I miss you.

di WestboundSign_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hello there. ***
Capitolo 2: *** You're already the voice inside my head. ***
Capitolo 3: *** Don't waste your time on me. ***
Capitolo 4: *** Demon. ***
Capitolo 5: *** Flashback. ***
Capitolo 6: *** Old memoria. ***
Capitolo 7: *** Don't leave me. ***
Capitolo 8: *** Welcome back home. ***
Capitolo 9: *** How I wish, how I wish you were here. ***
Capitolo 10: *** Tutti amano l'odor di benzina. ***
Capitolo 11: *** And it hurts. ***
Capitolo 12: *** So welcome to the machine. ***



Capitolo 1
*** Hello there. ***


E dopo la tempesta la calma, sempre.
È un processo naturale, qualcosa di già scritto.
Un destino segnato.
Ma il destino non esiste.
 
Era giugno. Un normale, insulso giugno.
Normale mica tanto, però. Pioveva.
Piogge torrenziali, tempeste, uragani avevano rotto il cielo, abbandonando la città ad una coltre scura e grigia di nuvole pesanti.
E se il centro della città era stato ricomposto, la periferia era ancora piena di segni lasciati dalle piogge: foglie, rami, disordine totale.
Acqua per terra, enormi, sporche pozze d’acqua.
Alcune case erano state colpite pesantemente dalla forza devastatrice dell’uragano e giacevano tristi, silenziose, scrostate e rovinate, quasi in attesa di qualcosa o qualcuno disposto a salvarle.
I loro proprietari, all’interno, si intravedevano dalle finestre rotte, come anime in pena.
Niente soldi, niente aiuti.
 
Una ragazza era alla finestra da troppo tempo.
Fissava l’orizzonte, anche se forse non si poteva più considerare come tale.
Era tutto appannato da un alone di vapore bianco, che circondava il viso della giovane donna.
Lentamente la notte calò sulla città, lasciandola al buio.
Era in corso un blackout generale che i tecnici della centrale non erano riusciti a interrompere.
I lampioni andavano a scatti, consumando le loro energie di riserva.
Le strade erano deserte, mentre le ore passavano e il freddo si faceva più pungente.
La ragazza era sempre lì, all’interno di quel davanzale, nell’identica posizione di qualche ora prima.
Questa volta, però, aveva un paio di cuffie in testa e stringeva fra le dita deboli un lettore mp3.
Non avrebbe potuto stare così ancora per molto, il suo corpo non avrebbe resistito.
Lentamente, alzò un dito verso il vapore, verso il bianco che le contornava il viso.
Lo appoggiò al vetro freddo facendolo scivolare.
Un rumore stridulo e spiacevole si levò nell’aria, a interrompere il silenzio che durava da troppo tempo.
Girò attorno alle lettere un’ultima volta, per poi appoggiare le cuffie sul legno dov’era seduta e andarsene.
“Where are you? And I’m so sorryI cannot sleep I cannot dream tonight”
 
Dall’altra parte della città la corrente elettrica era tornata e tutto, in un modo o nell’altro, era tornato a funzionare.
Era sabato sera, era giugno, la giovane popolazione si riversava nell’unica discoteca aperta.
“BLIND”
Una ragazza dai capelli neri, sulla ventina, stava indugiando sulla porta.
-Ehy tu!- il buttafuori richiamò la sua attenzione, facendola voltare –Entri o no?-
La ragazza fissò le luci e la gente all’interno.
Guardò per un attimo l’omaccione e poi mise un piede dentro, tuffandosi fra centinaia di persone danzanti più o meno ubriache.

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Capitolo 2
*** You're already the voice inside my head. ***


Il bagno della discoteca era grande e bianco.
Sally si scontrò con una donna di mezz’età truccata pesantemente e ubriaca. Il vestito troppo corto le lasciava nudo un seno, coperto di succhiotti.
La ventenne storse il naso a quella vista. Avrebbe dovuto assolutamente raccontarlo a… no.
Bloccò la mente, bloccò il pensiero, i ricordi che avrebbero voluto sgorgarle dal cuore e portarla via.
Concentrò invece lo sguardo sullo specchio, studiandosi per un momento.
Il corpo, quel corpo a cui non aveva mai dato troppa importanza, era fasciato in un bustier nero, coperto da un mantello.
Le gambe lunghe, coperte dalle calze bucate.
Risalì, fino al viso.
Pallido, bianco, unico sprazzo di pelle visibile, unica luce in mezzo ai suoi abiti in stile Dark.
I capelli lunghi e lisci.
Gli occhi truccati pesantemente.
Le labbra nere.
Il collare borchiato.
Una donna la fissò per un secondo, prima di scomparire in un cesso.
“Che cazzo guardi?!”
Aveva bisogno di fumo, subito.
 
 
Le luci d’emergenza sulle scale del palazzo abbagliarono gli occhi di Juliet per un secondo.
Avvolta dal lungo maglione nero scese velocemente i gradini. Aveva bisogno d’aria.
Aveva  bisogno di respirare, per quanto fosse possibile.
Attorno a lei, il suo profumo era ancora presente.
Sul divano sfondato.
In cucina.
Fra le lenzuola del letto.
Sulle tende ruvide e rovinate.
Nei vestiti.
Quei vestiti che erano stati dimenticati nella fretta della partenza.
Le valigie…
No. Non doveva pensarci.
Arrivata in fondo alla rampa spalancò il portone, lasciandosi pervadere dal fresco della sera.
Da quanto tempo non metteva piede fuori casa? Una settimana? Due?
Non poteva essere passato così tanto tempo.
Dopo qualche secondo d’indecisione puntò verso il piccolo supermercato, qualche via più in la della sua.
Scansò le pozzanghere, le foglie, i detriti che giacevano in strada, così simili al suo cuore.
Guardò per terra, magari era davvero lì da qualche parte.
Sorrise per un attimo di fronte alla sua stupidità. Dentro la cassa toracica il muscolo batteva ancora, anche se lei avrebbe voluto volentieri il contrario.
Arrivò di fronte al supermarket, ovviamente chiuso a quell’ora.
-MA PORCA PUTTANA! CHI CAZZO SONO I PROPRIETARI DI QUESTO POSTO DI MERDA!? VENITE FUORI CAZZO!-
Juliet iniziò a prendere a calci la serranda del negozio e poi i bidoni della spazzatura, bestemmiando fin che un uomo si affacciò alla finestra sopra la sua testa.
-Cos’è tutto ‘sto casino?!-
La ragazza osservò il vecchio in camicia da notte, un po’ stralunata, decidendosi infine a parlare.
-Io… sto male. Ho bisogno d’aiuto, devo entrare e comprare una cosa… la prego. Mi aiuti. Mi faccia entrare, ho i soldi.- Sventolò trenta dollari nell’aria, che neanche si videro in quel buio anomalo.
Ci fu un momento di silenzio, mentre il vecchio scrutava dall’alto la ragazza.
“Mi sono ridotta a chiedere aiuto. Mi sono ridotta a chiedere aiuto. Proprio io che non ne avevo mai avuto bisogno!”
Ma era davvero così? Davvero era sempre stata capace di reggersi sulle proprie gambe e camminare, da sola?
-Mi sembri proprio disperata, bambina.- la fissò in silenzio –aspetta che scendo.-
Dentro sé Juliet esultò. Le comparve perfino un piccolo sorriso sul volto, alla vista dell’uomo che tirava su la grata e accendeva le luci del negozio.
La ragazza seguì il vecchio al suo interno e raggiunse a passo sicuro il reparto dei superalcolici, da cui prese una bottiglia di Vodka, che portò alla cassa.
Il commerciante non fece commenti.
Forse le aveva letto in viso la muta disperazione, quel dolore che l’aveva resa impassibile, un film in bianco e nero, una vecchia carcassa. La debole energia che la stava tenendo in vita.
L’uomo le passò il resto, che lei lasciò cadere sulla cassa.
Uscì quindi dal negozio, perdendosi nella notte. 

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Capitolo 3
*** Don't waste your time on me. ***


Buttati su un divano, tre uomini stavano parlando fra loro.
Due erano bianchi, di quella zona probabilmente, e uno nero di pelle, africano, colombiano… che importava? Appena Sally li vide si avvicinò a passo sicuro.
Quando la ragazza giunse di fronte al terzetto, loro alzarono la testa.
-Hai bisogno di qualcosa bimba?-
Le li fissò gelida, uno alla volta.
-Avete fumo?
I tre si guardarono sogghignando.
-Ovvio che sì,-  a parlare fu un americano –ma tu hai le lattughe?-
Sally si portò una mano al seno e tirò fuori una mazzetta di banconote da venti, che gli sventolò sotto il naso.
-Forza, ora caccia la roba e facciamola finita.-
Il nero aprì una valigetta che fin ora era rimasta nascosta sotto al tavolo.
Iniziò a pesare l’erba, i grammi esatti che quelle banconote valevano.
Mise il tutto in una busta trasparente a cui aggiunse, senza farsi vedere, un piccolo sacchettino.
-Ragazza, quella è roba forte. Da sniffare, capiscimi. Solo per te.- le sussurrò in un orecchio –ma ora va’.-
Sally balbettò un “grazie” e si allontanò dagli spacciatori, dalla folla, dalla discoteca e iniziò a correre, fra i detriti e gli alberi caduti.
Via, via, lontano.
Proprio come quella sera.
No, no, via anche dai pensieri.
 
 
La bottiglia di Vodka era fredda nelle mani di Juliet.
Compatta, ancora chiusa, stretta fra le sue dita.
Dopo aver camminato per circa dieci minuti nelle vie della periferia, aveva raggiunto la sua meta.
Era un parco isolato, lasciato andare, vuoto.
Punto di verde in mezzo al grigio, un luogo triste e solo.
Per questo Juliet l’adorava.
Poteva starsene lì, seduta su una panchina, sdraiata nel prato, sul cemento o sulle foglie per ore.
Nessuno l’avrebbe disturbata.
Oltrepassò il cancello girevole, che cigolò penosamente e si buttò su di una panchina sotto alberi, che schermavano parzialmente la luna, appena spuntata.
Era piena, un grande occhio bianco che la fissava.
-Che cazzo guardi?-
Juliet svitò il tappo della bottiglia e lo buttò da qualche parte.
Fissò per un momento il liquido trasparente e infine appoggiò alle labbra il vetro, lasciando scivolare la Vodka bruciante nella sua gola, nel suo corpo, facendola fluire nel suo sangue, nelle sue arterie, nel suo spirito morto.
Quando si staccò dalla bottiglia il suo contenuto era dimezzato.
Le brillarono gli occhi e sorrise, emettendo uno sbuffo di soddisfazione.
Poi tirò fuori filtri, cartine e tabacco, a cui aggiunse qualche grammo di marjuana , dimenticato nelle sue tasche da chissà quanto tempo.
Rollò velocemente la sigaretta e prese l’accendino, sprigionando una fiammella nella notte, che si estinse subito.
Inspirò a fondo e trattenne il fumo dentro di se, lasciandolo mischiare con gli effluvi dell’alcol, lasciandolo penetrare i suoi polmoni, i suoi tessuti, la sua pelle, fino a far girare la testa.
Si appoggiò allo schienale della panchina di ferro e alzò la testa verso il cielo; la luna era ancora lì.
-Sei sempre lì tu, eh? Perché non te vai un po’ a fanculo, con tutti i santi?
Ma la luna non si mosse, si fece invece più brillante, se possibile.
-Allora?! Levati dai coglioni, obesa.-
L’astro celeste iniziò a muoversi, a prendere le sembianze di una palla, sempre più tonda, sempre più grande… era un enorme occhio di ghiaccio che fissava la ragazza, impassibile.
-Dov’è Sally?-
Juliet rimase pietrificata al suono di quelle parole.
-Allora, dov’è Sally?- ci fu qualche minuto di silenzio –RISPONDI!-
La ragazza prese a tremare e si strinse al maglione –Io… io non…-
-Sei solo una troietta, e lo sai.-
Juliet rimase zitta.
-Tu non l’hai mai amata davvero.-
-NO! NO! Non è vero! Non puoi dire queste cazzate, non è vero!-
L’occhio gelido si fece più grande, coprì tutto il cielo sopra la testa della ragazza in lacrime.
-Se tu l’avessi amata sul serio non ti saresti fatta scopare da lui.-
-Ma… ma io non ero in me, quella sera.- sussurrò piano.
-NON ERI IN TE?! Juliet, guardati. Dove credi di andare conciata così? Con i suoi vestiti addosso, ubriaca e mezza fatta? Vuoi finire ancora nel letto di Demon, come una troia? Un’altra volta, Juliet?!-
Juliet si rannicchiò sulla panchina e bevve le ultime gocce di Vodka.
-Vai via, tu. Lasciami in pace… io sto bene così. Vai via… va’…-
Chiuse gli occhi e si lasciò andare, mentre la luna tornò ad essere solo uno stupido satellite, sole della notte.

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Capitolo 4
*** Demon. ***


Il sole sorse verso le cinque del mattino.
Spuntò qualche raggio che squarciò le nubi grigie e pesanti per un po’, subito rimangiate dalla cupezza che tornò a dominare il paesaggio.
La città, al sicuro nei caldi letti delle abitazioni, dormiva, cercando di riprendersi dal pesante attacco dell’uragano.
Non tutti però stavano dormendo: se qualcuno fosse passato volando sopra la città, avrebbe di sicuro notato del fumo grigio levarsi da un campo, residuo di un falò probabilmente acceso la sera prima.
Di fianco, una ragazza dormiva.
 
Dall’altra parte della città, in una casa di periferia, un ragazzo stava preparando il caffè.
 
Acqua nella caffettiera.
Avvitare.
Mettere sul fornello.
Accendere il fuoco.
Semplici, meccanici passaggi adatti ad un leggero stordimento – la grappa fa male.
Demon si strofinò gli occhi e si sedette su uno sgabello, a fissare la caffettiera.
Non aveva chiuso occhio tutta la notta ed ora doveva andare al lavoro.
Faceva il falegname, una soluzione precaria.
Perché il suo grande sogno era sempre stato quello di diventare uno scienziato spaziale.
Aveva studiato duramente per tutti gli anni della scuola superiore, uscendo con una media del dieci e lode!
Aveva saputo andare avanti.
Ma l’università costava troppo e lui non aveva nessuno di abbastanza ricco e fiducioso disposto a prestargli tutti quei soldi. Ma era sempre stato così: era nato male, fottuto nello stesso momento in cui sua madre aveva letto la barretta del “positivo” sul test di gravidanza.
Un gorgoglio improvviso lo fece distogliere dai pensieri: il caffè era pronto.
Spense il fuoco e versò il liquido scuro in una tazza, lo fissò per un momento e mandò giù tutto di un fiato.
Poi, si avviò verso il bagno.
Una doccia l’avrebbe fatto definitivamente tornare in sé. Aprì l’acqua e si spoglio velocemente, voleva riprendersi in fretta.
Dopo un po’ chiuse l’acqua e, con un asciugamano legato in vita, si diresse nella camera da letto, per prendere i vestiti.
Raccolse per terra i jeans e una maglietta stropicciata.
Lo sguardo gli cadde un attimo sulla sedia, dove una macchia rossa, unica cosa fuori posto nell’ordine della stanza, fungeva da padrona.
Demon sapeva bene cos’era.
La causa del suo declino.
L’inizio – solo una delle tante tappe – dell’incubo.
La maglietta di Juliet.
Demon non la guardò. Come se non fosse mai esistita, si limitò a vestirsi velocemente e uscire dalla stanza e poi da casa, per recarsi al lavoro.
Tutto normale, sì.
 
---
 
Ciao ragazzi! Eccomi qui, uhm, sì. Ci ho messo un po’ a scrivere questo capitolo e l’ho pubblicato con molto ritardo, ma credetemi: ero a corto di idee e non ho avuto tempo cwc
In ogni caso, so che fa schifo. Era, insomma, per presentare il vecchio Demon.
Ci… ci sentiamo, alla prossima!

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Capitolo 5
*** Flashback. ***


Mi struscio addosso a lui –Mmh…
Cindy e le altre sono andate da qualche parte a scopare con i loro amichetti, mentre io sono qui, di fronte a casa sua. Demon.
Quando l’ho visto, prima, è stato… oh, dio. Demon.
-Apri la bocca.- sorride e io la apro. Mi versa un altro po’ di Jack Daniel’s e io mando giù il liquore ambrato.
-Deemon.
-Sì?
-Vieni qui.- è di fianco a me, ma ormai non ragiono più. Gli passo una mano sul viso e scendo su suo petto nudo. Lo attiro a me.
-Juliet.
-Demon.
Poso le mie labbra sulle sue, per la seconda volta da quando ci siamo conosciuti.
Gliele schiudo piano con la lingua, mi aggrappo a lui, ai suoi capelli, ai suoi vestiti.
Sbattendo ovunque, entriamo nel suo appartamento.
-Che bella casa che hai mmh.
-Sì… vieni…
Mi conduce nella sua stanza e io lo butto sul letto.
-Deemon.
-Mmh.- mi prende e mi spinge su suo corpo caldo.
-Così vuoi farlo con meh.
Senza neanche rispondermi mi ficca la lingua in bocca.
Un pensiero balena per un attimo nella mia mente: Sally. Uh, peggio per lei.
Fisso il mio sguardo nelle pupille azzurre del ragazzo –Sì, voglio farlo con te.- annuisce.
Gli passo una mano sul petto, sulla pancia, sulla cintura –Uuh cos’abbiamo qui signor Dem?
Mi sfila la maglietta, che cade da qualche parte nella stanza.
-Dio, quanto sei bella.
-Sì?
-Sì.- mi palpa i seni e io fremo, mentre sento un familiare calore fra le mutande.
-Sei così sexy ragazzo.
Gli sfilo la camicia a quadrettoni e i suoi muscoli mi riempiono lo sguardo –Che lavoro hai detto che fai?
-Falegname, precariamente.
-Uh… perché non lavori in camera mia?- rido, e anche lui, come due rincoglioniti. All’improvviso ribalta la situazione e mi ritrovo sotto di lui.
Inizia a baciarmi il collo e scende, continuando a palparmi.
-Sei mia stanotte.- sussurra.
 
 
“Perché deve essere bisex? Perché?!”
Sally stava camminando verso il ponte, dove si era trasferita.
Precariamente.
Tutto era precario, nella sua vita.
E quando si era convinta di aver trovato qualcuno come lei… boom.
“Lei è bisex.”
Bestemmiò e si buttò sul materasso sfondato che aveva trovato sul luogo.
-Non va mai bene un cazzo qui!- urlò.
Tanto, nessuno l’avrebbe sentita.
Era sola.
Aveva perso tutto.
L’amore.
L’amicizia.
“Bella merda scoprire che il tuo migliore amico ha fottuto la tua tipa.”
Scagliò un sasso sull’altra sponda del fiume.
 

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Capitolo 6
*** Old memoria. ***


Aberdeen era una piccola, piovosa, brutta cittadina dell’America del nord.
Dopo il boom del commercio di legname si era arricchita, diventando uno dei primi produttori del paese.
Ma, con l’avvento della crisi, tutto -o quasi- si era fermato.
La maggior parte della popolazione era composta da muscolosi boscaioli bianchi.
Lì non erano ben visti i tipi “strani” o “diversi”, che venivano subito additati come finocchi, streghe e così via.
La maggior parte di questi disadattati, vittime di bullismo da parte di tutta la popolazione, viveva emarginata. I più finivano morti, suicidati oppure drogati.
Giravano alcuni spacciatori, ciò che andava forte era l’eroina.
E, in quelle condizioni, lo sport era inconcepibile. Già, perché senza sport non si era nessuno.
Ancora più finocchi.
L’unica via di fuga da quell’inferno per molti, rimaneva l’arte, espressa in ogni suo potenziale: pittura, musica… il Rock andava forte da quelle parti.
Erano nati numerosi gruppi, molti volevano emulare i loro grandi predecessori, sempre di quelle zona: Melvins, Screaming Trees, Black Flag, i Nirvana. Anche se questi ultimi erano seguiti solo dai più sensibili, dai più intelligenti.
Coloro che non vedevano in Kurt Cobain la -peraltro falsa- figura del drogato suicida, ma del “salvatore”.
Il ragazzo che era riuscito a scappare, a muovere, a convertire masse di popolazione.
Che sarebbe andato avanti, se solo non fosse stato ucciso dalla persona che più amava.
I suoi piccoli, disadattati seguaci traevano insegnamento e ispirazione da lui e, nel loro piccolo, nutrivano profonde speranze sul fatto di poter incontrare anch’essi un Buzz Osbourne personale, un mito e un protettore allo stesso tempo.
 
In città, l’unico negozio musicale risaliva all’epoca di Chris, Kurt e Aaron, intorno agli anni ottanta. Lì si poteva trovare di tutto.
Vecchi LP di gruppi sconosciuti, chitarre, bassi, amplificatori dai prezzi ribassati, molte, costose rarità.
Era bello rifugiarcisi, durante i frequenti temporali e i giorni di pioggia.
Cosa che Juliet stava facendo. Per terra, a gambe incrociate, sfogliava un libro di tablature per il basso.
Il suo gruppo, i Red Womban, per il momento suonava cover di band meritevoli, ma avevano in progetto qualcosa scritto da loro. Qualcosa di forte, bello.
La ragazza si scostò una ciocca di capelli dal viso e studiò la pagina attentamente.
Era una canzone pressoché sconosciuta dei Nirvana.
Lì il basso aveva un ruolo decisivo.
-Crisco… dobbiamo suonarla, cazzo.
Pensò ad alta voce, ma si zittì non appena vide ina familiare testa nera uno scaffale avanti al suo.
Sally.
Strisciando Juliet raggiunse una parete e si appiattì al muro, per raggiungere l’uscita, ma proprio in quel momento il proprietario la vide.
Si chiamava Angus ed era figlio del fondatore del negozio, che aveva praticamente cresciuto tutti i musicisti Rock della zona negli anni ottanta e novanta.
Alla sua morte, la gestione era passata ad Angus, che doveva il suo nome al noto componente degli AC/DC, di cui il padre era un grande amatore.
-Hey, Juliet!
-A-Angus! Che piacere vederti!
-Tutto bene?
-Eh, ehm…
Nonostante la faccia distrutta della ragazza, lui continuò –E Sally? Colleziona ancora cd dei Gotthard?
-Io…
-Sei sicura di star bene?
-Ecco…
-Vi siete lasciate?!
-Angus…
-Comunque l’ultima volta che l’ho vista si dirigeva al ponte, è strana quella ragazza, no?
-Ora... devo proprio andare, sì.
-E il libro?
-Quale… ah, non i soldi.
-Te lo metto da parte!
-Sì. Ciao Angus.
-Ci si vede Juliet!
La ragazza uscì sbattendo la porta, mentre Sally, accasciata a terra nel negozio, piangeva.

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Capitolo 7
*** Don't leave me. ***


-Juliet.
-Sally!- la ragazza si alzò da terra, dov’era rimasta seduta per circa un’ora.
-Cosa ci fai qui?- la guardò duramente, per quanto fosse possibile.
-Io… Sally…
-Non ho tempo da perdere, parla.
Juliet si avvicinò di qualche passo –Mi dispiace! Sally, ero ubriaca, va bene?! Mi mancavi, mi mancavi…- scoppiò a piangere.
-Ho abbandonato il circo per te e tu…
-Ti prego, non fare così…
-E come dovrei fare?! Guardami: senza una casa, sola…
-Torna! Ti prego torna!
-Io credevo in te. Sì, ci credevo con tutta me stessa.
-Torna a crederci.
-Pensavo che tu fossi diversa…
-Sally cazzo, non mi vedi?!
Con lo sguardo perso nel vuoto, Sally continuò -Ti amavo…
-Io ti amo Sally! Ti amo ancora! Non ho mai smesso! Dio, Sally…
-Divertiti con Demon, già, divertitevi.
-Sally…
-SMETTILA DI CHIAMARMI SALLY! E ora vai.
Juliet non si mosse.
-Ho detto che puoi andare. Ciao.
Senza togliere lo sguardo dagli occhi della ragazza, Juliet si incamminò verso la strada mentre Sally si abbandonava sul selciato.

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Capitolo 8
*** Welcome back home. ***


Sally prese le sue cose -una consunta borsa verde e un ombrello- e si incamminò verso la statale, lasciandosi alle spalle il fiume e il vecchio ponte.
Trovò ben presto un camionista disposto a darle un passaggio e dopo un po’ raggiunse Olympia.
Cercò il tendone rosso de, circo, che ogni volta stanziava in un parco cittadino.
Arrivata davanti lo fissò per qualche istante: la sua vita era sempre girata intorno a quei teloni, a quei pali, a quei recinti.
Sally era stata adottata all’età di cinque mesi dai padroni del circo, Adam e Samantha e aveva sempre vissuto con loro.
La sua famiglia comprendeva tutti gli artisti e il personale, la sua casa era una roulotte.
Negli anni aveva imparato il mestiere, seguendo le lezioni di alcuni acrobati. E aveva un numero tutto suo. Da sola, sì, le piaceva avere il palco tutto per sé, volteggiare in aria, solo lei e le familiari travi.
Solo lei e le luci, gli applausi, l’ebrezza del volo.
Aveva conosciuto Juliet così, lavorando. 
Colpo di fulmine, l’avevano chiamato.
“Bel colpo di fulmine di merda però”.
Per stare con Juliet, Sally aveva abbandonato il suo lavoro.
Se n’era andata, un lungo anno lontana da casa.
Casa.
Sorrise e avanzò lungo il vialetto.
Tutto era come al solito: il recinto con gli animali, le roulotte, gli attrezzi…
Raggiunse la roulotte più grande, quella dove ci si riuniva alla sera, l’unica illuminata.
Bussò, con un po’ di insensato timore.
-Chi è?- la voce forte e calda di Adam invase il piccolo spazio.
-Sono io… Sally!
-Sally?
La porta si spalancò e il corpulento uomo quasi la investì con il suo abbraccio. –Sally! Sally! Oh, piccola mia!
Ben presto uscì anche il resto del gruppetto nella stanza: Matthew, il giovane (aveva solo quindici anni!) clown, Delfina e Violet, le cavallerizze e Ben.
-Ci sei mancata.
-Anche voi…- la ragazza si sentì felice per la prima volta nelle ultime due settimane.
 
-…così ci siamo lasciate.- disse amaramente.
-Uh… in ogni caso sappi che noi saremo sempre qui!
-Grazie Violet.- sorrise –Com’è andata senza di me, invece?
-Beh…- tutti si guardarono imbarazzati.
-Perché vi guardate così?
Tutti i presenti fissarono Samantha –Okay, okay… ecco… sai, senza di te non sapevamo come fare, avevamo un buco…
-Ma un giorno è venuta a bussarci una ragazza- continuò Delfina
-Un vero colpo di fortuna!
-Già, già.
-E beh… l’abbiamo presa.
Tutti guardarono Sally con aria colpevole.
-Hey, non mi guardate così! L’avevo immaginato.- disse scrollando le spalle.
-Quindi… quindi non sei arrabbiata…
-Ma va!- sorrise a tutti –Io… se non vi dispiace vado a fare un giro, però.
-Ma certo! Comunque non credo troverai molta gente, sono tutti andati a visitare la città.
-Va beh, va beh…
La ragazza si chiuse la porta alle spalle e inspirò l’aria fredda della sera.
Dopo aver girovagato un po’ fra le roulotte, entrò nel tendone.
Nonostante l’ora, due vecchi pagliacci stavano ancora provando.
Erano Oliver e William e facevano parte del circo da tempo immemore.
Sally si sedette, un po’ in disparte e rimase lì a guardarli. Stavano provando un numero con una bottiglia.
Sorrise, per l’ennesima volta nella serata, non erano cambiati per niente.
-Così tu sei la figlia di Sam e Adam.
Sally fece un salto –Che cazzo…
-Ti ho spaventata?
-N-no…
-Okay. Io sono Amy.- disse accendendosi una sigaretta.
-Sei quella nuova.
-Già.
Intanto, i due clown finirono il numero.
-Tocca a me.- si alzò e spense la sigaretta.
Sally ebbe la possibilità di osservarla. Non tanto alta, bionda mechata, due gambe perfette fasciate da un paio di calze a rete nere. Era…
-Sally!
-Oliver! Will!- si rianimò e corse ad abbracciarli.
-Sei tornata!
-Sì e questa volta non me ne andrò.

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Capitolo 9
*** How I wish, how I wish you were here. ***


E di nuovo, la pioggia.
Demon corse, con la camicia slacciata, fino al portico più vicino.
“Odio Aberdeen”.
Aveva appena finito il turno e profumava ancora di pino.
Erano le sei di sera, profumava di pino e aveva giusto venti dollari in tasca.
“Alcol. Ho bisogno di alcol. Ora.”
Facendo attenzione a non bagnarsi troppo, raggiunse il pub più vicino. Era strana, quella voglia. Lui non beveva mai. L’ultima sbronza risaliva a… strinse gli occhi.
Era il dolore, era il dolore. Tutta colpa del dolore.
Cercò di ricordare cosa lo aveva spinto a bere, quella sera lontana. Forse… ah, sì. Come un lampo, un brivido gli percorse tutto il corpo.
L’anniversario della morte del nonno.
Da quando suo padre era scappato, anni prima, Demon era sempre vissuto con suo nonno e sua madre… sua madre.
Un secondo brivido lo immobilizzò per qualche secondo.
“Okay Dem. Okay.”
Ricominciò a camminare e raggiunse in fretta il vecchio pub.
Aprì la porta e una calda folata di aria mista agli effluvi dell’alcol lo investì. All’interno, poca gente beveva piano boccali di birra.
“Come mai non c’è nessuno?” si chiese, un po’ sconsolato. Ma in fondo era meglio così.
Raggiunse il bancone e ordinò un Vodka e Rum, giusto per iniziare.
La radio trasmetteva una canzone molto dolce. Chissà di che gruppo era. Scolò il bicchierino e ne ordinò un altro, mentre il vecchio cantante continuava, imperterrito.
“Oh how I wish, how I wish you were here…”
La canzone sembrava non finire mai, mai, mai.
Demon mollò i dollari sul bancone e si alzò, non poteva sopportarlo. Aveva rovinato tutto. Tutto.
Improvvisamente si sentì solo. In fondo, cos’era lui, nel mondo? Una particella, un’inutile, stupida particella di una società troppo impegnata per curarsi di lui.
Il mondo andava avanti, ma lui era sempre Demon, il solito Demon, immutato. O forse anche lui cambiava, nell’eterna giostra della vita?
“Mostratemi quei cambiamenti. Mostratemeli.”
La vita l’aveva sorpassato, abbandonato. I suoi sogni, sfumati, scancellati, consunti.
 Dormiremo nei letti, prosciugati dei fiumi surrogati di sogni…
Raggiunse la porta, voleva andarsene.
“Droga… ah, droga.”
Ma la droga era legata a Sally, come l’alcol a Juliet, come tutta la sua vita ruotava intorno alle solite cose e non c’erano cambiamenti, no, non c’erano, era sempre la stessa fottuta situazione… o forse no?
Un cambiamento era appena avvenuto nella sua vita, lo sapeva bene, lo sapeva benissimo.
“Meglio non pensarci.”
Infatti, meglio non pensarci.
Perso nei suoi pensieri, sbatté contro una ragazza.
-Uh, scusa…
-Scus… Demon?!
-J-Juliet?
I due si fissarono, per qualche istante.
-Di chi è la canzone, alla radio?
-E’… è dei Pink Floyd…
-Sono… bravini…
-Altro che!
Ci fu qualche momento di imbarazzo, in fondo, la tempesta non era finita, non sarebbe mai finita, tutto era perduto.
-Ti va qualcosa?
-Sì…

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Capitolo 10
*** Tutti amano l'odor di benzina. ***


Un familiare odore di pino gli solleticò le narici.
-Mmh…
Strano, la sveglia non aveva suonato quel mattino. Che ore erano, poi? Allungò il braccio in cerca del comodino, ma con fastidio notò che non c’era più.
“Dove cazzo è il mio comodino?!”
Strinse il lenzuolo e si ritrovò con una manciata di aghi in mano.
Aprì gli occhi di scatto, fumo. Sentì i bulbi oculari bruciare come mai prima di allora.
-Cosa sta succedendo?
E d’un tratto lo vide.
Fuoco.
Fuoco dappertutto. Il bosco di Aberdeen stava bruciando.
Si guardò intorno, in cerca di una via d’uscita, ma tutto era lambito dalle fiamme, il fumo ostruiva la visuale.
Si alzò di scatto, col risultato di ricadere  a terra, il fumo non permetteva di respirare.
Persino la capanna dei falegnami…
“Un momento, la capanna!
E ricordò tutto.
L’alcol.
Juliet.
L’alcol.
I Pink Floyd.
La corsa fino al bosco.
Già, ubriachi marci avevano corso fino al bosco, fino al capanno.
E la benzina.
-Ti piace questo odore?
-Tutti amano l’odor di benzina alla mattina, alla… mattina… hahaha.- aveva riso lei.
E poi, nella capanna.
“Non abbiamo scopato, non abbiamo scopato”.
No, non avevano scopato, si erano addormentati prima, con la tanica di benzina ancora aperta.
E poi lui si era svegliato, quando Juliet l’aveva abbracciato. E l’aveva scostata, dolcemente, piano.
“Non deve succedere un’altra volta”, aveva pensato. E aveva provato dolore, tanto dolore. E si era alzato, e aveva fumato. Ma non aveva l’accendino, aveva usato un fiammifero. E poi si era riaddormentato… “Come ci sono finito fuori?!”
Ma in quel momento non c’era tempo per le domande, la capanna era lambita dalle fiamme, Juliet era all’interno –Juliet! Juliet!
Strisciò nel fumo, che si faceva sempre più denso.
Non poteva tenere gli occhi aperti per molto, non vedeva niente.
Raggiunse finalmente la capanna, che era un inferno di fumo e calore.
-Juliet!
Aveva la bocca secca, i polmoni gli facevano sempre più male.
-Juliet!
Il pavimento era incandescente.
Una trave cadde a pochi centimetri da lui, il posto stava per crollare.
-Juliet!
Avanzò nelle fiamme, non c’era, non c’era.
-JULIET!
Demon vide un bagliore alla sua sinistra.
-Juliet, arrivo.
Strisciò sotto le fiamme e il fumo, tossendo a più non posso.
-Ju…- tossì di nuovo, i polmoni stavano per scoppiare.
La prese per un braccio, con la poca forza che gli rimaneva e la trascinò fuori dal capanno in fiamme.
-Stai tranquilla, ora… i pompieri…
Demon svenne.

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Capitolo 11
*** And it hurts. ***


I letti bianchi, l’odore di candeggina, un leggero “bip”, lontano. Vicino. Demon aprì gli occhi accecandosi con il neon giallognolo del reparto.
Alzò un braccio per pararsi gli occhi, ma provò troppo dolore.
Così si scoprì fasciato per metà.
Le braccia erano coperte da bende candide, il viso duro, anch’esso soffocato.
Aveva mal di testa.
Puntò gli occhi color turchese sulla porta, chiusa, di fronte a lui.
La guardò, finché la vista gli andò insieme.
Allora spostò lo sguardo nella stanza, non era solo.
Una bambina dal volto sfigurato lo stava fissando, gli occhi verdi spalancati, i capelli radi e scoloriti a farle da corona.
Si guardarono per qualche minuto, poi Demon si decise a parlare.
-Ciao.
La bambina lo guardò ancora un po’, indecisa se fidarsi o meno dello strano ragazzo bendato. In fondo, era solo una settimana che si trovava lì, il tipo. E aveva dormito tutto il tempo. Che stupido. Era il secondo che a cui veniva assegnata la sua stessa stanza, durante quel mese che era rimasta in ospedale.
Rimase zitta.
-Okay, se non vuoi parlare per me va bene, sto solo cercando di capire perché sono qui.
-È stato trovato in mezzo al bosco in fiamme.-, intervenne una voce.
Demon spostò lo sguardo sulla porta, dove un’infermiera, nella sua divisa bianca, lo fissava inespressiva.
-Il… bosco…
-Sì, il bosco. Presenta ustioni di quarto e quinto grado sul viso e sulle braccia, che sono rimaste ferite mentre cercava di trascinare Juliet Shadow.
-Juliet?!- Il cuore di Demon perse un colpo –Lei come sta? È viva? Dov’è?
-La paziente al momento è in prognosi riservata, su consiglio dei parenti.
-Come in prognosi riservata?!
-Sì.
-Mi dica almeno come sta, la prego.
-L’incendio l’ha lasciata in fin di vita, signor Smeat. Lei stesso era messo molto male, si è svegliato oggi dopo quattro giorni di coma. Un miracolo.- Lo guardò con sguardo giudicatore. –E ora, non mi chieda più niente. Nei prossimi giorni riceverà la visita del commissario locale, volevo avvisarla.
-La polizia?
-Sì, signor Smeat. E se ne ha bisogno potrà chiedere dello psicologo. Per ora lei non può muoversi, mi ha capita?
-Sì…
-Non provi ad alzarsi.
L’infermiera se ne andò, lasciando Demon e la bambina soli.
Si guardarono.
Un orologio ticchettava nella stanza, assieme ai costanti “bip” dei macchinari.
Chissà come avevano fatto a salvarli dall’incendio, non ricordava poi molto.
Una stilettata di dolore gli attraversò il corpo quando tentò di raggiungere il bicchiere d’acqua sul comodino alla sua destra.
“Come faccio ad alzarmi in queste condizioni?!”
Maledì mentalmente l’infermiera.
“E in più, anche la polizia.”
La sua vita stava crollando, di nuovo.

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Capitolo 12
*** So welcome to the machine. ***


Il dottor Andrew Furnam  sedeva alla scrivania nel vecchio, grigio ufficio in cui lavorava da oltre trent’anni; da quando, mezzo secolo prima, suo padre era morto, le sue giornate erano sempre trascorse lì, nell’ufficio di Kennedy Road.

Si guardò intorno, passandosi una mano fra i capelli. Lo stanzino aveva bisogno di una rimodernata, come pure la sala d’aspetto, che riusciva ad intravedere oltre il corridoio, per non parlare della stanza dell’ufficio della segretaria!

Gli attestati appesi alle sue spalle erano ingialliti, come il suo viso. Ma non voleva pensare a se stesso, a quello che aveva passato, a quello che lo aspettava. Aprì quindi l’agenda. Mary, la segretaria gli aveva piazzato due appuntamenti quella settimana, uno per l’ospedale e uno per una ragazza… “La gente non ha più bisogno di psicologi al giorno d’oggi?”, si chiese pigramente.

Col tempo, Andrew aveva imparato i vari tipi di appuntamento, i vari tipi di persone che gli sarebbero comparse davanti.
L’appuntamento in ospedale… beh, di solito i ricoverati chiedevano uno psicologo per parlare della morte, cercare conforto, liberarsi. Il suo compito sarebbe stato semplice: ascoltare, annuire, chiedere discretamente elucubrazioni sul caso. Il secondo nome sull’agenda, il nome di quella ragazza, lo lasciò perplesso. Owens… aveva già sentito quel cognome, ma dove?
Si appoggiò allo schienale della sedia sforzandosi di ricordare .
Dopo qualche minuto lasciò perdere e allungò una mano verso la scatola di cioccolatini che teneva sulla scrivania per i clienti.
Ne scartò uno al cioccolato bianco e lo lasciò sciogliere in bocca, in attesa del primo cliente del lunedì, un certo Simons, che aveva iniziato a frequentare lo studio alla morte della madre.
-Dottore, è arrivato mister Simons.
Farnum fece un salto sulla sedia, Mary lo aveva fatto spaventare.
Si schiarì la voce: -Lo faccia entrare, grazie.
-Subito, dottore. È sicuro di sentirsi bene oggi?
-Mai stato meglio, grazie. Ora faccia entrare il paziente.
-Subito.
La giovane donna uscì dalla stanza, non prima di rivolgere a Furnam un’occhiata preoccupata e Andrew ebbe giusto il tempo di sistemarsi la cravatta, che Simons bussò piano alla porta.
-Avanti!
L’omaccione si affacciò timoroso alla porta, con il cappello tormentato fra le mani. A Furnam ricordava molto un bambino delle elementari.
-Robert, entra pure!- era solito dare del tu ai pazienti. –Com’è andata questa settimana?
“Bene dottore, ho cucinato le ricette di mamma e sono anche andato al cimitero.”
Lo psicologo formulò la risposta dell’uomo nella mente un attimo primo che egli parlasse. Era sempre la stessa routine da più di dieci anni. Doveva assolutamente fare qualcosa.
-Hai mai pensato di fare qualcosa per cambiare la tua vita?
-In che senso, dottore?
-Perché non compri un cane?
-Ma… dottore…
Seguirono alcuni attimi di silenzio, durante i quali Andrew non smise di fissare negli occhi il paziente.
-Io…
Furnam aprì un cassetto della scrivania e consegnò a Simons una chiave arrugginita. Scarabocchiò su un foglietto un indirizzo e lo mise nelle mani dell’uomo.
-Ascoltami, voglio che tu accetti il mio regalo-, disse, sbuffando stanco.
-Ma…
-Non è una proposta.
Andrew si alzò dalla sedia, cosa che fece di riflesso anche Robert, che lo guardava incredulo. Lo accompagnò alla porta.
-Ci vediamo lunedì, Robert.
Simons rimase rigido, gli occhi sbarrati.
-Bene, ora vai. Buona fortuna.
Chiuse la porta e tirò un sospiro di sollievo. Era fatta.
Si risedette alla scrivania e tirò fuori da un cassetto un foglio color crema e la sua stilografica.
 

“Io, Andrew Bartholomew Furnam, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, dichiaro che la spartizione dei miei beni, alla mia morte, sarà così strutturata:…”

 

Ragazzi, eccomi qui, di nuovo! Dopo così taaanti mesi!
Ho avuto dei problemi personali abbastanza gravi, per questo non sono riuscita a pubblicare. Credo che a questo punto non mi seguirà più nessuno, ma così è la vita, no?
In ogni caso, voglio ringraziare Platypus_, che ha avuto la gentilezza di leggere il capitolo prima della sua pubblicazione e che mi ha dissuasa dal riscriverlo una terza volta.
Ringrazio anche tutti voi pochi che leggete ancora.
AnyWay, ciao. :3

ròòòòòRagazzRaòçRòòòòòòòòòòòòòòòòòò
 òò

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