Adolescence SOSPESA

di Chaike
(/viewuser.php?uid=160575)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It's start with one thing ***
Capitolo 2: *** Memories consume ***
Capitolo 3: *** Maybe someday I'll be just like you ***
Capitolo 4: *** So I'm breaking the habit ***



Capitolo 1
*** It's start with one thing ***


Note: Eeeeeeeeee rieccomi :3 Vi sono mancata? No, vero? Q_Q In questo momento sto facendo un'enorme pazia a pubblicare il primo capitolo, dato che mi ero promessa di finire il terzo prima di pubblicarlo ... Ma boh, non resisto
Partiamo con le avvertenze: non sono un'esperta di musica anni '80, di quei anni so così poco che è pari a zero *si sente una merda*; non frequento scuole americane, quindi non conosco gli orari e le materie, in poche parole ho copiato l'istituzione scolastica italiana; vi ho risparmiato dal giornaliero  "pledge of allegiance", il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti che studenti e professori effettuano ogni mattina alle 7.30.
Di cosa parlerà la fic? Adolescence è una storia -ovviamente d'amore, sennò non l'avrei mai scritta :'D- dedicata principalmente alla crescita di Mike e Chester, con l'affronto dei mille problemi di quest'ultimo che ha affrontato nella reale come noi tutti sappiamo. I titoli di ogni capitolo sono presi da varie frasi prese dai capolavori dei nostri miti :DOgni quanto la aggiornerò? Ad ogni morte di Papa. Mi dispiace, ma la terza liceo mi sta facendo il culo non quadro ma cubico .-.
Come finirà? Leggete e lo scoprirete :D
Voglio vedere tante recensioni eh ò_ò Non ci saranno scene rosse perché utlimamente sto cercando di allontanarmi dalla lussuria (ovviamente fallendo sempre di più giorno dopo giorno~) ...
Enjoy :3


Adolescence

 
Capitolo 1 – It’s start with one thing
 
Lunedì dodici Settembre 1983, la fatidica data che nessuno di quei pargoli avrebbe mai pensato a cosa  li avrebbe portati.
Loro, piccoli ed ancora ignari del mondo e della vita, erano eccitati per quel giorno, avevano le farfalle nello stomaco perennemente, con l’esaltazione che non cessava di scorrere nei loro piccini corpi di bambino di cinque anni circa.
Prima dell’inizio dell’estate appena trascorsa in tranquillità come ogni anno da lì alla loro nascita, avevano appena finito l’ultimo anno della loro vecchia scuola materna, la quale non vedevano l’ora di finire il più presto possibile per avventurarsi nel mondo delle elementari e delle superiori, nel mondo che per loro era da adulto.
Ma solo quando sarebbero cresciuti avrebbero rimpianto quelle giornate passate a riunire i grandi tasselli dei puzzle con i quali si divertivano, il rincorrersi nel cortile della scuola, a giocare a nascondino, a imitare i personaggi delle loro serie tv preferite litigando per essere il protagonista.
Da lì a qualche anno avrebbero dovuto rimboccarsi le maniche e aprire i libri, magari prendendola sempre alla leggera, perché dopotutto si parlava solo di sei anni in preparazione a quelli successivi di serio studio e di serio impegno. Ma avendo appena cominciato sarebbe sembrato a tutti quei piccoli inesperti una cosa già difficile.
Tutti quei piccoli bambini, che la notte prima andarono a dormire come di consuetudine alle ore nove ma che ci misero più tempo prima di trovare la stanchezza adatta per precipitarsi nel mondo dei sogni dato che l’agitazione per il giorno successivo non aveva intenzione di andarsene. Alle sette e mezza del mattino furono svegliati dai rispettivi genitori, pronti per il loro importante giorno.
Il piccolo Michael di sei anni compiuti il febbraio scorso, stava ancora dormendo sotto le leggere trapunte di color azzurro del suo piccolo letto. Il suo viso docile rilassato lo mostrava come un tenero angelo dai lineamenti orientali ereditati dal proprio padre, a differenza di quei capelli lisci e a caschetto che erano di un castano intenso.
Sognava beatamente sotto al caldo delle coperte, dopo aver passato tutta la notte insonne eccitato per il suo grande giorno, come del resto fecero i suoi compagni. L’unica cosa che voleva in quel momento era dormire, dormire e ancora dormire, vivere quel sogno contorto che in quel momento gli passava per la testa.
Ma i giorni di vacanza erano finiti, da quel giorno in poi si sarebbe dovuto svegliare sempre alle sette e mezza, massimo alle otto, per essere in orario e mai in ritardo.
Nella cameretta entrò la madre, una donna non tanto alta dai capelli biondo tinto che sembravano dessero più sull’oro, che si addolcì come sempre nel vedere il figlioletto così tranquillo mentre dormiva e quasi gli dispiacque risvegliarlo, portandolo al mondo dei vivi.
« Mikey … » sussurrò leggera sedendosi sul lettino del figlio, scostandogli i capelli dalla fronte di un colore nocciola pallido « Svegliati amore … » posò dolcemente un bacio sulla tempia del piccolo che poco dopo aprì i piccoli ma grandi occhi che subito cominciarono a bruciare.
Girata la testa abbastanza per scrutare la madre, la guardò con pietà, pregandola con lo sguardo di lasciarlo dormire ancora, di rimandare a domani il primo giorno di scuola.
Ma era ovvio che quella volta la povera madre non l’avrebbe potuto accontentare.
Tiratolo a forza fuori dal letto, lo spedì immediatamente in cucina, dove il fratellino Jason di ancora quattro anni mangiava i suoi cereali incredibilmente colorati a ritmo della musica che usciva dalla radiolina sul tavolo, che in quel momento mandava una canzone che era diventata il tormentone dell’estate appena finita.
Infatti, appena il bambino di sei anni arrivò in cucina gli scoppiò la testa, dato che era già il terzo giorno di fila che la beccava alla radio e sinceramente non ne poteva più. Al contrario, il piccolo Jason sembrava veramente apprezzare quella canzone bambinesca della quale però non conosceva nemmeno il significato. Infatti mugolò sofferente appena finì, mentre Mike esclamò un Alleluia.
Fatto colazione anche lui con gli stessi zuccherosi cereali ricoperti di glucosio colorato che a volte si scioglieva nella calda ciotola di latte, salì in bagno a lavarsi i denti, salendo su un basso sgabello per riuscire ad arrivare meglio al lavandino troppo alto per la sua corta statura di bambino.
Denti splendenti, viso umido dopo essere stato sciacquato con un getto d’acqua tiepida, era pronto per essere vestito per bene con gl’indumenti che sua madre gli infilava addosso, senza protestare.
In una via non molto distante da quella dove si trovava la famiglia Shinoda, in un quartiere un po’ più malfamato e povero, c’era una casetta un po’ catapecchia, con un tetto a tegole mancanti sotto la testa di quattro persone.
La casella della posta un po’ ammaccata e piena solo di bollette mai pagate, di inutile pubblicità non interessante e di multe, era segnata da un cognome lungo e scritto rozzamente: Bennington.
Quella famiglia era con pochi soldi, nonostante un componente fosse un poliziotto, il quale però doveva mantenere anche due figli ed una moglie pretendente. E quei figli dovevano pure andare a scuola, così era legge.
L’odore di sigarette perenne che circolava per tutta la casa ormai era impercettibile per i componenti di quella famiglia a furia di averci fatto l’abitudine. Pure i loro polmoni un po’ bruciacchiati per il vizio del poliziotto di famiglia ormai smettevano di carbonizzarsi sempre di più.
Il piccolo Chester alle sette in punto, come tutti i maledetti giorni che Dio mandava in terra, si svegliò bruscamente nella cameretta che condivideva con il fratello Brian per colpa dello stupido cane dei loro vicini di casa, una coppietta di spacciatori e ladri che campavano con i loro rispettivi lavori sporchi.
Ogni giorno, alle sette, il cane abbaiava senza un apparente motivo, prendeva ed abbaiava all’aria che gli soffiava addosso. Nemmeno ci fosse stato un postino con cui accanirsi, era completamente solo.
Forse, ogni giorno alle sette di mattina, richiamava tutto il vicinato con i suoi insulsi ma fastidiosi guaii per un minimo di attenzione, anche per un lieve contatto fisico, pure un calcio gli sarebbe bastato, uno schiaffo, qualsiasi cosa.
Peccato che avesse il pelo così rognoso e inzaccherato che faceva schifo persino ai propri padroni che si limitavano a nutrirlo e a lasciarlo libero per il giardino, che invece di un colorito verde ne teneva uno che dava sul grigio.
Il risvegliò fu un incubo per lui, come sempre. Ritrovarsi giorno dopo giorno nella solita situazione di merda, nella quale arrivavano a fine mese facendo sacrifici impensabili per la loro piccola età. Sempre nella solita baracca, sempre i soliti litigi tra i suoi genitori che si chiedevano perché si fossero sposati e perché non si fossero ancora separati, sempre i soliti giorni che doveva passare con la guardia alzata prima che qualcuno lo rapisse o lo derubasse, o che lo violentasse.
Si ritrovò a pancia in giù sul materasso, con la faccia spiaccicata sul proprio cuscino, con la bocca aperta da cui usciva quel minimo di bava che però faceva lo stesso schifo, i capelli boccolosi naturalmente scompigliati.
Già la sensazione di mal di testa del primo mattino gli fece girare le scatole, in più il russare di suo fratello Brian non tanto più grande di lui lo infastidì ulteriormente, dato che aveva il sonno pensante e lui lo invidiava in quanto ad ogni minimo rumore che gli giungeva alle orecchie lo svegliava di soprassalto.
In più quel giorno sarebbe dovuto andare a scuola pure lui, anche se in terza e lui in prima, nonostante avesse già compiuto sette anni. Ma purtroppo all’asilo, due anni prima, era successo qualcosa che non doveva succedere.
Si tirò su dalla sua posizione stramba della prima mattina, stiracchiandosi ed aprendo le fauci in uno sbadiglio, mugolando e facendo scroccare alcune ossa della schiena e delle braccia.
Afferrò il proprio cuscino e lo lanciò in faccia al fratello che dormiva sul letto dalla parte opposta del suo.
« Brian, svegliati che dobbiamo andare! » lo richiamò grattandosi un lato della vita ed avviandosi all’uscita della loro stretta ed umile cameretta priva di qualsiasi gioco, prima che il fratello si arrabbiasse per il modo con cui veniva sempre svegliato.
Scese in cucina facendosi la colazione da solo, cosa che aveva imparato qualche anno prima dopo una lunga serie di scottature e cicatrici ormai quasi invisibili.
Colazione, bagno, vestiti dalle proprie mamme, fotografati ed immortalati dai propri padri – chi si poteva permettere una polaroid – per ricordare quell’importante dì del loro primo giorno di scuola. Tutti i bambini abitanti a Los Angeles erano pronti.
Chi arrivato in macchina, chi a piedi, chi col bus, chi solo col padre, chi solo con la madre, chi con entrambi, alle otto e mezzo in punto ogni bimbo del nuovo anno era nell’aula di psicomotricità, con il proprio enorme zaino sulle spalle colorato e pieno di quaderni immacolati, matite con punte pungenti, pennarelli carichi e pastelli non consumati.
Piccole spalle circondate dalle mani dei propri genitori, mentre quest’ultimi avevano le orecchie tese verso il breve discorso di benvenuto che stava tenendo la preside dell’istituto della scuola primaria.
I loro figli invece erano troppo occupati a guardarsi intorno, a scrutare le altre piccole e candide facce dei loro coetanei i quali di lì a poco, probabilmente, avrebbe visto tutti i giorni, per cinque lunghi anni.
Si guardavano l’uno l’altro, curiosi, ognuno credendosi migliore di quello che in quel momento lo stava fissando, o magari cercando di fare un minimo di colpo verso una bambina che li aveva a mala pena degnato di uno sguardo.
Era incredibile come dei bambini, già a quell’età, riuscivano già a mettersi al confronto, in mostra, cercando di essere migliori tra gli altri, più belli, più intelligenti, più stronzi, più simpatici, più favoriti.
Io ho lo zaino di Iron Man! E io invece di Astroboy! Io del Mazinga Z! come se uno fosse meglio dell’altro. E chi avesse il migliore si sarebbe posto più in alto.
Dopo ben dieci minuti di discorso, in cui la preside spiegò l’organizzazione dell’istituto, parlando bene del servizio mensa di cui in quegli anni si criticava per la scarsa qualità e la pessima prestazione nelle scuole, finalmente prese il fascicoletto con scritte le sezioni delle prime classi e l’elenco degli alunni che l’avrebbero composte.
« Sezione prima A. » cominciò la preside di già cinquanta e passa anni, dove il viso truccato mostrava imbarazzanti rughe che le solcavano gli zigomi, gli occhi ed infine la fronte.
A mano a mano che lei richiamava nomi dei bambini della sezione, quest’ultimi venivano guidati dai genitori fuori dall’aula di motoria e condotti fuori verso quella dove avrebbero passato l’anno.
« Sezione B. »
Il tempo sembrava non scorrere mai quando il fiume dei nuovi alunni usciva dalla palestra, mentre quelli rimanenti aspettavano con impazienza il sentir pronunciare il proprio nome.
« Sezione C: Gregory Johnny Armstrong, Anabelle Baker, Chester Charles Bennington … » il cuore dell’ultimo bambino chiamato scoppiò nel sentire il suo nome essere pronunciato, sentì uno stormo di farfalle girargli per lo stomaco, mentre sia la madre che il padre lo spingevano verso l’esterno della sala da ginnastica.
« … Juliana Peterson, Kevin Juan Salomon, Michael Kenji Shinoda … » il piccoletto tirò per le maniche entrambi genitori conducendoli verso l’uscita, mentre quest’ultimi sorridevano di fronte al suo comportamento eccitato.
Vennero chiamati in totale diciotto bambini, tra maschi e femmine, tra americani e stranieri, tra bianchi e neri. Tutti in un’aula al piano terra dell’istituto. La prima C.
I primi arrivati si fiondarono subito ai posti più lontani dalla cattedra, verso le ultime file tra i banchi bianchi con le gambe rosse, come le loro basse sedie. Ma Chester venne spinto dal padre in prima fila, con l’intenzione di mandarlo proprio davanti la cattedra assicurandosi che non si sarebbe potuto distrarre in alcun modo.
Ma il piccoletto sgusciò dalla presa del padre, fiondandosi agli estremi dell’aula, sempre in prima fila ma attaccato al muro dalla parte di sinistra, inchiodandosi sulla sedia e resistendo ai vari tentativi del poliziotto che cercava di scollarlo di lì. Ma era tutto inutile!
Gli ultimi alunni entrarono nella classe, alcuni sbuffando per non essersi riusciti ad aggiudicarsi le ultime file, altri accontentandosi di ciò che era rimasto. Ed il caro e piccolo Michael sbuffò quando vide che due bambinetti con le stesse cartelle, a quanto pare si conoscevano già prima di allora, si erano presi gli ultimi due banchi disponibili per una coppia di alunni, che però erano nella prima fila e proprio in centro, posto che lui desiderava.
Mugolando tra sé e sé mentre i due genitori si guardavano stupiti dalla voglia d’imparare del figlioletto, Michael si sedette affianco a quel bambino dai capelli boccolosi, dallo zaino scrauso e dalle matite non temperate che spuntavano dal piccolo astuccio aperto.
Si guardarono per un decimo di secondo, quel minimo di tempo per vedersi l’un l’altro come due extraterrestri. Erano l’uno il contrario dell’altro e subito con uno sguardo l’avevano capito, anche se il fatto di aver trovato il più grande nella prima fila lasciava sperare che invece fosse anche lui un assetato di nuove conoscenze.
I genitori dei due bambini si scambiarono un sorriso abbastanza tirato per colpa dell’imbarazzo, mentre nell’aula entrava un uomo sulla trentina d’anni, con capelli castani che arrivavano poco più sopra delle spalle e con un paio di occhiali con le lenti grandi quanto un televisore ma sottili come la leggera montatura che posava sul naso.
« Buon giorno a tutti quanti, buon giorno signori e buon giorno signore. Buon giorno anche a voi signorini. » si rivolse ai bambini « Io sono David Norton, il vostro maestro d’inglese, di geografia e di storia. Spero di accompagnarvi fino alla quinta elementare, nonché di riuscire a farvi arrivare tutti quanti in quella classe. » sorrise mostrando i suoi denti brillanti.
Parlò del programma che avrebbero svolto durante l’anno, delle regole che i bambini avrebbero dovuto seguire per la buona educazione, come gestire le assenze ed i ritardi ed infine consegnò ad ogni genitore la lista dei libri di scuola che avrebbero dovuto comprare assieme al calendario delle festività annuali.
Nessun bambino ascoltava il proprio maestro, tutti erano troppo impegnati a scrutarsi tra di loro, a conoscersi inizialmente con uno sguardo: quello mi sta simpatico, quello antipatico … Pure il piccolo Michael venne risucchiato dall’emozione, non prestando attenzione alle parole del docente ma bensì fissando di sottecchi il suo nuovo compagno di banco.
Aveva delle piccole lentiggini scure che gli macchiavano dolcemente le guance ed il nasino, occhi grandi circondati da palpebre assottigliate, capelli corti ma riccioluti di un castano cenere.
A volte, quando si girava quel poco per contemplarlo meglio, incontrava il suo sguardo, che subito distoglieva per la vergogna di essere stato beccato, perché anche lui a sua volta lo stava  scrutando cercando i suoi particolari che gli avrebbe fatto magari capire che tipo era.
L’unica cosa che lo colpì furono i suoi occhi grandi ma con i lineamenti a mandorla, che non capiva se fossero dati alle sue origini straniere oppure fosse semplicemente nato con quella forma, magari ereditata da uno dei genitori. Anche le sue orecchie a sventola non passarono inosservate.
« Come uscita didattica di primo anno, la classe andrà a visitare una mostra d’arte di Picasso, aperta dal trenta Agosto al quindici Ottobre. Ma noi l’andremo ci andremo il venti Settembre, accompagnati da Thomas Way, il loro maestro di matematica, scienze, musica e motoria. » disse il giovane insegnante, catturando l’attenzione di tutti i presenti, piccoli o grandi che fossero alla parola ‘uscita didattica’.
Era la cosa più eccitante che i bambini potessero provare durante l’anno: distaccarsi per una o più volte durante l’orario scolastico dalla scuola che dopo qualche anno avrebbero visto come una prigione, dire ciao ciao ai libri e a tutto, uscire tutti assieme accompagnati e guidati dai propri insegnanti per la città.
La mostra d’arte quasi a nessuno interessava veramente, gli sarebbe bastato solo scappare da quell’edificio. Soltanto al piccolo Michael si drizzarono le antenne, vibrando come delle matte appena sentì la parola ‘arte’.
A lui era sempre piaciuta, ogni pomeriggio quando ritornava dall’asilo o quando non sapeva che fare prendeva carta e pennarelli e iniziava a comporre dei infantili capolavori colorati, posizionando sia sul tavolo che sul pavimento, ogni luogo era adatta alle sue creazioni.
I suoi genitori, una volta accortisi della grande passione e bravura del loro primogenito, lo spronarono ad andare avanti, ad approfondire la sua grande voglia di creare immagini astratte, animali inesistenti e tutto ciò che gli girava per la testa. All’asilo pure le maestre gli facevano i complimenti, aumentando così la voglia di disegnare nel bambino, che vedeva nel suo futuro l’immagine di un pittore di un artista di grande fama.
A Chester invece l’arte non gli aveva mai fatto né caldo né freddo, per lui era più che altro una perdita di tempo andare ad assistere una mostra, che fosse di un pittore famoso o meno a lui non importava. Credeva che nella vita fosse più importante imparare a difendersi dai mal’intenzionati piuttosto che studiare i fiumi passano per la Francia.
Ma per sua sfortuna, ogni volta che camminava per le vie del suo quartiere era sempre una lezione alla sopravvivenza nonostante fosse ancora piccolo per certe cose.
« Non so se la preside dell’istituto vi abbia già parlato del mio progetto che ho programmato all’inizio dell’estate: si tratta di un club di boyscout, al quale ovviamente possono partecipare anche le future girlscout. In quanto ex istruttore del club di San José, credevo che sarebbe stata un bella idea creare un club della scuola, al quale hanno già aderito alcuni studenti delle classi superiori alla prima. » spiegò il docente tirando fuori delle striscioline di carta « Per chi ne fosse interessato, qui c’è l’orario extrascolastico in cui ci ritroviamo per iniziare ogni pomeriggio dalle quattro e mezza alle sei e mezza nell’atrio all’entrata. Non costa praticamente niente, solo i soldi per l’uniforme e dicei dollari d’iscrizione, che ci permetteranno di comprare i distintivi per i vari gradi del bambino. » distribuì i foglietti a tutti i genitori presenti che contemplarono attentamente il costo dell’uniforme di ben trenta dollari.
Quando i signori Bennington ricevettero in mano quel biglietto si scambiarono veloci un’occhiata complice, sapendo già cosa avrebbe fatto da quel giorno in poi il loro figlioletto, invece di stare in giro per i parchi malfamati della sua zona. Invece i signori Shinoda si guardarono dubitosi sul fatto che il loro figlio avrebbe accettato a rinunciare ad ogni suo pomeriggio per un’attività di gruppo di quel genere.
« Bene, posso dire che per oggi abbiamo finito con le presentazioni. » disse ritornando dietro la cattedra « Se volete colloqui o altro, basta scrivere la comunicazione sul diario dell’alunno. È stato un piacere. » sorrise ai genitori che salutarono i propri figli prima di lasciarli lì ancora per le prossime due ore e mezza.
« Ciao tesoro. » la madre di Mike gli baciò la testa coperta dai capelli a caschetto ben pettinati lavati la sera prima.
« Ciao mamma. » disse lui con la sua vocina.
Il padre gli fece l’occhiolino, dandogli delle pacche affettuose sulla spalla « Ti aspetto in macchina. » disse riferendosi al fatto che da lì a qualche ora sarebbe di nuovo stato fuori da scuola ad aspettarlo con la sua macchina nera a cinque posti.
« Fai il bravo, mi raccomando. » la madre di Chester riprese suo figlio accarezzandogli la nuca.
« Tornerai a casa con Brian, d’accordo? » gli chiese il padre, ma il figlio si limitò ad annuire.
Lui ed i suoi genitori non avevano un bel rapporto, non per chissà cosa, li odiava a priori. Per il loro modo di essere falsi con tutti, perché facevano i bravi ed i simpatici con tutti ma appena gli voltavano le spalle sputavano veleno su di loro. E poi li odiava perché non erano capaci di convivere insieme con serenità, e si ostinava a non capire perché diavolo stessero ancora insieme se in verità non si amavano più.
Quando la classe si svuotò dai genitori e l’unico adulto rimasto fu il loro nuovo docente, quest’ultimo sorrise di fronte a tutti quegli occhioni che lo fissavano spaesati, dopotutto era il loro primo giorno di scuola.
« Bene, fino adesso mi sono presentato io, ma ora tocca a voi. Sotto alle presentazioni, chi comincia? » chiese guardandoli uno ad uno, tutti che fremevano nei loro banchi, sulle loro sedie, mentre nelle loro menti si accalcavano tutte le informazioni che avrebbero potuto riferire.
Ma ovviamente nessuno aprì bocca.
« Non tutti insieme, mi raccomando! » fece alzare un coro di piccole risate che sembrarono un grande e rumoroso ronzio « Allora, cominciamo da qui. » indicò il bambino in prima fila, più attaccato al muro di destra, dalla parte della porta « Come ti chiami piccolo? »
Il bambino di colore con i capelli neri come il carbone racchiusi in tante piccole trecce sussultò imbarazzato e quasi si poté vedere uno spruzzo di rosso d’imbarazzo sulle sue guance scure.
« M-Mi chiamo Leonard. » disse con un filo di voce che fece tendere le orecchie a tutti i presenti per sentirlo meglio.
« Bene, Leonard. Immagino che tutti ti chiamino Leo, non è vero? » chiese il maestro con informalità.
« Sì! » sorrise il piccolo, mostrando il contrasto tra i denti bianchi ed il colore della pelle, scura come i suoi capelli e come gli occhi.
« Cosa ti aspetti dalle scuole elementari? »
« Beh … Credo cose difficili da imparare … » la sua voce si riabbassò di volume in un batter d’occhio.
« Non saranno tanto difficili, se v’impegnerete. E spero che sia chiaro per tutti, perché se la roba che imparerete qui sarà difficile secondo voi, ma solo per adesso, aspettate di vedere il liceo e vedrete come rideremo! » cominciò a girare per i banchi.
« Tu, » indicò una bambina coi capelli castani e lisci raccolti in una coda lunga, piccola nel suo vestito rosa shocking « come ti chiami? »
« Ashley. » rispose la bambina sicura di sé.
« Mi sembri determinata, Ashley. Non vedi l’ora di diventare grande e far vedere a tutti la tua intelligenza, non è vero? »
« Lo farei subito! » rise la bambina, mostrando un dente mancante.
« È così che si fa! » esultò il giovane maestro che si era laureato in filosofia l’anno prima, trovando lavoro la stessa estate in quell’istituto « Mostratemi fin da subito di che pasta siete fatti. Ora, ogni volta che vi chiamerò fatemi vedere la vostra grinta, sempre se l’avete … Tu, lì in cima! » indicò i banchi in prima fila, verso il lato sinistro, dove i due bambini che lo fissavano ebbero un infarto non capendo a chi si riferisse.
« I-Io? » chiese timidamente Michael.
« No, prima l’altro, ma poi arrivo pure da te. Come ti chiami, ricciolo? » fece ridere tutti i bambini, eccetto il ricciolo in questione che diventò rosso dall’imbarazzo.
« Io mi chiamo Chester. » rispose con voce cupa e con freddezza, ma non quella freddezza da chi è pronto a tutto, ma da chi ha voglia di uccidere.
« Oh, Chester … Mi sembri un ragazzo scontroso, o mi sbaglio? » ma il bambino si limitò a scuotere lentamente la testa in segno di dissenso « Che ti aspetti da questa scuola? »
« Tanta noia. » rispose sinceramente.
Il silenzio calò tra i diciotto bambini e l’adulto, tutti mentre fissavano sbalorditi il bambino che aveva dette semplicemente ed innocentemente ciò che pensava e ciò che credeva vero.
« Mi dispiace che la pensi così … » riprese a parlare l’insegnante « Sai, Chester, lo studio sembrerà noioso, anzi lo è. » si avvicinò alla prima fila, ponendosi davanti al suo banchi e chinandosi su un ginocchio per averlo alla stessa altezza.
« Nessuno in questa classe, in questa scuola, in questo paese, mondo e universo, vorrà mai sostituire una partita a calcio con un ora di studio di storia o di matematica. Appena aprirai il libro ti verrà subito voglia di chiuderlo, capiterà a te come capiterà a lui. » indicò Michael che sussultò nell’essersi sentito mettere in mezzo alla discussione
« Ma sai qual è il problema? È che tutti t’insegneranno le cose in modo noioso, in modo da fartele odiare, ma tu dovrai studiarle per forza per avere un futuro. » si rialzò in piedi avvicinandosi alla lavagna ed afferrando un gessetto.
« Io invece cercherò ad insegnare a tutti quanti in modo divertente, perché non voglio che odiate ogni singola cosa che dovrete imparare. » disegnò due cerchi bianchi, uniti in un punto in cui uno entrava nell’altro.
« Sapete cosa sono questi? » chiese alla classe.
« È un sedere! » rispose un bambino dai capelli rossi infondo alla classe, scatenando la risata di tutti.
« Beh, vedetela così: questo sedere è composto dalla chiappa destra con tatuati i numeri dodici, dieci, cinque, sei, nove. » scrisse quei numeri nel primo cerchio « E nella chiappa sinistra invece ci sono tatuati i numeri quarantacinque, due e diciotto. »
I bimbi guardavano la mano del loro maestro muoversi sulla lavagna disegnando quei numeri che per alcuni di loro erano alti, in quanto sapevano contare fino a cento.
« Cosa fate voi, quando avete mangiato tante cose e dopo un po’ dovete andare in bagno? » silenzio, solo i visi rossi di vergogna dei bambini fece capolinea alla domanda « Suvvia, non siate timidi! Uno di voi ha appena detto che questa cosa di matematica sembra un sedere! » li fece di nuovo ridere, mentre alcuni di loro si chiedevano se veramente quella buffonata fosse una lezione di matematica.
« Facciamo la cacca. » rise Chester, mostrando uno splendido sorriso sulla sua faccia di bambino.
« Oh, visto che le cose le sai e che non ti annoiano? Ritornando a noi, lo so che è una domanda stupida dato che siete piccoli, ma chi sa le tabelline? »
I piccoli studenti si guardarono confusi tra di loro, non capendo di cosa stesse parlando. Ma una piccola mano si alzò in aria in modo composto ed una leggera voce disse « Io. »
« Bene, l’avevo detto io che sarei arrivato a te prima o poi. Come ti chiami? »
« Michael, ma tutti mi chiamano Mike. » disse con un filo di voce, quella fievole voce candida.
« Bene Michael. Mi sai dire, allora, quali tra questi tre numeri nella chiappa destra, moltiplicato per un altro numero, è uguale a quarantacinque? » chiese il docente, mentre il piccolo Michael cominciò a vociferare sotto voce tra sé e sé, dicendo un susseguirsi di numeri in un modo che agli altri pareva confuso. Infatti anche il suo nuovo compagno di banco lo squadrò perplesso.
« Trenta, trentacinque, quaranta, quarantacinque … Il cinque! » esultò sicuro di sé.
« Bravissimo, il numero cinque! E con quanti numeri si moltiplica? »
« Con il … nove? » chiese con la paura di aver sbagliato.
« Giusto! E adesso lo mettiamo qui. » disse scrivendo un nove nel punto in cui i due cerchi s’incontravano « Adesso … Sapresti dirmi quali numeri, presenti qui, moltiplicati fra di loro fanno diciotto? »
Lo sguardo di Michael passò ripetutamente quei due insiemi di numeri, leggendoli e rileggendoli, cercando di capire quali due componessero la risposta giusta, facendo un miliardo di semplici calcoli a mente che per lui sembravano difficilissimi, quasi impossibili.
« Il due … ed il … nove? » chiese con fievole voce.
« Ottimo! Ma, dato che il numero nove è già pronto per finire nel water, noi non lo scriviamo. »
La campanella della scuola squillò rintronando tutti i bambini con il suo suono stridulo e fastidioso, facendoli saltare tutti per aria per lo spavento e avvertendo tutti quanti che era passata mezz’ora ed era il momento del cambio d’insegnante e dell’intervallo.
« Beh, è un peccato doverla finire così, dopotutto ci stavamo divertendo … » disse dispiaciuto il giovane maestro riponendo la sua roba nella semplice borsa di lavoro in canapa verdastra « Almeno vi ho dimostrato, anche se per poco, che imparare non significa annoiarsi! » fece un occhiolino ad il piccolo Chester che sorrise imbarazzato grattandosi la testa.
« A domani … Ah, ho un compito per voi. » tutti i piccoli alunni tirarono fuori dai loro zaini i propri diari dei super eroi o della Barbie « Domani, fate una piccola presentazione su di voi, su cosa vi piace fare, il vostro passatempo preferito, la vostra famiglia, di tutto! Parlate di voi stessi. E adesso potete godervi in pace la vostra prima ricreazione da bravi scolari. »
Tutte le matite ricedettero sul banco dopo essere state abbandonate dalle piccole mani dei bambini, che subito cominciarono a ravanare nei propri zaini alla ricerca delle loro merendine, dei succhi di frutta o di altro di commestibile e sfizioso.
Ma Chester non fece nient’altro che fissare i suoi nuovi compagni guardare meravigliati i loro snack lasciati dalle proprie mamme la sera prima quando gli prepararono la cartella, perché lui invece non poteva permettersi anche qualche cosa da mangiare in più, sarebbe stato come uno spreco in quanto era benissimo capace di arrivare all’ora di pranzo.
C’era chi si alzava semplicemente e chi usciva addirittura dalla classe, per andare a salutare qualche suo vecchio compagno d’asilo che era stato messo in un’altra sezione, c’era chi andava in bagno o chi girovagava per i corridoi, stando sempre sotto lo sguardo del proprio docente, oppure chi restava tranquillamente al proprio posto.
I due bambini della prima fila al centro, con lo zaino uguale, tirarono fuori due merendine a loro volta identiche ridendo di fronte alla loro uguaglianza. La piccola Ashley dal vestito rosa si alzò solamente per poi risedersi affianco ad un’altra bambina dal vestito azzurro come il cielo del primo mattino, candido, che risaltava il colore dei suoi capelli di color castano intenso, con un sorriso stampato sulle piccole e sottili labbra quando vide la sua amica sedersi affianco a lei.
Leo, il bambino di colore, rimase seduto al suo banco, contemplando la brioche della Ferrero tra le sue piccole mani. Il bambino dai capelli rossi era troppo impegnato a scarabocchiare il proprio banco con i pennarelli per poter consumare il proprio cibo al cioccolato che gli si stava sciogliendo in mano.
Il bambino dai capelli boccolosi quasi si schifò di fronte a tutto quello spreco di cibo e d’inchiostro, non riusciva a credere che veramente certi bambini fossero così viziati e così ingenui da usare e sperperare cose che per altri magari sono impensabili.
Due bustine di cocaina, pensò con frustrazione il piccolo che già aveva conoscenze con quelle brutte sostanze. Forse anche tre e potrei pure io possedere così tanti pennarelli.
Non che avesse già avuto esperienze con certe sostanze stupefacenti, ne aveva solo già sentito parlare da suo padre, che a volte incastrava vari spacciatori illegali in giro per la città. Ed il piccolo, ascoltando i vanti del genitore, aveva capito col tempo cos’era la cocaina, a cosa serviva, quanto poteva costare e particolarmente quanto fosse desiderata, soprattutto nel suo quartiere malfamato.
« Tu non ce l’hai la merenda? » una piccola voce lo richiamò al suo fianco, era il suo compagno di banco dagli occhi a mandorla che gli aveva chiesto il motivo del suo digiuno, non capendone il perché.
« No. » in quel momento le loro voci sembravano così uguali, candide e squillante, come i bambini che erano.
« E perché? »
« Mio padre dice che dobbiamo risparmiare, e che posso anche non mangiare quando siamo a scuola, tanto poi pranziamo. » rispose sinceramente, non badando al fatto che gli stava praticamente descrivendo la sua grave situazione economica.
« Ne vuoi un pezzo? » chiese allora Michael, porgendogli metà della sua merenda fatta da due fette di pan di spagna ed in mezzo una glassa rosea quasi rossa di ciliegia che oltre alla dolcezza rilasciava anche asprezza.
« Grazie. » abbozzò un sorriso cercando di nascondere la sua espressione sorpresa nel vederlo così gentile e disposto a condividere la sua roba.
Non gli era mai capitato, lui era cresciuto in un mondo di avarizia ed egoismo, sapeva che tutti i bambini erano stronzi, pronti a sputtanarlo appena potevano e metterlo nei casini, prenderlo in giro per ogni suo minimo difetto, discriminarlo per cose di cui non aveva colpa, emarginarlo e fargli odiare la vita nonostante la tenera età. E tutte quelle cose le aveva vissute sulla sua pelle.
Ma adesso c’era un bambino che non lo derideva per i capelli, per le lentiggini, per i suoi problemi familiari. Anzi, gli stava offrendo del cibo, anche se era in quantità minima, cosa che però a lui importò poco dato che s’interessò più che altro per il gesto.
Il pezzetto finì subito tra le sue fauci, masticandolo e assaporandosi il suo gusto per bene, sentendo lo zucchero ed il colorante invadergli la bocca.
Solo una volta aveva sentito quel gusto, quando l’ultimo giorno di scuola all’asilo, l’anno prima, avevano fatto una piccola festa per le classi che non avrebbero più frequentato quella scuola. C’era un tavolo basso e lungo, pieno di tante scodelle riempite di patatine e dolci, tra cui alcune caramelle alla ciliegia.
Quella fu la prima volta che partecipò ad una festa, nessuno l’aveva mai invitato, perché lui era sempre stato odiato da tutti i suoi compagni che a sua volta lui odiava. Ma non perché lui era cattivo e scorbutico, ma perché loro lo facevano diventare prepotente ed irascibile.
Le loro piccole testoline che tanto avrebbe voluto spaccare non conosceva ancora la parola ‘tatto’, e quindi ogni volta che aprivano bocca per sfotterlo non riuscivano a contenersi.
« Ti piace? » chiese Michael vedendolo con lo sguardo perso.
« Sì, mi piace la ciliegia! » sorrise.
« Piace tanto anche a me. » sorrise a sua volta compiaciuto per i loro gusti in comune « Come ti chiami? »
« Chester Bennington, tu? »
« Io Michael Shinoda, ma mi puoi chiamare Mike. »
« Ti piace Goldrake? » chiese il piccolo Chester vedendo il diario rappresentante Actarus, il protagonista, con il suo robot alle spalle, alto e possente.
« Sì! » afferrò il suo grande diario, sfogliandolo assieme al suo nuovo amico.
Amico, persona che Chester non aveva mai avuto veramente. I suoi ‘amici’ dell’asilo erano solo un gruppo di bambini, tra maschi e femmine, che tendevano a metterlo sempre in disparte.
Il suo vero ed unico vero amico rimasto era il suo cuscino, l’unico che lo accoglieva ogni volta che piangeva.
I venti e passa minuti di pausa passarono così in fretta che sembrarono quasi la metà, proprio perché i due bambini si divertirono tra di loro, anche stando semplicemente seduti, guardando solamente un diario e commentando i personaggi e la trama di quell’anime.
Di nuovo la campanella stridente richiamò l’attenzione di tutti gli alunni che, borbottando fragorosamente, se ne ritornarono dietro ai propri banchi bassi.
« Bene, è stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton prendendo in mano la sua borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché è una regola importante svolgere sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor Way, è un ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra noi … » sussurrò alla classe « È una persona noiosissima! » fece ridere i piccoli che però non erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad una nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe poi diventata per loro quella persona, così importante e che avrebbe lasciato il segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe detto nel corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Memories consume ***


Note: Scusaaaate! Avrei dovuto pubblicare il capitolo ieri, ma una certa persona mi ha rovinato la giornata, che sarebbe dovuta essere felice dato che ho fatto due anni di fidanzamento col mio ragazzo. Peccato che lui se l'è vista bene di ricordarsene ._."
However, oggi ho preso il titolo da Breaking The Habit :3 (unica canzone dei LP che piace al mio ragazzo buhuhu *si dispera*). So che è un capitolo abbastanza corto, e sinceramente ne sono dispiaciuta é.è Ma sapete com'è, era la mia fase del 'blocco dello scrittore' v.y
Siamo alle prese con il pomeriggio/sera del loro primo giorno di scuola, e i nostri due piccoli eroi(?) stanno facendo i compiti assegnati dal maestro Norton (che alla fine ho descritto esteticamente come l'odierno Rob °-°). Poi si passa al loro secondo giorno di scuola, che però ho diviso in questo e nel prossimo capitolo.
Nonmipicchiateperloschifo.
Enjoy :3

Capitolo 2 – Memories consume


Parla di te stesso ...
Chester tamburellò in modo continuo e snervante sul foglio a righe vuoto con scritto solo il titolo del suo compito ‘Parla di te stesso’ che gli aveva affidato la mattina stessa il signor Norton, suo insegnante d’inglese, storia e geografia.
Erano solamente le quattro del pomeriggio quando il bambino si apprestò a svolgere il suo semplice dovere di studente, prendendo il suo nuovo quaderno ed una penna rossa per il titolo ed una nera per il testo.
Ma erano già quasi le sette di sera e lui non aveva ancora scritto niente.         
Cosa poteva scrivere di tanto interessante e che avrebbe fatto colpo? Nome, cognome, data di nascita? Banale.
Mi chiamo Chester Charles Bennington cominciò a scrivere lentamente e leggero sul foglio che si abbassava sotto il peso della punta a sfera della sua penna, finalmente mandando a quel paese tutte le seghe mentali che si era fatto sulla banalità di un testo informativo.
Ho sette anni e sono nato il venti Marzo del 1976, a Phoenix, Arizona. Mi sono trasferito a Los Angeles nell’estate del ’82 per il lavoro di poliziotto di mio padre.
Adesso avrebbe dovuto scrivere qualcosa riguardo alla sua famiglia, a suo fratello Brian, a sua madre e suo padre. Ma invece non lo fece. Saltò argomento, perché aver ammesso di avere un anno in più era troppo, soprattutto per il motivo del suo essere ancora in prima elementare, che alla fine era uguale del trasferimento.
La famiglia Bennington non si era trasferita solamente per il lavoro del padre, quello era solamente un motivo secondario. Ma Chester preferiva non dover toccare, nemmeno sfiorare quel sensibile argomento che ogni notte lo faceva penare nell’oscurità e negli incubi.
Durante il mio tempo libero mi piace girare per il mio quartiere, cantando senza preoccuparmi di essere sentito, non mi vergogno della mia voce. Mi piace tanto ascoltare la musica alla radio, se potessi l’ascolterei tutto il giorno. Il mio gruppo preferito sono i Depeche Mode, adoro People Are People.
Non bastava e lo sapeva. Aveva bisogno di un altro argomento che non lo avrebbe costretto a parlare anche della sua famiglia.
Quando abitavo a Phoenix avevo un cane, un pastore belga, si chiamava Beer perché il suo pelo aveva il colore di una birra bionda. Sembrava un cane stupido, ma non lo era, faceva il finto tonto solo per farmi ridere. Ma un giorno scappò di casa, ed io stetti davvero male per tanto tempo.
Un nodo soffocante e fastidioso gli si formò in gola poco prima che il naso gli frizzasse.
Pensavo di averlo perso per sempre, appesi tanti manifesti per la città con la sua foto e la mia via per chi l’avesse trovato e sarebbe stato così gentile da riportarcelo.
Cancellò la parola ‘riportarcelo’ per sostituirla in ‘riportarmelo’.
Non accennò nemmeno il fatto di essere stato aiutato dal fratello maggiore ad appendere le foto segnaletiche del suo fedele amico.
Un giorno una signora bussò alla porta di casa accompagnata da una giovane ragazza, quando aprii notai che legato al guinzaglio aveva Beer, che appena mi vide mi saltò addosso leccandomi e facendomi le feste. Ma subito dopo notai anche che la signora aveva degli occhiali da sole sul naso, e non perché fosse una giornata soleggiata, ma bensì perché era cieca.
Gli occhi gli bruciavano sempre di più, portandogli quella sensazione di continui singhiozzi in arrestabili.
Decisi di lasciarglielo nonostante fossi così affezionato, lui fu il mio unico e vero migliore amico.
Incrociò le braccia sul tavolo, buttandoci disperatamente la testa in mezzo, singhiozzando infrenabile e lasciando che le lacrime gli bloccassero il naso e che si calassero dolcemente e umidamente sul suo immacolato viso che abbozzava un rosa pallido sulla pelle macchiata da lentiggini.
Era dura ogni volta ricordarsi del suo fedele cane, della sua perdita per la sua troppa generosità. Quando accadde quello, quando dimostrò il suo lato gentile e positivo, all’asilo comprese che non tutte le persone si merito la sua carità e la sua bontà.
E di gente che non se ne meritava ne era circondato, tutti branco di marmocchi capaci solamente di farlo soffrire per la loro gioia e per il suo dolore.
Con ancora le lacrime agli occhi ed i singhiozzi dentro al suo petto, chiuse il quaderno, ripose le matite dentro l’astuccio, rimise tutto il materiale scolastico nella cartella e filò in camera da letto, dove non c’era nemmeno Brian, che era in giro per i parchi del quartiere come ogni giorno alla stessa ora.
Ma per la prima volta, quel giorno Chester non scese con lui in strada com’era solito fare, saltellare tra i pezzi di vetro verdi delle bottiglie di birra rotte, cantando ai passeri ed ai vecchi alberi con le cortecce incise dai nomi delle coppiette che erano passate di lì.
Solo a loro donava particolarmente la sua voce, perché loro non erano essere umani, peccatori, bugiardi, traditori, usurpatori. Gli alberi e gli uccelli non avevano fatto mai niente contro di lui, erano gli unici che non lo tradirono e mai ne avrebbero avuto modo.
Si lasciò cadere sul suo piccolo letto, rimbalzando sul materasso, e subito allungò la mano umida alla ricerca del suo fidato amico: il cuscino.
Prima era una cane, poi degli alberi e dei pennuti, infine un cuscino. I suoi migliori amici non erano mai delle persone.
Appena lo trovò con la sua mano, riemerse il viso dal materasso e lo affondò nuovamente nell’involucro di piume d’oca, lasciando libero sfogo ai suoi gemiti di dolore che risuonavano come tuoni e alle lacrime che scendevano come la pioggia estiva.
Non si preoccupò di essere sentito, dato che non c’era nessuno a casa come al solito. Suo padre era in commissariato oppure in giro per la città con la volante, sua madre a lavorare in un negozietto in fondo alla via.
Come ogni volta, adorò il suo fidato amico ricoperto dalla stoffa azzurra, addormentandosi accompagnato dal dolce tintinnio dei piccoli campanellini scoloriti rilegati ed uniti tra loro con un bracciale nero attorno al suo polso sottile.
Il suo oggetto-ricordo della sua felice infanzia che a lui sembrava fosse già finita.

Mi chiamo Michael Kenji Shinoda, ho sei anni e sono nato l’undici Febbraio del 1977 a Los Angeles.
La veloce manina del bambino scivolava e scorreva liscia come l’olio sul foglio del suo quaderno d’inglese, svolgendo i propri compiti da bravo studente.
Vivo con mia madre Susan di trent’anni, mio padre Kenji di trentaquattro e mio fratellino più piccolo Jason, che va ancora all’asilo.
Mio padre è originario del Giappone, i suoi genitori furono tra i primi emigrati giapponesi che sbarcarono in America, al ritorno di mio nonno dalla guerra. Ma per tradizione ritornarono alla loro città natale per la nascita di mio padre, che però non poté fare la stessa cosa con me. Ed è per questo ha voluto affidarmi il suo nome giapponese, per ricordarmi sempre da dove provengo.
Ho un cane di nome Lucky che ha tre anni, proveniente dalla cucciolata della nostra vicina di casa, la signora Goldsmith.
Lui, a differenza di Chester, non aveva paura di ciò che scriveva, non aveva freni, poteva scrivere quello che voleva e non nascondere niente, dato che niente aveva da nascondere.
Il mio passatempo preferito è disegnare, mi piace molto farlo. Ogni volta che posso prendo matita e pennarelli e disegno qualunque cosa mi venga in mente. La mia mamma mi dice sempre che da grande diventerò un bravo artista, mio padre dice che sarebbe meglio che io studi e che diventi piuttosto un bravo medico.
Non aveva paura di parlare della propria famiglia, non se ne vergognava per alcun motivo, di fronte ai suoi trasparenti ed innocenti occhi di bambino vedeva la perfezione nel suo nucleo familiare. Non aveva scheletri nell’armadio.
Mi piace studiare, non capisco perché la maggior parte dei miei amici lo odino. Penso che conoscere le cose renda le persone migliori, odio l’ignoranza, è una caratteristica stupida ed inutile. A volte vado nella libreria di mio padre, nel suo ufficio, e prendo un libro di quando andava ancora a scuola. È così che ho imparato le tabelline!
« Mikey, tesoro, è pronta la cena! » la voce della madre arrivò dalla cucina alla sua stanzetta dove faceva i compiti.
« Arrivo! » urlò lui richiudendo il quaderno e riposandolo nel grande zaino rosso, blu e giallo, per poi correre giù e sedersi a tavola, dove tutto era già stato apparecchiato, dove suo fratello e suo padre lo aspettavano e dove la madre stava servendo l’arrosto ancora fumante.
Era bello avere tutto quel lusso, un buon cibo caldo, una famiglia che si amava, due genitori che si volevano ancora bene dopo quegli anni di matrimonio, un fratellino che adorava il fratello maggiore.
Vedeva tutto ciò come una cosa normale, dovuta. Gli era difficile vedere la situazione diversamente, pensare di poterla vivere, proprio come stava facendo Chester a sua insaputa.
 
Tredici settembre 1983, il risveglio di quel giorno fu uguale a quello di due anni prima a quella parte, sempre lo stesso abbaiare, sempre lo stesso cane, sempre la stessa vita di merda.
Sempre il solito mal di testa.
Sempre la solita voglia di morire.
Sempre la solita voglia di mandare tutto a quel paese e cercare qualcosa di meglio rispetto a quello che miseramente possedeva.
Invece Michael si risvegliò sempre docilmente dal calore ed affettuosità materno che la madre gli donava ogni mattina, sedendosi sul bordo del suo letto e richiamandolo sul più bello del suo sogno, cosa che lui detestava ma che subito scordava non appena vedeva il viso di sua madre.
Il mattino era sempre uguale per entrambi, non era mai cambiato.
Michael scese in cucina e ritrovò subito suo fratello con la radio accesa, mentre mangiava i suoi abituali cereali dai mille colori. Chester si fece la colazione da solo, mangiando a fatica i suoi biscotti da quattro soldi presi dal discount nella via affianco alla sua.
A nessuno dei due pareva strano quel risveglio, erano così abituati alla consuetudine di quei gesti che non si facevano domande. Per lo meno Chester non se le faceva, nonostante non vivesse in una situazione gioiosa; Michael si poteva permettere di non chiedersi niente.
Si lavarono e si vestirono, Chester da solo, Michael aiutato dalla madre. Ed eccolo di nuovo pronti alle otto e mezza per il loro secondo giorno di scuola.
Ma quella volta il padre di Mike non poté accompagnarlo come il giorno precedente, perché si era svegliato di malavoglia alle sette per poter essere in tempo al suo lavoro da impiegato in una azienda situata nel centro di Los Angeles.
Così, il piccolo dovette farsi accompagnare dalla madre, ovviamente a piedi, fino alla sua scuola dai muri gialli e sbiaditi a poco più di sei isolati di casa sua.
Chester invece venne accompagnato – a piedi pure lui – dal fratello maggiore Brian, che da lì in poi avrebbe dovuto sopportare ogni giorno, dall’andata al ritorno da scuola.
Uscì assieme a sua fratello un quarto d’ora prima del suo nuovo compagno di classe, dato che la loro casa era un poco più lontana di quella della famiglia Shinoda, che distava qualche isolato più in la della famiglia Bennington.
Camminava in silenzio e a testa bassa, come era solito fare, come se si vergognasse di sé stesso, cosa che infondo provava. Il fratello non cercava mai di iniziare una conversazione, sapevano entrambi che sarebbe stato un tentativo vano dato che erano troppo diversi.
Già, nonostante fossero fratelli, sangue del loro stesso sangue, erano totalmente disuguali, sia nei gusti, nel modo di ragionare e di vivere. E in più Chester credeva che secondo suo fratello la loro situazione familiare andasse bene lo stesso, che non stesse andando a rotoli come invece stava accadendo.
Dopo un bel po’ di minuti di camminata e di quiete, Chester avvertì una presenza di fronte a sé. Non che fosse chissà cosa, capì solamente che c’erano due persone di fronte a lui, che erano appena usciti dalla recinzione in paletti bianchi in legno della loro casa perfetta.
Alzò appena lo sguardo per vedere chi fossero, anche se in realtà non gli interessava veramente conoscere l’identità di quei due individui, ma alzare la testa e vedere chi fossero era una cosa automatica.
Non ci avrebbe creduto nemmeno se Dio fosse sceso dai cieli alla Terra per dirgli che era la pura verità.
Riconobbe il grande zaino colorato che ricadeva sulle piccole spalle del bambino di fronte a sé, con i capelli a caschetto inconfondibili.
Con la testa fece uno scatto indietro, in tempo per vedere la casella della posta immacolata della casa dalla quale la donna ed il bambino erano appena usciti, segnata con il cognome Shinoda scritto perfettamente.
Il cuore gli batté istintivamente forte, come se davanti ai suoi docili occhi di bambino avesse di fronte il suo più grande idolo.
« Mike! » squittì il bambino, facendo svegliare di soprassalto l’altro piccolo che si era perso nei suoi pensieri.
Quest’ultimo si girò di scatto nell’essersi sentito chiamare, ma già aveva riconosciuto la voce che l’aveva sentito evocare.
Sulle labbra di entrambi si mostrò un enorme sorriso che molto probabilmente non se ne sarebbe andato via per fino al loro arrivo a scuola, nella classe, seduti ai loro banchi.
Il piccolo dalla cartella un po’ rovinata nonché da poveracci accelerò il passo fino ad arrivare a fianco al suo amico, così come Chester sperava di poterlo chiamare. Almeno lui.
La madre sorrise vedendo suo figlio aver fatto subito amicizia con un suo compagno, anche se un po’ infastidita dall’effettiva povertà dell’altro bambino, che si notava subito dai suoi vestiti e dalla sua cartella di qualità scadente.
« Hai fatto il compito d’inglese? » chiese il piccolo Mike, il primo che riuscì ad aprire un dialogo con Chester, il bambino che mai e poi mai aveva parlato con qualcuno tra le vie delle città.
« Sì, sì. » rispose lui.
« Di cos’hai parlato? » chiese innocentemente, non sapendo di aver fatto irrigidire d’un colpo l’altro bambino per una domanda che secondo i suoi parametri era inopportuna.
« B-Beh … Di un po’ di cose … » rispose evasivo « Tu? »
« Della mia famiglia, del mio cane, della mia passione per il disegno … »
« Davvero ti piace disegnare? » chiese Chester nel tentativo di evitare qualsiasi altra domanda su quel tema.
« Sì! È la cosa che più adoro fare, mi fa tranquillizzare e liberare da ogni piccolo pensiero … »
Continuarono a parlare del più del meno, se avevano visto la sera prima l’ultima puntata dell’ennesimo mecha che li appassionava, di come gli sembravano i compagni di classe a prima vista dato che ancora non li conoscevano bene, eccetera.
Arrivarono presto davanti all’entrata della scuola pullulante di bambini con i propri genitori che aspettavano l’apertura del cancello principale. Il tempo del loro viaggio dal loro incontro nella via della casa di Mike era durato così poco per loro che gli sembrava quasi uno scherzo essersi ritrovati davanti a scuola con così tanta rapidità.
Si guardarono in giro furtivi a destra e a sinistra, cercando i loro compagni da qualche parte. Infatti scorsero entrambi Ashley, la bambina che il giorno prima era coperta da un vestitino rosa appariscente, mentre quel giorno ne aveva uno simile ma giallo come il sole, affianco alla loro compagna di classe che ancora non conoscevano il nome, ma che quel giorno aveva un completino verde come il prato a differenza di quello azzurro smorto del giorno precedente.
Dall’altra parte videro Leonard, il bambino di colore, con la madre abbastanza corpulenta che aveva gli stessi capelli neri rilegati tutti quanti in tante piccole treccine, alcune però tinte di biondo.
Gli altri ancora non li avevano osservati bene così tanto da poterli riconoscere tra la folla di bambini che a mano a mano si accalcava sempre di più verso l’entrata.
« Mamma, quanto manca? » chiese Michael alla madre, impaziente di entrare nell’edificio.
La madre si alzò una manica tanto da scoprire solamente il polso, dove spuntava un bracciale di cuoio nero con in mezzo un piccolo orologio con la stanghetta sei secondi che non si fermava mai.
« Qualche secondo e vi aprono. » sorrise al figlio.
« Ci rimettiamo ai posti di ieri, vero? » chiese il bambino a Chester che lo guardò stupefatto.
Non si aspettava così tanto interesse sulla sua presenza da parte di quel suo nuovo compagno, non si era mai immaginato che avrebbe proposto una scelta comune. Non gli era mai capitato di scegliere assieme a qualcuno che non fosse della sua famiglia, perché abitualmente a nessuno importava la sua opinione, tanto meno la sua presenza.
« V-Va bene. » risposi il piccolo attonito, non realizzando nemmeno che si fosse nuovamente piazzato in prima fila.
La solita e vecchia campanella suonò dall’interno dell’istituto, avvertendo i bambini che potevano pure entrare e che da lì a cinque minuti le lezioni sarebbero cominciate.
« Ciao Mikey, fai il bravo, mi raccomando. » stampò sulla fronte del figlio un bacio, chinandosi abbastanza per arrivarci, data la sua bassa statura « Ciao Chester, mi raccomando: cerca di sopportarlo! E se non ce la fai più, hai il diritto di dirgli di starsene zitto. » il bambino un po’ riccioluto rise, mentre quello dagli occhi a mandorla fulminò la madre per avergli dato del logorroico.
I due piccoli cominciarono a correre senza freni verso l’entrata, passando veloci come fulmini tra gli altri alunni della scuola che li guardavano dubbiosi e non capendo come riuscissero ad essere così agili a passare in mezzo a tutti senza urtare nessuno.
Entrarono dentro ritrovandosi i primi studenti che riempivano il lungo corridoio semi-vuoto che conduceva alle scalinate per i piani superiori, cosa che sinceramente a nessuno dei due interessava, in quanto per raggiungere la loro classe bastava arrivare al fondo del corridoio e girare a destra dove si sarebbe trovato un altro corridoio con le varie classi, una affianco all’altra.
Non smisero di correre per un momento, non sentivano la stanchezza e tanto meno sentivano lo sbraitare del bidello che li chiamava disgraziati per la loro eccessiva vivacità. Ma anche per le rigate nere che lasciavano le loro scarpe con sotto una suoletta di gomma scura.
Ormai era diventata una gara tra di loro, arrivavano a strattonarsi e a cercare di tenere dietro l’altro afferrandolo per la maglietta e tirandolo indietro. Quando arrivarono all’angolo, dove avrebbero dovuto girare a destra e correre verso la loro classe che si trovava nella penultima aula, fra poco Chester non fece sbattere il piccolo Michael contro il muro dopo uno spintone abbastanza forte.
Ma quando il più piccolo si trovò a costeggiare il muro color pisello si mise solamente a ridere e a cercare di recuperare terreno, cosa che gli risultò troppo difficile perché Chester aveva aumentato più che poteva la sua velocità, nonostante avesse una cartella grossa quasi il doppio di lui sulle spalle.
« HO VINTO! » esultò il bambino dai capelli boccolosi mentre metteva un piede nell’aula, segnando la sua vittoria, portando le braccia in aria ed aspettando che il suo amico, che di lì a poco sarebbe svenuto per il fiatone, lo raggiungesse.
« Non è giusto! » brontolò l’altro entrando in classe con sguardo basso e dirigendosi verso i due banchi infondo alla prima fila.
A Chester vennero i brividi quando vide l’amico sedersi e non correre verso banchi in fondo che ancora erano vuoti ed immacolati, cosa che lui non si sarebbe fatta mai scappare dalle mani.
E l’uggia aumentò quando si sedette a sua volta affianco al suo compagno che cercava di riprendere fiato dalla corsa, o per lo meno ci provava dato che il suo cuore batteva così forte che sembrava volesse esplodere.
Chester quasi non si ricordava l’ultima volta che ebbe corso in quel modo, sfrenato e finendo stramazzato sul banco in quel modo indecente e preoccupante, infatti sembrava che avesse bisogno di un defibrillatore. E non solo lui, anche Michael lo necessitava.
L’ultima volta che aveva corso in quel modo era stato quando abitava ancora a Phoenix, quando era ancora piccolo e spensierato, quando ancora non gliene fregava più di tanto dell’amicizia dei suoi coetanei che non gli volevano concedere, quando era ancora felice.
Ricordarsi i suoi momenti di felicità per lui era estremamente difficile, perché o non se li ricordava affatto, o non erano abbastanza nitidi da dargli un senso, oppure perché venivano semplicemente sopraffatti dai ricordi brutti ed infelici che lo assillavano ogni sera, quando doveva andare a dormire.
E quella volta riuscì a ritrovare quel tassello della sua felice memoria, di quando aveva compiuto da poco tre anni e scorrazzava per il giardino verde e pieno di cespugli dietro casa sua, assieme al suo fidato migliore amico Beer.
Era felice per qualche motivo che in quel momento non ricordò, forse perché in quegli anni non necessitava di alcun motivo per sorridere alla vita e a tutto quello che gli succedeva attorno. Quando voleva, lui si svegliava col sorriso sulle innocenti labbra di bambino e niente e nessuno sarebbe stato capace di toglierlo.
Si ricordò di stare a giocare con il proprio cane, di andare da una parte all’altra della steccata rossa del recinto di casa, mentre il cane, un cucciolo di grande stazza, lo inseguiva come un pazzo, cercando di afferrargli qualcosa che aveva in mano.
Il cane impazziva dietro di lui, abbaiava e lo inseguiva, cercando di capire che razza di oggetto avesse in mano, dato era capace di fargli rizzare le orecchie al suo suono.
Erano già passati dieci minuti e lui non smetteva di correre, finché l’oggetto cadde dalle sue piccole mani e posandosi sul prato verde con un tintinnio. Quel tintinnio che producevano i campanellini del suo bracciale che quel giorno usò per far impazzire il cane e farlo giocare assieme a lui.
Il bambino si risvegliò dalla sua catalessi, dopo aver abbandonato lo sguardo vuoto verso il muro alla sua sinistra e lasciato che la mente viaggiasse nella sua memoria amaramente consumata dall’infelicità.
In classe erano appena entrati Leo ed un altro loro nuovo compagno di classe di cui ancora non conoscevano nemmeno di nome, il quale si sedette negli ultimi banchi ancora vuoti.
Ma Chester non li aveva nemmeno notati, in quel momento a lui non gliene fregava niente di nessuno. Non li conosceva nemmeno, quindi non li doveva per forza salutare, andare da loro e chiedergli come stavano, se avevano fatto i compiti ed i soliti convenevoli.
« Ci voleva … » mormorò Michael sorridendo all’amico, soddisfatto per la corsa nonostante avesse appena perso la gara.
« Sì, ma hai perso. » ridacchiò vittorioso Chester, girando lo sguardo per vederlo.
« Domani ti mangerai la mia polvere. » alzò le spalle con un sorriso beffardo sulle labbra, cosa che in verità non gli si addiceva molto dato il suo viso da bravo bambino e non da teppista.
« Vedremo! » ringhiò con un ghigno deciso, cosa che a lui stava alla perfezione.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Maybe someday I'll be just like you ***


Note: Capito da che canzone proviene il titolo di questo capitolo? A Place For My Head! u.u
In verità il quarto capitolo non è nemmeno pronto, fate conto che ho circa due interrogazioni al giorno, quindi non ho molto tempo per scrivere. E se pensate che in questo ponte, che dura da giovedì a domenica ._.", mi metta a scrivere, siete delle illuse :'D Studierò come una merda tutto il tempo ~ DIRITTO AL ROGO!
Dove eravamo arrivati? Chaz e Mike avevano scritto la loro presentazione (scusate se non è abbastanza infantile, ma io non mi ricordo come scrivono i bambini :c), arrivano a scuola assieme e fanno a gara, scampando per poco di essere scotennati dal bidello O: Come andrà il resto della giornata? Come reagirà Chester nel sentire le presentazioni dei suoi compagni, con una vita così diversa dalle sue? E Mike, cosa farà nel conoscere qualcosa su Chester?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo O:
LOL scherzo, lo scoprirete in questo :'3
In fondo metto la foto di Mikey e Kucky (non so se si chiamasse veramente così il suo cane xD) Appena ne avrò una di Chester, ve la metto u.u
Enjoy :3


Capitolo 3 – Maybe someday I’ll be just like you

 
Le prime tre ore di scienze e matematica passarono velocemente senza alcuna fatica di nessun allievo, dato che tutti quanti non stavano nemmeno ascoltando il loro insegnante che parlava e parlava, senza accorgersi degli sguardi vuoti di bambini che lo fissavano o che fissavano il muro.
Ogni piccola mente era occupata dalla più infantile fantasia che un bambino si potesse mai vedere passare davanti agli occhi abbandonati in un punto vuoto.
Cose che un adulto non riuscirebbe ad immaginare, perché forse solo i bambini hanno quella immaginazione che crescendo e vivendo nel mondo reale si perde.
C’era chi in quel momento sognava di salire in groppa ad un drago potente ed imbattibile, chi di nuotare assieme agli squali, chi di essere al comando del Gundam, chi di essere Diabolik, chi un pilota di un aereo o di uno shuttle.
E poi c’erano le bambine, che di mostri e robot giganti non gliene fregavano niente.
Persino Michael si fece prendere dalla noia che gli trasmetteva la voce del signor Way, suo insegnante che in quel momento parlava di scienze ed esseri chiamati microbi, bassa e roca, tipica di un uomo che però non cessava mai di emettere parole al vento con effetto sonnifero.
Dopo un po’ di tempo che il maestro cominciò a parlare, tutte quelle parole diventavano melodie di una docile ninna nanna che cullava e conciliava i sogni ad occhi aperti dei bambini.
Solo la dannata ed assordante campanella risvegliò quest’ultimi, diciotto corpicini che sobbalzarono sulle loro sedie per lo spavento.
« Bene, ecco l’intervallo … Mi sa che vi servirà proprio, dato che sta mattina vi vedo così spenti. Forza piccoli, avete appena cominciato la scuola e già vi stancate? » squadrò l’intera classe, mentre tutti quanti si guardavano scoraggiati ed un po’ imbarazzati per la loro non-colpa.
Lo sapevano benissimo pure loro che tutto quello che provavano in quel momento lo avrebbero rimpianto e tanto voluto più avanti, quando davvero avrebbero dovuto cominciare a sudare sangue per andare bene a scuola e prendere appunti ad ogni ora.
Dopotutto non era difficile: dovevano ascoltare, capire, fare gli esercizi a casa ed era fatto.
Ma mantenere l’attenzione dopo ben sei anni di abitudine al puro divertimento non era semplice.
Come il giorno prima, c’era chi usciva dalla classe per sgranchirsi le gambe, chi andava nei bagni e chi rimaneva in classe a giocare.
Quella mattina però, il bidello aveva riportato in tutte le classi dell’istituto i giochi da tavolo che erano stati ritirati durante l’estate per ripulire meglio ogni superficie. Ai bambini brillarono gli occhi quando notarono che nello scaffale in fondo alla classe c’era un ripiano con una cinquina di giochi.
Ed in quel momento tutti erano lì, accatastati contro quello scaffale, cercando il gioco migliore con cui passare i venti minuti d’intervallo a disposizione.
Sembrò un miracolo agli occhi di Michael quando vide il suo compagno di classe uscire dalla massa informe di bambini, con una scatola quadrata in mano e con lo sguardo un po’ intontito.
« Che cosa hai preso?? » chiese il bambino troppo eccitato per la vittoria dell’altro contro gli altri compagni di classe, guardandolo come se fosse un eroe di guerra in tempo di pace.
« F-Forza quattro. » balbettò il lentigginoso ancora un po’ rimbambito per gli strattoni e la lotta al miglior gioco appena compiuta. Fra poco non capì ciò che gli aveva appena risposto, e si chiese se avesse detto qualcosa di sensato o meno.
« Forza quattro? E come si gioca? » gli prese la scatola dalle mani esaminandola e cercando le istruzioni sul retro, cose non difficili da leggere dato che proprio quando iniziarono l’asilo entrò in vigore la leggere di insegnare ai bambini a leggere e a scrivere – almeno le basi – a partire dalla scuola materna.
Si sedettero ai loro banchi, Michael camminando senza guardare dove andava perché troppo impegnato a leggere, Chester barcollando come un ubriaco.
« Ah, ho capito come si gioca! In poche parole … »
« Tranquillo, » lo fermò Chester aprendo la scatola e prendendo su i pezzi da montare per la griglia « ce l’ho pure io questo. »
Il lentigginoso montò il gioco, mentre l’altro smistò i dischi gialli da quelli rossi, prendendo quest’ultimi e mettendoli dalla sua parte.
« Ma … volevo io quelli rossi … » mormorò fievole Chester dopo aver finito di montare la cella blu e vedendo i dieci dischi gialli lasciati da parte per lui.
« Oh … È che il rosso … È il mio colore preferito, quindi … Volevo prenderlo io, ma se vuoi li puoi prendere tu eh! » cercò di giustificarsi Michael, non volendo far rattristire il compagno, che appena sentì dire ‘è il mio colore preferito’ sgranò gli occhi.
« A te piace il rosso? » chiese con voce fievole.
« S-Sì … Perché? »
« È anche il mio! » risero entrambi infantilmente di fronte alla loro seconda cosa in comune: la prima la ciliegia, la seconda il rosso.
« Ma tienili pure tu quelli rossi, non è molto importante alla fine. » fece spallucce, attirando nel suo banco i dischi gialli come il sole.
Nemmeno si accorse di aver appena compiuto un atto di bontà e gentilezza, lasciando al suo compagno ciò che preferiva. Non l’aveva mai fatto con nessuno, sia perché non voleva cedere a gli altri quello che voleva lui, sia perché non ne aveva mai avuta l’occasione. Erano sempre gli altri a vietare lui ciò che desiderava.
Iniziarono a giocare, come tutti i bambini della classe, ognuno con il gioco che era riuscito a prendere prima che qualcuno lo rubasse per primo. C’erano gruppi numerosi di bambini al monopoli, un po’ di meno al gioco dell’oca, due e tre al gioco del labirinto. Infine c’erano alcuni bambini che viaggiavano da una postazione all’altra decidendo dove fermarsi a giocare, dato che non erano riusciti a prendersi qualche gioco per sé.
Chester e Michael erano già alla loro seconda partita di forza quattro, la seconda in cui il primo aveva battuto il secondo con facilità, che stava perdendo la pazienza di fronte a tutte quelle vittorie dell’amico.
Rovesciarono tutti i dischetti sul banco smistandoli da quelli rossi a quelli gialli dopo la seconda vittoria di Chester, per cominciare la terza partita.
« Possiamo giocare anche noi? » la vocina di una bambina sorse da dietro le spalle di Chester, il quale quasi saltò per aria perché preso di sorpresa.
Michael guardò dietro al suo compagno, scorgendo Ashley, la bambina dal vestito giallo, seguita dalla sua amica dal vestitino verde ed i capelli castani raccolti in uno chignon probabilmente fatto da sua madre.
Il suo sguardo passò dalle bambine al suo amico, che stava borbottando tra sé, non volendo lasciarle giocare e preferendo continuare egoisticamente. Una volta ch’ebbe l’opportunità di fare l’egoista con qualcosa che qualcuno voleva ma non possedeva, l’avarizia si fece strada in lui.
« Certo. » sorrise Michael alzandosi e cedendo il posto alla graziosa bimba, che con un sorriso si accomodò sulla sedia del nuovo compagno di classe.
A quel punto, Chester avrebbe dovuto alzarsi e cedere a sua volta il posto all’altra compagna, ma non c’era verso di scollarlo dalla sedia e dal gioco.
I tre bimbi fissarono quello dai capelli boccolosi, aspettandosi un atto cortese. Cosa che ovviamente non arrivò, in quanto il bambino non sapeva nemmeno cosa fosse la cortesia, le buone maniere e la gentilezza. Nessuno gliene aveva mai dato dimostrazione.
« … Chester … » lo strattonò Michael da una manica della sua maglietta arancione a maniche corte, l’altro si limitò a fulminarlo con lo sguardo, con un chiaro messaggio delle sue intenzioni.
« È cocciuto. » disse Michael alla bambina dal vestito verde dopo aver sbuffato, ma l’altra sorrise tranquillamente facendo spallucce pazientemente « Come vi chiamate? »
« Io Ashley. » disse la bambina inserendo il dischetto rosso, cosa che fece innervosire il compagno di fronte a sé che voleva essere il primo a iniziare.
« Io Anna. » rispose la bambina dal vestitino verde, mentre si sedeva sui banchi in seconda fila, aspettando il suo turno « Voi? »
« Io Michael. » si sedette affianco a lei sul banco molto basso, adatto alle loro minute stature « Lui invece è Chester. » rispose per il compagno, troppo impegnato per badare alle domande altrui.
A lui non piaceva essere così scorbutico e antipatico, gli piaceva far amicizia con i suoi coetanei. Però non riusciva proprio a fidarsi di loro, li reputava troppo subdoli.
« Grazie Michael per avermi ceduto il posto, tu almeno sei gentile. » Ashley stuzzicò come una vipera Chester, che la vaporizzò con un uno sguardo tagliente e distruttore.
In quel momento la sua teoria sulla falsità dei bambini, che all’apparenza sembrano degli angioletti amichevoli ma in verità sono dei luridi stronzi quando vogliono, si confermò.
« Ho vinto. » gli uscì dalle sottili labbra una voce rauca ed impertinente, che fece sorprendere Michael nel sentirgliela fare, come se lo conoscesse da anni e non lo avesse mai sentito parlare in quel modo.
Ashley guardò stupita la griglia, non riuscendo a capacitarsi dei quattro dischi gialli allineati obliquamente, incapace di dire qualcosa per i primi secondi.
« N-Non è possibile … » riuscì finalmente a parlare dopo aver messo a posto le idee « Io ci gioco da quando ero ancora all’asilo, come puoi sei riuscito a battermi? Sono sempre stata la migliore! »
I bambini riescono a litigare anche per le cose minime, le più insensate ed insulse. Ma ciò che solamente i bambini e nessun’altro sa fare, è fare la pace.
Chester alzò un sopracciglio scettico di fronte al comportamento così supremo della bambina, non credendo che veramente esistesse gente così convinta di sé stessa. In quel momento avrebbe voluto istigarla ancora di più, metterla in ridicolo per una sconfitta di un’insulsa partita di forza quattro, ma allo stesso momento volle consolarla.
È possibile che stare con bambini così diversi da quelli che ho conosciuto tempo prima mi stia portando ad addolcirmi e a comportarmi bene con loro, come loro fanno con me? pensò Chester per un nano secondo. Oddio, magari non tutti si comportano bene con me, però Michael lo fa … Forse, infondo, anche loro sono buoni come lui … Un giorno riuscirò ad essere come loro, a farmi accettare da tutti, facendomi amicizie senza problemi?
« Beh, sappi che a volte anche i migliori sbagliano. » disse Chester facendo spallucce, cercando di mascherare il sorriso addolcito nel vedere la bambina ancora allibita per la sconfitta.
Quest’ultima fece in tempo appena a sollevare lo sguardo dalla griglia blu a Chester, per guardarlo spaesata e sorpresa per la sua affermazione che nonostante ricordasse la sua sconfitta la stava definendo la migliore.
Ma il loro sguardo venne subito interrotto da Anna, la bambina dal vestito verde, che scese dal basso banco e strattonò Chester, facendolo alzare e sedendosi al suo posto.
« Però adesso tocca a me! » squittì la bambina facendo ricadere i dischetti sui banchi uniti e prendendo i gialli per sé.
Chester stava per dirle qualcosa, di togliersi dalle scatole e di lasciarlo giocare con il gioco che aveva guadagnato scalciando contro i suoi compagni di classe, ma venne fermato da Michael che lo tirò verso di sé, facendolo sedere sui banchi e lasciandolo brontolare.
« Ma voi vi conoscete dall’asilo? » chiese il giapponese americanizzato, curioso come ogni bambino della sua età.
« Sì. Abbiamo fatto tutti e tre gli anni assieme, in più siamo vicine di casa. » rispose Ashley con il suo solito tono rigido ma amichevole, il ché la faceva sembrare una di quelle donne che lavorano nel commercio e devono sempre sembrare forti, inflessibili e cocciute, che ottengono sempre ciò che vogliono.
« Voi invece? » chiese Anna inserendo l’ennesimo disco giallo come il vestito dell’amica.
« Noi ci siamo conosciuti solo ieri. » rispose Chester tranquillamente, smaltendo l’irritazione di prima creata dalla presenza delle due bambine.
« Davvero? Non sembra … » disse innocentemente Anna.
I due bambini si guardarono tra l’interrogativo ed il compiaciuto, con un sorrisetto incerto ed appagato.
« E cosa te lo fa pensare? » chiese Chester.
Alzarono entrambe le spalle in contemporanea, lasciando a bocca asciutta i due piccoli.
« Ho vinto! » esultò Ashley alzando i pugni in alto, mentre Anna girò lo sguardo offeso e deluso da un’altra parte.
Michael fece una smorfia di disapprovazione nel vederla rattristita, non era il tipo di bambino che gioiva di fronte alla tristezza altrui, anzi. Ogni volta cercava di rendere felici tutti.
« Vuoi fare una partita contro di me? » chiese allora alla bambina dal vestito verde, che subito annuì entusiasta.
Chester guardò stranito l’amico mentre quest’ultimo si sedeva al posto di Ashley, cedendo i suoi dischetti rossi ad Anna.
Ma che gli hanno fatto a questo, per essere così buono e gentile? pensò il lentigginoso.
Fecero in tempo a fare una partita, che vinse Anna, che la campanella suonò segnando la fine dell’intervallo.
Ma c’era una cosa che Chester aveva notato nella vittoria della bambina: Michael si era fatto volontariamente mettere sotto da lei, aveva fatto in modo che vincesse e che lui perdesse. L’aveva notato perché aveva messo praticamente quasi tutti i dischi rossi in modo da crearle il posto adatto ad una linea rossa di quattro dischi.
Ma in quel momento non disse niente, glielo avrebbe chiesto dopo al massimo, nel frattempo cercava di capire da solo perché.
Da quando la gente preferisce perdere per far felice gli altri? si chiese Chester staccando le gambe che sorreggevano in piedi la griglia e riponendole dentro la scatola che doveva riportare sullo scaffale. O è lui che è strano, o qui a Los Angeles hanno tutti le palle mosce.
Il piccolo aveva imparato tutte queste serie di modi di dire e parolacce grazie a suo padre che non riusciva mai a contenersi e autocensurarsi. E lui, come ogni bambino, imitava ciò che facevano gli adulti, credendo che fosse giusto così.
Mentre alcuni bambini si sedevano al proprio posto, certi posavano le scatole sul ripiano e altri ingoiavano l’ultimo pezzo di merenda, in classe entrò il signor Norton, il loro insegnante di lingue, di storia e geografia.
Posata la sua borsa marroncina verdastra sulla cattedra, il maestro si sedette dietro ad essa, aspettando che tutti i bambini si sedettero al loro posto.
« Buon giorno signorini, come state? » chiese tirando fuori un libro grande e colorato, quello che di lì a poco avrebbero dovuto usare per inglese, e le vocine dei bambini intonavano tutte in coro un acuto ‘bene’.
« Felici che oggi vi hanno dato i giochi? » sorrise nel vedere tutte le testoline annuire « E ditemi, come vi sembrano? Vi piacciono? »
« Alcuni sono noiosi. » ammise una bambina dai capelli biondo platino nel banco dietro a Leonard, che aveva giocato al gioco del labirinto.
« Altri invece sono divertenti. » la vocina di un bambino s’innalzò da in fondo la classe.
« Beh, possiamo dire sempre meglio di niente, allora. » sorrise il maestro « Avete fatto i compiti, vero? » inclinò il tono di voce di poco, tanto per far terrorizzare i bambini che non avevano seguito le semplici regole scolastiche.
Dovevano insegnarglielo fin da piccoli, cosicché da grandi avrebbero fatto sempre i compiti ogni volta che venivano assegnati. Ma alla fine della fiera, erano più gli adolescenti che non li eseguivano che chi invece sì.
Il silenzio calò immediatamente sui bambini, come se gli si avesse urlato addosso di tacere. Ma lui li aveva fatto una semplice domanda …
Il maestro sbuffo insofferente e disse poi calmo « Alzi la mano chi non li ha fatti. »
Tre manine si alzarono nel vuoto: il bambino dai capelli rossi, una bambina dai capelli neri ricci e crespi, ed infine un altro bambino con i capelli biondi spettinati sulla sua fronte.
« Per lo meno siete in pochi … Bambini, fare i compiti è importante. » li ammonì il maestro con voce premurosa, mentre i piccoli si strinsero nel loro minuto corpo per la vergogna e il dispiacere.
« Non sono uno che sgrida e mette note, lo faccio così raramente che non varrebbe nemmeno la pena contare le volte in cui le segno sul registro. E sapete qual è la cosa peggiore? È che le note che scrivo, vanno a finire nel registro nero. » fece rabbrividire i bambini nel sentirsi dire quella cosa così misteriosa ma che allo stesso tempo inquietava e metteva istintivamente paura.
« Sapete cos’è il registro nero? » chiese ripetendo sempre quelle due parole con una certa enfasi, mentre le testoline dissentirono « È il registro che va direttamente alla preside della scuola, e voi non volete che la preside veda cosa avete fatto, vero? »
I bambini provarono un senso di terrore nel vedere il loro docente tirare fuori dalla sua borsa un fascicoletto con la copertina nera. Pure Chester s’intirizzì.
« Per oggi non vi darò alcuna nota, perché sono buono. Ma la prossima volta bada a voi se non li fate … Beh, cominciamo. Facciamo l’appello. » prese il registro di classe, quello con la copertina azzurra plastificata, leggendo nome per nome i bambini che ogni volta alzavano la manina sussurrando un ‘presente’.
« Ieri chi ho già sentito, per lo meno per il nome? » chiese il maestro alzandosi dalla sedia e Leonard, Ashley, Chester e Michael alzarono le mani.
« Allora, Leonard. Leggici di te. » disse sedendosi sul bordo della cattedra, portando le mani vicino ai suoi fianchi.
Il bambino tirò fuori dallo zaino il suo quaderno, cosa che fecero insieme anche i suoi compagni capendo che era l’ora di iniziare la lezione. Si schiarì le corde vocali e cominciò con la sua fievole voce:
« Il mio nome è Leonard Steev, ho sei anni e sono nato a Boston il ventidue Agosto. Mi sono trasferito qui quando avevo solo un mese, perché alla mia mamma è sempre piaciuto abitare a Los Angeles. Mia mamma si chiama Beverly, ha ventiquattro anni e viene dalla Giamaica. Anche mio papà Luke è giamaicano. »
La classe taceva in un silenzio contemplativo, ascoltando ogni singola parola che le sue corde vocali emettevano, interessati da lui, dalla sua storia e dalla sua vita.
« Ho un criceto, Hamm, che mi hanno regalato per il mio compleanno, il mese scorso. L’ho chiamato così perché ogni volta che mangio un po’ di panino al prosciutto gliene do un pezzetto, e a lui piace tanto! A volte mia mamma mi accompagna in uno skate-park per bambini della mia età, dove ho fatto tante amicizie. Da grande voglio diventare uno tra i migliori skater dell’America. » finì di leggere il suo compito, alzando il suo sguardo incerto e timoroso dal foglio al maestro.
Chester, come gli altri, aveva ascoltato e appreso qualcosa in più su quel bambino. Non gli interessò più di tanto delle sue origini giamaicane o del suo criceto. Lo catturò di più il fatto che faceva sembrare la sua famiglia perfetta, cosa che magari era veramente, ma che a lui non andava giù. Non ci credeva di essere l’unico a vivere in una situazione come la propria.
« Bravo, ottimo lavoro. Adesso … » girò lo sguardo tra i banchi pieni di bambini « Ashley!  Leggici la tua presentazione. »
La bambina partì subito in quarta, leggendo bene ad alta voce per essere sentita da tutti i compagni e dal maestro « Mi chiamo Ashley Deste, sono nata il tredici Giugno a Los Angeles, ma ho origini francesi e tedesche da parte della mia mamma e del mio papà. Infatti la mia mamma Ginette, di ventinove anni, è originaria di Aix-en-Provence, mio papà Henrik di trentadue anni è di Berlino. Viviamo in un alto palazzo nel centro di Los Angeles, nell’appartamento vicino a quello dei miei cugini. Ho una sorella maggiore, Jane, che ha otto anni e viene in questa scuola. » il bambino dai capelli boccolosi s’irrigidì.
Ha otto anni e viene in questa scuola?? pensò il bambino. Dio ti prego, fa che non conosca Brian, fa che non l’abbia mai visto e non sappia nemmeno della sua esistenza, ti supplico … piagnucolò tra sé, posando disperatamente la testa sul banco. Michael, guardandolo, ebbe la paura che fosse svenuto per chissà quale malore.
« Da quest’anno comincerò danza classica, assieme alla mia migliore amica Anna Hillinger. » lanciò uno sguardo ed un sorriso alla bambina appena nominata che ricambiò il sorriso « Amo gli animali, qualunque esso sia. Ma dato che viviamo in un condominio, non ci conviene prenderne, perché poi non avremmo nessuno che lo potrebbe portare fuori per i suoi bisogni. »
Un’altra con la vita perfetta, la famiglia perfetta, le amicizie perfette. Tutto era perfetto, anche con lei. La fortuna le aveva sorriso, a differenza di Chester il quale si beccò invece uno sputo nell’occhio da parte sua.
« Adesso … » il cuore dei bambini fece un tuffo nella paura e nell’agitazione « Michael, il nostro piccolo genio. » fece l’occhiolino al bambino che sorrise timido e compiaciuto.
« Mi chiamo Michael Kenji Shinoda, ho sei anni e sono nato l’undici Febbraio del 1977 a Los Angeles. Vivo con mia madre Susan di trent’anni, mio padre Kenji di trentaquattro e mio fratellino più piccolo Jason, che va ancora all’asilo.
Mio padre è originario del Giappone, i suoi genitori furono tra i primi emigrati giapponesi che sbarcarono in America, al ritorno di mio nonno dalla guerra. Ma per tradizione ritornarono alla loro città natale per la nascita di mio padre, che però non poté fare la stessa cosa con me.
Ed è per questo ha voluto affidarmi il suo nome giapponese, per ricordarmi sempre da dove provengo. »
Sembra perfetta pure la sua … pensò sofferente Chester.
« Ho un cane di nome Lucky che ha tre anni, proveniente dalla cucciolata della nostra vicina di casa, la signora Goldsmith.
Il mio passatempo preferito è disegnare, mi piace molto farlo. Ogni volta che posso prendo matita e pennarelli e disegno qualunque cosa mi venga in mente. La mia mamma mi dice sempre che da grande diventerò un bravo artista, mio padre dice che sarebbe meglio che io studi e che diventi piuttosto un bravo medico. »
Non sembra, lo è …
« Mi piace studiare, non capisco perché la maggior parte dei miei amici lo odino. Penso che conoscere le cose renda le persone migliori, odio l’ignoranza, è una caratteristica stupida ed inutile. A volte vado nella libreria di mio padre, nel suo ufficio, e prendo un libro di quando andava ancora a scuola. È così che ho imparato le tabelline! » finì posando ordinatamente il suo quaderno sul banco.
« Bravo, sono felice che ti piaccia studiare! Almeno con te non farò fatica a insegnare, con alcuni dovrò sudare sangue … » si grattò la fronte corrugata in un’espressione disperata nel ricordarsi quanti furono gli allievi che lo tirarono scemo nel corso degli anni della sua corta carriera.
Chester rilesse quel minimo del suo compito in quel poco tempo che gli rimase e la voglia di sotterrarsi aumentò.
Cosa cazzo mi è saltato in mente ieri sera, quando ho scritto sta roba?? pensò il bambino nel pieno del suo panico.
« Bene, adesso Chester. » il maestro guardò il bambino, che però lo ricambiò con uno sguardo spaesato e terrorizzato.
In un certo senso gli piaceva che la gente sapesse su di lui, pensava che il degrado fosse figo. Tutti i bambini ad una certa età pensano che colui che possiede un passato oscuro, un comportamento scorbutico, stronzo, che ti mette i piedi sulla testa sia figo. Ma lo è solo quando si è quel genere di bambino, non quando lo sono gli altri.
In poche parole lui da un lato voleva raccontare di sé, in quel modo evasivo, dicendo e non dicendo. Ma dall’altro lato si vergognava.
« M-mi chiamo Chester Charles Bennington, ho sette anni e sono nato il venti Marzo del 1976, a Phoenix, Arizona. » in quel momento Michael si girò di scatto a guardarlo confuso, non capendo se avesse udito lui male o pure fosse realmente più grande di lui di un anno.
« Mi sono trasferito a Los Angeles nell’estate del ’82 per il lavoro di poliziotto di mio padre. Durante il mio tempo libero mi piace girare per il mio quartiere, cantando senza preoccuparmi di essere sentito, non mi vergogno della mia voce. Mi piace tanto ascoltare la musica alla radio, se potessi l’ascolterei tutto il giorno. Il mio gruppo preferito sono i Depeche Mode, adoro People Are People. »
« Pure a me piacciono … » mormorò a bassa voce il maestro con un mezzo sorriso sulle labbra.
Chester in quel momento esitò a continuare, non sapeva se voleva veramente che i suoi compagni venissero a conoscenza della storia del suo primo ed ultimo migliore amico. Aveva paura che lo prendessero in giro, che lo avrebbero lasciato da solo come tutti gli altri bambini dell’asilo fecero prima di loro.
Lui sapeva che avrebbero potuto fare questo e oltre, rovinargli tutti i suoi giorni o per lo meno provarci il più possibile, perché non sarebbero stati felici finché lui non sarebbe stato triste.
Sapeva che avrebbero avuto il coraggio di farlo, i bambini erano sempre stati stronzi con lui, erano esperienze vissute sulla propria innocente pelle pallida di bambino.
E poi, forse, avrebbe potuto perdere Michael. Non che gli interessasse più di tanto, lo aveva appena conosciuto, e nonostante gli sembrasse simpatico, gentile, buono e sociale era sempre un bambino, come quelli che avevano cercato di rovinargli l’esistenza.
Come l’avevano fatto loro lo avrebbe fatto lui, non’era difficile dopotutto. Ognuno era un facile bersaglio, e chi era destinato ad essere preso di mira per sempre lo si capiva/sceglieva fin dall’inizio. E da lì in poi non ci sarebbe mai stato motivo per cambiare le cose.
« Quando abitavo a Phoenix avevo un cane, un pastore belga, si chiamava Beer perché il suo pelo aveva il colore di una birra bionda. Sembrava un cane stupido, ma non lo era, faceva il finto tonto solo per farmi ridere. Ma un giorno scappò di casa, ed io stetti davvero male per tanto tempo. »
Si comincia pensò Chester.  O li perdo, o i bambini di Los Angeles sono diversi da quelli di Phoenix.
« Un giorno una signora bussò alla porta di casa accompagnata da una giovane ragazza. » vide di nuovo quella signora dai capelli bianchi tinti di biondo davanti ai suoi occhi, in mezzo a lui e a quelle parole scritte sul suo quaderno.
« Quando aprii notai che legato al guinzaglio aveva Beer, che appena mi vide mi saltò addosso leccandomi e facendomi le feste. » vide il suo cane, che guaì di felicità appena lo scorse, che fece un salto addosso quel corpicino di bambino, invadendolo con leccate affettuose e felici.
« Ma subito dopo notai anche che la signora aveva degli occhiali da sole sul naso, e non perché fosse una giornata soleggiata, ma bensì perché era cieca. » era piccolo, sì, ma sapeva cosa significassero quegli occhiali così scuri, quei movimenti così incerti della signora, che gli ricordarono un bambino che gioca a mosca ceca, con gli occhi bendati e lo sguardo oscurato.
Solo quando la vide capì cosa provassero i cechi, ogni giorno della loro vita. Un’agonia di paura ed insicurezza anche nell’atto di camminare, di allungare una mano, di afferrare qualcosa.
« Decisi di lasciarglielo nonostante fossi così affezionato, lui fu il mio unico e vero migliore amico. » finì con un fastidioso nodo alla gola ed una voglia matta di piangere disperatamente come ogni volta che pensava al suo migliore amico. Ma quella volta doveva sembrare indifferente ed insofferente, forte e duro, insensibile. Nell’atto di posare il suo quaderno sul banco, si udì solamente il tintinnio due campanelli del suo braccialetto.
Quella fu l’ultima volta che si mostrò gentile e cordiale, che fece un atto da cuore puro e benevole, ritrovandone in cambio la solitudine e l’abbandono. Quello fu uno dei motivi principali che lo portarono a non fare più azioni del genere, ovvero a pensare prima per sé e poi per gli altri.
Chissà cosa starà facendo adesso. Chissà se sta bene. Chissà se si ricorda di me, di ciò che abbiamo passato assieme in quei pochi anni in cui è stato con me …
Attorno a lui si era formato il silenzio, proprio come il giorno prima quando aveva detto che la scuola sarebbe stata noiosissima e basta. Quel bambino era capace di azzittire tutti con niente.
Lo fissarono mettendo in ordine nelle loro testoline le informazioni essenziali che aveva detto: nato nel ’76 a Phoenix, gli piaceva cantare, ebbe un solo ed unico amico, un cane.
Non che fosse scandaloso tutto quello, c’erano situazioni peggiori alla sua molto probabilmente e sicuramente non erano poche, lui era un caso come tutti gli altri. Ma una condizione del genere non è niente quando te la raccontano, è invece totalmente diversa quando conosci la persona che la vive.
« Oh … Hai un passato molto commovente e triste, Chester. » ammise il maestro « Ma sappi che il tuo amico non vorrebbe che tu ti abbattessi ma che continuassi ad andare avanti, mostrandoti forte. » gli fece un occhiolino d’incoraggiamento, che il bambino ricambiò con una smorfia che sarebbe dovuta essere un sorriso.
« Bene, adesso gli altri. » batté le mani il docente prendendo poi l’elenco della classe e chiamando i bambini, ascoltando le loro presentazioni mentre coloro che non le avevano fatte dovettero inventarle al momento a voce.
Mentre il bambino che faceva di cognome Amstrong, il primo dell’elenco, leggeva la propria presentazione scritta il giorno prima, Chester guardò di sottecchi il suo compagno di banco, Michael, cercando di capire se il fatto che avesse un anno in più di lui lo mettesse a disagio.
Ma al bambino dagli occhi a mandorla poco interessava in quel momento l’età del compagno, era solo un numero dopotutto, niente di ché. La sua tarda entrata nella scuola primaria poteva essere dovuta a tanti fattori che lui in quel momento non riusciva a pensare.
La perdita del cane, il suo migliore amico, gli dispiacque solamente come a gli altri. Non pensò nemmeno per un secondo di poterlo discriminare per una cosa del genere, non avrebbe avuto senso.
Chester ascoltò in silenzio le presentazioni di tutti gli altri compagni di classe, e più le sentiva più aveva voglia di chiedersi il perché.
Perché le loro vite fossero così perfette rispetto alla sua.
Perché era l’unico che soffrisse nonostante non avesse fatto niente di male per meritare tutto quello.
Perché a lui era toccato quell’orrendo passato e presente che non desiderava affatto vivere.
Lui voleva solamente vivere la sua vita come un bambino normale. Avere degli amici, tra cui uno più speciale che sarebbe stato il suo migliore amico. Una famiglia che lo amasse, e che si amassero tra loro i componenti. Più soldi, per permettersi di comprare una merenda, delle maglie non di seconda mano o magari usate e regalate dai propri cugini e parenti, una cartella che sembrasse adatta a un bambino, una casa più grande e pulita in un quartiere non malfamato di Los Angeles.
In quel momento, in cui stava ascoltando l’ennesima presentazione della vita perfetta di un suo compagno, desiderava essere come loro.
Forse un giorno pensò Chester guardandosi le mani posate sul banco, dita magre con unghie mangiucchiate e non bel limate dalla mamma come quelle dei suoi compagni. Quando sarò io al capo di una famiglia tutta mia, farò di tutto pur di vedere mio figlio sorridere.
E così sarebbe stato felice come loro. Forse, un giorno.


Mike e Lucky

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** So I'm breaking the habit ***


Note: Salve-salvino lettore-lettorino, che bella serata-seratina non è vero? Perfetta per inseguirmi con la forca e le torce infuocate D: Lo so che non aggiorno da molto, ma mi sono presa troppo bene con la OS rossa che ho cominciato a scrivere... Quindi, mi farò perdonare con quella :3
Allur!  Ultimamente sto scrivendo capitoli corti, lo so :c E va beh dai, spero almeno che vi piacciano, anche se sembplici e un po' banali...
Enjoy :3


Capitolo 4 – So I’m breaking the habit

 
Martedì venti Settembre, quel giorno arrivò come un fulmine senza che realmente qualche bambino se ne accorgesse. Il tempo per loro passava veramente velocemente, perché la scuola era ancora un gioco, dove imparavano ridendo, passavano intervalli a giocare, ed infine facendo sempre di più amicizia l’uno con l’altro.
I bambini della classe C cominciarono a conoscersi sempre di più l’un l’altro, imparando piano piano tutti i nomi e tutti i cognomi, facendo nascere così delle nuove amicizie.
L’amicizia tra Chester e Michael divenne solenne, i due erano i componenti di una formula chimica per la felicità del primo, che senza il secondo era niente.
Ogni mattina andavano a scuola assieme, non c’era giorno in cui non passavano tra le vie l’uno in compagnia dell’altro, ovviamente scortati dalla madre del bambino dalle origini giapponesi e dal fratello di quello proveniente da Phoenix.
Ma se capitava il giorno in cui uno dei due si assentava per qualche motivo o perché entrava all’ora successiva, l’altro faceva la stessa cosa: o se ne ritornava in casa fingendo un malore (cosa che faceva solo Michael, dato che l’altro bastava che puntasse i piedi e nessuno avrebbe avuto la forza e la voglia di fargli cambiare idea), o entrava in seconda ora assieme all’altro.
In più, un giorno durante una lezione di matematica, presi dalla noia che il loro maestro sapeva creare, cominciarono a parlare di nomi e soprannomi. Non seppero nemmeno loro perché, ma da quel giorno cominciarono a chiamarsi Chaz e Spike. Il primo perché era semplicemente l’abbreviazione del nome originale; il secondo invece per richiamare alla memoria un cane, dato che il piccolo Michael andava matto per quella bestiola, il che lo portava a volte a fare lo stupido e a fingere di essere proprio un cane, tenendo la lingua di fuori o a volte guaendo.
Passavano gli intervalli assieme a giocare a forza quattro, a volte a monopoli, a volte al gioco dell’oca. Se uno andavano in bagno, ci andava anche l’altro; se non ce la facevano più a stare attenti giocavano assieme con gli evidenziatori, improvvisandoli come personaggi delle loro comiche; se Michael prendeva gli appunti, Chester faceva lo stesso – o per lo meno ci provava –.
C’erano giorni in cui formavano un gruppo assieme ad Anna e Ashley, trascorrendo gli intervalli assieme, giocando, parlando e conoscendosi sempre di più, fino a potersi definire ‘amici’.
Fu un brivido di gioia quando Chester realizzò che ciò che intercorreva tra lui e Michael non era semplice simpatia o banale armonia. Era qualcosa di più, perché provava quella sensazione di fiducia che mai aveva provato con altri suoi coetanei.
Sapeva che poteva contare su di lui, che si poteva fidare e credere. Aveva notato che era diverso dagli altri bambini, subdoli e stronzi con lui, ma bensì fiducioso e buono. Era uno tra i pochi che lo facevano sentire bene, apprezzato, non rifiutato ed evitato com’era invece sempre stato trattato.
Era così strano per il bambino dai capelli boccolosi avere non un semplice compagno di giochi, ma un vero e proprio amico. Forse era così perché non ne aveva uno da tanto tempo che non si ricordava nemmeno più come ci si sentisse quando si ha qualcuno su cui contare.
L’ultimo era stato Beer, quasi tre anni prima. E adesso aveva Michael, assieme ad Ashley e ad Anna, con le quali formavano un gruppo in sintonia ogni giorno.
Passavano le giornate assieme durante l’intervallo, nell’ora di pranzo si sedevano affianco; le due bambine avevano fatto cambio coi posti con gli altri compagni che sedevano dietro a Michael e a Chester, ponendosi dietro di loro per poter parlare tramite bigliettini anche durante la lezione.
A volte, quando Brian aveva voglia di accompagnare il fratello, si ritrovavano tutti e quattro assieme al Lincoln Park, vicino al centro di Los Angeles. Al fine settimana, quando i maestri davano quel poco di compiti che dovevano svolgere, si vedevano a casa di uno dei tre (dato che Chester evitava continuamente di portarli a casa sua e mostrargli lo schifo in cui abitava) e studiavano assieme. Ma alla fine, i loro ‘studi’ finivano col giocare a nascondino.
Ovviamente era più legato a Michael che a le altre due bambine, ma definiva anche loro come ‘amiche’. Chester si sentiva felice come non mai, finalmente dopo sette anni di odio e tristezza aveva qualcuno con cui giocare, con cui condividere le cose e sorridere.
Per le prime settimane della loro amicizia, i due bambini passavano le giornate assieme a casa del più piccolo, giocando tutto il pomeriggio e a volte facendo qualche compito. Chester si beava di quella visione della famiglia perfetta che era quella Shinoda, vedendo la madre sempre presente e pronta a soddisfare i figli e l’ospite per ogni bisogno, il padre sempre così buono con tutti, soprattutto con la madre, con la quale non litigava mai o per lo meno non lo faceva di fronte al bambino invitato.
Ma quei bei pomeriggi finirono quando Chester venne costretto dal padre a fare parte dei boyscout della scuola e la madre di Michael pagò un istruttore di pianoforte affinché insegnasse al primogenito come suonare per bene lo strumento a tasti.
I piccoli non ci misero poco a rattristirsi l’uno per la mancanza dell’altro. Così, il bambino destinato a passare le giornate ad imparare come si facesse un nodo alla corda, a volte non si presentava ai raduni, andandosene invece a casa di Michael, che faceva solamente un’ora di lezione di piano al giorno.
Non se ne preoccupò affatto del problema che sarebbe sorto se i suoi genitori sarebbero venuti a sapere delle su bigiate. Tanto il maestro Norton, capo dei boyscout, non aveva il compito di avvertire l’assenza del bambino, in quanto quest’ultimo in teoria veniva accompagnato alle lezioni dai propri genitori.
Ovviamente nessuno dei due si scomodava tanto per portarlo e assicurarsi che nessuno l’avesse rapito o messo sotto con la macchina nel percorso tra casa e scuola.
La settimana prima del venti Settembre, ogni alunno della sezione C aveva portato a scuola dieci dollari da consegnare al maestro Norton, il quale doveva consegnare poi i soldi al museo che ospitava la mostra su Picasso, in modo che prenotasse per loro i biglietti d’entrata con guida.
I diciotto bambini non stavano più nella pelle di fare la loro prima uscita didattica, anche se andare al museo non era proprio quello che speravano. Ma dopotutto si accontentarono anche di attraversare mezza città accompagnati dai loro insegnanti.
Michael invece era entusiasta proprio per l’esposizione artistica, cosa che lui adorava.
Questa sua grande passione per l’arte nacque quando ancora era un pargolo che camminava a malapena su due gambe, se non direttamente su quattro, e i dentini che stavano crescendo dalle sue gengive rosee mordicchiavano il ciuccio.
Fu solo grazie a suo nonno, il quale a sua volta dipingeva, che s’innamorò delle tempere e di quei mille colori con i quali si divertiva a imbrattare i propri vestiti e le varie tele ancora immacolate che il nonno lasciava in giro per la stanza in cui si rifugiava e dipingeva.
Il vecchio lo lasciava naturalmente fare, sorridendo intenerito di fronte alla fantasia artistica del piccolo che colorava con le dita strisce d’arcobaleno verticali e orizzontali, cerchi imperfetti e figure insensate.
Al piccolo Michael piaceva vedere le creazioni sottoforma di figurazione, perché non c’era modo migliore di esprimere una propria fantasia con una rappresentazione grafica a vari colori e diversi stili. Le parole erano insufficienti per lui, i gesti non valevano niente. Solo un disegno, anche se stilizzato, avrebbe reso meglio l’idea di ciò che pensava e sognava.
Ma alla fine diventava un tutt’uno con la tela, imbrattando di tempere quest’ultima ed i suoi vestiti, che appena sua madre vedeva le provocavano un urlo di orrore e di disperazione per gli ennesimi soldi buttati.
La giornata nuvolosa fu condita da qualche schizzo di pioggia che obbligava ai maestri e agli alunni di indossare i propri kway o ad aprire i propri ombrelli. Quando iniziava a cadere un po’ d’acqua i bambini si tiravano su il cappuccio del loro impermeabile, prendendo le sembianze dei fantasmi colorati di Pac Man.
Erano già le dieci e mezza, quando i diciotto bambini, tutti in fila mano nella mano per sicurezza – ovviamente Chester stringeva quella di Michael – e a gli estremi il maestro Norton ed il maestro Way, arrivarono di fronte al grande museo dell’arte che aspettava di essere esplorato e contemplato da cima a fondo.
Entrarono e lasciarono i propri soprabiti e zaini in uno spazio apposito agli studenti e ai loro docenti.
« Benvenuti. » apparve d’improvviso da dietro una porta con la scritta segnaletica ‘PRIVATO’ una donna sui trent’anni che sorrideva mostrando le sue mille rughe, con capelli biondi raccolti in una semplice coda alta.
Sul suo golfino di lana nero c’era attaccata una tessera con una sua foto ed il suo nome stampato in nero su bianco, con sotto annotato ‘GUIDA’.
« Io sono Stefani, la vostra guida alla mostra di Picasso. » disse tendendo la mano al maestro Way per stringere la sua in attesa di presentazioni.
« Io sono il maestro Thomas Way. » disse pacato con un lieve sorriso sulle labbra mentre stringeva saldamente la mano della signora che sembrava più vecchia di quanti anni avesse.
« Io invece sono David Norton. » disse il giovane maestro, troppo impegnato ad aiutare un bambino a slacciarsi il giubbotto con la cerniera bloccata per poter stringere la mano alla donna.
Dopo che tutti i bambini posarono le loro cose ed il maestro Norton riuscì a liberare il piccolo dalla giacca che era diventata la sua gabbia, finalmente potettero cominciare il tour delle opere d’arte del pittore di fama internazionale.
Per tutto il tempo, la guida parlò della vita di Picasso, delle sue prime esperienze con l’arte già in giovane età ed infine il suo esordio. Del suo modo particolare di dipingere, di ciò che raffigurava ed il perché fosse così.
Alla maggior parte dei bambini poco interessava tutto ciò, loro erano lì solo per uscire da scuola e saltare qualche materia, piacevole o noiosa che fosse l’importante era non farla. Se in quel momento si guardava dentro le loro testoline, si trovava tutt’altro che Picasso!
Ogni volta che passavano da quadro a quadro, i bambini facevano a gara per chi arrivasse per primo e chi riuscisse a guadagnarsi una delle quattro sedie in mezzo alla sala, stanchi per la camminata dalla scuola all’edificio d’esposizione.
Si stavano annoiando a morte, ed il maestro Norton se ne accorse quando erano riuniti tutti di fronte ad un’opera che rappresentava ‘il gioco’. Il bambino dai capelli rossi si sporse di troppo vicino al quadro, provocando così uno squillo assordante che lo avvertì della presenza di rilevatori della distanza di sicurezza, facendo girare tutti gli sguardi delle persone presenti nell’enorme stanza che subito lo guardarono male.
Il piccolo, divertito per l’effetto provocato da quel fastidioso allarme, cominciò a muovere la mano tra i due rilevatori, provocando un continuo fischio che fece innervosire persino i suoi compagni di classe, che però non riuscirono a fermarlo nemmeno con un cattivo sguardo. Così il giovane maestro dovette ammonirlo e tenerselo stretto prima che il bambino ritornasse a creare qualche altro tipo di noia.
Anche Chester si stava annoiando a morte. Lui voleva tornare a casa, mangiare, fare finta di andare dai boyscout e poi suonare il campanello della famiglia Shinoda, per passare l’ennesimo pomeriggio straordinario da quando l’aveva conosciuto a quella parte.
Voleva tanto mettere in atto qualsiasi scenata che gli avrebbe garantito il deviamento di quella lagna pazzesca. Ma nonostante avesse voglia di spararsi per non soffrire così in agonia, preferì stare affianco al suo amico, il quale sembrava molto preso e attento a tutto ciò che usciva dalla bocca della guida, qualsiasi informazione su Picasso, sul il suo quadro e sulla sua vita.
Gli dispiaceva da morire, e sapeva che se lui fosse uscito da quella stanza perché ‘stava male’ Michael lo avrebbe seguito a ruota anche se amaramente perché a lui tutta quella noia interessava. Sarebbe benissimo potuto rimanere al fianco di Anna e Ashley proprio per non annoiarsi se Chester fosse uscito o fosse andato altrove pur di non morire di noia, ma restava il fatto che l’altro fosse più importante delle altre due.
Non c’era molto da scegliere: o lui o niente.
Così il bambino dai capelli boccolosi rimase a soffrire in silenzio accanto al suo amico per cortesia e per farlo felice, cosa che però lo appagò dato che nonostante soffrisse si sentì bene. Dentro di sé voleva sorridere compiaciuto, perché quello che stava facendo rendeva felice Michael e a lui piaceva sapere che quest’ultimo lo fosse.
Non sono normale, per niente! pensò Chester mentre passavano da un quadro all’altro.
In effetti aveva ragione, stava facendo una cosa che non gli era abituale, qualcosa che prima, a Phoenix, non gli sarebbe mai passato in mente di fare.  Voler vedere felice gli altri, coloro che non poteva nemmeno considerare amici ma bensì nemici? Nemmeno per sogno!
Non si meritavano nemmeno un quarto della sua bontà che adesso lui stava totalmente donando a Michael, nonostante stesse rischiando. Non lo conosceva al cento per cento, poteva benissimo essere pugnalato alle spalle quando meno se lo aspettava. Dopotutto era un bambino, come gli altri.
Era soltanto un bambino, l’unico, che lo faceva star bene, che era riuscito a tirar fuori la parte buona di lui, sotterrata col tempo dalla cattiveria e dall’avarizia imposta dai suoi coetanei.
Rischiare per qualcuno che era come loro, ma infondo totalmente diverso, non fuori ma dentro. Ecco cosa stava facendo Chester, e se ne accorse solo in quel momento. Ma ne fu felice.
Ritornarono nella stanza con gli armadietti verso le dodici, per dare ai bambini una decina di minuti di pausa per poter fare la merenda delle dieci che avevano saltato. Ovviamente Chester non ce l’aveva sempre per il fatto del dover risparmiare, così Michael, come aveva sempre fatto dal primo giorno, gliene diede un po’ dividendo la merenda di pan di spagna e pseudo-marmellata di ciliegie.
Il piccolo Chester inizialmente si sentiva imbarazzato a dover sempre dipendere dal suo compagno, perché non era mai riuscito a sdebitarsi con lui e la sua carità che gli faceva dandogli qualcosa da mangiare.
Ma l’altro sapeva che stava già contraccambiando standogli vicino ogni giorno, sopportando ogni sua mania e voglia, standogli sempre affianco anche a fare cose che ovviamente a Chester non interessava ma che faceva lo stesso per farlo felice – come quell’uscita didattica –.
Nonostante Michael fosse un bambino tranquillo, buono e socievole, a differenza di Chester, non aveva ancora avuto qualcuno da definire ‘migliore amico’. Chester l’ebbe, anche se era un cane; ma Michael non ebbe nemmeno un animale da definire compagno di giochi vita e segreti.
Aveva un cane pure lui, Lucky, ma non reputava normale chiamare migliore amico un quadrupede.
Di amici ne aveva avuti all’asilo, ma alla fine erano solamente amicizie destinate a concludersi all’inizio delle elementari. Nessuno dei suoi vecchi compagni era abbastanza speciale per essere messo al disopra degli altri.
Finito di mangiare, andarono tutti quanti in una stanza laboratorio interattivo per i bambini che venivano lì con la scuola, dove c’erano alcuni tavoli con sedie, dove i bambini ci si precipitarono a sedersi stanchi dopo tutto quel tempo passato a stare in piedi.
Ovviamente Chester, Michael, Ashley e Anna si sedettero tutti e quattro vicini: Chester con affianco Michael; quest’ultimo con davanti Anna che sedeva affianco ad Ashley.
« Vi è piaciuta la mostra? » chiese Stefani con il suo solito finto entusiasmo.
« Sììì … » i bambini risposero in coro, mostrando veramente il loro bassissimo entusiasmo, ovviamente tutti tranne Michael.
« E ditemi, qual è il disegno che vi è piaciuto di più? » chiese mentre tirava fuori contenitori di plastica di caramelle che però erano riempiti di pennarelli e matite colorate.
I bambini cominciarono ad elencare alla rinfusa descrizioni di ciò che gli era piaciuto alzando troppo la voce con i maestri che gli facevano segno di calmarsi, mentre Stefany prese una risma di carta già aperta e distribuì un foglio a ciascuno.
« Adesso, se riuscite a ricordarvi il vostro disegno preferito, disegnatelo e coloratelo. Se non ve lo ricordate ditemelo, che vi faccio vedere l’immagine, va bene? » chiese posando le scatolette semi-trasparenti con dentro i pennarelli ogni sei bambini, mentre quest’ultimi intonarono un altro ‘sììì’ in simbiosi.
Chester, che non era stato per niente attento a ciò che gli venne mostrato durante il giro, dovette copiare passo per passo riga per riga quello che stava disegnando Michael sul suo foglio, ovvero l’acrobata, un uomo tutto bianco il cui corpo si perdeva in varie forme impossibili da compiere realmente.
A disegno finito, quello del mezzo giapponese sembrò una copia perfetta ma un po’ imprecisa ed infantile dell’opera originale. Al bambino dell’Arizona venne un condannato ad una strana pena dell’inferno che consisteva nel deformargli il corpo.
Infatti, a Chester scappò un mugolio disperato quando vide la perfezione dell’amico.
Era l’una quando uscirono dall’edificio d’esposizione, ed arrivarono a scuola quando già erano le due e le altre classi erano già in cortile a finire la ricreazione di un’ora.
I diciotto bambini pranzarono nella sala mensa da soli, senza nessun’altra classe attorno e si meravigliarono del silenzio che si poteva creare in quell’immensa stanza, dove si poteva persino sentire il rumore che facevano le bidelle nella cucina e le loro voci.
Mandarono giù quella brodaglia verdastra del giorno che sarebbe dovuta essere minestra ma che aveva la consistenza del catrame. Il piccolo pane a disposizione di ciascun bambino era duro e pastoso, difficile da mandare giù. Infine il kiwi, che era il loro dessert, o era acerbo o addirittura bacato con chiazze nere.
Uscirono dalla sala mensa per precipitarsi nel grande cortile che per quel giorno sarebbe stato solamente loro, un sogno. Giocarono tutti e diciotto assieme a ‘ce l’hai’, rincorrendosi per poco più di un’ora da una parte all’altra dell’immenso cortile senza un filo d’erba e vegetazione, tranne per i quattro alberi posti ai lati.
Chester non si ricordò nemmeno quando fu l’ultima volta che giocò spensierato assieme a così tanti bambini, ridendo di gusto e senza dover passare il resto della giornata di cattivo umore ed isolato dalla felicità. Era una cosa al di fuori di ciò che era abituato a fare.
Ritornarono in classe verso le tre e mezza passate, ricevendo una decina di minuti d’intervallo in più tanto per abbellire quella magnifica giornata, che diventò ancora più bella quando invece di riprendere a fare lezione cominciarono a fare un cartellone con sopra i loro disegni fatti al museo.
Quel pomeriggio, come tutti gli altri dal lunedì al venerdì, Chester doveva recarsi al raduno dei boyscout della scuola poco dopo quando sarebbe dovuto arrivare a casa. Ma quel giorno non ci pensava nemmeno a rovinarlo con una noiosissima escursione al parco vicino scuola o a legarsi l’un l’altro come dei salami. E Michael doveva fare la sua ora giornaliera di pianoforte, cosa che a lui non dispiaceva affatto.
Appena mise piede in casa, il bambino affiancato dal fratello che andava nella stessa scuola, posò la grande e macabra cartella di scuola facendo poi retrofront per uscire di nuovo.
« Bra, io vado al corso dei boyscout … » mormorò rauco il piccolo riaprendo la porta appena chiusa e fingendo neutralità nel nascondere il ghigno sulle sue sottili labbra.
« Vuoi che ti accompagni? » chiese premuroso il fratello, una tra le pochissime volte in cui osava essere affettuoso con il suo fratellino, il quale non accettava alcun tipo di tenerezza, non da lui e dai suoi familiari, gli unici che invece dovevano dargliene.
Il piccolo s’irrigidì come una scopa in un decimo di secondo, sentendosi morire per un attimo al solo pensiero di doversi subire realmente quella lagna di raduno che reputava inutile.
« N-No, grazie. » disse pacato, uscendo di fretta di casa e chiudendosi dietro le spalle la porta che sbatté delicatamente e con un semplice rumore della serratura.
Camminò nel silenzio del suo quartiere malfamato, le manine nelle tasche della sua piccola felpa blu, lo sguardo basso che seguiva il cemento grigio del marciapiede sporco di aloni e di cicche.
Non aveva paura che qualcuno lo rapisse o gli facesse qualcosa, perché doveva capitare proprio a lui? C’erano così tante persone nel mondo, perché la sfortuna doveva puntare il dito contro di lui per l’ennesima volta?
Era un pensiero fisso nella sua testolina: questa è la mia vita, a me non capitano queste cose, succedono a gli altri ma non a me.
Come se fosse inconcepibile l’avvenimento di una disgrazia nei suoi confronti, un rapimento, uno stupro, un incidente. A lui queste cose non sarebbero successe, perché secondo lui la sua vita era immune da ciò.
Suo padre la stessa cosa: era un poliziotto, sventure del genere non potevano capitare al figlio di un poliziotto. E così lo lasciava andare a zonzo tra le vie pericolose ed inquietanti del suo quartiere con nonchalance, non preoccupandosi dei vari pericoli che nemmeno celava.
Schiacciò con la scarpa ereditata dal fratello una siringa usata ed abbandonata da un drogato.
In questo momento sarà già seduto sullo sgabello davanti al pianoforte pensò il bambino guardandosi intorno, sperando che non ci fosse alcun malintenzionato nei paraggi che lo seguisse.
Sospirò insofferente e con un leggero sollievo nel notare che era da solo in quella grande e marcia via. Se invece si fosse accorto della presenza di qualsiasi individuo ai suoi occhi inaffidabile, si sarebbe sicuramente messo a camminare più velocemente, fino a raggiungere la velocità di una corsa a perdifiato.
Avrà a malapena iniziato, adesso. Ho ancora un’ora prima che lui mi raggiunga.
Imboccò la via del suo amico, intravedendo la steccata che separava il marciapiede giornalmente pulito al suo splendido giardino con l’erba verde e fiorente.
Sapeva che sarebbe stato scortese andare a casa sua nel mezzo della sua lezione, poi Michael si sarebbe distratto troppo e non sarebbe stato più abbastanza concentrato da continuare. Così qualche giorno prima, il bambino dagli occhi a mandorla gli mostrò una sorpresa che gli aveva regalato il padre quando aveva compiuto sei anni: una casa sull’albero.
Non che la madre fosse molto d’accordo di lasciare salire un bambino a sei quasi sette metri d’altezza, ma sapevano che sarebbe stato felicissimo nel possederne una. E poi non ci saliva molto spesso, per lo meno prima dagli ultimi giorni. Ci andava solo quando c’era qualche suo amico, ed in quel periodo, data la presenza di Chester, ci saliva frequentemente.
Il bambino ridusse immediatamente quei cinquanta metri che lo separavano dalla casa Shinoda con una piccola corsa, entrando dal cancello in legno bianco e fiondandosi subito nel giardino dietro casa, dove vivevano tre querce alte e robuste. Salì le scale posate sul tronco della quercia più a destra, ritrovandosi all’interno della casetta di legno ben salda.
Adorava quel piccolo rifugio, perché era stato allestito come una stanza di un bambino, come se Michael vivesse lì e non in casa.
Aveva alcuni poster dei svariati gruppi pop sulle pareti legnose e laccate da cera protettiva da termiti e tarli, comodini e scaffali pieni di alcuni giochi da tavolo, un largo e semplice letto posato per terra con lenzuola e cuscino senza rete che lo sollevasse dal pavimento. Infine un’infinità di pupazzi, ovvero il passatempo preferito di Chester.
Più che passatempo, erano ciò che lo tiravano su di morale, oltre allo stare con Michael. Erano più grandi di lui, scimmie giganti e morbide con un sorriso cucito con una linea curva, leoni che sembrava potessi cavalcarli, cani sempre con la lingua di fuori che sembrassero chiedere disperatamente acqua.
Lui li abbracciava sempre, s’inabissava nella loro sofficità di cotone, lasciava che le braccia delle scimmie due volte più grandi di lui gli circondassero il corpo nel ricadere in avanti.
Non gli interessava che fossero inanimati, che non potessero provare qualcosa, qualche emozione o sentimento. A lui interessava solo che qualcuno lo abbracciasse, anche solo quando le loro braccia a malapena si posavano sulle sue piccole spalle gli andava bene.
Si sentiva così bene quando gli capitava. Si chiedeva poi perché la gente non si abbracciasse così spesso, era qualcosa di bello e piacevole, perché non farlo? Pensava che se qualcuno lo abbracciasse più spesso, anche senza un valido motivo ma solamente inaspettatamente, si sarebbe sicuramente sentito meglio.
A volte Michael lo faceva, lo abbracciava ridendo e stringendolo forte a sé, con il tentativo di fargli un po’ male per scherzare, ma alla fine faceva sentire a Chester una stretta piena d’affetto perché era troppo debole. Erano quelli i momenti in cui lui si sentiva veramente bene e ringraziava Dio di essere stato così fortunato da conoscerlo e di averci fatto amicizia.
Si tolse le scarpe e la felpa, rimanendo così con la sua maglietta blu a maniche corte, per poi buttarsi sul materasso un po’ rigido ma su cui era piacevole starci. Afferrò il grande cuscino, con la fodera bianca che profumava di ammorbidente alle rose, e se lo mise sotto la testolina, riposando un po’ nel frattempo in cui aspettava l’amico.
Ovviamente gli riuscì difficile fare un pisolino a quell’ora, era sì un bambino ma il tempo del riposino pomeridiano era finito da quando era entrato alle elementari. Erano cose che si facevano solo quando si andava all’asilo o quando si sarebbe diventati vecchi, per lui.
Pensò a cosa avrebbero potuto fare quel pomeriggio: se rimanere lì nella casetta e fare i pirati immaginando di essere sul loro grande galeone, gli indiani che lanciavano frecce di legno al piccolo Jason appena metteva piede fuori nel giardino, cercare di cavalcare Lucky o lanciargli semplicemente la palla, andare a caccia di rane, andare al Lincoln Park a giocare con Anna e Ashley, arrampicarsi su gli alberi …
Ad un certo punto, mentre il piccolo stava pensando a cosa fare, gli passò solo per l’anticamera del cervello un pensiero che mai e poi mai credeva di realizzare, bloccando il suo flusso d’idee e rimanendo paralizzato a fissare il soffitto in legno.
Solo mezzo mese fa, non potevo nemmeno immaginare di essere qui, ad aspettare un mio amico. Un mio amico. Ho un amico, qualcuno con cui giocare, con cui confidarsi.
Qualcuno che mi resterà affianco, che mi sosterrà, che non mi prenderà in giro. E nonostante qualche volta litigheremo un po’, ritorneremo a fare pace e a giocare assieme, come se niente fosse accaduto.
Eppure, era solo poco tempo fa quando mi chiedevo come ci si sentisse ad avere un amico, quando desideravo averne uno. Adesso, sto facendo qualcosa al di fuori della mia abitudine e alla mia giornaliera solitudine.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1302310