HEROES: EVOL Eclipse - Volume I: 'BlackLight'

di KaienPhantomhive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antefatti ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: ''First Contact'' ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: ''Shooting Star'' ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: ''Awakening'' ***



Capitolo 1
*** Antefatti ***


Nota di servizio:per facilitare la comprensione della mia serie (che si svilupperà in 2 Volumi, al termine dei quali potrà seguire anche un Terzo, ma per ora è aria fritta…) riassumerò -spero il meglio possibile- le prime 2  stagioni 'e mezzo' di HEROES, tentando di far quadrare tutti gli eventi.
Spero di esservi utile e poi dal prossimo capitolo…beh, vedrete!

 
  
 

 

Sinossi concettuale di HEROES
 

 

 
Stagione I:
 
A seguito di un’improvvisa Eclissi, il genetista Chandra Suresh inizia i suoi studi sull’Evoluzione della Specie Umana, arrivando a scrivere un libro che propone la possibilità dell’esistenza di ‘soggetti avanzati’: uomini e donne dalle abilità straordinarie, superiori a qualunque altro essere vivente.
 
Il primo con cui entra in contatto è Gabriel Gray, giovane ma anonimo orologiaio ossessionato dal desiderio di essere speciale, che afferma di essere in grado di ‘capire come funzionino le cose’.
Dopo aver intuito la sua pericolosità, Chandra decide di allontanarlo, con il solo risultato di scatenarsi addosso la sua collera e finire ucciso dallo stesso: Gabriel è infatti entrato in contatto con un ‘soggetto’ telecinetico, assumendone il potere.
Così il banale maniscalco assume lo pseudonimo di ‘Sylar’: feroce assassino seriale, intenzionato a uccidere e duplicare tutti i soggetti avanzati del Pianeta.
Tempo dopo la morte del padre, il figlio Mohinder (ingegnere bio-medico e genetista, intenzionato scovare ed uccidere il suo assassino) prende in mano gli appunti di Chandra e si mette all’opera per terminare le ricerche sui cosiddetti ‘Heroes’.
 
Contemporaneamente, in tutto il mondo, individui apparentemente comuni e slegati tra loro iniziano a prendere coscienza di una Verità molto più profonda che li accomuna:
 
- la cheerleader Claire Bennet scopre lentamente di essere capace di rigenerazione totale ed immediata, diventando pressoché invulnerabile; scoprirà poi che suo padre Noah altro non è che un agente dell’Impresa.
- il figlio dell’industriale Kaito Nakamura, Hiro, comprende di poter manipolare lo Spazio-Tempo, arrestando lo scorrere dei minuti e compiendo teletrasporti a lunghe distanze.
- la bella Niki Sanders si scopre capace di una forza sovrumana (data dalla sua sibling, Jessica) che si innesca quando i torbidi affari malavitosi in cui il marito è – senza volerlo – implicato le entrano in casa.
- suo figlio Micah giustifica la propria genialità: è infatti in grado di ‘parlare’ con qualsiasi macchinario o apparecchio elettronico.
- suo padre è invece un ex-sicario di un certo Lindermann ed è capace di attraversare la materia.
- un poliziotto dalla vita coniugale difficile, Matt Parkman, si ritrova a leggere i pensieri di coloro che lo circondano, dopo aver soccorso la piccola Molly: unica sopravvissuta del genocidio compiuto da Sylar alla sua famiglia, tutti dotati di poteri.
- il pittore Isaac Mendez realizza che i suoi quadri dipingono un Futuro catastrofico e che il suo fumetto (“9th Wonders”) altro non è che la descrizione della vita di Hiro e del suo amico Ando Masashi.
- il politico Nathan Petrelli scopre di essere in grado di volare.
- suo fratello Peter, invece, è diverso: come Sylar, è in grado di duplicare le abilità avanzate, ma senza ricorrere all’omicidio per l’analisi celebrale; Peter si basa sulla ‘Mimesi Empatica’, fatto che lo rende virtualmente invincibile, se non fosse che non è in grado di controllare a pieno le proprie facoltà.
E questo rappresenta lo scarto che Sylar ha rispetto a lui.
 
Mentre gli ‘Eroi’ proseguono la loro vita ordinaria (ora messa in discussione dai loro poteri), Sylar continua la sua scalata al potere uccidendo innumerevoli altri soggetti avanzati, gettando un ombra su tutto il gruppo.
Mohinder Suresh prosegue nelle sue ricerche, arrivando a contattare alcuni di loro per avvertirli del pericolo incombente.
Isaac Mendez viene quindi ucciso dallo stesso Gabriel, dopo aver dipinto il suo ultimo quadro: una catastrofe atomica a New York, che dovrebbe essere causata dall’esplosione nucleare di Peter, per aver assorbito i poteri di un uomo radioattivo.
Intanto Niki e il marito regolano i conti con Lindermann (capace di ridare la vita a ciò che l’ha perduta), intenzionato a stringere un patto con Nathan Petrelli, per causare l’esplosione di New York e portare il Mondo verso una Redenzione basata sulla Perdita; verrà poi tradito dallo stesso Nathan.
Infine Claire viene aggredita da Sylar ma salvata da Peter e viene a conoscenza della vera identità del padre Noah: è stata adottata dai Bennet, mentre suo padre biologico è proprio il Senatore Petrelli (che la concepì insieme alla pirocinetica Meredith Gordon); in particolare Noah Bennet è un ex-membrò dell’Impresa: organizzazione para-militare volta a mettere sotto silenzio i soggetti avanzati.
 
Così, dopo essersi ritrovati tutti nell’atrio del ‘Kirby Plaza Hotel’; gli Eroi combattano contro Sylar e Hiro lo trafigge mortalmente con la katana del leggendario Takezo Kensei, finendo però per farsi scaraventare lontano e teletrasportarsi chissà dove.
Peter, la cui adrenalina sta per far innescare l’esplosione, ordina a Claire di sparargli ma il fratello Nathan sopraggiunge in volo e lo conduce nella Stratosfera, dove la deflagrazione non causerà danni,.
Senza essere in grado di intuire l’incolumità dei due, un’immensa croce di lucer dorata si apre nel cielo, segnando l’esplosione di Peter.
 
Tutto sembra essere finito con un parziale ‘happy-ending’, ma il corpo di Sylar sembra essere scomparso…
 
Stagione II:
 
Quattro mesi dopo i fatti citati, gli Eroi tornano alla loro vita:
 
- Matt Parkman e Mohinder Suresh adottano Molly, in grado di localizzare chiunque nel Globo, mentre il medico indiano continua nelle sue ricerche.
- Claire Bennet e la sua famiglia si trasferisce da Odessa a Costa Verde, per sfuggire all’Impresa, dove conoscerà il giovane West (coetaneo in grado di volare) di cui si innamorerà ma a cui dovrà presto dire addio per le paure, a parte del ragazzo, che il suo segreto possa essere svelato al Mondo.
- Niki affida Micah ai suoi parenti paterni, mentre cerca una cura per liberarsi di ‘Jessica’; Micah scopre che sua cugina può emulare qualsiasi movimento, rendendola una specie di supereroina.
Disgraziatamente, la ragazza si caccerà in un guaio con un giovane criminale e Niki, per salvarla, finirà per rimanere schiacciata sotto una trave di legno in fiamme, morendo e lasciando orfano Micah.
- Hiro si ritrova catapultato nel Giappone del ‘600, dove incontra Takezo Kensei, che però appare come poco più che un samurai biondo e ubriacone anglo-nipponico, capace però di auto-rigenerazione proprio come Claire.
Intenzionato a farne un eroe per far sì che il suo mito dell’infanzia non venga screditato, Hiro finisce solo per far innamorare di sé la futura moglie di Kensei ed attirarsi il suo odio.
Lo combatterà in una arsenale di polvere da sparo, che farà saltare in aria, rendendo incerto il destino del guerriero…
- Sylar si risveglia in una foresta, curato da una donna dotata di poteri illusori inviata dall’Impresa; la uccide e fugge, scoprendo tuttavia di non possedere più alcun potere.
- due fratelli sud-americani, Alejandro e Maya Herrera (ragazza terrorizzata da sé stessa per vie del suo potere, in grado di annichilire chiunque nelle vicinanze) si mettono in marcia per contattare Mohinder, che intanto ha guadagnato una mediocre fama per i suoi studi.
Sul percorso incontrano loro malgradi Gabriel/Sylar, che farà invaghire di sé l’ingenua Maya e arriverà ad uccidere il fratello a sua insaputa.
- Nathan Petrelli è sopravvissuto all’esplosione ma è rimasto orribilmente sfigurato e verrà curato solo grazie ad una miscela di sangue di un certo ‘Monroe’.
- Peter Petrelli si scopre ancora vivo ma disperso e privo di memoria; incontra una ragazza di cui si innamora ma che dovrà abbandonare in un Futuro disastroso alternativo (raggiunto in accidentale salto spazio-temporale) e conosce il misterioso Adam Monroe.
- Adam altro non è che lo stesso Kensei, vissuto per più di 400 anni grazie al suo potere di rinascita cellulare, oltre ad essere divenuto uno dei fondatori dell’Impresa (assieme ad Angela Petrelli, Kaito Nakamura, Lindermann ed il padre di Matt Parkman).
Cerca di travisare Peter per poter ‘distruggere’ una fialetta di ‘Shanti Virus’: germe mortale che nega i poteri agli ‘Eroi’ e uccide che non ne possiede, chiamato così perché contratto per la prima volta dalla sorella maggiore di Mohinder Suresh.
Il suo scopo è in realtà quello di liberarlo nell’etere, per cancellare al 93% la Razza Umana ed infliggere al Mondo una punizione dettata semplicemente da una delusione amorosa morbosa ed annerita per più di quattro secoli.
 
Verrà fermato da un ora cosciente Peter e da Hiro, per poi venire teletrasportato vivo in una bara sotto tre metri di terra, in Giappone.
 
Stagione III:
 
Dopo aver sventato la diffusione dello ‘Shanti Virus’ (lo stesso che aveva poi inibito i poteri di Sylar), gli Heroes si ritrovano a fare i conti con una nuova consapevolezza delle proprie abilità:
 
- a Claire viene detto che il suo sangue può curare qualsiasi ferita, anche mortale, costituendo di fatto il segreto dell’immortalità.
- Nathan Petrelli, sempre più convinto che la sua vita e i suoi poteri siano un Dono di Dio, vuole rivelare all’Umanità il segreto.
Ma in punto di dichiarazione, sul palco, viene colpito da un proiettile sparato da un Peter Petrelli proveniente dal futuro; nel tentativo di catturarlo, Matt Parkman finisce per confrontarsi con lui e viene teletrasportati in una sperduta regione dell’Africa.
- Inoltre la segretaria di Nathan, Tracy Strauss, rivela le proprie abilità criogeniche e scopre di apparire come l’esatta sosia di Niki Sanders, essendo difatti la terza gemella omozigote scomparsa, assieme a Niki e Jessica.
- Mohinder Suresh vieni reclutato dal nuovo capo dell’Impresa, Bob Bishop (padre dell’elettrocinetica Elle) ma Sylar e Maya riescono a raggiungerlo per ottenere la cura allo Shanti Virus.
Trafugata la fiala, Sylar scappa e la inetta nel suo organismo, riacquistando i poteri.
Quindi irrompe in casa di Claire, che aggredisce e assorbe il potere (sebbene le ferite al cranio non la uccidano), trafugando tra gli archivi del padre in cerca di qualche soggetto dalle facoltà speciali.
Così si reca alla PRIMATECH CORP. e raggiunge l’Impresa, dove uccide Bob Bishop e penetra nel Livello Contenitivo di Detenzione n.5, dove verrà però tramortita da un’infuriata Elle; il suo enorme attacco elettrico lo spedisce in rianimazione ma causa anche il cortocircuito della Base, liberando una decina di super-criminali dotati di abilità speciali, tra i quali uno che continua a ripetere di essere Peter Petrelli.
 
Al suo risveglio, Sylar si ritrova legato su un letto di sicurezza, ma la situazione sembra essere cambiata radicalmente:
Noah Bennet è stato nuovamente ingaggiato dall’Impresa per qualche dubbio motivo, sotto il nuovo comando di Angela Petrelli.
La stessa Angela Petrelli che si trova ora al suo capezzale e che sembra essere a conoscenza di una Verità che trascende ogni sua aspettativa…
 

 

…ed è solo ora che ha inizio
l’Eclissi dell’Evoluzione.
 

 
 

 HEROES: EVOL Eclipse

-Hai mai avuto la sensazione di essere destinato a qualcosa di grandioso?-

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: ''First Contact'' ***


  
 

 
Al sorgere del Nuovo Sole nel cielo, l’Umanità lentamente si desta dal suo torpore.
Nel dischiudere come petali i nostri occhi all’accecante luce del Domani, possiamo sentire il Mondo Esterno fluire nello Spirito racchiuso nei nostri corpi, portando con sé le innumerevoli emozioni che delimitano le nostre vite ordinarie.
Tuttavia, è nell’apparente anonimia della nostra esistenza…che avviene il Primo Contatto con il Grande Progetto.
 
 
 
 
 

Capitolo 1:
 
‘‘First Contact’’
 

 
 
 
17 Marzo 2007. Ore 05:00 A.M.
Livello-5 (sotterraneo). PRIMATECH corp. Odessa, Texas.
 
“Ah!” – con un piccolo gemito soffocato, un uomo si svegliò di soprassalto.
 
Ansimava debolmente ma in fretta, con gli occhi sbarrati e la fronte imperlata di sudore; si trovava disteso su qualcosa di duro.
Il suo primo istinto fu di mettersi a sedere, ma nel flettere le braccia si trovò impossibilitato.
Si prese un momento per mettere a fuoco l’ambiente:
 
Era una stanzetta semplice e fredda, dai grigi muri lisci; una lunga lampada al neon lo accecava dal soffitto; era disteso su quello che sembrava un lettino di infermeria, con la differenza che nessun letto del genere teneva dolorosamente legati i propri pazienti con delle cinghie di cuoio, polsi e caviglie; un respiratore medico, collegato ad una flebo, era infilato nella narice destra e bloccato da un pezzetto di nastro adesivo sul suo labbro superiore.
Aveva freddo: indosso solo una canottiera ed un paio di banali pantaloni grigi di almeno una taglia più grande; chiunque lo avesse conciato così non gli aveva nemmeno concesso il lusso di un paio di scarpe che potessero evitargli di prendersi un reumatismo in quella cella gelida.
 
Come c’era finito?
Tentò di far chiarezza con le idee:
L’ultimo ricordo era quello di un dolore lancinante per tutto il corpo ed un bagliore elettrico di un azzurro sfolgorante.
Poi l’immagine di una ragazza dai capelli biondi e dalla fronte ferita che lo fissava disgustata, affiancata da una paio di guardie armate; un allarme riecheggiava per i corridoi di quella che sembrava una Base militare: la PRIMATECH.
O meglio: l’Impresa, come ‘quelli del giro’ si limitavano a chiamarla.
E poi la fame: una fame incontenibile di sapere, di forza…una fame che lo stava uccidendo.
Una fame che…
 
“I figli, talvolta, possono essere dei totali fallimenti.” – una voce di donna interruppe i suoi pensieri – “Ma non è il tuo caso. No…non tu.”
 
Si avvicinò da un angolo in ombra;
Era una donna dal portamento fiero, sui sessant’anni.
Capelli neri, raccolti sulla nuca; una parure di orecchini e collana in perle, evidentemente molto costosi, come il tailleur che indossava; rossetto, trucco ed un sorriso ambiguo, a metà tra la commozione e…qualcos’altro.
 
“Tu sei diverso.” – gli si fece vicina, parlando con voce vellutata.
Iniziò a sciogliere i nodi dei polsi, ma il giovane uomo disteso non parve avere sufficiente forza o volontà per sollevarsi.
 
Con la vista annebbiata e i sensi intorpiditi, quello che fino a poche ore fa era noto come ‘Sylar’, chiese debolmente:
“Chi…chi sei tu?”
“Gabriel…” – rispose lei, sorridendo – “…io sono tua madre.”
“No.” – piegò la testa da un lato, come a sincerarsi delle sue stesse parole – “Tu non sei lei.”
“Mi spiace contraddirti, ma è la verità. Non avremmo mai dovuto darti in adozione, Gabriel, ma eravamo così confusi ed inesperti…con Nathan già a carico e Peter ‘in arrivo’.”
Gabriel Gray sgranò gli occhi, rallentando il respiro.
“Ma ora cambierà tutto.” – continuò la donna, sfiorandogli la fronte con l’indice – “Potrai avere tutto ciò che desidera un bambino: una famiglia comprensiva, tanto affetto…”
“Ma di cosa parli…?” – chiese confuso.
 
Lei si risollevò, mormorando trionfante:
“Io sono Angela Petrelli. Ed il tuo nome, Sylar – o come preferisci farti chiamare – è ‘Gabriel Petrelli’: mio figlio.”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 16:30 P.M. Costa High. Costa Verde, California.
 
Con la musica del suo iPod sparata nelle orecchie, Claire Bennet risaliva il cortiletto esterno del grande liceo privato di Costa Verde.
 
La giornata si avviava lentamente alla fine, con il Sole a rosseggiare in quel pomeriggio di quasi-primavera e cospargeva le pareti del moderno Istituto di pennellate aranciate.
 
I suoi capelli dorati rilucevano d’ambra contro la divisa aderente azzurra da cheerleader.
Era stanca morta: sette ore di scuola, pranzo, pausa di una mezz’ora scarsa, ancora scuola e poi gli allenamenti della squadra.
E in più i recuperi.
Sì perché a lei non fregava niente di recuperare in matematica; non lo voleva, non ne aveva bisogno.
Però ne aveva proprio bisogno perché la sua media era poco meno che sufficiente; non che fosse mai stata un asso con i numeri, ma così era umiliante.
 
Non farti notare. Tieni la testa bassa’.
 
Queste erano le parole di Mr.Bennet che risuonavano nella sua testa e che l’avevano costretta a fingersi una quasi-frana a scuola per non entrare nelle mire dell’Impresa.
 
Voti!– pensò tra sé, risalendo le scale dell’Istituto – Come se a quei balordi dell’Impresa fregasse di come vada a scuola una ragazza in grado di rimettersi in piedi dopo un volo di 25 metri!
 
Pochi minuti dopo era in classe:
Quell’oretta extra di matematica sembrava non passare mai, nell’aula assolata di torbido Sole tardivo.
Contro ogni previsione, quella lezione era abbastanza affollata di studenti.
Ma a Claire poco importava; se ne stava lì a scarabocchiare sul banco strani simboli simili ad ‘F’ corsive oblunghe.
Di tanto in tanto concedeva un’occhiata al banco davanti a lei:
Quel posto era sempre vuoto, tutti i giorni da un mese a quella parte, ed ora era occupato da un tipo truzzo con la testa quadrata.
 
Ma dove sei…? Perché sei dovuto fuggire, per essere felice?– si chiese con i pensieri a morirle nell’anima, mentre il ricordo di un ragazzo prendeva corpo al suo fianco; poi si fissò ad osservare il tipo di schiena – Con quel testone quadrato ed i capelli biondi a spazzola sembra uno di quegli zerbini per Mr.Babbani…
Le venne da sorridere a quel pensiero.
 
“Allora? Nessuno sa la risposta?” – la ridestò la voce del professore, indicando il passaggio finale di un’equazione logaritmica – “Miss Bennet, forse lei saprà illuminarci! Mi sembra che non abbia molta voglia di…”
 
Tra +Infinito e –Infinito.” – tagliò corto lei, evitando inutili polemiche – “La risposta è: ‘tra +Infinito e –Infinito’.”
 
“Però…! Complimenti, Bennet! E’ giusto.” – annuì il prof. allampanato.
 
Lei sollevò un sopracciglio e schioccò le labbra:
Grazie al cavolo.
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente (fuso orario). Da qualche parte, in Africa.
 
Con il sole a picco ad indorare le sabbie senza orizzonti, Matt Parkman mosse l’ennesimo passo strascicato, l’ultimo di una serie di cui ormai aveva perso il conto.
 
“Quanto…manca…ancora?” – chiese rispettando le giuste pause per riprendere fiato, con tutta la pelle degli zigomi che gli tirava, screpolata.
 
“Non molto.” – rispose il giovane eremita qualche passo avanti a lui – “Noi quasi arrivati.”
Quel ragazzo africano che lo aveva soccorso poche ore prima, quando il poliziotto era crollato al suolo esanime, sembrava non provare il minimo sforzo.
Continuava a marciare di buon passo, con quel bastone lungo e ricurvo che si ostinava a portare sulle spalle, a mo’ di giogo.
Si voltò di tre quarti, sorridendogli:
“Voi americani non resistenti come in vostri film, eh? Troppi lussi, poca fatica!”
 
“Sì, molto spiritoso…” – bofonchiò Parkman, tentando di darsi un contegno mentre qual bel salvagente che aveva per pancia gli rendeva ogni passo più pesante.
“Oh, andiamo! Abbatterti non ti aiuterà a proseguire! Parliamo un po’: vieni da America, giusto?”
“Questo mi pare di averlo già messo in chiaro…” – borbottò Matt.
“Conosci Britney Spears?” – chiese improvvisamente la sua scorta.
“Cosa? No!”
“Lei americana.”
“Sì, ma l’America è un Paese enorme!”
“Già.” – annuì Usutu, con semplicità – “Anche Africa.”
 
Parkman sollevò gli occhi al cielo, mentre ogni briciolo della sua proverbiale pazienza lo abbandonava.
 
“Coraggio, tu deve resistere!” – lo spronò l’altro, continuando ad avanzare tra le rocce desertiche tutte uguali – “Solo così può completare ‘Cammino dello Spirito’! Solo così può salvare Futuro!”
 
Matt si fermò, spazientito ed esausto:
“Ma di che diavolo parli?”
 
Usutu si voltò, con un’espressione di totale e divertita rassegnazione dipinta sul volto scuro ma cordiale:
“Di come ‘lento panzone yankee’ imparerà a correre!”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 20:30 P.M. (fuso orario). Sala ristoro; ‘YAMAGATO S.p.a’. Tokyo, Giappone.
 
Korewa no ‘onigiri’ na oishidesu! [Questo ‘onigiri’è buonissimo!]” – con un versetto di gusto, il giovane Hiro Nakamura afferrò dal vassoio di legno un dolcetto di riso e lo addentò; sul suo viso si disegnò una buffa espressione di soddisfazione.
 
Il ragazzo dall’altra parte del tavolo lo fissò di sbieco con gli occhietti sottili, mentre il suo viso allungato si deformò in una smorfia di disappunto:
Okamachoja ni naru koto wa amari yoku shimansen. Temo, watashi wa ‘onigiri’ o tabe ni koko ni tanzai suro watashitachi na shiki o mitsukeruto wa omowanai! [Per essere un milionario non chiedi molto. Ma non credo che stare qui a mangiare ‘onigiri’ ci farà ritrovare la formula!]”
 
Rirakkushu, Ando-kun! [Rilassati, Ando!]” – Hiro rigirò tra le dita un secondo dolcetto, con infantile noncuranza – “Sore wa kimi ni narunode, koko de ‘Nemeshisu’ o sagasu tame ni shiranai! Yoi shokuji wa, yoku kangaeru tame ni hitsuyona momodesu. [Non sappiamo nemmeno dove sia ‘Nemesi’, quindi cercarla sarebbe inutile! Una buona cena è ciò che ci vuole per pensare bene.]”
 
L’amico scosse la testa, sconsolato:
Baka-Hiro!”
Poi sgranò gli occhi è batté i pugni sul tavolo, osservando le pietanze:
Watashi wa ‘sushi’ wa doko ni aru?! [Dov’è il mio ‘sushi’?!]”
 
Che servizio scadente, quel catering.
 
 
*   *   *
 
 
Quarantacinque minuti dopo. Loft di Mohinder Suresh. New York.
 
Il silenzio dell’ampio appartamento, lasciato in triste eredità del prematuramente scomparso Isaac Mendez, era interrotto solo dal lieve brusìo dei motori e dei clacson delle auto che scorrevano ambiguamente per le vie della sconfinata metropoli.
 
L’atrio principale era immerso nella penombra, rischiarato esclusivamente del tenue lume azzurrognolo di un PC portatile.
Gli occhi del giovane genetista indiano erano fissi sul monitor; le pupille seguivano freneticamente le onde di dati, numeri e grafici che si avvicendavano come in una danza armoniosa dal significato perduto.
 
Un fastidioso prurito sull’avambraccio destro costrinse Mohinder a rigirarsi la maniche della camicia di flanella.
Guardò disgustato la sua pelle: sull’epidermide dall’omogenea tonalità olivastra luccicavano delle piccole e ripugnanti escrezioni cartilaginee.
Rush cutaneo’ continuava a ripetersi; ‘Semplice reazione collaterale al composto. Passeggero.
Disgustose squame da rettile. Mostruosità.’ – gli suggeriva invece il suo inconscio timoroso.
 
“Sono tornata!” – una gentile voce femminile accompagnò lo scattare della serratura dell’appartamento.
Suresh sobbalzò, voltandosi:
“Maya…mi hai fatto spaventare!”
E tornò chino sulle sue analisi.
 
Pardoname, Mohinder.” – rispose la bella donna dall’accento sud-americano – “Stasera il traffico era bloccato!”
Appese alla porta il soprabito e gli si avvicinò.
Gli poggiò le mani sulle spalle, avvicinando il viso al suo:
Todo bien?”
“Sì, sì…” – borbottò senza staccare gli occhi dell’oggetto delle sue ricerche.
“Sicuro?” – chiese nuovamente, con più insistenza.
“Insomma, ti ho detto di sì!” – Mohinder scattò in piedi, alzando la voce.
Lei si paralizzò; il suo bel viso esprimeva tutta la preoccupazione e la confusione degli ultimi tempi.
 
Era arrivata in America fidandosi di un uomo che conosceva appena, arrivando a concedere le proprie labbra vergini, solo per scoprirlo essere l’assassino del fratello e di molti altri di cui nemmeno conosceva il nome.
Ora conviveva con quello che sarebbe dovuto essere il suo salvatore, il ‘Mohinder Suresh’ che tanto si vantava di poter guarire i ‘soggetti avanzati’ dai loro poteri e che sempre più spesso iniziava a dar segni di cedimento.
 
Perfino lui lo sapeva; si affrettò a discolparsi:
“Scusami, non volevo alzare la voce. Il fatto è che sono così stanco…e come se le pretese dell’Impresa non fossero sufficienti ci si mette anche lo Spazio a darmi noia!”
Espàcio?” – ripetè lei, dubbiosa –“Como quello delle estrellas?”
“Già…” – ingrandì un video sul PC – “…pare che una pioggia meteorica sia prevista per domani sera. Nessuno che l’abbia prevista prima d’oggi…un’altra gatta da pelare!”
“Te lo hanno chiesto loro?”
“Non esplicitamente. Diciamo che sono interessati al contenuto.”
“Di quale contenuto parli?”
“E chi lo sa!” – Mohinder fece spallucce – “Radiazioni, micro-batteri alieni…qualsiasi cosa.”
Maya Herrera strinse le braccia intorno la vita del ragazzo, sussurrando:
“Non darti troppe pene…”
“Sono solo un povero ricercatore.” – si disse.
“No…” – le parole le si spensero in gola, mentre le loro labbra si intrecciavano lentamente – “…tu erès mucho mas.”
 
Suresh chiuse il laptop con una mano.
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente. Livello-5 (sotterraneo). PRIMATECH.
 
“E così sarebbe lui il mio nuovo partner?” – Noah Bennet, fissando l’uomo accovacciato sullo sgabello, oltre i vetri rinforzati della cella.
 
Gabriel Gray, Petrelli, o Sylar – o come diavolo decidessero di chiamarlo – se ne stava lì, fermo, con le mani allungate sulle ginocchia.
Teneva gli occhi chiusi, sperando di allontanare il mondo da sé.
Ma ci sentiva bene. Anche troppo.
 
Nonostante ci fossero almeno trenta centimetri di vetro anti-sfondamento a dividerli, Mr.Bennet poteva avvertire ogni molecola del suo corpo gridare all’erta e vendetta verso quel silenzioso individuo.
 
“Non mi piace.” – disse alla donna al suo fianco – “Non accetterò mai di lavorare con quel mostro. Non dopo quello che ha fatto alla mia Claire.”
“Mi pare che lei stia bene.” – Angela Petrelli aveva il raro dono di sminuire qualsiasi conversazione e ridurla ad un mucchio di frasi spezzate.
“Non è questo il punto.” – la voce di Noah si incrinò – “Mi avete costretto a tornare…ora volete che faccia l’Avvocato del Diavolo?! Perché proprio lui?!”
“I motivi delle mie scelte non devono riguardarti, H.R.G.” – la donna sorrise con superficiale leggerezza – “Non è una richiesta: è un ordine. Di cosa ti lamenti? Dopotutto questo sarà un ottimo modo per tenerlo sotto osservazione. E poi conosci la procedura: uno di noi, uno di loro.”
“E, tra i tanti, proprio l’Uomo Nero?!”
“Noah…” – Angela assunse un’espressione di falso cruccio – “…sta solo cercando di redimersi. E’ stato lui a volerti, sai? Dagli una possibilità. E comunque ora è solo Gabriel Petrelli…”
Gray.” – la corresse, con disappunto – “Il suo nome è ‘Gabriel Gray’. Non provare a confondere le acque anche con me, Angela.”
Lei sollevò un sopracciglio, dissentendo:
“Credi a ciò che vuoi, ma le procedure non si discutono. Ho un registro-missioni piuttosto nutrito da sottoporvi.”
“Come vuoi.” – l’uomo incrociò le braccia al petto, remissivo – “Ma alla prima mossa falsa che fa…”
“Si prevedono tempi magri, Noah.” – lo interruppe Mrs.Petrelli – “E’ meglio lasciare da parte i desideri da consacrare alle Stelle Cadenti e abbracciare quelle scelte difficili ma necessarie.”
Gli si parò innanzi; le labbra perfettamente truccate si incurvarono in un sorriso compiaciuto:
A volte dobbiamo fare affidamento sugli alleati più oscuri, per difendere ciò a cui più teniamo…
 
Le lenti di Noah Bennet rilucettero nell’opacità del neon.
 
 
*   *   *
 
 
Un’ora dopo. Casa ‘Bennet’. Costa Verde.
 
L’odore di arrosto e patate al forno si spandeva per la sala da pranzo, al centro della quale una bella tavola imbandita offriva le sue pietanze alla famiglia riunita intorno ad essa.
 
Claire infilzò la forchetta in una fetta di roastbeef e la sollevò in aria, fissando con orrore un minuscolo pezzo di grasso sul bordo:
Eeww…mamma, si può sapere come hai fatto a trovare un arrosto che abbia i nervi? Oh, beh…vieni qui, Mr.Babbani!”
 
Un cucciolo di Pomerania dal pelo lucido e vaporoso si accucciò zampettante al tavolo, accogliendo in bocca il pezzetto di grasso concessogli dalla padroncina.
 
“Claire!” – Sandra Bennet lanciò un’occhiataccia alla figlia adottiva – “Non si spreca così, il cibo!”
 
“Stavo pensando che potrei star via per un paio di giorni.” – proruppe a freddo Noah, posando gli occhiali bordati d’osso sul tavolo.
 
Suo figlio Lyle parve ravvivarsi all’idea che attraversò il suo piccolo cervello sedicenne:
“Oh, sì, adesso che ci penso: Bob Patten sta organizzando un week-end a casa sua, sul lago, e io…”
“No, non puoi andarci, se è questo ciò che intendi.” – lo frenò la madre.
“Ma mamma!”
“Niente ‘ma’! Non mi fido a lasciarti con quel tipo!”
 
Claire mandò giù un altro boccone e riprese il discorso, non certo su di giri:
“E dove dovresti andare, papà?”
“Ehm…” – l’uomo indugiò per un attimo – “…incontri di lavoro, nulla di più.”
“Già.” – la Cheerleader sottolineò quel concetto con sottile sarcasmo – “Proprio nulla di più.”
 
In cuor suo sapeva che quando Noah Bennet era ansioso al riguardo di qualcosa significava che quel ‘qualcosa’ era pericoloso e andava discusso il meno possibile.
Ma quando faceva finta che tutto andasse per il meglio, che la loro vita potesse ricadere nell’agognato anonimato…allora sì che erano casini.
 
“Ricordami di mettere la sveglia al telefono, Sandra.” – concluse sbrigativo, indossando nuovamente gli occhiali da vista in un gesto di celato nervosismo – “Domani devo svegliarmi presto.”
 
Claire rivolse un’ultima occhiata al padre e poi si chinò verso il cagnolino che ancora scodinzolava ai suoi piedi:
“Caro il mio Mr.Babbani, prevedo un lunga settimana davanti a noi…”
 

Il notiziario al telegiornale era al suo ultimo servizio:
‘…e per domani è previsto il passaggio sull’Atlantico dell’asteroide ‘BlackLight’…’
 
 
CONTINUA…
 
 
Nel prossimo capitolo - ‘Shooting Star’:
 
Durante il primo caso di Noah Bennet e del suo nuovo strabiliante partner, un’inaspettata ‘visita’ dal Futuro rivela l’identità di uno dei criminali;
In due distanti luoghi della Terra, Hiro e Matt hanno una visione differente ma che potrebbe accomunarli;
E mentre una nuova amicizia sembra ravvivare la vita della giovane Claire, il misterioso meteorite ‘BlackLight’ è prossimo all’impatto imminente…

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: ''Shooting Star'' ***


Ok, questo capitolo è un po’ più lungo del solito. Prometto che dopo saranno più semplici, lo giuro! >.<
Buona lettura! ^^

 
 
 

Talvolta, nelle infinite casualità della vita, si nasconde un Disegno ben più grande.
Possiamo tentare di essere degli individui migliori, o di macchiarci di colpe tremende per difendere ciò che amiamo.
Ma è con quella stessa casualità – come di una Stella Cadente – che tutto ciò che abbiamo costruito può assumere nuove forme…

  
  
  
  

Capitolo 2:
 
‘‘Shooting Star’’

 
 
 
 
18 Marzo 2007. Ore 07:15 A.M.
Casa ‘Bennet’. Costa Verde, California.
 
Bi-bip…bi-bip…
 
La piccola sveglia a forma di orso sul comodino della cameretta insisteva a squillare debole ma incessante, senza dar cenno di voler demordere.
Sembrava un bambino capriccioso e testardo, ma dovette azzittarsi per forza quando un braccio nudo di Claire non decise di sbucare da sotto le lenzuola, battendo con quanta più energia consentita dalla sonnolenza sul bottone superiore a forma d’orecchio.
L’orsetto cadde dal comodino, rotolando sul pavimento e ammutolendosi.
 
Con la lentezza e la goffaggine degna di uno zombie da film horror di terza categoria, la montagna di quelli che dovevano essere capelli biondi – ma che somigliavano più ad una criniera arruffata – strisciò fuori da sotto le lenzuola, mettendosi a sedere sul letto.
Con gli occhi ancora appiccicati dal sonno e la più sconfortata espressione possibile dipinta sul viso quasi completamente coperto dalle frange scomposte, Claire fissò la sua immagine riflessa nello specchio dall’altra parte della stanza, proprio sopra lo scrittoio affollato di matite colorate e mollette.
Sbuffò contrariata alla vista dell’aspetto che i suoi capelli avevano all’inizio di ogni giornata:
Molto simile al pelo perfettamente ovattato e lucidato di Mr.Babbani; totalmente impresentabile per un’acconciatura che dovesse sormontare teste umane.
 
La luce calda e bianca del mattino primaverile filtrava dalle serrande aperte per metà.
 
La ragazza sbuffò ancora e scosse energicamente la testa, quindi saltò giù dal letto con la poca forza di volontà nelle vene e afferrò il primo elastico fermacapelli che trovò a portata di mano.
Legò una coda con un unico gesto e passò oltre la camera, curandosi però di assestare una sonora manata al suo stereo non-proprio-hi-tech e far partire d’impulso i quindici minuti di musica che “Good Morning, America!” offriva tutti i giorni a quell’ora.
 
Scese rapidamente le scale del piano di sopra, ciabattando nelle pantofoline di peluche fino alla cucina.
 
La prima voce che udì fu quella lontana e monotona del presentatore televisivo del mattino, che avvisava le sonnolente famiglie americane:
…e ricordatevi di tenere gli occhi sollevati al cielo, stanotte! Non perdetevi il passaggio della Cometa ‘BlackLight’!...
 
Troppo intontita come al solito dal sonno che reclamava il letto per un’altra mezz’ora buona, Claire era ormai abituata a riconoscere i suoi familiari solo dal suono della voce:
 
Uno zampettare rapido sul parquet la avvisò di Mr.Babbani alla sua destra: vietato calpestare i cani e le aiuole.
“Buongiorno tesoro, dormito bene? Sono pronti i waffles!” – la voce cinguettante di sua madre la guidò fino al tavolo centrale, al quale si sedette con un tonfo sordo.
“Ci credo che non ti si piglia nessuno: la mattina sembri Cugino It!” – questo perfetto esempio di amore fraterno veniva dal ‘vir adulescens’ della famiglia: Lyle.
 
“Zitto, bacarospo.” – e Claire Bennet non poté non ricambiare tanto affetto in modo adeguato.
 
“Ciao, orsacchiotta.” – una voce calda e profonda ma allo stesso tempo così accogliente le concesse uno spiraglio di piacere in quei primi tre minuti di giornata già abbastanza seccanti:
Noah Bennet le passò alle spalle, concedendole un bacio sulla nuca ed una carezza sulla spalla.
 
Claire avvertì quella sensazione di amorevole tatto come una perla rara che aveva potuto ammirare difficilmente, negli ultimi tempi.
Ma ogni perla ha le sue imperfezioni; mise a fuoco il completo grigio e cravatta nera che l’uomo indossava e chiese:
“Sei già pronto? Dove vai?”
 
“Te lo avevo detto ieri sera.” – rispose lui, intento ad aggiustarsi meglio il nodo della cravatta – “Ho degli incontri di lavoro per conto della PRIMATECH; un workshop di due giorni sui metodi di stampa ecologica.”
 
Claire lo guardò di sottecchi:
Nel loro linguaggio non-così-super-segreto ‘PRIMATECH’ era sinonimo di ‘Impresa’ ed ‘Impresa’ di ‘guai in vista’.
Ma non davanti a Lyle e Sandra; per loro era solo sinonimo di ‘fabbrica di materiale cartaceo’.
Decise di star zitta e non fomentare inutili polemiche, ma non poté astenersi dal chiedere:
“E sarà una cosa…complicata?”
 
Lui si fermò per un momento; la guardò e sospirò.
Nella sua mente si formava già l’immagine del ghigno a trentadue denti che Sylar/Gabriel avrebbe sfoggiato nel vederlo in difficoltà e ai chilometri d’asfalto che la sua auto avrebbe dovuto mangiare per raggiungere super-criminali sparsi chissàdove, sempre accompagnato dagli occhietti inquisitori del suo nuovo compagno.
Noah si limitò a sbuffare infastidito alla sola idea:
“Più che altro sarà una rottura; ci sentiamo stasera.”
 
E senza troppe spiegazioni si avviò verso la porta d’ingresso.
Sua moglie venne ad aprirgli e lo salutò con un bacio sulla guancia.
L’uomo rivolse un ultimo sguardo alla sua famiglia e poi varcò la soglia.
 
In cuor suo Claire sperò che quel momento di intimità e serenità non fosse l’ultimo.
Era convinta che quel passo oltre il giardinetto di casa non promettesse nulla di buono.
 
 
*   *   *
 
 
Matt Parkman sedeva sulla terra rossa e argillosa di quello che sembrava essere il pavimento di una capanna di bambù e pagliericcio.
Tutt’intorno, pietre bianche e levigate affiancavano le pareti esili della baracca, risaltando per contrasto dai colori vistosi con le quali erano state decorate.
I disegni sono sbiaditi, le forme confuse. O forse è solo il ricordo ad essere evanescente?
Ma si tratta di un ricordo? O qualcosa di presente? O magari che deve ancora accadere?
Sembra che quel Matt Parkman aspetti qualcuno con impazienza, tamburellando con le dita sulle ginocchia; è in ansia, probabilmente quell’attesa comincia ad essere troppo prolungata e snervante anche per la sua calma abituale.
Sembra essere troppo teso per rimanere fermo più di così:
Si alza in piedi ed esce dalla capanna, all’accecante luce del Sole d’Africa.
Muove qualche passo in avanti e poi vede: quella testa di ragazzo africano sempre sorridente che pare aver perso ogni traccia di vitalità.
E’ gettata in mezzo alla povere ed la suo stesso sangue; non ha corpo.
Solleva lo sguardo atterrito ed incrocia lo scintillio di una canna di pistola.
Un uomo alto, vestito di un completo nero, la impugna.
Un impresario, un agente federale, magari un politico? Tutte e tre le cose?
Il volto non è definito dal ricordo, ma la sua voce riecheggia distinta e matura:
“Daphne è stata troppo indulgente, con te. Eppure l’avevo avvertita che agire secondo i piani sarebbe stato meglio per tutti. Un vero peccato.”
 
Parkman non prova nemmeno ad urlare; non ne avrebbe avuto comunque il tempo.
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente (fuso orario).
Appartamenti di Hiro Nakamura; YAMAGATO S.p.a. Tokyo, Giappone.
 
MASAKA!!! [NO!!!]”
Quel grido di ansia mista ad orrore fuoriuscì dalla gola Hiro privo di qualsiasi briglia.
 
Si ritrovò seduto sul letto matrimoniale che – ci aveva riflettuto molte volte – sembrava proprio non voler assolvere alla sua funzione di giaciglio d’amore.
Riprese fiato, con il sudore ancora a gocciargli lungo le tempie e le guance.
A tentoni cercò i suoi occhiali nel buio, trovandoli miracolosamente illesi sotto il cuscino.
Li inforcò in tutta fretta e allungò una mano verso il comodino, afferrando il telefonino a schermo piatto.
Scorse nella sua rubrica fino alla voce ‘Masashi Ando’ e si fermò di colpo.
 
Il suo subconscio era come bloccato da catene di morale: cosa aveva intenzione di fare?
Erano le 03:00 di notte e aveva appena gridato in un incubo che ritraeva la morte di un poliziotto capace di leggere nel pensiero, forse disperso in Africa, e di un Curatore indigeno. Entrambe per mano di un uomo privo di volto.
La prima cosa che fu tentato di fare fu chiamare quello che credeva essere la sua spalla ed insostituibile appendice per ogni attimo della sua vita, nonché il suo migliore amico.
Ma cosa gli avrebbe raccontato? Che aveva avuto un brutto sogno e che ora voleva essere rincuorato? Che venisse lì a leggergli una storia?
Non aveva modo per constatare l’attendibilità del suo sogno.
Dopotutto era un Manipolatore spazio-temporale, non un veggente.
Ma di cose strane, Hiro Nakamura ne aveva viste e compiute anche troppe e non in una sola epoca.
 
Sapeva perfettamente cosa fare, non importa quanto potesse sembrare fuori luogo o improbabile.
Premette sul contatto di Ando e si mise in ascolto.
 
Squillò a lungo a vuoto e poi:
Moshi-moshi…?” – una voce impastata dal sonno e turbata dall’orario lo accolse dall’altra parte della cornetta.
Ando-kun!” – esclamò ad alta voce, trattenendosi a stento.
Hiro…?!” – il modo in cui il ragazzo prese atto del suo interlocutore non poté essere più irritata e sorpresa allo stesso tempo – “Omae wa imanani desu ka?! [Che cavolo vuoi a quest’ora?!]”
Riversò senza pensarci tutto ciò che ancora gli frullava nella mente per metà ancora dormiente:
Matt·Pārukuman! Mirai! Nemeshisu! [Matt Parkman! Il Futuro! Nemesi!]”
Na-ni…?! [Cosa…?!]”
 
Le labbra di Hiro si ridussero ad una stretta linea sottile; i suoi occhi puntarono il vuoto:
Ima, watashi wa na-ni o subeki ka o shitteiru! [Ora so cosa dobbiamo fare!]”
 
 
*   *   *
 
 
 
Due ore dopo. PRIMATECH corp. (attico). Odessa, Texas.
 
“Certo che vi siete attrezzati proprio bene…”
Mr.Bennet si lasciò sfuggire un piccolo fischio, alla vista dell’improbabile velivolo a pochi metri da lui.
 
Posteggiato diametralmente sulla grande ‘H’ dipinta sul tetto della PRIMATECH, luccicava lo scafo bianco di quello che appariva come uno shuttle più corto e schiacciato del normale.
Le ampie ali erano un tutt’uno con la fusoliera dall’aspetto aerodinamico ed un paio di grandi rotori erano stati posti nella stessa intelaiatura degli alettoni orizzontali.
Un portellone sul transetto orizzontale lasciava intravedere quello che sembrava un lungo scompartimento dannatamente scomodo.
 
“Te l’ho detto: in tempi come questi ogni mezzo è lecito, anche le forme di trasporto non convenzionali.” – ripose a testa alta un’Angela Petrelli in completo fumé perfettamente stirato, venendogli incontro.
 
Sul suo viso era dipinto un sorriso appena accennato, come di vaga soddisfazione. Vedere Noah Bennet, occhiali e valigetta-24 ore, sul tetto dell’Impresa significava che c’era riuscita, dopotutto:
Lo aveva convinto, piegato al suo volere; sarebbe salito a bordo di quella specie di astronave e sarebbe volato dove avrebbe voluto lei, collaborando anche con l’ultimo uomo al Mondo che avrebbe desiderato al suo fianco.
E per di più non si era nemmeno sprecata a scendere a bassi ricatti; semplicemente H.R.G. sapeva qual era la mossa giusta da fare per difendere ciò a cui teneva, malgrado tutto.
 
“E’ proprio un bel giocattolo. A chi hai cancellato la memoria, per averlo?” – chiese con spudorata ironia – “NASA? CIA? Magari il Presidente?”
“Mi credi davvero capace di tanto?” – controbatté lei, riducendo le palpebre ad una fessura – “Sono pur sempre la madre del Senatore Petrelli! E con i suoi contatti –oltre alla liquidazione per l’incidente in conferenza stampa– posso farmi concedere questo e ben altro senza dover haitianizzare nessuno.”
 
Noah sorrise tra sé, inarcando le sopracciglia in un gesto di amaro divertimento:
Quanto audace, competente, incredibile eppure maledettamente miserabile poteva essere quella donna.
Si guardò intorno: a parte due uomini della sicurezza, il pilota di quel trabiccolo che pareva essere uscito da un film di Spielberg e l’Haitiano –che salutò con un semplice cenno del capo, alle spalle di Angela– non c’era anima viva, lassù.
Chiese arricciando le labbra:
“Nathan, giusto; spero lui stia bene, così come Peter. Ma mi pare manchi qualcuno; che fine ha fatto…il Figliol Prodigo?”
Angela Petrelli si voltò di tre quarti, badando bene a caricare le sue parole di pungente sapore di sfida:
“Se ti riferisci a Gabriel…beh, dovresti prendere esempio da lui. Ti ha già preceduto sul posto; sembra proprio che abbia preso molto sul serio questa faccenda della ‘Redenzione’.”
“Ma certo.” – Bennet ingioiò un groppo amaro – “Ora quello di troppo sono io.”
 
La donna inforcò un paio di costosi occhiali da sole, concludendo la polemica:
“Non se ti renderai utile; ricorda che tutto questo è anche per il bene di Claire. Ti auguro buona giornata, H.R.G.”
E lo oltrepassò senza voltarsi.
 
Noah scosse la testa ed entrò in quell’aereo con gli steroidi, piegandosi sulle ginocchia per non urtare il soffitto con la testa.
Si accomodò su una poltroncina al centro dello scompartimento, proprio di fronte ad un uomo di bell’aspetto e dalla carnagione scurissima.
Gli occhi dell’Haitiano gli si piantarono addosso e lo trapassarono come lame, mentre un solo commento uscì dalle sue labbra:
“E così mi avete rimpiazzato…”
“Solo provvisoriamente.” – lo corresse l’Uomo con Gli Occhiali, controllando la tabella di marcia sul suo palmare – “Non ho intenzione di portarmi in giro quel bastardo come fosse un amico del college.”
“E cosa farai, allora?”
 
Mentre il frastuono dei reattori dello shuttle e delle eliche laterali iniziava a farsi più intenso, Noah Bennet mormorò a mezza voce quella che sarebbe voluta suonare come una promessa:
“Appena scoprirò il suo punto debole…io lo ucciderò.”
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente (fuso orario). Da qualche parte, in Africa.
 
Matt Parkman non faceva altro che passeggiare in cerchio da almeno un quarto d’ora, nell’angusta e afosa capanna in legno e pagliericcio.
Il pavimento era solo un unico strato di terra rossa ben battuta e ricoperto da pochi tappeti malmessi; le pareti costeggiate da grandi pietre granitiche perfettamente levigate ed affrescate dalle tinte vivaci.
Ognuno di esse rappresentava uno o più individui, dalle fattezze stilizzate, speso ridotti anche a meri schizzi di volti privi di contesto.
Un quadro – se così lo si poteva definire – in particolare colpì l’attenzione del poliziotto americano: quella che appariva essere la Terra sembrava essere stata divisa in due metà, come da una lama, e il suo intero Nucleo esplodeva in un divampare di fiamme e frammenti crostali.
Parecchio catastrofico e di pessimo gusto.
 
“Questi li hai fatti tutti tu?” – chiese Parkman ad Usutu, ancora affaccendato nella preparazione di una poltiglia grigiastra di cui non si decideva a spiegare l’utilità.
“Sì, tutti.” – ripose l’africano – “In tanto tempo.”
“Sono tutti così…familiari.”
Matt si piegò sulla schiena, quasi a voler a cercare un’angolazione differente che gli offrisse nuove interpretazioni per quei murales improvvisati.
“Questo, per esempio…” – ed indicò una sagoma nera con uno scolo rosso all’altezza della fronte, verso la quale un tipo in gilet e occhiali puntava minacciosamente l’indice – “…è strano. Voglio dire: cosa rappresenta? Un tizio che scoperchia il cranio ad un uomo?”
 
Alla sola idea rabbrividì: non poteva fare a meno di ripensare all’Eminenza Grigia di nome ‘Sylar’ che puntualmente era piombato nella sua normale vita da poliziotto sottopagato per spianargli la strada da commissario di un’interminabile serie di raccapriccianti delitti.
 
“Quello è Uomo dei Cervelli.” – confermò il pittore – “Fai attenzione a lui; lui molto pericoloso…ma non malvagio. Solo confuso.”
“Sarà come dici…ma io non mi fido affatto.” – Matt si morse un labbro e ruotò gli occhi altrove, verso un gruppo di dipinti.
 
Quello più a destra raffigurava una ragazza dai capelli dorati ed un’uniforme sportiva bianca e rossa; aveva il braccio ferito, ma non sembrava curarsene.
All’esatta sinistra era stato tracciato un lungo schizzo bianco e azzurro dalla punta giallo acceso, come una Cometa; il tutto in un fondale nero come lo Spazio.
Infine, al centro, quello più singolare:
Un giovanotto asiatico piuttosto in carne, dagli occhiali da vista squadrati ed un completo nero elegante ma fuori luogo, se ne stava lì con una strana espressione a bocca spalancata e con un dito puntato verso l’osservatore, quasi volesse avvertirlo di qualcosa; al suo fianco, un ragazzo connazionale decisamente più in forma si reggeva al suo braccio, con negli occhi tutto fuorché fiducia.
 
La Cheerleader: la figlia di Bennet. Una specie di meteorite...o l’Eclissi?– pensò tra sé – E quei due? Che siano Nakamura e quell’altro tizio con cui va sempre in giro?
 
“Pronta!” – esclamò improvvisamente il cordiale pittore e soccorritore – “La Chiave per il Cammino dello Spirito!”
Ed invitò Matt a sedersi al suo fianco, battendo con un palmo sul suolo.
Fece come richiesto e, con una certa goffaggine, si accostò a gambe incrociate.
Guardò con suprema diffidenza e disgusto la purea scura nella scodella di legno e chiese riluttante:
“Che cos’è quella…roba?! E’ commestibile?!”
“Tu non preoccupare.” – lo rincuorò con scarsi risultati Usutu – “Non devi finirla tutta come piatto di pasta. Basta un solo assaggio.”
“E dopo che avrò fatto quest’orribile penitenza che ci otterrò?”
 
Il ragazzo indigeno lo fissò intensamente, privo di ogni cordialità; quello che gli stava per dire sarebbe stato come scavare nell’anima di un uomo e trovare un bivio da eludere:
Otterrai la possibilità di salvare tua vita…o di lasciarti morire. Solo tu puoi sapere ciò che troverai; io ti ho aspettato molto a lungo.”
 
Matt sospirò ancora e arricciò un labbro alla vista di quella schifezza incolore.
Immerse un dito nella sostanza fredda e vischiosa e ne tirò su un boccone.
Chiuse gli occhi dalla stizza e succhiò via la crema. Un senso di disgusto lo pervase:
Non era affatto fredda come appariva, ma bollente e terribilmente amara; un bruciore gli ustionò la lingua e scese nello stomaco, peggiore che se avesse inghiottito un tizzone ardente.
Portò le mani alla bocca dell’esofago, certo di essere sul ciglio dell’ulcera, e strinse gli occhi dal dolore.
Si accasciò in un rantolo al suolo, ansimando con il fiato spezzato.
 
Il suo soccorritore non mosse un solo dito; semplicemente sussurrò:
“Non temere di vedere. Apri gli occhi!”
 
Matt deglutì ancora e poi si calmò; le palpebre ancora serrate.
Smise di uggiolare; una calma innaturale lo aveva disteso.
Sollevò di scatto la testa e sbarrò gli occhi: pupille, sclere e iridi ora erano solo un’unica macchia biancastra.
Biascicò a mezza bocca:
“Io…vedo!”
 
Vedeva, infatti. Ma non come se stesso; più come una ripresa a distanza, il sogno di qualcun altro molto lontano nel tempo.
 
Vide sé stesso all’inizio della sua carriera, inesperto e pieno di paure.
Gli occhi puntati addosso del resto del Dipartimento; quegli occhi diffidenti e maligni che sussurravano oscenità alle sue spalle.
Vide la sua faccia paonazza dalla vergogna al primo appuntamento con Janice, sua futura moglie, alla quale aveva portato un mazzo di gardenie che lei detestava ma che non voleva ammettere per paura di ferirlo.
Poi quella scena si capovolse totalmente: non più sorrisi spezzati, non più silenzi pieni di dolci sottintesi o mani tenute…solo la frustrazione, l’incomprensione, la lacrime trattenute a stento davanti ad un boccale di birra, in uno squallido locale il più lontano possibile da casa.
Non aveva importanza quanto potesse essere bravo a leggere i pensieri altrui, quella relazione non si sarebbe più aggiustata, se lo sentiva nelle ossa.
C’erano stati giorni in cui ricorreva alla telepatia per soddisfare al meglio i desideri inespressi di quella donna che amava sopra ogni altra cosa, ma nonostante questo nulla era come sarebbe dovuto essere.
‘Se baro non vale’ si diceva ogni volta; se si è costretti a frugare nella testa della propria moglie, perché non si riesce a capire come renderla felice, allora significa che ormai si è proprio alla frutta.
Ma poi tutto cambiò ancora:
C’era una giovane donna dai corti capelli biondissimi; le labbra sottili e strette, gli occhi grandi e scuri ed un radioso sorriso dipinto sul piccolo viso.
Non conosceva il suo nome…non ancora.
Daphne. Daphne Millbrook.
Si chiamava così ma non aveva idea del perché. Sapeva – sentiva – così tante cose di lei che avrebbe potuto riscriverne la biografia ma quel viso non gli diceva assolutamente nulla; non l’aveva mai incontrata prima d’allora.
E poi quel bambino: quel piccolissimo bambino paffutello – avrà sì e no un anno e mezzo di vita – che lui stesso tiene in braccio e che coccola come un padre.
E Molly. Molly Walker, la piccola chiaroveggente presa in adozione dopo che quel demonio nero di Sylar ne aveva massacrato la famiglia.
Sono tutti e tre così contenti, ma…la donna sparisce improvvisamente, a velocità impressionante.
Non sa quanto tempo passi con esattezza ma quella stessa porta da dove è uscita si riapre improvvisamente.
E vede ciò che in cuor suo non avrebbe mai desiderato…
 
Ancora preda di quei fantasmi che gli danzavano nella mente, trasfigurando lo spazio circostante, Matt si rimise in piedi, barcollando incerto.
Afferrò la tavolozza di colori naturali di Usutu ed un pennello a setole larghe, iniziando a tracciare rapide e decise pennellate contro la pietra vergine di una parete, fuori dalla capanna.
 
E’ molto sicuro di sé.
Strano, dato che Matt Parkman non era mai passato per un gran disegnatore, alle superiori. Diciamo pure che il commento più ricorrente della sua professoressa di Disegno suonava bene o male come ‘fa schifo’.
Ma non questa volta.
Questa volta i contorni sono definiti, i colori abbaglianti, la mano guidata da un subconscio che ormai ha abbandonato le paure.
 
Quando la punta del pennello si fu seccata ed il disegno terminato, un leggero brivido lungo la colonna vertebrale lo riportò alla realtà.
Riprese fiato, ansimante, e fissò la sua opera:
Un omone non certo peso-piuma, ma dal volto buono e devastato dalla sofferenza, reca in braccio il corpo esanime di una ragazza minuta, dalla schiena sanguinante ed ustionata orribilmente.
Lui e quella Daphne.
Un pessimo finale.
 
“Ora hai capito, panzone yankee?” – chiese gentilmente il Curatore – “Hai capito cosa devi fare?”
 
Matt si inumidì le labbra, confuso.
Quella visione era stata troppo realistica per essere vera; troppo paradossale per essere falsa.
Con una lacrima che iniziava a farsi strada sul ciglio della sua palpebra inferiore, mormorò in un soffio:
“Devo correre. Devo imparare a correre…più veloce di lei.”
 
MATT PARUKUMAN!!!” – una voce potente colse entrambi gli uomini di sorpresa, richiamando il poliziotto con un nome storpiato da un accento asiatico.
 
Si voltò completamente, sgranando gli occhi:
H-Hiro Nakamura…?!”
 
Il ragazzo giapponese era a pochi metri da lui, materializzatosi come dal nulla.
Alle sue spalle, Ando Masashi gli stringeva ancora il braccio, con un’espressione di totale sconforto per i geniali piani eroici del suo degno compare.
La scena ricalcava alla perfezione quell’affresco abbandonato nella capanna di Usutu.
 
E come nel dipinto, Hiro gli tese con decisione una mano; le lenti dei piccoli occhiali quadrati rilucettero al Sole desertico:
Matt Parukuman…sono qui per saruvarti!”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 14:05 P.M. Poughkeepsie; NY.
 
“…e per quale motivo non avete spostato quelle transenne dieci metri più indietro?! Pensate di saper fare il vostro lavoro, così?! E poi vi lamentate se non vi pagano...! Ora muoversi!...
 
Noah Bennet avrebbe riconosciuto quella voce anche in mezzo ad un concerto heavy metal.
 
Era sceso da quel trabiccolo volante infernale dell’Impresa, su un palazzo qualche isolato più in là, dirigendosi il più in fretta possibile in quella frazione dello stato di New York.
Aveva evitato di essere investito almeno a tra incroci pedonali e poco c’era mancato che buttasse giù quattro o cinque passanti...tutto per essere lì in tempo.
Ma, a pensarci bene, ora come ora avrebbe preferito che uno di quei taxi spericolati lo avesse davvero messo sotto.
 
Si fece largo tra la folla di civili frementi e Caschi Blu armati fino ai denti, fino a raggiungere il drappello di sorveglianza che presiedeva ad una cinquantina di passi dalla grande ‘Bank of America’.
Non aveva paura di chi o cosa ci fosse là dentro, né la procedura operativa poteva in alcun modo metterlo a disagio: erano vent’anni che faceva da sicario all’Impresa, dopo un po’ di tempo alle formalità ti ci abitui.
No, a lui faceva rabbrividire chi era all’esterno.
 
Luiera lì: con il suo bel completo nero alla MIB, i capelli corvini impomatati all’indietro per darsi un tono, le mani imposte sui fianchi – neanche fosse il Generale alle Grandi Manovre – ed un’espressione di fierezza e vanagloria che avrebbe strappato colorite imprecazioni anche a un Santo.
Gabriel Gray finì di picchiettare con l’indice sul petto di un povero direttore del traffico non proprio sveglio, intimandogli l’ultimo di un’interminabile serie di scialbi ordini:
“E vedi di muoverti!”
 
Dio Santo, sarà arrivato neanche da venti munti e già se la tira in quel modo! – pensò Noah tra sé, avvicinandosi rapidamente, con i nervi a fior di pelle.
 
Il nuovo acquisto di Angela Petrelli contemplava beatamente quell’andirivieni di ometti concitati, quando la stretta vigorosa di una mano gli afferrò la spalla, costringendolo a voltarsi:
“Però…! Chi non muore si rivede!”
“Allora mi sa che mi vedrai parecchie altre volte, dato che – grazie alla piccola Claire – io non posso morire.” – Sylar ripose a quel saluto non proprio ortodosso con un sorriso appena accennato, che raggelò il sangue nelle vene di Mr.Bennet.
L’Uomo con Gli Occhiali sentì un moto di collera sgorgargli nelle vene e rovesciarsi fuori:
“Rifiuto quasi-umano che non sei altro, non nominarla mai in mia presenza! Non ne hai il diritto!”
“Buongiorno anche a te, H.R.G.” – rispose in modo innaturalmente cordiale l’altro, allargando solo un po’ di più il ghigno di prima – “Dormito bene? Spero di sì, dato che sei un po’ in ritardo. Ma non preoccuparti, tengo io tutto sotto controllo...”
“Tu…cosa?” – Noah inarcò un sopracciglio, davanti a tanta sfacciataggine – “L’unica cosa che dovresti tenere sotto controllo è quel tuo cervello mitomane che ti ritrovi, Syl-…!”
Ah-ah-ah.” – lo interruppe, muovendo l’indice in segno di diniego – “Piccola correzione: ora io sono l’Agente ‘Drew O’Grady’.”
E mise in bella mostra un distintivo meravigliosamente falsificato del NYPD.
 
Noah fece per replicare, ma Gabriel afferrò per un braccio il neo-portantino malaugurato di cui sopra:
“Tu: portaci due caffè-decaffeinati. E senza zucchero, mi raccomando.”
“A-Agli ordini…” – il ragazzetto si allontanò, obbedendo con encomiabile pazienza.
Sylar si voltò nuovamente verso di lui, con quegli occhietti scuri e penetranti che tradivano una voglia di competizione degna di un centometrista:
“Lo prendi senza zucchero, vero?”
 
Che spettacolo patetico.
Bennet non sapeva se ridere o disperarsi; era semplicemente assurdo vedere il suo più irriducibile nemico comportarsi a quel modo, un misto di odioso cinismo, bonaria strafottenza e sottile sfida.
E in tutto questo la parte del ‘terzo in comodo’, dell’ingenuo, stava toccando a lui.
Gli venne semplicemente da sorridere di un riso amaro, quasi perplesso:
Tsk! Scommetto che ti stai divertendo un mondo, vero?”
Tu non immagini quanto.”
Noah scosse la testa, temendo che quell’incarico fosse una punizione per qualche tremendo peccato commesso.
Quindi si voltò verso la banca, convinto che starsene lì a litigare come ragazzini non avrebbe portato a nulla.
Gli strappò dalle mani il distintivo fasullo e si incamminò a passo spedito verso uno dei blindati neri della polizia.
 
Mostrò il distintivo del presunto Agente O’Grady ad un Casco Blu – fregandosene del fatto che se Sylar aveva una gran bella faccia tosta ad esibire carte false, la sua lo era almeno il doppio – e lo fece scostare senza troppi complimenti.
Frugò nello scompartimento e ne tirò fuori un giubbotto anti-proiettile, indossandolo in tutta fretta.
“Serve una mano?” – chiese Gabriel, per una volta sincero.
“Se proprio vuoi aiutarmi allora non rendermi le cose più complicate.” – rispose senza nemmeno degnarlo di uno sguardo; allacciò i morsetti laterali – “La situazione?”
Pur stentando un cipiglio da pessimo veterano, Gray parve impettirsi più del dovuto; scandì i dati in tutta fretta, eccitato all’idea di quel gergo così ‘gangster’:
“Ci sono tre speciali là dentro: una specie di ‘piromane al blu di metilene’, un Tedesco elettromagnetico ed un grassone tatuato che non fa altro che girarsi i pollici da mezz’ora. in più c’è un nero che assorbe forza dalla paura. Tu hai paura?”
“Non mi piace il tono con cui usi al parola ‘nero’.” – sottolineò Noah, aggirando l’ostacolo – “Sei razzista, oltre che psicopatico?”
“Soltanto invidioso.” – precisò lui, con un broncio infantile – “Fino a ieri ero io…l’Uomo Nero.”
Sorvolò sull’irritante egocentrismo di quell’uomo e si concentrò sull’equipaggiamento: tastò la camicia e le tasche in cerca della sua pistola, ma non la trovò.
Non fin quando la sua nuova e improbabile ‘spalla’ gliela allungò con un sorriso soddisfatto:
“Cercavi questa? C’ho pensato io: armata e carica. Non ho mai usato una pistola, prima d’ora, ma si imparano parecchie cose interessanti con la Psicometria.”
Bennet s’irrigidì improvvisamente: come aveva fatto a prenderla ed armarla senza che potesse nemmeno notarlo?
La disponibilità e la cortesia di Gabriel Gray cominciavano ad essere quasi pericolose.
“Non-toccare-mai-la-mia-pistola!” – lo intimò, puntandogli contro un dito.
L’altro sollevò le mani, fingendo un vago rincrescimento:
“Mi spiace, volevo solo essere d’aiuto! Oh, avanti, permettimi di rendermi utile!”
“L’unico modo in cui puoi essere utile è starmi alla larga, razza di apriscatole-omicida-sentenzioso! Ora io entrerò là dentro e voglio che tu resti qui. E per quanto possa esserti difficile da capire…questo è un ordine.”
 
E si allontanò con ogni fibra del corpo che desiderava tornare indietro solo per il gusto di prenderlo a schiaffi.
Dal canto suo, Gray poggiò la schiena contro il blindato ed incrociò le braccia al petto, sbuffando irritato:
Mpf! Guastafeste…!”
 
 
*   *   *
 
 
Interno della banca.
 
“State fermi dove siete!”
Con un grido intimidatorio ed una vampata di fiamme azzurre dai palmi delle mani, l’omone rasato che rispondeva al nominativo di ‘Flint Gordon’, sedò due addetti alla sicurezza che avevano osato respirare solo un po’ più forte del dovuto.
Un lanciafiamme vivente: quel fuoco blu era stato vomitato dalla sua stessa pelle, rendendo incandescente l’aria e quasi sfiorando i malcapitati.
 
Il personale era atterrito, letteralmente.
Compressi contro il pavimento e le pareti, i clienti della banca e gli operatori degli sportelli facevano di tutto per rendersi il più piccoli e silenziosi possibile.
Gli uomini della sicurezza, nonostante i randelli, si erano rincantucciati in angolo, tremanti.
Avevano paura, tutti loro.
Avevano paura e Knox, il ragazzo dalla carnagione più scura e dallo sguardo venefico, lo sentiva.
Poteva provarlo con ogni cellula della sua pelle, quel piacevole senso di ebbrezza dato dal terrore altrui.
Era come un fluido maledetto e seducente che gli scorreva nelle vene, schizzandogli a tremila l’adrenalina e rinvigorendolo di una forza sovrumana.
Galvanizzato dalla situazione, ringhiò verso gli ostaggi:
“Così, bravi! State buoni e continuate a tremare! Non avete idea di quanto mi rendiate felice!”
Quindi si voltò verso il compagno accovacciato accanto al caveaux:
“Quanto ti manca?”
 
‘Il Tedesco’: nome anagrafico sconosciuto ed abbandonato da anni; nazionalità evidentemente dichiarata, testa squadrata e occhialetti tondi.
Armeggiava sapientemente sulla manopola della cassaforte; la muoveva rapidamente, quasi alla cieca, mentre poteva sentire scattare decine di piccoli ingranaggi magnetici al suo interno.
Uno scatto unisono confermò che tutti i pezzi erano al posto giusto.
“Fatto.”
La piccola cassaforte incastonata nella parete si aprì silenziosamente: venti lingotti d’oro ed una decina di mazzetti di ‘verdoni’ dal taglio mai visto da occhio mortale luccicavano al suo interno.
Oltre le lenti da vista dei suoi occhiali, le pupille del Tedesco vibrarono d’eccitazione a quella vista:
“Questo sarà un bel bottino, quando ce lo divideremo. Vorrei mettere in chiaro che senza di me non lo avreste mai ottenuto, quindi…”
Quindi levati dalle palle.” – Knox afferrò per il bavero della camicia il compagno e lo scostò con violenza dalla refurtiva, inchiodandolo al muro.
 
Le labbra tremanti ed i suoi occhi sbarrati dallo sgradito cambiamento d’umore dell’altro fuggitivo offrirono a Knox un assaggio di paura differente: la paura di un amico, la paura del tradimento.
“Mi spiace, mein freund.” – sibilò Knox, stringendo un pugno – “Ma eravamo d’accordo: niente cambio di ripartizioni.”
E con quanta più forza possibile, affondò un pugno nello sterno del Tedesco, trapassandolo da parte a parte.
 
Un grido d’orrore si levò tra gli ostaggi.
 
Knox lasciò accasciare al suolo il corpo morto, estraendo la mano dai polmoni.
Con una smorfia di disgusto, scacciò via qualche goccia di sangue dalle dita grondanti:
Puah, che schifo!”
 
“Oh-oh.” – fece eco Flint, per poi mettersi a sghignazzare divertito.
 
Aspetta, ma che diavolo fai?!” – una voce potente e virile lo riprese.
Un uomo grassottello e tatuato, dalla testa rasa ed il pizzetto nero, aveva gridato alle sue spalle.
 
Jesse Murphy: nato a Las Vegas, ha una sorella minore morta da anni; soggetto evoluto con l’abilità della Manipolazione Acustica; catturato dall’Impresa da un anno e contenuto fino a due giorni prima nel Livello-5.
Un tipo poco raccomandabile, se fosse davvero lui.
Era un po’ che se ne era accorto: quel corpo muscoloso, quella voce impostata, quelle persone che continuavano a ripetere di essere i suoi ‘compagni d’avventura’, i suoi fidati collaboratori.
Invano ha urlato per ore, nella reclusione, di rispondere al nome di ‘Peter Petrelli’, ma chi crederebbe ad un pluri-omicida che vorrebbe passare per il fratello del Governatore?
Ma dentro di sé conosceva la verità; era successo per caso, un paio di giorni prima:
Era il giorno del discorso del Senatore Petrelli; Peter era lì, al fianco di suo fratello, poteva sentire l’angoscia di Nathan fluirgli nelle sue stesse vene.
Avrebbero rivelato la loro identità al Mondo, credevano non ci fosse altro da fare.
Ma poi era successo: uno sparo, venuto da chissàdove, colpì il Senatore; urla confuse dei giornalisti e Matt Parkman che si precipita all’inseguimento del terrorista senza volto.
E poi lui, nl tentativo di fermare l’emorragia alla spalla del fratello…semplicemente, sviene.
Sviene e si ritrova a fissare il muro bianco e freddo di una cella contenitiva per super-criminali.
 
Con quella fastidiosa voce estranea a sé stesso, Peter/Jesse avanzò verso il presunto correo:
“S-Sei impazzito?! Lo hai ucciso!”
“Oh, avanti, Jesse!” – Knox sbuffò come un bambino a cui la mamma sequestra un gioco – “Non mi dirai che te la sei presa! Ti era sempre stato sulle scatole e ora non c’è più! Almeno ora siamo solo tre a dividerci la grana…”
 
‘Lo aveva sempre avuto sulle scatole.’
Peter non sapeva nemmeno che esistesse un Elettromagnetico, figurarsi se poteva anche solo provare qualche sentimento verso il Tedesco.
Ma quel Jesse forse sì; improvvisò come poté:
“Oh, beh…certo, però…cavolo, era un compagno!”
 
Non aveva idea di quello che poteva fare, non aveva idea di cosa dire: era un criminale agli occhi di tutti, in fin dei conti. Se si fosse ribellato sarebbe peggio per lui: doveva dissimulare e farli desistere da quella situazione.
 
“Senti: è un brutto guaio, questo, ok?” – poggiò le mani sulle spalle di Knox, stentando una parvenza di autocontrollo – “Siamo appena usciti di prigione! Vuoi rischiare così tanto, appena evaso? Quelli dell’Impresa ci hanno fatto il culo una volta e possono rifarcelo. Probabilmente ci stanno già cercando!”
L’altro rimaneva in ascolto; Peter sperò che tentare di farlo ragionare facesse effetto:
“Lasciamo perdere…andiamocene! Che ce ne frega di quegli spiccioli? Non è neanche il massimo che una banca può darci! Pensa al futuro: potremmo sparire per un po’, ricominciare una nuova vita….più onesta, più sicura!”
 
Knox avvertì un brivido lungo schiena: Jesse aveva paura; una fifa nera.
Sorrise quasi commosso:
“Già…e magari tornare dai nostri vecchi amici. Come i tuoi, in Canda.”
“Esatto!” – macchè ‘esatto’, Peter non sapeva un accidenti di Murphy; sperò di avere fatto la mossa giusta.
E invece…
“Peccato che Jesse non ha amici in Canada.” – proruppe a freddo Knox.
 
Ops.
 
Il ragazzo afro-americano gli sferrò un pugno che gli fece voltare la testa di tre quarti e volare ad un paio di metri.
Gli si avvicinò a passi svelti e lo strattonò per un braccio, con gli occhi furenti:
“Stai tremando come una foglia e quindi hai paura! E Jesse non-ha-mai-paura! Tu non sei lui! Chi accidenti sei?!”
Peter fece per replicare, quando…
 
Fermi tutti! Mani in alto e state giù!”
Spalancando la porta di accesso con un calcio, Noah Bennet fece irruzione.
Teneva la guardia alta, pistola puntata fermamente; ci sapeva nel suo lavoro.
 
“Ma guarda chi si vede…!” – esclamò Knox, per nulla sorpreso.
“No, caro H.R.G.” – Flint Gordon lo avvicinò, con le mani fiammeggianti – “Tu stai fermo!”
E vomitò una lingua di fuoco blu dal palmo destro.
 
Noah indietreggiò, ma la vampata gli ustionò di striscio le mani.
Con un gemito lasciò cadere la pistola.
 
“Da quanto volevo dirlo…!” – sorrise il Fobofilo – “Fallo arrosto, Flint.”
“Con piacere!” – e caricò un’intensa vampa turchese tra le mani.
 
“NOOO!!!” – gridò disperatamente il corpo di Jesse Murphy.
Le sue corde vocali vibrarono ad una potenza inaudita; il grido superò ogni altro rumore in un intero isolato, mentre perfino l’aria si distorceva in anelli di onde sonore.
Peter non aveva idea di come ci fosse riuscito: doveva trattarsi di un potere posseduto da quell’uomo, non certo uno già appreso. Semplicemente aveva sentito l’adrenalina e la paura salirgli alle Stelle e rigettarla tutta in quell’urlo.
 
Noah Bennet, Knox e Gordon vennero sbalzati contro le pareti, ma non le toccarono.
Piuttosto, tutto si immobilizzò alla perfezione.
 
In quel tempo alterato, una figura nera e slanciata si proiettò dal nulla.
Avanzò con decisione verso Jesse e gli impose un palmo sullo sterno, quindi spinse con forza ed il suo braccio parve oltrepassarlo come una nebbia.
Nella spinta, il corpo di Peter Petrelli si dissociò dall’ospite, venendo catapultato fuori.
Barcollò incerto, mentre la sua prima reazione istintiva fu di guardare le proprie mani.
Finalmente un corpo che gli si addicesse; non come quel tamarro tracagnotto.
Sollevò lo sguardo e, tra i presenti immobili nel Tempo e nello Spazio, vide sé stesso.
Ma un sé stesso diverso: un lungo cappotto nero; capelli tirati all’indietro; uno sguardo fiero e tagliente almeno quanto quell’arma che gli aveva inflitto una lunga cicatrice diagonale sul viso.
 
Ingoiò un groppo alla gola e balbettò incredulo:
“Tu sei…me?”
“A grandi linee.” – rispose l’alter ego, poggiandogli una mano sulla spalla – “Andiamo, tu ed io dobbiamo fare due chiacchiere. Anzi: direi…io e me.”
“Aspetta, do-…?!”
Non finì la frase che i loro corpi si smaterializzarono, perdendosi nello Spazio-Tempo.
 
Nel mentre, tutto tornò a scorrere regolarmente:
Il grido si estinse e gli uomini caddero a terra; Murphy riprese fiato, portando una mano alla nuca. Era affaticato e stordito ma si sentiva lucido: era di nuovo in sé.
Fece per lanciare un nuovo ruggito intimidatorio ma non tutto andò come sperato:
 
Con il fracasso di un’auto che si schianta contro un muro, la porta blindata d’accesso si scardinò dal pavimento, volando all’interno come spinta da una forza invisibile.
Una scheggia di vetro si staccò accidentalmente, piantandosi nella giugulare del Pirocinetico; Flint uggiolò senza fiato, accasciandosi al suolo mentre caldo sangue sgorgava dalla sua gola.
La porta si schiantò contro la parete opposta.
 
Tana per voi.” – scavalcando un tumulo di piccoli detriti, un giovane uomo in completo nero fece il suo ingresso; il braccio destro proteso in avanti.
 
Jesse portò lo sguardò dal cadavere dell’amico al nuovo arrivato, boccheggiando:
“T-tu sei…Sylar! Che cazzo ci fai qui, lurido str-…mhnghf!”
Le sue labbra si serrarono di scatto, contro la sua volontà.
 
“Non sopporto sentire tante parolacce in una sola frase.” – sibilò in un soffio, stringendo più forte il pugno che chiudeva le mascelle del criminale.
 
Noah Bennet guardò con un misto di terrore e speranza Gabriel Gray; lo aveva salvato, certo, ma ora era lì davanti, a pochi passi da lui.
E non era il posto in cui sarebbe dovuto essere:
“Ti avevo detto di aspettarmi fuori! Non saresti dovuto entrare!”
 
“Forse me lo hai detto perché speravi che sarei corso in tuo aiuto.” – si limitò a ribattere lui; poi gli lanciò un’occhiata allusiva – “Sei ferito, esci e avverti la polizia. Qui ci penso io.”
 
In un altro momento, Bennet lo avrebbe preso per i capelli e lo avrebbe massacrato solo per il fatto di avergli imposto un comando, ma in quel momento dovette ammettere che l’Uomo Nero aveva ragione.
Si alzò in tutta fretta ed uscì dalla banca, riparandosi dietro una vetrata.
 
Nello scompiglio generale, Knox era sparito.
 
Ma a Sylar questo non importava: aveva visto ciò di cui era capace l’uomo la cui vita ora era letteralmente nelle sue mani ed un istinto primordiale e sottile si era insinuato sotto la sua pelle.
Manipolazione Acustica?– si disse – Interessante.
Era successo di nuovo, come Dr.Jekyll e Mr.Hyde: quella fame, quel senso di nausea e di desiderio inappagato che gli faceva venire la pelle d’oca al solo pensiero.
Fu più forte di lui:
Mosse rapidamente il braccio ed il corpo di Jesse Murphy venne scagliato contro la vetrata principale rinforzata, rimanendo ancorato con chiodi invisibili.
Gli si avvicinò lentamente, senza mai perdere il contatto visivo.
I suoi occhi scuri che affondavano e penetravano come lame nell’animo dell’altro; quegli occhi feroci e fissi che raggelavano il sangue, ben diversi dallo sguardo colmo di disperazione del malcapitato.
 
Ora era vicinissimo, poteva quasi sentire il respiro affannoso del Sonoro sul suo viso; lo fissava atterrito, implorandolo in silenzio.
Quasi involontariamente, Sylar si inumidì le labbra.
Un gesto impercettibile, velocissimo…che gettò del panico la sua preda, come il gatto col topo.
Aveva così tanta fame che ne sarebbe potuto morire, doveva soddisfarla ad ogni costo.
Eppure c’era andato così vicino…! Il cambiamento, la ‘Redenzione’…gli sembrava che quel suo incarico rappresentasse il primo importante passo per l’assoluzione di un’anima che lui stesso stentava a riconoscere.
Ma si era perso, di nuovo.
Quella maledetta fame non si sarebbe placata da un giorno all’altro; era peggio di una droga.
 
Notò lo sguardo colmo d’ansia di Bennet, oltre i vetri; scuoteva la testa, lo supplicava di trattenersi.
Forse anche il suo carceriere voleva credere in lui, quantomeno per disperazione.
E faceva male.
“Mi dispiace, Noah. Ti deludo sempre.” – mormorò, mentre puntava il dito indice contro la fronte del sua prossima vittima.
 
Era come se le coscienze di Sylar e Gabriel Gray stessero facendo sonoramente a pugni dentro di lui ed il primo se la stava cavando alla grande.
Se una parte del suo animo moriva dalla voglia di porre fine all’esistenza di Jesse Murphy, un’altra avrebbe quasi voluto mettersi a piangere per la propria debolezza…ma non ne ebbe la forza.
 
“Temo tu abbia ragione: io non posso cambiare.”
Mosse rapidamente l’indice.
Uno schizzo di sangue scarlatto disegnò un arco rosso grondante sulla parete a vetro.
 
Jesse Murphy: ID-90534211; ricercato per omicidio plurimo.
Abilità: Manipolazione Acustica.
 
Caso chiuso.
 
 
*   *   *
 
 
Ore 16:00. ‘Costa High’. Costa Verde, California.
 
Sbuffando contrariata all’idea dell’ennesima ora di (non) recupero in Matematica, Claire si sedette ad uno dei tavolini dell’aula 3-B.
 
Diede un’occhiata in giro: la classe si era scomposta in cinque o sei banchi, ad ognuno dei quali sedeva uno studente del recupero ed un’altra con una media quantomeno presentabile che potesse aiutarlo a recuperare.
C’erano praticamente solo ragazze come alunne di sostegno, notò Claire.
 
Sessione con tutor.’ – il nuovo fantastico titolo inventato dal solito prof. allampanato per la giornata odierna – ‘Accomodante e stimolante.’
 
“Già…!” – borbottò la Cheerleader, facendo sprofondare le tempie nelle mani – “Stimolante come un dito nel…”
 
“Ciao.” – una cortese voce di ragazzo le impedì di formulare per intero il suo elegante pensiero.
 
Sollevò appena lo sguardo, sotto una ciocca di capelli biondi:
Doveva essere un ragazzo della sua stessa età, ma di chissà quale sezione dato che non lo aveva mai visto.
Aveva i capelli di un biondo cenere alquanto anonimo, ma la vertigine a destra che assumevano sulla fronte e che svettava verso l’alto come una spirale gli davano un tocco di originalità; viso rotondo e accogliente, occhietti scuri malinconici nonostante la gentilezza; una maglietta blu con su scritto ‘STAY TUNED’.
Le sorrideva garbatamente, provando a fare capolino con lo sguardo sotto la criniera da leonessa che le era cascata sul viso.
 
“Ciao…” – ripeté lei senza troppo entusiasmo.
Il ragazzo tirò fuori un pezzetto di carta, aggrottò un po’ la fronte nel leggerlo e chiese:
“Tu sei…Claire Bennet, giusto?”
“Centro.” – annuì lei.
Le tese una mano, sorridente:
“Piacere, io sono Zhane: il tuo tutor.”
Invece che ricambiare il gesto, Claire lo guardò dal basso in alto, poco convinta:
“Zhane…e poi cosa?”
Lui sembrò non afferrare, scuotendo la testa e arricciando la bocca in un sorriso confuso:
“Ehm…quanti altri nomi dovrei avere?”
“Un cognome, ad esempio?”
Zhane si colpì la fronte con il palmo della mano, in un gesto che a Claire parve piuttosto ridicolo:
“Oh, giusto, ha ragione! Cross. Zhane Cross.”
E agitò una collanina a forma di croce che portava al collo: “Come questa, così te lo ricordi.”
 
Dopodiché si sedette dall’altra parte del banco, poggiando pesantemente un paio di libri d’algebra:
“Direi di cominciare; prima finiamo e meglio è.”
“Sei praticamente l’unico tutor maschio, qui dentro.” – disse Claire, buttandola sul vago – “Non sapevo che anche i ragazzi fosse bravi a matematica.”
“Più di quanto pensi.” – rispose semplicemente lui, prendendo carta e penna ed iniziando ad impostare una qualche forma di equazione. – “Prova questa: qualcosa di facile.”
Per nulla eccitata dal doversi rapportare più del dovuto con qualcuno, e per giunta durante l’ora di Matematica, Claire decise di mettere in chiaro le cose:
“Senti, scusa se sembro menefreghista, ma non ho proprio voglia di fare quel genere di roba. Non ho davvero bisogno di recuperare nulla, è solo che non ho molta voglia di impegnarmi quando mi trovo davanti un test, quindi…”
“Senti, Bennet.” – la interruppe lui, inarcando un sopracciglio con improvvisa serietà –“Il professor McCallister mi ha incaricato di seguirti per quest’ora e se proprio vuoi saperlo non ho nemmeno tanta voglia: mi sto perdendo l’ultima di ‘Soul Eater’, quindi o mi senti e mi dai retta o ti picchio.”
Lei strabuzzò gli occhi come se le avessero annunciato di essere nuda, ma poi le venne da sorridere; nessuno le aveva mai detto nulla del genere e mai con quell’espressione che tutto presagiva meno che violenza.
Quel ragazzo non era poi tanto male, ma Claire Bennet non era tipo da abbassare la testa, così gli strappò la penna di mano e si mise all’opera.
Ci stette su un paio di minuti e poi la completò velocemente; fissò Zhane con l’aria soddisfatta di chi la sa lunga.
Lui piegò la testa di lato, come a dire “non male, ma ora sta’ a vedere” e gliene impostò una seconda.
Era spaventosamente lunga: un’accozzaglia di operatori logici e caratteri greci il cui senso forse sarebbe stato opportuno fare interpretare a qualche extraterrestre.
Claire non si pose nemmeno il dubbio se quella specie di bestemmia grafica fosse davvero risolvibile o fosse pura scena, ma si limitò ad inorridire:
“Ehi, calmo! Sono bravina, ma mica un genio!”
 
Lui scoppiò a ridere, tirandosi indietro sulla sedia.
Era bella quella risata: non sardonica, né strafottente, semplicemente…rideva.
La Cheerleader non rideva molto e quando lo faceva raramente si sentiva in linea con il gesto. Quel sorriso la riempì di allegria.
Zhane scosse la testa divertito e la guardò quasi con compassione:
“Ok, ho capito. Avanti, andiamo per gradi…”
 
E si rimisero chini sulle pagine di quei libri malridotti.
 
 
*   *   *
 
 
Un’ora dopo. Cortile.
 
Il Sole, ormai sul ciglio del tramonto, accolse i pochi studenti del corso di recupero abbandonare l’Istituto.
 
Claire scese le scale del portone principale, salutando con un cenno del capo la madre che in lontananza la attendeva in macchina.
Da quando si erano trasferiti, con tutte le psicosi di Noah Bennet come capofamiglia (e soprattutto da quando, pochi mesi prima, si era fatta fregare il SUV), Claire non poteva praticamente muoversi da sola.
Se non c’era lui, mamma Bennet scattava.
Ma prima che potesse raggiungerla…
 
“Aspetta, Claire!” – la voce di Zhane la raggiunse alle spalle.
Il ragazzo si avvicinò in tutta fretta, mentre ancora tentava di chiudere la tracolla piena zeppa di libri.
“Che non ti è piaciuta la lezione l’ho capito, ma volevo almeno salutarti! Guarda che ci aspettano diverse giornate, come questa, se vuoi passare l’anno…”
“Mio Dio, come farò?!” – lei allargò le braccia in modo teatrale, fingendo un qualche rammarico – “La tua presenza sarà la parte peggiore!”
Lui mise il broncio, offeso, ma lo abbandonò quando anche lei si mise a ridere come aveva fatto poco prima.
 
Era simpatico, ma non sembrava capire gli scherzi altrui.
 
Arricciando le labbra come se fosse indeciso se rivelare un segreto o meno, chiese:
“Mhmm…senti, ti dispiacerebbe se ti chiedessi una cosa?”
“Spara.”
“Il…il tuo numero di telefono.” – dovette ingoiare un groppo amaro, per vomitare quella frase – “Voglio dire: solo se avessi bisogno di aiuto con i compiti, s’intende…”
Lei lo squadrò da capo a piedi, mentre un angolo della sua bocca s’incurvava in un sorriso sornione:
“Oh, certo. Non è che ci stai provando?”
“Cosa?!” – arrossì come un semaforo – “No! Volevo solo…”
“Avanti, sputa il rospo: che avevi intenzione di fare, stasera?”
 
Lo aveva colto in pieno: a Zhane Cross non importava nulla di spiegarle altri numeri né tantomeno aveva la faccia di un molestatore.
Era solo un modo educato per chiederle di chiamarlo, per passare tempo.
Forse non era un’Empatica e di certo la Rigenerazione non era l’abilità più adatta per capire le persone, ma Claire Bennet se la cavava bene ad interpretare i sottointesi.
 
Lui prese un bel respiro, un po’ confuso da quella affermazione, e poi rispose:
“Beh, dicono che ci sia una pioggia di meteoriti molto vicini all’America e mi chiedevo se volessi stare un po’ al telefono mentre guardiamo le Stelle, stanotte.”
 
Certo che ne aveva voglia, era una vita che non riusciva ad intrattenere una chiacchierata telefonica tra amiche come tute le teenager del mondo!
Ok, forse lui non era un’amica…ma pur sempre un tipo socievole.
 
Senza dar troppo spago al gioco, Claire concluse:
“Ci penserò…”
E se ne andò cinguettante, lasciandolo a sé stesso.
 
Quando raggiunse sua madre, Sandra fissò prima il ragazzo e poi sua figlia, chiedendo con un mezzo sorriso:
“E lui chi è?”
Salendo sul sedile anteriore di destra, Claire rispose:
“Il mio nuovo insegnante privato.”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 20:40. Ufficio presidenziale. PRIMATECH corp. Odessa, Texas.
 
“Questo è il rapporto sulla missione di oggi.” – senza molta cortesia, Noah Bennet sbatté sulla scrivania di Angela Petrelli un fascicolo di fogli – “Valuta tu.”
 
Arricciando le labbra con disappunto, lesse il rapporto e commentò:
“Tre morti su quattro e Knox è fuggito. Diciamo che non era proprio ciò che mi aspettavo, ma il caso è chiuso. Possiamo ritenerci soddisfatti.”
 
“Neanche per sogno!” – protestò l’uomo – “Non sono pagato per andare in giro a scoperchiare il cranio alla gente! Noi i criminali li catturiamo, non gli facciamo lo scalpo!”
E le diede beatamente le spalle, oltrepassando il divano sui cui Gabriel si era accomodato in modo non proprio composto.
Indicandolo con un gesto scocciato della mano, bofonchiò sbrigativo:
“Perché non ti complimenti per l’eccellente lavoro svolto con il tuo presunto terzo figlio?! Io faccio una telefonata: Claire vorrà sapere come sto…”
 
“Salutala anche da parte mia…” – gli suggerì da dietro Sylar.
 
Piuttosto inghiotto il telefono.” – ed uscì dalla stanza.
 
Angela si alzò dalla sua poltrona girevole e si avvicinò a Gabriel, che si mise in piedi quasi meccanicamente.
Era decisamente più alto ed impostato di lei, ma il modo in cui Mrs.Petrelli guardava la gente spegneva ogni contrasto.
Per quanto non volesse ammetterlo, Gabriel si sentiva ragionevolmente colpevole di ciò che era successo; non sostenne lo sguardo della donna:
“Forse ha ragione lui. Forse dovrei starmene chiuso al fresco.”
“Questo non è necessario.” – il modo con cui Angela gli rispose gli fece accapponare la pelle.
 
Per lei la sua condizione non era ‘giusta’ o ‘sbagliata’; si trattava solo di una questione di utilità.
Non molto materno come atteggiamento, ma in fondo meglio così: nonostante la maschera che fingeva di indossare, lui rimaneva sempre Sylar.
E ad uno come Sylar i contatti stretti e gli affetti sono solo d’intralcio: rendono meno lucidi e fanno ancora più male quando si spezzano…a causa propria.
 
“Allora vedo più necessario che mi allontani.” – riprese lui – “Non mi sento a mio agio, qui. Ho bisogno di solitudine e di un posto tranquillo dove riordinare le idee a fine giornata.”
“Ti comprendo perfettamente. Non preoccuparti: avevo già provveduto ad una sistemazione adatta…”
E tirò fuori dalla tasca un mazzo di tre chiavi:
“Sono un fuoristrada di servizio ed una dépendance: è un po’ fuori mano, ma farà al caso tuo.”
 
Lui la fissò a lungo e si morse un labbro:
“Potresti esserti sbagliata sul mio conto…mamma.”
 
Lei sorrise ancora con quella smorfia ambigua:
Staremo a vedere…
 
 
*   *   *
 
 
Ore 22:00. Casa ‘Bennet’. Costa Verde, California.
 
Con un tonfo attutito dalle soffici coperte, Claire si gettò sul suo letto.
Afferrò il cordless sulla sua scrivania, compose il numero di Zhane – badando bene a registrarsi come ‘numero privato’ – ed aprì la finestra sulla testa del letto.
Rabbrividì un po’ nel suo pigiama di raso leggero e rimase in attesa con la cornetta.
 
Squillò un po’ e poi:
Pronto? Chi è?” – chiese la voce di Zhane, dall’altro capo del telefono.
Senza presentarsi, Claire iniziò a sparlare:
“Credo di avere un impellente dubbio matematico: esiste una formula abbastanza semplice da far capire anche a me quante sono le Stelle?”
Bennet…” – la voce del ragazzo si spense quasi infastidita, anche se segretamente felice.
“Ciao, Cross.” – Claire adorava chiamare per cognome la gente, per gabbarla.
Spero tu mi consideri un amico, non una calcolatrice!
“Perché, non lo sei?”
No. E alle calcolatrici non piace aspettare le Stelle Cadenti.” – poi aggiunse con un flebile sospiro, timidamente – “Ma a me sì.
 
Claire si rotolò sul letto, rivolgendo a testa in giù un occhiata al cielo.
Quel meraviglioso, nero, scintillante cielo notturno.
“Mhmm…e va bene, calcolatrice. Per stasera ti faccio compagnia.”
Grazie.”
Quel ‘grazie’ aveva dentro un calore che solo un uomo circondato dalla solitudine poteva possedere.
Quando si è sempre soli il calore non si trasmette, ma resta dentro di noi in attesa della persona giusta sui cui riversarsi.
 
Rimasero a chiacchiere a lungo, del più e del meno.
Nessuno dei due sapeva da dire da quanto, ma erano rimasti sempre con gli occhi puntati verso quei lumicini argentati nel manto di velluto nero.
Poi, d’un tratto, una scia di luce illuminò lo Spazio…
 
Era lunga e frastagliata, di un bagliore azzurro accecante che si schiariva fino ad una lattescenza soffusa sulla punta, brillando come nient’altro al Mondo.
Due scie più piccole si allungavano come code dalla sommità e sembravano avvolgersi lungo la scia in due spirali.
Doveva essere a poco meno di un centinaio di chilometri dalla superficie terrestre, mentre entrava nell’Atmosfera.
Se il Paradiso esisteva, allora doveva essere racchiuso in quella scia.
 
La voce di Zhane fece vibrare la cornetta e i timpani di Claire:
“L’hai vista?! E’ passata proprio sopra Costa Verde! Era…era immensa!”
“E’ meravigliosa…” – mormorò Claire, continuando a tenere gli occhi al cielo.
 
Anche se era passata in un batter d’occhio, quel chiarore invadeva ancora il Cosmo, come un’aurora.
Sapeva che esprimere desideri non avesse molto senso, a quell’età…ma quella Cometa era stata talmente sconvolgente, talmente grandiosa, che se ne meritava almeno uno.
Vorrei…non so cosa vorrei. – pensò tra sé – Forse, semplicemente…essere felice.
 
Zhane parlò tra sé, ma le sue parole gli sfuggirono comunque dalle labbra, lievi:
“Qualunque cosa tu abbia desiderato, Claire…vorrei che si avverasse.”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 24:00 P.M. Periferia di Odessa, Texas.
 
Silenziosamente, Gabriel Gray risaliva il pendìo del colle che dava le spalle ad Odessa, illuminata da migliaia di finestre e fanalini colorati.
 
Mani in tasca e soprabito nero stretto fino al collo, nonostante in piena primavera, affondava un passo alla volta nel terriccio soffice d’umidità.
Sollevò istintivamente gli occhi al mantello impreziosito di diamanti che faceva da sfondo a quella notte senza Luna.
 
Non aveva alcun pensiero, già da molto tempo.
Quello che faceva lo svuotava talmente dall’interno che, alla fine, di lui non restava altro che un involucro vuoto pieno di oscurità da dissipare e poche certezze, a parte che quella fame demoniaca un giorno si sarebbe mangiato lui stesso.
Sospirò rassegnato.
Rassegnazione: un sentimento non proprio comune, per l’Uomo dei Cervelli.
 
Poi la vide: l’accecante fiamma azzurra che squarciava le Tenebre e lo Spazio.
Che squarciò le sue Tenebre.
La freccia divina scagliata a migliaia di chilometri orari nel Cosmo e che divideva in due quel cielo malinconico, adornandolo di riverberi extra-galattici.
Una Stella Cadente più vicina delle altre, una Speranza non ancora estinta che forse voleva bussare alla porta – anzi: al cancello blindato in titanio anti-sfondamento – del suo Cuore.
Non espresse alcun desiderio, non ne aveva in mente e comunque era troppo spaventato per farlo; quel meteorite avvolto da vampe soprannaturali calò improvvisamente di quota, fino a poche centinaia di metri.
Stava per precipitare e lo stava per fare in quella zona.
 
Dentro di sé, Gray sperò che la Rigenerazione potesse supplire a quella poltiglia in cui si sarebbe ridotto se fosse rimasto schiacciato da un asteroide di piccole dimensioni, ma non ce ne fu bisogno:
Con un rombo assordante ed un catastrofico movimento sismico, la Cometa ‘BlackLight’ virò rotta e si schiantò un centinaio di metri più in alto dalla sua posizione.
 
Con i polmoni che inghiottivano enormi quantità d’aria e la rigettavano in preda all’iper-ventilazione, Sylar salì rapidamente i metri che lo distanziavano da quell’evento incredibile.
Quando arrivò sul luogo dell’impatto, la sua fredda mente razionale faticò a credere alle immagini che le arrivavano:
 
In mezzo ad un pandemonio di grossi frammenti meteorici incandescenti, si apriva una grande voragine di terreno sfondato.
Archi elettrici bluastri baluginavano tra le pietre spaziali, come in una danza appena accennata ed instabile.
Una leggera luminescenza rossastra invadeva tutto: sembrava polvere di rubino, che luccicava e spirava scossa dalla brezza notturna.
E poi lui:
Al centro della voragine c’era un corpo; un ragazzo, riverso sullo stomaco, completamente nudo.
Non avrebbe saputo dirne l’età, ma non doveva avere più di diciotto o vent’anni al massimo.
Un braccio ed una gamba affondavano ancora nel suolo, mentre la sua testa giaceva sulla terra, come se stesse riposando.
Era completamente avvolto da quella polverina luminescente.
 
Per quanto la stessa esistenza di individui speciali come Gabriel Gray fosse impensabile, quest’ultimo non poté fare a meno di socchiudere la bocca in un moto di totale stordimento:
Non era solo un fatto curioso, né un evento scientifico di particolare rilevanza.
Era un miracolo.
 
Fissando quel giovane che pareva dormire cullato da intere Galassie, non poté fare a meno di ripensare al desiderio che il suo subconscio aveva forse espresso al passaggio di ‘BlackLight’.
 
Per la prima volta da moltissimo tempo, un angolo della sua bocca si incurvò in un piccolissimo sorriso, carico di una sofferenza troppo profonda da poter essere concepita dal suo stesso animo.
Pronunciò quella frase come una carezza strappata dall’infanzia:
 
 

Tanti auguri…Gabe.”

  
  

 

CONTINUA…

 
 

Nel prossimo capitolo - ‘Awakening’:
 
La vita di Nathan Petrelli deve riprendere, in un modo o nell’altro, e per farlo potrebbe dover prendere in considerazione scelte insperate, velate da un Passato pronto a tornare...mentre Peter si ritroverà a vivere brevi squarci di un Futuro da impedire.
Intanto, Hiro Nakamura e Matt Parkman devono comprendere il motivo che ha intrecciato le loro strade, attraversate da una giovane donna che sembra poter correre più veloce del Tempo.
Claire Bennet dovrà imparare cosa significa tornare a fidarsi di qualcuno e intanto Gabriel Gray sembra voler abbandonare ‘Sylar’, al risveglio del misterioso ‘Star Child’…

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: ''Awakening'' ***


 
 
Quando accendiamo la luce, in quella stanza buia, rischiariamo l’oscurità per prendere atto della nostra esistenza nel Mondo. I nostri ricordi formano ciò che siamo stati ed i nostri sogni ci aprono le vie del Divenire; ma per alcuni di noi l’Io Passato striscia come un’ombra spaventosa da cui fuggire, in cerca della Redenzione.
Ma cosa succede quando l’oscurità non cessa di ondeggiare, al nostro Risveglio?
Cosa resta di noi…se non abbiamo più alcun ricordo?
 
 
 
 
 

 

Capitolo 3:
 
‘‘Awakening’’

 
 

 
Correva.
Correva a perdifiato, con il cuore a pulsargli nel petto come una grancassa.
Correva ed ansimava, accecato da una paura senza volto.
Correva su quel colle, sulla terra umida, tra gli alberi scuri.
Correva senza sapere dove andare; doveva solo limitarsi a quello – a correre – per il momento.
Correva senza voltarsi indietro, non sarebbe servito: sapeva già cosa avrebbe visto.
 
Correva a grandi falcate…fin quando il suo piede non urtò e si incastrò in qualcosa di rigido, come una radice.
Con un gemito di dolore, misto alla consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui sarebbe cascato in vita sua, incespicò e caracollò al suolo.
La vista già affaticata dallo sforzo e dalla nebbia notturna gli impedì di realizzare completamente.
Stanco, disperato e sottomesso alla sua coscienza, provò a malapena a stringere un pugno di terriccio nella mano stesa in avanti, tentando di trovare un briciolo di forza per rimettersi in piedi.
 
A pochi centimetri da lui, una fialetta di liquido chimico rosso giaceva a pezzi: gli aveva ferito il palmo ed ora quella sostanza vischiosa gli bruciava sulle ferite.
 
Ma quando le sua ginocchia si piegarono contro il suolo, per sorreggerlo, qualcuno o qualcosa lo colpì con forza sulla schiena, costringendolo ad accasciarsi nuovamente.
 
Sollevò appena lo sguardo, mentre l’immagine sfocata del suo carnefice gli puntava contro un fucile da cecchino.
Sei LED verde smeraldo, come di un visore ottico, rilucevano sul viso in ombra dell’aguzzino.
Una voce sarcastica e compiaciuta sgorgò da sotto la sua maschera:
“Un cervellone come lei non dovrebbe affaticarsi troppo, lo sa?. La PINEHEARST la ringrazia per i suoi servigi e le ricorda di ritirare la sua Liquidazione: arrivederci…Dottor Mercer.”
 
Bang.
 
 
*   *   *
 
 
20 Marzo 2007. Ore 07:15 A.M.
Appartamento n.20 della PRIMATECH. Periferia di Odessa, Texas.
 
Con un rantolo strozzato, il Ragazzo Caduto dal Cielo si riprese dal suo sonno catatonico in modo alquanto brusco.
Cough-cough!” – tossì un paio di volte, con un saporaccio disgustoso di terra e muffa in gola.
Prima di qualsiasi altra funzione biologica possibile, la più immediata sensazione che provò fu una sorta di strano capogiro e di pressione sotto lo sterno.
Inconsciamente gli sembrò di aver ripreso fiato dopo chissà quanto tempo di apnea, quasi come se non avesse respirato per anni.
 
Era un ragazzo poco più che maggiorenne, dai capelli castani corti ma ondulati e lisci, che formavano una frangia scomposta sugli occhi scuri.
Nonostante la fiacchezza che gli gravava addosso, il suo fisico era scolpito ed impostato.
Per quanto lo si potesse trovare attraente la sua bellezza rientrava comunque nei canoni più comuni, ma nella perfetta salute del suo corpo c’era qualcosa di sovrumano.
 
Dopo che i suoi polmoni si ridistesero, riuscì a percepire la consistenza calda e soffice di qualcosa intorno al suo corpo.
Istintivamente, ma senza alcuna presa di volontà, provò a schiudere le palpebre appicciate da quel sonno che sembrava durare da sempre.
Lentamente – forse troppo – riuscì ad inquadrare ciò che lo circondava:
Qualcosa lo avvolgeva: si trattava di un materiale all’apparenza morbido, che si adagiava sul suo corpo, creando un tepore leggero. Era piacevole.
 
(Ora, miei cari lettori, bisognerà precisare che questo ‘strano artefatto’ altro non era che una coperta di lana piuttosto semplice e a buon prezzo, ma il nostro ‘Star Child’ non sembrava ricordarne il nome. E senza un nome o un suo sinonimo, beh, riconoscere una maledetta coperta può non essere tanto banale. Ma torniamo al suo Risveglio…)
 
Quel telo non gli impacciava i movimenti: impercettibilmente, poté avvertire le sue dita, le sue braccia e le sue gambe muoversi appena.
Anche se si trattava di movimenti minuscoli, gli sembrò di dover compiere un sforzo immenso.
Aveva l’impressione che oltre ai polmoni, anche tutto il resto del suo corpo fosse andato in ferie da parecchio tempo.
Ruotò gli occhi, prima in alto e poi ai suoi lati:
 
Un soffitto grigio e non molto curato, dei più banali, lo sovrastava. Aveva qualche chiazza d’umidità.
Alla sua sinistra era contrastato da un lungo schienale imbottito di un pessimo color giallo ocra: doveva evidentemente trovarsi su qualcosa che suonava come ‘divano’.
Alla sua destra, il resto dell’angusta stanza-monolocale:
Un piccolo tavolo di legno, sul quale erano poggiati due piatti bianchi, una finestrella nella parete destra ed un angolo-cottura infossato dall’altra parte.
C’erano tre o quattro armadietti a mensola appesi sopra di esso e una figura slanciata ondeggiava su quella misera cucinetta.
 
Si trattava di un uomo, a prima vista; era piuttosto alto, anche se – curvo com’era – la postura gli faceva perdere qualche centimetro.
Poteva vederne solo la base della testa e la schiena e pertanto il ritratto del suo coinquilino per ora constava solo di:
Capelli scuri e corti sulla nuca, ma solo poco più lunghi e terribilmente spettinati man mano che si avvicinavano alla fronte;
Una canottiera di un mediocre grigio pallido, dalla quale affioravano due braccia mediamente muscolose;
Un paio di pantaloni-pigiama dello stesso insulso colore.
Però, che eleganza.
 
Tornò a volgere lo sguardo al tetto.
Non sapeva cosa fare, né cosa dire.
Non sapeva perché fosse lì, né se ciò che lo circondava fosse reale.
Probabilmente non si ricordava nemmeno come parlare.
Ma con la poca forza di volontà che poteva essersi depositata nel suo cervello annebbiato, riuscì a biasciare qualcosa:
Un soffitto sconosciuto…
C’era qualcosa che non andava, in lui e in tutta quella situazione:
Io…dove sono?”
 
“A casa mia.” – rispose l’uomo di spalle; la sua voce diceva che non poteva essere troppo in là con gli anni, ma qualcosa la rendeva più rauca e grottesca di quello che sarebbe dovuta essere – “O meglio: in una dépendance temporanea.”
 
Un brivido corse lungo la schiena del ragazzo, come a volergli ridestare i sensi.
Sentì che voleva sollevarsi sui gomiti, ma la solita voce glielo impedì.
 
“Non alzarti.” – lo intimò l’uomo, voltando appena la testa e mostrando due strani occhietti neri; la sua voce tremò appena di imbarazzo – “Sei ancora molto assonnato.”
 
Troppo stordito per replicare, il ragazzo abbassò lo sguardo su di sé e notò che il suo torace era completamente nudo…e anche tutto il resto.
Senza capire esattamente il perché, il suo viso divenne paonazzo, mentre agguantò la coperta che ora pendeva al suolo.
In tutta fretta strinse le ginocchia al petto, raggomitolandosi sul divano, e si coprì con il telo fino al mento.
Provava una strana sensazione: come di inadeguatezza, nel sapere che quel tipo aveva potuto vedere il suo corpo come doveva essere venuto al mondo.
Ma cosa c’era di strano? Dopotutto nessun essere vivente nasce con la camicia, quindi perché provare certe percezioni al solo pensiero di essere svestito?
Si trattava di un sentimento controverso; doveva chiamarsi ‘vergogna’.
 
Con quella coperta tirata sulla faccia, come a voler scomparire nella tappezzeria, chiese con un fil di voce:
“Q-quanto tempo…ho dormito?”
“Due giorni interi.” – rispose ancora quel tizio, tentando di non scomporsi troppo – “Sarei curioso di sapere che diavolo ci facevi in mezzo ad un bosco, in quello stato e per di più nel luogo di schianto di una meteora…!”
Il Giovane Caduto dal Cielo aggrottò la fronte, tentando di ripercorrere i suoi ricordi, ma sembrava proprio che la sua memoria avesse chiuso i battenti:
“Io…non lo so.”
“Come sarebbe a dire ‘non lo so’?!”
Quella frase gli aveva scosso i nervi un po’ più del dovuto, tanto che si voltò completamente.
 
Ora poteva vederlo in faccia, il coinquilino-maglietta-grigia:
Era un uomo sulla trentina, dal viso asciutto e dallo sguardo improvvisamente meno cordiale di quanto sperasse; le labbra strette e ridotte da una spiacevole smorfia.
Le lunghe sopracciglia nere gli squadravano gli occhi scuri e penetranti; i capelli corvini erano proprio come se li aspettava: scomposti in una specie di cresta venuta male, ed insieme alla barbetta incolta da un giorno contornavano quel volto fin troppo espressivo.
Doveva essersi svegliato da poco anche lui, dato lo stato in cui si trastullava.
 
Il Ragazzo Caduto dal Cielo si convinse che la sua presenza non fosse tropo gradita in casa altrui, nonostante fosse quella del suo soccorritore:
“Mi spiace…”
 
Di cosa gli dispiaceva? Di non ricordare nulla?
Non era certo una colpa ed in ogni caso poteva rispondere che non sapeva spiegarsi meglio di così; quel ‘mi spiace’ non aveva senso come risposta alla sacrosanta stizza del suo interlocutore.
Aveva scordato anche come conversare, evidentemente.
 
Gabriel Gray lo fissò affatto convinto, poi borbottò seccato:
“Ad ogni modo non puoi girarmi per casa nudo; vado a prenderti degli abiti puliti.”
E sparì in una stanzetta.
 
Dopo poco ritornò con in mano qualche vestito, che gli tirò sgraziatamente sul divano.
Il giovane prese in mano quegli abiti, rigirandosi tra le mani la biancheria intima con un’espressione tutto fuorché vispa.
 
L’altro sollevò un sopracciglio ed arricciò le labbra, scettico:
“Sono solo dei dannati boxer: credi di ricordarti almeno come indossarli o devo mostrarti anche quello?”
 
Lui non rispose subito, ma strinse tra le dita la giacca di pelle che gli aveva portato: era bella, con le finiture in rosso e bianco, che formavano un paio di ali stilizzate sulla schiena.
Con un gesto bizzarro, la avvicinò al viso ed annusò il tessuto.
 
Gabriel iniziò a credere che se per non essere più ‘Sylar’ doveva soccorrere strambi ragazzini mezzi-drogati (o chissà che altro) che avevano scambiato i suoi vestiti come roba da sniffare, allora era meglio continuare per la vecchia maniera.
“Guarda che non puzzo mica…!” – mugugnò offeso, incrociando le braccia al petto.
 
“No…” – mormorò l’altro, sorridendo nel accarezzare quei vestiti – “…è questo calore. Questo profumo così…umano. E’ bello.”
 
Gli aveva dato dell’umano.
Era un bel po’ di tempo che Sylar non si pensava in questi termini; oltre alla valanga di insulti e maledizioni per i quali quotidianamente s’impegnava di meritare, c’era sempre la consapevolezza che di umano, ormai, avesse solo la forma.
Dopotutto, lui era il mostro della situazione, no?
 
Era una frase troppo strana per provare sensazioni piacevoli o meno; semplicemente si voltò dall’altra parte, con la pazienza sotto i tacchi:
“Vedi di infilarti quella roba; ti do tre minuti.”
 
Cristo Santo…! Tutti a me, gli idioti!
 
 
*   *   *
 
 
Poco dopo.
 
Gabriel versò nella tazza del ragazzo, seduto dall’altra parte del tavolino, un po’ di latte caldo:
“Bevi. Non ho molto, per ora, ma uscirò a comprare qualcosa.”
 
Lui la strinse tra le mani, che sentì riscaldarsi dal tepore che già iniziava a penetrare nella ceramica.
La sua pelle bruciava appena e se avesse mantenuto il contatto troppo a lungo si sarebbe scottato, ma non si trattava di un fastidio troppo sgradevole.
Tutt’altro: quel calore penetrava fin nelle ossa e poi nell’animo, rischiarandolo.
 
“Questa sensazione è così strana.” – disse, sfregandosi le mani bollenti – “Provo un leggero dolore, però…mi piace. E’ una cosa sbagliata?”
 
Gray lo guardò di traverso: cosa intendeva?
Si stava davvero rivolgendo a lui?
A lui che fino a tre giorni prima andava in giro ad aprire crani a metà?
Era davvero nella posizione di dire cosa fosse giusto e cosa no?
Cominciava a credere sempre di più di avere davvero a che fare con una specie di alieno proveniente da un altro Pianeta.
 
“Non direi.” – rispose poco convinto – “E’ solo latte! Possibile che non tu non abbia alcun ricordo al riguardo di nulla?”
Il ragazzo scosse la testa:
“No, non posso farci nulla. Mi sembra di essere così…vuoto!”
 
Allora l’Uomo Nero prese da sopra una mensola un piccolo portafoglio in pelle nera; era sgualcito oltre ogni immaginazione, praticamente a pezzi.
Lo aprì con quanta più delicatezza possibile e ne tirò fuori un po’ di carta straccia: c’erano cinquanta dollari (che a riconoscerli ci volle proprio la buona fantasia di Sylar, visto come erano ridotti), una carta di credito miracolosamente intatta, una carta di identità appena leggibile ed un mazzo di due chiavi un po’ rigate.
 
“Beh, se non altro qualcosa di te lo possiamo scoprire: li ho trovati ad un paio di metri dal tuo corpo. Qualcosa che ti sia familiare?”
 
Il ragazzo esaminò meglio gli oggettini:
Certo, quel poco che restava dei suoi (?) soldi gli suggeriva che doveva trattarsi di denaro: quella roba usata dagli umani per sopravvivere e che alla fine rappresenta una delle peggiori malattie della Terra.
Lo stesso poteva dirsi per il mazzo di chiavi, che certo dovevano aprire qualcosa; ma se si trattava di chiavi per un auto, una casa o magari una cassaforte, questo non poteva dirlo.
Scosse la testa, sconfortato:
“Nulla.”
 
Gabriel inarcò ancora un volta il sopracciglio destro, in quel suo gesto tipico, e tentò di decifrare i dati della carta d’identità:
“E’ illeggibile. Però qualcosa si distingue: Alex Mercer; età: 29 anni.”
Poi diede un’occhiata al pass e alle chiavi, dalle quali pendeva una targhetta:
“E qui c’è una carta di credito per soli membri, rilasciata da una ditta chiamata ‘PINEHEARST’; mentre sulle chiavi c’è scritto: Kensington Street n.23, Costa Verde.”
Lo squadrò da capo a piedi e schioccò la lingua; quel tipetto che aveva davanti non poteva certo avere ventinove anni:
“Beh, o si tratta di un altro ‘Mercer’ o hai pagato un’estetista da capogiro.”
 
Alex Mercer.” – si ripeté, come a volervi scorgere qualche altro significato – “Sì…credo di chiamarmi così. Ma non ricordo di aver mai lavorato…né di avere una casa a Costa Verde. A dire il vero, non ricordo di aver mai abitato in alcun luogo.”
 
“Ma almeno ora so come devo chiamarti.” – notò Gray, con il suo solito cinismo qualunquista, che tuttavia gli conferì una piccola nota di ottimismo.
 
L’a-quanto-pare-chiamato Alex Mercer lo squadrò meglio:
“Però…non so nemmeno il tuo nome.”
 
“Ah, già.” – scosse la testa, intuendo la gaffe – “Io sono Sy-…”
Dovette mordersi la lingua per tenere a freno le parole.
 
Il nome ‘Sylar’ continuava a saltellargli in testa, desideroso di essere pronunciato.
Ma se voleva davvero cambiare, se davvero voleva aiutare quel ragazzo venuto da chissàdove, allora ‘Sylar’ avrebbe dovuto imparare a starsene zitto in un angolo.
Ed in fin dei conti avevano più cose in comune di quanto volesse ammettere:
Anche lui iniziava a dubitare delle sue origini, della sua famiglia…della sua essenza, in pratica.
Gabriel Gray, Petrelli o Sylar : tutte facce della stessa – alquanto confusa – medaglia.
 
Deglutì come per mandare giù un conato di vomito e riprese:
“Gabriel. Puoi chiamarmi ‘Gabriel’.”
 
Il ragazzo lo fissò ancora e sorrise, verso quell’uomo spuntato dal nulla che gli trasmetteva una sensazione di timore e protezione insieme; la prima persona da tempo immemore.
Ripeté tra sé:
Gabriel…
 
 
*   *   *
 
 
Ore 10:00 A.M. Odessa.
 
Casa della famiglia ‘Petrelli’.
 
Bzzz…bzzz…
 
L’elegante e sobria sveglia rettangolare, contornata di acero, vibrava con discrezione sul comodino di Nathan Petrelli, al dodicesimo tentativo di svegliarlo.
 
La luce inondava la suite di Petrelli Manor dalle grandi porte-finestre, attraversando i leggeri veli di lino delle tende e invadendo i raffinati mobili, le lenzuola bianchissime e le pareti decorate in carta da parati.
Un raggio di luce colpì in viso una giovane donna dai lunghi capelli di un lucente biondo dorato, seduta al suo capezzale.
 
La sveglia si era già impegnata più del dovuto, quel mattino, per provare a ridestare dal torpore il Senatore Petrelli, ma senza grandi risultati.
Fu solo per un caso fortuito, che il sonno di Nathan sembrò farsi un po’ meno pesante e concedere alla sua mente di provare fastidio per quella vibrazione continua.
A dire il vero, aveva l’irrefrenabile voglia di sbatterla contro la parete opposta e poi lanciarla fuori dalla finestra.
Ma si trattenne.
Con un leggero brontolìo, dischiuse le palpebre a fatica.
Restò per un momento a fissare il soffitto, senza rendersi conto di niente e nessuno, e poi voltò appena la testa, quel tanto che bastò per rendersi conto di avere compagnia.
 
“Niki…” – mormorò ancora inebetito, alla vista di quei capelli fluenti, di quegli occhi di ghiaccio, di quelle labbra sottili e severe.
 
Niki Sanders: una delle tante ‘sveltine bionde’ che avevano costellato l’esistenza controversa di Nathan Petrelli, in bilico tra una famiglia che gli andava stretta ed una vita che gli si offriva anche più del dovuto.
Niki Sanders: casualmente scopertasi una ‘Hero’, una donna di straordinaria forza fisica e di un amore incondizionato per i suoi cari.
Niki Sanders: morta tre mesi prima.
 
“No…” – ripeté tra sé, scuotendo la testa per la propria ottusaggine  – “…Tracy.”
 
Tracy Strauss: la nuova ‘sveltina bionda’ del citato Petrelli, stavolta con funzione di ‘segretaria-fai-da-te-fai-per-tre.’
Anche lei con abilità innate: Criogenia.
Certamente è facile confondere due donne, se sono l’una l’esatta copia dell’altra.
 
Lei si affrettò a sollevare il capo dalle mani, ripresasi dall’abbiocco momentaneo, fissandolo con un misto di speranza, stupore e compassione:
“Buongiorno, Nate.”
 
Lui rimase per un attimo a fissarla, la sua meravigliosa ed attanagliante bellezza: così fredda, così distante, così solitaria.
Era la Regina di Ghiaccio.
 
“Sei stata al mio fianco…per tutto questo tempo?” – chiese lentamente.
“Sì.” – rispose lei, con semplicità imbarazzante– “Sono quasi quattro giorni che sei qui. Quando apri gli occhi lo fai a mala pena per lagnarti…”
 
Lui si lagnava.
Si lagnava di essersi beccato una pallottola sotto lo sterno, tra cuore e polmone.
Beh, era proprio un bambinone, non c’è che dire.
Non era molto cortese come affermazione, ma detta così a bruciapelo gli strappò un sorriso.
Anche lei si mise a ridere.
Rideva in quel suo modo così unico: era bellissima.
 
Bzzz…bzzz… -stessa sveglia di cui sopra; tentativo n.13: andato a buon fine.
 
 
“Giuro che lo faccio a pezzi, questo aggeggio infernale…” – Nathan distese un braccio coperto dalla sua vestaglia di raso blu verso il comodino, ma una fitta dolorosa gli partì dalla ferita e gli risalì lungo le scapole.
Si morse un labbro per soffocare il dolore.
“No, aspetta, non muoverti ancora.” – lo rassicurò lei – “Ci penso io.”
E la spense.
Poi si risedette al suo posto e allungò una mano verso il torace dell’uomo.
Per un attimo lui pensò male, ma fare sesso alle 10:00 del mattino non rientrava certo nei programmi della Strauss.
 
Sei davvero pessimo, Nate.– si disse lui, sorridendo tra sé.
 
Poi avvertì una sensazione di gelo dove prima il bruciore della ferita lo invadeva.
Era lei: le punte dell’indice e del medio erano diventate di un chiarore cianotico quasi luminoso, mentre piccole onde di energia gelida si propagavano sulla pelle di Nathan.
Presto il dolore se ne andò, lasciando posto ad una piacevole sensazione di fresco.
 
“Ti ringrazio…” – sospirò lui, fissandola negli occhi cerulei.
 
Lei non rispose e quando si decise che rimanere imbambolata così era quantomeno disdicevole…
 
Eh-ehm.” – interruzione sul clou.
Da brava suocera, Angela Petrelli era ritta sull’uscio della porta della camera.
“Sembra che il principe si sia svegliato, alla fine.”
 
“Buongiorno, mamma.” – bofonchiò Nathan, già stanco della giornata.
Qualcosa suggerì a Tracy di essere di troppo:
“Vi lascio soli…”
Ed uscì dalla stanza.
 
Angela entrò, posando un vassoio di legno su un mobile della stanza, iniziando ad affogare la bustina di tè alla menta – il preferito del Senatore – nella teiera bollente.
Sospirò affranta:
“Sei sempre stato uguale a tuo padre; stessa dedizione al lavoro, stessi gusti…”
“Lo dici come se fosse un peccato.” – nella voce del maggiore dei fratelli Petrelli c’era una nota di risentimento.
 
Se c’era una cosa che Nathan proprio non sopportava era parlare del padre defunto da poco più di un anno. E soprattutto che se ne parlasse in quel modo.
Suo padre era stato più che un mentore: era il suo modello di carriera, il suo idolo personale, l’incarnazione del Sogno Americano.
Ma era stato anche l’uomo che più di tutti lo aveva tradito, aggirato…nella convinzione che il suo ruolo da Procuratore Distrettuale potesse esentarlo da crimini morali.
In un certo senso Nathan ed Arthur Petrelli erano l’uno l’antitesi dell’altro, ma in questo equilibriod’opposti si nascondeva l’emulazione di un figlio verso una sorta di divinità, più che un padre.
Dopo questo, Nathan non sopportava le cavolate senza senso di suo fratello Peter…ma a quelle ci era abituato.
Ma il padre, quello non doveva toccarlo nessuno. Nessuno aveva l’esperienza per giudicarlo, sia in bene che in male.
 
“Arthur ci voleva bene.” – continuò Angela, versando un po’ di zucchero – “Ma negli ultimi tempi ho cominciato ad avere il sospetto che ci fossero questioni ben più importanti nella sua vita. Aveva perso il senso della misura: ci stava facendo precipitare in una baratro da cui non ci saremmo più ripresi; non che siamo mai stati una famiglia perfetta, dopotutto.”
“Ma ormai è acqua passata.” – tagliò corto il figlio – “Devo pensare alle elezioni e poi tutto sistemerà.”
Ti sbagli.” – la voce di Angela si irrigidì.
 
Si allontanò dalla teiera, attraversando la stanza per scrutare la mattinata soleggiata oltre la finestra.
Sentiva qualcosa dentro di sé, dentro la sua testa.
I suoi sogni, le sue premonizioni, erano stati piuttosto confusi ed incerti negli ultimi tempi…ma il messaggio d’allerta che le mandavano era inequivocabile:
“Questa tua ansia per la Presidenza ti sta rendendo meno lucido. Sai bene che non possiamo abbassare la guardia, nel nostro stato: Peter è scomparso, tu sei stato vittima di un attentato ed eri ad un passo dal rivelare tutto.”
Si voltò improvvisamente; gli occhi scuri e sgranati come in preda ad una angoscia impronunciabile:
“Nathan, io tempo per te e tuo fratello.”
 
E Sylar. Lui non lo contava come terzo figlio?
Oh, certo che no. Perché, in fin dei conti, Angela Petrelli sapeva qual era la verità.
 
“Ho paura che questa situazione degeneri più del dovuto: hai voluto di fare di testa tua e come ricompensa ti stavano per…”
 
“Basta così.” – Nathan tentò di alzarsi in piedi; l’ira stava cominciando a pompargli la forza nelle vene – “Ora come ora non ho certo intenzione di sproloquiare davanti alla stampa, questo è certo. So esattamente cosa fare, dovrò solo attendere che i tempi siano maturi.”
Poi si voltò verso di lei; il suo viso un po’ squadrato era più cupo del solito, gli occhi diretti e sottili:
“Ora lasciami solo: devo vestirmi, poi farò colazione.”
 
“Come vuoi.” – la donna gli voltò le spalle e lo sorpassò; stringendo i pugni.
 
Lui sospirò, mentre ogni suo appiglio alla realtà iniziava a sgretolarsi come le costole che gli avevano spaccato, e rivolse uno sguardo aldilà della vetrata:
“Peter…dove sei, ora?”
 
 
*   *   *
 
 
Epoca sconosciuta. Data e luogo indicativi.
 
Quella specie di tunnel psichedelico di plasma multicolore e flash abbacinanti si squarciò nel mezzo, con un bagliore accecante.
 
Peter cadde da un’altezza imprevista, rotolando al suolo e lanciando un piccolo grido di dolore.
L’altro atterrò invece perfettamente ritto, come se quella scampagnata spazio-temporale fosse routine quotidiana.
 
Gemendo per le contusioni, il Peter più giovane si rialzò a fatica, borbottando:
“Che male cane! Si può sapere che diavolo era, quella roba?!”
L’immagine fisica di un flusso di super-stringhe spazio-temporali in distorsione esa-dimensionale, lungo un moto rettilineo per l’asse di ordinata ‘t=y’. ” – rispose prontamente il doppio con il viso sfregiato da quella pittoresca cicatrice – “Un gran buco che ci schizza da un’altra parte nel Tempo.”
“Eh?!” – ma la sua controparte del Passato non sembrava altrettanto acuta.
L’Alter-Peter lo squadrò da capo a piedi, come se avesse davanti un completo inetto:
“E’ solo un salto nello Spazio-Tempo. Mai viaggiato così, prima d’ora?”
“No, per la miseria! E dovresti anche saperlo, dato che sei me! Qualunque sia il nome di quella roba in cui mi hai portato, esigo delle spiegazioni: voglio sapere dove e quando siamo! E soprattutto: cosa diavolo vuoi da me!”
Poi abbassò lo sguardo, perplesso:
“Cioè, da te…anzi no, me…insomma chi sei?!”
 
L’altro sospirò, come a voler dire ‘come facevo ad essere tanto idiota, all’epoca?’, e poi si diede un’occhiata attorno. Quando fu certo di essere nel posto giusto, disse freddamente:
“Siamo a Manhattan. Ma non in quella che conosci: siamo cinque anni nel Futuro, esattamente nello stesso anno da cui è venuto l’Hiro Nakamura con la spada che ti aveva avvertito della Cheerleader.”
“Un momento…parli di Claire?” – ed ecco che ‘Zio Peter’ iniziava a farsi sentire, al solo pronunciare il nome della Bennet – “Siamo riusciti a salvarla, giusto? Qual è il problema?”
“Il problema non è lei.” – asserì con durezza il suo alter-ego – “Il problema è lui.”
“Di chi parli?” – chiese febbrilmente.
“Dello ‘Star Child’.”
Peter batté un paio di volte le palpebre; sperò di aver sentito male:
“Intendi dire…quei bambini con la testa abnorme di cui parlano i programmi in TV per fare più audience?”
“No. Parlo di un individuo che dovrebbe essere nato – o meglio: rinato – dal segmento temporale da cui provieni. Il Portatore del ‘Catalizzatore’, il ragazzo cercato da Arthur Petrelli!”
 
Al suono di quel nome, Peter rabbrividì.
 
“Intendi dire…nostro padre? Se questo è uno scherzo, ti assicuro che è di pessimo gusto. Se dici di provenire dal Futuro, credo tu sappia che papà è…”
Vivo.” – lo frenò il Viaggiatore Temporale – “Non ancora, magari, ma presto lo sarà. Credimi, vorrei avere molto più tempo per spiegarti tutto ma non servirebbe: devi vedere con i tuoi occhi.”
 
Lo strattonò per un braccio, uscendo da quel vicolo umido in cui si trovavano.
Quando uscì alla luce…vide:
 
Vide sterminati cieli di piombo che ammantavano la città.
Vide i lucenti e vitali quartieri di Manhattan ridotti a mucchi fatiscenti di edifici grigi ed abbandonati.
Vide orripilanti rampicanti rossi – più simili a tentacoli che a piante – allungarsi come dita perverse su macchine abbandonate per strada, come cadaveri malati di peste; quegli stessi rampicanti che svettavano sui palazzi e si tendevano al cielo.
 
Ebbe quasi un conato di vomito, ma lo represse mormorando sconcertato:
“Che diavolo…?! Che cosa è successo, a tutti?”
“Sono cambiati. In peggio, in qualcosa di mostruoso. Qui, ormai, non c’è più nulla di sano: i ponti di accesso all’Isola sono stati abbattuti, gli infetti braccati e uccisi, i pochi superstiti rimasti rinchiusi in case d’accoglienza che tutto sono meno che accoglienti.”
Cambiati…” – ripeté tra sé Peter, stordito e scioccato –“…ma da cosa? Da chi?”
“Da loro: da quelli della PINEHEARST! Da nostro padre, da quel ragazzo!”
 
MA CHI ACCIDENTI E’ QUESTO TIZIO DI CUI PARLI?!?!” – ed ecco che la notoriamente poco longeva pazienza di Peter Petrelli andò a farsi benedire. Di nuovo.
Ma stavolta era diverso: sentiva il fiato morirgli in gola, gli veniva quasi da piangere.
 
Eccolo, eccolo! E’ lui! Prendetelo! Fuoco, fuoco!”
Con una serie di spari assordanti, un comando militare echeggiò per le strade deserte.
 
Peter lanciò un gridolino, accucciandosi con le mani sulla testa:
A poche centinaia di metri, un drappello di uomini in divise nere armati fino ai denti avanzava rapidamente, scortati dalla sagoma scura di un grosso carro armato.
 
Il suo ‘Io’ futuro si voltò appena per ravvisarsi della loro presenza, poi lo strinse per le spalle, fremendo in un tremito incontrollato:
“Ora ascoltami bene: non c’è tempo per altre spiegazioni, ma devi tenere a mente ciò che ti ho detto e che ti dirò.”
Tentò di distendersi e di calmare la voce, mentre poteva sentire lo scalpiccìo degli stivali militari avvicinarsi sempre più, sull’asfalto.
Ci stanno facendo a pezzi. La situazione è sfuggita di mano: la cura allo ‘Shanti Virus’ che Mohinder stava elaborando è stata corrotta, da molto tempo prima; speravano di domare i Poteri ma hanno solo creato dei mostri!”
 
Erano lì, i cecchini.
Stavano mirando alla sua testa, calibrando il tiro.
 
Una lacrima sgorgò tra le sue ciglia:
“Sei il ‘me stesso’ che non ho potuto cambiare in tempo: io sono solo la Farfalla giusta da calpestare nel Flusso degli Eoni, ma tu puoi ancora redimerti. Io sto per morire ma l’effetto del mio Time-Gauge durerà su di te ancora per poco…presto tornerai a casa.”
 
Due spari andati a vuoto. Ma la prossima volta non avrebbero sbagliato.
 
Nostro padre e Nathan! Claire! Hiro, Matt, Daphne Millbrook…perfino Sylar! E poi Alex Mercer! Ricordati questi nomi, ricordati che missione abbiamo noi tutti!”
 
Un grido di dolore: il primo proiettile gli trapassò il torace, con uno spruzzo di sangue scuro.
Cadde sulle ginocchia; pianse.
Pianse lacrime di pentimento, di paura, di disperazione.
Di amore:
La Famiglia. Tieni unita la Famiglia…
 
Poi tutto cessò di scorrere nel Tempo dell’Uomo:
Time-Gauge: dispersione.
 
 
*   *   *
 
 
Scorre. Tutto scorre.
Il Tempo, lo Spazio, l’Anima, la Mente.
E’ una danza priva di senso, che però è manifesto nel perfetto ordine di quel caos di volti e luoghi.
La Terra stessa sembra scorrere sotto i piedi di Peter, mentre il suo ‘Ego’ resta perfettamente immobile.
Tutto è accelerato e rallentato al tempo stesso:
 
Ora esce dall’Isola, sorvolando i Ponti distrutti e scorrendo sulla superfice del quieto Hudson…
Oltre l’acqua, la Libertà.
Ci sono persone, automobili, vite, famiglie: tutto è un continuo andirivieni di luce e colore, che si fonde insieme per creare un quadro astratto.
Sembrano felici, eppure in loro si annida il germe della diffidenza.
Sono tempi duri, quelli. Tempi in cui non sai cosa si cela dentro di te, dentro coloro che ti circondano.
Dove i mostri non sono più fiabe per tenere buoni i bambini testardi, sono realtà.
 
Il suolo scorre ancora, per chilometri.
Ora c’è una casetta. Una bella villetta pulita, dalle mura bianche.
Dentro c’è un uomo: è chino su un tavolo da cucina, sta preparando i waffles ad un bambino di sì e no due anni di vita.
Sembrano felici.
Ma poi Peter fissa meglio in volto quel padre amorevole, privo di voce de dai movimenti accelerati:
E’ un volto noto, anche troppo. Rabbrividisce alla sola idea.
 
Gabriel Gray pulisce la bocca del bambino che si è sporcato con un po’ di cioccolato fuso; gli sorride.
C’è troppa ingenuità e tenerezza in quel pargolo perché un cuore resti arido.
 
Ma poi arrivano, i mostri di quei tempi:
Sfondano la porta della casa ed irrompono.
Sono mostri più spaventosi perché si celano sotto le spoglie più terrificanti: volti umani, quasi anonimi; racchiusi in divise militari scure sulle quali risalta la dicitura ‘BLACKWATCH’.
Il padre mette le mani in alto, e senza voce li implora di lasciar in pace il bambino, ma a loro non importa.
Uno di esso si avvicina e deliberatamente gli sferra un pugno da fargli voltare la faccia dall’altra parte.
Gray cade su un ginocchio, portandosi una mano al labbro spaccato; un secondo uomo lo tira su per la collottola e lo rispedisce all’indietro con un calcio.
 
Crolla a peso morto sul tavolo da cucina; tutto si ribalta e si fracassa a terra, la tovaglia si scompone, il bambino cade.
Per quanto possano avergli fatto male quei colpi, nulla fa più male al padre che non essere riuscito ad impedire che il piccolo si ferisse.
Lo cinge con le braccia, lo scuote per sincerarsi che stia bene.
Ma è già troppo tardi.
 
Peter vorrebbe intervenire, vorrebbe gridare di fermarsi e scappare, così come quando era nel corpo di Jesse Murphy. Ma non gli è concesso, nel ‘Time-Gauge’.
 
Non c’è suono, ma se ci fosse sarebbe un grido straziante.
Il volto di Gabriel Gray è trasfigurato da un’espressione di furente silenzio.
Non sono più i suoi occhi: sono quelli del Demone in Nero; sono quelli di Sylar.
Non sono più le sue mani, quelle che ora – strette nel pugni – si scagliano contro i corpi dei suoi assassini, martoriandogli i volti e le ossa ad ogni colpo.
Non sono più le sue: sono sempre quelle di Sylar; sono pugni che fiammeggiano e rilucono di un bagliore radioattivo rosso e furibondo.
Sono quelli del Mostro ma anche quelli dell’Uomo, che combatte con la disperazione, la rabbia e la fierezza si cui solo un genitore che ha perso una parte di sé è capace.
 
Cadono al suolo con i visi sfigurati in modo orribile; lui li fissa e grida in silenzio, mente perfino le sue lacrime splendono di energia nucleare.
 
Peter allunga un mano, per implorarlo di fermarsi, ma lo raggiunge.
 
L’uomo geme e urla contro il cielo e la sua intera figura diventa solo un ammasso abbagliante di plasma rosso.
E poi la Pace; la Luce che avvolge tutto:
 
Un bagliore immenso, che si estende dalla villetta verso ogni direzione.
Una ‘X’ luminosa che copre sterminati chilometri con i suoi bracci.
Poi si restringe e deflagra in una sfera nucleare che distruggerà quel poco che resta della città.
Infine una colossale croce di luce si innalza nel Cieli, oltrepassando le nubi e perdendosi all’orizzonte.
 
Nell’atmosfera, i raggi abbaglianti di quella torre di fiamme e luce si erge dalla mole placida e maestosa della Terra, spandendo onde d’urto scarlatte per la sua superficie.
 

 

“Quando un padre dona ad un figlio entrambi ridono; quando un figlio dona ad un padre entrambi piangono. Quando un figlio raggiunge i Paradisi entrambi muoiono.”
 
                                                                                                                                                                                                                                              (William Shakespeare)

 
 
*   *   *
 
 
Ore 11:00 A.M. Manhattan, New York.
Appartamento di Peter Petrelli.
 
Peter si svegliò con questa immagine, senza aver tempo di prender atto di ciò che gli scorreva nella mente.
 
Era sudato e ansimava, ma era vivo.
E più di ogni altra cosa: era a casa sua.
Non che avesse mai avuto una memoria eccellente – dopotutto faceva l’infermiere perché non aveva superato l’esame da cardiologo – ma certo non avrebbe mai toppato nel ricordarsi come arrivare in quel letto.
 
Le sue ultime quarantotto ore erano state abbastanza caotiche: prima suo fratello Nathan aveva subìto un attentato, poi si era ritrovato nel corpo di un grassone dalla voce troppo alta; quindi ne era uscito e con il suo ‘Io’ futuro aveva deciso di farsi una piacevole passeggiata per un Mondo catastrofico e malato, che se non era finito per la peste quantomeno non stava bene dopo che un premuroso (quanto improbabile) Sylar era esploso come l’Atomica spazzando via mezza America.
 
E, in tutto questo, ora se stava a casa sua, sul suo bel letto sfatto, in pigiama e canottiera.
 
Cavolo, dovrei smetterla di andare a dormire alle quattro del mattino!
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente.
Aeroporto ‘John Fitzgerald Kennedy’; NY.
 
Seduto al tavolino di alluminio, Hiro Nakamura addentò con voracità quella schifezza ipercalorica di hamburger che il Burger King si deliziava ad offrire ad i suoi clienti.
Sugoi!” – esclamò a bocca piena – “Panini americani sono buonissimi!”
 
“Vuoi smetterla di ingozzarti a quel modo?!” – sbottò seccato Matt Parkman, con l’appetito a zero.
Strano.
“Sai, mi piacerebbe sapere perché mi sono dovuto smolecolarizzare – o come diavolo dite voi – per arrivare da chissàdove in Africa fino a qui!”
“Non è scambio di paruticelle.” – sentenziò Hiro, con gli occhietti oltre le lenti da vista – “E’ salto a velocita ultura-luce.”
Ultu-che?!”
“Più veloce di luce.” – spiegò Ando; ormai c’era abituato al suo ruolo di ‘traduttore da Nippo-Americano ad Americano’.
“Comunque sia…!” – tagliò corto il poliziotto, piantando le mani sul tavolo come a volerlo tenere a bada – “Sarebbe troppo avere delle spiegazioni? Mi sento già abbastanza a disagio nel sentire ogni singolo pensiero dei tizi in sala, potrei almeno sapere da voi giapponesini-fumettofili che cosa è successo nelle ultime ore?!”
 
Hiro poggiò improvvisamente il panino; la bocca stretta si incurvò in un broncio preoccupato e le sottili sopracciglia si congiunsero in un cruccio:
Matt Parukuman: sei in pericolo.”
“In pericolo di una crisi di nervi!”
“Sono molto serio.” – lo era davvero, il figlio di Nakamura-sama; e anche con un buon accento inglese – “Ho avuto un sogno; un puresagio, curedo.”
“E’ la prima volta che ne ha uno.” – precisò Masashi.
 
Hiro abbassò lo sguardo; temeva di sembrare ridicolo a provare tanta angoscia per un sogno, ma doveva dire ciò che aveva visto:
“Fino ad ora non ho mai avuto sogni puremonitori, quindi non so se si avvererà. Ma questa volta ho visto TE, Matt Parukuman! Ho visto te e Signor Isaac-Africano!”
“Parli di Usutu?”
“Esatto! Uomo che fa avverare i dipinti, come signor Isaac Mendez, quello americano! Voi…voi…”
La voce gli tremò:
“…voi eravate moruti! In modo turemendo!”
 
A parte l’odioso ‘Engrish’ con cui parlava il ragazzo, Matt Parkman cominciava a detestare quei due: ci fosse stata una sola volta in vita sua in cui li aveva visti portatori di buone notizie.
Anche Matt poteva vantarsi di averne vissute, di cose strane, ma quella storia del sogno premonitore proprio non gli andava a genio.
Si concentrò sui pensieri di Hiro, tentando di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda, ma quello che avvertì fu solo un’accozzaglia di suoni sillabici che ben potrebbero essere riassunti da una sfilza di kanji impronunciabili.
Ma a Matt interessava l’altezza dell’animo, quella vibrazione impercettibile che gli trasmettevano i pensieri altrui e che gli facevano intuire i segreti più reconditi.
Non male, come Mentalist.
 
“Dici la verità…” – mormorò stupefatto, fissando Hiro – “…sei davvero impaurito!”
 
Parukuman, io non ho mai fatto sogni del genere!” – Hiro arricciò le guance, in preda alla tensione, quasi volesse supplicarlo – “Non so se si avvereranno, ma ho paura per il Futuro! C’è un uomo…un uomo malvagio!”
“Sylar?” – era chiaro come il Sole che a Matt ‘Mister Sweeney Todd con manie di perfezionismo’ non andasse a genio  – “C’è sempre lui, di mezzo, vero?!”
“No. O foruse sì, ma non è lui che ho visto! C’è qualcun altro…qualcuno che non dovurebbe essere qui! E poi c’è Nemesi…anche lei è coinvolta, ma poturebbe essere le vittima!”
Parkman si tirò indietro, con un’espressione a metà tra lo sconcerto e il diniego:
“E ora chi cavolo è questa Nem-…?!”
 
Tutto si paralizzò.
 
Come in un’istantanea, tutto il Mondo si congelò capillarmente. Tranne Hiro.
Era stato lui:
Aveva sentito con il suo ‘quinto senso e mezzo’ che qualcosa non andava: lo Spazio-Tempo stava venendo violato di nuovo, distorto da flussi di luce troppo intensi.
E non era merito suo.
No, si trattava certamente di qualcun altro; qualcuno che utilizzava un Potere differente, ma che sortiva effetti analoghi.
Qualcuno che distorceva lo Spazio, oltrepassando i paradossi temporali.
Qualcuno che si muoveva a velocità-luce.
Qualcuno come Daphne Millbrook.
 
Hiro si voltò verso l’ingresso del JFK, in febbrile attesa della sua Nemesi.
 
E lei era là:
Arrivata come una scia confusa di rosso e bianco, che si dissolveva dai suo vestiti, sotto gli effetti ottici radianti immobilizzati nel Tempo.
Ma era ancora cosciente, era viva, poiché il suo stesso organismo funzionava ad una velocità infinitamente superiore a quella di qualsiasi essere umano.
Era laggiù, in piedi, con i suoi corti ed ispidi capelli di un biondo quasi platino e gli occhi chiari e penetranti.
 
Le mani imposte sui fianchi e le labbra rosse arricciate in una smorfia di sommo tedio, volse lo sguardo verso Hiro stesso; sbuffò:
“Oh, no….lo hai fatto ancora, vero?! Piantagrane di un Pikachu-quattr’occhi!”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 17:00 P.M. Kensington Street, Costa Verde, California.
 
Il SUV nero di Gray svoltò alla seconda a destra di Downcreed Road, entrando in Kensington Street; un vialetto dei più raffinati e soleggiati suburbs di Costa Verde.
Le villette a schiera bianche e pulite costeggiavano da ambo i lati la via, e sotto il sole tiepidi del pomeriggio i loro giardinetti curati brillavano come tempestati di smeraldi.
 
Alla guida, Gabriel si lasciò andare ad un piccolo sbuffo, dopo ben tre ore ininterrotte di viaggio in auto e la benzina quasi a secco:
“Sembra che dopo tutto non ci spunteranno le radici, in questi sedili…! Questa dovrebbe essere la via giusta…mi auguro.”
Alex, al suo fianco, non rispose subito. In fondo come avrebbe potuto?
 
Nonostante si sforzasse di ricordare, la sua testa era come una scatola dei traslochi appena finita di svuotare.
Sentiva che in tutto quello qualcosa gli apparteneva, certo, – come un sogno lasciato a metà e che in tutti modi cerca di sovvenirci alla memoria – ma non sapeva in che modo vi era legato.
Ogni biforcazione, ogni muro, ogni bambino intento a giocare col proprio cane sul marciapiede, tutto grattava il suo passato come unghie su una lavagna.
Ma, ahimè, evidentemente doveva essere una lavagna molto lontana.
 
“Perché lo fai?” – chiese di punto in bianco.
“Cosa?”
“Perché fai tutto questo per me? Mi hai soccorso, mi hai dato i tuoi vestiti e poi mi hai accompagnato fin qui, senza contare che potrebbe trattarsi anche di un altro ‘Alex Mercer’. Perché mi aiuti?”
 
Questa era bella: in vita sua, Gabriel Gray aveva aiutato a campare a mala pena la sua misera e depressa persona e quando il suo ego aveva iniziato a riguadagnare un minimo di stima per le proprie capacità (a dire il vero, forse un po’ meno stima sarebbe stata meglio), aveva finito solo per causare dolore e sofferenza.
E proprio ora che, nel pieno delle sue forze, aveva deciso di compiere anche un solo gesto che non fosse per sé stesso…ecco che glielo rinfacciavano come una stupidaggine.
 
Si morse una guancia, non molto eccitato dalla domanda, e si limitò a tamburellare con le dita sullo sterzo:
“Non sono molto in vena di spiegazioni. Diciamo…che questo, per me, è il primo.”
“Il primo di che cosa?”
Gabriel ingoiò un groppo amaro; quanto gli costò pronunciare quelle tre parole:
Dei miei debiti.”
“Verso chi?”
 
Quante diavolo di domande fa?! Sembra che la lingua gli si sia sciolta!
 
“Verso tutti. Verso me stesso, verso coloro che ho incontrato…ho diverse anime a cui rimediare.”
“Come Will Smith in ‘Seven Pounds’?” – chiese con singolare sagacia il ragazzo.
“E tu come fai a conoscere quel film?” – Gabriel gli rivolse un’occhiata più sorpresa che torva – “Beh, se non altro cominci a rimettere in ordine le rotelle! Anche perché io detesto sentire come la tua testa funzioni male!”
 
‘Malfunzionamento cerebrale’: non era molto allettante come diagnosi, ma il modo in cui lo aveva detto – neanche lo avessero chiuso in una stanza con centinaia di orologi che battevano tutti un’ora diversa – lo avevano in qualche modo reso buffo alle orecchie del Giovane (forse) Caduto dal Cielo.
Gli venne da ridacchiare.
 
Poi diede nuovamente un’occhiata ai numeri civici e rallentò:
“Dovremmo essere arrivati.”
 
Si fermò e scesero.
Davanti a loro una grande villa a due piani campeggiava sul verde praticello come una dama dei dipinti di Manet.
Il vialetto in pietre larghe e lisci conducevano fin sotto l’accogliente solaio, alla porta in legno smaltato; le mura bianche ed ampie luccicavano al sole.
Proprio sulla targhetta in ottone appesa alla cassetta portale risaltava la scritta: “Mercer; Kensignton str.; n.23
Non c’era dubbio: erano arrivati a destinazione.
Dato lo stato eccellente si sarebbe detto che fosse perfino abitata, senonché un cartello con su scritto ‘FOR SALE’ era piantato nell’erba.
 
Tsk! Di certo i soldi non ti mancavano…” – bofonchiò Gabriel, quasi invidioso.
Ma Alex era troppo entusiasta ed improvvisamente stupefatto per potersene curare; mormorò estasiato:
“E’ bellissima…! Chissà se le chiavi sono giuste…”
E si precipitò su per il viale d’accesso.
 
Come aprire una porta, almeno quello se lo ricordava: infilò prima quella lunga e stretta nella serratura superiore e poi quella più piccola nel chiavistello inferiore.
Diede una doppia mandata ad entrambe: ruotarono perfettamente, con un clangore metallico di ingranaggi che scorrevano al loro posto.
Con una leggera spinta, la porta si aprì da sé.
E quello che era al suo interno non poté non lasciarlo a bocca aperta:
 
Anche senza luce artificiale, il Sole che penetrò la illuminò completamente.
Lucidi parquet di legno correvano per tutto il pavimento, con qualche tappetò qua è là; una scala ampia e ben laccata in vernice bianca, che doveva portare al piano di sopra, svettava centralmente; un grande lampadario moderno ma elegante pendeva nell’atrio d’accesso.
Moderni ed eleganti erano anche i mobili che potevano essere intravisti dalle due stanze più adiacenti, un misto di sobri legno d’acero e alluminio, uniti a qualche pezzo d’antiquariato. Forse falso, ma d’effetto.
Certo non era Buckingham Palace, ma molti mortali desidererebbero avere una casa del genere.
 
Alex spalancò la bocca; se già quel Mondo in cui si era risvegliato gli appariva sconosciuto, quello splendore era quasi commovente. Ed era tutto per lui:
“Ma vorrai scherzare…?”
 
Sull’uscio del portone, Gabriel si appoggiò con la schiena allo stipite; incrociò le braccia al petto e borbottò:
“Suppongo che ora tu sia contento. Non credo di essere più d’aiuto, dico bene?”
 
Era strano come si sentisse l’amaro in bocca: di ‘drink’ non aveva bevuti e di sicuro lui non era uno di quei tipi per gli addii strappalacrime.
Eppure l’idea che quel ragazzo avesse ritrovato casa sua, almeno temporaneamente, lo disturbava.
Dopotutto quella villa era di Alex, non sua; quindi lui ormai era solo di troppo.
Ma forse non ancora…non del tutto.
 
“No, aspetta!” – il ragazzo si voltò di scatto, quasi temesse di non trovarselo più alle spalle – “Non andartene, ancora…”
“E perché?”
“Perché…non so da dove iniziare.” – ammise a testa bassa, parlando sempre con quel suo tono impersonale – “Non mi ricordo praticamente nulla e poi…senza offesa, ma credo di aver bisogno di nutrirmi: il mio corpo è più fiacco di questa mattina.”
 
La cucina era nella stanza a fianco; probabilmente il frigo era vuoto ma si poteva sempre rimediare qualcosa, magari di cotto.
 
“La colazione non era male, oggi.” – continuò, un po’ in imbarazzo – “Quindi pensavo che magari…potessi cucinarmi qualcosa. Non mi ricordo nemmeno che genere di cibo mi piaceva…”
 
Gray fu sul punto di voltargli le spalle, ma una vocina silenziosa gli suggerì che stava per compiere la mossa sbagliata.
E di mosse sbagliate, Sylar ne aveva fatte anche troppo ed ora ne aveva fin sopra i suoi alquanto-puntuti-e-non-curati capelli.
Reprimendo la voglia di risultare troppo cordiale – a quello non si era ancora abituato – girò sui tacchi e si tolse il soprabito.
Bofonchiò:
“Se ti lascio solo anche per un minuto sono certo che finirai per avvelenarti, se prima non avrai fatto saltare in aria il gas!”
 
Alex Mercer ricordava poco o nulla di sé stesso o di come le persone interagissero e tantomeno sapeva di quel tipo.
Ma qualcosa, nella sua anima assopita da tempo, gli aveva detto di provare a fidarsi.
 
Era certo che le cose, da quel momento in avanti, avrebbero cominciato a girare per il verso giusto.
 
 
*   *   *
 
 
Ore 19:00 P.M.
Casa ‘Bennet’. Costa Verde.
 
“E direi che con questo abbiamo quasi finito…”
Zhane voltò pagina al libro di Matematica, pronto ad attaccare con gli ultimi due.
 
Evvai: terzo giorno ufficiale di recupero debiti. Che sballo.
Ma almeno, questa volta, Claire poteva starsene in pigiama e pantofole sul divano di casa sua.
E poi c’era lui.
 
“Solo un momento, Cross. Ho un po’ di sete, vado a bere un bicchiere d’acqua. Tu ne vuoi?”
“No, tranquilla, grazie.”
 
‘Tranquilla’ un cavolo.
Dio, come odiava che lo chiamasse ancora per cognome…!
 
Quando Claire andò in cucina, sua madre Sandra era già ai fornelli, iniziando a preparare le verdure per il bollito della sera.
La figlia aprì uno sportello della mensola e ne tirò fuori un bicchiere, ma quando fece per riempirlo sua madre le sussurrò:
“Senti, Claire, non è che voglia intromettermi troppo nella tua vita, ma ti vorrei ricordare la nostra situazione…”
“A cosa ti riferisci?” – chiese lei, facendo orecchie da mercante.
Lo sai.” – fece più seria Mrs.Bennet – “Parlo di quel tipo, Zhane. Tuo padre è stato categorico: niente ragazzi, per un po’. Almeno non fin quando si sarà messo a posto con il lavoro…”
“Oh, avanti! – Claire sventolò una mano come a scacciare l’idea – “Non mi sta mica insidiando! Stiamo solo facendo Mate!”
E fece per andarsene, quando…
 
Din-don…
Che tempismo.
 
Senza pensare troppo a tutta la possibile filippica circa la presenza di Zhane, Claire si affrettò ad aprire alla porta: sperava tanto di poter riabbracciare suo padre, di potergli chiedere cos’era successo in quei pochi ma intensi giorni, se era tutto a posto.
Così aprì e con sua immensa gioia trovò Noah Bennet, giacca stirata e cravatta ben stesa.
 
“Ciao, Orsacchiotta!” – la salutò lui con un certo slancio, sorridendole.
“Papà!” – le venne naturale stringerlo forte, gettandole le braccia al collo – “Mi sei mancato, come è andata?”
“Oh…” – mormorò lui a testa bassa, con un mezzo sorriso amaro – “…una gran seccatura, proprio come previsto. Ma sono qui, no?”
“Sì!”
 
Lui entrò in casa, cercando con lo sguardo suo figlio Lyle (che non era ancora tornato a casa) e sua moglie, ma il primo sguardo che incrociò non gli era noto:
Quel ragazzino dai capelli spettinati e lo sguardo un po’ imbambolato non rientrava tra le sue conoscenze. E questo era male.
Fissandolo diffidente, si rivolse tutto irrigidito a sua figlia:
“Claire, scusa, potremmo parlare un attimo in privato?”
 
La portò nella stanza dei genitori, di fianco al salone, e chiuse la porta.
Poi cambiò completamente tono di voce:
“Cosa ti avevo detto? Non-voglio-estranei-in-casa!”
“Oh, insomma, papà! Ok, avrei dovuto dirtelo, ma tu sei sempre stato fuori! Si chiama Zhane, è il mio insegnante di Matematica.
“Il tuo…cosa? Da quando vuoi uno che ti dia ripetizioni? E soprattutto: da quando un insegnante di sostegno è minorenne?!”
 
La storia era cambiata e Claire iniziava già a prevedere il solito tira-e-molla quotidiano con Mr.Bennet.
 
“Papà, ti prego, non ricominciare! E’ solo un compagno di scuola che mi aiuta con i compiti! Con lui mi viene molta più voglia di studiare e poi è educato. Guarda che non mi ha mica portato a ubriacarmi!”
“Non è questo il punto! Ti avevo chiesto un solo piacere: evitare di stringere contatti troppo stretti con altre persone! Lo sai che lo faccio per il tuo bene: siamo usciti da un periodo che avrebbe fatto a pezzi la maggior parte delle famiglie, ma noi siamo ancora insieme!”
La fissò diretta negli occhi, con quel suo tono lento e profondo che lo contraddistingueva:
“Per favore, Claire: non crolliamo proprio ora. Non ancora.”
 
Lei rimase per un attimo in silenzio, con la bocca appena schiusa, come se avesse voluto replicare senza trovare le parole.
Ma trovò la voce; una voce rotta e tremate:
“Cosa…? Tu parli di stare insieme? E dove lo vedi?! Tu te ne vai in giro per il Paese, magari con chissà chi, per conto dell’Impresa e secondo te questo vuol dire stare insieme?! Papà, tu dai la caccia…a quelli come me!”
“Claire, questo non devi dirlo…”
“Ma è proprio così! Ed io faccio di tutto per passarci sopra, per giustificarti in ogni modo, ma sembra che non ti importi nulla!”
Sentiva le gote infiammarsi, gli occhi iniziare a dolere dalle lacrime trattenute:
“Voglio dire: come puoi pensare davvero che possa vivere così, come una reclusa?! Papà, non ho nemmeno diciotto anni e devo temere anche di fare la cheerleader! Non posso andare ad una festa per paura che il barista abbia qualche strano potere, non posso uscire troppo tempo di casa perché qualche sicario del Governo potrebbe spiarmi da un albero….non posso nemmeno farmi male, dannazione! Ed ora vorresti anche negarmi di vedere un amico, a casa mia?!”
“Claire, devi cercare di capire…!”
“Tranquillo, ho capito benissimo!” – concluse lei, voltandosi dall’altra parte – “Vedrai che non ti darò più problemi!”
 
Ed uscì sbattendo la porta.
 
 
*   *   *
 
 
Poco dopo.
 
Claire sedeva sulle scale del cortiletto, con le ginocchia strette al petto e il volto infossato in esse.
 
Zhane emerse timidamente da Casa Bennet, sedendosi al suo fianco:
“Senti, Claire, mi dispiace per la situazione. Non ho capito bene quello che è successo tra te e tuo padre, ma mi pare di capire che sono di troppo.”
Claire sorrise amaramente, scuotendo la testa:
“No, il problema non sei tu. Sono io, è mio padre, la mia famiglia, la mia vita…praticamente tutto! E non sarà facile rimettere i pezzi al loro posto…”
 
Zhane annuì piano, con una strana espressione.
Non la stava compatendo; sembrava piuttosto che si aspettasse da lei quel genere di reazione, quasi come se la potesse realmente capire.
 
“Credo di sapere come ci si sente.” – mormorò – “Sai, anch’io a volte mi sento confuso e ho bisogno di sfogarmi. Non che mio padre sia la persona adatta con cui confidarsi…! Voglio dire: sono fatti così, i nostri genitori! Ti vogliono bene, ti stanno a sentire e vorrebbero solo proteggerci ma non sempre capiscono appieno! Loro sono di un’altra generazione, di un’altra natura…”
 
Quell’ultima parola fece insospettire Claire.
Per quanto potesse essere d’accordo, non aveva mai pensato ai suoi genitori come di una ‘natura’ differente.
A parte quando si spezzava qualche decina di costole e poi se le rimetteva a posto a mano,ovviamente.
 
“Non voglio crearti problemi…” – riprese Cross – “…ma se posso fare qualcosa per aiutarti, sappi che ci sono.”
 
Improvvisamente, Claire perse le staffe.
Non sapeva nemmeno lei il perché, ma sentì avvamparsi.
Forse era l’eccessiva gentilezza di Zhane, il suo ritenersi adeguato a comprenderla, o forse semplicemente la rabbia accumulata in tanto tempo.
Scattò in piedi, stizzendo:
“Senti, Zhane – perché è così che vuoi che ti chiami, no? – vorrei mettere in chiaro alcune cose: io e la mia famiglia stiamo vivendo un periodo piuttosto paradossale e dubito che tu possa capirmi, quindi non sforzarti di farlo! Inoltre sono appena uscita in modo non proprio ortodosso da una relazione con l’unico ragazzo che mi sia mai interessato ed ora come ora non mi sento al massimo, intesi? Quindi smettila di essere così maledettamente gentile, perché non ho in mente nessuna tresca possibile!”
“Cosa…?” – balbettò lui, cadendo dalle nuvole – “Pensi questo di me? Pensi davvero che ti abbia aiutato solo per provarci con te? Beh, scusa se volevo solo dare una mano!”
L’unico modo in cui puoi essermi utile, ora, è tornartene a casa!”
 
Zhane si alzò sulle gambe, con i nervi a fior di pelle; la guardò sconcertato e poi fece dietro-front:
“Sai che ti dico? Forse hai ragione tu: sei proprio strana, Bennet! Fammi un fischio quando pensi di poterti connettere al mondo!”
E se andò a pugni stretti.
 
Claire cadde sul prato, in ginocchio.
Si prese il viso tra le mani, mentre sentiva la sua pelle andare a fuoco e lacrime bollenti iniziare a solcarle le guance.
Sapeva di essere stata crudele, con quel ragazzo; lui aveva tentato rincuorarla e lei gli aveva scaricato addosso tutto il risentimento accumulato.
Probabilmente non sarebbe riuscita a chiedergli scusa troppo facilmente, lo aveva offeso ingiustamente ed inoltre Claire Bennet non era tipo da chinare la testa con facilità.
In tutto questo, poi, doveva fare i conti con suo padre, che sapeva essere comprensivo ma che per qualche ragione si era auto-imposto un muro psicologico oltre il quale era impossibile andare.
 
Strinse un sasso più affilato degli altri nel pugno fino a ferirsi; non provò alcun dolore: vide il taglio aprirsi nel suo palmo e qualche goccia di sangue sgorgare.
Ma poi la ferita si richiuse completamente, in pochi secondi.
Ormai stava iniziando a perdere la sensibilità anche al dolore, per quella sua abilità, e non voleva iniziare a distaccarsi totalmente anche dalla vita.
Aveva bisogno di sapere di essere ancora sé stessa, prima che il Mondo la escludesse definitivamente fuori dalla Realtà; aveva bisogno di qualcuno di cui fidarsi.
Sentiva la sua vita caderle rapidamente a pezzi tutt’intorno, come uno specchio infranto, e le poche consapevolezze di cui era entrata in possesso sgretolarsi sotto ilo peso della paura, del Futuro.
 
Si strinse un po’ di più nelle ginocchi e pianse, in silenzio, in solitudine, finché anche il Cielo non ebbe più tempo per ascoltarla.
 
 

 

Ed ogni lacrima caduta era come una Stella del Firmamento, che esplodeva nel bagliore scarlatto di una speranza insanguinata…

 
 

CONTINUA…
 

 

Nel prossimo capitolo - ‘Identity’:
 
Mentre Gabriel tenta di rimettere in ordine le tessere di un puzzle più complicato ed inquietante del previsto sulla vera natura di Alex, Mohinder Suresh dovrà recarsi sul luogo d’impatto di ‘BlackLight’ e decifrarne la misteriosa provenienza.
Intanto Nemesi dovrà sbarazzarsi di Hiro, per poter studiare più affondo Matt Parkman, al quale sembra misteriosamente legata.
E mentre Claire potrebbe scoprire inaspettate verità sul suo nuovo amico, un uomo misterioso che sembra tessere le fila del Destino di sordina inizia a gettare la sua ombra su più di una vita…

 

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