Vivien Foster

di HarleyQ_91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sei Anni Dopo ***
Capitolo 3: *** Aggressione ***
Capitolo 4: *** Minaccia Velata ***
Capitolo 5: *** Adrenalina ***
Capitolo 6: *** Guerra Aperta ***
Capitolo 7: *** Segreto Svelato ***
Capitolo 8: *** I Mercenari ***
Capitolo 9: *** La Congiura ***
Capitolo 10: *** Il Mostro e La Bambina ***
Capitolo 11: *** Tradimento ***
Capitolo 12: *** Amico Mio ***
Capitolo 13: *** Il Forestiero ***
Capitolo 14: *** L'Inaspettato ***
Capitolo 15: *** Da Che Parte Stare ***
Capitolo 16: *** Un Sentimento Complicato ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Questa storia è ambientata nella prima metà del '600, in Inghilterra. Un periodo tumultuoso per il popolo inglese, la Corona suscita malcontento tra la plebe come tra i nobili e Vivien - contessa decaduta per degli sfortunati eventi - si ritroverà schiacciata tra queste due fazioni.
A volte la sua mente ragiona come se avesse ancora un titolo, dimenticandosi di essere poco più di una serva, e sarà proprio questo suo temperamento ribelle a suscitare attenzione nel conte Aaron Turner, uomo borioso e indecifrabile, lussurioso e schivo, che nasconde un segreto pericoloso.

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Prologo


Un urlo agghiacciante si librò per il corridoi di villa Foster. Non si era capito bene chi lo avesse emesso, ma non aveva importanza, bastò quell’unico suono nel buio della notte ad allarmare tutta la servitù e i padroni.
Una donna di mezza età, con i capelli brizzolati raccolti in malo modo in una cipolla che aveva tentato di fare mentre scendeva affannosamente le scale, spalancò la porta della camera da letto della padroncina, che dormiva ancora beata nonostante il tumulto che stava proliferando in quella casa.
In circostanze ordinarie non si sarebbe mai lasciata vedere in sottoveste e scompigliata dalla propria padrona, ma non aveva avuto il tempo per vestirsi. Un minuto di troppo per allacciarsi il bustino e sarebbe potuto essere troppo tardi.
“Signorina Vivien, svegliatevi”. Esclamò allarmata la donna, prendendosi il permesso di scuotere la spalla della ragazza che ancora giaceva sotto le lenzuola.
“Signorina, dovete subito uscire di casa, la sala ovest è in fiamme”.
Come se si fosse appena svegliata da un incubo, la ragazza sussultò ed aprì gli occhi. Si mise a sedere sul materasso e prese la sua serva per entrambe le braccia, come se da sola non riuscisse a sostenersi.
“Clelia, i miei genitori?”
“Bisogna uscire di qui, signorina, subito!” La donna non pensò più alle buone maniere – quando la paura prendeva il sopravvento difficilmente si teneva conto delle riverenze – e trascinò la sua padrona fuori dal letto, trascinandola per un braccio.
I capelli castani della ragazza, di solito sempre così pettinati e composti in qualche pettinatura alla moda, erano ora un cespuglio arruffato sopra quella testa troppo pallida per una quindicenne in salute. Mai una signorina nobile si sarebbe permessa di uscire di casa in quelle condizioni, eppure Clelia riuscì a trascinare fuori dalle mura domestiche la piccola Vivien persino senza scarpe.
E lo spettacolo che si presentò davanti alla giovane nobile fu spaventoso.
Lingue di fuoco che spuntavano dalle finestre come se fossero esigenti di aria da respirare, scintille dorate che cadevano sul giardino antistante la villa come pioggia incandescente, urla strazianti di una donna.
“MADRE!” Urlò Vivien, ormai fuori dal cancello della villa.
La stanza dei genitori era nell’ala ovest, affianco alla biblioteca, il punto da cui il fuoco aveva cominciato a divampare. Lì sarebbe dovuta essere anche la sua stanza, ma per un caso fortuito – due settimane prima era crollato un muro – si era trasferita momentaneamente vicino alla camera di Clelia, la sua balia, nell’ala dedita alla servitù.
Un altro urlo fece sobbalzare la piccola nobile, che portandosi entrambe le mani davanti alla bocca, cominciò disperata a piangere. Sarebbe anche di corsa rientrata in casa, se solo Clelia non l’avesse trattenuta.
“Cosa volete fare? Ammazzarvi, forse?”
“Ma mia madre… e mio padre…” La giovane aveva la voce strozzata dal pianto e il cuore lacerato dal dolore. Vedere i proprio genitori morire senza poter far nulla era peggio che morire con loro. Voleva vedere sua madre, quella donna così fiera che, benché non le avesse mai dato molte dimostrazioni d’affetto, l’aveva cresciuta con principi di orgoglio e coraggio, qualità che ad una dama non devono mai mancare. E suo padre, uomo a volte così tenero da risultare debole, ma che aveva amato sua figlia con tutto se stesso e non le aveva mai fatto mancare niente.
Vivien non li avrebbe più rivisti, non vivi per lo meno, e la cosa non riusciva proprio ad accettarla.
Una parte della villa crollò e le macerie seppellirono anche l’ultimo barlume di speranza che la giovane nobile riserbava nel suo cuore. Speranza che ciò che le stava succedendo davanti agli occhi fosse solo un sogno, speranza che, voltandosi all’indietro, non avrebbe trovato i suoi servi in tenuta da notte e terrorizzati, ma le braccia di suo padre ad accoglierla come faceva quando era piccola.
Speranza che quella notte non fosse mai accaduta.
Vivien Foster in quell’incendio aveva perso tutto, la sua casa, la sua famiglia, i suoi punti di riferimento e ciò che lei vedeva come suo futuro. Per quanto lei fosse ancora viva, una parte del suo essere era rimasto tra quelle fiamme ed era bruciato con loro.
A soli quindici anni di esistenza Vivien Foster aveva già assaporato cosa fosse la disperazione.


 

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Salve a tutti!^^
Questa è la seconda storia che pubblico su EFP!
A dire il vero l'avevo sommersa nel cassetto dei ricordi e l'ho riscoperta solo qualche giorno fa, quindi scusate se non è scritta benissimo!
(ammetto che per una perfezionista come me è una bella sconfitta! Ma ho tentato di aggiustarla, per quanto fosse possibile).
Spero che mi facciate sapere che cosa ne pensate!^^
Un bacio

*HarleyQ_91*

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Capitolo 2
*** Sei Anni Dopo ***


Capitolo 1
- Sei anni dopo -


Il Red Lion, così si chiamava la locanda più frequentata a Landburg, una cittadina a qualche miglio da Londra. Sebbene la clientela variasse dal più misero poveraccio al più ricco dei nobili, la reputazione del posto lasciava assai a desiderare.
I tavoli di legno sporchi di cibo molto spesso facevano da palcoscenico per qualche esibizione erotica desiderata da qualche nobile frustrato, oppure divenivano tavoli da gioco per i poveri più speranzosi di fare fortuna. La signora Shepherd, la padrona, metteva a disposizione le donne più sensuali del paese per garantire un incontro molto ravvicinato nelle stanze del piano superiore e si faceva pagare profumatamente. Per non parlare poi del modo in cui trattava qui pochi sciagurati che si ritrovava come servitori, non c’era giorno che qualcuno non si buscasse una qualche bastonata.
Vivien non poteva credere che finalmente avrebbe lasciato quel tugurio che per cinque anni – anche se a lei sembrarono un’eternità – l’aveva vista costretta a sottomettersi agli ordini di una vecchia megera, pronta a tutto pur di guadagnare soldi.
Con il cuore in gola mise i suoi pochi effetti personali nella borsa ed uscì dalla locanda. La signora Shepherd non l’aveva pagata quanto avrebbe dovuto, ma Vivien non se la sentiva proprio di mettersi a discutere, voleva solo andare via, lasciare quel posto dimenticato da Dio e non metterci più piede.
“Così te ne vai sul serio”.
La ragazza si bloccò sentendo quella voce alle sue spalle e sospirò. Ecco, forse una cosa che avrebbe rimpianto di quel posto c’era, e il suo nome era Thomas Grey.
Vivien si voltò ed accennò un leggero sorriso, lo stesso che Thomas tante volte le aveva dedicato, consolandola nei giorni difficili passati alla locanda. Avevano sempre cercato di sostenersi a vicenda e il ragazzo si era preso non poche bastonate per difendere lei, quando qualche cliente cercava di metterle le mani addosso. Vivien ora però lo stava ripagando nel peggiore dei modi, lo avrebbe lasciato solo.
“Tom, pensavo che non volessi salutarmi”. Gli disse, facendo qualche passo verso di lui.
“E perché mai? Di’ piuttosto che avevi paura che ti convincessi a rimanere”.
La ragazza sorrise, le fece piacere vedere come il suo addio non gli avesse tolto il senso dell’umorismo.
“Credo che nemmeno se me lo ordinasse Dio tornerei in un posto come questo”.
Thomas scrollò le spalle e accarezzò una guancia alla ragazza. “Sei stata fortunata, Viv, sono contento per te”.
Lei gli prese la mano tra le sue e la strinse con la decisione di chi credeva fermamente in ciò che diceva.
“Verrò a trovarti, Tom, appena il mio nuovo lavoro me lo permetterà. E, se un giorno sarò ricca abbastanza, tornerò per riscattarti”.
Il ragazzo fece una piccola risata, più per l’imbarazzo che per divertimento, e scosse la testa. “Tu sogni, piccola Viv, credi ancora che la vita sia facile come quando eri nobile”.
“Ti sbagli”. Lo contraddisse subito lei, con aria risoluta. “Comprendo bene quanto sia dura vivere da poveri, lo so da ben sei anni”.
Il ragazzo abbassò lo sguardo. “Hai ragione, perdonami”.
Vivien guardò il suo amico con compassione. Tom ragionava con la semplicità che solo uno sguattero poteva avere, non c’era cattiveria nelle sue parole e non ce ne sarebbe mai stata. Aveva l’abitudine – o vizio, come molti lo chiamavano – di dire sempre ciò che pensava, mettendosi così irrimediabilmente nei guai. Se la signora Shepherd ancora non lo aveva bastonato a morte era solo perché aveva bisogno delle sue braccia forti e sane per mandare avanti la locanda.
“Adesso devo proprio andare”. Disse lei, accarezzandogli il viso. “Mi raccomando, fai il bravo”.
Thomas le baciò il palmo della mano e fece un leggero inchino - salutarla come se fosse stata ancora una nobile era ormai un’abitudine – dopodiché rientrò nella locanda lasciandole come ultima immagine di lui il suo tenero sorriso che sembrava volerle augurare buona fortuna.
E’ tempo di cominciare una nuova vita.
Vivien si diresse con passo svelto verso il centro della cittadina e camminò ancora per parecchie centinaia di metri, diretta verso casa. L’aria fresca della sera appena inoltrata le passava attraverso i capelli castani un po’ scompigliati, facendola sentire finalmente libera. Il lavoro che le era stato offerto poteva davvero cambiarle la vita, e non solo la sua, anche quella di Clelia.
La povera donna, costretta a stare sempre seduta a causa della gotta, non poteva più prestare i suoi servigi come un tempo e Vivien ora le stava accanto e se ne prendeva cura, esattamente come Clelia aveva fatto con lei durante gli anni passati a villa Foster.
La sciagura capitata ai suoi genitori quella terribile notte, poi tutti i debiti da pagare, la perdita del titolo nobiliare, Vivien era riuscita ad andare avanti solo perché Clelia non l’aveva mai lasciata da sola – come gli altri componenti della servitù invece avevano fatto – e le aveva insegnato come una donna dovesse rimboccarsi le maniche se voleva andare avanti in un mondo così spietato e crudele con chi non aveva di che vivere.
Ora però tutte le loro preghiere erano state ascoltate. Vivien aveva un nuovo lavoro, molto più rispettabile e ben pagato e che l’avrebbe messa in condizione di poter migliorare le condizioni della sua povera domestica.
Giunta a casa – una dimora ricavata da una vecchia stalla – bussò all’uscio ed aprì la porta di legno malandato.
“Posso entrare?”
“Oh, cara, sei qui”.
Clelia era impegnata a sbucciare le patate, mentre teneva i piedi a mollo in un catino di rame. L’acqua calda era l’unico sollievo per quei piedi malridotti.
“La carrozza che deve venire a prendermi dovrebbe passare da un momento all’altro”. Annunciò la ragazza, mettendosi ad aiutare la sua amica. “I conti Turner li trattano bene i loro servitori”.
“Ancora non riesco a crederci”. Esclamò la donna. “Tu che vieni presa come dama di compagnia per la contessina. Dio ha ascoltato le mie preghiere”.
Vivien le prese una mano e gliela strinse. “Purtroppo però non vivrò più qui con te”.
“E credi davvero che la cosa mi impensierisca? So badare a me stessa, mia cara, l’ho sempre fatto”.
La ragazza ridacchiò. Clelia e il suo dannato orgoglio. “Non ho dubbi. Comunque ti manderò dei soldi ogni mese e, quando potrò, verrò a trovarti”.
“Non ti devi preoccupare per me, pensa solo a fare un buon lavoro”.
Il nitrito di un cavallo fece da annuncio per la carrozza che si era fermata davanti alla loro casa. Vivien prese la sua unica, umile borsa ed abbracciò Clelia. Non versò una lacrima – ormai da quella notte di sei anni prima non era più riuscita a piangere – e si diresse fuori, dove trovò un piccolo cocchio, di certo non quello che i conti utilizzavano per spostarsi, e vi salì sopra.
Il cuore le batteva così forte che sembrava volesse uscire dal petto. Da quando la sua casa era finita in fiamme, Vivien non aveva più messo piede in un palazzo di nobili e la cosa la elettrizzava non poco. Pensò ad un modo adeguato per annunciarsi, non troppo sfacciato, ma nemmeno troppo sottomesso. Andava lì per fare la dama di compagnia, non una semplice cameriera.
La carrozza si fermò dopo circa mezz’ora di viaggio. Nessun cocchiere venne ad aprirle lo sportello, ormai era fin troppo abituata ai modi che si utilizzavano per i servi, così scese da sola, senza alcuna mano che l’aiutasse a scendere o qualche maggiordomo che l’accogliesse con un inchino. Tutte quelle cerimonie appartenevano al passato.
Vivien alzò lo sguardo sul cancello nero in ferro battuto che le si presentò davanti e per qualche secondo trattenne il respiro. Ricordava bene villa Forter, ogni centimetro, persino ogni mattone bruciato dal fuoco, ma non aveva nulla a che vedere con il palazzo che le si presentava di fronte.
Il cocchiere le fece strada nei giardini antistanti villa Turner, addobbati con siepi tagliate in modo perfettamente simmetrico e fontane in marmo bianco rappresentanti divinità antiche. Ogni filo d’erba, ogni ciottolo che veniva calpestato sembravano osannare lo sfarzo e la nobiltà di quella casa.
Superata la scalinata che preannunciava l’ingresso, una ragazza dagli abiti umili congedò il cocchiere che tornò alla sua carrozza e fece strada a Vivien dentro il palazzo.
“La signora ti attende nella biblioteca”.
Vivien annuì piuttosto distrattamente. Il suo sguardo era rapito dalla bellezza dei quadri appesi alle pareti, uno in particolare attirò la sua attenzione. Doveva trattarsi della famiglia Turner al completo, la contessa seduta su una sedia di velluto azzurro, con una bambina in braccio, il conte accanto a lei che le teneva la mano e poi un altro ragazzo. Vivien avrebbe voluto avvicinarsi e guardare con più attenzione, ma la sua accompagnatrice la trascinò dalla parte opposta del salone, in una stanzetta nascosta dalla scalinata principale.
“Signora contessa”. La giovane serva fece un leggero inchino, dopodiché lasciò spazio a Vivien che poté fare il suo ingresso nella biblioteca. “E’ arrivata la dama di compagnia”.
“Bene, Meg, puoi andare”.
La serva, Meg, chinò leggermente la testa e si voltò per andarsene. Prima di farlo però lanciò un’occhiata alla nuova arrivata, come se avesse voluto avvertirla di qualcosa. Solo che Vivien non colse il messaggio.
“Prego, prego, vieni avanti”. La invitò la contessa.
Era come la ragazza l’aveva vista poco prima nel ritratto, giusto i capelli neri erano strisciati un po’ di bianco e probabilmente era stata un’accortezza dell’autore alleggerire quelle occhiaie, ma per il resto la contessa Turner era un’icona di eleganza e bellezza che poteva contare poche eguali in tutta l’Inghilterra.
La donna si alzò dalla sedia e posò il libro che stava leggendo sul mobile sopra il caminetto. Squadrò Vivien da capo a piedi e la ragazza si sentì come una preda il cui cacciatore assaporava gli attimi precedenti l’uccisione. Quando poi gli occhi verdi della contessa di posarono sul suo volto, non lo lasciarono più, nemmeno mentre si incamminava verso di lei con le mani giunte in grembo.
“Dunque, Vilian”. Incominciò la contessa.
“Veramente mi chiamo…”
“Non mi pare di averti dato il permesso di parlare”.
Vivien si morse il labbro inferiore ed abbassò lo sguardo. Forse era a questo che alludeva lo sguardo lanciato all’ultimo momento dalla serva. La contessa aveva un pessimo carattere.
“Allora, voglio sia ben chiaro che non sono solita raccogliere i miei servitori per strada”. Continuò la donna, cominciando a girare intorno alla nuova arrivata con passo regale e mento all’insù. “Se sei qui è solo perché il mio stalliere ti ha notata. A quanto pare sai sia leggere che scrivere”.
Vivien annuì. Essere stata una nobile almeno le aveva permesso di studiare, anche se solo per pochi anni.
“E’ così raro trovare dei servi ben istruiti, oggigiorno. Desidero che mia figlia conversi con gente che conosca un po’ di cultura e che alleni la mente con giuste letture”.
“Come desiderate, signora”. Azzardò Vivien, sperando di non essere fustigata per aver parlato senza permesso.
La contessa però sembrò non badare all’indisciplina della sua nuova serva e continuò col suo discorso. “Il fatto che ti abbia assunto come dama di compagnia per la contessina, non ti esonera dagli altri doveri di serva, sono stata chiara?”
“Chiarissima, signora”.
Ecco a cosa era dovuta tutta quella ramanzina. La contessa le stava dicendo che, sebbene sarebbe stata molto a contatto con la contessina, il suo ruolo in quella casa rimaneva comunque quello di una cameriera, doveva lavare i piatti, le lenzuola, cucinare, riordinare.
Poco cambiava da ciò che faceva alla locanda Red Lion, con la differenza che almeno non ci sarebbe stato nessun cliente arrapato ad importunarla.
“Hai delle domande?” Vivien stette per parlare, ma la contessa non gliene lasciò il tempo. “Bene, allora credo che per ora puoi ritirarti. Meg ti indicherà la tua stanza”.
Vivien interpretò la voltata di spalle della contessa come un invito – neanche troppo celato – a lasciare la biblioteca. La ragazza obbedì, ma quando tornò nel salone d’ingresso non vide nessuna Meg a farle da guida.
Beh, come inizio non è male. Pensò ironica, stringendo ancora tra le mani la sua borsa da viaggio. Sperava solo che la contessina non fosse come sua madre, altrimenti temeva di dover rimpiangere il lavoro alla locanda.
Fece qualche passo verso la scalinata centrale, ammirando i gradini di marmo e il corrimano in legno. In quella casa sembrava tutto così immacolato che Vivien aveva paura persino a sfiorare i mobili. A villa Foster era diverso, la ragazza non ricordava un giorno in cui ci fosse stato tutto quel silenzio in casa sua. I servi la rispettavano, come era giusto, ma non avevano paura di lei. I conti Turner sembravano invece proprio voler ricercare il timore nei loro sottoposti, farli sentire quasi insignificanti, o almeno così aveva lasciato intendere la padrona.
“Oh, scusami, aspetti da molto?”
Meg entrò in salotto strofinandosi le mani sul grembiule e aggiustandosi la crocchia di capelli biondi in testa. “C’è stato un problema alle cucine e mi sono dovuta allontanare. Devo mostrarti la tua stanza, vieni”.
Sembrava simpatica. Alla locanda non era riuscita a stringere un buon rapporto con i suoi colleghi, a parte Thomas. Gli uomini la vedevano solo come potenziale compagna sotto le lenzuola, mentre le donne… beh, le donne non frequentavano quel genere di posti e se lo facevano era perché dovevano andare ad occupare le stanze da letto al piano superiore.
“La padrona ti ha detto di cosa devi occuparti, ehm… qual è il tuo nome?”
“Vivien Foster”.
Meg aprì una porta che portava ad un lungo corridoio. Lo sfarzo delle pareti stava cominciando a diminuire, si entrava nella zona della servitù. Nessuno agghindava le stanze dei dipendenti, tanto nessun nobile si sarebbe mai sognato di visitarle.
“Allora, la camera della contessina Alyssa si trova al primo piano”. Dispose Meg, mentre apriva l’ennesima porta da quando avevano cominciato a camminare. “Lei e sua madre fanno sempre colazione insieme, alle sette in punto, il conte invece si trova in viaggio d’affari, non sappiamo esattamente quando rientrerà. È un uomo molto occupato, sai? ”
“E l’altro ragazzo?”
La serva si voltò verso Vivien, crucciando la fronte. “Quale ragazzo?”
“Quello del dipinto nel salotto. C’era un’altra persona oltre al conte, alla contessa e alla contessina”.
La bionda si strofinò nervosamente le mani ed abbassò lo sguardo. “Beh, il conte Aaron non ha orari. Va e viene da questa casa quando vuole, perciò non preoccuparti per lui”.
A Vivien non sfuggì l’improvviso imbarazzo che colpì la sua guida nel parlare del suo padrone. Che cosa aveva di così temibile questo conte Aaron?
Finalmente Meg si fermò davanti ad una porta di legno e sorrise alla sua nuova compagna di lavoro. “Ecco, alloggerai qui, accanto alla mia stanza. La sveglia è alle cinque e mezza e alle sei dobbiamo già prendere servizio. Sul letto ti ho già messo il cambio per domani mattina”.
Vivien aprì l’uscio della sua camera e non rimase affatto delusa da ciò che trovò al suo interno. Non che ci fosse un letto a baldacchino con tende in seta, ma quel materasso sbrindellato era di certo più comodo del pagliericcio su cui si era addormentata tutte le notti da sei anni a quella parte.
“Beh, vado a finire di sistemare le ultime cose in cucina”. Concluse Meg.
“Posso dare una mano?”
“No, tu coricati pure, domani inizierai a lavorare come si deve”. La ragazza si chiuse la porta alle spalle, lasciando Vivien da sola in quella fredda stanza. Passati due secondi però la porta si riaprì e di nuovo la testa di Meg fece capolino, con un dolce sorriso stampato sul volto.
“A proposito, benvenuta a Villa Turner, Vivien Foster”.


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Ho pensato di pubblicare anche il primo capitolo, perché il prologo non dà un'idea presisa della storia.
Certo, è tutto ancora da scoprire, ma mi sembrava giusto chiarirvi un po' le cose, in modo tale da comprendere meglio il senso del racconto!
Spero di avervi incuriosito almeno un pochino!^^
Un bacione

*HarleyQ_91*

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Capitolo 3
*** Aggressione ***


Ringrazio da morire JennyKim che mi ha consigliato di mettere una copertina alla mia storia.
E la ringrazio anche per la stupenda immagine che ha modificato...
(da quanto mi ha assicurato, ha detto che ne sta preparando altre, non vedo l'ora di vederle!^^)
- sono lusingata -

Intanto inauguro questa mettendola come copertina del capitolo 2!^^
Buona Lettura!



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Capitolo 2
- Aggressione –

  Quella era una notte senza luna, la stanza era così buia che non potevano distinguersi nemmeno i bordi dei mobili, non che ce ne fossero molti, a dire il vero, un comodino e uno scaffale per gli abiti erano più che sufficienti per la stanza di una serva.
  Vivien non sapeva se dovesse dare la colpa al materasso scomodo, o all’agitazione che provava per ciò che sarebbe accaduto il giorno seguente, sapeva solo che da quando si era coricata non faceva altro che osservare quel buio incessante, senza possibilità di addormentarsi.
  Pensava a Clelia, a come quella povera donna doveva sentirsi sola ora che non c’era più lei a tenerle compagnia. A come dovesse soffrire ogni volta per alzarsi a prendere qualcosa che le serviva, con quei poveri piedi malati. Davvero andava bene così? Vivien aveva accettato quel lavoro perché era pagato meglio e non doveva più sottostare allo schifo del Red Lion, ma se il prezzo da pagare era la solitudine di Clelia, allora non era più tanto certa della sua scelta.
  La ragazza si alzò a sedere sul letto e scosse la testa. Non era da lei abbattersi così, quel lavoro era la manna dal cielo che aspettava da tempo – da sei lunghi anni – ed era certa che se avesse rinunciato, la stessa Clelia non l’avrebbe più guardata in faccia.
  Doveva calmarsi. Forse bere un po’ d’acqua l’avrebbe aiutata.
  Dopo qualche tentativo a vuoto nel buio, finalmente trovò il moccolo della candela sul comodino, con affianco i fiammiferi, finalmente fece un po’ di luce e poté scendere dal letto. Con solo la veste da notte e i piedi nudi si avviò per il corridoio, attraversando le altre stanze della servitù. Fin da piccola aveva sempre avuto un buon senso dell’orientamento, perciò ricordò bene come si giungeva al salotto principale.
  Bene, ora però da che parte sarà la cucina?
  Tenendo la candela alta alla linea del volto, si guardò attorno, cercando una porta che conducesse in una qualche sala da pranzo. L’alone di luce però andò ad infrangersi proprio su quel quadro che solo poche ore prima era stato oggetto della sua attenzione. Vivien sapeva di stare commettendo un’imprudenza – coglierla mentre curiosava non era il modo migliore di fare una buona prima impressione in quella casa – ma fu più forte di lei. Si avvicinò al dipinto e sollevò la candela per illuminarlo meglio.
  Avevano tutti un’espressione così seria i conti Turner, persino la piccola Alyssa, che avrà avuto circa cinque anni, non sembrava godere di quella gioia e spensieratezza tipica della sua età.
  E poi c’era lui, quel giovanotto che non era riuscita ad osservare bene qualche ora prima. Ora, col mozzicone di candela a qualche centimetro dalla tela, fece luce sul suo volto, illuminandone anche i più piccoli particolari.
  Il conte Aaron Turner.
  Doveva essere lui. Il viso ancora fanciullesco già presentava qualche traccia di maturità, la posizione composta con le mani dietro la schiena, le labbra serrate e gli occhi seri, intensi, quasi glaciali. Doveva avere all’incirca sedici, diciassette anni al massimo.
  Una folata improvvisa di vento fece rabbrividire la ragazza lungo tutta la schiena e spense la candela. I capelli castani sciolti lungo le spalle le si arruffarono leggermente e dovette tenere la sottoveste per evitare che si alzasse.
  Da dove veniva tutta quella corrente d’aria? Ogni porta e finestra veniva sbarrata prima che l’ultimo servitore andasse a dormire, o almeno nella sua vecchia casa si faceva così.
  Un improvviso rumore metallico la fece sobbalzare, seguirono poi dei borbottii. Prese immediatamente un altro fiammifero – se li era portati dietro per sicurezza – e riaccese la candela. Per prima cosa cercò qualcosa con cui difendersi, un ombrello abbandonato accanto il portone d’ingresso poteva andare bene, e si avviò verso i luogo da cui provenivano i rumori.
  Se si fosse trattato di un ladro avrebbe di certo urlato, qualcuno sarebbe corso ad aiutarla.
  Pensandoci bene, quello di catturare un malvivente poteva essere un buon modo per fare una bella impressione alla contessa e aggiudicarsi fin da subito la sua fiducia.
  Vivien aprì piano la porta di legno intagliato che si trovava accanto all’ingresso e si ritrovò nella sala da pranzo. La luce della candela non illuminava molto, ma abbastanza da far vedere alla ragazza la maestosità del camino, alto quanto lei, e l’eleganza del tavolo, decorato con cesti di fiori e frutta.
  Un altro rumore, un altro borbottio. Provenivano da dietro una porta che si trovava all’angolo della stanza. Vivien attese con le spalle attaccate al muro, accanto all’uscio. Se l’intruso fosse uscito da lì, l’avrebbe colpito senza lasciargli possibilità di difendersi.
  Sentì dei passi dirigersi verso di lei, decise allora di spegnere la candela e stringere bene tra le mani l’ombrello. Quel ladro non aveva scampo.
  La porta si aprì e una sagoma nera fece il suo ingresso nella sala da pranzo. Vivien non perse tempo, con tutta la forza che aveva nelle braccia, colpì lo sconosciuto in testa, sulla schiena e poi infine dietro le ginocchia – come le aveva insegnato suo padre per l’autodifesa – e sentì un tonfo sordo.
  La ragazza era fiera di sé. L’intruso era caduto a terra e, dai lamenti che emetteva, era piuttosto dolorante.
  “Chi cazzo c’è?” Esclamò lo sconosciuto, alquanto irritato, dopodiché emise due colpi di tosse. “Porca puttana, che male”.
  Vivien accese di nuovo la candela per vedere in faccia quel brigante, almeno se per qualche sfortuna fosse riuscito a scappare avrebbe sempre potuto riconoscerlo, appena la fiamma cominciò ad ardere ed illuminò il corpo dello sconosciuto però, la ragazza non rimase compiaciuta quanto avrebbe desiderato.
  “E tu chi cazzo sei?” Esclamò l’uomo.
  Aveva abiti nobili, anche se piuttosto mal ridotti, e i capelli arruffati non le permettevano di vederlo bene in viso. Lo sconosciuto stava cercando malamente di rimettersi in piedi, ma a quanto pareva era troppo ubriaco per tirarsi su.
  Vivien si accostò subito a lui, cercando di aiutarlo. Maledizione, aveva colpito un nobile, era certa che se la contessa lo fosse venuto a sapere non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
  L’uomo afferrò il polso alla ragazza, che istintivamente lasciò cadere l’ombrello, e la trascinò a terra, di fianco a lui.
  “Ho chiesto chi cazzo sei!” Ripeté il nobile, poi le strappò la candela dalle mani e gliela mise a qualche centimetro dal volto. “Ma guarda, un volto nuovo”. Con sguardo languido ispezionò il viso di Vivien e anche il suo corpo, poi con una mano cominciò ad accarezzarle i capelli.
  “Mia madre è stata brava, stavolta”. Esclamò con tono piuttosto ambiguo. “Sa che ho un debole per le brune”.
  Vivien sgranò gli occhi e in un istante tutto le fu chiaro.
  Sua madre! Ha parlato di sua madre!
  Quello che lei aveva di fronte era il figlio della contessa, Aaron Turner. E lo aveva colpito facendolo cadere tramortito a terra. Oddio, quando la padrona lo fosse venuto a sapere, per lei sarebbe stata la fine.
  “Signore, vi prego di perdonarmi”. Esclamò lei, pensando intanto a qualche modo per evitare la pena che sarebbe seguita a quello sciagurato incontro. Tentò di alzarsi da terra, ma il conte la prese per un polso, non facendola muovere.
  “Dove credi di andare?” Domandò lui, posando a terra la candela e afferrando il volto della ragazza con la mano appena liberata. “Credi davvero che ti farò passare liscio un oltraggio del genere?”
  “Cosa volete fare?”
  Il conte la fece stendere con la schiena a terra e le si mise sopra, sogghignando in modo tutt’altro che rassicurante. Vivien non ci mise molto a comprendere quali fossero le sue intenzioni, era ubriaco, rintontito e arrabbiato, mentre lei era con addosso solo una succinta sottoveste. L’epilogo a cui sarebbe giunta quella situazione era fin troppo evidente.
  “Signore, fermatevi, o mi metterò a gridare”.
  “Grida pure quanto ti pare”. Le disse lui. “Credi davvero che servirà a qualcosa?”
  La ragazza contrasse la mascella e strinse i pugni. Purtroppo il conte aveva ragione, anche se qualche servo fosse accorso in suo aiuto, sarebbe bastato un ordine del padrone per mandarlo subito via. Vivien doveva cavarsela solo con le sue forze.
  L’uomo cominciò ad accarezzarle una coscia, facendo finire la mano sotto la veste, mentre con la bocca cercava le sue labbra. La ragazza stava provando a scansarlo con le mani, finché lui non le prese entrambi i polsi e glieli bloccò sopra la testa. Ora era completamente esposta al padrone, alla sua bocca, al tocco della sua pelle.
  “Per essere una serva, hai delle gambe davvero morbide”. Posò il volto nell’incavo tra i seni e baciò la stoffa che le copriva la pelle.
  “Sapete di alcool”. L’accusò lei, mentre si dimenava con tutto il corpo.
  “Sì, è vero. Ho bevuto un tantino”.
  “Quanto basta per permettervi di violentare una donna nel bel mezzo del vostro salotto”.
  Il conte ridacchiò e alzò lo sguardo su di lei. I suoi occhi erano illuminati fiocamente dalla luce della candela, ma Vivien poté benissimo vedere tutto il desiderio che vi era rinchiuso al loro interno.
  “Io non ti sto violentando, ti sto punendo”. La corresse, divertito. “Hai osato aggredirmi”.
  Il conte lasciò la presa sui polsi della ragazza, per andarle ad accarezzare il viso e le labbra. “Ma, fidati, la mia punizione ti piacerà”.
  Vivien lo vide avventarsi sulla sua bocca, così con le mani di nuovo libere prese l’unica cosa con cui difendersi – la candela – e gli sbatté il piattino di rame sulla testa. La ragazza fece appena in tempo a vedere il conte accasciarsi a terra che la fiamma si spense. Approfittando del buio, sgattaiolò via da sotto il corpo dell’uomo e, procedendo a tastoni, uscì dalla sala da pranzo.
  “Brutta stronza, me la pagherai”. Sentì esclamare dall’altra stanza e le venne un attimo di panico. Aveva aggredito il suo padrone, per ben due volte, se il conte avesse deciso di denunciarla la sua pena sarebbe stata di certo la morte. Che cosa aveva fatto?
  In un primo momento pensò di andare dalla contessa e raccontarle tutto, ma in verità non sapeva nemmeno quali fossero le stanze della padrona. Così optò per tornare in camera sua e, con grande sorpresa, una volta che si stese sul letto si sentì molto più tranquilla.
  Il conte era ubriaco, con un po’ di fortuna non si ricorderà niente..
  Con questo pensiero positivo – o forse era meglio chiamarla speranza – Vivien chiuse gli occhi e, cosa che non era riuscita a fare fino ad allora, si addormentò.
 
  Il mattino seguente la luce del sole invase troppo presto la stanza del conte Aaron, il quale aveva dormito in malo modo per i dolori cosparsi in tutto il corpo.
  Chi ha aperto le tende? Si chiese, premeditando già quale punizione infliggere al colpevole. Lo avrebbe rintanato per un giorno intero nel buio più totale delle cantine, così avrebbe smesso di adorare tanto la luce.
  Il cerchio che aveva alla testa però era ancora più fastidioso di quel forzato risveglio e, pensando al buio, gli tornò in mente cosa accadde la notte prima, nel salotto della sua villa, al debole chiarore di una candela.
  Quella maledetta!
  Il conte si alzò dal letto e si mise la sua vestaglia, sentiva i muscoli indolenziti e una palpebra stranamente pesante. Era dubbioso se guardarsi allo specchio o meno, forse ciò che avrebbe visto non gli sarebbe piaciuto, ma tanto erano mesi che non si riconosceva più in quel riflesso.
  “Fantastico, ho un sopracciglio spaccato”. Esclamò, osservando la sua immagine nel vetro della finestra.
  L’uomo strinse i pugni e contrasse la mascella. L’autore – anzi l’autrice – di quelle contusioni l’avrebbe pagata cara. Già, perché per la sfortuna della colpevole, lui quella notte non era stato abbastanza ubriaco da dimenticarsi l’accaduto.
  Picchiato da una serva, che brutto colpo per il suo orgoglio. Quella sgualdrina probabilmente era già andata a vantarsi delle sue gesta, così tutta la servitù avrebbe riso di lui, e non solo.
  Aaron si passò una mano tra i capelli ed emise un grugnito di disappunto al pensiero che suo padre potesse scoprire che cosa era successo. Quell’uomo per cui il titolo e la reputazione valevano più della vita e – di certo – più di suo figlio.
  Bussarono alla porta e, dopo aver ricevuto il consenso, Meg entrò nella stanza del conte con la testa bassa e facendo un leggero inchino.
  “Vostra madre voleva sapere se eravate sveglio, signore”.
  Aaron guardò la ragazza e inarcò le sopracciglia, di solito la contessa non si preoccupava degli orari del figlio, sapeva che non ne aveva. L’uomo si avvicinò alla ragazza e le sfiorò un braccio, accennando un sorrisetto che una qualsiasi giovane donna avrebbe considerato poco rassicurante.
  “Signor conte, vostra madre mi ha dato delle mansioni da svolgere”. Disse lei, con tono timido e tenendo sempre lo sguardo basso.
  “Vorrà dire che faremo presto”. L’uomo si chinò sul collo della ragazza famelicamente, facendola indietreggiare fino a sbattere la schiena contro la porta.
  I lividi gli facevano male, ma la frustrazione era più forte e in qualche modo doveva scaricarla, era stato umiliato e ferito – sia psicologicamente che fisicamente – e l’unico modo che conosceva per rinsavire il suo orgoglio offeso era quello di portare una ragazza sotto le sue lenzuola – o in questo caso addosso ad una porta – e aprirle le gambe senza pudore.
  Meg era la partner perfetta, troppo pudica per raccontare qualcosa a qualcuno e troppo impaurita per rifiutare le richieste del conte. L’unico suo difetto forse era la poca focosità, Aaron non ricordava una volta in cui l’avesse sentita gemere dalla passione, eppure ogni donna con cui era stato l’aveva sempre osannato come ottimo amante.
  Meg aprì le sue gambe, come ormai faceva da qualche mese a quella parte, e attese che il conte facesse il resto. Lui non perse tempo, le alzò la gonna e si abbassò i calzoni da notte che ancora indossava. Stava per dare inizio alle danze, quando bussarono di nuovo alla porta.
  La serva, impaurita, subito si irrigidì e riabbassò la gonna, mentre il conte sbuffò, risistemandosi i calzoni.
  “Chi è?” Chiese con tono acido. Prese poi Meg per un polso e la guardò aggrottando le sopracciglia, era fin troppo chiaro che cosa significasse quello sguardo. Tu non ti muovi da qui!
  Il volto che apparve da dietro la porta però fece dimenticare ad Aaron le sue poco rispettabili intenzioni con la serva.
  È lei! Si disse, senza nemmeno rifletterci sopra.
  La ragazza che lo aveva aggredito per ben due volte la notte prima, era quella che stava attraversando l’uscio della sua stanza e che gli stava rivolgendo un debole inchino. Quei capelli castani setosi e quegli occhi nocciola che avevano osato sfidarlo, non potevano essere dimenticati.
  Vederla alla luce del giorno però faceva un altro effetto. Non aveva quell’aria evanescente che per un attimo gli aveva fatto credere di trovarsi di fronte una dea. Forse era stato l’alcool, o la fioca luce della candela a rendergliela più attraente di come in realtà fosse.
  Ciò comunque non sminuiva il fatto che quella donna aveva osato colpirlo, e più di una volta.
  “Perdonatemi, signore, ma Meg è richiesta in cucina”. Aveva una voce posata e sicura e non abbassava mai lo sguardo, nemmeno quando lui la fissava intensamente degli occhi.
  Sembra non avere paura di me, forse crede che io non mi ricordi della notte scorsa.
  “Bene Meg, puoi andare”. Disse il conte, senza staccare gli occhi dalla nuova arrivata.
  “Ma signore…”
  “Ho detto che puoi andare!”
  Meg fece un leggero inchino e sgattaiolò via dalla stanza. L’altra serva stette per seguirla, ma Aaron fu più veloce e chiuse la porta prima che lei potesse uscire. Lo sguardo sorpreso di lei lo fece sorridere, davvero non capiva che cosa stava succedendo, oppure la sua era una finzione?
  “Sei nuova, vero? Come ti chiami?” Le chiese, avvicinandosi al suo volto.
  “Vivien, signore”. Rispose lei. Non un tentennamento, non un balbettio. Sembrava seriamente sicura di sé.
  Questo suo atteggiamento lo stava facendo innervosire ancora di più. Chi si credeva d’essere quella donna per ridicolizzarlo a quel modo?
  “Signore, vostra sorella mi aspetta”. Continuò lei.
  Aaron aggrottò le sopracciglia. “Cosa c’entra mia sorella?”
  “Sono la sua dama di compagnia, e la contessina vuole che le legga un libro”.
  Già, più di una volta gli era capitato di sentire la contessa lamentarsi con i servi perché non riusciva a trovare una dama di compagnia adatta ad Alyssa, così da sostituire quella licenziata poco prima.  
  “Deduco quindi che tu sappia leggere e scrivere”. Commentò, poggiandosi con un braccio alla porta e piegando l’altro all’altezza del fianco. “E inoltre sarai anche così intelligente da comprendere che stamattina mia sorella dovrà attendere per ricevere i tuoi servigi”.
  “Io non ho intenzione di far attendere proprio nessuno”. Contestò la ragazza, posando la mano sulla maniglia della porta. Il conte le bloccò il polso.
  “Forse non mi sono spiegato: farai ciò che ti dico io, Vivien, altrimenti dirò a mia madre che sei stata tu a ridurmi in questo stato e ti caccerà via di casa a calci”.
  Aaron rimase deluso quando sul volto della ragazza non notò nessuna espressione di stupore, era convinto che l’avrebbe spaventata, invece quella serva non sembrava nemmeno un po’ intimorita.
  “Non credo di aver compreso bene le parole del signor conte”. Disse con estrema compostezza, quasi irritante a dire il vero. “Probabilmente siete ancora molto stanco e dovete riposare”.
  “Mi stai prendendo in giro?” Poi aggrottò le sopracciglia e strinse ancora di più il suo polso nella mano. “Mi stai prendendo in giro!” Questa volta non era una domanda.
  “Non mi permetterei”. Ribatté lei. Chissà perché però Aaron non le credeva. “Solo che non so di che cosa stiate parlando, signore”.
  “Questi lividi, questo sopracciglio spaccato, sono tutti opera tua!” Esclamò, indicando il suo occhio e dei piccoli ematomi alla base del costato. “Come hai osato colpire il tuo padrone?”
  “Signore, dico davvero, non so di che cosa stiate parlando”.
  Il conte lasciò la presa sul polso della ragazza e, per la prima volta da quando lei era entrata nella sua stanza, vacillò nelle sue convinzioni. Forse la mente gli stava giocando un brutto scherzo, in effetti la sera prima aveva bevuto qualche bicchierino di troppo e, per quanto fosse certo che una serva l’avesse colpito, non era detto che quella suddetta serva fosse Vivien.
  “Ora che ci penso, forse ho commesso un errore”. Disse scrollando le spalle. “La ragazza di ieri notte aveva un viso angelico, quasi divino, e un corpo a dir poco sublime. Non puoi essere tu”.
  “Il signor conte mi perdonerà se gli comunico che la cosa non è affatto di mio interesse”. Commentò acida lei.
  Reazione interessante, constatò lui, come se fosse stata colpita sul personale. Probabilmente ogni donna avrebbe reagito così, sentendosi sminuita e offesa, ma perché non provare lo stesso a far calare la maschera a quella serva che sembrava tanto pura e composta?
  “Se il signor conte permette, ora vorrei andare da vostra sorella”. La ragazza aprì l’uscio della stanza e lui glielo lasciò fare. Tuttavia non sarebbe finita lì, Aaron era intenzionato a scoprire se era davvero lei la serva che lo aveva aggredito e, se così fosse stato, l’avrebbe punita per ben due volte: la prima per l’aggressione e la seconda per aver provato a prendersi gioco di lui, facendo finta di non sapere nulla.

 
******
 

E' entrato in scena il conte Aaron Turner... è un tipo un po' strano, ve lo dico subito
(io stessa faccio difficoltà a comprenderlo, a volte xD)

P.S. Ringrazio tutti quelli che hanno deciso di leggere il mio scritto e chi ha commentato^^
Spero continuiate a seguirmi
Un bacione a tutti^^


*HarleyQ_91*

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Capitolo 4
*** Minaccia Velata ***



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Capitolo 3
- Minaccia Velata -

 
  Vivien scese le scale e si diresse nella biblioteca con il cuore che le martellava in petto. Non sapeva nemmeno lei come avesse fatto a mantenere il sangue freddo di fronte agli occhi accusatori del conte.
  Lui ricorda tutto!
  Era purtroppo un’amara verità che per tutta la notte aveva sperato di non dover scoprire. Se il conte l’avesse denunciata, per lei sarebbe stata la fine. Addio nuovo lavoro, addio futuro felice, addio vita.
  L’unica cosa che poteva ancora sperare era che, continuando a negare incessantemente, il conte si convincesse di essersi confuso con un’altra serva e, con molta fortuna, l’avrebbe lasciata stare.
  Giunta nella biblioteca tirò un sospiro di sollievo, ora la attendeva la prima giornata di lavoro con la contessina, per le prossime quattro ore non sarebbe uscita da quella stanza e non avrebbe rischiato di fare brutti incontri.
  La bambina era seduta su una sedia, aveva i capelli castani raccolti dietro la nuca da un fermaglio cosparso di gemme rosse e il volto rivolto verso il tavolo. Il pallore della sua pelle la faceva sembrare di porcellana e, benché avesse a mala pena quattordici anni, i suoi lineamenti la rendevano una fanciulla già molto vicina alla maturità.
  “Signorina, piacere di conoscervi”. Iniziò Vivien, facendo un piccolo inchino e avvicinandosi al tavolo per prendere posto accanto alla ragazzina.
  “Mia madre vi ha spiegato che cosa dobbiamo fare?” Chiese la contessina, senza alzare la testa. Aveva una voce sottile, quasi impercettibile, ma Vivien non era certa se fosse dovuta alla timidezza o piuttosto alla superbia. Nessun nobile deve sforzarsi di farsi capire da un servo.
  “Vuole che leggiamo insieme”. Spiegò la ragazza. “Avete qualche autore che preferite, per cominciare?”
  La contessina si strinse nelle spalle e, per la prima volta da quando Vivien era entrata nella stanza, alzò lo sguardo.
  “Sei una ragazza carina”. Esclamò, portandosi una mano sotto il mento. “Mi dispiacerebbe se dovessi andartene”.
  Vivien inarcò le sopracciglia, sorpresa. “Scusate, non credo di capire…”
  “Se vuoi rimanere in questa casa, dovrai sottostare ai suoi voleri”. Continuò la ragazzina. “La dama di compagnia prima di te se n’è andata proprio perché non sopportava più i soprusi, delle cameriere invece sono state cacciate. Credo che ormai ne siano rimaste due o tre oltre Meg”.
  Vivien non sapeva se essere più scioccata o disgustata. Quel lavoro avrebbe significato la chiave di volta nella sua vita e ora le veniva detto che non sarebbe affatto durato a lungo.
  “E’ per via… del conte”. La sua non era una domanda, ma, se lo fosse stata, il silenzio della contessina Alyssa le avrebbe fornito una risposta più che eloquente.
  La serva strinse i pugni ed alzò il mento, con quel portamento reduce dagli anni passati nella nobiltà. Per quanto ormai non avesse più un titolo e vivesse tra la gente comune, il suo orgoglio ancora non le permetteva di accettare che ci fosse qualcuno in grado di darle ordini.
  “Io non me ne andrò, signorina”. Esclamò risoluta e sedendosi davanti alla ragazza. “Non ho intenzione di perdere questo lavoro”.
  La contessina la guardò un po’ perplessa, forse era la prima serva che le faceva un discorso del genere, ma sorrise.
  “Mi piacerebbe che qualcuno rimanesse con me, una volta tanto”.
  Così dicendo, la ragazzina prese un libro tra i vari volumi che aveva sul tavolo e lo porse alla sua nuova dama di compagnia, dopodiché portò entrambi i pugni sotto il mento e si mise ad ascoltare la voce di Vivien mentre leggeva.
  Deve sentirsi molto sola. Si rammaricò la serva.
  Alyssa aveva più o meno l’età di quando lei perse ogni cosa, riusciva quindi a comprendere bene la sua solitudine, benché le circostanze fossero state diverse. Per quanto le era possibile, Vivien non avrebbe lasciato che la contessina soffrisse quanto aveva sofferto lei.
  Bussarono alla porta della biblioteca e, prima ancora che qualcuno si facesse vedere sull’uscio, una voce raggiunse le orecchie della dama di compagnia facendola irrigidire.
  “Dov’è la mia principessa?”
  Il conte Aaron entrò nella stanza e, benché la biblioteca di casa Turner potesse vantare ampi spazi, Vivien li sentì irrimediabilmente rimpicciolirsi. Non aveva via di fuga.
  “Aaron!” Esclamò la contessina, andando incontro al fratello.
  Lui, vestito con abiti puliti ed eleganti, non assomigliava affatto all’arrogante che l’aveva minacciata solo qualche minuto prima nelle sue stanze e tanto meno all’ubriaco molestatore della notte scorsa. Se non fosse stato per quei capelli neri tenuti un po’ in modo disordinato, Vivien poteva giurare di trovarsi di fronte ad un’altra persona.
  “Fratello, che cosa hai fatto all’occhio?” La contessina alzò una mano verso il sopracciglio spaccato del conte, ma questo si ritrasse prima che riuscisse a toccarlo.
  Vivien trattenne il respiro e chiuse gli occhi. Se lui avesse detto ciò che era stata capace di fare la notte prima, per lei non ci sarebbe stata più via di scampo. La pena per chi oltraggiava un nobile – poi i conti Turner erano anche una delle famiglie più in vista nella capitale – era la morte.
  La sua vita era appesa ad un filo ed una singola parola del signor conte avrebbe potuto spezzarlo.
  “Ieri notte sono stato aggredito”. Cominciò lui e Vivien portò una mano al petto. La paura cominciava a farsi viva dentro di lei e si sentì spacciata non appena il conte alzò lo sguardo sul suo viso e le sorrise.
  Sorriso beffardo e crudele, preambolo di ciò che stava per accaderle.
  “Dei briganti mi hanno assalito fuori dalla locanda, volevano il denaro”.
  La serva quasi non riuscì a crederci. Allentò la stretta al petto e riprese a respirare regolarmente, tuttavia lo sguardo stupito dal suo volto non scomparve. Era ancora sgomenta, con gli occhi puntati sul conte, cercando di capire quali fossero le sue intenzioni.
  “Sei stato derubato?” Chiese improvvisamente in preda all’ansia la contessina.
  Il conte Aaron però le accarezzò una guancia e le sorrise. Questa volta la sua espressione però era gentile e rassicurante, totalmente diversa da quella che aveva riservato a Vivien.
  “Certo che no, sai benissimo che nessun brigante può passarla liscia col tuo valoroso fratello”.
  Vivien non riuscì ad impedire la reazione dei suoi occhi che ruotarono verso l’alto e sbuffò. Purtroppo avrebbe dovuto sapere che certe sue opinioni – anche se non espresse a parole – era meglio tenerle ben celate.
  “Qualcosa non ti aggrada, serva?” Esclamò il conte, facendo due passi verso di lei e lasciandosi sua sorella alle spalle.
  “No, signore”. Si riprese subito lei, abbassando lo sguardo.
  “Mi stai di nuovo prendendo in giro, non è vero?” La accusò lui. “Sei un po’ troppo temeraria, non dovresti sfidare in modo così aperto il tuo padrone”.
  “Aaron, lei è la mia nuova dama di compagnia”. Esclamò la piccola Alyssa. “Non trattarla male, è mia amica”.
  L’uomo tornò con lo sguardo sulla sorella ed addolcì il tono di voce. Se non fosse accaduto davanti a lei, Vivien non avrebbe mai creduto che potesse esistere qualcuno capace di cambiare umore così repentinamente.
  “Nessuno la tratterà male”. Disse lui, inginocchiandosi davanti alla contessina. “Se è tua amica, poi, farò in modo io stesso che le vengano apportati dei trattamenti speciali”.
  Mentre pronunciava le ultime parole, il conte voltò lo sguardo verso la serva in piedi davanti a lui e a Vivien parve tutto fuorché rassicurante.
  La stava minacciando, velatamente e con garbo, ma sempre di una minaccia si trattava.
  “Non desidero essere trattata diversamente dagli altri vostri dipendenti, signore”. Commentò la ragazza, non volendo cadere nella trappola del conte. Non le interessava nemmeno sapere a che cosa alludessero i suoi trattamenti speciali.
  Aaron si rimise in piedi e la guardò fissa. Per qualche istante assunse un’espressione irritata, ma poi si rilassò e sorrise.
  “Bene, come desideri”. Poi si voltò verso Alyssa e le accarezzò la testa. “Ora ti lascio tornare alle tue letture, sorella”.
  “Dove vai?”
  “Devo incontrarmi con degli amici, non credo di tornare per pranzo, né per cena”.
  Vivien inarcò inavvertitamente le sopracciglia. Meg l’aveva già messa al corrente che il conte non aveva orari, ma la cosa strana fu quella sensazione di curiosità che la colpì in piena pancia. Che cosa aveva da fare di così importante da trascurare in questo modo la sua famiglia?
  Lui che ancora ne aveva una, avrebbe dovuto godersela.
  Il conte baciò la mano alla sorella e fece un leggero inchino verso la sua dama di compagnia.
  “Arrivederci, Vivien”. Disse. Poi uscì dalla biblioteca, richiudendosi la porta alle spalle.
 
  I suoi stivali di cuoio crocchiavano mentre scendeva velocemente le scale. Si infilò il soprabito in un secondo, con maestria, ed indossò il cappello mentre apriva la porta principale del palazzo.
  Uscendo un forte vento lo investì, ma questo non riuscì a spazzare via l’espressione compiaciuta che aveva sul volto.
  È stata lei!
  Ormai non aveva proprio più dubbi. Il volto spaventato di Vivien mentre lui stava per svelare l’accaduto della notte prima alla sorella aveva fatto luce su ogni cosa. Quella serva aveva cercato di imbrogliarlo per salvarsi la pelle, scelta temeraria ma – doveva ammetterlo – astuta.
  Per quanto non particolarmente bella, c’era qualcosa in quella ragazza che attirava l’attenzione del conte. Forse proprio il fatto che aveva osato fronteggiarlo sfidando la sua intelligenza.
  No, denunciarla e mandarla alla ghigliottina non lo avrebbe appagato abbastanza.
  L’avrebbe trattata come lei aveva richiesto, esattamente come tutti gli altri suoi dipendenti. Forse però la povera ragazza si sarebbe dovuta informare su come il padrone gestiva la sua servitù, in quel caso Aaron non era certo che Vivien avrebbe disprezzato i trattamenti speciali che lui le aveva offerto.
  Arrivato alla stalla fece un cenno a James, che subito gli portò il suo destriero nero. Aaron salì in groppa con gesto repentino ed agile, dopodiché partì al trotto verso il paese.
  La dolce e coraggiosa Vivien avrebbe dovuto aspettare il suo ritorno, ora aveva affari più urgenti da discutere.
. Col suo cavallo non si fermò alla solita taverna nella piazza, ma proseguì dritto, in un quartiere che rimaneva sul confine della cittadina. La taverna che gli era stata indicata aveva una scritta incisa nel legno appesa sopra la porta d’ingresso con scritto Red Lion, non potevano esserci errori.
 Benché Aaron fosse solito frequentare certi posti solo quando vi era la certezza di un buon divertimento, quel giorno entrò nel salone con un’espressione in volto tutt’altro che gioiosa. Si sedette al tavolo più nascosto della sala ed attese, senza togliersi il cappello.
  “Posso portarvi qualcosa?”
  Il conte alzò leggermente la testa, stando attento però a non esporsi troppo.
  Uno sguattero stava pulendo il suo tavolo con un panno sudicio, che poi si mise in tasca, dopodiché attese davanti al nobile che questo facesse il suo ordine.
  “Di giorno non mandano le signore a servire?” Chiese ironico il conte.
  Il ragazzo si grattò la testa bionda e si strinse nelle spalle. “Alcune sono malate. E poi la padrona dice che di giorno non vuole guai, le guardie sono sempre nei dintorni”. Poi si chinò leggermente sul tavolo e sussurrò: “E, si sa, dove ci sono le belle signore, spesso ci sono anche i guai”.
  Aaron lo allontanò con gesto rapido e il ragazzo comprese di aver osato troppo, perché chinò la testa e si scusò miseramente.
  “Portami un bicchiere di brandy”. Disse il conte, senza guardarlo in faccia. Ci mancava solo che finisse nei guai per colpa di uno sguattero. Nessuno doveva sapere della sua presenza lì, anche se si fosse trattato di un povero ragazzo senza futuro.
  “Thomas!” Una voce gracchiante echeggiò per il salone mezzo vuoto. “Canaglia, dove sei quando servi?”
  “Oh, è la padrona”. Esclamò il ragazzo. Poi si voltò verso il cliente e fece un rapido inchino. “Il vostro brandy arriva subito, signore”.
  Così dicendo sgattaiolò in fretta dietro una porta che probabilmente dava alle cucine e lasciò il conte da solo. Aaron sbuffò e diede una controllata al suo orologio da taschino.
  “Sono in ritardo?”
  Un uomo col soprabito nero e una bombetta sulla testa si sedette davanti al conte, senza che questo lo invitasse. Tuttavia lo sconosciuto non sembrava fare molto caso alle formalità.
  “Sei in perfetto orario, Sam, come sempre”. Esclamò Aaron, rilassando le spalle che fino a quel momento aveva tenuto ben rigide e allerta. “Ora spiegami perché questo posto?”
  Non che la taverna che frequentava nella piazza centrale fosse migliore di quella, ma il Red Lion aveva una reputazione così pessima che persino i nobili più scialacquoni lo evitavano.
  “Perché è lontano da casa e da occhi che possano riconoscerci”. Gli rispose l’amico. “Devo rammentarti cosa è accaduto a Gideon due mesi fa?”
  Aaron scosse la testa e l’abbassò. Sam aveva ragione, la prudenza non era mai troppa, soprattutto per ciò che stavano facendo loro.
  “Beh, facciamo in fretta”. Disse poi Sam, riprendendo un tono di voce sereno. “Prima ce ne andiamo da qui, meno possibilità abbiamo che ci scoprano”.
  “Dimmi che cosa devo fare”.
  Aaron e Sam si sporsero entrambi verso il centro del tavolo e iniziarono a bisbigliare, quando qualcuno si schiarì la voce e si trovarono entrambi costretti a troncare la conversazione.
  “Di chi è il brandy?” Chiese una donna piuttosto in carne con dei crespi capelli rossi e un trucco troppo pesante per la sua età avanzata.
  Il conte alzò due dita della mano e lanciò un’occhiata di disappunto alla signora.
  “Comunque per certe smancerie ci sono le stanze al piano di sopra”. Continuò lei, posando il bicchiere di vetro sul tavolo. “Non voglio che certe cose da uomini siano in bella vista nella mia locanda”.
  Aaron alzò un sopracciglio, mentre la scorbutica si allontanava. Aveva riconosciuto la voce, doveva trattarsi della padrona che poco prima aveva chiamato a squarciagola lo sguattero. Ma cosa si era messa in testa?
  “Certe contadine non sanno proprio che pensare, eh?” Rise leggermente Sam.
  “Sbaglio, o ci ha appena dato degli omosessuali?” Chiese conferma il conte e il cenno d’assenso del suo amico non lo rassicurò affatto. “Ma come si permette? Ora io…”
  “Calmati!” Sam lo afferrò per un braccio, prima che Aaron potesse alzarsi dal tavolo. “Se fai una scenata, lo saprà tutto il paese. Invece nessuno deve sapere che siamo stati qui”.
  Il conte prese il bicchiere di brandy e se lo scolò tutto d’un fiato, come se avesse potuto alleviargli l’irritazione che quella donna gli aveva procurato. Purtroppo il risultato fu deludente.
  “Sei un uomo molto in gamba, soprattutto calcolando la tua giovane età”. Gli confidò Sam. “Ma devi imparare a non essere così istintivo, potresti commettere degli errori”.
  Aaron strinse le mani l’una a l’altra e contrasse la mascella. Non gli piaceva essere rimproverato, ma non poteva ribattere. Il marchese Sam Ronchester era un uomo potente e influente, non poteva rischiare di inimicarselo. Senza contare che si trattava di un suo superiore.
  “Comunque, credo sia ora di parlare di cose serie”. Cambiò argomento Sam. “Tidus ha fallito”.
  Il conte aggrottò le sopracciglia. “Lo avevo detto che era ancora inesperto”.
  “Già, è stato colto di sorpresa e l’hanno catturato”.
  “Catturato? Ma quando?”
  “Tre notti fa”.
  “Perché io lo vengo a sapere solo ora?” Aaron sbatté il pugno sul tavolo.
  “L’ho fatto di proposito. Se te lo avessi detto subito, saresti partito di corsa alla sua ricerca, rischiando di farci uscire tutti allo scoperto”.
  Il conte si irrigidì. Era evidente che, benché Sam lo considerasse un uomo valoroso, non si fidava poi molto di lui e la cosa gli bruciava parecchio.
  “Che cosa hai intenzione di fare, dunque?” Chiese impaziente.
  “Niente, purtroppo”.
  Aaron sgranò gli occhi. “Ma morirà, se lo lasci nelle loro mani”.
  Sam scrollò le spalle e sospirò. Sembrava dispiaciuto, ma Aaron non riusciva a vedergli altro in volto se non un’espressione di superficialità.
  “Tidus sapeva a cosa andava incontro quando ha accettato l’incarico. Lo sappiamo tutti, Aaron”. Sam si grattò la nuca e sospirò pesantemente. “Se l’obbiettivo da raggiungere è arduo, bisogna stare pronti a sacrificare qualcuno”.
  Aaron si lasciò cadere sullo schienale della panca in legno e si lasciò sfuggire un rantolo di rabbia. Sarebbe dovuto essere abituato ormai a quello stile di vita, invece ogni volta che un suo compagno veniva catturato o ucciso non poteva fare a meno di irritarsi e chiedersi se avrebbe potuto evitarlo.
  “Non abbiamo molto tempo, Aaron”. Attirò la sua attenzione Sam. “Devi dirmi se vuoi prendere il posto di Tidus nella missione”.
  Il conte alzò lo sguardo sull’uomo di fronte a lui ed aggrottò le sopracciglia. Quello che per Tidus era stato causa di sventura, per Aaron non era altro che una bazzecola. Avrebbe portato a termine il suo compito in modo veloce e pulito, ne era certo, ma ciò non lo distoglieva dall’amaro in bocca che provava.
  Facendosi forza sulle braccia, si sollevò dalla sedia. “Mandami i dettagli appena puoi”. Disse, dopodiché fece un leggero cenno di saluto con la mano sul cappello ed uscì dalla locanda.
  Non si fidano di me. Pensò mentre saliva in groppa al suo cavallo e percorreva la strada verso il centro del paese. Però quando la situazione diventa complicata, ecco che scodinzolano chiedendomi aiuto.
  Il conte scosse la testa e sorrise leggermente. Era inutile rimuginarci troppo sopra, il loro proposito era troppo importante per essere sovvertito da tali sottigliezze. E poi sin da bambino gli era stato insegnato che gli ordini provenienti dai ranghi superiori non andavano discussi in alcun modo.
  All’improvviso gli tornò in mente una persona che lo aveva deliberatamente mancato di rispetto, prima ferendolo e poi prendendolo in giro.
  Ecco, era il momento di far valere la sua autorità.


******

Eccoci qua, anche il capitolo 3 è concluso!
Ammetto che scrivere del conte Aaron non lo trovo affatto facile,
è un personaggio complesso e rispecchia poco il mio tipo ideale di uomo.
Spero comunque che voi lo troviate (almeno) interessante!^^

P.S. Vi avviso che il 2 marzo ho un esame (e pure parecchio tosto),
perciò non so dirvi se aggiornerò prima di quella data.
Farò il possibile!^^

P.P.S. Ringrazio 
Clitemnestra_Natalja per le sue recensioni!^^
E anche chi ha messo la mia storia tra preferite o seguite!
Un bacione a tutti!^^

*HarleyQ_91*


 

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Capitolo 5
*** Adrenalina ***


Eccomi di nuovo qui!^^
Come avevo detto, purtroppo la settimana scorsa ho avuto da fare con l'università,
perciò scusate se ho aggiornato in ritardo rispetto agli standard!^^
Comunque eccovi il Capitolo 4!
Buona Lettura

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Capitolo 4
- Adrenalina -

 

  La contessina Alyssa aveva un’intelligenza e un modo di esprimersi molto sviluppato per la sua giovane età. La contessa doveva averla fatta istruire a dovere.
  Vivien sapeva riconoscere il lavoro di un buon precettore, nella sua breve vita da nobile ne aveva conosciuti a dozzine. Suo padre soleva cambiarli spesso e lei si disperava perché, non appena incominciava ad affezionarsi a qualcuno, questi veniva licenziato.
  Tuttavia poteva andare fiera della sua istruzione – le donne che sapevano leggere e scrivere si contavano sulle dita di una mano – ed era solo grazie a quella che ora aveva un lavoro ben pagato.
  Uscì dalla sua stanza dopo essersi messa la divisa da cameriera – la padrona voleva che, quando non stava con Alyssa, si vestisse come gli altri servitori – e si diresse nelle cucine dove Meg le aveva chiesto di dare una mano.
  Passò per l’ingresso della casa e, come aveva già fatto altre volte, buttò l’occhio sul dipinto della famiglia Turner.
  Non poteva credere che il ragazzo così a modo raffigurato in quel quadro fosse l’uomo ubriaco che aveva incontrato la notte prima e che quella stessa mattina aveva osato minacciarla. Per quale motivo la contessa non lo buttava fuori di casa? In fondo, da quanto aveva sentito dagli altri servi, non faceva altro nella sua vita se non ubriacarsi e andare a donne.
  Il servizio militare, ecco cosa serve per raddrizzare un uomo del genere!
  In quell’istante sentì aprirsi la porta d’ingresso e purtroppo non fece in tempo a sgattaiolare verso le cucine che si sentì afferrare per un polso.
  “Ma bene, cercavo proprio te”.
  La ragazza prese un bel respiro e ricambiò lo sguardo del conte. Doveva mantenere la calma come aveva fatto fino ad allora, mettersi contro un nobile della famiglia Turner era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
  “Il signore ha ordini per me?” Chiese lei, facendo un leggero inchino.
  “Ti sei cambiata d’abito? Non è lo stesso di stamattina”.
  Vivien si stupì di come l’uomo l’aveva osservata, soprattutto dopo che quella stessa bocca aveva espresso di non considerarla nulla di speciale.
  Non che le importasse, ovviamente.
  “La contessa vuole che metta la divisa quando non sto con vostra sorella”. Spiegò, poi provò a liberare il suo polso dalla presa del conte. “Signore, ho delle mansioni da svolgere”.
  “Sì, esatto”. Attestò il conte. “Le mie mansioni”.
  Con un gesto quasi animalesco trascinò Vivien nella biblioteca e si chiuse la porta alle spalle.
  La ragazza era spaventata e si guardò attorno cercando di trovare una via d’uscita, ma purtroppo non ce ne erano. La biblioteca, per quanto grande fosse, aveva un’unica porta che dava sull’atrio della villa, quella stessa porta contro la quale il conte le stava facendo sbattere la schiena.
  “Cosa avete intenzione di fare?” Chiese spaurita lei.
  Il conte la teneva ben salda al legno della porta con il peso del suo corpo e le aveva serrato le braccia dietro la schiena. Il respiro dell’uomo alitava sul suo volto a pochi centimetri di distanza, sapeva di brandy, eppure questa volta non aveva la sensazione che fosse ubriaco, solo molto agitato.
  “Ti sto solo trattando come tutte le tue colleghe”. Esclamò lui, leccandola alla base della mascella. “Non era ciò che desideravi?”
  Lo sguardo che lui le rivolse fu come acqua gelida che la colpì in pieno viso. La sua arroganza, la sua boriosità, il suo desiderio, era tutto riversato in quegli occhi grigi e spietati e lei aveva paura.
  “Signore, lasciatemi andare!” Le ossa dei polsi che sbattevano contro la sua schiena le facevano male, ma nulla era paragonabile all’umiliazione che stava subendo. “E’ così che trattate tutte le vostre cameriere? Non mi stupisco che molte se ne vadano!”
  “Non tutte, Vivien”. La corresse lui. “Solo chi mi attrae particolarmente o, come nel tuo caso, chi osa sfidare apertamente la mia autorità”.
  Con gesto famelico, il conte si calò sulle sue labbra, catturandogliele e succhiandole come se avesse voluto privarla del respiro.
  Per la prima volta Vivien sentì una lingua che non era la sua esplorarle l’interno della bocca, percorrerle il palato… e lo trovò disgustoso.
  La testa del conte la teneva ben salda alla porta e sentiva la crocchia che aveva nei capelli sbattere contro il legno, tanto che le forcine le si stavano conficcando nella nuca.
  Doveva assolutamente porre fine a quel bacio avido e peccatore, prima che questo potesse farle ancora più male di quanto non stesse già facendo.
  Appena le fu possibile infatti strinse i denti attorno a quel muscolo straniero che si ritrovava senza invito tra le labbra, sentendo poi un leggero gusto di sangue.
  Il conte si ritrasse subito, con la mano davanti alla bocca e fissandola con sguardo terrorizzante. Poi con gesto repentino e colmo di rabbia la colpì in pieno volto, scaraventandola a terra.
  La crocchia in testa le si era un po’ allentata, permettendo a lei di provare un po’ di sollievo e all’uomo di prenderla tra i capelli per farle alzare il viso affinché potesse guardarlo negli occhi.
  “Ti farò capire chi comanda, mia cara Vivien”. Le sussurrò a fior di labbra, poi si alzò, lasciando la povera serva sul pavimento, impaurita e dolorante, e uscì dalla biblioteca.
  La ragazza tossì un paio di volte, dopodiché si sciolse definitivamente la pettinatura. La testa le faceva male e, ci poteva scommettere un occhio, stava perdendo sangue.
  Quel bacio aveva macchiato di sangue entrambi, con la differenza che quelle di Vivien non erano solo ferite superficiali.
 
  Aaron entrò nella sua stanza sbattendosi la porta dietro le spalle. I suoi passi sulle tavole di legno del pavimento tuonavano per tutta la stanza, ma lui non li sentiva, erano coperti dal martellio incessante del suo cuore che da tempo ormai non sentiva così vivo.
  L’adrenalina, la rabbia, il desiderio, tutto era esploso in un istante.
  Andò davanti ad uno specchio per controllarsi la lingua. Quella stupida serva lo aveva ferito, provocandole un dolore lancinante, ma Dio se ne era valsa la pena.
  Forse era stato il fatto che lei non approvasse a rendere quel bacio così tremendamente eccitante. Brividi allo stato puro, e tutto in una piccola manciata di secondi.
  Chissà a letto, allora.
  Il conte vide il proprio sguardo nello specchio e riconobbe quel luccichio che da troppo tempo ormai si era spento.
  Avrebbe fatto capire a Vivien chi era il padrone, sì, ma lo avrebbe fatto nel modo più piacevole che conosceva.
  Con sorriso trionfante uscì dalla sua stanza e si diresse verso le cucine. Non poteva attendere, l’avrebbe presa, portata nel suo letto e posseduta, come il suo corpo implorava.
  “Signor conte”.
  Una voce delicata e flebile attirò la sua attenzione. Sapeva chi fosse e le diede ascolto solo per non sembrare sgarbato, la sua mente in realtà era altrove.
  “Meg, cosa fai qui?” Disse lui. “Non hai da lavorare?”
  La servetta fece qualche passo verso il conte e si sciolse i capelli biondi sulle spalle. Aveva le guance rosse, si vedeva che non era mai stata una donna audace e fare certe cose la metteva in imbarazzo.
  Aaron la osservò mentre si avvicinava a lui e gli metteva una mano sul petto, accarezzandoglielo.
  “Se il signore ha ordini per me, io obbedirò”.
  Il conte sorrise, povera Meg, doveva essersi innamorata. D’altronde aveva una personalità così fragile e lui era stato il suo primo uomo. Le accarezzò il volto, gentilmente, e le si avvicinò per baciarle le labbra.
  “Signore, non qui in corridoio”. Lo riprese subito lei.
  Aaron sorrise ancora. Meg voleva fare la voluttuosa, ma alla fine rimaneva sempre una pudica.
  “Andiamo nella mia stanza, allora”. Sussurrò lui.
  Uno strano scricchiolio provenne dal piano di sotto, il conte buttò uno sguardo dalla scalinata, ma non vide nulla. Prese poi la serva per un braccio e la trascino nella sua camera da letto.
  “Avete qualche richiesta?” Chiese disponibile lei. Aaron allora la fece sdraiare sul letto e le si mise sopra, cominciando a baciarle il collo in modo famelico.
  “Lascia fare a me”. La rassicurò, mentre con le mani le scioglieva i lacci del corpetto e con le ginocchia le teneva aperte le gambe.
  Meg, come sempre, rimase immobile. Ora che ci pensava, Aaron non era certo di averla mai sentita gemere nemmeno quando veniva, probabilmente si vergognava troppo per lasciarsi andare a istinti così bassi. Lui invece amava sentire le sue donne gridare, perdersi nel piacere che gli procurava, mandarle in estasi col tocco di un dito.
  Meg era una cara ragazza, probabilmente così innamorata di lui che non gli avrebbe mai rivendicato nulla, ma non gli bastava più. Per mesi era stata compagna del suo letto e, a modo suo, l’aveva fatto divertire, ora però il conte aveva scoperto un altro tipo di divertimento, più scottante, più sfuggevole, più pericoloso.
  Avrebbe fatto gemere Vivien sotto di sé, fosse stata l’ultima cosa che avesse fatto in vita sua. Quella donna, così temeraria e restia a riconoscere la sua autorità, si sarebbe piegata – e non solo metaforicamente – alle voglie del suo padrone.
  Aaron diede altre due spinte, dopodiché venne sul lenzuolo e si accasciò a pancia in su sul materasso.
  “Puoi andare, Meg”. Disse alla serva chiudendo gli occhi. “Voglio riposare”.
  Sentì la ragazza alzarsi dal letto e raccogliere i suoi vestiti in tutta fretta. La sentì sospirare prima di uscire dalla sua stanza e chiudersi la porta dietro le spalle.
  Povera Meg, si era andata ad innamorare dell’uomo sbagliato.
  Sam glielo ripeteva spesso di trovarsi una donna da sposare, almeno per preservare la dinastia dei Turner, ma per sposarsi e fare figli aveva ancora tempo. Una moglie era un cappio al collo e, con tutta sincerità, il conte stesso non era sicuro che sarebbe mai stato pronto per il grande passo.
  Divertirsi senza impegno era troppo comodo.
  L’uomo è cacciatore, allora perché mai sarebbe dovuto andare contro la sua natura rilegandosi ad un’unica preda per tutta la vita?
  Bussarono alla porta e, appena il conte diede il permesso, la figura alta e snella del maggiordomo si presentò sull’uscio. Nel suo completo ingessato e la sua postura perfetta, Hans dava sempre un’impressione di impeccabilità e efficienza.
  “La contessa desidera sapere se il conte ha intenzione di pranzare con lei e vostra sorella”. Disse l’uomo, con tono composto.
  Aaron si alzò dal letto, non curandosi del fatto che fosse completamente nudo, e si infilò la vestaglia.
  “Sì, Hans, pranzerò con mia madre e mia sorella”. Esclamò. Poi si avvicinò al maggiordomo in tono confidenziale. “Ho, tuttavia, delle condizioni da dettare e tu farai in modo che vengano eseguite”.
  Hans fece un gesto di assenso col capo ed ascoltò in silenzio le richieste del conte, senza lasciar trapelare nulla dalla sua espressione.
  “Sarà fatto, signore”. Disse infine, prima di congedarsi.
  Aaron sorrise e si morse il labbro inferiore. La lingua gli faceva ancora male, ma era certo che – in confronto a quello che Vivien avrebbe passato – il suo non poteva nemmeno chiamarsi dolore.
 
  Non che Vivien avesse problemi a servire ai tavoli, nei sei anni precedenti lo aveva fatto di continuo, solo che non credeva che il suo ruolo in casa Turner prevedesse anche quello di sguattera.
  Quando Hans si presentò nelle cucine a darle l’incarico, lei non fu l’unica a rimanere sorpresa.
  “Io allora che faccio?” Chiese Meg, stringendosi nelle spalle.
  “Il conte ti dà il pomeriggio libero”. Rispose l’uomo.
  Vivien vide la sua collega abbassare lo sguardo e andarsene con un’espressione un po’ delusa. Evidentemente il suo pomeriggio libero lo vedeva come un modo garbato del conte per toglierla di mezzo.
  Già, perché Vivien aveva visto cosa era accaduto solo un paio d’ore prima davanti alla stanza del nobile. Meg che si offriva a quell’uomo ignobile e lui che, naturalmente, accettava l’offerta senza nemmeno pensarci.
  Che uomo schifoso!
  Non aveva alcun riguardo per i sentimenti altrui. Aveva osato baciarla contro la sua volontà e poi, dopo essere stato rifiutato, si era fatto consolare subito da qualcun'altra.
  Non che la cosa le importasse – il conte poteva fare ciò che voleva, con chi voleva e quando voleva – ma si sentiva ferita nel suo orgoglio di donna.
  “Che fai lì imbambolata, principessina?” La voce della cuoca la riportò alla realtà. “Tieni, va’ a servire il vino!”
  Una brocca di terracotta colma di nettare rosso fino all’orlo le penzolò all’improvviso tra le mani e dovette fare ricorso a tutti i suoi anni di esperienza per non farne cadere nemmeno una goccia.
  Vivien prese un bel respiro ed uscì dalla cucina, ritrovandosi nella sala da pranzo, dove contessa e contessina erano già sedute a tavola. I coperti tuttavia erano tre.
  “Bene, vedo che ti sei ambientata anche con i lavori domestici”. Osservò la donna, spostandosi un ciuffo ribelle dietro l’orecchio.
  Vivien rispose con un leggero cenno del capo e fece un sorriso di circostanza, poi versò il vino nella coppa della padrona. Stava per tornare nelle cucine, quando voltandosi urtò contro qualcosa e la brocca le cadde dalle mani, frantumandosi in pezzi sul pavimento.
  “Ma che diavolo…”
  La ragazza si chinò immediatamente a terra a raccogliere i cocci. Se disgraziatamente la contessina Alyssa o la contessa si fossero ferite non se lo sarebbe mai perdonato.
  “Ehi, tu, guardami!”
  Un calcio da uno stivale di pelle nera le arrivò dritto sul braccio, facendole scivolare la mano sui pezzi di terracotta. Il dolore che provava al palmo era di certo provocato da un taglio, ma Vivien non aveva intenzione di dare al conte la soddisfazione di vederla soffrire.
  “Guarda che cosa hai fatto”. Esclamò lui, indicando la sua camicia sporca di vino. “Dovrei fustigarti per questo”.
  “Aaron, ti prego”. Intervenne la contessa. “Non davanti a tua sorella”.
  Il conte assunse immediatamente un’espressione composta, anche se dalla contrattura dei suoi muscoli mascellari si vedeva che era forzata, e si voltò verso la madre.
  “Avete ragione, perdonatemi”. Disse inchinandosi davanti alla contessa e sedendosi poi a tavola.
  Vivien si massaggiò il braccio e continuò a raccogliere i pezzi di terracotta dal pavimento. Ora non solo la baciava contro la sua volontà, ma si metteva pure a prenderla a calci.
  “Dopo che avrai pulito a terra, voglio che tu venga nella mia stanza”. Disse lui, non voltandosi nemmeno a guardarla. “Prenderai tutti i miei vestiti, compresa questa camicia, e li laverai”.
  Vivien fece un sospiro di sollievo. Almeno non l’aveva invitata nella sua camera per tenergli compagnia a letto, come invece era certa avesse fatto con Meg parecchie volte.
  La ragazza scosse la testa. Perché ripensava a quel fatto? Lei non aveva nessun interesse per la vita amorosa del conte – tranne quello di non farne parte – e Meg era abbastanza grande da fare da sola le sue scelte, non aveva alcun diritto di giudicarla.
  “Vivien, mi ascolti?” La voce squillante della contessa le fece scattare la testa all’insù.
  Così a quattro zampe sul pavimento, più che una cameriera, sembrava un cane pronto a portare le ciabatte al suo padrone e ad essere bastonato nel caso non agisse come gli veniva ordinato.
  Posizione alquanto umiliante, senza dubbio.
  “Oggi pomeriggio, visto che Meg ha la giornata libera, ti occuperai tu delle faccende di casa”. Esclamò la contessa.
  “Ma… la lezione con la contessina?”
  “Io e Alyssa andiamo a prendere il tè dalla baronessa Burg, quindi niente letture”.
  Vivien si alzò in piedi e fece un segno si assenso col capo, poi andò in cucina a prendere una scopa e uno straccio per asciugare per terra.
  Non aveva mai subito così tante umiliazioni in una sola volta, il suo orgoglio ne stava uscendo lacerato e, purtroppo, sapeva che il vero supplizio doveva ancora arrivare.
  Passata l’ora di pranzo, infatti, si diresse verso la stanza del conte, come il padrone le aveva ordinato, per prendere i panni sporchi e andare a lavarli.
  Quella era la seconda volta che entrava nella camera da letto di Aaron Turner, ma la prima che riusciva a vederla bene nei minimi dettagli. Il letto a baldacchino con decorazioni intagliate nel legno, lenzuola di seta, materasso morbido. Dormire lì sopra doveva essere un sogno, niente a che vedere con la brandina che riservavano alla servitù.
  I conti Turner erano tanto ricchi quanto orgogliosi della loro ricchezza, ormai Vivien lo aveva capito. Se esisteva un modo per evidenziare lo smacco di qualcun altro – non importava se nobile o povero – lo utilizzavano senza complimenti, per far capire quale famiglia era davvero la più ricca e potente.
  “Ne hai ancora per molto?”
  Vivien si voltò di scatto, facendo cadere a terra quei pochi panni sporchi che aveva raccolto fino ad allora. Il conte Aaron le si avvicinò mentre lei si chinava a raccoglierli.
  Tutti i suoi sensi erano all’erta, non si sarebbe fatta cogliere di sorpresa un’altra volta, se il nobile avesse provato di nuovo a metterle le mani addosso, non avrebbe risposto più di sé.
  Con sua grande sorpresa però l’uomo si appoggiò ad un’asse del letto con le braccia conserte e rimase lì, ad osservarla, in silenzio.
  Vivien sentiva i suoi occhi brucianti che le percorrevano il corpo, il collo, le spalle, la schiena, per quanto il corpetto e la gonna la coprissero, in quel momento si sentiva in imbarazzo come se fosse stata nuda. Anche quella era una forma di umiliazione per lei, nessun uomo aveva mai osato farla sentire in quel modo e, di certo, il conte Aaron era l’ultima persona che si meritava un tale privilegio.
  Raccolti i panni a terra, si alzò e si voltò verso il nobile, facendo un leggero inchino prima di dirigersi verso la porta.
  “Non stai dimenticando qualcosa?” La richiamò lui proprio un attimo prima che la serva aprisse l’uscio.
  Vivien prese un bel respiro e si voltò, pronta ad affrontare qualsiasi sfida il conte le avesse posto davanti.
  Ma cosa fa?
  La ragazza rimase immobile a guardare il suo padrone che lentamente si sbottonava la camicia, mentre con sguardo bruciante la osservava negli occhi. Bottone dopo bottone il sorriso che il nobile aveva sul volto si allargava sempre più e l’espressione compiaciuta che mostrava tradiva le sue intenzioni ancor prima che la sua bocca parlasse.
  La serva deglutì quando anche l’ultimo bottone schizzò via dall’asola, liberando il torace del conte. Aveva il ventre piatto, scolpito da leggeri addominali e il petto liscio, se non fosse stato per quell’unica cicatrice che gli percorreva in obliquo il pettorale sinistro, poteva definirlo perfetto.
  Solo quando l’uomo passò a sbottonarsi i polsini della camicia, Vivien tornò alla realtà. Non doveva contemplare il fisico del conte, ma trovare un modo per liberarsi da quella situazione che, senza alcun dubbio, non sarebbe finita bene per lei.
  Sarebbe potuta facilmente scappare, aveva la porta praticamente dietro le spalle, ma non era certa di andare molto lontano, tra la gonna che indossava e la velocità del conte, probabilmente non sarebbe riuscita nemmeno ad uscire dalla stanza.
  “Bene, serva”. Disse l’uomo avvicinandosi a lei, mentre si sfilava la camicia dalle braccia. “Ora farai ciò che ti dico io”.
  Vivien aggrottò le sopracciglia. Era pronta a tutto, anche a prenderlo a calci se fosse stato necessario, ma non si sarebbe mai piegata alle sue voglie animalesche.
  “Tieni!”
  Il conte le piazzò la camicia davanti al volto, rimanendole a circa un metro di distanza. Lei sembrò non capire.
  “E’ sporca di vino, stupida!” Continuò lui, con tono sprezzante. “Ti sei già dimenticata del casino che hai creato a pranzo?”
  Vivien sbatté le palpebre come se si fosse appena svegliata da un sogno ed afferrò la camicia del conte, mettendola in cima agli altri panni sporchi che portava in braccio.
  Si inchinò al conte quando questo già le aveva voltato le spalle per andarsi a stendere sul letto, dopodiché uscì dalla stanza.
  Non una frase provocatoria, non un gesto lussurioso. Il conte quasi non l’aveva degnata di uno sguardo e lei invece che si aspettava di essere aggredita da un momento all’altro.
  Forse il morso alla lingua gli è bastato come lezione.
  Meglio così, preferiva essere odiata dal proprio padrone piuttosto che diventare oggetto dei suoi piaceri sessuali.
  Il suo soggiorno a Villa Turner non era cominciato proprio come sperava, ma non per questo si sarebbe fatta mettere i piedi in testa.
  Anche se povera, anche se senza titolo e costretta a riconoscere altri nobili come suoi padroni, Vivien Foster non si sarebbe mai lasciata calpestare, ne andava del suo orgoglio e della sua dignità, nonché del ricordo della sua famiglia.

 
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Ammetto che il comportamento del conte è alquanto... "discutibile"!
Comunque c'è ancora molto da scoprire!^^
Aspetto con ansia le vostre opinioni!
Un bacio,
*HarleyQ_91*


 

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Capitolo 6
*** Guerra Aperta ***


Salve a tutti!^^
Oggi sto proprio di fretta, perciò perdonatemi se magari il capitolo ha qualche imprecisione,
non ho avuto il tempo di ricontrollarlo, ma dovevo aggiornare, perché sennò poi aspettavate troppo!
(mamma mia, quanto sono buona!xD)
Va bene, a parte gli scherzi, vi lascio al capitolo 5!^^


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Capitolo 5
- Guerra Aperta -

 

  Vivien entrò nella vecchia casupola di legno senza nemmeno bussare, sapeva che tanto avrebbe trovato Clelia in casa. Con la sua malattia dove mai sarebbe potuta andare, povera donna.
  La trovò infatti seduta davanti al piccolo caminetto in pietra che cuciva con ago e filo. Non doveva aver sentito la porta aprirsi, perché quasi saltò dalla sedia quando vide Vivien davanti a lei.
  “Mio Dio, vuoi farmi morire d’infarto?”
  La ragazza scoppiò a ridere. Le mancava il tono acido di Clelia.
  “Scusami, la prossima volta mi annuncerò”.
  Anche l’anziana donna si mise a ridere, dopodiché fece segno a Vivien di prendersi una sedia.
  “Avanti, raccontami”. Disse. “E’ parecchio ormai che sei aVilla Turner, come ti trovi?”
  La ragazza sorrise e si strinse nelle spalle. “Bene, la contessina è davvero adorabile”.
  Non intendeva riferirle ciò che era accaduto con il conte Aaron – certe notizie avrebbero solo fatto impensierire ulteriormente Clelia – e poi, dopo quel famoso bacio dato circa una settimana prima, il conte sembrava non far più caso a lei. Forse davvero aveva preso ad odiarla.
  “Ti fanno lavorare parecchio, eh?” Commentò la donna.
  “Già, ancora non mi hanno lasciato un giorno libero. Oggi mi hanno mandato al mercato, ecco perché sono passata, altrimenti di solito resto nella villa tutto il giorno”.
  “Beh, meglio lì che in quel tugurio”.
  Clelia si riferiva al Red Lion, non c’era bisogno di chiederglielo. Quella locanda era davvero uno dei posti peggiori del paese, ma Vivien in un certo senso gli doveva della gratitudine. Era grazie a quel tugurio che era riuscita a farsi le ossa dopo aver perso tutto. Come figlia di nobili, non le era mai stato insegnato a pulire o a servire ai tavoli e nemmeno a tenere testa a uomini ubriachi intenti solo a portarsi una donna a letto. Da quel punto di vista, il Red Lion era stato la sua migliore palestra di vita.
  “Resti per pranzo?” Chiese Clelia, mentre riponeva il vestito che stava cucendo dentro un baule. “Non c’è un granché da mangiare, ma mi faresti molto felice”.
  “Vorrei, davvero”. Rispose Vivien, alzandosi dalla sedia. “Ma purtroppo ho delle commissioni da fare e poi devo tornare subito alla villa. Sono passata giusto per un saluto e per…” Prese un sacchetto dalla borsa a tracolla e lo porse alla sua vecchia amica. “…darti questi!”
  Clelia prese in mano il sacchetto lo rovesciò su un palmo, facendone uscire una manciata di monete d’argento.
  “E’ un terzo della mia paga”. Spiegò la ragazza. “So che non è molto, ma è quanto mi hanno dato fino ad ora. Appena arriva la fine del mese ti prometto…”
  “Io non li voglio!” Sentenziò Clelia, riponendo il denaro nel sacchetto e restituendolo alla proprietaria. “Sto benissimo così come sto. Non ho bisogno di denaro”.
  “Ma Clelia…”
  “Dico davvero, il mio lavoro come sarta mi rende abbastanza per andare avanti”.
  Vivien sospirò e ripose il sacchetto nella borsa. Clelia era testarda quanto lei, non c’era niente da fare, avrebbe preferito morire, piuttosto che chiedere aiuto.
  “D’accordo, allora almeno accetta questa”. Vivien prese una cesta di frutta che aveva lasciato davanti alla porta appena entrata e la fece vedere alla donna. “Devi tenerti in forze e la frutta è ricca di vitamine”.
  Clelia si mise a ridere ed annuì. “Va bene, va bene, poggiala sul tavolo”.
  La ragazza obbedì, dopodiché andò ad abbracciare la sua amica. “Appena posso torno a trovarti”. La rassicurò.
  “Oh, tanto qui mi trovi. Dove vuoi che vada?”
  Vivien le diede un bacio su una guancia e si diresse verso la porta. Prima di andarsene tuttavia si voltò un’ultima volta verso Clelia, l’anziana era intenta ad esaminare la frutta e non la stava guardando, così prese in tutta fretta il sacchetto col denaro dalla borsa e glielo nascose dietro un vaso. Anche se Clelia li aveva rifiutati era certa che ne avesse bisogno.
  Varcò infine l’uscio ed uscì, respirando l’aria del tardo mattino. Aveva ancora delle commissioni da fare per la contessa, ma nulla le avrebbe impedito di andare a trovare un altro suo caro amico quel giorno.
 
  Aaron entrò nella locanda con la postura un po’ ricurva e il cappello abbassato in avanti. Andò a sedersi al solito tavolo in fondo alla sala e ordinò il suo solito brandy al solito sguattero.
  La notte prima gli era giunta una missiva dal marchese Ronchester, finalmente qualcuno stava per dargli le informazioni che più di una volta aveva richiesto per portare a termine la missione che gli era stata affidata.
  Passato qualche minuto infatti, un uomo con abiti umili si sedette al tavolo di fronte a lui e ordinò un bicchiere di vino.
  “Mi manda il marchese Ronchester”. Disse lo sconosciuto.
  “Perché non è venuto lui, questa volta?” Chiese sulla difensiva il conte. Non gli erano mai piaciuti i cambiamenti di piano così repentini.
  “Dei ladri hanno provato ad entrare nel palazzo questa notte”. Spiegò l’altro. “Ecco, questa è la delega che mi ha fatto”.
  Aaron prese in mano la piccola pergamena marchiata dal timbro dei Ronchester e l’aprì. La scrittura era senza dubbio quella di Sam e gli diceva di ascoltare ciò che il suo fidato Ronald aveva da riferirgli.
  “Ronald, dunque”. Disse ancora un po’ sospettoso Aaron, ma in fondo Sam era un uomo previdente, non avrebbe mai mandato qualcuno di cui non avesse avuto piena e incondizionata fiducia.
  “Il mio signore ha preferito mandare me perché vi riferissi delle cose a voce, piuttosto che scrivervi un’altra lettera”. Spiegò l’uomo.
  “Sì, sì, so come agisce Sam”.
  Il marchese preferiva non mettere per iscritto cose troppo importanti e segrete, così da evitare che poi tali documenti potessero finire in mani sbagliate.
  Arrivò lo sguattero della locanda e portò il brandy per il conte e il vino per il servitore di Sam. Poi Ronald si mise a parlare con voce sommessa mentre si rigirava il bicchiere tra le mani.
  “L’appuntamento è tra quattro notti”. Spiegò. “Falco vi attenderà a mezzanotte davanti al vecchio mulino e poi da lì andrete insieme”.
  “Si sa niente di Tidus?” Chiese il conte, ripensando al ragazzo che prima di lui aveva affrontato quella missione e aveva fallito.
  Ronald scosse la testa. “Probabilmente l’avranno già fatto fuori”.
  Aaron strinse le dita intorno al bicchiere di brandy e lo mandò giù tutto d’un sorso. Se per una sventurata fatalità avesse fallito quella missione, Sam non si sarebbe fatto scrupoli e avrebbe lasciato morire anche lui, su questo non c’erano dubbi.
  “Di’ al tuo padrone che voglio il doppio del compenso”. Esclamò poi, appoggiandosi di peso allo schienale della sedia.
  Ronald inarcò le sopracciglia e si irrigidì. “Credevo che il prezzo fosse già stato contrattato”.
  “Lo so, ma voglio ritrattare”. Aaron puntò il gomito sul tavolo, appoggiando il mento sul palmo della mano, mentre con gesto inequivocabile lasciava intravedere la pistola dal fianco sinistro.
  L’uomo di fronte a lui deglutì a vuoto e bevve il suo vino in un secondo, dopodiché si alzò dal tavolo in tutta fretta.
  “Riferirò al mio signore”. Disse, facendo un leggero inchino. Poi uscì dalla locanda e lasciò Aaron da solo al tavolo, col conto da pagare.
  Il conte sospirò e lasciò delle monete accanto al suo bicchiere di brandy, ormai vuoto. Stette per alzarsi, quando una voce conosciuta attirò la sua attenzione e lo costrinse a rimanere nell’ombra.
  “Oh mio Dio, Vivien!” Esclamò lo sguattero della locanda, guardando una ragazza che era appena entrata.
  “Tom, te l’avevo detto che sarei venuta a trovarti”. Disse lei, abbracciando il suo amico.
  Aaron si abbassò ancora di più il cappello davanti al volto. Nessuno doveva sapere che era stato lì, quella serva era proprio l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare.
  “Insomma, raccontami”. La invitò Thomas, facendola sedere ad un tavolo purtroppo non abbastanza lontano da quello del conte per permettergli di andar via senza essere visto. “Come te la passi a Villa Turner?”
  Vivien si strinse nelle spalle. “Abbastanza bene. Qualche incomprensione col padrone, ma per il resto non c’è male”.
  Il conte aggrottò le sopracciglia. Qualche incomprensione? Se non ricordava male era stata lei ad aggredirlo la prima notte in cui si erano incontrati.
  “Lo sai come sono fatti i nobili”. Esclamò il ragazzo. “Vogliono sempre aver ragione. Oh, non che tu sia come loro, s’intende”.
  La serva scoppiò in una risata radiosa che colpì il conte in modo inaspettato. A Villa Turner non l’aveva mai vista ridere così, o almeno non davanti a lui.
  “Tom, tranquillo. Lo sai che non sono più una nobile”.
  Il conte si riscosse subito da quell’attimo di smarrimento per prestare meglio attenzione alla conversazione. Vivien una nobile? Perché non ne sapeva nulla?
  “Beh, però magari ti dispiace se offendo la categoria”. Ironizzò lo sguattero.
  Lei rise ancora.
  “No, no, offendi pure chi ti pare”. Lo rassicurò lei. “Io stessa ho un pessimo giudizio sul mio padrone”.
  “E’ un uomo così orribile?” Chiese Tom, decidendo dopo tanto tentennamento di sedersi al tavolo con l’amica.
  “Il conte Turner non lo so”. Disse Vivien. “Ma suo figlio è davvero insopportabile”.
  Aaron aggrottò le sopracciglia. Sapeva che in realtà non avrebbe dovuto ascoltare quella conversazione, ma non per questo l’avrebbe fatta passare liscia a quella servetta irrispettosa.
  “Non so come due persone così diverse possano essere fratelli. La contessina è così dolce e garbata, il conte Aaron invece sa solo minacciare e alzare le mani”.
  “Ti ha picchiata?” Tom sbatté un pugno sul tavolo con rabbia, facendo girare quei pochi clienti che di mattina andavano alla locanda.
  Aaron contrasse la mascella. Se aveva alzato le mani su quella serva era solo per farle capire il suo posto e per far valere la sua autorità, niente che un qualsiasi altro nobile non avrebbe fatto con un suo sottoposto.
  “Tom, calmati”. Disse poi Vivien, prendendo il pugno del ragazzo e stringendolo tra le mani. “Il conte non mi ha fatto nulla. E comunque so badare a me stessa, lo sai”.
  “Se ti venisse fatto del male, verresti a dirmelo, vero?”
  La ragazza sorrise dolcemente – altra espressione che Aaron non le aveva mai visto in casa sua – e accarezzò il volto al suo amico. “Correrei, Tom”.
  Detto questo si alzò dal tavolo e abbracciò il ragazzo salutandolo.
  “Tornerò appena mi sarà possibile”. Gli disse mentre solcava l’uscio della locanda.
  Appena la ragazza non fu più visibile ai suoi occhi, anche il conte Aaron si alzò dal tavolo. Prima di uscire però doveva chiarire una cosa.
  “Giovanotto”. Chiamò lo sguattero che fu subito da lui. “La ragazza che è appena uscita, avete detto che è una nobile”.
  “Era, signore”. Precisò Tom. “Ha perso tutto sei anni fa, ora ha un lavoro a Villa Turner”.
  “A che casata apparteneva, lo sai?” Continuò imperterrito il conte.
  “Suo padre era il conte Eugenee Foster”.
  Aaron rifletté qualche secondo. Quel nome non gli era nuovo, non erano una famiglia molto in vista nella società inglese, ma quei pochi che ne parlavano avevano trattato il nome Foster sempre con rispetto.
  “Grazie, per il tuo disturbo”.
  Il conte diede due monete d’argento allo sguattero che lo ringraziò baciandogli la mano, dopodiché uscì dalla locanda.
  Così è una nobile decaduta. Pensò mentre saliva sul suo cavallo, diretto alla villa. Questo spiegherebbe perché sia tanto riluttante ad eseguire gli ordini, ma le farò cambiare atteggiamento.
 
  Vivien solcò il cancello di Villa Turner e si diresse verso l’entrata esterna della servitù, dove Meg e gli altri servitori erano già intenti a servire il pranzo. Hans le aveva riferito quella mattina che la sua mansione del giorno – oltre ad andare al mercato – era di ripulire la biblioteca, così si diresse all’interno della casa.
  Anche se non le era stato detto esplicitamente, Vivien era certa che quel lavoro le fosse stato imposto dal conte. Spolverare volume per volume tutti i libri sugli scaffali, senza nessun altro ad aiutarla, solo una persona che la odiava poteva averle dato un lavoro simile.
  E lei era sempre più convinta dell’odio che il conte Aaron provava nei suoi confronti.
  La ragazza entrò nella biblioteca sospirando, ricordando fin troppo nitidamente ciò che era accaduto tra quelle mura. Il conte aveva osato baciarla, le aveva rubato quel bacio che ancora non era mai stato dato a nessuno e lo aveva fatto in modo spregevole.
  Vivien scosse la testa per non pensare a quanto fosse ferito il suo orgoglio e si mise a pulire.
  Tuttavia non poteva impedire ai ricordi di riaffiorare nella sua mente. Aveva ancora ben vividi il sapore e la sensazione della lingua del conte nella propria bocca, come lo erano le immagini di lui che poco dopo entrava nella sua stanza con Meg, lasciando intendere fin troppo bene come sarebbe andato a finire quell’incontro.
  Un grugnito d’ira le partì dal petto e senza accorgersene piegò alcune pagine di un vecchio libro di avventure. Vivien ripose subito il volume al suo posto, sperando che nessuno si accorgesse mai del suo gesto.
  Doveva calmarsi, quell’uomo non meritava tutto quel risentimento. Ormai, dopo il morso che lei gli aveva inferto, il conte aveva preso ad odiarla, perciò non doveva più preoccuparsi di ricevere altre molestie. E per quanto riguardava Meg, era libera di andare a letto con chi le pareva, anche se, in quanto a compagnia, non aveva certo molto giudizio.
  Vivien si mise in punta di piedi per raggiungere l’ultimo scaffale pieno di libri. Toccava le copertine solo con la punta delle dita, ma non poteva prendere una sedia e salirci sopra con le scarpe sporche, la padrona l’avrebbe disintegrata senza possibilità di replica.
  Cercò di tirarsi ancora più su rimanendo su un piede solo. Riuscì finalmente ad afferrare un volume, quando sentì due grandi mani prenderla per i fianchi. Lo spavento la portò a sporgersi all’indietro, trascinando con sé alcuni libri. Si coprì la faccia per evitare di farsi male mentre cadeva a terra, dopodiché si ritrovò stesa sul pavimento, con il fondoschiena dolorante e le braccia di un uomo strette intorno alla vita.
  Si voltò all’istante. No, non era caduta sul pavimento, ma sul petto del conte Aaron che, dal ghigno stampato in faccia, non sembrava disdegnare quella posizione.
  “Ti sei fatta male?” Chiese lui, mentre stava cercando – neanche troppo celatamente – di nascondere una risata.
  “No, signore!” Rispose fredda lei. Per una settimana il conte non l’aveva nemmeno degnata di uno sguardo e ora si permetteva addirittura di abbracciarla, ma che cosa voleva da lei quell’uomo?
  La stretta delle sue braccia si fece più ferrea e Vivien sentiva la sua schiena sempre più schiacciata al petto del conte. Giusto qualche attimo prima aveva creduto di non dover più temere le sue molestie, evidentemente si sbagliava.
  “Signore, io avrei del lavoro da sbrigare”. Disse, cercando di divincolarsi dalla sua presa. I libri che erano caduti dallo scaffale dovevano assolutamente essere riordinati e puliti. Non osava pensare poi a cosa avrebbe detto la padrona se qualche pagina si fosse strappata.
  Il conte tolse un braccio dalla vita di Vivien, per andarle a prendere una mano. La ragazza lo vide osservare con attenzione le sue dita affusolate, le unghie erano rovinate e i palmi un po’ incalliti, di certo il conte stava valutando quanto una come lei potesse essere sudicia.
  Con grande sorpresa invece, Aaron si portò la mano alla bocca e baciò quelle dita, con delicatezza, quasi con rispetto, lasciando Vivien senza parole.
  Il conte odioso e superbo ormai aveva imparato a conoscerlo e a gestirlo, ma l’uomo gentile e rispettoso ancora non lo aveva mai affrontato, per questo ne rimase spiazzata.
  “Hai delle mani molto belle”. Disse lui in un sussurro. “Che peccato che debbano fare dei lavori così rozzi”.
  Vivien sentì la lingua del conte percorrerle i polpastrelli e si ritrovò inavvertitamente ad arrossire.
  “Sono una serva, signore”. Disse lei. “E comunque posso assicurarvi che, rispetto a molti altri lavori, quello a Villa Turner è tutt’altro che rozzo”.
  Il conte ridacchiò. “Già, ma per una come te deve comunque trattarsi di un duro colpo”.
  Il tono dell’uomo era cambiato, si era fatto più deciso e Vivien sentì una scossa di paura percorrerle la schiena.
  Una come te, che cosa voleva dire?
  “Signor conte, non vi seguo”.
  Per tutta risposta l’uomo la prese per la vita e la fece stendere con la schiena a terra. Lui la schiacciò col suo petto, impedendole di muoversi. Vivien prese a dimenarsi, ma era tutto inutile, il conte Aaron era troppo forte.
  “Signore, che cosa avete intenzione di fare? Lasciatemi immediatamente!”
  L’uomo però non l’ascoltava.
  “Mi hai incuriosito fin dall’inizio, sai?” Disse lui, mentre con una mano le teneva i polsi ben fermi sopra la testa e con l’altra cominciò a slacciarle il corpetto. “Per quanto non particolarmente bella, hai un carattere singolare e più di una volta hai sfidato la mia autorità. Credevo fosse solo insolenza, invece ora ho capito”.
  Vivien sentì la mano del conte insinuarsi sotto il suo corpetto ormai aperto e stringersi intorno ad un suo seno. Cercò di divincolarsi ancora, ma senza successo, così provò ad urlare, ma la bocca del conte fu subito sulla sua.
  Stringere gli occhi e mugugnare non era abbastanza perché l’uomo si fermasse. Avrebbe potuto morderlo di nuovo, ma questa volta il conte sembrava aver imparato la lezione e muoveva la lingua in modo quasi frenetico, per evitare che i denti della ragazza potessero imprigionarla un’altra volta.
  La mano che racchiudeva il suo seno cominciò a massaggiarlo e Vivien si ritrovò inavvertitamente ad inarcare la schiena. Non era una reazione premeditata, il suo corpo aveva risposto da solo a quel tocco e il conte Aaron ne rimase visibilmente compiaciuto.
  “Ti piace, non è vero?” Le sussurrò a fior di labbra.
  “Siete un…”
  L’uomo le tappò di nuovo la bocca, mentre col bacino cominciava a muoversi su di lei. Vivien si sentiva così sporca in quel momento e non certo per il fatto di trovarsi a terra sulla polvere lasciata dai libri. Il suo corpo stava per essere macchiato per sempre da un uomo lussurioso e superbo, che pensava solo a soddisfare i suoi istinti bassi e animaleschi. Tuttavia la cosa che più la attanagliava non era quella di perdere la verginità – non era mai stata una sentimentale – ma era il fatto di dover assistere inerme a quello scempio, senza poter far nulla per impedirlo.
  Improvvisamente accadde qualcosa che la fece irrigidire.
  Il conte doveva essersi accorto del suo improvviso stallo, perché si fermò anche lui e alzò lo sguardo per vederla in volto.
  “Che fai, piangi?” Disse l’uomo quasi sghignazzando. “Non ti facevo una piagnucolona”.
  Vivien ormai però non lo ascoltava più, era ancora troppo sconvolta da ciò che stava succedendo. Sul suo viso calde lacrime avevano ripreso a scendere, dopo anni che ciò non accadeva più. Sinceramente non sapeva se essere contenta o meno.
  “Ehi, ti senti bene?” Continuò a chiedere il conte, questa volta con un po’ di preoccupazione non vedendola muoversi. Le lasciò libere le mani, così lei poté portarsele al volto e asciugarsi le lacrime.
  “Sei anni”. Sussurrò Vivien. “Mio Dio, sei anni!”
  “Mi spieghi che succede?” Aaron stava cominciando visibilmente a perdere la pazienza.
  “Succede, signor conte, che erano sei anni che non versavo una lacrima”. Spiegò irritata la ragazza, scivolando via da sotto il corpo dell’uomo. “Voi, con la vostra violenza, mi avete restituito il pianto. Non sono lacrime disperate le mie, oh no! Non vi darei mai questa soddisfazione! Io piango dalla rabbia e, almeno per questo, devo ringraziarvi”.
  Così dicendo si alzò dal pavimento e si risistemò il corpetto, coprendosi i seni. Aveva ancora le mani tremanti e le lacrime non accennavano a smettere di scendere, la irritava inoltre il fatto che il conte fosse rimasto lì a fissarla, come se tutto ciò che gli aveva appena detto lo avesse lasciato senza parole. Sarebbe stata una sua piccola vittoria in quel mare di sconfitte che stava subendo il suo orgoglio.
  “Lascia, faccio io”. L’uomo le si avvicinò, ma Vivien fece immediatamente un passo indietro.
  “Non mi toccate!” Disse con voce strozzata. “Avete fatto abbastanza, mi pare. Ora lasciatemi in pace”.
  Vivien si voltò di spalle e nel farlo la crocchia in testa, che già le si era allentata, finì di sciogliersi definitivamente, facendo ricadere i suoi capelli castani sulle spalle. Si mise ad allacciare il suo corpetto, sperando vivamente che il conte non tornasse all’attacco.
  Quando poi però sentì la porta della biblioteca aprirsi e richiudersi subito dopo, capì di essere salva. Non era certa che il conte l’avrebbe lasciata in pace, ma osava almeno sperarlo.
  Di una sola cosa era sicura, lei avrebbe ostacolato i capricci e le voglie del suo padrone con ogni mezzo in suo potere, perché tra loro si era aperta una guerra e, solo perché non era nobile, non significava che sarebbe stata lei a perdere.

 

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A quanto pare il conte le buone maniere ancora non le ha imparate... eh, questi uomini!xD
Spero mi facciate sapere presto cosa ne pensate!
Un grazie da profondo del cuore a tutti quelli che commentano,
(al prossimo capitolo, che andrò un po' meno di fretta - spero - vi ringrazierò come si deve)
a tutti quelli che hanno messo la mia storia nelle seguite o preferite!
Mi spronate ad andare avanti!
Un bacione e buon WeekEnd a tutti!^^

*HarleyQ_91*



 

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Capitolo 7
*** Segreto Svelato ***


Salve a tutti!^^
Eccoci qui con il sesto capitolo (wow, di già!xD)
Ammetto che forse, tra tutti quelli pubblicati fin ora, questo è quello che mi piace di meno!
L'ho scritto in un periodo un po'... così, spero mi perdonerete, perché poi con il settimo mi rifarò, ve lo garantisco!^^


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Capitolo 6
- Segreto Svelato -

 

  Il conte quella mattina si svegliò presto rispetto al suo solito – normalmente si alzava quando sua madre e sua sorella già erano pronte per il pranzo – e diede disposizioni perché gli venisse preparato il cavallo.
  “Vai di nuovo in paese, Aaron?” Gli chiese la madre, abbassando il libro che teneva davanti al volto quando lo vide entrare in salotto.
  L’uomo annuì. “Si avvicina il compleanno di Alyssa, voglio comprarle qualcosa di bello”.
  La donna sospirò e riprese a leggere il suo libro. “Se prendessi tutto a cuore come fai con tua sorella…”
  La contessa lasciò la frase in sospeso, ma Aaron sapeva bene come la pensava la madre per quanto riguardava le sue scorrazzate notturne. Era vero, il conte amava divertirsi, ubriacarsi, giocare d’azzardo e andare a donne, ma in fondo non era l’unico nobile inglese sotto i trent’anni che faceva certe cose.
  Certo, suo padre non vedeva molto bene il suo sperpero di soldi, ma Aaron aveva una… attività che gli permetteva di guadagnare parecchio, anche se la sua famiglia non ne era a conoscenza.
  Il conte stava per uscire dal salotto, quando Vivien si presentò sull’uscio, serrandogli il passaggio.
  La ragazza aveva il solito portamento retto e sicuro di sé, ma erano un paio di giorni – precisamente dal loro ultimo incontro in biblioteca – che la serva non incrociava più i suoi occhi, nemmeno per mandargli sguardi di sfida.
  “Permesso, signore”. Disse, facendo un leggero inchino. “Devo riferire un messaggio alla contessa”.
  Aaron si fece da parte, lasciando passare la ragazza. Decise però di non andarsene dal salotto e rimanere sulla soglia della porta ad ascoltare ciò che Vivien aveva da dire a sua madre.
  “Hans chiede se bisogna cominciare a mandare gli inviti per la festa in onore della contessina”.
  La contessa alzò lo sguardo dal libro e fissò il viso della ragazza con diffidenza. L’atteggiamento di superiorità che sua madre assumeva con la servitù di solito suscitava rabbia o paura, Vivien invece sembrava proprio non curarsene. Quella ragazza era davvero un tipo singolare.
  “La festa di Alyssa è tra una settimana e ancora non sono stati mandati gli inviti?” Chiese la donna, con tono acido. “Mi aspettavo maggior dedizione da Hans e anche da parte tua, Vilian”.
  La serva abbassò la testa. “Provvederò subito”. Poi fece un leggero inchino e si diresse verso la porta.
  Aaron la osservò mentre usciva dal salotto e la seguì fuori nell’atrio della villa.
  “E’ parecchio ormai che lavori qui e mia madre ancora non si è imparata il tuo nome”. Commentò il conte, standole dietro a passo lento. Vivien sembrava non far caso a lui, ma era certo che stesse bluffando.
  “Eppure Vivien è facile da ricordare. O forse lo è solo per me, perché ti ho sempre nei miei pensieri”.
  Ancora nessuna reazione. Davvero quella serva aveva intenzione di evitarlo per tutto il resto della sua vita? Abitavano sotto lo stesso tetto e lui era il padrone, doveva capire che non aveva scampo.
  La serva uscì nei giardini antistanti la villa e si diresse verso la fonte sul retro, Aaron la seguì finché non la vide fermarsi a riempire una brocca d’acqua.
  “Spiegami, Vivien, chi ti ha dato questo nome? I tuoi genitori?” Chiese lui, incrociando le braccia e appoggiando la schiena al tronco di un albero.
  A quel punto, per la prima volta da quando l’aveva incontrata quella mattina, la serva alzò lo sguardo su di lui e gli si avvicinò.
  L’acqua dondolava all’interno della brocca, mandando qualche schizzo sul suo corpetto e sulla pelle nuda della scollatura. Aaron però si imponeva di guardarla in volto, dove occhi inespressivi lo stavano fissando, sempre più da vicino.
  Probabilmente era stata una vigliaccata quella di nominarle i genitori – Aaron si era documentato sulla tragedia avvenuta sei anni prima alla famiglia Foster – ma almeno così aveva ottenuto la sua attenzione.
  “Avete intenzione di seguirmi per tutto il giorno, signore?” Chiese lei, alzando un sopracciglio.
  “Solo finché non ricomincerai a considerarmi un essere umano”. La stuzzicò il conte.
  Vivien gli si avvicinò ancora di più, aveva lo sguardo acceso da una strana luce e Aaron sentì di nuovo crescere tutta l’adrenalina di quando l’aveva baciata la prima volta. Il desiderio di provare ancora una sensazione simile si fece spazio dentro di lui e pensò di prenderla lì, sul retro di casa sua, senza curarsi se qualcuno avesse potuto vederli.
  Voleva scoprire quanto poteva essere focosa quella ragazza che sapeva accenderlo con un solo sguardo.
  I suoi bollenti spiriti però andarono raffreddandosi nell’esatto istante in cui dell’acqua gelida lo colpì in pieno petto, bagnandogli i vestiti.
  “Oh, scusatemi, mi è scivolata la brocca”. Esclamò la ragazza con tono innocente, senza celare però un ghigno divertito.
  Aaron non era stupido, sapeva che quella serva lo aveva fatto apposta, ma non si scompose, sapeva già come toglierle quell’espressione trionfante dalla faccia.
  “Bene, la colpa è tua”. Disse mentre si toglieva la giacca e si sbottonava la camicia. Vide Vivien irrigidirsi di colpo e la cosa lo compiacque. “Ora asciugami!”
  La ragazza rimase immobile con lo sguardo smarrito per qualche secondo. Poi, con grande sorpresa del conte, prese un fazzoletto che teneva nella tasca della gonna e gli fece cenno di sedersi a terra.
  A parte lo sgomento iniziale, Vivien gli stava asciugando il petto nudo con lo stesso imbarazzo con cui asciugava i piatti in cucina. Come poteva essere così immune al suo fascino? Davvero quella ragazza non provava nulla nel toccare la sua pelle? Era solo lui quello a sentire una forte scossa ogni volta che lei lo sfiorava?
  La cosa era davvero troppo frustrante.
  Con tamponamenti lenti e ritmati, Vivien passava il fazzoletto sul suo petto, poi alla base del collo, sull’addome e Aaron dovette appoggiarsi con la schiena al tronco dell’albero per non vacillare. Dio, se quelle mani fossero andate più giù, avrebbe provato la gioia del Paradiso.
  “La giacca e la camicia bisogna metterle ad asciugare”. Disse lei, svegliandolo da quel sogno ad occhi aperti che gli stava procurando il respiro affannato. “Le porto dentro”.
  “Ferma!” Aaron la bloccò prima che potesse alzarsi e la fece cadere sulle sue gambe. “Non mi scappi!”
  Vivien partì a dimenarsi come suo solito, ma il conte non poté fare a meno di pensare che in fondo tutte quelle attenzioni da parte sua non le facessero proprio schifo. Certo, una volta l’aveva morso e l’altra si era messa a piangere, ma in fondo era lei che lo provocava.
  Credeva davvero di potergli asciugare il petto in quel modo e non subirne le conseguenze?
  “Lasciatemi, signore!” Dandogli una gomitata sotto la mascella, la serva riuscì a fargli allentare la presa e ad alzarsi. “Posso sapere perché ce l’avete tanto con me? La prima volta che mi avete visto neppure vi sono piaciuta”.
  “E’ vero”. Confermò Aaron, alzandosi anch’egli. “Non sei il genere di bellezza che risalta ai miei occhi, ma ti desidero ugualmente. Scommetto che, con il carattere che ti ritrovi, a letto saresti tutta un fuoco”.
  “Siete disgustoso!” Lo insultò lei, ma il conte non si lasciò intimorire e la prese per un braccio, sbattendola addosso all’albero.
  “Che ti piaccia o no, Vivien, un giorno finirai sotto le mie lenzuola, volente o nolente”. Aaron si adagiò su di lei, facendo in modo che potesse sentire quanto fosse già eccitato, così da avere la prova che non stava scherzando.
  “Mi state minacciando, signore?” Chiese la ragazza, guardandolo dritto negli occhi.
  Il conte scosse la testa.
  “O fai come dico io, o dirò a mia madre che sei una nobile decaduta”. Esclamò, compiaciuto di vederla irrigidire. “Questa è una minaccia”.
  Si staccò poi da lei, prese la giacca e la camicia dalle sue mani e si diresse verso l’entrata della villa. Il suo ego aveva raggiunto livelli spropositati. Trovava divertente far vacillare l’integrità di quella servetta ed era più che certo che prima o poi avrebbe ceduto.
  Vivien Foster sarebbe stata sua.
 
  La ragazza entrò correndo nell’ala della servitù e andò dritta nella sua stanza. Era ancora troppo sconvolta anche solo per respirare, quell’uomo, quel… vile aveva scoperto il suo segreto.
  Vivien non aveva mai fatto cenno al suo passato da nobile perché sapeva bene quanto poteva essere disdegnoso per i conti avere una decaduta come serva, la contessa non l’avrebbe mai assunta se avesse saputo che apparteneva alla famiglia Foster andata in rovina sei anni prima.
  Se ora il conte però se ne fosse uscito con quella faccenda, per lei sarebbe stata la fine.
  Si sciolse i capelli e si stese sul letto, riprendendo a respirare regolarmente, per quanto le fosse possibile. Rimase a fissare il soffitto per parecchi minuti, quando qualcuno bussò alla sua porta.
  “Ecco dov’eri, ti stavo cercando”. Esclamò Meg, facendo capolino sull’uscio della stanza. “Credevo fossi andata a chiedere disposizioni alla contessa”.
  Vivien si tirò su con i gomiti e osservò la ragazza minuta davanti a lei. Quella piccoletta era sottostata alle voglie del conte e probabilmente non una volta sola, era stata abbracciata a quel corpo che solo qualche attimo prima l’aveva costretta a star ferma, aveva subito il tocco di quelle mani che senza permesso l’avevano esplorata e aveva assaporato quelle labbra che senza ritegno l’avevano minacciata.
  Sentì un fastidio – come una fitta – alla base della gola, ma non ci rimuginò troppo sopra.
  “Sì, scusami, non mi sono sentita bene”. Mentì Vivien, alzandosi dal letto. “Comunque la contessa vuole che vengano mandati gli inviti immediatamente”.
  Meg annuì, invece di uscire però le si avvicinò. “Vuoi restare qui a riposarti?” Le chiese con tono gentile. “Posso prendere io il tuo posto, per oggi”.
  La ragazza però scosse la testa. Restare sdraiata a rimuginare su ciò che era successo non l’avrebbe di certo aiutata, era meglio lavorare e tenere la mente occupata.
  Meno pensava ad Aaron Turner, più tranquillamente avrebbe passato la giornata.
  Quando tornò in salotto sentì poi il nitrito di un cavallo e affacciandosi ad una vetrata vide il conte uscire al trotto dal giardino della villa.
  Meglio così, almeno non ci sarà pericolo che mi importuni ancora.
  “Vivien”. La richiamò Meg, con tono più duro del solito. “La contessina ti aspetta in biblioteca”.
  Alyssa stava già seduta al tavolo davanti al caminetto, con un libro aperto davanti e lo sguardo concentrato sulle pagine. Era veramente assorta da quella lettura da non accorgersi che la sua dama di compagnia era entrata nella stanza, infatti sobbalzò quando Vivien spostò la sedia di fronte a lei per sedersi.
  “Che cosa state leggendo, contessina?” Chiese incuriosita la serva dalla tanta attenzione che la ragazzina dedicava a quel libro.
  “Shakespeare”. Rispose la nobile. “Giulio Cesare”.
  Vivien inarcò le sopracciglia. Ricordava bene quella tragedia e sinceramente non la trovava adatta ad una ragazzina, anche se in verità lei doveva aver avuto la stessa età di Alyssa quando suo padre la costrinse a leggerla.
  “E vi piace?” Chiese poi, pensando di instaurare una conversazione sull’argomento.
  La contessina annuì. “La congiura, essere traditi dalle persone di cui si ha più fiducia, sembra molto attuale, non trovi anche tu?”
  Vivien annuì, rimanendo tuttavia un po’ sorpresa dal commento insolito della piccola. Chissà perché ebbe l’impressione che Alyssa parlasse per esperienza personale, ma in cosa potrebbe mai essere stata tradita una ragazza di quindici anni?
  “Volete che continuiamo a leggere insieme o preferite restare da sola?” Chiese infine Vivien per sapere quali fossero le sue mansioni. La contessina però le chiese cortesemente di rimanere e così passarono il tempo, leggendo e commentando.
  Finché non fu l’ora di pranzo.
  “Vostra madre sarà già a tavola”. Commentò la serva, riponendo in fretta i libri nella biblioteca.
  “Domani leggiamo di nuovo qualcosa di Shakespeare?” Chiese la contessina, mentre usciva dalla stanza e sorrise quando vide Vivien annuire.
  La ragazza si diresse poi verso la sua stanza per cambiarsi d’abito, finito il ruolo di dama di compagnia doveva vestire i panni di una normalissima serva, il suo sguardo però cadde al di fuori delle vetrate del corridoio che davano sul giardino nel retro della villa.
  Al cancello c’era un uomo che teneva un cavallo per le briglie, era vestito di nero e portava il cappello, così la serva non riuscì a vederlo in volto.
  Passato qualche attimo, il conte – che era rientrato alla villa circa un’ora prima – si accostò al visitatore, ma non lo fece entrare. Assunsero invece entrambi un’aria circospetta, quasi furtiva, guardandosi spesso intorno e gesticolando il meno possibile.
  I due uomini parlarono per qualche secondo, dopodiché lo sconosciuto salì in groppa al suo cavallo e se ne andò, mentre il conte rientrò a casa.
  Le conoscenze del conte non erano di certo affar suo, Vivien lo sapeva bene, ma l’espressione che il suo padrone aveva assunto mentre parlava con quell’uomo in nero non sembrava affatto amichevole.
  Probabilmente si trova in mano agli strozzini.
  Con tutti i soldi che sperperava in gioco d’azzardo e donne non c’era poi tanto da stupirsi.
  Vivien decise di non pensarci più e si cambiò al volo per andare a servire i nobili a pranzo, quando improvvisamente ebbe un’illuminazione.
  E se anche lui avesse un segreto?
  Uno che non diceva a nessuno perché si vergognava o perché significava il disonore per la sua famiglia, un segreto come i debiti di gioco, come il fatto di essere ricattato da strozzini.
  Se così fosse stato, Vivien non avrebbe più dovuto temere le minacce del conte, perché lei lo avrebbe ripagato con la stessa moneta.
  Soddisfatta della sua intuizione tornò ai suoi doveri di serva, servì il pranzo a contessa e contessina, dopodiché passò tutto il pomeriggio a portare gli inviti per la festa della piccola Alyssa.
  Si rese conto di quanto le facessero male le gambe solo quando a sera inoltrata si sdraiò sul letto, ma la fatica non poteva frenare il suo compiacimento.

  Doveva solo scoprire il segreto del conte Aaron – era certa che ne avesse uno – e i suoi giorni d’inferno a Villa Turner sarebbero cessati, una volta per tutte.
 

******

Mi rendo conto solo ora di quanto sia corto questo capitolo rispetto agli altri (chiedo ancora perdono)!

Vedrò di aggiornare al più presto il capitolo sette!
Probabilmente inizio della prossima settimana...
scusate se ho un po' rallentato i tempi, ma ricominciandomi l'università non ho più molto tempo per scrivere.
Come si dice, "me tocca studià"!xD
Vabbè, a parte gli scherzi, farò il possibile per postarlo tra lunedì e martedì!^^
Un bacione a tutti e soprattutto ringrazio

Clitemnestra_Natalja
Krakkry
Moet Et Chandon

per le recensioni che mi hanno lasciato, sono accolte sempre con grande apprezzamento!
Un grazie naturalmente anche a tutti quelli che leggono la mia storia, l'hanno messa nelle preferite o seguite!
A presto!^^


*HarleyQ_91*

 

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Capitolo 8
*** I Mercenari ***


Ringrazio Lele, che è stata una consigliera eccezionale e una vera e propria "santa" per aver sopportato tutti i miei scleri di questi giorni!
Probabilmente, senza di lei, il capitolo 7 avrebbe cominciato a prendere vita con molto ritardo!^^
Buona lettura...

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Capitolo 7
- I Mercenari -


   Erano quasi le undici di notte, quando Aaron accese la candela sul comodino e si alzò dal letto. Si vestì in fretta, non con abiti troppo appariscenti o costosi, più rimaneva nell’anonimato meglio era.
  Non tralasciò tuttavia di indossare la cintura di cuoio dove tenere la pistola, dopodiché mise il soprabito nero e uscì dalla sua stanza.
  Villa Turner era immersa nel buio e nel silenzio. Sapeva tuttavia che sua madre era ancora sveglia – soffriva di insonnia, povera donna – anche se tanto non l’avrebbe fermato. La contessa era convinta che, come ogni notte, suo figlio se ne andasse in qualche taverna ad ubriacarsi e a fare sesso.
  Per la maggior parte delle volte accadeva, ma non quella notte.
  Uscì dalla porta delle cucine, come faceva sempre, e si diresse verso la scuderia. Il suo fidato stalliere James gli aveva già preparato il purosangue, elegante e fiero nel suo manto corvino, l’unico dono fatto da una delle sue donne che avesse mai accettato.
  Salì in sella e, dopo aver salutato James con un cenno del capo, cavalcò verso l’uscita della villa. La strada da percorrere non era molta, ma doveva farla con prudenza, non poteva rischiare di essere visto, altrimenti avrebbe fatto la fine di Tidus e – più che temere per la sua vita – temeva per la sua reputazione.
  Era il migliore per quel genere di missioni e voleva continuare ad esserlo finché fosse rimasto in vita.
  Anzi no, anche dopo la morte!
  Uno scricchiolio alle sue spalle gli interruppe i pensieri un po’ troppo divaganti e tornò con tutti i sensi all’erta. Era ancora lontano dal luogo dell’appuntamento, se anche i nemici avessero intercettato il loro piano, di certo non lo avrebbero aggredito lì, però era meglio essere prudenti.
  Continuò a passò lento senza voltarsi, tuttavia con gesto veloce – fingendo di spostarsi il mantello – tolse la sicura alla pistola e rallentò il cavallo in modo che gli zoccoli non facessero troppo rumore sulla strada.
  Se avesse sentito un altro scricchiolio sospetto, non avrebbe esitato a sparare.
  Passato poi qualche minuto senza che accadesse nulla, Aaron si rilassò e si diresse verso il mulino che ormai era a vista. Falco doveva già essere lì.
  Scese da cavallo e fece gli ultimi cento metri a piedi, lasciando il purosangue legato ad una staccionata. Per quanto il colore nero si confondesse nella notte, una bestia di quelle dimensioni dava troppo nell’occhio.
  “Psss, ehi Aaron!”
  Un bisbiglio si levò nella notte, ma Aaron ci mise un po’ a capire da dove provenisse. Vide un’ombra muoversi dietro il mulino e la raggiunse.
  “Falco, eccoti”.
  Il conte si sentì una mano sulla spalla e a quel punto distinse i lineamenti del suo amico davanti a sé.
  “La Luna stanotte ha deciso di nascondersi dietro le nuvole per facilitarci il compito”. Commentò Falco sorridendo ed abbracciando il conte. “Non vedranno nemmeno le nostre ombre”.
  “Spiegami dov’è il luogo dell’attacco e poi lascia fare a me!” Sentenziò Aaron con sicurezza.
  Falco però scosse la testa. “Sono in quattro, più il bersaglio, ti servirà il mio aiuto”.
  “Dimmi dove devo andare!” Ripeté il nobile.
  L’altro sbuffò, avrebbe dovuto sapere ormai che non si poteva discutere con Aaron Turner.
  “Si sono riuniti in quella baracca ai piedi della collina”. Disse Falco, indicando una casupola dalle cui finestre usciva una fioca luce arancione. “Sei vicino a delle case, quindi se fai rumore qualche paesano potrebbe sentirti, sta’ attento”.
  Aaron sorrise. “Non gli lascerò il tempo nemmeno di pregare”.
  Detto questo tornò a riprendersi il cavallo e si diresse verso la collina indicatagli da Falco.
  “Ah, dimenticavo”. Lo richiamò quest’ultimo, lanciandogli un sacchetto che Aaron prese al volo. Vi erano venti monete d’argento. “L’altra metà alla fine del lavoro”.
  Il conte raggiunse la casupola nel giro di qualche minuto e, lasciato il cavallo non troppo distante – in caso di fuga era meglio averlo vicino – si appostò sotto una finestra. All’interno della baracca c’erano delle voci di uomini, da come cantavano e ridevano dovevano essere ubriachi, meglio così, il suo compito sarebbe stato più facile.
  “Ehi tu!”
  Aaron si sentì strattonare per il colletto del mantello e sollevare da terra. Un omone alto all’incirca due metri era uscito dalla casa senza che lui l’avesse visto e dall’alito che emanava doveva aver appena vomitato.
  “Chi cazzo sei tu?” L’omone era abbastanza adirato e urlava parecchio, se Aaron non si fosse inventato qualcosa alla svelta di certo lo avrebbero scoperto, mandando in fumo la sua missione.
  No, non poteva fallire, non avrebbe fatto la fine di Tidus e tanto meno si sarebbe fatto ammazzare da quegli ubriaconi.
  Anche se non avrebbe dovuto, stava per prendere la sua pistola e puntarla dritta allo stomaco dell’energumeno, quando fu lui stesso a lasciare la presa e crollò a terra.
  Il conte rimase un attimo a guardare il corpo del suo aggressore, immobile sull’erba, poi, quando alzò lo sguardo, capì che cosa era successo.
  “Che ci fai tu qui?” Chiese, in un misto tra disappunto e sorpresa.
  “Vi ho seguito, signor conte”.
  Vivien gettò a terra il pezzo di staccionata che aveva tra le mani e sorrise, puntando i pugni sui fianchi. Aveva i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle e un soprabito azzurro, tuttavia le sue caviglie erano scoperte, il che faceva dedurre che indossasse solo una misera sottoveste.
  Il conte però non riusciva a smettere di guardarle il volto, l’espressione di superiorità che ogni volta assumeva quella serva lo faceva imbestialire. Tuttavia, in quel frangente, non era solo la rabbia il motivo che lo spingeva a mandarla via, ma anche la paura che potesse rimanere coinvolta in ciò che stava per fare.
  “Devi andartene, subito!” Le ordinò a bassa voce, prendendola per un braccio e trascinandola a qualche metro dalla baracca.
  “Non finché non avrò capito che cosa state facendo”.
  “Sono il tuo padrone, devi fare quello che ti dico io”.
  “Se non sbaglio, mi dovete la vita”. Commentò lei, puntando l’indice sul petto del conte. “Se non fosse stato per me, quel brigante vi avrebbe conciato per le feste. Abbiate un po’ di riguardo, mi siete debitore”.
  Aaron alzò gli occhi al cielo, era inutile cercare di farla ragionare, quella ragazza era testarda come un mulo e – cosa ancor peggiore – aveva ragione, le era debitore.
  Improvvisamente la porta della baracca si aprì e il conte gettò a terra Vivien, facendola finire dietro dei mucchi di fieno accatastati lì accanto, e si nascose con lei.
  “Ehi Lenz, hai finito di vomit… ma che cazz…” L’uomo appena uscito con due suoi compagni osservò l’energumeno stesso a terra per qualche secondo stupito, dopodiché partì in una sonora risata, seguito dagli altri.
  “Sono amici vostri?” Chiese a bassa voce Vivien.
  “Sta’ zitta!”
  I tre ubriachi si voltarono verso il fieno e sarebbero di certo andati a controllare, se un altro uomo non fosse uscito in quel momento dalla baracca, richiamandoli.
  “Lasciatelo dormire e rientriamo, qui fuori fa un freddo cane”.
  Aaron lo riconobbe – come poteva passare inosservato in quella divisa così sgargiante? – era il suo bersaglio e, se non fosse stato per quei tre colossi che lo coprivano, la sua pistola lo avrebbe avuto già sotto tiro.
  “E’ una guardia reale”. Commentò Vivien stupita.
  “Sottotenente Hummer, per l’esattezza”.
  “Che ci fa qui con dei briganti?”
  Aaron la zittì con un gesto. Ora che erano rientrati doveva trovare il modo di metterli fuori gioco uno per volta, lasciando naturalmente il sottotenente per ultimo.
  “Tu non muoverti da qui!” Ordinò alla ragazza, ma, non appena fece un passo, lei gli fu subito dietro.
  Aaron la prese allora per entrambe le braccia e la trascinò a forza di nuovo dietro il fieno.
  “Si può sapere che cosa non va in te?” Chiese spazientito, stando comunque attento a non alzare troppo il tono di voce. “Ti sto dando degli ordini e, come serva, devi rispettarli!”
  Vivien gli stava ora lanciando sguardi infiammati, era evidente come non fosse d’accordo con quelle parole, ma Aaron non poteva fare altrimenti. Era troppo pericoloso, lei doveva andarsene.
  “Non puoi restare qui, lo capisci?” Continuò lui, cercando di mantenere la calma.
  La ragazza lo pietrificò con lo sguardo, tanto che la fermezza del conte vacillò per qualche istante, dopodiché sbuffò e si mise con le braccia conserte.
  “Va bene, aspetto qui”.
  Aaron alzò gli occhi al cielo in segno di ringraziamento verso Dio e si diresse verso la baracca.
  L’omone di nome Lenz era ancora steso a terra e sembrava immerso nel mondo dei sogni, il conte lo disarmò e lo lasciò lì a riposare, poi entrò di soppiatto nella casupola.
 
  Vivien si stava congelando. Era uscita di casa così di corsa per seguire il conte, che era rimasta con addosso solo la sottoveste. Sapeva di aver promesso di aspettare, ma se non si fosse mossa sarebbe morta assiderata.
  Stava per uscire da dietro i mucchi di fieno, quando qualcuno all’interno della casa urlò e il un attimo vide un uomo scaraventato fuori dalla finestra.
  “Oh mio Dio, signor con…”
  Aaron però si mise subito a sedere e le fece segno di restare nascosta. Anche se era contro la sua natura, quella volta Vivien assecondò il suo padrone.
  I tre briganti se la ridevano, mentre la guardia reale aveva le braccia conserte ed osservava in serioso silenzio.
  Il conte si alzò da terra, asciugandosi il sangue che gli usciva dal labbro. Vivien guardò prima lui, poi i tre energumeni e non poté fare a meno di pensare che il conte doveva essersi andato a cacciare in guai davvero molto grossi.
  Se doveva dei soldi a certa gente, sarebbe stato meglio pagare immediatamente, altrimenti gli avrebbero fatto la pelle.
  Con grande sorpresa della serva, però, invece di essere pietrificato dalla paura, il conte sorrideva.
  “Voglio solo sapere una cosa, prima di stendervi tutti”. Disse, con una calma e una sicurezza che Vivien non gli avrebbe mai attribuito. “Che cosa ne avete fatto di Tidus?”
  I tre si guardarono tra di loro, poi rivolsero lo sguardo al sottotenente Hummer e, quando questo si strinse nelle spalle, si voltarono di nuovo verso il conte.
  “Hai detto che ci stendi tutti?” Chiese conferma il più grosso, sogghignando.
  “Se mi dite dov’è il mio amico, giuro che non vi romperò niente”. Continuò il conte.
  Gli omoni partirono in una fragorosa risata e anche la guardia reale Hummer lasciò per qualche secondo la sua espressione seria.
  Fu allora che il conte scattò.
  Prese il pezzo di staccionata che solo poco prima era servito a Vivien per stendere Lenz e lo puntò dritto in pancia ad un omaccione, questo si piegò in avanti e il conte gli diede un’altra botta sulla nuca, facendolo cadere a terra.
  “Ops, scusa”. Commentò ironico.
  Vivien non poteva ancora credere ai suoi occhi. Il conte Aaron era di un’agilità inaudita e, come aveva steso il primo energumeno, ci volle una manciata di secondi per stendere anche gli altri due.
  “E ora a noi!”
  La serva si irrigidì di colpo quando vide il conte estrarre la pistola e puntarla all’altezza del volto del sottotenente Hummer.
  “Davvero ammirevole”. Commentò la guardia reale, senza scomporsi. “Forza uccidimi, in fondo sei venuto qui per questo, no?”
  Alla ragazza mancò il respiro. Che cosa stava succedendo? Possibile che il conte si fosse mosso quella notte con l’unico intento di uccidere quell’uomo?.
  E lei che aveva pensato ai debiti di gioco e alle donne, che sciocca era stata. Aaron Turner era un uomo molto più pericoloso di quanto sembrasse e Vivien lo stava vedendo con i suoi occhi.
  “Dimmi prima dov’è Tidus”.
  Il sottotenente si portò una mano al mento e si mise a pensare per qualche secondo.
  “Tidus, Tidus… mai sentito”.
  Il conte gli prese il collo con una mano e lo sbatté ad un muro della casa. “Non prendermi per il culo, dimmi che cosa gli avete fatto”.
  “D’accordo, d’accordo”. L’uomo tossì quando il suo aggressore lasciò la presa e si accasciò a terra. “Il tuo amico è morto. Abbiamo provato a farlo cantare, ma si è ucciso. Voi Mercenari sapete sceglierveli bene i seguaci”.
  Il conte gli mollò un calcio in faccia. “Sta’ zitto!” Poi gli puntò la pistola sulla testa e preparò il colpo in canna.
  Fu a quel punto che Vivien uscì dal suo nascondiglio, ma non fece in tempo nemmeno ad aprire bocca che uno sparo echeggiò per tutta la collina.
  La ragazza rimase pietrificata ad osservare il corpo inerme di quell’uomo steso a terra, in una pozza di sangue. Qualche schizzo rosso aveva raggiunto la faccia del conte, che se l’asciugò col mantello, dopodiché si rivolse alla sua serva.
  “Andiamo, forza”. Le ordinò. “Prima che qualcuno venga a controllare”.
  “Lo… lo avete ucciso!” Balbettò la ragazza, mantenendo lo sguardo fisso sul cadavere. “A sangue freddo, senza dargli il permesso di difendersi, siete un… un mostro!”
  Vivien cominciò a colpirlo sul petto con dei pugni, mentre dagli occhi uscivano lacrime di rabbia e disperazione. A che uomo spregevole era assoggettata? E ora, se non avesse mantenuto il segreto, avrebbe ucciso anche lei?
  “Vivien, ti prego, calmati”. Provò a tranquillizzarla il conte. “Quell’uomo era un corrotto. Aveva ucciso e schiavizzato un sacco di persone per arricchirsi. Meritava di morire”.
  “E chi siete voi per giudicare chi deve vivere o morire, Dio? Se era un uomo così ignobile, potevate portarlo al cospetto del re, lui avrebbe pensato a giustiziarlo!”
  Il conte sorrise e provò ad accarezzarle una guancia, lei però si scansò senza remore.
  “Mia piccola Vivien, secondo te chi dava ad Hummer le facoltà di fare ciò che faceva?” Le spiegò il conte. “Pensi davvero che fosse stato promosso a sottotenente perché era un bravo soldato? Lo hai visto anche tu, non ha saputo nemmeno difendersi da me che, per quanto agile, non sono di certo un ufficiale”.
  La ragazza aggrottò le sopracciglia. “Ma che state dicendo?”
  Il conte prese un bel respiro.
  “Sto dicendo che tutto parte dal re! È lui il primo ad essere corrotto!”
  “Voi siete pazzo!” Vivien si liberò dalla stretta dell’uomo e continuò ad osservarlo come se davanti a lei ci fosse davvero un mostro. Aaron Turner aveva del tutto perso il senno. “Dovreste essere giustiziato per ciò che dite, ve ne rendete conto?”
  Accusare il re di corruzione equivaleva ad un tradimento della Corona inglese, si rischiava la pena capitale e, dopo avergli visto uccidere un uomo a sangue freddo, la ragazza non era poi così certa che il conte non se la meritasse.
  “Io non ti devo alcuna spiegazione”. Sentenziò lui, dirigendosi verso il suo cavallo. “Sei stata tu a volermi seguire, se ciò che hai visto non ti è piaciuto sono problemi tuoi”.
  “Avete ucciso un uomo!” Ribadì lei. Era come se il conte non riuscisse a comprendere la gravità della cosa, o forse non voleva comprenderla.
  “Te l’ho già spiegato, meritava di morire”. Il conte poi alzò gli occhi al cielo. “Comunque mi sembra inutile continuare a discuterne, rimarremo entrambi delle nostre idee. A questo punto, suggerirei di farla finita di litigare e di spostarci da qui, prima che qualcuno ci veda”.
  L’uomo salì in groppa al suo cavallo e tese una mano verso la serva per facilitarle la salita, Vivien però alzò il mento in segno di disgusto e si incamminò a piedi.
  “Di questo passo, arriverai alla villa che sarà già mattino”. La canzonò lui, andando col cavallo alla velocità della ragazza.
  La serva non rispose.
  “Andiamo Vivien, lascia che ti dia un passaggio”.
  “Non accetto favori da un assassino!” Commentò acida, senza rivolgergli lo sguardo.
  “Sono un Mercenario, non un assassino”.
  “A me sembra la stessa identica cosa!” Ribatté. “Anzi peggio. Prendete addirittura del denaro per le azioni ignobili che commettete”.
  “Adesso basta!” Con gesto deciso, il conte si piazzò con l’animale davanti alla ragazza e le rivolse uno sguardo arrogante. “Non vedo per quale motivo dovrei rimanere qui a farmi offendere da una serva. Sono sempre il tuo padrone, non dimenticarlo. E se non ti sta bene ciò che faccio, sei libera di andartene, nessuno te lo vieta”.
  “Bene!” Rispose Vivien, senza pensare. “Sarà proprio ciò che farò, non intendo restare un altro minuto sotto lo stesso tetto di un assassino arrogante che si crede tanto un nobile”.
  “E tu allora?” Il conte scese da cavallo con un balzo e si piazzò davanti alla ragazza, porgendole uno sguardo tutt’altro che cavalleresco. “Sei una serva ormai da parecchio tempo, ma ti atteggi ancora da nobile, il tuo carattere così ribelle mi ha davvero stufato”.
  “E cosa vorreste fare, picchiarmi?” Lo sfidò Vivien. “Ah, dimenticavo, lo avete già fatto! Siete proprio un uomo vergognoso”.
  Il conte la prese per i capelli dietro la nuca e tirò facendole alzare il mento. La ragazza non riuscì a trattenere un gridolino e provò a liberarsi, ma lui era troppo forte.
  Aveva cercato di fare la dura, convinta che il conte Turner, per quanto irritato, avesse comunque un codice morale e non si sarebbe abbassato a picchiarla di nuovo. Tuttavia non aveva pensato che stava parlando con un assassino, che codice morale poteva avere un uomo del genere?
  Vivien strinse gli occhi, attendendo che il conte cominciasse a sferrare i primi schiaffi.
  Ciò che sentì, però, fu del tutto diverso. L’uomo si era improvvisamente irrigidito e quando lei aprì gli occhi lo ritrovò a fissarla, immobile.
  Sembrava impaurito, ma la ragazza non riusciva proprio a capire da cosa. Stava trattenendo il respiro e i suoi occhi – appena visibili alla fioca luce proveniente dal villaggio – sembravano vitrei.
  “C-conte…”
  Al sussurro della serva, l’uomo la lasciò andare come se si fosse appena reso conto di che strano comportamento stesse assumendo. Si schiarì la voce e risalì sul suo cavallo, senza più guardare la ragazza in faccia.
  “Sono stanco”. Disse poi. “Me ne torno a casa”.
  “Davvero mi lascereste qui da sola?” Commentò lei, incrociando le braccia al petto.
  “Sbaglio o sei stata tu a non voler accettare il mio passaggio?” Le fece notare il conte. “Ormai il tempo per ripensarci è scaduto. Buona passeggiata, Vivien”.
  Così dicendo, l’uomo partì al trotto, lasciando la ragazza vittima della polvere alzata dagli zoccoli del suo cavallo.
  Non ci posso credere, è andato via davvero!
  Vivien era sconcertata e irritata allo stesso tempo.
  Più conosceva il conte e più trovava spunti per detestarlo.
  Lasciare una giovane donna in mezzo alla campagna, a notte fonda, completamente sola ed indifesa, quale uomo poteva essere artefice di un gesto tanto ignobile?
  Ormai era assodato, il conte Aaron era un mostro.
  La ragazza sbuffò, pensando che arrabbiandosi non sarebbe di certo tornata alla villa, perciò preferì incanalare tutte le sue energie nel cammino che doveva percorrere e lasciò passare la sua ira come il vento freddo della notte accarezzava i suoi capelli.
  Tanto la sua decisione l’aveva presa, tornata a Villa Turner avrebbe fatto le valigie e se ne sarebbe andata, immediatamente.
  Non voleva più avere niente a che fare con quel bastardo.


 

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Che dire... il capitolo 7 è forse uno dei capitoli fondamentali di questa storia!
E' stato svelato un altro lato del conte e, come si vede bene, non ha nulla a che fare con debiti o donne!xD
Aspetto le vostre recensioni per farmi sapere cosa ne pensate!^^

P.S. Il capitolo 8 purtroppo credo che ci metterò un po' a postarlo, perché rileggendolo mi sono accorta che non mi piace per niente!xD
Così ho cominciato a riscriverlo! Vedrò di fare in fretta, comunque!
Ancora grazie a tutti quelli che leggono la mia storia!
A presto,

*HarleyQ_91*

 

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Capitolo 9
*** La Congiura ***


Eccomi di nuovo qui! Vi sono mancata, eh?
Perdonate l'attesa, ma, come ho già detto, ho dovuto riscrivere questo capitolo da capo
(e nel farlo ho modificato anche un po' quelli seguenti) perché la sua prima stesura proprio non mi piaceva!
Spero di non aver peggiorato le cose!xD
Buona Lettura!^^


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Capitolo 8
- La Congiura -

 
  Aaron si alzò dal letto quando le prime luci dell’alba cominciarono a filtrare dalla finestra della sua stanza. In verità non era riuscito a chiudere occhio da quando poche ore prima era rientrato a casa dopo aver svolto il suo compito.
  Perché di questo si trattava, quello era il suo compito, la sua missione, lui doveva farlo!
  Chi siete voi per giudicare chi deve vivere o morire, Dio?
  L’uomo si passò una mano tra i capelli e con l’altra versò l’acqua fredda nel bacile per lavarsi. Quella voce aveva cominciato a rimbombargli in testa da quando si era steso sul letto e non l’aveva più lasciato.
  Quella stupida serva!
  Si sciacquò il viso un paio di volte, lasciando che il freddo lo facesse calmare. Aveva avuto lei in testa per tutta la notte, lei e le sue parole velenose, lei e quel suo atteggiamento di superiorità che lo facevano ardere di rabbia.
  E di desiderio.
  Aaron sbatté un pugno sulla bacinella d’acqua, facendola cadere a terra e bagnando il pavimento, mentre dalla bocca gli uscì un grugnito strozzato.
  Era arrabbiato, instabile, confuso, e tutto per colpa di quella donna.
  Quella stessa donna che lo aveva aggredito, lasciandogli una cicatrice sul sopracciglio, che l’aveva sfidato, insultato e infine gli aveva salvato la vita.
  Quella stessa donna che lo aveva visto mentre uccideva un uomo.
  E che mi odia!
  Il conte prese un bel respiro e sembrò calmarsi. Non era mai stato succube di una donna, non vedeva per quale motivo doveva cominciare ad esserlo ora. Era certo che, se fosse riuscito a possederla, a farla gemere nel suo letto, tutta quella ossessione per la serva sarebbe finita.
  Come aveva programmato in precedenza, Vivien sarebbe stata sua.
  Allora, forse, il suo tormento avrebbe trovato pace.
  Il sole cominciò a scorgersi all’orizzonte e la luce nella camera si fece più intensa, illuminando il legno del letto a baldacchino e la seta delle lenzuola. Aaron prese allora i suoi vestiti e li indossò in fretta.
  Non aveva molto tempo, doveva rilegare i pensieri per Vivien in un angolo della sua mente – almeno per quanto gli risultava possibile – e pensare a cose più importanti.
  Uscito dalla sua stanza vide già qualche membro della servitù in piedi, tra cui Hans, che lo salutò con un inchino.
  Aaron prese poi il suo soprabito nero e si diresse verso la stalla. Nel giardino erano già stati preparati dei tavoli addobbati a festa, con al centro di ognuno una piccola candela e un mazzo di rose bianche.
  Il fiore preferito di Alyssa.
  Quella era una festa a cui mai sarebbe voluto mancare.
  Per questo doveva sbrigarsi.
  Salì sul suo cavallo e si infilò in testa il cappello nero, stava per uscire dalla stalla, quando dal cancello principale vide entrare qualcuno e si bloccò.
  Lei!
  Aveva i capelli scompigliati, sciolti lungo le spalle, un’aria selvaggia che non passò affatto inosservata agli occhi del conte. Gli stivali che indossava erano sporchi di terra e, dall’espressione abbattuta del viso, doveva essere davvero molto stanca.
  Aaron provò una strana sensazione nel vederla così.
  Indifesa.
  Proprio così. L’indomabile Vivien Foster sembrava aver abbassato la guardia e lasciato spazio alla sua figura fragile di donna. E lui ne era la causa.
  “Tutto a posto, signore?” Chise il fidato stalliere James nel vedere il suo padrone così titubante a muoversi.
  Aaron allora tornò in sé ed annuì. “Se mia sorella mi cerca, dille che sarò di ritorno tra un'ora al massimo”.
  Poi partì al trotto sul viale laterale del giardino. Passò a qualche metro da Vivien e la osservò di fuggita. Il loro scambio di sguardi durò meno di un secondo, ma il conte poteva giurare di aver visto le fiamme nei suoi occhi.
  Era arrabbiata, anzi peggio, infuriata con lui.
  Senza accorgersene diede un colpo di redini al cavallo, facendolo correre più veloce, come se volesse allontanarsi al più presto dalla villa, da quello sguardo.
  Come se volesse scappare.
  Devo essere pazzo! Si ripeté finché non giunse in paese. Farsi tanti scrupoli per una donna, è assurdo.
  Scese da cavallo e legò l'animale alla staccionata di fronte il Red Lion – ormai quella locanda era diventata posto abituale per gli incontri importanti – poi andò a sedersi al suo solito tavolo, ordinando il solito brandy.
  “Lo sai che fa male bere di prima mattina?”
  Sam gli si presentò davanti dopo appena cinque minuti e gli schiaffò una mano sulla spalla, sorridendogli.
  Aaron ricambiò il sorriso, con meno convinzione però. Sapeva perché il marchese era allegro, la missione era andata bene, tutto come previsto, e bisognava festeggiare.
  Eppure il conte non era in vena.
  “Sono fiero di te!” Continuò Ronchester. “Hai fatto un lavoro perfetto, quel bastardo meritava proprio di morire”.
  Aaron abbassò lo sguardo sul bicchiere di brandy che girava e rigirava tra le mani e sospirò.
  Chi siete voi per giudicare chi deve vivere o morire, Dio?
  “Ehi, ragazzo, ti senti bene?”
  Il conte alzò la testa, ancora un po' smarrito nei suoi pensieri. Doveva essere contento di ciò che aveva fatto – così come lo era stato tutte le volte precedenti – altrimenti Sam avrebbe intuito che c'era qualcosa che lo turbava.
  “Sono solo dispiaciuto per Tidus”. Disse.
  Da una parte era vero, ma dall'altra sapeva bene che il motivo di tanta distrazione era un altro.
  “Aaron, Tidus ha voluto cimentarsi in faccende più grandi di lui”. Gli parlò Sam con quelle che sarebbero dovute essere parole di consolazione. “Hummer sarà pure stato un corrotto, ma non era stupido. Tidus era visibilmente troppo inesperto”.
  Già, e Sam, pur sapendolo, non aveva fatto nulla per fermarlo.
  Erano tre mesi che il conte faceva ormai parte dei Mercenari, eppure stava cominciando a vederci qualcosa di sbagliato. Non nell'ideale che perseguivano – quello di sconfiggere una monarchia corrotta era un proposito più che nobile – ma nel loro modus operandi.
  Davvero l'unico modo per risolvere le cose era uccidere?
  Aaron bevve il suo brandy e lasciò degli spicci sul tavolo, dopodiché si aggiustò il cappello in testa e si alzò.
  “Già te ne vai? Speravo potessimo brindare”.
  “Non ho tempo, oggi è il compleanno di mia sorella”. Rispose il conte. Poi porse la mano verso l'altro uomo, attendendo qualcosa che il marchese sapeva bene quanto gli spettasse.
  Sam infatti tirò fuori un sacchetto dal taschino del soprabito e glielo diede, prima di lasciarlo però rivolse al conte uno sguardo serio, diverso da quello tenuto finora.
  “Ti dico un'ultima cosa, Aaron”. Disse con tono autorevole e alzandosi anche lui. Il Sam schivo e diffidente era tornato. “Evita di fare sciocchezze”.
  Il conte aggrottò le sopracciglia. “Ma che stai...”
  “Falco dice di aver visto qualcuno seguirti ieri notte. E' stato solo per pochi secondi ed era buio, ma ti pregherei di stare attento e, soprattutto, di eliminare ogni possibile testimone”.
  Aaron si irrigidì, cercando di rimanere con un'espressione composta e indifferente alle parole del marchese.
  Non era successo niente, Falco non l'aveva vista bene, perciò poteva stare tranquillo. Lei non sarebbe stata coinvolta.
  “Mi sembra di aver sempre fatto lavori impeccabili”. Lo attaccò il conte, volendo far apparire quella raccomandazione senza alcun fondamento.
  “Sì, ma sei giovane e può capitare anche a te di sbagliare”.
  Ad Aaron venne da sorridere. Di nuovo Sam non si fidava di lui, era il miglior Mercenario che avesse mai avuto, eppure lo trattava come un novellino, come un dilettante.
  “Se mi ha visto qualcuno rimedierò, non temere”. Disse poi, mentre uscivano dalla locanda, il marchese prese la strada opposta alla sua, ma prima di congedarsi gli diede un'ultima pacca sulla spalla.
  “Bene, mi farò vivo appena avrò delle novità”.
  Il conte salì sul suo cavallo e, senza salutare ulteriormente Sam, riprese la strada verso Villa Turner.
  Aveva fatto in fretta e non c'erano stati intoppi, Alyssa di sicuro non aveva nemmeno notato la sua assenza.
  L'ultima cosa che doveva fare adesso – e che forse trovava addirittura più difficile di uccidere un uomo a sangue freddo – era andare da lei e metterla a tacere.
 
  Vivien aveva bevuto due tè e un caffè da quando era tornata a Villa Turner, ma faceva ancora fatica a stare in piedi.
  Era stanca, spossata, arrabbiata e tutto questo per colpa di una sola persona.
  Appena arrivata si era fatta un bagno, ma nemmeno quello l'aveva rilassata, sentiva il bisogno di urlare, di spaccare qualcosa – di picchiare qualcuno – eppure doveva imporsi la calma e la compostezza di una dama di compagnia che, per una giornata così importante per la contessina, non poteva permettersi errori.
  Vedere Alyssa felice e spensierata era l'unica cosa che la facesse un po' gioire. Indossava un vestito azzurro con i bordi del bustino blu e un fiocchetto di seta al centro del petto.
  Sembrava una principessa.
  “Ecco la mia principessa!”
  La voce che risuonò dal corridoio fece irrigidire Vivien di colpo e, quando il conte entrò nella biblioteca dove si trovavano lei e la contessina, si voltò di spalle, facendo finta di leggere un libro.
  Non aveva intenzione di guardarlo, né tanto meno di scambiarci qualche parola. Come serva avrebbe dovuto inchinarsi per salutarlo, ma il suo corpo e la sua mente non volevano saperne.
  Doveva fare come se lui non esistesse.
  E poi, finita la festa di Alyssa, se ne sarebbe andata.
  “Oh Aaron, è stupenda!” Sentì esclamare la contessina. “Vivien, guarda!”
  La ragazza alzò gli occhi dal libro che non stava leggendo e prese un bel respiro. D'accordo lui, ma non poteva mancare di rispetto la contessina.
  Si voltò, sfoggiando un sorriso che in quel momento non le apparteneva, e si alzò dalla sedia.
  La contessina le andò incontro, alzando il mento e lasciando in bella vista una catenina doro con appeso un ciondolo a forma di rosa bianca.
  “E' molto bello”. Esclamò Vivien.
  Era assurdo pensare come un assassino avesse un gusto così raffinato. Alzò istintivamente lo sguardo su di lui e lo ritrovò a fissarla.
  Chissà se poteva percepire tutto il disprezzo e l'ira che gli stava lanciando? Vivien era certa di sì.
  “Sorella”. Disse poi lui, inginocchiandosi accanto ad Alyssa.
  Si era fatto troppo vicino, Vivien dovette indietreggiare di un passo.
  Al conte non sfuggì quel gesto, la ragazza lo capì da come contrasse la mascella e strinse le mani attorno alle spalle della contessina, ma sembrò comunque non scomporsi.
  “Gli invitati stanno per arrivare”. Disse lui. “Va' da nostra madre in giardino ad accoglierli”.
  Voglio restare da solo con Vivien.
  Questo era quello che significavano realmente le sue parole e la contessina sembrava aver capito, perché prima di andarsene rivolse un ultimo sguardo alla sua dama di compagnia che, tuttavia, era troppo presa da ciò che stava succedendo per accorgersene.
  Vivien stava sulla difensiva, non sapendo esattamente cosa aspettarsi dall'uomo che le stava di fronte. Le pareti della biblioteca sembravano stringersi attorno a lei, mentre il conte si alzava e le rivolgeva uno sguardo serio, indecifrabile, glaciale.
  La ragazza provò un brivido lungo la schiena e indietreggiò ancora, fino a raggiungere uno scaffale pieno di libri. Ora non aveva più via di scampo.
  È venuto qui per uccidermi!
  Urlò nella sua testa. E questa consapevolezza le bloccò il respiro. Il conte voleva far fuori l'unico testimone del suo assassinio, e voleva farlo lì, in casa sua, il giorno del compleanno della sorella.
  Aaron continuò a fissarla senza muoversi per un'altra manciata di secondi, quando poi sospirò e si passò una mano tra i capelli.
  “Sei una grande seccatura, lo sai?” Esclamò, voltandole le spalle. Vivien tuttavia ancora non se la sentiva di rilassarsi. Aveva sperimentato sulla sua pelle quanto potesse essere strano e imprevedibile il conte e questa volta – visto che c'era in gioco la sua vita – non si sarebbe fatta trovare impreparata.
  “Devo sapere se hai detto a qualcuno di quello che hai visto e sentito ieri notte. È molto importante, Vivien”.
  La ragazza aggrottò le sopracciglia. Era strano che il conte le si rivolgesse in quel modo, il suo era sempre un ordine, ma stranamente lo stava esprimendo con un tono meno autoritario, quasi supplichevole.
  “E se non volessi dirvelo? Se mi fossi già confidata con qualcuno? Che cosa fareste, mi uccidereste?”
  Il conte si voltò di nuovo verso di lei con sguardo torvo. “Mio Dio, no!”
  Vivien non si aspettava una negazione così decisa. Era come se a lui non fosse mai passato minimamente per la testa l'idea di farla fuori, come se lei avesse appena pronunciato la peggiore delle bestemmie.
  “E allora che intenzioni avete?” Continuò lei, decisa comunque a non abbassare la guardia.
  “Voglio solo che tu non faccia sciocchezze che possano costarti la vita”. Il tono del conte era forzato, strozzato – evidentemente non aveva mai affrontato discorsi del genere – e anche Vivien trovava strano la sua preoccupazione per lei.
  “Ciò che è successo ieri notte non devi dirlo a nessuno, non immagini nemmeno in cosa sei andata ad immischiarti”.
  “Spiegatemelo, allora”. Lo incalzò lei, incrociano le braccia.
  Se davvero il conte non era lì per ucciderla, se era davvero preoccupato per lei, allora non le avrebbe negato dei chiarimenti.
  “Sai già troppo, mi pare”. Rispose lui.
  “Se non me lo dite, andrò a denunciarvi”.
  Il conte la incenerì con lo sguardo. “Questo è un ricatto”.
  Lei alzò un sopracciglio. “Uso solo i vostri stessi metodi”.
  L'uomo contrasse la mascella ed abbassò lo sguardo. A quanto pareva, per la prima volta da quando lo conosceva, Aaron sembrava con le spalle al muro.
  Deve essere frustrante non avere il controllo della situazione, eh conte?
  Vivien lo vide cominciare a passeggiare per la stanza, con evidente disagio. Stava soppesando l'idea di raccontarle tutto e lo stava facendo non incrociando mai il suo sguardo.
  “D'accordo”. Disse poi, fermandosi di scatto. “Ma tutto ciò che dirò non dovrà uscire da questa stanza, sia chiaro”.
  La ragazza annuì e si sedette su una sedia pronta per ascoltare.
  La paura se ne era stranamente andata via e ora aveva cominciato a pervaderla un senso di eccitazione.
  Sebbene provasse rabbia verso il conte e non volesse più vederlo in vita sua, la curiosità di scoprire il suo segreto era troppo grande, abbastanza anche da farle dimenticare come avesse ucciso un uomo la notte scorsa.
  “E' in atto una guerra, Vivien, silenziosa e spietata, ed è contro il re”. Cominciò cauto Aaron. “Egli vuole impossessarsi del potere assoluto, schiacciare il Parlamento e imporre una dittatura militare, comandata dalle guardie reali e sotto il suo controllo”.
  “E voi tutto questo come lo sapete?” Chiese lei, un po' scettica.
  Il conte sospirò. “Il marchese Sam Ronchester ne ha le prove”.
  “Ronchester? Ma... ma i marchesi sono una famiglia molto vicina al re”.
  “Appunto per questo Sam è venuto a sapere che il re aveva intenzione di sabotare il Parlamento”.
  “Cosa?” Vivien si portò una mano davanti la bocca e sgranò gli occhi.
  D'accordo, il re aveva alzato le tasse e emanato qualche decreto che limitava in parte la libertà del popolo, ma Vivien non poteva credere che avesse addirittura intenzione di eliminare il Parlamento.
  Era la conquista più importante che avesse mai fatto un popolo per limitare il potere della monarchia.
  “Ad Hummer era stato dato il compito di uccidere due membri del Parlamento, uno della Camera dei Lords e l'altro dei Comuni, capisci ora perché andava fermato?”
  Vivien non riusciva a spiccicare una parola, aveva lo sguardo fisso sull'uomo di fronte a lei e le sembrò di guardare uno sconosciuto.
  Tutto ciò che aveva imparato sul conte fino ad allora, quanto fosse superbo e fiero del suo titolo, quanto considerasse la sua nobiltà al di sopra di tutto il resto, adesso non sembrava più appartenergli.
  “Voi... voi siete un nobile, perché andate contro la Corona?” Chiese un po' confusa.
  “Già, sono un nobile”. Ripeté il conte. “Ma, pur avendo questo titolo, so qual è il mio limite. So cosa posso comandare e cosa no”.
  Vivien incrociò le braccia al petto. Eccolo, il conte autoritario che per un attimo aveva perso di vista era tornato.
  “E immagino che i servi siano tra le cose che potete comandare”.
  “Quello che voglio dire”. Eluse la provocazione il conte. “È che non mi sognerei mai di andare da Sam e privarlo del suo titolo, facendolo diventare mio. Il re invece vuole a tutti i costi il potere del Parlamento, anche se non gli appartiene di diritto”.
  Vivien distolse lo sguardo da lui, ancora restia a credergli.
  “E i Mercenari? Chi sono?”
  Aaron sospirò ancora. “Sam fondò l'organizzazione circa tre mesi fa, con due suoi fidati amici. Inizialmente i membri si contavano sulle dita di una mano, ma poi si cominciarono a reclutare anche persone comuni e diventammo numerosi”.
  “Volete farmi credere che ci sono anche dei Mercenari contadini o artigiani?”
  Aaron annuì e si strinse nelle spalle. “Personalmente non li ho mai visti. A dire il vero Sam non vuole che i membri si conoscano tra loro – tranne quelli che lavorano insieme, ovviamente – sai, per salvaguardare meglio l'integrità dell'organizzazione”.
  “Mi sembra tutto così assurdo”. Esclamò Vivien portandosi una mano alla fronte.
  Aaron allora le si inginocchiò di fronte e la obbligò a guardarlo spostandole il mento con la mano. In quel momento non aveva la forza per opporsi al suo tocco.
  “È tutto vero, invece. E non dovrai farne parola con nessuno”. Si raccomandò di nuovo il conte. “Se l'organizzazione venisse a sapere che qualcuno ha scoperto che sono un Mercenario e non l'ho eliminato, manderà di sicuro qualcun altro a fare il lavoro al posto mio”.
  “Voi...” Vivien quasi non riusciva a credere a ciò che stava per dire. “Voi state cercando di proteggermi”. 
  Al conte venne da ridere. “Sei così sorpresa? Sono troppo attratto da te per lasciarti morire”.
  La ragazza a qual punto scacciò la mano dell'uomo dal suo volto e si alzò dalla sedia. “Scusatemi, signore”. Disse a denti stretti. “Ma credo che ci siamo assentati troppo a lungo dalla festa della contessina”.
  Avrebbe voluto dire tante altre cose – insulti più che altro – sia verso il conte che verso se stessa.
  Verso il conte perché l'aveva messa al corrente di segreti inviolabili, facendola sentire in qualche modo importante, e poi invece aveva ripreso a giudicarla solo come un oggetto da conquistare.
  Verso se stessa perché, nonostante lo detestasse con tutte le sue forze, aveva cominciato a trovare il conte tremendamente e pericolosamente interessante.
  E non doveva succedere!
  “Io ho intenzione di lasciare Villa Turner”. Disse poi, mentre girava la maniglia della porta per uscire dalla biblioteca.
  Non sapeva perché glielo stesse dicendo, forse perché – avendole prima confessato di volerla proteggere – sperava così di recargli un po' di dolore, ma probabilmente era solo un'illusa.
  Il conte non disse nulla, rimase immobile dietro di lei. D'altronde non poteva di certo aspettarsi che la implorasse di restare.
  Vivien uscì dalla biblioteca senza più voltarsi, maledicendo se stessa per quelle aspettative che mai avrebbe dovuto avere.
  Doveva andarsene da quella villa prima che il suo cuore e la sua mente impazzissero del tutto e la portassero nella via di non ritorno.

 

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Mmh... sembra che la corazza di Vivien si stia un po' smussando!^^
Beh, aspetto le vostre opinioni con ansia!
P.S. Per quanto riguarda il prossimo capitolo, spero vivamente di postarlo prima di Pasqua,
ma non prometto niente (ultimamente la connessione fa un po' i capricci).
Vedrò che posso fare!^^'
A presto!

*HarleyQ_91*

 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Il Mostro e La Bambina ***


Salve a tutti, passata una buona Pasqua?
La mia è stata veramente fantastica e, soprattutto, rilassante... infatti, come potete vedere, me la sono presa anche un po' troppo comoda!^^
Spero che in queste settimane non vi siate dimenticati di Aaron e Vivien e delle loro vicessitudini!
Vi lascio al capitolo 9

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Capitolo 9
- Il Mostro e La Bambina -

 

  Alyssa era davvero una damigella perfetta. Si muoveva tra gli invitati con assoluta tranquillità, conversava quel tanto che bastava per farli sentire importanti e quel poco per non sembrare pedante, poi tornava a sedersi al suo posto, sempre sorridendo gentilmente.
  Vivien stava in piedi dietro di lei – sebbene fosse la sua dama di compagnia era comunque una serva e la servitù non sedeva con i nobili – e ascoltava le conversazioni della contessa con i suoi amici. Discorsi futili, sulle corse dei cavalli, sul prossimo incontro per giocare a bridge, sul tempo.
  Vi erano tutte persone importanti a quel ricevimento, ma ce ne fosse stato uno che avesse parlato del re o della situazione tesa col Parlamento. Era come se i nobili non vedessero il problema, o non volessero vederlo.
  La contessina si voltò verso la sua dama e le sorrise, facendole segno di avvicinarsi. Vivien obbedì e la piccola le sussurrò nell’orecchio: “Posso chiederti un favore?”
  “Certo, tutto ciò che volete”. Rispose la ragazza.
  “Vedi quel dolce al cioccolato laggiù?”
  Vivien alzò lo sguardo e notò una torta farcita sul tavolo del buffet, poi annuì alla contessina.
  “Ecco, ne vorrei un pezzo”. Ammise la piccola. “Ma mia madre dice che ho già mangiato abbastanza, poi ingrasso”.
  La serva trattenne una piccola risata, la contessina aveva una corporatura perfetta per la sua età e non sarebbe di certo stato un pezzo di torta a rovinarle la linea, la contessa a volte era davvero esagerata.
  “E’ il vostro compleanno, signorina”. Le fece notare Vivien. “Potete fare ciò che volete”.
  La ragazzina però scosse la testa. “Se mia madre mi vede mangiare ancora, mi sgriderà e non mi farà cenare stasera”.
  La serva inarcò le sopracciglia. Davvero la padrona era capace di tanto? D’accordo l’essere rigida, ma così le sembrava un po’ esagerato.
  “Facciamo così”. Disse poi Vivien, stando attenta che nessuno la sentisse. “Voi tra dieci minuti trovate una scusa per entrare in casa, io intanto prendo un pezzo di torna. Ci vediamo nella biblioteca”.
  “Dici sul serio?”
  La ragazza annuì, la contessina allora la abbracciò sorridente e le sussurrò un grazie all’orecchio, con tono dolce e affettuoso.
  Scioltasi dall’abbraccio, Vivien si diresse verso il buffet con nonchalance, facendo credere a tutti che il pezzo di torta al cioccolato lo stesse tagliando per sé. Nessuno faceva caso ad una semplice dama di compagnia, quando c’erano donne di ben altro rango a quel party.
  Preso il dolce si diresse verso l'interno della villa.
  La contessina Alyssa era una delle poche persone – se non l'unica – di cui avrebbe davvero sentito la mancanza una volta andata via da Villa Turner. Tra loro ormai si era instaurato un rapporto stretto che, seppure non poteva chiamarsi amicizia, vantava il rispetto reciproco.
  Però forse il giorno del suo compleanno non era l'occasione giusta per dire alla contessina che la sua dama di compagnia se ne sarebbe andata.
  Una botta che le arrivò dritta al braccio destro destò Vivien dai suoi pensieri e la fece barcollare. Fortunatamente riuscì a salvare la torta.
  “Stai un po' attenta, pezzente!”
  Vivien rimase un po' sorpresa nel sentire un tono di voce così aspro e profondo. La donna che le stava di fronte aveva una corporatura piuttosto esile e un viso angelico. Totalmente ingannatore, visti i suoi modi di fare.
  “Perdonatemi, non vi avevo vista”. Si scusò Vivien, inchinando leggermente il capo.
  La donna puntò un pugno sul fianco e alzò il mento in segno di superiorità.
  Doveva trattarsi di una nobile molto ricca, lo si deduceva da come sfoggiava i suoi diamanti appesi al collo e da come agitava la mano per mostrare i suoi anelli.
  Una sola di quelle gemme basterebbe per riscattare Tom dal Red Lione sfamare Clelia a vita.
  “Non sei nobile, vero?” Disse la donna, osservando Vivien da capo a piedi con espressione alquanto perplessa. “Il vestito che indossi sa proprio di seconda mano”.
  “Sono la dama di compagnia della contessina”. Sì presentò Vivien, cercando di tagliare corto. Alyssa la stava di certo già aspettando in biblioteca e poi, se avesse passato altri trenta secondi con quella donna, era certa che sarebbe finita con lo spiaccicarle la torna in faccia.
  “Ah, ecco. Mi sembrava strano che fossi un'invitata”. Commentò la nobile. “Comunque cerca di non stare troppo con la testa fra le nuvole. Se mi si fosse sporcato il vestito, non sarebbe bastata la tua paga di un anno per risistemarlo”.
  “Ci sono problemi?”
  Vivien alzò gli occhi a cielo quando sentì quella voce alle sue spalle. Il conte Aaron era apparso come il boia sul patibolo: a dare il colpo di grazia.
  E lei era la vittima.
  “Oh, Aaron caro. Nessun problema”. Rispose la nobile, stringendo subito le mani attorno al braccio del conte. “Stavo giusto rammentando a questa servetta qual era il suo posto”.
  Vivien aggrottò le sopracciglia e strinse forte le mani attorno al piattino con la torta. Guardò prima la donna – che ormai sembrava avere occhi solo per l'uomo che aveva accanto – e poi il conte.
  “Vi ha fatto qualcosa, Louisa?” Chiese lui, prendendo una mano rivestita da un guanto di seta e cosparsa di gioielli e portandosela alle labbra. Tuttavia i suoi occhi non lasciarono un attimo quelli di Vivien.
  “Mi è venuta addosso, ha urtato contro il mio braccio”. Poi la nobile si voltò verso la ragazza e rimarcò il tono di voce. “Ci mancava solo che mi sporcasse il vestito”.
  “Oh, sareste comunque splendida, Louisa”. Intervenne il conte, prendendo sottobraccio la sua ospite. “Nessuna dama a questa festa può competere con la vostra bellezza”.
  Vivien abbassò gli occhi e li posò sulla torta che portava in mano. Non riusciva più a sostenere lo sguardo del conte, non mentre diceva certe cose. Suonava così falso, così ipocrita, eppure le era comunque parso che il cuore le avesse leggermente accelerato i battiti.
  “Il solito adulatore”. Ridacchiò la nobile. “Forza, torniamo alla festa”.
  “A patto che mi farete essere vostro cavaliere”.
  Vivien li vide allontanarsi, una sottobraccio all'altro e ridacchianti.
  Provò uno strano senso di vuoto, di disagio. Neanche tre ore prima il conte era con lei in biblioteca a rivelarle i suoi più celati segreti e ora non le rivolgeva nemmeno la parola.
  Aspettavi forse che ti difendesse davanti a quella nobile? Chiese a se stessa, tornando coi piedi per terra e dirigendosi all'interno della villa.
  Inoltre gli aveva comunicato che se ne sarebbe andata, perciò era evidente che avessero ben poco da discutere.
  “Ah, ti ringrazio tantissimo, Vivien”. Esclamò la contessina, quando la ragazza entrò nella biblioteca, sfoggiando il pezzo di torta.
  “Per così poco”.
  La ragazzina cominciò a mangiare il dolce con gusto e assaporando ogni boccone con gli occhi chiusi, come se in quel modo riuscisse ad apprezzarlo meglio.
  Era buffa, pensò Vivien, buffa e spensierata, come una giovane della sua età doveva essere. Non pomposa e a modo come invece pretendeva che fosse la contessa, ma probabilmente il modo di educare le giovani nobili era cambiato da quando lei non era più contessina.
  “Meno male che ci sei tu”. Esclamò Alyssa, tra un boccone e l'altro. “Grazie a te, questa festa non è poi così noiosa”.
  Vivien prese una sedia e si mise accanto alla ragazzina. “Non ditemi che vi state annoiando il giorno del vostro compleanno?”
  La contessina si strinse nelle spalle e sbuffò. “La maggior parte degli invitati è venuta per far sfoggio di sé, a nessuno importa dei miei quindici anni”.
  Fu in quel momento che Vivien vide quanto quella ragazzina doveva sentirsi sola. Ora che ci pensava, tra gli invitati non c'era nemmeno un giovanotto coetaneo della contessina, erano tutti più grandi. Possibile che Alyssa non avesse alcun amico?
  Una stretta al petto la colpì all'improvviso.
  Come faccio ad andarmene, sapendo che lei soffre in questo modo?
  “Non dite così”. Esclamò, lasciandosi sfuggire una leggera carezza sulla guancia della contessina. “Avete vostra madre e... vostro fratello, lui in particolare vi è molto devoto. E poi ci sono io, perciò non dite più che a nessuno importa di voi”.
  Alyssa annuì e sorrise, un sorriso spento e malinconico, ma almeno era un sorriso. Vivien allora la abbracciò, quasi come fosse la sua unica amica, quasi come fosse sua sorella, e la tenne stretta al petto, sperando così – almeno in parte – di alleviare le sue pene.
 
  Aaron stava fuori dalla porta della biblioteca, appoggiato con la schiena al muro e la testa rivolta verso il basso. Era la prima volta che sentiva sua sorella parlare in quel modo e si maledisse per non essersi accorto prima di quanta solitudine soffrisse.
  Evidentemente c'era voluta una donna come Vivien per far sì che Alyssa lasciasse intravedere un po' di crepe nel muro che si era costruita attorno.
  Era strano ammetterlo, ma quella serva aveva qualcosa di speciale.
  Aaron, non mi starai diventando un sentimentale?
  Il conte si passò una mano tra i capelli e sorrise, scuotendo la testa. D'accordo l'attrazione per quella ragazza, ma l'ammirazione era tutta un'altra cosa.
  “Signore, signore, presto!”
  Meg entrò di corsa nell'atrio della villa, col fiato mozzato e le guance leggermente arrossate.
  “Che succede?” Chiese l'uomo, aggrottando le sopracciglia. Aveva lasciato il giardino da soli dieci minuti e non gli era parso ci fosse qualcosa che non andava.
  “Un... un ragazzo... al cancello”. Ansimò la biondina. “È disperato e chiede di Vivien. Ho provato a dirgli che non può entrare, ma si è attaccato alle sbarre e non fa che urlare”.
  Il conte non lasciò nemmeno finire la frase a Meg che subito uscì dalla villa.
  Chiunque fosse stato, non doveva permettersi di importunare i suoi ospiti, il giorno del compleanno di Alyssa.
  Si diresse a passo svelto verso il cancello d'ingresso, dove già si era formata una piccola folla di persone. Si fece largo senza troppe difficoltà e guardò in faccia l'intruso che urlava e sbatteva contro le sbarre di ferro.
  “Che cosa volete?” Chiese con tono autoritario.
  Il ragazzo che gli era di fronte sembrò calmarsi, andando ad incrociare il suo sguardo. Gli parve una faccia conosciuta.
  “Dov'è Vivien?” Chiese a sua volta il ragazzo, mettendo il viso tra due sbarre del cancello. “Devo parlare con lei, è urgente”.
  Il conte scurì lo sguardo. Non sapeva se ciò che l'aveva fatto imbestialire era che quell'intruso non avesse risposto alla sua domanda o semplicemente il fatto di sentire il nome di Vivien pronunciato con tanto ardore da una voce maschile che non era la sua.
  Ad ogni modo, era arrabbiato.
  “Qui stiamo dando una festa”. Disse a denti stretti. “Perciò vi pregherei di andarvene, ci avete già disturbati abbastan...”
  “Thomas!”
  La voce squillante alle sue spalle lo fece bloccare. Vide Vivien superarlo e andare ad aggrapparsi alle sbarre del cancello, proprio sopra le mani di quel ragazzo.
  Lo sguattero del Red Lion. Ecco chi era.
  “Vivien, grazie al cielo”. Esclamò Thomas, stringendo le mani attorno a quelle della ragazza. “Devi venire subito con me, Clelia sta male”.
  “Cosa?”
  L'esclamazione strozzata della ragazza fece sparire in Aaron tutto il nervosismo dovuto a quel tocco di mani troppo confidenziale, a quella complicità che sembrava aleggiare su di loro. In un attimo il viso rilassato di Vivien si era trasformato in una maschera che traspariva angoscia e preoccupazione, lasciando il conte totalmente spiazzato.
  “Stamattina sono passato a casa tua come al solito, per portarle il latte e scambiarci quattro chiacchiere”. Spiegò Tom. “Ma d'un tratto ha cominciato a tossire, sempre più forte, non sapevo che fare”.
  “Hai chiamato il dottor Campbell?” Chiese Vivien, sempre più allarmata. Il ragazzo annuì. “Bene, allora andiamo”.
  ”Aspetta un attimo!” Tuonò il conte.
  Vivien si bloccò dall'aprire il cancello e si voltò verso Aaron.
  Aveva uno sguardo preoccupato, pieno di tristezza, quasi implorante. Aaron non sapeva chi fosse questa Clelia, eppure doveva trattarsi di una persona davvero importante per lei.
  “A piedi ci metteresti troppo”. Disse con tono duro, poi fece un segno a Meg. “Va' da James e fatti dare un cavallo”.
  L'espressione di Vivien si illuminò ed aprì le labbra in un leggero sorriso.
  Un sorriso di speranza, di gratitudine e che il conte non le aveva mai visto rivolgergli.
  Sentì improvvisamente una strana sensazione alla base dello stomaco, come un disagio, un piccolo dolore, ma lo soffocò, lo ricacciò in un angolo della mente e lo trascurò, non permettendo a nessuno di notare cosa realmente gli stesse provocando quel sorriso.
  Dio, fosse stato per lui non l'avrebbe mai lasciata andare.
  Era una consapevolezza fin troppo chiara e troppo dolorosa da accettare, perché a causa di quella ragazza si stava ammorbidendo – prima di incontrarla, se qualcuno avesse scoperto il suo segreto, l'avrebbe ucciso senza pensarci, invece con lei era addirittura arrivato a raccontarle ogni cosa sui Mercenari – quella serva aveva il potere di ammaliarlo e portarlo a fare cose che prima non gli sarebbero passate nemmeno per la testa.
  “Signore, il cavallo”. James porse le briglie al padrone, ma quest'ultimo gli indicò la persona a cui era realmente destinato quell'animale.
  Vivien lasciò salire prima Thomas, dopodiché lei gli si mise dietro e si strinse alla sua vita.
  “Tornerai, vero?”
  Alyssa, che fino a quel momento era rimasta in silenzio e in disparte, si fece avanti con voce delicata e leggermente incrinata.
  La ragazza le rispose solo con un sorriso, dopodiché lanciò un'occhiata al conte. Aaron non seppe decifrare quello sguardo, era stato troppo breve, ma forse intuì il suo significato.
  Vivien gli aveva detto chiaramente che voleva andarsene da Villa Turner e sapeva che la causa era lui stesso. Forse il fatto di andare ad accudire la sua amica malata non aveva fatto altro che avverare questo suo desiderio.
  Si irrigidì al pensiero che Vivien sparisse in modo così vigliacco, non era da lei. Era certo che – dopo averlo già comunicato a lui – di certo avrebbe avuto la decenza di comunicare di persona la sua decisione di ritirarsi a sua sorella e a sua madre.
  “Aaron, caro”. Lo destò dai quei pensieri la baronessa Louisa Gilbert. “Torniamo alla festa”.
  Il conte prese sottobraccio la nobile dama e si diresse verso il banchetto allestito in giardino. Lanciò infine un'ultima occhiata verso quel cavallo che si dirigeva a tutta velocità in direzione del paese e fece una promessa a se stesso: avrebbe dato a Vivien un po' di tempo, forse un paio di settimane, ma se non l'avesse vista tornare, sarebbe andato lui stesso a riprendersela.

 

******

Personalmente Aaron in questo capitolo mi piace molto, sia quando ignora Vivien che quando alla fine la aiuta!
Beh, che altro dire... aspetto le vostre opinioni.
Il prossimo capitolo teoricamente è già pronto (dico teoricamente perché, conoscendomi, lo modificherò altre mille volte prima di pubblicarlo), tuttavia vedrò di postarlo la prossima settimana... anche perché poi il 27 parto e sto fuori fino al primo maggio e non intendo lasciarvi in pace così a lungo!xD
A parte gli scherzi, ringrazio tutti quelli che leggono la mia storia, la recensiscono e l'hanno messa tra preferite e ricordate.
Un bacione a tutti!^^

*HarleyQ_91*

 

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Capitolo 11
*** Tradimento ***


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Capitolo 10
- Tradimento -

 
 
  Clelia aveva la febbre alta da tre giorni ormai e Vivien non si era mai allontanata dal suo letto se non per andare a prepararle qualcosa di caldo che, comunque, non avrebbe mangiato.
  Vedere la sua più cara amica ridotta in quel modo le procurava una stretta al cuore tale da lasciarla senza fiato.
  Clelia che era sempre così attiva, così vispa e brontolona, ma anche umana e orgogliosa, sembrava impossibile immaginarla stesa a letto in un sonno profondo, agitato da chissà quali incubi. Eppure era così che la vedeva Vivien in quel momento: con gli occhi chiusi, le sopracciglia aggrottate in un'espressione sofferta e i capelli brizzolati leggermente sudati.
  “Ehi, sei ancora qui?”
  Thomas entrò nella stanza senza annunciarsi, come faceva da tre giorni a quella parte. Vivien gli indicò una sedia dove sedersi e gli rivolse un sorriso stanco.
  Stanco perché non dormiva da tre notti, stanco perché non ne poteva più di quell'angoscia e stanco perché, sebbene avesse davanti agli occhi tutto quel dolore, non poteva far nulla per alleviarlo.
  “Vuoi andare a stenderti un po'? Resto io con Clelia”. Si offrì Thomas, ma la ragazza scosse la testa.
  “Non riuscirei comunque a dormire”. Prese poi la mano dell'amica tra le sue e la strinse forte, come a volerle trasmettere un po' della sua energia.
  “Sono sicuro che, ora che sei qui, si riprenderà”. Tentò di consolarla lui, ma Vivien era sempre stata una realista, perciò non si lasciava incantare da belle parole, anche se dettate dal cuore.
  “Non sarà la mia presenza a farla guarire”. Constatò. “Ma le cure. Il dottor Campbell ha prescritto delle medicine, ma sono troppo costose”.
  Il re aveva alzato le tasse anche sui medicinali, non permettendo più così alla povera gente di curarsi. Come poteva un uomo lasciare i suoi sudditi morire in questo modo?
  Per la prima volta in vita sua si ritrovò a condividere l'ideale del conte Aaron. Un simile regime andava fermato.
  “Potremmo fare una colletta”. Suggerì Thomas. “Degli amici mi devono dei favori, vedrai, recupererò i soldi entro sera”.
  Vivien sorrise e scosse la testa. “Grazie, ma non voglio i tuoi soldi. Troverò un modo”.
  “E come? Hai smesso anche di andare a lavorare dai Turner. Credi forse che quei nobili ti pagheranno lo stesso? Probabilmente ti avranno già rimpiazzata con qualcun'altra”.
  In quel preciso istante qualcuno bussò alla porta. Vivien si precipitò credendo fosse il dottor Campbell, per questo rimase stupita nel vedere Meg davanti all'uscio di casa sua, con un cesto portato in grembo e un sorriso gentile.
  “Oh, eccoti. Credevo di aver capito male le indicazioni del fornaio”. Esclamò la biondina, potandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
  “Meg... ma che... vieni, entra pure”. La invitò Vivien, ancora un po' basita.
  Che l'avesse mandata il conte per controllarla? Beh, non ci sarebbe stato nulla di cui stupirsi, quell'uomo era capace di tutto.
  “Tieni, questo è per te. Da parte della contessina”. Meg le porse il cesto di vimini pieno di frutta e formaggi, poi prese una sedia e si sedette, giungendo le mani in grembo.
  “Vuoi una tazza di tè?” Domandò Vivien. “Non è di ottima qualità, però...”
  “Andrà benissimo, grazie”. Rispose l'ospite, annuendo, poi cominciò a guardarsi attorno.
  “Così... questa è casa tua”. Esclamò, strofinandosi una mano contro l'altra.
  “So che non è accogliente come Villa Turner, ma io e Clelia non ci facciamo mancare niente”.
  “E dimmi, come sta la tua amica?”
  Vivien esitò prima di rispondere. Meg era una sua, come dire, collega e sembrava anche molto buona e gentile, però trovava comunque strano conversarci come se fossero state amiche di vecchia data.
  “Beh... non bene, ha la febbre molto alta”. Rispose con un po' di titubanza. “Penso che rimarrò qui finché non si ristabilirà del tutto”.
  Meg annuì. “La contessina sente già la tua mancanza”. Disse. “Non che me lo abbia detto personalmente, ma non le va più di leggere alcun libro e sta sempre in camera sua”.
  “Manca molto anche a me”. E dirlo ad alta voce rese quel vuoto ancora più reale nel cuore di Vivien. Quella bambina era riuscita ad insinuarsi così profondamente in lei che già non riusciva più a staccarsene.
  Tuttavia non poteva voltare le spalle a Clelia, lei era tutta la sua famiglia. Alyssa era una ragazzina intelligente, avrebbe capito.
  “Anche il conte è piuttosto strano da quando te ne sei andata”.
  Il cuore di Vivien mancò un battito.
  Che mi succede?
  Il solo sentirlo nominare l'aveva resa nervosa e la cosa non era affatto normale. D'accordo, il conte aveva cambiato un po' atteggiamento verso di lei e si era rivelato molto comprensivo nel donarle un cavallo per correre da Clelia, tuttavia questo non cancellava tutto quello che Vivien aveva dovuto passare nei mesi di servizio a Villa Turner.
  “Probabilmente gli dà fastidio che me ne sia andata senza avermi prima portato a letto”.
  L'esclamazione le uscì così, cinica, dura e senza pensarci.
  Solo in un secondo momento si accorse di chi aveva di fronte e comprese la sua indelicatezza.
  “Mio Dio, Meg, scusami”. Si affrettò a dire. “Io non volevo... perdonami”.
  La ragazza rise leggermente, forse per nascondere l'imbarazzo più che per divertimento. “Così te ne sei accorta, eh?”
  “Beh, ecco... in verità...” Non sapeva se era giusto confessarle di averla vista quel giorno entrare nella camera del conte.
  “Tranquilla, non dei preoccuparti per me”. La interruppe però Meg. “Sapevo a cosa andavo incontro sin dall'inizio, lui ha sempre avuto altre donne oltre me. Ora però sembra che la sua attenzione sia rivolta solo ad una persona”.
   Vivien inarcò le sopracciglia. Non era certa che fidarsi di ciò che Meg le stava dicendo fosse la cosa giusta.
  “Probabilmente è solo un capriccio momentaneo”. Esclamò poi, cinica. “Si stuferà di me, prima o poi, e mi lascerà in pace”.
  Meg sospirò e si strinse nelle spalle. “Non lo so questo. Ciò che posso dirti è che è strano da ieri. Però forse per via di quella lettera...”
  “Che lettera?”
  “Ieri, verso il tramonto, è arrivato un uomo al cancello sul retro della villa”. Cominciò a raccontare la biondina, sporgendosi in avanti come se stesse rivelando il più pericoloso dei segreti. “Era vestito tutto di nero e si è incontrato col conte – io li ho visti perché stavo nel giardino a raccogliere le erbacce e mi sono nascosta. L'incontro è durato pochi secondi, non si sono scambiati nemmeno una parola, solo ad un certo punto l'uomo ha tirato fuori dalla sua tasca una lettera e l'ha consegnata al padrone”.
  Vivien si ritrovò con la gola improvvisamente secca e le mani che si torturavano l'una con l'altra in segno di agitazione.
  Era fin troppo evidente che si trattava di qualcosa riguardante i Mercenari e questa consapevolezza le fece crescere un'insolita ansia.
  “Beh, comunque non sono affari che devono riguardare due serve come noi”. Esclamò infine Meg, alzandosi dalla sedia e sorridendo. “Ora è meglio che vada, ho altre faccende da fare prima di tornare dai Turner”.
  “Grazie per la visita”. Disse Vivien, mentre le apriva l'uscio. “E porta i miei saluti alla contessina”.
  Le due ragazze si salutarono con un sorriso di cortesia. Non un abbraccio, non una stretta di mano, evidentemente si erano rese conto entrambe che quell'incontro era stato strano e che, nonostante avessero condiviso mesi di lavoro, tra loro il rapporto era rimasto quello di una distaccata conoscenza.
  “Così, a quanto pare, il conte Turner sembra avere un debole per te”.
  Vivien si voltò di scatto e, quando vide Thomas appoggiato allo stipite della porta con le braccia conserte, si rese conto che era rimasto lì tutto il tempo, ad ascoltare, a capire.
  “È solo un nobile incapricciato”. Tentò di tranquillizzarlo lei, lasciandosi sfuggire una risatina. Sapeva quanto Tom fosse protettivo nei suoi confronti, ed era lusingata di tali attenzioni, ma non voleva che si preoccupasse di cose a suo vedere così inutili.
  “I nobili incapricciati sanno essere pericolosi”. Continuò però lui, non volendo far cadere il discorso. “Ti ha fatto qualcosa?”
  “Certo che no!” Esclamò forse troppo in fretta Vivien. “So cavarmela, lo sai”.
  “Secondo me, faresti meglio a non tornarci in quella villa. Potresti trovarti un altro lavoro, magari come cameriera da qualche altro nobile”.
  La ragazza sospirò. “Non posso, la contessina sente la mia mancanza e...”
  “È solo per questo?” Tom la interruppe e le si avvicinò, porgendole uno sguardo fin troppo serio. “Tutto l'interesse che hai per i Turner è solo perché vuoi tornare ad essere la dama di compagnia della contessina? O c'è dell'altro?”
  A Vivien scappò una risatina nervosa e si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, abbassando lo sguardo. “Ma che dici... avanti, smettila”.
  Thomas allora la prese per le braccia e la obbligò a guardarlo. “Dimmelo in faccia, allora! Dimmi che quell'uomo non c'entra, che non provi assolutamente niente per lui!”
  Vivien era sconvolta. Mai Thomas era scattato in quel modo davanti a lei. Stringeva le mani attorno ai suoi avambracci così forte da farle male e le rivolgeva uno sguardo infuocato, pieno di angoscia e paura.
  Perché stava reagendo a quel modo?
  “Tom, che... che ti prende?”
  “Rispondi alla mia domanda, Viv”. Insistette però lui, aumentando la stretta sulle braccia.
  “Ehi, mi fai male... lasciami! Tom, che ti succede?”
  Lui la fissò per un'istante, dopodiché sgranò gli occhi e lasciò la presa.
  “Si può sapere cosa ti è saltato in testa?” Domandò lei, massaggiandosi dai gomiti ai polsi.
  “Mio Dio, Viv”. La voce di Thomas era atona, evidentemente scioccata. “È troppo tardi, vero?”
  La ragazza aggrottò le sopracciglia. “Ma che vai farfugliando? Ti sei impazzito, forse?”
  Thomas era sempre stato un ragazzo tranquillo, protettivo certo, ma non violento. Vivien l'aveva da sempre considerato un fratello maggiore, calmo, a cui chiedere consiglio e a cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà.
  Ora però si domandava se era davvero così, se Tom in realtà si aspettasse qualcos'altro e se lei, cieca, non se ne fosse mai accorta.
  Thomas emise un rantolo di rabbia e, senza più dirle una parola, attraversò la piccola stanza ed uscì dalla casa. Vivien non provò a fermarlo, quel ragazzo doveva calmarsi e forse era meglio se lei non si mettesse di mezzo.
  Tuttavia i giorni passarono, e Thomas non si fece più vedere.
 
    Aaron camminava su e giù per la stanza, con le braccia dietro la schiena e la testa china in avanti, immerso in pensieri che da due giorni lo preoccupavano e innervosivano allo stesso tempo.
  La lettera ricevuta dall'emissario di Falco l'aveva sconvolto.
  A quanto pareva due loro spie erano state arrestate ed un Mercenario era stato vittima di un'imboscata da parte delle guardie reali.
  Non ci voleva molto a capire cosa stava succedendo.
  Qualcuno aveva parlato.
  Siamo stati traditi!
  Ciò significava che l’organizzazione sarebbe stata presto smascherata e loro tutti quanti giustiziati e mandati al patibolo.
  Con agitazione prese il cappotto e uscì dalla villa, prese il suo cavallo e si diresse verso Palazzo Ronchester. Non aveva né invito né si era fatto annunciare, ma la situazione era troppo grave perché si pensasse ancora al galateo.
  Il marchese infatti, non appena lo vide entrare nei suoi giardini, andò incontro al conte, conscio che non si trattasse di una visita di cortesia.
  “Aaron, amico mio, a cosa devo la tua presenza?” Disse Sam, eludendo due giardinieri che stavano lavorando accanto a lui.
  “Nessun motivo particolare”. Resse il gioco Aaron. “Volevo solo scambiare quattro chiacchiere con un caro e fidato amico”.
  “Andiamo in casa, allora”. Lo invitò il marchese. “Lì parleremo con più tranquillità”.
  Non appena Aaron varcò la soglia dello studio di Sam e quest’ultimo si chiuse la porta alle spalle, tirò fuori la lettera e la sbatté sulla scrivania con impeto.
  “Aaron, Aaron, impulsivo come sempre”. Disse il marchese, scuotendo la testa.
  “Non c’è tempo per queste cose!” Esclamò il conte, tra ira e panico. “Devi andartene, immediatamente. Se ciò che riporta la lettera è vero, siamo tutti in pericolo, tu per primo!”
  Il marchese fece il giro della scrivania in legno di noce e si sedette sulla poltrona, incrociando le gambe con così tanta tranquillità che ad Aaron faceva quasi irritazione.
  “Non devi preoccuparti”. Disse poi Sam. “La tua identità è sconosciuta agli altri Mercenari. Ti conoscono come un assassino molto abile, ma non sanno che sei il conte Aaron Turner”.
  “Già, però tutti conoscono te!” Tuonò il conte. “Sei il fondatore, ogni Mercenario sa che a capo dell'organizzazione ci sei tu. Sarai il primo a cui daranno la caccia”.
  “E cosa mi suggeriresti di fare?” Chiese il marchese, prendendo da una scatola di legno sulla scrivania un sigaro e accendendolo.
  “Di andartene, di lasciare l’Inghilterra. Oggi stesso”.
  “E per andare dove?” Domandò Sam. “Lo sai anche tu, sono un uomo legato alla propria terra. Se non lo fossi, non avrei mai cominciato una lotta contro colui che la sta pian piano portando alla rovina”.
  “Mi stai dicendo che non farai niente?” Lo accusò il conte. “Lascerai che ti prendano e ti uccidano?”.
  Sam si strinse nelle spalle e diede una doppia tirata al sigaro, facendo uscire dalla sua bocca una quantità di fumo abbastanza ingente da coprirgli l’espressione degli occhi. Aaron tuttavia la vide per un decimo di secondo e non gli sembrò affatto felice.
  “Prendi questa”. Disse poi il marchese, porgendo al suo ospite una lettera. “Contavo di dartela tra qualche giorno, ma visto che sei qui…”
  “Cos’è?” Chiese immediatamente Aaron, prendendo la missiva in mano ed aggrottando le sopracciglia. Il marchese Ronchester non amava scrivere, a meno che il fatto di cui si trattava fosse della massima importanza e, soprattutto, riservatezza.
  “Non devi aprirla ora”. Disse poi il padrone di casa, alzandosi dalla poltrona e facendo strada al conte verso l’uscita. “Contiene degli ordini che voglio che tu rispetti, nel caso dovesse capitarmi qualcosa”.
  “Sam…”
  “No, Aaron! Niente sentimentalismi, ne va del mio onore”. Lo zittì il marchese. “Devi promettermi che farai quanto è scritto in questa lettera, sei l’unico di cui mi possa fidare”.
  Il conte osservò il suo amico negli occhi. Sam era sempre stato un uomo orgoglioso e tutto d’un pezzo, eppure ora la sua espressione tradiva stanchezza e afflizione. Voleva far credere di non avere preoccupazioni, ma non era così e Aaron lo sapeva.
  “D’accordo”. Disse il conte stringendo la lettera nel pugno. “Se questa è l’unica cosa che posso fare per te, la farò, qualunque cosa sia”.
  Il marchese gli mise una mano sulla spalla e gli sorrise. “Credimi, per me significa davvero tanto”.
  Aaron salutò il marchese come al solito, una stretta di mano e un deciso segno d'intesa con la testa, eppure quando uscì da Palazzo Ronchester sentì come se qualcosa si fosse spezzato.
  Non era stata la solita conversazione tra amici e nemmeno tra Mercenari. Un velo di tristezza aveva aleggiato sulla figura del marchese per tutto il tempo e Aaron, mentre percorreva il tragitto verso casa, sperava tanto di sbagliarsi quando pensava che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe visto.


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Ammetto che è un po' corto e me ne dispiaccio!^^
Spero tuttavia che vi sia piaciuto... ammetto che scrivere la scena tra Vivien e Meg (e poi con Thomas) l'ho trovata un po' difficile, poiché Viv sta passando un momento alquanto "turbolento" per i suoi sentimenti, spero di essere riuscita a rendere bene il suo stato d'animo!
A parte questo, ringrazio di cuore chi legge la mia storia e chi l'ha messa tra le preferite e le seguite (siete sempre di più, vi adoro!)
E naturalmente un ringraziamento speciale a Krakky e Clitemnestra_Natalja che mi fanno sapere sempre cosa pensano della mia storia!^^
A presto,

*HarleyQ_91*

 

 

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Capitolo 12
*** Amico Mio ***


Vi ho fatto aspettare parecchio e me ne dispiace da morire!!!
Ho passato un periodo un po' frenetico e, ahimé, credo che purtroppo ne stia per arrivare un altro.
La prossima settimana parto, perciò non so quanto potrò scrivere, anche se comunque mi porto il mio fidato pc sempre dietro!^^
Beh, non mi dilungo oltre, buona lettura!^^


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Capitolo 11
- Amico Mio -

 
  Arrestato il Marchese Simon Ronchester e condannato al patibolo
per alto tradimento della Corona e congiura contro Sua Maestà Carlo I.
L'esecuzione avverrà domenica a mezzogiorno nella Piazza di St. Michelle.

 
  Vivien stava osservando quel manifesto da circa dieci minuti ininterrotti e non riusciva a capacitarsi di quanto ci fosse scritto sopra. Aveva gli occhi sgranati, increduli, la bocca aperta e le mani leggermente tremanti mentre reggevano il cestino col quale quella mattina si era presentata al mercato.
  Ad ogni parola che rileggeva, la consapevolezza di ciò che stava accadendo cresceva sempre più in lei e la schiacciava.
  Il marchese era stato arrestato, e poi sarebbe morto.
  Non una possibilità di difesa.
  Non l'ombra di un processo.
  Il re stava eliminando tutto ciò che contrastava i suoi piani.
  E ora toccava ai Mercenari.
  Vivien si portò una mano al petto, quasi per rallentare il cuore che aveva preso a battere troppo forte. Agitazione, paura, tutto le scoppiò in quell'istante.
  Se le guardie reali erano arrivate a Sam, che cosa avrebbe impedito loro di risalire anche a lui?
  Per quanto non ci fosse nessun manifesto che ne parlava, la ragazza sentiva come un pericolo incombere, e si faceva sempre più pesante, vicino, reale.
  Decise finalmente di staccare gli occhi da quel pezzo di carta attaccato al muro e prendere un profondo respiro. Doveva calmarsi, tutta quella agitazione non l'avrebbe portata a nulla.
  Il conte era scaltro, era certa che avrebbe trovato il modo di sfuggire alle guardie, così come se l'era cavata con Hummer e i tre suoi scagnozzi.
  Però se Sam avesse parlato?
  Se fosse stato un altro Mercenario probabilmente non avrebbe saputo nemmeno della presenza del conte nell'organizzazione, ma Sam conosceva l'identità di tutti.
  Se prima dell'esecuzione l'avessero torturato e costretto a parlare – magari promettendogli la vita in cambio – avrebbe tradito i suoi compagni?
  Vivien non conosceva il marchese, non sapeva dare una risposta a quella domanda. Sapeva solo che il conte Aaron si fidava di lui.
  Ora basta! Urlò nella sua testa. Questo non sapere nulla non fa altro che agitarmi!
  Risoluta allora strinse il manico del cestino tra le mani e si diresse verso casa. Clelia dormiva ancora, ma quella mattina sembrava tranquilla. La febbre non era scesa, ma almeno gli incubi erano cessati.
  La ragazza posò uno straccio umido sulla fronte dell'amica e le diede un bacio sulla guancia, dopodiché uscì e andò a prendere il cavallo con cui una settimana prima se ne era andata da Villa Turner.
  L'aveva chiamato Philip, come il cane che suo padre le aveva regalato quando era bambina.
  Non sapeva, a dire il vero, se quel destriero fosse un dono – il conte forse l'avrebbe voluto indietro una volta che lei fosse tornata – ma di sicuro in quel momento era la migliore cosa che potesse capitarle.
  Cavalcò veloce, uscendo dal paese e raggiungendo la base dell'altura su cui sorgeva la villa che negli ultimi mesi aveva ospitato i suoi servigi.
  Voglio solo vederlo. Si disse. Non serve che gli parli o che mi veda, voglio solo sapere che sta bene.
  Si avvicinò pian piano al muro di cinta, eludendo l'entrata principale. Sapeva che sul retro c'era l'entrata alla stalla, ma se si fosse fatta vedere, lo stalliere James sarebbe di certo andato dalla padrona a riferirlo.
  “Avete saputo niente”.
  Vivien si bloccò all'istante prima di svoltare l'angolo del muro e scese da cavallo. Non poteva essersi sbagliata, la voce che aveva sentito era del maggiordomo Hans.
  “No, purtroppo”.
  A rispondere invece era stato James, dal tono sembravano entrambi molto preoccupati.
  “In fondo sono solo due notti”. Continuò lo stalliere. “Il conte è stato fuori molto più a lungo in passato”.
  “Già, ma non in tempi come questi”. Ribatté Hans. “Non dopo l'arresto del marchese”.
  A Vivien gelò il sangue. Non solo aveva appreso che il conte Aaron non tornava alla villa da due notti, ma, da quanto aveva potuto capire, il maggiordomo e lo stalliere sapevano.
  “Forse dovremmo mandare qualcuno a cercarlo”. Avanzò James. “Se l'avessero preso, a quest'ora ci sarebbero stati manifesti per tutto il paese”.
  Hans stava per rispondere, quando Philip emise un nitrito che fece sobbalzare Vivien e tacere i due uomini.
  Maledizione!
  La ragazza provò a tornare sul cavallo e andarsene, ma non fece in tempo.
  “Che cosa... signorina Vivien, cosa ci fate qui?” Chiese Hans, tradendo per un millesimo di secondo la sua perenne compostezza.
  “Da quanto sei qui? Cosa hai sentito?” Esclamò invece con meno garbo lo stalliere, con i pugni ben stretti come se fosse pronto a fare a botte.
  La ragazza rimase immobile, presa da un'improvviso panico.
  Il conte era stato chiaro su quel punto, non doveva dire niente a nessuno, altrimenti – se gli altri Mercenari fossero venuti a sapere che lei sapeva – l'avrebbero cercata e messa a tacere.
  Non poteva dire ciò che realmente era venuta a fare alla villa, altrimenti era probabile che i due uomini davanti a lei la uccidessero.
  Doveva trovare il modo di andarsene, senza far capire che era venuta perché si preoccupava del conte.
  “Io... ecco...” Cominciò prendendo un bel respiro, la paura non doveva battere il suo sangue freddo. “Ero venuta a trovare la contessina. Sapete, mi manca molto”.
  Le sembrò la cosa più ovvia da dire, sperava solo che i due uomini se la bevessero.
  “E perché passi per la stalla?” Chiese scettico James, non abbassando i pugni.
  “Perché Philip ha bisogno di mangiare. In questi giorni ero così presa con la malattia della mia amica che non ho avuto molto tempo per occuparmi di lui”. Disse lei, sfoggiando un sorriso e accarezzando il muso del cavallo.
  I due uomini si guardarono circospetti tra loro, poi fu Hans a parlare.
  “Avete sentito qualcosa della nostra conversazione?”
  Vivien si strinse nelle spalle. “Solo che il conte è fuori da due notti”. Accompagnò la risposta con una piccola risatina. “Probabilmente sarà in qualche bordello a spendere soldi in donne e gioco d'azzardo. Come sempre, del resto”.
  La messa in scena doveva essere stata d'effetto, perché i due uomini sembrarono rilassarsi. James schiuse i pugni e si avvicinò a lei per prendere le briglie di Philip, mentre Hans le fece un leggero inchino e si congedò per rientrare in casa.
  “Se volete vedere la contessina, vi conviene ripassare”. Disse infine, prima di andarsene. “Lei e la contessa sono andate a pranzo dalla baronessa Gilbert”.
  Vivien annuì col capo e lo ringraziò.
  Sapeva che il conte non era a casa, che non ci tornava da due notti, ma non doveva per forza essergli successo qualcosa. Probabilmente era in missione, o magari davvero in qualche bordello.
  Doveva solo stare tranquilla.
  Era certa che al conte Aaron non sarebbe capitato niente.
 
  La fortezza di Bastion Hole si ergeva imponente e maestosa al chiarore della luna, sulla collina più alta appena fuori Landbburg.
  Il fossato ricco d'acqua intorno e il ponte levatoio in legno come unica entrata le davano ancora quell'aspetto da fortezza medievale che era stata utilizzata fino ad un secolo prima come luogo di vedetta per le milizie.
  Ora, invece, era una prigione.
  Tutti i condannati a morte passavano per Bastion Hole, prima di essere condotti al cospetto del re e giustiziati. Ed era lì, dunque, che stava il marchese Sam Ronchester.
  Aaron prese un bel respiro e si lanciò il mantello nero sulle spalle, essere confuso nella notte era l'unico modo per far sì che le tre guardie di vedetta poste all'ingresso principale non si accorgessero di lui.
  Almeno per il momento.
  Gli alberi coprivano la collina solo fino a metà strada, perciò per avvicinarsi alla fortezza aveva bisogno di un altro modo.
  Per tre giorni si era studiato quell'operazione, il modo di entrare, la possibile via di fuga e il tutto senza uccidere nessuno.
  Perché lei detesta gli assassini. Pensò automaticamente, sorridendo appena.
  Era la prima volta che si faceva degli scrupoli per qualcosa, e tutto a causa di una donna.
  Rilegò, tuttavia, quei pensieri in un angolo della mente – Vivien rischiava di essere una distrazione anche quando non c'era – e si concentrò sul da farsi.
  Aspettò nascosto finché una guardia non fosse abbastanza vicina, a quel punto si tolse il mantello nero e si infilò la pistola in uno stivale, la prudenza non era mai troppa.
  La divisa da guardia reale che indossava gli era stata donata da un compagno Mercenario che aveva prestato servizio militare al re, prima di convertirsi. Gli stava un po' stretta di spalle, in effetti, e non era proprio al meglio delle condizioni, ma non poteva lamentarsi.
  Prendendo un bel respiro il conte uscì di corsa dal suo nascondiglio, andando addosso alla guardia di fronte a lui e buttandola a terra.
  “Ehi, ma che...”
  “Oh, scusa!” Disse Aaron, alzandosi immediatamente e tendendo la mano al suo collega. “Stavo inseguendo un intruso e mi era sembrato stesse da questa parte”.
  La guardia lo guardò con attenzione e socchiuse gli occhi, come per identificarlo nel buio della notte. Tuttavia Aaron sapeva che le postazioni a Bastion Hole cambiavano in continuazione, quell'uomo non sarebbe mai riuscito a ricordarsi tutti.
  “Intruso, hai detto?” Esclamò scettica la guardia. “E dove l'hai visto?”
  “Venga con me, signore”. Fece strada il conte, conducendo l'altro uomo verso il retro del muro principale.
  Le altre due guardie di vedetta dovevano averli visti, perché cominciarono ad avvicinarsi incuriosite.
  Perfetto!
  “Tu chi sei?” Chiese ancora la guardia.
  “Soldato semplice Gold”. Rispose immediato il conte, si era preparato la commedia fin nei minimi dettagli. “È la prima volta che prendo servizio a Bastion Hole”.
  “Ah, ecco”. Esclamò poi la guardia, come se fosse sollevata. “Mi sembrava strano che non ti avessi mai visto”.
  Gli altri due intanto si erano avvicinati e avevano cominciato a chiedere cosa stesse succedendo. Aaron mostrò loro una parete del muro di cinta, circondata dal fossato pieno d'acqua e indicò verso l'alto.
  “Ero di ronda in questa parte della prigione”. Cominciò a dire. “E ho notato quel buco, vedete? Così mi sono insospettito”.
  “Io non vedo niente!” Esclamò uno dei quattro.
  In effetti non c'era niente, il buio non avrebbe permesso nemmeno di distinguere le fessure tra i mattoni.
  “Ma come? Eccolo lì”. Continuò Aaron. “L'ha fatto l'intruso con un piccone, stava provando a scalare le mura, ma io l'ho beccato”. Poi si mise dietro ai tre e li incitò a porsi di più per osservare meglio.
  Quelli obbedirono, così, approfittando di quell'attimo in cui non gli prestavano attenzione, tirò fuori la pistola e con il manico colpì il primo uomo sulla nuca.
  Come previsto, gli altri due si voltarono verso di lui, ma ebbero un attimo di esitazione – stupiti dall'accaduto – e non reagirono immediatamente.
  Quell'attimo fu abbastanza.
  Sempre col dorso della pistola colpì una guardia in pieno volto, mentre all'altra diede un calciò sulle ginocchia, facendolo cadere a terra.
  “Chi diavolo sei?” Urlò quest'ultima, cercando di prendere la pistola nella sua fondina, Aaron però gli pestò il braccio col piede, non permettendogli di muoversi.
  “Le domande le faccio io!” Si chinò su di lui, premendo forte il piede sul suo polso, e puntandogli la pistola alla fronte. “Dov'è la cella del marchese Ronchester?”
  “Sei un Mercenario... ah...” Il conte fece più pressione sul braccio. “Bastardi, che pensate di fare? Il re... vi giustizierà tutti”.
  “Non hai risposto alla mia domanda”. Aaron premette ancora di più col piede e alla guardia scappò un grido di dolore.
  “Pensi davvero... che te lo dica? Morirai... appena metterai piede... nella prigione”.
  Il conte sorrise. “Questo è da vedere”. Con un colpo secco lo colpì alla testa, mandandolo nel mondo dei sogni come aveva fatto con gli altri due prima di lui.
  La parte più rognosa era stata fatta, legò le tre guardie ad un albero, le imbavagliò e disarmò, dopodiché si diresse vero l'entrata di Bastion Hole.
  Adesso doveva solo trovare e liberare Sam.
  Man mano che saliva i piani della prigione, metteva fuori gioco le guardie di vedetta. Se non avesse avuto l'ansia di liberare il suo compagno, avrebbe trovato quella situazione quasi divertente.
  “Ehi, tu!” Lo richiamò la voce di un detenuto. Più di qualcuno si era svegliato. “Chi sei? Come... come hai fatto ad entrare?”
  Aaron lo osservò, era un uomo piuttosto grosso di corporatura, sulla cinquantina, e una cicatrice sull'occhio destro. Le rughe che gli solcavano il volto – forse troppe per l'età che aveva – davano l'impressione che fosse stato un uomo che ne aveva passate davvero tante.
  “Cerco il marchese Sam Ronchester, sai dov'è?” Chiese a sua volta Aaron, non rispondendo alla domanda che gli era stata posta.
  “Se mi liberi te lo mostro”.
  Il conte osservò l'uomo davanti  sé. Non sapeva se fidarsi e, a dire il vero, la sua mente gli urlava di non andarsi ad impelagare con altre complicazioni, eppure doveva trovare Sam, e doveva farlo in fretta.
  “Chi mi dice che posso fidarmi”.
  “Ti do la mia parola”. Esclamò l'uomo. “E la parola di Claud è sacra”.
  Aaron sospirò, dopodiché prese il mazzo di chiavi che la guardia stesa poco prima aveva attaccato alla cintura e aprì la cella del prigioniero.
  “Bene, Claud, fammi strada”.
  “Ehi, ehi, e quella?” Esclamò l'uomo, vedendosi la pistola puntata al petto.
  “Solo una precauzione, nel caso tu volessi fare il furbo”.
  “Ti ho dato la mia parola!” Rimarcò Claud.
  “E io ti do la mia che, se fai come ti ho chiesto, non ti sparerò”. 
  L'omone fece strada verso la fine del corridoio in pietra, dove altri detenuti chiedevano di essere liberati, ma Aaron non li ascoltava. Di certo non era entrato a Bastion Hole con l'intento di far evadere tutti i prigionieri e anche Cloud, una volta liberato il marchese, lo avrebbe messo fuori gioco.
  I soffitti si facevano sempre più alti, man mano che scendevano le scale a chiocciola che portavano verso quelle che un tempo erano le segrete della fortezza. Era lì che venivano messi i traditori della Corona poiché, non essendoci né porte né finestre, era impossibile uscire.
  A meno che, naturalmente, qualcuno non spianasse la via principale.
  Nei sotterranei c'era un silenzio angosciante, solo ogni tanto lo squittio dei topi lo rompeva. Le celle erano poche, chiuse da porte in legno massiccio con un'unica finestrella con sbarre in ferro come apertura, e la maggior parte erano vuote.
  I traditori della Corona non venivano lasciati in gattabuia per molto, di solito venivano giustiziati a una settimana dal loro arresto, perciò le segrete di Bastion Hole non dovevano mai aver subìto un sovraffollamento.
  “Dovrebbe stare in una di queste”. Disse Cloude, avvicinandosi ad ogni cella con la fiaccola che aveva staccato dal muro appena finite di scendere le scale.
  “Perché non c'è nessuna guardia?” Chiese Aaron circospetto, la cosa non prometteva niente di buono.
  “Probabilmente le hai già messe fuori gioco tutte, hai uno stile niente male”.
  “Grazie, ma risparmiati pure i complimenti”. Lo zittì il conte. “Abbiamo altro da fare”.
  “A-Aaron, sei tu?”
  Una voce partì dall'ultima cella del corridoio e il conte si mise a correre, riconoscendola all'istante.
  “Sam, finalmente!” Esclamò, affacciandosi alla finestrella della porta. “Ora ti tiro fuori”.
  “Che cosa?” Ribatté il marchese. “Abbiamo già fatto questo discorso, non intendo fuggire, lo sai”.
  Aaron contrasse la mascella, sapeva quanto Sam fosse cocciuto, ma credeva che, vedendo avvicinarsi il momento della fine, si sarebbe ammorbidito. Evidentemente era un uomo più tenace di quanto mai avesse creduto.
  “Non ti lascerò morire, Sam, non senza aver prima tentato il tutto per tutto”.
  Con agitazione prese il mazzo di chiavi che aveva utilizzato per aprire la cella a Cloud e ne provò una per una nella serratura.
  Il prigioniero scosse la testa e strinse i pugni attorno alle sbarre in ferro della piccola finestra. L'unico spiraglio che aveva per vedere il conte in volto.
  “Ho sempre rimproverato la tua irresponsabilità”. Disse in tono duro. “Ti avevo dato ordini precisi e, invece, hai preferito fare di testa tua. Scommetto che hai anche letto la lettera che ti ho consegnato”.
  “Certo che l'ho letta”. Esclamò l'altro, alzando la testa solo un secondo, dopodiché tornò a combattere con le chiavi e la serratura. “E per questo sono qui, tu non morirai, Sam!”
  “Io sono già condannato”. Il tono autoritario del marchese di poco prima lasciò spazio ad uno rassegnato, quasi sereno, e ciò fece innervosire ancora di più il conte.
  Un rumore di stivali e voci arrabbiate si sentì provenire dal piano superiore. Qualcuno doveva aver chiamato rinforzi e, se non si fossero sbrigati a risalire, il conte e gli altri sarebbero rimasti bloccati nelle segrete.
  “Che aspetti? Scappa, idiota!” Lo rimproverò il marchese, ma Aaron non si dava per vinto, stava ancora cercando la chiave giusta.
  “Ehi, stanno scendendo!” Tuonò Cloud, che nel frattempo era rimasto di vedetta ai piedi delle scale.
  Il conte allora lasciò perdere il mazzo di chiavi e prese la pistola.
  “Stai indietro, Sam!” Urlò, poi puntò la canna verso la serratura e sparò un colpo secco.
  La porta si era spaccata e con un calcio la buttò giù.
  Ce l'ho fatta!
  Il marchese però non sembrava condividere tutto il suo entusiasmo. Lo spinse infatti fuori dalla cella, non permettendogli di entrare.
  “Smettila di fare il moccioso e cresci, Aaron!” Lo aggredì. “Io non verrò con te e devi accettarlo. Ci sono cose che non puoi cambiare, che non puoi comandare, mettitelo in testa una buona volta”.
  “Ma io...”
  “Ho fatto la mia scelta, adesso vattene!”
  Le guardie irruppero nelle segrete, gridando imprecazioni e bestemmie. Claud provò a tenerle occupate, ma Aaron sapeva bene che non avrebbe resistito a lungo. Per quanto grosso, era comunque un prigioniero mal nutrito e le guardie saranno state una decina. Doveva andare a dargli una mano.
  Lanciò un'ultima occhiata al marchese Ronchester, sperando fino all'ultimo che si decidesse a seguirlo, ma per tutta risposta Sam si allontanò dall'uscio della cella ed andò a sedersi sulla brandina.
  Doveva davvero andare così?
  Era davvero finita?
  “Qui servirebbe una mano!” Gridò Claud dal fondo del corridoio.
  Aaron prese un respiro profondo e corse da lui.
  Non si voltò più, non ne aveva la forza, eppure era convinto di aver sentito il marchese parlare. Forse era stata la sua immaginazione, il desiderio di sentirglielo dire, ma gli sembrò che Sam – per la prima volta da quando lo conosceva – gli avesse rivolto quell'epiteto che mai credeva potesse uscire dalla sua bocca.
  “Addio, amico mio”.

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Come ho già detto, non so darvi un'idea precisa di quando pubblicherò il prossimo capitolo.
Ho già cominciato a scriverlo, ma ho ancora un po' di idee da riordinare...
spero mi venga al più presto un'illuminazione!^^
Beh, aspetto con ansia le vostre opinioni!
Un bacione,

*HarleyQ_91*

 

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Capitolo 13
*** Il Forestiero ***


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 Capitolo 13
- Il Forestiero -

  La pioggia batteva impetuosa sulla piccola finestrella della sua piccola stanza, ma Vivien non sembrava farci caso. Ciò che non la faceva dormire non era di certo il rumore dei tuoni o la luce dei lampi, il suo pensiero era rivolto solo ad una persona.
  Le notti passate a pregare per la salute di Clelia sembravano finalmente essere state ripagate, all’anziana era scesa la febbre e da quella mattina aveva ripreso a brontolare come suo solito, segno indiscusso di guarigione.
  Tuttavia un altro fardello si era impossessato del cuore di Vivien e questa volta non era certa che qualche preghiera sarebbe bastata ad alleggerirlo.
  Tornerò a Villa Turner anche domani! Impose a se stessa. Ci tornerò ogni giorno, se necessario.
  Non sapere nulla sulla sorte del conte Aaron era addirittura più devastante che sottostare ai suoi capricci. Ultimamente si era fatto così serio con lei, protettivo, quasi irriconoscibile.
  Il cuore di Vivien perse un colpo e lei si portò istintivamente la mano al petto.
  Cosa mi sta succedendo?
  La sua mente non fece in tempo a risponderle che bussarono ripetutamente alla porta.
  La ragazza scese dal letto con un balzo e si stirò la camicia da notte con nervosismo. Chi poteva essere a quell’ora di notte e nel bel mezzo di una tempesta?
  Altri tre colpi alla porta.
  Vivien uscì dalla sua stanza e aprì la porta di quella accanto alla sua. Clelia dormiva tranquillamente, non sembrava che i colpi l’avessero destata, come il temporale del resto.
  Altri due colpi e una voce.
  “Vivien Foster!”
  Il cuore di Vivien si fermò per un secondo.
  La voce era sconosciuta, eppure sapeva il suo nome e dove era la sua casa.
  “Chi è?” Chiese lei, dopo aver accuratamente richiuso la stanza di Clelia e avvicinandosi all’ingresso.
  “Sei tu? Sei Vivien Foster?” Chiese conferma la voce da fuori.
  La ragazza non sapeva se dire la verità o meno, in fondo al di là della porta, in una notte come quella, poteva esserci chiunque.
  “Voi chi siete?” Rispose dunque lei con un’altra domanda.
  “Il mio nome non ti direbbe niente, comunque”. Disse la voce dall’esterno. Era un po’ distorta dal rumore della pioggia, ma sembrava roca e profonda. “Sono qui perché il tuo amichetto ha bisogno di cure”.
  Vivien aggrottò le sopracciglia. “Se speri che ti apra con uno stratagemma del genere, sei un bandito fin troppo stupido”.
  Lo sentì ridere. “Nessuno stratagemma. Io posso anche andarmene, il tuo amico te lo lascio davanti la porta, chissà se col freddo gli si rimargina prima la ferita”.
  La ragazza a quel punto aprì di colpo l’uscio, spinta da chissà quale forza e preoccupazione.
  Vide un omone davanti a sé, fradicio dalla punta dei capelli alla suola delle scarpe. La faccia tozza, con una cicatrice in bella vista che nemmeno la pioggia incessante riusciva a nascondere.
  E poi vide lui, accasciato sulle spalle dell’omone, privo di sensi e pallido come un morto e a Vivien sembrò di essere trafitta da mille lame per tutto lo stomaco.
  “Mio Dio, entrate!” Disse alla svelta.
  L’omone dovette accucciarsi leggermente per passare sotto la porta ed evitare che il suo carico sbattesse, dopodiché si voltò verso Vivien.
  “Dove lo metto? Dopo quasi tre miglia con questo coso sulle spalle, comincia a farmi male la schiena!”
  Vivien lo condusse in camera sua e gli fece poggiare il conte sul letto, dopodiché si rivolse allo sconosciuto.
  “Dove l’hai trovato? Sai perché è in queste condizioni?”
  L’omone ridacchiò. “Un uomo che sfida da solo Bastion Hole deve tenersi fortunato ad essere ancora vivo”.
  Vivien si portò una mano davanti la bocca e scosse la testa. Il conte aveva tentato di salvare il marchese Ronchester, era forse diventato matto?
  “Nonostante fosse solo, se l’è cavata bene”. Continuò lo sconosciuto. “Se solo mi avesse dato retta e trafitto qualche guardia, ora non si troverebbe in queste condizioni”.
  Vivien, che aveva preso a spogliare il conte per liberargli la ferita, si voltò verso l’omone con le sopracciglia aggrottate.
  “Come hai detto?”
  “Si era fissato di non dover uccidere nessuno. Mah, roba da matti!”
  Alla ragazza stettero per cedere le gambe ma si fece forza.
  Il conte Aaron lo aveva fatto per lei.
  Non aveva ucciso nessuno per lei, ed era sempre per lei che ora si trovava con una ferita d’arma da fuoco sul fianco.
  “Come mi hai trovata?” Continuò Vivien, ricacciando le lacrime e andando in cucina a prendere dei panni umidi per pulire la ferita.
  “Il tuo amico non faceva che ripetere il tuo nome, ho dovuto bussare a qualche porta prima di riuscire a trovarti, mi sono preso pure qualche vaffanculo”.
  Vivien prese una sedia e si mise accanto al letto per pulire la ferita al conte. Per fortuna sembrava non essere tanto grave, la pallottola era uscita e il sangue sembrava essersi fermato. La medicò come meglio sapeva fare – aveva imparato parecchio da Clelia sulle medicazioni – e gliela fasciò, così per la notte almeno non avrebbe dovuto avere problemi.
  “Beh, è stato un piacere!” Disse poi lo sconosciuto. “Ora che so che è in buone mani, me ne vado”.
  “Aspetta! Lasci da solo un tuo compagno?”
  L’omone si mise a ridere. “Compagno? Io nemmeno lo conosco. Mi ha liberato da Bastion Hole e ora me ne vado prima che le guardie mi sbattano dentro di nuovo. Portandolo qui ho pagato il mio debito, ora non ho più niente a che fare con lui”.
  Così dicendo, girò i tacchi e sparì nella notte tempestosa, richiudendosi la porta dietro le spalle.
  Vivien rimase qualche attimo frastornata da tutta quella situazione.
  Quell’uomo doveva essere un criminale, eppure aveva aiutato il conte a Bastion Hole e poi – cosa per cui gli sarà stata per sempre grata – aveva riportato Aaron da lei.
  Dopo giorni di angoscia passati senza sapere dove fosse, se stesse bene.
  Adesso era lì, nel suo letto.
  I capelli bagnati appiccicati sulla fronte pallida, le occhiaie leggermente macchiate e le labbra violacee. Non aveva un bell’aspetto, ma era vivo.
  Sorridendo leggermente gli accarezzò una guancia e le lacrime cominciarono a scenderle dagli occhi. Teneva così tanto a lui, ma non se ne era mai accorta prima.
  Aveva dovuto rischiare di perderlo per rendersi conto di quanto lui fosse importante.
  Ma ora non l’avrebbe mai dimenticato.
  Aaron mugugnò qualcosa nel sonno e aggrottò la fronte.
  “Non… non ho ucciso… nessuno”. Disse come se sapesse che lei lo avrebbe sentito. “Nessuno…”
  “Lo so!” Rispose Vivien stringendogli la mano e lasciando libero sfogo alle lacrime. “Non sei un assassino, sei un uomo d’onore. Ora l’ho capito”.
  Per la prima volta lasciò da parte le riverenze e si rivolse a lui con tono più confidenziale, come se lo sentisse più vicino a lei. In quella stanza non c’era nessun conte e nessuna serva. Per Vivien quello steso sul letto era solo un uomo che aveva rischiato la sua vita per salvare un suo amico, e lei era solo una donna grata a Dio per averlo salvato.
 
  Aaron sbatté le palpebre più volte prima di riuscire a mettere a fuoco ciò che gli si presentava davanti.
  Una camera insipida, piccola e spoglia, eppure con un profumo così familiare.
  Provò ad alzarsi da quella specie di brandina che sarebbe dovuta risultare un letto, ma una fitta al fianco lo fece ricadere sulla schiena.
  Giusto, la ferita!
  Immediatamente tutto ciò che era accaduto a Bastion Hole gli tornò alla mente, la sua fuga dopo il rifiuto di Sam, il combattimento con le guardie e infine il colpo di fucile che lo prese poco sotto le costole sinistre.
  Guardò in basso e vide una fasciatura di bende bianche, macchiate leggermente di rosso. Sembrava il lavoro di un professionista.
  “Non ricominciare, per favore!” Sentì una voce provenire dall’altra parte del muro.
  Era lei, non c’erano dubbi.
  “Dico solo che potrebbe essere pericoloso!” Commentò un’altra voce. “Forse è un latitante, un assassino, ci hai pensato?”
  “Clelia è solo un forestiero!” Ribatté Vivien, con tono fermo. “E in più è ferito. Non potrà nuocere a nessuno per un bel po’”.
   Ci fu qualche attimo di silenzio, poi le due donne ripresero a parlare, ma con tono più calmo, perciò il conte non riuscì a sentire altro che flebili bisbigli.
  Vivien si stava prendendo cura di lui come nemmeno sua madre aveva mai fatto. Gli aveva dato riparo, lo aveva curato e aveva pensato bene di tenere nascosta la sua identità per evitare che le guardie reali lo trovassero.
  Sapeva bene di non aver mai fatto niente per meritarsi tanto riguardo da parte sua. L’aveva sempre trattata come una nullità, invece lei, nonostante i torti subiti, gli aveva salvato la vita.
  La porta della stanza si aprì e Vivien entrò con in mano una ciotola di terracotta.
  Aveva i capelli castani sciolti sulle spalle un po’ scompigliati e un vestito grigio – di tutt’altra sartoria rispetto a quelli che indossava a Villa Turner – eppure Aaron la trovò ugualmente stupenda.
  Fu in quel momento che si accorse che gli era mancata.
  Vivien si accorse che il conte la stava guardando solo dopo essersi richiusa la porta dietro le spalle.
  Non proferì parola, ma gli occhi sgranati, le sopracciglia inarcate e la bacinella caduta in terra furono più eloquenti di mille parole.
  “Siete… siete sveglio!” Esclamò poi, avvicinandosi al letto. Ad Aaron sembrò che stesse sul punto di piangere, ma probabilmente era solo una sua impressione.
  Non si sarà di certo disperata a tal punto per me.
  Questo pensiero gli fece inavvertitamente male. Era consapevole dell’odio che Vivien provava nei suoi confronti e non si sarebbe assopito solo perché era ferito, tuttavia una parte lui sperava vivamente di sbagliarsi.
  “Come sono arrivato qui?” Chiese, non dando troppo peso al fatto che lei gli avesse stretto la mano nelle sue.
  “Vi ci ha portato un uomo, non so il nome. Era grosso e aveva una cicatrice sul volto”.
  Aaron annuì. Claud era stato un buon compagno di battaglia, senza di lui probabilmente non ce l’avrebbe fatta.
  “Comunque siete stato un pazzo ad inoltrarvi a Bastion Hole”. Continuò Vivien in tono canzonatorio. Gli erano mancate le sue ramanzine. “Potevate morire, vi rendete conto?”
  “Avevo un buon motivo per farlo”. Ribatté lui, aggrottando la mascella e ripensando a come Sam non aveva voluto seguirlo. “Quell’idiota non ha voluto ascoltarmi”.
  “Non è un idiota!” Sentenziò lei. “E’ un uomo d’onore”. Vivien gli spostò una ciocca di capelli dalla fronte e gli si avvicinò al volto. “E anche voi lo siete!”
  Era così vicina, il suo respiro gli sfiorava la pelle e i suoi seni si schiacciavano contro il materasso su cui si era appoggiata. Aveva le labbra piene e rosee, socchiuse in un leggero sorriso ed ad Aaron sarebbe bastato così poco per assaggiarle.
  La voglio! Pensò in quell’istante. La voglio da morire, più di prima.
  Senza attendere oltre, si sporse in avanti e le catturò la bocca, la assaggiò, la succhiò, quasi come fosse l’unica cosa che avesse mai desiderato in vita sua.
  Portò una mano dietro la nuca di Vivien, forse per timore che potesse distanziarsi da lui.
  Ma ciò non accadde.
  Si stupì nel vederla così accondiscendente, ma non stette troppo a pensarci. La baciò ancora, questa volta più profondamente, assaggiando la sua lingua, la sua saliva, il suo respiro. Le mise entrambe le mani tra i capelli e la attirò più a sé, facendola salire con tutto il busto sulla piccola brandina.
  “Signor conte…” Provò a fermarlo lei, ma quel tono di voce così affannato non faceva altro che spronarlo ancora di più a continuare.
  “Aaron”. La corresse poi lui. “Adesso sono solo Aaron!”
  Vivien si sedette a cavalcioni su di lui, all’altezza del suo inguine, premendo sulla sua erezione.
  “Dio!” Esclamò a denti stretti e chiudendo gli occhi. Poi la attirò di nuovo a sé e le baciò le labbra, ancora e ancora. Non ne era mai sazio.
  I suoi lunghi capelli castani gli solleticavano il volto e i suoi gemiti lo eccitavano sempre di più. Passò le mani sulle sue gambe, alzandole la gonna e toccandole la pelle liscia.
  La desiderava da impazzire e anche per lei era lo stesso.
  Ora ne aveva la prova.
  Con frenesia cominciò a slacciarle i lacci del bustino, quando improvvisamente sentì un dolore atroce al fianco e, sebbene riuscì a non gridare, l’espressione sul suo volto fu talmente sofferente che indusse Vivien a fermarsi.
  La ragazza scese immediatamente dal letto e si portò una mano sulla bocca.
  “Mio Dio, io…”
  Aaron avrebbe voluto dirle qualcosa, ma non ne ebbe il tempo, poiché Vivien uscì di corsa dalla stanza. Si accasciò allora con la testa sul cuscino e rimase in silenzio a guardare il soffitto.
  Era stato solo per pochi attimi, rapidi, ma era certo di averlo visto.
  Il desiderio nei suoi occhi!
  Era presente e vivo come il suo. E ora avrebbe fatto qualunque cosa per non farlo assopire.
 
  Il giorno seguente il dottor Campbell venne a visitare Clelia e la trovò molto migliorata, anche se la febbre non le sarebbe mai passata del tutto se non avesse cominciato a prendere regolarmente la medicina che l’uomo le aveva prescritto.
  “Costa troppo”. Gli confessò Vivien. “Non possiamo permettercela”.
  Era già un miracolo che Clelia non fosse più in pericolo di vita e che il dottor Campbell non avesse voluto un soldo per tutte le visite che le aveva fatto.
  “Il forestiero nell’altra stanza invece?” Chiese il dottore.
  Vivien si irrigidì di colpo. Dopo il bacio che si era scambiata la sera prima con il conte non aveva avuto più il coraggio di parlargli. Era entrata nella stanza solo per portargli un po’ di zuppa calda e controllargli la ferita ma, per quanto lui desiderasse chiarire, Vivien aveva trovato sempre il modo di andarsene il più in fretta possibile.
  “Bene, sembra che la ferita guarisca in fretta”. Rispose lei, fingendosi rilassata.
  Il dottore si strinse nelle spalle. “Per qualsiasi cosa, chiamatemi”.
  Vivien lo accompagnò alla porta e lo salutò. Campbell era un uomo fantastico, la mattina seguente all’arrivo del conte Aaron era andata a chiamarlo per fargli visitare la ferita e lui l’aveva seguita senza fare domande. Aveva anche dato la sua parola di non dire a nessuno che quel forestiero si trovasse in casa sua, come avrebbe mai potuto ripagare una simile lealtà?
  “Maledizione!” Sentì imprecare dalla sua stanza, dopodiché ci fu un rumore di cocci rotti.
  Vivien si precipitò a entrare e vide il conte intento ad alzarsi dal letto, che aveva fatto cadere in terra la ciotola con la zuppa.
  “Che cosa credete di fare?” Lo rimproverò lei, andandogli vicino per rimetterlo sul materasso.
  “Secondo te? Volevo alzarmi!”
  “Siete troppo debole ancora. Dovete riposarvi!”
  “Sciocchezze! Ho perso fin troppo tempo!” Aaron tentò di nuovo di alzarsi, ma lei gli si mise davanti e, con le mani ben piantate sulle sue spalle, lo fece rimanere seduto. “La ferita va molto meglio oggi e posso tornarmene a casa”.
  “Sono passati a mala pena tre giorni!” Ribatté lei, non intenta a mollare. “Se tornate a casa in queste condizioni, non credete anche voi che la contessa si farà delle domande? Tutti sanno dell’attentato a Bastion Hole, le occorrerà poco per mettere insieme i pezzi! Vorreste davvero mettere in pericolo vostra madre e vostra sorella?”
  “Ma se resto qui metto in pericolo te”.
  Vivien trattenne per qualche attimo il respiro e abbassò lo sguardo.
  Non sapeva proprio come affrontare quella situazione. Lei che era sempre stata così sicura e decisa in tutto ciò che faceva, si ritrovava adesso schiacciata da degli eventi che la stavano travolgendo troppo in fretta.
  “Ho un dovere da compiere”. Continuò il conte, allungando una mano per accarezzarle il volto. “Qualcuno ci ha traditi e, per questo, Sam verrà giustiziato. Io devo trovare il traditore!”
  Ancora battaglie, ancora pericoli. Vivien sperava di aver provato già abbastanza angoscia in vita sua.
  A quanto pareva, però, non era che l’inizio.
  “Comunque sia, non potete affrontare il re in questo stato!” Disse di nuovo lei, ferma nelle sue convinzioni. Non lo avrebbe mandato a morire prima di aver dato il tutto per tutto affinché si fosse salvato.
  Vide il conte sorridere. “Mi piace quando ti preoccupi per me”.
  Con gesto delicato spostò la mano dalla sua guancia al collo, arrivò fino alla clavicola per poi risalire sino alla mascella, poi si sporse verso di lei e cominciò a baciare tutti i punti sfiorati dalla mano.
  Vivien trattenne il respiro. Sentì la pelle andare a fuoco e il desiderio aumentare a ogni bacio.
  Come era arrivata fino a questo punto?
  Da quando lo desiderava così tanto?
  Forse lo aveva desiderato da sempre, ma era stata troppo orgogliosa per accettarlo.
  “Voglio tornare a Villa Turner oggi stesso”. Disse lui, mentre con le labbra le baciava gli angoli della bocca. “E voglio che tu venga con me!”


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Perdonatemi tanto per l'attesa, ma questo capitolo proprio non ne voleva sapere di venire fuori.
L'avrò cominciato mille volte e poi mi ritrovavo puntualmente a cancellare ogni parola perché non ero mai soddisfatta.
Ammetto che, anche ora, non è che lo trovi particolarmente brillante, ma ho preferito pubblicarlo prima di poterci ripensare!
Vi avevo fatto attendere troppo a lungo!^^'
Spero che non mi capiti la stessa cosa anche per il prossimo.
A presto!

*HQ*

 

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Capitolo 14
*** L'Inaspettato ***


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CAPITOLO 14
- L'inaspettato -

 

  Clelia aveva uno sguardo torvo e pensieroso e non spiccicava una parola da dieci minuti, un record per lei. Nonostante la febbre infatti sembrava essere tornata quella di prima, orgogliosa, spigliata e rompiscatole.
  “Mi stai nascondendo delle cose, lo so!” Esclamò poi, guardando Vivien che era rimasta in piedi sul ciglio della porta.
  La ragazza era andata a darle la notizia del suo ritorno a Villa Turner e della sua intenzione di partire quel pomeriggio stesso.
  “Quando andasti via da lì tre settimane fa non eri certa se ci saresti tornata, cosa ti ha fatto prendere questa decisione?”
  Vivien abbassò lo sguardo per non incrociare quello scrutatore di Clelia, quella donna era fin troppo perspicace.
  “La contessina Alyssa ha bisogno di me e io sento molto la sua mancanza”.
  Ed era vero. Non vedeva l'ora di riabbracciare la contessina, però doveva pure ammettere a se stessa che quello non era l'unico motivo per il quale aveva deciso di tornare a prestare servizio dai Turner.
  “E quel forestiero? Prima decidi di ospitarlo e poi te ne vai?” Continuò Clelia con le sue domande.
  “Anche lui andrà via oggi stesso”. Rispose Vivien. “Si sente molto meglio e non vuole disturbarci oltre”.
  L'anziana si schiarì la voce e borbottò qualcosa che la ragazza non riuscì a capire.
  “Prima che se ne vada, controlla che non abbia rubato niente”.
  A Vivien venne un po' da ridere. “Non credo che in casa nostra ci sia qualcosa che valga la pena di rubare”. Poi si avvicinò al letto della donna e le strinse una mano. “Il dottor Campbell verrà a visitarti tutte le mattine e provvederà al tuo nutrimento. Io tornerò a trovarti il più spesso possibile. Guadagnerò abbastanza denaro per comprarti le medicine che ti servono e guarirai”.
  “Io sono vecchia, Vivien”. Le ricordò Clelia. “Passato questo, me ne verranno altri di malanni. E io non intendo farti passare la vita a spendere soldi per me. Goditi la tua giovane età”.
  La ragazza aggrottò le sopracciglia. “Ma che stai dicendo? Pensi davvero che riuscirei a vivere felice sapendo che soffri in questo modo?”
  Clelia le accarezzò una guancia. “Sei una cara ragazza. Ti ho sempre considerato una figlia, ma nella vita arriva sempre il momento in cui i figli bisogna lasciarli andare. Io sarò sempre qui e mi farà piacere quando verrai a trovarmi, ma i soldi che guadagnerai risparmiali per il tuo futuro, non per il mio, che ormai è agli sgoccioli”.
  “Non dire sciocchezze”. La contraddisse Vivien. “Sai benissimo che non saprei cavarmela senza di te”.
  Clelia era la sua famiglia, la sua forza. Quante volte in quegli anni di sciagure Vivien aveva pensato di farla finita, se non ci fosse stata la sua balia a spronarla ad andare avanti, non ce l'avrebbe mai fatta.
  La donna sorrise e scosse la testa. “È vero, senza di me non andresti da nessuna parte”. Fece una pausa, respirò pesantemente e poi riprese. “Ti prometto che non tirerò le cuoia finché non sarai in grado di cavartela da sola, così sei contenta?”
  A Vivien scappò una leggera risata. Era proprio da Clelia sdrammatizzare in certe situazioni.
  “D'accordo. Ma ricordati che hai promesso!”
  La donna annuì. “Ora vai. I conti Turner ti staranno aspettando e non sono noti per la loro pazienza”.
  Vivien baciò l'anziana sulla fronte e lasciò la stanza con il sorriso sulle labbra. Clelia le aveva fatto una promessa e – per quanto assurda – lei era una donna di parola, avrebbe lottato con le unghie e con i denti contro ogni tipo di malattia per mantenerla.
  E Vivien avrebbe pregato ogni sera affinché ci riuscisse.
  Tornata nell'altra stanza, vide il conte che incontrava non poche difficoltà nel vestirsi. Ancora non riusciva a muoversi con disinvoltura, sebbene fosse in grado di stare in piedi e camminare liberamente.
  “Lasciate fare a me”. Disse poi lei, avvicinandoglisi e prendendogli la cintola dei pantaloni per chiuderla.
  Vivien sentiva il suo sguardo su di sé e non osò alzare la testa per paura di incrociarlo. Rimase con gli occhi fissi sul suo busto nudo, coperto soltanto da garze bianche sotto le costole. Aveva la pelle leggermente abbronzata, una leggera peluria scura nascondeva qualche piccola cicatrice all'altezza dei pettorali. Vivien ci fece più attenzione.
  “Queste come ve le siete fatte?” Chiese, e senza pensarci andò a sfiorare la sua pelle con la punta delle dita.
  “Alcune in missione, altre in qualche rissa nei bordelli”.
  Vivien annuì. Non doveva dimenticare che  il conte Aaron rimaneva comunque un nobile a cui piaceva andarsi a divertire con le prostitute. Per quanto ora lo trovasse più umano e leale, rimaneva un uomo il cui unico scopo era portarsi la propria serva a letto.
  L'unica differenza era che lei non era più tanto certa di voler rifiutare.
  “Il sole sta tramontando”. Esclamò lui, facendo un passo indietro e infilandosi la camicia. “Possiamo andare”.
  Avevano deciso di tornare a Villa Turner in groppa a Philip non appena sarebbe giunta sera. Col buio era più facile passare inosservati e un nobile che lasciava la casa di una serva poteva scaturire non poche domande.
  “Il tuo bagaglio?” Chiese il conte.
  Vivien si strinse nelle spalle. “È alla villa. Quando la lasciai non ebbi il tempo di prepararlo e, anche nei giorni a seguire, non andai mai a prenderlo”.
  Forse perché in realtà aveva sempre saputo che a Villa Turner ci sarebbe tornata, ma questo al conte non lo avrebbe mai confessato.
  Una parte di lei non vedeva l'ora di tornare, soprattutto per riabbracciare la contessina Alyssa. Ma poi c'era quella vocina nella testa, quella guastafeste chiamata ragione, che le ricordava i maltrattamenti subiti all'interno delle mura della villa, il desiderio del conte di possederla, la sua virtù in pericolo.
  “Ti aiuto”. Le disse Aaron, tendendole la mano da sopra il cavallo per farla salire. Vivien si posizionò tra lui e le briglie, imprigionata tra le sue braccia.
  È davvero cambiato?
  Era lecito avere dei dubbi. Il conte Aaron aveva mostrato così tanti atteggiamenti diversi nei suoi confronti che lei non sapeva più che aspettarsi.
  Una volta a Villa Turner, chi le garantiva che lui non sarebbe tornato ad essere il padrone e lei la serva che doveva sottostare ai suoi capricci?
  Dopo circa quaranta minuti a cavallo, cominciarono ad intravedersi le mura di cinta e parte dei giardini della villa fin da sotto la collina, erano bellissimi illuminati dalla prima luna della sera.
  Il conte d'un tratto cinse la vita alla ragazza con un braccio e cominciò a trottare fino al cancello principale.
  Anche lui doveva aver sentito la mancanza di casa, Vivien lo sapeva. Sebbene non avesse spiccicato una parola al riguardo, la trepidazione di rivedere sua madre e sua sorella gli si leggeva negli occhi.
  Erano ormai giunti a varcare la soglia del cancello, quando una carrozza trainata da due cavalli li precedette.
  Aaron fermò Philip all'istante e a Vivien non sfuggì il suo ghigno di disappunto.
  “Che succede?” Chiese voltandosi verso di lui.
  La carrozza si fermò subito dopo aver superato l'ingresso e il volto di un uomo fece capolino dal finestrino.
  “Sono lieto di vedere che, in tutto questo tempo, non sei cambiato affatto”. Disse l'uomo rivolto al conte con tono non molto cordiale. “Sempre in giro a spassartela con le serve”.
  “Sono lieto di rivedervi”. Rispose Aaron, serrando la mascella. “Padre!”
  Vivien inarcò le sopracciglia. Quell'uomo dai capelli neri brizzolati e il naso importante era Richard Turner.
  “Forse è meglio che scenda!” Consigliò Vivien, ma Aaron la tenne ben stretta in vita, non facendola muovere.
  “Tu non vai da nessuna parte”. Le sussurrò. “Non stiamo facendo nulla di male”.
  La ragazza sospirò. Quella era la situazione più imbarazzante che avesse mai vissuto. Più che volere la sua presenza, Aaron sembrava trattenere Vivien per sfidare il padre, e lei era ben altro che un oggetto di contesa.
  Con determinazione spostò il braccio del conte e scese da cavallo.
  “Perdonatemi”. Disse, inchinandosi. “Immagino che i signori abbiano da parlare e che la mia presenza sarebbe di troppo”.
  Poi voltò lo sguardo verso il conte Richard e lo trovò intento a fissarla. Lo sguardo glaciale le ricordava molto quelli che Aaron le rivolgeva i primi tempi. D'altronde era sangue del suo sangue.
  Inchinandosi di nuovo davanti alla carrozza, Vivien entrò nella villa e percorse il giardino a piedi.
  Aaron aveva affiancato il padre col cavallo mentre procedevano verso l'interno, ma non spiccicarono una parola, nemmeno si guardarono.
  Non ci voleva molto a capire che tra padre e figlio non c'era un buon rapporto. Ora che ci pensava, durante i suoi servigi a Villa Turner non aveva mai sentito parlare del conte Richard.
  “Vivien!”
  La ragazza si voltò riconoscendo la voce all'istante. La contessina Alyssa le corse incontro, facendo volare il cappello rosa che indossava, e l'abbracciò.
  Improvvisamente la figura del conte svanì dalla sua mente, come anche tutte le domande rivolte a lui. Per Vivien adesso contava solo quell'attimo. Stringere la contessina tra le braccia fu un'emozione talmente grande che le fece capire di aver fatto la scelta giusta.
  Lei doveva tornare a Villa Turner!
  “Alyssa, abbi un po' di contegno!” La riprese la contessa, che fino a qualche secondo prima stava passeggiando in giardino con la figlia. “Sono questi i modi di comportarsi di una nobildonna?”
  “Perdonatemi, madre”. Si scusò la piccola, andando a recuperare il suo cappello.
  “Sei venuta per una visita di cortesia?” Chiese poi la contessa, guardando Vivien con il suo solito sguardo di sufficienza.
  “A dire il vero, sono tornata per restare, signora!”
  Alyssa si mise a battere le mani e a saltellare dalla gioia. Si fermò solo quando la madre le mise una mano sulla spalla e le rivolse uno sguardo di rimprovero.
  “Bene, deduco quindi che la tua amica si sia ristabilita”.
  Vivien annuì. Stette per aggiungere qualcosa, quando la contessa sgranò improvvisamente gli occhi e si portò una mano al petto, lasciando cadere l'ombrellino aperto che portava appoggiato su una spalla.
  “Richard”. Sibilò, guardando alle spalle di Vivien.
  La ragazza si voltò e trovò l'uomo visto poco prima dietro di lei. Era alto e con le spalle larghe. Vedendolo nel complesso assomigliava molto ad Aaron.
  “Michelle”.
  I due nobili restarono fermi. Non era esattamente così che Vivien si immaginava il ritrovamento di due sposi dopo tanto tempo. Sapeva che la contessa non era una donna molto espansiva, ma salutare suo marito in modo tanto freddo dopo mesi che non si vedevano era alquanto strano.
  La contessina poi aveva addirittura distolto lo sguardo, rivolgendolo verso il basso, come se non avesse voluto vedere suo padre.
  “Vivien, riprendi le tue mansioni da subito. Porta Alyssa in biblioteca”.
  “Subito signora”. La ragazza si inchinò e prese per mano la bambina, dopodiché si diresse all'interno della casa.
  “Devo raccontarti un sacco di cose!” Disse la contessina, appena varcarono la soglia di casa. “Qualche giorno fa è venuto a farci visita il barone Gilbert per invitarci a un ballo in maschera che si terrà la settimana prossima nella sua villa”. Alyssa batté le mani dall'agitazione. “Insieme all'invito c'era anche una lettera del baronetto Joshua indirizzata a me, dove mi chiedeva di concedergli il primo ballo e il valzer della festa. Non è fantastico?”
  Vivien era quasi commossa dall'entusiasmo che la contessina metteva in ciò che diceva. Chiedere di ballare il valzer ad una festa era come una dichiarazione formale, e in effetti Alyssa – ormai quindicenne – era in età da marito. Conoscendo poi il tradizionalismo della madre, era certa che la contessa avrebbe fatto di tutto per far fidanzare la figlia con il baronetto.
  “Non sapevo che vi piacesse qualcuno, contessina”.
  “A dire il vero non so ancora se mi piace”. Confessò Alyssa. “Mentre non c'eri, la baronessa è venuta spesso a trovarci e ha portato con sé suo figlio. Abbiamo passato del tempo insieme e l'ho trovato molto simpatico”.
  Vivien sorrise, lei non aveva avuto l'occasione di provare tutto ciò, sebbene a quindici anni fosse ancora una contessina, le sue sventure erano cominciate prima che potesse presenziare ad alcun ballo.
  Tuttavia doveva ammettere che quel mondo non le mancava. Un mondo fatto di ipocrisia e menzogna, dove la gente veniva valutata per il suo titolo e non per le sue doti. Anche se nella povertà, Vivien aveva incontrato la gente vera, amici veri.
  Un pensiero andò diretto a Thomas, non lo vedeva da parecchio tempo. Il prima possibile sarebbe dovuta andare alRed Lion e incontrarlo, doveva chiarire con lui, assolutamente.
  “Qualcosa non va?” Chiese Alyssa, posandole una mano sul braccio.
  Vivien si destò immediatamente. “No, signorina. È tutto a posto... prenda un libro di suo gradimento che cominciamo a...”
  “Sorella!”
  Entrambe le ragazze si voltarono verso la porta d'ingresso della biblioteca, dove il conte Aaron era apparso a braccia aperte e con un sorriso dolce, come ogni espressione che riservava per la contessina.
  Alyssa scese immediatamente dalla sedia e gli corse incontro, saltandogli addosso.
  “Sei tornato!”
  “S-sì!” L'espressione sofferente di Aaron fece allarmare Vivien all'istante.
  La ferita.
  “Signorina, venga a scegliere il libro da leggere”. Disse in tono cordiale, ma che nascondeva una nota d'urgenza. E alla ragazzina questo non sfuggì.
  “Ma Vivien, sono giorni che mio fratello non torna a casa”. Commentò dispiaciuta. “Credevo gli fosse successo qualcosa”.
  “Non può accadermi niente, lo sai”. Intervenne lui. “Altrimenti poi non potrei tornare qui da te”.
  La contessina si staccò dal collo del fratello e gli sorrise.
  Vivien si strinse una mano al petto. Non era ancora abituata a quella gentilezza, a quella umanità del conte. A volte si chiedeva se fosse davvero lo stesso uomo che, al loro primo incontro, la aggredì nelle cucine.
  Aaron sembrò notare il suo sguardo, perché alzò gli occhi dal viso della sorella e andò ad incrociare i suoi. Si scrutarono per qualche secondo, lei provò a decifrare la sua espressione, ma non ci riuscì. In fondo, non era mai riuscita a capire cosa passasse per la testa al suo padrone.
  “Vivien, più tardi vorrei parlare con te”. Disse all'improvviso il conte, accarezzando una guancia alla sorella e facendole segno di tornare dalla sua dama di compagnia. “Raggiungimi nelle mie stanze”.
  In passato quella proposta sarebbe sembrata una minaccia, ora invece Vivien la vedeva come una richiesta – imposta sempre come un ordine – ma che non comportava alcun pericolo.
  Sto davvero cominciando a fidarmi di lui?
  Il suo cinismo era duro a morire, come anche il suo orgoglio, tuttavia la serva annuì e si inchinò quando il conte uscì dalla biblioteca.
 
  Aaron evitò di scendere a cena – non voleva incontrare suo padre – e rimase nella sua stanza, combattuto su cosa fare. Stringeva in mano la lettera che gli aveva lasciato Sam con le sue ultime volontà e al sorgere del sole dell'indomani mattina, dopo l'esecuzione del marchese, quelle parole sarebbero diventate un enorme fardello per lui.
  In preda al nervosismo si sedette al tavolo sotto l'enorme finestra che dava sul giardino e intinse la piuma nell'inchiostro. Con agitazione scrisse poche righe su un foglio bianco, che poi piegò e sigillò con la ceralacca.
  Stava imprimendo lo stemma dei Turner sul liquido rosso, quando sentì un lieve bussare alla porta.
  Ripose il sigillo nel cassetto sotto il tavolo ed andò ad aprire, sapendo già chi si sarebbe trovato davanti.
  Vivien aveva ancora addosso i vestiti del giorno, ma si era sciolta i capelli, segno che sue mansioni erano finite e che, una volta uscita dalla camera del conte, sarebbe andata a coricarsi.
  Aaron la fece entrare e chiuse la porta velocemente. Doveva ammettere di essere un po' sorpreso, una parte di lui non credeva che sarebbe venuta. Invece sembrava proprio che Vivien si stesse ammorbidendo nei suoi confronti.
  Tuttavia ora aveva cose più importanti a cui pensare.
  “Vivien c'è una cosa che devi fare per me”. Disse, dirigendosi verso il tavolo e prendendo in mano la lettera che aveva appena scritto. “Devi portare questa al Red Lion. Non consegnarla ad altri se non a un uomo di nome Falco!”
  La ragazza prese tra le mani il foglio bianco piegato ed annuì.
  “Andrò stasera stessa”.
  “No, vai domani”. La contraddisse lui. “Vedere una serva uscire di casa a sera inoltrata potrebbe insospettire qualcuno. Domani mattina fingerai di dover fare delle commissioni e recapiterai la lettera”.
  Aaron poi le mise una mano sotto al mento e le alzò il volto, così da poterla guardare negli occhi.
  “Non dovrei coinvolgerti in tutto questo”. Le disse, quasi come fosse una confessione. “Ma ora, con un traditore a piede libero, sei l'unica di cui possa fidarmi”.
  Il conte la vide inarcare le sopracciglia, come se le parole appena pronunciate le fossero risultate incomprensibili, ma quell'espressione stupita durò solo qualche attimo, poi Vivien si rilassò e sorrise.
  “Sono onorata di avere la vostra fiducia”.
  E non hai solo quella!
  Il conte si abbassò sul suo volto, cercando le sue labbra piene e rosee, riuscì tuttavia a sfiorarle appena che lei abbassò il capo.
  “No”. Sussurrò con timidezza.
  La Vivien che aveva imparato a conoscere tra le mura di casa sua, a quel punto gli avrebbe come minimo mollato uno ceffone in pieno viso, invece ora non faceva nulla se non osservare il pavimento.
  Sembrava addirittura in imbarazzo.
  “Che cosa sta succedendo?” Chiese all'improvviso lui, stufo di tutto quel silenzio. Voleva delle risposte per un comportamento così ambiguo.
  La ragazza lo guardò con espressione confusa.
  “Voglio sapere che cosa ti prende!” Si spiegò meglio il conte. “Se ti stai prendendo gioco di me, sappi che non la passerai liscia”.
  “Io non gioco mai, signor conte!” Ribatté Vivien, stringendo le mani nei pugni. “Se qui c'è qualcuno che ha preso tutta questa situazione come un gioco, quello siete voi!”
  “È così, allora”. Aaron le circondò la vita con un braccio e l'attirò a sé. “Quando stavamo a casa tua non mi ero sbagliato, mi desideri almeno quanto io desidero te”.
  “Lasciatemi”. Lo intimò lei, ma il conte aveva preso a baciarle il collo e con passo cadenzato la fece indietreggiare sempre più verso il letto.
  “Quello è stato...” Continuò lei, cercando di fermarlo. Tuttavia il respiro affannato e il gemito che le provocò la mano di lui sotto la gonna spronarono il conte a continuare.
  “È stata una debolezza!” Riuscì a dire, quando infine le gambe della ragazza raggiunsero il letto e cadde seduta sull'ampio materasso coperto da morbide lenzuola di seta.
  “Una debolezza”. Le fece eco lui. “Una debolezza che si è ripetuta due volte”.
  Aaron la sovrastava, ancora in piedi davanti a lei, e cominciò a sfilarsi la camicia.
  “Che volete fare?” Il volto di Vivien sembrava più stupito che spaventato. Forse non si aspettava che, dopo la ferita che gli avevano inferto, il conte fosse già attivo in così poco tempo.
  In effetti aveva ancora il busto fasciato e ogni tanto qualche fitta si faceva sentire, ma in quel momento il desiderio lo stava pervadendo troppo per lasciare spazio a certe piccolezze.
  “Voglio capire se è stata davvero una debolezza”. Le spiegò afferrandola per le spalle e facendola finire con la schiena sul letto.
  Stando attento a non sbattere la ferita si mise sopra di lei e cominciò a esplorarle le gambe.
  Se davvero era così contraria a ciò che le stava facendo, perché non urlava? Perché non si dimenava?
  Aaron le sollevò la gonna in vita e raggiunse il suo interno coscia, ancora coperto dalla sottana, mentre con la bocca le percorreva il collo, la mandibola, le guance.
  La desiderava da impazzire, la voleva come non aveva voluto nessun'altra donna. Era come un'ossessione, un tarlo che, ogni volta che tentava di scacciarlo, si ripresentava nella sua mente più forte e invadente di prima.
  Quelle settimane che non c'era stata si era improvvisamente ritrovato in uno stato di completo vuoto e, benché avesse cose ben più importanti a cui pensare, più di una volta aveva avuto l'istinto di salire in sella, andare nella parte povera della città a cercarla e riportarla alla villa.
  Stava perdendo completamente la testa, ecco la verità.
  Ma ormai non riusciva più a fermarsi.
  Con gesto famelico le imprigionò la bocca, sentiva la sua lingua, il suo alito, i gemiti che le uscivano dalla gola, e tutto ciò lo eccitava ancora di più.
  Le strappò la sottana con urgenza e raggiunse la sua femminilità, prima accarezzandola, poi – con le dita sempre più esigenti – si fece spazio dentro di lei e sentì il suo corpo sobbalzare.
  Non era mai stata con nessun uomo, ne era certo.
  Per questo doveva essere gentile.
  “Sta' tranquilla”. Le sussurrò a fior di labbra. “Non farà male”.
  “Voi siete un... ah!”
  Aaron cominciò a solleticarle la clitoride, mentre con l'altra mano si apprestò a slacciarle il bustino.
  Voleva i suoi seni nudi contro il suo petto. Voleva sentirla gemere sotto di lui. Voleva darle un piacere che non aveva mai provato prima.
  Vivien avrebbe potuto fermarlo in qualsiasi momento, aveva entrambe le braccia libere, solo che – invece di utilizzarle per schiaffeggiarlo, graffiarlo o altro – le teneva ben impiantate sul letto, così strette a pugno che le nocche le erano diventate bianche.
  Aaron sentiva le sue intime labbra contrarsi attorno alle dita e la vide inarcare la schiena.
  Finalmente riuscì a liberare un seno dal bustino e cominciò a stuzzicarlo prima con i polpastrelli e poi con la lingua: lo succhiò, lo leccò, creò dei piccoli cerchi intorno al capezzolo, mentre con l'altra mano non fermava neanche per un attimo la danza dentro di lei.
  La sentì contrarsi di nuovo, questa volta più a lungo e il conte comprese che era quasi giunto il momento.
  Alzò la testa dal petto di lei per guardarla in volto mentre raggiungeva quello che probabilmente era il suo primo orgasmo.
  Gli occhi di Vivien erano chiusi, le labbra semiaperte che non emettevano alcun suono, a parte qualche rantolo soffocato, e i capelli sparsi a raggiera sulle lenzuola di seta.
  Un piccolo urlo infine uscì da quella bocca, mentre col busto si inarcava ancor più sotto di lui.
  Poi ci fu il rilassamento, lei ricadde sul materasso ancora con gli occhi chiusi e con il petto che faceva su e giù, ansimante.
  Aaron tolse la mano, ma continuò a fissarla.
  Era di una bellezza disarmante.
  I capelli selvaggi, le mani strette a pugno, il colorito del viso leggermente arrossato, Aaron si accorse che sarebbe volentieri rimasto ad osservarla per ore. Anche senza toccarla, anche senza spiccicare una parola, gli sarebbe bastato guardare il suo viso un po' allungato, quelle lentiggini chiare che si cospargevano sul naso, le labbra piene e seducenti, e sarebbe stato l'uomo più felice al mondo.
  Ti amo!
  Quella realtà fu inaspettata quanto spaventosa.
  Si alzò dal letto di scatto e si mise entrambe le mani tra i capelli. Doveva aver perso completamente la ragione. Provare desiderio per lei era lecito, fidarsi di lei accettabile, ma amarla era assurdo!
  Si voltò di nuovo per guardarla. La trovò intenta ad alzarsi a sedere sul letto e a coprirsi le nudità, rossa in volto dallo sforzo e dalla vergogna.
  “Che cosa avete da guardare con tanta attenzione?” Lo aggredì lei, alzandosi dal letto. “Immagino che ora siate compiaciuto di voi stesso. Bene. Festeggiate pure, perché non ci sarà una prossima volta!”
  Aaron non riuscì nemmeno a risponderle, la osservò mentre si rivestiva, con quell'espressione imbronciata che lo faceva impazzire.
  Diamine, sei già a questo punto? Chiese a se stesso.
  Poi Vivien ricambiò il suo sguardo e aggrottò le sopracciglia fino a farsi venire una piccola ruga in mezzo alla fronte.
  “Mi avete umiliata e immagino che la cosa vi compiaccia”.
  “Non sono io che ti ho umiliato”. Rispose lui con tono calmo. La sua tranquillità la stava facendo innervosire e lui adorava vederla così quasi quanto adorava sentirla venire sotto di sé.
  “Avete ragione”. Acconsentì lei, drizzando la schiena. “Ho lasciato che lo faceste. Non so cosa mi sia preso, ma state pur certo che non ricapiterà”.
  Vivien lo sfidò con lo sguardo, dopodiché uscì con passo deciso dalla sua stanza e si chiuse rumorosamente la porta dietro le spalle.
  Il conte osservò la porta chiusa della sua stanza ancora per qualche secondo, poi con passo lento si avvicinò al letto e si stese sul materasso. Con le mani intrecciate dietro la nuca e lo sguardo fisso sul baldacchino, d'un tratto cominciò a ridere.
  Rideva per le espressioni di lei, per il fatto che di certo ci sarebbe stata una seconda volta – e poi una terza, una quarta... – rideva per tutta quella bizzarra situazione e per l'assurdità dei suoi sentimenti.
  Già, erano proprio assurdi, ma anche maledettamente reali.

 

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Beh, con questo capitolo si apre ufficialmente la Seconda Parte di "Vivien Foster"!^^
Sono contenta di essere riuscita a pubblicarlo prima che parta per le vacanze, martedì me ne vado a Parigi, Disneyland mi attende!!!
Intendo pubblicare il capitolo 15 prima di Agosto, anche perché poi il 2 parto per gli Stati Uniti e ci rivediamo praticamente a Settembre.
Fortunatamente il 15 è quasi finito, mi manca poco e poi da ricontrollarlo, perciò dovrei farcela!
P.S. Avete notato il cambio di copertina? A me piace un sacco! Grazie Kim!!!^^

Ancora un Grazie Infinite a tutti quelli che recensiscono o leggono soltanto la mia storia.
Buona Estate a tutti!^^

*HQ*

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Capitolo 15
*** Da Che Parte Stare ***


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CAPITOLO 15
- Da Che Parte Stare -

 
  Le luci dell'alba filtrarono attraverso la finestrella incastonata nella pietra e rigata da spesse inferriate di ferro.
  Vivien l'aveva osservata per tutta la notte, non riuscendo a chiudere occhio, e si era chiesta più volte se quelle stanze – prima di diventare dei servi – fossero state delle prigioni. Erano piccole, umide, poste nell'ala più a sud – e dunque più nascosta – della villa. Se qualcuno avesse voluto urlare, di certo nessuno l'avrebbe sentito.
  Un brivido di freddo percorse la schiena della ragazza e la indusse ad alzarsi dal letto.
  Si lavò in fretta con il bacile pieno d'acqua fredda che si trovava accanto alla porta, dopodiché si voltò verso la sedia accanto al letto, dove era appoggiato l'abito che la contessina le aveva fatto portare in camera la sera prima.
  Stoffa raffinata le scivolata tra le dita mentre lo toccava, di un azzurro intenso la gonna, mentre il bustino a fantasia floreale portava uno sfondo color panna.
  Non avrebbe voluto indossarlo, le ricordava i tempi in cui abiti di quel genere erano all'ordine del giorno per lei, e non voleva che la nostalgia si facesse spazio nel suo cuore, specialmente in un momento come quello. Ma lo indossò comunque, era il regalo della contessina per darle il bentornata e non le avrebbe mai arrecato un torto così grande come quello di rifiutare un suo dono.
  Uscita dalla stanza si diresse verso le cucine per aiutare a servire la colazione, incontrò Meg, che le andò incontro sorridendo e abbracciandola. Poi il maggiordomo Hans e gli altri servi nelle cucine.
  Una signora piuttosto in là con gli anni, ma con gli occhi ancora vispi e scrutatori le si avvicinò e le prese una mano.
  “Grazie per aver riportato il conte a casa”. Le disse, sorridendo.
  Vivien l'aveva vista spesso aggirarsi per le cucine, ma mai una volta servire a tavola, o lavare un pavimento. Probabilmente era ormai troppo vecchia per fare le faccende, così la tenevano nelle cucine a fare il minimo indispensabile.
  “Non sono stata io a riportarlo a casa”. Vivien si ritrovò stranamente in imbarazzo. Lo sguardo di quella donna le ricordava molto quello di Clelia quando tentava di comprendere se le stesse dicendo una menzogna.
  “Sì, invece. Lui ti ha cercata, ti ha trovata e ora tu lo hai riportato a casa. Così doveva andare”.
  Vivien notò uno strano luccichio nello sguardo dell'anziana donna e si ritrovò d'istinto a guardare in basso. Sostenere quegli occhi era diventato troppo pesante, come se le stessero leggendo l'anima, e la cosa la impaurì.
  “Forza, signora Adele”. Si fece avanti Hans, prendendo sottobraccio la vecchia. “Venite con me a fare una passeggiata nei giardini”.
  Appena i due si allontanarono, Meg andò accanto a Vivien e cominciò a ridacchiare.
  “Non dar peso a ciò che dice, è un po' pazza”.
  Vivien era ancora un po' scossa. “Ma chi è?”
  “Era la balia del conte Aaron e della contessina Alyssa, serve i Turner da più di trent'anni. Dirigeva lei la servitù finché non è impazzita”.
  “Come è successo?” Questa volta Vivien si voltò verso la biondina che le stava accanto.
  “Qualche anno fa fu beccata da un fulmine. Non morì, ma da allora vaneggia. È convinta di essere una specie di sensitiva... mah” Meg si strinse nelle spalle. “I Turner la tengono qui per riconoscenza, ma stanno bene attenti a non farla andare a zonzo per la villa”.
  Lui ti ha cercata, ti ha trovata...
  Vivien non poteva fare a meno di pensare a quelle parole, anche una volta portata la colazione alla contessina, anche mentre usciva dalla villa per andare a compiere delle commissioni.
  Era come se quella donna fosse a conoscenza di ciò che era accaduto in quei giorni, eppure nessuno sapeva che il conte era stato a casa sua, ferito, e che lei lo aveva curato.
  “Ma come andiamo di fretta”.
  Vivien si fermò nel bel mezzo del viale centrale e voltò lo sguardo dietro le sue spalle. I pensieri che le ingombravano la testa e la fretta di svolgere le proprie commissioni le avevano fatto perdere di vista tutto ciò che la circondava, compreso il conte Richard.
  La ragazza si inchinò immediatamente.
  “Perdonatemi, signore. Non vi avevo visto”.
  L'uomo le si avvicinò con passo cadenzato e le rivolse un sorriso che a Vivien non ispirava alcuna sicurezza.
  “Sei la serva che ieri è rientrata con mio figlio”. Esordì il conte. “Come ti chiami?”
  “Vivien, signore”. La ragazza a quel punto alzò gli occhi e andò ad incontrare quelli del suo padrone. Benché il taglio fosse lo stesso di Aaron, la freddezza che c'era in quello sguardo lo differiva totalmente dal conte suo figlio. Erano color ghiaccio, intimidatori, forse cattivi.
  Che cosa era accaduto a quell'uomo per renderlo così freddo?
  “È un bel nome, Vivien”. Continuò il conte. “Da quanto mia moglie ti ha presa a lavorare qui?”
  “Tre mesi il prossimo lunedì, signore”.
  L'uomo annuì e si toccò il leggero strato di barba nera che non si era rasato quella mattina.
  “Tre mesi, eh? Ammetto di essere molto colpito”.
  “A che proposito?”
  Il conte le si avvicinò ancora e questa volta le portò una mano sotto il mento.
  “È sbalorditivo come una serva sia riuscita in così poco tempo a conquistare i cuori di entrambi i miei figli. Devi avere una qualche dote nascosta”.
  Vivien, benché si sentisse minacciata, non perse il suo sangue freddo.
  “Per quanto riguarda la contessina, posso dirvi che le sono molto affezionata anch'io, ma riguardo a vostro figlio non so a cosa vi stiate riferendo”.
  “Non fare la modesta, adesso”. La canzonò il conte. “Ho visto come ti stringeva in groppa al cavallo, ieri. E ho visto anche come poi la sera sei entrata in camera sua”.
  Vivien sgranò gli occhi e si irrigidì. Credeva di essere stata abbastanza prudente e di non essere stata vista da nessuno. A quel punto non aveva la più pallida idea di cosa fare.
  “Ehi, che ti prende? Ti sei messa paura?” Rise il conte. “Non ne hai motivo, non sono qui per rimproverarti. Mio figlio è libero di divertirsi come vuole, non gli ho mai negato di farlo e non comincerò ora”. D'un tratto però l'espressione del conte si fece più seria e scurì la voce. “Tuttavia vedi di non fare scherzi. Conosco bene i trucchetti di voi serve per accaparrarvi la fortuna dei nobili, ma sappi che un Turner non si lascia soggiogare così facilmente”.
  Vivien aggrottò le sopracciglia. “Non ho intenzione di farmi ingravidare da vostro figlio, se è questo che pensate. Anzi, non ho intenzione nemmeno di fare tutto il resto!”
  L'uomo ridacchiò. “Vuoi davvero farmi credere che...”
  “Che sta succedendo?”
  Vivien si voltò di colpo e in un attimo fece un passo indietro per mantenere una certa distanza tra lei e il conte Richard.
  Aaron sembrava indignato, la guardò per qualche istante, poi posò lo sguardo su suo padre.
  “Stavamo solo scambiando due chiacchiere”. Disse sardonico Richard. Poi con fare galante prese la mano alla ragazza e se la portò a fior di labbra. “Felice di averti conosciuto, Vivien”.
  L'uomo si diresse verso l'interno della villa, lasciando alla ragazza un brivido freddo che le percorse la schiena e una sensazione amara tra la paura e il disgusto.
  “Ti ha fatto qualcosa?” Aaron fu subito accanto a lei e le sfiorò il viso con una mano. Vivien però si scansò.
  “Non toccatemi”.
  “Sono solo preoccupato per te!” Ribatté il conte, prendendola per un braccio e obbligandola a guardarlo. “Devi stare attenta, mio padre è un uomo pericoloso. Se si incapricciasse di te...”
  “Oh, non sarebbe molto diverso da ciò che subisco ogni giorno da voi”.
  “Il mio non è un capriccio, Vivien!” Aaron le prese entrambe la braccia e la sbatté contro il suo petto, gli occhi dentro ai suoi. “Non lo è più, ormai!”
  Vivien lo guardò intensamente, il suo sguardo mostrava sincerità e anche un po' di malinconia. Aveva le occhiaie marcate, segno che anche lui aveva passato la notte insonne.
  Poteva davvero credere che fosse così? Che fosse tutto vero?
  “Lasciatemi!” Lo intimò, dimenandosi. Aaron allentò la presa, ma non abbastanza da farla andar via. “Lasciatemi, ho detto! Si può sapere cosa volete da me?”
  “Ancora non l'hai capito?” L'uomo le prese il viso tra le mani e lo avvicinò al suo. Le labbra del conte erano calde, esigenti e Vivien ormai aveva imparato a conoscerle. Ogni volta che la sfioravano si sentiva come bruciare, un fuoco che nasceva dalla bocca e andava crescendo fino al basso ventre.
  Come era accaduto la sera prima, il conte l'aveva fatta avvampare, finché il fuoco era esploso in lei in un'emozione mai provata, colpendola totalmente alla sprovvista.
  Si era ripromessa che mai più si sarebbe lasciata sopraffare in quel modo dal conte, eppure eccola lì, attaccata al suo corpo, pronta a ripetere l'esperienza.
  “Perché non lo accetti come ho fatto io?” Le chiese lui, mentre dalle sue labbra passava a baciarle il collo.
  “Di cosa state parlando, signore?”
  “Basta con questo signore”. Il conte si fermò e la guardò negli occhi. “Per te sono solo Aaron”.
  Vivien inarcò le sopracciglia e lo guardò ancora un po' confusa. Che fine aveva fatto l'uomo che teneva al suo titolo più della sua stessa vita? L'uomo che pretendeva il rispetto e la devozione dai suoi sottoposti?
  “Ma... io sono una serva”. Gli ricordò Vivien, sfidandolo. Voleva essere certa che dicesse sul serio.
  “Non quando siamo da soli”. Aaron le accarezzò una guancia e provò a riavvicinarsi, Vivien però si scansò troppo in fretta perché riuscisse a raggiungerla.
  “Infatti non siamo soli, signore!”
  Il conte si voltò, senza lasciare la presa sul braccio della ragazza. Meg stava scendendo in giardino, probabilmente per annaffiare le piante, e non sembrava essersi accorta di loro, tuttavia era solo questione di tempo.
  “Io devo andare”. Disse Vivien, lanciando un'eloquente occhiata alla mano di lui che la tratteneva. “Ho delle commissioni da fare, di cui una vi riguarda particolarmente”.
  L'uomo sembrava come essersi destato da un sogno, sbatté più volte le palpebre, dopodiché la lasciò andare ed assunse una posizione composta.
  “D'accordo, vai”. Le acconsentì. “Ma quando tornerai dovremo parlare”.
  La ragazza non sapeva se prendere quell'ultima frase come un invito o una minaccia. Tuttavia si limitò ad annuire e si diresse verso le stalle per prendere Philip.
  Con una buona mezz'ora si ritrovò al centro della piazza del mercato, il Red Lion distava da lì sono un qualche centinaio di metri. Percorse quel breve tratto di strada molto lentamente rispetto all'andatura che aveva usato fino ad allora, forse perché doveva prepararsi psicologicamente a ciò che stava per accadere.
  Avrebbe visto un altro Mercenario in faccia e gli avrebbe consegnato la lettera che il conte le aveva assegnato. Ormai era ovvia la parte dalla quale si era schierata.
  Tuttavia quello di portare a termine egregiamente quella commissione non era l'unico pensiero che le balenava in testa mentre percorreva quella strada.
  Al Red Lion c'era la possibilità di rivedere Thomas, sebbene nei giorni passati fosse andata a cercarlo proprio lì, ma non ne trovò traccia.
  Vivien scese dalla groppa di Philip e lo legò ad una staccionata, poi prese un bel respiro ed entrò.
  La locanda era semi-vuota, come ogni mattina. Solo qualche ubriacone se ne stava seduto al tavolo con già un boccale di vino tra le mani. Le donne erano tutte a prepararsi ai piani superiori per i clienti della sera, mentre i camerieri ripulivano il solito macello creato la notte precedente.
  Un uomo in particolare però attirò l'attenzione della ragazza. Era seduto ad un tavolo in disparte rispetto agli altri, non aveva ordinato nulla e si guardava spesso intorno. Poteva essere lui quello che cercava.
  “Falco?” Chiese lei, avvicinandosi al suo tavolo.
  L'uomo sembrò irrigidirsi e le lanciò un'occhiata tutt'altro che amichevole.
  Vivien comprese di aver colto nel segno, così si sedette di fronte a lui.
  Quando gli disse chi la mandava, le folte sopracciglia marroni di Falco si rilassarono e i suoi occhi neri le si rivolsero con più garbo.
  “Credevo che avrebbe mandato James, come al solito”. Disse.
  Vivien lo guardò e si strinse nelle spalle, aveva avuto il sospetto che lo stalliere fosse a conoscenza del segreto del conte, ora ne aveva la conferma.
  “Probabilmente ha ritenuto opportuno mandare una donna, passa più inosservata”.
  Falco sorrise, stirando le labbra fine e un po' screpolate. “Quindi sai di cosa si tratta”.
  A quel punto la ragazza si irrigidì. Il conte era stato molto chiaro, nessuno doveva sapere che lei sapeva. Altrimenti sia le guardie reali che i Mercenari stessi avrebbero attentato alla sua vita. Il rischio era troppo alto per lasciare che persone non strettamente coinvolte venissero a conoscenza di certi segreti.
  “Io eseguo solo gli ordini”. Si difese lei. “L'unica cosa che so è ciò che il mio padrone mi ha detto, ossia che è una questione della massima importanza e riservatezza”. A quel punto tirò fuori la lettera.
  “E non ti è venuta nemmeno un po' di curiosità?” Insistette Falco, forse sperava in una reazione che la facesse tradire, ma Vivien non si scompose.
  “Anche se l'avessi, non oserei chiedere. Sono abbastanza intelligente da capire che, in certe situazioni, meno si sa, più si resta vivi”.
  Falco scoppiò in una risata roca e profonda che fece voltare quei pochi uomini presenti nella locanda.
  “Ben detto, ragazzina!” Disse. “Sei in gamba!” Poi aprì la lettera che gli era stata consegnata e la lesse in silenzio.
  Quando arrivò alla fine, fece un'espressione che Vivien non seppe decifrare, tra il sorpreso e l'eccitato. La guardò come un bambino guarda un bancone di dolci e sorrise.
  “Preparati, ragazza!” Disse con il luccichio negli occhi. “Le cose stanno per cambiare”.
 
  Aaron si era coperto con un mantello e un cappuccio nero benché fosse quasi mezzogiorno. Uscì dalla parte posteriore della villa e si diresse a piedi verso la piazza di St. Michelle.
  Non sarebbe dovuto andare, i nobili non presiedevano alle esecuzioni capitali svolte in paese, ma Sam era un suo amico, e l'avrebbe accompagnato – anche se solo con lo sguardo – fino all'ultimo secondo della sua vita.
  Tuttavia doveva stare attento e confondersi tra la folla, così che le guardie non lo riconoscessero e non si insospettissero.
  Passando per le viuzze interne del paese, mise le mani in una pozza di fango e se le sporcò, così come anche la faccia, in modo da sembrare un più credibile mendicante.
  Arrivò alla piazza che già era piena, un piccolo palco in legno era stato costruito nell'estremità più a sud e il ceppo con il boia erano già pronti a ricevere il giustiziato.
  Una guardia gli passò accanto e lui gli diede le spalle, stringendosi meglio il mantello intono al corpo. Alzando lo sguardo poi, notò Vivien in una delle stradine accanto alla piazza che portavano verso il confine del paese, si precipitò da lei e la afferrò per un braccio.
  Inizialmente la vide spaventata, ma quando la trascinò in un vicolo isolato e si tolse il cappuccio, l'espressione spaurita della ragazza scomparve.
  “Cosa state facendo qui?” Chiese lei, a bassa voce.
  Aaron non ebbe bisogno di rispondere, perché un uomo al centro della piazza annunciò l'arrivo del marchese Sam Ronchester sul patibolo.
  Vivien si portò una mano davanti alla bocca e abbassò lo sguardo, era evidente che non sapeva cosa dire.
  “Hai consegnato la lettera?” Chiese lui, rinfilandosi il cappuccio.
  “Sì, ho anche la risposta di Falco”.
  “Bene, me la darai dopo, ora torna alla villa”.
  Così dicendo tornò in piazza e alzò lo sguardo sul patibolo. Sam sembrava invecchiato di dieci anni, i capelli lunghi e spettinati, la barba incolta, il corpo magro. Tuttavia gli occhi erano quelli di sempre e, per un attimo, ad Aaron parve che quello sguardo fosse rivolto a lui. Uno sguardo pieno di promesse, di speranze, che ora toccava a lui dover mantenere.
  Il boia preparò l'arma e fece inginocchiare Sam davanti al ceppo di legno. Aaron prese un bel respiro e strinse i pugni.
  Improvvisamente però un calore inaspettato avvolse la sua mano e girandosi il conte vide Vivien accanto a sé.
  “Ti avevo detto di andare”. Le disse, riportando lo sguardo verso il patibolo.
  “Tornerò alla villa più tardi”.
  Non dissero altro, rimasero entrambi con lo sguardo fisso in avanti e il respiro trattenuto.
  Solo quando il boia alzò l'ascia con la forza di entrambe le braccia e stette per sferrare il colpo di grazia, Aaron sciolse il pugno e strinse forte la mano di Vivien nella sua.

 

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Rieccomi qui con il capitolo 15.^^
Spero sia stato di vostro gradimento e che mi facciate sapere cosa ne pensate.
Poi voglio augurare una buona estate a tutti (l'ho già fatto nello scorso capitolo, ma a volte ripetere non guasta xD)
Per il resto, vi dico che ci si rivede (o rilegge!?!) a Settembre, poiché il 2 parto per gli Stati Uniti e ci resto tutto Agosto.
Non mi separerò dal mio pc portatile, perciò vedrò di scrivere, ma non vi assicuro nulla!^^
Un bacione a tutti e un grazie a chi segue la mia storia.

*HQ*

  

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Capitolo 16
*** Un Sentimento Complicato ***


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CAPITOLO 16
- Un Sentimento Complicato - 



  Vivien si alzò quella mattina con una strana energia addosso. Aveva dormito bene, cosa che non le capitava da parecchie notti, era sprofondata in un sonno beato come quello di una neonata, non aveva sognato nulla e si era svegliata con le prime luci dell’alba, fresca e positiva come mai.
  Sembrava assurdo avere un umore così buono soprattutto dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni, ma era raro per lei sentirsi così bene, che pensò di godersi quegli attimi e basta, senza rimuginare sul perché.
  Uscì dalla sua stanza per dirigersi verso le stanze dei nobili per svegliare la contessina Alyssa e condurla a fare colazione, quando vide Meg scendere le scale dal piano superiore con un’espressione un po’ affranta.
  “Cercavo te”. Disse la biondina, porgendo a Vivien il vassoio che teneva in mano. “Il conte Aaron vuole che sia tu a portargli la colazione, ha ordinato a me di occuparmi della contessina”.
  Vivien guardò la ragazza di fronte a sé e non riuscì a spiccicare una parola, sentì le guance arrossarsi, così prese al volo il vassoio e si diresse sulla rampa di scale per darle le spalle. Meg mormorò qualcosa ma non riuscì a capire.
  Il conte Aaron aveva richiesto la sua presenza e lei si era emozionata come una ragazzina, si sentiva così stupida in quel momento. Eppure voleva andare da lui, vederlo, chiedergli come stava – vista soprattutto la perdita del giorno prima – sentire ancora il calore della sua mano nella sua.
  Improvvisamente Vivien si bloccò in cima alle scale, la porta della stanza del conte si trovava in fondo a quell’ampio corridoio tempestato di quadri. La consapevolezza di ciò che desiderava fu così forte che le mise paura. In quella stanza c’era tutto ciò che lei aveva creduto di odiare, e ora si ritrovava ad esserne irrimediabilmente attratta.
  “L’amore rende vulnerabili”. Le aveva detto suo padre qualche giorno prima della fatidica notte dell’incendio. “Bisogna fare attenzione a chi mostriamo le nostre debolezze”.
  Allora Vivien non aveva compreso il vero significato di quelle parole, ma forse ora incominciava a capire.
  Riprese a camminare lentamente lungo il corridoio, il tintinnio della tazza di tè e delle posate erano l’unico rumore che le facesse compagnia, appoggiò poi il vassoio sul braccio destro e bussò alla porta con l’altra mano.
  Si aspettava che il conte le desse il permesso di entrare, invece passati un paio di secondi la porta di aprì e lui le fu davanti, aveva un’espressione ansiosa, che si rilassò quasi subito e, senza dirle una parola, si spostò per lasciarle lo spazio per entrare.
  “Credevo che avresti rifiutato il mio ordine, rimandando Meg indietro”. Commentò Aaron, chiudendosi la porta dietro le spalle. Doveva appena essersi lavato la faccia, perché qualche goccia d’acqua era rimasta incastonata tra la barba leggermente incolta.
  “Siete un malfidato, signore”. Ironizzò lei, posando il vassoio con la colazione sul comodino accanto al letto.
  “Aaron!” La ribeccò lui. “Ne abbiamo già parlato, basta con questo signore!”
  Vivien sospirò. “Non sono nella posizione di potervi chiamare per nome, signore!”
  “Ti do il mio consenso, di che altro hai bisogno?”
  Di potermi fidare di te! Quelle parole però le rimasero in gola, non sentendosela di farle uscire.
  Vivien si morse inavvertitamente il labbro inferiore e abbassò lo sguardo. Perché le stava succedendo questo? Quell’uomo era stato vile con lei, crudele a volte, l’aveva oltraggiata, derisa, picchiata, ma sembrava non le importasse più.
  Quei comportamenti appartenevano al passato, ora lui era gentile, quasi premuroso. Istintivo e passionale, certo, ma con un coraggio che pochi potevano vantare. Con un ideale da perseguire, un paese da difendere, un amico da vendicare.
  Come poteva non provare ammirazione per un uomo del genere?
  Sempre che poi di ammirazione si trattasse…
  La mano di lui ancora un po’ inumidita dall’acqua le si posò su una guancia e Vivien alzò di scatto la testa. Tutti quei pensieri non le avevano fatto notare che si era avvicinato.
  “Te lo chiedo di nuovo, di che altro hai bisogno, Vivien Foster?” La sua voce si era fatta più bassa, calda e suadente. Un sussurro che le accarezzò le orecchie, cullandola.
  Vivien chiuse gli occhi e toccò quella mano che le accarezzava il volto.
  “Di te!”
  Quando si accorse di non averlo soltanto pensato fu troppo tardi. Aaron la prese tra le braccia, catturandole le labbra e stringendola a sé. Il bacio fu intenso, passionale e lei non trovò la forza per opporvi resistenza.
  I loro corpi aderivano come se fossero stati fatti per sfiorarsi e lei sentì la sua erezione a contatto col suo bacino. Si sentiva bruciare, ardeva di desiderio per lui.
  Lo voleva.
  Era sul punto di circondargli il collo con le braccia, ma qualcuno bussò alla porta.
  Di colpo lei si distanziò, aveva il viso in fiamme, sentiva uno strano calore pervaderle il basso ventre e il fiato le si era accorciato.
  “Chi è?” Chiese Aaron in tono scocciato.
  Dalla porta della stanza fece capolino la testa di Hans, che salutò il suo padrone facendo un inchino e dandogli il buongiorno.
  “Il conte vostro padre desidera vedervi”. Disse il maggiordomo nella sua figura dinoccolata e elegante. “Vuole che vi presentiate nel suo studio fra dieci minuti”.
  Aaron contrasse la mascella e annuì a forza, Hans si congedò con un inchino e tornò alle sue faccende. Era evidente che tra padre e figlio non scorresse buon sangue, Vivien se ne era accorta fin dal primo momento in cui aveva visto il conte Richard. 
  “Che aspetti in eterno!” Esclamò Aaron voltandosi di nuovo verso di lei e cingendole la vita con un braccio. La baciò di nuovo, ma stavolta in quel bacio non c’era solo desiderio, anche ansia, astio, frustrazione.
  La lingua del conte si fece più esigente, come anche le mani. Esse cercarono di farsi spazio tra i lacci del corpetto e di inoltrarsi sulla pelle nuda, mentre col corpo la spingeva sempre più verso il bordo del letto.
  Vivien aveva già vissuto quell’esperienza e, di certo, una parte di lei non vedeva l’ora di riprovare quelle sensazioni così sconosciute ed eccitanti. Ma non in quel modo.
  “Lasciatemi!” Sentenziò, ponendo le sue mani sul petto del conte e distanziandolo da lei.
  “Non mentire, Vivien. Lo vuoi anche tu, me lo hai detto!” Il tono di lui era aspro, pieno di agitazione. L’uomo che fino a un minuto prima l’aveva abbracciata e baciata teneramente non c’era più.
  “Non è questo ciò che voglio!” Gli rispose lei a tono. “Non sono un oggetto per alleviare le vostre frustrazioni. Non potete usarmi solo per soddisfare i vostri capricci. Ho dei sentimenti e una virtù da difendere e finché voi non avrete imparato a rispettarli, mi dispiace, ma non troveremo mai un punto d’incontro”.
  “Vuoi che ti dimostri quanto ti amo?” Sbottò lui. “E’ questo che mi stai chiedendo?”
  “Amore?” Vivien non poteva davvero credere che potesse arrivare a mentire così spudoratamente. “Il vostro non è amore. Il vostro è desiderio, volete vedermi giacere nel vostro letto e dimenarmi sopra di voi come una sgualdrina. Ecco qual è il vostro concetto di amore. Beh, mi spiace deludervi, ma io la vedo in modo completamente diverso”.
  Aaron stette per replicare ma si trattenne, contrasse la mascella e strinse i pugni. Quel silenzio fu per Vivien solo un’ulteriore conferma delle sue paure. Il conte non l’amava, né l’avrebbe mai amata.
  Con tutta la dignità che le era rimasta, si rimise a posto il bustino e lisciò la gonna, dopodiché si diresse verso la porta. “Con permesso”. Disse accennando un inchino e uscendo dalla stanza.
  Vivien percorse il corridoio e scese le scale lentamente, così da permettere al suo cuore di rallentare i battiti e alle sue lacrime di smettere di uscire. Erano lacrime di rabbia più che di tristezza. Lacrime di delusione perché mai si sarebbe aspettata che i suoi sentimenti la tradissero in questo modo.
  Giunse alla fine della rampa di scale e si fermò nell’ampio atrio, alla sua destra il quadro della famiglia Turner la sovrastava come mai prima di allora. Lo sguardo gelido del conte Aaron la fissava, immobile e scultoreo e, sebbene nel dipinto fosse solo un fanciullo, si vedeva benissimo quanto poco amore ci fosse in quel volto.
  Era un uomo d’onore, leale, certo. Ma l’amore era un’altra cosa.
  “Signorina Vivien, tutto bene?”
  La ragazza alzò la testa e si asciugò le lacrime in fretta prima di voltarsi. Di fronte a lei c’era l’anziana balia dei conti Turner, col suo sorriso caloroso, ma dagli occhi vispi.
  “Sì, sto bene, grazie!”
  La donna scosse la testa. “La vecchia Adele sa riconoscere le anime in pena”.
  Parlava di lei in terza persona, Meg le aveva detto che quella signora non era del tutto in sé.
  Adele si avvicinò a Vivien e le posò una mano sulla spalla. “Siete entrambi ancora così acerbi, così orgogliosi. Dai retta a questa povera vecchia, le lacrime non servono, serve la comprensione”.
  “Oh, credetemi, io ho compreso benissimo!” Vivien fece un passo indietro e si sforzò di sorridere. “Ora scusatemi, ma la contessina mi starà aspettando”.
  Adele era stata la balia del conte Aaron, avrebbe dovuto conoscerlo bene. Di certo era la malattia a farla parlare in quel modo, perché quell’uomo non c’era modo di farlo cambiare.
 
  Aaron si vestì di malavoglia. Era così arrabbiato che avrebbe voluto spaccare qualcosa con le sue mani, invece si limitò a buttare per terra la sedia davanti al suo scrittoio con un calcio.
  Quella stupida!
  In quel momento non trovava parola più adatta per descriverla. Aaron gli aveva confessato di amarla e lei non gli aveva creduto.
  Beh, se si aspettava che lui glielo dicesse di nuovo per convincerla, allora la sua stupidità raggiungeva livelli inimmaginabili. Solo perché si era innamorato, non significava che aveva perso il suo orgoglio. Il suo amore per lei sarebbe continuato a crescere, ma non glielo avrebbe dimostrato, non almeno finché lei non fosse stata capace di accoglierlo.
  Uscì dalla sua stanza e vide Hans di fronte alla porta intento a bussare, subito il maggiordomo si scostò e fece un inchino.
  “Signore, il conte vostro padre vi attende…” Disse con titubanza. Hans era a conoscenza del rapporto teso tra padre e figlio e Aaron era più che certo che in quel momento avrebbe preferito lavare i bagni piuttosto che trovarsi in mezzo.
  “Perché non si scomoda lui, una volta tanto”. Esclamò il conte, più a se stesso che al maggiordomo.
  Avrebbe preferito non andare, già il suo stato d’animo non era dei migliori, parlare con suo padre gli avrebbe soltanto rovinato irrimediabilmente la giornata.
  In più c’erano questioni urgenti da risolvere, ora che Sam non c’era più. Il proposito dei Mercenari andava perseguito, bisognava trovare il traditore e liberare il paese da un re folle.
  Decisamente Aaron aveva ben altre cose a cui pensare al posto di andare a parlare con suo padre.
  Scese le scale fino all’ingresso della villa, ma invece di girare a sinistra verso lo studio del conte Richard, si diresse alla porta e prese il suo soprabito.
  “Signore…” Lo chiamò Hans. Anche se la sua voce era come al solito inespressiva, Aaron avrebbe scommesso metà della sua fortuna che in realtà era sorpreso e, in parte, ansioso.
  “Parlerò con mio padre quando avrà il disturbo di venirmi a chiamare di persona”. Esclamò infilandosi il cappello.
  “Ma signore, sapete che è usanza sociale farsi annunciare prima di…”
  “Ultimamente delle usanze sociali non me ne frega proprio niente!”
  Ed era vero.
  Fino a qualche mese prima sarebbe andato da suo padre, nonostante il disappunto, perché era ligio ai suoi doveri di figlio e alla condizione sociale che rivestiva la sua famiglia nella società. Un tempo non avrebbe aspettato un attimo a licenziare un maggiordomo che si era permesso di ribattere su un suo comportamento, perché era una mancanza di rispetto nei confronti di un uomo più potente e ricco di lui.
  Ma era pur vero che, un tempo, non avrebbe permesso a una donna, una serva – anzi, peggio, una nobile decaduta – di entrargli dentro fino al centro esatto dell’anima e di sconvolgere tutte le certezze con cui aveva convissuto sin dalla nascita.
  I doveri sociali non erano niente in confronto a questo. Lui era nobile, orgoglioso della sua posizione sociale, e, in verità, una parte di lui ancora non riusciva ad accettare ciò che gli stava succedendo. Ma Vivien gli aveva fatto vedere il mondo in una prospettiva diversa, più umana e meno dettata dalla rigidità dei ranghi.
  “Aaron!”
  La voce tonante di suo padre che un tempo l’avrebbe fatto rabbrividire, ora gli arrecava solo noia. Si voltò con lentezza e alzò lo sguardo sul conte Richard, aveva le guance in fiamme dalla rabbia, se c’era qualcosa che non sopportava era essere ignorato.
  “Che significa questo comportamento? Ti ho fatto chiamare due volte!”
  “Scusatemi padre, ma avrei delle faccende da sbrigare”. Si giustificò Aaron, aprendo la porta di casa.
  “Non ti ho insegnato proprio niente, eh?” L’uomo si avvicinò a suo figlio e lo afferrò per un braccio. Non faceva male, ma Aaron si divincolò all’istante. “Il rispetto Aaron, è la prima cosa! Come puoi considerarti un Turner se non hai bene in mente questo concetto?”
  “Il rispetto bisogna meritarselo, padre!”
  Gli occhi del conte Richard si fecero improvvisamente più scuri e la vena sul collo gli pulsò a tal punto che Aaron era convinto gli scoppiasse. Stava per urlare, per sputare veleno, esattamente come faceva ogni volta. Ma Aaron questa volta non avrebbe abbassato la testa come al solito, lo avrebbe affrontato, da uomo a uomo.
  Una porta si aprì da dietro la tromba di scale, Alyssa uscì dalla biblioteca con un’espressione ansiosa e, dietro di lei, Vivien con un libro in mano cercava di capire cosa stesse succedendo.
  Aaron la guardò serio e provò a comunicarle di rientrare in biblioteca, perché suo padre poteva diventare pericoloso, molto pericoloso. Ma Vivien non si mosse, forse non aveva compreso, oppure – come suo solito – aveva compreso ma non voleva dargli ascolto.
  “Oh, certo, ora è tutto chiaro!” Esclamò il conte Richard, avvicinandosi alle due ragazze. Scansò Alyssa con una spinta e prese Vivien per un braccio, trascinandola davanti al figlio. “E’ lei, giusto?” Tuonò. “La sgualdrina che ti ha reso così, dico bene?”
  Aaron strinse i pugni, colmo di rabbia. Vivien era ancora un po’ spaesata e lo guardava come se desiderasse delle risposte, ma non c’era tempo per spiegare in quel momento.
  “Ma che state dicendo?” Anche Aaron si ritrovò ad alzare la voce. Sul viso del conte Richard ombreggiò un sorriso.
  “Avevo capito che come figlio non valevi niente, ma non credevo potessi essere tanto stupido”. Con uno strattone scaraventò Vivien a terra. Aaron avrebbe voluto soccorrerla subito, ma era inchiodato dallo sguardo del padre, così fu Alyssa ad accasciarsi accanto alla serva per rialzarla.
  Il conte Richard fece qualche passo fino ad arrivare a pochi centimetri dal viso del figlio e gli piantò un indice nel petto. “Prova a mancarmi ancora di rispetto”. Gli sussurrò. “E la tua servetta passera davvero dei brutti momenti”.
  Aaron lo vide uscire di casa per andare chissà dove, almeno però poté rilassarsi. Solo allora si accorse che l’atrio della villa era pieno di servitori curiosi.
  “Tornate a lavoro!” Ordinò. Suo padre non era cambiato affatto, anzi sembrava che i suoi attacchi d’ira fossero addirittura peggiorati, fortunatamente ancora non era riuscito a mettere le mani addosso a nessuno.
  Vivien era ancora a terra, dolorante, così Aaron le si inginocchiò vicino, la prese in braccio e la sollevò.
  “Posso camminare!” Disse immediatamente lei.
  “Da quel che vedo, non credo proprio”. Aaron le indicò con gli occhi la gonna sporca di sangue. Nel cadere aveva urtato un mobile, probabilmente era solo un graffio, ma lui si sentiva lo stesso in colpa. “Alyssa, vai in cucina e fatti dare delle pezze bagnate con dell’acqua calda. Io porto Vivien nella sua stanza”.
  La ragazzina annuì e corse immediatamente, mentre Aaron si diresse nell’ala della servitù.
  “Non serve che mi portiate voi, mandate a chiamare James o…”
  “Non manderò a chiamare nessuno!” Ribatté lui. “Non mi interessa se la società considera riprovevole che un nobile entri nell’ala della servitù, ti sei fatta male a causa mia e voglio fare qualcosa per rimediare”.
  Vivien sembrava sorpresa, allora doveva essere vero che ai suoi occhi lui risultava un mostro viscido e orribile senza capacità d’amare.
  “Non è colpa vostra”. Disse poi lei, con un filo di voce come se si vergognasse. “Ecco, è questa”.
  Aaron si fermò davanti ad una porticciola in legno dozzinale. Il suo avo quando aveva costruito quella villa sapeva bene come far distinguere gli alloggi dei diversi ranghi sociali.
  “Sì, invece”. Disse entrando e posando delicatamente Vivien sul letto. Poi si inginocchiò davanti a lei e sospirò. “Mio padre ha sempre avuto problemi nel controllare la rabbia, ha anche picchiato mia madre e, se non fossi intervenuto, avrebbe messo le mani addosso anche ad Alyssa”.
  Vide Vivien sgranare gli occhi dallo stupore e dal ribrezzo, ma non disse nulla.
  “Io l’ho provocato, l’ho sfidato. Sono stato stupido, adesso lui ti ha presa di mira e…”.
  “So cavarmela, signore, dovreste saperlo”. Esclamò lei, incrociando le braccia al petto.
  Aaron rise leggermente. “Sì, lo so”. Poi alzò una mano fino ad accarezzarle il volto. “Ma detesto saperti in pericolo. Se dovesse accaderti qualcosa, io…”
  Lasciò la frase in sospeso, come se nessuna parola potesse descrivere ciò che stava provando in quel momento, rabbia, frustrazione… desiderio.
  Aaron le sfiorava la guancia con le dita, fino ad arrivare poi alle sue labbra. Avrebbe tanto voluto baciarla, assaporare il suo sapore sulla lingua, ma dopo la discussione avuta quella mattina temeva un rifiuto.
  D’un tratto invece eccolo lì. Aaron lo riconobbe all’istante, era lo stesso sguardo colmo di desiderio di quando si erano baciati a casa di lei, così ardente, così vivo. Era come se Vivien lo stesse invitando, si alzò allora dal pavimento e andò a sedersi sul letto accanto a lei. La desiderava così tanto che aveva paura a baciarla perché non era certo che poi sarebbe riuscito a fermarsi.
  “E’ vero ciò che avete detto?” Chiese lei in un sussurro. “Mi proteggereste ad ogni costo?”
  “Anche con la vita”. Rispose Aaron senza esitazione. Il suo orgoglio lo implorava di non abbassarsi a tanto, ma era strano come improvvisamente amare una donna non gli apparisse più umiliante, anzi la trovava quasi una forma di coraggio sconosciuta, che prima non possedeva.
  I loro volti erano così vicini, così prossimi che ad Aaron sarebbe bastato sporgersi di qualche centimetro per catturarle la bocca, ma non si mosse. Ormai lui aveva scoperto tutte le sue carte, adesso toccava a lei.
 
  Vivien lo osservava intensamente, spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua bocca. Il bruciore alla gamba non era nulla in confronto a quello che provava nel petto. Dio, voleva quell’uomo con tutta se stessa, anche se era contro i suoi principi, anche se probabilmente avrebbe finito col soffrire.
  Desiderava il conte Aaron quasi come l’aria per respirare.
  Baciami!
  Fu la prima volta che bramava quel contatto con così tanto ardore, ma lui non si mosse.
  Vivien si morse il labbro, cercando il coraggio di pronunciare quella parola. Pian piano poi si sporse in avanti, aprì la bocca, socchiuse gli occhi…
  “Ecco le bende!”
  Alyssa irruppe nella stanza senza bussare, con Meg a seguito, Aaron si alzò di scatto dal letto e distolse lo sguardo.
  Vivien provò uno strano senso di vuoto, aveva già provato qualcosa di simile in passato. Avrebbe voluto che lui le restasse accanto, non voleva che se ne andasse, che si vergognasse di farsi vedere dagli altri con lei.
  Ma sapeva bene che questo non sarebbe mai accaduto.
  Anche se i sentimenti del conte fossero stati reali, che genere di relazione avrebbero mai potuto intraprendere? Anche se i matrimoni tra ceti differenti non erano vietati, erano malvisti dalla società, e la famiglia Turner era prestigiosa, non si sarebbe mai infangata il nome con un matrimonio sbagliato. In più lei non era una semplice serva, ma una nobile caduta in disgrazia, l’umiliazione sarebbe stata ancora più profonda.
  “Vivien, stai bene?” Alyssa aveva preso posto accanto a lei sul letto, esattamente dove poco prima sedeva suo fratello.
  La ragazza annuì distrattamente. Ogni sua attenzione era concentrata sull’uomo appoggiato al muro con le braccia conserte, che osservava Meg mentre le medicava la ferita sullo stinco.
  “Ahi!” Urlò all’improvviso. Meg aveva tamponato troppo forte.
  “Oh, scusami”.
  Vivien non era certa se la ragazza fosse davvero pentita, ma preferì non approfondire.
  “Sta’ più attenta!” La rimproverò invece il conte, facendosi avanti. Meg annuì all’istante e, chissà perché, da quel momento fino alla fine della medicazione, Vivien non sentì più alcun dolore.
  “Non te ne andrai, vero?” Chiese Alyssa, prendendole la mano, mentre Meg veniva congedata dal fratello.
  “Certo che no”. Rispose lei. “Perché dovrei?”
  “Molte nostre cameriere e dame di compagnia sono state importunate da nostro padre”. Intervenne Aaron. “Picchiate, violentate a volte. Non saresti la prima che scappa terrorizzata”.
  Vivien sgranò gli occhi. Ora capiva, quando la contessina Alyssa era così preoccupata perché lei potesse andarsene, non era a causa del fratello, ma di suo padre.
  Era il conte Richard Turner il mostro.
  Vivien strinse entrambe le mani di Alyssa e le sorrise. “Ve l’ho già promesso, contessina, io non andrò da nessuna parte. E poi…” Alzò lo sguardo verso il conte. “Sono convinta che, se dovessi trovarmi in pericolo, ci sarà sempre qualcuno a proteggermi”.
  La contessina sorrise con gioia e l’abbraccio, prendendola un po’ alla sprovvista. Aaron ridacchiò divertito e distolse lo sguardo.
  “Continuiamo la nostra lettura, ti va?” Propose Alyssa in preda all’eccitazione. “Aspetta qui, vado a prendere i libri, così non ti sforzi”.
  Senza nemmeno dare a Vivien il tempo di replicare, la contessina era corsa fuori dalla stanza. Solo allora il conte si lasciò andare ad una risata un po’ più sonora.
  “Come ci riesci?” Le chiese poi.
  “A fare cosa?” Vivien lo osservò, quando rideva gli brillavano gli occhi, aveva un’aria così spensierata e fanciullesca che sarebbe rimasta volentieri ad ascoltare la sua risata per ore.
  “A rendere vive le persone. Mia sorella è sempre stata una ragazzina chiusa in se stessa, parlava a stento, guardala invece adesso, è felice. Tu l’hai resa felice”.
  “Sono una semplice dama di compagnia”. Rispose lei, stringendosi nelle spalle. “Dunque le ho solo… tenuto compagnia”.
  Il conte però scosse la testa e andò a sedersi di nuovo sul letto. Vivien sentì inavvertitamente i battiti del cuore aumentare.
  “Non è solo con Alyssa che ha funzionato questo tuo… incantesimo”. Il tono di Aaron si era fatto un delicato sussuro. “Hai stregato anche me, in un modo che nemmeno immagini”.
  “Signore, io…”
  “No, aspetta, fammi finire”. Aaron le prese una mano e se la portò alla bocca. Baciò ogni singolo dito e poi la posò sul suo petto. “Lo senti? E’ la prima volta che batte in questo modo, e solo perché ti sto accanto”.
  Vivien rimase sorpresa di come quel battito fosse simile al suo.
  “Io ti amo, Vivien”. Confessò. “E se esiste anche una minima speranza che tu possa provare lo stesso nei miei confronti, allora dimmelo. Ti voglio con tutto me stesso”.
  La ragazza abbassò la testa e ritrasse la mano, portandosela in grembo. Era quello che sognava di sentirsi dire, una dichiarazione esplicita e passionale, eppure non riusciva ad essere felice. Non riusciva a fidarsi.
  “Siete proprio sicuro?”
  Aaron a quel punto la guardò strano. Forse non si aspettava quel genere di risposta alla sua confessione.
  “Voi dite di amarmi, ma questo sentimento quanto durerà? Siete certo che non svanirà una volta che mi avrete avuta?” Vivien si morse il labbro. “Vedete, io non ho nulla, a parte l’affetto di poche persone che mi stanno intorno. Io non posso offrirvi nulla”.
  “Ma a me non importa!” Si intromise lui.
  “Davvero? Da quando vi conosco non avete fatto altro che esplicitare la vostra posizione e la mia, rendendole ben chiare e distanti. Come pretendete che io ora creda che non vi importa?”
  Aaron si passò una mano tra i capelli e rimase qualche attimo in silenzio, poi si voltò di nuovo verso di lei.
  “Te le dimostrerò”. Esclamò alzandosi dal letto. “Questo sabato, al ballo in maschera dei Gilbert, vieni con me”.
  Vivien non fece in tempo a ribattere che la contessina Alyssa piombò di nuovo nella stanza con in mano dei volumi di almeno quattrocento pagine l’uno. “Non sapevo quale scegliere, così li ho presi tutti”. Esclamò ridendo.
  Aaron invece era serio, così tanto che incuteva quasi timore. “Vi lascio alle vostre letture”. Disse, poi uscì dalla stanza.
  Vivien era ancora un po’ intontita, presentarsi dai baroni Gilbert al fianco del conte significava mostrare a tutta la nobiltà di Landburg che lei era la compagna di Aaron Turner. Davvero lui era disposto a tanto?
  “Vivien, ti senti bene? Sei pallida”. Alyssa le si sedette accanto e le porse un libro.
  “Sì, contessina”. Mentì lei. Decise di lasciar perdere i pensieri sul conte Aaron – per quanto possibile – e concentrarsi su Alyssa. Per ora, lei era l’unica della famiglia Turner di cui riuscisse a fidarsi ciecamente.


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Perdonate tantissimo il ritardo di questo aggiornamento, ma al ritorno dalle vacanze mi è successo di tutto.
Problemi all'università, esami da preparare, uno spettacolo da portare a fine ottobre a Lucca e (ultimo ma non meno importante) mi è morto internet per circa tre settimane.^^'
Insomma il delirio più totale.
Comunque spero che nell'attesa non vi siate stufati di Vivien ed Aaron, perché loro sono ancora qui!^^
Il prossimo capitolo verrà postato più rapidamente, lo prometto.
Un bacio a tutti quelli che recensiscono o leggono solamente la mia storia, siete fantastici!

*HQ*

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