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‘È singolare quanto un’unica, insignificante esistenza sia capace di
sconvolgere un intera realtà’
- Anonimo
[ Ratchet&Clank: Endless Empire ]
La
camera di Orvus rimbombò con un suono assordante, continuo, come un tuono si
ripeteva all’infinito.
L’enorme
piattaforma centrale di vetro e metallo era circondata di fulmini e saette
azzurrine e la luce, accompagnata dal rombo, accecava al punto di confondere.
Ratchet
era lì, immobile, impietrito in mezzo al caos, come incapace di comprendere la
furia che gli si stava scatenando intorno.
Non
aveva il tempo di guardarsi intorno, per lui era sparito tutto, ogni ansia,
ogni dolore fisico, ogni pensiero.
In
mezzo a quell’inferno azzurro la sua testa si era svuotata, lasciando il posto
a una sola cosa: un’immagine nitida di fronte ai suoi occhi, ci circondata da
un alone quasi mistico ed insieme reale.
L’interruttore.
Acceso.
Doveva
fermare la catastrofe.
Si
buttò in avanti, verso la leva, e tirò a destra.
Non si
muoveva.
- NO!!
CHE COSA STAI FACENDO?! - gli urlò una voce dietro. Era Alister ferito, sanguinante
dopo la feroce battaglia ingaggiata col giovane lombax, l’intenzione di fermare
Ratchet chiaramente leggibile negli occhi. Il lombax giallo però non aveva il
tempo di curarsi di lui, ormai, impegnato com’era nello sforzo sovrumano di
tirare la leva: si puntellò con le ginocchia, e pose tutta la forza del suo
corpo nelle gambe, ma si accorse che non ce la poteva fare da solo.
Percepì
qualcosa di strano, e credette che l’interruttore si stesse alzando. Non ebbe
il tempo di riprovare che qualcosa effettivamente cedette, sbalzandolo lontano.
Udì un clangore metallico e si rialzò, credendo per una frazione di secondo di
avercela fatta.
Ma un
rombo ancora più forte, seguito immediatamente da in bagliore accecante al
centro esatto della camera dissolse le sue speranze all’istante.
Con
orrore si accorse di aver rotto la leva, pur non vedendola.
La
catastrofe non poteva più essere fermata.
- Non
sta funzionando… perché non funziona?!
- gridò Alister. Era riuscito a rialzarsi, e ora guardava l’interruttore,
disperato.
Ratchet
si rialzò, e la disperazione del momento improvvisamente venne sostituita da
una rabbia cieca.
-
PERCHÉ NON E’ UNA MACCHINA DEL TEMPO ALISTER! L’OROLOGIO E’ NATO PER CUSTODIRE
IL TEMPO, NON ALTERARLO! –
I due
udirono una metallica voce femminile giungere alle loro orecchie, sovrastando
il frastuono:
40 SECONDS UNTIL TOTAL SYSTEM FAIL.
Il
lugubre avviso che la fine era vicina.
In
quella una saetta colpì l’interruttore cogliendo Ratchet indifeso e buttandolo
lontano.
Alister
si sentì pietrificato di fronte a quella potenza distruttiva, ma a bloccarlo
non era la paura della morte.
Era il
rimorso, e la coscienza del fatto che egli aveva preso, per la seconda volta
nella sua vita, la decisione sbagliata.
E
l’aver commesso nuovamente un errore fatale.
- Mi…
dispiace. Mi dispiace così tanto… -
Il
giovane lombax si rialzò, con la ferma intenzione di riprovare.
Doveva
farcela.
Ne
andava della vita dell’universo.
In
quella Alister gli sbarrò la strada: - Vai. Lasciami qui. -
- COSA
CREDI DI FARE?! - gli urlò Ratchet dietro, non appena vide il vecchio lombax
voltarsi con una disperata luce negli occhi. - Abbi cura di te, Ratchet. - fu
la risposta, accompagnata da un sorriso.
Il
sorriso amaro di chi sapeva a cosa andava incontro.
Il
lombax avanzò con decisione in mezzo alla tempesta di fulmini, ed una volta
giunto al centro della camera piantò con veemenza, al posto dell’interruttore
spezzato, la sua onnichiave, e spinse con tutta la forza che aveva in corpo.
Ratchet non ebbe il tempo di starlo a guardare: la tempesta di fulmini divenne
sempre più potente, costringendo lui e Clank ad allontanarsi precipitosamente,
voltando le spalle ad Alister. Un fulmine più forte colpì troppo vicino,
investendo i due.
Ratchet,
colpito a tradimento dalla scarica, vide come ultima cosa quell’inferno di
saette diventato improvvisamente silenzioso.
Poi, il
buio.
+
Si
sentiva ancora l’odore di fumo.
-
Ratchet! Ratchet! - qualcosa lo scosse leggermente, accompagnato da una voce
familiare che pareva provenire da quel piccolo e freddo fagottino che si
accorse di stringere al petto.
-
Clank… - nel rialzarsi sui gomiti dal pavimento trasparente della camera,
Ratchet per un istante si chiese cosa ci facesse lì.
Gli si
snebbiò la vista, permettendogli di guardarsi intorno.
La
camera di Orvus aveva subito molti meno danni di quello che credeva: la
circolare piattaforma centrale, che costituiva il pavimento, era quella che
appariva più danneggiata, coperta com’era di fuliggine e tracce di esplosioni e
graffi sulla trasparente superficie color acquamarina. La cupola sovrastante,
anch’essa di vetro spesso e azzurro come il pavimento, era invece miracolosamente
intatta, quando Ratchet aveva invece creduto che, dopo essere stata percorsa da
quelle violente scariche, quei vetri si fossero come minimo disintegrati. Anche
i computer intorno non sembravano necessitare di grandi manutenzioni, l‘unica
cosa che sembrava aver effettivamente bisogno di essere riparata era…
Come in
bagliore improvviso, ricordò tutto, e si voltò verso il centro della camera.
Il
piedistallo dell’interruttore generale era ancora lì, fumante ed apparentemente
gravemente danneggiato, la leva originale era sparita, ed al suo posto
troneggiava, annerita ed elettrificata, l’onnichiave di Alister.
Il
giovane lombax deglutì a vuoto, sentendosi mancare diversi battiti. Lentamente,
qualcosa di caldo gli corse lungo le guance, ma non si curò di capire cosa
fosse.
-
Ratchet?… - la voce del robottino aveva una sfumatura di dolore, e i verdi
bulbi ottici non riuscivano a staccarsi dal viso dell’amico.
Ratchet
non lo guardava. Aveva la vista offuscata di quel liquido trasparente e caldo,
un liquido che i suoi occhi raramente avevano versato.
Lacrime.
Fissava
il centro della camera, inerte. Vedeva il pavimento devastato, il piedistallo
danneggiato, e non riusciva a staccare lo sguardo da quella onnichiave.
Il suo
proprietario era sparito.
- A…
Alister. - avrebbe voluto gridare, ma dalla sua bocca non uscì suono. Voleva
rimanere lì, immobile in quella camera, di fronte a quello scempio, e morire.
Avrebbe
voluto morire.
-
Ratchet… coraggio. - fu la voce del piccolo robot a riportarlo alla realtà, e
fargli realizzare il fatto che ciò che era avvenuto era ormai parte del
passato, non poteva essere cambiato, e fu il freddo tocco della sua manina a
scuoterlo dal suo stato di shock, - S… si, va tutto bene… sto bene. - si rialzò
in piedi senza guardare Clank negli occhi ma con il viso volto da un’altra
parte, in modo da non mostrargli le sue lacrime. Non voleva che vedesse la sua
debolezza.
Clank
comprendeva benissimo l’amico, e si limitò a mostrarsi accondiscendente,
sapendo quanto la minima manifestazione di pietà l’avrebbe ferito ulteriormente
- Molto bene. - disse, sentendosi un idiota per quella frase.
- Uh…
signore? - la voce di Sigmund l‘apprendista custode, rimasto fino a quel
momento in disparte, distrasse Clank dai suoi ragionamenti.
-
Dimm…? - un’altra voce, alquanto arrochita, costrinse sia il lombax che il
robot a voltarsi.
-
XJ-0461... Clank. - Il robottino s’irrigidì, sgranando completamente i bulbi
ottici. Ratchet, due passi dietro di lui, trattenne il respiro.
- P…
padre? - fu il turno di Clank di piangere ma, per quanto la sua natura robotica
gli impedisse di versare lacrime, la sua commozione si percepì chiaramente
dalla voce.
Davanti
ai due levitava una creatura metallica di dimensioni relativamente piccole,
alta appena meno di un metro e con un volto roseo e bonario illuminato da bulbi
ottici color acquamarina nei quali brillava una luce divertita ed intelligente.
Il corpo metallico era davvero piccolo in confronto alla testa allungata, ed
era circondato da scariche di energia azzurrine.
Era
Orvus, l‘ex Custode Senior dell‘Orologio.
-
Padre.. - Clank aveva la voce incrinata dalla commozione, ed esitava, non
osando muoversi, credendo che fosse un sorta di visione, ma quando l’anziano
Zoni aprì le corte braccia con espressione incoraggiante ogni dubbio svanì, e
il robottino si gettò entusiasta fra le braccia di suo padre.
Sigmund
fissava commosso la scena e anche Ratchet, dimentico per un istante dei suoi problemi,
non trattenne un sorriso alla vista della felicità del suo migliore amico.
Tuttavia, in quell’esatto istante, percepì qualcosa.
Fu una
frazione di secondo…
Eppure
gli parve una vita.
Quell’abbraccio
commosso tra padre e figlio lo riportò a qualcos’altro, qualcosa di lontano,
oscuro come la notte, indistinto come nebbia: il calore di un corpo senza
identità, una voce affettuosa, un fuoco assassino, urla familiari, movimenti
bruschi dettati dal panico e, sopra a tutte le altre, una voce rabbiosa che
gridava.
Traditore.
E
all’improvviso, tutto divenne freddo.
L’abbraccio
tra Clank e Orvus era solido come una tenaglia. Il robottino, dimentico del
resto dell’universo, avrebbe voluto restare così ancora per molto tempo, ma il
fatto che vi fossero degli spettatori ad assistere a quella sincera manifestazione
d’affetto lo spinse a sciogliere l’abbraccio e fare le presentazioni.
Naturalmente Sigmund non aveva bisogno di far la conoscenza di Orvus: era stato
proprio il vecchio Zoni a raccoglierlo quando era solo un robot delle pulizie
deriso da tutti e portarlo nel Grande Orologio per farne un apprendista Custode
del tempo, insegnandogli il suo compito ed istruendolo sulla manutenzione
dell’Orologio stesso e sull’importanza della carica che un giorno avrebbe
ricoperto. L’unico che effettivamente non conosceva Orvus era Ratchet, e Clank
non esitò nella sua intenzione di presentarglielo. Si voltò verso il giovane
lombax, con il braccino destro leggermente sollevato a mo d’indicazione: -
Ratchet, sono orgoglioso di presentarti mio… - si interruppe, notando con la
coda nell’occhio l’espressione di Orvus.
Nonostante
fosse coperto di metallo come un qualunque robot, lo Zoni aveva delle movenze
molto plastiche e fluide, più simili a quelle di una creatura organica che a
quelle di un essere meccanico, e le sue espressioni facciali non erano da meno:
in quei pochi istanti di distrazione quel roseo viso bonario si era incupito,
ed ora fissava Ratchet con un’espressione diffidente.
Che
cos… Clank alzò lo sguardo su Ratchet. Fu allora che comprese il
perché.
Il
lombax era irrigidito, guardingo, e fissava lo Zoni e i due robot come nemici
pronti a saltargli addosso.
-
Ratchet? - Nel suo sguardo Clank scorgeva stordimento, confusione ed un’ombra
di paura, e per un istante ebbe il terrore che la perdita di Alister, o forse
una botta presa durante la tentata fuga, gli avesse fatto perdere il lume della
ragione. Ma si rese conto che era impossibile impazzire così all’improvviso, e
che Ratchet aveva una testa troppo dura per potersi ridurre in quello stato,
inoltre l’espressione incupita di Orvus gli faceva temere qualcosa di assai
peggiore.
Qualunque
cosa fosse successa, non potevano rimanere lì a fissarsi.
Clank
avanzò di un passo, deciso: - Ratchet, cos’hai? - chiese, tentando di mantenere
i circuiti lucidi: l’espressione sempre più confusa ed aggressiva negli occhi
dell’amico gli facevano davvero temere il peggio. L’altro parve soffiare come
un gatto - Tu… chi… sei? - la sua voce era diventata un ringhio.
Se
avesse potuto, Clank avrebbe rabbrividito. E’ veramente andato? pensò
con terrore: ma l’espressione negli occhi dell’altro era una chiara risposta.
Il
robottino tentò un altro passo, ma si sentì improvvisamente strattonare
violentemente all’indietro ed in quella la voce del lombax gridare minacciosa:
- STATE INDIETRO! - si guardò sopra la spalla e capì che a trascinarlo era
stato proprio Orvus, e in quel Sigmund si era fatto coraggiosamente avanti,
senza nemmeno sapere cosa fare, innescando la reazione del lombax, il quale a
sua volta aveva sfoderato il Fucile Constructo. Lì, sul pavimento in vetro,
mise in moto i microchip: era certo che Ratchet fosse ancora Ratchet nonostante
avesse perso la ragione. Ma il problema era proprio quello, e Clank, conoscendo
le potenzialità combattive dell’amico, sapeva di avere a che fare con un nemico
decisamente fuori dalla sua portata.
Nemico…?
L’aveva
considerato un nemico. Sentì come se ai circuiti mancasse l’alimentazione.
+
Ratchet
non sapeva come comportarsi.
Si era sentito
come se l’avessero svegliato a suon di schiaffi, e ora era alquanto intontito.
Si era guardato intorno, nel tentativo di aiutarsi ad uscire da quella
confusione mentale, e la cosa non l’aveva aiutato. Anzi.
Aveva
osservato la gigantesca cupola di vetro e metallo dal pavimento devastato,
soprattutto al centro, e ci capì assai poco: vedendo quell’onnichiave annerita,
l’unica conclusione a cui era riuscito ad arrivare era che, era avvenuto
qualcosa di tragico, probabilmente a un suo simile. Si domandò cosa, e a chi,
ma la memoria non lo aiutò.
Poi
venne distratto da voci allegre, con vaghe sfumature metalliche, si voltò e
vide che non era solo: vi erano due robot, di cui uno abbracciava una strana
creaturina metallica dalla faccia rosea, i grandi occhi color acquamarina e il
corpicino volteggiante avvolto da quelle che sembravano essere scariche
elettriche.
Si
voltò verso l’onnichiave, annerita da qualcosa che poteva essere proprio una
forte scarica elettrica, e qualcosa, come un’interruttore, scattò nella sua
mente.
Era in
pericolo.
E ora
si ritrovava in una situazione assurda, con un grosso fucile d’assalto puntato
contro tre nemici la cui altezza generale non gli superava la vita e dalle
sconosciute potenzialità.
Forse
non proprio sconosciute si disse.
Ma se
c’era una cosa che aveva imparato bene, era proprio quella di non valutare mai
gli avversari dalla stazza: le tetratermiti di Lumos ne erano la prova vivente.
Si mosse lateralmente, a destra, sempre col fucile puntato contro i tre.
Doveva
andarsene - Levatevi dall’entrata. - ordinò rudemente, ondeggiando leggermente
il fucile. Sapeva che non era da lui agire così, ma l’essersi ritrovato in un
luogo sconosciuto, segnato dalle tracce di quella che sembrava essere stata una
feroce battaglia, con tre sconosciuti che non aveva mai visto in vita sua
l’aveva riempito di sgomento.
I due
robot e la creatura volteggiante non esitarono ad obbedire, e si fecero
precipitosamente di lato.
Ratchet
attraversò il ponte di vetro che portava all’uscita a ritroso, sempre tenendo i
tre sotto tiro e, appena la stanza della porta fu chiusa e si accertò che non
c’era nessun altro in quel posto sconosciuto ed assurdamente grande, prese a
correre.
Traditore! Prendetelo!
Dobbiamo ucciderlo! DOBBIAMO DIFENDERE IL NOSTRO ORGOGLIO!
Non abbiamo bisogno della
giustizia Cragmita!
Il nostro odio è il miglior
giudice.
Voci rabbiose si inseguivano
nella sua mente.
A parte quello, non vi era nulla
che riuscisse a disturbare la sua quiete: il suo corpo era scomparso, non
percepiva più alcun dolore, né stimolo, assolutamente nulla.
Gli sembrava quasi di essere in
uno stato di animazione sospesa, privo di alcuna coscienza, privo di
sensazioni, privo di memoria.
L’unica cosa che continuava a
disturbarlo erano quelle voci…
DOBBIAMO DIFENDERE IL NOSTRO
ORGOGLIO!
Echi nel silenzio, anziché
disperdersi si rafforzavano, rimbalzavano da una parte all’altra di pareti
invisibili acquistando una forza sempre maggiore e una direzione precisa e,
come un’onda inarrestabile, travolgevano tutto.
Il nostro odio è il miglior
giudice.
Sapeva a chi erano rivolte quelle
grida.
- Hey,
pendaglio da forca! - seguì in colpo metallico.
Sussultò: fu qualcosa di
fastidiosamente immediato, come venire trascinati in superficie a respirare.
Come in risposta a un segnale, la
sensazione di incorporeità scomparve, gli arti presero sensibilità, il corpo
assunse peso, il respiro apparve e divenne affannoso, i sensi lo travolsero,
l’irreale divenne reale.
Come ultima cosa, la prova del
ritorno alla realtà, sentì il corpo riempirsi di sferzate. Percepì il dolore.
Ecco, era tornato in superficie.
Il colpo metallico si ripeté.
Stavolta gli parve alquanto secco, come se si trattasse di legno contro ferro.
Il formicolio che gli percorreva il corpo diradò, concentrandosi sul lato
sinistro del collo e sulle spalle, tuttavia, la sensazione di essere ricoperto
di strisce di dolore simili a frustate anziché scomparire si rafforzò.
In particolare, si concentrò sul
ginocchio destro, come se quest’ultimo fosse trafitto da un palo.
Aprì gli occhi, misurando ogni
respiro, quasi temesse di inalare veleno da un istante all’altro. La vista,
dapprima offuscata, divenne molto nitida.
La prima cosa che vide fu però il
nulla.
Il buio completo.
Poi, come tante lampadine, vaghi
chiarori rossastri illuminarono la sua vista, che divenne nitida.
Si guardò intorno senza muoversi:
capì che si trovava in posizione distesa da un lato, su un pavimento di pietra
ricoperto di qualcosa che sembrava paglia, freddo e sudicio. Ai due lati
sorgevano due pareti in pietra alquanto basse, grigie e sudicie non meno del
pavimento, ed intaccate, in molti punti, di quelli che sembravano essere
graffi, scritte e simboli. Di fronte non sorgeva alcuna parete ma solo una
serie di sbarre tozze, sporche e arrugginite, presso le quali si percepiva un
vago ronzio. Oltre le sbarre non si vedeva molto a parte una persona seduta su
uno sgabello di ferro arrugginito, oltre la quale si scorgeva una lunga parete
di pietra umida a sinistra, alla quale erano fissati, a intervalli regolari,
una serie di piccole lampade rugginose che emanavano un inquietante chiarore
rossastro, mentre a sinistra si intravedeva una lunga serie di sbarre, non meno
arrugginite delle lampade. L’aria umida aveva un odore stantio e polveroso,
impregnato dell’odore di sudore e di escrementi.
Lo sguardo del prigioniero si
fissò sulla persona seduta sullo sgabello: aveva spalle possenti, taurine, il
volto girato dalla parte opposta, con la testa priva di capelli e ricoperta di
un folto pelo marrone striato di nero, le orecchie triangolari erano grandi,
piatte e appuntite. Dal retro dei pantaloni spuntava una coda lunga e sottile,
terminante con un vezzoso ciuffo di peli, riportante le stesse striature.
Somigliava terribilmente a un
lombax.
Un lombax?
Indossava un completo nero di
stoffa privo di protezioni, con un collo alto sul quale brillavano due
targhette metalliche. I pantaloni erano della stessa tinta, portava anfibi, di
pelle, alti al ginocchio sui quali brillavano delle fibbiette lucide.
Allacciati alla cintura vi era una numerosa quantità di piccole borse
portaoggetti, e portava un bracciale sull’avambraccio destro: era grosso,
ingombrante e sembrava d’ottone, e nella parte interna, quella corrispondente
al polso, spuntava un ingombrante macchinario a due canne pieno di tubicini e
molle, e aveva il singolare aspetto di una pistola.
Perché probabilmente è una pistola concluse il prigioniero, che ancora non si
era mosso dalla sua scomoda posizione. Non si era guardato molto intorno, ma
aveva notato l’indolenzimento delle braccia e delle mani e capito
immediatamente che era legato, disteso sul fianco sinistro, chiuso
probabilmente in una cella con quella che aveva tutta l’aria di essere una
guardia oltre le sbarre. Il dolore, invece, non se lo sapeva spiegare. Cercò di
ragionare con freddezza, rievocando ogni ricordo utile che riaffiorava. Ma
erano tutti confusi, offuscati dall’angoscia e dall’agitazione: lampi di luce
azzurrina, le grida concitate di una battaglia, il dolore delle ferite e un
amaro sapore in bocca che non riusciva a spiegarsi.
Dove sono finito?
Non seppe rispondersi, in quel
momento, poteva solamente limitarsi a confrontare le poche immagini rievocate
che continuavano a vorticare nella sua mente e osservare ciò che lo circondava,
oppresso da una sensazione confusa.
Un lontano brusìo ringhioso,
sovrastato da grida autoritarie e altri rumori metallici lo sottrasse ai suoi
ragionamenti. Tese le orecchie, aguzzò la vista verso il corridoio semibuio
oltre le sbarre, e attese.
- Porci leccaculo, state certi
che la pagherete! - una serie di pesanti imprecazioni si alzò poco lontano, dai
lati delle sbarre a sinistra, diretti verso qualcuno in avvicinamento di cui a
malapena si udivano i passi.
- Chiudi il becco! - altro suono
di legno contro metallo, forse un bastone. Il rumore di passi si avvicinò e si
moltiplicò.
Un gruppo uscì da un corridoio
nascosto dalla fila di sbarre, e si diresse verso la cella del prigioniero:
erano quattro, tutti lombax, tutti con un espressione tetra nei musi scuri e
avevano tutti la stessa divisa nera indosso. La guardia seduta sullo sgabello
scattò in piedi, sull’attenti. I quattro si fermarono, e il primo a sinistra
del gruppo, il più minuto, volse uno sguardo inquisitore verso la fila di celle
ed i suoi inquilini. - Alister Azimuth! - gridò, scrutando uno ad uno i
detenuti. Il prigioniero legato, sentendo pronunciare il suo nome, suo malgrado
sobbalzò. Alla guardia non sfuggì quel piccolo movimento, e quando il suo
sguardo si fissò sul lombax, quest’ultimo, ancora incerto della sua situazione,
cercò di mettersi in posizione seduta, ricambiando l’espressione dura. -
Prendetelo. - disse la guardia rivolta ai tre dietro di lui, i quali si fecero
avanti ed entrarono nella cella aperta dal guardiano seduto sullo sgabello. Il
ronzio proveniente dalle sbarre cessò.
Due dei tre lo afferrarono per le
braccia, tirandolo su di peso e lo trascinarono fuori, senza dargli il tempo di
mettersi in equilibrio sui piedi.
Alister non ebbe che il tempo di
percepire una fitta di dolore che gli fulminò la gamba destra, togliendogli il
respiro ed offuscandogli completamente la vista.
- Hey!
- trattenne a stento un grido, stringendo i denti. Le guardie attesero un
istante, prima di mettersi in marcia. Abbassò lo sguardo nella semioscurità
solo per notare che dalle ginocchia in giù gli abiti, dei lerci pantaloni in
tela ruvida, erano completamente bagnati di un liquido caldo, nerastro nella
penombra del luogo.
Cos…
Poteva a malapena zoppicare, con
quel dolore.
Lo condussero giù per una serie
di scale mal illuminate e fredde, invase da un’aria carica di umidità, fino a
sbucare in un’enorme sala, lunga e rettangolare, umida, piena di porte, e
trascinato oltre una di esse.
Si trovava ora in uno stanzino
relativamente piccolo e umido, circa quattro metri per tre, di pietra, il cui
unico arredamento era una logora sedia di ferro al centro, alla quale erano
fissate delle cinghie di cuoio, una serie di ganci e catene appese al soffitto,
una catinella fumante contenente una strana sostanza luminescente posata in un
angolo accanto a un caminetto acceso e tre pesanti macchinari metallici
dislocati lungo le pareti, vagamente simili a tavoli operatori. Alister aveva
già una vaga idea di ciò che volevano fare di lui, ma aveva tentato di cacciare
via i suoi timori. Cosa ho fatto? Che volete da me? Aveva protestato
lungo le scale senza ottenere alcuna risposta, domandandosi cosa fosse
realmente successo e in quale posizione si trovasse ora, tentando di far
collimare in modo logico gli avvenimenti dell’immediato presente con quelle
voci, quei ricordi confusi antecedenti il suo risveglio. Eppure, per quanto ci
provasse, nulla quadrava.
Fu la vista dei macchinari a far
crollare le sue speranze. Tentò di divincolarsi, ma la presa delle guardie
sembrava di ferro. - Sta’ buono. - Una di esse gli inferse una ginocchiata allo
stomaco, smorzando ogni altro tentativo di ribellione.
Si sentiva già debole di suo, e
quel colpo, oltre a attenuare ulteriormente le sue forze, lo fece quasi rimettere.
Stronzo. Insultò mentalmente il suo aguzzino. Era
piegato in due dal dolore, ma nella mente turbinavano migliaia di ipotesi.
E’ reale. Reale. E’ tutto
reale. Ogni cosa che vedo, ogni singola sensazione. Cos’è successo?…
Aveva la gola serrata. Sentiva
che tutto quello che gli accadeva intorno fosse in un certo senso causa sua,
come se si fosse trovato di fronte a una lunga fila di tasselli del domino e
avesse accidentalmente fatto cadere il primo.
I due aguzzini lo legarono con
cinghie di cuoio alla sedia e gli restarono accanto, mentre gli altri due
uscirono. Nel giro di due minuti rientrarono accompagnate da due creature
simili a lucertole a sei zampe, con una pelle grigiastra e glabra, spruzzata di
macchioline scure, dalle cui bocche spuntavano dei piccoli aguzzi denti gialli.
Ad entrambi i lati della testa spuntavano rigide antenne simili a corna.
Erano Cragmiti. Indossavano le
stesse divise nere dei lombax.
- Desiderate farci compagnia,
quindi? - sogghignò uno dei nuovi arrivati con una nota divertita nella voce,
rivolto ad un settimo, del quale il prigioniero, anche allungando il collo, non
riusciva a vedere il volto.
- Abbiamo tutto il necessario,
qui, per farlo cantare. Non comprendo il vostro desiderio di assistere
all’interrogatorio del ribelle. – continuò il cragmita, lanciando una veloce
occhiata ad Alister. Il lombax notò un dettaglio che al momento non riuscì a
trovare inquietante: il cragmita cha aveva parlato aveva gli occhi di un
insolito color ceruleo, completamente diverso dal giallo acceso caratteristico
della sua specie.
- Non assistere Heanp,
partecipare. - fu la risposta. Alister sgranò gli occhi, sentendo quel nodo
alla gola serrarsi ulteriormente.
Quella voce….
- Comunque, continuo a sostenere
che tu abbia fatto fare ai tuoi uomini fatica inutile. Se è ancora il generale
che avete conosciuto durante la guerra, allora credo che sporcherai gli
attrezzi per nulla. -
La scarica di adrenalina rese il
lombax improvvisamente lucido. In un primo istante quella voce fece nascere in lui un vago lume di speranza.
Ma il suo tono, e la presenza dei
cragmiti lo soffocò immediatamente.
Il settimo elemento del gruppo
aveva indosso una divisa color avorio e rosso scuro con una coppia di strisce
rosse sulle maniche e sui lati dei pantaloni, che terminavano con delle ghette.
Colori della guardia pretoriana lombax. Aveva un bastone di legno consunto e un
cappotto color rosso scuro orlato di pelliccia bianca, infilato per un braccio
solo.
Era un lombax dall’aspetto
giovane, dalla pelliccia oro, le strisce marrone chiaro, e grandi occhi verdi.
Sul lato sinistro della faccia erano visibili una profonda escoriazione che
attraversava la parte finale del sopracciglio, il cui sangue ancora fresco
brillava alla luce delle lanterne, e una benda macchiata di sangue gli copriva
parte della guancia, sul lato destro era presente un unico, lungo taglio
orizzontale.
Non è possibile…
Non osservava quel volto, sapeva
che non avrebbe creduto ai suoi occhi. Ma quelle ferite… le conosceva.
Le aveva create lui stesso.
- Ratchet…? - soffiò Alister in
un filo di voce, incredulo. Il giovane lombax avanzò senza distogliere lo
sguardo dall’altro, facendo oscillare il bastone e passandolo da una mano
all’altra.
Nel suo portamento si leggevano
chiaramente la minaccia, ma nei suoi occhi si rifletteva un altro sentimento,
qualcosa che Alister, nel momento, non riuscì a scorgere.
Sei un’incosciente! Ti rendi
conto da che razza di avversari sei circondato?!
Si domandò il vecchio lombax, non
del tutto certo della situazione in cui si trovava, ma convinto di trovarsi di
fronte un alleato venuto ad aiutarlo.
Non credeva di sbagliarsi.
Che accidenti fai vestito
così?
- …“MaggioreRatchet”
volevi dire? - lo corresse questi, gelido. Alister scrutò gli occhi verdi del
lombax con un’espressione dura, cercando un’ombra di falsità nel minaccioso
tono della sua voce.
Che diavolo ti è passato per
la testa? Non perdere tempo in sceneggiate, vattene! Te ne devi andare,
stupido! E’ pericoloso!
- Perché hai quell‘espressione
così sbalordita? - continuò il giovane, quasi sorridendo.
- ’Che diavolo stai facendo’
volevo aggiunge... - Il vecchio lombax non ebbe il tempo di finire la frase che
un colpo di bastone gli arrivò alla mascella, con forza tale da fargli sentire
in bocca il sapore del sangue.
D’accordo, illuminami. Cosa
diamine stai facendo? Pensò
in quell’istante.
- Io? Nulla. Eseguo gli ordini,
evidentemente. -
Ordini? Di chi?
Nella mente di Alister, suggerita
dalla presenza dei due cragmiti stava cominciando a delinearsi un ipotesi, ma
si rifiutava di accettarla. Non sarà che…
- Ordini di chi? -
- Qualcuno che che ora certamente
non potrai più ammazzare, visto che ti hanno finalmente sbattuto al fresco. -
- …’non potrai più ammazzare’?
non ricordo di aver ammazzato nessuno. - Quella frase lo fece ritrovare faccia
a faccia con l’altro, i volti a pochi centimetri di distanza fra loro.
- Ah, già. Per te quello era un
atto di giustizia, perché i lombax sono sottomessi a degli animali senza
cervello, è questo quello che pensi? - Alister faticava a seguirlo, il filo dei
suoi pensieri si era fissato su cinque parole:
- Sottomessi ad animali senza
cervello? Non dire sciocchezze ragazzo, i lombax non sono sottomessi a nessuno.
- rispose. La frase venne accompagnata da fragorose risate provenienti dai due
cragmiti che osservavano, divertiti dalla confusione a malapena celata sul
volto del lombax. - Sentito? Adesso siamo Nessuno!
- sogghignò il cragmita dagli occhi cerulei, Heanp, suscitando altra ilarità. I
soldati sorrisero stupidamente. Ratchet sembrò irrigidirsi.
- Già… certo. - gli rispose. Si
voltò verso Alister.
- Quella che hai fatto è
probabilmente una sciocchezza dettata dalla rabbia, altrimenti ora non saresti
nelle nostre mani. - continuò - Mi complimento comunque, è stata una sciocchezza
fatta con gran stile. Ammazzare il nuovo governatore coloniale mandato
dall’impero al suo primo discorso deve aver fatto guadagnare parecchi punti a
voi ribelli. -
I lombax sono sottomessi a un
impero?
Era un indizio. Fissò i due
cragmiti: l’ipotesi assunse forma definita, e nella sua mente riaffiorarono
nuovamente quei vaghi ricordi, i ricordi della sua ultima battaglia, avvenuta
nella camera di Orvus, nel Grande Orologio, prima che si risvegliasse in quella
situazione.
La sua era una battaglia per
cambiare il corso degli eventi.
Una battaglia per cancellare la
più grande delle ingiustizie subite nella storia del suo popolo.
D’un tratto capì.
Oh per Orvus…
- Ora …- continuò l’altro -
…visto che sei qui, abbiamo un paio di domandine da farti. -
Nel corridoio del settimo piano
sotterraneo cominciava a fare freddo. Nencer, la cui unica protezione contro
simili temperature non era altro che una sottile pelliccia color caffelatte e
una divisa militare nera, rabbrividì leggermente. Si trovavano nella zona della
prigione dove tenevano i detenuti più pericolosi, in attesa di smistarli in
strutture più adatte, dove usualmente non avrebbero più visto la luce del sole,
oppure l’alba del giorno seguente.
- Sacha, sei davvero sicuro di quello che stai per fare? -
chiese per la terza volta ad un lombax bianco di bassa statura che camminava
spedito di fronte a lui.
- Le indicazioni di Reginald sono
state chiare, mi sembra. - rispose l’altro, con un accento duro nella voce.
- Non mi fido di Reginald. -
- Nemmeno io. - fu la risposta.
- E ancor meno di te. -
- Sta tranquillo, non mi
sopporterai a lungo. - l’altro storse leggermente il naso.
- Potresti cercare di andare più
piano? Sembri ancora più sospetto del normale. - continuò il selker nel suo
nervosismo. Sapeva che dava alquanto nell’occhio per la sua alta statura, ma
non sapeva come comportarsi. Si era mostrato parecchio spavaldo di fronte a
Kaden, assicurandolo che con lui tutto sarebbe andato per il meglio, ma la
verità era che tremava fin nelle viscere da quando erano entrati in quella
struttura militare. E da quando aveva indossato quella divisa non aveva fatto
altro che ripetersi una cosa sola.
Siamo fottuti.
Per giunta la nonchalance con cui
quel tappo del suo compare girava fra i veri soldati contribuiva al suo
nervosismo.
Maledizione, non potevo
andarci io con Kaden?
Sacha il lombax rallentò, e il
suo sguardo saettò più avanti, alla vista di due soldati sbucare da un angolo
del corridoio che stavano attraversando. Entrambi tacquero nel vederli passare,
e Nencer li osservò di sbieco: non li riconosceva. I nostri devono aver
occupato tutto dal quinto sotterraneo in giù. Questi chi diamine sono? Si chiese.
Pregava che nulla andasse storto,
fino alla fine. In caso contrario, ne andava della sua libertà, e le prigioni
di Zordoom non erano proprio classificabili come ‘gradevole luogo di
villeggiatura’. Non per i suoi gusti.
Si trovavano nella prigione della
caserma della 147esima compagnia dell’esercito imperiale, un edificio di pietra
di quattro piani più otto sotterranei, più uno accessibile solo al personale
autorizzato, adibito alla gestione dei sistemi di sicurezza dell’intera
prigione. Dovevano scenderne altri due senza dare nell’occhio, poi il lombax
doveva assumersi il compito di disattivare gli allarmi senza che nessuno se ne
accorga. Disgraziatamente per Nencer, le abilità di Sacha come sabotatore di
macchinari elettrici rasentavano lo zero.
Siamo decisamente fottuti. Si ripeté, sconsolato.
+
Nello stesso istante in cui il
selker e il lombax bianco stavano scendendo nelle viscere della prigione,
Ratchet ne stava risalendo a rilento le centinaia di gradini, accompagnato da
una coppia di cragmiti e un piccolo gruppo di guardie, diretto verso la caserma
vera e propria, che era costituita da un edificio separato dalla prigione. I
due cragmiti discutevano allegramente fra loro, come se meno di un quarto d’ora
prima avessero assistito ad uno spettacolo, e non ad una vera e propria scena
di tortura.
Una mano guantata gli si posò
sulla spalla: - Ci state ascoltando, maggiore? - disse una voce nasale che gli
fece alzare gli occhi al cielo prima di voltarsi. A rivolgergli la parola era
stato Marcus, l’altro cragmita. Era abbastanza tarchiato e robusto,
caratteristiche che risultavano accentuate dalla vicinanza con Heanp, il quale
era decisamente più alto e slanciato.
- No signori, mi spiace. Stavo
riflettendo sulle mie disgrazie personali. - disse senza trattenersi.
- Oh, certo capisco. - rispose
questi con tono quasi dispiaciuto: - … L’incontro col criminale Azimuth deve
essere un colpo assai duro alla vostra… forza d’animo. -
- …Cosa? - Il lombax alzò le
sopracciglia.
- Oh, no, non si preoccupi – il
cragmita alzò le mani in segno di scuse - non ho più intenzione di sfiorare
l’argomento della Grande Guerra. -
Ratchet assottigliò gli occhi.
Ecco un’altra presa per i fondelli.
- …so che è un tema considerato
ancora doloroso per il vostro popolo. – Marcus non sorrise, ma il vago
scintillio nei suoi occhi color oro tradivano il suo divertimento. Se c’era una
cosa che Ratchet poteva dire di odiare veramente della sua posizione era una
sola: stare in mezzo a quel branco di lupi senza poter nemmeno mettergli le
mani addosso.
In fondo, seppure solo a parole,
erano alleati.
- Ma. – continuò Marcus - Sia io
che il generale Heanp ci sentiamo in dovere di scambiare le nostre ipotesi
riguardo l’omicidio del povero governatore Firzek con
voi proprio per questo motivo. Che mi dite del caso dell‘ex generale? -
Il giovane rifletté per un
istante:
- Che magari sono solo i
vaneggiamenti di un folle. E’ come se non avesse accettato l’esistenza di voi
cragmiti fino ad ora. Vi consiglio di fargli dare un occhiata da parte di un
buon medico prima di interrogarlo di nuovo. -
- Già. Sarebbe un’idea fattibile.
- commentò Heanp.
Ma Ratchet non la pensava
veramente così. E’ vero, sulle prime aveva creduto che la mente del vecchio
lombax fosse ormai sconvolta, ma non riusciva a convincersene. Erano quegli
occhi a contraddire il suo comportamento, era la loro luce.
Vi aveva letto ansia, paura,
stordimento, disperazione, orrore, ma nulla di più. Quegli occhi avevano ancora
un riflesso razionale.
- …Comunque, ci sono alcune
dinamiche della sua cattura che non mi sono chiare - continuò il lombax - Mi
avete detto che Alister era riuscito ad uccidere Firzek
semplicemente sparandogli con una pistola dal bel mezzo della folla, per poi
tentare la fuga, a piedi, nella speranza di riuscire a confondersi fra i suoi
simili? -
I due cragmiti annuirono - Beh,
sostenendo la tua ipotesi della pazzia, un’azione stupida e violenta come
quella sarebbe più che giustificabile. - confermò Heanp. - Strano che proprio
voi ve lo siate chiesto. -
- Non è la sua sanità mentale ad
interessarmi, credetemi. - rispose Ratchet.
Anche se un’azione del genere
può essere degna solo di uno squilibrato. pensòCompletamente
comprensibile però, se si considerano le angherie subite dai lombax negli
ultimi venticinque anni.
- …Gli uomini come Firzek, soprattutto quelli appena saliti al potere, non
credo girino tranquillamente in mezzo alla folla privi di protezione, giusto? -
Heanp sfoderò un mezzo ghigno,
cogliendo l’allusione nel tono del lombax:- Amate fare del sarcasmo nei
confronti dei nostri politici, vero? - chiese. Ratchet avrebbe voluto mordersi
il labbro. E lo sai che non vi amiamo, lo sai…
- Non era sarcasmo, Heanp. Era un
dubbio. Firzek aveva una scorta ben nutrita con sé.
Uomini addestrati e armati. Non doveva morire. –
- Già. Non doveva. – Asserì il
cragmita - però è morto. - gli occhi di
Heanp si fecero sottili, mentre esaminava Ratchet. Quest’ultimo riuscì a
sostenere lo sguardo indagatore senza batter ciglio, ma sentì il collo della
divisa farsi fastidiosamente stretto. Sapeva perché Heanp lo guardava così.
Ratchet era uno dei pochi che non avevano un alibi al momento della morte del
neogovernatore. Nessuno sapeva dov’era andato, cosa aveva fatto e come si era
procurato quelle ferite così evidenti, né il diretto interessato non si era
preoccupato di fornire spiegazioni.
Ratchet era perfettamente conscio
della situazione in cui si trovava, così come era conscio di non essere ben
visto né nelle file dell’esercito né fra gli invasori, principalmente per le
sue origini e la sua posizione.
Il cragmita gli si affiancò,
senza cancellare il ghigno inquietante dal volto.
- Effettivamente la piazza del
Municipio era stata appositamente scelta per riuscire a controllare meglio la
folla e una sua potenziale sedizione. Abbiamo persino fatto appostare dei
tiratori scelti su tutti gli edifici proprio per riuscire a neutralizzare gli
elementi più pericolosi, ma sapete: nonostante le precauzioni prese non siamo
riusciti ad individuare Azimuth prima che causasse l’irrimediabile. Persino le
testimonianze paiono darci ragione. E’ come se fosse apparso per magia in mezzo
alla piazza. -
Il lombax preferì tacere, sia per
quelle parole che per i recenti ricordi che esse avevano evocato. Di cose
avvenute come per magia ne aveva viste fin troppe, nelle ultime otto ore.
Negli occhi di Alister aveva
letto un sentimento non molto diverso da quello che aveva provato lui stesso in
quella strana camera di vetro e metallo.
Disorientamento, paura. Poi una
lenta, inspiegabile rassegnazione.
Uscirono dai sotterranei,
attraversarono le numerose porte blindate che li separavano dall’uscita e, una
volta fuori, si diressero verso i cortili della caserma, costantemente scortati
dai soldati in nero che li fecero salire su un‘auto a vapore per poterli
accompagnare più in fretta verso l‘edificio illuminato della caserma. Un’altra
auto con quattro soldati li accompagnava.
Avevano ormai la prigione alle
spalle e il complesso davanti a loro, il paesaggio intorno era gelido, buio e
nevoso come solo una serata di gennaio poteva essere e, dopo le urla e gli
imprechi indirizzati a loro dai diversi detenuti che li hanno visti passare,
pareva incredibilmente silenzioso. L’unica cosa che si udiva in quella gelida
serata invernale era il rombo del motore delle due vetture che sfidavano la
neve alta. Ratchet ispirò l’aria gelida, cercando di schiarirsi le idee. Era
riuscito a mostrare un contegno normale di fronte ai due cragmiti e chiunque era
andato a cercarlo quel giorno, ma dentro era ancora scosso. Era riuscito a
fingere fino alla fine che quella fosse una giornata normale, quando non lo era
affatto. Alzò lo sguardo al cielo, che pareva una pesante coperta nera dalla
quale scendevano lentamente radi fiocchi di neve.
Quella camera.
Non riusciva a scacciare quelle
immagini dalla mente. Inizialmente aveva cercato di convincersi che era un
sogno, che non era reale, e sulle prime ci era quasi riuscito. Ancora non
riusciva a capire come si era ritrovato lì. Vi era capitato come in un sogno,
nel mezzo della situazione, senza come né perché, come se fosse stato
catapultato in un’altra dimensione, in un altro corpo, perché era certo di non essersi ferito in alcun modo quel
giorno, nonostante le numerose prove contrarie.
Cosa è successo veramente? Continuava a chiedersi. Continuò a ricordare ciò che gli si era
parato davanti al suo ‘risveglio’: si era guardato intorno, aveva sfoderato un
arma praticamente dal nulla e l’aveva usata per minacciare due robot e una
strana creatura che non aveva mai visto in vita sua. O forse li ho già visti da qualche parte? Si chiese, interrompendo
il flusso dei suoi pensieri e concentrandosi su uno dei due robottini, quello
con un paio di grandi bulbi ottici verdi: gli dava un fastidioso senso di
déjà-vu.
Scosse la testa. Stupidaggini. Non l’ho mai visto in vita
mia, né mi interessa sapere chi è. Non è certo una macchina ad avere le
risposte alle mie domande.
Eppure nonriusciva a scacciare la sensazione si essersi ampiamente sbagliato.
Era poi fuggito da quella camera,
e si era reso conto con orrore quanto enorme fosse quel posto sconosciuto: una
gigantesca stazione spaziale sospesa nel nulla, apparentemente priva di ciò che
stava cercando: una via di fuga, un accesso alla civiltà che conosceva. La
fortuna aveva tuttavia deciso di sorridergli: in breve tempo aveva trovato una
navicella con la quale era riuscito a tornare a casa sua, su Fastoon.
Inspirò nervosamente, ricordando
il breve ma turbolento viaggio: anche
quella macchina sembrava conoscermi pensò, ricordando l’interno della
navicella, e la voce che la occupava. Era metallica, esattamente come le voci
di quei robot, e per quanto avesse cercato, Ratchet non era riuscito a capire
da dove provenisse. Mi chiamava per nome,
diceva di chiamarsi Aphelion.
Che situazione assurda. Si disse.
Ratchet si bloccò, percependo
un’indistinta vibrazione acustica arrivare alle sue orecchie. Heanp intravide
con la coda nell’occhio quel movimento. Era un suono flebile, lamentoso, che
andava estendendosi velocemente, aumentando di volume fino a vibrare nella cassa
toracica.
Ratchet si voltò bruscamente in
direzione dell’edificio alle spalle, insieme ai due cragmiti allarmati, gli
occhi smeraldo spalancati e puntati verso la struttura grigia.
Per tutti gli Zoni…
Quel suono era fin troppo
familiare per le sue orecchie.
Una sirena.
Un allarme.
Non ebbe il tempo di formulare
altro pensiero.
- FERMA LA MACCHINA! - urlò
praticamente all’orecchio dell’autista, improvvisamente agitato. L’uomo,
terrorizzato, inchiodò nella neve senza nemmeno rallentare.
- MAGGIORE RATCHET! - Marcus non
ebbe il tempo di fermarlo che il lombax aveva già sfoderato la pistola ed era
saltato giù dall’auto, correndo nel buio ormai inoltrato verso l’edificio, -
Inseguitelo! - urlò poi in direzione dei soldati sull’altra auto, i quali
avevano inchiodato e di cui due erano prontamente saltati giù per lanciarsi
all’inseguimento del fuggitivo.
- HO DETTO DI INSEGUIRLO,
MALEDIZIONE! - ringhiò poi in direzione dei due militari rimasti sull’auto, i
quali non si erano mossi.
- Non possiamo lasciarvi soli, s..signori… - rispose timidamente uno dei due: - …abbiamo
l’ordine esplicito di accompagnarvi alla caserma ed assicurarci che non subiate
alcun genere di danno. E’ un ordine del nostro colonnello. Anche se siete voi
ad imporcelo, non possiamo trasgredire. - il cragmita si sentì ribollire il
sangue a quella replica.
Maledizione!
+
Avanti, cerca di rimanere
lucido.
Alister sforzò i polmoni in un
altro sospiro, cavando le poche molecole d’ossigeno presenti nell’aria
diventata soffocante nella camera in cui era stato rinchiuso, nel disperato
tentativo di scacciare quel irresistibile peso che stava schiacciando la sua
testa e velando con un drappo nero la sua vista.
Ora che l’adrenalina data dalla
tensione stava perdendo effetto, si sentiva sempre più debole. Anche prima,
alla presenza dei suoi aguzzini e di Ratchet, nonostante i muscoli tesi e la
concentrazione, aveva cominciato a scivolare in una fiacca debolezza.
L’avevano lasciato legato a
quella sedia di ferro in quello stato, da solo, uscendo silenziosi come
fantasmi senza proferire parola.
Di tutto quello che era avvenuto
finora, un solo pensiero l’aveva tormentato ininterrottamente, separandolo
dallo stato di incoscienza che ora minacciava di sopraffarlo da un momento
all’altro:
Ratchet.
Cosa gli era successo? Che ci
facevano dei cragmiti con lui? Perché si comportava così? Gli era impossibile
darsi una risposta, perlomeno non in quel momento, né in quello stato.
Abbassò lo sguardo sul ginocchio
destro, valutando l’entità del danno, coperto da dei calzoni sudici
completamente zuppi di sangue che andava ormai seccandosi: il dolore era
eccessivo per anche solo tentare di muovere la gamba, inoltre la sua posizione
legata gli impediva di esaminare da più lati l’arto ferito. Riusciva a sentire
un corpo estraneo sotto la rotula, qualcosa di simile a un proiettile. L’intero
ginocchio pareva anestetizzato, ma sapeva che non era così. Se avesse provato
ad impartirgli un minimo di movimento, questo avrebbe irradiato un dolore tale
da farlo gridare.
Devo andarmene da qui!
E l’avrebbe fatto. Strisciando,
se necessario.
Sussultò, nell’udire un rumore
improvviso, un colpo contro la porta. Tese le orecchie: se ne udirono altri
alquanto ovattati, poi il silenzio.
Lo scatto della serratura
arrugginita lo mise sull’attenti, in attesa: dovevano essere i soldati. I
massicci cardini cigolarono mostruosamente sotto la spinta di una figura
slanciata, nera nella divisa da soldato.
- Alister! - era appena un
soffio, al vecchio lombax la voce parve familiare. Tuttavia, a causa della
semioscurità, non riusciva a vedere in volto di chi aveva parlato. La figura
avanzò piano, come sull’attenti:
- Per tutti gli Zoni, che cosa ti
hanno fatto... -
- E tu chi… diavolo… - La figura
gli si era già fatta abbastanza vicino da poterlo vedere in volto, ma Azimuth
non completò la frase. Ormai cominciava persino a mancargli il fiato.
- Alister, mi riconosci? -
Lo sconosciuto era un lombax, dimostrava
all’incirca la sua stessa età. Aveva una pelliccia bionda, leggermente
arruffata, sulle guance e lungo le orecchie si distinguevano tre strisce
castano chiaro. Aveva un unico occhio visibile, verde smeraldo, mentre al posto
dell’altro si notava una benda di pelle. Lo osservava con un’ombra di
preoccupazione, attento. Vide un sorriso spavaldo delinearsi sul volto del
prigioniero. - Ovvio che ti riconosco... Kaden. -
- In questi anni non hai perso un
pelo eh.. - la frase disegnò un mezzo ghigno sul volto dell’altro, quando
estrasse un coltellino dalla tasca e si chinò a recidere le cinghie di cuoio e
liberare il suo simile.
- Speravo che finire sotto
torchio ti avesse fatto abbassare un po’ la cresta. - replicò, sempre
sorridendo.
Si abbassò ad esaminare la ferita
sul ginocchio destro e la sua espressione si fece seria: - non riuscirai a
correre così. -
- Tarx, mi serve qualcosa per
fermare l’emorragia. - disse, mentre alla porta si disegnava il massiccio
profilo di un cazar muscoloso. Aveva in mano qualcosa di molto simile ad una
striscia di tessuto nero. Chiamò il lombax con un verso gutturale.
- Kaden, non ho trovato altro. -
si giustificò, avvicinandosi.
Il lombax prese la striscia di
tessuto e la annodò attorno alla gamba del suo simile in modo da rallentare
l’afflusso di sangue al massimo consentito. Alister taceva, osservano l’altro
all’opera, con lo sguardo di chi vorrebbe attraversare il suo cranio per
leggerne il contenuto.
Voleva fargli delle domande,
parecchie domande, ma non poteva. In parte perché quell’apparizione e quella
frettolosità l’avevano in realtà spiazzato, in parte perché sentiva che anche
il cervello, oltre gli arti, cominciava a non funzionare particolarmente bene.
Dimmi solo che sei proprio il
Kaden che conosco io, e che non devo aspettarmi un altro voltafaccia. Dovette ammettere a sé stesso che la
sorpresa riservatagli da Ratchet era stata una lezione degna d’essere ricordata
a lungo.
Si aspettava che si fosse gettato
nella tana dei lupi, nonostante tutto, un’altra
volta, solo per salvargli la vita…
Ora sapeva di dover stare
attento.
Kaden si rialzò rivolgendo lo
sguardo soddisfatto verso il complice. - Coraggio, andia..
-
I due lombax e il cazar
sussultarono nel percepire le proprie orecchie trafitte da un ululato lamentoso.
Un suono assordante corse per tutti corridoi ed invase ogni singola cella,
camera o sgabuzzino della struttura in cui si trovavano.
Il lombax biondo alzò lo sguardo,
allarmato da quel suono improvviso.
No!
- Troppo presto. - osservò il
cazar alzando lo sguardo al soffitto. Da sopra di loro proveniva un rumore
ovattato fatto di scalpiccii, vago e improvviso come un petardo scoppiato molto
lontano.
- Credo che quei due abbiano
avuto dei problemi - continuò poi, avvicinandosi ad Alister per sollevarlo fra
le braccia.
- Sono grado di liquidare sette
guardie in meno di un minuto. Non possono aver avuto dei problemi! -
- Allora sono diventati loro il
problema. - il lombax biondo preferì glissare sulla vera risposta. Probabile.
Uscirono dalla camera a passo
affrettato, incerti se correre o no in parte a causa del rumore sempre
crescente che proveniva dalle scale proveniente dai piani superiori, in parte a
causa della ferita di Alister, che gli causava un sussulto ad ogni movimento
brusco.
Dobbiamo arrivare al sesto
sotterraneo, e farlo in fretta.
Kaden sapeva che quello non era
uno dei suoi piani migliori, ma le circostanze -e il tempo a disposizione- non
gli avevano permesso di organizzarsi meglio. E, a peggiorare tutto, probabilmente
i soldati imperiali stavano già arrivando a frotte provenienti dalla caserma a
dare manforte ai commilitoni.
Si domandò quanti dei suoi
compagni, mescolati ai veri secondini, avrebbero coperto la loro fuga, e quanti
ne sarebbero morti…
O quanti li avrebbero traditi…
- Capo! - una voce li chiamò.
I tre si voltarono per veder
arrivare una coppia di soldati trafelati provenienti dai piani inferiori: un
selker dalla pelliccia color caffelatte e un lombax di piccola statura dal
vello bianco.
- Nencer! Sacha! - esclamò Kaden
nel vederli arrivare: - Che diavolo è successo? -
- Quest’idiota vuole farci finire
sul patibolo! - ringhiò Nencer per primo, fulminando con lo sguardo il suo
compare.
- Abbiamo dei traditori fra le
nostre file. - proferì il lombax in risposta, lapidario.
- Che vuoi dire?! - gridò quasi
Kaden, riprendendo a risalire la scala, ora quasi correndo.
- Mi sono state passate delle
informazioni errate riguardo il sistema di sicurezza. E ho dei provvedimenti da
prendere al riguardo. - si interruppe quando Kaden sfoderò la pistola una volta
giunti in cima alle scale e lo imitò. Un’occhiata veloce bastò a comprendere
l’origine di tutto quel rumore scatenatosi assieme all’allarme: erano i
detenuti.
Oltre la rampa di scale si
intravedeva solamente un lungo corridoio di pietra spoglia, ai cui lati si
intravedevano sei porte blindate alternate a vasi dalla luce rossastra.
I detenuti, chiusi oltre quelle
porte in piccole cellette separate, urlavano come belve in gabbia, tirando
oggetti contro le sbarre -elettrificate, per impedire qualunque tentativo di
manomissione- cercando di farsi sentire da potenziali evasi.
Tre soldati stazionavano in
ordine sparso di fronte a quelle porte, apparentemente sordi al caos.
Kaden abbassò la pistola, uscendo
allo scoperto. Alister, trasportato dal cazar Tarx, alla vista di quella
posizione di rilassamento quasi si morse il labbro nel tentativo di fermarlo
dall’uscire allo scoperto con così tanta imprudenza, ripetendosi che il lombax
sapeva perfettamenteciò
che stava facendo.
Non serviva.
I soldati osservarono Kaden al
suo passaggio senza muovere un muscolo, limitandosi ad irrigidirsi
ulteriormente, come se vedere un carcerato trasportato fuori dalla sua cella
senza autorizzazione in braccio assieme a quattro soldati di corsa fosse
normale.
Ad Alister pareva più che altro
imbarazzante. E, ancor di più, maledettamente strano.
- Signore… -
Era a malapena un soffio, quello
proveniente da uno dei secondini.
- Signore, noi cosa faremo? -
Kaden si morse il labbro, fermandosi, era difficile riflettere in un momento di
tale urgenza.
- Attenetevi al piano. In
alternativa, recitate la vostra parte -. Dovette ammettere a sé stesso che era
una follia: non potevano certo fingere di essere dei soldati della caserma, li
avrebbero beccati all’istante. Ma fino a quel momento trentotto lombax erano
riusciti a passare per soldati regolari, forse era possibile che altrettanti
potevano continuare a passare inosservati in mezzo ad altri duemila tra
tecnici, impiegati e militari.
Forse era possibile, ma non era questa la
preoccupazione principale di Kaden.
L’allarme si ripercosse
improvvisamente fra le pareti di pietra, metallo e legno della 147esima caserma
dell’esercito Imperiale accompagnate dal grido ‘evasione in atto!’ suscitò
agitazione fra i soldati presenti, e l’arrivo delle macchine trasportanti i due
cragmiti e la loro scorta aggiunse a questa inquietudine una nota di panico:
non era divertente ritrovarsi addosso gli occhi di imperiali in una situazione
simile.
- VOGLIO SAPERE COME DIAMINE CI
SONO RIUSCITI! - la voce acuta del Tenente colonnello teracnoide Emerald
Yerzek, resa ancor più stridente dall’agitazione, perforava come un trapano le
sensibili orecchie del sergente maggiore Christopher Jerg, costringendolo ad
incassare leggermente la testa. Non sopportava quel soggetto, ancor meno quella
sua indole isterica.
- Sono desolato, ma non ne abbiamo la più pallida idea, signore. Non sappiamo
da dove sono entrati, né come hanno fatto ad arrivare alla camera di controllo
della caserma. -
- TUTTO QUI QUELLO CHE HAI DA DIRE, PEZZO DI IDIOTA?! - il lombax trattenne un
sospiro.
- Abbiamo constatato che la
camera di controllo non è stata forzata, ma che i tecnici occupanti sono stati
uccisi, i tre codici relativi alla disattivazione dell’allarme della prigione
inseriti correttamente, ma loro controparte composta di quattro codici
inseribile dall’interno della camera di controllo della prigione era
incompleta. Ciò ha fatto scattare l’allarme. - non poté dare altra risposta:
non c’era nulla da dire. Era in corso un’evasione in piena regola, e nessuno si
era accorto di nulla prima d’allora.
Il teracnoide ringhiò, alzandosi dalla sedia.
- Siete un branco di incapaci! State facendo perdere la faccia agli alleati
dell’Impero! - ululò.
Assurdità, si disse Jerg, la faccia l’avevano persa da tempo.
- Potrei dirle di avere la situazione in mano, ma ciò corrisponderebbe ad una
menzogna. - osservò il soldato, col risultato di ritrovarsi piegato in avanti
dalla chela del suo superiore, il quale l’aveva strattonato verso di sé:
- Insubordinazione. - sibilò semplicemente. - Voglio tutti i soldati
all’attivo: occupate quella maledetta prigione e tappate ogni buco delle mura
esterne: non deve passare un granello di polvere da nessuna parte senza che io lo sappia! -.
A quell’ordine così conciso e minaccioso il sergente maggiore si limitò a
liberarsi della stretta e presentare il saluto. - Agli ordini! - e se ne andò,
a passo affrettato.
Le sue intenzioni erano effettivamente di eseguire l’ordine, ma non alla
lettera. C’erano altre predisposizioni da dare, provenienti da qualcuno ben più
autoritario del tenente colonnello.
Il suo passo frettoloso si ritrovò ad incrociare quello agitato di un soldato
semplice: l’ordine era elementare, la sua esecuzione ancor di più.
- Enrique, con me. - disse al giovane cazar.
All’arrivo della macchina trasportante i cragmiti un gruppetto di militari vi
corse incontro ad armi spianate:
- Signori, entrate, è pericoloso rimanere qui fuori - disse uno, sollecito.
Heanp non perse tempo: - Chi è la massima autorità in questo posto? - chiese
scendendo.
- Il colonnello Geoffrey Darkwood, signore. - rispose il soldato.
Il cragmita fece in piccolo esame di memoria: se non lo ingannava il colonnello
era attualmente a Teracnos, ovvero uno dei pianeti alleati più importanti e
vicini all’impero, richiamato ufficialmente a rispondere di non ricordava bene
cosa.
- E chi è l’attuale massima autorità? - riformulò la domanda.
- Il tenente colonnello Emerald Yerzek. Signore. - disse.
- Fatemi parlare con lui - rispose Heanp.
- Si signore. –
+
- Vedete di darvi una mossa a
rimuovere i cadaveri, disattivate l’allarme e mobilitate tutte le squadre
libere: dovete occupare prigione, sotterranei, mura, e la zona esterna alla
caserma nel perimetro più ampio possibile. La loro intenzione è di fuggire, e
non potranno farlo senza farsi notare. Individuateli e riempiteli di piombo: i
loro cadaveri dovranno essere così pesanti da doverli sollevare con un
montacarichi! – L'aprirsi improvviso della porta fece quasi sobbalzare il
teracnoide sulla sua stessa sedia oltre che i quattro capitani presenti. Yerzek
deglutì a vuoto nel veder entrare Heanp, Marcus e una piccola scorta di
soldati. Un veloce scambio di occhiate fra le due cariche più alte bastò a far
capire al cragmita quanto quell'allarme improvviso avesse preso l'intera
caserma contropiede, primo fra tutti il suo dirigente.
Yerzek fece cenno ai capitani di
andare a diffondere ed eseguire gli ordini, ma venne fermato dallo sguardo duro
di Heanp. Il teracnoide si irrigidì in un silenzio pavido, in attesa di un
cenno del suo superiore. Per un istante l’unico suono che regnò fu quello
prepotente della sirena di allarme.
- Gradirei una spiegazione dettagliata riguardo ciò che sta succedendo. -
chiese con tono pacato, avvicinandosi alla scrivania con le mani dietro alla
schiena.
- S… spiegazioni, signor generale? - ripeté come inebetito Yerzek, atterrito
dal gelo di quello sguardo.
- Una spiegazione del perché quest’allarme stia suonando, e delle esoteriche
voci riguardanti un omicidio appena commesso proprio qui, in seno alla caserma.
- la calma misurata che quella voce aveva continuato a mantenere fece sudare
freddo a Yerzek. Sentiva che la sua vita era finita.
L’ha sentito!
- Signor generale, è stata
l’attuazione di un piano efferato, studiato nei minimi dettagli, noi… -
cominciò, cercando di difendersi da quella accusa implicita.
- … Se fosse stato studiato nei minimi dettagli, il criminale Azimuth sarebbe
scomparso senza che neanche ce ne accorgessimo. - Lo interruppe con flemma
Heanp - Ma non sembra che questo piano rientri nella suddetta categoria,
altrimenti in questo momento noi due staremmo tranquillamente discutendo in
questo studio nel più completo silenzio, giusto? -
Yerzek deglutì nuovamente, pronto a sentire quella che si stava preannunciando
come la sua fine. Marcus sorrise sadicamente a quell’agitazione, Heanp si
rivolse ai capitani presenti: - Andate a diffondere gli ordini, che tutto venga
eseguito con la massima velocità e precisione. Ah, anzi, no. Aggiungete anche
questo: - Aggiunse, fermandoli: - Da questo momento fino al cessato allarme io,
Sindegar Heanp, Generale a quattro bolt dell’Esercito Imperiale Cragmita,
prendo il comando di questa caserma e di tutte le sue parti. –
I quattro capitani presentarono il saluto rigidamente, per poi correre a
diffondere gli ordini.
- Tornando al nostro discorso.. -
continuò il cragmita, dopo una breve riflessione - Tenente colonnello, avete
per caso un pianta della parte sotterranea della prigione? -
+
Scale. Lunghissime scale. Un
infinito serpente di pietra dai mille snodi, freddo e duro.Migliaia di gradini da scendere. Corridoi
illuminati da luci rossastre, numerosi quasi quanto quei gradini.
L’ululato della sirena, le grida dei detenuti.
Ratchet si fermò appoggiandosi con la schiena contro il muro, ansimando, la
pistola ormai scarica fra le mani.
Ai suoi piedi giacevano i corpi di quattro soldati, completamente immobili. Non
sapeva dire se li aveva uccisi o no. Con un brivido lungo la schiena considerò
l’ipotesi di averlo fatto. Non è la prima volta.
Sentiva il cuore battere talmente forte da superare il suono della sirena,
nelle sue orecchie, il dolore che riprendeva a dilagare lungo le ferite del
corpo. Già, le ferite… Aveva preferito non chiedersi
come mai si era ritrovato con tutte quelle ferite addosso. La loro esistenza
era un mistero.
Ma la prepotenza con cui le sentiva era un dettaglio che non riusciva più ad
ignorare. Ora al dolore si era sommata la fatica, e Ratchet si rese conto solo
in quel momento di quanto fosse malconcio. Avanti...
Inspirò, sentendo in torace percorso da diverse fitte, e cambiò il caricatore
della pistola. Si staccò dal muro, cercando un corridoio alla sua destra,
diretto alla successiva rampa. Si inoltrò nel buio, diretto verso i
sotterranei.
+
Nella camera di controllo si
susseguiva un continuo viavai di persone. Prendevano appunti dettagliati
riguardo allo stato dei cadaveri, li coprivano e li portavano via, ripulivano
il pavimento dal sangue. Si udiva un costante scalpiccio, accompagnato da
commenti sussurrati, provenienti principalmente dagli impiegati:
- Non riesco a credere che non se ne sia accorto nessuno. -
- Che vergogna, e queste sarebbero le forze imperiali? Li hanno ammazzati sotto
il loro stesso naso! -
- Porca miseria, ci passa più gente che in un bordello, e nessuno ha notato che
sette impiegati sono stati uccisi? -
- I colpevoli devono essere per forza ancora qui -
- Hei, qualcuno ha visto gente sospetta passare da queste parti? - Vogliamo scherzare?…
Enrique sentiva il peso di quegli sguardi sulla nuca, tanto che non alzò
nemmeno gli occhi per sostenere quelli accusatori dei colleghi dei defunti. Si
era unito ad un gruppetto di soldati incaricato di ripulire la camera di
controllo e renderla utilizzabile il prima possibile, ed in quel momento era
chino su una delle quattro consolle, impegnato nella disattivazione degli
allarmi della prigione, l’attivazione dei sistemi di comunicazione veloce della
caserma, e lo sblocco delle torrette, in caso di attacco da parte di potenziali
alleati degli evasi. Quando la spia corrispondente all’attivazione di queste
ultime si accese e assunse un colore rossastro, la mano del cazar si spostò
innocentemente verso un tasto vicino che aveva la funzione di disattivare il
flusso di corrente elettrica che usualmente attraversava le sbarre della
prigione, corrispondente a due piccole spie di cui se ne accese solo una.
In verità, premere quel tasto era l’unico ordine ricevuto dal suo superiore. Si, vogliamo decisamente scherzare, si ripeté scuro in volto.
+
Grida. Abbiamo perso tempo. Spari. Abbiamo perso decisamente troppo tempo. L’allarme che cessa di suonare, sostituito dai sibili dei proiettili. …E questa prigione è un po’ troppo affollata.
- VOI, FERMI DOVE SIETE! - altre grida, sorprese e minacciose allo stesso
tempo.
Sacha fece in tempo a ributtarsi dietro al muro, evitando nuovamente di finire
crivellato. Kaden non si era nemmeno mosso dal suo nascondiglio, lasciando al
lombax bianco il compito di fare l’avanguardia.
- Attento. - fu il suo unico avvertimento di fronte all’azione avventata -
Stanno accorrendo con una velocità incredibile. Quasi quasi mi domando se i
nostri non se la siano data a gambe. - osservò poi. Dietro quella noncuranza
Alister scorse una malcelata preoccupazione, ma preferì non proferire verbo.
Sacha invece si limitò a spostare il suo sguardo malinconico sul suo capo, per
poi cavare dalla divisa un oggetto rotondo, di metallo color rame, con una
piccola levetta in cima. Alister lo vide strappare via la levetta e lanciarla
nel corridoio da quale ancora provenivano gli spari.
Una fiammata divampò assieme ad
un boato assordante e il pavimento sotto i loro piedi tremò. Una calma
inquietante sostituì le urla concitate dei soldati imperiali.
- Ora. - sussurrò appena Sacha,
sporgendosi a guardare attraverso il fumo, mentre Nencer, dietro di lui,
approfittava per cambiare posizione e avvicinarsi ulteriormente.
Erano riusciti finalmente a raggiungere il sesto sotterraneo, ma i minuti calcolati
per raggiungere la via di fuga erano ormai trascorsi da parecchio.
I soldati avevano mostrato una notevole capacità d’azione, ben maggiore di
quella che si era aspettato Kaden, eliminando o rendendo inoffensivi gli
intrusi individuati, ed ora si stavano organizzando per uno scontro accanito
contro gli evasori. Se lo aspettavano, ovviamente. Scommetto che gli prudevano le mani da quando
Alister ha messo piede qui dentro.
Il lombax dal vello biondo li
osservava dal suo nascondiglio mentre accorrevano, si nascondevano dietro i
muri, sparavano attraverso il fumo. Provò a contarli: erano troppi per essere
solo di quel piano. Probabilmente ci saranno anche i soldati provenienti dai piani più alti.
Secondo il protocollo della caserma, il soldati in servizio non dovevano né
potevano abbandonare il piano a loro assegnato sino alla fine del servizio di
guardia, e quell’azione di disubbidienza collettiva lo stava mettendo in
difficoltà. Eppure non sarebbe dovuto succedere nulla di tutto ciò.
Quell’allarme non avrebbe dovuto suonare.
Almeno ora abbiamo ciò che
vogliamo. Siamo comunque a metà strada.
Kaden si sporse sufficientemente da poter guardare: non erano affatto lontani
dalla via di fuga, bastava solo riuscire ad attraversare il piano, e
raggiungere la cella numero 46.
Sospirò, riprendendo il suo posto
dietro al muro e ricaricando la pistola, mentre il lombax bianco e il selker
scaricavano tutti i proiettili a disposizione su ogni nemico riuscissero ad
individuare attraverso il fumo. E va bene.
Non potevano, non potevano assolutamente permettersi di perdere altro tempo né
sprecare altre munizioni. A mali estremi…
Alister lo vide cavare dalla tasca un oggettino rettangolare, delle dimensioni
d’un accendino.
…estremi rimedi.
Un rombo assordante e ripetitivo li investì accompagnato da grida di sorpresa e
dolore ed una nube didetriti
e polvere. Nencer si gettò a terra con un grido, coprendosi la testa, con la
divisa completamente imbiancata, Sacha si ritirò bruscamente dalla sua
posizione, e Kaden sobbalzò nel vedersi sfiorato da un fascio di luce
rimbalzato contro il muro di fronte, che arrivò quasi a colpirgli l’orecchio.
- DANNAZIONE! - fece in tempo a rialzarsi ed impugnare la pistola che il rombo
cessò, improvviso così come era venuto, lasciando al suo posto solo vaghi
gemiti.
Poi, più nulla.
Dopo il pandemonio assordante causato dagli spari, il silenzio che seguì parve
assoluto.
Kaden si sporse appena da un muro
completamente crivellato: quell’attacco fulmineo, o qualunque cosa fosse stata,
aveva ridotto il corridoio da teatro di una sparatoria a un campo di battaglia,
con un’aria satura e nebbiosa, resa pungente dal fumo e dalla polvere, i muri
completamente irregolari crivellati da misteriosi colpi, e i corpi di numerosi
soldati riversi a terra, molti morti, qualcuno ancora gemente, in agonia. Cosa…
Mosse un silenzioso passo allo scoperto, guardingo, osservandosi intorno pronto
a sparare ad ogni movimento sospetto. Che diamine è stato?…
I buchi sul muro e le ferite sui cadaveri gli davano l’impressione che qualcuno
avesse sterminato i soldati sparandogli alle spalle con una torretta stalker,
dando vita ad una carneficina. Ma nonostante le evidenze, non vi erano torrette
stalker in quel piano, e qualunque cosa fosse stata a causare lo scempio, era
scomparsa.
Rassicurato a malapena da quel silenzio, si mosse verso la fine del corridoio,
verso il lato opposto della sala delle prigioni.
Il silenzio continuava a regnare, oppressivo.
Tarx e Alister lo seguivano altrettanto guardinghi, diversi passi indietro,
protetti da un’avanguardia composta dal lombax e dal selker.
Quel piano della prigione era deserto, l’unico rumore che il gruppo riusciva a
sentire era lo scricchiolio dei calcinacci sotto i loro piedi. Nencer non era
calmo: aveva le orecchie tese, lo sguardo che andava nervosamente da una parte
all’altra dei corridoi della prigione.
- E’ ancora qui. - disse agli altri, muovendo appena le labbra.
Kaden si aspettava quella reazione, e sapeva di cosa il selker stesse parlando.
Si riferiva a ciò che aveva neutralizzato il gruppo di soldati, e che
probabilmente stava cercando anche loro.
Ma l’aveva fatto per agevolare la loro fuga o semplicemente per avere il
piacere di freddarli personalmente?
Rallentò il passo, diretto verso la cella numero 46.
Si fermò, con le spalle appoggiate al muro, sapendo che la presenza percepita
da Nencer era esattamente li, dall’altra parte, nel corridoio.
- Non fate gli idioti. Venite fuori. - Alister sgranò gli occhi nell’udire
quella voce, Kaden invece ridusse i suoi a due fessure, abbassando la pistola. No! il moto di Nencer fu l’unica apparente manifestazione di
preoccupazione verso il lombax biondo che uscì allo scoperto con le mani
alzate.
- Ho detto venitefuori. Tu e la tua allegra compagnia. - ripeté la
voce. I quattro rimasti dietro il muro udirono il sospiro rassegnato di Kaden,
seguito da un invito fatto con un tono quasi divertito: - Avanti, signori, è
maleducazione non presentarsi. -
Uscirono allo scoperto. Alister squadrò la figura che cercava di torreggiargli
davanti, armata di un enorme fucile che superava in larghezza la sua stessa
testa, di fattura ben diversa da quella delle armi che aveva visto da quando si
era risvegliato: somigliava terribilmente al tipo di armi a cui lui era
abituato a vedere. A imbracciare l’arma era un lombax dal vello biondo a
strisce castane, con indosso un cappotto rosso scuro sulla divisa color avorio
e rosso, ed un taglio ben visibile sulla guancia destra.
- Ratchet… - quel sibilo basso fu l’unica parola che gli uscì dalle labbra.
Il giovane li squadrava minacciosi, tenendoli sotto tiro. Kaden sorrideva, come
se intravedesse l’esitazione nello sguardo del suo simile.
- Sai, è un peccato. -
- Cosa è un peccato? -
- Che tu e noi ci troviamo insieme in una situazione così scomoda -
- Dici?… -
Sul volto del giovane lombax si delineò un sorriso spavaldo, che tuttavia ad
Alister parve forzato.
- Io la trovo un’ottima situazione, invece -
Kaden sorrise, mosse un passo, incurante della situazione di svantaggio e
dell’arma puntata contro.
Alister continuò a studiare sia l’enorme arma che il suo proprietario. Ma ormai
l’aveva capito, per quanto si rifiutasse ancora di crederci.
Quello non era un alleato.
- Voialtri… Credete veramente che l’impero di Tachyon possa crollare così? Con
un paio di bombe artigianali piazzate in qualche vecchio aerodromo di Reepor e
qualche governatore coloniale ucciso? Credete veramente di poter trasformare
Fastoon in un pianeta libero e felice con un po’ di ribellioni e degli
spargimenti di sangue? - sibilò il giovane lombax, a orecchie basse,
continuando a tenere il fucile puntato. Il sorriso divertito di Kaden non
accennò a sfumare, mentre si faceva, passo passo, sempre più vicino al giovane.
- Beh, sembra che tutto sommato
questa violenza gratuita serva a qualcosa. Riesce a far sentire i sudditi
ancora padroni del proprio destino. E chissà che un giorno non lo diventino
davvero. -
Ratchet percepì un brivido freddo di fronte a quella presenza possente, così
sicura delle proprie parole. Sentì freddo di fronte a quel sorriso di chi ha
perfetta coscienza di ciò che sta facendo e che non si fermerà di fronte a
nulla.
Ma aveva torto. Le sue non erano altro che illusioni.
- Non ce la faranno mai. Non hanno forza per reggersi in piedi da soli, e oltre
loro stessi non hanno che nemici. Oltre l’impero c’è solo la morte. -
- O forse è l’impero stesso la morte. Il nemico più grande. Quanti pianeti,
quante popolazioni, come la Terra e la Coalizione di Alpha Centauri, hanno
messo in gioco la loro stessa esistenza accogliendo ribelli imperiali? Lo sai
quanti per questo sono finiti in polvere spaziale?…. E lo sai come hanno
reagito tutti gli altri? -
Ratchet tacque, immobile. Conosceva la risposta.
- Sono diventati più forti, hanno stretto nuove alleanze. Hanno opposto una più
strenua resistenza. E ora hanno la forza di fare qualcosa di ben più grande che
offrire aiuto ai fuggiaschi. - Ratchet non replicò. Sapeva fin troppo bene che
le parole pronunciate dal suo nemico corrispondevano a verità. I nemici dell’impero
non si erano arresi, ben pochi avevano combattuto fra di loro. Tutti
indistintamente avevano trovato un modo per opporsi al nemico comune.
Fu però l’ultima frase a fargli quasi abbassare l’arma, fargli capire che lui,
e ciò che era diventato, non poteva alcunché:
- …E Tachyon non è in grado di reggere nulla, Ratchet. Nemmeno una millesima
parte del fardello ereditato dai suoi avi. Quest’impero crollerà ben prima
della mia morte. -
Quello che Kaden fece fu un passo
di troppo, sia verbalmente che fisicamente, e la reazione di Ratchet non fu mai
più diretta: un brusco passo indietro, quasi un salto, e lo scatto del dito,
pronto a crivellare di proiettili il nemico.
- FERM.. - Il giovane lombax non
ebbe il tempo materiale né di farsi sufficientemente indietro né di premere il
grilletto che sentì improvvisamente il terreno mancargli sotto i piedi, e un
contatto duro e freddo gli investì la faccia. Perse la presa sul fucile, come
se qualcosa gliel’avesse strappato con la forza.
Il giovane si ritrovò a terra,
improvvisamente disarmato, con il muso insanguinato e dolorante, e il nemico
che gli torreggiava davanti con un sorriso soddisfatto, il fucile in mano e il
pugno che aveva colpito ancora alzato.
Non si mosse, fissando Kaden
negli occhi, rendendosi conto che probabilmente stava per morire per mezzo di
quella stessa arma con cui l‘aveva minacciato.
Sentì un moto di frustrazione
salirgli dentro, nel rendersi conto della velocità con cui quel lombaxera riuscito a
rovesciare la situazione, e con quanta facilità stava per ucciderlo.
Merda…
Ad un segno di Kaden, Sacha
oltrepassò il gruppo, diretto verso una delle celle. Si udirono due spari, il
cigolio delle sbarre, seguito da uno strano rumore di pietra spostata. Ratchet
indovinò che probabilmente era quella la loro via di fuga.
Kaden parve studiare il giovane
lombax a terra per un attimo prima di sorridere quasi con compassione:
- Sai, sono orgoglioso di te. -
- E perché? -
- Perché sei qui di fronte a me,
e non lì, nella caserma, a prendere ordini da quei vermi. Perché hai deciso di
andare avanti ed agire da solo, perché… - Quel sorriso si allargò, enigmatico,
a metà fra un sorriso complice ed un sorriso di scherno: - …Hai tentato di
fermarmi. -
Ad un cenno di Sacha i compagni
di Kaden oltrepassarono i due lombax, diretti verso la cella, lasciando il loro
capo indietro. - Sono felice, mio giovane amico. - mosse un passo oltre il suo
simile, sempre tenendolo sotto tiro - Sono felice di vedere che non hai ancora
dimenticato il tuo orgoglio di lombax. So che esso non è stato spento, che
brucia ancora sotto le ceneri.. Ma nonostante ciò, ti do un consiglio… -
- …Fai meglio a non intralciarci.
-
E scomparve oltre le sbarre della
cella, come inghiottito da un buco nero.
Ratchet si rialzò, con la mano a
coprirgli il naso sanguinante, imprecando.
Alla fine, ho solo perso
tempo.
E si avviò verso i piani più
bassi, in direzione della camera di controllo.
Perdonatemi, ma…
Alla fine ho
rimesso su solo i 4 capitoli che ho già pubblicato in precedenza, con qualche
modifica non grammaticale (gli orrori sono rimasti al loro posto eh…).
Attualmente sono leggermente bloccata sul quinto capitolo per vari motivi, ma
vi prometto che appena inciampo in qualche buona idea o trovo l’ispirazione
giusta non esiterò a rimettermi sulla tastiera.
Il silenzio che ora regnava sembrava quello
di una tomba.
Ratchet sentì in fastidioso brivido
risalirgli su per la schiena, seguito da una più gradevole sensazione di
calore.
Nonostante le emozioni e lo sforzo della
corsa fatta per raggiungere l’ultimo piano sotterraneo, e da lì la camera di
controllo, il freddo che usualmente dominava la prigione gli era penetrato fin
nelle ossa.
Ora
capisco perché nelle carceri muoiono così tanti prigionieri.
Altro
che torture… finiscono congelati!
Si appoggiò un istante alla consolle di
controllo, tentando di riprendere un respiro normale senza riuscirci. A ogni
inspirazione sentiva chiaramente le ferite che gli marchiavano tutto il corpo:
molte erano escoriazioni, alcune bruciature, due erano alquanto profonde. Non
aveva la più pallida idea di come se le era ritrovate addosso, perché non se le
era procurate combattendo contro gli infiltrati della prigione.
Ma non era quello il momento di pensarci.
Voi
bastardi… non crederete di sfuggirmi…
Tentò di stabilire una connessione con la
camera di controllo centrale: trovato il contatto giusto, era necessario
attendere qualche minuto prima che si stabilizzasse e fosse possibile
comunicare, e nell’attesa di quei pochi minuti, lasciò vagare lo sguardo per
esaminare la camera.
Quando abbassò gli occhi sul pavimento,
l’unico suono che gli sfuggì fu un’esclamazione di sorpresa.
Su pavimento, a pochi passi da lui, tre
cadaveri di soldati imperiali giacevano in posizioni scomposte, ognuno con un
taglio netto e profondo alla gola e dei sottili rivoletti di sangue che
sgorgavano dalle ferite. Sul pavimento andava allargandosi una grossa chiazza
rossa, e, a un esame più attento, un fastidioso odore metallico permeava
l’aria.
Ratchet non deglutì nemmeno, tanto era forte
la sensazione di nausea che l’aveva colto.
La penombra della camera era talmente fitta
che gli permetteva di distinguere a fatica i piccoli dettagli, ma sembrava che
i cadaveri non presentassero altre ferite oltre a quei tagli. Sembravano in
condizioni perfette, quasi non avessero nemmeno avuto il tempo di rendersi
conto di quello che era successo.
-
Pronto? Pronto? Mi sentite? -
Una voce preoccupata gracchiò dal piccolo
altoparlante posto poco sopra la consolle, vicino ad un microfono di ottone
dalla forma conica. Ratchet sobbalzò nell’udire quella voce, ritornando
faticosamente alla realtà. Doveva avvertire il tenete colonnello Yerzek, o chi
in quel momento aveva preso in mano la situazione.
- Qui parla il maggiore Ratchet, della
Guardia Pretoriana, mi ricevete? -
-
Forte e chiaro, signore. -
- Dovete avvertire il tenente colonnello
Yerzek che ho localizzato il punto di fuga degli evasori: è nel sesto
sotterraneo, ala ovest, cella 46. Gli evasori sono cinque in tutto e hanno
parecchi complici all’interno della prigione. -
-
Farò riferire immediatamente, signore. -
Mi
domando cosa farà… Si
chiese il lombax
-
Ho una comunicazione da parte del signor generale per lei, signor maggiore. – continuò l’addetto dall’altra parte del filo: - Mi ha ordinato di riferirle un
messaggio. -
- E sarebbe? -
-
Testualmente: ‘Non faccia sciocchezze, maggiore’. - Ratchet sollevò un sopracciglio nel sentire
il messaggio, prima di rispondere: - Grazie. Riferisca che non ne tenterò. -
-
Sissignore. -
E
chiuse la comunicazione. Si appoggiò stancamente alla consolle, cercando di
calmarsi almeno un po’: era stanco, ferito e in netta inferiorità numerica
rispetto a Kaden e i suoi. Di colpo la sua voglia di rischiare la vita e
lanciarsi all’inseguimento scivolò via con le sue ultime forze. Spostò di nuovo
l’attenzione sui tre cadaveri, esaminandoli con un po’ più d’attenzione
rispetto a prima: tagli sulla gola a parte, continuavano a sembrargli
immacolati come se avessero appena cominciato il turno. Uno di loro era disteso
sulla schiena, il viso rivolto verso Ratchet, e negli occhi spalancati e spenti
sembrava specchiarsi un’ombra di rimprovero nei confronti di quel lombax per niente
intenzionato a vendicarlo del suo assassino.
- Non guardarmi così. - Disse Ratchet - Ho
passato molti più guai di quanto tu possa credere, oggi. - Voltò lo sguardo,
pensieroso, per poi rivolgersi di nuovo al cadavere.
- Mi ricordo bene le loro facce, sai? -
Sembrava quasi che il morto rispondesse, con
quella espressione di vago rimprovero.
- Non ti preoccupare. Presto li vedrai sulla
forca. -
+
Il silenzio che da diversi minuti pervadeva
l’ufficio del tenente colonnello Yerzek pareva carico di elettricità.
Il teracnoide era stato letteralmente
tempestato di domande su quando, come, con quali materiali e su quale terreno
era stata costruita la caserma e quali eventi storici di particolare rilevanza
ha dovuto sopportare dalla sua costruzione e quali eventuali cambiamenti sono
stati apportati alla struttura, se e quante ristrutturazioni e lavori di
manutenzione ha subito. Non era riuscito a rispondere a tutte quelle domande
apparentemente fuori luogo in quanto molte risalivano al periodo in cui il
teracnoide di Fastoon non aveva nemmeno sentito parlare, né era riuscito a
capire a cosa tali nozioni potessero mai tornare utili in uno stato d’emergenza
come quello in cui si trovavano.
Una volta ottenuto un numero sufficiente di
risposte, Heanp si era chiuso in un pensieroso silenzio, chino sulla pianta
della prigione.
- Diciamo, in un certo senso, che ho delle
piccole teorie e che questo risulta essere il momento perfetto per trovare
conferma. - questa era stata la quasi divertita risposta alla perplessa domanda
del teracnoide.
Marcus, dal canto suo, non accennava a un
solo moto di nervosismo o impazienza, lasciando lavorare il suo simile in pace,
limitandosi eventualmente a rispondere a qualche sua domanda, con un vago sorriso
divertito sul muso.
Non…
non capiscono chi è che si stanno lasciando sfuggire? Pensava intanto Yerzek, senza comprendere. Uno dei criminali più odiati dall’Impero,
colui su cui pende una taglia di diversi milioni di bolt… e voi ve la ridete
come due ragazzi?...
Il silenzio venne interrotto da un bussare e,
all’ordine di Marcus, la porta si aprì ad entrò un giovane soldato cazar in
divisa, che presentò il saluto e disse, rivolto a Marcus:
- Siamo riusciti a localizzare la via di fuga
degli evasori, signore: sesto sotterraneo della prigione, ala ovest, dalla
cella numero 46. Abbiamo mandato una truppa punitiva. -
- Come l’avete scoperto? -chiese Heanp,
alzando lo sguardo dal foglio.
- Dal maggiore Ratchet, signore. Ci ha
contattato dalla camera di controllo dell’ultimo piano sotterraneo. - Il
cragmita sorrise e voltò lo sguardo in direzione di Marcus: - Vi lascio il
comando, amico mio, sistemate eventuali pasticci. E, soprattutto, non fate
danni. - disse. Il cragmita si limitò ad annuire, divertito.
- Sei pratico della prigione, soldato? -
chiese poi, rivolto al cazar
- Sissignore. - fu la risposta. - Magnifico.
Allora portami dalla nostra squadra punitiva, voglio venire con loro. -
+
Kaden rallentò, certo di aver posto
abbastanza distanza fra sé e cella.
Il braccio che reggeva la lanterna gli faceva
quasi male a causa di tutto il tempo passato a tenerlo in alto, a far luce ai
suoi compagni nell’oscurità del posto.
Era circa un quarto d’ora che percorrevano il
cunicolo sotterraneo che si trovava oltre la parete di pietra della cella 46.
Il soffitto era alto, ma il tunnel abbastanza
stretto da non permettere il passaggio di più di tre persone
contemporaneamente, reso solido e resistente ad esplosioni e terremoti mediante
una complicata serie di aste, travi e assi di legno resi marci e fatiscenti dal
tempo e dall’umidità. Vi si respirava un’aria fredda e umida, dall’odore
vagamente dolciastro.
Kaden ringraziò in silenzio l’esistenza di
quel tunnel, perché più di una volta gli è tornato utile ai suoi scopi.
È
un bene che il governo sia riuscito a distruggere ogni dato relativo l’esistenza
di queste costruzioni prima dell’invasione di Fastoon. Ed è un vero peccato
chei cragmiti ora ne scoprano
l’esistenza, cominceranno a cercarne e distruggerne il più possibile
Si voltò indietro e si fermò nel sentire dei
passi in lontananza, per veder arrivare
dal buio Nencer e Sacha.
-Il lombax non ci ha seguito- Comunicò Sacha,
avvicinandosi a Kaden.
- Bene, un problema in meno -
- Inoltre
mentre venivamo qui abbiamo ricevuto una comunicazione da uno dei nostri dalla
caserma. Sembra che abbiano scoperto la scorciatoia
-
Kaden sorrise ironico a quella notizia,
ripensando a Ratchet.
Sono
decisamente troppo tenero. Forse era davvero meglio se ti mettevo a tacere.
+
Il cunicolo era terminato, sbucando in una
serie di canali ampi e rettangolari dalle pareti in pietra resa scura
dall’umidità, percorsi da un’acqua torbida e costeggiati da strette passerelle
in legno. Uno sgradevole odore permeava l’aria. Il gruppetto di evasori si era
ritrovato nelle fogne.
- Magnifico. Davvero magnifico. - sebbene
fosse sussurrato, il commento di Nencer si sentì molto chiaramente nel
corridoio che stavano attraversando.
- Silenzio. - ordinò Kaden, tendendo le
orecchie: nulla si sentiva, a parte il costante sciabordio dell’acqua. Il
gruppo si spostò quasi di corsa, attento a non metter i piedi su pezzi di legno
troppo marcio e guidato dal lombax biondo, l’unico che conosceva bene la
strada.
- Non voglio far scoppiare la tua bolla di
ottimismo, Kaden, ma non crederai davvero che non ci arriveranno presto col fiato
sul collo, vero? – Continuò Nencer.
- Lo so. - rispose il lombax - ho piazzato
alcuni dei nostri anche qui. -
- Qui? Mi domando chi sia stato tanto in vena
di avventure da accettare. -
- Ti assicuro che non è necessario essere
dell’umore giusto. Solo sufficientemente alto da premere un bottone, in modo da
fare agli imperiali che ci verranno dietro una bella sorpresa. - fece una pausa
– Non ne usciranno vivi, questo te lo assicuro. –
+
- Non potete aver organizzato quello che avete organizzato! - una voce di donna risuonò nel livello più
basso del sotterraneo della vecchia acciaieria abbandonata in cui si trovava.
Era una lombax dai bei capelli ramati e gli occhi chiari, di un rosa tenero.
Fissava costernata il simile dagli occhi azzurri e il pelo grigio chiaro che le
sorrideva innocentemente davanti, come se quella della donna fosse una reazione
esagerata a qualcosa di assolutamente innocuo.
- Detto così in effetti sembra terribile,
Madeleine. – asserì con aria colpevole – E mi scuso per avertelo fatto pensare.
Ma ti assicuro che non accadrà nulla che non sia stato premeditato. E
ovviamente… - lasciò intravedere un vago sorriso di incoraggiamento – Nessun
innocente ne soffrirà. – le parole di rassicurazione dell’uomo, per quanto
fossero suonate convincenti, non intaccarono minimamente le preoccupazioni
della lombax. Preoccupazioni che avevano ragione di rimanere al proprio posto.
- Non sto scherzando, Reginald. – Sbottò –
Qui rischiate ben più di essere catturati. Rischiate di far sprofondare mezza città! Avete la minima
idea del numero di vite innocenti che rischiate di stroncare?! – all’accusa il
lombax dal pelo grigio alzò prima le spalle, poi si fece serio e puntò uno
sguardo duro sulla donna: - Te l’ho detto, Kaden non verrà preso. E se ciò
malauguratamente avvenisse, venderà la sua pelliccia ad assai caro prezzo. –
sorrise – Inoltre, ti consiglio di non prendertela direttamente con lui visto
che l’idea è stata di Sacha. Conosci Sacha, ama fare le cose sia con discrezione
che in grande stile. E, credimi – alzò una mano per interrompere la lombax, che
sembrava ben decisa a smontare le sue convinzioni - …ben pochi sanno far
collimare le due cose come lo sa fare lui. –
Non si mostrò minimamente scoraggiato
dall’espressione furiosa di Madeleine quando continuò: - Ti assicuro che le
cose non possono che andare per il meglio. Quindi tranquillizzati, e attendi
con fiducia. -
+
Da quando Sindegar Heanp era uscito
dall’ufficio, una calma innaturale era calata nell’ampia stanza rettangolare
dal soffitto basso. Yerzek era rimasto immobile accanto ad un angolo della
scrivania, senza osare muoversi o fiatare, nonostante le spalle cominciassero a
fargli male a causa del lungo tempo passato a tenerle contratte e le zampe
protestassero per la forzata immobilità. Continuava pavidamente ad osservare Marcus
come in attesa di una condanna definitiva, il quale a sua volta continuava
tranquillamente ad andare avanti e indietro per l’ufficio. Marcus tuttavia
sembrava aver totalmente dimenticato la presenza del suo subordinato
nell’ufficio, perché le uniche cose che si era limitato a fare dall’uscita di
Heanp era diffondere un’altra serie di istruzioni ai soldati e riprendere la
sua passeggiata circolare per l’ufficio, con la testa bassa e gli occhi gialli
che vagavano distrattamente dal pavimento ai ritratti dei colonnelli che negli
anni precedenti avevano occupato quello stesso ufficio appesi al muro, e gli
scaffali carichi di documenti. Prese distrattamente nota del fatto che in quella
stanza, che ospitava da lungo tempo un solo occupante, non avesse foto o
dipinti che ritraessero civili. Si chiese se era una coincidenza, o se
l’occupante ufficiale di quel posto seguisse il protocollo militare alla
lettera, non lasciando nessuna traccia che possa far carpire al nemico i propri
punti deboli. Lasciò perdere l’ultima ipotesi: nessuno nell’esercito imperiale
era così pignolo da non lasciare nel proprio ufficio nemmeno una foto dei
propri cari. Il dettaglio tuttavia lo portò verso un altro pensiero.
- Credo – disse Marcus all’improvviso,
facendo sobbalzare Yerzek – Che qualcuno dovrà informare il colonnello Darkwood
di ciò che sta accadendo. – si fermò, puntando gli occhi color oro sul
teracnoide, uno strano cipiglio tra il serio e il divertito sul viso. Yerzek
non deglutì nemmeno quando si ritrovò a fissare quello sguardo, e sentì una
velenosa ondata di rabbia e paura investirlo: si era completamente dimenticato,
in quel susseguirsi di guai, del fatto che non era lui il responsabile
ufficiale della caserma, anzi.
- Non credo sarà contento... – continuò
lentamente Marcus, fissando attentamente il teracnoide e riprendendo la sua
passeggiata - …Ma questa è pur sempre la sua caserma, e il nostro Mastino deve
pur sempre sapere cosa succede nella sua Cuccia. Poverino: tanta fatica per
tenere il proprio territorio nell’ordine più perfetto, poi si allontana qualche
settimana ed ecco che le iene arrivano a devastare. Ahi, ahi, ahi. – Sorrise,
per nulla dispiaciuto al pensiero di come Darkwood potrebbe prendere la notizia
del fatto che il famoso Alister Azimuth sia stato clamorosamente catturato,
imprigionato e fuggito sul suo territorio, in sua assenza.
Yerzek sentì i muscoli delle dita contrarsi
dolorosamente, e si sforzò più che mai di mostrarsi impaurito e sottomesso: si
rendeva ben conto che Marcus si divertiva di fronte alla paura altrui, e
preferì lasciarlo fare: non voleva ingigantire l’ondata di guai che già vedeva
profilarsi all’orizzonte. Non osò immaginarsi la reazione del colonnello, anzi,
spinse il pensiero da parte: il peggio era già accaduto, l’essenziale ora era
prepararsi mentalmente a ciò che lo avrebbe seguito.
Yerzek batté un paio di volte gli occhi,
guardando con aria vagamente persa Marcus, mentre questi lo fissò con l’aria
interrogativa di chi avesse appena impartito un ordine e non capiva perché non
veniva eseguito alla lettera.
- Io… vado subito ad informare il colonnello,
signore. – Reagì infine il teracnoide – Non credo abbia ancora lasciato
Teracnos. Con permesso. – presentò il saluto, e si avviò a passi nervosi verso
la porta.
Non fece in tempo ad arrivare alla maniglia
che qualcuno, all’altra parte, bussò.
- Entrate. – sospirò Marcus. La porta si aprì
ed entrò un soldato dall’aria preoccupata che presentò il saluto prima di
parlare.
- Signore, sono stati rinvenuti dei
comunicatori portatili all’interno della caserma. – Comunicò, rigido. Yerzek, che si era fatto da
parte, deglutì nel vedere le pupille di Marcus contrarsi pericolosamente. Il
suo presentimento aleggiava in aria, pesante come un incudine.
- E allora? – proferì il cragmita, nella voce
nemmeno un’ombra del tono tranquillo che aveva mantenuto fino ad allora.
- Appartengono tutti alla caserma, ma sono
stati spostati in modo da essere difficili da individuare e… - Marcus alzò la
testa, e gli occhi dorati si strinsero in fessure pericolose – …Erano tutti
sintonizzati su onde radio sconosciute. –
- Quanti erano? – ringhiò Marcus con voce
bassa.
- La loro presenza è stata scoperta solo
pochi minuti fa. Per ora solo due. – disse il soldato con voce nervosa – Ma ne
stiamo cercando altri. Un gruppo di tecnici è stato incaricato di intercettare
la posizione dei comunicatori con cui si sono allacciati. –
- Bene. – Ringhiò Marcus distogliendo lo
sguardo e puntandolo verso le finestra, verso il cielo di piombo. – Spalancate
gli occhi. – disse – C’è qualche altro verme, qui, che crede che basti una
divisa da imperiale per garantirgli una gita di piacere nella caserma. Appena
ne trovate uno, trascinatelo qui. Faremo una gradevole discussione sulle
maniere da tenere in casa altrui. –
+
Dopo quello che era parso essere un infinito
lasso di tempo, anche il tratto delle fogne era finito. Kaden aveva
continuamente cambiato direzione, zigzagando apparentemente alla cieca, guardando
oltre ogni angolo come se si aspettasse di veder spuntare un mostro orribile,
ed infine era giunto ad un tombino da quale era uscito, permettendo al resto
della squadra di godersi nuovamente un’aria che non puzzasse in modo
irrespirabile. Erano usciti in quello che sembrava essere un vicolo cieco delle
Dark Alley, completamente deserto. Sacha aveva colto l’attimo di pausa per
montare il pesante silenziatore alla pistola ed allontanarsi di qualche metro,
per sbirciare fuori dal vicolo. Kaden fece mente locale: in quel preciso
istante si trovavano nella vecchia zona industriale, completamente disabitata,
se non si tiene conto di cani, barboni e criminali da due soldi che
abitualmente frequentano la zona. Quella notte, tuttavia, nessuno doveva incrociare
la loro strada.
- Nessuno. – disse Sacha, che si era
allontanato per controllare fino in fondo alla strada. Nencer fece una smorfia
preoccupata. Kaden lanciò uno sguardo ad Alister per accertarsi delle sue
condizioni: da un po’ di tempo aveva smesso di sussultare a causa di un
movimento troppo brusco. Era semisvenuto, e le sue condizioni sembravano
peggiori che mai.
- Respira ancora. – Commentò Tarx, leggendo
l’ansia sul volto del lombax biondo – E continuerà a farlo, anche se smetterai
di preoccuparti. -
Kaden annuì, distogliendo a malincuore lo
sguardo dal generale e cercando quello di Sacha – Coraggio, arriviamo a quel
benedetto Save Point prima che i
diversivi di Reginald smettano di collaborare. -
+
Nella camera di controllo della caserma, la
decina di tecnici incaricati di decodificare i messaggi inviati dai
comunicatori ritrovati misteriosamente fuori posto videro il volto di Marcus
congestionarsi, bloccato in un’espressione a metà tra un ringhio e un sorriso
forzato. Forse temendo ripercussioni a livello personale, il più coraggioso si
affrettò a cercare parole di rassicurazione e Yerzek finalmente si decise a
defilarsi per avvertire il colonnello Darkwood di ciò che sta accadendo nella
sua caserma, ma prima che qualcuno riuscisse a fare una mossa, Marcus sorrise,
di un sorriso così raggiante che i malcapitati testimoni temettero per la
sanità mentale del loro superiore.
- Continuate il vostro lavoro. – disse, il
tono di voce nuovamente calmo e leggero – e mettetemi in comunicazione con il
generale Sindegar Heanp. Sono sicuro che abbia un fonotrasmettitore con sé. -
+
Heanp finì col constatare che la squadra
mandata ad inseguire i ribelli giù per il tunnel era anche troppo.
Stretto.
Stretto, e costruito in fretta e furia. Le travi sono marce e le pareti più
instabili di quanto sembrano. O non sanno che rischiano di rimanere seppelliti
vivi o hanno più coraggio di quanto sembra.
Concluse che la costruzione di quel tunnel
doveva risalire alla grande guerra, ma dopo di essa è stato soggetto al
completo abbandono da parte della civiltà. Dal conflitto in poi, solo muffa,
parassiti, animali e intemperie dovevano essersi presi cura di quel posto.
Non aveva paura, ma un oscuro presentimento
gli diceva che la via di fuga degli evasori non era così sicura come credeva.
Pur essendo una razza inferiore, i lombax non
erano stupidi. Non lo erano affatto.
- …Com’è
il tempo laggiù? -. la voce nasale di Marcus rise all’orecchio del cragmita
attraverso il comunicatore. Heanp fece una smorfia: - Un po’ sotterraneo
signore. E anche parecchio umido direi, ho le cartilagini che scricchiolano
comenon mai. – sorrise nel sentire la
risata dell’altro.
- Mi
dispiace del vostro malessere. – commentò Marcus, tranquillo. – State
ancora inseguendo la selvaggina o ha già sfoderato gli artigli? –
- Purtroppo la selvaggina non è nemmeno in vista, signore. – disse Heanp. Rallentò
il passo, nel notare il tono insolitamente allegro del collega – O forse
l’avete già adocchiata con i vostri cannocchiali? –
- Non
è possibile inseguire qualcosa quando sei disarmato e chiuso in una stanza
lontano dal terreno di caccia ma sapete… pur chiuso qui, ho trovato una traccia
per voi, signor generale. – Heanp ridusse gli occhi a due fessure e si
fermò, premendosi il fonotrasmettitore all’orecchio. Riconosceva quel tono
scherzoso. Marcus era arrabbiato.
- Illuminatemi. – disse.
- La selvaggina ha ben pensato di prenderci
in giro, signor generale. Uno scherzo assai stupido e di pessimo gusto, direi,
ma suppongo di non poter pretendere alcunché da un gruppo di zotici che credono
di poter dare il via a qualcosa che nemmeno immaginano. Lo scherzo è proprio
quella via di fuga indicataci dal maggiore Ratchet, signor generale. –
- Se volete insinuare che il maggiore ci
abbia preso in giro… -
- Oh,
su quello ci accerteremo più tardi. – Soffiò Marcus – Ma i ribelli indubbiamente…
-
- Signore? – Alcuni soldati si erano fermati,
e guardavano interrogativi il cragmita. Heanp tuttavia non fece cenno di averli
sentiti. Immaginava quello che stava per dire Marcus dall’altra parte del
fonotrasmettitore, sebbene non riuscisse a formularlo a parole, lo intuiva.
- Sono
stati ritrovati cinque comunicatori accesi e nascosti in giro per la caserma,
ognuno sintonizzato su un’onda diversa. Alcuni erano stati sistemati a mo’ di
diversivi, ma altri… beh, svolgevano il loro bel lavoro. –
- Marcus, cosa- - l’altro lo interruppe.
- Vi
consiglio di tornare indietro di gran carriera, signor generale. – Sibilò
il cragmita, una chiara nota rabbiosa nella voce – Quella che è una via di fuga per i ribelli, è una trappola per gli
imperiali. -
La linea si interruppe, sostituita da un
fruscio.
All’improvviso Heanp udì uno strano
scricchiolio e per un disperato istante credette che provenisse dal
trasmettitore. Ma lo scricchiolio si tramutò rapidamente in un rombo assordante,
così forte da scuotere il terreno.
Poi, delle urla disperate si mescolarono al
rombo, costringendo il cragmita ad alzare lo sguardo.
In
quell’unico istante in cui lo vide, non riuscì a credere ai propri occhi.
Un’enorme massa nera precipitava verso di
lui, travolgendo tutto.
Non ebbe il tempo di capire cosa fosse, che
travolse anche lui.
+
Una grande scossa di terremoto sorprese
Ratchet mentre risaliva le scale per tornare in caserma, talmente forte da
costringerlo ad appoggiarsi al muro per non cadere. Quando terminò, il lombax
rimase immobile ancora per un po’, incerto sul da farsi, la divisa un po’ ingrigita
dalla polvere che si era staccata dalla parete. Alzò lo sguardo verso il soffitto,
in cerca di crepe, ma non ne trovò: il carcere doveva essere una struttura
molto solida.
Che
cosa è stato?...
Incerto sul da farsi, ma sicuro che quella
scossa non fosse stato un fenomeno naturale, si affrettò a raggiungere i
cragmiti.
+
Nel tunnel sotterraneo, il fonotrasmettitore
di Heanp si riagganciò nuovamente alla linea della caserma e riprese a
gracchiare nel silenzio di tomba rotto solo dal rumore di qualche ciottolo
caduto.
- …Suppongo
quella fosse la colonna sonora del gran finale, eh, generale? –
Per diversi secondi, l’unica risposta che
Marcus ebbe fu il silenzio assoluto, poi…
- Dei gran zotici, dite voi. Di pessimo
gusto, dite voi. – gracchiò Heanp, riemergendo dalla montagnola di terra,
detriti e polvere che l’aveva seppellito, cercando di togliersi quanto più sporco
possibile dalla facciacon una mano
sola, l’altra impegnata a reggere il trasmettitore, semidistrutto da un sasso
che l’aveva colpito.
- Perché,
non siete forse d’accordo con me? – chiese Marcus, con una nota divertita
nella voce. Heanp sbuffò e prese a togliere la terra anche dalla divisa nera.
Nel frattempo, alcuni dei soldati che erano con lui emersero dai detriti,
alcuni confusi, altri decisamente spaventati, tutti sporchi e impolverati. Il
cragmita gli riservò non più di un’occhiata: sembravano tutti vivi e, a parte
qualche graffio e contusione, incolumi.
- Oh, no, no. – disse Heanp. Il
quell’istante, uno dei soldati urlò, indicando qualcosa sopra le loro teste. Il
cragmita alzò la testama, a differenza
delle esclamazioni e delle facce sorprese degli altri, la sua espressione
irritata non cambiò di fronte al singolare spettacolo che gli si parò davanti.
Pochi metri sopra di loro aleggiava una
spessa nebbia cerulea, dai riflessi quasi argentati, che si espandeva
lentamente a tutto il soffitto del tunnel. E, nella nebbia, grossi, neri,
pesanti massi galleggiavano pigramente, come grotteschi palloncini spigolosi.
- Non potrei mai essere in disaccordo con un
affermazione del genere, Marcus. Credevo i ribelli avessero studiato un modo
più elegante di fuggire. – disse Heanp, rabbuiandosi nello studiare la nebbia
azzurrina.
- E’ davvero
uno scherzo di cattivo gusto. –
Dall’altra parte del trasmettitore, dopo un
istante di pausa, Marcus scoppiò a ridere.
- …E non credo sia finito qui. – Ghignò il
cragmita – Non abbiamo tenuto conto dei giornali,
mio caro. Domani, quando si verrà a sapere del putiferio che è scoppiato
stanotte, quei gazzettini da due soldi avranno da sbizzarrirsi. -
Ed infine mi sono
decisaa
mettere su questo capitolo. Ovviamente, continuo ad aver dubbi, né è la roba
epica che mi aspettavo.
Non
ero sicura se era il caso di chiudere il capitolo con il commento di Sindy o no, perché in realtà volevo farvi sapere di come
Alister alla fine si era messo in salvo, ma non sono riuscita a trovare un modo
per collegare le due cose, e poi non mi suonava tanto bene come finale.
Comunque
i ribelli alla fine sono fuggiti e sono riusciti a salvarsi la coda. Non
rivedrete Alister in scena per un po’, o almeno credo. Sicuramente, non
all’inizio del prossimo capitolo.
Lasciatemi
un commentino se il capitolo vi è piaciuto o se avete qualcosa da dire, sarò
molto felice di avere un po’ di feedback. ^^