Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso

di Trick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ladro ***
Capitolo 2: *** La volpe ***
Capitolo 3: *** L'orologio ***



Capitolo 1
*** Il ladro ***


Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 1 - Il ladro
 
*

L'Osteria del Gambero Rosso era il più noto rifugio di ladri e mascalzoni del reame, ma la zuppa di cipolle che lì veniva servita era fra le più saporite – era fatta con tutto meno che le cipolle. Era una casupola diroccata, con il tetto di legno basso, i vetri delle finestre sporchi e anneriti dal fumo e dal tempo e il pavimento sporco e appiccicaticcio. Quel postaccio puzzava del sudore di cento vite trascorse nello schifo e nella miseria, ma Jiminy non conosceva nessun altro posto. Non aveva mai conosciuto altri posti.
Sedeva in un piccolo tavolo accanto alla porta, con le mani strette attorno a un bicchiere dall'aspetto rozzo e lo sguardo fisso sulle schegge di legno. Gli occhiali giacevano abbandonati a pochi centimetri dal suo gomito e di tanto in tanto si massaggiava le palpebre con espressione straziata.
Era così stanco della sua vita, era così frustrato... quante volte aveva già tentato di andarsene? Quante ancora aveva cercato di mostrare ai propri genitori quanto inutili fossero le loro continue frodi?
«Non essere sciocco, Jiminy» continuavano a ripetergli. «Che assurdità, Jiminy», «È ora di crescere, Jiminy» e lui abbassava la testa con aria rassegnata e riprendeva il proprio lavoro. Sapeva di aver scelto la scorciatoia più breve, ma non riusciva a sfuggirne. Talvolta si domandava se avesse davvero tentato di cambiarli – di cambiare se stesso fino in fondo – e il solo motivo per il quale non era ancora giunto a nessuna conclusione era che preferiva non sapere cosa avrebbe concluso. Era veramente la scelta più facile, quella di Jiminy, e lui lo sapeva: era questo che la rendeva anche la più infelice.
«Jiminy, amico mio!» risuonò di colpo una voce squillante.
L'uomo sollevò la testa ed emise un lieve gemito sconsolato nel riconoscere i due giovani che si avvicinavano al tavolo.
Indossavano vesti cenciose e i loro visi era macchiati di fango e terriccio. La più alta stringeva fra le mani un vecchio bastone ricurvo e sogghignava divertita, mentre l'altro le trotterellava servizievole alle calcagna. Si facevano chiamare Fox e Cat: nessuno sembrava essere a conoscenza dei loro veri nomi.
Fox afferrò una seggiola dal tavolo accanto, la piazzò davanti a Jiminy e vi si sedette al contrario, appoggiando le braccia allo schienale. Fox non era particolarmente avvenente, ma era dotata di una parlantina intrigante e i suoi modi di fare avevano la capacità di incantare la gente. Il suo viso era spigoloso, la fronte alta e i lunghi capelli rossi le ricadevano in ciocche stoppose sulle spalle. Sebbene fosse ben più basso e tozzo e avesse corti capelli scuri, il fratello le assomigliava in maniera incredibile. Quel giorno aveva due ridicoli occhialini scuri calati sul naso.
«Abbiamo in ballo un affare che potrebbe interessarti» affermò con un occhiolino Fox. Prese il bicchiere di vino di Jiminy e iniziò a bere con naturalezza.
«Prego, fa' pure» soffiò lui con debole ironia, appoggiando la testa al dorso della mano e scrutandola accigliato.
«Sì, sì, grazie» tagliò corto lei. «Cat, idiota, siediti».
Mentre il ragazzo si guardava in giro alla ricerca di una sedia vuota, Fox si allungò verso Jiminy con espressione complice. Il suo alito sapeva di birra e cipolla.
«C'è un villaggio che sta andando in rovina poco distante da qua» iniziò a raccontare a bassa voce. «Dicono che la gente stia scappando per colpa di un lupo, o una cosa del genere. E quando la gente scappa, dimentica un sacco di cose. Un gioco da bambini, ma ci serve qualcuno che ci faccia da palo» aggiunse, schioccando eloquentemente le dita. «Cioè tu, amico mio. Poi si divide in tre come sempre, parola d'onore».
«Avevi detto che avremmo diviso in quattro» commentò confuso Cat, osservando la sorella al di sopra degli occhialini. «Perché dobbiamo...?».
Fox gli rifilò una poderosa gomitata nello sterno. Jiminy li fissò apatico. Aveva assistito a scene come quelle almeno un centinaio di volte e per quanto Cat fosse noto per essere peculiarmente sciocco, Jiminy non lo era abbastanza per non essersi mai accorto che Fox fregava sulle divisioni dei loro bottini. Non glielo aveva mai fatto notare.
«Allora, amico mio?» riprese Fox, scolando fino all'ultimo goccio il vino. «Ci stai?».
Lui fece un sospiro triste.
«No. Questa volta no».
Fox inarcò un sopracciglio e parve trattenersi a stento dal ridere, al contrario del fratello, che aveva cacciato una risatina acuta piuttosto fastidiosa.
«Che scemenze. Tu ci vieni sempre, alla fine».
«No» ribatté deciso. «No, Fox. Non verrò. È... sbagliato. Noi non siamo sciacalli».
«Siamo "commercianti", Jiminy» lo corresse con una punta di indignazione. «Avanti, non fare storie. Le fai sempre, ma alla fine ci segui comunque» aggiunse con tono irremovibile. «E sappiamo tutti e due perché».
«Perché?».
Il sorriso di Fox si fece lezioso e maligno.
«Perché sotto sotto questa vita ti piace un sacco, amico mio».

*

Quando venne svegliato dallo squillo del telefono, l'orologio digitale sul comodino di Archie Hopper segnava le tre e venti di notte. Jeanette russava placidamente nella sua parte di letto, arrotolata nelle lenzuola che gli aveva fregato durante il sonno. L'uomo si alzò rapidamente in piedi e si diresse a lunghi passi verso il salotto. Incespicò in un paio di scarpe con tacco abbandonate in mezzo al corridoio e rischiò di finire sul pavimento.
«Oh, accidenti a voi!» borbottò scocciato, cercando l'interruttore a tentoni. Quando sollevò la cornetta, si era già convinto che chiunque lo stesse cercando a quell'ora tarda avesse già desistito nell'intento. «P-pronto?».
«Dormiva, dottor Hopper?» sibilò la voce gelida di Regina Mills. Archie l'avrebbe purtroppo riconosciuta fra mille. Ne era segretamente intimorito – e nemmeno tanto segretamente.
«No, no... si figuri, io... sì, dormivo, certo» balbettò confuso, strofinandosi il viso con la mano libera. «Ma non c'è alcun p-problema, naturalmente... mi dica come posso--».
«Voglio che lei parli con Henry il più presto possibile».
«Con... Henry?».
«Mio figlio, dottor Hopper».
«Certo... io so chi è Henry, non capisco come--».
«Farnetica di assurdità da mesi».
«Assurdità?».
«Fiabe».
«Oh...» esclamò Archie. «Capisco, ma Henry ha dieci anni. È normale che si ritrovi eccitato da storie fantastiche, non vedo come--».
«Crede che questa sia una fiaba!» lo interruppe seccata Regina. Archie ebbe l'impressione di aver udito l'eco di un pugno colpire una scrivania. «Si è convinto che Storybrooke sia abitata dai personaggi delle fiabe... crede che io sia la Regina Cattiva».
Archie rimase in silenzio e rifletté attentamente sulle parole del sindaco. Quel ragazzino non aveva mai avuto una vita facile; sua madre era una donna rigida, testarda – spesso ossessiva. Non era affatto stupito di ciò che stava scoprendo. Il giovane Henry stava costruendo un ponte fra ciò contro il quale credeva di non poter far nulla e ciò contro il quale credeva di poter vincere e Archie sapeva bene che in futuro quel distacco dalla realtà poteva diventare molto dannoso.
«Io... le suggerisco di non demolire le sue convinzioni, signor sindaco» spiegò dopo qualche istante. «Non ora. Non in maniera brutale. Ma temo di non poterle essere aiuto, se prima non--».
«Domani pomeriggio alle tre».
«C-come?».
«Henry sarà nel suo studio. Gli tolga dalla testa quelle assurdità. È pagato per farlo, dunque veda di farlo coscienziosamente».
«Certo, ma non crede che--».
«No, non lo credo» tagliò corto Regina prima di chiudere la conversazione senza aggiungere altro.
Impietrito, Archie se ne restò qualche minuto con la cornetta in mano.
Henry Mills era un bambino dall'indole gentile e dalla mente curiosa. Era sveglio e intelligente, ma Archie temeva che l'irruenza talvolta despotica sotto la quale Regina tendeva a nasconderlo fosse piuttosto insidiosa. Non dubitava del profondo affetto che la donna doveva senz'altro nutrire per il figlio adottivo, ma sospettava che l'origine dei problemi del ragazzino, qualunque essa fosse, dovesse essere cercata alle radici del suo rapporto con la madre. Sembrava un caso elementare, tutto sommato: Henry stava crescendo e iniziava a vedere il mondo con gli occhi confusionari di un bambino sulle soglie dell'adolescenza. Archie sperava in cuor suo di poterlo aiutare a riprendere il controllo sulla propria vita.
«Archie?» mugugnò infastidita Jeanette dalla camera. «Chi diavolo era?».
L'uomo scosse il capo come se si fosse svegliato in quel momento e appoggiò al proprio posto la cornetta del telefono.
«Era il sindaco» spiegò con un sospiro, mentre ritornava a letto strascicando i piedi.
«Il sindaco?» ripeté con voce dubbia.
«Sì. Il sindaco».
«Il sindaco. E voleva te».
«Me».
«E perché?».
Archie si lasciò cadere fra le coperte con uno sbuffo stanco.
«Silenzio professionale».
Jeanette accese di scatto la luce azzurrina della piccola abat-jour e alzò la mascherina per gli occhi con un gesto seccato. Si mise a sedere e sferrò un colpo rude alla spalla destra di Archie, che mugugnò un vago rantolo di dolore.
«Io ti dico sempre tutto quello che faccio a lavoro» sentenziò con la cocciutaggine di un'adolescente.
«Sì, ed io ogni volta ti prego di non farlo. La serietà lavorativa è molto importante, Jeanette: la gente che viene da te in cerca di aiuto si fida e tradire la fiducia di qualcuno è una cosa molto, molto riprovevole».
Senza aggiungere altro, Archie cercò di recuperare la sua parte di lenzuola, sebbene sapesse che Jeanette se le sarebbe riprese in meno di dieci minuti. Era sempre stata così, lei, dacché aveva memoria, dacché si erano conosciuti. E stavano insieme da così tanto che ormai non ricordava più con chiarezza nemmeno quando avesse avuto la sventura di conoscerla. Era una donna graziosa, a modo suo, ma aveva il brutto vizio di abbigliarsi in maniera appariscente e scrutare tutti dall'alto in basso. Era un comportamento sgradevole che Archie aveva cercato di farle notare innumerevoli volte, ma Jeanette era testarda quanto un mulo e riteneva un'offesa personale qualunque suo tentativo di correggerla.
Il tormento maggiore, tuttavia, era non riuscire ad amarla. Ci provava, Archie, ci provava sul serio – e talvolta si domandava se volesse davvero provarci – ma non credeva di esserne in grado. Tuttavia lei era ormai diventata parte della sua abitudine e con il trascorrere dei giorni l'uomo si era semplicemente rassegnato. C'erano state un paio di occasioni in cui si era sentito abbastanza coraggioso da lasciarla una volta per tutte, ma non era mai riuscito ad andare fino in fondo.
«Buonanotte, Jeanette» sospirò appena.
Lei aveva già ripreso a russare.

*

Fox precedeva il piccolo gruppo attraverso i bassi rami degli alberi e i cespugli del bosco che costeggiava il villaggio. Le foglie secche che schiacciavano con gli scarponi scricchiolavano minacciosi. Ad un certo punto, Cat aveva erroneamente calpestato un sottile bastone che si era spezzato in due, e mancò poco che a Jiminy non venisse un infarto. Quando ne ebbero raggiunto il limitare, si acquattarono dietro un enorme tronco per spiare la situazione.
Il villaggio recava tutti i segni del recente abbandono dei suoi abitanti: molte finestre erano state malamente sbarrate con grosse assi di legno, il secchio del pozzo di pietra giaceva riverso su un fianco e per la strada principale non si vedeva nessuno.
Fox sorrise nell'ombra.
«Perfetto» sibilò soddisfatta. Poi sollevò l'indice e indicò una casupola malridotta poco distante dalla piazza. «Quella è perfetta. Luci spente e porte aperte: l'hanno lasciata apposta per noi».
Cat emise un vago risolino ebete, ma Jiminy scosse la testa.
«Torniamo indietro, Fox» la pregò debolmente. «Non me la sento di--».
«Non devi fare niente, Jiminy. Devi andartene là, vicino a quel pozzo, e se dovessi scorgere qualche ficcanaso avvicinarsi caccia un ululato e inizia a correre. Sarà un grande spettacolo».
«Fox, non--».
«Chiudi la bocca. Sono io, il capo».
Complice il buio della notte, scivolarono fuori dal proprio nascondiglio, cercando di produrre meno rumore possibile. Jiminy non riusciva a mettere a tacere l'insistente vocina che continuava a ripetergli di fermarsi immediatamente, di tornare sui proprio passi, di mandare a diavolo tutto quanto e ricominciare di nuovo, da un'altra parte, con un'altra vita. Non ebbe il coraggio di darle ascolto e si diresse con passo incerto verso il pozzo. Vi si appoggiò contro e iniziò a scrutare rapidamente a destra e sinistra. Vide con la coda dell'occhio le ombre di Fox e Cat infilarsi nella porta della casa deserta; sfilò gli occhiali e si passò una mano tremante fra i capelli. Cosa stava facendo?
«Signore?».
Colto da un'improvviso terrore, Jiminy sobbalzò e si voltò di colpo. Davanti a lui c'era una bambinetta che non avrebbe potuto dimostra più di nove o dieci anni. Aveva il visino pallido sporco e i capelli scuri gretti e scarmigliati. Indossava un abitino strappato sui gomiti di un paio di misure più grande che doveva aver visto giorni decisamente migliori. I suoi occhietti scuri lo scrutavano con un misto di paura e curiosità.
«Cosa fate qui, signore?» pigolò perplessa. «Non ve lo hanno detto che è molto pericoloso?».
«I-io...» balbettò impacciato lui, aggiustando gli occhiali sul capo e lanciando uno sguardo allarmato in direzione della casa. «Io non s-sono di... qui».
«Oh» disse semplicemente la piccola, annuendo piano. «Allora dovreste andarvene in fretta. C'è un lupo che si aggira da queste parti. Ha sempre fame».
Jiminy avvertì un'ondata di paura scivolargli lungo la spina dorsale. Tossicchiò imbarazzato nella mano e rispose:
«Capisco. Forse... forse è quello che d-dovresti fare anche t-tu».
La bambina inarcò un sopracciglio.
«È quello che sto facendo. Sto andando a casa mia» spiegò titubante.
Poi sollevò la mano e con enorme sgomento di Jiminy, indicò la casa che Fox aveva deciso di svaligiare. L'uomo si sentì mancare. Aprì la bocca nella speranza di essere in grado di uscire da quella situazione spinosa, ma purtroppo Fox e Cat scelsero proprio quel momento per uscire dalla porta. Sembrava non avessero trovato niente, a parte una lucida coperta rossa che la giovane si stava rigirando interessata fra le mani. Nel vederla con la stoffa in mano, la bambina cacciò un urlo spaventato e iniziò a correre verso i due ladri.
«No!» strillò. «Lasciatela subito! Lasciatela subito!».
Per un attimo Fox parve stupita, ma ebbe tutto il tempo di bloccare la corsa della bambina e spintonarla con forza, facendola cadere davanti ai gradini della propria casa. Jiminy rimase impietrito, ma la voce nella sua testa aveva iniziato a gridare di fare qualcosa, di fare qualsiasi cosa, di scappare da ciò che stava facendo... ma per l'ennesima volta, lui non riuscì a darle retta.
«Sparisci, mocciosa» sentenziò duramente Fox. Il suo sguardo truce si levò in direzione di Jiminy. «E tu...» aggiunse minacciosa. «Tu dovevi dirci se arrivava qualcuno».
La bambina spalancò la piccola bocca e girò il collo verso Jiminy. Sotto il suo sguardo ferito – tradito – si sentì vacillare.
«Per piacere...» implorò timidamente, appoggiando entrambe le manine per terra e cercando di rimettersi in piedi. «Per p-piacere... ho b-bisogno di quella stoffa».
«Accendi un fuoco, se hai freddo» sghignazzò Cat, dandole una seconda spinta e facendola capitolare ancora una volta per terra.
Fox rise di gusto, le voltò le spalle e fece per andarsene, ma la voce decisa di Jiminy la bloccò.
«No!» esclamò all'improvviso. S'affrettò a raggiungere la bambina e la aiutò a rialzarsi. «Mi... mi dispiace» mormorò con un filo di voce.
«Jiminy, muoviti, potrebbe arrivare qualcuno e--».
«Ridagli quella coperta» ribatté con feroce decisione, allungando una mano verso di lei. «Adesso, Fox, ridagliela».
La giovane sgranò gli occhi, scambiò uno sguardo incredulo con il fratello e scoppiò in una fragorosa risata derisoria. Cat si piegò quasi in due, ma Jiminy rimase impassibile, con il braccio teso e la feroce pesantezza degli occhi umidi della bambina sulla schiena. Non è giusto, continuava a ripetersi. Non è giusto...
«Dammi quella coperta».
L'ilarità sul viso di Fox si mutò rapidamente in una smorfia arrabbiata.
«Stai scherzando?».
«Affatto».
«Questa cosa potrebbe valere qualche soldo».
«Non mi interessa».
«Interessa a me».
Si fronteggiarono per diversi secondi, senza che l'uno osasse abbassare il capo prima dell'altra. La bambina mosse un passo in avanti e ripeté:
«Per piacere... ne ho bisogno. Ne devo fare una mantellina prima della prossima luna».
Jiminy fece un respiro profondo.
«Hai sentito? Rendile ciò che è suo. Questa storia è durata abbastanza».
«Ma va' al diavolo» sputò disgustata.
Girò sui tacchi e fece cenno a Cat di seguirla, ma Jiminy fu più lesto e le afferrò saldamente il polso.
«Ehi!» strillò indignata. «Lasciami subito!».
«Lascia mia sorella o ti faccio a pezzi» rincarò la dose Cat, mostrandogli un pugno.
«Ridai quella coperta alla bambina» ribadì Jiminy, strappandogliela dalle mani.
Fox non se la aspettava e non ebbe i riflessi per impedirglielo, ma Cat fu abbastanza svelto da colpire Jiminy con un sonoro pugno sullo zigomo destro. L'uomo si ritrovò disteso nella polvere prima ancora di essere in grado di provare dolore. Aveva la vista appannata e gli occhiali erano volati chissà dove. La ragazzina fu lesta a recuperare in fretta l'amata stoffa rossa. La stringeva al petto come se ne dipendesse la sua stessa vita, poi lanciò un'ultima occhiata a Jiminy e scappò.
«Dannazione! Cat, prendila!» imprecò inferocita Fox.
Il giovane scattò come un felino all'inseguimento della piccola fuggitiva. Poi Fox si chinò verso Jiminy e lo sollevò brutalmente per il colletto della camicia. «Sei impazzito!? Quella stoffa mi serviva!».
Lui cercò di riaprire l'occhio, ma il viso aveva iniziato a gonfiarsi e a provocargli parecchio dolore.
«C-cosa?» balbettò confuso.
«Quella stoffa mi serve!» ripeté con furia crescente lei. «Devo consegnarla a Malefica, razza di idiota, o saranno guai per tutti!».
Lo lasciò cadere per terra e infilò le mani fra i capelli rossi con aria disperata.
«Prega che Cat riesca a prendere quella nanerottola, o giuro che ti ammazzo, Jiminy! Anzi, no: ti ammazzerò comunque, perché sei un idiota!».
Lui era riuscito a trovare i propri occhiali. Li inforcò malamente, storcendo il naso quando l'asticella sfiorò il punto in cui il pugno di Cat lo aveva colpito.
«Malefica?» chiese. «La strega?».
«Sì, imbecille, sì!».
«Perché dovevi--?».
«Le ho rubato una dannata coda di volpe, d'accordo!? Doveva valere un sacco di soldi, accidenti a me...» borbottò nervosamente, calciando con foga un pezzo di legno. «Ma mi ha beccato e ora devo portarle quella stupida coperta, se non voglio che torni a prendermi. Sei un cretino, Jiminy, e se Cat non torna con--».
S'interruppe di colpo. Dalla direzione verso la quale era scappata la bambina, si stavano avvicinando rapidamente una mezza dozzina di torce. Fox impallidì e arretrò di qualche metro.
«Oh, no...» mormorò fra sé. Lanciò un'ultima occhiata di puro odio a Jiminy e sibilò: «Bada bene a quello che sto per dirti: ti schiaccerò come un insetto, Jiminy. Dovessero volerci decenni, giuro che ti schiaccerò come un insetto!».
Lui la vide correre come una forsennata verso la foresta, mentre le voci degli abitanti del paese si facevano ormai chiare e vicine. Jiminy vide un paio di uomini affrettarsi nell'inseguimento, ma sapeva che non l'avrebbero trovata. Fox era molto più furba e veloce di loro.
«È lui!» sentì gridare la voce della bambina.
Jiminy si rimise in piedi. La piccola folla lo fronteggiava con espressione seria. La ragazzina era davanti a loro, con le guance rigate di lacrime e la stoffa rossa ancora stretta al petto. Cat era sparito.
«È lui che mi ha aiutato».

*

«Vuoi dell'altro caffè, Archie?».
Archie sollevò la testa di colpo e fissò Ruby come se si fosse appena accorto della sua presenza accanto al tavolino di Granny's. La giovane inclinò perplessa il capo e gli rivolse un sorriso divertito.
«Wow. Che nervi saldi» scherzò.
Lui fece una piccola risatina e appoggiò la copia de Lo Specchio di Storybrooke del quale cercava di risolvere le parole crociate.
«Sì, sarei stato un pessimo soldato» replicò lui, allungandole la tazza vuota. «Ti ringrazio».
«Dovere» tagliò corto lei, riempiendola quasi fino all'orlo. Poi il suo sguardo cadde sul cruciverba e il suo sorriso si trasformò in un piccolo sogghignò. «Spice Girls».
«Cosa?».
«Spice Girls. Quindici verticale, dieci lettere».
Archie sistemò gli occhiali e lesse la definizione.
«"Debuttarono con Wannabe". E chi è Wannabe?».
Lei scoppiò in un'adorabile risata.
«No. Wannabe è il nome del loro primo album».
«Capisco» annuì Archie, afferrando la penna e completando finalmente il casellario. «Ti ringrazio, Ruby. Ora mi sento terribilmente vecchio, ma perlomeno anche oggi il cruciverba di Sidney Glass non l'ha avuta vinta».
«Ciò che più mi spaventa è sapere che Sidney Glass ascolta le Spice Girls» aggiunse con espressione disgustata Ruby.
«Ruby!» la richiamò seccata la signora Lucas dall'altra parte del bancone.
La giovane sollevò infastidita la testa e scosse la lunga chioma mora. Portò la mano libera dalla caffettiera al fianco e soffiò scocciata.
«Porca miseria, nonna, sono solo le sette di mattina» la rimbeccò con il tono cantilenante di un'adolescente incavolata. «Tu e i tuoi nervi a pezzi non ce la fate a dormire un po' di più?».
«No, ci svegliamo sempre all'alba per cercare di tenere a freno te e la tua linguaccia lunga!» replicò con lo stesso tono sarcastico l'anziana. «Tony ha bisogno di aiuto».
Mordicchiando nervosa il labbro inferiore, Ruby si allontanò con un ultimo soffio ribelle e svanì oltre la porta della cucina senza replicare oltre. Archie nascose un tiepido sorriso e si grattò la nuca con aria pensierosa. La signora Lucas lo scrutò impassibile per qualche secondo, poi si avvicinò al suo tavolo e infilò entrambe le mani nelle tasche del grembiule.
«Avanti, di' quello che stai pensando di dirmi» gli disse con franchezza. «Dove sbaglio?».
Archie parve per un attimo stupito, ma poi si fermò a riflettere e le mostrò i palmi delle mani.
«Io... io trovo che Ruby sia una ragazza molto sveglia, ma temo non sappia ciò che vuole realmente».
«Però sembra sapere piuttosto bene cosa non vuole» mormorò rassegnata la donna. «Ma io ho bisogno che lei mi aiuti qui, Archie, non posso gestire tanto la locanda quanto il bed&breakfast da sola».
Sul viso dello psichiatra si dipinse un'espressione pacatamente inquisitoria.
«Stai cercando una soluzione per lei o una scusa per te?».
Alle sue parole, le guance della signora Lucas si tinsero di una lieve sfumatura rossiccia. Poi sbuffò – e Archie notò per l'ennesima volta quanto assomigliasse alla nipote – e scosse la testa.
«Hai ragione. Hai sempre ragione».
«Purtroppo non è affatto vero».
«Oh, non dire sciocchezze. Certo che è vero. Cosa devo fare, Archie? Non mi ascolta. Fa sempre di testa sua e...» sospirò, «...ne combina sempre una più del diavolo. È una donna adulta, ormai, e non riesco a farglielo capire».
Archie le sorrise con affetto e posò una mano sul suo braccio.
«Sono dell'idea che tu non possa far altro che attendere che la vita le insegni come crescere» disse lentamente. «Stai al suo fianco come hai sempre fatto; controlla che non si faccia troppo male, quando finirà per cascare sui propri sbagli, ma non impedirle di commetterne».
«Tutto qui?».
«Tutto qui» rispose candidamente Archie, avvicinando la tazza alle labbra. «L'alternativa è incatenarla al frigorifero, ma ad essere franchi mi sembra un po' barbaro».
Addolcita dai suoi toni gentili, la signora Lucas si lasciò andare a una piccola risatina. Gli diede qualche colpetto materno sulla spalla.
«Grazie, Archie. A volte ho come l'impressione che--».
Non seppe mai quale fosse l'impressione della signora Lucas, perché Jeanette aveva spalancato con foga la porta, facendo irruzione nel locale con sguardo acceso. Quel giorno indossava un tailleur di un improbabile violetto e i suoi occhi erano appesantiti da un luccicante ombretto color smeraldo. Il rumore dei suoi tacchi che sbattevano sul pavimento aveva un che di preoccupante e Archie si concesse giusto il tempo di scambiare un'occhiata eloquente con l'anziana donna.
«Il tuo maledetto cane è entrato di nuovo in casa» lo attaccò in fretta Jeanette, con le mani sui fianchi e la bocca serrata in una ferra linea dritta. «Sai che sono allergica».
«Hai provato a lanciare un wafer alla vaniglia fuori dalla porta?» si informò stancamente, mentre ripiegava il giornale con cura. «Di norma funziona».
«Mi stai prendendo in giro?» domandò con asprezza. Sembrava stesse masticando vetri rotti. «Mi stai prendendo in giro, Archie? Detesto quando lo fai, detesto il tuo stupido cane, detesto quando--».
L'uomo sollevò placido una mano e si alzò dal tavolo.
«Detesti un sacco di cose, sì» concluse appena. «Temo che questo concetto sia già ampiamente noto a tutti gli abitanti di Storybrooke, Jeanette».
Le narici della donna fremettero, ma non aggiunse altro. Si limitò a massaggiarsi drammaticamente la tempia ed esalare un'imprecazione spossata.
«Leva quel cane dal mio divano prima che io torni a casa» lo avvertì seccata, prima di girare sui tacchi ed uscire con la stessa mancanza di grazia con la quale era entrata. Non concesse a nessuno il proprio saluto – non che a qualcuno interessasse.
Archie fece le spallucce e prese fra le mani la propria valigetta.
«Fra voi le cose non vanno bene» commentò senza giri di parole la signora Lucas.
«Vanno come sono sempre andate».
«Non era una domanda, Archie. Quella donna finirà davvero per ammazzarti un giorno di questi».

*




Note: Qualcuno è già al corrente della fissa che mi è venuta per il personaggio di Jiminy Cricket e per la ship Red Cricket, quindi non mi dilungherò oltre su questa assurda mania.
Le uniche due note veramente importanti che potrei lasciare sono: a) i due OC sono ovviamente il Gatto e la Volpe di Pinocchio, qui chiamati Cat e Fox per coerenza di nomi – eccezion fatta nei punti in cui ai personaggi di Storybrooke capita di parlare di favole, dove uso l'italiano per ragioni di scorrevolezza; b) nel film originale della Disney, la Volpe si fa chiamare Honest John Worthington Foulfellow, mentre il Gatto viene chiamato semplicemente Gideon. Da qui, i nomi dei due corrispettivi di Fox e Cat: Jeanette e Gideon Honestine; c) la storia di Pinocchio è un incrocio fra la versione di Collodi, quella della Disney, quella di Once Upon A Time e, perdonatemi, la mia – scusa, Collodi, ma avresti dovuto shippare Red Cricket; d) i personaggi non mi appartengono – no, nemmeno Cat e Fox, sono comunque di Collodi. A proposito, signor Collodi, grazie di aver fatto parte della mia infanzia; e) la storia doveva essere una one-shot, ma è diventata troppo lunga, così ho deciso di dividerla in piccoli capitoli.

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Capitolo 2
*** La volpe ***


Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 2 - La volpe

*

Jiminy non aveva mai avuto dei figli, né era mai stato intenzionato ad averne. Qualcuno avrebbe potuto dire che aveva allevato Geppetto, sebbene in un modo un po' particolare, ma sarebbe stata una bugia: Jiminy era solo il suggeritore nascosto dietro le sue decisioni. Crescere un figlio era una questione ben più grossa e spinosa.
Ormai adulto e con i capelli ingrigiti, Geppetto non aveva più avuto bisogno dei suoi consigli e Jiminy si era lasciato vincere dalla tiepida intimità che può regalare un'amicizia di così lunga data. Trascorrevano intere serate seduti attorno al tavolo da lavoro dell'uomo, chiacchierando spensierati di tutto e di niente, e di tanto in tanto Geppetto scaldava un po' di latte di capra e vi inzuppava dentro il pane. A Jiminy le briciole della crosta erano sempre piaciute.
Quella mattina di ottobre, tuttavia, quando si erano svegliati e si erano ritrovati quel burattino scalmanato che scorrazzava davanti alle ceneri del camino, era mancato poco che non venisse un infarto ad entrambi.
Pinocchio, aveva detto di chiamarsi, e se i due vecchi amici non fossero stati tristemente avvezzi alle prodezze della magia, non ci avrebbero mai creduto.
«Non temere, Geppetto» lo aveva rassicurato Jiminy infinite volte. «Lo aiuterò a non farsi troppo male».
Il falegname aveva riso e si era aggiustato il ridicolo parrucchino biondo – quante volte Jiminy aveva tentato di convincerlo a disfarsene?
«Oh, lo so. Tu sei sempre stato bravo con i bambini».
E poi aveva perso Pinocchio. Non una, non due, non tre volte, no: quella era la quarta volta in cui quel burattino gli scappava sotto il naso in una sola settimana.
Jiminy svolazzava frenetico fra i tetti e i comignoli delle case del paesino, tenendo ben stretto il cappello e scrutando con attenzione in ogni vicolo. Poi riconobbe il suo berrettino a punta fra la folla e si gettò a tutta birra in discesa.
«Pinocchio!» strillò. «Pinocchio!».
Il burattino voltò incuriosito la testa e sorrise con innocenza.
«Ciao, Jiminy!» esclamò raggiante, allungando una piccola manina di legno per permettere all'insetto di appoggiarvisi sopra.
«Santo cielo, Pinocchio, avevi promesso che saresti andato a scuola. Cos'è successo? Che ne è stato del tuo abbecedario? E perché sei--».
«Bla bla bla» gli fece il verso una vocina fastidiosa.
Jiminy si girò e trasalì, sconcertato. Una grossa volpe senza coda lo stava fissando come se avesse voluto trasformarlo nella propria cena. I suoi occhi erano gialli e insidiosi e le antenne di Jiminy captarono svelte il pericolo. Poco dietro il primo animale, c'era un gatto dal pelo malconcio ma con la stessa espressione ferina della volpe. Gli mancava un occhio.
«Pinocchio, chi sono questi...?».
«Loro sono Fox e Cat, i miei nuovi amici» spiegò orgoglioso il burattino. «E lui è Jiminy. Jiminy Cricket».
Il minuscolo insetto era raggelato nel leggere l'espressione di stupore negli occhi feroci dei due animali trasformarsi prima in comprensione, e poi in incontenibile rabbia. Fare due più due fu troppo facile.
«Jiminy... Cricket?» sibilò minacciosa la volpe, avvicinandosi di qualche passo a Pinocchio. «Di', Cat, non ricordi anche tu un certo Jiminy?».
Il gatto soffiò.
«Sì...» riprese con più odio la volpe. «Me lo ricordo anch'io».
«Pinocchio, quello era il momento adatto per dire una bugia» tentò di sdrammatizzare Jiminy, prendendo rapidamente il volo e levandosi mezzo metro più in alto delle due creature.
Poi Fox spiccò un balzo incredibilmente veloce e cercò di afferrarlo fra le zampe. Pinocchio strillò spaventato, ma non poté far nulla per evitare che i due grossi animali iniziassero a inseguire per le vie del paesino il povero Jiminy. Cercò di non perderli di vista, ma erano troppo agili e riuscivano a scivolare fra la folla ben più facilmente di quanto le sue piccole gambe di legno non permettessero. In men che non si dica, le tre creature erano scomparse.
«Fermati!» gridava Fox. «Fermati, Jiminy! Fermati!».
«Sono la voce della coscienza, Fox!» ribatté col fiato corto l'insetto. «Non dovresti chiedere cose tanto assurde!».
«Vieni qui subito!».
Ma Jiminy si era già librato al di sopra di una grondaia arrugginita, diversi metri più in alto, in una ragionevole postazione sicura. Da lì, si sporse per scrutare meglio i due vecchi compagni di furto.
«Cosa vi è successo?» chiese, senza alcuna nota di rimprovero o scherno. Sembrava sinceramente dispiaciuto. «Perché siete... animali?».
«Ha parlato quello con le antenne!» aggiunse piccato Cat, iniziando a muoversi avanti e indietro come un leone in gabbia.
«Di chi vuoi che sia la colpa, eh?» urlò con accusa Fox. «Di te! Te che non mi hai fatto prendere quella stupida coperta! Malefica voleva indietro la sua coda e una coda è proprio ciò che si è presa! E ora scendi da lì, così posso mangiarti!».
«Ma naturalmente» la prese in giro Jiminy, appoggiandosi con tranquillità all'ombrello.
«E tu perché sei un grillo?» si informò Cat.
Jiminy parve stupito dalla domanda. Rimase in silenzio qualche istante e poi scosse appena la testolina.
«È una storia lunga che non credo possa mutare la situazione» tagliò corto. «Credo dovremmo cercare di risolvere le nostre divergenze in maniera civile».
«Ma col cavolo! Io ti--».
«Jiminy!» si levò la voce angelica di Pinocchio. «Jiminy Cricket, dove ti sei cacciato!?».
La bocca di Fox si aprì in un sogghigno malvagio. I suoi canini aguzzi fecero rabbrividire il piccolo grillo.
«Siamo qui, mio caro amico!» esclamò leziosa. «Vieni, Pinocchio, vieni!».
«No, Pinocchio!» strillò concitato Jiminy. «Torna a casa! Va' da Geppetto! Stai lontano dai guai!».
«Dai guai, eh?» fu il commento divertito di Fox. «È questo quello che fai, adesso? Tieni i burattini lontano dai guai? Proprio tu?».
Cat ridacchiò sfrontato. Pinocchio arrivò proprio in quel momento, leggermente trafelato dalla lunga corsa. Alzò gli occhietti verso la grondaia e aggrottò perplesso le sopracciglia. Poi guardò i due animali, e poi di nuovo l'insetto.
«Jiminy, cosa fai lassù?».
«Temo che il nostro amico non voglia venire con noi, tesoro» mormorò Fox, strusciandosi con malizia attorno alle gambe di legno del burattino. «Ma tu sì, non è vero? Vuoi venire con noi?».
«Dove?».
«Pinocchio, non dargli ascolto!».
Fox ringhiò verso di lui.
«Dovresti scendere per impedirglielo, non trovi?».
Jiminy deglutì a stento. Era nei guai, guai seri, guai tremendamente seri... doveva trovare Geppetto al più presto, ma come poteva abbandonare Pinocchio in barba a quei due lestofanti? Avrebbe potuto accorrere in suo aiuto? Oh, certo, e se lo sarebbero mangiato in pochi istanti. E che ne sarebbe stato, allora, del povero Pinocchio? Non sapeva come comportarsi... la sua unica speranza era riposta nell'assennatezza del burattino – e la più sincera parte di Jiminy si era già rassegnata al peggio.
«Dove andate?» chiese ingenuamente Pinocchio.
La scintilla perversa che attraversò gli occhiacci di Fox non avrebbe convinto nemmeno il più stolto dei bambini, ma Pinocchio era solo un burattino, e nemmeno di quelli più svegli.
«Nel Paese dei Balocchi».
A quel nome Jiminy cacciò un grido spaventato, ma nulla poté dire per impedire a Pinocchio di seguire l'ombra di quella dannata volpe senza coda.

*

Archie aveva sottovalutato la gravità della telefonate di Regina Mills e se ne era accorto solo quando Henry aveva iniziato a scrutarlo con la faccina seria e indagatrice. Sembrava fosse lui, quello intendo a studiare lo psichiatra.
Il ragazzino era seduto con le gambe a penzoloni sul divano dello studio del medico da quando sua madre lo aveva lasciato alle cure di Archie, quindici minuti prima, e non sembrava ancora intenzionato ad aprire la bocca.
«Tua madre ha detto che ti piacciono molto fiabe».
«Sono vere, dottor Hopper» affermò lui con candida sicurezza.
Il dottore gli rivolse un sorriso incoraggiante.
«Chiamami Archie, Henry».
«Sono vere lo stesso, Archie» riprese con decisione.
L'uomo annuì con espressione pensierosa, grattandosi distratto il mento.
«Cosa te lo fa pensare?».
«È nel libro».
«Libro?».
Henry fece un cenno con la testa, afferrò il proprio zainetto e ne estrasse un grosso tomo dall'aspetto piuttosto antico. La scritta "Once Upon A Time" troneggiava scintillante sulla copertina rigida. Archie avrebbe voluto darci un'occhiata, ma temeva che il bambino potesse tradurre la sua curiosità clinica come un'invasione personale. Gli era già capitato, in passato.
«È un libro di fiabe?» si limitò a chiedere.
«Ci siete tutti, qui dentro» spiegò Henry, accarezzandone con affetto il dorso. «È per colpa della maledizione della Regina Cattiva se non ricordate chi siete».
Archie aggrottò le sopracciglia.
«Chi... siamo?».
«Voi siete i personaggi delle fiabe e mia madre è la Regina Cattiva. È stata lei a gettare la maledizione sul regno incantato, e ora nessuno di voi ricorda chi era prima di finire a Storybrooke».
C'era qualcosa di vagamente inquietante nella naturalezza con cui Henry aveva affibbiato alla propria madre il ruolo della Regina Cattiva. Archie era abbastanza esperto da comprenderne i motivi, ma si era ormai reso conto che il lavoro che gli si prospettava davanti era molto più complesso di quanto non avesse immaginato. Nel corso degli anni si era ritrovato davanti i casi più assurdi, come il terrore della signora Lucas per i pleniluni e la mania di Marco per i burattini, ma non aveva mai sentito qualcuno distorcere la realtà in un modo tanto enigmatico. Qualunque cosa dalla quale Henry stesse tentando di fuggire era decisamente grande – e probabilmente era sua madre.
«E tu... a quale favola apparterresti?».
Henry parve spiazzato da quella domanda.
«Io non ci sono. Non vengo dal regno delle fiabe».
«Capisco. E la Regina cattiva è...».
«Mia madre».
Archie sfilò gli occhiali e iniziò a ripulirseli con cura. Iniziava seriamente a preoccuparsi per il piccolo Henry: la convinzione che la madre fosse la Regina Cattiva era il più negativo dei segnali. Rigettava la figura materna – e non era purtroppo un caso, vista la situazione – e aveva trovato nella Regina Cattiva la perfetta incarnazione della donna rigida e ferma che era il sindaco Mills. Come avrebbe potuto aiutarlo senza disturbare oltre il suo spettro emotivo?
«Come hai avuto quel libro, Henry?».
«Io...» balbettò incerto, distogliendo lo sguardo da Archie e mordicchiandosi nervoso l'interno della guancia. «L'ho trovato».
Il dottore sorrise gentile.
«Non dovresti dire le bugie. Sono le--».
«Il Grillo!» esclamò all'improvviso, scattando in piedi con un sorriso di puro trionfo. «Il Grillo Parlante!».
«C-come?».
«Tu!» riprese il bambino con foga, puntandogli l'indice sul petto. «Tu sei il Grillo Parlante!».
Ad Archie occorse qualche istante per comprendere fino all'ultima sillaba il senso delle parole del ragazzino. Strinse confuso le palpebre e poi arrangiò un mezzo sorriso sconcertato.
«Il... Grillo Parlante?» ripeté stupito. «Ma, Henry, il Grillo Parlante è... un grillo».
«A Storybrooke la magia non esiste».
Il dottore soppesò attentamente la folle convinzione di Henry. Il Grillo Parlante, gli aveva detto, e se solo non fosse stato un uomo tanto riguardoso nei confronti del prossimo e del proprio mestiere, avrebbe faticato a trattenersi dal ridere. Era davvero la fantasia più incredibile che avesse mai avuto modo di udire in tutta la sua carriera.
E dove mai sarebbe finito il suo Pinocchio?

*

«Pinocchio! Pinocchio!».
Jiminy non aveva la minima intenzione di arrendersi. Non avrebbe mai potuto lasciare il burattino nelle mani di Fox e Cat; non se lo sarebbe mai perdonato. Ma come avrebbe potuto tirarlo fuori da quel guaio? Se fosse tornato indietro alla ricerca di Geppetto, avrebbero rischiato di arrivare troppo tardi: Jiminy era tristemente a conoscenza di cosa fosse il Paese dei Balocchi e il solo pensiero che il povero Pinocchio vi si stesse per avventurare in compagnia di quei due manigoldi era inconcepibile. Doveva fare qualcosa, doveva trovare una soluzione e doveva farlo subito.
Fremente di ansia, non si accorse del gigantesco cestino che gli piombò sulla testa, facendolo capitolare nell'erba.
«Oh!» esclamò dolorosamente.
La giovane proprietaria del cestino non poteva avere più di vent'anni. Indossava un lungo mantello rosso calato sulla lunga chioma mora. Aveva un viso pallido e simmetrico, con gli zigomi alti e gli occhi verdi e allungati – Jiminy non si intendeva di donne, ma soltanto un cieco non l'avrebbe giudicata bella.
Dovette aver udito i sottili gemiti di Jiminy, perché si chinò curiosa sui ciuffi d'erba e iniziò a guardare a destra e sinistra.
«C'è... qualcuno?».
«S-sono qui, signorina» borbottò impacciato lui, rialzandosi sulle zampette anteriori e riafferrando il cappello che era volato a qualche passo da lui. «Qui, verde nel verde».
«Oh, cielo!» esclamò intimorita la giovane, con un piccolo saltello indietro. «Voi... parlate?».
Jiminy si librò in aria e si aggiustò con cura l'abito.
«Continuo a non capire come possano tutti stupirsene sempre» si schernì divertito. «Il mio nome è Jiminy Cricket».
«Parlate sul serio».
Il grillo chinò desolato le antenne.
«Sì...».
«Voi... parlate».
«Sì, e volo anche. Incredibile, non trovate?» continuò a scherzare l'insetto. Poi si alzò all'altezza del volto della giovane. «Avete per caso visto un burattino che seguiva una volpe e un gatto?».
La sconosciuta calò il cappuccio rosso con incredibile calma. Le sue labbra erano dischiuse in una muta esclamazione di sorpresa e Jiminy si chiese quanto altro tempo le sarebbe occorso prima di afferrare la gravità della situazione.
«Siate così gentile da darmi ascolto, signorina, io--».
«Li ho visti, in realtà» lo bloccò di nuovo. «Un ragazzino di legno con un vestito ridicolo che inseguiva due grossi animali. Parlanti».
Le antenne di Jiminy si drizzarono euforiche.
«Li avete visti!?».
«Sarebbe stato assurdo non notarli».
«Dove sono andati?».
«Hanno preso il sentiero che va a ovest» spiegò lei con una smorfia pensosa. «Non è una bella direzione, quella. Ricettacoli di ladri e malfattori e...».
«Temo di saperlo, sì» terminò laconico Jiminy. «Vi ringrazio, signorina. Vogliate perdonarmi, ma devo riportare a casa un discolo burattino».
Stava giusto per dirigersi verso la direzione mostratagli dalla giovane, quando la sua voce squillante lo bloccò improvvisamente.
«Ehi, fermatevi! Non potete andare da solo! È pericoloso!».
Jiminy si fermò a mezz'aria e la fissò sconcertato.
«Come dite?».
«Siete solo un grillo, non potete infilarvi all'Osteria del Gambero Rosso come se niente fosse» concluse spiccia lei, accelerando il passo e seguendo la sua scia. «E poi non voglio perdermi la scena. Un grillo, una volpe, un gatto e un burattino?» ridacchiò. «Adoro queste storie assurde!».
Jiminy tossicchiò nel dorso della zampetta.
«È una affare assai più serio di quanto appare».
«Tutte le cose serie nascondono un lato divertente» ribatté lei con un largo sorriso. «Un po' come voi. Sembrate tutto compito e assennato, ma siete anche terribilmente buffo».
Il grillo aprì la bocca per dire qualcosa, ma non riuscì a capire se avesse dovuto ritenersi indignato o onorato.
«Oh, fra l'altro: il mio nome è Red. Red Riding Hood».
Lui pensò fosse piuttosto ingiusto venire accusati di essere buffi da una ragazza così carina e con un nome altrettanto ridicolo.

*

«Non posso crederci...» brontolò Archie al bancone di Granny's, fissando sconvolto il cruciverba de Lo Specchio. Gli mancava una sola definizione. «Ruby?».
La ragazza sollevò lo sguardo dai piatti che stava sistemando, scrutò l'espressione tormentata del medico e poi esplose in una risata sfrenata.
«Non ci riesci nemmeno oggi?» lo prese in giro, appoggiandosi davanti a lui e arricciando una ciocca rossa attorno all'indice. «Dottore, stai perdendo i colpi».
«E Sidney Glass è stato rapito dagli alieni, questo è certo» rispose con un sorriso.
Ruby ridacchiò di nuovo e gli prese il giornale dalla mani. Lesse con aria attenta, poi spalancò la bocca e guardò Archie come se fosse lui, quello rapito dagli alieni.
«Madonna!» rispose scioccata. «Porca miseria, Archie! "La controversa diva di Erotica". Madonna, no? Come fai a sapere...?» aggrottò perplessa le sopracciglia e recitò: «"Massinissa"? Che razza di parola è?».
«Era il primo sovrano dell'antica Numidia. Corrisponde più o meno all'attuale Marocco».
Ruby lo scrutò con un sopracciglio inarcato e Archie si sentì avvampare. Chinò imbarazzato il capo, ma poi la ragazza appoggiò una mano sulla sua e ricominciò a ridere.
«Sei incredibile!» esclamò divertita. «Non sai chi è Madonna, ma...» s'interruppe e scosse il capo, liquidando la questione con un cenno della mano e un'occhiata affettuosa. «Sei incredibile, Archie» ripeté con tono gentile.
«E-ecco, suppongo che...» tentennò lui, grattandosi imbarazzato la nuca. «Ti prometto di ascoltare Madonna al più presto».
La ragazza serrò le labbra e trattenne a stento l'ennesima risata.
«No» scosse la testa. «Vai bene così. Tieni il tuo Massicoso».
Afferrò malamente uno strofinaccio e iniziò a lucidare distrattamente il bancone del bar. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma sembrava che la giovane nutrisse il bisogno di fare qualsiasi altra cosa. Teneva lo sguardo basso e la frangia gli ricadeva davanti agli occhi truccati, ma c'era un sorriso distante e dolce a incresparle le labbra. Archie rimase a studiarla con aria persa.
Ruby non era che una ragazzina e non c'era niente in lei che riportasse alla mente l'immagine di una giovane donna matura e organizzata. Era ribelle, testarda e nel corso degli anni aveva sviluppato una triste fama all'interno della noiosa comunità di Storybrooke. Archie non aveva mai dato peso a quei sciocchi pettegolezzi di strada. Ruby non era una ragazza cattiva: era solo curiosa.
Aveva appena terminato di bere il proprio caffè mattutino, quando sentì qualcuno picchiettargli con forza la spalla. Fu piuttosto stupito di ritrovarsi davanti il viso accigliato di Jeanette – a quell'ora avrebbe già dovuto essere in ufficio. Suo fratello Gideon, impagliato in un cappotto verde militare che gli ricadeva sulle spalle come una tenda bagnata, sembrava essere capitato da Granny's per un malaugurato scherzo del fato; tuttavia, sembrava piuttosto compiaciuto dalla possibilità di poter sbirciare Ruby pulire i tavolini del locale. Il suo sguardo furtivo indugiava sulle sue gambe nude e sulla curva delle minigonna scura. Archie si ritrovò a pensare che non sarebbe stata affatto una cattiva idea, se quella ragazza avesse smesso di ancheggiare con modi così provocanti. Era al corrente dell'effetto che faceva agli uomini o peccava solo di adolescenziale ingenuità?
Le unghie smaltate di viola di Jeanette iniziarono a tamburellare nervosamente sul bancone.
«Due caffè da portare via, Ruby» ordinò sgraziata. «Io e Gideon abbiamo fretta».
«Non dovreste già essere in ufficio?» si informò Archie.
«Avevo voglia di un caffè».
«Sì, ma--».
«Avevo voglia di un caffè» lo troncò di netto lei, sedendo sullo sgabello al suo fianco e accavallando le gambe.
L'orlo della gonna gli risalì quasi fino all'inguine, e Archie la trovò terribilmente volgare. I suoi occhi caddero di nuovo su Ruby, che armeggiava con movimenti esperti davanti alla caffettiera, e al modo sinuoso con cui i suoi fianchi ondeggiavano. Anche la sua gonna era molto, molto corta... molto più corta di quanto non sarebbe stato lecito immaginare, altrettanto volgare, eppure Archie non sarebbe mai stato in grado di fare un paragone fra le due donne.
Ruby appoggiò davanti a Jeanette i due grossi bicchieri di cartone e disse:
«Fanno tre dollari e novantacinque».
«Paga Archie» sentenziò spiccia l'altra, afferrando uno dei due caffè e porgendolo malamente al fratello.
«Paga Archie...» ripeté rassegnato il dottore, sistemando gli occhiali sul naso. «Naturale».
Ignorandolo spudoratamente, Jeanette sorseggiò un po' di caffè e fece una smorfia disgustata. Archie vide Ruby trattenere a stento la stizza.
«Se non è di tuo gusto, posso fartene un altro» sibilò a fatica, posando una mano sul bancone e schioccando minacciosa la lingua. «Nessun problema».
Il suo tono di voce pareva sottintendere tutta un'altra storia, ma Jeanette non se ne accorse.
«No, tesoro, non importa. Non credo riusciresti comunque a fare di meglio» buttò lì con un irritante sorrisetto lezioso. Archie fece per dire qualcosa, ma la donna proseguì: «C'è da pagare la rata della tua assicurazione, fra l'altro».
«Verrò in settimana, signorina Honestine» ringhiò fra i denti Ruby, portando una mano ai fianchi.
«Sono ottocento dollari» aggiunse Gideon, mentre soffiava sereno sul proprio caffè. «Non un dollaro in più, non un dollaro di meno».
Il viso di Ruby perse colore.
«O-ottocento... cosa?» balbettò in panico. «Ma è quasi il doppio rispetto all'anno scorso!».
«Le tariffe sono cambiate».
«Le vostre tariffe sono un furto!».
«Trovati un'altra compagnia assicurativa, tesoro» concluse con un occhiolino d'intesa Jeanette. «Oh, che sbadata. Non ce ne sono».
Gideon scoppiò in una risata priva di contegno, ma Archie scosse il capo e commentò:
«Andiamo, Jeanette: è una cifra irragionevole».
«Non è un mio problema» tagliò corto la donna. «Ci vediamo a casa».
Sistemò il bavero del cappotto e si diresse con passo superbo in direzione della porta, con Gideon che le trotterellava al seguito come un cagnolino. Archie rimase a fissarla con una sensazione di profondo imbarazzo nella pancia. Non aveva più il coraggio di alzare gli occhi su Ruby. La ragazza era rimasta paralizzata dall'altra parte del bancone e aveva iniziato a massaggiarsi debolmente una tempia.
«Ottocento dollari...» mormorò mesta. «E dove diavolo li trovo?».
«Mi dispiace» cercò di scusarsi Archie. «Jeanette a volte è così...».
«Stronza?».
Archie rimase interdetto.
«Stavo pensando a qualcosa come "sgradevole", ma temo che anche "stronza" possa calzare».
Ruby fece uno sbuffo sconsolato e si lasciò scivolare sul bancone, con la fronte appoggiata al finto marmo e le mani affondate fra i capelli. Archie deglutì a stento, poi fu colpito da un'idea improvvisa, istintiva, illogica.
«Te li presto io».
Lei alzò di colpo il viso e lo guardò come se lo vedesse per la prima volta.
«C-cosa?».
«Te li presto io, Ruby» ripeté con un sorriso gentile. «Ti prego».
«Io... io non... Archie, non posso accettare».
«Insisto».
Dopo qualche secondo in cui parve analizzare attentamente le possibilità che aveva davanti, Ruby cacciò un piccolo grido estasiato, girò di corsa attorno al bancone e gettò le braccia al collo di Archie. L'uomo ne rimase inebetito.
«Oh, cielo, Archie, grazie!» parlò in fretta, stringendolo in una morsa quasi soffocante. «Ti restituirò fino all'ultimo centesimo, te lo giuro! Oddio, sono così... grazie».
I capelli di Ruby profumavano di ciliegia e Archie non fu in grado di pensare ad altro per parecchi istanti. C'era qualcosa di sbagliato nel modo in cui si stava stringendo a lui, e qualunque cosa fosse, Archie era deciso a non ripensarci mai più. Le provocava sensazioni pericolose e lui, a certi sbalzi incontrollabili, era sempre stato poco avvezzo.
Quando gli occhi di Ruby incontrarono di nuovo i suoi, il cuore di Archie sembrò perdere un battito. I suoi occhi erano sempre stati così verdi? Lei sorrise con l'ardore di una ragazzina, si mordicchiò il labbro inferiore e tentennò appena prima di posargli un bacio leggero sulla guancia.
«Grazie, Archie».
Lui arrossì fino alle orecchie.
Che diavolo stava facendo?

*

«Un asino! Un asino!» ripeté incredula Red, mentre risaliva il piccolo sentiero che costeggiava la costa con aria allucinata. «Non posso crederci!».
«Tutta questa storia non ti ha aperto gli occhi sul potenziale della magia?» le domandò sbrigativo Jiminy, svolazzando a destra e a sinistra e tentando di aguzzare la vista fra gli anfratti della scogliera.
Red non rispose e Jiminy si fermò per poterla guardare in viso. Aveva il viso chino e un'improvvisa ombra scura aveva attraversato i suoi occhi.
«Perdonatemi» si affrettò a dire il grillo. «Non era mia intenzione mancarvi di rispetto. Sono così preoccupato per Pinocchio che mi è difficile concentrarmi su altro. Vi prego di scusarmi».
La ragazza scosse la testa e arrangiò un timido sorriso.
«Ma voi non avete detto nulla che non avreste dovuto dire» lo tranquillizzò Red. «Sono solo... suscettibile all'argomento, tutto qui. Coraggio, dobbiamo trovare il vostro burattino prima che finisca in guai più grossi di un paio di orecchie e una coda!».
Lei iniziò a correre lungo la riva, ma Jiminy era rimasto immobile.
«Che aspettate!?» lo incitò lei. «Non c'è tempo da perdere!».
Lui le si avvicinò e inclinò la testina con aria seria. Red non aveva mai visto un grillo del genere – come le sarebbe stato possibile farlo, d'altronde? - né probabilmente si era mai ritrovata a dare la caccia a un burattino trasformato in un asino a causa di una volpe e di un gatto parlanti, ma in quel momento trovò la situazione ancora più incredibile e assurda di quanto non avesse creduto. Gli occhi di Jiminy, o qualunque cosa fossero, lì sulla sua piccola faccetta verde, sembravano passarla da parte a parte.
«Qualunque cosa abbiate sepolto dietro il vostro sorriso scanzonato tornerà fuori, prima o poi» le confidò improvvisamente. Red trasalì. «Fidatevi di me. Torna sempre tutto indietro. Dovreste prepararvi a combatterlo con tutta la vostra tenacia. Affrontare se stessi è una battaglia feroce, ma doverosa».
«Cosa potete saperne, voi, di combattere contro noi stessi?» chiese piano lei, scuotendo il capo. Non c'era pena nel suo tono, né qualcosa in lei lasciava trapelare scherno o arroganza. Sembrava solo stanca. «Siete... un grillo».
«Non dovreste giudicare dalle apparenze».
Con un ultimo cenno del capo, Jiminy riprese a svolazzare davanti a lei e di tanto in tanto gridava il nome di Pinocchio. Red gli fu presto accanto a far eco ai suoi richiami agitati. Presto la costa di riempì delle loro voci – e forse fu solo un modo come un altro per lasciar perdere ricordi che ancora dolevano i cuori di entrambi.
Nonostante la lontananza, fu facile riconoscere i profili di Fox e Cat. Jiminy scattò come un piccolo fulmine non appena li vide. Le sue zampette torturavano nervosamente il manico dell'ombrellino e nella sua testa si era accesa una sola voce: "Fa' che stia bene, fa' che stia bene...".
«Pinocchio!».
Fox levò il muso e si girò lestamente verso di lui. Cat rizzò il pelo e soffiò un rauco avvertimento. Pinocchio era chino sulle ginocchia, con una grossa fune legata al collo di legno e il faccino spaurito e disorientato. Al sopraggiungere di Jiminy, il suo sguardo si riaccese di speranza.
«Jiminy!» strillò. «Jiminy, ti prego, aiutami! Vogliono vendermi al mercato! Vogliono portarmi via!».
«Non lo faranno» sentenziò con incredibile determinazione l'insetto, atterrando con grazia fra i sassi e appoggiando la punta dell'ombrello davanti a sé.
Red piombò di corsa dietro di lui, ansando un poco.
«L-lasciate andare il burattino» li minacciò con uno sguardo serio.
Cat parve perdere di colpo la propria baldanza, ma Fox rimase immobile, con gli occhiacci gialli fissi sul piccolo grillo e i denti aguzzi scoperti.
«No» ringhiò perfida. «A causa tua ho perso tutto, Jiminy».
«Dovresti pensare a cosa avresti potuto riavere... a cosa potresti ancora avere. Hai avuto la possibilità di cambiare vita, di cambiare forma, di--».
«Sono una volpe!» esclamò furiosa, piantando una zampa fra i sassi e chinando la testa in avanti. «Una dannata volpe! E tutto per causa tua!».
«Ed io sono un grillo, sì» rispose con estenuante pacatezza Jiminy. Red ammirò la sua capacità di mantenere la calma. «Ho finalmente trovato il mio posto nel mondo. Sono finalmente diventato la persona che ho sempre voluto essere. Perché ti è tanto difficile riuscire ad agire secondo coscienza, Fox? Come puoi non capire quanto di buono puoi--?».
«Chiudi la bocca!».
Con un balzo feroce, Fox si lanciò su di lui. Fu un gesto imprudente e sconsiderato: Red fu abbastanza lesta da frapporsi fra lei e Jiminy. La sua mano si infilò lesta nel cestino e quando ne riemerse le sue dita sottili stringevano l'impugnatura di un piccolo coltello. La lama scintillava pericolosamente alla luce del sole.
«No, Red, ferma!» gridò Jiminy, allarmato.
«Sta' lontana da lui» lo ignorò la ragazza, muovendo un passo in direzione di Fox. «Non osare toccare nessuno di loro o giuro che ti trasformo in una pelliccia».
«Jiminy...» pigolò Pinocchio. «Jiminy, aiutami...».
Le narici di Fox fremettero di rabbia. Alle sue spalle, Cat aveva chinato tremante il muso.
«Fox, forse dovremmo...».
«No, non dobbiamo» gli ordinò perentoria. Il suo sguardo rimase fermo sul viso di Red. Per un momento parve intenta ad annusare l'aria, poi la sua ira parve trasformarsi un sogghigno derisorio. «Tu non sei umana».
La giovane rimase impietrita e quel poco colore rimasto sul suo volto svanì di colpo. Jiminy non riuscì a capire il senso delle parole di Fox, ma si disse che non era il problema principale. Doveva liberare Pinocchio – e si ripromise di ripensare a Red più tardi.
«Lascia andare Pinocchio, Fox» la pregò con tono diplomatico. «Non assecondare il lato malvagio del tuo animo».
«Malvagio?» sussurrò malignamente la volpe. «Dimmi, Jiminy, hai una mezza idea della creatura con la quale stai girovagando?».
«Sta' zitta!» la fermò concitata Red, mostrandole il pugnale con sguardo di fuoco. I suoi occhi bruciavano quanto quelli di una belva furiosa e Jiminy ne rimase sconvolto. «Tu non sai niente!».
«No, ma posso sentirti. Di te parla ogni creatura dei boschi: sei l'assassina».
Red non fu in grado di sopportare oltre. Carica di cieca furia, brandì il pugnale verso Fox; la volpe fu agile a schivarlo e si appiattì sul terreno. Il suo muso era deformato in una maschera di insano odio, ma ancor più evidente era la paura che aveva iniziato ad attanagliarla. Arretrò di qualche passo, lasciando la presa sulla fune che legava Pinocchio e scambiò un'occhiata eloquente con Cat.
«Tornerò» sibilò astiosa. «Tornerò e farò a pezzi tutti e due».
Né Red né Jiminy cercarono di bloccare la loro fuga. Attesero che entrambi gli animali si fossero allontanati, poi Red si chinò e aiutò Pinocchio a liberarsi dai nodi. Il burattino le gettò le braccia al collo. La ragazza sgranò gli occhi, stupita.
«Grazie!» squittì in lacrime. «Non disubbidirò mai più, lo giuro! Sarà un burattino buono, lo giuro!».
Jiminy si schiarì nervosamente la voce.
«Me lo auguro. Spero che questa triste avventura possa esserti di lezione, Pinocchio».
«Non devo dare retta agli animali» annuì compito il burattino. «Solo ai grilli che parlano».
L'insetto roteò comicamente la testa e scosse il capo.
«Non era esattamente quello che intendevo, Pinocchio. Io--».
«Corriamo a casa, Jiminy!» lo interruppe eccitato lui, iniziando a correre verso la scogliera. «Torniamo dal babbo!».
«Pinocchio!» lo ammonì preoccupato Jiminy, librandosi ancora in aria e muovendo una zampetta con aria imperiosa. «Torna qui! Non correre! Ti farai male! E... basta, ci rinuncio» si fermò ed esalò un lungo sospiro. «Vi ringrazio, Red. Non sarei mai riuscito a salvarlo senza il vostro aiuto».
La giovane giaceva ancora sui sassi e si fissava le mani con espressione addolorata – quasi umiliata.
«Non credo» mormorò con un filo di voce. «Siete un grillo in gamba, Jiminy. Sono certa che avreste trovato da voi una soluzione intelligente».
«Sì, ma temo che Fox mi avrebbe comunque mangiato».
Red si lasciò andare ad un timido sorriso.
«Perché non venite con noi?» le suggerì con un velo di incertezza. «Geppetto sarebbe lieto di stringere la mano alla ragazza che ha salvato la vita di suo figlio».
«Non ho fatto niente...».
«La maggior parte della gente non avrebbe mai preso seriamente un grillo che parla di burattini animati, volpi e gatti... perciò, sì: temo che abbiate fatto tanto».
Lei serrò le labbra e iniziò a giocherellare nervosamente con un piccolo sasso grigio.
«Io... io n-non...».
«A me non interessa qualunque cosa voi siate» la aiutò lui. «Siete una persona dall'animo buono e gentile, e questo mi è sufficiente».
«Quella volpe non mentiva, Jiminy» sputò fuori Red, e sembrava proprio che ogni parola le fosse costato uno sforzo disumano. «Io sono davvero un'assassina».
«Ed io ero un ladro» le confidò tristemente. «Vi prego. Fidatevi di me. Qualunque sia il vostro segreto, vi giuro che non lo tradirò».
Red alzò gli occhi e scrutò insistentemente l'insetto. Il suo tono era sincero e lei non avrebbe mai dubitato della sua parola; era la sua determinazione a lasciarla perplessa. Avrebbe avuto il coraggio di starle accanto, se avesse saputo ciò che poteva davvero fare? Lui non era che un misero grillo, dopotutto e lei – quell'altra, quell'altra cosa che doveva controllare – avrebbe potuto ridurlo in briciole con una sola zampata. Eppure le parole le uscirono da sole dalle labbra. C'era qualcosa di confortante nella sua voce assennata, qualcosa di paterno, di giusto.
«Grazie, Jiminy».

*





Note: La storia di Pinocchio è ovviamente stravolta – di nuovo, Collodi, scusa. Nella versione della Disney è la Fata Turchina a dar vita al burattino, mentre nel romanzo Pinocchio prende vita da sé poiché il legno di cui è fatto è magico. Mi pare che nel film di Comencini, invece – non ne sono certa, sono secoli che non lo guardo – Geppetto si alzi una mattina con il ragazzino che gli scorrazza per la cucina. Ad ogni modo, questo è quanto. :)
P.s.
Anche il parrucchino biondo è un richiamo al romanzo.

Trick

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Capitolo 3
*** L'orologio ***


Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 3 - L'orologio

*

«Non sei obbligata a farlo, Red».
La ragazza alzò la testa verso il piccolo grillo appollaiato sulla sua spalla. Era nascosti in un folto cespuglio di more a qualche miglio di distanza dal castello di Regina ormai da parecchio tempo, ma nessuno dei due aveva ancora avuto il coraggio di parlare. L'aria fra di loro sembrava rarefatta.
«Certo che lo sono» mormorò piano lei, lisciando una piega inesistente nella gonna. «E lo sei anche tu».
«No, non--».
«Jiminy» lo ammonì con un sorriso tirato. «Ne abbiamo già discusso. Qualcuno deve occuparsi delle guardie della regina e io sono l'unica che può uscirne illesa».
«Stiamo agendo con troppa irruenza. Sono certo che si possa trovare una soluzione più sicura».
Red emise un vago sbuffo divertito.
«Forse, ma non sarebbe la più efficace».
Il piccolo insetto abbassò le antenne, scuotendo debole il capo. Aveva trascorso intere nottate a tormentarsi nella ricerca di un piano diverso, più saggio, che non comportasse sguinzagliare la bestia che si annidava in Red contro gli eserciti di Regina, ma aveva fallito. Complice la forte amicizia che la legava a Snow White, la ragazza aveva deciso di acconsentire a quella pazzia. Jiminy temeva che ne avrebbe portato i segni per troppo tempo; forse non riusciva a rendersi conto dell'entità di ciò che si stava per fare – e forse non lo aveva capito nemmeno lui.
Ma dovevano fare qualcosa, e questa era purtroppo l'unica certezza che era rimasta a tutti loro. Il principe James era in balia della regina e non potevano permettere che il regno cadesse nelle sue perfide mani. Eppure Jiminy aveva tanto sperato che si fosse potuto trovare un metodo meno barbaro... qualcosa che non comportasse la sofferenza di Red.
«Red, non--».
«No, Jiminy» lo interruppe con maggiore decisione. «Smettila, o finirai per convincermi sul serio e io non combinerò niente. Devo farlo. Tutti e due dobbiamo farlo. Non puoi mollarmi adesso: ho bisogno di te. Qualcuno deve cacciarmi addosso il mantello».
«E se non potessi farlo?».
Lei gli rivolse un'occhiata interrogativa.
«Sei Jiminy Cricket» disse con naturalezza. «Sei quello che riporta la gente alla ragione. Certo che puoi farlo. Sei l'unico che può farlo. Non posso rischiare di...» si bloccò d'un tratto e fece un breve sospiro. «Tu sei un grillo. Non ti mangerei mai, mi rimarresti sullo stomaco».
Jiminy intuiva il suo bisogno di sdrammatizzare la questione, ma non riusciva a lasciarsi andare. In un'altra occasione avrebbe riso – rideva sempre, con lei – ma non in quel momento. Non lì, non sotto la luna piena che sembrava prenderli in giro, non con quel compito oneroso che si era visto poggiare sulle piccole spalle.
«Riportami qui, Jiminy. Sei l'unico che può farlo senza attirare l'attenzione della regina. Tu sei...».
«Piccolo, verde e pressoché invisibile» ripeté lui per la centesima volta. «Sì, e tu stai per commettere un grave errore di cui rischi di pentirti».
«Forse» rispose con voce grave la ragazza, lanciando un'occhiata penosa alla luna. «Ma avrò la fortuna di avere una vocina al mio fianco con il buon senso di ricordarmi perché l'ho fatto».
Gli rivolse un ultimo sorriso triste e si alzò in piedi. Jiminy le svolazzò apprensivo accanto e trasalì nel vederla slacciare la corda che teneva stretta la mantella magica.
«Red, sei ancora--».
«Jiminy, non costringermi a mangiarti sul serio» cercò di scherzare. Poi il suo sguardo si fece nuovamente serio e la sua voce tremò di paura. «Farai in fretta?».
Lui cercò di soffocare in un angolo della gola la propria rassegnazione e annuì debolmente.
«Come se avessi le ali, amica mia».

*

I colpi alla porta sopraggiunsero così improvvisi e violenti che Archie e Marco sobbalzarono allo stesso modo.
Erano seduti sul divano dello studio del dottore e avevano appena deciso che sarebbero andati da Granny's per uno spuntino. Era un rituale che si ripeteva spesso, il loro, e nessuno dei due uomini vi avrebbe mai rinunciato – inoltre Archie era l'unica conoscenza di Marco disposta a mangiare le croste del pane che scartava. Si conoscevano da così tanto tempo che talvolta stentavano entrambi a ricordare da quanto tempo fossero così in intimità. La loro era una di quelle amicizia rare e ponderate che cresce con la calma e la forza di una quercia, con le radici solide e le foglie che cadono, sì, ma poi ricrescono sempre all'arrivo della primavera. Talvolta non avevano nemmeno bisogno di parlare. Si capivano e basta, come se fosse questione di alchimia, come se fosse magia.
«Archie!» strillò la voce infuriata di Jeanette dal corridoio. «Aprimi!».
Marco emise un lungo e sfibrato gemito di disappunto, ma Archie lo ignorò e si diresse con calma verso la porta. Era perfettamente a conoscenza della scarsa opinione che l'amico aveva sempre riservato a Jeanette e per quanto avesse cercato di mostrarne anche i lati positivi, aveva sempre fallito. Quando Archie gli confidava questa o quella cosa combinata da Jeanette, le sue mille paranoie, le sue sbottate, i suo problemi con Pongo, Marco scuoteva la testa con un sorrisino saputo e ripeteva a oltranza quanto ritenesse illogica la loro relazione. Non avrebbe potuto avere più ragione di dirlo.
Archie non aveva ancora aperto la porta del tutto che Jeanette aveva già iniziato a sventolargli davanti al viso un plico di fogli bianchi. Sembrava particolarmente arrabbiata.
«Che significa!?» sbottò di colpo, del tutto incurante della presenza di Marco sul divano. Lui, d'altronde, sembrava stesse cercando di nascondere un sorrisetto inopportuno. «Che diavolo vuol dire, Archie!?».
«C-cosa?» chiese confuso l'interessato. «Di cosa stai parlando?».
«Di questo!» gridò enfaticamente lei, lanciando i fogli sulla scrivania del dottore. «Di te! Di Ruby Lucas! Di te che le paghi l'assicurazione della macchina! Di', che ti è passato per la testa!?».
L'uomo si aggiustò compostamente gli occhiali e sbirciò rapidamente i resoconti dei suoi movimenti bancari che Jeanette aveva portato. Poi la sua bocca si storse in una vaca smorfia infastidita.
«Perché controlli il mio conto corrente?».
«E perché tu le paghi la macchina!?» ribatté la donna piccata, sbattendo un tacco sul pavimento con stizza. Poi sul suo viso comparve un'espressione di feroce comprensione e le sue palpebre si assottigliarono come quelli di una belva in procinto di attaccare. «Vai a letto con quella ragazzina!?».
Marco non riuscì a trattenersi oltre e cercò malamente di nascondere una mezza risata nel bavero del cappotto. Al contrario, Archie era arrossito e aveva sgranato sconcertato gli occhi, incapace di credere alle parole che aveva appena sentito.
«Ma che... certo che no» rispose in fretta, fissando incredulo la donna dinanzi a sé. «E non... non le ho pagato la macchina. È solo un prestito».
«Un prestito!? È così che si chiama, ora?».
«È così che si è sempre chiamato, Jeanette».
Lo sbuffo di Marco costrinse Jeanette a voltarsi verso di lui. L'uomo teneva il capo appoggiato alla mano e tutto sul suo viso lasciava trasparire il proprio divertimento. Archie avrebbe voluto ammonirlo, lanciargli qualsiasi oggetto contundente, ma la verità era che la reazione scanzonata di Marco gli impediva di prendere seriamente l'insana sfuriata di Jeanette. Ed era quello che aveva sempre cercato di fare, dopotutto: smetterla di prenderla sul serio ogni volta.
«Cosa può mai farti così tanto ridere?» sibilò Jeanette verso Marco, puntandogli contro l'indice. «Cosa c'entri tu in questa storia?».
L'uomo inarcò un sopracciglio e la scrutò come avrebbe scrutato un nido di tarle nel suo amato legname. Si grattò distrattamente il capo e rispose:
«Ne sono del tutto estraneo, grazie a Dio! Solo un pazzo vorrebbe avere a che fare con te – sì, Archie, un pazzo».
Le gote di Jeanette si tinsero di rosso. Archie la vide serrare con forza i pugni.
«Come ti permetti?» sussurrò rabbiosa. «Non hai alcun diritto di intrometterti nella nostra--».
«Sì, Jeanette, ti ringrazio» la interruppe con calma il dottore, aprendo la porta e indicandole l'orologio appeso al muro. «Credo che tu debba tornare in ufficio, adesso».
Gli occhi scuri della donna si soffermarono a lungo su di lui. Archie sostenne il peso del suo sguardo accusatorio. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo. Non sapeva nemmeno dove avesse trovato la forza di aprire la bocca. Aveva solo la sensazione di averne avuto abbastanza per quel giorno – forse per tutta la vita – e ora non desiderava altro che afferrare il proprio cappotto e andare con Marco da Granny's. Una vocina nella sua testa lo ammonì timidamente. "Perché vuoi andare da Granny's?", "perché la vista di Jeanette ti provoca questo strano fastidio?", "perché proprio adesso, cos'è cambiato?". Non aveva né tempo né voglia di indagare oltre la natura di quel nuovo dilemma. Aveva l'impressione di muoversi nella vita di un'altra persona, di scandagliare ciò che gli stava accadendo com'era solito fare con le storie dei propri pazienti. Ed era incredibile, ancora più incredibile dell'improbabile accusa di Jeanette di avere una storia con Ruby – quella era la più assurda delle assurdità – perché l'unica persona che Archie non era mai stata in grado di psicoanalizzare era se stesso. Non ci aveva mai nemmeno provato.
Ma quella volta c'era qualcosa di diverso nell'indignazione sul volto di Jeanette. C'era qualcosa che non riusciva più a tollerare, qualcosa nella sua voce, qualcosa nel acuto tintinnare dei suoi bracciali d'oro, qualcosa in lei.
«Ci vediamo a casa, Jeanette».
Archie riuscì quasi a leggerle nelle mente. Lo avrebbe davvero fatto a pezzi? La signora Lucas ne era sempre stata così convinta che ora l'eventualità non gli appariva nemmeno tanto remotamente quanto avrebbe dovuto. E invece Jeanette sollevò le dita tremanti, si passò una mano fra i capelli e rimase immobile, profondamente offesa. Senza aggiungere altro, se ne uscì sbattendosi la porta alle spalle. Archie si gustò il meraviglioso suono del silenzio.
«Ehi» lo richiamò Marco qualche secondo dopo. «Che ti sta succedendo?».
Archie prese il proprio cappotto e guardò l'amico con espressione distante. Marco lo stava fissando con un sorriso incredulo sulle labbra e un lampo soddisfatto negli occhi.
«Di che parli?».
«Hai cacciato Jeanette dal tuo studio» ribadì con una risatina. «Santo cielo, Archie... erano anni che aspettavo di vedertelo fare. Quando la butterai anche fuori di casa?».
«Sono solo sciocchezze, Marco».
«E questa storia che paghi la macchina alla giovane Ruby, cosa--?».
«Io non le sto pagando la macchina» esclamò esasperato il dottore, sfilando il vecchio giubbotto dell'amico dall'attaccapanni e lanciandoglielo addosso. «È solo un prestito».
Marco acciuffò al volo il giubbotto e si lasciò andare ad una risatina.
«Lei ti piace, eh?».
Archie arrossì per l'ennesima volta.
«Ma che...? No. Marco, per l'amor del cielo...».
«Va bene, va bene... lasciamo cadere la questione» tagliò corto l'uomo, sollevando una mano in segno di resa. Si cacciò il berretto in testa e rivolse all'amico un'ultima occhiata eloquente prima di precederlo nel corridoio. «Ma ti sta succedendo qualcosa, amico mio. Ti suggerisco di rivalutare un po' cosa vuoi fare della tua vita».
Era quello il problema alla base di ogni cosa, pensò fra sé Archie: non ne aveva la minima idea.

*

Jiminy non aveva mai visto una creatura tanto grossa e feroce quanto il lupo che si ergeva davanti a lui. La luce della luna scintillava sul suo ispido pelo grigio, le sue gigantesche zanne gocciolavano sangue sull'erba umida e ad ogni suo passo la terra sotto le zampette di Jiminy pareva tremare. Intimorito, il piccolo insetto respirava appena.
Non appena aveva visto cos'era rimasto degli uomini di Regina – cosa Red ne avesse fatto – era raggelato. Ancora una volta, aveva tremendamente sottovalutato la situazione.
Si librò all'altezza del muso della creatura e iniziò a ondeggiare a destra e a sinistra. Sperava solo di essere abbastanza svelto da scampare alle sue fauci.
«Red?» pigolò insistente. «Red, sii brava, vieni con me».
Il lupo cacciò un poderoso ululato e il cuoricino di Jiminy perse un battito. La notte si stava facendo sempre più fredda e il vento che soffiava fra le fronde della foresta sembrava voler imitare il raccapricciante verso dell'animale.
«Vieni!» la incitò con forza l'insetto. «Seguimi!».
Fu questione di un istante. Il grosso lupo balzò nel grossolano tentativo di afferrare Jiminy, ma era troppo piccolo e sfuggente; evitò con facilità i suoi artigli e iniziò a volare con tutte le proprie forze in direzione dei grandi alberi che costeggiavano il limitare del castello. Le sue piccole ali fremevano ansiose, mentre l'eco sordo delle zampate di Red gli tuonava nelle orecchie.
«Coraggio, coraggio...» si disse, voltandosi appena per controllare che il lupo lo stesse ancora seguendo. «Avanti, ci sei quasi...».
Non appena ebbe raggiunto il cespuglio dietro il quale era stato nascosto con Red, schizzò verso l'alto e svanì fra le foglie scure dei rami più bassi. Il lupo si fermò ai piedi del tronco, si alzò sulle zampe anteriore e cercò di arrampicarsi con fare grossolano. Si levò un secondo ululato carico di rabbia e proprio quando pareva che la creatura sarebbe scomparsa nella foresta, Jiminy riuscì a far scivolare la mantellina magica dal ramo sul quale Red l'aveva lanciata alla testa delle creatura ringhiante. Attese di vedere il potere della stoffa fare effetto, e solo quando fu in grado di scorgere la piccola mano pallida di Red fare capolino nell'erba riprese a respirare.
Scivolò lentamente su di lei, incapace di trattenere la propria preoccupazione.
«Stai bene?».
La giovane fece un mormorio doloroso e si alzò a carponi. Jiminy si ritrasse sconcertato: grossi rivoli di sangue scendevano dalle labbra al mento, inzuppandole il collo e la camicetta. Red si coprì una mano con il viso, poi si piegò in avanti e diede di stomaco. Incurante dell'acre odore del sangue fresco, Jiminy le volò accanto.
«Sono qui, Red».
«S-sì...» mormorò lei, ripulendosi distrattamente il viso con il cappuccio rosso. «Sei s-stato... b-bravo».
«Riesci ad alzarti?».
«Oh, credo proprio di sì...» esalò con enorme fatica lei, aggrappandosi saldamente al tronco dell'albero e rimettendosi in piedi. «Ho solo la pancia un po' appesantita».
«Red».
«No, Jiminy» lo fermò di colpo lei, alzando un indice a mo' di monito. «Non è il momento di parlare. Dobbiamo tornare da Snow al più presto».
Il grillo la precedette nel bosco, voltandosi di tanto in tanto per controllare che stesse bene. Il volto di Red era verdognolo e i suoi occhi erano stanti e arrossati. Continuava a stringere febbrilmente l'orlo del mantello. Dopo qualche minuti, per Jiminy fu troppo. Si bloccò e la guardò in viso con aria incredibilmente serie.
«Non commiserarti. Hai fatto ciò che era giusto fare».
Parve stupita dalle sue parole. Inclinò piano la testa e gli fece un sorriso tirato.
«Da quando Jiminy Cricket sostiene spargimenti di sangue?».
«Da quando tu ne hai bisogno» ribatté d'impulso l'insetto. Abbassò la piccola testa e fece un lieve sospiro. «Red, tu non sei un mostro».
Le labbra della ragazza si piegarono in una smorfia scocciata.
«No... certo che no» sbuffò sarcastica.
«Non è stata tua la scelta di essere il lupo, ma l'hai combattuto ugualmente con indomito coraggio e ora che quasi potresti controllarlo, ora che possiedi quest'arma terrificante, continui a non volerla utilizzare per il tuo tornaconto. Hai idea di come potresti sfruttare la paura degli uomini a tuo favore?».
«È una cosa orrenda, non--».
«Ed è questo che non ti rende un mostro. Ti rende... te. E tu sei una persona meravigliosa».
Red dischiuse le labbra, ma non disse una parola. Rimase a guardare il piccolo amico con un'espressione grata e vagamente incredula, le braccia incrociate al petto e un sopracciglio appena inarcato.
«Sai, se non avessi appena cenato ti schioccherei un bacio fra quelle adorabili antenne, Jiminy» ridacchiò lei, scuotendo la testa.
«Ti prego, non farlo: sono sempre stato un disastro con le donne».
Red scoppiò a ridere e Jiminy si riempì di orgoglio nel sapere di averle riportato il sorriso. Non importava che fosse destinato a durare poco, non importava che il plenilunio sarebbe tornato presto, non importava nemmeno che la battaglia con Regina fosse ormai irrimediabilmente alle porta: lui avrebbe trovato il tempo di sentire la sua risata in qualunque posto.

*

Archie si appoggiò al davanzale della finestra con la tazza di camomilla bollente fra le mani. Si sentiva terribilmente stanco, ma non riusciva a prendere sonno. Sentì la risata sguaiata di Jeanette provenire dal salotto e si domandò quanto ancora mancasse al termine di quello stupido programma televisivo. Soffiò distrattamente sull'infuso bollente e la sua mente si spostò sul piccolo Henry. Non poteva credere che fosse davvero andato a cercare la madre biologica, alla fine. Quella storia stava prendendo una piega alquanto complessa, e Archie temeva per la sicurezza psicologica del ragazzino. Regina non l'avrebbe presa affatto bene e lui, il medico pagato per controllare gli sviluppi del ragazzo, si sarebbe trovato in un sacco di guai.
Non poteva smontare le sue storie di fate e orchi. Regina avrebbe potuto ripeterglielo all'infinito, ma Archie aveva troppo a cuore l'interesse di Henry per fare una cosa simile.
Aveva appena appoggiato le labbra alla tazza, quando la sua attenzione fu calamitata dalla torre del comune di Storybrooke. Assottigliò le palpebre e per qualche momento credette di doversi ripulire gli occhiali.
Il grosso orologio segnava le nove e trenta.
Archie scosse stupefatto il capo e fece una smorfia divertita.
«Ehi, Jeanette!» esclamò. «Vorresti indovinare cos'ha appena ripreso a funzionare?».
Non ricevendo risposta, Archie si diresse verso il salotto, si appoggiò allo stipite della porta e si rivolse direttamente alla donna. Jeanette era abbandonata sgraziatamente sul divano, con i piedi appoggiati sul pouf e lo smalto fresco che brillava alla luce del televisore. Stava guardando uno di quei ridicoli programmi reality che tanto la facevano sghignazzare.
Jeanette lo scrutò torva.
«Che vuoi? Sto guardando la tv».
«L'orologio funziona» ripeté lui, indicando la finestra con un cenno del capo.
Lei fissò distrattamente oltre il vetro, fece le spallucce e tornò a concentrarsi sul programma televisivo.
«Sai quanto me ne importa di quello stupido orologio».
Archie rimase a fissarla con sguardo perso. Guardò i suoi capelli rossi, così volgari, così tinti, acconciati malamente sulla cima del capo; i suoi polsi magri e le dita ossute che stringevano il telecomando; i suoi piedi secchi, con le unghie rosse e squadrate, e poi c'era la sua risata, così grassa, così sfrontata, così fastidiosa... e poi qualcosa nella testa di Archie si ruppe.
Le sue labbra si incresparono in un vago sorrisetto. Scuoteva divertito il capo e poco dopo scoppiò in una risata febbrile. Attraversò a grandi passi il salotto, si diresse in camera da letto ed estrasse una valigia dall'armadio. Mentre vi riponeva all'interno i propri abiti, aveva preso a fischiettare e canticchiare una vecchia filastrocca per bambini. Chiunque lo avesse visto in quel momento, con la faccia stralunata di folle spensieratezza, gli avrebbe suggerito un bravo psichiatra.
«When you wish upon a star» borbottava allegramente, arrotolando con gesto sicuro le cravatte. «Makes no difference who you are...».
La voce di Jeanette riempì d'un tratto le pareti.
«Archie! Che diavolo stai facendo?».
«Anything you heart desires...».
«Archie!» gridò di nuovo la donna, facendo finalmente capolino nella stanza. Spalancò la bocca nel vederlo in procinto di fare i bagagli e lo fissò sconcertata. «Che stai facendo!?».
«Me ne vado» rispose con naturalezza. «Mi sembra ovvio».
«Tu... cosa!?».
Lui la fissò con espressione raggiante. Poi sfilò gli occhiali, li ripulì con noncuranza e aggiunse:
«Oh, è una cosa che desideravo fare da anni!».
Richiuse la valigia con un colpo secco e superò canticchiando Jeanette. La donna non sembrava in grado di muoversi. Era rimasta immobile, con la mano appoggiata sullo stipite e lo smalto fresco ormai del tutto sbavato.
«Archie!» cercò di fermarlo dopo qualche istante, correndo lungo la sua scia. «Archie, non essere ridicolo, cosa sta...?».
«When you dream come true...!».
«Smetti di cantare!».
Jeanette si infilò le mani fra i capelli. Aveva un'aria allucinata quanto quella dell'uomo che armeggiava con la sciarpa.
«Mi stai... lasciando?» sibilò con gli occhi fuori dalle orbite.
«Sì» rispose senza la minima esitazione lui, regalandole un sorriso da orecchio a orecchio. «Non ti senti incredibilmente più leggera?».
«No!».
«Beh, dovresti».
Aprì la porta e infilò il sentiero del cortile senza voltarsi. Poi portò l'indice e il pollice alla labbra ed emise un lungo fischio acuto. Si udì l'eco di un cane abbaiare dal retro del giardino, e pochi istanti dopo il dalmata era già al suo fianco e scodinzolava felice. Archie gli carezzò rapidamente la testa. Jeanette lo seguì fino in strada, tenendosi stretta la vestaglia verde e strascicando le ciabatte di pelo.
«Non puoi andartene!» strillava furiosa. «Non puoi, Archie! Non puoi!».
«Makes no difference who you are...».
«Sei pazzo! Tu sei pazzo!».
Archie si voltò sul marciapiede, sistemò il cappello sulla testa e scoppiò in una risata liberatoria.
«Non lo trovi meraviglioso?».
«C-cosa?» balbettò lei, aggrappandosi disperata al cancellino. «Archie!».
Ma lui si era già incamminato, e Jeanette non poté far altro che guardarlo allontanarsi dalla casa – la loro casa – e da lei. Sentì la rabbia sostituire rapidamente l'iniziale stupore. Era come se qualcuno le avesse gettato addosso una secchiata d'acqua gelida. Si sentiva svuotata, stordita, tradita.
«Archie, io ti amo!».
La risata pazza di Archie risuonò ancora una volta per la via deserta.
«No, tesoro, non lo hai mai fatto!» la corresse placidamente. «E grazie al cielo nemmeno io!».
A Jeanette non rimase altro che l'orripilante ricordo di quella ridicola canzoncina nelle orecchie. Archie si affrettò a muoversi nella notte, fischiettando beato e correndo di tanto in tanto, divertendosi nel vedere Pongo trotterellargli dietro con aria altrettanto libera. C'era qualcosa di pazzo nell'aria di quella sera, qualcosa che Archie non aveva mai assaporato, e qualunque cosa fosse ne era già inebriato.
Quando varcò la soglia del bed&breakfast della signora Lucas, stava ancora cantando. L'anziana donna era seduta su una poltroncina del modesto soggiorno, ma sollevò di colpo il volto dal lavoro a maglia che stava portando avanti. Strabuzzò gli occhi nel ritrovarsi Archie davanti, con quel sorriso idiota sulla faccia e gli occhiali storti.
«Buonasera» la salutò con brio. «Credo di aver bisogno di una camera».
Ripresa dallo shock iniziale, la signora Lucas si alzò in piedi e si avvicinò cauta a lui.
«Archie, ti senti bene?».
«Ho lasciato Jeanette».
La donna rimase ammutolita. Lo scrutò con incredibile serietà per qualche istante, con le labbra serrate in una linea rigida, poi scoppiò a ridere. Dovette appoggiarsi al piccolo bancone e nel vederla tanto felice Archie si ritrovò a farle rapidamente eco. Le loro risate attirarono l'attenzione di Ruby, che si sporse dalle scale e mostrò lo stesso sconcerto della nonna nel ritrovarseli entrambi in quelle condizioni.
«Porca misera» affermò sconvolta. «Siete ubriachi».
Archie cercò di mantenere il proprio contegno, ma l'espressione di Ruby era terribilmente buffa e quella notte c'era davvero qualcosa di pazzo, assurdo e scanzonato e fuori di testa là fuori. La guardò negli occhi e sorrise come un ebete.
«Non ancora» rise. «Avresti del bourbon?».

*






Note: Ciò che capita nella Foresta Incantata si rifà all'episodio 01x20, dove Red pare banchettare con i soldati di Regina – o così mi pareva di ricordare, almeno. So solo che ho adorato la battuta di Grumpy: «Ehi, Red, hai del sangue proprio qui».
Archie canticchia When You Wish upon a Star, ovviamente, l'adorabile canzone che Cliff Edwards canta nei panni di Jiminy Cricket nella versione originale di Pinocchio.
Mi sembrava stranamente calzante.

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