Adolescence SOSPESA di Chaike (/viewuser.php?uid=160575)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It's start with one thing ***
Capitolo 2: *** Memories consume ***
Capitolo 3: *** Maybe someday I'll be just like you ***
Capitolo 4: *** So I'm breaking the habit ***
Capitolo 1 *** It's start with one thing ***
Note: Eeeeeeeeee
rieccomi :3 Vi sono mancata? No, vero? Q_Q In questo momento sto
facendo un'enorme pazia a pubblicare il primo capitolo, dato che mi ero
promessa di finire il terzo prima di pubblicarlo ... Ma boh, non
resisto
Partiamo con le
avvertenze: non sono un'esperta di musica anni '80, di quei anni so
così poco che è pari a zero *si sente una merda*;
non frequento scuole americane, quindi non conosco gli orari e le
materie, in poche parole ho copiato l'istituzione scolastica italiana;
vi ho risparmiato dal giornaliero "pledge
of allegiance", il giuramento di
fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti che studenti e
professori effettuano ogni mattina alle 7.30.
Di cosa
parlerà la fic? Adolescence è una storia
-ovviamente d'amore, sennò non l'avrei mai scritta :'D-
dedicata principalmente alla crescita di Mike e Chester, con l'affronto
dei mille problemi di quest'ultimo che ha affrontato nella reale come
noi tutti sappiamo. I titoli di ogni capitolo sono presi da varie frasi
prese dai capolavori dei nostri
miti :DOgni
quanto la aggiornerò? Ad ogni morte di Papa. Mi dispiace, ma
la terza liceo mi sta facendo il culo non quadro ma cubico .-.
Come
finirà? Leggete e lo scoprirete :D
Voglio vedere
tante recensioni eh ò_ò Non ci saranno scene
rosse perché utlimamente sto cercando di allontanarmi dalla
lussuria (ovviamente fallendo sempre di più giorno dopo
giorno~) ...
Enjoy :3
Adolescence
Capitolo 1
–
It’s start with one thing
Lunedì
dodici Settembre
1983, la fatidica data che nessuno di quei pargoli avrebbe mai pensato
a
cosa li avrebbe
portati.
Loro, piccoli
ed ancora ignari del mondo e della vita, erano eccitati per quel
giorno,
avevano le farfalle nello stomaco perennemente, con
l’esaltazione che non cessava
di scorrere nei loro piccini corpi di bambino di cinque anni circa.
Prima
dell’inizio dell’estate appena trascorsa in
tranquillità come ogni anno da lì
alla loro nascita, avevano appena finito l’ultimo anno della
loro vecchia
scuola materna, la quale non vedevano l’ora di finire il
più presto possibile
per avventurarsi nel mondo delle elementari e delle superiori, nel
mondo che
per loro era da adulto.
Ma solo quando
sarebbero cresciuti avrebbero rimpianto quelle giornate passate a
riunire i
grandi tasselli dei puzzle con i quali si divertivano, il rincorrersi
nel
cortile della scuola, a giocare a nascondino, a imitare i personaggi
delle loro
serie tv preferite litigando per essere il protagonista.
Da
lì a
qualche anno avrebbero dovuto rimboccarsi le maniche e aprire i libri,
magari
prendendola sempre alla leggera, perché dopotutto si parlava
solo di sei anni
in preparazione a quelli successivi di serio studio e di serio impegno.
Ma
avendo appena cominciato sarebbe sembrato a tutti quei piccoli
inesperti una
cosa già difficile.
Tutti quei
piccoli bambini, che la notte prima andarono a dormire come di
consuetudine
alle ore nove ma che ci misero più tempo prima di trovare la
stanchezza adatta
per precipitarsi nel mondo dei sogni dato che l’agitazione
per il giorno
successivo non aveva intenzione di andarsene. Alle sette e mezza del
mattino furono
svegliati dai rispettivi genitori, pronti per il loro importante giorno.
Il piccolo
Michael di sei anni compiuti il febbraio scorso, stava ancora dormendo
sotto le
leggere trapunte di color azzurro del suo piccolo letto. Il suo viso
docile
rilassato lo mostrava come un tenero angelo dai lineamenti orientali
ereditati
dal proprio padre, a differenza di quei capelli lisci e a caschetto che
erano
di un castano intenso.
Sognava
beatamente sotto al caldo delle coperte, dopo aver passato tutta la
notte
insonne eccitato per il suo grande giorno, come del resto fecero i suoi
compagni. L’unica cosa che voleva in quel momento era
dormire, dormire e ancora
dormire, vivere quel sogno contorto che in quel momento gli passava per
la
testa.
Ma i giorni di
vacanza erano finiti, da quel giorno in poi si sarebbe dovuto svegliare
sempre
alle sette e mezza, massimo alle otto, per essere in orario e mai in
ritardo.
Nella
cameretta entrò la madre, una donna non tanto alta dai
capelli biondo tinto che
sembravano dessero più sull’oro, che si
addolcì come sempre nel vedere il
figlioletto così tranquillo mentre dormiva e quasi gli
dispiacque risvegliarlo,
portandolo al mondo dei vivi.
«
Mikey … »
sussurrò leggera sedendosi sul lettino del figlio,
scostandogli i capelli dalla
fronte di un colore nocciola pallido « Svegliati amore
… » posò dolcemente un
bacio sulla tempia del piccolo che poco dopo aprì i piccoli
ma grandi occhi che
subito cominciarono a bruciare.
Girata la
testa abbastanza per scrutare la madre, la guardò con
pietà, pregandola con lo
sguardo di lasciarlo dormire ancora, di rimandare a domani il primo
giorno di
scuola.
Ma era ovvio
che quella volta la povera madre non l’avrebbe potuto
accontentare.
Tiratolo a
forza fuori dal letto, lo spedì immediatamente in cucina,
dove il fratellino
Jason di ancora quattro anni mangiava i suoi cereali incredibilmente
colorati a
ritmo della musica che usciva dalla radiolina sul tavolo, che in quel
momento
mandava una canzone che era diventata il tormentone
dell’estate appena finita.
Infatti,
appena il bambino di sei anni arrivò in cucina gli
scoppiò la testa, dato che
era già il terzo giorno di fila che la beccava alla radio e
sinceramente non ne
poteva più. Al contrario, il piccolo Jason sembrava
veramente apprezzare quella
canzone bambinesca della quale però non conosceva nemmeno il
significato. Infatti
mugolò sofferente appena finì, mentre Mike
esclamò un Alleluia.
Fatto
colazione anche lui con gli stessi zuccherosi cereali ricoperti di
glucosio
colorato che a volte si scioglieva nella calda ciotola di latte,
salì in bagno
a lavarsi i denti, salendo su un basso sgabello per riuscire ad
arrivare meglio
al lavandino troppo alto per la sua corta statura di bambino.
Denti
splendenti,
viso umido dopo essere stato sciacquato con un getto d’acqua
tiepida, era
pronto per essere vestito per bene con gl’indumenti che sua
madre gli infilava
addosso, senza protestare.
In una via non
molto distante da quella dove si trovava la famiglia Shinoda, in un
quartiere
un po’ più malfamato e povero, c’era una
casetta un po’ catapecchia, con un
tetto a tegole mancanti sotto la testa di quattro persone.
La casella
della posta un po’ ammaccata e piena solo di bollette mai
pagate, di inutile
pubblicità non interessante e di multe, era segnata da un
cognome lungo e
scritto rozzamente: Bennington.
Quella
famiglia era con pochi soldi, nonostante un componente fosse un
poliziotto, il
quale però doveva mantenere anche due figli ed una moglie
pretendente. E quei
figli dovevano pure andare a scuola, così era legge.
L’odore
di
sigarette perenne che circolava per tutta la casa ormai era
impercettibile per
i componenti di quella famiglia a furia di averci fatto
l’abitudine. Pure i
loro polmoni un po’ bruciacchiati per il vizio del poliziotto
di famiglia ormai
smettevano di carbonizzarsi sempre di più.
Il piccolo
Chester alle sette in punto, come tutti i maledetti giorni che Dio
mandava in
terra, si svegliò bruscamente nella cameretta che
condivideva con il fratello
Brian per colpa dello stupido cane dei loro vicini di casa, una
coppietta di
spacciatori e ladri che campavano con i loro rispettivi lavori sporchi.
Ogni giorno,
alle sette, il cane abbaiava senza un apparente motivo, prendeva ed
abbaiava
all’aria che gli soffiava addosso. Nemmeno ci fosse stato un
postino con cui
accanirsi, era completamente solo.
Forse, ogni
giorno alle sette di mattina, richiamava tutto il vicinato con i suoi
insulsi
ma fastidiosi guaii per un minimo di attenzione, anche per un lieve
contatto
fisico, pure un calcio gli sarebbe bastato, uno schiaffo, qualsiasi
cosa.
Peccato che
avesse il pelo così rognoso e inzaccherato che faceva schifo
persino ai propri
padroni che si limitavano a nutrirlo e a lasciarlo libero per il
giardino, che
invece di un colorito verde ne teneva uno che dava sul grigio.
Il
risvegliò
fu un incubo per lui, come sempre. Ritrovarsi giorno dopo giorno nella
solita
situazione di merda, nella quale arrivavano a fine mese facendo
sacrifici
impensabili per la loro piccola età. Sempre nella solita
baracca, sempre i
soliti litigi tra i suoi genitori che si chiedevano perché
si fossero sposati e
perché non si fossero ancora separati, sempre i soliti
giorni che doveva
passare con la guardia alzata prima che qualcuno lo rapisse o lo
derubasse, o
che lo violentasse.
Si
ritrovò a
pancia in giù sul materasso, con la faccia spiaccicata sul
proprio cuscino, con
la bocca aperta da cui usciva quel minimo di bava che però
faceva lo stesso
schifo, i capelli boccolosi naturalmente scompigliati.
Già
la
sensazione di mal di testa del primo mattino gli fece girare le
scatole, in più
il russare di suo fratello Brian non tanto più grande di lui
lo infastidì
ulteriormente, dato che aveva il sonno pensante e lui lo invidiava in
quanto ad
ogni minimo rumore che gli giungeva alle orecchie lo svegliava di
soprassalto.
In
più quel
giorno sarebbe dovuto andare a scuola pure lui, anche se in terza e lui
in
prima, nonostante avesse già compiuto sette anni. Ma
purtroppo all’asilo, due
anni prima, era successo qualcosa che non doveva succedere.
Si
tirò su
dalla sua posizione stramba della prima mattina, stiracchiandosi ed
aprendo le
fauci in uno sbadiglio, mugolando e facendo scroccare alcune ossa della
schiena
e delle braccia.
Afferrò
il
proprio cuscino e lo lanciò in faccia al fratello che
dormiva sul letto dalla
parte opposta del suo.
«
Brian,
svegliati che dobbiamo andare! » lo richiamò
grattandosi un lato della vita ed avviandosi
all’uscita della loro stretta ed umile cameretta priva di
qualsiasi gioco,
prima che il fratello si arrabbiasse per il modo con cui veniva sempre
svegliato.
Scese in
cucina facendosi la colazione da solo, cosa che aveva imparato qualche
anno
prima dopo una lunga serie di scottature e cicatrici ormai quasi
invisibili.
Colazione,
bagno, vestiti dalle proprie mamme, fotografati ed immortalati dai
propri padri
– chi si poteva permettere una polaroid – per
ricordare quell’importante dì del
loro primo giorno di scuola. Tutti i bambini abitanti a Los Angeles
erano
pronti.
Chi arrivato
in macchina, chi a piedi, chi col bus, chi solo col padre, chi solo con
la
madre, chi con entrambi, alle otto e mezzo in punto ogni bimbo del
nuovo anno
era nell’aula di psicomotricità, con il proprio
enorme zaino sulle spalle
colorato e pieno di quaderni immacolati, matite con punte pungenti,
pennarelli
carichi e pastelli non consumati.
Piccole spalle
circondate dalle mani dei propri genitori, mentre
quest’ultimi avevano le
orecchie tese verso il breve discorso di benvenuto che stava tenendo la
preside
dell’istituto della scuola primaria.
I loro figli
invece erano troppo occupati a guardarsi intorno, a scrutare le altre
piccole e
candide facce dei loro coetanei i quali di lì a poco,
probabilmente, avrebbe
visto tutti i giorni, per cinque lunghi anni.
Si guardavano
l’uno l’altro, curiosi, ognuno credendosi migliore
di quello che in quel
momento lo stava fissando, o magari cercando di fare un minimo di colpo
verso
una bambina che li aveva a mala pena degnato di uno sguardo.
Era
incredibile come dei bambini, già a
quell’età, riuscivano già a mettersi al
confronto, in mostra, cercando di essere migliori tra gli altri,
più belli, più
intelligenti, più stronzi, più simpatici,
più favoriti.
Io
ho lo zaino di Iron Man! E io invece di Astroboy! Io del Mazinga Z! come se uno fosse
meglio
dell’altro. E chi avesse il migliore si sarebbe posto
più in alto.
Dopo ben dieci
minuti di discorso, in cui la preside spiegò
l’organizzazione dell’istituto, parlando
bene del servizio mensa di cui in quegli anni si criticava per la
scarsa
qualità e la pessima prestazione nelle scuole, finalmente
prese il fascicoletto
con scritte le sezioni delle prime classi e l’elenco degli
alunni che
l’avrebbero composte.
«
Sezione
prima A. » cominciò la preside di già
cinquanta e passa anni, dove il viso
truccato mostrava imbarazzanti rughe che le solcavano gli zigomi, gli
occhi ed
infine la fronte.
A mano a mano
che lei richiamava nomi dei bambini della sezione,
quest’ultimi venivano
guidati dai genitori fuori dall’aula di motoria e condotti
fuori verso quella
dove avrebbero passato l’anno.
«
Sezione B. »
Il tempo
sembrava non scorrere mai quando il fiume dei nuovi alunni usciva dalla
palestra, mentre quelli rimanenti aspettavano con impazienza il sentir
pronunciare il proprio nome.
«
Sezione C:
Gregory Johnny Armstrong, Anabelle Baker, Chester Charles Bennington
… » il
cuore dell’ultimo bambino chiamato scoppiò nel
sentire il suo nome essere pronunciato,
sentì uno stormo di farfalle girargli per lo stomaco, mentre
sia la madre che
il padre lo spingevano verso l’esterno della sala da
ginnastica.
«
… Juliana
Peterson, Kevin Juan Salomon, Michael Kenji Shinoda …
» il piccoletto tirò per
le maniche entrambi genitori conducendoli verso l’uscita,
mentre quest’ultimi
sorridevano di fronte al suo comportamento eccitato.
Vennero
chiamati
in totale diciotto bambini, tra maschi e femmine, tra americani e
stranieri,
tra bianchi e neri. Tutti in un’aula al piano terra
dell’istituto. La prima C.
I primi
arrivati si fiondarono subito ai posti più lontani dalla
cattedra, verso le
ultime file tra i banchi bianchi con le gambe rosse, come le loro basse
sedie.
Ma Chester venne spinto dal padre in prima fila, con
l’intenzione di mandarlo
proprio davanti la cattedra assicurandosi che non si sarebbe potuto
distrarre
in alcun modo.
Ma il
piccoletto sgusciò dalla presa del padre, fiondandosi agli
estremi dell’aula,
sempre in prima fila ma attaccato al muro dalla parte di sinistra,
inchiodandosi sulla sedia e resistendo ai vari tentativi del poliziotto
che
cercava di scollarlo di lì. Ma era tutto inutile!
Gli ultimi
alunni entrarono nella classe, alcuni sbuffando per non essersi
riusciti ad
aggiudicarsi le ultime file, altri accontentandosi di ciò
che era rimasto. Ed
il caro e piccolo Michael sbuffò quando vide che due
bambinetti con le stesse
cartelle, a quanto pare si conoscevano già prima di allora,
si erano presi gli
ultimi due banchi disponibili per una coppia di alunni, che
però erano nella
prima fila e proprio in centro, posto che lui desiderava.
Mugolando tra
sé e sé mentre i due genitori si guardavano
stupiti dalla voglia d’imparare del
figlioletto, Michael si sedette affianco a quel bambino dai capelli
boccolosi,
dallo zaino scrauso e dalle matite non temperate che spuntavano dal
piccolo
astuccio aperto.
Si guardarono
per un decimo di secondo, quel minimo di tempo per vedersi
l’un l’altro come
due extraterrestri. Erano l’uno il contrario
dell’altro e subito con uno
sguardo l’avevano capito, anche se il fatto di aver trovato
il più grande nella
prima fila lasciava sperare che invece fosse anche lui un assetato di
nuove
conoscenze.
I genitori dei
due bambini si scambiarono un sorriso abbastanza tirato per colpa
dell’imbarazzo, mentre nell’aula entrava un uomo
sulla trentina d’anni, con
capelli castani che arrivavano poco più sopra delle spalle e
con un paio di
occhiali con le lenti grandi quanto un televisore ma sottili come la
leggera
montatura che posava sul naso.
«
Buon giorno
a tutti quanti, buon giorno signori e buon giorno signore. Buon giorno
anche a
voi signorini. » si rivolse ai bambini « Io sono
David Norton, il vostro
maestro d’inglese, di geografia e di storia. Spero di
accompagnarvi fino alla
quinta elementare, nonché di riuscire a farvi arrivare tutti
quanti in quella
classe. » sorrise mostrando i suoi denti brillanti.
Parlò
del
programma che avrebbero svolto durante l’anno, delle regole
che i bambini
avrebbero dovuto seguire per la buona educazione, come gestire le
assenze ed i
ritardi ed infine consegnò ad ogni genitore la lista dei
libri di scuola che
avrebbero dovuto comprare assieme al calendario delle
festività annuali.
Nessun bambino
ascoltava il proprio maestro, tutti erano troppo impegnati a scrutarsi
tra di
loro, a conoscersi inizialmente con uno sguardo: quello
mi sta simpatico, quello antipatico … Pure il
piccolo
Michael venne risucchiato dall’emozione, non prestando
attenzione alle parole
del docente ma bensì fissando di sottecchi il suo nuovo
compagno di banco.
Aveva delle
piccole lentiggini scure che gli macchiavano dolcemente le guance ed il
nasino,
occhi grandi circondati da palpebre assottigliate, capelli corti ma
riccioluti
di un castano cenere.
A volte,
quando si girava quel poco per contemplarlo meglio, incontrava il suo
sguardo,
che subito distoglieva per la vergogna di essere stato beccato,
perché anche
lui a sua volta lo stava scrutando
cercando i suoi particolari che gli avrebbe fatto magari capire che
tipo era.
L’unica
cosa
che lo colpì furono i suoi occhi grandi ma con i lineamenti
a mandorla, che non
capiva se fossero dati alle sue origini straniere oppure fosse
semplicemente
nato con quella forma, magari ereditata da uno dei genitori. Anche le
sue
orecchie a sventola non passarono inosservate.
«
Come uscita
didattica di primo anno, la classe andrà a visitare una
mostra d’arte di
Picasso, aperta dal trenta Agosto al quindici Ottobre. Ma noi
l’andremo ci
andremo il venti Settembre, accompagnati da Thomas Way, il loro maestro
di
matematica, scienze, musica e motoria. » disse il giovane
insegnante,
catturando l’attenzione di tutti i presenti, piccoli o grandi
che fossero alla
parola ‘uscita didattica’.
Era la cosa
più eccitante che i bambini potessero provare durante
l’anno: distaccarsi per
una o più volte durante l’orario scolastico dalla
scuola che dopo qualche anno
avrebbero visto come una prigione, dire ciao ciao ai libri e a tutto,
uscire
tutti assieme accompagnati e guidati dai propri insegnanti per la
città.
La mostra
d’arte quasi a nessuno interessava veramente, gli sarebbe
bastato solo scappare
da quell’edificio. Soltanto al piccolo Michael si drizzarono
le antenne,
vibrando come delle matte appena sentì la parola
‘arte’.
A lui era
sempre
piaciuta, ogni pomeriggio quando ritornava dall’asilo o
quando non sapeva che
fare prendeva carta e pennarelli e iniziava a comporre dei infantili
capolavori
colorati, posizionando sia sul tavolo che sul pavimento, ogni luogo era
adatta
alle sue creazioni.
I suoi
genitori, una volta accortisi della grande passione e bravura del loro
primogenito, lo spronarono ad andare avanti, ad approfondire la sua
grande voglia
di creare immagini astratte, animali inesistenti e tutto ciò
che gli girava per
la testa. All’asilo pure le maestre gli facevano i
complimenti, aumentando così
la voglia di disegnare nel bambino, che vedeva nel suo futuro
l’immagine di un
pittore di un artista di grande fama.
A Chester
invece l’arte non gli aveva mai fatto né caldo
né freddo, per lui era più che
altro una perdita di tempo andare ad assistere una mostra, che fosse di
un
pittore famoso o meno a lui non importava. Credeva che nella vita fosse
più
importante imparare a difendersi dai mal’intenzionati
piuttosto che studiare i
fiumi passano per la Francia.
Ma per sua
sfortuna, ogni volta che camminava per le vie del suo quartiere era
sempre una
lezione alla sopravvivenza nonostante fosse ancora piccolo per certe
cose.
« Non
so se la
preside dell’istituto vi abbia già parlato del mio
progetto che ho programmato
all’inizio dell’estate: si tratta di un club di
boyscout, al quale ovviamente
possono partecipare anche le future girlscout. In quanto ex istruttore
del club
di San José, credevo che sarebbe stata un bella idea creare
un club della
scuola, al quale hanno già aderito alcuni studenti delle
classi superiori alla
prima. » spiegò il docente tirando fuori delle
striscioline di carta « Per chi
ne fosse interessato, qui c’è l’orario
extrascolastico in cui ci ritroviamo per
iniziare ogni pomeriggio dalle quattro e mezza alle sei e mezza
nell’atrio
all’entrata. Non costa praticamente niente, solo i soldi per
l’uniforme e dicei
dollari d’iscrizione, che ci permetteranno di comprare i
distintivi per i vari
gradi del bambino. » distribuì i foglietti a tutti
i genitori presenti che
contemplarono attentamente il costo dell’uniforme di ben
trenta dollari.
Quando i
signori Bennington ricevettero in mano quel biglietto si scambiarono
veloci
un’occhiata complice, sapendo già cosa avrebbe
fatto da quel giorno in poi il
loro figlioletto, invece di stare in giro per i parchi malfamati della
sua
zona. Invece i signori Shinoda si guardarono dubitosi sul fatto che il
loro
figlio avrebbe accettato a rinunciare ad ogni suo pomeriggio per
un’attività di
gruppo di quel genere.
«
Bene, posso
dire che per oggi abbiamo finito con le presentazioni. »
disse ritornando
dietro la cattedra « Se volete colloqui o altro, basta
scrivere la
comunicazione sul diario dell’alunno. È stato un
piacere. » sorrise ai genitori
che salutarono i propri figli prima di lasciarli lì ancora
per le prossime due
ore e mezza.
«
Ciao tesoro.
» la madre di Mike gli baciò la testa coperta dai
capelli a caschetto ben
pettinati lavati la sera prima.
«
Ciao mamma.
» disse lui con la sua vocina.
Il padre gli
fece l’occhiolino, dandogli delle pacche affettuose sulla
spalla « Ti aspetto
in macchina. » disse riferendosi al fatto che da
lì a qualche ora sarebbe di
nuovo stato fuori da scuola ad aspettarlo con la sua macchina nera a
cinque
posti.
« Fai
il
bravo, mi raccomando. » la madre di Chester riprese suo
figlio accarezzandogli
la nuca.
«
Tornerai a
casa con Brian, d’accordo? » gli chiese il padre,
ma il figlio si limitò ad
annuire.
Lui ed i suoi
genitori non avevano un bel rapporto, non per chissà cosa,
li odiava a priori.
Per il loro modo di essere falsi con tutti, perché facevano
i bravi ed i
simpatici con tutti ma appena gli voltavano le spalle sputavano veleno
su di
loro. E poi li odiava perché non erano capaci di convivere
insieme con
serenità, e si ostinava a non capire perché
diavolo stessero ancora insieme se
in verità non si amavano più.
Quando la
classe si svuotò dai genitori e l’unico adulto
rimasto fu il loro nuovo
docente, quest’ultimo sorrise di fronte a tutti quegli
occhioni che lo
fissavano spaesati, dopotutto era il loro primo giorno di scuola.
«
Bene, fino
adesso mi sono presentato io, ma ora tocca a voi. Sotto alle
presentazioni, chi
comincia? » chiese guardandoli uno ad uno, tutti che
fremevano nei loro banchi,
sulle loro sedie, mentre nelle loro menti si accalcavano tutte le
informazioni
che avrebbero potuto riferire.
Ma ovviamente
nessuno aprì bocca.
« Non
tutti
insieme, mi raccomando! » fece alzare un coro di piccole
risate che sembrarono
un grande e rumoroso ronzio « Allora, cominciamo da qui.
» indicò il bambino in
prima fila, più attaccato al muro di destra, dalla parte
della porta « Come ti
chiami piccolo? »
Il bambino di
colore con i capelli neri come il carbone racchiusi in tante piccole
trecce
sussultò imbarazzato e quasi si poté vedere uno
spruzzo di rosso d’imbarazzo
sulle sue guance scure.
«
M-Mi chiamo
Leonard. » disse con un filo di voce che fece tendere le
orecchie a tutti i
presenti per sentirlo meglio.
«
Bene,
Leonard. Immagino che tutti ti chiamino Leo, non è vero?
» chiese il maestro
con informalità.
«
Sì! »
sorrise il piccolo, mostrando il contrasto tra i denti bianchi ed il
colore
della pelle, scura come i suoi capelli e come gli occhi.
«
Cosa ti
aspetti dalle scuole elementari? »
« Beh
… Credo
cose difficili da imparare … » la sua voce si
riabbassò di volume in un batter
d’occhio.
« Non
saranno
tanto difficili, se v’impegnerete. E spero che sia chiaro per
tutti, perché se
la roba che imparerete qui sarà difficile secondo voi, ma
solo per adesso,
aspettate di vedere il liceo e vedrete come rideremo! »
cominciò a girare per i
banchi.
« Tu,
» indicò
una bambina coi capelli castani e lisci raccolti in una coda lunga,
piccola nel
suo vestito rosa shocking « come ti chiami? »
«
Ashley. »
rispose la bambina sicura di sé.
« Mi
sembri
determinata, Ashley. Non vedi l’ora di diventare grande e far
vedere a tutti la
tua intelligenza, non è vero? »
« Lo
farei
subito! » rise la bambina, mostrando un dente mancante.
«
È così che
si fa! » esultò il giovane maestro che si era
laureato in filosofia l’anno
prima, trovando lavoro la stessa estate in quell’istituto
« Mostratemi fin da
subito di che pasta siete fatti. Ora, ogni volta che vi
chiamerò fatemi vedere
la vostra grinta, sempre se l’avete … Tu,
lì in cima! » indicò i banchi in
prima fila, verso il lato sinistro, dove i due bambini che lo fissavano
ebbero
un infarto non capendo a chi si riferisse.
«
I-Io? »
chiese timidamente Michael.
« No,
prima
l’altro, ma poi arrivo pure da te. Come ti chiami, ricciolo? » fece ridere tutti i
bambini, eccetto il ricciolo in
questione che diventò rosso
dall’imbarazzo.
« Io
mi chiamo
Chester. » rispose con voce cupa e con freddezza, ma non
quella freddezza da
chi è pronto a tutto, ma da chi ha voglia di uccidere.
« Oh,
Chester
… Mi sembri un ragazzo scontroso, o mi sbaglio? »
ma il bambino si limitò a
scuotere lentamente la testa in segno di dissenso « Che ti
aspetti da questa
scuola? »
«
Tanta noia.
» rispose sinceramente.
Il silenzio
calò tra i diciotto bambini e l’adulto, tutti
mentre fissavano sbalorditi il
bambino che aveva dette semplicemente ed innocentemente ciò
che pensava e ciò
che credeva vero.
« Mi
dispiace
che la pensi così … » riprese a parlare
l’insegnante « Sai, Chester, lo studio
sembrerà noioso, anzi lo è. » si
avvicinò alla prima fila, ponendosi davanti al
suo banchi e chinandosi su un ginocchio per averlo alla stessa altezza.
«
Nessuno in
questa classe, in questa scuola, in questo paese, mondo e universo,
vorrà mai
sostituire una partita a calcio con un ora di studio di storia o di
matematica.
Appena aprirai il libro ti verrà subito voglia di chiuderlo,
capiterà a te come
capiterà a lui. » indicò Michael che
sussultò nell’essersi sentito mettere in
mezzo alla discussione
« Ma
sai qual
è il problema? È che tutti
t’insegneranno le cose in modo noioso, in modo da
fartele odiare, ma tu dovrai studiarle per forza per avere un futuro.
» si
rialzò in piedi avvicinandosi alla lavagna ed afferrando un
gessetto.
« Io
invece
cercherò ad insegnare a tutti quanti in modo divertente,
perché non voglio che
odiate ogni singola cosa che dovrete imparare. »
disegnò due cerchi bianchi,
uniti in un punto in cui uno entrava nell’altro.
«
Sapete cosa
sono questi? » chiese alla classe.
«
È un sedere!
» rispose un bambino dai capelli rossi infondo alla classe,
scatenando la
risata di tutti.
«
Beh,
vedetela così: questo sedere è composto dalla
chiappa destra con tatuati i
numeri dodici, dieci, cinque, sei, nove. » scrisse quei
numeri nel primo
cerchio « E nella chiappa sinistra invece ci sono tatuati i
numeri quarantacinque,
due e diciotto. »
I bimbi
guardavano la mano del loro maestro muoversi sulla lavagna disegnando
quei
numeri che per alcuni di loro erano alti, in quanto sapevano contare
fino a
cento.
«
Cosa fate
voi, quando avete mangiato tante cose e dopo un po’ dovete
andare in bagno? » silenzio,
solo i visi rossi di vergogna dei bambini fece capolinea alla domanda
« Suvvia,
non siate timidi! Uno di voi ha appena detto che questa cosa di
matematica
sembra un sedere! » li fece di nuovo ridere, mentre alcuni di
loro si
chiedevano se veramente quella buffonata fosse una lezione di
matematica.
«
Facciamo la
cacca. » rise Chester, mostrando uno splendido sorriso sulla
sua faccia di
bambino.
« Oh,
visto
che le cose le sai e che non ti annoiano? Ritornando a noi, lo so che
è una
domanda stupida dato che siete piccoli, ma chi sa le tabelline?
»
I piccoli
studenti si guardarono confusi tra di loro, non capendo di cosa stesse
parlando. Ma una piccola mano si alzò in aria in modo
composto ed una leggera
voce disse « Io. »
«
Bene, l’avevo
detto io che sarei arrivato a te prima o poi. Come ti chiami?
»
«
Michael, ma
tutti mi chiamano Mike. » disse con un filo di voce, quella
fievole voce
candida.
«
Bene
Michael. Mi sai dire, allora, quali tra questi tre numeri nella chiappa
destra,
moltiplicato per un altro numero, è uguale a quarantacinque?
» chiese il
docente, mentre il piccolo Michael cominciò a vociferare
sotto voce tra sé e
sé, dicendo un susseguirsi di numeri in un modo che agli
altri pareva confuso.
Infatti anche il suo nuovo compagno di banco lo squadrò
perplesso.
«
Trenta,
trentacinque, quaranta, quarantacinque … Il cinque!
» esultò sicuro di sé.
«
Bravissimo,
il numero cinque! E con quanti numeri si moltiplica? »
« Con
il …
nove? » chiese con la paura di aver sbagliato.
«
Giusto! E
adesso lo mettiamo qui. » disse scrivendo un nove nel punto
in cui i due cerchi
s’incontravano « Adesso … Sapresti dirmi
quali numeri, presenti qui,
moltiplicati fra di loro fanno diciotto? »
Lo sguardo di
Michael passò ripetutamente quei due insiemi di numeri,
leggendoli e
rileggendoli, cercando di capire quali due componessero la risposta
giusta,
facendo un miliardo di semplici calcoli a mente che per lui sembravano
difficilissimi, quasi impossibili.
« Il
due … ed
il … nove? » chiese con fievole voce.
«
Ottimo! Ma,
dato che il numero nove è già pronto per finire
nel water, noi non lo
scriviamo. »
La campanella
della scuola squillò rintronando tutti i bambini con il suo
suono stridulo e
fastidioso, facendoli saltare tutti per aria per lo spavento e
avvertendo tutti
quanti che era passata mezz’ora ed era il momento del cambio
d’insegnante e
dell’intervallo.
«
Beh, è un
peccato doverla finire così, dopotutto ci stavamo divertendo
… » disse
dispiaciuto il giovane maestro riponendo la sua roba nella semplice
borsa di
lavoro in canapa verdastra « Almeno vi ho dimostrato, anche
se per poco, che
imparare non significa annoiarsi! » fece un occhiolino ad il
piccolo Chester
che sorrise imbarazzato grattandosi la testa.
« A
domani … Ah,
ho un compito per voi. » tutti i piccoli alunni tirarono
fuori dai loro zaini i
propri diari dei super eroi o della Barbie « Domani, fate una
piccola
presentazione su di voi, su cosa vi piace fare, il vostro passatempo
preferito,
la vostra famiglia, di tutto! Parlate di voi stessi. E adesso potete
godervi in
pace la vostra prima ricreazione da bravi scolari. »
Tutte le
matite ricedettero sul banco dopo essere state abbandonate dalle
piccole mani
dei bambini, che subito cominciarono a ravanare nei propri zaini alla
ricerca
delle loro merendine, dei succhi di frutta o di altro di commestibile e
sfizioso.
Ma Chester non
fece nient’altro che fissare i suoi nuovi compagni guardare
meravigliati i loro
snack lasciati dalle proprie mamme la sera prima quando gli prepararono
la
cartella, perché lui invece non poteva permettersi anche
qualche cosa da
mangiare in più, sarebbe stato come uno spreco in quanto era
benissimo capace
di arrivare all’ora di pranzo.
C’era
chi si
alzava semplicemente e chi usciva addirittura dalla classe, per andare
a
salutare qualche suo vecchio compagno d’asilo che era stato
messo in un’altra
sezione, c’era chi andava in bagno o chi girovagava per i
corridoi, stando
sempre sotto lo sguardo del proprio docente, oppure chi restava
tranquillamente
al proprio posto.
I due bambini
della prima fila al centro, con lo zaino uguale, tirarono fuori due
merendine a
loro volta identiche ridendo di fronte alla loro uguaglianza. La
piccola Ashley
dal vestito rosa si alzò solamente per poi risedersi
affianco ad un’altra
bambina dal vestito azzurro come il cielo del primo mattino, candido,
che
risaltava il colore dei suoi capelli di color castano intenso, con un
sorriso
stampato sulle piccole e sottili labbra quando vide la sua amica
sedersi
affianco a lei.
Leo, il
bambino di colore, rimase seduto al suo banco, contemplando la brioche
della
Ferrero tra le sue piccole mani. Il bambino dai capelli rossi era
troppo
impegnato a scarabocchiare il proprio banco con i pennarelli per poter
consumare il proprio cibo al cioccolato che gli si stava sciogliendo in
mano.
Il bambino dai
capelli boccolosi quasi si schifò di fronte a tutto quello
spreco di cibo e
d’inchiostro, non riusciva a credere che veramente certi
bambini fossero così
viziati e così ingenui da usare e sperperare cose che per
altri magari sono
impensabili.
Due
bustine di cocaina,
pensò con frustrazione il piccolo che già aveva
conoscenze con quelle brutte
sostanze. Forse anche tre e potrei pure
io possedere così tanti pennarelli.
Non che avesse
già avuto esperienze con certe sostanze stupefacenti, ne
aveva solo già sentito
parlare da suo padre, che a volte incastrava vari spacciatori illegali
in giro
per la città. Ed il piccolo, ascoltando i vanti del
genitore, aveva capito col
tempo cos’era la cocaina, a cosa serviva, quanto poteva
costare e particolarmente
quanto fosse desiderata, soprattutto nel suo quartiere malfamato.
« Tu
non ce
l’hai la merenda? » una piccola voce lo
richiamò al suo fianco, era il suo
compagno di banco dagli occhi a mandorla che gli aveva chiesto il
motivo del
suo digiuno, non capendone il perché.
« No.
» in
quel momento le loro voci sembravano così uguali, candide e
squillante, come i
bambini che erano.
« E
perché? »
« Mio
padre
dice che dobbiamo risparmiare, e che posso anche non mangiare quando
siamo a
scuola, tanto poi pranziamo. » rispose sinceramente, non
badando al fatto che
gli stava praticamente descrivendo la sua grave situazione economica.
« Ne
vuoi un
pezzo? » chiese allora Michael, porgendogli metà
della sua merenda fatta da due
fette di pan di spagna ed in mezzo una glassa rosea quasi rossa di
ciliegia che
oltre alla dolcezza rilasciava anche asprezza.
«
Grazie. »
abbozzò un sorriso cercando di nascondere la sua espressione
sorpresa nel
vederlo così gentile e disposto a condividere la sua roba.
Non gli era
mai capitato, lui era cresciuto in un mondo di avarizia ed egoismo,
sapeva che
tutti i bambini erano stronzi, pronti a sputtanarlo appena potevano e
metterlo
nei casini, prenderlo in giro per ogni suo minimo difetto,
discriminarlo per
cose di cui non aveva colpa, emarginarlo e fargli odiare la vita
nonostante la
tenera età. E tutte quelle cose le aveva vissute sulla sua
pelle.
Ma adesso
c’era un bambino che non lo derideva per i capelli, per le
lentiggini, per i
suoi problemi familiari. Anzi, gli stava offrendo del cibo, anche se
era in
quantità minima, cosa che però a lui
importò poco dato che s’interessò
più che
altro per il gesto.
Il pezzetto
finì subito tra le sue fauci, masticandolo e assaporandosi
il suo gusto per
bene, sentendo lo zucchero ed il colorante invadergli la bocca.
Solo una volta
aveva sentito quel gusto, quando l’ultimo giorno di scuola
all’asilo, l’anno
prima, avevano fatto una piccola festa per le classi che non avrebbero
più
frequentato quella scuola. C’era un tavolo basso e lungo,
pieno di tante
scodelle riempite di patatine e dolci, tra cui alcune caramelle alla
ciliegia.
Quella fu la
prima volta che partecipò ad una festa, nessuno
l’aveva mai invitato, perché
lui era sempre stato odiato da tutti i suoi compagni che a sua volta
lui
odiava. Ma non perché lui era cattivo e scorbutico, ma
perché loro lo facevano
diventare prepotente ed irascibile.
Le loro
piccole testoline che tanto avrebbe voluto spaccare non conosceva
ancora la
parola ‘tatto’, e quindi ogni volta che aprivano
bocca per sfotterlo non riuscivano
a contenersi.
« Ti
piace? »
chiese Michael vedendolo con lo sguardo perso.
«
Sì, mi piace
la ciliegia! » sorrise.
«
Piace tanto
anche a me. » sorrise a sua volta compiaciuto per i loro
gusti in comune « Come
ti chiami? »
«
Chester
Bennington, tu? »
« Io
Michael
Shinoda, ma mi puoi chiamare Mike. »
« Ti
piace
Goldrake? » chiese il piccolo Chester vedendo il diario
rappresentante Actarus,
il protagonista, con il suo robot alle spalle, alto e possente.
«
Sì! »
afferrò il suo grande diario, sfogliandolo assieme al suo
nuovo amico.
Amico, persona che Chester
non
aveva mai avuto veramente. I suoi ‘amici’
dell’asilo erano solo un gruppo di
bambini, tra maschi e femmine, che tendevano a metterlo sempre in
disparte.
Il suo vero ed
unico vero amico rimasto era il suo cuscino, l’unico che lo
accoglieva ogni
volta che piangeva.
I venti e
passa minuti di pausa passarono così in fretta che
sembrarono quasi la metà,
proprio perché i due bambini si divertirono tra di loro,
anche stando
semplicemente seduti, guardando solamente un diario e commentando i
personaggi
e la trama di quell’anime.
Di nuovo la
campanella stridente richiamò l’attenzione di
tutti gli alunni che, borbottando
fragorosamente, se ne ritornarono dietro ai propri banchi bassi.
«
Bene, è
stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton
prendendo in mano la sua
borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché
è una regola importante svolgere
sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor
Way, è un
ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra
noi … » sussurrò
alla classe « È una persona noiosissima!
» fece ridere i piccoli che però non
erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad
una
nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike
e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe
poi
diventata per loro quella persona, così importante e che
avrebbe lasciato il
segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe
detto nel
corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.
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Capitolo 2 *** Memories consume ***
Note: Scusaaaate! Avrei
dovuto pubblicare il capitolo ieri, ma una certa persona mi ha rovinato
la giornata, che sarebbe dovuta essere felice dato che ho fatto due
anni di fidanzamento col mio ragazzo. Peccato che lui se l'è
vista bene di ricordarsene ._."
However, oggi ho preso il titolo da Breaking The Habit :3 (unica
canzone dei LP che piace al mio ragazzo buhuhu *si dispera*). So che
è un capitolo abbastanza corto, e sinceramente ne sono
dispiaciuta é.è Ma sapete com'è, era
la mia fase del 'blocco dello scrittore' v.y
Siamo alle prese con il pomeriggio/sera del loro primo giorno di
scuola, e i nostri due piccoli eroi(?) stanno facendo i compiti
assegnati dal maestro Norton (che alla fine ho descritto esteticamente
come l'odierno Rob °-°). Poi si passa al loro secondo
giorno di scuola, che però ho diviso in questo e nel
prossimo capitolo.
Nonmipicchiateperloschifo.
Enjoy :3
Capitolo 2 – Memories consume
Parla
di te stesso ...
Chester
tamburellò in modo continuo e snervante sul foglio a righe
vuoto con scritto
solo il titolo del suo compito ‘Parla di te stesso’
che gli aveva affidato la
mattina stessa il signor Norton, suo insegnante d’inglese,
storia e geografia.
Erano
solamente le quattro del pomeriggio quando il bambino si
apprestò a svolgere il
suo semplice dovere di studente, prendendo il suo nuovo quaderno ed una
penna
rossa per il titolo ed una nera per il testo.
Ma erano
già
quasi le sette di sera e lui non aveva ancora scritto niente.
Cosa poteva
scrivere di tanto interessante e che avrebbe fatto colpo? Nome,
cognome, data
di nascita? Banale.
Mi
chiamo Chester Charles Bennington cominciò
a scrivere lentamente e leggero sul foglio che si abbassava sotto il
peso della
punta a sfera della sua penna, finalmente mandando a quel paese tutte
le seghe
mentali che si era fatto sulla banalità di un testo
informativo.
Ho
sette anni e sono nato il venti Marzo del 1976, a Phoenix, Arizona. Mi
sono
trasferito a Los Angeles nell’estate del ’82 per il
lavoro di poliziotto di mio
padre.
Adesso avrebbe
dovuto scrivere qualcosa riguardo alla sua famiglia, a suo fratello
Brian, a
sua madre e suo padre. Ma invece non lo fece. Saltò
argomento, perché aver
ammesso di avere un anno in più era troppo, soprattutto per
il motivo del suo
essere ancora in prima elementare, che alla fine era uguale del
trasferimento.
La famiglia
Bennington non si era trasferita solamente per il lavoro del padre,
quello era
solamente un motivo secondario. Ma Chester preferiva non dover toccare,
nemmeno
sfiorare quel sensibile argomento che ogni notte lo faceva penare
nell’oscurità
e negli incubi.
Durante
il mio tempo libero mi piace girare per il mio quartiere, cantando
senza
preoccuparmi di essere sentito, non mi vergogno della mia voce. Mi
piace tanto
ascoltare la musica alla radio, se potessi l’ascolterei tutto
il giorno. Il mio
gruppo preferito sono i Depeche Mode, adoro People Are People.
Non bastava e
lo sapeva. Aveva bisogno di un altro argomento che non lo avrebbe
costretto a
parlare anche della sua famiglia.
Quando
abitavo a Phoenix avevo un cane, un pastore belga, si chiamava Beer
perché il
suo pelo aveva il colore di una birra bionda. Sembrava un cane stupido,
ma non
lo era, faceva il finto tonto solo per farmi ridere. Ma un giorno
scappò di
casa, ed io stetti davvero male per tanto tempo.
Un nodo
soffocante e fastidioso gli si formò in gola poco prima che
il naso gli
frizzasse.
Pensavo
di averlo perso per sempre, appesi tanti manifesti per la
città con la sua foto
e la mia via per chi l’avesse trovato e sarebbe stato
così gentile da
riportarcelo.
Cancellò
la
parola ‘riportarcelo’ per sostituirla in
‘riportarmelo’.
Non
accennò
nemmeno il fatto di essere stato aiutato dal fratello maggiore ad
appendere le
foto segnaletiche del suo fedele amico.
Un
giorno una signora bussò alla porta di casa accompagnata da
una giovane ragazza,
quando aprii notai che legato al guinzaglio aveva Beer, che appena mi
vide mi
saltò addosso leccandomi e facendomi le feste. Ma subito
dopo notai anche che
la signora aveva degli occhiali da sole sul naso, e non
perché fosse una
giornata soleggiata, ma bensì perché era cieca.
Gli occhi gli
bruciavano sempre di più, portandogli quella sensazione di
continui singhiozzi
in arrestabili.
Decisi
di lasciarglielo nonostante fossi così affezionato, lui fu
il mio unico e vero
migliore amico.
Incrociò
le
braccia sul tavolo, buttandoci disperatamente la testa in mezzo,
singhiozzando
infrenabile e lasciando che le lacrime gli bloccassero il naso e che si
calassero dolcemente e umidamente sul suo immacolato viso che abbozzava
un rosa
pallido sulla pelle macchiata da lentiggini.
Era dura ogni
volta ricordarsi del suo fedele cane, della sua perdita per la sua
troppa
generosità. Quando accadde quello, quando
dimostrò il suo lato gentile e
positivo, all’asilo comprese che non tutte le persone si
merito la sua carità e
la sua bontà.
E di gente che
non se ne meritava ne era circondato, tutti branco di marmocchi capaci
solamente di farlo soffrire per la loro gioia e per il suo dolore.
Con ancora le
lacrime agli occhi ed i singhiozzi dentro al suo petto, chiuse il
quaderno,
ripose le matite dentro l’astuccio, rimise tutto il materiale
scolastico nella
cartella e filò in camera da letto, dove non c’era
nemmeno Brian, che era in giro
per i parchi del quartiere come ogni giorno alla stessa ora.
Ma per la
prima volta, quel giorno Chester non scese con lui in strada
com’era solito
fare, saltellare tra i pezzi di vetro verdi delle bottiglie di birra
rotte,
cantando ai passeri ed ai vecchi alberi con le cortecce incise dai nomi
delle
coppiette che erano passate di lì.
Solo a loro
donava particolarmente la sua voce, perché loro non erano
essere umani,
peccatori, bugiardi, traditori, usurpatori. Gli alberi e gli uccelli
non
avevano fatto mai niente contro di lui, erano gli unici che non lo
tradirono e
mai ne avrebbero avuto modo.
Si
lasciò
cadere sul suo piccolo letto, rimbalzando sul materasso, e subito
allungò la mano
umida alla ricerca del suo fidato amico: il cuscino.
Prima era una
cane, poi degli alberi e dei pennuti, infine un cuscino. I suoi
migliori amici
non erano mai delle persone.
Appena lo
trovò con la sua mano, riemerse il viso dal materasso e lo
affondò nuovamente
nell’involucro di piume d’oca, lasciando libero
sfogo ai suoi gemiti di dolore
che risuonavano come tuoni e alle lacrime che scendevano come la
pioggia
estiva.
Non si
preoccupò di essere sentito, dato che non c’era
nessuno a casa come al solito. Suo
padre era in commissariato oppure in giro per la città con
la volante, sua
madre a lavorare in un negozietto in fondo alla via.
Come ogni
volta, adorò il suo fidato amico ricoperto dalla stoffa
azzurra,
addormentandosi accompagnato dal dolce tintinnio dei piccoli
campanellini
scoloriti rilegati ed uniti tra loro con un bracciale nero attorno al
suo polso
sottile.
Il suo
oggetto-ricordo della sua felice infanzia che a lui sembrava fosse
già finita.
Mi
chiamo Michael Kenji Shinoda, ho sei anni e sono nato
l’undici Febbraio del
1977 a Los Angeles.
La veloce
manina del bambino scivolava e scorreva liscia come l’olio
sul foglio del suo
quaderno d’inglese, svolgendo i propri compiti da bravo
studente.
Vivo
con mia madre Susan di trent’anni, mio padre Kenji di
trentaquattro e mio
fratellino più piccolo Jason, che va ancora
all’asilo.
Mio
padre è originario del Giappone, i suoi genitori furono tra
i primi emigrati
giapponesi che sbarcarono in America, al ritorno di mio nonno dalla
guerra. Ma
per tradizione ritornarono alla loro città natale per la
nascita di mio padre,
che però non poté fare la stessa cosa con me. Ed
è per questo ha voluto
affidarmi il suo nome giapponese, per ricordarmi sempre da dove
provengo.
Ho
un cane di nome Lucky che ha tre anni, proveniente dalla cucciolata
della
nostra vicina di casa, la signora Goldsmith.
Lui, a
differenza di Chester, non aveva paura di ciò che scriveva,
non aveva freni,
poteva scrivere quello che voleva e non nascondere niente, dato che
niente
aveva da nascondere.
Il
mio passatempo preferito è disegnare, mi piace molto farlo.
Ogni volta che
posso prendo matita e pennarelli e disegno qualunque cosa mi venga in
mente. La
mia mamma mi dice sempre che da grande diventerò un bravo
artista, mio padre
dice che sarebbe meglio che io studi e che diventi piuttosto un bravo
medico.
Non aveva
paura di parlare della propria famiglia, non se ne vergognava per alcun
motivo,
di fronte ai suoi trasparenti ed innocenti occhi di bambino vedeva la
perfezione nel suo nucleo familiare. Non aveva scheletri
nell’armadio.
Mi
piace studiare, non capisco perché la maggior parte dei miei
amici lo odino.
Penso che conoscere le cose renda le persone migliori, odio
l’ignoranza, è una
caratteristica stupida ed inutile. A volte vado nella libreria di mio
padre,
nel suo ufficio, e prendo un libro di quando andava ancora a scuola.
È così che
ho imparato le tabelline!
«
Mikey,
tesoro, è pronta la cena! » la voce della madre
arrivò dalla cucina alla sua
stanzetta dove faceva i compiti.
«
Arrivo! »
urlò lui richiudendo il quaderno e riposandolo nel grande
zaino rosso, blu e
giallo, per poi correre giù e sedersi a tavola, dove tutto
era già stato
apparecchiato, dove suo fratello e suo padre lo aspettavano e dove la
madre
stava servendo l’arrosto ancora fumante.
Era bello
avere tutto quel lusso, un buon cibo caldo, una famiglia che si amava,
due genitori
che si volevano ancora bene dopo quegli anni di matrimonio, un
fratellino che
adorava il fratello maggiore.
Vedeva tutto
ciò come una cosa normale, dovuta. Gli era difficile vedere
la situazione
diversamente, pensare di poterla vivere, proprio come stava facendo
Chester a
sua insaputa.
Tredici
settembre 1983, il risveglio di quel giorno fu uguale a quello di due
anni
prima a quella parte, sempre lo stesso abbaiare, sempre lo stesso cane,
sempre
la stessa vita di merda.
Sempre il
solito mal di testa.
Sempre la
solita voglia di morire.
Sempre la
solita voglia di mandare tutto a quel paese e cercare qualcosa di
meglio
rispetto a quello che miseramente possedeva.
Invece Michael
si risvegliò sempre docilmente dal calore ed
affettuosità materno che la madre
gli donava ogni mattina, sedendosi sul bordo del suo letto e
richiamandolo sul
più bello del suo sogno, cosa che lui detestava ma che
subito scordava non
appena vedeva il viso di sua madre.
Il mattino era
sempre uguale per entrambi, non era mai cambiato.
Michael scese
in cucina e ritrovò subito suo fratello con la radio accesa,
mentre mangiava i
suoi abituali cereali dai mille colori. Chester si fece la colazione da
solo,
mangiando a fatica i suoi biscotti da quattro soldi presi dal discount
nella
via affianco alla sua.
A nessuno dei
due pareva strano quel risveglio, erano così abituati alla
consuetudine di quei
gesti che non si facevano domande. Per lo meno Chester non se le
faceva,
nonostante non vivesse in una situazione gioiosa; Michael si poteva
permettere
di non chiedersi niente.
Si lavarono e
si vestirono, Chester da solo, Michael aiutato dalla madre. Ed eccolo
di nuovo
pronti alle otto e mezza per il loro secondo giorno di scuola.
Ma quella
volta il padre di Mike non poté accompagnarlo come il giorno
precedente, perché
si era svegliato di malavoglia alle sette per poter essere in tempo al
suo
lavoro da impiegato in una azienda situata nel centro di Los Angeles.
Così,
il
piccolo dovette farsi accompagnare dalla madre, ovviamente a piedi,
fino alla
sua scuola dai muri gialli e sbiaditi a poco più di sei
isolati di casa sua.
Chester invece
venne accompagnato – a piedi pure lui – dal
fratello maggiore Brian, che da lì
in poi avrebbe dovuto sopportare ogni giorno, dall’andata al
ritorno da scuola.
Uscì
assieme a
sua fratello un quarto d’ora prima del suo nuovo compagno di
classe, dato che
la loro casa era un poco più lontana di quella della
famiglia Shinoda, che
distava qualche isolato più in la della famiglia Bennington.
Camminava in
silenzio e a testa bassa, come era solito fare, come se si vergognasse
di sé
stesso, cosa che infondo provava. Il fratello non cercava mai di
iniziare una
conversazione, sapevano entrambi che sarebbe stato un tentativo vano
dato che
erano troppo diversi.
Già,
nonostante fossero fratelli, sangue del loro stesso sangue, erano
totalmente
disuguali, sia nei gusti, nel modo di ragionare e di vivere. E in
più Chester
credeva che secondo suo fratello la loro situazione familiare andasse
bene lo
stesso, che non stesse andando a rotoli come invece stava accadendo.
Dopo un bel
po’ di minuti di camminata e di quiete, Chester
avvertì una presenza di fronte
a sé. Non che fosse chissà cosa, capì
solamente che c’erano due persone di
fronte a lui, che erano appena usciti dalla recinzione in paletti
bianchi in
legno della loro casa perfetta.
Alzò
appena lo
sguardo per vedere chi fossero, anche se in realtà non gli
interessava
veramente conoscere l’identità di quei due
individui, ma alzare la testa e
vedere chi fossero era una cosa automatica.
Non ci avrebbe
creduto nemmeno se Dio fosse sceso dai cieli alla Terra per dirgli che
era la
pura verità.
Riconobbe il
grande zaino colorato che ricadeva sulle piccole spalle del bambino di
fronte a
sé, con i capelli a caschetto inconfondibili.
Con la testa
fece uno scatto indietro, in tempo per vedere la casella della posta
immacolata
della casa dalla quale la donna ed il bambino erano appena usciti,
segnata con
il cognome Shinoda scritto perfettamente.
Il cuore gli
batté istintivamente forte, come se davanti ai suoi docili
occhi di bambino
avesse di fronte il suo più grande idolo.
«
Mike! »
squittì il bambino, facendo svegliare di soprassalto
l’altro piccolo che si era
perso nei suoi pensieri.
Quest’ultimo
si girò di scatto nell’essersi sentito chiamare,
ma già aveva riconosciuto la
voce che l’aveva sentito evocare.
Sulle labbra
di entrambi si mostrò un enorme sorriso che molto
probabilmente non se ne
sarebbe andato via per fino al loro arrivo a scuola, nella classe,
seduti ai
loro banchi.
Il piccolo
dalla cartella un po’ rovinata nonché da poveracci
accelerò il passo fino ad
arrivare a fianco al suo amico,
così
come Chester sperava di poterlo chiamare. Almeno lui.
La madre
sorrise vedendo suo figlio aver fatto subito amicizia con un suo
compagno,
anche se un po’ infastidita dall’effettiva
povertà dell’altro bambino, che si
notava subito dai suoi vestiti e dalla sua cartella di
qualità scadente.
« Hai
fatto il
compito d’inglese? » chiese il piccolo Mike, il
primo che riuscì ad aprire un
dialogo con Chester, il bambino che mai e poi mai aveva parlato con
qualcuno
tra le vie delle città.
«
Sì, sì. »
rispose lui.
« Di
cos’hai
parlato? » chiese innocentemente, non sapendo di aver fatto
irrigidire d’un
colpo l’altro bambino per una domanda che secondo i suoi
parametri era
inopportuna.
«
B-Beh … Di
un po’ di cose … » rispose evasivo
« Tu? »
«
Della mia
famiglia, del mio cane, della mia passione per il disegno …
»
«
Davvero ti
piace disegnare? » chiese Chester nel tentativo di evitare
qualsiasi altra
domanda su quel tema.
«
Sì! È la
cosa che più adoro fare, mi fa tranquillizzare e liberare da
ogni piccolo
pensiero … »
Continuarono a
parlare del più del meno, se avevano visto la sera prima
l’ultima puntata
dell’ennesimo mecha che li appassionava, di come gli
sembravano i compagni di
classe a prima vista dato che ancora non li conoscevano bene, eccetera.
Arrivarono
presto davanti all’entrata della scuola pullulante di bambini
con i propri
genitori che aspettavano l’apertura del cancello principale.
Il tempo del loro
viaggio dal loro incontro nella via della casa di Mike era durato
così poco per
loro che gli sembrava quasi uno scherzo essersi ritrovati davanti a
scuola con
così tanta rapidità.
Si guardarono
in giro furtivi a destra e a sinistra, cercando i loro compagni da
qualche
parte. Infatti scorsero entrambi Ashley, la bambina che il giorno prima
era
coperta da un vestitino rosa appariscente, mentre quel giorno ne aveva
uno
simile ma giallo come il sole, affianco alla loro compagna di classe
che ancora
non conoscevano il nome, ma che quel giorno aveva un completino verde
come il
prato a differenza di quello azzurro smorto del giorno precedente.
Dall’altra
parte videro Leonard, il bambino di colore, con la madre abbastanza
corpulenta
che aveva gli stessi capelli neri rilegati tutti quanti in tante
piccole
treccine, alcune però tinte di biondo.
Gli altri
ancora non li avevano osservati bene così tanto da poterli
riconoscere tra la
folla di bambini che a mano a mano si accalcava sempre di
più verso l’entrata.
«
Mamma,
quanto manca? » chiese Michael alla madre, impaziente di
entrare nell’edificio.
La madre si
alzò una manica tanto da scoprire solamente il polso, dove
spuntava un
bracciale di cuoio nero con in mezzo un piccolo orologio con la
stanghetta sei
secondi che non si fermava mai.
«
Qualche
secondo e vi aprono. » sorrise al figlio.
« Ci
rimettiamo ai posti di ieri, vero? » chiese il bambino a
Chester che lo guardò
stupefatto.
Non si
aspettava così tanto interesse sulla sua presenza da parte
di quel suo nuovo
compagno, non si era mai immaginato che avrebbe proposto una scelta
comune. Non
gli era mai capitato di scegliere assieme a qualcuno che non fosse
della sua
famiglia, perché abitualmente a nessuno importava la sua
opinione, tanto meno
la sua presenza.
«
V-Va bene. »
risposi il piccolo attonito, non realizzando nemmeno che si fosse
nuovamente
piazzato in prima fila.
La solita e
vecchia campanella suonò dall’interno
dell’istituto, avvertendo i bambini che
potevano pure entrare e che da lì a cinque minuti le lezioni
sarebbero
cominciate.
«
Ciao Mikey,
fai il bravo, mi raccomando. » stampò sulla fronte
del figlio un bacio,
chinandosi abbastanza per arrivarci, data la sua bassa statura
« Ciao Chester,
mi raccomando: cerca di sopportarlo! E se non ce la fai più,
hai il diritto di
dirgli di starsene zitto. » il bambino un po’
riccioluto rise, mentre quello
dagli occhi a mandorla fulminò la madre per avergli dato del
logorroico.
I due piccoli
cominciarono a correre senza freni verso l’entrata, passando
veloci come
fulmini tra gli altri alunni della scuola che li guardavano dubbiosi e
non
capendo come riuscissero ad essere così agili a passare in
mezzo a tutti senza
urtare nessuno.
Entrarono
dentro ritrovandosi i primi studenti che riempivano il lungo corridoio
semi-vuoto che conduceva alle scalinate per i piani superiori, cosa che
sinceramente a nessuno dei due interessava, in quanto per raggiungere
la loro
classe bastava arrivare al fondo del corridoio e girare a destra dove
si
sarebbe trovato un altro corridoio con le varie classi, una affianco
all’altra.
Non smisero di
correre per un momento, non sentivano la stanchezza e tanto meno
sentivano lo
sbraitare del bidello che li chiamava disgraziati per la loro eccessiva
vivacità. Ma anche per le rigate nere che lasciavano le loro
scarpe con sotto
una suoletta di gomma scura.
Ormai era
diventata una gara tra di loro, arrivavano a strattonarsi e a cercare
di tenere
dietro l’altro afferrandolo per la maglietta e tirandolo
indietro. Quando
arrivarono all’angolo, dove avrebbero dovuto girare a destra
e correre verso la
loro classe che si trovava nella penultima aula, fra poco Chester non
fece
sbattere il piccolo Michael contro il muro dopo uno spintone abbastanza
forte.
Ma quando il
più piccolo si trovò a costeggiare il muro color
pisello si mise solamente a
ridere e a cercare di recuperare terreno, cosa che gli
risultò troppo difficile
perché Chester aveva aumentato più che poteva la
sua velocità, nonostante
avesse una cartella grossa quasi il doppio di lui sulle spalle.
« HO
VINTO! »
esultò il bambino dai capelli boccolosi mentre metteva un
piede nell’aula,
segnando la sua vittoria, portando le braccia in aria ed aspettando che
il suo amico, che di lì
a poco sarebbe svenuto
per il fiatone, lo raggiungesse.
« Non
è
giusto! » brontolò l’altro entrando in
classe con sguardo basso e dirigendosi
verso i due banchi infondo alla prima fila.
A Chester
vennero i brividi quando vide l’amico
sedersi e non correre verso banchi in fondo che ancora erano vuoti ed
immacolati, cosa che lui non si sarebbe fatta mai scappare dalle mani.
E
l’uggia
aumentò quando si sedette a sua volta affianco al suo
compagno che cercava di
riprendere fiato dalla corsa, o per lo meno ci provava dato che il suo
cuore
batteva così forte che sembrava volesse esplodere.
Chester quasi
non si ricordava l’ultima volta che ebbe corso in quel modo,
sfrenato e finendo
stramazzato sul banco in quel modo indecente e preoccupante, infatti
sembrava
che avesse bisogno di un defibrillatore. E non solo lui, anche Michael
lo
necessitava.
L’ultima
volta
che aveva corso in quel modo era stato quando abitava ancora a Phoenix,
quando
era ancora piccolo e spensierato, quando ancora non gliene fregava
più di tanto
dell’amicizia dei suoi coetanei che non gli volevano
concedere, quando era
ancora felice.
Ricordarsi i
suoi momenti di felicità per lui era estremamente difficile,
perché o non se li
ricordava affatto, o non erano abbastanza nitidi da dargli un senso,
oppure
perché venivano semplicemente sopraffatti dai ricordi brutti
ed infelici che lo
assillavano ogni sera, quando doveva andare a dormire.
E quella volta
riuscì a ritrovare quel tassello della sua felice memoria,
di quando aveva
compiuto da poco tre anni e scorrazzava per il giardino verde e pieno
di
cespugli dietro casa sua, assieme al suo fidato migliore amico Beer.
Era felice per
qualche motivo che in quel momento non ricordò, forse
perché in quegli anni non
necessitava di alcun motivo per sorridere alla vita e a tutto quello
che gli
succedeva attorno. Quando voleva, lui si svegliava col sorriso sulle
innocenti
labbra di bambino e niente e nessuno sarebbe stato capace di toglierlo.
Si
ricordò di
stare a giocare con il proprio cane, di andare da una parte
all’altra della
steccata rossa del recinto di casa, mentre il cane, un cucciolo di
grande
stazza, lo inseguiva come un pazzo, cercando di afferrargli qualcosa
che aveva
in mano.
Il cane
impazziva dietro di lui, abbaiava e lo inseguiva, cercando di capire
che razza
di oggetto avesse in mano, dato era capace di fargli rizzare le
orecchie al suo
suono.
Erano
già
passati dieci minuti e lui non smetteva di correre, finché
l’oggetto cadde
dalle sue piccole mani e posandosi sul prato verde con un tintinnio.
Quel
tintinnio che producevano i campanellini del suo bracciale che quel
giorno usò
per far impazzire il cane e farlo giocare assieme a lui.
Il bambino si
risvegliò dalla sua catalessi, dopo aver abbandonato lo
sguardo vuoto verso il
muro alla sua sinistra e lasciato che la mente viaggiasse nella sua
memoria
amaramente consumata dall’infelicità.
In classe
erano appena entrati Leo ed un altro loro nuovo compagno di classe di
cui
ancora non conoscevano nemmeno di nome, il quale si sedette negli
ultimi banchi
ancora vuoti.
Ma Chester non
li aveva nemmeno notati, in quel momento a lui non gliene fregava
niente di
nessuno. Non li conosceva nemmeno, quindi non li doveva per forza
salutare, andare
da loro e chiedergli come stavano, se avevano fatto i compiti ed i
soliti
convenevoli.
« Ci
voleva …
» mormorò Michael sorridendo all’amico,
soddisfatto per la corsa nonostante
avesse appena perso la gara.
«
Sì, ma hai
perso. » ridacchiò vittorioso Chester, girando lo
sguardo per vederlo.
«
Domani ti
mangerai la mia polvere. » alzò le spalle con un
sorriso beffardo sulle labbra,
cosa che in verità non gli si addiceva molto dato il suo
viso da bravo bambino
e non da teppista.
«
Vedremo! » ringhiò con un ghigno deciso, cosa che
a
lui stava alla perfezione.
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Capitolo 3 *** Maybe someday I'll be just like you ***
Note: Capito da che canzone
proviene il titolo di questo capitolo? A Place For My Head! u.u
In verità il quarto capitolo non è nemmeno
pronto, fate conto che ho circa due interrogazioni al giorno, quindi
non ho molto tempo per scrivere. E se pensate che in questo ponte, che
dura da giovedì a domenica ._.", mi metta a scrivere, siete
delle illuse :'D Studierò come una merda tutto il tempo ~
DIRITTO AL ROGO!
Dove eravamo arrivati? Chaz e Mike avevano scritto la loro
presentazione (scusate se non è abbastanza infantile, ma io
non mi ricordo come scrivono i bambini :c), arrivano a scuola assieme e
fanno a gara, scampando per poco di essere scotennati dal bidello O:
Come andrà il resto della giornata? Come reagirà
Chester nel sentire le presentazioni dei suoi compagni, con una vita
così diversa dalle sue? E Mike, cosa farà nel
conoscere qualcosa su Chester?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo O:
LOL scherzo, lo scoprirete in questo :'3
In fondo metto la foto di Mikey e Kucky (non so se si chiamasse
veramente così il suo cane xD) Appena ne avrò una
di Chester, ve la metto u.u
Enjoy :3
Capitolo 3 –
Maybe someday I’ll be just like you
Le prime tre
ore di scienze e matematica passarono velocemente senza alcuna fatica
di nessun
allievo, dato che tutti quanti non stavano nemmeno ascoltando il loro
insegnante che parlava e parlava, senza accorgersi degli sguardi vuoti
di
bambini che lo fissavano o che fissavano il muro.
Ogni piccola
mente era occupata dalla più infantile fantasia che un
bambino si potesse mai
vedere passare davanti agli occhi abbandonati in un punto vuoto.
Cose che un
adulto non riuscirebbe ad immaginare, perché forse solo i
bambini hanno quella
immaginazione che crescendo e vivendo nel mondo reale si perde.
C’era
chi in
quel momento sognava di salire in groppa ad un drago potente ed
imbattibile,
chi di nuotare assieme agli squali, chi di essere al comando del
Gundam, chi di
essere Diabolik, chi un pilota di un aereo o di uno shuttle.
E poi
c’erano
le bambine, che di mostri e robot giganti non gliene fregavano niente.
Persino
Michael si fece prendere dalla noia che gli trasmetteva la voce del
signor Way,
suo insegnante che in quel momento parlava di scienze ed esseri
chiamati
microbi, bassa e roca, tipica di un uomo che però non
cessava mai di emettere
parole al vento con effetto sonnifero.
Dopo un
po’ di
tempo che il maestro cominciò a parlare, tutte quelle parole
diventavano
melodie di una docile ninna nanna che cullava e conciliava i sogni ad
occhi
aperti dei bambini.
Solo la
dannata ed assordante campanella risvegliò
quest’ultimi, diciotto corpicini che
sobbalzarono sulle loro sedie per lo spavento.
«
Bene, ecco
l’intervallo … Mi sa che vi servirà
proprio, dato che sta mattina vi vedo così
spenti. Forza piccoli, avete appena cominciato la scuola e
già vi stancate? »
squadrò l’intera classe, mentre tutti quanti si
guardavano scoraggiati ed un
po’ imbarazzati per la loro non-colpa.
Lo sapevano
benissimo pure loro che tutto quello che provavano in quel momento lo
avrebbero
rimpianto e tanto voluto più avanti, quando davvero
avrebbero dovuto cominciare
a sudare sangue per andare bene a scuola e prendere appunti ad ogni ora.
Dopotutto non
era difficile: dovevano ascoltare, capire, fare gli esercizi a casa ed
era
fatto.
Ma mantenere
l’attenzione dopo ben sei anni di abitudine al puro
divertimento non era
semplice.
Come il giorno
prima, c’era chi usciva dalla classe per sgranchirsi le
gambe, chi andava nei
bagni e chi rimaneva in classe a giocare.
Quella mattina
però, il bidello aveva riportato in tutte le classi
dell’istituto i giochi da
tavolo che erano stati ritirati durante l’estate per ripulire
meglio ogni
superficie. Ai bambini brillarono gli occhi quando notarono che nello
scaffale
in fondo alla classe c’era un ripiano con una cinquina di
giochi.
Ed in quel
momento tutti erano lì, accatastati contro quello scaffale,
cercando il gioco
migliore con cui passare i venti minuti d’intervallo a
disposizione.
Sembrò
un
miracolo agli occhi di Michael quando vide il suo compagno di classe
uscire
dalla massa informe di bambini, con una scatola quadrata in mano e con
lo
sguardo un po’ intontito.
« Che
cosa hai
preso?? » chiese il bambino troppo eccitato per la vittoria
dell’altro contro
gli altri compagni di classe, guardandolo come se fosse un eroe di
guerra in
tempo di pace.
«
F-Forza
quattro. » balbettò il lentigginoso ancora un
po’ rimbambito per gli strattoni
e la lotta al miglior gioco appena compiuta. Fra poco non
capì ciò che gli
aveva appena risposto, e si chiese se avesse detto qualcosa di sensato
o meno.
«
Forza
quattro? E come si gioca? » gli prese la scatola dalle mani
esaminandola e
cercando le istruzioni sul retro, cose non difficili da leggere dato
che proprio
quando iniziarono l’asilo entrò in vigore la
leggere di insegnare ai bambini a
leggere e a scrivere – almeno le basi – a partire
dalla scuola materna.
Si sedettero
ai loro banchi, Michael camminando senza guardare dove andava
perché troppo
impegnato a leggere, Chester barcollando come un ubriaco.
« Ah,
ho
capito come si gioca! In poche parole … »
«
Tranquillo,
» lo fermò Chester aprendo la scatola e prendendo
su i pezzi da montare per la
griglia « ce l’ho pure io questo. »
Il
lentigginoso montò il gioco, mentre l’altro
smistò i dischi gialli da quelli
rossi, prendendo quest’ultimi e mettendoli dalla sua parte.
« Ma
… volevo
io quelli rossi … » mormorò fievole
Chester dopo aver finito di montare la
cella blu e vedendo i dieci dischi gialli lasciati da parte per lui.
« Oh
… È che
il rosso … È il mio colore preferito, quindi
… Volevo prenderlo io, ma se vuoi
li puoi prendere tu eh! » cercò di giustificarsi
Michael, non volendo far
rattristire il compagno, che appena sentì dire
‘è il mio colore preferito’
sgranò
gli occhi.
« A
te piace
il rosso? » chiese con voce fievole.
«
S-Sì …
Perché? »
«
È anche il
mio! » risero entrambi infantilmente di fronte alla loro
seconda cosa in
comune: la prima la ciliegia, la seconda il rosso.
« Ma
tienili
pure tu quelli rossi, non è molto importante alla fine.
» fece spallucce,
attirando nel suo banco i dischi gialli come il sole.
Nemmeno si
accorse di aver appena compiuto un atto di bontà e
gentilezza, lasciando al suo
compagno ciò che preferiva. Non l’aveva mai fatto
con nessuno, sia perché non
voleva cedere a gli altri quello che voleva lui, sia perché
non ne aveva mai
avuta l’occasione. Erano sempre gli altri a vietare lui
ciò che desiderava.
Iniziarono a
giocare, come tutti i bambini della classe, ognuno con il gioco che era
riuscito a prendere prima che qualcuno lo rubasse per primo.
C’erano gruppi
numerosi di bambini al monopoli, un po’ di meno al gioco
dell’oca, due e tre al
gioco del labirinto. Infine c’erano alcuni bambini che
viaggiavano da una postazione
all’altra decidendo dove fermarsi a giocare, dato che non
erano riusciti a
prendersi qualche gioco per sé.
Chester e
Michael erano già alla loro seconda partita di forza
quattro, la seconda in cui
il primo aveva battuto il secondo con facilità, che stava
perdendo la pazienza
di fronte a tutte quelle vittorie dell’amico.
Rovesciarono
tutti i dischetti sul banco smistandoli da quelli rossi a quelli gialli
dopo la
seconda vittoria di Chester, per cominciare la terza partita.
«
Possiamo
giocare anche noi? » la vocina di una bambina sorse da dietro
le spalle di
Chester, il quale quasi saltò per aria perché
preso di sorpresa.
Michael
guardò
dietro al suo compagno, scorgendo Ashley, la bambina dal vestito
giallo,
seguita dalla sua amica dal vestitino verde ed i capelli castani
raccolti in
uno chignon probabilmente fatto da sua madre.
Il suo sguardo
passò dalle bambine al suo amico, che stava borbottando tra
sé, non volendo
lasciarle giocare e preferendo continuare egoisticamente. Una volta
ch’ebbe
l’opportunità di fare l’egoista con
qualcosa che qualcuno voleva ma non
possedeva, l’avarizia si fece strada in lui.
«
Certo. »
sorrise Michael alzandosi e cedendo il posto alla graziosa bimba, che
con un
sorriso si accomodò sulla sedia del nuovo compagno di classe.
A quel punto,
Chester avrebbe dovuto alzarsi e cedere a sua volta il posto
all’altra
compagna, ma non c’era verso di scollarlo dalla sedia e dal
gioco.
I tre bimbi
fissarono quello dai capelli boccolosi, aspettandosi un atto cortese.
Cosa che
ovviamente non arrivò, in quanto il bambino non sapeva
nemmeno cosa fosse la
cortesia, le buone maniere e la gentilezza. Nessuno gliene aveva mai
dato
dimostrazione.
«
… Chester …
» lo strattonò Michael da una manica della sua
maglietta arancione a maniche
corte, l’altro si limitò a fulminarlo con lo
sguardo, con un chiaro messaggio
delle sue intenzioni.
«
È cocciuto.
» disse Michael alla bambina dal vestito verde dopo aver
sbuffato, ma l’altra
sorrise tranquillamente facendo spallucce pazientemente «
Come vi chiamate? »
« Io
Ashley. »
disse la bambina inserendo il dischetto rosso, cosa che fece
innervosire il
compagno di fronte a sé che voleva essere il primo a
iniziare.
« Io
Anna. »
rispose la bambina dal vestitino verde, mentre si sedeva sui banchi in
seconda
fila, aspettando il suo turno « Voi? »
« Io
Michael.
» si sedette affianco a lei sul banco molto basso, adatto
alle loro minute
stature « Lui invece è Chester. »
rispose per il compagno, troppo impegnato per
badare alle domande altrui.
A lui non
piaceva essere così scorbutico e antipatico, gli piaceva far
amicizia con i
suoi coetanei. Però non riusciva proprio a fidarsi di loro,
li reputava troppo
subdoli.
«
Grazie
Michael per avermi ceduto il posto, tu almeno sei gentile. »
Ashley stuzzicò
come una vipera Chester, che la vaporizzò con un uno sguardo
tagliente e
distruttore.
In quel
momento la sua teoria sulla falsità dei bambini, che
all’apparenza sembrano
degli angioletti amichevoli ma in verità sono dei luridi
stronzi quando
vogliono, si confermò.
« Ho
vinto. »
gli uscì dalle sottili labbra una voce rauca ed
impertinente, che fece
sorprendere Michael nel sentirgliela fare, come se lo conoscesse da
anni e non
lo avesse mai sentito parlare in quel modo.
Ashley
guardò
stupita la griglia, non riuscendo a capacitarsi dei quattro dischi
gialli
allineati obliquamente, incapace di dire qualcosa per i primi secondi.
«
N-Non è
possibile … » riuscì finalmente a
parlare dopo aver messo a posto le idee « Io
ci gioco da quando ero ancora all’asilo, come puoi sei
riuscito a battermi?
Sono sempre stata la migliore! »
I bambini
riescono a litigare anche per le cose minime, le più
insensate ed insulse. Ma
ciò che solamente i bambini e nessun’altro sa
fare, è fare la pace.
Chester
alzò
un sopracciglio scettico di fronte al comportamento così
supremo della bambina,
non credendo che veramente esistesse gente così convinta di
sé stessa. In quel
momento avrebbe voluto istigarla ancora di più, metterla in
ridicolo per una
sconfitta di un’insulsa partita di forza quattro, ma allo
stesso momento volle
consolarla.
È
possibile che stare con bambini così diversi da quelli che
ho conosciuto tempo
prima mi stia portando ad addolcirmi e a comportarmi bene con loro,
come loro
fanno con me?
pensò Chester per un nano secondo. Oddio,
magari non tutti si comportano bene con me, però Michael lo
fa … Forse,
infondo, anche loro sono buoni come lui … Un giorno
riuscirò ad essere come
loro, a farmi accettare da tutti, facendomi amicizie senza problemi?
«
Beh, sappi
che a volte anche i migliori sbagliano. » disse Chester
facendo spallucce,
cercando di mascherare il sorriso addolcito nel vedere la bambina
ancora allibita
per la sconfitta.
Quest’ultima
fece in tempo appena a sollevare lo sguardo dalla griglia blu a
Chester, per
guardarlo spaesata e sorpresa per la sua affermazione che nonostante
ricordasse
la sua sconfitta la stava definendo la migliore.
Ma il loro
sguardo venne subito interrotto da Anna, la bambina dal vestito verde,
che
scese dal basso banco e strattonò Chester, facendolo alzare
e sedendosi al suo
posto.
«
Però adesso
tocca a me! » squittì la bambina facendo ricadere
i dischetti sui banchi uniti
e prendendo i gialli per sé.
Chester stava
per dirle qualcosa, di togliersi dalle scatole e di lasciarlo giocare
con il
gioco che aveva guadagnato scalciando contro i suoi compagni di classe,
ma
venne fermato da Michael che lo tirò verso di sé,
facendolo sedere sui banchi e
lasciandolo brontolare.
« Ma
voi vi
conoscete dall’asilo? » chiese il giapponese
americanizzato, curioso come ogni
bambino della sua età.
«
Sì. Abbiamo
fatto tutti e tre gli anni assieme, in più siamo vicine di
casa. » rispose
Ashley con il suo solito tono rigido ma amichevole, il ché
la faceva sembrare
una di quelle donne che lavorano nel commercio e devono sempre sembrare
forti,
inflessibili e cocciute, che ottengono sempre ciò che
vogliono.
« Voi
invece?
» chiese Anna inserendo l’ennesimo disco giallo
come il vestito dell’amica.
« Noi
ci siamo
conosciuti solo ieri. » rispose Chester tranquillamente,
smaltendo
l’irritazione di prima creata dalla presenza delle due
bambine.
«
Davvero? Non
sembra … » disse innocentemente Anna.
I due bambini
si guardarono tra l’interrogativo ed il compiaciuto, con un
sorrisetto incerto
ed appagato.
« E
cosa te lo
fa pensare? » chiese Chester.
Alzarono
entrambe le spalle in contemporanea, lasciando a bocca asciutta i due
piccoli.
« Ho
vinto! »
esultò Ashley alzando i pugni in alto, mentre Anna
girò lo sguardo offeso e
deluso da un’altra parte.
Michael fece
una smorfia di disapprovazione nel vederla rattristita, non era il tipo
di
bambino che gioiva di fronte alla tristezza altrui, anzi. Ogni volta
cercava di
rendere felici tutti.
«
Vuoi fare
una partita contro di me? » chiese allora alla bambina dal
vestito verde, che
subito annuì entusiasta.
Chester
guardò
stranito l’amico mentre quest’ultimo si sedeva al
posto di Ashley, cedendo i
suoi dischetti rossi ad Anna.
Ma
che gli hanno fatto a questo, per essere così buono e
gentile? pensò
il lentigginoso.
Fecero in
tempo a fare una partita, che vinse Anna, che la campanella
suonò segnando la
fine dell’intervallo.
Ma
c’era una
cosa che Chester aveva notato nella vittoria della bambina: Michael si
era
fatto volontariamente mettere sotto da lei, aveva fatto in modo che
vincesse e
che lui perdesse. L’aveva notato perché aveva
messo praticamente quasi tutti i
dischi rossi in modo da crearle il posto adatto ad una linea rossa di
quattro
dischi.
Ma in quel
momento non disse niente, glielo avrebbe chiesto dopo al massimo, nel
frattempo
cercava di capire da solo perché.
Da
quando la gente preferisce perdere per far felice gli altri? si chiese Chester
staccando
le gambe che sorreggevano in piedi la griglia e riponendole dentro la
scatola
che doveva riportare sullo scaffale. O è lui
che è strano, o qui a Los Angeles hanno tutti le palle mosce.
Il piccolo
aveva imparato tutte queste serie di modi di dire e parolacce grazie a
suo
padre che non riusciva mai a contenersi e autocensurarsi. E lui, come
ogni
bambino, imitava ciò che facevano gli adulti, credendo che
fosse giusto così.
Mentre alcuni
bambini si sedevano al proprio posto, certi posavano le scatole sul
ripiano e
altri ingoiavano l’ultimo pezzo di merenda, in classe
entrò il signor Norton,
il loro insegnante di lingue, di storia e geografia.
Posata la sua
borsa marroncina verdastra sulla cattedra, il maestro si sedette dietro
ad essa,
aspettando che tutti i bambini si sedettero al loro posto.
«
Buon giorno
signorini, come state? » chiese tirando fuori un libro grande
e colorato,
quello che di lì a poco avrebbero dovuto usare per inglese,
e le vocine dei
bambini intonavano tutte in coro un acuto ‘bene’.
«
Felici che
oggi vi hanno dato i giochi? » sorrise nel vedere tutte le
testoline annuire «
E ditemi, come vi sembrano? Vi piacciono? »
«
Alcuni sono
noiosi. » ammise una bambina dai capelli biondo platino nel
banco dietro a
Leonard, che aveva giocato al gioco del labirinto.
«
Altri invece
sono divertenti. » la vocina di un bambino
s’innalzò da in fondo la classe.
«
Beh, possiamo
dire sempre
meglio di niente,
allora.
» sorrise il maestro « Avete fatto i compiti, vero?
» inclinò il tono di voce
di poco, tanto per far terrorizzare i bambini che non avevano seguito
le
semplici regole scolastiche.
Dovevano
insegnarglielo fin da piccoli, cosicché da grandi avrebbero
fatto sempre i
compiti ogni volta che venivano assegnati. Ma alla fine della fiera,
erano più
gli adolescenti che non li eseguivano che chi invece sì.
Il silenzio
calò immediatamente sui bambini, come se gli si avesse
urlato addosso di
tacere. Ma lui li aveva fatto una semplice domanda …
Il maestro
sbuffo insofferente e disse poi calmo « Alzi la mano chi non
li ha fatti. »
Tre manine si
alzarono nel vuoto: il bambino dai capelli rossi, una bambina dai
capelli neri
ricci e crespi, ed infine un altro bambino con i capelli biondi
spettinati
sulla sua fronte.
« Per
lo meno
siete in pochi … Bambini, fare i compiti è
importante. » li ammonì il maestro
con voce premurosa, mentre i piccoli si strinsero nel loro minuto corpo
per la
vergogna e il dispiacere.
« Non
sono uno
che sgrida e mette note, lo faccio così raramente che non
varrebbe nemmeno la
pena contare le volte in cui le segno sul registro. E sapete qual
è la cosa
peggiore? È che le note che scrivo, vanno a finire nel registro nero. » fece
rabbrividire i bambini nel sentirsi dire
quella cosa così misteriosa ma che allo stesso tempo
inquietava e metteva istintivamente
paura.
«
Sapete cos’è
il registro nero? » chiese ripetendo sempre quelle due parole
con una certa
enfasi, mentre le testoline dissentirono « È il
registro che va direttamente
alla preside della scuola, e voi non volete che la preside veda cosa
avete
fatto, vero? »
I bambini
provarono un senso di terrore nel vedere il loro docente tirare fuori
dalla sua
borsa un fascicoletto con la copertina nera. Pure Chester
s’intirizzì.
« Per
oggi non
vi darò alcuna nota, perché sono buono. Ma la
prossima volta bada a voi se non
li fate … Beh, cominciamo. Facciamo l’appello.
» prese il registro di classe,
quello con la copertina azzurra plastificata, leggendo nome per nome i
bambini
che ogni volta alzavano la manina sussurrando un
‘presente’.
«
Ieri chi ho
già sentito, per lo meno per il nome? » chiese il
maestro alzandosi dalla sedia
e Leonard, Ashley, Chester e Michael alzarono le mani.
«
Allora,
Leonard. Leggici di te. » disse sedendosi sul bordo della
cattedra, portando le
mani vicino ai suoi fianchi.
Il bambino
tirò fuori dallo zaino il suo quaderno, cosa che fecero
insieme anche i suoi
compagni capendo che era l’ora di iniziare la lezione. Si
schiarì le corde
vocali e cominciò con la sua fievole voce:
« Il
mio nome
è Leonard Steev, ho sei anni e sono nato a Boston il
ventidue Agosto. Mi sono
trasferito qui quando avevo solo un mese, perché alla mia
mamma è sempre
piaciuto abitare a Los Angeles. Mia mamma si chiama Beverly, ha
ventiquattro
anni e viene dalla Giamaica. Anche mio papà Luke
è giamaicano. »
La classe
taceva in un silenzio contemplativo, ascoltando ogni singola parola che
le sue
corde vocali emettevano, interessati da lui, dalla sua storia e dalla
sua vita.
« Ho
un
criceto, Hamm, che mi hanno regalato per il mio compleanno, il mese
scorso. L’ho
chiamato così perché ogni volta che mangio un
po’ di panino al prosciutto
gliene do un pezzetto, e a lui piace tanto! A volte mia mamma mi
accompagna in
uno skate-park per bambini della mia età, dove ho fatto
tante amicizie. Da
grande voglio diventare uno tra i migliori skater
dell’America. » finì di
leggere il suo compito, alzando il suo sguardo incerto e timoroso dal
foglio al
maestro.
Chester, come
gli altri, aveva ascoltato e appreso qualcosa in più su quel
bambino. Non gli
interessò più di tanto delle sue origini
giamaicane o del suo criceto. Lo
catturò di più il fatto che faceva sembrare la
sua famiglia perfetta, cosa che
magari era veramente, ma che a lui non andava giù. Non ci
credeva di essere
l’unico a vivere in una situazione come la propria.
«
Bravo,
ottimo lavoro. Adesso … » girò lo
sguardo tra i banchi pieni di bambini «
Ashley! Leggici la tua presentazione. »
La bambina
partì subito in quarta, leggendo bene ad alta voce per
essere sentita da tutti
i compagni e dal maestro « Mi chiamo Ashley Deste, sono nata
il tredici Giugno
a Los Angeles, ma ho origini francesi e tedesche da parte della mia
mamma e del
mio papà. Infatti la mia mamma Ginette, di ventinove anni,
è originaria di
Aix-en-Provence, mio papà Henrik di trentadue anni
è di Berlino. Viviamo in un
alto palazzo nel centro di Los Angeles, nell’appartamento
vicino a quello dei
miei cugini. Ho una sorella maggiore, Jane, che ha otto anni e viene in
questa
scuola. » il bambino dai capelli boccolosi
s’irrigidì.
Ha
otto anni e viene in questa scuola??
pensò il bambino. Dio ti prego, fa che
non conosca Brian, fa che non l’abbia mai visto e non sappia
nemmeno della sua
esistenza, ti supplico … piagnucolò
tra sé, posando disperatamente la testa
sul banco. Michael, guardandolo, ebbe la paura che fosse svenuto per
chissà
quale malore.
« Da
quest’anno comincerò danza classica, assieme alla
mia migliore amica Anna
Hillinger. » lanciò uno sguardo ed un sorriso alla
bambina appena nominata che
ricambiò il sorriso « Amo gli animali, qualunque
esso sia. Ma dato che viviamo
in un condominio, non ci conviene prenderne, perché poi non
avremmo nessuno che
lo potrebbe portare fuori per i suoi bisogni. »
Un’altra
con
la vita perfetta, la famiglia perfetta, le amicizie perfette. Tutto era
perfetto, anche con lei. La fortuna le aveva sorriso, a differenza di
Chester
il quale si beccò invece uno sputo nell’occhio da
parte sua.
«
Adesso … »
il cuore dei bambini fece un tuffo nella paura e
nell’agitazione « Michael, il
nostro piccolo genio. » fece l’occhiolino al
bambino che sorrise timido e
compiaciuto.
« Mi
chiamo
Michael Kenji Shinoda, ho sei anni e sono nato l’undici
Febbraio del 1977 a Los
Angeles.
Vivo
con mia madre Susan di
trent’anni, mio padre Kenji di trentaquattro e mio fratellino
più piccolo
Jason, che va ancora all’asilo.
Mio padre
è
originario del Giappone, i suoi genitori furono tra i primi emigrati
giapponesi
che sbarcarono in America, al ritorno di mio nonno dalla guerra. Ma per
tradizione ritornarono alla loro città natale per la nascita
di mio padre, che
però non poté fare la stessa cosa con me.
Ed è
per
questo ha voluto affidarmi il suo nome giapponese, per ricordarmi
sempre da
dove provengo. »
Sembra
perfetta pure la sua … pensò
sofferente Chester.
« Ho
un cane di
nome Lucky che ha tre anni, proveniente dalla cucciolata della nostra
vicina di
casa, la signora Goldsmith.
Il mio
passatempo preferito è disegnare, mi piace molto farlo. Ogni
volta che posso
prendo matita e pennarelli e disegno qualunque cosa mi venga in mente.
La mia
mamma mi dice sempre che da grande diventerò un bravo
artista, mio padre dice
che sarebbe meglio che io studi e che diventi piuttosto un bravo
medico. »
Non
sembra, lo è …
« Mi
piace studiare, non
capisco perché la maggior parte dei miei amici lo odino.
Penso che conoscere le
cose renda le persone migliori, odio l’ignoranza,
è una caratteristica stupida
ed inutile. A volte vado nella libreria di mio padre, nel suo ufficio,
e prendo
un libro di quando andava ancora a scuola. È così
che ho imparato le tabelline!
» finì posando
ordinatamente il suo quaderno sul banco.
«
Bravo, sono
felice che ti piaccia studiare! Almeno con te non farò
fatica a insegnare, con
alcuni dovrò sudare sangue … » si
grattò la fronte corrugata in un’espressione
disperata nel ricordarsi quanti furono gli allievi che lo tirarono
scemo nel
corso degli anni della sua corta carriera.
Chester
rilesse quel minimo del suo compito in quel poco tempo che gli rimase e
la
voglia di sotterrarsi aumentò.
Cosa
cazzo mi è saltato in mente ieri sera, quando ho scritto sta
roba??
pensò il bambino nel pieno
del suo panico.
«
Bene, adesso
Chester. » il maestro guardò il bambino, che
però lo ricambiò con uno sguardo
spaesato e terrorizzato.
In un certo
senso gli piaceva che la gente sapesse su di lui, pensava che il
degrado fosse
figo. Tutti i bambini ad una certa età pensano che colui che
possiede un passato
oscuro, un comportamento scorbutico, stronzo, che ti mette i piedi
sulla testa
sia figo. Ma lo è solo quando si è quel genere di
bambino, non quando lo sono
gli altri.
In poche
parole lui da un lato voleva raccontare di sé, in quel modo
evasivo, dicendo e
non dicendo. Ma dall’altro lato si vergognava.
«
M-mi chiamo
Chester Charles Bennington, ho sette anni e sono nato il venti Marzo
del 1976,
a Phoenix, Arizona. » in quel momento Michael si
girò di scatto a guardarlo
confuso, non capendo se avesse udito lui male o pure fosse realmente
più grande
di lui di un anno.
« Mi
sono
trasferito a Los Angeles nell’estate del ’82 per il
lavoro di poliziotto di mio
padre. Durante il mio tempo libero mi piace girare per il mio
quartiere,
cantando senza preoccuparmi di essere sentito, non mi vergogno della
mia voce.
Mi piace tanto ascoltare la musica alla radio, se potessi
l’ascolterei tutto il
giorno. Il mio gruppo preferito sono i Depeche Mode, adoro People Are
People.
»
«
Pure a me
piacciono … » mormorò a bassa voce il
maestro con un mezzo sorriso sulle
labbra.
Chester in
quel momento esitò a continuare, non sapeva se voleva
veramente che i suoi compagni
venissero a conoscenza della storia del suo primo ed ultimo migliore
amico.
Aveva paura che lo prendessero in giro, che lo avrebbero lasciato da
solo come
tutti gli altri bambini dell’asilo fecero prima di loro.
Lui sapeva che
avrebbero potuto fare questo e oltre, rovinargli tutti i suoi giorni o
per lo
meno provarci il più possibile, perché non
sarebbero stati felici finché lui
non sarebbe stato triste.
Sapeva che
avrebbero avuto il coraggio di farlo, i bambini erano sempre stati
stronzi con
lui, erano esperienze vissute sulla propria innocente pelle pallida di
bambino.
E poi, forse,
avrebbe potuto perdere Michael. Non che gli interessasse più
di tanto, lo aveva
appena conosciuto, e nonostante gli sembrasse simpatico, gentile, buono
e
sociale era sempre un bambino, come quelli che avevano cercato di
rovinargli
l’esistenza.
Come
l’avevano
fatto loro lo avrebbe fatto lui, non’era difficile dopotutto.
Ognuno era un
facile bersaglio, e chi era destinato ad essere preso di mira per
sempre lo si
capiva/sceglieva fin dall’inizio. E da lì in poi
non ci sarebbe mai stato
motivo per cambiare le cose.
«
Quando
abitavo a Phoenix avevo un cane, un pastore belga, si chiamava Beer
perché il
suo pelo aveva il colore di una birra bionda. Sembrava un cane stupido,
ma non
lo era, faceva il finto tonto solo per farmi ridere. Ma un giorno
scappò di
casa, ed io stetti davvero male per tanto tempo. »
Si
comincia pensò
Chester. O li perdo, o i bambini di
Los Angeles sono
diversi da quelli di Phoenix.
« Un giorno una signora
bussò alla porta
di casa accompagnata da una giovane ragazza. » vide di nuovo
quella signora dai
capelli bianchi tinti di biondo davanti ai suoi occhi, in mezzo a lui e
a quelle
parole scritte sul suo quaderno.
«
Quando aprii
notai che legato al guinzaglio aveva Beer, che appena mi vide mi
saltò addosso
leccandomi e facendomi le feste. » vide il suo cane, che
guaì di felicità
appena lo scorse, che fece un salto addosso quel corpicino di bambino,
invadendolo con leccate affettuose e felici.
« Ma
subito
dopo notai anche che la signora aveva degli occhiali da sole sul naso,
e non
perché fosse una giornata soleggiata, ma bensì
perché era cieca. » era piccolo,
sì, ma sapeva cosa significassero quegli occhiali
così scuri, quei movimenti
così incerti della signora, che gli ricordarono un bambino
che gioca a mosca
ceca, con gli occhi bendati e lo sguardo oscurato.
Solo quando la
vide capì cosa provassero i cechi, ogni giorno della loro
vita. Un’agonia di
paura ed insicurezza anche nell’atto di camminare, di
allungare una mano, di
afferrare qualcosa.
«
Decisi di
lasciarglielo nonostante fossi così affezionato, lui fu il
mio unico e vero
migliore amico.
»
finì con un
fastidioso nodo alla gola ed una voglia matta di piangere
disperatamente come
ogni volta che pensava al suo migliore amico. Ma quella volta doveva
sembrare
indifferente ed insofferente, forte e duro, insensibile.
Nell’atto di posare il
suo quaderno sul banco, si udì solamente il tintinnio due
campanelli del suo
braccialetto.
Quella fu
l’ultima
volta che si mostrò gentile e cordiale, che fece un atto da
cuore puro e
benevole, ritrovandone in cambio la solitudine e l’abbandono.
Quello fu uno dei
motivi principali che lo portarono a non fare più azioni del
genere, ovvero a
pensare prima per sé e poi per gli altri.
Chissà
cosa starà facendo adesso. Chissà se sta bene.
Chissà se si ricorda di me, di
ciò che abbiamo passato assieme in quei pochi anni in cui
è stato con me …
Attorno a lui
si era formato il silenzio, proprio come il giorno prima quando aveva
detto che
la scuola sarebbe stata noiosissima e basta. Quel bambino era capace di
azzittire tutti con niente.
Lo fissarono
mettendo in ordine nelle loro testoline le informazioni essenziali che
aveva
detto: nato nel ’76 a Phoenix, gli piaceva cantare, ebbe un
solo ed unico
amico, un cane.
Non che fosse
scandaloso tutto quello, c’erano situazioni peggiori alla sua
molto
probabilmente e sicuramente non erano poche, lui era un caso come tutti
gli
altri. Ma una condizione del genere non è niente quando te
la raccontano, è
invece totalmente diversa quando conosci la persona che la vive.
« Oh
… Hai un
passato molto commovente e triste, Chester. » ammise il
maestro « Ma sappi che
il tuo amico non vorrebbe che tu ti abbattessi ma che continuassi ad
andare
avanti, mostrandoti forte. » gli fece un occhiolino
d’incoraggiamento, che il
bambino ricambiò con una smorfia che sarebbe dovuta essere
un sorriso.
«
Bene, adesso
gli altri. » batté le mani il docente prendendo
poi l’elenco della classe e
chiamando i bambini, ascoltando le loro presentazioni mentre coloro che
non le
avevano fatte dovettero inventarle al momento a voce.
Mentre il
bambino che faceva di cognome Amstrong, il primo dell’elenco,
leggeva la
propria presentazione scritta il giorno prima, Chester
guardò di sottecchi il
suo compagno di banco, Michael, cercando di capire se il fatto che
avesse un
anno in più di lui lo mettesse a disagio.
Ma al bambino
dagli occhi a mandorla poco interessava in quel momento
l’età del compagno, era
solo un numero dopotutto, niente di ché. La sua tarda
entrata nella scuola
primaria poteva essere dovuta a tanti fattori che lui in quel momento
non
riusciva a pensare.
La perdita del
cane, il suo migliore amico, gli dispiacque solamente come a gli altri.
Non
pensò nemmeno per un secondo di poterlo discriminare per una
cosa del genere,
non avrebbe avuto senso.
Chester
ascoltò in silenzio le presentazioni di tutti gli altri
compagni di classe, e
più le sentiva più aveva voglia di chiedersi il
perché.
Perché
le loro
vite fossero così perfette rispetto alla sua.
Perché
era
l’unico che soffrisse nonostante non avesse fatto niente di
male per meritare
tutto quello.
Perché
a lui
era toccato quell’orrendo passato e presente che non
desiderava affatto vivere.
Lui voleva
solamente vivere la sua vita come un bambino normale. Avere degli
amici, tra
cui uno più speciale che sarebbe stato il suo migliore
amico. Una famiglia che
lo amasse, e che si amassero tra loro i componenti. Più
soldi, per permettersi
di comprare una merenda, delle maglie non di seconda mano o magari
usate e
regalate dai propri cugini e parenti, una cartella che sembrasse adatta
a un bambino,
una casa più grande e pulita in un quartiere non malfamato
di Los Angeles.
In quel
momento, in cui stava ascoltando l’ennesima presentazione
della vita perfetta
di un suo compagno, desiderava essere come loro.
Forse
un giorno
pensò Chester guardandosi le mani posate sul banco, dita
magre con unghie
mangiucchiate e non bel limate dalla mamma come quelle dei suoi
compagni. Quando
sarò io al capo di una famiglia tutta
mia, farò di tutto pur di vedere mio figlio sorridere.
E così
sarebbe
stato felice come loro. Forse, un giorno.
Mike e Lucky
|
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Capitolo 4 *** So I'm breaking the habit ***
Note:
Salve-salvino lettore-lettorino, che bella serata-seratina non
è vero? Perfetta per inseguirmi con la forca e le torce
infuocate D: Lo so che non aggiorno da molto, ma mi sono presa troppo
bene con la OS rossa che ho cominciato a scrivere... Quindi, mi
farò perdonare con quella :3
Allur! Ultimamente sto scrivendo capitoli corti, lo so :c E
va beh dai, spero almeno che vi piacciano, anche se sembplici e un po'
banali...
Enjoy :3
Capitolo 4 – So I’m breaking the habit
Martedì
venti
Settembre, quel giorno arrivò come un fulmine senza che
realmente qualche
bambino se ne accorgesse. Il tempo per loro passava veramente
velocemente,
perché la scuola era ancora un gioco, dove imparavano
ridendo, passavano
intervalli a giocare, ed infine facendo sempre di più
amicizia l’uno con
l’altro.
I bambini
della classe C cominciarono a conoscersi sempre di più
l’un l’altro, imparando
piano piano tutti i nomi e tutti i cognomi, facendo nascere
così delle nuove
amicizie.
L’amicizia
tra
Chester e Michael divenne solenne, i due erano i componenti di una
formula chimica
per la felicità del primo, che senza il secondo era niente.
Ogni mattina
andavano a scuola assieme, non c’era giorno in cui non
passavano tra le vie
l’uno in compagnia dell’altro, ovviamente scortati
dalla madre del bambino
dalle origini giapponesi e dal fratello di quello proveniente da
Phoenix.
Ma se capitava
il giorno in cui uno dei due si assentava per qualche motivo o
perché entrava
all’ora successiva, l’altro faceva la stessa cosa:
o se ne ritornava in casa
fingendo un malore (cosa che faceva solo Michael, dato che
l’altro bastava che
puntasse i piedi e nessuno avrebbe avuto la forza e la voglia di fargli
cambiare idea), o entrava in seconda ora assieme all’altro.
In
più, un
giorno durante una lezione di matematica, presi dalla noia che il loro
maestro
sapeva creare, cominciarono a parlare di nomi e soprannomi. Non seppero
nemmeno
loro perché, ma da quel giorno cominciarono a chiamarsi Chaz
e Spike. Il primo
perché era semplicemente l’abbreviazione del nome
originale; il secondo invece
per richiamare alla memoria un cane, dato che il piccolo Michael andava
matto
per quella bestiola, il che lo portava a volte a fare lo stupido e a
fingere di
essere proprio un cane, tenendo la lingua di fuori o a volte guaendo.
Passavano gli
intervalli assieme a giocare a forza quattro, a volte a monopoli, a
volte al
gioco dell’oca. Se uno andavano in bagno, ci andava anche
l’altro; se non ce la
facevano più a stare attenti giocavano assieme con gli
evidenziatori,
improvvisandoli come personaggi delle loro comiche; se Michael prendeva
gli
appunti, Chester faceva lo stesso – o per lo meno ci provava
–.
C’erano
giorni
in cui formavano un gruppo assieme ad Anna e Ashley, trascorrendo gli
intervalli assieme, giocando, parlando e conoscendosi sempre di
più, fino a
potersi definire ‘amici’.
Fu un brivido
di gioia quando Chester realizzò che ciò che
intercorreva tra lui e Michael non
era semplice simpatia o banale armonia. Era qualcosa di più,
perché provava
quella sensazione di fiducia che mai aveva provato con altri suoi
coetanei.
Sapeva che
poteva contare su di lui, che si poteva fidare e credere. Aveva notato
che era
diverso dagli altri bambini, subdoli e stronzi con lui, ma
bensì fiducioso e
buono. Era uno tra i pochi che lo facevano sentire bene, apprezzato,
non
rifiutato ed evitato com’era invece sempre stato trattato.
Era
così
strano per il bambino dai capelli boccolosi avere non un semplice
compagno di
giochi, ma un vero e proprio amico. Forse era così
perché non ne aveva uno da
tanto tempo che non si ricordava nemmeno più come ci si
sentisse quando si ha
qualcuno su cui contare.
L’ultimo
era
stato Beer, quasi tre anni prima. E adesso aveva Michael, assieme ad
Ashley e
ad Anna, con le quali formavano un gruppo in sintonia ogni giorno.
Passavano le
giornate assieme durante l’intervallo, nell’ora di
pranzo si sedevano affianco;
le due bambine avevano fatto cambio coi posti con gli altri compagni
che
sedevano dietro a Michael e a Chester, ponendosi dietro di loro per
poter
parlare tramite bigliettini anche durante la lezione.
A volte,
quando Brian aveva voglia di accompagnare il fratello, si ritrovavano
tutti e
quattro assieme al Lincoln Park, vicino al centro di Los Angeles. Al
fine
settimana, quando i maestri davano quel poco di compiti che dovevano
svolgere,
si vedevano a casa di uno dei tre (dato che Chester evitava
continuamente di
portarli a casa sua e mostrargli lo schifo in cui abitava) e studiavano
assieme. Ma alla fine, i loro ‘studi’ finivano col
giocare a nascondino.
Ovviamente era
più legato a Michael che a le altre due bambine, ma definiva
anche loro come
‘amiche’. Chester si sentiva felice come non mai,
finalmente dopo sette anni di
odio e tristezza aveva qualcuno con cui giocare, con cui condividere le
cose e
sorridere.
Per le prime
settimane della loro amicizia, i due bambini passavano le giornate
assieme a
casa del più piccolo, giocando tutto il pomeriggio e a volte
facendo qualche
compito. Chester si beava di quella visione della famiglia perfetta che
era
quella Shinoda, vedendo la madre sempre presente e pronta a soddisfare
i figli
e l’ospite per ogni bisogno, il padre sempre così
buono con tutti, soprattutto
con la madre, con la quale non litigava mai o per lo meno non lo faceva
di
fronte al bambino invitato.
Ma quei bei
pomeriggi finirono quando Chester venne costretto dal padre a fare
parte dei
boyscout della scuola e la madre di Michael pagò un
istruttore di pianoforte
affinché insegnasse al primogenito come suonare per bene lo
strumento a tasti.
I piccoli non
ci misero poco a rattristirsi l’uno per la mancanza
dell’altro. Così, il
bambino destinato a passare le giornate ad imparare come si facesse un
nodo
alla corda, a volte non si presentava ai raduni, andandosene invece a
casa di
Michael, che faceva solamente un’ora di lezione di piano al
giorno.
Non se ne
preoccupò
affatto del problema che sarebbe sorto se i suoi genitori sarebbero
venuti a
sapere delle su bigiate. Tanto il maestro Norton, capo dei boyscout,
non aveva
il compito di avvertire l’assenza del bambino, in quanto
quest’ultimo in teoria
veniva accompagnato alle
lezioni dai propri genitori.
Ovviamente
nessuno dei due si scomodava tanto per portarlo e assicurarsi che
nessuno
l’avesse rapito o messo sotto con la macchina nel percorso
tra casa e scuola.
La settimana
prima del venti Settembre, ogni alunno della sezione C aveva portato a
scuola
dieci dollari da consegnare al maestro Norton, il quale doveva
consegnare poi i
soldi al museo che ospitava la mostra su Picasso, in modo che
prenotasse per
loro i biglietti d’entrata con guida.
I diciotto
bambini non stavano più nella pelle di fare la loro prima
uscita didattica,
anche se andare al museo non era proprio quello che speravano. Ma
dopotutto si
accontentarono anche di attraversare mezza città
accompagnati dai loro
insegnanti.
Michael invece
era entusiasta proprio per l’esposizione artistica, cosa che
lui adorava.
Questa sua
grande passione per l’arte nacque quando ancora era un
pargolo che camminava a
malapena su due gambe, se non direttamente su quattro, e i dentini che
stavano
crescendo dalle sue gengive rosee mordicchiavano il ciuccio.
Fu solo grazie
a suo nonno, il quale a sua volta dipingeva, che
s’innamorò delle tempere e di
quei mille colori con i quali si divertiva a imbrattare i propri
vestiti e le
varie tele ancora immacolate che il nonno lasciava in giro per la
stanza in cui
si rifugiava e dipingeva.
Il vecchio lo
lasciava naturalmente fare, sorridendo intenerito di fronte alla
fantasia
artistica del piccolo che colorava con le dita strisce
d’arcobaleno verticali e
orizzontali, cerchi imperfetti e figure insensate.
Al piccolo
Michael piaceva vedere le creazioni sottoforma di figurazione,
perché non c’era
modo migliore di esprimere una propria fantasia con una
rappresentazione
grafica a vari colori e diversi stili. Le parole erano insufficienti
per lui, i
gesti non valevano niente. Solo un disegno, anche se stilizzato,
avrebbe reso
meglio l’idea di ciò che pensava e sognava.
Ma alla fine
diventava un tutt’uno con la tela, imbrattando di tempere
quest’ultima ed i suoi
vestiti, che appena sua madre vedeva le provocavano un urlo di orrore e
di
disperazione per gli ennesimi soldi buttati.
La giornata
nuvolosa fu condita da qualche schizzo di pioggia che obbligava ai
maestri e agli
alunni di indossare i propri kway o ad aprire i propri ombrelli. Quando
iniziava a cadere un po’ d’acqua i bambini si
tiravano su il cappuccio del loro
impermeabile, prendendo le sembianze dei fantasmi colorati di Pac Man.
Erano
già le
dieci e mezza, quando i diciotto bambini, tutti in fila mano nella mano
per
sicurezza – ovviamente Chester stringeva quella di Michael
– e a gli estremi il
maestro Norton ed il maestro Way, arrivarono di fronte al grande museo
dell’arte che aspettava di essere esplorato e contemplato da
cima a fondo.
Entrarono e
lasciarono i propri soprabiti e zaini in uno spazio apposito agli
studenti e ai
loro docenti.
«
Benvenuti. »
apparve d’improvviso da dietro una porta con la scritta
segnaletica ‘PRIVATO’
una donna sui trent’anni che sorrideva mostrando le sue mille
rughe, con
capelli biondi raccolti in una semplice coda alta.
Sul suo
golfino di lana nero c’era attaccata una tessera con una sua
foto ed il suo
nome stampato in nero su bianco, con sotto annotato
‘GUIDA’.
« Io
sono
Stefani, la vostra guida alla mostra di Picasso. » disse
tendendo la mano al
maestro Way per stringere la sua in attesa di presentazioni.
« Io
sono il
maestro Thomas Way. » disse pacato con un lieve sorriso sulle
labbra mentre
stringeva saldamente la mano della signora che sembrava più
vecchia di quanti
anni avesse.
« Io
invece
sono David Norton. » disse il giovane maestro, troppo
impegnato ad aiutare un
bambino a slacciarsi il giubbotto con la cerniera bloccata per poter
stringere
la mano alla donna.
Dopo che tutti
i bambini posarono le loro cose ed il maestro Norton riuscì
a liberare il
piccolo dalla giacca che era diventata la sua gabbia, finalmente
potettero
cominciare il tour delle opere d’arte del pittore di fama
internazionale.
Per tutto il
tempo, la guida parlò della vita di Picasso, delle sue prime
esperienze con
l’arte già in giovane età ed infine il
suo esordio. Del suo modo particolare di
dipingere, di ciò che raffigurava ed il perché
fosse così.
Alla maggior
parte dei bambini poco interessava tutto ciò, loro erano
lì solo per uscire da
scuola e saltare qualche materia, piacevole o noiosa che fosse
l’importante era
non farla. Se in quel momento si guardava dentro le loro testoline, si
trovava
tutt’altro che Picasso!
Ogni volta che
passavano da quadro a quadro, i bambini facevano a gara per chi
arrivasse per
primo e chi riuscisse a guadagnarsi una delle quattro sedie in mezzo
alla sala,
stanchi per la camminata dalla scuola all’edificio
d’esposizione.
Si stavano
annoiando a morte, ed il maestro Norton se ne accorse quando erano
riuniti
tutti di fronte ad un’opera che rappresentava ‘il
gioco’. Il bambino dai
capelli rossi si sporse di troppo vicino al quadro, provocando
così uno squillo
assordante che lo avvertì della presenza di rilevatori della
distanza di
sicurezza, facendo girare tutti gli sguardi delle persone presenti
nell’enorme
stanza che subito lo guardarono male.
Il piccolo,
divertito
per l’effetto provocato da quel fastidioso allarme,
cominciò a muovere la mano
tra i due rilevatori, provocando un continuo fischio che fece
innervosire
persino i suoi compagni di classe, che però non riuscirono a
fermarlo nemmeno
con un cattivo sguardo. Così il giovane maestro dovette
ammonirlo e tenerselo
stretto prima che il bambino ritornasse a creare qualche altro tipo di
noia.
Anche Chester
si stava annoiando a morte. Lui voleva tornare a casa, mangiare, fare
finta di
andare dai boyscout e poi suonare il campanello della famiglia Shinoda,
per
passare l’ennesimo pomeriggio straordinario da quando
l’aveva conosciuto a
quella parte.
Voleva tanto
mettere in atto qualsiasi scenata che gli avrebbe garantito il
deviamento di
quella lagna pazzesca. Ma nonostante avesse voglia di spararsi per non
soffrire
così in agonia, preferì stare affianco al suo
amico, il quale sembrava molto
preso e attento a tutto ciò che usciva dalla bocca della
guida, qualsiasi
informazione su Picasso, sul il suo quadro e sulla sua vita.
Gli dispiaceva
da morire, e sapeva che se lui fosse uscito da quella stanza
perché ‘stava
male’ Michael lo avrebbe seguito a ruota anche se amaramente
perché a lui tutta
quella noia interessava. Sarebbe benissimo potuto rimanere al fianco di
Anna e
Ashley proprio per non annoiarsi se Chester fosse uscito o fosse andato
altrove
pur di non morire di noia, ma restava il fatto che l’altro
fosse più importante
delle altre due.
Non
c’era
molto da scegliere: o lui o niente.
Così
il
bambino dai capelli boccolosi rimase a soffrire in silenzio accanto al
suo
amico per cortesia e per farlo felice, cosa che però lo
appagò dato che
nonostante soffrisse si sentì bene. Dentro di sé
voleva sorridere compiaciuto,
perché quello che stava facendo rendeva felice Michael e a
lui piaceva sapere
che quest’ultimo lo fosse.
Non
sono normale, per niente!
pensò Chester mentre passavano da un quadro
all’altro.
In effetti
aveva ragione, stava facendo una cosa che non gli era abituale,
qualcosa che
prima, a Phoenix, non gli sarebbe mai passato in mente di fare. Voler vedere felice gli
altri, coloro che non
poteva nemmeno considerare amici ma bensì nemici? Nemmeno
per sogno!
Non si
meritavano nemmeno un quarto della sua bontà che adesso lui
stava totalmente
donando a Michael, nonostante stesse rischiando. Non lo conosceva al
cento per
cento, poteva benissimo essere pugnalato alle spalle quando meno se lo
aspettava. Dopotutto era un bambino, come gli altri.
Era soltanto
un bambino, l’unico, che lo faceva star bene, che era
riuscito a tirar fuori la
parte buona di lui, sotterrata col tempo dalla cattiveria e
dall’avarizia imposta
dai suoi coetanei.
Rischiare per
qualcuno che era come loro, ma infondo totalmente diverso, non fuori ma
dentro.
Ecco cosa stava facendo Chester, e se ne accorse solo in quel momento.
Ma ne fu
felice.
Ritornarono
nella stanza con gli armadietti verso le dodici, per dare ai bambini
una decina
di minuti di pausa per poter fare la merenda delle dieci che avevano
saltato.
Ovviamente Chester non ce l’aveva sempre per il fatto del
dover risparmiare,
così Michael, come aveva sempre fatto dal primo giorno,
gliene diede un po’
dividendo la merenda di pan di spagna e pseudo-marmellata di ciliegie.
Il piccolo
Chester inizialmente si sentiva imbarazzato a dover sempre dipendere
dal suo
compagno, perché non era mai riuscito a sdebitarsi con lui e
la sua carità che
gli faceva dandogli qualcosa da mangiare.
Ma
l’altro
sapeva che stava già contraccambiando standogli vicino ogni
giorno, sopportando
ogni sua mania e voglia, standogli sempre affianco anche a fare cose
che
ovviamente a Chester non interessava ma che faceva lo stesso per farlo
felice –
come quell’uscita didattica –.
Nonostante
Michael
fosse un bambino tranquillo, buono e socievole, a differenza di
Chester, non
aveva ancora avuto qualcuno da definire ‘migliore
amico’. Chester l’ebbe, anche
se era un cane; ma Michael non ebbe nemmeno un animale da definire
compagno di
giochi vita e segreti.
Aveva un cane
pure lui, Lucky, ma non reputava normale chiamare migliore amico un
quadrupede.
Di amici ne
aveva avuti all’asilo, ma alla fine erano solamente amicizie
destinate a
concludersi all’inizio delle elementari. Nessuno dei suoi
vecchi compagni era
abbastanza speciale per essere messo al disopra degli altri.
Finito di
mangiare, andarono tutti quanti in una stanza laboratorio interattivo
per i
bambini che venivano lì con la scuola, dove
c’erano alcuni tavoli con sedie,
dove i bambini ci si precipitarono a sedersi stanchi dopo tutto quel
tempo
passato a stare in piedi.
Ovviamente
Chester, Michael, Ashley e Anna si sedettero tutti e quattro vicini:
Chester
con affianco Michael; quest’ultimo con davanti Anna che
sedeva affianco ad
Ashley.
« Vi
è piaciuta
la mostra? » chiese Stefani con il suo solito finto
entusiasmo.
«
Sììì … » i
bambini risposero in coro, mostrando veramente il loro bassissimo
entusiasmo,
ovviamente tutti tranne Michael.
« E
ditemi,
qual è il disegno che vi è piaciuto di
più? » chiese mentre tirava fuori
contenitori di plastica di caramelle che però erano riempiti
di pennarelli e
matite colorate.
I bambini
cominciarono ad elencare alla rinfusa descrizioni di ciò che
gli era piaciuto
alzando troppo la voce con i maestri che gli facevano segno di
calmarsi, mentre
Stefany prese una risma di carta già aperta e
distribuì un foglio a ciascuno.
«
Adesso, se
riuscite a ricordarvi il vostro disegno preferito, disegnatelo e
coloratelo. Se
non ve lo ricordate ditemelo, che vi faccio vedere
l’immagine, va bene? »
chiese posando le scatolette semi-trasparenti con dentro i pennarelli
ogni sei
bambini, mentre quest’ultimi intonarono un altro
‘sììì’ in simbiosi.
Chester, che
non era stato per niente attento a ciò che gli venne
mostrato durante il giro, dovette
copiare passo per passo riga per riga quello che stava disegnando
Michael sul
suo foglio, ovvero l’acrobata, un uomo tutto bianco il cui
corpo si perdeva in
varie forme impossibili da compiere realmente.
A disegno
finito, quello del mezzo giapponese sembrò una copia
perfetta ma un po’
imprecisa ed infantile dell’opera originale. Al bambino
dell’Arizona venne un
condannato ad una strana pena dell’inferno che consisteva nel
deformargli il
corpo.
Infatti, a
Chester scappò un mugolio disperato quando vide la
perfezione dell’amico.
Era
l’una
quando uscirono dall’edificio d’esposizione, ed
arrivarono a scuola quando già
erano le due e le altre classi erano già in cortile a finire
la ricreazione di
un’ora.
I diciotto
bambini pranzarono nella sala mensa da soli, senza
nessun’altra classe attorno
e si meravigliarono del silenzio che si poteva creare in
quell’immensa stanza,
dove si poteva persino sentire il rumore che facevano le bidelle nella
cucina e
le loro voci.
Mandarono
giù
quella brodaglia verdastra del giorno che sarebbe dovuta essere
minestra ma che
aveva la consistenza del catrame. Il piccolo pane a disposizione di
ciascun
bambino era duro e pastoso, difficile da mandare giù. Infine
il kiwi, che era
il loro dessert, o era acerbo o addirittura bacato con chiazze nere.
Uscirono dalla
sala mensa per precipitarsi nel grande cortile che per quel giorno
sarebbe
stato solamente loro, un sogno. Giocarono tutti e diciotto assieme a
‘ce
l’hai’, rincorrendosi per poco più di
un’ora da una parte all’altra
dell’immenso cortile senza un filo d’erba e
vegetazione, tranne per i quattro
alberi posti ai lati.
Chester non si
ricordò nemmeno quando fu l’ultima volta che
giocò spensierato assieme a così
tanti bambini, ridendo di gusto e senza dover passare il resto della
giornata
di cattivo umore ed isolato dalla felicità. Era una cosa al
di fuori di ciò che
era abituato a fare.
Ritornarono in
classe verso le tre e mezza passate, ricevendo una decina di minuti
d’intervallo in più tanto per abbellire quella
magnifica giornata, che diventò
ancora più bella quando invece di riprendere a fare lezione
cominciarono a fare
un cartellone con sopra i loro disegni fatti al museo.
Quel
pomeriggio, come tutti gli altri dal lunedì al
venerdì, Chester doveva recarsi
al raduno dei boyscout della scuola poco dopo quando sarebbe dovuto
arrivare a
casa. Ma quel giorno non ci pensava nemmeno a rovinarlo con una
noiosissima
escursione al parco vicino scuola o a legarsi l’un
l’altro come dei salami. E
Michael doveva fare la sua ora giornaliera di pianoforte, cosa che a
lui non
dispiaceva affatto.
Appena mise
piede in casa, il bambino affiancato dal fratello che andava nella
stessa
scuola, posò la grande e macabra cartella di scuola facendo
poi retrofront per
uscire di nuovo.
«
Bra, io vado
al corso dei boyscout … » mormorò rauco
il piccolo riaprendo la porta appena
chiusa e fingendo neutralità nel nascondere il ghigno sulle
sue sottili labbra.
«
Vuoi che ti
accompagni? » chiese premuroso il fratello, una tra le
pochissime volte in cui
osava essere affettuoso con il suo fratellino, il quale non accettava
alcun tipo
di tenerezza, non da lui e dai suoi familiari, gli unici che invece
dovevano
dargliene.
Il piccolo
s’irrigidì come una scopa in un decimo di secondo,
sentendosi morire per un
attimo al solo pensiero di doversi subire realmente quella lagna di
raduno che
reputava inutile.
«
N-No,
grazie. » disse pacato, uscendo di fretta di casa e
chiudendosi dietro le
spalle la porta che sbatté delicatamente e con un semplice
rumore della
serratura.
Camminò
nel
silenzio del suo quartiere malfamato, le manine nelle tasche della sua
piccola
felpa blu, lo sguardo basso che seguiva il cemento grigio del
marciapiede
sporco di aloni e di cicche.
Non aveva
paura che qualcuno lo rapisse o gli facesse qualcosa, perché
doveva capitare
proprio a lui? C’erano così tante persone nel
mondo, perché la sfortuna doveva
puntare il dito contro di lui per l’ennesima volta?
Era un
pensiero fisso nella sua testolina: questa è la mia vita, a
me non capitano
queste cose, succedono a gli altri ma non a me.
Come se fosse
inconcepibile l’avvenimento di una disgrazia nei suoi
confronti, un rapimento,
uno stupro, un incidente. A lui queste cose non sarebbero successe,
perché
secondo lui la sua vita era immune da ciò.
Suo padre la
stessa cosa: era un poliziotto, sventure del genere non potevano
capitare al
figlio di un poliziotto. E così lo lasciava andare a zonzo
tra le vie
pericolose ed inquietanti del suo quartiere con nonchalance, non
preoccupandosi
dei vari pericoli che nemmeno celava.
Schiacciò
con
la scarpa ereditata dal fratello una siringa usata ed abbandonata da un
drogato.
In
questo momento sarà già seduto sullo sgabello
davanti al pianoforte pensò il
bambino guardandosi
intorno, sperando che non ci fosse alcun malintenzionato nei paraggi
che lo
seguisse.
Sospirò
insofferente e con un leggero sollievo nel notare che era da solo in
quella
grande e marcia via. Se invece si fosse accorto della presenza di
qualsiasi
individuo ai suoi occhi inaffidabile, si sarebbe sicuramente messo a
camminare
più velocemente, fino a raggiungere la velocità
di una corsa a perdifiato.
Avrà
a malapena iniziato, adesso. Ho ancora un’ora prima che lui
mi raggiunga.
Imboccò
la via
del suo amico, intravedendo la steccata che separava il marciapiede
giornalmente pulito al suo splendido giardino con l’erba
verde e fiorente.
Sapeva che
sarebbe stato scortese andare a casa sua nel mezzo della sua lezione,
poi
Michael si sarebbe distratto troppo e non sarebbe stato più
abbastanza concentrato
da continuare. Così qualche giorno prima, il bambino dagli
occhi a mandorla gli
mostrò una sorpresa che gli aveva regalato il padre quando
aveva compiuto sei
anni: una casa sull’albero.
Non che la
madre fosse molto d’accordo di lasciare salire un bambino a
sei quasi sette
metri d’altezza, ma sapevano che sarebbe stato felicissimo
nel possederne una.
E poi non ci saliva molto spesso, per lo meno prima dagli ultimi
giorni. Ci
andava solo quando c’era qualche suo amico, ed in quel
periodo, data la
presenza di Chester, ci saliva frequentemente.
Il bambino
ridusse immediatamente quei cinquanta metri che lo separavano dalla
casa
Shinoda con una piccola corsa, entrando dal cancello in legno bianco e
fiondandosi subito nel giardino dietro casa, dove vivevano tre querce
alte e
robuste. Salì le scale posate sul tronco della quercia
più a destra,
ritrovandosi all’interno della casetta di legno ben salda.
Adorava quel
piccolo rifugio, perché era stato allestito come una stanza
di un bambino, come
se Michael vivesse lì e non in casa.
Aveva alcuni
poster dei svariati gruppi pop sulle pareti legnose e laccate da cera
protettiva da termiti e tarli, comodini e scaffali pieni di alcuni
giochi da
tavolo, un largo e semplice letto posato per terra con lenzuola e
cuscino senza
rete che lo sollevasse dal pavimento. Infine
un’infinità di pupazzi, ovvero il
passatempo preferito di Chester.
Più
che
passatempo, erano ciò che lo tiravano su di morale, oltre
allo stare con
Michael. Erano più grandi di lui, scimmie giganti e morbide
con un sorriso
cucito con una linea curva, leoni che sembrava potessi cavalcarli, cani
sempre
con la lingua di fuori che sembrassero chiedere disperatamente acqua.
Lui li
abbracciava sempre, s’inabissava nella loro
sofficità di cotone, lasciava che
le braccia delle scimmie due volte più grandi di lui gli
circondassero il corpo
nel ricadere in avanti.
Non gli
interessava che fossero inanimati, che non potessero provare qualcosa,
qualche
emozione o sentimento. A lui interessava solo che qualcuno lo
abbracciasse,
anche solo quando le loro braccia a malapena si posavano sulle sue
piccole
spalle gli andava bene.
Si sentiva
così bene quando gli capitava. Si chiedeva poi
perché la gente non si
abbracciasse così spesso, era qualcosa di bello e piacevole,
perché non farlo?
Pensava che se qualcuno lo abbracciasse più spesso, anche
senza un valido
motivo ma solamente inaspettatamente, si sarebbe sicuramente sentito
meglio.
A volte Michael
lo faceva, lo abbracciava ridendo e stringendolo forte a sé,
con il tentativo
di fargli un po’ male per scherzare, ma alla fine faceva
sentire a Chester una
stretta piena d’affetto perché era troppo debole.
Erano quelli i momenti in cui
lui si sentiva veramente bene e ringraziava Dio di essere stato
così fortunato da
conoscerlo e di averci fatto amicizia.
Si tolse le
scarpe e la felpa, rimanendo così con la sua maglietta blu a
maniche corte, per
poi buttarsi sul materasso un po’ rigido ma su cui era
piacevole starci.
Afferrò il grande cuscino, con la fodera bianca che
profumava di ammorbidente
alle rose, e se lo mise sotto la testolina, riposando un po’
nel frattempo in
cui aspettava l’amico.
Ovviamente gli
riuscì difficile fare un pisolino a quell’ora, era
sì un bambino ma il tempo
del riposino pomeridiano era finito da quando era entrato alle
elementari.
Erano cose che si facevano solo quando si andava all’asilo o
quando si sarebbe
diventati vecchi, per lui.
Pensò
a cosa
avrebbero potuto fare quel pomeriggio: se rimanere lì nella
casetta e fare i
pirati immaginando di essere sul loro grande galeone, gli indiani che
lanciavano frecce di legno al piccolo Jason appena metteva piede fuori
nel
giardino, cercare di cavalcare Lucky o lanciargli semplicemente la
palla,
andare a caccia di rane, andare al Lincoln Park a giocare con Anna e
Ashley,
arrampicarsi su gli alberi …
Ad un certo
punto, mentre il piccolo stava pensando a cosa fare, gli
passò solo per
l’anticamera del cervello un pensiero che mai e poi mai
credeva di realizzare,
bloccando il suo flusso d’idee e rimanendo paralizzato a
fissare il soffitto in
legno.
Solo
mezzo mese fa, non potevo nemmeno immaginare di essere qui, ad
aspettare un mio
amico. Un mio amico. Ho un amico, qualcuno con cui giocare, con cui
confidarsi.
Qualcuno
che mi resterà affianco, che mi sosterrà, che non
mi prenderà in giro. E
nonostante qualche volta litigheremo un po’, ritorneremo a
fare pace e a
giocare assieme, come se niente fosse accaduto.
Eppure,
era solo poco tempo fa quando mi chiedevo come ci si sentisse ad avere
un
amico, quando desideravo averne uno. Adesso, sto facendo qualcosa al di
fuori
della mia abitudine e alla mia giornaliera solitudine.
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