente.”
“Ti stai vestendo. È
qualcosa. Che
succede?” Nella penombra della stanza, fiocamente illuminata
dai lampioni della
strada, il compagno si alzò a sedere. L’ombra
delle tende disegnava forme
geometriche sulla sua pelle. A costo di sembrare la solita ragazzina
emotiva, il
momento in cui era più bello era proprio la notte.
Solo
quando dorme però.
“Mi
hanno chiamato dal San Mungo.”
Ammise. “È arrivato un carico di Infetti e degli
auror feriti.”
“Il
blitz.”
“Già.”
“Contagiati?”
“Non lo so.”
“John Doe? L’hanno catturato?”
“Non ne ho idea. Non so neanche come stanno Jamie e gli
altri.” Tagliò corto
perché era stato svegliato da una chiamata via Specchio
Comunicante che non gli
aveva neanche lasciato tempo di rendersi conto di cosa stava
succedendo.
Comunque
scoprirò tutto una volta arrivato.
“Posso esserti
d’aiuto?”
Gli sorrise. Tom stava
già
cercando i vestiti con lo sguardo.
“No, si tratta di
lavoro
stavolta.”
Il compagno annuì e si fermò, perché
in quel caso non c’era molto da
aggiungere: quelli erano mondi che avevano separato per scelta voluta.
“Ci vediamo domattina.” Lo raggiunse e si
chinò per baciarlo. Era caldo di
coperte e di sonno come mai lo era durante la giornata. Avrebbe dovuto
essere
appiccicato a lui, non in piedi e con lo stomaco ridotto ad un nodo
ansioso.
Agli
Inferi me e la mia indole da crocerossina. Non
potevo fare il giocatore di Quidditch?
“Ricordati di dare
da mangiare
a Zorba … e di tollerare il resto della truppa.”
Venne ricompensato con un
borbottio poco impegnativo. “Ti chiamo se ci sono
novità, okay?”
“Ovvio.”
Sospirò prendendo lo zaino e mettendoselo in spalla. Non lo
guardò una seconda
volta, perché gli sarebbe bastata per chiedergli di
aspettarlo sveglio, o
ancora peggio, chiedergli di aspettarlo in sala di attesa per
confortarlo
quando tutto sarebbe finito.
Avrò bisogno di parlare con
qualcuno,
dopo stanotte.
Uscì fuori dalla
camera
tenendo le scarpe in mano e per poco non sbatté contro Lily.
Lily, che era
sveglia, già vestita e con la faccia determinata di chi non
si sarebbe fatto
dire no.
Agh.
Perché i miei genitori non hanno deciso per un
figlio solo?
Me
ovviamente.
“Non
ti porto con me.” Esordì prima
che potesse aprire bocca. “Psicomaga.” La
indicò. “Guaritore.”
Si indicò. “E comunque non ti hanno
chiamato.”
“Chi te
l’ha detto?”
Si sarebbe messo le mani nei
capelli. “Sei al primo anno di Psicomagia! Perché
mai dovrebbero chiamare una
streghetta ancora sui banchi di scuola?”
Lily boccheggiò per qualche istante, ma non si arrese.
E
quando mai.
“Non hai un fiocco
rosso in
testa, piantala di pavoneggiarti.” Disse con presunzione del
tutto insensata.
“Non ho vinto un
premio, sciocca,
mi hanno chiamato perché sono reperibile ventiquattro ore su
ventiquattro!” Non
aveva tempo di subire le bizze di sua sorella. La capiva, ma se non
metteva una
parete divisoria tra Al Il Fratello e Potter il Guaritore rischiava di
impazzire di preoccupazione.
Lily dovette intuire
qualcosa perché
esitò. Solo un secondo però, quello necessario a
cambiare strategia d’attacco.
“Potreste avere bisogno del mio aiuto. Con gli Infetti, o con
gli auror … C’è
gente che è stata tenuta prigioniera per settimane!”
“Ci saranno altre Psicomaghe e molto più esperte
di te.”
“Sören sarà là.” Si
arrese infine. “Non riesco a stare qui ad aspettare che mi
faccia
sapere se è ancora vivo … Perché lo
conosco, sarà in totale assetto da guerra e
se ne ricorderà domattina, quando glielo farà
notare Milo.” Si morse un labbro
con un’ apprensione così sincera che
sentì tutte le sue idee sul giusto
distacco finire nel gabinetto. “Non ce la faccio ad
aspettare, okay?”
Sospirò. Il
sottotesto era
chiaro: l’avrebbe seguito comunque, a costo di placcarlo
all’ultimo momento
durante la Smaterializzazione con conseguenze che variavano dal grave
al
raccapricciante.
“Te ne starai in
disparte.” La
ammonì ignorando il sorrisone che gli rivolse. Non si
sarebbe abbassato a
ricambiarlo. “E sia chiaro … se Sören
è ferito te ne starai buona ad aspettare in
sala d’aspetto che venga curato. Niente scene madri! E
soprattutto non ti farai
vedere da papà o zio Ron … mi
ucciderebbero!”
Alzò gli occhi al cielo. “Ma per chi mi hai
preso?”
“Per
l’insopportabile strega
che sei … avanti, aggrappati a me. Ci
Smaterializziamo.”
Lo abbracciò stretto e quanto
avrebbe
voluta prenderla a coppini. “Grazie Al!”
“Fa’
silenzio.” Sbuffò
passandole un braccio attorno alla vita e sfilando la bacchetta dalla
tasca del
camice. “O vuoi che venga con noi l’altra
metà della casa?”
Senso di compressione,
stomaco
rivoltato come un vecchio calzino e si trovarono nel vicolo male
illuminato e
in odor di spazzatura decomposta che ospitava l’entrata del
San Mungo.
“Bleah.”
Lily fece una
smorfia. “Allora è passata quella direttiva di cui
parlava zio Percy sul
rendere il vicolo ancora più schifoso.”
“Se tiene lontano i Babbani tanto meglio … con il
casino che è successo con
Liam e la mancanza di magia avevamo attirato troppa
attenzione.” Si coprì il
naso con la manica del camice. “Ma è orrendo,
già.”
Entrarono dentro, in un
insolitamente
quieto triage. Gli Auror e gli infetti dovevano già essere
stati portati su.
“Io vado.” Le disse. “Se Sören
è qui te lo mando, va bene? Se hai domande falle
a lui.”
“E se non
è qui?”
“Scopro
dov’è e vengo a
dirtelo. E a informarti di tutto il resto.” Le promise,
perché al di là
dell’irritazione era una cosa che doveva fare come fratello.
E come
Potter-Weasley.
Lily gli fece un piccolo
sorriso di ringraziamento e finalmente
obbedì, allontanandosi in direzione delle poltroncine per le
lunghe attese.
“Ci vediamo
dopo.” La salutò
prima di incamminarsi verso gli ascensori. Attaccò il
cartellino che lo
identificava come Allievo Guaritore di Lesioni alla tasca del camice ed
inspirò; era il suo turno di entrare in azione.
*****
San
Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.
Notte.
E pensare che era il giorno
del suo compleanno.
Harry si sentiva derubato di
qualcosa: erano passati decenni da quando passava quella notte insonne
a
sognare una vita migliore.
Non
sono più abituato a passare il mio compleanno in
modo orrendo.
Non sono nel sottoscala dei Dursley, ma comunque…
“C’è
una talpa Harry.” Ron
stava parlando ed era suo dovere dargli attenzione. Sopratutto
perché erano nel
bel mezzo di un corridoio del San Mungo e metà dei suoi
uomini erano riversi su
lettini d’ospedale.
Compreso
Jamie.
Serrò le labbra,
accennando ad
un assenso verso l’amico. “Chi era a conoscenza del
blitz?”
“Le tre squadre, i
Tiratori
Scelti … Ama. Un bel po’ di gente. Ma non
tanta.” L’amico scosse la testa, il
l’uniforme d’assalto bruciata e strappata in
più punti e un brutto taglio alla
guancia che aveva bisogno d’attenzioni. Aveva
l’aria di reggersi in piedi per
pura forza di volontà ma non poteva ancora ordinargli
– perché solo in quel
modo gli avrebbe dato retta – di tornare a casa.
“Controlleremo i
conti bancari
di ogni agente, uno per uno. Dobbiamo sapere chi ha fatto cosa in
questi ultimi
due mesi … e anche quelli precedenti, se possibile. A questo
punto non possiamo
più permetterci di esitare o temere la stampa.
Contatterò gli Indicibili io
stesso domani mattina.” Mormorò mentre un paio di
Guaritori gli sfilavano
davanti con aria indaffarata. Non li fermò solo
perché aveva già saputo ciò che
gli premeva: James si era beccato una brutta Fattura Congelante ma se
la
sarebbe cavata.
“Vogliamo davvero
farli
entrare a casa nostra?” Lo riscosse Ron. “Harry,
sono delle spine nel fianco!”
“È quello di cui abbiamo bisogno al
momento.” C’era un motivo per cui il mago
medio non era a conoscenza del vero
lavoro svolto da quella task-force che non rispondeva a nessuno se non
al
Ministro. L’ufficio Misteri in cui alloggiavano era solo una
copertura. Erano
gli Affari Interni, coloro che guardavano i guardiani.
La
polizia della polizia.
Se c’era una talpa
nel
Dipartimento, erano gli unici a poterla scoprire.
“C’è
stata una fuga di
informazioni Ron, l’hai detto tu stesso
…” Aggiunse in tono più conciliante
vedendo l’amico rabbuiarsi. “John Doe sapeva che
sareste arrivati e vi ha fatto
trovare il comitato di benvenuto.”
“Ci ha quasi massacrati.” Convenne rabbioso.
“Siamo riusciti a neutralizzare
gli Infetti a fatica … e tutto quello che abbiamo ottenuto
è una strega che non
parla.”
“La madre di
Sören.” Annuì. Fu
stupito nel vederlo fare una nuova smorfia, con l’espressione
che aveva quando
qualcosa lo angustiava. “… Cosa?”
Ron si guardò
attorno e nonostante
fossero soli lo
prese per un braccio e
lo portò praticamente in un angolo. “Forse non
c’è bisogno degli Indicibili.”
“Cioè?”
“Prince.”
Disse soltanto. “Si
è comportato in modo strano per tutta
l’operazione.”
“In che senso?”
“Si è
allontanato dalla
squadra di James e dal suo Sergente proprio durante l’attacco
degli Infetti …
se n’è andato a spasso per il castello e poi
è ricomparso dal nulla portandosi
dietro sua madre. Per almeno un’ora non ha dato traccia di
sé.”
Harry scrutò l’espressione dell’amico.
Prince non gli era mai piaciuto per ovvi
motivi, ma erano passati i tempi in cui il risentimento aveva la meglio
sul
giudizio di entrambi. Quindi Ron parlava con cognizione di causa. E non
sembrava neanche particolarmente felice di farlo. “Pensi che
sia la talpa.” Lo
disse come un dato di fatto, e non aveva davvero idea di come sentirsi
in
merito: aveva dato fiducia al ragazzo, perché gli era
sembrato meritevole
nonostante il suo passato e i suoi errori.
Si era sbagliato?
“Non lo so Harry
… ma ha avuto
a che fare con John Doe due volte ed entrambe le volte se
l’è lasciato
sfuggire. Ha fatto carte false per partecipare alle indagini e poi al
blitz…”
“Questo è perché vuole catturarlo.
È il caso della sua vita, come lo era per
Ama abbattere la Thule.” Gli fece notare. Non poteva
arrendersi all’impulso
spiccio di voler trovare il colpevole ad ogni costo.
Anche se sarebbe stato
così
facile.
Non
l’hai mai davvero perdonato per aver ferito i tuoi
ragazzi.
Oltre a volerlo ontano un
Oceano ora che sua figlia aveva deciso di invaghirsi di lui. Di nuovo.
Siamo
tornati a cinque anni fa?
“Forse.”
Concesse Ron. “Ascolta,
non mi piace dubitare del tuo giudizio, okay? Ci hai sempre preso con
le
persone, è un po’ il tuo talento speciale
… ma quel ragazzino ha passato più di
metà della sua vita come un Von Hohenheim, è uno
della loro razza. Non puoi
cancellare la famiglia come non puoi toglierti sangue dalle vene.
Può anche
volersi vendicare di John Doe … ma sua
madre?”
“Quindi anche Ama
ha sbagliato
a giudicarlo?”
Ron alzò le mani
in un gesto
di esasperazione. “Non ne ho idea! So solo quello che ho
visto … e quello che
ho visto, come mi ha risposto, non mi è piaciuto. Tutto
qui.”
Tutto
qui un corno.
Si passò una mano
sul viso,
esausto. E non aveva combattuto nessuna battaglia quella notte.
C’è
tipo e tipo di battaglia. Avrei preferito
combattere quella al castello.
“Parlerò
con Ama.” Non poteva
far altro del resto, anche legalmente parlando. “Per il
momento tieni i
sospetti per te, d’accordo?”
“Gli
terrò gli occhi addosso.”
“Va bene.” Acconsentì. “Ma non
esagerare … non possiamo rischiare di perdere la
talpa perché stiamo seguendo la strada sbagliata.”
Ron annuì,
dandogli una pacca
sulla spalla. “Vado a vedere come stanno i miei
ragazzi.”
“Poi vattene a casa.” Tentò di
ordinargli salvo vedersi comprensibilmente
ignorato: Ron non se ne sarebbe andato finché non fosse
stato certo che ogni
singolo agente avrebbe passato la notte.
Fece appena in tempo a
sedersi
su una delle scomode sedie lungo il corridoio per tentare di
raccogliere i
pensieri che vide arrivare Albus. Giusto, lavorava lì e
doveva esser stato
richiamato per dare una mano.
“Buon compleanno papà.” Gli sorrise
allungandogli un sacchetto da cui proveniva
un paradisiaco odore di caffè e muffin. “Mi hanno
detto che eri qua … e che
probabilmente non ti eri neanche fermato per prendere un
caffè.”
“Grazie
figliolo.” Ricambiò
con calore: in quei piccoli gesti mai sbandierati Albus gli ricordava
Ginny
come una goccia d’acqua. “Notizie di James?
Scorpius?”
“Nulla di nuovo
rispetto a
quello che già ti devono aver detto sotto
minaccia.” Scherzò. “A Scorpius hanno
curato un polso slogato e l’hanno mandato a casa. James
dorme, è stabile. Se
tutto va bene entro domani lo dimettiamo.” Guardò
fuori dalla finestra come a
ricordare che c’era un mondo intero dietro quelle stanze e
quei lettini. “Hai
avvertito Teddy?”
“Gli ho detto di
rimanere con
Benedetta, sarà più utile domattina quando Jamie
si sveglierà a pretenderà di
essere dimesso.” Ridacchiarono entrambi. “Sai
qualcosa degli … Infetti?” Gli
sembrava sempre crudele riferirsi a quei maghi e quelle streghe
innocenti con
un termine così dispregiativo.
Anche
se affidandosi alle mani di John Doe in un certo
senso se lo sono meritato.
Il figlio annuì.
“Li hanno
portati giù a Malattie Infettive. Li hanno messi in stasi,
tolto l’Imperius. Almeno
saranno al sicuro.”
Abbozzò una mezza smorfia. “Devo andare
papà, ho Smethwyck sul collo.”
“Non preoccuparti, va’ a fare il tuo
lavoro.” Gli fece un cenno di saluto e lo
guardò allontanarsi lungo il corridoio, con il passo rapido
ed efficiente che
contraddistingueva tutti i Guaritori. Ormai i suoi ragazzi erano maghi
fatti.
Si ferivano, curavano e stavano in piedi nel cuore della notte a
reggere sulle
spalle l’intero Mondo Magico.
Almeno
Lily è a casa a dormire…
****
Albus trovò
Sören seduto nella
rientranza di una delle finestre in corridoio. Se non
l’avesse conosciuto
avrebbe detto che stava tentando di nascondersi – male
– da qualcuno.
“Ehi.”
Lo salutò chiudendo la
cartella con l’anamnesi di un tipo dal cognome difficile,
bengalese forse, che
faceva parte del carico di Infetti arrivato assieme agli auror e ai
Medimaghi¹.
La buona notizia è che molti di loro erano ad uno stadio
iniziale del morbo.
Forse
con loro riusciremo a lavorare ad una cura. Una
efficace.
Sören
alzò lo sguardo, quasi
sorpreso di trovarlo lì. “Sei andato a farti
visitare?” Gli domandò senza
preamboli dato che aveva intuito la riluttanza che il tedesco provava a
passare
sotto la bacchetta di un Guaritore.
Odio
chi minimizza i propri dolori. Sono peggio degli
ipocondriaci.
Almeno
i secondi non rischiano la vita.
“Sì.”
Gli mostrò una striscia
di Pomata Disinfettante sul viso. “Sto bene.”
“Lo vedo.” Gli batté la cartella sulla
spalla, in un moto di gentilezza che
sperò fosse ben accolto.
Non ebbe nessuna reazione.
Forse era peggio “Stanno tutti bene.”
Tentò di rassicurarlo allora: il senso di
colpa degli illesi era un problema che a volte gli capitava di dover
gestire.
“Abbiamo rimandato a casa quasi tutti, va’ anche
tu.”
“Sì, adesso vado.” Gli rispose con
l’ovvia intenzione di non schiodarsi di un
millimetro. Non era senso di colpa, indovinò, era
prostrazione. Da quel che
aveva sentito dagli auror, John Doe era scappato per un soffio, causa
spiata di
ignoti.
Io
e Tom avevamo ragione … c’è una talpa.
E grossa
anche, ministeriale.
Era comprensibile il
tormento
e la frustrazione che doveva provare il mago di fronte a lui. Gli si
sedette
accanto: aveva ancora cinque minuti prima che Smethwyck venisse a
pretendere la
sua testa “Ne vuoi parlare?”
“C’è
qualcosa che non ti hanno
già detto?” Ironizzò con una cattiveria
che non sentiva, da come gli scoccò
un’occhiata di scuse subito dopo. “… no,
Al, mi dispiace. Non ne ho voglia.”
“Nessun problema.” Tanto aveva una soluzione a
portata di mano. Se l’era dovuta
portare dietro.
Tanto
vale usarla.
“Lily è
venuta con me.” A
questo finalmente una reazione arrivò. Rise
dell’espressione sbalordita che gli
venne rivolta. “Dai, la conosci … Pensavi ti
avrebbe atteso per colazione?”
Scosse la testa.
“In effetti
no.”
“Va’ da lei. Hai bisogno di vedere una faccia
amica, non di star qui ad
arrovellarti il cervello. Per quello ci sarà
tempo.” Ribadì con il suo miglior
tono da Guaritore.
“Ti
ringrazio.” Sören gli
restituì un sorriso poco convinto, ma doveva essere il
massimo che riusciva a
fare. Era stata una nottataccia, per tutti. “La riporto
subito a casa.”
Aggiunse.
…
e perché? Aaaah, giusto. Non ha idea che Lils mi ha
spifferato tutto.
Una piccola soddisfazione
come
fratello maggiore in fondo se la poteva pure prendere. “Non
c’è fretta … dubito
che mia sorella ti lascerà andare prima di domani
mattina.”
Sören gli restituì un’aria confusa, prima
di capire e guardarlo atterrito. Non poté
fare a meno di ridere. “Sta’ tranquillo, sono dalla
vostra parte.” Lo
rassicurò. “Hai visto con chi mi accompagno.
Sarebbe un po’ ipocrita da parte
mia farvi la morale.” Gli diede una pacca sulla spalla e fu
certo che l’altro
non saltò in aria solo perché si
obbligò a non farlo.
Buoni
riflessi. Gli serviranno con Jamie.
“Grazie. Conta
molto per me,
Albus.” Per un momento parve tornare il ragazzo impacciato
che aveva conquistato
le sue simpatie e non il soldatino gelido in cui si era rifugiato fino
a quel
momento.
“Al.”
Lo corresse. “Non discuto i suoi gusti in fatto di maghi
… è
reciproco, lei non lo fa con i miei.” Gli strizzò
l’occhio a cui rispose con un
debole sorriso: era proprio uno straccio.
Per fortuna non era un suo
problema. “Dai, sparisci.” Scherzò
spingendolo in direzione del corridoio.
Era stata una lunga notte,
ma
non c’era da preoccuparsi: come ogni volta, sarebbe arrivata
l’alba.
****
Aveva finito per
sonnecchiare
su una delle atroci poltrone della sala d’aspetto. Un tempo
forse erano state
comode, foderate di pelle ed imbottite, ma con il tempo e con
l’uso avevano
assunto forme improbabili e odori non proprio raccomandabili.
Come
se fosse questo il problema…
Il fatto è che
detestava dover
aspettare come qualunque altro strega o mago che non era personale del
San
Mungo o, a dirla tutta, che non facesse Potter di cognome.
Non
ci sono abituata, okay?
Avrebbe preso a calci Albus
per non averla fatta entrare con lui, ma le regole erano regole.
E a
volte si applicano anche a me.
Era in attesa quindi, ad
occhi
chiusi, di un rumore, un passo, una voce.
“Lily.”
Soprattutto se era quella del suo ragazzo. Ragazzo, perché
Sören era quello ed
era tutto. Punto. Si
alzò di scatto a
sedere, on il cuore in gola e felice anche solo di sentirlo parlare: voleva dire che stava bene, o
che almeno non stava troppo male.
“Ehi.”
Rispose dandogli una
bella sbirciata complessiva: indossava l’uniforme da assalto
degli auror o almeno,
il corpetto.
Allora
è stato in mezzo al casino.
Ed aveva anche la faccia di
uno che ci si era zuppato ben bene. Ciocche di capelli sfuggivano dal
solito
elmo di brillantina che usava al lavoro e aveva il viso sporco di
fuliggine e
polvere. A completare il quadro aveva due tagli medicati, uno su un
sopracciglio e l’altro sotto il mento.
Però
è in piedi su due gambe e sveglio. Grazie Morgana,
grazie Merlino.
Il sollievo le fece quasi
salire i lacrimoni, ma era una Potter, era abituata a preoccuparsi che
metà
della propria famiglia fosse in fin di vita. Si riprese subito e si
alzò in
piedi. “Ciao Ren.” La mancanza di reazioni stava
cominciando a farla
preoccupare però. Non aveva fatto ancora mezzo passo per
andarle incontro. “Albie
ti ha detto che ero qui?”
“Sì.”
Annuì. “Dovresti essere
a …”
“… casa? No, non penso proprio. Sono rimasta a
dormire da lui e Tom apposta!”
Sören produsse
qualcosa che
assomigliava grossomodo ad un sorriso. Meglio di niente. Poi
cambiò di nuovo
faccia, come se un velo l’avesse oscurata. “Tuo
fratello è ricoverato.”
“Jamie?” Mantenne la calma perché questo
le era sempre stato detto di fare. O
almeno doveva provarci, ecco. “Che gli è
successo?”
“Una Fattura
Congelante … si
rimetterà, lo tengono solo in osservazione. Non ci sono casi
gravi … tranne gli
Infetti.”
“Scommetto che si è buttato in prima linea come
l’idiota che è.” Gli sorrise
perché aveva l’impressione che sdrammatizzare non
servisse solo a lei. “Non è
la prima volta.”
Comunque perché
non si era
ancora avvicinato?
Oh,
al diavolo.
Non gli chiese se stesse
bene:
era evidente non fosse così. Lo abbracciò stretto
e respirò l’odore di fumo,
sudore e polvere da sparo di cui era impregnata la sua uniforme.
Odore
di auror.
Non le piaceva,
perché le
ricordava le notti passate insonni nel letto dei genitori e la paura di
non
vedere tornare a casa suo padre. Però c’era anche
una punta di profumo, di
quella colonia agrumata che significava solo
Ren. Lo strinse ancora più forte e stavolta fu ricambiata.
Lo sentì passarle le
dita tra i capelli e baciarle la tempia e l’incavo del collo,
inspirare ed
espirare come aveva fatto lei. Aveva il respiro di troppe sigarette
fumate in
un’attesa ansiosa. C’era quindi una sola cosa da
fare.
“Ti porto fuori di
qui.”
Decretò con il piglio di una vera donna Weasley.
Ho
visto troppe volte mamma trascinare il sedere di papà
via da qui per non avere buoni esempi.
“…
è una buona idea.” Ammise.
“Certo che lo
è. Io ho solo
buone idee.”
Stavolta lo fece proprio sorridere. Se tornava il sopracciglio alzato e
l’aria
scettica era un buon segno. “Solo
buone idee?”
“Okay, idee favolose e qualcuna
catastrofica.
Ma tu concentrati sulle statistiche positive!” Lo prese per
mano e Appellò il
cardigan che si era buttata addosso non appena aveva sentito Albus
muoversi per
casa. Dall’abbondanza di buchi e dal colore non era quello
con cui era
arrivata.
Chi
se ne frega.
Anche se indossava uno degli
arredi cimiteriali con cui Meike si addobbava – ed era
probabile - né a lei né
a Ren importava. “Ce la fai a Smaterializzarti?”
Annuì, passandole
un braccio
attorno alla vita. “Andiamo in albergo da me?”
“Sì,
è meglio, al Mulino mamma
starà dormendo con un occhio aperto.” Convenne
abbracciandolo un po’ più di
quanto fosse necessario per la riuscita dell’incantesimo.
Sören non ne fu
dispiaciuto da come la strinse di rimando. Era stanco e sembrava
portare
davvero un macigno sulle spalle.
Ma
che cavolo è successo?
Avrebbe voluto fargli un
milione di domande, ma stette zitta: aveva tutta la notte per avere
delle
risposte. E per ingegnarsi a risolverle.
****
Piccadilly Circus, The Royal
Inn.
Notte fonda.
Sören guardava
senza vedere
veramente l’acqua scorrere lungo lo scarico della doccia.
Dovevano essere
passati diversi minuti da quando si era spogliato infilandosi dentro,
incoraggiato da Lily che l’aveva spinto dentro il bagno come
un ragazzino
recalcitrante.
Aveva fatto bene, se non
fosse
stato per lei sarebbe crollato sul letto senza togliersi neppure i
vestiti.
Togliendosi del sapone dal
viso chi chiese dove fosse finito Milo: quando si erano Materializzati
nel bel
mezzo del salotto che collegava la sua camera con quella
dell’altro aveva
trovato le luci spente e zero odore di erba Babbana.
Chissà
dove diavolo è finito.
Era in grado di badare a
sé
stesso, la cosa non lo preoccupava. Quello che lo preoccupava era
uscire dal
bagno e trovarsi di fronte Lily e doverle spiegare; tutto, da sua madre
al
comportamento del Sergente Weasley, che l’aveva trattato come
se la fuga di Doe
fosse solo colpa sua.
Sospetta
di me?
Non sarebbe stato strano.
C’era
una talpa in uno dei due Dipartimenti, pensare a lui era la prima
opzione per
una mente già piena di pregiudizi.
La voce di Lily lo
strappò
dalle sue cupe considerazioni. “Ren! Sei affogato?”
Si guardò le mani
raggrinzite
e il vapore acqueo che alleggiava ovunque come nebbia.
“Arrivo.”
Le rispose chiudendo
l’acqua e coprendosi con l’unica salvietta che
vedeva a disposizione. Milo
aveva la brutta abitudine di fregargli l’accappatoio per una
delle sue decine
di docce giornaliere.
Almeno
è passato di qui stamattina.
Lily lo aspettava sul ciglio
del letto con in mano un bicchiere di whiskey. “Solo per
stavolta.” Spiego alla
sua espressione sorpresa: aveva notato come non le piacesse vederlo
bere tranne
che in occasioni festive. “Ne abbiamo bisogno
entrambi.” Aggiunse dando un
piccolo sorso al suo bicchiere.
Sören lo
afferrò, sedendolesi
accanto e vuotandolo invece tutto di un fiato. Il calore e il bruciore
che ne
conseguì lo fece sentire meglio. Un po’ meno perso
e un po’ meno solo.
Questo
non dipende dal whiskey però.
Ma dalla ragazza che si era
svegliata nel cuore della notte per correre da lui. “Tuo
padre mi ucciderà per
aver scombinato i tuoi cicli di sonno.”
Lily fece spallucce.
“Credimi,
le mie alzatacce sono l’ultimo dei motivi per cui
vorrà la tua testa.”
“… Cioè?”
“Aver attentato
alla mia
virtù.”
“La tua cosa?”
La vide sogghignare e suo malgrado ridacchiò. “Sei
davvero scortese Prince, sono
una ragazza perbene!” Lo punzecchiò sul fianco
nudo, rendendogli manifesto come
si fosse dimenticato di rivestirsi.
Forse avrebbe dovuto.
“No, vai benissimo
così.” Lo
anticipò Lily con una lunga occhiata che lo fece arrossire
anche sotto
l’asciugamano. “E poi, è mio diritto
godermi i tuoi muscoli.”
Sören scosse la
testa con un
sorriso, perché stavano evitando di parlarle e andava bene,
ma non sarebbe
durata. “Stai meglio?” Gli chiese infatti
accarezzandogli una mano.
“Una doccia
rimette al mondo.”
“Del tutto?”
“No, non del
tutto.”
“È andata tanto male?” Gli chiese
facendo oscillare il liquido ambrato nel
proprio bicchiere. Non doveva piacerle molto da come ci giocherellava.
Tipico
di Lily: gli faceva compagnia per non farlo sentire un beone.
La gratitudine che provava
avrebbe potuto esprimerla in molti modi, e ben più piacevoli
che sfogarsi con
lei, ma sapeva che la sua ragazza – perché era la
sua ragazza - non l’avrebbe
lasciato in pace finché non avesse
avuto la certezza che era vuoto di cattivi pensieri. Così le
raccontò tutto:
dalla fuga di John Doe, dal suo inseguimento fino al ritrovamento di
sua madre.
Lasciò invece fuori i sospetti del Sergente Weasley
perché l’ultima cosa che
voleva in quel momento era darle un dispiacere o, ancor peggio,
imbastire una
discussione sull’idiozia o meno del parente.
“Merda.”
Commentò quando ebbe
finito. Si mise una mano sulle labbra con aria di scuse.
“Cioè, volevo dire…”
“No, hai detto bene.” La fermò
occhieggiando la bottiglia sul comodino: ne
sentiva il richiamo ma di mezzo c’era una ragazza bellissima
concentrata su di
lui.
Per fortuna.
“È stata presa in
custodia dagli Auror e credo tradotta nelle celle del Ministero in
attesa di
essere interrogata. Francamente, non penso aprirà
bocca.”
“Perché?”
“Perché
non l’ha fatto al
castello e non lo farà adesso … o
domattina.”
“Useranno il
Veritaserum … credo
che…”
“Mia madre è stata cresciuta nella paura di mio
zio, come me. Se vuole, sa
portarsi un segreto nella tomba. E il Veritaserum può essere
combattuto da una
mente caparbia … E di certo lo è, se è
riuscita a sparire dai radar del Mondo
Magico e da quelli di mio zio per anni. Se gli auror la sottovalutano
rischiano
di prendere un granchio.” Si passò una mano trai
capelli umidi e la tenne per
un po’ lì, a rinfrescarsi. Essendo quella
mano se la sentiva bollente. Era la magia a bollirgli nelle vene,
quieta ma
arrabbiata. Come lui.
“Tutte queste cose
gliele hai
dette?”
A tuo zio Ron che mi pensa in combutta
con lei? O a tuo padre che vuole farmi la pelle?
Soffocò una
smorfia sarcastica
perché aveva di fronte una LeNa fin troppo abituata ai suoi
mascheramenti.
“Glielo dirò.”
Magari
a Scorpius. Se le cose vengono da lui le
accetteranno.
Lily si morse un labbro.
Aveva
capito che la direzione che il discorso stava prendendo non gli
piaceva, ma
fosse mai che mollasse l’osso. Battere il ferro
finché era caldo era un po’ la
sua specialità. E forse il suo maggior difetto.
“Forse potresti dar loro una
mano …”
“Non
prenderò parte agli
interrogatori. Non credo me lo lascerebbero fare … e
comunque non voglio. Non
voglio più vederla.”
“È tua
madre.”
“Non è mia
madre. Non lo è mai stata,
e non lo diventerà adesso!” Era stanco e
arrabbiato e non riuscì ad evitare di
scostarsi dalle carezze come un cane rabbioso e sbottare.
Lily non diede segno di
essersela presa per il suo scatto. Per avere una nomea di testa calda
era incredibilmente
paziente quando si trattava di moderare le crisi di collera altrui.
Come riusciva a rimanere
arrabbiato con una che non gli dava il minimo spago? Si risedette
guardando
nelle profondità del bicchiere vuoto. “Mi rendo
conto che non è morta … ma
preferirei che lo fosse.” Si sfogò.
“Almeno non dovrei affrontare l’ennesimo
parente che attenta al Mondo Magico infangando tutto quello per cui ho
lavorato.” Continuava a vedere la faccia diffidente di
Weasley come se l’avesse
stampata nelle retine. Sei come loro.
“Sta rovinando tutto. Lei e John Doe stanno rovinando
tutto.” Strinse il vetro
tra le dita ed era un passo da farlo crepare. Magari romperlo
l’avrebbe fatto
sentire meglio. Meglio di avere un groppo alla gola ed aver voglia di
piangere
dall’umiliazione.
Lily non disse niente,
sporgendosi invece a baciargli la guancia. Chiuse gli occhi voltando la
testa e
facendo collidere un po’ goffamente le labbra sulle sue. Non
era importante.
Con Lily poteva anche togliere l’uniforme e la voglia di
essere perfetto.
Le passò il
pollice sulla
guancia liscia, lungo il profilo del collo. Il cuore le batteva come
quello di
un uccellino. Buttò il bicchiere a terra, sulla moquette e
quindi al sicuro –
di certo più che in mano sua – e le racchiuse il
viso tra le mani, perdendosi
in quel bacio come il solito, stupido naufrago.
Appoggiò la
fronte contro la
sua, perché poteva quasi illudersi che il mondo intero fosse
sparito e che ci
fossero solo loro due.
“Ren…
Non lasciare che il tuo
passato o la gente ti butti giù.”
Mormorò con una sicurezza ferrea che gli
sarebbe piaciuto sapere possedere. “Se tua madre è
una criminale non significa niente.
I nostri genitori ci mettono al
mondo, ma poi cosa facciamo delle nostre vite riguarda solo noi. Devi
difendere
quello che hai fatto, con le unghie e coi denti. Non devi permettere a
nessuno
di infangarlo.”
Era giusto. Giusto e sensato
e
lui l’aveva dimenticato per un’intera serata. Non
che non lo sapesse, e non che
non avrebbe lottato. Solo, aveva lasciato che sua madre e il Sergente
Weasley
lo soffocassero con i loro sguardi e le loro presenze.
“Hai
ragione.” Si staccò
quant’era necessario per guardarla. La fece arrossire e non
capì perché.
Poi si ricordò
cosa aveva
pensato quando l’inferno era scoppiato nei laboratori. Cosa
aveva continuato a
pensare, anche se preso dal suo compito, dall’adrenalina e
dal desiderio di
vendetta.
“Non è
la prima volta che vado
in missione … che fosse per la Thule o per il SAGITTA non ho
mai avuto la
certezza di tornare a casa … Stavolta però dovevo
farlo, ad ogni costo.” Disse
senza guardarla. Tanto era certo di avere la sua attenzione completa.
“Come
mai?” Gli chiese, ma era
più un volerselo sentir dir che autentica
curiosità.
Conosce
la risposta.
“Perché
ti avevo promesso di
tornare. Non ho mai dovuto prometterlo a nessuno. E quando sono
tornato, ho
cominciato a … desiderare una cosa.” Non sarebbe
mai stato un Casanova, un
abile seduttore come Milo. Però lo doveva dire. Lo doveva
dire perché sarebbe
ammattito se non l’avesse fatto. Lily era bellissima, vicina
e … troppo vicina.
Doveva dirlo
perché si
meritava di sapere quant’era amata.
“Cosa?”
“Che arrivasse
domattina per
svegliarti e fare l’amore con te. Solo questo. Riuscivo a
pensare … solo a
questo.”
Lily rise appena, ma non era
una risata di scherno, sembrava più per mascherare
l’emozione. E le guance
rosse e gli occhi lucidi era un buon indicatore. Gli passò
le braccia attorno
al collo e si avvicinò definitivamente
troppo.
“Beh, sono sveglia.”
Sorrise di rimando. “Lo vedo.”
“Desiderio
soddisfatto
allora?” Intrappolò la lingua trai denti in una
smorfietta buffa e adorabile,
perché grazie a Merlino c’era lei a sdrammatizzare
la situazione.
“No,
affatto.” E si chinò a
baciarla, chiudendo la porta della camera con un gesto della mano ed
escludendo
il mondo al di fuori.
Almeno fino a domattina.
“He slept curled
against her back,
a dark comma against her pale elegant phrase.”
A. S. Byatt
****
Da
qualche parte a Londra…
Johan –
perché questo il suo
nome – guardò la vita scivolare via dalle membra
scosse del Mercemago senza
trovarne la soddisfazione che aveva sperato.
“Avevate un
compito. Uno
solo.” Spiegò ai due che, assieme al cadavere,
avrebbero dovuto scortare Sophia
fino al loro nuovo nascondiglio. I Mercemaghi non aprirono bocca,
pallidi e
sudici come dovevano essere.
Almeno
non tentano di giustificarsi. Come questo qui.
“La mia compagna
è adesso
nelle mani degli Auror e questo complica la situazione. Molto. E non mi
piacciono le cose complicate.” Rinfoderò la
bacchetta e percorse lo stanzone
grigio di un altrettanto grigio stabile, uno dei tanti che affollava la
periferia di Londra. Ignobile, anonimo, disabitato. Perfetto come nuovo
quartier generale.
Posso
nascondermi per tutta la vita sotto il vostro
naso se voglio.
“Dobbiamo
prepararci a
recuperarla?” Chiese uno dei due, quello che sembrava meno
ottuso e a cui forse
avrebbe lasciato la possibilità di andarsene sulle sue gambe
una volta finita
tutta quella faccenda.
“Con la sicurezza
del
Ministero? Non sono pazzo.” Schioccò la lingua,
mentre piani, idee del tutto
inconcludenti gli si affollavano nella mente.
Doveva rimanere lucido.
Sophia era in mano dei
dannati
auror, ma non avrebbe parlato; e anche se l’avesse fatto
avrebbe avuto ben poco
da dire visto che l’aveva tenuta fuori dall’intera
operazione.
No, era al sicuro. Non le
avrebbero torto un capello, troppo presi dalla foga di estrarle
informazioni e
ad usarla come leva per farlo uscire allo scoperto.
Sono
loro, i bravi ragazzi.
Per ora doveva mettere il
rapimento della sua donna in secondo piano. La rabbia sorda che sentiva
era
qualcosa che poteva controllare o, perlomeno, decidere di ignorare
finché non
fossero arrivati alla seconda parte del piano.
Perché
c’era sempre un piano.
“Hanno preso le
cavie?”
“Sì.” Confermò il Mercemago.
“Li abbiamo visti caricarle nelle ambulanze.”
“Bene, allora facciamoli lavorare.”
L’alternativa a non trovare soluzioni era
delegarle a qualcun altro. La sua fonte gli aveva dato ad intendere che
al San
Mungo britannico ci fossero eccellenze magiche, e teste pensanti al
lavoro.
Snellire
il processo.
Ormai nascondere le cavie
non
aveva più senso, né tenerle con loro con il
rischio di doversi occupare dello
smaltimento di una decina di cadaveri.
Invece occuparsi degli investitori ne aveva ancora.
Qualcuno bussò
alla porta
distogliendolo dai suoi pensieri. “Ah, Loher.”
Salutò il professore che
guardava nervoso verso il soffitto, quasi da esso dovessero spuntare
Auror con
la bacchetta spianata. “Ti sei ripreso?”
“Non erano questi
gli
accordi!” Sibilò prima di lanciare
un’occhiata orripilata al cadavere. “Questa
faccenda sta andando fuori controllo, ci erano addosso!”
“Ma non ci hanno presi.” Obbiettò
accendendosi una sigaretta per soffiare via
il malumore. O il desiderio, forte, di ammazzare di nuovo qualcuno. La
scacchiera della sua vita era fuori posto: la sua regina era stata
appena
mangiata dagli avversari.
Era scappato, ma aveva
dovuto
sacrificare qualcosa. Non era abituato a farlo: era una sensazione
spiacevole.
“Bevi qualcosa e
rilassati.”
Gli fece cenno verso una delle poche bottiglie di buon Whiskey
Incendiario che
era riuscito a trafugare dalla cantina dei Prince.
“È andato tutto come mi
aspettavo. Il nostro amico americano ci ha avvertiti in
tempo.”
“Ma le cavie…”
“Ne avevamo già parlato, le cavie sono dove devono
essere.”
“Non tutte.” Il dottore si versò una
generosa dose di whiskey trangugiandolo in
poche riprese. Alla sua espressione perplessa si pulì con il
dorso della mano e
si affrettò a spiegare. “Un paio di cavie sono
fuggite.”
“Da chi? Dagli Auror?”
“Non le hanno
neanche prese.
Non le hanno loro, non le abbiamo noi. Sono scappate.”
“Quindi sono uccel di bosco?” Si grattò
la fronte, valutando la notizia. Non
seminare il panico nella comunità magica era stata una
priorità prima che il
Ministero inglese scoprisse il loro gioco.
Adesso
è diverso. Tutto sommato, può tornare utile.
“È una
buona notizia.”
Loher lo guardò
come se non
avesse capito bene. “C’è il rischio di
un’epidemia.”
Si strinse nelle spalle. “Se tutto va bene tra un paio di
settimane saremo
fuori da questo paese dannato. E detto tra noi, più gli
inglesi hanno il fuoco
al culo, più si ingegneranno a trovare una cura …
Non era quello a cui
puntavamo? Farli lavorare al posto nostro? Fino ad ora abbiamo usato le
loro
ricerche e con un certo profitto. Se le cavie si sono stabilizzate,
è merito di
quel che hanno scoperto nel loro piccolo ospedale.” Si
versò un bicchiere e lo
vuotò: sarebbe stato il primo di molti. L’alcohol
lavava via splendidamente
sentimenti ed emozioni e, nel suo caso, ne aveva bisogno.
“Sì,
ma…”
“Crisi di coscienza Dottore?” Motteggiò
dandogli una pacca sulla spalla. “È un
po’ tardi per questo.” Gli passò la
bottiglia, perché l’ultima cosa che voleva
era un ripugnante ometto a piangergli sulla spalla.
“Portatela nel nuovo
laboratorio e tira un respiro di sollievo. Siamo ancora in
gioco.”
Anche senza una regina, doveva vincere quella partita.
****
Note:
Stavolta non ci ho del tutto messo un mese. Miracolo!
(No, è che sono in vacanza.)
Questa
la
canzone del capitolo. Come ho detto su effebì,
volevo usarla da anni.
E questo apre un inquietante
squarcio su quanto e da quando sto plottando tutta ‘sta roba.
Ah, poi, being here,
pubblicizzo il mio tumblr.
Ci sto spendendo un sacco di tempo inutilmente ed è pieno di
Potterverse e
Rumbelle. Specialmente nel tag Potteroso, che ci sono anche foto,
anteprime e
plotting di tutta ‘sta roba.
Dateci un’occhiata e followatemi se vi va. ;)
1. Medimago:
ribadire è giusto e doveroso. I Medimaghi, per come
l’ho
capita io e come dà ad intendere il Lexicon sono la versione
magica dei
paramedici, mentre i Guaritori sono i veri e propri dottori.
|
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Capitolo 45 *** Capitolo XLIV ***
Capitolo XLIV
“It’s still you.
It’s
still you.”
(Margaret Atwood, Shapechangers
in Winter)
31
Luglio 2028
Londra,
Piccadilly Circus.
The
Royal Inn, Mattina.
Lily aveva avuto molti
risvegli post sesso.
O meglio, non tanti.
Abbastanza. Quelli che bastavano a farsi un’idea se la sera
appena passata
meritava di essere ripetuta o messa nel cassetto delle decisioni
pessime.
Questa
la ripeterei almeno altre tredicimila volte. Sì.
Perché non aveva
la minima,
pallida intenzione di muoversi da quel letto prima di duecento anni.
Non era mai semplice
raggiungere l’intimità. A folleggiare tra le
lenzuola erano bravi tutti, ma
svanita la nuvola aurea dell’orgasmo le cose si facevano
serie. O, in molti
casi, imbarazzanti.
Non
sono brava ad aspettare. Non sono brava nei
risvegli.
La mattina dopo si sentiva
sempre elettrica, desiderosa di alzarsi, calciare via le coperte e, a
seconda
di com’era andata, ricominciare da capo o filarsela. Scott
l’aveva spesso
rimproverata di non riuscire a godersi qualche coccola mattutina sotto
le
lenzuola, le chiacchiere a bassa voce, i sorrisi complici.
Con Sören non
sentiva
quell’elettricità scomoda, forse perché
non era la prima volta che dormivano
assieme. Conosceva il ritmo del respiro dell’altro, la sua
tendenza a prendere
meno spazio possibile e il fatto che, sì, sbavasse sul
cuscino.
Lily sfilò una
mano da sotto le
coperte e gli scostò una ciocca arruffata dalla fronte.
Non era cambiato niente
eppure
era cambiato tutto.
Il desiderio che li aveva
presi, travolti quella notte era qualcosa che ancora le eccheggiava
nelle ossa
e nella pelle. Si rifletteva anche nel modo in cui il compagno aveva
abbandonato
la posizione da rigido soldatino a riposo per adagiarsi tra le
lenzuola,
vulnerabile e tranquillo.
Il sesso era sesso. Un atto
meccanico,
un’urgenza chimica e uno scaricare una tensione che
raggiungeva un picco e poi
si rompeva. Poteva esser fatto male, bene, da persone con esperienza o
meno.
Non era quello il punto: era solo un atto e potevi davvero farlo con
chiunque.
Era farlo con chi era
innamorata a renderlo speciale, e al diavolo il concetto trito: non si
sarebbe
mai dimenticata, finchè respirava, il modo in cui
Sören l’aveva guardata quando
si era spogliata, né il più potente incantesimo
di Memoria avrebbe potuto farle
scordare la dolorosa perfezione con cui i loro corpi erano combaciati,
come se
finalmente avessero trovato la congiunzione che avevano cercato per
tutta la
vita.
Detto
tra noi, è stato piuttosto intenso. Intenso da …
ho bisogno di un minuto per ricordarmi come si respira. Quel genere
di
intenso.
Non si era mai sentita
così:
aveva amato Scott, certo. Con lo scozzese erano stati
un’orchestra ben
affiatata, si erano piaciuti e avevano giocato, ma
quello beh.
Wow.
Al diavolo il ripetersi, era stato diverso. Si percepiva
diversa, anche se la mano che
aveva steso di fronte a sé aveva sempre cinque dita e un
gran bisogno di una
manicure, anche se, presto o tardi, sarebbe dovuta andare in bagno.
Chissà se
c’entrava il suo
essere LeNa. Ma dubitava: era sicura che Sören, Occlumante e
quanto di più
lontano dall’essere empatico alle volte, avesse provato le
stesse cose.
No,
Lily, non è una buona idea svegliarlo e
chiederglielo. Ieri ha avuto una giornata da incubo.
Si rimise quindi buona ad
aspettare. Non aveva fame e non aveva niente da fare quella mattina.
Poteva
aspettare.
Puoi
aspettare che la sua Passaporta si attivi?
Era quello infatti il giorno
previsto per il suo ritorno in America.
Lo
faranno ritornare adesso che c’è stato quel
casino?
Con sua madre trattenuta qui?
Una parte di lei sperava che
tutto quel male non fosse venuto per nuocere.
L’unico
modo che hai di avere risposte è chiederle a
papà.
Certo, Sören le
aveva fatto
chiaramente intendere che non voleva si immischiasse, ma lì
non era una
pressione vera e propria. Era un’innocente richiesta di
informazioni. Che
peraltro poteva mascherare da auguri al caro genitore.
Oggi
è il suo compleanno o no?
Sgattaiolò
furtiva nel salotto
attiguo, afferando nell’andare la camicia
dell’altro perché non aveva voglia di
perder tempo con cerniere e bottoni del vestito.
E
poi, è clichè. Amo i clichè. Questi clichè.
Scrisse il nome del genitore
sullo Specchio Comunicante: tanto doveva già essere al
Ministero a sbrogliare
casini e attese. Dopo qualche momento la connesione fu infatti
stabilita: fu quindi
lesta ad augurargli tanti auguri con tutto l’affetto che
provava.
“Grazie
tesoro.” Gli venne
risposto con calore. “Ne avevo proprio bisogno.”
“Mi spiace non farteli di persona … ma mi rifaccio
alla festa di stasera!”
“Non ci sarà nessuna festa.”
Sospirò. “Troppo lavoro, magari nei prossimi
giorni.”
“Nonna Molly sarà sul piede di guerra.”
“A giudicare dalle Strillettere che mi sono arrivate direi di
sì.” La fece
ridere. “A proposito … hai dormito a casa
stanotte? Sono uscito presto, ma
mamma mi ha detto che non eri a colazione.”
Oh, ops.
“Ho cenato da
Albie, sono
rimasta da lui e Tom.” Mentì con disinvoltura, che
era la sua scusa standard
quando non aveva voglia di spiegarsi ai genitori. Non che non la
sgamassero, ma
era un patto tacito, quello di non fare domande.
La sorprese un sospiro.
“Sei
da Sören?”
“Uh.” Le
uscì in contropiede.
Da quando suo padre si traeva dall’impaccio primordiale che
provava all’idea di
saperla con un ragazzo? Si strinse le braccia al petto, affogando nella
camicia
del suddetto. “Beh, sì.”
Perché non poteva mentire, non a domanda diretta.
Ci fu una lunga, scomoda
pausa. “Digli che può prendersi il giorno libero.
Letteralmente, non voglio
vederlo qui in giro.”
“Perché?”
“Arrivano gli
Indicibili e
l’ultima cosa che voglio è spiegar loro un
cittadino americano che si aggira
per i nostri cubicoli. Perché è quello che
è al momento, Lils, almeno
ufficialmente.”
“Gli Indicibili
… per cosa di
preciso? Per la faccenda del castello?”
Ma
poi che fanno gli Indicibili?
Suo padre non le rispose e
decise quindi di cambiare tattica. Più o meno.
“Deve rimanere a disposizione?”
Conosceva il gergo da poliziotto e non si sarebbe arresa
finchè non avesse
avuto la sua risposta.
Me
lo portate via?
“Sì,
almeno finchè l’indagine
degli Indicibili non sarà conclusa. Come civile e consulente
dovrà comunque
essere ascoltato.”
“Quindi è per
la faccenda del
castello!”
“Lily.” Il tono era di avvertimento e lei non era
Al, a cui ogni risposta era
concessa in virtù del suo essere una serpe astuta e subdola.
Sbuffò: in fondo
non le interessava poi molto. C’era altro che voleva sapere.
“Okay,
quindi…”
“Quindi non tornerà a Boston, no. Almeno non nei
prossimi giorni, ho già
parlato con Eleanor.” Le rispose paziente, subendosi anche la
sua esclamazione
di gioia. Suo padre era una delle persone più pazienti che
conoscesse.
Specie
perché dal tono pare proprio volerlo il più
lontano possibile da qui.
“Devo tornare al
lavoro. Ti
vedo per cena?”
“Certo!”
Perché la corda era
già troppo in tensione. “Dovremo affrontare questa
cosa papà, però … dico di me
e Ren.” Lo avvertì con tutta la dolcezza filiale
che possedeva. “Per me è
seria.”
“Lo è
anche per me.” Le
rispose con tono grave, che l’avrebbe messa in allarme se non
fosse stato che
era in piena modalità Auror. “Ci vediamo
dopo.”
“A stasera papà.” Chiuse la chiamata
tentando di frenare l’ondata di gioia che
la travolse come un’infida marea di Dover. Avrebbe saltellato
e cantato la
buona notizia ma l’ultima cosa che voleva era allertare gli
auror di scorta
dall’altra parte della porta.
Trotterellò
quindi fino al
letto, salendoci sopra e facendo ben attenzione a farlo con tutto il
rumore
possibile. Non poteva certo saltare direttamente addosso
all’altro come avrebbe
voluto: gli avrebbe fatto venire un infarto, sempre all’erta
com’era.
Sören infatti si
mosse,
stirando le braccia sopra la testa e guardandola con una faccia
assonnata che
non gli aveva mai visto: era davvero esausto.
“Lily?” Chiese con voce impastata
e molto più vicina alla sua lingua madre che
all’inglese. “Che ore sono?”
“Ora di una bella
notizia!”
Gli si accoccolò felice addosso, lasciandosi accarezzare
come un gatto
soddisfatto. Gli baciò anche il petto, perché le
piaceva vedere come la pelle,
pallidissima e senza neppure un’efelide o neo, diventasse
rossa alla minima
pressione. “La vuoi sentire?”
Nascose uno sbadiglio nella
mano. “Ho scelta?”
“No, direi di no. Rimani.” Sorrise della sua
confusione.
“Rimani qui, non parti oggi. Me l’ha detto
papà!”
Ci volle un’altra
manciata di
secondi perché Sören afferrasse il concetto invece
di sbattere le palpebre come
un gufo. Poi ricambiò il sorriso con così tanto
calore che Lily si sentì
ufficialmente legittimata a saltargli addosso.
Fu quando il sole aveva di
nuovo cambiato posizione e stava illuminando l’altra
metà del letto, quella in
cui non erano avvinghiati tra lenzuola e cuscini, che l’altro
parlò, stavolta
molto più sveglio e disposto a darle attenzioni.
“Oggi non
è il compleanno di tuo
padre?” Le chiese lasciandole strofinare i polpastrelli lungo
la linea della barba.
Nessuno dei due aveva molta voglia di mollare la presa
sull’altro e andava bene
così. Del resto, anche la notte prima avevano dormito
così abbracciati che
Lily, appena alzata, ci aveva messo almeno un’ora a
riprendere sensibilità al
braccio destro; dubitava Sören fosse stato più
fortunato.
“Non lo festeggia,
c’è troppo
da fare. Mi ha detto che vengono gli Indicibili.”
Sören
aggrottò le sopracciglia,
sistemandosi un cuscino dietro al testa. “Chi
sono?”
“Sono agenti del
Ministero. Credo che siano una
specie di organismo
di controllo degli altri Dipartimenti.”
“Ho
capito.” Da come si
adombrò doveva aver capito più di lei, ma non
durò molto, perché le sorrise di
nuovo. “Hai fame?”
“Da
morire!” Specialmente ora
che era sveglio e poteva fare colazione con lei. Lo guardò
vestirsi, o almeno,
recuperare la biancheria e i pantaloni e lanciare uno sguardo
rassegnato alla
sua camicia rubata per fini superiori.
“Vado a svegliare
Milo per
farmela ordinare.” Esitò un attimo prima di
chinarsi e baciarla. Dopo che gli
ebbe risposto con entusiasmo si vide guardata con un guizzo contento
negli
occhi, come un bambino che aveva appena avuto il permesso di salire
sulla sua
prima scopa.
“Puoi baciarmi
tutte le volte
che vuoi, lo sai sì?”
Sören le
restituì lo stesso
sorrisetto da bambino. “Sì.” Le rispose
prima di uscire.
Dannazione,
è troppo carino.
Rischiava di perdere il suo
indiscusso potere di seduzione in favore di un crucco pericolosamente
adorabile.
Il suddetto tornò
pochi attimi
dopo, con un’espressione perplessa. “Non
c’è.”
“Sarà
uscito?”
Sören fece una smorfia che non potè mascherare
preoccupazione. “Sono due giorni
che non lo vedo. Di solito avverte.”
“Forse sta smaltendo la sbornia da qualche parte.”
Suggerì pratica, che aveva intuito
che le notti brave del biondo violinista si protraevano anche per
giorni.
“Chiamalo se sei preoccupato, ma prima cibo.”
Sören prese il telefono e compose il numero del servizio in
camera. “Sia mai.
Ho notato che è un tratto comune di voi fratelli Potter. Se
non mangiate almeno
tre volte al giorno cosa succede?”
“Ci trasformiamo
in Gremlins.”
Ridacchiò della confusione dell’altro.
“È un film, colpa di Hugo. Prendimi una
cisterna di caffè per favore.”
“Comandi.”
Ironizzò di
rimando.
Dieci minuti dopo erano al
tavolo del salotto, riccamente imbandito e profumante di scones
e caffè fumante. Mangiarono in silenzio, godendosi la
giornata luminosa e di alta pressione fuori dalle finestre, dove
strombazzavano
i caotici rumori del Circus.
Parlarono
di niente e non ci furono imbarazzi o desideri di analizzare la notte
precedente: fu naturale chiacchierare di tutt’altro, come se
fosse stata una
cosa da nulla.
Proprio
perché è stata tutto che
non se
ne parla.
Non
ce n’è bisogno.
Fare l’amore era
stata solo
l’ennesima realizzazione di un rapporto che durava da anni.
Questo non significava,
comunque, che non potesse stuzzicarlo un po’. “Hai
avuto altre ragazze prima di
me?” L’espressione con cui il compagno
salutò quella domanda le fece trattenere
un ghigno; non soffocò con il caffè solo
perché aveva già posato la tazza.
“No.”
Pareva stupito. “O te
l’avrei detto.”
Un minuscolo senso di colpa si insinuò nella sua voglia di
prenderlo in giro.
“Perché io ti ho detto dei miei, è
vero.”
La guardò con biasimo. “Ci siamo sempre detti
tutto, almeno per lettera.”
“Vero.” Accettò. “Ma
… non intendevo proprio ragazze, ma ragazze…”
Alluse inarcando le sopracciglia.
Sören distolse lo
sguardo come
se dovesse confessare un crimine efferato. E non lo
confessò, dato che bastava
la faccia.
“Non
c’è nulla di cui
vergognarsi!” Merlino solo sapeva che non ce ne fosse, o lei
avrebbe dovuto
dipingersi una lettera scarlatta in fronte. “Ero solo
curiosa.”
“Non è … non ne vado fiero.”
Brontolò sulla difensiva: se ne vergognava sul
serio!
“Di aver ceduto
alle avventure
di una notte?” Non disse sveltine perché aveva
paura sarebbe collassato
dall’imbarazzo. “Hai ventiquattro anni Ren, sei un
mago nel pieno delle tue
forze magiche, è normale.” Fece spallucce
imburrando uno scone mentre cercava
di ignorare l’aria da cane bastonato dell’altro.
Non poteva ridergli in faccia, non era carino. Trovava comunque
confortante che
continuasse ad avere problemi di adattamento in quel settore.
In
America non me l’hanno trasformato in un maschietto
fallocrate. Sia lodata Morgana!
“Non è
quello. Non ne vado
fiero perché me ne sono sempre andato prima che si
svegliassero.” Confessò
riluttante. “Ho sempre avuto l’impressione che i
patti fossero questi. Non…”
Scrollò le spalle. “Non avrei comunque avuto idea
di cosa dir loro poi. Non conoscevo
che i nomi di quelle
ragazze.” Fece una faccia insofferente che lo rese
curiosamente simile a Tom
quando era costretto a parlare contro la sua volontà.
Cioè
più o meno sempre.
“Ti darei un
decalogo su come
cavare le gambe dalla temibile mattina
dopo ma temo che non ti servirebbe a niente.”
Ribattè riuscendo a
strappargli un sorriso. “Non con me almeno.”
La guardò serio. “È una cosa
completamente diversa.”
Gli strinse una mano.
“Certo
che lo è.”
C’era un intera
tavolata di
vettovaglie tra di loro, quindi si limitarono ad un sorriso che valse
come un
bacio – quasi – e a concludere la colazione per una
doccia veloce.
“Oggi sei tutto
mio.” Gli
annunciò ravviandosi i capelli e brandendo la bacchetta per
dar loro una forma
umana. Al e James erano dannatamente fortunati a potersi tagliare corti.
E
comunque Jamie li ha ricci, bastardo fortunato.
Sören chiuse gli
ultimi
bottoni della camicia, seduto sul letto. “Dove ti piacerebbe
andare?”
“Dovresti dirmelo
tu!”
“Lily, non conosco nulla della tua terra.” Le fece
notare gentile. “Inoltre,
sei tu la guida.”
“Giusto.”
Considerò. “Che ne
dici delle scogliere di Dover che non hai ancora visto?”
Suggerì con la testa
leggera e la voglia di esplorare l’intera Gran Bretagna,
isole comprese, se
avessero fatto in tempo: ora che ci pensava, era la prima volta che
avevano
un’intera giornata tutta per loro.
O
meglio, le abbiamo avute. Ma non potevamo usufruirne.
C’erano state le
indagini,
Scott, incomprensioni. Era la prima volta che il futuro si presentava
loro
davanti sgombro e senza nuvole.
Aveva tutta
l’intenzione di
godersi quella giornata fino all’ultima goccia.
“Oppure il Galles.
È
bellissimo d’estate … o l’isola di Mann!
Sei mai stato all’isola di Mann? Anche
se Skye forse è più bella… certo,
stando lontano dalla riserva dei draghi.
Magari un salto fino ai grandi laghi?”
Sören sorrise e
scosse la
testa. “Dubito che in ventiquattro ore potremo vedere
l’intera isola.”
“Mettimi alla prova!”
Non c’era alcun
bisogno che la
mettesse alla prova.
Se fosse dipeso da lui,
avrebbe trovato il modo di prolungare quella giornata, quella mattina,
all’infinito. Una manciata di ore eterne in cui il suo futuro
sembrava quello
del mago più felice del mondo, appena abbeveratosi alla
fontana dell’Eterna
Giovinezza.
La sera prima era relegata
in
un angolo della sua testa, imprigionata in catene ben salde: non
avrebbe permesso
a sua madre, a Johannes o chicchessia di rovinare
l’espressione con cui lo
guardava Lily o il calore del sole che sentiva sulla pelle.
Senza alzarsi le tese le
mani
e la attirò a sé perché poteva e
perché Lily voleva. Non era magnifico? “Scegli
tu.” Le rispose. “Lasciami solo il tempo di
notificarlo alla scorta.”
Lily annuì,
ravviandogli i capelli
con le dita. “Niente brillantina oggi?”
“Non sono in
servizio.”
Rispose sullo stesso tono. “Prima tappa?”
“Scogliere di
Dover.” Disse
con decisione. “Citi la poesia e poi non le hai mai viste.
È criminale!”
Dopo aver dato istruzioni ai due auror di scorta che assorbirono
l’informazione
senza fare commenti – cosa di cui gli fu grato
perché doveva esser ormai
evidente che lui e la figlia del capo non erano più in
termini amicali – tornò dentro
e si diresse verso la stanza di Milo: avrebbe dovuto lasciare perlomeno
un
messaggio a quel lavativo per informarlo dei suoi spostamenti.
Altrimenti
al mio ritorno diventerebbe sgradevole …
tutte quelle domande.
Aprì la porta
della sua stanza
che prima aveva solo bussato. Aprì, guardò
… e rimase impietrito.
“Ren?”
La voce di Lily alle
sue spalle lo riscosse. “Hai detto ai ragazzi dove
andiamo?” Si fermò guardando
oltre le sue spalle. “Che c’è?”
“Le sue
cose.” Disse . “Sono
sparite.”
Lily si fece fare spazio guardando la stanza vuota, il letto rifatto
alla
perfezione e l’assenza di oggetti personali. La vide sbattere
le palpebre
confusa. “Dov’è andato?”
“Via.”
Non riusciva ancora a
realizzare pienamente il significato di quel che stava dicendo. Si
limitava a
constatare l’ovvio, ovvero che il suo assistente, il suo
migliore amico era
sparito dalla faccia della terra.
Senza avvertirlo.
“Via
dove?”
Domande legittime a cui
però
non aveva la minima idea di come rispondere: conosceva Milo da anni e
ricordava
gli avesse detto, in una delle sue tante confessioni, che quando
abbandonava un
posto non ci pensava poi molto, lo faceva e basta.
Deve
essere accaduto anche stavolta.
Lily lo prese per un braccio
con aria decisa. “Vieni a sederti.”
“Sto bene.”
“No che non stai bene, sei pallido come un Patronus.”
Lo trascinò fino al tavolo della colazione spingendolo su
una delle poltroncine.
“Non può essersene andato senza
avvertirti!”
“È quello che ha fatto.”
Ribattè aspro. Non c’era altro da dire.
Lily scosse la testa:
perché
si ostinava a volergli dimostrare il contrario? “Milo non ti
avrebbe mai
piantato in asso di punto in bianco. Si è sempre preoccupato
per te … Deve
essergli successo qualcosa!”
Si riprese dal suo torpore perché quella era una frase che
conosceva. Era una
frase che gli ricordava il lavoro. E il lavoro l’aveva sempre
aiutato ad avere
la meglio sulle sue emozioni. “Cosa?”
“Non ne ho idea,
ma qualcosa che
deve averlo sconvolto e fatto scappare.” Si strinse nelle
spalle. “E non sei
tu, perché non lo vedi da giorni.
Quand’è l’ultima volta che
l’hai visto?”
Nella sua improbabile
posizione di testimone ci riflettè. “Il giorno del
battesimo di Alexandra.”
“E come ti è sembrato?”
“Come al solito,
strafottente
ed impiccione.” Fece un sorriso amaro. “Mi ha
costretto a parlare di te e di
quello che era successo in ospedale e…” Di colpo
capì cosa, o meglio chi
lo aveva fatto scappare e la sua consapevolezza
doveva essere come un Lumos sopra la testa perché Lily gli
diede un colpetto
impaziente sulla spalla.
“Allora?”
“Credo
c’entri Zabini.”
“Mike Zabini?”
Confermò con un
cenno della
testa. “Lui e Milo sono amanti.”
La faccia di Lily esprimeva lo sbalordimento più genuino che
avesse mai visto,
tanto che pensò che le sopracciglia le sarebbero schizzate
sopra la fronte. “Ma
se è un razzista come pochi?!”
“Anche Milo
è nato Purosangue.”
Le fece notare sentendosi protettivo in quella piccola rivelazione.
“Penso si
siano conosciuti da bambini e incontrati di nuovo qui, a
Londra.”
“Ma
dai…” Si sedette accanto a
lui scuotendo la testa. “Beh, è una sorpresa.
Credevo fosse ancora innamorato
perso di mio fratello.” Gli lanciò
un’occhiata di sbieco. “Com’è
la storia?”
“Non conosco i
dettagli, ma si
sono frequentati.” Riassunse succinto, non volendo
sbandierare le confidenze
che Milo gli aveva fatto.
“Per le mutande di
Merlino!”
Sbuffò ancora incredula. Ci riflettè qualche
attimo, poi battè le mani sui
braccioli della poltrona. “Okay. Dove può essersi
cacciato?”
“Forse non vuole essere trovato.”
Suggerì ed era l’ipotesi più
plausibile. Se
Milo se n’era andato in quel modo era perché non
voleva esser convinto a
tornare sui propri passi. Faceva male, più male di quanto si
sarebbe aspettato,
ma doveva rispettare i suoi desideri.
“Per
favore!” Esclamò la sua a
ragazza, dandogli anche un calcetto per buona misura. “Se ha
il cuore spezzato
o è in qualche guaio ha bisogno
di
essere trovato!”
“Non ho il
diritto…”
“Ren, sei il suo migliore amico. Basta vedervi assieme per
capire che siete le
persone a cui l’altro si affiderebbe in caso di guai. Devi
riportarlo
indietro.”
“E se non volesse?”
“Allora deve
dirtelo in faccia
e deve anche convincerti.” Tagliò corto.
Non c’era altro da
dire: aveva
ragione. Annuì, prendendo la giacca che l’altra
gli porgeva. “Andiamo a parlare
con i ragazzi in uniforme.” Gli disse. “Le bianche
scogliere non saranno la
nostra prima tappa.”
“Hai capito dov’è?” Le chiese
stupito.
“Ovvio!”
Scrollò le spalle
disinvolta. “Milo ha avuto uno screzio con il più
mago dei maghi. Vorrà stare
lontano da noi il più possibile.”
“Londra Babbana?”
“Troppo vago,
iniziamo dal
Black Goose, lì i Maghinò bevono a
credito.”
Sorrise aprendole la porta. “Dovrebbero farti
auror.”
“Ad honorem? No grazie! Ce
ne sono
già abbastanza in famiglia.”
****
San
Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.
Mattina.
James si svegliò
sentendo le
dita fresche di Teddy passargli trai capelli.
Come aveva azzeccato la
previsione? Semplice: con gli anni aveva imparato a distinguere le
carezze del
compagno da quelle di sua madre o di sua nonna e, sporadicamente,
quelle della
sorella – del resto non permetteva a nessun altro di
arruffargli i capelli come
un ragazzino.
In realtà, per
lui, le carezze
di Ted erano sempre state una cosa a parte.
“Ehi.”
Lo salutò il suddetto quando
il mondo tornò lentamente a fuoco. “Sei al San
Mungo.” Aggiunse notando la sua
confusione. “Ti ricordi cos’è successo
ieri notte?”
“… un gran casino?” Rispose facendolo
sorridere. A ben guardarlo, il compagno aveva
le occhiaie e la barba di un giorno. “Non sarai mica rimasto
qui tutta la notte
a vegliarmi, eh?” Gli domandò.
“No, Harry me
l’ha proibito. E
poi non potevo svegliare Ben nel cuore della notte e portarla da
Neville. Mi
avrebbe staccato un braccio. Sono appena arrivato.”
Ridacchiò, sentendo la testa pesante come se
gliel’avessero incollata al
cuscino anche se rispetto al gelo che l’aveva quasi dilaniato
la sera
precedente non aveva freddo. Meglio di niente.
“Bugiardo.”
Borbottò. “Sarai
qui da ore … non ti sei manco rasato e hai due occhiaie da
paura.”
Ted sbuffò
divertito. “Grazie
tante, ricambio il complimento.”
“Beh, io sono
uscito fuori da
una battaglia coi controcazzi…” Cercò
di tirarsi su e fu prontamente aiutato
dal compagno che lo manovrò come un bambino inerme. Era
frustrante quanto confortante
avere qualcuno ad aiutarlo visto che non era in grado di flettere un
muscolo
senza urlare di dolore. “… la tua scusa qual
è?”
“Preoccuparmi per una certa testa di legno?” Ted,
con il suo profumo di
maglioni infeltriti, inchiostro e the era un toccasana per
l’emicrania e
l’improvvisa nausea. Forse l’esser stato congelato
come un merluzzo non era il
problema più immediato che doveva affrontare.
“Ti va di fare
colazione?”
“Magari tra cento
anni.”
Notando l’espressione impensierita dell’altro
scosse la testa. Molto piano.
“Non ho fame, ma sono
ancora tutto intero Teddy, sta’ sereno.”
“Lo vedo.” Gli prese una mano e gliela strinse.
“Anche la temperatura è tornata
normale.”
Doveva chiederlo, anche se
forse non era sicuro di voler ascoltare la risposta.
“… mi hanno fatto gli
esami?”
“Quali
esami?” Capì al volo e
gli sorrise rassicurante. Se c’era qualcuno in grado di esser
credibile in quel
ruolo era proprio lui. “Sì, sei risultato pulito.
Non sei stato contagiato.”
“Gli altri?”
Esitò, glielo
lesse in faccia
che avrebbe preferito schiacciarsi un piede in una porta che parlare,
ma alla
fine capitolò. “Il Sergente Stump … e
Bobby.”
“Bobby?”
La voce gli venne meno, forse per la collera e la paura che
lo assalì, prosciugandolo di ogni forza.
“Dov’è, voglio…”
Tentò di alzarsi ma
Ted lo prese al volo prima che si sfracellasse al suolo, stringendolo
tra le
sue possenti braccia di bibliofilo.
Avrebbe voluto piantargli un
pugno in faccia.
Invece si
accontentò di
seppellire il viso contro la sua camicia e ingoiare un singhiozzo:
Bobby, il
suo amico d’infanzia, Bobby il palo riluttante e Bobby il
saggio, il suo compagno
di bravate, il grillo parlante della squadra e l’uomo che
aveva sempre accolto le
sue idee più deliranti senza battere ciglio. Ricordava di
averlo visto battersi
come un leone e salvare la vita di più di un paio di auror
quella notte.
Bobby era stato beccato e
lui
non aveva potuto farci niente.
“L’hanno
messo in stasi
magica, Jamie, è giù a Malattie Infettive.
È stabile. Ha i primi sintomi … la
malattia non si è conclamata.” Teddy gli
accarezzò i capelli, parlando con la
voce calma e pacata che usava con i suoi alunni, per ammaliarli e
convincerli
che non era una buona idea ignorarlo.
Strinse la presa e
affondò il
viso in tutta quella stoffa al sapore di the e pagine polverose. Aveva
bisogno
di stritolarlo, di farsi stringere di rimando per ricordarsi che era
tutto
intero, vivo. Pezzo per pezzo.
Ieri
notte non ne ero mica tanto sicuro.
“Se lo vuoi vedere
ti porto da
lui, ma sarebbe meglio se riposassi ancora un po’. Sei
arrivato con una
commozione cerebrale e le pozioni stanno iniziando a fare effetto solo
adesso.
Prima hanno dovuto riscaldarti.”
Ah,
ecco spiegato il piccone nel cervello!
“La sua ragazza
… la sua
famiglia, sono con lui?” Si informò e a cenno
affermativo si permise di
rilassarsi. Bobby era guardato a vista dalla sua famiglia e sicuramente
anche
dai ragazzi dell’ufficio. Non c’era bisogno che si
trascinasse come un
moribondo a chiedergli perdono per non avergli guardato le spalle.
Almeno
non subito.
Teddy gli
accarezzò il viso
che ancora si sentiva bollire di lacrime trattenute. “Jamie,
siete riusciti a
catturare gli Infetti e limitare i danni. Non è morto
nessuno ieri notte … e
per gli standard auror, e per quello che è successo,
è un ottimo risultato.”
Quello era l’ex-auror che parlava e non poteva che dargli
ragione, anche se una
parte di sé urlava che sarebbe potuta andare meglio, che
quello non era
vincere.
Ma
qui non si tratta di vincere o di perdere. La vita
vera non funziona così.
Si riadagiò tra i
cuscini,
mentre Teddy puntò di nuovo alla poltrona degli ospiti.
“No.” Lo fermò. “Per
favore.” Tanto non c’era nessuno a puntargli il
dito e dargli della
femminuccia. “Per favore, resta qui.” Poi per
giustificare la sua lagna scrollò
le spalle. “Ho ancora freddo.”
Ted sorrise, ma si fece spazio nel letto per abbracciarlo come doveva.
“Se non
fosse stato per Harry e Ben mi sarei precipitato da te ieri
sera.”
“Papà ti ha minacciato?”
Scherzò, perché aveva bisogno di pensare a tutto
tranne che all’amico d’infanzia esanime due piani
sotto di lui.
Chissà come stava
Scorpius.
Bene,
o Teddy me l’avrebbe detto.
“Mi ha detto che
mi avrebbe
riportato ad Hogsmeade di peso se fosse stato necessario. Non me la
sono
sentita di contraddirlo, era molto convincente.”
Ridacchiò. “Dov’è la pulce
adesso?”
“Con Neville e
famiglia.
Voleva venire ma gli ho detto che avremmo dovuto guardarti dormire per
molto
tempo. L’ho convinta in un batter d’occhio
… rifugge la noia ad ogni costo. Mi
ricorda qualcuno…” Motteggiò sfilando
la bacchetta dalla tasca dei pantaloni ed
Appellando qualcosa nella tasca del mantello. “Mi ha chiesto
di recapitarti un
disegno però.”
James lo prese e
percepì con
orrore gli occhi inumidirsi di fronte alla rappresentazione stilizzata,
iper-colorata e poco realistica di una casa e tre persone.
“Io sono quello con
il cespuglio marrone cacca in testa?”
“Temo di
sì.” Gli baciò la
fronte. “Non so perché, ma ha voluto aggiungere un
drago.”
“Pensavo fosse una lucertola.”
“In ogni caso, ha passato troppo tempo con
Dominique.”
Erano chiacchiere semplici, banali, che il James di una volta avrebbe
annusato
con diffidenza, salvo bollarle come roba da adulti noiosi. Il James di
adesso
ne aveva bisogno come aria. Mentre era congelato a terra, a pregare che
quel
masso di sassi e calce non diventasse la sua tomba, aveva pensato a
quello: alla
sua famiglia, alla sua casa in bocca alle montagne, e a Benedetta e
Teddy e a
quanto gli sarebbero mancati, atrocemente, se Merlino o chi per lui
l’avesse
spedito dall’altra parte.
In quel momento aveva
realizzato che non gli importava più di celebrazioni,
riconoscimenti o onori.
Non aspirava più ad essere l’eroe della
situazione, né di essere ammirato come
lo era stato suo padre alla sua età. Voleva essere il Jamie
di Ted e Benedetta,
tutto lì.
Non era bravo con le parole,
e
lo era ancora meno quando l’emicrania gli martellava il
cervello come un
Battitore con un Bolide. Quindi si limitò a voltare la testa
tanto quanto
bastava per baciare il suo uomo.
Non era il suo bacio
migliore
ma sperava venisse apprezzato lo sforzo.
Così parve
perché Teddy lo
ricambiò con altrettanto entusiasmo, anche se staccandosi
gli chiese il perché
con lo sguardo.
“Perché
mi andava.” Si
giustificò con l’ennesima scrollata di spalle. Perché voglio fare una famiglia con te
gli pareva una roba
impronunciabile.
“Vedo che le
pozioni stanno
facendo effetto.” Scherzò l’altro con un
bacio a fior di labbra. “Ti è tornata
la fame?”
“Sì, ma
di altro.” Rispose a tono
facendogli alzare
gli occhi al cielo. “Lo so che senza di me tutto nudo nel tuo
letto non dormi
bene, mio Teddy!”
“Mi è mancato soprattutto esser preso a calci nei
reni, sì.” Convenne con tono
faceto. Furono sorpresi dall’aprirsi della porta.
“Ehi piccioncini
arcobaleno!”
Li salutò Scorpius con il solito sorriso sconclusionato e
l’immancabile mazzo
ingombrante di fiori. Accanto a lui stava Rose che guardava
l’omaggio floreale
come se volesse scusarsi della sua presenza.
“Scusate.”
Esordì infatti. “Ho
cercato di dirgli che James aveva bisogno di riposo,
ma…” Fece un cenno vago
che alludeva a sforzi titanici e rese inevitabili.
James fece un cenno di
saluto
e si scambiò un’occhiata con Malfoy che gli fece
capire che era a conoscenza
della sorte di Bobby e che se ne sarebbe occupato come poteva.
Sono
sicuro che è stato tutta la mattina in giro per il
reparto a portare enormi mazzi di fiori e straparlare senza sosta. Il
nostro
Malfuretto.
“Ancora vivo
Potty? Mi hai
almeno fatto perdere dieci Galeoni!” Lo apostofò
poi con il rude cameratismo di
cui aveva disperatamente bisogno.
“Perché
sei un cretino.”
Rispose a tono. “E porta quella verdura fuori di qui. Non
sono mia cugina, non
devi corteggiarmi coi fiori.”
“Se non fossi un buzzurro cresciuto nei pollai del Devonshire
sapresti che è
buona educazione portare doni ai moribondi.”
“Fottiti.”
“Io e Teddy andiamo a prenderci un the.” Li
interruppe Rose con tono deciso. Anche
lei aveva notato le occhiaie e la barba dell’amico di
infanzia ma a sua
differenza aveva abbastanza deambulazione per poter fare qualcosa.
“Vi portiamo
qualcosa oltre a una pozione soporifera?”
“Dei
pasticcini!” Esclamò
Scorpius. “Quelli alle rose, sono deliziosi!”
“E poi sono io il frocio.”
Ted si lasciò
volentieri
portar via dal piglio tirannico di Rose. “Ci vediamo dopo
James.”
Fece un cenno disinteressato
per dimostrargli che la crisi era rientrata.“Sì,
sì, ma non mi lasciate troppo solo
con l’idiota.”
Quando se ne furono andati
il
sorriso di Scorpius si spense, per lasciar posto ad
un’espressione grave che lo
rendeva davvero l’erede di una famiglia di menagrami. Non
glielo disse però,
perché non era il momento di far battute.
“Quanti?”
Chiese soltanto.
“Bobby, il
sergente Stump,
Hurwit e Kirkwall.”
Serrò la
mascella. “Kirwall è
solo una ragazzina … è uscita sei mesi fa
dall’Accademia.”
Scorpius scosse la testa. “Sono tutti in stasi.
Finchè dormono almeno sono al
sicuro.”
“Cazzo.”
Rimasero in silenzio quanto
bastava per darsi un tono. Poi tirò un sospiro e lo disse. Doveva dirlo. “Grazie per ieri
sera, amico.” Calcò l’accento su
quella parola. Perché era importante, come era importante
che l’altro capisse
quanto gli doveva. “Se non fosse stato per
te…”
“Falla finita.” Tagliò corto Scorpius,
ma gli strinse una mano sul braccio. Capiva.
“Avresti fatto lo stesso per
me.”
“Ci puoi giurare.” Fece un sorrisetto sghembo.
“Avrei salvato quel tuo culo
pallido senza battere ciglio.”
“Come sempre, la
modestia ti
schizza dalle orecchie.” Ricambiò con un ghigno.
“Piuttosto, dai a me del
sentimentale perché ti porto dei fiori e poi ti trovo
accoccolato come una
damina del settecento al tuo possente uomo?”
Gli avrebbe tirato un cuscino o il proprio pitale se ne avesse avuto le
forze.
“Sei un coglione.”
“Vai subito sull’offesa … io ti ho fatto
un complimento, madame. A quando il
matrimonio?”
Eh.
“Non
scherzarci.” Fu tutto quello che riuscì a
dire senza aver l’impressione di incubare un infarto.
Sposarsi era una cosa
fotuttamente seria. E non sapeva neanche come la pensava Teddy in
merito!
Ha
sempre voluto una famiglia. Ma con Vic. Una donna.
Che ne so se con me è la stessa cosa?
Scorpius, da bravo
entusiasta
qual’era, gli sorrise raggiante. “Vi sposate?
Quando?”
“Nel giorno del mai se uno dei due non ci pensa neanche.
È una considerazione
mia, Malfuretto, lascia fare.”
“Vuoi sposarlo?” Al suo borbottio poco impegnativo
gli rifilò una pacca sulla
spalla pericolosamente vicino a staccargliela. “Devi
proporti!”
“Propormi un
cazzo.” Scosse la
testa. “Non certo adesso, con tutto ‘sto casino e
con Ben che si deve ancora
adattare alla vita qua.”
Gli fu restituitp uno
sbuffo.
“Sono scuse!”
“Forse!”
Ammise. “Ma cazzo,
datti una calmata! Non sono anni che ci penso, okay? È
… è poco.”
Guardò fuori dalla finestra. Cos’era tutto quel
sole? Da
quando Londra non era uno schifo piovigginoso e pieno di nebbia?
“Non ho idea
se Teddy voglia una roba del genere o gli vada bene continuare
così.”
“Gliel’hai chiesto?”
“Quando? Ieri sera
che ero qua
riverso con la testa rotta o quando era ancora in versione cono
gelato?”
Malfoy ebbe il buonsenso di
annuire. “Beh, nessuno ti vieta di sondare il terreno e poi proporglielo.”
Suggerì. “Conoscendolo, il buon professore
andrà
in brodo di giuggiole. Sposarsi è il massimo del conformismo
mezzosangue!”
“Quanto sei
coglione.” Ma era
una buona idea. Non glielo disse perché non gli avrebbe mai
dato la
soddisfazione di farglielo ammettere, ma lo era sul serio. “E
comunque se ne
riparlerà tra un po’, a guai finiti.”
“Nessuno vi corre dietro, ma … il caso Demiurgo
non deve essere un problema.
Sono nei momenti più difficili che si ha bisogno di esser
felici.” Fece un
mezzo sorriso. “E un matrimonio è
una
cosa felice. Per questo io e la mia Rosie non abbiamo
rimandato.”
“Sì,
immaginati due matrimoni
ravvicinati nella mia famiglia. Nonna Molly avrebbe un
infarto.”
Scorpius
scimmiottò una risata
malvagia. “L’intera famiglia Weasley-Potter
imploderebbe! Il mio piano
finalmente compiuto! Lode ai Malfoy!”
“Coglione.”
Ribadì con un
sorriso. Ma forse l’amico aveva ragione: era nei tempi bui
che si aveva bisogno
di luce.
****
Notturn
Alley, Black Goose.
Mattina.
Il Black Goose era il posto
più terrificante che avesse mai visto e come per lei,
l’impressione doveva
valere per qualsiasi persona volesse evitare di esser derubata o
privata di un
organo interno.
Lily quindi si
sentì del tutto
in dovere di afferrare il braccio di Sören come una damina
spaventata.
Sono
una damina spaventata!
L’altro le
lanciò un’occhiata
preoccupata: si stava pentendo di averla portata con sé.
Me
ne sto pentendo anch’io.
“Se vuoi, puoi
restar fuori
mentre controllo se Milo è dentro.” Le
suggerì.
“Non che sia meglio.” Gli fece notare scostandosi
al passaggio di una megera
che occhieggiò – con suo sommo orrore –
le sue povere orecchie. “E comunque non
mi fido a lasciarti solo.”
“Non è la prima volta che ho a che fare con una
zona malfamata.” La blandì
aprendo la porta del pub e facendola passare. “Sono in grado
di proteggere me stesso
… e anche te.” Aggiunse.
Gli restituì un
sorriso.
“Molto apprezzato, mio cavaliere.”
Entrata si sentì immediatamente guardata da una ventina di
occhiate che
andavano dal lascivo, al sorpreso per finire in una generale diffidenza
che la
spinse ad accostarsi ulteriormente al compagno.
Sì,
ho una bacchetta, no, non so come usarla. Agh.
Persino nel suo periodo
scriteriato aveva evitato di gironzolare da quelle parti in cerca di
avventure:
i Maghinò di Notturn Alley detestavano quando un mago
entrava nel loro
territorio, e il Black Goose era un po’ la loro casa.
Non
c’è una bacchetta o un fodero in tutto il locale.
“Un’occhiata
e poi ce ne
andiamo.” La rassicurò perlustrando il locale
ombroso alla ricerca di una testa
bionda. Non si vedeva granchè, tra il fumo delle pipe e
l’illuminazione
insufficiente. All’altro comunque parve bastare; lo
sentì scattare in allerta e
seguì quindi la direzione del suo sguardo.
Milo era lì, seduto al bancone a bersi una birra. Aveva lo
sguardo fisso nel
vuoto e quindi non li aveva visti entrare.
Non
si è neanche girato a controllare con gli altri.
Sören fu lesto a
raggiungerlo
e lei fu altrettanto rapida ad andargli dietro. Ignorò un
paio di fischi e
commenti triviali detti a bassa voce, sperando che l’altro
fosse concentrato
sull’amico.
Da come stava serrando la
mascella proprio no.
“Milo.”
Apostrofò il ragazzo che alzò la testa per
metterli a fuoco.
Per
le trecce di Morgana, è sbronzo marcio.
E aveva peraltro acquisito
la
patina di squallore di cui era ben lustrato il locale: barba lunga,
vestiti che
parevano indossati e dormiti da
giorni e per finire occhi arrossati e assenti.
“Ehi.”
Raschiò da in fondo
alla gola. “… chi si vede, i mie due maghetti
preferiti.”
È entrato nel mood del locale.
Grandioso.
Dovevano portarlo via di
lì,
decise sbrigativa. E Sören doveva essere della stessa idea
anche se non aveva
ancora aperto bocca. “Ehi, biondo.” Gli
toccò un braccio. “Che ne dici se
andiamo a fare due passi?”
Milo inclinò la
testa
pensieroso. “No, sto bene qui. Ho la mia birra … i
miei amici…” Fece una
smorfia malsana dando un vigoroso sorso dal boccale. “Sono a
casa.”
Qualcosa
mi dice che Zabini ha avuto una delle sue
esplosioni da Purosangue.
…
Sul serio, ma come cavolo sono finiti assieme?
“Hai bisogno
d’aria fresca.”
Si inserì Sören. “Devi farti passare la
sbronza.”
“O forse no.” Gli rispose a tono, con una rabbia
trattenuta solo dalla quantità
di alcool che gli sciaguattava in corpo. “Andatevene, non
è posto per voi.”
“Neanche per te.” Replicò. Usava un tono
pacato, ma era ovvio fosse ad un passo
dal trascinarlo via. Era arrabbiato per l’atteggiamento degli
avventori, per i
commenti che le erano stati fatti e soprattutto per
l’abbandono di Milo e il
suo conseguente menefreghismo dell’intera faccenda.
Pentola
a pressione.
“Andiamo
via.” Concluse.
Milo, da copione, si
voltò di
scatto come una vipera che era stata calpestata. “Che palle,
non hai capito il
velato messaggio in albergo? Non voglio più lavorare per te,
mi sono
licenziato! Sayonara, trovatene un
altro che ti stiri le mutande.” .
Sören
serrò le labbra ma non
vacillò. “Perché?”
“Cazzi
miei.” Fu la replica
esaustiva.
Quella fu la goccia.
Sören non
mutò espressione: si limitò ad afferrare Milo per
la collottola, come un
ragazzino, come un gatto che poteva graffiarlo, per spingerlo fuori dal
locale
con una perizia tale che nessuno si azzardò a trovare un
motivo per venire in
soccorso al compare Magonò.
L’espressione
da terminatore di mondi scoraggia, eh?
Lily, zitta, divertita e
preoccupata nella stessa misura, li seguì dopo aver
afferrato lesta la custodia
del violino del ragazzo appoggiata sul bancone.
Roba
importante.
Uscirono mentre il biondo
scaricava su Sören un fiume di insulti nella comune lingua
madre. Lily ne
approfittò per sedersi su una panca fuori dal locale, in
disparte ma con una
buona visuale della scena.
Diversamente da suo fratello
Albus, sapeva quando non impicciarsi.
E
godermi invece lo spettacolo.
Non si sarebbe mai liberato
del principino.
Doveva essere colpa del
karma,
ormai ne era certo. Perché solo qualche nefandezza compiuta
in una vita passata
poteva giustificare la presenza di un rompicoglioni simile nella linea
altrimenti perfetta della sua esistenza.
“Ma si
può sapere che cazzo di
problema hai?!” Sbraitò cercando di tornare in
posizione eretta senza vomitarsi
sulle scarpe. Non facile dopo aver passato giorni a sbronzarsi e
fumare.
“Qual è
il tuo piuttosto.” Gli
rispose l’idiota impettito. “Ti ho detto che potevi
andartene?”
“Ho un contratto,
significa
che posso andarmene quando me ne pare, pezzo di merda! Non sono il tuo
schiavetto!”
“C’è
un preavviso.”
“Vaffanculo!”
Questo dovette smuovere qualcosa nello stronzo, perché
serrò le labbra in piena
costipazione contrita. “… non era questo quello di
cui volevo parlare.” Disse
dopo qualche attimo.
“Allora?”
“Allora
cosa?”
“Allora che diavolo vuoi da me? Mi trascini fuori da un pub a
calci in culo,
quasi ne andasse della tua vita …
Che
diavolo vuoi? Di che hai bisogno adesso?”
Ci riflettè,
aggrottando le
sopracciglia tutto preso dai suoi stolidi ragionamenti da mago
squilibrato.
“Torna in
albergo.”
“Va
all’inferno!” Infilò le
mani nelle tasche dei jeans alla ricerca di sigarette; ne
trovò un paio in
fondo ad un malconcio pacchetto che non ricordava di aver comprato e se
ne
accese una. “Non ci torno a lavorare per te, a stirarti i
pantaloni e
risolverti i problemi di cuore.” Fece una smorfia, accusando
la botta ai
polmoni già malmessi. Ma quanto aveva fumato poi, in quei
giorni?
“Che poi mi pare
tu abbia già
fatto da solo, visto la presenza di Zenzero. Te la sei scopata,
sì?” Che aveva
da guardarlo con quella faccia immobile? Mister Perfettino, con una
bacchetta
attaccata alle chiappe e con tutte le ragioni del mondo cucite sulla
giacca.
Perfetto, come lui mai
sarebbe
stato.
Non
abbastanza, bello. Non sei stato abbastanza manco
stavolta.
“Te la sei
sbattuta come
voleva? Perché quella troietta ha una voglia di cazzo che
man…”
Non riuscì a finire la frase, perché finalmente
il mago si degnò di reagire,
rifilandogli un pugno in faccia che lo spedì a terra. Lo
shock, il dolore,
l’impatto con il suolo, e il fatto che non avesse usato la
bacchetta come si
era aspettato – ma Sören con lui non
l’aveva usata mai - lo mandarono in apnea
per qualche attimo.
“Milo!”
Sören lo afferrò per un braccio tirandolo
a sedere. “Io … mi dispiace. Non
volevo.” Mormorò sfilando la bacchetta dal
fodero e puntandogliela addosso.
Voleva curarlo, o almeno
fermare il sangue che si sentiva sciacquare la bocca, ma gliela
schiaffeggiò
via. “Mettila via.” Ingoiare al momento era
piuttosto schifoso. “Mettila via
che me lo merito.”
L’altro rimase a
guardarlo
senza avere idea di cosa fare. Glielo leggeva negli occhi di bambino
smarrito,
nel modo in cui cercò lo sguardo della sua inglesina, seduta
fuori dal locale
con l’aria di non volersi immischiare.
Furba.
Quella sventola aveva
comunque
avuto il merito – o la colpa – di avergli fatto
riavviare il cervello. “Non
farla una questione personale, avevo bisogno di cambiare
aria.” Sospirò perché
era un frocetto con un debole per i grandi occhioni neri. Persino di
quell’insopportabile stitico del suo ex-padrone.
“… tu non c’entri. Me ne
voglio andare e basta. I maghi mi hanno stufato.”
Sören
annuì. Non aveva capito
un accidenti, e scommetteva trenta Galeoni che la sua sparizione
l’aveva
ferito, ma nonostante questo era venuto a cercarlo.
“Senti, visto che
è vero che
non ti ho avvertito puoi anche evitare di pagarmi questo
me…”
“Smettila. Non mi importa dello stipendio né del
preavviso.” Lo fermò con
l’aria di volergli tirare un altro pugno.
Ora era lui che non capiva. “Allora
perché sei venuto a cercarmi?”
“Perché
dovevo.” E prima che
potesse dirgli di chiudere il becco, che non era vero, e che erano solo
due
tizi che il caso aveva legato da un rapporto di lavoro, aggiunse.
“Sei mio amico.”
“Mi paghi per
esserlo.” Voleva
farlo soffrire. Voleva che ci rimanesse di merda, e lo lasciasse in
pace.
Se non era riuscito a
spiccicare una parola col maghetto, almeno poteva farsi valere con
l’altro
portatore di bacchetta della sua vita.
Maledetti
maghi bastardi.
Sören per un
momento ebbe
proprio l’aria di uno che ne aveva avuto abbastanza e che era
in dirittura di
mandarlo al diavolo e lasciarlo cuocere nella broda di Notturn Alley.
“Forse.”
Disse invece. “Ma tu non mi paghi per essere il
tuo.”
“Che cazzo vuol
dire?”
“Che qualsiasi
cosa sia
successa … qualsiasi…”
Era importante
che lo ribadisse? Lo era. “… sono qui per te. Non
ti abbandono.”
C’era un maledetto
motivo per
cui aveva messo dei paletti con quel mago disastrato e assurdo.
C’era un motivo
per cui aveva cercato di respingere Michel e i suoi canti da sirena.
Perché fa male. Fa male, cazzo.
Aveva un groppo alla gola e
aveva voglia di picchiare qualcuno. Una bella scazzottata virile
l’avrebbe
aiutato un sacco.
Peccato il suo fisico
provato trovò
del tutto ragionevole ignorarlo in favore di una colata di lacrime che
gli si
riversò sulla faccia: pianse come un poppante.
Lily si dovette frenare dal
mettersi in mezzo quando Sören sferrò un pugno in
faccia a Milo. Non erano
affari suoi se quei due si prendevano a cazzotti come i maschietti
pieni di
testosterone che erano.
Si sentì in
dovere di
intervenire però quando Milo scoppiò in lacrime e
il suo ragazzo si voltò verso
di lei con l’aria atterrita di chi avrebbe preferito scavarsi
una buca a mani
nude che prendere un’iniziativa.
Si avvicinò ai
due, con Sören
che quasi le scomparì dietro le spalle, come un decenne che
aveva paura di
averla fatta grossa. “Milo, ehi. Vieni qui, avanti
ragazzone.” Gli si rivolse
con la classica e rassicurante stretta all’avambraccio
compagna di tanti
momenti da confortatrice di derelitti.
Fu conseguentemente avvolta
in
un abbraccio da grizzly che puzzava di alcool ed erba Babbana, ma
pazienza. Gli
battè una pacca sulla spalla aspettando che lo sfogo
terminasse. “Coraggio,
torniamo alla civiltà.” Gli disse quando si fu
calmato. “E magari ad un bagno.”
“Puzzo da fare schifo.” Ammise con un singhiozzo.
Prese il fazzoletto che gli
porse e si asciugò sommariamente il viso.
“… mi dispiace averti dato della
troietta.”
Lily inarcò le
sopracciglia e
dalla direzione dello sguardo di Sören e dal labbro tumefatto
dell’altro non
potè che ridacchiare. “A me dispiace per lo stato
della tua bocca. Il mio
ragazzo è proprio violento.” Lo prese
sottobraccio. “Su, andiamo.”
Milo si fece condurre docile in direzione di Diagon Alley. La fila la
chiuse
Sören.
****
Ministero
della Magia, Ufficio Cooperazione Magica.
Mattina.
Michel aveva passato due
giorni da incubo.
Molto più semplicemente, era così che si sentiva
chi aveva il cuore spezzato:
quando Al l’aveva rifiutato non si era sentito
così male.
Perché
non eri così innamorato.
Ed era tutta colpa sua.
Aveva fatto un errore da
ragazzino alla prima cotta, aveva proiettato le sue ansie su un ragazzo
che era
guardingo come un gatto per quanto riguardava i rapporti interpersonali.
Non solo; gli aveva chiesto
di
prendere una decisione quando la decisione non spettava a lui. Lo aveva
implorato di non lasciarlo mostrandogli al tempo stesso la porta con un
dito.
E adesso era chiuso nel suo
ufficio
a chiedersi come aveva potuto fare un errore così grave e
credere di essere nel
giusto.
Cos’altro
avresti potuto fare? Non potevi continuare a
nascondergli l’ultimatum di tuo padre.
Gli aveva confessato di quel
compromesso intollerabile non per onestà però.
Per togliersi un peso. Era stato
un vigliacco e giustamente Emil se n’era andato.
Ha
visto nel tuo cuore e nelle tue parole la risposta
che non volevi darti. Non puoi abbandonare tutto per amore. No, neppure
per
amor suo.
Ciò a cui avrebbe
dovuto
rinunciare era il suo mondo, dove era cresciuto e dove aveva respirato
per la
prima volta l’aria dell’età adulta. Il
Ministero, l’ufficio, la sua famiglia e
le sue aspirazioni.
Emil
ha ragione … Alla resa dei conti, quando si tratta
di decidere davvero, non hai potuto rinunciare a tutto questo.
Perché nonostare
l’amore
vorace che gli mordeva il cuore per quel ragazzo bellissimo non
riusciva a non
esser terrorizzato all’idea di perdere per sempre il
prestigio, il nome della
sua Casata e gli agi in cui era abituato a vivere.
Albus
non avrebbe avuto di questi crucci.
Se Thomas fosse stato un
Magonò, persino un mago oscuro, l’altro avrebbe
fatto in modo di seguirlo in
capo al mondo e rendere felici entrambi.
Io
non sono così.
Quell’amore
metteva a nudo la
sua codardia e la sua mediocrità.
Forse era questo a far male
più di ogni altra cosa: accorgersi di non avere la forza di
abbandonare tutto.
Nonostante tutto aveva
provato
a cercarlo. Il cellulare era staccato e persino il suo tentativo di
telefonare
alla stanza di albergo in cui alloggiava con Prince si era rivelato un
buco
nell’acqua.
Forse
è meglio così. Cosa potresti dirgli poi? Scusa?
Ti prenderebbe a pugni, e avrebbe ragione.
L’aveva perso:
doveva mettersi
il cuore in pace.
Quasi a venire in soccorso
al
suo profondo desiderio di prender da bere e ignorare la mole di lavoro
che
aveva davanti, la porta venne scossa da un paio di colpi secchi.
Conosceva solo
un uomo che non si premurava di bussare
e poi aspettare.
“Lord
Malfoy.” Lo salutò
deferente alzandosi in piedi, imitato dalla sua collega che si
sdiliquì in una
serie di convenevoli che l’uomo allampanato ignorò.
“Michel, vieni con
me.” Gli
disse sbrigativo. Annuì prendendo la giacca ed
infilandosela, perplesso: era
raro che il padre di Scorpius uscisse dal suo ufficio per conferire con
un
sottoposto, tantomeno scomodandosi fino alla sua scrivania.
Cos’è
successo?
Non fece domande
però, che era
chiaro che avrebbe avuto le sue risposte solo lontano dalla portata di
orecchie
della collega. L’uomo infatti aspettò che fosse
passato qualche metro di
corridoio prima di rivolgerglisi.
“C’è
una talpa nel Ministero.”
Michel battè le palpebre: aveva sentito girare la voce dai
piani bassi, ma non
vi aveva dato molto credito, dato che c’era sempre qualche
fuga di informazioni
nei vari Dipartimenti.
Ma
una talpa … Tutt’altra faccenda.
“A proposito del
Demiurgo?”
Chiese anche se immaginava la risposta.
È
l’unico caso serio di cui mi occupo al momento.
Il mago confermò
con un cenno
della testa. “Pare che gli ultimi blitz Auror siano stati
sabotati. L’ultimo è
costato al Ministero quattro Auror e dodici civili. Pessima
pubblicità.”
Aggiunse quasi a temere di poter essere scambiato per qualcuno a cui
importava
la sorte di altri esseri umani.
È
sempre così gelido.
Era incredibile che una
persona del genere potesse aver prodotto un tipo come Scorpius.
“Pensano che la
talpa possa essere qui?” Chiese.
Lord Malfoy fece un mezzo
sorriso. “Gli piacerebbe. Almeno potrebbero trovare un
colpevole senza dover
setacciare le loro fila.” Gli lanciò
un’occhiata. “Sono domande di routine.
Essendo il responsabile dell’agente di collegamento hanno il
dovere di
sentirti. Una formalità.”
“Naturalmente.” Confermò senza lasciar
trasparire nervosismo: non aveva nulla
da temere o da nascondere ma un interrogatorio degli Indicibili era
sempre
qualcosa che qualunque funzionario ministeriale voleva evitare. Certo,
non
credeva alle voci secondo cui chi veniva ritenuto colpevole finiva in
una delle
loro celle a marcirvi per l’eternità,
né che bevessero il sangue delle vergini,
una teoria che andava fortissima con gli strampalati della Divisione
Bestie…
Ma
sono pur sempre gli Affari Interni.
Lord Malfoy lo
accompagnò in
una delle salette che usavano per le riunioni o per ricevere dignitari
da altri
paesi. Di fronte al tavolo centrale di marmo di Carrara –
parte inevitabile
dell’arredamento candido dell’intero piano
– stavano due uomini, con vesti di
un viola violento che faceva a cazzotti con il mobilio. Ciliegina sulla
torta,
erano pallidi come morti e altrettanto inespressivi.
Forse
quelli della Divisione Bestie non sono così
strampalati…
“Signor Zabini,
buongiorno. Si
sieda.” Esordì il più anziano, con due
zigomi che sarebbero stati capaci di
tagliare un uomo a metà. “Sa perché
è stato chiamato qui?”
“Sì.” Disse con semplicità.
Si sentiva un fascio di nervi: era proprio la
giornata sbagliata per esser passato al setaccio dagli Indicibili.
Dì
pure periodo sbagliato.
“Sono a vostra
completa
disposizione.” Aggiunse comunque con un sorriso cortese,
lanciando un’occhiata
a Lord Malfoy che lo approvò con un cenno impercettibile
della testa: a quanto
sembrava sarebbe rimasto per l’intera durata del colloquio.
Era proprio messo male se la
sua presenza lo rassicurava.
I convenevoli terminarono,
così i due, con una cartella sottomano –
riguardava lui? – cominciarono con le
domande. Rispose senza problemi, non era nato Zabini per poi ignorare i
principi elementari dei colloqui con le autorità. Essere
assertivo ma non
arrogante e, in generale, mostrarsi pronto a collaborare anche quando
non se ne
aveva la minima voglia.
Leccare
il culo, se necessario.
Stava quasi per rilassarsi
quando una domanda lo ghiacciò sul posto. “Ha
avuto contatti con l’America
oltre quelli convenzionati trai Ministeri?”
Ethan
Scott.
Il nome gli
affiorò nella
mente prima che potesse fermarlo. Per fortuna pareva che i due
ispettori non
fossero Legimanti. Non aveva percepito vibrazioni in quel senso.
In quel momento
capì che
avrebbe dovuto mentire. Ethan Scott gli aveva detto chiaro e tondo e in
molteplici
colloqui via Fuoco Magico che i loro contatti non dovevano esser resi
pubblici,
per nessuna ragione. Qualsiasi gioco di potere ci fosse
dall’altra parte
dell’oceano, non era cosa da far conoscere agli inglesi.
Riflettè rapido:
non gli
sembrava di aver fatto nulla di sbagliato ad informare
l’americano degli
spostamenti di Prince e delle novità che lo riguardavano.
Non gli aveva neppure
parlato del blitz. Eppure era sicuro che quel contatto avrebbe potuto
gettare
una luce poco chiara su di lui e questa era una cosa che doveva evitare
ad ogni
costo
Cercano
un colpevole. Non devono pensare che sia io.
Perché non lo
sono.
La sua ambizione ancora una
volta l’aveva messo di fronte ad una situazione difficile.
C’era da stupirsi?
No.
No, affatto.
“No.”
Rispose. “Non ho avuto
altri contatti.”
I due Indicibili si mostrarono soddisfatti
dall’interrogatorio, o almeno così
gli parve dal tono con cui lo congedarono, chiedendogli comunque di
rimanere a
disposizione.
“Lo
farò.” Rispose prima di
seguire Lord Malfoy fuori dalla saletta. L’uomo non gli
rivolse la parola per
tutto il tragitto di ritorno, e questo non lo stupì. Quello
che lo sorprese fu
vederlo fermarsi e fronteggiarlo quando furono arrivati davanti al suo
ufficio.
“Hai mentito
là dentro.” Disse
senza mezzi termini. Non gli diede il tempo di ribattere ed aggiunse.
“Sono un
Legimante esperto Michel, e un ragazzino bugiardo non è una
sfida per me.
Semmai una seccatura.”
“Non capisco di cosa stia parlando.” Rispose con la
voce che non potè
trattenere un tremito. Che idiota era stato: avrebbe dovuto immaginare
che Lord
Malfoy era capace di esercitare quel dono. Molti Occlumanti erano anche
ottimi
Legimanti, quasi fossero una faccia diversa dello stesso Galeone.
Scorpius
avrebbe anche potuto informarmi…
“Non mi
interessano i tuoi
giochetti … conosco tuo padre, e conosco la sua brama di
potere. L’albero non
cade mai lontano dalla mela. Non sembra che tu abbia però
ereditato la sua
intelligenza.”
Si costrinse a non ribattere. Quello era un argomento che rientrava nel
grande
insieme delle cose da non sfiorare, specialmente in quel periodo.
“Si sbaglia.”
Ora sì che era il ritratto perfetto di un ragazzino sciocco
e troppo arrogante.
“… gliel’ho già detto, non ho
mentito.”
Non gli credeva. Al contrario, lo squadrò facendogli tremare
le gambe. Sin da
bambino Lord Malfoy gli aveva messo persino più paura di suo
padre. “Se le tue
azioni porteranno a screditare questo ufficio agli occhi della
Comunità Magica ne
risponderai a me.” Per un attimo il cipiglio glaciale si
allentò, anche se
dubitava fosse impietosito dal suo terrore. “… il
peso delle proprie azioni si
capisce solo quando sono già compiute, Michel.”
Disse con occhi che parevano
dissezionargli l’anima come un vermicolo. “Non
giocare ad una guerra che non
capisci.”
“Cosa
intende?” Era un fascio
perenne di nervi, era furioso e infelice. Mantenere il controllo a quel
punto
era pura utopia.
“Che non sei
tagliato per
questo lavoro.” Fu come se l’avesse colpito nello
stomaco con un pugno o una
brutta fattura. “Non lo sei mai stato.”
“Si
sbaglia!”
Lord Malfoy sorrise, quasi si trovasse di fronte ad un cucciolo
arrabbiato che
gli mordeva l’orlo del mantello; lo irritava, ma non riusciva
a farlo
arrabbiare. Di fronte a quella condiscendenza smaccata avrebbe voluto
tirar fuori
la bacchetta, ma persino con lo stato d’animo alterato capiva
che era una
sciocchezza. “Mi sta dando del debole?” Chiese
invece.
“È
il tuo cuore ad esserlo.” Gli rispose. “E
sbagli a prenderla come un’offesa.”
Ancora una volta non gli
diede
tempo di ribattere, andando via in un frusciare di vesti. Michel
serrò le
labbra e si appoggiò al muro – bianco, sempre
bianco, dava il mal di testa –
cercando di reprimere la voglia di urlare.
****
Piccadilly Circus, The Royal
Inn.
Pomeriggio.
“Come
sta?”
Lily chiuse piano la porta
della stanza di Milo. “Si è addormentato come un
bambino … ubriaco e drogato
come un cavallo.” Si passò una mano trai capelli.
“Poverino, era ridotto ad uno
straccio.”
“Non lo
dà a vedere ma ha le
sue fragilità. Zabini evidentemente era una di
queste.” Commentò Sören scrollando
la cenere oltre il balcone a cui era appoggiato. Aveva l’aria
di chi covava
tempesta e Lily si chiese se non dovesse preoccuparsi per
l’amico di suo
fratello.
A
ben pensarci, per come l’ha trattato … nah. Brucia
all’Inferno, Zabini. Sei proprio uno stronzo.
“Pensi che dicesse
la verità?
Se ne vuole andare?”
A quella domanda si strinse
nelle spalle sedendosi sul bracciolo del divano e battendo la mano per
invitarlo a sedersi con lei. “Penso che sia saggio
chiederglielo quando avrà
smaltito la sbornia.”
Le obbedì senza parlare, tutto perso in pensieri foschi. Fu
conseguente quindi
scivolargli accanto ed accarezzargli i capelli e la schiena come se
fosse un
gatto particolarmente irritabile. Sören gradì anche
se non aprì bocca.
Oh,
noi lavoriamo su tutt’altro livello di
comunicazione.
“Anche se non
lavorerà più per
te non significa che non possiate essere amici. Anzi, avere un rapporto
paritario non può che farvi bene.”
Suggerì conciliante; aveva seguito il
dibattito trai due ed era piuttosto sicura che Milo non avrebbe
cambiato idea
al risveglio. Pareva il genere di ragazzo che quando prendeva una
decisione non
si rimangiava la parola.
Sören spense la
sigaretta
schiacciandola sul posacenere. Era tentato di accendersene
un’altra da come
occhieggiò il pacchetto sul tavolino da caffè.
Poi rinunciò. “È che … mi
ero
abituato alla sua presenza. Per quanto ingombrante non mi faceva mai
sentire…”
“Solo?”
Indovinò. “È normale!
Ci ho messo mesi ad abituarmi a dormire in una stanza tutta per me,
finita
Hogwarts. Ad avere dello spazio personale.”
Ma non l’altro non intendeva quello, lo vide da come la stava
ascoltando a
malapena.
Ha
paura di rimanere da solo.
A
parte Milo, per anni, non ha avuto nessun altro.
In quel momento
capì quanto
l’abbandono del Magonò l’avesse
scombussolato. Sören era stato abituato fin
dalla nascita ad avere qualcuno attorno, sia che lo servisse, sia che
lo
controllasse come una pedina sulla scacchiera.
“Non è detto che voglia licenziarsi. E poi, nel
caso, puoi sempre prenderti un
altro assiste…”
“Non voglio un
altro
assistente.” Borbottò cocciuto come un bambino a
cui era stato sottratto un
giocattolo senza che ne capisse il motivo. Il tono era quello, la
ragione era
più profonda.
Gli appoggiò la
testa sulla
spalla. “Una ragazza invece la vuoi?”
Voltò il viso per
guardarla e
le sorrise. “Pensavo di averla già.”
“Infatti. Ora
siamo in due.
Dobbiamo abituarci, credo, ma siamo
in due.”
“Non
intendevo…”
Lo fermò. “Sono seria. Indipendentemente
dall’America … non sei più
solo.”
Lasciò che quel concetto si sedimentasse nell’aria
mentre si alzava per andare
a mettere un po’ di musica alla radio. Il silenzio che gli
avvolgeva non faceva
bene a nessuno dei due: lei perché non era abituata alla
mancanza di rumore,
che fosse sul posto di lavoro o a causa della sua famiglia,
Sören perché non
andava lasciato solo con i suoi pensieri troppo a lungo.
You
think you're quite the wizard, got me under your spell,
But guess what, Mister Wizard, you don't know me so well
“Celestina
Warbeck, tipico.” Sospirò ricordando i lunghissimi
inverni della Tana e le altrettanto lunghe quanto inevitabili
rassegne
musicali tenute da nonna Molly durante il periodo natalizio. Ricordava
ancora
con divertimento le fughe di Tom nel pollaio al solo sentire le prima
note
della celebre strega canterina.
Colpa
mia che ho voluto accendere la radio di mattina. È
territorio dei nostalgici
questo.
Sören
aggrottò le sopracciglia. “Conosco questa
canzone.” Disse sorpreso da sé stesso.
“La sentivo spesso, al castello.”
“A tuo zio piaceva Celestina?” La cosa era
così assurda che l’altro ridacchiò,
quando parlare del parente di solito gli dava tutt’alto che
ilarità.
“No, non credo
fosse opera sua, forse dei servitori
… È uno di quelli che vengono chiamati classici
intramontabili, vero?”
“Puoi dirlo
forte!” Accennò qualche passo di danza,
solo per vedere l’espressione dell’altro
rischiararsi. “Hai rubato il mio
calderone, il mio cappello preferito, trafugato il mio Gufo, ma non sei
poi
così acuto.” Canticchiò
imitando la gestualità demodè
dell’artista. La
guardava divertito, e questo le bastava: quel giorno avrebbero dovuto
dedicarlo
a lasciarsi alle spalle i problemi.
Invece
siamo qui a badare ad un idiota ubriaco.
Tanto valeva arrangiarsi con
quello che avevano.
Gli tese le mani, e quando le prese lo tirò su.
Sören, che a volte pareva
uscito dagli anni della Warbeck, la prese tra le braccia, ma invece di
baciarla
come aveva pensato la coinvolse in pochi passi di danza che ben si
adattavano
alla musica.
Oh,
sure, you're quite the dancer, swept me off
of my feet
But back here on the ground, I see a liar and cheat
“Prince,
lei balla?”
Chiese in tono
di falso stupore.
“Se ricorda bene,
Potter, ne sono perfettamente in
grado.” Le rispose a tono facendole fare un lieve giro su se
stessa. Quello era
un lato di Sören che le piaceva: sicuro di sé,
ironico, dolce.
Peccato
esca fuori solo quando è rilassato. Cioè quasi
mai.
Ma dovevano assaporare quei
momenti senza stare
troppo a rifletterci sopra. “Sì, mi ricordo di un
cavaliere che mi fece ballare
divinamente al Ballo del Ceppo. Era lei?” Lo
stuzzicò: era un sentiero ancora
fragile, quello, ma se lo stavano lasciando alle spalle.
Sören
chinò la testa alla sua altezza. “Sì e
no.”
Abbozzò un mezzo sorriso, un’ombra di rimorso
negli occhi che si affrettò a
fugare con una carezza. “Ma i miei sentimenti erano
sinceri.”
“Non come il mago
nella canzone.”
“Non come quel mago, no.” Confermò. Fece
una pausa. “Da bambino mi piaceva quando
passava alla radio. Credo sia stato il mio primo assaggio di
Inghilterra, oltre
i racconti di mio padre.”
“Non avevo dubbi,
mio antiquato cavaliere, andresti
d’accordo con nonna Molly.” Lo prese in giro,
appoggiando la tempia contro la
guancia dell’altro. Piccoli momenti, pensò, erano
importanti. “Beh, potrei anche
rivalutare la vecchia Warbeck se continuiamo a ballare.”
“Fino alla fine
della canzone?”
“Ed
oltre.”
Sören la guardo
confuso, poi sorrise. Se aveva
capito, aveva capito giusto. “Ed oltre, mia
Lilian.”
L’eternità,
come aveva scritto qualcuno, in fondo era
fatta di piccolo instanti.
****
Ministero
della Magia, Settimo Piano, Prigioni Ministeriali.
Pomeriggio.
Le prigioni del Ministero non erano come quelle di Azkaban ma non erano
neppure
luoghi accoglienti.
Harry aveva visitato quelle
celle umide e
illuminate solo da torce molte volte nella sua carriera da Auror,
trovandovi
dal ladruncolo di strada al mago di nobile blasonatura. Non aveva mai
fatto
differenza per lui: se eri lì dentro, perdevi ogni diritto o
pretesa e ti
trasformarvi qualcuno in attesa di giudizio.
Il giovane carceriere che
l’aveva accompagnato nel
tragitto tra file uniformi di celle, cinte da sbarre di metallo dei
Folletti,
refrattario a magie e fatture, sembrava più intimidito della
teppa che vedevano
sfilarsi davanti, occupata piuttosto a lanciargli sguaiataggini e
occhiate
velenose.
“È
… è qui Signore.” Balbettò
indicando con il
grosso mazzo di chiavi una cella alla fine del corridoio. Beneficiava
di un po’
di luce, sebbene creata magicamente, ed al centro vi era seduta, come
in attesa
d’esser chiamata da qualcuno, Sophia Von Hohenheim.
“Bene, fammi
entrare e poi lasciaci soli.” Lo
istruì: Ron si era prodotto in lamentele feroci sulla totale
mancanza di
collaborazione da parte della strega tedesca, aggiungendo con una certa
dose di
preoccupazione che si rifiutava anche di mangiare e bere.
Ci
manca solo si faccia morire per consunzione.
Era arrivato il momento per
lui di scendere in
campo: non c’erano certezze che la donna avrebbe parlato in
sua presenza, ma doveva
provare.
La
mia fama a volte ha sciolto più di una lingua.
Per paura o per soggezione
della sua fama molti
sospettati avevano vuotato il sacco. Al di là di tutto, aver
ucciso il mago
oscuro più potente dell’epoca dava un incentivo
anche al più incallito
criminale.
Anche
se in questo caso la faccenda è diversa.
Sophia Von Hohenheim lo
guardò infatti entrare con
disinteresse, lasciando vagare lo sguardo su di lui e dietro di lui,
dove il
carceriere stava chiudendo la porta a doppia mandata.
Harry ricambiò
l’analisi: la strega nel dossier che
aveva loro passato Ama era più giovane, ma era la stessa che
aveva di fronte, non
c’erano dubbi: i lineamenti leggeri, i grandi occhi scuri e
il manto di capelli
corvini lasciato appoggiare sulle spalle erano gli stessi. Anche se era
vestita
con una tunica ed un mantello dal taglio semplice era ovvio che facesse
parte
di quella stretta elitè di maghi che veniva chiamata
Purosangue.
Hanno
tutti la stessa postura.
“Buongiorno.”
La salutò con tono amichevole.
Estrarle informazioni con la minaccia di Azkban a vita non aveva
funzionato
granchè. Forse era il momento di cambiare approccio.
“Sono il Capitano Harry
Potter.”
Quello di solitò bastava a scatenare reazioni in chiunque.
Sophia Von Hohenheim
invece si limitò ad inarcare le sopracciglia:
l’aveva riconosciuto ma non
voleva dargli la soddisfazione di farglielo notare.
“I miei uomini non
sono riusciti a capire se parla
la nostra lingua. Ha bisogno di un traduttore?” Era una
domanda che gli era già
stata fatta, come era stato provato già provato a parlarle
in tedesco.
Anche stavolta non pervenne
risposta. Harry lanciò
quindi un’occhiata al vassoio della colazione lasciato
intatto. “Vedo che la
cucina del Ministero non è di suo gradimento. Ha qualche
allergia? Preferirebbe
qualcos’altro?”
La donna fece un sorriso
sottile, quasi a presa in
giro, ma era già più di quanto avesse concesso a
Ron e alla sua squadra. Harry
lo prese come un segno positivo e si sedette sulla panca dura che
fungeva da
letto.
Niente
comodità per i cattivi.
Intuiva che era incuriosita
da lui, anche solo per
chi era. Si mise così nei suoi panni: dubitava fosse una
semplice vittima delle
circostanza e del suo protettore, ma al tempo stesso aveva
l’impressione, da
come si stava comportando, che avesse accettato la sorte con fin troppa
remissività.
O
crede che verrà a salvarla o non le importa più
di tanto.
“Sophia
… posso chiamarla così?” Non
aspettò
risposta, anche se dal cipiglio irritato che gli venne rivolto
l’iniziativa non
doveva esser piaciuta. “Immagino capisca in che situazione si
trovi. E se non
fosse stato così alla sua cattura, credo che i miei uomini
glielo abbiano
spiegato approfonditamente. Lei è considerata complice del
mago conosciuto come
John Doe e quindi è connivente di tutto quello che ha
compiuto su suolo
britannico. Per l’America non mi pronuncio, ma presto temo
avrà notizie anche
da loro.”
La donna per tutta risposta
posò le mani in grembo:
aveva uno sguardo intelligente, per nulla spaventato. Ron aveva perso
le staffe
con tutte le buone ragioni del caso.
Non
parlerà. Non con le solite minacce o offerte di
patteggiamento.
Doveva tentare
qualcos’altro. Doveva scoprire chi
era Sophia Von Hohnheim.
“Ho letto di
lei.” Disse. “Un fascicolo di polizia
non dice molto di una persona, è vero, ma ho abbastanza
informazioni per
intuire che lei, in questa faccenda del Demiurgo, c’entra
poco o nulla. Sa
poco o nulla.”
La strega fece un secondo,
piccolo sorriso. Pareva
divertita dai suoi tentativi di instaurare un dialogo, ma tuttavia c’era
qualcosa che la preoccupava. Forse non si notava
dall’espressione, ma dalla
postura rigida, dalle mani in grembo sì.
Questa
donna non ha paura di niente. Ha vissuto con due uomini crudeli e
violenti. Non
teme certo la prigione.
Allora
cosa la preoccupa?
Immedesimarsi in una strega
simile non era facile,
ma Harry ci provò. Era una fuggitiva, una persona che si era
nascosta per anni
all’ombra di un mago che poteva essere il suo amante come il
suo aguzzino –
durante la visita medica di routine per chi entrava nelle carceri erano
stati
trovati lividi e morsi in buona parte del suo corpo. Era cresciuta
nell’ombra
di un fratello megalomane che l’aveva venduta ad un uomo
più vecchio di
lei.
C’era solo un
punto in comune tra lui e quella
strega silenziosa.
Siamo
entrambi genitori.
Tanto valeva tentare quella
carta. “È stato Sören a
trovarla, non è vero?”
Aveva afferrato il Boccino.
Il sorriso sulle labbra
di Sophia si spense di colpo, mentre l’espressione si fece
guardinga.
Una
madre rimane una madre fino alla fine dei suoi giorni.
Era Sören a
preoccuparla; aver rivisto il figlio ed
essersi fatta stringere le manette ai polsi da lui doveva averla
perlomento colpita.
Ed era lì che
Harry aveva intenzione di insistere.
“Dev’esser stata una sorpresa incontrarlo dopo
tutti questi anni. Quand’è stata
l’ultima volta che l’ha visto? Doveva essere un
bambino. Mi ricordo quando il
mio primogenito James partì per il suo primo anno di scuola.
Fu difficile non
averlo più in casa.”
La strega si espresse di
nuovo in quel suo sorrisetto
ambiguo. “Sta cercando di farmi sentire in colpa?”
Era la prima volta che
sentiva la sua voce ed era
come se l’era aspettata: bassa, avvolgente e capace di
attirare l’attenzione
anche in una prigione rumorosa. Parlava inglese alla perfezione: non la
tradiva
neppure l’accento.
“Sto cercando di
scoprire chi è lei, Sophia.”
Rispose scrollando le spalle. “Complice o ignara
compagna?”
“È
terribilmente importante per voi questa
distinzione, vedo.” La strega si appoggiò allo
schienale incrociando le braccia
sottili al petto. Era bella, e nella sua gioventù doveva
aver spinto al duello
più di un giovane mago. Di certo, ne aveva ancora il potere.
“In ogni caso, non
posso aiutarvi. Johan non mi ha mai parlato del suo lavoro, ed io non
gli ho
mai chiesto nulla. Per rispondere alla sua domanda, la seconda, Signor
Potter.
Non mi intendo che di faccende di letto e d’amore.”
Si passò le dita sulla
guancia, mimando una carezza d’amante. “Mi hanno
educata così.”
“Le amanti possono essere confidenti.”
“Lei non conosce Johan. Il suo migliore amico è il
riflesso di uno specchio.”
Mise su una piccola smorfia infastidita. “Ho cercato di farlo
capire al suo
collega dai capelli rossi.”
“Come, rimanendo in silenzio?”
Ridacchiò.
“Anche il silenzio è una forma di
comunicazione, mi duole che il suo collega non lo abbia compreso. Non
volevo
essere scortese.” Inclinò la testa da un lato.
“Le paio scortese?” Pareva non
aver ancora finito nel suo scrutinio. Harry si sentì, per la
prima volta, un
po’ a disagio.
Questa
donna ha il sangue dei Von Hohenheim. Di Alberich e di Thomas. Non devo
prenderla sottogamba.
Invece non assomigliava
affato al figlio. Forse
nella forma degli occhi, in qualche lineamento, ma era una somiglianza
distante, remota.
“No, non lo
è.” Ammise tranquillo. “Ma non ci
può
bastare per attestare l’innocenza di qualcuno.”
Sophia annuì. “È comprensibile. Ma la
mia presenza qui non vi darà il minimo
vantaggio sul mio Giullare.”
Doveva parlare di Doe. “Sarà preoccupato per
lei.”
“Sarà furioso.” Giocherellò
con un immaginario monile che aveva al collo.
Dovevano averglieli tolti tutti al suo ingresso in cella. “Ma
questo non lo
fermerà da attuare ciò che si è
prefisso. Voi non mi farete niente, con tutte
le vostre leggi … e potrà sempre venirmi a
prendere quando tutto sarà finito.”
“Si fida così tanto di lui?”
“Non si tratta di
fiducia, ma di bisogno.”
“Bisogno di
cosa?”
“Di me. Sono in
grado di aspettare. Sono brava in
questo, Signor Potter.”
Harry rimase in silenzio:
come aveva previso, non
aveva cavato un ragno da un buco. Sophia Von Hohenheim non poteva
aiutarli, o
non voleva. Ron aveva proposto il Veritaserum e potevano anche
richiedere
l’autorizzazione ad usarlo, ma Harry non era convinto sarebbe
servito.
Funziona
solo con le menti deboli. E questa donna non lo è.
“Se non crede alle
mie parole fate del vostro
meglio.” Gli disse infatti, quasi gli avesse letto nel
pensiero. “Usate il
Veritaserum, mi è stato detto sia una vera
specialità britannica.”
“Me lo sta
proponendo perché è in grado di
contrastarne gli effetti?”
Sophia sorrise.
“Forse.”
Harry a quel punto
scattò in piedi irritato. Quella
donna pareva trovare profondamente divertente quella situazione,
persino la sua
attuale dimora. “Non voglio giocare con lei,
Sophia.” Rispose duro. “Delle
persone sono morte, e altre stanno soffrendo in un letto
d’ospedale per
l’avidità del suo compagno. Creare un siero per
potenziare la magia di un
individuo e sperimentarlo su maghi e streghe ignari degli effetti
collaterali.
È inumano!”
La donna sospirò. “Sta tentando di appellarsi al
mio buon cuore?”
“Sempre che ne
abbia uno.”
“Così le han detto? Peccato, si crede a certe
menzogne…”
“Quelle sono campo del suo giullare.” Ritorse.
“Risponda allora ad un’ultima
domanda … Al castello dei Prince … era la prima
volta che vedeva Sören dopo
anni?”
L’aveva colta in
contropiede. “Crede che stia
mentendo anche su questo?”
“Perché no?”
La vide aggrottare le
sopracciglia inquieta, cosa
che le conferì gli anni che doveva avere e non aveva
mostrato fino a quel
momento. Stava riflettendo sulle sue parole. Poi arrivò
all’ovvia conclusione.
“Pensa che Sören sia nostro complice?”
“Non penso, mi
muovo secondo le prove che ottengo.”
L’espressione
della donna si fece distante. “Non ne
ho idea.” Disse. “Gliel’ho già
detto.”
Harry a quel
puntò si alzò in piedi. “Bene, la
ringrazio.” Battè sulle sbarre della cella per
richiamare il carceriere. “Mangi
qualcosa.” Le suggerì. “Non
sarà una cucina a cinque bacchette, ma sono le
stesse cose che mangiamo ai piani superiori. Non è
male.”
Gli venne rivolta
un’occhiata ostile. Era una donna
intelligente e doveva aver realizzato di avergli suo malgrado mostrato
il
fianco.
Una
madre rimane sempre una madre.
Forse non aveva nessuna
intenzione di riconciliarsi
con il figlio, ma mentiva quando diceva le fosse indifferente.
Dopotutto
è stato il suo nome a farla parlare.
****
Note:
Quasi un mese. E comunque, capitolo ciccioso!
Per chi vuole sapere da dove
ho preso la citazione questa
la poesia da cui deriva. La vedo tanto Lily/Ren. In generale, di
incredibile ispirazione per una storia. ;)
Questa
la canzone del capitolo e che fa un po’ da chiusa, direi.
Questa
la canzone di Celestina. Sì, audio originale. Sì,
è canon, sia da Pottermore
che dal palco di Orlando. A quanto pare, ai vecchi maghi piace lo
swing. Va da
sè, anche a Ren.
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Capitolo 46 *** Capitolo XLV ***
Cap da Pubblicare
Capitolo XLV
Would it be much better if I knew nothing about you?
(1957, Milo Green)
1 Agosto 2018
Londra, Piccadilly Circus.
The Royal Inn
Milo si svegliò con un mal di testa feroce. Non solo, anche con un male
infernale alla bocca, un labbro tumefatto e la voglia di rimettere.
Per Faust, l’ultima volta che sono
caduto così in basso … No, non me la ricordo.
Spalancò gli occhi sul soffitto a volta della sua camera d’albergo a
Piccadilly Circus, e questo poteva solo significare che qualcuno ce
l’aveva portato. Di peso.
Non ci sarei mai tornato da
solo.
Tirandosi in piedi, trovò sul comodino una caraffa d’acqua con una
fialetta grigiastra a fianco. E ancora, il proprio violino con la
custodia aperta a mostrarlo al sicuro, sul divano accanto alla
finestra. Lo raggiunse, un po’ inciampando, un po’ serrando gli occhi
al mare dondolante che sostituiva il tappeto e se lo strinse infine al
petto. Il legno sincero, le corde fredde gli diedero di nuovo la
dimensione giusta del mondo.
Allora ricordò il Black Goose e l’intervento del principino e della sua
bella.
… merda.
Con un grugnito si strofinò il viso tra le dita, mugolio che approfondì
quando notò lo stato della sua barba. C’erano attaccate cose.
Che schifo. Sono uno schifo.
Doveva farsi una doccia prima di presentarsi al mondo intero e in
particolare ai due maghetti odiosi e, soprattutto, coraggiosi, che
erano venuto a riprenderlo nel buco di culo in cui si era infilato per
soffocare il proprio cuore infranto.
Dieci minuti dopo era pulito, sbarbato e con il grosso bisogno di un
ricambio di vestiti.
Già, li ho lasciati nella stanza
della locanda.
Fregandosene del pudore si assicurò l’asciugamano alla vita e si
avventurò fuori dalla propria stanza. Con sorpresa si accorse che Sören
era seduto sul divano del salotto, intento a leggere un libro.
Sono mesi che non lo vedo fermo in un
posto a fare qualcosa di rilassante. Curioso.
“Ehi.” Tentò tenendo a freno l’imbarazzo: ricordava a spezzoni la loro
conversazione fuori dal pub ma era piuttosto sicuro di avergli
singhiozzato contro.
Sören alzò la testa, squadrandolo da capo a piedi. “Buongiorno.”
Rispose appoggiando il libro, aperto, su uno dei braccioli: per essere
l’incarnazione dell’ordine e precisione militare era singolarmente
trascurato se si trattava di libri. “Hai dormito bene?”
“Di merda.” Puntò sulla sincerità, perché neanche la doccia bollente e
la fiala di viatico lo avevano risollevato del tutto.
Il fisico si può rimettere in piedi.
Il resto, no.
Sören annuì con aria compunta, esilarante se non si fosse sentito ad un
passo dal suicidio. “Vuoi mangiare qualcosa?”
“Vorrei spararmi un colpo in testa, ma sul lungo periodo non è una
soluzione intelligente.” Borbottò spalmandosi sulla sedia dirimpettaia.
“Penso di aver funzionanti solo il cinquanta per cento dei miei
organi.”
Sören colse l’occasione offerta su un piatto d’argento. “E il cervello?”
“Quello sta messo peggio di tutti.”
Rimasero in silenzio e Milo capì che doveva esser lui a fare il primo
passo. Del resto, quella partita l’aveva aperta lui. “Ho scazzato.”
Ammise. “Non avrei dovuto dirti quelle cose e mollarti su due piedi …
senza avvertirti o altro. Mi sono comportato da stronzo.”
“Sì.” Confermò senza livore. Chissà cosa gli aveva detto Zenzero per
fargliela prendere così bene.
Non che questo tipetto qua accetti
tanto facilmente i cambiamenti, eh.
Ma avere una ragazza forse gli aveva messo qualche rotella a posto.
“Scusami.” Concluse con semplicità, perché a volte non c’era molto
altro da dire se non quelle tre sillabe. “Non ci stavo con la testa.”
“Sì, è chiaro.” Esitò. “Devo accettare le tue dimissioni quindi?”
Aveva preso quella decisione nell’impeto della collera e
dell’infelicità, ma questo non significava che avesse meno valore.
“Sì.” Sospirò. “Magari non subito, intendo, ti devo almeno un paio di
mesi di preavviso, ma … Penso di aver bisogno di cambiare aria.”
“Vuoi andartene dal mondo magico?”
“Non lo so. Forse tornare in America, magari là si respira un po’.”
Fece una smorfia, cercando le sigarette dove non le avrebbe trovate,
ovvero nelle tasche inesistenti del suo asciugamano. Sören prese il
pacchetto delle proprie e glielo lanciò. Se ne fece accendere una
grato.
“Non tutti i maghi sono come Zabini.” Coltellata diretta. In fondo
avrebbe dovuto immaginarsi che persino un tardo come Sören avrebbe
capito il motivo di tanta sturm und
drang. “Io non sono Zabini.”
Gli sorrise, tirando una boccata di fumo. “No, non sei Zabini.”
Convenne. “Avrei dovuto innamorarmi di te.”
Sören, essendo il meraviglioso neonato nato sotto un cavolo che era, lo
guardò meditabondo e poi si strinse le spalle. “Un amore non
corrisposto è meglio o peggio di quello che ti è accaduto?”
“Tu saresti stato più gentile.”
“Vero.” Asserì con totale tranquillità, tanto che qualcosa gli si
sciolse dentro. Non tanto da aver voglia di gettargli le braccia al
collo e proclamargli eterna fedeltà e amicizia. Ma qualcosa, comunque.
“Cosa ti ha fatto?”
No, non era minimamente pronto per quello. Ma dall’espressione cupa di
Sören era chiaro che avesse frainteso appieno. “Non mi ha fatto del
male fisico.” Chiarì, casomai l’altro pensasse a torture o violenze
gratuite. “Mi ha solo detto di levarmi dalle palle. Scoparsi un Magonò
e fare avanzamento di carriera nel Ministero della Magia non sono due
cose che vanno d’accordo.”
Sören serrò le labbra e per un attimo temette che gli avrebbe rifilato
la solita solfa del ‘è complicato, in una società chiusa come questa’.
“Non ti merita.” Dichiarò con la fermezza con cui l’aveva sempre
sentito impuntarsi.
“Sì, vabbeh.”
“So quel che dico.” Ribattè. “È lui a non meritarti. È lui la persona
meschina.”
Era quello il bello del principino: nonostante fosse cresciuto
nell’ambiente più settario e razzista del pianeta, riusciva ancora a
considerare le persone come esseri umani e non ricettacoli per
etichette. Il suo ridicolo codice d’onore, del tutto fuori moda e
ingombrante, l’aveva tenuto al sicuro dalle idee malsane che gli erano
fioccate attorno sin da ragazzino.
La testa vuota migliore che conosco.
“Vuoi tornare a Boston?” Gli chiese, riscuotendolo dai suo pensieri.
“Perché posso prenotarti una Passaporta Continentale.”
“Quando avrò smesso di aver voglia di vomitarmi l’intestino … sì,
grazie.” Incrociò le braccia al petto, perché cominciava ad avere
freddo. “Nel frattempo posso…” Si schiarì la voce perché aveva fumato
troppo, tutto qui. “… posso restare qui?”
Sören doveva esser decisamente stato addestrato dalla sua nuova,
fiammante – letteralmente – ragazza perché sorrise come se se lo fosse
aspettato. “Certo. Mi devi ancora un mese di preavviso, giusto?”
Sorrise di rimando. “Giusto.”
Era la prima volta che aveva voglia di abbracciarlo e dirgli grazie.
Era un’urgenza scomodissima, che gli dava più ansia che buttarsi da un
cavalcavia con il solo ausilio di un ombrello sfondato. Era questa la
cosa buffa del cuore: non importa quanto fosse rotto, c’era sempre un
pezzo abbastanza integro che mandava avanti la baracca.
E darti la possibilità di considerare
qualcuno un amico. Un fratello.
Persino se è della stessa razza del codardo figlio di puttana che ci è
saltato sopra.
“Devo … uhm, recuperare le mie cose dal Black Goose. Ho affittato una
stanza là.” Spiegò in fretta, che quell’atmosfera melensa doveva aver
raggiunto anche l’altro da come lo squadrava accigliato. “Mi presti un
paio di vestiti che non puzzino di fogna così vado a recuperarla?”
“Sì, ma devo adattarli alla tua taglia. Non sono bravo negli
incantesimi di sartoria.”
“E Zenzero? C’era anche lei ieri se non ho avuto un’allucinazione … Ora
state assieme, giusto?” Casomai avesse frainteso tutto. Ma dal pugno
che l’altro gli aveva rifilato non doveva essere il caso.
Solo un fidanzato incazzato reagisce
così. E solo una fidanzata ci ride sopra tutta orgogliosa.
Oddio, non tutte. Ma Zenzero è
svitata quanto lui. Due metà di una mela, proprio.
Sören tentò a stento di non illuminarsi come un albero di Natale. “Sì.”
Confermò con tono strangolato di chi non voleva esclamare come un
ragazzino contento. “Stamattina è al San Mungo per un turno. Ci
vediamo a pranzo … mi ha organizzato un picnic sulle scogliere di
Dover.”
“Che carina.” Commentò spassionato.
Sören ignorò blatantemente il suo tono, come ogni bravo innamorato
perso dietro le sue fantasie che si rispettasse. “Già.”
Non riuscì proprio ad infierire. Quel povero bastardo aveva sofferto
abbastanza, in materia. “Dammi la roba più larga che hai.” Cambiò
invece
discorso. “Mi ci arrangio.”
Sören si alzò per andare a recuperarla e Milo si permise un
conseguente, profondo, lamento.
Almeno uno di noi due è felice.
****
Ministero della
Magia, Ufficio Auror.
Mattina.
Scorpius non si era mai sentito così solo. O meglio, eccome se ci si
era sentito, ma all’epoca era ancora un bambino, aveva un uniforme
troppo ingombrante e un’intera Casa convinta che il Cappello avesse
sbagliato a smistarlo.
Okay, è diverso ora.
Perché comunque nell’ufficio Auror aveva imparato a sentirsi a casa; i
colleghi si erano abituati al suo viso aguzzo e ai capelli troppo
biondi e riuscivano persino a chiamarlo per cognome senza attaccarci su
la faccia di chi aveva morso un limone.
Nonostante questo, quel giorno si sentiva solo e desolato come un
bambino, con Bobby al San Mungo e James a casa in convalescenza.
Stupido Potter. Mi si abbandona così!
Sono un ragazzo fragile!
Sorseggiò la propria tazza di the, saldamente ancorato nei pressi del
bollitore del piccolo cucinino; non gli andava di tornare alla
scrivania e dover affrontare gli altri ragazzi.
È stato un fiasco. Il blizt è stato
un fiasco perché c’è una talpa.
Non era così egocentrico, sapeva che non riguardava solo lui, che tutti si stavano
guardando alle spalle…
Ma sono l’unico con una famiglia con
un passato di tattici voltagabbana.
Non gliel’avrebbero mai rinfacciato apertamente, ma non gli andava di
doversi misurare con discorsi troncati a metà al suo
passaggio o sorrisi costretti. Non senza Bobby e James a fargli da
spalla.
Prima la troviamo meglio sarà. Per
tutti. Questo clima non fa bene all’ufficio.
Gli Indicibili stavano indagando e avevano chiamato anche lui: era
stato il quarto d’ora più sgradevole della sua vita.
E ne ho avuti parecchi, di quelli.
“Ehi ragazzo.” Non gli era mai piaciuto Ron Weasley. Sì, si sforzava di
farselo andare a genio per il bene di Rose e della fragile pace che
intercorreva tra le loro famiglie, ma se avesse potuto parlare fuori
dai denti, avrebbe declamato in rima baciata quanto gli stesse
sull’anima.
Quel giorno però era l’unica persona, a parte forse il Capo Potter, che
non rischiava di fargli saltare i nervi.
Almeno lui mi ha sempre trattato da
Malfoy.
“Signore.” Rispose con il suo miglior tono disinvolto. Mai dargli
soddisfazione o peggio, fargli capire che si stava nascondendo dagli
altri.
L’uomo gli rivolse un secondo cenno del capo prima di raggiungere
l’agognata cisterna di caffè che riforniva tutta la squadra. Se ne
versò una tazza e la sorseggiò meditabondo.
“Gli Indicibili sono ancora in giro?” Gli chiese.
“Sì, oggi lavorano con la squadra di Stump.”
Ovvero li torchiano come stracci. Che
schifo, essere dall’altra parte.
“Come sta Artemisia?”
“Stamattina è stata dimessa, dovrà farsi un paio di giorni di riposo a
casa.”
“Ah, bene! Sarà contenta di stare un po’ con i suoi figli …”
“Già.”
Era stato lo scambio di battute più lungo che avessero avuto in ufficio
e, in generale, durante la loro intera conoscenza. A Scorpius trillò un
campanello.
Vuoi vedere che non sono il solo a
essersi rintanato qui con la scusa della pausa caffè?
Non disse niente però, limitandosi a nascondere un sorrisetto dentro la
tazza: era noto il fastidio che il Sergente Weasley provava
per ingerenze di qualsiasi tipo nel suo lavoro. Avere tra i piedi gente
che faceva
domande e chiamava i suoi uomini per lunghi colloqui, intimidendoli e
facendoli sentire come la feccia che sbattevano nei sotterranei doveva
averlo leggermente esacerbato.
L’altro dovette notare la sua smorfia perché lo fulminò con
un’occhiataccia. “La tua pausa da quanto dura?”
Fece spallucce. “Da stamattina. La mia squadra è tutta infortunata, e
né Ama né Sören si sono ancora fatti vedere. Non ho molto da fare qui a
parte ordinare le scartoffie, ma non mi va di tornare a casa.”
Specie se non c’è Rosie.
Non poteva passare tutto il giorno a portar a spasso Donnola.
Weasley annuì dato che aveva ragione: senza una squadra era bloccato e
non poteva assegnarsi arbitrariamente ad un’altra.
“Se vuoi farti qualche ora di lavoro i miei ragazzi stanno partendo per
Notturn Alley. C’è stato un po’ di trambusto stamattina, andiamo a
controllare.”
“Volentieri.” Accettò l’offerta con un sorriso: era stata tesa
ispidamente, ma era pur sempre un’offerta. Uscendo incontrarono Ama
che, da come era zuppa, doveva appena aver incontrato uno dei
famigerati acquazzoni estivi londinesi.
“Agente Malfoy … Sergente Weasley, buongiorno.” Salutò asciugandosi con
un paio di colpi di bacchetta; Scorpius non potè non registrare
la rigidità del saluto quando venne rivolto al più anziano.
Come mai?
“Sergente Gillespie.” Replicò con altrettanta legnosità questo.
Oh, no. Voglio proprio capirla questa!
“Signore, mi dà un attimo per parlare con Ama?” Chiese con il suo
miglior tono da bravo bambino.
Il Sergente sbuffò, ma non poteva negargli una chiacchierata con il suo
agente di collegamento. Sarebbe stato tra l’altro contro le regole.
Ci dobbiamo coordinare giornalmente.
“Non metterci troppo, Young e Bhatt partono tra cinque minuti.”
“Sissignore.” Quando se ne fu andato sorrise alla ragazza, che ricambiò
assente. Era stata dimessa quasi immediatamente la sera prima, ma aveva
comunque addosso i segni di chi aveva dormito poco. “Come stai?”
“Bene.” Mentì piuttosto male. “Potter, Jordan?”
“James tornerà alla fine della settimana, credo … suo padre gli ha
fatto prendere dei giorni di riposo praticamente legandolo al letto.
Bobby …” Si strinse le spalle e l’altra si rabbuiò.
“Avrei dovuto coprirgli le spalle. Era accanto a me.” Come aveva
immaginato, l’americana era il genere di persona che prendeva tutta le
colpe del mondo sulle proprie spalle.
Lei e Prince sono due gemellini in
questo.
Le mise una mano sulla spalla. “Abbiamo fatto quello che potevamo in
quell’inferno, non si vedeva un accidente a due palmi dal naso e c’era,
beh, appunto, l’inferno … Siamo vivi. Per me è già un bel risultato,
non credi?”
Ama annuì con un mezzo sorriso, guardandosi attorno alla ricerca di
qualcosa che sembrò non trovare. “Non c’è molto da fare vedo.”
Commentò.
“Vado a farmi un giretto a Notturn Alley a scansare morsi di Megera e
separare Magonò ubriachi, ti dico solo questo.” Poi chiese, perché
doveva chiedere. “È successo
qualcosa tra te e il Sergente?”
La risposta la potè agevolmente leggere sui lineamenti contratti della
ragazza. “Tra me e lui niente.” Disse serrando le braccia al petto. “Ce
l’ha con Prince però.”
“Con Sören? Ma no, non gli è mai piaciuto fin dal principio … quando si
è fatto un’idea su una persona è peggio di un Troll. Non gliela schiodi
dalla testa. Ma non credo ce l’abbia con lui per qualche motivo in
particolare.”
Ama si guardò attorno, poi abbassò la voce. “Pensa che sia la talpa.”
“Cosa?”
“Crede che sia stato Sören ad avvertire John Doe del blitz, e lo crede
perché ogni volta che l’ha incontrato non è riuscito a catturarlo.”
Fece una smorfia. “Come se fosse il primo a fallire.”
“Ma è ridicolo!” Eppure una parte di lui capiva perché Weasley non
si fidasse di Sören e lo avesse eletto a suo principale sospetto; non
era la prima volta che faceva il doppiogioco.
E questo non si può negare. Ci ha
ingannati tutti, cinque anni fa.
… e in teoria, sarebbe in grado di
farlo ancora.
Questo, secondo la mente malata di quel peldicarota naturalmente.
Scorpius non ci avrebbe creduto neanche in mille anni.
Sören è un bravo ragazzo. Un bravo
ragazzo con una famiglia di merda. Come papà.
… che non è un bravo ragazzo né una
brava persona, ma quando ha avuto la possibilità di cambiare, l’ha
fatto.
E l’aveva fatto anche Sören.
Ma vallo a spiegare ad uno come
Weasley, che indossa lo stesso pigiama da quando ha quindici anni.
“Questo è quello che pensi tu.” Rispose Ama quando perorò la
causa dell’amico comune. “E che penso anche io, detto tra noi, ma siamo
in pochi. In generale Sören non gode di buona fama, né qui né in
America. È una persona complicata.”
“Ma non è una spia! Cioè, non lo è più.”
“Appunto.”
Cavolo.
“Credi … credi che il Sergente l’abbia detto agli Indicibili? Dei suoi
sospetti?”
Ama scosse la testa. “Non credo. Secondo mia madre il Capo Potter gli
ha messo la museruola … Credo che prima voglia avere altri elementi.”
“Come un investigatore che si rispetti!” Borbottò a mezza bocca. Non
che pensasse che il padre di Rose fosse un pessimo detective. Anzi, era
forse uno dei migliori del Dipartimento.
Ma quando gli tocchi la famiglia
diventa irragionevole come un Crup. Argh, Weasley, tutti uguali!
“Gli Indicibili potranno arrivare alle conclusioni di Weasley anche
senza essere imbeccati.” Gli fece notare l’americana. “Sören è l’unico
ad aver avuto contatti con il Camaleonte. L’ha anche detto. E poi c’è
sua
madre.”
Scorpius si passò una mano trai capelli. “Come possiamo aiutarlo?”
“Certo non affrontando a muso duro gli Indicibili, né persone come il
Sergente Weasley. Dobbiamo fare il nostro lavoro, tutto qui.”
Scorpius fece una smorfia: era il genere di cosa sensata che evitava di
pensare come la peste.
“Malfoy.” Lo richiamò all’attenzione la ragazza con il tono paziente
di una professoressa con un alunno un po’ tardo. Gli ricordò Rosie.
Questo gli piacque. “Se troviamo John Doe troviamo anche la spia.”
“Sì, ma…”
Gli sorrise. “E se troviamo la spia, troviamo John Doe. È mutuo. È
ancora il nostro caso.”
Ah!
Ovviamente aveva ragione, e lui era stato un idiota troppo schiacciato
dal clima da inquisizione per realizzarlo. “Allora
troviamoli! Io e te!” Non si sarebbe arreso. E se doveva essere onesto,
non era solo per aiutare il tedesco a scrollarsi di dosso le accuse.
Ma anche per aiutare me stesso e il
mio dannato cognome.
Ama lo prese in contropiede puntandogli un dito al petto. “Io, te … e
quale altro civile illegalmente coinvolto?”
Ehm, giusto.
“Devi ammetterlo, abbiamo avuto ottime hint dal mondo civile … Magari
anche stavolta ci potrebbero aiutare!”
“No.”
“Sai che non dipende interamente da
noi.”
“Vi odio.” Si sorrisero. “Sono seria Malfoy, questo posto è assurdo.
Non vedo l’ora di tornare a Boston.”
“Vorremo tutti tornare alla normalità, credimi.” Esitò. “Dovremo dirlo
a Sören? Dei sospetti?”
Ama era ancor meno convinta di lui. “Non è stupido, deve averlo
capito.” Disse. “Ha già affrontato abbastanza in queste ultime
settimane … Lasciamolo in pace. Almeno per ora.”
****
Kent, Scogliere di Dover.
Ora di pranzo.
C’era sempre qualcosa di magico nelle vacanze che duravano una giornata.
Era un’interruzione breve, mirata, eppure, proprio perché durava una
manciata di ore, riusciva ad esser più magica che un’intera
villeggiatura lontano da casa.
A Lily erano sempre piaciute le fughe da Londra, per quanto amasse
quella metropoli che aveva imparato a considerare come casa sua. Al
tempo di
Hogwarts aveva rischiato di farsi espellere per quella sua
mania di volare verso nuovi orizzonti.
Ne andava pazza.
Scappare assieme a Sören era stato quindi doveroso, qualcosa da fare il
prima possibile. Quindi, appena era riuscita a liberarsi degli impegni
presi al
San Mungo avevano preso in prestito la macchina di Roxanne e
Dionis – i quali li avevano accolti con l’aria compiaciuta di chi aveva
scommesso su di loro e aveva vinto– e si erano diretti verso il Kent,
sorvolandolo tra sprazzi di nubi e brevi scrosci di pioggia.
Non un tempo perfetto, forse, ma Lily se l’era goduto comunque, con la
musica della radio ad alto volume e l’espressione rilassata del proprio
ragazzo a farvi da contrappunto. Soprattutto, si era goduta i baci che
si era sporta a dare, facendosi bacchettare per mancare di attenzione
alla guida.
This is not the future but I sense it’s right up there
oh, just another hour, another pass, another day anywhere
Si vedeva che Sören non era abituato: non tanto a viaggiare su una
macchina volante, quanto piuttosto a prendersi una giornata di pausa,
lontano da tutto e tutti.
Non siamo qui per questo?
Non era abituato a fare il turista, e l’espressione che gli si era
dipinta in volto quando avevano bucato le nubi per vedere le scogliere
era stata impagabile. L’aveva preso in giro, chiedendogli perché non si
fosse portato dietro una macchina fotografica se lo spettacolo gli
piaceva tanto, ed era stata quasi Schiantata da uno dei suoi sorrisi
disarmanti – tali perché pareva non essere in grado di farli.
“Non ne ho bisogno, non mi scorderò questa giornata finchè vivrò.”
E Lily gli credeva: perché le prime volte non si dimenticano mai.
Arrivati, avevano abbandonato la macchina in un parcheggio come due
Babbani e come tali si erano comportanti anche durante la passeggiata
di quasi un’ora per il faro di South Foreland, punta estrema della
scogliera.
Grazie alle gite con Rose, Hugo e i loro nonni, sin da bambina si era
abituata ad amare quei panorami da magone e della
vegetazione brula, essenziale e coraggiosa, ma mostrarli
a Sören e spiegarglieli con la mano intrecciata alla sua era stata
tutt’altra cosa.
Il mondo è bello ed io ho l’uomo che
voglio accanto. Bacchetta o meno. Questo lo capiscono tutti, vero?
Lo capivano. Tutto l’universo capiva. Era fantastico.
La passeggiata si era conclusa di fronte al faro bianco e tozzo; si
erano così seduti sull’erba gialla
d’estate, un po’ distanti dal resto dei turisti e il pic-nic era
finalmente iniziato.
Sören, che era adesso steso sulla coperta, nascose uno sbadiglio in una
mano. “Se avessi dovuto scommettere dei Galeoni sulla tua capacità di
cucinare, temo avrei perso tutta la mia fortuna.” Decretò.
Lily gli lanciò uno dei cuscini che aveva fatto emergere dalla sua,
apparentemente vuota, borsetta. L’Incantesimo di Estensione
Irriconoscibile non gli era mai stato così utile. “Sei proprio carino!”
L’altro parò il colpo con un sorriso divertito e sazio.“Non mi avevi
detto che fossi in grado di cucinare, anzi, piuttosto millantavi il
contrario.”
Mise il broncio tanto per tenere la posizione. “Infatti non mi piace
mettermi ai fornelli … ma questi sono sandwich e poco altro!”
Sören le prese una mano per baciarle la punta delle dita intrecciandola
poi alla sua e fu dura non sciogliersi. “Dovresti prenderlo come un
complimento, mia Lilian.”
Agh, non chiamarmi in quel modo con
quell’accento. Criminale, è criminale!
Gli restituì una linguaccia perché era una strega tutta di un pezzo.
“Non avevo idea di che pozzo senza fondo fossi!”
Sören fece spallucce. “Solo con le cose che mi piacciono. A proposito,
come facevi a conoscerle?”
“Segreto!” Finì il suo succo di zucca in un sorso soddisfatto. Nonna
Molly chiocciava soddisfatta dentro la sua testa, ma lei era
semplicemente contenta di averlo visto mangiare con gusto, quindi al
diavolo l’apparire una perfetta donnina di casa. “No, dai, l’ho chiesto
a
Milo un po’ di tempo fa.” Aggiunse notando la sua confusione. “Era da
tanto che volevo organizzare questa cosa.”
Sören smise di strappare dei fili d’erba secchi per guardarla stupito.
“Anche come amica?”
“Certo!” Rispose piccata. “Eri tu che trovavi scuse su scuse per non
uscire con me! E il lavoro, e il mio ragazzo … e le tue menate mentali…”
Sören aggrottò le sopracciglia come se ci stesse riflettendo sopra. “È
vero, non avevo voglia di uscire con te.” La stava prendendo in giro ma
era così carino vederlo in quella veste che non aveva proprio la forza
di arrabbiarsi. “Perché non avrei potuto comportarmi come volevo.”
“Cioè?”
“Te lo dimostro.”
Soffocò un gridolino misto a risata quando l’altro si voltò, l’afferrò
facendola cadere sui cuscini e la baciò appassionatamente.
Se cinque anni prima qualcuno gli avesse raccontato che i suoi
vent’anni sarebbero stati anche baciare su una coperta patchwork una
strega bellissima mentre alle sue spalle c’era sole, scogliere bianche
e mare, quasi fossero in una cartolina idilliaca … avrebbe affatturato
l’incosciente messaggero.
Ora invece ci credeva. Perché le labbra che lo baciavano erano vere, ed
appartenevano a Lily, così come era reale il vento che gli si infilava
sotto la camicia o il profumo di succo di zucca che sentiva sulla
lingua.
Era tutto vero. E avrebbe lottato con le unghie e coi denti perché non
smettesse di esserlo.
“Stiamo dando spettacolo?” Sussurò Lily al suo orecchio, facendogli
alzare la testa imbarazzato. Quando era in sua compagnia si scordava
fin troppo spesso che non erano i soli abitanti di quelle isole.
Si tranquillizzò quando vide che non c’era nessuno: i turisti si
tenevano ben lontani dal loro nido di cuscini e vettovaglie dopo che
Lily vi aveva lanciato un Repello
Babbanum.
Io non posso farlo. Potrei … ma
meglio non attirare l’attenzione del Ministero con incantesimi ambigui.
Si distesero e Lily gli si accocolò contro come un animaletto
soddisfatto. “Ricordami di lasciare qualcosa per i ragazzi della
scorta.” Gli disse giocherellando con un bottone della sua camicia.
“Sono stati così carini a lasciarci soli!”
“Credo che più della bontà d’animo c’entri la sala da the del
faro.”
“Comunque!” Ribattè Lily. “Sai che ho un debole per gli uomini in
uniforme.” Soggiunse con aria sbarazzina. “Mi fanno proprio girare la
testa!”
Resse il gioco: essere gelosi delle sparate scherzose di Lily
equivaleva ad insultarla. “Spero anche in borghese.”
“Sopratutto in borghese.”
Non aveva mai considerato la pigrizia un pregio, tutt’altro; sin da
bambino gli era stato insegnato a non indulgervi, mai, per nessun
motivo. L’accidia era la tomba del soldato. Eppure, baciandosi con
calma, con la pancia piena e la testa leggera, non gli sembrava poi
così tremenda. Anzi.
La poteva quasi rivalutare.
Anche grazie a quella deriva di pensieri appoggiare la testa sulle
ginocchia di Lily, che voleva alzarsi a sedere per godersi un po’ il
panorama, non gli diede alcun problema.
“Che buffo…” La sentì dire dopo un po’ che gli accarezzava i capelli.
“Cosa?” Stava per addormentarsi e non gli importava granchè, ma era
cortese fingere interesse.
“Hai una voglia dietro l’orecchio, non l’avevo notata prima.”
“Di solito guardi dietro le orecchie della gente?” Le rispose facendola
ridacchiare.
“No, ma dopo ieri notte dovrei conoscerti a menadito. Proprio tutto.”
Sören aprì gli occhi per specchiarsi in un ghigno che faceva a pugni
con la
sua aria da bambolina. Eppure, proprio per questo, era da lei. “Lo sai
perché si chiamano voglie?”
Scosse la testa, perché altri cinque minuti e si sarebbe addormentato.
Una storia calzava alla perfezione. “Raccontamelo.”
“Non è una storia vera e propria in realtà, ma si dice che appaiono per
una voglia insoddisfatta della madre … chessò, vuoi mangiare le fragole
mentre sei incinta e non lo fai? Al bambino viene fuori una macchia
rosa!”
Sören non era per niente bravo a fingere. Era bravo ad impersonare un
ruolo, quello sì, e purtroppo l’aveva dimostrato sia nel bene che nel
male, ma quando era se stesso era un pessimo bugiardo.
Cos’ho detto di sbagliato?
Perché gli si irrigidì tra le braccia per poi alzarsi a sedere, lontano
dalle sue carezze. “Ah sì?” Disse a bassa voce. “Mi chiedo che voglie
non abbia potuto togliersi mia madre.”
Oh, merda.
Si sarebbe data uno schiaffo da sola. “È solo una superstizione, non
credo sia vero.” Tentò con un mezzo sorriso. “In realtà sono solo
imperfezioni della pelle, come i nei e le lentiggini.”
Sören non le rispose, ma con la mano cercò il pacchetto di sigarette:
aveva notato che lo faceva spesso quando si innervosiva, forse per
tenere le mani occupate in un gesto meccanico ed innocuo.
Per gli altri, non per lui.
Lo abbracciò da dietro, tenendogli così ferma le braccia. “Vorrei che
non fumassi.” Gli diede un bacio su quella voglia e sul collo bollente.
Si era arrabbiato ed era tutta colpa sua. “Non mi piace il sapore
quando mi baci.” Questo ammorbidì un po’ il pezzo di legno in cui si
era trasformato. “Scusami, non volevo farti pensare a cose brutte. Sono
una scema.”
“Non sono arrabbiato con te.” Non lo era, ma si era rabbuiato da
morire. “È che … non mi piace l’idea che mi abbia lasciato qualcosa
addosso.” Fece una smorfia. “Anche se è stupido, visto che è mia madre,
e metà di me appartiene comunque a lei e ai Von Hohenheim.”
“Non sei suo perché nelle vene scorre parte del suo sangue.” Sören
pareva apprezzare quell’abbraccio, da come vi si era rilassato, quindi
non lo sciolse. “Tom è stato adottato dalla famiglia del cugino di mio
papà e chiama mamma zia Robin … ed è
sua mamma. Dare alla luce qualcuno
è … partorire, tutto lì.”
Sören non rispose. “Mi hanno detto che non mangia da quando l’hanno
catturata.” Disse dopo un po’. “Me l’hanno detto i ragazzi della scorta
… Credevano di farmi un favore ad informarmi, forse perché immaginano
che mi interessi.”
Certo che ti interessa, Ren. O non me
avresti parlato.
“Per me è un’estranea.” Si girò l’anello attorno al dito, una, due
volte. Gli aveva chiesto di non fumare, ma quelle mani non poteva
davvero tenerle ferme. “Se vuole lasciarsi morire in attesa di Johannes
io non posso farci niente.”
Lily sospirò, affondandogli il viso sulla spalla. Non riusciva ad
immaginare cosa si potesse provare ad avere una madre che non faceva la
mamma, come Ginny lo era per lei.
Doveva essere orribile.
“Vuoi vederla?”
Sören avrebbe voluto gridare che no, non aveva intenzione di andare a
trovare una donna che l’aveva abbandonato nelle mani di un mostro per
scappare con l’amante, che non gli interessava la sua fine e che si
sarebbe meritata di sprofondare nell’oblio come suo fratello e tutta
quella maledetta Casata di pazzi.
Ma Lily, come al solito, aveva centrato il punto.
“Non lo so.” Ammise. “… la odio. Non vorrei averci niente a che fare,
ma … è qui. Ed è mia madre, e si sta lasciando morire di fame.”
Lily lo abbracciò ancora più stretto. “Sei un bravo ragazzo.” Mormorò.
“Sei buono, sei una bravissima persona. E lei non si merita la tua
pietà.”
Sorrise appena. “Questo non cambia la situazione. Devo farlo, vero?”
Scosse la testa, e ciocche libere di capelli rossi gli piovvero sulle
spalle. “Devi fare quello che ti fa stare bene.”
Ne prese una e se la arrotolò attorno ad un dito. “Dimenticare tutto mi
farebbe stare bene.” Si voltò per accarezzarle la guancia. “Ma
significherebbe dimenticarmi anche di te, di Milo e di questi cinque
anni. A questo, preferisco mille volte mia madre.”
****
Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter.
“James!”
James conosceva quel tono di voce: gli ricordava l’infanzia e un certo
inflessibile adolescente che doveva badare a lui.
Con la propria Nimbus Thunderbolt -
ultima nata della famiglia Whitehorn, suo orgoglio e destriero - planò
dolcemente in giardino, evitando accuratamente i fiori
piantati un po’ ovunque: non era facile tener dietro alla caotica
passione di Ted per la botanica.
Il suddetto marciò fino a lui, la scopa e la piccola Ben che rideva
entusiasta
per il piccolo volo sopra il villaggio. “Cosa pensavi di fare?” Lo
apostrofò
come la chioccia che era. Chioccia con capelli color fiamme e
l’espressione incazzata, c’era da dire. “Tu sei convalescente e lei non
è mai salita su una scopa!”
“Io sono anche un ex
Cacciatore della squadra scolastica migliore del
mondo e so come si vola.”
Ribattè mentre faceva scendere la piccolina.
“E Benny è stata buonissima lassù. Ti è piaciuto, vero pulce?”
La bambina ebbe il buonsenso di annuire e sfoderare uno dei suoi
sorrisi disarmanti. “Sì, Teddy, è bello sù! Voglio imparare io anche!”
Ted non potè fare a meno di rispondere al sorriso, tirandosela contro
come se avesse paura che il cielo potesse rapirgliela. “Si dice
voglio imparare anch’io, Benedetta.”
Gli abbracciò una gamba fissandoli cocciuta. “Uguale! Io voglio!”
Sospirò e gli si rivolse. “La prossima volta falle almeno mettere un
casco.”
James roteò gli occhi al cielo, ma preferì lasciar perdere. In fondo,
con Albus e Lily non si era comportato diversamente anni prima.
Con me no. Ero una battaglia persa.
Si faceva venire un infarto e basta.
Smontò quindi dalla scopa e se la mise sulla spalla, strappando con le
dita qualche filamento di saggina già rotto. “Le viene naturale stare
in aria … Secondo me tra un paio d’anni potrebbe far mangiare la
polvere a Ced e Frankie.”
Ted lo guardò come se stesse contemplando l’opzione di darlo in pasto
ad una creatura della Foresta. Lo amava troppo, ma la tentazione era
forte. “Dobbiamo proprio farla salire su una scopa?”
“Andiamo! È tradizione per i membri della famiglia Potter. Meno Lils, a
lei volare ha sempre fatto schifo.” Scosse la testa, perché non se ne
sarebbe mai capacitato.
Fu sorpreso quando l’altro, invece di inveire contro quella che era una
vera e propria mania sportiva si sporse per baciarlo. E bene, anche.
Non era così scemo da rifiutare l’offerta di pace, seppur inspiegabile,
e solo il suono schifato di Ben – che come ogni mocciosa che si
rispettava aveva in odio quel genere di effusioni – li riportò sulla
terra.
“Bleah!” Li castigò. “Siete
come Nev e Hannah! Sempre baci!”
Ted diventò dello stesso colore dello stendardo di Grifondoro – una
gran bella tonalità di rosso –mentre lui le rispose con una linguaccia;
abbassarsi al suo livello era la cosa che più lo divertiva fare.
E poi, cavolo, ha detto una bella
cosa. Ci ha paragonato ad una coppia sposata, ed etero!
Avevano tentato piano piano di comportarsi normalmente davanti a lei e
i risultati erano stati ottimi: Ben non vedeva la minima differenza tra
loro e i Paciock. Li considerava entrambi coppie che si sbaciucchiavano
troppo.
Io e Teddy ci siamo fatti troppe
seghe mentali. I mocciosi vanno al sodo, Merlino li benedica.
“Quando crescerai non farai che baciare la persona che ti piace, nana.
Allora verrò da te e…” Mollò la scopa a terra e la acchiappò da sotto
le braccia per farla dondolare in aria. “… verrò a farti le boccacce!”
Ted sorrise dando loro spago. “Guarda che lo farebbe veramente
Benedetta, sta’ attenta.”
L’interpellata sghignazzò, afferrando i capelli di James con le manine
fin troppo prensili. “Jamie è una peste!” Trillò deliziata, sia
dall’insultarlo, sia dalla parola in sé. “Peste!”
“Ci puoi giurare, sempre e comunque!” Se la caricò di traverso sulle
spalle, perché lei rideva e Ted lo guardava come se fosse il suo eroe
personale.
“Fai piano, Jamie è convalescente, ti ricordi? Non vogliamo fargli male
alla testa.” Le rammentò, districando le ditina dalla sua povera
capigliatura. Avrebbe dovuto prendere esempio da Teddy e tosarsi a
dovere, almeno per l’estate e finchè Benedetta non avesse imparato a
non
tirare.
“No-o.” Cantilenò annoiata,
smettendo però di colpo di scalciare come
un Centauro incazzato. Si bloccò anche, fiutando l’aria. “C’è Flynn!”
Esclamò di botto, anche se sul vialetto non si vedeva nessuno. “C’è
lei!” Insistè alla loro perplessità.
In effetti qualche attimo dopo dallo stradello apparve la figura
dinoccolata della responsabile dell’Ufficio Mannari. “Ehilà!” Salutò
con un cenno della testa. “Tutta la famiglia al completo vedo!”
“Cavolo, che fiuto!” Commentò a beneficio di Ted che si strinse nelle
spalle. Si era un po’ irrigidito, come ogni volta che la funzionaria
veniva a trovarli.
Oggi è il giorno della visita di
controllo del Ministero?
Non gli risultava, e non doveva neanche al compagno da come i capelli
gli stavano virando verso il verdolino marcio.
Allarme tricotico!
“Buongiorno Flynn.” Rispose quest’ultimo aprendo il cancello per farla
passare. “Qual buon vento?”
Già, che ci fai qua?
Non che la tizia gli stesse antipatica. Anzi, per gli standard degli
imbrattacarte del Ministero era in gamba, molto più simile a zio Bill e
Dominique che a gente come zio Percy.
Gli poteva pur star simpatica, ma non se si avvicinava a Ted ed
esordiva con: “Ti devo parlare.”
“Andiamo dentro.” Rispose il compagno lanciandogli un’occhiata che
riassumeva esattamente cosa sperava facesse.
Non sono scemo.
“Ehi pulce, andiamo a mettere a posto la scopa? Ti faccio
vedere come si fa manutenzione … Se ne vuoi una, devi imparare anche a
curarla!”
“È bravo con lei.”
Ted ci mise qualche attimo a registrare la frase della strega, troppo
preso a riempire il bollitore e controllare l’ansia. “James? Sì è … è
fantastico.” Confermò con un cenno della testa, accendendo il fornello
con un colpo di bacchetta. “Si adorano.”
“Si vede.” Flynn stese i piedi sotto al tavolo. “Ehi bellezza, vuoi
rilassarti mezzo secondo e sederti qui con me?”
“Il the…”
“Il the mi fa schifo ed è la quarta volta che te lo dico da quando
vengo qui.” Rispose con un sorriso paziente. “Su, forza, non ti mangio.”
“Non sei tu che mi preoccupi.” Ammise. “Ma le notizie che mi
porti. Non devono essere buone … Il Ministero ha cambiato idea? Vuole
ritirare l’affido?”
Flynn si grattò un sopracciglio con una smorfia. “Certo che tu pensi
sempre al peggio, eh? No, niente del genere. L’ufficio Minori non fa
che sbrodolare lodi sul vostro ambiente familiare. Probabilmente vi
affideranno altri cinquanta marmocchi bisognosi entro la fine
dell’anno.”
“Allora cosa?” L’avrebbe strozzata se non avesse parlato.
“Ti ricordi la Riserva? Moscardo, gli altri?” Non aspettò che annuisse,
tanto sapevano entrambi che non se la sarebbe scordata finchè avesse
avuto vita. Era lì che aveva scoperto di avere un fratello e una nipote
dopotutto. “Per farla breve, hanno saputo di Benedetta.”
Aggrottò le sopracciglia. Non capiva dove volesse arrivare. “Non sono
tagliati fuori dal mondo? Chi glielo ha detto?”
Flynn si passò una mano trai capelli corti. “Io, l’ultima volta che ci
sono stata. Moscardo mi ha chiesto della piccoletta. Era preoccupato
potesse esserle successo qualcosa perché l’avevano cacciata via con suo
padre … ed io gliel’ho detto. È un brav’uomo, Moscardo.”
“Perdonami.” La fermò senza volersi scusare. Non
gliene importava niente: con Ben nella sua vita aveva imparato a esser
meno gentile. E non era una cosa poi del tutto negativa. “Non ti seguo.”
La ragazza pareva sedersi su un cuscino irto di spine. Si sentiva in
colpa, registrò. Ma per cosa? “Moscardo … beh, ha vuotato il sacco con
Vulneraria, il capo-branco. Gli ha anche detto che Benedetta è una
Mannara, e che si erano sbagliati a giudicarla, che non l’avevano
annusata bene. Credo che l’abbia fatto per aiutarla, però…”
“Però cosa?” Era il suo tono, o forse la sua espressione perché Flynn
adesso sembrava quasi spaventata. Oh, faceva bene: se fosse stato
uno di quei lupi avrebbe tirato fuori i denti. “Cosa vogliono dalla mia
bambina?”
“Vulneraria vuole adottarla.” Disse di colpo. “Vuole che entri nel
branco e che
viva nella Riserva. Hanno già fatto richiesta al mio ufficio e a quello
del Wizengamot. Ted, mi dispiace, non avevo idea che l’avrebbero voluta
indietro, ma le bambine hanno un grosso valore per loro, le ultime
cucciolate sono state quasi tutte di maschi… Lunastorta non l’aveva
capito e l’aveva vestita come un bambino. Se non l’avesse fatto forse
li
avrebbero accolti.”
Ted si impose di non scattare in piedi o fare gesti inconsulti. Si
limitò, molto lentamente, a stringere i pugni sotto il tavolo. “Non può
prendersela. Non ha alcun diritto, io sono suo zio e lei non è…”
… non è destinata a aiutare il branco
a riprodursi.
La sola idea gli mandava il sangue al cervello e anche se si rendeva
conto che Flynn non c’entrava nulla, che aveva solo rassicurato un
vecchio impiccione …
Avrebbe voluto prenderla di peso e scaraventarla nel camino, buttarle
addosso della Polvere Volante e farla tornare nel suo buco pieno di
scartoffie, lontano dalla sua famiglia.
“È la stessa cosa che gli ho detto io, che i legami di sangue, per la
legge, valgono sopra a quelli di specie. Però c’è un problema.
Vulneraria è il bisnonno.”
****
Londra, Notturn Alley.
Pomeriggio.
Milo si buttò il borsone sulle spalle, chiudendo la porta cigolante
della camera che aveva preso in affitto per due giorni di bevute e
sghignazzate tristi a Notturn Alley; erano state le quarantotto ore più
miserabili della sua vita.
Con le mani ficcate in tasca e il vecchio berretto calcato in testa –
come un Magonò qualsiasi, come un poveraccio in cerca di fortuna –
riepilogò quanto gli restava nel conto che aveva alla Banca Magica di
Boston, e quanto doveva aggiungervi per i mesi che aveva passato a
Londra. Aveva abbastanza denaro per poter girare l’America per un paio
di mesi, prima di cercare una città in cui fermarsi e tirare i remi in
barca. Gli avevano parlato bene di San Francisco.
Pieno di erba e di froci. Il posto
ideale!
Era contento di aver saldato i conti con Sören prima di partire, era
una roba che gli avrebbe bruciato dentro altrimenti. Ora che le cose
erano a posto avrebbe persino potuto pensare di andarlo a trovare a
Natale, dato che quello era un periodo dell'anno merdoso per entrambi.
Non quest’anno, bello. Se non fa
cagate si troverà con una fidanzata con cui festeggiare. Magari manco a
Boston.
Tirò una manata alla portone di ingresso, più per rabbia che per reale
necessità.
Di certo qui a Londra non ci torno
manco morto.
Infilandosi per la stretta via che portava a Diagon Alley realizzò che
avrebbe anche potuto andarsene subito, dato che non gli andava di
rimanere in compagnia della coppietta: augurava loro ogni bene, ma
avrebbe fatto troppo male stare a guardarli mentre erano felici.
Ora come ora, sei il terzo incomodo.
Sören non aveva più bisogno di lui.
In effetti me ne posso anche andare
seduta stante. Tutto quello che dovrei fare sarebbe aspettare un
passaggio. Le Passaporte per l’America ci sono … e i soldi per
prenderne una li ho.
Aveva il borsone con sé, la sua toelette, cambio sufficiente per un
paio di giorni e un taccuino per appuntare scampoli di musica che ogni
tanto gli venivano in mente, composizioni non impegnative, qualche scherzo – anche se dopo che Michel
gli aveva dato il benservito dentro la sua testa era arrivato il
deserto.
Ingobbì le spalle per ripararsi da quel pensiero schifoso: sì, aveva
tutto, sarebbe solo passato dall’albergo per recuperare il violino e
poi sarebbe sparito all’orizzonte senza lasciare traccia. Non appena si
sarebbe sistemato da qualche parte si sarebbe fatto spedire il resto
della roba, quella che aveva lasciato nella sua stanza di Boston.
Potrei anche cambiare nome. L’ho
fatto una volta, posso farlo ancora.
Persino Milo Meinster ormai aveva troppo bagaglio con cui confrontarsi.
Meglio farlo morire. Come Emil.
Così preso a rimuginare fece appena in tempo ad accorgersi che Figgins
e un paio della sua banda venivano nella direzione opposta della
viuzza. Diede loro le spalle, fingendo improvviso interesse nella
mercanzia stesa a terra di una vecchia strega: non che si fossero
lasciati in cattivi termini, la sua musica aveva sollazzato quella
banda di disgraziati a lungo, ma preferiva evitare di essere trascinato
nelle loro faccende ora che aveva deciso di partire.
“Mister!” La zampa di Figgins
lo afferrò senza che potesse evitarlo. Era stato un idiota: nonostante
il suo goffo camuffamento l’altro doveva aver riconosciuto il borsone.
“Ehi Figg.” Lo salutò con un mezzo sorriso. “In giro?”
“Ai ragazzi fa bene fare un po’ di moto. Hanno sempre il culo incollato
alle sedie del pub!” Lo trascinò via dalla vecchia mentre i ragazzi in questione si
guardavano attorno: era strana quella loro passeggiata, assomigliava
più ad una ronda.
“Com’è che i due bestioni sono in assetto da guerra?”
Non che volesse davvero saperlo, era solo per prender tempo e cercare
una scusa per smarcarsi. L’altro ragazzo però sembrava non aver la
minima intenzione di mollare la presa sulla sua spalla. Gli diede
uno schiaffetto sulla guancia. “Niente che la tua preziosa testolina
d’artista debba sapere. Vieni a farti un goccio al Goose, oggi è una
buona giornata, abbiamo bisogno di musica per festeggiare.” Offrì con
uno dei suoi sorrisi da pescecane.
Merda. Non me ne libero.
“Magari un’altra volta … sono un po’ di fretta.”
Figgins lo scrutò da capo a piedi. “Il nostro musicista ci lascia?”
Colpì nel segno.
I due energumeni di scorta gli stavano ancora sbarrando la strada e
Diagon Alley era sempre più lontana, così si apprestò a indulgere
in chiacchiere che avrebbe invece voluto evitare. “Cambio aria. Nulla
contro la vostra isola, ma sono un girovago … dopo un po’, i posti mi
stanno stretti.”
L’inglese schioccò la lingua con riprovazione. “Non capirò mai quelli
come te, biondo. Le radici ti fanno restare vivo, cazzo, senza quelle,
sei una cartaccia nel vento.” Sembrava sinceramente dispiaciuto. “Tu e
il tuo maghetto ve ne andate?”
Maghetto … Ah, parla di Sören.
“No, lui resta.”
Gli diede una pacca sulla spalla, nelle sue intenzioni forse
consolatoria. Gli sembrò gli avesse stretto un paio di manette ai
polsi. “In rotta, eh? Mi hanno detto che ti ha fatto una bella scenata
ieri sera. Che ti avevo detto? Di quelle palle mosce non c’è da
fidarsi. Agitatano una bacchetta ma non sanno neanche pulirsi il culo
se non ce l’hanno appresso. Bisogna stare in famiglia per stare bene.”
“Hai ragione.” Disse neutro.
“Allora perché non resti con noi? Il vecchio Figg si preoccuperà che
nessun mago venga a romperti le palle. Sarai il mio musico o roba del
genere, ah?”
Milo sorrise, perché con la sua faccia da criminale incallito, la sua
passione per le puttane e la fedina penale sporca come fumo, Danny
Figgins gli aveva fatto un’offerta più onesta e concreta di quella di
Zabini. Ma no, la sola idea di chiudersi in quel buco con i suoi simili
gli levava il respiro.
La triste verità: non vado bene per
nessuno dei mondi a cui appartengo e sono appartenuto. A questo punto,
vediamo come va con i Babbani.
Scosse la testa. “Grazie per l’offerta, ma è ora che me ne vada.” Disse
con tono definitivo.
Figgins si strinse nelle spalle. “Se fossi stato qualcun altro ti avrei
fatto restare, Mister,
non te lo nascondo. Non è male aver qualcuno con cui parlare senza
doversi abbassare al livello delle scimmie. Oltretutto, eri diventato
la nostra mascotte. Ma ho come l’impressione che se cercassi di tenerti
fermo, mi scapparesti come sabbia tra le mani. Una fatica inutile.”
Milo sogghignò grato. “Non pensavo di piacerti tanto, Danny.”
“Hai l’attrezzatura sbagliata, biondo.” Replicò con lo stesso ghigno.
“Non ti fai neanche un ultimo bicchiere di addio con i ragazzi? Shad
non ti perdonerebbe mai se non lo salutassi prima di levare le tende.”
Anche se era stato detto con tono amichevole era piuttosto sicuro che
quell’offerta non fosse declinabile come le precedenti. E comunque,
Londra valeva almeno un brindisi d’addio. “Sicuro.”
“Prendigli il borsone.” Ordinò ad uno dei due energumeni che si erano
quietamente messi da parte come un paio d’armi scariche. “Sia mai che
ci scappi.”
Si apprestò a rispondergli a tono quando un gran rumore di voci e passi
affrettati arrivò loro alle spalle; Figgins lo tirò indietro pochi
attimi prima che due auror li travolgessero. “Fanculo!” Disse a denti
stretti. “Sempre trai coglioni, con le loro cazzo di retate!”
Milo non rispose, pregando che quegli agenti non cercassero davvero la
gente di Figgins, o sarebbe finito in una cella del Ministero a far
loro compagnia.
Non ebbe il tempo di preoccuparsi però che la terra prese a tremare. A
tremare sul serio, come se fosse un fottuto terremoto.
Ci sono terremoti a Londra? In
Inghilterra?!
Voleva chiederlo all’altro ma anche lì, mancò di tempismo. L’intera
strada esplose.
****
Note:
E anche qui, siamo alla fine! E' un capitolo un po' patchwork secondo
me, ci ho messo varia roba.
Qui
la canzone del capitolo.
Nota di colore; se volete sapere qualcosa sulla scopa di James, me la
sono inventata di sana pianta. Esiste però l'azienda che produce le
Nimbus, e il proprietario è un tizio di nome Whitehorn. Ho supposto che
la Nimbus abbia continuato a produrre modelli. E quello di James,
ovviamente, è l'ultimo della gamma. :P
Ho pubblicato dal Mac quindi fatemi sapere se ci sono problemi con la
formattazione: NVU non è supportato qui, quindi ho scaricato il suo
fratellino KompoZer.
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Capitolo 47 *** Capitolo XLVI ***
Capitolo da Pub
Capitolo XLVI
You keep watching from your picket fence
You say we're not responsible, but we
are
(We Are, Ana Johnsonn)
Londra, Notturn Alley.
Pomeriggio.
Era la seconda volta in quella giornata che si risvegliava sperando di
essere morto: un vero record.
Milo aprì gli occhi, sentendo la bocca sporca di calce e dolore ovunque
e solo per abitudine riuscì ad alzarsi a sedere.
Cosa diavolo è successo?
Si trovava sulla scena della caduta di qualche meteorite galattico o
ancor peggio, di un'esplosione, perché non vedeva oltre il proprio
naso: la strada era infatti coperta di fitto pulviscolo grigio.
C'era Figgins, degli auror erano appena passati ... il terremoto.
Il terremoto!
C’era stato, nessuno poteva convincerlo del contrario. Si passò la
lingua sulle labbra secche e si tirò in piedi. La caduta si fece
sentire tutta, di colpo, facendolo ondeggiare come se fosse sul ponte
di una nave. Incespicò su qualcosa e questa emise un lamento.
Non una cosa ... una persona!
Che poteva esser riassunta in una fiammata di capelli arancioni, ora
sbiaditi dalla polvere e uno scampo di kilt sotto le macerie. "Danny!"
Lo chiamò, scavando tra calcinacci e legno. Riuscì ad afferrarlo da
sotto le ascelle per tirarlo in piedi mentre questo, ora sveglio,
imprecava e tossiva in ugual misura. "Stai bene?"
"Mai stato meglio, cazzo." Ringhiò dandosi generose pacche al kilt
impolverato. Si guardò poi attorno, contemplando lo stesso scenario di
desolazione incomprensibile; la strada e i palazzi erano ancora in
piedi, ma tutto quello che c'era in mezzo era stato spazzato via o
mandato gambe all’aria. "Un incantesimo." Decretò smontando la sua
teoria. "Questi stronzi di auror..." Soggiunse, mentre attorno a loro
si muovevano corpi instupiditi e cominciavano i primi lamenti.
"Sembrava più una bomba." Commentò cercando il suo borsone nel
trambusto. Lo trovò qualche metro più in là, per fortuna ancora integro
anche se debitamente strapazzato.
Meno male non avevo il violino con
me.
"È roba di maghi, te lo dico io! Avranno fatto qualche casino giù al
mercato. Il mio vecchio mi raccontava sempre che facevano esplodere la
vecchia Notturn almeno una volta a settimana dopo la seconda guerra,
quando cacciavano Mangiamorte." Ribadì sputando a terra con aria
disgustata. "Merda, sembra abbia masticato un muro. Dammi una
sigaretta, va’." Ottenutala cercò con lo sguardo le due guardie
del corpo e fece loro cenno di avvicinarsi. "Andiamo a vedere se il
Goose è ancora in piedi." Gli lanciò un'occhiata. "Vieni?"
Andarsene gli sembrava una splendida idea, ma era pur vero che aveva
una nausea tremenda e l'impressione di reggersi in piedi a stento.
Esser stato shackerato a quel modo non aveva giovato al suo povero
fisico, già abbondantemente maltrattato da sbronze e risse con maghi
irosi: sedersi su uno sgabello con una birra davanti l'avrebbe aiutato.
"Arrivo."
A quel punto, che altro poteva succedere?
Passarono raso muro ignorando le persone stese a terra, e le urla
distanti degli auror. A Milo quell’atmosfera non piaceva: c’era
qualcosa
di strano, di non risolto che aleggiava nell’aria e non doveva essere
l’unico a percepirlo. La schiena contratta di Figgins e le facce scure
dei suoi scagnozzi erano una buona indicazione. “Dovremo chiamare il
San Mungo.” Borbottò, perché c’era gente che palesemente non riusciva
ad alzarsi e non era una cosa buona, per niente.
“Ci penseranno gli auror … o qualcun altro.” Scosse la testa l’altro,
lanciandogli poi un’occhiata perplessa. “Che ti frega, tanto sono
maghi!”
In quel momento capì cosa Sören aveva cercato di dirgli quando quella
mattina gli aveva detto di non essere come Zabini. Era stato così preso
a piangersi addosso, in quei giorni, che aveva dimenticato cosa aveva
imparato in quei cinque anni.
Gli stronzi son di tutte le razze ed
estrazioni sociali.
“Se qualcuno di loro crepa, ci fanno solo un favore.” Continuò e
stavolta Milo non poté rimanere in silenzio.
“Sono persone anche loro!” Rispose tirando fuori il cellulare e
sperando che avesse abbastanza linea da poter chiamare Sören: non
poteva certo mandare un Gufo o un Patronus.
L’altro ragazzo lo guardò storto. Doveva immaginarsi che l’avrebbe
presa sul personale. “C’è gente al Goose che ha bisogno di noi più di
questi stronzi.”
“Allora va’ avanti, ti raggiungo.” Non si fece intimidire, anche se
erano uno contro tre.
Mezzo, visto come sto.
Figgins non gli diede il tempo di chiamare che gli afferrò il cellulare
lanciandolo alle sue spalle. “Da che parte stai?”
Oh cazzo. Ancora?
Era stufo. Era stufo di dover per forza appartenere ad una categoria.
Era stufo perché quel genere di discorsi del cazzo gli avevano fatto
perdere Michel.
Perché sì, il maghetto era stato un bastardo, ma lui era del tutto
innocente?
Vedendo il viso furioso dell’altro si rivide allo specchio quando
Michel, in quella camera da letto che aveva imparato a chiamare loro,
gli aveva chiesto di aiutarlo a prendere una decisione.
Ed io ho risposto proprio come
avrebbe fatto un Magonò qualunque.
Ma non lo sono. Sono Emil Von Houten.
Sono Milo Meinster.
E cazzo, sono migliore di così.
“Quello me lo ripaghi?” Ribatté.
“Non fare il coglione!”
“Tu non fare il coglione.”
Fece un passo indietro, lontano dai tre. “Non mi puoi impedire di
aiutare questa gente.”
Figgins sputò a terra. “Lo sapevo che non dovevo fidarmi di te! Cos’è,
quel maghetto che ti scopavi ti ha fatto il lavaggio del cervello?
Credi che le bacchette adesso siano la tua famiglia?”
Non gli pareva il momento adatto per uno scontro di classe o per
precisare che non era Sören quello con cui era andato a letto, ma del
resto, quando mai le cose andavano come voleva? “Non credo proprio
niente. Non appartengo a nessuno. Né ai maghi, né a te.”
“Sarai un Magonò fino alla tomba, non te lo puoi lavare via di dosso!”
Non aveva proprio capito. Ma quelli come Figgins non capivano mai. Era
questo il loro problema … o la loro benedizione.
Di certo, vivono meglio del
sottoscritto.
“Vattene al Goose, Danny … e lasciami in pace.”
Avrebbe dovuto immaginarsi che dargli le spalle era un’idea del cazzo,
ma non ci pensò. Non subito almeno: quando si sferrare un pugno in
piena faccia
però sì, eccome.
Fece il suo dovere però. Rispose ad ogni pugno con un colpo altrettanto
forte, perché in quel momento il rosso col kilt incarnava tutta la sua
voglia di mandare affanculo il suo sangue, quel suo essere un Magonò
spaventato che mordeva il mondo per non farsi mordere per primo.
Furono i due scimmioni a separarli in un insperato barlume di
intelligenza. “Pensi di essere migliore di me, figlio di puttana?!”
Ringhiò Figgins trattenuto da braccia nerborute: niente da fare, ormai
era lanciato nella sua crociata zelota.
Che differenza c’è tra lui e un
Purosangue razzista? Nessuna.
“Penso di essere me stesso, e questo mi basta!” Rispose e per la prima
volta dopo giorni ci credette sul serio.
Rifletté poi se chiedere o meno all’energumeno che lo reggeva come una
bambola di pezza di mollarlo fosse saggio – non era sicuro che non
sarebbe finito per crollare culo a terra. Poi guardò oltre le spalle di
Figgins e notò che non erano soli.
E quello chi cazzo è?
Le loro urla dovevano aver attirato un tizio. Capì subito che era un
mago, anche senza vedergli la bacchetta in mano.
Non sarò un granché bravo a percepire
campi magici e tutto il resto … ma Tizio ne ha uno blu tutto attorno.
Non era normale. E oltre a non esserlo, stava puntando proprio loro.
Cazzo.
Era un Infetto.
****
Ministero della Magia, Ufficio Auror.
Pomeriggio.
A Scorpius piaceva lavorare con le donne; sin da bambino aveva ammirato
la capacità tutta femminile di andare nel dettaglio, di interrogarsi su
cose in apparenza banali ma che alla fine della storia portavano alla
soluzione.
Lavorare gomito a gomito con Ama, da soli, gli ricordò gli anni di
Hogwarts passati a studiare con Rose: gli mancavano i pomeriggi passati
in biblioteca, i baci rubati, i maglioncini
e il rumore delle piume che
grattavano su pergamene intonse.
Sì, a volte gli mancava quel periodo spensierato.
Spensierato tra una crisi
intercontinentale e l’altra, specifichiamo.
“Sai, mi piacciono le streghe.” Le confessò mentre sfogliavano pagine e
pagine di dati bancari: avevano iniziato dall’ovvio per cercare la
talpa.
Le talpe si pagano. Da qualche parte,
nei conti di Doe che abbiamo scoperto, quelli attivi, dev’esserne
rimasta traccia.
Ama inarcò un sopracciglio. “Felice di saperlo. Proprio tutte?”
Sorrise alla gaffe. “Intendo, lavorare con loro. Avere sempre trai
piedi caproni che vogliono essere il re dell’isola è stancante! Voi
ragazze siete competitive, ma non vi prendete a cornate.”
L’americana scosse la testa con aria indulgente. “A cornate forse no,
ma frequenta un dormitorio femminile per quattro anni e poi dimmi se
sei ancora della stessa opinione.”
“Frequenta un dormitorio maschile per sette.”
Ribatté. “Grifondoro per
giunta!” Emise un sospiro teatrale perché sì, farsi coccolare da una
ragazza era quello che più gli mancava sul luogo di lavoro. “Non sono
mai stato bravo con gli uomini … non sono abbastanza rude.”
Non parve molto intenerita dai suoi problemi. “A te piace essere
viziato,
Malfoy.” Gli rispose ironica. “Fammi indovinare, sei cresciuto tra
mamme,
nonne e zie.”
Scorpius spalancò la bocca offeso, anche se era la verità. “Sembri la
mia fidanzata!
“Ma non ho intenzione di coccolarti come lei.” Gli lanciò l’ennesimo
faldone. “Lavora, dobbiamo trovare come e quando Doe ha pagato la
talpa.”
Mise il broncio, ma obbedì. Del resto, se Rosie fosse stata lì sarebbe
stata ancora più inflessibile.
“Tutti questi numeri mi fanno venire il mal di testa…” Si premurò
comunque di informarla, che lamentarsi allontanava lo stress.
Ama fece una smorfia, incline nonostante tutto a dargli ragione.
“Concordo. È Prince quello che va in brodo di giuggiole quando deve
sedersi di fronte a questa roba.”
Scorpius ebbe una mezza idea di chiederle se il tedesco poteva unirsi a
loro, come consulente o qualsiasi altra cosa giustificasse la sua
presenza, ma poi ricordò che dai piani alti era considerato un sospetto.
Come direbbe Potty … che gigantesca
rottura di palle.
Malmostoso si gettò a capofitto su quelle stringhe di cifre
impossibili. Fu dopo una mezz’oretta che l’altra lo chiamò al suo
fianco. “Vieni a vedere.”
Fu ben felice di obbedirle: stava cominciando a vederci doppio. “Hai
trovato qualcosa?”
“Forse. Nel conto di Sacramento.” Indicò una serie di numeri che aveva
cerchiato con la piuma. “Vedi questi versamenti? Si ripetono.”
“Sì, ma non sono versamenti continui … sembrano più casuali, guarda le
date.” Le fece notare. “Ogni quindici … poi dieci … poi due mesi. E poi
si interrompono due anni fa. Se ha la talpa nel suo libro paga,
dovrebbe pagarla soprattutto adesso che è in piena attività, no?”
Controllò con uno sguardo il numero di conto a cui erano indirizzati i
versamenti. “E il conto ricevente lo conosco, è quello irlandese. Doe
stava solo spostando i soldi, da Sacramento a Dublino.”
Ama sospirò. “… quindi un buco nell’acqua, ricevuto.”
Scorpius aggrottò le sopracciglia. “Aspetta…” Le fece cenno,
scartabellando nel faldone del conto irlandese. “… sì, ecco qua i
versamenti dall’America. Corrispondono!”
“Okay? A cosa ci serve saperlo?”
“Quando li ho controllati un mese fa, pensavo che spostasse denaro per
non farsi scoprire con somme troppo grosse in una sola banca, e mettere
così il Chizzlypuff nell’orecchio della polizia magica. È una tecnica
che i Babbani usano spesso, alla mia ragazza hanno fatto fare un
seminario sui reati bancari.” Le illustrò concitato, cercando di
trovare un senso all’idea che gli si stava formando in testa. “Ti
ricordi la ricerca che abbiamo fatto? Tra i titolari esclusivi salta
fuori anche Sophia Von Hohenheim, sempre in America. Quindi pare tutta
roba loro, giusto?”
Ama lo squadrò confusa. “Dovrebbe, sì.”
“E se la Von Hoehnheim fosse invece un prestanome per qualcun altro che
non è Doe? Guarda!” Gli mostrò le stesse cifre che tornavano buone
buone in America due giorni dopo che erano state versate in Irlanda. Ma
in un altro conto, stavolta sotto uno degli pseudonimi femminili della
madre di Sören. “Che senso ha spostare i soldi così?”
“Stai dicendo che la talpa usa un conto intestato alla madre di Sören?
Co-intestato?”
“Potrebbe. Magari con una Pozione Polisucco…”
Ama lo fulminò con lo sguardo, quasi l’avesse personalmente insultata.
“Non avremo i Folletti come voi, ma qualche misura di sicurezza la
abbiamo.” Esitò. “Certo è che se c’è qualcuno che può giocare con le
identità è proprio Doe. E potrebbe sempre averglieli dati sull’unghia.”
“Potrebbe.” Confermò. “O potrebbe averglieli dati lei. Ti ricordi la
foto con cui abbiamo scoperto che era ancora viva? Era in banca!”
Ama si rabbuiò. “Significa che avevamo ragione, è coinvolta.” Ma prima
che potesse suggerirle una visita alla tedesca, una realizzazione le
fece stringere le labbra in una linea dura.
“Cosa?”
“La talpa è in America.” Si alzò in piedi, la mente ormai lanciata come
una scopa in corsa. “Ma gli unici che sono a conoscenza del Demiurgo
siamo io, mia madre e … il gabinetto del Presidente.” E perse
colore all’idea.
Scorpius cercò di mantenere un'aria disinvolta disinvolta, anche se da
suo padre aveva
imparato che più salivi in alto nella scala di potere, più rischiavi di
pestare le vesti al mago sbagliato. “Togliendo dal conto te e il buon
Capitano … Conosci gli altri?”
“Solo Ethan Scott È … era
l’agente di collegamento tra il nostro
Ministero e quello britannico quando Thomas Dursley fu rapito. Fu lui a
maneggiare la patata bollente dopo che l’agente Hardcastle si fece
comprare dalla Thule.” Scosse la testa. “Ma non può trattarsi di lui.
Venderebbe la propria madre per far carriera, ma è sempre uscito pulito
da ogni indagine degli affari interni. E dopo il caso Hardcastle ce ne
sono state parecchie.”
Scorpius esitò: vedeva dubbio negli occhi chiari della strega e aveva
la netta impressione che non fosse più certa di quel che sosteneva come
quando aveva messo piede per la prima volta su suolo britannico.
Nessuno di noi lo è più.
“Ti fidi di lui?” Le chiese invece.
“Non lo conosco abbastanza, ma non mi piace.” Ammise. “È stato lui ad
incastrare Sören in questo caso. O meglio, l’ha raccomandato in modo
tale che ci fosse impossibile evitare di mandarlo qui.”
“Come mai lo voleva a Londra?”
“Credo per mettere in cattiva luce la SAGITTA e soprattutto mia madre
agli occhi dei pezzi grossi del Dipartimento. Tutti pensavamo che
mandare Prince da voi fosse un suicidio per i rapporti tra i nostri
uffici … specie alla luce del passato che ha condiviso con i Potter.”
Fece una smorfia. “Poi non è andata così, ma l’intenzione era di
seminare zizzania. Lui e mia madre non sono in buoni rapporti.”
“Quindi non pensi possa essere la talpa?”
Ama si accasciò sulla sedia, in una posa così vulnerabile che dovette
frenarsi dal consolarla: non l’avrebbe gradito. “Se lo è … la
situazione è più grave di quanto pensassimo. Ethan Scott è il delfino
del gabinetto del Presidente. Conosce per nome ogni membro del
Congresso … Ha persino un posto in tribuna d’onore al campionato
interfederale di Quodpot!”
“Quodpot?” Scorpius schioccò
le labbra in piena disapprovazione dato
che glielo imponeva il suo essere europeo, tifoso e soprattutto,
ex-giocatore di Quidditch. “Come diavolo fate a giocare con una Pluffa
che esplo…” Vedendo l’occhiata assassina dell’altra si tappò la bocca.
Okay, tifosa sfegatata, come non
detto.
“Comunque.” Continuò schiarendosi la voce. “Se Scott c’entra qualcosa
con la fuga di informazioni non dovrebbe essere difficile scoprirlo!”
“Se è lui, sono anni che ha
rapporti con i Von Hohenheim, se non con la Thule stessa. Non è
difficile, è impossibile!”
“Fin’ora.” Le fece eco. “Sappiamo che i soldi arrivano in America!
Questo ci darà una leva per fare le domande giuste alle persone giuste.”
Ama si incupì. “Finirò a dirigere il traffico delle scope a Times
Square.”
Scorpius ridacchiò. “Non preoccuparti, prometto che lo dirigeremo
assieme. E magari mi spiegherai che ci trovate di bello voi americani
in uno sport dove non usate le scope.”
Si scambiarono un sorriso che serviva più a nascondere l’ansia che a
festeggiare la loro scoperta.
“Malfoy!” Sentì latrare il
sergente Weasley quasi fosse un campanello d’allarme della sua
coscienza.
Non sto tradendo sua figlia, che
diavolo! Posso avere un idillio lavorativo, no?
… giuro che amo solo te, mia Rosie!
“Comandi?” Rispose interrogativo, premurandosi però di mettere distanza
tra lui e l’americana. Fosse mai.
Il sergente Weasley non diede affatto segno di essersi accorto della
comunella
intercorsa tra lui e l’americana; pareva anzi pensare a tutt’altro, con
quell’espressione fosca che aveva imparato a riconoscere in Rose quando
qualcosa le andava storto al lavoro. Molto
storto. “Vestiti, vai a
Notturn Alley.”
“Beh, ehm … starei…” Si bloccò perché era vero che non era la sua
persona preferita, ma non gli aveva mai dato ordini per puro gusto di
farlo. “Che succede? Pensavo avesse trovato il mio sostituto!”
“Succedono gli Infetti.” Tagliò corto e alla sua espressione smarrita
aggiunse. “Sono in giro, forse scappati dal castello dei Prince.”
A quello proprio non aveva pensato.
Di male in peggio.
“Quanti?”
“Tre. Gillespie, non sei tenuta a venire, ma…”
“Ma una mano è apprezzata.” Concluse la ragazza alzandosi in piedi,
reattiva. “Consideratemi della partita.”
L’uomo annuì con un sorriso. “Avere già affrontato quelle bestie,
sapete come comportarvi.” Il sorriso si spense rapidamente. “Ci sono
civili di mezzo.”
“E quando credi che non possa andare peggio…” Borbottò ma stavolta non
gli fu intimato di tapparsi la bocca. Pensavano tutti la stessa cosa.
Quando il padre della sua ragazza se ne fu andato si voltò verso Ama.
“Chiama Sören.”
La ragazza lo guardò esitante. “Non…”
“È stato l’unico capace di metterne uno fuori gioco. Da solo. Ci serve.
Se arrivano fino a Diagon Alley… oggi è il primo venerdì di Agosto,
manca un mese al rientro a scuola … sono arrivate le liste dei libri.”
Ama impallidì. “Sarà pieno di famiglie.”
Non ebbero bisogno di dirsi altro. Le lanciò lo Specchio Comunicante e
questa si allontanò per fare una chiamata che probabilmente avrebbe
salvato un bel po’ di vite.
****
Kent, Scogliere di Dover.
Lily guardò perplessa la superfice dello Specchio Comunicante: perché
Scorpius la stava chiamando?
Ben attenta a nascondersi agli occhi dei Babbani – che comunque avevano
il meraviglioso dono di essere perennemente avvolti in una nube di
indifferenza, almeno, quasi tutti - toccò la punta della cornice con la
bacchetta, ma quello che le si presentò davanti non era il viso aguzzo
e slavato dell’amico.
Ama Gillespie?
Sören le lanciò un’occhiata incuriosita mentre beveva accanto a lei una
tazza di the che si erano concessi tra le mura calde e protette del
faro: fuori la bella giornata si era fatta via via più fredda al calar
del sole. “Sì?” Chiese rinunciando a raccapezzarcisi.
“Potter, mettimi in contatto con l’agente Prince.”
Ah, ecco.
“E buonasera anche a lei, agente.” Le rispose irritata mentre il suo
ragazzo alzava la testa di scatto come un cagnolino ben addestrato. Si
frenò dal tirargli un calcio nello stinco. “Come hai il mio contatto?”
Aggiunse poi passando ad un ‘tu’ molto meno conciliante.
“Me l’hai dato tu, ricordi?” Ah, giusto, il giorno che l’idiota era
sparito facendo preoccupare tutti a morte. “Passamelo. So che è lì con
te.” Aggiunse con tono spiccio.
“Lily, credo sia importante…” Era davvero, davvero tentata di gettare
lo specchio fuori dalla finestra, ma non poteva: doveva essere una cosa
di lavoro.
“Certo tesoro.” Flautò ficcandoglielo in mano e afferrando la propria
tazza di the come se dovesse lanciargliela addosso. Gli diede invece un
sorso, compiaciuta dal fatto che l’altro sembrasse di colpo seduto su
un cactus molto spinoso.
“Torno … torno subito.” Borbottò scappando in direzione dell’uscita.
Che cavolo vuole quella? L’hanno
escluso dalle indagini, quindi perché lo chiama? Chiamando me, poi?
Brutta stronza.
Continuò a sorseggiare furibonda finché non lo vide rientrare. La
rabbia sfumò non appena lo vide guardare verso la propria scorta con
aria tormentata.
Guai.
Non ci voleva la Legimanzia per capire che l’altro aveva bisogno di una
mano. Quindi si alzò e gli si fiondò tra le braccia, scoccandogli un
bacio che fece voltare più di qualche testa, facendo di controcanto
inabissare quelle dei due agenti, che tentavano in ogni modo di
ignorare che la figlia del capo fosse l’amante focosa di colui che
dovevano seguire come ombre.
“Lily … cosa?” Sören pareva chiedersi se non le avesse dato di volta il
cervello tutto di un colpo.
Oh, mio piccolo e ingenuo tedesco!
“A parte che dovrai abituarti a questi assalti, perché è così che amo,
carino …” Gli fece notare. Poi si fece seria. “Hai bisogno per caso di
levarti la scorta dai piedi?”
Sören boccheggiò per qualche attimo, ritrovando infine compostezza e
forse anche il cervello. Era bello fargli quell’effetto. “Io … sì.”
Annuì. “Ama mi ha chiesto di raggiungerla. Della squadra sono rimasti
solo lei e Scorpius. Hanno trovato degli Infetti a Notturn Alley,
hanno bisogno di aiuto.”
“Ti dà sempre belle notizie, dev’essere l’anima della festa.” Commentò
con una smorfia, perché sì. E perché anche se figlia di Eroi non
sarebbe mai stata contenta di vedere il suo uomo partire al salvataggio
del Mondo Magico.
Proprio perché so che significa. Sigh, mi trasformerò in una
Penelope.
“Va bene, li distraggo. Tu vai in bagno. Riesci a Smaterializzarti
diretto fino
a Diagon Alley?” Era una bella distanza, quasi ottanta miglia, e un
mago comune avrebbe rischiato di Spaccarsi per metà Inghilterra del
Sud. Il problema era che, facendo più tappe come capitava a lei o ai
fratelli quando dalla capitale dovevano tornare in Devonshire, ci
avrebbe messo un sacco di tempo.
“Certo.”
Ma Sören non era un mago qualunque, e lei non ne era mai stata così
orgogliosa. “Allora vai, ai ragazzi penso io. Non potrò ingannarli per
tanto, sono Auror, capiranno subito che li sto fregando, quindi fa’ in
fretta!”
L’altro non rispose: la coinvolse invece in un bacio che stavolta si
meritò anche qualche fischio di apprezzamento. Non era del tutto certa
non venissero dall’agente di scorta più giovane. Lily si staccò e
stavolta fu lei a doversi ricordare nome, cognome e motivo per cui era
lì. “Sì … beh, prego.” Balbettò con dignità. “Vattene, su!”
Le scoccò un sorriso radioso ed obbedì. Lily a quel punto tirò un
sospiro, ripassò a mente come si respirava (dentro-fuori-dentro-fuori,
diavolo se era difficile!) e si diresse verso il tavolo dei due agenti.
****
Diagon Alley, Sera.
Stevens alzò la testa dalla bacchetta su cui stavano lavorando da
quella mattina; cercare di recuperare un nucleo da una bacchetta
bruciata dal fuoco era un’operazione che pochi Artigiani al mondo erano
in grado di compiere con successo. Loro erano tra questi.
Tom ne era fiero come mai gli era successo, dato che era una sorta di
capacità condivisa. Gli occhi erano suoi, ma le mani e la tecnica erano
del maestro. Mani che al momento avevano smesso di lavorare. “Che c’è?”
Gli chiese, perché l’uomo si era adombrato senza motivi apparenti.
“Sta accadendo qualcosa a Notturn Alley.” Gli rispose alzandosi in
piedi e dirigendosi a passo sicuro verso la porta. Lo seguì a breve
distanza. “Non senti gli incantesimi?”
“No.” Ribatté seccato, perché poteva essere stato Thomas Ogni Oltre
Previsione, ma di fronte al sesto senso – comprovato – dell’altro era
un mago qualunque. “Comunque che importanza ha? È un miracolo che quel
quartiere non esploda su basi regolari.” Vedendo che non gli dava retta
aggiunse spazientito. “Dobbiamo finire, i miei genitori mi aspettano
per cena, è il compleanno di mia sorella.”
Esitò e questo gli mise una pulce nell’orecchio: l’altro era un
eremita, non avrebbe dovuto essere interessato a ciò che accadevano
fuori dalla porta della bottega.
Non era da lui, ma erano soli e non c’era Albus a sogghignare con aria
condiscendente. Gli mise quindi una mano sulla spalla. “Se ci sono
disordini, non credo arriveranno fin qui … Gli Auror pattugliano la
zona quotidianamente.”
Il Fabbricante gli rivolse un cenno di scuse. “Naturalmente, hai
ragione. Le mie orecchie mi ingannano, amico mio. A volte mi sembra
ancora di sentire suoni di guerra quando non ce ne sono.”
I Mangiamorte. L’assalto al negozio
di suo padre. Il giorno in cui ha perso la sua famiglia e la vista.
“Vado a controllare.”
“Non ce n’è…”
“Ti farà stare tranquillo ed io devo
comunque passare a ritirare la torta di compleanno di Alicia.” Tagliò
corto prendendo le chiavi della bottega: l’avrebbe chiuso dentro, gli
venisse mai voglia di seguirlo.
Stevens gli strinse il braccio in un muto segno di ringraziamento che
fu apprezzato, soprattutto perché non vocale. Odiava quando le persone
lo costringevano a sorbirsi la loro gratitudine. “Non continuare senza
di me.” Lo ammonì.
“Me ne guardo bene.” Gli sorrise mettendosi seduto sulla poltrona
accanto alla finestra. “Sta’ attento Thomas. Non mi piace l’odore che
c’è nell’aria.”
Non gli chiese cosa intendesse, perché conosceva le capacità percettive
dell’uomo e aveva imparato a fidarsene come se fossero sue. Si limitò
quindi a tirarsi la porta dietro ed incamminarsi verso il posto magico
che forse odiava più al mondo: se non fosse stato per i libri che ogni
tanto scovava nel vecchio mercato, avrebbe tanto voluto vedere quella
manciata di vicoli asfittici eradicato dalla faccia della terra.
Pullula di magia sporca.
Non nera, no, non c’era niente di complesso o oscuro in quel crogiuolo
di fattucchiere, maghi in disgrazia e Magonò dal coltello facile. C’era
invece la bassezza umana nella sue forme più semplici: l’ignoranza e la
cupidigia, le truffe da quattro soldi e il mercato nero. Non aveva mai
capito perché Loki lo avesse eletto a suo terreno di caccia.
Forse perché vi si eleva alla statura
di un re.
Non era tempo però di pensare al vecchio compagno di stanza, specie
perché c’era un’interessante assemblamento di persone all’imbocco
dell’entrata. Vi si mischiò, usando la sua altezza per sbirciare sopra
la selva di teste: vide fumo, pulviscolo e annusò odore di polvere da
sparo.
Incantesimi. Stevens aveva ragione.
Notò con la coda dell’occhio Dorian della tavola calda Fortebraccio.
“Che succede?”
“Oh, Tom!” Lo riconobbe. “Non ne ho idea.”
Aggiunse serrando le braccia nerborute al petto in una posizione difesa
che accomunava maghi e Babbani. “Si è sentita una gran esplosione un
paio di minuti fa … e poi un mucchio di mantelli rossi si sono
precipitati dentro. Ora non vola una mosca.”
Auror. Quindi si tratta di magia nera.
“Non è ancora uscito nessuno?”
“No.” Interloquì una voce conosciuta accoppiata a capelli color carota;
George Weasley, nientemeno. “Il botto dev’esser stato grosso se ha
tirato fuori anche te, Tommy.” Lo canzonò perché era George Weasley.
“È Tom.” Corresse stizzito rimediandosi quel ghigno placido che tanto
odiava sulla faccia di Al. “C’è qualcuno dei nostri?” Chiese poi.
L'uomo scosse la testa. “No, per fortuna. Jamie è a casa in
convalescenza, non c’è da preoccuparsi.”
Ah, giusto.
Gli Weasley standard non contavano nell’equazione Malfoy … e di certo
neppure Sören.
Che, come convocato da forze celesti, gli apparve alle spalle.
“Thomas!”
Come se dovesse esser lui a sorprendersi.
Sei tu quello fuori dalle indagini.
“Lavoro qua dietro.” Spiegò comunque. “Sei tornato in servizio?”
“Non proprio.” Aggrottò le sopracciglia contemplando i capelli rossi di
George.
Sì, figliano come conigli. Buona
fortuna ad entrare nelle grazie di tutta la cucciolata.
Sören distolse lo sguardò puntandolo su di lui. “Sono stato chiamato da
Ama. Lei e Scorpius sono già dentro.”
C’era un solo motivo per cui l’americana poteva essere coinvolta. Lo
afferrò per un braccio e lo tirò da parte, lontano da orecchie
indiscrete e Oblunghe: in quel quartiere ce n’erano fin troppe.
I maghi sono geneticamente fatti per
origliare.
Quelli Weasley particolarmente.
“Infetti?” Gli chiese ignorando l’aria oltraggiata: non era la prima
persona che maneggiava come una bambola e non sarebbe stata l’ultima.
“Non li avevate presi tutti?”
“A quanto pare no.” Si rabbuiò. “Devo andare.”
“A fare cosa? Sei autorizzato ad usare la bacchetta ?”
Lo apostrofò con più veemenza di quanto fosse opportuno. Specie perché
non era la sua balia, né si preoccupava per la sua incolumità.
Affatto.
“Non è il momento, Thomas. Devo raggiungerli.” Si scrollò insofferente.
Come un moccioso: suo cugino era un moccioso ostinato e troppo sicuro
delle sue capacità da ex-pedina di uno psicopatico delirante.
Lo avrebbe preso a pugni.
Specialmente perché nessuno lo
farebbe al posto mio. Forse Lily.
Ma Lily non c’era. Quella cretina non era mai in vista quando c’era
bisogno di lei. “E hai idea di come arrivarci?”
L’altro lo guardò incerto ed era ovvio, oh, così ovvio che si era
precipitato al salvataggio di baracca e burattini senza pensarci due
volte; senza prepararsi, senza farsi spiegare niente.
“Che Tassorosso eccellente saresti stato.” Non potevano essere cugini.
Era troppo stupido per condividere dei geni con lui. “Non hai idea di
cosa ci sia oltre quel vicolo, vero?”
“Ci sono stato … una volta. Quando ci siamo incontrati e tu hai
seppellito quel ragazzo sotto una pila…” Lo guardò sbalordito; ebbe
voglia di urlare.
“Thomas, non vorrai accompagnarmi?”
“Ci sono molte cose che preferire fare, tra cui infilzarmi un bulbo
oculare con una forchetta arrugginita, ma temo di non avere scelta.”
“Sei un civile, non posso permetterlo.”
“Notturn Alley non è una via, è un dedalo di stradine e di vicoli
ciechi, ergo sono la tua sola speranza di trovare gli auror.”
Lo apostrofò spazientito. “Sempre che tu non voglia vagolare tra le
macerie finché un Infetto non ti trova, in quel caso prego, l’entrata è
da quella parte.” Gliela mostrò con un cenno della testa. “Sarò ben
felice di informare chi di dovere del modo imbecille con cui ti sei
fatto ammazzare.”
“Ho capito.” Rimase in silenzio. “Puoi aiutarmi?”
Tom si passò una mano trai capelli. Non c’era altro da dire,
l’idiota aveva una missione e la sua, pareva, era quella di fargli da
guida demente. “Non pensare che farò cose idiote come coprirti le
spalle e combattere al tuo fianco. Non ho alcuna intenzione di farmi
infettare.”
Sören gli sorrise insensatamente. Era la prima volta che lo vedeva
rivolgergli qualcosa diverso da una smorfia diffidente.
Era orribile.
“Non lo farai.” Disse con il tono di una constatazione. “Lily mi ha
detto che non sei capace di abbandonare qualcuno quando le cose si
fanno difficili.”
“Quella cretina della tua ragazza deve avermi scambiato per
qualcun’altro.” Disse a denti stretti avendo la distinta impressione
che in quel posto sudicio ci sarebbe morto solo per provare di essere
all’altezza delle aspettative di una Potter. E anche di suo cugino.
Sono un idiota.
Sören sbarrò gli occhi. “Ma allora sai…”
Ghignò, felice di vederlo virare sul verdastro ansia da prestazione.
“Certo, lo sanno tutti. Lily non tiene chiusa quella ciabatta che ha
per bocca neppure se viene Silenziata. Se non muori stasera devi solo
aspettare la prossima cena in famiglia. Congratulazioni e figlie
femmine. I maschi di quella famiglia sono una sciagura.” Sfoderò poi il
suo sorriso
migliore, quello che ad Hogwarts terrorizzava frotte di primini.
“Vogliamo andare?”
“Sì…” Mormorò ricomponendosi. “Fa’ strada.”
Tom estrasse la bacchetta dal fodero: ora più che mai doveva stargli
ben salda in mano.
“Seguimi.”
Non avrebbe mai pensato, neppure in mille anni, che suo cugino Thomas,
il ragazzo che cinque anni prima l’aveva affrontato dall’altra parte
della barricata gli sarebbe venuto in soccorso.
“Seguimi.” Gli disse, dirigendosi poi in direzione opposta rispetto
all’entrata del quartiere.
“Perché…” Prima che potesse chiedergli il motivo di quella deviazione
l’altro glielo spiegò.
“Ci sono due entrate. La prima, è quella che vedi ingombra di
ficcanaso.” Fece un sorrisetto. “La secondaria è quella che useremo.”
“E tu come…”
Sembrava aver preso gusto ad interromperlo. “È davanti alla fermata del
Nottetempo.”
“Nottetempo?”
“Un bus notturno che gira tutta la Gran Bretagna. A volte mi è utile
per tornare a casa dai miei … non mi piacciono le scope e i camini.”
Concluse prima che svoltassero per un vicolo così stretto che dovettero
mettersi di lato per passare.
I suoi? Ah, certo. La famiglia
Babbana che l’ha adottato, i Dursley di Little Whinging.
Thomas ai suoi occhi ormai non aveva nulla di Alberich: non era una
persona facile, certo, ma stava rischiando la propria incolumità
solo per aiutarlo a salvarne altre.
Non era cosa da poco.
Il vicoletto si snodava per più di un centinaio di metri; stava quasi
per domandargli se fosse sicuro di non aver sbagliato strada, quando si
fermarono di fronte ad un arco di pietra. Tom, quasi gli avesse letto
il pensiero – e dall’occhiata seccata pareva di sì - indicò l’insegna
dove, sebbene fosse sporca di decenni di fumo provocato dai lampioni
alimentati ad
olio, si leggeva ‘Notturn Alley’.
“Da qui riesce a passare un autobus?” Chiese perplesso.
Tom fece una smorfia tetra che non capì. “Purtroppo sì.” Si sporse
oltre l’arco per guardare da entrambi i lati. “Via libera, andiamo.”
“Fammi andare avanti.” Protestò fermandolo con un braccio. “Non mi
perdonerei mai se ti accadesse qualcosa.”
“Per quello ritengo sia troppo tardi.” Ribatté. Poi, senza dargli
spiegazioni di sorta, staccò un pezzo di intonaco dal muro. E lo lanciò
dietro di sé.
Una barriera azzurrina lo fece saltare indietro. Lo guardarono rotolare
fino ai loro piedi.
“Barriera magica.” Disse atono. “Puoi entrare, non puoi uscire. Hanno
messo l’intera area in sicurezza.”
Non ci voleva un genio per intuire cosa significava.
Una volta che mi ha portato dagli
auror non può andarsene.
“Sapevi che ci sarebbe stata.”
Thomas rispose con un sorriso privo di umorismo. “Sono stato cresciuto
in mezzo agli Auror, Prince. Ovvio.”
Avrebbe voluto chiedergli perché l’aveva accompagnato se si immaginava
sarebbe finito in trappola. Avrebbe voluto ringraziarlo. Non fece
niente del genere, perché intuì che l’altro l’avrebbe gradito ancor
meno di quando gli aveva riferito quello che Lily pensava di lui.
“Muoviamoci.” Disse invece.
La strada in cui erano sbucati era silenziosa. Nebbia, non insolita per
quei luoghi, la ammantava tutta. Pensò che lo fosse prima di tossire:
era polvere, bianca e spessa.
“Abbiamo sentito l’esplosione persino dalla bottega.” Commentò l’altro
accendendo la bacchetta in un Lumos.
Sören lo imitò, guardandosi attorno alla ricerca di presenze umane. “È
normale che non ci sia traccia di anima viva?”
Il cugino si strinse nelle spalle. “È considerato il quartiere
malfamato per eccellenza dell’intera Gran Bretagna. Di certo, non è una
meta turistica.”
“Non hai risposto alla mia domanda.”
Tom gli scoccò un’occhiataccia, una di quelle che Albus gli aveva
raccomandato di ignorare. Passò una mano sulla finestra di un negozio
che sembrava disabitato da secoli. La ritirò bianca, mostrandogliela.
“Con un’esplosione del genere, se sei così fortunato da uscirne
incolume, rimarresti?”
Era una buona osservazione, quindi ripresero a camminare in silenzio.
“Quanto dista la piazza principale?”
“Poco, non è l’East End questo.”
“Ovvero?”
Se non avesse usato la bacchetta per vedere dove stava andando era
abbastanza sicuro che gliel’avrebbe ficcata in un occhio. “Ti pare il
momento di chiacchierare?”
Sören fece suo malgrado un mezzo sorriso. “Cercavo di distrarti. Mi
sembri nervoso.”
“Sto camminando verso un rischio mortale. Non sono nervoso, sono
consapevole.” Sibilò
aggiungendo qualcosa che assomigliava
tremendamente a ‘imbecille di un Tassorosso’.
“Perché tutti mi date del Tassorosso?” Non volava una mosca, e l’aria
era così ferma, immobile, che sembrava di essere in uno di quei film
d’orrore che Rico gli aveva imposto di vedere nei primi tentativi di
instaurare un rapporto.
Per inciso, quella tipologia di film gli facevano venire gli incubi.
Thomas scosse la testa rassegnato a sentirlo ciarlare a vuoto: pareva
non dispiacergli però.
Non dispiace neanche a me quando lo
fa Milo.
“Perché i Tassorosso sono degli idioti.”
Aggrottò le sopracciglia. “Lily mi ha dato del Tassorosso.”
Tom alzò gli occhi al cielo. “Al contrario di me, credo lo intenda come
un complimento. Tra i pochi meriti che ha quella Casa, si possono
annoverare la lealtà e la forte fibra morale. Ovviamente c’è chi li
vede come ottusità e rigidità mentale.”
“Come te.” Fece un sorriso. “E quali sono i meriti di chi è stato
Smistato a Serpeverde invece?”
“Saper deflettere idee idiote come queste.”
“Forse allora sei un po’ Tassorosso anche tu.”
Lo fulminò come se gli avesse insultato madre, padre e anche qualche
antenato di grandissimo valore. Sören, nonostante la situazione,
dovette trattenere una risata. Per fortuna gli fu risparmiata una
risposta, perché arrivarono nella piazza: sì, doveva esser quella a
giudicare dalla vecchia fontana secca che ricordava. Tutto il resto
però sembrava un teatro di battaglia. Si avvicinarono ad un cratere
grande quanto le fondamenta di una casa: non c’era dubbio che quello
fosse il punto da cui si era generata l’esplosione.
Il fatto che non vi fossero cadaveri però non era un buon segno.
Sono stati disintegrati?
Thomas schioccò la lingua in un gesto di impotenza: risuonò nella
piazza come lo sparo di un incantesimo. “Era questo il punto di
incontro?”
“Avrebbe dovuto.”
“Questi Infetti…” Thomas guardava assente un banco completamente
sfondato, come se un macigno vi fosse atterrato sopra. “… quanto sono
potenti?”
“Molto.” Si chinò ad osservare impronte di stivali sulla ghiaia.
“Sembrano non stancarsi mai. Gli incantesimi che lanci loro addosso
paiono solo rinvigorirli.”
“Fino ad un certo punto.” Osservò. “Poi raggiungono il punto di
sovraccarico e...”
“Vengono polverizzati dallo loro stessa magia.” Finì per lui. “Ma non
si deve arrivare a questo. Sono persone innocenti.”
“Non così innocenti se hanno consegnato la loro vita nelle mani di John
Doe.”
Sören a quello non poté ribattere: la pensava come lui, anche se,
amaramente, doveva considerare il fatto che avesse commesso sbagli
simili.
Anche io ho affidato la mia vita
nelle mani di mio zio e Johannes.
E sono quasi morto per questo.
Il cugino fece una smorfia. “Andiamo a cercare gli auror.”
Avrebbe voluto prendersi a calci da solo. Il che, ne era sicuro, era
ciò che gli avrebbe consigliato di fare Albus se ce l’avesse avuto
davanti.
Mi sono infilato dentro la versione
magica di un campo minato.
E non era mai stato bravo a quel gioco demente. Sören, affianco a lui,
era in
piena modalità soldato zelota, bacchetta in pugno e piglio da eroe
classico.
A lui veniva da vomitare.
Perché non aveva più furia e desiderio di rivalsa ad infiammarlo:
quella non era la sua battaglia.
Lo guidò attraverso lo stradicciolo che portava all’entrata principale:
se gli Infetti erano attratti dalle auree magiche era molto probabile
si fossero spinti fino a quella zona. E con loro, gli auror.
Speriamo, gli auror.
Perché non aveva visto neppure un mantello fino a quel momento.
Videro però quelli che l’altro chiamava civili: riversi a terra,
esanimi e quando Sören si chinò a cercarne le pulsazioni capì che non
c’era più niente da fare.
“L'esplosione li ha scaraventati fin qui...” Mormorò questo tirandosi
in piedi con il
viso più pallido della calce che ammantava tutto come neve fuori
stagione. “Erano troppo vicini al punto di impatto.”
“La piazza.” Intuì. “Dev’essere stato uno degli Infetti. Non sono
riusciti a fermarlo prima che collassasse.”
Sören si voltò per rispondergli, quando qualcosa attirò la sua
attenzione. Prima che potesse chiedergli se doveva cercare riparo, lo
vide scattare in avanti come se avesse dovuto correre i cento metri. Si
gettò poi su qualcosa che era riverso a terra, appoggiato ad un muro.
Qualcuno: era un qualcuno coi capelli biondi e per un momento terribile
Tom pensò a quell’idiota di Malfoy, che doveva sposarsi con Rose e
diventare parte della famiglia.
Per fortuna era solo Milo Meinster.
Non per fortuna, razza di stronzo!
La voce di Al lo bacchettò con veemenza e quindi, per metterla a
tacere, si avvicinò. L’altro tedesco era ancora vivo: era steso a
terra, semi-coperto dalle macerie, ma aveva gli occhi aperti e aveva
riconosciuto l’amico da come gli si era aggrappato ad un braccio.
“Milo…” Sören cercò di tirarlo su, ma un urlo da parte del ragazzo lo
fece bloccare. Era ferito, notò Thomas vedendo come una chiazza rossa
si espandesse lungo l’addome. Era ferito da qualche parte, forse alla
schiena.
“Aiutami a liberarlo!” Gli fu ringhiato in tedesco e Tom ringraziò
Merlino di continuare ad esercitarlo con Meike: era certo che se non
avesse obbedito all’instante l’altro non ci avrebbe pensato due volte a
metterlo sotto Imperio.
Liberato dai calcinacci e pezzi di trave caduti o crollati da chissà
dove – Dio, sembrava una di quelle scene di guerra che a Vern piacevano
tanto – fu chiaro ad entrambi dov’era il problema: contemplarono
impotenti uno spuntone di ferro uscire dal fianco del Magonò: era il
residuo di una rastrelliera per appoggiarvi le scope.
“Lo passa da parte a parte.” Commentò inespressivo, perché qualcuno
doveva mantenere la lucidità ed era certo che nessuno dei due tedeschi
ne fosse in grado. “Se cerchiamo di tirarglielo fuori lo uccidiamo.”
Sören soffocò un’imprecazione in lingua madre e Tom pensò che non
l’avrebbe sentito parlare inglese per un bel po’.
Decise quindi di prendere in mano le redini della situazione. “Dobbiamo
comunque portarlo via di qui.”
Quasi l’universo avesse aspettato quella frase per scaricar loro
addosso un quintale di letame, da lontano – ma non così lontano –
sentirono un urlo disumano, qualcosa che solo una bestia, o un essere
umano ridotto a tale poteva emettere.
L’Infetto.
“Subito.” Aggiunse. “Ma se non lo stabilizziamo in qualche modo…” Non
sapeva quasi nulla di Medimagia, ma era abbastanza certo che non si
doveva muovere qualcuno quando era infilzato come un pollo allo spiedo.
Sören fece una smorfia tirata. “È un Magonò. Gli incantesimi curativi
che conosciamo non funzionano con lui.”
Allora è spacciato. Non arriverà mai
al San Mungo in tempo. Ci sta solo rallentando.
Lasciamolo qui.
Questo pensava quella parte oscura e meschina di sé. Che poi, non era
una considerazione neppure così sbagliata, almeno dal punto di vista
razionale.
Ma abbiamo già appurato il fatto che sei un idiota, no?
“Allora spostiamolo e basta.” Si guardò con Sören e quello capì al
volo. Con una premura che non avrebbe creduto possibile da lui, scostò
i capelli incrostati di polvere e sudore dalla fronte del ragazzo.
“Milo, non ti piacerà.” Gli disse prendendo il fazzoletto che aveva in
tasca. “Mordi questo.”
“Cerca di non farlo urlare.”
Se non emette aura magica può
comunque strillare la nostra posizione. Evitiamo.
Fortunatamente Milo parve capire l’antifona perché non emesse che un
lamento quando con un Recido
separò il pezzo dello spuntone dal resto
della rastrelliera. Sputò il fazzoletto solo per biascicare qualcosa
che non capì.
Non sono bravo nel tedesco dei
moribondi.
“Ha detto Figgins.” Tradusse Sören. “Parla di qualcun altro, qualcuno
con un kilt? Dice che era con lui.”
“Adesso dobbiamo salvare tutti i maledetti abitanti di Notturn Alley?!”
“È per questo che siamo qui.”
Dannazione.
“Vado io. Cerca di metterlo in piedi.”
E non farlo morire dissanguato.
Per fortuna trovò il suddetto Figgins, con tanto di kilt, a pochi passi
di distanza. Era svenuto, ma pareva ancora tutto intero a differenza
dei due tipi accanto a lui.
Non importa quanto tu sia grosso, o
quanti muscoli tu abbia. La magia vince, sempre.
Per nulla in colpa lo schiaffeggiò facendogli riprendere i sensi. Prima
che potesse parlare, e dall’espressione sembrava pronto a vomitargli
addosso un fiume di insulti come la feccia che era, lo fermò.
“Alzati, o morirai.” Disse e sortì l’effetto sperato. Il ragazzo si
alzò in piedi stordito, facendosi passare un braccio attorno alle
spalle. Avrebbe tanto voluto farlo Levitare, anche solo per come
puzzava di birra e sigarette scadenti, ma meno usavano le bacchette più
erano sicuri di non essere visti dall’Infetto.
Sören indicò un edificio basso e in mattoni dietro l’angolo, rimasto
miracolosamente illeso forse perché protetto dagli altri palazzi. Era
Magie Sinister.
L’erba cattiva non muore mai.
Entrarono con un classico, molto Babbano, ma pur sempre efficace,
calcio che sfondò la porta. Il decrepito proprietario doveva essersela
filata poco dopo l’esplosione. Adagiarono i due a terra e si
guardarono.
E adesso?
“Resta qui.” Lo apostrofò Sören tornando finalmente all’inglese.
“Occupati di loro e cerca di metterti in contatto con Scorpius o il Sergente Gillespie. Hai uno Specchio Magico, no?”
“E tu che hai intenzione di fare?” Anche se già lo immaginava, glielo
leggeva nello sguardo.
“Affronterò l’Infetto e lo metterò in condizione
di non nuocere più a nessuno. A questo punto, devo fermarlo da solo.”
“Perché?”
“Perché ci troverà prima che possano farlo i rinforzi.” Rispose come se
avesse senso. “Ci ha sentiti, ha sentito la nostra magia. È così che si
orienta.”
Meraviglioso.
“Mi pare un’idea eccellente se vuoi farti massacrare.”
“Non succederà.” Il cugino non pareva in vena di discussioni e per un
momento Tom si chiese se era così che si era sentito Al quando, cinque
anni prima, aveva tentato di trattenerlo in ogni modo dall’andare a
cercare prima John Doe e poi suo padre.
È un miracolo che non mi abbia
ammazzato.
“Trova gli auror.” Lo stava supplicando? Assolutamente no. Era un
consiglio razionale che dava ad un folle.
Sören gli sorrise, esitò e poi gli mise una mano sulla spalla. Ad
entrambi sembrò un gesto fuori luogo. E ovviamente, giusto. “Prenditi
cura di Milo. È la mia famiglia.”
Sì, e sfortunatamente lo sono anche
io.
Perché non voleva che Sören Prince morisse. Era una realizzazione che
veniva da lontano, da quando aveva compreso che il suo sangue, quel
sangue che aveva rinnegato fino a farsi venire gli incubi, non aveva
prodotto solo pazzi, megalomani e manipolatori. Non aveva solo generato
mostri e persone come lui.
Ha prodotto mio cugino.
“Come se facesse parte della mia.” Rispose sarcastico, perché si
rifiutava di farsi coinvolgere in un momento.
Sören fece un sorrisetto. “In un certo senso lo è. Lo siete entrambi,
credo.”
… Ah.
Quel momento rischiava davvero di diventare tale, ma poi l’Infetto
urlò, ancora più vicino, ancora più assetato e Sören, senza un’altra
parola, si lanciò fuori.
Eroi.
Si sedette con la schiena contro il bancone, tra i due Maghinò esanimi,
pronto ad intervenire, pronto a fare la sua parte.
Odio gli eroi.
Con il loro esempio rischiavano sempre di farti diventare uno di loro.
****
Scozia, Edimburgo.
Ventiquattresima Conferenza
Internazionale dei Maghi.
C’erano poche cose che Harry odiava più delle Conferenze Internazionali
dei Maghi. Quel genere di eventi infatti lo lasciavano sempre con un
gran mal di testa e la sensazione che la cooperazione magica fosse
una stronzata, oppure, come l’avrebbe descritta Hermione, una
metafora altisonante per nobilitare agli occhi della popolazione una
masnada di vecchi maghi di tutte le razze che concordavano solo su una
cosa: non cavare mai un ragno da un buco e, possibilmente, servirsi per
primi al buffet.
Avrebbe potuto evitarsele se solo avesse servito il Ministero in altri
tempi: da dopo la seconda guerra magica infatti, non solo le conferenze
si tenevano con una cadenza quinquennale, invece che ogni due secoli,
ma erano anche nate delle sotto-commissioni, gruppi che riflettevano,
per composizione, i vari dipartimenti di ciascun Ministero presente; il
che, tradotto in parole povere, significava che i capo-ufficio come lui
erano obbligati ad attendere a cicli e cicli di inutilissimi dibattiti,
pena sanzioni disciplinari severissime.
Ovvero M mi appenderebbe per i piedi
alla statua dei Tre Fratelli.
Invidiava Nora, che essendo a capo di un ufficio appena sorto, non
aveva ancora avuto l’onore di essere invitata.
Tempi della burocrazia magica.
Tendenti ad infinito.
L’unica consolazione era che quell’anno l’evento si teneva ad
Edimburgo; cinque anni prima erano tutti stati spediti in Malesia, e
solo a causa del disastro diplomatico che era accaduto con la Norvegia
e la Germania era riuscito a scamparsela dando una delega ad un
compiaciutissimo Zacharias Smith.
In sede internazionale nessuno voleva
vedere la mia faccia.
Ma quell’anno, purtroppo, la crisi che stavano affrontando era interna.
Quindi non gli era restato che preparare un borsone di cose e
prepararsi psicologicamente a trascorrere il fine settimana tra
diatribe sterili e veti a raffica.
Harry sbadigliò corposamente, mentre il delegato brasiliano stava
andando avanti da almeno mezz’ora con un soliloquio sull’importanza di
qualcosa che gli sfuggiva completamente. Non poteva neanche sfogarsi
con qualcuno, dato che le uniche persone che conosceva in quel consesso
gli stavano cordialmente antipatiche.
Sono l’unico capo-ufficio che si è
fatto più di un mandato.
E ovviamente, tutti a dire che la mia
carica è a vita e che sono come un re assoluto.
Qualsiasi cosa voglia dire.
Non voleva essere lì mentre a Londra bolliva qualcosa in pentola con il
rischio concreto che prima o poi traboccasse travolgendoli tutti.
Eppure. Doveri da burocrate.
Sperava che Malfoy fosse nei paraggi, anche se impegnato a tesser trame
ai piani più alti del centro conferenze; sarebbe andato ad imporgli la
sua presenza, decise. Dieci anni prima l’aveva fatto e per poco non si
era beccato una Maledizione.
Perfetto. Magari ci buttano fuori!
In filodiffusione venne poi annunciata la pausa caffè, e Harry fu il
primo ad avviarsi fuori, tagliando la strada al delegato italiano e
sentendosi piuttosto orgoglioso per questo: il tipo aveva uno scatto da
centometrista quando si trattava di passare al momento ristoro.
Aprì la porta, e di colpo una selva di flash lo accecò come un Gufo di
fronte ad un paio di fari.
“Capo-ufficio Potter, Gazzetta del Profeta, cosa sa dirci
dell’esplosione a Notturn Alley?”
“Capo-ufficio Potter, è vero che ci sono state oltre venti vittime?”
“Avete perso i contatti con gli Auror che avete mandato dentro?”
“Capo-ufficio Potter!”
Harry indietreggiò di un paio di passi, sbattendo contro l’italiano.
Cosa? Di che diavolo stanno parlando?!
Era come se un Bolide l’avesse colpito a tradimento: che poi, era
proprio quello che facevano i Bolidi.
Notturn Alley? Che è successo a
Notturn Alley?
Obbedendo all’istinto più che alla ragione, rinculò rapidamente dentro
la sala e chiuse la porta appoggiandovisi contro. Non molto maturo,
forse, ma efficace. Dietro di lui, il resto dei delegati lo guardò in
più gradi di sbalordimento.
“Cos’è successo?” Chiese il Capitano Zingaretti. “Cos’erano tutti quei
giornalisti?”
“Collega, ci faccia passare!” Intimò l’austriaco.
“Ho un problema da risolvere, e la stampa pare ne sia più informata di
me.” Spiegò senza girarci attorno. Poteva annoiarsi a morte a quelle
riunioni, ma sapeva di parlare a persone che comprendevano i suoi
problemi.
L’italiano infatti lo squadrò. “Sì, sono degli avvoltoi.” Convenne con
un sospiro comprensivo. “Dovrebbe vedere i nostri, a volte devo
disperderli come cani attorno ad un osso!”
“Usi l’uscita sul retro.” Gli suggerì pratico il Caporal Maggiore
Markaris. “Credo sia dietro quelle tende.”
“Ti vedo informato Petros.”
“Come se tu non lo sapessi, Salvo. Ti abbiamo visto tutti sgattaiolare
fuori!”
Harry ringraziò e lasciò i due mediterranei al loro alterco, uscendo
dalla porticina, che in effetti era dove aveva indicato il greco.
Percorrendo un paio di stretti corridoi si trovò infine di fronte
all’entrata del piano.
Che diavolo è successo a Notturn
Alley?
Doveva andarsene, e subito. Gli avvoltoi della stampa avevano già
fiutato la sua ignoranza, e ne avrebbero fatto un titolo da prima
pagina. Infilandosi nell’ascensore cercò nella tasca lo Specchio e
scrisse il nome di Ron: non ebbe risposta.
Non sarà andato anche lui?
Quanto è grave?
Non c’era tempo per chiederselo. Premette il pulsante che l’avrebbe
portato al piano terra; per poco non estrasse la bacchetta quando una
mano si inserì tra le porte in via di chiusura e le riaprì.
Era Draco Malfoy. “Potter.” Lo apostrofò come se volesse tirargli un
pugno sul naso, come anni prima aveva fatto sull’Espresso per Hogwarts.
“Dove diavolo stai andando?”
Onde evitare che i giornalisti li trovassero nel bel mezzo di un
teatrino lo afferrò per il bavero della veste e lo tirò dentro.
“Levami le mani di dosso!”
“Non appena saremo in movimento.” Chiuse le porte gli si rivolse.
“Draco, me ne devo andare. A Notturn Alley…”
“So benissimo cos’è successo a Notturn Alley, è il motivo per cui sono
venuto a cercarti, razza di psicopatico testosteronico!”
“Testosteronico?”
“E psicopatico, Potter, realizza i tuoi problemi!” Concluse
raddrizzandosi la veste. “Sono sempre più convinto che ti droghi di
Pozioni Corroboranti, o non si spiega tutta l’adrenalina che hai
perennemente in circolo.”
“Sono un uomo d’azione.”
“Sei un timbra-carte esattamente come me.” Ritorse acido. “Quindi falla
finita di fare l’eroe in missione suicida e ascoltami.”
“Hai fino al piano terra.”
Lo guardò come se volesse fargli saltare la testa con una Maledizione.
Forse un po’ se lo meritava. “Stavo venendo a prenderti per portarti a
Londra. Il giovane Zabini mi ha allertato che la scorta che hai messo a
Prince se l’è perso.”
“Cosa c’entra…”
“C’entra, perché pare che sia andato a Notturn Alley, assieme a due
squadre di Auror che hanno perso i contatti con l’esterno mezz’ora fa.”
“Perché sono tutti là?”
“Tre Infetti sono stati trovati a vagare nel quartiere, liberi come
ucell di bosco. Uno di essi ha avuto un crollo ed è…” Esitò, con una
smorfia poco rassicurante. “… esploso. Ci sono delle vittime, dei
feriti … e hanno completamente perso contatto con chi è
rimasto dentro al quartiere.” Ribadì, che pareva esser quello il punto
focale per lui.
Harry contemplò la lancetta dell’ascensore fermarsi allo zero. Meglio
quello che prenderlo a calci, reo di non essere abbastanza veloce.
“Peggio di quanto pensassi.”
“Già.”
“C’è qualche bella notizia o posso rassegnarmi a dover passare il resto
della mia vita a zappare nell’orto dietro casa? Perchè la stampa mi
farà a pezzi e il Capo Dipartimento pretenderà la mia testa.” Chiese
sentendosi
molto calmo e ragionevole.
E provando tutt’altro.
Avrà mai fine?
Malfoy non rispose: lo afferrò per un braccio e per una frazione di
secondo parve seriamente intenzionato a picchiarlo come quando erano
ragazzi.
Harry di colpo capì.
“Tra gli auror mandati lì c’è tuo figlio, vero?” L’espressione terrea
dell’uomo era una risposta sufficiente.
“Avevate detto che li avevate presi tutti.” Sibilò. “Che erano stati
messi in sicurezza.” Uscirono fuori in un frusciare di vesti ed
espressioni tese. Draco in quel momento era il suo unico alleato e si
trovò, come ogni volta, stranamente contento di averlo a fianco, anche
se lo stava graziando di sguardi pieni d’odio e furia.
È l’unica persona che capisce
esattamente come mi sento ogni volta che succede uno di questi casini.
Che gli piacesse o meno – e non aveva opinioni chiare in merito – lui e
Draco Malfoy erano ancora due facce della stessa medaglia.
“Perché mio figlio non mi risponde?” Lo incalzò. “Cosa sta succedendo a
Notturn Alley?”
Harry non lo rassicurò, né tento un gesto distensivo. Era ben conscio
del fatto che non era ciò che teneva in piedi la loro alleanza. “Ho
intenzione di scoprirlo.” Disse invece. “Quindi procurami una
Passaporta per Londra. Adesso.”
****
Note:
Un po' d'azione c'è stata, non potete negarlo!
E' che con tutti questi ragazzetti innamorati, che vuole farci signora
mia, bisogna farli sfogare!
Qui
la canzone del capitolo.
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Capitolo 48 *** Capitolo XLVII ***
And if you fall, hold my hand
Oh baby, it’s a long way down...
(Bottom of the River, Delta Rae)
Diagon Alley, Sera.
Per Scorpius non c’era cosa più sfibrante che circondare un perimetro.
C’erano poche cose, almeno secondo lui, che rendevano il lavoro di un
auror tutto fuorchè invidiabile, e una di quelle era aspettare che il
criminale di turno decidesse di uscire dal buco in cui si era rintanato.
Il problema stavolta era sopratutto la particolarità dello scenario che
avevano tra le mani: i cattivi non avevano coscienza di esserlo – o non
ne aveva una, punto – ma era comunque riusciti a prendere degli
ostaggi, anche se si trattava probabilmente di sfortuna; due dei tre
Infetti infatti si erano rifugiati, incalzati dagli incantesimi e dai
tentativi di cattura di ben due squadre, nell’unica drogheria della
zona.
C’erano quindi sei persone innocenti dentro con loro, e non se ne
conoscevano le condizioni.
Da dietro i bidoni della spazzatura usati come barriere di fortuna si
scambiò un’occhiata con Ama, accovacciata gomito a gomito con lui;
entrare era impossibile, non a costo di far finire quell’irruzione in
tragedia.
Scorpius aveva visto le persone a terra, aveva visto i morti. E aveva
capito che non si poteva più tornare indietro; quei maghi andavano
catturati, con ogni mezzo.
Sono diventati assassini.
Soffocò un moto di impazienza, ringraziando Merlino di esser stato
fornito di una tolleranza superiore a quella di un Potter-Weasley:
James avrebbe già fatto irruzione e non era detto che il Sergente
Weasley non glielo ordinasse di lì a poco.
Oltretutto aveva cominciato a piovere, grosse gocce pesanti che
scivolavano lungo il collo, inzuppando i mantelli e facendoli
rabbrividire. Di ripararsi non se ne parlava: se avessero cominciato a
usare Incantesimi Impermiabili avrebbero allertato i due Infetti:
sarebbe stato come lanciare sassi contro cani addormentati.
E per ora, cerchiamo di farli stare
tranquilli.
Starnutì quando un rivolo d’acqua cominciò a gocciolargli dal naso:
rimpiangeva di non aver seguito l’altra squadra.
Almeno avrei potuto muovermi. Star
qui a fare il gargoyle è molto peggio.
È che aveva il cuore tenero. Se il padre della sua ragazza, che
dirigeva le operazioni, ci avesse rimesso le penne Rosie ne avrebbe
sofferto.
Non voglio che Rosie soffra. Non
voglio che nessun altro muoia.
Non poteva quindi abbandonare l’esponente più seccante e meno amato del
clan. Doveva mantenere la posizione.
Mentre considerava cupamente che tutta quella sua abnegazione non
sarebbe stata minimamente notata e ancor meno apprezzata, sentì lo
Specchio bruciare dentro la tasca della giacca. Lo estrasse e quando vi
lesse il nome di Dursley fu quasi tentato di ignorare la chiamata.
Ma se Mister Misantropia mi chiama,
dev’esserci un buon motivo!
“Tom, ehi!” Rispose. Ignorò l’occhiataccia di Ron Weasley perché no,
non stava facendo salotto. “Qual buon vento?”
Al posto del viso magro dell’ex studente modello di Serpeverde vide un
gran nero, e ombre che si muovevano. La fisionomia di un volto? Forse.
“Dove cavolo sei?”
Non gli rispose. “Quell’idiota di mio cugino vi sta cercando.” Disse
invece.
“Tuo cugino?”
Ci fu una breve pausa. “Prince.” Esplicitò. “È qui, a Notturn Alley.”
Ah, giusto. Sono imparentati.
Se ne era dimenticato. Poi fece mente locale sull’ultima frase
che gli era stata detta. “Qui?
Vuoi dire che ci sei anche tu?”
Da quando questo posto è diventato
così popolare? Proprio oggi, poi!
“Sono al sicuro.” Gli rispose. “Almeno per adesso. Ma Prince è andato
alla ricerca dell’Infetto.”
E ti pareva!
Ama gli dice di raggiungerci e lui va
a fare il paladino solitario. Oh, Prince, ti voglio tanto bene…
Però veramente, affogati in un pozzo.
“Dove siete? Cioè … dov’è?”
“Vicino a Magie Sinister. Gli servono rinforzi.” Fece una pausa, tanto
che Scorpius si chiese se non fosse successo qualcosa al di là dello
specchio. “Si farà ammazzare.” Aggiunse con un tono che lo diffidava da
far commenti di qualsivoglia sorta. “Hai capito o devo mandarti un
disegno via Gufo?”
“No, no. Ho capito.” Confermò rapido. “Arriviamo. Tu stai bene? C’è
qualcuno lì con te?”
“Due Maghinò feriti. Sono in ottima compagnia.” Rispose asciutto. “Mi
sono chiuso dentro Sinister.”
“Non credo che un Colloportus…”
“Pensi sia così idiota da usare un incantesimo da primo anno?” Se ce
l’avesse avuto davanti ne era certo, gli avrebbe sbattuto la costola di
un libro sulla nuca, come faceva quand’era suo assistente al Tremaghi.
“Ho usato un Incanto Sigilla-Stanze. Non sono io ad aver bisogno di
aiuto, è Prince che si è improvvisato parafulmine.”
“Okay, okay, tutto chiaro.” Inspirò, pensando a quello spilungone da
solo, a badare a due persone inermi. Era un’immagine così bizzarra che
gli veniva da ridere. “Non prendere altre iniziative, va bene?”
Dursley per tutta risposta gli chiuse la chiamata in faccia.
Sempre delizioso.
Si rivolse quindi al suo superiore meno preferito. “Ha sentito?”
“Sì.” Rispose grave senza distogliere lo sguardo dall’entrata
dell’emporio. “Perché diavolo Prince è qui? Chi l’ha chiamato?”
“I guai? Quel ragazzo ha un sesto senso incredi…”
“Malfoy.”
Scorpius non si scompose. Sarebbe stata la sua rovina. “Vuole davvero
avere questa conversazione adesso?”
Tanto non ci credo che è la talpa,
quindi attaccati Peldicarota. Non diffido dei miei amici.
L’uomo serrò le labbra ma non commentò. Tanto, l’avrebbe fatto con
tutti i crismi quando sarebbero tornati in ufficio. Forse l’avrebbe
anche riempito di botte. L’espressione pareva paventare proprio quello.
Oh, beh. Nuova.
“Contatta la squadra di ricognizione. Ci andranno loro.”
“Ma…”
“Agente Malfoy, abbiamo bisogno di te qui.” E stressò la prima parola,
quasi a fargli capire che gli stava parlando da Sergente. “Oltretutto,
non puoi andare solo.”
Non poteva ribattere a quello, perché per quanto gli scocciasse,
l’altro aveva ragione.
Per fortuna aveva accanto a sé una strega sveglia e che soprattutto
aveva digerito il loro bizzarro sistema di informatori. “Si tratta di
un mio agente.” Si inserì. “Andrò io.”
“Vengo con te!”
Weasley li fulminò come due bambini irragionevoli. “Siete in due, cosa
credete di fare contro un Infetto quando ci vuole almeno un’intera
squadra per averne ragione?”
“Le ricordo che, in quanto suo pari-grado e agente di collegamento, non
sono tenuta a seguire i suoi ordini.” Obbiettò l’americana gelida.
“Stavo solo notificando.”
Il Sergente Weasley si passò una mano sul viso, masticando a mezza
bocca un’imprecazione. “Non ho tempo per mettermi a discutere, né la
voglia. Fa’ come ti pare, ma Malfoy rimane con me.”
“Sergente!” Tentò di protestare, che Dursley aveva chiamato lui e
poteva averlo fatto per mancanza di opzioni, ma comunque.
“Non ci provare, ragazzino.” Lo apostrofò secco. “Tu resti al mio
fianco, dove posso vederti. Pare che ve ne siate tutti dimenticati, ma
avete preso il distintivo negli ultimi tre anni. Dopo quello che è
successo a Jamie non se ne parla di spedire un altro di voi al San
Mungo!”
Scorpius boccheggiò, improvvisamente a corto di parole. Ama sorrise del
suo sconcerto: sapeva che tra lui e Ron Weasley non correva buon
sangue, e soprattutto conosceva il motivo.
Credo di essermene lagnato anche con
lei.
No, anzi, sono sicuro.
“Scorpius, il Sergente ha ragione.” Si inserì conciliante. “Resta, io
cercherò di contattare la squadra di ricognizione e di unirmi a loro.”
“Ricevuto.” Rispose, ricordandosi per la prima volta in quei mesi di
essere, a conti fatti, un pivello che aveva bisogno di qualcuno che gli
parasse il culo.
Dopo che il Sergente Flannery si è
ammalato è cambiato tutto.
Non era una brutta sensazione. Fu come sentire un peso scivolargli via
dalle spalle.
Nonostante questo fu difficile veder partire Ama senza alzarsi e
seguirla: facevano parte della stessa sgangherata squadra ormai.
Weasley parve leggergli nel pensiero, perché sospirò con aria
comprensiva. Gli diede persino una pacca sulla spalla.
Eh? Cosa?
“Sa cavarsela.” Lo apostrofò. “Non si caccerà nei guai.”
Okay, mentre non guardavo ha battuto
la testa da qualche parte?
Forse gli mancava James su cui riversare le sue premure da parente
ingombrante, o forse dopo anni si era finalmente accorto che non era
solo un Malfoy.
O forse era ubriaco.
Non si lasciò comunque sfuggire l’occasione. “Posso chiamarla papà?”
L’uomo lo graziò di un’aria assolutamente orripilata. “Scordatelo.
Stammi attaccato al sedere, intesi? Perché entriamo.”
“Sissignore!” Rispose diligente. “Anche se preferirei essere la sua
ombra o una cosa simile. Senza offesa.”
Lo scappellotto se lo meritò tutto.
Scorpius si massaggiò la nuca regalandogli un sorriso brillante, perché
quella sera avrebbe raccontato tutto a Rose e con un po’ di fortuna, la
sua fidanzata l’avrebbe considerato come un progresso da cui non era
possibile tornare indietro, rinfacciandolo così al genitore alla
prossima cena tra parenti. “Qual è il piano?”
Weasley era incerto se mollargli un’altra sberla o dirgli di seguire
gli ordini e non atteggiarsi a secondo in comando ma poi, come un
secondo miracolo, lasciò perdere.
Forse si è ricordato che negli ultimi
anni sono sopravvissuto eggreggiamente a catastrofi scatenate dai suoi
adorati nipoti. E mi sono salvato il sedere da vero stratega.
Forse.
“Non possiamo attirarli fuori, non quando è chiaro che non hanno la
minima intenzione di affrontarci. Hanno capito che avrebbero la peggio.
Si sono rintanati là dentro dopotutto.” Gli spiegò. “Dobbiamo essere
noi ad entrare.”
“Ma se entriamo rischiamo di mettere in pericolo gli ostaggi!”
L’uomo annuì. “Per questo dobbiamo trovare un modo di metterli fuori
gioco … senza ucciderli.” Aggiunse. “La nostra priorità è che lì dentro
non scoppi una bomba … due.” Si corresse cupo. “Due bombe.”
Già ne è esplosa una … -
Diceva la sua espressione – troppe
vittime, non siamo più in guerra, basta.
Scorpius scrollò la testa che ormai ospitava mezzo chilo di alghe
fradice – i suoi capelli. Persino con il cappuccio del mantello tirato
su la pioggia entrava dappertutto. Non aveva mai detestato tanto essere
inglese come in quel momento. Non si era mai sentito così impotente.
“Come entriamo se non possiamo avvicinarci o lanciare incantesimi senza
che impazziscano?” Chiese piano. “Come facciamo?”
Il Sergente guardò l’ennesima volta oltre le barricate e Scorpius provò
pena per lui: aveva uomini che lo guardavano in attesa di ordini,
chiedendosi quando sarebbe finita, quando avrebbero potuto tornare a
casa e dire ai loro cari che non ci sarebbero stati più Infetti, niente
più malattie da temere o organizzazioni fantasma.
“Non ne ho la più pallida idea, ragazzo.” Ammise.
****
Sören era certo di aver trovato il peggiore tra gli Infetti.
Perché solo quella che Milo chiamava sfiga cosmica poteva avergli fatto
trovare un Infetto che non solo possedeva una forza magica mostruosa,
ma ne era anche consapevole.
Inspirò, espirò e cercò di farlo nel modo meno rumoroso possibile. Era
nascosto dietro un carretto che doveva aver ospitato un fuoco portatile
per arrostire le castagne e sperava che il forte odore di legno
bruciato e di brace coprisse il suo. Che l'oscurità del quartiere,
punteggiato solo da sparute lanterne beccheggianti a causa della
pioggia, lo proteggessero. Per celare la propria aura magica aveva
invece aumentato al massimo la capacità del suo bracciale; si sentiva
il braccio pesante come un sasso ma era abbastanza sicuro di non
emetterne alcuna.
Non gli era rimasto che scappare, perché l’Infetto l’aveva trovato
prima che potesse vederlo, prima che potesse avvertire la sua presenza.
Non appena era uscito dal negozio in cui aveva lasciato Thomas, non
appena aveva svoltato l’angolo, si era sentito afferrare. E poi alzare
in aria, sbattere al suolo con una forza tale che solo la sua magia,
quella primigenia, quella che salvava i piccoli maghi da sé stessi gli
aveva evitato di spaccarsi la schiena, le gambe, le ossa.
La magia l’aveva protetto, gli aveva permesso di alzarsi a bocconi
mentre quello rideva: si era Materializzato una decina di metri più
avanti, nella piazza da cui si era originato tutto, l’unico scampolo di
quel quartiere che ricordasse con certezza.
La bacchetta gli era schizzata via durante l’impatto. Forse rotta,
comunque persa.
Con un lamento si sbottonò la camicia – niente corpetto a proteggerlo,
c’era da mettere in conto anche quello – e guardò impotente le brutte
abrasioni che correvano lungo le costole. Non era stato l’impatto con
il suolo, lì era dove la magia dell’uomo – mostro? – l’aveva afferrato.
Una costola rotta. Dal dolore, due.
No, tre. Direi tre.
Non poteva andarsene però. Non poteva abbandonare il campo, non con
Thomas ad un centinaio di metri da lui, non con Milo, Milo che aveva bisogno di cure
immediate, che rischiava di morire dissanguato, senza rivedere la luce
del giorno.
Del sole, e non quella pioggia schifosa che rendeva la strada un
pantano e i suoi vestiti scivolosi.
Non poteva permettere che Milo morisse in quello schifo. Né Tom.
Né me.
L’Infetto intanto si stava muovendo: lo cercava, mugolando di piacere
quando credeva di averlo trovato, ringhiando quando scopriva di aver
preso un granchio; cieco e fuori di sé, ma non abbastanza da non godere
della caccia.
In cosa aveva trasformato quegli uomini Johannes? Se ne era reso conto?
Aveva capito fino a che punto giocare al piccolo dio l’aveva portato?
Dubitava; era sempre stato interessato ad una cosa sola, che la propria
cassaforte fosse piena di monete sonanti. Fine della storia. Ignorante,
cieco come le sue cavie aveva creato quel disastro
E adesso sono io a tentare di
risolverlo.
Era ironico, doveva ammetterlo: i ruoli si erano rovesciati, un tempo
era il braccio destro di suo zio ad occuparsi di sistemare i suoi
errori.
Ora toccava a lui.
Quindi trova una soluzione.
Una soluziona c’era. Mentre Thomas lo guidava attraverso il quartiere
aveva pensato. Aveva riflettuto e si era reso conto che non c’era un
modo per fermare gli Infetti senza ucciderli. Non gli ultimi che
avevano affrontato: quelli che aveva visto nel castello erano più
forti, più resistenti. C’erano volute tre squadre di Auror, e molti,
troppi feriti, per metterli in sicurezza. Gli Infetti di Notturn Alley
erano persino peggio.
Che esperimenti gli hanno fatto per
farli diventare delle macchine da guerra senza scrupoli?
Percepiva onde di magia simili a tsunami provenire dal suo predatore
personale: onde che montavano, che raggiungevano picchi che nessun
mago, neppure durante il più sanguinario dei duelli avrebbe raggiunto.
Era come osservare un vulcano in procinto di esplodere.
Basterebbe pochissimo per innescare
il processo.
E ucciderlo.
Chiuse gli occhi, respirando l’odore della pioggia, quello della notte
e riempiendosene le narici perché era molto meglio quello, che l’odore
di sangue.
Aveva promesso che non avrebbe più usato la magia per fare del male ad
un innocente. E gli Infetti erano quello: resi bestie, forse, ma una
volta erano stati streghe e maghi con una famiglia, degli affetti.
Persone normali che aveva giurato di proteggere.
Anche da se stesse.
Ma Milo stava morendo e suo cugino poteva fare la stessa fine. L’intera
Londra poteva fare quella fine.
Doveva prendere quella decisione.
Prese quella decisione.
Ama era riuscita a trovare la squadra di ricognizione. Stavano cercando
nel settore sbagliato.
Non ci aveva messo che qualche attimo a spiegare la situazione,
avvalendosi del suo peggior tono di comando, quello che i suoi colleghi
malignavano l’avrebbe portata fino al gabinetto del presidente, anche
solo scavalcando corpi ancora caldi.
Se funziona, perché non usarlo?
Si era fatta poi dire dove questo Magie Sinister fosse, ma non seguì i
due uomini che vennero mandati là. Seguì invece il resto della squadra,
diretta verso la più grossa manifestazione magica che avesse mai visto.
Persino le nubi sopra la piazza centrale avevano cambiato colore,
illuminate quasi a giorno e percorse da lampi bianchi. La vedeva e la
provava sulla pelle, d’oca e sui capelli, elettrizzati.
Prince ha trovato quello peggiore. La
sua solita fortuna.
Erano corsi fino alla piazza e lì li avevano trovati. O meglio, lì
avevano visto Sören alle spalle dell’Infetto, che reso cieco dalla
malattia non poteva vederlo.
Poteva annusarlo e percepire la sua aura magica però, ma il tedesco
aveva eluso quei due sensi: era sottovento e doveva aver usato quel suo
bracciale, quello che controllava l’emissione della sua magia.
Sören era così invisibile. Fece per raggiungerlo, urlargli di togliersi
di lì, quando il sergente auror la afferrò per un braccio. Voleva
liberarsi ma poi capì perché era stata trattenuta.
L’Infetto non si era ancora reso conto di loro. O erano troppo lontani,
o lui era troppo concentrato a cercare di capire dov’era Prince. Benchè
i suoi sensi fossero iper-stimolati, Sören era riuscito a trovare il
suo angolo cieco.
Cosa vuole fare?
Una frazione di secondo e Sören si Materializzò accanto all’Infetto.
Quel rumore, quello scoppio, non poteva non esser percepito, quindi
l’altro mago si voltò. In quel momento, il tedesco gli piazzò la mano
sul petto, si sganciò il bracciale e liberò tutta la propria magia.
Ama conosceva la storia del nucleo di bacchetta impiantato nel braccio.
Sua madre glielo aveva raccontato per chiarezza, perché potesse
giudicare il tedesco con tutte le informazioni del caso.
Non ci aveva mai creduto. O meglio, non aveva creduto che
quell’operazione assurda facesse poi tanta differenza. Un nucleo era
pur sempre un nucleo, ovunque lo mettevi, che avesse un involucro di
legno o uno di carne, no?
No: perché nessuna bacchetta, neppure la migliore, neppure la più
potente o la più in sintonia col proprio mago poteva deflagrare tutta
quella magia.
È questo quello di cui siamo fatti?
Gli occhi le si riempirono di luce e per un momento contemplò la magia
di Sören, pura, senza barriere o mezzi mediani. Fu come guardargli
l’anima.
Poi realizzò cosa stava facendo. Stava scaricando tutto sé stesso
dentro l’Infetto, lo stava caricando come una pila.
Lo vuole portare al punto di rottura.
Lo vuole far esplodere!
Perché non c’era nessuno in giro, e perché non ci sarebbero stati danni
collaterali.
Perché crede che non ci sia nessuno. Non ci ha visti!
“Via di qui!” Urlò agli auror. “Scappate! Sta per collassare!”
E tu, razza di imbecille? Cos’hai
intenzione di fare?!
Smaterializzarsi forse. E doveva essere l’idea, perché l’Infetto stava
cominciando ad assumere quell’aria traslucida che era già stata
riscontrata, secondo le testimonianze degli abitanti del quartiere che
avevano soccorso, nell’uomo che era esploso creando quel massacro. Non
si muoveva, accecato, pieno, ricolmo di magia.
Ma Sören, invece che mettersi in salvo, si accasciò sulle ginocchia
come un sacco vuoto.
Ha perso le forze. Quel cretino ha
perso le forze!
“Prince!” Gli gridò. Lo avvertì, più di quanto si meritasse in effetti.
Uno schiocco, occhi chiusi, una Materializzazione. Lo afferrò e lo
Smaterializzò via di lì prima che l’intera piazza deflagrasse.
Giuro che quando torniamo in America,
lo mando a fare le multe alle scope.
****
Milo Meinster stava morendo.
Non ci voleva un luminare della Medimagia per capire che il Magonò si
stava avviando ad ampi balzi Oltre il Velo. E Tom non aveva la minima
idea di come fermare la cosa.
Ad intuito aveva usato un ferula per
tamponare la ferita, ma l’aveva già usato due volte, mentre le bende
continuavano ad inzupparsi.
Non era abbastanza: Meinster aveva smesso di emettere quei lievi
lamenti con cui era entrato a Sinister, per poi perdere completamente i
sensi. Sembrava morto, con le labbra violacee e la pelle fredda e
sudaticcia. Si stava raffreddando, e neppure riscaldarlo con un
incantesimo che soffiava constantemente aria calda pareva sortire
qualche effetto.
“Sta morendo, fa’ qualcosa!”
E non aiutava nemmeno il Magonò rosso-crinito che, risvegliatosi dal
suo stato di shock, aveva cominciato a dargli ordini come se fosse uno
dei suoi compagni di merende.
“Se hai idee migliori, prego, fatti avanti.” Sibilò, rassegnandosi al
fatto che il tizio non avrebbe abbassato la voce neppure minacciato di
morte.
Se Prince non riesce a fermarlo,
l’Infetto saprà esattamente
dove trovarci.
Il peldicarota si tese come se volesse tirargli un pugno, ma si
trattenne: doveva rendersi conto che nessuno di loro due poteva fare
veramente qualcosa.
“Sta crepando.” E invece no. “A che cazzo ti serve la bacchetta? Per
grattartici le palle?!”
“A poco altro, idiota di un Magonò!” Sbottò con rabbia, senza riuscire
a trattenersi. Ormai non gli restava che dipingersi un bersaglio sulla
fronte e uscire dalla porta chiamando a gran voce il Triste Mietitore.
“La magia curativa non funziona su di voi, e non ho qui un kit di
pronto soccorso! Ma forse lo hai tu?”
“Fottiti, mago!” Gli sputò contro. Non doveva essere molto più grande
di lui, forse persino più giovane. Dietro il gonfiare il petto e
mostrargli i muscoli era terrorizzato.
E non ha torto. Stiamo guardando
morire qualcuno, chiedendoci se saremo i prossimi.
Se solo potessimo uscire di qui…
Ma finchè la barriera era attiva, come procedura auror imponeva, non
potevano andarsene. Il resto del quartiere o si era barricato in casa,
pregando che il lockdown finisse il prima possibie, o era stato messo
in sicurezza dagli auror.
Che almeno ci sono. Esistono. Non
sono stati fatti fuori.
Sperava solo si sbrigassero a venirli a prendere.
“In questo negozio di merda non c’è niente che possa aiutarci a farlo
stare meglio?” Gli domandò strappandolo dalle sue riflessioni. “Non
vende roba di magia nera?”
“Esatto, dimmi come un artefatto oscuro potrebbe aiutarlo?” Ribattè
irritato. “Forse una Mano della Gloria? O una collana maledetta? Questo
posto vende oggetti la cui funzione è opposta
a quello che cerchiamo di fare noi.” Si passò le mani trai capelli, e
con orrore si accorse di averli incrostati di sangue. Doveva averli
sporcati pettinandoli con le dita, non in condizioni migliori.
Dannazione.
Essere impotenti era la sensazione peggiore del mondo, e con Von
Hohenheim pensava di averne avuto abbastanza per una vita intera.
Mi sbagliavo.
Se Albus fosse stato lì probabilmente gli avrebbe fatto notare che non
era il caso di fare una scena madre, che non era lui quello che stava
dissanguandosi sul pavimento e che avevano vissuto ben di peggio, e
sulla propria pelle.
Se Al fosse qui…
Si diede dell’idiota – mentalmente, fosse mai che il Magonò prendesse
spunto - e infilò la mano nella tasca dei pantaloni. Lo Specchio
Comunicante non avrebbe mai funzionato al di fuori della barriera
magica auror, ma forse il cellulare…
Ingoiò un moto di trionfo quando vide un’esile tacca, utile a malapena
per una chiamata disturbata; ma comunque, bastava. Notturn Alley era
incastrata nel cuore stesso di Londra, dove la ricezione della sua
compagnia telefonica era ottima. Certo, adesso era al minimo, e solo
grazia al congegno di Hugo, ma bastava.
Digitò il nome del compagno.
Rispondi.
Se era al lavoro poteva non avere con sé il telefono, non gli era
permesso, e solo in rari casi trasgrediva quella regola – Smethwyck lo
aveva messo alla gogna più volte quando nel periodo di follie di Lily
se lo teneva sempre incollato alle chiappe.
Ti sei preoccupato perché non ti ho
chiamato per cena. Devi averlo fatto. Ho almeno cinque chiamate perse.
Devi aver pensato di portartelo
dietro, anche solo per rispondermi male se ti avessi chiamato.
Vero?
Vero. “Tom! Si può sapere dove diavolo sei finito?! È tutto il
pomeriggio che ti chiamo! Rupert è preoccupato a morte per te, mi ha
detto che eri uscito a controllare il casino a Notturn Alley e…”
Ignorò l’occhiata sconcertata del Magonò. Non ci teneva a sapere
l’espressione che doveva aver dipinta in faccia. Stava rovinando la sua
reputazione, ne era certo.
“Sono a Notturn Alley.”
“Sei … Oh Merlino.”
Dall’altro lato il rumore del traffico era insistente. Doveva essere
uscito da poco. “… perché?”
“Non ho tempo per spiegartelo.” E non ne aveva davvero. Nessuno di
loro. “C’è una persona ferita davanti a me. Milo Meinster.” Gli spiegò aggiungendo
dove e come. “Come evito che muoia?”
“Portandolo in ospedale?” Gli rispose di getto. Ci riflettè. “Ma non
potete, perché gli auror hanno chiuso gli accessi a Diagon Alley. È il
protocollo Demiurgo, vero?” Fece una pausa. “Entrare, ma non uscire.
Forse potrei…”
“Non ti azzardare a raggiungermi. C’è un Infetto a piede libero … forse
più di uno.” Lo fermò allarmato. “E comunque avranno messo dei Tiratori
a piantonare l’area.”
“ … hai ragione.” Lo tranquillizzò. “Siamo bloccati allora.”
“Sì.” Convenne. “Sta morendo, Al.”
Davanti ai miei occhi. Nessuno può
morirmi davanti.
Non più.
“Va bene.” Lo udì rispondere con calma surreale, in piena modalità
Guaritore. “Va bene … l’hai fatto stendere a terra?”
“Sì.”
“Perfetto, stai tamponando la ferita?” Stava parlando con un dottore in
quel momento, e non solo con il suo salvatore personale. Realizzarlo fu
bizzarro. Confermò. “Bene, allora devi tenerlo idratato, avrà perso
molto sangue.”
“Non immagini quanto…”
“Immagino, invece, per questo dovete evitare che vada in stato di
shock. E tienilo al caldo.”
“Lo sto facendo. Deve bere?”
“No, non ho idea se l’intestino sia stato lacerato e non c’è tempo per
insegnarti un incantesimo diagnostico per appurarlo.” Rimase in
silenzio e anche a quella distanza Tom potè percepire gli ingranaggi di
quella testa, troppo spesso sottovalutata, girare a pieno ritmo. “C’è
un camino lì?”
“Sono dentro Magie Sinister.”
“Perfetto. Ti mando qualcosa via Metropolvere.”
“Il protocollo…”
“Si riferisce alle persone, non agli oggetti.” Gli fece notare. “Sono
appena uscito dal San Mungo. Dammi cinque minuti. Dentro la ricezione
fa schifo, ti richiamo io.”
“Al.”
“Andrà tutto bene. Ti chiamo io.” La voce si fece più carezzevole e mai
come in quel momento avrebbe voluto averlo accanto. Non era un
dannatissimo Guaritore, lui. Le persone non le salvava. Era un miracolo
se non aveva rovinato quelle a cui teneva di più.
“Sbrigati.”
La chiamata si interruppe e Tom serrò le dita sullo schermo. Avrebbe
preferito mille volte affrontare di nuovo suo padre che aspettare che
l’idea di Al prendesse forma.
“Chi hai chiamato?” Chiese il Magonò, che per tutta la conversazione
era rimasto silenzioso, e con una mano premuta a tamponare la ferita.
Non glielo aveva chiesto, ma era stato felice che lo facesse al posto
suo. Tutto quel sangue gli aveva dato la nausea.
“Il mio compagno, è un Guaritore.”
Il ragazzo fece una smorfia non proprio in linea con l’atmosfera. “Da
quando conosco Milo è il festival della salsiccia. Ci sei andato anche
tu o pratichi solo con le bacchette?”
Davvero? Adesso?
Poi si accorse del ghigno tremulo dell’altro, e delle pupille che
saettavano verso la porta ad ogni spiffero, ad ogni scricchiolio
proveniente dietro di essa.
Perché la gente muore dalla voglia di
parlare quando è terrorizzata?
Forse perché non restava molto altro da fare, a parte rannicchiarsi e
pregare.
Non era un’alternativa valida.
“Ho un ragazzo.” Chiarì
mentre teneva d’occhio il camino. Quanto ci avrebbe messo Albus? “E non
ho capito la battuta.”
“Ti ho chiesto se ti scopi solo i maghi.” Gli spiegò magnanimo.
“Che differenza fa?” Che diavolo stava facendo? Stava fabbricando a
mano la soluzione?
Il rosso lo squadrò come se si fosse Trasfigurato di colpo in un alce.
“Voi maghi non lo fate diverso tra di voi?”
La domanda era genuinamente curiosa, e per un momento valutò cosa
rispondergli. Non che avesse di meglio da fare.
“Certo, facciamo sesso a mezz’aria e spariamo fuochi d’artificio dal
pene quando raggiungiamo l’orgasmo.”
“Mi stai prendendo per il culo?” Un ghigno gli stava premendo sulle
labbra. Cencioso, ma con il senso dell’umorismo.
“È una tua impressione.” Lo osservò mentre si concentrava nel mantenere
la pressione sulle garze costante, nonostante si tenesse a sedere per
pura forza di volontà. “Sei il suo amante?”
Malpelo fece una smorfia schifata, da bravo maschio etero qual’era.
“No, a me piace la passera. Ma Meinster è … un amico.” Distolse lo
sguardo, da lui e dalla scena. “Non voglio che crepi con in testa le
cose che gli ho detto.” Non stava parlando a lui, quanto a sé stesso.
Perfetto, un Magonò con una crisi di
coscienza.
Quella storia stava mettendo a nudo fin troppa gente.
Come se mi interessasse.
“A proposito di cosa?”
“Non sono cazzi tuoi.”
Per l'appunto.
L’amena conversazione fu interrotta da uno sbuffo di cenere verde che
franò nel camino. Tom si alzò, andando a raccogliere un fagotto
accuratamente ripiegato. Nello stesso momento squillò il telefono.
“È una flebo con della soluzione fisiologica.” Gli spiegò Albus. “L’ho
presa in Accademia, ne tengono una scorta per le lezioni di Medicina
Comparata. È Babbana, quindi dovrebbe funzionare anche per un Magonò.”
“… Albus, non ho idea di come si prenda una vena.”
“Io sì.” Si inserì il Magonò e Tom si chiese dove lo avesse imparato.
Ma, appunto, non erano cazzi suoi. “Questa roba lo farà stare bene?”
“Non lo farà peggiorare, che è il massimo che ci possa aspettare data
la situazione. Non lo muovete e tenetelo al caldo.” Rispose Al, e a
quel punto Tom dovette premere il vivavoce. “Quella flebo durerà per
almeno due ore.”
“Lo terrà in vita, per due ore.” Tradusse. “E poi?”
Al, che era il meraviglioso Potter che era, ebbe la risposta pronta. “E
poi, se sarà il caso, ci inventeremo qualcos’altro.”
****
Ministero della Magia, Ufficio Auror.
Harry era arrivato da una manciata di minuti al Ministero, e già solo
entrando in ufficio aveva percepito la gravità della situazione.
Essendo cinque squadre quel gruppo di maghi e streghe percepiva se
stesso come una famiglia allargata e le recenti defezioni in direzione
San Mungo avevano scosso l’animo di chiunque, dall’agente più maturo
alla recluta appena uscita dall’Accademia.
Appena entrato era stato infatti attorniato dai suoi uomini, rimasti
tutti ben oltre il turno, e aveva dovuto chiedere loro più volte di
tornare a casa, dalle proprie famiglie, prima di essere ascoltato.
Accanto a lui Malfoy era una presenza scura e nervosa.
“Potter.” Lo richiamò all’attenzione: odiava essere trascurato, sin da
quando erano ragazzini. “Come intendi procedere?”
Non gli rispose, salendo invece due a due i gradini verso il suo
ufficio. Rachel, con l’abnegazione che gliela rendeva tanto preziosa,
apparve alla porta senza che ci fosse bisogno di chiedersi se non fosse
già andata a casa.
“Chiama il Capitano Tiratore Smith.” Le disse. “Voglio avere una
panoramica della situazione a Notturn Alley.”
“Intendi mandare più squadre o rimboccar loro le coperte, ora che li
hai congedati tutti?” Lo incalzò Malfoy.
Mentre la strega spariva a fare la chiamata, gli rispose. “Prima di
mandare altri ragazzi ad infognarsi là dentro voglio capire cosa sta
succedendo. È un problema?”
L’uomo serrò le labbra, sconfitto dalla logica. “Permettimi una
domanda.”
Addirittura chiede il permesso. Una
novità!
“Dimmi.”
“Perché diavolo avete chiuso le entrate e le uscite dal quartiere? Che
razza di strategia delirante è, se condannate tutti quelli che sono
dentro a non uscire finchè il problema non è risolto? Quella di
un’arena, forse?”
In condizioni normali l’altro mago si sarebbe risposto da solo, ma la
preoccupazione per il figlio, che in sole quarantotto ore era riuscito
a partecipare a ben due blitz con il rischio concreto di rimetterci le
penne, offuscavano la sua capacità di giudizio. Harry lo comprese e
rispose quindi con tutta la pazienza che possedeva.
“È la procedura che hanno raccomandato dal San Mungo. Abbiamo a che
fare con persone contagiose, se affrontate. La procedura prescrive di
chiudere gli accessi, di mettere in sicurezza i civili nelle proprie
case e di raccomandar loro di chiudercisi dentro perlomeno con un Colloportus. Dobbiamo evitare di
diffondere la malattia, e finchè gli Infetti non sono neutralizzati non
possiamo permetterci il lusso che qualcuno entri od esca dal quartiere.
Draco, non pensare che prenda questo lockdown sottogamba.” Aggiunse.
“Stiamo parlando di Notturn Alley, siamo nel cuore dell’Inghilterra
magica. Sono consapevole che abbiamo un assedio sotto casa.”
All’ex serpeverde fu risparmiato di rispondere perché Grace tornò
indietro con il fuoco portatile che balugginava verdastro, segno che
una connessione era stata stabilita. “Smith.” Chiamò il Tiratore. “Sei
lì?”
“Potter.” Rispose. “Mi chiedevo quanto ci avrei messo a sentire la tua
voce.”
“Poco, come vedi.” Ribattè. “Com’è la situazione?”
“Da qua fuori non vediamo nulla. C’è stata un’esplosione poco fa però.”
Merda.
“Dove?”
“Nella piazza principale, almeno crediamo. Sinceramente, siamo più
occupati a tener calma la gente di Diagon Alley che a fare ipotesi su
come stiano andando le cose là dentro.” Persino il solito tono
antipatico pareva smorzato dalla preoccupazione. “I tuoi uomini sono
dentro da un’ora, e ancora non c’è segno che la caccia all’uomo sia
finita. Se fossi in te, manderei altre squadre.”
Ignorò l’occhiata penetrante di Malfoy. A quanto pareva, tutti si
stavano assumendo l’onere di consigliargli il da farsi. “Ti ringrazio
Zacharias.” Rispose asciutto. “Continua a mantenere il perimetro, e per
favore…” Il tonò si caricò di tutto fuorchè una richiesta graziosa. “… evita di lasciare interviste.”
Come nel periodo successivo al
rapimento di Thomas.
“Per chi mi hai preso, per un fringuello di Cooperazione?” Ribattè con
un’indignazione del tutto ingiustificata. Harry mascherò comunque un
sorriso percependo un’ondata di malumore provenire accanto a lui. “Il
problema non siamo noi! Ci stiamo ammazzando di no-comment, e non è
facile visto che ci sono gli scarafaggi della Gazzetta a svolazzare qua
attorno! Ma la gente parla, e non possiamo impedirglielo.”
“Non pretendo che lo facciate.” Sarebbe stato controproducente
peraltro: imporre il silenzio al popolo magico era catapultarlo in
deja-vu al sapore di Voldemort. La reazione poteva essere imprevedibile
e pericolosa. “Fate il vostro lavoro, tutto qui.”
“È il motivo per cui arriviamo a fine mese.” Chiosò sarcastico l’uomo.
“Passo e chiudo.”
“Passo e chiudo.” Rispose, perché non c’era altro che potesse
estrapolare dai Tiratori.
È il momento di entrare il gioco.
Aveva ragione Malfoy, in senso lato: Notturn Alley si era trasformata
in un’arena di gladiatori.
E per quanto ne so, a volte vincono
le bestie.
“Draco, riesci a farmi aprire l’accesso di un camino?”
L’uomo capì al volo le sue intenzioni. “Vuoi andare lì dentro da solo?”
“Voglio rendermi conto della situazione, e l’unico modo è farlo di
persona.” Rispose facendo un cenno all’assistente di andargli a
prendere l’uniforme d’assalto. Ci si sentiva ben più a suo agio che in
quella di gala che era stato costretto ad indossare per la Conferenza.
“Non rischierò la vita di un altro solo dei miei uomini finchè non avrò
le informazioni che mi servono.”
Normalmente avrebbe lasciato carta bianca a Ron, fidandosi della sua
esperienza, ma quello non era un caso normale. Al maniero dei Prince
aveva perso tre agenti.
Non poteva permettere che nessun altro giacesse in un lettino del San
Mungo in attesa di una cura che forse non sarebbe mai arrivata.
Se dovremo neutralizzare … e sul
serio, gli Infetti…
L’avrebbero fatto. L’Harry di un tempo avrebbe puntato i piedi
all’idea, avrebbe rischiato tutto per salvare capra e cavoli.
Da adulto sapeva che c’era un momento in cui si doveva scegliere.
Il Bene Superiore.
Silente sarebbe stato fiero di lui. Purtroppo.
Malfoy gli lanciò un’occhiata che riassumeva bene cosa pensasse di
quella sua iniziativa, ma annuì. “Dammi mezz’ora.”
“Quindici minuti.”
“Dannazione Potter!” Sbottò prima di andarsene in un gran frusciare di
mantello e vesti.
Fu di parola. Dopo quindici minuti esatti tornò, indicando con un cenno
della testa il camino all’interno dell’ufficio. “Puoi entrare a Notturn
Alley da Magie Sinister, è stato creato un collegamento diretto.”
Harry annuì con un cenno della testa, infilando la propria bacchetta
nel fodero. Il corpetto, fratello di tanti scontri, gli aderiva come
una seconda, comoda pelle.
Rimarrò e morirò come un uomo
d’azione.
Non riusciva a vedersi davvero in nessun altro ruolo, anche se la vita
gli aveva messo davanti una scrivania e pile e pile di pergamene. “Mi
farò sentire.”
Malfoy, prima che potesse metter piede nel focolare, lo afferrò per un
braccio. “Non serve che ti dica che la tua presenza non dovrà esser
notata, vero?” Gli domandò retorico. “Hai sentito Smith. Fuori da
Notturn Alley c’è uno schieramento di giornalisti. L’ultima cosa di cui
il Ministero ha bisogno è di avere il suo bambino prodigio che si butta
a rilasciar interviste senza le mediazioni adeguate.”
“Sono in grado di affrontare un paio di piume.” Replicò liberandosi
dalla presa, che farsi trattare come un ragazzino non era nella sua
lista di cose da fare. E aveva fretta, comunque. “Lo faccio da una
vita.”
Il purosangue storse le labbra in un sorrisetto di sufficienza. “Sì,
come eroe e cocco di Inghilterra. Il punto è che stavolta vorranno un
capro espiatorio e indovina chi sarà il prescelto? Potter, sono morte
delle persone perché vi siete fatti scappare dei pazzi furiosi!” Lo
fermò prima che potesse ribattere. “È quello che la stampa darà a bere
ai nostri bravi cittadini. Evita di farti linciare vivo quindi, vuoi?”
“Farò il possibile.” Rispose prima di infilarsi dentro il camino e
pronunciare, chiaro e ben scandito, il nome del negozio.
****
Notturn Alley, Magie Sinister.
Avrebbe finito per rimetterci la vita.
Se non per morte violenta, almeno per spavento. Perché quando qualcosa
di grosso, pesante e vivo si Materializzò all’interno del camino di
Magie Sinister, Tom fu certo di aver perso almeno cinque anni di vita.
Fu quindi con la bacchetta in pugno che scattò in piedi, mentre
Peldicarota lo imitava, con un coltello utile come una forchetta
davanti ad un piatto di zuppa. Avrebbe quindi dovuto proteggere non
solo Meinster, esanime e sempre più debole, ma anche lui.
Io, paladino dei Maghinò. C’è di che
farne ironia.
Fortuna volle che la cosa che uscì dal camino scrollandosi la cenere di
dosso fosse in realtà un qualcuno.
Un qualcuno che conosceva molto bene. “Harry!” Esclamò frenando
l’istinto di corrergli incontro come un bamboccio bisognoso.
L’uomo si tolse gli occhiali coperti da due dita di fuliggine e
starnutì. No, non pareva proprio l’entrata di un Salvatore, almeno a
giudicare dall’espressione sconcertata del delinquentello accanto a sé.
L’eroe ragioniere.
“Tom?” Uscì dal focolare sbattendo le palpebre come un gufo. “Cosa…”
“Lunga storia.” Lo fermò. “Che ci fai qui?”
L’uomo non parve intenzionato a dargli spiegazioni. “Io lavoro. Tu,
invece, dammi la versione breve.”
Decise di vuotare il sacco. Con tutte le bugie che gli aveva rifilato
cinque anni prima, ormai il padrino sapeva riconoscere alla perfezione
i suoi tentativi di mistificare la verità.
“Prince ti ha costretto?” Gli venne chiesto a conclusione del suo
racconto.
Dovette frenare uno sbuffo ironico. Dall’espressione del padrino non
gli pareva il momento.
“No, ma l’avreste ritrovato a Mayfair se non l’avessi guidato fin qui.”
Esitò. “Gli ho mostrato un ingresso secondario. Non erano ancora
arrivati i Tiratori, quindi abbiamo avuto via libera.”
Harry si astenne dal commentare, anche se l’espressione parlava da
sola.
Sei nei guai, ragazzo.
Era una fortuna che ormai fosse troppo grande per un castigo.
Forse.
Tom incrociò quindi le braccia al petto preferendo contemplare una
mensola piena di teste di Troll dall’aria particolarmente ributtante
piuttosto che affrontare ulteriori recriminazioni in forma verbale.
Harry nel frattempo si guardò attorno e prese coscienza della
situazione. Si chinò su Meinster ad esaminare le garze stazzonate e il
colorito pallido. Lanciò invece un’occhiata confusa alla flebo. “Questo
ragazzo ha immediato bisogno di assistenza medica. Non è il Magonò
assistente di Prince?”
Confermò con un cenno della testa. “L’abbiamo trovato tra le macerie.”
L’uomo fece un cenno verso il camino. “Il passaggio è aperto. Portalo
al San Mungo.” Squadrò con attenzione anche lui, la sua camicia
stazzonata, i capelli impastati di sporco e chissà cos’altro. “Credo
che abbiate tutti bisogno di attenzioni mediche.”
“Io sto bene.” Ribattè. “Il sangue che ho addosso non è mio. Mi sono
sporcato trasportandolo qui.” Aggiunse con una smorfia disgustata:
avrebbe dovuto fare almeno cinque docce per togliersi quell’odore di
dosso.
Harry a questo gli diede un’inspiegabile pacca sulla spalla, condendola
anche con un sorriso affettuoso. “Hai fatto un buon lavoro.”
Oh.
Non era più un ragazzino bisognoso di rassicurazioni ed elogi, eppure
dovette di nuovo frenare, per la seconda volta, l’impulso di andargli
vicino e chiedergli se tutto sarebbe finito bene.
Perché era Harry Potter, e il suo compito era fare finire gli incubi.
Di questo, ne era e sarebbe sempre stato sicuro.
“Non è stato tutto merito mio. Ho chiamato Al.” Si sentì in dovere di
aggiungere. “È stato con me al telefono fino a poco fa, per aiutarmi.”
Poi la batteria dell’altro si era scaricata e lo aveva lasciato con la
promessa di cercare una presa elettrica.
Non serve più, per fortuna. C’è Harry.
“Sei riuscito a comunicare con lui nonostante la barriera?”
Estrasse lo smartphone dalla tasca dei pantaloni. “Con questo. Non ha
una ricezione fantastica, ma…”
“Mi serve.” Tagliò corto. “Posso comunicare con chiunque abbia un
cellulare fuori da qui?”
“In teoria.” Mise le mani avanti. “Qui dentro prende. Non posso
assicurarti che fuori lo faccia però. La magia disturba le celle
telefoniche in modo irregolare.”
Harry si rigirò tra le mani il telefono. Nonostante fosse nato nel
Mondo Babbano aveva da tempo abbandonato la tecnologia, e se ne aveva
qualche lume, era di quella degli anni novanta: sperava riuscisse ad
usarlo. “E chi devo ringraziare invece per l’entrata in scena di
Prince?”
“Al non c’entra.”
“Non ne sono convinto.” Fu la risposta e sarebbe stato inutile negare:
ormai nell’immaginario comune della loro famiglia, lui e Albus erano
due menti al servizio di un solo scopo. “Comunque, dov’è? Hai avuto
notizie dagli altri auror? Li hai visti?” Snocciolò in rapida
successione.
Certo che se vogliono tenerci fuori,
non fanno molto per darcelo ad intendere.
Io e Al ormai siamo gli informatori
ufficiali dell’ufficio Auror.
Che fortuna.
Erano domande a cui però, nonostante tutto, era in grado di rispondere.
“Credo che Prince sia qua attorno. Ho chiamato Malfoy, è con la squadra
di Ron, credo dall’altra parte del quartiere. Non so dove si trovino,
ma penso che l’obbiettivo sia riunirsi. Da quel che mi ha detto,
almeno.”
“Bene.” Si avvicinò ad una delle finestre, spiando oltre le spesse
tende damascate. “La strada è sgombra.” Disse più a se stesso che a
lui. “Vado.”
“Harry…” Si era stufato di preoccuparsi per gli altri. Davvero. Non era
nelle sue corde, e lo faceva sentire … debole.
“Andrà tutto bene, Tom.” Ripetè la stessa frase che gli aveva detto Al,
ma il sorriso che gli rivolse lo fece stare peggio. Non era tagliato
per quel genere di situazioni ad alta tensione emotiva, dove era lui a
doversi preoccupare per gli altri e non viceversa.
“Voi Potter non sapete dire altro?” Borbottò osservando con blando
interesse Malpelo fingere di non essere lì, e soprattutto, di non
essere in compagnia del capo di una forza di polizia.
Harry ridacchiò. “Sta’ lontano dai guai, intesi? Dritto al San Mungo.”
Gli ordinò come un decenne indisciplinato.
Si sentiva precisamente quello. “A stare a contatto con la tua
famiglia, Harry, ho ereditato la vostra maledizione.” Rispose a tono.
“Sono loro a trovarmi.”
****
Riprese coscienza omaggiato di un getto d’acqua gelida. Un secchio
d’acqua? No, decise Sören sputando e tossendo: una bacchetta.
“Alla buon’ora!” Disse Ama. Si ritrovò addossato ad un muro, con la
ragazza accovacciata davanti a lui. “Sei vivo?”
“Suppongo.” Borbottò cercando di suonare dignitoso. “Dove…”
“Sempre a Notturn Alley … e sempre nei guai.” Gli rispose, mentre
faceva un cenno circostante per comprendere il vicoletto senza sfondo
in cui si erano rifugiati con una delle squadre auror.
“L’Infetto…”
L’espressione di Ama bastava per fargli capire che il suo piano aveva
funzionato. E che non ne era particolarmente contenta.
Per eufemizzare.
“Hai fatto una cosa idiota, te ne rendi conto?!” Gli chiese, ma era
retorica, perché continuò. “Avresti potuto rimanere ucciso!”
“Non avevo messo in conto di perdere le forze a quel modo.” Rispose a
tono. Nelle sue intenzioni voleva scaricare addosso all’Infetto una
quantità di magia sufficiente per portarlo al collasso, ma non aveva
immaginato che questo l’avrebbe assorbita come una spugna secca. “Era
come … se me la stesse succhiando via di dosso.”
“Cioè?”
“Quello che ho detto. Non appena l’ho toccato ho sentito la magia
fluire via da me, senza controllo.” Tentò di tirarsi in piedi e per
poco non ripiombò a terra. Per fortuna l’altra fu pronta a mettergli
una mano sotto il gomito e sorreggerlo. “Pensi che volessi ridurmi
così?”
“No,” Ammise preoccupata. “… Dannazione. Ne rimangono ancora due,
barricati in una drogheria a qualche strada da qua.”
“Barricati?”
Prima che Ama potesse rispondergli il sergente della squadra auror li
raggiunse. “È arrivata una chiamata dai ragazzi che ho mandato a Magie
Sinister. Non c’è più nessuno là dentro.” Intercettando la sua occhiata
aggiunse. “C’erano tracce del fatto che il camino sia stato usato di
recente però. Forse sono riusciti ad attivare la Metropolvere ed
andarsene.”
“Dev’essere il caso.” Convenne Ama mettendogli una mano sulla spalla.
“Sono sicura che tuo cugino e Milo stiano bene.”
Annuì. Non poteva far altro in quel momento, se non sperare che gli
inglesi avessero ragione e che fossero entrambi in salvo e diretti al
San Mungo. “Quale sono gli ordini Sergente?” Chiese.
Ama gli scoccò un’occhiata che valeva esattamente la misura di uno
scappellotto. “Niente ordini.” Lo apostrofò. “Con lo spettacolino che
ci hai appena offerto sarà un miracolo se non dovrò firmare scartoffie
e rapporti per il resto della mia vita!” Prima che potesse obbiettare
aggiunse. “Sei sotto la mia responsabilità, te lo sei scordato?”
Sì, se lo era scordato ma evitò di dirglielo preferendo piuttosto un
approccio diverso. Lily gli aveva insegnato a parlare quando si voleva
qualcosa.
“Sono l’unico immune al contagio.” Abbassò il tono di voce per non
farsi udire dagli auror. “E mi avete chiamato voi.”
“Per darci una mano, non per partire per una crociata solitaria!”
“Volevo raggiungervi, ma l’Infetto mi ha trovato prima.”
Ama serrò le labbra in una linea ostinata. “Hai sempre la risposta
pronta?”
“Quando è necessario.”
“Sören…” Sospirò. “Tu non dovresti usarla la bacchetta, figuriamoci
fare quello che hai fatto prima.”
Sentì un nodo allo stomaco.
Ho fatto quello che ritenevo giusto
per proteggere Milo e Thomas.
Ma la sostanza non cambia. Ho ucciso
un cittadino inglese.
“Mi prenderò la responsabilità di ciò che ho fatto.”
“È questo che mi preoccupa.” Il che non aveva senso: non le aveva
appena detto che l’avrebbe assolta dalle sue responsabilità di
superiore?
“Non mi pento di quello che ho fatto.” Ribadì. “Delle persone sono
morte. Dovevo fermarlo.”
“Non mi devi convincere.” Ribattè dura. Ancora più inspiegabile. Se non
era arrabbiata per quello, per cosa? “Comunque, ci penseremo a tempo
debito. Dov’è la tua bacchetta?”
Mostrò le mani vuote, pensando con una fitta di dolore al proprio
legno, ormai un agglomerato di fibre e schegge perso chissà dove. In
quelle macerie di certo sarebbe stato come cercare un ago in un
pagliaio. “È stata distrutta durante la colluttazione. In ogni caso,
non sarei granchè utile nell’offesa al momento … la mia magia ha
bisogno di riprendersi.”
Ama fece una smorfia di comica esasperazione. Era la prima volta che
gliela vedeva fare: doveva davvero averla messa alle corde. “Prince,
sei incredibile!” Sbottò. “Come pensi di poterci essere d’aiuto in
queste condizioni? Vattene al San Mungo, visto che il camino di quel
Sinister è attivo! Basta fare l’eroe!”
Cercò di trovare un motivo per protestare, ma l’altra aveva ragione. Al
momento era utile come un ombrello sfondato in un giorno di pioggia.
Solo che l’idea di tornare in albergo, o ancor peggio, di andare in
ospedale, gli faceva chiudere lo stomaco dall’ansia.
Milo. Non voglio affrontare la
faccenda di Milo.
Non era preparato per quello. Era un soldato, in quello era bravo. Ad
agganciare un obbiettivo e ad abbatterlo. Ad essere una persona, un
amico … meno. Molto meno. Stava imparando, ma non era abbastanza. Non
lo era mai.
“Potrei…”
“No.” Lo bloccò. “Va’ al San
Mungo. Sono stata chiara?”
Già, c’era anche il rovescio della medaglia: come soldato, non poteva
disobbedire ad un ordine diretto.
“Sissignore.”
Altro che scartoffie…
Il problema, pensò Ama mentre guardava due auror allontanarsi in
compagnia di un claudicante Prince, non era tutto il lavoro che avrebbe
dovuto fare per mettere una pezza all’idea geniale dell’altro.
È che questa storia avrà una risonanza pazzesca.
Tutta quella storia. Le due esplosioni, i morti, gli Infetti. Se gli
inglesi fino a quel momento erano riusciti a tener buona l’opinione
pubblica, dopo quella carneficina difficilmente la stampa sarebbe
rimasta in silenzio.
E ci andremo tutti di mezzo.
Prince in testa. E non avrebbero neppure potuto rimpatriarlo: con la
faccenda della Talpa né lei né il tedesco potevano lasciare il suolo
britannico.
Che razza di casino…
Non avrebbe mai pensato di finire in un vespaio simile, neppure nelle
sue più fosche previsioni.
Guardò la schiena fasciata di rosso dell’auror di fronte a lei, mentre
compatti si avviavano verso la drogheria: nessuno era al sicuro ormai.
E le reciproche fedeltà sarebbero state presto testate.
Un rumore alle loro spalle li fece voltare: l’ultimo auror della fila
levò di fronte a sé la bacchetta, subito imitato dagli altri. Lo stato
di allerta durò poco però. Da dietro l’angolo spuntò una figura che
tutto il Mondo Magico conosceva, anche solo per averla vista ritratta
in qualche articolo o libro.
“Signore!” Esclamò il sergente Auror, che sembrava aver appena
avvistato il proprio padre venirlo a prendere dopo una lunga giornata
di scuola. La mimica del resto del drappello non era molto diversa.
È incredibile pensare che una talpa
sia qui in mezzo.
Infatti non c’è, è da noi – le
ricordò la propria, odiosa coscienza. Se quello che lei e Malfoy
avevano scoperto era vero, era in mezzo ad innocenti. E buoni agenti,
da come avevano accolto il proprio capo.
“Sergente Gillespie.” La salutò dopo aver dispensato saluti e
rassicurazioni ai propri sottoposti. “Prince è con te?”
“No Signore. L’ho mandato al San Mungo.” Per fortuna. Almeno
l’argomento di come avesse neutralizzato l’Infetto non sarebbe subito
saltato agli occhi. Ama era a disagio, come molti prima di lei, davanti
a quell’uomo dall’aria in apparenza tanto ordinaria: se non avesse
saputo delle sue gesta sin da bambina, avrebbe potuto incontrarlo per
strada e confonderlo nella folla.
“Come ci è andato?”
“Dal camino con cui lei è arrivato.”
“Come sai che…” Aggrottò le sopracciglia, poi sorrise. “Domanda
stupida, lo sto chiedendo ad una detective.” Si guardò attorno. Se li
aveva raggiunti dal negozio, doveva aver visto lo sfacelo del quartiere
e aver tratto le somme.
Sono in perdita.
“Aggiornatemi.” Chiese al giovane Sergente auror.
Concluso il briefing rimase in silenzio per qualche attimo. “La
situazione per ora è stabile?” Chiese poi.
“Non ci sono arrivati altri aggiornamenti dal Sergente Weasley,
Signore. Reputiamo di sì.”
La situazione non era stabile. Era bloccata.
Ron Weasley non si riteneva un uomo d’azione. Vi era stato costretto
dalla vita e preferiva quindi mille volte fare uscire l’auror interiore
dalle proprie matricole piuttosto che trovarsi in situazioni del
genere. Con gli anni, preferiva sempre di più il ruolo di insegnante a
quello di esempio.
Forse dovrei davvero farmi trasferire
in Accademia come dice Herm.
Quindi, quando Harry arrivò in compagnia della squadra di Auror che era
andata a recuperare Prince, fu sinceramente contento.
Rispettava l’amico d’infanzia, ma ancor più, era felice che la patata
bollente passasse nelle sue mani.
“Come sta andando?” Gli domandò affiancandoglisi. “Gli ostaggi?”
“Incolumi, almeno a giudicare dalla planimetria.” Disse indicando una
pergamena spiegata a terra davanti a loro: riproduceva rozzamente
l’interno del negozio, ed era una delle tante invenzioni dei Tiri Vispi
riadattata per le forze dell’ordine. Harry aveva dato a George la Mappa
del Maladrino anni prima, e copiando gli incantesimi al suo interno,
suo fratello era riuscito a creare una serie di pergamene che,
debitamente incantate e poste vicino al luogo da disegnare, non solo lo
riproducevano, ma vi aggiungevano anche gli esseri viventi al suo
interno.
Piuttosto utile.
Impiegava tempo per funzionare ed era inutile se il luogo era
Intracciabile, ma rimaneva una delle armi migliore nel loro arsenale.
Specie al momento.
“Dodici persone.” Contò Harry. “Due di loro Infetti. Non è una bella
situazione.”
Convenne con un cenno della testa: aveva smesso di piovere, ma lui e
gli uomini erano fradici ed infreddoliti. La resistenza si andava
sfilacciando e così la lucidità. “Dobbiamo entrare, Harry. Adesso. Ma
se ci buttiamo a capofitto, rischiamo una strage.”
“Ama mi ha parlato di alcune tecniche che potremo usare…”
Scorpius, come il piccolo furetto ficcanaso che era, si inserì nella
conversazione. Un po’ difficile escluderlo visto che gli stava letteralmente attaccato alle
chiappe. “Ne ha parlato anche a me, ma Signore, con tutto il rispetto…”
Quale, quale rispetto?!
“… se facciamo la minima mossa quelli perdono la testa.”
“Potremo usare una diversione.” Suggerì la giovane Gillespie. Era una
crociata di mocciosi quella storia. Lo era dal rapimento di Thomas.
Accademia. Voglio lavorare in
Accademia. Almeno lì i marmocchi sanno di essere tali.
Harry in compenso non parve particolarmente turbato dalle ingerenze dei
due novellini. “Spiegatevi.”
“Potremo usare qualcosa per attirare la loro attenzione e poi buttare
una Bomba Stupeficium. Un’esca.”
Scorpius si voltò verso Ama. “Tipo un Detonatore Abbindolante? I
Tiratori li usano quando devono entrare nelle bische Magonò per evitare
che gli sparino addosso. Sputano una cortina di Buiopesto Peruviana e
poi entrano.” Fece una smorfia. “E' diventato complicato da
quando hanno scoperto che le armi da fuoco non gli esplodono in mano.”
Ama aggrottò le sopracciglia. “Forse uno di questi … oggetti … potrebbe
essere utile. Una diversione, e poi una Bomba Stupeficium.” Fece una
pausa. “Le avete qui in Inghilterra, vero?”
“Uno dei tanti vantaggi di aver lavorato con tua madre, Ama, è che ci
ha fatto conoscere i vostri giocattoli migliori.” Gli sorrise Harry.
“Le abbiamo. Però rimane il fatto che qualsiasi cosa potrebbe metterli
in allarme.”
“Non hanno tempi di reazione così rapidi come pensa. E gli inneschi
delle Stupefiucium sono rapidi.” Osservò la ragazza. “Credo che se
agiamo in fretta, possiamo metterli fuori gioco senza casualità.”
“Rimane il problema di come far entrare queste cose dentro il negozio.”
Osservò Ron rassegnandosi a quella conversazione a quattro. Scorpius,
del resto, gli saltellava a fianco come un labrador entusiasta.
O come Hermione durante le ore di
lezione…
La sua bambina avrebbe sposato un nerd – Hugo gli aveva spiegato
cos’era.
“Forse no.” Disse Harry mettendo mano ad un cellulare. Non aveva mai
voluto uno di quegli affari, sebbene i suoi figli tentassero di
introdurlo alla cosa da anni. “… forse posso fare arrivare entrambe le
cose là dentro.”
“Come?”
“Tramite camino, Ron.” Gli battè una pacca sulla spalla. “Gli oggetti
possono passare, non c’è neanche bisogno che riattiviamo il
collegamento.”
“Ma non abbiamo né lo Stupeficium né gli Abbindolanti qui!”
Harry gli mostrò il cellulare. “Ma possiamo farli arrivare. Funziona
Ron. A quanto pare, la tecnologia Babbana se ne infischia delle nostre
barriere.”
Forse avrebbe davvero dovuto dar retta ai suoi ragazzi e acquistarne
uno. Dopotutto, pensò senza riuscire a nascondere un mezzo sorriso
mentre Scorpius dava il cinque ad una divertita Ama, in famiglia
avevano ben di peggio.
Quel peggio, non era poi così male.
****
Note:
Capitolo pieno d’azione! Spero di riuscire ad aggiornare presto, ma al
momento la mia vita è abbastanza priva di punti fissi. Such fun! :’D
Questa la
canzone del capitolo.
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Capitolo 49 *** Capitolo XLVIII ***
One
word from you my world falls
So come on, treat me mean
(Caroline, Kill It Kid)
2 Agosto 2028
Devonshire, il Mulino. Mattina.
Lily si era svegliata in una casa fin troppo quieta. Dopo essersi
infilata la vestaglia era quindi scesa in cucina a controllare: l’aveva
trovata vuota. Sua madre non stava preparando la colazione come al
solito né suo padre era seduto a tavola a sfogliare distratto il
Profeta.
Beh? Dove sono finiti tutti?
“Mamma?” Guardò dalla finestra sopra il lavello: niente, non era
neppure in giardino.
Era sul punto di fare un giro d’ispezione quando la donna entrò nella
stanza. “Oh, tesoro!” La apostrofò. “Già sveglia?”
“Voglio andare al San Mungo.”
Tanto qualcuno di certo ce lo trovo.
Dopo quel che è successo ieri sera…
Che poi, cos’era successo la sera prima? Le notizie arrivate al Mulino
e rimbalzate alla Tana erano state brevi, confuse e a tratti
discordanti. Suo zio George aveva raccontato di una carneficina a
Notturn Alley, mentre suo zio Percy aveva vigorosamente negato,
asserendo che la situazione era stata sotto controllo sin da subito, e
il lockdown che era scattato
– sul fatto che ci fosse stato concordavano tutti – era stato ordinato
per puro scopo precauzionale. Da suo padre e zio Ron invece silenzio
radio.
Sören men che meno, dato che non si faceva vivo dalla sera prima:
l’unico contatto che avevano avuto era stato un messaggio, redatto in
fretta e furia a giudicare dalla laconicità, in cui le aveva scritto di
essere in ospedale ma illeso.
E allora che ci facevi lì? Chi devi
vegliare?
Domande senza risposta.
Ora di cercarne qualcuna.
“Prendo solo una tazza di caffè, poi vado.” Disse a sua madre che
pareva persa in pensieri tutti suoi. Infatti si riscosse di colpo
guardandola perplessa.
“Dove?”
“Come dove? Te l’ho appena detto, al San Mungo! Prima comunque passo in
albergo da Sören.”
“Penso sia il caso che resti qui invece.”
Lily aggrottò le sopracciglia. Glielo stava proibendo? No, decise, le
stava dicendo che non poteva.
Per qualche causa esterna e non per qualche riserva verso il suo
ragazzo o ancor più strano, verso l’ospedale. “Perché?”
Sua madre fece un cenno spazientito verso il quotidiano abbandonato sul
tavolo. Aveva un’espressione fosca che non le piaceva per niente.
“Stamattina il Profeta e le radio hanno aperto il vaso di Pandora. Ci
sono stati dei morti a Notturn Alley, almeno una decina … civili.”
Oh, cavolo.
“Allora è vero? Il lockdown
non era precauzionale come ha detto zio Percy!”
“No.” Ammise con una smorfia. “Gli Auror comunque sono riusciti a
catturare i responsabili…”
“Infetti?”
“Sì, ed uno di loro è stato ucciso durante gli scontri. Così mi ha
detto Gwendolyn, ero al focolare con lei prima.” Ovvero Gwendolyn
Morgan, editore della rubrica sportiva, sua buona amica ed ex compagna
di squadra. A quanto diceva sua madre, era una delle poche
persone all’interno del giornale che scrivesse per informare e non per
seminar zizzania.
“Papà?” Fu la domanda conseguente.
Sospirò. “È tutta la notte che fa spola tra il suo ufficio e quello
della Direttrice Jones. Stanno cercando di salvare il salvabile. Sono
riusciti ad evitare la prima pagine del Profeta della sera, ma
stamattina l’Inghilterra intera sa cos’è successo.”
“Cioè che è finita … Li hanno catturati tutti, no?”
Sua madre scosse la testa. “Ieri notte è stato solo l’inizio.”
Lily capì l’antifona: non aveva vissuto vent’anni della sua vita come
figlia del Salvatore senza capire l’importanza che l’opinione pubblica
tributava a suo padre. Nel bene e nel male il mago della strada, quello
che leggeva il Profeta e criticava il Ministero senza un’alternativa
valida, lo vedeva ancora come l’eroe che si batteva contro le forze del
male.
E deve trionfare su di esse. Deve.
Se il Ministro Shacklebolt era il parafulmini per gli insoddisfatti di
tutti i giorni, Harry Potter era quello da additare quando c’era di
mezzo una crisi, indipendentemente dal fatto che avesse un ruolo
subordinato persino nel DALM.
“Com’è che non siamo ancora state assalite dai cronisti?” Chiese
sedendosi al tavolo della cucina mentre sua madre spediva con un colpo
di bacchetta il bollitore sui fornelli.
“Non hanno il coraggio di arrivare fin qui.” La strega ridusse le
labbra ad una linea sottile mentre gli occhi dardeggiavano bellicosi;
avrebbe voluto essere al fianco del marito in quei frangenti, Lily
glielo leggeva nello sguardo. “La sanno più lunga che venire ad
infastidire una collega. Sarò anche una ex-testa di Pluffa, ma non mi
faccio venire a sporcare lo zerbino da gente come Hawkins o la Skeeter
che si contendono l’esclusiva!”
Lily pescò un biscotto dal piatto dove ne trionfavano molteplici e
ancora caldi. Sua madre non doveva aver dormito molto quella notte.
“Per questo è meglio se non vai in città oggi, tesoro.” Continuò.
“Finché tuo padre non avrà fatto almeno una conferenza stampa in cui
metterà a tacere quella gentaglia è meglio se rimaniamo a casa e ci
teniamo in disparte.” Fece un rumore indefinito. “Merlino solo sa cosa
Rita si inventerà stavolta. Forse che mentre Notturn Alley esplodeva
tuo padre era a letto con un ippogrifo!”
Mascherò una risata con un colpo di tosse. “Al e Jamie?”
“James è ad Hogsmeade e mi ha detto che ha ben altro per la testa. Non
chiedere…” La anticipò. “Ne so quanto te. Albus invece è in ospedale,
ma nessuna piuma arriva fino ai reparti, lo sai. L’accesso è interdetto
e tutti i piani sorvegliati, ringraziando Morgana.”
“Hai notizie di Sören? Era a Notturn Alley.”
Ginny scosse la testa, versandole the in una tazza che avrebbe
preferito veder piena di caffè, ma non se ne lamentò. Avrebbe dovuto
invece salire in camera e tempestare il crucco di chiamate finché non
le rispondeva. E al diavolo il
sembrare una stalker squilibrata!
Non è che lui nel periodo in cui ero
sparita, dopo il bacio, si sia comportato tanto meglio. Ah!
“Tuo padre non mi ha detto niente.” Le lanciò un’occhiata
significativa. “Non puoi aspettare che torni a casa?”
“Chi, Sören?” Finse di non capire. Ad una seconda occhiata sbuffò. “Non
mi muovo da qui, ricevuto. Però ho il diritto di sapere che succede,
no?”
“È il disco che si sono messi tutti in bocca stamattina.” Sospirò la
donna sedendolesi accanto e giocherellando con il cucchiaino della
propria tazza.
“La situazione è tanto grave?” Era una domanda scema, e se ne accorse
non appena l’ebbe pronunciata.
“Hanno attaccato il cuore dell’Inghilterra magica Lily … oltretutto, un
posto che viene visto male dalla comunità, per via della criminalità e
dei Magonò … È complicato.” Le spiegò grave. “Gli abitanti di Notturn
Alley si sono sentiti lasciati soli, i soccorsi sono arrivati troppo
tardi e il lockdown li ha
rallentati ulteriormente.”
“Ma non è la procedura per evitare il diffondersi del contagio?” O così
le aveva spiegato Albus.
“Sì, tesoro, ma quando muoiono delle persone non è mai semplice far
valere la ragione.”
“Cosa stanno rinfacciando a papà? Di aver portato gli Infetti a Londra
e averli sguinzagliati nel quartiere? Se non fosse stato per gli Auror
saremo tutti malati adesso! Hanno cercato di contenere un disastro!”
Sua madre le sorrise. “Questo è quello che pensiamo io e te, ma la
gente ha paura. Ed è facile trovare un colpevole se non si ragiona.”
“Che possiamo fare?” Chiese un po’ inutilmente, che il suo ruolo nel
grande schema delle cose era più o meno influente come quello di un
moscerino.
“Far quadrato attorno a tuo padre e farlo star sereno quando è a casa.
Più di questo, temo nulla.”
Lily si morse un labbro: indirettamente sua madre le stava chiedendo di
mettere freno ai suoi casini personali, e aveva ragione. “Devo smettere
di vedere Sören?” Chiese pacata. “Perché non voglio causare altre
preoccupazioni a papà…”
“Bambina mia, no.” Le prese una mano attraverso il tavolo e gliela
strinse. “Sören non c’entra niente e non credo che tuo padre lo
consideri un problema.”
“Ci hai parlato di recente? Tipo, da sempre?”
Le sorrise divertita. “Qualunque mago gli porterai a far conoscere sarà
sempre quello sbagliato.” La fermò con un cenno. “Sì, Sören è Sören, ma
non credo che vederti di cattivo umore perché ti sei imposta di non
frequentarlo migliorerebbe la situazione, ti pare?”
Le pareva. Sorrise di rimando. “Quindi facciamo gli angeli del
focolare?”
Sua madre alzò gli occhi al cielo. “L’alternativa sarebbe io che vado a
dirne quattro ai colleghi della cronaca, e non è un’opzione valida se
voglio tenermi stretto il posto e non vedermi denunciata per Fatture.
Su, alzati.” Le diede una pacchetta volitiva sulla spalla: Ginny
Weasley non era una donna che rimaneva a struggersi per il compagno in
guerra. Sua figlia non poteva essere da meno.
Anche se potrei, eh. Non è che mi
dispiacerebbe. Non ho problemi a fare la Didone della situazione.
“Qual è il piano?” Chiese comunque piena di buone intenzioni.
“Metterci in pari con le faccende di casa.” Proclamò. “Che certo non
mancano. Visto che io sono in ferie forzate e tu sei qui e non progetti
di dartela a gambe, che ne dici di cominciare dalla soffitta? Nessuno
ci entra da mesi e tuo padre pensa che ci si sia installato un
Molliccio.”
Lily emise un lamento che venne bellamente ignorato in favore di una
spintarella verso le scale. “Posso chiamare il mio ragazzo prima? Per
fare testamento, visto non la puliamo da anni.”
“Vai.” Le concesse. “Ma sbrigati.”
Lily preferì brontolare le sue rimostranze al corrimano salendo le
scale di corsa, anche perché sua madre era in piena modalità volitiva:
dato che non poteva buttarsi nella mischia come quando era ragazza, in
qualche modo doveva sublimare.
E indovinate chi ci va’ di mezzo?
Recuperò lo smartphone dagli abissi insondabili delle coperte e
richiamò l’ultimo numero digitato. Lo sentì squillare a vuoto un paio
di volte. Al terzo tentativo finalmente l’altro rispose.
Era ora!
“Lily.” Si era abituata a quel tono di voce stanco e sfibrato e non
andava bene. Affatto.
“Buongiorno!” Rispose con la sua voce più brillante. “Prima che tu
possa farmi notare che venti chiamate sono eccessive anche per i miei
standard, posso ricordarti che l’ultima immagine che ho di te ti
raffigura mentre ti metti nei casini?”
Quello lo fece ridere. Era una risata bassa e priva di divertimento e
no, andava ancora meno bene. “… scusami, ma è stata una notte da
incubo.”
“Lo immaginavo. Ne ho parlato fino ad adesso con mia madre. Siamo
confinate qui, finché l’opinione pubblica la pianterà di considerare
mio padre un papabile capro espiatorio e noi certe fonti di
informazioni scabrose.”
Sto pensando a te, Skeeter. Quando
muori?
“Tuo padre che c’entra?” La domanda era genuinamente confusa, ed era
ovvio: Sören non doveva essersi mosso dall’ospedale e quindi non doveva
aver avuto accesso alla valanga di fango che aveva inondato il
Ministero.
Oltretutto non vive qui. Non ha idea
di come possano diventare i maghi inglesi quando annusano il pericolo,
specie quando viene sbattuto nelle pagine della cronaca pronto ad
essere commentato.
“Storia lunga, quando ci vediamo te la spiego. Quando ci vediamo?”
“Io…” Ci fu una pausa, quasi stesse lottando tra il desiderio di
risponderle subito e dirle invece la triste realtà. “Non posso muovermi
adesso.”
“Sei in albergo?”
“No, in ospedale.” Ed ecco spiegate le interferenze che crepitavano
facendoglielo sentire distante, come in una caverna. La ricezione al
Mungo faceva schifo: migliorava solo salendo di piano in piano.
Quindi è agli ultimi se riusciamo a
parlarci. Al quarto? A Lesioni?
“Sei ferito?” Se le aveva mentito nel messaggio della sera prima
l’avrebbe preso a schiaffi, anche via etere.
“Non io, Milo.”
“Milo?” Aveva capito male?
“Era a Notturn Alley quando è avvenuta l’esplosione … non è riuscito ad
uscire, o forse non ha capito la gravità di quanto stava accadendo. È
caduto su una rastrelliera per scope rotta.” Fece una pausa. “È stato
trafitto.”
“Oh, Morgana.” Mormorò. Avrebbe dovuto spiegargli come dare quel genere
di notizie con tatto perché non ne era proprio in grado. “Ren, mi
dispiace tanto. È … cioè, come sta?”
“È stato soccorso in tempo, ma …” Ci fu una seconda pausa, brusca, e un
respiro forte. Se lo immaginava, a stringere i denti per non far
tremare la voce. “… non ha più ripreso coscienza.”
Oh, ragazzone…
Di tutte le persone a cui sarebbe potuto accadere qualcosa, Milo era
proprio l’ultimo.
“Vengo lì.” Decise, anche se non doveva e non poteva, anche se … anche
se tutto.
“No.” La fermò, e il tono aveva ripreso la forza di sempre. “Se la
situazione con tuo padre è così delicata non devi rischiare. Resta a
casa, ti aggiornerò io.”
“Non mi interessa aggiornarmi, voglio essere lì con voi!”
Altra pausa. Stavolta se lo raffigurò a sorriderle e questo le fece
venire una gran voglia di piangere, va’ a sapere perché. Tanto ormai
era universalmente noto avesse la lacrima facile.
“Non sono da solo. Ogni tanto Albus viene a controllare. C’è anche
Malfoy, è tornato stamattina. Al momento mi sta battendo ad una cosa
chiamata Sparaschiocco.”
Ci fu un fruscio al ricevitore, segno che c’era stato un rapido, e
forse non del tutto concordato, passaggio di mano. “Piccola Potter, ma
gli hai insegnato qualcosa delle nostre gloriose tradizioni ludiche
oppure no?”
Capì l’origine del magone che l’aveva presa: realizzare che Sören non
era stato abbandonato in un momento così critico le dava un sollievo
incredibile.
Non era più l’unica a preoccuparsi per lui.
“Non quelle a cui possono giocare anche i minori.” Rispose a tono.
“Come sta?”
“Non sa perdere.” Fu abbastanza furbo da risponderle. Capì lo stesso.
Quando gli venne ripassato riuscì anche a trovare un briciolo del suo
solito smalto. “Insomma, mi ha detto che non accetti le sconfitte!”
“Solo perché sono certo che il mio sfidante bari.” Sbuffò. “Sto bene.”
La rassicurò. “Ti tengo informata.”
“Ricevuto.” Capitolò. “Vado a farmi schiavizzare da mia madre. Nel
caso, ricordarmi come una ragazza premurosa.”
Era meglio fingere che andasse tutto bene. Il mondo non era ancora
esploso dopotutto. Ci stava provando con tutte le sue forze, ma avrebbe
avuto pane per i suoi denti.
Ce la caveremo. Tutti quanti.
Non poteva far altro che crederci con tutte le sue forze.
“Non mancherò.” Altra pausa. Un secondo fruscio, rumore di passi: Lily
ridacchiò intuendo che l’altro si era allontanato per avere un po’ di
privacy, considerando che Malfoy, da lontano, berciava un ‘fate come se
fossi un Gargoyle’.
“Mi prometti che resterai a casa dei tuoi e non verrai qui?”
La conosceva troppo bene. Rifletté sulla risposta. “Ti aspetti che sia
sincera?” Chiese.
“Preferirei.”
“Diciamo che posso prometterti
che mia madre mi renderà impossibile andarmene. Impossibile tipo
legarmi ad una sedia con una Pastoia.”
Farlo ridere era la cosa che le piaceva di più in assoluto. Sempre,
comunque. Al telefono, quando erano assieme, quando erano assieme
davvero, in un letto, tra le lenzuola e i baci. Sören non rideva mai
abbastanza.
È mio compito assicurarmi che lo
faccia. Un po’ come somministrargli una pozione.
“Allora posso star tranquillo, mia Lilian?”
“Oh, amore mio, quello proprio mai.”
****
Ministero della Magia, Ufficio
Cooperazione Magica.
Ora di pranzo.
Michel non avrebbe mai pensato di definirsi un misantropo; amava la
socialità, essere inserito nei circoli giusti, ascoltare i pettegolezzi
più succosi e, in generale, farsi ammirare finché l’inevitabile
caducità umana avrebbe finito per farlo somigliare a suo padre, sia nel
fisico che nel comportamento. Nel fulgore dei suoi vent’anni però si
fregiava del titolo di animale sociale.
In quel momento, avrebbe voluto piazzare una bomba nel bel mezzo della
Londra magica e farla esplodere. E poi ritirarsi in una baita sul Ben
Nevis.
Perché la faccenda di Notturn Alley aveva letteralmente fatto
imbizzarrire la gente – quella grossa bestia composta da più corpi,
irragionevole e ottusa – portando inevitabilmente il Ministero nel
mirino del mago della strada.
Perché non c’erano misure di
sicurezza adeguate? Perché sono morte tutte quelle persone?
Cosa ci state nascondendo? Moriremo
tutti!
Quella mattina aveva dovuto camminare a testa bassa fino al proprio
ufficio, perché se quello Auror aveva serrato le fila, così aveva fatto
quello di Cooperazione, che il Profeta si era premurato di inserire
nella schiera di ‘istituzioni che non tutelano il cittadino’.
La stampa non aveva aiutato, affatto: erano passati i tempi in cui il
gabinetto del Ministro la muoveva con una manciata di fili fatta di
sovvenzioni e velate minacce di chiusura e solo carta straccia come il
Cavillo si permetteva di alzare la testa. Adesso la maggior parte dei
giornali, dal Profeta a testate più piccole, erano controllati da somme
private, provenienti perlopiù da maghi arricchitisi nel boom economico
successivo alla caduta di Voldemort, quando le speranze erano alte e le
borse ricolme di Galeoni.
Persone come la Skeeter o Hawkins avevano quindi licenza di seminare il
panico senza ricevere neppure un blando ammonimento dai loro mecenate,
principalmente interessati alle copie vendute e non al prestigio delle
istituzioni. I filantropi che riempivano le casse del Profeta poi,
erano contrari alle politiche del gabinetto Shacklebolt: da anni
tentavano di tirarlo giù dallo scranno e via dal cuore dei cittadini.
Non sarei neppure troppo in
disaccordo, visto che sta diventando una sorta di tirannide illuminata …
Se non fosse che quella macchina del fango ora inficiava il suo lavoro; era dalla sera prima
che lottava contro Gufi che gli chiedevano interviste e domande
scomode. Tutti infatti sapevano che era il referente dei due agenti
americani.
Devo contare Prince perché continua
ad essere onnipresente.
Bussarono alla porta e diede voce di entrare: per fortuna l’arpia che
divideva la stanza con lui era fuori in una delle sue infinite pause
caffè.
Entrò Ama Gillespie vestita accortamente in abiti civili. Doveva aver
ricevuto il Gufo in cui si consigliava di non essere bersagli mobili
per i giornalisti e un uniforme in quei giorni lo era, eccome. “Sono
qui per il rapporto settimanale.” Annunciò.
“Bene.” Lo sfogliò; a differenza di Prince la strega non sembrava avere
voglia di entrare nelle sue grazie. Lo fissava con impazienza, quasi
trovasse quella visita un’inutile seccatura. “Prince è intervenuto?” Le
domandò.
“Sì.” Rispose rigida. “È tutto scritto lì.”
Michel sospirò. “Sergente, si rilassi … Le ricordo che siamo entrambi
nella stessa barca.” Aggrottò le sopracciglia continuando a leggere. “…
è stato lui a mettere fuori gioco l’Infetto?”
La strega fece una smorfia alla sua oculata scelta di parole. “Non
dirmi che non te l’hanno detto. Nell’Ufficio Auror non si parla
d’altro.”
“Questo non è l’ufficio Auror.” Chiuse il rapporto, intrecciandovi le
dita sopra. “E l’improvvisata di Prince potrebbe creare qualche
problema.”
“Qualche?” Sembrava aver voglia di sputargli in un occhio. Non aveva
trascorso la sua adolescenza a baccagliare con i Grifondoro per non
riconoscere quell’espressione in particolare. “Prince si è messo in un
guaio che potrebbe costargli molto. Troppo.” Aggiunse cupa.
Almeno si rende conto della fragilità
delle relazioni intercontinentali…
Non era stupida, ma era pur sempre una testa di bacchetta, quindi
andava circuita più che affrontata direttamente. “Prince non ha agito
in qualità di agente, ma da civile.” Convenne pacato. “Al massimo come
consulente per gli auror. E considerando che è in giudizio penale
sospeso …”
“Non c’è bisogno che mi ripeti la lezioncina.” Si ostinava a dargli del
tu. Era inutile correggerla, ci aveva provato: supponeva lo facesse a
posta. “Non si è ancora reso conto del peso delle sue azioni, e di
certo non ci ha pensato quando ha affrontato quella … cosa.” Inspirò e
Michel si chiese quanto dovessero essere spaventosi quei maghi per
instillare paura persino nel cuore di un agente scelto. “In tutta
franchezza, al posto suo avrei fatto lo stesso.”
“Già, ma lei è autorizzata ad usare la forza in terra straniera, Prince
no.”
Lo fulminò con lo sguardo. “Dimmi qualcosa che non so.”
“Non l’ho fatta venire qui per richiamarla all’ordine, né per passare
un messaggio intimidatorio.” Spiegò conciliante anche se l’avrebbe
volentieri mandata al diavolo. Fuori dalla carica l’avrebbe fatto di
certo. “Sono il vostro referente e sono dalla vostra parte.”
Parve poco toccata dalla dimostrazione di lealtà. “Quanto ci vorrà
prima che la cosa venga fuori?”
Michel esitò. “In tutta onestà … non ne ho idea. Sul Profeta la morte
dell’Infetto viene ancora attribuita a scontri generici. Ed è lo stesso
negli altri giornali, che ne prendono le mosse. Ma siamo solo alla
mattina dopo.”
La Gillespie strinse le labbra. “Però se qualcuno degli auror che era
presente alla scena parla… anche solo in famiglia…”
“L’ottica del passaparola.” Convenne. “In ogni caso, non sta a me né a
lei controllare la fuga di notizie in quell’ufficio … è il Capo Potter
che dovrebbe fare in modo che i suoi uomini non parlino davanti ad una
pinta, magari offerta.”
“E lo farà.” Rispose con convinzione: un’altra fan del mitico
ragazzo-meraviglia.
Michel sospirò. “Verrà comunque aperta un’indagine interna al DALM.” Fu
suo dovere farle presente. “La cosa potrà passare sotto silenzio sui
quotidiani, ma non ufficialmente. È la procedura.”
La strega fece per ribattere – cosa, poi? Era un dato di fatto che
Prince avesse commesso una stronzata che poteva essere fatale per la
sua carriera o ancor peggio, per la sua libertà – quando venne di nuovo
bussato alla porta. Scocciato diede di nuovo voce di entrare. Era uno
dei fuochisti. “Michel, c’è la solita chiamata dall’America.”
Registrò con allarme l’aria perplessa della strega; era ovvio, che
chiamata dall’America avrebbe mai dovuto ricevere se il suo unico
contatto era lei?
Fece quindi finta di niente. “Digli che richiamo, ora sono impegnato.”
Quando il Fuochista se ne fu andato riprese come se niente fosse. “Se
fossi in lei, Sergente, avvertirei Prince di tenersi pronto a
rispondere ad un bel po’ di domande. E rispondere bene.”
“Lo farò.” Si alzò in piedi continuando a guardarlo con lo stesso
piglio che doveva avere durante un interrogatorio. Si premurò di non
lasciar trasparire nessuna emozione e di tenere quindi la bocca chiusa.
“Credevo che l’unico contatto che avesse con il mio ufficio fossi io.”
“Infatti.” Rispose. “Non era una chiamata di lavoro.”
La Gillespie fece un sorriso che non gli piacque per nulla. “Che
fortuna avete qui a Cooperazione … vi passano anche le chiamate
personali?”
Razza di arpia.
Sorrise di rimando. “Siamo privilegiati, è indubbio.” La fermò prima
che si dirigesse verso la porta. “Un ultimo consiglio … se fossi in lei
eviterei posti come Diagon Alley o il San Mungo, almeno per i prossimi
giorni. Pullulano di giornalisti e mi creda, hanno un’ottima memoria
fotografica. Non le servirà a molto vestirsi in abiti civili.”
La strega fece una smorfia insofferente. “E come faccio a parlare con
Prince se è piantonato lì?”
“È stato ricoverato di nuovo?” Albus avrebbe dovuto regalargli un buono
sconto o una tessera fedeltà. Da quel che gli avevano detto, era lì
dentro un giorno sì e l’altro pure.
“Non lui, un suo amico. È grave, quindi non si muoverà da lì neppure a
Schiantarlo.”
Michel sentì il cuore perdere un battito: quanti amici poteva mai
fregiarsi di avere il tedesco? Non molti. Per quanto ricordava, solo
Scorpius e Lily e Albus Potter potevano esser considerati tali.
Su suolo inglese però.
“Di chi si tratta?”
La donna si infilò il mantello con un movimento irrequieto. Stava
attentando alla sua pazienza trattenendola lì quando doveva andare a
cavare la castagne dal fuoco a Prince.
Non gliene importava niente.
“Sergente Gille…”
“Milo Meinster.” Sbuffò scocciata. “Non l’avrai mai sentito nominare.”
Stavolta il cuore non perse un battito. Si fermò del tutto, o almeno
così gli parve.
Emil…
Com’era successo? Perché era a
Notturn Alley?
Perché è l’unico posto per quelli
come lui. Te l’ha sempre detto. Non hai cercato ogni volta di
convincerlo del contrario, fallendo?
Ecco perché era lì quando il
quartiere è stato attaccato.
Ce l’hai spinto tu.
Da come lo stava guardando l’americana la sua faccia doveva aver subito
una trasformazione repentina.
Neppure gli importava di nasconderlo, o dissimularlo. Non gliene
importava niente. “Devo andare.”
“Da chi?” Batté le palpebre sconcertata. Avrebbe voluto ucciderla.
Dal mio uomo, idiota!
Ma in un barlume di lucidità si rese conto che la sua reazione, così
come la richiesta, non avevano il minimo senso ascoltate da chi non era
a conoscenza del loro rapporto.
“Da Meinster.”
La strega ebbe il buonsenso di non insistere. “Per quanto mi riguarda
abbiamo finito, ma non devi avvertire qualcuno prima di farlo? Siamo
ancora in orario di lavoro.”
“No.” Mentì con la consapevolezza che l’altra se ne fosse resa conto.
“Andiamo, la scorto all’uscita.”
****
San Mungo, Pomeriggio.
La prima cosa che ti insegnava il San Mungo era a separare il mago dal
paziente: non c’erano legami di sangue o affettivi che tenessero,
chiunque entrava lì dentro andava trattato come un corpo da restituire
alla salute, niente di più. Niente favoritismi, niente trattamenti
speciali.
Quel giorno Albus stava infrangendo quel comandamento con tutti i
crismi andando nella stanza di Milo e misurargli i parametri vitali a
ritmo di una volta all’ora.
Forse perché sei tu che l’hai
ricucito. Letteralmente.
Quando Meinster era arrivato aveva subito capito che la situazione era
grave. Non perché fosse grave in sé, ma perché aveva davanti un Magonò.
Per un momento aveva quasi pensato di ordinare ai Medimaghi di portarlo
in un ospedale Babbano: poi si era reso conto che Milo non sarebbe mai
riuscito a sopravvivere ad un secondo spostamento. Era troppo debole.
“Portatelo su.” Aveva ordinato ai
barellieri.
“Puoi salvarlo?” La domanda di Tom
era da un milione di galeoni. “Anche se è un Magonò?”
“Con la Comparata.”
“Cosa?”
“Con la Medimagia Comparata.” Gli
aveva risposto. “Merlino, non so neanche se funzioneranno gli
incantesimi diagnostici… E Smeth pianta dei casini assurdi quando
comincio a parlargli di Comparata, è della vecchia guardia e…”
Tom gli aveva messo una mano sul
braccio. Aveva le unghie delle dita rosse, sporche di sangue
incrostato. E aveva stretto, forte. “Te l’ho tenuto in vita.” Aveva
mormorato con gli occhi lucidi di fatica e paura. I vestiti
spiegazzati, i capelli in disordine lasciavano intuire quanto della sua
solita compostezza fosse andata perduta a Notturn Alley. Voleva
abbracciarlo, ma non c’era tempo.
“Tom…”
“Non è importante.” Aveva risposto.
“Va’ a fare il tuo lavoro.”
In quel momento aveva preso una decisione. Una decisione che a
posteriori gli sarebbe costata mesi di padelle e dispetti da parte del
suo decano, ma pazienza.
Perché Smethwyck, sfuriata a parte, non gli aveva potuto rifiutare
nulla; si era addirittura spinto a fargli preparare una sala
operatoria, andando poi a rintracciare per assisterlo l’unica
magi-infermiera che avesse, come lui, una conoscenza base di medicina.
Tutto perché sono l’unico Guaritore
di Lesioni che ha sostenuto l’esame di Comparata.
Aveva così aperto, suturato e ricucito come aveva fatto centinaia di
volte in Accademia tra le prese in giro dei compagni.
Tu e la tua Babbanofilia…
Beh, la mia Babbanofilia ha appena
salvato una vita umana!
Era orgoglioso del risultato. Era orgoglioso del fatto che il paziente
fosse ancora vivo: e ne era altrettanto terrorizzato perché era un
successo basato su tante, troppe variabili.
Le mie capacità di chirurgo magico, la sua capacità di ripresa, quanto
sangue ha perso, quanto è rimasto a contatto con quel ferro arrugginito
…
Merlino, la setticemia!
Era stato divertente spiegare ad un irritatissimo Smeth cosa fosse
l’antitetanica e perché andasse somministrata via endovenosa.
Entrò quindi nella stanza del tedesco per la quinta volta da quella
mattina. Sören era ancora lì, seduto rigido sulla poltrona per gli
ospiti.
Non si è mosso di un millimetro.
La sua capacità di concentrazione era ammirabile quanto inquietante.
“Vatti a prendere un caffè.” Gli consigliò mentre controllava con la
bacchetta i parametri vitali.
Sören si riscosse, sforzandosi di fare un sorriso e fallendo
miseramente. Non aveva una di quelle facce che rendevano facile il
compito. “Sarebbe il quarto della giornata, non credo sia il caso.”
“Una tisana allora.” Osservò come le dita del ragazzo si fossero chiuse
attorno al polso dell’amico. “Guarda che non scappa.”
“Lo so.” Ribatté sulla difensiva. “Ma…” Esitò, poi scosse la testa. “…
è ridicolo, me ne rendo conto, ma se mantengo un contatto … Ho
l’impressione di farlo rimanere.”
“Rimanere dove?”
“Con noi. Vivo.”
Oh…
Rimise la cartella nel contenitore ai piedi del letto e si sedette
sulla sponda. “Sai, ci sono teorie che sostengono che anche in uno
stato di incoscienza si percepisca ciò che accade attorno a noi. Le
voci, un tocco. Quindi forse hai ragione.” Scrollò le spalle. “Ma da
quanto non dormi? Fatti dare il cambio.”
Sören si irrigidì. “Da chi? Non verrà nessuno.” Rispose amaro. “E non
posso obbligare Lily o Malfoy a sostituirmi. Hanno altro a cui
pensare.” Scosse la testa. “Per tanto tempo siamo stati solo io e lui.
Si è preso cura di me.” Strinse di nuovo, appena, il braccio
dell’amico. “È il mio turno.”
C’erano persone così, pensò sorridendogli con affetto: uomini o donne
che a prima vista parevano sassi, pesanti e scuri, ma che se maneggiati
con cura e tagliati con precisione rivelavano essere pieni di cristalli
luminosissimi.
“Sono contento che mia sorella non si sia arresa con te.”
Sören batté le palpebre senza dire niente, ma l’espressione che fece in
quel micro-secondo in cui permise alla sorpresa di allentare il
controllo glielo rese ancora più caro.
Prima o poi ti verrà regalato un
maglione Weasley, credimi.
“… Si sveglierà?”
Non glielo aveva chiesto sino a quel momento, ma era stanco e si
vedeva: anche le sue famigerate difese teutoniche stavano crollando.
“Vuoi il parere del Guaritore o dell’amico?”
“Quello che ha il pregio di esser sincero.”
Albus annuì. “Ha perso molto sangue e anche se Tom e il Magonò hanno
fatto del loro meglio è stato senza cure per ore e con un corpo
estraneo che lo passava da parte a parte.”
“Capisco.”
No, non doveva capire cose che gli avrebbero tolto la speranza.
Perché persone che perdono la
speranza attorno ad un paziente sono peggio della ferita stessa.
“Il fatto che respiri da solo e che i parametri siano stabili è un buon
segno. Lo sto tenendo controllo con antibiotici ad ampio spettro e gli
sto somministrando liquidi.” Indicò la flebo che vegliava sul ragazzo
come un gufo benigno: doveva fargli capire che non lo stava lasciando a
sé stesso sperando in un miracolo. “Questo riduce la possibilità di
infezione, che è la cosa di cui al momento dobbiamo avere più paura.”
“Perché non si sveglia allora?”
La Domanda; l’avrebbe probabilmente sentita per il resto della sua
carriera.
“Il trauma che ha subito è importante, il suo corpo ha bisogno di
riprendersi. Si potrebbe svegliare tra un paio d’ore come tra un paio
di giorni.”
“E se non si risveglia?”
Albus scosse la testa. “È troppo presto per allarmarsi.”
“State andando alla cieca, vero?”
Si vede tanto?
“Non è proprio così.” Replicò cauto. “La Medimagia Comparata è una
disciplina sperimentale … ma nel caso dei Magonò è forse la loro unica,
solida speranza. Del mio corso sono l’unico che ha preso l’abilitazione
per chirurgia. Ma l’ho presa. So quel che faccio.”
Anche se i Babbani ci fondano un
intero percorso di studi mentre io ho fatto solo un esame teorico e uno
abilitativo.
“Perché?”
Si strinse nelle spalle. “Perché sono bravo?”
Suo malgrado parve divertito. “No, volevo dire … Perché l’hai presa?”
Fece un mezzo sorriso. “Tom ha passato anni a parlarmi delle meraviglie
delle scienze Babbane, e quando gli ho detto che volevo specializzarmi
in Lesioni da Incantesimo ha cominciato a regalarmi tomi di chirurgia.
Per curiosità direi. Per non aver magia, i chirurghi riescono a
compiere imprese straordinarie con solo un bisturi e del filo di
sutura. Chiudono ferite, riattaccano arti, trapiantano organi...”
Aggrottò le sopracciglia. “… Cosa succede ai Magonò che vengono qui a
curarsi? Per cose che non riguardano la tua specializzazione intendo.”
“Beh, ci sono altri Guaritori in ospedale che hanno conoscenze di
medicina, ma … è raro che si rivolgano a noi. Se è grave di solito
vanno negli ospedali Babbani … Non si fidano, e non hanno tutti i
torti. Purtroppo la nostra è una società a misura di mago.”
Sören fece una smorfia senza commentare: forse era la prima volta che
si rendeva conto di quanto Meinster fosse diverso da loro e quanto
questo gli costasse.
“Milo è migliore del più Purosangue dei maghi.” Al capì immediatamente
a chi si riferiva.
Michel.
Che avrebbe dovuto chiamare, anche solo per avvertirlo che Meinster era
lì.
Qualsiasi cosa sia accaduta tra di
loro … Mike tiene a lui. O non starebbe male da giorni.
Sören si sbagliava: c’era
qualcuno che avrebbe potuto dargli il cambio.
Solo che non è il caso mi impicci.
Non stavolta.
Quasi avesse richiamato con il pensiero l’amico, Michel entrò nella
stanza: irruppe visto che
spalancò la porta di botto, ansante e con i vestiti stropicciati dalla
Materializzazione.
“Mike!” Esclamò, ma non fu abbastanza svelto da prevedere le reazioni
di Prince.
Che si alzò in piedi di scatto, furioso. “Che diavolo ci fai qui?”
Michel ci mise più di un attimo a trovare le parole, lui che ne era
maestro. “Sono … sono venuto a vedere come sta.” Mormorò facendo
saettare lo sguardo nella stanza. “Mi hanno detto che è stato ferito
durante gli scontri di Notturn Alley e…”
Prince si piazzò tra il letto e l’ex-Serpeverde. “Vattene.”
“Senza offesa Prince, ma ho tutto il diritto …”
Sören dovette reputar di aver sopportato abbastanza, perché con un
movimento fluido che parlava di decine di anni sui campi da battaglia
sbatté Michel al muro.
“Ehi!” Esclamò evitando però di intervenire. Se poteva, voleva evitare
di scontrarsi con una massa incazzata e compatta di magia e
muscoli.
“Gli hai spezzato il cuore.” Ringhiò. “Ti sei preso gioco del suoi
sentimenti e lo hai scaricato quando è diventato un problema … Come osi pretendere qualcosa?”
Michel non rispose né ebbe reazioni. Si limitò a guardare verso
Meinster come se sperasse di raggiungerlo nel suo stato di incoscienza.
Oh, per favore.
Era circondato da regine del melodramma. “Fatela finita!” Li apostrofò
con il suo miglior tono da Guaritore In Carica. “Volete spellarvi di
Fatture? Fate pure, ma non nel mio
ospedale, che vi ricordo è un posto dove la gente viene curata e non
fatta a pezzi.” E quest’ultima parte era rivolta a Prince che gli
scoccò un’occhiata colpevole mollando l’altro e facendo un passo
indietro.
Dato che aveva finalmente un uditorio recettivo fece quello che doveva:
diede ordini.
“Sören, va’ a prendere un the, fatti una passeggiata per i corridoi …
Non mi interessa, basta che stacchi la spina, ne hai bisogno. Mike ti
darà il cambio.”
Il tedesco fece per protestare ma si arrese sotto il peso della sua
fulgida aura da guaritore. Scoccò un’occhiata malmostosa a Michel ma
lasciò la stanza.
“Wow.” Commentò ad alta voce. “Non pensavo avrebbe funzionato!”
Michel stiracchiò un sorriso. “Sei stato piuttosto minaccioso pulcino.”
Fissava il letto dove riposava Meinster come se fosse l’unico punto
focale dell’ambiente. “Ha ragione. È tutta colpa mia.”
Merlino, dammi la forza.
Sbuffò. “Milo era a Notturn Alley a bersi una birra, non a tentare il
suicidio perché vi siete lasciati. Gli unici colpevoli sono quelli che
l’hanno ridotto così. Vuoi un rimedio a come ti senti?”
“Droga?” Domandò con un sorriso tremulo, così diverso dai suoi, così
nudo e disperato che gli si strinse il cuore. “Nott me ne ha
consigliate alcune dai nomi esotici, ma non credo sia opportuno.”
Alzò gli occhi al cielo. “Non dire idiozie. L’unica cura è essere qui
quando aprirà gli occhi, così potrai chiedergli scusa per aver avuto
l’attacco d’ansia più stronzo e intempestivo della storia. Perché
aprirà gli occhi e tu sarai qui. Te lo prometto.”
Michel non gli rispose: si lasciò invece cadere sulla sedia,
nascondendo il viso tra le mani. Non sembrava stesse piangendo, ma Al
capì che era un momento privato e lo lasciò solo, chiudendosi dietro la
porta con delicatezza.
Non era più tempo di giocare al piccolo investigatore, di suggerire a
Prince strategie per rientrare nelle grazie del caso o di trafugare
informazioni.
Sospirò: aveva fatto una promessa a due persone. Tre, se si contava
Meinster. E da Guaritore, l’avrebbe mantenuta.
****
Ministero della Magia, Ufficio Auror.
“Il Capitano Gillespie è al focolare Signore, come aveva chiesto.”
Harry alzò la testa dall’articolo del Profeta che stava rileggendo per
forse la milionesima volta. O almeno così gli sembrava.
“Bene Grace, prendo la chiamata.” Righe su righe di inchiostro
continuavano a martellargli la testa come una Fattura mal smaltita.
… l’ufficio
Auror ha brancolato nel buio sin dal primo momento …
Harry Potter
Colui-che-è-sopravvissuto per insabbiare un caso di portata nazionale…
Possiamo
davvero ritenerci sicuri quando il Ministero …
Si tolse gli occhiali e mise a fuoco la figura dell’americana. “Nora.”
La salutò con un sorriso stiracchiato.
La strega ricambiò. “Ti abbiamo regalato dei bei guai, vedo.”
“L’Inghilterra è una calamita per psicopatici, se fossi in te non mi
sentirei troppo in colpa.” Scherzò.
“Com’è la situazione?”
La conferenza stampa era stato un
bagno di sangue. Sin da quando era entrato nella sala allestita ad uopo
con la Direttrice Jones aveva capito che lo sarebbe stata: si era
stupito però di trovare Zabini Senior e non il figlio.
Non è Michel l'agente di controllo di Sören ed Ama?
Forse Draco non aveva ritenuto
opportuno caricare il ragazzo di un compito simile, preferendo il
padre. Blaise Zabini, una volta accomodatosi accanto a lui, l’aveva
salutato con un cenno rigido della testa.
Se Draco è una biscia, Zabini è una vipera.
Non doveva guardarsi da lui però,
piuttosto dal suo uditorio.
Era stato infatti il solito, odioso,
Richie Hawkins ad aprire le danze dopo che la Direttrice ebbe finito di
leggere il comunicato stampa.
“Fonti ci hanno informato che
l’Ufficio Auror era a conoscenza della sparizione di quattro persone
infette durante le operazioni al castello … Perché Londra non è
stata messa in sicurezza?”
Harry si era scambiato un’occhiata
con M prima di rispondere.
“Sì, eravamo a conoscenza di questa informazione. Per questo abbiamo
concordato con i Tiratori pattuglie da dislocare in tutti i nuclei
abitati da maghi nel raggio di 50 miglia dal Prince Manor, che,
ricordo, non è vicino all’area metropolitana.”
“Ma sono comunque arrivati qui.” Lo
interruppe il giornalista. “A Notturn Alley, nel centro nevralgico del
nostro Ministero! Ha una spiegazione?”
Harry si era umettato le labbra. “No,
non la ho.”
“Neppure una piccola speculazione?”
La voce melliflua della Skeeter aveva tagliato la sala come un
coltello. “Pare strano, ai nostri lettori, che l’Ufficio Auror non
abbia ancora una teoria su come si muovano queste … cose …”
“Sono persone.” Aveva ribattuto
secco. Troppo secco da come i taccuini dei presenti si erano animati.
Aveva comunque continuato, ignorando l’occhiataccia scoccatagli da
Zabini. Che si fottesse anche lui. “Sono persone malate, che hanno
bisogno di aiuto e ne stanno ricevendo di adeguato al San Mungo.”
“Persone, dice bene!” Aveva esclamato
una streghetta dall’aria nervosa. Harry aveva letto sul cartellino
appuntato alla giacca il nome di una testata che aveva sentito di
sfuggita nominare da Ginny: piccola, auto-finanziata ed estremamente
critica verso chiunque detenesse un’oncia di potere. Ne aveva vista
qualche copia a casa di Hugo, il polemico della famiglia. “Uno di loro,
Colin Kay, è rimasta ucciso negli scontri. Gli Auror hanno ricominciato
ad usare i loro vecchi privilegi? Colpire prima di far domande?”
“La persona a cui si riferisce si è
macchiata dell’omicidio di cinque persone la notte scorsa.” Aveva
risposto con tutta la calma che possedeva: quella domanda era forse
l’unica che non fosse un attacco gratuito al suo ufficio.
E ha ragione. Lo abbiamo ucciso.
… o meglio, lo ha fatto Prince.
“Abbiamo tentato di fermarlo, ma il
morbo era progredito in modo tale che era impossibile farlo senza
purtroppo ricorrere a misure drastiche.”
“E che mi dice di Notturn Alley?
Siete arrivati sul campo quando ormai il primo Infetto si era lasciato
esplodere uccidendo dieci persone. Il lockdown inoltre ha lasciato il quartiere in
completa balia di sé stesso!”
“Siamo stati colti di sorpresa, ma i
tempi di intervento sono stati perfettamente congruenti con quelli
dell’Ufficio Tiratori. Le procedure sono state rispettate.”
La Skeeter a quel punto aveva fatto
balenare un sorriso di un rosso violento. Odiava quel dannato rossetto.
L’avrebbe perseguitato anche dopo la pensione, ne era sicuro. “Capo
Potter, a proposito di tempistiche … Ci vuole forse spiegare
perché nonostante stiate lavorando su questo caso con piena priorità di
tempo e risorse i colpevoli siano ancora là fuori?”
“Roma non è stata costruita in un
giorno, e la Seconda Guerra magica non si è disputata in meno.” Era
sempre più difficile mostrarsi sicuro quando aveva di fronte visi che
esprimevano paura, sconforto e soprattutto sfiducia. “Abbiamo in
custodia la compagna dell’uomo dietro il Demiurgo. Stiamo lavorando per
ottenere informazioni che ci permettano di localizzarlo.”
Hawkins aveva fatto un sorriso
maligno. “E questo ci farà dormire tranquilli la notte?”
“Stiamo facendo tutto il possibile.”
“Sta diventando un discorso trito,
Capo Potter.” L’uomo aveva allargato le braccia in direzione della
platea, quasi cercasse consenso. “Tutto quello che siete riusciti ad
ottenere in due mesi di indagini a spese dei contribuenti è stato
regalare al San Mungo venti persone che lottano tra la vita e la morte.
E ora Notturn Alley … Forse il Ministro Shacklebolt dovrebbe
riconsiderare il suo peso all’interno del Ministero.”
Harry era quasi scattato, ma la
Direttrice l’aveva fulminato come una maestra avrebbe fatto con un
alunno indisciplinato. Quegli sguardi avevano ancora il potere di
inchiodarlo alla sedia.
“Credo che questa conferenza stia
uscendo dal seminato.” Aveva detto la strega con tono risoluto. “Non
dimentichiamoci chi è il nemico qui. Stiamo combattendo contro un
manipolo di maghi spietati, il cui unico obbiettivo è fare soldi . Non
stiamo affrontando l’ascesa di un secondo Signore Oscuro, ma la
cupidigia umana. Ed è molto più subdola.”
La Skeeter aveva rivolto un
sorrisetto supponente alla donna. “Permettimi di incarnare la voce
della verità, cara Hestia. In questa sala non stiamo affrontando alcun
peccato capitale … se non quello dell’incompetenza.” Aveva fatto una
risatina sgradevole. “Ci dipingete come un banco d’accusa, voi
Ministeriali. Ci demonizzate, quando tutto quello facciamo è fare
domande …” Aveva fatto una scrollatina di spalle. “… le risposte, però,
le dovete dare ai cittadini. E per ora, non ne abbiamo ascoltata
nessuna che valga la pena trascrivere.”
La Skeeter, dietro tutta la sua malignità, aveva segnato un punto
difficile da battere.
Abbiamo permesso una carneficina.
Peggio, non l’abbiamo prevista.
“Harry?”
Si era di nuovo immerso nei suoi pensieri. “Come va? Considerando
che sono appena sopravvissuto ad una conferenza stampa dove mancavano
solo casse di pomodori marci, direi che abbiamo avuto tempi migliori.”
Era meglio usare l’ironia, l’aveva imparato sin da bambino, che
arrendersi ad una situazione che tendeva a peggiorare all’infinito.
“Notturn Alley è stato un colpo basso.”
“Pensi che sia stato Doe a sguinzagliare gli Infetti?”
“Penso, è questo il problema.”
Convenne con una smorfia amara. “Non ho certezze. Se hai avuto modo di
mettere le mani sulla nostra gloriosa stampa, avrai letto di cosa
veniamo accusati.”
Della cosa peggiore per un
poliziotto. Di mettere a rischio la vita delle persone che ha giurato
di proteggere.
Se non avesse risolto il Demiurgo in tempi brevi neppure Shacklebolt
avrebbe potuto proteggere la sua posizione; e con essa, il suo intero
ufficio: come aveva puntualizzato Hawkins, la percezione che al momento
l’opinione pubblica aveva di loro era di ministeriali impegnati a
mungere preziose risorse dalla tasche dei cittadini dando in cambio
risultati risibili.
Non siamo in grado di proteggerli. La
gente muore comunque. Che ci stiamo a fare?
Certo, anche l’ufficio di Smith era stato tirato in ballo, ma in
maniera minore: del resto i Tiratori si occupavano della sicurezza in
generale, e non erano i ragazzi-poster contro la lotta alle Arti
Oscure. Oltretutto la loro media di arresti era superiore.
Va’ a spiegare che è così perché ci
sono più criminali comuni che stregoni o ricettatori di Artefatti
Oscuri.
Queste sottigliezze erano difficilmente riconosciute dal mago della
strada: specie se venivano del tutto ignorate da persone come Hawkins e
la Skeeter in favore di lunghi articoli sugli sprechi del Ministero.
Nora ebbe il buonsenso di evitare commenti. “Cosa dice Ron?” Chiese
invece.
“Secondo lui Doe non ha nessuna colpa, almeno, non diretta.” Le
rispose. “La situazione gli è sfuggita di mano ed ha mollato baracca e
burattini per ridersela in qualche atollo caraibico.”
“Dubito.” Meditò la creola. “Non del coinvolgimento, ma del fatto che
se ne sia andato. Non è stata ancora trovata una cura al morbo e il suo
Siero Magico continua a rimanere una bomba ad orologeria.”
“Non siamo sicuri che non l’abbia trovata.”
Non siamo sicuri di niente.
Avrebbe voluto lanciare qualcosa al muro. L’americana parve intuire il
suo stato d’animo. “Non l’ha trovata.” Ripeté con più sicurezza. “O non
sarebbe rimasto così a lungo al Prince Manor. L’unico motivo per cui è
scappato da lì e perché l’avete rintracciato.” Scosse la testa. “È
ancora in Inghilterra e aspetta che il San Mungo gli tolga le castagne
dal fuoco.” Fece una pausa. “E poi avete in custodia la sua donna, no?”
“Che si rifiuta di parlare, se non per tentare giochetti a scapito dei
miei uomini. Ron ha quasi rischiato di strangolarla.”
“Compagnia piacevole.”
“Molto.” Ironizzò. “È una Von Hohenheim al cento per cento. L’unico
momento in cui ha mostrato il fianco è quando ho tirato in ballo Sören.”
Nora annuì. “Nonostante tutto anche lei è una madre.”
Harry esitò. Tirare in ballo Prince significava tirare in ballo anche
altre cose. “Nora, riguardo a quello che ci siamo detti l’ultima volta…”
La strega si irrigidì. “Sören non è la talpa.” Come lui, credeva
nell’innocenza dei suoi uomini fino a prova contraria. Era uno dei
motivi per cui la stimava tanto. “Posso metterci la mano sul fuoco … e
non solo. Ama mi ha chiamato stamattina. Lei e l’Agente Malfoy credono
di aver individuato un sospetto. Ed è qui in America. Il nome ti è
familiare. Ethan Scott.”
Harry aggrottò le sopracciglia. “L’agente di collegamento durante il
rapimento di Thomas?”
“Lui.” La strega serrò la mascella, mentre un lampo di collera le
attraversò lo sguardo. Le fiamme del focolare beccheggiarono in
risposta. “Sono anni che mi scontro con la sua arroganza e le sue
smanie di potere … E non è la prima persona, qui, che cede alle
lusinghe di una camera blindata piena.”
“Selina Hardcastle.” Ricordò cupamente: la donna che era stata mandata
dall’America per tenere Tom al sicuro e che aveva finito per
consegnarlo a John Doe per una manciata di Galeoni.
Nora confermò con un cenno della mano. “Ethan non è interessato al
denaro in sé, ma a ciò che può fruttargli. Scalare le gerarchie è
costoso, e non è di famiglia ricca.”
“Puoi indagare?”
“Lo sto già facendo.” Alzò gli occhi al cielo. “Non che quel bastardo
mi renderà le cose facili non appena capirà che sto investigando su di
lui, ma ho le mie leve. Come si dice … se c’è da scavare, troverò la
cassa.”
Harry le sorrise; Ron era una risorsa insostituibile, ma avere qualcuno
che capiva il suo doversi tenere continuamente in equilibrio tra
politica, opinione pubblica e dovere era bello.
Lo faceva sentire meno solo.
“La situazione comunque non cambia.” Le rammentò. “Finché non troviamo
la talpa Prince rimane sospettato, come chiunque qui.” Si affrettò ad
aggiungere vedendola protestare. “Inoltre, c’è la sua ingerenza negli
scontri di ieri sera…”
Nora sospirò. “Sì, Ama mi ha ragguagliato. Non doveva essere lì, e…”
“… non c’era infatti.” La fermò. “Non voglio fare del ragazzo un capro
espiatorio. Immagino cosa gli sia passato per la testa. Malfoy mi ha
detto che lui e tua figlia l’hanno chiamato, non è stata una sua
iniziativa.”
“Non si sarebbe mai rifiutato di venir loro in aiuto. Sai quant’è
personale per lui.” Fece una pausa, guardandolo preoccupata. “Se la
vostra stampa scoprisse che ha…”
“Farò in modo che non accada.” Perché poteva avere delle riserve
personali sul ragazzo – Lily –
ma non avrebbe permesso che un agente, un agente sotto la sua custodia,
venisse fatto a pezzi dai riflettori.
Io so come difendermi. Prince no.
“Qualcuno potrebbe averlo visto?”
“Tranne i miei uomini e tua figlia credo nessuno.”
“E quel credo che mi preoccupa…”
“Lo farò spostare dall’albergo in cui alloggia e manterrò la scorta.”
Vedendo che non l’aveva convinta si passò una mano trai capelli. “Non
posso rimandartelo indietro, Nora, sarebbe ancora più sospetto, e la
stampa è a caccia di sangue.”
“Non potresti tenerlo tu?”
Come, prego?
“Scusa?” Formulò perplesso. Da quando Prince era diventato un oggetto
da sorvegliare con cura?
La strega assunse un’aria imbarazzata. Non era un buon segno, perché
quando Eleanor Gillespie andava sul personale le cose si facevano
sempre complicate.
Complicate da ‘fa’ scrivere tua
figlia al ragazzo, si sta lasciando morire’.
E di colpo capì cosa intendesse. “Vuoi che me lo porti a casa? Come una
specie di trovatello?”
“Prince è un trovatello.
Forse fuori tempo massimo, ma conosci la sua storia. Ha cominciato a
vivere nel mondo reale cinque anni fa. Non è in grado di difendersi.”
Argomentò con quell’aria materna che trovava insopportabile. Perché non
riusciva mai ad opporvi adeguata resistenza. “A parte me e Milo, che mi
risulta finito in ospedale, non ha nessun altro al mondo. Non può
farcela da solo … non in questa faccenda almeno. E non posso chiedere
ad Ama di occuparsi anche di questo.”
Harry si passò le mani sul viso. Forse avrebbe seguito Doe nella sua
fuga in un atollo tropicale. Ne aveva un gran bisogno. “Lui e mia
figlia adesso stanno assieme.” Non trovò di meglio da dire. “Ed io non
sono d’accordo.”
“Ah.” Nora fu abbastanza intelligente da non commentare. Perché
l’avrebbe mangiata viva.
È colpa tua! Tua e di quelle lettere
maledette!
“Non credo però che questo cambi i fatti.”
Fu seriamente tentato di chiudere il coperchio del Focolare Portatile
con un pugno. “Suppongo di no.” Disse a denti stretti. “Manderò Lily da
sua cugina Roxanne.”
L’amica rimase in silenzio. “Scusa se mi permetto …” Disse poi. “Ma non
credi che sarebbe solo rimandare l’inevitabile? Dopotutto, come hai
detto tu, si frequentano … al Mulino invece potresti controllarli.”
Harry finse di non considerare l’idea come la più geniale sentita in
quella giornata. Perché non
era quel genere di padre. “Non spierò mia figlia e il suo ragazzo!”
“Chi ha parlato di spiare?” Lo guardò con blando divertimento. “Quando
devo conoscere i ragazzi di Ama la prima cosa che faccio è invitarli a
cena. Per vedere come si comportano. Con me, con lei. Certo, tenterà in
ogni modo di fare bella figura, ma siamo detective … Sappiamo scovare
la verità.” Ridacchiò della sua espressione perché sì, aveva capito di
averlo convinto. “Conoscilo, Harry. Non come agente, come persona.
Chissà, magari potrebbe pure piacerti come genero!”
“Non tirare la corda o te lo rispedisco via mare!” Sbottò facendola
ridere. “Prima devo comunque parlarne con Ginny … anche se conoscendola
la penserà esattamente come te.”
“Donne, eh?”
“Streghe.” Corresse con un sorriso. Nonostante tutto, l’amica era
riuscita a farglielo tornare in bocca, anche durante una giornata
orrenda e con la prospettiva di ospitare Prince sotto il suo tetto. “Ti
tengo aggiornata, d’accordo?”
“Vale lo stesso.”
Si salutarono. Harry reclinò la testa sullo schienale della sedia
chiudendo gli occhi per un momento. Poi li riaprì e gettò una seconda
manciata di Polvere Volante nel focolare, scandendo con rassegnazione
il nome della moglie.
****
Devonshire, Il Mulino.
Dopocena.
Lily fu riscossa dal suo sonnecchiare davanti ad una vecchia puntata di
Firefly – guardare serie tv era una delle tante passioni Babbane in cui
Hugo l’aveva coinvolta dalla notte dei tempi– causa rumori in camera di
Albus.
… la sua vecchia camera.
Suo fratello la usava solo per le feste comandate del Clan e non vi
teneva che pochi effetti personali, perlopiù risalenti all’infanzia.
Tra l’altro non è in programma nessun
compleanno. Neanche quello di papà, poverino. Quindi chi c'è là dentro?
Sbadigliando andò quindi a curiosare, trovando sua madre che faceva
Levitare coperte e cuscini fuori dalla finestra per dar loro aria.
“Tesoro, prendi delle lenzuola pulite dalla cassapanca in corridoio?”
La apostrofò.
Le obbedì perplessa. “Al viene a dormire qui stasera? Ha litigato con
Tom?”
Sua madre le prese la biancheria dalle braccia con un’espressione
indecifrabile, quasi stesse cercando le parole per spiegarle quel
cambiamento di programma.
“Hanno di nuovo dato fuoco alla cucina?!”
Sbuffò. “Grazie a Merlino tuo fratello ha imparato a spegnere il fuoco
sotto i calderoni e Tom a non lasciare il bollitore sui fornelli mentre
studia. No, abbiamo un ospite.” Esitò, poi scrollò le spalle come ad
arrendersi all’evidenza di non riuscire a porre adeguatamente la
questione. “Sören.”
“Sören? Il mio Sören?”
Annuì come se fosse la notizia più naturale del mondo. “Tuo padre mi ha
chiamato via Focolare venti minuti fa, arriveranno tra poco.”
“Momento.” Si massaggiò le tempie per cacciare via gli ultimi rimasugli
di sonno. Era possibile che stesse ancora dormendo. “Mi stai dicendo
che papà l’ha invitato a
dormire qui?”
“A stare da noi finché le cose con il Demiurgo non si saranno risolte.
Non è andato nello specifico, ma credo che lui e Nora abbiano ritenuto
opportuno toglierlo dall’albergo per ragioni di sicurezza.”
“… Nora lo ha drogato? Lo ha messo sotto Imperio?”
Sua madre ridacchiò, tirando fuori dall’armadio un set di asciugamani
puliti. “Può essere. In ogni caso è quello che mi ha detto.”
Si sedette sul ciglio del letto rinunciando a capirci qualcosa. Le
scoccò un’occhiata di traverso: suo padre non doveva aver chiamato solo
per annunciare la cosa, ma anche per chiedere il benestare della
moglie, autorità suprema della casa. “E tu sei ... d’accordo?”
La strega scrollò le spalle, in un modo che gliela faceva sempre vedere
più giovane, simile alla ragazza snella nelle foto sopra al camino.
“Perché no? Voglio conoscere il mago di cui la mia bambina si è
innamorata.”
“Ma lo conosci!”
“Non lo conosco come tuo ragazzo. È un po’ diverso, no?”
Lily sorrise. “Vero.”
La aiutò quindi a sistemare la stanza, anche se non c’era molto da fare
dopo le Grandi Pulizie da Tracollo Nervoso a cui l’aveva costretta per
buona parte della giornata.
Fortuna che ci siamo fermate per una
visita di nonna...
Scesero poi in cucina a preparare del the, comitato di accoglienza imprescindibile per chiunque
varcasse la soglia di casa. Lily si fermò di fronte alla finestra, a
spiare il giardino immerso nella tenue penombra serale. C’era una bella
luna.
E lei era nervosa.
“Non avrei immaginato di portare il mio ragazzo in casa così… Cioè, più
che altro pensavo di portarcelo io.”
Sua madre mise in tavola la crostata portata dalla nonna quel
pomeriggio. “Le cose non vanno mai come ci aspettiamo.” Le fece notare.
“E poi, forse è una coincidenza fortunata.”
“Papà non l’ha ancora digerita.” Mugugnò incrociando le braccia al
petto. “Dubito che lo farà mai, ma …”
Il rumore della porta d’ingresso che si apriva mise fine al momento
auto-commiserazione. Lily si scambiò un’occhiata con sua madre e poi
decise di giocare in attacco: andò ad accoglierli.
Suo padre fu il primo che vide. Stava appendendo il mantello
all’attaccapanni e le rivolse a malapena un’occhiata. “Ehi.” Si
costrinse comunque a dire.
Grande sforzo!
Sören, subito dietro di lui – c’era sul serio! Era lì! Con suo padre! –
sembrava invece una statua di sale. Aveva a tracolla il bagaglio ed era
ancora completamente vestito. La guardò con un misto d’apprensione e
contentezza ma non osò aprire bocca.
Non che lei ne sentisse particolarmente il bisogno.
Il momento imbarazzante fu rotto da sua madre, che intervenne con la
solita, pratica, energia marchio Weasley. “Ciao Ren.” Lo salutò
allegra, quasi fosse una presenza aspettata e graditissima. “Che fai lì
impalato? Togliti il mantello … appendilo pure vicino a quello di
Harry, c’è posto!” Aggiunse vedendolo esitare.
“Sì …” Borbottò tenendo saldamente lo sguardo piantato a terra. Poi
parve riscuotersi di colpo. “Volevo dire … Buonasera Signora Weasley,
mi scuso per il disturbo e per … l’improvvisata.” Disse tutto rigido.
Oh, Ren…
Un moto di tenerezza rischiò di placcarla come un Centauro, ma lo
stesso dovette accadere a sua madre che se lo rimirò con quell’aria da
madrina dei derelitti cifra stessa di una donna Weasley.
Vai, è andata. Se lo prende sotto la
sua ala come nonna fece con papà, siamo a posto.
“Nessun disturbo, ci vuole un attimo a preparare una stanza.” Ribatté
cordiale. “Ti ho messo nella vecchia camera di Albie. È un po’ piccola
rispetto ad una stanza d’albergo, ma spero andrà bene.”
“Assolutamente.” Confermò azzardandosi persino a togliere le mani dalle
tasche: segnale tutto suo per segnalare che si stava rilassando. “La
ringrazio per l’ospitalità.”
“Ginny, c’è del the?” L’umore di suo padre era palesemente sotto i
piedi, ma non a causa di Sören, stimò Lily con sollievo. Lo considerava
a malapena.
Con quel che è successo, ha ragione
mamma, dev’essere l’ultimo dei suoi problemi.
Il suddetto però non poteva saperlo e pareva quindi l’immagine stessa
dell'ansia. “Sì papà, l’abbiamo appena fatto.” Decise di intromettersi.
“Porto Sören a vedere la sua stanza, okay? Poi scendiamo, quindi
lasciacene un po’.”
Suo padre, come previsto, emise un brontolio indecifrabile e marciò
verso la cucina senza aggiungere un’altra parola. Sören, rimasto
impettito tutto il tempo, si sgonfiò riuscendo addirittura ad esalare
un respiro.
Sua madre gli rivolse un’occhiata divertita. “Non fare caso a mio
marito, è un vero Schiopodo dopo giornate come questa. Ed è tanto che
non ne capitava una brutta così.” Aggiunse con un sorriso di scuse.
“Lils, fagli anche vedere dov’è il bagno e come funziona la doccia. Non
l’abbiamo ancora riparata, grazie a tuo zio George … sono mesi che
promette di venire a dargli un’occhiata.” Scosse la testa pensando al
fratello inaffidabile per eccellenza. “Beh, comunque portalo su.” E con
un occhiolino li lasciò soli.
Lily a quel punto ritenne saggio prenderlo per mano e tirarlo per le
scale senza perdere altro tempo: se fossero rimasti un attimo in più
nel raggio d’azione paterno il tedesco sarebbe probabilmente svenuto.
Credo sia in apnea da un quarto d’ora.
Sören riprese a respirare normalmente nei pressi della sua stanza. “Tua
madre mi ha chiamato Ren.” Fu la prima cosa che disse.
“Con tutte le volte che mi ha sentito chiamarti così le dev’esser
entrato in testa.” Aprì la porta entrando in camera di Al; era sempre
strano non vedere il suo vecchio kit di pozioni, la scopa appesa sopra
la scrivania e i maglioni sparsi ovunque. Si voltò per guardare il
novello inquilino. “Ti dà fastidio?”
“No.” Tentò un mezzo sorriso, e quando fu certo che nessuna Maledizione
l’avrebbe stroncato sul colpo osò anche ampliarlo. “Vi somigliate
molto.”
“Abbastanza.” Convenne. “Come ha detto mamma la stanza è un po’
piccola, Al ha sempre preferito i posti raccolti, ma ha la vista sulle
colline di Ottery, la migliore.”
“Non importa.” Posò il borsone a terra. “Mi adatto a tutto, a
differenza…” Trattenne il nome sulla lingua, rabbuiandosi.
… di Milo.
Gli si avvicinò. “Come sta?”
“Albus dice che le sue condizioni sono stabili, e che ha reagito bene
alle cure, ma … non si sveglia.”
“Si sveglierà.” Gli assicurò accarezzandogli un braccio. “Ehi, si
sveglierà, okay?” Ripeté e fu naturale stringerlo in un abbraccio che
l’altro ricambiò con altrettanta intensità. Odorava di erbe medicinali.
Con tutte le volte che è stato al San
Mungo ultimamente, mi stupisco non sappia di nient’altro.
Gli accarezzò la guancia, sospirando deliziata quando l’altro voltò il
viso per baciarle il palmo della mano. “Sono felice di essere qui.” La
stupì. Notando il suo sconcerto fece un sorriso ironico. “… non di
essere sotto lo stesso tetto dei tuoi genitori, ma di poter stare con
te. Non avevo idea di quando ti avrei rivisto.”
“In effetti…” Riconobbe passandogli le dita trai capelli corti della
nuca. “Se vuoi il the lo beviamo quassù.” Suggerì suggestiva.
Sören a questo si sciolse dal suo abbraccio, rassettandosi la camicia
in una parvenza di contegno buffissima: ma quei piccoli gesti da
Purosangue lo tranquillizzavano, quindi lungi da lei l’idea di
prenderlo in giro. “No.” Disse con coraggio. “Sarebbe da maleducati …
Non voglio evitare i tuoi genitori in casa loro.”
“Solo mio padre.” Celiò cercando di non ridere alla sua espressione
sconfortata.
“Mi mette a disagio essere suo ospite.” Ammise con un sospiro.
“Suppongo sia normale, dato il mio attuale ruolo nella tua vita.”
“Molto normale.” Lo
rassicurò. “Non preoccuparti, sarà andato a rintanarsi in salotto,
quando è di quest’umore se ne sta sempre per conto suo.”
“Allora per stasera sono salvo.” Scherzò ma neppure troppo.
Lo punzecchiò su un fianco. “Vedila come un’opportunità. Ti conosce
solo come l’Agente Prince, mostragli la persona fuori
dall’uniforme!”
Non parve molto convinto. Del resto, quello che Harry Potter non amava
di lui non era tanto l’agente, quanto l’ombra scura che rappresentava
il suo passato, Sören Luzhin.
“Parti dal presupposto che gli piacerò…” Borbottò infatti.
“Ti adorerà!” Ribatté convinta, prendendolo sottobraccio e tirandolo
fuori da quello che, era sicura, sarebbe diventato presto il loro
rifugio.
Devo farmi dire da Al i vecchi
incantesimi che usava per bloccare la porta. Mai riuscita ad entrare senza il suo permesso.
Serpeverde, i migliori nel tenersi
stretta la propria privacy.
“… tu credi?”
Non era questione di credere; sarebbe stato così e basta, perché il
loro amore non era un capriccio o un attacco di ormoni, e suo padre
avrebbe dovuto accettarlo. A quel punto, prima che poi.
“Sicuro come la sconfitta dei Chudley’s al Campionato di
quest’anno. Vai tranquillo, non ne vincono uno da prima che nascessi!”
Sören le rivolse una di quelle sue occhiate speciali, gentili e piene
d’amore. Erano sue, e solo sue e lo trasfiguravano completamente
cancellandogli ogni traccia di austerità dal viso. Se suo padre
l’avesse visto così, l’avrebbe piantata con tutti quei suoi dubbi
rancorosi.
Gli batté una pacchetta sul braccio. “Coraggio, vecchio mio. Ormai
siamo a metà dell’opera!”
Fu ricompensata con uno sbuffo. “Quella più difficile.”
Non poté dissentire.
****
Note:
Era tanto che non facevo un capitolo ciccioso così. C’era molto da
dire. Nel prossimo recupero anche la Jeddy, che anche quei due
poveretti hanno casini da sbrogliare niente male.
Questa la
canzone del capitolo.
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Capitolo 50 *** Capitolo XLIX ***
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is where one starts from.
(T.S. Eliot)
3 Agosto, 2028
Devonshire, Il Mulino. Mattina.
Non era mai gradevole svegliarsi e non riconoscere il posto in cui si
era. Sören aveva provato quel turbamento innumerevoli volte da quando
suo zio aveva deciso che il suo ruolo doveva essere quello di un pedone
facilmente cedibile. Negli anni aveva imparato a farsene una ragione, a
razionalizzare il fatto che non avrebbe mai avuto una casa. Un luogo,
come lo intendevano gli inglesi, sotto cui una famiglia o più in
generale gli affetti si riunivano.
Si alzò in piedi, studiando con gli occhi ancora impastati di sonno la
stanza di Albus Severus; perché sì, era davvero a casa Potter.
Ti saresti mai immaginato qui, cinque
anni fa?
Nel modo più assoluto, si rispose scorrendo con lo sguardo vecchi
libri, giocattoli e alcuni alambicchi impolverati. Sorrise ad una foto
incorniciata sopra la scrivania che ritraeva i tre fratelli Potter da
bambini: Lily era al centro, abbracciata ad Albus e James mentre
esibiva un sorriso capace di illuminare il mondo.
Non l’ha perso … È ancora il suo
sorriso.
Nonostante tutto quello che aveva passato era riuscita a rimanere la
ragazza piena d’amore che aveva conosciuto, e non c’era giorno che non
ringraziasse Merlino di non averle portato via quella consapevolezza.
Non piangerti addosso però.
Il caso lo aveva portato a quell’assurda sistemazione: invece che
esserne intimidito doveva lavorare per farlo diventare un punto di
partenza.
Perché le avrò fatto del male … Ma
non posso lasciarmi inibire da questo.
Perché Lily credeva in lui: non poteva deluderla.
Dopo aver fatto una doccia – e aver lottato fieramente contro il tubo
dell’acqua – si era cambiato ed era sceso al piano inferiore: per quel
che ricordava ospitava la camera da letto dei coniugi Potter, il
salotto e la cucina, punto focale dell’intero ambiente.
Fu sollevato dal constatare che il padrone di casa non c’era; la sera
prima, una volta sceso per il the, si era limitato ad augurargli una
frettolosa buona notte prima di sparire in camera propria.
Non c’era nessuno a dirla tutta, ed era comprensibile visto che
l’orologio sopra al camino segnalava le undici.
Ho dormito troppo.
Non sapendo cosa fare di sé stesso, dato che non gli erano stati dati
ordini, decise di uscire in giardino. Era l’unico posto della proprietà
che non gli sembrava di invadere con la sua presenza.
E poi aveva un gran bisogno di fumare.
Era un posto gradevole, pensò guardandosi attorno. Un cottage dalle
grandi stanze ariose, ma non imponente, tinteggiato in colori chiari e
con un appezzamento di terra curata che lo circondava. La staccionata
era lustra di pittura e in generale vi regnava un’atmosfera colorata e
disordinata, grazie anche ai fiori piantati senza criterio logico e i
tanti alberi da frutto. Era chiaro persino a lui: quel posto
apparteneva ad una famiglia serena.
Gli sembrava quindi un insulto accendersi una sigaretta quando tutto
attorno a lui gridava salute e vita all’aria aperta. Cincischiò con il
pacchetto, ricordando di averlo rubato a Milo.
Non sei manco in grado di comprarti
un pacchetto di sigarette da solo? Cosa faresti senza di me principino?
Serrò le labbra: era Zabini a tenergli compagnia e non pensava fosse
giusto. Avrebbe dovuto esserci lui. Non si fidava a lasciare l’inglese
con l’uomo che aveva imparato a considerare il fratello che non aveva
mai avuto.
Dovrei proteggerlo. Anche da Zabini.
Ma a Milo non serviva protezione. Quando si sarebbe rimesso in piedi –
perché l’avrebbe fatto – avrebbe camminato fuori dalla sua vita in
tempi brevi. E sì, Lily l’aveva confortato, gli aveva detto che non
sarebbe stato più solo, ed era vero, stare con lei era tutto…
Ma come farete quando tu sarai in
America e lei in Inghilterra?
Il risultato è lo stesso. Sarai solo,
di nuovo.
“Ehi Ren!”
Per un attimo pensò a Lily nonostante gli si fosse parata davanti Ginny
Weasley.
Hanno lo stesso tono di voce.
Squillante, forte, ma stemperato dall’accento del Devon. Si costrinse
ad un sorriso. “Buongiorno Signora Potter.”
“Ginny.” Lo corresse. “Ti sei svegliato finalmente!”
Non avrebbe dovuto dormire tanto. In casa altrui era una scortesia.
“Sì, mi dispiace, io…”
“Di cosa?” Lo guardò sorpresa. “Se aspetti un attimo vada a prepararti
la colazione.”
“Non ce n’è bisogno.” Si affrettò a negare. “Posso…”
“Morire di fame?” Lo canzonò. Ecco dove Lily aveva preso quel suo vezzo
di schernire con gentilezza le persone quando le vedeva in imbarazzo.
“Non devi farti problemi, devo comunque andare in cucina a posare
quelle.” Indicò con un cenno della testa un paniere colmo di grosse
mele rosse. “Con tutto il sole che abbiamo avuto quest’anno sono
riuscite a non marcire, per una volta … Ti piace la marmellata?”
“Sì.” Ripose di getto anche se non ne aveva idea. A Milo non piaceva
quindi non gliel’aveva mai messa in dispensa. “Posso aiutarla in
qualche modo?”
La strega lo squadrò con aria pensierosa. Per un attimo temette di aver
detto qualcosa di sbagliato, poi la vide scrollare le spalle. “Perché
no? Ma niente magia.” Alla sua espressione perplessa aggiunse. “Se usi
un Recido e un Leviosa al tempo stesso c’è sempre
il rischio che ti sfuggano dalla bacchetta.”
“Ho capito.”
“Avanti allora. Io porto dentro le altre.”
Non avrebbe mai immaginato di finire a spiccare frutta per la moglie di
Harry Potter.
Il futuro non è mai come ce lo si
aspetta. Per fortuna.
“Sei bravo!” Lo lodò quando tornò indietro e senza ragione, perché non
faceva altro che staccare mele per gettarle nel canestro. “Prima
raccolta?”
“Non ho mai avuto alberi da frutto.” Rispose. E se pur li avesse avuti
suo zio non gli avrebbe mai permesso di avvicinarvisi. Se lo poteva
immaginare a denigrare quell’attività come ‘da servitori’ e ‘indegna
per un mago del loro lignaggio’.
A dirla tutta si stava divertendo.
“La mia famiglia ha sempre tenuto qualche albero invece …
Personalmente, non sono una grande fan.” Continuò la donna scrollando
le spalle. “Se non fosse che Harry e Lily adorano il crumble di mele
taglierei tutto.”
“Dov’è Lily?” Non avrebbe voluto chiederlo con quel tono di bisogno, ma
non poté frenarsi. Del resto l’altra era il suo filtro con il mondo
come lo era Milo.
Senza di loro e in una situazione nuova si sentiva spaesato.
“È andata dai nonni.” Al suo sguardo allarmato spiegò. “Casa loro è
giusto dietro la collina, non incontrerà Piume a caccia di scoop. Sarà
di ritorno per pranzo.”
Annuì di nuovo, senza avere idea di cosa altro aggiungere. Ginny
Weasley, con una vecchia maglietta da uomo e un paio di jeans gli
incuteva più timore dell’intero Zabeurgamot.
La strega dovette accorgersene perché lo lasciò al suo compito senza
aggiungere altro. Finito la riaccompagnò dentro casa prendendo la cesta
sotto braccio.
“Guarda che potevamo anche farla Levitare.” Gli fece notare quando
furono in cucina.
“Sì, ma … avevo paura che si danneggiassero.” Ribatté penosamente
guadagnandosi un’occhiata esilarata.
Sei un idiota.
“Cosa hai voglia di mangiare?” Ebbe pietà di lui sviando il discorso.
“Un caffè va bene, se avete caffè, altrimenti … the. Pane.” Che era una
cosa che tutti avevano in casa. Almeno credeva. “Qualsiasi cosa. Mangio
di tutto.” Balbettò mentre la fossa che si stava scavando diventava
sempre più profonda.
Aveva anche cominciato a sudare sotto la camicia.
“Sören.” Lo chiamò con gentilezza. Quando fu sicura che la stesse
guardando aggiunse, con tono di blando rimprovero. “Lily mi ha fatto
una lista lunga mezzo metro sulle tue allergie e intolleranze. Non ti
avvelenerò solo perché sei convinto di essere di troppo.”
Poteva andare peggio? Aveva accumulato una serie di figure talmente
misere che poteva semplicemente buttarsi dentro il camino. Sarebbe
stata una fine decorosa. “Sono di troppo.” Borbottò a denti stretti,
tra il difensivo e il disperato. “Mi rendo conto che avermi ospitato da
voi…”
“… era la cosa giusta da fare.” Lo fermò. “Abbiamo due stanze libere. E
poi...” E qui le regalò un sorriso furbo. “… se devo essere onesta,
volevo conoscerti. Come si dice, l’occasione fa il mago ladro.”
Aggrottò le sopracciglia. “Temo di non capire…”
La donna fece posare sul tavolo una forma di pane e un barattolo di
quella che doveva essere la famigerata marmellata. Tagliò una fetta
spessa e cominciò a spalmarvi almeno due dita della gelatina scura.
Aveva un buon odore. “Sei o non sei il ragazzo di mia figlia?”
Non era tipa da giri di parole. Si rilassò: meglio, a domanda diretta
era sempre stato in grado di rispondere.
“Sì, lo sono.”
“Bene. Allora ti tocca.” Gliela porse. Era fragrante e profumata: la
morse.
Sì, gli piaceva la marmellata.
“Sei familiare con il concetto di interrogatorio materno?”
Tentò di rispondere a tono. “… con quello di interrogatorio sì, sono un
agente di polizia. Il suffisso materno immagino cambi le cose?”
La battuta andò a segno. La donna rise. “Oh, eccome!”
Rispose con un sorriso. Non aveva mai conosciuto la Lily Evans a cui
Lilian credeva di assomigliare. Ma di una cosa fu sicuro: tanto aveva
preso anche dalla donna che l’aveva messa al mondo.
****
Magazzino Purge&Dowse ovvero…
San Mungo, Mattina
Michel si era sempre fregiato di essere una persona che governava il
corso della sua vita con piglio deciso – anche se ultimamente la barra
del timone aveva oscillato un bel po’.
Questo, prima che Milo finisse al San Mungo. Forse persino prima, da
quando il tedesco lo aveva rimorchiato in quella discoteca Babbana.
Se avessi saputo come sarebbe finita
... lo avrei cercato?
Senza ombra di dubbio. Perché in quei due mesi, solo una manciata di
settimane a pensarci bene, il biondo violinista aveva scosso tutte le
sue certezze mettendo in discussione il fondamento stesso del suo
essere Michel Zabini.
Probabilmente gli aveva salvato la vita.
Questo però non toglieva il fatto che non avesse la minima idea di come
aiutarlo: stare seduto al suo capezzale gli pareva inutile, e da quando
alla sua stanza si erano aggiunti altre due persone, altri feriti di
Notturn Alley, si trovava in imbarazzo a parlargli di fronte a loro o
agli svariati parenti in visita. La sua naturale riservatezza
Purosangue cozzava con gli sguardi curiosi che gli venivano rivolti.
Certo, qui dentro sono una presenza
strana. Di solito quelli come me hanno un Guaritore privato che viene a
visitare a casa.
Ma non Emil, che non aveva nessuno a visitarlo. Al di là di Prince, ora
impossibilitato a lasciare la casa dei Potter, solo Scorpius ogni tanto
era venuto a far capolino e ovviamente Albus, che era il suo Guaritore
di riferimento.
Non una famiglia, non degli amici…
Era vero che era a Londra da poco tempo, ma dubitava che a Boston le
cose sarebbero andate in modo diverso. Nessun Gufo era arrivato a
chieder notizie, né fiori erano stati spediti da Oltre Oceano.
Gli strinse una mano oltre le coperte: una mano dalle dita forti,
agili, che sapevano creare musica bellissima. Mani che avevano fatto
cose meravigliose a lui, e non solo in un’alcova.
Non avrebbe permesso che si risvegliasse in una stanza vuota o piena di
estranei che non erano lì per lui. Quando avrebbe aperto gli occhi non
sarebbe stato solo.
Anche se poi mi intimerà di
andarmene. Non importa.
L’amore trasformava davvero le persone.
Una mano sulla spalla lo fece sobbalzare. “Ehi.” Al, ovviamente. Gli fu
grato per non commentare lo stato della sua faccia né la mancanza
deplorevole di una rasatura decente.
“Sei rimasto qui tutta la notte?” Abbozzò un sorriso. “Non serve che tu
mi risponda. Lo stato della tua barba parla da solo…”
“Me la sento crescere, è
disgustoso.” Ammise facendolo ridacchiare. “Come sta?”
“Sono qui per questo.” Fu l’ovvia risposta. L’amico controllò con
efficienza polso, un punto del collo che doveva corrispondere
all’arteria e le reazioni della pupilla passandovi davanti la bacchetta
accesa in Lumos. Occhieggiò
le loro mani intrecciate. “Se gli stringi la mano risponde alla
stretta?”
“Sì … non molto, ma… ” Esitò. “È una cosa buona?”
“È fuori pericolo. Quello che mi preoccupava era la febbre e l’assenza
di stimoli. La temperatura è nella norma.” Gli strizzò l’occhio.
“Quindi vattene a casa e lasciami fare il mio lavoro, Capitaine.” Lo apostrofò come
quando erano sul campo da Quidditch. Gli sembrava fossero passati
secoli. “Hai un’aria orribile.”
“Ti sbagli.” Rispose salace, perché a offesa estetica doveva sempre
ribattere. Faceva parte del gioco. “E se mi stai dicendo che si
risveglierà a breve, non ho intenzione di muovermi da qui.”
Albus gli sorrise con calore, e questo lo fece sentire stupidamente
orgoglioso di sé. Non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma
avrebbe cercato l’approvazione morale di quel ragazzino dagli occhi
trasparenti per il resto della sua vita.
“Mike, non si sveglierà non appena volterai le spalle.” Gli disse. “Non
appena cambia qualcosa, ti chiamo. Devi
riposare.” Inarcò le sopracciglia. “Te lo ordino da Guaritore …
dovresti darmi retta.”
Ricambiò il sorriso. “Altrimenti? Un ricovero coatto?”
“Non tentarmi." Sospirò. "Se ti fa stare più tranquillo verrò a
controllarlo ogni mezz’ora.”
“Non è questo…” Ad una sua occhiata curiosa si arrese. Non aveva
davvero la forza per metter su una bugia che l’altro avrebbe
smascherato con facilità. “… voglio esserci quando si sveglierà. Forse
… forse questo gli proverà che non sono un completo bastardo.”
Al gli mise una mano sulla spalla e strinse appena. “Non sei un
bastardo, sei solo…”
“Purosangue.” Terminò amaro per lui.
L’ironia è che non lo sono affatto.
“Stavo per dire confuso e non c’entra con il rango o l’essere un mago.”
Fece spallucce. “C’è sempre tempo per rimediare quando si realizza di
aver commesso un errore.”
Non gli rispose: l’amico parlava per esperienza personale, avendo per
anima gemella un idiota che aveva quasi distrutto il loro rapporto in
più di un’occasione. Ma lui non era Thomas, e soprattutto, Emil non era
Al. “Posso almeno salutarlo?” Gli chiese invece, perché l’ironia era
sempre un rifugio sicuro.
Al roteò gli occhi al cielo ma gli diede privacy andando a controllare
gli altri pazienti.
Si sporse a baciare la fronte di Emil: era tiepida.
"Torno presto mon ange." Gli
scappò detto, e fu felice di essere il solo ad ascoltarsi. Apostrofare
Emil con il nomignolo con cui lo chiamava sua nonna da bambino, l'unica
persona che l'avesse forse mai amato davvero, era stato inopportuno. E
maledettamente giusto. Si tirò su in fretta prima di lasciarsi andare
alle lacrime.
Dignità, Zabini. Non perderla … non
ti resta molto altro.
Si infilò il mantello con un movimento brusco. “Chiamami se…”
“Non l’avevo capito le prime cento
volte che me l’hai detto.” Lo fermò l’amico spingendolo verso l’uscita.
“Se non te ne vai giuro che ti ricovero. Per lesioni da fattura. La
mia!”
Se c’era una cosa che aveva imparato come suo compagno di Casa, era che
Albus Severus manteneva sempre quel genere di promesse; levò le tende.
Non appena uscito dall’ospedale la stanchezza lo centrò come Bolide.
Certo che una Materializzazione in quelle condizioni l’avrebbe di certo
privato di un arto decise di prendere un taxi. Il viaggio fu lungo per
gli standard di un mago, ma gli permise di chiudere gli occhi e
spegnere il cervello, fenomeno che accolse con gratitudine.
Entrato a casa lo accolse il silenzio. Considerata la mancanza di
musica di dubbio gusto e indumenti femminili sparsi per il corridoio,
Loki doveva aver lasciato l’appartamento per uno dei suoi viaggi lampo
chissà dove.
Meglio così, potrai versarti da bere
e perdere coscienza senza doverti preoccupare che non ti venda la casa
da sotto il sedere.
Fu quando passò davanti alla stanza della musica che dovette fermarsi
di colpo: la porta era socchiusa. Peccato si ricordava di averla
serrata a doppia mandata in un impeto di commiserazione piuttosto
profondo.
Mise mano alla bacchetta e spalancò la porta. “Chi è…” Si mangiò
l’ultima parola quando vide chi occupava
il posto su cui di solito Emil si lasciava cadere dopo aver suonato:
suo padre era seduto lì dentro come se ci fosse sempre stato.
“Buongiorno Michel.” Lo salutò con l’espressione che sin da bambino
aveva imparato a temere. Quella che sperava di non fargli avere mai e
finiva inevitabilmente per causare: delusione e vago fastidio. “Come
mai non sei al lavoro?”
Strinse il manico della bacchetta, premendo sugli intarsi, ricordandoli
a memoria, concentrandosi su altro: era troppo stanco e nervoso per
preoccuparsi di trovare una risposta immediata. “Ho preso un permesso.”
Mentì.
“Non mi risulta.”
“Ho mandato un Gufo, forse non è arrivato a destinazione.” Rinfoderò la
bacchetta – mancava solo la spezzasse di nuovo dovendo poi rivolgersi a
Dursley – e si diresse verso la vetrina degli alcolici. Emil l’aveva
saccheggiata, ma restava ancora il fondo di una vecchia bottiglia di
Ogden Gran Riserva. Se ne versò due dita e se le scolò ignorando la
regola aurea di offrire sempre qualcosa ad un ospite.
Non è mio ospite.
E il fatto che fosse entrato nella sua stanza più cara glielo rendeva
ancora più sgradito.
Suo padre parve leggere i suoi pensieri perché si guardò attorno. “Così
è a te che ha lasciato la collezione Guallazzi.” Commentò spassionato.
“Non la facevo sentimentale.”
Michel serrò le labbra. “Voleva che rimanesse in Inghilterra.”
“Hai ancora rapporti con lei?”
No, visto che sei stato tu a
chiedermi di interromperli. Ed io, come un idiota, ti ho dato retta.
Avrebbe voluto tirargli un pugno. La bacchetta era troppo, rimaneva pur
sempre suo padre.
Ma Merlino, un pugno…
“Cosa vuoi papà?” Chiese perché ormai aveva solo la forza di essere
onesto.
Il mago lanciò un’occhiata alla pendola della stanza. Tic tac, il tempo
scorreva prezioso per Blaise Zabini. “Evitare che tu ti metta nei
guai.”
“Sono nei guai? Non ne sono stato informato.”
“Mi pare che Draco te l’avesse accennato invece.”
La Talpa … le indagini degli
Indicibili … Ethan Scott.
Desiderò di non essersi scolato in due sorsi quel che restavano whiskey
incendiario. Aveva accantonato quei pensieri a causa di Emil, ma adesso
aveva bisogno di un secondo, robusto bicchiere. “Non ho niente a che
fare con quella storia." Rispose secco. "Se oggi non sono al lavoro non
è certo per nascondermi dagli Indicibili.”
“No, eri al San Mungo in visita a quel Magonò.” Lo corresse e Michel
non si stupì di vederlo informato: c’era davvero poco che sfuggiva a
suo padre. Come uomo e come funzionario di Cooperazione. “Pensavo di
esser stato chiaro.”
“Emil è stato ferito negli scontri a Notturn Alley.” Ed era tutto ciò
che avrebbe voluto dire in merito, spiegare. Ma a Lord Zabini non
sarebbe mai bastato. “Non ho intenzione di ignorare la cosa solo per
fare un piacere a te.”
“A me?” Lo guardò stupito.
“Michel, non devi smettere di vederlo per me. Ho forse mai interferito
nella scelta dei tuoi amici? Su molti di loro ho riserve comprensibili…”
“Qual è il punto?” Sbottò esausto. Voleva solo che se ne andasse.
“Sono preoccupato.” Osava anche sembrare offeso. “Devi smettere di fare
stupidaggini come incapricciarti di un Magonò se vuoi diventare
qualcuno all’interno del Ministero.”
Michel chiuse gli occhi. “Perché, mi lasceresti far carriera se mi
sposassi con una strega Purosangue da sei generazioni? Mi lasceresti
essere qualcuno se rinunciassi al mio appartamento Babbano o ad miei
amici?” Non aspettò risposta. “No, e sai perché? Perché sarò sempre il
Mezzosangue a cui hai messo il tuo cognome. Il bastardo.” Lo guardò
negli occhi, infischiandosene del suo tono di voce o delle lacrime che
gli chiudevano la gola. Era meglio detestarlo che singhiozzargli
addosso e chiedergli aiuto.
Perché non me lo darebbe. Perché non
lo vorrei.
Suo padre non era mai stato il tipo di genitore che ti prendeva in
braccio dopo una brutta caduta mormorandoti rassicurazioni.
È sempre stato la schiena che si
allontanava.
Infatti l’uomo non pareva particolarmente colpito dal suo crollo di
nervi. Infastidito, quello sì. “Quel che dici non ha alcun senso.” Gli
fece notare. “Sono qui per metterti in avviso di come la tua defezione
sia stata mal vista. Come vedi, mi preoccupo della tua carriera…”
“Ma di me?” Serrò i pugni per
non afferrare la bacchetta. “Di me, come persona, ti importa?”
Suo padre aggrottò le sopracciglia e per un attimo parve confuso, come
se non riuscisse a capire la domanda. “Cosa ti aspetti da me Michel?”
Chiese infatti e questo gli fece più male che se l’avesse
schiaffeggiato. Se lo aspettava, ma fece male lo stesso.
Non hai la minima idea di come si fa
il padre, Blaise.
Gli venne quasi da ridere, ma si asciugò invece le lacrime. Un paio
erano sfuggite al suo controllo: pazienza.
Addio dignità. È mai servita poi? Con
lui no di certo.
“Niente.”
“Dalle tue reazioni non parrebbe.”
“Forse. Ma non sono felice papà.” Gli uscì una risatina nervosa, perché
era la prima volta che parlavano di sentimenti, e suo padre pareva aver
morso un limone. Ma doveva spiegarglielo. Fargli capire che era stanco.
Perché lo era sul serio e Emil era in un letto d’ospedale. Solo quello
importava.
“La vita che ho condotto fin’ora mi ha reso vuoto. Emil mi ha aiutato a
realizzarlo … ma l’ho cacciato perché avevo paura di dargli ragione. È
questa la sciocchezza che ho commesso.”
“Vuoi lasciare il lavoro?”
“Non lo so.” Rispose onesto. “Quello che so è che non è più la mia
priorità.”
Suo padre si alzò in piedi con un movimento energico. In effetti era
una vera novità che fosse rimasto ad ascoltarlo per tutto quel tempo.
Lo guardò duro. “Ti stai rovinando con le tue mani e ti rifiuti di
ammetterlo… A questo punto non c’è altro che possa fare.”
“Oh no, lo ammetto.” Se impazzire significava quello era meglio di quel
che pensasse. Avrebbe dovuto chiedere consiglio a quello sciroccato di
Dursley, lui di tracolli psicotici se ne intendeva. “Ma non mi importa.
Non più.” Spalancò le braccia per includere la stanza nascosta in cui
si trovavano, i suoi vestiti adattati per non urtare i gusti dei suoi
colleghi Purosangue, il suo lavoro, sé stesso. “Guarda dove mi ha
portato, aver paura di rovinarmi.”
Suo padre si guardò attorno e gliene diede atto, tentava almeno di
capire. “Dovrei notare qualcosa?”
“Sì, che sono solo.”
Blaise Zabini non ribatté. Ma forse, per la prima volta in anni, vide
un’emozione affacciarsi in quella maschera di garbo e freddo contegno.
Avrebbe voluto chiedere a Scorpius delucidazioni, lui che era così
bravo ad interpretare i padri difficili come i loro: perché lui, in
quella smorfia, non vi lesse niente.
“Ti accompagno all’uscita?”
“Conosco la strada.”
Ascoltò i passi di suo padre allontanarsi e poi la porta di ingresso
chiudersi con uno scatto sommesso. A quel punto si sedette sullo
sgabello del pianoforte. Erano anni che non lo suonava, ma averlo
contro la schiena gli aveva sempre dato tranquillità. Chiuse gli occhi,
gustandosi il sangue rombargli nelle orecchie.
Meglio del silenzio. Dov’è la musica
maestro?
“Però …” Quindi Loki non se n’era andato. Era rimasto e, fedele a se
stesso, aveva origliato l’intera conversazione. “… è la prima volta che
vedo tuo padre con la faccia di qualcuno a contatto con le proprie
emozioni. Disturbante!”
“Concordo.” Sospirò aprendo gli occhi. L’amico di una vita era sullo
stipite della porta e lo contemplava indecifrabile. Sorrideva, certo,
ma Loki Nott sorrideva sempre.
“Credo di essere impazzito.” Trovò corretto notificargli.
“Sì, perché no?” Concesse sedendosi accanto a lui. “La follia è il
linguaggio dei saggi, dicono.” Lo guardò di sottecchi. “Stai bene?”
“No.”
Loki gli passò un braccio attorno alle spalle. “Mi è piaciuto l’intero
discorso … misurato, ma col giusto pizzico di melodramma. Ma su una
cosa hai sbagliato.”
“Quale?”
“Non sei solo, egocentrico di un dandy.” Sbuffò con blando rimprovero.
“Perché non mi hai detto di Emil?”
Frenò un sorriso, perché con quello sarebbero arrivate anche le
lacrime. “Pensavo avessi lasciato il paese per evitare
l’incarcerazione.”
“Ungere i meccanismi del DALM è più semplice di quanto tu non pensi,
caro il mio funzionario in crisi di coscienza.” Fece spallucce, gli
occhi bicolore che ridevano. “Piuttosto, parliamo di cose serie. Come
sta il nostro angelo della musica?”
“Meglio di me al momento, almeno a sentire Al. Si riprenderà.”
Loki annuì con aria comprensiva. “Non ci resta dunque che libare.”
“A cosa?”
“Serve un motivo per ubriacarsi alle undici del mattino?”
“No. Mi pare una splendida idea, Nott.”
Gli strizzò l’occhio, facendo sembrare il mondo un po’ più simile a
com’era una volta. Non gliene fu mai così grato. “Ne ho mai di
diverse?”
****
Hogsmeade, primo pomeriggio.
Casa di James Potter & Ted Lupin.
“Ben, ehi, non correre!”
James non avrebbe mai pensato, neppure in un milione di anni, che si
sarebbe raccomandato ad un bambino.
Di non fare quello per cui poi erano sostanzialmente costruiti, ovvero
caraccolare da un posto all’altro alla massima possibilità consentita
dalle loro gambette.
Ma questa mi si schianta.
La coordinazione motoria di Benedetta era imprevedibile: un momento
prima poteva arrampicarsi con perizia su un albero, quello dopo finire
bocconi a terra senza neanche frenare la caduta con le mani.
Come Teddy.
Credeva c’entrassero i loro geni da lupo intermittenti, o forse il
fatto che fossero sostanzialmente due patate lesse.
Fatto stava che doveva evitare che la nana si aprisse la testa in due
come un cocomero.
Visto la nuova, merdosa notizia…
Quindi la raggiunse e la afferrò da sotto le ascelle, caricandosela
sulla spalla tra un gran strillare e ridere. “Se uno di noi due si fa
male Teddy si fa venire una crisi isterica pulce, fa’ la brava.” La
ammonì.
“Voglio uscire!” Lo redarguì dandogli una ginocchiata sul plesso
solare. James ingoiò un’imprecazione e tirò dritto verso il salotto.
“Guarda che piove.”
“Eh!” Fu la risposta spazientita. “So!”
“Rotolarsi nel fango è divertente.” Annuì comprensivo. “Ma ricordi cosa
abbiamo promesso?”
Benedetta si corrucciò ma colse l’appunto perché smise di divincolarsi
come una trota appena pescata. “Facciamo i bravi.” Ripetè con tono
paziente che gli ricordò curiosamente quello di Teddy. “E torta.”
Aggiunse.
“Sicuro, gli facciamo una torta… una roba da cinque bacchette!” Che era
la prima cosa che gli era venuta in mente di fare con la bambina quando
Ted li aveva salutati, diretto al Ministero per capire di più di quel
mucchio di merda che era piovuto loro addosso.
Una richiesta d’adozione dal nonno di
Benedetta … quello Mannaro.
Che cazzo. E io che pensavo potessero
essere i Babbani a fare storie.
Invece era uscito fuori un parente a caso, come nella peggiore commedia
Babbana, di quelle che sua madre negava di vedere quando tornava dal
lavoro.
Teddy era andato fuori di testa: finita la sfuriata-conversazione con
Flynn si era chiuso in un silenzio da cui nessuno era riuscito a
tirarlo fuori e così era rimasto fino a quella mattina, quando all’alba
si era lanciato fuori dal letto in direzione Ministero, Ufficio Minori.
Per la prima volta in vita sua James aveva dovuto chiedergli di
mantenere la calma.
Io. Che lo chiedo. A lui.
Una roba da rimanerci secchi, ma aveva retto il fortino, preferendo
rimanere con Ben piuttosto che andargli dietro e assicurarsene di
persona. La bambina aveva infatti annusato la situazione e quando Ted
l’aveva salutata si era voltata verso di lui con due occhi grossi come
due tazzine da the.
Rimanere a casa non era stata una decisione poi così difficile da
prendere.
La trasportò quindi in cucina, mettendola seduta sul tavolo. “Farina e
uova prima di tutto!” Declamò, aprendo le ante della dispensa con un
colpo di bacchetta e mandando gli ingredienti a danzarle attorno. Ben
rise deliziata, afferrando il pacco di farina e facendolo ballonzolare
a ritmo delle uova.
Era bravo a fare il buffone, quello era garantito.
Quindi lo faccio. È quello di cui ha
bisogno adesso la nana.
Doveva fingere di essere lo scemo più spensierato del mondo ma quando
il campanello suonò per poco non mandò le uova a schiantarsi contro la
parete. Le afferrò rapido e le sbattè dentro la terrina, facendo
Evanescere i gusci prima che Ben potesse trovarli interessanti. “Vado
ad aprire, tu non ammazzarti nel frattempo.”
“Sissignore!” Recitò come gli aveva insegnato facendogli venire una
stretta al cuore.
Porco Merlino, se ce la portano via
ammazzo qualcuno. Sono un auror addestrato, non volete vedermi
incazzato!
Nossignore.
Andò ad aprire la porta. Quando si trovò di fronte Andromeda Black ne
fu così sorpreso che rimase a contemplarla per una manciata di secondi.
“Beh?” Lo apostrofò spiccia come sempre. “Mi vuoi far inzuppare da capo
a piedi?”
James si scostò immediatamente mentre la strega entrava chiudendo
l’ombrello, uno dei tanti oggetti Babbani che Ted sosteneva usasse per
sempiterno spirito di ribellione.
“Ehm … ‘giorno.” Era sorpreso: di solito Andromeda non veniva a
trovarli senza aver prima annunciato la visita tramite Gufo: in questo
era rimasta una Purosangue in tutto e per tutto. “Teddy non c’è.” La
avvertì. “Adesso è…”
“Al Ministero, lo so.” Confermò con un cenno della testa. “Mi ha detto
tutto.”
“Ah.” E quello era ancora più strano. Non che Ted l’avesse chiamata,
quello era normale, era sua nonna e una delle sue figure di
riferimento, ma che Andromeda avesse comunque deciso di venire ad
Hogsmeade.
Non viene mai quando ci sto solo io.
La verità era che lui e Andromeda Black non si piacevano granché.
I rapporti tra lui e la strega erano stati buoni durante la sua
infanzia, ma da quando lui e Ted si erano messi assieme tra lui e la
strega era calato il gelo artico.
Vitro gli è sempre piaciuta di più.
Non sapeva se fosse perché era un uomo o perché fosse proprio lui, ma rimaneva il fatto che non
aveva mai avuto l’impressione di essere diventato un genero. Era
rimasto invece il ragazzino che tirava i calzoni a Teddy per attirare
la sua attenzione.
La cosa lo faceva abbastanza incazzare, oltre che a ferirlo. Non si
sarebbe però mai sognato di dirlo al suo compagno.
Ci rimarrebbe troppo male.
E doveva pensarlo anche Andromeda perché quando Teddy era nei paraggi
si comportava da amicona.
Ma cavolo, me ne rendo conto quando
sto sull’anima a qualcuno!
“Dov’è Benedetta?” Gli domandò strappandolo alle sue riflessioni.
“In cucina, stiamo facendo una torta…”
“… e la lasci da sola in una stanza piena di cose affilate?”
Ah, già, c’era anche quello. Lo riteneva completamente inaffidabile
attorno a Ben.
Roba che mi segue se la porto a
giocare in giardino. Per controllarmi. Cazzo.
“Le ho detto di stare buona, mi dà retta.” Borbottò percependosi
moccioso agli occhi dell’anziana. Come riusciva a produrre uno sguardo
giudice lei …
La strega inarcò le sopracciglia. “Sarebbe la prima cinquenne che fa
una cosa del genere.”
Quasi a confermare l’asserzione si sentì un orrendo rumore di cocci.
James corse in cucina sperando che la pulce non avesse scelto proprio
quel momento per impalarsi da qualche parte. “Ben!”
“Scusa!” Fu lesta a dire, contemplando la ciotola a terra, in pezzi e
uova sparse tutte attorno. “Volevo iniziare!”
Era troppo sollevata dal vederla dove l'aveva lasciata e ancora viva
per sgridarla: come se gli sarebbe mai riuscito poi. “Okay, ma la
prossima volta chiamami. La ciotola era di vetro, potevi farti male!”
Ben si morse il labbro mentre due grossi lacrimoni presero a tremarle
tra le ciglia. “Sei arrabbiato Jamie? Scusa, non c’eri … impegnato?”
Tentò di spiegargli.
Merda, sono un mostro.
La prese in braccio baciandole la testolina che esibiva grosse chiazze
di farina. E quelle? Decise di glissare. “Sì, ero impegnato ma non fa
niente.” La rassicurò. “Se hai bisogno mi devi chiamare. Mollo tutto e
vengo da te, okay?”
Percepiva lo sguardo di Andromeda sulla nuca e non si era mai sentito
così inadeguato.
Ma che è venuta a fare poi? Per
controllare che non faccia fuori la nostra bambina?
“Okay.” Benedetta non si era accorta di nulla ma fece in compenso un
gran sorrisone quando registrò la presenza dell’anziana. “Nonna!”
Pigolò allegra. “Sei venuta a trovare!”
L’espressione austera di Andromeda si aprì in un sorriso che non
avrebbe mai creduto potesse fare se non l’avesse vista interagire con
un altro nipote, questo grande e grosso. Quando mise Benedetta a terra
la donna si chinò subito alla sua altezza. “Tesoro mio, cosa stavi
combinando?”
“Torta per Teddy!” Dichiarò orgogliosa, come se non l’avesse appena
mandata ad incontrare il pavimento. “Ti piacciono le torte nonna?”
“Molto.” Convenne accarezzandole le guance e al tempo stesso eliminando
tracce di uova e farina. Come aveva fatto a conciarsi così in mezzo
minuto?
Domanda idiota. Io facevo di peggio.
“Regalo?” Fu la seconda, speranzosa domanda. Teddy sosteneva che sua
nonna mai l’avesse viziato come invece faceva con Benedetta.
La Black si è ammorbidita.
Era difficile non farlo di fronte al sorriso senza denti di Ben, c’era
da ammetterlo. Infatti quando la strega tirò fuori un pacchetto fuori
dal mantello, con conseguente urletto gioioso della bimba, non si sentì
di biasimarla. “Storie!” Dichiarò facendo a pezzi la carta da pacchi e
tirando fuori un libro che aperto rivelò una battaglia con tanto di
draghi e cavalieri che magicamente si prendevano a mazzate tra le
pagine. Si voltò poi verso di lui per mostrarglielo. “Bello Jamie!”
“Da paura pulce, ringrazia la nonna.”
“Grazie!” Gli abbracci di Ben erano del genere stritolante e con
placcaggio incorporato e per questo impossibili da non ricambiare.
“Vado leggere!” Esitò. “Torta la facciamo dopo?”
“Dopo, sicuro. Diamo tempo alla cucina di riprendersi.” Concordò
facendola ridacchiare.
Quando lui e Andromeda furono di nuovo soli si permise un sospiro. Uno
solo, perché non era invincibile.
C’ho messo un po’ per arrivarci, ma
diavolo, non sono idiota.
Come doveva invece supporre la strega da come lo stava guardando.
“Dobbiamo parlare.” Disse infatti.
“Io e te?” Giusto per essere chiari.
“Esatto.” Confermò. “E di mio nipote.”
James inspirò. Beh, non che avesse scelta. “Sicuro. Metto su il
bollitore.”
****
Devonshire, Il Mulino.
Dopo pranzo.
Lily amava saltare nelle pozzanghere anche se aveva vent’anni suonati.
Non importava l’età, si disse quando con soddisfazione gli stivali da
pioggia schizzarono fango tutto attorno al sentiero. L’importante era crederci.
Di ritorno da casa dei nonni, con l’ombrello chiuso perché grazie a
Merlino aveva smesso di piovere, non riusciva a considerare quella una
brutta giornata. Il sole aveva fatto capolino tra le nubi facendo
scintillare l’erba bagnata mentre il vento profumava la brughiera di
pioggia. Poteva amare la città ma era e sarebbe sempre rimasta una
ragazza di campagna. Si slacciò l’impermiabile facendo ondeggiare il
paniere colmo di viveri che, a detta di nonna Molly, erano
indispensabili al buon funzionamento della sua famiglia.
Strano che non mi abbia tenuta di più…
Ma forse la presenza di suo zio Percy, accorso dalla città con le
ultime notizie, aveva distratto la strega dall’indagare sul loro nuovo,
controverso ospite.
Aveva ascoltato sì e no l’uomo raccontare del tumulto di quella mattina
a Diagon Alley: non che non le importassero le sorti del Ministero in
cui viveva, ma si rendeva anche conto che se avesse dovuto preoccuparsi
di ogni minimo sommovimento sociale sarebbe impazzita.
Come rischia di fare papà.
Il disastro di Notturn Alley non aveva potuto esser evitato, e la gente
l’avrebbe capito.
O meglio, lo capiranno quando John
Doe sarà a Azkaban.
Aveva fiducia in suo padre e i suoi uomini, come era certa che il
Ministro Shackebolt avrebbe infuso buonsenso nei suoi concittadini una
volta placati gli animi. Non c’erano stati feriti e i Tiratori si erano
limitati a disperdere i facinorosi senza tirar fuori le bacchette.
La realtà è che siamo tutti troppo
conservatori per fare la rivoluzione.
Una tragedia era una tragedia e delle persone erano morte. Ma erano
morte perché fuori c’era un nemico, esterno.
E se c’era una cosa che il popolo magico di Inghilterra riusciva a
digerire era paradossalmente quel tipo di minaccia.
Voldemort ci ha resi tutti più uniti.
Nonostante il pessimo lavoro del Profeta persino suo zio Percy era
convinto che l’opinione pubblica avrebbe finito per “perdonare” suo
padre, una volta catturato il colpevole.
Che poi non c’è proprio niente da
perdonare … Non è che papà deve sempre risolvere tutti i guai di
Inghilterra!
Scosse la testa, cercando di scrollarsi via quei pensieri cupi,
inadatti a quello che si apprestava a fare.
Andiamo a cercare Sören!
Che era al Mulino, ergo a sua
completa disposizione.
Sempre che mamma non l’abbia
schiavizzato.
Abituata infatti ad un marito del tutto negato coi lavori di casa e due
figli maschi che avevano lasciato il nido non appena compiuti gli
undici anni, sua madre non si faceva scrupoli a sfruttare un paio di
braccia robuste se le aveva sottomano.
Immaginare il suo ragazzo preso a strofinare finestre o spazzare il
pavimento la fece ridacchiare. Aprì il cancello della proprietà. “Sono
tornata!” Annunciò ad alta voce. “E porto viveri!”
La vera, indiscussa, padrona di casa mise la testa fuori dalla porta
d’ingresso. “Lasciale sulla soglia, sto lavando a terra!”
“Da quant’è che puliamo?” Chiese obbedendole. “Mi pare di non fare
altro da mesi.”
“Esagerata.” Sbuffò. “Quando lavoro non ho mai tempo e tuo padre
vivrebbe in una discarica se dipendesse da lui. Ne approfitto che non
mi sta trai piedi … quando vuole aiutare è persino peggio.”
“E Ren?” Domandò temendo che sua madre l’avesse confinato sul letto
senza nemmeno dargli la possibilità di scendere per andare in bagno.
“Nel retro.” Fece un cenno vago ma non poté nascondere l’espressione
divertita.
“Mamma?” Si accigliò doverosamente. Era suo dovere proteggere il suo
ragazzo dalle grinfie curiose di Ginny Weasley. “Cosa gli hai fatto?”
“Niente, abbiamo chiacchierato.” Si strinse nelle spalle. “Non è un
tipo loquace ma basta trovare l’argomento giusto che non lo zitti più …”
“Vi siete messi a parlare di mitologia norrena?” L’unico argomento su
cui l’altro diventasse un nerd assoluto.
Sua madre sorrise. “Abbiamo parlato di te.”
Lily si sentì avvampare e preferì quindi alzare le spalle e battere in
ritirata. “Vado a vedere dove si è nascosto. Scommetto che me l’hai
spaventato!”
“Oh, tesoro, no.” Scosse la testa. “Quell’effetto glielo fa tuo padre.”
Touché.
Fece il giro della casa e lo trovò sotto un melo, talmente immerso
nelle lettura che non alzò la testa neanche quando gli si avvicinò.
Ha abbassato le difese o di me
avrebbe anche registrato il respiro.
Le poche volte che l’aveva colto così rilassato erano in due e c’era di
mezzo un letto.
Era felice di vederlo così al Mulino, senza di lei. Significava che
quel posto non lo metteva a disagio come aveva paventato.
Forse c’entra mamma. Grazie mamma.
Notò poi che leggeva uno dei suoi libri di poesie Babbane, regalo di
Tom, l’unico in famiglia che capisse qualcosa in merito. Era
l’antologia di Keats.
Regalo di compleanno commissionato. A
Tom i romantici fanno schifo.
“Andarsene, andarsene. E arrivare da
te, non portato da Bacco e dai suoi leopardi, ma sulle ali della
poesia, invisibili.” Gli si rivolse facendolo sobbalzare
sorpreso.“Buh.” Aggiunse per buona misura.
Sören le sorrise imbarazzato. “Ode ad un usignolo” Riconobbe. “È la tua
preferita?”
“No, non proprio.” Rispose sedendosi accanto a lui. “Indovina qual è!”
Lo sfidò appoggiando la guancia alla sua spalla. Profumava di dopobarba
e sulla camicia di solito immacolata aveva una minuscola macchia di
marmellata.
Sta cominciando ad abbandonarsi alla
routine del Mulino… Eccellente.
“Non devo indovinare.” Gli piaceva che la baciasse sulla fronte. Se
fosse stato un altro l’avrebbe considerato un gesto paternalistico, ma
come la baciava Sören parlava di riserbo e tenerezza. Una roba da
vecchietto che però addosso a lui calzava.
“No?”
“Me l’hai detto per lettera quando mi hai obbligato a comprare la
stessa antologia.” Le rispose inarcando un sopracciglio e fingendosi
perplesso. “La bella dama sans merci
… che considero un po’ preoccupante, visto la fine che riserva ai suoi
amanti.”
“Hai frainteso.” Gli mostrò la lingua. “È che il primo verso mi ricorda
te. Perché soffri, o cavaliere in
armi, e pallido indugi e solo?”
“Per i prati vagando una donna ho
incontrato, bella oltre ogni linguaggio, figlia d'una fata: i capelli
aveva lunghi e il passo leggero…” Le rispose a tono prima di
voltarsi a baciarla. Lily dovette ricordarsi che sua madre si muoveva
per casa per non prenderlo lì, sull’erba.
Un uomo che ti recita poesie. Un mago che ti recita poesie e non ti cita
calderoni in fiamme per la lussuria.
… forse doveva appendergli un cartello al collo per segnalare che la
proprietà era già stata acquisita. E non sarebbe mai stata ceduta.
“Il bentornato migliore della storia.” Gli notificò accoccolandoglisi
contro. “Ne deduco comunque che stamattina mia madre non ti ha
tartassato.”
“No, anzi, è stata … gentile.” Cercò la parola con attenzione e un
sfuggente impaccio. A Lily venne da ridere.
“Guarda che puoi dire tranquillamente che ti ha messo sotto torchio! È
una giornalista, le riesce bene.”
“Bene quanto a te.” Replicò ironico. “Non è stato troppo imbarazzante
perché sono abituato ad avere persone dai capelli rossi che si
impicciano della mia vita.”
“Ma sentilo!” Gli tirò un colpo sulla spalla che l’altro neppure
registrò. “Non vi sarete messi a complottare alle mie spalle!”
Ecco cos’era quell’aria sorniona …
Mamma non gli avrà fatto vedere le foto del mio quinto compleanno?
“Delle foto sono state tirate fuori durante il colloquio?” Si azzardò a
chiedere.
“Sì, in effetti.”
Meraviglioso...
Il suo mugugno non impegnativo seguito da una serie di borbotii fu
accolto da Sören con una risata. Si divertiva, il cretino.
E ne ha ben donde. Quelle foto sono
imbarazzanti…
Ma era che il segnale che sua madre lo aveva accettato come suo ragazzo.
“Ginny mi ha detto di tenerti lontana dai guai. È una specie di
benedizione, suppongo. Almeno così mi ha detto.” Disse infatti ed era
raggiante. Vedergli quella felicità addosso le faceva sempre pensare
che il mondo era un bel posto, alla fine. Molto meglio di come tanti lo
descrivevano se permetteva ad un ragazzo come Ren di tornare a
sorridere.
“Lo è.” Convenne con un sospiro. “Aspettati un maglione Weasley per
Natale.”
“ … come?”
“Meno ne sai meglio è, credimi.” Si alzò invitandolo a fare
altrettanto. “Ha smesso di piovere, andiamo a fare una passeggiata? Non
hai ancora visto i dintorni!”
Non so quanto durerà questa tregua.
Approfittiamone il più possibile.
Sören parve leggerle nel pensiero da come le porse il braccio con un
sorriso gentile ma triste. La loro spensieratezza era legata a filo
doppio ad un orologio che non smetteva di correre. Suo padre sarebbe
tornato quella sera e le notizie da Londra non sarebbero più state solo
stralci di conversazione.
“Lilian.” La chiamò. Doveva essersi incupita da come la stava guardando
preoccupato. “Andrà tutto bene.”
Non rispose, stringendogli invece il braccio. Solido, caldo, sotto la
stoffa della camicia. Era reale e su quello doveva concentrarsi.
Niente brutti pensieri. Siamo nel
Devonshire.
La sua casa, il rifugio della sua infanzia e, pareva, della sua vita
adulta. Quei campi infiniti li avrebbero protetti e custoditi.
Avrebbero loro permesso di comportarsi come due ragazzi della loro età,
e non pedine in una scacchiera spaventosa.
“Prima tappa, il bosco fatato!” Declamò. “Non che ci sia infestato da
vere fate, è solo un boschetto qui vicino con un lago … pozza d’acqua a
dirla tutta. È carino però.” Chiarì.
“Molto bene.” Sören annuì compito, come se quella fosse un viaggio
istituzionale nei suoi ricordi di bambina. Forse lo era: l’infanzia era
un bel posto dove perdersi per un po’.
****
Hogsmeade, Casa di Ted Lupin e James
Potter.
Sera.
Ted rientrò a casa solo a tarda sera. Non era riuscito, in tutta
coscienza, a tornare nelle braccia della propria famiglia con uno stato
d’animo stravolto. Non voleva spaventare Benedetta e far preoccupare
James.
Appese la vecchia giacca lisa all’attacapanni, notando distrattamente
come un nuovo buco avesse perforato la pelle di camoscio; erano anni
che sua nonna tentava di bruciargliela. Ci passò una mano: ricordava
ancora quando l’aveva comprata. Aveva appena finito Hogwarts e iniziato
da pochi mesi l’Accademia. Era così diverso dal ragazzo ingenuo e
confuso di allora che per un momento quel diciottenne gli mancò: vivere
una bugia inconsapevole con Victoire, esser convinto di voler diventare
un eroe come il padrino…
Era tutto più semplice allora.
Più semplice, forse, ma non certo vero. Quello che aveva con James,
quello che era arrivato con Benedetta era complicato, ma così bello che
gli stringeva il cuore. Era avere una famiglia. E faceva ancora più
male, perché si rendeva conto che non era in grado di proteggerla.
Non c’era di mezzo un malintenzionato, una minaccia oscura come quelle
che lui e il compagno avevano affrontato cinque anni prima. C’era
piuttosto un pugno di leggi giuste e la presenza di un uomo che
rivendicava un diritto.
Vulneraria.
Un Mannaro, come Ben, suo bisnonno in linea diretta, perché padre della
donna che Remus Lupin aveva frequentato quando si era infiltrato nel
branco di Greyback. Così gli aveva spiegato Flynn e così gli aveva
ripetuto il funzionario dell’Ufficio Minori. Non gli avevano fornito
altre spiegazioni. Solo che l’uomo si era identificato, portando un
certificato di nascita della figlia e accettando di sottoporsi ad un
prelievo del sangue. Aveva anche chiesto di vedere Benedetta, ma quello
per fortuna gli era stato negato.
Non gli interessa se la spaventa o la
confonde. La vuole, perché la ritiene sua.
Parte del branco.
Una parte di sé lo avvertì che era un ragionamento ingiusto, che non
conosceva il Mannaro e poteva star benissimo distorcendo la realtà per
adattarla alla sua collera. Ma non gli importava.
Sapeva che Benedetta era sua nipote
ben prima che Lunastorta morisse. Li ha cacciati via perché non gli
interessava, perché la credeva un bambino.
Che razza di uomo doveva essere quello che rifiutava di aiutare un
nipote in base al sesso?
Aveva un’opinione ben precisa in merito, ma non dati certi: il
funzionario non si era sbottonato alle sue pressanti richieste di
spiegazioni anzi, gli aveva caldamente raccomandato di non cercare
contatti con Vulneraria se non tramite canali ufficiali o comunque
tramite l’intermediazione dell’Ufficio Minori.
Ci faremo risentire.
… quando me la porterete via?
La sua udienza era durata meno di un’ora, ma ci aveva messo un’intera
giornata a smaltirne gli effetti. Aveva passeggiato per Londra come un
automa rabbioso finché la stanchezza e la fame non avevano sostituito
il grumo scuro che gli si era annidato dentro.
Ora era più calmo.
Inoltre la luce della cucina era ancora accesa, segno che almeno James
era sveglio. Lo trovò infatti seduto al tavolo da pranzo mentre seguiva
distrattamente la radiocronaca di una partita di Quidditch in
differita: gli parve Germania-Brasile.
“Ehi.” Esordì come un naufrago appena sbarcato a terra dopo giorni di
tempesta.
James si riscosse sorpreso. Se non seguiva la radio era allora perso in
pensieri suoi. “Ehi.” Gli sorrise. “Ti pare questa l’ora di tornare a
casa Lupin? Non è un albergo!” Lo canzonò.
Ted fu quasi travolto dal desiderio di stringerlo a sé ma non poteva
placcarlo come un giocatore di rugby Babbano. Distolse quindi lo
sguardo e occhieggiò la forma rotonda coperta da un panno e posata sul
tavolo. “Avete fatto una torta?"
"La migliore del mondo!"
"Ed è ancora intera?”
James fece spallucce. “Ben ci teneva a mangiarla con te, ma è crollata
prima.”
Fu la goccia che fece traboccare il famoso calderone. Un groppo gli si
aggrappò alla gola e si trovò nell’ignominiosa necessità di coprirsi la
faccia con le mani per non mettersi a piangere.
“Teddy!” Era un vero asso nel
far preoccupare il suo ragazzino di recente. “Ohi, ma ho detto … Che è
successo?”
“… niente.” Riuscì ad articolare con il tono più fermo che gli riuscì.
Gli parve di esser regredito ad un undicenne con poco controllo dei
propri dotti lacrimali. “È stata una giornata orribile.”
James gli mise una mano sul braccio. “… cosa hanno detto all’Ufficio
Minori? Vogliono … vogliono portarcela via?”
Lo sollevò e insieme lo preoccupò udire lo stesso tono fragile da parte
dell’altro. Almeno poteva tentare di racimolare un po’ di coraggio per
confortarlo. “No, Benedetta rimane con noi. Per adesso … Vulneraria non
può semplicemente portarsela a casa perché ha provato di esser suo
bisnonno. Io sono suo zio.”
“Okay.” James tentò un mezzo sorriso, anche se poco convincente. Era
ancora pallido come un lenzuolo. “…quindi come funziona?”
“Funziona che faranno un sopralluogo nella riserva dei Mannari,
controlleranno che Vulneraria sia una persona in grado di rapportarsi
con una bambina, i suoi trascorsi, se ha commesso dei crimini. E se
risulterà pulito …” Si strinse nelle spalle, lasciandosi cadere sulla
sedia. “… ci faranno sapere.”
James aggrottò le sopracciglia. “Che cazzo significa?”
“Che sia noi che lui avremo il diritto e il dovere di stare con
Benedetta. Che dovremo incontrarci per decidere come occuparci di lei.”
“Come una specie di divorzio?”
Ted sorrise. “Una specie, sì. Un po’ come sono cresciuto io … metà a
casa di mia nonna e metà al Mulino.”
James si sedette accanto a lui, allungando distrattamente il piede nudo
contro la sua caviglia. Quel gesto inconscio lo rassicurò più che se lo
avesse abbracciato: era sciocco?
“Non sembra male.”
“Questo nella migliore delle ipotesi.” Fu costretto ad ammettere. “Non
abbiamo idea se Vulneraria vorrà una custodia congiunta o separata.”
“Non dovrebbe volere quello che vuole Ben?”
Ted gli prese una mano e la intrecciò alla sua. A quel punto, non gli
bastava più un piede e una caviglia. “… dovrebbe, sì. Ma Ben ha cinque
anni e raramente i bambini sono ascoltati in faccende del genere.”
James fece una smorfia. “Beh, è una stronzata. Ben vorrebbe restare con
noi! Siamo la sua famiglia!”
“Anche Vulneraria lo è.” E anche se gli costava ammetterlo era la
verità. “Inoltre … è un Mannaro. Come lei.” Ed era questa la cosa che
lo spaventava di più: Vulneraria era in grado di comprendere Ben in
modi che né lui né James avrebbero mai potuto uguagliare.
E questo l’Ufficio Minori dovrà
prenderlo in considerazione. E Flynn non potrà rifiutarsi di ammettere
che Ben vivrebbe meglio con persone con la sua stessa condizione.
Si accorse che James lo stava guardando in silenzio. Aveva una luce
singolare negli occhi, che gli aveva visto solo durante i suoi casi più
complessi o durante le partite di Quidditch più accanite.
“Come possiamo essere meglio di Vulneraria?”
“Non è esattamente questione di meriti…”
“Okay.” Lo interruppe. “Allora come possiamo convincere quelli del
Ministero che potremo essere genitori migliori di quel tizio?”
Ted non riuscì subito a ribattere: James come al solito parlava a cuore
aperto e non si era reso conto della portata di quello che aveva detto.
O l’aveva fatto ma non metteva manifesti perché per lui era già cosa
assodata e digerita.
Genitori…
Si sporse a baciarlo, perché lo amava, anche per la sua incapacità di
percepire le stupide sfumature grige che rendevano la vita un po’ più
difficile per quelli come loro. “Jamie, io e te siamo una coppia di
maghi. Nessuno ci giudica per strada e posso presentarti come il mio
compagno come tu puoi presentare me … ma agli occhi del Ministero non
siamo una coppia di genitori. Siamo solo un papabile tutore e il suo
ragazzo.”
“Non c’è problema.” James gli sorrise, passandogli un braccio attorno
al collo per tirarselo vicino. Lo seguì ipnotizzato da quell’improvvisa
sicurezza. “Ho io la soluzione.”
“Sì?”
“Sì Teddy.” Confermò. “Sposiamoci.”
****
Note:
Eeee … non dite che non ve l’aspettavate!
Capitolo di scelte, questo. O quasi. Insomma, a questo punto sono
abbastanza sicura di finirla in una decina di capitoli.
Credo.
Comunque, ecco le due canzoni che mi hanno ispirato: questa e
quella
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Capitolo 51 *** Capitolo L ***
I'll
taste the devil's tears
Drink from his soul, but I'll never
give up you
(Devil’s Tears, Angus & Julia Stones)
4 Agosto 2028
Devonshire, Il Mulino. Mattina
Sören era stato fortunato. Tale perché per un giorno intero aveva
potuto evitare di scontrarsi con Harry Potter. Quella mattina il karma
aveva però deciso di punirlo facendogli trovare il Salvatore seduto al
tavolo della cucina.
Le donne di casa non erano ovviamente presenti: Ginny doveva essere
andata al lavoro mentre Lily stava finendo di farsi la doccia.
Grandioso.
“Buongiorno Capo Potter.” Esordì sentendosi mostruosamente inadeguato
perché in camicia e jeans invece che in uniforme.
“Sören.” Lo salutò con un cenno della testa. Lui invece lo era, essendo
diretto al lavoro. “Siediti, Ginny ha preparato la colazione per tutti.”
Non c’era via di scampo. Obbedì, optando per il the dato che il caffè
gli avrebbe dato un non desiderabile nervosismo.
Più di quello che già provo.
Odiava i silenzi pesanti e quello era uno dei più intensi che avesse
mai sperimentato. Desiderò ardentemente la presenza di Emil, pronto a
stemperare la situazione con qualche battuta, o di Lily.
Ripensandoci forse Lily non era la persona più indicata.
Visto che non ho lasciato il suo
letto per tutta la notte.
“Dormito bene?”
“Molto, grazie.”
Forse tre ore. Sua figlia è
insaziabile. E a me sta benissimo, a parte il fatto avrei davvero
bisogno di una tazza di caffè. Doppio.
“Immagino.”
Dannazione.
La situazione era talmente disagiante che non era possibile potesse
peggiorare ulteriormente. Il Capo Potter era un investigatore, uno dei
migliori a sentire il Capitano Gillespie, ed era un investigatore che
quella notte aveva dormito sotto il suo stesso tetto.
Prese quindi il coraggio a quattro mani perché non vedeva la bacchetta
dell’uomo da nessuna parte e poteva sperare che l’avesse lasciata in
camera. “Io e sua figlia…”
“State assieme.” Un’attestazione. “Me l’ha detto.”
“La amo.” Disse tutto di un fiato e fu felice che la voce gli fosse
rimasta ferma. Anche se era terrorizzato. Gli occhi del mago – verdi,
come quelli della sua Lilian – erano pezzi di vetro immobili e gelidi.
L’ultima volta che si era sentito così giudicato era stato davanti
aveva una commissione pronta a decidere se rispedirlo a marcire in una
prigione o meno.
“La amo moltissimo.” Continuò. “E mi rendo conto di non essere la
persona che vorrebbe che le stesse accanto, ma Lily ha scelto me.” Ed
era una cosa che andava detta, anche ad un uomo che gli metteva una
paura tremenda. “È mia intenzione fare in modo di meritarmelo. Per il
resto della mia vita, se sua figlia vorrà.”
Harry Potter sostenne lo sguardo. Un uomo che non aveva indietreggiato
di fronte al Signore Oscuro difficilmente avrebbe sentito l’impulso di
distoglierlo prima di lui. “Ginny ha ragione.” Disse dopo una pausa
orribilmente lunga. “Sei un Tassorosso.”
“… come?”
Ancora? Cos’è quest’ossessione
inglese per la propria Alma Mater?
Quei pensieri li tenne per sé però, perché intuiva che dietro la
battuta dell’uomo si nascondeva altro. Forse un tentativo di
distensione? “Tutta la mia famiglia, almeno da parte di padre, ha
frequentato Serpeverde.” Rispose. “Anche il Preside Piton.”
“Ci sono sempre delle eccezioni.” Gli sorrise. Gli sorrise! “Mangia la tua
colazione, Sören.”
Fece per obbedire – avrebbe potuto essere avvelenata e l’avrebbe fatto
comunque – quando Lily entrò nella stanza, fresca di doccia e con il
sorriso più rilassato del mondo.
… grazie a Faust.
Non gli era mai mancata tanto come in quel momento. “Buongiorno!”
Esclamò andando a baciare suo padre sulla guancia. “Ciao straniero.” Lo
apostrofò cordiale, come se fosse del tutto naturale la sua presenza
lì. “Parlavate di cose da uomini? Devo andare a dar da mangiare alle
galline come la donna che sono?”
“Non dire sciocchezze.” La rimbrottò affettuoso l'uomo. Quindi era
quella la faccia che Harry Potter faceva quando non voleva ucciderti.
Era molto paterna. “Mamma ha fatto il crumble.”
“Oh, ottimo!” Gli si sedette accanto e prese a servirsi. “Sto morendo
di fame!”
Lily era incredibile: la sua allegria non risultava affatto forzata
anche se era ovvio che la usasse a beneficio della situazione. Sembrava
sul serio contenta di averli entrambi a tavola con lei.
Forse lo era, pensò sorridendole ricambiato: la sua streghetta inglese
era in grado di vedere il lato luminoso anche nelle faccende più
difficili.
Harry Potter poi si nettò la bocca dalle briciole. “C’è una cosa di cui
devo parlare con Sören. In privato.”
… tregua conclusa.
“Sissignore.”
“È roba di lavoro?” Si informò Lily mettendogli una mano sulla gamba
come a intimargli di restare seduto dov’era. Ginny l’aveva avvertito
che tutte le donne della famiglia Weasley avevano l’istinto di
protezione di un grizzly.
La qual cosa lo fece sentire come se l’avessero appena allontanato dal
plotone di esecuzione. Anche perché Harry Potter per la prima volta
parve preso in contropiede.
“Beh, no … non esattamente.”
“Allora rimango.” Si voltò verso di lui. “Per te va bene?”
“Se non si tratta di lavoro non vedo perché no.” Convenne. “Non ho
segreti per Lily.”
Non adesso almeno.
Harry Potter ebbe il buongusto di non farglielo notare. “Si tratta di
tua madre.” Disse invece.
“Perservera nel suo sciopero della fame?” Sentì le dita di Lily
intrecciarsi alle sue.
“No, ma in compenso non parla.” L’uomo incrociò le braccia al petto.
“Potrebbe essere l’unica persona che conosce il nascondiglio di John
Doe. Ma si rifiuta di rispondere alle nostre domande.”
Capì dove voleva andare a parare. “Volete che la interroghi? Dubito che
parlerà.”
“Sei suo figlio.”
“Solo per nascita.” Sciolse le dita dalla presa di Lily. Non voleva
farle male e aveva un bisogno disperato di stringere i pugni. “Non
abbiamo mai avuto rapporti se non quelli imposti da mio zio. Da bambino
tollerava a malapena la mia presenza.”
Ma quella di Johannes sì,
evidentemente.
“Non posso esserle d’aiuto, temo. Non ho alcun ascendente su di lei.”
“Non penso sia vero.” Non lo stava accusando, notò. Non era quello il
tono. Lo stava informando. “Le uniche emozioni che le abbiamo tirato
fuori sono apparse quando le abbiamo parlato di te. Forse…”
“È inutile.” Non avrebbe voluto sbottare in quel modo. Non riuscì a
trovare un motivo valido per chiedere scusa. “ … mia madre sa che sono
un agente di polizia. L’ho arrestata io. Non parlerebbe con me come non
parla con voi. Dal suo punto di vista sono solo l’ennesimo mago che
l’ha messa in gabbia.”
Si sarebbe aspettato un’ulteriore insistenza da parte del Salvatore, o
un ordine diretto. Fu sorpreso quando lo vide esitare. “Mi dispiace
averti turbato con questa storia, Sören. Ma sarò onesto, non abbiamo
idea di dove sbattere la testa. John Doe è scomparso. E ora che sa che
lo stiamo cercando, sarà ancora più difficile trovarlo.”
Si morse un labbro: il Capo Potter aveva ragione, se Johannes si era
dato alla macchia non c’era modo di trovarlo.
“Pensate che mia madre conosca il suo nuovo nascondiglio?”
“È l’unica pista che abbiamo al momento. Pare inoltre che abbia fatto
da prestanome per l’informatore di Doe.”
“La Talpa?”
“Per ora è solo una supposizione. È per questo che deve parlare.” Non
si sbottonò. Perché avrebbe dovuto?
Dopotutto si sta rivolgendo a due
civili.
Pensò alla propria uniforme e al distintivo. Al momento stavano
prendendo la polvere, almeno ufficialmente. “Proverò, se pensate possa
servire.” Non che avesse mai avuto scelta.
“Papà…” Si intromise Lily. “… l’avete fatta interrogare da una
Psicomaga?”
“Certo.” Confermò l’uomo. “Le abbiamo provate tutte, ma anche la
Psicomagia ha i suoi limiti quando trova un paziente che non si sente
tale, suppongo.”
“Chi si è occupata di lei?”
“La Patil in persona.”
“Beh, cavolo! È una tosta allora.” Lily aveva le sopracciglia
corrugate. Stava riflettendo, e molto velocemente. “Forse io e Ren
potremo studiare gli appunti dell’interrogatorio.” Propose. “Potrebbero
dargli uno spunto su come impostare la conversazione. Trovare una
breccia nel silenzio di Lady Von Hohenheim, una cosa del genere. Se ha
idea di dove andare a parare è meglio, no?”
Sören si scambiò un’occhiata con il Capo Potter: non avrebbe mai
pensato di poter concordare silenziosamente con lui su quanto fosse
geniale la strega che avevano di fronte.
“Penso sia un’ottima idea Lils.” Convenne l’uomo con un sorriso. “Te li
faccio recapitare in mattinata.” Guardò l’orologio a pendolo sul
camino. “Devo andare, ho una riunione con le squadre tra … beh, due
minuti.”
“Ringraziamo l’assenza di proporzionalità spazio-temporale della magia
allora.” Sorrise Lily. “Ci vediamo stasera papà.”
Il mago annuì, squadrandoli. Sembrava volesse dire qualcosa, poi lasciò
perdere, infilandosi dentro il camino e sparendo in uno sbuffo di
fiamme verdi.
“… tuo padre non mi ha ucciso.” Gli parve giusto notificare.
Lily si mise a ridere, schioccandogli poi un bacio sulle labbra. “Certo
che no, gli piaci!”
La aiutò a mettere via i piatti della colazione. “Adesso non
esageriamo.”
“Gli piaci, fidati. È che deve mantenere le apparenze di padre geloso.”
Sören non rispose: non condivideva l’ottimismo di Lily ma non voleva
rovinarle il buon umore. Le si affiancò invece, osservandola aprire
l’acqua per lavare i piatti a mano.
“Non usi la magia?”
“Solo quando sono sicura di non spedire un intero servizio a
schiantarsi al muro.” Abbozzò un sorriso. “Ero un po’ nervosa prima …
mi deve ancora passare.”
… Vedi? Non eri l’unico sul filo del
rasoio.
La abbracciò da dietro, aspirando l’odore di shampoo e bagnoschiuma.
Era lo stesso che aveva lui, dato che condividevano il bagno. Aveva
scoperto di amare quei piccoli particolari senza importanza. “Sei stata
fantastica.”
“Una vera Psicomaga al tavolo delle trattative, la Patil dovrebbe
essere orgogliosa di me!” Si voltò di tre quarti. “A proposito, per tua
madre…”
“La penso come tuo padre. Hai avuto un’ottima idea.”
“Sicuro? Perché a volte mi impiccio e poi rendo conto che avrei dovuto
farmi i fatti miei e…”
Aveva scoperto che l’unico modo per arginare la logorrea irrequieta
della sua ragazza era baciarla.
“Grazie.” Le disse soltanto. Perché affrontare sua madre con Lily
affianco sarebbe stata tutta un’altra cosa.
Lily si illuminò. “Prego!” Gli allacciò le braccia dietro la schiena,
bagnandogli la camicia. Non gliene importò niente. “Al diavolo i
piatti. Andiamo al piano di sopra?”
“Hai sempre idee eccellenti, mia Lily.”
****
Magazzino Purge&Dowse ovvero…
San Mungo, Mattina
“Non ho capito perché mi hai fatto venire qui.”
“Per i tuoi esami, Tom.” Albus alzò a malapena gli occhi dal Profeta
che stava scorrendo rapido con gli occhi, alla ricerca di nuove
sciagure, perché era ovvio, ormai quel periodo era solo una somma di
sfiga una dopo l’altra.
“Non sono stato a contatto con un Infetto, non vedo perché dovrei.”
“È la procedura.” Tagliò corto mentre le mascelle meccaniche
dell’ascensore si aprivano sul reparto Infettive. “Ora cerco Sam e te
ne starai buono finché non avrà finito.”
Tom schioccò la lingua con irritazione, ma non poteva ribellarsi. Albus
aveva ragione, essere stato a Notturn Alley due giorni prima era un
motivo sufficiente per farsi vampirizzare dal San Mungo.
Poco c’entrava il fatto avesse in antipatia qualsivoglia prelievo alla
sua persona.
Speravo se ne dimenticasse…
Una speranza futile dato che quella mattina il compagno si era
districato dal suo abbraccio, l’aveva fissato dritto in faccia e aveva
proclamato che aveva bisogno di far il test del Demiurgo.
“Non sono infetto. Me ne sarei accorto.” Borbottò per puro piacere di
bastian contrario, mentre Al per tutta risposta lo ignorava. “Si può
sapere cosa stai cercando su quella carta straccia?” Lo apostrofò
seccato dalla mancanza di attenzioni. “Lo sappiamo benissimo che sta
piagnucolando attenzioni dal dipartimento Auror per fargli mettere il
piede in fallo.”
Albus notò il tono indispettito – lo faceva sempre – e gli rivolse un
sorriso tenero. Aveva il potere di spegnere la sua stizza. “Se vuoi
rimango con te durante il prelievo.”
“Non sono un ragazzino.” Replicò lanciandogli un’occhiata velenosa.
Doveva mantenere le posizioni. E non gli aveva ancora perdonato averlo
trascinato fuori di casa quella mattina. “Va’ a salvare vite, se ci
tieni tanto.”
“Il mio giro visite inizia tra cinque minuti … sicuro che…”
“Vai.”
Albus ridacchiò, perché aveva in pugno la sua vita e ci giocava come un
gatto avrebbe fatto con un gomitolo di lana. Lo baciò a fior di labbra,
e Tom trovò quindi imperativo afferrarlo per il collo di quello stupido
camice e tirarselo contro per renderlo serio. Per buona misura gli
morse anche il labbro, rimediandosi un pugno nelle costole.
“Stronzo.” Gli sussurrò divertito il Guaritore
Potter, passandosi la lingua sul labbro offeso. “Aspettami in
caffetteria quando hai finito.”
“Devo aspettarti per ore?”
“Oggi Smethwyck non c’è, vado solo a controllare i lungodegenti, il
resto li lascio ad Achille. Ha perso una scommessa.” Gli spiegò
accarezzandogli il risvolto della camicia. “Ti ho fatto saltare la
colazione, no? Te la offro, è un’offerta di pace!”
“Preferirei una stanza vuota.”
“Questo è perché sei un maniaco. E una cosa non esclude l’altra.”
Aggiunse sempre tenendo bassa la voce. Odiava quando faceva così,
rischiava seriamente un’erezione in pubblico luogo.
Ti sta distraendo dalla faccenda
ingrata che stai per affrontare.
Ne era perfettamente consapevole, e non se ne lamentava.
Albus concluse il giro visite più breve della storia con la stanza di
Meinster. Per quanto non fosse classificabile come lungodegente aveva
promesso a Michel di visitarlo a ritmi regolari. Da copione, trovò
l’amico seduto al capezzale del tedesco.
L’altro appena entrato gli si rivolse. “Tom è qui in giro? Una
maginfermiera ha parlato di un ragazzo che sta facendo dannare l’intero
reparto di Malattie Infettive.”
“Allora non ha trovato Sam.” Sorrise divertito. “Ma qualche povero,
ignaro Guaritore. È un tale bambino quando si parla di prelievi…”
Michel gli sorrise di rimando. Aveva l’aria stanca, ma la barba fatta e
vestiti in cui sembrava non aver dormito. A dirla tutta, erano i capi
più Babbani che gli avesse mai visto addosso.
“Viktor&Rolf?” Chiese
indicando la camicia, tanto per distrarlo dalla contemplazione ansiosa
del crucco tutt’ora dormiente.
Michel lo guardò stupito. “Mi sorprendi pulcino. Allora qualcosa ti ho
insegnato!”
“No, è che il nome degli stilisti assomiglia a quello di due randagi
che mio fratello sfamava quando eravamo piccoli.” Rise della sua
espressione orripilata. “Lo sai che non capisco niente di moda!”
“Ed è il mio cruccio più grande, credimi.” Sospirò. “Oggi non sono al
lavoro.” Spiegò alla sua domanda implicita.
“Ti sei preso un permesso?”
“Una cosa del genere.” Concordò con aria sfuggente. Non indagò oltre.
“Come sta?”
Domanda ovvia a cui rispose pronto. “Sta bene. Dovrebbe risvegliarsi a
breve … i suoi tracciati cerebrali hanno mostrato segni…” Era inutile
spiattellargli la versione complessa così si limitò a scrollare le
spalle. “Si sta svegliando. Dopo un trauma del genere ci vuole sempre
un po’. È come riavviare una macchina che è stata ferma a lungo.”
Michel annuì, sfiorando le dita del ragazzo con le sue. “Ho parlato con
mio padre.”
“Oh. Com’è andata?”
“Come puoi immaginare. La figura meno paterna della storia…” Scherzò
con una tristezza negli occhi che gli strinse il cuore. Albus non
riusciva a capire come uomini come Blaise Zabini o Alberich Von
Hohenheim mettessero al mondo dei figli e poi distorcessero quel legame
rendendolo motivo di dolore. “… ma non importa, gli ho detto ciò che
pensavo. Mi sento molto più leggero.” Rientrò nel personaggio
rivolgendogli un sorriso sardonico. “Come mai il nostro buon Dursley è
qui a far dannare un intero reparto?”
“I test per il Demiurgo. Anche se non è stato esposto ad un Infetto
deve farli comunque, era a Notturn Alley.” Spiegò. “Con tutto il
trambusto di due giorni fa mi ero dimenticato … lui invece faceva finta
di averlo fatto. A volte si comporta come se avesse cinque anni, mi ha
tenuto il broncio fino a qui.”
Michel gli rivolse un sorriso assente. Aveva intuito che cercava di
distrarlo. “Li avete fatti anche ad Emil?”
“È un Magonò, la procedura non lo impone.”
Michel aggrottò le sopracciglia. “Perché?”
“Non è discriminazione.” Esordì, perché aveva intuito dove l’altro
voleva andare a parare. Se un anno prima qualcuno gli avesse detto che
Michel si sarebbe fatto paladino dei Senza Magia, avrebbe pensato che
quel qualcuno aveva bevuto. Troppo. “I Maghinò producono naturalmente
un anticorpo che annulla la presenza di magia nel loro sangue. E il
Demiurgo infetta quelli come noi proprio perché reagisce alla magia.
Emil è immune.”
Nel momento stesso in cui lo disse, fu come esser colpito da un
fulmine. Doveva essere più o meno quella la sensazione, positiva, di
avere un’epifania.
“… è immune.” Ripeté. “Gli
anticorpi!” Esclamò come se stesse delirando, tanto che Michel lo
squadrò confuso.
“Al?”
“Devo andare al Laboratorio! Cerchi Tom e me lo mandi giù?”
Michel annuì, perché qualcosa nella sua espressione doveva averlo
convinto che ciò che stava succedendo era più importante dell’annosa
antipatia che correva tra di loro. “Cos’hai scoperto?”
Michel era un ragazzo intelligente e andava subito al cuore del
problema. Gli sorrise. “Forse? La cura!”
****
Devonshire, Il Mulino.
Pomeriggio.
“Tua madre è un osso duro.”
Sören alzò la testa dall’ennesima rilettura di una delle tre sedute a
cui Padma Patil, Primario di Psicomagia nonché mentore di Lily, aveva
sottoposto Sophia “In che senso?”
“Nel senso che ha opposto una resistenza niente male … e la Patil è la
Psicomaga più tosta che conosco.”
Si strinse nelle spalle. “Come ha detto tuo padre, non è facile
lavorare con un paziente che non si sente tale.”
Lily si mordicchiò un’unghia senza rispondere. Non l’aveva mai vista
concentrarsi tanto su qualcosa: persino ad Hogwarts non l’aveva mai
vista così immersa in un compito.
La Psicomagia l’affascina.
E ne era felice, tuttavia lo sarebbe stato di più se la persona sotto
la lente di ingrandimento non fosse stata la strega che gli aveva dato
la vita e che al momento gliela stava non poco complicando.
Erano seduti al tavolo della cucina, inondato dal sole pomeridiano.
Sören contemplò i resti del pranzo veloce che avevano consumato data la
mole delle trascrizioni. Sua madre aveva parlato con la Patil, tanto,
ma non aveva detto niente di risolutorio. Aveva raccontato della sua
infanzia in Germania, di suo fratello, ma quasi per dimostrare alla
Psicomaga che i suoi tentativi di far breccia erano caduti nel vuoto.
“Tutta questa roba è inutile.” Concluse chiudendo il fascicolo che
stava sfogliando con uno scatto secco.
Lily alzò la testa stupita. “Perché?”
“Perché dovrebbe interessarmi la sua infanzia o il suo primo ballo in
società?”
“Dovrebbe invece! Pensi davvero che la dottoressa si sia fatta
raccontare tutte queste cose tanto per passare due ore del suo tempo?”
Sören esitò. Non poteva dire di conoscere la Psicomagia, se non come
paziente, ma aveva assistito e svolto personalmente molti interrogatori
durante la sua carriera nella SAGITTA. “Non intendo dire che la
Guaritrice Patil…”
“Psicomaga.” Lo corresse. “Vedi, è tutta qui la differenza. Se devi
cercare una ferita, vai dritto dove sanguina, no? Con la Psicomagia è
diverso. È come dissotterrare un tesoro nascosto. Non basta operare in
un solo punto!”
“Ma tuo padre ha detto che non è riuscita a farsi dire dove Doe si
nasconde.” Osservò.
“Vero.”
“E quindi?” Capiva che Lily cercava di fargli capire qualcosa
facendocelo arrivare da solo.
Ma non abbiamo tempo.
O meglio, lo avevano, ma non era più disposto ad aspettare.
Voglio continuare con la mia vita.
Voglio poter passare un pomeriggio con la mia ragazza senza dovermi
preoccupare di salvare il Mondo Magico.
Lily non parve notare il suo tono brusco, o se lo fece decise di
ignorarlo. “Quindi il punto non è farla parlare, ma conoscerla. Solo
conoscendo qualcuno puoi farti aprire il suo cuore.”
“Cuore.” Fece una smorfia sarcastica, non riuscendo a frenarsi. “Dubito
che ne possieda uno.”
“Tua madre non è John Doe.” Contestò pacata. “Da quel che posso leggere
qui, è soprattutto una donna che ha sempre creduto di doversi affidare
agli uomini per poter sopravvivere.”
“Dove lo avrebbe detto?”
“Non lo ha detto, è questo il punto dell’intera faccenda! Cerchiamo di
pensare come lei, okay?” Gli mise una mano sulla sua. Non si era
accorto di averla serrata. Di nuovo
Parlare di mia madre non mi piace. Immedesimarmi ancor meno.
Tenne però la bocca chiusa. Quello non doveva essere un compito diverso
dallo sbattere un criminale in galera o prendere una testimonianza.
“Bene. Chi sono quindi?”
“Sei una giovane Purosangue che è vissuta all’ombra del fratello dopo
che i genitori sono morti. Erano molto anziani, ti hanno avuta in tarda
età e quindi tuo fratello maggiore ha assunto la statura di padre.
Padrone, aggiungerei. Non hai frequentato alcuna scuola…”
“… troppo cagionevole, o forse una scelta voluta di Alberich.” Suggerì,
perché doveva perlomeno provarci. “Forse voleva evitare che fosse un
punto debole, esposto. Al tempo era già immischiato a piene mani nella
Thule.”
Lily lo premiò con un cenno incoraggiante. “Quindi sei cresciuta sotto
il controllo di tuo fratello. Non hai amici, gli unici contatti che hai
sono quelli voluti da Alberich ed esci raramente dal castello in cui, a
dirla tutta, sei prigioniera.”
“Una bella prigione.” Ribatté ironico visto camere ariose, vestiti
sontuosi e pasti caldi ogni giorno non qualificavano il confinamento di
Sophia Von Hohenheim come una punizione di qualsivoglia genere.
Io in una prigione ci sono stato.
Anche per causa sua.
“Sì, ma comunque una prigione.” Lily lo ammonì con lo sguardo. Certo,
quello era un gioco di ruolo. In quel gioco, dovevano essere dalla
parte di sua madre. “Poi cosa succede quando hai diciassette anni?”
Decise di assecondarla. “Mio fratello mi dà in sposa ad un mago. Un
mago inglese, che presumibilmente ho conosciuto a malapena. Non lo
amo.” E questo non c’era bisogno che lo leggesse sugli appunti della
Patil.
Lily annuì, sfogliando i suoi, di appunti. “È un matrimonio combinato.
Alberich ha bisogno dell’intelligenza di quell’uomo, del suo aiuto, ed
tu sei la ricompensa per il suo aiuto.”
Sören non rispose: per Lily quello era lavoro, e questo particolare lo
turbò. Non avrebbe dovuto, visto che sapeva che dietro l’espressione
neutra della strega si nascondeva sincera preoccupazione per lui.
Amore. Tuttavia…
Non mi piace.
Ma non era il caso di puntare i piedi come un bambino. Anche se era dei
suoi genitori che stavano parlando.
“Ancora una volta ciò che desidero non viene preso in considerazione.”
Continuò con tutta la buona volontà di cui era capace. “Potrei oppormi,
ma sarebbe inutile. Mio zio sceglierebbe comunque per me.” Non si
accorse della sostituzione tra fratello e zio finché non vide lo
sguardo di Lily. “Volevo dire fratello.”
Sospirò: non voleva essere compatito.
Non adesso. Non adesso che parlo di
mia madre.
Aveva senso? “Immagino che per certe cose mia madre ed io fummo
trattati allo stesso modo.” Concluse cercando di suonare
distaccato.
Gli fece poi cenno di continuare. Lily ubbidì. “Quindi sposi Elias
Prince. Un anno dopo, come ci si aspetta, dai alla luce un maschio …
Sören.” Gli accarezzò un braccio. Si obbligò a non ritrarsi.
“Non voglio avere nulla a che fare con lui, è figlio di Elias. È nipote
di Alberich. Lo lascio crescere dalle balie. Presso la servitù comincia
a girare la voce che dopo la nascita del bambino la mia salute, sia
mentale sia fisica, cominci a deperire ...”
“Non sanno cosa farsene di te. Sei confinata nella tua ala del
castello, senza poter neppure vedere tuo figlio.” Era una impressione,
o il viso di Lily esprimeva sincera pena?
Per mia madre?
“Dubito che questo le abbia spezzato il cuore come pensi.”
Lily alzò lo sguardo dagli appunti. “Sören … dall’interrogatorio…”
“Questo posso dirtelo io, non c’è bisogno di leggere.”
Esitò. “Stai supponendo partendo dai tuoi ricordi. Dovresti
immedesimarti.”
“Forse non voglio.” E si sentiva davvero un ragazzino capriccioso, che
puntava i piedi e si rifiutava di eseguire un ordine sensato, eppure …
Lily invece di farglielo notare – e avrebbe dovuto – scosse la testa.
“Ne hai tutto il diritto.”
Ce l’aveva?
“Sì, ce l’hai.” Rispose alla sua domanda tacita. “Continuerò io, tu
stammi solo a sentire, va bene?”
Annuì, passandosi le mani sulla stoffa dei pantaloni: gli bruciavano,
specialmente quella mano.
“Vuoi smettere?” Suggerì Lily gentile. Era una Psicomaga, ovvio si
fosse accorta del suo disagio. “Posso continuare da sola, se vuoi.”
“No, tuo padre mi ha dato questo compito. Voglio portarlo a termine.”
Lily gli lanciò un'occhiata indecifrabile, ma poi si risolse a
continuare. “Sono una prigioniera. Ma non sono rassegnata, desidero
conoscere qualcosa oltre il castello dove vengo confinata sin da
bambina … l’occasione mi si presenta quando conosco il braccio destro
di mio fratello, John Doe.”
“Johannes.” La corresse. “Quando ha incontrato mia madre per la prima
volta si faceva chiamare Johannes.”
Lily prese nota della cosa appuntandola a lato della sua pergamena e
cancellando il nome scritto invece dalla Patil. “Johannes mi corteggia,
mi desidera … è la prima volta che qualcuno mette i miei bisogni di
fronte ai suoi. Sono stata considerata una pedina da mio fratello, una
fonte di imbarazzo per mio marito. Per Johannes sono una regina.”
Sören notò che Lily teneva il suo nome fuori dall’equazione,
volutamente.
E per mia madre? Io cosa sono? Cos’ho
rappresentato?
“Il mio amante mi fa credere morta, e poi mi porta via. Finalmente sono
libera, ma non del tutto. C’è sempre una clausola. Un uomo deve ancora
decidere per me.”
“Lo credi davvero?” La fermò non riuscendo a trattenersi. “Credi
davvero che mia madre si senta così?”
Perché oltre la rabbia e la delusione di dover chiamare una persona del
genere madre … rimaneva la curiosità.
Oltre a Thomas, è l’unica Von
Hohenheim ancora in vita.
Sangue del suo sangue.
“È scritto qui.” Lily picchiettò con un dito sugli appunti. “Ci sono
molti modi di raccontare la propria storia, i propri stati d’animo. Lo
puoi fare anche parlando di cosa hai mangiato a pranzo. Una brava
Psicomaga è in grado di capirlo.” Aggrottò le sopracciglia, scorrendo
gli occhi tra i suoi appunti e quelli della Psicomaga più anziana.
“Sophia non cercherà di scappare. Aspetterà che Doe venga a prenderla.
Perché nel suo sistema di idee ha imparato che essere considerato un
oggetto può essere anche un punto di forza, quando un uomo ti ritiene
indispensabile.”
Un oggetto.
Questo lo stupì: sua madre si sentiva come si era sentito lui fino a
cinque anni prima, quando suo zio controllava ogni aspetto della sua
vita. Una bacchetta pronta a colpire, non un essere umano. Ma invece
che sentirsi costretta, ribellarsi, aveva deciso di abbracciare quel
ruolo. E diventare la cosa di cui Johannes non poteva fare a meno.
“Pensi che lo abbia aiutato nel progetto Demiurgo?”
Lily scosse la testa “Forse l’avrà usata come prestanome per la talpa,
ma a mio parere … e quello della Patil, non l’ha coinvolta. Gliene avrà
parlato … l’avrà persino illusa di prendere delle decisioni, perché Doe
è un gregario per natura, ha bisogno di qualcuno che lo comandi, almeno
l’illusione, ma quando il Demiurgo è andato fuori controllo è lui che
ha preso le redini.” Rimase un attimo in silenzio. “Credo che questo
tipo di controllo non le interessi. È una donna intelligente … La Patil
dice che si rende conto che se le cose andassero male dovrebbe uscirne
con le mani più pulite possibili. Se controlla Doe, lo fa in un altro
modo.”
“In camera da letto.” Mormorò nauseato. L’idea che il Camaleonte, il
bastardo che lo aveva tormentato per tutta la sua adolescenza fosse
l’amante di sua madre gli dava il voltastomaco.
Dov’eri mentre mi faceva sputare
sangue durante gli allenamenti mamma?
Nel suo letto?
Si costrinse a non pensarci, a non finire nel buco nero in cui
precipitava ogni volta che pensava al vecchio compagno d’armi. “Quindi
non sa dov’è il nascondiglio.” Concluse per entrambi, passandosi una
mano sul viso. “Non ne ha idea.”
“Papà purtroppo si sbaglia.”
Sören soffocò un’imprecazione trai denti. “Quindi è inutile.”
“Nessuno è inutile. Mai.” Lo rimproverò Lily e avrebbe voluto farle
notare che non giocavano a dire banalità melense, ma lasciò perdere
vedendo che l’altra aveva un’espressione poco raccomandabile. “Tua
madre vuole vederti.”
Finse che quella frase non gli si conficcasse nello sterno, all’altezza
del cuore. Finse di non esserne colpito.
Fallì miseramente.
“E a cosa potrebbe giovare?”
“Potresti convincerla a portare gli auror al nascondiglio di Doe,
quando verrà a riprendersela.” Gli suggerì. “Doe non si aspetterà una
cosa simile.”
“Come fai a dirlo?”
“Se non è ancora venuto significa che non teme che spifferi niente. Non
puoi dire ciò che non sai.”
Era un buon punto, tuttavia c’era un problema. “Non posso convincerla a
tradirlo. Mi hai detto tu che si sente una sua proprietà.”
“Sì, ma non importa di cosa si sia convinta … rimane tua madre.”
“Dai troppa importanza al suo istinto materno.”
“Non parlo di quello.” Lily esitò. “Secondo la Patil, Sophia si sente
in colpa per quello che ti è stato fatto da tuo zio.”
“Gliel’ha detto lei?”
“No, ma…”
“Allora state ipotizzando, tutto qui. Non posso condurre un
interrogatorio su delle idee.” Sbottò rabbioso. Avrebbe voluto intimare
a Lily di chiudere il becco: come poteva capire il rapporto tra lui e
Sophia se era nata in una famiglia che l’amava, con una madre che la
vedeva come la luce dei suoi occhi?
“Se pensi che io e la Patil ci siamo inventate tutto, quello che
abbiamo fatto in queste ultime due ore non ha avuto alcun senso.” Fu la
risposta glaciale. Aveva davvero tirato la corda. L’aveva praticamente
insultata. Non gli importava.
Rimasero in iroso silenzio per qualche minuto, quelli necessari a
calmarsi per evitare una lite. Lily ribolliva quando lui, a giudicare
dalle orecchie paonazze e gli occhi scintillanti di rabbia, ma la sua
piccola inglese aveva imparato a mordere la lingua invece che gettarsi
in una lite a capofitto.
Per fortuna, perché non credo che adesso riuscirei a trattenermi.
“Non è quello che volevo dire.” Borbottò guardandosi le mani. Non aveva
mai amato litigare, ma discutere con Lily era cento volte peggio che
farlo con chiunque altro sulla faccia della terra.
“Allora cosa?” Non demorse quando si rifiutò di risponderle. “Ren,
parlami. È già abbastanza stressante senza che ci teniamo tutto dentro.”
“Stressante per te?”
“Per entrambi.” Sottolineò con l’aria di chi stava per rifilargli un
manrovescio. Stavolta se lo meritava. “Pensi che me ne freghi qualcosa
di tua madre? Mi importa di te,
e vederti così arrabbiato mi fa male! Voglio aiutarti!”
Aveva ragione. Ovviamente. Scosse la testa, passandosi una mano trai
capelli. “Mi è solo difficile immaginarla interessata a me.” Buttò
fuori. Sperò bastasse.
Lily si alzò per poi chinarsi ad abbracciarlo. Seppellì il viso contro
la stoffa della sua maglietta. Era meglio che tirare le tende o
seppellirsi sotto le coperte. Specie perché nessun lenzuolo ti
accarezzava i capelli a quel modo.
“Questa situazione ti fa sentire sotto esame…” Disse conciliante. “ …
lo capisco, okay? Ma credo davvero che tu possa convincerla a darci una
mano. Puoi farcela.”
A questo punto la palla era nella sua metà del campo. “Dirò a tuo padre
di organizzare il prima possibile. Adesso ho le informazioni che mi
servono.”
****
San Mungo, Laboratorio di Pozioni.
Pomeriggio.
Tom scese nel laboratorio di pozioni del San Mungo con la distinta
sensazione che qualcosa di grosso stesse accadendo; non solo Zabini era
venuto ad avvertirlo che Al lo cercava, ma si era addirittura prodigato
in raccomandazioni.
Vacci subito. Certo. Ma dirmi perché
non era contemplato.
Zabini non si sarebbe mai negato il piacere di tenerlo sulle spine.
Uscì quindi dall’ascensore e si diresse verso le porte del laboratorio
senza perdere tempo. La sua corsa fu fermata da un Pozionista, che si
frappose tra lui e l’ambiente. E Albus.
“I non autorizzati non posso entrare.” Lo apostrofò. Lo riconobbe per
uno della cricca di Pozionisti. “Tu sei il ragazzino che si è
intrufolato qua dentro il mese scorso, vero?” Aggiunse.
“Thomas Dursley.” Si presentò senza battere ciglio. “Mi ha chiamato
Albus.” Sottolineò, sapendo che il compagno veniva tutt’ora considerato
uno della cricca.
“Potter è occupato.” Replicò l’uomo senza muoversi di un millimetro.
“Se hai bisogno di parlargli aspetta che abbia finito il turno.”
Tom lo guardò, indeciso se tirare fuori la bacchetta oppure dargli un
pugno in faccia.
“Fammi entrare.”
“Ripetilo un paio di volte ragazzino, magari mi convinci.”
Fortunatamente fu tolto dall’impaccio di dover decidere come mettere al
tappetto l’idiota proprio da Al, che sgusciò dietro la mole
dell’ex-collega. “Ehi! Brad, è tutto a posto, l’ho chiamato io.”
“Come vedi, Brad, ero autorizzato.” Rimarcò lasciandosi portare via.
Albus, a giudicare dallo strattone che gli diede, doveva aver fiutato
la sua voglia di litigare.
“Attaccheresti briga anche con il tuo riflesso quando sei di questo
umore.” Borbottò infatti spingendolo dentro.
“Quale umore? Sono calmissimo.”
Gli rifilò una botta sul braccio. “Vuoi sapere perché ti ho chiamato o
ti lascio a misurarti la bacchetta con Brad? Le prenderesti, sai, è un
ex campione Duellante.” Non gli diede il tempo di rispondere: pareva
eccitato come un bambino. “Beh?”
Sospirò massaggiandosi il braccio offeso. “Sono tutto orecchi.”
“Forse abbiamo trovato la cura. Al Demiurgo.” Si morse un labbro con
gli occhi che gli brillavano. “Cioè, Sam e gli altri ci stanno
lavorando adesso, ma… ci siamo! Credo di aver capito come curare il
sergente Flannery, Bobby … e tutti gli altri.”
“Come?” Una piccola parte di sé fu delusa dal fatto di non avervi
partecipato. Ma era una delusione ridicola. Non era previsto che fosse
lui l’eroe di quella storia: ma Al.
“I Maghinò.” Vedendo la sua espressione sconcertata ridacchiò. “Sì, Sam
ha fatto la stessa faccia quando gliel’ho detto. Non si tratta di loro,
quanto piuttosto del loro sangue. Sai cos’è una malattia autoimmune?”
“È quando il tuo sistema immunitario ti attacca?”
Al annuì. “Esatto. Una cosa simile succede ai Maghinò. Sin dalla
nascita qualcosa spinge gli anticorpi presenti nel loro sangue ad
attaccare la magia presente come se fosse un corpo estraneo … le cause
sono ancora poco chiare, e sinceramente, neppure studiate.”
“I Maghinò, problema da mettere sotto il tappeto.” Convenne con una
smorfia. “Quindi userete una malattia per combatterne un'altra?”
“Una cosa simile.” Convenne. “Pensaci, senza magia il Demiurgo non si
diffonde. Per questo i Maghinò sono immuni!”
Tom aggrottò le sopracciglia. “Sì, ma questo cosa c’entra con i maghi?”
“Useremo gli anticorpi Magonò per sintetizzare una cura in grado di
distruggere la magia nel sangue dei pazienti infettati … e con essa, il
morbo. Almeno è ciò che speriamo.”
“Dovranno rinunciare alla propria bacchetta quindi?”
Io preferirei morire.
Al scosse la testa. “La magia si rigenera assieme al sangue. Basterà
pulirlo dal siero Magonò come fanno i medici Babbani con i pazienti in
dialisi. Checché ne dicano gli ignoranti, la mancanza di magia non è
contagiosa e in questo caso, neppure permanente.”
Tom a quel punto sorrise e lo fece senza ombre, perché il compagno se
lo meritava.
Ovviamente venne squadrato con sospetto. “Che c’è?”
Potter di poca fede.
“Ci sei riuscito. Li hai salvati.” Perché era vero: con la sua
testardaggine, con la costanza nel voler combattere una battaglia che
ai più era sembrata ormai persa … Albus aveva sconfitto il
Demiurgo.
Com’era prevedibile a quelle parole il compagno avvampò, marker
inevitabile di ogni sua forte emozione. “Non è ancora detto, ci sono un
sacco di test da fare…”
“D’ora in poi ti chiamerò Salvatore della Medimagia.”
Sbuffò, ma gli occhi gli ridevano. “Non ci pensare nemmeno.”
“Guaritori e Medimaghi per decenni canteranno le tue gesta.”
Stavolta l’altro ragazzo non riuscì a trattenere la risata. “Ma falla
finita…” Lo afferrò per una manica, come un bambino piccolo. Come il
suo Al. “Ce l’ho fatta sul serio, eh?”
“Sì.” Convenne passandogli un braccio attorno alle spalle per tirarselo
contro. Gli baciò la nuca bollente di gioia repressa. Non era
nello stile del Guaritore Potter chiedere plauso e onori al pubblico.
Per questo lo stava stritolando in un abbraccio trituraossa. Non se ne
lamentò: faceva parte del pacchetto una volta che ti innamoravi di un
astuto serpeverde con il cuore testardo di un grifondoro.
“Niente male, Potter.” Gli mormorò all’orecchio. “Sarà dura fare di
meglio.”
“A questo punto ti tocca diventare Ministro della Magia. Come minimo.”
Sogghignò, scoccando un’occhiata di trionfo alle espressioni fosche dei
Pozionisti. Sì, non solo era entrato ma stava anche requisendo la loro
mascotte.
Venite a dirmi qualcosa, avanti.
“Non sottovalutarmi.”
Al alzò il viso servendogli lo stesso sorriso. “Io e te non ci
sottovalutiamo mai, vero Tom?”
“E per questo vinciamo sempre, Al.”
****
Milo era consapevole di aver rischiato di tirare il calzino. Era stato
maledettamente vicino ad incontrare Merlino e tutta la schiera di
stronzi suo pari, questo era sicuro.
Perché l’ultima cosa che ricordava era un esplosione, un dolore intenso
e uno spilungone che gli salvava la vita.
Mica era Dursley? Il cugino stronzo
del mio ancor più stronzo padrone?
No, perché mi puzza tanto di delirio.
Chiunque lo avesse salvato, lo aveva fatto comunque per il rotto della
cuffia dato che aveva vagolato nel limbo dell’incoscienza per quelli
che gli eran parsi secoli. Poi, in tutto quel buio disconnesso, in
quelle voci attutite e tocchi leggeri come piume aveva cominciato ad
insinuarsi la luce. Prima brevi bagliori, poi sempre più forti, come
l’intermittenza di un televisore rotto. Lentamente, molto lentamente
aveva percepito i propri polmoni succhiare aria, il proprio cuore
battere sempre più forte.
In parole povere si era risvegliato.
Doveva essere in ospedale. L’odore di erbe medicinali di una clinica
magica non si scordava mai: era un po’ come l’odore del primo spinello.
Ti si sigilla nel cervello.
Mise a fuoco un soffitto dove due grosse palle piene di candele
galleggiavano come sospinte da una dolce brezza.
Uh. Salvato dai maghi. Sarebbe la
prima volta per un Magonò, o qualcosa del genere.
Provò a muovere le dita e con enorme sollievo quelle gli risposero
sollecite.
Salve ragazze, mi sarebbe dispiaciuto
fare a meno di voi. Senza di voi farmi una sega o suonare un violino
sarebbe stato un bel po’ complicato.
Grazie per esserci ancora. Molto
apprezzato.
Si leccò le labbra, provando a muovere la testa per guardarsi attorno;
questo si rivelò più difficile del previsto.
Paralizzato. Paralizzato, dannazione!
il fiotto di adrenalina parve dare una scossa al suo stupido corpo
ritardato; gli sembrava di aver la testa pesante tonnellate ma riuscì a
muoversi abbastanza per vedere la persona che era seduta accanto al
letto.
Michel.
Un accesso di tosse segnò quanto la cosa l’avesse colto di sorpresa.
Il mago, che fino a quel momento era rimasto assorto nella
contemplazione della finestra, scattò in piedi. Il suono l’aveva
allarmato.
Ciao.
Era ancora arrabbiato con lui. Furioso, e ferito … e incredibilmente
felice che fosse lì.
Stronzo di un mago. Non dirmi che sei
rimasto qui tutto il tempo.
Pareva proprio di sì: Milo avrebbe potuto scrivere un compendio su come
vegliare un moribondo, avendo avuto tra le scatole per cinque anni un
idiota che traeva grandissimo diletto nel finire in ospedale un giorno
sì e l’altro pure. E l’inglese ne mostrava tutti i segni, dai vestiti
indossati con poca cura, alla barba fatta di fretta per finire
all’espressione spossata di chi aveva dormito poco e male.
Non disse niente però: non era neppure sicuro di poterlo fare dato che
si sentiva la lingua di cartapesta. Fu Michel a sporgersi su di lui,
afferrandogli una mano così forte che lo fece sussultare di dolore.
“Emil … Merlino benedetto, io … scusa.” Incespicò sulle parole
scostandosi come se lo avesse ustionato. “Emil…” Ripeté.
Una volta aveva creduto che il ragazzo di fronte a lui fosse incapace
di emozioni più forti dello sdegno o dell’ironia.
Ti si sta spezzando la voce, brutto
coglione.
Chissà perché era a lui che veniva da piangere. Perché aveva scampato
la morte per un soffio, perché era ancora arrabbiato e perché non aveva
idea di cosa fare di se stesso. O di loro due per quanto valeva.
Beh, sei il tipo scampato alla morte
qui. Forse la prima mossa non sta a te.
Michel infatti gli accarezzò una guancia. I polpastrelli morbidi
incontrarono qualcosa di rasposo.
Per Faust, è la mia barba?
“… quanto…” Articolò dominando una seconda fitta di tosse. La gola non
gli avrebbe dato presto requie aveva idea. “… quanto faccio schifo?”
Michel soffocò quello che era evidentemente un singhiozzo in una
smorfia ironica delle sue. “Abbastanza.” Gli passò le dita trai
capelli. Erano così fresche, e Dio, sarebbe stato così facile chiudere
gli occhi e perdersi in quelle carezze.
“Cosa … che è successo?” Ricordava gente ferita, Figgins. Figgins
che nonostante tutto quel gridare e sputare insulti era rimasto per
aiutarlo. Che, con l’improbabile Dursley, gli aveva salvato la vita.
“Diagon Alley…”
“Shh.” Gli mise una mano sulla spalla. “Non è importante adesso. Sei
qui, solo questo conta.”
Non proprio, pensò odiandosi. Per niente, purtroppo.
Emil si era svegliato e l’aveva fatto proprio nel momento in cui aveva
abbassato la guardia. Una cosa così da lui…
Com’era da lui ignorare il fatto fosse ad un passo dalla fossa per
tirarsi a sedere – o almeno provare dato che ricadde dopo un fiacco
tentativo - e fissarlo con occhi lucidi e determinati. “Cos’è successo?
C’erano con me … i ragazzi del Goose … Dove … stanno bene?”
Emil, lo aveva scoperto osservando le sue azioni più che le sue parole,
era la persona più premurosa che conoscesse, fatta eccezione per Al. Il
suo tedesco aveva a cuore gli altri più di se stesso, anche se lo
nascondeva sotto strati di sarcasmo e sfacciataggine. Era chiaro quando
interagiva con Prince, girandogli attorno come una chioccia riluttante
ma non per questo meno ansiosa, o quando sfamava Loki ascoltando i suoi
lazzi di buon cuore. O con Dirk, che aveva conosciuto solo per un
pomeriggio – ma che tale era bastato per far chieder di lui per le
successive settimane. Persino quando erano due estranei che si
annusavano con diffidenza era corso in suo aiuto la sera della festa di
Scorpius.
Emil, nonostante fosse stato preso a calci dal mondo intero, continuava
a preoccuparsi di chiunque incrociasse la sua strada semplicemente
perché era un essere umano come lui.
Era davvero la persona migliore che conoscesse.
“Nessun Magonò è stato colpito nell’attacco. Soltanto tu ed è comunque
una ferita da cui ti riprenderai.” Lo rassicurò. “Ho mandato Loki ad
informarsi.”
Emil gli scoccò un’occhiata indecifrabile. “Perché l’avresti fatto?”
Domandò dividendosi tra la sorpresa e la diffidenza.
Siamo tornati al punto di partenza.
Fece male esattamente come si era aspettato.
“Immaginavo che me l’avresti chiesto.” Rispose tranquillo. “Sono la tua
gente, ed eri con loro quando gli infetti hanno attaccato. Inoltre,
Danny Figgins è venuto a trovarti mentre eri incosciente. Mi ha detto
di riferirti che tornerà quando sarai in compagnia migliore.”
“Quel coglione…” Lo vide sorridere divertito, ed odiò l’altro Magonò
per aver causato quella reazione.
Stava diventando patetico.
“Che ne è stato … degli altri? Dei maghi?” Gli domandò riscuotendolo
dalle sue miserie.
“Con l’arrivo degli Auror si è evitato il peggio, ma nondimeno…” Scosse
la testa. “Ci sono state delle vittime.”
“Merda, che casino.” Mormorò chiudendo gli occhi. “Quei poveri
bastardi…” Li riaprì di colpo. “Sono andato parecchio vicino a finire
sottoterra come loro, vero?”
“Sì.” Sussurrò di rimando cercando di dimenticare il viso cereo e il
respiro appena accennato che aveva vegliato in quei lunghi
giorni. “… ma sei qui adesso.”
“Sono qui.” Confermò con un sorriso ispido, ancora un po' incredulo: la
voglia di baciarlo gli mozzò quasi il fiato. “Il principino lo sa? Che
sono sveglio?”
“Vuoi che lo informi?” Cercò di non provare delusione all’idea che
fosse immediatamente pronto a liquidarlo in favore dell’altro mago.
E perché non dovrebbe? Al momento non
rappresenti nulla per lui.
“No.” Lo sorprese. “Ha già i suoi casini a cui pensare … e una ragazza
da ripassarsi. Avrà tempo per rampognarmi come il rompipalle che è.”
Aggiunse con un sogghigno che pensava di aver perso per sempre.
Non poteva mettersi a piangere.
Dignità Zabini. Sei erede di una
Casata di maghi dignitosi. Cerca di comportarti come uno di loro.
“Allora … hai bisogno di qualcos’altro? Dell’acqua forse?” Voleva
essergli utile. Non gli importava di risultare penoso. Tutto piuttosto
che ammettere che la sua presenza non era opportuna.
“Quello sì … e magari sapere cosa ci fai qui.” Si voltò completamente
verso di lui. Gli occhi erano ancora lucidi di stanchezza, ma non erano
confusi come prima. Tutt’altro. “Perché?”
Cercò di sorridere, ma era difficile quando si aveva il cuore stretto
in una morsa. “Perché ti devo delle scuse. Ti ho caricato di un peso
che non era il tuo … i miei problemi con la mia famiglia e il mio
lavoro non erano tuoi da risolvere.” Essere onesto, Al lo diceva
sempre, prima o poi pagava.
Era quel poi che lo
preoccupava. Sarebbe mai arrivato per lui?
“Questo è sicuro.” Non stava sorridendo, ma neppure lo guardava come
aveva fatto quel pomeriggio a casa sua. Era un buon segno, no? “…
però sei fortunato, aver quasi rischiato di crepare mi ha reso più
bendisposto verso il mondo.” Fece una pausa. “È cambiato qualcosa?”
Michel intuì a cosa si stava riferendo. “Sta cambiando.” Ammise. “Ho
detto a mio padre che non sono disposto a rinunciare a te.”
Nessuna risposta né reazione, ma lo stava continuando ad ascoltare. Sì,
era un buon segno, decise. “Molti problemi restano, me ne rendo conto.”
“Non posso smettere di essere un Magonò…” Lo interruppe piano.
“Non voglio questo. Non avere una bacchetta, essere Milo Meinster ti
rende…”
“Chi?” Il tono era sarcastico, eppure vi notò una punta di incertezza.
“Qualcuno che mi ha spinto ad andare oltre ai miei pregiudizi. Mi hai
ricordato chi ero e cosa posso ancora essere, semplicemente entrando
nella mia vita. Ti sembra poco?”
Aveva detto la cosa giusta. Le sopracciglia aggrottate dell’altro
ragazzo si aprirono in un’espressione incredula, vulnerabile.
Prese coraggio. Doveva chiedere. Doveva sperare. “Ho bisogno di ancora
un po’ di tempo però. Sei disposto a concedermelo?”
Perché non poteva ancora lasciare suo padre, ma soprattutto il suo
lavoro. Era oltre i suoi desideri di semplice mago. Aveva pur sempre
dei doveri verso il suo Ministero, specialmente in tempo di crisi.
Se Al ha davvero trovato la cura come
dice, forse c’è un modo per evitare un’intera nazione si perda nel caos.
Finito quel disastro, aveva preso la sua decisione. Il suo blasonato
lavoro poteva pure andare al diavolo.
Che Emil mi rivoglia indietro o no.
Perché in quelle lunghe ore di veglia aveva capito che avrebbe lasciato
la sua vecchia vita per se stesso e per nessun'altro.
Emil distolse lo sguardo, tornando alla contemplazione del soffitto.
Avrebbe voluto chiedergli una risposta. Domandargli se lo amava ancora.
Invece non disse niente.
Amare qualcuno era anche aspettare.
“Non è che abbia intenzione di alzarmi da qui tanto presto. Credo che
non me lo lascerebbero manco fare.” Disse con voluta lentezza. “Come
vedi, ho un bel po’ di tempo tra le mani.”
Michel cercò di dominare l’intenso calore che sentiva irradiarsi da
dentro. Non c’entrava la magia, o qualche sorta di malattia misteriosa.
Gli pareva che qualcuno la chiamasse felicità. “Sì, immagino di sì …
Emil, lo sai che ti amo, vero?”
L’altro fece una smorfia che pareva nascondere uno starnuto o un paio
di occhi lucidi. I secondi probabilmente da come tentò debolmente di
passarsi una mano sul viso. “Voi maghi … sempre pronti a fare proclami.”
Gli prese una mano e fu felice di non vedersi respinto. Così felice che
avrebbe affrontato dieci Blaise Zabini e un’intera armata di
Indicibili. “Ho intenzione di dimostrartelo. Sono testardo, mi conosci.”
“Purtroppo sì, stronzo di un mago” L’altra mano era stazionata in zona
viso e non si sarebbe mossa per niente al mondo. La lasciò lì, ma baciò
quella che aveva tra le sue. “Lasciami in pace…” Borbottò ma così
debolmente che sembro una richiesta del tutto contraria. “Cristo, mi
hai spezzato il cuore.”
Questo fece male. Premette di nuovo le labbra contro il dorso caldo
della mano dell’altro. “Spezzando il mio nel processo. Sono un povero
imbecille, e forse non merito una seconda possibilità ma ho intenzione
di ripararli, Emil. Entrambi. Me lo lasceresti fare?”
“È una cazzo di domanda retorica, vero?”
Sorrise. Non si mosse, non tentò di baciarlo o vincere le sue
resistenze in modi più subdoli. Si accontentò di rimanere lì, dove lo
voleva. “Non ti sfugge nulla mon ange.”
“Vaffanculo.”
Rise, sentendolo ridere di rimando. Era un suono un po’ disperato. Ma
vivo. Per il momento, decise, bastava. Sarebbero ripartiti da lì.
****
America, Boston.
Ufficio SAGITTA.
“Cosa diavolo pensavi di fare?!” Ethan Scott era entrato nel suo
ufficio come un Bolide, seguito a ruota da un mortificato agente
Estevez.
Prevedibile come il sorgere del sole.
“Buongiorno a te, Ethan.” Lo salutò tranquilla abbassando documenti che
avevano bisogno di una visione e firma urgente.
Avrebbero dovuto aspettare.
“Agente Estevez, può andare.” Congedò il sottoposto, ben felice di
obbedirle da come si richiuse immediatamente la porta dietro.
“Siediti.” Ordinò all’uomo senza perdere una briciola della calma che
possedeva.
Scott, ancora paonazzo in viso, fu incerto se darle retta o
ricominciare la sua sfuriata. Alla fine decise per la prima anche se
con evidente sforzo. “Hai mandato dei tuoi agenti nel mio ufficio … a
prelevarmi!” Sibilò. “Come un criminale qualunque!”
“Se ricordi bene, non trattiamo criminali ordinari, ma maghi oscuri.”
L’uomo la guardò, preso in contropiede. Non riusciva a capire il perché
dell’assenza di reazioni da parte sua.
Oh, Ethan. Non mi hai mai visto in un
interrogatorio. Altrimenti sapresti in cosa ti sei appena andato a
cacciare.
Quella furia assolutamente poco lucida era la reazione che aveva
sperato di causare mandando Estevez e Murphy al gabinetto ministeriale.
L’unico modo per capire se Scott era davvero la talpa era affrontarlo
direttamente, a muso duro. Non permettergli di nascondersi dietro i
propri assistenti o le proprie cariche, ma spingerlo a provare talmente
tanta umiliazione da finirle praticamente in braccio.
Sperava davvero che Ama e Malfoy avessero ragione sul suo
coinvolgimento.
Perché se risultasse pulito la mia
testa sarebbe la prima a cadere.
“Ti è completamente dato di volta il cervello?” Sibilò. “I tuoi uomini
mi hanno accusato di essere l’informatore nel caso Demiurgo!”
“Lo hanno fatto formalmente? Non mi sembra, o non saresti qui a parlare
con me, ma in una cella in attesa di chiarire la tua posizione.”
Il mago fremette di rabbia ma accettò il punto. “Hai delle prove per
sostenere le tue accuse?”
Nora sorrise, Appellando una cartella e spingendola nella sua
direzione. “I tuoi soldi, Ethan. I tuoi movimenti bancari sono stati
piuttosto vivaci negli ultimi anni.”
“E quindi?” Ribatté scorrendogli con gli occhi senza vero interesse.
“La carriera politica non è un’opera di carità … Servono Galeoni per
arrivare alle persone giuste. Ho i miei benefattori.”
“Gradirei una lista.”
“Ed io gradirei sapere perché dovrei consegnartela. Sono persone
riservate, privati che non vogliono che qualcuno metta il naso nelle
loro vite … specialmente sostenendo accuse così deliranti!”
“Posso ottenere un mandato, Ethan. Sarebbe tutto molto più semplice…”
“Ma io non voglio renderti le cose semplici, mia cara Nora.” Replicò
con un sorriso sgradevole. Smaltito lo shock, stava riprendendo
controllo su se stesso. Prima di quanto avesse sperato. “I tuoi uomini
irrompono nel mio ufficio, trascinandomi via come una feccia qualsiasi
… e poi vengo a sapere di essere accusato di passare segreti ad un
criminale internazionale? E senza il minimo straccio di prova? Ti
facevo più intelligente di così, Capitano Gillespie. Inoltre, vorrei
sapere chi ti ha autorizzato a guardare il contenuto della mia camera
blindata. Non mi risulta di aver rilasciato alcun permesso.”
“Non ne avevo bisogno.” Rispose dura. “Per legge le forze di polizia
magica possono accedere ai conti bancari di un cittadino americano se
questi è sospettato di aver commesso un reato. E Scott, sono stati
fatti versamenti alla tua camera due giorni dopo esatti
ai trasferimenti avvenuti tra due conti intestati a John Doe e la
compagna. Cifre simili, giorni sequenziali. Questo come lo spieghi?”
L’uomo aggrottò le sopracciglia. Per un attimo Nora vi lesse qualcosa
simile all’allarme. Ma, e questo la sorprese, anche confusione. La
maschera da politico non tardò però a tornare. “Coincidenze? Ogni
giorno vengono compiute migliaia di transazioni finanziarie, e questo
solo nel mondo magico. Se guardi bene, sono certo troverai almeno un
centinaio di candidati con il mio stesso problema. Molti di più se esci
fuori dall’area di Boston.”
“Ma nessuno di loro era informato di cosa stava accadendo a Londra.”
Scrollò le spalle. “Ed hai pensato subito a me? Commovente, Eleanor.”
Si sporse verso di lei. “Ma non sono io il tuo mago. Inoltre, non sono
l’unico esterno alle indagini ad esser rimasto informato … Dimmi, hai
parlato di recente con il tuo piccolo randagio tedesco? Hai controllato
i suoi estratti conto?”
“Lascia Prince fuori da questa storia.”
La squadrò beffardo. “E perché dovrei? Mi sembra di ricordare che il
ragazzo abbia fatto un buon lavoro come infiltrato per la Thule. Magari
ha ripreso il mestiere di famiglia … ha fatto di tutto per partecipare
all’indagine, o no?”
Fu seriamente tentata di afferrarlo per il bavero della sua costosa
veste e spaccargli la faccia. Ma non avrebbe avuto alcun senso. Quello
che diceva invece sì. “Non è lui.” Si limitò a dire.
Per quanto gli avesse spezzato il cuore, aveva indagato sul suo miglior
agente: dopo la segnalazione di Harry aveva dovuto.
Non è stato lui. Ha sempre avuto una
scorta a fianco, e se non quella, Lily Potter. Emil mi manda
mensilmente i suoi movimenti bancari. Non ci sono stati versamenti
negli ultimi cinque anni.
Il sollievo di quella rivelazione era stato enorme. E per questo, si
era sentita ancora più in colpa.
“L’affetto ti acceca, amica mia.”
Nora serrò la mascella. “Ho seguito le prove, Scott. E non mi hanno
portato da Prince … ma a te.”
“Forse dovresti riconsiderarle allora. Perché non stai facendo un gran
lavoro.” Diede un’occhiata all’orologio da taschino. “Se non c’è altro,
posso andare?”
Nora fu tentata di trascinare quel culo pallido nella prima cella
disponibile. Ma Scott, per quanto odioso, aveva ragione.
Non abbiamo prove concrete per
arrestarlo. Neppure per trattenerlo.
Sperava che l’accusa violenta e l’umiliazione lo spingessero a mettere
il piede in fallo, ma aveva sbagliato i suoi calcoli. Scott aveva sì
perso la calma, ma non si era tradito.
Fece un cenno rabbioso di assenso, che fu accolto con un sorrisetto.
Avrebbe voluto strapparglielo dalle labbra. “Ti ringrazio, Nora.
Rimango comunque a completa disposizione del SAGITTA. La prossima
volta, magari, dammi il tempo di chiamare il mio magiavvocato. Non
vorrei che l’opinione pubblica pensasse che voi ragazzi in blu non
rispettate i diritti dei cittadini.”
Viscida serpe che non sei altro.
Era convinta più che mai che dietro la fuga di informazioni ci fosse
lui. Aspettò che si fosse tirato dietro la porta per andare alla
finestra e osservarlo scendere le scale. Fu delusa: neppure lasciato ai
suoi pensieri fece trasparir nulla. Arrivato all’ingresso fu accolto da
un ragazzo, il suo segretario personale, che doveva averlo aspettato in
sala d’attesa: si portava sempre qualcuno dal suo entourage. Il viso
del giovane gli era familiare, zigomi alti e colori slavati, registrò
distrattamente, ma era sfuocato come tutto ciò che guardava ultimamente
da una certa distanza.
Temo che presto dovrò comprarmi un
paio d’occhiali.
Stava invecchiando, pensò amaramente: e cominciava a non avere più la
forza di sguainare la spada e difendere il mondo dai suoi stessi
mostri.
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“Mi ha fatto delle domande. Credo stia cominciando a sospettare
qualcosa.”
“Quindi a quanto pare i nostri amici inglesi hanno scoperto che
mandiamo i soldi in America e che finiscono nelle casse per la grande
ascesa di Ethan Scott.”
“Cosa devo fare?”
“Cosa pensi di dover fare?”
“Sistemare la situazione. Amputare. Cauterizzare. Andarmene.”
“La Thule ti ha tirato a dovere, vedo. Non devo proprio aggiungere
niente. Vieni qui quando hai finito. Potresti tornarmi utile.”
“Sissignore.”
“Buon lavoro, Sören.”
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Note:
Fermi tutti. Ragionate. No, sul serio. Sören non è un nome poi così
raro.
(E tante grazie alla suspance.)
Qui
la canzone del capitolo. E grazie per la pazienza con cui continuate a
leggere e commentare. So che mi faccio attendere, ma ormai la mia vita
è così incasinata che è un miracolo che riesca a dedicare un momento a
qualcosa che non sia lavoro. Che mi piace, ma non è questo.
Comunque, l’avete intuito: tra poco si conclude.
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