Pozzanghere

di Dew_Drop
(/viewuser.php?uid=127372)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dipartita ***
Capitolo 2: *** Permanenza ***
Capitolo 3: *** Sciacallo ***
Capitolo 4: *** Combustione ***
Capitolo 5: *** Alternative ***
Capitolo 6: *** Farfalle ***
Capitolo 7: *** Pozzanghere ***



Capitolo 1
*** Dipartita ***


I capitolo - Dipartita


Titolo: pozzanghere 
Autore: Dew_Drop
Fandom: Katekyo Hitman Reborn!
Genere: introspettivo, sentimentale
Avvertimenti: shonen-ai
Nota: avevo scritto questa storia tempo fa, forse d'estate, e mi ero fermata al quarto capitolo. Questa mattina mi è per caso capitata sotto agli occhi e mi è saltato in testa il grillo di pubblicarla. Dico "grillo" in quanto si tratta più di un esperimento: la fic in sé presenterebbe anche del mistero e dell'azione, con riferimenti quindi molto più espliciti al tema della mafia, ma ho preferito presentarvela in veste di semplice Gokudera&Yamamoto Centric, lasciando quindi da parte degli spunti più movimentati. Inoltre non credo sia necessario puntualizzare il contesto temporale in cui si svolgono i fatti narrati. Dal momento che la storia non è conclusa, non so se aggiungerò o meno dello yaoi - è da un mesetto che mi assento da questa pratica di scrittura -, per questo motivo, nel caso volessi aggiungerlo, ovviamente modificherò raiting e avvertenze. Per il resto... che altro dirvi? Mi sono sempre chiesta dove accidenti sia la madre di Yamamoto e ho cercato di darmi una risposta xD Spero possa essere di gradimento; sono felice di rientrare nel fandom per sperimentare la presenza o meno dell'ispirazione. E i commenti sono, ovviamente, sempre ben accetti!
Disclaimer: i personaggi sono copyright di Akira Amano.





CAPITOLO PRIMO
DIPARTITA





    “...E così parto” concluse Yamamoto, rificcandosi in bocca la cannuccia del succo alla pesca.
    Sull’uditorio calò il silenzio. Solo lo scricchiolio insistente di uno stuzzicadenti sfrigolava in quell’improvvisa assenza di suono; e proprio colui che molestava il bastoncino provvide a dare un segno di vita:
    “Tutto qui? Per quest’idiozia abbandoni il Decimo?”
    “Gokudera-kun!” lo riprese impacciato Tsuna. Gokudera gli rivolse un’occhiata indecifrabile, senza smettere di mordicchiare il legnetto, un gomito – una volta appoggiato – scivolato lungo lo schienale della panchina e la guancia sorretta dal pugno. La sua espressione era totalmente incolore. Yamamoto gli scoccò uno sguardo bieco e tornò a rivolgersi agli altri:
    “Non so quanto starò via... ma, capite, per me è una cosa... molto importante.”
    “Ti do estremamente ragione” confermò Ryohei. “Il tuo vecchio ti ha fatto proprio un bel regalo.”
    “Già” Tirò un sorriso. “Ho sempre sorvolato l’argomento... lui fa così tanto per me. Ma sono felice che mi ritenga abbastanza maturo. Sono cresciuto sapendo che mia madre era morta durante il parto, ma papà mi ha detto che ora la verità sarà più facile da digerire.”
    “La verità...” si riagganciò Tsuna. “Yamamoto, tu hai idea di cosa si possa trattare?”
    “Io... no” fu la sincera eppur cauta risposta. “Non avendola mai conosciuta... non avendo mai conosciuto mia madre, non posso sapere perché ho vissuto sempre solo con mio padre.”
    La bretella della borsa di Gokudera sibilò tagliente sulla spalla. Il Decimo e Ryohei alzarono gli occhi, colpiti da quell’improvvisa presa di posizione.
    “Gokudera-kun, dove...?”
    “Sumimasen, Juudaime. Ho da fare” tagliò corto l’italiano, che si era alzato dalla panchina. Lo stuzzicadenti tra le sue labbra scricchiolava impaziente sotto ai denti. “Passo questa sera per aiutarvi con i compiti di matematica, allora.”
    “Va-va bene. Jaa ne.”
    Lo seguirono con lo sguardo svanire oltre il cancello della scuola. Yamamoto si lasciò scappare un sospiro e gli occhi furono di nuovo tutti per lui.
    “Huh? Qualcosa non va?”
    “Probabilmente non sopporta che si parli di madri, senpai” lo illuminò il moro coprendosi il volto con le mani. Quel gesto di tacita rassegnazione accartocciò l’espressione di Ryohei.
    “E perché mai? Non ci vedo nulla di male, io!” fu il contrattacco; al che Tsuna gli rifilò una leggera gomitata forzando un sorrisetto:
    “Oniisan... perché, non so se ricordi, ma Gokud...”
    “Che estrema figuraccia, giusto, giusto!”
    Yamamoto sbirciò fra le dita e svelò un mezzo sorriso. “Tranquillo, senpai. Probabilmente non avrei dovuto parlarne in sua presenza.”
Il Decimo sguainò allora un fragile buonumore nel tentativo di salvare tutti quanti dell’imbarazzo generale. “No, oniisan, Yamamoto. Va tutto bene. Gokudera è fatto così... domani ritornerà quello di una volta, vedrete.”
    “Ma domani non sarò qui per chiedergli scusa.”
    “Uhm? Parti così presto?”
    Il moro si grattò la nuca abbozzando il classico sorriso da bravo ragazzo. “Parto stasera. Non posso trattenermi, non quando adesso so che mia madre vive poco lontano da Namimori. Avete presente Shiruka?”
    “Se non sbaglio è a meno di due giorni da qui.”
    “Dici bene, senpai” Yamamoto affilò lo sguardo e abbassò la voce. Nel castano delle sue iridi guizzò la malinconia che occasionalmente rivelava di possedere. “Prima parto, prima arrivo. Ho l’indirizzo, anche se è un po’ datato, ma me la caverò.”
    Tsuna rimase ad osservarlo.
    A volte Takeshi Yamamoto non era Takeshi Yamamoto. O almeno non propriamente. Forse era colpa dei sorrisi se, quando mancavano, la tristezza sembrava più profonda di qualunque altra. La strana luce nei suoi occhi, il capo chino, le labbra serrate, le sopracciglia accartocciate, tutti questi particolari erano l’indiscutibile indizio che sì, anche il gioviale Yamamoto perdeva il proprio codice d’onore; e quando lo smarriva, un po’ come l’ingenuo pedone cui cade una moneta, pareva che il tempo di allungar la mano per raccoglierla fosse infinito nonostante il pezzo di metallo fosse lì davanti. Anzi, sembrava che quella moneta chiamata “felicità”, nella tasca di quel passante, non fosse mai realmente esistita.



    La cerniera del borsone soffiò indispettita al gesto secco di Yamamoto. Aveva deciso di portarsi dietro il necessario premeditando di poter passare qualche notte a casa della madre.
    Madre. Fece una smorfia mentre si caricava il bagaglio in spalla. Nel suo piccolo mondo fatto di amici, papà, baseball e mafia (a detta del ragazzino, almeno) non c’era più spazio per altro. Era sempre vissuto grazie a pochi fattori e il suo animo votato alla quotidianità non avrebbe permesso l’intromissione di un elemento Y. No, un momento, di un elemento X. Non era stato Gokudera a insegnargli che XX sta per la femmina e XY per il maschio? Non si trattava di cromosomi?
    Si fermò davanti allo specchio da parete per darsi un’aggiustata ai capelli nel vano tentativo di sorvolare quel nome. Gokudera non era mai stato troppo gentile con lui – o almeno era quello che voleva far intendere -, eppure coinvolgerlo in quella discussione non era stata una saggia scelta. Era stato egoista e aveva annunciato la grande notizia

(“Minna, finalmente conoscerò mia madre!”)

proprio davanti all’unico che non avrebbe sopportato un discorso del genere. Aveva provato a chiamarlo o avvicinarlo in qualsiasi modo per chiedergli scusa, magari scombinandogli i capelli con il solito atteggiamento birichino e gustandosi il rossore irritato eppur delizioso che gli avrebbe acceso le guance; ma il telefono aveva squillato invano.
    L’istinto gli suggeriva di provare a casa di Tsuna, dove sicuramente, complice una lezioncina extra di matematica, Gokudera sarebbe stato costretto a rispondere, magari incitato dal sorriso del suo caro Decimo. Dall’altra parte invece, la razionalità che Squalo gli aveva così ferocemente piantato nel cervello gli ordinava il contrario.
    Suggerire ed ordinare sono verbi assai differenti.
    Lascia perdere, Takeshi.
    E Takeshi Yamamoto obbedì alla ragione. Si ficcò in tasca il telefono cellulare, si sistemò il colletto del blazer rosso, si scrollò le spalle, si sorrise allo specchio.
    “Andiamo.”
    Per i primi metri andò tutto bene, poi le sue gambe si rifiutarono di varcare l’uscio. Aveva già fatto scorrere la porta e il paterno baluginare della luce artificiale si mischiava alle tenebre della sera imperlata dal canto delle cicale. Eppure fermo con la mano sullo stipite, un occhio a sbirciare l’interno, non riusciva a muoversi. Come se là fuori fosse troppo buio, troppo freddo, troppo estraneo. Troppo troppo. Già solo quando usciva per andare a scuola, o per fare una corsa nel quartiere con Ryohei, avvertiva una stretta al cuore. Anzi in quel momento, più che il cuore, il vuoto gli pugnalò l’anima.
    Dovette restar fermo un bel po’ di tempo, perché fu una voce alle spalle a destarlo da quel senso di sospensione:
    “Takeshi?”
    Yamamoto si voltò, smettendo così di fingere di guardare avanti. Forzò un dolce ma amaro sorriso: “Oyaji.”
    “Sei ancora fermo sulla porta? Hai cambiato idea?”
    “No.” Rimase un momento a guardarlo. Adorava il tono fermo di suo padre, quel tono che di primo acchito pareva severo ma che invece nascondeva un infinito affetto. Smise di recitare la felicità e si passò una mano dietro al collo, in un atteggiamento infantile ed allegro: “No, affatto. Mi stavo solo chiedendo se tu riuscirai a gestire tutto da solo. Starò via per un po’, presumo...”
    “Con chi andrai?”
    “Non ho problemi, penso andrò a piedi. Una passeggiata non guasta, vecchio mio.”
    Tsuyoshi scoppiò in una risata gracchiante. “Passeggiata...! Takeshi, sei proprio intraprendente! Per fortuna mi fido così ciecamente di te da lasciarti andare da solo!”
    Il moro gli scoccò un’occhiata ironica e portò un piede all’esterno. “Allora io vado. E.... e arigatou, oyaji. Per tutto.” 
    L’uomo finì di asciugare un bicchiere e fece un cenno sbrigativo con il capo. Fila via che sono impegnato, ragazzaccio, significava.
    Yamamoto lo tradusse come un ennesimo ed implicito gesto d’affetto. Uscì e si chiuse la porta alle spalle sorridendo.



    Hayato Gokudera sapeva stupirlo. La sentenza potrebbe apparire giustificata se riferita ad uno scalmanato dinamitardo qual era lui; un dinamitardo che nascondeva i suoi istinti dietro ai classici occhiali da secchione solo quando gli faceva comodo, anche se non aveva problemi ad estrarre un candelotto persino con le lenti indosso. Un po’ come succedeva in classe cinque volte a settimana, in ricorrenza delle marachelle ai danni del suo amato Juudaime, tanto che oramai bastava una sola sua occhiata a far levare baracca e burattini... neanche dietro le sue pupille crepitassero le micce di esplosivi.
    Che non lo si vedesse o meno vicino a Sawada Tsunayoshi, Gokudera Hayato c’era. Magari dietro ad un angolo, con una sigaretta in bocca in un atteggiamento atto a camuffare macchinazioni omicide, o dietro lo sportello aperto di un armadietto, pronto ad intervenire nel caso qualcuno avesse osato troppa confidenza con il Boss. Una volta Yamamoto, a conoscenza del codice d’onore che gli circolava nel corpo al posto del sangue, lo aveva persino scorto sul davanzale della finestra. Il Guardiano della Pioggia cominciava a pensare che tutta quella fedeltà fosse ben altro che semplice sentimento; era una malattia, una gelosia ingiustificata. Una mania che rischiava di far impazzire anche lui.
    Eppure quella sera a sorprenderlo non fu nulla di così eclatante. Di primo impatto si diede dello stupido per aver schiuso la bocca in un’espressione più tendente all’Urlo di Munch che a normale stupore. E tutto per una cosa così normale.
    All’apparenza.
    Gokudera lo stava aspettando. Appoggiato sul sedile di una motocicletta rossa, la testa china, una sigaretta già mezzo consumata tra l’indice ed il medio. La mano libera in tasca e il piede sollevato sulla punta erano un ostentato sintomo d’impazienza.
    “Go-Gokudera?”
    L’italiano fece scivolare gli occhi su di lui. Soffiò fumo dalle narici con l’atteggiamento del dragone irritato. “Monta” buttò lì.
    “Ah?” Pensò di essere sordo. Yamamoto si fermò sul marciapiede con lui e lo inquadrò con espressione intontita: “Che storia è mai questa?”
    “Non devi andare a conoscere una persona?”
    “Sì, ma...”
    “Non guardami così.”
    “Così come?”
     “Come un allocco” concluse Gokudera in tono di sufficienza. Gettò la sigaretta e la destinò senza pietà alla suola della scarpa. “Un allocco, Yamamoto. Ci somigli parecchio, quando fai quella faccia da coglione.”
    A Yamamoto scappò un sorriso. Con il tempo aveva imparato a tradurre il registro di quel forsennato: “baseball freak” voleva dire “amico mio”, “faccia da coglione” – e altre varianti – “volto irresistibile”. Hayato Gokudera aveva tutto un suo modo per dimostrare affetto alla gente. Che lo facesse di rado era fatto ovvio, ma quando lo faceva, allora quell’implicito “ti voglio bene” era per sempre. Perché la fedeltà era la sua regola di vita.
    “Hai finito di sorridere come un ebete? Ohi, baka...?”
    “Arigatou, Gokudera.”
    “Tsk. Sdolcinato. Schifosamente, insopportabilmente sdolcinato.” L’italiano mormorò un fior di imprecazioni mentre si voltava e passava una gamba oltre la sella, per poi impugnare il manubrio. “Allora allocco, ci muoviamo o no?”
    Detto e fatto. Takeshi montò con un balzo dietro di lui, facendo per cingergli la vita come è buona norma fare quando si viaggia in due su una motocicletta; ma Gokudera, rizzando il pelo proprio come Uri, gli schiaffeggiò le mani incenerendolo con lo sguardo:
“So che vuoi approfittarne e abusare di me mentre guido, ma non vorrai mica essere preso per un maniaco, eh invasato?”
    Yamamoto scoppiò a ridere e si affidò al telaio posteriore: “Yosh, yosh...!, tranquillo che non ho cattive intenzioni!”
    “Ah, un’altra cosa: è stato Juudaime a chiedermi di venire con te, quindi non farne una questione personale. Non sai quanto mi scoccia lasciarlo qui, circondato da emeriti idioti come Sasagawa.”
    “Uhm-uhm.”
    “Mi sembra di capire che non mi credi. Ho detto, Takeshi Yamamoto, che...”
    “Quando si parte?” scattò il moro allungando il collo oltre la sua spalla per scoccargli un sorrisetto impaziente, e Gokudera si ritrasse immediatamente emettendo quel che parve uno squittio allarmato. Poi, superato quel momento di buffa agitazione, ripescò un tono saldo senza dar peso al bollore che gli trivellava le guance e guardò avanti.
    “Vedi di non volar via, piuttosto, scemo” sentenziò freddo, e diede gas tutto d’un colpo.
    Il ruggito del motore esplose e la motocicletta saettò rapida in strada, svanendo così fra le pozze di luce dei lampioni. 
    Direzione, Shiruka.



    Sms to > Juudaime
“Mi sono messo in viaggio con Yamamoto, e mi scuso per non avervi chiesto il permesso. Sarò di ritorno il prima possibile. Abbiate cura di Voi,

vostro fedelissimo braccio destro.”



* * *


Per prima cosa. Shiruka è ovviamente un paesino di fantasia. Mi pare significhi - ho perso gli appunti su cui avevo scritto, tra altro, l'etimologia xD - "delfino bianco". Di sicuro "delfino", ma per quanto riguarda il colore non sono sicurissima. Per il resto non ho nulla da aggiungere, se non un alla prossima - o almeno è quello che si spera!
Dew_









Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Permanenza ***


CAPITOLO TERZO Permanenza



CAPITOLO SECONDO
PERMANENZA

 


    Gokudera si accese un’altra sigaretta e sbirciò l’orologio da polso: le venti e quindici. L’invasato aveva varcato quell’uscio mezz’ora prima.
    C’erano indizi elementari tramite cui si poteva testare il livello d’impazienza di Hayato Gokudera. Uno di questi, forse il più attendibile, era il numero di sigarette che si infilava tra le labbra. Ebbene quella sera, fermo sul marciapiede e appoggiato alla motocicletta, il suddetto individuo aveva perso il conto di quante volte avesse ricorso all’accendino.
    Pericolosamente nervoso.
   Erano appena arrivati a Shiruka dopo due giornate di viaggio. Lungo il tragitto avevano alloggiato in un motel, l’unica sosta che si erano concessi. D’altronde, una volta sulla stessa sella, si erano implicitamente e vicendevolmente confermati una regola: correre. Da una parte perché Yamamoto non vedeva l’ora di conoscere sua madre, dall’altra perché quel gran simpaticone del conducente non aveva la benché minima intenzione di lasciare da solo il Decimo per troppo tempo. Erano motivi assai differenti, ma la logica finale era la stessa.
    Shiruka era una bella cittadina, dopotutto. Adagiata nel letto di una grande zona verde, non troppo trafficata, isolata dalla caotica vita giapponese. In lontananza non si scorgeva altro che un mare di colline. Non avevano faticato a trovare l’indirizzo esatto, complici le indicazioni cui si erano affidati, ed erano vittoriosamente approdati davanti ad una palazzina di quattro piani sulla strada. Era stato in quel momento che Gokudera aveva deciso di aspettare fuori: Yamamoto gli avrebbe fatto un fischio per invitarlo ad entrare. Ma dopo, assolutamente dopo quel dopo che si era stabilito.
    Per lui sarebbe stato troppo spassoso assistere ad un incontro fra madre e figlio. Forse non avrebbe retto e sarebbe scoppiato a ridere. Si sarebbe sganasciato, contorto, ucciso dal gran divertimento. Sarebbe morto sul colpo.
    Ci saresti rimasto secco, Hayato.
    Ecco perché se ne stava sul marciapiede, in attesa. E veramente i figli impiegano così tanto tempo per abbracciare la madre? Mezz’ora? Forse ci si dimentica degli altri una volta che si ha realizzato il desiderio più grande. Quante belle supposizioni.
    Gokudera si scrollò le spalle e chiuse gli occhi. Riprese a fumare. Takeshi Yamamoto poteva impiegarci tutto il tempo che voleva, ma a lui, al braccio destro, non sarebbe importato nulla.
    No di certo.
 

    

    Avrebbe potuto provare di nuovo per altre mille, diecimila volte, ma una scomoda razionalità gli confermava che la porta non si sarebbe schiusa. Eppure, nonostante la realtà rimanesse quella, il suo indice continuava ad abusare del campanello, anche se il trillo si perdeva nell’atmosfera, rotolava giù dalla rampa di scale e veniva inghiottito dal silenzio.

    Ogni volta. Da mezz’ora.
    Yamamoto ripiegò l’indirizzo e se lo sigillò nella tasca del blazer. Era inutile sbirciarlo e sentirsi presi in giro da quel foglio di carta: l’appartamento rimaneva vuoto. Forse sua madre era solamente fuori casa, o forse aveva cambiato domicilio, città, nazione, mondo. Forse non era nemmeno mai esistita.
    Un secondo impulso gli vibrò sulla punta del dito. Fece per premere ancora il campanello. Fece, perché in effetti fu un tentativo.
    “Ohi, baka.
    Si voltò e ritirò immediatamente la mano. “Gokudera? Non ti avevo detto di aspettarmi?”
    “Mezz’ora, Yamamoto Takeshi” puntualizzò dunque Gokudera, fermandosi sull’ultimo gradino e inquadrandolo da dietro una nuvoletta di fumo. “E’ da mezz’ora che sei al quarto piano di questa catapecchia. Magari, a furia di suonare, potresti scassare i vicini, proprio non ti è saltato in testa?”
    Yamamoto si limitò al silenzio.
    “Proprio come ci si aspetterebbe da un idiota del baseball. Dai, andiamo.”
    “Si torna a Namimori?”
    L’italiano, che aveva già mosso il primo passo per scendere le scale, si fermò di punto in bianco. Pausa di analisi, segnalata dal colpetto d’unghia sulla sigaretta. Poi, dandogli le spalle: ”No. Probabilmente tua madre è fuori casa. Torneremo domattina. Bianchi ha un appartamento, qui a Shiruka. Possiamo fermarci lì per la notte.”   
    Era un tono neutrale, sottolineato dalle frasi brevi e concise. Più precisamente, era l’atteggiamento cui Hayato Gokudera faceva ricorso per mascherare ogni accenno d’emozione umana, e in quel caso venne celata la comprensione. Ma il tanto fiero braccio destro non era certo un campione a recitare, così come Yamamoto aveva il piccolo difetto di indovinare sempre i sentimenti degli altri.
    Il moro si concesse solo un mezzo sorriso, ma evitò di soffermarsi su quelle parole e preferì optare per una tattica alternativa:
    “Hai le chiavi?”
    A rispondergli, un soffio di fumo che annunciò un semplice: “E cosa sono le chiavi?”

    Yamamoto era ben consapevole che il classico trucco dei film americani (“perché una forcina può aprire qualsiasi serratura”) funziona sì e no tre volte su cento nella vita, per questo non si chiese nemmeno se ne avesse una a portata di mano. Come se non bastasse, l’idea di contestare l’implicita decisione di Gokudera non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello: la porta dell’appartamento di Bianchi sarebbe comunque saltata in aria e lui, da bravo complice, non avrebbe ammesso la delittuosa cooperazione. Non ritenne necessario chiedere ennesime indicazioni perché la luce assassina negli occhi del dinamitardo non ammetteva altre traduzioni.
    Scesero le scale in silenzio, uno prigioniero dei propri pensieri e l’altro dell’asprigno sapore della sigaretta. Non si guardarono sebbene i loro occhi desiderassero incrociarsi. Forse si sbirciarono di profilo per soppesare i loro diversi silenzi, ma non parlarono e non si fermarono finché non ebbero raggiunto il pianoterra della palazzina. Lì ad un tratto Yamamoto ghiacciò sul posto, con sguardo vigile e il piede ancora sull’ultimo gradino. Gokudera si voltò, indispettito dal tacere dei suoi passi:
     “Ohi, prova a tornare indietro e ti giuro che me ne torno dal Decimo seduta stante.”   
   In risposta, il moro si portò l’indice alle labbra senza muoversi di un centimetro, come se stesse ascoltando qualcosa. Una vena d’irritazione vibrò minacciosa sulla tempia dell’italiano:
    “Ti ho detto...”
    “Non senti?”
    “La disperazione dei temerari atomi sopravvissuti nel tuo cervello? Oh sì che la sento, razza di idiota.”
    “Sembra....”
    “...sembra?”
    Yamamoto piroettò improvvisamente giù dal gradino e guizzò dietro alle scale, dove si apriva una piccola rientranza scavata nel cemento. Quando la sua testa spuntò da dietro l’angolo, indirizzò a Gokudera un sorrisetto:
    “Ehi Gokudera, vieni un momento.”
  Il braccio destro soffocò uno sbuffo, alzò gli occhi al soffitto, si trascinò svogliatamente verso quell’emerito idiota del baseball che proprio come un allocco sbucava da dietro il muro. Fu quando lo raggiunse che la sigaretta fra le sue labbra si inclinò verso il basso, complice la mandibola cascatagli teatralmente dallo sconcerto.
    Nella stretta e polverosa rientranza della parete c’era una bambina rannicchiata su se stessa. Dimostrava sei o sette anni e si stringeva le caviglie fissandoli allarmata coi grandi occhi castani. Le sue pupille saettarono intimorite in quelle del nuovo arrivato, e Gokudera ebbe la scomoda, terribile sensazione d’essere arrossito. Rimase ad osservarla per altri istanti ancora prima di riscuotersi da quell’ingiustificato disagio e mordicchiare la sigaretta storcendo la bocca:
    “Che diavolo ci fai lì, ragazzina?”
    Lei scosse il capo e se lo portò tra le ginocchia senza rispondere.
    “Tsk. Pulce.
    Yamamoto scoppiò a ridere e l’italiano lo spiò con un occhio accartocciato. Tra tutte le reazioni che si aspettava da lui, quel suo atteggiamento gaio era proprio l’ultimo della lista di attesa. Come no.
    “Cos’hai da ridere, baka?
    “Tu non ci sai proprio fare con i bambini, huh?”
    “Gueh??” Fu come lo starnazzare di un’anatra. Gokudera pietrificò sul posto e rimase a guardarlo con gli occhi ora spalancati in una buffa espressione di imbarazzo. Bastarono due secondi ed eccolo che già si schiariva la voce e alzava lo sguardo con nonchalance: “Non dire stronzate.”
    Si indovinava un leggero rossore sulle sue gote. Leggero giusto perché celato in parte dalla pettinatura alla bell’e meglio. Il moro si concesse un’altra risata e tornò nelle iridi della bambina, accucciandosi alla sua altezza con un sorriso a trentadue denti.
    “Come ti chiami, piccola?”
    “La mamma mi ha detto di non fidarmi degli sconosciuti.”
    “Hai una brava mamma. Io sono Yamamoto Takeshi”, e le tese la mano. “Ora mi conosci.”
    Lei rimase un momento a guardarlo, poi abbozzò un sorriso e gli sfiorò il palmo con le dita. “Yukiko.”
    Yamamoto inclinò il capo e sorrise. Gli faceva piacere avvertire quel tocco candido e sincero. Non si scostò.
    “Cosa ci fai qui, Yukiko?”
    “La mamma non torna.”
    “E dov’è andata?”
    “Fuori. Ma non torna.”
    “Da quanto è fuori?”
    “Tutto il giorno. Non è venuta a casa.”
    “E il papà?”
    “La mamma non mi ha mai parlato di un papà.”
    Forse avrebbe fatto bene a non prendere nemmeno in considerazione l’idea che gli stava rimbalzando nel cervello. Gokudera non avrebbe mai accettato. Lui odiava i bambini, ne aveva quasi paura; paura che i sorrisi innocenti dei più piccoli gli facessero ricordare quell’infanzia che gli era stata così brutalmente portata via. Eppure non poteva andarsene e lasciarla lì.
    La mamma non torna. Il papà non c’è mai stato.
    Bastò solo il suo silenzio dopo le parole della bambina a far accendere la miccia del dubbio nell’acuto intelletto di chi gli stava alle spalle:
    “Yamamoto-Takeshi. Non-pensarci-nemmeno.”
    “Ci ho già pensato, Gokudera.”
    “Quella pulce...”
    “...verrà a casa con noi” concluse Yamamoto voltandosi e scoccandogli un sorriso radioso.
    “NO!” strillò Gokudera, inorridendo al solo pensiero. La sigaretta che con tanto coraggio era sopravvissuta a quel serrato scambio di battute fra baseball freak e bimba si arrese e cadde in battaglia, stramazzando a terra in un ultimo crepitio di cenere. “Brutto pezzo di....”
    "Yukiko-chan”, lo ignorò l’altro, volgendo un gran sorriso alla bambina. “La mamma è fuori da tanto e tu hai fame, giusto?”
    “Uhm-uhm.”
    “Allora vieni a mangiare qualcosa da noi? Il nostro appartamento è poco distante.”
    “Ya-Yamamoto!”
    Il moro inquadrò l’italiano con una festosa sbirciata: “Che c’è?”
    “Com’è che hai deciso che l’appartamento è nostro? Nostro!
    “Così, sai, di volata!” cinguettò giocondo l’altro.
    Gokudera serrò meccanicamente i pugni a tenaglia per non saltargli al collo. Trattenere gli istinti omicidi non era mai stato il suo forte. Un giorno o l’altro l’avrebbe ucciso, quell’emerito fringuello di bosco.
    Yamamoto sollevò la bimba in braccio arruffandole i capelli. “Che ne dici?” propose con l’atteggiamento di un borioso zio, e la bimba batté allegramente le mani: “Sì sì sì!”
    “Visto? Stasera avremo compagnia, Gokudera!”
    L’italiano si portò una mano in viso. Era mai possibile che quell’idiota fosse così lunatico? Solo un momento prima era sull’orlo della depressione ed ora era tornato il solito cretino di sempre. Non sapeva quanto sarebbe sopravvissuto con lui con quattro pareti attorno.
    Sarebbe impazzito.

    

    “Vedi di non addormentarti lì dove sei, allocco.”
    “Non dirmi che saresti pronto a lasciarmi il letto!” era stata la pronta risposta, seguita da una risata.
    Gokudera si era chiuso sulla terrazza senza rispondergli. Neanche mezz’ora dopo, come da previsione, Yamamoto Takeshi dormiva sul divano.
    Non erano nemmeno le nove di sera quando l’italiano, lanciando un’occhiata alla portafinestra, realizzò che l’idiota era annegato nel mondo dei sogni nonostante la raccomandazione. Tra le sue braccia, la piccola Yukiko, intenta a condividere quel pisolino fuori permesso. Molto probabilmente era stata la cena abbondante a conciliare il sonno.
    Tornò a guardare la strada chiazzata dalla luce dei lampioni. Gli aveva esplicitamente consigliato, o meglio ordinato, di non appisolarsi in salotto non tanto perché aveva intenzione di cedergli la camera da letto – ma nemmeno per scherzo! -, quanto perché l’eventualità dell’abbiocco improvviso gli avrebbe imposto di comportarsi da bravo coinquilino.
    L’italiano pensò. Rimuginò. Tentennò. Sbuffò. Alla fine si arrese. Gli pareva di aver scorto qualcosa a riguardo sulla sedia della cucina. Cancellò dalla mente gli ultimi ripensamenti e rientrò.
    Non gli aveva mai augurato la buonanotte con quel gesto che di norma si dedica più ad un figlio o ad un fratello, eppure quando adagiò la coperta sul dormiente Yamamoto si sentì quasi bene, tanto che per non destarlo si affidò ad una delicatezza che nemmeno credeva di possedere. Rimase a guardarlo.
    Era veramente così bello riposare tra le sue braccia? Era incredibile la serenità che si leggeva sul volto di entrambi, baseball freak e Pulce, come se se la fornissero a vicenda. Anzi, come se la condividessero. Storse il naso a quel verbo balenatogli in mente. Com’era possibile condividere la felicità? Com’era possibile, semplicemente, trovarla persino nella delusione? Yamamoto era venuto da Namimori per incontrare la madre, senza trovarla, eppure in quel momento era quello di sempre. Il suo respiro scandito e tranquillo, le labbra appena schiuse, i capelli neri così puerilmente arruffati sul bracciolo del divano. E infine quel delizioso particolare, insomma quel leggero rossore, indizio di stanchezza, ad accendergli le gote.
    Takeshi era felice nella disperazione più assoluta.
    Gokudera sentì di odiarlo. Lo odiava e al  tempo
stesso si stava impegnando per ammettere a se stesso di non volergli bene. Forse per senso del dovere. Lasciò che la coperta coprisse anche la bambina, che contorse il naso prima di cercare rifugio sotto il mento di Yamamoto, e poi si sedette sul tappeto, appoggiato proprio al divano, distendendo il braccio sul cuscino. Non sapeva perché si fosse accucciato lì sotto, sta il fatto che rimase ancora a pensare a come quella strana creatura di nome Yamamoto Takeshi riuscisse a mentire così abilmente con il sorriso.
    A differenza di lui, che di sorrisi non sapeva nemmeno farne.



* * *

Il nome Yukiko è il primo che mi è saltato in testa. "Yuki" significa "neve" e "-ko" è una delle classiche terminazioni per
i nomi giapponesi femminili. Avevo tanta voglia di inserire questo personaggio, dal momento che mi piaceva l'idea che
Yamamoto e Gokudera dovessero vedersela con una bambina proprio come dei... posso dire "genitori"? Lo so, in questo
momento Hayato vorrebbe uccidermi xD Nota sull'appartamento di Bianchi: in teoria ha 17 anni, ma non ho tenuto conto
dell'età, quindi in ogni caso l'appartamento è registrato a lei (?) Perdonatemi questa mia libertà.

Nel prossimo capitolo, una notizia da Namimori rischia di incrinare i già dubbi rapporti di pace fra i due coinquilini.

Alla prossima!, e grazie a coloro che hanno recensito ed aggiunto
la storia fra le seguite e - doppiamente grazie - fra le
preferite <3

Dew_

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Sciacallo ***


CAPITOLO TERZO





CAPITOLO TERZO
SCIACALLO


    La prima sensazione fu quella di un suono ovattato e arido, assorbito dalla foschia della stanchezza.
    Ritmato.
    Toc toc. Tuc tuc.
   Gokudera Hayato aprì piano gli occhi per ammortizzare l’impatto con la luce bianca del salotto. Gli ci vollero pochi secondi per intuire d’essersi appisolato sul tappeto, seduto lì dov’era contro al divano. Seguì il suo primo istinto e si lanciò un’occhiata alle spalle, scostandosi dal cuscino con pungente rapidità: Yamamoto e Yukiko stavano ancora dormendo e non sembravano intenzionati a svegliarsi. Soffocò uno sbadiglio e si alzò sulle gambe infiacchite a causa dell’orrida posizione in cui si era fatto cogliere da Morfeo. Si era completamente dimenticato di ciò che lo aveva destato quando alle sue orecchie giunsero di nuovo quei colpi:
    toctocTUCTUC!, protestò vivamente la porta.
    Già, la porta. Qualcuno stava bussando. Squadrò l’orologio da parete e la sua mente tradusse “ventidue e trenta”. E chi aveva avuto la strabiliante idea di venirli a trovare a quell’orario? Si diede una scrollata ai capelli dirigendosi pigramente all’ingresso.
    Tanto per onor di cronaca, era stato facile violare l’appartamento di sua sorella. Gli era bastato un piccolo candelotto per far saltare solo la serratura, e una volta dentro, per assicurarsi di “fottere eventuali ladruncoli” (come aveva annunciato lo stesso Mr. Smokin’ Bomb), aveva agganciato una piccola asse scorrevole sulla porta, così da barricarla qualora ce ne fosse stato il bisogno. Insomma si era comportato, almeno a detta di quel credulone di allocco, come un vero genio.
    Ma mentre faceva scorrere oziosamente la sbarra di legno, Gokudera non poteva immaginare che la sua grande opera sarebbe stata letteralmente distrutta. Non poteva, non quando riteneva d’aver svolto un lavoro coi fiocchi; non quando non si aspettava di vedere lui. Il tempo di aprire un varco giusto per buttar fuori la testa e azzardare un: “E chi cazz...?”
    Esatto, quest’attimo.
    Un’onda anomala, forse eccitata da quella lama d’ingresso, gli si abbatté addosso con l’educata intenzione di buttar giù la porta. Un: “Bianchi-chuaaa...!” , un: “Eek!” del malcapitato inquilino, e Gokudera franò sul pavimento accompagnato dal botto della porta che colpiva il muro.
    E dal peso di qualcuno sui fianchi.
   “...uaaa-ARGH!” inorridì Shamal, guizzando immediatamente in piedi nel momento in cui si trovò a cavalcioni sopra al suo allievo. “Accidenti, un uomo...! Un... Ah, Hayato!”
    “Sha-Shamal!” raggelò l’italiano, incollato al pavimento dallo sconcerto. “Adesso mi vuoi spiegare perché mi sei saltato addosso? E togliti quella mostruosa espressione dalla faccia, schifoso maniaco!
    “Schifos...? Ah!”, e ricompose le labbra così oscenamente arricciate nel viscido tentativo di un bacio. “Avanti Hayato, non ho fatto apposta, lo sai... io non vado mica con gli uomini” puntualizzò scoccandogli un sorrisino.
    Gokudera si rimise in piedi e lo inquadrò truce. Stava già per scostare i lembi della camicia e pescare tre candelotti per mano quando una risata cristallina lo gelò sul posto. Si voltò con la lentezza di un automa e un occhio incartocciato dall’irritazione, macinando tra i denti il primo nome che gli saltò in mente:
    “Yamamoto-Takeshi. Che ti ridi?”
    Il moro si gustò tutto il divertimento senza fare troppi complimenti e sventolò la mano soffocando gli ultimi spasmi d'ilarità: “Lascia stare, lascia stare...”. Persino Yukiko, che per un momento se n’era rimasta intontita, si unì alla sua infantile felicità e cominciò a battere le manine, incurante del chiassoso risveglio.
    Shamal si rassettò un ciuffo castano dagli occhi e si ficcò una mano in tasca con tanto di spaventosa nonchalance. “Hayato”, riprese in tono roseo, “non dovresti prendertela così ogni volta. Poi rischi un esaurimento nervoso, fidati di un dottore.”
     “Tu sei un dottore solo quando ti fa comodo.”
    “Bella testolina che hai. E io che pensavo di trovare Bianchi-chan. Dalla strada ho visto le luci accese e ho pensato ci fosse lei in casa... non è qui, uhm?”
    “Razza di idiota, quella non si scollerebbe da Reborn-san neanche con una dinamite nelle mutande” lo aggredì acido Gokudera. “Dove vuoi che sia se non a Namimori? Ma dico, tu la testa la usi solo per andare a donne?”
    “Ah-ah.” L’indice dell’uomo scattò da destra a sinistra in un dondolio di ammonimento. “Qui ti sbagli. Cioè, almeno sulla penultima cosa. Sono venuto fino a Shiruka per accertarmi che fosse veramente partita.”
    “Partita?” si allacciò Yamamoto, scivolando a sedere sul divano ed arruffandosi i capelli con espressione assonnata. “Che intendi?”
    “Per l’Italia. A quanto pare i Varia hanno avuto dei problemi e Sawada e compagnia sono dovuti part...”
    “Il Decimo?” si precipitò Gokudera. “Il Decimo è partito per l’Italia?”
    “Non hanno avuto il tempo di avvisarvi, allora. Ebbene”, e Shamal prese un gran respiro chiudendo gli occhi. “Mi è stato detto che sarebbero partiti ieri. Non chiedetemi altro perché non saprei rispondervi.”
    Ci sono cose che un braccio destro detesta, e non è il non essere informato dal proprio boss, anzi: una spalla che si rispetti sa bene che se non viene coinvolta, allora c’è una ragione che ha convinto il superiore a non riferire nulla. Ma un ottimo collaboratore, per essere appunto ottimo, deve conoscere alla perfezione colui per il quale lavora, e di conseguenza riuscire facilmente ad indovinare la suddetta motivazione. Questo, in breve, il requisito minimo dell’impeccabile right-hand man.
    E Hayato Gokudera realizzò ancor prima che Takeshi Yamamoto potesse anche solo pensarci. Questa consapevolezza, che gli lampeggiò nella mente nero su bianco, ebbe il potere di pietrificarlo sul posto per una buona manciata di secondi. Poi, a imitazione di un copione hollywoodiano, il tanto fiero Smokin’ Bomb venne investito da un fremito incondizionato che gli impartì di lasciare il salotto a passo di marcia.
    Quell’uscita di scena fu ufficializzata dal perentorio colpo della porta dello scantinato.
    Yamamoto sbatté le palpebre, fissando inebetito là dove il coinquilino era scomparso. “Go-Gokudera...?”
    “Hayato, Hayato...” commentò Shamal, scuotendo il capo con un sorrisetto. “Il solito.”
    “Che diamine gli è preso? ...Shamal?”
    “Perché siete qui a Shiruka?”
    “Come?” Il moro non pescò subito la finalità della domanda. Si grattò la fronte a labbra arricciate:     “Ehm... cose personali.”
    “Qualcosa che ha a che fare con la famiglia?”
    “Diciamo che... sì, è abbastanza urgente.”
    “Come immaginavo.” Pausa di riflessione. Poi, a spalle alzate: “Penso proprio che Sawada abbia preferito non dirvi della partenza per non farvi rinunciare a questo vostro impegno. Se vi avesse informati, sareste andati con lui. E Hayato...”
    “...per colpa di questo mio viaggio...”
    “...non ha potuto seguire il suo amato Juudaime” concluse Shamal in tono smeraldino. “Ragazzo mio, la convivenza non promette bene.”
    Yamamoto si azzannò il labbro, si passò una mano sul collo. Gokudera non gliel’avrebbe mai perdonato:     Tsuna si era allontanato
senza di lui dal Giappone e non si stava parlando della casa dall’altra parte della strada. Era più corretto dire dall’altra parte del mondo. In Italia, così lontano, dove tra l’altro, a detta di quel dottore casanova, le cose non andavano per nulla bene.





    “Gokudera.”
    “...”
    “Ohi, Gokudera? So che sei lì dentro.”
    “Ti sei per caso appostato fuori?”
    “Sì. No, forse...”
    “Ti consiglio di non scassare se non vuoi che ti faccia saltare in aria, sfigato del baseball!
    La porta sussultò all’improvviso, complice un colpo ben assestato dall’interno, e Yamamoto balzò via con il cuore in gola. “Avanti Gokudera, ne parliamo! Io... mi dispiace!”
    Gli rispose il silenzio. Shamal, che se n’era rimasto spettatore di quel vano tentativo, si passò in rassegna le unghie con espressione desolata.
    “Ma insomma, aiutami a farlo uscire!”
    “Stai perdendo il tuo illustre autocontrollo, Yamamoto Takeshi?”
    "Ehm... no.” Il moro concepì un fastidioso bollore sulle guance. “M-ma... come posso dire, voglio parlare con lui... scusarmi. La colpa è solo mia.”
    “Lo conosci, no, il tuo amico? La sua testardaggine è insuperabile, credimi. Non uscirà.”
    “Shamal...”
    “Sarà meglio che vada, tanto Bianchi-chan non c’è.”
    “Eh? Come?, così di punto in bianco? Ma Gokudera...!”
    “La smetti di preoccuparti per lui?” Shamal si era fermato sull’uscio, il tono improvvisamente più arido. Al che Yamamoto, ghiacciandosi di colpo, avvertì l’incomoda sensazione di essere nel torto. Di certo non si aspettava quella rude presa di posizione, perché in quel momento, testimone il fremito nelle iridi, le labbra gli tremarono un poco:
    “Preoccuparmi... per lui?”
    Riprendere le parole dell’italiano fu l’unica cosa che scoprì di saper fare. L’uomo sulla soglia si umettò le labbra in un gesto apatico. Non l'aveva mai visto così serio prima d'ora.
    “Hayato ha paura di tutto l’affetto che gli riservi.”
    “Paura... dell’affetto?”
    “Allora hanno ragione tutti quanti, a dire che sei troppo tenero.”
    “Io... tenero?”
   “Non affezionarti a Hayato”, concluse criptico Shamal, “e gli riserveresti solo la fatica di capirti. Fagli questo favore, se veramente sei suo amico.”
    La porta si chiuse strozzando quel fragile scambio di battute. Forse Yamamoto avrebbe fatto bene a prendere in considerazione quel consiglio, e la verità è che fece proprio così; ma chiedere a uno come lui di ignorare i sentimenti altrui è come chiedere ad un lanciatore di giocare in battuta.
      Non funzionerebbe.
     Baseball Freak aveva troppo cuore. Baseball Freak era troppo sentimentale, troppo affezionato. E forse Baseball Freak era anche troppo bambino. Ma quest’idiota si piaceva per quello che era e mai avrebbe cambiato le regole con cui era sempre vissuto: sport e amici. Faceva parte di un codice d’onore, di una risolutezza che mai e poi mai avrebbe abbandonato. Per lui era impossibile aver paura dell’affetto, non quando uno dei suoi fondamenti era proprio l’amicizia. Shamal gli aveva chiesto troppo e per questo non gli diede retta.
    Gokudera non sarebbe uscito per un bel po’. Era stato anche furbo a pescare la chiave dello scantinato dal mobile vicino alla porta, così da potersi barricare in quegli scarni metri quadrati di buio totale. Molto probabilmente avrebbe adottato la tecnica di sopravvivenza degli sciacalli, optando per veloci perlustrazioni notturne al di fuori del nascondiglio in cerca di qualcosa da sgranocchiare, prima di tornarsene nella tana alle prime luci del giorno. Nella testa del Guardiano della Pioggia balzò l’idea di sfondare la porta, ma per un motivo non ben identificabile sapeva anche che sarebbe stata una pessima scelta. Non perché impossibile, dato che il legno non era nemmeno eccellente in resistenza, quanto perché quell’uscio sigillato assunse ai suoi occhi una valenza particolare ed inaspettata.
    Erano i pensieri di Gokudera. Il suo mondo, i suoi rimorsi, i suoi silenzi. E secondo questa teoria, Yamamoto mai si sarebbe permesso di irrompere come un barbaro in quell’angolo di intimità. Così scoprì anche di capirlo, almeno un poco, tanto che non tentò nemmeno un nuovo dialogo.
       Ci fu solo una cosa diversa.
    Per un giorno intero, fuori dalla porta dello scantinato, si intervallarono piatti caldi in attesa di un silenzioso cliente troppo cocciuto per permettersi anche solo un assaggio. Eppure la mano che li cucinava non si stancò mai di prepararne di nuovi, un po’ come una battitore che, ostinato anch’egli, mai si stanca di colpire impeccabilmente una pallina dietro l’altra.
    Si trattava, tutto sommato, di un’affettuosa ed insolita gara di testardaggine.

 

    Quasi ventiquattro ore di permanenza ininterrotta nella tana portarono lo sciacallo alla resa. Furono i piagnucolii dello stomaco e l’odore della polvere a costringerlo ad uscire allo scoperto. Per non ferire oltremodo il proprio orgoglio, quella strana razza di canide dalle fattezze umane mise fuori il muso solo a mezzanotte passata: i bisogni fisiologici chiamati “fame” e “sete” si erano fatti insistenti fino al punto di divenire non più ignorabili. E poi, a dirla tutta, la vescica s'era fatta pesante.
    Una volta sporto il naso oltre il ristretto spiraglio che si era concesso, l’animale annusò cauto l’atmosfera.
    Silenzio.
    Si guardò circospetto attorno.
    Assenza di esseri viventi.
    Mosse un primo passo.
    Nessuna reazione dall’ambiente esterno.
    Così, come se nulla fosse successo, il fiero Hayato Gokudera se ne uscì quatto quatto dallo scantinato. Stava già per zompare verso la cucina – dove sicuramente avrebbe trovato qualcosa da sgranocchiare – quando si rese conto d’aver rischiato di rovesciare una ciotola di riso lasciata nell’angolo vicino alla porta. Storse il naso e accartocciò le labbra in un’espressione di critica.
   Quell’idiota del baseball gli aveva sul serio preparato un piatto caldo dopo l’altro nella speranza di farlo uscire dal nascondiglio. Un po’ come il cacciatore che piazza le tagliole per i leprotti. Così si spiegò gli odorini invitanti che erano filati alle sue narici attraverso la serratura. Un calcio ben assestato, un rotolio ovattato, e il pasto ancora tiepido servì a sfamare le assi del pavimento. Ma che andasse al diavolo, Yamamoto Takeshi.
    Una volta in cucina accese solo la piccola lampada sul bancone e frugò nella dispensa. Sapeva che Bianchi si era trattenuta a Shiruka circa una settimana prima e forse era rimasto qualcosa. Non saper cucinare era certo un peccato, in quanto avrebbe dovuto far affidamento solo su pane e fette biscottate, ma questa era sicuramente la soluzione migliore perché mai si sarebbe presentato in ginocchio da quell’allocco ritardato per reclamare un pasto caldo. Questione d’orgoglio. E a proposito di allocco, i suoi occhi guizzavano ad intermittenza verso il corridoio, pronti a catturare il benché minimo movimento estraneo ai piani. Anche se di certo l’idiota stava dormendo in camera, la prudenza rimaneva di regola.
    Con mani febbrili acciuffò un pacchetto di grissini e si ritirò dalla mensola. Bastò una sensazione, un lieve strattone ai jeans consunti, e il tanto sospirato nutrimento gli scappò dalle dita finendo a terra. Gokudera si voltò, abbassò lo sguardo. Gli servì un attimo di analisi perché i suoi occhi venissero scossi da un fremito assassino:
    “Che vuoi, pulce? ...Ma cazzo, sei ancora qui?”
    La piccola Yukiko, con indosso solo un paio di mutandine color pesca, rimase a fissarlo ancora per qualche istante con le labbra appena schiuse. Per sua fortuna non aveva inteso tutto della domanda, tanto che in un pigolio si limitò a chiedere: “Hayato è arrabbiato?”
    “Chi ti ha detto il mio nome?”
    “...”
    “Quel cretino del baseball?”
    “Chi è?”
   “Sì, ho capito, è lui” Gokudera trattenne un ringhio e si chinò per raccogliere il misero spuntino. Non aveva proprio voglia di parlare con quel microbo, ma la sensazione d’essere fissato da quegli occhioni incredibilmente espressivi gli rodeva lo stomaco. Era impossibile sostenere il peso di quelle iridi immobili ed insistenti che guardavano solo lui reclamando un po’ di attenzione dal basso. “Ohè pulce”, ricominciò dunque in tono neutrale, mordendo con ferocia la carta per poter aprire il pacchetto, “il cretino è a dormire?”
    “Chi?”
    “L’allocco... il fringuello... Yamamoto, o come diavolo lo chiami.”
    Yukiko fece di sì con la testa.
    “E tu non dormi? Ma lo sai che ore sono?”
    “Non ci riesco.”
    “Ah, ottimo. Ti pare un buon motivo per ronzarmi attorno? Anzi, dovremmo consegnarti alla polizia, non è possibile che tua madre non sia ancora tornata” le rinfacciò aspro lui. Si infilò un grissino tra le labbra mentre già, quasi quel gesto gli avesse ricordato una fonte di nutrimento ancor più importante, apriva un cassetto e ne pescava un accendino e un pacchetto di sigarette. Era da ore che non si faceva una fumata a dovere, tanto che in quel momento la voglia di masticare il sapore asprigno del fumo era più forte della fame e della sete messe assieme. Il silenzio che ricevette in risposta lo incuriosì non poco e l’occhiata di striscio che indirizzò alla bambina fu l’indizio di uno stringato eppur indiscutibile desiderio di sapere:
    “Allora, pulce?”
    “Takeshi è agitato.”
    “Solo per questo non riesci a dormire?”
    “Uhm-uhm”
    “Dormi in salotto, no?”
    "Ho paura del buio.”
    “Tsk, c’era da immaginarselo.” Gokudera si concesse un ultimo grissino prima di accendersi una sigaretta e soffiare fumo dalle narici. “Tutti i bambini hanno paura del buio, come hai fatto a non pensarci, Hayato?”
Il suo era un tono di critica verso se stesso, ma ancora una volta il silenzio che seguì riuscì a ribaltare il suo intento di indisponibilità. Incrociò di sfuggita gli occhi di Yukiko:
    "Hai detto che è agitato?”
    “Uhm.”
    “Quello non riesce a stare fermo neanche mentre dorme.”
    Era una conclusione sbrigativa, frettolosa di chiudere quello scambio di battute alla luce soffusa della cucina. Eppure una traditrice parte della coscienza gli bisbigliò che in fondo era inutile negarlo alla razionalità; negare che sì, spesso aveva visto Yamamoto dormire - spesso Juudaime li invitava a casa sua per la notte -, e mai si era agitato nel sonno, come se durante la giornata desse sfogo a tutta quella sua grinta spaventosa. Insomma l’idiota, quando riposava, era sempre tranquillo. E allora perché la pulce gli aveva appena detto che quella notte non era così?

    Ma soprattutto... perché ci stava pensando?    

    Gokudera mordicchiò la sigaretta e incitò la bambina con delle leggere spinte alla schiena: “Su su, muovi le zampe... Ti ci accompagno io, a letto, ma vedi di restarci.”
    Yukiko obbedì senza spiccicar parola e si aggrappò alla sua camicia per accertarsi di non restare indietro. Il ragazzo le scoccò un’occhiataccia come di rimprovero, subito sostituita dalla classica espressione indolente che sfoggiava nelle occasioni più imbarazzanti. Non era nei suoi piani camminare con una pulce incollata addosso, ma quello era un sacrificio necessario nonostante odiasse ammettere – e si rifiutò categoricamente, almeno di prima battuta, di farci anche solo un pensiero – che quell’inconveniente era di fatto indispensabile per il raggiungimento del vero obiettivo.
    Perché buttare un’occhiata in camera da letto non era una brutta idea, no? Era diventato così schifosamente sdolcinato, sotto l’influenza di quel fringuello di bosco, da preoccuparsi persino per gli altri, nevvero, Gokudera Hayato?
    Si fermarono sull’uscio semiaperto. La sonnolenta luce della strada filtrava attraverso le tende e si scioglieva nel silenzio solo apparente della stanza.
      Solo apparente.
    Yamamoto dormiva. Sdraiato su un fianco, la finestra alle spalle, le coperte raccolte disordinatamente poco al di sotto dell’ombelico. Gokudera si sfilò la sigaretta di bocca e soffiò per sfumare la fastidiosa nuvola di fumo che non gli permetteva una visuale dettagliata. I suoi occhi si assottigliarono.
     C’era qualcosa che non andava, notò. Glielo leggeva sulle labbra, serrate e febbrili, come lo si indovinava sul lucido velo di sudore che gli imperlava viso e busto; persino i suoi occhi fremevano, accompagnati da  un’insana espressione di disagio. Fu allora che venne il dubbio.
  “Ohi”, bisbigliò Gokudera, senza scostare lo sguardo dal moro, “di’ un po’, oggi è uscito di casa? Stamattina, ad esempio?”
    “Mi ha detto che doveva fare una cosa, però è rimasto con me tutto il tempo.”
    “Quindi non è uscito?”
    Yukiko negò in silenzio, la mano ancora aggrappata al lembo della camicia.
    “Tua madre non è ancora tornata, pulce?”
    “No.”
    “La sai una cosa? Anche Yamamoto aspetta che qualcuno torni.”
    “Anche lui?”
   “Uhm. Mi aspettavo che uscisse per incontrare questa persona, ma a quanto pare ha preferito aspettare che fossi io quello ad uscire.”
    “E lui chi aspetta?”
    Gokudera si riportò la sigaretta fra le labbra e in quel momento nei suoi occhi si riflesse una strana luce abilmente mascherata dal soffio di fumo dalle narici. Con l’esperienza aveva imparato a nascondere i sintomi di una debolezza da sempre affrontata ma mai sconfitta... Un piccolo difetto nella fierezza in cui si nascondeva fin da bambino. “Sua madre” si pugnalò senza pietà. “Anche lui aspetta questa lei. La sua è malinconia, Yukiko: non farti incantare dai suoi sorrisi.”
    “Il fratellone si comporta così perché è triste?”
    “Molto. E sorride sempre per lo stesso motivo.”
    “Ma anche tu sei triste. Aspetti la mamma come noi?”
    A lui scappò un sorriso. Ma sì, forse oramai ne valeva la pena. Facciamoci del male in compagnia. Non sono da condividere, i sentimenti?
    “La mia è in ritardo di qualche anno. I ritardi sono una brutta bestia, lo sai, pulce? ...Nah, non importa, adesso è troppo tardi. Semplicemente non è tornata fino ad ora e non penso tornerà più.” Si scostò dallo stipite e indirizzò alla bambina uno sguardo incolore sfumato dallo schizzo mal riuscito della serenità: “Fila a letto, adesso. E non dire al cretino che sono uscito.”
    Yukiko scivolò in camera senza dir altro. Si arrampicò sul grande letto e si accoccolò al petto di Yamamoto. A Gokudera sembrò di scorgere un sorriso sulle labbra di quel meraviglioso idiota, ma non volle restare a guardare. Fu a quel punto che il velo sfuggente del fumo lo salvò dal desiderio di coricarsi lì con loro, come una piccola, amorevole famiglia.


* * *

Lo dico in forma ufficiale: Yukiko non è la sorellastra di Yamamoto x) So che ad una prima analisi del caso
potrebbe parere così, ma preferisco bruciare
in partenza le vostre speranze per scagionare l'apparente prevedibilità
della fic.
E ancora. Questo capitolo presenta evidentemente Gokudera in vesta di protagonista. Mi piace, avrete notato,
ricalcare il suo disagio - si trova in una situazione a lui estranea. Eh sì, Haya-kun è un irresistibile
dessert per noi amanti dell'introspezione malinconica xD

Nel prossimo capitolo, Yamamoto prenderà un'iniziativa che rientra decisamente nel suo stile.

Ne approfitto per avvisare che aggiornerò molto probabilmente il prossimo weekend, data l'ingente
quantità di studio che i prof ci hanno rifilato ;w; Il prossimo capitolo è scritto a metà, quindi dovrò riprendere
in mano la stesura.
Pareri negativi e/o positivi sono, 'manco bisogno di dirlo, ben accetti.
Alla prossima, e grazie a coloro che hanno aggiunto in seguite/preferite.
Benvenuti a bordo! <3

Dew_


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Combustione ***


CAPITOLO QUARTO




CAPITOLO QUARTO
COMBUSTIONE




    L’appassionato abbraccio di una doccia fredda spazzò via tutti quegli insani propositi. Dormire insieme a loro? Magari far suo il privilegio di Yukiko? Il privilegio di abbracciare l’idiota, avvertire il suo respiro, il suo calore umano...
    Doccia gelida, ghiacciata, da ipotermia. Obiettivo: sopprimere tutti quegli stupidi ed infondati pensieri. Un altro quarto d’ora sotto al massaggio di quelle dita d’acqua e la realtà tornò al proprio posto. Gokudera uscì dalla cabina coi piedi ben piantati a terra. Basta pensare ai problemi altrui, basta confermare che sì, Yamamoto aveva preferito aspettare lui al posto della madre. Lanciò varie occhiate all’orologio per tenere sotto stretta vigilanza il tempo a disposizione e decise che c’era ancora la possibilità di qualche altro spuntino. Si vestì alle bell’e meglio con un paio di jeans macilenti e una canottiera rossa per poi darsi una scrollata ai ciuffi ribelli davanti allo specchio.
    Sveglia Hayato. Il Decimo sta bene. Tu stai bene. Tutto va a meraviglia.
    Ebbe dei dubbi sull’ultimo pensiero quando sentì la porta del bagno aprirsi e chiudersi con un colpo secco. Si voltò di scatto con una mano ancora tra i capelli e la sgradita sensazione d’essere arrossito.
    Eccolo, l’idiota. Vivo e vegeto, sveglio, gli occhi solo per lui. Si era chiuso l’uscio alle spalle e proprio con le spalle ci si era appoggiato con una severità riflessa persino nello sguardo. Che non volesse farlo fuggire, che lo volesse semplicemente tenere in trappola? Ma immancabilmente, a bocciare quell’espressione ferrea, ecco anche il consueto sorrisetto da cretino, seguito da un giocondo cinguettare:
    “Era ora che uscissi, Gokudera.”
    Così, semplicemente. Come se nessuno si fosse mai barricato nello scantinato.
    “Ohi”, soffiò l’italiano in risposta dopo un momento di silenzio, storcendo il naso in un gesto d’irritazione, “che vuoi?”
    “Ho visto che uscendo hai rovesciato la ciotola di riso.”
    “L’ho fatto di proposito, invece.”
    “Allora non hai fame?”
    La mano di Gokudera, ghiacciatasi tra i capelli a causa della visita inaspettata, guizzò a scostare un ciuffo dagli occhi. “No. E comunque non mi va di parlare. Per colpa tua il Decimo è partito senza di me.”
    “Uhm” confermò Yamamoto senza perdere il sorriso. Fu giusto un attimo, perché il secondo successivo sul suo volto calò un velo di sincera amarezza. “...Gomen, Gokudera.”
    Se c’era una cosa che inspiegabilmente non sopportava, questa era quel suo atteggiamento afflitto. Inspiegabilmente perché in effetti non aveva motivo di sentirsene infastidito, dato che a fargli rabbia erano più che altro i sorrisi infantili che quasi sempre gli venivano rivolti. La verità però era che lo irritavano entrambi i comportamenti. L’italiano soppesò il silenzio colpevole che calò tutt’intorno prima di far schioccare la lingua:
    “Ti ha svegliato la pulce, vero?”
    “A quanto pare.”
    “Te ne stai fermo davanti alla porta perché ti illudi di tenermi in trappola?”
    “Prima mi ascolti e poi puoi uscire”, e schiuse un sorrisino di scommessa.
    “E se non volessi ascoltarti?”
    “Tanto lo sai bene, che sei fisicamente inferiore.”
    Gokudera avvertì un prurito accendergli le guance. “Cos’hai detto?”
    “Lo sai”, confermò il moro scoccandogli uno sguardo gaio, le mani così puerilmente dietro alla schiena e il busto scoperto piegato di poco in avanti. “Lo sai benissimo, Gokudera. Anche volendo, non riusciresti a superarmi.”
    La sua espressione non aveva nulla di arrogante, anzi era specchio di un’amichevole competizione. Prima il sorriso, poi il gomen, poi eccolo di nuovo così spontaneo. Quel gioco di recita era una congiura ai sentimenti che reclamavano di uscire; sentimenti come la delusione, il rammarico, la tristezza e tutte quelle altre sfumature di dolore che parlano con le lacrime. Ma alle lacrime Yamamoto Takeshi non voleva lasciar libero il palcoscenico, e così continuava a fingere con quel sorriso, ad uccidere il vero se stesso con tutta quell’odiosa farsa.
    Lo odiò. Lo detestò a morte e in quell’istante desiderò aiutarlo a star male. Piangi, idiota, piangi e sfogati fin quando vuoi; ma smettila di farmi e farti del male. Questo furibondo pensiero passò da mente a mano in poco meno di un secondo.
    Il pugno strappò l’aria piantandosi a un filo dalla nuca di Yamamoto, che ebbe appena il tempo di scostarsi per avvertire il sibilo tagliente del colpo. La porta sobbalzò. Il guizzo di un battito di ciglia e il moro gli aveva già afferrato il polso scostandosi di colpo. Gokudera storse il viso in un ringhio inviperito quando le sue spalle vennero sbattute vicino alla maniglia: l’idiota non era stato certo delicato e non sembrava intenzionato a lasciargli le mani, ben inchiodate sull’uscio, crocifisse, quasi, da quell’improvvisa grinta felina. La sua arroganza, quando prendeva il sopravvento, aveva sempre un verbo come regola: dominare. Riuscendoci, tra l’altro.
    Dalla vicinanza riusciva persino a contargli le ciglia. Durò solo un momento.
    La presa di Yamamoto si ammorbidì di punto in bianco, così come l’espressione ferma venne sfumata dall’abbozzo di un sorriso:
    “Gokudera, te lo ripeto... mi dispiace.”
    Sentiva il suo fiato corto sulle labbra. Forse era veramente così; forse il meraviglioso idiota aveva bisogno di sorridere per chiedere scusa. Ma sorriso o meno, quel suo rammarico era sincero. D’altronde anche lui teneva a Tsuna, anche lui si preoccupava per quell’imprevisto viaggio in Italia. L’italiano rimase un attimo a guardarlo, incapace di articolare verbo, prima di voltare il capo e abbassarlo un poco, con fare apparentemente scocciato, quando in realtà quel gesto era il tentativo di nascondere il rossore sulle guance.
    “S-sì... va bene, ti perdono.”
    Aveva balbettato e questo bastò per fargli bollire ogni angolo del corpo. Un poco si vergognava, di questo suo difetto che sempre saltava fuori nei momenti meno opportuni. E essere a pochi millimetri da quello sfigato non era certo una situazione a favore. Quale poi fosse il motivo per arrossire proprio non lo aveva ancora capito; oppure, più che non capirlo, si rifiutava di riconoscerlo. Molto probabilmente aveva accettato le sue scuse per aggirare quella condizione il prima possibile... Togliamo il “molto probabilmente”. Viva la sincerità, Gokudera Hayato.
    Yamamoto gli lasciò i polsi e indietreggiò di qualche passo. Tornò a sorridere come sempre. “Di’ la verità.”
    “Co-cosa?”
    “Hai fame, vero?”
    Non poteva dargli vinta anche questa battaglia. L’aveva fatto arrossire, l’aveva zittito, l’aveva praticamente dominato. Un’altra sconfitta sarebbe stata umiliante. “Ti ho detto di no”, rispose in tono fermo, senza alzare lo sguardo.
    “Yosh, andiamo in cucina!”
    “Ti ho detto che non ho fame, baka!”
    Il moro rise e sventolò la mano. “Ti va bene un po’ di pasta? Ho visto che in dispens...”
    “NO!”
    “Come la chiamano gli italiani? ...Spaghettata a notte fonda?”
    “Pezzo di...!
    “Abbassa la voce, Gokudera, Yukiko-chan dorme.” Yamamoto lo scostò gentilmente dalla porta afferrando la maniglia. Sorrideva. “Su, andiamo.”
    Per una volta Gokudera non vide stupidità e voglia di fare il bambino, in lui. Notò un piccolo indizio, forse l’innocente sensazione che Yamamoto Takeshi gli volesse veramente bene.
    E neanche a farlo apposta, la pasta che mangiò qualche minuto dopo aveva il sapore dell’amicizia.





    Se Gokudera si fosse svegliato in quel preciso istante, davanti a quegli occhi nocciolati che lo fissavano con attenzione inquietante, avrebbe centrato il naso di Yamamoto Takeshi con un pugno tanto potente da rompergli mandibola e setto nasale in un sol colpo. E questo nella migliore delle ipotesi. Ma l’italiano non alzò le palpebre, non arricciò il naso, non mosse nemmeno un sopracciglio e continuò a dormire lì dov’era, sul divano, con una mano sotto alla guancia e le labbra schiuse nei sospiri del sonno più profondo, ignaro dello scomodo spettatore che vegliava sulla sua stanchezza.
    Yamamoto aggiunse il pugno alla lista delle possibili conseguenze, ma non si curò di prenderlo in considerazione. Se ne rimase pertanto accucciato davanti al divano, braccia abbandonate sulle ginocchia flesse e espressione inesistente. Conosceva il suo volto a memoria, troppo spesso aveva approfittato di momenti simili per studiarlo nei miei dettagli; eppure trovava che il taglio delle orecchie, gli zigomi e quella fisionomia dal gusto straniero fossero particolari sempre nuovi. Si comportava insomma come un bambino che, a Natale, scarta sempre lo stesso regalo senza mancare di gioirne ogni volta. Sapeva così che le palpebre promettevano la profondità dello smeraldo, che le labbra imprecavano solo per nascondere la loro fragilità, che se si faceva attenzione si poteva notare il luccichio dorato dell’orecchino sul lobo sinistro.
    Spiarlo mentre dormiva era l’unica occasione per avvicinarlo. Non ci trovava nulla di male, soprattutto perché Gokudera non avrebbe potuto realizzare d’essere oggetto di quelle silenziose analisi e quindi continuava a ritenersi inviolato persino nel più innocente dei modi, nonostante in realtà, dal punto di vista della semplice osservazione, Yamamoto l’avesse già violato da tempo. C’erano volte in cui il moro rimpiangeva di non poter guardare da così vicino il vivo colore delle iridi che tanto lo appassionavano e di doversi pertanto accontentare delle palpebre. Semplicemente non sopportava di non essere all’altezza di tale affronto; per quanto aveva avuto modo di sperimentare, gli occhi di Gokudera sfuggivano sempre altrove, come per paura che tutto il mondo attorno fosse pronto a tradire; per schivare la sofferenza di trovarsi di fronte spalle voltate, orecchie incapaci di ascoltare e sogni morti; per non schizzarsi il volto con pozzanghere sporche piovute da un cielo troppo vecchio per essere anche solo ricordato.
    Yamamoto lasciò scivolare lo sguardo alla finestra e accartocciò le sopracciglia quando la luce del sole d’inverno gli trafisse le pupille. Erano quasi le nove di mattina e aveva deciso di uscire senza di lui. Era meglio lasciarlo riposare: dopotutto si era coricato solo sette ore prima, dopo aver mangiato la pasta con aria più di sfida che di ringraziamento, e aveva deciso per il divano solo perché il letto era già occupato dalla piccola Yukiko. Già, Yukiko. Si guardò nervosamente attorno e vide che la bambina si era già seduta sul gradino nell’ingresso e armeggiava impaziente con le stringhe delle scarpe. Yamamoto gettò un ultimo sguardo a Gokudera e si alzò acciuffando carta e penna dal mobiletto vicino al divano.
    “Arrivo, Yukiko-chan” mormorò mentre già cominciava a scrivere.
    “Poi mi aiuti a fare il nodo?”
    “Un minuto e sono da te.”
    Lasciò il biglietto sul tavolo vicino al pacchetto di sigarette, lì dove Gokudera l’avrebbe immancabilmente notato,  e due minuti più tardi era già in strada con una mano nella tasca del blazer e l’altra stretta attorno alle piccole dita della bambina. Attorno, i tetti piatti di Shiruka, l’ancora assonnato silenzio del giorno, la luce bianca del sole, i colori ricalcati dal freddo.


Ritorno alla palazzina. Ho con me Yukiko. Se hai voglia, più tardi puoi raggiungerci.
Yamamoto


    Sì, confermò a se stesso mentre imboccava la scorciatoia attraverso il parco. Raggiungerci. Passo dopo passo si ripeteva che era stata la scelta giusta, che quel verbo non aveva nulla di sbagliato, che Gokudera avrebbe volentieri accettato l’invito. Una traditrice voce della coscienza gli bisbigliava però che il suo tanto affabile coinquilino, una volta aperti gli occhi, si sarebbe limitato ad osservare l’affascinante fenomeno della combustione – perché bruciacchiare fogli con mozziconi di sigaretta è una delle cose più divertenti al mondo.
    La mano con cui stringeva quella di Yukiko si irrigidiva gentilmente ogni volta che la bambina dava segno di voler correre, e i suoi occhi castani si abbassavano per ammonire con un sorriso una fretta che non avrebbe fatto altro che accrescere l’ansia. Entrambi cercavano una madre ed entrambi la cercavano nello stesso luogo, quello stesso giorno; ma solo uno dei due si preoccupava del pensiero dell’altro un po’ come se quel pensiero fosse suo.
    Yamamoto lo sapeva. Persino suo padre, caro, vecchio papà, gli aveva sempre detto che troppa gentilezza d’animo finisce per nuocere. In quell’istante aveva le dita allacciate in quelle di una piccola compagna che per caso era capitata sul suo sentiero di ricerca e che aveva finito col significare qualcosa per lui. Nella disperazione si tende spesso ad annullare la preoccupazione per gli altri, a pensare solo ai propri bisogni, a salvare se stessi dall’autodistruzione. Ma Takeshi era l’esatto opposto; ed ecco perché lo accusavano di un altruismo acerbo, al limite, quasi malato. D’altronde non era un problema, il suo?, il fatto di mettere sempre gli altri davanti alle proprie necessità?
    Non pensarci, Takeshi. Sei sano.
    “Yukiko-chan?” domandò, più per rendersi conto di essere ancora vivo che per intavolare un discorso.
    La bambina alzò gli occhi su di lui e rimase a guardarlo.
    “Come si chiama la mamma?”
    “Midori.”
    “Dove lavora?”
    “Lei cura le persone.”
    “Fa l’infermiera?”, e la sbirciò dall’alto con un morbido sorriso.
    “Sì. E quando è a lavoro, io sto dalla signora Shibata.”
    Yamamoto le scoccò un’occhiata incuriosita. Era con lei da praticamente due giorni e mai gli aveva parlato di una persona che non fosse la madre. Si fermò poco lontano dal cancello che dava sulla strada sgombra e si chinò a prendere Yukiko in braccio, per evitare che scappasse oltre la striscia d’asfalto.
    “Dove abita la signora Shibata?” chiese, e poi allungò un sorriso che sapeva più di cliché che di sincerità.
    “Di fianco alla nostra porta, vicino all’entrata” rispose la bambina mentre gli si aggrappava al collo, così buffamente imbottita in un giaccone troppo grande per lei. E poi, cominciando a scalciare: “Dai, andiamo!”
    Takeshi si concesse un malaticcio spruzzo di risata. “Sì, andiamo.”
    La sua lucidità si occupava al contempo di cuore e ragione. Sebbene le sue priorità in quel momento si chiamassero “palazzina” e “madre”, c’era un altro pensiero che bussava con insistenza da un cantone della sua mente; un pensiero che non c’entrava nulla con i suoi obiettivi, ma che invece grattava la porta e reclamava di entrare. Un po’ come un cane stanco di attendere sullo zerbino, con il pelo raggrinzito e gli occhi ruvidi di solitudine.
    Hayato era semplicemente rimasto a casa. Non c’era ragione di paragonarlo ad un estraneo. Eppure Yamamoto, senza un perché, aveva come l’impressione che quel pensiero fosse proprio lui: aveva deciso di non svegliarlo e di escluderlo dal più importante incontro della sua vita, e questo era colpa e merito allo stesso tempo; la colpa di averlo in un certo modo abbandonato e il merito d’averlo salvato dall’eventuale visione di un abbraccio fra un figlio e una madre.
    Ti escludo per salvarti, e forse vorrai ringraziarmi. Ma io mi sento irrimediabilmente colpevole.
    ...Prima esperienza di abbandono, Yamamoto Takeshi? E continuò a domandarselo finché la voce squillante di Yukiko non infranse quell’intimo dialogo con se stesso:
    “Shibata-san abita qui!”
    Il moro si riscosse e alzò lo sguardo. Senza accorgersene era già passato oltre alla strada e persino entrato nella palazzina. Di fronte ancora quella rampa di scale. La bambina allungò il braccio e scalciò indispettita, motivo per cui Takeshi si trovò costretto ad assecondare l’indicazione e a spostare lo sguardo sulla prima porta a destra.
    “Qui?” chiese, intontito dal pallore della realtà.
    “Uhm.”
    “Ma non sarebbe meglio cercare prima la mamma?”
    ...la tua o la mia?
    “A quest’ora è a curare le persone. Devo andare da Shibata-san.”
    E io dovrei salire le scale.
    “Yukiko-chan...”
    “Takeshi, mi fai scendere?”
    I grandi occhi castani della bimba si incatenarono nei suoi riflettendo un’innocenza e una dolcezza invincibili. Yamamoto si impose il silenzio e soddisfò la richiesta sigillando il proprio cuore con un lucchetto a forma di sorriso. Non era un’abitudine, era il suo personalissimo primo comandamento.


- Prima gli altri e poi io -

    “Allora andiamo da Shibata-san. Così le chiediamo se la mamma ti ha cercata” le bisbigliò sfoggiando l’espressione dello zio paziente. Avrebbe chiesto alla misteriosa padrona di casa se al quarto piano abitava ancora qualcuno. Settanta punti al desiderio altrui e trenta al suo. Par condicio, secondo i suoi parametri.
Quando lei gli rispose facendo sì con la testa, si decise a premere leggermente il campanello. E fermi entrambi davanti alla porta, attesero che qualcuno accogliesse la loro implicita, uguale e diversa domanda:
dov’è mia madre?







    Dei passi concitati, il sibilo metallico della maniglia che viene abbassata. Ad aprire fu un’anziana sulla settantina, capelli grigi e volto segnato saggiamente dal tempo, che subito incontrò le iridi castane del ragazzo sulla soglia e non mancò di esibire un’espressione cordiale ed incuriosita allo stesso tempo. Yamamoto avvertì un pizzico d’imbarazzo per il solo fatto di superarla in altezza di parecchi centimetri. Era sempre stato abituato a considerare l’altezza un pregio – e l’ottimo rendimento in ogni sport, con particolare nota al baseball, bastava per giustificare questa considerazione -, ma attorno a lui quasi tutti erano più piccoli; persino Gokudera, che mal sopportava la propria statura...
    ...un momento, che diavolo c’entrava Gokudera?
    “Buongiorno” s’affrettò allungando il classico sorriso da bravo ragazzo. “Scusi il disturbo. Sto cercando la madre di questa bambina e...”
    “Obaasan!
    Lo strillo di Yukiko ebbe l’effetto di una doccia fredda. La donna abbassò gli occhi e solo in quel momento realizzò la presenza della piccola. Si portò la mano alla bocca, spalancò completamente l’uscio e sollevò la bimba senza preoccuparsi di nascondere il luccichio commosso nelle iridi:
    “Yukiko, grazie al cielo!”
    “Obaasan, hai visto la mamma? Era andata a curare le persone e non è più tornata.”
    Lo sguardo dell’anziana riflesse un rancore votato al silenzio prima di alzarsi di nuovo in quello del ragazzo. A seguirlo, le labbra arricciate in un’espressione che era sollievo e angoscia allo stesso tempo.
    “Come ti chiami?”
    “Takeshi, signora” fu l’immediata risposta, accompagnata dal più candido dei sorrisi. “Takeshi Yamamoto.”
    “Non sei di Shiruka, vero?”
    “Vengo da Namimori.”
    “Entra, Takeshi-kun. Ti offro una tazza di the?”
    Dire di no a quel volto così tiepido e gentile sarebbe valso a tradire ogni principio di educazione. Yamamoto varcò l’uscio mormorando uno “shitsurei shimasu” e si sfilò le scarpe prima di varcare il gradino per il salotto. La palazzina, almeno all’esterno, era senza dubbio di gusto occidentale, ma l’interno di quel piccolo angolo di mondo profumava della più sincera tradizione orientale. Per lui quell’atmosfera fu un vero e proprio toccasana, soprattutto dopo l’appartamento all’italiana di Bianchi.
    La signora Shibata era una di quelle persone cui ci si affeziona ancor prima di conoscerle. Il suo sguardo incredibilmente materno raccontava tutto quello che c’era da sapere: era l’anziana della porta accanto, vedova da tanti anni, con grosse collane al collo e un gatto appollaiato sul solito cuscino, là sulla poltrona, a controllare il proprio territorio con l’atteggiamento del pastore impigrito; la piccola vicina che innaffia il viale chinandosi sulla schiena indolenzita, ma che saluta con infantile allegria chiunque passi per la strada. Una presenza, insomma, che non poteva certo passare indifferente ad una persona tanto sensibile come Takeshi.
    La padrona di casa offrì the verde in tazzine dall’aspetto squisitamente piacevole, che ben si sposavano con l’armonia e la semplicità dell’arredamento, mentre Yukiko si rifugiò ben presto in una stanza adiacente. A Yamamoto scappò un mezzo sorriso nel momento in cui la signora Shibata si accomodava davanti a lui.
    “Immagino vorrai sapere della bambina, ragazzo mio.”
    “Veramente...”
   “Yukiko-chan è rimasta orfana circa un anno fa a causa di un incidente stradale. È stata affidata agli assistenti sociali e poi ha avuto la fortuna d’essere adottata da una coppia qui in paese.” La donna socchiuse gli occhi e trasse un sospiro. “Purtroppo lei non ha ancora realizzato d’aver perso la madre e si ostina a credere che prima o poi tornerà da lavoro. O meglio, reputa la madre adottiva come se fosse veramente imparentata con lei, ma inconsciamente sa che qui ha perso qualcuno. Un trauma, in breve. È già capitato che sia riuscita ad allontanarsi dalla sua nuova casa e che io la trovassi ad aspettarmi davanti alla porta, ma i genitori adottivi non hanno intenzione di interpellare gli psicologi. È incredibile come una bambina così piccola sia in grado di tornare qui da sola dopo un anno, ma sia ringraziato il cielo che tu l’abbia trovata prima che le capitasse qualcosa. Grazie, grazie infinite.”
    E qui si interruppe. Un po’ come si era interrotto il respiro del moro fin dalla prima parola di quella mormorata, esauriente e ruvida verità. Solo il calore del the manteneva in vita il colorito altrimenti pallido sul suo volto. Quella piccola storia gli pulsava nelle tempie e gli venava le iridi di un indizio di commozione; uno sguardo, quello, che era al contempo dolcezza e pietà. Costrinse le labbra a piegarsi in un sorriso smorzato: “Stava aspettando dietro alla scala. Non me la sentivo di lasciarla in quell’angolo, non quando mi ha detto che sua madre era via da tutto il giorno e non era ancora tornata. Ma il padre?”
    “Un americano che ha lasciato Midori non appena ha saputo della gravidanza. Non ha reclamato il diritto di paternità sulla bambina, per questo Yukiko ha avuto la possibilità di essere adottata. E riguardo alla coppia”, aggiunse la signora Shibata, prendendo un piccolo sorso di the, “sono stati qui proprio ieri. Immaginavano che la piccola fosse qui, invece...”
    “La riporterò da loro il prima possibile.” Takeshi appoggiò la tazza e sbirciò nell’altra stanza, dove la bimba, pancia in giù sul tatami, sfogliava un libro di cucina tra un risolino e l’altro. Sorrise un poco. “Hanno chiesto l’intervento della polizia?”
    “Mi hanno detto che l’avrebbero fatto.”
    “Lei sa dove abitano?”
    “Non ti scomodare: ho il loro numero, verranno a prenderla loro. Li chiamo subito.”
    “Shibata-san?”
    La donna, che si era già alzata, si voltò e gli rivolse il sorriso cordiale di chi è ben lieto di soddisfare un’eventuale domanda. “Dimmi, Takeshi-kun.”
    Yamamoto si scoprì scomodamente impreparato. Non sapeva nemmeno perché le corde vocali avessero preso l’iniziativa senza prima passare dalla dogana della ragione. I suoi occhi nocciolati guizzarono in quelli della padrona di casa rivelando un’anormale irrequietezza.
    “Shibata-san, sa se al quarto piano abita qualcuno?”
    Sul volto dell’anziana calò un velo di curiosità. Era plausibile che non si aspettava una questione simile.     “Quell’appartamento era già vuoto quando io mi trasferii qui al pian terreno. Saranno ormai sette anni.”
    “Sette anni?”
    Ascoltò le proprie parole con l’orecchio di un estraneo. Non era sua, quella voce ovattata e irrigidita non poteva in alcun modo appartenergli. Eppure gli fremette sulle labbra in un bisbiglio che era delucidazione e conferma nello stesso momento.
    “Sette anni” si limitò a ripetere la signora Shibata. Rimase un momento ad osservare quella strana ombra nei suoi occhi, dopodiché stirò un sorriso intraducibile. “Li chiamo. Ancora grazie.”
    Wow.
    Sì, wow. E così ancora una volta gli altri riescono nell’unica cosa in cui tu vorresti veramente riuscire. Perché sei felice che Yukiko ritornerà a casa, ma tu percorrerai la strada a ritroso senza aver ottenuto nulla.
    Yamamoto si limitò ad un cenno del capo e ascoltò i passi dell’anziana allontanarsi. I tasti del telefono, il sollievo di Shibata-san, la fortunata quanto felice notizia. Risposte soffocate dalla linea un poco disturbata, inevitabilmente gioiose, emozionate.
    Tutta realtà smorzata da un’invisibile parete di silenzio che gli palpitava nelle orecchie, negli occhi e nelle vene. Eppure aveva sfiorato quel sogno. Era riuscito, seppur per brevissimi istanti, ad odorare il profumo di un’illusione troppo perfetta. Al quarto piano non c’era nessuno, e la sua speranza esisteva solo nella più fanciullesca delle immaginazioni.







    La fiammella dell’accendino cercò la sigaretta solo per pochi istanti, prima di cominciare a consumarla. E poi giù, dritta sulla carta.
    Gokudera ispirò profondamente l’arrogante puzzo di diossina mentre le sue iridi osservavano fisse senza fremito alcuno. Un processo di analisi chirurgica e puntuale. Accovacciato vicino al bracciolo del divano, i capelli ancora scompigliati da un sonno che ricordava meraviglioso, schiacciò il mozzicone ancor più a fondo, godendo del reclamo del carbone quando finalmente il calore sbriciolò nome e cognome del mittente.
    “Puff.”
    Macinò saliva con atteggiamento insofferente e lanciò la sigaretta nel cestino nell’angolo. Non lo avrebbe raggiunto per nessuna ragione al mondo. In fondo sapeva che Yamamoto aveva preferito lasciarlo dormire proprio per mascherare un implicito gesto di pietà, e allora perché presentarsi?
    In quel preciso istante il suo telefono cellulare si mise a squillare. Proprio ora che i colpi alla porta avevano smesso di reclamare un po’ d’attenzione. Gettò un braccio oltre lo schienale del divano e arraffò l’apparecchio che giocava a fare l’equilibrista sul bordo del tavolo.
    Biiip.
    “Ohi.”
    Monosillabo neutro, timbro di voce adatto in cui nascondere ogni sfumatura di sensibilità. Perfetto soprattutto per avvertire l’interlocutore di essere tutto tranne che amichevole.
    “Hayato, inutile che mi ignori. Sto aspettando da venti minuti che qualcuno mi apra.”
    Cazzo, Shamal. Ma possibile che fosse ancora fuori? Dopo tutta la fatica che stava impiegando per ignorarlo.
    “Si può sapere che diavolo vuoi? Tu qui non entri finché non lo decido io. È già tanto che ti abbia risposto al telefono.”
    “Il tuo carissimo amico è con te?”
    “Non so di chi parli e non mi interessa.”
    “Nemmeno se ti dicessi che credo d’aver risolto tutti i vostri problemi?” Altri colpi alla porta, questa volta scanditi da un allegro ritornello: “Non volevi tornare da Sawada il prima possibile, Hayato?”
    Gokudera esitò. Grugnì, soddisfò un prurito al naso. “Quattro secondi per spiegarmi che cazzo c’entra” soffiò.
    “Ripeto, Yamamoto Takeshi è in casa?”
    “No. Due.”
    “Credo di avere qualcosa che potr...”
    “...zero.”
    Biiip.
    “...che potrebbe risolvere la questione!” terminò Shamal, urlando dall’altra parte della porta.
    “Guarda che se alzo il culo per niente, giuro che ti ritroverai una dinamite là dove non vorresti mai averne una.” Il ragazzo si trascinò fino alla porta e sbirciò l’indesiderato ospite dalla sottilissima lama di visuale che si concesse, con un occhio accartocciato nel ringhio del cane di guardia. “Allora?”
    Il dottore gli scoccò un sorrisetto sghembo. “Allora sei uscito dallo sgabuzzino, uhm?”
    Hayato rimase un momento a fissarlo. Poi, inviperito: “Fottiti”, e gli sbatté la porta in faccia con tale violenza da far fremere la parete. Non fece nemmeno in tempo ad inondarlo di coloriti insulti che una busta bianca sfrecciò da sotto la porta finendogli fra i piedi.
    “Se cerchi delucidazioni, hai il mio numero. Arrivederci, Hayato” lo salutò la voce di Shamal.  
    Chiuso il discorso. Gokudera abbassò gli occhi e rimase inebetito ad osservare quella nuova ed inaspettata svolta. La sua rabbia s’era magicamente ridotta a tenui brividi lungo le braccia, forse sostituita dall’ovvia domanda che fece capolino fra i suoi neuroni come un fulmine a ciel sereno: e quel perverso casanova che soluzione avrebbe mai potuto portare?
    In un primo momento pensò di voler rivisitare il fenomeno della combustione; in un secondo, gli parve meglio considerare con più attenzione la possibilità di venire al nodo di una questione che, diciamocela tutta, gli stava inesorabilmente consumando la pazienza.
    In un terzo, stava già aprendo la busta.



* * *


Pensavate d'esservi liberate di me, uhm? Sbagliato!, eccomi qui.
Finalmente il quarto capitolo concluso. Ci ho sudato sopra sette camicie e l'ho scritto
a sprazzi, nel senso che nei pomeriggi avevo sempre altro a cui pensare, tra cui studio, open day
del liceo e scioperi che cascano sempre quando proprio non vorresti tornare a casa alle cinque di sera.
Questo capitolo è inevitabilmente dominato da Yamamoto-senpai e dalla piccola, dolce Yukiko.
Spero d'aver delucidato a dovere i vostri dubbi in merito alla bambina. E poi, voilà che ritorna Shamal, e stavolta
in veste di "insospettabile postino" che, a quanto afferma, ha delle informazioni sulla questione, proprio mentre
Takeshi crede d'aver solo vissuto un'illusione.

Vi lascio con questo punto interrogativo - perché le conclusioni bastarde fermentano l'interesse °v° Se trovate
errori/orrori di battitura, siete pregati di bastonarmi ergo rendermeli noti, dato che non ho proprio il tempo di rileggere.
Non so quando aggiornerò, presumo fra una settimana e mezza, un po' per colpa degli impegni natalizi
e un po' perché devo incominciare a lavorare per dei contest. Ma aggiornerò il prima possibile, promesso.
Un abbraccio e anzi, auguri in anticipo a tutti quanti e alle vostre famiglie <3


Dew_


 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Alternative ***


5 CAPITOLO QUINTO Alternative





CAPITOLO QUINTO
ALTERNATIVE

Avvertenza: il contenuto a tratti sdolcinato di questo capitolo
è sintomo dell'assunzione eccessiva di "Comatose", by Skillet.
Fate un giro su Youtube, se vi va.




    Ginocchia raccolte al petto, sguardo immobile. Il gomito sullo schienale e l’indice impegnato a far giostrare un ciuffo di capelli erano il chiaro segno di un non proprio ottimo umore.
    Così Gokudera, rannicchiato contro il bracciolo del divano con le guance ancora intirizzite dal sonno, accolse il ritorno di Yamamoto. La prima cosa che notò fu che la pulce non era con lui. Un punto in suo favore. La seconda ma non meno rilevante informazione gli giunse sotto forma di un sorriso paurosamente pallido.
    Cristo Yamamoto, ti sei appena bucato per esserti conciato così?
    “Ho trovato qualcuno che conosce Yukiko-chan. I genitori sono stati informati e ci hanno invitati per la cena” annunciò Takeshi chiudendosi l’uscio alle spalle. 
    Hayato storse le labbra in un sorrisetto sghembo. “Ci hanno invitati?”
    “Ti ho nominato, sì. Ho detto che saremo in due. D’altronde l’abbiamo ospitata assieme.”
    “Dove abitano?”
    “Poco lontano, e non è tutto: al telefono la madre mi ha detto che potremo restare anche a dormire prima di ripartire. Sono stati proprio gentili.”
    Un pugno invisibile cominciò a scavargli nello stomaco. “Vuoi tornare a Namimori?”
    “Uhm.” Yamamoto si chinò per sfilarsi le scarpe sull’ingresso in barba all’atmosfera occidentale, e nel frattempo lo spiò con un altro di quei suoi tremendi sorrisi. “Buco nell’acqua.”
    Gokudera si accorse dell’iniziativa dell’istinto solo quando si ritrovò una sigaretta fra le labbra. Questa volta la fiammella dell’accendino fremette. “Ah sì?”
    “Ah sì davvero. Vado a farmi una doccia.”
    L’italiano attese di sentire lo scatto della porta che si chiudeva e lo sciacquio della doccia. Poi acchiappò il telefono cellulare e si mise più comodo contro il bracciolo, reggendo la sigaretta con indice e medio della mano gettata oltre lo schienale. Immaginava che Yamamoto fosse veloce in doccia, soprattutto in quanto abituato ai tempi rapidi degli spogliatoi. Aveva al massimo un quarto d’ora, se non meno. Dopo una sommaria analisi della rubrica, pescò il numero che cercava e fece partire la chiamata, quindi infilò l’apparecchio tra spalla e collo mentre tuffava tra i cuscini il braccio libero dando inizio a una spiccia ricerca.
    La linea gli restituì il confidenziale “tu” per circa quattro o cinque secondi, prima d’essere interrotta da uno sbadiglio certo poco consono al buoncostume:
    “Hayato, alla buon’ora. Il mio numero dovrebbe aver fatto la muffa ormai, uhm?”
    “Shamal” soffiò Gokudera in risposta, buttando fumo dalle narici. D’istinto aveva abbassato la voce. “Shamal, mi spieghi cosa c’entri in questa faccenda?”
    “Yamamoto Takeshi è tornato?”
  “Fargli origliare questa discussione non rientra nelle mie intenzioni, quindi stringa la spiegazione. Cosa-cazzo-c’entri? Non mi pare difficile, vuoi anche lo spelling?”
    “Hai davanti a te la foto?”
    Finalmente era serio. Sia ringraziato Dio. Hayato arraffò la busta da sotto una coperta e se la portò davanti agli occhi sfilando la fotografia. “Ci sono” confermò.
    “I due al centro sono Tsuyoshi Yamamoto e Misako Ishida.”
    “Quella donna è...?”
    “Esatto. Quella foto risale a circa vent’anni fa, ma è lei.”
    Gokudera si portò la sigaretta alla bocca e arricciò il naso. Si sentiva bruciare la gola, non aveva mai fumato così tanto di prima mattina. “Capito. Come hai fatto a trovarla? E dietro c’è anche un indirizzo.”
    “È il suo attuale domicilio. E come faccio a conoscerla, mi chiedi?”
    “La conosci?”
    La linea gli sputò nelle orecchie una risata. “Sì, ma non è una delle mie tanti amanti, se è questo che dondola in quel tuo cervelletto di nicotina. È stata una mia paziente e ogni tanto passo a trovarla, ma solo ieri mi sono accorto della fotografia e ho indovinato questa strana coincidenza di parentela. Nah, non si accorgerà che l’ho fatta sparire, per lei era il nulla, dato il suo stato.”
    “Paziente?” Il giovane Guardiano assottigliò lo sguardo e buttò dalle labbra un alito di fumo grigiastro. “Ha avuto problemi di salute?”
    “E ne ha. Ha perso la memoria in seguito ad un trauma cerebrale e sì, si è fatto quanto si è potuto; ma non ricorda assolutamente nulla della sua vita prima del danno. È anche vero che alcune terapie consentono di ristabilire la memoria della persona tramite una rieducazione, ma purtroppo nel caso di Misako non è stato possibile; ha perso ogni ricordo di sé ed è già stata una fortuna essere riusciti ad inculcarle in testa il suo nome. Una grave amnesia retrograda, in breve.”
    Gli occhi di Hayato scivolarono alle dita che reggevano la sigaretta e imposero al medio di smettere di tremare. Sapeva già il resto della storia, ma voleva testimoniare a se stesso di non provare debolezza. Sarebbe stato imbarazzante. Eppure la voce gli vibrò un poco, e il fumo questa volta non aveva nessuna colpa.
    “Quando è successo?” chiese in un sussurro.
    La risposta di Shamal venne introdotta da un sospiro paziente. “Stando a quanto so” incominciò, “circa quattro anni dopo il matrimonio, un anno dopo la nascita del primogenito e un anno prima del divorzio; e dato che Tsuyoshi Yamamoto non risulta avere altri figli...”
    “...non può ricordarsi di lui. Non potrà mai ricordarsi coscientemente di Takeshi.”
    Pronunciare il suo nome ebbe il potere di annullare il prepotente puzzo di nicotina. Gokudera irrigidì le ginocchia al petto e con l’indice destinò il mozzicone al posacenere sul tavolo. Prese il telefono cellulare con una mano e con l’altra si impegnò per lasciar scivolare la fotografia nella busta. Dal bagno giunse il suono della cabina che veniva aperta. Tempo scaduto.
    “...Hayato? Sei ancora lì?”
    “Ci sono. Ascolta, domani mattina ripartiamo per Namimori.”
    “Domani? Non informi il tuo carissimo amico?”
    “I-io... non lo so.”
    Aveva balbettato. La sgradevole sensazione d’essere osservato alle spalle gli si arrampicò su per la spina dorsale facendolo fremere.
    “Ah, ho capito” riassunse Shamal in una risata maliziosa. “Se non gli dici nulla, si torna prima a casa e si prende un volo per raggiungere Sawada in Italia; se gli passi l’informazione, il ritorno è posticipato e addio Decimo. Ho indovinato?”
    “Ti ho detto che non lo so.”
    “Scegli, Hayato. Io ti ho solo presentato un’alternativa.”
    “Fottiti” lo freddò Gokudera, e terminò la chiamata. Alzò lo sguardo mentre nascondeva la busta sotto al cuscino e vide che Yamamoto era nell’ingresso del corridoio, un paio di jeans stretti quel poco necessario sotto l’ombelico e un asciugamano sulle spalle scoperte. La sua espressione, sottolineata dalle sopracciglia corrugate e da un mezzo sorriso, suggeriva curiosità:
    “Chi era?”
    “Shamal” stringò l’italiano, abbassando gli occhi con la velocità di chi sposta il dito dalla fiamma. “Aveva voglia di rompermi i coglioni, nulla di nuovo.” Distese le gambe stringendo i denti, visibilmente scocciato, con lo sguardo fisso stavolta alla finestra. Non aveva intenzione di far notare quel suo modo di sedere che poteva risultare in certi termini infantile o addirittura femminile – ginocchia al petto e immersione totale tra i cuscini contro al bracciolo. Per la verità si accomodava sempre così, almeno quand’era solo, proprio perché quell’atteggiamento doveva rimanere noto a lui solo. Appoggiò il gomito sullo schienale e si piantò il pugno nella guancia, a sorreggere oziosamente il capo rivolto con così tanta cocciutaggine in una direzione non ben definita. Un tentativo, questo, premeditato e macchinoso per nascondere le ditate rosso ciliegia che l’imbarazzo gli aveva stampato in faccia.
    “Ohi” grugnì. “La pulce è già con i suoi?”
    Yamamoto si avvicinò alla cucina mentre si strofinava i capelli con l’asciugamano. “Veramente no. Passano a prenderla stasera, ora che sanno che sta bene non hanno fretta. E noi andremo con loro, per la cena.”
    “La mia piccola ha giusto bisogno di prendere aria” macinò Gokudera, allungando il braccio per aprire un cassetto. “Secondo i miei parametri, le chiavi staranno facendo la muffa. Li seguiremo in moto.”
    “Haaai.
    Nella pausa di silenzio che seguì, l’italiano lo sbirciò buttando l’occhio oltre il pugno chiuso. Takeshi si stava versando un bicchiere di latte e non pareva avere problemi a girare seminudo per casa.
    Colpa dello sport. Ti convince a far mostra del tuo corpo senza provare un minimo di pudore.
    In fondo sapeva che non c’era nulla di male, si era comunque tra ragazzi. L’unica cosa certa era che mai e poi mai Hayato Gokudera, dicasi ragazzo permaloso e riservato, si sarebbe sognato di vagare a busto scoperto davanti ad occhi altrui, se non per andare al mare o in piscina. Prese dal cassetto un pacchetto verde limone e lo aprì facendo schioccare la lingua sul palato.
    “Non dovresti coprirti? Prenderai freddo.”
    “Tch.” Yamamoto si voltò e risolse quell’esclamazione in un sorrisetto storpiato da una vena d’ironia. “Da quando ti preoccupi per me, Gokudera?”
    “N-non sono preoccupato. Dico solo che non ti fa certo bene. Cretino” s’affrettò l’altro, distogliendo immediatamente lo sguardo e cominciando a ruminare una gomma alla menta. Maledetto, maledetto imbarazzo; ma il Signore doveva proprio inventarselo?
    Il moro scosse il capo per contenere una risata dettata dell’abitudine e si appoggiò al bancone prendendo un sorso di latte. “Tranquillo, sto bene.”
    No che non stai bene, stupido. Te lo si legge in faccia.
    “Mettiti qualcosa addosso, cazzo” concluse sbrigativo Hayato, masticando voracemente ed aprendo il primo giornale che gli capitò fra le mani. Il moro sventolò la mano in un morbido segno di assenso e si allontanò verso la camera con il bicchiere in mano.
    I suoi passi che si allontanavano sciolsero il cappio di sudore che gli stritolava il respiro. Gokudera buttò un sospiro. Ma sì, Takeshi era malato, e non solo dentro di sé. Lo aveva già intuito quando si era fermato sull’uscio della stanza da letto, quella volta, a spiare una distruzione psicologica che si era trasformata in un malessere fisico. La pressione cui era stato sottoposto dal viaggio e da un’attesa risoltasi in un buco nell’acqua aveva immancabilmente schiacciato le sue invalicabili difese immunitarie, rendendolo degno del paragone mela-bruco: quell’insidioso vermiciattolo chiamato Ansia s’era sgranocchiato l’invincibile pazienza del frutto di nome Takeshi Yamamoto.
    L’italiano si convinse che non poteva essere altrimenti. La sua tacita eppur evidente preoccupazione per il meraviglioso idiota aveva raggiunto un punto di non ritorno. Il tanto sospirato idolo del baseball che spesso e volentieri finiva tra i discorsi delle ragazzine non era abituato ad uno stress psicologico così elevato; era, diciamocela tutta, troppo innocente per sostenere dispiaceri irreversibili, e il fiero Smokin’ Bomb poteva guarirlo conducendolo dalla madre o poteva ritornare dal boss. Due alternative, nessuna via di mezzo. Ma sapeva bene che c’era una parte di sé che da troppo tempo cercava di prendere possesso della sua ragione, e in una situazione del genere aveva più controllo quella vocina del se stesso razionale.
    Forse questo acerrimo nemico della sua lucidità era il cuore.
    Perché è vero, Gokudera Hayato, che davanti a quel cretino ti senti come una di quelle ragazzine in calore; perché conosci la parola che potrebbe riassumere questo tuo comportamento ridicolo, eppure eviti in qualunque modo di inserirla nel tuo personalissimo dizionario; potresti usare quelle cinque lettere alla stregua di un qualche insulto, dato che ti escono così bene.
    O cazzo.
    “Tra i due il malato sei tu, coglione” si accusò, stendendosi sul divano e accartocciando il volto in un’espressione irritata. “Sei tu.”


* * *


    Le luci dei lampioni sorpresero la motocicletta rossa di Gokudera davanti alla palazzina. La personalissima tabella di marcia stilata da Yamamoto prevedeva che aspettassero i genitori di Yukiko a casa della signora Shibata, in modo da approfittarne per salutare anche lei. Durante l’attesa fu inevitabilmente impossibile distrarre la bimba, e le pazienti ammonizioni di Takeshi e della donna non riuscirono a frenare la sua incontenibile eccitazione. Solo Hayato rimase estraneo, chiuso com’era in silenzio di dubbi e ansia crescente, e tutto per colpa della busta che stringeva nella tasca del giubbotto rosso. I suoi occhi fuggivano nervosi alla finestra, a spiare la strada, e le sue labbra abbozzavano un sorriso quando Shibata-san gli rivolgeva la parola.
    Daisuke, il padre adottivo di Yukiko, varcò l’uscio alle sette e mezza spaccate. Accolse prontamente l’assalto della bambina e la sollevò da terra ricambiando l’abbraccio con altrettanto affetto. Yamamoto scoppiò a ridere, Gokudera lo incenerì con lo sguardo. Si trattava di una crittografata botta-risposta. Dopo le dovute presentazioni con tanto di inchini di riguardo, l’uomo si gettò il pollice alle spalle allungando un sorrisetto di benvenuto:
    “Montate in macchina, ragazzi. Mia moglie è a casa a preparare la cena, non vede l’ora di conoscervi.”
    “Stia tranquillo, la seguiamo in moto” lo corresse l’italiano, mani in tasca ed atteggiamento amichevolmente neutrale. “Quanto dista casa sua?”
    “Dieci minuti, Gokudera-kun. Allora andiamo. Avete bagagli?”
    “Il mio borsone” informò Takeshi, grattandosi la guancia con l’indice. La sua, almeno in quel momento, era la classica espressione che Hayato avrebbe etichettato da sfigato. “In effetti volevo chiederle...”
    “Carica in macchina almeno quello, nessun problema.” Daisuke gettò un cenno del capo alla signora Shibata, rimasta sullo sfondo della conversazione. “Grazie di nuovo, Shibata-san. Spero per l’ennesima volta che non ricapiti più.”
    Lei ondeggiò la mano in un gesto benevolo e congedò gli ospiti con un sorriso zuccherato di affetto.       
    Per tutto il tragitto Yukiko sfidò la cintura di sicurezza per voltarsi verso di loro e sventolare la manina. Le dita di Hayato, così prepotentemente serrate sul manubrio, battevano l’invisibile tempo dell’impazienza accompagnate da un ghigno infastidito, mentre dietro di lui Yamamoto, con la stessa ingenuità di un infante, ricambiava il saluto della bimba con un perpetuo sorriso, tanto che a destinazione il gelo del vento glielo aveva quasi ghiacciato in faccia.
    La famiglia abitava sotto ad una morbida collina nella periferia di Shiruka. Abitazione sé stante, piccolo cortile sul lato del perimetro, due posti auto. La macchina si arrestò con calma sul vialetto sterrato e Gokudera, che mal sopportava l’idea di lasciare la motocicletta fuori per tutta la notte, riuscì a imbucare la due ruote in un angolo del garage. Già una volta le aveva congelato il motore, con il vizio di scrutarla là, sul marciapiede, mentre lui se ne stava al caldo di qualche locale a bersi una birra, e non voleva di certo ripetere l’errore. Yukiko spalancò la portiera e zampettò allegra verso Takeshi, aggrappandosi al suo braccio:
    “Takeshi, ti siedi vicino a me a cena? Dai dai!”
    “Va bene, va bene” la accontentò lui, e la sua grande mano calò a scompigliarle i capelli. “Mi metterò vicino a te.”
    L’italiano sbirciò lo scambio di battute con sguardo scettico finché il borsone non gli venne improvvisamente caricato sulle braccia. Alzò lo sguardo e incrociò quello castano di Daisuke, motivo per cui si costrinse a sfoggiare un’espressione che potesse passare per cordiale:
    “Signor...”
    “Non sei giapponese, vero, Gokudera-kun?” lo interruppe il padrone di casa, muovendo i primi passi sul viale. Gokudera si sentì in dovere di seguirlo ancor prima di dare l’ordine ai piedi.
    “Vengo dall’Italia.”
    “Italia? Così lontano?”
    “È una storia lunga, in effetti”, e pescò un sorrisetto ingenuo.
    Del tipo che sta per ospitare dei mafiosi, signore; ma non si preoccupi, non siamo latitanti.
    L’uomo gli rivolse un’occhiata benevola. “Da che zona?”
    “Sicilia.”
    “Ah, ci sono stato. È un gran bel posto.”
    “...Uhm.”   
    Una risposta che affermava e negava allo stesso tempo. Sì, l’Italia era un gran bel posto; un gran bel posto che gli aveva tolto la madre e l’infanzia. Un gran bel posto di merda, in breve.
    Una volta dentro si fermarono nell’ingresso per sfilarsi le scarpe e munirsi di pantofole per gli ospiti, e Yukiko filò dritta in una stanzetta che aveva tutto l’aspetto di una piccola cucina:
    “Okaasan!
    “Siamo a casa!” annunciò Daisuke mentre con un gesto invitava i due ragazzi a seguirlo.
    “Ho visto, ho visto” gli rispose una voce sollevata dalla cucina, e poi una risata carezzevole: “Yukiko-chan, devo ripeterti di non farlo più o stavolta ci siamo intesi? Ci fai preoccupare, lo sai.”
    Gokudera appoggiò il borsone contro un tavolino di quercia e sollevò gli occhi giusto in tempo per accogliere la madre che usciva dalla cucina reggendo la bambina in braccio; e sentì il cuore tuffarsi nelle viscere. Una spaventosa sensazione di dejà-vu gli lacerò il respiro. Le iridi impagliate, paurosamente sature di un’incredulità sfumata dal terrore.
    Non ci credo. Non può...
    La donna piegò il capo sulla spalla e li abbracciò con un caldo e riconoscente sorriso. “Ed ecco i nostri eroi.”
    Un brivido gli si inerpicò su per la schiena squarciandogli la pelle. D’istinto si portò una mano al petto, lì dove, sotto al giubbotto rosso, la busta reclamava la sua appartenenza a quella casa. Il suo pugno si strinse con la violenza di chi sta per avere un malore, seguito dagli occhi smeraldini che fremevano per l’improvvisa assenza di ossigeno.
    ...essere...
    “Chiamatemi pure Misako-san”, e ancora, un sorriso più limpido dell’alba. “Benvenuti, ragazzi.”


* * *


    Gokudera lasciò il mondo fuori dalla porta e assicurò quel momento di riflessione appoggiandosi proprio sulla maniglia, per poi scivolare seduto a terra, la polaroid fra le mani e la nuca piantata sul legno dietro di sé, a mettere in mostra il pomo d’Adamo boccheggiante e le labbra semiaperte.
    Allora la madre adottiva di Yukiko era veramente la madre di Takeshi. Non poteva ignorare quell’orrendo sentore di dejà-vu che gli aveva affondato gli artigli in gola quando la donna gli si era presentata davanti, a pochi passi di distanza. Lei non aveva riconosciuto il meraviglioso idiota e ciò confermava quanto detto da Shamal. Fantastico, inspiegabilmente fantastico.
    Merda.
    Era lei, sì. Stesso sguardo castano, stessa espressione serena. Persino  il taglio dei capelli era rimasto identico, così corto e spartano. Agli angoli della bocca aveva indovinato gli indizi dei vent’anni di differenza tra lei e quella foto che gli rideva tra le mani, ma a parte questi particolari non vi era alcuna differenza; un po’ come se il tempo, per Misako Ishida, si fosse fermato all’incidente che l’aveva privata della memoria.
    Gokudera spiò i volti su quell’immagine imbalsamata dal ricordo e tutta la sua lucidità si diede appuntamento dietro alla fronte, in un delirio di cuore e ragione. Aveva ingenuamente pensato di scansare la possibilità di scegliere fra le due alternative – non dir nulla e tornare dal Decimo o piantare la fotografia in faccia a Yamamoto per costringerlo ad un secondo tentativo -, ma ora, in questa nuova e scomoda situazione, “possibilità” era diventato sinonimo di “obbligo”. Si lasciò scivolare la fotografia in grembo mentre pollice e indice scapparono a massaggiare un paio di tempie che non riuscivano a sopportare quel crudele mal di testa.
    Va bene, Hayato. Un respiro profondo. Adesso non puoi concederti il lusso di scegliere. Si è trattato di destino, che ci potevi fare?
     Poi alcuni colpi alla porta gli fecero vibrare le ossa.
    “La cena è pronta, ‘Dera! ...Ohi, Gokudera?”
    Baka. Baka, baka e ancora baka.
    “Ho capito, ho capito” grugnì Hayato rimettendosi svogliatamente in piedi. “Arrivo.”
    Era passata un’ora circa dal loro ingresso in quella casa e per tutto il tempo l’italiano si era convinto di avere quattro braccia anziché due, perché in effetti tra quelle pareti la vita scorreva con un senso del tempo a sé stante: una mano per soddisfare le incessanti richieste di Yukiko, che dal salotto chiamava ogni tre per quattro per farsi aiutare a colorare un albo di disegni; un’altra per correre a sistemare il borsone, un’altra ancora per aiutare ad apparecchiare e un’altra per sottolineare con un gesto che no, grazie, si figuri, anche se siamo ospiti è il minimo che possiamo fare per ringraziarvi.  Tutto contemporaneamente. E infine la cena era pronta.
    A tavola la bimba non fece altro che raccontare ogni virgola dei giorni trascorsi con loro, e i genitori adottivi si aggregarono con entusiasmo a quell’argomento di discussione. Un minuto dietro l’altro scappava un nuovo ringraziamento, subito seguito dal giocondo sorriso di Takeshi, con il suo: “Nessun problema, è stato per caso, glielo ripeto”. Immancabili quei suoni così familiari, l’acqua nel bicchiere, il tintinnare dei bicchieri, qualche improvvisa risata che si risolveva in un’atmosfera fresca e materna. Yamamoto aveva aiutato Misako in cucina e forse per questo piccolo, innocente particolare, Gokudera avvertiva un retrogusto di concretezza in tutto quello che stava accadendo. In un quadro dalle tinte così sbiadite e sfuggevoli, dove i colori si mischiavano in un’unica gamma di ambigua definizione, era impossibile per lui capire dove si fermasse la voce della sua testa e dove iniziasse quella della realtà.
    Ogni volta che alzava il bicchiere, i suoi occhi verdi spiavano il volto del moro così vivamente proposto dal vetro, e si fermavano sull’espressione dello sguardo, delle labbra, della linea del collo, chiedendosi perché fosse necessaria una così minuziosa analisi. Capiva allora che il colorito delle sue guance era troppo acceso, che il suo sorriso era velato da un sottile accenno di sofferenza, che tutto era troppo sottolineato in lui per essere vero. Troppo... lucido. Quando Hayato acchiappava questo sentore di disagio, le sue dita si muovevano sul bicchiere in una giostra discontinua che seguiva il ritmo del suo istinto. Avrebbe voluto solo stampargli il palmo della mano sulla guancia o sulla fronte; anche sotto le mentite spoglie di uno schiaffo, ma voleva sapere da quanto nascondesse di avere e soprattutto quanto alta fosse quella dannata, fottutissima febbre.
    Dio che rabbia.    
    L’unico problema sorse alle nove e mezza; la classica sfida che, se si hanno piccoli in casa, cade sempre e comunque di sera.
    “Ma okaasan, non voglio andare a letto, voglio restare ancora un po’ con Hayato e Takeshi!”
    “I ragazzi sono stanchi, Yukiko-chan. Domani devono ripartire, anche loro vanno a letto presto, sai?”
    “Ma... okaaaasan!
    Problema seguito dal colpo di una porta. Il complice?, l’ospite che mal sopporta i piagnistei dei cuccioli umani.
    “Che rottura” macinò Gokudera, storcendo il volto in un ringhio da leone incattivito. “Cazzo, ecco perché non sopporto i bambini. E adesso mi toccherà sopportare anche te.”
    Yamamoto, accomodato su uno dei letti con le caviglie fra le mani, si strinse nelle spalle sfoderando un sorrisetto innocente. “Non è certo colpa mia. Guardala in positivo, almeno ci sono due singoli” sdrammatizzò.
    L’italiano lo ghiacciò con un’occhiata senza muovere un passo. “Almeno questo, sì. Regola numero uno, mio caro idiota del baseball” aggiunse in un soffio inviperito. “Il letto qui davanti è mio; due, dopo il tappeto la zona è off-limits; tre, se russi, ti ritroverai abbracciato ad una dinamite anziché al cuscino. Tutto chiaro?”
    “Obiezione.”
    “Obiezione resp...”
    “La porta è nella tua zona.”
    “Perché?, sei forse sonnambulo? Se dormi non devi camminare, baka.”
    “Ma se devo andare in bagno sì” puntualizzò Yamamoto, lasciandosi andare ad una morbida risata. A Gokudera scappò uno squittio di disapprovazione, ma il secondo successivo si era già buttato sul letto e girato sul fianco, con il medio ben alzato verso il compagno di stanza:
    “Solo se devi pisciare sul serio, altrimenti stai agli ordini. Ora stai zitto.” Poi, dopo un grugnito: “...e buonanotte.”


* * *


    Il buio della stanza rimase ad osservare l’insonnia dell’ospite di nome Hayato Gokudera.
    Era impossibile dormire e allo stesso tempo sopportare il peso della notte. Ascoltava in silenzio il ticchettio ritmato della sveglia, il motore di qualche macchina di passaggio, le fredde conversazioni dei lampioni lungo la strada. Sembrava in attesa dell’Uomo Nero: un paio di artigli avrebbe lacerato i lembi di quella tenebra fittizia per strangolarlo lì, nel letto, avvolto com’era fra le coperte. Senza accorgersene trascorse un’ora e mezza a mangiarsi l’unghia del pollice, gambe raccolte e guancia affondata nel cuscino, come un bambino che attende impaziente uno dei tanti mostri dell’infanzia. Nascose il mento sotto al lenzuolo e i ciuffi argentati strisciarono sul tessuto come tanti piccoli serpenti, mentre il desiderio di voltarsi sull’altro fianco gli si arrampicava sulla schiena. Tutto per poter fingere di vedere Yamamoto nel buio.
    Ma più che vederlo, lo sentiva. L’oscurità gli sputava nelle orecchie il suo respiro umido e acerbo, il suono della saliva giù per la gola, il gelo delle gocce di sudore che gli imperlavano il volto. Era un ritornello che non riusciva a schiodarsi dai timpani, un nastro che gli si era incastrato nel cervello e che rischiava seriamente di compromettere la sua lucidità mentale. Esausto, tastò il mobiletto con la mano e dopo una veloce ricerca la luce della piccola lampada gli ferì le pupille. Strofinò gli occhi, si mise a sedere, si scostò i capelli dalla fronte per vedere.
    Takeshi dormiva sull’altro letto, sdraiato di schiena, e le sue palpebre vibravano intorpidite. Una linea di fastidio lì sulla fronte, un brivido a scuotergli le labbra.
    No, tu non sei invincibile. Anche gli sportivi si ammalano.
    Hayato conosceva il suo volto a memoria, troppo spesso aveva approfittato di momenti simili per studiarlo nei miei dettagli; eppure trovava che il taglio degli occhi, la linea del collo e quella fisionomia dal gusto nipponico fossero particolari sempre nuovi. Si comportava insomma come un bambino che, alla panca di un pianoforte, suona sempre la stessa melodia senza mancare di farsela piacere ogni volta. Sapeva così che le palpebre promettevano un magnifico color nocciola, che le labbra sorridevano solo per nascondere la loro fragilità, che se si faceva attenzione si poteva annusare tutto il calore del suo corpo. In una sola volta.
    Fermo alla sponda del letto, lo sguardo smeraldino che riluceva nel semibuio, rimase a guardarlo per ancora qualche istante. Una parte di lui lo accusava di essere uno stupido se il battito cardiaco cominciava a dare in escandescenza, un’altra negava anche solo l’esistenza di una seconda ragione. Non sono mai esistite due ragioni diverse, e se davvero ne esiste una, allora quella si chiama cuore.
    Deglutì un fastidioso nodo di saliva e solo in quel momento realizzò i brividi che gli saltavano a fior di pelle come tante cavallette. Faceva caldo, tanto caldo. Si sentì sciogliere quando cominciò a chinarsi in avanti, evaporare quando un respiro non suo gli sfiorò le labbra; poi si arrese e smise di opporsi al se stesso che “no, cosa diavolo stai facendo?, e se si svegliasse...?”

    ...un corno, Hayato. “Se si svegliasse” un emerito cazzo, stavolta. Sì, ammettilo, hai già cercato il coraggio di fare una cosa simile, ma ti sei stancato di contare le occasione perse. Dillo.

    Ed eccolo ancora, puntuale, immancabile. Il dubbio. Il dubbio di non star facendo la cosa giusta, il dubbio di disturbare, il dubbio di farlo arrabbiare, semplicemente il dubbio di amare. Gokudera si morse la lingua, un fremito di paura gli pugnalò l’anima. Non ricordava d’aver mai avuto degli occhi così caldi e in quel momento usare la testa era una capacità che aveva smesso di appartenergli, quindi si concesse solo di assaggiare quel labbro superiore a neanche un centimetro dal suo prima di tentare una nuova fuga. Eppure stavolta fu proprio la fuga, la stessa che gli era sempre riuscita così bene, a non riuscirgli per niente.
    Non si era accorto che un pugno gli si era serrato sulla scollatura della canottiera e, quando lui tentò di scostarsi, le dita si serrarono con ancor più egoismo protestando che quel contatto rimasse in vita. Hayato si sentì una preda, vacillò, stampò i palmi sul cuscino per evitare di cadere in avanti; e rimase così, immobile, sbalordito. Impietrito.
    Quella era la mano di Yamamoto. La avvertiva, così fredda e debole oltre il tessuto, così come quelli erano i suoi capelli, avvinghiati tra ribelli ciocche d’argento. E quelle erano le sue labbra, accoglienti anche se esauste, ma soprattutto finalmente sue. Gokudera colse il pizzico dei suoi denti sulla lingua, la fiammella del suo sospiro affaticato dalla febbre. Non si scostò, non fece nulla che non fosse condividere per una volta lo stesso respiro, fino a quando il sibilo di Takeshi non si smorzò in un’espressione più tranquilla, come se quel bacio lo avesse curato.
    Hayato si congedò dalla sua bocca per sentirlo respirare, rimanendo però ad un filo di distanza da lui. Adesso stava meglio, i tratti del suo viso erano più morbidi, le palpebre avevano smesso di fremere. Si era addormentato. Il cuore gli tornò in petto e il bollore sulle guance cominciò a trivellargli la pelle con maggiore insistenza. Rimase a guardarlo così, chino in avanti, ad un nastro di fiato dalle sue labbra, godendo delle impronte della luce che si scioglievano su quella pelle dal retrogusto squisitamente mulatto.
    C'era una terza alternativa, si disse mentre lo osservava.
    Non c'è due senza tre.


* * *

Finalmente, eccovi anche il quinto capitolo. Ho alcune precisazioni da fare.

Per prima cosa, Gokudera siciliano. La storia di KHR ha inizio in Sicilia, se non sbaglio - almeno nella versione dell'anime -, e mi sono sempre domandata da quale regione provenisse il nostro caro Smokin' Bomb. Allora, "Sicilia", mi son detta; e dicono che da giù
vengano dei gran bei ragazzi... v_v L'aria di mare fa bene, a quanto pare.

Per seconda, nell'ultimo paragrafo il nostro Gokudera si concede un'analisi notturna di Yama-senpai, e il pezzo dell'osservazione, se così possiamo definirla, è stato ripreso dal precedente capitolo e modellato secondo le esigenze dell'occhio critico di Hayato.
Credo ve ne siate accorti.

Per terza, nella mia testa è inchiodata l'idea di un Gokudera stile "ragazzina innamorata" e di un Takeshi stile "l'uomo dei sogni".
Per non so quale arcano motivo, mi immagino sempre che sia l'italiano a prendere l'iniziativa. Sono così belli assieme <3

Infine si è chiarito il ruolo di Shamal, ed ora si presenta una terza, misteriosa alternativa.

Gokudera sceglierà di ripartire senza dire nulla al suo carissimo "amico", tanto per tornare presto dal Decimo, oppure deciderà di rivelargli della fotografia?

Tutto questo nel prossimo capitolo - odio questa formula ._. -, che però non so quando pubblicherò. Devo ancora iniziare i compiti
delle vacanze xD, senza contare che avrò non poche cose da fare. Ma prima o poi vedrete un aggiornamento, sì.
Allora alla prossima, grazie a coloro che seguono e recensiscono con attenzione; buon anno a tutti, anche <3

Dew_




 



Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Farfalle ***


Capitolo Quinto, farfalle





CAPITOLO SESTO
FARFALLE

Sì, era ora, direte voi. Dopo quasi un anno che non aggiorno!
Penultimo capitolo di questa storia che voi mi avete ricordato di non dimenticare.
Lasciamo le chiacchiere alla fine.


Nell’attimo di lucidità che lo colse quando sollevò la chiave inglese, Gokudera si chiese perché mai si stesse spingendo a tanto. Avrebbe potuto mettere in atto la terza alternativa, altresì definita da lui “ultima spiaggia”, senza armarsi di istinto omicida, e invece...
D’altronde si tratta di una cazzata, Hayato. Sicuro che le labbra di Takeshi valgano così tanto?
Non valevano forse una montagna di yen, né vivevano di benzina, né avevano un manubrio e specchietti tirati a lucido. Però valevano lo stesso.
E il suo sorriso. Quello era più prezioso di ogni due ruote in circolazione.
Mordicchiò nervosamente la sigaretta scombinandosi distrattamente i capelli con la mano libera. Cominciava a detestare l’influenza di Yamamoto. Era come se quel viaggio lo avesse sporcato di sentimenti che non gli appartenevano. Amicizia, famiglia, preoccupazione per l’altro. Se avesse avuto un medico a portata di mano, era sicuro che sarebbe corso da lui in preda al panico per domandare: “Dottore, è grave?”, “Esistono cure specifiche?”, “Morirò a breve, vero?”. Ma in quella spassosa prospettiva si trovava di fronte il gran sorriso storpio di Shamal che ribatteva: “Sicuro, Hayato, domani sarai in Paradiso!”.
Si costrinse a tornare alla realtà e la fumosa luce del garage gli annebbiò gli occhi. Davanti, le cromature della sua motocicletta. La sua testa si dedicò ad uno strambo conta alla rovescia in cui il dodici si trovava al posto dell’otto e in cui il sette era chissà come saltato dove doveva esserci il dieci. Imputò la colpa a quel bacio
quel bacio
che aveva volutamente chiuso in un angolo a parte. Poi sputò la sigaretta e la schiacciò con la punta del piede con la violenza con cui in quel momento avrebbe desiderato calpestare se stesso.
E in effetti, saldando la presa sulla chiave inglese, fu quello che fece; schiaffeggiò ogni dubbio, scalciò il proprio orgoglio, morse la realizzazione di star facendo tutto per quelle cinque lettere che il suo cervello aveva per così tanto tempo ignorato.
Lo avrebbe fatto.
 

* * *

 
Fare in modo che la motocicletta non partisse era solo un espediente per prendere altro tempo, per non ammettere di essersi arreso, ipotesi che il suo orgoglio made in Italy non digeriva neanche in astratto. Figuriamoci in concreto.
Yamamoto, educato e non-vorremmo-disturbare com’era, non avrebbe mai accettato l’invito a fermarsi ancora qualche giorno a causa della febbre, nonostante viaggiare nelle sue condizione fosse, se non impossibile, almeno sconsigliato. Così, quando Misako avanzò la proposta di posticipare il rientro a Namimori e quando Takeshi gentilmente rifiutò, Gokudera poté giocarsi il jolly.
“Anche se non vuoi fermarti, baka, la motocicletta non parte. A te le conclusioni.”
Il moro alzò gli occhi su di lui. Era buffo il modo in cui era seduto a metà contro lo schienale del letto, così com’era affettuosa la maniera in cui la padrona di casa gli aveva appoggiato una mano sulla spalla nel tentativo di costringerlo a letto. Sembravano proprio madre e figlio.
Fitta al petto.
“Inutile che mi guardi così” lo apostrofò inacidito Hayato, affondando le mani nelle tasche e appoggiandosi allo stipite della porta. “Senza la mia piccola non si va da nessuna parte.”
“Hai detto che non parte?”
“Problemi al motore. O al serbatoio. O qualcosa del genere, penso.”
Una risposta schiva e diretta, seguita da un borbottio che aveva tutta l’aria di un insulto e dallo sguardo che si alzò al soffitto in segno di palese seccatura.
La verità era che sapeva esattamente qual era l’imprevisto in questione. L’espressione sventrare il motore era forse quella che fra tutte riassumeva efficacemente quanto la notte precedente gli era saltato in testa: semplicemente, con una chiave inglese e la mostruosa conoscenza di cui un genio della scienza come lui poteva disporre, il suo delirio omicida si era sfogato sull’impianto di alimentazione. In fondo si sentiva ancora prudere le dita e la coscienza come se avesse sul serio portato a termine un assassinio.
Chissà quanto sarebbe costata la riparazione. Dio, quanto.
“Quindi, anche se tu non avessi avuto questo febbrone, Yamamoto, da qui non si partiva lo stesso” concluse masticando ancora un tacito senso di colpa.
Takeshi rimase a guardarlo per un istante, poi sul suo volto accaldato si stese un piccolo sorriso. Stanco, ma un sorriso rimaneva. “Accidenti.”
Era incredibile come da quella risposta trasparisse la palese intenzione di metterla sul ridere. Non si smentiva mai, lui; Gokudera ne era così certo da credere che sarebbe stato persino in grado di saltellare come una capretta arzilla giù per il versante dell’Everest. Ridendo.
“Quando mio marito tornerà da lavoro, potremo fargli dare un’occhiata alla tua moto, Gokudera-kun” s’intromise cordiale Misako, che aveva arricciato le labbra in un morbido sorriso. E poi, tornando a rivolgersi al moro: “Nel frattempo tu riposati pure. Non sarà un problema ospitarvi per tutto il tempo che sarà necessario, davvero.”
Seguì un istante di silenzio e lo sguardo di Yamamoto incrociò prima quello delle donna, poi scivolò in quello dell’italiano come a chiedere una conferma; conferma che Hayato si preoccupò di dargli sottoforma di un’occhiata più omicida che altro.
Alla fine accettò. Non erano avanzate parole con cui tentare un contrattacco, non davanti all’evidenza che sì, una maniera per ripartire non c’era, e a quella meno fondata ma affidabile che Gokudera stesse in qualche misura mentendo. Lo si capiva dal modo in cui alzava le pupille e sistemava un piede dietro l’altro, da come masticava insulti immaginari, da come ascoltava sforzandosi di apparire distratto quando invece il livello di attenzione e sensibilità delle sue orecchie faceva invidia all’istinto di un gatto scorbutico.
Lo vide allungare un sorriso di cortesia quando la padrona di casa uscì in corridoio dopo avergli dedicato un’espressione affezionata. Era quasi sicuro che Hayato la seguisse, e invece accostò la porta per poi sedersi sul proprio letto e avvicinare a sé il borsone da viaggio. Si sfilò la maglia, la lasciò sulle lenzuola ancora disfatte, si piegò in avanti per pescare un ricambio dalla sacca.
Erano gesti automatici, quasi stesse seguendo le istruzioni di un immaginario manuale il cui titolo avrebbe suonato più o meno così:“Guida pratica su come ignorare il proprio compagno di stanza”. E non dimentichiamo il sottotitolo: “Con illustrazioni, esempi e tecniche spiegate passo per passo. Facile e veloce!”. E tutto senza dire una parola.
“Gokudera?”
Il silenzio.
“...‘Dera?” ritentò
Stavolta in risposta ricevette un grugnito. Già tanto. Eppure il classico e tiepido sorriso di sempre rimase a rasserenargli un volto che di sereno aveva ben poco:
“Sicuro che non parte?”
“L’impianto di alimentazione, razza di deficiente” soffiò l’altro, senza preoccuparsi di voltarsi e continuando la sua furiosa ricerca sul fondo della borsa da viaggio. Sentiva che il meraviglioso idiota stava scivolando fuori dalle coperte, ma si ordinò di non farci caso e continuò: “Sai a cosa serve?”
“Non ne ho idea.”
“Ti illumino. Serve a fornire il comburente e il combustile.”
Qualcuno che sale alle sue spalle sul letto.
“...e senza quelli non c’è combustione...”
Qualcuno che per un breve tratto ci gattona sopra.
“....e senza combustione il motore non parte.”
Qualcuno che si accomoda dietro di lui e gli passa attorno al busto un paio di braccia dal profilo irresistibilmente atletico, chinandosi quanto bastava per accomodare il mento sulla sua spalla. Qualcuno dalle dita ghiacciate dalla febbre e dal sorriso silenzioso e paziente.
Qualcuno, per l’esattezza, che aveva nome Yamamoto Takeshi.
“Non parte, ecco tutto” ripeté Gokudera, e un fremito gli passò su per la schiena facendogli vibrare appena la voce. Gli pareva di avvertire – o meglio, percepiva un respiro altrui là dove mai ne aveva percepito uno: gli sfiorava l’orecchio, gli accarezzava la guancia, gli si srotolava lungo la linea del collo e infine sembrava fondersi lì con la sua pelle.
Ricordava, per quanto in quel momento la lucidità glielo consentisse, tutte le volte in cui aveva immaginato un suo abbraccio. Si era così scoperto in grado di sostituire le noiose ed inutili ore di lezione – d’altra parte non era un genio per nulla – con pensieri che di noioso, poteva giurarci, non avevano proprio nulla. Dire che lo eccitassero forse era troppo, eppure in qualche maniera si sentiva... chiamato in causa? Coinvolto, forse? Non di rado gli era capitato di sorprendere un indesiderato brivido zampettargli su per la gamba e torcergli poi le viscere in non sapeva quante farfalle immaginarie. Quando gli capitava i suoi occhi scappavano un momento indietro, a spiare quel pezzo di cretino intento o ad allungare un biglietto ad un compagno del club o a sonnecchiare senza riserve sul banco, braccia incrociate e viso beatamente affondato nell’abbraccio dei gomiti.
Preferiva sempre e comunque la seconda delle occupazioni, in quanto almeno non c’era il rischio di incrociare quel paio d’occhi castani che gli avrebbero altrimenti afferrato e poi annodato le budella come i clown fanno coi palloncini. E allora si trovava assurdamente e stupidamente ad immaginare in quali belle forme il suo intestino poteva ridursi: cavallini, fiori con tanto di gambo e foglioline, cagnolini paffuti e farfalle.
Farfalle. Come quelle che prendevano a solleticargli lo stomaco. E così rieccolo al punto di partenza, a quella sensazione di annullamento della gravità tanto insistente da fargli temere che Newton la mela l’avesse vista cadere solo per errore e non per scienza.
Erano simpatici Lepidotteri anche quelli che gli frullavano in testa in quel momento, mentre se ne stava seduto sulla sponda di un letto non suo, in una casa non sua e con un respiro non suo all’orecchio. Soprattutto, era l’ultimo mentre ad avergli sottratto per cinque secondi netti la capacità di articolare anche solo una singola parola. Poi, al sesto secondo:
“Toglimi. Le. Mani. Di. Dosso.”
“Ti sto solo abbracciando.”
“...Attaccandomi la febbre, certo.”
“Sai di olio e di benzina, sai?”
Il capriccio di tremore che a quelle parole gli elettrizzò la colonna vertebrale finì con l’accendergli le guance di una squisita e brillante tinta color ciliegia. Non si voltò a sfidare il sorriso che, sentiva, aveva disegnato le labbra di Yamamoto nella mite espressione del saggio che tutto sa e tutto vede. Un disperato tentativo di speranza maturò in lui la certezza che no, non sarebbe comunque riuscito a notare quanto accidenti era arrossito.
Però l’idiota lo annusava. Lo annusava com’è vero che la terra sta in cielo sottoforma di pulviscolo e com’è vero che il cielo sta in terra sottoforma di pozzanghere; com’era vero che sentiva il cuore bussargli appena sotto la pelle tanto il battito era concitato e com’era vero che aveva artigliato le lenzuola sulla sponda con la prepotenza di chi annaspa per aggrapparsi ad un’ancora di salvataggio.
Merda.
“Normale. Ho smontato qualche pezzo per cercare di riparare il danno.”
Non voleva ammettere a se stesso il sospetto che Yamamoto stesse invece insinuando qualcos’altro. Già se lo immaginava, ad allungare appena il collo oltre la sua spalla per poi scoccargli un sorrisetto benevolo prima di dirgli: “Ti costa così tanto dirmi quello che è realmente successo?”
Il pensiero gli riuscì così concreto che per poco non aprì la bocca con l’intenzione di correggersi. “Vuoi proprio sentirti dire che ho distrutto l’impianto di alimentazione per colpa di quel tuo bacio? Per colpa di quel tuo fottutissimo bacio?”, avrebbe risposto.
E invece no. L’orgoglio o forse l’istinto di sopravvivenza lo convinse ad aggiungere solo, dopo una pausa in cui ingoiò un tappo di saliva: “...e adesso torna a letto. Prenderai freddo.”
Takeshi non se lo fece ripetere due volte. Non c’erano dubbi che i fremiti che gli si arrampicavano fino alle spalle fossero dettati dalle febbre e dalla realizzazione che Gokudera aveva difatti ragione: il marito di Misako sarebbe rientrato in serata, avrebbe dato un’occhiata alla due ruote e con molta probabilità avrebbe risolto tutto con qualche giro di chiave inglese permettendo loro di partire il mattino seguente. Un uomo come quello ispirava meccanica da ogni poro della pelle.
Quando così lui ritrasse le braccia e si scostò dalla sua schiena scendendo dal letto e portandosi dietro quel suo sorriso tiepido, Hayato non impiegò molto a capire che la sensazione di sentirsi per certi versi un bugiardo era giustificata; Yamamoto aveva intuito un’ombra di menzogna, sapeva che aveva passato due ore e mezze a incasinare quel che si era promesso di incasinare e soprattutto si ricordava del bacio.
Lo sentì infilarsi di nuovo sotto le coperte. Solo allora si decise a sbirciarlo di striscio, pescando una maglietta dal fondo della borsa da viaggio e indossandola quando già stava varcando la soglia.
Vide che sorrideva con quell’intramontabile voglia di fare il cretino. Poi si impose di non vedere altro e chiuse la porta.
 

* * *

 
Era già tardo pomeriggio quando le mani di Hayato Gokudera si infilarono febbrili in uno dei cassetti della cucina. Operavano meticolose passando in rassegna vecchie cartoline, sfogliando buste da lettera, frugando finché non incontravano il fondo di legno. Non, non stava cercando un tagliacarte; per quanto surreale e fastidiosa gli riuscì questa realizzazione, tagliare le vene del meraviglioso idiota non rientrava nelle sue intenzioni. Magari avrebbe rinviato.
No, stava cercando una penna. Quella mattina aveva intravisto la pulce alzarsi in punta di piedi e prendere da quel cassetto una penna rossa prima di filare in fretta via, correndo trionfante su per le scale neanche stesse giocando a rubabandiera e avesse agguantato il fazzoletto per prima.
Avrebbe tranquillamente potuto presentarsi di fronte a Misako e sfilare una delle sue rare ma invincibili espressioni da bravo ragazzo per chiedere una biro in prestito, ma... con quale scusante? Inviare una cartolina a Namimori? Diavolo, no.
E non sarebbe nemmeno da te, Hayato. Sarebbe da Takeshi, e tu non sei lui.
La sua espressione corrugata in un ghigno di fretta si ammorbidì appena quando infine serrò pollice ed indice sull’indiscutibile forma di una penna; ma ancor prima che potesse ritirare la mano e pescare dal nulla ciò che aveva così febbrilmente cercato, la riconoscibilissima voce di Daisuke
(“Tadaima!”)
seguita dall’ingresso che si chiudeva gli costò l’istinto di voltarsi e di richiudere il cassetto così bruscamente da scordarsi di togliere prima la mano. Saette di dolore gli spillarono dalle falangi percorrendogli il braccio per intero, motivo per cui si azzannò il labbro e serrò gli occhi per impartirsi di non urlare.
Dio, che male. Quanto diavolo faceva male.
Lì appoggiato con apparente nonchalance contro al bancone con una mano inchiodata fra ripiano e cassetto, sforzò un sorriso quando Daisuke si affacciò oltre la porta della cucina spedendogli in risposta un’occhiata cordiale.
“Gokudera-kun.”
“Da... Daisuke-san.”
“Misako mi ha detto della tua moto. Vogliamo andare fuori a dare un’occhiata?”
“Prendo una giacca e la raggiungo subito.” E dopo un momento: “Grazie.”
L’uomo si ritirò in corridoio dopo avergli indirizzato un gesto paziente della mano. Solo in quel momento Gokudera fu libero di sfilare la propria, di mano, dal cassetto, sollevandosela di fronte e storcendo il naso in una smorfia di dolore al vedere la linea rossa che gli tagliava orizzontalmente le dita. Ma almeno la penna, sì, quella l’aveva. Anzi, si prese anche una busta e se la infilò nella cintura con la biro, ben nascoste sotto il risvolto disordinato della maglietta.
Prima di uscire passò in bagno. Piantare la mano sotto al getto gelido dell’acqua gli ispirò una sensazione di benessere tanto immediata da fargli credere di sentire il bruciore evaporare come ferro immerso in una tinozza ghiacciata.
Le farfalle ripresero a fare i capricci nello stomaco quando in garage trovò Daisuke in compagnia dell’idiota. La mattina e l’intero pomeriggio spesi a sonnecchiare gli avevano ridato colore in volto e in quei suoi occhi color nocciola era tornato quell’immancabile e irresistibile lume di demenza, come se i suoi istinti fanciulleschi avessero ripreso a crepitargli a fior di pelle a mo’ di popcorn bruciacchiati. Tanto in fretta si era ammalato, tanto in fretta si era ripreso. Vedendolo in quelle condizioni, Hayato non sapeva se il peggio fosse passato o se dovesse invece ancora venire. Probabilmente era passato per l’idiota e doveva ancora venire per lui. Tombola.
Daisuke, ginocchio a terra e chiave inglese in mano, era già al lavoro. Ai suoi piedi, sparpagliati come bossoli di proiettile, qualche bullone e qualche vite.
Gokudera avvertì la scomoda sensazione di essere in qualche maniera violato. Era la sua moto, diavolo, e le mani che la stavano esaminando non erano le sue. Quella visione gli riusciva come una violenza fisica e psicologica. Pensiero egoistico? E che gliene importava.
“Ce ne hai messo di tempo, Gokudera-kun” lo accolse Daisuke volgendo il capo e stirando un sorriso di benvenuto. “Ancora qualche istante e sarà tutto a posto. Potrete partire domattina. L’impianto di alimentazione si è come danneggiato da solo. Nulla di irreparabile, in ogni caso.”
“Ah. Sì. Va bene” rispose Hayato annuendo due o tre volte, la mano destra, quella che aveva lasciato nel cassetto, infilata in tasca per non mostrare la linea rossa. Poi scoccò un’occhiata a Takeshi e solo allora si rese conto di star tenendo da lui una distanza di sicurezza di circa dieci metri. Naturale, si era fermato all’ingresso del garage mentre l’idiota se ne stava comodamente appollaiato in un angolo su un vecchio tavolo di ferro, con sorrisetto ad arricciargli le labbra.
Non si parlarono. Yamamoto sembrava più intenzionato ad aspettare che fosse Gokudera a dire qualcosa e Gokudera pareva in attesa che fosse invece Yamamoto a fare altrettanto. Forse perché entrambi sapevano che l’unica cosa di cui avevano bisogno era sì parlare, ma in privato. E lo fecero, o almeno si intesero, dopo che Daisuke si fu alzato e pulito le mani macchiate d’olio in uno strofinaccio.
“È tutto a posto, Gokudera-kun” annunciò con un piccolo sorriso. “Tra poco sarà pronta la cena.”
“Ricevuto, Daisuke-san” gli rispose Takeshi con un’allegra alzata di sopracciglia. Poi Daisuke uscì e fu allora che Hayato capì di trovarsi in un qualcosa come la merda.
“Gokudera. Mi ricordo quello che...”
“Non una parola, baka.”
“...è successo ieri.”
“Cuciti la bocca o te la ritroverai incollata sulle chiappe, tante sono le stronzate che dici.”
Ma Yamamoto continuò a rivolgergli quel suo tiepido, paziente sorriso. Si strinse nelle spalle, alzò gli occhi. “È successo.”
“Per l’appunto. E togliti dalle testa che accadrà una seconda volta.”
Sarebbe stato pericoloso ammettere che invece erano le sue labbra l’unica cosa che desiderava in quel momento. Perché voleva ancora assaggiare quel sapore non suo, quel respiro non suo, quella saliva non sua e quel calore non su, perché aveva capito quanto disperatamente avesse bisogno di ciò che non gli apparteneva; quanto avesse bisogno di lui.
Ma sarebbe stato stupido ed ingenuo ammettere tutte queste cose. Avrebbe aspettato, ben conscio che l’attesa lo avrebbe portato all’autodistruzione e che l’autodistruzione lo avrebbe portato ad aver paura. Paura di rimanere solo, senza un abbraccio a scaldarlo durante le notti d’inverno e senza una voce, la sua, a mordergli l’orecchio.
E fu per paura che si voltò e rientrò senza aggiungere null’altro, solo certo d’essersi lasciato alle spalle quel sorriso e quegli occhi che, silenziosi ma presenti, lo seguivano da lontano.  
 

* * *

 
La penna, anche se a fatica, scriveva. Combattuto fra la fretta di allontanarsi dal luogo del furto e il dolore alle dita, Gokudera non si era accorto che l’inchiostro blu rimasto era poco. Aveva realizzato quel deficit la sera dopo cena, pronto a rimettere la biro nel cassetto non appena l’acqua della doccia avesse smesso di scorrere. Takeshi era svelto, col bagno; tempo dieci minuti e la cabina sarebbe stata sua. L’importante, aveva pensato rigirandosi la penna fra le dita, era che ci fosse inchiostro a sufficienza per scrivere sette parole.
Così, un’ora più tardi, quando nel buio riconobbe il respiro dell’idiota farsi più regolare, indizio di via libera, allungò il braccio al comodino tastando l’aria alla ricerca della lampada. L’improvviso bagliore lo costrinse ad affilare gli occhi e ad accartocciare il volto in un’espressione infastidita. Poi si gettò un’occhiata alle spalle, inquadrando quel che riusciva a scorgere di Yamamoto: se ne stava girato sul fianco, immerso in un sonno certo troppo profondo per poter essere disturbato da quella poca luce. Sul suo volto e sulla linea del collo non correvano più i brividi della febbre. Semplicemente dormiva, le labbra appena schiuse e le palpebre rilassate.
Sì, avrebbe volentieri trascorso la notte in bianco solo per vederlo dormire, ma no, non ne aveva il tempo. L’indomani doveva essere nel pieno delle forze per guidare, destinazione Namimori, destinazione la vita di sempre. E magari, pensava, magari il bacio se ne sarebbe rimasto lì tra quelle quattro pareti, incatenato da una volontà che aveva nome Autodistruzione.
Aprì il cassetto senza far rumore e ne trasse la penna. Pescò invece la busta da sotto il cuscino, per poi adagiarla sul comodino, ben esposta alla luce della lampada. La lingua che passa rapida sulle labbra, i denti che pizzicano nervosi l’interno della guancia, le sopracciglia chiare che si abbassano in un gesto di concentrazione, ansia, forse paura.
Poi, svelto come per strapparsi un cerotto da una ferita, scrisse.
 

* * *
 

La prima cosa che Yamamoto Takeshi vide il mattino seguente fu il letto di fronte al suo. Vuoto. Gokudera si era già alzato. C’era la luce del sole a disegnare strisce d’oro sulle lenzuola e sulle coperte disfatte.
I suoi occhi castani, ancora intorpiditi dal sonno, scivolarono al comodino sino ad incrociare il display della sveglia. I numeri in verde lo informavano che erano le otto e mezza del mattino. C’era il tempo per fare colazione, rimettere nei borsoni quelle due o tre magliette che aveva indossato e infilarsi nel traffico per tornare a casa.
Dal suo vecchio. Senza aver trovato sua madre.
Non pensarci, Takeshi. Non pensarci.
Si passò la mano sul volto e si mise a sedere, stropicciandosi gli occhi con le dita. Non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a fingere che in fondo stava ancora bene. Vero, non aveva trovato quel che cercava, ma stava bene così. Avrebbe imparato a star meglio una volta lontano dall’illusione di conoscere colei a cui doveva la vita. Avrebbe continuato a nascondersi dietro ai sorrisi, come sempre aveva fatto, esibendo quella gioia di vivere che tutti gli invidiavano ma che nessuno riusciva veramente a giustificare.
Avrebbe continuato a fingere, sì, se solo non si fosse accorto che a terra c’era una busta. Bianca. Era scivolata dalle coperte quando lui si era alzato a sedere. Rimase un momento a guardarla dall’alto, chiedendosi come mai fosse finita sopra di lui mentre dormiva. Solo dopo qualche istante si chinò e la raccolse, alzandola di fronte a sé di modo da illuminarla con la luce del giorno. Sembrava contenere qualcosa. La voltò. C’erano alcune parole, scritte sul retro. La grafia, così incurante e sbrigativa, era quella di Gokudera.
 
Aprila
Poi fa’ quel che vuoi fare
 
Così la aprì.
Così vide la foto.
Così capì.
E così decise cosa voleva fare.
 

* * *




....Ed eccoci a chiacchierare. Come quasi un anno fa.
Spero d'essere riuscita a farmi perdonare, con questo capitolo, per la mia lunga assenza. Impegni, mancanza di ispirazione. Avevo in ballo questo capitolo da mesi e solo oggi, dopo tre febbrili ore, ho concluso gli ultimi tre paragrafi. Ispirazione divina, credo xD
In ogni caso... questo è il penultimo capitolo della storia. Nel prossimo weekend pubblicherò l'ultimo, sicuramente molto più breve degli altri, tanto che volevo inserirlo qui di seguito ma ho evitato per non rischiare di stringere troppo.
Olè, ora partano le scommesse. Come reagirà Takeshi alla foto che Gokudera gli ha tenuto nascosta fino ad ora? E soprattutto, come andrà a finire la loro, di questione? Non illudetevi di influenzarmi con i vostri pareri, dato che ho già in mente come andrà a finire, quindi sbizzarritevi xD
Come sempre, giudizi positivi o critici sono ben accetti. E come sempre, scusatemi per eventuali errori di battitura. Nel caso ne trovaste, informatemi, provvederò alla correzione °°
Picchiatemi (?) pure per la mia assenza, non mi difenderò LOL.
Alla prossima!,

_Dew






Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Pozzanghere ***


CAPITOLO SETTIMO pozzanghere




 

CAPITOLO SETTIMO

POZZANGHERE

"And those nights are getting colder
And your heart is a frozen wound
Don't you wonder who'll be there when you awake?"

Avantasia - "Cry just a little"


    È bene sapere che gli occhi di Takeshi Yamamoto avevano un potere particolare. Dietro quelle iridi castane, dietro quella tonalità così simile al colore della più dolce delle nocciole, c’era più di quanto tutti, Gokudera compreso, potessero anche solo immaginare.
    Si trattava di comprensione, e non di una qualsiasi o di quella che gran parte della gente spaccia per comprensione autentica, ma della capacità di leggere fra le righe la più sottile e pallida sfumatura di chi o cosa aveva di fronte. Come quella foto e, ancor prima, come quelle sette parole.
    Voltò di nuovo la busta e lasciò scappare lo sguardo su ciò che Hayato gli aveva scritto. Cosa c’era lì, dietro l’inchiostro blu? Tacita frustrazione, forse; il fastidio di dover ammettere che qualcun altro al posto suo aveva l’occasione di riabbracciare la madre. Eppure, ancora oltre la trama di questi sentimenti, c’era il sollievo d’aver dato ad un amico la stessa possibilità che a lui era invece stata negata. Era un gesto di estremo altruismo.
    I suoi occhi tornarono alla foto
    Oyaji. Okaasan.
    proprio nel momento in cui sentì la porta aprirsi. Non aveva bisogno di sollevare le pupille per guardare chi si fosse fermato là sull’uscio, perché diede subito un nome a quelle iridi che, silenziose ma tangibili, gli spedirono un’espressione asciutta.
    “Ohi, baka.”
    Hayato.
    “La colazione.”
    Takeshi alzò gli occhi solo in quel momento, obbedendo al perentorio ordine dell’istinto. Tra le mani stringeva ancora la fotografia e in grembo aveva appoggiata la busta. Sotto i ciuffi scuri ancora scompigliati dal sonno, la sua fronte si corrugò in un gesto che era al contempo una domanda e un bisogno di risposta. Non parlò.
    Allora le sopracciglia di Gokudera si avvicinarono appena, un cipiglio di fastidio misto ad impotenza. Le dita strette attorno alla maniglia lasciavano trasparire la tacita eppure evidente minaccia di richiudere la porta senza dare alcuna spiegazione.
    “Tempo un’ora e voglio già essere per strada” puntualizzò.
    “Avresti dovuto dirmelo prima, Gokudera.”
    E non si parlava della partenza.
    Hayato si mosse nervosamente. Sviò con lo sguardo. Un mormorio: “Avrei potuto non dirtelo affatto.”
Yamamoto gli diede mentalmente ragione. Anzi, si scoprì a pensare che forse sarebbe stato meglio così: non sapere nulla, non condividere la verità. Almeno, si disse, non sarebbe stato costretto a abbandonare chi aveva per così tanto tempo cercato. E invece in salotto, là da qualche parte, c’era sua madre; una madre che non l’aveva nemmeno riconosciuto come suo figlio, ma di madre si trattava.
    Gokudera dovette cogliere qualcosa nello sguardo del moro, perché si passò la lingua sulle labbra e si lanciò un’occhiata alle spalle prima di tornare nei suoi occhi. “Avrai tutte le spiegazioni che vuoi” cominciò, e bisbigliava. “Dopo la colazione. Dopo che saremo fuori di qui.”
    Poi Takeshi vide la porta richiudersi e rimase di nuovo solo con quella fotografia.
    Restarsene nel silenzio con quei due volti di fronte, uno del suo vecchio e l’altro di Misako, era come rimanere in compagnia di un fantasma. In quell’assenza di suoni c’era la fredda eppur concreta presenza di un desiderio rimasto troppo tempo in fondo alla coscienza, inghirlandato di sorrisi troppo perfetti per poter essere giustificati; se lo sentiva correre lungo il braccio sino alle dita, dove fremeva sottoforma dei brividi dell’immaginazione, come se volesse ricordargli d’esistere ancora e d’essere pronto a prendere il controllo della mente.
    Ma lasciare che un desiderio solo, per quanto forte, divenga il burattinaio di decisioni future che da coscienti non prenderemmo una seconda volta è sbagliato. E questo lui lo sapeva bene.
 

* * *

 

    È anche bene sapere che persino gli occhi di Hayato Gokudera avevano un potere particolare. Dietro quei suoi occhi all’apparenza immobili ed incuranti palpitavano più sentimenti di quanti ne lasciassero trasparire, un po’ come se il verde acquamarina delle iridi fiutasse le sensazioni altrui per poi analizzarle e catalogarle senza che alcun indizio di partecipazione potesse gocciolare oltre la parete con cui si teneva lontano dal mondo.
    Aveva così osservato Yamamoto dall’uscio e aveva capito che nemmeno con la verità tra le mani aveva intenzione di posticipare la partenza. Proprio per questo aveva anticipato il meraviglioso idiota e finito la colazione proprio quando il meraviglioso idiota in questione entrava in salotto. Si scambiarono uno sguardo, ma non perché si fossero cercati, quanto pur puro caso.
    Se Gokudera avesse capito che dietro quella casualità c’era quella dannata, insistente parola di cinque lettere, non avrebbe nemmeno alzato lo sguardo.
    Yukiko lasciò immediatamente cascare il cucchiaio nella tazza di cereali e filò svelta dal ragazzo chiamandolo per noi, prima di aggrapparsi di volata alla sua maglietta come a pretendere di essere sollevata in braccio; e Takeshi, le cui labbra si erano schiuse in una risata, la accontentò con il paziente, gaio atteggiamento del fratello maggiore.
    “Ohayou, Yukiko-chan.”
    “Non voglio che Takeshi-kun parta!”
    “Passerò a trovarti, promesso.”
    Daisuke li spiò da sopra il giornale scambiando un sorriso con la moglie e Gokudera, in un istinto di acido realismo, si chiese se veramente quella promessa sarebbe stata mantenuta. Eppure si limitò a storcere le labbra in un invisibile grugnito, neanche avesse avvertito una fastidiosa puntura nel fianco, mentre prendeva gli ultimi sorsi di tè.
    Yukiko scalciò un poco e gonfiò una guancia. Nei suoi occhi tanto simili a quelli di Takeshi c’era la fiducia. “Davvero? Takeshi-kun lo promette?”
    Lui lo guardò un momento, un piccolo ma affettuoso sorriso ad ammorbidirgli il volto. Ancora prima che potesse risponderle, la calda voce di Misako:
    “Sareste i benvenuti.”
    Allora Yamamoto si sentì in dovere di incrociare il suo sguardo. Non che lo volesse evitare, perché sapeva quanto sarebbe stato inevitabile; eppure, nonostante avesse ordinato al cuore il silenzio, percepì un indesiderato formicolio serrargli dita di disagio attorno alla coscienza come a voler spremere in quel pugno tutto quanto avrebbe voluto dirle.
    Invece, immancabile, il suo sorriso. “Torneremo” acconsentì, riportando di nuovo gli occhi in quelli della bambina. “È una promessa.”
    Allora Hayato capì ciò che avrebbe fatto. Capì anche che non voleva a tutti i costi impedirgli di continuare a nascondersi dietro quella sua perpetua serenità. Forse aveva la sue ragioni. Forse più avanti, tempo qualche minuto, qualche giorno o qualche anno, gli avrebbe spiegato il perché di quella decisione: Yamamoto lo avrebbe preso da parte e gli avrebbe sorriso e gli avrebbe spiegato tutto quel che c’era da spiegare e allora Gokudera avrebbe capito quanto fottutamente lo amava.
    Presto o tardi, sarebbe successo. Ma ora, da dietro una rassicurante distanza fatta di tazza di tè e tavolo da pranzo, poté solo restarsene a guardare l’idiota che scoccava un bacio sulla guancia di Yukiko, e Yukiko ridere, e Misako sorridere, e se stesso aspettare.
 

* * *

 

    Hayato uscì prima di Takeshi. Per portar fuori i due bagagli, aveva detto, e per portare la moto davanti al piccolo viale d’accesso. La realtà era un’altra: aveva sì sistemato i borsoni, ma il fatto d’aver varcato per primo l’uscio sottintendeva anche un proposito ben diverso dai preparativi della partenza.
    Anche l’idiota doveva salutare chi li aveva ospitati fino a quella mattina. La verità era che Gokudera fuggiva le dimostrazioni d’affetto un po’ come si eviterebbe il contagio della peste, e tenendo in conto che là dentro aveva lasciato un figlio ed una madre, le probabilità di contrarre troppi sentimenti altrui avrebbe raggiunto i massimi livelli storici.
    Evita, Hayato. Evita.
    Giusto. Si sfilò un pacchetto dal giubbotto e decise di acciuffare un accendino dall’altra tasca. Sì, il sapore agrodolce del fumo sarebbe valso come un vaccino. Lo avrebbe aspettato, forse per minuti, forse per ore, così come lo aveva atteso davanti a casa per la partenza. Così si accese una sigaretta e alzò gli occhi verdi al cielo. Profumo di pioggia.

 

* * *
 

    Lo stava aspettando. Appoggiato sul sedile della motocicletta rossa, la testa china, una sigaretta già mezzo consumata tra l’indice ed il medio. La mano libera in tasca e il piede sollevato sulla punta erano un ostentato sintomo d’impazienza.
    Esattamente come lo aveva trovato tempo prima fuori da casa, lì sul marciapiede, pronto a giocarsi una carta chiamata ‘È stato Juudaime a chiedermi di venire con te’. Con la differenza che ora sarebbero tornati indietro.
    Gokudera lo sbirciò, soffiò fumo dalle narici, lenti nastri di grigio che salirono verso il piombo del cielo, e con il capo gli fece cenno di muoversi; qualsiasi cosa là dentro avesse fatto, qualsiasi cosa a Misako avesse detto, di muoversi. Allora Yamamoto si avvicinò, le labbra atteggiate in un pallido sorriso, mentre Hayato buttava la sigaretta a terra e montava. Alla finestra, vide, si erano affacciati lei e lui, con il naso della pulce schiacciato contro il vetro. Dubitava che l’idiota si sarebbe voltato, e invece fu esattamente quello che fece, perché alzò la mano verso di loro in un gesto di saluto per la gioia della piccola Yukiko, che scalpitava tra Daisuke e Misako, intenti a ricambiare il saluto sventagliando in risposta le dita.
    Poi Takeshi salì dietro di lui e stavolta Gokudera gli permise di reggersi alla sua vita. Era troppo impegnato a crogiolarsi nel silenzio per potergli sputare addosso altro veleno. Azionò il motore e la moto scivolò docile sulla corsia. Nessuno di loro si voltò.
    Un quarto d’ora più tardi, quando imboccarono il primo cartello su cui spiccava il nome della loro destinazione, Hayato avvertì le labbra dell’idiota là dove tanto adorava che fossero. All’orecchio. Per un momento temette di perdere il controllo della due ruote.
    “Torniamo indietro” lo sentì dire. “All’appartamento.”
 
    Qualche minuto dopo la moto infilò la prima strada che avrebbe permesso loro di ripercorrere il tragitto nella direzione opposta.

 

* * *
 

    A distanza di giorni, sdraiato sul proprio letto, Hayato Gokudera si sorprende a ripensare a quanto è poi successo. Credeva che una volta lontano da Shiruka, da quella piccola cittadina in cui ha scoperto cosa veramente ci sia dietro i sorrisi dell’idiota, avrebbe semplicemente relegato i fatti in uno dei tanti cassetti della memoria, in attesa che la polvere si ispessisse abbastanza per illuderlo che si fosse davvero lasciato tutto alle spalle.
    Eppure ricorda ancora il discorso che hanno intrattenuto una volta tornati all’appartamento di Bianchi in cui si erano sistemati prima che il genio di Shamal gli infilasse sotto la porta quella fotografia. Si ricorda d’avergli spiegato il perché di tutto, compreso e soprattutto il motivo per cui Misako non sapeva e non sa ancora oggi di essere sua madre. Gli ha spiegato quasi tutto, vero, ma non la cosa più importante. Ai tempi, aveva ragione di credere che non fosse necessario sprecare parole quando era ormai chiaro come tra loro sarebbe andata.
 
“Non gliel’ho detto, ‘Dera”
“Cosa?”
“Che è mia madre.”
“...”
“Qualcosa non va?”
“Sei un coglione, Yamamoto Takeshi.”
 
    Ma se l’era aspettato, in fondo. Ora, lì con le dita intrecciate dietro la nuca, Gokudera stringe le labbra e l’angolo destro della sua bocca si solleva in un sorriso amaro. Non gli ha chiesto il perché, ricorda, eppure nella sua mente e nel suo cuore le parole di Yamamoto, voce non interpellata, pretendono ancora una volta di essere ascoltato. E lui è più che disponibile a porgere l’orecchio della memoria.

  
“Le avrei fatto solo del male.”
“Non ti capisco, baka.”
“Se glielo avessi confessato... se le avessi detto la verità, si sarebbe sentita colpevole di non riuscire a ricordare.”
“Sei complicato, Yamamoto Takeshi.”

 
    perché adorava accostare il suo nome e cognome.

 
“Sarò pure un coglione, sarò pure complicato. Ma sono tuo.”

 
    perché adorava sentirselo ripetere.
    Ricorda di aver voltato il capo e di avergli rivolto un’espressione che mai aveva rivolto a nessun altro. Ricorda di aver scostato lo sguardo, ricorda di aver farfugliato qualcosa. Ancora meglio, ricorda di averlo baciato per la seconda volta.
    Ricorda tutte queste cose, Hayato Gokudera, così come ricorda di aver condiviso il letto con lui quella sera. Non hanno fatto l’amore, ma si sono limitati ad ascoltare il silenzio e le parole e i baci e le carezze dell’altro. La mattina non c’erano più rimpianti. In fondo, si sente rispondere, l’idiota ha potuto abbracciare la madre tenendo il resto per sé e lui ha potuto baciare e farsi stringere da ciò di cui ha sempre avuto bisogno.
      La verità è che ora stanno bene entrambi.
    Un giorno torneranno a Shiruka senza rimorsi e paure, reduci di pozzanghere in cui ora si riflettono arcobaleni e non il grigio del cielo, si abbracceranno sotto le coperte e si confesseranno di amarsi. Ma questo ora Gokudera non può saperlo e nemmeno lo immagina, preso com’è ad aspettare che il suo idiota lo chiami per dirgli: “Ehi, sono sotto casa tua. Scendi.”    
   
    Vi basti sapere che così andranno le cose.




* * *


E ora vi chiederete: perché concludere la fic dal punto di vista di Gokudera se il protagonista dovrebbe essere Takeshi? Ma in fondo credo che a lui si debba gran parte dei risvolti della storia.
Eccoci alla fine di questa tanto sofferta fic. "Sofferta" perché ho spillato sangue dalle dita e dalla testa (?) per scriverla, e spero che il risultato sia soddisfacente.
Inutile dire che mi sono affezionata a quest'atmosfera perennemente angst, oltre che alla piccola Yukiko. Lei è troppo dolce *-*
E alla fine della fiera (?), il nostro Takè se n'è rimasto zitto. Ma in compenso il lieto fine va soprattutto alla relazione fra i due. Non potevo lasciare che si ignorassero, non sono così crudele.
...Soprattutto, adoro troppo questa coppia da poter lasciare il povero Hayato senza il suo idiota <3
Ahm, come al solito mi scuso per eventuali errori, ma al momento non ho tempo di rileggere né voglia di posticipare la pubblicazione -lol-

In conclusione, spero che questa storia vi abbia appassionato - oddio che parolona xD O almeno che vi sia piaciuta.
Mi farebbe non so quanto piacere ricevere, più che un commento sul capitolo in sé - che, oddio, sempre ben accetto LOL -, un commento sulla fic in generale.
Non so se pubblicherò presto qualcosa di nuovo sul fandom di KHR, soprattutto perché sono impegnata con un contest per originali.
Adesso vi lascio, sìsì.
Grazie per aver seguito fino in fondo, vi sono immensamente grata! *-*


Dew_










Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=880278