Clockwork

di Yoko Hogawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** If you believe or not ***
Capitolo 2: *** Diary I ***
Capitolo 3: *** Diary II ***



Capitolo 1
*** If you believe or not ***


Desclaimer: Tutto ciò non mi appartiene, ma è stato inventato da sir Doyle e successivamente scritturato da Moffat e Gatiss. Non scrivo a pagamento (anche se farebbe comodo XD).

 

Note: E con questo la mia sanità mentale va in ferie.

I credits dell’idea, dell’ispirazione e della follia che mi ha assalito vanno a Steins;Gate, anime splendido. Guardatelo perché merita. Chi l’ha visto si sarà già fatto un’idea 8D

Ci sarà un po’ di Fisica varia, soprattutto paradossi e multiverso, ma farò del mio meglio per spiegare tutto ;D viva le note a fondo pagina.

Gli avvertimenti... beh: Death!Fic, post-Reichenbach, GreatReturn, What if?, Missing Moments, Canon!Sherlock, ACDTribute, Johnlock, Husbandlock e Parentlock tutto insieme in un modo un po’ contorto.

I primi capitoli sono un po’ una noia, ma dopo dovrebbe movimentarsi.

 

E adesso mi fermo XD grazie per aver sopportato le terrificanti note del male.

A chi vorrà, ovviamente, buona lettura

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If you believe or not

 

 

 

 

 

« Addio, John ».

Non è certo di cosa sia quel rumore.

Un respiro che si smorza. Un cuore che si spezza, forse? Il sibilo dell’aria ad un’accelerazione di 9,8 m/s2.

Il suo impatto contro l’asfalto, le sue ossa che si rompono, il suo cranio che si spacca. Un battito di ciglia.

Il rumore del tempo che si ferma. Il boato dell’unico ticchettio d’orologio che ha spezzato il silenzio nel momento in cui l’ha visto precipitare.

Una piccola, semplice, goccia di pioggia nel sangue.

Non lo sa, John, cosa sia quel rumore. John non sa più niente.

John non sa il suo nome, nonostante lo stia pronunciando, sussurrandolo.

« Sherlock... »

Incredulo.

« Sherlock ».

Confuso, rifiuta la realtà. Ciò che gli occhi vedono. Ciò che le orecchie sentono. Ciò che le mani toccano.

I suoi occhi azzurri fissi nel vuoto. I rivoli scarlatti di sangue sulla pelle pallida – ancora più pallida.

L’assenza di battito nel suo polso che tiene fra le dita, nonostante le persone intorno a lui cerchino di impedirgli di toccarlo – lo sorreggono, lo confortano, lo trattengono. Ombre, solo ombre. Non hanno volto, non hanno voce.

John non sa cos’è Dio. Non lo sapeva più da tanto, tanto tempo. Eppure ne pronuncia il nome.

« Oh, Gesù... »

Implorando.

« Dio, no ».

John non sa più niente, ma sa che tra poco ricorderà e vorrà dimenticare ciò che sa.

Teme che non gli sarà permesso.

È l’abitudine della guerra a tenerlo in piedi, l’orgoglio di non mostrarsi ferito, debole, confuso, preda di tutto, padrone di niente. Osserva da lontano una barella sparire dentro al St. Barts e sente solo silenzio – dentro, fuori, ovunque, intorno, ovunque.

John non sa più niente.

 

 

 

 

Era circondato da gente che, per un motivo o per l’altro, non si meritava di essere lì.

Le sedie in acciaio del corridoio dell’obitorio erano scomode come si ricordava. L’unico modo per sedersi con l’illusione di non sentire la schiena piegarsi a fisarmonica era quello di divaricare le ginocchia e scivolare in basso con il bacino. Il dolore lo si sente dopo, al momento di alzarsi in piedi, ma lui prevedeva comunque che non lo avrebbe fatto molto presto.

La gente che non si meritava di essere lì sarebbe entrata prima di lui, lasciandolo su quel pidocchioso tentativo di sedia ad aspettare.

Il corridoio era immerso in un completo silenzio. Bianco, ovattato, dolorante. Un silenzio d’ospedale. Anche quello era uguale ovunque.

L’ultima volta che si era seduto su sedie uguali a quelle, in file identiche a quelle e attaccate con viti grosse a muri che non avevano niente da invidiare a quelli di altri ospedali, aveva Harry a sinistra e sua madre a destra. Portava ancora i pantaloncini con le bretelle e i capelli a scodella. Aveva gli occhi grandi e non capiva perché papà non usciva dalla porta verde: voleva davvero andare a casa ed era stanco e bagnato.

Anche in quel momento John era stanco. E bagnato. Ma non aveva gli occhi grandi e il taglio a scodella; i suoi occhi erano sottili e fissi in un punto vuoto davanti a sé, apparentemente fra il muro e la porta con sopra scritto “Obitorio – vietato l’ingresso alle persone non autorizzate”.

Cambiavano anche le persone.

Alla sua sinistra, Mycroft. In piedi, avvolto da uno dei suoi stomachevoli e costosissimi completi di alta sartoria, ombrello a fianco della gamba con la punta a terra, un cappotto nero a doppio petto chiuso nonostante il riscaldamento acceso. Espressione immobile e imperturbata.

Alla sua destra, seduto un paio di sgabelli più in là, Lestrade. L’impermeabile sgualcito sovrastava uno dei suoi soliti abiti da lavoro neri a taglio classico, non troppo costosi ma non di seconda mano. Agitato. Muoveva ritmicamente il piede appoggiato al ginocchio dell’altra gamba e le labbra erano strette nell’espressione che la gente fa quando è a disagio.

Il traditore e il codardo. Chi lo aveva venduto e chi non gli aveva creduto abbastanza. Il fratello e l’ispettore.

Che diritto avevano, loro, di vederlo prima di lui? Quale diritto? Perché contavano sempre e solo i pezzi di carta, in quelle occasioni?

Mycroft aveva il diritto d’entrare prima di lui perché era un parente. Il parente. Sarebbe rimasto in piedi a guardarlo senza dire niente, senza l’ombra di un emozione se non il rammarico, due minuti in totale forse meno, e poi se ne sarebbe andato con quel suo fastidioso passo cadenzato frammezzato dal ticchettio metallico della punta dell’ombrello sulle piastrelle.

Poi sarebbe entrato Lestrade, perché c’era un’indagine in corso. Perché Sherlock era un fuggitivo, dopotutto. Perché, come al solito, Scotland Yard doveva chiarire una faccenda in cui non c’era più niente da chiarire. Greg sarebbe entrato, lo avrebbe riconosciuto, avrebbe sentito recitare a memoria causa della morte e dichiarazione di decesso, avrebbe preso atto dell’ovvio tralasciando tutto l’importante. Cinque minuti, e poi sarebbe uscito di nuovo e se ne sarebbe andato, forse fermandosi a guardare lui, forse ricordandogli che aveva preso a pugni il Soprintendente Capo. Più probabilmente avrebbe avuto pena di lui e l’avrebbe lasciato stare.

E dopo, solo dopo, sarebbe toccato a lui, entrare a salutare Sherlock.

Lui che aveva creduto fino alla fine – e ancora credeva. Lui che aveva corso con lui, che lo aveva seguito in manette, che gli aveva tenuto la mano, che aveva convissuto con il suo genio e la sua eccentricità, che lo aveva visto vacillare e rialzarsi in piedi, che aveva avuto il coraggio di sopportare e l’onore di essergli amico.

Lui che sapeva come amava prendere il tè ed il caffè, che aveva imparato a decifrare il suo umore dal pezzo suonato con il violino alle tre di notte, che gli aveva impedito di riprendere a fumare, che lo aveva accompagnato ovunque volesse portarlo con sé.

Lui che aveva riavuto la vita dalla persona che se l’era tolta, lo avrebbe visto solo dopo. Perché lui non era niente.

Per gli occhi della legge, gli amici non sono mai niente.

Non era giusto.

Voleva essere egoista, per una volta. Ammettere a se stesso che la persona più meritevole di entrare per primo, lì dentro, era lui, John Watson. Perché loro erano diventati Watson-e-Holmes. Sherlock-e-John. E non era giusto che quella congiunzione che univa i loro nomi non potesse unire anche le loro volontà.

Non era giusto che gente che lo aveva venduto al nemico, gente che lo aveva lasciato da solo nel momento del bisogno, lo vedesse prima di lui, che non lo aveva tradito mai e mai lo aveva abbandonato.

Non riusciva a capire dove fosse la giustizia, in tutto quello.

Strinse le arcate dentarie l’una contro l’altra talmente forte che sentì i muscoli della mascella tremare e il labbro superiore scoprire i denti. Una rabbia imponente e profonda annebbiargli la vista come, forse, avrebbero dovuto fare le lacrime che non aveva ancora versato. Strinse l’una nell’altra le mani che teneva unite in grembo, facendo sbiancare le nocche e tremare i nervi sotto la pelle. Imponendosi una calma che non aveva, un contegno che non desiderava.

Ma c’era il suo migliore amico, di là, e stava dormendo, per una volta. Non poteva svegliarlo.

La porta si aprì senza nessuno scricchiolino, solo il rumore della maniglia a riempire l’aria statica e silenziosa. John non si era chiesto che coraggio avesse avuto Molly a fare quell’autopsia, ma quando vide i suoi occhi castani rossi e gonfi e residui di lacrime lungo le guance capì che ovunque fosse stato quel coraggio, lo aveva ormai perso.

« Signor Holmes... » chiamò piano, la voce bassa e rotta, scostandosi dalla porta per lasciare lo spazio a Mycroft.

Molly e John si guardarono, per un istante. Disperazione nel vuoto. E non era John, quello disperato.

La patologa distolse subito lo sguardo, come bruciata. John si chiese cosa c’era di così brutto, sporco, rotto nei suoi occhi da poter fare quell’effetto. Ma smise di farsi quelle domande inutili nel momento in cui, con due passi e senza emettere alcun suono, Mycroft Holmes si prese il suo diritto di vedere per primo il fratello.

Il silenzio calò di nuovo nel corridoio.

Lestrade si mosse a disagio sulla sedia, appoggiando ora entrambi i piedi a terra. Si girò in sua direzione. John non lo calcolò minimamente.

Prese fiato, Greg. Parlò. Forse tranquillizzato dal fatto che fossero soli, che si conoscessero, che fossero amici.

« John... » cominciò, indeciso.

Watson non si mosse di un millimetro.

No, Greg, pensò. No.

« John, senti, io volevo... Dio, non lo so cosa volevo fare » disse, sospirando e passandosi le mani nei capelli brizzolati.

Non dire quella parola.

« Forse volevo... »

Non osare dire quella parola.

« ...scusarmi ».

Il pugno di John scattò così veloce e potente, che quando colpì con un rumore sordo di metallo e ossa la sedia alla sua destra l’ispettore sobbalzò. John continuava a guardare avanti, il volto deformato in un’espressione di pura ira, il braccio teso verso l’esterno con il pugno chiuso quasi incassato nel poggia schiena del seggiolino, tanta era stata la forza di quel colpo. Lestrade tacque.

La porta si aprì di nuovo.

Due minuti esatti, come John aveva immaginato. Mycroft uscì dall’obitorio, lanciò un’occhiata sia a lui che a Lestrade (John non la restituì) prima di andarsene – passi cadenzati frammezzati dal ticchettio in metallo della punta dell’ombrello sulle piastrelle.

« Ispettore, prego... » sussurrò Molly, indicandogli la porta.

Greg lo guardò ancora un istante, prima di alzarsi e seguire la patologa in sala autopsie. John rimase solo.

Non ne aveva voglia. Sapeva cosa c’era oltre quella porta, cosa avrebbe trovato, cosa avrebbe visto.

Ne aveva visti tanti. Con o senza divisa, con o senza sangue, con o senza parti del corpo. Troppi. Era stato l’unico del corso a non svenire alla sua prima autopsia, l’unico dei commilitoni ad avere il fegato di chiudere decine di cadaveri al giorno in sacchi di plastica nera ed ammucchiarli in una tenda raffreddata a malapena, l’unico a sopportare la puzza della decomposizione per riportare in patria qualcosa che la famiglia di quei poveracci avrebbe potuto seppellire ed onorare.

Sapeva cosa c’era oltre quella porta. Ma questa volta, questa immagine, non voleva proprio vederla.

Non aspettò i cinque minuti di Lestrade. Il suo turno non arrivò mai.

Semplicemente si alzò e, con lo sguardo basso, si mise le mani in tasca e camminò lungo in corridoio in direzione dell’uscita.

Non ce la faceva, a dirgli addio. Non ora.

Non ancora.

 

 

Sherlock non credeva in Dio. In realtà, Sherlock non credeva in niente che non fosse se stesso. Era agnostico (o forse era solo uno scienziato, chissà).

A John piaceva pensare che fosse per quello, che il funerale si svolse con rito civile. Non perché era un suicida.2 Non perché era un impostore.

Lo celebrarono al mausoleo di Highgate, un manipolo di persone vestite di nero sotto ad ombrelli neri. Un funzionario incaricato dal Governo recitò le frasi di rito, dando alla bara di legno nero tutti gli onori che poteva conferirgli – pochi, troppo pochi rispetto a quelli che meritava davvero – e li accompagnò a passo lento fino al luogo scelto per seppellirlo: un pezzo di giardino dall’erba verde, un po’ isolato, ai piedi di una collinetta, invisibile dal sentiero, introvabile se non si cerca e se non si sa che è lì.

Da solo, praticamente. Odiò Mycroft anche per questo.

Erano poco più di dieci e John sentiva che solo Molly, Mike Stamford e mrs. Hudson avevano davvero il diritto di essere lì. Non Mycroft, che teneva l’ombrello calato sugli occhi. Non Lestrade, che si mordeva il labbro con gli occhi lucidi e non sapeva se guardare la tomba, la lapide o l’uomo che parlava. Non gli esigui agenti di Scotland Yard che John sapeva di aver già visto in giro per la centrale. Voi lo avete tradito, lo avete insultato, gli avete dato dell’assassino infanticida e rapitore, CHE DIRITTO AVETE?! Avrebbe voluto urlare, ma era una persona di rispetto e il suo migliore amico stava dormendo, davanti a lui, in quella bara. Non poteva svegliarlo.

Gli addetti delle Pompe Funebri sistemarono la bara sulla fossa, pronti a calarla. Il bouquet di gigli bianchi stava cominciando a disfarsi a causa della pioggia, che gonfiava d’acqua la spugna per fiori che teneva insieme la composizione, ammorbidendola e facendole perdere presa. Non se ne accorse nessuno, solo John, e ovviamente solo a lui suscitò un incredibile squallore.

John non aveva ancora pianto. Non aveva ancora urlato, non si era arrabbiato, non aveva ancora buttato a terra niente o rotto qualcosa con l’intenzione di farlo. Non pianse nemmeno ai piedi della fossa, con la lapide di marmo nero e lettere dorate così nuova e così sgradita alla vista, mentre mrs. Hudson singhiozzava ancorata al suo braccio sinistro e Molly si nascondeva il volto fra le mani a pochi passi sulla sua destra. Nemmeno quando il funzionario chiese se ci fosse qualcuno intenzionato a dire due parole, ad accompagnare con qualche aneddoto la discesa della salma, e le teste di tutti si girarono in sua direzione, in attesa.

John li ignorò. Non era la vedova di nessuno, tanto meno di Sherlock Holmes.

Non era ancora il momento.

Poggiò la mano destra, quella libera, su quella di mrs. Hudson appoggiata al proprio braccio. Le lasciò l’ombrello con un lieve sorriso. Poi, voltando le spalle sia alla bara che a tutti gli altri, si incamminò sotto la pioggia verso l’uscita del cimitero, il passo lento ma il portamento da soldato.

Non era ancora pronto a dirgli addio. Non ora.

Non ancora.

 

 

Aveva aiutato mrs. Hudson a riporre tutte le sue cose negli scatoloni.

Il microscopio e varie lenti e vetrini. Tutta l’attrezzatura scientifica che infestava la cucina negli angoli più inimmaginabili. I becher, le provette, i fornelletti ad alcool, i composti chimici (quelli non pericolosi, gli altri erano stati buttati). Il set di bisturi. Il seghetto per ossa. La sua tazza bianca a righe nere.

Aveva trovato un sacchetto di denti nel frigorifero. Una lingua sotto formalina in mezzo alle salamoie e alla verdura sottaceto. Cartellini con la sua calligrafia sottile caduti da vasi che erano stati ripuliti e riutilizzati. Un suo capello, riccio e nero, incastrato nell’angolo del tavolo.

Mrs. Hudson aveva pianto, ad un certo punto. Lui no. Era ancora troppo presto.

Lo aveva perso – no, se ne era andato – da poco più di quarantotto ore e non capiva, non percepiva ancora la sua assenza. Gli sembrava ancora che dovesse tornare. Che sarebbe piombato in cucina da un momento all’altro in uno svolazzare di cappotto scuro blaterando riguardo ad un caso, o ad un esperimento, o a quanto sono interessanti da osservare gli esseri umani in fila alle Poste. Come se lui non fosse uno di loro – non lo era mai stato ma a quanto pare riusciva a morire come loro, a spezzarsi come loro, proprio come loro (proprio come lui).

Aveva chiuso negli scatoloni tutto il mondo che pian piano lui e Sherlock avevano costruito intorno a loro.

Tutti i suoi libri, i suoi resoconti, i suoi studi, le sue relazioni. Il coltello a serramanico, il tabellone del Cluedo. I quadri con le farfalle e con altri insetti in bella vista sul caminetto. Tolse la batteria al suo laptop e lo chiuse nella relativa valigetta nera, mettendolo nell’armadio della sua stanza insieme al pigiama e alla vestaglia da camera. Insieme al violino, rinchiuso con cura nella sua custodia. Un paio di cartine antitarme ed due giri di chiave.

Scotland Yard aveva ancora il cappotto, e il cellulare. I vestiti che aveva indosso, probabilmente, erano stati buttati. Mycroft gli aveva fatto avere l’orologio da polso, il doppione delle chiavi dell’appartamento, il portafogli. Gli effetti personali che Sherlock aveva con sé e che l’obitorio aveva restituito al parente più stretto.

Mycroft aveva anche precisato che non voleva nulla, della roba di Sherlock, e che sarebbe dovuta rimanere al 221B. Aveva parlato anche dell’appartamento stesso, con mrs. Hudson, ma John aveva smesso di ascoltare. Gli faceva troppa rabbia, che il fratello maggiore non volesse nulla della sua roba, ma al contempo provava soddisfazione al pensiero che le sue mani grassocce e colpevoli non avrebbero toccato niente di suo.

Quando finirono, l’appartamento non aveva più nulla di loro. Sulle mensole erano rimaste solo le poche cose di John, quei pezzi di vita che era così abituato a raccogliere ed impacchettare e che erano sempre quelli, e solo in quel momento il medico si rese conto che tutto ciò che aveva avuto fino a quel momento faceva parte di Sherlock, e che Sherlock non c’era più.

Seduto sulla propria poltrona, un paio di jeans e una camicia a scozzese, a piedi scalzi guardò la poltrona di fronte a sé e si rese conto di quanto fosse vuota. Come l’appartamento. Come tutto il resto.

Dunque, John fece l’unica cosa che era capace di fare quando la vita gli voltava le spalle: le valigie.

Impacchettò le sue cose nei due borsoni che da sempre avevano rappresentato tutto ciò che di sé portava con sé. Svuotò l’armadio, disfò il letto, smontò le tende e le piegò per riporle nella cassapanca. Coprì con lenzuola bianche ogni mobile del salotto e della cucina. Si assicurò di aver chiuso il gas e staccato le prese di tutti gli elettrodomestici. Spense la fiamma pilota della caldaia nell’antibagno.

Non toccò la camera di Sherlock, che rimase esattamente così com’era. Lasciò di sé solo la propria tazza, il maglioncino a righe bianche e blu scuro che non sarebbe più stato in grado di indossare e che non meritava di essere dimenticato sul fondo di un cassetto, e il bastone. Non gli sarebbe servito, lo sapeva: non aveva intenzione di sprecare ciò che Sherlock gli aveva regalato, permettendo alla propria mente di soggiogarlo ancora con il dolore. Non era così debole, vivendo con Sherlock aveva capito anche quello.

La decisione di lasciare anche le sue dogtag fu la più sofferta. Era legato a quegli oggetti da un filo spinato a doppia corda, con un’anima ferita che aveva trovato nell’esercito l’unica ragione di vita, attraverso gli occhi di un uomo che non vede due piastrine con nome, cognome, credo religioso e gruppo sanguigno, ma che piuttosto sente il tremore residuo dei colpi di mortaio e l’odore di sangue e sudore. Ma ciò che stringeva fra le mani non erano altro che ricordi pieni di incubi, e Sherlock era riuscito a togliere anche quelli. Sherlock aveva preso tutto ciò che John reputava immutabile e ne aveva fatto degli aeroplanini di carta.

Fu appoggiando le dogtag sul cuscino di Holmes che lasciò il 221B di Baker Street. Finse che fosse una decisione temporanea, ma sapeva benissimo che non ci sarebbe tornato mai più, che non ne avrebbe trovato mai il coraggio, o la forza necessari. Non senza di lui.

Mrs. Hudson capì.

 

 

« Ci sono cose che avrebbe voluto dire... ma che non ha detto? ».

John guardò Ella e gli mancò la voce.

«» sussurrò.

La pioggia contro i vetri dello studio era l’unica cosa che rompeva il silenzio.

« Le dica ora ».

« No » si rifiutò, la voce che faticava ancora ad uscire.

Si prese un istante per ritrovarla. « Mi dispiace, non ci riesco ».

Scosse il capo e abbassò lo sguardo, sconfitto.

 

 

Aveva rifiutato l’offerta di Mycroft di farsi firmare un assegno per avere un appartamento in una zona decente di Londra, considerando il suo recente trasloco in un ostello – situazione temporanea finché non avesse trovato qualcosa che poteva permettersi. Quando gli aveva chiesto, John, da dove scaturiva tutto quell’altruismo, l’altro aveva sollevato il labbro in quella sua espressione di sufficienza da padrone dell’universo.

« Lei è stato un fedele compagno per mio fratello, dottore. Sarei dispiaciuto se non dovesse continuare la sua vita quantomeno agevolmente » gli aveva risposto.

John aveva fatto fatica a trattenersi dall’esplicare, nel più vivido e diretto turpiloquio da bassifondi militari, dove poteva infilarsi l’assegno, magari arrotolato intorno alla punta del suo prezioso ombrello. Si limitò a dirgli che conosceva un paio di figli di buona donna che potevano pagare bene, per il culo di un signorotto arrogante d’alta borghesia come lui. E non necessariamente evitò di usare il suddetto turpiloquio da bassifondi militari.

Inoltre, John non sapeva quale coraggio aveva avuto Greg ad offrirgli la seconda camera del suo appartamento – ormai vuoto dato che la moglie lo aveva definitivamente lasciato per un insegnante di ginnastica – ma lo sguardo con cui John lo squadrò convinse l’ispettore a salutarlo e a fare dietrofront ancora prima che potesse esprimersi (e no, non gli avrebbe risparmiato niente).

Riusciva a capire l’urgenza che aveva Greg di vederlo, di chiedergli perdono; davvero ci riusciva. I sensi di colpa uscivano dallo Yarder come ectoplasma viscoso e denso, appiccicandosi addosso a lui, e John non aveva voglia, davvero non ne aveva, di sopportare anche quello. Non adesso.

Adesso stava incolpando il mondo, adesso doveva incolpare il mondo, perché il lutto funziona così. Altro che cinque fasi. È infinitamente più semplice: prima ti incazzi con gli altri, poi te la prendi con te stesso, infine dai la colpa al morto perché tanto è morto, dunque è l’unico che della tua colpa non se ne fa davvero proprio niente.

Perciò no, Mycroft, non voglio la tua pietà. Non esiste universo in cui io accetterò mai un pezzo di carta con qualche zero per sciogliere il piccolo nodo che la mia presenza su questa Terra ti ha lasciato da qualche parte – dato che dubito tu abbia un cuore, o una coscienza.

E no, Lestrade, non verrò ad abitare con te per sorriderti e dirti che va tutto bene, che hai fatto solo il tuo lavoro e hai eseguito degli ordini ed eri solo un soldato in una guerra giocata fra Titani. Lo erano anche i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma a Norimberga non gli andò liscia comunque.3

Era arrabbiato, John. Ancora. Dopo cinque giorni dal momento in cui aveva trattenuto il fiato e sperato che fosse tutto un brutto sogno. Dal momento in cui si era rifiutato di vedere il suo cadavere steso su una barella d’acciaio.

Cinque giorni in cui non aveva mai smesso di dire “no” e “non può essere” e “non ci credo”. Una continua lotta tra la parte di lui che aveva accettato il tutto, la parte dura, quella che aveva attraversato la guerra tenendolo in piedi ogni santo giorno, contro l’altra parte di lui, quella che quando morì suo padre si rintanò in un angolo con le mani sulle orecchie e da quell’anfratto non uscì mai più.

E ora si trovava in un monolocale da poco, senza muffa alle pareti o condizioni igienico-sanitarie da terzo mondo ma vuoto e piatto, ammobiliato solo per l’essenziale: scrivania, cucinino, bagno, armadio, letto, lampada da lettura, prese di corrente, stendipanni sul balconcino. Lui, i suoi due borsoni e la nuova vita che doveva cominciare, l’ennesima che aveva pescato dal mucchio quando aveva capito che avrebbe dovuto rifare tutto quanto da capo – un’altra volta.

Sbuffò, chiudendo gli occhi per un istante e tentando di fare una lista mentale di ciò che necessitava di essere fatto.

Il frigorifero era vuoto, la caldaia da accendere, doveva controllare se la doccia era davvero pulita, se c’erano perdite da qualche parte, se i precedenti inquilini non si erano ammazzati a vicenda con un paio di forbici trinciapollo, perché avrebbe giustificato il prezzo così basso di un appartamento all’apparenza messo abbastanza bene.

Doveva fare molte cose, ma l’unica che riuscì effettivamente a fare fu estrarre il suo portatile, collegarlo alla rete elettrica e ad Internet, aprire la pagina d’aggiornamento del proprio blog e restare lì, seduto, immobile a fissare il cursore lampeggiare nel riquadro bianco.

Come appena tornato dalla guerra, non sapeva cosa scrivere. Come a quel tempo, in realtà, di cose da scrivere ne aveva talmente tante che avrebbe potuto riempire la stanza di fogli scritti a mano, tappezzarne pareti e soffitto, e non sarebbe stato abbastanza.

Avrebbe voluto dire di quanto fosse arrabbiato. Furioso. Di quanto Sherlock non meritasse la merda che gli avevano gratuitamente spalato addosso. Dell’uomo che era veramente, nonostante i suoi alti e bassi, la sua eccentricità, le sue stranezze, le sue ossessioni. Voleva raccontare degli attimi in cui facevano colazione leggendo due giornali diversi che poi si scambiavano, del luccichio nei suoi occhi azzurri quando riusciva a dedurre il meccanismo di un crimine o di un rompicapo, di quando cenavano da Angelo e John tentava in tutti i modi di non parlare di morti ammazzati per non spaventare quelli dei tavoli vicini, ma non c’era verso. Aveva un intero mondo di sfumature, John, in quella sua mente: un puzzle fatto di tasselli intagliati a mano ed intrecciati come stoffa colorata a creare qualcosa di unico... qualcosa che non aveva più.

Ne era geloso. E, al contempo, pensava che quelli là fuori non se lo meritassero. Che credessero o meno, nessuna delle persone là fuori, affamate di notizie o semplicemente curiose o forse morbose, si meritava di sapere altro su Sherlock. Era stato denudato della sua vita, preso in giro, trasformato da persona per bene a criminale... no. Nessuno si meritava niente. Ciò che di buono Sherlock Holmes aveva viveva, ora, dentro di lui: e dentro di lui sarebbe rimasto.

Da quella decisione, seguì quella di abbandonare il suo blog. Non aveva intenzione di incontrare di nuovo Ella ma, soprattutto, quel blog esisteva per raccontare di Sherlock, dunque era inutile che continuasse ad aggiornarlo.

Prima di mettersi a scrivere il suo ultimo post, cancellò tutti i messaggi privati che aveva ricevuto senza leggerne nemmeno uno, poi disabilitò i commenti e l’avvertimento automatico tramite mail che gli arrivava in casella quando qualcuno commentava uno dei suoi post.

Infine, cominciò a digitare. E scrisse l’unica cosa che, scavando dentro di sé, trovò la forza di esprimere a parole.

“Era il mio migliore amico e crederò sempre in lui.”

Quando la pubblicò, si rese conto dell’inevitabile.

Quella frase sapeva d’addio... e non solo al blog. Era una sentenza. Era una “cosa fatta”. Stava cominciando a lasciarlo andare.

Deglutendo, chiuse la pagina e cancellò l’indirizzo dai preferiti e dalla cronologia. Inutile, se con una ricerca su Google poteva trovarlo facilmente, ma aveva la convinzione che, comunque, avrebbe fatto in modo di non cercarlo.

Stava chiudendo un capitolo della sua vita. L’ultima cosa che gli rimaneva da fare, era voltare la pagina.

 

 

La prima notte in cui riuscì a dormire per più di tre ore di seguito non fu clemente, con lui.

Sognò il cielo grigio ed una figura scura che si stagliava al suo orizzonte, sul ciglio di un cornicione. Lo skyline di Londra sembrava prenderli in giro entrambi.

Era dietro di lui e lo vedeva di spalle buttare a terra il cellulare. John lo chiamava, urlava, gli pregava di non farlo, di non buttarsi. Sherlock girava piano il volto, sorrideva. Uno di quei sorrisi dolci che John aveva sempre pensato fosse in grado di fare ma che, in realtà, non gli aveva mai visto sulle labbra.

« Addio, John » gli diceva, sbilanciandosi in avanti.

E John scattava, la mano tesa, l’intenzione di prenderlo prima che cadesse, di impedire che avvenisse. Ma quando la sua mano era a qualche centimetro da toccare il cappotto, nel momento in cui era teso in direzione del detective cadente, la prospettiva cambiava e lui si trovava sul marciapiede sotto al Barts, e Sherlock precipitava, e il silenzio si riempiva del rumore delle sua ossa rotte, del suo cuore fermo, del suo cranio spaccato. E John cominciava a correre ma cadeva anche lui, sentendo asfalto sotto le mani e a contatto con il viso, vedendo solo sangue e occhi azzurri fissi nel vuoto, fissi su di lui.

Si svegliò con un principio di tachicardia e fradicio di sudore. La maglietta a mezze maniche gli si era appiccicata alla schiena, sentiva i capelli incollati alla nuca e piccole gocce di sudore corrergli sul collo verso il colletto bagnato della t-shirt.

Respirò profondamente un paio di volte, ricadendo sul letto e mettendosi subito le mani sugli occhi. Mugugnò qualcosa di incoerente mentre ricacciava indietro le lacrime e la paura, cercando di convincere se stesso che non era niente, che sarebbe passato tutto.

Ma aveva già percorso quella strada una volta, e sapeva fin troppo bene che non era così. Prima erano i sogni, le notti passate dormendo poco e male, poi c’era lui che si attorcigliava attorno ad una gamba che marciva e che non riusciva a tenere in mano un bicchiere d’acqua senza rovesciarlo.

Almeno, una volta era la guerra. Era il convincersi che fosse qualcosa di troppo grande da affrontare. Era razionalizzare, trovare un motivo per giustificare tutto quel tormento auto-inflitto.

Questa volta, era solo Sherlock Holmes.

E quello di cui aveva davvero il terrore, era che potesse diventare un supplizio ancora più grande.

 

 

Le cose più semplici erano, in realtà, le più difficili.

Come dover prendere la metropolitana, o l’autobus. Di solito con Sherlock usava i taxi, ma si era trasferito da poco ed era senza lavoro, il taxi era un lusso che faceva meglio a non permettersi. Dunque metro. Dunque autobus.

In mezza giornata, era già andato due volte dalla parte sbagliata. Aveva preso una linea che non doveva prendere. Un autobus che non si dirigeva nemmeno lontanamente nella zona del suo nuovo appartamento. Per mezza giornata, il suo istinto lo aveva voluto portare a Baker Street ed era stato solo per un colpo di fortuna se si era accorto, ogni volta, dell’errore quando era solo a metà strada.

Aveva dovuto fare il giro dei reparti tre volte, da Tesco.

Prendeva latte, uova, formaggio, maionese, yogurt al caffè, tre pacchi di pasta, una confezione di English Breakfast e una di Earl Grey, caramelle alla frutta. Salvo poi accorgersi che aveva preso troppo latte (due litri), troppe uova (una dozzina), un formaggio che a lui non era mai piaciuto, la maionese che usava raramente, lo yogurt al caffè che non era lui a mangiare, troppa pasta per un solo uomo, l’English Breakfast che non era mai stato il suo tè, le caramelle alla frutta quando a lui non piacevano i dolci.

Si accorgeva di aver preso le cose che piacevano a Sherlock e allora tornava indietro, rimettendole a posto o posando gli eccessi. Poi passava al reparto frutta e verdura e dimenticava tutto, e prendeva le mele sbagliate, troppe carote, due buste di plastica per non far entrare in contatto le patate e la mano in decomposizione sul secondo ripiano del frigorifero; si fermava sui broccoli e si chiedeva come cucinarli per riuscire a farli mangiare a Sherlock senza che si accorgesse di cosa fossero.

Poi qualcuno sussurrava qualcosa su di un detective impostore, a qualche scaffale di distanza da lui, e John tornava con i piedi per terra.

Serrava forte le labbra. Tirava su il mento. Stringeva i denti fino a farsi male alle gengive. Rimetteva a posto la spesa.

Usciva da Tesco senza niente in mano.

 

 

Rientrò a casa verso il tramonto con un sacchetto di carta odorante di patatine fritte proveniente da Burger King. Aprì con una delle tre chiavi del suo nuovo mazzo il portone di vetro ed acciaio del condominio, lasciando che si richiudesse alle sue spalle.

Dal vetro della portineria sulla destra, il portinaio lo fermò mentre si puliva le scarpe sullo zerbino. « Ehi, aspetti! Dottor... Wilson? ».4

« Watson » corresse automaticamente John, sospirando. Non gliene faceva una colpa. Nemmeno lui ricordava minimamente come si chiamasse il portinaio, nonostante si fosse presentato il primo giorno in cui aveva messo piede in quel condominio.

« Watson » ripeté quello come una scusa, afferrando qualcosa da una mensola al suo fianco e passandola a John dalla porta: « oggi pomeriggio è venuto un corriere per lei, ho ritirato il pacco al suo posto » gli disse semplicemente, sorridendogli.

John lo ringraziò con un sorriso che non rifletteva niente. Nemmeno cortesia. Era solo un limitato stiracchiarsi di labbra. Ma l’uomo della portineria sembrò non accorgersene, dandogli la buona sera e rientrando al suo posto.

Salendo le scale fino alla porta del suo appartamento – terzo piano senza ascensore – osservò distrattamente il pacchetto che gli era stato recapitato.

Era pesante, quadrato, più o meno delle dimensioni di una scatola da scarpe. Era ricoperto da una carta marrone plastificata e chiuso con diversi giri di scotch. In alto a destra vi era lo stemma di uno studio notarile ed il timbro postale  indicava una cittadina dell’East Sussex: Crowborough.5

Cosa voleva da lui uno studio notarile dell’East Sussex?

Con le sopracciglia aggrottate in un’espressione accigliata, aprì la porta e accese la luce, appoggiando le chiavi sul mobiletto all’entrata e chiudendo bene la porta con chiavistello e catenina. Si diresse poi verso il cucinino, appoggiò il pacco sul tavolo, si tolse il cappotto e si dedicò all’apertura del misterioso recapito.

Tolse con calma la carta, curioso, scoprendo il pacchetto fatto di cartone chiuso con nastro adesivo da imballaggio. Con l’aiuto di un coltello tagliò il nastro che intrappolava i lati apribili, rimuovendo poi il primo foglio di plastica paraurti.

Quello che si trovò davanti, fu una sottospecie di scatola per sigari ricoperta da un fazzoletto ricamato che aveva l’aria di essere molto vecchio. Era stato avvolto con cura attorno alla scatola e l’angolo lasciato in alto riportava le iniziali corsive “H.W.H.” perfettamente ricamate in un tono di rosso tendente al scarlatto. Sopra ad esso, adagiata in modo che potesse vedersi il destinatario (“Alla cortese attenzione del dr. John H. Watson”) e, nuovamente, il timbro dello studio notarile, vi era una busta chiusa.

Nonostante la sua curiosità cominciasse ad essere morbosa e puntasse completamente sulla scatola sotto al fazzoletto, decise di seguire l’ordine logico e aprì prima la busta. Ne estrasse un foglio piegato in tre parti che spiegò con un movimento del polso ed un fragore di carta.

« “Alla cortese attenzione del dottor John H. Watson dallo studio notarile Harderbrook & Whale di Crowborough, East Sussex” » cominciò a leggere John in un mormorio, le lettera tenuta con entrambe le mani: « “Le recapitiamo, secondo le volontà testamentarie...” volontà testamentarie? » domandò retoricamente, ancora più confuso di quando aveva visto il timbro postale.

Una persona aveva scritto un testamento e aveva lasciato qualcosa a suo nome. Da Crowborough, a quanto sembrava. Già. Peccato che non conoscesse nessuno, di Crowborough, né dell’intero Sussex. La sua famiglia veniva tutta dal nord e non sapeva di parenti prossimi ricchi e facoltosi pronti a passare all’altro mondo, altrimenti Harry sarebbe stata la prima a trasferirsi nel Sussex.

Accigliato e con il dubbio che ci fosse stato un terribile errore, magari un gravissimo caso di omonimia, continuò a leggere in silenzio.

Il testamento era di un certo Sir Arthur Conan Doyle e ciò che gli aveva lasciato, nominato lungo tutta la lettera come “oggetto numero 7” e mai descritto realmente, era stato, per volere del signor Doyle stesso, chiuso a chiave con ordine tassativo di non essere aperto se non dal...

« “se non dal dottor John Hamish Watson, ex Capitano del Quinto Fucilieri di Northumberland, rintracciabile presso mr. Sherlock Holmes, 221B di Baker Street, Londra” » lesse.

No, nessun caso di omonimia. Cercavano proprio lui.

Qualcuno doveva averli avvertiti del cambio indirizzo, probabilmente. La domanda era chi, però. Non lo aveva detto a nessuno se non, per l’appunto, a mrs. Hudson. Forse avevano telefonato a lei? Possibile.

Si allungò sul tavolo per prendere la carta marrone tolta in precedenza, osservando la data di invio. Era precedente al suo trasferimento. Precedente.

Non era possibile. Come facevano a sapere dove inviare il pacchetto? Ma soprattutto, come facevano a sapere il suo grado militare ed il reggimento in cui aveva combattuto? Passi per dove abitava prima, dopotutto Sherlock era diventato... beh, tristemente famigerato, e John con lui. Ma persino il suo secondo nome? Persino “Hamish”?! Non lo usava mai, firmava sempre con la seconda iniziale puntata...

Non sapeva cosa pensare. Nell’indecisione dell’essere terrorizzato o semplicemente stranito, continuò la lettura.

Non ricordava di conoscere nessun Conan Doyle, né in relazione alla propria famiglia né volando con la mente a quelle dei nonni sia da parte di madre che paterni. Nessun commilitone, nessun superiore, nessun ex compagno di scuola o di università, nessun amico d’infanzia. Nessuno, nella sua vita, aveva mai portato il nome Conan Doyle.

Continuò a scorrere con gli occhi il testo, arrivando alla fine senza averci capito molto. Non si diceva quando fosse morto, di cosa, perché. L’unica cosa che c’era, e che gli fece trattenere il respiro ed accelerare il cuore, era la firma del famigliare che aveva garantito la lettura dell’atto notarile e aveva dato il consenso all’invio del pacchetto.

La voce gli uscì tremula, quando lesse: « “Crowborough, 12 luglio 1930. In fede, Adrian Conan Doyle” ».

1930. Lui non era nemmeno nato, nel 1930. Il suo nome, quel “John Hamish Watson” scritto in bella grafia poche righe prima, non esisteva, nel 1930.

Solo in quel momento si accorse che la busta era di vecchia fattura, e che la lettera era scritta a mano nella sua interezza, con quello che doveva essere sicuramente stato un pennino o una penna stilografica. Rilesse con foga il testo e trovò una riga in cui si parlava di “spedizione posticipata dell’oggetto in lascito” e di “custodia dello studio notarile fino alla data riportata nelle ultime volontà”.

In altre parole, la lettera era stata scritta nel 1930 e spedita postuma. E considerando che era un testamento, il che presupponeva che qualcuno fosse morto, e che il foglio che teneva ancora in mano era stato firmato da un certo “Adrian” (il figlio di Arthur?), probabilmente la morte del suddetto Arthur Conan Doyle doveva essere avvenuta nei primi di luglio del 1930.

A quel punto, John aveva rimasto poco in cui credere. Non era semplicemente possibile.

L’indomani mattina, come prima cosa, avrebbe cercato il numero dello studio notarile e avrebbe chiamato per farsi dare spiegazioni. Semplicemente perché una cosa del genere era completamente impossibile. E poi perché voleva chiarire la faccenda di dove avessero trovato informazioni a suo riguardo così dettagliate.

Ripiegò la lettera e la inserì di nuovo nella busta, più confuso di quando l’aveva aperta. Senza pensarci due volte, poi, prese la scatola e gli tolse il fazzoletto.

Era una semplice scatola di legno di ciliegio lavorato e laccato, contornata di fiori di ferro simili a rose ed incisa con motivi di gigli sul centro del coperchio. Dava l’idea di un accessorio lussuoso ma privato e, considerando che il legno di ciliegio era ancora uno dei più pregiati, probabilmente lo era davvero. Era chiusa da un piccolo lucchetto facente parte del legno la cui chiave era stata unita alla lettera scritta a mano, intrappolata con la ceralacca e quello che doveva essere lo stemma di famiglia dei Conan Doyle.

John rimase nel dubbio per qualche istante. Se domani, chiamando, gli avessero detto che era stato tutto un errore burocratico, sicuramente avrebbe dovuto rimandare indietro tutto. Dunque, tecnicamente, non avrebbe dovuto affatto spezzare il sigillo di ceralacca e prendere la chiave per aprire il portagioie.

Ma c’era una voce, dentro di sé – una voce maledettamente simile a quella di Sherlock e che gli faceva pungere il cuore di dolore – che gli sottolineava quanto fosse impossibile il contrario; c’era il suo nome su quel documento, dunque aveva il diritto di fare ciò che voleva con il portagioie.

Diede retta a quella voce (come aveva sempre fatto). Staccò con cura la chiave dalla carta, rompendo il sigillo di ceralacca, inserendola nella piccola serratura e sbloccando il coperchio – il meccanismo doveva essere un po’ arrugginito, dato che dovette fare un po’ di forza per far fare due giri alla piccola chiave.

All’interno non c’era molto. Anzi, non cera praticamente niente.

Le uniche cose che vi trovò, furono un taccuino di pelle dall’aria antica di quelli che si chiudevano ancora con i lacci, un orologio da taschino più grande del normale – quasi quanto il palmo della sua mano – con in rilievo un piccolo giglio fiorentino sul coperchio, ed un foglio ingiallito da tempo piegato in quattro parti.

Soffiando sulla polvere posatasi sugli oggetti, prese il foglio e lo spiegò.

Una sola frase campeggiava nel centro esatto, scritta in una grafia sottile ed allungata ma molto elegante.

 

Che tu ci creda o no.

               H.W.H.

 

John fissò per molto tempo quella semplice frase, cercando qualcosa che nemmeno lui sapeva cosa fosse.

Non trovò nessuna risposta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1. 9,8 m/s2 è la costante "g", alias l'accelerazione di gravità valida sul pianeta Terra. Fisica elementare: ogni pianeta ha una propria forza di gravità che dipende dalla composizione del nucleo (soprattutto da quali metalli è composto), quella terrestre attira qualsiasi cosa verso il centro del pianeta con una certa forza che fa "cadere" un corpo con un'accelerazione "g" sopra quantificata.

 

2. Il Suicidio è definito dalla Chiesa come peccato mortale (la Religione cristiana vieta all'uomo di togliersi la vita che Dio gli ha donato ecc...), motivo per cui i suicidi non hanno diritto ad avere un rito funebre cristiano/cattolico. Se il suicida stesso non lascia direttive in merito alla funzione, di solito si procede con un rito civile.

 

3. Riferito al Processo di Norimberga, svoltosi fra il 1945 e il 1946 per punire i criminali di guerra nazisti e della Shoah. La giuria era composta da esponenti militari degli USA, dell'Unione Sovietica, del Regno Unito e della Francia. Fu il luogo e l'occasione in cui nacque il reato di "crimini contro l'umanità" di cui furono accusati molti dei più alti esponenti del partito Nazista. Caso particolare fu la considerazione legislativa del ritenere la maggior parte dei militari di basso rango impegnati nella campagna tedesca innocenti perché eseguivano ordini dall'alto senza la possibilità di potersi rifiutare.

 

4. Chi ha detto Dr.House? XD Dato che House e Wilson sono ispirati a Holmes e Watson, mi sembrava giusto ricambiare la cosa almeno un po'.

 

5. La tomba di sir Arthur Conan Doyle si trova proprio a Crowborough, East Sussex. C'è un perché anche a livello di trama, ma lo capirete solo più avanti ;D (Spoilers ♪)

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Capitolo 2
*** Diary I ***


Note: secondo capitolo. Diviso in due perché sono una persona molto sintetica (nemmenoperidea).

Probabilmente intorno al terzo capitolo comincerà la parte sci-fic della faccenda, anche se qualcosa ci sarà anche nella seconda parte di “Diary”... occhio ai dettagli ;D

Il caro nome del dottor Kolstoj è in prestito da Shichan, che ringrazio.

Come al solito, le cose importanti sono a fondo pagina.

E sempre come al solito, auguro buona lettura

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Diary /1

 

 

 

 

Non era abituato, a quelle cose. A quelle visite.

Di amici ne aveva persi tanti, nel tempo, in guerra soprattutto, ma là quelle cose non era necessario farle. Là non era possibile farle. Visitare tombe.

Là non c’erano tombe.

C’era sabbia. E roccia. E montagne. E dune. Nessuna tomba. Qualche croce, forse, all’inizio, ma che senso aveva? Alla prima tempesta sarebbe stata sepolta, o trasportata via. Alla fine, insieme a tutte le altre cose che ti rendono una persona civile ma che in guerra non hanno più senso (perché ti rendono anche debole), anche le usanze funebri perdevano di significato. I morti non si meritavano più niente – non ce n’era il tempo.

Di solito si raccoglievano i pezzi, comunque. Li si metteva in un sacco e li si portava a Kabul sperando che non si decomponessero nel frattempo a causa del caldo. Al campo base qualche anima pia metteva i resti del soldato dentro ad una bara, ci stendeva una Union Jack sopra, la caricava su di un aereo e la portavano in Inghilterra. Altri nemmeno li trovavano più. I pezzi erano talmente piccoli che raccoglierli significava dover usare le pinzette cavaciglia. Si preferiva mandare a casa una bandiera piegata ed una lettera di condoglianze firmata dal generale di turno (o dal suo galoppino).

In guerra nemmeno si piangevano, i morti. Morivano amici che erano diventati tali solo per cameratismo. Amici di cui si conosceva solo il cognome. Amici che si sapeva essere sinceri, perché dovevano esserlo per forza, per stare in pace con se stessi: a nessuno piace morire da solo, e quando si sentono in lontananza colpi di mortaio 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, la paura di morire ti dorme accanto in branda. Anzi, probabilmente dorme bene solo lei.

Tutto sommato, John preferiva la guerra.

In guerra non avrebbe dovuto pensare a chi aveva perso. Non avrebbe avuto il tempo di farsi venire in mente Sherlock Holmes ad ogni piè sospinto, ad ogni alito di vento, in ogni minuto di silenzio.

In guerra avrebbe combattuto e basta.

Ma John non era più in guerra da molto tempo, ormai – non lo avevano più voluto. John era a Londra, in piedi davanti al suo armadio, in pigiama, a decidere quali vestiti indossare. Una semplice visita ad una tomba lo stava seriamente mettendo in difficoltà. Disinnescare una mina sarebbe stato più facile.

John odiava i cimiteri, in realtà. Era una cosa che gli aveva passato Harry.

L’ultima volta che ci era stato, era andato a trovare suo padre il pomeriggio prima di prendere l’autobus per Londra. Non era mai stato davanti alla sua tomba se non per il suo funerale e non se ne pentiva. Harriet diceva sempre che i cimiteri sono per i morti, non per i vivi; lui aveva deciso che era l’unico discorso sensato che le avrebbe mai sentito dire e aveva concordato con lei, per una volta.

Ma era... Sherlock. La tomba di Sherlock. Un pezzo di marmo nero con sopra un nome che doveva rappresentare tutto ciò che di Sherlock, fisicamente, era rimasto. Era un simbolo, una convenzione sociale per dare l’idea di poter parlare con la persona sepolta sotto di esso.

John pensava che fosse Dio, la convenzione sociale, non le tombe. Le tombe non erano mausolei, o totem.

Erano segnaposti.

Qui è stato sepolto Sherlock Holmes. Fra cent’anni dovrà essere riesumato, la bara aperta, le ossa raccolte e depositate nell’ossario del cimitero. Probabilmente scadrà anche l’affitto del lotto di terreno. Se non avete altri parenti da seppellire, verrà affittato al nuovo inquilino – c’è sempre domanda. Con i migliori saluti: la Direzione.

Sospirò, riservandosi di prendere un paio di vestiti qualsiasi: jeans blu, camicia beije a scozzese, maglioncino nero sbottonato sul davanti. Giugno non aveva aiutato la temperatura a salite oltre i venti gradi, dunque si sarebbe messo il suo solito giubbotto nero, in tinta con le scarpe. Dopotutto andava al cimitero, no? Il nero è meglio.

Non pensò a niente per tutto il resto del tempo, rifiutandosi di formulare qualsiasi pensiero che contemplasse l’immagine di Sherlock steso dentro una bara a sei piedi sottoterra sotto una lapide-segnaposto.

 

 

 

Chiamò il taxi – se lo permise, quel giorno – e lo fece passare per Baker Street, dove mrs. Hudson si unì a lui.

Lei aveva in mano un mazzo di fiori. John non era tipo da fiori – non era sicuro di essere tipo da qualsiasi cosa.

Non parlarono per tutto il tragitto, facendo in silenzio anche la breve passeggiata che li separava dalla tomba di Sherlock Holmes.

Vederla comparire, per la prima volta dopo la sepoltura, non lo rendeva meno reale. Non lo rendeva neanche meno pietoso. Solo più doloroso.

Ingoiò un groppo fastidioso di lacrime, ordinando a se stesso di non fare il bambino frignone. Era un adulto, un soldato: si sarebbe comportato come tale. Era solo un altro cadavere, solo un’altra morte. Devi convincertene, John.

Era davvero comodo mentire a se stesso in quel modo.

Rimase in piedi con le mani in tasca mentre mrs. Hudson riempiva d’acqua il vaso vuoto e vi metteva i fiori, sistemandoli bene. John rimase a guardarla col pensiero che, finché ci sarebbe stata lei, probabilmente su quella tomba i fiori non sarebbero mai mancati.

Lui, in realtà, non era più sicuro di avere il coraggio di tornarci spesso, in quel cimitero.

La donna si alzò, spolverandosi la gonna del vestito nero, e si mise in piedi accanto a lui. Per rispetto, John si tolse le mani dalle tasche.

« Ci sono tutte le sue cose » cominciò mrs. Hudson dopo un istante di silenzio: « le attrezzature scientifiche. Ho lasciato tutto negli scatoloni, non so cosa se ne debba fare. Pensavo di donarle ad una scuola » continuò a parlare, prima di voltarsi appena in sua direzione: « potresti... » tentò.

« Non posso ritornare nell’appartamento » rispose subito John, il groppo fastidioso risalito di nuovo verso la gola: « non adesso » aggiunse.

Sarebbe crollato, e lo sapeva. Fin troppo bene. Se ne rendeva conto in quel posto, nonostante non avesse mai avuto significato, per lui. Non uno vero, uno comprensibile.

Ma Sherlock... Sherlock non era come gli altri. Sherlock non era un corpo recuperato dalla sabbia e mandato in Inghilterra e seppellito chissà dove. Sherlock lui lo aveva visto buttarsi, lo aveva visto sparire su di una barella, aveva sentito la sua voce, le sue ultime parole, e quelle parole erano state per lui. Sherlock non se ne era andato implorando Dio di salvarlo, dilaniato da una raffica di proiettili. Se ne era andato buttandosi da un dannato tetto.

Lui non era in Afghanistan ed affrontare la morte a Londra aveva tutto un altro senso.

Strinse gli occhi, sentendoli pungere. Respirò più profondamente e riuscì ad impedirsi di piangere.

Non voleva lasciarlo andare ma non poteva fare altro. Lui non aveva scelta.

Con Sherlock non ne aveva mai avuta una.

« Sono arrabbiato » soffiò allora, dopo qualche istante di silenzio.

« Va tutto bene, John » gli disse la donna, stringendogli affettuosamente il braccio: « non è affatto strano. Ha fatto sentire tutti così. Tutti quei segni sul mio tavolo, e tutta quella confusione... Lo sparare all’una e mezzo del mattino... ».

« Già » annuì distrattamente John, sguardo fisso sul marmo nero e sulle lettere dorate.

« I campioni insanguinati nel frigorifero... » continuò Martha: « Riesci ad immaginare, tenere insieme cadaveri e cibo! ».

« Sì... » annuì ancora John.

« E i litigi. Era così irritante con quel suo comportamento da irresponsabile! » esclamò di nuovo, palesemente agitata.

John dovette fermarla, prima che gli stritolasse il muscolo dell’avambraccio: « ascolti, in realtà non sono così arrabbiato, ok? » tentò di mediare, mettendo la mano sulla sua nel tentativo di calmarla.

Lei annuì. « Ok » disse: « Ok. Ti lascio da solo per... sai... » cominciò, ma non finì mai la frase – quale fosse la sua conclusione era abbastanza palese.

Quando si trovò solo davanti alla tomba, John non seppe né cosa fare, né cosa dire.

Oh, in realtà aveva molte cose, da dire. Tutte quelle che Ella, nel suo goffo tentativo di farlo sentire meglio, gli aveva fatto venire in mente con violenza – e non si era sentito affatto meglio. Per niente.

Deglutì, cercando di togliersi di dosso la voglia di urlare, ma non ebbe buoni risultati.

Allora si voltò, osservando mrs. Hudson sparire lungo il sentiero.

Si voltò di nuovo e, finalmente conscio di non potere semplicemente andarsene e basta, si schiarì la voce. Prese una decisione.

« Ok » cominciò: « ok. Tu... una volta, mi hai detto che non eri un eroe » esordì.

Alzò gli occhi oltre la lapide, osservando uno squarcio qualsiasi di prato, ma riprese a parlare prima di perdere il momento. Era tragicamente consapevole che se si fosse bloccato, o se fosse rimasto in silenzio troppo a lungo, probabilmente non avrebbe finito il discorso.

Riprese a fatica. « Ci sono stati dei momenti in cui ho pensato che non fossi nemmeno umano, ma ti dico una cosa... eri l’uomo migliore... ».

Una pausa.

« L’essere umano... » riprese a fatica, umettandosi le labbra, sforzandosi di non fare uscire la voce troppo tremolante; inutilmente.

« ...più umano che io abbia mai conosciuto. E nessuno mi convincerà mai che tu mi abbia mentito. Ecco... » dovette concedersi una nuova pausa, un nuovo tentativo per non crollare. « L’ho detto » aggiunse poi, prendendo una grande sorsata d’aria e abbassando lo sguardo all’erba sotto ai suoi piedi – alla terra sotto l’erba, alla bara sotto la terra, al corpo dentro la bara.

Furono incerti i passi che lo portarono accanto alla lapide, scatti nervosi della mano, indecisi se fare o meno ciò che stava facendo senza trovare dentro di sé la giusta convinzione, o anche la sicurezza dell’esperienza. Non ne aveva.

Non sapeva se quel tocco sul marmo freddo con tre dita della mano sinistra poteva essere scambiato per un saluto sufficiente, o sufficientemente sentito.

Un saluto, lo era, anche se no, sentito non lo era per nulla.

Le parole che gli uscirono poi, così vicino, così prossimo a quel nome e a quel freddo, non erano più circostanza. Non erano sforzo. Non erano lisce, pulite, spurie dalle lacrime, o dalla minaccia che scendessero.

La voce gli tremò. Lui se ne fregò.

« Ero così solo... e ti devo così tanto... » soffiò, facendosi forza e ricacciando indietro la disperazione ancora una volta. Annuì piano alla tomba, gli occhi lucidi che non volevano cedere al pianto, e fece per andarsene.

Qualche passo, e semplicemente le parole uscirono da sole.

« Ti prego, c’è ancora una cosa, un’ultima cosa » ricominciò, la voce ora forte, rabbiosa, implorante: « un ultimo miracolo, Sherlock, per me » domandò.

« Non essere... » silenzio, un’altra ondata di dolore: « ...morto. Potresti farlo, per me? » domandò, completamente illogico, totalmente fuori da ogni accettazione. « Smettila » continuò, testardo: « smettila ».1

Un miracolo che rimase inascoltato, e lo sapeva. Un miracolo impossibile. Un miracolo che avrebbe significato impazzire, o morire a sua volta.

Non era pronto. Non era pronto.

Non era semplicemente, fottutamente pronto.

Non era pronto per dirgli addio. Sherlock era... il suo tutto. Sherlock era l’unica cosa bella che il mondo gli aveva dato per scusarsi della merda che aveva dovuto vedere in Afghanistan. Sherlock era l’unica persona che si era presa cura di lui senza saperlo e di cui lui aveva voluto prendersi cura senza dirglielo.

L’amico migliore, il compagno migliore, il collega migliore. La persona più eccentrica ed infantile. L’uomo più strano e particolare. Ma lui aveva sempre visto una sincerità, in quegli occhi azzurri, nascosta sotto galassie e numeri e formule chimiche e criminodinamiche, che andava oltre l’umano, oltre tutto ciò che lui, John Watson, aveva potuto capire in tutta la sua vita.

L’uomo migliore.

Non gli aveva mentito, no. Mai. Non era un impostore, un bugiardo, uno scherzo di natura, un freak.

Era Sherlock Holmes. Solo Sherlock Holmes. Devi stare attento ai dettagli, per conoscere Sherlock Holmes, e se lui te lo lascia fare, sarai l’uomo più fortunato del mondo.

Non poteva essere morto. Non poteva e basta. Ma era morto, davvero, era la realtà dei fatti, e lui si sentiva così arrabbiato, così tradito, che non poteva fare a meno di chiedersi in cosa avesse sbagliato, cosa non avesse visto, notato, osservato, capito.

Quale dettaglio non avesse colto. E, se l’avesse notato, sarebbe riuscito a fermarlo?

Non ce la fece più. Con le spalle curve e la testa bassa si portò la mano agli occhi, lasciandosi andare ad un singhiozzo.

Si bagnò la punta delle dita con le lacrime, salate, lasciandole scivolare per la prima volta da giorni.

Non sarebbe più tornato in quel posto, no. Non poteva. Non ce la faceva.

Raddrizzò le spalle ed il busto, respirando profondamente e calmandosi. Una posa militare. Non un saluto.

Non un saluto, no. Non gli avrebbe detto addio. Non ora.

Non ancora.

Non poteva.

 

 

 

Non rientrò nel suo appartamento prima dell’una di notte.

La lista della spesa pendeva dalla calamita a forma di pesce che la teneva ferma sulla facciata del frigorifero, giusto accanto al post-it che diceva, nella sua calligrafia, di chiamare lo studio notarile Harderbrook & Whale di Crowborough. Ci mise un poco per capire cosa lui stesso si fosse appuntato, ma alla fine ci riuscì.

Troppo scotch. Ci aveva affogato i pensieri già dalle sei del pomeriggio, quando aveva capito che girare senza meta per Londra con la voglia di fare niente – vivere era stata un’opzione discutibile per parecchie ore – non aveva molto senso. Non ricordava quanti giri aveva fatto, sapeva solo che aveva speso in alcool più di ciò che poteva permettersi.

Colto da un senso di rifiuto per se stesso – che in mattinata si sarebbe molto probabilmente trasformato in senso di colpa – prese una matita e cercò di appuntare qualcos’altro sul post-it giallo, qualcosa come “cercare nuovo lavoro”, ma non vi riuscì né al primo, né al secondo, né al terzo tentativo.

Aveva troppo alcool nel sangue, troppo alcool nel cervello, troppo alcool nello stomaco. Non aveva pranzato, o cenato e, ora che ci pensava, non aveva nemmeno fatto colazione. Bere a stomaco vuoto è la prima cosa che al liceo ti dicono di non fare mai.

Si era sbagliato: il senso di colpa arrivò subito e lo investì come un autotreno.

Lui era un medico. Lui era un ex-soldato della Corona. Lui era quello che aveva dovuto badare per tutta l’adolescenza ad una sorella troppo incline alla sbronza del sabato sera e, successivamente, alcolizzata del tutto. Era l’ultima persona sulla faccia della Terra che avrebbe dovuto fare una cosa del genere.

Sospirò, distrutto, portandosi le mani agli occhi e poi nei capelli.

Aveva un vuoto che andava dalle otto alle dieci di sera. Due ore.

Due ore in cui, a giudicare dalle sterline spese, doveva aver bevuto minimo una dozzina di bicchieri di scotch e ghiaccio. Non si ricordava quando era passato allo scotch liscio, il che significava che era stato da qualche parte durante quelle due fatidiche ore.

Male.

Fortunatamente aveva smesso qualche ora prima di andarsene. No, correzione: il barista si era rifiutato di servirgli altro alcool e gli aveva ritirato le chiavi di casa per farlo restare lì finché non fosse tornato in sé.

Male. Molto male.

Non si ricordava come fosse tornato a casa. Ma era uscito dal locale a mezzanotte e... a piedi. In uno sprazzo di ricordo vide il portone di Baker Street. Le chiavi che non entravano nella toppa. L’improvviso ricordarsi che non abitava più lì. Ricordò la propria voce lontana chiamare “Sherlock” rivolto verso la finestra del salotto, buia.

Questo era anche peggio.

« Cristo... » sussurrò, strofinandosi gli occhi. Persino la sua sbronza lo sfotteva. Sperava vivamente che mrs. Hudson non fosse stata in casa, quella sera, oppure che non lo avesse sentito, perché non avrebbe avuto più il coraggio di guardarla in faccia. Faticava già a guardare se stesso allo specchio.

Aveva sonno ma non poteva mettersi a dormire così, con i fiumi di scotch che sicuramente aveva ancora dentro di sé. Se si fosse steso, a metà della notte sarebbe stato male. Conosceva se stesso abbastanza per saperlo. Una delle prime volte a Kabul, durante le festività natalizie, era successo esattamente quello e aveva passato Santo Stefano montando la guardia e sperando di non vomitare sugli anfibi del General Maggiore in visita all’accampamento.

Rimedi della nonna, dunque.

Primo fra tutti: cibo. Cibo grasso. Roba fritta, pane, dolci. Ma al solo pensiero gli si rivoltava lo stomaco come un calzino, dunque meglio di no.

Secondo: acqua. Doveva aiutare il proprio fegato a smaltire quella quantità assurda di etanolo. Sì, lo avrebbe fatto dopo.

Terzo: acqua calda e limone. “O va giù o viene fuori” diceva sempre Harriett quando doveva ricorrere a quello stratagemma. Meglio di niente.

Nel suo caso venne fuori. Quando uscì dal bagno, dopo avere avuto anche l’accortezza di farsi una doccia ed infilarsi il pigiama, erano ormai le tre di notte.

Il suo stomaco era quanto più vicino ad un residuato bellico esistesse e gli si chiudevano gli occhi dalla stanchezza persino mentre camminava. Decise di dormire, sperando con tutto se stesso di svegliarsi a casa sua, al 221B, arrabbiato a causa del suono di un violino che non gli aveva permesso di dormire bene, che gli aveva procurato brutti sogni.

Sapeva che non era possibile. Ma tutti dicono che la speranza è l’ultima a morire.

E quando muore anche quella, rimane sempre l’illusione.

 

 

 

Si svegliò a causa di rumori inequivocabili.

Lo stridio delle gambe del letto che strisciano sulle piastrelle, il rumore sordo di una testiera che sbatte ritmicamente contro un muro, un cigolio di molle e di rete metallica. Ansiti, gemiti, grugniti, qualche “oh, Jeff, sì, sì!” e molti “Oh mio Dio, Kate!” urlati come se nel condominio ci fossero solo loro.

John fissò il soffitto senza muovere un muscolo, steso supino sul letto. A quanto pareva, l’inquilina del piano di sopra aveva compagnia. Gli sembrava di ricordare che il marito si chiamasse Albert, non Jeff, ma quelli non erano affari suoi, dopotutto.

Sbuffò, portandosi le mani agli occhi e strofinandoseli. Non sarebbe riuscito a riaddormentarsi grazie alle olimpiadi del Kamasutra al piano di sopra e, comunque, le nove del mattino erano un orario decente per alzarsi dal letto e tentare di sopravvivere per altre diciotto ore.

Chiuse una buona parte dei rumori fuori dal bagno, svuotando la vescica, lavandosi i denti e sbarbandosi con calma. Decise di non vestirsi ma si prese comunque il suo tempo. Quando uscì, probabilmente Jeff aveva finalmente finito le cartucce per il fucile a pompa e tutto taceva.

Meglio.

Si diresse nel cucinino a piedi scalzi, mettendo in atto i soliti movimenti atti alla preparazione del tè. Erano cose a cui non doveva nemmeno più pensare, dato che venivano in automatico: teiera, acqua, fuoco, aspettare, bustina, aspettare l’infusione, versare nella tazza (nuova, bianca a quadrati rossi), aggiungere mezzo cucchiaino di zucchero e una generosa spruzzata di limone.

Per lo meno aveva smesso di tirare giù dalla credenza due tazze. Era un passo avanti.

Sorseggiando la sua colazione, si sedette al tavolo della cucina e si allungò verso un giornale che non c’era. Si fermò con il braccio teso e la mano a mezz’aria, trattenendo il respiro in una smorfia prima di sospirare amareggiato. Era Sherlock che portava i quotidiani a casa. Era Sherlock, John, maledizione!

Un passo avanti e due indietro.

Lasciò ricadere la mano sul tavolo con un tonfo, le labbra serrate e il respiro mantenuto appositamente tranquillo da una buona volontà ed un autocontrollo emotivo che sentiva essere sempre più labili. Si chiese cosa ne sarebbe stato di lui, il giorno in cui avrebbe perso completamente ragione di se stesso, ma evitò di cercare la risposta.

In cambio, piazzò gli occhi sul frigorifero dall’altra parte del piccolo cucinino. Il post-it giallo della sera precedente era ancora lì, accanto alla lista della spesa, con sopra le due note – la seconda in calligrafia molto traballante – scritte appena il giorno prima.

Beh, una cosa alla volta. Un passo per volta. Roma non era stata costruita in due giorni, no? Doveva solo rialzarsi in piedi. Ritrovare di nuovo la forza di cancellare una parte della propria vita ed iniziarne una nuova. Poteva sempre cominciare dalle piccole cose.

Posò la tazza e prese cellulare e pacchetto postale, lasciati entrambi sul tavolo della cucina. Trovò il numero telefonico dello studio notarile nell’intestazione della lettera e, componendolo lentamente, chiamò.

Non ci volle molto perché una voce femminile rispose alla chiamata: « studio notarile Harderbrook & Whale ».

« Ah, salve, il mio nome è John Watson » si presentò, schiarendosi la voce: « l’altro giorno mi è arrivato un pacco a nome del vostro studio e avrei bisogno di delucidazioni in proposito » disse.

« Ha un nome in particolare come riferimento? » domandò quella che doveva essere per forza la segretaria.

Le sopracciglia di John scattarono in alto. « In che senso, scusi? » domandò.

« Il notaio che ha firmato l’atto, di qualsiasi cosa si tratti » spiegò subito la ragazza, gentilmente: « se ha un nome posso passare direttamente a lui la telefonata, così le saprà fornire con precisione qualsiasi cosa di cui ha bisogno ».

« Ah, capisco. Aspetti solo un secondo » disse John, tenendo stretto il cellulare con la spalla mentre toglieva dalla busta e spiegava di nuovo la lettera, facendo attenzione a non strappare la carta già abbastanza ingiallita e dall’aria fragile. « Eccolo: Thomas T. Harderbrook » lesse la firma sotto la dicitura “il notaio garante”, sulla sinistra dello scritto.

Dall’altra parte della cornetta provenne solo silenzio.

« Signorina? » chiamò allora John.

« Sì, mi scusi. È che... è impossibile » gli rispose lei: « Il signor Thomas Harderbrook è uno dei fondatori dello studio ma è morto durante la seconda guerra mondiale... » gli disse, e si poteva sentire dal tono di voce che non aveva la minima idea di cosa dire.

Bella fregatura. E adesso come glielo spiegava?

« Beh, è possibile, dato che la lettera che tengo in mano è datata 1930... è per questo che ho telefonato, in realtà » cominciò con l’intenzione di continuare, ma venne interrotto dalla stessa segretaria.

« Oh mio Dio! » esclamò.

John sobbalzò senza volerlo. « Scusi? ».

« Lei è il destinatario del testamento Doyle, dico bene? » chiese quella, la voce improvvisamente ad un livello pericoloso d’eccitazione.

« A-A quanto pare... » lasciò cadere John.

« Le passo il signor Whale allora, signor Watson. È l’attuale direttore dello studio, si è occupato lui del suo caso. Attenda il linea! » esclamò.

Dovette attendere circa un minuto, passato ad ascoltare una di quelle irritanti musichette d’attesa. Aveva appena preso un’altra sorsata del suo tè ormai tiepido quando una voce maschile e giovane interruppe la melodia: « Nathan Whale. In che cosa posso esserle utile, dottor Watson? » domandò presentandosi.

« Buongiorno » salutò John: « volevo solo chiedere qualche informazione riguardo al pacco che ho ricevuto, inviato dal vostro studio notarile » cominciò.

« La ascolto » disse Whale dall’altra parte del telefono.

John spiegò la lettera sul tavolo e la scorse con gli occhi, mentre parlava: « ho letto la lettera che accompagnava il contenuto del pacco e ho più o meno capito di cosa si tratta, ma mi chiedevo se non ci fosse stato un qualche tipo di errore di invio. Nel destinatario, intendo » specificò.

« Che tipo di errore? » chiese il suo interlocutore in modo condiscendente, suonando fin troppo calmo per i gusti di John, che invece aveva ancora un fondo di irrequietudine.

« Mi riferisco alla data, nello specifico » rispose John, sperando che il sedicente notaio Nathan Whale potesse arrivarci da solo.

Passò un istante, prima che John ricevesse la risposta, e chissà perché immaginò che il ragazzo stesse sorridendo: « non c’è nessun errore, dottor Watson. Il testamento Doyle è una sottospecie di leggenda nel nostro studio a causa della sua longevità; risale all’epoca di mio nonno e del suo socio. Le assicuro che il signor Arthur Conan Doyle è deceduto il 7 luglio del 1930 ed il testamento letto il 12 luglio del medesimo anno, lo stesso giorno in cui è stato controfirmato dal figlio Adrian l’atto notarile che accompagna il pacchetto che le è stato recapitato. Il signor Doyle diede precise istruzioni, nelle sue ultime volontà, di conservare e non aprire mai l’oggetto fino al 16 giugno 2011, data in cui sarebbe dovuto essere recapitato al dottor John Hamish Watson. Ovvero lei » disse, facendo una breve pausa prima di riprendere: « ovviamente abbiamo controllato, prima di inviarglielo. Lei esiste ed è reperibile, dunque noi abbiamo ottemperato a ciò per cui siamo stati pagati » concluse, la voce calma e quantomeno suadente, probabilmente abituato a parlare con professionalità ad ogni suo cliente.

John era sempre più confuso, ma non lo diede a sentire: « non metto in dubbio la vostra professionalità, ma non è semplicemente possibile, mi creda ».

« Per quale motivo? » chiese subito l’altro.

« La data! » ribatté subito Watson, ripetendosi: « lei continua a dirmi che questo signor Doyle ha fatto il mio nome nella stesura del proprio testamento, ma io non ero ancora nato nel 1930! » esclamò, ora preda di una sorta di rabbia agitata.

Un momento di silenzio intercorse fra loro, prima che Whale riprendesse la parola: « tuttavia, le informazioni fornite su di lei sono corrette, dico bene?  » domandò – John sentì uno sfrigolio di fogli dalla cornetta prima che l’altro continuasse il discorso: « lei è il dottor John Hamish Watson, laureato alla London University, ha fatto il tirocinio formativo al St. Bartholomew Hospital di Londra, si è arruolato nel Quinto Fucilieri di Northumberland e ha combattuto in Afghanistan con il grado di Capitano, dico bene? » chiese conferma.

« Sì, è giusto, ma... »

Venne interrotto. « Allora le informazioni in nostro possesso non sono errate ».

« Ma sono impossibili! » insistette John: « nel 1930 non era nato nemmeno mio padre! E io sono del ’77! ».2

Un sospiro riempì la cornetta, al quale John capì di non avere speranza di convincere quel giovane notaio.

« Senta... » cominciò Nathan: « sono convinto anche io che la situazione sia strana, ma il nostro compito era consegnarle quel pacco. Punto. Lei esiste ed è tutto come ci è stato lasciato scritto, dunque il nostro lavoro è concluso » disse risoluto, facendola risuonare davvero come l’ultima cosa che avrebbe detto.

In tutto ciò, John non ci aveva guadagnato nulla se non l’essere ancora più disperso ed emotivamente instabile di prima. Perché non era solo il lutto a scombinargli la giornata, ma adesso anche l’inquietudine tangibile di un uomo, supponiamo profeta o chissà cosa, che nel 1930 decide di inviargli un pacco e sa già tutto di lui ancora prima che sia nato.

Sospirò a sua volta, scuotendo il capo. « Va bene... va bene. Mi scusi se le ho fatto perdere tempo » si congedò, chiudendo la chiamata solo dopo i saluti dell’altro.

Appoggiò il cellulare sul tavolo, massaggiandosi con pollice e indice della mano sinistra l’attaccatura del naso. Riaprì gli occhi solo dopo che il mal di testa fu diminuito, puntandoli subito sulla scatola lucida che due notti prima aveva richiuso ed abbandonato sul tavolo.

La riprese fra le mani in un movimento lento, aprendone il coperchio ed estraendo i due oggetti che conteneva.

Si focalizzò prima sull’orologio da taschino, che aprì attraverso il bottone sulla sua sommità, posizionato sotto l’anella da cui partiva la catena. Il quadrante era di un bianco sporco, probabilmente ingiallito dal tempo, ed il vetro aveva qualche graffio al centro. Le lancette nere erano sottili ed avevano una rifinitura finissima sulla punta.  Nessuna incisione né all’interno del coperchio né sulla grancassa. I numeri erano romani. Ma le cose più strane erano l’assenza di una marca sul quadrante e una levetta sul fianco, sotto alla chiave di carica, ferma a metà fra due estremi contrassegnati dalle lettere minuscole “d” e “m”.

Ovviamente non funzionava, ma John suppose che, essendoci una chiave di carica, andasse caricato.

Provò a caricarlo ma niente, non funzionò. L’orologio rimase immobile.

Probabilmente era un cimelio, un oggetto di valore affettivo. La domanda “perché darlo a me” si formò velocemente ed immediatamente nella sua mente ma, come per tutto il resto, non sapeva darle risposta.

Richiuse e posò l’orologio da taschino, prendendo invece in mano il taccuino di pelle. Aveva le dimensioni di un’agenda moderna e, aprendolo, John scoprì che era tutt’altro.

Era un diario.

Riconobbe la scrittura fine ed ordinata del biglietto che accompagnava gli oggetti, disseminata per pagine e pagine ed inframmezzata da disegni e schemi, note e cancellature. La maggior parte delle volte le pagine erano scritte in inchiostro nero, altre con l’inchiostro blu.

Come se non bastasse, nell’angolo in basso a destra della copertina di pelle erano incise in oro le iniziali H.W.H., come quelle del fazzoletto e del messaggio.

H.W.H.” e “Arthur Conan Doyle” non andavano d’accordo, in fatto di iniziali. Doveva supporre che gli oggetti appartenessero a un’altra persona e Conan Doyle li avesse avuti in consegna? Sembrava la spiegazione più logica.

Stranito dalla faccenda, cominciò dall’inizio, ovvero da dove si cominciavano tutte le cose.

Aprì la prima pagina e si preparò alla lettura partendo dalla data.

« “10 agosto ‘31” » lesse in un sussurro.

Fissò l’anno con particolare interesse, aggrottando le sopracciglia e la fronte in un’espressione pensierosa.

Il 1931? Non poteva essere possibile. Nathan Whale gli aveva confermato che il pacchetto sigillato era in possesso dello studio legale dalla morte del signor Doyle, avvenuta a luglio del 1930. Anzi, probabilmente lo avevano in consegna già da prima, ovvero dall’ultima volta in cui Arthur aveva dettato testamento.

Passò rapidamente alle ultime pagine del diario, osservando che l’ultima data riportata era il 22 maggio ’36.

Allora 1831, un secolo prima. Sembrava strano, però, perché il taccuino aveva le pagine molto sottili e di carta pulita e di buona fattura, cose che la prima metà del diciannovesimo secolo non sapeva ancora offrire. Tuttavia era la più plausibile.

Divorato dalla curiosità, cominciò a leggere.

 

• 10 Agosto ‘31

Papà continua a dirmi che studiare a Oxford non è altro che un onore, che è fiero di me, che tutti in famiglia sono fieri di me e che anche mio padre sarebbe fiero di me. Lo so, che lo sarebbe, se fosse ancora con noi. Ma so anche che non lo sarebbe se sapesse che, per studiare ad Oxford, sono obbligato a lasciare papà da solo e a vederlo solo durante le vacanze e alla fine di ogni semestre; Oxford pretende una vita collegiale.

Non voglio lasciare papà. Dopo la morte di mio padre non è più lo stesso, anche se fa del suo meglio. È distratto ed assente, passa pomeriggi interi seduto a guardare fuori dalla finestra e non mi serve essere un medico per capire che è depresso. Lo sa anche lui, ma non fa nulla per cambiare la situazione. Per questo non voglio lasciarlo solo.

 

Arrivato alla fine della prima entry, John si accorse subito che qualcosa non quadrava.

Il linguaggio era troppo spigliato, troppo colloquiale, troppo... moderno. E poi sembrava che parlasse... di due persone diverse, riferendosi a “papà” e “mio padre”. Presupponeva una famiglia composta da due padri? No. Impossibile. Non sarebbe potuto succedere nel 1831. Ricordava molto bene lo scandalo Oscar Wilde dai libri di letteratura ed erano addirittura i primi anni del 1900. Le relazioni omosessuali erano un reato, figuriamoci le famiglie.

Quel diario non poteva essere stato scritto nel 1831, ma era anche impossibile che fosse stato scritto nel 1931.

Non ci stava capendo più niente. Il linguaggio usato sembrava addirittura del ventunesimo secolo, ma questo avrebbe fatto sì che la data fosse il 2031 e questo no, non poteva proprio essere. Questo significava essere pazzi, andati, completamente fuori di testa.

« Forse lo sono sul serio » commentò amaramente, richiudendo il taccuino e ributtandolo senza grazia nella scatola insieme al resto della roba.

 

 

 

Cinque anni di università. Uno di tirocinio formativo. Due di specializzazione in chirurgia d’urgenza. Uno di addestramento e altri sei passati in guerra.

Sapeva riconoscere ad occhio praticamente ogni malattia respiratoria. Tutte le più comuni infezioni. Sapeva rimuovere un proiettile, medicare, disinfettare, e suturare (o cauterizzare se necessario) una ferita d’arma da fuoco in meno di quattro minuti (cronometrabili). Aveva richiuso addomi, riposizionato fegati e varie interiora, suturato arterie alla luce di una torcia elettrica, tagliato dita e segato ossa e ricucito praticamente ogni centimetro d’epidermide che può ricoprire un essere umano adulto e con una divisa addosso. Era stato nel bel mezzo di un focolaio di Tubercolosi. E di Dissenteria. Aveva rimosso delle schegge di mortaio dal culo di almeno venti uomini.

E lavorava come segretario per un chirurgo plastico.

Aveva fatto domanda d’assunzione praticamente in tutti gli studi medici di Londra, ma nessuno sembrava interessato ad assumerlo. Aveva evitato gli ospedali per lo stesso motivo.

Il perché era presto detto (o letto): Sherlock Holmes. Il nome “John Watson” era famigerato quasi come quello di Holmes e, dai, andiamo, chi vorrebbe il compare di un impostore come medico? Probabilmente Sarah lo avrebbe ripreso, ma non poteva vivere sostituendo medici in gravidanza o coprendo qualche turno di notte una volta ogni tanto – e Sarah non aveva mai avuto altro da offrirgli, in ambito lavorativo. E poi sarebbe stato strano, e snervante. Non voleva in giro gente che conosceva, era meglio.

Alla fine, il dottor Kolstoj lo aveva assunto come suo segretario. Era un chirurgo plastico in ascesa e, per il momento, aveva ancora un buon carattere e un’altrettanto buona cura della propria reputazione. E soprattutto se ne fregava delle voci ed era una di quelle persone che badano di più ai fatti.

Dunque, passava 12 ore al giorno rispondendo alle telefonate, prendendo appuntamenti e sistemando cartelle cliniche in pile ordinate alfabeticamente e cronologicamente per anno.

Si era detto che era meglio di niente. Meglio della fame. Meglio di prima.

Sospirò quando anche l’ultima paziente della giornata entrò in ambulatorio, appoggiando la penna e massaggiandosi la mano con cui aveva scritto per tutto il dannato giorno. Non era più abituato.

Doveva ancora finire di compilare due cartelle mediche, ma per il bene del suo tunnel carpale decise di prendersi una pausa. Nonostante fosse un segretario era costretto ad indossare una divisa blu da infermiere e, anche se sotto portava una maglietta a maniche lunghe, aveva comunque un perenne freddo alle ossa.

Allungandosi verso il cassetto della scrivania, ne estrasse il diario. Ne leggeva piccole parti ogni giorno appena poteva, e aveva scoperto una storia interessante man mano che proseguiva; a quanto sembrava, il detentore del diario aveva sul serio due padri, ma era orfano da poco di uno di loro. Era inoltre alle prese con una carriera brillante ad Oxford che lo lasciava perennemente preoccupato per il padre – quello dei due che veniva chiamato “papà” ed era ancora in vita – perché, nonostante cercasse di tornare a casa appena poteva, lo vedeva sempre meno in forma.

Li aveva invidiati, John, ad un certo punto. I due padri del diarista. Dovevano amarsi davvero molto, se uno dei due sembrava soffrire così tanto per la morte dell’altro.

Per un momento pensò a Sherlock, ma scacciò il pensiero prima che divenisse più profondo (e triste).

Appoggiandosi con la schiena allo schienale della poltrona, sfogliò le pagine fino alla quarta entry.

 

27 Novembre ‘31

Ho chiesto il trasferimento alla London University. Papà e lo zio non ne sono affatto felici (soprattutto lo zio). Mi ha fatto una lavata di capo sul nome di famiglia, cosa che non mi sarei mai aspettato da lui. Probabilmente, se ci fosse stato mio padre avrebbero litigato (di nuovo). Papà lo aveva sempre apostrofato come “faida puerile”.

Mi manca, mio padre. Se lui fosse qui, papà sorriderebbe di più. Non lo vedo bene ultimamente.

Comunque il Rettore di Oxford mi ha fatto un discorso molto concitato, lungo 40 minuti, riguardo alla possibilità di rimanere in facoltà. Anche dopo che gli ho ripetuto le mie motivazioni ha insistito, dicendo che papà si sarebbe potuto trasferire appena fuori dal campus. Ho negato categoricamente. Papà non avrebbe mai accettato di andare via da casa – dalla nostra casa, dalla loro casa – altrimenti lo avrebbe già fatto e io non voglio forzarlo. Tutti i ricordi di mio padre sono lì dentro, per lui...

La London mi ha accettato senza problemi e mi ha anche riconosciuto gli esami già dati. Secondo loro sono avanti rispetto alla media degli studenti, tanto che potrei laurearmi in anticipo e puntare all’eccellenza. Ed è esattamente quello che voglio fare.

 

 

 

Si era chiesto quanti seni vedesse il dottor Kolstoj ogni santo giorno.

E quanti sederi. Molti, considerando che aveva sentito dire al medico la frase “si metta lì in piedi e si spogli” più di quante volte avesse detto “buongiorno”.

Entravano molte persone, nel suo studio medico. Moltissime donne e qualche uomo sufficientemente narcisista da richiedere una rinoplastica o una puntura di botox. Alcune lo facevano per necessità, altre solo per bellezza e altre ancora (John ne era convinto) per assuefazione. Avevano labbra talmente piene da sembrare di plastica ed il viso spianato dal continuo uso di botulino sembrava quello di un manichino. Quel giorno ne aveva vista una sorridere – o provarci – ed era stato tentato di fermarla per timore che potesse esplodere qualcosa dalle parti delle orecchie.

Un paio ci avevano anche provato con lui. Classici trucchi da femme fatale: occhiate fisse, lingua sulle labbra, apertura e successivo accavallamento di gambe alla Basic Instinct.

Ma era un uomo professionale. Aveva sempre diffidato delle donne che ricorrevano alla chirurgia plastica e, fra il lavoro e rischiare di trovare un paio di labbra a canotto sotto ad un cervello da gallina, aveva preferito il lavoro.

 

8 Aprile ‘32

A quanto pare la capacità di lamentarsi per ogni piccola cosa è parte integrante dell’esistenza di ogni professore, non importa a quale grado scolastico insegni.

Se tu scrivi in modo sbagliato una formula e sbagli il problema davanti a cento studenti, non è colpa mia. Nemmeno se ti correggo ad alta voce e, sfidato, vinco il confronto risolvendo il problema in metà del tempo, non è colpa mia. Non è nemmeno colpa mia se sto seguendo lezioni del secondo anno a sette mesi dalla mia iscrizione: dannazione, gli esami del primo li ho già dati tutti, cosa devo fare, girarmi i pollici?

A quanto pare il Rettore non era d’accordo con me. Oppure il Rettore è semplicemente dalla parte dei suoi insegnanti a causa di vincoli monetari e/o di prestigio. Queste cose non cambiano mai.

...l’ho detto a papà. Lui... lui mi ha appoggiato la mano sulla testa e ha detto che devo ancora imparare ad essere più calmo ed educato.

Tutto qui.

Nessuna lamentela, nessuna sgridata. Me le faceva sempre, anche al liceo, anche dopo. Prima che morisse mio padre, per lo meno.

Si sta spegnendo. E io non so cosa fare.

 

 

 

Le cose su Londra che c’erano da sapere, John Watson le sapeva tutte.

Dove comprare cose. Dove vedere gente. Dove trovare piaceri.

Una persona, ad un certo punto, queste cose viene a saperle e basta.

Con una Oyster3 arrivare a Soho non è un problema nemmeno alle due di notte. Alle due di una notte insonne. Alle due di una notte divenuta insonne perché costellata di incubi.

Andavano e venivano a seconda della stanchezza. Dormiva tre ore per notte finché non era esausto e, quando la mente non riusciva più a tenere il passo con la veglia, crollava sul divano non appena rientrato a casa e dormiva anche per dieci o dodici ore di fila.

Cominciava a non riconoscere più gli orari dei pasti, e a dimenticarseli. Non ricordava mai se aveva mangiato, cosa aveva mangiato e se il frigorifero era vuoto o pieno. Gli sembrava di vivere a cavallo fra realtà e dormiveglia, oppure fra realtà ed incubo.

Quella notte, Sherlock era venuto a trovarlo. Gli aveva detto addio per l’ennesima volta e, per l’ennesima volta, si era buttato dal tetto del Barts. Era stanco di mangiare asfalto ogni notte, asfalto che sapeva di sabbia, e l’odore del sangue che era sempre lo stesso indipendentemente dal sogno.

Era stanco e basta.

Il club si chiamava “The Eden’s Apple” e, nonostante l’insegna al neon rossa un po’ consunta e l’aspetto stropicciato e smunto dell’entrata, era il locale più raccomandabile e “pulito” della sua specie. Lo aveva frequentato in gioventù insieme ad alcuni amici dell’università che lo avevano introdotto per primi ad un tipo di piacere che non richiedeva cene, avances, parole dolci o tentativi seri di relazione.

John non voleva niente di tutto ciò, in quel momento. L’unica volta in cui l’idea di trovarsi una brava ragazza lo aveva sfiorato, il pensiero “tanto Sherlock la farà scappare prima di un mese” era arrivato prima del ricordo del fatto che l’amico fosse morto. E John sapeva cosa voleva dire: era fottuto.

Il consumismo era un buon ripiego. Sesso senza domande. Senza spiegazioni, riguardi, rimorsi. Voleva qualche ora di pace dai suoi incubi, era chiedere troppo?

Entrò nel locale guardandosi discretamente intorno, il colletto del giubbotto nero alzato contro il vento e la pioggerellina fine. Fece un cenno di saluto al portiere passandogli una banconota da 50 sterline, lasciandosi perquisire dal buttafuori in cerca di armi o droga – normale amministrazione.

Una volta dentro, la musica assordante lo colpì con violenza. L’Eden’s Apple era una discoteca nonostante il servizio principale fosse un altro, ovvero quello nascosto dai separé sulla destra, verso i quali John si diresse senza nemmeno fermarsi al bar per prendere uno (o due) drink.

Con le mani in tasca percorse velocemente il breve tragitto che lo separava dai separé con disegni orientali di uccelli dalle lunghe code, dietro ai quali vi era una porta che aprì e poi si richiuse alle spalle.

Si fermò all’inizio di un corridoio con dodici porte nere, sei per lato, davanti alcune delle quali erano appoggiate ragazze di diverso aspetto e a malapena vestite; sorridenti ed ammalianti nei loro babydoll di seta o nella biancheria nera di pizzo, tacchi alti e profumi sensuali sui polsi e sul collo. Le stanze già occupate avevano la porta chiusa, ma i muri non permettevano di coprire suoni e gemiti come faceva invece il rimbombo della musica della sala accanto. L’aria era calda, bollente, e John si sentiva già addosso un velo viscoso ed appiccicaticcio di sudore misto ad incenso.

Aveva un tipo, John. Bionda con gli occhi azzurri. Rebecca, la prima con cui era andato ai tempi del liceo, era esattamente così: bionda e con gli occhi azzurri. Era stata la sua preferita per molto tempo, almeno finché non si trovò finalmente una ragazza fissa e ci diede un taglio con i sabato sera all’insegna della frenesia pura.

Ora non era più un giovane ragazzo, ma sapeva benissimo che a quelle ragazze non importava. Era il loro lavoro, accontentare tutti. Se non lo avessero voluto lì dentro lo avrebbero bloccato direttamente all’entrata. Il lavoro del portiere e del buttafuori, in realtà, era proprio quello.

Si diede una breve occhiata intorno, passando in rassegna i volti e le caratteristiche di ogni ragazza. Cinque di loro erano libere e, fortunatamente, fra le cinque nessuna era il suo tipo. Passi i capelli biondi, ma aveva un problema nuovo di zecca con gli occhi azzurri. E non poteva di certo chiedere a sé stesso lo sforzo di osservarne un paio intrisi di piacere e malizia sotto di sé fra le lenzuola. No, non poteva proprio.

Mora con gli occhi castani sarebbe andata benissimo. Fece attenzione a sceglierla con i capelli lisci, però.

« Ciao dolcezza... » miagolò la sua prescelta quando John si avvicinò, le mani ancora nelle tasche della giacca, l’espressione di un abituè che tale non era davvero (era semplicemente la sua espressione disillusa e delusa dalla vita, quella).

« Ciao » si sforzò di rispondere John, prima di cominciare una rapida trattativa: « qual è il tuo prezzo? » domandò.

La donna sorrise, sensuale, portandosi una ciocca di lunghi capelli lisci dietro la spalla con un movimento aggraziato della mano. « Ciò che hai pagato all’ingresso » gli rispose.

Lo presumeva. « Già, sì... certo. Ma sappiamo tutti e due che certi servizi non sono compresi in quel prezzo » ribatté.

La donna sorrise ancora più maliziosa di prima. « Dipende da cosa vuoi, tesoro » mormorò, passandogli un dito sul petto lungo i bottoni della camicia: « per l’anal, c’è un supplemento di quaranta sterline. Venti se vuoi un lavoretto di bocca. Saliamo a sessanta se hai particolari tipi di fetish, o per il bondage, ma non faccio total bondage. E poi, beh... » una piccola pausa in cui si avvicinò a lui, facendo attenzione a sfiorargli l’orecchio con le labbra, da vera esperta, mentre sussurrava: « ...per altri tipi di divertimento, si arriva anche oltre i cento ».

Il medico respirò il suo odore vanigliato e lo trovò francamente stomachevole. Ma era sicuro che entro dieci minuti si sarebbe dimenticato sia il profumo che il proprio nome. Quello di lei non voleva saperlo.

« Quale tipo di divertimento? » domandò, a sua volta in un sussurro, osservandola attento mentre, a pochissimi centimetri da lui, si faceva scivolare due dita della mano destra dentro una coppa del reggiseno e ne estraeva un piccolo sacchettino trasparente con dentro vari grammi di polvere bianca.

« Cocaina? » chiese John. Quella annuì con occhi brillanti.

Sherlock. Era una persecuzione.

Il medico scosse la testa, occhi chiusi.

Lei fece spallucce, nascondendo la droga nel pugno chiuso della mano. « Ho diversi tipi di preservativo, se sei un fanatico » disse poi, leccandosi le labbra in un modo quasi osceno.

« Ho i miei » tagliò corto John, diffidente. « Hai qualcosa in contrario al sesso violento? » domandò però subito dopo, sguardo fermo negli occhi di lei che gli rispose con un sorrisetto.

« Il mio preferito... » ribatté lei, lasciva.

Estrasse dalla tasca sinistra del giubbotto una banconota da venti che la donna prese con un sorrisetto, accarezzandogli le dita con le proprie.

« Vuoi che chiami il tuo nome, mentre vengo? » domandò lei.

John sogghignò. Era disperato, non un povero illuso.

Non le rispose e lei non se ne lamentò. Gli fece solo segno di accomodarsi all’interno, precedendolo ancheggiando.

Watson sentì di gettarsi alle spalle qualcosa di più della dignità, ma non gli importò. Oblio, questo voleva. La possibilità di fare finta di essere in un altro posto, in un altro luogo, in un altro tempo.

La possibilità di non essere più se stesso almeno per qualche ora.

 

21 Luglio ‘32

Il mio professore di Fisica mi ha voluto con sé all’interno di un gruppo di studiosi selezionati da tutte le maggiori università della Gran Bretagna. Non ho ancora capito che tipo di gruppo di ricerca sia, ma so solamente che sono l’unico studente ed il più giovane di tutti. Suppongo che mio padre ne sarebbe fiero.

Dice di essere rimasto impressionato dalla mia ricerca sui buchi neri di Kerr e sull’Orizzonte degli Eventi.5 Mi aveva già detto più volte di essere impressionato dalle mie capacità in Fisica ed Astrofisica, ma da qui a farmi fare parte in quello che ha tutta l’aria di essere un progetto super segreto...

Ho chiesto allo zio per prudenza, ma stranamente anche lui non ne sapeva nulla. Il che mi sta dando da pensare.

 

 

 

Molti pensano che l’orgoglio di una persona si infranga in momenti epici, dolorosi e pieni di risentimento.

Probabilmente è colpa dei film americani, che sembrano riciclare all’infinito il cliché del protagonista urlante sul cadavere del co-protagonista di turno, con le lacrime agli occhi e la disperazione nelle voce. Forse è per questo che, in collegamento a certe immagini, la letteratura preferisce descrivere la morte dell’orgoglio paragonandolo ad un infrangersi di vetri, o di porcellane, o di qualsiasi cosa possa infrangersi e lasciare in giro delle schegge.

In realtà non è così. In realtà l’orgoglio è qualcosa di pesante, ferroso, scuro ed arrugginito. Cadendo non si rompe affatto, fa solo un gran casino. Rimbomba nel petto come una bomba a mano e la fatica che si deve fare non è quella di rimetterlo insieme, ma quella di risollevarlo.

L’orgoglio non si spezza: quello è l’animo umano. L’orgoglio se ne sta sul fondo del pozzo ad affondare, e più si aspetta più affonda, e più affonda più si fa difficile tirarlo via.

E no, l’orgoglio che cade non ha suono se non quando tocca il fondo. Non succede in momenti epici, non è accompagnato da urla e grida e, per Dio, nemmeno da lacrime.

John Watson ne sapeva qualcosa.

La seconda volta che l’orgoglio di John cadde con un tonfo, lui era seduto sul letto del suo nuovo appartamento a fissare lo schermo della televisione spenta. Niente momenti carichi di pathos e scene da protagonista melanconico. Solo un sospiro e un leggero scuotere del capo.

John si era sempre creduto un uomo onesto con gli altri, ma poco con se stesso. Tutte le volte in cui doveva guardarsi dentro ed ammettere di avere bisogno di aiuto, però, lo aveva fatto. A volte in ritardo, quello è vero – la prima volta che il suo orgoglio cadde, aveva aspettato un anno prima di provare a tirarlo su di nuovo – ma fortunatamente era anche uno che imparava dai propri errori.

Non poteva continuare ad essere solo. Aveva respinto tutti coloro che avevano tentato di aiutarlo e, nel suo rifiuto, aveva finito per punire persone che, forse, non centravano niente. O non se lo meritavano.

Non avrebbe perdonato Mycroft, no, la sua colpa era legittima. Ma Lestrade... Greg... quale responsabilità poteva avere Greg in concreto? Forse era proprio come uno di quei soldati che, a Norimberga, dicendo di non avere avuto altra possibilità se non obbedire dicevano solo la verità.

Gli mancava. Greg era diventato una sorta di strano amico, peculiare ma sincero, e si erano riscoperti persone affini, in un qualche modo. Di sicuro potevano parlare alle spalle di Sherlock Holmes con cognizione di causa, quando andavano a bere una pinta al pub, e probabilmente erano gli unici a poterlo fare sul serio. Gli unici che sarebbero stati in diritto di indossare una maglietta con la scritta “ho frequentato Sherlock Holmes per più di 24 ore e sono sopravvissuto”.

Sorrise appena a quel pensiero, John, e questa volta non aspettò che l’orgoglio marcisse, prima di cominciare ad issarlo. Raggiunse il cellulare e, scorrendo la lista contatti, arrivò al nome di Lestrade.

Forse, era il momento di chiedere scusa. Di perdonare.

Di perdonare almeno Lestrade.

Fece partire la chiamata.

 

4 Agosto ‘32

Il professor Schneider mi ha finalmente spiegato a cosa fosse dovuta tutta quella segretezza e, sinceramente, non ho parole. Non credevo che il Governo Inglese potesse arrivare a tanto. Ho sentito che al progetto collaborano anche l’Irlanda del Nord e la Scozia. Tutto il Regno è concentrato su questo progetto che, se riesce, potrebbe riportare alla nazione i lustri di quando era un Impero temuto e rispettato da mezzo mondo.

Non so se sono tutti impazziti o se sono tutti dei geni. Papà dice sempre, però, che genio e follia molto spesso collimano (e che mio padre ne era l’esempio vivente).

Papà. Con questo, non potrò mantenere la promessa di prendermi cura di lui. Sarò troppo impegnato, probabilmente, anche se sarò comunque a Londra, a portata di telefonata.

Lui è fiero di me. Lui è sempre fiero di me. Non ricordo ci sia stato un solo istante della mia vita in cui lui non sia stati fiero di me, nonostante tutti i guai e i problemi e le liti.

Spero solo che si riprenda. Ho il brutto presentimento che si stia lasciando andare...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1. Questi sono tutti dialoghi presi dalla 2x03, gli ultimi minuti, al cimitero. Siccome non ho avuto il fegato di riascoltarli e tradurli ad orecchio, ho usato la versione dei sottotitoli di Itasa. E non mi ha fatto soffrire di meno.

 

2. Nonostante l'età di Holmes e Watson sia ancora un argomento parecchio discusso, alcune teorie danno Holmes nato nel 1854 e Watson nel 1852. Mi informa Wikipedia che le prime avventure, ovvero "Uno Studio in Rosso" e "Il Segno dei Quattro", sono da datarsi a poco dopo il 1880, anno in cui Watson è ancora in combattimento. Assumo per buon senso (che potrebbe fare cilecca) che siano almeno due anni dopo. Ora, secondo i miei calcoli, Holmes e Watson dovrebbero avere circa una trentina d'anni (precisamente: 30 Watson e 28 Holmes).

Trasportata ai giorni d'oggi ammetto di avere alzato l'età probabile di un paio d'anni a tutti e due, portando Holmes a 30 e Watson a 32 (al primo incontro). È lo stesso John a dire poi, in "The Reichenbach Fall", che ha convissuto con Sherlock per 18 mesi (un anno e mezzo); il che porta Sherlock a 31/32 anni e John a 33/34. Facendo un paio di conti a ritroso dal 2011, Watson mi risulta nato nel 1977 e Holmes nel 1979.

Ricordate che la matematica non è un'opinione ma io sono in grado di renderla tale ;D

 

3. La Oyster Card è una carta ricaricabile che ti permette di salire su ogni tipo di trasporto nell'area urbana di Londra. Ovvero tram, metropolitana ed autobus.

 

4. La prostituzione in Inghilterra non è vietata. Eh già. Lo è solo se esercitata in luoghi pubblici e nelle aree urbane, secondo la legge inglese, il che rende luoghi come L'Eden's Apple perfettamente legali.

 

5. Non sarebbe questo il capitolo adatto a spiegare cosa sono i buchi neri di Kerr e l'orizzonte degli eventi (dato che potrebbero anche essere indizi...) ma dato che esiste Wikipedia e di sicuro non aggiornerò mai troppo presto, tanto vale iniziare il primo dei grandi papiri di Fisica Relativistica che chi sarà abbastanza pazzo da continuare a leggere si beccherà ogni tanto. Esatto, si parla di Teoria della Relatività, dunque del caro zio Einstein (e seguaci).

Penso che si sappia cos'è un buco nero, ma per chi non va molto d'accordo con la Fisica, la spiegazione semplice è che un buco nero sia una stella morta ed implosa la cui gravità, collassando, ha creato una singolarità in grado di "risucchiare" tutto: masse, luce e addirittura tempo.

Detto questo, molti scienziati hanno elaborato delle teorie per capire l'origine di quella singolarità. La più papabile pare quella di Kerr, che immagina il suo buco nero causato da più masse rotanti non cariche elettricamente che creano una singolarità anulare. Banalizzando: immaginatevi la vera nuziale di vostra madre in scala 20milioni-di-miliardi:1 che gira talmente veloce da fare collassare la gravità.

Da qui, l'orizzonte degli eventi è una porzione di spazio che circonda la singolarità del buco nero in cui lo spazio-tempo viene piegato. Vi risparmerò i termini strettamente fisici, ma praticamente è quel punto oltre il quale qualsiasi cosa cessa di esistere così com'è, perché le leggi della Fisica non hanno più senso. (I buchi neri di Kerr ne hanno 2 di orizzonti, tipo 8D).

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Capitolo 3
*** Diary II ***


Note: Terzo capitolo. In questa seconda parte di Diary si comincia a intravedere qualcosa della parte sci-fi della faccenda, che comincerà ufficialmente nel prossimo capitolo. Leggo con piacere – in quelle bellissime recensioni che ho ricevuto e che mi hanno commossa ç___ç – che qualcuno si è già fatto un’idea... bene, bene. Dopotutto è un po’ cliché, no? XD


Credo che questo capitolo sia un inno a Lestrade. Le sue parti sono, in realtà, un’idea avuta per una oneshot a parte che non ho mai continuato a scrivere. Erano inutilizzate e così mi sono detta “ok, facciamolo, usiamo questo Greg”. Prendetela come una visione personale del mio Greg post-Reichenbach.

 

Nella parte scientifica del diario penso di avere sparato un mare di cagate (chiedo scusa per il francesismo ma è l’unica parola che rende davvero bene). Fatela passare per libertà artistica da sci-fic futuristico, ok? ;D sto cercando di dare una base fantascientifica ad una cosa ancora più assurda...

 

A chi vuole leggere, infine, auguro buon “divertimento” e buona lettura

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Diary /2

 

 

 

Quando gli comparve davanti, nella pioggerellina fine di un Luglio che non aveva proprio la minima intenzione di comportarsi come un vero mese estivo, gli sembrò di non vederlo da molto più di quelle tre schifose settimane appena passate.

« John ».

« Greg ».

Lestrade aveva le mani affondate nel trench nero e stropicciato, dal quale si intravedevano i pantaloni neri a taglio classico tipici dei detective di Scotland Yard. Non si vedevano dal funerale ma non si parlavano da molto prima, loro due, praticamente da poche ore dopo la “caduta”.

E non si erano lasciati da amici.

Quella consapevolezza giaceva negli occhi di entrambi. Occhi vuoti ed in cerca di un motivo per andare avanti quelli di John, occhi stanchi e cerchiati da occhiaie profonde quelli di Greg. John si chiese perché sembrasse così stanco e sfibrato – la pelle di un colorito ancora più pallido di come se lo ricordava – ma al contempo decise che quella fosse una domanda come un’altra per rompere il ghiaccio, e per cercare di riallacciare quei fili di un’amicizia sottile che si era interrotta troppo presto (e troppo tragicamente).

« Non hai un bell’aspetto » disse allora John, le mani a sua volta infossate nelle tasche della propria giacca.

Greg gli sorrise appena, un sorrisetto storto ma stanco, socchiudendo gli occhi in un sospiro. « Non dormo molto bene, ultimamente » gli rispose.

« Già, beh... siamo in due » commentò John, rispondendo il parte al sorriso dell’ispettore.

« Non avevo dubbi » rispose Greg. « Entriamo? » chiese successivamente, indicando il pub davanti al quale si erano dati appuntamento con un cenno del capo.

John annuì ed entrò dopo di lui.

Si accomodarono ad un tavolo d’angolo vicino alla finestra, un poco discostato dal resto della sala; ora, alla luce calda delle lampade all’interno del bar, John poteva vedere sul volto di Greg i segni di una stanchezza fisica erosiva.

Deglutendo, decise di mettere subito le carte in tavola. Quando era nel torto non gli piaceva tirarla troppo per le lunghe... e in quel caso si sentiva maledettamente colpevole.

« Greg, volevo scusarmi per come mi sono comportato l’ultima volta... » cominciò, ma Lestrade lo interruppe alzando una mano fra loro.

« Non è necessario, John. Sono io ad aver sbagliato. Stavo... » deglutì, sembrando per un attimo indeciso, ma poi continuò: « ...stavo cercando di liberarmi da un senso di colpa che probabilmente non mi abbandonerà mai » la frase sfumò fino a divenire un mormorio: « ho scelto il luogo ed il momento sbagliato ».

« No, no... » negò John scuotendo il capo, ma non seppe cos’altro aggiungere. In realtà, una buona parte di lui concordava con le parole di Lestrade: quello era stato davvero il luogo ed il momento sbagliato, ma sentiva comunque che la sua reazione fosse stata troppo eccessiva.

Glielo disse. « La mia reazione è stata eccessiva, in ogni caso. Mi dispiace ».

« Non ci pensare nemmeno » rispose Lestrade con un altro sorriso stanco, ma questa volta anche sfumato da una stilla di contentezza.

Furono interrotti dalla cameriera che arrivò a prendere le ordinazioni, sorridendo cortese verso i due uomini.

« Per me un tè, per favore » disse John, osservando distrattamente la ragazza scrivere l’ordine sul taccuino.

« Whiskey » le disse invece Greg: « doppio, con ghiaccio ».

La ragazza annuì e si diresse verso il bancone, mentre John spostò lo sguardo sull’amico con un sopracciglio leggermente sollevato. « Dov’è finita la tua solita pinta di birra? » domandò, solo in parte sorpreso di questo cambiamento.

Poteva immaginarne il motivo. Era ancora troppo presto anche per Lestrade, probabilmente.

Greg face spallucce: « in questi ultimi tempi mi ci vuole qualcosa di più forte » commentò: « e tu? Cosa vuol dire bere tè in un pub alle dieci di sera? » domandò ironico.

John gli copiò il gesto. « Diciamo che la fase delle bevande fortemente alcoliche io l’ho già superata » disse semplicemente, facendo intendere molte più cose di quelle che disse.

Sottointesi che Greg afferrò prontamente, annuendo comprensivo.

Passarono qualche istante di silenzio a guardarsi intorno, in cui la cameriera tornò con le loro ordinazioni e con qualche ciotola di stuzzichini per accompagnare l’alcool di Lestrade. Davanti a John furono invece posate una tazza, una teiera piena di acqua ancora bollente e un contenitore rettangolare contenente diversi filtri di tè di altrettanto diverse varietà. La ragazza gli chiese se volesse il latte ma John negò educatamente, afferrando con le dita della sinistra una famigliare bustina di Earl Grey.

A riprendere il discorso, quando la ragazza se ne fu andata, fu Lestrade.

« Allora, ho sentito che ti sei trasferito » disse causalmente.

John annuì. In realtà, questo era anche una sorta di test per vedere quali argomenti e quali ricordi era in grado di affrontare senza avere un crollo di qualche tipo. A quanto pare, il ricordo del 221B di Baker Street che automaticamente gli riaffiorò alla mente alla domanda di Greg causava solo una piccola puntura al cuore, ma non era abbastanza doloroso da non parlarne.

« Sì. Non avevo la forza di restare in Baker Street... e poi, Mycroft aveva comunque preso determinati accordi con mrs. Hudson riguardo all’appartamento, mi sono sentito di troppo » gli disse.

Greg inarcò il sopracciglio ingollando un sorso di alcool. « Il signor Holmes? Cosa c’entra con l’appartamento? » domandò, innocentemente.

Questo fece un po’ più male. Ma strinse i denti.

Se certe cose non le affrontava ora, con Lestrade di fronte a lui (probabilmente uno dei pochi che avrebbe capito senza fare domande), non ci sarebbe riuscito mai più.

« Pagavo solo una metà dell’affitto, dopotutto » gli rispose, in un modo pensato apposta per evitare di pronunciare il nome di Sherlock – perché aveva il sentore, John, che avrebbe ferito entrambi.

Nell’attimo di silenzio che Greg fece passare prima di replicare, John vi lesse un muto ringraziamento. « Era comunque tuo per metà. Che diritto aveva di cacciarti di casa? ».

« Oh, non lo ha fatto » precisò John: « ero io che non potevo più restare lì, per... beh... ovvi motivi » glissò, gli occhi puntati sul filtro in infusione: « mi ha chiaramente detto che potevo rimanere quanto volevo, ma ho rifiutato. Non so cosa ne farà di tutta la roba rimasta là, ma sinceramente non mi importa. O meglio... non voglio far sì che mi importi » si corresse poi, strizzando bene il filtro con il cucchiaino e aggiungendo al tè limone e una punta zucchero.

« mh... » annuì Greg con un mugugno, bevendo un altro sorso di whiskey: « e il lavoro? Hai già deciso cosa fare in proposito? » domandò.

A John sfuggì una risatina a metà fra l’amaro e l’ironico. « Hai davanti a te il segretario personale del dottor Ivan Kolstoj, famigerato chirurgo plastico! » esclamò con falsa allegria, aprendo le braccia con fare teatrale.

A Greg sfuggì una risatina: « e che ne è del lavoro alla clinica? » domandò.

« Non posso continuare a sostituire medici in maternità o turni scoperti per tutta la vita, Greg » gli disse il dottore: « Sarah è stata meravigliosa, ma non posso pagarmi l’affitto in quel modo, ora che... beh, ora che pago un prezzo pieno, anche se basso » spiegò, prima di continuare: « e purtroppo tutta la faccenda di Richard Brook ha avuto le sue ripercussioni su di me, a cominciare dal fatto che nessuna clinica vuole assumere il compagno di avventure/presunto amante/blogger personale di un impostore, pedofilo e psicopatico. E ti ho enunciato solo i modi migliori, con cui lo apostrofano » terminò, facendo sfumare la voce in una vena dura di rabbia.

Greg si espresse in uno dei suoi più efficienti sogghigni amari, come se sapesse. Beh, sicuramente lo sapeva. Bevve il resto dell’alcool tutto in un sorso, alzando poi la mano per ordinarne un altro.

A John non sfuggì il gesto, ma non disse niente. Ci pensò lo stesso Greg, il quale non aveva mancato di notare l’occhiata di John.

« Sono Detective Constable, ora » rivelò, annuendo in ringraziamento alla cameriera che gli mise davanti il secondo whiskey e ghiaccio.1

John si bloccò con la tazza a mezz’aria. « Ti hanno degradato? » domandò sorpreso.

Greg annuì appena, scolandosi tutto in qualche sorso e sbattendo sul tavolo il bicchiere vuoto.

« Hanno aperto un’inchiesta » continuò poi con gli occhi fissi sul ghiaccio tintinnante: « mi aspetto la sospensione dal servizio da un giorno all’altro ».

Fu solo con il silenzio che John poté accogliere quella notizia, e molto probabilmente Lestrade non gliene fece una colpa. Semplicemente, non seppe cosa dire. Era sempre stato abbastanza bravo quando c’era da consolare un amico, sempre abbastanza empatico da poter mettersi nei panni dell’altro e trovare parole da dire che non fossero “ti capisco” o “andrà tutto bene”.

John odiava quelle due frasi e, non volendo che fossero rivolte e a lui, non le usava mai. Una persona che non vive la stessa situazione non può capire, può solo cercare di capire. E non voleva dare false speranze come non desiderava ne fossero date a lui.

Dopotutto era stato in guerra, lì le false speranze spesso uccidono.

Per questo si fecero bastare il silenzio. Alzarono rispettivamente tazza e bicchiere, facendoli tintinnare.

“Al fallimento” pensò John senza parlare, ed era quasi del tutto sicuro che Lestrade avesse brindato alla stessa cosa.

Alle cose brutte della vita non servono parole.

 

 

 

 

• 6 Novembre ‘32

La cosa si è fatta seria.

Alcuni funzionari della Famiglia Reale hanno fatto firmare ad ognuno di noi documenti confidenziali e altamente restrittivi della nostra libertà di parola. Avevano lo stemma di Elisabetta II filigranato in ogni pagina. Ci hanno persino preso le impronte digitali ed un campione di DNA. Non avevo mai assistito a un tale sfoggio di onnipotenza.

In poche parole, non possiamo parlare o scrivere o riportare in nessun tipo di supporto esterno ciò che stiamo studiando. Non ho fatto parola di questo diario, su cui non potrò scrivere niente se non frasi vaghe, ma cercherò comunque di lasciare una traccia che non sia messa sotto chiave in qualche buco di Buckingham Palace.

Dubito che lo zio sappia qualcosa di tutta questa storia.

 

• 7 Novembre ‘32

È arrivato del materiale da Houston. Tutto, dallo scotch per imballaggio alla più piccola molecola di carta che compone l’involucro, puzza di NASA.

L’unica cosa certa, per ora, è che sono coinvolti anche gli Stati Uniti.

 

• 8 Novembre ’32

Ciò che sembrava solo possibilmente probabile è diventato probabilmente possibile. Anche se sembra un’utopia.

Non c’è da meravigliarsi se notizie di questo tipo sono state secretate. AMS-02(2) ha superato le aspettative, così come lo hanno fatto gli USA ricreando in laboratorio i quattro unici e utopici campioni di Unoptanio(3) (così è stato chiamato) che da oggi sono diventati il nostro pane quotidiano.

Devo saperne di più.

 

• 9 Novembre ‘32

Il riassunto di tutto, è che gli americani hanno fatto un casino. E la Regina ha deciso di prendersi la patata bollente e di cercare di trasformarla alchemicamente in un diamante.

AMS-02 ha trovato, in diversi raggi cosmici, particelle di una materia a noi sconosciuta. L’anno analizzata fino a trovare il modo di riprodurla. Sembrava irriproducibile al di fuori del vuoto cosmico, ma a quanto pare ci sono riusciti.

Unoptanio. La materia di cui sono fatte le stelle.

Il progetto che ne è derivato, però, è ancora più incredibile. Credere che da questi piccoli sassi luccicanti possa uscirne una cosa simile al bastone di Chronos(4) mi sembra ridicolo. Senza pensare che non è il materiale originale, ma solo una replica, e che nel processo di trasformazione potrebbero andare storte un numero esponenziale di cose.

Mi scoppia la testa, avrei bisogno di una pausa. Avrei bisogno di papà.

Sono quattro giorni che non torno a casa, e qui dentro non ho nessun mezzo di comunicazione disponibile se non l’interfono (ovviamente).

Sarà in pensiero...

 

Seduto alla scrivania del suo nuovo posto di lavoro, con in mano un mezzo sandwich sbocconcellato e con una lattina aperta di coca cola sul ripiano in legno, John chiuse il diario con uno schiocco secco e si chiese per quale motivo doveva passare l’ora di pausa pranzo leggendo certe stronzate.

Unoptanio? Raggi cosmici? Complotti dei Windsor? Nel 1932?!

Più continuava a leggere, più gli sembrava un falso d’autore. O un romanzo. O la cosa più strana che gli fosse mai capitata fra le mani. Tuttavia il giovane notaio con cui aveva parlato al telefono aveva confermato più volte che non poteva essere un falso, che il diario proveniva davvero dal 1930, che era stato in bella vista nei loro archivi per tutto quel tempo, intoccato, intoccabile per contratto... decisamente optava per il romanzo. Un’opera di fantasia.

Buttò senza grazia il diario sul tavolo, azzannando il panino con fare seccato. Nel silenzio della sala d’attesa deserta, però, la voglia di continuare a leggere, la curiosità di arrivare in fondo, era tanta.

In un secondo di ripensamento, squadrò il computer in stand-by dietro alla lattina di coca.

C’era un modo per assicurarsene. Una semplice ricerca su Google. Un paio di parole ed un click, niente di più.

« John Watson, sei un cretino. Un cretino ed un pazzo credulone » brontolò a denti stretti, appoggiando il sandwich nella relativa carta e riavviando il sistema.

Aprì Internet, digitò su Google, cliccò invio. Aprì il primo articolo. Gli si chiuse lo stomaco dopo le prime quattro righe.

Lo Spettrometro AMS-02 era stato lanciato in orbita il 29 aprile del 2011. Praticamente due mesi prima.

Sconvolto e con la voglia di convincersi che fosse solo un sogno, fissò stupefatto il diario.

Adesso qualcuno doveva spiegargli come faceva uno del 1932 a sapere di un lancio in orbita avvenuto quasi ottant’anni più tardi.

 

 

 

 

John non sapeva ancora cosa esattamente cercasse da Greg.

Non una spalla su cui piangere. Non un compagno di sventure. Non consigli. Forse un amico, ma non ne era ancora del tutto sicuro.

D’altro canto, cosa cercasse Greg da uno come lui era un mistero. Fatto sta che continuarono a vedersi ogni sera.

Dopo la prima settimana, non ebbero nemmeno più bisogno di confermare la presenza all’altro. Andavano semplicemente al solito pub alla solita ora.

Era lunedì quando John dovette aspettare un po’ più del solito, fuori dal locale. In quello che sanciva il primo giorno dell’ultima settimana di luglio le piogge erano sparite e l’aria si era riscaldata tutto d’un tratto. La sera, di conseguenza, era mite e John limitò il proprio abbigliamento ad una camicia e ad un giubbotto leggero.

Quando Lestrade arrivò, in jeans e felpa e scarpe da ginnastica, il sopracciglio del medico scattò in alto da solo.

« Ti sei dato al casual? » scherzò John, salutandolo con un cenno della mano.

Greg sorrise in modo strano. « Ti va di camminare, questa sera? » evitò di rispondergli.

A John non faceva differenza, in realtà. E poi, dopotutto, la temperatura era gradevole. « Va bene. C’è un motivo particolare? » domandò incuriosito.

Lestrade fece spallucce, negando con il capo: « non mi va di stare seduto » gli disse, ma puzzava di scusa lontano un miglio.

Watson lo intuì, e Greg lo sapeva, ma John capì anche che Lestrade voleva che lo capisse, dunque non fece domande; si limitò ad affiancarlo e a seguirlo.

Camminarono in silenzio attraverso le arterie principali, oltrepassando negozi e pub, strade colme di persone e turisti che approfittavano del bel tempo per godersi uno scorcio di Londra in notturna. Seguì Lestrade fino ad una stradina secondaria semi-vuota e desolata che scendeva dolcemente verso il Tamigi, sulla riva del quale Greg lo guidò. Erano in una zona abbastanza centrale di Londra ma, nonostante questo, loro due erano gli unici presenti.

Greg sospirò pesantemente, sedendosi con un balzo sul muretto che delimitava il marciapiede dalle acque del fiume, accomodandosi con le gambe a penzoloni a tre metri sopra l’acqua calma e scura.

John rimase a guardarlo per un istante e solo poi, sospirando a sua volta, si appoggiò con i gomiti al muretto con lo sguardo fisso verso il fiume. « Allora? » chiese.

« Sono stato sospeso dal servizio » si confidò Lestrade: « con effetto immediato e fino al termine dell’inchiesta » aggiunse, probabilmente citando a memoria ciò che gli aveva detto il suo superiore qualche ora prima.

Le formule di benservito sono uguali in qualsiasi corpo armato.

« Mi dispiace » gli disse.

« Beh, era prevedibile » commentò l’altro. Frugò nelle tasche della felpa fino ad estrarne un pacchetto stropicciato di sigarette ed un accendino rosso di plastica. Osservò il pacchetto per qualche istante come se fosse la fonte di tutti i mali del mondo, poi sbuffò. « Avevo fatto un fioretto, Cristo santo... » borbottò, facendo uscire una sigaretta con due colpetti e prendendola fra le labbra in un movimento che aveva la fluidità dell’abitudine.5

Watson capì improvvisamente che tipo di serata fosse quella. Sorrise amaramente dicendosi che, forse, una cosa del genere serviva anche a lui. Che forse, così, sarebbe riuscito ad uscire dal tunnel e a ricominciare la propria vita senza sentirsi una pezza da piede per tutto il tempo.

Salì sul muretto anche lui, sedendosi a gambe incrociate accanto a Lestrade. Gli tese la mano sinistra, poi, indicando in silenzio pacchetto di sigarette.

Greg sogghignò, facendo uscire una sigaretta con altri due colpetti e porgendola a John. « Non ti facevo tipo da nicotina » osservò.

« Queste sono la moneta dei soldati » gli rispose il medico: « non ha senso portarsi dei soldi nel deserto, no? L’esercito pensa a tutte le tue necessità. Anche alle tue mutande ».

Greg ridacchiò, facendo scattare l’accendino e accendendosi la sigaretta.

« Ce le giocavamo a poker. Queste, e le foto delle fidanzate. Tempo un mese e diventavano come le riviste porno: passavano tra le mani di tutti » disse, allungandosi verso l’accendino con cui Greg gli accese la sigaretta.

Rimasero immersi nel silenzio per alcuni minuti, sbuffando volute di fumo con solo lo scrosciare del fiume a fare loro compagnia.

Fu Greg a riprendere parola. « Ci saresti tornato? » domandò.

Watson capì di avere raggiunto il punto di non ritorno. Da quel momento, qualsiasi cosa che sarebbe uscita dalle labbra di Lestrade lo avrebbe gettato o nell’apatia totale o nella disperazione composta con cui aveva affrontato tutti i giorni fino a quel momento. Non gli piaceva la prima, ma temeva di più la seconda.

« Dove? » chiese quindi, stando al gioco. Ormai era in ballo, tanto valeva ballare.

« In guerra. Dopo Sherlock » disse l’altro.

Il sentire il suo nome gli strinse il cuore come se lo stessero stritolando in una morsa. Deglutì una boccata di fumo e angoscia.

« No. Non me ne sarei mai andato, è diverso » gli rispose.

Lestrade lo osservò prendendo un’altra boccata. « Non lo avresti conosciuto, però ».

« E non sarebbe stato meglio? » ribatté subito John: « da un inferno ad un altro. L’unica differenza è che qui non posso uccidere nessuno » disse amaramente.

Lo sguardo del poliziotto lo trafisse come se stesse cercando di capire cosa pensasse realmente. « Non lo pensi davvero, giusto? » chiese poi.

John gettò il mozzicone della sigaretta nel fiume. « No. No, col cazzo che lo penso davvero. Però sarebbe più facile ».

Sherlock era diventato il suo migliore amico, la sua ancora di salvezza, il suo bastone e la sua intera vita. Gli aveva voluto bene e aveva voluto proteggerlo in un modo che non credeva nemmeno possibile... ma Sherlock non gli aveva dato l’occasione. Sherlock non gli aveva mai concesso niente.

Fortunatamente, Lestrade lo anticipò prima che si lanciasse in imprecazioni indegne di un inglese.

« Ho dato alla Met vent’anni di servizio. L’ho sudato, il posto di Detective Inspector. Ho scelto il lavoro anche quando sapevo di stare perdendo mia moglie. Ma non me ne importerebbe niente, se quel figlio di puttana non si fosse buttato da quel tetto, se non fosse morto da codardo. Avrei accettato qualsiasi morte, ma non un suicidio » quasi ringhiò quelle parole: « così lui è scappato e noi siamo quelli che devono far ricrescere l’erba dove lui ha buttato il sale. Ed è notoriamente impossibile » commentò, prima di aggiungere: « questa cosa mi fa incazzare ».

John lo osservò scagliare il mozzicone della sigaretta il più lontano possibile, e ne seguì la scintilla arancione finché non scomparve inghiottita dall’acqua.

« Non sono in molti quelli che ci credono, John » aggiunse Lestrade.

Watson osservò l’acqua con un groppo fastidioso in gola. « L’importante è che qualcuno ci sia » mormorò poi.

E almeno quello lo disse con il cuore.

 

• 12 Gennaio ‘33

Papà è stato ricoverato. Mi hanno telefonato dall’ospedale questa mattina.

Infarto, dicono. Sinceramente non ci credo.

Quando si è svegliato mi ha sorriso e mi ha detto di dormire, perché gli sembravo stanco. Parlava lui che aveva appena rischiato di morire.

Per un momento ci ho pensato, a come sarebbe senza di lui... non mi è piaciuto. Dopo mio padre, non possono perdere anche lui. Non posso.

Ho avuto un’idea di cui non vado fiero.

 

 

 

 

Era stato dato l’ordine “solo armi e munizioni” dunque aveva dovuto abbandonare le attrezzature, portando con sé solo lo zaino medico. Teneva saldo fra le mani il suo SA80, carico fino a scoppiare del terzo caricatore di munizioni, e sentiva il famigliare peso della sua Browning nel cinturone della divisa. Il sudore gli incollava il tessuto della mimetica alla pelle, il cinturino dell’elmetto aveva scavato una striscia infiammata e dolorosa sulla pelle della gola e gli anfibi avevano ridotto i suoi piedi ad un ammasso dolorante di vesciche. Non sentiva più i muscoli delle gambe a forza di appostamenti e corse, gli era sparita la voce quando aveva dovuto urlare gli ordini sopra i colpi nemici e il suo orecchio sinistro fischiava da quando una granata gli era esplosa troppo vicino.

Si era aspettato la sabbia, ma si trovò in una città. L’atmosfera era grigia e pesante, l’aria umida ed irrespirabile, e quelli che erano i palazzi di quel posto erano ormai diroccati e si riversavano in strada in detriti e macerie. Del fumo nero si alzava dagli edifici verso un cielo plumbeo coperto di nubi scure.
Non sembrava affatto l’Afghanistan.

Smise di camminare quando arrivò ad un incrocio scoperto, inginocchiandosi e segnalando agli uomini dietro di lui di fare lo stesso. Il Sergente Hayden gli si avvicino carponi.

« Cosa facciamo, Capitano? ».

John si appoggiò con le spalle al muro a cui erano accostati, sbirciando l’incrocio; sembrava vuoto, ma in guerra niente sembra mai quello che è.

Si prese qualche secondo per pensare. « Quanti uomini abbiamo? ».

« Sette, signore » gli rispose Hayden: « il secondo plotone è rimasto bloccato ad Aldersgate Street, sono stati separati dai talebani e non riescono a riunire le file. I bastardi si sono appostati sui trespoli e gli pisciano in testa pallottole ad ogni minimo movimento » lo informò il Sergente, asciugandosi la fronte con la manica della divisa.

« Accidenti... » borbottò John, sospirando piano. « Va bene, aggiriamolo. Tu prendi Talbott e Mellish e torna indietro aggirandolo da dietro gli edifici, poi manda Cunanan e Aisworth a sinistra mentre io e Langley andremo a destra. Corse brevi e spazi chiusi, strisciate se necessario. Uccidete a vista » disse; il sergente annuì e fece qualche segno al resto della squadra, partendo a piedi con i due soldati. Lui e gli altri tre si guardarono per un momento e, al cenno di John, partirono in direzioni diverse.

Come si era immaginato, l’incrocio era in realtà invaso di persone incappucciate di nero. Cominciarono a sparargli addosso non appena si mossero e Langley, dietro di lui, fu ucciso prima di poter trovare riparo. John sentiva le pallottole fischiargli di fianco alle orecchie e sfiorargli la stoffa della divisa.

Spinto dai colpi dovette infilarsi in fretta in un edificio, attraversando di corsa il piano terra ed uscendo da una finestra sul retro. Percorse raso terra il muro per cercare di arrivare al punto di ritrovo, ma quando sbucò dall’angolo i colpi erano cessati ed il silenzio era diventato surreale.

Alzò il volto verso il cielo e, quando lo fece, un’unica figura ammantata di nero lo osservava dall’altro di un tetto.

Si tolse l’elmetto con uno strattone, in preda al panico.

« SHERLOCK! » gridò, facendogli segno di fare attenzione.

C’erano i talebani con i kalašnikov sui tetti tutto intorno, gli avrebbero sparato. Sarebbe morto. Oppure lo avrebbero catturato e torturato. Cristo santo, erano in guerra, dov’era la sua divisa?! Perché aveva sempre la fissazione di mettersi quel cappotto con quella maledetta sciarpa?!
« SHERLOCK! » gridò di nuovo, ignorando il fatto di essere un bersaglio facile e soprattutto di essere senza elmetto.

Ma Sherlock non si muoveva, non faceva niente. Semplicemente, lo stava a guardare.

Semplicemente, mimò una frase con le labbra.

Addio, John.

Semplicemente, si buttò giù.

 

Watson si svegliò nel mezzo della notte con il respiro affannato ed il cuore galoppante nel petto, tanto che lo sentiva battere persino sulle tempie. Gocce di sudore gli scendevano sul collo, la maglietta appiccicata al petto e le gambe intrappolate in un groviglio di lenzuola. Osservò con occhi spalancati il soffitto, cercando di capire dove fosse, e cosa fosse successo.

Quando si rese conto di avere avuto un incubo, chiuse gli occhi e rilassò i muscoli tesi della schiena. Si portò le mani agli occhi, togliendosi il sudore e passandosele fra i corti capelli umidi.

Rimpianse i tempi in cui a torturarlo era solo la guerra.

 

• 01 Febbraio ‘33

Primi esperimenti su uno dei campioni di Unoptanio, diviso in piccole parti da pochissimi milligrammi ciascuna.

Sottoposizione a pressione di 100GPa: inefficace, nessun mutamento.(5)

Esposizione a diversi componenti e reagenti chimici: tutti inefficaci, nessun mutamento.

Esposizione ultravioletta: inefficace, nessun mutamento.

Esposizione Raggi X: inefficace, nessun mutamento.

Esposizione Raggi gamma a bassa frequenza: lieve reazione di assorbimento.

 

• 02 Febbraio ‘33

L’esposizione a raggi gamma ad alta frequenza ha portato al surriscaldamento del campione a temperature superiori a quelle dell’ipotetica fusione di un rettore nucleare. Pochissimi milligrammi di Unoptanio hanno fuso un supporto di fullerite(6) e finché la reazione non si è fermata ha trapassato due piani e creato un buco sul pavimento di quasi 20m.

Non esiste sulla Terra materiale in grado di reggere quella temperatura. 2/3 della struttura e dei laboratori sono inutilizzabili perché il calore ha sciolto le attrezzature. È impressionante.

 

 

 

 

Di solito non ci prestava molta attenzione.

Mormorii, sussurri. A volte sguardi. Parole scambiate sottovoce fra due donna alla cassa del Tesco, o in coda alle Poste.

Lo guardavano e confabulavano. Non era difficile capire cosa dicessero – ci sarebbe riuscito anche senza sentirle, o leggere il labiale.

“Ti dico che è lui. L’amico di quello che si è buttato dal Barts”.

“Ma no, ti dico. Se è intelligente, quello ha già cambiato città”.

“Eppure ci somiglia. Com’è che si chiamava, già?”.

Come un attore dei tempi andati, ritiratosi a vita privata dopo una carriera di alti e bassi e che tutti smettono di riconoscere.

Di solito li ignorava. Faceva finta di controllare l’importo delle bollette da pagare o continuava a insacchettare la verdura. Faceva orecchie da mercante e si legava stretta la benda sugli occhi.

Aveva fatto tanto per loro, Sherlock. Tanto. Eppure lo stavano dimenticando, lasciato indietro come qualcosa di strano per cui non vale la pena di prendersela troppo a cuore.

Sherlock Holmes stava diventato solo un altro dei nomi dimenticati di Londra.

 

• 09 Gennaio ‘34

Non mi ricordo chi ha detto che, se un coniuge muore, anche l’altro lo seguirà presto.

Prima gli avrei chiesto su quali basi scientifiche basasse la sua teoria. Adesso mi limiterei a dargli ragione.

Mio padre odiava le cravatte, eppure fu lui ad insegnarmi come si annodano.

Papà giurò di non usare mai più un’arma da fuoco se non in casi di estrema necessità, quando nacqui, eppure mi ricordo ancora il giorno in cui mi fece sedere con lui al tavolo della cucina e mi insegnò a smontare la sua Browning.

Così contradditori ma così uguali. Eppure diversissimi. Avrei detto “complementari”, ma a loro non piaceva quel termine. “Troppo totalizzante” aveva detto papà un giorno: “io e tuo padre non abbiamo ancora smesso di imparare l’uno dall’altro, non ci completiamo per niente”.

Non eravamo una famiglia normale (non lo siamo mai stati). Ognuno faceva del suo meglio senza averne la minima idea. Eppure...

Ora che sono seduto sul loro letto vuoto e freddo, rifatto ed intatto da ormai due settimane, le immagini del funerale di oggi pomeriggio mi sembrano solo un brutto sogno. Mi sorprendo a pensare che fra poco mi sveglierò e correrò in braccio a papà mentre mio padre mi accarezzerà i capelli con quel suo modo impacciato e mi chiederà di raccontargli l’incubo che mi ha svegliato. Riusciva sempre a capirlo.

Ma io non ho più otto anni ed in cucina, in mezzo all’odore di tè e formaldeide, non ci sarà nessuno. Solo un appartamento vuoto e l’eco di due persone che si sono trovate e mai più lasciate a far risuonare il silenzio.

Pensare che, finalmente, si sono ritrovati di nuovo non mi aiuta.

Papà è morto... e io non riesco a smettere di piangere.

 

 

 

 

« Non importa più a nessuno, Greg » disse John portandosi il collo della bottiglia alle labbra e bevendo un breve sorso di birra: « ed è passato appena un mese. È uno schifo » sancì.

Lestrade appoggiò la sua, vuota per tre quarti, sul muretto al suo fianco. « Importa a te... » rispose, passandosi distrattamente il pollice della destra sulle labbra per ripulirle dalla bevanda: « ...e a me » aggiunse.

« Sì, già... bella conquista » ironizzò John, che quella sera aveva il dente avvelenato.

Una volta per uno, amico sembrò esprimere lo sguardo di Lestrade, che lo osservò con un sorrisetto spento ma comprensivo.

Nemmeno quella era stata una serata da pub. Greg glielo aveva letto negli occhi, probabilmente, che non aveva assolutamente voglia di stare in mezzo al chiacchiericcio divertito degli avventori del solito bar. Nel dirigersi al loro posto “privato” in riva al fiume, si erano fermati in un negozio aperto 24 ore su 24 e avevano preso un cartone di birre.

Niente tè, quella sera: Lestrade aveva capito anche quello.

Ormai, quella riva del Tamigi sembrava essere diventata il loro personale muro del pianto senza pianto. Un luogo in cui sfogarsi, patire in silenzio il peso delle loro colpe invisibili e fumare una sigaretta che non sarebbe mai stata né salutare, né tanto meno gradevole.

Sigaretta che Lestrade estrasse dal solito pacchetto stropicciato – ma nuovo ogni tre giorni circa – e che gli tese. John la accettò senza tanti complimenti, inclinandosi verso di lui quando il poliziotto accese la sua e poi la propria.

Rimasero a fumare e bere birra in silenzio per qualche minuto, osservando le luci di Londra spezzarsi sulla superficie mossa dell’acqua.

« C’è mai stato qualcosa fra voi? ».

La domanda di Lestrade gli fece inalare del fumo, e John tossì. « Cosa?! » domandò di riflesso, la voce roca.

« Sì, sai... qualcosa di tenero. Fra te e Sherlock » domandò di nuovo Greg, fingendo di guardare il Tamigi quando invece lo osservava con la coda dell’occhio.

Watson si riprese, bevendo un po’ di birra prima di riportarsi nervosamente la sigaretta alle labbra. « No » grugnì in tono seccato, soffiando fuori la nuova boccata di fumo.

L’altro era totalmente pacato e a suo agio e la cosa a John non piaceva. Soprattutto se si parlava di un argomento spinoso o, comunque, imbarazzante.

Soprattutto se si parlava di un argomento spinoso o imbarazzante e di Sherlock Holmes. Nella stessa frase.

« Ti sarebbe piaciuto? » domandò poi.

« Greg, perché quest’interrogatorio? » sbottò allora Watson, il tono duro.

Lestrade non si scompose: « perché lo abbiamo pensato tutti, prima o dopo » si giustificò solamente.

« No » ribatté allora John, aggrottando le sopracciglia verso l’acqua: « si può sapere, di grazia, perché tutto il mondo è fermamente convinto che due uomini che convivono debbano per forza nascondere una sorta di torbida relazione amorosa? L’ho trattato in un modo diverso da qualsiasi altro, forse?! » chiese retoricamente, sapendo già che Greg gli avrebbe risposto.

Quel “nuovo” Greg cominciava a non piacergli.

« Non eri tu. Era lui » non mancò infatti di precisargli.

D’improvviso, la rabbia del medico si placò. « In che senso? » domandò, girando lo sguardo verso il poliziotto.

« Ti guardava in modo diverso dagli altri. Non c’è un motivo complicato, solo... questo: ti guardava in modo diverso » spiegò.

L’ex-soldato rimase in silenzio per alcuni istanti, lo sguardo stranito. « Spiegazione molto logica, Lestrade » lo sfotté, tornando ad aspirare fumo dalla sigaretta.

Greg ridacchiò appena. « A volte non serve nessuna logica » ribatté, muovendo controluce la bottiglia vuota di birra. « Le abbiamo finite? » domandò poi, appoggiandola insieme alle altre vuote.

John annuì distrattamente.

« Andiamo a comprarne delle altre ».

John annuì di nuovo.

 

• 10 Maggio ‘34

Crollo nervoso. Mi hanno ricoverato. Mi tengono sotto tranquillanti, ma non hanno effetto. Servirà qualcosa di più forte.

Kerr si sbagliava. Einstein si sbagliava. L’Orizzonte può essere superato. Lo so. So anche come. Devo solo provare di avere ragione.

E se potessi tornare indietro? Tornare indietro ed impedire tutto?

Se lo potessi... cambiare?

 

Il minimarket dove avevano comprato le birre non era lontano dalla strada principale, ma Greg prese un giro lungo che conosceva solamente lui e che passava in una zona costernata di vicoli stretti e bui.

John aveva la vaga idea del perché lo avesse fatto; ormai aveva imparato ad osservare – forse complice il suo ex-coinquilino e migliore amico suicida – e aveva notato come Lestrade tendesse ad allungare la strada da fare a piedi quando era seccato, o aveva troppi pensieri per la testa. Come se camminare lo aiutasse a metabolizzarli più in fretta, a processarli nel giusto ordine. Prendeva tempo.

Camminarono in silenzio, mani nelle tasche dei pantaloni, per più di venti minuti nel seguire complicati intrecci di sensi unici e strettoie. Ormai John non aveva la più pallida idea di dove fossero, ma alla sua mancanza geografica sopperiva l’Ispettore, in pieno possesso del suo orientamento nonostante le 4 birre una dietro l’altra.

Watson avrebbe potuto dirgli in ogni momento che non sembrava per niente in forma, ma riteneva che per una persona nella sua situazione fosse una cosa normale. E, dopotutto, nemmeno lui doveva sembrare così pieno di salute considerando quanto poco dormiva, quindi lasciò perdere qualsiasi discorso volto in quella direzione.

Semplicemente, continuarono a camminare.

Ormai John si era concentrato sull’andamento regolare dei suoi piedi – destro, sinistro, destro, sinistro, destro, sinistro... – e aveva persino allineato inconsapevolmente il passo con Lestrade quando fu proprio l’altro, di fianco a lui, a fermarsi d’improvviso.

John lo superò di due passi, prima di fermarsi e voltarsi indietro.

« Greg? ».

« Guarda » gli disse quello, occhi bene aperti puntati fissi su di un punto in alto poco più avanti.

John si voltò, alzando finalmente lo sguardo dai propri piedi, e quando i suoi occhi incontrarono la parete del vicolo di fronte si sgranarono appena nella sorpresa.

Non era un murales, nemmeno un disegno di sorta. Come scritta non era affatto elaborata ma nei tratti precisi e nelle curve dolci delle lettere si poteva notare una mano abituata ad usare bombolette spray. Il muro era spoglio e vuoto tutto attorno e proprio quel particolare contribuiva a dare l’idea che fosse una sorta di segno di ribellione.

Alla luce soffusa e bianca di un lampione, spiccava la scritta in giallo perlato “I BELIEVE IN SHERLOCK HOLMES”.

Non era impossibile, si disse John. Sherlock aveva la rete di senzatetto e di “irregolari” che gli fornivano informazioni e notizie più velocemente di quanto lui stesso fosse stato in grado di raccoglierle. Non era strano pensare che qualcuno di loro, magari persino il ragazzo a cui avevano chiesto informazioni su quella stessa vernice durante il caso della Mafia Cinese, potesse aver fatto quella scritta per testimoniare una speranza, o solamente una voce nel dissenso.

Non poté non riservarsi un lieve sorriso che subito sparì. Ma esistette per quel secondo, per quel momento in cui aveva avuto la forza di piegare le labbra in qualcosa che non lasciava l’amaro in bocca.

Pensò anche che Lestrade lo avesse portato lì di proposito – quasi sicuramente era così – ma non lo disse.

« Grazie » fu l’unica cosa che disse, gli occhi catturati da quell’immagine tutt’altro che insolita ma stranamente confortante.
Lestrade gli passò affianco posandogli una mano sulla spalla, prima di superarlo e continuare per la sua strada.

 

• 19 Settembre ‘35

La teoria ha dato frutti insperati. Schneider è convinto che cambierà la Storia. A me non importa.

Non è LA Storia che voglio cambiare, ma UNA storia. Punto.

Tornerò indietro e farò in modo che mio padre non muoia. Da lì in poi, tutto tornerà come prima.

Tutta l’attrezzatura è quasi pronta. Tempo un mese e cominceremo con le sperimentazioni.

 

• 20 Ottobre ‘35

Il campo magnetico funziona, l’energia dell’Unoptanio rimane stabile e circoscritta. Serve molta energia per creare la singolarità, ma il Governo continua ad assicurarci che non è un problema. Meglio per me.

Ho nascosto un pezzo di Unoptanio nell’orologio con il giglio fiorentino che mi ha lasciato papà prima di morire. Non so quanto in fretta il materiale si degradi o decada, ma nel caso che lo faccia troppo in fretta, quel frammento salvato mi potrà servire per continuare le sperimentazioni su scala ridotta.

L’Orizzonte si presenta come invisibile, eppure c’è. Rifrange spettri di colori e di onde invisibili all’occhio. Alcune onde elettriche ad alta frequenza ed intensità sembrano, però, riuscire a passargli attraverso.

È un problema di spazio. Come stipare 5GB di roba in un hard disk che ne tiene appena 3.

 

• 25 Dicembre ’35

Ricevuto il consenso alla sperimentazione umana.

 

 

 

 

La prima sera che Lestrade non si fece vedere, John pensò solamente che gli fosse capitato un contrattempo. Si prese un tè da solo, guardando la partita di rugby dalla TV del locale, e quanto fu palese che Greg non lo avrebbe raggiunto, pagò e tornò a casa.

La seconda sera, John cominciò a chiedersi se avesse fatto qualcosa per indispettire l’altro. Ma era un pensiero difficile da farsi, considerando la persona in oggetto: Lestrade era munito di una pazienza quasi da sant’uomo ed era rinomato per non portare rancore. Probabilmente aveva avuto un problema grave, magari aveva ricevuto qualche novità dal lavoro. Non se la prese.

La terza sera, quello indispettito era John. Si aspettava per lo meno un messaggio, se non una telefonata, o comunque un motivo per il quale, improvvisamente, Lestrade aveva interrotto quella loro consuetudine. Non che lui ne avesse disperatamente bisogno, così come pensava che Lestrade, a sua volta, non ne fosse dipendente... ma era un metodo semplice per non rintanarsi in angoli scuri della mente riservati a tetti e a suicidi, a cieli grigi e disperazione e lapidi nere con lettere d’oro, a salti nel vuoto e al ricordo di un addio dal suono metallico.

Le due ore che passava al pub con Lestrade non erano essenziali, così come non erano indispensabili; erano solo un punto a dividere due capoversi, una pausa fra due giorni uno uguale all’altro. Qualcosa per cui valeva la pena alzarsi dopo il suono della sveglia.

Aspettò mezz’ora all’esterno del locale poi decise di prendere l’iniziativa. Oltre quella coltre di seccatura e delusione che lo aveva rivestito negli ultimi minuti, in realtà una leggera vena di preoccupazione si annidava infida.

Si chiese mentalmente, prima di partire in direzione dell’appartamento di Lestrade, cosa ci guadagnasse a fare sempre il buon samaritano.

La risposta la sapeva già ed era sempre quella: “niente”.

 

Gregory Lestrade abitava in una zona tranquilla di Bloomsbury. Il suo appartamento era al terzo piano di un palazzo di quattro e, dalla strada, si potevano vedere le finestre illuminate da una fievole luce giallognola.

Per lo meno era in casa.

John annuì brevemente a se stesso, attraversando la strada e suonando al citofono. Attese per qualche istante senza che nessuno gli rispondesse poi, testardo e ormai deciso ad andare fino in fondo, citofonò al portiere.

Si fece aprire la porta con una scusa qualsiasi e, sempre con quella scusa, riuscì ad ottenere il pas-par-tout dell’appartamento di Lestrade che la portineria era obbligata ad avere.

Salì a passo marziale i tre piani di scale, aiutandosi con la ringhiera solo verso la fine. Quando arrivò davanti alla porta numero 33, ben chiusa come si era immaginato, si diede una calmata.

Bussò, prima. Due colpi secchi che echeggiarono sul pianerottolo. Provò anche a chiamare il suo nome prima di colpire di nuovo la porta, ma dall’altra parte non ci fu risposta.

Nell’indecisione se entrare o meno con la chiave di riserva, alla fine si decise a farlo. Girò perfettamente nella toppa e gli diede libero accesso all’appartamento.

Entrando, si chiuse la porta alle spalle. L’ingresso dava su un brevissimo corridoio con un attaccapanni ed un mobile pieno di chiavi e buste chiuse (bollette) per poi aprirsi sul salotto. La luce che si poteva vedere dalla strada era quella di una lampada a piedistallo nell’angolo della stanza e che dava all’atmosfera un’aria di intimità famigliare.

« Greg! » chiamò di nuovo il medico una volta messo piede in salotto e lì fermatosi. Poteva vedere senza difficoltà il piccolo corridoio delle camere oltre la cucina, separata dal salotto tramite un ripiano in marmo sovrastato da una credenza di legno, ma le porte erano tutte chiuse e regnava il silenzio.

Forse non era davvero in casa. Ma dove altro poteva essere? Era quasi divorziato, senza figli, sospeso dal servizio... Lestrade stesso gli aveva detto che le loro uscite erano la sua unica occasione di uscire di casa per più dell’ora necessaria per andare a comprare beni di prima necessità al minimarket poco lontano.

No, doveva essere necessariamente in casa. Al massimo, John avrebbe potuto giustificare quella sua intrusione per pura preoccupazione. Cosa che, a parte la vena vendicativa e seccata che si portava dietro dal pub, non era del tutto errata.

Entrò nell’altro corridoio ed aprì la prima porta sulla sinistra, di fronte alla cucina. Il bagno. La luce era spenta ma si poteva capire benissimo che la stanza fosse vuota.

Aprì la seconda porta, adocchiando questa volta la camera da letto. Luce spenta, camera in perfetto ordine. Sembrava quasi che nessuno ci dormisse da parecchio tempo, e John non faticava ad immaginarsi che potesse essere realmente così.

La terza porta che aprì, di fronte alla camera da letto, era una stanza dai mobili coperti ed odorante di vernice e stucco. La luce era spenta e le imposte chiuse, ma grazie alla fievole luce del corridoio Watson poté notare il colore chiaro dell prove di colore sul muro, compresi alcuni disegni di personaggi Disney. La camera dei bambini. John trattenne il respiro alla solitudine che quella stanza decorata a metà ispirava, e richiuse la porta con una sgradevole sensazione in gola.

L’ultima porta rimasta era quella in fondo al corridoio. Solo quando vi si avvicinò John si accorse che filtrava luce dalla fessura fra il legno ed il pavimento e, convinto di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo, bussò. Nessuna risposta. Aprì la porta.

Non seppe esattamente come elencare ciò che vide, ma le sue labbra si divisero autonomamente in un moto di profonda sorpresa.

Era lo studio ma non vi era traccia di Greg. Una scrivania era posizionata esattamente nel centro della stanza, dietro di essa torreggiava una libreria a quattro settori stracolma di libri, alcuni dei quali erano impilati ai piedi del mobile o aperti in mezzo alla stanza. La parete verso cui la scrivania era girata invece, quella che John stava fissando con incredulità, era spoglia di mobili ma ingombra di tutt’altro.

Una cartina politica dell’Europa era stata posizionata al centro del muro, attaccata con dei chiodi nei punti in cui il nastro adesivo aveva ceduto, e tutt’intorno si snodava una ragnatela di fotografie, articoli di giornale, rapporti di polizia – alcuni dei quali battuti a macchina e altri in francese, tedesco, russo, italiano... –, post-it gialli scarabocchiati a mano con una penna o un pennarello, alcune frasi scritte direttamente sui pochi centimetri di muro spoglio che sbucavano ogni tanto, cerchi rossi e punti di domanda attorno ad alcune città, alcune parole, alcuni volti su fotografie sgranate prese da circuiti di sorveglianza. Numeri e date e coordinate. Linee rosse  e nere e verdi che collegavano punti di cui non capiva nemmeno la logica. Cinque fili di lana da uncinetto di colore diverso (giallo, verde, rosso, blu, bianco) partivano da Londra e si perdevano in altri Paesi, alcuni sparivano, altri terminavano aggrovigliati sul pavimento. L’intero diorama prendeva tutta la parete e, nella parte destra, sforava in quella adiacente.

« Cosa accidenti...? »

« È il mio caso Rebecca ».7

La voce di Lestrade lo colse di sorpresa e non poté evitarsi di sobbalzare, girandosi verso l’inizio del corridoio. Greg era in piedi alla luce del salotto e sembrava l’ombra di se stesso.

Fece per parlare, ma l’altro lo anticipò: « ero a fumare sul retro, il portiere mi ha detto di averti fatto entrare » gli disse.

Watson annuì appena. « Ero preoccupato, e a ragione, vedo. Ti sei visto allo specchio ultimamente? » domandò, cercando di ritrovare quel minimo di irritabilità che aveva prima di mettere piede in quella casa, ma inutilmente. La vista della fissazione di Lestrade, perché di questo si trattava, gli aveva cancellato qualsiasi protesta avesse in mente di rivolgergli.

Greg alzò lo sguardo su di lui quando entrò nella luce più forte dello studio, mostrando a John due profonde occhiaie violacee e occhi rossi colmi di stanchezza e disperazione. La pelle del volto era pallida, dall’aspetto quasi malaticcio, e poteva giurare che avesse perso peso.

« Non ti vedo bene, Greg » gli disse Watson, osservandolo con occhio medico.

Lestrade soffiò fuori una risatina amara, dirigendosi verso la scrivania ed abbandonandosi sulla poltrona dietro di essa. « Tanto non dormo comunque » fu l’unica spiegazione che diede, prima di ricominciare: « mi dispiace di non averti detto nulla, John, ma ho perso la cognizione del tempo, compreso l’alternarsi del giorno e della notte » si giustificò.

Watson sospirò: « sei fortunato che non sono uno psichiatra, altrimenti ti direi che soffri di disturbo ossessivo-compulsivo unito a manie di vario tipo » ironizzò senza ridere, tornando a guardare la parete che Lestrade aveva tappezzato.

« Me lo hai detto comunque... » ribatté il poliziotto alla battuta, osservando a sua volta l’intrico di informazioni davanti a sé. « Ogni poliziotto ha un caso Rebecca » riprese poi il discorso: « un caso irrisolto che diventa la fissazione dell’intera vita. Il mio caso Rebecca si chiama “Sherlock Holmes” ».

John aggrottò le sopracciglia, fissandolo accigliato da sopra la spalla.

« Sto cercando un fantasma, credo... non lo so, sinceramente. Lui è morto, lo so questo. Ma ci sono persone coinvolte, figure quasi invisibili, che appena dopo l’accaduto se la sono data a gambe. Ho provato a seguirle, a leggere gli indizi... dai giornali, Internet, voci di corridoio, favori da colleghi all’estero. Cerco segni ovunque. Qualsiasi cosa attiri la mia attenzione ci metto la data e la attacco a quel muro. Mi sembra che sia tutto codificato ma, allo stesso tempo, ho la ferma convinzione di stare dando la caccia a nient’altro che nebbia. Mi sembra che sia semplicemente un modo per smettere di credere che sia morto davvero, che sia morto in quel modo, che sia stato davvero così egoista da suicidarsi. Li ho persi ma ancora continuo a cercarli. Sto... non so, lottando contro i mulini a vento. Questo dovrebbe fare di me Don Chisciotte della Mancia » disse, massaggiandosi gli occhi con la mano destra.

John spostò di nuovo lo sguardo dall’amico al diorama, stringendo le labbra in un pensiero che si riservò di dire ad alta voce. Lui aveva rinunciato a credere Sherlock morto, in cuor suo – se lo sentiva nelle ossa – ma non voleva diventare l’alter ego di Sancio Panza. Quella era davvero una caccia ai fantasmi ed era qualcosa a cui John non aveva nessuna intenzione di prendere parte.

« Alzati da quella scrivania, devi riposare » gli disse invece John, chiudendo fuori dalla sua vista quella sorta di follia.

Lestrade scosse la testa sconsolato: « no, non riuscirei comunque a– ».

« Non ti sto parlando da amico, Greg, ti sto parlando da medico. Non farmi fare la parte del soldato » lo avvertì John, fermo e serio nelle sue intenzioni.

Lestrade lo guardò negli occhi e, vinto forse dalla stanchezza (o dal corso degli eventi), sospirò e si alzò dalla scrivania, anticipando John fuori dalla stanza.

Watson lanciò un’ultima occhiata alla parete prima di spegnere la luce e, scuotendo rassegnato il capo, si chiuse la porta alle spalle.

 

• 28 Gennaio ‘36

James McCarthy (USA) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Registrata variazione temporale minima nel momento di attivazione del modello BetaTest01 oscillante fra i 2 e i 5 minuti. Si ritiene che la variazione sia avvenuta solo in laboratorio (il campo magnetico restrittivo regge al 95%). Upgrade del sistema.

 

• 15 Febbraio ‘36

Linda Hill (UK) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Resti gelatinosi dal DNA classificabile come umano ritrovati nel punto di contatto con l’Orizzonte. Il modello BT02 si mostra stabile ma si registra una variazione di tempo apprezzabile fra l’1 e i 3 minuti. Upgrade del sistema.

 

• 01 Marzo ‘36

Michael Lang (Germania) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Modello BT03 inefficace.

Il problema è la compressione del passaggio. E non sappiamo ancora se il campo elettromagnetico che trattiene il balzo temporale sia innocuo per il viaggiatore, o se le coordinate inserite nell’aprire la singolarità siano davvero utili per un atterraggio in un punto specifico dello spazio. La mia formula per il balzo temporale potrebbe non essere esatta, o non portare i risultati sperati, ma non lo sapremo mai finché qualcuno non arriverà vivo “dall’altra parte”.

Non ho più voglia di mandare della gente a morire.

Il prossimo sarò io.

 

• 29 Aprile ‘36

Il professor Schneider ha cercato di farmi desistere, così come tutti gli altri studiosi.

Non mi importa.

Ormai la mia vita gira intorno a questo e raramente riesco a sedermi in silenzio e ad immaginarmi fuori dal laboratorio. I miei genitori sono morti, non ho più qualcosa di concreto a cui tornare.

Voglio salvarli. Io li salverò.

Tornerò indietro e cambierò tutto.

Se tutto va come ho calcolato, dovrei riuscire a tornare nel 2030 in tempo per salvare mio padre. Non so ancora se formerò un paradosso o meno, potrebbe anche essere... troppe variabili, troppi “se” e troppi “ma”.

Non mi resta che provarci e basta.

 

• 22 Maggio ‘36

Sto arrivando.

 

 

 

 

 

 

 

 

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1. Nella polizia inglese "Constable" è il grado più basso dell'arma (come in Italia lo è il grado di agente semplice); in poche parole, è il grado di partenza da cui chiunque comincia la propria carriera. Il grado che ha Lestrade ora, ovvero "Detective Constable", non è diverso e non ha più privilegi rispetto a quello di un normale Constable, sta solo ad indicare la sua appartenenza al reparto investigativo.

I gradi, in ordine crescente, sarebbero i seguenti:

Detective Constable > Detective Seargent > Detective Inspector > Chief Inspector (...)

In altre parole, Lestrade è stato degradato di due gradi.

 

2. Lo Spettrometro AMS-02 (Alpha Magnetic Spectrometer) è una sorta di spettrometro di massa (un macchinario che individua e quantifica le masse degli atomi) utile ad identificare, nello spazio, particelle di antimateria (antiparticelle) e altri elementi contenuti nei raggi cosmici. A loro volta, i raggi cosmici sono raggi di energia emessi - si pensa - dai nuclei delle stelle.

È stato lanciato in orbita, a 300 km dalla Terra, il 29 aprile 2011.

 

3. L'Unoptanio (o Unottanio) è un elemento inesistente nella realtà che viene citato in un paio di film (Avatar di James Cameron e The Core di John Amiel). Deriva dalla parola "Unobtainium", un gioco di parole americano che mescola unobteinable ("inottenibile") con il suffisso -ium, tipico inglese per diversi elementi chimici. Viene utilizzata per indicare elementi con caratteristiche talmente ideali da essere inesistenti (ad esempio: in Avatar l'Unoptanio è un superconduttore a temperatura ambiente, mentre in The Core è un materiale che aumenta di densità all'aumentare della pressione e della temperatura, con il quale viene costruita una nave in grado di raggiungere il nucleo del pianeta).

La traduzione migliore in italiano per mantenere il gioco di parole sarebbe "Inottenibilicio", ma è talmente ridicola che capisco, per una volta, la scelta cinematografica di tradurla ad cazzium con "Unoptanio".

 

4. Chronos è, nella mitologia greca, il padrone del Tempo.

 

5. Il GPa - alias Gigapascal - è l'unità di misura della pressione per il Sistema Internazionale. Se pensate che a 10GPa il carbonio diventa diamante, potete farvi un'idea della cosa.

 

6. La Fullerite è un materiale superduro creato artificialmente. Tecnicamente, è uno dei materiali più solidi e resistenti del pianeta.

 

7. Battuta presa dal film "Millennium: Uomini che Odiano le Donne" (The Woman With the Dragon Tattoo).

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