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Desclaimer:
Tutto ciò non mi appartiene, ma è stato inventato da sir Doyle e
successivamente scritturato da Moffat e Gatiss. Non scrivo a pagamento (anche
se farebbe comodo XD).
Note: E
con questo la mia sanità mentale va in ferie.
I credits dell’idea,
dell’ispirazione e della follia che mi ha assalito vanno a Steins;Gate, anime splendido. Guardatelo perché merita. Chi l’ha
visto si sarà già fatto un’idea 8D
Ci sarà un po’ di Fisica
varia, soprattutto paradossi e multiverso, ma farò del mio meglio per spiegare
tutto ;D viva le note a fondo pagina.
Gli avvertimenti... beh: Death!Fic,
post-Reichenbach, GreatReturn, What if?, Missing Moments, Canon!Sherlock,
ACDTribute, Johnlock, Husbandlock e Parentlock tutto insieme in un modo un
po’ contorto.
I primi capitoli sono un
po’ una noia, ma dopo dovrebbe movimentarsi.
E adesso mi fermo XD
grazie per aver sopportato le terrificanti note del male.
Un respiro che si
smorza. Un cuore che si spezza, forse? Il sibilo dell’aria ad un’accelerazione
di 9,8 m/s2.
Il suo impatto
contro l’asfalto, le sue ossa che si rompono, il suo cranio che si spacca. Un
battito di ciglia.
Il rumore del
tempo che si ferma. Il boato dell’unico ticchettio d’orologio che ha spezzato
il silenzio nel momento in cui l’ha visto precipitare.
Una piccola, semplice,
goccia di pioggia nel sangue.
Non lo sa, John,
cosa sia quel rumore. John non sa più niente.
John non sa il suo nome, nonostante lo stia
pronunciando, sussurrandolo.
« Sherlock... »
Incredulo.
« Sherlock ».
Confuso, rifiuta
la realtà. Ciò che gli occhi vedono. Ciò che le orecchie sentono. Ciò che le
mani toccano.
I suoi occhi
azzurri fissi nel vuoto. I rivoli scarlatti di sangue sulla pelle pallida –
ancora più pallida.
L’assenza di
battito nel suo polso che tiene fra le dita, nonostante le persone intorno a
lui cerchino di impedirgli di toccarlo – lo sorreggono, lo confortano, lo
trattengono. Ombre, solo ombre. Non hanno volto, non hanno voce.
John non sa cos’è
Dio. Non lo sapeva più da tanto, tanto tempo. Eppure ne pronuncia il nome.
« Oh, Gesù... »
Implorando.
« Dio, no ».
John non sa più
niente, ma sa che tra poco ricorderà e vorrà dimenticare ciò che sa.
Teme che non gli
sarà permesso.
È l’abitudine
della guerra a tenerlo in piedi, l’orgoglio di non mostrarsi ferito, debole,
confuso, preda di tutto, padrone di niente. Osserva da lontano una barella
sparire dentro al St. Barts e sente solo silenzio – dentro, fuori, ovunque,
intorno, ovunque.
John non sa più
niente.
Era
circondato da gente che, per un motivo o per l’altro, non si meritava di essere
lì.
Le
sedie in acciaio del corridoio dell’obitorio erano scomode come si ricordava.
L’unico modo per sedersi con l’illusione di non sentire la schiena piegarsi a
fisarmonica era quello di divaricare le ginocchia e scivolare in basso con il
bacino. Il dolore lo si sente dopo, al momento di alzarsi in piedi, ma lui
prevedeva comunque che non lo avrebbe fatto molto presto.
La
gente che non si meritava di essere lì sarebbe entrata prima di lui,
lasciandolo su quel pidocchioso tentativo di sedia ad aspettare.
Il
corridoio era immerso in un completo silenzio. Bianco, ovattato, dolorante. Un
silenzio d’ospedale. Anche quello era uguale ovunque.
L’ultima
volta che si era seduto su sedie uguali a quelle, in file identiche a quelle e
attaccate con viti grosse a muri che non avevano niente da invidiare a quelli
di altri ospedali, aveva Harry a sinistra e sua madre a destra. Portava ancora
i pantaloncini con le bretelle e i capelli a scodella. Aveva gli occhi grandi e
non capiva perché papà non usciva dalla porta verde: voleva davvero andare a
casa ed era stanco e bagnato.
Anche
in quel momento John era stanco. E bagnato. Ma non aveva gli occhi grandi e il
taglio a scodella; i suoi occhi erano sottili e fissi in un punto vuoto davanti
a sé, apparentemente fra il muro e la porta con sopra scritto “Obitorio –
vietato l’ingresso alle persone non autorizzate”.
Cambiavano
anche le persone.
Alla
sua sinistra, Mycroft. In piedi, avvolto da uno dei suoi stomachevoli e
costosissimi completi di alta sartoria, ombrello a fianco della gamba con la
punta a terra, un cappotto nero a doppio petto chiuso nonostante il
riscaldamento acceso. Espressione immobile e imperturbata.
Alla
sua destra, seduto un paio di sgabelli più in là, Lestrade. L’impermeabile sgualcito
sovrastava uno dei suoi soliti abiti da lavoro neri a taglio classico, non
troppo costosi ma non di seconda mano. Agitato. Muoveva ritmicamente il piede
appoggiato al ginocchio dell’altra gamba e le labbra erano strette
nell’espressione che la gente fa quando è a disagio.
Il
traditore e il codardo. Chi lo aveva venduto e chi non gli aveva creduto
abbastanza. Il fratello e l’ispettore.
Che
diritto avevano, loro, di vederlo prima di lui? Quale diritto? Perché contavano sempre e solo i pezzi di carta, in
quelle occasioni?
Mycroft
aveva il diritto d’entrare prima di lui perché era un parente. Il parente. Sarebbe rimasto in piedi a
guardarlo senza dire niente, senza l’ombra di un emozione se non il rammarico,
due minuti in totale forse meno, e poi se ne sarebbe andato con quel suo
fastidioso passo cadenzato frammezzato dal ticchettio metallico della punta
dell’ombrello sulle piastrelle.
Poi
sarebbe entrato Lestrade, perché c’era un’indagine in corso. Perché Sherlock
era un fuggitivo, dopotutto. Perché, come al solito, Scotland Yard doveva
chiarire una faccenda in cui non c’era più niente da chiarire. Greg sarebbe
entrato, lo avrebbe riconosciuto, avrebbe sentito recitare a memoria causa
della morte e dichiarazione di decesso, avrebbe preso atto dell’ovvio tralasciando
tutto l’importante. Cinque minuti, e poi sarebbe uscito di nuovo e se ne
sarebbe andato, forse fermandosi a guardare lui, forse ricordandogli che aveva
preso a pugni il Soprintendente Capo. Più probabilmente avrebbe avuto pena di
lui e l’avrebbe lasciato stare.
E
dopo, solo dopo, sarebbe toccato a
lui, entrare a salutare Sherlock.
Lui
che aveva creduto fino alla fine – e ancora credeva. Lui che aveva corso con
lui, che lo aveva seguito in manette, che gli aveva tenuto la mano, che aveva
convissuto con il suo genio e la sua eccentricità, che lo aveva visto vacillare
e rialzarsi in piedi, che aveva avuto il coraggio di sopportare e l’onore di
essergli amico.
Lui
che sapeva come amava prendere il tè ed il caffè, che aveva imparato a
decifrare il suo umore dal pezzo suonato con il violino alle tre di notte, che
gli aveva impedito di riprendere a fumare, che lo aveva accompagnato ovunque
volesse portarlo con sé.
Lui
che aveva riavuto la vita dalla persona che se l’era tolta, lo avrebbe visto
solo dopo. Perché lui non era niente.
Per
gli occhi della legge, gli amici non sono mai niente.
Non
era giusto.
Voleva
essere egoista, per una volta. Ammettere a se stesso che la persona più
meritevole di entrare per primo, lì dentro, era lui, John Watson. Perché loro
erano diventati Watson-e-Holmes. Sherlock-e-John. E non era giusto che quella
congiunzione che univa i loro nomi non potesse unire anche le loro volontà.
Non
era giusto che gente che lo aveva venduto al nemico, gente che lo aveva
lasciato da solo nel momento del bisogno, lo vedesse prima di lui, che non lo
aveva tradito mai e mai lo aveva abbandonato.
Non
riusciva a capire dove fosse la giustizia, in tutto quello.
Strinse
le arcate dentarie l’una contro l’altra talmente forte che sentì i muscoli
della mascella tremare e il labbro superiore scoprire i denti. Una rabbia
imponente e profonda annebbiargli la vista come, forse, avrebbero dovuto fare
le lacrime che non aveva ancora versato. Strinse l’una nell’altra le mani che
teneva unite in grembo, facendo sbiancare le nocche e tremare i nervi sotto la
pelle. Imponendosi una calma che non aveva, un contegno che non desiderava.
Ma c’era il suo
migliore amico, di là, e stava dormendo, per una volta. Non poteva svegliarlo.
La
porta si aprì senza nessuno scricchiolino, solo il rumore della maniglia a
riempire l’aria statica e silenziosa. John non si era chiesto che coraggio
avesse avuto Molly a fare quell’autopsia, ma quando vide i suoi occhi castani
rossi e gonfi e residui di lacrime lungo le guance capì che ovunque fosse stato
quel coraggio, lo aveva ormai perso.
« Signor Holmes... » chiamò piano, la
voce bassa e rotta, scostandosi dalla porta per lasciare lo spazio a Mycroft.
Molly
e John si guardarono, per un istante. Disperazione nel vuoto. E non era John,
quello disperato.
La
patologa distolse subito lo sguardo, come bruciata. John si chiese cosa c’era
di così brutto, sporco, rotto nei
suoi occhi da poter fare quell’effetto. Ma smise di farsi quelle domande
inutili nel momento in cui, con due passi e senza emettere alcun suono, Mycroft
Holmes si prese il suo diritto di vedere per primo il fratello.
Il
silenzio calò di nuovo nel corridoio.
Lestrade
si mosse a disagio sulla sedia, appoggiando ora entrambi i piedi a terra. Si
girò in sua direzione. John non lo calcolò minimamente.
Prese
fiato, Greg. Parlò. Forse tranquillizzato dal fatto che fossero soli, che si
conoscessero, che fossero amici.
« John... » cominciò,
indeciso.
Watson
non si mosse di un millimetro.
No, Greg, pensò. No.
« John, senti, io
volevo... Dio, non lo so cosa volevo fare » disse, sospirando e passandosi le mani
nei capelli brizzolati.
Non dire quella
parola.
« Forse volevo... »
Non osare dire
quella parola.
« ...scusarmi ».
Il
pugno di John scattò così veloce e potente, che quando colpì con un rumore
sordo di metallo e ossa la sedia alla sua destra l’ispettore sobbalzò. John
continuava a guardare avanti, il volto deformato in un’espressione di pura ira,
il braccio teso verso l’esterno con il pugno chiuso quasi incassato nel poggia
schiena del seggiolino, tanta era stata la forza di quel colpo. Lestrade
tacque.
La
porta si aprì di nuovo.
Due
minuti esatti, come John aveva immaginato. Mycroft uscì dall’obitorio, lanciò
un’occhiata sia a lui che a Lestrade (John non la restituì) prima di andarsene
– passi cadenzati frammezzati dal ticchettio in metallo della punta
dell’ombrello sulle piastrelle.
« Ispettore,
prego... » sussurrò Molly,
indicandogli la porta.
Greg
lo guardò ancora un istante, prima di alzarsi e seguire la patologa in sala
autopsie. John rimase solo.
Non
ne aveva voglia. Sapeva cosa c’era oltre quella porta, cosa avrebbe trovato,
cosa avrebbe visto.
Ne
aveva visti tanti. Con o senza divisa, con o senza sangue, con o senza parti
del corpo. Troppi. Era stato l’unico del corso a non svenire alla sua prima
autopsia, l’unico dei commilitoni ad avere il fegato di chiudere decine di
cadaveri al giorno in sacchi di plastica nera ed ammucchiarli in una tenda
raffreddata a malapena, l’unico a sopportare la puzza della decomposizione per
riportare in patria qualcosa che la famiglia di quei poveracci avrebbe potuto
seppellire ed onorare.
Sapeva
cosa c’era oltre quella porta. Ma questa volta, questa immagine, non voleva proprio vederla.
Non
aspettò i cinque minuti di Lestrade. Il suo turno non arrivò mai.
Semplicemente
si alzò e, con lo sguardo basso, si mise le mani in tasca e camminò lungo in
corridoio in direzione dell’uscita.
Non
ce la faceva, a dirgli addio. Non ora.
Non
ancora.
Sherlock
non credeva in Dio. In realtà, Sherlock non credeva in niente che non fosse se
stesso. Era agnostico (o forse era solo uno scienziato, chissà).
A
John piaceva pensare che fosse per quello, che il funerale si svolse con rito
civile. Non perché era un suicida.2 Non perché era un impostore.
Lo
celebrarono al mausoleo di Highgate, un manipolo di persone vestite di nero
sotto ad ombrelli neri. Un funzionario incaricato dal Governo recitò le frasi
di rito, dando alla bara di legno nero tutti gli onori che poteva conferirgli –
pochi, troppo pochi rispetto a quelli che meritava davvero – e li accompagnò a
passo lento fino al luogo scelto per seppellirlo: un pezzo di giardino
dall’erba verde, un po’ isolato, ai piedi di una collinetta, invisibile dal
sentiero, introvabile se non si cerca e se non si sa che è lì.
Da
solo, praticamente. Odiò Mycroft anche per questo.
Erano
poco più di dieci e John sentiva che solo Molly, Mike Stamford e mrs. Hudson
avevano davvero il diritto di essere lì. Non Mycroft, che teneva l’ombrello
calato sugli occhi. Non Lestrade, che si mordeva il labbro con gli occhi lucidi
e non sapeva se guardare la tomba, la lapide o l’uomo che parlava. Non gli
esigui agenti di Scotland Yard che John sapeva di aver già visto in giro per la
centrale. Voi lo avete tradito, lo avete
insultato, gli avete dato dell’assassino infanticida e rapitore, CHE DIRITTO
AVETE?! Avrebbe voluto urlare, ma era una persona di rispetto e il suo
migliore amico stava dormendo, davanti a lui, in quella bara. Non poteva
svegliarlo.
Gli
addetti delle Pompe Funebri sistemarono la bara sulla fossa, pronti a calarla.
Il bouquet di gigli bianchi stava cominciando a disfarsi a causa della pioggia,
che gonfiava d’acqua la spugna per fiori che teneva insieme la composizione,
ammorbidendola e facendole perdere presa. Non se ne accorse nessuno, solo John,
e ovviamente solo a lui suscitò un incredibile squallore.
John
non aveva ancora pianto. Non aveva ancora urlato, non si era arrabbiato, non
aveva ancora buttato a terra niente o rotto qualcosa con l’intenzione di farlo.
Non pianse nemmeno ai piedi della fossa, con la lapide di marmo nero e lettere
dorate così nuova e così sgradita alla vista, mentre mrs. Hudson singhiozzava
ancorata al suo braccio sinistro e Molly si nascondeva il volto fra le mani a
pochi passi sulla sua destra. Nemmeno quando il funzionario chiese se ci fosse
qualcuno intenzionato a dire due parole, ad accompagnare con qualche aneddoto
la discesa della salma, e le teste di tutti si girarono in sua direzione, in
attesa.
John
li ignorò. Non era la vedova di nessuno, tanto meno di Sherlock Holmes.
Non
era ancora il momento.
Poggiò
la mano destra, quella libera, su quella di mrs. Hudson appoggiata al proprio
braccio. Le lasciò l’ombrello con un lieve sorriso. Poi, voltando le spalle sia
alla bara che a tutti gli altri, si incamminò sotto la pioggia verso l’uscita
del cimitero, il passo lento ma il portamento da soldato.
Non
era ancora pronto a dirgli addio. Non ora.
Non
ancora.
Aveva
aiutato mrs. Hudson a riporre tutte le sue
cose negli scatoloni.
Il
microscopio e varie lenti e vetrini. Tutta l’attrezzatura scientifica che
infestava la cucina negli angoli più inimmaginabili. I becher, le provette, i
fornelletti ad alcool, i composti chimici (quelli non pericolosi, gli altri
erano stati buttati). Il set di bisturi. Il seghetto per ossa. La sua tazza
bianca a righe nere.
Aveva
trovato un sacchetto di denti nel frigorifero. Una lingua sotto formalina in
mezzo alle salamoie e alla verdura sottaceto. Cartellini con la sua calligrafia
sottile caduti da vasi che erano stati ripuliti e riutilizzati. Un suo capello,
riccio e nero, incastrato nell’angolo del tavolo.
Mrs.
Hudson aveva pianto, ad un certo punto. Lui no. Era ancora troppo presto.
Lo
aveva perso – no, se ne era andato –
da poco più di quarantotto ore e non capiva, non percepiva ancora la sua
assenza. Gli sembrava ancora che dovesse tornare. Che sarebbe piombato in
cucina da un momento all’altro in uno svolazzare di cappotto scuro blaterando
riguardo ad un caso, o ad un esperimento, o a quanto sono interessanti da
osservare gli esseri umani in fila alle Poste. Come se lui non fosse uno di loro – non lo era mai stato ma a quanto pare
riusciva a morire come loro, a spezzarsi come loro, proprio come loro (proprio
come lui).
Aveva
chiuso negli scatoloni tutto il mondo che pian piano lui e Sherlock avevano
costruito intorno a loro.
Tutti
i suoi libri, i suoi resoconti, i suoi studi, le sue relazioni. Il coltello a
serramanico, il tabellone del Cluedo. I quadri con le farfalle e con altri
insetti in bella vista sul caminetto. Tolse la batteria al suo laptop e lo
chiuse nella relativa valigetta nera, mettendolo nell’armadio della sua stanza
insieme al pigiama e alla vestaglia da camera. Insieme al violino, rinchiuso
con cura nella sua custodia. Un paio di cartine antitarme ed due giri di
chiave.
Scotland
Yard aveva ancora il cappotto, e il cellulare. I vestiti che aveva indosso,
probabilmente, erano stati buttati. Mycroft gli aveva fatto avere l’orologio da
polso, il doppione delle chiavi dell’appartamento, il portafogli. Gli effetti
personali che Sherlock aveva con sé e che l’obitorio aveva restituito al
parente più stretto.
Mycroft
aveva anche precisato che non voleva nulla, della roba di Sherlock, e che sarebbe
dovuta rimanere al 221B. Aveva parlato anche dell’appartamento stesso, con mrs.
Hudson, ma John aveva smesso di ascoltare. Gli faceva troppa rabbia, che il
fratello maggiore non volesse nulla della sua roba, ma al contempo provava
soddisfazione al pensiero che le sue mani grassocce e colpevoli non avrebbero
toccato niente di suo.
Quando
finirono, l’appartamento non aveva più nulla di loro. Sulle mensole erano
rimaste solo le poche cose di John, quei pezzi di vita che era così abituato a
raccogliere ed impacchettare e che erano sempre quelli, e solo in quel momento
il medico si rese conto che tutto ciò che aveva avuto fino a quel momento
faceva parte di Sherlock, e che Sherlock non c’era più.
Seduto
sulla propria poltrona, un paio di jeans e una camicia a scozzese, a piedi
scalzi guardò la poltrona di fronte a sé e si rese conto di quanto fosse vuota. Come l’appartamento. Come tutto
il resto.
Dunque,
John fece l’unica cosa che era capace di fare quando la vita gli voltava le
spalle: le valigie.
Impacchettò
le sue cose nei due borsoni che da sempre avevano rappresentato tutto ciò che
di sé portava con sé. Svuotò l’armadio, disfò il letto, smontò le tende e le
piegò per riporle nella cassapanca. Coprì con lenzuola bianche ogni mobile del
salotto e della cucina. Si assicurò di aver chiuso il gas e staccato le prese
di tutti gli elettrodomestici. Spense la fiamma pilota della caldaia
nell’antibagno.
Non
toccò la camera di Sherlock, che rimase esattamente così com’era. Lasciò di sé
solo la propria tazza, il maglioncino a righe bianche e blu scuro che non
sarebbe più stato in grado di indossare e che non meritava di essere
dimenticato sul fondo di un cassetto, e il bastone. Non gli sarebbe servito, lo
sapeva: non aveva intenzione di sprecare ciò che Sherlock gli aveva regalato,
permettendo alla propria mente di soggiogarlo ancora con il dolore. Non era
così debole, vivendo con Sherlock aveva capito anche quello.
La
decisione di lasciare anche le sue dogtag fu la più sofferta. Era legato a
quegli oggetti da un filo spinato a doppia corda, con un’anima ferita che aveva
trovato nell’esercito l’unica ragione di vita, attraverso gli occhi di un uomo
che non vede due piastrine con nome, cognome, credo religioso e gruppo
sanguigno, ma che piuttosto sente il tremore residuo dei colpi di mortaio e
l’odore di sangue e sudore. Ma ciò che stringeva fra le mani non erano altro
che ricordi pieni di incubi, e Sherlock era riuscito a togliere anche quelli. Sherlock
aveva preso tutto ciò che John reputava immutabile e ne aveva fatto degli
aeroplanini di carta.
Fu
appoggiando le dogtag sul cuscino di Holmes che lasciò il 221B di Baker Street.
Finse che fosse una decisione temporanea, ma sapeva benissimo che non ci
sarebbe tornato mai più, che non ne avrebbe trovato mai il coraggio, o la forza
necessari. Non senza di lui.
Mrs.
Hudson capì.
« Ci sono cose che
avrebbe voluto dire... ma che non ha detto? ».
John
guardò Ella e gli mancò la voce.
« Sì » sussurrò.
La
pioggia contro i vetri dello studio era l’unica cosa che rompeva il silenzio.
« Le dica ora ».
« No » si rifiutò, la
voce che faticava ancora ad uscire.
Si
prese un istante per ritrovarla. « Mi dispiace, non ci riesco ».
Scosse
il capo e abbassò lo sguardo, sconfitto.
Aveva
rifiutato l’offerta di Mycroft di farsi firmare un assegno per avere un
appartamento in una zona decente di Londra, considerando il suo recente
trasloco in un ostello – situazione temporanea finché non avesse trovato
qualcosa che poteva permettersi. Quando gli aveva chiesto, John, da dove
scaturiva tutto quell’altruismo, l’altro aveva sollevato il labbro in quella
sua espressione di sufficienza da padrone dell’universo.
« Lei è stato un
fedele compagno per mio fratello, dottore. Sarei dispiaciuto se non dovesse
continuare la sua vita quantomeno agevolmente » gli aveva risposto.
John
aveva fatto fatica a trattenersi dall’esplicare, nel più vivido e diretto
turpiloquio da bassifondi militari, dove poteva infilarsi l’assegno, magari
arrotolato intorno alla punta del suo prezioso ombrello. Si limitò a dirgli che
conosceva un paio di figli di buona donna che potevano pagare bene, per il culo
di un signorotto arrogante d’alta borghesia come lui. E non necessariamente
evitò di usare il suddetto turpiloquio da bassifondi militari.
Inoltre,
John non sapeva quale coraggio aveva avuto Greg ad offrirgli la seconda camera
del suo appartamento – ormai vuoto dato che la moglie lo aveva definitivamente
lasciato per un insegnante di ginnastica – ma lo sguardo con cui John lo
squadrò convinse l’ispettore a salutarlo e a fare dietrofront ancora prima che
potesse esprimersi (e no, non gli avrebbe risparmiato niente).
Riusciva
a capire l’urgenza che aveva Greg di vederlo, di chiedergli perdono; davvero ci
riusciva. I sensi di colpa uscivano dallo Yarder come ectoplasma viscoso e
denso, appiccicandosi addosso a lui, e John non aveva voglia, davvero non ne
aveva, di sopportare anche quello. Non adesso.
Adesso
stava incolpando il mondo, adesso doveva
incolpare il mondo, perché il lutto funziona così. Altro che cinque fasi. È
infinitamente più semplice: prima ti incazzi con gli altri, poi te la prendi
con te stesso, infine dai la colpa al morto perché tanto è morto, dunque è
l’unico che della tua colpa non se ne fa davvero proprio niente.
Perciò
no, Mycroft, non voglio la tua pietà. Non esiste universo in cui io accetterò
mai un pezzo di carta con qualche zero per sciogliere il piccolo nodo che la
mia presenza su questa Terra ti ha lasciato da qualche parte – dato che dubito
tu abbia un cuore, o una coscienza.
E
no, Lestrade, non verrò ad abitare con te per sorriderti e dirti che va tutto
bene, che hai fatto solo il tuo lavoro e hai eseguito degli ordini ed eri solo
un soldato in una guerra giocata fra Titani. Lo erano anche i nazisti durante
la Seconda Guerra Mondiale, ma a Norimberga non gli andò liscia comunque.3
Era
arrabbiato, John. Ancora. Dopo cinque giorni dal momento in cui aveva
trattenuto il fiato e sperato che fosse tutto un brutto sogno. Dal momento in
cui si era rifiutato di vedere il suo cadavere steso su una barella d’acciaio.
Cinque
giorni in cui non aveva mai smesso di dire “no” e “non può essere” e “non ci
credo”. Una continua lotta tra la parte di lui che aveva accettato il tutto, la
parte dura, quella che aveva attraversato la guerra tenendolo in piedi ogni
santo giorno, contro l’altra parte di lui, quella che quando morì suo padre si
rintanò in un angolo con le mani sulle orecchie e da quell’anfratto non uscì
mai più.
E
ora si trovava in un monolocale da poco, senza muffa alle pareti o condizioni
igienico-sanitarie da terzo mondo ma vuoto e piatto, ammobiliato solo per
l’essenziale: scrivania, cucinino, bagno, armadio, letto, lampada da lettura,
prese di corrente, stendipanni sul balconcino. Lui, i suoi due borsoni e la
nuova vita che doveva cominciare, l’ennesima che aveva pescato dal mucchio quando
aveva capito che avrebbe dovuto rifare tutto quanto da capo – un’altra volta.
Sbuffò,
chiudendo gli occhi per un istante e tentando di fare una lista mentale di ciò
che necessitava di essere fatto.
Il
frigorifero era vuoto, la caldaia da accendere, doveva controllare se la doccia
era davvero pulita, se c’erano perdite da qualche parte, se i precedenti
inquilini non si erano ammazzati a vicenda con un paio di forbici trinciapollo,
perché avrebbe giustificato il prezzo così basso di un appartamento
all’apparenza messo abbastanza bene.
Doveva
fare molte cose, ma l’unica che riuscì effettivamente a fare fu estrarre il suo
portatile, collegarlo alla rete elettrica e ad Internet, aprire la pagina
d’aggiornamento del proprio blog e restare lì, seduto, immobile a fissare il
cursore lampeggiare nel riquadro bianco.
Come
appena tornato dalla guerra, non sapeva cosa scrivere. Come a quel tempo, in
realtà, di cose da scrivere ne aveva talmente tante che avrebbe potuto riempire
la stanza di fogli scritti a mano, tappezzarne pareti e soffitto, e non sarebbe
stato abbastanza.
Avrebbe
voluto dire di quanto fosse arrabbiato. Furioso. Di quanto Sherlock non
meritasse la merda che gli avevano gratuitamente spalato addosso. Dell’uomo che
era veramente, nonostante i suoi alti e bassi, la sua eccentricità, le sue
stranezze, le sue ossessioni. Voleva raccontare degli attimi in cui facevano
colazione leggendo due giornali diversi che poi si scambiavano, del luccichio
nei suoi occhi azzurri quando riusciva a dedurre il meccanismo di un crimine o
di un rompicapo, di quando cenavano da Angelo e John tentava in tutti i modi di
non parlare di morti ammazzati per non spaventare quelli dei tavoli vicini, ma
non c’era verso. Aveva un intero mondo di sfumature, John, in quella sua mente:
un puzzle fatto di tasselli intagliati a mano ed intrecciati come stoffa
colorata a creare qualcosa di unico... qualcosa che non aveva più.
Ne
era geloso. E, al contempo, pensava che quelli
là fuori non se lo meritassero. Che credessero o meno, nessuna delle
persone là fuori, affamate di notizie o semplicemente curiose o forse morbose,
si meritava di sapere altro su Sherlock. Era stato denudato della sua vita,
preso in giro, trasformato da persona per bene a criminale... no. Nessuno si
meritava niente. Ciò che di buono Sherlock Holmes aveva viveva, ora, dentro di
lui: e dentro di lui sarebbe rimasto.
Da
quella decisione, seguì quella di abbandonare il suo blog. Non aveva intenzione
di incontrare di nuovo Ella ma, soprattutto, quel blog esisteva per raccontare
di Sherlock, dunque era inutile che continuasse ad aggiornarlo.
Prima
di mettersi a scrivere il suo ultimo post, cancellò tutti i messaggi privati
che aveva ricevuto senza leggerne nemmeno uno, poi disabilitò i commenti e
l’avvertimento automatico tramite mail che gli arrivava in casella quando
qualcuno commentava uno dei suoi post.
Infine,
cominciò a digitare. E scrisse l’unica cosa che, scavando dentro di sé, trovò
la forza di esprimere a parole.
“Era il mio
migliore amico e crederò sempre in lui.”
Quando
la pubblicò, si rese conto dell’inevitabile.
Quella
frase sapeva d’addio... e non solo al blog. Era una sentenza. Era una “cosa
fatta”. Stava cominciando a lasciarlo andare.
Deglutendo,
chiuse la pagina e cancellò l’indirizzo dai preferiti e dalla cronologia. Inutile,
se con una ricerca su Google poteva trovarlo facilmente, ma aveva la
convinzione che, comunque, avrebbe fatto in modo di non cercarlo.
Stava
chiudendo un capitolo della sua vita. L’ultima cosa che gli rimaneva da fare,
era voltare la pagina.
La
prima notte in cui riuscì a dormire per più di tre ore di seguito non fu
clemente, con lui.
Sognò
il cielo grigio ed una figura scura che si stagliava al suo orizzonte, sul
ciglio di un cornicione. Lo skyline di Londra sembrava prenderli in giro
entrambi.
Era
dietro di lui e lo vedeva di spalle buttare a terra il cellulare. John lo
chiamava, urlava, gli pregava di non farlo, di non buttarsi. Sherlock girava
piano il volto, sorrideva. Uno di quei sorrisi dolci che John aveva sempre
pensato fosse in grado di fare ma che, in realtà, non gli aveva mai visto sulle
labbra.
« Addio, John » gli diceva,
sbilanciandosi in avanti.
E
John scattava, la mano tesa, l’intenzione di prenderlo prima che cadesse, di
impedire che avvenisse. Ma quando la sua mano era a qualche centimetro da
toccare il cappotto, nel momento in cui era teso in direzione del detective
cadente, la prospettiva cambiava e lui si trovava sul marciapiede sotto al
Barts, e Sherlock precipitava, e il silenzio si riempiva del rumore delle sua
ossa rotte, del suo cuore fermo, del suo cranio spaccato. E John cominciava a
correre ma cadeva anche lui, sentendo asfalto sotto le mani e a contatto con il
viso, vedendo solo sangue e occhi azzurri fissi nel vuoto, fissi su di lui.
Si
svegliò con un principio di tachicardia e fradicio di sudore. La maglietta a
mezze maniche gli si era appiccicata alla schiena, sentiva i capelli incollati
alla nuca e piccole gocce di sudore corrergli sul collo verso il colletto
bagnato della t-shirt.
Respirò
profondamente un paio di volte, ricadendo sul letto e mettendosi subito le mani
sugli occhi. Mugugnò qualcosa di incoerente mentre ricacciava indietro le
lacrime e la paura, cercando di convincere se stesso che non era niente, che
sarebbe passato tutto.
Ma
aveva già percorso quella strada una volta, e sapeva fin troppo bene che non
era così. Prima erano i sogni, le notti passate dormendo poco e male, poi c’era
lui che si attorcigliava attorno ad una gamba che marciva e che non riusciva a
tenere in mano un bicchiere d’acqua senza rovesciarlo.
Almeno,
una volta era la guerra. Era il convincersi che fosse qualcosa di troppo grande
da affrontare. Era razionalizzare, trovare un motivo per giustificare tutto
quel tormento auto-inflitto.
Questa
volta, era solo Sherlock Holmes.
E
quello di cui aveva davvero il terrore, era che potesse diventare un supplizio
ancora più grande.
Le
cose più semplici erano, in realtà, le più difficili.
Come
dover prendere la metropolitana, o l’autobus. Di solito con Sherlock usava i
taxi, ma si era trasferito da poco ed era senza lavoro, il taxi era un lusso
che faceva meglio a non permettersi. Dunque metro. Dunque autobus.
In
mezza giornata, era già andato due volte dalla parte sbagliata. Aveva preso una
linea che non doveva prendere. Un autobus che non si dirigeva nemmeno
lontanamente nella zona del suo nuovo appartamento. Per mezza giornata, il suo
istinto lo aveva voluto portare a Baker Street ed era stato solo per un colpo
di fortuna se si era accorto, ogni volta, dell’errore quando era solo a metà
strada.
Aveva
dovuto fare il giro dei reparti tre volte, da Tesco.
Prendeva
latte, uova, formaggio, maionese, yogurt al caffè, tre pacchi di pasta, una
confezione di English Breakfast e una di Earl Grey, caramelle alla frutta. Salvo
poi accorgersi che aveva preso troppo
latte (due litri), troppe uova (una dozzina), un formaggio che a lui non era
mai piaciuto, la maionese che usava raramente, lo yogurt al caffè che non era
lui a mangiare, troppa pasta per un solo uomo, l’English Breakfast che non era
mai stato il suo tè, le caramelle alla frutta quando a lui non piacevano i
dolci.
Si
accorgeva di aver preso le cose che piacevano a Sherlock e allora tornava
indietro, rimettendole a posto o posando gli eccessi. Poi passava al reparto
frutta e verdura e dimenticava tutto, e prendeva le mele sbagliate, troppe
carote, due buste di plastica per non far entrare in contatto le patate e la
mano in decomposizione sul secondo ripiano del frigorifero; si fermava sui
broccoli e si chiedeva come cucinarli per riuscire a farli mangiare a Sherlock
senza che si accorgesse di cosa fossero.
Poi
qualcuno sussurrava qualcosa su di un detective impostore, a qualche scaffale
di distanza da lui, e John tornava con i piedi per terra.
Serrava
forte le labbra. Tirava su il mento. Stringeva i denti fino a farsi male alle
gengive. Rimetteva a posto la spesa.
Usciva
da Tesco senza niente in mano.
Rientrò
a casa verso il tramonto con un sacchetto di carta odorante di patatine fritte
proveniente da Burger King. Aprì con una delle tre chiavi del suo nuovo mazzo
il portone di vetro ed acciaio del condominio, lasciando che si richiudesse
alle sue spalle.
Dal
vetro della portineria sulla destra, il portinaio lo fermò mentre si puliva le
scarpe sullo zerbino. « Ehi, aspetti!
Dottor... Wilson? ».4
« Watson » corresse
automaticamente John, sospirando. Non gliene faceva una colpa. Nemmeno lui
ricordava minimamente come si chiamasse il portinaio, nonostante si fosse
presentato il primo giorno in cui aveva messo piede in quel condominio.
« Watson » ripeté quello come
una scusa, afferrando qualcosa da una mensola al suo fianco e passandola a John
dalla porta: « oggi pomeriggio è
venuto un corriere per lei, ho ritirato il pacco al suo posto » gli disse
semplicemente, sorridendogli.
John
lo ringraziò con un sorriso che non rifletteva niente. Nemmeno cortesia. Era
solo un limitato stiracchiarsi di labbra. Ma l’uomo della portineria sembrò non
accorgersene, dandogli la buona sera e rientrando al suo posto.
Salendo
le scale fino alla porta del suo appartamento – terzo piano senza ascensore –
osservò distrattamente il pacchetto che gli era stato recapitato.
Era
pesante, quadrato, più o meno delle dimensioni di una scatola da scarpe. Era
ricoperto da una carta marrone plastificata e chiuso con diversi giri di
scotch. In alto a destra vi era lo stemma di uno studio notarile ed il timbro
postaleindicava una cittadina dell’East
Sussex: Crowborough.5
Cosa
voleva da lui uno studio notarile dell’East Sussex?
Con
le sopracciglia aggrottate in un’espressione accigliata, aprì la porta e accese
la luce, appoggiando le chiavi sul mobiletto all’entrata e chiudendo bene la
porta con chiavistello e catenina. Si diresse poi verso il cucinino, appoggiò
il pacco sul tavolo, si tolse il cappotto e si dedicò all’apertura del
misterioso recapito.
Tolse
con calma la carta, curioso, scoprendo il pacchetto fatto di cartone chiuso con
nastro adesivo da imballaggio. Con l’aiuto di un coltello tagliò il nastro che
intrappolava i lati apribili, rimuovendo poi il primo foglio di plastica
paraurti.
Quello
che si trovò davanti, fu una sottospecie di scatola per sigari ricoperta da un
fazzoletto ricamato che aveva l’aria di essere molto vecchio. Era stato avvolto
con cura attorno alla scatola e l’angolo lasciato in alto riportava le iniziali
corsive “H.W.H.” perfettamente
ricamate in un tono di rosso tendente al scarlatto. Sopra ad esso, adagiata in
modo che potesse vedersi il destinatario (“Alla cortese attenzione del dr. John
H. Watson”) e, nuovamente, il timbro dello studio notarile, vi era una busta
chiusa.
Nonostante
la sua curiosità cominciasse ad essere morbosa e puntasse completamente sulla
scatola sotto al fazzoletto, decise di seguire l’ordine logico e aprì prima la
busta. Ne estrasse un foglio piegato in tre parti che spiegò con un movimento del
polso ed un fragore di carta.
« “Alla cortese
attenzione del dottor John H. Watson dallo studio notarile Harderbrook &
Whale di Crowborough, East Sussex” » cominciò a leggere John in un mormorio,
le lettera tenuta con entrambe le mani: « “Le recapitiamo, secondo le volontà
testamentarie...” volontà testamentarie? » domandò retoricamente, ancora più confuso
di quando aveva visto il timbro postale.
Una
persona aveva scritto un testamento e aveva lasciato qualcosa a suo nome. Da
Crowborough, a quanto sembrava. Già. Peccato che non conoscesse nessuno, di
Crowborough, né dell’intero Sussex. La sua famiglia veniva tutta dal nord e non
sapeva di parenti prossimi ricchi e facoltosi pronti a passare all’altro mondo,
altrimenti Harry sarebbe stata la prima a trasferirsi nel Sussex.
Accigliato
e con il dubbio che ci fosse stato un terribile errore, magari un gravissimo
caso di omonimia, continuò a leggere in silenzio.
Il
testamento era di un certo Sir Arthur Conan Doyle e ciò che gli aveva lasciato,
nominato lungo tutta la lettera come “oggetto numero 7” e mai descritto
realmente, era stato, per volere del signor Doyle stesso, chiuso a chiave con
ordine tassativo di non essere aperto se non dal...
« “se non dal dottor
John Hamish Watson, ex Capitano del Quinto Fucilieri di Northumberland, rintracciabile
presso mr. Sherlock Holmes, 221B di Baker Street, Londra” » lesse.
No,
nessun caso di omonimia. Cercavano proprio lui.
Qualcuno
doveva averli avvertiti del cambio indirizzo, probabilmente. La domanda era
chi, però. Non lo aveva detto a nessuno se non, per l’appunto, a mrs. Hudson.
Forse avevano telefonato a lei? Possibile.
Si
allungò sul tavolo per prendere la carta marrone tolta in precedenza,
osservando la data di invio. Era precedente al suo trasferimento. Precedente.
Non
era possibile. Come facevano a sapere dove inviare il pacchetto? Ma
soprattutto, come facevano a sapere il suo grado militare ed il reggimento in
cui aveva combattuto? Passi per dove abitava prima, dopotutto Sherlock era
diventato... beh, tristemente famigerato, e John con lui. Ma persino il suo
secondo nome? Persino “Hamish”?! Non lo usava mai, firmava sempre con la
seconda iniziale puntata...
Non
sapeva cosa pensare. Nell’indecisione dell’essere terrorizzato o semplicemente
stranito, continuò la lettura.
Non
ricordava di conoscere nessun Conan Doyle, né in relazione alla propria
famiglia né volando con la mente a quelle dei nonni sia da parte di madre che
paterni. Nessun commilitone, nessun superiore, nessun ex compagno di scuola o
di università, nessun amico d’infanzia. Nessuno, nella sua vita, aveva mai
portato il nome Conan Doyle.
Continuò
a scorrere con gli occhi il testo, arrivando alla fine senza averci capito
molto. Non si diceva quando fosse morto, di cosa, perché. L’unica cosa che
c’era, e che gli fece trattenere il respiro ed accelerare il cuore, era la
firma del famigliare che aveva garantito la lettura dell’atto notarile e aveva
dato il consenso all’invio del pacchetto.
La
voce gli uscì tremula, quando lesse: « “Crowborough, 12 luglio 1930. In fede,
Adrian Conan Doyle” ».
1930.
Lui non era nemmeno nato, nel 1930. Il suo nome, quel “John Hamish Watson”
scritto in bella grafia poche righe prima, non esisteva, nel 1930.
Solo
in quel momento si accorse che la busta era di vecchia fattura, e che la
lettera era scritta a mano nella sua interezza, con quello che doveva essere
sicuramente stato un pennino o una penna stilografica. Rilesse con foga il
testo e trovò una riga in cui si parlava di “spedizione posticipata
dell’oggetto in lascito” e di “custodia dello studio notarile fino alla data
riportata nelle ultime volontà”.
In
altre parole, la lettera era stata scritta nel 1930 e spedita postuma. E
considerando che era un testamento, il che presupponeva che qualcuno fosse
morto, e che il foglio che teneva ancora in mano era stato firmato da un certo
“Adrian” (il figlio di Arthur?), probabilmente la morte del suddetto Arthur
Conan Doyle doveva essere avvenuta nei primi di luglio del 1930.
A
quel punto, John aveva rimasto poco in cui credere. Non era semplicemente
possibile.
L’indomani
mattina, come prima cosa, avrebbe cercato il numero dello studio notarile e
avrebbe chiamato per farsi dare spiegazioni. Semplicemente perché una cosa del
genere era completamente impossibile. E poi perché voleva chiarire la faccenda
di dove avessero trovato informazioni
a suo riguardo così dettagliate.
Ripiegò
la lettera e la inserì di nuovo nella busta, più confuso di quando l’aveva
aperta. Senza pensarci due volte, poi, prese la scatola e gli tolse il
fazzoletto.
Era
una semplice scatola di legno di ciliegio lavorato e laccato, contornata di
fiori di ferro simili a rose ed incisa con motivi di gigli sul centro del
coperchio. Dava l’idea di un accessorio lussuoso ma privato e, considerando che
il legno di ciliegio era ancora uno dei più pregiati, probabilmente lo era
davvero. Era chiusa da un piccolo lucchetto facente parte del legno la cui
chiave era stata unita alla lettera scritta a mano, intrappolata con la
ceralacca e quello che doveva essere lo stemma di famiglia dei Conan Doyle.
John
rimase nel dubbio per qualche istante. Se domani, chiamando, gli avessero detto
che era stato tutto un errore burocratico, sicuramente avrebbe dovuto rimandare
indietro tutto. Dunque, tecnicamente, non avrebbe dovuto affatto spezzare il
sigillo di ceralacca e prendere la chiave per aprire il portagioie.
Ma
c’era una voce, dentro di sé – una voce maledettamente simile a quella di
Sherlock e che gli faceva pungere il cuore di dolore – che gli sottolineava
quanto fosse impossibile il contrario; c’era il suo nome su quel documento,
dunque aveva il diritto di fare ciò che voleva con il portagioie.
Diede
retta a quella voce (come aveva sempre
fatto). Staccò con cura la chiave dalla carta, rompendo il sigillo di
ceralacca, inserendola nella piccola serratura e sbloccando il coperchio – il
meccanismo doveva essere un po’ arrugginito, dato che dovette fare un po’ di
forza per far fare due giri alla piccola chiave.
All’interno
non c’era molto. Anzi, non cera praticamente niente.
Le
uniche cose che vi trovò, furono un taccuino di pelle dall’aria antica di
quelli che si chiudevano ancora con i lacci, un orologio da taschino più grande
del normale – quasi quanto il palmo della sua mano – con in rilievo un piccolo
giglio fiorentino sul coperchio, ed un foglio ingiallito da tempo piegato in
quattro parti.
Soffiando
sulla polvere posatasi sugli oggetti, prese il foglio e lo spiegò.
Una
sola frase campeggiava nel centro esatto, scritta in una grafia sottile ed
allungata ma molto elegante.
Che
tu ci creda o no.
H.W.H.
John
fissò per molto tempo quella semplice frase, cercando qualcosa che nemmeno lui
sapeva cosa fosse.
1.
9,8 m/s2 è la costante "g", alias l'accelerazione di
gravità valida sul pianeta Terra. Fisica elementare: ogni pianeta ha una
propria forza di gravità che dipende dalla composizione del nucleo (soprattutto
da quali metalli è composto), quella terrestre attira qualsiasi cosa verso il
centro del pianeta con una certa forza che fa "cadere" un corpo con
un'accelerazione "g" sopra quantificata.
2.
Il Suicidio è definito dalla Chiesa come peccato mortale (la Religione
cristiana vieta all'uomo di togliersi la vita che Dio gli ha donato ecc...),
motivo per cui i suicidi non hanno diritto ad avere un rito funebre
cristiano/cattolico. Se il suicida stesso non lascia direttive in merito alla
funzione, di solito si procede con un rito civile.
3.
Riferito al Processo di Norimberga, svoltosi fra il 1945 e il 1946 per punire i
criminali di guerra nazisti e della Shoah. La giuria era composta da esponenti
militari degli USA, dell'Unione Sovietica, del Regno Unito e della Francia. Fu
il luogo e l'occasione in cui nacque il reato di "crimini contro
l'umanità" di cui furono accusati molti dei più alti esponenti del partito
Nazista. Caso particolare fu la considerazione legislativa del ritenere la
maggior parte dei militari di basso rango impegnati nella campagna tedesca
innocenti perché eseguivano ordini dall'alto senza la possibilità di potersi
rifiutare.
4.
Chi ha detto Dr.House? XD Dato che House e Wilson sono ispirati a Holmes e
Watson, mi sembrava giusto ricambiare la cosa almeno un po'.
5.
La tomba di sir Arthur Conan Doyle si trova proprio a Crowborough, East Sussex.
C'è un perché anche a livello di trama, ma lo capirete solo più avanti ;D
(Spoilers ♪)
Note: secondo
capitolo. Diviso in due perché sono una persona molto sintetica (nemmenoperidea).
Probabilmente intorno al
terzo capitolo comincerà la parte sci-fic della
faccenda, anche se qualcosa ci sarà anche nella seconda parte di “Diary”... occhio ai dettagli ;D
Il caro nome del dottor Kolstoj è in prestito da Shichan,
che ringrazio.
Come al solito, le cose
importanti sono a fondo pagina.
Di
amici ne aveva persi tanti, nel tempo, in guerra soprattutto, ma là quelle cose non era necessario farle. Là
non era possibile farle. Visitare
tombe.
Là
non c’erano tombe.
C’era
sabbia. E roccia. E montagne. E dune. Nessuna tomba. Qualche croce, forse,
all’inizio, ma che senso aveva? Alla prima tempesta sarebbe stata sepolta, o
trasportata via. Alla fine, insieme a tutte le altre cose che ti rendono una persona
civile ma che in guerra non hanno più senso (perché ti rendono anche debole),
anche le usanze funebri perdevano di significato. I morti non si meritavano più
niente – non ce n’era il tempo.
Di
solito si raccoglievano i pezzi, comunque. Li si metteva in un sacco e li si
portava a Kabul sperando che non si decomponessero nel frattempo a causa del caldo.
Al campo base qualche anima pia metteva i resti del soldato dentro ad una bara,
ci stendeva una Union Jack sopra, la caricava su di
un aereo e la portavano in Inghilterra. Altri nemmeno li trovavano più. I pezzi
erano talmente piccoli che raccoglierli significava dover usare le pinzette cavaciglia. Si preferiva mandare a casa una bandiera
piegata ed una lettera di condoglianze firmata dal generale di turno (o dal suo
galoppino).
In
guerra nemmeno si piangevano, i morti. Morivano amici che erano diventati tali
solo per cameratismo. Amici di cui si conosceva solo il cognome. Amici che si
sapeva essere sinceri, perché dovevano esserlo per forza, per stare in pace con
se stessi: a nessuno piace morire da solo, e quando si sentono in lontananza
colpi di mortaio 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, la paura di morire ti dorme
accanto in branda. Anzi, probabilmente dorme bene solo lei.
Tutto
sommato, John preferiva la guerra.
In
guerra non avrebbe dovuto pensare a chi
aveva perso. Non avrebbe avuto il tempo di farsi venire in mente Sherlock
Holmes ad ogni piè sospinto, ad ogni alito di vento, in ogni minuto di
silenzio.
In
guerra avrebbe combattuto e basta.
Ma
John non era più in guerra da molto tempo, ormai – non lo avevano più voluto.
John era a Londra, in piedi davanti al suo armadio, in pigiama, a decidere
quali vestiti indossare. Una semplice visita ad una tomba lo stava seriamente
mettendo in difficoltà. Disinnescare una mina sarebbe stato più facile.
John
odiava i cimiteri, in realtà. Era una cosa che gli aveva passato Harry.
L’ultima
volta che ci era stato, era andato a trovare suo padre il pomeriggio prima di
prendere l’autobus per Londra. Non era mai stato davanti alla sua tomba se non
per il suo funerale e non se ne pentiva. Harriet
diceva sempre che i cimiteri sono per i morti, non per i vivi; lui aveva deciso
che era l’unico discorso sensato che le avrebbe mai sentito dire e aveva concordato
con lei, per una volta.
Ma
era... Sherlock. La tomba di Sherlock. Un pezzo di marmo nero con sopra un nome
che doveva rappresentare tutto ciò che di Sherlock, fisicamente, era rimasto.
Era un simbolo, una convenzione sociale per dare l’idea di poter parlare con la
persona sepolta sotto di esso.
John
pensava che fosse Dio, la convenzione sociale, non le tombe. Le tombe non erano
mausolei, o totem.
Erano
segnaposti.
Qui
è stato sepolto Sherlock Holmes. Fra cent’anni dovrà essere riesumato, la bara aperta,
le ossa raccolte e depositate nell’ossario del cimitero. Probabilmente scadrà
anche l’affitto del lotto di terreno. Se non avete altri parenti da seppellire,
verrà affittato al nuovo inquilino – c’è sempre domanda. Con i migliori saluti:
la Direzione.
Sospirò,
riservandosi di prendere un paio di vestiti qualsiasi: jeans blu, camicia beije a scozzese, maglioncino nero sbottonato sul davanti.
Giugno non aveva aiutato la temperatura a salite oltre i venti gradi, dunque si
sarebbe messo il suo solito giubbotto nero, in tinta con le scarpe. Dopotutto
andava al cimitero, no? Il nero è meglio.
Non
pensò a niente per tutto il resto del tempo, rifiutandosi di formulare
qualsiasi pensiero che contemplasse l’immagine di Sherlock steso dentro una
bara a sei piedi sottoterra sotto una lapide-segnaposto.
Chiamò
il taxi – se lo permise, quel giorno – e lo fece passare per Baker Street, dove
mrs. Hudson si unì a lui.
Lei
aveva in mano un mazzo di fiori. John non era tipo da fiori – non era sicuro di
essere tipo da qualsiasi cosa.
Non
parlarono per tutto il tragitto, facendo in silenzio anche la breve passeggiata
che li separava dalla tomba di Sherlock Holmes.
Vederla
comparire, per la prima volta dopo la sepoltura, non lo rendeva meno reale. Non
lo rendeva neanche meno pietoso. Solo più doloroso.
Ingoiò
un groppo fastidioso di lacrime, ordinando a se stesso di non fare il bambino
frignone. Era un adulto, un soldato: si sarebbe comportato come tale. Era solo
un altro cadavere, solo un’altra morte. Devi
convincertene, John.
Era
davvero comodo mentire a se stesso in quel modo.
Rimase
in piedi con le mani in tasca mentre mrs. Hudson
riempiva d’acqua il vaso vuoto e vi metteva i fiori, sistemandoli bene. John
rimase a guardarla col pensiero che, finché ci sarebbe stata lei, probabilmente
su quella tomba i fiori non sarebbero mai mancati.
Lui,
in realtà, non era più sicuro di avere il coraggio di tornarci spesso, in quel
cimitero.
La
donna si alzò, spolverandosi la gonna del vestito nero, e si mise in piedi
accanto a lui. Per rispetto, John si tolse le mani dalle tasche.
« Ci sono tutte le
sue cose » cominciò mrs. Hudson dopo un istante di silenzio: « le attrezzature
scientifiche. Ho lasciato tutto negli scatoloni, non so cosa se ne debba fare.
Pensavo di donarle ad una scuola » continuò a parlare, prima di voltarsi
appena in sua direzione: « potresti... » tentò.
« Non posso
ritornare nell’appartamento » rispose subito John, il groppo fastidioso risalito di
nuovo verso la gola: « non adesso » aggiunse.
Sarebbe
crollato, e lo sapeva. Fin troppo bene. Se ne rendeva conto in quel posto,
nonostante non avesse mai avuto significato, per lui. Non uno vero, uno
comprensibile.
Ma
Sherlock... Sherlock non era come gli altri. Sherlock non era un corpo
recuperato dalla sabbia e mandato in Inghilterra e seppellito chissà dove.
Sherlock lui lo aveva visto buttarsi, lo aveva visto sparire su di una barella,
aveva sentito la sua voce, le sue ultime parole, e quelle parole erano state
per lui. Sherlock non se ne era andato implorando Dio di salvarlo, dilaniato da
una raffica di proiettili. Se ne era andato buttandosi da un dannato tetto.
Lui
non era in Afghanistan ed affrontare la morte a Londra aveva tutto un altro
senso.
Strinse
gli occhi, sentendoli pungere. Respirò più profondamente e riuscì ad impedirsi
di piangere.
Non
voleva lasciarlo andare ma non poteva fare altro. Lui non aveva scelta.
Con
Sherlock non ne aveva mai avuta una.
« Sono arrabbiato » soffiò allora,
dopo qualche istante di silenzio.
« Va tutto bene,
John » gli disse la donna,
stringendogli affettuosamente il braccio: « non è affatto strano. Ha fatto sentire
tutti così. Tutti quei segni sul mio tavolo, e tutta quella confusione... Lo
sparare all’una e mezzo del mattino... ».
« Già » annuì
distrattamente John, sguardo fisso sul marmo nero e sulle lettere dorate.
« I campioni
insanguinati nel frigorifero... » continuò Martha: « Riesci ad
immaginare, tenere insieme cadaveri e cibo! ».
« Sì... » annuì ancora
John.
« E i litigi. Era
così irritante con quel suo comportamento da irresponsabile! » esclamò di nuovo,
palesemente agitata.
John
dovette fermarla, prima che gli stritolasse il muscolo dell’avambraccio: « ascolti, in
realtà non sono così arrabbiato, ok? » tentò di mediare, mettendo la mano sulla
sua nel tentativo di calmarla.
Lei
annuì. « Ok » disse: « Ok. Ti lascio da
solo per... sai... » cominciò, ma non
finì mai la frase – quale fosse la sua conclusione era abbastanza palese.
Quando
si trovò solo davanti alla tomba, John non seppe né cosa fare, né cosa dire.
Oh,
in realtà aveva molte cose, da dire. Tutte quelle che Ella, nel suo goffo
tentativo di farlo sentire meglio, gli aveva fatto venire in mente con violenza
– e non si era sentito affatto meglio. Per niente.
Deglutì,
cercando di togliersi di dosso la voglia di urlare, ma non ebbe buoni
risultati.
Allora
si voltò, osservando mrs. Hudson sparire lungo il
sentiero.
Si
voltò di nuovo e, finalmente conscio di non potere semplicemente andarsene e
basta, si schiarì la voce. Prese una decisione.
« Ok » cominciò: « ok. Tu... una
volta, mi hai detto che non eri un eroe » esordì.
Alzò
gli occhi oltre la lapide, osservando uno squarcio qualsiasi di prato, ma
riprese a parlare prima di perdere il momento. Era tragicamente consapevole che
se si fosse bloccato, o se fosse rimasto in silenzio troppo a lungo,
probabilmente non avrebbe finito il discorso.
Riprese
a fatica. « Ci sono stati dei
momenti in cui ho pensato che non fossi nemmeno umano, ma ti dico una cosa... eri
l’uomo migliore... ».
Una
pausa.
« L’essere umano...
» riprese a fatica,
umettandosi le labbra, sforzandosi di non fare uscire la voce troppo
tremolante; inutilmente.
« ...più umano che
io abbia mai conosciuto. E nessuno mi convincerà mai che tu mi abbia mentito.
Ecco... » dovette
concedersi una nuova pausa, un nuovo tentativo per non crollare. « L’ho detto » aggiunse poi,
prendendo una grande sorsata d’aria e abbassando lo sguardo all’erba sotto ai
suoi piedi – alla terra sotto l’erba,
alla bara sotto la terra, al corpo dentro la bara.
Furono
incerti i passi che lo portarono accanto alla lapide, scatti nervosi della
mano, indecisi se fare o meno ciò che stava facendo senza trovare dentro di sé
la giusta convinzione, o anche la sicurezza dell’esperienza. Non ne aveva.
Non
sapeva se quel tocco sul marmo freddo con tre dita della mano sinistra poteva
essere scambiato per un saluto sufficiente, o sufficientemente sentito.
Un
saluto, lo era, anche se no, sentito non lo era per nulla.
Le
parole che gli uscirono poi, così vicino, così prossimo a quel nome e a quel
freddo, non erano più circostanza. Non erano sforzo. Non erano lisce, pulite,
spurie dalle lacrime, o dalla minaccia che scendessero.
La
voce gli tremò. Lui se ne fregò.
« Ero così solo...
e ti devo così tanto... » soffiò, facendosi
forza e ricacciando indietro la disperazione ancora una volta. Annuì piano alla
tomba, gli occhi lucidi che non volevano cedere al pianto, e fece per
andarsene.
Qualche
passo, e semplicemente le parole uscirono da sole.
« Ti prego, c’è
ancora una cosa, un’ultima cosa » ricominciò, la voce ora forte, rabbiosa,
implorante: « un ultimo
miracolo, Sherlock, per me » domandò.
« Non essere... » silenzio,
un’altra ondata di dolore: « ...morto. Potresti farlo, per me? » domandò, completamente
illogico, totalmente fuori da ogni accettazione. « Smettila » continuò,
testardo: « smettila ».1
Un
miracolo che rimase inascoltato, e lo sapeva. Un miracolo impossibile. Un
miracolo che avrebbe significato impazzire, o morire a sua volta.
Non
era pronto. Non era pronto.
Non
era semplicemente, fottutamente pronto.
Non
era pronto per dirgli addio. Sherlock era... il suo tutto. Sherlock era l’unica
cosa bella che il mondo gli aveva dato per scusarsi della merda che aveva
dovuto vedere in Afghanistan. Sherlock era l’unica persona che si era presa
cura di lui senza saperlo e di cui lui aveva voluto prendersi cura senza
dirglielo.
L’amico
migliore, il compagno migliore, il collega migliore. La persona più eccentrica
ed infantile. L’uomo più strano e particolare. Ma lui aveva sempre visto una
sincerità, in quegli occhi azzurri, nascosta sotto galassie e numeri e formule
chimiche e criminodinamiche, che andava oltre
l’umano, oltre tutto ciò che lui, John Watson, aveva potuto capire in tutta la
sua vita.
L’uomo
migliore.
Non
gli aveva mentito, no. Mai. Non era un impostore, un bugiardo, uno scherzo di
natura, un freak.
Era
Sherlock Holmes. Solo Sherlock Holmes. Devi stare attento ai dettagli, per
conoscere Sherlock Holmes, e se lui te lo lascia fare, sarai l’uomo più
fortunato del mondo.
Non
poteva essere morto. Non poteva e basta. Ma era morto, davvero, era la realtà
dei fatti, e lui si sentiva così arrabbiato, così tradito, che non poteva fare a meno di chiedersi in cosa avesse
sbagliato, cosa non avesse visto, notato, osservato, capito.
Quale
dettaglio non avesse colto. E, se l’avesse notato, sarebbe riuscito a fermarlo?
Non
ce la fece più. Con le spalle curve e la testa bassa si portò la mano agli
occhi, lasciandosi andare ad un singhiozzo.
Si
bagnò la punta delle dita con le lacrime, salate, lasciandole scivolare per la
prima volta da giorni.
Non
sarebbe più tornato in quel posto, no. Non poteva. Non ce la faceva.
Raddrizzò
le spalle ed il busto, respirando profondamente e calmandosi. Una posa
militare. Non un saluto.
Non
un saluto, no. Non gli avrebbe detto addio. Non ora.
Non
ancora.
Non poteva.
Non
rientrò nel suo appartamento prima dell’una di notte.
La
lista della spesa pendeva dalla calamita a forma di pesce che la teneva ferma
sulla facciata del frigorifero, giusto accanto al post-it che diceva, nella sua
calligrafia, di chiamare lo studio notarile Harderbrook
& Whale di Crowborough.
Ci mise un poco per capire cosa lui stesso si fosse appuntato, ma alla fine ci
riuscì.
Troppo
scotch. Ci aveva affogato i pensieri già dalle sei del pomeriggio, quando aveva
capito che girare senza meta per Londra con la voglia di fare niente – vivere
era stata un’opzione discutibile per parecchie ore – non aveva molto senso. Non
ricordava quanti giri aveva fatto, sapeva solo che aveva speso in alcool più di
ciò che poteva permettersi.
Colto
da un senso di rifiuto per se stesso – che in mattinata si sarebbe molto
probabilmente trasformato in senso di colpa – prese una matita e cercò di
appuntare qualcos’altro sul post-it giallo, qualcosa come “cercare nuovo
lavoro”, ma non vi riuscì né al primo, né al secondo, né al terzo tentativo.
Aveva
troppo alcool nel sangue, troppo alcool nel cervello, troppo alcool nello
stomaco. Non aveva pranzato, o cenato e, ora che ci pensava, non aveva nemmeno
fatto colazione. Bere a stomaco vuoto è la prima cosa che al liceo ti dicono di
non fare mai.
Si
era sbagliato: il senso di colpa arrivò subito e lo investì come un autotreno.
Lui
era un medico. Lui era un ex-soldato della Corona. Lui era quello che aveva
dovuto badare per tutta l’adolescenza ad una sorella troppo incline alla
sbronza del sabato sera e, successivamente, alcolizzata del tutto. Era l’ultima
persona sulla faccia della Terra che avrebbe dovuto fare una cosa del genere.
Sospirò,
distrutto, portandosi le mani agli occhi e poi nei capelli.
Aveva
un vuoto che andava dalle otto alle dieci di sera. Due ore.
Due
ore in cui, a giudicare dalle sterline spese, doveva aver bevuto minimo una dozzina
di bicchieri di scotch e ghiaccio. Non si ricordava quando era passato allo
scotch liscio, il che significava che era stato da qualche parte durante quelle
due fatidiche ore.
Male.
Fortunatamente
aveva smesso qualche ora prima di andarsene. No, correzione: il barista si era
rifiutato di servirgli altro alcool e gli aveva ritirato le chiavi di casa per
farlo restare lì finché non fosse tornato in sé.
Male.
Molto male.
Non
si ricordava come fosse tornato a casa. Ma era uscito dal locale a mezzanotte
e... a piedi. In uno sprazzo di ricordo vide il portone di Baker Street. Le
chiavi che non entravano nella toppa. L’improvviso ricordarsi che non abitava
più lì. Ricordò la propria voce lontana chiamare “Sherlock” rivolto verso la
finestra del salotto, buia.
Questo
era anche peggio.
« Cristo... » sussurrò, strofinandosi
gli occhi. Persino la sua sbronza lo sfotteva. Sperava vivamente che mrs. Hudson non fosse stata in casa, quella sera, oppure
che non lo avesse sentito, perché non avrebbe avuto più il coraggio di
guardarla in faccia. Faticava già a guardare se stesso allo specchio.
Aveva
sonno ma non poteva mettersi a dormire così, con i fiumi di scotch che
sicuramente aveva ancora dentro di sé. Se si fosse steso, a metà della notte
sarebbe stato male. Conosceva se stesso abbastanza per saperlo. Una delle prime
volte a Kabul, durante le festività natalizie, era successo esattamente quello
e aveva passato Santo Stefano montando la guardia e sperando di non vomitare sugli
anfibi del General Maggiore in visita
all’accampamento.
Rimedi
della nonna, dunque.
Primo
fra tutti: cibo. Cibo grasso. Roba fritta, pane, dolci. Ma al solo pensiero gli
si rivoltava lo stomaco come un calzino, dunque meglio di no.
Secondo:
acqua. Doveva aiutare il proprio fegato a smaltire quella quantità assurda di
etanolo. Sì, lo avrebbe fatto dopo.
Terzo:
acqua calda e limone. “O va giù o viene fuori” diceva sempre Harriett quando doveva ricorrere a quello stratagemma.
Meglio di niente.
Nel
suo caso venne fuori. Quando uscì dal bagno, dopo avere avuto anche
l’accortezza di farsi una doccia ed infilarsi il pigiama, erano ormai le tre di
notte.
Il
suo stomaco era quanto più vicino ad un residuato bellico esistesse e gli si
chiudevano gli occhi dalla stanchezza persino mentre camminava. Decise di
dormire, sperando con tutto se stesso di svegliarsi a casa sua, al 221B,
arrabbiato a causa del suono di un violino che non gli aveva permesso di
dormire bene, che gli aveva procurato brutti sogni.
Sapeva
che non era possibile. Ma tutti dicono che la speranza è l’ultima a morire.
E
quando muore anche quella, rimane sempre l’illusione.
Si
svegliò a causa di rumori inequivocabili.
Lo
stridio delle gambe del letto che strisciano sulle piastrelle, il rumore sordo
di una testiera che sbatte ritmicamente contro un muro, un cigolio di molle e
di rete metallica. Ansiti, gemiti, grugniti, qualche “oh, Jeff, sì, sì!” e molti “Oh
mio Dio, Kate!” urlati come se nel condominio ci fossero solo loro.
John
fissò il soffitto senza muovere un muscolo, steso supino sul letto. A quanto
pareva, l’inquilina del piano di sopra aveva compagnia. Gli sembrava di ricordare
che il marito si chiamasse Albert, non Jeff, ma quelli non erano affari suoi,
dopotutto.
Sbuffò,
portandosi le mani agli occhi e strofinandoseli. Non sarebbe riuscito a
riaddormentarsi grazie alle olimpiadi del Kamasutra al piano di sopra e, comunque,
le nove del mattino erano un orario decente per alzarsi dal letto e tentare di
sopravvivere per altre diciotto ore.
Chiuse
una buona parte dei rumori fuori dal bagno, svuotando la vescica, lavandosi i
denti e sbarbandosi con calma. Decise di non vestirsi ma si prese comunque il
suo tempo. Quando uscì, probabilmente Jeff aveva finalmente finito le cartucce
per il fucile a pompa e tutto taceva.
Meglio.
Si
diresse nel cucinino a piedi scalzi, mettendo in atto i soliti movimenti atti
alla preparazione del tè. Erano cose a cui non doveva nemmeno più pensare, dato
che venivano in automatico: teiera, acqua, fuoco, aspettare, bustina, aspettare
l’infusione, versare nella tazza (nuova, bianca a quadrati rossi), aggiungere
mezzo cucchiaino di zucchero e una generosa spruzzata di limone.
Per
lo meno aveva smesso di tirare giù dalla credenza due tazze. Era un passo
avanti.
Sorseggiando
la sua colazione, si sedette al tavolo della cucina e si allungò verso un
giornale che non c’era. Si fermò con il braccio teso e la mano a mezz’aria,
trattenendo il respiro in una smorfia prima di sospirare amareggiato. Era
Sherlock che portava i quotidiani a casa. Era
Sherlock, John, maledizione!
Un
passo avanti e due indietro.
Lasciò
ricadere la mano sul tavolo con un tonfo, le labbra serrate e il respiro
mantenuto appositamente tranquillo da una buona volontà ed un autocontrollo
emotivo che sentiva essere sempre più labili. Si chiese cosa ne sarebbe stato
di lui, il giorno in cui avrebbe perso completamente ragione di se stesso, ma
evitò di cercare la risposta.
In
cambio, piazzò gli occhi sul frigorifero dall’altra parte del piccolo cucinino.
Il post-it giallo della sera precedente era ancora lì, accanto alla lista della
spesa, con sopra le due note – la seconda in calligrafia molto traballante –
scritte appena il giorno prima.
Beh,
una cosa alla volta. Un passo per volta. Roma non era stata costruita in due
giorni, no? Doveva solo rialzarsi in piedi. Ritrovare di nuovo la forza di
cancellare una parte della propria vita ed iniziarne una nuova. Poteva sempre
cominciare dalle piccole cose.
Posò
la tazza e prese cellulare e pacchetto postale, lasciati entrambi sul tavolo
della cucina. Trovò il numero telefonico dello studio notarile
nell’intestazione della lettera e, componendolo lentamente, chiamò.
Non
ci volle molto perché una voce femminile rispose alla chiamata: «studio notarile Harderbrook
& Whale».
« Ah, salve, il mio
nome è John Watson » si presentò,
schiarendosi la voce: « l’altro giorno mi
è arrivato un pacco a nome del vostro studio e avrei bisogno di delucidazioni
in proposito » disse.
«Ha un nome in particolare come riferimento? » domandò quella
che doveva essere per forza la segretaria.
Le
sopracciglia di John scattarono in alto. « In che senso, scusi? » domandò.
«Il notaio che ha firmato l’atto, di
qualsiasi cosa si tratti» spiegò subito la ragazza, gentilmente: «se ha un nome posso passare direttamente a
lui la telefonata, così le saprà fornire con precisione qualsiasi cosa di cui
ha bisogno».
« Ah, capisco.
Aspetti solo un secondo » disse John,
tenendo stretto il cellulare con la spalla mentre toglieva dalla busta e
spiegava di nuovo la lettera, facendo attenzione a non strappare la carta già
abbastanza ingiallita e dall’aria fragile. « Eccolo: Thomas T. Harderbrook» lesse la firma
sotto la dicitura “il notaio garante”, sulla sinistra dello scritto.
Dall’altra
parte della cornetta provenne solo silenzio.
« Signorina? » chiamò allora
John.
«Sì, mi scusi. È che... è impossibile» gli rispose lei: «Il signor Thomas Harderbrook
è uno dei fondatori dello studio ma è morto durante la seconda guerra
mondiale...» gli disse, e si
poteva sentire dal tono di voce che non aveva la minima idea di cosa dire.
Bella
fregatura. E adesso come glielo spiegava?
« Beh, è possibile,
dato che la lettera che tengo in mano è datata 1930... è per questo che ho
telefonato, in realtà » cominciò con
l’intenzione di continuare, ma venne interrotto dalla stessa segretaria.
«Oh mio Dio!» esclamò.
John
sobbalzò senza volerlo. « Scusi? ».
«Lei è il destinatario del testamento Doyle, dico bene?» chiese quella, la voce improvvisamente ad
un livello pericoloso d’eccitazione.
« A-A quanto
pare... » lasciò cadere
John.
«Le passo il signor Whale
allora, signor Watson. È l’attuale direttore dello studio, si è occupato lui
del suo caso. Attenda il linea!» esclamò.
Dovette
attendere circa un minuto, passato ad ascoltare una di quelle irritanti
musichette d’attesa. Aveva appena preso un’altra sorsata del suo tè ormai
tiepido quando una voce maschile e giovane interruppe la melodia: «Nathan Whale. In
che cosa posso esserle utile, dottor Watson?» domandò presentandosi.
« Buongiorno » salutò John: « volevo solo
chiedere qualche informazione riguardo al pacco che ho ricevuto, inviato dal
vostro studio notarile » cominciò.
«La ascolto» disse Whale dall’altra parte del telefono.
John
spiegò la lettera sul tavolo e la scorse con gli occhi, mentre parlava: « ho letto la
lettera che accompagnava il contenuto del pacco e ho più o meno capito di cosa
si tratta, ma mi chiedevo se non ci fosse stato un qualche tipo di errore di
invio. Nel destinatario, intendo » specificò.
«Che tipo di errore?» chiese il suo
interlocutore in modo condiscendente, suonando fin troppo calmo per i gusti di
John, che invece aveva ancora un fondo di irrequietudine.
« Mi riferisco alla
data, nello specifico » rispose John,
sperando che il sedicente notaio Nathan Whale potesse
arrivarci da solo.
Passò
un istante, prima che John ricevesse la risposta, e chissà perché immaginò che
il ragazzo stesse sorridendo: «non c’è nessun
errore, dottor Watson. Il testamento Doyle è una
sottospecie di leggenda nel nostro studio a causa della sua longevità; risale
all’epoca di mio nonno e del suo socio. Le assicuro che il signor Arthur Conan Doyle è deceduto il 7 luglio del 1930 ed il testamento
letto il 12 luglio del medesimo anno, lo stesso giorno in cui è stato
controfirmato dal figlio Adrian l’atto notarile che
accompagna il pacchetto che le è stato recapitato. Il signor Doyle diede precise istruzioni, nelle sue ultime volontà,
di conservare e non aprire mai l’oggetto fino al 16 giugno 2011, data in cui
sarebbe dovuto essere recapitato al dottor John Hamish Watson. Ovvero lei» disse, facendo
una breve pausa prima di riprendere: «ovviamente
abbiamo controllato, prima di inviarglielo. Lei esiste ed è reperibile, dunque
noi abbiamo ottemperato a ciò per cui siamo stati pagati» concluse, la voce
calma e quantomeno suadente, probabilmente abituato a parlare con professionalità
ad ogni suo cliente.
John
era sempre più confuso, ma non lo diede a sentire: « non metto in
dubbio la vostra professionalità, ma non è semplicemente possibile, mi creda ».
«Per quale motivo?» chiese subito
l’altro.
« La data! » ribatté subito
Watson, ripetendosi: « lei continua a
dirmi che questo signor Doyle ha fatto il mio nome
nella stesura del proprio testamento, ma io non ero ancora nato nel 1930! » esclamò, ora
preda di una sorta di rabbia agitata.
Un
momento di silenzio intercorse fra loro, prima che Whale
riprendesse la parola: «tuttavia, le informazioni fornite su di lei
sono corrette, dico bene? » domandò – John
sentì uno sfrigolio di fogli dalla cornetta prima che l’altro continuasse il
discorso: «lei è il dottor John Hamish Watson, laureato
alla London University, ha fatto il tirocinio
formativo al St. Bartholomew Hospital di Londra, si è
arruolato nel Quinto Fucilieri di Northumberland e ha
combattuto in Afghanistan con il grado di Capitano, dico bene?» chiese conferma.
« Sì, è giusto,
ma... »
Venne
interrotto. «Allora le informazioni in nostro possesso
non sono errate».
« Ma sono
impossibili! » insistette John: « nel 1930 non era
nato nemmeno mio padre! E io sono del ’77! ».2
Un
sospiro riempì la cornetta, al quale John capì di non avere speranza di
convincere quel giovane notaio.
«Senta...» cominciò Nathan: «sono convinto anche io che la situazione sia
strana, ma il nostro compito era consegnarle quel pacco. Punto. Lei esiste ed è
tutto come ci è stato lasciato scritto, dunque il nostro lavoro è concluso» disse risoluto,
facendola risuonare davvero come l’ultima cosa che avrebbe detto.
In
tutto ciò, John non ci aveva guadagnato nulla se non l’essere ancora più
disperso ed emotivamente instabile di prima. Perché non era solo il lutto a
scombinargli la giornata, ma adesso anche l’inquietudine tangibile di un uomo,
supponiamo profeta o chissà cosa, che nel 1930 decide di inviargli un pacco e
sa già tutto di lui ancora prima che sia nato.
Sospirò
a sua volta, scuotendo il capo. « Va bene... va bene. Mi scusi se le ho
fatto perdere tempo » si congedò,
chiudendo la chiamata solo dopo i saluti dell’altro.
Appoggiò
il cellulare sul tavolo, massaggiandosi con pollice e indice della mano
sinistra l’attaccatura del naso. Riaprì gli occhi solo dopo che il mal di testa
fu diminuito, puntandoli subito sulla scatola lucida che due notti prima aveva
richiuso ed abbandonato sul tavolo.
La
riprese fra le mani in un movimento lento, aprendone il coperchio ed estraendo
i due oggetti che conteneva.
Si
focalizzò prima sull’orologio da taschino, che aprì attraverso il bottone sulla
sua sommità, posizionato sotto l’anella da cui partiva la catena. Il quadrante
era di un bianco sporco, probabilmente ingiallito dal tempo, ed il vetro aveva
qualche graffio al centro. Le lancette nere erano sottili ed avevano una
rifinitura finissima sulla punta.Nessuna incisione né all’interno del coperchio né sulla grancassa. I
numeri erano romani. Ma le cose più strane erano l’assenza di una marca sul
quadrante e una levetta sul fianco, sotto alla chiave di carica, ferma a metà
fra due estremi contrassegnati dalle lettere minuscole “d” e “m”.
Ovviamente
non funzionava, ma John suppose che, essendoci una chiave di carica, andasse
caricato.
Provò
a caricarlo ma niente, non funzionò. L’orologio rimase immobile.
Probabilmente
era un cimelio, un oggetto di valore affettivo. La domanda “perché darlo a me”
si formò velocemente ed immediatamente nella sua mente ma, come per tutto il resto,
non sapeva darle risposta.
Richiuse
e posò l’orologio da taschino, prendendo invece in mano il taccuino di pelle.
Aveva le dimensioni di un’agenda moderna e, aprendolo, John scoprì che era
tutt’altro.
Era
un diario.
Riconobbe
la scrittura fine ed ordinata del biglietto che accompagnava gli oggetti,
disseminata per pagine e pagine ed inframmezzata da disegni e schemi, note e
cancellature. La maggior parte delle volte le pagine erano scritte in
inchiostro nero, altre con l’inchiostro blu.
Come
se non bastasse, nell’angolo in basso a destra della copertina di pelle erano
incise in oro le iniziali H.W.H., come quelle del
fazzoletto e del messaggio.
“H.W.H.” e “Arthur Conan Doyle”
non andavano d’accordo, in fatto di iniziali. Doveva supporre che gli oggetti appartenessero
a un’altra persona e Conan Doyle li avesse avuti in
consegna? Sembrava la spiegazione più logica.
Stranito
dalla faccenda, cominciò dall’inizio, ovvero da dove si cominciavano tutte le
cose.
Aprì
la prima pagina e si preparò alla lettura partendo dalla data.
« “10 agosto ‘31” » lesse in un
sussurro.
Fissò
l’anno con particolare interesse, aggrottando le sopracciglia e la fronte in
un’espressione pensierosa.
Il
1931? Non poteva essere possibile. Nathan Whale gli
aveva confermato che il pacchetto sigillato era in possesso dello studio legale
dalla morte del signor Doyle, avvenuta a luglio del
1930. Anzi, probabilmente lo avevano in consegna già da prima, ovvero
dall’ultima volta in cui Arthur aveva dettato testamento.
Passò
rapidamente alle ultime pagine del diario, osservando che l’ultima data
riportata era il 22 maggio ’36.
Allora
1831, un secolo prima. Sembrava strano, però, perché il taccuino aveva le
pagine molto sottili e di carta pulita e di buona fattura, cose che la prima
metà del diciannovesimo secolo non sapeva ancora offrire. Tuttavia era la più
plausibile.
Divorato
dalla curiosità, cominciò a leggere.
• 10 Agosto ‘31
Papà continua a
dirmi che studiare a Oxford non è altro che un onore, che è fiero di me, che
tutti in famiglia sono fieri di me e che anche mio padre sarebbe fiero di me.
Lo so, che lo sarebbe, se fosse ancora con noi. Ma so anche che non lo sarebbe
se sapesse che, per studiare ad Oxford, sono obbligato a lasciare papà da solo
e a vederlo solo durante le vacanze e alla fine di ogni semestre; Oxford
pretende una vita collegiale.
Non voglio
lasciare papà. Dopo la morte di mio padre non è più lo stesso, anche se fa del
suo meglio. È distratto ed assente, passa pomeriggi interi seduto a guardare
fuori dalla finestra e non mi serve essere un medico per capire che è depresso.
Lo sa anche lui, ma non fa nulla per cambiare la situazione. Per questo non
voglio lasciarlo solo.
Arrivato
alla fine della prima entry, John si accorse subito che qualcosa non quadrava.
Il
linguaggio era troppo spigliato, troppo colloquiale, troppo... moderno. E poi
sembrava che parlasse... di due persone diverse, riferendosi a “papà” e “mio
padre”. Presupponeva una famiglia composta da due padri? No. Impossibile. Non
sarebbe potuto succedere nel 1831. Ricordava molto bene lo scandalo Oscar Wilde
dai libri di letteratura ed erano addirittura i primi anni del 1900. Le
relazioni omosessuali erano un reato, figuriamoci le famiglie.
Quel
diario non poteva essere stato scritto nel 1831, ma era anche impossibile che
fosse stato scritto nel 1931.
Non
ci stava capendo più niente. Il linguaggio usato sembrava addirittura del
ventunesimo secolo, ma questo avrebbe fatto sì che la data fosse il 2031 e
questo no, non poteva proprio essere. Questo significava essere pazzi, andati,
completamente fuori di testa.
« Forse lo sono sul
serio » commentò
amaramente, richiudendo il taccuino e ributtandolo senza grazia nella scatola
insieme al resto della roba.
Cinque
anni di università. Uno di tirocinio formativo. Due di specializzazione in
chirurgia d’urgenza. Uno di addestramento e altri sei passati in guerra.
Sapeva
riconoscere ad occhio praticamente ogni malattia respiratoria. Tutte le più
comuni infezioni. Sapeva rimuovere un proiettile, medicare, disinfettare, e
suturare (o cauterizzare se necessario) una ferita d’arma da fuoco in meno di
quattro minuti (cronometrabili). Aveva richiuso addomi, riposizionato fegati e
varie interiora, suturato arterie alla luce di una torcia elettrica, tagliato
dita e segato ossa e ricucito praticamente ogni centimetro d’epidermide che può
ricoprire un essere umano adulto e con una divisa addosso. Era stato nel bel
mezzo di un focolaio di Tubercolosi. E di Dissenteria. Aveva rimosso delle
schegge di mortaio dal culo di almeno venti uomini.
E
lavorava come segretario per un chirurgo plastico.
Aveva
fatto domanda d’assunzione praticamente in tutti gli studi medici di Londra, ma
nessuno sembrava interessato ad assumerlo. Aveva evitato gli ospedali per lo
stesso motivo.
Il
perché era presto detto (o letto): Sherlock Holmes. Il nome “John Watson” era
famigerato quasi come quello di Holmes e, dai, andiamo, chi vorrebbe il compare
di un impostore come medico? Probabilmente Sarah lo avrebbe ripreso, ma non
poteva vivere sostituendo medici in gravidanza o coprendo qualche turno di
notte una volta ogni tanto – e Sarah non aveva mai avuto altro da offrirgli, in
ambito lavorativo. E poi sarebbe stato strano, e snervante. Non voleva in giro
gente che conosceva, era meglio.
Alla
fine, il dottor Kolstoj lo aveva assunto come suo
segretario. Era un chirurgo plastico in ascesa e, per il momento, aveva ancora
un buon carattere e un’altrettanto buona cura della propria reputazione. E
soprattutto se ne fregava delle voci ed era una di quelle persone che badano di
più ai fatti.
Dunque,
passava 12 ore al giorno rispondendo alle telefonate, prendendo appuntamenti e
sistemando cartelle cliniche in pile ordinate alfabeticamente e
cronologicamente per anno.
Si
era detto che era meglio di niente. Meglio della fame. Meglio di prima.
Sospirò
quando anche l’ultima paziente della giornata entrò in ambulatorio, appoggiando
la penna e massaggiandosi la mano con cui aveva scritto per tutto il dannato
giorno. Non era più abituato.
Doveva
ancora finire di compilare due cartelle mediche, ma per il bene del suo tunnel
carpale decise di prendersi una pausa. Nonostante fosse un segretario era
costretto ad indossare una divisa blu da infermiere e, anche se sotto portava
una maglietta a maniche lunghe, aveva comunque un perenne freddo alle ossa.
Allungandosi
verso il cassetto della scrivania, ne estrasse il diario. Ne leggeva piccole
parti ogni giorno appena poteva, e aveva scoperto una storia interessante man
mano che proseguiva; a quanto sembrava, il detentore del diario aveva sul serio
due padri, ma era orfano da poco di uno di loro. Era inoltre alle prese con una
carriera brillante ad Oxford che lo lasciava perennemente preoccupato per il
padre – quello dei due che veniva chiamato “papà” ed era ancora in vita –
perché, nonostante cercasse di tornare a casa appena poteva, lo vedeva sempre
meno in forma.
Li
aveva invidiati, John, ad un certo punto. I due padri del diarista. Dovevano
amarsi davvero molto, se uno dei due sembrava soffrire così tanto per la morte
dell’altro.
Per
un momento pensò a Sherlock, ma scacciò il pensiero prima che divenisse più
profondo (e triste).
Appoggiandosi
con la schiena allo schienale della poltrona, sfogliò le pagine fino alla
quarta entry.
•
27 Novembre ‘31
Ho chiesto il
trasferimento alla London University. Papà e lo zio
non ne sono affatto felici (soprattutto lo zio). Mi ha fatto una lavata di capo
sul nome di famiglia, cosa che non mi sarei mai aspettato da lui.
Probabilmente, se ci fosse stato mio padre avrebbero litigato (di nuovo). Papà lo
aveva sempre apostrofato come “faida puerile”.
Mi manca, mio
padre. Se lui fosse qui, papà sorriderebbe di più. Non lo vedo bene
ultimamente.
Comunque il
Rettore di Oxford mi ha fatto un discorso molto concitato, lungo 40 minuti,
riguardo alla possibilità di rimanere in facoltà. Anche dopo che gli ho
ripetuto le mie motivazioni ha insistito, dicendo che papà si sarebbe potuto
trasferire appena fuori dal campus. Ho negato categoricamente. Papà non avrebbe
mai accettato di andare via da casa – dalla nostra casa, dalla loro casa – altrimenti lo avrebbe già fatto e io
non voglio forzarlo. Tutti i ricordi di mio padre sono lì dentro, per lui...
La London mi ha
accettato senza problemi e mi ha anche riconosciuto gli esami già dati. Secondo
loro sono avanti rispetto alla media degli studenti, tanto che potrei laurearmi
in anticipo e puntare all’eccellenza. Ed è esattamente quello che voglio fare.
Si
era chiesto quanti seni vedesse il dottor Kolstoj
ogni santo giorno.
E
quanti sederi. Molti, considerando che aveva sentito dire al medico la frase
“si metta lì in piedi e si spogli” più di quante volte avesse detto
“buongiorno”.
Entravano
molte persone, nel suo studio medico. Moltissime donne e qualche uomo
sufficientemente narcisista da richiedere una rinoplastica o una puntura di botox. Alcune lo facevano per necessità, altre solo per
bellezza e altre ancora (John ne era convinto) per assuefazione. Avevano labbra
talmente piene da sembrare di plastica ed il viso spianato dal continuo uso di
botulino sembrava quello di un manichino. Quel giorno ne aveva vista una
sorridere – o provarci – ed era stato tentato di fermarla per timore che potesse
esplodere qualcosa dalle parti delle orecchie.
Un
paio ci avevano anche provato con lui. Classici trucchi da femme fatale: occhiate fisse, lingua sulle labbra, apertura e
successivo accavallamento di gambe alla BasicInstinct.
Ma
era un uomo professionale. Aveva sempre diffidato delle donne che ricorrevano
alla chirurgia plastica e, fra il lavoro e rischiare di trovare un paio di
labbra a canotto sotto ad un cervello da gallina, aveva preferito il lavoro.
• 8 Aprile ‘32
A quanto pare la
capacità di lamentarsi per ogni piccola cosa è parte integrante dell’esistenza
di ogni professore, non importa a quale grado scolastico insegni.
Se tu scrivi in
modo sbagliato una formula e sbagli il problema davanti a cento studenti, non è
colpa mia. Nemmeno se ti correggo ad alta voce e, sfidato, vinco il confronto
risolvendo il problema in metà del tempo, non è colpa mia. Non è nemmeno colpa
mia se sto seguendo lezioni del secondo anno a sette mesi dalla mia iscrizione:
dannazione, gli esami del primo li ho già dati tutti, cosa devo fare, girarmi i
pollici?
A quanto pare il
Rettore non era d’accordo con me. Oppure il Rettore è semplicemente dalla parte
dei suoi insegnanti a causa di vincoli monetari e/o di prestigio. Queste cose
non cambiano mai.
...l’ho detto a
papà. Lui... lui mi ha appoggiato la mano sulla testa e ha detto che devo
ancora imparare ad essere più calmo ed educato.
Tutto qui.
Nessuna lamentela,
nessuna sgridata. Me le faceva sempre, anche al liceo, anche dopo. Prima che
morisse mio padre, per lo meno.
Si sta spegnendo.
E io non so cosa fare.
Le
cose su Londra che c’erano da sapere, John Watson le sapeva tutte.
Dove
comprare cose. Dove vedere gente. Dove trovare piaceri.
Una
persona, ad un certo punto, queste cose viene a saperle e basta.
Con
una Oyster3 arrivare a Soho non è un problema nemmeno alle due di
notte. Alle due di una notte insonne. Alle due di una notte divenuta insonne
perché costellata di incubi.
Andavano
e venivano a seconda della stanchezza. Dormiva tre ore per notte finché non era
esausto e, quando la mente non riusciva più a tenere il passo con la veglia,
crollava sul divano non appena rientrato a casa e dormiva anche per dieci o
dodici ore di fila.
Cominciava
a non riconoscere più gli orari dei pasti, e a dimenticarseli. Non ricordava
mai se aveva mangiato, cosa aveva
mangiato e se il frigorifero era vuoto o pieno. Gli sembrava di vivere a
cavallo fra realtà e dormiveglia, oppure fra realtà ed incubo.
Quella
notte, Sherlock era venuto a trovarlo. Gli aveva detto addio per l’ennesima
volta e, per l’ennesima volta, si era buttato dal tetto del Barts.
Era stanco di mangiare asfalto ogni notte, asfalto che sapeva di sabbia, e
l’odore del sangue che era sempre lo stesso indipendentemente dal sogno.
Era
stanco e basta.
Il
club si chiamava “The Eden’s Apple” e, nonostante
l’insegna al neon rossa un po’ consunta e l’aspetto stropicciato e smunto
dell’entrata, era il locale più raccomandabile e “pulito” della sua specie. Lo
aveva frequentato in gioventù insieme ad alcuni amici dell’università che lo
avevano introdotto per primi ad un tipo di piacere che non richiedeva cene,
avances, parole dolci o tentativi seri di relazione.
John
non voleva niente di tutto ciò, in quel momento. L’unica volta in cui l’idea di
trovarsi una brava ragazza lo aveva sfiorato, il pensiero “tanto Sherlock la
farà scappare prima di un mese” era arrivato prima del ricordo del fatto che
l’amico fosse morto. E John sapeva cosa voleva dire: era fottuto.
Il
consumismo era un buon ripiego. Sesso senza domande. Senza spiegazioni,
riguardi, rimorsi. Voleva qualche ora di pace dai suoi incubi, era chiedere
troppo?
Entrò
nel locale guardandosi discretamente intorno, il colletto del giubbotto nero
alzato contro il vento e la pioggerellina fine. Fece un cenno di saluto al
portiere passandogli una banconota da 50 sterline, lasciandosi perquisire dal
buttafuori in cerca di armi o droga – normale amministrazione.
Una
volta dentro, la musica assordante lo colpì con violenza. L’Eden’s Apple era una discoteca
nonostante il servizio principale fosse un altro, ovvero quello nascosto dai
separé sulla destra, verso i quali John si diresse senza nemmeno fermarsi al
bar per prendere uno (o due) drink.
Con
le mani in tasca percorse velocemente il breve tragitto che lo separava dai
separé con disegni orientali di uccelli dalle lunghe code, dietro ai quali vi
era una porta che aprì e poi si richiuse alle spalle.
Si
fermò all’inizio di un corridoio con dodici porte nere, sei per lato, davanti
alcune delle quali erano appoggiate ragazze di diverso aspetto e a malapena
vestite; sorridenti ed ammalianti nei loro babydoll di seta o nella biancheria
nera di pizzo, tacchi alti e profumi sensuali sui polsi e sul collo. Le stanze
già occupate avevano la porta chiusa, ma i muri non permettevano di coprire suoni
e gemiti come faceva invece il rimbombo della musica della sala accanto. L’aria
era calda, bollente, e John si sentiva già addosso un velo viscoso ed
appiccicaticcio di sudore misto ad incenso.
Aveva
un tipo, John. Bionda con gli occhi azzurri. Rebecca, la prima con cui era
andato ai tempi del liceo, era esattamente così: bionda e con gli occhi azzurri.
Era stata la sua preferita per molto tempo, almeno finché non si trovò
finalmente una ragazza fissa e ci diede un taglio con i sabato sera all’insegna
della frenesia pura.
Ora
non era più un giovane ragazzo, ma sapeva benissimo che a quelle ragazze non
importava. Era il loro lavoro, accontentare tutti. Se non lo avessero voluto lì
dentro lo avrebbero bloccato direttamente all’entrata. Il lavoro del portiere e
del buttafuori, in realtà, era proprio quello.
Si
diede una breve occhiata intorno, passando in rassegna i volti e le
caratteristiche di ogni ragazza. Cinque di loro erano libere e, fortunatamente,
fra le cinque nessuna era il suo tipo. Passi i capelli biondi, ma aveva un
problema nuovo di zecca con gli occhi azzurri. E non poteva di certo chiedere a
sé stesso lo sforzo di osservarne un paio intrisi di piacere e malizia sotto di
sé fra le lenzuola. No, non poteva proprio.
Mora
con gli occhi castani sarebbe andata benissimo. Fece attenzione a sceglierla
con i capelli lisci, però.
« Ciao dolcezza... » miagolò la sua
prescelta quando John si avvicinò, le mani ancora nelle tasche della giacca,
l’espressione di un abituè che tale non era davvero
(era semplicemente la sua espressione disillusa e delusa dalla vita, quella).
« Ciao » si sforzò di
rispondere John, prima di cominciare una rapida trattativa: « qual è il tuo
prezzo? » domandò.
La
donna sorrise, sensuale, portandosi una ciocca di lunghi capelli lisci dietro
la spalla con un movimento aggraziato della mano. « Ciò che hai
pagato all’ingresso » gli rispose.
Lo
presumeva. « Già, sì... certo.
Ma sappiamo tutti e due che certi servizi non sono compresi in quel prezzo » ribatté.
La
donna sorrise ancora più maliziosa di prima. « Dipende da cosa vuoi, tesoro » mormorò,
passandogli un dito sul petto lungo i bottoni della camicia: « per l’anal, c’è un supplemento di quaranta sterline. Venti se
vuoi un lavoretto di bocca. Saliamo a sessanta se hai particolari tipi di fetish, o per il bondage, ma non
faccio total bondage. E poi, beh... » una piccola pausa
in cui si avvicinò a lui, facendo attenzione a sfiorargli l’orecchio con le
labbra, da vera esperta, mentre sussurrava: « ...per altri tipi di divertimento, si
arriva anche oltre i cento ».
Il
medico respirò il suo odore vanigliato e lo trovò francamente stomachevole. Ma
era sicuro che entro dieci minuti si sarebbe dimenticato sia il profumo che il
proprio nome. Quello di lei non voleva saperlo.
« Quale tipo di divertimento? » domandò, a sua volta
in un sussurro, osservandola attento mentre, a pochissimi centimetri da lui, si
faceva scivolare due dita della mano destra dentro una coppa del reggiseno e ne
estraeva un piccolo sacchettino trasparente con dentro vari grammi di polvere
bianca.
« Cocaina? » chiese John.
Quella annuì con occhi brillanti.
Sherlock. Era una
persecuzione.
Il
medico scosse la testa, occhi chiusi.
Lei
fece spallucce, nascondendo la droga nel pugno chiuso della mano. « Ho diversi tipi
di preservativo, se sei un fanatico » disse poi, leccandosi le labbra in un
modo quasi osceno.
« Ho i miei » tagliò corto
John, diffidente. « Hai qualcosa in
contrario al sesso violento? » domandò però subito dopo, sguardo fermo negli occhi
di lei che gli rispose con un sorrisetto.
« Il mio
preferito... » ribatté lei,
lasciva.
Estrasse
dalla tasca sinistra del giubbotto una banconota da venti che la donna prese
con un sorrisetto, accarezzandogli le dita con le proprie.
« Vuoi che chiami
il tuo nome, mentre vengo? » domandò lei.
John
sogghignò. Era disperato, non un povero illuso.
Non
le rispose e lei non se ne lamentò. Gli fece solo segno di accomodarsi
all’interno, precedendolo ancheggiando.
Watson
sentì di gettarsi alle spalle qualcosa di più della dignità, ma non gli
importò. Oblio, questo voleva. La possibilità di fare finta di essere in un
altro posto, in un altro luogo, in un altro tempo.
La
possibilità di non essere più se stesso almeno per qualche ora.
• 21 Luglio ‘32
Il mio professore
di Fisica mi ha voluto con sé all’interno di un gruppo di studiosi selezionati
da tutte le maggiori università della Gran Bretagna. Non ho ancora capito che
tipo di gruppo di ricerca sia, ma so solamente che sono l’unico studente ed il
più giovane di tutti. Suppongo che mio padre ne sarebbe fiero.
Dice di essere
rimasto impressionato dalla mia ricerca sui buchi neri di Kerr
e sull’Orizzonte degli Eventi.5 Mi aveva già detto più volte di
essere impressionato dalle mie capacità in Fisica ed Astrofisica, ma da qui a
farmi fare parte in quello che ha tutta l’aria di essere un progetto super
segreto...
Ho chiesto allo
zio per prudenza, ma stranamente anche lui non ne sapeva nulla. Il che mi sta
dando da pensare.
Molti
pensano che l’orgoglio di una persona si infranga in momenti epici, dolorosi e
pieni di risentimento.
Probabilmente
è colpa dei film americani, che sembrano riciclare all’infinito il cliché del
protagonista urlante sul cadavere del co-protagonista di turno, con le lacrime
agli occhi e la disperazione nelle voce. Forse è per questo che, in
collegamento a certe immagini, la letteratura preferisce descrivere la morte
dell’orgoglio paragonandolo ad un infrangersi di vetri, o di porcellane, o di
qualsiasi cosa possa infrangersi e lasciare in giro delle schegge.
In
realtà non è così. In realtà l’orgoglio è qualcosa di pesante, ferroso, scuro
ed arrugginito. Cadendo non si rompe affatto, fa solo un gran casino. Rimbomba
nel petto come una bomba a mano e la fatica che si deve fare non è quella di
rimetterlo insieme, ma quella di risollevarlo.
L’orgoglio
non si spezza: quello è l’animo umano. L’orgoglio se ne sta sul fondo del pozzo
ad affondare, e più si aspetta più affonda, e più affonda più si fa difficile
tirarlo via.
E
no, l’orgoglio che cade non ha suono se non quando tocca il fondo. Non succede
in momenti epici, non è accompagnato da urla e grida e, per Dio, nemmeno da
lacrime.
John
Watson ne sapeva qualcosa.
La
seconda volta che l’orgoglio di John cadde con un tonfo, lui era seduto sul
letto del suo nuovo appartamento a fissare lo schermo della televisione spenta.
Niente momenti carichi di pathos e scene da protagonista melanconico. Solo un
sospiro e un leggero scuotere del capo.
John
si era sempre creduto un uomo onesto con gli altri, ma poco con se stesso. Tutte
le volte in cui doveva guardarsi dentro ed ammettere di avere bisogno di aiuto,
però, lo aveva fatto. A volte in ritardo, quello è vero – la prima volta che il
suo orgoglio cadde, aveva aspettato un anno prima di provare a tirarlo su di
nuovo – ma fortunatamente era anche uno che imparava dai propri errori.
Non
poteva continuare ad essere solo. Aveva respinto tutti coloro che avevano
tentato di aiutarlo e, nel suo rifiuto, aveva finito per punire persone che,
forse, non centravano niente. O non se lo meritavano.
Non
avrebbe perdonato Mycroft, no, la sua colpa era
legittima. Ma Lestrade... Greg... quale responsabilità poteva avere Greg in concreto? Forse era proprio come uno
di quei soldati che, a Norimberga, dicendo di non avere avuto altra possibilità
se non obbedire dicevano solo la verità.
Gli
mancava. Greg era diventato una sorta di strano amico, peculiare ma sincero, e
si erano riscoperti persone affini, in un qualche modo. Di sicuro potevano
parlare alle spalle di Sherlock Holmes con cognizione di causa, quando andavano
a bere una pinta al pub, e probabilmente erano gli unici a poterlo fare sul
serio. Gli unici che sarebbero stati in diritto di indossare una maglietta con
la scritta “ho frequentato Sherlock Holmes per più di 24 ore e sono
sopravvissuto”.
Sorrise
appena a quel pensiero, John, e questa volta non aspettò che l’orgoglio
marcisse, prima di cominciare ad issarlo. Raggiunse il cellulare e, scorrendo
la lista contatti, arrivò al nome di Lestrade.
Forse,
era il momento di chiedere scusa. Di perdonare.
Di
perdonare almeno Lestrade.
Fece
partire la chiamata.
•
4 Agosto ‘32
Il professor Schneider
mi ha finalmente spiegato a cosa fosse dovuta tutta quella segretezza e,
sinceramente, non ho parole. Non credevo che il Governo Inglese potesse
arrivare a tanto. Ho sentito che al progetto collaborano anche l’Irlanda del
Nord e la Scozia. Tutto il Regno è concentrato su questo progetto che, se
riesce, potrebbe riportare alla nazione i lustri di quando era un Impero temuto
e rispettato da mezzo mondo.
Non so se sono
tutti impazziti o se sono tutti dei geni. Papà dice sempre, però, che genio e follia
molto spesso collimano (e che mio padre ne era l’esempio vivente).
Papà. Con questo,
non potrò mantenere la promessa di prendermi cura di lui. Sarò troppo
impegnato, probabilmente, anche se sarò comunque a Londra, a portata di
telefonata.
Lui è fiero di me.
Lui è sempre fiero di me. Non ricordo ci sia stato un solo istante della mia
vita in cui lui non sia stati fiero di me, nonostante tutti i guai e i problemi
e le liti.
Spero solo che si
riprenda. Ho il brutto presentimento che si stia lasciando andare...
1.
Questi sono tutti dialoghi presi dalla 2x03, gli ultimi minuti, al cimitero.
Siccome non ho avuto il fegato di riascoltarli e tradurli ad orecchio, ho usato
la versione dei sottotitoli di Itasa. E non mi ha
fatto soffrire di meno.
2.
Nonostante l'età di Holmes e Watson sia ancora un argomento parecchio discusso,
alcune teorie danno Holmes nato nel 1854 e Watson nel 1852. Mi informa Wikipedia che le prime avventure, ovvero "Uno Studio
in Rosso" e "Il Segno dei Quattro", sono da datarsi a poco dopo
il 1880, anno in cui Watson è ancora in combattimento. Assumo per buon senso
(che potrebbe fare cilecca) che siano almeno due anni dopo. Ora, secondo i miei
calcoli, Holmes e Watson dovrebbero avere circa una trentina d'anni
(precisamente: 30 Watson e 28 Holmes).
Trasportata
ai giorni d'oggi ammetto di avere alzato l'età probabile di un paio d'anni a
tutti e due, portando Holmes a 30 e Watson a 32 (al primo incontro). È lo
stesso John a dire poi, in "The ReichenbachFall", che ha convissuto con Sherlock per 18 mesi (un
anno e mezzo); il che porta Sherlock a 31/32 anni e John a 33/34. Facendo un
paio di conti a ritroso dal 2011, Watson mi risulta nato nel 1977 e Holmes nel
1979.
Ricordate
che la matematica non è un'opinione ma io sono in grado di renderla tale ;D
3.
La Oyster Card è una carta ricaricabile che ti
permette di salire su ogni tipo di trasporto nell'area urbana di Londra. Ovvero
tram, metropolitana ed autobus.
4.
La prostituzione in Inghilterra non è vietata. Eh già. Lo è solo se esercitata
in luoghi pubblici e nelle aree urbane, secondo la legge inglese, il che rende
luoghi come L'Eden's Apple perfettamente legali.
5.
Non sarebbe questo il capitolo adatto a spiegare cosa sono i buchi neri di Kerr e l'orizzonte degli eventi (dato che potrebbero anche
essere indizi...) ma dato che esiste Wikipedia e di
sicuro non aggiornerò mai troppo presto, tanto vale iniziare il primo dei
grandi papiri di Fisica Relativistica che chi sarà abbastanza pazzo da
continuare a leggere si beccherà ogni tanto. Esatto, si parla di Teoria della
Relatività, dunque del caro zio Einstein (e seguaci).
Penso
che si sappia cos'è un buco nero, ma per chi non va molto d'accordo con la
Fisica, la spiegazione semplice è che un buco nero sia una stella morta ed
implosa la cui gravità, collassando, ha creato una singolarità in grado di
"risucchiare" tutto: masse, luce e addirittura tempo.
Detto
questo, molti scienziati hanno elaborato delle teorie per capire l'origine di
quella singolarità. La più papabile pare quella di Kerr,
che immagina il suo buco nero causato da più masse rotanti non cariche
elettricamente che creano una singolarità anulare. Banalizzando: immaginatevi
la vera nuziale di vostra madre in scala 20milioni-di-miliardi:1 che gira
talmente veloce da fare collassare la gravità.
Da
qui, l'orizzonte degli eventi è una porzione di spazio che circonda la
singolarità del buco nero in cui lo spazio-tempo viene piegato. Vi risparmerò i termini strettamente fisici, ma praticamente è
quel punto oltre il quale qualsiasi cosa cessa di esistere così com'è, perché
le leggi della Fisica non hanno più senso. (I buchi neri di Kerr
ne hanno 2 di orizzonti, tipo 8D).
Note:
Terzo capitolo. In questa seconda parte di Diary
si comincia a intravedere qualcosa della parte sci-fi della faccenda, che
comincerà ufficialmente nel prossimo capitolo. Leggo con piacere – in quelle
bellissime recensioni che ho ricevuto e che mi hanno commossa ç___ç – che
qualcuno si è già fatto un’idea... bene, bene. Dopotutto è un po’ cliché, no?
XD
Credo che questo capitolo sia un inno a Lestrade. Le sue parti sono, in realtà,
un’idea avuta per una oneshot a parte che non ho mai continuato a scrivere.
Erano inutilizzate e così mi sono detta “ok, facciamolo, usiamo questo Greg”. Prendetela come una
visione personale del mio Greg post-Reichenbach.
Nella parte scientifica
del diario penso di avere sparato un mare di cagate (chiedo scusa per il
francesismo ma è l’unica parola che rende davvero bene). Fatela passare per
libertà artistica da sci-fic futuristico, ok? ;D sto cercando di dare una base
fantascientifica ad una cosa ancora più assurda...
A chi vuole leggere,
infine, auguro buon “divertimento” e buona lettura ♥
Quando
gli comparve davanti, nella pioggerellina fine di un Luglio che non aveva
proprio la minima intenzione di comportarsi come un vero mese estivo, gli
sembrò di non vederlo da molto più di quelle tre schifose settimane appena
passate.
« John ».
« Greg ».
Lestrade
aveva le mani affondate nel trench nero e stropicciato, dal quale si
intravedevano i pantaloni neri a taglio classico tipici dei detective di
Scotland Yard. Non si vedevano dal funerale ma non si parlavano da molto prima,
loro due, praticamente da poche ore dopo la “caduta”.
E
non si erano lasciati da amici.
Quella
consapevolezza giaceva negli occhi di entrambi. Occhi vuoti ed in cerca di un motivo
per andare avanti quelli di John, occhi stanchi e cerchiati da occhiaie
profonde quelli di Greg. John si chiese perché sembrasse così stanco e sfibrato
– la pelle di un colorito ancora più pallido di come se lo ricordava – ma al
contempo decise che quella fosse una domanda come un’altra per rompere il
ghiaccio, e per cercare di riallacciare quei fili di un’amicizia sottile che si
era interrotta troppo presto (e troppo tragicamente).
« Non hai un
bell’aspetto » disse allora
John, le mani a sua volta infossate nelle tasche della propria giacca.
Greg
gli sorrise appena, un sorrisetto storto ma stanco, socchiudendo gli occhi in
un sospiro. « Non dormo molto
bene, ultimamente » gli rispose.
« Già, beh... siamo
in due » commentò John,
rispondendo il parte al sorriso dell’ispettore.
« Non avevo dubbi » rispose Greg. « Entriamo? » chiese
successivamente, indicando il pub davanti al quale si erano dati appuntamento
con un cenno del capo.
John
annuì ed entrò dopo di lui.
Si
accomodarono ad un tavolo d’angolo vicino alla finestra, un poco discostato dal
resto della sala; ora, alla luce calda delle lampade all’interno del bar, John
poteva vedere sul volto di Greg i segni di una stanchezza fisica erosiva.
Deglutendo,
decise di mettere subito le carte in tavola. Quando era nel torto non gli
piaceva tirarla troppo per le lunghe... e in quel caso si sentiva
maledettamente colpevole.
« Greg, volevo
scusarmi per come mi sono comportato l’ultima volta... » cominciò, ma
Lestrade lo interruppe alzando una mano fra loro.
« Non è necessario,
John. Sono io ad aver sbagliato. Stavo... » deglutì, sembrando per un attimo
indeciso, ma poi continuò: « ...stavo cercando di liberarmi da un senso di colpa
che probabilmente non mi abbandonerà mai » la frase sfumò fino a divenire un mormorio:
« ho scelto il
luogo ed il momento sbagliato ».
« No, no... » negò John
scuotendo il capo, ma non seppe cos’altro aggiungere. In realtà, una buona
parte di lui concordava con le parole di Lestrade: quello era stato davvero il luogo ed il momento
sbagliato, ma sentiva comunque che la sua reazione fosse stata troppo
eccessiva.
Glielo
disse. « La mia reazione è
stata eccessiva, in ogni caso. Mi dispiace ».
« Non ci pensare
nemmeno » rispose Lestrade
con un altro sorriso stanco, ma questa volta anche sfumato da una stilla di
contentezza.
Furono
interrotti dalla cameriera che arrivò a prendere le ordinazioni, sorridendo
cortese verso i due uomini.
« Per me un tè, per
favore » disse John,
osservando distrattamente la ragazza scrivere l’ordine sul taccuino.
« Whiskey » le disse invece
Greg: « doppio, con
ghiaccio ».
La
ragazza annuì e si diresse verso il bancone, mentre John spostò lo sguardo
sull’amico con un sopracciglio leggermente sollevato. « Dov’è finita la
tua solita pinta di birra? » domandò, solo in parte sorpreso di questo cambiamento.
Poteva
immaginarne il motivo. Era ancora troppo presto anche per Lestrade,
probabilmente.
Greg
face spallucce: « in questi ultimi
tempi mi ci vuole qualcosa di più forte » commentò: « e tu? Cosa vuol dire bere tè in un
pub alle dieci di sera? » domandò ironico.
John
gli copiò il gesto. « Diciamo che la
fase delle bevande fortemente alcoliche io l’ho già superata » disse
semplicemente, facendo intendere molte più cose di quelle che disse.
Sottointesi
che Greg afferrò prontamente, annuendo comprensivo.
Passarono
qualche istante di silenzio a guardarsi intorno, in cui la cameriera tornò con
le loro ordinazioni e con qualche ciotola di stuzzichini per accompagnare
l’alcool di Lestrade. Davanti a John furono invece posate una tazza, una teiera
piena di acqua ancora bollente e un contenitore rettangolare contenente diversi
filtri di tè di altrettanto diverse varietà. La ragazza gli chiese se volesse
il latte ma John negò educatamente, afferrando con le dita della sinistra una
famigliare bustina di Earl Grey.
A
riprendere il discorso, quando la ragazza se ne fu andata, fu Lestrade.
« Allora, ho
sentito che ti sei trasferito » disse causalmente.
John
annuì. In realtà, questo era anche una sorta di test per vedere quali argomenti
e quali ricordi era in grado di affrontare senza avere un crollo di qualche
tipo. A quanto pare, il ricordo del 221B di Baker Street che automaticamente
gli riaffiorò alla mente alla domanda di Greg causava solo una piccola puntura
al cuore, ma non era abbastanza doloroso da non parlarne.
« Sì. Non avevo la
forza di restare in Baker Street... e poi, Mycroft aveva comunque preso
determinati accordi con mrs. Hudson riguardo all’appartamento, mi sono sentito
di troppo » gli disse.
Greg
inarcò il sopracciglio ingollando un sorso di alcool. « Il signor Holmes?
Cosa c’entra con l’appartamento? » domandò, innocentemente.
Questo
fece un po’ più male. Ma strinse i denti.
Se
certe cose non le affrontava ora, con Lestrade di fronte a lui (probabilmente
uno dei pochi che avrebbe capito senza fare domande), non ci sarebbe riuscito
mai più.
« Pagavo solo una
metà dell’affitto, dopotutto » gli rispose, in un modo pensato apposta per evitare
di pronunciare il nome di Sherlock – perché aveva il sentore, John, che avrebbe
ferito entrambi.
Nell’attimo
di silenzio che Greg fece passare prima di replicare, John vi lesse un muto
ringraziamento. « Era comunque tuo
per metà. Che diritto aveva di cacciarti di casa? ».
« Oh, non lo ha
fatto » precisò John: « ero io che non
potevo più restare lì, per... beh... ovvi motivi » glissò, gli occhi puntati sul
filtro in infusione: « mi ha chiaramente
detto che potevo rimanere quanto volevo, ma ho rifiutato. Non so cosa ne farà
di tutta la roba rimasta là, ma sinceramente non mi importa. O meglio... non
voglio far sì che mi importi » si corresse poi, strizzando bene il filtro con il
cucchiaino e aggiungendo al tè limone e una punta zucchero.
« mh... » annuì Greg con un
mugugno, bevendo un altro sorso di whiskey: « e il lavoro? Hai già deciso cosa fare in
proposito? » domandò.
A
John sfuggì una risatina a metà fra l’amaro e l’ironico. « Hai davanti a te
il segretario personale del dottor Ivan Kolstoj, famigerato chirurgo plastico! » esclamò con falsa
allegria, aprendo le braccia con fare teatrale.
A
Greg sfuggì una risatina: « e che ne è del lavoro alla clinica? » domandò.
« Non posso
continuare a sostituire medici in maternità o turni scoperti per tutta la vita,
Greg » gli disse il
dottore: « Sarah è stata
meravigliosa, ma non posso pagarmi l’affitto in quel modo, ora che... beh, ora
che pago un prezzo pieno, anche se basso » spiegò, prima di continuare: « e purtroppo tutta
la faccenda di Richard Brook ha avuto le sue ripercussioni su di me, a
cominciare dal fatto che nessuna clinica vuole assumere il compagno di avventure/presunto
amante/blogger personale di un impostore, pedofilo e psicopatico. E ti ho
enunciato solo i modi migliori, con cui lo apostrofano » terminò, facendo
sfumare la voce in una vena dura di rabbia.
Greg
si espresse in uno dei suoi più efficienti sogghigni amari, come se sapesse.
Beh, sicuramente lo sapeva. Bevve il resto dell’alcool tutto in un sorso,
alzando poi la mano per ordinarne un altro.
A
John non sfuggì il gesto, ma non disse niente. Ci pensò lo stesso Greg, il
quale non aveva mancato di notare l’occhiata di John.
« Sono Detective
Constable, ora » rivelò, annuendo
in ringraziamento alla cameriera che gli mise davanti il secondo whiskey e
ghiaccio.1
John
si bloccò con la tazza a mezz’aria. « Ti hanno degradato? » domandò sorpreso.
Greg
annuì appena, scolandosi tutto in qualche sorso e sbattendo sul tavolo il
bicchiere vuoto.
« Hanno aperto
un’inchiesta » continuò poi con
gli occhi fissi sul ghiaccio tintinnante: « mi aspetto la sospensione dal servizio da
un giorno all’altro ».
Fu
solo con il silenzio che John poté accogliere quella notizia, e molto
probabilmente Lestrade non gliene fece una colpa. Semplicemente, non seppe cosa
dire. Era sempre stato abbastanza bravo quando c’era da consolare un amico,
sempre abbastanza empatico da poter mettersi nei panni dell’altro e trovare
parole da dire che non fossero “ti capisco” o “andrà tutto bene”.
John
odiava quelle due frasi e, non volendo che fossero rivolte e a lui, non le
usava mai. Una persona che non vive la stessa situazione non può capire, può
solo cercare di capire. E non voleva
dare false speranze come non desiderava ne fossero date a lui.
Dopotutto
era stato in guerra, lì le false speranze spesso uccidono.
Per
questo si fecero bastare il silenzio. Alzarono rispettivamente tazza e
bicchiere, facendoli tintinnare.
“Al
fallimento” pensò John senza parlare, ed era quasi del tutto sicuro che
Lestrade avesse brindato alla stessa cosa.
Alle
cose brutte della vita non servono parole.
• 6 Novembre ‘32
La cosa si è fatta
seria.
Alcuni funzionari
della Famiglia Reale hanno fatto firmare ad ognuno di noi documenti
confidenziali e altamente restrittivi della nostra libertà di parola. Avevano
lo stemma di Elisabetta II filigranato in ogni pagina. Ci hanno persino preso
le impronte digitali ed un campione di DNA. Non avevo mai assistito a un tale
sfoggio di onnipotenza.
In poche parole,
non possiamo parlare o scrivere o riportare in nessun tipo di supporto esterno
ciò che stiamo studiando. Non ho fatto parola di questo diario, su cui non
potrò scrivere niente se non frasi vaghe, ma cercherò comunque di lasciare una
traccia che non sia messa sotto chiave in qualche buco di Buckingham Palace.
Dubito che lo zio
sappia qualcosa di tutta questa storia.
• 7 Novembre ‘32
È arrivato del
materiale da Houston. Tutto, dallo scotch per imballaggio alla più piccola
molecola di carta che compone l’involucro, puzza di NASA.
L’unica cosa
certa, per ora, è che sono coinvolti anche gli Stati Uniti.
• 8 Novembre ’32
Ciò che sembrava
solo possibilmente probabile è diventato probabilmente possibile. Anche se
sembra un’utopia.
Non c’è da
meravigliarsi se notizie di questo tipo sono state secretate. AMS-02(2) ha superato le aspettative, così come lo hanno fatto
gli USA ricreando in laboratorio i quattro unici e utopici campioni di
Unoptanio(3) (così è stato chiamato) che da oggi sono diventati il
nostro pane quotidiano.
Devo saperne di
più.
• 9 Novembre ‘32
Il riassunto di
tutto, è che gli americani hanno fatto un casino. E la Regina ha deciso di
prendersi la patata bollente e di cercare di trasformarla alchemicamente in un
diamante.
AMS-02 ha trovato,
in diversi raggi cosmici, particelle di una materia a noi sconosciuta. L’anno
analizzata fino a trovare il modo di riprodurla. Sembrava irriproducibile al di
fuori del vuoto cosmico, ma a quanto pare ci sono riusciti.
Unoptanio. La
materia di cui sono fatte le stelle.
Il progetto che ne
è derivato, però, è ancora più incredibile. Credere che da questi piccoli sassi
luccicanti possa uscirne una cosa simile al bastone di Chronos(4) mi sembra ridicolo. Senza pensare che non è il
materiale originale, ma solo una replica, e che nel processo di trasformazione
potrebbero andare storte un numero esponenziale di cose.
Mi scoppia la
testa, avrei bisogno di una pausa. Avrei bisogno di papà.
Sono quattro
giorni che non torno a casa, e qui dentro non ho nessun mezzo di comunicazione
disponibile se non l’interfono (ovviamente).
Sarà in
pensiero...
Seduto
alla scrivania del suo nuovo posto di lavoro, con in mano un mezzo sandwich
sbocconcellato e con una lattina aperta di coca cola sul ripiano in legno, John
chiuse il diario con uno schiocco secco e si chiese per quale motivo doveva
passare l’ora di pausa pranzo leggendo certe stronzate.
Unoptanio?
Raggi cosmici? Complotti dei Windsor? Nel 1932?!
Più
continuava a leggere, più gli sembrava un falso d’autore. O un romanzo. O la
cosa più strana che gli fosse mai capitata fra le mani. Tuttavia il giovane
notaio con cui aveva parlato al telefono aveva confermato più volte che non
poteva essere un falso, che il diario proveniva davvero dal 1930, che era stato in bella vista nei loro archivi per
tutto quel tempo, intoccato, intoccabile per contratto... decisamente optava
per il romanzo. Un’opera di fantasia.
Buttò
senza grazia il diario sul tavolo, azzannando il panino con fare seccato. Nel
silenzio della sala d’attesa deserta, però, la voglia di continuare a leggere,
la curiosità di arrivare in fondo, era tanta.
In
un secondo di ripensamento, squadrò il computer in stand-by dietro alla lattina
di coca.
C’era
un modo per assicurarsene. Una semplice ricerca su Google. Un paio di parole ed
un click, niente di più.
« John Watson, sei
un cretino. Un cretino ed un pazzo credulone » brontolò a denti stretti,
appoggiando il sandwich nella relativa carta e riavviando il sistema.
Aprì
Internet, digitò su Google, cliccò invio. Aprì il primo articolo. Gli si chiuse
lo stomaco dopo le prime quattro righe.
Lo
Spettrometro AMS-02 era stato lanciato in orbita il 29 aprile del 2011.
Praticamente due mesi prima.
Sconvolto
e con la voglia di convincersi che fosse solo un sogno, fissò stupefatto il
diario.
Adesso
qualcuno doveva spiegargli come faceva uno del 1932 a sapere di un lancio in
orbita avvenuto quasi ottant’anni più tardi.
John
non sapeva ancora cosa esattamente cercasse da Greg.
Non
una spalla su cui piangere. Non un compagno di sventure. Non consigli. Forse un
amico, ma non ne era ancora del tutto sicuro.
D’altro
canto, cosa cercasse Greg da uno come lui era un mistero. Fatto sta che
continuarono a vedersi ogni sera.
Dopo
la prima settimana, non ebbero nemmeno più bisogno di confermare la presenza
all’altro. Andavano semplicemente al solito pub alla solita ora.
Era
lunedì quando John dovette aspettare un po’ più del solito, fuori dal locale.
In quello che sanciva il primo giorno dell’ultima settimana di luglio le piogge
erano sparite e l’aria si era riscaldata tutto d’un tratto. La sera, di
conseguenza, era mite e John limitò il proprio abbigliamento ad una camicia e
ad un giubbotto leggero.
Quando
Lestrade arrivò, in jeans e felpa e scarpe da ginnastica, il sopracciglio del
medico scattò in alto da solo.
« Ti sei dato al
casual? » scherzò John,
salutandolo con un cenno della mano.
Greg
sorrise in modo strano. « Ti va di
camminare, questa sera? » evitò di
rispondergli.
A
John non faceva differenza, in realtà. E poi, dopotutto, la temperatura era
gradevole. « Va bene. C’è un
motivo particolare? » domandò
incuriosito.
Lestrade
fece spallucce, negando con il capo: « non mi va di stare seduto » gli disse, ma
puzzava di scusa lontano un miglio.
Watson
lo intuì, e Greg lo sapeva, ma John capì anche che Lestrade voleva che lo
capisse, dunque non fece domande; si limitò ad affiancarlo e a seguirlo.
Camminarono
in silenzio attraverso le arterie principali, oltrepassando negozi e pub,
strade colme di persone e turisti che approfittavano del bel tempo per godersi
uno scorcio di Londra in notturna. Seguì Lestrade fino ad una stradina
secondaria semi-vuota e desolata che scendeva dolcemente verso il Tamigi, sulla
riva del quale Greg lo guidò. Erano in una zona abbastanza centrale di Londra
ma, nonostante questo, loro due erano gli unici presenti.
Greg
sospirò pesantemente, sedendosi con un balzo sul muretto che delimitava il
marciapiede dalle acque del fiume, accomodandosi con le gambe a penzoloni a tre
metri sopra l’acqua calma e scura.
John
rimase a guardarlo per un istante e solo poi, sospirando a sua volta, si appoggiò
con i gomiti al muretto con lo sguardo fisso verso il fiume. « Allora? » chiese.
« Sono stato
sospeso dal servizio » si confidò
Lestrade: « con effetto
immediato e fino al termine dell’inchiesta » aggiunse, probabilmente citando a memoria
ciò che gli aveva detto il suo superiore qualche ora prima.
Le
formule di benservito sono uguali in qualsiasi corpo armato.
« Mi dispiace » gli disse.
« Beh, era
prevedibile » commentò l’altro.
Frugò nelle tasche della felpa fino ad estrarne un pacchetto stropicciato di
sigarette ed un accendino rosso di plastica. Osservò il pacchetto per qualche
istante come se fosse la fonte di tutti i mali del mondo, poi sbuffò. « Avevo fatto un
fioretto, Cristo santo... » borbottò, facendo uscire una sigaretta con due
colpetti e prendendola fra le labbra in un movimento che aveva la fluidità
dell’abitudine.5
Watson
capì improvvisamente che tipo di serata fosse quella. Sorrise amaramente dicendosi
che, forse, una cosa del genere serviva anche a lui. Che forse, così, sarebbe
riuscito ad uscire dal tunnel e a ricominciare la propria vita senza sentirsi
una pezza da piede per tutto il tempo.
Salì
sul muretto anche lui, sedendosi a gambe incrociate accanto a Lestrade. Gli
tese la mano sinistra, poi, indicando in silenzio pacchetto di sigarette.
Greg
sogghignò, facendo uscire una sigaretta con altri due colpetti e porgendola a
John. « Non ti facevo
tipo da nicotina » osservò.
« Queste sono la
moneta dei soldati » gli rispose il
medico: « non ha senso
portarsi dei soldi nel deserto, no? L’esercito pensa a tutte le tue necessità.
Anche alle tue mutande ».
Greg
ridacchiò, facendo scattare l’accendino e accendendosi la sigaretta.
« Ce le giocavamo a
poker. Queste, e le foto delle fidanzate. Tempo un mese e diventavano come le
riviste porno: passavano tra le mani di tutti » disse, allungandosi verso
l’accendino con cui Greg gli accese la sigaretta.
Rimasero
immersi nel silenzio per alcuni minuti, sbuffando volute di fumo con solo lo
scrosciare del fiume a fare loro compagnia.
Fu
Greg a riprendere parola. « Ci saresti tornato? » domandò.
Watson
capì di avere raggiunto il punto di non ritorno. Da quel momento, qualsiasi
cosa che sarebbe uscita dalle labbra di Lestrade lo avrebbe gettato o
nell’apatia totale o nella disperazione composta con cui aveva affrontato tutti
i giorni fino a quel momento. Non gli piaceva la prima, ma temeva di più la
seconda.
« Dove? » chiese quindi,
stando al gioco. Ormai era in ballo, tanto valeva ballare.
« In guerra. Dopo
Sherlock » disse l’altro.
Il
sentire il suo nome gli strinse il
cuore come se lo stessero stritolando in una morsa. Deglutì una boccata di fumo
e angoscia.
« No. Non me ne
sarei mai andato, è diverso » gli rispose.
Lestrade
lo osservò prendendo un’altra boccata. « Non lo avresti conosciuto, però ».
« E non sarebbe
stato meglio? » ribatté subito
John: « da un inferno ad
un altro. L’unica differenza è che qui non posso uccidere nessuno » disse amaramente.
Lo
sguardo del poliziotto lo trafisse come se stesse cercando di capire cosa
pensasse realmente. « Non lo pensi
davvero, giusto? » chiese poi.
John
gettò il mozzicone della sigaretta nel fiume. « No. No, col cazzo che lo penso
davvero. Però sarebbe più facile ».
Sherlock
era diventato il suo migliore amico, la sua ancora di salvezza, il suo bastone
e la sua intera vita. Gli aveva voluto bene e aveva voluto proteggerlo in un
modo che non credeva nemmeno possibile... ma Sherlock non gli aveva dato
l’occasione. Sherlock non gli aveva mai concesso niente.
Fortunatamente,
Lestrade lo anticipò prima che si lanciasse in imprecazioni indegne di un
inglese.
« Ho dato alla Met
vent’anni di servizio. L’ho sudato, il posto di Detective Inspector. Ho scelto
il lavoro anche quando sapevo di stare perdendo mia moglie. Ma non me ne
importerebbe niente, se quel figlio di puttana non si fosse buttato da quel
tetto, se non fosse morto da codardo. Avrei accettato qualsiasi morte, ma non
un suicidio » quasi ringhiò
quelle parole: « così lui è
scappato e noi siamo quelli che devono far ricrescere l’erba dove lui ha
buttato il sale. Ed è notoriamente impossibile » commentò, prima di aggiungere: « questa cosa mi fa
incazzare ».
John
lo osservò scagliare il mozzicone della sigaretta il più lontano possibile, e
ne seguì la scintilla arancione finché non scomparve inghiottita dall’acqua.
« Non sono in molti
quelli che ci credono, John » aggiunse Lestrade.
Watson
osservò l’acqua con un groppo fastidioso in gola. « L’importante è
che qualcuno ci sia » mormorò poi.
E
almeno quello lo disse con il cuore.
• 12 Gennaio ‘33
Papà è stato
ricoverato. Mi hanno telefonato dall’ospedale questa mattina.
Infarto, dicono.
Sinceramente non ci credo.
Quando si è
svegliato mi ha sorriso e mi ha detto di dormire, perché gli sembravo stanco.
Parlava lui che aveva appena rischiato di morire.
Per un momento ci
ho pensato, a come sarebbe senza di lui... non mi è piaciuto. Dopo mio padre,
non possono perdere anche lui. Non posso.
Ho avuto un’idea
di cui non vado fiero.
Era
stato dato l’ordine “solo armi e munizioni” dunque aveva dovuto abbandonare le
attrezzature, portando con sé solo lo zaino medico. Teneva saldo fra le mani il
suo SA80, carico fino a scoppiare del terzo caricatore di munizioni, e sentiva
il famigliare peso della sua Browning nel cinturone della divisa. Il sudore gli
incollava il tessuto della mimetica alla pelle, il cinturino dell’elmetto aveva
scavato una striscia infiammata e dolorosa sulla pelle della gola e gli anfibi
avevano ridotto i suoi piedi ad un ammasso dolorante di vesciche. Non sentiva
più i muscoli delle gambe a forza di appostamenti e corse, gli era sparita la
voce quando aveva dovuto urlare gli ordini sopra i colpi nemici e il suo
orecchio sinistro fischiava da quando una granata gli era esplosa troppo vicino.
Si
era aspettato la sabbia, ma si trovò in una città. L’atmosfera era grigia e
pesante, l’aria umida ed irrespirabile, e quelli che erano i palazzi di quel
posto erano ormai diroccati e si riversavano in strada in detriti e macerie.
Del fumo nero si alzava dagli edifici verso un cielo plumbeo coperto di nubi
scure.
Non sembrava affatto l’Afghanistan.
Smise
di camminare quando arrivò ad un incrocio scoperto, inginocchiandosi e
segnalando agli uomini dietro di lui di fare lo stesso. Il Sergente Hayden gli
si avvicino carponi.
« Cosa facciamo,
Capitano? ».
John
si appoggiò con le spalle al muro a cui erano accostati, sbirciando l’incrocio;
sembrava vuoto, ma in guerra niente sembra mai quello che è.
Si
prese qualche secondo per pensare. « Quanti uomini abbiamo? ».
« Sette, signore » gli rispose
Hayden: « il secondo
plotone è rimasto bloccato ad Aldersgate Street, sono stati separati dai
talebani e non riescono a riunire le file. I bastardi si sono appostati sui
trespoli e gli pisciano in testa pallottole ad ogni minimo movimento » lo informò il
Sergente, asciugandosi la fronte con la manica della divisa.
« Accidenti... » borbottò John,
sospirando piano. « Va bene,
aggiriamolo. Tu prendi Talbott e Mellish e torna indietro aggirandolo da dietro
gli edifici, poi manda Cunanan e Aisworth a sinistra mentre io e Langley
andremo a destra. Corse brevi e spazi chiusi, strisciate se necessario.
Uccidete a vista » disse; il
sergente annuì e fece qualche segno al resto della squadra, partendo a piedi
con i due soldati. Lui e gli altri tre si guardarono per un momento e, al cenno
di John, partirono in direzioni diverse.
Come
si era immaginato, l’incrocio era in realtà invaso di persone incappucciate di
nero. Cominciarono a sparargli addosso non appena si mossero e Langley, dietro
di lui, fu ucciso prima di poter trovare riparo. John sentiva le pallottole
fischiargli di fianco alle orecchie e sfiorargli la stoffa della divisa.
Spinto
dai colpi dovette infilarsi in fretta in un edificio, attraversando di corsa il
piano terra ed uscendo da una finestra sul retro. Percorse raso terra il muro
per cercare di arrivare al punto di ritrovo, ma quando sbucò dall’angolo i
colpi erano cessati ed il silenzio era diventato surreale.
Alzò
il volto verso il cielo e, quando lo fece, un’unica figura ammantata di nero lo
osservava dall’altro di un tetto.
Si
tolse l’elmetto con uno strattone, in preda al panico.
« SHERLOCK! » gridò, facendogli
segno di fare attenzione.
C’erano
i talebani con i kalašnikov sui tetti tutto intorno, gli avrebbero sparato.
Sarebbe morto. Oppure lo avrebbero catturato e torturato. Cristo santo, erano
in guerra, dov’era la sua divisa?! Perché aveva sempre la fissazione di
mettersi quel cappotto con quella maledetta sciarpa?! « SHERLOCK! » gridò di nuovo,
ignorando il fatto di essere un bersaglio facile e soprattutto di essere senza
elmetto.
Ma
Sherlock non si muoveva, non faceva niente. Semplicemente, lo stava a guardare.
Semplicemente,
mimò una frase con le labbra.
Addio, John.
Semplicemente,
si buttò giù.
Watson
si svegliò nel mezzo della notte con il respiro affannato ed il cuore
galoppante nel petto, tanto che lo sentiva battere persino sulle tempie. Gocce
di sudore gli scendevano sul collo, la maglietta appiccicata al petto e le
gambe intrappolate in un groviglio di lenzuola. Osservò con occhi spalancati il
soffitto, cercando di capire dove fosse, e cosa fosse successo.
Quando
si rese conto di avere avuto un incubo, chiuse gli occhi e rilassò i muscoli
tesi della schiena. Si portò le mani agli occhi, togliendosi il sudore e
passandosele fra i corti capelli umidi.
Rimpianse
i tempi in cui a torturarlo era solo la guerra.
• 01 Febbraio ‘33
Primi esperimenti
su uno dei campioni di Unoptanio, diviso in piccole parti da pochissimi
milligrammi ciascuna.
Sottoposizione a
pressione di 100GPa: inefficace, nessun mutamento.(5)
Esposizione a
diversi componenti e reagenti chimici: tutti inefficaci, nessun mutamento.
Esposizione Raggi
gamma a bassa frequenza: lieve reazione di assorbimento.
• 02 Febbraio ‘33
L’esposizione a
raggi gamma ad alta frequenza ha portato al surriscaldamento del campione a
temperature superiori a quelle dell’ipotetica fusione di un rettore nucleare.
Pochissimi milligrammi di Unoptanio hanno fuso un supporto di fullerite(6) e finché la reazione non si è fermata ha trapassato
due piani e creato un buco sul pavimento di quasi 20m.
Non esiste sulla
Terra materiale in grado di reggere quella temperatura. 2/3 della struttura e
dei laboratori sono inutilizzabili perché il calore ha sciolto le attrezzature.
È impressionante.
Di
solito non ci prestava molta attenzione.
Mormorii,
sussurri. A volte sguardi. Parole scambiate sottovoce fra due donna alla cassa
del Tesco, o in coda alle Poste.
Lo
guardavano e confabulavano. Non era difficile capire cosa dicessero – ci
sarebbe riuscito anche senza sentirle, o leggere il labiale.
“Ti
dico che è lui. L’amico di quello che si è buttato dal Barts”.
“Ma
no, ti dico. Se è intelligente, quello ha già cambiato città”.
“Eppure
ci somiglia. Com’è che si chiamava, già?”.
Come
un attore dei tempi andati, ritiratosi a vita privata dopo una carriera di alti
e bassi e che tutti smettono di riconoscere.
Di
solito li ignorava. Faceva finta di controllare l’importo delle bollette da
pagare o continuava a insacchettare la verdura. Faceva orecchie da mercante e
si legava stretta la benda sugli occhi.
Aveva
fatto tanto per loro, Sherlock. Tanto. Eppure lo stavano dimenticando, lasciato
indietro come qualcosa di strano per cui non vale la pena di prendersela troppo
a cuore.
Sherlock
Holmes stava diventato solo un altro dei nomi dimenticati di Londra.
• 09 Gennaio ‘34
Non mi ricordo chi
ha detto che, se un coniuge muore, anche l’altro lo seguirà presto.
Prima gli avrei
chiesto su quali basi scientifiche basasse la sua teoria. Adesso mi limiterei a
dargli ragione.
Mio padre odiava
le cravatte, eppure fu lui ad insegnarmi come si annodano.
Papà giurò di non
usare mai più un’arma da fuoco se non in casi di estrema necessità, quando
nacqui, eppure mi ricordo ancora il giorno in cui mi fece sedere con lui al
tavolo della cucina e mi insegnò a smontare la sua Browning.
Così contradditori
ma così uguali. Eppure diversissimi. Avrei detto “complementari”, ma a loro non
piaceva quel termine. “Troppo totalizzante” aveva detto papà un giorno: “io e
tuo padre non abbiamo ancora smesso di imparare l’uno dall’altro, non ci
completiamo per niente”.
Non eravamo una
famiglia normale (non lo siamo mai stati). Ognuno faceva del suo meglio senza
averne la minima idea. Eppure...
Ora che sono
seduto sul loro letto vuoto e freddo, rifatto ed intatto da ormai due
settimane, le immagini del funerale di oggi pomeriggio mi sembrano solo un
brutto sogno. Mi sorprendo a pensare che fra poco mi sveglierò e correrò in
braccio a papà mentre mio padre mi accarezzerà i capelli con quel suo modo
impacciato e mi chiederà di raccontargli l’incubo che mi ha svegliato. Riusciva
sempre a capirlo.
Ma io non ho più
otto anni ed in cucina, in mezzo all’odore di tè e formaldeide, non ci sarà
nessuno. Solo un appartamento vuoto e l’eco di due persone che si sono trovate
e mai più lasciate a far risuonare il silenzio.
Pensare che,
finalmente, si sono ritrovati di nuovo non mi aiuta.
Papà è morto... e
io non riesco a smettere di piangere.
« Non importa più a
nessuno, Greg » disse John
portandosi il collo della bottiglia alle labbra e bevendo un breve sorso di
birra: « ed è passato
appena un mese. È uno schifo » sancì.
Lestrade
appoggiò la sua, vuota per tre quarti, sul muretto al suo fianco. « Importa a te... » rispose,
passandosi distrattamente il pollice della destra sulle labbra per ripulirle
dalla bevanda: « ...e a me » aggiunse.
« Sì, già... bella
conquista » ironizzò John,
che quella sera aveva il dente avvelenato.
Una volta per uno,
amico
sembrò esprimere lo sguardo di Lestrade, che lo osservò con un sorrisetto
spento ma comprensivo.
Nemmeno
quella era stata una serata da pub. Greg glielo aveva letto negli occhi,
probabilmente, che non aveva assolutamente voglia di stare in mezzo al
chiacchiericcio divertito degli avventori del solito bar. Nel dirigersi al loro
posto “privato” in riva al fiume, si erano fermati in un negozio aperto 24 ore
su 24 e avevano preso un cartone di birre.
Niente
tè, quella sera: Lestrade aveva capito anche quello.
Ormai,
quella riva del Tamigi sembrava essere diventata il loro personale muro del
pianto senza pianto. Un luogo in cui sfogarsi, patire in silenzio il peso delle
loro colpe invisibili e fumare una sigaretta che non sarebbe mai stata né
salutare, né tanto meno gradevole.
Sigaretta
che Lestrade estrasse dal solito pacchetto stropicciato – ma nuovo ogni tre
giorni circa – e che gli tese. John la accettò senza tanti complimenti,
inclinandosi verso di lui quando il poliziotto accese la sua e poi la propria.
Rimasero
a fumare e bere birra in silenzio per qualche minuto, osservando le luci di
Londra spezzarsi sulla superficie mossa dell’acqua.
« C’è mai stato
qualcosa fra voi? ».
La
domanda di Lestrade gli fece inalare del fumo, e John tossì. « Cosa?! » domandò di riflesso,
la voce roca.
« Sì, sai...
qualcosa di tenero. Fra te e Sherlock » domandò di nuovo Greg, fingendo di
guardare il Tamigi quando invece lo osservava con la coda dell’occhio.
Watson
si riprese, bevendo un po’ di birra prima di riportarsi nervosamente la sigaretta
alle labbra. « No » grugnì in tono
seccato, soffiando fuori la nuova boccata di fumo.
L’altro
era totalmente pacato e a suo agio e la cosa a John non piaceva. Soprattutto se
si parlava di un argomento spinoso o, comunque, imbarazzante.
Soprattutto
se si parlava di un argomento spinoso o imbarazzante e di Sherlock Holmes. Nella stessa frase.
« Ti sarebbe
piaciuto? » domandò poi.
« Greg, perché
quest’interrogatorio? » sbottò allora
Watson, il tono duro.
Lestrade
non si scompose: « perché lo abbiamo
pensato tutti, prima o dopo » si giustificò solamente.
« No » ribatté allora
John, aggrottando le sopracciglia verso l’acqua: « si può sapere, di grazia, perché
tutto il mondo è fermamente convinto che due uomini che convivono debbano per
forza nascondere una sorta di torbida relazione amorosa? L’ho trattato in un
modo diverso da qualsiasi altro, forse?! » chiese retoricamente, sapendo già che
Greg gli avrebbe risposto.
Quel
“nuovo” Greg cominciava a non piacergli.
« Non eri tu. Era
lui » non mancò infatti
di precisargli.
D’improvviso,
la rabbia del medico si placò. « In che senso? » domandò, girando lo sguardo verso il
poliziotto.
« Ti guardava in
modo diverso dagli altri. Non c’è un motivo complicato, solo... questo: ti
guardava in modo diverso » spiegò.
L’ex-soldato
rimase in silenzio per alcuni istanti, lo sguardo stranito. « Spiegazione molto
logica, Lestrade » lo sfotté,
tornando ad aspirare fumo dalla sigaretta.
Greg
ridacchiò appena. « A volte non serve
nessuna logica » ribatté, muovendo
controluce la bottiglia vuota di birra. « Le abbiamo finite? » domandò poi,
appoggiandola insieme alle altre vuote.
John
annuì distrattamente.
« Andiamo a
comprarne delle altre ».
John
annuì di nuovo.
• 10 Maggio ‘34
Crollo nervoso. Mi
hanno ricoverato. Mi tengono sotto tranquillanti, ma non hanno effetto. Servirà
qualcosa di più forte.
Kerr si sbagliava.
Einstein si sbagliava. L’Orizzonte può essere superato. Lo so. So anche come.
Devo solo provare di avere ragione.
E se potessi
tornare indietro? Tornare indietro ed impedire tutto?
Se lo potessi...
cambiare?
Il
minimarket dove avevano comprato le birre non era lontano dalla strada
principale, ma Greg prese un giro lungo che conosceva solamente lui e che
passava in una zona costernata di vicoli stretti e bui.
John
aveva la vaga idea del perché lo avesse fatto; ormai aveva imparato ad
osservare – forse complice il suo ex-coinquilino e migliore amico suicida – e
aveva notato come Lestrade tendesse ad allungare la strada da fare a piedi
quando era seccato, o aveva troppi pensieri per la testa. Come se camminare lo
aiutasse a metabolizzarli più in fretta, a processarli nel giusto ordine.
Prendeva tempo.
Camminarono
in silenzio, mani nelle tasche dei pantaloni, per più di venti minuti nel
seguire complicati intrecci di sensi unici e strettoie. Ormai John non aveva la
più pallida idea di dove fossero, ma alla sua mancanza geografica sopperiva
l’Ispettore, in pieno possesso del suo orientamento nonostante le 4 birre una
dietro l’altra.
Watson
avrebbe potuto dirgli in ogni momento che non sembrava per niente in forma, ma
riteneva che per una persona nella sua situazione fosse una cosa normale. E,
dopotutto, nemmeno lui doveva sembrare così pieno di salute considerando quanto
poco dormiva, quindi lasciò perdere qualsiasi discorso volto in quella
direzione.
Semplicemente,
continuarono a camminare.
Ormai
John si era concentrato sull’andamento regolare dei suoi piedi – destro,
sinistro, destro, sinistro, destro, sinistro... – e aveva persino allineato
inconsapevolmente il passo con Lestrade quando fu proprio l’altro, di fianco a
lui, a fermarsi d’improvviso.
John
lo superò di due passi, prima di fermarsi e voltarsi indietro.
« Greg? ».
« Guarda » gli disse quello,
occhi bene aperti puntati fissi su di un punto in alto poco più avanti.
John
si voltò, alzando finalmente lo sguardo dai propri piedi, e quando i suoi occhi
incontrarono la parete del vicolo di fronte si sgranarono appena nella
sorpresa.
Non
era un murales, nemmeno un disegno di sorta. Come scritta non era affatto elaborata
ma nei tratti precisi e nelle curve dolci delle lettere si poteva notare una
mano abituata ad usare bombolette spray. Il muro era spoglio e vuoto tutto
attorno e proprio quel particolare contribuiva a dare l’idea che fosse una
sorta di segno di ribellione.
Alla
luce soffusa e bianca di un lampione, spiccava la scritta in giallo perlato “I
BELIEVE IN SHERLOCK HOLMES”.
Non
era impossibile, si disse John. Sherlock aveva la rete di senzatetto e di
“irregolari” che gli fornivano informazioni e notizie più velocemente di quanto
lui stesso fosse stato in grado di raccoglierle. Non era strano pensare che
qualcuno di loro, magari persino il ragazzo a cui avevano chiesto informazioni
su quella stessa vernice durante il caso della Mafia Cinese, potesse aver fatto
quella scritta per testimoniare una speranza, o solamente una voce nel
dissenso.
Non
poté non riservarsi un lieve sorriso che subito sparì. Ma esistette per quel
secondo, per quel momento in cui aveva avuto la forza di piegare le labbra in
qualcosa che non lasciava l’amaro in bocca.
Pensò
anche che Lestrade lo avesse portato lì di proposito – quasi sicuramente era
così – ma non lo disse.
« Grazie » fu l’unica cosa
che disse, gli occhi catturati da quell’immagine tutt’altro che insolita ma
stranamente confortante.
Lestrade gli passò affianco posandogli una mano sulla spalla, prima di
superarlo e continuare per la sua strada.
• 19 Settembre ‘35
La teoria ha dato
frutti insperati. Schneider è convinto che cambierà la Storia. A me non
importa.
Non è LA Storia
che voglio cambiare, ma UNA storia. Punto.
Tornerò indietro e
farò in modo che mio padre non muoia. Da lì in poi, tutto tornerà come prima.
Tutta
l’attrezzatura è quasi pronta. Tempo un mese e cominceremo con le
sperimentazioni.
• 20 Ottobre ‘35
Il campo magnetico
funziona, l’energia dell’Unoptanio rimane stabile e circoscritta. Serve molta
energia per creare la singolarità, ma il Governo continua ad assicurarci che
non è un problema. Meglio per me.
Ho nascosto un
pezzo di Unoptanio nell’orologio con il giglio fiorentino che mi ha lasciato
papà prima di morire. Non so quanto in fretta il materiale si degradi o decada,
ma nel caso che lo faccia troppo in fretta, quel frammento salvato mi potrà
servire per continuare le sperimentazioni su scala ridotta.
L’Orizzonte si
presenta come invisibile, eppure c’è. Rifrange spettri di colori e di onde
invisibili all’occhio. Alcune onde elettriche ad alta frequenza ed intensità
sembrano, però, riuscire a passargli attraverso.
È un problema di
spazio. Come stipare 5GB di roba in un hard disk che ne tiene appena 3.
• 25 Dicembre ’35
Ricevuto il
consenso alla sperimentazione umana.
La
prima sera che Lestrade non si fece vedere, John pensò solamente che gli fosse
capitato un contrattempo. Si prese un tè da solo, guardando la partita di rugby
dalla TV del locale, e quanto fu palese che Greg non lo avrebbe raggiunto, pagò
e tornò a casa.
La
seconda sera, John cominciò a chiedersi se avesse fatto qualcosa per
indispettire l’altro. Ma era un pensiero difficile da farsi, considerando la
persona in oggetto: Lestrade era munito di una pazienza quasi da sant’uomo ed
era rinomato per non portare rancore. Probabilmente aveva avuto un problema
grave, magari aveva ricevuto qualche novità dal lavoro. Non se la prese.
La
terza sera, quello indispettito era John. Si aspettava per lo meno un
messaggio, se non una telefonata, o comunque un motivo per il quale,
improvvisamente, Lestrade aveva interrotto quella loro consuetudine. Non che
lui ne avesse disperatamente bisogno, così come pensava che Lestrade, a sua
volta, non ne fosse dipendente... ma era un metodo semplice per non rintanarsi
in angoli scuri della mente riservati a tetti e a suicidi, a cieli grigi e
disperazione e lapidi nere con lettere d’oro, a salti nel vuoto e al ricordo di
un addio dal suono metallico.
Le
due ore che passava al pub con Lestrade non erano essenziali, così come non
erano indispensabili; erano solo un punto a dividere due capoversi, una pausa
fra due giorni uno uguale all’altro. Qualcosa per cui valeva la pena alzarsi
dopo il suono della sveglia.
Aspettò
mezz’ora all’esterno del locale poi decise di prendere l’iniziativa. Oltre
quella coltre di seccatura e delusione che lo aveva rivestito negli ultimi
minuti, in realtà una leggera vena di preoccupazione si annidava infida.
Si
chiese mentalmente, prima di partire in direzione dell’appartamento di
Lestrade, cosa ci guadagnasse a fare sempre il buon samaritano.
La
risposta la sapeva già ed era sempre quella: “niente”.
Gregory
Lestrade abitava in una zona tranquilla di Bloomsbury. Il suo appartamento era
al terzo piano di un palazzo di quattro e, dalla strada, si potevano vedere le
finestre illuminate da una fievole luce giallognola.
Per
lo meno era in casa.
John
annuì brevemente a se stesso, attraversando la strada e suonando al citofono.
Attese per qualche istante senza che nessuno gli rispondesse poi, testardo e
ormai deciso ad andare fino in fondo, citofonò al portiere.
Si
fece aprire la porta con una scusa qualsiasi e, sempre con quella scusa, riuscì
ad ottenere il pas-par-tout dell’appartamento di Lestrade che la portineria era
obbligata ad avere.
Salì
a passo marziale i tre piani di scale, aiutandosi con la ringhiera solo verso
la fine. Quando arrivò davanti alla porta numero 33, ben chiusa come si era
immaginato, si diede una calmata.
Bussò,
prima. Due colpi secchi che echeggiarono sul pianerottolo. Provò anche a
chiamare il suo nome prima di colpire di nuovo la porta, ma dall’altra parte
non ci fu risposta.
Nell’indecisione
se entrare o meno con la chiave di riserva, alla fine si decise a farlo. Girò
perfettamente nella toppa e gli diede libero accesso all’appartamento.
Entrando,
si chiuse la porta alle spalle. L’ingresso dava su un brevissimo corridoio con
un attaccapanni ed un mobile pieno di chiavi e buste chiuse (bollette) per poi
aprirsi sul salotto. La luce che si poteva vedere dalla strada era quella di
una lampada a piedistallo nell’angolo della stanza e che dava all’atmosfera
un’aria di intimità famigliare.
« Greg! » chiamò di nuovo
il medico una volta messo piede in salotto e lì fermatosi. Poteva vedere senza
difficoltà il piccolo corridoio delle camere oltre la cucina, separata dal
salotto tramite un ripiano in marmo sovrastato da una credenza di legno, ma le
porte erano tutte chiuse e regnava il silenzio.
Forse
non era davvero in casa. Ma dove altro poteva essere? Era quasi divorziato,
senza figli, sospeso dal servizio... Lestrade stesso gli aveva detto che le
loro uscite erano la sua unica occasione di uscire di casa per più dell’ora
necessaria per andare a comprare beni di prima necessità al minimarket poco
lontano.
No,
doveva essere necessariamente in casa. Al massimo, John avrebbe potuto
giustificare quella sua intrusione per pura preoccupazione. Cosa che, a parte
la vena vendicativa e seccata che si portava dietro dal pub, non era del tutto
errata.
Entrò
nell’altro corridoio ed aprì la prima porta sulla sinistra, di fronte alla
cucina. Il bagno. La luce era spenta ma si poteva capire benissimo che la
stanza fosse vuota.
Aprì
la seconda porta, adocchiando questa volta la camera da letto. Luce spenta,
camera in perfetto ordine. Sembrava quasi che nessuno ci dormisse da parecchio
tempo, e John non faticava ad immaginarsi che potesse essere realmente così.
La
terza porta che aprì, di fronte alla camera da letto, era una stanza dai mobili
coperti ed odorante di vernice e stucco. La luce era spenta e le imposte
chiuse, ma grazie alla fievole luce del corridoio Watson poté notare il colore
chiaro dell prove di colore sul muro, compresi alcuni disegni di personaggi
Disney. La camera dei bambini. John trattenne il respiro alla solitudine che
quella stanza decorata a metà ispirava, e richiuse la porta con una sgradevole
sensazione in gola.
L’ultima
porta rimasta era quella in fondo al corridoio. Solo quando vi si avvicinò John
si accorse che filtrava luce dalla fessura fra il legno ed il pavimento e,
convinto di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo, bussò. Nessuna
risposta. Aprì la porta.
Non
seppe esattamente come elencare ciò che vide, ma le sue labbra si divisero
autonomamente in un moto di profonda sorpresa.
Era
lo studio ma non vi era traccia di Greg. Una scrivania era posizionata
esattamente nel centro della stanza, dietro di essa torreggiava una libreria a
quattro settori stracolma di libri, alcuni dei quali erano impilati ai piedi
del mobile o aperti in mezzo alla stanza. La parete verso cui la scrivania era
girata invece, quella che John stava fissando con incredulità, era spoglia di mobili
ma ingombra di tutt’altro.
Una
cartina politica dell’Europa era stata posizionata al centro del muro,
attaccata con dei chiodi nei punti in cui il nastro adesivo aveva ceduto, e
tutt’intorno si snodava una ragnatela di fotografie, articoli di giornale,
rapporti di polizia – alcuni dei quali battuti a macchina e altri in francese,
tedesco, russo, italiano... –, post-it gialli scarabocchiati a mano con una
penna o un pennarello, alcune frasi scritte direttamente sui pochi centimetri
di muro spoglio che sbucavano ogni tanto, cerchi rossi e punti di domanda
attorno ad alcune città, alcune parole, alcuni volti su fotografie sgranate
prese da circuiti di sorveglianza. Numeri e date e coordinate. Linee rossee nere e verdi che collegavano punti di cui
non capiva nemmeno la logica. Cinque fili di lana da uncinetto di colore
diverso (giallo, verde, rosso, blu, bianco) partivano da Londra e si perdevano
in altri Paesi, alcuni sparivano, altri terminavano aggrovigliati sul
pavimento. L’intero diorama prendeva tutta la parete e, nella parte destra,
sforava in quella adiacente.
« Cosa
accidenti...? »
« È il mio caso
Rebecca ».7
La
voce di Lestrade lo colse di sorpresa e non poté evitarsi di sobbalzare,
girandosi verso l’inizio del corridoio. Greg era in piedi alla luce del salotto
e sembrava l’ombra di se stesso.
Fece
per parlare, ma l’altro lo anticipò: « ero a fumare sul retro, il portiere mi ha
detto di averti fatto entrare » gli disse.
Watson
annuì appena. « Ero preoccupato,
e a ragione, vedo. Ti sei visto allo specchio ultimamente? » domandò, cercando
di ritrovare quel minimo di irritabilità che aveva prima di mettere piede in
quella casa, ma inutilmente. La vista della fissazione
di Lestrade, perché di questo si trattava, gli aveva cancellato qualsiasi protesta
avesse in mente di rivolgergli.
Greg
alzò lo sguardo su di lui quando entrò nella luce più forte dello studio,
mostrando a John due profonde occhiaie violacee e occhi rossi colmi di
stanchezza e disperazione. La pelle del volto era pallida, dall’aspetto quasi
malaticcio, e poteva giurare che avesse perso peso.
« Non ti vedo bene,
Greg » gli disse Watson,
osservandolo con occhio medico.
Lestrade
soffiò fuori una risatina amara, dirigendosi verso la scrivania ed
abbandonandosi sulla poltrona dietro di essa. « Tanto non dormo comunque » fu l’unica
spiegazione che diede, prima di ricominciare: « mi dispiace di non averti detto
nulla, John, ma ho perso la cognizione del tempo, compreso l’alternarsi del
giorno e della notte » si giustificò.
Watson
sospirò: « sei fortunato che
non sono uno psichiatra, altrimenti ti direi che soffri di disturbo
ossessivo-compulsivo unito a manie di vario tipo » ironizzò senza ridere, tornando a
guardare la parete che Lestrade aveva tappezzato.
« Me lo hai detto
comunque... » ribatté il
poliziotto alla battuta, osservando a sua volta l’intrico di informazioni
davanti a sé. « Ogni poliziotto
ha un caso Rebecca » riprese poi il
discorso: « un caso irrisolto
che diventa la fissazione dell’intera vita. Il mio caso Rebecca si chiama
“Sherlock Holmes” ».
John
aggrottò le sopracciglia, fissandolo accigliato da sopra la spalla.
« Sto cercando un
fantasma, credo... non lo so, sinceramente. Lui è morto, lo so questo. Ma ci
sono persone coinvolte, figure quasi invisibili, che appena dopo l’accaduto se
la sono data a gambe. Ho provato a seguirle, a leggere gli indizi... dai
giornali, Internet, voci di corridoio, favori da colleghi all’estero. Cerco
segni ovunque. Qualsiasi cosa attiri la mia attenzione ci metto la data e la
attacco a quel muro. Mi sembra che sia tutto codificato ma, allo stesso tempo,
ho la ferma convinzione di stare dando la caccia a nient’altro che nebbia. Mi
sembra che sia semplicemente un modo per smettere di credere che sia morto
davvero, che sia morto in quel modo, che sia stato davvero così egoista da suicidarsi. Li ho persi ma ancora continuo
a cercarli. Sto... non so, lottando contro i mulini a vento. Questo dovrebbe
fare di me Don Chisciotte della Mancia » disse, massaggiandosi gli occhi con la
mano destra.
John
spostò di nuovo lo sguardo dall’amico al diorama, stringendo le labbra in un
pensiero che si riservò di dire ad alta voce. Lui aveva rinunciato a credere
Sherlock morto, in cuor suo – se lo sentiva nelle ossa – ma non voleva
diventare l’alter ego di Sancio Panza. Quella era davvero una caccia ai
fantasmi ed era qualcosa a cui John non aveva nessuna intenzione di prendere
parte.
« Alzati da quella
scrivania, devi riposare » gli disse invece
John, chiudendo fuori dalla sua vista quella sorta di follia.
Lestrade
scosse la testa sconsolato: « no, non riuscirei comunque a– ».
« Non ti sto
parlando da amico, Greg, ti sto parlando da medico. Non farmi fare la parte del
soldato » lo avvertì John,
fermo e serio nelle sue intenzioni.
Lestrade
lo guardò negli occhi e, vinto forse dalla stanchezza (o dal corso degli
eventi), sospirò e si alzò dalla scrivania, anticipando John fuori dalla
stanza.
Watson
lanciò un’ultima occhiata alla parete prima di spegnere la luce e, scuotendo
rassegnato il capo, si chiuse la porta alle spalle.
• 28 Gennaio ‘36
James McCarthy
(USA) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Registrata variazione
temporale minima nel momento di attivazione del modello BetaTest01 oscillante
fra i 2 e i 5 minuti. Si ritiene che la variazione sia avvenuta solo in
laboratorio (il campo magnetico restrittivo regge al 95%). Upgrade del sistema.
• 15 Febbraio ‘36
Linda Hill (UK) –
esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Resti gelatinosi dal DNA
classificabile come umano ritrovati nel punto di contatto con l’Orizzonte. Il
modello BT02 si mostra stabile ma si registra una variazione di tempo
apprezzabile fra l’1 e i 3 minuti. Upgrade del sistema.
• 01 Marzo ‘36
Michael Lang
(Germania) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Modello BT03
inefficace.
Il problema è la
compressione del passaggio. E non sappiamo ancora se il campo elettromagnetico
che trattiene il balzo temporale sia innocuo per il viaggiatore, o se le
coordinate inserite nell’aprire la singolarità siano davvero utili per un
atterraggio in un punto specifico dello spazio. La mia formula per il balzo
temporale potrebbe non essere esatta, o non portare i risultati sperati, ma non
lo sapremo mai finché qualcuno non arriverà vivo “dall’altra parte”.
Non ho più voglia
di mandare della gente a morire.
Il prossimo sarò
io.
• 29 Aprile ‘36
Il professor
Schneider ha cercato di farmi desistere, così come tutti gli altri studiosi.
Non mi importa.
Ormai la mia vita
gira intorno a questo e raramente riesco a sedermi in silenzio e ad immaginarmi
fuori dal laboratorio. I miei genitori sono morti, non ho più qualcosa di
concreto a cui tornare.
Voglio salvarli.
Io li salverò.
Tornerò indietro e
cambierò tutto.
Se tutto va come
ho calcolato, dovrei riuscire a tornare nel 2030 in tempo per salvare mio
padre. Non so ancora se formerò un paradosso o meno, potrebbe anche essere...
troppe variabili, troppi “se” e troppi “ma”.
1.
Nella polizia inglese "Constable" è il grado più basso dell'arma
(come in Italia lo è il grado di agente semplice); in poche parole, è il grado
di partenza da cui chiunque comincia la propria carriera. Il grado che ha
Lestrade ora, ovvero "Detective Constable", non è diverso e non ha
più privilegi rispetto a quello di un normale Constable, sta solo ad indicare
la sua appartenenza al reparto investigativo.
I
gradi, in ordine crescente, sarebbero i seguenti:
In
altre parole, Lestrade è stato degradato di due gradi.
2.
Lo Spettrometro AMS-02 (Alpha Magnetic
Spectrometer) è una sorta di spettrometro di massa (un macchinario che
individua e quantifica le masse degli atomi) utile ad identificare, nello
spazio, particelle di antimateria (antiparticelle) e altri elementi contenuti
nei raggi cosmici. A loro volta, i raggi cosmici sono raggi di energia emessi -
si pensa - dai nuclei delle stelle.
È
stato lanciato in orbita, a 300 km dalla Terra, il 29 aprile 2011.
3.
L'Unoptanio (o Unottanio) è un elemento inesistente nella realtà che viene
citato in un paio di film (Avatar di
James Cameron e The Core di John
Amiel). Deriva dalla parola "Unobtainium", un gioco di parole
americano che mescola unobteinable
("inottenibile") con il suffisso -ium,
tipico inglese per diversi elementi chimici. Viene utilizzata per indicare
elementi con caratteristiche talmente ideali da essere inesistenti (ad esempio:
in Avatar l'Unoptanio è un superconduttore a temperatura ambiente, mentre in
The Core è un materiale che aumenta di densità all'aumentare della pressione e
della temperatura, con il quale viene costruita una nave in grado di
raggiungere il nucleo del pianeta).
La
traduzione migliore in italiano per mantenere il gioco di parole sarebbe
"Inottenibilicio", ma è talmente ridicola che capisco, per una volta,
la scelta cinematografica di tradurla ad
cazzium con "Unoptanio".
4.
Chronos è, nella mitologia greca, il padrone del Tempo.
5.
Il GPa - alias Gigapascal - è l'unità di misura della pressione per il Sistema
Internazionale. Se pensate che a 10GPa il carbonio diventa diamante, potete
farvi un'idea della cosa.
6.
La Fullerite è un materiale superduro creato artificialmente. Tecnicamente, è
uno dei materiali più solidi e resistenti del pianeta.
7.
Battuta presa dal film "Millennium: Uomini che Odiano le Donne" (The Woman With the Dragon Tattoo).