Come In With The Rain

di BBV
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un anno senza pioggia ***
Capitolo 2: *** Freccia spezzata ***
Capitolo 3: *** Quando il sole tramonta ***
Capitolo 4: *** Stop crying your heart out ***
Capitolo 5: *** Gli stessi errori ***
Capitolo 6: *** Drunk ***
Capitolo 7: *** Nella vita reale ***
Capitolo 8: *** Lei sarà amata ***
Capitolo 9: *** Troublemaker ***
Capitolo 10: *** Più di questo ***
Capitolo 11: *** Fix a Heart ***
Capitolo 12: *** L'ultimo giorno in paradiso ***



Capitolo 1
*** Un anno senza pioggia ***


Capitolo 1

 


 

«Can you feel me

when I think about you?».

 

Tre anni. 1095 giorni circa. Qualche milione di ore, incontenibili secondi. Dopotutto quanto può essere veramente lungo il tempo? O veramente poco? Relatività è la parola d’ordine. Tre anni sono pochi, ma 1095 giorni sono tanti, eppure sono la stessa cosa. Così come i luoghi.

Los Angeles era soleggiata e calorosa, molto più di quanto lo fosse l’ammasso di persone in giro per Central Park nella mia New York. Mi sarei quasi abituata a quel ritmo sconnesso e caldo della città delle star se non fosse stato per mia madre. Quando le rispondevo al telefono ero quasi più certa dei rumori della Grande Mela piuttosto che delle sue parole, che tra l’altro erano quasi sempre le stesse. “Come stai? Hai mangiato? Hai parlato con tuo padre? E tuo fratello?”. Niente di insolito.

Meditai di chiamarla, giusto per prenderla un po’ in giro, quando un rumore di un paio di tacchi incerti ma veloci mi fece scartare l’idea.

«Forza Vic, dobbiamo muoverci, lo sai che Meg non ha pazienza!», mi rimproverò Kate. Aveva piegato le labbra in una smorfia e con una preoccupazione che mi avrebbe snervato se non avesse avuto ragione.

Lasciai stare le mie solite considerazioni e seguii la ragazza bionda davanti a me. Mi spinse con garbo nell’auto – come se ci fosse bisogno di mettermi a sedere al posto del guidatore -, afferrai al volo gli occhiali da sole grandi e neri, poi tirai un sospiro più lungo dell’aria che avevo nei polmoni.

«Meg dovrebbe darsi più al sesso e meno alla guerra contro di me!», dissi nell’istante in cui il motore si accese e l’auto grigia metallizzata sfrecciò tra le strade con poca pazienza.

«Non correre così! Vorrei arrivarci viva alla conferenza…e possibilmente con tutti i capelli in testa!», mi rimproverò. Inizialmente la ignorai accelerando ancora un po’, dato che adoravo far saltare i pochi nervi della mia migliore amica.

«Quando fai così mi fai ricordare che passi più tempo con Rachelle che con me».

Scosse la testa senza aggiungere altro, portò una mano verso lo stereo della macchina e lo accese con un gesto deciso; mentre con meno decisione cambiò qualche stazione radio fino a sceglierne una.

«Ehi, sbaglio o è la tua canzone quella che suonano alla radio?», risi rumorosamente rilassandomi sul sedile e girando abilmente lo sterzo con una sola mano.

Una mia canzone. Sembrava assurdo pensarci anche dopo tre anni. Ricordavo perfettamente l’istante in cui la mia vita aveva preso la piega diversa, quella decisiva.  

Megan mi era stata presentata tre anni prima durante una lezione all’ Accademia. Il preside era stato d’accordo nel dare la possibilità ad alcuni di poter proseguire da soli. Ed il mio momento arrivò più velocemente di quanto volessi. Non posso nascondere che all’inizio ero terrorizzata, quel mondo sembrava troppo anche per me che ero cresciuta preparandomi discorsi davanti allo specchio con il mio finto Grammy, ma ripetevo a me stessa tutte le notti che l’unica cosa che avevo voglia di fare era scrivere e cantare. E fu da quella determinazione, che partirono i primi piccoli successi. Prima la partecipazione a qualche concorso, una prima canzone lanciata alla radio…e poi via alla mia nuova vita. Beh, non fu solamente per quello.

C’era tutta un’altra storia che mi aveva spinta a fare quella scelta. A mollare tutto e dimenticarmi di non essere sola. Non importava poi tanto quanto tempo ci pensassi, metà della mia giornata era piena di parole, rumori, note e persone per fermarsi un attimo a riflettere.

Arrossii senza dire una parola. «Non ci credo», mormorò Kate tenendosi stretta alla cintura di sicurezza. «Dopo tre anni riesci ancora ad imbarazzarti se una tua canzone va alla radio o se ti fanno una domanda personale durante un intervista», mi sorrise accarezzandosi i capelli.

«Ti invidio. Non ti sei montata la testa, non come Elle perlomeno».

Alzai le spalle in un gesto disinvolto. «Rachelle ha sempre avuto la testa montata», e insieme alleggerimmo l’atmosfera con una risatina veloce pensando alla nostra teatrale amica dai capelli rossicci.

Mezz’ora dopo, entrammo nell’hotel dove si sarebbe tenuta la conferenza. In pieno corridoio, un intero staff di persone, capeggiate da una donna dall’aria spavalda, mi raggiunse a passo militare.

«Vic, corri a cambiarti. Niente di esuberante, niente di troppo sobrio. Vestiti normali». Mi ordinò Meg, come se si aspettasse che capissimo davvero la sua idea di “normale” dopo che lei a 35 anni andava in giro con una maglia ad arcobaleno, con la faccia di una cane stampata dietro la schiena.

Kate, visibilmente spaventata dall’espressione della mia agente, si nascose dietro la mia schiena spingendomi in avanti con una mano, nella speranza che Megan non potesse vederla e…

«Kate perché siete arrivate in ritardo?»…darle la colpa del mio ritardo. Un classico.

«Meg, è colpa mia. Kate ha cercato di farmi muovere, ma lo sai…sono lenta», spiegai con un sorriso di finto dispiacere irritando la povera donna dai nervi instabili.

Con un cenno esasperato mi indicò una porta. «Cambiati e studia il foglio sulla scrivania».

 

Consiglio sempre la frutta. Adoro mangiare sano. Faccio più sport che posso quando mi è concesso fuori dalla sala registrazione o da un tour.

«Stiamo scherzando?», gridai mentre Kate subiva i miei sfoghi contando i minuti che mancavano ad uscire da quello stanzino. «Non direi mai una cosa del genere. Io adoro il fast food…e non faccio sport da quando avevo dodici anni!», gridai contro il foglio che Megan mi aveva lasciato da studiare.

«Vicky!», disse Kate spaventata. «E’ solo una risposta…un consiglio. Non prenderla così, conosci Meg…», abbassò la voce. Guardandola, mi accorsi di aver esagerato e mi accasciai sulla sedia fissando l’orologio: avevo cinque minuti scarsi.

«Sei così suscettibile in questi giorni», mormorò di punto in bianco, con il tono incerto che adottava quando aveva paura di farmi arrabbiare.

«E’ solo che vorrei fare qualcosa di speciale per le persone che credono nella mia musica. Sai, così ho cominciato… è tutto sulla mia pelle», spiegai animatamente a Kate incurante del suo sguardo stranito. Mi sarebbe bastato dirlo, che poi fosse stato incompreso…beh, quello non mi importava più da un bel po’.

«Sono tre anni che facciamo concerti, servizi fotografici, interviste e non mi stancherò mai della vita che mi sono scelta», annuii sicura. «Ma…non so quanto ho detto di vero su di me in questi tre anni. Non se la mia manager continua a scrivere le risposte da dare…». Kate continuò ad a tenere le sopracciglia alte e la bocca corrucciata come una bambina che cerca di capire la matematica.

«Stai delirando», scosse la testa. Sbuffai perché piano piano cominciavo a credere di essere davvero patetica. Misi da parte l’argomento per evitare altre parole deliranti.

«Si, forse hai ragione».

«E poi?». Domandò ancora, insoddisfatta del giro di parole che avevo fatto. Era così difficile mentire ad una persona perspicace e sensibile come Kate.

«Poi cosa?».

«Che altro c’è?».

«Shane non mi ha chiamata ieri. Lui mi chiama sempre, ogni settimana per dirmi qualcosa di stupido…ma ieri non l’ha fatto e sono preoccupata», confessai rendendo la mia voce roca e bassa. Irriconoscibile quell’improvviso senso di apprensione che mi veniva nei confronti di Shane da quando non lo vedevo più così spesso. Lui era rimasto a Longwood per torturare e magari anche conquistare Marnie, l’eccentrica bruna di Longwood. Ancora mi sorprendeva accostare i loro nomi: si assomigliavano così tanto, come potevano sopportarsi l’un l’altra? Ah, la forza della amore. Sospirai.

«Conosciamo tutti Shane: si sarò dimenticato o sarà stato troppo occupato a farsi perdonare l’ennesima scorrettezza da Marnie», rise leggermente trattenendo un lunga risata di gusto.

«Si, sicuramente».

Fui sul punto di sospirare e rilassare i muscoli quando mi ricordai che non avevo il permesso di farlo. Sbuffai e mi diressi, facendo a Kate il cenno di seguirmi, verso la porta chiusa a chiave.

Mi dispiacque dover abbandonare il calore tiepido e la luce soffusa di quella piccola stanza.  

Il cellulare vibrò sul tavolino prima che potessi chiudermi la porta dietro le spalle. Sebbene sapevo che Kate mi avrebbe lanciato un’occhiataccia e che Meg se la sarebbe presa con me se avessi ritardato ancora, risposi lanciandomi di peso.

«Non ci crederai maiiiii». Una voce, che all’inizio faticai a conoscere, prolungò la vocale finale in preda al…panico? All’eccitazione? Non capii subito.

«Indovina quale pezzo di idiota mi ha chiesto di sposarlo?». Gettai un gridolino avventato senza riuscirlo a trattenere. Kate sobbalzò al mio fianco. Ma cosa stava succedendo?

«Stai scherzando?», urlai.

Una voce lontana e ovattata mi rispose al telefono. «Già me ne sto pentendo». Shane.

«Ma quando? E dove…ma soprattutto, perché?».

«Perché sono talmente irresistibile che ha deciso di legarmi a lui a vita». E per quanto stesse ridendo, mi sembrò la frase più tenera mai sentita dalla bocca di Marnie.

«Oh ragazzi, non posso crederci». Sorrisi tanto da spaventare Kate di fronte a me. Non capitava spesso che stirassi così tanto i muscoli facciali.

«E’ la notizia più bella che mi danno da una vita!». Mi lasciai scappare una risatina isterica: mi stavo forse emozionando? Avevo capito bene? E io cosa ci facevo ancora lì?

La mia coscienza alzò le spalle. D’altronde era una cosa normalissima, mio fratello si stava sposando con una delle mie migliori amiche ed era felice. Il mio compito di sorella implicava l’emozione.

«E farai da testimone a Shane, vero?». La domanda, seppur stupida, fu la punta dell’iceberg che si sgretolò in tante piccole lacrime. Pensai che il piano di non far arrabbiare Meg era andato in frantumi in quel preciso istante.

«Sarebbe un onore», sospirai.

Avevo imparato a conoscere Marnie abbastanza bene da sapere che troppo entusiasmo a volte era solo una forzatura della voce che nascondeva la paura di dire qualcos’altro. Mi chiesi che altro avesse da dire dietro una notizia così lieta.

«C’è qualcos’altro?». La sentii sospirare. Esitò un po’ diffondendo silenzio, poi rigettò tutto troppo rapidamente per soffrire lentamente.

«Cioè?». E la sua voce si tradì nuovamente.

La sentii sospirare e poi richiamare ossigeno. Esitò un po’ e rigettò tutto troppo rapidamente per soffrire lentamente. Fu come un secco di ghiaccio in inverno. Forte, pericoloso ma controllabile.

«Nathan è fidanzato con Carmen da quasi un anno».

So che la gente cambia e queste cose succedono, ma io ricordo ancora com’era prima di tutto questo. Diceva una mia maledetta canzone.

Nathan. Quante volte il suo nome era risuonato nella mia testa, tra le parole delle mie canzoni ma mai detto ad alta voce? Troppe volte per rimanerne scioccati.

Quasi un anno con Carmen. Carmen. L’amica di Emma. La cruda sorpresa bloccò il flusso di lacrime di gioia che le parole di Marnie avevano scatenato. Un anno. Era molto di più di… quanto fossimo stati insieme noi. Ma d’altronde, eravamo mai stati davvero una coppia? Per un attimo mi esaminai dentro. Eh si, faceva ancora male.

Dopotutto erano passati solamente tre anni.

Avevamo cercato di tenere stretto un legame ancora troppo fragile. Il settembre di tre anni prima, ero tornata a Longwood per partecipare alla recita del collegio di Nate. Aveva ricevuto la parte di Peter, senza che io avessi dubbi ed ero stata così fiera di lui che niente avrebbe potuto smentire quello che ero stata capace di dirgli durante l’estate, tutti lo eravamo, anche Emma, che aveva ricominciato a parlarmi. Sembrava davvero tutto assurdamente perfetto.  

I litigi cominciarono quando lui accettò di partecipare ad un corso di medicina ed io conobbi Meg. Poi fu come una fiamma al gelo. Parole taglienti, sguardi accusatori: avevamo cominciato a distruggerci a vicenda proprio come sapevamo sarebbe accaduto. Proprio come entrambi avevamo promesso l’un l’altro.  
E in una notte di dicembre, quando capii che tutto sembrava insostenibile, quando mi resi conto che mancava poco alla pazzia, andai via.

L’unica cosa che fui capace di dire in quell’istante, dopo tutti quei ricordi in un unico flashback fu:

«Nathan chi?».

«Tentativo patetico, Vic». Sospirò Marnie, meno ironica di quanto volesse. La sua voce, che risultò afflitta anche via telefono, non l’aiutava affatto. Se toccava agli altri stare male per lei, quella storia non sarebbe mai finita. La infastidiva ancora il modo in cui le persone la guardavano con tristezza quando si trattava di Nathan. Loro non sapevano niente.

«Non vedo perché tu debba dirmelo. Non roviniamo la tua bella notizia con queste cose, per favore». Ma il colpo di tosse fu d’obbligo quando la voce mi si bloccò giusto per farmi risultare meno credibile.

«Si, hai assolutamente ragione». E prolungò la voce finché non decisi di attaccarle il telefono in faccia felice e turbata da tutte quelle novità.

Mi ero perfino dimenticata di Kate al mio fianco. «Ehi, tutto bene?».

Annuii.

«Dobbiamo andare. Ti racconto tutto dopo». Spiegai frettolosamente. Mentre percorrevo il corridoio, tutto sembrò conformarsi ai miei pensieri. Le mura bianche si incupirono al mio passaggio, le voci diluirono lentamente lasciando spazio solo ad un'unica voce che ero disposta a sentire in eterno. La mia.

Fu inevitabile pensare che avrei dovuto, al più presto, organizzare il mio ritorno a Longwood, finalmente, dopo tre anni.

Meg mi passò una mano sul braccio, forse per rassicurazione, forse per spingermi a muovermi. L’unico risultato fu la pelle d’oca. Io rallentavo, gli altri correvano.

Mi stava aspettando un nuovo viaggio. Non ero ancora sicura però se fosse un viaggio nel passato o nel futuro, il solo pensiero mi spingeva al vomito.  

Nel frattempo mi conveniva sfornare uno dei miei sorrisi migliori e la pacatezza mal riuscita di Victoria Hamilton e andare ad affrontare una conferenza stampa dove io sembravo, stranamente, l’assoluta protagonista.

 

Fine Primo Capitolo.

 

 

Qualche mese fa ‘A Year Without Rain, la prima parte di questa storia ha compiuto un anno.

E’ stato un primo viaggio bellissimo e quel ricordo non ha fatto altro che alimentare la mia sconsiderata voglia di scrivere. Come promesso ai miei personaggi, la loro storia non poteva finire in a senso unico, perciò, vi lascio a ‘Come In With The Rain’.

Dal prossimo capitolo una cosa di fondamentale importanza cambierà in questa storia: “Come in with the rain” non verrà più scritta in prima persona. Nonostante io ami “la prima persona”, volevo provare a cimentarmi nella terza persona, magari dando più spazio a molte scene viste da un punto di vista maggiore.
Grazie.

http://www.youtube.com/watch?v=WCBMur8gyS8A
Questo è il booktrailer di Come in with the rain. Parlatemi anche di questo video, se vi va! ;)

Qui c'è la prima parte della serie ---> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=573625&i=1

 

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Capitolo 2
*** Freccia spezzata ***


Capitolo 2

‘Freccia spezzata’

 

Silenzio. Silenzio. Silenzio. Un’unica parola avrebbe voluto urlare Vicky. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, smettere di sorridere e chiedere un attimo di pace a quelle persone, che dopotutto non le stavano facendo del male - eseguivano solo il loro lavoro -, ma egoisticamente, non smise di detestarli.

«Un’altra domanda», gridavano le voci. Annuì alla trentina di giornalisti e lasciò fare a Meg e a Rock Rob, l’uomo più grosso che avesse mai visto in vita sua. Una guardia del corpo perfetta, ma era spaventoso tanto quanto un panda enorme dagli occhi dolci – due minuti di fronte a lui e qualunque tipo di paura si sarebbe volatilizzata. Mi chiesi perché aveva scelto di fare quel lavoro.  

«Victoria!». Scese dalle nuvole annuendo alla folla. «E’ vero che stai preparando un secondo singolo?». Le domandò una donna dalla palle scura e gli occhiali da vista doppi e rotondi. Pensò a quante volte sua madre le aveva consigliato di intraprendere la carriera da giornalista, o da critico magari. Nonostante tante volte aveva desiderato scendere dal piedistallo dove con cura gli altri la lasciavano, immaginò non dovesse essere facile nemmeno stare dietro ad una ragazzina di ventun’anni che ha altre cose per la testa. 

«Si, sicuramente ci sarà».

«E’ un singolo di “A Year Without Rain”?», gridò una voce acuta.
A Year Without Rain. Il suo primo album. Il suo piccolo capolavoro personale. Smettila di distrarti sempre, Vic! Si rimproverò.

«Ehm…non lo so. Forse si, forse scriverò una nuova canzone». Alzò le spalle lasciando posto all’espressione di ragazza tranquilla e a suo agio: proprio quella che non le si addiceva.

«Quando girerai un nuovo video musicale?».

«Presto». Si intromise l’agente. Le sue risposte non erano affatto entusiasmanti – e il tono peggiorava i monosillabi -, perciò Meg prese in mano la situazione, con tono autoritario e occhi pronti a lanciare occhiatacce a qualunque domanda non concernesse la carriera di Victoria.

Victoria provò un senso di fastidio che le fece controbattere la dichiarazione di Meg quasi con tono di sfida. Alzò le spalle e si inclinò con il busto come se quella postura le desse più importanza.

«In realtà non lo sappiamo ancora…per adesso ho bisogno di una pausa». Esordì riavviandosi i capelli. Senza voltarsi a guardare Kate e Meg, immaginò i loro sguardi stranii e spaventati, come di solito si era quando una ragazza rischiava di far perdere il lavoro. Vicky adorava avere quel tipo di sguardi su di sé. Sguardi stupiti, come se avesse appena detto qualcosa di strabiliante. Non aveva mai confessato a nessuno di amare quel tipo di attenzione in quanto probabilmente le si sarebbe ritorto contro.

«Mio fratello si sposa…andrò a trovarlo per un pò», annunciò senza troppo colore al tono.

A quel punto la trentina di giornalisti si agitò più di prima e anche se minuta, Meg riuscì a farli calmare con una potente frase mista ad un tono allarmato “La conferenza è finita.”

Vicky aveva appena fatto una dichiarazione che le sarebbe valsa una copertina su “People”. Mega si sarebbe licenziata per malattia, Kate l’avrebbe sommersa di domande, eppure nella sua testa girava solo una cosa. Longwood, Shane, Marnie, la sua famiglia, Nathan. Abitava ancora lì? Era molto probabile di no.

«Ehi Kate, mi fai un favore? Compra due biglietti aerei per il Wisconsin», affermò. L’amica, confusa gridò il suo nome per fermarla.

«Insomma, dove vai?».

Vicky la liquidò con un gesto e nel frattempo indossò i suoi fedeli occhiali da sole abbracciando il sole della bella Los Angeles.

«Com’è che dice la mia canzone? Non ho amore da sprecare né tempo da perdere». Mormorò tra sé e sé. Ormai era diventata un abitudine per lei, parlare con se stessa nella sua auto. Nessuno poteva guardarla male perché parlava da sola, nessuno poteva giudicare il suo linguaggio o le parole che sceglieva. Era la cosa più entusiasmante che Victoria avesse scoperto da lì a qualche anno.

«Certo che a volte sembro un idiota quando scrivo canzoni».

E scoppiò a ridere scrollando le spalle e la testa mentre ripartiva con il semaforo verde.

Arrivata al suo appartamento, nascosto e il più normale possibile, Vicky capì di non essere abbastanza rilassata per stendersi sul divano, guardare la tv o fare qualunque quotidiano movimento umano. Sulla sua scrivania, dietro le casse del computer, c’era la prima copia del suo album. Quella custodita gelosamente perché portava i segni della sua emozione: una sfumatura della copertina dovuta ad una lacrima solitaria.

Bastava leggere le sotto le righe dei suoi testi per capire che dietro c’era il ricordo di un periodo vissuto con un intensità ed una passione che solo una vecchia coppia sposata da anni avrebbe potuto rivendicare. Beh, parlava di Nathan. Forse non l’avrebbe capito un suo fan, probabilmente neanche Meg…ma Marnie l’avrebbe capito, Shane l’avrebbe capito. E probabilmente, se anche a lui qualcosa era rimasto, anche Nathan l’avrebbe capito. Non fece in tempo a tornare nel passato che il suo presente squillò al cellulare.

«L’hanno sentito tutti!». Disse la voce al telefono.

«Ciao anche a te, Rachelle».

La voce ignorò l’ironia di Victoria. «Allora? E’ vero che Shane si sposa o era solo una scusa?». Victoria sbuffò silenziosamente mentre pensava alla sua voglia pari a zero di spargere la voce del matrimonio del fratello. Soprattutto poi, quando doveva dirlo ad una sua ex.

«Si, Shane e Marnie si sposano. L’ho saputo qualche minuto prima della conferenza». Dall’altro capo del telefono, Rachelle si rigirava i riccioli tra le dita senza smuoversi. Si, la notizia l’aveva spiazzata, ma non delusa e fu contenta di non esserci rimasta male. Dopotutto Rachelle aveva la pelle dura.

«Forte. Quindi deduco che tu ritorni veramente a Longwood?». Domanda da un milione di dollari, pensò Victoria. Era probabile che per rispondere ad una domanda come quella non ci volesse poi così tempo se non fosse stato per i mille pensieri che le sconvolgevano la testa. I paparazzi? Meg? La famiglia? Vecchi incontri?

Quel mondo era davvero troppo stretto per lei.

«Si, certo che ci andrò».

«Dalla tua voce sembra che tu abbia quasi paura di anda…Oh», terminò come se solo in quel momento gli fosse arrivato il messaggio scontato dei ricordi dell’amica. Rachelle era sagace

«Vive ancora a Longwood?». Mormorò più lentamente come se il tono basso potesse in qualche modo aiutare.

«Suppongo di si…dato che è fidanzato da un anno». E da grande traditrice qual’era la sua tanto amata voce lasciò trasparire la sua finzione. Probabilmente era solo un notevole momento di smarrimento dovuto allo stress e alle troppe novità perché mi sentivo nostalgica, stanca.

«Beh…devi avere un’ultima notte a Los Angeles prima di tornare nell’Isola Che Non C’è. Sbronzati, trova un bel promettente ragazzo con cui svagarti e…».

«Ma da dove vieni? Dovrei spassarmela con qualcuno che non conosco?». Chiese stizzita.

«Oh, la solita romanticona». Scherzò Rachelle.

«Sarà che io dell’amore ho un idea ben precisa, e forse non sarà mai quella esatta, ma questi sono principi. E poi…io sto bene!».

«Certo…infatti è proprio per questo che le quindici canzoni del tuo album parlano di lui?».

«Non parlano di lui». Colpita e affondata. La freccia, quando si parlava con Rachelle, non perdeva mai un colpo.

«Parlano di qualcuno a cui hai spezzato il cuore. Qualcuno che te l’ha spezzato quel cuore. Parlano d’amore…e non mi sembra che tu ti sia innamorata molto spesso».

E Victoria, in quel momento si rese conto di portare con se una freccia spezzata.

Lei si sentiva perfetta. Ma cosa si può fare quando ci si sente giusti al momento sbagliato? Chiunque sarebbe potuto diventare il suo eroe, se solo glielo avesse lasciato fare, ma Nathan era ancora lì, a colpirla dentro, come una freccia spezzata.

Eh si, Nathan era stato proprio la sua principale fonte di ispirazione, ma finché nessuno in particolare se ne accorgeva, poteva rimanere una cosa tra lei e la sua musica.

«Elle, io chiudo, devo preparare le valige».

E quella sera, nella tranquillità, quella che poteva essere tranquillità a Log Angeles, con calma preparò due valige.

 

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In due valige, quante cose possono entrare? Victoria scoprì di essere più esigente di una volta. Per un attimo fu tentata di prenderne una terza, ma d’altronde, quanto poteva chiedere a suo padre? Già sembrava difficile pretendere di essere ospitata con la possibilità di essere travolti dai paparazzi e dai soliti impiccioni: chiedere spazio sarebbe stato troppo.

Alla fine, si accontentò dei suoi due trolley e della chitarra nuova e lasciò che la sua fidata guardia del corpo l’aiutasse a sistemarsi in auto.

Mentre Longwood aspettava proprio lei…

«Non ci credo che l’ha fatto veramente».

«E’ su youtube». Shane confermò la storia.

Marnie si accasciò sul sofà con aria trasognata. «Cioè…capisci? E’ bastato che lei lo dicesse e adesso gli Stati Uniti sanno che ci sposeremo», ma il tono di Marnie non si avvicinava neanche all’idea di lamento, al contrario, il suo tono era adorante e eccitato.

Shane scosse la testa sedendosi al fianco della sua futura moglie.

«Ed è in questi momenti che mi chiedo cosa mi sia venuto in mente la sera in cui ti ho chiesto di sposarmi», ma la sua tenerezza compensò la battutina acida a cui Marnie avrebbe risposto con un sonoro schiaffo.

«L’hai fatto perché mi ami».

«Mmm…no».

E stesi su quel divano, Shane e Marnie, senza che l’uno sapesse dell’altro indirizzarono i loro pensieri all’amica/sorella. Come sarebbe stato rivederla? Il che non era certo il pensiero che girava per la testa di una Hamilton acquisita.

Aveva ormai quindici anni, era più alta di quasi sei centimetri, aveva una reputazione a scuola e una sorellastra famosa: Madison non stava più nella pelle.

Aveva assillato sua sorella maggiore sulle mille cose da ragazze grandi che avrebbe voluto fare con lei, mettendo da parte l’idea che il suo fratellastro si sarebbe sposato di lì a poco con la sorella della sua migliore amica. No, tutto passava in secondo posto quando si trattava di Victoria.

Madison la adorava in modo ossessivo nonostante si fossero viste pochissimo dopo quell’estate di tre anni prima. Ma d’altronde tutti abbiamo bisogno di qualcuno da seguire a quell’età e per Madison, Victoria era un eroina, una mescolanza perfetta di forza e talento. Niente a che vedere con la vera fragilità del suo cuore.

«Mamma…a che ora hai detto che arriva?». Gridò dalla sua camera.

«Mad smettila di assillare la mamma…», rispose Emma già esasperata all’idea di dover dimezzare i suoi spazi.

No, non era esasperazione quella. Era angoscia perché non riusciva a reprimere anche lei l’eccitazione di rivedere sua sorella. Era passato del tempo, ma non troppo da dimenticarsi il tempo passato insieme dopo quell’estate. E poi aveva così tante cose da dirle, cose che neppure una quindicenne avrebbe potuto capire. Della sua improvvisa iscrizione all’Università, di Tom, quel ragazzo con cui era cresciuta ma di cui non si era mai pienamente accorta e che purtroppo aveva allontanato per una notte con quell’altro. C’erano un bel po’ di pensieri che le sarebbe piaciuto accollare alla testa della sua sorellastra.

Norah spezzò il filo dei suoi pensieri. «Dovrebbe essere qui fra un paio d’ore. Emma hai liberato la stanza?».

Era inutile negarlo: tutta la città era in trepidazione.

Lei stava tornando…

Dall’altro capo di Longwood chiuso in una delle stanze di un officina rumorosa, c’era un ragazzo che rideva del suo migliore amico.
Lucas non era mai stato un tipo particolarmente buffo, ma mai come in quel giorno faceva cadere distrattamente le cose. Probabilmente era perché da poco aveva ricevuto due notizie sconcertanti: il matrimonio di sua sorella, che a malapena aveva ventidue anni, e il ritorno di una vecchia amica, che per il ragazzo che aveva di fronte a sé era molto di più che un amica.
Non è compito tuo dirglielo, fa finta di niente. Si ripeté

«Oh Lucas, dovresti farti controllare…non sai più come si lavora!».

Il moro scosse il capo. «Non è colpa mia se il mio collega adesso è diventato uno studente modello che non si sporca più le mani».

Nathan gli tirò una gomitata fulminea. «Io ci metto ancora due minuti ad aggiustare una moto. E tu?». Lucas gli fu addosso in un istante, poi scoppiarono in divertenti insulti.

«Ehi, ehi». Dovette intromettersi una terza voce. Carmen portava in quel luogo scuro e sporco, un po’ di allegria e qualche libro tra le mani per far studiare l’aspirante giovane chirurgo Carver.  «E’ così che siete amici voi due?».

Entrambi i ragazzi risero staccandosi. Lucas riprese il suo arduo lavoro, Nathan si rivolse alla sua ragazza con un frettoloso ma dolce bacio sulle labbra.

«Al tuo ragazzo piace scherzare. Tanto non è più a lui che tocca il lavoro duro». Lucas spostò lo straccio dallo scaffale alla sua spalle in modo frettoloso.

La futura sposa di Shane Hamilton fece il suo raggiante ingresso nell’officina.

«Lo sai fratello, ormai Nathan è entrato a far parte dell’alta società». La sua voce acuta e colorata fu come musica per le orecchie del suo migliore amico Nate. Quella ragazza minuta e sorridente, sorella del suo migliore amico, era uno dei suoi punti di riferimento. Nathan, gettando uno sguardo verso di lei riusciva a sentirsi più sicuro. E’ quello che senza saperlo fanno gli amici, no? Pensò lui.

«Marnie, che ci fai qui?», disse senza davvero volere una risposta.

Marnie lanciò un occhiata di sfuggita a suo fratello. Non fu difficile capire che Nathan era ancora all’oscuro di tutto, così come la sua ragazza Carmen. Era fin troppo tranquillo, e Marnie sapeva che se solo gli fosse arrivata notizia, non avrebbe certo tenuto quello sguardo. Forse il sorriso si, ma i suoi occhi non sarebbero stati così leggeri e tranquilli. Quando si trattava di lui e Vicky, nulla era tranquillo.

«Sono venuta per farvi fare una pausa».

Carmen affiancò Marnie in un secondo e annuì semplicemente. «Sono d’accordo con lei. Che ne dite di un caffè al chiosco qui vicino?». Entrambi i ragazzi si guardarono.

Una pausa, non avrebbe fatto male a nessuno.

 

C’era una ragazza che era atterrata a Longwood da qualche ora ed era corsa, quasi inconsciamente, convinta di non trovare poi così tanti ricordi, sulla strada verso l’officina. Aveva convinto la sua fedele guardia a lasciarla andare. Dopotutto era sempre di Longwood che si parlava! Inoltre, aveva mollato Meg con Norah e le sue chiacchiere e dopo un’ora dietro alla sua sorellina minore - in assenza di quella maggiore - era fuggita per le strade così piccole che sembrava impossibile sperdersi.

Vicky fissava il lungomare con il suo fedele i-pod nelle orecchie. Si, c’era da ammettere che a volte si ascoltava da sola per puro divertimento. Si era trovata su quella strada come se le sue gambe ne fossero attratte o in qualche modo volessero indirizzarla perché lei era troppo codarda da intraprenderlo con la testa. Fatto stava che lei era lì, su quel marciapiede che affacciava alla spiaggia mentre canticchiava mentalmente. Mentre il sole le scottava sulla fronte e il leggero e gradevole venticello gli accarezzava i capelli Victoria si ritrovò a pensare che dopotutto, non era cambiato proprio niente di Longwood. L’aria rilassante, le persone che tra di loro si salutavano, quella moto parcheggiata sul marciapiede, con una grossa catena e ancora il nome sulla vernice: “Off The Chain”, i bar aperti ma mai pienamente affollati.

Un attimo. Victoria tornò con lo sguardo verso la moto, poi, anche se qualche secondo in ritardo, strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca.

«Non ci credo», mormorò tra sé.

Con passo più svelto, Vicky si gettò letteralmente tra le braccia del mezzo. Era stato un gesto impulsivo, uno dei tanti che proprio non riusciva a controllare. Incurante dei suoi pensieri, dell’idea di autocontrollo che si era imposta e degli sguardi straniti delle pettegole di paese, Vicky fissò quell’oggetto così grande, con un adorazione che una volta non si sarebbe giustificata: era solo una moto, perché tanto affetto? Ma lei avrebbe saputo rispondere con un enfasi che poi avrebbe spiegato i suoi occhi lucidi e le lacrime sul punto di cadere.

«Smettila, stupida», sussurrò a se stessa sbattendo le palpebre sempre più forte. Si guardò intorno e quando capi che nessuno più la guardava, si appoggiò lentamente sul sedile e ne accarezzò ogni dettaglio. 

Le sembrava così ovvio sorridere, e così innaturale provare quella serenità nel cuore, come se fosse proprio il momento giusto. Capì, allora, che non era stato il matrimonio di suo fratello a portarla a Longwood, quello era stato solo un pretesto. Victoria era tornata per ritrovare Victoria e la gioia che quella serenità di vita che così tanto cominciava a mancarle.

«Ehi, quella è la mia moto!», un gridò arrivò alle sue spalle.

Un ragazzo, qualche secondo prima aveva osservato la scena ed era corso della sua inseparabile amica per cacciare via quella ragazza appoggiata su Off The Chain. Per Victoria fu come trovarsi intrappolata nel castello delle principesse: vuoi esserci e non voi esserci.

A quel punto respirò bramosamente, l’eccitazione e la paura presero il sopravvento.

«Dovremmo smetterla di incontrarci così». Chiuse gli occhi per quelli che sembravano secondi interminabili, poi alzò il capo e lentamente, Victoria si voltò.

E non fu così difficile rivedersi. 

Nathan spalancò lentamente gli occhi blu indietreggiando di un passo senza lasciarsi prendere dal primo impatto, perché con Vicky era sempre così: sempre un imprevedibile scossa di emozioni, positive o negative che fossero. La osservò avidamente per cercare di trovare un senso, una verità: aveva tagliato i capelli, ma nient’altro era cambiato. Era davvero Victoria Hamilton quella ragazza appoggiata sulla sua moto.

Quegli occhi che brillavano erano sempre lì, suoi.

Victoria, dal suo canto, fu travolta da quell’immagine. Dopo tre anni, era di nuovo lì davanti a lei, più alto, con una leggera scia di barba, ma sempre la solita espressione d’angelo malizioso.

«Vic?», sussurrò Nathan.

Lei alzò le spalle e abbozzò un sorriso. «Ciao, Nate».

E fu come se non l’avesse mai persa di vista.

 

Fine Secondo Capitolo.


Questo è solo l'inizio. Grazie a chi ha recensito, a chi già si è fatto un'idea e la sta seguendo, a chi la legge. Come avete visto, per chi conosce già la storia, sembra che le cose si ripetano. Aspetto davvero con ansia di sapere cosa ne pensate, e cosa credete che succederà poi.   

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Capitolo 3
*** Quando il sole tramonta ***


 

 

Capitolo 3

"Quando il sole tramonta"
 

C’era una poesia di un famoso poeta inglese del Romanticismo che Victoria amava sentire recitare da sua madre. John Keats diceva: “Spesso il piacere è un ospite passeggero; ma il dolore | Ci avvinghia crudelmente”. Victoria non era mai riuscita a capirne a pieno il significato fino a quel momento. Fingere di stare bene non dura abbastanza da seppellire il dolore costante.

E per lei, vedere Nathan fu strano e coinvolgente quasi quanto doloroso. Un pensiero piuttosto contraddittorio, pensò tra sé. Eppure una cosa tanto bella, rara, splendida riusciva a recarle dolore lì dove solo il peso delle emozioni riusciva a premere.

«Tu… Che ci fai qui?», domandò lui.

Sospirò e deglutii rapidamente. «Devo fare la testimone ad un matrimonio». E la giovane ragazza scoprì di non essere poi così tesa. Dopotutto bastava far finta di niente. Ma cosa si doveva fare in quei casi? Darsi la mano? Abbracciarsi? Cos’è che fanno due ex che si sono lasciati tristemente e che portano con loro particolari ricordi, cose che non si dimenticano? Vicky rabbrividì per un attimo, un attimo che durò il tempo di uno sguardo.

«Certo, il matrimonio», confermò stupidamente. Nathan, con il suo viso angelico e gli occhi maliziosamente ingenui, parve un bambino imbarazzato e in difficoltà sulle parole da dire. Non era così che lui voleva che andasse.

«Come …stai?». Ridicola, penso Victoria. Erano passati tre anni e in quei tre anni c’erano tante di quelle cose da dire, ma mai quante ne avevano passate in quei pochi mesi della loro estate. L’imbarazzo è dovuto, continuò a pensare. Vorrei solo che non fosse così. Vorrei poterlo riuscire a guardare negli occhi senza doverci vedere per forza qualcosa.

«Sto bene…e anche tu», esclamò il ragazzo avanzando di un passo.

Forse dovevano abbracciarsi. Come facevano due amici che non si vedevano da tempo e non portavano rancore l’uno per l’altra.

Vicky decisa di sporsi verso di lui abbastanza da avere un timido abbraccio che ricordava due persone che non si conoscono ma che sono costrette a dimostrare un minimo di cordialità.

«Victoria!». Una voce interruppe il terribile silenzio tra loro. La ragazza guardò oltre le spalle di Nathan, giusto in tempo per vedere arrivare una furia a forma di ragazza diretta verso di lei. Marnie poteva anche stare per sposarsi, niente avrebbe cambiato i suoi modi…eccentrici.

«Non ci credo, è la futura sposa quella che ho davanti a me?», la strinse in un abbraccio corposo, quasi fisicamente stancante. Durò così tanto che le persone dietro di lei dovettero richiamarla all’attenzione.

«Sarà anche tua amica Marnie, ma è prima di tutto mia amica», disse una voce maschile, l’unica che Victoria capì di non aver dimenticato. Quella melodia così sottile.  

Victoria rimase quasi un ora intera a salutare Lucas, quel ragazzo – ormai uomo -, bello e chiaro come il sole di cui aveva tanto sentito la mancanza. Lui sembrava più alto, Nathan più sorridente. Poi c’era quella ragazza, nascosta dietro la schiena di Lucas, dalla carnagione olivastra e gli occhi grandi e scuri.

«Vic, ti ricordi di Carmen?», mormorò Marnie. Il suo nome le ricordò l’impressione che le aveva fatto la prima volta, più una fitta allo stomaco. Non riuscì a provare il minimo di rancore però, per quella ragazza. Come poteva anche solo rivendicarne il diritto?

«Certo! Come stai?», abbracciò anche lei ricordandosi della prima impressione che le aveva fatto quando l’aveva conosciuta. Era semplice, tenera. Non aveva l’aria che aveva lei. L’aria di una incasinata.

«Non sapevo che saresti venuta», disse Carmen.

«Nessuno sapeva di lei», mormorò a bassa voce il suo ragazzo. Lucas alzò la mano e fece una smorfia colpevole.

«Ehm…in realtà, ho scordato di dirvelo», ma bastò un occhiataccia di Nathan a sistemare tutto. Toccò a Lucas, questa volta, spezzare ancora una volta il silenzio che si era creato tra noi cinque.

«Che ne dite, ci andiamo a prendere quel caffè?».

Al di là di tutto ciò che avrebbe dovuto dire o pensare in quel momento, Victoria si ritrovò a sorridere davanti a quei ragazzi. Non credeva di poterci riuscire, non in una situazione come quella: c’era un ragazzo a cui aveva dato illusioni, una ragazza che stava per sposare suo fratello e un’altra che aveva quello che una volta lei aveva avuto, poi c’era Nathan. Vicky era stupida di essere riuscita a sorridere, a sentirsi leggera nonostante la presenza di Nathan.

Che i vecchi dolori fossero passati? Tutto si riponeva in quella piccola speranza.

«Forza! Abbiamo così tanto da dirci».

E con un'unica esortazione, Marnie trascinò il gruppo al chiosco dove fino a qualche anno fa lavorava, parlando a vanvera di cose che neanche a lei interessavano.

E’ solo per evitare imbarazzanti silenzi, solo per rendere tutti tranquilli, si disse la futura sposa.

 

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«E poi, dopo che gli avevo tirato il mio tacco dodici, mi ha urlato in faccia che aveva intenzione di sposarmi».

Victoria rise di gusto e si riavviò i capelli con una mano. Si era fatta raccontare come Shane avesse chiesto a Marnie di sposarla. Le sembrava così assurdo che il suo fratellone – quello che si guardava allo specchio si definiva il ragazzo più sexy e avvenente del mondo – avesse deciso di fare un passo così grande. Era convinta che né lui, né lei si sarebbero mai sposati. E invece…

«Ma se lo chiederai a lui ti risponderà che l’ha chiesto a Marnie con un innata eleganza e che lei le ha subito risposto di si», continuò Carmen passandosi le mani tra i capelli scuri.

I due ragazzi – Lucas e Nathan – si erano a allontanati a fumare, mentre loro finivano il delizioso cocktail fresco, contornato con un ombrellino dai colori estivi.

«Ma basta parlare del mio matrimonio», Marnie enfatizzò ancora una volta la parola. Era evidente a tutti che neanche lei era capace di immaginare una cosa del genere. Victoria si guardò intorno: qualcuno la fissava - ma ne era troppo abituata per turbarsene -, le persone si godevano l’inizio di quella nuova estate con la leggerezza degli argomenti frivoli e dei sorrisi. Rise pensando che quell’estate sarebbe toccato anche a lei parlare di cose stupide senza avere il timore di offendere qualcuno, o ridere senza temere di non essere divertente.

«Sembri contenta», asserì Carmen corrugando la fronte.

«Cosa c’è di strano?».

«Bé, nell’ultimo periodo sei stata davvero super impegnata», Marnie arrancò le parole. Sembrava stranamente in difficoltà.

«Che mi nascondi Marnie?».

«Non sei stanca?», Carmen si intromise salvando in corner il panico sul volto della mora.

«Stanca di cosa? Del mio lavoro?», finì il cocktail con un unico grande sorso. «Niente affatto».

Marnie tornò alla sua solita espressione vivace. «Ovviamente».

Prima che potessero parlare d’altro, magari sparlare e raccontarsi qualcosa di superfluo come sarebbe piaciuto a Vicky, Lucas le interruppe.

«Nathan è dovuto correre a casa», si scusò portando una mano dietro la nuca.

«Forse vuole che lo raggiungi», si rivolse a Carmen che lo guardò confusa. Qualche secondo dopo annuì portandosi una mano alla fronte. «Scommetto che è l’ansia per l’esame», si alzò lasciando il posto all’avvenente fratello di Marnie. Si scusò e afferrò con forza le chiavi della sua auto, nascoste nella grande borsa ad arcobaleno.

«Esame?», Victoria si lasciò scappare una domanda a cui avrebbe preferito non ricevere risposta. Era così strano chiedere informazioni su Nathan.

All’inizio l’aveva detestato, poi amato. Non c’era mai stata una via di mezzo. Non era mai stati due conoscenti, loro erano troppo diversi per convivere pacificamente. Amarsi era un altro paio di maniche.

«Devo proprio andare. E’ stato un piacere rivederti Victoria», le afferrò la mano e la scosse con gentilezza.

La ragazza era pronta a rispondere con un bel “anche per me”, ma le sembrò futile. Carmen era già volata via, diretta dal suo ragazzo.

Quando fu abbastanza lontana da non poterli più vedere, Vicky ripeté. «Quale esame?».

«Bé, sono tante le cose da dire. Nathan non lavora più in officina». Marnie l’aggiornò.

«Viene solo a rompermi le palle», aggiunse con tono di disappunto Lucas.

«Si è iscritto all’università ed adesso è un aspirante chirurgo», riassunse. Di fronte a quella rivelazione Vicky si trovò spaesata, colpita da un uragano dentro cui lei stessa si era gettata. Alla fine ci era riuscito, anche lui aveva realizzato il suo sogno.

 

«Ehi Nate!», il ragazzo si voltò sopprimendo l’ansia. «Facciamo una scommessa»,Vicky lo raggiunse, incurante del via vai di persone che trasmettevano ansia. Dopotutto erano dietro le quinte di uno spettacolo teatrale di una prestigiosa scuola di ricchi ragazzi ribelli, come potevano anche solo percepire quello che stava per accadere?

«Scommettiamo che stasera tutti applaudiranno la tua performance? Sarai un Peter perfetto».

«Cosa vuoi se vinci?», rispose lui, improvvisamente rilassato da quell’improvvisa piega che stava prendendo la sua serata. «Voglio che ti iscriva all'Università e studi per diventare dottore , affermò decisa. Stava gridando a qualche metro di distanza da lui, immobile. Sorridente» 

Nathan sorrise e sospirò contemporaneamente.

«Ci penserò. Ma dovrai prima vincere questa scommessa». Una donna bassa con gli occhiali chiamò Nathan.
«Prova tu a farmi vincere, no?
».

 

A quel punto fu inevitabile per lei pensare che tutto ciò che si erano detti quella notte in cui si erano lasciati era vero. Da soli erano riusciti ad arrivare ad un traguardo. Ma era altrettanto inevitabile pensare che forse ci sarebbero riusciti anche insieme.

«Ehi, Vic, mi ascolti?», Marnie le urlò nell’orecchio. «Ha sempre avuto questa stranezza. Entra in trance e fa la faccia da idiota». Disse rivolta al fratello con una finta espressione di riflessione.

«Guarda che ti sento», Vicky la rimproverò facendo quella che Lucas definiva espressione buffa: aveva inarcato le ciglia sottili, e chiuso la bocca in una smorfia.  

«Lo spero per te. Se ti succede una cosa del genere durante il mio matrimonio…dire che ti uccido è poco!», scherzò accarezzandogli la mano poggiata sul tavolino. Era il gesto più intimo che in quel momento si poté permettere. Dopotutto erano in un bar all’aperto con suo fratello davanti. Marnie si ripromise – nel bel mezzo dei preparamenti del suo matrimonio – di fare due chiacchiere appartate con quell’amica con cui non era mai stata troppo a lungo da sola.

«Ancora mi sembra incredibile che tu sia qui. Con noi. Insomma, sono passati tre anni…e sei Victoria Hamilton! Tutti ti adorano», quella che doveva essere una dolce affermazione si trasformò in una delle terribili e eterne frasi di Marnie. Quella ragazza non riusciva proprio a frenarsi. «Un attimo. E’ vera la storia del flirt con Jake Gyllenhaal? Com’è?».

Lucas le tirò – inutilmente - una gomitata.

«Io non so flirtare», assicurò Victoria. «L’ho conosciuto…ma non credo di essere in grado di flirtare…posso chiederlo a Rachelle. Lei non si sarà lasciata scappare l’occasione». Trattenne un sorriso.

«Al di là delle chiacchiere di mia sorella, siamo davvero contenti di averti qui Vic», la voce bassa e dolce di Lucas le arrivò all’orecchio come le note di un pianoforte. Se ne era mai accorta tre anni prima?

«Bene, perché ho davvero intenzione di recuperare il tempo perduto». Questa volta il sorriso abbozzato del biondo di fianco a lei divenne una splendida arcata luminosa.

«Ehm…per essere più chiari. Era vera la storia del duetto con Timberlake?»

Sbalordita,Victoria tirò un finto pugno sul braccio muscoloso di Lucas, scoppiando a ridere seguita da Marnie.

Era così bello essere lì.

Dall’altra parte della città, in sella alla sua moto, Nathan Carver pensò ce se non fosse morto per un incidente stradale quella volta, non lo sarebbe stato mai. Le braccia non riuscivano a dare il giusto peso per affrontare la forza del manubrio.

Era scappato via dopo aver fumato solo mezza sigaretta con Lucas. Lui gli aveva spiegato – si era più scusato, in realtà – che c’era stato un equivoco, che se non si fosse dimenticato a causa di sua sorella non avrebbe esitato a dirglielo. Ma a cosa sarebbe servito? Pensava Nathan. Saperlo un mese prima non l’avrebbe di certo preparato, perciò, con una pacca sulla spalla aveva bloccato l’amico.

«Come la vedi?». Gli aveva chiesto Lucas poco prima che se ne andasse. Faceva strano parlarne ad alta voce. Era da molto che Nathan aveva imparato a pensare e pensare, senza dover esternare a qualcuno i proprio pensieri. Era difficile ma anche più facile.

Sulla sua moto, diretto verso casa, trovò la risposta. Era meravigliosa. Non come Carmen, come Marnie. Loro erano meravigliose perché apparivano come il sole di prima mattina: sfacciato, irresistibile. Victoria, aveva sempre creduto Nate, da quanto la conosceva non era mai stata come la luce del sole. Più come la luce della luna, una luce indispensabile, che si apprezza man mano che ti attira.

Se non fosse andato a quella velocità, si sarebbe permesso il lusso di dare un pugno a quel povero manubrio. E’ meravigliosa ma stronza. Te lo ricordi? Si ripeté di continuo, fino a stancarsene, fino a costringersi a pensare le cose più orribili su di lei, pur di reprime qualunque altra memoria.

Il suo ritorno riaffiorava tanti momenti sereni quanti litigi e pianti in testa. Come quella volta in cui l’aveva accusato di guardare un’altra. Un settimana dopo il suo spettacolo a scuola.

 

«Come posso guardare un’altra? Lo sai che sono cieco. Mi hanno dato la possibilità di vedere solo te, e mi va più che bene», le si avvicinò cingendogli la vita.

«Non fingere, Shakespeare. Non ti riesce bene». Aveva mormorato lei senza accennare ad allontanarsi. Non riusciva più a sembrare dura. Nathan stava abbattendo un po’ alla volta tutti i muri che aveva eretto. E a proposito di muri, l’aveva appena inchiodata alla parete fredda e bianca della sua camera, avvicinandosi con disinvoltura al suo viso.  

«Tu non sei veramente gelosa. Ti ho vista gelosa e so che se lo fossi davvero non staresti qui stretta a me. Tu vuoi sentirti dire perché non dovresti esserlo».

«Allora, perché non dovrei essere gelosa?», rise portando le sue labbra sul suo corpo. Il suo petto, il suo collo.

Nessuno dei due si era ripetuto troppo spesso “Ti amo”. Tacitamente, erano d’accordo sul fatto che perdesse valore se detto troppe volte.

«Perché tu sai di essere il mio Amleto ed io il tuo Shakespeare», lei scosse la testa.

«Che paragone insolito».

 

Non ci mise poi molto ad arrivare a casa. Attraversò il cortile e spalancò la porta d’ingresso della villa. Le voci nel salotto distrussero la possibilità di chiudersi in camera e starsene per conto proprio. Nathan non poteva sfuggire ai suoi genitori. Non a sua madre.

«Nate tesoro, credevo fossi in officina da Lucas. Due ore fa ha chiamato Shane ma tu eri già uscito», la voce di sua madre suggerì che non sapesse ancora niente. Probabilmente Shane l’aveva chiamato per avvisarlo: l’unico che ne avesse avuto il coraggio, forse.

«Non ti preoccupare mamma, abbiamo parlato», mentì in parte. Si guardò intorno, tutto quello che vide era il sole accecante che attraversava le finestre fino a cadere in tutta la stanza. Alzò le spalle e indietreggiò.

«Dov’è Mike?», la signora Carver rispose con un sospiro sconfitto, e bastò quello a rispondere alle sue domande.

«E’ davanti alla playstation?», il ragazzo scoppiò a ridere sotto lo sguardo fulminante di sua madre. Non era affatto d’accordo sul fatto che suo figlio minore appoggiasse le abitudini di quello maggiore. Una volta era stato Nathan lo scavezzacollo – non che Michael fosse mai stato del tutto tranquillo -, ma da quando aveva rinunciato al servizio militare, si era perso nel lusso di una vita sregolata, proprio quando quella di Nathan aveva preso una via del tutto inaspettata.

«Ha quasi ventisei anni e la sua unica passione è stare dietro ad un tizio che va a prostitute e lavora per un boss della mafia!», mormorò disgustata.

«Non sottovalutare la potenza di Grand Theft Auto*, mamma!», la schernì fingendo di essersi offeso. La donna scosse la testa e guardò il suo secondogenito sparire in cerca di suo fratello, nella loro grande casa.

Lo trovò, così come se l’era immaginato, steso sul divano con in mano il suo joystick. Era annoiato.

Nathan si prese quel poco di posto rimasto e gettò la testa all’indietro chiudendo gli occhi.

«Ciao anche a te!», Michael lo salutò ,ma a malapena si curò di guardarlo.

Il ragazzo non rispose. Tenne gli occhi chiusi.

«Che ti è andato storto questa volta Nate?», continuò, roteando il joystick come se rafforzasse le sue mosse.

Nathan continuava a rimanere chiuso nei suoi pensieri, nel suo silenzio.

«Fammi indovinare! Marnie ti sta facendo impazzire con il suo matrimonio?», scoppiò a ridere. Ma non ci fu nessuna reazione da parte di Nathan. Solo in quel momento Michael si decise a distogliere l’attenzione dal gioco e guardare suo fratello.

«Cazzo, Nate! Sei orribile», disse ad alta voce. «Sembra che tu stia per vomitare». Gli diede uno scossone che non lo smosse.

«Che ti succede?».
Ho solo bisogno di dirlo ad alta voce.
Disse Nathan a sé stesso.

«Michael, lei è tornata», pronunciò privo di emozioni.

«Chi? Brooke in Beautiful? Non essere così scioccato. E’ da un po’ che lo seguo: lei ritorna sempre».

«No, idiota!», il viso di Nathan riprese colore. «Vicky è tornata».

Il joystick di Michael cadde a terra.

Dalla cucina si sentì della porcellana infrangersi a terra con un unico secco rumore acuto.

Era l’ufficiale bentornata a casa per Victoria Hamilton.

 

 

Fine Terzo Capitolo.

* è un gioco alla playstation, violento, il cui unico scopo è davvero rubare, uccidere ed altre cose, probabilmente molti di voi lo conosceranno perché è piuttosto famoso.



Buon capitolo a tutti! Spero che con questa terza mini-parte riusciate ad inquadrare la situazione ed i suoi personaggi. Se avete qualcosa da dire, e anche se non ce l'avete, se avevate idee diverse, se avete consigli, se volete dire qualcosa di bello, vi prego non esitate. E' peggio il silenzio che una critica, ed io accetto tutto, perché so che chiunque la legge pensa qualcosa. Bene, tutto quello che pensate, venite a scriverlo qui. Voi non avete idea di quanto mi rendereste felice. 
Detto questo, spero di poter aggiornare il più presto possibile. Godetevelo. Grazie.

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Capitolo 4
*** Stop crying your heart out ***


Capitolo 4

'Stop crying your heart out' 



Non erano passate che poche ore dal suo arrivo, e Victoria già credeva di aver bisogno di respirare. In un certo senso era inquietante il modo in cui desiderava essere sopraffatta dalla sua famiglia. Quella sensazione di claustrofobia era l’unica forma di sopraffazione che Victoria nella sua vita avrebbe mai permesso; l’unico terribile brivido che aveva il permesso di percorrere la sua pelle. Solo per loro. Quelle persone che assomigliavano più a dei fan che ad un’accogliente famiglia allargata.

Madison credeva che Vicky fosse una specie di Dio – quell’ideale di perfezione che si può avere a quindici anni -, suo padre era sull’orlo delle lacrime rivedendola quella sera, seppure fu abbastanza forte da trattenere i lamenti che provocano un pianto. E Norah, beh, lei non esitò a dimostrarle la sua felicità con uno dei suoi imperdibili, grossi abbracci, per poi aggiornarla sulle sue doti culinarie con una grossa e lunga cena.

Emma era stata l’unica con cui aveva avuto un contatto il più normale possibile. Victoria ne apprezzò perlopiù la calma, lo sguardo poco invadente, i modi impassibili. Strano come fossero cambiate le cose. Tre anni prima nessuno avrebbe prestato così tante attenzioni a Vicky se non Emma stessa, la sorellastra entusiasta dai pensieri felici, ma adesso Emma era l’unica che la trattasse come una sorella normale, senza diffidenza, senza quell’eccessiva eccitazione che il tempo avrebbe portato via.  

«Mad, hai sentito cos’ha detto Vicky? E’ venuta qui per fare una pausa non per farsi assalire da un adolescente in cerca del suo autografo», aveva mormorato stizzita la bionda Emma rivolta a sua sorella quindicenne.

«Non chiamarmi Mad*, lo sai che non mi piace», si imbronciò immediatamente.

«Va tutto bene Emma, Maddie farò tutto quello che vuoi, abbiamo tempo per stare insieme. Credo che sia il momento di andare a cena però», e alle parole della ragazza, Madison si tranquillizzò e rivolse una linguaccia ad Emma. In risposta Emma le diede uno spintone e la trascinò giù, seguita da Vicky.

Indossava un vestito senza bretelle e a fantasia floreale, sotto lo sguardo della sua ostinata agente. Per un momento, probabilmente l'istante in cui Meg la vide scendere le scale, Victoria si ritrovò soddisfatta di poter indossare finalmente qualcosa di meno aspettato. La pressione e le aspettative giravano sempre dietro l’angolo da quando aveva acquistato un po’ di popolarità, ed era la cosa a cui Vicky era meno disposta ad assecondare. Eppure Meg lo sapeva, aveva sempre saputo com'era Victoria, cosa nascondeva quella complicata personalità, ma nulla cambiava il suo attegiamento: le aspettative erano aspettative. Un giorno, si promise, avrebbe cercato di capire anche Meg Torres. Una donna che indossa tailleur in estate e t-shirt ad arcobaleno durante una conferenza, una donna dallo sguardo freddo ma dai modi materni.  

«Vicky, ha chiamato…».

«Chiunque ti ha chiamato non sa che sono in vacanza, dovresti dirglielo», la interruppe subito scendendo l’ultimo scalino e restando indietro, proprio per fronteggiare Meg. La donna di fronte a lei indossava un tailleur scuro che rilasciava un senso di claustrofobia fastidioso. Era estate, c'erano i colori, ma Meg vestiva stretta e scura.

«Ti prego Meg. Ti prometto che questa pausa non ostacolerà il lavoro…ma ti scongiuro, lasciami divertire…», le fece un gran sorriso e spalancò gli occhi sperando di apparire più dolce. Le riuscì solamente un’espressione deformata.

«Devi registrare le nuove canzoni. Ci sono dei pezzi grossi disposti a produrre il tuo nuovo album», incalzò la donna evidenziando le parole giuste. Victoria la conosceva troppo bene per lasciarsi influenzare da quell’aura da manager che emanava. Una volta gliel’avrebbe data vinta, quella volta no. 

«Sai che ti dico? Per una a volta voglio fare la star capricciosa. Voglio divertirmi, e dovresti considerare un vantaggio il fatto che non mi diverta come Rachelle». Il chiaro riferimento alla mia amica fece rabbrividire entrambe. Discoteche e feste mondane? Tutte, ogni notte. Rachelle era uno spirito libero? Un'anima in pena? No, Rachelle era solo il frutto di una personalità contorta, pensava sempre Vicky. Mille miglia lontana da lei, mille miglia sempre più uguale a lei.

Meg portò una mano alla fronte e la trascinò per il viso come gesto di resa. Lo sbuffo successivo fu il suo segno di sconfitta.

«Diciamoci la verità, Vic. Ho paura. Non è qui che abita quel ragazzino per cui hai quasi rinunciato a tutto?», esclamò con il tono fermo di una donna molto più matura della sua età.
L’allusione così indifferente a Nathan colpi Victoria in pieno viso, come una doccia fredda. Possibile che nessuno se ne dimenticasse? Il fatto che la sua vita non fosse delle più tranquille non aveva bisogno di essere ribadito. Non c'era più nulla da dover ricordare.

 

«Non mi piace quella donna. Sembra una manipolatrice», aveva detto Nathan.

«Una volta è così che hai chiamato anche me», mormorò scherzando.

«Tu sei un’altra storia»

Vicky sbuffò.

«Perché io sono sempre un’altra storia?», il tono fuoriuscì più arrabbiato di quanto volesse. «Le hai parlato per cinque minuti, Nate. Magari Meg è anche meno manipolatrice di tua madre!».

«Che c’entra mia madre adesso?», si alzò di scatto dal letto, fissandola con sguardo accusatorio. Ma non fu lei ad abbassare la testa per calmare la situazione.

«Quanto mi odia da uno a dieci, eh? Non fa altro che ricordarti che Emma era una brava ragazza, che io sono un problema con le sembianze di una ragazza. Davanti a me, Nate! Se non è un tentativo di manipolarti questo…». Nate rimase in silenzio finché lei non smise di gridare. La guardo vestirsi e scendere dal letto. La fissava mentre la rabbia e il fastidio si concentravano sulla sua figura, eppure fu inevitabile notare quanto fosse sensuale con quei gesti bruschi.

«Non seguirai quella donna», le mormorò minaccioso ad un passo dalle sue labbra.

«Fottiti!»

«Vaffanculo Vic!», le gridò voltandole le spalle.

Vicky uscì dalla casetta come una furia, con lacrime di nervosismo agli occhi pronte a rubare l'ennesimo attimo di amore che nutriva per Nathan.

 

Terminò lì la conversazione con Meg, che seppure avrebbe insistito ancora un po’, alla fine avrebbe accettato ogni condizione della sua adorabile protetta. Dopotutto, sotto quel cuore rigido e perfezionista, unito ad una nota di stranezza, Megan Torres era più docile di quanto si pensasse. Avrebbe lottato per Victoria con le unghie e con i denti affinché non l’abbattessero.

La donna si unì alla famiglia di Vicky per cena. Ancora non era riuscita a scorgere nei suoi occhi una tranquillità che le avrebbe permesso di trovare la giusta pace. Meg ne conosceva tanti di artisti che avevano preso quella strada e non erano più tornati indietro. Ma Victoria aveva tutte le possibilità di uscire da quel velo che la teneva intrappolata.

Seduta tra le sua sorellastre, Victoria ascoltò attentamente suo padre che parlava di Shane e del suo lavoro. Sarebbe tornato quella sera solo per salutare lei. Abitava in un piccolo appartamento fuori Longwood vicino alla palestra di una scuola di football dove insegnava da due anni. Il petto di Vicky, ma più probabilmente il cuore, le si gonfiò di una strana gioia che neanche per se stessa aveva mai provato. Era fiera di suo fratello.

Nel bel mezzo dei suoi pensieri sbucò la voce della ragazza al suo fianco, bassa e armoniosa come non sarebbe mai cambiata.
«Ti va di fare una passeggiata?», Emma indicò in ordine le persone a tavola. «Certe volte sanno essere molto soffocanti questi qui».

Un’ora più tardi, Emma e Victoria erano comodamente colpite dal vento. L’estate stava arrivando senza accennare a lasciare indietro quel po’ di nostalgia della primavera. Immersa in cupi e distorti pensieri, Victoria pensò a concentrarsi sul lieve fruscio del vento e sulla sensazione che le dava quel tocco gelido di sera. La ragazza al suo fianco sembrava della stessa opinione seppure avrebbe trovato di meglio da fare se solo qualcuno le avesse rivolto la parole per distrarla dall’aria serena di Longwood.

«Ho promesso a Marnie che le avrei fatto da damigella», cominciò. «Non abbiamo mai legato veramente, ma lei crede che sia giusto che io ci sia in quelle vesti e ultimamente ci frequentiamo sempre più spesso», disse cercando di enfatizzare un entusiasmo che neanche lei riteneva credibile. Qualcosa in lei sembrava gridare. Victoria sembrò individuare un tentativo di controllo atipico. Ma ignorò volontariamente tutto ciò le passava per la testa assecondando le parole di Emma. 

«Bene, sono contenta di poter avere un punto di riferimento alla cerimonia. Non posso certo contare sulla sposa. Anzi, qualcosa mi dice che toccherà a me sopportarla», rispose.

«Per non parlare dell’emozione di vedere nostro fratello all’altare», Vicky annuì sorridendo al modo così spontaneo con cui lei aveva usato la parola “nostro”. Tre anni prima si sarebbe infuriata, avrebbe messo la mani sui soffici capelli di Emma per tirarglieli anziché ammirarli. Una volta.

«Meg sembra una brava persona», cambiarò discorso.

«Lo è davvero», Victoria annuì confusa.

«Io, anche se dovresti trovarlo il minimo, ci tenevo a dirti che ti seguo sempre», pronunciò la bionda rallentando il passo.

Victoria si voltò finalmente a guardarla. Non era affatto cambiata. Era sempre raggiante nella sua pelle chiara con quelle leggere chiazza di rosa sulle guancie che la rendevano incredibilmente attraente agli occhi degli altri. Guardandola, Vicky scorgeva ancora l’espressione delusa e furiosa di quanto aveva scoperto di lei e Nathan, il suo dito puntato su di lei, le lacrime sulla punta degli occhi. Lei avrebbe sempre portato con sé il ricordo di ciò che aveva fatto ad Emma, nel bene e nel male.

Nel frattempo sua sorella continuava a parlare lentamente, seduta ad una passo dalla riva.

«Io e Maddie abbiamo registrato quasi tutte le interviste, a parte quando c’era in tv la partita di football. Shane era insensibile su quell’argomento. Quasi trovavo incredibile che mollassi tutto per venire qui».

Quando trovò il giusto momento per parlare, Vicky giocò con la sabbia fredda e scura e affiancò Emma. 

«Sono grata per quello che mi sta succedendo. Davvero». Enfatizzò le parole con la giusta forza.

«Ma forse questo matrimonio è il mio appiglio ad un attimo di pausa. D’altronde, da quand’è che non mi comporto da ragazza normale?». Con il sorriso spontaneo di Victoria non fu difficile convincersi. Era riuscita a sorridere senza doverci pensare prima.

«A questo punto, se vuoi fare cose da ragazze normali…perché non vieni con me?». Emma si alzò di scatto dal letto di sabbia tendendo una mano alla sorellastra. Forse non erano sorelle di sangue, non avevano niente e nessuno in comune, eppure, mai come in quel momento, i loro sorrisi si somigliavano.

«Portami dove vuoi!», Vicky rise.

La sabbia aveva coperto il suo corto vestitino estivo. Lei ne fu contenta.

------------- 


Nessun cliente del “Chiaro di Luna” avrebbe mai immaginato di poter incontrare una famosa cantante in quel noioso bar di Longwood. Neanche una scommessa che fruttava più drink che soldi li avrebbe convinti. Dal tipo con tre bicchieri di birra vuoti, alla coppia di giovani che era sull’orlo di poter mettere fine alla loro relazione o di far pace per l’ennesima volta. E poi c’era il barista che arrossì quando – per la sorpresa – lasciò cadere un bicchiere di vetro a terra sotto lo sguardo accigliato del suo capo.

«Non ti mai imbarazza che la gente reagisca così a vederti?», Emma la guardò trasognata. Non fraintendermi, è decisamente interessante. Ma non è esattamente la reazione che mi aspettavo».

Victoria seguì diligentemente Emma finché la sua schiena non si poggiò sullo schienale di una scomoda sedia di legno.

«Non c’è niente di strano. La persone perdono quel minimo di interesse nell’attimo in cui ti vedono», alzò le spalle per sminuire l'affermazione.

Ed Emma perse subito l’attenzione per quell’argomento. Nuovamente. Victoria si chiese se fosse una nuova abitudine, oppure quella strana voglia di cambiare continuamente argomento fosse legato a qualcos'altro.
Dai suoi occhi – che in pochi minuti si erano guardati intorno troppo spesso – trapelava la voglia di parlare, di poter aprire bocca. Il fatto che non concludesse nessuna discussione in particolare era un chiaro sintomo che lei sapesse benissimo di cosa voleva parlare. Non era sicura che parlarne con Vicky l’avrebbe aiutata, ma l’avrebbe fatto lo stesso, solo perché la ragazza tendeva a tenere sempre quell’aria di sicurezza anche quando pure la donna più forte avrebbe dovuto crollare.

«Non mi va di parlare di me, sai? E’ tutto così noioso!», cominciò Vicky, accennando un sorriso verso la sorella.

«Andiamo Vic, anche Linsday Lohan ha una vita più tranquilla della tua!». La schernì Emma. La ragazza di fronte a lei alzò le spalle indifferente.

«Avrai pure qualcosa di mortalmente noioso da raccontare a questa povera superstar», il tono di Vicky raggiunse le note più basse imitando quasi la voce burbera di suo padre. Anche quando parlava non riusciva a tenere ferma quella voce.

Bastarono pochi minuti ancora, prima che Emma crollasse.

«Okay, ma ricorda che sei stata tu a chiedermi di torturare le tue regali orecchie da superstar», la rimbeccò con la brutta copia del suo tono della sorella.

Da dove cominciò? Si domandò, Emma. Non era una domanda che si sarebbe posta in altre occasioni, ma quella volta, si trovò in difficoltà.

Nel frattempo la ragazza che le stava di fronte la osservava con attenzione, come se fosse più facile per lei individuare il problema prima di affrontarlo veramente. Perché, dall’espressione di Emma, quello che stava per dire aveva tutta l’aria di essere un problema.

«C’è questa mia amica…», la parole volarono via non appena Vicky aggrottò le sopracciglia.

«La storia dell’amica è ancora usata?», Emma sbuffò angosciata.

Aveva promesso a sé stessa di non parlarne, di non ripeterlo ad alta voce, ma sin da piccola non aveva mai dimostrato una grossa attitudine nell'arte dei segreti. Dopotutto non credeva neanche il suo fosse un segreto; più che altro un pensiero. L'arrivo di Victoria era stato quasi l'unico strano segno che le aveva fatto credere di poter affrontare tutto ciò di cui aveva paura. Perché Emma ne aveva tanta, quello stesso terrore che le impediva di parlarne con le persone che più amava, ma che le permise di cacciare via il segreto come si fa con un insetto fastidioso. Solo con Vicky.
«Credo di essere incinta, Vicky».

Il sorriso che si prendeva in gioco della bionda, sparì dalla labbra di Victoria più in fretta di quanto ci fosse arrivato. Si sentì tremendamente in colpa per aver pensato che Emma non potesse avere seri problemi. E probabilmente sarebbe stato d’aiuto se lei avesse trovato le parole adatte, le domande giuste da porgli. Invece di un semplice:

«Stai scherzando?», la sorpresa non superò la preoccupazione che di poco si differenziava dalla confusione. Nella testa di Victoria Hamilton c’erano più cose di quante ne potesse contenere.

Emma chiuse gli occhi, portò la testa in avanti poggiandola tra le mani che si tenevano salde sul tavolino. Un gemito fu la risposta della giovane ragazza.

«Non ne sono sicura. Ma, come dire…c’è la possibilità», bofonchiò rendendo trasparente le emozioni che la attorniavano come la musica di quel bar.

«Chi sarebbe il padre?», la sicurezza di Vicky lasciò posto all’imbarazzo. Che domande si facevano in questa situazione?

«E’ stata solo una notte». Si giustificò in fretta. Il modo in cui i suoi occhi rotearono dall’alto verso il basso lasciarono intendere che la imbarazzava confessare il nome del ragazzo con cui aveva passato la notte. Vicky, dedusse poi, poteva conoscere il ragazzo dato che Emma aveva le guancie infuocate dalla vergogna. La cosa la incuriosì tanto quanto la spaventò. In un gesto meccanico Victoria sistemò la ciocca che le cadeva fastidiosa davanti agli occhi. Non era servito a niente tagliarli, erano sempre un intralcio. Riportò l’attenzione su Emma.
«Allora? A chi dovresti dirlo nel caso fosse vero?», il cambiamento di parole era sempre un metodo originale per cavare le parole di bocca o confondere una persona. L’aveva imparato da sua madre.

«Michael Carver», la ciocca di capelli ricadde esattamente dov’era prima.

Victoria soffocò un singhiozzo arrivato nel momento sbagliato e si costrinse a smettere di respirare, il che per quanto fosse dannoso, le procurava meno fastidio di quanto le desse il respirare stesso. Probabilmente il suo silenzio e l’espressione sconvolta non rinsavirono l’umore della giovane Emma Cade. Victoria non era poi così brava in tutto.

«Io ho paura», la sua voce tremò.

A Victoria mancò il respiro, mancò la forza di darle conforto. La paura era così disarmante per lei, quante volte a causa della paura lei aveva rovinato delle vite?
E adesso che sulla pelle di sua sorella, i brividi della paura, dell’angoscia, la sovrastavano come l’acqua sotto la doccia, Victoria mise da parte il pericoloso panico, per sconfiggere quello di Emma.

«Va bene, non c’è da avere paura. E’ normale che tu ne abbia. Anch’io avrei paura», posò una mano sulla sua recitando meccanicamente. Capì che quel gesto non funzionò quando Emma scosse la testa e si guardò attorno.
«Tu sei senza paura».

Quell’opinione che avevano di lei, lusinghiera e orgogliosa, lei la detestava. Alzare un muro, da quando è sintomo della mancanza di paura? Era forte, questo lo sapeva anche lei. Era sconcertante il modo in cui metteva davanti fierezza e orgoglio, nascondendo i suoi problemi.

Ma nascondere non vuol dire eliminare. Perché le persone non capivano la differenza?

In realtà, Emma aveva ben altra opinione di lei, ma era spaventata da ciò che pensava si sua sorella. Tre anni prima aveva creduto di odiarla, avrebbe voluto farlo ancora per molto, poi qualcos’altro si era messo in mezzo.
Ammirazione. Emma era attratta dalla personalità di Victoria, dalla sua figura, da ciò che gli altri pensavano di lei. Aveva smesso di odiarla – sempre che l’avesse fatto davvero – quando la sua stima era riuscita a prendere il sopravvento sulla rabbia.

Victoria reclinò la testa all’indietro e cacciò un sospiro.

«Senti, lo so che tu credi che io sia forte, che niente possa abbattermi, ma non è assolutamente vero. Io ho paura di me stessa, di quello che a volte sono capace di fare. Ho paura, anzi il terrore, di scoprire di non essere speciale per nessuno. Si, ho paura…questo per me vuol dire essere senza paura».

«E come fai allora?».

«Di solito canto, ballo, urlo, rido e amo», accennò un sorriso. Le sue sole parole riuscirono a darle sollievo. Quell’accenno di sorriso ricordò ad Emma, la sorellastra che aveva conosciuto tre anni prima, quando ancora acerba e scontrosa, aveva sconvolto le vite che le stavano attorno, anche la sua. Improvvisamente, ma forse fu solo un riflesso arrivato troppo tardi, le sembrò che le parole di Vicky nascondessero qualcosa di più di un semplice consiglio.

L’impulsività di Emma non si fecero attendere.

«Come hai fatto a superare quella storia?». Quando Victoria assunse uno sguardo colpevole, Emma si affrettò a rispondere.

«Guarda che ce lo ricordiamo tutti quello che è successo».

«Già», asserì.

Loro non avevano idea di quello che ricordava lei, però. Memorie più intese dei semplici ricordi, più audaci delle parole sbiadite in un vecchio flashback.

Avrebbe portato sempre con se quella notte di dicembre. La notte in cui lei e Nathan avevano messo fine alla loro storia – non tra insulti e litigi – ma tra dolore e urla silenziose. Quelle lacrime erano così salate, pensò.

 

Un paio di chiavi sbatterono rumorosamente a terra diventando il suono più acuto e di quella stanza fatta di cupo dolore e un filo sul punto di spezzarsi. Quel filo partiva da un estremità della stanza fino all’altra. Ed era terribilmente stanco di essere consumato dalla lontananza.

«Vuoi sapere una cosa? Sono stanco di stare sempre dietro ai tuoi problemi!».

«Io non ho nessun problema, idiota!». La voce di lei era spaventosamente aggressiva per essere riconosciuta, quella di lui si era persa tra la rabbia e il dolore.

Fuori dalla finestra pioveva, come ad accompagnare l’armoniosa ma brutale musica del loro dolore. La pioggia c’era sempre stata nella loro vita. Sin da quando si erano conosciuti, la pioggia non aveva quasi mai tardato ad arrivare. Faceva parte del loro essere l’uno per l’altra. 

«Ehi, Vic, guardami», la voce del ragazzo prese una piega drasticamente tranquilla. Si avvicinò alla ragazza per poter incontrare i suoi occhi.

«Non facciamo altro che litigare, Nate», disse lei in un lamento soffocato. Tutto ciò che lei non aveva paura di dire, lui non riusciva ad accettarlo. Una fastidiosa e inevitabile contraddizione.

«Non importa, non importa», sussurrò sempre più a rilento, finché anche quel mormorio si dissolse tra l’eco della pioggia e l’urlo dei loro pensieri.

 

Faceva ancora troppo male. Victoria però non era capace di capire se il dolore fosse dovuto alla perdita o ai brutti ricordi. Entrambi forse, mescolati in una pozione velenosa che la consumava lentamente, poco a poco.

Probabilmente quel ricordo era solo una sua visione distorta di quello che realmente era successo. Ma ne valeva la pena ricordarlo sempre?

Ebbe bisogno di un cenno con la mano per scacciare i brutti pensieri esattamente come una zanzara fastidiosa. Il viso di Emma, ancora pensieroso, accennò un breve sorriso che probabilmente aveva tutte le intenzioni di rincuorare lei. Ma non era così che doveva andare.  

«Domani andremo a fare una semplice visita all’ospedale. Che ne dici?», disse di getto la ragazza dai capelli bruni.
Emma sussultò.

«No, scordatelo. Lì mi conoscono tutti e…sarebbe come ammetterlo. No…», continuò a scuotere la testa in modo frenetico. La mano salda di Victoria si rafforzò.

«Verrò io con te. Emma, tu non sai quante cose ti devo. Più di quante tu possa immaginare. Adesso che hai bisogno di qualcuno, io devo esserci. E voglio. Le cose sono più facili quando qualcuno è dalla tua parte», mormorò Vicky tendendo a dare al suo tono una cadenza degna di una scena drammatica, e lei era a pochi passi dal sorridere e piangere allo stesso tempo per riprendere il controllo.

«E’ per questo che non ha funzionato tra te e Nathan?», domandò come una bambina curiosa che si pente subito di aver parlato. Emma portò una mano alla bocca chiudendo gli occhi.

«Scusa, non so perché continuo a parlarne. Metto sempre in mezzo questo discorso».

«Che strano, io l’ho completamente cancellato», provò a sghignazzare.

Bugiarda.

«Vic», sussurrò il suo nome ricomponendosi, sintomo del ritorno alla tranquillità. «Ci sto, grazie», annuirono entrambe scambiandosi un sorriso. L’equilibrio sconvolto si ripristinò quando entrambe ritornarono a sentire i rumori esterni e a rivedere le persone intorno a loro, nel locale in cui si erano chiuse per più di un ora.

«Sei sempre tu quella che scrive canzoni agli altri. Eppure, mi chiedo, come mai nessuno abbia mai pensato di scriverne una su di te», disse flebilmente colta da una piccola risatina, Victoria lo capì a malapena.

Immaginò l’arduo compito di colui che avrebbe potuto scrivere una canzone su di lei. Bere tanto caffè, quello sarebbe stato il primo consiglio che avrebbe dato a chiunque si sarebbe addentrato nella mischia dei suoi pensieri, nella bolla delle sue emozioni.

Qualunque uomo o donna, un giorno, avesse mai provato a scrivere una canzone su di lei avrebbe dovuto portare con sé tanto coraggio, ciò che lei temeva di non avere più.

Senza pensare per un secondo di più sfoderò un altro sorriso verso Emma per poi voltarsi verso l’ombra che si era parata di fianco al loro tavolino. Si zittirono entrambe volgendo lo sguardo verso l’alto, confuse e curiose. Il barista dalle guancie rosse che aveva lasciato cadere i bicchieri a terra, qualche minuto prima, tendeva una mano con un pezzo di carta verso Vicky, con un sorriso incerto sulle labbra. Era giovane, forse anche più di lei e nonostante attirasse facilmente l’attenzione, tutto ciò che Victoria fu in grado di apprezzare furono i suoi occhi brillanti, occhi spensierati.

Il ragazzo rimase immobile e sorridente, finché il silenzio non divento impossibile e la sua voce bassa si rivolse a Victoria.

«Io…potrei avere il suo autografo?».

Fine Quarto Capitolo.  

 





*Per chi non lo sapesse, in inglese Mad sta per “matto, folle”.

Ringrazio, come sempre, chiunque legge la storia e la apprezza, chiunque pensa che sia interessante, che la recensisce o che semplicemente la segue.
Come sempre, non dimenticate che potete dirmi qualunque cosa, io vi amerò più di quanto già non faccia inconsciamente. u.u

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Capitolo 5
*** Gli stessi errori ***


 Capitolo 5

 "Gli stessi errori"

 

I giorni sono come una tela bianca, ognuno di noi sa che può dipingerla come vuole. Disegnare delle nuvole nere o far brillare il sole. Colorare un arcobaleno o usare il bianco e il nero. Basta solo svegliarsi e iniziare un nuovo giorno.

Victoria Hamilton aveva passato la sua prima notte a Longwood, dopo tre anni nelle grandi città d’America, e non poteva esserci un risveglio migliore dell’essere dolcemente abbracciata dal suo fratellone maggiore.

«Quelli che hai in mano sono muffin?», bofonchiò la sua voce immersa ancora nel suo sogno vuoto.

Non era mai stata svegliata in quel modo da Shane, neanche quando lui aveva raggiunto la maggiore età, che per Victoria era stato l’anno prima. In ogni caso, avevano sempre trovato un modo per litigare prima ancora che aprissero gli occhi. Ma erano cresciuti, e lei si sarebbe dovuta abituare all’idea che Shane non avesse più voglia di svegliarla con la sua voce stonata o con le cuscinate che riuscivano a stordirla alle sei del mattino come neanche la sveglia poteva fare.

«Una sottospecie. Muffin giganti gentilmente sfornati dalla divina arte di Norah», scherzò. Il sorriso che si sentì trapelare nella voce di Shane, fu il motivo per cui Victoria si costrinse ad aprire gli occhi e guardarlo finalmente.

Era sempre magnificamente affascinante. Non aveva mai trovato suo fratello come l’uomo più bello della terra, ma non aveva mai potuto negare che il suo fascino era indiscutibile. Era incredibilmente attraente. I suoi capelli erano più corti, esattamente come quelli scuri e lisci di Vicky;  gli occhi grandi e costantemente divertiti. Si, quello era decisamente suo fratello, nulla di meno, nulla di più.

«Bentornata sorellina», mormorò roco.

«Shane», Vicky si accorse di non avere la voce abbastanza stabile da sembrare tranquilla. Shane non ci mise molto a capirlo. Aveva dimenticato che quella era la stanza di Emma e che, ovviamente, c’era anche lei che dormiva profondamente o forse li lasciava parlare, fingendo rispettosamente di dormire.

«Ti prego, non piangere», scosse la testa e subito dopo l’accolse tra le sue braccia.

Victoria si lasciò cullare dall’abbraccio del fratello maggiore come ormai da tempo non faceva. Le sue mani sembravano più grandi, tutto di lui sembrava più grande e quell’idea la distruggeva. Tuttavia, non pianse.

«Come stai, futuro sposo?», nell’udire il modo canzonatorio con cui Vicky cercò di chiamarlo, Shane rise e l’aiutò a scendere dal letto per lasciare la stanza dove Emma dormiva.

Come in quella stanza, nel resto della casa regnava il silenzio. Erano solo le sette, ed era estate.

«Sei contenta di essere tornata?», le chiese lui, una volta che furono in cucina. C’erano tracce di una mezzo colazione preparata, perciò non si sorpresero di sentire la voce di Norah dare il buongiorno ad entrambi.

«Certo che sono contenta! Stiamo parlando di mio fratello che si sposa. E non ho bisogno neanche di approvare sua moglie, perché l’ho fatto tanto tempo fa, prima ancora che lui si accorgesse di amarla», c’era una dolcezza inaspettata nella voce di Victoria, lei stessa se ne sorprese.

«So che hai già visto tutti, prima di me».

Lei si limitò ad annuire sbadigliando.

«E’ davvero così strano», una strana malinconia fuoriuscì dalla sua bocca. «Sembra tutto così diverso. Ma sono passati solo tre anni».

Shane appoggiò la testa su una mano. Anche lui era stanco.

«In realtà non è cambiato niente. Sempre lo stesso paese, le stesse persone, gli stessi drammi», accentuò il tono teatrale sull’ultima parola. «Tu sei diversa», continuò lui.

«Tu credi?», Victoria ballava ancora in giro per il suo appartamento imitando passi di danza in modi che neanche il peggior ballerino del mondo avrebbe saputo fare. Victoria arrossiva ancora per un complimento sinceramente accettato, per una brutta figura. Victoria era sempre la stessa.

«Come va lì ad Hollywood?».

«Una meraviglia», asserì lei convinta.

«Bene, perché qui sarai solo mia sorella», la mano di Shane cadde sulla sua come il più naturale dei gesti, provocando un brivido sconosciuta sulla pallida pelle della ragazza.

«Sarò la tua sorellina, la tua testimone. E anche una delle damigelle d’onore di tua moglie», lei scoppiò a ridere appena Shane si voltò con l’espressione buffa che riconobbe come sconcerto.

«Te l’ha già detto?».

 

-------

 

La cosa che Victoria scoprì essere più interessante fu la mancanza della presenza di Meg. Non che le desse fastidio, ma non averla avanti ogni mattina che le gridava dietro quanti impegni avessero, era decisamente un sollievo che nessuno avrebbe potuto capire abbastanza.

In compenso, se non l’aveva davanti agli occhi, il suo telefono squillava da più di mezz’ora con il display che le indicava il nome della sua manager e sembrava intimarle di muoversi a rispondere. Per poco non ignorò la chiamata.

«Cosa vuoi, Meg?».

«Ed io che pensavo che le tue amiche esagerassero», proruppe d’improvviso con voce acuta. «Kate mi aveva detto che gli alberghi qui sono più piccoli del tuo appartamento a Los Angeles, ma credevo stesse scherzando!», continuò a sbraitare. Nonostante tutto, Victoria esalò un respiro di sollievo quando si accorse che non l’aveva chiamata per indirizzarla a chissà quale compito.

«Mi dispiace, Meg. Se vuoi puoi tornare a casa. Non c’è bisogno che tu…».

«Certo. E lasciare la mia protetta sola, senza una guida che la tenga sulla retta via?», domandò retoricamente in tono solenne.

«Non sono una prostituta da tenere sotto controllo», la ragazza sospirò divertita e annoiata.

Naturalmente Meg non aveva poi così tanti argomenti da trattare che non fossero di lavoro, di conseguenza la chiamata non si prolungò di molto.

Victoria era seduta sui due scalini di casa Hamilton, fissava il mare brillare e le onde infrangersi sugli scogli sempre più piccoli ai suoi occhi.

Aspettava che Emma si preparasse e si prendesse tutto il tempo per scendere e seguirla all’ospedale, dove avrebbero partecipato a quell’imbarazzante visita a cui – che per diversi motivi – nessuna delle due voleva presenziare.

L’idea di sua sorella, la stessa che adorava andare alle feste, destare attenzioni per la strada con chissà quale particolare capo d’abbigliamento, che poteva essere incinta di Michael Carver, il fratello maggiore ex-militare, che una volta le aveva consigliato di rincorrere suo fratello Nathan. Beh, il solo pensiero le faceva girare la testa. Possibile che nessuno le si avvicinasse per dirle “ehy, come va? Lo sai, la mia vita è totalmente noiosa”.

«A che ora dobbiamo stare lì?», una voce offuscò i pensieri rendendoli polvere. Emma era in piedi sugli scalini e la guardava cercando di sembrare serena, contraddittoriamente alla sua voce tremula.

«In realtà, dovremmo già essere lì», Vicky si affrettò ad aggiungere. «Sono sicura che ci faranno passare comunque».

L’aria smise di accarezzare i lineamenti delle due ragazze, quando furono finalmente in auto. La strada che si allungava davanti a loro era stretta e lunga, qualche curva animava il percorso, finché – dopo circa un quarto d’ora – si incominciò ad intravedere l’unico ospedale affidabile appena fuori Longwood. Durante il viaggio, nessuna delle due ragazze provò a proferire parola, lasciando che la musica alla radio occupasse un posto in quella macchina che le aiutasse a concentrarsi.

Quando parcheggiarono di fronte all’ingresso principale di quel piccolo ospedale – affollato come solo un attività sempreverde poteva essere – Emma si decise a mostrare il suo nervosismo attaccandosi nervosamente al braccio di Victoria.

«Andrà tutto bene».

Ma tra sé, Victoria Hamilton, si chiese a chi lo stesse dicendo.

Sicuramente un ospedale non è il posto più accogliente del mondo. Infermiere dagli sguardi truci che sembrano essere stressate ogni minuto del loro faticoso lavoro, familiari di pazienti dall’aria preoccupata, dottori con lunghe e levigate rughe sulla fronte che correvano per i corridoi e tra i piani di quell’edificio bianco.

Le sorelle presero l’ascensore e si fermarono al primo piano, dove il cartello all’ingresso diceva si trovasse il Dottor Westfield, l’unico dottore che Emma aveva accettato di vedere.

«E’ perché non lo conosco»,. Spiegò lei. «E’ arrivato da poco a quanto pare. E’ l’unico dottore in grado di mantenere questo …segreto», Emma era sinceramente turbata, più di quanto Victoria credesse che sua sorella potesse essere. Ogni piccolo accenno alla sua possibile gravidanza le scatenavano il panico. In un'altra occasione, Victoria si promise che sarebbe stata felice. Dopotutto è sempre un altro anima nel mondo. Un altro respiro. Un'altra persona che avrebbe spezzato il cuore, e a cui avrebbero spezzato il cuore.

Melodrammatica, si disse.

Entrambe presero posto sull’unica panca disponibile e omogeneamente bianca, come tutto il resto di quel detestabile posto. Un’infermiera, dopo averle squadrate, si affrettò a controllare la situazione dal dottor Westfield.

«E’ molto impegnato, sapete». Spiegò loro la donna. Era poco più bassa di Victoria, formosa e dai corti ricci che le rendevano i lineamenti induriti dall’età più dolci.

«E’ il migliore da queste parti, seppur giovanissimo», continuò senza troppo entusiasmo. Le ragazze annuirono per educazione. Nel giro di qualche minuto la porta alle loro spalle si aprì.

Un giovane ragazzo dalla pelle scura si sistemò gli occhiali sul viso sorridendo all’infermiera accanto alle due ragazze. Poteva avere poco più che venticinque anni. Era incredibilmente alto, dai grandi occhi scuri e le labbra carnose. Indossava il suo camice bianco con uno sfacciato senso di soddisfazione. Dalla sua postura, Vicky si ritrovò a pensare che doveva essere un ragazzo sicuro di sé.

«Greta, chi è la prossima?».

La donna, dopo aver indugiato con lo sguardo sul dottore, si limitò ad indicare le ragazze altrettanto incantate dal fascino dell’uomo. Non era perché fosse bello, ma perché l’aria professionale, la giovane età e il sorriso confortevole erano un cocktail perfetto per chiunque si trovasse lì. Quasi come se certe persone nascessero per fare il proprio lavoro, pensò Victoria.

«Seguitemi pure, ragazze». Lui voltò loro le spalle per indicargli la strada verso la stanza dove Emma sarebbe stata visitata. «Con me c’è il mio assistente. Chi delle due è…», Vicky si affrettò ad indicare Emma che avrebbe volentieri scambiato il suo stato con quello della sorella.

«Come ti chiami?», disse l’uomo ad un passo dalla porta. Emma si schiarì la voce portando automaticamente lo sguardo a terra, poi alzò lo sguardo con quella precisione affascinante che - senza l’ombra di un sorriso – ispiravano autocontrollo.

«Emma Cade», disse. Il dottore annuì e sbarrò la porta della stanza. Entrambe lo seguirono nella silenziosa sala con il lettino e tutti i macchinari a cui Victoria non avrebbe saputo dare un nome. C’era un computer molto diverso da quelli casalinghi che al momento era spento. Dietro al lungo e bianco lettino c’era una finestra che dava sulla strada, il che era poco incantevole. All’estremità della sala c’era un bancone pieno di fogli e penne che coprivano le aperture dei classici cassetti dove – quand’era piccola – sapeva ci fossero le caramelle.

Davvero ci voleva tanto per sapere di una gravidanza?
Non riuscì a rispondersi. La sfortuna, il fato o chiunque si trovasse dietro quel manto di cielo blu oltre la Terra, avevano ripreso di mira la loro preda preferita.
Vicky credette di poter svenire quando vide Nathan Carver – l’unico Nathan che avesse conosciuto, d’altronde - nella sala, anche lui con un camice bianco che si affrettava a sistemare il posto dove il dottore avrebbe visitato Emma. L’assistente. L’aspirante medico. E tutto ciò che Victoria credeva interessante in quella stanza, perse valore. Quando si voltò, Nathan corrugò la fronte e spalancò lentamente gli occhi, non riuscendo ad evitare di mostrare la sorpresa. Per qualche secondo, il Dottore non capì cose stesse succedendo.

«Emma? Vic?».

Quel briciolo di controllo che Emma si era ripromessa di tenersi stretto crollò all’istante lasciandola vuota e persa. La vista si oscurò e si lasciò andare a terra dove qualcuno probabilmente l’avrebbe aiutata a dimenticare.

Ma non passò troppo tempo prima che riuscisse a rinsavire. Il dottore non aveva lasciato che sbattesse la testa sul pavimento freddo, il mancamento della ragazza era dovuto allo stress e alla pressione. E probabilmente anche ad una gravidanza, pensò ad occhi chiusi la sorellastra.

La tensione era visibile sui volti dei presenti. Emma era stesa sul lettino con il dottore accanto che le teneva una benda d’acqua fredda sulla testa. Il suo assistente era rimasto immobile, con lo sguardo puntato – in modo accusatorio – sull’ultima persona che avrebbe voluto trovarsi lì in quel momento.

«Nate, conosci le signorine?». Il tono di confidenza con cui il medico si rivolse a Nathan lasciò intendere che si conoscessero da molto più tempo di quanto lavorassero insieme. Vicky ricordò l’importanza della famiglia di Nathan in quel posto. Emma riaprì gli occhi ma dallo sguardo si capiva quanto fosse ancora frastornata. Era fin troppo per lei.

«Si», la voce del ragazzo era ferma e decisa.

Emma si portò istintivamente una mano sulla fronte e lasciò che una smorfia prendesse ad animarsi sul suo volto.

«Potete spiegarmi che succede?», il dottore per la prima volta si rivolse a Vicky. La ragazza avrebbe davvero voluto evitare di rispondere, di intromettersi. Era una cosa che toccava ad Emma. E sapeva benissimo quanto metà della responsabilità, però, fosse sua.

«Nathan è un amico», esordì una voce che non era sua. Emma si era rivolta al dottore con una voce più tranquilla, forse rassegnata.

«…ed io non avevo detto a nessuno di questa visita», concluse.

«Visita? Dottore…credevo dovessimo visitare una donna incinta», Nathan adottò una voce inusuale per lui. Era professionale e serio come poche volte Vicky era riuscita a vederlo. Era quasi una parte più adulta di lui che lei cominciava a pensare di essersi persa.

«Sono io», Emma alzò una mano timidamente. Quel tono confidenziale e sottile che lei usava con Nathan era quasi un colpo al cuore. Era ciò che Victoria non poteva avere nonostante non fossero più l’uno dell’altra. Emma aveva affrontato molto meglio di lei la separazione dal suo ragazzo. «Credo di essere incinta».

Nathan si portò una mano alla fronte, questa volta mascherando la sua espressione. Il silenzio regnava e in quel frangente Vicky capì di essere rimasta in silenzio troppo a lungo. Una vera codarda.

Il dottore, in evidente imbarazzo, si schiarì la voce. «Devo comunque visitarla signorina. Sono sicuro che il signor Carver sia in grado di mantenere il segreto professionale», disse l’uomo fissando un patto con l’assistente in un tacito accordo tra sguardi. Nathan apparve improvvisamente…scocciato.

«Perché non accompagni la signorina fuori? Mi occupo io della paziente», continuò incurante dell’occhiataccia che Nathan gli aveva servito. Il giovane dottore si voltò verso Emma mascherando l’imbarazzo con un sottile sorriso di conforto. Fu immediatamente chiaro che sia Victoria che Nathan erano di troppo in quel momento.

Il primo passo fu varcare la soglia della stanza in un silenzio imbarazzante, non ci fu problema però, poché Nathan non aveva nessuna intenzione di rimanere zitto.

«Cos’è questa storia della gravidanza? Emma ne è sicura o è una delle sue paranoie che non vanno mai a buon fine?», esclamò Nathan di punto in bianco, prendendo in contropiede la ragazza di qualche passo più avanti a lui.

Il corridoio di quel piano era poco affollato ma non abbastanza silenzioso da creare imbarazzo a chi preferiva tacere che parlare. Stranamente, non sembrava il caso di Nathan che con il suo camice bianco si appoggiò al muro soffocando le parole.

«Perché credi che sia una paranoia? Non è una cosa di cui scherzare», la ragazza gli rispose con una nota di fastidio nella voce e una smorfia sul viso. Nathan fece per rispondere, ma probabilmente quello che stava per dire non avrebbe portato a nulla di buono, perciò cambiò le parole, mentre si accorgeva per la prima volta, di essere riuscito a fermarsi prima di dire qualcosa di avventato.

«E’ incinta?».

«Non lo so», sospirò la ragazza scuotendo la testa. La frustrazione che avvolse la voce di Victoria tranquillizzò i pensieri inquieti e confusi del ragazzo che voleva saperne di più.

«Di chi?».

«Non lo so?», ribadì con un’occhiataccia.

La ragazza chiuse gli occhi perché per un attimo il bianco dell’ospedale fu fin troppo da reggere. Perché il bianco? Il bianco era un colore così bello. Tuttavia quasi nessuno – inclusi gli ospedali – sapeva come gestirlo. Le nuvole erano bianche, l’abito da sposa era bianco. Capì che tenere il silenzio non avrebbe giovato al suo umore, né all’imbarazzante sguardo fisso di Nathan puntato su di lei con insistenza. E non c’era di certo adorazione nel suo sguardo.

«Gli ospedali sono deprimenti, ti ricordano quanto fa schifo la vita», pronunciò Victoria, la schiena completamente poggiata sulla parete, in una posizione scomoda ma tanto anonima da essere a malapena notata, le faceva male.

«Non ti ricordavo così pessimista», finalmente disse Nathan.

Lei si limitò ad aprire gli occhi senza puntare i suoi occhi su di lui e rimase in silenzio aspettando che continuasse, sperando che continuasse, perché lei non avrebbe saputo cos’altro inventare per intrattenere il tempo.

«Qui dentro si muore, ma soprattutto si nasce».

Il tono improvvisamente dolce con cui Nathan disse quelle parole costrinse Vicky a riposare i suoi occhi su di lui, sulla sua espressione cauta ma incredibilmente intensa. Se per un po’ Nathan poteva sembrare diverso, più grande, bastava fissarlo qualche secondo in più per scorgere l’espressione ribelle che tanto c’era stata quando era più giovane. Quando era stato quell’animo inquieto senza strada.

«Vic...», Nathan diede segno di voler continuare a conversare. Non fosse stato per quella piccola luce che infastidì la ragazza, probabilmente avrebbe saputo cosa voleva dire. Ma non era il momento giusto, non lo era mai.

Un uomo con un cappello grigio, una grossa fotocamera professionale tra le mani, piegato in due, furtivo come solo un paparazzo riusciva ad essere, attirò l’attenzione di Victoria e di qualche infermiera di passaggio. La sua figura stonava in quel corridoio.

La prima cosa che istintivamente la ragazza fece fu portare una mano sul viso per coprirsi dal flash insistente. Nathan capì solo dopo che il flash accecò anche lui che quell’uomo era un fotografo. Lo fronteggiò con tutto il corpo, coprendo la figura della tormentata Victoria Hamilton. Era estremamente infastidito che certe persone non avessero rispetto per un luogo come l’ospedale, ma più di ogni altra cosa in quel momento, detestò di essere stato interrotto. Per Nathan era l’arte più difficile, quella del saper parlare, nulla più di un interruzione di una frase, lo infastidiva tanto da aver voglia di picchiare qualcuno. Beh, in realtà c’erano un po’ di cose che gli provocavano quell’esatta reazione.

Ma al contrario di quanto ricordasse la giovane dietro di lui, al contrario di quello che aspettava che facesse, Nathan mantenne la postura salda, i pugni serrati e la testa alta. Nessuno scatto aggressivo.

«Therese!», gridò il ragazzo tenendo lo sguardo fisso sull’uomo che sicuramente non superava la trentina ma ne dimostrava di più dal modo in cui vestiva. La ragazza che Nathan aveva chiamato a gran voce – un’altra tirocinante – apparì in corridoio come solo un infermiera abituata ai ritmi veloce poteva fare.

«Porta via il signore o in alternativa chiama la polizia», il tono autoritario e duro di Nathan era pressoché irriconoscibile alle orecchie di Vicky. L’uomo, imperterrito, scattò ancora una foto e indietreggiò all’ennesimo sguardo fulminante del ragazzo che gli stava di fronte. L’alternativa fu svignarsela tanto velocemente che per un attimo Vicky pensò di esserselo immaginato. Smise di nascondersi e guardò le spalle di Nathan rilassarsi appena tutto tornò come prima.

«Mi dispiace», pronunciò afflitta.

Nathan avanzò verso di lei con passo trascinato sospirando ad occhi chiusi. Era visibilmente scocciato, e dalla sua espressione, Vicky dedusse che il ragazza stesse odiando quella situazione. Se poi ci si metteva pure la stanchezza del lavoro…

«E’ sempre così?». Victoria alzò lo sguardo al cielo e rifletté sulle parole da dire. Aveva sempre amato le attenzioni, certe volte si divertiva fermandosi a fare quattro chiacchiere con i paparazzi perché conosceva le conseguenze del suo lavoro.

Certo, lei aveva chiesto di voler diventare una cantante, il che non comprendeva foto che uscissero su i giornali qualunque cosa facesse. Qualche volta aveva trovato insistente – proprio com’era successo un secondo prima – l’attenzione che certe persone gettavano su di lei. Anche perché stare ventiquattro ore su ventiquattro portava a tante critiche.
Alzò le spalle e smise di pensarci su.

«Succede sempre. Hanno sempre qualcosa da dire. A loro non piacciono i miei jeans o i miei capelli, oppure il modo in cui parlo o cammino…e allora inventano cose assurde. La storia degli alieni sulla terra è decisamente più credibile», terminò con una smorfia sulle labbra che voleva somigliare ad un sorriso ironico. Nathan rimase in silenzio ad ascoltarla fino alla fine, senza assecondare il suo tentativo di sembrare divertente.

«Hai sempre così tanto da lamentarti?». Rispose con una punta di confidenza che Vicky detestò. Nathan la stava prendendo in giro, con un tono che lui non poteva più permettersi. Con un tono che a lui non avrebbe mai permesso comunque. Aveva imparato a detestare i modi diffidenti e offensivi con cui Nathan era solito insultare le persone. Era una di quelle cose che è impossibile cambiare, si cerca di nasconderle, ma alla fine saltano sempre a galla appena le lasci fare.

Ma l’astio diventava fastidio, quando quella persona non aveva più intenzioni benefiche nei tuoi confronti.

«Hai ragione, dopotutto… guarda la tua vita in confronto alla mia. Mi sento molto meglio». Vicky corse sulla difensiva. Tagliò il traguardo con una lama più affilata della semplici forbici che Nathan aveva adoperato. Il suo commento era stato inadeguato, ne era stata cosciente anche nel momento in cui aveva pensato di dirlo: ma che importava? Si era rassegnata all’idea di dover accettare la straniera che era in lei. Una doppia copia di sé stessa che talvolta decideva di prendere l’iniziativa e partire sulla difesa.

Probabilmente in un'altra occasione non si sarebbe mai permessa di essere così meschina. Ma con Nathan sapeva di avere ancora un certo diritto.

Lui non ha il permesso, ma tu si? La voce irritante che tanto assomigliava alla sua, ma che era più maledettamente ragionevole dell’originale, sospirò nella sua testa.

«Victoria». Lei sussultò nel sentire il suo nome pronunciato con tanta crudele malizia. «Non credo che tu possa davvero paragonare le nostre vite, sai?», accennò un sorriso ad un angolo della bocca, un sorriso che non aveva niente a che fare con l’allegria o il conforto che un sorriso avrebbe dovuto donare. Lui la stava ancora attaccando, la stava pungendo lì dove Nathan sapeva di poter colpire. Mille insulti le saltarono alla testa, mentre il suo orgoglio ferito sanguinava lentamente.

La ragazza non abbassò lo sguardo, seppure lo desiderava tanto quanto rintanarsi nell’angolo e restare da sola, ma si costrinse a tenere gli occhi aperti, fissi sul voltò diffidente e inscrutabile di Nathan. Era così freddo, così lontano. Avrebbe tanto voluto tirargli un pugno per distruggere in tanti piccoli frammenti di vetro quella maschera che indossava malamente.

Proprio come una volta.

«Non ti permettere, Nathan», sibilò Victoria a denti stretti, un dito puntato sotto il mento.

La forza con cui sussurrò quelle parole era tanto impavida che per un attimo il ragazzo temette di poter sorridere, questa volta non per scherno, e si detestò per averlo anche solo pensato.

Ma non era colpa sua, continuava a pensare. Nathan Carver era pienamente convinto che i suoi repentini cambiamenti di umore fossero una pura responsabilità di Victoria. Se lei avesse smesso di confondere chiunque le girasse intorno, magari lui sarebbe cresciuto una volta per tutte. Magari avrebbe capito cosa provare.

 

Fine Quinto Capitolo.

 


Sono in ritardo? Beh, il tempo è relativo, giusto? Okay, la smetto.

Oggi ho postato il quinto capitolo di "Come in with the rain" perché sono un tipo che va controcorrente: Venerdì 17 febbraio, un giorno che mi porterà tantissima fortuna. Mi aiutate perciò a sfatare il mito della sfortuna? Lasciatemi le vostre recensioni, quello che vi aspettate, quello che vi piace e non, insomma: scrivetemi tutto ciò che vorreste dire a me o alla mia storia. 

Lì aspetterò con ansia e aggiornerò appena possibile. Alla prossima, BBV.

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Capitolo 6
*** Drunk ***


Capitolo 6

"Drunk"

 

E’ incredibile quanto sia possibile cambiare emozioni in modo così repentino da sconvolgere la lucidità di una persona.

Qualche secondo prima, Victoria era stata ad un passo dal aggredire fisicamente quello che era stato il suo ragazzo, ma provate ad immaginare quando sua sorella uscì finalmente da quella stanza, come dovette sentirsi la ragazza dai capelli scuri.

«Non sono incinta», esordì appena uscita dalla stanza. Emma sembrava rinsavita.

Fortunatamente quella notizia fece da camomilla ai nervi di chi era al corrente della situazione. Emma prese tra le sue braccia la sorellastra come se non fosse stata più alta e più imponente di lei.

«Grazie. Sei la mia buona stella», la mora si lasciò scappare una risatina e si lasciò guardare.

«Nessuno mi aveva mai chiamata così».

Per un attimo entrambe dimenticarono la presenza di Nathan. Con quel camicie bianco continuava ad essere irresistibile tanto quanto irriconoscibile. Era così strano immaginarlo cresciuto, più serio. Sempre che l’abito facesse il monaco, in quel caso.

Rimase in silenzio fissando entrambe e sperando in un piccolo pizzico di fortuna che quel giorno aveva fatto di tutto per andargli contro.

Non che odiasse l’idea di vedere Victoria. Ma avrebbe nettamente preferito evitarla. Perché quando era con lei non riusciva a tenersi sotto controllo, era totalmente libero di essere quel se stesso che non era certo pieno di virtù.

«Nathan»,il ragazzo guardò negli occhi Emma. In lui era rimasto un senso di protezione che lo portava a tenere sempre sotto controllo sia Emma che Madison. Mentre con Marnie stava imparando a lasciare la presa. In fondo, erano cresciuti insieme e si volevano bene da troppo tempo per cercare giustificazioni inutili.

Annuì delicatamente con il capo guadagnandosi un largo sorriso della bionda e alzò le spalle.

«Mi tocca lavorare adesso», si scusò con entrambe, gettando un ultima volta gli occhi alla ragazza mora dagli occhi scuri.

Si voltò senza troppe cerimonie e percorse il corridoio poco sicuro di dove si stesse recando. L’importante era togliersi dalla situazione imbarazzante.

«Forza, andiamo a casa. Abbiamo così tante cose da festeggiare», Emma cominciò a gesticolare smaniosamente. Il che rendeva divertente pensare alla sua faccia qualche ora prima.

«Ah si?», lo stupore arrivò prima che Vicky potesse pensarci. Sua sorella, però, non badò alle sue parole. «Io che non sono incinta, il matrimonio, tu che registri il tuo album qui», vuotò il sacco mentre era troppo occupata a sorridere e a cacciare via le brutte sensazioni, tanto che ci volle qualche secondo prima di accorgersi che la ragazza al suo fianco l’aveva interrotta con uno spintone e trascinata fuori dall’ospedale tanto velocemente che non si ricordò il percorso.

«Che vuol dire il mio album?». La voce di Victoria si affilò come i suoi pensieri.

Dal suo canto, Emma chinò il capo come se quel gesto l’aiutasse a capire meglio la cosa giusta da dire. Cosa aveva sbagliato? Victoria sembrava più confusa e di lei, ma soprattutto i suoi occhi suggerivano un imminente esplosione di rabbia da lì a pochi minuti.

Entrambe le ragazze, ormai in auto, si chiedevano cosa avesse sbagliato l’una con l’altra. Victoria intuì fin troppo presto ciò che intendeva sua sorella.

«Che ho detto di male? Il tuo album…», ripeté.

«Cos’è questa storia?», Vicky si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, segno che il nervosismo si faceva largo in lei.

«Meg aveva detto che tu avresti lavorato al tuo prossimo album a Longwood mentre eri qui per il matrimonio perché… », Emma chiuse la bocca prima di aggiungere qualche dettaglio. Ecco cosa aveva sbagliato. Lei non riusciva mai a stare zitta.

Prima di dare gas all’auto, un grido graffiato echeggiò nella macchina.

 

«Che cosa non ti è chiaro del messaggio “voglio solo rilassarmi”?», gridò poco dopo.

La donna si voltò lentamente e reagì con garbo ai toni duri della ragazza che le urlava contro. Non era il tipo pacato che adorava lo yoga, anzi, la maggiorparte del suo tempo Meg lo passava in una palestra a combattere contro sacchi da pugilato per sciogliere i nervi oppure, nel caso in cui il suo insegnante chiedesse i giorni di malattia proprio quando c’era lei, si sfogava contro Big Rock.

Allo stesso tempo, un bel po’ di anni di carriera le avevano insegnato che mantenere il controllo era davvero utile.

 «Victoria, possiamo parlare di qualsiasi cosa, purché non implichi urla e litigi. Non ne ho proprio voglia». Quell’aspetto zen della sua manager aumentò la voglia che Victoria aveva di mettere le mani intorno al collo di qualcuno.

«Non c’è niente di cui parlare, solo cose da mettere nuovamente in chiaro», disse. Venne immediatamente interrotta con un gesto infastidito.  

«La tua casa discografica ci ha dato un ultimatum. O registri l’album entro 3 settimane o il contratto salta», Meg arrivò dritta al punto.

Ecco la doccia fredda. Un brivido percorse il profilo dei fianchi di Victoria lasciandole la pelle d’oca, come se una folata di vento l’avesse colpita in pieno volto.

«Che stai dicendo?», domandò sgomenta.

«Non farmelo ripetere. Se non vuoi finire nei guai, sarà meglio che ti metti al lavoro», annunciò Meg. Si passò una mano tra i capelli, portandoli indietro e mostrando le rughe d’espressività che la preoccupazione le stava lasciando.

Victoria capì che non era uno scherzo, né una finta sollecitazione. Rischiava davvero di perdere il contratto, e la sua manager rischiava di perdere il lavoro. Si sentì inevitabilmente fuori posto. In quella casa così accogliente, che per un bel po’ era stata anche sua qualche anno prima, nonostante fossero presenti Norah, Madison ed Emma, nonostante Big Rock fosse sul suo divano a mangiare dei muffin al cioccolato, Victoria si sentì disorientata. Era uno di quei momenti in cui aveva bisogno di stare da sola e riflettere sul da farsi.

«Hai bisogno di qualche aiuto con le canzoni?», chiese la piccola donna, con un finto tono di compassione. Non era certo così che poteva aiutarla, non se teneva i suoi grandi occhi fissi su di lei come se stesse osservando una bambina in difficoltà.

«Non sto dicendo che non riesco più a scrivere! Non tirarmi le parole di bocca!», tirò un sospiro rumoroso, che si perse a tratti a causa della sua irritazione.

«Ero venuta qui per mio fratello. Per la mia migliore amica! Non per scrivere questo fottuto album che mi consacrerà la carriera», sputò ironia sulle parole, come se fosse disgustata dalla rabbia che le cresceva dentro e non vedesse l’ora di liberarsene. Forse perché dentro c’era già della rabbia.

«Una volta scrivevi per i tuoi fans. Per quelle ragazze che credevi di aiutare con la tua musica…», il tono di Meg prese una piega accusatoria che andò a finire dritto in petto alla ragazza, che chiuse gli occhi di scatto. Come uno scudo.

«Perché dovete tutti accusarmi? Cosa sto facendo di sbagliato?».

«Senti, se non vuoi farlo va bene. Magari questo non è il tipo di lavoro che fa per te». A quelle parole buttate all’aria Victoria tremò di rabbia. Capì di essere stata fin troppo paziente e di aver racchiuso fin troppo delle parole altrui. Era sempre così nervosa.

Forse il suo posto nel mondo era su isola, da sola. Le persone sembravano renderla un’altra persona. Victoria detestava quando Meg cercava di usare la psicologia inversa con lei. Non faceva altro che farla arrabbiare di più.

«Non è vero e lo sai, Meg! Vuoi davvero che lavori all’album?» Le sbraitò contro, e per quanto ribolliva di rabbia, era un segno di grande autocontrollo.

«Si».

«Lo farò. Scriverò le mie canzoni, la mia musica, farò collaborazioni. Ma niente deve intralciare i miei giorni qui», Vicky indicò col dito la spiaggia di Longwood al di là della finestra, come se servisse a rafforzare le sue parole e racchiudere quel posto.

Non era difficile scrivere, tantomeno divertirsi. Ciò che sembrava davvero difficile per Victoria era trovare una via di mezzo.

E lei non era mai stata brava con le mezze misure.

«Mi fido di te, Vicky», la sincerità nel tono della sua piccola agente calmò il terremoto che si era creato dalla testa in giù.

«Io invece mi chiedo ancora perché non ti licenzio».

«Perché se licenzi lei, licenzi me. E tu non vuoi che io me ne vada». Una voce dall’altra stanza dichiarò chiusa la discussione. Big Rock, quell’omone dalla pelle scura e la corporatura di un gigante, fissava famelico l’ultimo muffin, mentre sorrideva. Vicky annuì tra sé.

«Per nulla al mondo».

Una testa bionda sbucò dalla porta della cucina. Meg era sempre più sconvolta dalla singolarità dei membri di quella famiglia. Victoria non era la più strana, allora.

Madison osservò entrambe le donne di fronte a lei prima di decidere di parlare.

Alzò entrambe le sopracciglia e si morse il labbro inferiore così come aveva imparato da sua sorella.

«Vic, c’è tua madre al telefono», disse porgendole l’oggetto nero. La ragazza lo afferrò e prese le scale per nascondersi da persone annoiate il cui unico divertimento sarebbe stato spiare la sua conversazione, anche solo per ingannare il tempo.

«Mamma?».

«Quando avevi intenzione di dirmi che sei volata da tuo padre?».

Quando si accertò che non fosse davvero arrabbiata, fece uno sbuffo simile ad una risata. «E’ stata una decisione presa al momento. Ti avrei chiamata».

«Certamente. Come chiami ogni sabato, giusto?». Quello era un rimprovero.

«Tu stai per arrivare a Longwood, no? Passeremo molto tempo insieme», la figlia rassicurò la madre, ma nessuna delle due donne sembrò crederci realmente. Nessuna delle due ci credeva da tanto ormai.

«Come sta tuo fratello?», domandò cambiando discorso, sempre con quella nota di disappunto nella voce.

«Come credi che stia? Immaginati Shane prima di una partita di basket. Te lo ricordi, vero? Adesso triplica l’ansia», Victoria si divertì a ricordare quelle volte in cui suo fratello dava di matto prima di una partita di basket. La cosa davvero inquietante era che lui non giocava a basket. Shane guardava le partite dal televisore, non era mai stato un gran sportivo. La risatina nervosa di sua madre spezzò il ricordo.

«E tu come stai?».

«Meglio di quanto mi aspettassi».

Bugiarda, si disse. C’era poco di peggio della sua situazione. Victoria era arrivata fino in camera, teneva stretto il telefono all’orecchio e con gli occhi guardava distratta al di fuori della finestra. Era pieno giorno, il sole sembrava sfidarla con il suo calore e la sua sfacciata luminosità.

«Stia tranquilla signora, la farò divertire io», disse una voce nel telefono. Victoria distolse lo sguardo dal sole e fissò il display, sconcertata.

In realtà, ci vollero più di due minuti affinché Victoria capisse che una terza persona si era introdotta nella discussione.

La voce della sua futura cognata, che – appena arrivata – aveva afferrato il telefono, quello sul tavolino nascosto dietro la porta del salotto, ed aveva aspettato il momento giusto per introdursi nella chiamata con la sua voce squillante. Non aveva misure.

«Ciao, Marnie», la salutò allegramente l’ex signora Hamilton. Se c’era una cosa più patetica del proprio tono di voce, pensò Victoria, erano le chiamate a tre.

«Stasera, pigiama party in un posto spec…», affermò Marnie.

Victoria sbuffò rumorosamente.

«Devo lavorare», le disse.

«Già so tutto. Lascia fare a me, okay?».

«Ragazze, vi servo ancora?», chiese una terza voce, la madre di Victoria azzardò la domanda.

«No», pronunciarono entrambe le ragazze all’unisono.

La donna abbandonò la chiamata dopo un’altra risatina nervosa. Vicky pensò che, anche se aveva tutta l’intenzione di mascherare le proprie emozioni, sua madre doveva essere parecchio nervosa. Il suo primogenito stava per sposarsi, dopotutto.

Non era una cosa che accadeva tutti i giorni, soprattutto se il primogenito in questione era Shane Hamilton.

«Mi sembra davvero ridicolo continuare questa chiamata, perché non scendi giù?».

Ma la ragazza dai lunghi capelli scuri e l’espressione divertita rimase ancora qualche secondo a contemplare il sole, sempre arrogante e esageratamente raggiante, e prese in considerazione l’idea di non scendere affatto.

 

Nel tardo pomeriggio, quando il vento era abbastanza forte da scompigliare i lunghi capelli e abbastanza potente da non lasciare che il sole soffocasse con il suo tocco, cinque ragazze salirono in macchina senza sapere realmente quale fosse la direzione.

Victoria, Marnie, Emma, Madison, Carmen.

Un imbarazzante gruppo di cinque ragazze che in piena estate si lasciava trascinare da una pazza che si sarebbe sposato nel giro di una settimana. La perfetta trama di una commedia da cinema. Perlomeno l’auto era comoda, a parte per il tacco da otto centimetri di sua sorella conficcato tra le dita del suo piede.

«Emma, mi spieghi perché indossi i tacchi?», chiese Victoria con la voce trascinata dal fastidio al piede. Forse non avrebbe dovuto indossare le scarpe aperte. Rachelle lo diceva sempre che in qualunque caso, le scarpe erano fatte per coprire i piedi, non per renderli più carini. D’altronde detto da lei era quasi ridicolo.

«Crede di sembrare più alta», si intromise Madison ricevendo una gomitata nel fianco, alquanto scomodo, viste le loro posizioni.

Carmen e Marnie, dai posti davanti, risero. E no, non c’era molto di cui ridere, soprattutto se il giorno seguente le fosse venuto il torcicollo.

«Vorrei capire se ne vale la pena questo viaggio. Dove stiamo andando?»

La ragazza alla guida si limitò a fissare Victoria tramite lo specchietto e a sorriderle compiaciuta. Qualunque cosa stesse architettando, Victoria sperò non fosse al limite della sua pazzia, dato che aveva fin troppe follie in programma da dover fare.

«Fidati».

La ragazza si arrese, se c’era una cosa di cui non aveva voglia, era insistere. Voltò il capo nell’unica direzione che le era permessa. Dal finestrino dell’auto provò a bloccare le immagini che correvano di sfuggita davanti ai suoi occhi, proprio come faceva da bambina. L’auto andava troppo veloce e gli alberi sembravano solo una massa indistinta di verde, una macchia di pittura sul foglio.

Victoria sorrise nel pensare che per l’ennesima volta si era isolata anche in un auto piena di ragazze che urlavano e ridevano. Era davvero un’arte nel perdersi.

 

«Vic, dove sei?».

Sentì una voce che interruppe il suo silenzioso momento di trance.

«Che vuol dire dove sono? Sono qui», rispose lei accigliata. Il ragazzo che la teneva tra le braccia abbozzò un sorriso sollevando le sopracciglia. La trovava davvero così divertente certe volte.

La ragazza smise di dargli le spalle, controvoglia stacco la sua schiena dal petto e decise di fissarlo qualche secondo prima di lasciarlo parlare ancora.

«Hai quel vizio di sparire per qualche secondo, vai via», nonostante le sue parole avrebbero dovuto essere accusatorie, scocciate, eppure il tono di Nathan non riuscì ad essere altro che divertito e curioso. Victoria era davvero un mistero per lui, qualcuno che neanche con venti anni di conoscenza avrebbe saputo decifrare completamente. L’idea lo incuriosiva, ma non era davvero quello che lo trascinava verso di lei.

«Non è vero», rise lei. «Non vado da nessuna parte».

«Perché ci sono io che ti tengo qui», rise con l’aria da sbruffone.

Lei lo colpì con un finto pugno sul petto, con un po’ troppa forza.

«Tu invece hai il vizio di credere di essere un Dio», lo prese in giro lei.

«Oh, sta zitta», portò una mano sul fianco di lei, e la trascino giù, con sé.

 

La verità è che lei era davvero un caso perso. Questo avrebbe dovuto dire, probabilmente ad alta voce. Ma accantonò l’idea quando si accorse che Marnie aveva rallentato e si era inoltrata in una stradina a senso unico diretta verso quello che sembrava un edificio piuttosto nuovo per trovarsi tra i boschi.

«Perché ci hai portato qui?», fu Carmen a porre la domanda, mentre Emma sbatteva con uno sbuffo la portiera dell’auto.

«Questo posto mi fa paura», esclamò fissando il palazzo.

«Oh, ma che razza di amiche siete?», esclamò Marnie trascinandosi il pesante borsone – che Madison credeva portasse un cadavere – verso l’entrata dell’edificio.

E’ meglio che mi seguiate se non volete che Jack lo Squartatore vi trovi , gridò Marnie portandosi dietro una risata rumorosa. Il resto delle ragazze si lanciò un occhiata, poi si lanciarono verso la porta.

«Un attimo», Madison attirò l’attenzione. «Parliamo di Johnny Depp lo Squartatore?», bastò uno sguardo, un abbozzò di sorriso e scoppiarono a ridere all’unisono, risate diverse e espressioni differenti, eppure sembravano condividere le stesse sensazioni.

L’ultima, sbatté la porta rumorosamente.

 

-------------

 

Shane Hamilton aveva capito ormai da giorni che in quel periodo non avrebbe avuto più la possibilità di passare del tempo con la sua ragazza. Sarebbe dovuto essere scontato, eppure ancora non riusciva a trovare un motivo per cui affrontare un matrimonio dovesse essere così tragico e complicato. Tutta colpa della parte femminile della storia, si diceva. Fatto sta che anche quella sera Marnie lo aveva mollato nell’officina per correre da sua sorella e combinare chissà quale guaio che suo malgrado, avrebbe dovuto riparare.

Lucas, il fratello, sembrava la persona più adatta in quei momenti. Era talmente calmo che gli si poteva chiedere in prestito un po’ della sua tranquillità senza creargli problemi. Lavorava sodo, e come ormai da tempo, in quella che era diventata la sua officina e ascoltava – forse non proprio con attenzione e cura – chiunque lo andasse a trovare anche solo per sfogarsi.

Il più delle volte, in quel periodo, Shane – suo futuro cognato – era lì ogni giorno, mano sul viso in segno di disperazione e occhi ludici per un emozione che non avrebbe mai ammesso.

«Tu non hai visto mia madre», raccontò il ragazzo tra una gomma sgonfia e vernice blu.

«Sembra che debba organizzare il suo di matrimonio», sottolineo il tono assurdo finché non vide spuntare sul viso di Shane un accenno di sorriso.

«Forse potrei scappare», sussurrò.

Lucas gli lanciò uno sguardo divertito, alzò le sopracciglia e gettò un panno sporco di grasso sulla t-shirt rosso sangue di Shane.

«Ehi, stiamo parlando di mia sorella», poi il ragazzo ci pensò su. Okay, tolto il fatto che è mia sorella. Stiamo parlando di Marnie», aspettò che Shane avesse una reazione, ma il ragazzo continuò a fissare il vuoto come se le parole di Lucas non l’avessero colpito.

«Shane! Marnie ti troverebbe in capo al mondo – e anche se ti riportasse a Longwood con la forza – lo farebbe perché ti ama e se fosse stato il contrario non avrebbe mai accettato di sposarti. Questo non è abbastanza?», disse Lucas.

Shane non ebbe il coraggio di rispondere perché quella strana consapevolezza che era cresciuta in lui – nel momento in cui Lucas gli aveva detto quelle parole – lo aveva riempito d’orgoglio. Il ragazzo, ancora in preda all’agitazione ma anche ad una senso di soddisfazione, cercò solo di annuire per tranquillizzare Lucas.

La radio suonava le vecchie hit di qualche cantante country ormai sconosciuto quando la portò dell’officina si spalancò per l’ennesima volta. Appena Lucas capì che era Nathan, ci fu un attimo in cui dubitò di essere capace di sopportare tutta quella pressione. Probabilmente non era propriamente positivo pensare che il suo migliore amico portasse con sé problemi di ogni tipo, ma nella sua vita ricordava pochi momenti in cui Nathan non avesse avuto dubbi e incertezze nella sua vita. Non era un tipo insicuro, la maggiorparte delle sue incertezze erano solo un nascondiglio per prendere una decisione. Lucas, mani sporche di quel grasso grigiastro, pensò di dover cominciare a farsi una vita propria, cambiando lavoro per esempio.

«Buonasera a tutti!», gridò stonato Nathan, reggendosi allo stipite del portone d’ingresso.

Shane lo fissò accigliato. «Ciao Nathan».

«Perché quest’aria afflitta? Perché non facciamo una festa», sbiascicò le parole, trascinandole con sé, mentre avanzava sempre più confuso e stanco. Si, avrebbe voluto proprio festeggiare.

«Ehi amico, tu sei ubriaco».

«Sicuro», dondolò con la testa. Non aveva una bella cera, né sembrava in grado di sostenersi da solo. Il ragazzo stesso sapeva – nella sua incoscienza temporanea – di non essere affatto un bel spettacolo. Le gambe tremarono sempre più violentemente e la testa non riusciva più a reggersi sul collo, tutto di un colpo.

«Si può sapere che diavolo hai passato?». Lucas lo spintonò via, innervosito. Shane temette che lo scudo tranquillizzante di Lucas quella sera non funzionasse.

Afferrò Nathan al volo prima che distruggesse qualsiasi cosa si trovasse alle sue spalle.

«Michael dovrebbe smetterla di trascinarlo in certi locali», disse il ventitreenne. «Perlopiù a quest’ora. Non ha neanche pensato di portarlo a sbronzare la notte». Intervenì Lucas.

Se Nathan avesse avuto la forza di ribattere, probabilmente avrebbe spiegato che Michael aveva metà della colpa, ma se avesse emesso un altro verso, era sicuro che avrebbe vomitato tutto l’alcol che aveva tracannato quel giorno. Non ricordava una sbronza come quella dai tempi dei primi anni del liceo. In realtà, non ricordava neanche perché l’avesse fatto.

«Forza, non fare l’idiota». Lucas lo trattenne per un gomito.

«Se Carmen ti vedesse in questo stato ti ucciderebbe», sibilò il più grande dei ragazzi.

Shane pensò di dover fare quattro chiacchiere con Michael Carver perché non gli andava che Nathan si rovinasse per pura noia di suo fratello.

Il ragazzo, sul punto di vomitare, stretto nella morsa dell’amico, riuscì a malapena a sussurrare. «Hai ragione».

Fine Sesto Capitolo.




Salve lettori! Se mi state leggendo vuol dire che siete appena usciti fuori dal sesto capitolo di CWTR...e sto incrociando le dita sperando che vi sia piaciuto. Sono malata, quindi c'è una minima probabilità che troviate errori non corretti, ma al di là di tutto, aspetto con ansia i vostri commenti - belli, brutti, lunghi, corti, rassicuranti e non - per liberare un grande sorriso. Non smetterò mai di ringraziare chiunque legge la storia, chi la segue e chi la recensisce. E' davvero importante per me.
Alla prossima!


 

 

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Capitolo 7
*** Nella vita reale ***


 

Capitolo 7

‘nella vita reale’

 

 

Sentirsi persi non è semplice da descrivere. Non è qualcosa che puoi mettere in una canzone, o in un libro. Semplicemente non puoi metterlo per iscritto. C’è bisogno di prendere una strada più lunga, talvolta più dolorosa.

Lavorarci sopra, e una volta arrivato al nucleo girare intorno al vuoto e colpirlo fino a renderlo pieno di vita.

Era una teoria un po’ contorta, che neanche il più antico dei filosofi greci sarebbe riuscito ad accettarlo, ma era un modo diverso di vedere qualcosa che le persone, di solito, non vogliono vedere.

Era quello che stava cercando di fare Victoria: incanalare le emozioni e gettarle tutte in quella sfera di vuoto che lei era convinta di possedere.

Il tutto circondata da quattro ragazze che le giravano intorno come i pianet intorno al sole: incantevoli ma sconvolgenti.

Marnie le aveva portate nel suo futuro studio di registrazione, con la complicità di Meg. Victoria era rimasta sorpresa dall’idea: un pigiama party nello studio di registrazione: ‘Lavoro e piacere che vanno insieme’ aveva detto Marnie con un grosso sorriso sulle labbra. L’edificio era vuoto, l’unica stanza utilizzata era quella dove avrebbero dormito, dove lei avrebbe registrato il suo album, aveva raccontato l’amica dopo aver studiato alle sue spalle con Meg.

Fatto sta che era ormai sera, e mentre le altre ragazze ballavano a ritmo di uno strano rumore armonioso Victoria si chiese come avesse fatto a scrivere il suo primo album senza crucciarsi in quel modo, e se lo aveva fatto, com'era riuscita a dimenticarsene?

«Non è con quella faccia e i pensieri depressivi che scriverai una canzone stasera, sai?», scherzò Carmen. Non c’era nessun tipo di imbarazzo da parte di quella piccola ragazza dalla pelle abbronzata, nei suoi confronti. Forse era lei che pensava troppo alle reazioni egli altri senza regolare le proprie.

Si passò una mano tra i capelli arricciati dal caldo. Stavano ricrescendo.

«Sono così noiosa?», chiese con una smorfia. Carmen sorrise scuotendo la testa. Non era sicura però, che la ragazza la stesse contraddicendo. 

«No, è Longwood che è noiosa», alzò le spalle frettolosamente. «Perché non stacchi un po’ e mi aiuti a far smettere Marnie di bere quella robaccia?», domandò tutto d’un fiato con un calmo sorriso sul viso che fece sentire in colpa Victoria. Era sempre lì a deprimersi, lamentarsi. Dovresti sorridere un po’ di più stupida idiota. Hai una vita da invidiare, si disse come se in qualche modo la potesse rincuorare.

«Andiamo a dare una regolata a questo pigiama party».

In quella piccola sala di registrazione, tutto era fuoriposto.

Madison ed Emma mangiavano nutella stesse su una maxi coperta arricciata sul pavimento. Marnie girava per la stanza, cambiando continuamente canzone in base alla più rumorosa che girava in radio e beveva una delle bottiglie di birra che Emma aveva preso dalla cucina di casa Hamilton.

«E’ questa la vostra idea di divertimento e relax?», la voce di Vicky assunse un tono divertito e alto, più della musica rumorosa.

Perlomeno servì ad attirare l’attenzione.

«Non sarà un party esclusivo in un locale hollywoodiano, ma è comunque divertente!», la futura sposa continuò a saltellare ininterrottamente.

Victoria scosse la testa poco convinta. «No, non è divertente».

«Sta per sposarsi, dovrà pur sfogare in qualche modo», la voce eccitata della più piccola delle ragazze interruppe i saltelli vertiginosi di Marnie.

«Oh si, il matrimonio», aggiunse la sorella maggiore mimando i brividi sulle spalle. Victoria scosse la testa pensando che stessero esagerando, ma quando posò gli occhi su quella che sarebbe diventata la sua futura cognata non intravide lo stesso spirito divertito delle sue compagne, al contrario, riuscì a riconoscere quasi una scintilla – non di paura – di ansia.
E’ normale. Si sta per sposare, non va ad un colloquio di lavoro, pensò. In realtà Marnie era più spaventata all’idea che le persone le avevano proiettato della vita coniugale che della cerimonia in sé. Il matrimonio era una giornata che nel bene o nel male sarebbe passata nel giro di una notte; ma la vita da marito e moglie, quella sarebbe durata una vita intera.

«Non deve essere poi così tremendo», provò a dire Carmen incrociando le gambe in una strana posizione di yoga.

«Scherzi, vero? Sarà un disastro! Perché nella vita reale non è mai quello che vuoi. Nei sogni ti svegli con le rose sul letto, con la persona che ami al tuo fianco e sai che andrà sempre così. Poi ti svegli la mattina e ricevi la doccia fredda: realizzi che sei nella vita reale, che non c’è nessuno accanto a te e che le ultime rose che hai ricevuto sono quelle che il fattorino di ha recapitato per sbaglio», pronunciò –con un tono esageratamente teatrale-, la bionda.

«Emma!», la rimproverò Vic con tono allarmato. Mentre le parole scorrevano via dalla sua bocca, imprevedibili, senza che potesse rendersi conto, Emma non aveva preso in considerazione l’idea che dicendo la sua sul matrimonio potesse ferire i sentimenti – o perlomeno accentuare le paure – della futura brillante sposa. Eppure le parole di Emma, dopotutto, non suonavano così stonate alle sue orecchie.

«Scusa Marnie, quello che intendo io non ha niente a che fare con te e Shane», ma il tono di Emma non servì a scongelare lo sguardo di Marnie, ne a convincere del tutto le ragazze del suo pentimento.

Dopo pochi istanti, Marnie si decise a sbuffare rumorosamente: petto in fuori e sorrisetto alle labbra.

«Sono terrorizzata, si. Ma non sarei me stessa se mi lasciassi prendere dal panico». Carmen lanciò un bacio con le mani soffiando con le sue carnose e invidiabili labbra sempre sorridenti.

Vicky capì, con quel piccolo gesto, che erano passati sul serio tre anni. Probabilmente Marnie era riuscita a sopperire il suo fastidio per Emma e ne era diventata una confidente, trovando in Carmen un altro appoggio, quello che lei non era stata capace di essere dai suoi diciotto anni. Nonostante pensasse di non meritarsi del tutto l’affetto e la complicità che Marnie e le altre le dimostravano, si promise di rimediare in un modo o nell'altro con quante più forze sarebbe riuscita a raccogliere pur di non lasciare più che le persone che le volevano bene la dimenticassero.

«Però sarebbe un tema divertente da affrontare».

«Traduci quello che stai dicendo, Maddie».

La ragazzina si sistemò sulle ginocchia lanciando un’occhiataccia ad Emma mentre con gli occhi già volava chissà da che parte, un dito sul mento e l'aria pensosa.

«Victoria», disse di punto in bianco, decisa. «Nei sogni ti svegli con le rose sul letto», citò le parole della sorella rivolgendosi, senza che nessuno ne capisse il motivo, a Victoria. Fu sul punto di chiederle se si sentisse bene, ma ricacciò le parole in bocca sforzandosi di immaginare qualcosa di sensato.
« …realizzi che sei nella vita reale», continuò.

Nella stanza c’era puro silenzio. Nessuna delle ragazze, esclusa Victoria, riuscì a credere sul serio a Madison.

«Per favore, chiamate uno psichiatra, è impossessata», disse una voce.

Victoria non sembrò farci caso perché era troppo concentrata nel recepire il messaggio che la più piccola delle sorelle Cade le stava mandando. Quella ragazzina era stata sorprendente in tutti i modi che Victoria riusciva ad immaginare. Madison ripeté le parole in modo che a Vicky potesse partire quella cosa strana che si accendeva quando stava per scrivere una canzone. Quella cose che cercava ma che non arrivava finché non otteneva ciò di cui la ragazza aveva bisogno: comprendere. Victoria per scrivere una canzone aveva bisogno di capire.

Poi toccò a lei farneticare parole che furono ancora meno comprensibili delle frasi di Madison Cade.

«Io vi adoro, ragazze».

No, non era affatto una cosa facile da comprendere.

 

-------------

 

«Sveglia! Il sole è alto nel cielo! Non importa quanto sonno abbiate. Stare svegli è il nuovo dormire. Allora, su ragazze!». Cantilenò fastidiosamente una voce, quella di Marnie. Non durò poi così tanto, qualcuno pensò a farla fuori con un cuscino pieno di rabbia repressa.

«Il chiudere la bocca è il nuovo “fatti i fatti tuoi”», mormorò una voce nel alla sinistra di Victoria. La ragazza, seppur sveglia, non si sforzò di vedere chi meritasse tutta la sua stima.

Aveva passato le ultime ore della notte – quelle che le sue amiche avevano utilizzato per dormire – in modo da scrivere tutta la canzone che, grazie ad un testo uscito dal nulla, era riuscita a comporre. Era sempre così, quando qualcosa le entrava in testa.

Sentì su di sé più di un paio d’occhi. Quando costrinse le proprie palpebre ad aprirsi, Victoria scorse degli sguardi curiosi puntati su di lei, tutti completamente diversi.

«Hai delle occhiaie terribili», fischiò qualcuno che Vic non riuscì ad associare ad un volto.

«Puoi farci sentire almeno che hai combinato in queste ultime ore?».

Si schiarì la voce con un colpo di tosse, poi con passo svelto aprì la porta trasparente alle sue spalle per gesticolare dall’altro lato della stanza, mimando un ‘aspettate’. Le ragazze si misero in piedi – Emma rimase seduta a gambe incrociate – fissando curiose quella scheggia di Vicky che cercava con uno sguardo incerto di tastare la console sofisticata dall’altra parte della stanza.

Dopotutto avevano dormito in una stanza destinata alla registrazione di un album: tutti quegli strumenti erano d’obbligo, ciò che rendeva le ragazze dubbiose era quanto la loro amica fosse in grado di utilizzare tutti quei controlli.

Non aveva assolutamente idea di quale sarebbe stato il suono giusto di quella canzone, ma dopo tre anni Victoria aveva imparato a maneggiare un po’ di base per le canzoni. Fissò tutti quei tasti e decise con iniziale indecisione, solamente dopo averci pensato un pò, si decise a giocare con la musica, niente che non fosse in grado di fare. Niente microfono o cuffie, era divertente cantare con il solo aiuto della musica.

«Because in real life

You're not what I thought

But in my dreams I'm waking up to roses

I know it's always gonna be this way
Two hearts finally colliding

Then I wake up And realize, This is real life».

Non finì neanche di alzare l’ultima nota che scoppiò a ridere in un misto tra l’isterico e il soddisfatto. Non era poi davvero così impossibile ritornare a scrivere come si deve, forse non era solo fortuna la sua, del talento c’era.

Scoprì che non era stata l’unica scoppiare in un sorriso appagante, fu abbracciata da quattro calorosi sguardi che – tutti a modo loro – riflettevano ammirazione, divertimento, serenità.

Lo stesso pomeriggio un vento caldo decise di invadere la cittadina di Longwood e far rabbrividire Victoria Hamilton al contatto con le sue spalle scoperte. Il sole era al massimo punto d’altezza probabile per una stella, accecante e fin troppo giallo per essere sopportato solamente con un sorriso: nessuna sua smorfia avrebbe compensato la bellezza di quel cerchio così potente.

Per un attimo si chiese perché fin da piccola, le avevano insegnato a disegnare un cerchio circondato da tante piccole linee. Erano i raggi. Ma perché disegnare qualcosa che dopotutto non possiamo vedere?

Shane Hamilton aveva deciso di riempire la testa di Victoria con idee apocalittiche attraverso bombardamenti, una fotografia ad alta definiz…

«Che stai dicendo Shane?», lo interruppe quando delle sue parole insensate ne ebbe abbastanza.

«L’ultima versione di “Call of Apocalypse” è uscita oggi ma ho le prove del vestito. Mi sfogavo con te sulla tecnologia innovativa di questo magnifico videogame», il ragazzo pronunciava le parole con finto senso di teatralità, anche se Victoria non era del tutto sicura che stesse fingendo disperazione.

«E tu dovresti sposarti la prossima settimana?».

«Beh, almeno io mi sposerò», la provocò lui.

Se non si fossero trovati in una posizione compromettente sul divano di casa, esattamente come due maturi fratelli avrebbero dovuto trovarsi, Victoria gli avrebbe tirato una gomitata nel fianco, giusto per zittirlo. Non voleva che Shane si accorgesse dei dubbi che piccole frasi potevano portarle sul viso.

«Anch’io un giorno mi sposerò. Sono ancora giovane…».

«Mi stai dando inconsciamente del vecchio?».

«Ma certo che no! Te lo sto dando con tutta la consapevolezza che ho». Questa volta fu Shane a non trattenersi dal tirarle una leggera e delicata gomitata nel fianco, a Victoria parve più l’inizio di una guerra di solletico.

La famiglia Hamilton/Cade, compresa la madre di Shane e Vicky, con la famiglia della sposa, era ormai impossibile da gestire: il signor Hamilton evitava di intromettersi in tutto ciò che aveva a che fare con la preparazione delle nozze, al contrario della sua amata Norah Cade che si era offerta di aiutare Mary, madre di Marnie, ad occuparsi del ricevimento. Entrambe le due sorelle minori dello sposo e della sposa, Madison Cade e Emily Nichols, amiche fin da piccole, rendevano elettrica l’atmosfera con i loro occhi sognanti e i lunghi sospiri emozionati.

Per quanto suo fratello potesse sembrare sempre lo stesso inutile idiota che doveva essere riconosciuto dalla NASA come l’ultimo elemento di una razza in estinzione, Victoria riconosceva due occhi colmi di agitazione a metri di distanza, soprattutto se si trattava di quello scavezzacollo con cui era cresciuta.

Quando però si voltò a guardare il ragazzo che la teneva fra le braccia, vide un velo di serietà mista a finta tranquillità.

«Hai già parlato con Nathan da quando sei tornata?».

«Perché mi chiedete tutti di lui?», domandò contrariata.

Shane si pentì subito di avergli fatto quella domanda, Victoria si era subito messa sulla difensiva, irrigidendo i muscolo come gli era capitato spesso di vedere.

«Era solo innocente curiosità».

«Giusto».

Victoria scosse la testa conoscendo fino in fondo la verità che celava l’affermazione di Shane come se l’avesse sentita così tante volte da poterne assaporare il sapore sulla lingua – improvvisamente senza saliva – o sentirne perfettamente il suono come se fosse dotata di qualche particolare capacità uditiva.
Più in fondo, dentro di lei, c’era ancora quella convinzione che il troppo riflettere l’avrebbe fatta impazzire finché qualcuno non l’avesse aiutata uscirne.

«Allora?». La ragazza si concesse una lunga sosta per scegliere le parole giuste, o forse, per avere il coraggio di dire quelle vere.

Nulla di ciò che avrebbe detto sarebbe stato abbastanza convincente da far sì che Shane distogliesse l’attenzione: purtroppo Shane stava per sposarsi, doveva pur concentrarsi su qualcosa che non fosse suo.
«Che dovrei dire? Ci avrò parlato si e no per cinque minuti, e ci è mancato poco che non ci prendessimo a morsi», provò a dire con un sorriso ironico. Quanto poteva essere negativo? Victoria sapeva bene com’era stata la sua vita in quei mesi con Nathan. I litigi erano probabilmente la parte più divertente, gli insulti, il solletico fatto per dispetto, tutto rincorreva una specie di filosofia che nessuno avrebbe potuto davvero comprendere.

«E che mi dici della tua musica?».

«Mi stai mettendo in difficoltà con le tue domande, sai?». Rise sommessamente.

«Chiedo perdono, ma è importante per me non perdermi niente di te», quella frase detta con estrema serenità, senza nessuno obbiettivo preciso, impressionò Victoria, spiazzandola.
Era probabilmente la cosa più dolce che suo fratello fosse mai stato capace di dirle.

A quel punto, pensò di dovergli una risposta vera, una che meritasse di essere pronunciata.

«Sai, Shane, io voglio esserci per quella tredicenne che a casa non sa decidere se mangiare o meno. Voglio esserci per la bambina che non capisce perché i suoi genitori litigano, e per la ragazza che non capisce perché il suo cuore continua a spezzarsi senza fare rumore», la sua voce si incrinò proprio come previsto. Forse fu lo sguardo incantato di Shane o forse furono le sue stesse parole. «Vorrei poter dire loro “Se pensi di essere solo, metti la mia musica e ci sarò io per te”», gli occhi cominciarono a bruciare, il naso pizzicò, segno che tutta quell’atmosfera avrebbe finito per sfiancarla, per renderla come un bicchiere di vetro in bilico.

«E’ questa la mia musica, Shane».

E così come la minore dei fratelli Hamilton era stata colpita a fondo dall’intensa capacità di suoi fratello, di rivelargli il suo affetto, per Shane non passò minuto in cui non pensava alla fermezza degli occhi di sua sorella, una forza che oramai era in grado di attribuire solamente a lei.

Quella stessa notte, per esempio, Victoria pensò a qual’era stato il suo primo pensiero quando Shane le aveva chiesto di Nate.

La sua testa non era andata realmente indietro al loro ultimo litigio, i suoi pensieri erano corsi a ben altre cose.

Il giorno dopo, la ragazza dai troppi pensieri si svegliò a causa di un fastidioso borbottio che proveniva dal piano di sotto. Era inusuale che si svegliasse quando ancora c’era qualcuno in quella casa: il lavoro e il matrimonio erano praticamente una manna dal cielo per l’equilibrio spirituale di Vicky, quasi godesse del fatto che tutti fossero elettrici e impegnati mentre lei beneficiava della vacanza. Non aveva dormito poi così bene come le altre notti, le parole di Shane, la sua domanda su Nathan l’avevano perseguitata durante le sue adorate e agoniate ore di sonno tranquillo.

Sbadigliando afferrò il cellulare con un gesto automatico, controllando l’orario. Erano le dieci del mattino ma c’erano troppe voci in quella casa, voci che avevano troppe parole da pronunciare per non essere un emergenza.

«Che diavolo succede?», sussurrò a sé stessa, portando una mano alla fronte e socchiudendo gli occhi.

Quando si decise a scendere, le voci si fecero sempre più limpide finché, proprio mentre scendeva silenziosamente le scale, riconobbe quella di sua madre.

Era arrivata la mamma dello sposo.

«…ti ringrazio, Norah. Non so tu come faccia a sopportare tutte queste persone a casa tua», stava dicendo Marienne, un tempo moglie dell’agente Hamilton.

Bastò un ultimo passò per fare rientrare anche l’assonnata Victoria nel luminoso salone di quella casa. La sua bocca si aprì in un sorriso inevitabile quando vide la figura dell’unica donna che lei fosse in grado di amare nonostante tutto.

«Vicky!».

«Mamma». Entrambe scoppiarono a ridere tendendo le mani pronte per un lungo abbraccio. Le erano mancati gli occhi scuri di sua madre, le braccia che le circondavano la schiena con fermezza. Aveva tante cose da farsi perdonare, prima tra tutte, la poca presenza che aveva avuto nella sua vita. Sua madre non avrebbe mai dovuto pensare che Vicky era capace di cavarsela da sola. Lei aveva sempre bisogno della sua mamma.

«E’ così elettrizzante», disse Norah tra un risolino ed un eccesso di sorriso. «Adesso siamo davvero tutti qui».

Tenne stretta a sé sua madre rivolgendo a Norah un sorriso, per poi notare suo padre seduto sul divano e Madison ed Emma ai due lati del camino, l’una con l’ultimo numero di People, l’altra con le cuffiette dell’I-pod nelle orecchie.

Erano davvero tutti lì, a modo loro, con i loro interessi, ma erano lì.

Eppure un’improvvisa sensazione di vuoto le si fece largo nello stomaco, e Victoria avrebbe voluto non conoscerne il motivo.


 

 Fine Settimo Capitolo.



Sapete che sorpresa potreste farmi?  Farmi sapere, quando leggete questa storia, cosa pensate, quale la prima cosa che vi salta per la mente, chi è il primo personaggio che aspettate di leggere. Perché? Domenica partirò per Edimburgo. Ho sempre sognato di poter toccare il suolo britannico, più di tutti quello scozzese. Mi sembrava giusto aggiornare qualche giorno prima. Spero di essere ispirata da quei bellissimi posti, spero di trovare i vostri commenti quando tornerò.
Detto questo, godetevi il capitolo.

 

 

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Capitolo 8
*** Lei sarà amata ***


 

 

Capitolo 8

‘Lei sarà amata’

 

«Tua madre è una donna bellissima, e sempre molto forte. Un soldato», esclamò Marnie appoggiando il gomito sul muretto.

«Oh, la tua impressione è piuttosto riduttiva. Mia madre è davvero una donna di ferro, è probabilmente l’unica cosa che Shane non ha preso da lei», confermò con ironia Victoria.

«Shane le somiglia molto?», domandò la ragazza con un luccichio più interessato negli occhi. La sua era fame, quella voglia di conoscere cose dell’uomo che avrebbe sposato di lì a qualche giorno. Era di una tenerezza indescrivibile il modo in cui Marnie diventava fragile tra le mani dei suoi pensieri rivolti a Shane. Vicky scambiava troppo spesso quella reazione per debolezza. Ma quanto era sicura che fosse seriamente fragilità, quella che vedeva negli occhi di Marnie Nichols? Sei troppo cinica, avrebbe detto qualcuno, forse la stessa ragazza che le stava affianco.

«Sarebbero identici se non fosse per il fatto che Shane è automaticamente più stupido», rispose con un leggero sorriso, senza però ridere. «Ha preso da lei le cose migliori», continuò fissando la strada di fronte a lei.

«Bene, adesso posso anche accantonare l’idea di lasciarlo all’altare», rise nervosamente.

Victoria non si voltò a guardare Marnie perché non voleva che si sentisse troppo osservata. Sebbene non fosse un esperta di matrimoni o sentimenti pre-vita coniugale, pensò che Marnie avesse davvero preso in considerazione l’idea di scappare o di ritardare le nozze a causa della paura. Era una sensazione che non augurava a nessuno, tanto meno a sé stessa.

E’ per questo che non dovrei sposarmi mai, si disse, ma una voce la contraddisse. Non ti sposerai mai perché nessuno vorrà farlo, commentò acida. Era incredibile quanto facilmente fosse abile nel litigare con sé stessa, scindendo la sua parte razionale e cinica da quella tutta emozioni e brividi di sensazioni. 

«Non vedo l’ora che tutto questo passi in fretta», continuò a parlare Marnie. «Voglio tornare a vivere come prima, solo con Shane al mio fianco», confessò. Per alleggerire il momento che si era improvvisamente teso e agitato, Victoria fece una smorfia tra il divertimento e la nausea.

«Buona fortuna».

Una macchina sfrecciò davanti a loro, Victoria pensò che andasse pure troppo veloce, fermandosi perfettamente si fronte a loro, rivelando dal finestrino una ragazza con gli occhiali da sola e l’aria raggiante. Solo un istante più tardi entrambe le ragazze di accorsero di altre donne sui sedili posteriori dell’auto.

«Muovetevi principesse! Avete dimenticato niente?».

«Ho dimenticato di dirti che non volevo che venissi con noi!», mormorò sotto tono Marnie aprendo lo sportello e prendendo posto di fianco al guidatore.

«Ehi! Sono una delle tue damigelle», sospirò esasperata la bionda.

Victoria si accorse di quanto piccola fosse quella macchina per contenere tutto quell’egocentrismo femminile.

Marnie, Emma, Madison, Carmen. Erano di nuovo tutte lì.

«Mamma?», si ritrovò a chiedere con una guancia attaccata al finestrino e il braccio sinistro nascosto dietro la schiena di Madison.

«La signora Nichols, mia madre e tua madre hanno preso un’altra auto», disse guardandosi un’ultima volta allo specchietto retrovisore.

«Vuoi dire che le hai costrette a prendere la macchina di mamma», la corresse puntigliosamente sua sorella Madison.

«Sei una piaga, Mad».

«Dobbiamo andare a provare il vestito da sposa, e il vestito delle mie damigelle…non litigate almeno per una volta», implorò Marnie con tono già arreso, voltando lo sguardo verso le case e gli edifici che, a causa della velocità, erano macchie colorate al di là di quel pezzo di vetro.
«Come hai detto che sarà il mio abito da damigella?», domandò, con un tono più incerto di quanto avesse voluto, Victoria.

«Ne ho scelti tre…vedremo quello che starà meglio a te e a questa», mormorò sarcasticamente verso la fine, indicando la ragazza alla guida con un accenno di sorriso malizioso.

Emma ignorò volontariamente la provocazione accelerando verso l’unico centro commerciale che si trovasse ad un quarto d’ora da quella cittadina del Wisconsin.

Arrivarono giusto in tempo per correre verso l’ingresso di quell’enorme edificio, per evitare che le prime goccioline di pioggia potessero rovinare.

C’erano tante, troppe persone lì dentro. Per un attimo fu quasi semplice immaginarsi di essere tornata a New York dove le persone vivevano chiuse dentro i centri commerciali, ma strizzando gli occhi si accorse del viso rilassato della gente e capì che sarebbe stato impossibile paragonarlo allo stress dei newyorkesi.

«La bottega è all’ultimo piano, sarà meglio muoverci, abbiamo un appuntamento!».

E come aveva chiarito perfettamente Emma, una signora dai capelli ricci e rossi, un tailleur aderente grigio, ci aspettava alla porta con un sorriso addolcito dal pensiero del denaro che avrebbe guadagnato.

«Emma!», pronunciò la donna dirigendosi a braccia aperte verso la sorella di Vicky. Si tennero strette per qualche secondo per poi rivolgere l’attenzione al resto del gruppo.

«Venite ragazze, oggi saremo solo noi è un altro gruppo nella sala uomini. Le signore sono già in sala», annunciò con tono soave.

Proprio come Victoria immaginava, quell’enorme bottega destinata agli abiti per le nozze, era come il set di una fiaba. Il bianco e i colori pastello dominavano e la musica jazz di sottofondo era tecnicamente un toccasana per gli sposi nervosi. Su un divanetto – rigorosamente bianco perla – ad ovale, c’erano tre donne: Marienne, Norah e Mary, accomunate da uno sguardo sognante e sorrisi smaglianti.

«Bene, ora che siete tutte qui, posso mostrarvi gli abiti che la nostra sposa», la donna si voltò verso Marnie con un sorrisetto compiaciuto, «…ha scelto per sé e per le sue damigelle».

Senza aspettare nessuna risposta, Sonya - così c’era ricamato sulla sua divisa, si affrettò, con passo composto, a scavare in uno stanzino.

Quando tornò, con le mani nascoste da tre buste di plastica ingombranti, Victoria riconobbe le rughe di stanchezza sul viso della commessa. Doveva essere ormai un esperta nel placare gli animi delle giovani spose e nel dare consigli sull’evento tanto sognato, eppure per un attimo penso a quanto potesse essere altrettanto noioso dover sempre sorridere e aiutare gli altri, ripetendo ogni volta la stessa romantica storia.

«Ve li mostro uno ad uno», disse compiaciuta. Afferrò il primo abito, spogliandolo della sua copertura nera fino a smascherarlo del tutto.

Era il vestito più viola che avesse mai visto. Un lungo abito mono spalla di seta viola. Semplice ma consistente, stretto sotto il seno e con un lungo spacco su una gamba. Adatto ad una dea, fu il primo pensiero di Victoria. Ciò che non sorprese affatto fu la reazione sproporzionata dell’altra damigella. 

«E’ perfetto! E’ mio. Assolutamente», sua madre, forse per la prima volta da quanto Victoria ricordasse, le rivolse un occhiataccia facendole segno di tacere. «Non tocca a te scegliere», disse Carmen ridendo ancora per la buffa smorfia sul viso di Emma, e con gli occhi ancora brillanti a causa del vestito.

Victoria notò dalla poltrona bianca su cui era delicatamente appoggiata che anche sua madre sembrava rapita da quell’abito.

«Che ne pensi, tu, Vic?», Marnie si voltò verso di lei in cerca di una risposta, ma si sarebbe accontentata anche di un cenno, un assenso.

«Marnie… è splendido».

«Ma non lo indosserai», aggiunse una voce che dal tono sembrava già sorridere. Marienne fissava sua figlia con lo sguardo di chi la sapeva lunga sui gusti della propria adorata figlia. Victoria si accigliò e scosse la testa. «Mamma», le rimproverò soprattutto l’aver fatto ricadere tutta l’attenzione su di lei.

«Voglio proprio sapere cosa ne pensate di questo», fu la mamma della sposa, già pronta per le lacrime dell’abito da sposa, ad indicare il secondo abito per le damigelle.

Non fu difficile adorarlo. Il vestito tra le mani di Sonya era lungo e velato, una gonna che si chiudeva fin sopra la vita fino a lasciare che la parte superiore catturasse l’intera attenzione. Era un intreccio di tessuto che lasciava uno scollo leggero sul seno per poi strisciare sulle spalle fino a racchiuderle dando un senso di regalità senza troppa vivacità.

in più c’era quel colore così chiaro e delicato, che sembrava sabbia rosa.

«Dovrei provarlo…le tonalità potrebbero contrastare con il colore della…».

«Emma, sta zitta!», le ordinò una voce. Victoria si accorse di essere stata a lei a pronunciare quelle parole solo quando si rese conto di guardare l’abito nonostante gli sguardi posati su di lei, quello di Marnie compreso. Arrossì debolmente nascondendo il viso tra i capelli scuri, mentre afferrava il cellulare sperando che quel gesto riducesse la curiosità.

«Poi, c’è quest’ultimo bianco».

Un aderentissimo tubino che Victoria pensò cadesse perfettamente su delle belle curve. Era di un bianco accecante, solo dei piccoli ricami color oro posti al centro del petto distoglievano l’attenzione da quell’abito così puro. Victoria pensò che avrebbe voluto indossare anche quello.

Avrebbe voluto indossarli tutti.

«Credo proprio che l’unica soluzione sia provarli», suggerì la donna con i vestiti tra le mani. «Sceglietene uno ciascuno, forza», esortò Madison, che fino a quel momento non aveva preso parola.

Emma afferrò con avidità il lungo abito di seta viola, già pronta a sostenere che fosse quello giusto. Marnie mi propose di indossare il secondo abito con una mano svolazzante per l’aria.

Sonya sorrise cordialmente ad entrambe portandoci ancora in un’altra stanza completamente diversa. Quando chiuse la porta Victoria si spaventò per la velocità con cui Emma riuscì a spogliarsi e ad indossare il vestito di seta senza avere neanche un piccolo impiccio. Scosse la testa tra sé, consapevole di non poterci riuscire a sua volta.

Si voltò come se qualcun altro potesse vederla e decise di prendersi con tranquillità tutto il tempo per metabolizzare la prova vestito.
Nel frattempo la seconda damigella aveva già preso il volo, ondeggiando davanti alla sposa e al resto del gruppo sperando in un eccessiva reazione. Teatrale, pensò Vicky con un sorriso.

Decise di sbottonare i jeans che portava quel pomeriggio e sciogliere i capelli per non creare danni con il fermaglio che li teneva stretti per comodità.

Fortunatamente per lei, non si sentivano schiamazzi, urla o anche una sola parola dall’altra stanza.

Fortunata poiché non fu presente quando accadde un terribile equivoco.

«Sonya», pronunciò una ragazza giovane richiamando l’attenzione della commessa.

Madison osservava attentamente la qualità dell’abito mentre Carmen rideva delle buffe posizioni che Emma assumeva e le donne adulte assistevano composte ma commosse a quella deliziosa scena.

Marnie, allontanatasi dalle altre di poco, aveva afferrato il suo abito da sposa per appoggiarlo sul suo corpo e guardarsi allo specchio.

Probabilmente non era poi così eccessivo o principesco come aveva sognato da bambina o come avrebbe semplicemente desiderato una delle sue damigelle, eppure se ne era innamorata fin da subito. Stretto in vita, scendeva giù in un lungo strascico di seta. Niente spalline, niente fiori. Quando la prima volta l’aveva indossato il suo pensiero era andato a Shane: l’avrebbe adorato perché quel vestito non avrebbe distolto l’attenzione dalla sposa che lo indossava.

«Scusami Sonya, ma c’è un problema di là con dei ragazzi. Lo sposo ha un problema con l’abito e sembra piuttosto arrabbiato», l’espressione corrucciata della ragazza smorzò l’attenzione rivolta ad Emma per spostarla su di lei. Sonya batté le mani in un gesto nervoso ma, prima che potesse allontanarsi, dei passi impazienti fecero irruzione nella sala femminile del negozio, rivelando un ragazzo spazientito e infastidito. Tutti, Marnie compresa, si voltarono a guardarlo.

Il futuro sposo era proprio lì. In smoking, quello smoking. E la stava fissando. E guardava ciò che aveva tra le mani. Quell’abito che mai nella storia avrebbe dovuto vedere prima della cerimonia.

«Oh.Mio.Dio», fu un sussurro che Marnie sentì a malapena. «Io, mi dispiace tanto», fu Shane a parlare con una smorfia addolorata.

Il silenzio, tutto d’un tratto, era qualcosa che inevitabilmente catturò tutti in sala.   

«Che ci fai qui?», parlò sua madre.

«Dovevo provarmi l’abito. L’appuntamento era per oggi», pronunciò le parole con tono avvilito.  

«No, questo era il mio giorno. Ma adesso è tutto rovinato», sul punto di piangere, Marnie gettò l’abito sul divano bianco per trascinare con sé le lacrime in una corsa disperata fuori dal negozio. Era stanca di dover controllare sempre tutto, di dover pensare che tutto sarebbe andato bene perché non le sembrava più giusto fingere.

Stava andando tutto storto.

A quello scatto Shane – ancora vestito di tutto punto – rincorse la donna che amava, incurante degli altri. Fu Madison che incitò anche il resto delle ragazze a darsi una mossa per correre dietro alla povera Marnie.

Nel giro di qualche scarso minuto quella sala così bianca e brillante si sfollò e ammutolì. La giovane sposa aveva portato con sé quell’angoscia che le attanagliava lo stomaco rendendo invivibile le sue giornate. La sala del negozio era ormai vuota di parole o emozioni confuse.

«Siete pronte? Sto per uscire», una voce irruppe nella stanza.

Victoria teneva stretta tra le mani le due estremità del lungo abito che vestiva, un po’ per non rovinarlo un po’ perché non sapeva dove mettere le mani, mentre usciva dallo stanzino dove si era cambiata. La sua espressione divertita e sognante svanì quando si ritrovò sola nella stanza.

Le stavano facendo uno scherzo? Si voltò in cerca di qualche volto conosciuto, anche di Sonya, ma il nulla la accolse.

«Va bene che non sono la sposa…ma scappare addirittura», mormorò imbronciata tra sé mentre si fissava allo specchio verticale che – ne era sicura – era fatto apposta per ingrossare i fianchi. Si guardo senza guardarsi veramente, fissando lo specchio e non il suo riflesso.

«Non è colpa tua».

La voce di Nathan la prese dietro le spalle, ma al contrario di quanto avrebbe fatto chiunque altro, Victoria non si scompose – aveva imparato a mascherare le espressioni più spontanee – seppure avrebbe voluto strabuzzare gli occhi e gridargli contro.

«Nathan, perché sei qui?». Il ragazzo non le rispose subito ma aspettò che il suo sorriso scemasse.

«Oggi Shane doveva provare l’abito».

«No, oggi Marnie doveva…Oh», Victoria non riuscì una seconda volta a sembrare indifferente alle sue parole.

«Si sono ritrovati faccia a faccia, Shane indossava il suo abito. Marnie ha avuto una crisi di nervi ed è scappata».

«…e tutti l’hanno rincorsa», terminò con una smorfia Victoria. Il crudele riassunto a cui Nathan aveva sottoposto la ragazza fece si che lei sbuffasse portandosi una mano alla fronte, come se potesse aiutarla a reggere la testa che traboccava di pensieri. Victoria chiuse gli occhi e meccanicamente si appoggiò ad uno di quei divanetti pallidi e preziosi del sofisticato negozio.

«Stai bene?», Victoria avrebbe voluto poter dire di essersi dimenticata della sua presenza, ma la verità era che proprio la sua presenza smetteva di farle ricordare altre cose.

Era tutto troppo strano, troppo diverso.

Gettò uno sguardo fugace all’abito da sposa che Marnie avrebbe dovuto indossare, proprio di fianco a lei.

«Detesto tutto questo», sussurrò.  

«Le passerà», pronunciò il ragazzo con quel suo solito tono che non ammetteva contraddizioni. Nathan era solito sviare il discorso con una semplice frase che non creava equivoci, né richiedeva troppo impegno. Solo che con Victoria era impossibile non creare un equivoco.

Lei era impossibile da gestire per Nathan.

«Dovrebbero pensare entrambi a quello che stanno facendo», disse sovrappensiero, rilassata dalla sensazione di leggerezza che le lasciava l’abito addosso. Se non si fossero trovati in quella situazione così stravagante, Victoria avrebbe girato su sé stessa come faceva da bambina quando la madre le comprava un vestito nuovo. E sicuramente avrebbe scelto quello. Tuttavia, Nathan non le lasciò altro tempo per fantasticare su ciò che indossava: era troppo occupato, con gli occhi socchiusi, a squadrarla da capo a piedi con l’aria di chi sta per dire qualcosa che scatenerà una serie di risposte per niente positive.

Era una delle cose che aveva imparato ad amare di lui. Quello sguardo da bambino dispettoso e irritante a cui non puoi torcere un capello perché sai che dentro di lui c’è l’innocenza dei suoi pensieri, delle sue scelte o delle sue emozioni.

«Se giochi,lo fai per finire il gioco».

Lei alzò di scatto la testa, come se sentisse per la prima volta la sua voce che la stava provocando.

«Questa è una tua prerogativa».

«Che a te riesce benissimo però», borbottò con durezza. Dal suo canto, Nathan non aveva affatto voglia di ricordarle quanto odiasse la sua personalità, eppure non riusciva mai a tenere quella bocca chiusa: diceva a sé stesso che tirare fuori ciò che pensava serviva a pulirle la mente. Ma anche a sporcargli la coscienza.

Dopotutto non è solo colpa sua.  

«Sempre il solito coglione».

Non importava a cosa avesse alluso il bellissimo ragazzo dai capelli biondi di fronte a lei, qualsiasi cose le fosse passata per la mente era motivo di scherno, derisione o peggio, per Victoria.

«Ti va di fare due passi?».

«Mi stai prendendo in giro? Mi hai appena insultata. Ed è come minimo la terza volta che lo fai da quando sono qui…camminare con te? No, scordatelo», tutta l’acidità che era riuscita a trattenere era sbucata fuori nell’unico instante in cui Nathan si era mostrato esattamente come lei lo ricordava. Unico.

Incrociò le braccia e si voltò accennando qualche passo. Effettivamente non aveva idea di cosa fare.

«Fa quello che vuoi. Ma cambiati, non ho intenzione di aspettarti in eterno». Non l’hai mai fatto.

Victoria preferì tacere. Era inutile ribadire che non voleva affatto tornare a piedi con lui – erano lontanissimi da casa! – oltretutto aveva quell’odioso senso di nervosismo che non aveva mai portato a niente di buono da quando conosceva il minore dei fratelli Carver.

Strinse a sé un’ultima volta il tessuto liscio e velato del vestito, come se potesse imprimerlo nella mente per poi ricordarsene al momento giusto, e si avviò verso il camerino con l’aria decisamente confusa.

Tutto era talmente confuso nella sua testa che non avrebbe saputo come scriverlo su un foglio o spiegarlo a voce.

«Vic?».

La ragazza si voltò immediatamente, nonostante non avesse voluto farlo con quella determinazione, e fissò gli occhi di Nathan che emanavano una strana luce.

Incertezza? Fragilità? Non avrebbe saputo dirlo, non più.

Nathan però col tempo aveva imparato a riconoscere almeno un po’ le sue reazioni avventate, nonostante fosse ancora difficile precederle per evitare guai, perciò conosceva perfettamente il motivo per cui aveva lasciato che Victoria si voltasse ancora verso di lui, gli occhi limpidi e l’espressione così irriverente. Voleva guardarla ancora. E la detestò ancora di più per essere cambiata solo in apparenza, nulla potevano i suoi capelli più corti, l’aria più matura. Era rimasta la stessa ambiziosa e forte giovane ragazza che lui aveva conosciuto una volta, per caso.

«Non metterci un’eternità». 

-------------

Se Victoria Hamilton fosse stata capace di disegnare l’interno della propria testa avrebbe usato mille sfumature di colori diversi per rappresentare mille diverse immagini confuse e storpiate. Ormai più niente nella sua testa andava bene, a parte la musica però.

Continuava a ripetersi che era proprio la parte speciale dell’artista – l’essere strano – ma non riusciva più ad auto convincersi da quando i rapporti con gli altri erano finiti per essere solo un dovere psicologico a cui era semplicemente abituata.

Vicky non era più capace di comunicare realmente con un’altra persona. Era proprio quello il suo pensiero fisso.

Proprio come in quel momento, mentre il cielo catturava le prima chiazze di blu scuro e qualche stella faceva capolinea, camminava al fianco di Nathan intrattenendosi in un orribile silenzio.

Aveva già provato quattro volte a chiamare Marnie sul cellulare, quasi stupidamente pensando che lei potesse pensare di risponderle quando aveva ben altri problemi da affrontare. Altrettanto stupidamente aveva spento il cellulare senza pensare di avvisare o chiamare sua madre o chiunque altro per chiedere spiegazione, delucidazione, un passaggio a casa.

«Ti infastidisce così tanto tornare a piedi? Se vuoi ti porto in braccio», disse con voce allegra Nathan. Era incredibile quanto esagerata fosse la sua soglia di divertimento.

«Non hai pensato neanche per un momento che ciò che mi infastidisca sia la tua presenza»

«E questo da quando? E soprattutto, com’è possibile?», domandò voltandosi verso di lei con sguardo allarmato e braccia spalancate per ampliare il suo stupore. Per poco non sorrise del suo essere vagamente buffo.

«Cinque minuti fa mia hai insultata, lo fai sempre», Victoria scandì per bene le parole con cura, si chiese se non sembrasse una tastiera del computer che sperava di poter premere un tasto pur di cancellare mille volte una frase e riscriverla. Avrebbe voluto tanto, soprattutto quando si rese conto che qualsiasi cosa dicesse a Nathan non poteva mai solamente riferirsi al suo recente ritorno.

La memoria aprì un varco sui ricordi, nessuno sforzo fu abbastanza prepotente da evitarlo.

 

«Nate, Nate!», quella voce attraversò il lungo corridoio grigio e deprimente di quell’odiosa scuola che lei vedeva come un muro tra sé e il suo ragazzo. 

Mentre correva, probabilmente più ridicola di quanto non fosse solitamente, sbandò più volte contro le grosse spalle dei ragazzi più ricchi del Wysconsin, che le rivolgevano uno sguardo incuriosito o disgustato – a seconda del grado sociale – finché non riuscì a trovare ciò che cercava.

«Carver», gridò ancora più moderatamente. Il ragazzo di spalle si voltò non più sorpreso del resto della scuola ritrovandosi improvvisamente con un lunghissimo e abbagliante sorriso sulle labbra. Nathan non si curava più di quei ragazzi che con lui avevano in comune la sfortuna di essere considerati dei ricchi disadattati, con Victoria aveva cominciato a pensare di essere diverso, migliore.

«Smettila di urlare Hamilton», rispose scherzoso cingendole i fianchi con una mano. «Non mi importa, stasera si festeggia!», continuò lei come se l’idea di aver attirato tutta l’attenzione su di sé non la scalfisse minimamente.

«…festeggiamo cosa esattamente?».

«Il tuo ultimo giorno qui…e la mia nuova canzone!». Studiava ancora a New York, non era una cantante eppure…ogni volta che si ritrovava con una nuova canzone tra le mani era come una nuova nascita, pensava ogni volta Nathan.

«Per caso parla di un ragazza che si innamora di un attraente giovane?», la stuzzicò lui tra i corridoi e la gente curiosa.

La ragazza annuì.

«Prima media. Ultima classe. Si chiamava Stephen. Ero cotta di lui», e al suono delle sue parole Nathan fece una smorfia trattenendo un sorriso.

«Dobbiamo rivedere il testo».

 

«Maledizione, ma perché devi fare tanto la difficile?», seppure con un certa nota di freddezza che incupì l’umore già nuvolo di Victoria, Nathan non si rivolse direttamente a lei, ma volse lo sguardo diritto davanti a sé: strada deserta, ancora eterni minuti prima che raggiungessero l’officina, che era la cosa più vicina - in quel momento - che ricordasse.

«Non vorrei che la tua diffidenza verso di me fosse dovuta a recenti equivoci», pronunciò le parole come un copione che lui stesse stentava a capire. Victoria ne fu particolarmente stupita e ne rimase sconcertata.

«Stai per chiedermi scusa, Carver?».

«Questo mai». Di nuovo quel tono duro e sulla difensiva.

Aspettò qualche secondo di silenzio.

«Ma se ti piace pensarlo…», lasciò in sospeso la frase, e quella ripresa colpì nuovamente Victoria facendo si che lo guardasse finalmente da quando avevano preso a camminare.

Era tutto così strano, l’avrebbe ripetuto ancora all’infinito.

Scosse velocemente la testa riportando lo sguardo a sinistra dove solo la strada dominava il paesaggio.

«Lascia stare. Smettiamo di parlarne, okay? Finiremo sempre per litigare», non ricevette alcuna risposta fin quando Nathan capì che l’unico modo per spezzare quel fastidioso fascio di nervi, era cambiare argomento.

«Cosa fai stasera?».

«Stasera? Non mi pare di aver impegni».

«Quando le spose non scappano e nessuna famosa cantante ci viene a trovare qui a Longwood, di solito facciamo un salto in un locale la sera». Victoria tentò di non sorridere mentre ascoltava quel divertente modo di Nathan di alleggerire ogni cosa e renderla…diversa. Lo interruppe sperando di dare un tono simile alle sue parole.

«Però una sposa è scappata».

«…e abbiamo una famosa cantante in città, e allora? Sono dettagli. Te l’ho sempre detto che sei troppo puntigliosa».

Quella volta, Victoria preferì tacere appena nel suo stomaco – o forse un po’ più su – si formo un varco che le donò una strana sensazione. “Te l’ho sempre detto”.

Quelle parole confidenziali che senza volerlo riuscivano a farsi strada nei loro discorsi, erano fin troppo spiazzanti per essere ignorate. Victoria e Nathan sapevano di non poter mettere definitivamente una croce su quello che c’era stato, sul passato; allo stesso tempo però sapevano di non poter lasciare che ciò che era prima li avvolgesse fino a impedirgli anche solo di respirare.  

«Acceleriamo il passo che è meglio. I miei piedi non reggono più».

«Arriveremo all’officina. Ci faremo dare l’auto da Lucas e andremo a cercare gli altri», sentenziò senza ammettere repliche.

E così fu, effettivamente. Procedettero con passo decisamente più spedito in quelle strade desolate e noiose, finché il sole non decise di cominciare a calare, finché non intravidero l’accogliente garage che molti preferivano chiamare officina per il gusto di darle un nome più virile.

Appena l’edificio fu abbastanza vicino da poterlo raggiungere correndo, Victoria gettò un ultimo sguardo a Nathan prima di cominciare a muoversi velocemente lungo il marciapiede fino ad arrivare nella piazza che ospitava il lavoro del suo amico Lucas.

Aveva gridato a Nathan che avrebbe chiamato Lucas mentre lui si occupava di cercare l’auto, sperando che l’avrebbe ascoltata.

A pochi passi dall’ingresso del garage Victoria rallentò per non apparire così disperata come sapeva di essere, per non lasciare che Lucas le rivolgesse una delle sue occhiate eloquenti o le chiedesse perché sembrava stesse scappando.

Si raddrizzò per bene cercando una posizione impeccabile e fiera, poi spinse con decisione la porta principale e rivolse un sorriso ai ragazzi della prima stanza. Nessuno di loro conosceva personalmente Victoria, eppure tutti la fissavano come se in qualche modo sapessero qualcosa; qualcosa che probabilmente veniva dai giornali di gossip.

Dopotutto erano passati tre anni, non poteva aspettarsi di ritrovare i vecchi ragazzi dell’officina che l’avevano vista così tante volte in quel posto, l’avevano sopportata quando i suoi litigi con Nathan erano rumorosi – o quando il loro rumore non era dovuto alle discussioni -, ed avevano assistito anche a quel breve periodo in cui Victoria aveva lavorato lì. Sempre per colpa sua, ovviamente.

Fece brevi e gentili cenni con la mano a due ragazzi che la fissavano accigliati, per poi dirigersi verso il corridoio che dirigeva alla stanza dove solitamente Lucas era impegnato a cambiare ruote, aggiustare motori o solo Dio sapeva chissà quali altre impronunciabili termini di lavoro.

A due passi dalla porta, quando uno dei suoi migliori sorrisi era sbucato solo per il suo amico Lucas, Victoria si trattenne quando si accorse del piccolo spiraglio che lasciava intravedere un’ospite nella stanza.

«Mi sento in colpa», stava dicendo la voce.

Anche se non avrebbe dovuto, Victoria si avvicinò con occhio furtivo per spiare la conversazione e cercare di capire con chi stesse parlando Lucas.

Sentì un brusco colpo al petto quando riuscì a vedere l’intera scena. Lucas era appoggiato su una moto e stringeva tra le sue mani quelle di una ragazza. Il suo sguardo trasognato non ammetteva giustificazioni: le piaceva.

La ragazza allontanò una mano solo per portarla sulla guancia del fratello di Marnie, con dolcezza, per poi inclinare il viso fino a far incontrare le labbra di lui in un semplice bacio desiderato.

Il dolore al petto si fece sentire come un improvvisa indesiderata tempesta. Il cuore le pesava tanto che sembrava premere sulle labbra fino a farle scendere in una smorfia.

«Voi», esordì ringhiando. «Come avete potuto?»,

I due – sorpresi – si allontanarono per osservare Victoria che senza riflettere aveva varcato la soglia con un gesto brusco, scoppiando in un misto di rabbia e fastidio.

Probabilmente non ne aveva nessun diritto, ma come poteva trattenersi? Come poteva lasciare che i suoi occhi assistessero al tradimento?
Lucas abbassò gli occhi per evitare lo sguardo accusatorio di Victoria per poi voltarsi verso la donna che le stava accanto. Carmen.

Fine Ottavo Capitolo.

Scusate davvero per il ritardo.

 

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Capitolo 9
*** Troublemaker ***


Capitolo 9

‘Troublemaker’

Poche volte nella vita Victoria ricordava di aver avuto una reazione simile. In nessun’altra occasione era mai successo che diventasse così rossa in viso e che iniziasse a sentirsi male per la rabbia. Sentirsi male per davvero.

Per un momento ebbe paura – e con lei anche Lucas che improvvisamente temette di doverla prendere in braccio – di poter svenire e vomitare l’ultima cosa che ricordava di aver mangiato.

Una volta Shane, ai tempi del liceo, dopo aver litigato con un compagno, per litigare era sottintesa la violenza in una rissa, si mostrò così arrabbiato che la sera stessa gli salì la febbre e dovette stare a letto per due giorni interi.
Victoria sospettò di sfiorare quel limite.

«Tu non puoi capire», sussurrò scoraggiata Carmen. Victoria pensò che se avesse mormorato una parola in più l’avrebbe aggredita a morsi. Non ebbe il tempo di riflettere sulla precisa ragione per cui stava esplodendo in quel modo, dopotutto lei non c’entrava esattamente niente, eppure quella furia cresceva dentro di sé sempre più consapevole della brutalità di quella situazione.

«Non posso capire? Non me ne frega niente», cercò di non urlare per non attirare altre attenzioni. «Ti rendi conto che Nathan è li fuori? E che …Dio, ma cosa vi è saltato in mente? Cosa stavate facendo?», continuò imperterrita.

A quel punto Lucas smise di tenere lo sguardo basso e lanciò un’occhiataccia alla ragazza dallo sguardo accusatorio di fronte a sé. Strinse i pugni e avanzò verso di lei, con l’aria di chi sta per scoppiare un’altra bomba. Victoria perse un po’ del suo colorito rosso nel vedere l’espressione indurita di Lucas. Lui non si arrabbiava mai.

«Cosa diavolo vuoi, eh Vicky?», si fermò un attimo per tirare un lungo respiro. «Perché prima di puntare il dito pensi a quello che stai per dire?», ancora un altro respiro.

«Tu non sai niente», scosse la testa mormorando. «Niente».

Era frustrato e angosciato, questo Victoria glielo concesse. Ma l’immagine di lui avvinghiato alla ragazza del suo migliore amico – del suo vecchio ragazzo – rigirava come una vecchia pellicola nella sua testa.

Perché lo stavano facendo?
Eh tu, Victoria? Tu perché l’hai fatto?

Non ci fu altro tempo per parlare, per insultarsi, per smascherare il dolore. Bisognava tornare ala leggerezza, perché Nathan era lì, ignaro di tutto. Appena entrò nella stanza calò il silenzio.

«Luc, senti…Carmen?», fu sorpreso, ma nulla nella sua voce lascia trasparire sospetto o fastidio. Stranamente da com’era fatto Nathan, non c’era traccia di malizia in lui quando si trattava di Lucas. Era il suo migliore amico, compagno di una vita.

Una fitta di fastidio puntellò nello stomaco di Victoria accrescendo il panico nei suoi occhi.

«Nathan!», esclamò sorpresa, più stabile. Probabilmente lo vide solo Victoria, ormai conoscente della verità, ma pensò che una piccola impronta di tradimento si trovasse lì, proprio dentro i suoi occhi.

Eppure non fu odio nei confronto di Lucas e Carmen ciò che provò guardandoli. Fastidio, avversione, freddezza, disprezzo, quello si, ma nulla che si avvicinasse all’odio.

«Carmen, vi stava giusto cercando», disse istintivamente Lucas.

«Avete trovato Marnie?».

Carmen sospirò sollevata, lasciando pensare a Nathan che si trattasse del sollievo per Marnie e Shane.

«E’ con Shane. Solo un brutto equivoco», rasserenò il suo ragazzo con un caloroso sorriso.

Se Nathan era sospettoso, non le diede a vedere, al contrario accantonò qualunque suo pensiero e si concentrò su gli altri tre presenti nella stanza polverosa.

Un giorno sarebbe diventato un dottore ma non avrebbe mai dimenticato i suoi giorni in quell’officina, quando fare il ragazzo scontroso e difficile sembrava la scelta migliore.

«Perfetto!», sfregò le mani. «Andiamo…».

«Portami a casa». Nathan si voltò verso Victoria che non lo stava guardando ma che aveva rivolto a lui

«Scusa?».

«Io preferisco andare a casa». Lucas e Carmen decisero di muovere qualche passo, di non restare immobili lasciandosi tradire da un gesto o da uno sguardo colpevole. Nathan non se curò, troppo occupato a fissare il profilo indifferente di Victoria.

Non che la passeggiata li avesse fatti diventare improvvisamente amici, ma non ricordava di essere tanto indifferente sotto i suoi occhi. Quella ragazza era un turbinio di stranezze e personalità multiple racchiuse in una testa bruna e uno sguardo affascinante. 

Decise di non poter pensare a decifrare il suo comportamento proprio in quell’istante.

Aveva altre cose che aveva intenzione di fare, cose decisamente più divertenti.

«Forza, accompagniamo lei, poi andiamo a divertirci», esclamò amaro.

Prima di voltarsi e uscire, Victoria guardò Nathan con malinconia.

Victoria malinconica?
No, sicuramente era tutta scena.

 

-------------

 

Al rumore dello sbattere della porta, la sua mente crollò. Come se il silenzio avesse dato un’ultima spinta affinché il cervello la smettesse di far vorticare immagini, ricordi e pensieri. Non ne aveva alcun diritto.

Si gettò sul rigido materasso del letto sfatto, tenendo stretto un cuscino sulla testa, come se fosse possibile smettere. Smettere di pensarci, o di evitare quel fastidioso bussare alla porta. Colpi alla sua porta.

Lasciò che i pugni di qualcuno continuassero a battere sul legno finché chiunque fosse decise di non essere più tanto discreto ed entrò con un secco gesto alla maniglia della porta.

E in tutto questo,

«Non vengo a tirarti fuori da quel cuscino da quando avevi quattordici anni, sai?». La voce di sua madre pronunciò le parole con un inaspettata nota di nostalgia.

Victoria non scostò la testa dal comodo cuscino, ma si sforzò di mugugnare qualcosa di intraducibile. L’ex signora Hamilton si accostò all’estremità del letto, esattamente come Victoria si aspettava che facesse.

«Mi dispiace di averti piantato in asso. E’ stato tutto improvviso, ma adesso va tutto bene. Shane sta… ».

«Mamma?». La voce allarmata di Victoria escluse immediatamente qualsiasi volontà di nascondersi. Aveva già gettato via il cuscino. «Piantata in asso?», le sue sopracciglia si inarcarono lasciandole sul viso un espressione buffa. «Stai leggendo di nuovo quel manuale sul “gergo moderno delle nuove mamme”?». La donna sorrise colpevole ma replicò con finta freddezza. Una tecnica che sua figlia conosceva bene.

«Ormai raccolgo i metodi più disperati pur di riavvicinarmi a voi», ancora quel tono.

La ragazza respinse con un gesto brusco i capelli che cercavano il loro spazio sul suo viso, e sbuffò.

«Ti prego, mamma. Non sarai venuta qui per rivendicare i vecchi tempi? Hai un figlio di ventitre anni che si sta per sposare e una figlia di ventuno, che fortunatamente è indipendente. Che vuoi di più?», probabilmente in altre circostanze sarebbe stata più cauta con le parole e avrebbe usato un tono più delicato di quello rauco con cui fronteggiò la malinconia di sua madre.

«Vic, vorrei che dimostrassi di essere mia figlia, sai», la rimproverò.

«Perché, che ho fatto adesso? Non ti chiamo abbastanza?».

La donna scosse la testa e si voltò per fissare un punto qualunque della stanza. «Mi manchi».

Victoria tacque.

«Vederti in tv, o ascoltarti alla radio non mi basta più. Ti ho mandata da tuo padre tre anni fa ed è come se da allora non fossi ancora tornata», confessò con un filo di rossore sulle guancie. Improvvisamente, come se la soluzione fosse ovvia, tutto ciò che c’era stato un attimo prima per Victoria, si offuscò per lasciare spazio ad una amara rivelazione.
Anche a lei mancava sua madre.

Quando tre anni prima era andata via da Longwood, per accettare i rischi che correva con Meg, non si era fermata neanche un attimo a pensare di tornare a New York, frequentare normalmente l’accademia, vivere con lei e Garrett. Victoria era tornata solo per pochi mesi, per organizzare le miriadi di nuove possibilità che le venivano offerte: tutto pur di rivendicare qualcosa di nuovo.
Tutto riconduceva a Nathan, ovviamente.

Tornò in quella stanza, a dicembre.

«Non avrei dovuto passare così tanto tempo a Los Angeles».

«No, dovevi. Solo che potevi tornare - ogni tanto - senza aver paura. Giusto perché io mi ricordassi quanto perfetta sei per me», sussurrò dolcemente. Le posò una mano sui capelli per carezzarli come faceva da bambina, quando il suo più grande incubo era il test di matematica.

«Non voglio che il lavoro o la solitudine ti risucchino. Prendi adesso, ti stavi nascondendo sotto un cuscino!», la buttò sul ridere.

In qualunque circostanza, sua madre non sarebbe durata più di due minuti chiusa in un atmosfera di sentimentalismo e intensità. Shane doveva aver pur preso da qualcuno.

«Vuoi dirmi che succede?», la invitò qualche minuto dopo. Fu inutile, non le tirò nessuna informazione fondamentale da bocca. 

«Problemi», indicò con un alzata di spalle. Victoria non era ancora sicura di cosa stessero parlando, in verità, fatto sta che preferì tenere per sé quel senso di appartenenza ad una faccenda che non era sua.

«Marienne!», gridò una voce dal piano inferiore della casa, interrompendo le due donne. Ma Marienne non si perse d’animo, qualunque cosa fosse, poteva aspettare che lei terminasse con sua figlia.

«Marienne!». O forse no.

Victoria rise senza alcun cenno di vera ilarità. «Và, prima che Norah perda la voce!».

In pochi secondi la donna lasciò un bacio sulla fronte per avvicinarsi alla porta e andare via, ma non prima di essersi voltata ancora una volta. 

«Qualunque cosa sia, risolvila a modo tuo», e chiuse la porta dietro di sé con un colpo secco ed interminabile.

Victoria rimase distesa, sfatta, pensierosa.

Qual’era il modo suo? Ogni volta che aveva occasione di parlare con sua madre si ritrovava con più dubbi di prima: non perché non fosse una buona consigliera, era lei che non riusciva mai a cogliere il significato delle sue parole.

Il consigliò dettato dolcemente da Marienne aveva uno scopo ben preciso, e solamente due vie d’uscita. Victoria non seppe mai se prendere la sua, fu il modo giusto.

Esattamente un’ora e mezza dopo, afferrò quella solitaria lattina di birra nel frigo semi-vuoto, e senza pensarci, tra un sorso e l’altro, accese il moto della sua auto, parcheggiata a pochi passi da casa, per prendere un’unica diretta via. Sempre che ricordasse dove andare.

Forse aveva afferrato più di una birra.

Fortunatamente, Emma rispose immediatamente al telefono quando le chiese indicazioni per il locale. Divenne improvvisamente tutto così divertente e… facile.

L’adrenalina le brulicava dentro, una sensazione fastidiosa quanto eccitante. Non era ubriaca e non era abbastanza incosciente da bare abbastanza da sbronzarsi, ma conosceva l’effetto che un po’ di alcol poteva farle: scatenava quella parte dormiente della ribelle ragazzina che era stata una volta. Cercò di sopprimere un colpo di tosse quando chiuse la chiamata con Emma, ricordò immediatamente il posto in cui era già stata una volta – il cameriere che le chiedeva l’autografo – e provò a distrarre la mente con quel poco che le offriva la vista buia della strada. Tutto pur di ricordare, lei era più forte di una stupida valigia piena di ricordi. Forte.

 

Il colpo contro il legno fresco del tavolo scuro, a contatto con la sua schiena nuda, le provocò un lungo brivido d’eccitazione. Avrebbe imprecato e probabilmente incolpato il ragazzo del dolore alla testa se non fosse stata troppo occupata a sentirlo su di sé. Nathan aveva decisamente scelto il posto sbagliato per provare a convincerla per portarla a cena dai suoi genitori.

Con smania, il ragazzo – a cavalcioni su di lei – fece scorrere la leggera maglietta di cotone verso l’alto per poter lasciare sul suo ventre una scia di baci seducenti, irresistibili, incantatori.

Sentirsi debole e impotente non era mai stata una sensazione così dolce per Victoria. Fissava ogni movimento di Nathan con cura, con analisi; il modo in cui trascinava le sue mani sul suo corpo, le labbra che bruciavano come se stesse lasciando dei marchi su di lei.

«Smettila, Nathan», nemmeno un briciolo di autorità nella sua voce riuscì a ribellarsi al suo tocco. Sentì la bocca di Nathan – ormai sul suo collo – curvarsi in un sorriso. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi, proprio in quel momento.

«Cerca di essere più convinc-», non terminò la frase ma sorrise compiaciuto del gemito che strappo dalle labbra della ragazza che stava torturando. Il corpo di Victoria, la sua carne, erano come un labirinto in cui perdersi. Avrebbe voluto uscirne – beh, forse no – ma lei non permetteva a nessuno di scappare via.

Quando ormai Nathan capì di doversi disfare dei suoi di vestiti, lasciò qualche secondo di respiro alla bellissima ragazza sotto di lui, che vanamente cercava di ribellarsi al suo tocco.

«Vuoi lasciarmi stare, per favore?», un briciolo di severità raggiunse la voce di Victoria, senza smuovere di un millimetro il peso di Nathan.
In pochi secondi Victoria si ritrovò a sorridere per la velocità con cui si era svestito, sicuramente più veloce di quanto ci mettesse a prepararsi la mattina quando lei aveva bisogno urgentemente del bagno.  

Victoria lasciò che lui prendesse a torturarla ancora una volta, e fu a quel punto che le venne la brillante idea di combattere con l’unico modo a lei chiaro: le parole. «Nat?».

Il ragazzo rispose con un flebile verso mentre – nuovamente brusco e deciso – la spogliava completamente. Sarebbe finita quella tortura?

«Conosci la storia di Eros, il demone dell’amore?», pronunciò velocemente, sperando di non rovinare tutto continuando a gemere sotto il suo tocco, nonostante pareva impossibile: era come kryptonite.

«No, raccontamela tu», quell’invito malizioso, le sue mani ovunque. Forse stava per svenire.

«Nel Simposio di Platone, Eros è il figlio di Poros, divinità dell’abbondanza, della ricchezza e dell’ingegno. Si dice che ad una festa lui – troppo ubriaco per notarlo – si ritrovò a giacere con Penìa, dea della povertà, da sempre innamorata di lui. Lei, in realtà sperava di rimanere incinta…», sopraggiunse un sospiro che le mozzò il fiato. «Alla fine ci riuscì. Dalla loro unione nacque Eros: povero di sapere ma ricco di curiosità di quel sapere», finì la sua storia in preda alla smaniosa voglia di dimostrare a Nathan quanto la stessa facendo soffrire. Non poteva ridurla così ogni volta solo per il piacere di vederla assolutamente sua. .

«Che stronza! Pure nella mitologia c’erano donne che facevano di tutto per…», a metà frase cambiò tono di voce rivolgendo finalmente lo sguardo verso di lei, fermando le mani sul suo corpo.

Quegli occhi. I suoi.

«Un attimo. Sono io Penìa. Mi stai dicendo che ti sto sfruttando?», l’ironia nella sua voce non presagiva nulla di buono per la giovane Hamilton. Lei spalancò gli occhi quando lui arrivò con le mani fino in fondo alle sue gambe. Scosse la testa e ricondusse le labbra sulla bocca di Victoria, prima di ad arrivare alla sua parte più intima con un sorriso di vittoria.

«’Oh notti buie vanamente attese!’», recitò a bassa voce, nel suo orecchio, mentre si univa completamente a lei. Un unico apice di piacere, una scossa, brividi e sollievo. A qualunque tortura l’avesse sottoposta all’inizio, Nathan la stava portando al culmine in quel momento. Lentamente, era ancora una volta sua.

«Smettila di citare autori che leggi – per sbaglio – sui miei libri».

 

Ogni pensiero fu scacciato dall’insegna del locale in lontananza. Il resto fu un immagine sfocata del parcheggi e dell’entrata affollata di persone sorridenti e rilassate. Chissà cosa avrebbe fatto una volta lì. Preferì non chiederselo direttamente per evitare di ripensarci e scappare via con un veloce colpo di marcia.

Rallentò il passo quando capì che andando troppo veloce avrebbe potuto sbandare. Provò a parlare a sé stessa e capì di non essere ancora sul punto di ritenersi ubriaca, ma sicuramente non era affatto lucida.

Stupida si, lucida no.

Immaginò di dover cercare qualche volto conosciuto, ma non fu quello il primo pensiero che investì Victoria una volta entrata nel locale. Il tiepido calore e le luci soffuse del locale le fecero accennare un sorriso dovuto a quella scarica di felicità che l’alcol le provocava.

«Victoria!», la voce di Emma la colpì alle spalle, sorpresa. Probabilmente il fatto che l’avesse chiamata non l’aveva insospettita più di tanto. Raggiunse immediatamente il tavolo da ci proveniva quella voce con un sorriso interminabile e le mani già allungate verso chi conosceva, pronte a gesticolare senza senso. A quel tavolo, ovviamente, Emma non era sola. Al suo fianco c’era un uomo che all’inizio non riconobbe, seguito da Lucas ed un bicchiere di chissà che cosa, Carmen di fianco ad Emma appariva

Nathan si era cambiato. Probabilmente – disfattosi della sua presenza quel pomeriggio – aveva deciso di fare un salto a casa per rendersi più attraente di quanto i suoi modi e i suoi occhi non fossero già. Tanto al suo fianco c’erano il suo migliore amico e la sua ragazza, pensò Victoria.

Indossava una camicia – i primi bottoni rigorosamente tralasciati a loro stessi – di un chiaro celeste. I suoi capelli erano quasi più dritti della spazzola bionda disordinata che quasi sempre era solito indossare.

«Buonasera», ascoltò la sua voce brillare di vivacità.

Smettila di pensare.

«Cos’è quell’aria sfatta?», domandò leggiadra. Agli occhi di Victoria, in quel momento, tutti apparivano come nascosti da un velo che intristiva le loro presenze. Perché non potevano mostrarsi un po’ più sorridenti?

Si avvicinò definitivamente appoggiando una mano sulla spalla nuda della sua sorellastra, per poi rivolgere una cenno e un sorriso generale ai presenti. Si focalizzò sull’uomo seduto sulla sedia girevole del locale che la fissava quasi a disagio.

Rifletté attentamente provando a mettere da parte la voglia che aveva di ridere e si focalizzò sul suo viso.

Labbra carnose, sorriso accennato e confortevole. Bello. Dottore.

«Dottore?».

Il giovane sorrise. «E’ un piacere rivederla signorina Hamilton». La ragazza lo fissò con occhi grandi e un astratto e trasparente punto interrogativo sul viso. L’uomo dovette pensare che era piuttosto buffa se la fissava con quel cenno di sorriso che sembrava trattenesse una lunga risata. Victoria fece per aprire la bocca e dire chissà quale cosa quando venne interotta prontamente.

«Esce con noi», si affrettò a spiegare Emma con l’impressione chi veniva beccato a fare qualcosa che non le era permesso. Infatti, arrossì all’improvviso e Victoria non mancò di farglielo notare, nella sua ingenua condizione da allegra ragazza dalle due birre.

«Perché ti imbarazzi tanto?», ma quando non ricevette alcuna risposta alzò gli occhi al cielo e girò intorno agli altri convitati. Sembrava quasi divertente vederli su di giri, imbarazzati, confusi, attenti a lei.

Sempre amante delle attenzioni. Victoria si poggiò sull’unica sedia disponibile al fianco di Lucas con gesti rumorosi e poco attenti, nonostante tutto assomigliava davvero ad una ragazza ubriaca.

Al rumore dovuto alla presenza di Victoria e all’aria tenue del locale si contrapponeva il silenzio del resto dei ragazzi a tavola, tutti occupati, incantati, attenti ad aspettarsi qualcosa da lei.

«Allora? Di che stavate parlando?», domandò Victoria.

In un primo tempo – di un minuto circa – il tavolo rimase silenzioso e impassibile alla domanda di Victoria; fu il colpo di tosse del dottore e il suo successivo modo di rompere il ghiaccio che rilassò tutti.

«Mi stavano raccontando di Marnie e Shane», affermò con delicatezza e un tono di voce tranquillo, privo di quella frenesia che a lei le stava divorando le emozioni.

Lei annuì.

Quell’uomo le aveva fatto subito una buona impressione quando la prima volta le aveva rivolto uno sguardo tiepido e professionale. Assomigliava a quel tipo di persona che è predisposta ad infondere calma, una persona dai lineamenti sottili, lo sguardo brillante. Diciamo che era davvero un uomo la cui presenza non poteva essere disprezzata; questo lo sapeva sicuramente Emma, che indossava un vestito meno appariscente del solito. La ragazza, per quello che Victoria era riuscita a percepire tra l’eccitazione e la confusione, era sicuramente catturata dal fascino di quel nuovo amico.

Da quel poco che ricordava, era un superiore di Nathan, non era lì da molto, ma Victoria si chiese quanto conoscesse le persone che lo circondavano in quel momento, si chiese se anche lui, adesso, era entrato a far parte di quel circolo vizioso che li concatenava tutti. Senza provare gusto nel trattenersi, rise.

«Da quant’è che è qui dottore?».

«Simon, per favore». Simon Westfield, ricordò.

Victoria rise inutilmente ed imperterrita, infastidendo o turbando, più di quanto potesse normalmente turbare una risata, chi le stava accanto. Sentì Lucas irrigidirsi senza neanche emettere un suono, Nathan la osservava come per indagare e cercare il vero motivo per cui era lì. Un’analisi.

L’altra teneva lo sguardo puntato su Emma che ancora cercava di eliminare il rossore che fioriva sulle sue guancie.

Tanti piccoli spilli perforavano le mani di Victoria – quella sensazione di solletico – mentre con la coda dell’occhio guardava il profilo di Carmen, rilassata.
Quando era stata una di loro – quando ancora poteva vantarsi di vivere in quel piccolo sperduto paese del Wisconsin che affacciava sul mare – non aveva mai parlato con Carmen per più di qualche minuto. Sapeva che aveva un rapporto difficile con la sua famiglia, non nei dettagli, e ricordava il rapporto di complicità con Emma dovuto al tempo passato insieme sin da piccole. Non ricordava nulla di più di lei, nessun dettaglio che la rendesse speciale agli occhi di Nathan. Era in grado di tenere testa a quel ragazzo impulsivo e cocciuto? Aveva mai lavorato con lui? Era mai stata ad ascoltarlo per ore mentre cercava di prendere la decisione giusta?

Con un mano, Victoria strizzò gli occhi per evitare che le emozioni, amplificate a causa dell’alcol, la opprimessero. C’era bisogno di sopprimere quel senso di nostalgia con un po’ di esuberanza.

«Simon, da quant’è che sei a Longwood?».

«Tecnicamente, l’ospedale non si trova a Longwood», la corresse. «Comunque, sono quasi tre anni».

Proprio quando lei era andata via. Aveva visto Nathan soffrire? Conosceva la sua storia? E lui ne aveva mai parlato con qualcuno?Quante domande, quante storie, Vic. Sii meno patetica, pensò.

«E li conosce bene?», indicò Lucas per fare un esempio.

«Che domande fai?», interruppe Emma indispettita.

«Ho letto di te, sai?», Simon cambiò discorso, con una punta di curiosità e malizia nella voce. «Su qualche rivista, mi sembra. Non credevo che…».

«Che avessi una famiglia qui? Degli amici normalissimi? Lo so, è piuttosto insolito anche per me», fece una smorfia quando sentì la testa vorticare. E non aveva bevuto tanto da considerarsi ubriaca, figuriamoci! Portò una mano alla testa, quasi come se volesse tenerla ferma in equilibrio.

Alzò le spalle e inconsciamente si ritrovò di nuovo in piedi, lontana da quella sedia che improvvisamente era diventata una gabbia, e parlò con voce alterata.

«E non la sai la parte divertente? Non posso crederci che non te l’abbiano raccontata!», batté le mani un gesto nervoso, irritante.

«Tranquillo, ti farò io un resoconto», rilasciò un respiro deciso e rumoroso. «…il tuo amico e collega Nathan Carver è stato il ragazzo storico della mia sorellastra Emma», punto il dito contro di lei senza una reale accusa. «Ma è stato anche mio», si soffermò sulle sue parole, questa volta portando gli occhi sullo sguardo –tutt’altro che tranquillo e rilassato- di Nathan, che sembrava volerle mandare lo stesso messaggio che lei temeva di vedere nei suoi occhi. Delusione.

Ma non era più un suo problema cercare di non deluderlo. «E adesso..c’è lei! », il tempismo di Victoria coincideva con l’irrigidirsi dei corpi dei presenti, si poteva quasi scorgere con gli occhi le tracce di una tensione, di una paura che veniva sempre nascosta per il terrore di deludere gli altri.

Non era su quello che era basato tutto? Il deludere gli altri. Dimostrarsi diversi, umani. Il non essere all’altezza di una situazione. Carmen si voltò spalancando gli occhi, probabilmente sconvolta da tanta cruda sincerità, riassunta in due frasi sintetiche.

Quante cose erano capace di distruggere una persona, Victoria l’aveva capito molto tempo prima, fu in quel momento, però, che se ne ricordò come se l’avesse scoperto troppo tempo fa.  Senza pudore – per il solo desiderio di provare a sentirsi nuda dentro -, stava confessando ciò che più spaventava i convitati. La realtà.

«E Lucas? Oh, lui ha avuto una cotta storica per me», continuò sempre più fiacca, l’adrenalina cominciava a scemare. «Ma pare che adesso», prima di continuare appoggiò entrambe le mani sul tavolo per cercare di sorreggersi. Non era l’alcol che sembrava spingerla a terra, ma il vortice di parole che improvvisamente «…Adesso anche lui mi ha rimpiazzata», la sua voce divenne un sussurro soffocato.

Solo allora Victoria capì la gravità del suo comportamento, la gravità delle sue parole. Era sorprendente quanto sembrava difficile affrontare la lucidità poco dopo averla persa.

Il suo sguardo basso le impedì di avvertire gli sguardi scioccati e delusi dei suoi amici, né quello di qualche ospite del locale in cerca di qualcosa di meno noioso della propria via.

«E’ ubriaca», disse Emma. Il suo tono aspro non ammetteva possibilità di scusa. Non riuscì a sentirsi completamente colpevole di qualcosa, perché c’era ancora una minima consapevolezza in sé di essere stata capace di tirare uno scossone alle persone intorno a lei, eppure l’elettricità che l’aveva attraversata fino a poco prima sembrava essersi dissolta insieme alle sue certezze.

E lei ritornò ad essere nuovamente vuota. Nuovamente piena di dubbi e guai da risolvere.

«La porto via da qui». Mai e poi mai, però, avrebbe pensato che una voce potesse essere tanto dura e distante, gelata e disgustata, come quella di Nathan. Non dopo che quella stessa voce aveva trovato con lei parole che nessun suono melodioso avrebbe saputo mai riprodurre. Un brivido percorse tutto il corpo della ragazza, ricordandole che non era capace di muovere il suo corpo in modo da sembrare stabile. Si sforzò comunque, alzando lo sguardo per incontrarne altri.

«No, Nate», si oppose Carmen tirandolo per un braccio. Il suo viso sembrò all’armato ma per la seconda volta Victoria non riuscì a capirne il vero motivo; dopotutto non era così brava a capire gli altri. «Perché devi accompagnarla tu?», la supplica sul suo viso fece si che Nathan esitasse per qualche secondo sui suoi dolci lineamenti.

Lo faccio per noi, Carmen. Si ripeté Nathan allontanandosi dalla sua sedia.

«Nathan, ti prego, lascia che sia io…», anche Lucas si era alzato, mentre in quel momento Emma trovò il coraggio di riguardare Simon, povera vittima di Victoria, come se fosse stata appena smascherata.

«Ho detto che lo faccio io», alzò la voce bruscamente, rivolto Lucas, scusandosi poi con gli occhi per averlo aggredito involontariamente.

Proprio quando la voce di Victoria ritrovò il suo tono, si sentì afferrare bruscamente e senza esitazione dalla mano salda e ferma di Nathan che evitando di fissarla la precedeva verso l’uscita del locale.

Probabilmente aveva sbagliato il modo, totalmente scorrette le parole. Ma una cosa era certa, era riuscita a scuotere Nathan a causa sua, a renderlo vivo e non più passivo.

Ancora una volta.

Fine Nono Capitolo.

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Capitolo 10
*** Più di questo ***


Capitolo 10

Più di questo’

 

«Hai mai visto il momento prima che appaiano le stelle? Il cielo è vuoto. L’unica luce è quella mezzaluna che si fa strada in una coperta pronta a colorarsi di blu scuro. E’ quasi più bello della notte stessa».

 

Victoria quella sera guardava le stelle dal finestrino dell’auto di Nathan. Erano sbiadite e spente, non più intriganti ed affascinanti come una volta. Erano solamente stelle, oppure era lei che non riusciva più a guardarle nella maniera giusta.

Magari hai semplicemente bevuto troppo.

Due birre? No, quello che offuscava i pensieri della ragazza Hamilton non era l’alcol, ma le sue patetiche crisi da ragazzina capricciosa mai cresciuta. Se ne era resa conto il momento preciso in cui Nathan aveva sbattuto la portiera dell’auto e aveva dato gas all’auto in un unico gesto rumoroso e arrabbiato e l’aveva ignorata come se fosse poco più che una presenza fastidiosa.

Beh, ignorata per 10 minuti circa.

Ad un tratto, sul bel mezzo della strada deserta che collegava il centro di Lockwood da tutto ciò che lo circondava e che affacciava sulla spiaggia, una brusca frenata interruppe il silenzio. Era stato Nathan, indeciso sul da farsi, che alla fine aveva optato per la reazione meno pericolosa, quella che probabilmente avrebbe provocato meno danni fisici. Batté nervosamente entrambe la mani sul volante, tenendo lo sguardo lontano dalla presenza silenziosa di Victoria, che cominciava a tremare lievemente. 

Fu quando Nathan decise di uscire dalla macchina per respirare che Victoria capì di dover smettere di rimandare le parole e che forse bisognava seguirlo fuori; così fece – più delicatamente di quanto avesse fatto lui con lo sbattere della portiera – e si tenne a distanza fissandogli le spalle.

Lo osservò avidamente: le spalle alte e rigide, segno dell’uomo che ormai era diventato, i muscoli delle gambe tese, e probabilmente, Victoria giurò, se si fosse avvicinata tanto da vedere il suo profilo avrebbe visto la sua mascelle irrigidirsi e gli occhi chiudersi in una smorfia dolorosa.

Ma rimase indietro, perché egoisticamente non era ancora pronta. Vigliacca, provochi la situazione e poi non sei in grado di uscirne dignitosamente. 

Nathan era appoggiato al muretto che divideva la strada dalle scale che portavano alla sabbia della spiaggia.

Il ragazzo decise di prendere la parola, dopo un lungo respiro, proprio quando Vicky fece un passo traballante verso di lui.

«Come hai potuto?», scandì per bene le parole, seppure le avesse pronunciate a bassa voce.

Lei non rispose.

«Nathan».

«Perché sei qui, Vic?», si voltò verso di lei, giusto in tempo per mostrarle il suo disgusto. Visto di lato, il suo volto oscurato dal buio della fresca notte d’estate, aveva un espressione ombrosa, il viso contratto.

Ignorò per un attimo il suo aspetto terrificante per concentrarsi sulla sua domanda. Perché era lì? Se l’era chiesto più di una volta da quando aveva lasciato la confereza e aveva preso la decisione di correre a Longwood.

Era vero che il matrimonio di Shane e Marnie era stato fondamentale per lei, ma non poté negare a se stessa di essere scappata con una tale veemenza in cerca di qualcosa. Stabilità, ricordi, affetti, equilibrio, ispirazione. Nathan.

Com’era stata stupida.

Victoria alzò il viso e incrociò gli occhi di fuoco del ragazzo accanto, che teneva le mani serrate intorno alla pietra del muretto per non esplodere completamente.

«Oh no», scosse la testa nervosamente e con una rapidità disarmante conoscendo già le intenzioni del ragazzo. «Non cercare di usare la tattica dei rimorsi», si rivolse a lui con improvviso impeto.

«Sono qui per mio fratello. Sono qui per le mie ragioni. Non essere il solito spaccone», lo liquidò con un gesto stizzito. Era vero, il modo in cui la guardava la intimoriva, l’aveva sempre fatto in quei momenti in cui credeva di essere giudicata, ma nulla le impediva di indossare il suo scudo e contrattaccare con i suoi colpi, fingendo di essere forte. Le si avvicinò, le mani lungo i fianchi, strette in due pugni come se stesse controllando la rabbia per cercare di non colpirla.

«Sempre la solita, fottuta egoista», sputò le parole senza alzare la voce, ma rinvigorendo il tono con la forza che contro di lei non poteva usare fisicamente.

«Credevo che dopo tre anni fossi cresciuta».

Come una lama affilata, l’offesa la trapassò di colpo insieme all’espressione nei suoi occhi, occhi che non mentivano. Nathan era sempre più vicino a lei, nella solita fredda strada, deserta, il cui solitario silenzio, spingeva le loro urla a ripetersi come un eco incontrollabile. Prima che potesse aprire bocca per difendersi, continuò. «Ti diverti a far del male gli altri, non è vero? E’ una cosa che ti riesce in modo naturale. Non te ne è mai fregato niente di nessuno, Victoria», aggiunse ironico, poco meno arrabbiato.  «Cosa c’entrava quella scenata, stasera? Perché hai dovuto mettere in imbarazzo tua sorella?», prese un respiro affannato tra le parole. «Lucas, Emma. Me», e quando portò entrambe le mani sul viso, quasi sul punto di piangere, quasi sul punto di urlare, comprese un altro po’ di ciò che era destinata a capire a tratti: tutto dipendeva ancora da lui. Victoria era ancora dipendente da quello che avevano fatto, da quello che era. Sarebbe mai stata capace fare a meno della sua pioggia?

La testa le pesava, rotolava giù, nel profondo del nulla che la circondava già da un po’. Le lacrime avevano cominciato a scendere, copiose e calde, sul suo viso stanco, chissà in quale preciso istante. Perché doveva essere così fragile?  

A Victoria sembrava di essere chiusa in una cabina ambulante che portava sempre con sé pur di non lasciar che gli altri la capissero. Quant’era stupida? Quanto ancora ci sarebbe voluto prima che avesse capito, lei per prima, cosa voleva davvero, cosa indicava il suo comportamento. Perché il maggior problema veniva proprio da lei; non si conosceva abbastanza da poter almeno prendere posizione. Maledisse tra sé l’eterna confusione della sua vita, che le ricordava tanto le contraddizioni che si ritrovavano nei sonetti dei poeti dell’epoca elisabettiana dove ciò che era odiato era al tempo stesso amato, ciò che era innocente diventava poi impuro e quello che confondeva non smetteva mai di essere chiaro.

Adesso, però, toccava a lei parlare. Parlare come solo poche volte era riuscita realmente a fare. Parlare al momento giusto, con le parole esatte, quelle che lei sapevano, l’avrebbero salvata o liberata del tutto. Aspettò che lui ritornasse a guardarla per tirare fuori quanto fiato aveva in gola.

«Hai la minima idea di come mi sono sentita quando sei andato via? Mi hai spezzato il cuore, Nathan!», gridò tra le file di lacrime che percorrevano le sue guancie. Entrambi ricordavano benissimo che era stata lei ad andare via, ma ciò che intendeva Victoria andava al di là della sua fuga via da Longwood. Lui aveva lasciato che lei andasse via, giusto? Allora era scappato.

«Niente era capace di farmi sentire di nuovo viva». Urlò ancora con un senso d’angoscia che lasciava comunque spazio ad un pizzico di sarcasmo nella voce. «Ogni posto mi ricordava te, sembrava impossibile scappare. Sai cosa significa? Riuscivo a malapena a rifugiarmi nella mia testa perché era completamente fatta da te!».

Cinque minuti prima era confusa, inquieta poi era esplosa in una furia, come Nathan sapeva sarebbe successo. E Victoria sapeva sarebbe successo nel modo più devastante a lei conosciuto. Come se aspettasse quel momento da tanto tempo, e avesse raccolto a sé tutte le forze solo per avere il coraggio di collezionare il suo dolore e ridarglielo una volta per tutte.

La testa pulsava sempre più forte, non più per l’alcol ormai. La gola bruciava per la parole urlate a gran voce, imprudenti.  

Nathan era seriamente arrabbiato. Per quel poco che Victoria riusciva a scorgere tra la confusione e il mal di testa, i suoi lineamenti erano contratti e gli occhi chiusi in piccole fessure, proprio come quando stava per urlarle qualcosa contro.

«Come puoi avere il coraggio di dire che sono un’egoista?».

«Le persone sbagliano. Io sbaglio. Spesso. Eppure sembra che tu voglia rinfacciarmi altre cose, non puoi darmi tutta colpa per quello che è successo tra noi», il suo tono si addolcì - non voleva certo apparire più calma- ma le sembrava di perdere la voce.

Della stessa idea era Nathan, altrettanto tranquillo – rassegnato, impotente – che aveva chiuso gli occhi e le si era allontanato, infilando le mani in tasca.

«La nostra storia è stata una scommessa, Vicky. Quante probabilità c’erano di vincere?», sussurrò sempre più basso.

«Se entrambi abbiamo scommesso la stessa cosa, la probabilità era unica».

«Contro il mondo?».

«Si, Nathan. Cos’era il mondo in confronto a noi due?». Tremava, spaventata dalle sue stesse parole. Non poteva permettersi di dire proprio tutto, non l’avrebbe retto.

«Io non sono come te, Vic! Non posso urlare quando qualcosa mi va storto!».

«Ma non è quello che faccio!», continuò indispettita.

«Davvero, Vic?», domandò sarcasticamente, evidenziando il punto di domanda. Le sue parole, ancora una volta, la colpirono come uno schiaffo sul viso. Nathan sembrava ancora, senza che lo volesse, l’unica persona in grado di farle usare la testa, di farla riflettere e riportarla lì dove la ragione risiedeva. Tutto ciò che non poteva permettersi in quel momento. D’istinto, la ragazza indietreggiò, già pronta a voltarsi per avanzare il passo – ma la sua presa glielo impedì, quasi che il destino volesse scherzare sui momenti sbagliati delle scelte: non poteva fermarla proprio adesso.

«Non scappare sempre, maledizione!», gridò ancora, la rabbia montò nuovamente su di lui come se avesse finalmente trovato un rifugio sicuro nella frustrazione di Nathan.

«Ti porto a casa», la spinse con forza verso la portiera dell’auto, a pochi metri da loro, unica testimone. Victoria impuntò con prepotenza i piedi a terra, come una bambina capricciosa. «Non vengo da nessuna parte con te».

«Fa quello che vuoi!», sbuffò lui lasciandole bruscamente il polso con uno scossone.

«Non è più un mio problema da tanto».

Non voltandosi indietro nemmeno una volta, non esitando neanche per un secondo, riprese il suo posto in macchina e la lasciò lì, al freddo, da sola, come se volesse infliggergli una punizione fisica, per il gusto di poterne vedere i risultati.

Oh, perché i risultati si sarebbero visti e come. La notte cominciò a farsi gelida, sempre più buia, e la strada desolata prese una forma più spaventosa delle scenografie dei film horror. L’auto calda e accogliente di Nathan era un puntino sempre più indistinguibile e come se potesse mancare, Victoria cominciò a tossire e a sentire la stanchezza prendere il sopravvento sul corpo come un improvvisa doccia fredda.
In un’altra occasione, magari stesa sul suo letto e stretta al cuscino, avrebbe potuto definire quella scena tragicomica. Dopo anni, erano capaci ancora di gettarsi le più tremende offese e sembrare entrambi più forti, entrambi più distrutti. Quasi come una costante gara in cui l’uno voleva dimostrare all’altro di essere sempre più. Chi amava di più, chi urlava di più, chi piangeva di più. In ogni caso era divertente in un modo terrificante. Decise che tanto valeva la pena di cominciare a camminare, più per il desiderio di sentire nuovamente il suo corpo muoversi che per la voglia di tornare a casa. Se e come, ci sarebbe tornata a casa. Si strinse nelle braccia e abbassò il viso per non incontrare il vento di colpo, mentre pensava a quanto coraggio aveva avuto Nathan a lasciarla completamente sola in quel posto. Era disperato, e probabilmente stupido come lo era fino a tre anni prima, poiché certe cose non c’era modo di cambiarle.

I passi pesanti, diventarono quasi insostenibili a metà percorso. Il desiderio di tornare a casa era la sola cosa che dava a Victoria la forza di non crollare sul marciapiede e lasciarsi andare. Ma sembrava impossibile, non sarebbe resistita ancora per molta. Aveva bevuto, urlato, si era agitata, aveva preso freddo. Sintomi innocui che improvvisamente sembravano la futura causa della sua morte. Anche guardarsi intorno appariva come un’ardua fatica ai suoi occhi stanchi e semichiusi.

Ancora un altro sforzo, si disse.  

E seppure sorprese se stessa, finalmente, chissà quanto tempo era passato, raggiunse il vicolo di casa Hamilton, silenzioso e la porta di casa si aprì prima ancora che lei potesse bussare.

«Victoria!». Era Meg, gli occhi spalancati e l’aria mista di sorpresa e spavento.

Victoria fu grata al tempo, di averle concesso di tenere la bocca chiusa proprio in quel momento, per cedere finalmente alla stanchezza.

Era tornata a casa.

 

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«E’ assurdo».

«Ho…sua auto…te l’ho detto».

«Spero che si risvegli presto, solo per il gusto di farla svenire di nuovo», una voce più chiara e vicina risvegliò le orecchie di Victoria. Il sole cadeva delicato sul vetro spogliandolo della sua finta trasperenza, trapassandolo per diffondersi nella piccola stanza dove si nascondeva la Bella Addormentata, spaventata dalle conseguenze che la sua ribellione a mò di Sirenetta aveva provocato, ancor meno pronta a sentirsi una Bestia che una Bella.

Infondo, era inevitabile per Victoria Hamilton: sarebbe stata sempre una Peter Pan un po’ più grande

Inconsciamente, stiracchiando i muscoli stanchi, la ragazza accennò un debole sorriso mattutino. Era ancora assonnata quando il sorriso le cadde dalle labbra ricordandole la notte precedente, con dei brevi brividi intensi sul braccio scoperto. Era nel suo letto, non più con i vestiti aderenti che ricordava di aver indossato poco prima di svenire, ma aveva il suo morbido pigiama estivo, che la invitava a tornare nell’unico mondo dove i problemi si sconfiggevano come un ‘click’ del mouse, bastava cambiare direzione. Il mondo dei sogni, anzi, più del sonno probabilmente. Le voci sempre più agguerrite e insistenti la costrinsero a ritornare alla realtà; prima che potesse fingere di dormire –chiudendo gli occhi – Meg entrò di scatto, rumorosamente, seguita da un ombra, che schiarita divenne Emma.

L’improvvisa vergogna che Victoria provò nel rivedere sua sorella, le dimostrò che aveva molti più scheletri con cui fare i conti, il che non aiutava affatto i dolori fisici che il sonno aveva attenuato.

La gola bruciava ancora, fastidiosa; la testa premeva forte come un quintale appoggiato sulla fronte di Victoria. 

«Tu, stupida, terribile, incosciente ragazzina!», gridò Meg senza prendere respiro. Il dito puntato contro di lei – che nel frattempo si era messa a sedere per affrontare la sfuriata – accentuava ancor di più l’espressione corrugata sul viso della sua agente. 

«Credevo di lavorare per una ragazza con la testa sulle spalle! Non la solita ragazzina capricciosa», continuò cercando di controllarsi.

Emma rimaneva appena vicino alla porta della stanza, in silenzio, mentre nel letto, Vicky sentì la testa invocare aiuto.

“Ti prego, Meg. Fammi parlare”. Le sembrò di pronunciare, o meglio, fu proprio quello che le sue labbra mimarono senza che un filo di voce uscisse dalle sue labbra.

Victoria cambiò l’espressione sul suo viso. Sbiancò in pochi secondi e cominciò a balbettare qualche parola incompresa. Balbettava senza rumore. Poi gridò, e gridò senza rumore.

La stessa espressione allarmata sopraggiunse sul volto della donna davanti a lei, a cui bastarono pochi secondi di lucidità per comprendere a pieno cosa stesse succedendo.

Emma avanzò di qualche passo, senza più curarsi del controllo e della freddezza che aveva richiesto a sé stessa. E Victoria, lei portò entrambe le mani alla gola, quasi volesse strozzarsi, ma senza violenza, giusto per controllare di avere ancora un collo su cui poggiare quella testa pesante. Aprì ancora la bocca, scalciò i piedi sul letto sperando di essere lei a non sentire nulla.

All’ennesimo grido, una lacrima le scese lungo una guancia, calda e traditrice. Entrambe le donne presenti nella stanza, lì di fianco a lei, lasciarono andare via per un momento tutti i terribili pensieri che avrebbero voluto donare a Victoria, per pietrificarsi come statue vuote.

«Non ci posso credere».

«Ha perso la voce», continuò Emma, con occhi e bocca spalancati dalla sorpresa. 

La verità che conosceva ma che avrebbe preferito non ammettere, le venne sbattuta in faccia nel giro di un mini secondo. L’unica cosa a cui si era aggrappata da una vita ormai, se ne era andata. Momentaneamente, forse. Ma comunque era andata via.

Tutto quello che accadde dopo, in velocità multipla, fu inutile, ridicolo, avanzi della sua memoria.

Gli abitanti della casa, cominciando da sua madre e suo fratello, la circondarono a poco a poco come lo si fa con un quadro al museo. O con un malato terminale che ha perso le speranze.

L’ansia, la preoccupazione, le voci impazzite sembravano freccie che la colpivano veloci e violente, nessuno era davvero in grado di arrivare al punto del suo problema.

«Come diavolo fa a finire l’album? Eravamo arrivati a buon punto!».

«Dovremmo chiamare un dottore».

«Si può sapere cos’è successo ieri?».

L’ultimo a parlare, era stato Shane, rivoltosi a Emma che scosse la testa e alzò le spalle, rifiutandosi di rispondere. L’aria era sempre di meno, troppe persone affollavano la sua piccola stanza, e nessuna di loro sembrava accorgersi della sua presenza.

Se fossi più rumorosa, riuscireste a vedermi? La voce contava così tanto nella vita delle persone, nella sua più di tutte. Quando nessuno è capace di capirti, di vederti o sentirti, è mai possibile che tu esista davvero? Improvvisamente, Victoria cominciò a dubitarne, cadendo nel baratro dei suoi pensieri oscuro e dubbiosi, angosciati da quella costante sensazione di vuoto.

Fuori dalla finestra il vento sembrava leggero e rilassante, Victoria provò ad immaginarlo sulla sua pelle, mai fastidioso. Nel frattempo si domandò mentalmente come si potesse passare il tempo senza una voce, senza il metodo più semplice per communicare. Aspetta, pensò immediatamente. Più semplice? Le parole sono difficili da dire! Aggiunse bruscamente una voce nella sua testa.

 

«Parole, parole! Il tuo è solo un fottuto fiume di parole».

Sputò con veleno la bocca di Nathan. Tremava di rabbia, gli occhi erano un unico impressionante fuoco ardente, era la sua furia ad animarlo. L’esaurimento era ciò che invece prendeva il sopravvento su Victoria, tremante a causa del freddo che infestava quel dicembre così malinconico.

«Le mie sono solo parole? Le avessi ascoltate per un secondo! Sei così cieco, così pieno di te che l’unica cosa che ti sembra giusta è quella di farmi rinunciare al mio futuro».

Nathan avanzò così deciso che la ragazza di fronte a lui si ritrovò ad indietreggiare spaventata. Non avrebbe mai creduto di dover essere spaventata di Nathan, ma quella sera così estranea dalle altre, era stata capace di farle ricredere molte cose.

«Anch’io ho una lista infinita di cose di cui tu sei responsabile, che non mi lasciano più respirare!».

«Non ce la faccio più, Nathan», distrattamente Victoria lasciò che le lacrime cadessero giù, attraverso le sue guancie, imperterrite.

Quello sguardo spento, cupo, sembrò ridestare per pochi secondi l’atteggiamento prepotente e spaventoso che aveva assunto il ragazzo, quasi come se al minimo accenno di un dolore visibile, Nathan non fosse capace di portarle più alcun rancore.

«Ci ho provato, Vic. Sto cercando una via d’uscita ma…».

«Ma non esiste. Siamo sbagliati, tutto questo è sbagliato. La nostra stupida speranza di poter provare ad essere felici insieme ci si è ritorta contro. Ed io stupida che ci credevo».

Un lampo squarciò la coperta blu punteggiata di stelle. Il temporale era lì, con loro, a condividere quell’ultimo respiro che sembrava volerli ancora insieme.

Victoria vide con la coda dell’occhio – offuscato dalle dolci lacrime – Nathan portarsi una mano sugli occhi e sospirare stanco.

Non era così che aveva immaginato di vederlo un giorno. Una di cosa di cui poteva vantarsi, era che il suo desiderio di Nathan, il suo amore era talmente forte da scavalcare quell’egoismo di cui lui l’accusava.

E faceva più male non essere egoisti, a volte.

«Io», ricaccio indietro un singhiozzo. Era così difficile dirlo. «Credo di dover fare ciò che è meglio per me, prima di tutto…», mormorò. Aveva sperato di sembrare più decisa e ferma, ma non era affatto quello che era sembrata a Nathan. Lui alzò lo sguardo e aspettò di incontrare i suoi occhi, e vide dinnanzi a sé la giovane donna che amava. E sapeva. Sapeva perfettamente cosa stava per dirgli.

«Devo andare via Nathan, mi devo allontanare da te», il ragazzo scosse la testa, quando capì cosa gli stesse scivolando via dalle mani.

 

Un po’ le ricordavano Catherine e Heathcliff. In altre circostanze, fissando nella sua mente quelle due anime instabili, avrebbe trovato una certa soddisfazione nel rivedere il suo amore in quello eterno di due personaggi come i protagonisti di Cime Tempestose. Ma adesso aveva ben chiaro cos’è che tanto le sembrava semplice accostare alle due figure: l’atroce dolore che erano destinati ad infliggersi l’un l’altro senza pietà. Perché quella passione, quell’amore inquieto e distratto, quell’amore così pieno di sé, invalicabile, era tanto forte quanto distruttivo. Li aveva consumati poco a poco, e ancora in quel momento Victoria poteva sentire il logoramento nel suo petto, che lavorava ancora per finire l’opera d'arte.

Era tutto tremendamente calmo. Le luci abbastanza soffuse da nascondere dettagli che avrebbero potuto distrarlo dai pensieri. E fissava il soffitto, mentre il silenzio di quella notte accompagnava le urla dei suoi pensieri.

 

-------------

 

«Posso accompagnarti io», si offrì sua madre quando il giorno seguente, ancora senza voce, Victoria ebbe la brillante idea di vestirsi, afferrare le chiavi della sua auto e mettersi al volante. Nessuno le aveva fatto domande, né proferito parola con lei o su di lei, ma la ragazza sperava che dipendesse soprattutto dal fatto che quella domenica suo fratello si sarebbe sposato.

Scosse la testa e abbassò lo sguardo, cercando un punto fisso che distraesse i suoi occhi dal fissare quelli tormentati di sua madre. Chissà cosa starà pensando di me.

Sfrecciò via qualche istante dopo, con in mente già un posto che l’avrebbe fatta sentire meglio, magari un posto dove scrivere per poi rassicurare Meg del suo futuro. Dopotutto, aveva così tante cose da scrivere.

Quando varcò la soglia di quella piccola casa sul mare che aveva accolto tante volte lei e lui, quando la pioggia era troppo anche per loro, non avrebbe mai e poi mai immaginato di ricevere un colpo tanto gelido e immediato. Per anni aveva pensato che quello fosse l’unico posto rimasto immacolato e puro, dopo tutto quello che era successo la cui purezza era stata spazzata via.

Ma Victoria dovette ricredersi con stupore.

Afferrò il mazzo di chiavi nascosto sotto un cumolo di sabbia dorata e aprì la porta.

All’apparenza poteva apparire identica, ma nel suo vecchio ricordo di quella casa non c’erano cassetti pieni e un letto disfatto, non c’era cibo, né un frigorifero. Nulla che potesse dare l’idea che qualcuno vivesse in quel posto.

«Che diavolo ci fai tu qui?». Il bel viso esotico di Carmen la fronteggiò con una smorfia sconvolta sul viso.

«Questa era la mia domanda», avrebbe voluto ribattere acida ma scossa. Ma la sua voce era ancora via. 

«Ascolta, va via da qui Victoria», le disse ferma. «Questa è casa mia e non voglio neanche sapere come tu ci sia entrata».

Quello schiaffo la catapultò direttamente fuori da quella casa, per la brevità di quel suo viaggio pensò di averci messo non più di dieci minuti. Com’era possibile che tutto le accadesse così velocemente?

Ma il suo corpo era ancora lì, di fronte ad una Carmen accigliata e confusa, come se il caso beffardo volesse farle capire che era lei quella che non aveva idea di cosa stesse succedendo. Gettò un’occhiata veloce alla stanza. Effettivamente non aveva più l’aspetto di una casetta vuota e intrisa di visite passeggere, al contrario appariva più ordinata e composta: le pareti assorbivano l’aria di una casa vissuta. Non più quella che lei conosceva.

Si limitò a scuotere velocemente la testa con gli occhi spalancati, neanche Carmen si sentì in grado di risponderle per le rime, magari con una punta acida che l’avrebbe fatta scappare.

Eppure il viso di Victoria era pallido e stanco, sembrava portare su di sé più dolore di quanto una ragazza dal suo bel viso potesse sopportare. Ignorò i suoi pensieri e si concentrò sull’esatte parole che aveva deciso di pronunciare.

«E’ di Nathan», disse il più dolcemente possibile. Ritornò poi sui suoi pensieri. «Hai perso la voce?».

Victoria annuì, improvvisamente svegliatasi dalle confuse nebbie che alleggiavano per la sua testa. Indietreggiò ignorando completamente quella strana situazione che si era venuta a creare con Carmen e alzò le spalle mentre quell’espressione ferita abbandonava il suo viso bianco.

Poi con un tonfo deciso si chiuse la porta alle spalle, lasciando una sconvolta Carmen a chiedersi se quel momento era stata un illusione della sua sporca coscienza.

La ragazza senza voce tornò immediatamente alla guida, stranamente convinta di sapere già quale fosse il posto in cui si stesse dirigendo, e questa volta poco importava se il posto fosse cambiato o fosse rimasto identico.

Probabilmente il suono della sua voce non era più lì, ma la sua testa, quella sensazione che arrivava quando aveva voglia di scrivere una canzone non andava mai via. Con l’unico scopo di voler aggredire fisicamente – con quanta forza aveva in corpo – Nathan Carver, Victoria tenne appunto le frasi che sfuggivano con violenza da lei.

Quando cerchi di parlare ma non emetti suono, le parole che vuoi sono alla portata di tutti ma non sono mai state così forti

Dopo tutto, Meg si era sbagliata. Il suo nuovo album sarebbe stato terminato in tempo. A discapito del suo cuore. 


Fine Decimo Capitolo.



Il tempo scorre, ma non mi dimentico di questa storia. Spero non l'abbiate fatto neanche voi!
Per me è molto importante, questa parte della storia e questo capitolo in particolare: perché è qui che vorrei voi vedeste la fragilità di Vicky, un pò della sua 'instabilità' che l'ha resa sempre diversa.
Ci tengo molto e spero di ricevere tutti i vostri pensieri, commenti e recensioni. Tanto non fa male a nessuno giusto?

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Capitolo 11
*** Fix a Heart ***


 Capitolo 11

Fix a heart”

 

«Perché sei sempre così indecifrabile, Vic?», le chiese Emma sedendosi sulla sabbia dorata e brillante. Non lo so, avrebbe voluto sbuffare. Se lo sapessi non sarei più così complicata!

Parlava così da quasi un quarto d’ora, imperterrita, fissando tutto tranne la sua sorellastra, quasi avesse dimenticato che le era impossibile rispondere.

Era più che frustrante. La sola idea che per chissà quanto tempo non avrebbe potuto parlare la faceva impazzire.

Avere una voce significava esistere. Se non poteva averla, era praticamente invisibile al mondo.

Perciò, fino a poco prima la sua intenzione era quella di chiudersi in se stessa, in solitudine, per fingere di non parlare solamente per non distruggere la purezza del silenzio. Ma era stato inutile, Emma l’aveva perseguita prima di tutto con i suoi sguardi che passavano dall’accusa alla pietà, per poi prendere a farle domande irritanti a cui non avrebbe saputo rispondere nemmeno se avesse potuto

«Scusa», la voce della bionda attirò di nuovo la sua attenzione. «Ma sei ancora più irritante del normale quando non puoi dire una parola», disse.

Non era un insulto, Victoria aveva imparato a capirlo col tempo, sua sorella era spudoratamente e crudelmente sincera quando si trattava di tirare fuori i pensieri sbagliati. E in qualche modo, era una delle cose più divertenti che possedeva. La sfrenata sincerità.

Tu non lo sei mai stata?

Scosse la testa e accennò un sorriso, il massimo che poteva regalarle.

«So che non volevi farlo», continuò assumendo una sfumatura più seria nella voce. «Cioè, sicuramente volevi, ma sono sicura che…in realtà, tu non avevi nessuna intenzione, perché… », aveva cominciato ad inciampare nelle parole.

Una reazione che aveva mille significati, ma che Victoria riuscì ad associare solamente ad una persona. Simon Westfield. Non le venne voglia di sorridere, ricordando quello che aveva combinato, eppure il suo petto si alleggerì quando il pensiero di Emma e quell’uomo la circondò. Era sempre più facile pensare agli altri felici, quando tu credevi di non poterlo essere mai.

Aveva davvero poco da dire, nulla che potesse esaurire i dubbi del mondo, o anche solo quelli di sua sorella. Decise in pochi istanti che quel poco da dire, lo avrebbe scritto sulla sabbia.

Con movimenti leggeri, esitanti, con l’indice trascrisse venti lettere. Tre parole.

"Carmen tradisce Nathan”, e con lo sguardo fisso sulle parole che aveva abbozzato sulla fragile sabbia, Victoria aspettò che sua sorella capisse che non era pazza.

«Non mi sorprende», rispose con risolutezza, solamente dopo qualche minuto. L’assenza di rabbia o sconcerto, ferì Victoria nell’orgoglio.

Perché non era sconvolta quando lei, al solo pensiero? Perché improvvisamente le sembrava di non aver fatto la cosa giusta?

Di scatto tirò uno schiaffo sulla spalla di Emma, con violenza, quasi a volerle ripetere quello che era successo. Quel tradimento assurdo. E neanche quello sembrò sorprendere Emma Cade. Fece una smorfia, socchiuse gli occhi per trattenersi dal cominciare una rissa con l’altra ragazza, poi finalmente il suo tono raggiunse il concetto nascosto dietro la sua indifferenza.

«Non mi sorprende, okay? Mi sembra una storia terribilmente familiare».

Ed era lì che Victoria sapeva sarebbero arrivate. Emma era sicuramente scioccata della notizia, ma in cuor suo sapeva di non poter reagire diversamente da come aveva appena fatto.

La usa testa ricostruì quello che il suo cuore non era capace di fare, vigliacco com’era.

Anche Nathan aveva tradito una volta. Aveva tradito Emma. Con lei.

E’ questo che vuoi? Godere di una piccola vendetta?  Pensò Vicky.

Emma si strofinò i pantaloni con maniacalità quando si rialzò per fronteggiare sua sorella.

«Non fraintendermi non sono affatto felice, e anche se non lo do a vedere, vorrei urlare e prendermela con qualcuno. Perché si tratta di Nathan, e gli vorrò sempre bene», abbassò il tono di voce, quasi la sua fosse una confessione non programmata.

Emma e Nathan non erano stati solamene la coppia perfetta di un paesino sperduto del Wisconsin. Erano cresciuti insieme, avevano imparato a conoscersi al tal punto che tutti si sarebbero aspettati che, un giorno, si fossero sposati. Ma non era andata così, ed Emma era riuscita a comprendere.

«…e Carmen è una delle mie migliori amiche, voglio bene anche a lei. Ma diciamoci la verità, nessuno ha mai pensato che potessero andare lontano, insieme», riprese a parlare velocemente, dimenticandosi della difficoltà di Victoria.

Avrebbe tanto voluto poter avere voce in capitolo, riuscire a…

«Ma questa storia non riporterà Nathan indietro», concluse con la stessa risolutezza, avvicinandosi di qualche passo per fronteggiare meglio la senzavoce.

«Cos’è? Credevi di tornare qui e riprendertelo?».

Colpevole, Victoria chiuse gli occhi.

«Non vorrei essere io a dirlo, perché la cosa mi infastidisce non poco, ma tu conosci molto bene Nathan. Sei probabilmente l’unica che sa la reazione che avrebbe. D’altronde, voi due solo sapete com’è andata davvero la notte in cui vi siete lasciati», ammise.

In cuor suo, Victoria rettificò quell’affermazione. Solo lei, Nathan e suo padre.

Il signor Hamilton era stato colpevole di molte cose secondo la minore dei suoi figli. Eppure ricordava con estrema chiarezza quanto grata gli fosse stata, quando quella notte di Dicembre, era tornata piangendo e pronta ad andare via, per averla capita e tenuta tra le braccia.

 

Ricordava quel dolore che le attanagliava il petto.

La follia che sembrava guidarla. Non c’era più lucidità in se stessa. Niente ragione.

Era preda di una sofferenza sconsiderata. Preda di un amore distrutto ed un cuore consumato.

E ricordava di aver urlato. Tanto. Mentre, devastato, suo padre era incapace di far nulla, se non guardare la sua bambina soffrire d’amore.

 

E anche in quel momento, davanti a sua sorella, Victoria si accorse di star gridando, memore dei ricordi che aveva rievocato.

Gridava, gridava forte dimenandosi dall’aria, tagliandola con gesti privi di significato, sotto lo sguardo finalmente sconvolto di Emma.

Urlava perché, come la tragedia per Aristotele, si sentiva leggera. Purificata.

Urlava perché era il modo migliore per riavere la sua voce e non dover pensare alle parole da pronunciare.

Ma, senza prevederlo, le sue grida vennero bloccate da due braccia saldamente strette alla sua vita, ed una testa bionda affondata nell’incavo del suo collo, che sussurrava con dolcezza.

«Andrà tutto bene».

E la fragile, tenace, ardente ragazza dal cuore in pezzi, le credette.

Non che fosse più facile riconoscere di aver ritrovato un po’ di voce.

«Prova a cantare qualcosa», le suggerì la bionda.

«Credi che possa anche solo intonare una nota in questo modo?», gracchiò Victoria. L’aver urlato le aveva restituito un filo sottile di voce, ancora più fastidioso del non poter parlare e basta. Sentire quel tono basso e sommesso era quasi soffocante, ma non se ne curò per più di qualche minuto.

Accennò una smorfia divertita, probabilmente più di sollievo che di reale gioia, e rimase ancora un po’ tra le braccia di sua sorella.

«Devi cercare di riprenderti, va bene?», Victoria alzò lo sguardo. «Devi farlo per Shane. Per il suo matrimonio».

Ma certo, il matrimonio. Ancora una volta il suo egoismo aveva avuto la meglio sugli affetti.

«Non voglio rovinare il matrimonio di Shane e Marnie», si affrettò a dire incespicando con le parole. «Shane non deve sapere nulla di tutto questo».

«Non sarò io a dirglielo».

«Va bene», annuì.

Tutte le preoccupazioni di Victoria avrebbero dovuto cercarsi un altro posto dove stare a causa di priorità ben più drastiche della sua situazione sentimentale.

L’idea che suo fratello convolasse a nozze non era riuscita a spaventarla fino alla viglia di quel grande giorno, stesa sul materasso della sua stanza, in preda ad un attacco di panico invisibile.

La voce cominciava a migliorare poco a poco, e con la benedizione di Meg, Victoria avrebbe terminato l’album in tempo. Tutto sommato, il suo problema si riconduceva al segreto che portava con sé.

Quanto sarebbe stata perfida se avesse confessato tutto a Nathan?

Quando sarebbe stato spregevole far finta di non sapere nulla? 
Non sembrava esserci fine a quell’orribile storia.

Nel frattempo, l’abito da damigella poggiava sulla sedia della piccola scrivania di legno, ben stirato e sgargiante, quasi rumoroso avrebbe osato dire Victoria. Era solo un vestito, eppure sembrava che opprimesse quella stanza.

«Vuoi sentirla una storia?», le aveva suggerito Maddie quella sera. La giovane ragazza era la più entusiasta della casa, insieme a quell’energica di sua madre Norah, che non la smetteva di sfornare biscotti al cioccolato per tutti.

«Conosco tutte le favole di questo mondo, Mad».

«Non chiamarmi Mad», si imbronciò. «E comunque non è una favola. E’ solo una storia, senza morale né significato», ammise di nuovo con euforia.

Quel luccichio innocente nei suoi occhi fece desistere Victoria dal mandarla via con parole poco carine, perché le ricordavano fin troppo il brillare degli occhi di quando si è così puri da non veder altro che colori e amore ovunque. Se ne accorgeva solo adesso, ma quel luccichio l’aveva avuto anche lei.

«Fanne un riassunto, forza».

Senza protestare, corse sul letto incrociando le sue gambe e fronteggiando la un po’ più alta figura della sua sorellastra dallo sguardo spento.

«Domani Shane si sposa».

«Madison, non mi sembra una storia…».

«…Fammi parlare! Niente interruzioni», alzò la voce per imporsi.

Victoria seppellì un sorriso divertito ed annuì facendogli cenno di proseguire.

La ragazzina fece un lungo respirò, poi parlò.

«Ti ricordi Gwen, la ragazza della mia classe che ti ha chiesto un autografo qualche giorno fa? Gwen ha una sorella, Charlotte. Charlie era stata insieme ad un ragazzo di Portville, vicino Longwood, credo si chiamasse Eddie», si fermò qualche istante per riflettere. «Comunque, da quanto mi diceva Gwen erano molto innamorati e sembrava andare tutto per il meglio fin quando non si sono lasciati».

«Una cosa di tutti i giorni», si lasciò scappare Victoria, meritandosi un’occhiataccia nervosa da parte di Madison.

«…Erano sempre stati migliori amici, ma sapevano di essere innamorati l’uno dell’altra. Due anni fa Charlie ha scoperto che Eddie si stava per sposare», fece una pause aspettandosi una reazione da Victoria. La ragazza si ritrovò presa e incuriosita dalla storia, ma non tradì nessun tipo di emozione.

«…e Charlie è quasi impazzita. Era ancora innamorata di lui ma era praticamente finita».

«Smettila di prendere pause solo per aumentare la suspense», sbottò irritata. «Non stai raccontando una storia per Halloween».

«Okay, okay», Madison alzò le mani in segno di resa. «Dove ero rimasta? Ah si, Eddie si sposava. Charlie si è chiesta quante volte ancora avrebbe perso l’occasione di parlare e alla fine si è decisa a farlo. Il giorno del matrimonio ha interrotto le nozze», sorrise. «Dev’essere stata una scena divertentissima. Gwen mi ha raccontato che la madre di Eddie è quasi svenuta. Certe cose dovrebbero accadere solo nei film», ma Victoria ignorò le ultime parole della sorella, aspettando quelle giuste.

«E allora? Lui che ha fatto?».

Madison fece una smorfia scocciata e alzò le spalle. «Non lo so. Gwen non è riuscita a raccontarmi il finale».

 

-------------

«Vieni con me».

«Non scherzare, Lucas. Sei pazzo».

Il ragazzo scosse lentamente la testa. «Voglio solo andare via per un po’, cambiare vita», sussurrò chiudendo gli occhi. Era da un pò che quando lo faceva, l'idea di una vita nuova gli balenava in mente. Il desiderio di cambiare per un pò, di vedere persone diverse, posti diversi, per capire la propria strada. Lucas ne aveva così bisogno.

«Scappare sarebbe da vigliacchi», rispose la ragazza con tono incerto. Stava davvero prendendo in considerazione l’idea? Lei non poteva, non era neanche sicura di cosa stessero facendo. Un sospiro di frustrazione riempì la stanza.

«Sarebbe da innamorati».

«Non posso fargli questo. E neanche tu», bisbigliò Carmen. Da quando Victoria aveva scoperto di lei e Lucas, la situazione sembrava insostenibile, come se cominciasse a portare il fardello del tradimento solo adesso. C’era stato un momento in cui aveva creduto di amare davvero Nathan, ma una donna sa quando la persona che hai accanto non ti ama come dovrebbe.

Non aveva tradito Nathan perché si sentiva trascurata, quel ragazzo era riuscito a renderla davvero felice, ma non a farla sentire amata. Mentre Lucas…lui riusciva a farle avere i brividi sulla schiena lanciandole uno sguardo, anche solo sorridendole. 
Carmen sapeva perfettamente quanto tremenda fosse quella situazione, quanto male in ogni caso avrebbe causato e provato contemporaneamente, ma come farne a meno?
Chi sarebbe tanto stupido da guardare scivolare via l’amore a causa del senso di responsabilità? Non lei.

«Farà più male quando lo scoprirà».

«Victoria non dirà nulla. Ha promesso».

«Ma è ancora innamorata di lui», Lucas sbuffò spazientito. «Ed è una ragazza così imprevedibile!», scosse la testa accennando un sorriso. A Lucas piaceva ricordare Vicky come un vortice incasinato ma sconvolgente. Cosa non era capace di sconvolgere quella ragazza?

Era riuscita a rendere il suo migliore amico un ragazzo con i  rimorsi.

«Farà del male in ogni caso», sussurrò la ragazza.

«Se andassimo via però…».

«Va bene», lo zittì subito, ampliando la risposta annuendo velocemente, convincendo anche sé stessa dell'idea assurda.

Lucas raddrizzò le spalle e guardò accuratamente l’espressione risoluta di Carmen. «Verrai via con me?», richiese speranzoso.

«Dopo il matrimonio».

Quel tanto odiato, amato, atteso convolare a nozze. Il pensiero fisso di Marnie, la preoccupazione di Shane, la ragione di Victoria, la favola di Madison, l’ansia degli Hamilton, l’emozione dei Nichols.

Un evento, un giorno, un pezzo di carta. Celebrare la prova che due giovani ragazzi si sarebbero amati finché morte non li avrebbe separati. Ecco quale era il concetto di matrimonio quel giorno.

«La chiesa dovrebbe rivedere il testo», borbottò Shane. «Insomma. In salute e in malattia, finché morte non ci separi?», il tono del giovane sposo si incrinò nuovamente, da lì ad un’ora avrebbe perso la voce.

Erano le prime ore del mattino e Victoria aveva raggiunto suo fratello nel suo piccolo appartamento, per guardarlo prepararsi al suo grande giorno.

Ovviamente la preparazione di Shane si era ridotta allo strafogare un cornetto al cioccolato fissando il suo abito da sposo come se fosse un disgustoso insetto gigante.

Victoria sorrise di fronte alla tenerezza nascosta del suo fratellone.

«Non credo che protestare contro la Chiesa il giorno del tuo matrimonio sia una mossa giusta da fare», ammise. Ancora in pigiama, esattamente come il ragazzo, Victoria era stessa sul materasso in una posizione irregolare, sbadigliando ininterrottamente sotto le parole dell’agitato Shane.

«Dovresti essere un sostegno, sai?».

«Perché sei agitato? Un paio d’ore in chiesa, un anello al dito, un ricevimento divertente e…puff, tutto finito!», Victoria giocò con i suoi capelli cercando di alleggerire la situazione.

Parlava facile lei, la piccola ribelle di New York.

Con un balzò deciso corse ad afferrare la stampella che teneva perfettamente l’abito di Shane

«Ti sei rammollito col tempo, Shane», lo prese in giro. «Sono sicura che se facessimo una sfida non la vinceresti neanche».

Shane alzò le spalle ed inclinò la testa per accogliere la proposta di Victoria.

«Al mio tre, il primo che riesce a vestirsi vince».

Una bella sfida che ricordava quelle che i due erano soliti fare quando i buoni voti a scuola erano la più grande preoccupazione della loro vita, era proprio quello di cui avevano bisogno i nervi tesi di Shane Hamilton.

E non arrivarono neanche al tre.

Victoria era tante cose, e tra quelle peggiori emergeva una piccola invisibile qualità: era una buona sorella. In qualche modo, la ragazza era riconoscente a Shane il fatto di aver mantenuto quella promessa che, prima di arrivare a Longwood, lui le aveva fatto. Dopo la morte di Rain, lo sbruffone dispettoso di New York era diventato un magnifico fratello maggiore, e poi con lei a Longwood era diventato un giovane uomo.

Nulla più di suo fratello, la rendeva fiera in quel momento.

Per questo Victoria rallentò quando fu sul punto di allacciarsi i tacchi vertiginosi in tinta col vestito di sabbia rosa, come lo aveva ribattezzato lei, spostatasi nel salone per cambiarsi. Ricordando la brutta esperienza della prova dell’abito, Vicky era rimasta piuttosto sconcertata quando la sposa le si era presentata alla porta col suo abito da damigella. Proprio quello che lei preferiva.

“L’ho scelto perché so che ti piace”, l’aveva informata. “E perché so che questa scelta farà infuriare Emma”, aveva poi scherzato unendosi a Victoria in una risatina nervosa.

«Mi dispiace sorellina. Credo che la storia continui a ripetersi», la voce più leggera di Shane, scatenò finalmente in lei una risata genuina e un po’ d’eccitazione.

Dopotutto era un matrimonio. Una celebrazione.

Eppure, quando volteggiò verso il fratello come una ragazza che gioca a fare la principessa, rimase colpita dalla figura sottile del ragazzo di fronte a lei.

Shane non era mai stato il tipo da abiti eleganti. Al ballo di primavera dei suoi sedici anni aveva indossato una camicia hawaiana per distinguersi dai ‘pinguini’ che giravano in palestra.

Quella mattina, Shane Hamilton era lì di fronte a sua sorella, con una spalla poggiata sullo stipite della porta del piccolo soggiorno in un meraviglioso smoking nero che delineava le sue forme longilinee e sensuali, e sorrideva – non senza un po’ di imbarazzo – come lo stesso bambino che da piccolo era solito rubarle lo stereo rosa che lei tanto amava.

Con una mano sulla bocca per trattenere un singhiozzo, Vicky avanzò verso di lui.

«Sei bellissimo».

«Ho cercato di farti dire una cosa simile per vent’anni. Perché ora che me lo dici non sento altro che…».

«…hai voglia di piangere?».

«No, che ti voglio bene».

«Shane», sussurrò lei, intenerendo le labbra in un dolce sorriso mischiato a calde e fastidiose gocce di lacrime.

«Fortuna che ancora devi truccarti».

Con un gestaccio non degno di una ragazza, Victoria chiuse la conversazione.

Dovettero aspettare entrambi che, una volta arrivati i loro genitori, passata la crisi di pianto della ex signora Hamilton davanti a suo figlio pronto a sposarsi, la mattinata continuasse, entrambi sapendo che per quel giorno, non avrebbero avuto più tempo solamente per loro.

Mentre Marienne legava i lunghi capelli della figlia in un elaborata acconciatura che ricordava vagamente le attrici delle serie tv ambientate nell’Ottocento, il signor Hamilton dispensava consigli al futuro sposo, dopo aver lasciato Norah e le sue figlia a prepararsi nella casa sul mare.

L’appartamento di Shane non era male, ma era soffocante, e una volta sposati, né lui né Marnie sarebbero durati molto in quel posto. L’atmosfera che alleggiava era irritante e scomoda, anche se l’emozione saliente che dettava il tempo che scorreva, riusciva a cancellare ogni forma d’ansia.

«Ci saranno proprio tutti. Gli invitati sono moltissimi, non posso crederci che anche i nostri amici di New York abbiano accettato di venire», raccontava sua madre. «Kate e Rachelle sono atterrate da poco, arriveranno direttamente in Chiesa dopo essersi cambiate in chissà quale stanzino segreto dell’aeroporto», aggiunse Victoria contemplandosi allo specchio.

Un pensiero, una smorfia le attraversarono la mente di colpo.

«Spero non ci siano paparazzi», sussurrò. «Meg ci sarà?».

La donna annuì, nel suo splendido abito lungo blu scuro. «Me lo ha confermato ieri. E il bestione darà una mano in situazioni estreme», aggiunse divertita pensando a Big Rock in abiti eleganti. Scosse la testa e si lasciò distrarre da altre parole.

«Andrà tutto a meraviglia», dalle scale la voce tesa del signor Hamilton arrivò alle due donne.

Una volta raggiunte, giusto un passo avanti allo sposo pronto ad andare via, Victoria poté contemplare per pochi secondi quella scena estremamente commovente.

Non vedeva tutta la sua famiglia insieme da quando era piccola. Adesso erano tutti adulti, persone con problemi e gioie, con una vita e una carriera.
Ma anche se solo per quel giorno gli Hamilton, erano di nuovo insieme. 

 

---

 

«Adesso può baciare la sposa», decretò il prete.

E così fece Shane, baciando sua moglie, sotto una coperta di applausi e soorisi smaglianti.

Non aveva pianto, Victoria. Non davanti a tutti perlomeno, dopotutto era la testimone dello sposo.

Marnie aveva fatto scomparire dal viso quella pressante espressione di dubbio e incertezza, lasciando spazio a dolci lineamenti adornati da due piccoli boccoli ad entrambi i lati del viso.

Era tutto troppo confuso per fermarsi a riflettere, le persone erano tantissime e il peso del cuore era sempre più pesante. 

Il tempo aveva deciso di prendersi gioco della sua memoria. Victoria era stata presa dalla frenesia degli invitati, dall'emozione di aver visto suo fratello pronunciare il si più importante della sua vita. Era stata costretta a trascinare sua madre in un posto appartato per farla smettere di piangere e lanciare urletti inquietanti.

Penseremo a cosa è successo quando né avremo tempo. Adesso comportati da donna dignitosa”, le aveva detto con voce poco sicura.
Al ricevimento, fu costretta a prendere posto a tavolo più scomodo che potessero dargli. Essendo il testimone della sposa, Lucas stava al suo fianco in un completo semplice ma attraente, giusto per far risaltare quell’aura incantevole e dolciastra che lo attorniava. Subito dopo loro due, il tavolo rotondo ospitava una Carmen nervosa accompagnata da un raggiante – ed emozionato - Nathan.

Il fatto che avesse dimenticato il loro ultimo incontro con così facilità la urtò. Non toccava a lui essere così felice! Non più del fratello stesso della sposa.

Ma Marnie è la sua migliore amica. Lui la adora. La accuso la sua coscienza. Fortunatamente, anche Kate e Rachelle sedevano con loro, disinvolte come sempre.

La sala del ricevimento era enorme, per questo ringraziò mentalmente Emma di aver aiutato la sposa a scegliere un posto tanto grande da far disperdere la gente. Erano troppi i visi che non conosceva, e troppi quelli che conoscevano lei.

«Vorrei tanto stare qui con voi», aveva detto Marnie circondando le spalle di Nathan e rivolgendosi a Vicky, proprio di fronte a lui.

La ragazza scrollò le spalle e accennò un sorriso. Il vestito di Marnie era più semplice di quanto lo ricordasse. Era elegantemente fasciato intorno al suo corpo dalle curve sottili, Victoria immaginò che dovesse essere anche un pò troppo stretto per i suoi gusti, eppure donava alla sposa una regalità invidiabile. In testa, per abbellire l'acconciatura, portava una coroncina di finti fiori bianchi, che Vicky non avrebbe mai saputo indovinare quale fosse il loro nome. Sotto il lungo abito, aveva messo da parte i fastidiosi tacchi color crema, per sostituirli con semplici scarpe basse e non appariscenti.
Ma facevano un bell'effetto. In realtà era lo strano sorriso timido che addolciva le guance di Marnie a renderla la ragazza più bella di quella festa.

«Non allontanarti da mio fratello», la rimproverò Victoria con divertimento. «Sembra sul punto di svenire da un momento all’altro», indicò il ragazzo che girava tra i tavoli per accettare le congratulazioni e sorridere a tutti con cortesia. Mentre con lo sguardo girava tra i tavoli con la curiosità di riconoscere tutti, Vicky fermò gli occhi in un punto.

E per qualche istante perse il respiro.

«Nessuno mi ha detto che sarebbero venuti», si rivolse a Rachelle con sconcerto e quando l’amica non le rispose, con sguardo accigliato, Vicky fece un balzo deciso, lasciò il suo tavolo e raggiunse l’altro lato della sala volteggiando in quel vestito così leggero e adorabile.

Da dietro, Shane la raggiunse, quasi come se avesse capito le sue intenzioni e avesse deciso di appoggiarla.

Nel frattempo però, Nathan lanciò un occhiata curiosa Marnie, che alzò le spalle a mo’ di scusa, segno che neanche lei sapesse chi stessero raggiungendo. 
Per non lasciare ulteriore silenzio in quel gruppo, Kate si decise a spiegare la reazione improvvisa dell'amica.

«E’ andata lì», indicò le persone che Vicky aveva raggiunto con un pò di timore. «Quelli sono i genitori di Rain».

Nate spalancò gli occhi appena, e si voltò per guardare Victoria con un'altra espressione.

La disinvoltura della ragazza rimase accecata da quel ricordo inaspettato che le si era presentato nel momento più giusto e più sbagliato. Ma non lasciò vincere la tensione, con un leggero sorriso salutò il signore e la signora Taylor.

«Sono così felice di rivedervi», pronunciò una volta abbracciati entrambi.

«E’ un onore avervi al mio matrimonio», continuò Shane con il suo inconfondibile fascino.

«E’ ancora strano crederlo», disse la donna fissando Shane con sguardo dolce. «Sembra ieri che giocavate tutti a casa nostra».

Vicky si irrigidì come previsto. Aveva la vaga sensazione di essere osservata da più parti della sala, ma non si voltò neanche per un secondo ad appurare i suoi sospetti.

«E tu Vicky», l’uomo mise una mano sulla spalla della moglie. «Se così cresciuta, è da tanto che non ti vedevamo».

«Oh, ma che dici! La vediamo ogni volta in tv, non ricordi?», la rimproverò il marito, mentre la moglie annuiva.

«Ma adesso posso vederla dal vivo», mormorò con tenerezza al marito.

«Ed è ancora più bella di quanto ricordassi», continuò a tenere la voce bassa, ma Vicky arrossì perché quel sussurrò non fu abbastanza debole da farsi ignorare dai presenti.

«Scusaci, Victoria», continuò, tutto ad un tratto rivolta verso di lei. «Prima che andiamo via, ripassa da noi. Dovrei darti una cosa», addolcì nuovamente il suo viso con un sorriso a fior di labbra.

Da lontano, Nathan aveva notato i lineamenti addolciti del viso della testimone dello sposo. In effetti, Victoria era stata colta da una sensazione di calore e tranquillità, davanti a due persone ancora così forti di fronte ad un dolore che lei ancora cercava di distruggere. 
Quando salutò i genitori di Rain, con la muta promessa di rivederli ancora, raggiunse il suo tavolo con maggiore disinvoltura, stanca della pressione inutile che cedeva di dover portare quel giorno.

Dopotutto non era lei che si era sposata, giusto?

Mentre il suo sguardo gironzolava per la lunga sala che stava percorrendo, alzò il mento, quasi ad imitare un’espressione di fierezza.

 

I suoi gomiti poggiavano bruscamente sulle ginocchia, mentre le guance prendevano una forma irregolare perché affondate tra i palmi delle mani.

«Vuoi sapere la verità, Nathan?».
«Sono molto più semplice di quanto tutti pensino. Sono solo una ragazza. Confusa e contraddittoria. Oh, terribilmente contraddittoria! Così tanto che delle volte ho paura. E’ normale, giusto? Avere paura del mondo, della vita, delle persone, del futuro. Eppure, nonostante sento di essere tanto fragile da potermi spezzare…non succede mai. Continuo a reagire, e allora penso di essere forte», sbuffò senza staccare il contatto visivo che tanto aveva faticato a costruire con lui in quel momento.

«Ma allora che sono? Sono fragile o forte?». La chiarezza con cui Vicky aveva finalmente parlato, aveva spiazzato Nathan.

Molte volte quel ragazzo aveva sperato di capirla, magari nel modo sbagliato, complicando tutto. E quando lei, involontariamente, quella volta riuscì a farsi comprendere, Nathan non fu capace di soffocare una risata.

«Ridi di me, Carver?», borbottò infastidita.

«Puoi cercare di salvare te stessa trovando una strada giusta, buona. Ma non puoi salvare il mondo, Vic».

«Chi ha parlato di salvare il mondo?».

«Tu vuoi essere perfetta. Cerchi in ogni modo di imitare qualcosa che il più delle volte non ti si addice. Ecco perché sei una contraddizione, perché ancora non ti conosci. Ma invece di provarci davvero, pensi a come fare per apparire perfetta davanti ad un mondo che se ne frega di te».

«Quindi, mi stai dicendo…».

«si, che sei ancora una bambina».

Victoria sorrise al pensiero. Avrebbe dovuto infastidirla, ma l’irritazione fu immediatamente scavalcata dalla sensazione di sicurezza che era riuscito ad infonderle Nathan.

Non era sicura che la risposta del ragazzo fosse giusta, anzi.
Ma lui, almeno, aveva provato.




Fine undicesimo capitolo.



Questo capitolo non è fondamentale, ma mette le basi per qualcos'altro...chi lo sa.
Per quanto riguarda Victoria: è così che me la immagino. Contraddittoria. Strana. Irritante. Alla ricerca di sé. 

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Capitolo 12
*** L'ultimo giorno in paradiso ***


Capitolo 12

“L'ultimo giorno in paradiso”

 

Il signor Hamilton aveva tutta l’intenzione di evitare quella parte del ricevimento chiamata danza.

Non ci era riuscito anni prima, durante il suo stesso matrimonio, ma era fiducioso nelle sue capacità di rifiuto e sapeva che questa volta, al matrimonio di suo figlio, sarebbe riuscito a non ballare davanti a tutti.

Un momento come quello lo si riconosceva subito. Le persone cominciavano ad essere sempre più elettrice, disinibite. C’era chi gironzola aspettando un invito, chi fissava la pista da ballo con fermento, e chi impallidiva man mano che il tempo avanzava. Come Shane, che sembrava aver perso quella scioltezza che quasi sempre lo contraddistingueva.

Dal suo canto, Victoria aveva cominciato un competitivo dibattito su cosa ci si aspetta da un matrimonio con Kate e Rachelle, entrambe divertite dall'assenza di vivacità delle persone al loro tavolo.

Non che si aspettassero dei festaioli – nonostante Rachelle ricordava chiaramente Nathan e Lucas come due spiriti liberi – ma almeno il fratello della sposa e la ragazza dell'amico della sposa avrebbero potuto sciogliersi di più e soprattutto non gettare occhiate furtive come se stessero rubando il delizioso cibo del ristorante.

«Di cosa ti occupi, Carmen?», aveva chiesto Kate per sminuire il 'faccia a faccia' tra Victoria e Rachelle che discutevano sui pregiudizi dell'abito della sposa.

La bella ragazza dalla pelle olivastra, indossava un candido abito color panna che sembrava cadergli perfettamente sul corpo con naturalezza.

Sposto l'attenzione dal suo ragazzo, intento a raccontare aneddoti su quando lui, Marnie e Lucas erano piccoli, e si rivolse gentilmente a Kate.

«Per adesso, faccio la segretaria nell'ufficio di un avvocato», ammise. «Ma sto facendo un corso di fotografia, perché mi piacerebbe diventare una professionista».

Sia Rachelle che Victoria smisero di chiacchierare per unirsi all'altra conversazione.

Vicky sentiva ancora su di sé il disagio che aveva provato nel trovarsi Carmen nell'unico posto che credeva fosse immacolato.

«E' una fotografa straordinaria», si intromise Nathan, circondandole le spalle con un braccio.

E lo sa Nathan che hai fotografato anche Lucas? Avrebbe voluto dispettosamente dire, ma non se lo sarebbe mai perdonato, quindi si limitò ad assistere al dialogo.

Non le andava di ribadire a sé stessa quanto fosse bello, in quegli abiti. Indossava, quasi simile allo sposo, uno smoking a cui sostituiva un papillon al posto della cravatta classica. I capelli erano studiati per rimanere perfettamente indietro con chissà quanti strati di quella che John Travolta avrebbe definito brillantina, come un perfetto attraente uomo degli anni '50.

Il suo biondo era leggermente un po' più cenere del solito e i suoi occhi apparivano quasi trasparenti.

Ma Victoria ripeté a sé stessa che era inutile ricordarlo. Nathan era bellissimo, e dirlo mille volte nella sua testa non sarebbe servito a qualcosa.

«No, non esagerare», contraddisse Carmen. Con cautela spostò il braccio che lui le aveva stretto intorno alle spalle e con dolcezza abbassò lo sguardo in un esplicito stato di disagio. Victoria non se la sentì di zittire l'ennesima vocina che le sussurrava “sta avendo rimorsi”, perché il solo pensiero le portava un po' di consolazione insieme ai brividi di disgusto.

L'avrebbe mai scoperto?
Scoperto cosa poi? Vicky aveva assistito ad un bacio tra Lucas e Carmen, non si era mai fermata un attimo a chiedersi cosa ci fosse sotto. Quanto fossero coinvolti gli amanti.

«Adesso basta fingere di divertirvi», la voce della sposa taglio i discorsi e i pensieri dei giovani invitati, con il suo abito sinuoso, privo di spalline ma pieno di ricami e diverse lunghezze, Marnie appoggiò con nonchalance i gomiti sul tavolo, sposando bruscamente il silenzioso Lucas e sbuffando sonoramente. «Perché nessuno vuole mai ballare? E' noioso», annunciò.

«Devono essere gli sposi ad aprire le danze», confessò suo fratello. Marnie gli concesse un occhiataccia per poi rivolgere i suoi occhioni dolci al suo migliore amico.

«Nat, mi faresti l'onore di invitarmi a ballare?», domandò con un tono che non sembrava ammettere repliche. «Magari è la volta buona che Shane si decide ad essere geloso».

I ragazzi scoppiarono a ridere all'unisono, non prima che Victoria scuotesse la testa fissando il fratello visibilmente agitato che gironzolava per i tavoli.

Ormai era sposato. Perché continuava ad essere tanto agitato?

Ma non ebbe il tempo di rifletterci per molto, avevano tutti cominciato ad muoversi sulle loro sedie in trepidazione.

Nathan sorrise a Marnie, e rivolse con gli occhi a Carmen un 'torno subito' ma non ci fu alcun problema per lei. Lucas, audacemente sfiorò una spalla alla ragazza e con un silenzioso invito la trascinò sulla pista, dove la sposa e il suo migliore amico avevano già attirato l'attenzione degli invitati con un rilassante lento.

I due erano al centro della sala, disinvolti l'uno nelle braccia dell'altro, e sorridevano scambiandosi qualche parola sussurrata all'orecchio.

Victoria aveva sempre ammirato quell'amicizia tra i due, che era completamente diversa dal rapporto che Nathan aveva con Lucas.

Lucas era ciò di cui Nathan aveva bisogno, non riusciva a pensare come potesse essere devastante il solo pensiero che lui lo stesse pugnalando alle spalle.

Eppure non riusciva ad avercela con Lucas più di quanto ce l'avesse con Carmen. Victoria non poteva in nessuno modo permettersi di avercela con qualcuno.

Cosa poteva saperne lei di cosa passava per la testa di Lucas, o di come si sentisse?
Con una sola occhiata generale, si accorse che la maggior parte dei tavoli avevano cominciato a svuotarsi, mentre al suo fianco erano rimaste solo le immancabili Kate e Rachelle.

Per un attimo, pur di non lasciare il pensiero andare via, pensò che il legame tra loro tre, fosse simile a quello tra i due amici di Longwood, e immaginò che non fosse affatto facile cercare di comprendere la situazione.

Un'ombra le si parò davanti agli occhi, impedendole di capire se fosse davvero suo padre quello che stavano trascinando a forza sulla pista.

Di Shane nemmeno l'ombra.

Una ragazza con un lungo abito di raso verde smeraldo, prese il posto di Nathan al tavolo delle tre ragazze, fissandole con un enorme sorriso imbarazzato.

Le tre si scambiarono un'occhiata confusa, con aggiunta di smorfia da parte di Rachelle che sembrava voler dire a Victoria “sei tu quella famosa”.

«Ciao!», disse. «Mi chiamo Charlotte, potete farmi un favore?», annunciò parlando in modo troppo rapido da lasciar assimilare le parole.

Victoria spalancò gli occhi fissando ancora con più attenzione la ragazza. Non sembrava molto più grande di lei, ma sicuramente lo era. I suoi capelli erano perfettamente biondi, quasi quanto quelli di Emma ed aveva due grandi occhi scuri che aspettavano con agitazione una risposta.

Kate si era voltata confusa, sperando che arrivasse qualcuno a chiederle di ballare per dare un taglio alla situazione patetica che si era venuta a creare, mentre Rachelle aveva gli occhi puntati, con espressione accigliata, sulla strana ragazza che si era presentata a loro.

«Ti conosciamo?», rispose brusca quest'ultima. Con una gomitata sul braccio Victoria le intimò di stare zitta.

«Scusate, siete le uniche ragazze che non stanno ballando e ho bisogno che mi aiutate», Rachelle fece per rispondere per le rime a quell'orrenda supposizione in cui lei faceva la magra figura di quella che non ballava, ma ancora una volta l'amica le intimò di tacere.

«Potreste fingere di conoscermi e lasciarmi stare al vostro tavolo per qualche minuto? Devo evitare una persona», si voltò lentamente alla sua destra e fissò qualcuno tra le poche persone rimaste dall'altra parte della sala.

«Oh, benvenuta nel club, ti troveresti bene con lei», rispose sarcastica Kate, indicando Victoria.

La ragazza arrossì.

«Ehi, io non evito nessuno», Victoria passò dal rosso al bianco pallido rivolgendosi alla sua intuitiva amica.

«Io ti conosco», si intromise la strana ragazza.

«Già, chi è che non la conosce?», continuò Rachelle con finta aria scocciata.

«Charlotte, loro sono le mie migliori amiche Rachelle e Kate», disse Victoria gentilmente. «Sono Victoria, la sorella dello sposo», si limitò a pronunciare.

Charlotte puntò i gomiti sul tavolo senza troppa grazia, e avvicinò il viso verso Victoria e disse. «Tu sei quella famosa, giusto? Forte!», sorrise ancora dopo aver gettato l'ennesima occhiata alla sua destra.

«Non ti stai nascondendo da un maniaco, vero?», le chiese Victoria, mentre le note di El tango de Roxenne, prendevano forma prepotenti sulla pista. Con un sorriso represso, immaginò suo padre destreggiarsi con un tango tanto...sexy.

Fortunatamente la risata cristallina di Charlotte le tolse quel pensiero.

«Vedete quel ragazzo laggiù?», indicò con la coda dell'occhio un gruppo di persone sconosciute che chiacchieravano allegramente in fondo alla sala.

«Quello con il broncio, i capelli scompigliati e la camicia scura?», i dettagli riuscirono a far sorridere le tre e a trovare con lo sguardo il ragazzo di cui Charlotte parlava. Possibile che Victoria non conoscesse metà degli invitati al matrimonio di suo fratello?
«Lo sto evitando, mi fa sempre arrabbiare in un modo...», mimò un espressione che non aveva parole che fece sorridere Kate e accigliare Victoria.

«Charlotte, per chi hai detto di essere qui?», domandò.

«Scusami, certo! Qui a Longwood ci conosciamo un po' tutti, sapete. Io sono una vecchia amica di Emma, e conosco bene Marnie, andavamo a scuola insieme», ammise con disinvoltura.

La musica era cambiata ancora una volta, segno che gli invitati erano già al secondo o al terzo ballo. Ma non era questo che aveva colpito maggiormente Victoria e l'aveva lasciata senza parole.

 

Ti ricordi Gwen, la ragazza della mia classe?

Gwen ha una sorella, Charlotte.

e Charlie è quasi impazzita. Era ancora innamorata di lui.

 

Scosse la testa con l'intento di scacciare via i suoi sospetti.

Ma una vocina si insidiò tra i suoi pensieri chiedendole “sei sicura che siano sospetti?”. E dopotutto, non poteva darle torto. Le sue supposizioni erano soprattutto frutto di una speranza sincera, priva di legami personali che la distraevano da sé stessa.

Era proprio quella la cosa più incredibile. Interessarsi a qualcosa che non dovesse per forza farle male o renderla infelice.

«Sei la sorella di Gwen?».
«Si, la conosci? Ma certo, che stupida, è in classe con Madison!», annuì sorridente.

La testa di Victoria era già volata verso posti solo a lei conosciuti. L'idea che quella ragazza fosse proprio lì, con la sua storia a portata di mano, la fece sorridere. Sembrava quasi che qualcuno avesse mandato per lei quella storia, quella briciola di un racconto che animava speranza.

Fu sul punto di chiedere ad alta voce e con un impeto straordinario, se poteva togliergli una curiosità, ma l'ombra imponente dello sposo fece capolinea al suo tavolo e distrasse Victoria con il suo sguardo imbarazzato. Eppure lei doveva sapere.

«Idiota di uno sposo! Dov'eri sparito?», pronunciò poco amorevolmente Rachelle. Non importava quanto potesse apparire femminile e provocante: alla sua migliore amica bastava aprire bocca per rompere l'incantesimo intorno alla sua aura angelica.

Shane portò una mano dietro la nuca con fare confuso, quasi non si fosse reso conto di essersi isolato fin troppo. Ignorò Rachelle e fissò sua sorella.

«Devi ballare con me».

«Che strana proposta», sussurrò ironica la nuova ragazza a quel tavolo. Vicky sorrise a Charlotte e le presentò suo fratello.

«Non dovresti ballare con la sposa?».

«Puoi non fare domande e venire con me sulla pista per favore?», domandò con urgenza. Victoria riconobbe l'allarme nella sua voce, il tremolio dell'agitazione e comprese quanto teso fosse ancora.

Marnie era finalmente sua moglie, certo, ma c'era tutto il resto da affrontare e lui aveva chiaramente paura.

Perciò, scusandosi con le amiche ed in particolar modo con Charlotte, si allontanò con suo fratello, trascinando nuovamente con sé il dubbio che comportava l'aneddoto legato a quella curiosa ragazza.

Avrebbe mai saputo com'era andata a finire la sua storia?

In quel momento non doveva essere un suo problema. Alzò le spalle, fiera, e si strinse con eleganza a suo fratello con un piccolo sorriso di incoraggiamento. Insieme a loro, c'era la sposa che volteggiava con Nathan, in un confidenziale gioco di complicità che solo la danza riusciva a donare. Carmen e Lucas erano rigidi l'uno nelle braccia dell'altro seppure i loro sguardi tradissero qualcosa estranea anche all'occhio di Victoria. Suo padre, chiaramente imbarazzato, si limitava ad ondeggiare tra le braccia della più rilassata Norah che sorrideva del suo disagio. Mentre, poco più lontana da lei, Emma sussurrava qualcosa all'orecchio di Simon 'il dottore', che scuoteva la testa divertito.

Guardarsi intorno e riscoprire così tanti visi lasciò nel petto di Vicky un incredibile senso di leggerezza e gioia. Seppure fosse vero che i problemi erano ancora lì, ad aspettarla intrepidi e impudenti a braccia aperte, non voleva dire che lei non potesse sentirsi lieta davanti ad una scena così teatrale come quella.

La danza era il momento esatto in cui l'uomo era disposto a scacciare via la patina che lo avvolgeva ogni giorno per lasciarsi andare, nudo, ai suoi desideri, pronto a soddisfare almeno per una volta il suo più vero io.

Quando la canzone terminò Shane era più rilassato e sorridente, ma non meno teso di quanto non lo fosse uno sposo normale. Alle sue spalle, sua moglie aveva gli occhi pieni di un luccichio irriconoscibile e camminava verso di lui trascinandosi il corposo vestito di nozze.

Non ci furono particolari scambi di parole e Marnie seppe trattenere la sua voglia di prendere a calci il neo marito per non averla fatta ballare ancora.

Ma avrebbero presto rimediato. Nel giro di pochi istanti la sala ebbe un solo attimo di scompiglio e tutti scambiarono posto senza stare in silenzio.

Nelle sue mani non c'erano più le spalle di Shane, ormai al centro di un vortice tra le braccia di Marnie, e il ragazzo dall'espressione seria davanti a lei pretendeva di non doversi togliersi dalla pista.

Nathan lanciò un cenno imbarazzato a Vicky alzando le mani a mò di invito.

Neanche per un secondo esitò e con decisione, la ragazza si voltò per allontanarsi dalla pista. Non era così stupida, dopotutto. Ma probabilmente Nathan lo era tanto dall'afferrarle con forza il polso e a costringerla a volteggiare con lui nella frazione di un istante. Più veloce della sua stessa coscienza che fallì miseramente quando tentò di far ragionare Vicky.

Ballare con il ragazzo che aveva amato, e che con ogni speranza persa amava ancora, non era mai stato così difficile e così facile allo stesso tempo. Erano disarmonici nei movimenti, contrastavano la complicità delle altre coppie. Ma erano disarmanti nella sensazione di forza che emanavano. Come qualcosa di pericoloso da cui non ti puoi allontanare.

Victoria appoggiò con delicata freddezza una mano nella sua, alzò lo sguardo inorgoglito e puntò sulla musica, concentrandosi totalmente nel ritmo dei passi e dei gesti che un bravo ballerino dovrebbe conoscere.

Dal suo canto, Nathan era più divertito che nervoso. Era sempre così con lui: quando toccava davvero il fondo con Vicky, né risaliva in un attimo, lasciando a lei il compito di rimanere sulle sue.

Il ragazzo aveva passato troppo tempo ad essere orgoglioso per voler rimanere ancora una volta solo.

E per quanto Victoria lo irritasse tanto da fargli venire degli attacchi di panico, Nathan era tanto masochista da avvicinarsi ancora di più a lei.

Gli occhi grandi e scuri di lei vagarono per la sala con l'evidente intento di rendere meno sofferti quei tre minuti di musica.

Con la coda dell'occhio raggiunse la figura prorompente e alta della ragazza che aveva conosciuto pochi minuti prima: Charlotte. La sua espressione non era più corrucciata o imbarazzata, dal suo profilo Victoria poté riconoscere un sorriso appena accennato. Il ragazzo da cui sembrava scappare fino a pochi minuti prima aveva dovuto farle cambiare idea, dato che lo stringeva con forza tra le braccia, in modo intimo.

Si ritrovò a pensare inconsciamente – o forse era ben conscia ma non riusciva ad ammetterlo – che aveva un disperato bisogno di farsi i fatti dell'amica di Marnie.

Concentrati, si rimproverò. Dopotutto stava ancora ballando con Nathan.

«Cos'è più interessante di me?», le sussurrò Nathan guidandola delicatamente nei passi basi della danza, senza prendere totalmente il comando. Vicky non si lasciò trasportare dal suo sarcasmo e rimase attaccata con il pensiero a Charlotte e al tizio al suo fianco. Ma perché non coinvolgere anche Nathan nella sua pazzia?
«La conosci?».

«Chi, Charlotte?», Victoria annuì voltandosi verso di lui con contegno.

«E' una ragazza di Longwood, è ovvio che la conosco», ripeté con esagerata convinzione. Un'altra volta, la ragazza tra le sue braccia promise a sé stessa di non lasciarsi intrappolare nella sua tenera rete di sarcasmo e fascino.

Era colpa sua se aveva perso la voce, se era rimasta sola sotto la pioggia quella notte.

Era tutta colpa sua. Perché era più facile, perché era più divertente.

«Non mi interessa sapere dell'infinità di ragazze che hai conosciuto se non sei capace di tenertene stretta una», imitò il suo tono tagliente.

Il ragazzo si irrigidì immediatamente e Vicky maledì se stessa e la sua enorme boccaccia. La sua era stata una sconsiderata e chiara allusione a cosa di cui Nathan non era a conoscenza. Avrebbe provocato un altro enorme guaio.

Riportò gli occhi sull'estremità della sala.

«Come si chiama il ragazzo con Charlotte?», sopperì le ultime parole con una domanda.

«Lui è Sean», disse con convinzione. «Posso sapere perché ti interessa?».

Ma per Victoria era inutile raccontare a chiunque della sua stupida speranza che la storiella di Maddie potesse rivelarsi un raro lieto fine della realtà. L'espressione contenuta del suo viso crollò come una luce che si spegne, attirando ancor di più l'attenzione di Nathan verso di lei.

«Non è divertente neanche per me, ma rimetti su il tuo sorriso e non fare l'egoista. E' il matrimonio di tuo fratello», rimarcò le ultime parole sussurrandole al suo orecchio come se le stesse facendo una proposta indecente.

Victoria tacque.

«Adesso mi preoccupi».

«Cosa ho fatto?».

«Ti ho dato dell'egoista, Vicky», pronunciò con tono solenne. «Tu diventi violenta ogni volta che lo faccio».

Lei alzò le spalle in un gesto sconnesso alla loro impercettibile danza.

«E' una lunga storia».

«C'entrano Charlotte e Sean?», lei si morse un labbro per evitare di dire qualcosa di stupido, Nathan lo colse come un diretto.

Victoria scrollò le spalle e fermò la danza. «Abbiamo ballato più del previsto, grazie», indietreggiò per dimostrare di voler smettere di volteggiare. Con delicatezza e disinvoltura – quasi fosse un gesto abituale – il ragazzo dai capelli biondi riportò la ragazza tra le sue braccia, forse anche più stretta a sé di quanto non fosse prima.

Il tale garbo e la semplicità con cui tornò a farla volteggiare spiazzò Victoria che non riuscì, né con la testa né col corpo, ad impedirsi di lasciarsi soggiogare.

«Mi dici perché ti interessa Sean?».

Vicky fece una smorfia e scosse la testa riuscendo a parlare solo qualche istante dopo.

E in tutto questo non incrociò gli occhi di Nathan nemmeno una volta.

«Non mi interessa lui. E' solo che avevo stupidamente sperato si chiamasse Eddie», confessò.

La realtà le colpì il viso più del vento in inverno: dirlo ad alta voce le sembrava ancora più ridicolo del pensiero stesso.

«Che c'entra il marito di Charlotte, adesso?».

Victoria alzò finalmente lo sguardo fino a guardarlo dritto in viso. «Marito?», balbettò.

«Si, Eddie. Mentre quello lì che hai indicato tu è Sean, il fratello di...», la sua frase rimase in sospeso tra il più bel sorriso di Victoria e la confusione che lei gli aveva fatto indossare.

Vicky credette davvero di essere capace di stampare un lunghissimo e orgoglioso bacio sulla guancia di Nathan, ma si trattenne senza esitare.

Era così bella quando sorrideva.

Guardandosi intorno notò quanto fosse cambiata la situazione: solo poche coppie – sposi compresi – erano rimasti sulla pista ed era chiaramente visibile l'attenzione focalizzata su di loro come un astronomo e le sue stelle.

«Sarà meglio che ritrovi Carmen», asserì lui. La ragazza, con le labbra ancora rivolte in su, gli voltò le spalle e con i piedi pesanti raggiunse il tavolo dove le sue amiche erano ormai scomparse.

Non era nemmeno riuscita a chiarirsi con Nathan dopo quello che le aveva detto.

Pensando e ripensando agli ultimi dieci minuti passati sulla pista, un pensiero prese il sopravvento facendola cadere nel panico. L'ultima volta che Vicky aveva visto Carmen, la ragazza stava ballando con Lucas.

Dov'erano adesso?

Si voltò di scatto per uscire dalla sala e raggiunge Nathan prima che il suo cuore si spezzasse ancora.

Come se si ritrovasse improvvisamente nel testo di una canzone, nell'ultima puntata di una soap opera di serie b, Victoria riuscì solo ad inciampare più di una volta fino ad alzare bruscamente il lungo vestito con le mani.

Non era Cenerentola che scappava dal ballo. Era Belle che salvava la persona che amava.

Perché era quella davvero la sua priorità?

Sbuffò per l'ennesima volta destreggiandosi tra i volti sorridenti degli invitati al matrimonio. Possibile che conoscesse tutte quelle persone?
Le tracce di Nathan erano sparite e il panico in Vicky prendeva sempre più spazio comodamente sulla poltrona situata all'interno del suo stomaco in subbuglio.

E' il suo ultimo giorno in paradiso, Mr. Carver.

 

---

 

Alla porta che dava sul giardino, Victoria tirò un sospiro di sollievo e brividi di terrore quando i suoi occhi toccarono l'immagine di Nathan con Carmen e Lucas.

Socchiudendo gli occhi e dirigendosi verso di loro con agitazione, non notò alcun tipo di smorfia sul volto dei tre, né colse parole che c'entrassero con quello che nascondevano Carmen e Lucas.

Ignorando totalmente il bellissimo paesaggio che circondava il luogo della cerimonia, Victoria si ricordò di rilassare i muscoli e riprendere l'uso della parola.

A pochi passi, i ragazzi si accorsero di lei e – seppure impercettibilmente – la mora dai tratti dolci e la pelle olivastra si irrigidì.

Quando Nathan le rivolse uno sguardo accigliato che chiedeva silenziosamente 'C'è qualcosa che non va?', Victoria ricordò di essere tremendamente fuori posto.

«Lucas!», improvvisò. «Volevo invitarti a ballare», si rivolse al biondo che la fronteggiava.

Al suo incerto assenso, la situazione divenne tanto imbarazzante da costringere Vicky a trascinare il ragazzo con lei, lontano da Carmen, ma soprattutto dal suo migliore amico.

Una volta lontani, la ragazza trovò impossibile ignorare i suoi pensieri.

«Non capisco cosa ti salta in mente! E' il matrimonio di tua sorella! Lui è qui, credevo che tu e Carmen aveste finito di fare Romeo e Giulietta», di tutte le reazione che Lucas poteva avere, quella dello sguardo arrabbiato e la bocca chiusa era sicuramente la meno riconoscibile.

Victoria si era sempre vantata, in un modo o nell'altro, di avere un particolare ascendente sul ragazzo dai capelli biondi che tanto adorava, ma solo in quel momento si rese conto quanto fosse diverso, probabilmente più di tutte le persone che aveva rincontrato dopo tre anni.

Non sembrava più capace di ridere con lei, appariva più vecchio. Lei non era più il suo toccasana. Lei e probabilmente Nathan erano diventati il veleno di Lucas, perciò non poté gridargli quanto disgustoso pensasse fosse il suo rapporto con Carmen.

«E' inutile che ti scaldi tanto, okay?», le sussurrò con cautela.

Victoria alzò gli occhi al cielo battendo le mani sui fianchi come se si stesse trattenendo dal mettergli le mani addosso.

«Che vuoi dire?».

«Io e Carmen ce ne andiamo, Vic», disse con un sorriso amaro, poco divertito. «Ha scelto me. Ha accettato di partire con me», continuò con convinzione.

La ragazza spalancò gli occhi inorridita. Un lampo le attraversò gli occhi e spostò lo sguardo da Lucas alle sue spalle.

«Lei lo sta lasciando, non è vero?», sussurrò guardando da lontano Carmen e Nathan – entrambi in posture poco rilassate – sussurrarsi l'un l'altro.

Lucas annuì e chiuse gli occhi per qualche istante.

Per Victoria fu come raccogliere a mani nude una sconfitta, impotente fissava il ragazzo che amava soffrire per un'altra ragazza. Quanto tremendo, strano, assurdo poteva essere il mondo?
Un giorno amiamo, il giorno dopo odiamo. Desideriamo quello che il giorno dopo temiamo. Era l'essere umano e Vicky non si era mai sentita più umana da quando Nathan era entrato nella sua vita.

«Vuoi sapere perché non è più come quando vi siete conosciuti?», le sussurrò Lucas con calore.
Tacendo, Vicky lo lasciò proseguire.
«Perché quei mesi in cui vi siete arresi a quell’amore vi hanno segnato. Dopo aver smesso, non siete stati più gli stessi. Tu non eri più l’impulsiva ragazzina di città, e lui non era più l’irrequieto figlio di papà del Wisconsin. Siete cambiati, Victoria», disse con un impeto di rabbia indeguato.

Toccava a lui arrabbiarsi perché lei non era capace di comprendere cosa le succedeva?
Forse.

Non trovò la forza di rispondergli, né il coraggio di guardarlo negli occhi per lasciargli intendere quanto avesse ragione. Non ne ebbe neanche il tempo.

Quando Nathan si diresse con le meno nobili intenzioni verso di loro, Victoria sapeva che era arrivato il momento di lasciare a Nathan la sua dose di dolore.

Guardarlo in quel momento fu come avere davanti un cruciverba intricato e rendersi conto solo alla fine che non c'è una risposta giusta.

Victoria strinse forte gli occhi, ma non sparì da quel luogo, né con la mente né col corpo.

Fu interamente testimone del pugno rumoroso che Nate assestò al suo migliore amico con un grido aggressivo. Il resto dei secondi che passarono più veloci delle parole fu una totale confusione, indescrivibile.

Carmen si era catapultata contro di loro, sicuramente più attiva dell'impietrita Victoria, e cercava di fermarli senza dover urlare affinché rovinasse la festa e l'atmosfera creatasi quella sera.

Il sole era ormai un semplice ricordo di una giornata che si spezzava.

E non era l'unica cosa rotta quella volta.

«Con quale coraggio hai potuto farlo, Lucas?», gli gridò contro con rabbia.

Il ragazzo a terra non riusciva a rispondere, Lucas sembrava completamente stordito dal colpo. Carmen singhiozzava.

Quando il fratello di Marnie sussurrò qualcosa, Victoria non riuscì a sentire una parola, si accontentò della risposta meno arrabbiata – ma decisamente più delusa – di Nathan.

«E ti è bastato questo? La ami e quindi mandi all'aria più di quindi fottuti anni d'amicizia?».

«Ti chiedo di capirmi», disse Lucas con voce più ferma.

«Vaffanculo, Luc!», tentò ancora di fargli del male, ma un “basta” lacerante e efficace distrasse Nathan e Lucas riuscì a liberarsi per allontanarsi da lui.

Quel grido apparteneva a proprio a Victoria, che in un impeto di agitazione e paura, si era intromessa attirando l'attenzione.

Sempre che l'occhiataccia e i muscoli rigidi di Nathan significassero attirare l'attenzione su di sé.

In effetti il ragazzo ignorò per un istante l'amico e la sua ragazza per fissare negli occhi proprio lei.

Disarmante, inappropriato, ecco com'era il suo sguardo deluso. Ma perché guardava proprio lei? Quando la ragazza provò a spostare lo gli occhi, comprese la difficoltà di quell'azione: qualcosa sembrava premere contro di lei.

«Fammi indovinare», parlò il ragazzo. «Tu lo sapevi, ovviamente», nel tono c'era falso divertimento e amarezza. Quel cercare di mascherare la sofferenza con il sarcasmo era ancora più lacerante che vederlo in ginocchio in lacrime a pregare che tutto fosse un sogno.

Non rispondendo, Victoria confermò il terrore di Nathan, che ancora più frustrato si avvicinò a lei per afferrarle entrambe le spalle e scuoterla malamente.

Fu così brusco che la lacrime della ragazza uscirono sforzate dal movimento e non per il dispiacere che provava. Accorgersi di provare umiliazione era ancora più frustrante dell'umiliazione stessa?

Probabilmente si.
Ma come poteva, Victoria dimostrare a Nathan umiliare perché ci si sentiva umiliati non era una soluzione?

Proprio dall'uscita da cui erano scappati i quattro ragazzi per ritrovarsi in quell'intricata scena da soap opera, sbucò anche l'inaspettata e non voluta presenza di Shane Hamilton.

«Che cosa diavolo sta succedendo?», Vicky suppose che l'idea di liquidare tutto con un 'niente' non avrebbe funzionato, perciò si limito a rimanere in silenzio.

Era escluso che Shane si intossicasse con tutto quel dolore. Non da quando era un marito.

Ma Nathan continuava a stringerle la braccia fino a farle male e il suo viso tradì il silenzio che fino ad allora era riuscita a sopportare.

Come se nel vedere Shane fosse rinsavito, Nathan chiuse gli occhi e lasciò immediatamente le braccia doloranti di Victoria e si guardò intorno per ritrovare lucidità in quella situazione. O semplicemente qualcun altro con cui prendersela.

Shane non si fermò nemmeno per un istante a pensare, a chiedere spiegazioni. Cosa avrebbe potuto giustificare gli occhi di sua sorella?

«Ehi Nate, voglio farti un regalo», sussurrò irato Shane. Il suo pugno raggiunse la mascella di Nathan prima che qualcuno potesse fermarlo. Il ragazzo cadde a terra, con gli occhi spalancati e confusi. «Volevo ringraziarti per aver fatto del male a mia sorella», sibilò a pochi centimetri dal suo viso. Il terrore che potesse continuare, smosse i muscoli di Victoria tanto da prendere suo fratello per un braccio e scuoterlo fino a farlo tornare in sé. «Che diavolo fai? Shane…», la parole le morirono in bocca. Dopotutto, cosa avrebbe potuto dire di utile?

In un altra assurda situazione anche lei avrebbe fatto lo stesso per suo fratello.

«Ora scusatemi», respirò affannosamente il ragazzo, per lo sforzo. «Ho intenzione di chiedere a mia moglie di ballare».


Fine dodicesimo capitolo.

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