Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso di Trick (/viewuser.php?uid=21078)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ladro ***
Capitolo 2: *** La volpe ***
Capitolo 3: *** L'orologio ***
Capitolo 1 *** Il ladro ***
Storia
di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 1
- Il ladro
*
L'Osteria
del Gambero Rosso era il più noto rifugio di ladri e
mascalzoni del
reame, ma la zuppa di cipolle che lì veniva servita era fra
le più
saporite – era fatta con tutto meno che le cipolle. Era una
casupola diroccata, con il tetto di legno basso, i vetri delle
finestre sporchi e anneriti dal fumo e dal tempo e il pavimento
sporco e appiccicaticcio. Quel postaccio puzzava del sudore di cento
vite trascorse nello schifo e nella miseria, ma Jiminy non conosceva
nessun altro posto. Non aveva mai conosciuto altri posti.
Sedeva
in un piccolo tavolo accanto alla porta, con le mani strette attorno
a un bicchiere dall'aspetto rozzo e lo sguardo fisso sulle schegge di
legno. Gli occhiali giacevano abbandonati a pochi centimetri dal
suo gomito e di tanto in tanto si massaggiava le palpebre con
espressione straziata.
Era
così stanco della sua vita, era così
frustrato...
quante volte aveva già tentato di andarsene? Quante ancora
aveva
cercato di mostrare ai propri genitori quanto inutili fossero le loro
continue frodi?
«Non
essere sciocco, Jiminy»
continuavano a ripetergli. «Che
assurdità, Jiminy»,
«È ora di crescere, Jiminy»
e lui abbassava la testa con aria rassegnata e riprendeva il proprio
lavoro. Sapeva di aver scelto la scorciatoia più breve, ma
non
riusciva a sfuggirne. Talvolta si domandava se avesse davvero tentato
di cambiarli – di cambiare se stesso fino in fondo
– e il solo
motivo per il quale non era ancora giunto a nessuna conclusione era
che preferiva non sapere cosa avrebbe concluso. Era veramente la
scelta più facile, quella di Jiminy, e lui lo sapeva: era
questo che
la rendeva anche la più infelice.
«Jiminy,
amico mio!» risuonò di colpo una voce squillante.
L'uomo
sollevò la testa ed emise un lieve gemito sconsolato nel
riconoscere
i due giovani che si avvicinavano al tavolo.
Indossavano
vesti cenciose e i loro visi era macchiati di fango e terriccio. La
più alta stringeva fra le mani un vecchio bastone ricurvo e
sogghignava divertita, mentre l'altro le trotterellava servizievole
alle calcagna. Si facevano chiamare Fox e Cat: nessuno sembrava
essere a conoscenza dei loro veri nomi.
Fox
afferrò una seggiola dal tavolo accanto, la
piazzò davanti a Jiminy
e vi si sedette al contrario, appoggiando le braccia allo schienale.
Fox non era particolarmente avvenente, ma era dotata di una
parlantina intrigante e i suoi modi di fare avevano la
capacità di
incantare la gente. Il suo viso era spigoloso, la fronte alta e i
lunghi capelli rossi le ricadevano in ciocche stoppose sulle spalle.
Sebbene fosse ben più basso e tozzo e avesse corti capelli
scuri, il
fratello le assomigliava in maniera incredibile. Quel giorno aveva
due ridicoli occhialini scuri calati sul naso.
«Abbiamo
in ballo un affare che potrebbe interessarti»
affermò con un
occhiolino Fox. Prese il bicchiere di vino di Jiminy e
iniziò a bere
con naturalezza.
«Prego,
fa' pure» soffiò lui con debole ironia,
appoggiando la testa al
dorso della mano e scrutandola accigliato.
«Sì,
sì, grazie» tagliò corto lei.
«Cat, idiota, siediti».
Mentre
il ragazzo si guardava in giro alla ricerca di una sedia vuota, Fox
si allungò verso Jiminy con espressione complice. Il suo
alito
sapeva di birra e cipolla.
«C'è
un villaggio che sta andando in rovina poco distante da qua»
iniziò
a raccontare a bassa voce. «Dicono che la gente stia
scappando per
colpa di un lupo, o una cosa del genere. E quando la gente scappa,
dimentica un sacco di cose. Un gioco da bambini, ma ci serve qualcuno
che ci faccia da palo» aggiunse, schioccando eloquentemente
le dita.
«Cioè tu, amico mio. Poi si divide in tre come
sempre, parola
d'onore».
«Avevi
detto che avremmo diviso in quattro» commentò
confuso Cat,
osservando la sorella al di sopra degli occhialini.
«Perché
dobbiamo...?».
Fox
gli rifilò una poderosa gomitata nello sterno. Jiminy li
fissò
apatico. Aveva assistito a scene come quelle almeno un centinaio di
volte e per quanto Cat fosse noto per essere peculiarmente sciocco,
Jiminy non lo era abbastanza per non essersi mai accorto che Fox
fregava sulle divisioni dei loro bottini. Non glielo aveva mai fatto
notare.
«Allora,
amico mio?» riprese Fox, scolando fino all'ultimo goccio il
vino.
«Ci stai?».
Lui
fece un sospiro triste.
«No.
Questa volta no».
Fox
inarcò un sopracciglio e parve trattenersi a stento dal
ridere, al
contrario del fratello, che aveva cacciato una risatina acuta
piuttosto fastidiosa.
«Che
scemenze. Tu ci vieni sempre, alla fine».
«No»
ribatté deciso. «No, Fox. Non verrò.
È... sbagliato. Noi non
siamo sciacalli».
«Siamo
"commercianti", Jiminy» lo corresse con una punta di
indignazione. «Avanti, non fare storie. Le fai sempre, ma
alla fine
ci segui comunque» aggiunse con tono irremovibile.
«E sappiamo
tutti e due perché».
«Perché?».
Il
sorriso di Fox si fece lezioso e maligno.
«Perché
sotto sotto questa vita ti piace un sacco, amico mio».
*
Quando
venne svegliato dallo squillo del telefono, l'orologio digitale sul
comodino di Archie Hopper segnava le tre e venti di notte. Jeanette
russava placidamente nella sua parte di letto, arrotolata nelle
lenzuola che gli aveva fregato durante il sonno. L'uomo si
alzò
rapidamente in piedi e si diresse a lunghi passi verso il salotto.
Incespicò in un paio di scarpe con tacco abbandonate in
mezzo al
corridoio e rischiò di finire sul pavimento.
«Oh,
accidenti a voi!» borbottò scocciato, cercando
l'interruttore a
tentoni. Quando sollevò la cornetta, si era già
convinto che
chiunque lo stesse cercando a quell'ora tarda avesse già
desistito
nell'intento. «P-pronto?».
«Dormiva,
dottor Hopper?» sibilò la voce gelida di Regina
Mills. Archie
l'avrebbe purtroppo riconosciuta fra mille. Ne era segretamente
intimorito – e nemmeno tanto segretamente.
«No,
no... si figuri, io... sì, dormivo, certo»
balbettò confuso,
strofinandosi il viso con la mano libera. «Ma non
c'è alcun
p-problema, naturalmente... mi dica come posso--».
«Voglio
che lei parli con Henry il più presto possibile».
«Con...
Henry?».
«Mio
figlio, dottor Hopper».
«Certo...
io so chi è Henry, non capisco come--».
«Farnetica
di assurdità da mesi».
«Assurdità?».
«Fiabe».
«Oh...»
esclamò Archie. «Capisco, ma Henry ha dieci anni.
È normale che si
ritrovi eccitato da storie fantastiche, non vedo come--».
«Crede
che questa sia una fiaba!» lo interruppe
seccata Regina.
Archie ebbe l'impressione di aver udito l'eco di un pugno colpire una
scrivania. «Si è convinto che Storybrooke sia
abitata dai
personaggi delle fiabe... crede che io sia la
Regina Cattiva».
Archie
rimase in silenzio e rifletté attentamente sulle parole del
sindaco.
Quel ragazzino non aveva mai avuto una vita facile; sua madre era una
donna rigida, testarda – spesso ossessiva. Non era affatto
stupito
di ciò che stava scoprendo. Il giovane Henry stava
costruendo un
ponte fra ciò contro il quale credeva di non poter far nulla
e ciò
contro il quale credeva di poter vincere e Archie sapeva bene che in
futuro quel distacco dalla realtà poteva diventare molto
dannoso.
«Io...
le suggerisco di non demolire le sue convinzioni, signor
sindaco»
spiegò dopo qualche istante. «Non ora. Non in
maniera brutale. Ma
temo di non poterle essere aiuto, se prima non--».
«Domani
pomeriggio alle tre».
«C-come?».
«Henry
sarà nel suo studio. Gli tolga dalla testa quelle
assurdità. È
pagato per farlo, dunque veda di farlo coscienziosamente».
«Certo,
ma non crede che--».
«No,
non lo credo» tagliò corto Regina prima di
chiudere la
conversazione senza aggiungere altro.
Impietrito,
Archie se ne restò qualche minuto con la cornetta in mano.
Henry
Mills era un bambino dall'indole gentile e dalla mente curiosa. Era
sveglio e intelligente, ma Archie temeva che l'irruenza talvolta
despotica sotto la quale Regina tendeva a nasconderlo fosse piuttosto
insidiosa. Non dubitava del profondo affetto che la donna doveva
senz'altro nutrire per il figlio adottivo, ma sospettava che
l'origine dei problemi del ragazzino, qualunque essa fosse, dovesse
essere cercata alle radici del suo rapporto con la madre. Sembrava un
caso elementare, tutto sommato: Henry stava crescendo e iniziava a
vedere il mondo con gli occhi confusionari di un bambino sulle soglie
dell'adolescenza. Archie sperava in cuor suo di poterlo aiutare a
riprendere il controllo sulla propria vita.
«Archie?»
mugugnò infastidita Jeanette dalla camera. «Chi
diavolo era?».
L'uomo
scosse il capo come se si fosse svegliato in quel momento e
appoggiò
al proprio posto la cornetta del telefono.
«Era
il sindaco» spiegò con un sospiro, mentre
ritornava a letto
strascicando i piedi.
«Il
sindaco?» ripeté con voce dubbia.
«Sì.
Il sindaco».
«Il
sindaco. E voleva te».
«Me».
«E
perché?».
Archie
si lasciò cadere fra le coperte con uno sbuffo stanco.
«Silenzio
professionale».
Jeanette
accese di scatto la luce azzurrina della piccola abat-jour e
alzò la mascherina per gli occhi con un gesto
seccato. Si mise a
sedere e sferrò un colpo rude alla spalla destra di Archie,
che
mugugnò un vago rantolo di dolore.
«Io
ti dico sempre tutto quello che faccio a
lavoro» sentenziò
con la cocciutaggine di un'adolescente.
«Sì,
ed io ogni volta ti prego di non farlo. La serietà
lavorativa è
molto importante, Jeanette: la gente che viene da te in cerca di
aiuto si fida e tradire la fiducia di qualcuno
è una cosa
molto, molto riprovevole».
Senza
aggiungere altro, Archie cercò di recuperare la sua parte di
lenzuola, sebbene sapesse che Jeanette se le sarebbe riprese in meno
di dieci minuti. Era sempre stata così, lei,
dacché aveva memoria,
dacché si erano conosciuti. E stavano insieme da così
tanto
che ormai non ricordava più con chiarezza nemmeno quando
avesse avuto la sventura di conoscerla. Era una donna
graziosa, a
modo suo, ma aveva il brutto vizio di abbigliarsi in maniera
appariscente e scrutare tutti dall'alto in basso. Era un
comportamento sgradevole che Archie aveva cercato di farle notare
innumerevoli volte, ma Jeanette era testarda quanto un mulo e
riteneva un'offesa personale qualunque suo tentativo di correggerla.
Il
tormento maggiore, tuttavia, era non riuscire ad amarla. Ci provava,
Archie, ci provava sul serio – e talvolta si domandava se
volesse
davvero provarci – ma non credeva di esserne in grado.
Tuttavia lei
era ormai diventata parte della sua abitudine e con il trascorrere
dei giorni l'uomo si era semplicemente rassegnato. C'erano state un
paio di occasioni in cui si era sentito abbastanza coraggioso da
lasciarla una volta per tutte, ma non era mai riuscito ad andare fino
in fondo.
«Buonanotte,
Jeanette» sospirò appena.
Lei
aveva già ripreso a russare.
*
Fox
precedeva il piccolo gruppo attraverso i bassi rami degli alberi e i
cespugli del bosco che costeggiava il villaggio. Le foglie secche che
schiacciavano con gli scarponi scricchiolavano minacciosi. Ad un
certo punto, Cat aveva erroneamente calpestato un sottile bastone che
si era spezzato in due, e mancò poco che a Jiminy non
venisse un
infarto. Quando ne ebbero raggiunto il limitare, si acquattarono
dietro un enorme tronco per spiare la situazione.
Il
villaggio recava tutti i segni del recente abbandono dei suoi
abitanti: molte finestre erano state malamente sbarrate con grosse
assi di legno, il secchio del pozzo di pietra giaceva riverso su un
fianco e per la strada principale non si vedeva nessuno.
Fox
sorrise nell'ombra.
«Perfetto»
sibilò soddisfatta. Poi sollevò l'indice e
indicò una casupola
malridotta poco distante dalla piazza. «Quella è
perfetta. Luci
spente e porte aperte: l'hanno lasciata apposta per noi».
Cat
emise un vago risolino ebete, ma Jiminy scosse la testa.
«Torniamo
indietro, Fox» la pregò debolmente. «Non
me la sento di--».
«Non
devi fare niente, Jiminy. Devi andartene
là, vicino a quel
pozzo, e se dovessi scorgere qualche ficcanaso avvicinarsi caccia un
ululato e inizia a correre. Sarà un grande
spettacolo».
«Fox,
non--».
«Chiudi
la bocca. Sono io, il capo».
Complice
il buio della notte, scivolarono fuori dal proprio nascondiglio,
cercando di produrre meno rumore possibile. Jiminy non riusciva a
mettere a tacere l'insistente vocina che continuava a ripetergli di
fermarsi immediatamente, di tornare sui proprio passi, di mandare a
diavolo tutto quanto e ricominciare di nuovo, da un'altra parte, con
un'altra vita. Non ebbe il coraggio di darle ascolto e si diresse con
passo incerto verso il pozzo. Vi si appoggiò contro e
iniziò a
scrutare rapidamente a destra e sinistra. Vide con la coda
dell'occhio le ombre di Fox e Cat infilarsi nella porta della casa
deserta; sfilò gli occhiali e si passò una mano
tremante fra i
capelli. Cosa stava facendo?
«Signore?».
Colto
da un'improvviso terrore, Jiminy sobbalzò e si
voltò di colpo.
Davanti a lui c'era una bambinetta che non avrebbe potuto dimostra
più di nove o dieci anni. Aveva il visino pallido sporco e i
capelli
scuri gretti e scarmigliati. Indossava un abitino strappato sui
gomiti di un paio di misure più grande che doveva aver visto
giorni
decisamente migliori. I suoi occhietti scuri lo scrutavano con un
misto di paura e curiosità.
«Cosa
fate qui, signore?» pigolò perplessa.
«Non ve lo hanno detto che è
molto pericoloso?».
«I-io...»
balbettò impacciato lui, aggiustando gli occhiali sul capo e
lanciando uno sguardo allarmato in direzione della casa. «Io
non
s-sono di... qui».
«Oh»
disse semplicemente la piccola, annuendo piano. «Allora
dovreste
andarvene in fretta. C'è un lupo che si aggira da queste
parti. Ha
sempre fame».
Jiminy
avvertì un'ondata di paura scivolargli lungo la spina
dorsale.
Tossicchiò imbarazzato nella mano e rispose:
«Capisco.
Forse... forse è quello che d-dovresti fare anche
t-tu».
La
bambina inarcò un sopracciglio.
«È
quello che sto facendo. Sto andando a casa mia»
spiegò titubante.
Poi
sollevò la mano e con enorme sgomento di Jiminy,
indicò la casa che
Fox aveva deciso di svaligiare. L'uomo si sentì mancare.
Aprì la
bocca nella speranza di essere in grado di uscire da quella
situazione spinosa, ma purtroppo Fox e Cat scelsero proprio quel
momento per uscire dalla porta. Sembrava non avessero trovato niente,
a parte una lucida coperta rossa che la giovane si stava rigirando
interessata fra le mani. Nel vederla con la stoffa in mano, la
bambina cacciò un urlo spaventato e iniziò a
correre verso i due
ladri.
«No!»
strillò. «Lasciatela subito! Lasciatela
subito!».
Per
un attimo Fox parve stupita, ma ebbe tutto il tempo di bloccare la
corsa della bambina e spintonarla con forza, facendola cadere davanti
ai gradini della propria casa. Jiminy rimase impietrito, ma la voce
nella sua testa aveva iniziato a gridare di fare qualcosa, di fare
qualsiasi cosa, di scappare da ciò che
stava facendo... ma
per l'ennesima volta, lui non riuscì a darle retta.
«Sparisci,
mocciosa» sentenziò duramente Fox. Il suo sguardo
truce si levò in
direzione di Jiminy. «E tu...» aggiunse minacciosa.
«Tu dovevi
dirci se arrivava qualcuno».
La
bambina spalancò la piccola bocca e girò il collo
verso Jiminy.
Sotto il suo sguardo ferito – tradito
– si sentì
vacillare.
«Per
piacere...» implorò timidamente, appoggiando
entrambe le manine per
terra e cercando di rimettersi in piedi. «Per p-piacere... ho
b-bisogno di quella stoffa».
«Accendi
un fuoco, se hai freddo» sghignazzò Cat, dandole
una seconda spinta
e facendola capitolare ancora una volta per terra.
Fox
rise di gusto, le voltò le spalle e fece per andarsene, ma
la voce
decisa di Jiminy la bloccò.
«No!»
esclamò all'improvviso. S'affrettò a raggiungere
la bambina e la
aiutò a rialzarsi. «Mi... mi dispiace»
mormorò con un filo di
voce.
«Jiminy,
muoviti, potrebbe arrivare qualcuno e--».
«Ridagli
quella coperta» ribatté con feroce decisione,
allungando una mano
verso di lei. «Adesso, Fox, ridagliela».
La
giovane sgranò gli occhi, scambiò uno sguardo
incredulo con il
fratello e scoppiò in una fragorosa risata derisoria. Cat si
piegò
quasi in due, ma Jiminy rimase impassibile, con il braccio teso e la
feroce pesantezza degli occhi umidi della bambina sulla schiena. Non
è giusto, continuava a ripetersi. Non
è giusto...
«Dammi
quella coperta».
L'ilarità
sul viso di Fox si mutò rapidamente in una smorfia
arrabbiata.
«Stai
scherzando?».
«Affatto».
«Questa
cosa potrebbe valere qualche soldo».
«Non
mi interessa».
«Interessa
a me».
Si
fronteggiarono per diversi secondi, senza che l'uno osasse abbassare
il capo prima dell'altra. La bambina mosse un passo in avanti e
ripeté:
«Per
piacere... ne ho bisogno. Ne devo fare una mantellina prima della
prossima luna».
Jiminy
fece un respiro profondo.
«Hai
sentito? Rendile ciò che è suo. Questa storia
è durata
abbastanza».
«Ma
va' al diavolo» sputò disgustata.
Girò
sui tacchi e fece cenno a Cat di seguirla, ma Jiminy fu più
lesto e
le afferrò saldamente il polso.
«Ehi!»
strillò indignata. «Lasciami subito!».
«Lascia
mia sorella o ti faccio a pezzi» rincarò la dose
Cat, mostrandogli
un pugno.
«Ridai
quella coperta alla bambina» ribadì Jiminy,
strappandogliela dalle
mani.
Fox
non se la aspettava e non ebbe i riflessi per impedirglielo, ma Cat
fu abbastanza svelto da colpire Jiminy con un sonoro pugno sullo
zigomo destro. L'uomo si ritrovò disteso nella polvere prima
ancora
di essere in grado di provare dolore. Aveva la vista appannata e gli
occhiali erano volati chissà dove. La ragazzina fu lesta a
recuperare in fretta l'amata stoffa rossa. La stringeva al petto come
se ne dipendesse la sua stessa vita, poi lanciò un'ultima
occhiata a
Jiminy e scappò.
«Dannazione!
Cat, prendila!» imprecò inferocita Fox.
Il
giovane scattò come un felino all'inseguimento della piccola
fuggitiva. Poi Fox si chinò verso Jiminy e lo
sollevò brutalmente
per il colletto della camicia. «Sei impazzito!? Quella stoffa
mi
serviva!».
Lui
cercò di riaprire l'occhio, ma il viso aveva iniziato a
gonfiarsi e
a provocargli parecchio dolore.
«C-cosa?»
balbettò confuso.
«Quella
stoffa mi serve!» ripeté con furia crescente lei.
«Devo
consegnarla a Malefica, razza di idiota, o saranno guai per
tutti!».
Lo
lasciò cadere per terra e infilò le mani fra i
capelli rossi con
aria disperata.
«Prega
che Cat riesca a prendere quella nanerottola, o giuro che ti ammazzo,
Jiminy! Anzi, no: ti ammazzerò comunque, perché
sei un idiota!».
Lui
era riuscito a trovare i propri occhiali. Li inforcò
malamente,
storcendo il naso quando l'asticella sfiorò il punto in cui
il pugno
di Cat lo aveva colpito.
«Malefica?»
chiese. «La strega?».
«Sì,
imbecille, sì!».
«Perché
dovevi--?».
«Le
ho rubato una dannata coda di volpe, d'accordo!? Doveva valere un
sacco di soldi, accidenti a me...» borbottò
nervosamente, calciando
con foga un pezzo di legno. «Ma mi ha beccato e ora devo
portarle
quella stupida coperta, se non voglio che torni a prendermi. Sei un
cretino, Jiminy, e se Cat non torna con--».
S'interruppe
di colpo. Dalla direzione verso la quale era scappata la bambina, si
stavano avvicinando rapidamente una mezza dozzina di torce. Fox
impallidì e arretrò di qualche metro.
«Oh,
no...» mormorò fra sé.
Lanciò un'ultima occhiata di puro odio a
Jiminy e sibilò: «Bada bene a quello che sto per
dirti: ti
schiaccerò come un insetto, Jiminy. Dovessero volerci decenni,
giuro che ti schiaccerò come un insetto!».
Lui
la vide correre come una forsennata verso la foresta, mentre le voci
degli abitanti del paese si facevano ormai chiare e vicine. Jiminy
vide un paio di uomini affrettarsi nell'inseguimento, ma sapeva che
non l'avrebbero trovata. Fox era molto più furba e veloce di
loro.
«È
lui!» sentì gridare la voce della bambina.
Jiminy
si rimise in piedi. La piccola folla lo fronteggiava con espressione
seria. La ragazzina era davanti a loro, con le guance rigate di
lacrime e la stoffa rossa ancora stretta al petto. Cat era sparito.
«È
lui che mi ha aiutato».
*
«Vuoi
dell'altro caffè, Archie?».
Archie
sollevò la testa di colpo e fissò Ruby come se si
fosse appena
accorto della sua presenza accanto al tavolino di Granny's.
La
giovane inclinò perplessa il capo e gli rivolse un sorriso
divertito.
«Wow.
Che nervi saldi» scherzò.
Lui
fece una piccola risatina e appoggiò la copia de Lo
Specchio di
Storybrooke del quale cercava di risolvere le parole
crociate.
«Sì,
sarei stato un pessimo soldato» replicò lui,
allungandole la tazza
vuota. «Ti ringrazio».
«Dovere»
tagliò corto lei, riempiendola quasi fino all'orlo. Poi il
suo
sguardo cadde sul cruciverba e il suo sorriso si trasformò
in un
piccolo sogghignò. «Spice Girls».
«Cosa?».
«Spice
Girls. Quindici verticale, dieci lettere».
Archie
sistemò gli occhiali e lesse la definizione.
«"Debuttarono
con Wannabe". E chi è
Wannabe?».
Lei
scoppiò in un'adorabile risata.
«No.
Wannabe è il nome del loro primo
album».
«Capisco»
annuì Archie, afferrando la penna e completando finalmente
il
casellario. «Ti ringrazio, Ruby. Ora mi sento terribilmente
vecchio,
ma perlomeno anche oggi il cruciverba di Sidney Glass non l'ha avuta
vinta».
«Ciò
che più mi spaventa è sapere che Sidney Glass
ascolta le Spice
Girls» aggiunse con espressione disgustata Ruby.
«Ruby!»
la richiamò seccata la signora Lucas dall'altra parte del
bancone.
La
giovane sollevò infastidita la testa e scosse la lunga
chioma mora.
Portò la mano libera dalla caffettiera al fianco e
soffiò
scocciata.
«Porca
miseria, nonna, sono solo le sette di mattina» la
rimbeccò con il
tono cantilenante di un'adolescente incavolata. «Tu e i tuoi
nervi a
pezzi non ce la fate a dormire un po' di più?».
«No,
ci svegliamo sempre all'alba per cercare di tenere a freno te e la
tua linguaccia lunga!» replicò con lo stesso tono
sarcastico
l'anziana. «Tony ha bisogno di aiuto».
Mordicchiando
nervosa il labbro inferiore, Ruby si allontanò con un ultimo
soffio
ribelle e svanì oltre la porta della cucina senza replicare
oltre.
Archie nascose un tiepido sorriso e si grattò la nuca con
aria
pensierosa. La signora Lucas lo scrutò impassibile per
qualche
secondo, poi si avvicinò al suo tavolo e infilò
entrambe le mani
nelle tasche del grembiule.
«Avanti,
di' quello che stai pensando di dirmi» gli disse con
franchezza.
«Dove sbaglio?».
Archie
parve per un attimo stupito, ma poi si fermò a riflettere e
le
mostrò i palmi delle mani.
«Io...
io trovo che Ruby sia una ragazza molto sveglia, ma temo non sappia
ciò che vuole realmente».
«Però
sembra sapere piuttosto bene cosa non
vuole» mormorò
rassegnata la donna. «Ma io ho bisogno che lei mi aiuti qui,
Archie,
non posso gestire tanto la locanda quanto il bed&breakfast da
sola».
Sul
viso dello psichiatra si dipinse un'espressione pacatamente
inquisitoria.
«Stai
cercando una soluzione per lei o una scusa per te?».
Alle
sue parole, le guance della signora Lucas si tinsero di una lieve
sfumatura rossiccia. Poi sbuffò – e Archie
notò per l'ennesima
volta quanto assomigliasse alla nipote – e scosse la testa.
«Hai
ragione. Hai sempre ragione».
«Purtroppo
non è affatto vero».
«Oh,
non dire sciocchezze. Certo che è vero. Cosa devo fare,
Archie? Non
mi ascolta. Fa sempre di testa sua e...» sospirò,
«...ne combina
sempre una più del diavolo. È una donna adulta,
ormai, e non riesco
a farglielo capire».
Archie
le sorrise con affetto e posò una mano sul suo braccio.
«Sono
dell'idea che tu non possa far altro che attendere che la vita le
insegni come crescere» disse lentamente. «Stai al
suo fianco come
hai sempre fatto; controlla che non si faccia troppo male, quando
finirà per cascare sui propri sbagli, ma non impedirle di
commetterne».
«Tutto
qui?».
«Tutto
qui» rispose candidamente Archie, avvicinando la tazza alle
labbra.
«L'alternativa è incatenarla al frigorifero, ma ad
essere franchi
mi sembra un po' barbaro».
Addolcita
dai suoi toni gentili, la signora Lucas si lasciò andare a
una
piccola risatina. Gli diede qualche colpetto materno sulla spalla.
«Grazie,
Archie. A volte ho come l'impressione che--».
Non
seppe mai quale fosse l'impressione della signora Lucas,
perché
Jeanette aveva spalancato con foga la porta, facendo irruzione nel
locale con sguardo acceso. Quel giorno indossava un tailleur di un
improbabile violetto e i suoi occhi erano appesantiti da un
luccicante ombretto color smeraldo. Il rumore dei suoi tacchi che
sbattevano sul pavimento aveva un che di preoccupante e Archie si
concesse giusto il tempo di scambiare un'occhiata eloquente con
l'anziana donna.
«Il
tuo maledetto cane è entrato di nuovo in casa» lo
attaccò in
fretta Jeanette, con le mani sui fianchi e la bocca serrata in una
ferra linea dritta. «Sai che sono allergica».
«Hai
provato a lanciare un wafer alla vaniglia fuori dalla porta?»
si
informò stancamente, mentre ripiegava il giornale con cura.
«Di
norma funziona».
«Mi
stai prendendo in giro?» domandò con asprezza.
Sembrava stesse
masticando vetri rotti. «Mi stai prendendo in giro, Archie? Detesto
quando lo fai, detesto il tuo stupido
cane, detesto
quando--».
L'uomo
sollevò placido una mano e si alzò dal tavolo.
«Detesti
un sacco di cose, sì» concluse appena.
«Temo che questo concetto
sia già ampiamente noto a tutti gli abitanti di Storybrooke,
Jeanette».
Le
narici della donna fremettero, ma non aggiunse altro. Si
limitò a
massaggiarsi drammaticamente la tempia ed esalare un'imprecazione
spossata.
«Leva
quel cane dal mio divano prima che io torni a casa» lo
avvertì
seccata, prima di girare sui tacchi ed uscire con la stessa mancanza
di grazia con la quale era entrata. Non concesse a nessuno il proprio
saluto – non che a qualcuno interessasse.
Archie
fece le spallucce e prese fra le mani la propria valigetta.
«Fra
voi le cose non vanno bene» commentò senza giri di
parole la
signora Lucas.
«Vanno
come sono sempre andate».
«Non
era una domanda, Archie. Quella donna finirà davvero
per
ammazzarti un giorno di questi».
*
Note:
Qualcuno
è già al corrente
della fissa che mi è venuta per il personaggio di Jiminy
Cricket e
per la ship Red Cricket, quindi non mi dilungherò oltre su
questa
assurda mania.
Le
uniche due note veramente importanti che potrei lasciare sono: a) i
due OC sono ovviamente il Gatto e la Volpe di Pinocchio, qui chiamati
Cat e Fox per coerenza di nomi – eccezion fatta nei punti in
cui ai
personaggi di Storybrooke capita di parlare di favole, dove uso
l'italiano per ragioni di scorrevolezza; b) nel film originale della
Disney, la Volpe si fa chiamare Honest
John
Worthington
Foulfellow,
mentre il
Gatto viene chiamato semplicemente Gideon.
Da qui, i nomi dei due corrispettivi di Fox e Cat: Jeanette e Gideon
Honestine; c) la storia di Pinocchio è un incrocio fra la
versione
di Collodi, quella della Disney, quella di Once Upon A Time e,
perdonatemi,
la mia – scusa, Collodi, ma avresti dovuto shippare Red
Cricket; d)
i personaggi non mi appartengono – no, nemmeno Cat e Fox,
sono
comunque di Collodi. A proposito, signor Collodi, grazie di aver
fatto parte della mia infanzia; e) la storia doveva essere una
one-shot, ma è diventata troppo lunga, così ho
deciso di dividerla
in piccoli capitoli.
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Capitolo 2 *** La volpe ***
Storia
di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 2 - La volpe
*
Jiminy
non aveva mai avuto dei figli, né era mai stato intenzionato
ad
averne. Qualcuno avrebbe potuto dire che aveva allevato Geppetto,
sebbene in un modo un po' particolare, ma sarebbe stata una bugia:
Jiminy era solo il suggeritore nascosto dietro le sue decisioni.
Crescere un figlio era una questione ben più grossa e
spinosa.
Ormai
adulto e con i capelli ingrigiti, Geppetto non aveva più
avuto
bisogno dei suoi consigli e Jiminy si era lasciato vincere dalla
tiepida intimità che può regalare un'amicizia di
così lunga data.
Trascorrevano intere serate seduti attorno al tavolo da lavoro
dell'uomo, chiacchierando spensierati di tutto e di niente, e di
tanto in tanto Geppetto scaldava un po' di latte di capra e vi
inzuppava dentro il pane. A Jiminy le briciole della crosta erano
sempre piaciute.
Quella
mattina di ottobre, tuttavia, quando si erano svegliati e si erano
ritrovati quel burattino scalmanato che scorrazzava davanti alle
ceneri del camino, era mancato poco che non venisse un infarto ad
entrambi.
Pinocchio,
aveva detto di chiamarsi, e se i due vecchi amici non fossero stati
tristemente avvezzi alle prodezze della magia, non ci avrebbero mai
creduto.
«Non
temere, Geppetto» lo aveva rassicurato Jiminy infinite volte.
«Lo
aiuterò a non farsi troppo male».
Il
falegname aveva riso e si era aggiustato il ridicolo parrucchino
biondo – quante volte Jiminy aveva tentato di convincerlo a
disfarsene?
«Oh,
lo so. Tu sei sempre stato bravo con i bambini».
E
poi aveva perso Pinocchio. Non una, non due, non tre volte, no:
quella era la quarta
volta
in cui quel
burattino gli scappava sotto il naso in una sola settimana.
Jiminy
svolazzava frenetico fra i tetti e i comignoli delle case del
paesino, tenendo ben stretto il cappello e scrutando con attenzione
in ogni vicolo. Poi riconobbe il suo berrettino a punta fra la folla
e si gettò a tutta birra in discesa.
«Pinocchio!»
strillò. «Pinocchio!».
Il
burattino voltò incuriosito la testa e sorrise con innocenza.
«Ciao,
Jiminy!» esclamò raggiante, allungando una piccola
manina di legno
per permettere all'insetto di appoggiarvisi sopra.
«Santo
cielo, Pinocchio, avevi promesso che saresti andato a scuola.
Cos'è
successo? Che ne è stato del tuo abbecedario? E
perché sei--».
«Bla
bla bla» gli fece il
verso una vocina fastidiosa.
Jiminy
si girò e trasalì, sconcertato. Una grossa volpe
senza coda lo
stava fissando come se avesse voluto trasformarlo nella propria cena.
I suoi occhi erano gialli e insidiosi e le antenne di Jiminy
captarono svelte il pericolo. Poco dietro il primo animale, c'era un
gatto dal pelo malconcio ma con la stessa espressione ferina della
volpe. Gli mancava un occhio.
«Pinocchio,
chi sono questi...?».
«Loro
sono Fox e Cat, i miei nuovi amici» spiegò
orgoglioso il burattino.
«E lui è Jiminy. Jiminy Cricket».
Il
minuscolo insetto era raggelato nel leggere l'espressione di stupore
negli occhi feroci dei due animali trasformarsi prima in
comprensione, e poi in incontenibile rabbia. Fare due più
due fu
troppo facile.
«Jiminy...
Cricket?»
sibilò minacciosa la volpe, avvicinandosi di qualche passo a
Pinocchio. «Di', Cat, non ricordi anche tu un certo
Jiminy?».
Il
gatto soffiò.
«Sì...»
riprese con più odio la volpe. «Me lo ricordo
anch'io».
«Pinocchio,
quello
era
il momento adatto per dire una bugia» tentò di
sdrammatizzare
Jiminy, prendendo rapidamente il volo e levandosi mezzo metro
più in
alto delle due creature.
Poi
Fox spiccò un balzo incredibilmente veloce e
cercò di afferrarlo
fra le zampe. Pinocchio strillò spaventato, ma non
poté far nulla
per evitare che i due grossi animali iniziassero a inseguire per le
vie del paesino il povero Jiminy. Cercò di non perderli di
vista, ma
erano troppo agili e riuscivano a scivolare fra la folla ben
più
facilmente di quanto le sue piccole gambe di legno non permettessero.
In men che non si dica, le tre creature erano scomparse.
«Fermati!»
gridava Fox. «Fermati, Jiminy! Fermati!».
«Sono
la voce della coscienza, Fox!» ribatté col fiato
corto l'insetto.
«Non dovresti chiedere cose tanto assurde!».
«Vieni
qui subito!».
Ma
Jiminy si era già librato al di sopra di una grondaia
arrugginita,
diversi metri più in alto, in una ragionevole postazione
sicura. Da
lì, si sporse per scrutare meglio i due vecchi compagni di
furto.
«Cosa
vi è successo?» chiese, senza alcuna nota di
rimprovero o scherno.
Sembrava sinceramente dispiaciuto. «Perché
siete... animali?».
«Ha
parlato quello con le antenne!» aggiunse piccato Cat,
iniziando a
muoversi avanti e indietro come un leone in gabbia.
«Di
chi vuoi che sia la colpa, eh?» urlò con accusa
Fox. «Di te! Te
che non mi hai fatto prendere quella stupida coperta! Malefica voleva
indietro la sua coda e una coda è proprio ciò che
si è presa! E
ora scendi da lì, così posso
mangiarti!».
«Ma
naturalmente» la prese in giro Jiminy, appoggiandosi con
tranquillità all'ombrello.
«E
tu perché sei un grillo?» si informò
Cat.
Jiminy
parve stupito dalla domanda. Rimase in silenzio qualche istante e poi
scosse appena la testolina.
«È
una storia lunga che non credo possa mutare la situazione»
tagliò
corto. «Credo dovremmo cercare di risolvere le nostre
divergenze in
maniera civile».
«Ma
col cavolo! Io ti--».
«Jiminy!»
si levò la voce angelica di Pinocchio. «Jiminy
Cricket, dove ti sei
cacciato!?».
La
bocca di Fox si aprì in un sogghigno malvagio. I suoi canini
aguzzi
fecero rabbrividire il piccolo grillo.
«Siamo
qui, mio caro amico!» esclamò leziosa.
«Vieni, Pinocchio, vieni!».
«No,
Pinocchio!» strillò concitato Jiminy.
«Torna a casa! Va' da
Geppetto! Stai lontano dai guai!».
«Dai
guai, eh?» fu il commento divertito di Fox.
«È questo quello che
fai, adesso? Tieni i burattini lontano dai guai? Proprio tu?».
Cat
ridacchiò sfrontato. Pinocchio arrivò proprio in
quel momento,
leggermente trafelato dalla lunga corsa. Alzò gli occhietti
verso la
grondaia e aggrottò perplesso le sopracciglia. Poi
guardò i due
animali, e poi di nuovo l'insetto.
«Jiminy,
cosa fai lassù?».
«Temo
che il nostro amico non voglia venire con noi, tesoro»
mormorò Fox,
strusciandosi con malizia attorno alle gambe di legno del burattino.
«Ma tu sì, non è vero? Vuoi venire con
noi?».
«Dove?».
«Pinocchio,
non dargli ascolto!».
Fox
ringhiò verso di lui.
«Dovresti
scendere
per
impedirglielo, non trovi?».
Jiminy
deglutì a stento. Era nei guai, guai seri, guai
tremendamente
seri... doveva trovare Geppetto al più presto, ma come
poteva
abbandonare Pinocchio in barba a quei due lestofanti? Avrebbe potuto
accorrere in suo aiuto? Oh, certo, e se lo sarebbero mangiato in
pochi istanti. E che ne sarebbe stato, allora, del povero Pinocchio?
Non sapeva come comportarsi... la sua unica speranza era riposta
nell'assennatezza del burattino – e la più sincera
parte di Jiminy
si era già rassegnata al peggio.
«Dove
andate?» chiese ingenuamente Pinocchio.
La
scintilla perversa che attraversò gli occhiacci di Fox non
avrebbe
convinto nemmeno il più stolto dei bambini, ma Pinocchio era
solo un
burattino, e nemmeno di quelli più svegli.
«Nel
Paese dei Balocchi».
A
quel nome Jiminy cacciò un grido spaventato, ma nulla
poté dire per
impedire a Pinocchio di seguire l'ombra di quella dannata volpe senza
coda.
*
Archie
aveva sottovalutato la gravità della telefonate di Regina
Mills e se
ne era accorto solo quando Henry aveva iniziato a scrutarlo con la
faccina seria e indagatrice. Sembrava fosse lui, quello intendo a
studiare lo psichiatra.
Il
ragazzino era seduto con le gambe a penzoloni sul divano dello studio
del medico da quando sua madre lo aveva lasciato alle cure di Archie,
quindici minuti prima, e non sembrava ancora intenzionato ad aprire
la bocca.
«Tua
madre ha detto che ti piacciono molto fiabe».
«Sono
vere, dottor Hopper» affermò lui con candida
sicurezza.
Il
dottore gli rivolse un sorriso incoraggiante.
«Chiamami
Archie, Henry».
«Sono
vere lo stesso, Archie» riprese con decisione.
L'uomo
annuì con espressione pensierosa, grattandosi distratto il
mento.
«Cosa
te lo fa pensare?».
«È
nel libro».
«Libro?».
Henry
fece un cenno con la testa, afferrò il proprio zainetto e ne
estrasse un grosso tomo dall'aspetto piuttosto antico. La scritta
"Once Upon A Time" troneggiava scintillante sulla
copertina rigida. Archie avrebbe voluto darci un'occhiata, ma temeva
che il bambino potesse tradurre la sua curiosità clinica
come
un'invasione personale. Gli era già capitato, in passato.
«È
un libro di fiabe?» si limitò a chiedere.
«Ci
siete tutti, qui dentro» spiegò Henry,
accarezzandone con affetto
il dorso. «È per colpa della maledizione della
Regina Cattiva se
non ricordate chi siete».
Archie
aggrottò le sopracciglia.
«Chi...
siamo?».
«Voi
siete i personaggi delle fiabe e mia madre è la Regina
Cattiva. È
stata lei a gettare la maledizione sul regno incantato, e ora nessuno
di voi ricorda chi era prima di finire a Storybrooke».
C'era
qualcosa di vagamente inquietante nella naturalezza con cui Henry
aveva affibbiato alla propria madre il ruolo della Regina Cattiva.
Archie era abbastanza esperto da comprenderne i motivi, ma si era
ormai reso conto che il lavoro che gli si prospettava davanti era
molto più complesso di quanto non avesse immaginato. Nel
corso degli
anni si era ritrovato davanti i casi più assurdi, come il
terrore
della signora Lucas per i pleniluni e la mania di Marco per i
burattini, ma non aveva mai sentito qualcuno distorcere la
realtà in
un modo tanto enigmatico. Qualunque cosa dalla quale Henry stesse
tentando di fuggire era decisamente grande – e probabilmente
era
sua madre.
«E
tu... a quale favola apparterresti?».
Henry
parve spiazzato da quella domanda.
«Io
non ci sono. Non vengo dal regno delle fiabe».
«Capisco.
E la Regina cattiva è...».
«Mia
madre».
Archie
sfilò gli occhiali e iniziò a ripulirseli con
cura. Iniziava
seriamente a preoccuparsi per il piccolo Henry: la convinzione che la
madre fosse la Regina Cattiva era il più negativo dei
segnali.
Rigettava la figura materna – e non era purtroppo un caso,
vista la
situazione – e aveva trovato nella Regina Cattiva la perfetta
incarnazione della donna rigida e ferma che era il sindaco Mills.
Come avrebbe potuto aiutarlo senza disturbare oltre il suo spettro
emotivo?
«Come
hai avuto quel libro, Henry?».
«Io...»
balbettò incerto, distogliendo lo sguardo da Archie e
mordicchiandosi nervoso l'interno della guancia. «L'ho
trovato».
Il
dottore sorrise gentile.
«Non
dovresti dire le bugie. Sono le--».
«Il
Grillo!» esclamò all'improvviso,
scattando in piedi con un
sorriso di puro trionfo. «Il Grillo Parlante!».
«C-come?».
«Tu!»
riprese il bambino con foga, puntandogli l'indice sul petto.
«Tu sei
il Grillo Parlante!».
Ad
Archie occorse qualche istante per comprendere fino all'ultima
sillaba il senso delle parole del ragazzino. Strinse confuso le
palpebre e poi arrangiò un mezzo sorriso sconcertato.
«Il...
Grillo Parlante?» ripeté stupito. «Ma,
Henry, il Grillo Parlante
è... un grillo».
«A
Storybrooke la magia non esiste».
Il
dottore soppesò attentamente la folle convinzione di Henry.
Il
Grillo Parlante, gli aveva detto, e se solo non fosse stato un uomo
tanto riguardoso nei confronti del prossimo e del proprio mestiere,
avrebbe faticato a trattenersi dal ridere. Era davvero
la fantasia più incredibile che avesse mai avuto modo di
udire in
tutta la sua carriera.
E
dove mai sarebbe finito il suo Pinocchio?
*
«Pinocchio!
Pinocchio!».
Jiminy
non aveva la minima intenzione di arrendersi. Non avrebbe mai potuto
lasciare il burattino nelle mani di Fox e Cat; non se lo sarebbe mai
perdonato. Ma come avrebbe potuto tirarlo fuori da quel guaio? Se
fosse tornato indietro alla ricerca di Geppetto, avrebbero rischiato
di arrivare troppo tardi: Jiminy era tristemente a conoscenza di cosa
fosse il Paese dei Balocchi e il solo pensiero che il povero
Pinocchio vi si stesse per avventurare in compagnia di quei due
manigoldi era inconcepibile. Doveva fare qualcosa, doveva trovare una
soluzione e doveva farlo subito.
Fremente
di ansia, non si accorse del gigantesco cestino che gli
piombò sulla
testa, facendolo capitolare nell'erba.
«Oh!»
esclamò dolorosamente.
La
giovane proprietaria del cestino non poteva avere più di
vent'anni.
Indossava un lungo mantello rosso calato sulla lunga chioma mora.
Aveva un viso pallido e simmetrico, con gli zigomi alti e gli occhi
verdi e allungati – Jiminy non si intendeva di donne, ma
soltanto
un cieco non l'avrebbe giudicata bella.
Dovette
aver udito i sottili gemiti di Jiminy, perché si
chinò curiosa sui
ciuffi d'erba e iniziò a guardare a destra e sinistra.
«C'è...
qualcuno?».
«S-sono
qui, signorina» borbottò impacciato lui,
rialzandosi sulle zampette
anteriori e riafferrando il cappello che era volato a qualche passo
da lui. «Qui, verde nel verde».
«Oh,
cielo!» esclamò intimorita la giovane, con un
piccolo saltello
indietro. «Voi... parlate?».
Jiminy
si librò in aria e si aggiustò con cura l'abito.
«Continuo
a non capire come possano tutti stupirsene sempre» si
schernì
divertito. «Il mio nome è Jiminy
Cricket».
«Parlate
sul serio».
Il
grillo chinò desolato le antenne.
«Sì...».
«Voi...
parlate».
«Sì,
e volo anche. Incredibile, non trovate?» continuò
a scherzare
l'insetto. Poi si alzò all'altezza del volto della giovane.
«Avete
per caso visto un burattino che seguiva una volpe e un
gatto?».
La
sconosciuta calò il cappuccio rosso con incredibile calma.
Le sue
labbra erano dischiuse in una muta esclamazione di sorpresa e Jiminy
si chiese quanto altro tempo le sarebbe occorso prima di afferrare la
gravità della situazione.
«Siate
così gentile da darmi ascolto, signorina, io--».
«Li
ho visti, in realtà» lo bloccò di
nuovo. «Un ragazzino di legno
con un vestito ridicolo che inseguiva due grossi animali. Parlanti».
Le
antenne di Jiminy si drizzarono euforiche.
«Li
avete visti!?».
«Sarebbe
stato assurdo non notarli».
«Dove
sono andati?».
«Hanno
preso il sentiero che va a ovest» spiegò lei con
una smorfia
pensosa. «Non è una bella direzione, quella.
Ricettacoli di ladri e
malfattori e...».
«Temo
di saperlo, sì» terminò laconico
Jiminy. «Vi ringrazio,
signorina. Vogliate perdonarmi, ma devo riportare a casa un discolo
burattino».
Stava
giusto per dirigersi verso la direzione mostratagli dalla giovane,
quando la sua voce squillante lo bloccò improvvisamente.
«Ehi,
fermatevi! Non potete andare da solo! È
pericoloso!».
Jiminy
si fermò a mezz'aria e la fissò sconcertato.
«Come
dite?».
«Siete
solo un grillo, non potete infilarvi all'Osteria del Gambero Rosso
come se niente fosse» concluse spiccia lei, accelerando il
passo e
seguendo la sua scia. «E poi non voglio perdermi la scena. Un
grillo, una volpe, un gatto e un burattino?»
ridacchiò. «Adoro
queste storie assurde!».
Jiminy
tossicchiò nel dorso della zampetta.
«È
una affare assai più serio di quanto appare».
«Tutte
le cose serie nascondono un lato divertente»
ribatté lei con un
largo sorriso. «Un po' come voi. Sembrate tutto compito e
assennato,
ma siete anche terribilmente buffo».
Il
grillo aprì la bocca per dire qualcosa, ma non
riuscì a capire se
avesse dovuto ritenersi indignato o onorato.
«Oh,
fra l'altro: il mio nome è Red. Red Riding Hood».
Lui
pensò fosse piuttosto ingiusto venire accusati di essere
buffi da
una ragazza così carina e con un nome altrettanto ridicolo.
*
«Non
posso crederci...» brontolò Archie al bancone di Granny's,
fissando sconvolto il cruciverba de Lo
Specchio. Gli mancava
una sola definizione. «Ruby?».
La
ragazza sollevò lo sguardo dai piatti che stava sistemando,
scrutò
l'espressione tormentata del medico e poi esplose in una risata
sfrenata.
«Non
ci riesci nemmeno oggi?» lo prese in giro, appoggiandosi
davanti a
lui e arricciando una ciocca rossa attorno all'indice.
«Dottore,
stai perdendo i colpi».
«E
Sidney Glass è stato rapito dagli alieni, questo
è certo» rispose
con un sorriso.
Ruby
ridacchiò di nuovo e gli prese il giornale dalla mani. Lesse
con
aria attenta, poi spalancò la bocca e guardò
Archie come se fosse
lui, quello rapito dagli alieni.
«Madonna!»
rispose scioccata. «Porca miseria, Archie! "La controversa
diva
di Erotica".
Madonna, no? Come fai a sapere...?» aggrottò
perplessa le
sopracciglia e recitò: «"Massinissa"? Che razza di
parola
è?».
«Era
il primo sovrano dell'antica Numidia. Corrisponde più o meno
all'attuale Marocco».
Ruby
lo scrutò con un sopracciglio inarcato e Archie si
sentì avvampare.
Chinò imbarazzato il capo, ma poi la ragazza
appoggiò una mano
sulla sua e ricominciò a ridere.
«Sei
incredibile!» esclamò divertita. «Non
sai chi è Madonna, ma...»
s'interruppe e scosse il capo, liquidando la questione con un cenno
della mano e un'occhiata affettuosa. «Sei incredibile,
Archie»
ripeté con tono gentile.
«E-ecco,
suppongo che...» tentennò lui, grattandosi
imbarazzato la nuca. «Ti
prometto di ascoltare Madonna al più presto».
La
ragazza serrò le labbra e trattenne a stento l'ennesima
risata.
«No»
scosse la testa. «Vai bene così. Tieni il tuo Massicoso».
Afferrò
malamente uno strofinaccio e iniziò a lucidare
distrattamente il
bancone del bar. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma sembrava che la
giovane nutrisse il bisogno di fare qualsiasi altra cosa. Teneva lo
sguardo basso e la frangia gli ricadeva davanti agli occhi truccati,
ma c'era un sorriso distante e dolce a incresparle le labbra. Archie
rimase a studiarla con aria persa.
Ruby
non era che una ragazzina e non c'era niente in
lei che
riportasse alla mente l'immagine di una giovane donna matura e
organizzata. Era ribelle, testarda e nel corso degli anni aveva
sviluppato una triste fama all'interno della noiosa comunità
di
Storybrooke. Archie non aveva mai dato peso a quei sciocchi
pettegolezzi di strada. Ruby non era una ragazza cattiva: era solo
curiosa.
Aveva
appena terminato di bere il proprio caffè mattutino, quando
sentì
qualcuno picchiettargli con forza la spalla. Fu piuttosto stupito di
ritrovarsi davanti il viso accigliato di Jeanette – a
quell'ora
avrebbe già dovuto essere in ufficio. Suo fratello Gideon,
impagliato in un cappotto verde militare che gli ricadeva sulle
spalle come una tenda bagnata, sembrava essere capitato da Granny's
per un malaugurato scherzo del fato; tuttavia, sembrava
piuttosto
compiaciuto dalla possibilità di poter sbirciare Ruby pulire
i
tavolini del locale. Il suo sguardo furtivo indugiava sulle sue gambe
nude e sulla curva delle minigonna scura. Archie si ritrovò
a
pensare che non sarebbe stata affatto una cattiva idea, se quella
ragazza avesse smesso di ancheggiare con modi così
provocanti. Era
al corrente dell'effetto che faceva agli uomini o peccava solo di
adolescenziale ingenuità?
Le
unghie smaltate di viola di Jeanette iniziarono a tamburellare
nervosamente sul bancone.
«Due
caffè da portare via, Ruby» ordinò
sgraziata. «Io e Gideon
abbiamo fretta».
«Non
dovreste già essere in ufficio?» si
informò Archie.
«Avevo
voglia di un caffè».
«Sì,
ma--».
«Avevo
voglia di un caffè» lo troncò di netto
lei, sedendo sullo sgabello
al suo fianco e accavallando le gambe.
L'orlo
della gonna gli risalì quasi fino all'inguine, e Archie la
trovò
terribilmente volgare. I suoi occhi caddero di nuovo su Ruby, che
armeggiava con movimenti esperti davanti alla caffettiera, e al modo
sinuoso con cui i suoi fianchi ondeggiavano. Anche la sua gonna era
molto, molto corta... molto più corta di quanto non sarebbe
stato
lecito immaginare, altrettanto volgare, eppure Archie non sarebbe mai
stato in grado di fare un paragone fra le due donne.
Ruby
appoggiò davanti a Jeanette i due grossi bicchieri di
cartone e
disse:
«Fanno
tre dollari e novantacinque».
«Paga
Archie» sentenziò spiccia l'altra, afferrando uno
dei due caffè e
porgendolo malamente al fratello.
«Paga
Archie...» ripeté rassegnato il dottore,
sistemando gli occhiali
sul naso. «Naturale».
Ignorandolo
spudoratamente, Jeanette sorseggiò un po' di
caffè e fece una
smorfia disgustata. Archie vide Ruby trattenere a stento la stizza.
«Se
non è di tuo gusto, posso fartene un altro»
sibilò a fatica,
posando una mano sul bancone e schioccando minacciosa la lingua.
«Nessun problema».
Il
suo tono di voce pareva sottintendere tutta un'altra storia, ma
Jeanette non se ne accorse.
«No,
tesoro, non importa. Non credo riusciresti comunque a fare di
meglio»
buttò lì con un irritante sorrisetto lezioso.
Archie fece per dire
qualcosa, ma la donna proseguì: «C'è da
pagare la rata della tua
assicurazione, fra l'altro».
«Verrò
in settimana, signorina Honestine» ringhiò fra i
denti Ruby,
portando una mano ai fianchi.
«Sono
ottocento dollari» aggiunse Gideon,
mentre soffiava sereno
sul proprio caffè. «Non un dollaro in
più, non un dollaro di
meno».
Il
viso di Ruby perse colore.
«O-ottocento...
cosa?» balbettò in panico.
«Ma è quasi il doppio rispetto
all'anno scorso!».
«Le
tariffe sono cambiate».
«Le
vostre tariffe sono un furto!».
«Trovati
un'altra compagnia assicurativa, tesoro» concluse con un
occhiolino
d'intesa Jeanette. «Oh, che sbadata. Non ce ne
sono».
Gideon
scoppiò in una risata priva di contegno, ma Archie scosse il
capo e
commentò:
«Andiamo,
Jeanette: è una cifra irragionevole».
«Non
è un mio problema» tagliò corto la
donna. «Ci vediamo a casa».
Sistemò
il bavero del cappotto e si diresse con passo superbo in direzione
della porta, con Gideon che le trotterellava al seguito come un
cagnolino. Archie rimase a fissarla con una sensazione di profondo
imbarazzo nella pancia. Non aveva più il coraggio di alzare
gli
occhi su Ruby. La ragazza era rimasta paralizzata dall'altra parte
del bancone e aveva iniziato a massaggiarsi debolmente una tempia.
«Ottocento
dollari...» mormorò mesta. «E dove diavolo
li trovo?».
«Mi
dispiace» cercò di scusarsi Archie.
«Jeanette a volte è così...».
«Stronza?».
Archie
rimase interdetto.
«Stavo
pensando a qualcosa come "sgradevole", ma temo che anche
"stronza" possa calzare».
Ruby
fece uno sbuffo sconsolato e si lasciò scivolare sul
bancone, con la
fronte appoggiata al finto marmo e le mani affondate fra i capelli.
Archie deglutì a stento, poi fu colpito da un'idea
improvvisa,
istintiva, illogica.
«Te
li presto io».
Lei
alzò di colpo il viso e lo guardò come se lo
vedesse per la prima
volta.
«C-cosa?».
«Te
li presto io, Ruby» ripeté con un sorriso gentile.
«Ti prego».
«Io...
io non... Archie, non posso accettare».
«Insisto».
Dopo
qualche secondo in cui parve analizzare attentamente le
possibilità
che aveva davanti, Ruby cacciò un piccolo grido estasiato,
girò di
corsa attorno al bancone e gettò le braccia al collo di
Archie.
L'uomo ne rimase inebetito.
«Oh,
cielo, Archie, grazie!» parlò
in fretta, stringendolo in una
morsa quasi soffocante. «Ti restituirò fino
all'ultimo centesimo,
te lo giuro! Oddio, sono così... grazie».
I
capelli di Ruby profumavano di ciliegia e Archie non fu in grado di
pensare ad altro per parecchi istanti. C'era qualcosa di sbagliato
nel modo in cui si stava stringendo a lui, e qualunque cosa
fosse, Archie era deciso a non ripensarci mai più. Le
provocava
sensazioni pericolose e lui, a certi sbalzi incontrollabili, era
sempre stato poco avvezzo.
Quando
gli occhi di Ruby incontrarono di nuovo i suoi, il cuore di Archie
sembrò perdere un battito. I suoi occhi erano sempre stati così
verdi? Lei sorrise con l'ardore di una ragazzina, si
mordicchiò
il labbro inferiore e tentennò appena prima di posargli un
bacio
leggero sulla guancia.
«Grazie,
Archie».
Lui
arrossì fino alle orecchie.
Che
diavolo stava facendo?
*
«Un
asino! Un asino!» ripeté
incredula Red, mentre risaliva il
piccolo sentiero che costeggiava la costa con aria allucinata.
«Non
posso crederci!».
«Tutta
questa storia non ti ha aperto gli occhi sul potenziale della
magia?»
le domandò sbrigativo Jiminy, svolazzando a destra e a
sinistra e
tentando di aguzzare la vista fra gli anfratti della scogliera.
Red
non rispose e Jiminy si fermò per poterla guardare in viso.
Aveva il
viso chino e un'improvvisa ombra scura aveva attraversato i suoi
occhi.
«Perdonatemi»
si affrettò a dire il grillo. «Non era mia
intenzione mancarvi di
rispetto. Sono così preoccupato per Pinocchio che mi
è difficile
concentrarmi su altro. Vi prego di scusarmi».
La
ragazza scosse la testa e arrangiò un timido sorriso.
«Ma
voi non avete detto nulla che non avreste dovuto dire» lo
tranquillizzò Red. «Sono solo... suscettibile
all'argomento,
tutto qui. Coraggio, dobbiamo trovare il vostro burattino prima che
finisca in guai più grossi di un paio di orecchie e una
coda!».
Lei
iniziò a correre lungo la riva, ma Jiminy era rimasto
immobile.
«Che
aspettate!?» lo incitò lei. «Non
c'è tempo da perdere!».
Lui
le si avvicinò e inclinò la testina con aria
seria. Red non aveva
mai visto un grillo del genere – come le sarebbe stato
possibile
farlo, d'altronde? - né probabilmente si era mai ritrovata a
dare la
caccia a un burattino trasformato in un asino a causa di una volpe e
di un gatto parlanti, ma in quel momento trovò la situazione
ancora
più incredibile e assurda di quanto non avesse creduto. Gli
occhi di
Jiminy, o qualunque cosa fossero, lì sulla sua piccola
faccetta
verde, sembravano passarla da parte a parte.
«Qualunque
cosa abbiate sepolto dietro il vostro sorriso scanzonato
tornerà
fuori, prima o poi» le confidò improvvisamente.
Red trasalì.
«Fidatevi di me. Torna sempre tutto indietro. Dovreste
prepararvi a
combatterlo con tutta la vostra tenacia. Affrontare se stessi
è una
battaglia feroce, ma doverosa».
«Cosa
potete saperne, voi, di combattere contro noi stessi?» chiese
piano
lei, scuotendo il capo. Non c'era pena nel suo tono, né
qualcosa in
lei lasciava trapelare scherno o arroganza. Sembrava solo stanca.
«Siete... un grillo».
«Non
dovreste giudicare dalle apparenze».
Con
un ultimo cenno del capo, Jiminy riprese a svolazzare davanti a lei e
di tanto in tanto gridava il nome di Pinocchio. Red gli fu presto
accanto a far eco ai suoi richiami agitati. Presto la costa di
riempì
delle loro voci – e forse fu solo un modo come un altro per
lasciar
perdere ricordi che ancora dolevano i cuori di entrambi.
Nonostante
la lontananza, fu facile riconoscere i profili di Fox e Cat. Jiminy
scattò come un piccolo fulmine non appena li vide. Le sue
zampette
torturavano nervosamente il manico dell'ombrellino e nella sua testa
si era accesa una sola voce: "Fa' che stia bene, fa' che stia
bene...".
«Pinocchio!».
Fox
levò il muso e si girò lestamente verso di lui.
Cat rizzò il pelo
e soffiò un rauco avvertimento. Pinocchio era chino sulle
ginocchia,
con una grossa fune legata al collo di legno e il faccino spaurito e
disorientato. Al sopraggiungere di Jiminy, il suo sguardo si riaccese
di speranza.
«Jiminy!»
strillò. «Jiminy, ti prego, aiutami! Vogliono
vendermi al mercato!
Vogliono portarmi via!».
«Non
lo faranno» sentenziò con incredibile
determinazione l'insetto,
atterrando con grazia fra i sassi e appoggiando la punta
dell'ombrello davanti a sé.
Red
piombò di corsa dietro di lui, ansando un poco.
«L-lasciate
andare il burattino» li minacciò con uno sguardo
serio.
Cat
parve perdere di colpo la propria baldanza, ma Fox rimase immobile,
con gli occhiacci gialli fissi sul piccolo grillo e i denti aguzzi
scoperti.
«No»
ringhiò perfida. «A causa tua ho perso tutto,
Jiminy».
«Dovresti
pensare a cosa avresti potuto riavere... a cosa potresti ancora
avere. Hai avuto la possibilità di cambiare vita,
di cambiare
forma, di--».
«Sono
una volpe!» esclamò furiosa, piantando una zampa
fra i sassi e
chinando la testa in avanti. «Una dannata volpe! E tutto per
causa
tua!».
«Ed
io sono un grillo, sì» rispose con estenuante
pacatezza Jiminy. Red
ammirò la sua capacità di mantenere la calma.
«Ho finalmente
trovato il mio posto nel mondo. Sono finalmente diventato la persona
che ho sempre voluto essere. Perché ti è tanto
difficile riuscire
ad agire secondo coscienza, Fox? Come puoi non capire quanto di buono
puoi--?».
«Chiudi
la bocca!».
Con
un balzo feroce, Fox si lanciò su di lui. Fu un gesto
imprudente e
sconsiderato: Red fu abbastanza lesta da frapporsi fra lei e Jiminy.
La sua mano si infilò lesta nel cestino e quando ne riemerse
le sue
dita sottili stringevano l'impugnatura di un piccolo coltello. La
lama scintillava pericolosamente alla luce del sole.
«No,
Red, ferma!» gridò Jiminy, allarmato.
«Sta'
lontana da lui» lo ignorò la ragazza, muovendo un
passo in
direzione di Fox. «Non osare toccare nessuno di loro o giuro
che ti
trasformo in una pelliccia».
«Jiminy...»
pigolò Pinocchio. «Jiminy, aiutami...».
Le
narici di Fox fremettero di rabbia. Alle sue spalle, Cat aveva
chinato tremante il muso.
«Fox,
forse dovremmo...».
«No,
non dobbiamo» gli ordinò perentoria. Il suo
sguardo rimase fermo
sul viso di Red. Per un momento parve intenta ad annusare l'aria, poi
la sua ira parve trasformarsi un sogghigno derisorio. «Tu non
sei
umana».
La
giovane rimase impietrita e quel poco colore rimasto sul suo volto
svanì di colpo. Jiminy non riuscì a capire il
senso delle parole di
Fox, ma si disse che non era il problema principale. Doveva liberare
Pinocchio – e si ripromise di ripensare a Red più
tardi.
«Lascia
andare Pinocchio, Fox» la pregò con tono
diplomatico. «Non
assecondare il lato malvagio del tuo animo».
«Malvagio?»
sussurrò malignamente la volpe. «Dimmi, Jiminy,
hai una mezza idea
della creatura con la quale stai girovagando?».
«Sta'
zitta!» la fermò concitata Red, mostrandole il
pugnale con sguardo
di fuoco. I suoi occhi bruciavano quanto quelli di una belva furiosa
e Jiminy ne rimase sconvolto. «Tu non sai niente!».
«No,
ma posso sentirti. Di te parla ogni creatura dei
boschi: sei
l'assassina».
Red
non fu in grado di sopportare oltre. Carica di cieca furia,
brandì
il pugnale verso Fox; la volpe fu agile a schivarlo e si
appiattì
sul terreno. Il suo muso era deformato in una maschera di insano
odio, ma ancor più evidente era la paura che aveva iniziato
ad
attanagliarla. Arretrò di qualche passo, lasciando la presa
sulla
fune che legava Pinocchio e scambiò un'occhiata eloquente
con Cat.
«Tornerò»
sibilò astiosa. «Tornerò e
farò a pezzi tutti e due».
Né
Red né Jiminy cercarono di bloccare la loro fuga. Attesero
che
entrambi gli animali si fossero allontanati, poi Red si
chinò e
aiutò Pinocchio a liberarsi dai nodi. Il burattino le
gettò le
braccia al collo. La ragazza sgranò gli occhi, stupita.
«Grazie!»
squittì in lacrime. «Non disubbidirò
mai più, lo giuro! Sarà un
burattino buono, lo giuro!».
Jiminy
si schiarì nervosamente la voce.
«Me
lo auguro. Spero che questa triste avventura possa esserti di
lezione, Pinocchio».
«Non
devo dare retta agli animali» annuì compito il
burattino. «Solo ai
grilli che parlano».
L'insetto
roteò comicamente la testa e scosse il capo.
«Non
era esattamente quello che intendevo, Pinocchio. Io--».
«Corriamo
a casa, Jiminy!» lo interruppe eccitato lui, iniziando a
correre
verso la scogliera. «Torniamo dal babbo!».
«Pinocchio!»
lo ammonì preoccupato Jiminy, librandosi ancora in aria e
muovendo
una zampetta con aria imperiosa. «Torna qui! Non correre! Ti
farai
male! E... basta, ci rinuncio» si fermò ed
esalò un lungo sospiro.
«Vi ringrazio, Red. Non sarei mai riuscito a salvarlo senza
il
vostro aiuto».
La
giovane giaceva ancora sui sassi e si fissava le mani con espressione
addolorata – quasi umiliata.
«Non
credo» mormorò con un filo di voce.
«Siete un grillo in gamba,
Jiminy. Sono certa che avreste trovato da voi una soluzione
intelligente».
«Sì,
ma temo che Fox mi avrebbe comunque mangiato».
Red
si lasciò andare ad un timido sorriso.
«Perché
non venite con noi?» le suggerì con un velo di
incertezza.
«Geppetto sarebbe lieto di stringere la mano alla ragazza che
ha
salvato la vita di suo figlio».
«Non
ho fatto niente...».
«La
maggior parte della gente non avrebbe mai preso seriamente un grillo
che parla di burattini animati, volpi e gatti... perciò,
sì: temo
che abbiate fatto tanto».
Lei
serrò le labbra e iniziò a giocherellare
nervosamente con un
piccolo sasso grigio.
«Io...
io n-non...».
«A
me non interessa qualunque cosa voi siate» la
aiutò lui. «Siete
una persona dall'animo buono e gentile, e questo mi è
sufficiente».
«Quella
volpe non mentiva, Jiminy» sputò fuori Red, e
sembrava proprio che
ogni parola le fosse costato uno sforzo disumano. «Io sono
davvero
un'assassina».
«Ed
io ero un ladro» le confidò tristemente.
«Vi prego. Fidatevi di
me. Qualunque sia il vostro segreto, vi giuro che non lo
tradirò».
Red
alzò gli occhi e scrutò insistentemente
l'insetto. Il suo tono era
sincero e lei non avrebbe mai dubitato della sua parola; era la sua
determinazione a lasciarla perplessa. Avrebbe avuto il coraggio di
starle accanto, se avesse saputo ciò che poteva davvero
fare? Lui
non era che un misero grillo, dopotutto e lei – quell'altra,
quell'altra cosa che doveva controllare
– avrebbe potuto ridurlo in briciole con una sola zampata.
Eppure
le parole le uscirono da sole dalle labbra. C'era qualcosa di
confortante nella sua voce assennata, qualcosa di paterno,
di giusto.
«Grazie,
Jiminy».
*
Note:
La storia di
Pinocchio è
ovviamente stravolta – di nuovo, Collodi, scusa.
Nella versione della Disney è la Fata Turchina a dar vita al
burattino, mentre nel romanzo Pinocchio prende vita da sé
poiché
il legno di cui è fatto è magico. Mi pare che nel
film di
Comencini, invece – non ne sono certa, sono secoli che non lo
guardo – Geppetto si alzi una mattina con il ragazzino che
gli
scorrazza per la cucina. Ad ogni modo, questo è quanto. :)
P.s.
Anche
il parrucchino biondo è un richiamo al romanzo.
Trick
|
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Capitolo 3 *** L'orologio ***
Storia
di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 3 - L'orologio
*
«Non
sei obbligata a farlo, Red».
La
ragazza alzò la testa verso il piccolo grillo appollaiato
sulla sua
spalla. Era nascosti in un folto cespuglio di more a qualche miglio
di distanza dal castello di Regina ormai da parecchio tempo, ma
nessuno dei due aveva ancora avuto il coraggio di parlare. L'aria fra
di loro sembrava rarefatta.
«Certo
che lo sono» mormorò piano lei, lisciando una
piega inesistente
nella gonna. «E lo sei anche tu».
«No,
non--».
«Jiminy»
lo ammonì con un sorriso tirato. «Ne abbiamo
già discusso.
Qualcuno deve occuparsi delle guardie della regina e io sono l'unica
che può uscirne illesa».
«Stiamo
agendo con troppa irruenza. Sono certo che si possa trovare una
soluzione più sicura».
Red
emise un vago sbuffo divertito.
«Forse,
ma non sarebbe la più efficace».
Il
piccolo insetto abbassò le antenne, scuotendo debole il
capo. Aveva
trascorso intere nottate a tormentarsi nella ricerca di un piano
diverso, più
saggio,
che non comportasse sguinzagliare la bestia che si annidava in Red
contro gli eserciti di Regina, ma aveva fallito. Complice la forte
amicizia che la legava a Snow White, la ragazza aveva deciso di
acconsentire a quella pazzia. Jiminy temeva che ne avrebbe portato i
segni per troppo tempo; forse non riusciva a rendersi conto
dell'entità di ciò che si stava per fare
– e forse non lo aveva
capito nemmeno lui.
Ma
dovevano fare qualcosa, e questa era purtroppo l'unica certezza che
era rimasta a tutti loro. Il principe James era in balia della regina
e non potevano permettere che il regno cadesse nelle sue perfide
mani. Eppure Jiminy aveva tanto sperato che si fosse potuto trovare
un metodo meno barbaro... qualcosa che non comportasse la sofferenza
di Red.
«Red,
non--».
«No,
Jiminy» lo interruppe con maggiore decisione.
«Smettila, o finirai
per convincermi sul serio e io non combinerò niente. Devo
farlo.
Tutti e due dobbiamo farlo. Non puoi mollarmi adesso: ho bisogno di
te. Qualcuno deve cacciarmi addosso il mantello».
«E
se non potessi farlo?».
Lei
gli rivolse un'occhiata interrogativa.
«Sei
Jiminy Cricket» disse con naturalezza. «Sei quello
che riporta la
gente alla ragione. Certo che puoi farlo. Sei l'unico
che
può farlo. Non
posso rischiare di...» si bloccò d'un tratto e
fece un breve
sospiro. «Tu sei un grillo. Non ti mangerei mai, mi
rimarresti sullo
stomaco».
Jiminy
intuiva il suo bisogno di sdrammatizzare la questione, ma non
riusciva a lasciarsi andare. In un'altra occasione avrebbe riso
–
rideva sempre, con lei – ma non in quel momento. Non
lì, non sotto
la luna piena che sembrava prenderli in giro, non con quel compito
oneroso che si era visto poggiare sulle piccole spalle.
«Riportami
qui, Jiminy. Sei l'unico che può farlo senza attirare
l'attenzione
della regina. Tu sei...».
«Piccolo,
verde e pressoché invisibile» ripeté
lui per la centesima volta.
«Sì, e tu stai per commettere un grave errore di
cui rischi di
pentirti».
«Forse»
rispose con voce grave la ragazza, lanciando un'occhiata penosa alla
luna. «Ma avrò la fortuna di avere una vocina al
mio fianco con il
buon senso di ricordarmi perché
l'ho
fatto».
Gli
rivolse un ultimo sorriso triste e si alzò in piedi. Jiminy
le
svolazzò apprensivo accanto e trasalì nel vederla
slacciare la
corda che teneva stretta la mantella magica.
«Red,
sei ancora--».
«Jiminy,
non costringermi a mangiarti sul serio» cercò di
scherzare. Poi il
suo sguardo si fece nuovamente serio e la sua voce tremò di
paura.
«Farai in fretta?».
Lui
cercò di soffocare in un angolo della gola la propria
rassegnazione
e annuì debolmente.
«Come
se avessi le ali, amica mia».
*
I
colpi alla porta sopraggiunsero così improvvisi e violenti
che
Archie e Marco sobbalzarono allo stesso modo.
Erano
seduti sul divano dello studio del dottore e avevano appena deciso
che sarebbero andati da Granny's per uno spuntino.
Era un
rituale che si ripeteva spesso, il loro, e nessuno dei due uomini vi
avrebbe mai rinunciato – inoltre Archie era l'unica
conoscenza di
Marco disposta a mangiare le croste del pane che scartava. Si
conoscevano da così tanto tempo che talvolta stentavano
entrambi a
ricordare da quanto tempo fossero così in
intimità. La loro era una
di quelle amicizia rare e ponderate che cresce con la calma e la
forza di una quercia, con le radici solide e le foglie che cadono,
sì, ma poi ricrescono sempre all'arrivo della primavera.
Talvolta
non avevano nemmeno bisogno di parlare. Si capivano e basta, come se
fosse questione di alchimia, come se fosse magia.
«Archie!»
strillò la voce infuriata di Jeanette dal corridoio.
«Aprimi!».
Marco
emise un lungo e sfibrato gemito di disappunto, ma Archie lo
ignorò
e si diresse con calma verso la porta. Era perfettamente a conoscenza
della scarsa opinione che l'amico aveva sempre riservato a Jeanette e
per quanto avesse cercato di mostrarne anche i lati positivi, aveva
sempre fallito. Quando Archie gli confidava questa o quella cosa
combinata da Jeanette, le sue mille paranoie, le sue sbottate, i suo
problemi con Pongo, Marco scuoteva la testa con un sorrisino saputo e
ripeteva a oltranza quanto ritenesse illogica la loro relazione. Non
avrebbe potuto avere più ragione di dirlo.
Archie
non aveva ancora aperto la porta del tutto che Jeanette aveva
già
iniziato a sventolargli davanti al viso un plico di fogli bianchi.
Sembrava particolarmente arrabbiata.
«Che
significa!?» sbottò di colpo, del tutto incurante
della presenza di
Marco sul divano. Lui, d'altronde, sembrava stesse cercando di
nascondere un sorrisetto inopportuno. «Che diavolo vuol
dire,
Archie!?».
«C-cosa?»
chiese confuso l'interessato. «Di cosa stai
parlando?».
«Di
questo!» gridò enfaticamente lei, lanciando i
fogli sulla scrivania
del dottore. «Di te! Di Ruby Lucas! Di te che le paghi
l'assicurazione della macchina! Di', che ti è passato per la
testa!?».
L'uomo
si aggiustò compostamente gli occhiali e sbirciò
rapidamente i
resoconti dei suoi movimenti bancari che Jeanette aveva portato. Poi
la sua bocca si storse in una vaca smorfia infastidita.
«Perché
controlli il mio conto corrente?».
«E
perché tu le paghi la macchina!?»
ribatté la donna piccata,
sbattendo un tacco sul pavimento con stizza. Poi sul suo viso
comparve un'espressione di feroce comprensione e le sue palpebre si
assottigliarono come quelli di una belva in procinto di attaccare.
«Vai a letto con quella ragazzina!?».
Marco
non riuscì a trattenersi oltre e cercò malamente
di nascondere una
mezza risata nel bavero del cappotto. Al contrario, Archie era
arrossito e aveva sgranato sconcertato gli occhi, incapace di credere
alle parole che aveva appena sentito.
«Ma
che... certo che no»
rispose in fretta, fissando
incredulo la donna dinanzi a sé. «E non... non le
ho pagato la
macchina. È solo un prestito».
«Un
prestito!? È così che si chiama, ora?».
«È
così che si è sempre chiamato,
Jeanette».
Lo
sbuffo di Marco costrinse Jeanette a voltarsi verso di lui. L'uomo
teneva il capo appoggiato alla mano e tutto sul suo viso lasciava
trasparire il proprio divertimento. Archie avrebbe voluto ammonirlo,
lanciargli qualsiasi oggetto contundente, ma la verità era
che la
reazione scanzonata di Marco gli impediva di prendere seriamente
l'insana sfuriata di Jeanette. Ed era quello che aveva sempre cercato
di fare, dopotutto: smetterla di prenderla sul serio ogni
volta.
«Cosa
può mai farti così tanto ridere?»
sibilò Jeanette verso Marco,
puntandogli contro l'indice. «Cosa c'entri tu in questa
storia?».
L'uomo
inarcò un sopracciglio e la scrutò come avrebbe
scrutato un nido di
tarle nel suo amato legname. Si grattò distrattamente il
capo e
rispose:
«Ne
sono del tutto estraneo, grazie a Dio! Solo un pazzo vorrebbe avere a
che fare con te – sì, Archie, un pazzo».
Le
gote di Jeanette si tinsero di rosso. Archie la vide serrare con
forza i pugni.
«Come
ti permetti?» sussurrò rabbiosa. «Non
hai alcun diritto di
intrometterti nella nostra--».
«Sì,
Jeanette, ti ringrazio» la interruppe con calma il dottore,
aprendo
la porta e indicandole l'orologio appeso al muro. «Credo che
tu
debba tornare in ufficio, adesso».
Gli
occhi scuri della donna si soffermarono a lungo su di lui. Archie
sostenne il peso del suo sguardo accusatorio. Non aveva la
più
pallida idea di cosa stesse facendo. Non sapeva nemmeno dove
avesse trovato la forza di aprire la bocca. Aveva solo la sensazione
di averne avuto abbastanza per quel giorno – forse per tutta
la
vita – e ora non desiderava altro che afferrare il proprio
cappotto
e andare con Marco da Granny's. Una vocina nella
sua testa lo
ammonì timidamente. "Perché vuoi andare da Granny's?",
"perché la vista di Jeanette ti provoca questo strano
fastidio?", "perché proprio adesso,
cos'è
cambiato?". Non aveva né tempo né voglia di
indagare oltre la
natura di quel nuovo dilemma. Aveva l'impressione di muoversi nella
vita di un'altra persona, di scandagliare ciò che gli stava
accadendo com'era solito fare con le storie dei propri pazienti. Ed
era incredibile, ancora più incredibile dell'improbabile
accusa di
Jeanette di avere una storia con Ruby – quella era
la più
assurda delle assurdità – perché
l'unica persona che Archie non
era mai stata in grado di psicoanalizzare era se stesso. Non ci aveva
mai nemmeno provato.
Ma
quella volta c'era qualcosa di diverso nell'indignazione sul volto di
Jeanette. C'era qualcosa che non riusciva più a tollerare,
qualcosa
nella sua voce, qualcosa nel acuto tintinnare dei suoi bracciali
d'oro, qualcosa in lei.
«Ci
vediamo a casa, Jeanette».
Archie
riuscì quasi a leggerle nelle mente. Lo avrebbe davvero
fatto a
pezzi? La signora Lucas ne era sempre stata così convinta
che
ora l'eventualità non gli appariva nemmeno tanto remotamente
quanto
avrebbe dovuto. E invece Jeanette sollevò le dita tremanti,
si passò
una mano fra i capelli e rimase immobile, profondamente offesa. Senza
aggiungere altro, se ne uscì sbattendosi la porta alle
spalle.
Archie si gustò il meraviglioso suono del silenzio.
«Ehi»
lo richiamò Marco qualche secondo dopo. «Che ti
sta succedendo?».
Archie
prese il proprio cappotto e guardò l'amico con espressione
distante.
Marco lo stava fissando con un sorriso incredulo sulle labbra e un
lampo soddisfatto negli occhi.
«Di
che parli?».
«Hai
cacciato Jeanette dal tuo studio» ribadì con una
risatina. «Santo
cielo, Archie... erano anni che aspettavo di
vedertelo fare.
Quando la butterai anche fuori di casa?».
«Sono
solo sciocchezze, Marco».
«E
questa storia che paghi la macchina alla giovane Ruby,
cosa--?».
«Io
non le sto pagando la macchina» esclamò
esasperato il dottore,
sfilando il vecchio giubbotto dell'amico dall'attaccapanni e
lanciandoglielo addosso. «È solo un
prestito».
Marco
acciuffò al volo il giubbotto e si lasciò andare
ad una risatina.
«Lei
ti piace, eh?».
Archie
arrossì per l'ennesima volta.
«Ma
che...? No. Marco, per l'amor del
cielo...».
«Va
bene, va bene... lasciamo cadere la questione»
tagliò corto l'uomo,
sollevando una mano in segno di resa. Si cacciò il berretto
in testa
e rivolse all'amico un'ultima occhiata eloquente prima di precederlo
nel corridoio. «Ma ti sta succedendo qualcosa, amico mio. Ti
suggerisco di rivalutare un po' cosa vuoi fare della tua
vita».
Era
quello il problema alla base di ogni cosa, pensò fra
sé Archie: non
ne aveva la minima idea.
*
Jiminy
non aveva mai visto una creatura tanto grossa e feroce quanto il lupo
che si ergeva davanti a lui. La luce della luna scintillava sul suo
ispido pelo grigio, le sue gigantesche zanne gocciolavano sangue
sull'erba umida e ad ogni suo passo la terra sotto le zampette di
Jiminy pareva tremare. Intimorito, il piccolo insetto respirava
appena.
Non
appena aveva visto cos'era rimasto degli uomini di Regina –
cosa
Red ne avesse fatto – era raggelato. Ancora una volta, aveva
tremendamente sottovalutato la situazione.
Si
librò all'altezza del muso della creatura e
iniziò a ondeggiare a
destra e a sinistra. Sperava solo di essere abbastanza svelto da
scampare alle sue fauci.
«Red?»
pigolò insistente. «Red, sii brava, vieni con
me».
Il
lupo cacciò un poderoso ululato e il cuoricino di Jiminy
perse un
battito. La notte si stava facendo sempre più fredda e il
vento che
soffiava fra le fronde della foresta sembrava voler imitare il
raccapricciante verso dell'animale.
«Vieni!»
la incitò con forza l'insetto.
«Seguimi!».
Fu
questione di un istante. Il grosso lupo balzò nel grossolano
tentativo di afferrare Jiminy, ma era troppo piccolo e sfuggente;
evitò con facilità i suoi artigli e
iniziò a volare con tutte le
proprie forze in direzione dei grandi alberi che costeggiavano il
limitare del castello. Le sue piccole ali fremevano ansiose, mentre
l'eco sordo delle zampate di Red gli tuonava nelle orecchie.
«Coraggio,
coraggio...» si disse, voltandosi appena per controllare che
il lupo
lo stesse ancora seguendo. «Avanti, ci sei
quasi...».
Non
appena ebbe raggiunto il cespuglio dietro il quale era stato nascosto
con Red, schizzò verso l'alto e svanì fra le
foglie scure dei rami
più bassi. Il lupo si fermò ai piedi del tronco,
si alzò sulle
zampe anteriore e cercò di arrampicarsi con fare grossolano.
Si levò
un secondo ululato carico di rabbia e proprio quando pareva che la
creatura sarebbe scomparsa nella foresta, Jiminy riuscì a
far
scivolare la mantellina magica dal ramo sul quale Red l'aveva
lanciata alla testa delle creatura ringhiante. Attese di vedere il
potere della stoffa fare effetto, e solo quando fu in grado di
scorgere la piccola mano pallida di Red fare capolino nell'erba
riprese a respirare.
Scivolò
lentamente su di lei, incapace di trattenere la propria
preoccupazione.
«Stai
bene?».
La
giovane fece un mormorio doloroso e si alzò a carponi.
Jiminy si
ritrasse sconcertato: grossi rivoli di sangue scendevano dalle labbra
al mento, inzuppandole il collo e la camicetta. Red si coprì
una
mano con il viso, poi si piegò in avanti e diede di stomaco.
Incurante dell'acre odore del sangue fresco, Jiminy le volò
accanto.
«Sono
qui, Red».
«S-sì...»
mormorò lei, ripulendosi distrattamente il viso con il
cappuccio
rosso. «Sei s-stato... b-bravo».
«Riesci
ad alzarti?».
«Oh,
credo proprio di sì...» esalò con
enorme fatica lei, aggrappandosi
saldamente al tronco dell'albero e rimettendosi in piedi. «Ho
solo
la pancia un po' appesantita».
«Red».
«No,
Jiminy» lo fermò di colpo lei, alzando un indice a
mo' di monito.
«Non è il momento di parlare. Dobbiamo tornare da
Snow al più
presto».
Il
grillo la precedette nel bosco, voltandosi di tanto in tanto per
controllare che stesse bene. Il volto di Red era verdognolo e i suoi
occhi erano stanti e arrossati. Continuava a stringere febbrilmente
l'orlo del mantello. Dopo qualche minuti, per Jiminy fu troppo. Si
bloccò e la guardò in viso con aria
incredibilmente serie.
«Non
commiserarti. Hai fatto ciò che era giusto fare».
Parve
stupita dalle sue parole. Inclinò piano la testa e gli fece
un
sorriso tirato.
«Da
quando Jiminy Cricket sostiene spargimenti di sangue?».
«Da
quando tu ne hai bisogno» ribatté d'impulso
l'insetto. Abbassò la
piccola testa e fece un lieve sospiro. «Red, tu non sei un
mostro».
Le
labbra della ragazza si piegarono in una smorfia scocciata.
«No...
certo che no» sbuffò sarcastica.
«Non
è stata tua la scelta di essere il lupo, ma l'hai combattuto
ugualmente con indomito coraggio e ora che quasi potresti
controllarlo, ora che possiedi quest'arma terrificante, continui a
non volerla utilizzare per il tuo tornaconto. Hai idea di come
potresti sfruttare la paura degli uomini a tuo favore?».
«È
una cosa orrenda, non--».
«Ed
è questo che non ti rende un mostro. Ti rende... te.
E tu sei
una persona meravigliosa».
Red
dischiuse le labbra, ma non disse una parola. Rimase a guardare il
piccolo amico con un'espressione grata e vagamente incredula, le
braccia incrociate al petto e un sopracciglio appena inarcato.
«Sai,
se non avessi appena cenato ti schioccherei un bacio fra quelle
adorabili antenne, Jiminy» ridacchiò lei,
scuotendo la testa.
«Ti
prego, non farlo: sono sempre stato un disastro con le donne».
Red
scoppiò a ridere e Jiminy si riempì di orgoglio
nel sapere di
averle riportato il sorriso. Non importava che fosse destinato a
durare poco, non importava che il plenilunio sarebbe tornato presto,
non importava nemmeno che la battaglia con Regina fosse ormai
irrimediabilmente alle porta: lui avrebbe trovato il tempo di sentire
la sua risata in qualunque posto.
*
Archie
si appoggiò al davanzale della finestra con la tazza di
camomilla
bollente fra le mani. Si sentiva terribilmente stanco, ma non
riusciva a prendere sonno. Sentì la risata sguaiata di
Jeanette
provenire dal salotto e si domandò quanto ancora mancasse al
termine
di quello stupido programma televisivo. Soffiò
distrattamente
sull'infuso bollente e la sua mente si spostò sul piccolo
Henry. Non
poteva credere che fosse davvero andato a cercare
la madre
biologica, alla fine. Quella storia stava prendendo una piega
alquanto complessa, e Archie temeva per la sicurezza psicologica del
ragazzino. Regina non l'avrebbe presa affatto bene e lui, il medico
pagato per controllare gli sviluppi del ragazzo, si sarebbe trovato
in un sacco di guai.
Non
poteva smontare le sue storie di fate e orchi. Regina avrebbe potuto
ripeterglielo all'infinito, ma Archie aveva troppo a cuore
l'interesse di Henry per fare una cosa simile.
Aveva
appena appoggiato le labbra alla tazza, quando la sua attenzione fu
calamitata dalla torre del comune di Storybrooke.
Assottigliò le
palpebre e per qualche momento credette di doversi ripulire gli
occhiali.
Il
grosso orologio segnava le nove e trenta.
Archie
scosse stupefatto il capo e fece una smorfia divertita.
«Ehi,
Jeanette!» esclamò. «Vorresti indovinare
cos'ha appena ripreso a
funzionare?».
Non
ricevendo risposta, Archie si diresse verso il salotto, si
appoggiò
allo stipite della porta e si rivolse direttamente alla donna.
Jeanette era abbandonata sgraziatamente sul divano, con i piedi
appoggiati sul pouf e lo smalto fresco che brillava alla luce del
televisore. Stava guardando uno di quei ridicoli programmi reality
che tanto la facevano sghignazzare.
Jeanette
lo scrutò torva.
«Che
vuoi? Sto guardando la tv».
«L'orologio
funziona» ripeté lui, indicando la finestra con un
cenno del capo.
Lei
fissò distrattamente oltre il vetro, fece le spallucce e
tornò a
concentrarsi sul programma televisivo.
«Sai
quanto me ne importa di quello stupido orologio».
Archie
rimase a fissarla con sguardo perso. Guardò i suoi capelli
rossi,
così volgari, così tinti,
acconciati malamente sulla cima
del capo; i suoi polsi magri e le dita ossute che stringevano il
telecomando; i suoi piedi secchi, con le unghie rosse e squadrate, e
poi c'era la sua risata, così grassa, così
sfrontata, così
fastidiosa... e poi qualcosa nella testa di Archie si ruppe.
Le
sue labbra si incresparono in un vago sorrisetto. Scuoteva divertito
il capo e poco dopo scoppiò in una risata febbrile.
Attraversò a
grandi passi il salotto, si diresse in camera da letto ed estrasse
una valigia dall'armadio. Mentre vi riponeva all'interno i propri
abiti, aveva preso a fischiettare e canticchiare una vecchia
filastrocca per bambini. Chiunque lo avesse visto in quel momento,
con la faccia stralunata di folle spensieratezza, gli avrebbe
suggerito un bravo psichiatra.
«When
you wish upon a star» borbottava allegramente,
arrotolando con
gesto sicuro le cravatte. «Makes no difference who
you are...».
La
voce di Jeanette riempì d'un tratto le pareti.
«Archie!
Che diavolo stai facendo?».
«Anything
you heart desires...».
«Archie!»
gridò di nuovo la donna, facendo finalmente capolino nella
stanza.
Spalancò la bocca nel vederlo in procinto di fare i bagagli
e lo
fissò sconcertata. «Che stai facendo!?».
«Me
ne vado» rispose con naturalezza. «Mi sembra
ovvio».
«Tu...
cosa!?».
Lui
la fissò con espressione raggiante. Poi sfilò gli
occhiali, li
ripulì con noncuranza e aggiunse:
«Oh,
è una cosa che desideravo fare da anni!».
Richiuse
la valigia con un colpo secco e superò canticchiando
Jeanette. La
donna non sembrava in grado di muoversi. Era rimasta immobile, con la
mano appoggiata sullo stipite e lo smalto fresco ormai del tutto
sbavato.
«Archie!»
cercò di fermarlo dopo qualche istante, correndo lungo la
sua scia.
«Archie, non essere ridicolo, cosa sta...?».
«When
you dream come true...!».
«Smetti
di cantare!».
Jeanette
si infilò le mani fra i capelli. Aveva un'aria allucinata
quanto
quella dell'uomo che armeggiava con la sciarpa.
«Mi
stai... lasciando?» sibilò con
gli occhi fuori dalle orbite.
«Sì»
rispose senza la minima esitazione lui, regalandole un sorriso da
orecchio a orecchio. «Non ti senti incredibilmente
più leggera?».
«No!».
«Beh,
dovresti».
Aprì
la porta e infilò il sentiero del cortile senza voltarsi.
Poi portò
l'indice e il pollice alla labbra ed emise un lungo fischio acuto. Si
udì l'eco di un cane abbaiare dal retro del giardino, e
pochi
istanti dopo il dalmata era già al suo fianco e scodinzolava
felice.
Archie gli carezzò rapidamente la testa. Jeanette lo
seguì fino in
strada, tenendosi stretta la vestaglia verde e strascicando le
ciabatte di pelo.
«Non
puoi andartene!» strillava furiosa. «Non puoi,
Archie! Non
puoi!».
«Makes
no difference who you are...».
«Sei
pazzo! Tu sei pazzo!».
Archie
si voltò sul marciapiede, sistemò il cappello
sulla testa e scoppiò
in una risata liberatoria.
«Non
lo trovi meraviglioso?».
«C-cosa?»
balbettò lei, aggrappandosi disperata al cancellino.
«Archie!».
Ma
lui si era già incamminato, e Jeanette non poté
far altro che
guardarlo allontanarsi dalla casa – la loro casa
– e da
lei. Sentì la rabbia sostituire rapidamente l'iniziale
stupore. Era
come se qualcuno le avesse gettato addosso una secchiata d'acqua
gelida. Si sentiva svuotata, stordita, tradita.
«Archie,
io ti amo!».
La
risata pazza di Archie risuonò ancora una volta per la via
deserta.
«No,
tesoro, non lo hai mai fatto!» la corresse placidamente.
«E grazie
al cielo nemmeno io!».
A
Jeanette non rimase altro che l'orripilante ricordo di quella
ridicola canzoncina nelle orecchie. Archie si affrettò a
muoversi
nella notte, fischiettando beato e correndo di tanto in tanto,
divertendosi nel vedere Pongo trotterellargli dietro con aria
altrettanto libera. C'era qualcosa di pazzo nell'aria di quella sera,
qualcosa che Archie non aveva mai assaporato, e qualunque cosa fosse
ne era già inebriato.
Quando
varcò la soglia del bed&breakfast della signora
Lucas, stava
ancora cantando. L'anziana donna era seduta su una poltroncina del
modesto soggiorno, ma sollevò di colpo il volto dal lavoro a
maglia
che stava portando avanti. Strabuzzò gli occhi nel
ritrovarsi Archie
davanti, con quel sorriso idiota sulla faccia e gli occhiali storti.
«Buonasera»
la salutò con brio. «Credo di aver bisogno di una
camera».
Ripresa
dallo shock iniziale, la signora Lucas si alzò in piedi e si
avvicinò cauta a lui.
«Archie,
ti senti bene?».
«Ho
lasciato Jeanette».
La
donna rimase ammutolita. Lo scrutò con incredibile
serietà per
qualche istante, con le labbra serrate in una linea rigida, poi
scoppiò a ridere. Dovette appoggiarsi al piccolo bancone e
nel
vederla tanto felice Archie si ritrovò a farle rapidamente
eco. Le
loro risate attirarono l'attenzione di Ruby, che si sporse dalle
scale e mostrò lo stesso sconcerto della nonna nel
ritrovarseli
entrambi in quelle condizioni.
«Porca
misera» affermò sconvolta. «Siete
ubriachi».
Archie
cercò di mantenere il proprio contegno, ma l'espressione di
Ruby era
terribilmente buffa e quella notte c'era davvero qualcosa
di
pazzo, assurdo e scanzonato e fuori di testa là fuori. La
guardò
negli occhi e sorrise come un ebete.
«Non
ancora» rise. «Avresti del bourbon?».
*
Note:
Ciò
che capita nella Foresta
Incantata si rifà all'episodio 01x20, dove Red pare banchettare
con i soldati di Regina – o così mi pareva di
ricordare, almeno.
So solo che ho adorato la battuta di Grumpy: «Ehi, Red, hai
del
sangue proprio qui».
Archie
canticchia When
You Wish
upon a Star,
ovviamente,
l'adorabile canzone che Cliff Edwards canta nei panni di Jiminy
Cricket nella versione originale di Pinocchio.
Mi
sembrava stranamente calzante.
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