Person of Interest

di Bale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** CapitoloIII ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***




E se Jessica non fosse morta?



A volte il passato, inesorabilmente, ritorna.
 
 





CAPITOLO I
 
Il sole era appena sorto, eppure Finch era già a lavoro. Si muoveva freneticamente per la stanza, aggiungendo dati alla sua bacheca. Una nuova vittima, un nuovo numero. Non ci avrebbe mai fatto l’abitudine, anche se quello era il lavoro che aveva scelto. Ogni volta che la macchina gli forniva un nuovo numero, lui iniziava a sentirsi irrequieto, nervoso, come se ad essere in pericolo fosse proprio lui stesso.

Si fidava di Reese. Aveva sempre portato a termine brillantemente ogni missione, magari a volte con metodi poco ortodossi, ma d’altronde era il risultato ciò che interessava ad Harold Finch.

Fece due passi indietro, osservando la bacheca da lontano, come per trovare il giusto distacco da quel nuovo caso. Poi sospirò.

Fu proprio allora che John Reese fece il suo ingresso nella biblioteca.

Vista l’ora si sarebbe aspettato di trovare il suo socio davanti al pc, magari a giocare a solitario.

E invece Finch era lì: sguardo preoccupato e mani tremanti, segni inequivocabili di una nuova missione.

-Sei preoccupato, Harold?-   chiese con tono più ironico che ansioso.

-Abbiamo un nuovo numero-

-Lo immaginavo-    borbottò Reese avvicinandosi alla lavagna.

Diversi post-it erano stati disposti con cura accanto ad un numero di previdenza sociale e un nome.

Reese sgranò gli occhi.

-Si tratta di una donna, un medico. Jessica Shephard. Lavora al North General Hospital, reparto di neurochirurgia-

Reese era ancora lì impalato, fermo davanti a quel nome scritto in stampatello con inchiostro nero.

No, non poteva essere. Doveva esserci un errore, o forse si trattava di un caso di omonimia.

-Non abbiamo una foto?-    riuscì a chiedere con voce roca.

-La sto stampando in questo istante. La nostra amica sembra essere molto riservata, ma per fortuna possiede una patente di guida-

John si voltò automaticamente verso la stampante di ultima generazione posta proprio alle sue spalle.

Stava sputando fuori una foto. Si trattava di una donna bionda. Era molto bella. Era Jessica, la sua Jessica.

Deglutì a fatica, cercando di capire cosa fare. Doveva dire a Finch la verità? Doveva dirgli che conosceva quella donna, che la amava da sempre?

Harold prese la fotografia appena sfornata dalla sua stampante e la appese al muro. Fece nuovamente un passo indietro, come per poterla guardare meglio.

-Questa donna ha qualcosa di familiare-

“Qualcosa di familiare?”

John non riusciva a capire. Poi all’improvviso, gli si accese la lampadina.

Finch aveva indagato su di lui prima di offrirgli quel lavoro. Doveva aver visto Jessica in qualche loro vecchia fotografia.

Guardò il suo socio e fece un profondo respiro: quella era l’occasione giusta per dire la verità.

-Mi meraviglio di te, Finch-   esordì ritornando in sé.

Il suo amico occhialuto si voltò a guardarlo senza capire.

-Tu questa donna la conosci e la conosco anch’io-

Anche nella mente di Harold si accese la lampadina.

-Questa è la tua…-    balbettò imbarazzato.

-E’ proprio lei-

John si sforzava di mantenere un tono distaccato, ma con scarso successo. Sapeva che a Finch non sarebbe sfuggita quella vena malinconica nella sua voce, ma non poteva farci niente.

-Allora, cosa sappiamo di lei?-

-Vuoi sapere se è sposata o fidanzata?-

Ancora una volta Finch aveva colto nel segno, ma Reese cercò di non darlo a vedere.

-Voglio sapere qualcosa in più su di lei per poterla proteggere. Non la vedo da anni, non so più nulla della sua vita-

Harold quasi si commosse sentendo quell’ultima frase, ma anche lui cercò di nascondere i suoi sentimenti.

In realtà si sentiva intenerito da quell’uomo di ferro che, per la prima volta, stava mostrando dei sentimenti umani.

-Non ho scoperto molto. La sua vita sembra essere tutta casa e lavoro. Non è sposata né fidanzata, sua madre vive nell’Ohio con sua sorella. Sembra essere da sola qui a New York. L’anno scorso ha salvato diverse vite e ha anche scritto degli articoli per delle importanti riviste di medicina-

-Non si dedica ad altro che al suo lavoro?-

Finch annuì.

-Era il suo sogno-   mormorò Reese   -Voleva diventare medico, salvare le persone-

-Anche tu hai questa passione, signor Reese. Quella di salvare le persone-

Harold sorrise. Era la prima volta che lo faceva o se lo aveva fatto in passato, John non lo ricordava. Fu un sorriso dolce, solidale, il sorriso di un amico.

-Mandami il suo indirizzo sul cellulare. Vado a dare un’occhiata-   ordinò, dirigendosi verso l’uscita.

-Credo che tu lo conosca già, signor Reese. Non ha mai lasciato la sua casa sulla trentasettesima-

Lo stomaco di John fece una capriola. In quella casa erano stati felici e lui ora l’avrebbe rivista proprio lì, in quella cucina, su quel divano, in quel letto.

Non disse un’altra parola. Imboccò l’uscita e sparì, lasciando Finch in una sconfinata tristezza.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***



CAPITOLO II
 

La porta si aprì con un leggero click. Reese entrò senza fare troppi complimenti.

Si trovava in un appartamento vuoto, disabitato da anni. Era stato Finch a procurarglielo per l’occasione.

Senza guardarsi troppo intorno si diresse verso la finestra di quello che un tempo doveva essere stato il soggiorno.

Le ipotesi di Finch si rivelarono subito esatte: la vista era perfetta. John riusciva a vedere chiaramente il soggiorno, buona parte della cucina e l’ingresso dell’appartamento di Jessica.

All’improvviso i ricordi lo assalirono.

Era il 2001 e lui entrava per la prima volta in quella casa trascinato da una donna bionda.

Si frequentavano da poco, ma sembravano uniti da sempre.

Lei sorrideva, lui si sentiva felice.

-Non dovevi andare da tua madre questo week-end?-

-Le ho detto che sarei rimasta a studiare con la mia amica Megan-

-Quindi io sarei Megan?-

Le risate riempivano la casa. Erano innamorati.

John scosse la testa e si impose di ritornare al presente.

L’appartamento sembrava vuoto, Jessica non si vedeva da nessuna parte. Decise di telefonare a Finch per saperne di più.

-Nessun problema con la serratura, immagino-   esordì la sua voce al telefono.

-Esatto. Mi sono già appostato-

Era raro, per John Reese, sentirsi a disagio. Eppure quella situazione lo rendeva tanto eccitato, quanto nervoso. In alcuni momenti si sentiva addirittura imbarazzato.

-Vedi qualcosa?-

-La casa sembra vuota-    rispose infilando gli occhi nel binocolo.

-Strano! Ha il turno in ospedale tra mezz’ora-

-Magari è già usci…-

Le parole gli si fermarono in gola, il binocolo gli scivolò dalle mani.

Finch sentì soltanto un tonfo sordo, ma tacque. Riusciva facilmente ad immaginare ciò che stava succedendo.

Jessica era apparsa, probabilmente dalla camera da letto.

Sembrava una donna normalissima, una delle tante che la mattina si svegliano presto, sorseggiano caffè e se ne vanno dritte a lavoro.

Agli occhi di John, però, quella donna non aveva assolutamente nulla di normale. Era la donna più bella che avesse mai visto, era la donna di cui era stato sempre innamorato. Gli parve del tutto inutile domandarsi se lo fosse ancora, visto l’effetto che gli aveva fatto vederla da lontano, attraverso i vetri della finestra della cucina.

Jessica sembrava calma, tranquilla. Andò dritta in cucina e afferrò la sua tazza.

Era sempre quella, sempre la stessa. La tazza azzurra con le nuvolette bianche, la sua preferita.

Quanti anni erano passati? Dio mio, troppi!

-Tutto bene, signor Reese?-    chiese Finch dopo quella che era parsa un’eternità.

John deglutì a fatica, poi rispose:

-E’ in casa. Sta bevendo il suo caffè-

Il suo tono era indecifrabile. Finch si richiuse nel suo silenzio.

John inforcò nuovamente il binocolo. Ora la vedeva più vicina. Sembrava addirittura più bella.

Finì il suo caffè, prese la borsa ed uscì di corsa dal suo appartamento.

Reese la vide arrivare alla fermata dell’autobus e prendere il numero 52 per l’ospedale.

Rimase lì, immobile. Incredulo, innamorato.

-Cosa hai intenzione di fare, Reese?-

-In ospedale sarà al sicuro. Credo che entrerò nel suo appartamento a dare un’occhiata-

-Bene-

L’imbarazzo di entrambi era palpabile.

-Comunque ho clonato il suo cellulare. Potremo ascoltare le sue conversazioni e leggere i suoi messaggi-

John lasciò scivolare il binocolo nel borsone nero ai suoi piedi, poi lasciò il suo nascondiglio.

Mentre attraversava la strada sentì le sue viscere contorcersi.

Stava per ritornare, dopo anni, nell’unico posto dove era mai stato felice. Questa volta, però, era tutto diverso, tutto cambiato.

Avrebbe scavato nella vita della donna che aveva amato e che ancora amava. Avrebbe fatto qualcosa di spregevole, ma lo avrebbe fatto per il suo bene.

Un brivido gli attraversò la schiena. Per un attimo ebbe paura di ciò che avrebbe potuto scoprire.

-John, posso chiederti una cosa?-

Ancora dopo una lunga pausa, la voce di Finch tornò a riempire le orecchie del suo socio.

-Cosa vuoi sapere?-    rispose lui, mentre tentava di forzare la porta dell’appartamento di Jessica.

-Non abbiamo la certezza che sia lei ad essere in pericolo. Sai che la macchina a volte fornisce il numero della vittima, altre volte quello del carnefice…-

-Mi stai chiedendo se Jessica è capace di fare del male a qualcuno?-

-Il suo lavoro è quello di salvare vite, ma…sì, è proprio quello che ti sto chiedendo-

Ci fu una lunga pausa. Harold si chiese se John avesse sentito la sua domanda.

Poi, finalmente, la risposta giunse:

-Non lo so Finch, non posso darti una risposta. Non la conosco abbastanza, non più-

Una lacrima scese sul volto dell’imperturbabile signor Reese. Lui non l’asciugò, la lasciò andare.

Sospirò per farsi coraggio, poi entrò nell’appartamento richiudendosi la porta alle spalle.

Stava per fare un tuffo nel passato.

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Capitolo 3
*** CapitoloIII ***




CAPITOLO III
 

L’appartamento era esattamente come lo ricordava. Sembrava che, lì dentro, il tempo non fosse mai trascorso.

Era tutto perfettamente in ordine, a parte qualche capo di biancheria lasciato in disordine sul letto.

L’aria profumava di lavanda.

In soggiorno, in un angolo, c’era ancora il vecchio pianoforte di Jessica.

Ancora una volta la mente di John Reese fu sopraffatta dai ricordi.

Jessica suonava il piano da quando era bambina. Amava farlo. Spesso lo aveva fatto per lui.

Se la immaginò lì, seduta al pianoforte a suonare una dolce melodia.

Sorrise a quel ricordo, ma poi si impose di concentrarsi sul motivo per cui, a distanza di anni, si trovava di nuovo in quell’appartamento.

Si avvicinò al pianoforte e scrutò con attenzione le fotografie che vi erano appoggiate sopra. Erano tutte accuratamente incorniciate. C’era Jessica al mare con delle amiche, c’era sua madre, sua sorella con i bambini. Per un attimo John aveva sperato di trovare anche il suo viso tra quelli, ma era rimasto deluso. Tentò di consolarsi pensando che così come non era presente lui, non lo era nessun altro uomo. C’erano diverse foto dei nipotini, una addirittura con il suo vecchio cane, ma nessuna con uomini.

Si ritrovò ad odiarsi, lì al buio piegato a scrutare le fotografie. Non poteva sperare nell’infelicità di una persona soltanto per evitare di soffrire.

Scosse la testa ancora una volta e cercò di ritrovare la concentrazione.

Lanciò un’ultima occhiata al salotto prima di dirigersi in cucina.

La tazza azzurra con le nuvolette era appoggiata a testa in giù accanto al lavandino ad asciugare.

Sul tavolo, accanto alla scatola dei biscotti, vi era un piccolo computer portatile.

John sollevò lo schermo con riluttanza.

Che cosa stava facendo? Stava scavando nella vita di Jessica a sua insaputa, stava violando la sua privacy. Si sentiva un verme.

Deglutì e premette il pulsante di accensione. Lo schermò si illuminò.

All’improvviso, però, un rumore catturò la sua attenzione. Proveniva dall’ingresso. Qualcuno stava cercando di entrare.

Si trattava di Jessica? Aveva dimenticato qualcosa?

Si nascose nell’ombra e attese.

Il cuore gli balzò in petto al pensiero di ritrovarsela davanti, dopo tanti anni, in quella assurda situazione. Si era introdotto nel suo appartamento, aveva forzato la serratura: come avrebbe fatto a spiegarle il motivo?

No, non poteva essere Jessica. Chiunque fosse sembrava faticare ad aprire la porta. Non aveva le chiavi. Tentava di forzarla.

Dopo diversi vani tentativi, un uomo sulla cinquantina, alto e brizzolato, riuscì a fare il suo ingresso nell’appartamento.

Si muoveva in maniera furtiva, si guardava intorno come se non sapesse da dove cominciare.

Era un ladro? No, non poteva esserlo. La macchina non li avrebbe scomodati per un semplice topo d’appartamento.

John decise, quindi, di uscire allo scoperto.

-Hai perso qualcosa?-

Lo sconosciuto si guardò intorno confuso. Non riusciva ad individuare la fonte di quella voce.

-Chi diavolo sei?-    chiese con voce stridula.

Aveva paura, era evidente. Non era un delinquente professionista.

John gli andò incontro veloce come il vento e gli sferrò un pugno in pieno volto. L’uomo cadde a terra con un tonfo.

-Sei tu che devi dirmi chi sei. Sei qui per rubare?-    chiese John standogli sopra e impedendogli di alzarsi.

L’uomo scosse la testa.

Aveva il viso spaventato e rosso di sangue: John, con il suo destro, gli aveva spaccato il labbro inferiore.

-Che diavolo ci fai qui?-

Lo sconosciuto, in tutta risposta, spinse via John con tutte le sue forze. Lui, preso alla sprovvista, rotolò sul pavimento della cucina. L’uomo gli sferrò un calcio sotto il mento prima di scappare via.

-Sembrava inoffensivo-    commentò Reese rialzandosi in piedi e massaggiandosi il mento.

-Tutto bene, signor Reese?-   chiese Finch dall’auricolare.

Sembrava tutt’altro che preoccupato. Dopotutto da quando conosceva John Reese quegli episodi erano diventati all’ordine del giorno.

-Sto bene, sì-

-Chi era il tuo amico?-

-Non ne ho idea-

John si era rimesso in piedi, ma era rimasto immobile in cucina. Si massaggiava il mento pensieroso.

-Continua a dare un’occhiata in giro, magari trovi qualcosa-

-No-

Finch trasalì dall’altro capo del telefono.

“Cosa vuol dire no?”

-Non posso farlo, Finch. Non posso scavare nella sua vita così, alle sue spalle-

-E allora cosa intendi fare?-

Harold Finch era sempre più incredulo.

Aveva da subito temuto che quel caso avrebbe in qualche potuto modo offuscare la sua razionalità, ma alla fine aveva deciso di fidarsi di John Reese.

-Domani la dottoressa Shephard ha il turno al Pronto Soccorso?-   chiese, indugiando per un attimo sulla tazza azzurra capovolta.

-Sì, John. Cosa diavolo hai in mente?-

Harold stava cominciando a perdere la pazienza. Per un attimo gli balenò in mente l’idea di affidare quel caso al detective Fusco e regalare un giorno libero al suo socio.

-Credo di aver bisogno di una controllatina-

Detto questo chiuse la telefonata e uscì dall’appartamento, noncurante delle piante che, nella colluttazione, si erano rovesciate sul pavimento della cucina e del pc rimasto acceso.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***




CAPITOLO IV
 

Era mattina presto. Jessica era appena arrivata in ospedale.

-Buongiorno bellezza!-    la accolse la sua amica Rachel.

-Anche tu al Pronto Soccorso oggi?-

-Oh, no mia cara. Oggi ho una gran bella operazione con il dottor Griffith-

A Jessica non dispiaceva stare al Pronto Soccorso, anche se il più delle volte le si presentavano anziani ipocondriaci. Preferiva, però, di gran lunga la sala operatoria. Quello era decisamente il suo ambiente naturale.

Sospirò stancamente mentre si infilava il camice.

-Stasera usciamo, vero?-

Rachel ci provava sempre, non si dava mai per vinta. La sua missione era quella di trovare un fidanzato alla sua amica. Non riusciva proprio a capire che Jessica stava benissimo da sola. Faceva un lavoro che amava, aveva una madre amorevole, anche se lontana. Non desiderava altro.

-Rachel, io non…-

-Non accetto un no come risposta. Mi dispiace, ma ho già prenotato un tavolo in un locale favoloso-

-Scommetto che per favoloso intendi pieno di ragazzi super palestrati-

Rachel la guardò storto, poi fece spallucce e annuì.

-Cosa c’è di male? Hai bisogno di qualcuno, Jess-

-Ma io ho te-    rispose la bionda ridendo.

-L’adulazione non ti porterà da nessuna parte questa volta-

Anche Rachel sorrideva divertita.

-Vai a lavorare, dottoressa Simms. Ne riparliamo dopo-

-No no no, non c’è nulla di cui riparlare. Questa sera troverai un bel ragazzo e ti farai sbattere tutta la notte-

-Rachel!-   la rimproverò l’amica inorridita.

-A più tardi-

Detto questo, uscì dallo spogliatoio, noncurante dello sguardo ancora incredulo della sua amica e soprattutto ignara dei due uomini che, attraverso il cellulare di Jessica, avevano ascoltato l’intera conversazione.

La dottoressa Shephard, rimasta sola, tentò di ritornare in sé e, dopo aver afferrato la sua cartelletta, si diresse al piano di sotto per la sua prima visita.
 
 

Entrò nella stanzetta attigua al Pronto Soccorso con lo sguardo fisso sulla sua cartelletta.

-Buongiorno signore, mi dicono che lei ha bisogno di…-

Alzò lo sguardo.

Ci fu un attimo di gelo totale. Per un millisecondo i loro occhi si incrociarono e ad entrambi sembrò che nulla fosse cambiato.

Poi Jessica lanciò un urlò e balzò all’indietro, battendo la schiena contro la porta che si era appena richiusa alle spalle. Si portò una mano alla bocca e con gli occhi sgranati continuò a fissare l’uomo che si trovava seduto sul lettino.

Come diavolo è possibile?”   chiese la sua vocina interiore.

-John…-   sussurrò con voce spezzata   -Io ti credevo morto-

Il suo sguardo era passato da incredulo a imbambolato, la mano ancora sulla bocca spalancata dallo stupore.

-Lo so-    rispose tranquillamente lui alzandosi e andandole incontro.

-Lo sai?-    la sua voce si alzò di un tono. Sollevò una mano e gli impose di fermarsi, di starle lontano.

John si fermò e annuì senza smettere di fissare i suoi lucidi occhi verdi.

-E perché hai lasciato che lo credessi?-

Gli occhi di Jessica si riempirono di lacrime. Erano lacrime di incredulità, di rabbia. Lei le ricacciò indietro con decisione.

-Non c’è tempo ora, non posso spiegarti-

-Oh, certo! Che novità!-

Si sentiva stupida, arrabbiata, frustrata e incredibilmente triste. Era talmente confusa che non si rese conto che stava urlando.

-Sei in pericolo ed io sono qui per proteggerti-

-In pericolo? Che cosa stai dicendo?-

Jessica provò ad indietreggiare ancora, ma era già con le spalle al muro.

-C’era un uomo in casa tua ieri. Non so ancora cosa volesse da te, anzi speravo potessi dirmelo tu. Era alto, brizzolato…-

-Un uomo? Allora non sono paranoica! E’ entrato davvero qualcuno! Il computer era acceso, le piante rovesciate…-

Jessica si voltò verso il muro e lasciò che una lacrima le rigasse il volto. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Provava troppe emozioni tutte insieme.

-Beh, il computer l’ho acceso io-    disse semplicemente John, rivolto alla sua schiena   -Poi è arrivato quell’altro-

-Tu eri già lì? Cosa diavolo ci facevi in casa mia?-

-Te l’ho detto: sei in pericolo! E ne ho avuto la conferma quando ho visto quell’uomo-

Jessica si voltò di nuovo a guardare il suo interlocutore sforzandosi di rimanere lucida.

-Lo sapevi già? E come?-

John sospirò. Aveva temuto quella domanda e non era riuscito a preparare una risposta soddisfacente. Doveva mentire all’unica persona alla quale non avrebbe mai voluto farlo. Doveva farlo ancora.

-Non posso dirtelo-

La risposta di John fece andare Jessica su tutte le furie. Strinse i pugni e diventò paonazza.

-Ma certamente! Ancora segreti! Ancora menzogne!-

-Jessica…-   tentò di calmarla John.

Fece per avvicinarsi, ma ancora una volta lei glielo impedì con un cenno.

-Cosa ti aspetti ora da me? Ti aspetti che ti creda? Piombi qui dopo Dio solo sa quanto tempo, dopo che io ti ho creduto morto per anni e vieni a dirmi che sono in pericolo, ma ovviamente non puoi dirmi come fai a saperlo. Cosa ti aspetti che faccia?-

Jessica scoppiò in lacrime. Finalmente il pianto liberatorio che aveva cercato di trattenere da quando era entrata in quella stanza arrivò.

-Mi dispiace-    riuscì a farfugliare John.

-Vattene-    ordinò lei.

-Sarò qui fuori. Se hai bisogno di aiuto puoi chiamarmi-

Con un rapido gesto prese il cellulare di Jessica dalla tasca del camice e memorizzò il suo numero.

-Chiamami-    ripeté ancora. Poi sparì oltre la porta.

-Mi dispiace, John-   commentò la voce di Finch dall’auricolare   -Ma in fondo cosa ti aspettavi?-

-A dire il vero, mi aspettavo di peggio-    rispose lui uscendo dall’ospedale.

-Tipo un bel pugno sul naso?-

-Qualcosa del genere, sì-

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***




CAPITOLO V
 

Le mani di Jessica tremavano ancora mentre parlava al telefono con la sua amica Rachel.

-Non è una scusa!-    insistette prendendo un altro sorso di camomilla.

-Va bene, va bene. Quale sarebbe la motivazione?-    chiese l’amica con tono esasperato.

-Oggi in ospedale ho visto il mio ex-

Il tono di voce di Jessica si era abbassato di qualche tono, come se si vergognasse, come se stesse cercando di nascondere qualcosa. In realtà voleva evitare le domande della sua amica. Quando voleva, Rachel, diventava peggio del tenente Colombo.

-Il tuo ex? Quale ex? Cosa mi sono persa? Oh mio Dio!-

Jessica sospirò.

-Giuro che un giorno te ne parlerò, ma non ora-

Rachel e Jessica si erano conosciute in ospedale dopo la specializzazione, quando John era già andato via. Non ne avevano mai parlato, Jessica non aveva voluto. In realtà non aveva mai parlato molto di John, nemmeno con sua madre. Lui era sempre stato il suo segreto, la sua gioia più nascosta. Erano stati felici come mai lo era stata prima, ma le era sempre pesato il fatto di non poter sperare in una vita normale. John troppo spesso indossava la sua divisa e partiva, lasciandola sola, nella disperazione del rischio di non vederlo mai più.

-Hai giurato!-    sottolineò Rachel riportandola al presente.

-Sì certo, te l’ho giurato-

-Allora ci vediamo domani, tesoro?-

Rachel era esasperante, fastidiosa e invadente, ma sapeva quando sotterrare l’ascia di guerra ed essere soltanto dolce e solidale come una vera amica.

-A domani. Buonanotte-

Jessica riattaccò il telefono e finì la sua camomilla. Era già in vestaglia e ciabatte, pronta per andare a dormire. Eppure sapeva bene che quella notte avrebbe faticato molto a chiudere occhio. Le sarebbe continuamente ritornato in mente John, il suo viso, i suoi malinconici occhi blu.

Dio, quant’era bello. Forse lo era diventato anche di più.

Chiuse gli occhi e si lasciò sprofondare sul divano. Accese la tv cercando qualcosa che potesse conciliare il sonno, ma fu proprio allora che qualcuno bussò delicatamente alla porta.

Jessica balzò in piedi preoccupata. Chi poteva essere a quell’ora? Era davvero in pericolo?

Afferrò il cellulare e selezionò il numero di John. Era pronta a chiamarlo.

-Chi è?-   urlò da dietro la porta.

-John-

Quella voce calda e profonda era riuscita a tranquillizzarla con una sola parola.

Dopo un profondo e rumoroso respiro di sollievo si decise ad aprire la porta.

Era lì, era lui. Alto, imponente, ben vestito.

All’improvviso Jessica si rese conto che la rabbia aveva abbandonato la sua mente e si fece meccanicamente da parte per farlo entrare.

-Stavi per andare a letto?-    chiese sbirciando le sue ciabatte di Topolino.

Lei non rispose. Rimase lì a fissarlo per diversi istanti.

Era lui, era vero. Era John. Il suo John, quello che fingeva di non amare il gelato per permetterle di mangiare anche la sua porzione al ristorante.

-Vuoi qualcosa da bere?-

John scosse la testa.

-Sono qui per parlarti-

-Bene, allora andiamo in cucina-

Si sedettero al tavolo, uno di fronte all’altra.

La tensione era palpabile. Il cuore di Jessica batteva all’impazzata.

-Cosa hai intenzione di fare, signor Reese?-

La voce di Finch riempì l’auricolare del suo socio. Jessica non lo sentì.

-Anche io sono stanco delle menzogne e dei segreti, Jessica-    cominciò ignorando la voce di Harold.

-Signor Reese? Esattamente cosa vuoi rivelarle?-

-Non credere che per me sia facile mentirti-

-Allora non farlo più John, non mentirmi-

Jessica allungò il braccio sul tavolo e gli afferrò la mano. Lui non si scostò.

Era la prima volta che si toccavano da quando si erano visti per l’ultima volta molti anni prima. Jessica era calda e rassicurante proprio come allora, John freddo e desideroso di attenzioni, di amore.

-Signor Reese? Rispondimi! Cosa hai intenzione di fare?-

-Quando sono tornato a New York tutti mi credevano morto. Io ero disperato, mi sentivo perso. Ho iniziato a bere e mi sono rifugiato tra i senzatetto. Ho tentato di annientarmi con l’alcool in attesa di trovare un metodo più efficace per togliermi la vita. Non volevo più vivere, non ce la facevo-

Finch improvvisamente tacque, come commosso dal sentire quella storia che già conosceva.

-Ho incontrato un uomo. E’ stato lui a salvarmi. Si chiama Harold Finch, o almeno questo è il nome che ha dato a me-

-Ti ha salvato?-

Le mani di Jessica presero a tremare.

-Mi ha offerto un lavoro-

-Signor Reese, non andare oltre. Hai già detto abbastanza-

-Che genere di lavoro?-

-Attento, John! Non deve sapere della Macchina!-

-Aiutiamo le persone in pericolo. Tentiamo di prevenire i crimini-

Jessica si sporse in avanti, come per riuscire a vedere meglio il suo interlocutore.

John le stava dicendo la verità, le stava aprendo il suo cuore per la prima volta da quando lo aveva conosciuto. Non ci sarebbero stati più segreti, finalmente.

-Io sono una di queste persone? Come fate a sapere che sono in pericolo?-

-John, adesso basta! Non puoi…-

La voce di Finch era diventata severa, autoritaria.

John si strappò l’auricolare dall’orecchio. Non potevano più comunicare, ma Finch era rimasto in ascolto.

-Harold Finch ha costruito una Macchina per il Governo degli Stati Uniti. Si tratta di un sistema di videosorveglianza capace di prevenire qualsiasi tipo di crimine-

-Questo Finch lavora per il Governo?-

-No. Il Governo usa la Macchina soltanto contro gli attacchi terroristici. Io e Finch ci occupiamo dei crimini minori, quelli che il Governo reputa irrilevanti-

Jessica rimase interdetta, ferma a bocca aperta mentre ancora stringeva la mano dell’uomo seduto davanti a lei.

Finch, nella sua biblioteca, era chino sulla scrivania. Le mani affondate nei capelli, gli occhiali appoggiati accanto alla tastiera del computer.

John, dall’altra parte del tavolo, si sentiva quasi fiero di essere riuscito finalmente a dire la verità. Era come l’alba di un nuovo giorno. Non avrebbe più dovuto nascondere nulla alla donna che amava, forse avrebbero potuto addirittura ritornare insieme.

-Cosa ti ha detto di me la Macchina?-

-La Macchina non dà molte informazioni. Sappiamo solo il tuo numero di previdenza sociale. Tocca a noi scoprire qual è la minaccia-

Jessica non sapeva cosa dire. Si sentiva come svuotata, eppure stranamente felice. John aveva fatto finalmente la scelta giusta: aveva scelto di fidarsi di lei, di dirle la verità, di non avere più nessun segreto.

Lui si alzò all’improvviso, lasciando la mano di lei.

-Sarò qui fuori tutta la notte. Se hai bisogno di me chiamami-

Fece per andarsene, ma Jessica lo trattenne afferrandolo per il gomito.

-Aspetta-   sussurrò   -Rimani qui-

John si voltò a guardarla. I suoi occhi blu fissi in quelli verdi di Jessica. Passarono istanti che parvero eterni.

-Il tuo divano è sempre stato comodo-

Jessica sorrise e sparì nella sua camera da letto. Tornò qualche istante dopo con delle coperte e un cuscino.

-Posso chiederti una cosa, John?-

Lui annuì. Ormai non aveva più segreti.

-Perché non sei venuto da me?-   chiese lei con gli occhi gonfi di lacrime.

-L’ho fatto, sono qui-

-No, intendevo…perché non sei venuto da me quando sei tornato a New York? Perché hai scelto di diventare un senzatetto? Sapevi che c’ero io qui ad aspettarti-

John sospirò. Non aveva previsto quella domanda. Non aveva mai nemmeno pensato alla risposta.

-Erano passati molti anni. Ho pensato che potessi esserti sposata o magari fidanzata. Forse vedevi qualcuno, forse avevi già una famiglia tua. Non volevo sconvolgerti la vita, non volevo compromettere la tua felicità-

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***




CAPITOLO VI
 

Jessica si svegliò all’improvviso. Qualcuno stava suonando alla porta.

Non ricordava il momento esatto in cui si era addormentata, ma dopotutto ciò che contava era l’esserci riuscita. Aveva dormito tranquillamente nonostante tutto. Forse era stato grazie alla presenza di John sul suo divano. Si era sentita al sicuro, nessuno avrebbe potuto farle del male. Eppure ricordava che, prima di addormentarsi, aveva scavato nella sua memoria alla ricerca di eventuali nemici.

C’era davvero una minaccia dietro l’angolo?

-Sei sveglia?-

John irruppe in camera da letto senza bussare. Jessica si tirò su le coperte con un gesto istintivo.

-Stanno suonando alla porta-    annunciò fingendo di distogliere lo sguardo.

Lei scese dal letto ancora intontita e si diresse verso l’ingresso. Il suono del campanello riempiva l’aria, sempre più insistente.

-Chi è?-   chiese, soffocando uno sbadiglio.

-Sono Harold Finch-

Jessica e John si voltarono l’uno verso l’altra, gli sguardi increduli.

-Apri-    intimò John.

Lei eseguì. Spalancò la porta trovandosi davanti un uomo non molto alto, vestito in maniera molto distinta, con gli occhiali.

-Buongiorno-    sussurrò intimidita.

Harold entrò in casa senza attendere alcun invito.

-Non è prudente rimanere troppo sulla porta-

-Hai portato i cornetti?-   lo prese in giro John come se nulla fosse.

Il suo socio lo fulminò con lo sguardo, poi si diresse in soggiorno.

Solo allora i due notarono il computer portatile e la cartella carica di documenti che Harold portava sotto un braccio.

-Abbiamo del lavoro da fare-   urlò dal soggiorno.

John e Jessica sobbalzarono e lo raggiunsero di corsa.

-Spero di non aver interrotto nulla-   disse mentre loro si sedevano sul divano di fronte a lui ancora scarmigliati e assonnati.

-Cosa hai portato?-

-Tutti i casi affrontati dalla dottoressa Shephard in questi ultimi mesi. Tutte le operazioni, tutti i pazienti-   rispose appoggiando il portatile sul tavolino e accendendolo.

-Dobbiamo analizzarli tutti?-   chiese John dopo un lungo sbadiglio.

-Ci vorrà un po’-

Jessica era rimasta in silenzio per tutto il tempo. Aveva assistito a quella scena come una spettatrice nella sala di un cinema. Quella situazione era fin troppo bizzarra da accettare. Dovevano analizzare tutti i suoi pazienti? Cosa speravano di trovare? Ci sarebbe voluto tutto il giorno. All’improvviso ricordò che lei proprio non poteva.

-Ma io…io devo…andare in ospedale-   farfugliò.

-No, non deve-   rispose Finch guardandola di traverso   -Ho già telefonato. Lei oggi ha l’influenza-

Jessica aprì la bocca per controbattere, ma non ne uscì alcun suono.

-Credo sia meglio preparare un bel po’ di caffè-   propose John.

Lei eseguì, lieta di abbandonare quella situazione tanto tesa.

-Ce l’hai con me, Harold?-

John non perse tempo. Sapeva che Finch non doveva aver gradito il suo attacco di sincerità della sera prima.

-Hai commesso un grave errore, signor Reese-   disse semplicemente, senza distogliere lo sguardo dal suo portatile.

-No, non credo. Sei paranoico, Finch-

Finalmente l’uomo occhialuto si voltò a guardare il suo socio. Fu uno sguardo storto, indecifrabile.

-Solo il paranoico sopravvive-

In quel momento Jessica arrivò con il caffè.

Harold prese la sua tazza e la ringraziò con un sorriso. Non gli piaceva affatto essere troppo duro con le persone e, dopotutto, in quel momento se proprio doveva avercela con qualcuno, quello era John Reese.

-Cominciamo-   li esortò.

Ognuno di loro prese un fascicolo, ognuno di loro si mise ad analizzare un caso, un paziente.

Lavorarono in silenzio. Jessica si sentiva estremamente a disagio. Accanto a lei c’era John, l’amore di una vita. Era tornato dall’oltretomba per proteggerla e aveva portato con sé quello strano omino che ora sedeva nel suo salotto. Alzò lo sguardo su di lui per qualche secondo, Finch la intercettò e sorrise. All’inizio era sembrato molto freddo, severo. Ora invece era lì seduto ad aiutarla e a rassicurarla con un sorriso.

Passarono ore e ore di silenzio, poi finalmente uno dei tre parlò.

-Qui c’è qualcosa!-   esclamò Reese.

Jessica e Harold allungarono il collo curiosi.

-Tre mesi fa, quattro ragazzi vittime di un incidente stradale. Sei riuscita a salvarne solo uno-

-Non credo significhi qualcosa. Qui leggo che gli altri sono morti sul colpo-   intervenne Finch sbirciando i fogli del suo socio.

-Magari qualcuno se l’è presa-

-Ma non è stata colpa della dottoressa-

Nella mente di Jessica si accese una lampadina.

-Aspettate un attimo. Forse John ha ragione-   disse chiudendo gli occhi e sforzandosi di ricordare.

I due tacquero. Pendevano dalle sue labbra.

-E’ vero, ho salvato uno di quei ragazzi, ma dopo l’operazione un uomo è venuto a parlarmi. Voleva notizie di suo figlio. Era nell’altra macchina-

-Com’era quest’uomo?-

-Alto, ben vestito, brizzolato-

-Brizzolato? Proprio come l’uomo che si è introdotto in casa tua!-   esclamò Reese.

-Cosa successe al figlio di quell’uomo?-   chiese Finch serio.

-Arrivò in ospedale in condizioni critiche. Tentare un’operazione era inutile, così quelli del Pronto Soccorso decisero di inviarmi soltanto il ragazzo che era al volante della prima auto. Era l’unico ad avere qualche speranza di sopravvivere-

-Cosa ti disse quell’uomo?-

-Mi accusò di non aver nemmeno provato a salvare suo figlio, minacciò di fare causa all’ospedale-

-E’ evidente che, se anche l’avesse fatto, non avrebbe avuto alcuna speranza di vittoria. Non è stata colpa sua, dottoressa-

-Ma nella sua mente sì. Quell’uomo ti reputa responsabile della morte di suo figlio. Abbiamo il suo nome?-

-Terence Moore-   rispose prontamente Finch.

-Bene, credo sia ora di andarci a fare una chiacchieratina-

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***





CAPITOLO VII



Jessica si sentiva nervosa. Era seduta davanti alla tv accesa, ma non la stava guardando realmente.

Pensava a John.

Le aveva promesso di risolvere la sua situazione. Era andato a parlare con l’uomo che, secondo le loro informazioni, aveva intenzione di farle del male.

Erano passate diverse ore ormai. Allora perché non tornava?

All’improvviso il telefono squillò facendola sobbalzare.

Jessica si alzò pazientemente dal divano e andò a recuperare il telefono cordless che aveva lasciato in camera da letto. Fece un profondo respiro, poi si decise a rispondere.

-Pronto?-   la voce le uscì a malapena.

-Ehi, Jess!-

Era Rachel. Jessica per un attimo si sentì stupida: avrebbe dovuto prevederlo.

-Sei malata sul serio?-

-Ehm…sì-    rispose lei, fingendo qualche colpo di tosse.

-Naaaaa, non ci credo. Sai cosa penso, invece?-

Jessica non si premurò di rispondere alla sua amica, tanto sapeva che le avrebbe spiattellato comunque la sua versione dei fatti.

-Secondo me ieri sera hai rivisto il tuo ex, stanotte avete fatto bagordi e stamattina eri troppo stanca per venire in ospedale-   riferì con tono soddisfatto.

Jessica riusciva quasi ad immaginarsela con quel suo ghigno compiaciuto sul viso rotondo.

-Non stanno affatto così le cose-    protestò stancamente.

Per un attimo fu tentata di raccontarle tutto dal principio. Avrebbe voluto parlarle della sua passata storia d’amore, di come era finita, avrebbe voluto raccontarle quell’assurda storia della Macchina e del nuovo lavoro di John, avrebbe voluto rivelarle la strana sensazione che aveva provato rivedendolo.

-Oh sì certo-    la prese in giro Rachel.

-Domani torno in ospedale-

-E come mai? Il tuo Principe Azzurro stasera fa sciopero?-   la prese in giro l’amica.

-No, è solo che mi sento meglio. L’Aspirina fa miracoli, lo sai?-

Scoppiarono a ridere entrambe e proseguirono la loro chiacchierata.

Rachel raccontò di aver incontrato un gran bel tipo in tram, dell’operazione che aveva affrontato il giorno prima, del vestito blu che aveva visto in una vetrina in centro e che voleva assolutamente comprare.

All’improvviso, però, qualcuno bussò alla porta.

-Devo andare-    la liquidò Jessica senza attendere risposta.

Doveva essere John.

Andò alla porta e la spalancò senza la minima esitazione. Era ansiosa di sapere, era ansiosa di vederlo.

-Mi dispiace, ma c’è voluto un po’-   esordì lui.

Jessica si fece da parte per farlo entrare.

-Cosa è successo?-

John si strinse nelle spalle.

-Gli ho parlato. Mi ha fatto molta pena. E’ un uomo distrutto, ma anche un uomo molto ragionevole. La moglie è morta qualche anno fa di cancro, poi anche suo figlio. Lui ha passato la vita a prendersi cura di loro, non sarebbe stato in grado di togliere la vita a qualcuno. Io ho cercato solo di farglielo capire-

Era rimasto in piedi in cucina, Jessica invece si era seduta al tavolo e pendeva dalle sue labbra.

Solo alla fine di quel toccante racconto notò la chiazza di sangue che si espandeva sulla camicia di John all’altezza dell’ombelico.

Balzò in piedi spaventata.

-Oh, non è niente!-   esclamò lui per tranquillizzarla. In realtà provava un dolore lancinante, ma era sempre stato abituato a nasconderlo.

-Cosa ti è successo?-   chiese lei avvicinandosi a bocca aperta e scostandogli la camicia.

-Diciamo che all’inizio non è stato molto collaborativo-

-Con cosa ti ha colpito?-

Non era per niente una cosa da nulla e non ci voleva certo un medico per capirlo.

-Un coltello-    rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo.

-Un coltello?-   

Jessica sgranò gli occhi.

-Era piccolo-    si giustificò lui.

-Vai in camera da letto e sdraiati. Devo ripulirti la ferita-

Si precipitò in bagno e recuperò un flacone di acqua ossigenata, del cotone, delle garze e qualche cerotto.

Entrò in camera di corsa e lo trovò lì, steso sul suo letto esattamente come molti anni prima.

La sua mente fu bruscamente riportata indietro.

Rivide per un attimo i loro due corpi svestiti scossi da fremiti di piacere. Erano felici.

Scosse la testa e ritornò al presente.

-Togliti la camicia-   ordinò senza riuscire a guardarlo negli occhi.

Si sforzò di mantenere un tono ed un atteggiamento professionale, ma le riusciva assai difficile. Quello che aveva davanti non era un paziente qualsiasi. Era John.

Si avvicinò al letto con un batuffolo di cotone imbevuto di acqua ossigenata e si chinò per pulire la ferita. Per fortuna non era molto profonda.

-Brucerà un po’-   si scusò.

Lui sorrise.

Jessica deglutì a fatica prima di abbandonarsi al contatto con il suo addome.

-Non è molto profonda-

-Lo avevo detto che non era nulla-

Si sentiva a disagio. L’uomo più affascinante che avesse mai visto era steso mezzo nudo sul suo letto e lei si sentiva una perfetta idiota mentre tentava a fatica di ripulire il sangue che circondava la ferita che si era beccato per difendere lei.

-Non serviranno i punti-

-Mi avresti messo i punti? Qui?-

-So usare ago e filo. Ho cucito le tende dell’appartamento di mia sorella-   tentò di sdrammatizzare lei.

Lui rise. Il suo addome sussultò per qualche secondo.

-Fermo, fermo!-    lo intimò, faticando anche lei a soffocare le risate.

Finì di ripulire la ferita con cura, poi la medicò con delle garze.

-E’ troppo stretta?-   disse indicando la medicazione.

-Va benissimo, grazie-

-La tua camicia è strappata e sporca di sangue. Ti servirà un ricambio-

-Non importa…-

Jessica andò verso l’armadio e lo aprì. Si chinò e prese qualcosa da un cassetto in fondo.

-Ho ancora la tua vecchia maglietta. Quella grigia che mi prestavi per dormire. Non te l’ho mai restituita-

-La usi ancora per dormire?-   chiese lui quasi commosso.

Lei annuì e si avvicinò a lui con la maglietta stretta tra le braccia.

-Magari poi me la restituisci. Sai, è un ricordo-   disse chinandosi su di lui.

In tutta risposta, John si sollevò leggermente, quel tanto che bastava per toccare le labbra di Jessica con le sue.

Le lasciò un dolce bacio sulle labbra prima di infilarsi la maglietta e scomparire da dove era venuto.

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