Solo un'altra vittima

di HellWill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solo un'altra litigata? ***
Capitolo 2: *** L'incontro ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Risveglio ***
Capitolo 5: *** Vola via, via ***



Capitolo 1
*** Solo un'altra litigata? ***


Keilin si tappò le orecchie con le mani.
«NON LA VOLEVO TUA FIGLIA! NON L’HO MAI VOLUTA!».
No, non le poteva proprio sentire quelle parole, non quelle.
«È TUA FIGLIA! MI HAI STUPRATA E SPOSATA PER COPRIRE LA VERGOGNA!».
Non ne poteva più di quelle parole di cattiveria, quelle parole dure che si sputavano addosso quasi ogni sera.
«SEI TU CHE MI HAI TENTATO, FIGLIA DEL DIAVOLO, E POI SEI CORSA A PIANGERE DA TUO PADRE!».
Affondò la faccia nel cuscino, desiderando che tutto sfumasse nel buio della notte, anche i suoni, anche le persone.
«..cosa fai? C-cosa stai facendo..?».
Suo padre, il fiato corto, un’altra parola soffocata, ora gorgogliata.
Più nulla.

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Capitolo 2
*** L'incontro ***


Keilin restò sul letto, rannicchiata contro il cuscino, il viso affondato in esso, sperando che non fosse accaduto ciò che temeva.
Una lama di luce si disegnò sul suo corpicino acerbo, accompagnata dal cigolio della porta.
Keilin tremò.
Sua madre aveva il viso tumefatto, le braccia violacee e gonfie, il corpo asciutto avvolto da un vestito strappato in qualche punto dalla furia di suo padre.. e dall’orlo del vestito si intuiva una macchia scura contro la luce proveniente dalla cucina.
Sua madre era sporca di sangue, e nella mano destra stringeva un coltello.
Era così rosso; vivido; profumato; quasi vivo.
Keilin si permise di essere un attimo disgustata dalle sue stesse sensazioni. Il sangue gocciolava come acqua dal vestito della madre e dal coltello. Gocciolava lentamente, facendo una piccola pozza ai piedi della donna che continuava a fissarla, inespressiva.
Poi, lentamente, sorrise.
«Fuori uno», disse. E Keilin stavolta si permise di urlare.
Saltò in piedi sul letto nel momento stesso in cui la madre si avventò contro di lei, il coltello spianato, l’espressione trasfigurata dalla gioia feroce di riprendersi la propria vita, di non soccombere a quella che un bruto le aveva propinato con la violenza.
Mentre sua madre rovistava fra le lenzuola e lei si agitava sul materasso cercando di scansarla la bambina scivolò fra le sue gambe cercando la porta, la luce, la salvezza, ma sua madre l’afferrò per i capelli con una forza sovraumana.
Uno sguardo folle la accolse insieme ad una botta sulla nuca quando sua madre, o quella donna, la sbatté al muro tenendola per i capelli, appoggiando la lama del coltello sulla sua gola.
Keilin attese quella morte veloce, piangendo e soffocando i singhiozzi, sua madre voleva che morisse, quale vita sarebbe stata se ci fosse stata?
Un gemito strozzato ed entrambe caddero a terra, lei in piedi e sua madre in ginocchio. Le gambe non la ressero e anche la bambina si ritrovò a terra, a guardare il viso.. no. Il moncherino del collo della madre.
Un urlo le venne spontaneo, ma una mano fredda e nera le tappò la bocca.
«Così ci fai ammazzare» disse una voce vellutata ma al tempo stesso fredda e dura come il ghiaccio. Lei gli morse la mano, aggrottando le sopracciglia senza riuscire a vederlo distintamente nel buio e fra le lacrime.
Se le spazzò via con una mano dagli occhi, rabbiosa, e lentamente si allontanò da lui, scivolando sul sangue con le scarpe. L’ombra si erse in tutta la sua altezza e non sorrise, limitandosi a fissarla freddamente. Nella mano, come la madre di Keilin, stringeva un coltello.
È armato. Mi vuole uccidere.
Il cuore le batteva lento, dopo la frenesia che le aveva acceso sua madre con l’attentato alla sua vita. Ora iniziava ad accelerare nuovamente, inesorabile.
«Non voglio farti del male» mormorò l’uomo, e l’ombra di un sorriso gli si disegnò sulle labbra. Lei non cedette e lo fissò, deglutendo.
«Certo» disse, con voce tremante. Si maledisse. Perché mai le tremava la voce?
I capelli di sua madre, sporchi di sangue, disegnavano forme astratte sul pavimento. Ah, ecco perché le tremava la voce.
La nausea le prese la gola.
«M-mamma….» mormorò, mentre le lacrime cominciavano nuovamente a scorrerle sulle guance.
L’uomo si protese verso di lei prima che la sua testa toccasse terra, per evitarle un’ulteriore botta sulla nuca, e l’ultima cosa che Keilin sentì prima di perdere coscienza fu un leggero odore di fiori d’arancio.

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Capitolo 3
*** Ricordi ***


La notte era tersa, una delle poche in cui non piovesse da quando era iniziato marzo. Una nuvoletta di vapore, silenziosamente, si levò dalle chiome degli alberi in cui avevano trovato rifugio lui e la bambina.
Era incredibile quanto somigliasse ad Ann.
Ed era incredibile che passando per il villaggio per rubare qualche  pezzo di pane e una bottiglia di latte le cose potessero essere andate in quel modo.
Salvare una ragazzina.. curiosa coincidenza, dal momento che lui di mestiere faceva l’assassino.
Un sorriso amaro gli sorse spontaneo sulle labbra: salvare delle vite, cosa voleva dire questo per lui? Voleva dire uccidere un terrorista per lavoro? Certo che no. Voleva dire uccidere una madre pazza e corrotta per salvare la sua figlioletta innocente e frutto di un errore? Certo che no.
Si trattava sempre e comunque di uccidere.
Anzi, no: si trattava sempre e comunque di fare il male minore. Uccidere un ingiusto per regalare pace ai giusti. Faceva tanto Robin Hood, no?
No, si ripeté. No.
Non era giusto. Non era mai giusto, uccidere.
E allora perché lo faceva? Se lo chiedeva da trent’anni, ma mai un dio, un essere umano o un non-umano gli avevano dato risposta. Qualcuno, una volta, accogliendo le sue confessioni, gli aveva detto che la risposta ce l’aveva solo lui. E lui, proprio lui, aveva concluso che probabilmente quello era il suo posto nel mondo.
Perché anche quando non doveva uccidere, o non avrebbe dovuto, lo faceva, lo aveva fatto.
Era entrato nel villaggio per rubare, ne era uscito con un’arma insanguinata e una bambina sulle spalle.
Sembra ridicolo, invece nel suo animo si allargavano come macchie d’olio il rimorso e la tristezza.
Perché quella ragazzina senza nome non sarebbe mai potuta essere Ann. Mai.
E allora perché?
Si accorse che era la domanda che più si ripeteva spesso, quella notte, e che confusamente in testa gli si rimescolava con altri pensieri, con le emozioni, il rimpianto.. ed i ricordi.
Lentamente, il viso nascosto da una maschera di tristezza, si volse verso la bambina dormiente.
I capelli castani lunghi oltre la spalla erano sparsi sul tappeto di foglie che le aveva approntato velocemente, alla meglio, prima di depositarcela sopra; gli occhi azzurri che aveva visto prima che svenisse erano ora chiusi, e il Mezzelfo temeva il momento in cui si sarebbero riaperti.
Assomigliava totalmente ad Ann. La forma del viso, quel suo modo di sfidare la morte quando le aveva detto di non volerle fare del male, gli occhi e il loro colore limpido nonostante tutto ciò che avevano visto, e i capelli né lisci né ricci, di quella forma strana che a volte stava in piedi sfidando le forze della natura.
Kame sospirò e si accorse con una rabbia appena accennata che una lacrima gli era sfuggita sulla guancia.
Così, si concesse il ricordo come un diabetico si concede un pasticcino.
Ann era una bambina, all’epoca; aveva il cipiglio allegro della madre unito al suo carattere solitario e leggermente misterioso, così che la malizia sul suo viso, crescendo, aveva preso una piega sempre più divertente e quasi tenera.
I capelli castani le arrivavano al sedere quando entrò in casa senza fiato e, nonostante questo, urlò «VOGLIO ESSERE UN MASCHIO!».
Loren si era presa un colpo e si era avvicinata a lei, tremando, mentre lui scivolava giù dal letto e osservava la scena, divertito. Sua figlia trovava sempre modi strani di svegliarlo, e quel pomeriggio si era inventata quella piccola messinscena?
«Cosa vai dicendo, Ann? Cosa dici?» chiese Loren, pallida e vagamente divertita. Lui si appoggiò alla balaustra delle scale, incrociando le braccia con un sorriso bonario sul volto, e Ann quasi con un sesto senso si volse verso di lui, un sorriso enorme ad illuminarle il visino.
«PAPÀ!».
Si era domandato più volte se Ann riuscisse a parlare con un tono di voce normale, anziché urlare, e con un guizzo di pensiero si era detto che in guerra sarebbe stata un comandante coi fiocchi.
«Piccolann» disse, tutto attaccato perché era così che parlavano loro, era affetto, tutto affetto. Lei era la sua figlioletta prediletta, l’unica.
La bimba corse su per le scale, ignorando la madre, e si aggrappò alla gamba del padre.
«Voglio essere un maschio!» disse, ridendo, e l’uomo ridacchiò.
«E per quale motivo, sentiamo?» chiese, iniziando a scendere le scale con la bimba appoggiata al suo piede.
«Voglio fare la pipì in piedi!» disse, più seria, e l’uomo aggrottò la fronte, fermandosi. La scrutò serio, mentre lei sosteneva il suo sguardo un metro e mezzo più su, e poi scoppiò a ridere.
La bambina balzò in piedi, qualche scalino più in là dal padre, come fosse stata respinta da una scossa elettrica.
Lo guardò improvvisamente come se fosse uno sconosciuto, e per due giorni si chiuse nel silenzio, finché lui non si scusò per la risata e le spiegò che essere uomo era molto, molto di più che fare la pipì in piedi.
Gli anni erano passati in fretta, sereni, poi era scoppiata la guerra.
Lui era stato reclutato insieme alla maggior parte degli uomini abili del villaggio, e combattere per portare la pelle a casa era diventato obbligatorio. Nessun altro motivo gli interessava, non era una guerra che gli apparteneva, gli apparteneva solo lottare e gridare «Ann!» e «Loren!» dopo essere stato al fronte per due mesi.
Andò avanti un anno.
Dopodiché, la mazzata sulla testa.
«Papà, io vengo con te».
Aveva 14 anni e la voglia di cambiare il mondo nelle braccia, lui lo sapeva, eppure la sua espressione si indurì e si ritrovò ad urlarle contro. Urlare arrabbiato, mentre dentro gli montava la disperazione e una sola parola si ripeteva all’infinito. No.
Il giorno dopo Ann non venne a salutarlo mentre partiva per il fronte. Lui le urlò che le voleva bene e poi montò sul carro dei commilitoni, e scrutò le facce già conosciute e quelle nuove, dei cadetti appena reclutati, i ragazzini di quindici anni e più.
Non si rese conto di nulla fin quando ad uno dei cadetti non cadde l’elmo di testa e rivelò una folta capigliatura castana, che le forbici dei commilitoni non erano riuscite a domare.
La disperazione montò di nuovo e tanto rivoltò l’accampamento che la fece rinchiudere in una delle celle per i prigionieri.
Ma lei trovò lo stesso il modo di scappare, di combattere, di essere uomo come avrebbe voluto da sempre, di dimostrare a suo padre che valeva come donna e come uomo, lui valeva entrambi insieme.
Ma non sapeva che lui se ne era reso conto già quando Loren, piangendo, gli aveva annunciato: «È una femminuccia».
Ann non sapeva che lui, Kame, sapeva. Sapeva che lei valeva dieci persone e più, cinque maschi e cinque femmine, forse di più di entrambi. Lei valeva tutto. E aveva scelto di dimostrarlo in quella maniera: morendo.
Il Mezzelfo si passò una mano sul viso e il guanto nero di seta assorbì le lacrime che lo imperlavano, leggere e pesanti al tempo stesso.
Il ricordo era, a volte, un’espiazione. Non riusciva a non pensare alla sua bambina, la sua bambina che era stata sacrificata per i capricci di signori che si muovevano guerra a vicenda sulle spalle dei propri popoli.
Quello che aveva smesso di fare prima della nascita di Ann, l’assassino, riemerse con prepotenza nel suo animo distrutto dal dolore.
La freddezza lo invase e lui la accolse come una vecchia amica troppo a lungo lasciata da parte, assorbito com’era dalla sua nuova vita.
E così l’uomo che si era finto con Loren svanì, si rintanò nella parte più nascosta di lui, per lasciare il posto al freddo e spietato assassino che era sempre stato.
Così lui aveva perso ogni umanità, si era gettato nella pura e semplice sopravvivenza animale. Chiedendosi il perché.
Perché Ann, perché lui, perché l’assassino, perché la guerra, perché il rubare, perché il cacciare, perché l’uccidere, perché il salvare quella bambina sconosciuta.
Perché.
Perché?
Le foglie attorno a lui ondeggiarono leggere alla brezza primaverile, e Kame sospirò lasciandosi scivolare nella piccola radura dove dormiva la bambina, sopraffatta da tutti gli eventi della serata.
E d’improvviso ripensò al nome, quel nome che nessuno aveva mai sentito pronunciare dalle sue labbra.
Nimel. Mi chiamo Nimel.
Si ripassò il suo nome nella testa, per non dimenticarlo, per non lasciarlo fuggire nell’oblio.
Perché quando nessuno ti chiama per nome, la realtà sfuma e perde significato, facendoti credere che nulla sia reale, e che tutto sia lecito.

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Capitolo 4
*** Risveglio ***


La svegliarono il cozzare casalingo di padelle di coccio contro e lo scoppiettio di un fuocherello; per un attimo pensò che fosse stato tutto un sogno: sentiva il profumo rassicurante del bucato fresco sotto il naso, la morbidezza delle coltri che la avvolgevano era una bambagia in cui le piaceva indugiare ad occhi chiusi.
Poi si rese conto che non era bucato fresco quello che sentiva nel naso, ma muschio fresco e linfa d’albero. Restò immobile, trattenendo il respiro, ma suoni e odori che prima non aveva notato, estranei al suo contesto familiare, le si palesarono rompendo l’illusione.
Uccellini che cantavano; odore di foglie e biancospino; lo scroscio di un ruscelletto lì vicino; una voce maschile che mormorava un motivo dolce e tutto sommato quasi inudibile, dal momento che era appena accennato.
«Lo so che sei sveglia» disse poi la voce, semplicemente. Non la esortò ad alzarsi, non la costrinse a svegliarsi, ma la riportò velocemente alla realtà. Quella stessa voce le aveva detto di stare zitta, la sera prima, prima che.. dopo che..
Un conato di vomito, inaspettato, la sorprese; si sporse appena, sedendosi, e rigettò la poca roba che aveva mangiato più di dodici ore prima. Lentamente le lacrime si aprirono strada fra le sue palpebre serrate e le rigarono le guance, sollevando un paio di singhiozzi.
Un tocco leggero alla spalla la riscosse.
«Tutto bene..?» mormorò quella voce, e lei notò che non era tanto male come la prima volta che l’aveva sentita. Al contrario, era gentile, quasi sommessa... non era affatto dura e gelida come quella sera.
Keilin aprì lentamente gli occhi, sentendo crescere nel petto uno sconforto totale. Un sorriso la lasciò interdetta e aggrottò appena le sopracciglia, anche perché la luce del mattino inoltrato le dava fastidio agli occhi.
«...Chi sei?» mormorò lei, scostandosi appena dalla mano che le toccava la spalla, e l’uomo la lasciò fare, togliendo la padella di coccio dal fuoco; mise le fettine di mela su di un piatto e si strinse nelle spalle.
«Mi dispiace non avere nulla di più caldo da darti, ma non ho contenitori per riscaldare il latte. Se lo vuoi, c’è freddo» disse lui, porgendole il piatto con un sorriso gentile. Lei lo fissò senza capire e l’uomo ricambiò lo sguardo, senza ritirare il piatto, poi scosse appena la testa, sorridendo. «Guarda che devi mangiare».
Keilin si riscosse e accettò il piatto, sospettosa, fissando prima l’uomo e poi il contenuto della sua porzione: c’erano fettine di mela sparse in un composto giallo che sembrava...
«...frittata di mele?» chiese allora, confusa. Che storia era quella? Non aveva mai visto qualcosa del genere. L’uomo si strinse nelle spalle, quasi imbarazzato, e le diresse uno sguardo.
«Cerco di mangiare il meno carne possibile, fa male alla salute» spiegò, e Keilin restò a fissarlo per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere. L’uomo si irrigidì e restò a fissarla, sbalordito.
«Che stai facendo?» chiese, esterrefatto, e la bambina prese un morso di frittata, ancora ridacchiando.
«Nulla. Sto mangiando» rise ancora, poi mangiando si calmò pian piano. «Ehy, è buona. Cucini.. bene» disse, stringendosi nelle spalle. L’uomo si sporse oltre la radura, dove scorreva un piccolo ruscello, e lavò velocemente la padella, sorridendo.
«Grazie» disse, semplicemente, e si voltò verso di lei. La bambina silenziosamente si alzò e gli porse il piatto.
«Cosa cantavi, prima?» chiese, guardandosi attorno e cercando di capire dov’erano. L’uomo si irrigidì appena e si strinse nelle spalle.
«Una cosa inventata al momento».
«Davvero? Sembravi conoscerla molto bene» Keilin dedusse che non erano molto lontani dal villaggio, dal momento che in lontananza aveva appena udito la campana della scuola; era la terza ora di lezione. «Posso andare a casa ora?».
«A casa?» l’assassino si volse verso di lei, impassibile, poi inarcò un sopracciglio. «Se ti va di essere interrogata e uccisa o esiliata, perché no? Vai pure».
Keilin fu colpita da quelle parole fredde e, apparentemente, inutilmente crudeli.
«..cosa intendi?» chiese, irrigidendosi. L’uomo, lavato il piatto, si alzò e sospirò, rimettendo tutto a posto. Ricoprì il fuocherello ancora acceso con della terra, per non sollevare fumo, e si mise la borsa in spalla.
«Esattamente quello che ho detto. Sono stato stamattina presto al villaggio per vedere chi poteva tenerti con sé, ma da quanto ho capito sono tutti convinti che sia stata tu ad uccidere i tuoi genitori, e poi sia scappata. Se ritorni lì, ti uccideranno o esilieranno».
Keilin lo ascoltò basita, poi lentamente si sedette a terra, le foglie che le pungevano le cosce, sentendo la testa girarle troppo velocemente.
«Cos-».
«È finita. La tua vita di prima non esiste più. Ora dimmi: cosa vorresti fare? Andare lì ed essere ingiustamente accusata di due omicidi che non hai compiuto? Tuo padre era sulla coscienza di tua madre, e tua madre è sulla mia, di coscienza. Tu sei ancora pulita» disse l’uomo, con voce dura, e Keilin si disse che era impossibile che una stessa persona potesse avere quei sorrisi e quei toni dolci e gentili e poi tirar fuori tutta quella freddezza e crudeltà pochi minuti dopo.
«..t-tu..».
«Ora dimmi cosa vuoi fare. Restare con me è escluso, non è vita da bambini la mia. Quindi dimmi: vuoi trovare un lavoro e crescere presto oppure vuoi che ti porti da qualche famiglia che desidera una bambina come te? Scegli e basta».
«..perché non posso restare con te?».
Kame si irrigidì e si rifiutò di voltarsi. La bambina stava piangendo? Da quella vocetta tremante e terribilmente fragile, sì.
«Non è vita da bambini» ripeté, convinto. Era vero. Non era una vita che avrebbe augurato a qualcuno. Continuamente in fuga da pensieri, sensi di colpa e gendarmi. E altri assassini, ovviamente.
«..non sono più una bambina» disse lei, trattenendo un singhiozzo. E allora Kame si voltò verso di lei. Keilin aveva gli occhi rossi e i capelli appiccicati sul viso dalle lacrime, ma il cipiglio era duro e testardo. Le tremavano le mani, ma non era più seduta sulle foglie che pungevano e restava in piedi, a gambe leggermente aperte e il petto in fuori, decisa, come se si apprestasse a scalare una montagna. Una fitta nel petto gli ricordò tante, troppe cose -Ann, la mia Ann- e sospirò.
«Allora impara un mestiere. Mi seguirai fino al prossimo villaggio, o se necessario quello dopo ancora, in modo che i tuoi compaesani non possano raggiungerti. Sarebbe meglio se ti scegliessi un altro nome» disse poi, e sembrava quasi pensare ad alta voce. Keilin strinse i pugni.
«No».
Kame si voltò lentamente, fulminandola con lo sguardo, ma ne incontrò uno di ghiaccio, altrettanto deciso.
«No?» disse, cauto, senza sorridere. La bambina ricambiò lo sguardo con freddezza.
«Vengo con te. Hai ucciso mia madre, cavolo! Tu mi insegnerai e poi ci scontreremo e mi vendicherò, oppure morirò. Quindi al prossimo villaggio, se non posso tornare al mio, devo comprare dei vestiti. E basta» disse, decisa, e si sentì improvvisamente grande, cresciuta, determinata. L’uomo la fissò, e si chiese se farlo. Sì, lo poteva fare.
Kame scoppiò a ridere. Keilin fece un passo indietro, esterrefatta, e lo osservò cercare di calmarsi e continuare a sghignazzare, amareggiata.
«Non mi stai prendendo sul se-».
«Scusami, piccoletta, se ho i miei dubbi che una bimbetta di dieci anni possa imparare tutto ciò che io ho appreso in oltre quarant’anni di vita e possa battermi così come nulla.. E scusami anche se penso che sia ridicolo che tu voglia ‘vendicarti’ di qualcuno che ti ha salvato la vita» disse Kame, ancora ridacchiando, poi fece un piccolo gesto noncurante con la mano. «Niente storie, ti lascio in un villaggio e fai quello che ti pare, io non me la accollo la responsabilità di una bimbetta che non usa il cervello».
«..la mia vita non ha più un senso. Non posso sposarmi, né imparare un mestiere, il sangue dei miei genitori grava su di me, sono stata salvata da chi mi ha condannato!» sbottò lei, rossa in viso. Kame restò in silenzio, ritornando di colpo serio, fissandola pensieroso.
«E quindi cosa intendi fare, mh? Attaccarmi come un gattino che si aggrappa alla groppa di un cavallo pretendendo di ucciderlo con i suoi piccoli artigli?» l’uomo inarcò un sopracciglio e con la coda dell’occhio Keilin notò che si era irrigidito, forse pronto a reagire al minimo segno che sì, lei stava per attaccarlo. Lentamente la bimba scosse il capo.
«Non sono stupida. Non pretendo di ucciderti. Ma di vendicarmi sì. Se la mia presenza ti è di peso, allora resterò con te» disse, ferma. Kame sorrise.
«Crudele più con te stessa che con me. Io non provvederò al tuo vitto e alloggio, per me non esisti» disse, secco, prendendo a camminare; erano restati anche troppo tempo lì. Keilin, interdetta, restò un attimo ferma a fissare la figura ammantata di nero che si infilava fra i cespugli, poi scattò e seguì l’ultimo stralcio del suo mantello, per non perderlo di vista.

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Capitolo 5
*** Vola via, via ***


«Cerca di capire. Non puoi venire con me».
La bambina singhiozzò, coprendosi il viso con le mani e digrignando i denti.
«Io devo! Devo venire con te!».
«No, no.. non puoi, non devi. Stai qui.. con la mamma. Non serve che tu venga... morirai!».
 
Quanto gliela ricordava, quella ragazzina? Che uomo terribile che era.. non sapeva nemmeno il suo nome. Sentiva il respiro affannoso della bambina dietro di lui, ma da quanto erano partiti non si era voltato nemmeno un attimo per guardarla.. era troppo arrabbiato.
«Sei un assassino» mormorò lei ad un certo punto; lui si fermò così di botto che la ragazzina gli andò a sbattere contro, stampandogli la faccia sulla schiena. Si voltò con studiata lunghezza, mentre gli occhi della bambina si spalancavano per accogliere l’enormità di quello che aveva detto.
«Sì» rispose Kame con semplicità, in attesa di urla e strepiti... che non arrivarono.
«Mi va bene» mormorò lei, fissandolo pacata. «Sei un uomo gentile» disse poi, abbassando lo sguardo. L’uomo inclinò il capo di lato, stentando a capire come si fosse finiti a quel punto.
«Sei davvero terribile» commentò lui, prendendo dalla borsa l’otre con l’acqua e bevendo; la bambina lo osservò di sottecchi, piccata.
«Davvero?».
«Sì» disse, porgendole l’acqua. Keilin bevve avidamente, poi si vergognò per aver condiviso dell’acqua che era solo dell’assassino e gli porse l’otre mezzo vuoto.
«Scusami» bisbigliò, intimorita.
Il cammino andò avanti più o meno fino al tramonto, con una sola sosta per mangiare qualcosa: Keilin non toccò cibo e a Kame non andava di costringerla a mangiare, tuttavia quando calò l’oscurità e si ritrovò ad accendere un fuoco, i pensieri lo assalirono.
«Dovresti mangiare qualcosa» disse, come se stesse commentando il tempo. Lei alzò lo sguardo dal terreno che stava fissando da venti minuti, con occhi vacui.
«Ah sì» mormorò, sprofondando nuovamente nella contemplazione del nulla. L’uomo la guardò per qualche istante, poi scrollò le spalle e scomparve nel fitto del bosco, lasciandola sola con il fuoco. Dopo qualche minuto, fu di ritorno con due fagiani morti e una quaglia viva che gemeva di dolore.
«È ancora viva» osservò cautamente Keilin, aggrottando la fronte. Kame non le diede attenzione: con un coltello affondò nel petto dell’animale, che spirò immediatamente.
«Vola via» mormorò l’assassino, socchiudendo gli occhi, dopodiché alzò lo sguardo su di lei. «Ora non più» commentò lui freddo. La bambina sentì una strana sensazione impossessarsi di lei.
«..come ti chiami?».
«Kame».
Lei rabbrividì: aveva come la sensazione di conoscere già quel nome.
«Io mi chiamo Keilin».
«Il piacere è tutto mio» disse sarcastico, spennando i tre animali. La bambina si morse il labbro: era tutto sbagliato.. come poteva dirgli ciò che pensava?
«Posso diventare tua allieva?» mormorò, mordendosi le labbra a sangue. L’uomo si fermò. Il fuoco si fece più silenzioso. Persino la foresta parve tacere per assorbire quelle parole pesanti come rocce.
«Starai scherzando spero» brontolò lui, per nulla entusiasta, iniziando ad agitarsi. La bambina scosse piano il capo.
«No.. sono serissima».
«Ti vuoi davvero abbassare al livello di uno che ha ammazzato una donna e tante altre persone? Ti vuoi abbassare al livello dell’uomo che ha ucciso tua madre?» disse lui scettico, rievocando le parole che lei stessa gli aveva praticamente urlato contro. Keilin si morse il labbro: aveva ragione a trattarla così.. dopotutto era lei che l’aveva insultato e aveva giurato di vendicarsi... ma non era in sé! Come aveva potuto prenderla sul serio!?
«No.. mi abbasso al livello del sopravvivere» disse in un soffio, avvicinandosi a lui. Kame evitò il contatto fisico, visibilmente infastidito.
«Mi disprezzi così tanto?» mormorò amaro.
«Cosa..?» la bambina sembrò confusa.
«Mi disprezzi così tanto che non ti importa di macchiarti le mani di sangue innocente pur di arrivare a vendicarti su di me? Non ti importa della tua vita? Della tua coscienza? Davvero mi disprezzi così tanto, arrivi davvero a credere che sarei disposto ad insegnarti il modo con cui uccidermi e condannarti ad una vita terribile fatta di fuga ed incertezze?» mormorò lui, alzando lo sguardo solo alle ultime parole. Contemporaneamente, Keilin abbassò lo sguardo. No, non era quello... eppure le sue parole l’avevano ferita come se fosse vero.
«No, non è questo» mormorò. Si sentiva come se l’avesse schiaffeggiata, il che era strano visto e considerato che l’uomo non aveva nemmeno alzato la voce. Sentiva una profonda comprensione per quell’uomo.. era come un padre che non aveva mai avuto; una vita fatta di fuga ed incertezze, oh, non era forse la vita che la attendeva? E questo a dispetto che lei avesse deciso o no di imparare a fare l’assassino... no, no, lei voleva essere sua allieva per stare con lui, perché lui poteva essere il padre che non aveva mai avuto.
«E allora cos’è?» oh, il ragazzo sapeva fingere molto bene di non sapere cos’era, e lei lo percepì persino dalla sua voce seccata ma dolce. Ma Keilin capì che lo voleva sentire da lei, dalle sue labbra.. e questo nonostante lei non avesse alcuna intenzione di dirlo.
«Voglio essere tua allieva» ripeté caparbiamente, sull’orlo delle lacrime.
«E non sai il perché?» ridacchiò l’ombra, sarcastica e amara.
Keilin scosse la testa, anche se non era sicura del fatto che lui l’avesse vista. Kame sospirò e si scostò i lunghi capelli che gli ricadevano sul volto. Aveva un’espressione stanca, infinitamente stanca, e gli occhi velati da una leggera tristezza. Il volto ora era quello, il suo vero volto, e Keilin lo apprezzò per la sua semplicità, la sua familiarità: era più vecchio di quello che aveva prima, i capelli blu più sfibrati e corti, gli occhi velati da un antico dolore.
«Sei sicura di ciò che vuoi, piccola? Diventare grandi può essere.. traumatico» mormorò atono. Lei gli andò vicino e, incerta, gli pose le mani sulle sue. Lui alzò pacato lo sguardo, come se non potesse sorprendersi più di nulla, e le sfiorò il viso per farle una carezza. «Somigli così tanto alla mia Ann..» mormorò piano, mentre gli occhi viola diventavano lucidi. Per puro orgoglio, lui distolse lo sguardo ed estrasse un coltello dalla propria camicia: Keilin lo fissò con soggezione.
«Cosa fai..?».
«Questa sarà la tua arma. Con questo imparerai a cacciare, a difenderti, a tagliare aria e legna... sarai in grado di farlo?».
Keilin spalancò gli occhi e annuì piano, prendendo il pugnale dalla parte del manico: era liscio, di cuoio, e dalla fattura comune; ciò nonostante, la lama era lucida e ben curata, affilatissima e pronta ad uccidere.
«Bene. Ora mangiamo».
 
Il buio era calato su di loro e Kame si era steso dall’altra parte del fuoco, dandole le spalle. Keilin non dormiva, e non sapeva se lui invece lo stesse facendo.. ma poco importava, dopotutto, perché lei avrebbe preso sonno abbastanza presto. Prima di dormire, estrasse il pugnale dal fodero e se lo rigirò fra le mani: era troppo piccola, troppo impacciata, troppo inutile... non sarebbe mai diventata un’assassina, probabilmente. E lei si era resa conto che non c’era spazio per lei nel mondo. Cosa fare? La risposta le baluginava nelle mani, riflettendo la luce della luna in cielo, ridotta ad uno spicchio calante. Oh, sì, sapeva cosa fare: il metallo le dava sicurezza.
Aveva detto di volersi vendicare, no? Voleva vendicarsi di lui, dell’assassino di sua madre... l’uomo che l’aveva salvata. Quel dualismo la confondeva, ma forse dopotutto ora sapeva cosa fare.
«Hai ucciso mia madre» sussurrò, con l’arma in pugno. Kame non si mosse, ad occhi chiusi.
«Sì» mormorò poi.
Lei rimase scossa. Era sveglio, ma non la stava fermando.
“Somigli così tanto alla mia Ann...”.
Quel pensiero la scosse. E se invece...
Keilin chiuse gli occhi e sorrise appena.
«E allora io mi vendicherò».
«Sì» mormorò ancora lui, aspettando di essere colpito. Ma non accadde. «Ragazzina?».
«Kame».
Il tono era piatto, esangue, ma solo il suono del coltello che rimbalzava contro una pietra fece riscuotere l’uomo, che si alzò di scatto e la fissò a bocca aperta, impallidendo.
«Cosa stai facendo!?».
Keilin sa che lui sta urlando, ha anche una vaga percezione di cadere, ma non si rende conto delle sue mani che le esaminano il braccio squarciato, non si rende conto del suo sguardo disperato e triste, come se l’avesse distrutto.
“La vendetta.. non è affatto dolce come pensavo”.
Ma anche quel pensiero le stava scivolando via di dosso, sentiva un freddo crescente, stava perdendo sangue.. tanto sangue, questo lo sapeva.
«Stupida, sei una stupida...» singhiozzò l’uomo accanto a lei, tirando un calcio ad un masso, mentre la guardava morire.
Keilin sapeva di averla fatta grossa, e sapeva di aver aperto dentro quell’uomo una voragine se possibile più enorme di quella che c’era già.
«Non.. colpa tua. No» mormorò, mentre chiudeva gli occhi: aveva così tanto sonno.. era così che ci si sentiva a morire? Come se ci si addormentasse?
“Vola via”, e la quaglia che invece di spalancare le ali si accasciava fra le sue mani.
“Vola via”.
“Vola via”.
«Vai via. Vola via» mormorò l’uomo, prendendole una mano e portandosela alle labbra. Keilin aprì gli occhi e scrutò per l’ultima volta quelli viola dell’uomo; non sapeva da cosa fossero dettate quelle sue ultime parole, ma sentiva di dovergliele dire.
«Ann.. ti perdona» sussurrò, con un filo di voce. «Ti.. perdona» ripeté, come se non capisse il senso di quello che stava dicendogli.
L’assassino rimase immobile, poi singhiozzò appena mentre gli occhi della piccola si velavano d’incoscienza.
“Vola via, via, via”.
«Vola via dalla mia piccolann, Keilin. Vola via» mormorò l’uomo, piangendo disperato accanto al corpo esanime della bambina.

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