Pozzanghere di Dew_Drop (/viewuser.php?uid=127372)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dipartita ***
Capitolo 2: *** Permanenza ***
Capitolo 3: *** Sciacallo ***
Capitolo 4: *** Combustione ***
Capitolo 5: *** Alternative ***
Capitolo 6: *** Farfalle ***
Capitolo 7: *** Pozzanghere ***
Capitolo 1 *** Dipartita ***
I capitolo - Dipartita
Titolo: pozzanghere
Autore: Dew_Drop
Fandom: Katekyo Hitman Reborn!
Genere: introspettivo, sentimentale
Avvertimenti: shonen-ai
Nota: avevo scritto questa
storia tempo fa, forse d'estate, e mi ero fermata al quarto capitolo.
Questa mattina mi è per caso capitata sotto agli occhi e mi
è saltato in testa il grillo di pubblicarla. Dico "grillo" in
quanto si tratta più di un esperimento: la fic in sé
presenterebbe anche del mistero e dell'azione, con riferimenti quindi
molto più espliciti al tema della mafia, ma ho preferito
presentarvela in veste di semplice Gokudera&Yamamoto Centric,
lasciando quindi da parte degli spunti più movimentati. Inoltre
non credo sia necessario puntualizzare il contesto temporale in cui si
svolgono i fatti narrati. Dal momento che la storia non è
conclusa, non so se aggiungerò o meno dello yaoi - è da
un mesetto che mi assento da questa pratica di scrittura -, per questo
motivo, nel caso volessi aggiungerlo, ovviamente modificherò
raiting e avvertenze. Per il resto... che altro dirvi? Mi sono sempre
chiesta dove accidenti sia la madre di Yamamoto e ho cercato di darmi
una risposta xD Spero possa essere di gradimento; sono felice di
rientrare nel fandom per sperimentare la presenza o meno
dell'ispirazione. E i commenti sono, ovviamente, sempre ben
accetti!
Disclaimer: i personaggi sono copyright di Akira Amano.
CAPITOLO PRIMO
DIPARTITA
“...E così parto” concluse Yamamoto, rificcandosi in
bocca la cannuccia del succo alla pesca.
Sull’uditorio calò il silenzio. Solo lo scricchiolio
insistente di uno stuzzicadenti sfrigolava in quell’improvvisa
assenza di suono; e proprio colui che molestava il bastoncino provvide
a dare un segno di vita:
“Tutto qui? Per quest’idiozia abbandoni il Decimo?”
“Gokudera-kun!” lo riprese impacciato Tsuna. Gokudera gli
rivolse un’occhiata indecifrabile, senza smettere di mordicchiare
il legnetto, un gomito – una volta appoggiato – scivolato
lungo lo schienale della panchina e la guancia sorretta dal pugno. La
sua espressione era totalmente incolore. Yamamoto gli scoccò uno
sguardo bieco e tornò a rivolgersi agli altri:
“Non so quanto starò via... ma, capite, per me è una cosa... molto importante.”
“Ti do
estremamente ragione” confermò Ryohei. “Il tuo
vecchio ti ha fatto proprio un bel regalo.”
“Già” Tirò un sorriso. “Ho sempre
sorvolato l’argomento... lui fa così tanto per me. Ma sono
felice che mi ritenga abbastanza maturo. Sono cresciuto sapendo che mia
madre era morta durante il parto, ma papà mi ha detto che ora la
verità sarà più facile da digerire.”
“La
verità...” si riagganciò Tsuna. “Yamamoto, tu
hai idea di cosa si possa trattare?”
“Io...
no” fu la sincera eppur cauta risposta. “Non avendola mai
conosciuta... non avendo mai conosciuto mia madre, non posso sapere
perché ho vissuto sempre solo con mio padre.”
La bretella
della borsa di Gokudera sibilò tagliente sulla spalla. Il Decimo
e Ryohei alzarono gli occhi, colpiti da quell’improvvisa presa di
posizione.
“Gokudera-kun, dove...?”
“Sumimasen, Juudaime.
Ho da fare” tagliò corto l’italiano, che si era
alzato dalla panchina. Lo stuzzicadenti tra le sue labbra scricchiolava
impaziente sotto ai denti. “Passo questa sera per aiutarvi con i
compiti di matematica, allora.”
“Va-va bene. Jaa ne.”
Lo seguirono
con lo sguardo svanire oltre il cancello della scuola. Yamamoto si
lasciò scappare un sospiro e gli occhi furono di nuovo tutti per
lui.
“Huh? Qualcosa non va?”
“Probabilmente non sopporta che si parli di madri, senpai”
lo illuminò il moro coprendosi il volto con le mani. Quel gesto
di tacita rassegnazione accartocciò l’espressione di
Ryohei.
“E
perché mai? Non ci vedo nulla di male, io!” fu il
contrattacco; al che Tsuna gli rifilò una leggera gomitata
forzando un sorrisetto:
“Oniisan... perché, non so se ricordi, ma Gokud...”
“Che estrema figuraccia, giusto, giusto!”
Yamamoto sbirciò fra le dita e svelò un mezzo sorriso. “Tranquillo, senpai. Probabilmente non avrei dovuto parlarne in sua presenza.”
Il Decimo sguainò allora un
fragile buonumore nel tentativo di salvare tutti quanti
dell’imbarazzo generale. “No, oniisan, Yamamoto. Va tutto bene. Gokudera è fatto così... domani ritornerà quello di una volta, vedrete.”
“Ma domani non sarò qui per chiedergli scusa.”
“Uhm? Parti così presto?”
Il moro si
grattò la nuca abbozzando il classico sorriso da bravo ragazzo.
“Parto stasera. Non posso trattenermi, non quando adesso so che
mia madre vive poco lontano da Namimori. Avete presente Shiruka?”
“Se non sbaglio è a meno di due giorni da qui.”
“Dici
bene, senpai” Yamamoto affilò lo sguardo e abbassò
la voce. Nel castano delle sue iridi guizzò la malinconia che
occasionalmente rivelava di possedere. “Prima parto, prima
arrivo. Ho l’indirizzo, anche se è un po’ datato, ma
me la caverò.”
Tsuna rimase ad osservarlo.
A volte Takeshi
Yamamoto non era Takeshi Yamamoto. O almeno non propriamente. Forse era
colpa dei sorrisi se, quando mancavano, la tristezza sembrava
più profonda di qualunque altra. La strana luce nei suoi occhi,
il capo chino, le labbra serrate, le sopracciglia accartocciate, tutti
questi particolari erano l’indiscutibile indizio che sì,
anche il gioviale Yamamoto perdeva il proprio codice d’onore; e
quando lo smarriva, un po’ come l’ingenuo pedone cui cade
una moneta, pareva che il tempo di allungar la mano per raccoglierla
fosse infinito nonostante il pezzo di metallo fosse lì davanti.
Anzi, sembrava che quella moneta chiamata
“felicità”, nella tasca di quel passante, non fosse
mai realmente esistita.
La
cerniera del borsone soffiò indispettita al gesto secco di
Yamamoto. Aveva deciso di portarsi dietro il necessario premeditando di poter passare qualche notte a casa
della madre.
Madre. Fece una
smorfia mentre si caricava il bagaglio in spalla. Nel suo piccolo mondo
fatto di amici, papà, baseball e mafia (a detta del ragazzino,
almeno) non c’era più spazio per altro. Era sempre vissuto
grazie a pochi fattori e il suo animo votato alla quotidianità
non avrebbe permesso l’intromissione di un elemento Y. No, un
momento, di un elemento X. Non era stato Gokudera a insegnargli che XX
sta per la femmina e XY per il maschio? Non si trattava di cromosomi?
Si fermò
davanti allo specchio da parete per darsi un’aggiustata ai
capelli nel vano tentativo di sorvolare quel nome. Gokudera non era mai
stato troppo gentile con lui – o almeno era quello che voleva far
intendere -, eppure coinvolgerlo in quella discussione non era stata
una saggia scelta. Era stato egoista e aveva annunciato la grande
notizia
(“Minna, finalmente conoscerò mia madre!”)
proprio davanti
all’unico che non avrebbe sopportato un discorso del genere.
Aveva provato a chiamarlo o avvicinarlo in qualsiasi modo per
chiedergli scusa, magari scombinandogli i capelli con il solito
atteggiamento birichino e gustandosi il rossore irritato eppur
delizioso che gli avrebbe acceso le guance; ma il telefono aveva
squillato invano.
L’istinto
gli suggeriva di provare a casa di Tsuna, dove sicuramente, complice
una lezioncina extra di matematica, Gokudera sarebbe stato costretto a
rispondere, magari incitato dal sorriso del suo caro Decimo.
Dall’altra parte invece, la razionalità che Squalo gli
aveva così ferocemente piantato nel cervello gli ordinava il
contrario.
Suggerire ed ordinare sono verbi assai differenti.
Lascia perdere, Takeshi.
E Takeshi
Yamamoto obbedì alla ragione. Si ficcò in tasca il
telefono cellulare, si sistemò il colletto del blazer rosso, si
scrollò le spalle, si sorrise allo specchio.
“Andiamo.”
Per i primi
metri andò tutto bene, poi le sue gambe si rifiutarono di
varcare l’uscio. Aveva già fatto scorrere la porta e il
paterno baluginare della luce artificiale si mischiava alle tenebre
della sera imperlata dal canto delle cicale. Eppure fermo con la mano
sullo stipite, un occhio a sbirciare l’interno, non riusciva a
muoversi. Come se là fuori fosse troppo buio, troppo freddo,
troppo estraneo. Troppo troppo. Già solo quando usciva per
andare a scuola, o per fare una corsa nel quartiere con Ryohei,
avvertiva una stretta al cuore. Anzi in quel momento, più che il
cuore, il vuoto gli pugnalò l’anima.
Dovette restar
fermo un bel po’ di tempo, perché fu una voce alle spalle
a destarlo da quel senso di sospensione:
“Takeshi?”
Yamamoto si
voltò, smettendo così di fingere di guardare avanti.
Forzò un dolce ma amaro sorriso: “Oyaji.”
“Sei ancora fermo sulla porta? Hai cambiato idea?”
“No.” Rimase un momento a guardarlo. Adorava il tono fermo
di suo padre, quel tono che di primo acchito pareva severo ma che
invece nascondeva un infinito affetto. Smise di recitare la
felicità e si passò una mano dietro al collo, in un
atteggiamento infantile ed allegro: “No, affatto. Mi stavo solo
chiedendo se tu riuscirai a gestire tutto da solo. Starò via per
un po’, presumo...”
“Con chi andrai?”
“Non ho problemi, penso andrò a piedi. Una passeggiata non guasta, vecchio mio.”
Tsuyoshi
scoppiò in una risata gracchiante. “Passeggiata...!
Takeshi, sei proprio intraprendente! Per fortuna mi fido così
ciecamente di te da lasciarti andare da solo!”
Il moro gli
scoccò un’occhiata ironica e portò un piede
all’esterno. “Allora io vado. E.... e arigatou, oyaji. Per
tutto.”
L’uomo finì di asciugare un bicchiere e fece un cenno sbrigativo con il capo. Fila via che sono impegnato, ragazzaccio, significava.
Yamamoto lo
tradusse come un ennesimo ed implicito gesto d’affetto.
Uscì e si chiuse la porta alle spalle sorridendo.
Hayato Gokudera
sapeva stupirlo. La sentenza potrebbe apparire giustificata se riferita
ad uno scalmanato dinamitardo qual era lui; un dinamitardo che
nascondeva i suoi istinti dietro ai classici occhiali da secchione solo
quando gli faceva comodo, anche se non aveva problemi ad estrarre un
candelotto persino con le lenti indosso. Un po’ come succedeva in
classe cinque volte a settimana, in ricorrenza delle marachelle ai
danni del suo amato Juudaime, tanto che oramai bastava una sola sua
occhiata a far levare baracca e burattini... neanche dietro le sue
pupille crepitassero le micce di esplosivi.
Che non lo si
vedesse o meno vicino a Sawada Tsunayoshi, Gokudera Hayato c’era.
Magari dietro ad un angolo, con una sigaretta in bocca in un
atteggiamento atto a camuffare macchinazioni omicide, o dietro lo
sportello aperto di un armadietto, pronto ad intervenire nel caso
qualcuno avesse osato troppa confidenza con il Boss. Una volta
Yamamoto, a conoscenza del codice d’onore che gli circolava nel
corpo al posto del sangue, lo aveva persino scorto sul davanzale della
finestra. Il Guardiano della Pioggia cominciava a pensare che tutta
quella fedeltà fosse ben altro che semplice sentimento; era una
malattia, una gelosia ingiustificata. Una mania che rischiava di far
impazzire anche lui.
Eppure quella
sera a sorprenderlo non fu nulla di così eclatante. Di primo
impatto si diede dello stupido per aver schiuso la bocca in
un’espressione più tendente all’Urlo di Munch che a
normale stupore. E tutto per una cosa così normale.
All’apparenza.
Gokudera lo
stava aspettando. Appoggiato sul sedile di una motocicletta rossa, la
testa china, una sigaretta già mezzo consumata tra
l’indice ed il medio. La mano libera in tasca e il piede
sollevato sulla punta erano un ostentato sintomo d’impazienza.
“Go-Gokudera?”
L’italiano fece scivolare gli occhi su di lui. Soffiò fumo
dalle narici con l’atteggiamento del dragone irritato.
“Monta” buttò lì.
“Ah?” Pensò di essere sordo. Yamamoto si
fermò sul marciapiede con lui e lo inquadrò con
espressione intontita: “Che storia è mai questa?”
“Non devi andare a conoscere una persona?”
“Sì, ma...”
“Non guardami così.”
“Così come?”
“Come un allocco” concluse Gokudera in tono di sufficienza.
Gettò la sigaretta e la destinò senza pietà alla
suola della scarpa. “Un allocco, Yamamoto. Ci somigli parecchio,
quando fai quella faccia da coglione.”
A Yamamoto
scappò un sorriso. Con il tempo aveva imparato a tradurre il
registro di quel forsennato: “baseball freak” voleva dire “amico mio”, “faccia da coglione” – e altre varianti – “volto irresistibile”.
Hayato Gokudera aveva tutto un suo modo per dimostrare affetto alla
gente. Che lo facesse di rado era fatto ovvio, ma quando lo faceva,
allora quell’implicito “ti voglio bene” era per
sempre. Perché la fedeltà era la sua regola di vita.
“Hai finito di sorridere come un ebete? Ohi, baka...?”
“Arigatou, Gokudera.”
“Tsk.
Sdolcinato. Schifosamente, insopportabilmente sdolcinato.”
L’italiano mormorò un fior di imprecazioni mentre si
voltava e passava una gamba oltre la sella, per poi impugnare il
manubrio. “Allora allocco, ci muoviamo o no?”
Detto e fatto.
Takeshi montò con un balzo dietro di lui, facendo per cingergli
la vita come è buona norma fare quando si viaggia in due su una
motocicletta; ma Gokudera, rizzando il pelo proprio come Uri, gli
schiaffeggiò le mani incenerendolo con lo sguardo:
“So che vuoi approfittarne e
abusare di me mentre guido, ma non vorrai mica essere preso per un
maniaco, eh invasato?”
Yamamoto scoppiò a ridere e si affidò al telaio posteriore: “Yosh, yosh...!, tranquillo che non ho cattive intenzioni!”
“Ah,
un’altra cosa: è stato Juudaime a chiedermi di venire con
te, quindi non farne una questione personale. Non sai quanto mi scoccia
lasciarlo qui, circondato da emeriti idioti come Sasagawa.”
“Uhm-uhm.”
“Mi sembra di capire che non mi credi. Ho detto, Takeshi Yamamoto, che...”
“Quando
si parte?” scattò il moro allungando il collo oltre la sua
spalla per scoccargli un sorrisetto impaziente, e Gokudera si ritrasse
immediatamente emettendo quel che parve uno squittio allarmato. Poi,
superato quel momento di buffa agitazione, ripescò un tono saldo
senza dar peso al bollore che gli trivellava le guance e guardò
avanti.
“Vedi di
non volar via, piuttosto, scemo” sentenziò freddo, e diede
gas tutto d’un colpo.
Il ruggito del
motore esplose e la motocicletta saettò rapida in strada,
svanendo così fra le pozze di luce dei lampioni.
Direzione, Shiruka.
Sms to > Juudaime
“Mi
sono messo in viaggio con Yamamoto, e mi scuso per non avervi chiesto
il permesso. Sarò di ritorno il prima possibile. Abbiate cura di
Voi,
vostro fedelissimo braccio destro.”
* * *
Per
prima cosa. Shiruka è ovviamente un paesino di fantasia. Mi pare
significhi - ho perso gli appunti su cui avevo scritto, tra altro,
l'etimologia xD - "delfino bianco". Di sicuro "delfino", ma per quanto
riguarda il colore non sono sicurissima. Per il resto non ho nulla da
aggiungere, se non un alla prossima - o almeno è quello che si
spera!
Dew_
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Capitolo 2 *** Permanenza ***
CAPITOLO TERZO Permanenza
CAPITOLO SECONDO
PERMANENZA
Gokudera si accese un’altra
sigaretta e sbirciò l’orologio da polso: le venti e quindici. L’invasato aveva
varcato quell’uscio mezz’ora prima.
C’erano indizi elementari tramite
cui si poteva testare il livello d’impazienza di Hayato Gokudera. Uno di
questi, forse il più attendibile, era il numero di sigarette che si infilava
tra le labbra. Ebbene quella sera, fermo sul marciapiede e appoggiato alla
motocicletta, il suddetto individuo aveva perso il conto di quante volte avesse
ricorso all’accendino.
Pericolosamente nervoso.
Erano appena arrivati a Shiruka
dopo due giornate di viaggio. Lungo il tragitto avevano alloggiato in un motel,
l’unica sosta che si erano concessi. D’altronde, una volta sulla stessa sella,
si erano implicitamente e vicendevolmente confermati una regola: correre. Da
una parte perché Yamamoto non vedeva l’ora di conoscere sua madre, dall’altra
perché quel gran simpaticone del
conducente non aveva la benché minima intenzione di lasciare da solo il Decimo
per troppo tempo. Erano motivi assai differenti, ma la logica finale era la
stessa.
Shiruka era una bella cittadina, dopotutto.
Adagiata nel letto di una grande zona verde, non troppo trafficata, isolata dalla
caotica vita giapponese. In lontananza non si scorgeva altro che un mare di
colline. Non avevano faticato a trovare l’indirizzo esatto, complici le
indicazioni cui si erano affidati, ed erano vittoriosamente approdati davanti
ad una palazzina di quattro piani sulla strada. Era stato in quel momento che
Gokudera aveva deciso di aspettare fuori: Yamamoto gli avrebbe fatto un fischio
per invitarlo ad entrare. Ma dopo, assolutamente
dopo quel dopo che si era stabilito.
Per lui sarebbe stato troppo
spassoso assistere ad un incontro fra madre e figlio. Forse non avrebbe retto e
sarebbe scoppiato a ridere. Si sarebbe sganasciato, contorto, ucciso dal gran
divertimento. Sarebbe morto sul colpo.
Ci saresti rimasto secco, Hayato.
Ecco perché se ne stava sul
marciapiede, in attesa. E veramente i figli impiegano così tanto tempo per
abbracciare la madre? Mezz’ora? Forse ci si dimentica degli altri una volta che
si ha realizzato il desiderio più grande. Quante belle supposizioni.
Gokudera si scrollò le spalle e
chiuse gli occhi. Riprese a fumare. Takeshi Yamamoto poteva impiegarci tutto il
tempo che voleva, ma a lui, al braccio destro, non sarebbe importato nulla.
No di certo.
Avrebbe potuto provare di nuovo
per altre mille, diecimila volte, ma una scomoda razionalità gli confermava che
la porta non si sarebbe schiusa. Eppure, nonostante la realtà rimanesse quella,
il suo indice continuava ad abusare del campanello, anche se il trillo si
perdeva nell’atmosfera, rotolava giù dalla rampa di scale e veniva inghiottito
dal silenzio.
Ogni volta. Da mezz’ora.
Yamamoto ripiegò l’indirizzo e se
lo sigillò nella tasca del blazer. Era inutile sbirciarlo e sentirsi presi in
giro da quel foglio di carta: l’appartamento rimaneva vuoto. Forse sua madre
era solamente fuori casa, o forse aveva cambiato domicilio, città, nazione,
mondo. Forse non era nemmeno mai esistita.
Un secondo impulso gli vibrò
sulla punta del dito. Fece per premere ancora il campanello. Fece, perché in effetti fu un tentativo.
“Ohi, baka.”
Si voltò e ritirò immediatamente
la mano. “Gokudera? Non ti avevo detto di aspettarmi?”
“Mezz’ora, Yamamoto Takeshi”
puntualizzò dunque Gokudera, fermandosi sull’ultimo gradino e inquadrandolo da
dietro una nuvoletta di fumo. “E’ da mezz’ora che sei al quarto piano di questa
catapecchia. Magari, a furia di suonare, potresti scassare i vicini, proprio
non ti è saltato in testa?”
Yamamoto si limitò al silenzio.
“Proprio come ci si aspetterebbe
da un idiota del baseball. Dai, andiamo.”
“Si torna a Namimori?”
L’italiano, che aveva già mosso
il primo passo per scendere le scale, si fermò di punto in bianco. Pausa di
analisi, segnalata dal colpetto d’unghia sulla sigaretta. Poi, dandogli le
spalle: ”No. Probabilmente tua madre è fuori casa. Torneremo domattina. Bianchi
ha un appartamento, qui a Shiruka. Possiamo fermarci lì per la notte.”
Era un tono neutrale,
sottolineato dalle frasi brevi e concise. Più precisamente, era l’atteggiamento
cui Hayato Gokudera faceva ricorso per mascherare ogni accenno d’emozione umana,
e in quel caso venne celata la comprensione. Ma il tanto fiero braccio destro
non era certo un campione a recitare, così come Yamamoto aveva il piccolo
difetto di indovinare sempre i sentimenti degli altri.
Il moro si concesse solo un mezzo
sorriso, ma evitò di soffermarsi su quelle parole e preferì optare per una
tattica alternativa:
“Hai le chiavi?”
A rispondergli, un soffio di fumo
che annunciò un semplice: “E cosa sono
le chiavi?”
Yamamoto era ben consapevole che
il classico trucco dei film americani (“perché una forcina può aprire qualsiasi
serratura”) funziona sì e no tre volte su cento nella vita, per questo non si
chiese nemmeno se ne avesse una a portata di mano. Come se non bastasse, l’idea
di contestare l’implicita decisione di Gokudera non gli passò nemmeno per l’anticamera
del cervello: la porta dell’appartamento di Bianchi sarebbe comunque saltata in
aria e lui, da bravo complice, non avrebbe ammesso la delittuosa cooperazione. Non
ritenne necessario chiedere ennesime indicazioni perché la luce assassina negli
occhi del dinamitardo non ammetteva altre traduzioni.
Scesero le scale in silenzio, uno
prigioniero dei propri pensieri e l’altro dell’asprigno sapore della sigaretta.
Non si guardarono sebbene i loro occhi desiderassero incrociarsi. Forse si
sbirciarono di profilo per soppesare i loro diversi silenzi, ma non parlarono e
non si fermarono finché non ebbero raggiunto il pianoterra della palazzina. Lì
ad un tratto Yamamoto ghiacciò sul posto, con sguardo vigile e il piede ancora
sull’ultimo gradino. Gokudera si voltò, indispettito dal tacere dei suoi passi:
“Ohi, prova a tornare indietro e
ti giuro che me ne torno dal Decimo seduta stante.”
In risposta, il moro si portò
l’indice alle labbra senza muoversi di un centimetro, come se stesse ascoltando
qualcosa. Una vena d’irritazione vibrò minacciosa sulla tempia dell’italiano:
“Ti ho detto...”
“Non senti?”
“La disperazione dei temerari
atomi sopravvissuti nel tuo cervello? Oh sì che la sento, razza di idiota.”
“Sembra....”
“...sembra?”
Yamamoto piroettò improvvisamente
giù dal gradino e guizzò dietro alle scale, dove si apriva una piccola
rientranza scavata nel cemento. Quando la sua testa spuntò da dietro l’angolo,
indirizzò a Gokudera un sorrisetto:
“Ehi Gokudera, vieni un momento.”
Il braccio destro soffocò uno
sbuffo, alzò gli occhi al soffitto, si trascinò svogliatamente verso
quell’emerito idiota del baseball che proprio come un allocco sbucava da dietro
il muro. Fu quando lo raggiunse che la sigaretta fra le sue labbra si inclinò
verso il basso, complice la mandibola cascatagli teatralmente dallo sconcerto.
Nella stretta e polverosa
rientranza della parete c’era una bambina rannicchiata su se
stessa. Dimostrava sei o sette anni e si stringeva le caviglie
fissandoli allarmata coi grandi
occhi castani. Le sue pupille saettarono intimorite in quelle del nuovo
arrivato, e Gokudera ebbe la scomoda, terribile sensazione
d’essere arrossito.
Rimase ad osservarla per altri istanti ancora prima di riscuotersi da
quell’ingiustificato disagio e mordicchiare la sigaretta
storcendo la bocca:
“Che diavolo ci fai lì,
ragazzina?”
Lei scosse il capo e se lo portò
tra le ginocchia senza rispondere.
“Tsk. Pulce.”
Yamamoto scoppiò a ridere e
l’italiano lo spiò con un occhio accartocciato. Tra tutte le reazioni che si
aspettava da lui, quel suo atteggiamento gaio era proprio l’ultimo della lista
di attesa. Come no.
“Cos’hai da ridere, baka?”
“Tu non ci sai proprio fare con i
bambini, huh?”
“Gueh??” Fu come lo starnazzare di un’anatra. Gokudera pietrificò
sul posto e rimase a guardarlo con gli occhi ora spalancati in una buffa
espressione di imbarazzo. Bastarono due secondi ed eccolo che già si schiariva
la voce e alzava lo sguardo con nonchalance: “Non dire stronzate.”
Si indovinava un leggero rossore
sulle sue gote. Leggero giusto perché
celato in parte dalla pettinatura alla bell’e meglio. Il moro si concesse
un’altra risata e tornò nelle iridi della bambina, accucciandosi alla sua
altezza con un sorriso a trentadue denti.
“Come ti chiami, piccola?”
“La mamma mi ha detto di non
fidarmi degli sconosciuti.”
“Hai una brava mamma. Io sono
Yamamoto Takeshi”, e le tese la mano. “Ora mi conosci.”
Lei rimase un momento a
guardarlo, poi abbozzò un sorriso e gli sfiorò il palmo con le dita. “Yukiko.”
Yamamoto inclinò il capo e
sorrise. Gli faceva piacere avvertire quel tocco candido e sincero. Non si
scostò.
“Cosa ci fai qui, Yukiko?”
“La mamma non torna.”
“E dov’è andata?”
“Fuori. Ma non torna.”
“Da quanto è fuori?”
“Tutto il giorno. Non è venuta a
casa.”
“E il papà?”
“La mamma non mi ha mai parlato
di un papà.”
Forse avrebbe fatto bene a non
prendere nemmeno in considerazione l’idea che gli stava rimbalzando nel
cervello. Gokudera non avrebbe mai accettato. Lui odiava i bambini, ne aveva
quasi paura; paura che i sorrisi innocenti dei più piccoli gli facessero
ricordare quell’infanzia che gli era stata così brutalmente portata via. Eppure
non poteva andarsene e lasciarla lì.
La mamma non torna. Il papà non c’è mai stato.
Bastò solo il suo silenzio dopo
le parole della bambina a far accendere la miccia del dubbio nell’acuto
intelletto di chi gli stava alle spalle:
“Yamamoto-Takeshi. Non-pensarci-nemmeno.”
“Ci ho già pensato, Gokudera.”
“Quella pulce...”
“...verrà a casa con noi”
concluse Yamamoto voltandosi e scoccandogli un sorriso radioso.
“NO!” strillò Gokudera, inorridendo al solo pensiero. La sigaretta
che con tanto coraggio era sopravvissuta a quel serrato scambio di battute fra baseball freak e bimba si arrese e cadde
in battaglia, stramazzando a terra in un ultimo crepitio di cenere. “Brutto
pezzo di....”
"Yukiko-chan”, lo ignorò l’altro,
volgendo un gran sorriso alla bambina. “La mamma è fuori da tanto e tu hai
fame, giusto?”
“Uhm-uhm.”
“Allora vieni a mangiare qualcosa
da noi? Il nostro appartamento è poco distante.”
“Ya-Yamamoto!”
Il moro inquadrò l’italiano con
una festosa sbirciata: “Che c’è?”
“Com’è che hai deciso che
l’appartamento è nostro? Nostro!”
“Così, sai, di volata!” cinguettò
giocondo l’altro.
Gokudera serrò meccanicamente i
pugni a tenaglia per non saltargli al collo. Trattenere gli istinti omicidi non
era mai stato il suo forte. Un giorno o l’altro l’avrebbe ucciso, quell’emerito
fringuello di bosco.
Yamamoto sollevò la bimba in braccio
arruffandole i capelli. “Che ne dici?” propose con l’atteggiamento di un
borioso zio, e la bimba batté allegramente le mani: “Sì sì sì!”
“Visto? Stasera avremo compagnia,
Gokudera!”
L’italiano si portò una mano in
viso. Era mai possibile che quell’idiota fosse così lunatico? Solo un momento
prima era sull’orlo della depressione ed ora era tornato il solito cretino di
sempre. Non sapeva quanto sarebbe sopravvissuto con lui con quattro pareti attorno.
Sarebbe impazzito.
“Vedi di non addormentarti lì dove
sei, allocco.”
“Non dirmi che saresti pronto a
lasciarmi il letto!” era stata la pronta risposta, seguita da una risata.
Gokudera si era chiuso sulla
terrazza senza rispondergli. Neanche mezz’ora dopo, come da previsione,
Yamamoto Takeshi dormiva sul divano.
Non erano nemmeno le nove di sera
quando l’italiano, lanciando un’occhiata alla portafinestra, realizzò che l’idiota
era annegato nel mondo dei sogni nonostante la raccomandazione.
Tra le sue braccia, la piccola Yukiko, intenta a condividere quel pisolino
fuori permesso. Molto probabilmente era stata la cena abbondante a conciliare
il sonno.
Tornò a guardare la strada
chiazzata dalla luce dei lampioni. Gli aveva esplicitamente consigliato, o meglio ordinato, di non
appisolarsi in salotto non tanto perché aveva intenzione di cedergli la camera
da letto – ma nemmeno per scherzo! -, quanto perché l’eventualità dell’abbiocco
improvviso gli avrebbe imposto di comportarsi da bravo coinquilino.
L’italiano pensò. Rimuginò.
Tentennò. Sbuffò. Alla fine si arrese. Gli pareva di aver scorto qualcosa a riguardo sulla sedia della
cucina. Cancellò dalla mente gli ultimi ripensamenti e rientrò.
Non gli aveva mai augurato la
buonanotte con quel gesto che di norma si dedica più ad un figlio o ad un
fratello, eppure quando adagiò la coperta sul dormiente Yamamoto si sentì quasi
bene, tanto che per non destarlo si affidò ad una delicatezza che nemmeno
credeva di possedere. Rimase a guardarlo.
Era veramente così bello riposare
tra le sue braccia? Era incredibile la serenità che si leggeva sul volto di
entrambi, baseball freak e Pulce,
come se se la fornissero a vicenda. Anzi, come se la condividessero. Storse il naso a quel verbo balenatogli in mente.
Com’era possibile condividere la felicità? Com’era possibile, semplicemente,
trovarla persino nella delusione? Yamamoto era venuto da Namimori per
incontrare la madre, senza trovarla, eppure in quel momento era quello di
sempre. Il suo respiro scandito e tranquillo, le labbra appena schiuse, i
capelli neri così puerilmente arruffati sul bracciolo del divano. E infine quel
delizioso particolare, insomma quel leggero rossore, indizio di stanchezza, ad
accendergli le gote.
Takeshi era felice nella
disperazione più assoluta.
Gokudera sentì di odiarlo. Lo
odiava e al tempo stesso si stava impegnando per ammettere a se stesso di non
volergli bene. Forse per senso del dovere. Lasciò che la coperta coprisse anche la bambina, che contorse il
naso prima di cercare rifugio sotto il mento di Yamamoto, e poi si sedette sul
tappeto, appoggiato proprio al divano, distendendo il braccio sul cuscino. Non
sapeva perché si fosse accucciato lì sotto, sta il fatto che rimase ancora a
pensare a come quella strana creatura di nome Yamamoto Takeshi riuscisse a
mentire così abilmente con il sorriso.
A differenza di lui, che di sorrisi non sapeva nemmeno farne.
* * *
Il
nome Yukiko è il primo che mi è saltato in testa. "Yuki"
significa "neve" e "-ko" è una delle classiche terminazioni per
i nomi giapponesi femminili. Avevo tanta voglia di inserire questo personaggio, dal momento che mi piaceva l'idea che
Yamamoto e Gokudera dovessero vedersela con una bambina proprio come dei... posso dire "genitori"? Lo so, in questo
momento Hayato vorrebbe uccidermi xD Nota sull'appartamento di Bianchi: in teoria ha 17 anni, ma non ho tenuto conto
dell'età, quindi in ogni caso l'appartamento è registrato a lei (?) Perdonatemi questa mia libertà.
Nel prossimo capitolo, una notizia da Namimori rischia di incrinare i già dubbi rapporti di pace fra i due coinquilini.
Alla prossima!, e grazie a coloro che hanno recensito ed aggiunto
la storia fra le seguite e - doppiamente grazie - fra le preferite <3
Dew_
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Capitolo 3 *** Sciacallo ***
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO TERZO
SCIACALLO
La prima sensazione fu quella di
un suono ovattato e arido, assorbito dalla foschia della stanchezza.
Ritmato.
Toc toc. Tuc tuc.
Gokudera Hayato aprì piano gli
occhi per ammortizzare l’impatto con la luce bianca del salotto. Gli ci vollero
pochi secondi per intuire d’essersi appisolato sul tappeto, seduto lì dov’era
contro al divano. Seguì il suo primo istinto e si lanciò un’occhiata alle
spalle, scostandosi dal cuscino con pungente rapidità: Yamamoto e Yukiko
stavano ancora dormendo e non sembravano intenzionati a svegliarsi. Soffocò uno
sbadiglio e si alzò sulle gambe infiacchite a causa dell’orrida posizione in
cui si era fatto cogliere da Morfeo. Si era completamente dimenticato di ciò
che lo aveva destato quando alle sue orecchie giunsero di nuovo quei colpi:
toctocTUCTUC!, protestò vivamente la porta.
Già, la porta. Qualcuno stava
bussando. Squadrò l’orologio da parete e la sua mente tradusse “ventidue e
trenta”. E chi aveva avuto la strabiliante idea di venirli a trovare a
quell’orario? Si diede una scrollata ai capelli dirigendosi pigramente
all’ingresso.
Tanto per onor di cronaca, era
stato facile violare l’appartamento di sua sorella. Gli era bastato un piccolo
candelotto per far saltare solo la serratura, e una volta dentro, per assicurarsi
di “fottere eventuali ladruncoli” (come aveva annunciato lo stesso Mr. Smokin’
Bomb), aveva agganciato una piccola asse scorrevole sulla porta, così da
barricarla qualora ce ne fosse stato il bisogno. Insomma si era comportato,
almeno a detta di quel credulone di allocco, come un vero genio.
Ma mentre faceva scorrere
oziosamente la sbarra di legno, Gokudera non poteva immaginare che la sua
grande opera sarebbe stata letteralmente distrutta.
Non poteva, non quando riteneva d’aver svolto un lavoro coi fiocchi; non quando
non si aspettava di vedere lui. Il
tempo di aprire un varco giusto per buttar fuori la testa e azzardare un: “E
chi cazz...?”
Esatto, quest’attimo.
Un’onda anomala, forse eccitata
da quella lama d’ingresso, gli si abbatté addosso con l’educata intenzione di
buttar giù la porta. Un: “Bianchi-chuaaa...!”
, un: “Eek!” del malcapitato
inquilino, e Gokudera franò sul pavimento accompagnato dal botto della porta
che colpiva il muro.
E dal peso di qualcuno sui
fianchi.
“...uaaa-ARGH!” inorridì Shamal, guizzando immediatamente in piedi nel
momento in cui si trovò a cavalcioni sopra al suo allievo. “Accidenti, un uomo...! Un... Ah, Hayato!”
“Sha-Shamal!” raggelò l’italiano, incollato al pavimento dallo
sconcerto. “Adesso mi vuoi spiegare perché mi sei saltato addosso? E
togliti quella mostruosa espressione dalla faccia, schifoso maniaco!”
“Schifos...? Ah!”, e
ricompose le labbra così oscenamente arricciate nel viscido tentativo di un
bacio. “Avanti Hayato, non ho fatto apposta, lo sai... io non vado mica con gli
uomini” puntualizzò scoccandogli un sorrisino.
Gokudera si rimise in piedi e lo
inquadrò truce. Stava già per scostare i lembi della camicia e pescare tre
candelotti per mano quando una risata cristallina lo gelò sul posto. Si voltò
con la lentezza di un automa e un occhio incartocciato dall’irritazione,
macinando tra i denti il primo nome che gli saltò in mente:
“Yamamoto-Takeshi. Che ti ridi?”
Il moro si gustò tutto il
divertimento senza fare troppi complimenti e sventolò la mano soffocando gli
ultimi spasmi d'ilarità: “Lascia stare, lascia stare...”. Persino Yukiko, che
per un momento se n’era rimasta intontita, si unì alla sua infantile felicità e
cominciò a battere le manine, incurante del chiassoso risveglio.
Shamal si rassettò un ciuffo
castano dagli occhi e si ficcò una mano in tasca con tanto di spaventosa
nonchalance. “Hayato”, riprese in tono roseo, “non dovresti prendertela così
ogni volta. Poi rischi un esaurimento nervoso, fidati di un dottore.”
“Tu sei un dottore solo quando ti
fa comodo.”
“Bella testolina che hai. E io
che pensavo di trovare Bianchi-chan. Dalla strada ho visto le luci accese e
ho pensato ci fosse lei in casa... non è qui, uhm?”
“Razza di idiota, quella non si
scollerebbe da Reborn-san neanche con una dinamite nelle mutande” lo aggredì
acido Gokudera. “Dove vuoi che sia se non a Namimori? Ma dico, tu la testa la
usi solo per andare a donne?”
“Ah-ah.” L’indice dell’uomo
scattò da destra a sinistra in un dondolio di ammonimento. “Qui ti sbagli.
Cioè, almeno sulla penultima cosa. Sono venuto fino a Shiruka per accertarmi
che fosse veramente partita.”
“Partita?” si allacciò Yamamoto,
scivolando a sedere sul divano ed arruffandosi i capelli con espressione
assonnata. “Che intendi?”
“Per l’Italia. A quanto pare i
Varia hanno avuto dei problemi e Sawada e compagnia sono dovuti part...”
“Il Decimo?” si precipitò Gokudera. “Il Decimo è partito per
l’Italia?”
“Non hanno avuto il tempo di
avvisarvi, allora. Ebbene”, e Shamal prese un gran respiro chiudendo gli occhi.
“Mi è stato detto che sarebbero partiti ieri. Non chiedetemi altro perché non
saprei rispondervi.”
Ci sono cose che un braccio
destro detesta, e non è il non essere informato dal proprio boss, anzi: una
spalla che si rispetti sa bene che se non viene coinvolta, allora c’è una ragione che ha convinto il superiore a
non riferire nulla. Ma un ottimo collaboratore, per essere appunto ottimo, deve conoscere alla perfezione
colui per il quale lavora, e di conseguenza riuscire facilmente ad indovinare
la suddetta motivazione. Questo, in
breve, il requisito minimo dell’impeccabile right-hand man.
E Hayato Gokudera realizzò ancor
prima che Takeshi Yamamoto potesse anche solo pensarci. Questa consapevolezza,
che gli lampeggiò nella mente nero su bianco, ebbe il potere di pietrificarlo
sul posto per una buona manciata di secondi. Poi, a imitazione di un copione
hollywoodiano, il tanto fiero Smokin’ Bomb venne investito da un fremito incondizionato
che gli impartì di lasciare il salotto a passo di marcia.
Quell’uscita di scena fu
ufficializzata dal perentorio colpo della porta dello scantinato.
Yamamoto sbatté le palpebre,
fissando inebetito là dove il coinquilino era scomparso. “Go-Gokudera...?”
“Hayato, Hayato...” commentò
Shamal, scuotendo il capo con un sorrisetto. “Il solito.”
“Che diamine gli è preso?
...Shamal?”
“Perché siete qui a Shiruka?”
“Come?” Il moro non pescò
subito la finalità della domanda. Si grattò la fronte a labbra arricciate:
“Ehm... cose personali.”
“Qualcosa che ha a che fare con
la famiglia?”
“Diciamo che... sì, è abbastanza
urgente.”
“Come immaginavo.” Pausa di
riflessione. Poi, a spalle alzate: “Penso proprio che Sawada abbia preferito
non dirvi della partenza per non farvi rinunciare a questo vostro impegno. Se
vi avesse informati, sareste andati con lui. E Hayato...”
“...per colpa di questo mio
viaggio...”
“...non ha potuto seguire il suo
amato Juudaime” concluse Shamal in tono smeraldino. “Ragazzo mio, la convivenza
non promette bene.”
Yamamoto si azzannò il labbro, si
passò una mano sul collo. Gokudera non gliel’avrebbe mai perdonato: Tsuna si
era allontanato senza di lui dal Giappone e non si stava parlando della casa
dall’altra parte della strada. Era più corretto dire dall’altra parte del mondo. In Italia, così lontano, dove tra
l’altro, a detta di quel dottore casanova, le cose non andavano per nulla bene.
“Gokudera.”
“...”
“Ohi, Gokudera? So che sei lì
dentro.”
“Ti sei per caso appostato
fuori?”
“Sì. No, forse...”
“Ti consiglio di non scassare se
non vuoi che ti faccia saltare in aria, sfigato
del baseball!”
La porta sussultò all’improvviso,
complice un colpo ben assestato dall’interno, e Yamamoto balzò via con il cuore
in gola. “Avanti Gokudera, ne parliamo! Io... mi dispiace!”
Gli rispose il silenzio. Shamal,
che se n’era rimasto spettatore di quel vano tentativo, si passò in rassegna le
unghie con espressione desolata.
“Ma insomma, aiutami a farlo
uscire!”
“Stai perdendo il tuo illustre
autocontrollo, Yamamoto Takeshi?”
"Ehm... no.” Il moro concepì un
fastidioso bollore sulle guance. “M-ma... come posso dire, voglio parlare con
lui... scusarmi. La colpa è solo mia.”
“Lo conosci, no, il tuo amico? La
sua testardaggine è insuperabile, credimi. Non uscirà.”
“Shamal...”
“Sarà meglio che vada, tanto
Bianchi-chan non c’è.”
“Eh? Come?, così di punto in bianco? Ma Gokudera...!”
“La smetti di preoccuparti per
lui?” Shamal si era fermato sull’uscio, il tono
improvvisamente più arido. Al che Yamamoto, ghiacciandosi di colpo, avvertì
l’incomoda sensazione di essere nel torto. Di certo non si aspettava quella
rude presa di posizione, perché in quel momento, testimone il fremito nelle
iridi, le labbra gli tremarono un poco:
“Preoccuparmi... per lui?”
Riprendere le parole
dell’italiano fu l’unica cosa che scoprì di saper fare. L’uomo sulla soglia si
umettò le labbra in un gesto apatico. Non l'aveva mai visto così serio prima d'ora.
“Hayato ha paura di tutto
l’affetto che gli riservi.”
“Paura... dell’affetto?”
“Allora hanno ragione tutti
quanti, a dire che sei troppo tenero.”
“Io... tenero?”
“Non affezionarti a Hayato”,
concluse criptico Shamal, “e gli riserveresti solo la fatica di capirti. Fagli
questo favore, se veramente sei suo amico.”
La porta si chiuse strozzando
quel fragile scambio di battute. Forse Yamamoto avrebbe fatto bene a prendere
in considerazione quel consiglio, e la verità è che fece proprio così; ma
chiedere a uno come lui di ignorare i sentimenti altrui è come chiedere ad un
lanciatore di giocare in battuta.
Non funzionerebbe.
Baseball Freak aveva troppo cuore. Baseball Freak era troppo sentimentale, troppo affezionato. E forse
Baseball Freak era anche troppo
bambino. Ma quest’idiota si piaceva
per quello che era e mai avrebbe cambiato le regole con cui era sempre vissuto:
sport e amici. Faceva parte di un codice d’onore, di una risolutezza che mai e
poi mai avrebbe abbandonato. Per lui era impossibile aver paura dell’affetto,
non quando uno dei suoi fondamenti era proprio l’amicizia. Shamal gli aveva
chiesto troppo e per questo non gli diede retta.
Gokudera non sarebbe uscito per
un bel po’. Era stato anche furbo a pescare la chiave dello scantinato dal mobile vicino alla
porta, così da potersi barricare in quegli scarni metri quadrati di buio totale. Molto
probabilmente avrebbe adottato la tecnica di sopravvivenza degli sciacalli, optando
per veloci perlustrazioni notturne al di fuori del nascondiglio in cerca di
qualcosa da sgranocchiare, prima di tornarsene nella tana alle prime luci del
giorno. Nella testa del Guardiano della Pioggia balzò l’idea di sfondare la
porta, ma per un motivo non ben identificabile sapeva anche che sarebbe stata
una pessima scelta. Non perché impossibile, dato che il legno non era nemmeno
eccellente in resistenza, quanto perché quell’uscio sigillato assunse ai suoi
occhi una valenza particolare ed inaspettata.
Erano i pensieri di Gokudera. Il
suo mondo, i suoi rimorsi, i suoi silenzi. E secondo questa teoria, Yamamoto
mai si sarebbe permesso di irrompere come un barbaro in quell’angolo di
intimità. Così scoprì anche di capirlo, almeno un poco, tanto che non tentò nemmeno
un nuovo dialogo.
Ci fu solo una cosa diversa.
Per un giorno intero, fuori dalla
porta dello scantinato, si intervallarono piatti caldi in attesa di un
silenzioso cliente troppo cocciuto per permettersi anche solo un assaggio.
Eppure la mano che li cucinava non si stancò mai di prepararne di nuovi, un po’
come una battitore che, ostinato anch’egli, mai si stanca di colpire
impeccabilmente una pallina dietro l’altra.
Si trattava, tutto sommato, di
un’affettuosa ed insolita gara di testardaggine.
Quasi ventiquattro ore di
permanenza ininterrotta nella tana portarono lo sciacallo alla resa. Furono i
piagnucolii dello stomaco e l’odore della polvere a costringerlo ad uscire allo
scoperto. Per non ferire oltremodo il proprio orgoglio, quella strana razza di
canide dalle fattezze umane mise fuori il muso solo a mezzanotte passata: i
bisogni fisiologici chiamati “fame” e “sete” si erano fatti insistenti fino al
punto di divenire non più ignorabili. E poi, a dirla tutta, la vescica s'era fatta pesante.
Una volta sporto il naso oltre il
ristretto spiraglio che si era concesso, l’animale annusò cauto l’atmosfera.
Silenzio.
Si guardò circospetto attorno.
Assenza di esseri viventi.
Mosse un primo passo.
Nessuna reazione dall’ambiente esterno.
Così, come se nulla fosse
successo, il fiero Hayato Gokudera se ne uscì quatto quatto
dallo scantinato.
Stava già per zompare verso la cucina – dove sicuramente
avrebbe trovato
qualcosa da sgranocchiare – quando si rese conto d’aver
rischiato di rovesciare
una ciotola di riso lasciata nell’angolo vicino alla porta.
Storse il naso e accartocciò le labbra in un’espressione
di critica.
Quell’idiota del baseball gli
aveva sul serio preparato un piatto caldo dopo l’altro nella speranza di farlo
uscire dal nascondiglio. Un po’ come il cacciatore che piazza le tagliole per
i leprotti. Così si spiegò gli odorini invitanti che erano filati alle sue
narici attraverso la serratura. Un calcio ben assestato, un rotolio ovattato, e
il pasto ancora tiepido servì a sfamare le assi del pavimento. Ma che andasse
al diavolo, Yamamoto Takeshi.
Una volta in cucina accese solo
la piccola lampada sul bancone e frugò nella dispensa. Sapeva
che Bianchi si era trattenuta a Shiruka circa una settimana prima e
forse era rimasto qualcosa. Non saper cucinare era
certo un peccato, in quanto avrebbe dovuto far affidamento solo su pane
e fette
biscottate, ma questa era sicuramente la soluzione migliore
perché mai si
sarebbe presentato in ginocchio da quell’allocco ritardato per
reclamare un
pasto caldo. Questione d’orgoglio. E a proposito di allocco, i
suoi occhi
guizzavano ad intermittenza verso il corridoio, pronti a catturare il
benché
minimo movimento estraneo ai piani. Anche se di certo l’idiota
stava dormendo in
camera, la prudenza rimaneva di regola.
Con mani febbrili acciuffò un
pacchetto di grissini e si ritirò dalla mensola. Bastò una sensazione, un lieve
strattone ai jeans consunti, e il tanto sospirato nutrimento gli scappò dalle
dita finendo a terra. Gokudera si voltò, abbassò lo sguardo. Gli servì un
attimo di analisi perché i suoi occhi venissero scossi da un fremito assassino:
“Che vuoi, pulce? ...Ma cazzo,
sei ancora qui?”
La piccola Yukiko, con indosso
solo un paio di mutandine color pesca, rimase a fissarlo ancora per qualche
istante con le labbra appena schiuse. Per sua fortuna non aveva inteso tutto
della domanda, tanto che in un pigolio si limitò a chiedere: “Hayato è arrabbiato?”
“Chi ti ha detto il mio nome?”
“...”
“Quel cretino del baseball?”
“Chi è?”
“Sì, ho capito, è lui” Gokudera
trattenne un ringhio e si chinò per raccogliere il misero spuntino. Non aveva
proprio voglia di parlare con quel microbo, ma la sensazione d’essere fissato
da quegli occhioni incredibilmente espressivi gli rodeva lo stomaco. Era
impossibile sostenere il peso di quelle iridi immobili ed insistenti che
guardavano solo lui reclamando un po’ di attenzione dal basso. “Ohè pulce”,
ricominciò dunque in tono neutrale, mordendo con ferocia la carta per poter
aprire il pacchetto, “il cretino è a dormire?”
“Chi?”
“L’allocco... il fringuello... Yamamoto, o come diavolo lo chiami.”
Yukiko fece di sì con la testa.
“E tu non dormi? Ma lo sai che
ore sono?”
“Non ci riesco.”
“Ah, ottimo. Ti pare un buon
motivo per ronzarmi attorno? Anzi, dovremmo consegnarti alla polizia,
non è possibile che tua madre non sia ancora tornata” le
rinfacciò aspro lui. Si infilò un grissino tra
le labbra mentre già, quasi quel gesto gli avesse ricordato una
fonte di
nutrimento ancor più importante, apriva un cassetto e ne pescava
un accendino e
un pacchetto di sigarette. Era da ore che non si faceva una fumata a
dovere,
tanto che in quel momento la voglia di masticare il sapore asprigno del
fumo era
più forte della fame e della sete messe assieme. Il silenzio che
ricevette in
risposta lo incuriosì non poco e l’occhiata di striscio
che indirizzò alla
bambina fu l’indizio di uno stringato eppur indiscutibile
desiderio di sapere:
“Allora, pulce?”
“Takeshi è agitato.”
“Solo per questo non riesci a
dormire?”
“Uhm-uhm”
“Dormi in salotto, no?”
"Ho paura del buio.”
“Tsk, c’era da immaginarselo.”
Gokudera si concesse un ultimo grissino prima di accendersi una sigaretta e
soffiare fumo dalle narici. “Tutti i bambini hanno paura del buio, come hai
fatto a non pensarci, Hayato?”
Il suo era un tono di critica
verso se stesso, ma ancora una volta il silenzio che seguì riuscì a ribaltare
il suo intento di indisponibilità. Incrociò di sfuggita gli occhi di Yukiko:
"Hai detto che è agitato?”
“Uhm.”
“Quello non riesce a stare fermo
neanche mentre dorme.”
Era una conclusione sbrigativa,
frettolosa di chiudere quello scambio di battute alla luce soffusa
della
cucina. Eppure una traditrice parte della coscienza gli
bisbigliò che in fondo
era inutile negarlo alla razionalità; negare che sì,
spesso aveva visto
Yamamoto dormire - spesso Juudaime li invitava a casa sua per la notte
-, e mai si era agitato nel sonno, come se durante la giornata
desse sfogo a tutta quella sua grinta spaventosa. Insomma
l’idiota, quando
riposava, era sempre tranquillo. E allora perché la pulce gli
aveva appena
detto che quella notte non era così?
Ma soprattutto... perché ci stava pensando?
Gokudera mordicchiò la sigaretta e
incitò la bambina con delle leggere spinte alla schiena: “Su su, muovi le
zampe... Ti ci accompagno io, a letto, ma vedi di restarci.”
Yukiko obbedì senza spiccicar
parola e si aggrappò alla sua camicia per accertarsi di non restare
indietro. Il ragazzo le scoccò un’occhiataccia come di rimprovero, subito
sostituita dalla classica espressione indolente che sfoggiava nelle occasioni
più imbarazzanti. Non era nei suoi piani camminare con una pulce incollata
addosso, ma quello era un sacrificio necessario nonostante odiasse ammettere –
e si rifiutò categoricamente, almeno di prima battuta, di farci anche solo un
pensiero – che quell’inconveniente era di
fatto indispensabile per il raggiungimento del vero obiettivo.
Perché buttare un’occhiata in
camera da letto non era una brutta idea, no? Era diventato così schifosamente
sdolcinato, sotto l’influenza di quel fringuello di bosco, da preoccuparsi
persino per gli altri, nevvero, Gokudera Hayato?
Si fermarono sull’uscio
semiaperto. La sonnolenta luce della strada filtrava attraverso le tende e si
scioglieva nel silenzio solo apparente della stanza.
Solo apparente.
Yamamoto dormiva. Sdraiato su un
fianco, la finestra alle spalle, le coperte raccolte disordinatamente poco al
di sotto dell’ombelico. Gokudera si sfilò la sigaretta di bocca e soffiò per
sfumare la fastidiosa nuvola di fumo che non gli permetteva una visuale
dettagliata. I suoi occhi si assottigliarono.
C’era qualcosa che non andava,
notò. Glielo leggeva sulle labbra, serrate e febbrili, come lo si indovinava
sul lucido velo di sudore che gli imperlava viso e busto; persino i suoi occhi
fremevano, accompagnati da un’insana espressione
di disagio. Fu allora che venne il dubbio.
“Ohi”, bisbigliò Gokudera, senza
scostare lo sguardo dal moro, “di’ un po’, oggi è uscito di casa? Stamattina,
ad esempio?”
“Mi ha detto che doveva fare una
cosa, però è rimasto con me tutto il tempo.”
“Quindi non è uscito?”
Yukiko negò in silenzio, la mano
ancora aggrappata al lembo della camicia.
“Tua madre non è ancora tornata,
pulce?”
“No.”
“La sai una cosa? Anche Yamamoto aspetta che qualcuno torni.”
“Anche lui?”
“Uhm. Mi aspettavo che uscisse
per incontrare questa persona, ma a quanto pare ha preferito aspettare che
fossi io quello ad uscire.”
“E lui chi aspetta?”
Gokudera si riportò la sigaretta
fra le labbra e in quel momento nei suoi occhi si riflesse una strana luce
abilmente mascherata dal soffio di fumo dalle narici. Con l’esperienza aveva
imparato a nascondere i sintomi di una debolezza da sempre affrontata ma mai
sconfitta... Un piccolo difetto nella fierezza in cui si nascondeva
fin da bambino. “Sua madre” si pugnalò senza pietà. “Anche lui aspetta questa
lei. La sua è malinconia, Yukiko: non farti incantare dai suoi sorrisi.”
“Il fratellone si comporta così
perché è triste?”
“Molto. E sorride sempre per lo
stesso motivo.”
“Ma anche tu sei triste. Aspetti
la mamma come noi?”
A lui scappò un sorriso. Ma sì,
forse oramai ne valeva la pena. Facciamoci del male in compagnia. Non sono da
condividere, i sentimenti?
“La mia è in ritardo di qualche
anno. I ritardi sono una brutta bestia, lo sai, pulce? ...Nah, non importa,
adesso è troppo tardi. Semplicemente non è tornata fino ad ora e non penso
tornerà più.” Si scostò dallo stipite e indirizzò alla bambina uno sguardo
incolore sfumato dallo schizzo mal riuscito della serenità: “Fila a letto,
adesso. E non dire al cretino che sono uscito.”
Yukiko scivolò in camera senza
dir altro. Si arrampicò sul grande letto e si accoccolò al petto di Yamamoto. A
Gokudera sembrò di scorgere un sorriso sulle labbra di quel meraviglioso
idiota, ma non volle restare a guardare. Fu a quel punto che il velo sfuggente
del fumo lo salvò dal desiderio di coricarsi lì con loro, come una piccola,
amorevole famiglia.
* * *
Lo dico in forma ufficiale: Yukiko non è la sorellastra di Yamamoto x) So che ad una prima analisi del caso
potrebbe parere così, ma preferisco bruciare in partenza le vostre speranze per scagionare l'apparente prevedibilità
della fic.
E ancora. Questo capitolo presenta evidentemente Gokudera in vesta di protagonista. Mi piace, avrete notato,
ricalcare il suo disagio - si trova in una situazione a lui estranea. Eh sì, Haya-kun è un irresistibile
dessert per noi amanti dell'introspezione malinconica xD
Nel prossimo capitolo, Yamamoto prenderà un'iniziativa che rientra decisamente nel suo stile.
Ne approfitto per avvisare che aggiornerò molto probabilmente il prossimo weekend, data l'ingente
quantità di studio che i prof ci hanno rifilato ;w; Il prossimo
capitolo è scritto a metà, quindi dovrò riprendere
in mano la stesura.
Pareri negativi e/o positivi sono, 'manco bisogno di dirlo, ben accetti.
Alla prossima, e grazie a coloro che hanno aggiunto in seguite/preferite.
Benvenuti a bordo! <3
Dew_
|
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Capitolo 4 *** Combustione ***
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUARTO
COMBUSTIONE
L’appassionato abbraccio di una doccia fredda
spazzò via tutti quegli insani propositi. Dormire insieme a
loro? Magari far suo il privilegio di Yukiko? Il privilegio di
abbracciare l’idiota, avvertire il suo respiro, il suo calore
umano...
Doccia gelida, ghiacciata, da ipotermia. Obiettivo:
sopprimere tutti quegli stupidi ed infondati pensieri. Un altro quarto
d’ora sotto al massaggio di quelle dita d’acqua e la
realtà tornò al proprio posto. Gokudera uscì dalla
cabina coi piedi ben piantati a terra. Basta pensare ai problemi
altrui, basta confermare che sì, Yamamoto aveva preferito
aspettare lui al posto della madre. Lanciò varie occhiate
all’orologio per tenere sotto stretta vigilanza il tempo a
disposizione e decise che c’era ancora la possibilità di
qualche altro spuntino. Si vestì alle bell’e meglio con un
paio di jeans macilenti e una canottiera rossa per poi darsi una
scrollata ai ciuffi ribelli davanti allo specchio.
Sveglia Hayato. Il Decimo sta bene. Tu stai bene. Tutto va a meraviglia.
Ebbe dei dubbi sull’ultimo pensiero
quando sentì la porta del bagno aprirsi e chiudersi con un colpo
secco. Si voltò di scatto con una mano ancora tra i capelli e la
sgradita sensazione d’essere arrossito.
Eccolo, l’idiota. Vivo e vegeto, sveglio, gli
occhi solo per lui. Si era chiuso l’uscio alle spalle e proprio
con le spalle ci si era appoggiato con una severità riflessa
persino nello sguardo. Che non volesse farlo fuggire, che lo volesse
semplicemente tenere in trappola? Ma immancabilmente, a bocciare
quell’espressione ferrea, ecco anche il consueto sorrisetto da
cretino, seguito da un giocondo cinguettare:
“Era ora che uscissi, Gokudera.”
Così, semplicemente. Come se nessuno si fosse mai barricato nello scantinato.
“Ohi”, soffiò l’italiano in
risposta dopo un momento di silenzio, storcendo il naso in un gesto
d’irritazione, “che vuoi?”
“Ho visto che uscendo hai rovesciato la ciotola di riso.”
“L’ho fatto di proposito, invece.”
“Allora non hai fame?”
La mano di Gokudera, ghiacciatasi tra i capelli a
causa della visita inaspettata, guizzò a scostare un ciuffo
dagli occhi. “No. E comunque non mi va di parlare. Per colpa tua
il Decimo è partito senza di me.”
“Uhm” confermò Yamamoto senza
perdere il sorriso. Fu giusto un attimo, perché il secondo
successivo sul suo volto calò un velo di sincera amarezza.
“...Gomen, Gokudera.”
Se c’era una cosa che inspiegabilmente non
sopportava, questa era quel suo atteggiamento afflitto.
Inspiegabilmente perché in effetti non aveva motivo di
sentirsene infastidito, dato che a fargli rabbia erano più che
altro i sorrisi infantili che quasi sempre gli venivano rivolti. La
verità però era che lo irritavano entrambi i
comportamenti. L’italiano soppesò il silenzio colpevole
che calò tutt’intorno prima di far schioccare la lingua:
“Ti ha svegliato la pulce, vero?”
“A quanto pare.”
“Te ne stai fermo davanti alla porta perché ti illudi di tenermi in trappola?”
“Prima mi ascolti e poi puoi uscire”, e schiuse un sorrisino di scommessa.
“E se non volessi ascoltarti?”
“Tanto lo sai bene, che sei fisicamente inferiore.”
Gokudera avvertì un prurito accendergli le guance. “Cos’hai detto?”
“Lo sai”, confermò il moro
scoccandogli uno sguardo gaio, le mani così puerilmente dietro
alla schiena e il busto scoperto piegato di poco in avanti. “Lo
sai benissimo, Gokudera. Anche volendo, non riusciresti a
superarmi.”
La sua espressione non aveva nulla di arrogante,
anzi era specchio di un’amichevole competizione. Prima il
sorriso, poi il gomen, poi
eccolo di nuovo così spontaneo. Quel gioco di recita era una
congiura ai sentimenti che reclamavano di uscire; sentimenti come la
delusione, il rammarico, la tristezza e tutte quelle altre sfumature di
dolore che parlano con le lacrime. Ma alle lacrime Yamamoto Takeshi non
voleva lasciar libero il palcoscenico, e così continuava a
fingere con quel sorriso, ad uccidere il vero se stesso con tutta
quell’odiosa farsa.
Lo odiò. Lo detestò a morte e in
quell’istante desiderò aiutarlo a star male. Piangi,
idiota, piangi e sfogati fin quando vuoi; ma smettila di farmi e farti
del male. Questo furibondo pensiero passò da mente a mano in
poco meno di un secondo.
Il pugno strappò l’aria piantandosi a
un filo dalla nuca di Yamamoto, che ebbe appena il tempo di scostarsi
per avvertire il sibilo tagliente del colpo. La porta sobbalzò.
Il guizzo di un battito di ciglia e il moro gli aveva già
afferrato il polso scostandosi di colpo. Gokudera storse il viso in un
ringhio inviperito quando le sue spalle vennero sbattute vicino alla
maniglia: l’idiota non era stato certo delicato e non sembrava
intenzionato a lasciargli le mani, ben inchiodate sull’uscio,
crocifisse, quasi, da quell’improvvisa grinta felina. La sua
arroganza, quando prendeva il sopravvento, aveva sempre un verbo come
regola: dominare. Riuscendoci, tra l’altro.
Dalla vicinanza riusciva persino a contargli le ciglia. Durò solo un momento.
La presa di Yamamoto si ammorbidì di punto in
bianco, così come l’espressione ferma venne sfumata
dall’abbozzo di un sorriso:
“Gokudera, te lo ripeto... mi dispiace.”
Sentiva il suo fiato corto sulle labbra. Forse era
veramente così; forse il meraviglioso idiota aveva bisogno di
sorridere per chiedere scusa. Ma sorriso o meno, quel suo rammarico era
sincero. D’altronde anche lui teneva a Tsuna, anche lui si
preoccupava per quell’imprevisto viaggio in Italia.
L’italiano rimase un attimo a guardarlo, incapace di articolare
verbo, prima di voltare il capo e abbassarlo un poco, con fare
apparentemente scocciato, quando in realtà quel gesto era il
tentativo di nascondere il rossore sulle guance.
“S-sì... va bene, ti perdono.”
Aveva balbettato e questo bastò per fargli
bollire ogni angolo del corpo. Un poco si vergognava, di questo suo
difetto che sempre saltava fuori nei momenti meno opportuni. E essere a
pochi millimetri da quello sfigato non era certo una situazione a
favore. Quale poi fosse il motivo per arrossire proprio non lo aveva
ancora capito; oppure, più che non capirlo, si rifiutava di
riconoscerlo. Molto probabilmente aveva accettato le sue scuse per
aggirare quella condizione il prima possibile... Togliamo il
“molto probabilmente”. Viva la sincerità, Gokudera
Hayato.
Yamamoto gli lasciò i polsi e
indietreggiò di qualche passo. Tornò a sorridere come
sempre. “Di’ la verità.”
“Co-cosa?”
“Hai fame, vero?”
Non poteva dargli vinta anche questa battaglia.
L’aveva fatto arrossire, l’aveva zittito, l’aveva
praticamente dominato.
Un’altra sconfitta sarebbe stata umiliante. “Ti ho detto di
no”, rispose in tono fermo, senza alzare lo sguardo.
“Yosh, andiamo in cucina!”
“Ti ho detto che non ho fame, baka!”
Il moro rise e sventolò la mano. “Ti va
bene un po’ di pasta? Ho visto che in dispens...”
“NO!”
“Come la chiamano gli italiani? ...Spaghettata a notte fonda?”
“Pezzo di...!”
“Abbassa la voce, Gokudera, Yukiko-chan
dorme.” Yamamoto lo scostò gentilmente dalla porta
afferrando la maniglia. Sorrideva. “Su, andiamo.”
Per una volta Gokudera non vide stupidità e
voglia di fare il bambino, in lui. Notò un piccolo indizio,
forse l’innocente sensazione che Yamamoto Takeshi gli volesse
veramente bene.
E neanche a farlo apposta, la pasta che
mangiò qualche minuto dopo aveva il sapore dell’amicizia.
Se Gokudera si fosse svegliato in quel preciso
istante, davanti a quegli occhi nocciolati che lo fissavano con
attenzione inquietante, avrebbe centrato il naso di Yamamoto Takeshi
con un pugno tanto potente da rompergli mandibola e setto nasale in un
sol colpo. E questo nella migliore delle ipotesi. Ma l’italiano
non alzò le palpebre, non arricciò il naso, non mosse
nemmeno un sopracciglio e continuò a dormire lì
dov’era, sul divano, con una mano sotto alla guancia e le labbra
schiuse nei sospiri del sonno più profondo, ignaro dello scomodo
spettatore che vegliava sulla sua stanchezza.
Yamamoto aggiunse il pugno alla lista delle
possibili conseguenze, ma non si curò di prenderlo in
considerazione. Se ne rimase pertanto accucciato davanti al divano,
braccia abbandonate sulle ginocchia flesse e espressione inesistente.
Conosceva il suo volto a memoria, troppo spesso aveva approfittato di
momenti simili per studiarlo nei miei dettagli; eppure trovava che il
taglio delle orecchie, gli zigomi e quella fisionomia dal gusto
straniero fossero particolari sempre nuovi. Si comportava insomma come
un bambino che, a Natale, scarta sempre lo stesso regalo senza mancare
di gioirne ogni volta. Sapeva così che le palpebre promettevano
la profondità dello smeraldo, che le labbra imprecavano solo per
nascondere la loro fragilità, che se si faceva attenzione si
poteva notare il luccichio dorato dell’orecchino sul lobo
sinistro.
Spiarlo mentre dormiva era l’unica occasione
per avvicinarlo. Non ci trovava nulla di male, soprattutto
perché Gokudera non avrebbe potuto realizzare d’essere
oggetto di quelle silenziose analisi e quindi continuava a ritenersi
inviolato persino nel più innocente dei modi, nonostante in
realtà, dal punto di vista della semplice osservazione,
Yamamoto l’avesse già violato da tempo. C’erano
volte in cui il moro rimpiangeva di non poter guardare da così
vicino il vivo colore delle iridi che tanto lo appassionavano e di
doversi pertanto accontentare delle palpebre. Semplicemente non
sopportava di non essere all’altezza di tale affronto; per quanto
aveva avuto modo di sperimentare, gli occhi di Gokudera sfuggivano
sempre altrove, come per paura che tutto il mondo attorno fosse pronto
a tradire; per schivare la sofferenza di trovarsi di fronte spalle
voltate, orecchie incapaci di ascoltare e sogni morti; per non
schizzarsi il volto con pozzanghere sporche piovute da un cielo troppo
vecchio per essere anche solo ricordato.
Yamamoto lasciò scivolare lo sguardo alla
finestra e accartocciò le sopracciglia quando la luce del sole
d’inverno gli trafisse le pupille. Erano quasi le nove di mattina
e aveva deciso di uscire senza di lui. Era meglio lasciarlo riposare:
dopotutto si era coricato solo sette ore prima, dopo aver mangiato la
pasta con aria più di sfida che di ringraziamento, e aveva
deciso per il divano solo perché il letto era già
occupato dalla piccola Yukiko. Già, Yukiko. Si guardò
nervosamente attorno e vide che la bambina si era già seduta sul
gradino nell’ingresso e armeggiava impaziente con le stringhe
delle scarpe. Yamamoto gettò un ultimo sguardo a Gokudera e si
alzò acciuffando carta e penna dal mobiletto vicino al divano.
“Arrivo, Yukiko-chan” mormorò mentre già cominciava a scrivere.
“Poi mi aiuti a fare il nodo?”
“Un minuto e sono da te.”
Lasciò il biglietto sul tavolo vicino al
pacchetto di sigarette, lì dove Gokudera l’avrebbe
immancabilmente notato, e due minuti più tardi era
già in strada con una mano nella tasca del blazer e
l’altra stretta attorno alle piccole dita della bambina. Attorno,
i tetti piatti di Shiruka, l’ancora assonnato silenzio del
giorno, la luce bianca del sole, i colori ricalcati dal freddo.
Ritorno alla palazzina. Ho con me Yukiko. Se hai voglia, più tardi puoi raggiungerci.
Yamamoto
Sì, confermò a se stesso mentre imboccava la scorciatoia attraverso il parco. Raggiungerci.
Passo dopo passo si ripeteva che era stata la scelta giusta, che quel
verbo non aveva nulla di sbagliato, che Gokudera avrebbe volentieri
accettato l’invito. Una traditrice voce della coscienza gli
bisbigliava però che il suo tanto affabile coinquilino, una
volta aperti gli occhi, si sarebbe limitato ad osservare
l’affascinante fenomeno della combustione – perché
bruciacchiare fogli con mozziconi di sigaretta è una delle cose
più divertenti al mondo.
La mano con cui stringeva quella di Yukiko si
irrigidiva gentilmente ogni volta che la bambina dava segno di voler
correre, e i suoi occhi castani si abbassavano per ammonire con un
sorriso una fretta che non avrebbe fatto altro che accrescere
l’ansia. Entrambi cercavano una madre ed entrambi la cercavano
nello stesso luogo, quello stesso giorno; ma solo uno dei due si
preoccupava del pensiero dell’altro un po’ come se quel
pensiero fosse suo.
Yamamoto lo sapeva. Persino suo padre, caro, vecchio
papà, gli aveva sempre detto che troppa gentilezza d’animo
finisce per nuocere. In quell’istante aveva le dita allacciate in
quelle di una piccola compagna che per caso era capitata sul suo
sentiero di ricerca e che aveva finito col significare qualcosa per
lui. Nella disperazione si tende spesso ad annullare la preoccupazione
per gli altri, a pensare solo ai propri bisogni, a salvare se stessi
dall’autodistruzione. Ma Takeshi era l’esatto opposto; ed
ecco perché lo accusavano di un altruismo acerbo, al limite,
quasi malato. D’altronde non era un problema, il suo?, il fatto
di mettere sempre gli altri davanti alle proprie necessità?
Non pensarci, Takeshi. Sei sano.
“Yukiko-chan?” domandò,
più per rendersi conto di essere ancora vivo che per intavolare
un discorso.
La bambina alzò gli occhi su di lui e rimase a guardarlo.
“Come si chiama la mamma?”
“Midori.”
“Dove lavora?”
“Lei cura le persone.”
“Fa l’infermiera?”, e la sbirciò dall’alto con un morbido sorriso.
“Sì. E quando è a lavoro, io sto dalla signora Shibata.”
Yamamoto le scoccò un’occhiata
incuriosita. Era con lei da praticamente due giorni e mai gli aveva
parlato di una persona che non fosse la madre. Si fermò poco
lontano dal cancello che dava sulla strada sgombra e si chinò a
prendere Yukiko in braccio, per evitare che scappasse oltre la striscia
d’asfalto.
“Dove abita la signora Shibata?” chiese,
e poi allungò un sorriso che sapeva più di cliché
che di sincerità.
“Di fianco alla nostra porta, vicino
all’entrata” rispose la bambina mentre gli si aggrappava al
collo, così buffamente imbottita in un giaccone troppo grande
per lei. E poi, cominciando a scalciare: “Dai, andiamo!”
Takeshi si concesse un malaticcio spruzzo di risata. “Sì, andiamo.”
La sua lucidità si occupava al contempo di
cuore e ragione. Sebbene le sue priorità in quel momento si
chiamassero “palazzina” e “madre”, c’era
un altro pensiero che bussava con insistenza da un cantone della sua
mente; un pensiero che non c’entrava nulla con i suoi obiettivi,
ma che invece grattava la porta e reclamava di entrare. Un po’
come un cane stanco di attendere sullo zerbino, con il pelo raggrinzito
e gli occhi ruvidi di solitudine.
Hayato era semplicemente rimasto a casa. Non
c’era ragione di paragonarlo ad un estraneo. Eppure Yamamoto,
senza un perché, aveva come l’impressione che quel
pensiero fosse proprio lui: aveva deciso di non svegliarlo e di
escluderlo dal più importante incontro della sua vita, e questo
era colpa e merito allo stesso tempo; la colpa di averlo in un certo
modo abbandonato e il merito d’averlo salvato
dall’eventuale visione di un abbraccio fra un figlio e una madre.
Ti escludo per salvarti, e forse vorrai ringraziarmi. Ma io mi sento irrimediabilmente colpevole.
...Prima esperienza di abbandono, Yamamoto Takeshi?
E continuò a domandarselo finché la voce squillante di
Yukiko non infranse quell’intimo dialogo con se stesso:
“Shibata-san abita qui!”
Il moro si riscosse e alzò lo sguardo. Senza
accorgersene era già passato oltre alla strada e persino entrato
nella palazzina. Di fronte ancora quella rampa di scale. La bambina
allungò il braccio e scalciò indispettita, motivo per cui
Takeshi si trovò costretto ad assecondare l’indicazione e
a spostare lo sguardo sulla prima porta a destra.
“Qui?” chiese, intontito dal pallore della realtà.
“Uhm.”
“Ma non sarebbe meglio cercare prima la mamma?”
...la tua o la mia?
“A quest’ora è a curare le persone. Devo andare da Shibata-san.”
E io dovrei salire le scale.
“Yukiko-chan...”
“Takeshi, mi fai scendere?”
I grandi occhi castani della bimba si incatenarono
nei suoi riflettendo un’innocenza e una dolcezza invincibili.
Yamamoto si impose il silenzio e soddisfò la richiesta
sigillando il proprio cuore con un lucchetto a forma di sorriso. Non
era un’abitudine, era il suo personalissimo primo comandamento.
- Prima gli altri e poi io -
“Allora andiamo da Shibata-san.
Così le chiediamo se la mamma ti ha cercata” le
bisbigliò sfoggiando l’espressione dello zio paziente.
Avrebbe chiesto alla misteriosa padrona di casa se al quarto piano
abitava ancora qualcuno. Settanta punti al desiderio altrui e trenta al
suo. Par condicio, secondo i suoi parametri.
Quando lei gli rispose facendo sì con la testa, si decise a
premere leggermente il campanello. E fermi entrambi davanti alla porta,
attesero che qualcuno accogliesse la loro implicita, uguale e diversa
domanda:
dov’è mia madre?
Dei passi concitati, il sibilo metallico della
maniglia che viene abbassata. Ad aprire fu un’anziana sulla
settantina, capelli grigi e volto segnato saggiamente dal tempo, che
subito incontrò le iridi castane del ragazzo sulla soglia e non
mancò di esibire un’espressione cordiale ed incuriosita
allo stesso tempo. Yamamoto avvertì un pizzico d’imbarazzo
per il solo fatto di superarla in altezza di parecchi centimetri. Era
sempre stato abituato a considerare l’altezza un pregio – e
l’ottimo rendimento in ogni sport, con particolare nota al
baseball, bastava per giustificare questa considerazione -, ma attorno
a lui quasi tutti erano più piccoli; persino Gokudera, che mal
sopportava la propria statura...
...un momento, che diavolo c’entrava Gokudera?
“Buongiorno” s’affrettò
allungando il classico sorriso da bravo ragazzo. “Scusi il
disturbo. Sto cercando la madre di questa bambina e...”
“Obaasan!”
Lo strillo di Yukiko ebbe l’effetto di una
doccia fredda. La donna abbassò gli occhi e solo in quel momento
realizzò la presenza della piccola. Si portò la mano alla
bocca, spalancò completamente l’uscio e sollevò la
bimba senza preoccuparsi di nascondere il luccichio commosso nelle
iridi:
“Yukiko, grazie al cielo!”
“Obaasan, hai visto la mamma? Era andata a curare le persone e non è più tornata.”
Lo sguardo dell’anziana riflesse un rancore
votato al silenzio prima di alzarsi di nuovo in quello del ragazzo. A
seguirlo, le labbra arricciate in un’espressione che era sollievo
e angoscia allo stesso tempo.
“Come ti chiami?”
“Takeshi, signora” fu l’immediata
risposta, accompagnata dal più candido dei sorrisi.
“Takeshi Yamamoto.”
“Non sei di Shiruka, vero?”
“Vengo da Namimori.”
“Entra, Takeshi-kun. Ti offro una tazza di the?”
Dire di no a quel volto così tiepido e
gentile sarebbe valso a tradire ogni principio di educazione. Yamamoto
varcò l’uscio mormorando uno “shitsurei shimasu”
e si sfilò le scarpe prima di varcare il gradino per il salotto.
La palazzina, almeno all’esterno, era senza dubbio di gusto
occidentale, ma l’interno di quel piccolo angolo di mondo
profumava della più sincera tradizione orientale. Per lui
quell’atmosfera fu un vero e proprio toccasana, soprattutto dopo
l’appartamento all’italiana di Bianchi.
La signora Shibata era una di quelle persone cui ci
si affeziona ancor prima di conoscerle. Il suo sguardo incredibilmente
materno raccontava tutto quello che c’era da sapere: era
l’anziana della porta accanto, vedova da tanti anni, con grosse
collane al collo e un gatto appollaiato sul solito cuscino, là
sulla poltrona, a controllare il proprio territorio con
l’atteggiamento del pastore impigrito; la piccola vicina che
innaffia il viale chinandosi sulla schiena indolenzita, ma che saluta
con infantile allegria chiunque passi per la strada. Una presenza,
insomma, che non poteva certo passare indifferente ad una persona tanto
sensibile come Takeshi.
La padrona di casa offrì the verde in tazzine
dall’aspetto squisitamente piacevole, che ben si sposavano con
l’armonia e la semplicità dell’arredamento, mentre
Yukiko si rifugiò ben presto in una stanza adiacente. A Yamamoto
scappò un mezzo sorriso nel momento in cui la signora Shibata si
accomodava davanti a lui.
“Immagino vorrai sapere della bambina, ragazzo mio.”
“Veramente...”
“Yukiko-chan è rimasta orfana circa un
anno fa a causa di un incidente stradale. È stata affidata agli
assistenti sociali e poi ha avuto la fortuna d’essere adottata da
una coppia qui in paese.” La donna socchiuse gli occhi e trasse
un sospiro. “Purtroppo lei non ha ancora realizzato d’aver
perso la madre e si ostina a credere che prima o poi tornerà da
lavoro. O meglio, reputa la madre adottiva come se fosse veramente
imparentata con lei, ma inconsciamente sa che qui ha perso qualcuno. Un
trauma, in breve. È già capitato che sia riuscita ad
allontanarsi dalla sua nuova casa e che io la trovassi ad aspettarmi
davanti alla porta, ma i genitori adottivi non hanno intenzione di
interpellare gli psicologi. È incredibile come una bambina
così piccola sia in grado di tornare qui da sola dopo un anno,
ma sia ringraziato il cielo che tu l’abbia trovata prima che le
capitasse qualcosa. Grazie, grazie infinite.”
E qui si interruppe. Un po’ come si era
interrotto il respiro del moro fin dalla prima parola di quella
mormorata, esauriente e ruvida verità. Solo il calore del the
manteneva in vita il colorito altrimenti pallido sul suo volto. Quella
piccola storia gli pulsava nelle tempie e gli venava le iridi di un
indizio di commozione; uno sguardo, quello, che era al contempo
dolcezza e pietà. Costrinse le labbra a piegarsi in un sorriso
smorzato: “Stava aspettando dietro alla scala. Non me la sentivo
di lasciarla in quell’angolo, non quando mi ha detto che sua
madre era via da tutto il giorno e non era ancora tornata. Ma il
padre?”
“Un americano che ha lasciato Midori non
appena ha saputo della gravidanza. Non ha reclamato il diritto di
paternità sulla bambina, per questo Yukiko ha avuto la
possibilità di essere adottata. E riguardo alla coppia”,
aggiunse la signora Shibata, prendendo un piccolo sorso di the,
“sono stati qui proprio ieri. Immaginavano che la piccola fosse
qui, invece...”
“La riporterò da loro il prima
possibile.” Takeshi appoggiò la tazza e sbirciò
nell’altra stanza, dove la bimba, pancia in giù sul
tatami, sfogliava un libro di cucina tra un risolino e l’altro.
Sorrise un poco. “Hanno chiesto l’intervento della
polizia?”
“Mi hanno detto che l’avrebbero fatto.”
“Lei sa dove abitano?”
“Non ti scomodare: ho il loro numero, verranno a prenderla loro. Li chiamo subito.”
“Shibata-san?”
La donna, che si era già alzata, si
voltò e gli rivolse il sorriso cordiale di chi è ben
lieto di soddisfare un’eventuale domanda. “Dimmi,
Takeshi-kun.”
Yamamoto si scoprì scomodamente impreparato.
Non sapeva nemmeno perché le corde vocali avessero preso
l’iniziativa senza prima passare dalla dogana della ragione. I
suoi occhi nocciolati guizzarono in quelli della padrona di casa
rivelando un’anormale irrequietezza.
“Shibata-san, sa se al quarto piano abita qualcuno?”
Sul volto dell’anziana calò un velo di
curiosità. Era plausibile che non si aspettava una questione
simile. “Quell’appartamento era
già vuoto quando io mi trasferii qui al pian terreno. Saranno
ormai sette anni.”
“Sette anni?”
Ascoltò le proprie parole con
l’orecchio di un estraneo. Non era sua, quella voce ovattata e
irrigidita non poteva in alcun modo appartenergli. Eppure gli fremette
sulle labbra in un bisbiglio che era delucidazione e conferma nello
stesso momento.
“Sette anni” si limitò a ripetere
la signora Shibata. Rimase un momento ad osservare quella strana ombra
nei suoi occhi, dopodiché stirò un sorriso intraducibile.
“Li chiamo. Ancora grazie.”
Wow.
Sì, wow. E
così ancora una volta gli altri riescono nell’unica cosa
in cui tu vorresti veramente riuscire. Perché sei felice che
Yukiko ritornerà a casa, ma tu percorrerai la strada a ritroso
senza aver ottenuto nulla.
Yamamoto si limitò ad un cenno del capo e
ascoltò i passi dell’anziana allontanarsi. I tasti del
telefono, il sollievo di Shibata-san, la fortunata quanto felice
notizia. Risposte soffocate dalla linea un poco disturbata,
inevitabilmente gioiose, emozionate.
Tutta realtà smorzata da un’invisibile
parete di silenzio che gli palpitava nelle orecchie, negli occhi e
nelle vene. Eppure aveva sfiorato quel sogno. Era riuscito, seppur per
brevissimi istanti, ad odorare il profumo di un’illusione troppo
perfetta. Al quarto piano non c’era nessuno, e la sua speranza
esisteva solo nella più fanciullesca delle immaginazioni.
La fiammella dell’accendino cercò la
sigaretta solo per pochi istanti, prima di cominciare a consumarla. E
poi giù, dritta sulla carta.
Gokudera ispirò profondamente
l’arrogante puzzo di diossina mentre le sue iridi osservavano
fisse senza fremito alcuno. Un processo di analisi chirurgica e
puntuale. Accovacciato vicino al bracciolo del divano, i capelli ancora
scompigliati da un sonno che ricordava meraviglioso, schiacciò
il mozzicone ancor più a fondo, godendo del reclamo del carbone
quando finalmente il calore sbriciolò nome e cognome del
mittente.
“Puff.”
Macinò saliva con atteggiamento insofferente
e lanciò la sigaretta nel cestino nell’angolo. Non lo
avrebbe raggiunto per nessuna ragione al mondo. In fondo sapeva che
Yamamoto aveva preferito lasciarlo dormire proprio per mascherare un
implicito gesto di pietà, e allora perché presentarsi?
In quel preciso istante il suo telefono cellulare si
mise a squillare. Proprio ora che i colpi alla porta avevano
smesso di reclamare un po’ d’attenzione. Gettò un
braccio oltre lo schienale del divano e arraffò
l’apparecchio che giocava a fare l’equilibrista sul bordo
del tavolo.
Biiip.
“Ohi.”
Monosillabo neutro, timbro di voce adatto in
cui nascondere ogni sfumatura di sensibilità. Perfetto
soprattutto per avvertire l’interlocutore di essere tutto tranne
che amichevole.
“Hayato, inutile che mi ignori. Sto aspettando da venti minuti che qualcuno mi apra.”
Cazzo, Shamal. Ma possibile che fosse ancora fuori? Dopo tutta la fatica che stava impiegando per ignorarlo.
“Si può sapere che diavolo vuoi? Tu qui
non entri finché non lo decido io. È già tanto che
ti abbia risposto al telefono.”
“Il tuo carissimo amico è con te?”
“Non so di chi parli e non mi interessa.”
“Nemmeno se ti dicessi che credo d’aver
risolto tutti i vostri problemi?” Altri colpi alla porta, questa
volta scanditi da un allegro ritornello: “Non volevi tornare da
Sawada il prima possibile, Hayato?”
Gokudera esitò. Grugnì,
soddisfò un prurito al naso. “Quattro secondi per
spiegarmi che cazzo c’entra” soffiò.
“Ripeto, Yamamoto Takeshi è in casa?”
“No. Due.”
“Credo di avere qualcosa che potr...”
“...zero.”
Biiip.
“...che potrebbe risolvere la
questione!” terminò Shamal, urlando dall’altra parte
della porta.
“Guarda che se alzo il culo per niente, giuro
che ti ritroverai una dinamite là dove non vorresti mai averne
una.” Il ragazzo si trascinò fino alla porta e
sbirciò l’indesiderato ospite dalla sottilissima lama di
visuale che si concesse, con un occhio accartocciato nel ringhio
del cane di guardia. “Allora?”
Il dottore gli scoccò un sorrisetto sghembo. “Allora sei uscito dallo sgabuzzino, uhm?”
Hayato rimase un momento a fissarlo. Poi,
inviperito: “Fottiti”, e gli sbatté la porta in
faccia con tale violenza da far fremere la parete. Non fece nemmeno in
tempo ad inondarlo di coloriti insulti che una busta bianca
sfrecciò da sotto la porta finendogli fra i piedi.
“Se cerchi delucidazioni, hai il mio numero.
Arrivederci, Hayato” lo salutò la voce di Shamal.
Chiuso il discorso. Gokudera abbassò gli
occhi e rimase inebetito ad osservare quella nuova ed inaspettata
svolta. La sua rabbia s’era magicamente ridotta a tenui brividi
lungo le braccia, forse sostituita dall’ovvia domanda che fece
capolino fra i suoi neuroni come un fulmine a ciel sereno: e quel
perverso casanova che soluzione avrebbe mai potuto portare?
In un primo momento pensò di voler rivisitare
il fenomeno della combustione; in un secondo, gli parve meglio
considerare con più attenzione la possibilità di venire
al nodo di una questione che, diciamocela tutta, gli stava
inesorabilmente consumando la pazienza.
In un terzo, stava già aprendo la busta.
* * *
Pensavate d'esservi liberate di me, uhm? Sbagliato!, eccomi qui.
Finalmente il quarto capitolo concluso. Ci ho sudato sopra sette camicie e l'ho scritto
a sprazzi, nel senso che nei pomeriggi avevo sempre altro a cui pensare, tra cui studio, open day
del liceo e scioperi che cascano sempre quando proprio non vorresti tornare a casa alle cinque di sera.
Questo capitolo è inevitabilmente dominato da Yamamoto-senpai e dalla piccola, dolce Yukiko.
Spero d'aver delucidato a dovere i vostri dubbi in merito alla bambina. E poi, voilà che ritorna Shamal, e stavolta
in veste di "insospettabile postino" che, a quanto afferma, ha delle informazioni sulla questione, proprio mentre
Takeshi crede d'aver solo vissuto un'illusione.
Vi lascio con questo punto interrogativo - perché le conclusioni bastarde fermentano l'interesse °v° Se trovate
errori/orrori di battitura, siete pregati di bastonarmi ergo rendermeli noti, dato che non ho proprio il tempo di rileggere.
Non so quando aggiornerò, presumo fra una settimana e mezza, un po' per colpa degli impegni natalizi
e un po' perché devo incominciare a lavorare per dei contest. Ma aggiornerò il prima possibile, promesso.
Un abbraccio e anzi, auguri in anticipo a tutti quanti e alle vostre famiglie <3
Dew_
|
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Capitolo 5 *** Alternative ***
5 CAPITOLO QUINTO Alternative
CAPITOLO QUINTO
ALTERNATIVE
Avvertenza: il contenuto a tratti sdolcinato di questo capitolo
è sintomo dell'assunzione eccessiva di "Comatose", by Skillet.
Fate un giro su Youtube, se vi va.
Ginocchia raccolte al petto, sguardo immobile. Il gomito sullo
schienale e l’indice impegnato a far giostrare un ciuffo di
capelli erano il chiaro segno di un non proprio ottimo umore.
Così Gokudera, rannicchiato contro il
bracciolo del divano con le guance ancora intirizzite dal sonno,
accolse il ritorno di Yamamoto. La prima cosa che notò fu che la
pulce non era con lui. Un punto in suo favore. La seconda ma non meno
rilevante informazione gli giunse sotto forma di un sorriso
paurosamente pallido.
Cristo Yamamoto, ti sei appena bucato per esserti conciato così?
“Ho trovato qualcuno che conosce Yukiko-chan.
I genitori sono stati informati e ci hanno invitati per la cena”
annunciò Takeshi chiudendosi l’uscio alle spalle.
Hayato storse le labbra in un sorrisetto sghembo. “Ci hanno invitati?”
“Ti ho nominato, sì. Ho detto che
saremo in due. D’altronde l’abbiamo ospitata assieme.”
“Dove abitano?”
“Poco lontano, e non è tutto: al
telefono la madre mi ha detto che potremo restare anche a dormire prima
di ripartire. Sono stati proprio gentili.”
Un pugno invisibile cominciò a scavargli nello stomaco. “Vuoi tornare a Namimori?”
“Uhm.” Yamamoto si chinò per
sfilarsi le scarpe sull’ingresso in barba all’atmosfera
occidentale, e nel frattempo lo spiò con un altro di quei suoi
tremendi sorrisi. “Buco nell’acqua.”
Gokudera si accorse dell’iniziativa
dell’istinto solo quando si ritrovò una sigaretta fra le
labbra. Questa volta la fiammella dell’accendino fremette.
“Ah sì?”
“Ah sì davvero. Vado a farmi una doccia.”
L’italiano attese di sentire lo scatto della
porta che si chiudeva e lo sciacquio della doccia. Poi acchiappò
il telefono cellulare e si mise più comodo contro il bracciolo,
reggendo la sigaretta con indice e medio della mano gettata oltre lo
schienale. Immaginava che Yamamoto fosse veloce in doccia, soprattutto
in quanto abituato ai tempi rapidi degli spogliatoi. Aveva al massimo
un quarto d’ora, se non meno. Dopo una sommaria analisi della
rubrica, pescò il numero che cercava e fece partire la chiamata,
quindi infilò l’apparecchio tra spalla e collo mentre
tuffava tra i cuscini il braccio libero dando inizio a una spiccia
ricerca.
La linea gli restituì il confidenziale
“tu” per circa quattro o cinque secondi, prima
d’essere interrotta da uno sbadiglio certo poco consono al
buoncostume:
“Hayato, alla buon’ora. Il mio numero dovrebbe aver fatto la muffa ormai, uhm?”
“Shamal” soffiò Gokudera in
risposta, buttando fumo dalle narici. D’istinto aveva abbassato
la voce. “Shamal, mi spieghi cosa c’entri in questa
faccenda?”
“Yamamoto Takeshi è tornato?”
“Fargli origliare questa discussione non rientra nelle mie
intenzioni, quindi stringa la spiegazione. Cosa-cazzo-c’entri?
Non mi pare difficile, vuoi anche lo spelling?”
“Hai davanti a te la foto?”
Finalmente era serio. Sia ringraziato Dio. Hayato
arraffò la busta da sotto una coperta e se la portò
davanti agli occhi sfilando la fotografia. “Ci sono”
confermò.
“I due al centro sono Tsuyoshi Yamamoto e Misako Ishida.”
“Quella donna è...?”
“Esatto. Quella foto risale a circa vent’anni fa, ma è lei.”
Gokudera si portò la sigaretta alla bocca e
arricciò il naso. Si sentiva bruciare la gola, non aveva mai
fumato così tanto di prima mattina. “Capito. Come hai
fatto a trovarla? E dietro c’è anche un indirizzo.”
“È il suo attuale domicilio. E come faccio a conoscerla, mi chiedi?”
“La conosci?”
La linea gli sputò nelle orecchie una risata.
“Sì, ma non è una delle mie tanti amanti, se
è questo che dondola in quel tuo cervelletto di nicotina.
È stata una mia paziente e ogni tanto passo a trovarla, ma solo
ieri mi sono accorto della fotografia e ho indovinato questa strana
coincidenza di parentela. Nah, non si accorgerà che l’ho
fatta sparire, per lei era il nulla, dato il suo stato.”
“Paziente?” Il giovane Guardiano
assottigliò lo sguardo e buttò dalle labbra un alito di
fumo grigiastro. “Ha avuto problemi di salute?”
“E ne ha. Ha perso la memoria in seguito ad un
trauma cerebrale e sì, si è fatto quanto si è
potuto; ma non ricorda assolutamente nulla della sua vita prima del
danno. È anche vero che alcune terapie consentono di ristabilire
la memoria della persona tramite una rieducazione, ma purtroppo nel
caso di Misako non è stato possibile; ha perso
ogni ricordo di sé ed è già stata una fortuna
essere riusciti ad inculcarle in testa il suo nome. Una grave amnesia
retrograda, in breve.”
Gli occhi di Hayato scivolarono alle dita che
reggevano la sigaretta e imposero al medio di smettere di tremare.
Sapeva già il resto della storia, ma voleva testimoniare a se
stesso di non provare debolezza. Sarebbe stato imbarazzante. Eppure la
voce gli vibrò un poco, e il fumo questa volta non aveva nessuna
colpa.
“Quando è successo?” chiese in un sussurro.
La risposta di Shamal venne introdotta da un sospiro
paziente. “Stando a quanto so” incominciò,
“circa quattro anni dopo il matrimonio, un anno dopo la nascita del
primogenito e un anno prima del divorzio; e dato che Tsuyoshi Yamamoto non risulta avere altri
figli...”
“...non può ricordarsi di lui. Non potrà mai ricordarsi coscientemente di Takeshi.”
Pronunciare il suo nome ebbe il potere di annullare
il prepotente puzzo di nicotina. Gokudera irrigidì le ginocchia
al petto e con l’indice destinò il mozzicone al posacenere
sul tavolo. Prese il telefono cellulare con una mano e con
l’altra si impegnò per lasciar scivolare la fotografia
nella busta. Dal bagno giunse il suono della cabina che veniva aperta.
Tempo scaduto.
“...Hayato? Sei ancora lì?”
“Ci sono. Ascolta, domani mattina ripartiamo per Namimori.”
“Domani? Non informi il tuo carissimo amico?”
“I-io... non lo so.”
Aveva balbettato. La sgradevole sensazione
d’essere osservato alle spalle gli si arrampicò su per la
spina dorsale facendolo fremere.
“Ah, ho capito” riassunse Shamal in una
risata maliziosa. “Se non gli dici nulla, si torna prima a casa e
si prende un volo per raggiungere Sawada in Italia; se gli passi
l’informazione, il ritorno è posticipato e addio Decimo.
Ho indovinato?”
“Ti ho detto che non lo so.”
“Scegli, Hayato. Io ti ho solo presentato un’alternativa.”
“Fottiti” lo freddò Gokudera, e
terminò la chiamata. Alzò lo sguardo mentre nascondeva la
busta sotto al cuscino e vide che Yamamoto era nell’ingresso del
corridoio, un paio di jeans stretti quel poco necessario sotto
l’ombelico e un asciugamano sulle spalle scoperte. La sua
espressione, sottolineata dalle sopracciglia corrugate e da un mezzo
sorriso, suggeriva curiosità:
“Chi era?”
“Shamal” stringò
l’italiano, abbassando gli occhi con la velocità di chi
sposta il dito dalla fiamma. “Aveva voglia di rompermi i
coglioni, nulla di nuovo.” Distese le gambe stringendo i denti,
visibilmente scocciato, con lo sguardo fisso stavolta alla finestra.
Non aveva intenzione di far notare quel suo modo di sedere che poteva
risultare in certi termini infantile o addirittura femminile
– ginocchia al petto e immersione totale tra i cuscini contro al
bracciolo. Per la verità si accomodava sempre così,
almeno quand’era solo, proprio perché
quell’atteggiamento doveva rimanere noto a lui solo.
Appoggiò il gomito sullo schienale e si piantò il pugno
nella guancia, a sorreggere oziosamente il capo rivolto con così
tanta cocciutaggine in una direzione non ben definita. Un tentativo,
questo, premeditato e macchinoso per nascondere le ditate rosso
ciliegia che l’imbarazzo gli aveva stampato in faccia.
“Ohi” grugnì. “La pulce è già con i suoi?”
Yamamoto si avvicinò alla cucina mentre si
strofinava i capelli con l’asciugamano. “Veramente no.
Passano a prenderla stasera, ora che sanno che sta bene non hanno
fretta. E noi andremo con loro, per la cena.”
“La mia piccola ha giusto bisogno di prendere
aria” macinò Gokudera, allungando il braccio per aprire un
cassetto. “Secondo i miei parametri, le chiavi staranno facendo
la muffa. Li seguiremo in moto.”
“Haaai.”
Nella pausa di silenzio che seguì,
l’italiano lo sbirciò buttando l’occhio oltre il
pugno chiuso. Takeshi si stava versando un bicchiere di latte e non
pareva avere problemi a girare seminudo per casa.
Colpa dello sport. Ti convince a far mostra del tuo corpo senza provare un minimo di pudore.
In fondo sapeva che non c’era nulla di male,
si era comunque tra ragazzi. L’unica cosa certa era che mai e poi
mai Hayato Gokudera, dicasi ragazzo permaloso e riservato, si sarebbe
sognato di vagare a busto scoperto davanti ad occhi altrui, se non per
andare al mare o in piscina. Prese dal cassetto un pacchetto verde
limone e lo aprì facendo schioccare la lingua sul palato.
“Non dovresti coprirti? Prenderai freddo.”
“Tch.” Yamamoto si voltò e
risolse quell’esclamazione in un sorrisetto storpiato da una vena
d’ironia. “Da quando ti preoccupi per me, Gokudera?”
“N-non sono preoccupato. Dico solo che non ti
fa certo bene. Cretino” s’affrettò l’altro,
distogliendo immediatamente lo sguardo e cominciando a ruminare una
gomma alla menta. Maledetto, maledetto imbarazzo; ma il Signore doveva
proprio inventarselo?
Il moro scosse il capo per contenere una risata
dettata dell’abitudine e si appoggiò al bancone prendendo
un sorso di latte. “Tranquillo, sto bene.”
No che non stai bene, stupido. Te lo si legge in faccia.
“Mettiti qualcosa addosso, cazzo”
concluse sbrigativo Hayato, masticando voracemente ed aprendo il primo
giornale che gli capitò fra le mani. Il moro sventolò la
mano in un morbido segno di assenso e si allontanò verso la
camera con il bicchiere in mano.
I suoi passi che si allontanavano sciolsero il
cappio di sudore che gli stritolava il respiro. Gokudera buttò
un sospiro. Ma sì, Takeshi era malato, e non solo dentro di
sé. Lo aveva già intuito quando si era fermato
sull’uscio della stanza da letto, quella volta, a spiare una
distruzione psicologica che si era trasformata in un malessere fisico.
La pressione cui era stato sottoposto dal viaggio e da un’attesa
risoltasi in un buco nell’acqua aveva immancabilmente schiacciato
le sue invalicabili difese immunitarie, rendendolo degno del paragone
mela-bruco: quell’insidioso vermiciattolo chiamato Ansia
s’era sgranocchiato l’invincibile pazienza del frutto di
nome Takeshi Yamamoto.
L’italiano si convinse che non poteva essere
altrimenti. La sua tacita eppur evidente preoccupazione per il
meraviglioso idiota aveva raggiunto un punto di non ritorno. Il tanto
sospirato idolo del baseball che spesso e volentieri finiva tra i
discorsi delle ragazzine non era abituato ad uno stress psicologico
così elevato; era, diciamocela tutta, troppo innocente per
sostenere dispiaceri irreversibili, e il fiero Smokin’ Bomb
poteva guarirlo conducendolo dalla madre o poteva ritornare dal boss.
Due alternative, nessuna via di mezzo. Ma sapeva bene che c’era
una parte di sé che da troppo tempo cercava di prendere possesso
della sua ragione, e in una situazione del genere aveva più
controllo quella vocina del se stesso razionale.
Forse questo acerrimo nemico
della sua lucidità era il cuore.
Perché è vero, Gokudera Hayato, che
davanti a quel cretino ti senti come una di quelle ragazzine in calore;
perché conosci la parola che potrebbe riassumere questo tuo
comportamento ridicolo, eppure eviti in qualunque modo di inserirla nel
tuo personalissimo dizionario; potresti usare quelle cinque lettere
alla stregua di un qualche insulto, dato che ti escono così bene.
O cazzo.
“Tra i due il malato sei tu, coglione”
si accusò, stendendosi sul divano e accartocciando il volto in
un’espressione irritata. “Sei tu.”
* * *
Le luci dei lampioni sorpresero la motocicletta
rossa di Gokudera davanti alla palazzina. La personalissima tabella di
marcia stilata da Yamamoto prevedeva che aspettassero i genitori di
Yukiko a casa della signora Shibata, in modo da approfittarne per
salutare anche lei. Durante l’attesa fu inevitabilmente
impossibile distrarre la bimba, e le pazienti ammonizioni di Takeshi e
della donna non riuscirono a frenare la sua incontenibile eccitazione.
Solo Hayato rimase estraneo, chiuso com’era in silenzio di dubbi
e ansia crescente, e tutto per colpa della busta che stringeva nella
tasca del giubbotto rosso. I suoi occhi fuggivano nervosi alla
finestra, a spiare la strada, e le sue labbra abbozzavano un sorriso
quando Shibata-san gli rivolgeva la parola.
Daisuke, il padre adottivo di Yukiko, varcò
l’uscio alle sette e mezza spaccate. Accolse prontamente
l’assalto della bambina e la sollevò da terra ricambiando
l’abbraccio con altrettanto affetto. Yamamoto scoppiò a
ridere, Gokudera lo incenerì con lo sguardo. Si trattava di una
crittografata botta-risposta. Dopo le dovute presentazioni con tanto di
inchini di riguardo, l’uomo si gettò il pollice alle
spalle allungando un sorrisetto di benvenuto:
“Montate in macchina, ragazzi. Mia moglie
è a casa a preparare la cena, non vede l’ora di
conoscervi.”
“Stia tranquillo, la seguiamo in moto”
lo corresse l’italiano, mani in tasca ed atteggiamento
amichevolmente neutrale. “Quanto dista casa sua?”
“Dieci minuti, Gokudera-kun. Allora andiamo. Avete bagagli?”
“Il mio borsone” informò Takeshi,
grattandosi la guancia con l’indice. La sua, almeno in quel
momento, era la classica espressione che Hayato avrebbe etichettato da
sfigato. “In effetti volevo chiederle...”
“Carica in macchina almeno quello, nessun
problema.” Daisuke gettò un cenno del capo alla signora
Shibata, rimasta sullo sfondo della conversazione. “Grazie di
nuovo, Shibata-san. Spero per l’ennesima volta che non ricapiti
più.”
Lei ondeggiò la mano in un gesto benevolo e
congedò gli ospiti con un sorriso zuccherato di
affetto.
Per tutto il tragitto Yukiko sfidò la cintura
di sicurezza per voltarsi verso di loro e sventolare la manina. Le dita
di Hayato, così prepotentemente serrate sul manubrio, battevano
l’invisibile tempo dell’impazienza accompagnate da un
ghigno infastidito, mentre dietro di lui Yamamoto, con la stessa
ingenuità di un infante, ricambiava il saluto della bimba con un
perpetuo sorriso, tanto che a destinazione il gelo del vento glielo
aveva quasi ghiacciato in faccia.
La famiglia abitava sotto ad una morbida collina
nella periferia di Shiruka. Abitazione sé stante, piccolo
cortile sul lato del perimetro, due posti auto. La macchina si
arrestò con calma sul vialetto sterrato e Gokudera, che mal
sopportava l’idea di lasciare la motocicletta fuori per tutta la
notte, riuscì a imbucare la due ruote in un angolo del garage.
Già una volta le aveva congelato il motore, con il vizio di
scrutarla là, sul marciapiede, mentre lui se ne stava al caldo
di qualche locale a bersi una birra, e non voleva di certo ripetere
l’errore. Yukiko spalancò la portiera e zampettò
allegra verso Takeshi, aggrappandosi al suo braccio:
“Takeshi, ti siedi vicino a me a cena? Dai dai!”
“Va bene, va bene” la accontentò
lui, e la sua grande mano calò a scompigliarle i capelli.
“Mi metterò vicino a te.”
L’italiano sbirciò lo scambio di
battute con sguardo scettico finché il borsone non gli venne
improvvisamente caricato sulle braccia. Alzò lo sguardo e
incrociò quello castano di Daisuke, motivo per cui si costrinse
a sfoggiare un’espressione che potesse passare per cordiale:
“Signor...”
“Non sei giapponese, vero,
Gokudera-kun?” lo interruppe il padrone di casa, muovendo i primi
passi sul viale. Gokudera si sentì in dovere di seguirlo ancor
prima di dare l’ordine ai piedi.
“Vengo dall’Italia.”
“Italia? Così lontano?”
“È una storia lunga, in effetti”, e pescò un sorrisetto ingenuo.
Del tipo che sta per ospitare dei mafiosi, signore; ma non si preoccupi, non siamo latitanti.
L’uomo gli rivolse un’occhiata benevola. “Da che zona?”
“Sicilia.”
“Ah, ci sono stato. È un gran bel posto.”
“...Uhm.”
Una risposta che affermava e negava allo stesso
tempo. Sì, l’Italia era un gran bel posto; un gran bel
posto che gli aveva tolto la madre e l’infanzia. Un gran bel
posto di merda, in breve.
Una volta dentro si fermarono nell’ingresso
per sfilarsi le scarpe e munirsi di pantofole per gli ospiti, e Yukiko
filò dritta in una stanzetta che aveva tutto l’aspetto di
una piccola cucina:
“Okaasan!”
“Siamo a casa!” annunciò Daisuke mentre con un gesto invitava i due ragazzi a seguirlo.
“Ho visto, ho visto” gli rispose una
voce sollevata dalla cucina, e poi una risata carezzevole:
“Yukiko-chan, devo ripeterti di non farlo più o stavolta
ci siamo intesi? Ci fai preoccupare, lo sai.”
Gokudera appoggiò il borsone contro un
tavolino di quercia e sollevò gli occhi giusto in tempo per
accogliere la madre che usciva dalla cucina reggendo la bambina in
braccio; e sentì il cuore tuffarsi nelle viscere. Una spaventosa
sensazione di dejà-vu gli lacerò il respiro. Le iridi
impagliate, paurosamente sature di un’incredulità sfumata
dal terrore.
Non ci credo. Non può...
La donna piegò il capo sulla spalla e li
abbracciò con un caldo e riconoscente sorriso. “Ed ecco i
nostri eroi.”
Un brivido gli si inerpicò su per la schiena
squarciandogli la pelle. D’istinto si portò una mano al
petto, lì dove, sotto al giubbotto rosso, la busta reclamava la
sua appartenenza a quella casa. Il suo pugno si strinse con la violenza
di chi sta per avere un malore, seguito dagli occhi smeraldini che
fremevano per l’improvvisa assenza di ossigeno.
...essere...
“Chiamatemi pure Misako-san”, e ancora,
un sorriso più limpido dell’alba. “Benvenuti,
ragazzi.”
* * *
Gokudera lasciò il mondo fuori dalla porta e
assicurò quel momento di riflessione appoggiandosi proprio sulla
maniglia, per poi scivolare seduto a terra, la polaroid fra le mani e
la nuca piantata sul legno dietro di sé, a mettere in mostra il
pomo d’Adamo boccheggiante e le labbra semiaperte.
Allora la madre adottiva di Yukiko era veramente la
madre di Takeshi. Non poteva ignorare quell’orrendo sentore di
dejà-vu che gli aveva affondato gli artigli in gola quando la
donna gli si era presentata davanti, a pochi passi di distanza. Lei non
aveva riconosciuto il meraviglioso idiota e ciò confermava
quanto detto da Shamal. Fantastico, inspiegabilmente fantastico.
Merda.
Era lei, sì. Stesso sguardo castano, stessa
espressione serena. Persino il taglio dei capelli era rimasto
identico, così corto e spartano. Agli angoli della bocca aveva
indovinato gli indizi dei vent’anni di differenza tra lei e
quella foto che gli rideva tra le mani, ma a parte questi particolari
non vi era alcuna differenza; un po’ come se il tempo, per Misako
Ishida, si fosse fermato all’incidente che l’aveva privata
della memoria.
Gokudera spiò i volti su quell’immagine
imbalsamata dal ricordo e tutta la sua lucidità si diede
appuntamento dietro alla fronte, in un delirio di cuore e ragione.
Aveva ingenuamente pensato di scansare la possibilità di
scegliere fra le due alternative – non dir nulla e tornare dal
Decimo o piantare la fotografia in faccia a Yamamoto per costringerlo
ad un secondo tentativo -, ma ora, in questa nuova e scomoda
situazione, “possibilità” era diventato sinonimo di
“obbligo”. Si lasciò scivolare la fotografia in
grembo mentre pollice e indice scapparono a massaggiare un paio di
tempie che non riuscivano a sopportare quel crudele mal di testa.
Va bene, Hayato.
Un respiro profondo. Adesso non puoi concederti il lusso di scegliere.
Si è trattato di destino, che ci potevi fare?
Poi alcuni colpi alla porta gli fecero vibrare le ossa.
“La cena è pronta, ‘Dera! ...Ohi, Gokudera?”
Baka. Baka, baka e ancora baka.
“Ho capito, ho capito” grugnì
Hayato rimettendosi svogliatamente in piedi. “Arrivo.”
Era passata un’ora circa dal loro ingresso in
quella casa e per tutto il tempo l’italiano si era convinto di
avere quattro braccia anziché due, perché in effetti tra
quelle pareti la vita scorreva con un senso del tempo a sé
stante: una mano per soddisfare le incessanti richieste di Yukiko, che
dal salotto chiamava ogni tre per quattro per farsi aiutare a colorare
un albo di disegni; un’altra per correre a sistemare il borsone,
un’altra ancora per aiutare ad apparecchiare e un’altra per
sottolineare con un gesto che no, grazie, si figuri, anche se siamo
ospiti è il minimo che possiamo fare per ringraziarvi.
Tutto contemporaneamente. E infine la cena era pronta.
A tavola la bimba non fece altro che raccontare ogni
virgola dei giorni trascorsi con loro, e i genitori adottivi si
aggregarono con entusiasmo a quell’argomento di discussione. Un
minuto dietro l’altro scappava un nuovo ringraziamento, subito
seguito dal giocondo sorriso di Takeshi, con il suo: “Nessun
problema, è stato per caso, glielo ripeto”. Immancabili
quei suoni così familiari, l’acqua nel bicchiere, il
tintinnare dei bicchieri, qualche improvvisa risata che si risolveva in
un’atmosfera fresca e materna. Yamamoto aveva aiutato Misako in
cucina e forse per questo piccolo, innocente particolare, Gokudera
avvertiva un retrogusto di concretezza in tutto quello che stava
accadendo. In un quadro dalle tinte così sbiadite e sfuggevoli,
dove i colori si mischiavano in un’unica gamma di ambigua
definizione, era impossibile per lui capire dove si fermasse la voce
della sua testa e dove iniziasse quella della realtà.
Ogni volta che alzava il bicchiere, i suoi occhi
verdi spiavano il volto del moro così vivamente proposto dal
vetro, e si fermavano sull’espressione dello sguardo, delle
labbra, della linea del collo, chiedendosi perché fosse
necessaria una così minuziosa analisi. Capiva allora che il
colorito delle sue guance era troppo acceso, che il suo sorriso era
velato da un sottile accenno di sofferenza, che tutto era troppo
sottolineato in lui per essere vero. Troppo... lucido. Quando Hayato
acchiappava questo sentore di disagio, le sue dita si muovevano sul
bicchiere in una giostra discontinua che seguiva il ritmo del suo
istinto. Avrebbe voluto solo stampargli il palmo della mano sulla
guancia o sulla fronte; anche sotto le mentite spoglie di uno schiaffo,
ma voleva sapere da quanto nascondesse di avere e soprattutto quanto
alta fosse quella dannata, fottutissima febbre.
Dio che rabbia.
L’unico problema sorse alle nove e mezza; la
classica sfida che, se si hanno piccoli in casa, cade sempre e comunque
di sera.
“Ma okaasan, non voglio andare a letto, voglio restare ancora un po’ con Hayato e Takeshi!”
“I ragazzi sono stanchi, Yukiko-chan. Domani
devono ripartire, anche loro vanno a letto presto, sai?”
“Ma... okaaaasan!”
Problema seguito dal colpo di una porta. Il
complice?, l’ospite che mal sopporta i piagnistei dei cuccioli
umani.
“Che rottura” macinò Gokudera,
storcendo il volto in un ringhio da leone incattivito. “Cazzo,
ecco perché non sopporto i bambini. E adesso mi toccherà
sopportare anche te.”
Yamamoto, accomodato su uno dei letti con le
caviglie fra le mani, si strinse nelle spalle sfoderando un sorrisetto
innocente. “Non è certo colpa mia. Guardala in positivo,
almeno ci sono due singoli” sdrammatizzò.
L’italiano lo ghiacciò con un’occhiata senza muovere
un passo. “Almeno questo, sì. Regola numero uno, mio caro
idiota del baseball” aggiunse in un soffio inviperito. “Il
letto qui davanti è mio; due, dopo il tappeto la zona è
off-limits; tre, se russi, ti ritroverai abbracciato ad una dinamite
anziché al cuscino. Tutto chiaro?”
“Obiezione.”
“Obiezione resp...”
“La porta è nella tua zona.”
“Perché?, sei forse sonnambulo? Se dormi non devi camminare, baka.”
“Ma se devo andare in bagno sì”
puntualizzò Yamamoto, lasciandosi andare ad una morbida risata.
A Gokudera scappò uno squittio di disapprovazione, ma il secondo
successivo si era già buttato sul letto e girato sul fianco, con
il medio ben alzato verso il compagno di stanza:
“Solo se devi pisciare sul serio, altrimenti
stai agli ordini. Ora stai zitto.” Poi, dopo un grugnito:
“...e buonanotte.”
* * *
Il buio della stanza rimase ad osservare l’insonnia dell’ospite di nome Hayato Gokudera.
Era impossibile dormire e allo stesso tempo
sopportare il peso della notte. Ascoltava in silenzio il ticchettio
ritmato della sveglia, il motore di qualche macchina di passaggio, le
fredde conversazioni dei lampioni lungo la strada. Sembrava in attesa
dell’Uomo Nero: un paio di artigli avrebbe lacerato i lembi di
quella tenebra fittizia per strangolarlo lì, nel letto, avvolto
com’era fra le coperte. Senza accorgersene trascorse un’ora
e mezza a mangiarsi l’unghia del pollice, gambe raccolte e
guancia affondata nel cuscino, come un bambino che attende impaziente
uno dei tanti mostri dell’infanzia. Nascose il mento sotto al
lenzuolo e i ciuffi argentati strisciarono sul tessuto come tanti
piccoli serpenti, mentre il desiderio di voltarsi sull’altro
fianco gli si arrampicava sulla schiena. Tutto per poter fingere di
vedere Yamamoto nel buio.
Ma più che vederlo, lo sentiva.
L’oscurità gli sputava nelle orecchie il suo respiro umido
e acerbo, il suono della saliva giù per la gola, il gelo delle
gocce di sudore che gli imperlavano il volto. Era un ritornello che non
riusciva a schiodarsi dai timpani, un nastro che gli si era incastrato
nel cervello e che rischiava seriamente di compromettere la sua
lucidità mentale. Esausto, tastò il mobiletto con la mano
e dopo una veloce ricerca la luce della piccola lampada gli ferì
le pupille. Strofinò gli occhi, si mise a sedere, si
scostò i capelli dalla fronte per vedere.
Takeshi dormiva sull’altro letto, sdraiato di
schiena, e le sue palpebre vibravano intorpidite. Una linea di fastidio
lì sulla fronte, un brivido a scuotergli le labbra.
No, tu non sei invincibile. Anche gli sportivi si ammalano.
Hayato conosceva il suo volto a memoria, troppo
spesso aveva approfittato di momenti simili per studiarlo nei miei
dettagli; eppure trovava che il taglio degli occhi, la linea del collo
e quella fisionomia dal gusto nipponico fossero particolari sempre
nuovi. Si comportava insomma come un bambino che, alla panca di un
pianoforte, suona sempre la stessa melodia senza mancare di farsela
piacere ogni volta. Sapeva così che le palpebre promettevano un
magnifico color nocciola, che le labbra sorridevano solo per nascondere
la loro fragilità, che se si faceva attenzione si poteva
annusare tutto il calore del suo corpo. In una sola volta.
Fermo alla sponda del letto, lo sguardo smeraldino
che riluceva nel semibuio, rimase a guardarlo per ancora qualche
istante. Una parte di lui lo accusava di essere uno stupido se il
battito cardiaco cominciava a dare in escandescenza, un’altra
negava anche solo l’esistenza di una seconda ragione. Non sono
mai esistite due ragioni diverse, e se davvero ne esiste una, allora
quella si chiama cuore.
Deglutì un fastidioso nodo di saliva e solo
in quel momento realizzò i brividi che gli saltavano a fior di
pelle come tante cavallette. Faceva caldo, tanto caldo. Si sentì
sciogliere quando cominciò a chinarsi in avanti, evaporare
quando un respiro non suo gli sfiorò le labbra; poi si arrese e
smise di opporsi al se stesso che “no, cosa diavolo stai
facendo?, e se si svegliasse...?”
...un corno,
Hayato. “Se si svegliasse” un emerito cazzo, stavolta.
Sì, ammettilo, hai già cercato il coraggio di fare una
cosa simile, ma ti sei stancato di contare le occasione perse. Dillo.
Ed eccolo ancora, puntuale, immancabile. Il
dubbio. Il dubbio di non star facendo la cosa giusta, il dubbio di
disturbare, il dubbio di farlo arrabbiare, semplicemente il dubbio di
amare. Gokudera si morse la lingua, un fremito di paura gli
pugnalò l’anima. Non ricordava d’aver mai avuto
degli occhi così caldi e in quel momento usare la testa era una
capacità che aveva smesso di appartenergli, quindi si concesse
solo di assaggiare quel labbro superiore a neanche un centimetro dal
suo prima di tentare una nuova fuga. Eppure stavolta fu proprio la
fuga, la stessa che gli era sempre riuscita così bene, a non
riuscirgli per niente.
Non si era accorto che un pugno gli si era serrato
sulla scollatura della canottiera e, quando lui tentò di
scostarsi, le dita si serrarono con ancor più egoismo
protestando che quel contatto rimasse in vita. Hayato si sentì
una preda, vacillò, stampò i palmi sul cuscino per
evitare di cadere in avanti; e rimase così, immobile,
sbalordito. Impietrito.
Quella era la mano di Yamamoto. La avvertiva,
così fredda e debole oltre il tessuto, così come quelli
erano i suoi capelli, avvinghiati tra ribelli ciocche d’argento.
E quelle erano le sue labbra, accoglienti anche se esauste, ma
soprattutto finalmente sue. Gokudera colse il pizzico dei suoi denti
sulla lingua, la fiammella del suo sospiro affaticato dalla febbre. Non
si scostò, non fece nulla che non fosse condividere per una
volta lo stesso respiro, fino a quando il sibilo di Takeshi non si
smorzò in un’espressione più tranquilla, come se quel bacio lo avesse curato.
Hayato si congedò dalla sua bocca per
sentirlo respirare, rimanendo però ad un filo di distanza da
lui. Adesso stava meglio, i tratti del suo viso erano più
morbidi, le palpebre avevano smesso di fremere. Si era addormentato. Il
cuore gli tornò in petto e il bollore sulle guance
cominciò a trivellargli la pelle con maggiore insistenza. Rimase
a guardarlo così, chino in avanti, ad un nastro di fiato dalle
sue labbra, godendo delle impronte della luce che si scioglievano su
quella pelle dal retrogusto squisitamente mulatto.
C'era una terza alternativa, si disse mentre lo osservava.
Non c'è due senza tre.
* * *
Finalmente, eccovi anche il quinto capitolo. Ho alcune precisazioni da fare.
Per prima cosa,
Gokudera siciliano. La storia di KHR ha inizio in Sicilia, se non
sbaglio - almeno nella versione dell'anime -, e mi sono sempre domandata da quale regione provenisse il nostro caro Smokin' Bomb. Allora, "Sicilia", mi son detta; e dicono che da giù
vengano dei gran bei ragazzi... v_v L'aria di mare fa bene, a quanto pare.
Per seconda, nell'ultimo paragrafo
il nostro Gokudera si concede un'analisi notturna di Yama-senpai, e il
pezzo dell'osservazione, se così possiamo definirla, è stato ripreso dal precedente capitolo e modellato secondo le esigenze dell'occhio critico di Hayato.
Credo ve ne siate accorti.
Per terza, nella mia testa
è inchiodata l'idea di un Gokudera stile "ragazzina innamorata"
e di un Takeshi stile "l'uomo dei sogni".
Per non so quale arcano motivo, mi immagino sempre che sia l'italiano a
prendere l'iniziativa. Sono così belli assieme <3
Infine si è chiarito il ruolo di Shamal, ed ora si presenta una terza, misteriosa alternativa.
Gokudera sceglierà di ripartire senza dire nulla al suo
carissimo "amico", tanto per tornare presto dal Decimo, oppure
deciderà di rivelargli della fotografia?
Tutto questo nel prossimo
capitolo - odio questa formula ._. -, che però non so quando
pubblicherò. Devo ancora iniziare i compiti
delle vacanze xD, senza contare che avrò non poche cose da fare. Ma prima o poi vedrete un aggiornamento, sì.
Allora alla prossima, grazie a coloro che seguono e recensiscono con attenzione; buon anno a tutti, anche <3
Dew_
|
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Capitolo 6 *** Farfalle ***
Capitolo Quinto, farfalle
CAPITOLO SESTO
FARFALLE
Sì, era ora, direte voi. Dopo quasi un anno che non aggiorno!
Penultimo capitolo di questa storia che voi mi avete ricordato di non dimenticare.
Lasciamo le chiacchiere alla fine.
Nell’attimo di lucidità che lo colse
quando sollevò la chiave inglese, Gokudera si chiese perché mai si stesse
spingendo a tanto. Avrebbe potuto mettere in atto la terza alternativa, altresì
definita da lui “ultima spiaggia”, senza armarsi di istinto omicida, e
invece...
D’altronde
si tratta di una cazzata, Hayato. Sicuro che le labbra di Takeshi valgano così
tanto?
Non valevano forse una montagna di yen,
né vivevano di benzina, né avevano un manubrio e specchietti tirati a lucido. Però
valevano lo stesso.
E il suo sorriso. Quello era più
prezioso di ogni due ruote in circolazione.
Mordicchiò nervosamente la sigaretta
scombinandosi distrattamente i capelli con la mano libera. Cominciava a
detestare l’influenza di Yamamoto. Era come se quel viaggio lo avesse sporcato
di sentimenti che non gli appartenevano. Amicizia, famiglia, preoccupazione per
l’altro. Se avesse avuto un medico a portata di mano, era sicuro che sarebbe
corso da lui in preda al panico per domandare: “Dottore, è grave?”, “Esistono
cure specifiche?”, “Morirò a breve, vero?”. Ma in quella spassosa prospettiva
si trovava di fronte il gran sorriso storpio di Shamal che ribatteva: “Sicuro,
Hayato, domani sarai in Paradiso!”.
Si costrinse a tornare alla realtà e la
fumosa luce del garage gli annebbiò gli occhi. Davanti, le cromature della sua
motocicletta. La sua testa si dedicò ad uno strambo conta alla rovescia in cui
il dodici si trovava al posto dell’otto e in cui il sette era chissà come
saltato dove doveva esserci il dieci. Imputò la colpa a quel bacio
quel
bacio
che aveva volutamente chiuso in un
angolo a parte. Poi sputò la sigaretta e la schiacciò con la punta del piede
con la violenza con cui in quel momento avrebbe desiderato calpestare se stesso.
E in effetti, saldando la presa sulla
chiave inglese, fu quello che fece; schiaffeggiò ogni dubbio, scalciò il
proprio orgoglio, morse la realizzazione di star facendo tutto per quelle
cinque lettere che il suo cervello aveva per così tanto tempo ignorato.
Lo avrebbe fatto.
* * *
Fare in modo che la motocicletta non
partisse era solo un espediente per prendere altro tempo, per non ammettere di
essersi arreso, ipotesi che il suo orgoglio made
in Italy non digeriva neanche in astratto. Figuriamoci in concreto.
Yamamoto, educato e
non-vorremmo-disturbare com’era, non avrebbe mai accettato l’invito a fermarsi
ancora qualche giorno a causa della febbre, nonostante viaggiare nelle sue
condizione fosse, se non impossibile, almeno sconsigliato. Così, quando Misako avanzò
la proposta di posticipare il rientro a Namimori e quando Takeshi gentilmente
rifiutò, Gokudera poté giocarsi il jolly.
“Anche se non vuoi fermarti, baka, la
motocicletta non parte. A te le conclusioni.”
Il moro alzò gli occhi su di lui. Era
buffo il modo in cui era seduto a metà contro lo schienale del letto, così com’era
affettuosa la maniera in cui la padrona di casa gli aveva appoggiato una mano
sulla spalla nel tentativo di costringerlo a letto. Sembravano proprio madre e
figlio.
Fitta al petto.
“Inutile che mi guardi così” lo
apostrofò inacidito Hayato, affondando le mani nelle tasche e appoggiandosi
allo stipite della porta. “Senza la mia piccola non si va da nessuna parte.”
“Hai detto che non parte?”
“Problemi al motore. O al serbatoio. O
qualcosa del genere, penso.”
Una risposta schiva e diretta, seguita
da un borbottio che aveva tutta l’aria di un insulto e dallo sguardo che si
alzò al soffitto in segno di palese seccatura.
La verità era che sapeva esattamente qual
era l’imprevisto in questione. L’espressione sventrare il motore era forse quella che fra tutte riassumeva
efficacemente quanto la notte precedente gli era saltato in testa:
semplicemente, con una chiave inglese e la mostruosa conoscenza di cui un genio
della scienza come lui poteva disporre, il suo delirio omicida si era sfogato
sull’impianto di alimentazione. In fondo si sentiva ancora prudere le dita e la
coscienza come se avesse sul serio portato a termine un assassinio.
Chissà quanto sarebbe costata la
riparazione. Dio, quanto.
“Quindi, anche se tu non avessi avuto
questo febbrone, Yamamoto, da qui non si partiva lo stesso” concluse masticando
ancora un tacito senso di colpa.
Takeshi rimase a guardarlo per un
istante, poi sul suo volto accaldato si stese un piccolo sorriso. Stanco, ma un
sorriso rimaneva. “Accidenti.”
Era incredibile come da quella risposta
trasparisse la palese intenzione di metterla sul ridere. Non si smentiva mai,
lui; Gokudera ne era così certo da credere che sarebbe stato persino in grado
di saltellare come una capretta arzilla giù per il versante dell’Everest.
Ridendo.
“Quando mio marito tornerà da lavoro, potremo
fargli dare un’occhiata alla tua moto, Gokudera-kun” s’intromise cordiale
Misako, che aveva arricciato le labbra in un morbido sorriso. E poi, tornando a
rivolgersi al moro: “Nel frattempo tu riposati pure. Non sarà un problema
ospitarvi per tutto il tempo che sarà necessario, davvero.”
Seguì un istante di silenzio e lo
sguardo di Yamamoto incrociò prima quello delle donna, poi scivolò in quello
dell’italiano come a chiedere una conferma; conferma che Hayato si preoccupò di
dargli sottoforma di un’occhiata più omicida che altro.
Alla fine accettò. Non erano avanzate
parole con cui tentare un contrattacco, non davanti all’evidenza che sì, una
maniera per ripartire non c’era, e a quella meno fondata ma affidabile che Gokudera
stesse in qualche misura mentendo. Lo si capiva dal modo in cui alzava le
pupille e sistemava un piede dietro l’altro, da come masticava insulti
immaginari, da come ascoltava sforzandosi di apparire distratto quando invece
il livello di attenzione e sensibilità delle sue orecchie faceva invidia all’istinto
di un gatto scorbutico.
Lo vide allungare un sorriso di cortesia
quando la padrona di casa uscì in corridoio dopo avergli dedicato un’espressione
affezionata. Era quasi sicuro che Hayato la seguisse, e invece accostò la porta
per poi sedersi sul proprio letto e avvicinare a sé il borsone da viaggio. Si sfilò
la maglia, la lasciò sulle lenzuola ancora disfatte, si piegò in avanti per
pescare un ricambio dalla sacca.
Erano gesti automatici, quasi stesse
seguendo le istruzioni di un immaginario manuale il cui titolo avrebbe suonato
più o meno così:“Guida pratica su come
ignorare il proprio compagno di stanza”. E non dimentichiamo il
sottotitolo: “Con illustrazioni, esempi e
tecniche spiegate passo per passo. Facile e veloce!”. E tutto senza dire
una parola.
“Gokudera?”
Il silenzio.
“...‘Dera?” ritentò
Stavolta in risposta ricevette un
grugnito. Già tanto. Eppure il classico e tiepido sorriso di sempre rimase a rasserenargli
un volto che di sereno aveva ben poco:
“Sicuro che non parte?”
“L’impianto di alimentazione, razza di
deficiente” soffiò l’altro, senza preoccuparsi di voltarsi e continuando la sua
furiosa ricerca sul fondo della borsa da viaggio. Sentiva che il meraviglioso
idiota stava scivolando fuori dalle coperte, ma si ordinò di non farci caso e
continuò: “Sai a cosa serve?”
“Non ne ho idea.”
“Ti illumino. Serve a fornire il
comburente e il combustile.”
Qualcuno che sale alle sue spalle sul
letto.
“...e senza quelli non c’è combustione...”
Qualcuno che per un breve tratto ci
gattona sopra.
“....e senza combustione il motore non
parte.”
Qualcuno che si accomoda dietro di lui e
gli passa attorno al busto un paio di braccia dal profilo irresistibilmente
atletico, chinandosi quanto bastava per accomodare il mento sulla sua spalla. Qualcuno
dalle dita ghiacciate dalla febbre e dal sorriso silenzioso e paziente.
Qualcuno, per l’esattezza, che aveva
nome Yamamoto Takeshi.
“Non parte, ecco tutto” ripeté Gokudera,
e un fremito gli passò su per la schiena facendogli vibrare appena la voce. Gli
pareva di avvertire – o meglio, percepiva
un respiro altrui là dove mai ne aveva percepito uno: gli sfiorava l’orecchio, gli
accarezzava la guancia, gli si srotolava lungo la linea del collo e infine sembrava
fondersi lì con la sua pelle.
Ricordava, per quanto in quel momento la
lucidità glielo consentisse, tutte le volte in cui aveva immaginato un suo
abbraccio. Si era così scoperto in grado di sostituire le noiose ed inutili ore
di lezione – d’altra parte non era un genio per nulla – con pensieri che di
noioso, poteva giurarci, non avevano proprio nulla. Dire che lo eccitassero
forse era troppo, eppure in qualche maniera si sentiva... chiamato in causa? Coinvolto,
forse? Non di rado gli era capitato di sorprendere un indesiderato brivido
zampettargli su per la gamba e torcergli poi le viscere in non sapeva quante
farfalle immaginarie. Quando gli capitava i suoi occhi scappavano un momento
indietro, a spiare quel pezzo di cretino intento o ad allungare un biglietto ad
un compagno del club o a sonnecchiare senza riserve sul banco, braccia
incrociate e viso beatamente affondato nell’abbraccio dei gomiti.
Preferiva sempre e comunque la seconda
delle occupazioni, in quanto almeno non c’era il rischio di incrociare quel
paio d’occhi castani che gli avrebbero altrimenti afferrato e poi annodato le
budella come i clown fanno coi palloncini. E allora si trovava assurdamente e
stupidamente ad immaginare in quali belle forme il suo intestino poteva ridursi:
cavallini, fiori con tanto di gambo e foglioline, cagnolini paffuti e farfalle.
Farfalle. Come quelle che prendevano a
solleticargli lo stomaco. E così rieccolo al punto di partenza, a quella
sensazione di annullamento della gravità tanto insistente da fargli temere che Newton
la mela l’avesse vista cadere solo per errore e non per scienza.
Erano simpatici Lepidotteri anche quelli
che gli frullavano in testa in quel momento, mentre se ne stava seduto sulla
sponda di un letto non suo, in una casa non sua e con un respiro non suo
all’orecchio. Soprattutto, era l’ultimo mentre
ad avergli sottratto per cinque secondi netti la capacità di articolare anche
solo una singola parola. Poi, al sesto secondo:
“Toglimi. Le. Mani. Di. Dosso.”
“Ti sto solo abbracciando.”
“...Attaccandomi la febbre, certo.”
“Sai di olio e di benzina, sai?”
Il capriccio di tremore che a quelle
parole gli elettrizzò la colonna vertebrale finì con l’accendergli le guance di
una squisita e brillante tinta color ciliegia. Non si voltò a sfidare il
sorriso che, sentiva, aveva disegnato le labbra di Yamamoto nella mite espressione
del saggio che tutto sa e tutto vede. Un disperato tentativo di speranza maturò
in lui la certezza che no, non sarebbe comunque riuscito a notare quanto
accidenti era arrossito.
Però l’idiota lo annusava. Lo annusava com’è vero che la terra sta in cielo sottoforma
di pulviscolo e com’è vero che il cielo sta in terra sottoforma di pozzanghere;
com’era vero che sentiva il cuore bussargli appena sotto la pelle tanto il
battito era concitato e com’era vero che aveva artigliato le lenzuola sulla
sponda con la prepotenza di chi annaspa per aggrapparsi ad un’ancora di
salvataggio.
Merda.
“Normale. Ho smontato qualche pezzo per cercare
di riparare il danno.”
Non voleva ammettere a se stesso il
sospetto che Yamamoto stesse invece insinuando qualcos’altro. Già se lo
immaginava, ad allungare appena il collo oltre la sua spalla per poi scoccargli
un sorrisetto benevolo prima di dirgli: “Ti costa così tanto dirmi quello che è
realmente successo?”
Il pensiero gli riuscì così concreto che
per poco non aprì la bocca con l’intenzione di correggersi. “Vuoi proprio
sentirti dire che ho distrutto l’impianto di alimentazione per colpa di quel
tuo bacio? Per colpa di quel tuo fottutissimo
bacio?”, avrebbe risposto.
E invece no. L’orgoglio o forse
l’istinto di sopravvivenza lo convinse ad aggiungere solo, dopo una pausa in
cui ingoiò un tappo di saliva: “...e adesso torna a letto. Prenderai freddo.”
Takeshi non se lo fece ripetere due
volte. Non c’erano dubbi che i fremiti che gli si arrampicavano fino alle
spalle fossero dettati dalle febbre e dalla realizzazione che Gokudera aveva
difatti ragione: il marito di Misako sarebbe rientrato in serata, avrebbe dato
un’occhiata alla due ruote e con molta probabilità avrebbe risolto tutto con qualche
giro di chiave inglese permettendo loro di partire il mattino seguente. Un uomo
come quello ispirava meccanica da ogni poro della pelle.
Quando così lui ritrasse le braccia e si
scostò dalla sua schiena scendendo dal letto e portandosi dietro quel suo
sorriso tiepido, Hayato non impiegò molto a capire che la sensazione di
sentirsi per certi versi un bugiardo era giustificata; Yamamoto aveva intuito
un’ombra di menzogna, sapeva che aveva passato due ore e mezze a incasinare quel
che si era promesso di incasinare e soprattutto si ricordava del bacio.
Lo sentì infilarsi di nuovo sotto le
coperte. Solo allora si decise a sbirciarlo di striscio, pescando una maglietta
dal fondo della borsa da viaggio e indossandola quando già stava varcando la
soglia.
Vide che sorrideva con
quell’intramontabile voglia di fare il cretino. Poi si impose di non vedere
altro e chiuse la porta.
* * *
Era già tardo pomeriggio quando le mani
di Hayato Gokudera si infilarono febbrili in uno dei cassetti della cucina.
Operavano meticolose passando in rassegna vecchie cartoline, sfogliando buste
da lettera, frugando finché non incontravano il fondo di legno. Non, non stava
cercando un tagliacarte; per quanto surreale e fastidiosa gli riuscì questa
realizzazione, tagliare le vene del meraviglioso idiota non rientrava nelle sue
intenzioni. Magari avrebbe rinviato.
No, stava cercando una penna. Quella
mattina aveva intravisto la pulce alzarsi in punta di piedi e prendere da quel
cassetto una penna rossa prima di filare in fretta via, correndo trionfante su
per le scale neanche stesse giocando a rubabandiera e avesse agguantato il
fazzoletto per prima.
Avrebbe tranquillamente potuto
presentarsi di fronte a Misako e sfilare una delle sue rare ma invincibili
espressioni da bravo ragazzo per chiedere una biro in prestito, ma... con quale
scusante? Inviare una cartolina a Namimori? Diavolo, no.
E
non sarebbe nemmeno da te, Hayato. Sarebbe da Takeshi, e tu non sei lui.
La sua espressione corrugata in un
ghigno di fretta si ammorbidì appena quando infine serrò pollice ed indice sull’indiscutibile
forma di una penna; ma ancor prima che potesse ritirare la mano e pescare dal
nulla ciò che aveva così febbrilmente cercato, la riconoscibilissima voce di
Daisuke
(“Tadaima!”)
seguita dall’ingresso che si chiudeva
gli costò l’istinto di voltarsi e di richiudere il cassetto così bruscamente da
scordarsi di togliere prima la mano. Saette di dolore gli spillarono dalle
falangi percorrendogli il braccio per intero, motivo per cui si azzannò il
labbro e serrò gli occhi per impartirsi di non urlare.
Dio, che male. Quanto diavolo faceva male.
Lì appoggiato con apparente nonchalance contro
al bancone con una mano inchiodata fra ripiano e cassetto, sforzò un sorriso
quando Daisuke si affacciò oltre la porta della cucina spedendogli in risposta
un’occhiata cordiale.
“Gokudera-kun.”
“Da... Daisuke-san.”
“Misako mi ha detto della tua moto. Vogliamo
andare fuori a dare un’occhiata?”
“Prendo una giacca e la raggiungo
subito.” E dopo un momento: “Grazie.”
L’uomo si ritirò in corridoio dopo
avergli indirizzato un gesto paziente della mano. Solo in quel momento Gokudera
fu libero di sfilare la propria, di mano, dal cassetto, sollevandosela di
fronte e storcendo il naso in una smorfia di dolore al vedere la linea rossa
che gli tagliava orizzontalmente le dita. Ma almeno la penna, sì, quella l’aveva.
Anzi, si prese anche una busta e se la infilò nella cintura con la biro, ben
nascoste sotto il risvolto disordinato della maglietta.
Prima di uscire passò in bagno. Piantare
la mano sotto al getto gelido dell’acqua gli ispirò una sensazione di benessere
tanto immediata da fargli credere di sentire il bruciore evaporare come ferro
immerso in una tinozza ghiacciata.
Le farfalle ripresero a fare i capricci
nello stomaco quando in garage trovò Daisuke in compagnia dell’idiota. La
mattina e l’intero pomeriggio spesi a sonnecchiare gli avevano ridato colore in
volto e in quei suoi occhi color nocciola era tornato quell’immancabile e
irresistibile lume di demenza, come se i suoi istinti fanciulleschi avessero ripreso
a crepitargli a fior di pelle a mo’ di popcorn bruciacchiati. Tanto in fretta
si era ammalato, tanto in fretta si era ripreso. Vedendolo in quelle condizioni,
Hayato non sapeva se il peggio fosse passato o se dovesse invece ancora venire.
Probabilmente era passato per l’idiota e doveva ancora venire per lui. Tombola.
Daisuke, ginocchio a terra e chiave
inglese in mano, era già al lavoro. Ai suoi piedi, sparpagliati come bossoli di
proiettile, qualche bullone e qualche vite.
Gokudera avvertì la scomoda sensazione
di essere in qualche maniera violato. Era la sua moto, diavolo, e le mani che
la stavano esaminando non erano le sue. Quella visione gli riusciva come una
violenza fisica e psicologica. Pensiero egoistico? E che gliene importava.
“Ce ne hai messo di tempo, Gokudera-kun”
lo accolse Daisuke volgendo il capo e stirando un sorriso di benvenuto. “Ancora
qualche istante e sarà tutto a posto. Potrete partire domattina. L’impianto di
alimentazione si è come danneggiato da solo. Nulla di irreparabile, in ogni
caso.”
“Ah. Sì. Va bene” rispose Hayato
annuendo due o tre volte, la mano destra, quella che aveva lasciato nel
cassetto, infilata in tasca per non mostrare la linea rossa. Poi scoccò un’occhiata
a Takeshi e solo allora si rese conto di star tenendo da lui una distanza di
sicurezza di circa dieci metri. Naturale, si era fermato all’ingresso del
garage mentre l’idiota se ne stava comodamente appollaiato in un angolo su un
vecchio tavolo di ferro, con sorrisetto ad arricciargli le labbra.
Non si parlarono. Yamamoto sembrava più
intenzionato ad aspettare che fosse Gokudera a dire qualcosa e Gokudera pareva
in attesa che fosse invece Yamamoto a fare altrettanto. Forse perché entrambi
sapevano che l’unica cosa di cui avevano bisogno era sì parlare, ma in privato.
E lo fecero, o almeno si intesero, dopo che Daisuke si fu alzato e pulito le
mani macchiate d’olio in uno strofinaccio.
“È tutto a posto, Gokudera-kun” annunciò
con un piccolo sorriso. “Tra poco sarà pronta la cena.”
“Ricevuto, Daisuke-san” gli rispose
Takeshi con un’allegra alzata di sopracciglia. Poi Daisuke uscì e fu allora che
Hayato capì di trovarsi in un qualcosa come la merda.
“Gokudera. Mi ricordo quello che...”
“Non una parola, baka.”
“...è successo ieri.”
“Cuciti la bocca o te la ritroverai
incollata sulle chiappe, tante sono le stronzate che dici.”
Ma Yamamoto continuò a rivolgergli quel
suo tiepido, paziente sorriso. Si strinse nelle spalle, alzò gli occhi. “È
successo.”
“Per l’appunto. E togliti dalle testa
che accadrà una seconda volta.”
Sarebbe stato pericoloso ammettere che
invece erano le sue labbra l’unica cosa che desiderava in quel momento. Perché voleva
ancora assaggiare quel sapore non suo, quel respiro non suo, quella saliva non
sua e quel calore non su, perché aveva capito quanto disperatamente avesse
bisogno di ciò che non gli apparteneva; quanto avesse bisogno di lui.
Ma sarebbe stato stupido ed ingenuo
ammettere tutte queste cose. Avrebbe aspettato, ben conscio che l’attesa lo
avrebbe portato all’autodistruzione e che l’autodistruzione lo avrebbe portato
ad aver paura. Paura di rimanere solo, senza un abbraccio a scaldarlo durante
le notti d’inverno e senza una voce, la sua, a mordergli l’orecchio.
E fu per paura che si voltò e rientrò
senza aggiungere null’altro, solo certo d’essersi lasciato alle spalle quel
sorriso e quegli occhi che, silenziosi ma presenti, lo seguivano da lontano.
* * *
La penna, anche se a fatica, scriveva. Combattuto
fra la fretta di allontanarsi dal luogo del furto e il dolore alle dita,
Gokudera non si era accorto che l’inchiostro blu rimasto era poco. Aveva
realizzato quel deficit la sera dopo cena, pronto a rimettere la biro nel
cassetto non appena l’acqua della doccia avesse smesso di scorrere. Takeshi era
svelto, col bagno; tempo dieci minuti e la cabina sarebbe stata sua. L’importante,
aveva pensato rigirandosi la penna fra le dita, era che ci fosse inchiostro a
sufficienza per scrivere sette parole.
Così, un’ora più tardi, quando nel buio
riconobbe il respiro dell’idiota farsi più regolare, indizio di via libera,
allungò il braccio al comodino tastando l’aria alla ricerca della lampada. L’improvviso
bagliore lo costrinse ad affilare gli occhi e ad accartocciare il volto in un’espressione
infastidita. Poi si gettò un’occhiata alle spalle, inquadrando quel che
riusciva a scorgere di Yamamoto: se ne stava girato sul fianco, immerso in un
sonno certo troppo profondo per poter essere disturbato da quella poca luce. Sul
suo volto e sulla linea del collo non correvano più i brividi della febbre. Semplicemente
dormiva, le labbra appena schiuse e le palpebre rilassate.
Sì, avrebbe volentieri trascorso la
notte in bianco solo per vederlo dormire, ma no, non ne aveva il tempo. L’indomani
doveva essere nel pieno delle forze per guidare, destinazione Namimori,
destinazione la vita di sempre. E magari, pensava, magari il bacio se ne
sarebbe rimasto lì tra quelle quattro pareti, incatenato da una volontà che
aveva nome Autodistruzione.
Aprì il cassetto senza far rumore e ne
trasse la penna. Pescò invece la busta da sotto il cuscino, per poi adagiarla
sul comodino, ben esposta alla luce della lampada. La lingua che passa rapida
sulle labbra, i denti che pizzicano nervosi l’interno della guancia, le
sopracciglia chiare che si abbassano in un gesto di concentrazione, ansia, forse
paura.
Poi, svelto come per strapparsi un
cerotto da una ferita, scrisse.
* * *
La prima cosa che Yamamoto Takeshi vide
il mattino seguente fu il letto di fronte al suo. Vuoto. Gokudera si era già
alzato. C’era la luce del sole a disegnare strisce d’oro sulle lenzuola e sulle
coperte disfatte.
I suoi occhi castani, ancora intorpiditi
dal sonno, scivolarono al comodino sino ad incrociare il display della sveglia.
I numeri in verde lo informavano che erano le otto e mezza del mattino. C’era
il tempo per fare colazione, rimettere nei borsoni quelle due o tre magliette
che aveva indossato e infilarsi nel traffico per tornare a casa.
Dal suo vecchio. Senza aver trovato sua
madre.
Non
pensarci, Takeshi. Non pensarci.
Si passò la mano sul volto e si mise a
sedere, stropicciandosi gli occhi con le dita. Non ci sarebbe stata alcuna
difficoltà a fingere che in fondo stava ancora bene. Vero, non aveva trovato quel
che cercava, ma stava bene così. Avrebbe imparato a star meglio una volta
lontano dall’illusione di conoscere colei a cui doveva la vita. Avrebbe
continuato a nascondersi dietro ai sorrisi, come sempre aveva fatto, esibendo
quella gioia di vivere che tutti gli invidiavano ma che nessuno riusciva
veramente a giustificare.
Avrebbe continuato a fingere, sì, se
solo non si fosse accorto che a terra c’era una busta. Bianca. Era scivolata
dalle coperte quando lui si era alzato a sedere. Rimase un momento a guardarla
dall’alto, chiedendosi come mai fosse finita sopra di lui mentre dormiva. Solo
dopo qualche istante si chinò e la raccolse, alzandola di fronte a sé di modo
da illuminarla con la luce del giorno. Sembrava contenere qualcosa. La voltò. C’erano
alcune parole, scritte sul retro. La grafia, così incurante e sbrigativa, era
quella di Gokudera.
Aprila
Poi
fa’ quel che vuoi fare
Così la aprì.
Così vide la foto.
Così capì.
E così decise cosa voleva fare.
* * *
....Ed eccoci a chiacchierare. Come quasi un anno fa.
Spero d'essere riuscita a farmi perdonare, con questo capitolo, per la
mia lunga assenza. Impegni, mancanza di ispirazione. Avevo in ballo
questo capitolo da mesi e solo oggi, dopo tre febbrili ore, ho concluso
gli ultimi tre paragrafi. Ispirazione divina, credo xD
In ogni caso... questo è il penultimo capitolo della storia. Nel
prossimo weekend pubblicherò l'ultimo, sicuramente molto
più breve degli altri, tanto che volevo inserirlo qui di seguito
ma ho evitato per non rischiare di stringere troppo.
Olè, ora partano le scommesse. Come reagirà Takeshi alla
foto che Gokudera gli ha tenuto nascosta fino ad ora? E soprattutto,
come andrà a finire la loro, di questione? Non illudetevi di
influenzarmi con i vostri pareri, dato che ho già in mente come
andrà a finire, quindi sbizzarritevi xD
Come sempre, giudizi positivi o critici sono ben accetti. E come sempre, scusatemi per eventuali errori di battitura. Nel caso ne trovaste, informatemi, provvederò alla correzione °°
Picchiatemi (?) pure per la mia assenza, non mi difenderò LOL.
Alla prossima!,
_Dew
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Capitolo 7 *** Pozzanghere ***
CAPITOLO SETTIMO pozzanghere
CAPITOLO SETTIMO
POZZANGHERE
"And those nights are getting colder
And your heart is a frozen wound
Don't you wonder who'll be there when you awake?"
Avantasia - "Cry just a little"
È bene sapere che gli occhi di Takeshi
Yamamoto avevano un potere particolare. Dietro quelle iridi castane, dietro
quella tonalità così simile al colore della più dolce delle nocciole, c’era più
di quanto tutti, Gokudera compreso, potessero anche solo immaginare.
Si trattava di comprensione, e non di
una qualsiasi o di quella che gran parte della gente spaccia per comprensione
autentica, ma della capacità di leggere fra le righe la più sottile e pallida
sfumatura di chi o cosa aveva di fronte. Come quella foto e, ancor prima, come
quelle sette parole.
Voltò di nuovo la busta e lasciò
scappare lo sguardo su ciò che Hayato gli aveva scritto. Cosa c’era lì, dietro
l’inchiostro blu? Tacita frustrazione, forse; il fastidio di dover ammettere
che qualcun altro al posto suo aveva l’occasione di riabbracciare la madre. Eppure,
ancora oltre la trama di questi sentimenti, c’era il sollievo d’aver dato ad un
amico la stessa possibilità che a lui era invece stata negata. Era un gesto di estremo
altruismo.
I suoi occhi tornarono alla foto
Oyaji.
Okaasan.
proprio nel momento in cui sentì la
porta aprirsi. Non aveva bisogno di sollevare le pupille per guardare chi si
fosse fermato là sull’uscio, perché diede subito un nome a quelle iridi che,
silenziose ma tangibili, gli spedirono un’espressione asciutta.
“Ohi, baka.”
Hayato.
“La colazione.”
Takeshi alzò gli occhi solo in quel
momento, obbedendo al perentorio ordine dell’istinto. Tra le mani stringeva
ancora la fotografia e in grembo aveva appoggiata la busta. Sotto i ciuffi
scuri ancora scompigliati dal sonno, la sua fronte si corrugò in un gesto che
era al contempo una domanda e un bisogno di risposta. Non parlò.
Allora le sopracciglia di Gokudera si
avvicinarono appena, un cipiglio di fastidio misto ad impotenza. Le dita strette
attorno alla maniglia lasciavano trasparire la tacita eppure evidente minaccia
di richiudere la porta senza dare alcuna spiegazione.
“Tempo un’ora e voglio già essere per
strada” puntualizzò.
“Avresti dovuto dirmelo prima, Gokudera.”
E non si parlava della partenza.
Hayato si mosse nervosamente. Sviò con
lo sguardo. Un mormorio: “Avrei potuto non dirtelo affatto.”
Yamamoto gli diede mentalmente ragione. Anzi,
si scoprì a pensare che forse sarebbe stato meglio così: non sapere nulla, non
condividere la verità. Almeno, si disse, non sarebbe stato costretto a
abbandonare chi aveva per così tanto tempo cercato. E invece in salotto, là da
qualche parte, c’era sua madre; una madre che non l’aveva nemmeno riconosciuto
come suo figlio, ma di madre si trattava.
Gokudera dovette cogliere qualcosa nello
sguardo del moro, perché si passò la lingua sulle labbra e si lanciò un’occhiata
alle spalle prima di tornare nei suoi occhi. “Avrai tutte le spiegazioni che
vuoi” cominciò, e bisbigliava. “Dopo la colazione. Dopo che saremo fuori di
qui.”
Poi Takeshi vide la porta richiudersi e
rimase di nuovo solo con quella fotografia.
Restarsene nel silenzio con quei due
volti di fronte, uno del suo vecchio e l’altro di Misako, era come rimanere in
compagnia di un fantasma. In quell’assenza di suoni c’era la fredda eppur
concreta presenza di un desiderio rimasto troppo tempo in fondo alla coscienza,
inghirlandato di sorrisi troppo perfetti per poter essere giustificati; se lo
sentiva correre lungo il braccio sino alle dita, dove fremeva sottoforma dei
brividi dell’immaginazione, come se volesse ricordargli d’esistere ancora e d’essere
pronto a prendere il controllo della mente.
Ma lasciare che un desiderio solo, per
quanto forte, divenga il burattinaio di decisioni future che da coscienti non
prenderemmo una seconda volta è sbagliato. E questo lui lo sapeva bene.
* * *
È anche bene sapere che persino gli occhi
di Hayato Gokudera avevano un potere particolare. Dietro quei suoi occhi all’apparenza
immobili ed incuranti palpitavano più sentimenti di quanti ne lasciassero
trasparire, un po’ come se il verde acquamarina delle iridi fiutasse le sensazioni
altrui per poi analizzarle e catalogarle senza che alcun indizio di
partecipazione potesse gocciolare oltre la parete con cui si teneva lontano dal
mondo.
Aveva così osservato Yamamoto dall’uscio
e aveva capito che nemmeno con la verità tra le mani aveva intenzione di
posticipare la partenza. Proprio per questo aveva anticipato il meraviglioso
idiota e finito la colazione proprio quando il meraviglioso idiota in questione
entrava in salotto. Si scambiarono uno sguardo, ma non perché si fossero
cercati, quanto pur puro caso.
Se Gokudera avesse capito che dietro
quella casualità c’era quella dannata, insistente parola di cinque lettere, non
avrebbe nemmeno alzato lo sguardo.
Yukiko lasciò immediatamente cascare il
cucchiaio nella tazza di cereali e filò svelta dal ragazzo chiamandolo per noi,
prima di aggrapparsi di volata alla sua maglietta come a pretendere di essere sollevata
in braccio; e Takeshi, le cui labbra si erano schiuse in una risata, la
accontentò con il paziente, gaio atteggiamento del fratello maggiore.
“Ohayou,
Yukiko-chan.”
“Non voglio che Takeshi-kun parta!”
“Passerò a trovarti, promesso.”
Daisuke li spiò da sopra il giornale
scambiando un sorriso con la moglie e Gokudera, in un istinto di acido
realismo, si chiese se veramente quella promessa sarebbe stata mantenuta. Eppure
si limitò a storcere le labbra in un invisibile grugnito, neanche avesse
avvertito una fastidiosa puntura nel fianco, mentre prendeva gli ultimi sorsi
di tè.
Yukiko scalciò un poco e gonfiò una
guancia. Nei suoi occhi tanto simili a quelli di Takeshi c’era la fiducia. “Davvero?
Takeshi-kun lo promette?”
Lui lo guardò un momento, un piccolo ma
affettuoso sorriso ad ammorbidirgli il volto. Ancora prima che potesse
risponderle, la calda voce di Misako:
“Sareste i benvenuti.”
Allora Yamamoto si sentì in dovere di
incrociare il suo sguardo. Non che lo volesse evitare, perché sapeva quanto
sarebbe stato inevitabile; eppure, nonostante avesse ordinato al cuore il silenzio,
percepì un indesiderato formicolio serrargli dita di disagio attorno alla
coscienza come a voler spremere in quel pugno tutto quanto avrebbe voluto
dirle.
Invece, immancabile, il suo sorriso. “Torneremo”
acconsentì, riportando di nuovo gli occhi in quelli della bambina. “È una
promessa.”
Allora Hayato capì ciò che avrebbe
fatto. Capì anche che non voleva a tutti i costi impedirgli di continuare a
nascondersi dietro quella sua perpetua serenità. Forse aveva la sue ragioni.
Forse più avanti, tempo qualche minuto, qualche giorno o qualche anno, gli
avrebbe spiegato il perché di quella decisione: Yamamoto lo avrebbe preso da
parte e gli avrebbe sorriso e gli avrebbe spiegato tutto quel che c’era da
spiegare e allora Gokudera avrebbe capito quanto fottutamente lo amava.
Presto o tardi, sarebbe successo. Ma
ora, da dietro una rassicurante distanza fatta di tazza di tè e tavolo da
pranzo, poté solo restarsene a guardare l’idiota che scoccava un bacio sulla
guancia di Yukiko, e Yukiko ridere, e Misako sorridere, e se stesso aspettare.
* * *
Hayato uscì prima di Takeshi. Per portar
fuori i due bagagli, aveva detto, e per portare la moto davanti al piccolo
viale d’accesso. La realtà era un’altra: aveva sì sistemato i borsoni, ma il
fatto d’aver varcato per primo l’uscio sottintendeva anche un proposito ben
diverso dai preparativi della partenza.
Anche l’idiota doveva salutare chi li
aveva ospitati fino a quella mattina. La verità era che Gokudera fuggiva le
dimostrazioni d’affetto un po’ come si eviterebbe il contagio della peste, e
tenendo in conto che là dentro aveva lasciato un figlio ed una madre, le
probabilità di contrarre troppi sentimenti altrui avrebbe raggiunto i massimi
livelli storici.
Evita, Hayato. Evita.
Giusto.
Si sfilò un pacchetto dal giubbotto e decise di acciuffare un accendino dall’altra
tasca. Sì, il sapore agrodolce del fumo sarebbe valso come un vaccino. Lo avrebbe
aspettato, forse per minuti, forse per ore, così come lo aveva atteso davanti a
casa per la partenza. Così si accese una sigaretta e alzò gli occhi verdi al
cielo. Profumo di pioggia.
* * *
Lo
stava aspettando. Appoggiato sul sedile della motocicletta rossa, la testa
china, una sigaretta già mezzo consumata tra l’indice ed il medio. La mano
libera in tasca e il piede sollevato sulla punta erano un ostentato sintomo
d’impazienza.
Esattamente come lo aveva trovato tempo
prima fuori da casa, lì sul marciapiede, pronto a giocarsi una carta chiamata ‘È
stato Juudaime a chiedermi di venire con te’. Con la differenza che ora
sarebbero tornati indietro.
Gokudera lo sbirciò, soffiò fumo dalle
narici, lenti nastri di grigio che salirono verso il piombo del cielo, e con il
capo gli fece cenno di muoversi; qualsiasi cosa là dentro avesse fatto,
qualsiasi cosa a Misako avesse detto, di muoversi.
Allora Yamamoto si avvicinò, le labbra atteggiate in un pallido sorriso, mentre
Hayato buttava la sigaretta a terra e montava. Alla finestra, vide, si erano
affacciati lei e lui, con il naso della pulce schiacciato contro il vetro. Dubitava
che l’idiota si sarebbe voltato, e invece fu esattamente quello che fece,
perché alzò la mano verso di loro in un gesto di saluto per la gioia della
piccola Yukiko, che scalpitava tra Daisuke e Misako, intenti a ricambiare il
saluto sventagliando in risposta le dita.
Poi Takeshi salì dietro di lui e
stavolta Gokudera gli permise di reggersi alla sua vita. Era troppo impegnato a
crogiolarsi nel silenzio per potergli sputare addosso altro veleno. Azionò il
motore e la moto scivolò docile sulla corsia. Nessuno di loro si voltò.
Un quarto d’ora più tardi, quando
imboccarono il primo cartello su cui spiccava il nome della loro destinazione,
Hayato avvertì le labbra dell’idiota là dove tanto adorava che fossero. All’orecchio.
Per un momento temette di perdere il controllo della due ruote.
“Torniamo indietro” lo sentì dire. “All’appartamento.”
Qualche minuto dopo la moto infilò la
prima strada che avrebbe permesso loro di ripercorrere il tragitto nella
direzione opposta.
* * *
A distanza di giorni, sdraiato sul
proprio letto, Hayato Gokudera si sorprende a ripensare a quanto è poi
successo. Credeva che una volta lontano da Shiruka, da quella piccola cittadina
in cui ha scoperto cosa veramente ci sia dietro i sorrisi dell’idiota, avrebbe
semplicemente relegato i fatti in uno dei tanti cassetti della memoria, in
attesa che la polvere si ispessisse abbastanza per illuderlo che si fosse
davvero lasciato tutto alle spalle.
Eppure ricorda ancora il discorso che hanno
intrattenuto una volta tornati all’appartamento di Bianchi in cui si erano
sistemati prima che il genio di Shamal gli infilasse sotto la porta quella
fotografia. Si ricorda d’avergli spiegato il perché di tutto, compreso e
soprattutto il motivo per cui Misako non sapeva e non sa ancora oggi di essere
sua madre. Gli ha spiegato quasi tutto, vero, ma non la cosa più importante. Ai
tempi, aveva ragione di credere che non fosse necessario sprecare parole quando
era ormai chiaro come tra loro sarebbe andata.
“Non
gliel’ho detto, ‘Dera”
“Cosa?”
“Che
è mia madre.”
“...”
“Qualcosa
non va?”
“Sei
un coglione, Yamamoto Takeshi.”
Ma se l’era aspettato, in fondo. Ora, lì
con le dita intrecciate dietro la nuca, Gokudera stringe le labbra e l’angolo
destro della sua bocca si solleva in un sorriso amaro. Non gli ha chiesto il
perché, ricorda, eppure nella sua mente e nel suo cuore le parole di Yamamoto,
voce non interpellata, pretendono ancora una volta di essere ascoltato. E lui è
più che disponibile a porgere l’orecchio della memoria.
“Le
avrei fatto solo del male.”
“Non
ti capisco, baka.”
“Se
glielo avessi confessato... se le avessi detto la verità, si sarebbe sentita
colpevole di non riuscire a ricordare.”
“Sei
complicato, Yamamoto Takeshi.”
perché adorava accostare il suo nome e
cognome.
“Sarò
pure un coglione, sarò pure complicato. Ma sono tuo.”
perché adorava sentirselo ripetere.
Ricorda di aver voltato il capo e di
avergli rivolto un’espressione che mai aveva rivolto a nessun altro. Ricorda di
aver scostato lo sguardo, ricorda di aver farfugliato qualcosa. Ancora meglio,
ricorda di averlo baciato per la seconda volta.
Ricorda tutte queste cose, Hayato
Gokudera, così come ricorda di aver condiviso il letto con lui quella sera. Non
hanno fatto l’amore, ma si sono limitati ad ascoltare il silenzio e le parole e
i baci e le carezze dell’altro. La mattina non c’erano più rimpianti. In fondo,
si sente rispondere, l’idiota ha potuto abbracciare la madre tenendo il resto
per sé e lui ha potuto baciare e farsi stringere da ciò di cui ha sempre avuto
bisogno.
La verità è che ora stanno bene entrambi.
Un giorno torneranno a Shiruka senza
rimorsi e paure, reduci di pozzanghere in cui ora si riflettono
arcobaleni e non il grigio del cielo, si abbracceranno sotto le coperte
e si confesseranno di
amarsi. Ma questo ora Gokudera non può saperlo e nemmeno lo
immagina, preso com’è
ad aspettare che il suo idiota lo chiami per dirgli: “Ehi, sono
sotto casa tua.
Scendi.”
Vi basti sapere che così andranno le
cose.
* * *
E ora vi chiederete:
perché concludere la fic dal punto di vista di Gokudera se il
protagonista dovrebbe essere Takeshi? Ma in fondo credo che a lui si
debba gran parte dei risvolti della storia.
Eccoci alla fine di questa tanto sofferta fic. "Sofferta" perché
ho spillato sangue dalle dita e dalla testa (?) per scriverla, e spero
che il risultato sia soddisfacente.
Inutile dire che mi sono affezionata a quest'atmosfera perennemente
angst, oltre che alla piccola Yukiko. Lei è troppo dolce *-*
E alla fine della fiera (?), il nostro Takè se n'è
rimasto zitto. Ma in compenso il lieto fine va soprattutto alla
relazione fra i due. Non potevo lasciare che si ignorassero, non
sono così crudele.
...Soprattutto, adoro troppo questa coppia da poter lasciare il povero Hayato senza il suo idiota <3
Ahm, come al solito mi scuso per eventuali errori, ma al momento non ho
tempo di rileggere né voglia di posticipare la pubblicazione
-lol-
In conclusione, spero che questa storia vi abbia appassionato - oddio che parolona xD O almeno che vi sia piaciuta.
Mi farebbe non so quanto piacere ricevere, più che un commento
sul capitolo in sé - che, oddio, sempre ben accetto LOL -, un
commento sulla fic in generale.
Non so se pubblicherò presto qualcosa di nuovo sul fandom di
KHR, soprattutto perché sono impegnata con un contest per
originali.
Adesso vi lascio, sìsì.
Grazie per aver seguito fino in fondo, vi sono immensamente grata! *-*
Dew_
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