Save your enemy

di MrEvilside
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #00: Prelude of the fall ***
Capitolo 2: *** #01: The new secretary and personal assistant ***
Capitolo 3: *** #02: The light and the moth ***
Capitolo 4: *** #03: That man called “brother” ***
Capitolo 5: *** #04: Smashed ***
Capitolo 6: *** #05: The frostbite of the prince ***
Capitolo 7: *** #06: Born to be king ***
Capitolo 8: *** #07: Heroes shattering ***
Capitolo 9: *** #08: Hit the ground ***



Capitolo 1
*** #00: Prelude of the fall ***


Dicevo che sarei tornata e così ho fatto <3 Così in presto, in realtà, non me l'aspettavo nemmeno io, ma... l'ispirazione ha chiamato, io ho risposto XD Con una nuova FrostIron per i pochi (ma buoni) fans italiani della coppia <3 Non aggiungo altro per non rovinare la sorpresa, questo capitolo per la verità è piuttosto breve, ma avrete qualcosa di ben più sostanzioso a partire dal prossimo - questo, dopotutto, è solo un prologo. Uhm, una precisazione: l'icon è opera mia, se rubate vi sfracello, okay? <3 Altra precisazione, di natura un po' meno mortale: la fanfiction ha una trama, ma ha anche tanto slash e inizialmente era pensata anche per avere tanto sesso, ma poi le cose si sono evolute diversamente (edit del 08/10/12). Sicuramente tanto slash, comunque; quello che voglio dire è che non ci sono solo vaghi accenni, niente di preoccupante (?), eccetera, perciò, se dovesse infastidirvi, lasciate perdere la lettura fin da subito <3
Per chi invece rimane, se commentaste mi rendereste molto, molto felice BD Non è che vi minacci di non pubblicare se non commentate (-___-), ma i pareri dei lettori sono sempre molto graditi e mi motivano a continuare :D E prometto che risponderò alle recensioni \o/
Oh, sono su tumblr  e ci sono probabilità che sbuchi qualche ff (o lavoro grafico, perché no?) ogni tanto in inglese, ovviamente FrostIron <3



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#00: Prelude of the fall
Burning here in the room
Feeling that the walls are moving closer
Silent scene, the dark takes me
Leads me to the ending of another day
I’m haunted
-Spellbound, Lacuna Coil
 
Tony Stark era solo.
Seduto sul costoso divano in pelle che fronteggiava la parete a vetrata del suo loft, era immobile e pensieroso, un bicchiere colmo di scotch in mano, le gambe divaricate e le braccia pigramente allungate lungo il bordo dello schienale, all’apparenza in una posizione rilassata.
Soltanto nel suo sguardo si poteva cogliere una certa tensione, un rannuvolarsi di cupe riflessioni mascherato dall’illusoria placidità del suo atteggiamento.
A un tratto ruppe quel contegno da statua di marmo, così insolito per un uomo come lui, levò il bicchiere alle labbra e bevve un lungo sorso. «Jarvis,» chiamò, la voce echeggiò nell’angusto cono di vetro che conteneva il liquore «ci sono state delle variazioni?»
«No, signore» fu l’atona risposta del robot. «Nessuna variazione nelle ultime dodici ore».
«Bene. Grazie, Jarvis».
Neppure Jarvis, per quanto fosse una macchina, aveva avuto bisogno di specificazioni per capire su che cosa il suo padrone volesse essere aggiornato. Forse l’aveva creato un po’ troppo intelligente, pensò Tony, o forse era lui a essere diventato un po’ troppo paranoico.
Fissò il vetro, sul quale le luci di Manhattan disegnavano soffusi giochi di colore. Fino a pochi giorni prima al posto di quella vetrata c’era stata una miriade di frammenti.
Era bastato così poco, quel giorno.
Così poco per scaraventarlo fuori dalla finestra, nel vuoto, a un passo dal morire maciullato sul marciapiede che cingeva la Stark Tower. Lui, Iron Man. Uno degli uomini più intelligenti al mondo – se non il più intelligente, a suo modesto parere. Quanto poco sarebbe stato sufficiente per uccidere una persona comune? Troppo poco.
Erano stati fortunati. Molto fortunati.
I suoi compagni non sembravano rendersene conto; nemmeno Thor, che avrebbe dovuto conoscere la minaccia meglio di chiunque altro, capiva, accecato dal compiacimento d’aver salvato la Terra ed essersi meritato l’eterna gratitudine dei suoi abitanti.
Nessuno di loro aveva visto ciò che lui aveva visto, non avevano sentito ciò che lui aveva sentito.
Quegli astuti occhi azzurri non li avevano sondati con un luccichio divertito e interessato, uno sguardo simile a quello di uno scienziato che studi una cavia particolarmente utile. Quella risatina sibilante non li aveva fatti rabbrividire. Non erano state per loro le parole “Sei un umano estremamente singolare, Anthony Stark”, chiuse in una prigione di vetro, all’apparenza distanti, eppure più che mai udibili e vicine.
Loro attribuivano la sua eccessiva inquietudine allo stress generato dal trovarsi sempre al centro dell’attenzione, dall’essere sempre sotto pressione a causa delle aspettative di un mondo intero. Loro non lo conoscevano così a fondo da poter comprendere, né tantomeno desideravano mettere la Terra in stato di allerta soltanto perché Tony Stark aveva un presentimento – anche se, per quanto lo riguardava, era una ragione estremamente valida. Loro volevano la pace al punto da distogliere lo sguardo da una concreta possibilità di perderla.
Tony però non era mai stato un sognatore, aveva la mentalità troppo concreta dello studioso, del calcolatore. Non era disposto a vivere in una campana di vetro, per quanto bella e confortevole essa potesse essere.
Per quello che aveva potuto analizzare del suo comportamento, Loki sceglieva con grande cura le proprie parole a preludio di quanto avrebbe fatto in futuro.
Fino ad allora era riuscito a coglierli di sorpresa più di una volta – una delle quali aveva quasi conquistato il mondo, per inciso – ma la prossima almeno uno di loro sarebbe stato pronto, almeno uno di loro avrebbe saputo resistere, se anche gli altri avessero scelto di ostinarsi nella loro cecità volontaria.
Almeno uno di loro non si sarebbe lasciato ingannare.
E Tony Stark non aveva mai amato particolarmente essere preso in giro. Amava, invece, essere il primo in ogni campo possibile, amava vincere le sfide, amava trovare qualcuno alla sua altezza e sopraffarlo con il proprio acume – sarebbe stato una menzogna affermare che la sua era semplice preoccupazione.
Era impazienza, adrenalina, eccitazione.
Bevve un altro sorso, l’aroma dell’alcol gli riscaldò piacevolmente la gola. Non vedeva l’ora di restituire a Loki il favore di finire fuori dalla finestra.
 
 
Quando Tony era nel laboratorio, significava che nessuno aveva il permesso di disturbarlo. Neppure per comunicargli che la Terra era sotto attacco, si era premurato di specificare con Pepper.
Di conseguenza, quando la donna fece il suo timido ingresso nella stanza, brandendo un cellulare, l’uomo sollevò il capo dal componente dell’armatura che stava oliando con attenzione e inarcò un sopracciglio. «Mi pareva avessimo stabilito delle regole».
La segretaria si sistemò una ciocca rossa dietro l’orecchio, uno dei gesti preferiti da Tony, che soleva compiere quando era consapevole di essere nel torto e si sentiva in imbarazzo, ma non voleva lasciarlo a intendere, orgogliosa com’era. Sfortunatamente era anche adorabile. «È Fury. Dice che è molto importante».
L’uomo studiò per un istante l’apparecchio che gli veniva porto, scettico, ma alla fine mise da parte armatura e olio e glielo prese di mano.
«Ehilà, Nicky».
«Stark» fu l’asciutto saluto all’altro capo del filo. «Non è un buon momento per il tuo spirito».
«E quando è stato l’ultimo “buon momento”? Mai?»
Non riusciva proprio a trattenersi, era più forte di lui: sembrava che Nicholas Fury fosse nato appositamente per essere oggetto del suo sarcasmo. Tony poteva immaginarlo senza difficoltà che roteava gli occhi – pardon, l’occhio – al cielo e macerava a fatica tra i denti un insulto ben poco professionale, che non era il caso ringhiasse al telefono – era molto, troppo più forte di lui.
Fury decise di ignorarlo deliberatamente. «Siamo in codice rosso, Stark. Lo scettro è ancora in casa tua? È protetto?»
Tony indovinò subito che, ancora una volta, aveva avuto ragione.
Sotto lo sguardo stupito di Pepper, una smorfia a metà tra un sorriso compiaciuto e un ringhio si dipinse sulle sue labbra. La prima mossa era stata fatta; ora era il suo turno di spostare una pedina sulla scacchiera.
«Ovvio. Dubiti di me, Nicky?»
«Fa’ in modo che rimanga al sicuro. Loki è scappato, ma non riusciamo a stabilire la sua posizione. Abbiamo già chiamato gli altri, tra quarantatré minuti esatti l’Elivelivolo sarà nel cielo di Manhattan: lo scettro sarà la prima cosa di cui Loki andrà in cerca, sii pronto. Tu sei l’unico che sappia resistere al suo potere di soggiogamento, nel caso in cui dovesse riappropriarsene».
«Sono Iron Man. Sono sempre pronto, Nicky».
Senza attendere oltre, terminò la chiamata, passò il cellulare alla donna al suo fianco, che lo scrutava contenendo a malapena la propria curiosità, e si sfilò i guanti da lavoro. «Pepper,» la chiamò, il sorriso scomparso, sostituito da un’espressione seria «disdici immediatamente tutti i miei appuntamenti per la settimana».
La segretaria non si mosse, preoccupata. «Cosa succede, Tony?»
«Niente che Iron Man non possa controllare. Adesso va’».
L’uomo si alzò dalla sedia con un movimento fluido e, nell’avvicinarsi a un’altra scrivania a una manciata di passi di distanza, le diede le spalle. Cadde il silenzio, rotto solo dal suo armeggiare con qualcosa che Pepper non poteva scorgere.
La donna osservò la sua ampia schiena, aspettò parole che sapeva non sarebbero arrivate, ma non se ne ebbe a male: nel momento in cui Tony si concentrava su qualcosa, non c’era più spazio per nient’altro. Nemmeno per lei. Era quello l’inconveniente d’essere innamorata di un supereroe egocentrico e megalomane e ormai era stata capace di scendere a patti con se stessa e accettarlo.
Buona fortuna, Tony.
Non osò dar voce a quel pensiero, non osò disturbarlo.
Una volta che la porta del laboratorio si fu chiusa con un sospiro metallico dietro la segretaria, Tony sollevò i polsi alla luce delle lampade e fissò i bracciali di metallo che li cingevano.
Da allora ne aveva perfezionato il funzionamento, potenziato l’armamentario e migliorato l’aspetto. Adesso l’accensione dei propulsori sugli stivali prevedeva un solo secondo e mezzo d’attesa e, anche ipotizzando un eventuale impatto, la corazza era abbastanza resistente da sopportare l’urto e al tempo stesso non rompergli qualche osso, grazie all’adesione perfetta del suo corpo con essa, come fosse una seconda pelle.
Sarebbe bastato?
Tony serrò le mani a pugno.
Sei un umano estremamente singolare, Anthony Stark”.
 
 
Una luce blu rifulse in quelle tenebre avvolte nel silenzio, dapprima poco più che un debole luccichio. Presto, il suo bagliore sfolgorò accecante, strappò il lenzuolo di oscurità.
Il silenzio fu squarciato dal martellare dell’allarme.


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Capitolo 2
*** #01: The new secretary and personal assistant ***


Eccomi con il nuovo capitolo (e un'altra icon, sempre opera mia, non rubare o spezzo le braccine BD), l'ultimo prima di una pausa estiva, visto che parto per le vacanze e non potrò aggiornare, ma ho anche deciso di staccare un po' dalla fanfiction e concentrarmi sul mio (tentativo di) romanzo. Non disperate (o non gioite, dipende XD), ho già promesso a me stessa che questa long-fiction terminerà, prima o dopo. Non ho alcuna intenzione di abbandonarla <3
Ciò detto, sappiate che le vostre recensioni mi hanno resa molto, molto, molto felice - e, come promesso, ho risposto a tutti \o\ Una hola per me XD Grazie mille per la calda accoglienza, sinceramente non mi aspettavo così tanti commenti vista la scarsa popolarità del FrostIron nel fandom italiano e, davvero, sono rimasta piacevolmente sorpresa e lusingata :D Spero che la mia storia resti all'altezza delle aspettative!
Bene, so che nessuno legge mai le note, quindi la faccio finita e posto il capitolo XD Grazie a tutti voi che leggete, che commentate e inserite in preferiti/seguite/whatsoever! Riceverete un Tom Hiddleston in regalo per posta <3
(Solo un appunto: ho dovuto inserire la dicitura "Britney Spears" perché la canzone è sua, ma io ascolto solo e unicamente la cover di Juliet Lloyd, incommensurabilmente più bella <3 Provatela, if you feel like it BD)

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#01: The new secretary and personal assistant
 
I know you told me
I should stay away
I know you said
He’s just a dog astray
He is a bad boy with a tainted heart
And even I know this ain’t smart
-Criminal, Britney Spears
 
Loki non era il solito antagonista da fumetti, quello che rivelava il suo piano malefico quando era convinto di essere sul punto di vincere, salvo poi venire irrimediabilmente sconfitto. La sua vera arma non erano gli incantesimi o lo scettro che brandiva, ma le parole velenose che sapeva pronunciare con tanta astuzia.
Nessuno osava negare quella sua spaventosa abilità, anche superiore a quella di mago, e non sapere dove si trovasse, ora, stava innervosendo l’intero S.H.I.E.L.D.
Mancavano ancora trentadue minuti all’arrivo dell’Elivelivolo sopra Manhattan, contò Tony con una veloce occhiata all’orologio.
Di Loki ancora nessuna traccia, a parte il suono dell’allarme della cassaforte, ma lo scettro era al suo posto e non sembrava influenzato dall’arrivo del suo legittimo padrone, fatta eccezione per l’intensa luminescenza blu che emanava la pietra alla sua sommità, che però Tony stabilì essere inoffensiva.
In una chiamata successiva – “perché diavolo hai interrotto la telefonata, Stark?!” – Nicholas gli aveva fatto sapere che le guardie delle prigioni di Asgard avevano scoperto la fuga di Loki cinque minuti prima e che era soltanto questione di tempo prima che si materializzasse sulla Terra.
Lo S.H.I.E.L.D. non dubitava che, non appena avesse localizzato lo scettro, non avrebbe perso tempo ad attaccare la Stark Tower, nel tentativo di recuperarlo prima del sopraggiungere dell’Elivelivolo e degli altri Avengers.
Tony era pronto a riceverlo: in base ai calcoli che aveva fatto, avrebbe dovuto essere in grado di tenerlo a bada fino all’arrivo dei rinforzi e l’unico eventuale ostacolo alla riuscita del suo progetto avrebbe potuto essere il modo in cui Loki avrebbe sferrato l’attacco, perché avrebbe avuto dalla sua l’effetto sorpresa.
D’altra parte, però, Tony si trovava nella torre che aveva progettato lui stesso, mentre Loki avrebbe dovuto muoversi in un territorio pressoché sconosciuto. Le possibilità di sconfitta erano piuttosto basse, anche considerato che Thor sarebbe intervenuto appena possibile.
L’improvviso squillare del cellulare provocò l’immediata tensione del suo corpo, poi ritrovò la calma e controllò di chi fosse il numero.
«Jarvis, hai individuato Loki?»
«Per il momento non si trova sulla Terra, signore».
In realtà sapeva già di chi si trattava, non aveva davvero bisogno di scrutare il nome apparso sul display touch del suo telefono. Soltanto Fury e gli Avengers avevano il numero del suo cellulare – Pepper a parte –, per tutti gli altri c’era il cercapersone. E, tolti sia Nicholas che la segretaria, rimanevano ben poche alternative.
Per la verità, che davvero si sarebbe curata di chiamarlo c’era soltanto una persona.
«Ciao, Steve. Come te la passi?»
Dall’altra parte si udì un brusco risucchio, come se l’interlocutore avesse all’improvviso trattenuto il fiato. Malgrado il nervosismo, un sorriso divertito gli increspò gli angoli della bocca: Steve era sempre così adorabilmente sentimentale.
«Sono contento che tu non sia morto, Tony».
Tony ribatté in tono di rimprovero, inaspettatamente serio: «Quante volte ti ho detto che i saluti da Seconda Guerra Mondiale non vanno più di moda? Non puoi dire “sono contento che tu non sia morto” o “chi non muore si rivede” così, come se niente fosse… È troppo vintage, mi spiego? Sembri mio padre».
Steve prese in considerazione la possibilità di obiettare che, in realtà, aveva conosciuto suo padre, ma preferì optare per ignorare il sarcasmo pungente del compagno di squadra, come d’altra parte faceva più o meno chiunque avesse a che fare con lui.
«Sarò lì tra quindici minuti, Tony». Una pausa prolungata in risposta, Steve alzò gli occhi al cielo e si impose la calma – non importava che Anthony Stark, persino in una situazione a codice rosso, fosse peggio di un bambino; non importava che rischiasse di mandare all’aria la strategia e, naturalmente, la Terra. «… Tony? Ti sei offeso?»
Nell’apparecchio risuonò uno sbuffo sonoro. «Steve, sai che non sentivo questa domanda dai tempi dell’asilo?»
«Va bene. Allora a dopo».
«Okay». Possibile che Steve non fosse fisiologicamente in grado di prendere l’abitudine di dire “okay” anziché “va bene”? Certe cose – molte cose – di Steven Rogers lo stressavano, seriamente. «A dopo».
Abbassò il cellulare, interruppe la telefonata e lo fece scivolare lontano lungo il ripiano del tavolo, un’espressione accigliata a illividirgli i lineamenti. «Non so se ad Asgard funzioni diversamente, ma sulla Terra alle persone non piace essere interrotte al telefono o minacciate. Tu mi hai interrotto e minacciato, ci tengo a sottolinearlo».
Una risata di gola vibrò al suo orecchio, la pressione della punta acuminata sulla sua schiena non accennò a diminuire, l’uomo a pochi passi da lui increspò le labbra in un sogghigno. «Oh, per questa volta potrai perdonarmi, non credi?»
Tony lo esaminò con attenzione, la bocca tirata in una linea sottile.
Loki sembrava perfettamente in salute, troppo in salute. In realtà l’unica differenza visibile rispetto all’ultima volta che si erano incontrati, fatta eccezione per la mancanza dello scettro e dell’elmo, erano i capelli, molto più corti di prima, anche se immancabilmente lisciati all’indietro, come il semidio era solito portarli – Tony ipotizzò che rasare i prigionieri non fosse solo una pratica dei terrestri ma anche degli asgardiani.
«No, non credo. Non sono molto incline a perdonare chi mi punta un coltello alla schiena» obiettò in tono piattamente sarcastico.
Loki allargò le braccia e sorrise, divertito. «È una semplice precauzione» minimizzò e gli rifilò un’occhiata trionfante, di chi sappia di avere il coltello dalla parte del manico – in tutti i sensi, sbuffò tra sé Tony. «Non voglio rischiare che Captain America arrivi prima del previsto in soccorso del suo caro amico Iron Man».
L’uomo avrebbe voluto poter dire che quelli dello S.H.I.E.L.D. erano troppo paranoici, che la Terra aveva affrontato minacce peggiori, ma la verità era che quella voce bassa, insinuante, era senza dubbio quanto di più pericoloso in cui lui stesso si fosse mai imbattuto.
Più pericoloso di Obadiah, più pericoloso di Vanko: loro volevano soltanto soldi e potere e, per quanto forti potessero essere, erano legati a egoistici bisogni umani. Avevano un punto debole.
Loki era diverso.
Lui desiderava qualcosa di più, qualcosa di cui nessuno era ancora riuscito a stabilire l’identità precisa, ed era quell’ambizione incomprensibile a renderlo così temibile.
«Sarà comunque qui tra dodici minuti e diciassette secondi». Tony allargò le braccia e scrollò le spalle, un sorriso nervoso a incurvargli gli angoli della bocca. Quello di chi ostentava sicurezza pur essendo inquieto era un ruolo alquanto difficile da interpretare. «Sei davvero convinto di poter ottenere da me quello che cerchi in così poco tempo? Io no».
Il semidio non avrebbe mai sottovalutato una forza che non conosceva, nemmeno se fosse stato costretto ad ammettere che un volgare essere umano ne era più esperto di lui. Non lo avrebbe ammazzato, non se correva il rischio di non trovare il modo di riprendersi lo scettro protetto dal sistema di sicurezza di Jarvis.
La lama che un sosia del semidio teneva premuta contro le sue reni, però, non si muoveva di un millimetro.
Deciso o meno a ucciderlo che fosse, Loki non aveva alcuna intenzione di concedergli la minima libertà di deambulazione. Sfortunatamente sembrava che il suo soggiorno forzato nelle prigioni di Asgard gli avesse offerto molto tempo per riflettere e considerare con attenzione ogni falla nel suo precedente progetto di conquistare la Terra.
Tony non era così ingenuo da non capire che, come lui aveva pensato più volte al loro scontro, se non altro perché era stato punto nell’orgoglio, così doveva averlo rievocato spesso anche Loki, che aveva perso molto più di un po’ di autocompiacimento in quella battaglia.
«Forse dieci minuti non bastano» fu il sorprendente commento del semidio di fronte a lui. La sua copia si chinò fino a che l’uomo non avvertì distintamente le sue labbra contro l’orecchio. Fredde. «O forse sì, chi lo sa?» sussurrò, la voce d’un tratto cambiata, come se qualcosa – magia – vi si annidasse dentro. «In fondo si tratta solo di plagiare il tempo a mia discrezione. Tu credi, Stark, che io non ne sia in grado?»
Se Loki non avesse potuto guardarlo in viso, Tony avrebbe scoccato un’occhiata esasperata al soffitto. Ottimo, pensò, sarcastico, ora il supporto può andare a farsi fottere.
«Puoi minacciarmi per ore, come preferisci» affermò, dapprima accondiscendente e all’apparenza placido, poi, malgrado il tono ironico, la mascella si irrigidì, gli occhi si ridussero a due fessure. «Ma non riavrai la tua bacchetta magica».
Fu un errore, lo indovinò dal sorriso dipinto sul volto del semidio, che non accennava a svanire.
Aveva appena rivelato a Loki quella che riteneva la sua più probabile linea d’azione – la più probabile, non quella certa – e ora il semidio sapeva perfettamente che lui non conosceva né sospettava il motivo per cui si trovava nel suo attico, al di là del banale desiderio di vedersi restituito il proprio scettro.
Non era stata una delle sue mosse più intelligenti, dovette riconoscere, se non altro con se stesso.
In particolar modo perché era chiuso in casa con ben due sosia del più forte criminale con cui gli Avengers avessero mai avuto a che fare fino a quel momento. Se compiva gesti troppo bruschi, l’estremità affilata del coltello gli solleticava la schiena.
Era stata una mossa idiota, a voler essere precisi.
«Puoi tenerlo, se ti piace» lo schernì Loki. Allo sguardo di fuoco che l’uomo gli indirizzò, il semidio replicò con un ghigno sardonico. «Non è per quello che sono venuto da te, oggi».
Tony inarcò un sopracciglio. Se Loki si era presentato da lui, mettendo a rischio la libertà appena ritrovata, la ragione doveva essere fondamentale e, scettro a parte, quelle rimaste non erano esattamente rassicuranti – nella lista, il primo punto era, molto probabilmente, “strangolare Tony Stark”. «E per cosa, allora?»
All’improvviso la copia del semidio che lo fronteggiava si dissolse nell’aria e la pressione sulle reni venne meno; rimase solo la consapevolezza della presenza di Loki alle sue spalle, di quella bocca gelida così vicina alla sua pelle.
«Un drink. Me ne hai promesso uno, se non ricordo male».
L’uomo non si mosse, ciò che meno desiderava in quel momento era una collisione involontaria con le labbra del semidio se si fosse voltato. Specialmente perché, di tutte le cose cui avrebbe potuto pensare, la sua mente aveva subito rievocato il contatto effimero di quella bocca con il suo orecchio, poco più che una carezza d’impercettibile lascivia.
«Non credevo che bevessi» commentò in tono disinvolto, grato della propria capacità di celare le emozioni più imbarazzanti dietro una maschera di incrollabile pacatezza.
Peccato che Loki gli desse sempre l’impressione di essere in grado di spogliarlo di ogni difesa e scandagliare con accuratezza il suo animo con una semplice occhiata. Persino adesso, sebbene fosse dietro di lui, riusciva a percepire l’intensità del suo sguardo sulla propria nuca.
«Non hai mai visto cosa succede se mio frat— Thor e una birra sono nella stessa stanza?»
Tony non riuscì a trattenere un sussulto stupito, ma la voce dello stesso semidio, verso la fine della frase, aveva ceduto a una quasi intangibile nota di sorpresa.
Aveva quasi detto “mio fratello” anziché “Thor”.
Si premurò di appuntarselo con grande cura, ma scelse di non sfruttare subito l’unica breccia dell’invincibile Loki Io-faccio-quello-che-voglio. Non era la circostanza adatta per far arrabbiare il semidio e, modestamente parlando, Tony era un esperto nel cogliere il frangente migliore per infastidire qualcuno.
«Lo so, ma… diciamo che non dai esattamente l’impressione di essere un alcolista» tergiversò invece con disinvoltura, quasi che nulla fosse accaduto. «Più uno psicopatico, a essere sinceri».
Nella voce di Loki c’era l’eco di uno dei suoi sorrisi sardonici. «Non lusingarmi troppo, Stark».
Tony svicolò da quella posizione scomoda da cui non riusciva a seguire i suoi movimenti, aggirò il tavolo della cucina e rovistò nel frigobar in cerca di una bottiglia di scotch. Aveva bisogno di qualcosa di forte per convincersi che quello non era un sogno e che Loki Odinson voleva davvero bere con lui, come fossero due vecchi amici.
Alle sue spalle, il semidio lo osservò senza accennare a spostarsi fino a quando l’uomo non spinse un bicchiere colmo di liquore nella sua direzione attraverso il tavolo che ora li separava. Allora considerò la bevanda con uno sguardo e ne bevve un sorso, le palpebre socchiuse, la mascella tesa – somigliava a un animale che attenda di essere attaccato. Nel momento in cui si convinse che lo scotch non era avvelenato, la tensione delle sue spalle si sciolse e svuotò il bicchiere in una seconda sorsata.
«I liquori di Midgard sono piuttosto leggeri» commentò, occhieggiando il fondo del bicchiere con fare critico.
«Mi spiace che non sia di tuo gradimento». Era semplicemente assurdo: che lui si trovasse con Loki, che non stessero combattendo, che stessero chiacchierando amabilmente. Era evidente che dovesse esserci qualcosa sotto, ma non riusciva ancora a capire che cosa. Aveva bisogno di più tempo. «Sfortunatamente è il più forte che posso offrirti, Pepper mi ha proibito di tenerne altri in casa. Dice che bevo troppo».
Parlava del più e del meno, ma non aveva abbassato la guardia. Non poteva concederselo, non con il Dio dell’Inganno: persino lui, persino Tony Stark, ammetteva che era troppo rischioso.
Il semidio sollevò le sopracciglia in un’espressione indefinibile, l’uomo non avrebbe saputo affermare se fosse incredulo oppure irritato. O un miscuglio di entrambi. «La tua donna, presumo».
«Precisamente». Pepper non era un argomento pericoloso, dopotutto Loki non conosceva il suo aspetto o il suo nome, né Tony era intenzionato a informarlo a riguardo. «Anche se non la chiamerei “donna” in sua presenza, a meno che non ti piaccia subire violenza».
Forse, se mai l’avesse incontrato, la segretaria sarebbe stata troppo atterrita per colpire il semidio, ma fino ad allora non si era mai fatta scrupoli con lui.
Un sorriso sottile si fece strada sulle labbra di Loki. «Penso che la tua donna mi piacerebbe». Fece schioccare la lingua contro il palato e attorcigliò la bocca intorno al suo nome in un modo che non piacque affatto a Tony, come se lo stesse assaggiando. «Pepper».
Era stanco di giocare, men che meno a un gioco che coinvolgesse Pepper.
Serrò le labbra in una linea sottile, la fronte aggrottata, le dita più strette del dovuto attorno al bicchiere ancora mezzo pieno. «Credo che tu abbia tergiversato abbastanza. Che cosa sei venuto a fare?»
Il semidio allargò le braccia, i palmi aperti rivolti verso di lui, a indicare che era innocuo. Il suo sorriso, però, sembrava manifestare tutt’altro che inoffensività. «Pare che tu sia piuttosto suscettibile all’argomento, mi sbaglio?» lo provocò e Tony fu certo che stesse soffocando una delle sue risatine derisorie. «Non era mia intenzione infastidirti».
«Per essere soprannominato il Dio dell’Inganno, non sei così bravo a mentire» ribatté con asprezza, ma si maledisse nell’istante successivo.
Stava perdendo il controllo – proprio ciò che Loki desiderava.
Si costrinse ad appoggiare sul tavolo il bicchiere che stava stritolando e ostentò un sorriso beffardo, pienamente consapevole che, finché lui avesse tenuto testa al semidio, Pepper, così come chiunque altro sulla Terra, sarebbe stata salva.
Loki non avrebbe potuto dilatare il tempo all’infinito e forse avrebbe resistito ancora meno se sottoposto alla dovuta pressione. La dovuta pressione, si ripeté in mente, nascondendo a fatica il luccichio trionfante negli occhi scuri che minacciava di mettere il semidio all’erta. Finalmente aveva qualcosa su cui poteva lavorare.
Abbassò lo sguardo sul tavolo, sulle proprie dita che vi picchiettavano sopra, e riprese con fare più affabile: «Né a eludere le domande. Te lo ripeto: perché sei venuto?»
Nell’indecifrabile silenzio che seguì, un leggero fruscio catturò la sua attenzione.
«Come vuoi. Niente più giochetti». Loki stava muovendosi intorno al tavolo a passo lento, una mano lasciata scivolare pigramente sul ripiano lucido, le placche di metallo che frusciavano contro la pelle nera della sua armatura a ogni passo. Seguiva con attenzione ogni singolo gesto delle proprie dita sul legno, di modo che Tony non potesse vederlo in volto.
Lui non si spostò, gli permise di avvicinarsi di nuovo, ma il suo corpo era pronto a scattare, la sua voce a dare l’ordine di attivare il Mark VII migliorato. Non sarebbe rimasto scoperto, non sarebbe stato preso in giro. Non di nuovo.
Di tutto quel che sarebbe potuto accadere, però, non si aspettava certo che il semidio gli facesse una proposta simile. «Voglio fare un accordo con te, Stark».
L’affermazione lo stupì al punto che quasi cadde nell’errore di abbassare la guardia. Quasi. Dopotutto stava affrontando il Dio delle Menzogne e doveva essere preparato a qualsiasi sua linea d’azione, compreso un tentativo di avvicinamento, per quanto inaspettato.
Ma, oltre a essere Iron Man, era anche umano e quelle parole erano talmente stupefacenti che non poté impedire al suo volto di contrarsi in un’espressione incredula. «E perché dovresti?»
L’atteggiamento di Loki era molto serio, come Tony non l’aveva mai visto prima. Il suo sguardo color dell’oceano in tempesta lo stava soppesando, come se ancora non fosse del tutto sicuro di voler davvero avanzare con lui un simile progetto, ma la tensione dei suoi lineamenti dava invece l’impressione che non avesse scelta.
Dopo aver selezionato meticolosamente la risposta migliore da dare, il semidio ammise: «Perché tu sei l’unico con cui valga la pena di stipulare un simile patto». La sua voce era venata d’orgoglio, quasi gli stesse facendo una magnanima concessione con quel complimento sottointeso. «Mi darai ascolto?»
Non che l’uomo avesse molte altre possibilità, oltre a ingaggiare una battaglia. «Ti ascolterò».
Non domandò perché Loki avesse perso tempo a stuzzicarlo fino a quel momento prima di rivelare le proprie intenzioni, se si trattava di un’iniziativa amichevole. Conosceva già la risposta: semplicemente, l’aveva fatto perché lui era Loki e, prima di fare una mossa qualunque, avrebbe fatto in modo di carpire ogni possibile informazione sulle debolezze del nemico, per poterle sfruttare in caso di bisogno.
«Molto bene». Il semidio subì un cambiamento quasi invisibile, una traccia a malapena distinguibile di rilassamento che si insinuò nel suo comportamento. «L’accordo è semplice: nascondimi, e in cambio la Terra non verrà distrutta».
Di norma Tony avrebbe trovato una battuta pungente da replicare – non era la prima volta che Loki faceva una minaccia del genere – ma la gravità era talmente evidente nel tono del semidio che l’uomo intuì che non erano gli asgardiani coloro da cui voleva sottrarsi, ma qualcos’altro. Qualcosa che preoccupava persino Loki Odinson.
Non poteva, però, prendere decisioni affrettate e dettate dall’istinto, specie se c’era di mezzo il destino del pianeta.
«Okay» fu il suo primo commento, stillante nervoso imbarazzo. «Perché non ti siedi sul divano e mi spieghi bene come stanno le cose? Ma dovrai essere sincero» specificò, scoccandogli un’occhiata intensa «altrimenti non accetterò. Puoi farlo, Dio dell’Inganno?»
I contorni della figura del semidio vibrarono nell’aria fino a che egli non si dissolse, per riapparire subito dopo accomodato sul divano, le gambe accavallate con eleganza, il braccio ciondolante sul bordo dello schienale. «Non posso rispondere a tutte le tue domande» lo mise in guardia, mentre Tony si lasciava ricadere sul sofà e assorbire dalla sua pelle morbida, a mezzo metro di distanza da lui. «Cerco il tuo aiuto, ma non sono uno sciocco».
Era corretto. L’uomo scrollò le spalle, consapevole che, rifiutando quella condizione, non sarebbe mai riuscito a ottenere sincerità.
Poi Loki prese a parlare, senza mai distogliere lo sguardo dal suo, senza vergogna, senza timore, e Tony aveva la sensazione – non del tutto sgradevole – di stare affogando in quegli occhi, così come la prima volta che si erano trovati faccia a faccia, quando il semidio era rinchiuso nella cella in origine destinata a Hulk.
Che cosa sei venuto a fare, mortale?” era stata la sua prima domanda; ironicamente, la stessa che l’uomo gli aveva rivolto quando si era materializzato nell’attico.
Lui però aveva mentito, Loki, invece, stava dicendo la verità. “Voglio sapere dov’è il Tesseract”.
Paradossalmente, allora il semidio aveva smascherato subito la sua bugia e ora Tony aveva la stessa convinzione che lui fosse davvero onesto. “Menti al Dio dell’Inganno. Non lo trovi quanto mai patetico?
All’epoca, l’uomo l’aveva sottovalutato, intento com’era a crogiolarsi nella sicurezza della prigione che lo conteneva. Aveva pensato che le sue sole parole non sarebbero bastate a sconfiggerli. “Mi secca ammettere che hai ragione. La verità era che volevo vedere com’era questo famoso Loki – e, se vuoi il mio parere, non sei così minaccioso come ti dipingono. Un po’ pallidino, tipo vampiro, ma non minaccioso”.
Quel giorno lui aveva commesso lo stesso errore che riteneva stessero commettendo adesso i suoi compagni, prendendo sottogamba il ritorno di Loki.
Sfortunatamente aveva provato le conseguenze di quello sbaglio sulla propria pelle, quando, sotto i suoi occhi meravigliati, il semidio si era dissolto nell’aria ed era riapparso a pochi centimetri da lui. Aveva tentato di reagire per tempo, ma Loki era già su di lui, il suo sorriso a una manciata di millimetri di distanza. “Sei un umano estremamente singolare, Anthony Stark”.
Tony sapeva che, se il semidio l’avesse voluto, nessuno avrebbe potuto fare nulla per impedirgli di ucciderlo. Di conseguenza, si era ripromesso che non avrebbe più permesso di prendere Loki alla leggera né a se stesso né agli altri Avengers.
«Il mio accordo con i chitauri stabiliva che, in cambio del Tesseract, sarei stato posto alla guida di un loro esercito nella conquista della Terra». Il semidio fece solo una pausa di pochi istanti, dal momento che l’uomo conosceva già quella parte della storia. Per una volta, però, Tony non lo interruppe nemmeno con una battuta di spirito, ma restò paziente in attesa che riprendesse. «Poiché il mio progetto non ha avuto successo,» se l’uomo si aspettava un certo rancore, fu deluso dalla piattezza con cui Loki riassunse l’accaduto «non ho avuto modo di consegnare loro il Tesseract, dunque ora mi danno la caccia per punirmi. Non sanno che mi sono rifugiato su Midgard e staranno cercando il modo di penetrare le difese di Asgard, cosa che mi offre un considerevole vantaggio in termini di tempo, almeno per adesso».
Quando infine il semidio tacque, la prima reazione di Tony fu di passarsi una mano sul volto e decise che c’erano considerevoli probabilità di rimanere in vita, se anche avesse mostrato a Loki la stanchezza, mista a esasperazione, che quel racconto aveva generato.
Era quasi ridicolo che uno dei peggiori nemici degli Avengers si fosse presentato alla sua porta in cerca di riparo da coloro con cui aveva quasi conquistato il mondo.
«Perciò stai chiedendo agli Avengers di ospitarti per un po’ e difenderti dai chitauri?»
Il semidio scosse con decisione il capo e gli rifilò un’occhiata irritata, di quelle che si meritano le persone particolarmente ottuse. «Dovresti ascoltare con più attenzione, Stark. Non ho mai nominato il vostro sciocco gruppo di eroi. Io voglio il tuo aiuto, non il loro. Se accetti la mia proposta, tu sarai l’unico a sapere che mi trovo qui. È chiaro?»
Perché le cose non erano già abbastanza difficili, pensò Tony con una nota di amaro sarcasmo. Da un lato capiva Loki, capiva la sua diffidenza, in fondo gli Avengers lo avevano sconfitto e relegato in prigione in un’altra dimensione, ma dall’altro non capiva il resto.
Perché rivolgersi a lui?
Perché a lui, Tony, Anthony Stark, che, privo della sua armatura, era solo un genio, milionario, playboy, filantropo? Un umano estremamente singolare?
«Perché dovrei fidarmi di te?»
Altro scotch, elaborò la sua mente, mentre il semidio esibiva un piccolo sorriso.
Aveva un assoluto, impellente bisogno di altro scotch, perché doveva scegliere se nascondere Loki in casa sua, all’oscuro di tutti, di dormire vicino – in senso metaforico – a un semidio schizofrenico, di rischiare che Fury gli staccasse la testa dal collo, con o senza armatura, qualora avesse scoperto che stava coprendo Loki.
«Non ti sto chiedendo fiducia, Stark. Ti sto offrendo la possibilità di non finire ucciso per mano mia e il mio aiuto nel respingere i chitauri, in cambio di un posto dove stare. Nient’altro».
In realtà, l’uomo non riusciva a pensare ad argomentazioni contrarie che potessero reggere. A parte il classico “sei il Dio dell’Inganno, come faccio a crederti?” e “Tu, in casa mia? Sei pazzo?”, s’intendeva.
Fury l’avrebbe ucciso. No, Fury l’avrebbe vivisezionato. Steve l’avrebbe ucciso. Clint l’avrebbe ucciso. Natasha l’avrebbe ucciso. Bruce l’avrebbe ucciso. Thor- forse Thor sarebbe stato l’unico a esserne davvero felice. Pepper l’avrebbe ucciso, l’avrebbe fatto a pezzi, li avrebbe bruciati e sparsi in un fiume.
«Bene» sospirò, mettendo bruscamente fine al silenzio che era sceso tra loro. Loki si limitava a contemplarlo come si fa con un insetto che si comporti in modo strano, gli occhi azzurri accesi d’interesse. Tony sospettava che, se anche avesse rifiutato, il semidio se non altro avrebbe rimediato qualcosa di cui ridacchiare per i successivi cento anni – non che lui capisse l’umorismo asgardiano. «Ponendo che io ti dica di sì, tu dormi sul divano e quella sparisce». Gesticolò, teatralmente terrificato, in direzione dell’armatura. «E ovviamente dovrai mutare forma – perché lo sai fare, giusto? Tutti conoscono la tua faccia qui, e io non voglio morire di morte violenta, se non ti dispiace».
Lui stesso non credeva a quanto gli stava sfuggendo di bocca.
Poteva anche ammettere che Loki avesse delle ragioni valide per quello che stava facendo, ma le sue qual erano? Perché lo stava aiutando?
Se i chitauri avessero davvero attaccato la Terra, avrebbero avuto pur sempre Thor dalla loro parte, Thor, un macigno divino di cui ci si poteva fidare ciecamente. Loki non aveva mai fatto niente di buono per loro, non poteva redimersi di colpo soltanto perché, per una volta, aveva deciso di tendere la mano e dire la verità – se di verità si trattava sul serio.
Tony represse un altro sospiro.
I motivi convenzionali erano voler salvare il pianeta dall’ennesima minaccia e al tempo stesso avere l’opportunità di tenere a bada Loki. Fare qualcosa di buono, di altruista.
Il vero motivo era che si trattava di una sfida, e lui viveva di sfide. Una sfida tra lui e Loki, due delle entità più astute sulla Terra, un conflitto di menti più che di magia e metallo. L’idea lo stuzzicava profondamente, inutile nasconderselo. L’idea di qualcosa di sbagliato, di egoista.
Obadiah Stane l’aveva cambiato, ma il nocciolo del suo animo rimaneva lo stesso: cinquanta percento di altruismo, trenta percento di arrogante avventatezza, venti percento di egoismo.
«Mentirei se dicessi che mi dispiacerebbe molto».
L’aspetto del semidio si stava alterando. La sua armatura si restrinse, si fece aderente al suo corpo, si divise in due e sfumò dal verde e oro al nero di un paio di pantaloni e al bianco di una camicia. Gli stivali borchiati rimpicciolirono intorno ai suoi piedi in eleganti mocassini dall’aspetto costoso. Poi Tony udì un fischio nelle orecchie, come di una stanza che si depressurizzi, ma il volto di Loki rimase lo stesso.
L’uomo lo scrutò per qualche secondo, ma il semidio si limitò a ricambiare lo sguardo e a sorridere compiaciuto, come un bambino che aspetti di sentirsi dire quanto è bravo.
«Okay» disse Tony con lentezza, sollevò mani e sopracciglia e si schiarì la voce. «E… cosa hai intenzione di fare per, sai, la faccia da super cattivo Sono-molto-malvagio-e-anche-un-tantino-schizzato?»
Loki parve ricordarsi all’improvviso di qualcosa e ignorò bellamente il suo insulto, neppure troppo sottile. «Oh, giusto. Tu sei l’unico che possa vedere il mio vero aspetto. Per chiunque altro,» nel giro di un istante il suo volto si era accartocciato e di nuovo dispiegato in uno del tutto diverso, quello di un giovane uomo di non più di trentacinque anni dai corti capelli biondi e intelligenti occhi castani «sarò Damian Millark, il nuovo assistente di Tony Stark». Gli strizzò l’occhio, soddisfatto dal suo malcelato stupore, e riassunse le proprie autentiche sembianze. «Allora?»
Era evidente che il semidio desiderava essere lodato, così come divenne evidente che era più che mai seccato dal modo in cui Tony svicolò da quell’argomento.
«Frena. Tu, il mio assistente?» Non era il momento di preoccuparsi dei capricci di un Loki irritato perché non era stato elogiato a dovere. «Ho detto che ti avrei aiutato, non che ti avrei assunto. E comunque c’è Pepper, non ho bisogno di nessun altro».
Non era propriamente così. Sebbene la sua mente fosse abituata a collegare “Pepper” a “segretaria”, la donna era ora l’amministratore delegato delle Stark Industries e non aveva più il tempo materiale per rivestire anche il ruolo di assistente e segretaria. La verità era che, dopo che Tony l’aveva esonerata da quei compiti, non aveva neppure tentato di trovare una sua sostituta.
I dipendenti non erano indispensabili, Pepper Potts sì.
Il semidio gli rivolse una di quelle occhiate canzonatorie che riservava a coloro su cui sapeva di avere un qualche vantaggio. «Avevo capito che miss Potts non è più la tua segretaria, nonché assistente personale. Adesso tu e io siamo alleati e non puoi pretendere che io rimanga chiuso qui dentro tutto il giorno. Potrei rivelarmi molto più utile nel tuo ufficio che in casa tua».
Non che non fosse vero, non solo perché Loki sarebbe stato un valido collaboratore, ma anche perché, più lontano Tony l’avesse tenuto dal suo scettro, meglio sarebbe stato per la sicurezza planetaria.
«Va bene, va bene. Diciamo che sei in prova, okay?»
La sua arrendevolezza accontentò il semidio, che si alzò dal divano con noncurante naturalezza e annunciò: «È meglio che scenda alla reception, allora. Steven Rogers sarà qui tra due minuti, ti consiglio di far sparire i bicchieri e lo scotch». Fece una pausa e accennò un sorriso divertito, di quelli che davano i brividi a Tony. «Volevo dire, le consiglio, signor Stark. Abbiamo finito o desidera altro?»
L’uomo batté le palpebre. No, non si sarebbe mai abituato a quella nuova versione di Loki, la segretaria professionale. Avrebbe avuto degli incubi. E voleva dello scotch.
Tuttavia il semidio aveva ragione, come – quasi – sempre.
Tony lasciò il morbido sofà e diede le spalle a Loki per riporre lo scotch nel frigobar e nascondere i bicchieri nella credenza. «Abbiamo finito» lo congedò, senza voltarsi. «Può andare, signor Millark. La chiamerò se avrò bisogno di qualcosa».
Esattamente quarantanove secondi dopo che il semidio era uscito dal loft, la porta si spalancò di colpo e sulla soglia apparve Steve in armatura, lo scudo proteso di fronte a sé in posizione di difesa e una mitragliatrice sottobraccio. Quarantanove secondi, ripeté tra sé Tony, un accenno di riso sulle labbra.
Solo quarantanove secondi, che successivamente Loki aveva dilatato con la propria magia, plasmandoli a proprio piacimento perché durassero quanto gli avrebbe fatto comodo, salvo poi annullare l’incantesimo di propria spontanea volontà, mentre Tony ancora si chiedeva come avrebbe fatto a convincerlo.
Non c’era stato alcun bisogno di pressioni; era bastato un “per favore”.
Steve si rese conto della totale assenza di un pericolo imminente e fece qualche passo cauto oltre l’uscio. Lo fissava con quei suoi penetranti occhi azzurri e Tony capì che stava sforzandosi di capire se Loki l’avesse stregato o se fosse proprio il semidio sotto mentite spoglie.
«Tutto okay?» volle sapere, le spalle contratte, le dita salde sul grilletto della sua arma.
Tutto okay?
Quella domanda era più pregnante di quanto Steve potesse immaginare, considerò tra sé Tony, ironico. Era davvero tutto okay?
«Sì, Steve. Sono io. Sto bene».
E forse era davvero solo quello l’importante.
Finché fosse rimasto se stesso, finché Loki non avesse tentato di controllarlo e Fury non avesse voluto rimpiazzare l’occhio perduto con uno dei suoi, sarebbe stato okay, per quanto confuso e curioso e rinvigorito dall’adrenalina potesse sentirsi ora, perché al pianoterra della Stark Tower Loki Odinson era in prova come suo assistente e segretario personale.
Steve si stava guardando intorno adesso, più rilassato, ma non aveva ancora abbassato le armi. «E Loki?»
Tony esitò. Aveva ancora una possibilità di tornare indietro.
Nel momento in cui avesse deciso di mentire a Steven Rogers, anche quella sarebbe scomparsa e il suo patto con Loki sarebbe stato sancito definitivamente.
Prima che trascorresse un secondo di troppo che sollevasse troppi sospetti, scrollò le spalle.
«Non saprei. È da parecchio che non si vede da queste parti. È bello vedere anche te, comunque».

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Capitolo 3
*** #02: The light and the moth ***


Avevo detto che sarei andata in vacanza e avreste dovuto aspettare, ma questa fanfiction mi prende troppo *__* Perciò, ecco il nuovo capitolo in tempo di record (solo una decina di giorni, più o meno <3) per tutti voi Frostironers che seguono questa cosetta <33 Devo dire che il merito dell'arrivo di questo capitolo è anche largamente vostro, perché mi avete lasciato così tante belle recensioni (in questi tempi duri in cui averne una sembra un miracolo XD) che, combinate all'ispirazione fulminante, ho prodotto, prodotto, prodotto fino a finire il capitolo, che tra l'altro, cosa di cui mi auguro sarete felici <3, è piuttosto lunghetto per i miei standard (uhn... quattordici pagine, lo ammetto, ero parecchio ispirata XD).
Che altro dire? L'icon è mia, quindi non rubate oppure morirete, invece la Marvel - sigh - non mi appartiene. No, nemmeno un pezzo strappato da un angolo di una pagina... No, NEMMENO LOKI E' MIO E NON RICORDATEMELO. ç___ç
Uh, stavolta ci sono anche delle note finali BD (... e chissenefrega? XD)
Grazie davvero per il vostro sostegno, per me è fondamentale, sappiatelo! Perciò non siate timidi, lasciatemi anche due righe, io rispondo sempre, non mordo e vi riempirò d'amore e cuoricini <3


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#02: The light and the moth
 
You’re so hypnotizing
Could you be the devil? Could be an angel?
Your touch magnetizing
Feels like I am floating, leaves my body glowing
-E.T., Katy Perry
 
Stabilito che Tony era sincero e non sotto incantesimo, Steve chiamò Fury per avvisarlo che la situazione era sotto controllo, stazionaria, codice verde e tante altre parole da soldato che Tony non si prese la briga di ascoltare.
Perlomeno, a giudicare dagli stralci di conversazione che riuscì a cogliere, non sembrava che Fury fosse sul punto di mandare uno squadrone di agenti a ispezionare la Stark Tower.
Da un lato era un sollievo, perché non solo un simile affollamento avrebbe impedito ai suoi dipendenti di lavorare, ma anche perché sarebbe stato molto complicato nascondere Loki a lungo; dall’altro, però, era anche l’emblema della fiducia che Nicholas, sebbene affermasse sempre il contrario, gli accordava e la consapevolezza di stare tradendolo gli annodava le viscere.
E lo stava facendo per Loki.
Quello andava ben oltre ogni atto egoistico che avesse mai compiuto, era un vero e proprio tradimento, che non si limitava soltanto a coloro che aveva quasi cominciato a chiamare “amici”, ma si rifletteva sull’intera razza umana, che era stata minacciata proprio dallo stesso uomo che aveva accolto sotto il suo stesso tetto – e per cosa? Perché si era presentato alla sua porta e gli aveva chiesto aiuto, il medesimo che non si era fatto scrupoli a uccidere chiunque si fosse messo sulla sua strada, quando aveva potere sufficiente a minacciare qualcuno?
Ricordò le parole del semidio. “Nascondimi, e in cambio la Terra non verrà distrutta”.
Era certo che non si trattasse di una semplice iperbole per ottenere la sua attenzione, se non altro perché Loki era nel pieno delle sue forze e, anche senza scettro, rimaneva un nemico temibile che era stato capace di fronteggiare lui e Captain America in contemporanea.
Sperò davvero, davvero, che fosse quella la ragione per cui lo stava aiutando.
La voce di Steve lo richiamò indietro dall’universo di interrogativi che albergava il suo cervello. «Sicuro di stare bene, Tony?»
«Mai stato meglio» replicò prontamente, indossando la sua migliore aria strafottente. «Voglio dire, Fury ha annunciato il codice rosso da più di mezz’ora e sono ancora vivo, la Stark Tower non è crollata e il mondo non è in pericolo. Mi sembra un buon record, no?»
In passato il soldato si sarebbe arrabbiato per la sua superficialità, ma adesso che si conoscevano meglio si limitò a scuotere la testa e accennò persino un sorriso. Un po’ tirato, di sopportazione, ma un sorriso. Meglio di un pugno, in ogni caso. «Già. Un buon record».
Tony levò un indice a indicare il soffitto. «Credi che Fury ci voglia sul suo coso volante?»
Steve appoggiò scudo e mitragliatrice contro una parete, si sfilò la maschera blu, sulla cui fronte svettava la A maiuscola di “America” e, per ironia della sorte, “Avengers”, e arrotolò una manica della tuta per controllare l’orologio da polso. «Non saprei, ma ormai dovrebbero essere qui tra meno di quindici minuti».
«Ottimo». C’era tempo, allora, tempo per rilassarsi, riflettere bene sul da farsi e bere dello scotch. «Ti unisci a me per un drink, vero, Cap?»
Sebbene non potesse ubriacarsi, Steve non aveva perso il gusto per gli alcolici. Non che fosse un intenditore del calibro di Tony – era ovvio – ma non disdegnava un bicchiere, di tanto in tanto. «Molto volentieri. Miss Potts ti tiene ancora a stecchetto?»
Tony gli scoccò un’occhiataccia in risposta alla frecciata, gli rivolse la schiena con una rotazione stizzita del bacino e andò a prendere bicchieri e bottiglia, la stessa che poco prima aveva condiviso con Loki. La sensazione di déjà vu lo attraversò con la forza di una scarica elettrica, ma si sforzò di non darvi peso e si scrollò di dosso l’inquietudine con una lunga, intensa sorsata di scotch di qualità.
Tredici minuti, trentasei secondi e quattro bicchieri più tardi, il cellulare di Tony iniziò a vibrare e squillare insistentemente nella sua tasca.
Non ebbe bisogno di guardare il display. «Monocolo! Che piacere sentirti!»
Forse non avrebbe dovuto essere lui a rispondere, alticcio com’era, considerò distrattamente, salvo poi allontanare l’ipotesi con un’ampia scrollata di spalle. Con la coda dell’occhio colse Steve intento a passarsi una mano sul volto, ma non vi diede peso.
«Stark» ringhiò Fury in tono molto meno socievole. «Ti ho forse dato il permesso di ubriacarti?»
Tony sbuffò sonoramente per essere sicuro che il suo interlocutore lo udisse all’altro capo del filo. «Non sono affatto ubriaco, non sottovalutarmi o potrei davvero offendermi. Sei tu che non hai senso dell’umorismo. Allora, cos’hai per me?»
Doveva aver sentito quella stessa domanda – cos’hai per me? – in un film o forse da Clint, su due piedi non riusciva a ricordare. Qualsiasi fosse la sua fonte, ritenne che fosse perfetta per un genio affascinante e spiritoso che si impegnava per la sicurezza mondiale. Aveva sempre avuto degli ottimi gusti in più o meno qualsiasi cosa.
Nicholas non gli risparmiò un sospiro esasperato. «Siamo sopra la tua Stark Tower, entro domani dovremmo avere Barton e Romanoff in città. Non ho ancora notizie certe su Banner e…»
«Oh, Doc mi deve una bevuta insieme, me ne occupo io» lo interruppe Tony, ben consapevole che, se fosse stato Fury a contattarlo, Bruce sarebbe stato sottoposto a un carico di stress che non avrebbe dovuto sopportare se se ne fosse invece occupato lui.
Dopo le menzogne sull’arsenale alimentato dal Tesseract, nessuno degli Avengers, pur continuando a collaborare, si era più fidato di Fury, Banner in particolar modo, per ovvie ragioni più suscettibile degli altri ai sotterfugi. Tony le definiva scherzosamente “manie di persecuzione”, ma era molto attento a quell’aspetto della sua personalità, non soltanto per evitare che Hulk sfuggisse al suo controllo, ma anche perché Bruce Banner era quanto di più vicino a un amico avesse mai avuto.
«Okay, lo lascio a te». Nicholas era d’accordo con lui – evento più unico che raro, memorabile davvero – ma Tony immaginò fosse soltanto perché l’uomo doveva essere conscio quanto lui di quanto fossero precari i suoi rapporti con Bruce. «Entro qualche giorno, Odino dovrebbe aprire un portale per permettere l’arrivo di Thor».
Tony preferì non fare ipotesi su quello che il Dio del Tuono avrebbe potuto fargli se avesse scoperto che gli stava nascondendo l’ubicazione del fratello. Forse non sarebbe stato ridotto in minuscole particelle di nulla solo perché gli aveva anche offerto protezione, se fosse stato fortunato.
«Gli Avengers al completo, com’è romantico» commentò con un filo di sarcasmo. «Se Loki lo sapesse, il suo diva-o-metro andrebbe in tilt».
«L’ultima volta ha devastato Manhattan e tentato di conquistare il mondo. Non voglio correre lo stesso rischio un’altra volta» fu l’asciutta risposta dall’altra parte, priva di qualsivoglia emozione, che era anche peggiore di quando Fury gli riversava addosso apertamente la sua collera. «Per ora eviteremo di mettere la città in stato di allerta e non farò parola degli Avengers riuniti neppure con il consiglio: Loki non è ancora una minaccia, ma un semplice fuggitivo, indebolito e senza alleati. È più prudente che il mondo non sappia ancora che è in liberta. Mi aspetto che tu continui a fare il tuo lavoro e non susciti sospetti, ma ti voglio al telefono giorno e notte per riferirmi qualunque anomalia. Di qualunque genere. Per il momento non è prudente che lasci la torre. Ti farò sapere quando cambierò idea».
Quella era una buona notizia: rimanere nella Stark Tower gli avrebbe garantito la possibilità di nascondere Loki e monitorare ogni suo movimento al tempo stesso.
Suo malgrado, sapeva bene di avere bisogno sia degli Avengers che del semidio, qualora si fosse giunti a una guerra contro i chitauri, e non poteva contravvenire ai termini del patto stretto con quest’ultimo, se desiderava il suo contributo. Di conseguenza, per il momento doveva assecondarlo e mentire per il bene del pianeta e anche delle stesse persone a cui mentiva.
«Okay, boss». Scoccò un’occhiata a Steve, che si era messo sull’attenti, in attesa di ordini, il bicchiere vuoto ancora stretto tra le dita. «E cosa faccio con Cap?»
«Un elicottero sarà ad aspettarlo sulla cima della torre tra cinque minuti» ribatté Nicholas in tono pratico. «Preferisco avere te a terra e lui in cielo, dal momento che tu hai anche la possibilità di volare in caso di necessità. Un’ultima cosa, Stark: finché gli Avengers non saranno di nuovo insieme, non fare niente di stupido. Niente».
«Sicuro. Niente di stupido» assicurò Tony. Non fosse stata una circostanza tanto seria, sarebbe stato esilarante riflettere su come avesse disobbedito a Fury prima ancora che gli desse un ordine. «Ci si sente, direttore».
Nicholas non si prese nemmeno la briga di rispondere.
L’elicottero fu prevedibilmente puntuale: Tony sospettava che, quando c’era di mezzo la salvezza della Terra, Fury diventasse un tantino isterico, altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi perché mai tutti gli obbedissero senza discutere. Una volta l’aveva chiesto a Coulson, ma aveva deciso di ignorare la sua risposta, che aveva stabilito essere poco soddisfacente e probabilmente falsa – “forse perché è il nostro datore di lavoro e la migliore spia al mondo, Stark?”.
Il ricordo di Coulson, morto nel tentativo di aiutare Thor, ucciso da Loki, gli conficcò un pugnale nel cuore.
Fermi spalla contro spalla a una quarantina di passi dall’elicottero che atterrava, per un lungo momento tacquero e si limitarono ad assistere alla scena. Alla fine fu Steve a rompere il silenzio. «Se dovessi avere bisogno di qualcosa, sai che ci sono».
Un angolo della bocca di Tony si sporse all’insù. «Da quando sei così amichevole, Cap? Avevo capito che non mi sopportavi».
«Sì, beh, non sei esattamente il mio preferito» ammise il soldato, lo stesso sorriso ironico aleggiante sulle sue labbra. «Ma diciamo che, quando fai uno sforzo, diventi quasi apprezzabile».
Tony non aggiunse altro, perché il rombo delle pale che fendevano l’aria divenne troppo assordante e avrebbero dovuto gridarsi l’un l’altro per riuscire a sentirsi; Steve gli fece un cenno di saluto con la mano, raggiunse l’elicottero con quel suo svelto incedere da militare e nel giro di pochi secondi sparì dietro il portellone che si chiudeva.
Tony aspettò che l’elicottero prendesse quota prima di rientrare nell’attico e lasciarsi cadere pesantemente sul sofà.
Pepper non fu molto contenta del suo contrordine e si lamentò per cinque minuti di fila sull’inaffidabilità delle sue parole e su come i clienti l’avrebbero mandata a quel paese quando avesse detto loro che gli appuntamenti non erano più annullati, ma alla fine si limitò a sospirare e a borbottare che avrebbe fatto il possibile, proprio come Tony si aspettava da lei.
Quando terminò la telefonata quasi avrebbe voluto che lo sgridasse di nuovo, perché adesso non aveva più nessuno che lo tenesse occupato e distante dai suoi pensieri angosciosi ed essi non persero tempo ad assalirlo come una pioggia di spine.
Si passò una mano sul volto e per l’ennesima volta si domandò se stesse facendo quello che era giusto. O se era il lato più egoistico di lui ad agire e a propinargli scuse a cui potesse aggrapparsi.
Era piuttosto tardi, ormai ogni impiegato nella Stark Tower – anche Pepper, per quanto stakanovista potesse essere – avrebbe già dovuto essere a casa e Tony era talmente concentrato su se stesso che sobbalzò quando Jarvis annunciò con quella sua voce britannica priva d’inflessioni: «Ha un visitatore, signore».
Nonostante la confusione iniziale, dovuta in parte anche all’alcol, l’uomo non si sorprese affatto di trovare Loki in piedi al centro del soggiorno, quando invece i sistemi di sicurezza non avrebbero dovuto permettergli di entrare così facilmente.
Ciò che davvero lo colse alla sprovvista fu l’espressione di meraviglia e fascinazione con cui il semidio si stava guardando intorno.
Tony non aveva mai visto qualcosa che non fosse divertimento, sarcasmo o trionfo impresso su quei lineamenti spigolosi: gli occhi, ibridi tra il blu e il verde, erano spalancati e scrutavano con ammirazione e curiosità il soffitto, il mento levato, le labbra arricciate in una manifestazione di pura stupefazione.
Nel rendersi conto che l’uomo lo fissava, il semidio parlò senza degnarlo di un’occhiata: «Che cos’è?»
Dapprima perplesso, di colpo Tony si rese conto che Loki non era neppure a conoscenza dell’esistenza di Jarvis e quasi sorrise della sua incredulità, quella di un bambino che veda un giocattolo stupendo in vetrina, ma poi ricordò che si trattava del Dio dell’Inganno e all’ultimo si morse la lingua. «Non avete niente così su Asgard? Niente tecnologia?»
Per la prima volta realizzò anche che sapeva poco e nulla di Asgard e che avrebbe dovuto ovviare a quella lacuna alla prima occasione.
Il semidio scosse il capo, mosse alcuni passi sino alla parete e la sfiorò con una mano. «Coloro che possono permetterselo studiano le tecniche di sopravvivenza che i popoli dei nove reami hanno sviluppato nel corso della propria evoluzione, ma tra gli asgardiani è d’uso la magia. Vi è una classe sociale fondamentale, quella dei maghi, come li chiamereste voi midgardiani, ovvero individui dotati di potere magico, che si occupa delle necessità del popolo». Il suo sguardo saettò verso uno dei sensori muniti di telecamera che Tony aveva installato in ogni angolo del loft. «Conosco bene la tecnologia di Midgard, almeno nei suoi aspetti basilari. Ma non avevo mai letto di niente del genere».
Un’idea prese corpo nella sua mente, ma l’uomo esitò, poi maledisse tra sé l’assurdità di quel che stava accadendo e ad alta voce disse: «Beh, allora perché non fate conoscenza? Jarvis, Loki Odins…» L’occhiata furente di Loki fu sufficiente a metterlo a tacere. «… Loki. Loki, Jarvis o AI, Artificial Intelligence».
«Piacere di conoscerla, signore» intervenne Jarvis con la sua cordialità da automa. «Preferisce che la chiami “signor Millark”?»
La sua estrema cortesia sottomessa dovette piacere al semidio, che increspò gli angoli della bocca in un sorriso compiaciuto e accennò un aggraziato movimento della testa. «Il piacere è mio, Jarvis». Fece una pausa sul nome, saggiandolo con curiosità. «Se mi chiamassi “Millark”, in particolare all’altrui presenza, mi sarebbe di grande vantaggio».
«Come le fa più comodo, signore».
Tony aggrottò la fronte. Aveva progettato Jarvis appositamente per essere così servizievole, perché quell’atteggiamento stuzzicava il suo ego infinito, ma per la prima volta lo irritò perché pareva che Loki si crogiolasse nel modo di fare del suo macchinario, che a sua volta si divertiva fin troppo a essere così sollecito. «Okay, okay,» interloquì con una smorfia che non fu in grado di reprimere «vi siete conosciuti abbastanza. Muto, Jarvis».
«Sì, signore».
Il semidio lo soppesò con un’occhiata infastidita, quasi fosse una zanzara intenta a pizzicargli un braccio che stava meditando se schiacciare o meno. «È la prima tua creazione che io apprezzi, Stark, avresti anche potuto lasciarlo fare».
«Non vorrei che il tuo diva-o-metro esplodesse» fu la replica sardonica.
Loki batté le palpebre, perplesso. «“Diva-o-metro”?»
L’argomento cadde a un gesto disinteressato dell’uomo. «Troppo lungo da spiegare. Cose da midgardiani, non capiresti. Piuttosto,» la sua espressione si indurì e nei suoi occhi scivolò una nota di allarme «qualcuno ti ha visto? Ti ha fatto domande?»
Il semidio lo valutò con uno sguardo accusatorio, ma dovette decidere che non stava semplicemente cercando di svicolare dal discorso e si strinse nelle spalle. «Ho giudicato più prudente rendermi invisibile all’occhio mortale. Sarebbe stato troppo sospetto se si fosse scoperto che hai assunto un nuovo assistente proprio il giorno in cui sono fuggito».
Tony annuì, grato di quell’accortezza. «Potrei dire che finora hai lavorato nella villa di Malibu» congetturò, pur consapevole che Fury si sarebbe insospettito, ma il direttore dello S.H.I.E.L.D. si insospettiva per qualsiasi cosa e avrebbe svolto delle indagini anche sulla sua stessa madre. Folgorato da quel pensiero minaccioso, domandò preoccupato: «Puoi creare un’identità falsa, vero? Nel caso in cui Fury investigasse su di te».
«Sottovaluti troppo me e la mia magia» sbuffò Loki con fare annoiato. «Credi davvero che fino a ora non abbia fatto altro che perdere tempo, mentre tu ti gingillavi con Rogers? A proposito, quanto hai bevuto?»
L’uomo finse di non notare la frecciata implicita: se doveva vivere sotto lo stesso tetto con lui, prima avesse fatto l’abitudine al suo senso dell’umorismo, meglio sarebbe stato. «Okay, okay, sei stato bravo, cosa vuoi, un applauso? Senti, sono stanco, non ho voglia di discutere né di elogiarti, ti mostro il tuo alloggio e buonanotte, va bene?»
Il semidio allargò le braccia. «Perfetto».
Quando Tony si alzò dal divano, dovette confessare a se stesso che barcollava e vedeva strane bolle di luce se si muoveva troppo velocemente. Di solito però reggeva più di cinque bicchieri – forse aveva abbondato troppo con le quantità, considerò con un’occhiata in direzione della bottiglia di scotch, sul tavolo dove l’aveva lasciata. Non avrebbe saputo dirlo con certezza, ma sembrava un po’ vuota.
Gli occhi di Loki seguirono i suoi e l’uomo riconobbe uno dei suoi sorrisi più pericolosi, quelli che stavano a significare che stava progettando qualcosa.
Poi il semidio gli si avvicinò a passo lento, all’apparenza del tutto innocuo, e Tony non poté fare altro che fissarlo, incerto se, qualora avesse provato ad allontanarsi, sarebbe stato in grado di rimanere in piedi.
Forse bere così tanto non era stata la buona idea che gli era sembrata all’inizio: non aveva fatto scomparire Loki, né tantomeno aveva salvato la Terra dall’invasione dei chitauri. E non gli aveva nemmeno impedito di mentire ai suoi compagni.
Era stata una fregatura.
Non era neppure la prima volta che tentava senza successo di rifugiarsi nell’alcol, ma lui era fatto così: per quanto si impegnasse, per quanto le persone che lo circondavano si sforzassero di tenerlo lontano dalla bottiglia, rimaneva pur sempre il figlio di suo padre e, sebbene non gli piacesse ammetterlo, quel legame lo influenzava più di ogni altra cosa al mondo.
Fin da quando era bambino, per lui “alcol” era stato sinonimo di “sollievo” e non era bastato tutto l’amore di Pepper perché lo dimenticasse. Non era bastato tutto il rancore nei confronti di Howard per ignorare i suoi insegnamenti, cuciti addosso come una seconda pelle.
La voce di Loki sembrava provenire da un pozzo senza fondo, bassa, insinuante, sensuale – ma Tony non avrebbe dovuto considerarla sensuale; non l’avrebbe fatto, se fosse stato sobrio.
«Pensavo che miss Potts vivesse con te, ma l’ho vista andarsene. Vi credevo una coppia».
Una sporta di cazzi tuoi no?, avrebbe voluto suggerire con ben poca delicatezza, ma lo sguardo del semidio aveva trovato il suo e ora ne era succube, succube di quelle iridi di tempesta che sfolgoravano di mille emozioni indecifrabili, succube di quelle pupille che parevano volerlo trafiggere. L’impressione di stare affogando in quel baratro di nero e azzurro e verde doveva essere dovuta all’ebbrezza. Doveva.
Pur di distrarsi, si costrinse a rispondere, a muovere la lingua impastata, incollata al palato. «Usciamo insieme… più o meno. Ma non credo che siano fatti tuoi».
La verità era che Pepper aveva davvero tentato di coinvolgerlo in una relazione seria e che lui invece si era tirato indietro, aveva fallito come uomo perfetto per lei, non era stato capace di arrendersi ai sentimenti.
Pepper aveva capito, aveva fatto un passo indietro; non avevano smesso di vedersi, di stare insieme, ma Tony aveva letto l’evidente significato del suo comportamento: “facciamo come fai sempre tu, Tony”. In altre parole, “divertiamoci finché dura e quando non durerà più niente rimpianti”. Per lui e la sua paura che i sentimenti lo ferissero, com’era avvenuto troppo spesso in passato, era abitudine, ma non era quello che Pepper desiderava e presto l’amore non sarebbe stato più sufficiente per convincerla ad accontentarsi.
Per il momento entrambi fingevano che andasse bene così, ma Tony era ben conscio di come stessero davvero le cose. Una consapevolezza al sapore di vigliaccheria.
«Allora Anthony Stark, il celebre playboy,» Loki si fermò di fronte a lui, più vicino del necessario, senza mai smettere di osservarlo con quei suoi occhi penetranti «non è cambiato tanto come vuole credere o mi sbaglio, forse?» Di colpo una trazione verso il basso gli fece quasi perdere l’equilibrio e dovette impegnare le cellule più sobrie del suo cervello per rendersi conto che si trattava della mano del semidio, chiusa sulla sua cravatta. «Prendi quello che vuoi, quando vuoi, che si tratti del corpo di una bella donna o dei sentimenti di chi ti considera caro. L’importante è che tu abbia sempre tutto quello che si può avere e conceda, in cambio, il minimo indispensabile. Giusto?»
I loro volti erano di colpo troppo vicini, troppo, i loro nasi si sfioravano, la bocca di Loki si increspava a ogni sua parola e lui continuava ad affondare in quegli occhi infiniti, non riusciva a ragionare, non riusciva a indietreggiare.
«Cosa…» Si sforzò di trattenere la cena nello stomaco e di parlare in contemporanea. «Cosa stai…?»
Il semidio lo interruppe come se non avesse parlato. «Potrei averti, ora. Sai che potrei». La presa sulla sua camicia venne meno, ma quelle labbra non accennavano ad arretrare – e Tony non era neppure del tutto certo di desiderarlo. «Ma sarebbe troppo facile».
Fortunatamente Loki indietreggiò di un passo, abbastanza per farlo respirare, abbastanza per smettere di annegare nel suo sguardo. Per indulgere in qualcosa che non riguardasse il semidio, rassettò la cravatta e vagliò la propria mente in cerca di una frase qualunque che ponesse fine a quel momento di stallo così rischioso.
Quando aprì bocca, la sua voce suonò incerta e arrochita dall’alcol. «Uhm, come avevo detto… tu dormi sul divano. Hai- hai bisogno di un pigiama o… o di qualunque cosa si mettano gli asgardiani di notte?»
E di nuovo Loki fu vicino, la sua voce all’orecchio, la sua risata divertita contro la gola. «Vai a dormire, Stark. Ritengo altamente probabile riuscire a sopravvivere anche senza il tuo prezioso aiuto, considerando che, per come sei ridotto, non mi serviresti a nulla. Buonanotte».
Per una volta, l’uomo stabilì che dargli ascolto non avrebbe portato a conseguenze sgradevoli, mugugnò un “buonanotte” di rimando e vacillò fino alla camera da letto, che, insieme al bagno privato a essa annesso, era l’unica stanza separata del loft, per il resto privo di pareti per garantire uno spazio senza confini, il genere di libertà senza confini che lo aveva sempre attratto in qualsiasi campo, amore compreso. Amore forse più di ogni altro.
Quando crollò riverso sul letto non ebbe il tempo di interrogarsi sul significato di quanto era appena successo: scivolò immediatamente in un sonno senza sogni, turbato da correnti di emozioni che cambiavano di istante in istante, confuse, incomprensibili. E un manto di oscurità calò su di lui.
 
 
Non aprì subito gli occhi, non ne ebbe la forza, si concentrò invece sull’enumerare mentalmente i danni subiti per mettere in moto il cervello.
A ogni suo più piccolo movimento, la testa replicava con un rimbombo assordante che lo stordiva per diversi secondi; era convinto che, nel momento esatto in cui avesse socchiuso la bocca, avrebbe vomitato la cena della sera prima, le interiora e forse anche l’anima, se mai Tony Stark ne aveva una; conservava solo pochi frammenti di quanto accaduto la sera prima e doveva aggrapparvisi con decisione perché non scivolassero via anche quelli.
Postumi della sbornia, giudicò con un’imprecazione, mentre si concedeva ancora qualche secondo per giacere sul letto, in attesa che la sua mente si schiarisse di più e le memorie della notte precedente riemergessero dalle ombre.
Potrei averti, ora. Sai che potrei”.
Sobbalzò e quasi rotolò giù dal materasso quando il ricordo della voce maliziosa di Loki, dei loro corpi vicini e di quello sguardo intenso scese su di lui come una cascata d’acqua fredda.
Aprì gli occhi di scatto sulle tenebre della sua camera da letto e si costrinse a girarsi supino sulle lenzuola fatte, solo leggermente spiegazzate dalla sua presenza. Aveva addosso gli abiti della sera precedente e il suo corpo doleva in alcuni punti, quelli che avevano risentito maggiormente della posizione scomoda in cui si era addormentato.
Okay, si sforzò di mettere insieme una riflessione calma e ordinata. Loki ci ha provato con me. Niente panico.
Si impegnò davvero per non andare in panico, ma era più lucido della sera prima, nonostante il mal di testa, e si rendeva perfettamente conto, adesso, che il Dio dell’Inganno era stato a un passo dal baciarlo. E viveva in casa sua – per essere precisi, in quel momento si trovava proprio dall’altra parte della parete.
Si morse un labbro nello sforzo di mantenere un certo contegno.
Niente panico, niente panico, niente panico.
Oh, merda.
Come avrebbe dovuto comportarsi, quando fosse uscito dalla stanza e avesse dovuto affrontarlo? “Ehi, Loki, per caso hai cercato di molestarmi, ieri sera?” non sembrava esattamente la soluzione migliore.
Mentre si raddrizzava a sedere a fatica, premette una mano contro la tempia per alleviare il dolore e all’improvviso l’idea si accese e baluginò come una candela nell’oscurità. Piccola ma fondamentale.
Poteva fingere di aver dimenticato e addurre l’ubriachezza come scusa: il semidio lo aveva visto, sapeva che aveva bevuto troppo – ne aveva anche approfittato, ricordò con un brivido dovuto a una sensazione incomprensibile. Era un piano perfetto, dovette complimentarsi con se stesso per essere stato capace di realizzarlo persino in condizioni di stanchezza e confusione come quelle in cui versava.
Rinfrancato, mugugnò a Jarvis di aprire le finestre e, mentre i pannelli che le oscuravano si spegnevano, permettendo che la luce del mattino e il caos di New York filtrassero attraverso le vetrate, si allungò verso il comodino per prendere dal cassetto un pacchetto di pillole per l’emicrania che conservava appositamente per quei frangenti.
Dopo averne buttate giù un paio, aspettò che facessero effetto – non era un modo per posticipare ancora il suo inevitabile incontro con Loki, era ovvio – e riesaminò con cura ogni elemento in suo possesso.
La Terra era nuovamente minacciata dai chitauri oppure lo sarebbe stata nell’immediato futuro, quando gli alieni avessero scoperto che il pianeta era diventato il rifugio di Loki, al quale stavano dando la caccia.
Ciò portava all’immediata conclusione secondo la quale, cacciando il semidio dalla Terra, l’avrebbe difesa, ma Tony sospettava che, una volta ultimata la loro vendetta, i chitauri non avrebbero rinunciato alle loro mire nei confronti del pianeta. Non poteva esserne del tutto certo, ma Loki avrebbe potuto essere un valido alleato e cedere all’impulsività e privarsene avrebbe potuto rivelarsi un grave errore.
Punto primo – quello che più gli fece storcere il naso –, non poteva sciogliere il patto stretto con il semidio. Gli serviva sulla Terra, collaborativo, non sperduto nello spazio, minacciato di morte e alquanto irato nei suoi confronti.
Punto secondo – forse non era il primo quello che più gli faceva storcere il naso, ma c’era una concorrenza piuttosto agguerrita per quella posizione –, niente più alcol, non finché Loki fosse rimasto nella Stark Tower. La notte prima aveva perso un’opportunità per procurarsi delle informazioni più dettagliate e non doveva più ricadere in quello stesso errore.
Punto terzo, era imperativo ignorare gli eventi della notte precedente e concentrarsi solo sul da farsi, onde evitare che il semidio indovinasse che ricordava perfettamente – o quasi – ogni cosa.
La voce robotica di Jarvis lo riscosse dallo stato meditativo. «Signore?»
Fu come se il suo cervello fosse stato schiaffeggiato e avesse urtato contro una parete del cranio. Tony strizzò le palpebre, si massaggiò una tempia e si augurò che l’antidolorifico iniziasse presto a fare il suo effetto. «Qualcosa non va?»
«Il signor Millark mi ha chiesto di avvertirla che il primo appuntamento della mattinata avrà luogo tra un’ora e mezzo, signore, e che sarebbe preferibile che lei si rendesse presentabile».
Impiegò qualche secondo a registrare ogni implicazione contenuta nelle parole dell’Intelligenza Artificiale. Possibile che Loki stesse davvero prendendo sul serio il suo lavoro? Per quale motivo? E dove aveva trovato l’elenco dei suoi appuntamenti? O meglio, perché aveva toccato le sue cose senza permesso?
Erano troppe domande, non aveva alcuna risposta e gli girava la testa; d’altra parte, l’unico modo per venirne a capo era chiedere al diretto interessato. «Okay. Di’ a Loki che…»
«Preferirebbe essere apostrofato come “signor Millark”, signore».
Perfetto. Levò gli occhi al soffitto, in parte secondo l’uso comune, in parte per scoccare un’occhiataccia a Jarvis. Da quando di preciso era diventato tanto amico di Loki da chiedere a lui, il suo creatore, di rispettarne la volontà?
«Di’ al signor Millark» fece del suo meglio per suonare irritato «che vado a farmi una doccia».
«Subito, signore».
Non l’aveva progettato per provare dei sentimenti, ma gli piacque pensare che vi fosse una nota di senso di colpa nella voce dell’Intelligenza Artificiale.
La doccia si rivelò essere un’altra ottima idea. L’acqua gelida, insieme alle pillole che finalmente avevano iniziato a funzionare, gli restituì lucidità e mise a tacere l’insopportabile pulsare che gli impediva di riflettere.
Rinvigorito, ordinò a Jarvis in un sospiro soddisfatto d’interrompere lo scorrere dell’acqua e infilò i piedi nelle infradito di plastica che lo aspettavano oltre l’uscio della cabina doccia. Indossò il costoso accappatoio in fibra di legno appeso a un gancio sulla sinistra, regalo di una compagnia con cui aveva concluso un affare vantaggioso qualche mese prima, e si sistemò i capelli davanti allo specchio rettangolare sopra il lavandino in marmo bianco: li frizionò con un asciugamano, vi passò il gel per pettinarli alla Loki – l’acconciatura migliore per apparire serio e fare una buona impressione, bastava non ricordare a chi somigliasse – e disegnò con cura i contorni della barba con il rasoio.
Indulgere nel rendersi affascinante era rilassante e contribuiva a prepararlo psicologicamente ad affrontare Loki e l’ennesima giornata di lavoro.
Non poteva durare per sempre, ma presto, troppo presto, non ebbe più alcun motivo per trattenersi in bagno, dovette uscirne, attraversò la camera e fece il suo ingresso in soggiorno, ancora in infradito e accappatoio. Era dell’opinione che il buon giorno si vedesse dal caffè e aveva l’abitudine di vestirsi solo dopo la colazione.
Non sapeva bene che cosa aspettarsi, per la verità, perché con uomini come Loki era impossibile fare delle previsioni, ma quello che vide rischiò di causare la caduta in picchiata della sua mascella.
Il semidio gli dava le spalle e si aggirava nel corridoio che si creava tra fornelli e bancone: su quest’ultimo si trovavano due tazze vuote, mentre sul fuoco aveva messo a scaldare una moka. Mentre Tony lo guardava allucinato nello sforzo di conciliare “Loki” e “cucina” in una frase che non comprendesse una catastrofe interplanetaria, Jarvis avvertì, educato: «Il caffè è pronto, signor Millark. Se posso permettermi, il signor Stark lo preferisce senza zucchero».
«Grazie, Jarvis» replicò distrattamente Loki, prese la caffettiera e ne versò il contenuto fumante nelle tazze.
Per farlo si voltò e degnò Tony, ancora immobile sull’uscio della sua stanza, a malapena di un’occhiata del tutto priva d’interesse, anche se l’uomo non poté mancare di accorgersi, teso, che i suoi occhi esitavano fin troppo a lungo sul suo petto, lasciato in parte scoperto dal colletto dell’accappatoio.
Sul petto, ripeté. Aveva pensato “sul petto”, non “sul reattore arc”.
La differenza era fondamentale, ma non era il frangente adatto per porsi domande scomode, non quando era ancora sotto l’effetto conseguente alla sbornia e le sue sinapsi non avevano ripreso a lavorare con la consueta efficienza. Si limitò dunque ad archiviare la riflessione per un tempo in cui fosse stato più consapevole di se stesso – no, non stava scappando.
Il semidio dovette rendersi conto del suo disagio, perché sollevò lo sguardo e gli riservò un sogghigno divertito. «Buongiorno, signor Stark. La colazione è pronta».
Indossava gli stessi indumenti della sera precedente, ma ora una cravatta color smeraldo di foggia piuttosto costosa ricadeva morbidamente sul suo petto e Tony notò una giacca nera in più sull’appendiabiti a poca distanza dalla porta d’ingresso.
Il semidio lo raggiunse a passo svelto e gli allungò la tazza in un gesto professionale e sicuro di sé; l’uomo accettò, inebetito, e impiegò qualche altro secondo e mezza tazza di caffè nero per metabolizzare la scena di cui era appena stato spettatore.
Di tutto quello che aveva visto nel corso della sua vita, il suo peggior nemico in veste di suo assistente personale era al primo posto nella top ten delle assurdità.
«Dormito bene? Mi sembra un po’ stanco». Loki sorrise di quel suo sorriso sghembo che sembrava voler proporre una sfida e suggerire di aver già vinto nello stesso tempo. Poiché Tony preferì ignorare il suo commento, che implicava un riferimento poco carino alla sua ubriacatura, fu il semidio a riprendere la parola, dopo aver bevuto un sorso di caffè. «È così strano vedermi impegnato per mantenere la copertura, signor Stark?»
Tony ingollò l’intero contenuto della propria tazza, la appoggiò sul bancone e scrollò vigorosamente le spalle. «Beh, sì. Specialmente perché sei un alieno, ma conosci il caffè. E perché ci sarebbe la macchinetta. A scopo puramente informativo, sai» aggiunse e gesticolò in direzione dell’apparecchio.
«Mi sembra di averle già detto che su Asgard studiamo gli altri reami» osservò Loki, in un tono che lo accusava con chiarezza di mancanza d’attenzione, ma non rispose alla sua seconda battuta, si limitò a fissare la macchina del caffè come fosse un qualche strano mostro a tre teste mentre a sua volta riponeva la tazza vuota sul bancone.
Fu allora che Tony indovinò ciò che il semidio stava cercando di nascondergli e un sorriso trionfante fiorì sulle sue labbra. «Non avete dei libri molto aggiornati, vero? Sono almeno dieci anni che nessuno prepara più il caffè in quel modo, adesso esistono le macchinette. Magari, se fai il bravo, ti insegno a usarla».
Non avrebbe mai immaginato che avrebbe trovato una debolezza di Loki in qualcosa di così semplice come fare il caffè, ma d’altra parte fino a quel momento era stato colto alla sprovvista da un gran numero di cose concernenti il semidio.
Forse avrebbe semplicemente dovuto smettere di avere delle aspettative circa un uomo particolare come Loki – e forse, aggiunse fra sé, mentre si godeva l’espressione contratta a metà tra un ringhio e un sibilo serpentino del semidio, avrebbe anche potuto divertirsi.
Aveva appena preso quella risoluzione che la sua mente lo tradì di nuovo, troppo abituata al comportamento base di tutti i suoi conoscenti.
In teoria, Loki avrebbe dovuto sospirare il più sonoramente possibile, fingere che la sua frecciata non esistesse e tergiversare, così come facevano persino Pepper e Rhodey, due tra le poche persone che aveva a cuore; oppure, dal momento che era pur sempre uno dei cattivi, avrebbe potuto attaccarlo e tentare di staccargli la testa dal collo, come suggeriva il suo sguardo. Tony sarebbe stato preparato a entrambe le reazioni.
Quello per cui invece non era preparato era che Loki riacquistasse il controllo alla stessa velocità con cui era stato sull’orlo di perderlo, socchiudesse gli occhi – due fessure torbide che parvero passarlo da parte a parte e spogliarlo di ogni maschera, di ogni difesa – e distendesse i lineamenti in quell’espressione.
Quell’espressione maliziosa, di chi sappia esattamente cosa dire per volgere le circostanze a proprio vantaggio e sia ben consapevole della natura scabrosa di quelle parole.
«Allora farò il bravo, signor Stark» affermò con estrema semplicità, ma fu sufficiente perché il tempo di quell’istante si cristallizzasse e prolungasse di secoli.
Che fosse stato il tono insinuante, lo sguardo penetrante, il modo fin troppo eloquente in cui aveva sottolineato “bravo” o probabilmente un miscuglio di tali elementi, Tony fu certo che si stesse riferendo a quanto accaduto la notte prima ed ebbe solo una manciata di secondi per decidere come reagire.
Scelse infine di restare indifferente, perché replicare avrebbe significato esporsi, rivelare al semidio che ricordava perfettamente.
Ma forse fu proprio il suo silenzio a convincere Loki di avere avuto successo, perché il sorriso non lo abbandonò nel soggiungere con fare placido: «A ogni modo, cerchi di abituarsi in fretta». Malgrado fossero soli, non smise la forma di cortesia, ma la sua voce era venata di una derisione che non si curava nemmeno di reprimere. «Non vorrei che il nostro accordo saltasse perché vedere il suo assistente comportarsi da assistente la sgomenta troppo». Scoccò poi un’occhiata al Rolex che portava al polso e in mezzo alla sua fronte nacque una ruga di preoccupazione. «Dovrebbe vestirsi. Il primo appuntamento è previsto tra meno di un’ora».
Tony si rilassò notevolmente: avevano fatto ritorno a un terreno più sicuro per lui, un terreno che non rischiava di franargli sotto i piedi a ogni passo. «A questo proposito,» nella sua voce echeggiò una lama di minaccia mista alla consueta arroganza, l’incertezza sparita dal suo atteggiamento «chi ti ha permesso di frugare tra le mie cose?»
Loki non pareva particolarmente intimorito, casomai paziente, come lo si può essere con un bambino piuttosto ottuso. «È stato Jarvis a fornirmi l’elenco degli impegni di oggi e a indicarmi dove tiene i documenti cartacei. Come si aspetta che possa svolgere il mio lavoro se non posso avere quelle informazioni?»
In realtà aveva senso, dovette ammettere tra sé Tony, ma non si impedì di maledire la piega trionfante che prese il sorriso del semidio quando non ribatté.
Tutto ciò che Loki aveva detto era giusto, sfortunatamente. Aveva accettato i termini del patto, di conseguenza doveva dargli libero accesso ai documenti fondamentali per consentirgli di portare a termine i propri compiti, al suo cercapersone e agli affari della Stark Tower; per quanto poco potesse piacergli, l’aveva assunto e non dargli fiducia avrebbe sollevato sospetti che nessuna bugia avrebbe potuto sopprimere.
Rassettando il colletto dell’accappatoio, Tony decise che avrebbe dovuto impegnarsi di più per attenersi all’accordo, così come stava facendo il semidio. Poco importava che quest’ultimo fosse il Dio del Trucco e che inganno e menzogne fossero intessuti a doppio filo nel suo DNA, avrebbe dovuto eguagliarlo.
Aveva pur sempre una reputazione da uomo più scaltro del pianeta da difendere.
«Vado a prepararmi». Rivolse la schiena a Loki e si incamminò indolente verso la porta della sua stanza. «Se qualcuno dovesse chiamarmi sul cercapersone,» ammiccò all’apparecchiò sul bancone «di’ che sono occupato. Chiunque sia. Se fosse Pepper, dille che-» Poi ricordò con chi stava parlando e si affrettò a correggersi: «Se fosse Pepper, non rispondere per nessun motivo».
Prima che il semidio potesse tentare una frecciata qualsiasi, il battente scivolò sui cardini dietro di lui e si chiuse.
Era sciocco e irrazionale fare il possibile perché Pepper venisse a sapere di Loki all’ultimo momento, lo sapeva bene; la donna non l’avrebbe presa a male, dopotutto aveva lasciato quella professione da più di un anno, ormai, ma aver assunto qualcun altro al suo posto gli dava in ogni caso l’amara impressione di averla tradita.
Non aveva alcun senso, in fondo lui e Loki non avevano alcuna relazione, né tantomeno aveva la minima intenzione di cominciarne una. In materia di legami sentimentali, il semidio sarebbe stato l’ultima persona che avrebbe potuto prendere in considerazione.
Chiuse gli occhi e scacciò dalla mente il ricordo dei magnetici pozzi azzurroverdi in cui era sprofondato.
Per sfuggire a quei ricordi scomodi, si concentrò sull’indossare il nuovo completo di seta acquistato la settimana precedente e sul rimproverare Jarvis. «Come hai potuto dargli quei dati senza consultarti con me?»
«Non sono vitali, signore. Ho ritenuto che, se anche il signor Millark ne fosse venuto in possesso, non avrebbe potuto sfruttarli contro di lei. D’altra parte, come lui stesso le ha fatto notare, non potrebbe svolgere il lavoro per cui l’ha impiegato senza le stesse informazioni che dava a miss Potts».
Tony aprì il cassetto dell’armadio a parete in cui conservava le cravatte, ma decise di lasciar perdere quando avvertì, maledettamente reale, la presa di Loki su quella che gli aveva serrato il colletto la notte prima.
«Sì, forse hai ragione». Fece scorrere il pollice sulla stoffa morbida di una delle cravatte, sospirò e richiuse il cassetto. «Ma la prossima volta aggiornami quando mi sveglio».
«Non aveva chiesto di essere aggiornato, signore, e, se posso essere onesto, non era nelle condizioni adatte a darmi ascolto».
Tony inarcò un sopracciglio. Cominciava a valutare seriamente l’idea di riprogrammarlo su una base caratteriale più sobria e meno ironica, anche perché la personalità attuale andava fin troppo d’accordo con Loki.
Rimirandosi allo specchio, decretò che, anche senza cravatta, aveva il solito aspetto magnifico. Al contrario, quell’assenza poneva in evidenza il reattore arc, che di conseguenza sottolineava la prominenza dei pettorali di cui andava molto fiero, modestamente. Si accarezzò la barba appena fatta e accompagnò il gesto a uno dei suoi sorrisi ammiccanti migliori.
Sì, può andare.
Loki lo aspettava con la giacca indosso e al suo arrivo stava stringendo il nodo della cravatta, atto che Tony reputò provocatorio sebbene il semidio non potesse leggere i suoi pensieri – o forse sì?
Si sforzò di reprimere il moto di panico che quel sospetto aveva suscitato e domandò invece, mentre insieme lasciavano il loft e ordinava a Jarvis di chiuderne a chiave la porta: «Riassumi: chi devo incontrare e perché?»
Loki aveva una cartelletta sottobraccio, ma non le riservò neppure uno sguardo per controllare i dati che l’uomo aveva richiesto. «Arnold Parker, preside della scuola elementare Owens, vuole vederla per confermare la data della conferenza su Iron Man» a Tony parve di riconoscere una nota di divertimento nel suo tono, ma l’espressione del semidio era illeggibile «per gli studenti…»
Doveva aver imparato le informazioni a memoria. Suo malgrado, quantomeno con se stesso Tony dovette confessare che non aveva speranze di trovare anche solo una pecca nell’operato di Loki, né adesso né mai. Era una divinità, cercò di consolarsi, ma con scarso successo.
Lo interruppe con un cenno della mano, forse più seccato del dovuto. «Mi ricordo. Non ci vorrà molto».
Loki si limitò ad annuire e lo seguì nell’ascensore, che li condusse senza un suono fino al piano dove si trovava l’ufficio adibito alle consulenze e alla gestione delle pubbliche relazioni.
Gli impiegati che incontrarono lungo il corridoio si voltavano a guardare il semidio o lo scrutavano di sottecchi mentre passava, gli uomini con curiosità, le donne con un trasporto a volte anche troppo esplicito.
All’inizio quella reazione turbò Tony, salvo poi ricordare che Loki aveva un altro aspetto e che era anche l’aspetto di un uomo piuttosto affascinante, e allora immaginare le donne della Stark Tower che durante la pausa caffè si riunivano a parlare di lui, che una volta aveva quasi conquistato il mondo, divenne più divertente che preoccupante.
Da parte sua, il semidio non si sforzava affatto di passare inosservato e l’uomo avrebbe scommesso che si stesse crogiolando in quelle attenzioni. Che diva.
Persino Pepper non riuscì a nascondere la propria sorpresa – mista a un guizzo d’interesse negli occhi verdi che non gli sfuggì – quando fecero il loro ingresso nell’ufficio e Tony decise che in fondo non era così esilarante che le donne della Stark Tower si mettessero a spettegolare di Loki. Non se tra quelle donne figurava anche Pepper.
«Tony» lo salutò la donna con più vivacità del solito, senza nemmeno accennare il rimprovero che l’uomo si era invece aspettato di ricevere. La segretaria- l’amministratore delegato era fin troppo allegra, e il semidio non aveva ancora aperto bocca. Non era divertente, stabilì con decisione Tony. «Chi è il nostro ospite?»
Loki lo precedette, sia verbalmente che fisicamente, e, allungandosi sopra la scrivania che troneggiava al centro dell’ufficio, tese una mano a Pepper, seduta dietro di essa.
La donna gliela strinse quasi subito e rispose con un sorriso smagliante quando il semidio si presentò con voce calma e cordiale: «Damian Millark, assistente personale e segretario del signor Stark. È un vero piacere conoscerla finalmente di persona, miss Potts. Il signor Stark mi ha parlato molto di lei, ma per quanti complimenti le faccia non le rende giustizia».
L’amministratore delegato arrossì, lusingata, e ritrasse la mano dopo molto più tempo del dovuto, a parere di Tony. «La ringrazio molto, signor Millark».
L’uomo assisteva alla scena in un limbo di gelosia, irritazione, desiderio di prendere a pugni Loki e stupefazione. Loki Odinson stava flirtando apertamente con Virginia Pepper Potts, a cui pareva non dispiacere affatto. Al diavolo l’aspetto fasullo di Loki, lui poteva vedere sotto quella maschera e il risultato era inquietante.
Fortunatamente Pepper non era una donna così banale da cadere per un bel viso e riassunse subito un atteggiamento serio e professionale.
Nei suoi confronti, ovviamente, e non senza aver sorriso un’ultima volta al semidio.
«Non mi avevi detto niente del signor Millark» fece notare, calma, posata, con quel suo modo di fare da amministratore delegato che Tony non avrebbe mai potuto avere e che lo rassicurava sempre d’aver compiuto la scelta giusta, promuovendola.
Non era arrabbiata per essere stata sostituita – Tony era stato sicuro che non lo sarebbe stata – ma non le piaceva che lui le nascondesse qualcosa e la sua irritazione era evidente nella rigidità della bocca.
Non avrebbe scoperto più di così le proprie emozioni, non in presenza di Loki, ma le sue labbra, strette in una linea sottile, lasciavano a intendere che più tardi avrebbe chiesto delle risposte. Peccato che lui non ne avesse, non risposte che potesse confidarle, perlomeno.
Se non altro avrebbe potuto spiegarle perché avesse cancellato gli appuntamenti e li avesse riesumati poco dopo – forse quello l’avrebbe placata un poco.
«Beh, l’ho assunto da poco» si difese, accarezzandosi imbarazzato la nuca. «Prima faceva le pulizie nella villa a Malibu,» dovette resistere all’urgenza di scoppiare a ridere in reazione all’espressione disgustata e indignata che sfregiò il volto del semidio per lo spazio di un battito di ciglia alla parola “pulizie” «ho deciso di promuoverlo pochi giorni fa ed è arrivato alla Stark Tower solo questa mattina».
L’amministratore delegato era sul punto di ribattere, ma un’occhiata all’orologio la convinse a tagliare corto con un sospiro e a cambiare argomento. «Vedi di fare una buona impressione, oggi, perché quello che dirai come Iron Man sarà d’insegnamento per un’intera scuola. Sii serio, Tony. Davvero».
«Io sono sempre serio, Pep» obiettò Tony aggrottando la fronte.
Loki si concesse un sorrisino sarcastico e Pepper inarcò un sopracciglio, poi i due si scambiarono un’occhiata colma di solidarietà e comprensione che non gli piacque affatto, ma per fortuna dei colpi educati alla porta li distolsero da quel loro momento d’intimità.
Arnold Parker era un arzillo sessantenne con un entusiasmo per Iron Man pari, se non superiore, a quello di molti ragazzini.
La possibilità che Loki si pronunciasse con poca gentilezza nei suoi confronti – qualcosa come “ti considero alla stregua di un insetto spiaccicato sotto la mia scarpa, patetico mortale” o anche peggio – tormentò Tony per il primo quarto d’ora, ma presto fu evidente che il semidio si sarebbe limitato a svolgere il suo lavoro, piuttosto bene, tra l’altro, trasponendo su carta lo scambio che stava avvenendo.
Scriveva a una velocità tale che Tony dubitava di poterlo eguagliare, anche con un computer; di conseguenza, se di norma gli avrebbe imposto di usare la tecnologia, lo lasciò fare, anche perché Loki non dava precisamente l’impressione di essere in grado di usare un tablet o anche soltanto un computer – ricordava troppo bene come aveva scrutato la macchina del caffè, quella mattina.
Quello fu soltanto il primo di una serie di appuntamenti positivi che li tennero impegnati per il resto della mattinata.
A parte l’eccessiva confidenza che si era inaspettatamente instaurata tra la sua pseudo ragazza e il suo peggior nemico, Tony doveva ammettere di sentirsi ottimista rispetto alla sera prima. In fondo la Stark Tower era ancora in piedi – aveva impiegato otto mesi a ricostruirla e aveva persino dovuto prendere parte ai lavori –, nessuno era morto – lui non era morto – e un semidio proveniente da un altro pianeta, potenzialmente pericoloso, era inoffensivo in sua custodia.
C’era qualche remota speranza che lui e Loki potessero davvero collaborare – sempre se lui si fosse tenuto a distanza di sicurezza da Pepper.
Il semidio non gli rivolse la parola nemmeno durante la pausa pranzo e s’impegnò invece in una fitta conversazione di lavoro con l’amministratore delegato. Non parlare con Loki era d’aiuto per il mantenimento della sanità mentale, ma allo stesso tempo vederlo discorrere con Pepper e in particolare vedere lei così affascinata da lui non gli piaceva affatto.
Era diviso tra due sentimenti contrastanti e alla fine prevalse la sanità mentale, se non altro perché non poteva ingaggiare una rissa nella torre, aveva appena finito le riparazioni, Cristo.
Tony firmò con stanca soddisfazione l’ultimo accordo vantaggioso per le Stark Industries quel pomeriggio alle sette. Occuparsi delle pubbliche relazioni era senza dubbio molto più sfiancante che costruire una nuova armatura e fu molto contento di chiudere la porta dell’ufficio alle spalle dell’ultimo cliente, consapevole che ad aspettarlo, ora, c’erano una cena a lume di candela con Pepper e possibilmente un dopocena di quelli che piacevano a lui, che comprendevano un letto a due piazze e l’amministratore delegato senza vestiti.
«Ehi, Pep, stacchiamo e andiamo a mangiare un boccone da qualche parte?» propose con rinnovata vivacità, ma il suo suggerimento non incontrò l’approvazione che si aspettava.
Quando si voltò, scoprì che la donna lo stava osservando perplessa e Loki dava loro le spalle, ammirava in silenzio Manhattan sotto di loro attraverso la parete a vetrata della stanza. E se il semidio non incrociava il suo sguardo doveva significare che aveva pianificato qualcosa di malefico.
«Ma Damian» Tony non mancò di notare come di colpo lo chiamava per nome «mi ha detto che questa sera dovete discutere di lavoro».
Oh, merda.
Qualunque fosse l’intenzione di Loki, aveva messo in mezzo la serietà professionale di Tony, elemento che Pepper aveva molto a cuore, e adesso gli sarebbe toccato rinunciare alla cena e al dopocena per trascorrere una piacevole serata con Loki, altrimenti la donna si sarebbe detta delusa e non sarebbe uscita con lui in ogni caso.
No, rettificò tra sé. Non avrebbe mai potuto collaborare con il semidio. Mai.
«In effetti è così» intervenne Loki e per un fuggevole, illusorio istante Tony credette che stesse accorrendo in suo soccorso e quasi si pentì di averlo appena insultato. Quasi. «Sarebbe anche piuttosto importante, ma, se il signor Stark ha altri programmi, possiamo sempre rimandare…»
Il suo tono era innocente, ma, anziché persuadere l’amministratore delegato di quanto affermava, ottenne l’effetto diametralmente opposto. La donna sollevò una mano e l’agitò in un gesto di diniego. «No, sono sicura che il signor Stark sarà disponibile a risolvere la questione questa sera stessa… Non è così, Tony?»
Fu quasi tentato di rifiutare, ma l’occhiataccia che gli rifilò Pepper lo convinse a emettere un mugolio affranto che doveva voler dire, in inglese corrente, “sì, Pep”.
«Ottimo». L’amministratore delegato scambiò un’altra stretta di mano e un sorriso con Loki e gli augurò la buonanotte: «A domani, Damian».
«Passi una buona serata, Virginia» rispose il semidio con un sorriso cordiale.
Tony dovette usare violenza su se stesso per reprimere l’urgenza di schiaffarsi platealmente una mano in faccia e la stessa, contemporanea, di prendere Loki a calci in un posto piuttosto intimo – da quando aveva il permesso apostrofarla come “Virginia”?
Pepper scrollò le spalle, quasi a voler mettere qualcosa da parte. «Oh, la prego, mi chiami “Pepper”».
«Ma certo» acconsentì il semidio, il cui sorriso si allargò di un buon centimetro. Un buon centimetro di soddisfazione, non poté non notare Tony. «Pepper».
Niente più che un mormorio, un sussurro languido e denso di malizia, lo stesso che aveva spinto Tony a interrompere bruscamente il loro gioco, la sera prima, quando aveva iniziato a coinvolgere persone troppo importanti.
Lo stesso che l’aveva fatto rabbrividire.
E, mentre Loki pronunciava quel nome, i suoi occhi, che sfolgoravano di verde acquamarina colpiti dai resti morenti del sole da quell’angolazione, guizzarono verso quelli di Tony, ma solo per un secondo, per non insospettire la donna.
Insospettirla di cosa?
L’uomo distolse lo sguardo dal semidio, preferì concentrarsi sull’amministratore delegato, che se non altro non lo metteva tanto in difficoltà qualsiasi cosa facesse, anche la più semplice.
Pepper si limitò a sorridere di rimando in direzione di Loki, un velo d’incertezza nell’espressione che rassicurò Tony, ma poi la donna raccolse una ciocca di capelli e la spostò dietro l’orecchio in quel gesto, quel gesto che significava che era in imbarazzo, quel gesto che apparteneva soltanto a lui.
O meglio, si corresse tra sé, stupito da quella rivelazione, apparteneva a lui come agli altri uomini che suscitavano il suo interesse. Dacché l’aveva assunta, però, nessun altro uomo aveva attirato la sua attenzione; non che Tony ne dubitasse: al di là dei gusti pretenziosi dell’amministratore delegato, una volta conosciuto lui era impossibile desiderare qualcun altro.
Eppure Loki – o Damian Millark, che dir si volesse – l’aveva incontrata da un giorno appena e a lei piaceva, le piaceva abbastanza da scostare i capelli dietro l’orecchio.
Era disturbante ipotizzare che, in un universo parallelo in cui il semidio non era malvagio, Loki avrebbe potuto costituire per lui un concorrente temibile nella conquista della donna. Ciò che era più disturbante, però, era che lui si fosse davvero immaginato un universo parallelo.
Colpa dell’amministratore delegato e del semidio, ovviamente, i suoi amorevoli colleghi, che gli stavano negando il suo dopocena in favore di non sapeva nemmeno bene che cosa.
«Io vado» si congedò Pepper, baciò Tony su una guancia, indirizzò un ultimo cenno di saluto a Loki e abbandonò l’ufficio a passo svelto e ticchettante a causa dei suoi tacchi vertiginosi, che Tony ancora non capiva come facesse a indossare per tutto il giorno. Uno dei tanti misteri per cui si era quasi innamorato di lei, così supponeva.
Nel momento in cui la porta si fu chiusa dietro di lei e giudicò che si fosse allontanata a sufficienza per non essere più a portata d’orecchio, scoccò un’occhiataccia al semidio, impregnata di quanta più ostilità possibile.
Non che Loki gli diede la soddisfazione di reagire in qualche modo, ma fu in ogni caso liberatorio.
«Grazie, eh» berciò, le braccia incrociate sotto il reattore arc, un sopracciglio inarcato, una vena vagamente in rilievo sulla tempia. Le pareti dell’ufficio erano insonorizzate e ormai erano rimasti pochi operai all’interno della torre, dunque ritenne di poter parlare liberamente. «Troppo gentile da parte tua flirtare con la mia ragazza e convincerla a non uscire con me. Davvero, mi domando come mai non ti avessi mai proposto di venire a convivere con me».
Il semidio allontanò le sue accuse con un gesto della mano e seguì il suo esempio, spogliandosi della maschera di Damian Millark per la prima volta dal giorno precedente. «Non essere infantile» lo freddò con un’occhiata gelida, priva della pacata socievolezza di cui poc’anzi aveva dato prova in presenza di Pepper. Ingannatore bastardo. «Esistono priorità più importanti dei tuoi bisogni sessuali, Stark».
La replica pungente gli morì in gola nel rendersi conto che Loki non l’aveva fatto per puro divertimento – non solo, almeno.
Il semidio notò la sua esitazione e il suo sguardo si affilò di compiacimento. Tony si sforzò di recuperare almeno qualche punto. «E quali sarebbero? Perché io non ne ho mai trovate, se devo essere sincero».
Loki non fece una piega, quasi non batté le palpebre. «Se posso permettermi di dare un suggerimento, forse proteggere questo tuo insulso pianeta è sufficientemente importante?»
Ah, beh… già.
Non sarebbe stato appropriato affermare che se ne era dimenticato, la sola presenza del semidio era abbastanza per ricordarglielo ogni singolo istante, ma forse si era fatto prendere troppo da Damian Millark, Pepper e il lavoro. Damian Millark e Pepper in particolare.
D’altra parte gli effetti della sbornia avevano sprofondato gli eventi della notte prima in una nebbia confusa e lui aveva consentito loro di affondare in un angolo in fondo alla sua mente, ma bastò quel commento di Loki per far riemergere tutte le domande che avrebbe voluto porgli e tutto ciò su cui avrebbe voluto lavorare con il suo aiuto e la sua magia e per mettere da parte – per ora – la gelosia e il discorsetto a proposito di Pepper che aveva in mente.
Doveva essere quello il motivo per cui la relazione con lei stava andando a rotoli, rifletté distrattamente. Perché amava più la scienza di lei.
Rilasciò il fiato in un sospiro e incrociò lo sguardo del semidio, quegli occhi luminosi di un folgore pericoloso, lo stesso che attrae le falene e le uccide non appena osano avvicinarsi troppo. E non era del tutto certo di non essere una di quelle falene o che non lo sarebbe diventato, quando Loki non avesse più avuto bisogno della sua collaborazione.
«Okay, okay, è tempo di salvare la Terra di nuovo» cedette con una scrollata di spalle. «Ti va un altro drink?»

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Capitolo 4
*** #03: That man called “brother” ***


Aggiorno di nuovo! *__* E di nuovo a tempo di record, ma non abituatevi XD No, sul serio, non abituatevi °-°, anche perché domani mattina parto per una vacanza-studio di due settimane in Inghilterra (vicino Manchester <3) e temo proprio che non mi rivedrete prima della fine di luglio, ispirazione e impegni permettendo. Ciò detto, devo confessare che in questo capitolo non c'è tutto ciò che avevo promesso nelle scorse anticipazioni, perché stava venendo troppo lungo (questa volta dodici pagine XD) e ho deciso di tagliare un po', altrimenti la trama sarebbe venuta a mancare nel giro di due capitoli... Non mi era mai capitato di essere così prolissa, anche se non sono mai stata esattamente maestra nell'arte del riassunto. LFMAO
Ehi, voi mi avete detto che non vi annoiate, ora vi beccate gli aggiornamenti infiniti X'D Seriamente parlando, mi auguro che la storia non vi venga a noia e che abbiate la pazienza di rimanere con me fino alla fine, dopotutto è il vostro supporto che mi dà tanta energia per continuare questa fanfiction - però, devo ammetterlo, io stessa mi ci sono affezionata da morire e sono determinata a portarla avanti!
Bene, adesso smetto di tediare e vi lascio <3 Buon FrostIron a tutti e a fine luglio! *__*

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#03: That man called “brother”
 
So go and tell all your friends
That I’m a failure underneath
If it makes you feel like a bigger man
But it’s my, my heart, my life
That you’re calling a lie
I’ve played this game before
And I can’t take anymore
-New Way To Bleed, Evanescence
 
Quando la porta dell’attico di Tony si chiuse in silenzio alle loro spalle, l’uomo notò qualcosa di cui non si era reso conto: Loki era molto più rilassato.
Le spalle, prima contratte, erano soltanto tese. In qualsiasi altra persona un cambiamento così insignificante non avrebbe meritato la perifrasi “molto più rilassato”, ma quello era Loki, il nemico, il semidio, colui che non abbassava mai la guardia.
Tony si sorprese ad aver individuato un’alterazione dovuta al nervosismo, quando, per quanto in ansia, Loki non permetteva a nessuno di vedere attraverso la sua maschera di fiducia in se stesso, e aggrottò la fronte – da quando lo osservava con tanta attenzione?
Di colpo si accorse che il semidio aveva intercettato il suo sguardo su di lui – sulla sua schiena, sulle spalle non più irrigidite – e si affrettò ad alzare gli occhi. «Luci».
Jarvis obbedì e un secondo più tardi il loft splendeva di energia ecosostenibile. Il fulgore soffuso del sole calante, ormai quasi del tutto scomparso, e quello più penetrante degli altri palazzi della città che piovevano dalle pareti a vetrata apparivano candele in confronto alla luce generata dal reattore arc che dava elettricità alla torre e Tony non poté fare a meno di sorridere, compiaciuto dalla sua ennesima ottima invenzione.
Era già sul punto di dirigersi verso il frigobar – al diavolo i suoi buoni propositi, un bicchiere di scotch non poteva fare nulla di male – quando Loki lo afferrò per un polso, un movimento repentino, agile, e lo strinse in una morsa più salda di quanto Tony si sarebbe aspettato dal suo fisico snello.
«Mi servi sobrio, Stark» sibilò il semidio in tono derisorio, ma per un secondo le sue unghie affondarono nella carne prima che lo liberasse dalla sua presa. Un avvertimento. «Hai fornito la tua tecnologia di localizzazione anche alla vostra insulsa organizzazione di difesa?»
Tony inarcò le sopracciglia, si sforzò di decifrare le sue parole dal vengo-da-un-pianeta-dove-la-parlata-è-a-livelli-medievali all’inglese. “La vostra insulsa organizzazione di difesa” doveva essere il simpatico soprannome che Loki aveva affibbiato allo S.H.I.E.L.D., ma gli mancava l’elemento fondamentale della domanda. «La mia tecnologia di localizzazione?»
Il semidio stava scandagliando la stanza con lo sguardo di quella mattina, quel misto di ammirazione e curiosità e meraviglia che in un certo senso inquietava Tony.
Loki distruggeva ciò che riteneva banale e plasmava quanto invece attirava la sua attenzione nella forma che era più congeniale alla sua mente instabile – e Tony non era sicuro di quale fosse la cosa peggiore.
«Quando ho attraversato il portale e sono arrivato qui, la mia prossimità ha attivato gli allarmi a guardia dello scettro» spiegò il semidio, voltandosi di scatto a incrociare i suoi occhi. «Allarmi in grado di captare la mia magia». Non sembrava arrabbiato; sorrideva e il luccichio verdeazzurro delle sue iridi, che spiccava contro la carnagione pallida e i capelli neri, fece scorrere un brivido lungo la schiena di Tony. Era quella la cosa peggiore. «Li hai forniti anche a loro?»
Mentre affrontava quello sguardo che gli dava l’impressione di voler leggere ogni più recondita verità scritta dentro di lui, Tony ricordò dove avesse già visto quell’espressione.
Era quella che assumeva lui stesso quando scopriva qualcosa che valeva la pena d’essere sezionato e studiato in ogni sua parte fino a che non fosse riuscito a carpirne tutti i segreti e a farne suo il funzionamento.
Dopo averla vagliata con cura, scartò l’opzione di tentare una menzogna e decise che la sincerità era il male minore. D’altra parte, fin quando lui non gli avesse accordato un minimo di fiducia, il semidio non avrebbe avuto alcuna ragione di essere onesto. E Tony non voleva rischiare di trovarsi un coltello piantato nello stomaco durante la notte.
«Non sono pronti per essere messo in vendita. Sono solo prototipi» minimizzò con apparente noncuranza, ma in un intimo angolo della sua mente si stava complimentando con se stesso per il nuovo successo. «Ricordi quando hai cercato di arruolarmi nel tuo esercito di zombie dagli occhi blu?» Picchiettò un indice sul reattore arc e Loki seguì il suo movimento con un guizzo fulmineo degli occhi assetati di conoscenza. «È stato questo a bloccare l’incantesimo, perciò ho pensato di usare la sua energia per creare un congegno che individuasse la presenza della magia».
L’intera, brutale verità era che aveva cominciato a lavorare a un progetto per respingere la magia, oltre che localizzarla, ma ritenne più saggio tenere per sé quel particolare, anche perché fino a quel momento non aveva avuto molta fortuna.
Era convinto che il semidio gli avrebbe chiesto altre informazioni, se non una dimostrazione pratica, ma d’un tratto il suo viso s’indurì, come se di colpo avesse perso interesse per l’argomento, e, paradossalmente, il suo corpo si rilassò al punto che chiunque avrebbe potuto notare il cambiamento. Ciononostante, rimaneva impossibile associare al suo aspetto la parola “vulnerabile”, sebbene all’apparenza non avesse alcuna arma.
C’era qualcosa, in lui, qualcosa d’indefinibile, di antico e potente e minaccioso e incomprensibile per lui, Tony, che era solo un uomo, un genio, ma solo un uomo. Qualcosa di animalesco e divino insieme che scintillava nel suo sguardo, nel suo sorriso.
«In questo caso, non devo preoccuparmi che si accorgano della mia presenza se faccio uso del mio potere» commentò Loki, palesemente sollevato.
Fu allora che Tony registrò, capì, mise insieme i pezzi.
Perché il semidio non avesse ovviato con la magia nemmeno ai compiti più banali, come preparare il caffè, perché si fosse comportato in modo tanto umano, quel giorno, perché a livello fisico avesse abbassato la guardia non appena aveva saputo che lo S.H.I.E.L.D. non poteva determinare quando faceva un incantesimo.
Rendersi conto che Loki si era davvero sentito indifeso, sebbene a lui sembrasse tutto meno che quello, lo lasciò interdetto.
Dopotutto, anche se privato dei propri poteri, il semidio era pur sempre alto quasi due metri e forte come due uomini robusti, eppure, per quanto assurdo potesse apparire, aveva provato la sensazione di essere esposto, di poter morire, la stessa che avrebbe potuto provare un qualsiasi essere umano – e “iniziare a considerare Loki umano” era uno dei primi punti nella sua personale lista delle cose da non fare per alcuna ragione al mondo, dopo “sostituire la benda di Fury con un fiocco rosa” e “rubare le ciambelle a Hulk”.
La magia doveva rappresentare la vita, per lui, come la tecnologia lo era per Tony. Letteralmente.
Per un istante, un unico, terrificante istante, si guardarono negli occhi e l’uomo vi scorse qualcosa che non apparteneva al pericoloso semidio che aveva massacrato ottanta persone in due giorni, ma all’uomo che Thor si ostinava a chiamare “fratello”.
Poi l’istante passò e Loki fu di nuovo se stesso, potente e intoccabile, e Tony respirò e disse: «Pare che sia il tuo giorno fortunato, allora». Non era sicuro che suonasse sarcastico quanto avrebbe dovuto. Aggrottò la fronte, colpito da un’inaspettata folgorazione. «Ma perché non me l’hai domandato subito? Perché solo adesso?»
Il semidio tacque, inespressivo, e Tony sollevò le sopracciglia.
«Ora è il mio turno di fare le domande, giusto? E, in cambio della calorosa accoglienza che ti ho offerto dall’alto della mia infinita generosità, ne va del tuo onore asgardiano o quello che è essere onesto». Il semidio esitò ancora e lui insistette: «Capisco che non volessi fidarti di me come se fossimo migliori amici, quando mi hai proposto l’accordo, ma ora l’hai accettato, e gli accordi prevedono fiducia, che ti piaccia o meno. Io la do a te, tu a me. Altrimenti non può funzionare, sai?»
Era assolutamente illogico e inutile considerare che, messa così, sembrava quasi che dovessero sposarsi, ma in fondo Tony Stark era famoso per le sue considerazioni illogiche e inutili e persino lui non vi dava troppo peso.
Loki non rispose subito, finse di ponderare la sua affermazione, ma non aveva molta scelta e capitolò come Tony si aspettava. «Come vuoi, Stark. Mi chiedi fiducia nei tuoi confronti e sarà quello che avrai, ma ricorda sempre che, fin dall’inizio, ti avevo detto che non mi interessava che tu me ne dessi».
Pur non del tutto certo se dovesse prenderla come una minaccia, Tony avvertì uno sgradevole tremito serpeggiare lungo la sua spina dorsale.
Un giorno si sarebbe pentito di aver commerciato fiducia con lui?
«Comunque sia, per soddisfare la tua curiosità,» riprese il semidio «avevo intuito che gli agenti non avessero il tuo ingegnoso apparecchio quando nessun manipolo di soldati ha devastato la tua torre per arrestarmi, dopo che mi sono materializzato nella tua dimora. Mi serviva soltanto una conferma».
Quella però era una risposta troppo comune perché Loki avesse indugiato tanto prima di propinargliela e persino un mortale impotente come lui era capace di vedere attraverso il velo di menzogne che il semidio aveva intessuto così malamente. E, oltre quel velo, c’erano la consapevolezza di entrambi che quel giorno Loki non aveva avuto il coraggio di usare un solo incantesimo e la vulnerabilità di cui aveva dato prova poco prima.
Se però in quel momento Tony era stato troppo stupito per approfittarne, scelse di farlo adesso. «Avevi paura» fece notare, senza dubbi nella voce, ma nemmeno ostilità. «Paura che la tua più grande arma potesse essere anche la tua più grande debolezza. Puoi ammetterlo, sai? Fino a nuovo ordine, siamo alleati, non andrò a raccontare a tua madre che il suo valoroso figlioletto ha paura del buio perché ne possa ridere con le sue amiche dell’ora del the».
Mentre lo diceva, lui per primo si accorse che era vero, perché, per quanto stuzzicare il semidio fosse divertente e corroborante, specie quando riusciva a seccarlo, non aveva intenzione di sfruttare quella minuscola breccia nell’autocontrollo Loki per il proprio tornaconto, almeno finché i loro tornaconti avessero continuato a coincidere.
Il problema era che, se anche quel concetto avesse potuto convincere il semidio a essere meno guardingo nei suoi confronti, come al solito non aveva operato la migliore scelta di parole possibile.
Merda. Come aveva potuto dimenticare? Mai nominare la famiglia di Loki in presenza di Loki.
Era piuttosto elementare, persino Hulk avrebbe potuto arrivarci – e significava tanto.
Ora il semidio lo stava scarnificando con gli occhi, come se fosse indeciso se tranciargli di netto la testa oppure farlo divorare dalle formiche carnivore, ma alla fine scosse il capo – più a se stesso che a lui, intuizione che lo preoccupò circa la sua sanità mentale e la possibilità che parlasse da solo – e incrociò le braccia al petto.
Poi sorrise.
E Tony ancora non capiva perché sorridesse, così angelico, così innocuo, quando fino a un momento prima era stato sul punto di dare sfogo al suo istinto omicida. Non capiva che cosa pensasse, non capiva che cosa sapesse, che cosa gli desse quell’incrollabile convinzione di essere in vantaggio, quella capacità di farlo credere anche agli altri. Avrebbe voluto aprirgli il cervello con un cacciavite per poter guardare dentro.
«Hai ragione, Stark» ammise, e doveva essere quanto di più folle Tony gli avesse mai sentito commentare. Loki fece un passo avanti, verso di lui, e premette un indice contro il suo petto, vicino al reattore arc. «A ogni modo, la vera domanda è: ti ho concesso la fiducia che volevi, ma tu sarai in grado di concederla a me
Dannazione. Ogni volta che si compiaceva di essere in vantaggio, il semidio finiva irrimediabilmente col portarsi un passo avanti a lui. Invulnerabile.
«Scommettiamo, Dio dell’Inganno» lo sfidò Tony con un sorriso smagliante, molto più a proprio agio con lo scontro verbale che con un Loki umano o che gli concedeva di avere ragione. «Spiegami come si deve questa storia della tua fuga dalle impenetrabili prigioni di Asgard – non così impenetrabili come si vanta Thor, in ogni caso – e vediamo se posso crederti sulla parola».
Il semidio doveva aspettarselo, perché la richiesta non lo mise particolarmente a disagio. «Bene» accettò, inclinando la testa da un lato. «Ma, prima, ho bisogno di placare l’appetito».
Quando Loki lo disse ad alta voce, Tony ricordò di aver messo nello stomaco solo un panino durante la pausa pranzo e quattro tazze di caffè a intervalli nel pomeriggio. In realtà aveva riposto ogni speranza di consumare un lauto pasto nella cena con Pepper, ma qualcuno gliel’aveva rovinata – non riuscì a non scoccare un’occhiata torva al semidio mentre ordinava una pizza.
«Pizza» gli fece eco Loki, senza badare al suo sguardo inceneritore, e, come la prima volta che era apparso nell’attico, si teletrasportò dall’altra parte della stanza, su uno degli sgabelli che circondavano il tavolo da pranzo, un bancone lungo e stretto che somigliava più a quello di un bar che di una casa. Un tocco di classe a cui non aveva voluto rinunciare e a cui Pepper aveva dovuto acconsentire per arredare il loft con i suoi quadri in cambio. «Devo aver letto qualcosa a riguardo. Uno dei cibi che preferite voi midgardiani, giusto?»
Tony si chiese che razza di memoria avesse per ricordare tante informazioni disparate e lo corresse in tono professorale: «Uno dei migliori cibi di ogni galassia, dimensione o quello che vuoi. E tu avrai l’onore di assaggiarlo grazie a me».
Il semidio levò gli occhi al cielo, ma la sua curiosità era palese quando Jarvis comunicò che la consegna era arrivata.
Prima di assaggiare la fetta che Tony gli porse, però, se la rigirò più volte tra le mani e studiò ogni singola goccia di pomodoro con la cautela di chi stia cercando di capire come funzioni una bomba.
Tony stava per rassicurarlo che la pizza non avrebbe cercato di sfondargli la gola dall’interno, tentato dall’espressione furiosa che Loki avrebbe potuto esibire, ma era ancora più tentato dallo spettacolo del semidio alle prese con il suo primo trancio.
Alla fine si decise a mordere e Tony quasi si soffocò con un boccone, colto dalle risate a metà della masticazione: Loki aveva affondato i denti nella punta della fetta, ma, quando fece per strapparne un pezzo, la mozzarella rimase saldamente ancorata al resto del trancio e il semidio esitò, incerto sul da farsi, i filamenti bianchicci della mozzarella sospesi tra il boccone che aveva staccato e la fetta che ancora stringeva tra le dita, l’estremità del trancio seminascosta tra le labbra e il rischio che la mozzarella cedesse, si spezzasse e gli macchiasse gli abiti.
Tony dovette riporre la propria fetta nel contenitore di cartone per serrarsi il ventre con le braccia nello sforzo vano di arginare il riso che lo faceva tremare da capo a piedi.
Se un giornalista gli avesse scattato una foto in quel momento, il giorno dopo sarebbe apparso sulle prime pagine di ogni giornale degli Stati Uniti e il titolo non sarebbe stato lusinghiero, ma era troppo, troppo, era ridicolo, insensato, allucinante, e non rideva così da tanti anni.
O forse non aveva mai riso così e la ragione più probabile ad averlo indotto in simili condizioni doveva essere lo stress dovuto alla presenza di Loki nella torre e all’inganno che stava perpetrando ai danni dei suoi compagni e della Terra. Qualsiasi fossero i motivi, non aveva mai riso di una risata tanto spontanea, di cuore, perché suo padre non l’aveva mai amato e un giorno il suo mentore lo aveva venduto a dei mercenari che glielo avevano strappato dal petto, il cuore.
E, malgrado il primo reattore arc che troneggiava nel suo laboratorio, a Malibu, sopra l’insegna “La prova che Tony Stark ha un cuore”, Tony non era mai stato sicuro di possederne ancora uno per ridere.
Quando riuscì a quietare quello scoppio d’ilarità, si affrettò a ricomporre il consueto contegno da sono-figo-e-consapevole-di-esserlo-adoratemi-comuni-mortali e si raddrizzò sul suo sgabello, rassettandosi con disinvoltura la camicia. Durante il suo eccesso di risa, il semidio aveva trovato il modo di separare la mozzarella senza danni e si stava ripulendo la bocca con il tovagliolo nel momento in cui Tony alzò la testa.
I loro sguardi si incontrarono, e l’uomo fu certo che, se fosse stato possibile, quello di Loki l’avrebbe trucidato.
E c’era sempre la possibilità che lo trasformasse in un porcellino d’India.
«Ti sei divertito, Tony Stark?» domandò con gentilezza il semidio, quella gentilezza che non poteva che essere il preludio a una vendetta sanguinosa.
Per una volta, Tony ritenne saggio tacere e si limitò a imitare Loki, che aveva ripreso a mangiare con molta più confidenza di prima. Dopo i primi, goffi tentativi, ogni suo gesto stillava grazia ed eleganza e non aveva nulla da invidiare a chi mangiava pizza fin da neonato, nulla che l’uomo potesse schernire.
Oh, beh, è stato divertente finché è durato.
Il semidio non intavolò una conversazione e Tony preferì fare lo stesso, anche se il silenzio era molto più inquietante di qualunque minaccia di una morte atroce.
Quando Loki non parlava, l’uomo non aveva alcun mezzo per sforzarsi di penetrare la sua mente e aveva l’impressione di essere tornato indietro nel tempo, a quel giorno in cui il convoglio militare con cui viaggiava era stato attaccato da missili targati Stark e lui aveva dovuto trovare riparo dietro una roccia, protetto da nient’altro che uno smoking stropicciato e sporco di fuliggine. Nudo, disarmato, indifeso.
Di conseguenza, dovette tentare un approccio, dopo aver svuotato il contenitore della pizza e una bottiglia di soda.
«Il vostro stomaco è sazio a sufficienza, o Sommo Signore del Male?»
Non era esattamente il genere di approccio da mettere in atto per non essere arrostito vivo, ma “rinomata” non era l’aggettivo più di frequente associato alla diplomazia di Tony Stark. Sempre che esistesse.
«Tu vuoi sapere come sono fuggito da Asgard». Il semidio girò intorno alla domanda con deliberata calma. «Perché? Perché non concentrarsi sui chitauri? Sono loro la minaccia, non io».
«Tu sei sempre una minaccia» ribatté Tony, all’improvviso serio e deciso, più coinvolto di quanto volesse apparire. Loki non lo contraddisse, sorrise. «A parte questo, mi serve una prova, te l’ho già detto. Noi umani sfigati non abbiamo più avuto notizie di te, Thor e del Tesseract dopo il vostro ritorno a casa. Siamo un tantino stanchi di essere sempre gli ultimi arrivati».
Voglio anche sapere perché non ne vuoi parlare.
Il semidio non sorrideva più, ma non si tirò indietro. «Così sia» cedette con un cenno della testa, il mento sollevato, la schiena diritta, il braccio steso sul ripiano del bancone. Ogni cosa, in lui, suggeriva fierezza. «Ebbene, mi trovavo in carcere, in attesa della mia sentenza. Sapevo che presto i chitauri sarebbero venuti per me e non potevo più aspettare: ho dovuto usare un piccolo trucco, ma sono riuscito ad andarmene». Poiché l’uomo rimaneva in attesa, insoddisfatto, Loki aggiunse con un sospiro: «Mi sono sdoppiato, Stark, e ho reso invisibile il vero me stesso. Non ho dovuto far altro che lasciare la cella quando mi è stato portato il pranzo».
Dal momento che il silenzio si protraeva tra loro interminabile, Tony capì che il semidio non aveva altro da dire. E che forse la sua mascella si era slogata, tanto l’aveva spalancata. «Tutto qui?»
Loki si strinse nelle spalle. «Tutto qui».
L’uomo non riusciva a crederci, sebbene il semidio non avesse alcuna ragione valida per mentirgli e negarsi il suo supporto: era troppo semplice, troppo lineare, troppo perfetto. Se c’era qualcosa di cui aveva imparato a diffidare, era la perfezione apparente.
Sapeva altrettanto bene, tuttavia, che non avrebbe strappato a Loki una sola parola sui sentimenti che aveva provato o sui dubbi che lui stesso poteva aver avuto sulla brillante riuscita del suo piano. Il semidio non era uno sciocco, Tony non dubitava che si fosse perlomeno domandato perché diavolo le guardie si arrischiassero ad aprire la porta della prigione di un carcerato famigerato per i suoi incantesimi.
A che conclusione fosse arrivato, non aveva intenzione di rivelarglielo. Perché avrebbe potuto essere una debolezza, intuì Tony.
Di lì la conclusione fu immediata: Loki non poteva aver eluso le misure di sicurezza contro la magia degli asgardiani, della sua famiglia, che lo conosceva meglio di chiunque altro, a meno che qualcuno non l’avesse lasciato andare. Thor.
Prima che il semidio potesse anche soltanto sospettare cosa si celasse dietro la sua espressione incredula, l’uomo si schiarì la voce con un colpo di tosse e disse: «Oh, beh… wow. Davvero niente male. Okay, amico, mi fido, sul serio».
Anche se Loki aveva raccontato una storia scarnificata all’osso.
Anche se Sua Maestà si ostina a concedermi solo mezze verità.
«Vogliamo passare ai chitauri, allora?» Il semidio esalò un sospiro esasperato, poi qualcosa nel suo sguardo si alterò e sul suo volto scesero le tenebre. «Avremo bisogno di armi, armi che siano in grado di riconoscere la magia, di difendersi e opporsi a essa. Avremo bisogno della tua tecnologia, Stark, e di una ancora migliore che soltanto tu puoi costruire».
«È questo che intendevi quando hai detto che sono l’unico con cui valesse la pena stringere un accordo?» ribatté Tony. «Ti serve il mio genio?»
«In parte è così» annuì bruscamente Loki. Un gesto da soldato, che gli ricordò che, prima che un supercattivo, il semidio era uno stratega straordinario del calibro di Steve. Un immortale, che aveva assistito a cose che lui non aveva alcuna speranza di riuscire a immaginare.
Era una consapevolezza annichilente, così come era terrificante quella che fosse venuto a chiedere aiuto a lui, un mortale, perché esisteva qualcosa di ancora peggiore.
«Ma non è l’unico motivo» proseguì Loki, sibillino, senza specificare oltre. «Comunque sia, dobbiamo lavorare su quei tuoi allarmi. Mi fa piacere che, dopo la mia cattura, tu non sia rimasto con le mani in mano». Era quanto di più vicino a un complimento avesse mai ricevuto da lui, considerò tra sé Tony, indeciso tra l’irritazione e l’autocompiacimento. «Più tempo risparmieremo, meglio sarà per entrambi».
C’era un unico difetto, che sarebbe stato evidente anche a un bambino, ma il semidio non ne aveva ancora fatto parola.
«In effetti sarebbe un’idea geniale, progettare le armi e tutto…» L’uomo scosse la testa e allargò le braccia, sorpreso che il semidio sembrasse non rendersene conto affatto. «Ma manca l’elemento fondamentale: chi le userà? Non ti aspetterai di sconfiggere un intero esercito incazzato da solo, vero? Cioè, non possiamo mentire allo S.H.I.E.L.D., agli Avengers e al mondo fino alla fine di questa storia, penso che qualcuno si accorgerà se un esercito alieno tenta di invaderci di nuovo, no?»
Loki lo guardò come si potrebbe guardare qualcuno estremamente ottuso, oppure qualcuno a cui sfugga qualcosa. Tony aggrottò la fronte, il semidio scrollò le spalle.
«Credevo fosse ovvio che mi sarei servito anche dei loro poteri, quando fosse giunto il momento».
Beh, sì, certo. Perché lui era Loki l’Infallibile, Loki I-miei-piani-sono-perfetti, Loki Io-non-dico-mai-un-cazzo-a-Tony-anche-se-in-teoria-siamo-alleati.
L’uomo si grattò la nuca per sopprimere l’urgenza di attivare il Mark VII. «E, di preciso, quando progettavi di dirmelo? Non ti è venuto in mente che io potessi, che so, essere un po’ in difficoltà qui con, ehi, la storia di nascondere uno dei criminali più ricercati di tutte le galassie?»
Fu più uno sfogo che un commento pungente di quanto non volesse e Loki batté le palpebre, sorpreso e interessato.
Troppo senso di colpa, Tony Stark non si sentiva in colpa e specialmente non in presenza di Loki Odinson, imprecò tra sé Tony, in attesa che il semidio facesse la sua mossa, sconfitto, esasperato, perché ormai non poteva incasinarsi più di così.
Era vicino al punto di rottura, sapeva che, a un commento un po’ troppo sagace e un po’ troppo mirato da parte di Loki, avrebbe potuto commettere un errore, arrabbiarsi, lasciare scoperto un fianco perché il semidio potesse affondarvi il suo pugnale di parole mordaci. Sapeva anche, tuttavia, di essere in grado di resistere, di essere in grado di rialzarsi.
Non era altrettanto preparato, al contrario, a come d’improvviso nello sguardo di Loki si spensero le braci ardenti del desiderio di trarre vantaggio da quella sua debolezza. E non era sicuro che sarebbe stato preparato a quando il fuoco sarebbe stato riattizzato.
«Tu non mi ascolti con attenzione, Stark» lo rimproverò il semidio con il fare di un genitore paziente. «Ti avevo detto che non volevo che i tuoi compagni fossero informati della mia presenza e che tu sei l’unico con cui ritenga utile stipulare un accordo, ma non ho mai specificato che sarei rimasto di questa opinione per l’intera durata del patto». Tacque, forse per apprestarsi a spiegare, forse per godersi l’espressione sgomenta di Tony. «Mi rivelerò ai tuoi amici Avengers quando lo riterrò più opportuno, quando si renderanno conto che il loro adorato pianeta è in pericolo e che dovranno darmi ascolto per preservarlo, non ridurmi in catene».
L’uomo alzò le sopracciglia in un’espressione scettica. «E come la vinceremo, la tua guerra, se non avranno il tempo di prepararsi?»
Non era un’argomentazione valida, la verità era che desiderava solo trovare un espediente per poter interrompere quella recita; Loki lo sapeva bene e gli scoccò un’occhiata annoiata. «Sono gli Avengers, Stark. Rogers è stato costruito per combattere, Barton e la Romanoff sono assassini professionisti, Banner- suvvia, devo davvero spiegartelo? E Thor…» Aggrottò la fronte, come faceva d’istinto quando si trovava a parlare del fratello. «… Thor è stato destinato alla grandezza in battaglia sin dalla giovinezza. Non credo che nessuno di loro abbia bisogno di ulteriore addestramento». Incrociò le braccia al petto e concluse in tono secco: «Vogliamo metterci all’opera, oppure devi farmi perdere molto altro tempo?»
«Okay, okay». Tony mostrò i palmi aperti in segno di resa, sconfitto. «Andiamo».
Troppo vicino al punto di rottura, al baratro, in procinto di cadere giù.
Stanco di combattere quando nessuna delle due parti era disposta a cedere terreno, stanco di aspettarsi il gesto che l’avrebbe fatto precipitare e che non arrivava mai, stanco che Loki riuscisse sempre a scavare dentro di lui, talvolta persino senza accorgersene, come se fosse un libro aperto, come se gli sforzi che aveva fatto per costruire la sua maschera di genio, milionario, playboy, filantropo fossero del tutto privi di significato.
E ora era sul punto di dare al semidio libero accesso al suo laboratorio, al suo cuore, alla sua anima.
Si trovava nel sotterraneo, dove le condizioni ambientali garantivano agli strumenti un basso livello di umidità e una temperatura mai superiore ai diciotto gradi. La sala era immersa nell’oscurità quando vi fecero il loro ingresso, ma a un suo ordine Jarvis accese le luci e il laboratorio sfolgorò di tecnologia, di elettricità, di vita.
Gran parte dell’ambiente era occupata da tavoli di varie dimensioni, disseminati in ordine sparso, dov’erano affastellati i suoi progetti. In un angolo ammucchiava le cianfrusaglie che non gli servivano più ma che preferiva non buttare, presso un altro si trovava una piattaforma per il collaudo delle invenzioni e in particolare delle nuove armature, l’ultimo, infine, era impiegato come piccolo garage e vi erano parcheggiate due delle sue auto da corsa. Al centro troneggiava la centrale di comando, una decina di computer di ultima generazione disposti a semicerchio, spenti.
Se non altro, ebbe la soddisfazione di vedere Loki, un dio o quasi, senza fiato per la meraviglia.
Mentre Tony raggiungeva il tavolo che aveva adibito al Progetto Winx – doveva essere stato piuttosto ubriaco, la notte in cui l’aveva battezzato in quel modo, persino lui era costretto a riconoscerlo –, fingeva di non notare il suo stupore e vi si crogiolava con noncuranza, il semidio lo seguiva, a tratti fermandosi presso qualcosa che lo interessava più del resto, a tratti aggirandosi più lontano per posare lo sguardo affamato dovunque fosse in grado di giungere.
«Vuoi fare un giro turistico?» si informò Tony, divertito, si accomodò sulla sedia girevole e la fece ruotare su se stessa per fronteggiare Loki, che si limitò a sorridere appena.
Un serpente che permette alla sua preda di dibattersi, di cercare di fuggire, di avere ancora una speranza di vivere, quando in realtà sa bene che gli basterebbe un piccolo morso per ucciderlo senza nemmeno dargli il tempo di rendersene conto, pensò Tony.
Perché ormai il semidio aveva visto troppo di lui.
Perché aveva visto il punto di rottura e prima o dopo gli avrebbe dato una spinta, e non si sarebbe fatto sfuggire quell’occasione, qualsiasi frecciata l’uomo avesse tentato.
Quando Loki fu al suo fianco, lo sguardo che scandagliava ogni oggetto presente sul tavolo, una scarica di pura eccitazione discese la schiena di Tony, facendolo rabbrividire. Di qualunque vantaggio il semidio potesse fregiarsi, adesso si trovavano nel suo laboratorio.
Non soltanto la sua anima, non soltanto il suo cuore: la sua arma, il suo regno.
Entro quelle quattro mura c’era un piccolo universo che Loki non conosceva, se non a livello basilare, e su cui non aveva alcun potere. In quel luogo, Tony aveva le sue stesse possibilità di spingerlo al punto di rottura – ma chi sarebbe stato il primo a cadere?
«Bene». L’uomo accese i computer della consolle centrale con un semplice schiocco di dita e fece un cenno in direzione del semidio, che seguiva i suoi movimenti con un misto d’incomprensione e feroce curiosità. «Ora, se il Re del Male potesse farmi la cortesia di spogliarsi…»
Loki si irrigidì a quella richiesta, la sua espressione si incupì. «Di che cosa stai parlando?»
Tony finse di stupirsi per la sua reazione. Uno a zero. «Non era ovvio» si premurò di calcare adeguatamente il termine «che, se ti avessi concesso di entrare nel mio laboratorio, in cambio avresti dovuto permettermi di farti degli esami? Se devo costruire delle armi che respingano la magia, mi serve capire come funziona la tua, dolcezza».
Il semidio strinse le labbra in una linea sottile, in parte – così sperava Tony – anche per il soprannome affibbiatogli. «Non ho mai acconsentito a farmi studiare, Stark. Per aiutarti, accetto di mostrare, ma non ho alcuna intenzione di consentirti di analizzarmi come un ratto».
«Mostrare non basta» ribatté l’uomo, calmo e posato, un leggero sorriso a insaporire la sua espressione placida. «Queste sono le mie condizioni. Se vuoi il mio aiuto, questo è il prezzo».
«È un prezzo troppo alto».
Come se Tony non ne fosse ben conscio. Come se non lo stesse ricattando, sfruttando come merce di scambio proprio ciò che aveva di più caro. Come se non lo sapessero entrambi, che era un prezzo troppo alto.
«Sono le mie condizioni».
Fu allora che Loki colpì, con la precisione di una belva famelica, e Tony rovinò nella gola che lo attendeva con pazienza.
Ma era pronto all’impatto, e il semidio era precipitato nel buio prima di lui.
«Tony Stark, l’unico uomo al mondo abbastanza meschino da porre delle condizioni, da mettere a rischio la salvezza della Terra per- per cosa, in fondo? Soddisfare la tua curiosità? Provare che la tua scienza è migliore della magia? Provare che tu sei migliore?» Loki scoprì i denti in un ghigno e non esitò a rigirare con violenza il coltello nella ferita aperta e sanguinante. «Ti crogioli nell’ammirazione del mondo, perché per una volta hai fatto la scelta giusta, ma questo soltanto perché era anche la migliore per il tuo tornaconto. Non esiste una singola occasione in cui tu non abbia agito solo e unicamente per te stesso, non è forse vero? Tu non sei mai cambiato».
Se lo aspettava, ma fece male lo stesso.
Fece male e Tony serrò la mascella in un ibrido tra un sorriso e una smorfia sofferente. Fece male e Tony lo sentì tutto, il peso della propria inadeguatezza.
Il peso dell’essere Anthony Edward Stark, che aveva tutto e non aveva niente, che non aveva principi e neppure un padre, che non avrebbe mai puntato un’arma se non fosse stato certo di essere coperto dall’armatura o dai suoi compagni.
Lui che non era un eroe, che non era un soldato e non aveva mai chiesto di diventarlo.
Neppure Coulson, però, l’aveva mai chiesto, eppure aveva deciso di sua sponte di sollevare un fucile contro un nemico che avrebbe potuto annientarlo con uno schiocco di dita.
L’unica cosa per cui combatti è te stesso”.
Fece male e Tony sapeva di non essere Steve, sapeva di non essere perfetto come lui, sapeva di sbagliare, sapeva di non essere all’altezza delle aspettative.
Non lo era stato da bambino per suo padre, non lo era da adulto per il mondo.
Fece male, ma si rialzò, perché non era peggiore di tutti gli altri dirupi.
Si rialzò, incrociò lo sguardo del semidio senza tentennare e ricambiò il suo sorriso con un sogghigno altrettanto selvatico, altrettanto ferino. «Forse hai ragione tu,» ammise, sardonico «ma questo non cambia le cose. Se non ti sta bene, la porta è quella».
Loki non rispose per un lungo momento, i pugni stretti, il corpo teso, gli occhi brucianti. «Pagherai per questo».
E d’un tratto Tony era ancora più stanco di prima e non aveva più la forza di giocare a un gioco che, a lungo andare, avrebbe portato alla loro reciproca distruzione. Scrollò le spalle, senza curarsi che il semidio notasse la sua spossatezza, e il sorriso spietato fu spodestato da un’espressione insolita per lui. Arrendevole, quasi solenne. «Lo so. Tutto ha un prezzo, ma non sono disposto a pagare con la salvezza della Terra a causa delle nostre dispute. Tu sì? Sei disposto a pagare con la tua vita, solo per vedere chi è più forte?»
Tregua, chiedeva Tony. Dammi la mano.
Loki esitò, poi si afferrarono le mani a vicenda e tornarono in piedi in contemporanea, insieme. Solo per questa volta.
«Sei diverso dagli altri mortali, Stark» ammise. L’uomo non seppe se interpretarlo come un complimento o come un insulto. «Singolare». Il semidio sorrise, in netto contrasto con l’atteggiamento iroso di poco prima. Il Dio dell’Inganno, ricordò Tony. «Talvolta, lo confesso, persino io mi domando come prenderti. Non posso dire che mi piaccia, ma per certi versi non mi dispiace».
L’uomo ostentò un sorriso. Il precipizio non sembrava più così profondo, forse potevano persino risalirlo, insieme. Solo per questa volta. «Devi lavorare sui complimenti. Non ti riescono troppo bene».
«Hai ragione». Loki aveva riacquistato il consueto contegno elegante e non smise il suo sorriso, ma esso assunse una piega cupa quando il suo sguardo saettò verso la centrale, i computer che vibravano, gli ologrammi touch-screen dei monitor sospesi sopra il complesso elettronico semicircolare. «Dimmi cosa devo fare».
Tony gli indicò lo spazio attorno al quale la consolle si chiudeva sin quasi a creare un cerchio perfetto. «Togli la camicia. Dovrebbe essere sufficiente».
Il semidio si limitò ad annuire; raggiunta la postazione, si sfilò la cravatta e sbottonò la camicia con gesti svelti e precisi. Quando ebbe lasciato scivolare la camicia lungo le braccia con una scrollata di spalle e la cravatta giacque inerte intorno al suo collo, piegò con cura entrambi gli indumenti e li depositò sulla centrale, in mancanza d’appendiabiti.
Sottoposti allo sfolgorare azzurrino degli ologrammi dei desktop, gli occhi ricordavano il mare di notte, mentre la sua pelle translucida assumeva una particolare sfumatura bluastra che metteva in risalto le vene, tralci di un blu più scuro che lo percorrevano da capo a piedi in una sorta di tatuaggio tribale.
Era bello, dovette confessare Tony, se non altro a se stesso, in un modo in cui nessun essere umano avrebbe mai potuto esserlo, in un modo che nessun essere umano avrebbe mai potuto negare.
Loki lo trafisse con il suo sguardo penetrante. «E ora?»
L’uomo si affrettò dall’altra parte della consolle, selezionò una serie di opzioni sullo schermo a mezz’aria e il computer sibilò prontamente una risposta. Il semidio fissava le finestre che si aprivano nell’atmosfera tra lui e Tony, quando quest’ultimo disse: «Okay, si parte. Cominciamo con gli incantesimi più semplici, va bene? Niente che faccia saltare in aria le cose, siamo intesi?»
Malgrado il nervosismo quasi palpabile, Loki sogghignò e rivolse i palmi aperti contro di lui, le braccia stese lungo i fianchi. «Siamo intesi, Stark».
Fu uno degli eventi più straordinari cui Tony avesse mai preso parte.
Il semidio accondiscese a ogni sua richiesta, gli permise di raccogliere informazioni su quasi ogni genere di magia di cui era capace – “Ci sono cose che so fare che potrebbero far saltare in aria tutto il laboratorio, Stark” – e l’uomo non aveva mai visto nulla del genere, nulla di così potente e illogico eppure, allo stesso tempo, così vicino alla scienza. Quanto avrebbe potuto fare con quei dati, non era nemmeno in grado di immaginarlo, ma era impaziente di provare.
Impaziente di sapere di più, di elaborare, di creare.
Per la prima volta nella sua vita di genio abituato a stupire gli altri, stava sperimentando sulla propria pelle quella sensazione di devastata meraviglia, di trovarsi di fronte qualcosa che poteva osservare ma non afferrare. Proprio come Loki quando aveva scoperto Jarvis, così adesso Tony contemplava le scintille di energia magica che danzavano lungo il corpo del semidio, tra le lunghe dita, sulle guance, sul petto, sul cuore, negli occhi splendenti.
Visibilmente compiaciuto, Loki allargò le braccia per farsi ammirare. «Tu, Tony Stark, devi considerarti l’uomo più fortunato al mondo».
Tony ricordò se stesso in quella medesima posizione, una serie di testate esplosive che detonavano alle sue spalle, terribili e affascinanti, letali e bellissime. Come la magia del semidio. Tony Stark riflesso nello sguardo di ghiaccio di Loki.
Sì, sono l’uomo più fortunato al mondo.
Quando l’uomo ritenne di aver immagazzinato informazioni sufficienti per iniziare a lavorare su un prototipo, il semidio non appariva affatto stanco. Al contrario, usare la magia sembrava rinvigorirlo, sebbene lui stesso avesse spiegato che, a lungo andare, sfruttare il suo potere lo sfiniva. Doveva essere il piacere di avere una tale potenza per le mani – e non tanto il farne uso di per sé – a corroborarlo, concluse Tony.
La magia, la più grande arma e più grande debolezza di Loki. Tutto ciò che aveva.
«È abbastanza, Stark?» volle sapere il semidio, rendendosi conto che il ronzio dei computer era diminuito d’intensità. Cercò gli occhi di Tony per avere conferma e, nel preciso istante in cui l’uomo assentì, il manto di potere che lo avvolgeva si dissolse.
Colto alla sprovvista, Tony indietreggiò di un passo, quasi fosse stato colpito da un’onda d’urto. Loki sorrideva, sornione. Il Dio del Trucco.
Non appena fosse arrivato sulla Terra, avrebbe dovuto chiedere a Thor che genere di dispetti prediligesse il fratello, perché aveva lo spiacevole presentimento che “dispetto”, su Asgard, non avesse lo stesso, innocuo significato che aveva sul suo pianeta. Non si sarebbe sorpreso se il senso dell’umorismo tendente alla schizofrenia dimostrato dal semidio fosse considerato la norma, nel Reame Eterno.
Per associazione d’idee, da “Thor”, “dispetto” e “spiacevole” arrivò a ricordare che non aveva ancora telefonato a Bruce e che Fury doveva essere – nomen omen – furioso. E quello sarebbe stato altamente spiacevole.
Gettò un’occhiata disperata agli ologrammi dei desktop, occupati da decine di progetti e dati accumulati nelle ultime- perché erano già le undici e mezzo?
Ah, cazzo.
Loki lo scrutava, disorientato, afferrare una dopo l’altra le finestre aperte sui monitor virtuali e spostarle, di malavoglia ma con un’improvvisa frettolosità, nella cartella denominata “Progetto Winx”. «Qualcosa non va?»
«Beh, è stato tutto molto bello e mi piacerebbe rifarlo, ogni tanto, volentieri, sul serio, ma Fury mi caverà l’intestino con un cucchiaio se non chiamo subito Doc e, sai com’è, non ho voglia di testare la sua pazienza, però ho già un progetto in mente e non vedo l’ora di lavorarci su, solo, non stasera, perché, te l’ho detto…»
«Doc» lo interruppe il semidio, due dita premute sulla tempia. Non era una domanda e Tony sospettò che fosse intervenuto soltanto per metterlo a tacere. «Banner?»
«Esatto». L’uomo ammiccò ai desktop in fase di spegnimento a indici spianati, bellamente incurante del sopracciglio inarcato con cui reagì Loki. «Adesso, se non ti spiace, dovrei fare una telefonata. Va’ a dormire, che domani c’è scuola. Ti raggiungo dopo. ‘Notte».
Dapprima immobilizzato dallo spaesamento, il semidio prese sottobraccio gli abiti ancora appoggiati sulla consolle e si diresse verso l’uscio.
Prima che si voltasse, Tony aveva avuto l’impressione di scorgere un’espressione di disappunto, ma Loki se ne andò senza che potesse interrogarlo o anche solo riflettere con più attenzione a riguardo. Per la verità era anche la prima volta che il semidio obbediva senza protestare e non voleva rovinare quel momento di gloria e immenso gaudio.
Mentre scorreva la rubrica in cerca del numero di Bruce, meditò che, se non altro, avrebbe potuto giustificarsi con Fury che tra Calcutta e New York c’erano nove ore e mezzo di differenza e che non aveva chiamato, quel giorno, per evitare di svegliare Bruce nel cuore della notte e rischiare che si trasformasse in Hulk. Soffermandosi a pensare seriamente a quell’eventualità, calcolò che in India dovessero essere più o meno le dieci del mattino, un orario sicuro, a meno che Bruce non fosse un dormiglione.
Era un’idea strana e alla fine Tony lasciò perdere e si concentrò sulla telefonata.
«Signor Stark?»
Non era la voce di Hulk. Da qualche parte dentro di sé, dove aveva davvero temuto d’incorrere nelle sue ire, l’uomo sospirò di sollievo. «Come va, Doc?»
«Il solito» replicò Bruce, ragionevole. Più gentile di “Comunque possa andare a uno che si trasforma in un mostro verde ogni volta che si arrabbia”, in ogni caso. «A che cosa devo il piacere?»
Da parte di chiunque altro la domanda sarebbe suonata sarcastica, ma il dottore era sincero. Tony accettava senza fare una piega i suoi “momenti Hulk”, come li aveva ribattezzati lui stesso, e non esitava a fare battute a riguardo; Bruce, sebbene di tanto in tanto le trovasse fin troppo di cattivo gusto, lo apprezzava proprio per quella ragione: perché Tony lo prendeva in giro come avrebbe fatto con chiunque altro, senza messe misure.
«Pare che gli Avengers debbano unirsi di nuovo» tagliò corto Tony. «Ordini di Fury. Loki è scappato e dobbiamo proteggere la Terra, e blablabla…»
«Scappato?» gli fece eco il dottore, stupito.
«Così mi si dice dalla regia» scherzò Tony. «Fury vuole che torni a New York per una felice rimpatriata. Verrai?»
Nell’ultima frase – Verrai? – non c’era sarcasmo. Dall’altra parte del filo vi fu un lungo silenzio, interrotto soltanto dal crepitare del respiro di Bruce nella cornetta. Tony si massaggiò la barba, un gesto abitudinario per scacciare l’inquietudine.
«Parto appena posso. Cerco di essere lì staser- cioè, domani, secondo il fuso orario americano».
Tony sorrise, anche se il dottore non poteva vederlo. «Ti adoro».
«Ah, no grazie» rifiutò Bruce nel suo tono più educato e Tony seppe che anche lui stava sorridendo. «Io non- non con gli uomini».
«Oh, ma sai che io potrei farti cambiare idea» obiettò. Quando il dottore si limitò a ridere di rimando – ridere come non l’aveva mai sentito ridere con nessun altro, ridere come, all’inizio della loro amicizia, Tony aveva temuto non fosse più capace di fare –, l’uomo finse di indignarsi e pretese di congedarlo con un freddo “Ti si possa schiantare l’aereo, dottor Banner”.
Dopo aver terminato la telefonata, guardò il display del cellulare senza vederlo, perso nei propri pensieri, e si riscoprì felice dell’arrivo imminente di Bruce, così come avrebbe potuto essere felice di tornare a casa dopo tanto tempo. Non aveva smesso di sorridere.
«Signore?»
Tony si riscosse e aggrottò la fronte. Di solito Jarvis non prendeva la parola di propria spontanea volontà, a meno che non si trattasse di un’emergenza. Loki. «Sì?»
«Scusi il disturbo. Vorrei solo avvertirla che-».
Al diavolo l’AI, i suoi convenevoli zuccherosi e la sua tempistica del tutto inutile. Nel momento in cui le luci si spensero e la temperatura nella sala scese di almeno cinque gradi, se non di più, nel giro di un secondo, Tony lo interruppe, seccato: «Grazie, Jarvis, di essere sempre così puntuale nell’aggiornarmi».
Jarvis suonò quasi offeso. Urgeva una riprogrammazione, stabilì con decisione Tony. «Scusi, signore».
«Uhm, non avevo detto che domani c’è scuola?»
Loki esalò una di quelle sue risatine basse e controllate che inevitabilmente provocavano la discesa di un fremito lungo la schiena di Tony. L’uomo si strinse nelle spalle nel tentativo di scrollarsi di dosso quella sensazione. «Non mi piace che non si presti adeguata attenzione alla mia persona, Stark».
A Tony quasi cadde la mascella. Di nuovo.
La sua bocca si mosse, ma non ne uscì alcun suono, sebbene il suo cervello strabordasse di parole, da “È una dannata diva” a “Devo assolutamente parlarne con Thor” a “È per questo che è qui?”.
«Non ci credo che hai ideato quest’apparizione terrificante solo perché avevo qualcosa di più importante da fare che non fosse prestarti attenzione» riuscì a farfugliare alla fine, onestamente sgomento. «No, perché, davvero, è preoccupante. La tua salute mentale, intendo».
«Ma come sei premuroso». Tony non poteva vederlo, ma riusciva ad avvertire il suo sopracciglio inarcato. «Che tu voglia crederci o meno, mi aspetto un certo rispetto da una creatura inferiore e cacciarmi dal tuo laboratorio dopo avermi propinato una blanda giustificazione non è ciò che io chiamo “rispetto”».
L’uomo percepì un movimento, ma i passi del semidio erano troppo felpati perché fosse in grado di localizzarlo. Era vicino, però.
«Okay, primo: non ti ho “propinato una blanda giustificazione” – che poi, a quando risale questo gergo, mio signore? Fury mi avrebbe davvero fatto a pezzi se non avessi avvertito Doc, quell’uomo non scherza, non ricordi la volta in cui ti ha minacciato che un giorno ti saresti pentito d’averlo reso disperato e- e, beh,» esitò, rendendosi conto troppo tardi dell’errore «non hai conquistato la Terra. Sì, ecco».
Alle sue spalle, Loki non replicò, ma si spostò di nuovo nell’ombra, ancora più vicino. Il silenzio sbocciò tra loro, un fiore carnivoro dai petali rossi come il sangue.
Tony era teso, ma non aveva idea di come scusarsi per aver ricordato al semidio che non era divenuto il padrone del mondo. Non era nemmeno convinto di doversi scusare, sarebbe stato piuttosto paradossale. “Mi dispiace di averti impedito di mettere in ginocchio la razza umana”. Disturbante.
«Rispondi a una domanda, Stark». La voce di Loki era bassa e suadente, il suo respiro una brezza calda sulla nuca di Tony, il suo petto – ancora nudo, registrò un lato di lui di cui avrebbe preferito rimanere ignaro –, una presenza improvvisa e possente contro la sua schiena. «Sii sincero con me e forse ti lascerò in vita».
Mi sembra un ottimo compromesso, commentò tra sé Tony, ma si morse un labbro per non pronunciare quelle stesse parole ad alta voce e attese, immobile, congelato sul posto. Non metteva in dubbio che il semidio avrebbe potuto tagliargli la gola con un solo gesto; non che prima lo sottovalutasse, ma era molto più semplice sentirsi minacciato, dopo che l’aveva sorpreso alle spalle senza che se ne accorgesse.
«Non ti ricordi proprio nulla di ieri sera?»
In un qualche angolo malato della sua mente, l’uomo si aspettava quella domanda. Quale fosse quell’angolo, non gli era dato saperlo e probabilmente era meglio così. Salute mentale.
A livello inconscio soppesò l’idea di mentire, ma, se avesse tentato, Loki avrebbe saputo di avere ragione e ne avrebbe approfittato per schernire il suo inutile tentativo di raggirare il Dio dell’Inganno.
Infine esalò una risposta sottile come un sospiro, come un filo di fumo. «Mi ricordo».
Contrariamente a ogni sua previsione – ognuna delle quali coinvolgeva una tortura differente –, il semidio soffocò una risata e lo abbandonò nell’oscurità del laboratorio vuoto e spento con un’unica parola, che poteva essere una promessa come una minaccia, ma senza dubbio non una spiegazione. «Ottimo».
L’uomo rilasciò il fiato in un respiro greve e appoggiò d’istinto il palmo della mano sul reattore arc. Era ancora al suo posto, lui era ancora vivo. Andava ancora tutto bene.
«Grazie della tempestività, eh, Jarvis» sibilò in tono amaro. L’AI scelse saggiamente di tacere.

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Capitolo 5
*** #04: Smashed ***


Stavolta vi ho fatto aspettare parecchio, lo so, ma sono stata in vacanza, come avevo anticipato, e sfortunatamente non ho potuto aggiornare prima perché ho dimenticato il mio portatile (con KompoZer e OpenOffice dentro per l'editing degli aggiornamenti <__<) e ho dovuto usarne uno di fortuna nelle ultime due settimane <__<' Ho penato un po', ma alla fine sono riuscita a inserire anche la solita icon, una consuetudine cui mi sono affezionata <3 C'è anche il capitolo per fortuna (LOL), ed è pure bello lungo come sempre XD
Vorrei ringraziarvi per il supporto, ormai siamo arrivati a metà fanfiction (in tutto avrà otto, massimo nove capitoli), ma spero che continuerete a seguirmi tutti fino alla fine! <3




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#04: Smashed
 
And if you wanna get out of here
(Wanna get out of here)
Save yourself
But you never get anywhere
(Never get anywhere)
Not without my help
-I’m alive, Shinedown
 
Quando Stark fece il suo ingresso in cucina, la mattina dopo, Loki era seduto a gambe incrociate sul sofà, concentrato sul libro che giaceva nel suo grembo. Il semidio lo intravvide con la coda dell’occhio, ma non si diede la pena di sollevare la testa.
L’espressione del mortale nel vederlo intento in qualcosa di così umano era impagabile.
«Cosa stai facendo?»
Loki si limitò ad alzare il volume perché potesse vederne la copertina. «Studio».
Se possibile, Stark apparve ancora più sconcertato. Delizioso, considerò tra sé il semidio. «Il vocabolario?»
«Non fai altro che accusarmi di usare una dialettica obsoleta…» Loki abbassò nuovamente il dizionario, ne riprese la lettura. «Ho ritenuto opportuno sforzarmi di abbassarmi al misero livello oratorio di voi midgardiani».
L’uomo inarcò le sopracciglia in una manifestazione di scherno e il semidio si rese conto del proprio errore con una smorfia. Riuscire a parlare come i terrestri, però, si stava rivelando molto più complicato del previsto: adoperavano un gergo talmente ridicolo che il suo orgoglio si rifiutava di imitarli.
«Voglio dire,» si corresse con un sospiro «ehi, se voglio mantenere la copertura, mi tocca comportarmi come voi mid- della Terra».
Stark indietreggiò di un passo, gli occhi spalancati, inorriditi. «Okay, okay, è stato terrificante. Non rifarlo mai più. E comunque, la tua dialettica obsoleta va bene negli incontri di lavoro. Cioè, mi fa fare bella figura, quindi è okay». Si passò una mano sulla nuca e scoccò un’occhiata alla cucina. «Niente colazione, questa mattina?»
«Jarvis mi ha avvisato che hai scaricato tutto il lavoro sulle spalle di miss Potts per rinchiuderti in laboratorio» ribatté Loki con una scrollata di spalle, senza distogliere l’attenzione dal dizionario inglese-slang, slang-inglese. «E che hai una macchinetta per il caffè anche lì».
Naturalmente l’umano non poteva cogliere l’invito sottinteso a mettersi subito all’opera sulla sua tecnologia anti magia, era troppo ottuso, considerò tra sé, irritato, quando Stark si avvicinò al divano e si piegò a raccogliere uno dei libri impilati sul tavolino. Possibile che l’esercito dei chitauri stesse arrivando, che lui stesse arrivando, e il midgardiano si preoccupasse dei suoi gusti letterari?
«Hai letto anche questi?»
Loki annuì, nella speranza che la mancanza di una replica verbale gli ricordasse l’urgenza del suo compito.
«Tutti questi?» insistette Stark, sbigottito. «Hai letto tutti i miei libri sulla meccanica in una notte?» Ammiccò in direzione della decina di volumi accatastati in ordine alfabetico, il semidio assentì un’altra volta.
«I principi base sono piuttosto semplici e nel complesso questa scienza midgardiana non è molto diversa dalle tecnologie degli altri reami» minimizzò con un gesto svogliato della mano, sebbene intimamente fosse compiaciuto dell’espressione meravigliata – e, in piccola parte, persino ammirata – del suo interlocutore. Non che avesse intenzione di lasciarglielo intendere, chiaro. Non accennò neppure a voler alzare gli occhi dal libro. «Anche se devo ammettere di essere impressionato: per essere una razza tanto giovane, vi siete evoluti più in fretta di molti altri popoli».
Non c’era sarcasmo nella sua voce.
Fin da quando era bambino, era sempre stato affascinato dai terrestri: non erano niente più che scarafaggi, deboli e poco longevi, eppure nel giro di pochi millenni erano già al passo con gli altri reami – reami di cui, ironicamente, non conoscevano nemmeno l’esistenza. Li trovava divertenti; i loro sforzi erano inutili, ma pur sempre divertenti.
«Mi inchino alla tua munificenza, mio signore» commentò Stark, mordace, ma era ancora troppo stupefatto. «No, davvero… cioè, non mi stai prendendo in giro? Li hai capiti sul serio?»
«Hai la mia parola». Loki roteò gli occhi al soffitto. «Ma ricorda che sono il Dio dell’Inganno, non so quanto possa valere la mia parola. Ora, se non ti dispiace, gradirei riprendere la lettura, mentre tu hai del lavoro da svolgere in laboratorio – o mi sbaglio?»
Il mortale parve riscuotersi dai suoi pensieri – sempre che pensasse davvero, rettificò tra sé il semidio – e ripose il libro in cima alla pila. «Hai ragione, hai ragione. Okay. Non disturbarmi, a meno che non sia un’emergenza. Ah, Fury che chiede di parlare urgentemente con me non è da considerarsi un’emergenza. Mai».
Loki sollevò le sopracciglia, ma non espresse nessuna delle domande che gli salirono alle labbra. Si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre lasciava l’attico, per sincerarsi che non oziasse oltre.
Nonostante l’iniziale pigrizia, Stark non mosse un passo fuori dal laboratorio. Grazie a Jarvis – di cui si fidava molto di più di quanto non si fidasse del midgardiano – il semidio poteva anche assicurarsi che non indulgesse in attività futili e al tempo stesso portare avanti il proprio studio.
Non era sicuro di avere compiuto la scelta giusta, materializzandosi nella Stark Tower.
Non aveva bisogno che Stark lo facesse notare per sapere di non avere un piano funzionale, di non avere ogni cosa sotto controllo com’era sua abitudine: il suo destino era appeso a un filo, al filo di quell’idea che aveva maturato chiuso nelle prigioni di Asgard, ed era un filo sottile, molto sottile, un filo di cui Loki non poteva garantire la resistenza. Un filo che portava il nome di Anthony Stark, forse l’ultima persona nei nove reami a cui il semidio avrebbe mai creduto si sarebbe ritrovato, un giorno, a domandare aiuto.
Sfogliò svogliatamente una delle ultime pagine del vocabolario, il volto sorretto dal pugno chiuso, il gomito premuto contro la coscia.
Mettere la propria vita nelle mani degli Avengers non gli piaceva, ma erano l’unica parvenza di esercito che avesse già sconfitto i chitauri una volta: se Thanos fosse sceso in battaglia al fianco del suo popolo non poteva stimare le probabilità di sopravvivenza, ma quando il generale era stato lui – per quanto bruciasse ammetterlo – ne erano stati capaci.
Dovevano riuscirci. Stark doveva riuscirci.
Per la verità non si aspettava che il mortale rimanesse concentrato troppo a lungo e, quando alla fine udì la sua voce risuonare attraverso gli altoparlanti dell’AI, si sorprese che non si fosse distratto prima.
«Ehi, Loki?»
Il semidio mise da parte il libro che aveva cominciato, dopo aver terminato di memorizzare il dizionario, ed esalò un sospiro paziente. «Non dovresti essere al lavoro, Stark? O forse hai bisogno di me?»
«Lo so». Suonava esitante; incuriosito, Loki gli concesse la propria piena attenzione. «Pensavo… ah, lascia perdere».
«Pensavi?» gli fece eco, fingendosi incredulo. «Ti prego, mettimi a parte di questo miracolo. A che cosa pensavi, di preciso?» In realtà aveva dei sospetti circa quello che Stark avrebbe potuto domandargli, dei sospetti che provocarono lo sbocciare di un sogghigno sulla sua bocca al ricordo degli avvenimenti della sera prima.
Dal momento che il mortale era perfettamente sobrio, non avrebbe potuto tentare un’altra volta la menzogna dei postumi della sbornia. E Anthony Stark era semplice troppo Anthony Stark per non rimuginare su qualcosa che concernesse il sesso.
«Beh, lo sai a che cosa pensavo. A ieri sera».
La sua assenza cancellò un frammento di sorriso dal volto del semidio; non poterlo vedere toglieva gran parte del divertimento, ma era certo che, piuttosto che affrontarlo, il mortale avrebbe tirato avanti a fare finta di nulla al punto da diventare noioso.
Non replicò e lo sbuffo che provenne dagli altoparlanti gli rese chiaro che Stark aveva inteso cosa significasse quel silenzio. Continua a parlare.
«Mi chiedevo» pausa, Loki si aprì in un sogghigno nell’immaginare la sua espressione a metà tra la curiosità morbosa di conoscere e la consapevolezza di stare ponendo quesiti di natura sessuale proprio a lui, che avrebbe dovuto essere il suo nemico «perché tu abbia cercato di, beh, molestarmi, in questi ultimi due giorni».
Il semidio picchiettò la punta dell’indice sul mento glabro, valutando come rispondere a quella domanda.
Mai prima d’allora aveva incontrato qualcuno così sfacciato, che non si sforzasse neppure di sfidarlo ed eludere le sue argomentazioni, ma rispondesse in modo tanto diretto. Sfacciato, oppure semplicemente consapevole più di chiunque altro che Loki non poteva essere sconfitto.
Non al suo stesso gioco.
«Perché sei un umano estremamente singolare, Stark» lo canzonò con la sua stessa sfrontatezza, quando ritenne di averlo lasciato in sospeso abbastanza a lungo.
Sapeva che il midgardiano ricordava bene quanto lui il loro incontro sull’Elivelivolo. Sapeva che ne era rimasto colpito, lo aveva scorto in fondo ai suoi occhi, in fondo alla sua anima, la notte in cui gli aveva detto che sarebbe stato troppo facile. Sapeva che era forse l’unico ad aver realizzato appieno la vastità dei suoi poteri – e che non aveva raccontato a nessuno di quella notte, per una ragione che però persino per lui era inspiegabile.
Forse era per questo – perché non conosceva quel solo pezzo del puzzle – che lo trovava così interessante.
«Mi aspetto una spiegazione un po’ più dettagliata» berciò Stark in tono lamentoso.
Loki scoprì i denti bianchi in un ghigno ferino e gustò le parole con la lingua prima di scandirle con estrema chiarezza. «Allora abbi il coraggio di parlarmene faccia a faccia».
Si crogiolò nel silenzio che seguì la sua richiesta tanto schietta e rimase onestamente sbigottito quando, dopo un assordante sferragliare che gli giunse crepitando attraverso il microfono, il mortale annunciò: «Okay, arrivo tra due minuti».
Prima che il semidio potesse ribattere alcunché o anche solo aggrottare la fronte, il midgardiano interruppe la comunicazione e alla sua si sostituì la voce metallica di Jarvis, che comunicò in tono neutro: «Il signor Stark sta lasciando il laboratorio».
Loki si volse verso la porta, un riflesso puramente istintivo, conscio com’era che, prima di qualche minuto, nessuno avrebbe varcato quella soglia.
A poco a poco, lo sgomento lasciò il posto a un nuovo sorriso, di cui tracciò distrattamente il profilo con la lingua mentre riponeva il libro sulla catasta che ingombrava il tavolino e si alzava con grazia dal sofà.
Di solito non amava le sorprese, non amava non essere in grado di prevedere le mosse dell’avversario. Non era come gli sciocchi terrestri, che al contrario sembravano apprezzare tanto il brivido – così lo definivano – dell’ignoranza; lui aveva sempre ricercato la verità, la conoscenza, la sapienza suprema in ogni cosa.
Eppure doveva ammettere che, quando Stark riusciva a coglierlo alla sprovvista, avvertiva quello stesso brivido di cui i midgardiani tanto decantavano le lodi, e gli piaceva.
Quando Jarvis lo informò che il mortale aveva raggiunto l’ultimo piano, il semidio si dispose ad accoglierlo, la schiena adagiata pigramente contro un fianco del divano, le braccia conserte e quello stesso sorriso curioso che non accennava a sbiadire sotto gli occhi sfolgoranti d’impazienza.
Stark aveva indosso un’aderente canotta bianca, un paio di jeans vecchi e sformati, serrati in vita da una cintura nera, e degli occhiali da saldatura che ciondolavano intorno al collo. Gli indumenti erano macchiati d’olio e grasso in più punti e i muscoli delle braccia erano gonfi e sporgenti, entrambi segni che non aveva sottovalutato il suo compito, ma le mani erano pulite, dettaglio che Loki attribuì a dei guanti che doveva essersi sfilato.
«Sono venuto come richiesto, Vostra Altezza» si presentò, inscenando un mezzo inchino teatrale. «Se voleste essere così gentile da spiegarvi, ora, così che possa tornare subito al mio lavo-».
Il semidio sorrise del suo sconcerto, apparso di colpo di fronte a lui, i polsi incrociati dietro la schiena, il busto leggermente piegato in avanti, vicino ma non abbastanza per sfiorare davvero il suo torace muscoloso. «Non impari mai?» lo stuzzicò a bassa voce.
Lo sguardo del midgardiano scese sui loro petti così prossimi l’uno all’altro, poi scattò all’insù, ma Loki aveva ormai intercettato il movimento.
«Scusa se il teletrasporto non è così normale per me» grugnì con una nota di fastidio nel tono sarcastico. «Allora?» Fece un cauto passo indietro per mettere tra loro una certa distanza, ma non cercò di scappare dai suoi occhi penetranti. «Credevo avessi detto che mi avresti dato delle spiegazioni».
«Ma naturalmente» acconsentì il semidio, divertito dal disagio che vedeva serpeggiare dentro di lui ogniqualvolta gli si accostava troppo.
Era affascinante come Anthony Stark combatteva il desiderio. Correva, si nascondeva, oppure fingeva che non esistesse; sembrava una lepre, una lepre ingenua che, avvistata la lince, si convinceva di potersi salvare rifugiandosi nella propria tana – il primo posto dove il predatore sarebbe andato a cercarla.
Era una caccia che era destinato a perdere in partenza, perché un frammento di lui a cui si ostinava a non dare ascolto bramava la sconfitta, la cattura, eppure fuggiva, testardo.
A Loki piacevano le caccie. Gli piaceva vincere.
Allungò un braccio con studiata lentezza, ben consapevole dell’attenzione con cui Stark seguiva i suoi movimenti, e premette la punta dell’indice contro il reattore arc.
Il suo padrone si irrigidì di colpo, quasi che il semidio l’avesse ustionato, ma non si spostò. Qualcosa passò nei suoi occhi, qualcosa di terribile e oscuro che a Loki ricordò con terrificante chiarezza Jotunheim, qualcosa che scomparve nel giro di un battito di ciglia.
Il semidio avvertì il congegno pulsare ritmicamente sotto il suo polpastrello e quasi cedette all’istinto che gli suggeriva di strapparlo da dove si trovava e studiarlo finché non avesse avuto più segreti per lui, ma poi si riscosse e si rammentò di dover avere pazienza. Pazienza in cambio di conoscenza, impulsività in cambio di ignoranza e pericolo.
Un vero peccato che tu non abbia appreso questa legge così elementare, Stark.
Quel triangolo intrecciato di metallo ed energia blu in cui batteva il cuore del mortale era l’unico esempio di tecnologia midgardiana che non avesse mai visto nemmeno una volta nei suoi libri. Non ne conosceva neppure le funzioni più basilari, poteva solo intuire che si trattasse di qualcosa di fondamentale per la sopravvivenza di Stark; di conseguenza, lui non avrebbe mai acconsentito a parlargliene e Loki era divorato dalla curiosità come mai gli era capitato.
Voleva, voleva, voleva. Pazienza.
«Per la verità è molto semplice». Pronunciò con calma ogni parola, avido di cogliere ogni singola alterazione nell’espressione del terrestre. «Desidero solo scoprire fino a che punto posso spingermi, solo divertirmi un po’».
Sorrise del fremito che Stark non poté reprimere e si portò di mezzo passo più vicino, ma questa volta il mortale non si ritrasse. Rimase immobile, senza incoraggiarlo né fermarlo.
«E fino a che punto credi che ti permetterò di spingerti?»
Loki fece scorrere il dito dal reattore arc lungo un’immaginaria linea verticale che correva fin quasi all’orlo dei suoi pantaloni. Si premurò tuttavia di non andare mai oltre il semplice sfiorare il tessuto della canotta e solo a tratti la pelle al di sotto.
Il suo sguardo sagace, invece, non abbandonò quello di Stark nemmeno per un secondo. «Fino a dove sarò io a volerlo. Non riesco a immaginare che proprio tu, Stark, abbia una morale a riguardo».
«Signore, chiamata urgente dal direttore Fury, codice rosso».
Quell’affermazione parve frustare il midgardiano, che sgranò gli occhi e indietreggiò di colpo, non un rimasuglio della sfida di poc’anzi nell’espressione, solo ansia. Gli scoccò un’occhiata che poteva significare solo una cosa – scoperti – e il semidio comprese e rimase immobile, come pietrificato. «Passami la chiamata sul cellulare» ordinò Stark, lento e a voce bassa, dopo un lungo secondo di silenzio.
Prese il telefono dalla tasca e lo portò all’orecchio; Loki riconobbe nel ringhiare attutito che proveniva dall’apparecchio la voce di Nicholas Fury e si limitò a fissare il mortale, in attesa di una qualunque reazione che gli chiarisse di cosa stessero discutendo.
Osservando il suo profilo, il corpo contratto dal nervosismo, la fronte aggrottata, gli occhi concentrati su un punto lontano, per la prima volta Loki si domandò cosa avrebbe fatto Stark, se Fury avesse davvero saputo ogni cosa. Era plausibile che lo consegnasse nelle mani dei suoi stolti alleati e lasciasse a loro la responsabilità di combattere quella guerra, meditò con una smorfia. Si trattava di Stark, dopotutto, un umano dall’animo sperduto, patetico, infantile.
Chiuse con lentezza le mani a pugno, pronto a combattere per la propria libertà, se necessario, ma proprio allora la tensione nelle spalle del terrestre si sciolse e un angolo della sua bocca si sollevò appena mentre le sue labbra si allungavano con sollievo intorno a un nome. «Doom?»
I loro sguardi si incrociarono un secondo dopo che il semidio aveva rilassato i muscoli tesi, ma Stark doveva aver colto le sue intenzioni, anche se non ne diede alcun segno. Fiducia, ricordò Loki.
«Okay, ma cosa faccio con lo scettro? E se Loki arriva mentre…?»
Fury lo interruppe bruscamente e sillabò con tanta cura le parole che anche il semidio riuscì a distinguerle. «La gente rischia di morire perché ci sono dei fottuti Doombots a spasso per New York, quindi fai partire il tuo dannato allarme e metti il culo nell’armatura, ora».
«Come siamo scurrili, Monocolo» sbuffò il midgardiano, più a se stesso che a Fury, perché aveva già terminato la telefonata a metà de “nell’armatura”. «Rimani qui e fai il bravo, okay? Torno presto. E non fare niente di insensato. Mi è quasi venuto un infarto per quel fottuto codice rosso» borbottò, di nuovo senza fare parola dell’attacco che Loki era stato sul punto di sferrare quando aveva temuto che Fury avesse scoperto il loro sotterfugio.
Si rivolgeva a lui, ma non lo stava guardando: la sua attenzione era dedicata esclusivamente ai bracciali di metallo che indossava sempre, anche sotto le maniche della camicia, l’espressione concentrata e le labbra strette mentre ordinava a Jarvis di aprire la portafinestra da cui il semidio lo aveva scaraventato, una volta.
Si era salvato da quella caduta proprio grazie a quei bracciali – la parola fiducia echeggiò ancora una volta nella sua mente nel guardarli, nel pensare che fino a quel momento, a partire dal suo arrivo, non li aveva mai tolti.
Il pannello di vetro della finestra scivolò di lato e Stark mise piede sulla piattaforma lunga e sottile di cui faceva uso per indossare e spogliarsi dell’armatura; quella volta, però, le braccia meccaniche che avrebbero dovuto occuparsene erano spente e l’umano si limitò a pronunciare un comando a voce alta perché i bracciali si attivassero.
Nel giro di pochi secondi, sotto gli occhi attenti di Loki c’era Iron Man.
L’uomo sventagliò un braccio verso di lui, poi si lasciò cadere teatralmente all’indietro, nel vuoto, e sfrecciò via, i propulsori degli stivali alla piena potenza, eppure silenziosi – una delle migliorie che doveva aver apportato durante la sua prigionia, considerò tra sé il semidio, scrutandolo allontanarsi con un sopracciglio inarcato.
Loki non aveva risposto al suo saluto, ma Tony non si aspettava che lo facesse, al contrario, se fosse accaduto si sarebbe preoccupato che fosse stato sostituito da un suo sosia più socievole.
Si sforzò di scacciare il pensiero di quello che era quasi successo tra loro concentrandosi sulle coordinate che Jarvis gli aveva fornito, ma non poteva fare a meno di chiedersi se la chiamata di Fury fosse stata un colpo di fortuna.
L’intento del semidio era stato piuttosto evidente, mentre ancora adesso Tony dubitava delle proprie intenzioni.
Una delle prime regole del suo personale Manuale di Sopravvivenza – una delle poche su cui persino Steve si trovava d’accordo – recitava “mai fraternizzare con il nemico” e quello sarebbe stato molto più che un banale fraternizzare, tuttavia non riusciva del tutto a rimproverarsi per non aver respinto Loki – anche se tecnicamente non l’aveva neppure incoraggiato.
Forse che fossero stati interrotti era stato meglio per tutti: nessuno sarebbe stato deluso dalla sua reazione come al solito. Nessuno l’avrebbe definita ridicola o immatura. Nessuno avrebbe potuto rimpiangere, “mi aspettavo grandi cose da te, Iron Man”.
Si collegò al canale radio riservato agli Avengers e allo S.H.I.E.L.D. e Steve lo informò che lui, Natasha e Clint erano già sul posto, Bruce, invece, atterrato poco prima, stava arrivando.
«La situazione non è critica, per il momento» illustrò Steve, conciso e semplice, un soldato, uno su cui tutti potevano contare, non riuscì a fare a meno di commentare tra sé Tony. Quella riflessione meschina lo fece sentire ancora peggio, perché Steve non aveva alcuna colpa se non quella di essere perfetto e non era giusto – era patetico e immaturo – nutrire rancore nei suoi confronti. «Ci sono cinque Doombots, sembrano nuovi, hanno qualche laser in più… Niente di troppo preoccupante. Non ce ne sono altri in arrivo, per quello che ne sappiamo. Ma sta’ attento, Tony».
Tony strinse le labbra in una smorfia a quelle parole.
Ovviamente Steve si stava solo preoccupando per il bene della squadra e della Terra, dal momento che era a capo del gruppo e doveva rispondere delle loro vittorie come delle loro sconfitte, delle vite salvate come di quelle perdute, ma lui non fu in grado di reprimere un moto d’irritazione. “Sta’ attento, Tony”, “Sii prudente, Tony” – quante volte aveva sentito quelle raccomandazioni, fin da quando era bambino? Quante volte le persone avevano davvero avuto fiducia in lui?
E con che sfacciataggine aveva potuto, lui, parlare a cuor leggero con Loki di fiducia?
Le coordinate corrispondevano, prevedibilmente, a Central Park: quando agiva, Doom si premurava sempre di avere il pubblico più numeroso possibile – e il maggior numero di vittime possibile, il bastardo. Fortunatamente i suoi compagni, accorsi prima di lui, avevano già fatto sgombrare l’area e il parco si aprì davanti a lui deserto e immacolato. Niente sangue, niente corpi: gli altri avevano fatto in tempo.
Planando, Tony individuò Clint e Natasha che tenevano a bada due Doombots e Steve, poco lontano, che da solo ne affrontava altri due.
Puntò in quella direzione, mirò alla giuntura del collo di metallo di uno degli automi: non riuscì a decapitarlo, ma lo fece precipitare di diversi metri e destabilizzò i suoi sensori abbastanza a lungo perché Steve potesse terminare l’opera con un fendente del suo scudo.
Con il missile successivo Tony fece saltare la testa del secondo Doombot e corrugò la fronte nel vederlo crollare al suolo come una bambola rotta.
Troppo facile. Dov’erano finiti gli automi – quasi – indistruttibili e dannatamente testardi di Doom?
La voce di Steve echeggiò sorpresa negli altoparlanti. «È stato…»
«Banale?» l’interruppe Tony, prendendo quota per avere una prospettiva più ampia. «Lo so. In confronto ai soliti Doombots, questi qui erano dei fottuti giocattolin-» grugnì, ma le parole gli si strozzarono in gola quando i sensori di Jarvis individuarono qualcosa che si avvicinava al punto in cui si trovavano gli altri Avengers. «Oh, merda».
«Cosa vedi, Stark?» si informò Clint in tono spazientito.
Qualcosa di grosso, metallico e molto, molto pericoloso.
Da quello che Tony poteva vedere si trattava di un automa – non che Doom fosse originale – alto almeno il doppio di un Doombot comune. Se di solito Doom li costruiva perché gli assomigliassero, di modo da trarre in inganno i nemici, quella volta, al di là delle dimensioni assurde, il robot non aveva niente in comune con il suo creatore, non pareva neppure umano.
Il volto non aveva fattezze umanoidi, era in realtà una scatola tonda munita di due fori luminosi all’altezza degli occhi, e il corpo liscio, privo d’imperfezioni, luccicava argenteo alla luce del sole, privo del caratteristico mantello verde di Doom.
«Robot gigante in arrivo alla tua sinistra, Legolas» istruì con una smorfia, poi realizzò come mai le braccia, le mani e il petto dell’automa scintillassero più del resto. «Robot gigante e molto incazzato, quel bastardo ha un arsenale, state at-!»
Prima che potesse terminare la frase, una gragnola di laser lo costrinse a schizzare di lato.
«L’armatura può sostenere la temperatura di quei laser, signore, ma non il suo corpo. Se dovessero colpirla, morirebbe nel giro di pochi secondi» annunciò Jarvis.
Era stato Tony a progettare la sua voce perché suonasse così impersonale, ma quando gli comunicava informazioni tanto orribili circa la sua vita – come il fatto che rischiava di finire arso vivo nella sua stessa armatura, per esempio – non gli sarebbe dispiaciuto un tantino di partecipazione in più.
«Fantastico» sbuffò a denti stretti, allungando ambo le braccia davanti a sé, i palmi aperti, per sparare una scarica di laser in direzione del robot.
Un sorriso feroce gli piegò le labbra quando l’automa non riuscì a evitare il colpo, ma appassì quasi subito nel rendersi conto che l’impatto non aveva avuto alcun effetto sul nemico, che continuava la propria marcia inesorabile verso i suoi compagni.
Oh, merda.
«Questo affare non reagisce ai miei laser» sibilò nel microfono, scese di quota e si riunì agli altri, che si aprirono a ventaglio intorno a lui.
Ormai il robot era a non più di venti metri da loro; dal suo petto partì un missile che avrebbe distrutto mezzo Central Park se Tony non avesse avuto la presenza di spirito di contrastarlo con uno dei propri. I due razzi si scontrarono a mezz’aria, abbastanza in alto da non creare danni, in un’esplosione la cui onda d’urto investì sia loro che l’avversario e sollevò un velo di polvere che soltanto Tony riusciva a penetrare, grazie ai dispositivi di controllo visivo dell’armatura.
«Ne ha un altro?» volle sapere Steve con urgenza. «Ha un altro missile?»
Se non altro, l’onda d’urto pareva aver messo in difficoltà l’automa, che si stava rimettendo in piedi. Si muoveva a scatti – dieci punti per l’autostima di Tony, che invece aveva creato l’armatura di Iron Man agile come e più di un uomo – ma con determinazione; fortunatamente, sembrava gli fossero rimasti solo laser e missili più piccoli, di portata molto meno distruttiva, utili per uccidere, non per distruggere.
«No» sospirò, sollevato. «A ore dodici, comunque. Legolas, se tu potessi…»
Non aveva ancora finito di parlare che una freccia tagliò l’aria e il muro di polvere e si conficcò con estrema precisione nella giuntura del braccio destro del robot. Tony sogghignò, contò fra sé.
Uno, due, e il dardo esplose con fragore.
Tony si aspettava che il braccio andasse distrutto, che finisse scaraventato dall’altra parte del parco, che succedesse qualcosa, non che l’automa incassasse il colpo senza difficoltà e l’unico segno dell’esplosione fosse una striatura nera sulla sua corazza argentea.
«Di che cazzo è fatto quell’affare?»
Ignorando il ringhio frustrato di Clint, il cui digrignare i denti produceva uno sgradevole ronzare negli altoparlanti, Natasha intervenne in tono pratico e conciso: «Mi serve un passaggio, Stark».
Tony arricciò le labbra in un ghigno ferino la cui eco era evidente nel suo tono. «Con estremo piacere».
Si librò a qualche metro da terra e si avvicinò con cautela al robot, attento a non fermarsi mai troppo a lungo nella stessa posizione onde evitare di essere preso di mira; Natasha si staccò dal gruppo e, imbracciata una pistola con ciascuna mano, prese la rincorsa nella sua direzione. Una volta sotto di lui, spiccò un salto elegante e atterrò con un piede sulle mani a coppa di Tony, che le diede la spinta sufficiente a finire a cavalcioni delle spalle dell’automa.
Da quella posizione puntò la canna delle armi ai lati del capo dell’avversario e lo tempestò di proiettili contro il cranio e le giunture del collo, alla ricerca di un qualsiasi punto debole in quella che somigliava pericolosamente a un’armatura indistruttibile.
Clint e Steve si unirono a lei da terra, lo scudo che roteava con terribile precisione, le frecce che sibilavano nel tagliare l’atmosfera. Tony lo impegnava dall’alto secondo le direttive di Jarvis, che faceva ipotesi sulle sue possibili debolezze.
Il robot però non dava alcun segnale di cedimento; nulla pareva in grado di scalfirlo, se non in maniera superficiale, troppo superficiale, e i suoi colpi erano precisi e letali, inarrestabili.
Loro, invece, prima o dopo si sarebbero inevitabilmente stancati.
«Possibile che tu non ne venga ancora a capo, Jarvis?» ringhiò, spazientito, dopo che poco mancò che una scarica di laser lo colpisse dritto in faccia. «Sarà un’ora che combattiamo contro questo figlio di puttana e ancora non sai dirmi di che cazzo sia fatto?»
«Mi dispiace, signore» replicò l’AI con quanto di più vicino alla mortificazione fossero capaci i suoi circuiti vocali. «Non ho mai visto niente del genere. In sé si tratta di strati di acciaio e titanio sovrapposti, ma sembra rinforzato da qualcosa la cui composizione è molto simile a quella del potere magico di Loki».
Un automa potenziato dalla magia. Oh, fantastico, sbuffò tra sé Tony, convogliando una buona quantità di energia in un colpo che stava preparando a sferrare con la mano sinistra. Ma dove l’avrà presa Doom? Il suo potere non può essere uguale a quello di Loki, altrimenti l’avrebbe già usato in passato per altri robot… Che sia stato aiutato da qualcuno?
La sola idea era inquietante: Doom era un avversario scaltro e potente e più di una volta li aveva messi in difficoltà; Doom in collaborazione con qualcun altro avrebbe potuto distruggere mezza New York – e mietere un numero di vittime troppo impressionante per essere anche soltanto ipotizzato.
«Signori, avete sentito Jarvis?» chiese mentre prendeva la mira, ma non aspettò né diede ascolto alle risposte, concentrato com’era sul proprio obiettivo. Se fosse riuscito a fargli a pezzi le gambe, l’automa avrebbe perso la capacità di deambulazione. «Voglio l’ottanta percento della potenza di fuoco» sussurrò a fior di labbra, bene attento a puntare il palmo aperto verso il ginocchio del nemico. «Mi sono stancato di giocare, bastardo».
Proprio nel momento in cui era sul punto di sparare, l’automa si mosse con un’agilità straordinaria e lo colse in pieno petto con due scariche laser che lo scaraventarono a una buona decina di metri di distanza, se non di più.
Gli schermi olografici ebbero un guizzo, poi si spensero e Tony perse il controllo dell’armatura, che precipitò al suolo e si schiantò con un tonfo assordante. Intervallando un ordine a un’imprecazione, cercò di riattivare l’AI con i comandi vocali di emergenza, incapace di spostarsi a causa della pesantezza della corazza.
Per lunghi, infiniti istanti d’orrore Jarvis non reagì, ma alla fine gli schermi si riaccesero e la voce familiare dall’accento londinese riempì l’elmo: «Scudo al venticinque percento. Energia al quindici percento. Potenza di fuoco al trenta percento».
Il colpo lo aveva indebolito molto, dal momento che aveva centrato proprio il reattore arc, la sorgente non solo della sua vita, ma anche della forza dell’armatura. Essa non sarebbe stata in grado di reggere il combattimento ancora a lungo, realizzò mentre si alzava in piedi a fatica e si informava sul funzionamento di ciascuna applicazione. I propulsori erano a posto e così anche gran parte delle armi, ma il laser aveva bruciato i circuiti del mirino e dei lanciamissili.
«Tony?» Steve lo apostrofò con fare angosciato. «Stai bene?»
«Più o meno» mugugnò e si morse un labbro per evitare di prendere il super soldato a male parole. Quel coso di latta gli stava facendo ampiamente girare i coglioni. «Non so quanto potrò essere d’aiuto, ho la mira compromessa e i lanciamissili fuori uso».
E, se il reattore arc non fosse diverso da ogni altra tecnologia al mondo, il laser l’avrebbe fuso e io sarei finito arso vivo. Carino, eh?
Ma non lo disse, non voleva innervosirli più di quanto già non fossero.
«Dove cazzo è finito Banner?» ruggì Clint dopo aver evitato una gragnola di proiettili diretta alla sua testa. Scoccò l’ennesima freccia, ma il robot la deviò con il palmo della mano metallica e il dardo esplose a metà strada tra Hawkeye e Natasha, che trovarono riparo appena in tempo grazie alla prontezza di riflessi maturata come agenti segreti.
Allora l’automa rivolse la propria attenzione a Steve che, rimasto solo, schivò per un soffio un pugno e indietreggiò di scatto, ma l’avversario poteva fare affidamento su almeno trenta secondi prima di doversi preoccupare di nuovo di Clint e Black Widow e ne approfittò per seguirlo e concentrare su di lui la propria piena potenza di fuoco.
Il super soldato non poteva che evitare i colpi e sforzarsi di scalfirlo con lo scudo, anche se si era già rivelata una linea d’azione inutile.
Tony infuse tutta l’energia rimasta ai propulsori e schizzò tra Steve e il robot a una velocità maggiore di quanto lui stesso si aspettasse un secondo prima che quest’ultimo sparasse una scarica laser che il super soldato non sarebbe riuscito a schivare. Una scarica che, però, non avrebbe colpito il reattore, ma il ventre della corazza.
Sarebbe bruciato vivo, Tony lo sapeva. Morto nel tentativo di salvare Steve Rogers, amato da tutto il mondo. Perlomeno sarebbe stato ricordato per qualcosa di buono come aver difeso l’eroe nazionale a prezzo della propria vita, e non perché beveva troppo ed era il peggior supereroe su cui New York avesse mai potuto – dovuto – contare.
Chiuse gli occhi e si preparò all’impatto fatale.
Quando però giunse, era molto diverso da come l’aveva immaginato: niente dolore, niente scariche elettriche, solo una spinta che gli mozzò il fiato e lo scagliò all’indietro, oltre Steve, contro quello che doveva essere un petto, ma era robusto come un muro di mattoni.
A una manciata di centimetri sopra di lui udì un latrato animalesco che riconobbe come quello di Hulk e si ritrovò inerte tra le sue possenti braccia verdi, spossato dallo sforzo cui il reattore arc era sottoposto nel tentativo di sostenere l’armatura. Hulk lo depose a terra con delicatezza – per quanto Hulk potesse essere delicato – e raggiunse l’automa con un solo balzo.
Pochi istanti più tardi Tony registrò un tonfo sordo di metallo che cozza contro il suolo e indovinò che l’avversario era stato abbattuto.
Bruce era davvero incazzato questa volta…
Girato su un fianco, fece perno sul terreno con il gomito per sollevarsi e osservare la scena.
Con sua grande sorpresa, Hulk non stava facendo a pezzi il robot. Nessuno degli Avengers, per la verità, si stava muovendo: fianco a fianco, disegnavano un semicerchio intorno all’avversario, chi con le armi imbracciate, chi in posizione di combattimento, ma nessuno osava attaccare.
Spostando l’attenzione oltre le loro figure rigide, Tony capì perché e sgranò gli occhi in un misto di stupore e sgomento.
Oltre il circolo dei suoi compagni, l’automa era a terra, immobile, squarciato in due da un taglio obliquo che si apriva dalla spalla destra al fianco sinistro e ne mostrava l’interno gremito di fili spezzati e grondante d’olio per motori. In piedi sopra la carcassa, Loki si ergeva maestoso nell’armatura in filigrana verde e oro, l’elmo che rifletteva il lucore adamantino dei raggi solari.
Quando Tony lo vide, il semidio esaminava il nemico abbattuto a testa bassa, il volto nascosto dall’elmo, la posizione rigida, cauta, di un guerriero che esiti ad abbassare la guardia. Non sembrava affatto preoccupato dalla presenza degli Avengers; stabilito che il robot non era più fonte di pericolo, alzò il capo, ma non li degnò di un solo sguardo: i suoi occhi vagarono oltre loro, quasi che non esistessero, e si affissero in quelli di Tony.
Trascorsero alcuni momenti di totale immobilità di spazio e tempo in cui si guardarono, poi, di colpo, il mondo riprese vita e Loki si ritrovò le armi degli Avengers puntate addosso, Hulk che lo immobilizzava e Steve che esclamava qualcosa in tono autoritario. Gli altoparlanti però dovevano essere andati distrutti, perché Tony non riuscì a distinguere le parole. In un moto di stizza si sfilò il casco inservibile e, trovato a tastoni il pulsante che avrebbe attivato il ripiegamento automatico dell’armatura, lo premette, nella speranza che funzionasse ancora.
Fu con un affaticato sospiro di sollievo che accolse la rapida efficienza con cui la corazza si smontò pezzo per pezzo e ritirò su se stessa nella forma di una semplice valigia in metallo grigio.
Liberato dal fardello dell’armatura mal funzionante, si passò una mano sul reattore arc e inspirò profondamente, incurante della polvere che ancora contaminava l’atmosfera a causa delle numerose esplosioni.
A stento rimaneva cosciente – il reattore aveva subito molti danni, avrebbe dovuto ripararlo appena fosse tornato alla Stark Tower – ma stava bene, quando invece avrebbe dovuto essere morto.
Per straordinario che fosse, Loki gli aveva salvato la vita.
Incapace di sostenersi ancora in quella posizione, si lasciò rotolare supino, ansante, e portò entrambe le mani a stringere il congegno che portava incastonato nel petto, come se temesse che qualcosa potesse strapparglielo via.
L’oscurità si addensava nel suo campo visivo, ma riuscì ugualmente a riconoscere l’ombra che torreggiò su di lui e la voce che gli parlò, resa roca dalla stanchezza e dall’angoscia.
«Tony? Come ti senti?»
Tony stirò le labbra in un sorriso sforzato e quasi non fu in grado di udire se stesso rispondere prima di perdere i sensi e crollare inerte sulla nuda terra. «Niente panico, Cap. Pare che mi abbiano steso».
 
 
Nel riaversi, Tony non aprì subito gli occhi: prima verificò lo stato delle proprie funzioni vitali principali – respiro e battito cardiaco – quindi valutò la condizione del reattore arc e solo allora, solo dopo aver diagnosticato di stare piuttosto bene, per uno che era stato fulminato da un laser, socchiuse le palpebre e si guardò intorno.
Prevedibilmente, non era stato riportato alla torre; si trovava invece in una camera asettica, grande a malapena a sufficienza per contenere un letto e un comodino. Somigliava a una stanza d’ospedale, non fosse stato per l’assenza di finestre e per la telecamera che fronteggiava il letto.
S.H.I.E.L.D., intuì Tony, nient’affatto sorpreso.
In realtà era stupito che non l’avessero buttato in qualche cella prima di farlo interrogare: dopotutto, Loki era apparso all’improvviso, aveva sconfitto il robot di Doom e gli aveva salvato la vita. Non dubitava che Fury avrebbe avuto più di qualche domanda da porgli.
Giaceva supino sul materasso e non osava muoversi dalla posizione in cui si trovava, terribilmente consapevole del dolore che gli provocava anche il più piccolo spostamento. Se non altro, la sua iniziale analisi del reattore arc si stava rivelando sbagliata e forse non avrebbe avuto bisogno di ripararlo, dal momento che era stato sufficiente un po’ di riposo a rimetterlo in sesto.
Quel pensiero lo condusse a una domanda: per quanto tempo era rimasto incosciente? Dubbio che ne trascinò con sé infiniti altri, per i quali non aveva alcuna risposta.
Doom aveva sferrato un altro attacco, oppure erano riusciti a sconfiggerlo? Gli altri stavano bene? Avevano scoperto qualcosa di più sul connubio di metallo e magia che animava l’automa? Un quesito in particolare lo tormentava più degli altri, come una pioggia d’aghi sottopelle: che cosa ne avevano fatto di Loki?
Non riusciva a fare a meno di chiederselo, dal momento che era in debito con lui.
L’ultima cosa che si sarebbe aspettato, una settimana prima, sarebbe stata finire con l’essere in debito con lo stesso semidio che l’aveva scaraventato fuori da una finestra. Naturalmente non dubitava che Loki l’avesse fatto solo perché Tony stava costruendo l’arma che l’avrebbe salvato dai chitauri, tuttavia l’aveva fatto, anche a costo di rivelare la propria presenza agli Avengers e allo S.H.I.E.L.D.
Di colpo la porta della stanza si aprì, strappandolo alle sue riflessioni. Pepper lo fissò dalla soglia con quel suo sguardo che significava “Non prendermi in giro, Tony, perché io so” che sostenne con una certa inquietudine sospettosa, poi richiuse il battente e si sedette sul bordo del letto.
La sua espressione si addolcì nell’accarezzargli i capelli, lasciò spazio all’angoscia che la stava consumando da quando aveva saputo cosa fosse accaduto.
«Ehi, Pep» mugolò Tony, più debolmente di quanto avrebbe voluto. La sua voce suonò estranea alle sue stesse orecchie, roca e affaticata. La lingua raschiò contro il palato nel tentativo di spingere fuori le parole e la gola rispose con una fitta dolorosa a quello sforzo, per quanto insignificante.
«Non parlare» ribatté la donna con il sorriso rassicurante più falso che Tony le avesse mai visto. «Dio, Tony, un giorno di questi mi manderai in manicomio» sussurrò, la preoccupazione e la paura che si insinuavano nel suo tono pacato, un angolo della bocca che si tendeva a sottolineare che non avrebbe voluto manifestargli quei sentimenti. «So che sei Iron Man e tutto il resto, ma… non potresti cercare di non farti uccidere, qualche volta? Non sempre. Solo qualche volta».
Tony tacque, come lei stessa gli aveva suggerito di fare, si limitò a piegare la testa di lato per premere la guancia contro la mano che lo sfiorava.
Pepper era quella che pagava il prezzo più alto per la sua decisione di unirsi agli Avengers, sebbene lei non lo desse mai a vedere e al contrario lo incoraggiasse e lo affiancasse in qualsiasi circostanza, senza mai fare un passo indietro, senza mai tremare. Era Pepper la vera eroina, non lui.
«Guarda, ti ho portato questo». La donna infilò una mano in tasca e ne trasse fuori una busta; nel seguire il movimento con lo sguardo, Tony si rese conto che, per un istante, con l’indice aveva indicato qualcosa alle proprie spalle – qualcosa che si rivelò essere la telecamera, puntata contro la schiena dell’amministratore delegato. «Pensavo di lasciarlo sul comodino, ma dal momento che sei sveglio…»
Quando dalla busta Pepper trasse un biglietto e glielo porse, Tony comprese che cosa avesse voluto comunicargli. Non farglielo leggere.
Bene attento a dispiegare il foglio di carta senza che il lato scritto finisse alla portata dell’occhio della telecamera, ne lesse con attenzione il contenuto e distese i lineamenti in un’espressione rilassata e compiaciuta che si addicesse a chi stesse leggendo un augurio di pronta guarigione.
Il tuo segretario misteriosamente scomparso è chi credo che sia, vero? Lo tengono rinchiuso, hanno intenzione di interrogarvi entrambi. Mi devi parecchie spiegazioni.
L’ultima frase era sottolineata due volte.
Era in momenti come quelli che Tony ricordava il motivo per cui aveva assunto Pepper come sua assistente e l’aveva poi messa a capo delle Stark Industries. Un tempo sarebbe stato lo stesso motivo per cui si era innamorato di lei, o credeva di esserne innamorato, pensò con una fitta di senso di colpa.
«Grazie, Pep». Alzò lo sguardo e incrociò quello verde chiaro della donna – per un istante si ritrovò a confrontarlo con quello di Loki, le cui iridi possedevano una sfumatura di verde molto più scura e intensa – poi annuì una sola volta, come a darle ragione circa l’identità di Damian Millark e a ringraziarla insieme. «Sei un tesoro, te l’ho già detto che ti sposerei, vero?» scherzò, incurante della propria voce da oltretomba.
«Tre volte, per la precisione. Quando eri molto ubriaco. Ora riposati, tra poco il direttore Fury verrà a farti qualche domanda. Non fare niente di stupido, okay?»
Così lei sarebbe la calma illusoria prima della tempesta, che dovrebbe tranquillizzarmi e farmi abbassare la guardia? Tony incurvò un angolo della bocca in un sogghigno divertito. Peccato che Pepper sia sveglia, e che non le piaccia essere usata.
L’amministratore delegato sorrise di rimando e si chinò per baciarlo sulla guancia – non sulle labbra; fu colpito da un’altra stilettata di nostalgia ma, notò Tony, non d’amore: senso di colpa e nostalgia, ma non amore – prima di rialzarsi e tornare alla porta. Giunta sull’uscio, gli indirizzò un ultimo cenno della mano e lo lasciò solo.
Tony si rigirò il biglietto tra le dita, l’attenzione che si alternava tra le parole impresse sulla carta e la telecamera che lo monitorava.
Distruggere il foglio sarebbe stato troppo sospetto: se si fosse trattato di un semplice messaggio affettuoso, sarebbe stato molto più plausibile poggiarlo sul comodino, anche se molto rischioso. Nessuno però avrebbe pensato di dargli un’occhiata per verificare che fosse davvero innocuo, dopotutto lui era pur sempre Iron Man, l’eroe della nazione, non c’era ragione per cui lo S.H.I.E.L.D. dovesse dubitare di lui, non più del solito – perché Fury dubitava sempre, avrebbe dubitato anche della sua stessa madre.
Messo in allerta dagli avvertimenti di Pepper, Tony trascorse le due ore successive a contemplare il soffitto, in attesa che succedesse qualcosa.
L’unica sua visitatrice fu un’infermiera che si informò se avesse bisogno di qualcosa. L’immobilità e il silenzio cui era costretto minacciavano di mandarlo fuori di testa – abbastanza per abbandonare la camera e andare in cerca di Fury per i fatti propri – quando finalmente la porta si riaprì e il direttore fece il suo ingresso a grandi falcate.
«Monocolo» lo salutò brevemente Tony. Aveva ancora qualche difficoltà ad articolare le parole, ma se non altro con il trascorrere del tempo il dolore dovuto al conversare era diminuito fino a dissolversi. «È un piacere vedere che ti preoccupi per me. Mai pensato di fare la crocerossina?»
«Come ti senti, Stark?» ribatté Fury, fermandosi presso il suo letto, le mani severamente incrociate dietro la schiena, l’occhio serio che lo scrutava dall’alto in basso.
Nessun senso dell’umorismo.
«Sai, in un certo qual modo è rassicurante. Svegliarsi dopo essere quasi finito ammazzato e scoprire che il mondo non ha smesso di girare e che tu continui a essere deliziosamente noioso». Era un piacere riuscire di nuovo a elargire all’universo il munifico dono del suo spirito. «Mi fai sentire a casa, davvero. Dovrei-».
«Non m’interessa» tagliò corto acidamente Fury, asciutto e austero. Era scattato con tanta gravità nello sguardo che per una volta Tony non ribatté. «Quello che m’interessa – e che mi aspetto che tu mi dica – è perché Loki ti ha salvato la vita e ci ha aiutato a sventare un attacco di Doom. Pare che il tuo amico in verde non abbia alcuna intenzione di essere collaborativo, e sai qual è l’unica cosa che abbia detto da quando l’abbiamo portato qui?» Tony non voleva saperlo, dal momento che sospettava che sarebbe stata poco positiva per lui, ma il direttore doveva provare un certo morboso divertimento nel torturarlo, perché gliela disse in ogni caso: «Ha detto che non risponderà a nessuna delle nostre domande, a meno che non sia tu a porgliele, da solo, senza telecamere che registrino l’interrogatorio».
Fury gli rifilò un’occhiata penetrante, ma Tony fece in modo che la propria espressione fosse innocua e indecifrabile. Soppesò con cura la possibile risposta da dare senza esporsi a troppi rischi e alla fine decise di controbattere con una domanda: «Quanto tempo sono rimasto incosciente?»
La piega che prese la bocca del direttore lasciava a intendere senza adito a dubbi che non era soddisfatto, ma era una piega piuttosto frequente, quando c’era di mezzo Tony. «Trentasei ore. Non avevi subito alcun danno visibile, ma la luce del reattore era debole e non riuscivi a respirare correttamente». Corrugò la fronte, come sempre gli accadeva quando doveva comunicare qualcosa che non aveva compreso del tutto. «Banner ha sostituito alcuni circuiti e ti sei ripreso. Quando credi di poter tornare a essere operativo?»
Così è stato Bruce.
Tony percepì un sorriso prendere forma sulle sue labbra.
Aveva deciso di rivelare a Bruce la funzione del reattore e i fondamenti su come aggiustarlo in caso di emergenza qualche mese prima, prevedendo che sarebbe stato difficile per lui sopravvivere se il congegno fosse stato compromesso e nessun altro avesse avuto idea di come rimetterlo in sesto.
Banner era l’unico tra i suoi compagni di cui si fidasse a tal punto – e che avesse le competenze necessarie per farsi carico di un compito del genere – e ora appariva chiaro che avesse fatto la scelta giusta. Come sempre, del resto, non esitò ad aggiungere tra sé.
«Ringrazia Doc da parte mia» lo ammonì, quindi rifletté sulla sua domanda e approssimò un calcolo con una scrollata di spalle. «Se Banner mi ha riparato come si deve, entro domani dovrei essere okay». Un secondo più tardi realizzò appieno che cosa la richiesta di Fury significasse di preciso e gli rifilò uno sguardo sorpreso, le sopracciglia sollevate, la mascella irrigidita dal sospetto. «Vuoi che io parli con Loki?»
Il direttore annuì, un veloce cenno essenziale. «Chiaramente è l’unico modo per convincerlo a scucirsi la bocca. Prima, però, voglio che tu mi dica cosa c’entri tu con Loki. Perché ha chiesto di vedere te?»
Tony sapeva di quale natura sarebbero stati i dubbi di Fury, ma non era riuscito a elaborare una spiegazione convincente per quel punto particolare – che segretamente sperava il direttore non avrebbe messo in luce troppo presto. Dopo un istante d’indugio, decise di essere onesto e scosse il capo. «Giuro che non ne ho idea. Perché io?» Emise un sospiro d’esasperazione. «Ne so quanto te».
Sì, uhm… me l’hanno detto in tanti. Non proprio in questi termini, ma il concetto era lo stesso”.
Non erano le più brillanti ultime parole che avrebbe potuto inventarsi, ma quel giorno, mentre Loki torreggiava su di lui e gli sorrideva, la consapevolezza di stare per finire brutalmente ammazzato gli aveva annodato la lingua e gli intestini.
Il semidio avrebbe potuto fare di lui ciò che voleva, ne era perfettamente conscio, così come era conscio del magazzino dimenticato da Dio in cui si trovava la sua armatura. Troppo lontano.
Eppure, anziché illustrargli – o mettere direttamente in pratica – il modo in cui aveva deciso di ucciderlo, Loki aveva esalato una risatina che gli aveva fatto accapponare la pelle e si era chinato su di lui, spogliandolo di uno strato di pelle dopo l’altro con quel suo magnetico sguardo di smeraldo. “Cerca di rimanere vivo, Stark. Magari potrei anche decidere di risparmiarti la vita e tenerti come giullare, una volta che avrò conquistato il vostro insulso pianeta”.
Poi si era materializzato al di là del vetro della sua cella e un agente era sopraggiunto per avvisare Tony che Fury chiedeva di lui.
Perché il semidio gli avesse risparmiato la vita, quella volta, Tony non avrebbe saputo dirlo persino ora, a distanza di un anno. Perché gli avesse salvato la vita, il giorno prima, era completamente fuori dalla sua portata.
Il direttore lo studiò per un lungo momento, presumibilmente intento a interrogarsi se dargli fiducia o meno, poi concesse: «Ti voglio credere, Stark, anche perché non vedo per quale motivo dovresti essere in combutta con un alieno che ha più volte tentato di ucciderti. Mi aspetto che tu segua con precisione le mie istruzioni, però, quando andrai a parlare con lui. Altrimenti ti considererò compromesso, e sarai fuori dall’operazione. Sono stato chiaro?»
Tony sostenne la solenne gravità nell’occhio di Fury; sotto le lenzuola, la sua mano scivolò furtiva fino a coprire il reattore arc. «Cristallino».
Il direttore lo inchiodò con quella sua occhiata penetrante tanto a lungo che Tony avrebbe potuto provare disagio, se non avesse fatto l’abitudine allo sguardo di Loki, poi annuì e annunciò in tono di commiato: «Ti lascio riposare, allora. Domani mattina un’infermiera verrà a controllare le tue condizioni. Ti manderò a chiamare quando avrò deciso di accogliere la richiesta di Loki. Fino ad allora, vedi di riprenderti in fretta».
Era ormai sulla soglia della stanza e Tony si accingeva a scivolare di nuovo nel torpore rilassato da cui si era lasciato travolgere nelle due ore precedenti a quell’incontro, quando Fury parve ricordarsi di qualcosa e si volse a guardarlo con un’espressione molto simile al divertimento – non fosse stato che nel DNA del direttore non esisteva nulla di simile al senso dell’umorismo; in realtà sarebbe stato più preciso definire quel qualcosa come sadismo maniacale.
«A proposito, dodici ore fa Thor è arrivato attraverso un portale dimensionale. Per ora l’ho convinto ad aspettare, ma prima o dopo anche lui vorrà chiederti perché il fratello che lo vuole morto ha deciso di salvarti la vita».
Tony sgranò gli occhi e annaspò come un pesce fuor d’acqua in cerca di una replica pungente che non trovò mai.
Nella sua mente una sola parola lampeggiava a caratteri cubitali.
Merda.

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Capitolo 6
*** #05: The frostbite of the prince ***


Ehilà! <3 Questo giro non ho risposto alle recensioni, lo so, ma sono stata in vacanza (di nuovo XD) all'estero, non avevo internet, se non per brevissimi periodi, e la scelta era tra il cazzeggio online e la scrittura del capitolo. Ho pensato che la seconda vi avrebbe fatto più piacere. XD Ormai mi sembra inutile rispondere alle recensioni dello scorso capitolo, ma vi prometto che farò del mio meglio per replicare a quelle di questo (sempre se ci saranno LOL) in tempi decenti (il che significa tra oggi/domani e poi dai primi di settembre, perché lunedì riparto e torno alla fine della settimana). Sappiate comunque che vi amo e, se riesco a postare capitoli così lunghi nel giro di dieci giorni/due settimane, come sto cercando di fare, è solo grazie al vostro supporto, senza il quale probabilmente lascerei la storia a macerare! Perciò, grazie soprattutto a voi che tenete in vita Save your enemy, grazie di essere ancora qui con me <3
Okay, questo capitolo è più corto del solito, ma il prossimo si prospetta parecchio lungo, farò ammenda con quello. XD Questo è pieno di feelings, sappiatelo <33 Oh, e, uhm, ricordate il sesso promesso all'inizio? Facendo un prospetto dei capitoli mancanti, mi sono resa conto che la storia ha preso una piega decisamente più avventurosa del previsto e non sono sicura che riuscirò a inserire tutto il p0rn desiderato all'inizio, ma prometto che mi rifarò con altre storie! Non picchiatemi ç__ç
Ciò detto, vi rassicuro: questo capitolo piacerà *__* Spero, almeno. XD Vi lascio, va'! Che il fangirleggio sia sempre con voi!

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#05: The frostbite of the prince
 
Once upon a time on the same side
Once upon a time on the same side in the same game
-Princess of China, Rihanna feat. Coldplay
 
Passarono due settimane prima che Fury gli telefonasse.
Fu dimesso dall’ospedale dello S.H.I.E.L.D. due giorni dopo il suo primo risveglio e, al ritorno alla Stark Tower, scoprì che il relitto del robot di Doom era stato trasferito nel suo laboratorio. Ciò gli diede la scusa per rinchiudervisi ed evitare Thor – come d’altra parte ogni forma di vita dotata del dono della parola.
Da allora aveva lavorato senza sosta al Progetto Winx – avrebbe davvero, davvero dovuto pensare a un altro nome – ed esaminato l’automa, cercando di capire in che modo la magia lo facesse funzionare.
Pepper era stata il suo ultimo contatto umano: era venuta a trovarlo subito dopo il suo arrivo nella torre e, prevedibilmente, avevano discusso del suo coinvolgimento con Loki. Tony le aveva raccontato la verità, omettendo solo il motivo per cui il semidio aveva chiesto il suo aiuto, ma lei riteneva comunque troppo pericoloso dare tanta confidenza allo stesso uomo che una volta aveva ucciso tanta gente per puro divertimento. Lo stesso uomo che ha ucciso Phil, l’aveva chiamato, e lui non aveva risposto.
Era stata la loro ultima conversazione.
La donna non l’aveva contattato per quattro giorni, poi aveva cominciato a intasargli la segreteria di messaggi. Tony aveva sorriso nello staccare la linea telefonica.
Pepper sarebbe sempre tornata per lui.
Non importava che lo stesse tempestando di chiamate perché incollerita a causa del suo prolungato assenteismo dal lavoro, lei tornava.
Tony, però, non poteva darle ascolto. Non quella volta.
Non sapeva che cosa avrebbero fatto di Loki, non capiva perché Fury non l’avesse ancora aggiornato e macerava nella frustrazione, consapevole che ogni giorno che passava era un giorno più vicino all’arrivo dei chitauri.
Senza Loki, un giorno perso.
Se non altro il suo progetto faceva progressi, anche grazie ai resti del robot di Doom, di cui imitò e perfezionò la maniera in cui l’energia magica scorreva al posto del carburante, irrobustiva le fibre dell’armatura e potenziava i colpi.
Quindici giorni più tardi, Jarvis lo avvisò che Fury chiedeva di lui con una certa urgenza.
«Spero che ci sia una buona ragione se hai aspettato fino a oggi per accontentare il rockettaro» lo apostrofò prima che Nicholas potesse dire alcunché. «Credevo che ti piacesse avere delle informazioni. È il tuo lavoro, oppure ho capito male?»
La voce del direttore crepitò negli altoparlanti, impregnata d’asprezza e irritazione. «Lo S.H.I.E.L.D. è la mia organizzazione, Stark, ritieniti fortunato se ti permetto di farne parte».
«Hai ragione, hai ragione, non devo toccare i tuoi giocattoli» lo punzecchiò Tony. «Mi stavo solo domandando come mai perdi tanto tempo ad assecondare una condizione che potrebbe mettere nelle tue mani ogni genere d’informazione desideri».
Dal momento che Loki non aveva rivelato nulla sui chitauri – altrimenti gli agenti dello S.H.I.E.L.D. sarebbero sciamati in casa sua come mosche, come mosche sulla merda, fu il suo poco lusinghiero commento – aveva deciso di fare lo stesso e di attendere di consultarsi con lui per scegliere la loro linea d’azione. Sapeva, però, che, così come era un rischio dire la verità, altrettanto lo era tenere tutto nascosto.
E se i chitauri avessero sferrato il loro attacco prima che fossero pronti? Avrebbero perso e la Terra sarebbe finita schiava di una spietata razza aliena.
«Non mi fido di te così tanto da mettere nelle tue mani dei dati così importanti» ribatté Fury. «In secondo luogo, per quanto tu non mi stia particolarmente simpatico, non ti avrei mai lasciato da solo in balia del Dio dell’Inganno nel pieno delle forze, senza nemmeno una dannata telecamera a tenerlo d’occhio. Avevo bisogno di renderlo inoffensivo, prima».
Non mi avrebbe fatto del male. Ma Nicholas non poteva saperlo, naturalmente.
Ebbe un brivido al pensiero di che cosa il direttore intendesse con “renderlo inoffensivo”. Ricordava fin troppo bene Natasha che scattava come una vipera, fluida e letale, e uccideva ogni chitauri che le si parasse dinanzi. Il suo sguardo freddo, l’espressione una maschera d’indifferenza e concentrazione.
«Uhm, cosa significa di preciso che lo hai reso inoffensivo?»
«L’abbiamo drogato per indebolire la sua magia, ma quel figlio di puttana ha resistito dieci giorni prima che la droga facesse effetto» rispose Fury, una nota di compiacimento evidente nella voce. «Ora ci sono buone probabilità che non ti uccida».
«Che gioia» replicò, sarcastico, ma Nicholas troncò sul nascere il seguito di quella battuta.
«Un elicottero atterrerà sulla tua torre fra quaranta minuti. Non fare tardi». Interruppe la telefonata senza preoccuparsi di attendere una risposta.
Tony si sfilò i guanti imbrattati d’olio e grasso, si spogliò in fretta dei vestiti sporchi e sudati e fece una doccia veloce nel bagno annesso al laboratorio – l’aveva progettato perché fosse possibile vivervi, almeno finché la fame non avesse preso il sopravvento.
Quando ne uscì, infilò un paio di pantaloni verde militare e una canotta nera e tornò in laboratorio, dettando meccanicamente i codici di apertura della porta.
Fuori, con suo grande stupore, trovò Pepper, le braccia conserte al petto e la punta di uno dei tacchi vertiginosi che picchiettava sul pavimento. «Jarvis mi ha avvertita che Fury ti ha chiamato» prevenne la sua domanda e si ravviò una ciocca ribelle con un gesto irritato. «Ti rendi conto di quanto tu mi abbia fatto preoccupare, Tony? Ti rendi conto che sono due settimane che esci di lì solo per svuotare il frigo dell’attico, di notte, per evitare ogni contatto con il resto dell’umanità?»
Non una riprogrammazione, considerò Tony. Jarvis urgeva una revisione completa, un reset totale del sistema.
«Lo so» ammise in tono di scusa, sollevando le mani per placarla. «Senti, Pep…»
«No,» ribatté la donna «senti tu, Anthony Edward Stark, perché non lo ripeterò un’altra volta». Che non significava “non te lo spiegherò di nuovo”, ma “piuttosto che ripeterlo, me ne andrò e non mi vedrai mai più”.
Tony tacque di colpo.
Pepper non l’avrebbe mai minacciato di una cosa del genere, nemmeno per scherzo, e mai, mai lo aveva chiamato con il suo nome completo, perché sapeva quanto lo odiasse. Solo suo padre lo chiamava Anthony.
Ottenuta la sua attenzione, l’amministratore delegato sospirò e le sue spalle ricaddero pesantemente, tanto che Tony quasi credette di udirne il tonfo. «Ti giuro che, la prossima volta che sparisci così, io mi dimetto. Lo faccio, Tony. Non puoi decidere di disconnetterti all’improvviso dal mondo: hai delle responsabilità, un’azienda da mandare avanti, persone che contano su di te non solo per proteggere gli Stati Uniti, ma il pianeta, persone che si preoccupano per te se le ignori per due settimane. Non puoi rinchiuderti nella tua stanza come un bambino, Tony. Non puoi».
Un’altra donna avrebbe avuto la voce tremante, sarebbe stata sull’orlo delle lacrime; Pepper era seria, risoluta, bella.
Sono l’uomo più fortunato al mondo, pensò Tony, come la volta in cui Loki gli aveva concesso di studiare la sua magia.
«Hai capito?» insistette l’amministratore delegato, poiché ancora non rispondeva.
Si riscosse prima che lei potesse decidere di scrollarlo con la forza e fece un passo avanti, la prese tra le braccia; lei non lo respinse. «Sì, Pep. Scusami. Non avrei dovuto escluderti dalla mia vita. È solo che…»
Pepper era un sospiro carezzevole attutito dalla stoffa della sua canotta. «Sei preoccupato per lui».
«Cosa?» Tony si staccò da lei come se l’avesse morso o come se si fosse appena rivelata un clone del semidio. «Preoccupato per… Sei pazza
«Cristo, Tony» sbottò la donna, infastidita. «Possibile che tu non voglia ammetterlo? Sono due settimane che non parli con nessuno, stacchi la linea e l’unica telefonata che accetti, l’unica che aspetti e che ti fa riemergere dal laboratorio riguarda Loki». Fece una pausa, realizzando di non aver mai pronunciato quel nome a voce alta, dopo Phil. Per un istante si guardarono, senza bisogno di dirsi nulla. «Sei davvero così stupido o fingi per amore del tuo orgoglio maschile?»
Tony scosse il capo. Era preoccupato per la Terra, per l’esercito dei chitauri che la minacciava, per Doom, che collaborava con un nemico sconosciuto, ma non per Loki. Era assurdo.
«Tu lavori troppo, Pep».
L’amministratore delegato reagì con un moto di stizza, ma assecondò il suo cambio d’argomento. «E la colpa è tua. Ora sbrigati. Hai un appuntamento con Fury, immagino».
Il suo tono, però, aveva perso gran parte dell’acidità iniziale. Tony sorrise e la baciò sulla fronte. «Va bene, Pep. Ci vediamo».
Lei lo osservava mentre lui si allontanava, poi lo chiamò di nuovo. «Tony?»
«Sì, Pep?»
«Spero che meriti la tua preoccupazione».
Le porte dell’ascensore si aprirono ronzando e Tony ne approfittò per sfuggire a quelle parole, a quella voce che dava loro consistenza e tutt’altro significato – “ha ucciso Phil”.
Il viaggio in elicottero fu rapido e trascorse in silenzio. Tony non conosceva il pilota ed era troppo assorto per instaurare una conversazione. Rifletté distrattamente che era insolito da parte sua, ma non riusciva a concentrarsi su qualcosa che non fosse Loki.
L’ultima, cupa sentenza di Pepper riecheggiava di tanto in tanto nella sua mente.
Spero che meriti la tua preoccupazione”.
L’Elivelivolo ferveva di attività, un caleidoscopio di agenti in uniforme nera ed espressione arcigna che attraversavano i corridoi a passo serrato e si scambiavano poche frasi concise ogni tanto. A macchiare quel quadro impeccabile come schizzi di un pittore imbranato, Thor, Bruce e Steve lo aspettavano sulla strada che portava alla sala di controllo, dove presumeva di trovare Fury, affiancati dalle ombre scure di Natasha e Clint.
«Tony Stark!» abbaiò Thor con la sua voce roboante, si fece avanti per primo e lo strangolò in un abbraccio che gli fece scricchiolare le giunture. «È un piacere incontrarti di nuovo, dopo tanto tempo!»
Tony valutò che era più o meno la stessa sensazione provata quando il Dio del Tuono lo aveva assalito, la prima volta che si erano scontrati, però faceva più male.
«Sì, ugh, ciao, anche io sono—ngh, felice di vederti» annaspò nel difficoltoso tentativo di rispondere, ricambiare l’abbraccio con una pacca sulla spalla ed evitare di morire asfissiato.
Per fortuna Thor dovette accorgersi del suo disagio, perché lo liberò dalla sua stretta e indietreggiò di un passo. Banner apparve da dietro le sue spalle infinite e increspò le labbra in un sorriso timido, venato di divertimento. «Piacere di rivederti intero, signor Stark».
«Doc!» Massaggiandosi il collo dolorante, Tony gli tese la mano libera e si strinsero poco sopra il gomito in un gesto fraterno. «Non ti ho ancora ringraziato per avermi rimesso a posto».
Bruce scrollò le spalle. «Non è stato difficile. Dopotutto mi avevi insegnato tu stesso».
Steve, Natasha, Clint e Tony si scambiarono un cenno di saluto, poi si diressero insieme verso la sala di controllo. Erano trascorsi diversi mesi dall’ultima volta che erano stati una squadra, considerò Tony, eppure camminare accanto a loro e sentirsi parte del gruppo stava diventando istintivo per lui, che non aveva mai collaborato con nessun altro che se stesso.
«Qualche idea sul motivo per cui Loki ti abbia salvato la vita? O per cui vuole parlare solo con te?» fu Clint a domandarlo, buttò lì la questione come nulla fosse, ma le sue parole furono accompagnate da un silenzio teso.
Tony vide Thor irrigidirsi, un passo davanti a lui, e fu colpito da una stilettata di incandescente senso di colpa al pensiero che il Dio del Tuono l’avesse salutato con tanta socievolezza, inconsapevole della sua cooperazione segreta con suo fratello. Aveva immaginato che sarebbe stato difficile tenere in piedi quella pantomima davanti a Thor, ma non così difficile. Non era abituato a chiedere scusa, ma ancor meno era abituato a desiderare di farlo.
Probabilmente la sua espressione si era velata, ma gli altri dovettero attribuirlo al fatto che era debitore di un nemico, perché non fecero commenti. «Non ne ho proprio idea» alzò le spalle. «Se è il suo modo di corteggiarmi, devo ammettere che è piuttosto originale» soggiunse in un tentativo di smorzare la tensione, ma, con sua grande sorpresa, su Thor non sortì altro effetto che quello di farlo rabbuiare di più. «Ehi, gigante, tutto okay?»
«Tu sei un uomo acuto, Tony Stark» replicò il Dio del Tuono in tono enigmatico. Tony era incerto se spaventarsi perché Thor era in grado di essere enigmatico o se preoccuparsi di quanto stava dicendo. «Il tuo è spirito, ma mio fratello non dimostra spesso tanta attenzione nei confronti di un midgardiano. E ha un» si schiarì rumorosamente la gola e di colpo Tony realizzò che era imbarazzato «concetto molto personale del corteggiamento».
Bene. Loki ci prova con me e Thor lo sa. Bene. Sono fottuto.
Prima che potesse replicare alcunché o che Clint potesse prorompere in una delle sue battute irritanti e del tutto fuori luogo o che Steve potesse augurargli di avere molti figli maschi, fecero il loro ingresso nella sala e trovarono Fury al centro della piattaforma dei comandi, intento a latrare ordini o a scrutare con occhio critico gli schermi olografici. Tony dubitava che Fury fosse in grado di comprendere il gran numero di dati che si susseguiva sugli schermi, ma non fece commenti.
Sollevò invece una mano per attirare la sua attenzione – come se non fosse abbastanza facile, accanto a Thor. «Ehilà, Monocolo! Perché non fai montare gli schermi da un lato solo? Non è più comodo?»
Nicholas finse di non sentirlo quando si volse a guardarli. «Stark». Lo soppesò con un’occhiata indecifrabile, come se stesse cercando di arrivare sottopelle. Tony aveva il sospetto che il suo unico occhio ne avesse la capacità. «Barton, Romanoff, fate strada. Non perdiamo altro tempo».
Precisi e ineccepibili, Natasha e Clint si portarono alla testa del gruppo e li guidarono attraverso un dedalo di corridoi che Tony non si diede la pena di tentare di memorizzare. Nonostante l’Elivelivolo fosse sensibilmente più piccolo di un rifugio dell’organizzazione, non aveva la presunzione di sperare di riuscire a uscire da solo da un simile labirinto.
Anziché affiancare Natasha e Clint in quanto direttore, Fury adeguò il passo al suo. «Prima di lasciarti da solo con Loki, voglio essere sicuro che tu sia affidabile, Stark. Puoi dirmi con assoluta sincerità che non sai perché ti abbia salvato o perché abbia tanto insistito per ottenere un incontro con te?»
Prevedibile. Mi lascia tranquillo due settimane e riprova a minare il mio autocontrollo. Mi dispiace, Nicky, ma ho visto troppi film d’azione.
«Mai stato più certo di nient’altro». Si massaggiò distrattamente il pizzetto, quindi rettificò: «Beh, a parte del fatto che sono un genio e che le donne impazziscono per me, ovvi-».
Nicholas lo mise a tacere con un secco gesto della mano. «Mi auguro che tu sia consapevole dei rischi» riprese con freddezza – Tony adorava punzecchiarlo in quel modo. «Non posso giocarmi la sua onestà mettendo delle telecamere nascoste, anche Thor me l’ha sconsigliato,» ammiccò al Dio del Tuono «dal momento che suo fratello è il Dio dell’Inganno. Una volta che sarai lì dentro, sarai solo, Stark. È abbastanza imbottito di tranquillanti da essere inoffensivo, ma si tratta di Loki. Non si può mai essere sicuri di niente. È chiaro?»
Tony gli strizzò l’occhio. Non del tutto di proposito. «Fidati di me, direttore».
«È questo il problema» sbuffò Fury mentre svoltavano in un corridoio rischiarato solo dalle luci di emergenza sul soffitto.
Era vuoto, fatta eccezione per una porta in fondo che Tony stimò essere spessa almeno dieci centimetri, controllata da due sentinelle larghe quasi quanto Thor e protetta da un sistema di sicurezza che Nicholas impiegò cinque minuti a disattivare.
«Se le cose si mettono male, ricordati che siamo una squadra». Steve sorrise, ma un angolo della sua bocca era teso per la preoccupazione.
«Hai un’ora» intervenne Fury, neutro. «Poi verremo a prenderti».
Se l’avesse voluto, in un’ora Loki avrebbe potuto torturarlo senza concedergli neppure un istante per pensare di chiamare aiuto, ma avrebbe potuto fare la stessa cosa nel giro di pochi minuti, perciò Tony tenne l’aspra obiezione per sé.
Thor lo guardava con una tale speranza che ricambiare quello sguardo faceva male, ma Tony si sforzò di sorridergli, incoraggiante. «Ti prego,» la voce del Dio del Tuono era insolitamente bassa, un sussurro «aiuta mio fratello a rinsavire. Riportalo indietro».
Indietro da dove, Tony non aveva bisogno di domandarlo.
Si limitò ad annuire e, fattosi augurare buona fortuna dagli altri, varcò la soglia della cella. Realizzò che il battente era di nuovo chiuso solo a causa della corrente d’aria che si levò quando esso scorse alle sue spalle senza un suono. Era solo, con Loki.
La stanza era spoglia e asettica, fatta eccezione per un tavolo grigio metallo con due sedie poste una di fronte all’altra. Una di esse era occupata dal semidio.
Gli avevano costretto i polsi in due ceppi ben più spessi di un comune paio di manette, ma non appariva ferito, non a livello fisico, se non altro. Aveva però la cornea segnata di rosso, le guance più incavate di quanto ricordasse e le labbra livide.
Ciò che più lo colpì, però, furono le chiazze bluastre disseminate sulla sua pelle chiara.
Non erano lividi, sembrava piuttosto che qualcuno, in mancanza di stoffa bianca, avesse ricucito Loki con la prima pezza che gli era capitata tra le mani, incurante del colore. Guardando con più attenzione, Tony notò delle linee di un blu più scuro che si intrecciavano in volute e simboli arcani. Era affascinante, come se il suo corpo fosse intessuto di pura magia.
Quando il semidio alzò lo sguardo su di lui, la sua espressione gelida non mutò, ma Tony avrebbe quasi definito sollievo ciò che si agitava nella sua voce roca. «Stark. Finalmente. Mi chiedevo quanto ancora l’umano avrebbe cercato di indebolirmi prima di mandarti a chiamare».
Tony si avvicinò con circospezione e si lasciò ricadere pigramente sulla sedia libera. «Beh, come va? È vero che la droga ha bloccato la magia? E, uhm, scusa se sono poco delicato, ma… perché sei blu?»
Loki esalò una risata stanca. Malgrado le sue condizioni, teneva la schiena orgogliosamente diritta, il mento sollevato e lo sguardo fermo, e Tony non riusciva a fare a meno di temerlo. «Credi davvero che basti un insignificante espediente midgardiano per bloccare la mia magia?» Scosse il capo e lo inclinò da un lato. «Questa vostra droga ha penetrato le mie difese e ha intaccato il controllo che esercito sul mio potere, è vero, ma non potrebbe mai bloccare tale potere. Mai, Stark. Abbi fede, se tu non mi servissi non mi sarei sottoposto a questa umiliazione un solo istante».
Nei suoi occhi passò un lampo e Tony seppe che, non fosse stato per il loro accordo, il semidio li avrebbe uccisi tutti.
Poi Loki stese le braccia – per quanto glielo permettevano i ceppi – e si fissò le mani, le lunghe dita affusolate, di cui sei su dieci si erano tinte di blu. La sua espressione divenne impenetrabile, poi riprese con fare più cupo: «Uno degli effetti collaterali è che le cellule del mio sangue misto stanno entrando in conflitto tra loro, e questo è il risultato».
Tony impiegò qualche secondo a prendere nota di quell’affermazione. «Vuoi dire che di norma tu hai la pelle blu?» Non riuscì a reprimere lo scetticismo che trapelò nei suoi lineamenti.
Il semidio levò gli occhi al cielo e sibilò: «Sei venuto per ascoltare la storia della mia vita o per salvare il tuo stupido pianeta?»
«Non necessariamente un’opzione esclude l’altra» obiettò Tony, guadagnandosi un’occhiata a metà tra stupore e quello che poteva quasi avvicinarsi all’ammirazione. «Non ho mai saputo nulla della tua storia e neppure Thor sa come tu ti sia alleato con i chitauri. Potrebbe essere utile, sai, magari mi dà un’idea».
Loki si ritrasse dalla proposta con un ringhio. «No».
Pronunciò quell’unica parola con una tale intensità, un tale odio, che Tony ebbe davvero paura di insistere. Paura di riconoscere se stesso in quell’odio. Ma c’era Pepper, c’erano Steve e Bruce e Natasha e Clint. C’era Thor. “Riportalo indietro”. E c’erano la Terra e un esercito alieno sul punto di invaderla. E Loki, che si lasciava catturare per salvargli la vita. Loki, che lo guardava negli occhi e il tempo si fermava, e Tony realizzava che, sì, era ancora vivo.
«Possiamo fare un altro patto» lo placò, sollevando una mano aperta. «La tua storia in cambio della mia. Compreso» picchiettò sul reattore arc e, suo malgrado, il semidio lo fissò con una curiosità divorante «come funziona questo. Ma solo se tu sarai sincero con me. Mi sembra un buon accordo, no? Non che tu abbia molta scelta, in ogni caso».
Loki lo scrutava come una bestia minacciata avrebbe potuto scrutare un cacciatore, in cerca di una breccia nella sua difesa per balzare e farlo a pezzi, ma alla fine distolse lo sguardo. «E sia».
Inspirò, espirò, si schiarì la gola, poi parlò.
Gli raccontò la storia di un principe, vissuto all’ombra di suo fratello e della sua grandezza. Un principe che amava quel fratello più di quanto amasse il proprio orgoglio, nonostante egli fosse imprudente, arrogante e pericoloso sia per se stesso che per il regno che avrebbe dovuto ereditare. Lo amava così tanto da aver stipulato un accordo con una razza di individui ignobili, che Loki chiamò jotun, per impedire la sua incoronazione, dal momento che non era ancora pronto, ingenuo e spietato com’era, a rivestire il ruolo di re.
Poi l’erede al trono, furioso, cercò vendetta, ma spinse il regno sull’orlo di una guerra e fu privato dal loro padre di poteri e autorità ed esiliato in un’altra dimensione. Il principe suo fratello, dopo la sua scomparsa, riesumò una storia perduta da secoli, una storia di cui non sarebbe mai dovuto venire a conoscenza.
La storia di un orfano, figlio di un re caduto, raccolto da un re vincitore e cresciuto nella sua casa, dove creature come lui venivano disprezzate e si raccontava di loro ai bambini per spaventarli e far sì che di notte non lasciassero il loro letto, intimoriti all’idea di incontrarli.
«Mezzo jotun, mezzo Ӕsir». Loki rise ancora, una risata così spezzata che Tony sussultò. «Troppo piccolo rispetto agli altri giganti di ghiaccio, una vergogna come erede di Jotunheim, e perciò abbandonato a morire. Avrebbe dovuto essere quello il mio destino: la morte. Non un’esistenza fatta di menzogne, vissuta solo perché Thor potesse dire di essere migliore di qualcuno».
Appresa la verità, il principe mezzosangue decise che avrebbe provato alla sua famiglia di essere degno del loro amore e della loro ammirazione.
Ingannò il re degli jotun, che non avrebbe mai considerato un padre, e lo uccise, poi liberò il potere infinito del Ponte dell’Arcobaleno per sradicare la sua stessa razza immonda e compiacere suo padre.
Non fu abbastanza. Non sarebbe mai stato abbastanza, perché lui non era Thor.
Il principe fu esiliato, dimenticato, disonorato dalla sua stessa famiglia. Viaggiando tra i mondi come il relitto dell’uomo che era stato, trovò conforto in una promessa di riscatto e giurò a se stesso che non si sarebbe prostrato una seconda volta a una simile umiliazione per amore di una famiglia che non lo meritava.
«Ma non sono riuscito a rispettare la mia parte del patto e ora Thanos, il signore dei chitauri, è sulle mie tracce per uccidermi e radere al suolo qualsiasi cosa si metta sul suo cammino. Conosci la fine della storia, Stark».
Infine il semidio tacque e lo osservò, forse in attesa che fosse lui a parlare per primo, ma Tony non disse nulla, si limitava a tamburellare un motivo sulla superficie del reattore arc, un’abitudine che aveva preso quando meditava. Quel racconto era come il pezzo di un puzzle, si incastrava con gli spezzoni di cui aveva parlato loro Thor, ma il Dio del Tuono era sempre stato piuttosto riservato circa suo fratello e il suo tentativo di appropriarsi del trono di Asgard.
Tony non sapeva se quella fosse la verità, nessuno avrebbe mai potuto saperlo. Senza dubbio, era la verità di Loki, una verità spaventosamente simile alla sua.
Ricordava suo padre con lo stesso rancore con cui il semidio ricordava il proprio; ricordava la sua vita innocente, inconsapevole, prima dell’inganno di Stane, con la stessa amarezza con cui Loki ricordava la propria, quando ancora non sapeva che era carta straccia tenuta insieme da un filo di bugie; ricordava l’Afghanistan, la paura, il dolore, la disperazione, negli stessi incubi in cui il semidio ricordava l’esilio.
Gli Avengers erano i suoi compagni, alcuni di loro erano persino suoi amici, eppure con nessuno di loro aveva mai provato la terribile complicità che ora sentiva legarlo a Loki. Con nessuno di loro aveva mai avuto l’impressione, orribile e rassicurante al tempo stesso, di vedersi riflesso allo specchio.
E per una volta, per la prima volta in vita sua, era sicuro di ciò che doveva dire. «Immagino sia il mio turno di raccontare la mia storia».
Il semidio non aveva alcun bisogno di dispiacere o pietà, ne aveva già ricevuta fin troppa quando non ne aveva mai chiesta. Aveva bisogno di qualcuno che capisse senza sentire la necessità di rassicurarlo, “ti capisco, Loki”. Era un adulto, non un bambino, e come tale pretendeva di essere trattato.
Tony lo capiva. Lo capiva davvero.
Loki inarcò un sopracciglio, ma non lo uccise né si rinchiuse dietro un muro, irraggiungibile, intoccabile. Gli fece un cenno, invece. «Ti ascolto, Stark».
La sua storia non parlava di principi, di magia e di popoli alieni; parlava di un uomo con un padre che non gli aveva mai dimostrato amore, un mentore che l’aveva venduto a un gruppo di terroristi e si era preso l’eredità lasciatagli dai genitori e uno scienziato ebreo che non lo conosceva nemmeno, ma aveva dato la propria vita perché lui potesse averne ancora una.
Quindi sei un uomo che ha tutto, e niente”.
Un uomo che l’Afghanistan aveva segnato per sempre e che era riuscito a tenere stretti i pezzi della sua sanità mentale, per quanto fossero affilati e gli facessero sanguinare le mani, solo grazie a una donna che per lui sarebbe sempre tornata e a un uomo che aveva indossato una delle sue armature per aggredirlo, il giorno del suo compleanno.
Quando tacque, era svuotato, come sempre accadeva quando rievocava quei ricordi, ma anche sollevato. Accennò uno spettro del suo consueto sorriso ironico e aprì le mani a ventaglio, esortando il suo pubblico ad avere una reazione.
Loki non alluse al suo racconto, piegò il capo da un lato e gli rifilò un’occhiata penetrante, prima diretta al suo volto, poi al reattore arc e di nuovo al viso. Tony si chiese con un brivido cosa vedesse, adesso, se prima guardava al reattore come a un congegno curioso di cui non comprendeva la funzione. Lo vedeva come il suo cuore? Come un magnete? Come un’arma con cui ucciderlo, una volta che non gli fosse più servito il suo aiuto?
Lo aveva messo a parte di un segreto che avrebbe potuto distruggerlo, quando quella loro alleanza fosse finita. Si fissarono, occhi negli occhi. D’altra parte, il semidio aveva accettato di mostrargli la sua magia e Tony aveva messo a punto una tecnologia che la respingesse. Chi dei due avrebbe sfruttato per primo la debolezza dell’altro?
Poi il semidio squarciò il silenzio e quel momento passò. «Allora, il mio entusiasmante racconto ti ha suggerito qualche idea?» si informò, sarcastico e ben poco fiducioso.
«In realtà, sì». Loki si accigliò, unica prova del suo stupore, e gli indicò di proseguire. «Però non ti piacerà. Nemmeno un po’». L’unica reazione fu l’inarcarsi di un sopracciglio e il semidio ripeté il gesto di esortarlo a spiegarsi. Tony fece una pausa, pensò che tutto sommato la vita non era così male e che non gli sarebbe dispiaciuto che durasse il più possibile, ma alla fine lo disse.
A mano a mano che parlava e Loki capiva dove volesse andare a parare, la sua espressione subì una serie di alterazioni a una velocità sorprendente: entrambe le sopracciglia sollevate, incredulità; contrazione della mascella, irritazione; riduzione degli occhi a due fessure, ira; deturpazione della bocca in una smorfia che gli scoprì i denti, furia. La rapidità con cui si succedevano sarebbe stata quasi comica, se non fosse che Tony stava seriamente rischiando di finire strangolato.
Il semidio stava scuotendo con decisione la testa ancora prima che terminasse di descrivere la propria proposta. «No» replicò con fermezza. «È una follia. Non funzionerà mai, Stark».
«Oh, andiamo» lo rimbeccò Tony. «Il Mark I era una follia, eppure mi portò fuori da quella dannata caverna, in Afghanistan. Trascinare quel missile in un’altra dimensione e tornare indietro era una folli, ma, ehi, sono ancora qui. Ti sfido a enumerare una mia trovata che qualcuno non abbia mai definito una follia. E ti faccio notare che hanno funzionato tutte».
«Questo è diverso» obiettò Loki. «Non si tratta di una sciocca disputa con gli esseri umani». Scrollò nervosamente il capo e solo allora Tony realizzò che aveva chiamato “sciocca disputa” una guerra in cui avevano perso la vita centinaia di innocenti senza neppure farvi caso. Erano sempre stati solo questo per lui, una disputa, un piccolo litigio, qualcosa che lo tenesse occupato. Non aveva mai fatto sul serio con loro; se anche avesse vinto lo scontro, non avrebbe avuto più valore di una guerra tra giocattoli. C’erano cose più grandi, molto più grandi, voleva dire il semidio. Tony lo guardò e vide un uomo giovane con gli occhi di un dio. Che cosa aveva visto? «Parli di ciò che non conosci con la presunzione di saperne tutto. Non puoi immaginare che cosa tu mi abbia appena suggerito di fare».
Un’occhiata di sfuggita all’orologio rivelò a Tony che il suo tempo stava scorrendo in fretta, troppo in fretta. «Che io sappia, tu non hai niente di meglio, no? A parte unirti a noi, sì, me lo immagino come sarà felice Fury di mettere in mano ai suoi agenti armi costruite con il tuo aiuto». Alzò gli occhi al soffitto, ma quando li affisse di nuovo in quelli di Loki il suo tono era calmo e serio, non più screziato d’urgenza. «Almeno prendi in considerazione l’idea, okay?»
Il semidio era sul punto di rifiutare, poi le sue spalle ebbero una scossa sconfitta. «Come vuoi. Ma se non dovessi accettare, dovrai aiutarmi a convincere i tuoi compagni a collaborare con me».
Un altro accordo, altre condizioni, una nuova posta in gioco.
Quanto aveva già mercanteggiato con Loki in quelle poche settimane e quanto ancora gli rimaneva da offrire?
«Okay» accettò in un soffio frettoloso, prima che il semidio potesse ritrattare. Si rilassò soltanto quando Loki non diede segno di voler replicare. Mancavano ancora dieci minuti allo scadere dell’ora, ne approfittò per dare adito agli ultimi dubbi. «Perché hai aspettato che ti permettessero di parlare con me? Avrebbero potuto non farlo affatto. Perché non hai chiesto subito l’aiuto di Fury?»
Lo sguardo di Loki dardeggiò a lungo nel suo prima che il semidio lo degnasse di una risposta. In cerca di che cosa, Tony non avrebbe saputo ipotizzarlo. «Avevo bisogno di qualcuno che si fidasse di me e di cui fosse l’umano, Fury, a fidarsi. Avrebbe pensato che si trattasse di un trucco, se gli avessi fatto una proposta simile senza la tua parola a sostenermi. Non avevo il tempo di convincerlo del contrario, perché i chitauri sarebbero arrivati e saremmo morti tutti».
Profetizzò la propria morte con la naturalezza di chi sia stanco di vivere, ma non fu questo a colpirlo.
Avevo bisogno di qualcuno che si fidasse di me”.
Aspettando, Loki gli aveva dato la più grande dimostrazione della fiducia che riponeva in lui, che volesse ammetterlo o meno. Ma lui nutriva quella stessa fiducia nei suoi confronti?
Spero che meriti la tua preoccupazione”.
Se riandava con la mente alle passate due settimane, non vedeva altro che Loki. Loki che appariva nella Stark Tower e gli chiedeva un drink. Loki che gli preparava il caffè e tentava di mangiare la pizza con risultati disastrosi. Loki, sulla cui pelle danzavano stelle verdi. Loki che si ergeva sopra la carcassa di un robot e guardava lui – di tutti gli umani, di tutti gli eroi riuniti di fronte a lui, guardava Tony. “Tu, Tony Stark, devi considerarti l’uomo più fortunato al mondo”.
Quando si alzò in piedi, scostando la sedia con una spinta, e premette i palmi sulla superficie fredda del tavolo di metallo, il semidio aggrottò la fronte con fare interrogativo.
Poi Tony si piegò in avanti, lo afferrò bruscamente per la nuca e lo baciò.
Entrambi furono talmente colti alla sprovvista dal suo gesto che al principio il loro non fu che un goffo, ruvido sfiorarsi di labbra.
Quindi Loki schiuse la bocca e avvinghiò la lingua alla sua, le mani che salivano sul suo petto e si chiudevano a pugno sulla canotta ai lati del reattore arc, incuranti dei ceppi che ne limitavano i movimenti. Tony intrecciò le dita ai suoi capelli scuri e lo trasse vicino, per quanto permetteva il tavolo frapposto tra loro.
Il semidio aveva le labbra gelide e Tony capì che non erano livide per la droga, ma bluastre a causa della sua natura di jotun, di gigante di ghiaccio nato in una terra di neve e inverno. Attraverso la stoffa dei suoi indumenti, le mani che lo stringevano erano fredde fin quasi a graffiargli la pelle.
Quando alla fine dovette ritrarsi, Tony mormorò sulle sue labbra «Pensaci», poi la porta scorrevole si aprì e vi si diresse, consapevole del suo sguardo sulla schiena così com’era stato consapevole di quello di Pepper, nel laboratorio. Si volse un’ultima volta sull’uscio, ma non disse nulla. Sprofondò negli occhi verdi di Loki e per un fugace istante ebbe l’impressione che si tingessero del colore del sangue; infine se li lasciò alle spalle.
Fuori, prese nota senza sorpresa che la temperatura era notevolmente più alta, poi passò in rassegna i volti dei suoi compagni, che lo scrutarono di rimando, in attesa.
Si schiarì la gola, esordì: «Allora, chi vuole sentire la storia di come Loki è fuggito da Asgard?»
E di colpo ricordò di non aver domandato a Loki perché gli avesse salvato la vita.
 
 
«Agente Hill!»
La donna sollevò il capo dallo schermo olografico sul quale stava digitando una serie di dati e individuò il collega che aveva attratto la sua attenzione. Lui le fece segno di avvicinarsi alla sua postazione davanti a un monitor dov’era aperta una finestra video.
«Che succede, agente Tisdale?» Maria abbandonò la propria occupazione e lo raggiunse in pochi movimenti sinuosi, gli occhi fissi sullo schermo. «Cos’hai trovato?»
«Non ne sono sicuro, agente Hill…» Tisdale si strinse nelle spalle, poi indicò le figure che si muovevano sul monitor. «Guarda qui. Non ti sembra…?»
La donna batté le palpebre più volte per mettere a fuoco la scena – per convincersi che quello che vedeva non era reale, che si era sbagliata, che non era ciò che lei temeva. Ma poi il dito del suo collega disegnò il contorno di quelle ombre e le rese nitide, autentiche, non il frutto di un incubo.
«Tieni d’occhio questa registrazione» ordinò, staccando il ricevitore che portava appeso alla cintura. «Io chiamo il direttore».

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Capitolo 7
*** #06: Born to be king ***


Ehilà! <3 Vi sono mancata? No, cambio domanda. XD Vi è mancata "Save your enemy"? Mi auguro di sì, almeno un pochino :D Con il ritmo che ho preso adesso, direi che riuscirò a postare almeno un capitolo ogni due settimane (come questa volta) e, per un totale di otto capitoli in tutto, direi che la storia si concluderà entro ottobre. Mi mancherà, perché ho adorato scriverla, ma soprattutto mi ha fatto tanto piacere che voi l'abbiate letta e commentata con tanto entusiasmo (e spero continuerete, il vostro appoggio è un balsamo per me, ma credo di averlo già detto più volte XD<3 E' che siete fantastici, ragazzi <3), e ho un bel po' di progetti IronFrost in serbo per voi dopo questo, perciò restate sintonizzati col mio account anche dopo il completamento di "Save your enemy" <3 Già ora uno dei progetti ha preso il via, cominciando con la one-shot "Somewhere far along this road": si tratta di un progetto AU, per ora Pepperony (con varie altre coppie), ma che finirà col diventare IronFrost. Se un Tony che beve troppo e un Loki complessato sotto un ombrello rosa shocking (non scherzo XD) potessero interessarvi, mi farebbe piacere se la leggeste :3
Fine del messaggio pubblicitario, giuro CX E' che non so mai di che parlare, perché vorrei parlare del capitolo nuovo ma naturalmente vi farei spoiler, perciò mi riservo tutti i commenti per le risposte alle recensioni... Sappiate comunque che l'idea dietro questo capitolo è gloriosa, non so se l'ho stesa nel modo adatto o se a voi piacerà allo stesso modo, ma io lo spero, perché credo che questo sia il mio capitolo preferito finora *__*
Grazie a tutti di esserci!

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#06: Born to be king
 
Your fight for power, for memories
Answers and signs
Will bring you through the dark to light
Clear and redefined
-Kingdom Of Welcome Addiction, IAMX
 
Loki aspettava.
Seduto presso il tavolo, unica forma di mobilio presente nella cella, aspettava. Aveva aspettato per due settimane che Fury accogliesse la sua richiesta, avrebbe aspettato un’altra manciata di ore per rivedere Stark.
D’altra parte aveva alle spalle innumerevoli secoli di vita, aveva padroneggiato l’arte della pazienza da molti anni.
Sapeva che spesso comportava molti più cambiamenti limitarsi ad attendere, piuttosto che agire, ma aveva capito che l’età non era garanzia di tale saggezza – Thor ne era l’esempio lampante.
Malgrado la minaccia che gravava su di lui e la proposta di Stark da prendere in considerazione, chiuse gli occhi e si concentrò, alla ricerca del centro della propria magia. La droga gli impediva di orientarsi nella propria mente: percepiva il potere così vicino da lambirgli le estremità della coscienza, eppure non riusciva ad afferrarlo, a farlo scorrere nelle proprie vene.
Mentre accarezzava l’energia magica, incapace di stringerla come avrebbe desiderato, il suo corpo si rilassò completamente, per impensabile che potesse apparire: le mani persero la tensione che le faceva quasi serrare in pugni, le spalle si abbassarono, non più dritte e rigide come un’armatura, e le increspature sulla sua fronte si dissolsero. La magia, la più importante parte di lui, era a un passo di distanza – nient’altro aveva importanza.
Di colpo la porta della sua prigione si aprì e la figura familiare di Stark fece il suo ingresso in fretta, i movimenti imprecisi, febbrili, resi goffi da un nervosismo che prima mancava; il semidio sollevò le palpebre e aspettò che l’uomo si sedesse per prendere la parola, anche se le sue dita ebbero uno spasmo involontario al pensiero delle spiacevoli notizie che stava per ricevere. «Allora, Stark?»
«Non posso rimanere a lungo». Mai nella voce di Tony Stark c’era stata una simile nota di apprensione. L’uomo appoggiò sul tavolo un congegno rettangolare che Loki aveva appreso si chiamava tablet e gli indicò lo schermo, che riportava quella che il semidio giudicò essere una registrazione. «Riconosci qualcuno?»
Loki socchiuse gli occhi, poi li sgranò e rimase senza fiato, come se qualcosa gli avesse annodato i polmoni. C’erano quattro persone sul monitor, ma il suo sguardo era fisso su una in particolare, qualche passo più avanti rispetto alle altre, a evidenziarne la superiorità.
«Thanos» esalò, posando l’indice in corrispondenza della creatura alta e dinoccolata avvolta in un mantello nero.
Inconfondibilmente disumano, era impossibile mancare di notare la statura, la pelle violacea e la robusta mascella quadrata. Il ghigno serafico che gli aveva promesso un dolore peggiore di qualsiasi altro avesse mai sperimentato.
Il semidio lanciò un’occhiata agli altri due uomini, che però non riconobbe, e si posò infine sull’unica donna. «E l’Incantatrice, Amora. Un’Æsir. Dove si trovano?»
Stark sbuffò. «Immaginavo che fossero amici tuoi» commentò, sarcasticamente acido. «A meno di due miglia da New York. Non vogliono distruggere la città».
Fece un cenno verso lo sfondo e Loki distinse le ombre brulicanti alle spalle dei quattro come chitauri, più di quanti ne avesse mai visti, così tanti e compatti che all’inizio li aveva scambiati per parte del paesaggio.
«Sono arrivati per la guerra, Loki. Sono venuto solo per sapere se sono chi temevamo fossero e per conoscere la tua decisione. Poi andrò a combattere. Fury» increspò un angolo della bocca in una smorfia per sottolineare il proprio dissenso «ha ordinato che tu rimanga qui».
Il semidio scrutò il tablet, accigliato, poi levò il capo verso di lui e strinse le labbra.
«Il tuo è un progetto folle, Stark,» esordì, misurando le parole con cura «ma sembra che non mi rimanga altra scelta».
Bastò allargare le braccia per esercitare una pressione sufficiente a frantumare i ceppi che lo tenevano immobilizzato. Strofinò i polsi, laddove si erano strette le manette e la pelle aveva perso colore, e il volto di Stark, dapprima perplesso, si aprì in un sorriso di feroce soddisfazione.
«Fa’ buon viaggio allora» gli augurò con la consueta ironia, ma c’era un retrogusto di serietà nella sua voce e nella sua espressione. «E vedi di tornare, prima che quelli ci facciano il culo».
Loki aggrottò la fronte e tese dita immaginarie verso la fonte della sua magia.
Si contorceva e sfuggiva alla sua presa come un serpente, ma era pur sempre sua, gli apparteneva come mai nulla avrebbe potuto appartenere a un midgardiano e, se in quelle settimane aveva permesso alla droga di prendere il controllo, ora non aveva più bisogno di concedere agli umani di trattenerlo e di gloriarsi di quel dominio illusorio che credevano di avere su di lui.
Alla fine afferrò ciò che cercava e lo plasmò secondo il proprio volere, immediatamente rinvigorito dalla sensazione della magia che si piegava alla propria volontà.
Obbediente, l’energia magica lo ammantò di un alone verdastro e d’istinto Stark si alzò e fece un passo indietro, turbato e affascinato insieme, e il semidio sogghignò nel vedere sul suo viso la consapevolezza che fino ad allora lui non era mai stato davvero nelle loro mani.
«Sappi che non è mia abitudine lasciare qualcosa in sospeso, Stark» lo avvertì con calma. «Se al mio ritorno ti sarai fatto uccidere, verrò a cercarti nel regno di Hel. E sarò molto, molto irritato».
L’uomo indovinò il significato della sua allusione e rise di quella sua risata roca che gli faceva vibrare la trachea, così vulnerabile, così tenera. «Non puoi farlo» osservò, in parte divertito, in parte inquietato.
«Hela, la regina di quel luogo, è mia figlia». L’oscurità lo stava già inghiottendo, lo trascinava via, verso una destinazione a molti mondi di distanza. «Posso, Stark».
Era quanto di più vicino a una promessa potesse fargli.
Poi l’ultima immagine dell’uomo si dissolse del tutto, come cancellata dalla mano di un pittore invisibile, e venne sostituita dal paesaggio bianco e grigio di Jotunheim.
Tra le distese infinite di neve, la capitale si ergeva enorme e maestosa, un rudere dell’antico splendore eppure ancora magnifica, con le guglie di pietra nera che si stagliavano contro il cielo in cui si addensavano nubi candide. L’assenza del sole gettava su quel mondo una luce dai riflessi blu, bianchi e neri, emblema dell’eterno inverno in cui dimoravano gli jotun.
Prima di incamminarsi, Loki contemplò la terra che una volta aveva cercato di distruggere, il popolo che aveva tentato di sterminare perché il suo valore venisse riconosciuto da Odino, perché le sue doti non dovessero più essere messe in ombra da quelle di Thor.
Com’ero sciocco, ammise tra sé, procedendo con calma nella neve.
Quel poco di Æsir che il suo aspetto ancora conservava sparì, lasciò il posto al blu della carnagione e al rosso degli occhi tipici degli jotun.
Era stato uno sciocco a credere che il genocidio avrebbe cambiato la propria discendenza e l’avrebbe posto su un piedistallo; agli occhi di Odino, lui sarebbe rimasto il figlio bastardo di un re traditore, raccolto nella speranza di sottomettere quel sovrano all’obbedienza incondizionata che l’All-Father aveva ipocritamente definito pace.
Mentre passava, percepiva su di sé le occhiate dei suoi simili, alcune ostili, altre solo curiose, ma non distolse lo sguardo dal sentiero che conduceva ai resti del palazzo reale e nessuno ebbe la malaugurata idea di mettersi sulla sua strada – in realtà, nessuno si fece vedere: oltre ad avvertire i loro occhi addosso, alla periferia del proprio campo visivo Loki non vedeva altro che neve e macerie.
Quando giunse dinanzi al trono di marmo nero su cui, un giorno che pareva appartenere a un’altra vita, era stato seduto Laufey, quando Thor l’aveva sfidato e lui aveva tentato invano di fermarlo.
Il giorno in cui per la prima volta la sua pelle aveva assunto la sua sfumatura originaria.
Fermo presso lo scranno vuoto, Loki gli diede le spalle e si rivolse a voce alta, limpida e decisa alla popolazione che ancora esitava a mostrarsi. «Chiedo udienza al vostro re».
Un mormorio attraversò la distesa di neve, ma a rispondergli fu qualcuno dietro di lui: «Chi la chiede?»
Voltandosi di scatto, il semidio scorse con la coda dell’occhio i giganti che infine lasciavano i loro nascondigli e si facevano avanti per attorniare il trono, ma si mantenevano a una rispettosa distanza di circa cinque metri da dove si trovava e sei dallo scranno, sul quale era apparso uno jotun piuttosto alto e robusto anche per la sua razza, i cui lineamenti però tradivano una certa giovinezza e anche una somiglianza con quelli di Laufey.
Loki batté le palpebre, sorpreso da quella similarità che non si aspettava. Aveva immaginato che i giganti si fossero trovati un altro re, dopo la morte di Laufey, ma che avesse un erede, che lui potesse avere un ennesimo fratellastro?
«Loki» si presentò e si erse nella propria altezza, considerevole per un midgardiano ma irrisoria per uno jotun, ancora più insignificante dal momento che il trono si trovava su una piattaforma sopraelevata a cui si accedeva tramite un complesso di scalini e di conseguenza Loki era costretto a guardare il suo interlocutore dal basso verso l’alto.
Questi doveva meditare sulla stessa cosa, perché torse la bocca in un ghigno divertito; allora, punto nell’orgoglio, il semidio raddrizzò le spalle con fiera determinazione e riprese: «Loki di Jotunheim. Giungo con l’intenzione di sfidare il sovrano per riprendermi il trono che mi spetta di diritto».
Il gigante ebbe un istante d’esitazione provocato dallo stupore, che suscitò l’affiorare di un sorriso soddisfatto alle labbra di Loki, poi lo jotun lo scrutò con maggiore attenzione e disse: «E così tu sei colui che ha ucciso mio padre, Laufey?»
Una pausa per prendere nota del suo aspetto da capo a piedi con uno sguardo indecifrabile. «E sia» accettò infine, si alzò dallo scranno e scese i pochi scalini che lo separavano da dove si trovava Loki. «Poiché ti proponi secondo le sacre leggi di Jotunheim, che stabiliscono che il regno vada a chiunque lo vinca in un combattimento leale, sarà un privilegio per me affrontarti in battaglia e ucciderti».
Personalmente il semidio considerava la legislatura jotun barbara e primitiva, poiché era fondata perlopiù sul duello come mezzo di prevaricazione degli altri, persino dello stesso sovrano, ma in quel caso rendeva più semplice il raggiungimento del suo scopo.
Dopotutto, per quanto alto e forte potesse essere il suo ritrovato fratellastro, lui era pur sempre uno dei più potenti maghi dei Nove Reami.
Lo jotun stese un braccio e congiurò una lunga lancia che apparve accompagnata da una fiamma azzurra. Loki inarcò le sopracciglia. Un altro stregone? Esaminò la fattura dell’arma e sorrise appena. Piuttosto potente, pare. Interessante.
Ma giovane. Adesso che erano così vicini, il semidio non gli avrebbe dato più di qualche centinaio d’anni, forse persino un millennio, ma non di più.
Troppo giovane per aver padroneggiato le arti magiche bene quanto lui.
Ai margini del cerchio di roccia nera dove si fronteggiavano, gli abitanti di Jotunheim osservavano in silenzio, oppure sussurrando tra loro. Nessuno avrebbe osato intervenire in difesa del suo re: nonostante ritenesse le loro leggi selvagge, Loki doveva riconoscere che non mancavano mai di rispettarle.
Al contrario del suo avversario, il semidio non evocò alcuna arma, né si mosse quando il gigante cominciò a girargli intorno a passo lento e guardingo.
La schiena o i fianchi.
Come aveva supposto, lo jotun puntò al suo fianco destro, ma Loki fu più svelto, si spostò di lato e strinse le dita intorno alla lancia, immobilizzandola. Contro le sue aspettative, l’avversario lasciò andare l’arma e gli rivolse contro i palmi aperti da cui fiottò una scarica di energia blu che lo colpì in pieno petto.
Barcollò all’indietro, ma riuscì a non cadere, si passò il dorso di una mano sulla bocca e trovò una striscia di sangue sulle nocche. A quella vista fu attraversato da una scarica di adrenalina animalesca.
Una battaglia, una vera battaglia dopo tanto tempo.
All’epoca in cui combatteva al fianco di Thor non vi faceva caso, tante erano le schermaglie cui prendeva parte, ma adesso si rendeva conto di quanto avesse sentito la mancanza del clangore delle armi, dell’odore del sangue e del sudore, del timore di non rivedere l’alba misto all’eccitazione di provare a se stesso la propria forza.
Entusiasmato dal piccolo vantaggio ottenuto, il gigante recuperò la lancia, sfuggita di mano al semidio mentre si sforzava di rimanere in piedi, lo raggiunse in poche ampie falcate, disegnò un arco nell’aria con il braccio e si preparò ad affondare.
Loki riuscì a recuperare l’equilibrio appena in tempo per allontanarsi, ma non tentò di farlo: tese invece le braccia e afferrò il collo della lancia con ambo le mani, fermando la lama appuntita a pochi centimetri dal proprio naso.
Sotto lo sguardo incredulo dello jotun, il semidio strinse fin quando le sue mani non presero a tremare, ma all’improvviso la lancia si spezzò con uno schiocco secco e miriadi di frammenti azzurri esplosero in ogni direzione.
Il suo avversario era forte e lui era più vulnerabile del solito, ancora assoggettato all’effetto residuo della droga, ma Thor era più forte. E lui aveva sconfitto Thor più di una volta.
Per un lungo istante, i due non fecero altro che guardarsi, conoscersi, in un certo senso.
Loki seppe che avrebbe vinto, il gigante seppe che sarebbe morto e lo accettò con un cenno del capo che, malgrado la giovane età, apparve estremamente saggio e maestoso. Il semidio si scoprì ad apprezzarlo per questo, poi di colpo erano di nuovo lontani diversi passi, entrambi in posizione di difesa, l’uno in attesa della prossima mossa dell’altro.
Lo jotun era destinato a perdere, ma non si sarebbe arreso senza combattere. Ottimo.
Quanto a lungo durò il duello, Loki non avrebbe saputo dirlo, troppo preso dal rapido susseguirsi di eventi, gli incantesimi scagliati da ambo le parti, i danni ricevuti, ogni singolo movimento, troppo veloce per un occhio che non fosse immortale.
Non aveva importanza: il suo corpo, il suo spirito gioiva di ciascun istante di quel combattimento, la sua anima beveva ogni goccia di sudore, di sangue, di stanchezza e adrenalina ed eccitazione.
Loki era nato come combattente.
Aveva votato la sua vita all’apprendimento e alla magia, ma era stato cresciuto nella casa di Odino – di origini jotun, di animo Æsir.
Dopotutto, rifletté, mentre lo scettro che infine aveva congiurato roteava con eleganza nell’aria e la sua estremità arrotondata affondava nel petto del suo avversario, lo dicesti tu stesso, All-Father: sono nato per essere re. Forse il trono di Jotunheim – il trono del popolo che venera la guerra – mi si addice di più, in fin dei conti.
Costrinse il gigante in ginocchio e appoggiò la lama dello scettro dorato sulla sua gola, tenera e vulnerabile, in quella posizione, come quella di Stark quando rideva.
Intorno a lui, gli jotun trattenevano il fiato.
Il fratellastro lo guardava, aspettava quieto, ma Loki, anziché finirlo, squarciò il silenzio con la voce spezzata dalla fatica: «Qual è il tuo nome?»
Il re vinto esitò, poi rispose: «Helblindi».
Il semidio si accigliò, domandandosi perché gliel’avesse chiesto. Non aveva mai conosciuto Laufey, non rappresentava che un altro nemico sconfitto: non avevano nulla in comune, e nulla avrebbe potuto avere in comune con un altro suo figlio, se non il sangue.
Prevedibilmente, il nome del fratellastro non gli diceva niente.
Eppure, in un certo senso, sentiva che fosse necessario sapere, perché quel ragazzo stava per spegnersi – lasciarlo in vita sarebbe stato pari al considerarlo indegno di una morte da guerriero, secondo le usanze di Jotunheim – e di lui non sarebbe rimasto altro che quello – il nome. Helblindi.
«Muori da fiero soldato, dunque, Helblindi» recitò in tono solenne, poi gli tagliò la gola con un unico, fluido movimento del braccio.
Il cadavere del gigante si afflosciò a terra sotto una pozza di sangue scuro che faceva luccicare il marmo nero. Passarono alcuni secondi di gelido silenzio, quindi una figura piuttosto minuta e snella si staccò dalla folla immobile, una femmina di jotun che accorse verso Helblindi, lanciò un’occhiata guardinga a Loki e si inginocchiò accanto al corpo, posandosi la testa senza vita in grembo.
A giudicare dalla profondità delle linee blu scuro che si intrecciavano sulla sua pelle azzurra, il semidio intuì che doveva essere molto più anziana del sovrano caduto. Sua madre.
Diede loro la schiena, allargò le braccia verso i giganti e restituì lo scettro al luogo da cui l’aveva richiamato, laddove conservava le proprie armi quando non doveva combattere. «Popolo di Jotunheim» esordì, ma scoprì di non avere grandi discorsi da offrire loro. L’adrenalina stava scemando, sostituita da una sorda sensazione di spossatezza. «Salutate il vostro re».
Il primo ad accettarlo fu un soldato: levò in aria la sua spada ed emise un latrato roco che Loki interpretò come un segno di benvenuto, perché anche gli altri gli fecero eco e alzarono un braccio verso l’alto, chi per giurargli obbedienza sull’arma che stringeva, chi con il semplice pugno chiuso.
La testa orgogliosamente alta, il corpo ben diritto nonostante la stanchezza e i palmi aperti, rivolti verso di loro, il semidio fissò la folla che accoglieva la sua autorità e attese che l’acclamazione venisse meno, poi avvicinò le mani l’una all’altra davanti al petto ed evocò un altro oggetto, che si materializzò nel giro di pochi secondi.
«Che Jotunheim torni al suo antico splendore» profetizzò.
Tra le sue dita, lo Scrigno degli Antichi Inverni sfolgorava della luce blu di Jotunheim, finalmente riportato al posto cui apparteneva.
Fu allora che Loki realizzò che quanto stava accadendo era giusto.
Profondamente, inspiegabilmente giusto.
Siete nati per essere re,” aveva vaticinato Odino per lui e Thor, un giorno, quando erano ancora troppo piccoli per capire il significato di quelle parole – o immaginarne un altro, più oscuro, più terribile, che affondava le sue radici nella guerra tra jotun e Æsir.
Allora Loki aveva immaginato che si riferisse alla loro discendenza reale, ma ora credeva di comprendere ciò che l’All-Father aveva potuto soltanto scorgere per mezzo del suo occhio onnisciente.
Ed era straordinario, ridicolo, persino, che a spingerlo tra le braccia di un destino da cui per anni era ostinatamente fuggito fosse stato un mortale.
La nuova ovazione che si aspettava non giunse; invece, gli jotun si mossero con la fluidità e il sincronismo di un unico organismo e si piegarono su un ginocchio, il capo chino in segno di rispetto, un braccio piegato in orizzontale sul petto, il pugno chiuso.
Loki capì il motivo del loro gesto tanto solenne: non solo aveva sconfitto in battaglia il loro precedente sovrano, concedendogli l’onore di morire secondo il loro costume, ma aveva anche riportato l’emblema del loro potere, restituendo loro l’identità di popolo.
Dacché lo Scrigno era stato sottratto, quella gente aveva provato la schiacciante sensazione di essere straniera nella sua stessa terra, e adesso in lui aveva ritrovato la speranza.
Dietro di lui, la madre di Helblindi, preso il figlio tra le braccia, incurante del suo peso, che tuttavia doveva essere notevole, era in ginocchio a sua volta. Si alzò prima degli altri e si allontanò in silenzio, presumibilmente per dare sepoltura al caro caduto; il semidio la seguì con lo sguardo, suo malgrado alla ricerca di qualche particolare in comune anche con lei.
Già da tempo, però, aveva maturato la consapevolezza di essere con ogni probabilità il risultato di uno stupro da parte di Laufey ai danni di una asgardiana – questo avrebbe spiegato la sua stazza e l’alterazione del colore della sua carnagione a contatto con un altro Æsir.
Non poté comunque fare a meno di osservare quella donna e domandarsi come sarebbe stato se anche lui, anziché essere portato via come una reliquia, fosse stato cresciuto tra gli jotun.
Potevano avere una tradizione severa e a tratti persino crudele, ma era indubbio che anche loro amassero.
Quando infine anche gli altri giganti si rialzarono, uno di essi fece un passo avanti dalla neve sulla pietra color petrolio, gli rivolse un gesto del capo e parlò in tono deferente, senza incrociare i suoi occhi: «Sono il capitano delle guardie personali del re, signore, il mio nome è Skurt». Loki prese nota della sua presentazione con un cenno e lo jotun riprese: «Se desiderate procedere con la cerimonia d’incoronazione e affidarmi lo Scrigno, potrei collocarlo nel santuario, nel posto che gli spetta».
«Non abbiamo il tempo per l’incoronazione, capitano Skurt» rispose con gravità il semidio. «Non sono venuto solo a reclamare il mio trono, oggi, ma anche a guidare il mio esercito in guerra».
La notizia serpeggiò tra le fila dei giganti, accese di eccitazione guerriera innumerevoli sguardi cremisi, disegnò ghigni selvaggi, eppure a loro modo nobili, sui volti del suo popolo. «Una guerra?» disse qualcuno, raccolto il coraggio, ma subito venne messo a tacere.
Facendosi portavoce di tutti, Skurt domandò: «Contro chi, mio signore, se è lecito domandare?»
«I chitauri, comandati dal titano Thanos» replicò Loki, lapidario. La sua voce si tinse di una sfumatura oscura, sanguinaria, molto simile alla fiamma che animava gli occhi degli jotun, ma più terribile, più minacciosa ancora. «Un esercito che mi ha voltato le spalle e un condottiero che vuole la mia testa. Accetterete di combattere per me?»
Skurt non esitò. «Voi avete sconfitto Helblindi. Come ha detto lui stesso, lo avete sfidato secondo le leggi del nostro popolo. Inoltre, ci avete riportato qualcosa di valore inestimabile. Come potremmo rifiutare di cavalcare al vostro fianco?»
Alle sue spalle, la folla annuì. Se prima del combattimento contro Helblindi si era guadagnato molte occhiate ostili, ora non vi era più traccia di quell’animosità nei suoi confronti, solo reverenza.
Il semidio assentì con la testa a sua volta e disse: «Sarete i benvenuti, dunque. Che i soldati si preparino. Nel mentre, vorrei essere io stesso a riportare lo Scrigno nel santuario,» fece una pausa e rettificò «se vorrete concedermelo».
Per quanta approvazione potesse aver guadagnato, se anche non erano a conoscenza dell’inganno ai loro danni da lui ordito in passato, dovevano sapere chi era, sapere che era stato allevato nel regno che una volta li aveva assoggettati al suo potere, e non voleva forzare loro la mano con richieste troppo arroganti, dopo aver ottenuto il loro aiuto più in fretta di quanto avesse sperato.
Questa volta Skurt si prese del tempo per ponderare la domanda: in quanto capitano della guardia, la sua autorità veniva immediatamente dopo il sovrano e nessuno, nemmeno un re, poteva discutere le sue decisioni, non ora, non appena salito al trono, quando aveva ancora bisogno dell’approvazione di Skurt perché gli altri giganti gli obbedissero.
«Voi ci avete restituito non solo la fonte della nostra forza, ma la nostra dignità» osservò infine il capitano della guardia. «Permettetemi di scortarvi».
Loki lo seguì fino a un’alta torre di pietra che incombeva su tutta la città, magnifica e minacciosa, simile a una sentinella scolpita nella roccia. Quella torre era il primo monumento che si poteva scorgere di Jotunheim da lontano e, una volta giunto ai suoi piedi, il semidio non poté fare a meno di tentare di catturarla nella sua interezza con lo sguardo, ma era impossibile.
Oltre la porta d’ingresso si apriva una stanza lunga e stretta, piuttosto modesta, con un semplice piedistallo in fondo. Skurt gli fece cenno di procedere e rimase fuori, dietro il battente chiuso.
Rimasto solo, Loki camminò con lentezza fino al basamento e sollevò lo Scrigno a mezz’aria sopra l’incavo che gli spettava. Poi, con gesti calmi e solenni, conscio dell’importanza di quell’atto, lo pose al suo posto.
Per un istante, il cuore dello Scrigno irradiò un raggio di luce blu tutt’attorno, ma quasi subito tornò al consueto, morbido lucore. Qualcosa, però, era cambiato: il semidio poteva avvertirlo nella corrente di energia magica che animava Jotunheim, nell’aria, nella terra, negli esseri viventi che la popolavano.
Nel momento stesso in cui percepì quel guizzo di potere emanare dallo Scrigno, un’altra forza, potente ma circoscritta entro confini ben meno estesi di Jotunheim, si scatenò di fronte a lui.
Dapprima niente più che un bagliore dorato, a poco a poco prese forma, si ingrandì, si contorse e divenne reale, tangibile. Irrigidito dal miscuglio di emozioni che lo aveva stretto in una morsa gelida dinanzi a quell’apparizione – tradimento, collera, sdegno, sete di vendetta –, Loki non si mosse mentre Odino si ergeva davanti a lui avvolto nell’armatura scintillante, lo scettro di Asgard in pugno e l’elmo a incorniciargli il volto in una maschera intimidatoria.
«All-Father» lo salutò il semidio, senza alcuna inflessione nella voce. Bastavano gli occhi, occhi di fuoco che indagarono con cura la figura del sovrano di Asgard. Sembrava più vecchio, più stanco, piegato sullo scettro come per sostenersi. «Che cosa ti porta qui?»
Odino affisse lo sguardo su di lui con l’avidità di un affamato, lo stesso desiderio disperato che aveva già scorto negli occhi di Thor, stemperato però da una consapevolezza che il Dio del Tuono, invece, si ostinava a ignorare: Loki non sarebbe mai tornato come prima.
«Loki» lo chiamò. Non aggiunse altro per un momento interminabile, come se stesse assaporando quel nome che non aveva avuto la possibilità di pronunciare per tanto, troppo tempo. «Ero certo che si trattasse di te».
Il semidio non rispose subito, reso dubbioso dall’assenza di ostilità nella voce dell’All-Father.
Alla fine, pur non osando abbassare la guardia, intrecciò le mani dietro la schiena e gli lanciò un’occhiata grave e sprezzante insieme. «Non sei felice, Odino?»
Quasi sputò il suo nome di battesimo, quando una volta l’avrebbe chiamato padre. Un sorriso di feroce compiacimento gli deformò la bocca al vederlo tendersi e curvarsi ancora di più sullo scettro, come se fosse stato frustato.
«A tuo tempo, mi portasti via da Jotunheim per fare di me il ponte tra i due regni» riprese con grande calma. Provava una strana sensazione di leggerezza nel rievocare quell’argomento, dacché ne aveva parlato con Stark. Non avrebbe mai perdonato l’accaduto, né tantomeno il confronto con l’umano l’aveva consolato: piuttosto, aveva imparato come trarre vantaggio anche da quella parte così dolorosa del suo passato. «Tu stesso dicesti a me e Thor che eravamo nati per essere re. Guardami, All-Father. Alla fine sono diventato re».
Allargò le braccia per mostrarsi in tutto il proprio splendore, la pelle blu e gli occhi rossi e i capelli neri e i denti candidi, e per una volta non pensò di essere orribile.
Per la prima volta, di fronte a Odino, pensò di essere davvero un re.
Un re legittimo, a cui l’All-Father non poteva strappare l’autorità.
«Ma dimmi, per quale motivo hai varcato i confini del mio regno?» aggiunse, l’espressione che si induriva, le dita che pizzicavano nel concentrare la magia nei polpastrelli.
«Ho saputo della guerra, Loki» rispose Odino, senza neppure menzionare la sua fuga dalle prigioni di Asgard. Il semidio inarcò le sopracciglia, ma tacque e ascoltò. «Ho saputo che vi prenderai parte».
Loki non aveva bisogno di sentire altro, aveva vissuto abbastanza con l’All-Father per intuire dove volesse andare a parare e lo interruppe in tono brusco: «Lo farò, e lo farò al fianco degli jotun. Non osare intervenire con l’esercito di Asgard, All-Father, non ne hai alcun diritto. Questa è la mia guerra, non la tua».
«I giganti di ghiaccio non sono affidabili, Loki» ribatté Odino, aggrottando la fronte in quell’espressione che il semidio conosceva bene, quell’espressione che l’All-Father aveva assunto sempre e soltanto con lui, perché Thor era perfetto e non lo deludeva mai, non come l’altro figlio. «Se hanno accettato di seguirti è solo a causa della loro brama di sangue, mentre i guerrieri di Asgard-».
«I guerrieri di Asgard» sibilò Loki «non sono meno assetati di sangue degli jotun, dovresti saperlo. Quante persone ha ucciso Thor per ottenere la gloria? Quante ne hai uccise tu stesso? Io andrò in guerra con il mio popolo, e il mio popolo è quello di Jotunheim».
L’ultima affermazione fu come una staffilata che fece apparire Odino come un vecchio esausto, spogliato di ogni energia. Il semidio non era sicuro di essere compiaciuto o disgustato.
Era evidente che l’All-Father non era d’accordo con lui, ma, stranamente, anziché discutere ancora si strinse nelle spalle e chinò il capo in segno di resa. «Come vuoi, dunque. Non interverrò e nessun asgardiano si metterà sul tuo cammino. L’unico per cui non posso garantire è Thor: i midgardiani, dopotutto, sono sotto la sua protezione».
Loki sbuffò sonoramente. «Che Thor faccia come vuole. Ma sappi che, se vedrò anche solo un altro asgardiano sul suolo di Midgard, i chitauri non saranno gli unici con cui considererò Jotunheim in guerra. Ora, se non hai altro da dire, vattene».
Odino non si mosse per un lungo momento, come se fosse incerto tra l’aggiungere qualcos’altro e il tacere, ma lui non era Thor, da tempo si era fatto una ragione di quello che era accaduto, perciò alla fine afferrò lo scettro con entrambe le mani e ne picchiò l’estremità inferiore al suolo.
Le sue ultime parole parvero rimanere sospese nell’aria anche dopo che se n’era andato. «Spero che le responsabilità di un re ti rendano saggio, figlio mio».
Il semidio fissò il punto in cui l’All-Father si trovava solo pochi secondi prima e le sue mani, strette a pugno, le dita dolorosamente affondate nei palmi, si aprirono con lentezza.
Odino aveva accettato la sua sovranità e la sua presa di posizione.
Rilasciò tutta l’aria che non si era reso conto di aver trattenuto nei polmoni e, a un suo gesto, le porte della torre si spalancarono. Quando Skurt si fece avanti per rispondere al suo appello silenzioso, scoprì un sorriso trionfante e minaccioso sulle sue labbra color notte. Il sorriso di chi sia perfettamente consapevole della propria identità, del proprio posto nell’universo.
«Dove sono le insegne del re, capitano Skurt?»
 
 
Quando anche l’ultimo scorcio di Loki gli sfuggì come sabbia tra le dita, Tony osservò la sedia rimasta vuota per un attimo, poi atteggiò il volto alla sua miglior espressione incredula e irritata e si affrettò fuori dalla cella con il tablet sottobraccio.
Come prevedeva, proprio oltre la soglia s’imbatté in Fury e, gesticolando nervosamente verso la prigione, sbottò: «Ehi, Monocolo, ti consiglierei di rivedere il sistema di sicurezza di quell’affare, perché Loki è appena scappato senza nessun problema, il figlio di puttana…»
Non aveva neppure terminato di formulare l’insulto che Nicholas, le labbra strette, una vena pulsante sulla tempia, lo scostò poco cerimoniosamente e lo oltrepassò per controllare di persona.
Tony lo aspettò a braccia conserte, pronto a rinnovare le proprie critiche, ma, quando il direttore riemerse dalla semioscurità della cella, teso e furioso, la battuta gli morì in gola di fronte all’occhiata che gli lanciò.
Traditore, diceva quell’occhio, proprio mentre la voce decisa di Fury esclamava: «Arrestatelo».
Oh, merda.
Tony spalancò gli occhi, incredulo, quando alle sue spalle apparvero due energumeni in uniforme che gli assicurarono un paio di manette ai polsi – non robuste come quelle che avevano trattenuto Loki, ma dure a sufficienza per immobilizzare lui. «Ehi, ehi, ehi» obiettò, sdegnato, nel tono più calmo che gli riuscì di trovare. «Che storia è questa? Perché arresti me?»
Uno dei due agenti gli strappò il tablet e lo consegnò a Nicholas, che gli scoccò a malapena uno sguardo prima di restituire la propria completa attenzione al prigioniero. «Il più pericoloso criminale intergalattico che la Terra abbia mai affrontato ti ha salvato la vita, Stark, all’apparenza senza alcun motivo, stando a quanto tu stesso hai affermato. Lo stesso criminale pretende di avere degli interrogatori privati solo con te e, guarda caso, durante uno di questi interrogatori riesce a scappare». Fece una pausa e ammiccò all’espressione consapevole che ridipinse i tratti di Tony. «Vedo che capisci dove voglio arrivare».
Era assurdo. Fino a quel momento si era premurato di non lasciar trapelare nulla sul suo coinvolgimento con Loki, senza accorgersi che ogni suo sforzo non aveva fatto altro che condurre sulla medesima strada.
«Se mi sto sbagliando,» proseguì il direttore «se c’è un’altra spiegazione, sei libero di darmela. Ti ascolterò».
Fu allora che lo trafisse con un’occhiata che significava sei un eroe e mi fido di te, questa è la tua ultima possibilità, e Tony lo guardò e di colpo seppe che non avrebbe ribattuto.
Lo seppe nel momento in cui Nicholas si rifiutò di ammettere ad alta voce che non avrebbe voluto sbatterlo in cella come un criminale qualsiasi, perché aveva e aveva sempre avuto fiducia in lui e nel Progetto Avengers; lo seppe nel momento in cui all’improvviso si trovò privo d’inventiva, spogliato di ogni desiderio di ribellione, vuoto.
«Non ho un’altra spiegazione».
Non abbassò gli occhi, fronteggiò l’espressione del direttore e soggiunse: «È vero, sono stato io a lasciare libero Loki, ma l’ho fatto per un motivo valido: lui tornerà, Fury, e se io non mi fossi fidato di lui non avremmo uno straccio di possibilità. Loro sono troppi, lo sai».
Ingoiò la bile che minacciava di invadergli la bocca al ricordo: file e file senza fine di chitauri che impedivano di distinguere l’orizzonte e, in prima linea, Osborn, Doom e quelli che Loki aveva chiamato Amora e Thanos.
Tanti. Sono un’infinità, cazzo, non tanti.
Quanta gente sarebbe morta per tentare di fermarli?
Oltre agli Avengers, sarebbero scesi in battaglia anche gli agenti dello S.H.I.E.L.D., ma pochi di loro avevano qualche probabilità di sopravvivenza: erano soltanto umani e non potevano neppure vantare un’armatura come quella di Tony – e questa volta il conflitto era troppo serio perché gli Avengers potessero preoccuparsi sia di combattere che di difenderli.
Quanta gente sarebbe rimasta, al tramonto?
«Loki tornerà, ma dobbiamo dargli un po’ di tempo. Va’ nel mio laboratorio e chiedi a Jarvis del Progetto Winx. Sono armi e, se ho fatto bene i calcoli, dovrebbero respingere la magia». Gli elencò in fretta una lista di codici per accedere ai documenti cifrati; Fury li annotò sul suo stesso tablet dopo un secondo di incertezza. «Fidati di me, Fury, non sono così idiota da aiutare il Dio dell’Inganno se non per una buona causa».
«Ti darò una possibilità, Stark, ma solo perché non ti ho ancora ricambiato il favore per quella volta che hai impedito a un missile di schiantarsi su Manhattan» ribatté Nicholas, asciutto. «Ma giuro che se stai mentendo o Loki ti ha fatto un fottuto incantesimo, ti ammazzo con le mie mani».
Tony avrebbe voluto opporsi quando il direttore fece cenno ai due agenti di portarlo via, avrebbe voluto indossare l’armatura e unirsi agli altri dove avrebbe dovuto essere, sul campo di battaglia, al fianco di quelli che aveva imparato a considerare compagni.
Il Tony Stark di due anni prima avrebbe strepitato e battuto i piedi come un bambino, armandosi della propria ricchezza, finché qualcuno non l’avesse accontentato.
Il Tony Stark dell’anno precedente avrebbe ricordato a tutti di aver salvato il mondo e di meritare di avere voce in capitolo.
Il Tony Stark di adesso, con il peso della fiducia mercanteggiata con il Dio dell’Inganno e delle Menzogne sulle spalle e la consapevolezza che forse quella sera non avrebbe rivisto molti dei suoi amici, si limitò a occhieggiare il taser di uno degli agenti e a commentare: «Ehi, gorilla, ti seguo, non c’è bisogno di minacciarmi».
Posso, Stark”.
Seduto su una delle due sedie che circondavano il tavolo presente nella sua cella – il riflesso allo specchio del momento successivo alla scomparsa di Loki – Tony tamburellò le dita sul legno e si augurò che qualcuno avesse la buona volontà di portargli una telecamera o un qualsiasi mezzo per seguire lo scontro.
Poi si augurò che nessuno lo facesse, perché starsene seduto a guardare i suoi amici morire l’avrebbe fatto impazzire, e per passare il tempo inventò modi sempre più creativi di prendere a calci in culo i nemici.
Spero davvero che tu possa, Loki, altrimenti siamo proprio fottuti.
 
 
«Capitano,» chiamò Hawkeye attraverso la ricetrasmittente, la voce relativamente calma, per quello che permettevano le circostanze «questi figli di puttana non finiscono mai».
Steve scrutò la distesa di chitauri che si parava di fronte a loro, alle spalle dei quattro comandanti in prima linea, e aggrottò la fronte, domandandosi che cosa vedesse Clint con i suoi occhi straordinari. «Sei preoccupato, agente Barton?»
Dal compagno provenne un crepitio che Steve interpretò come uno sbuffo sonoro. «Brulicano come formiche, sarà uno scherzo abbatterli».
Un leggero sorriso gli deturpò il viso, cancellato quasi subito dalla voce seria di Natasha: «Dov’è Stark?»
Steve voltò la testa a destra e a sinistra, i suoi occhi scivolarono sui compagni che lo affiancavano, a destra Natasha e Bruce, a sinistra Clint e Thor, scivolarono sulle loro espressioni concentrate, fredde, distaccate da tutto ciò che non era la battaglia imminente, scivolarono sulla forza con cui stringevano le armi – o i pugni, nel caso di Banner – tanto che le nocche erano sbiancate.
Era diverso dalla guerra che avevano affrontato l’anno precedente, quando Clint e Natasha erano solo due spie, Bruce e Tony erano più esperti di raggi gamma e fisica e altri argomenti complicati che di strategia militare e Thor tentennava di fronte a suo fratello.
Ora avevano alle spalle l’esperienza di quello scontro e nessuno doveva trattenersi perché il nemico aveva dei legami con loro.
Con la coda dell’occhio, Steve intravvide Thor digrignare i denti ed estrarre Mjolnir dalla cintura.
Oggi erano pronti.
Prima che potesse cercare una risposta per il quesito posto da Natasha, dall’altra parte del campo di battaglia Thanos si fece avanti a grandi passi e si fermò in mezzo ai due eserciti – sempre che un manipolo di agenti dello S.H.I.E.L.D. rientrasse nella categoria esercito, sospirò tra sé Steve –, sollevando le braccia per attirare l’attenzione.
Era un mostro dalla stazza enorme, alto quanto Thor e forse persino più robusto, vestito di una lunga tunica nera con il cappuccio calato sulla testa. Solo le mani, enormi mani rossastre, e la mascella sporgente, squadrata, sfuggivano al nascondiglio offerto dal tessuto scuro.
«Umani».
Fino ad allora non aveva mai parlato; nel momento in cui aprì bocca e la voce si levò sopra il clamore delle due armate, quell’unica parola ebbe il potere di scuotere la terra e investire le prime linee dell’esercito terrestre di una folata d’aria gelida, carica di morte, distruzione ed elettricità, come nell’istante subito precedente allo schianto del fulmine.
Steve impallidì: persino lui, un semplice essere umano che ancora faticava a credere alla magia, percepiva distintamente la potenza di quell’entità.
Intorno a lui, i suoi compagni erano confusi e smarriti quanto lui dinanzi a quella dimostrazione di forza; Thanos scoprì la dentatura in un ibrido tra un ringhio ferino e un sorriso soddisfatto e riprese: «Sapete già quale sarà il vostro destino, se combatterete: la morte. Io vi offro un’ultima occasione: arrendetevi a noi, piegatevi alla volontà della Cabala, e sarete salvi. Queste sono le mie condizioni».
Poi tacque e il suo sguardo bluastro sondò la prima linea, in cerca di colui o colei che si sarebbe presentato come comandante degli esseri umani. Quando quegli occhi innaturali si soffermarono su di lui – non più di un secondo – Steve gli lanciò un’occhiata gravida di disprezzo ed ebbe l’impressione che il sorriso spietato del titano si allargasse.
«Capitano Rogers» fu la voce mite di Bruce a distogliere la sua attenzione dal nemico. Bastò una rapida occhiata all’intorno perché Steve realizzasse che tutti lo stavano guardando. «Vada».
Si limitò a un brusco cenno soldatesco e ruppe le righe per fermarsi a pochi passi da Thanos.
Non parlò subito, né il titano lo esortò a farlo: trascorsero la prima manciata di momenti a studiarsi in silenzio, a valutare ognuno le armi e la potenza dell’altro, a chiedersi chi dei due avrebbe avuto i riflessi migliori, chi dei due sarebbe stato il primo a mettere a segno un colpo.
Steve serrò con decisione le dita sul manico dello scudo, fletté le ginocchia in posizione di difesa e lasciò fluttuare le dita sopra l’arma che portava alla cintura.
Scoccò uno sguardo, bruciante quanto una lama arroventata, sui tre alleati di Thanos – il titano li aveva presentati come “la Cabala” –, poi incrociò ancora una volontà gli occhi di quest’ultimo e non abbassò i propri nemmeno per un attimo mentre replicava con fermezza: «Condizioni respinte».
Fu allora che si scatenò il caos.
Le occhiate affilate che stava scambiando con Thanos assunsero una sfumatura spaesata che a poco a poco divenne sorpresa.
Alle rispettive spalle, nessuno dei due eserciti si muoveva, eppure stava succedendo qualcosa.
D’un tratto le fila di chitauri si spezzarono e un corpo finì ai piedi di Amora e Doom. Thanos si voltò di scatto e Steve si sporse per vedere dietro di lui, ma non riuscì a credere a quello che registrò la sua mente.
Ormai senza vita, davanti a lui c’era la carcassa di quello che, dopo aver letto il fascicolo su Asgard, Steve riconobbe quasi subito come un gigante di ghiaccio, uno jotun.
Fissò affascinato quella figura aliena ricoperta di ferite finché Thanos non si girò di nuovo verso di lui, ringhiante, la furia che esplodeva in lui, attorno a lui, con il ruggito roboante del tuono. Steve comprese quello che il titano stava pensando – avevano organizzato un attacco a sorpresa – e si affrettò a sollevare lo scudo, che scricchiolò quando il pugno possente di Thanos vi si abbatté sopra.
«Attaccate!» latrò nella ricetrasmittente, prima che il clangore della battaglia che si stava scatenando nelle ultime file dello schieramento di chitauri soffocasse tutto il resto. «Adesso!»
Qualcuno era giunto in loro soccorso.
Qualcuno alla guida di un esercito di giganti di ghiaccio.
«Rogers?»
Steve si allontanò dall’avversario con una capriola e grugnì nel microfono: «Sì, direttore?»
«È in arrivo un camion con delle armi. Stark dice che respingono la magia». Una pausa, non più lunga di un istante, ma a Steve parve durare settant’anni – e lui sapeva bene quale breve intervallo di tempo potessero sembrare. «È già cominciata?»
Al di là della sua stessa comprensione, Steve si ritrovò a sorridere mentre si scostava per evitare la mole del titano. «Sì, signore. È cominciata».
Per la prima volta, però, pensava che avessero una possibilità.

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Capitolo 8
*** #07: Heroes shattering ***


... Naturalmente non sono riuscita a mantenere l'impegno di pubblicare dopo due settimane. -__- Ce l'ho messa tutta, ma non avevo messo in conto l'inizio della scuola, la mole di studio, le interrogazioni... Insomma, ho provato a pubblicare domenica ma il capitolo non era ancora completo, perciò eccomi qui, due settimane e mezzo dopo l'ultimo aggiornamento. Ciao a chi c'è ancora, ciao a chi è appena arrivato! :) Con questo capitolo la storia giunge al termine; o meglio, giunge al termine la trama: dopo un lungo dibattito tra me, me stessa e io, ho deciso di conservare un ultimo capitolo, un epilogo in cui dare sfogo a tutti i miei FrostIron feels. Anche perché vi avevo promesso due capitoli in più e non sono ancora pronta (lo ammetto) a separarmi da una storia in cui ho investito un'estate, così tanta passione e sentimento. Però voglio lasciare il momento strappalacrime al prossimo capitolo XD
Per ora mi limito a ringraziare a tutti coloro che hanno sempre recensito, riempiendomi il cuoricino di gioia (???).
Grazie del vostro supporto, come sempre!


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#07: Heroes shattering
 
Who’s gonna fight for the weak?
Who’s gonna make ‘em believe?
I’ve got a hero, I’ve got a hero
Living in me
-Hero, Skillet
 
Quando Thor vide il capitano Rogers rompere i ranghi e avvicinarsi a Thanos, serrò le dita sul manico di Mjolnir e seppe che era solo questione di minuti, forse secondi, prima che la guerra avesse inizio.
La fierezza guerriera ribolliva nel suo sangue asgardiano, fierezza che si rifletteva anche nell’eleganza con cui l’agente Barton brandiva il suo arco, l’agente Romanoff le pistole e Banner il suo stesso corpo.
Quest’ultimo prese la parola con un sorriso che somigliava più a quello di Hulk che a quello mite dello scienziato: «Thor, credo che questo sia il momento giusto per scusarmi di quando l’altro ha preso a calci tuo fratello».
Sebbene Banner non si trovasse a più di due uomini di distanza da lui, Thor udì la sua voce con chiarezza solo grazie all’auricolare fornitogli da Fury, perché tra l’uno e l’altro c’era uno spazio di almeno quattro metri, di modo che ognuno potesse coprire quanto più terreno possibile. Gli spazi vuoti erano riempiti da chi si trovava nelle file dietro e la schiera appariva dunque irregolare, ma compatta.
Il petto robusto di Thor vibrò quando scoppiò a ridere.
In realtà non era il momento giusto, ma non aveva importanza. Forse non avrebbe rivisto lo scienziato, quella sera, perciò era rimasto un solo momento, giusto o meno che fosse.
«Ritengo tu abbia già fatto abbondantemente ammenda per il tuo errore, dottor Banner».
Thor aveva preso parte a innumerevoli battaglie, innumerevoli guerre, aveva visto come cominciavano, lui stesso aveva spesso dato loro inizio, e altrettante volte aveva visto come si concludevano. Mai, però, uno scontro era iniziato senza che nessuno dei due eserciti coinvolti attaccasse.
Quando il sibilare dei proiettili risuonò sul campo di battaglia e i generali dei due schieramenti si scambiarono occhiate incerte, Thor sgranò gli occhi e non si mosse, incerto su come reagire.
Fu il suo corpo a deciderlo nel momento in cui il suo sguardo cadde sulla figura a terra e la identificò come uno jotun: scattò in avanti e si fece largo tra i chitauri mulinando il martello, fracassando crani, spaccando ossa e seminando distruzione tra i nemici, ancora confusi dal duplice attacco.
Alle sue spalle udì il ruggito di Hulk, poi i chitauri si chiusero dietro di lui e si ritrovò solo in mezzo a quell’oceano di corpi e armi e ringhi sibilanti. Poteva solo andare avanti, guidato da una furia cieca, una parola sulle labbra socchiuse.
Loki”.
Chi altri avrebbe potuto convincere i giganti di ghiaccio a scendere in battaglia? Chi altri avrebbe potuto ricorrere a un simile stratagemma?
Abbatté con violenza Mjolnir sul capo di un chitauri che ebbe l’ardire di sbarrargli la strada ed esplose in una risata liberatoria.
Finalmente.
Finalmente, dopo tanta rabbia e incomprensione e dolore, lui e suo fratello combattevano di nuovo fianco a fianco, come era giusto che fosse.
Saperlo, però, non era sufficiente, per questo non era rimasto indietro ad affrontare i membri della Cabala, ma li aveva lasciati agli altri Avengers: doveva vedere, vederlo.
Non avrebbe saputo calcolare quanto tempo avesse trascorso massacrando tutti coloro che si ponevano sulla sua strada quando alla fine lo scorse, a pochi metri di distanza.
La battaglia infuriava ovunque arrivasse il suo sguardo, non era possibile distinguere altro che i nemici, il metallo delle loro armi, l’azzurro elettrico dei loro proiettili, meno che mai avere un’idea dello spazio e del tempo. L’unica forma di misura di cui avrebbe potuto servirsi, se avesse potuto permettersi il lusso di fermarsi, era il numero di ferite che gli decoravano braccia e gambe.
Loki era diverso.
La sua abilità con la magia e il lancio dei coltelli non era mutata: intorno a lui, il terreno era una tomba a cielo aperto, l’erba vischiosa di intestini e sangue, la terra marrone striata di scarlatto e nero.
Era il suo portamento a essere cambiato, più risoluto e calmo, totalmente opposto alla furia disperata con cui aveva cercato di conquistare la Terra. La torque che gli cingeva il collo, il tessuto in filigrana drappeggiato con eleganza sui pettorali e i bracciali sui polsi e sopra i gomiti – i gioielli d’oro che caratterizzavano il re di Jotunheim – gli conferivano un aspetto principesco e minaccioso che non faceva che accentuare l’impressione che fosse maturato.
Loki aveva visto la verità, così come aveva fatto lui durante il suo esilio su Midgard con l’aiuto di Eric Selvig, Darcy Lewis e Jane Foster.
Thor si slanciò in avanti, coprì a lunghe falcate gli ultimi metri che lo separavano dal fratello e si ritrovò schiena contro schiena con lui al centro di uno stuolo di chitauri infuriati.
«Fratello!» lo salutò con entusiasmo.
In mezzo a tanta morte, si sentiva vivo come non gli capitava da mesi.
«Thor». Loki ringhiava, ma se non altro la sua ostilità non era rivolta a lui, bensì ai nemici che li assalivano da ogni lato, nemici tra i quali Thor non figurava più, perché il Dio dell’Inganno non accennò a scostarsi da lui mentre lanciava incantesimi e brandiva l’estremità dello scettro del re come una lama – dovunque arrivasse lo scettro, calava la mano avida della morte. «Dov’è Stark?»
Sul volto di Thor, arrossato dal furore e dal sangue, non solo suo, germogliò un’espressione sconcertata. Di tutto ciò che avrebbe potuto chiedergli, non si aspettava che suo fratello menzionasse proprio Tony Stark.
«Uh» fu il suo primo, ben poco intelligente commento.
Il fratello alzò gli occhi al cielo e con un’abile torsione del polso fece saettare lo scettro contro un chitauri, squarciandogli la gola. «Perdonami se ti metto fretta, ma, nel caso ti fosse sfuggito, preferirei ricevere una risposta di senso compiuto prima che un chitauri mi decapiti».
«Non lo so». Thor afferrò la canna di un fucile, lo strappò di mano al legittimo proprietario e lo spezzò in due. «Avrebbe dovuto unirsi a noi, ma non l’ha fatto e non ci è giunta notizia di…»
«Maledizione» lo interruppe Loki in tono irritato, come se avesse di colpo compreso tutto, quando invece a Thor stesso sfuggivano diverse informazioni. «Gli esseri umani sono così sciocchi». Girò la testa di novanta gradi per scoccargli un’occhiata di sbieco e aggiunse: «Pensi che tu e il tuo esercito di midgardiani possiate resistere per qualche tempo in mia assenza?»
«Oh, sì» assicurò immediatamente Thor, punto sul vivo da quella provocazione che metteva in dubbio il suo valore, ma non ebbe il tempo di chiedere al fratello dove volesse andare, perché lui si era già smaterializzato in una nuvola verdastra.
Thor si affrettò a coprire il punto lasciato scoperto dalla scomparsa del Dio dell’Inganno e quasi all’unisono la voce di Fury risuonò nell’auricolare: «Siamo arrivati con le armi anti-magia».
Il direttore le aveva già menzionate poc’anzi, mentre lui cercava di raggiungere Loki, e il Dio del Tuono provò una stilettata di sollievo al pensiero che i suoi piccoli alleati umani avrebbero avuto delle difese contro gli incantesimi, da quel momento in poi.
Lui era immortale, ma loro no e, al di là dei primi attriti che avevano avuto, aveva davvero cominciato ad affezionarsi a quel popolo così debole, eppure così testardo.
 
 
La cella era del tutto isolata dall’ampio complesso di tecnologia che governava l’Elivelivolo, eccezion fatta per le telecamere che monitoravano i suoi movimenti, che però erano collegate a un computer il cui unico compito era quello di farle funzionare.
In altre parole, sono chiuso in un buco di metallo senza uno straccio di connessione Internet.
Ricordare a Fury che lui era Iron Man e che il direttore sarebbe stato un fottuto idiota a privare il mondo di un supereroe in una circostanza come quella non aveva sortito altro effetto che irritare Nicholas a causa dell’epiteto poco gentile. Il direttore se n’era andato quasi subito, sdegnoso, ma se non altro Tony era riuscito a convincerlo a concedere una possibilità alle armi.
E in che modo ti saresti procurato i campioni di magia necessari a costruire una tecnologia del genere?” Il tono di Fury era scettico, perché i migliori inventori dello S.H.I.E.L.D. tentavano senza successo di costruire una tecnologia del genere dai tempi dell’attacco di Loki.
Venire a sapere che Tony ci era riuscito in pochi giorni non avrebbe favorito la sua causa, perciò aveva accuratamente mancato di menzionarlo.
Non posso credere che Fury mi rinchiuderebbe qui per capriccio, mentre fuori infuria una guerra, aveva pensato mentre dava fondo a tutte le sue abilità persuasive nella speranza di uscire di lì e fare il culo ai nemici. E invece sì.
Non sappiamo se tu sia o meno sotto il controllo di Loki,” si era giustificato Fury, che – aveva osservato Tony – avrebbe avuto anche ragione, se solo i suoi occhi non fossero stati di un fottutissimo marrone scuro anziché blu elettrico. “Non possiamo rischiare,” aveva aggiunto con una scrollata di spalle.
In realtà Tony poteva comprendere i suoi motivi e, fosse stato al suo posto, avrebbe preso la stessa decisione: dopotutto aveva aiutato uno dei peggior criminali che la Terra avesse mai affrontato, aveva ingannato lo S.H.I.E.L.D. e gli Avengers per farlo e l’aveva persino liberato quando era stato messo in prigione.
Nicholas non poteva fidarsi delle sue parole e, finché Loki non fosse tornato a confermarle – se l’avesse fatto, specificava una parte di lui che preferiva mettere a tacere –, non sarebbero state altro che teorie.
Le teorie di un uomo che aveva già dimostrato più di una volta la propria inaffidabilità. Questa volta in particolare, però, aveva oltrepassato il limite.
Però è anche l’unica volta che l’ho fatto per altruismo, cazzo, sbottò tra sé, passandosi una mano sul volto. Non esiste che ci sarà una prossima. Se Tho- The- Than- come si chiama non conquista il mondo e sono ancora vivo quando esco di qui, mi dedico all’egoismo più totale. Fottetevi.
Per il colloquio con Loki aveva persino acconsentito a togliersi i bracciali del Mark VII, onde evitare che il semidio cercasse di usarli in qualche maniera.
Non aveva nulla, era solo, lontano da Jarvis e da Pepper, e Loki era sperduto in chissà quale mondo a seguire di malavoglia il suo consiglio. Forse.
Tony era abituato ai propri piani sconclusionati, ma quello in particolare l’avrebbe fatto impazzire.
Aveva bisogno della sua armatura, di volare in mezzo allo scontro e unirsi ai suoi amici, che erano là fuori a farsi ammazzare mentre lui era bloccato su quella sedia.
Infilò le dita tra i capelli crespi e tirò alcune ciocche per distrarsi, ma era impossibile non domandarsi se la guerra fosse già cominciata, quanti uomini fossero già caduti, se Steve e gli altri stessero bene e se Loki sarebbe davvero venuto in loro soccorso o se avesse approfittato di lui per fuggire dalla Terra e rifugiarsi dall’altro lato dell’universo, il più possibile lontano da Thanos, in attesa che fossero loro a sconfiggerlo.
Se lo fa, ho rovinato tutti quanti.
Era questa la cosa peggiore: per una volta, la responsabilità sarebbe stata solo sua. Non ci sarebbe stata Pepper a coprirgli le spalle o Rhodey a giustificarlo con le forze dell’ordine, né tantomeno gli Avengers a fiancheggiarlo.
Sarebbe stata soltanto colpa sua, se tante persone fossero morte.
Premette il palmo sul reattore arc e sospirò, consapevole che non sarebbe stato in grado di sopportarlo. Finché fosse stato lui a rischiare la vita perché commetteva un errore, sarebbe andato bene; non avrebbe però tollerato di essere la causa della morte anche soltanto di un altro essere umano innocente.
Strappandolo alle sue riflessioni, la porta della cella si accartocciò su se stessa, esplose verso l’interno e finì scaraventata contro la parete, a un metro da dove si trovava lui.
Fossero state tutt’altre circostanze, si sarebbe preoccupato. Forse.
Adesso, invece, scattò in piedi ed era già a metà strada verso l’uscio quando Loki si fece strada tra i resti bruciati della soglia.
Qualsiasi cosa Tony fosse sul punto di dire, gli rimase incastrata in gola alla vista del semidio, la pelle bluastra che riluceva di potere magico, messa in risalto dall’oro dei gioielli e dello scettro che stringeva, e gli occhi scarlatti che scintillavano di un misto di irritazione e un’emozione che Tony non avrebbe saputo definire. Qualcosa che somigliava molto a quello che c’era stato nel suo sguardo quando si erano baciati, oscuro eppure estremamente affascinante.
Loki era glorioso, e per la prima volta Tony si rese conto che era un dio.
«Ehi, sei tornato» fu il meglio che riuscì a mettere insieme quando si fu ripreso da quell’istante di contemplazione.
Il semidio aggrottò la fronte. «Non l’avevo promesso?»
«Beh, ecco, sai com’è…»
Loki sollevò una mano per bloccarlo e annuì stancamente. «Per mia sfortuna, sì, lo so bene. Come puoi vedere, ho mantenuto la parola». Con l’estremità dello scettro ammiccò alla cella in un gesto spazientito. «Thor mi ha detto che sei rimasto qui fin dall’inizio della battaglia. Ciò significa che non hanno le tue armi?»
Tony non rispose subito, indeciso se farlo o sorprendersi perché il semidio aveva rivolto la parola al fratello, poi, allarmato dalla sua espressione cupa, decise di non mettere alla prova la sua tolleranza. «Ho detto a Fury di prenderle. Spero che mi abbia dato ascolto. Tu sei tornato da molto?»
«Avevo già intrapreso la battaglia, quando ho scoperto che tu eri rinchiuso qui» ribatté Loki, senza nascondere un certo compiacimento. «Suppongo tu non abbia con te la tua armatura». A uno sbuffo infastidito da parte del suo interlocutore, roteò gli occhi verso il soffitto e gli tese un braccio. «Temo che non abbiamo il tempo di utilizzare i mezzi di trasporto midgardiani. Dammi la mano».
Tony scoccò un’occhiata incerta alle sue dita, su cui danzavano scintille verdastre, ma era vero, la guerra infuriava e la gente moriva, perciò prese la mano che gli veniva tesa.
La magia gli risalì il braccio, avvolse la testa e scivolò giù lungo l’altro, fino ad attorcigliarsi completamente attorno al busto e alle gambe. Tony si irrigidì, nuovo a quella sensazione, come di aghi che gli accarezzavano la pelle senza ferirlo davvero, e sgranò gli occhi quando la prigione scomparve, inghiottita dall’oscurità.
Non durò più di un secondo, eppure, nel ritrovarsi nel soggiorno del proprio attico, aveva l’impressione di essere appena sceso dalle montagne russe. La tensione della salita, il terrore della discesa e la difficoltà nel tenersi le interiora in corpo condensati in un istante lo lasciarono malfermo sulle gambe, preso tra il desiderio di chinarsi sul water e vomitare e quello di prendere Loki a pugni per non averlo avvertito.
Il semidio gli lasciò la mano e si scostò da lui con una risatina malamente repressa. «Voi midgardiani siete così delicati».
Prenderlo a pugni divenne all’improvviso un’opzione estremamente accattivante.
«Jarvis?»
«Sì, signore?»
Era un sollievo sentire di nuovo quella familiare voce disincarnata, essere di nuovo circondato dalla propria tecnologia, avere di nuovo il controllo. «Nota a me stesso: quando avrò salvato il mondo per l’ennesima volta, Loki mi deve un pugno».
«Sì, signore».
Mentre Tony andava in cerca del prototipo del Mark VII – l’originale doveva trovarsi da qualche parte nelle viscere dell’Elivelivolo, nell’immaginario del suo proprietario al sicuro nell’armadietto di Fury – il semidio inarcò le sopracciglia, ma non fece commenti.
La versione beta dell’armatura era custodita in una cassaforte incassata nella parete della camera da letto, che scattò una volta completati i numerosi protocolli di sicurezza, dallo scanner della retina all’impronta digitale al controllo della grafia.
Il prototipo del Mark VII non era resistente quanto la versione finale e mancava di alcune delle ultime armi, ma rimaneva il miglior sostituto a quello confiscatogli da Fury ed era abbastanza aggiornato per poter sfruttare l’implemento della tecnologia del Progetto Winx.
Infilati i bracciali, più sottili della versione finale, innescò il meccanismo che prevedeva l’attivarsi di due braccia metalliche provenienti da dietro due placche di metallo inserite nel muro che aveva fatto montare in ogni stanza.
I due arti lo rivestirono dell’armatura con gesti rapidi ed efficienti, poi, a un suo ordine, installarono sul retro dell’elmo il chip anti-magia che aveva preparato appositamente per il Mark VII.
«Ehi, Jarvis, che ne pensi?» domandò, orgoglioso, prendendosi qualche momento per rimirarsi allo specchio.
«I sistemi sono in funzione, signore. Il chip è stato installato correttamente. L’armatura è pronta».
L’uomo emise un sospiro abbattuto. «Non era a questo che mi riferivo, volevo sapere se mi trovi affasc-».
«Quando avrai appagato il tuo ego,» commentò la voce fredda di Loki dalla soglia della stanza «fammi sapere. Dopotutto sono sicuro che Thanos acconsentirà a non invadere subito Midgard per dare ad Anthony Stark il tempo di prepararsi».
«Noto un certo sarcasmo». Tony attivò i propulsori degli stivali e si librò a mezz’aria.
Il semidio sbuffò e appoggiò una mano sulla sua spalla rivestita di metallo, volteggiando a sua volta a diversi metri dal pavimento. «Ma davvero?»
Tony faticò a udirlo, trascinato di nuovo dalla forza centrifuga della smaterializzazione, e si riservò di dargli una risposta pungente quando fossero arrivati. Una volta sul campo di battaglia, però, dimenticò del tutto il proprio proposito.
La sua tecnologia stava funzionando: gli agenti dello S.H.I.E.L.D. avevano inserito i chip nelle loro armi da fuoco e, quando un proiettile colpiva un fucile dei chitauri, quello si spegneva di colpo, svuotato del proprio potere magico. Ciononostante, i nemici erano alieni molto più forti, veloci e robusti dei comuni esseri umani e, privati della magia, trascinavano gli avversari in combattimenti corpo a corpo che, nel peggiore dei casi, si risolvevano con un uomo fatto a pezzi dalla loro furia animalesca.
Non c’erano cadaveri sul terreno; solo resti di corpi.
Di fronte a quello spettacolo, Tony ringraziò qualsiasi divinità fosse in ascolto di avergli impedito di riversare l’anima nell’armatura; accanto a lui, Loki dedicò a malapena un’occhiata ai morti, affisse invece lo sguardo su un punto distante del pianoro.
«Stark,» gli indicò una serie di Doombots giganti, simili a quello che il semidio li aveva aiutati a sconfiggere, che stavano seminando il panico tra le fila dello S.H.I.E.L.D., le cui armi non erano abbastanza forti per respingere un simile concentrato di magia «spero per te che la tua tecnologia funzioni contro quelli. Non posso salvarti la vita tutte le volte».
Tony seguì la direzione indicata dal suo dito e imprecò tra i denti, poi si collegò al canale riservato agli Avengers. «Ehi, qualcuno mi sente?»
«Tony Stark!» tuonò la voce di Thor. «Ti unisci a noi?»
In meno di un minuto Tony ricevette una lavata di capo da Steve, un “era ora, stronzo” da parte di Clint, un grugnito di Hulk e un saluto stanco da Natasha. Beh, se non altro significa che non sono ancora morti.
«Okay, Tony, ora che sei qui vedi di renderti utile e va’ a distruggere quei Doombots» ordinò Steve, pragmatico. «Cerca di non farti ammazzare, perché qui noi siamo un po’ impegnati».
«Già» ringhiò Clint. «Mica possiamo salvarti il culo tutte le volte».
Tony provò il brivido di un déjà vu mentre si voltava verso Loki, che era concentrato nel congiurare dell’energia magica sulla punta del suo scettro. «Sei pronto?»
Il semidio aprì gli occhi, che sfolgoravano di un verde più intenso del solito. «A te».
Bene, Tony si aprì in un sorriso furioso e sfrecciò verso i Doombots, apriamo le danze.
Non era certo di come il chip anti-magia avrebbe reagito al Mark VII; quando puntò il palmo aperto verso uno degli automi e sparò una scarica di energia elettrica che lo mandò in cortocircuito e lo fece crollare inerte al suolo, tirò un sospiro di sollievo.
Funzionava.
«Il nemico è stato abbattuto con successo».
«Ne dubitavi, Jarvis?»
Dopo quel primo avversario caduto, gli altri divennero più cauti e astuti, lo attaccarono insieme e non gli risparmiarono un solo colpo, bene attenti a non lasciargli spazio per ideare un piano di contrattacco.
Presto Tony smise di fare distinzioni tra amici e nemici, di riconoscere volti, di proteggere qualcuno che non fosse se stesso: sparava a chi gli sparava, evitava chi invece sembrava sparare con lui e non a lui. Se all’epoca del primo scontro con i chitauri aveva pensato di stare facendo esperienza della guerra, era nulla in confronto a quello che stava succedendo adesso.
Armi, lampi magici, corpi che cadevano, corpi che lottavano, sangue che scorreva come Tony aveva visto scorrere solo lo scotch.
Quella era la guerra, non il ridicolo combattimento dell’anno precedente.
Quella era la guerra, quella in cui non sapeva se il secondo successivo sarebbe stato ancora vivo, quella in cui non riusciva neppure a localizzare i suoi alleati, i suoi compagni, i suoi amici.
Era per questo, realizzò Tony, che spesso, al loro ritorno a casa, i soldati perdevano se stessi: perché questo era troppo, troppo assurdo rispetto alla realtà quotidiana perché potessero sperare di reinserirsi in tale realtà dopo aver fatto esperienza dell’altro.
Anche lui si stava smarrendo, anche lui stava cominciando a dimenticare un tempo in cui non c’era una corsa per la vita e non c’erano uomini che morivano intorno a lui, quando la voce ringhiante di Fury gli esplose nell’orecchio e lo riportò alla realtà. Mai, mai avrebbe creduto che un giorno avrebbe ringraziato Nicholas Fury.
«Che cazzo ci fai sul campo di battaglia, Stark?»
«È un piacere sentire anche te, Monocolo» ironizzò mentre combinava i colpi di entrambe le mani per stendere uno dei robot. «Se ti riferisci al fatto che sono fuori dall’Elivelivolo, beh, non potevo restare là dentro mentre voi qui fuori giocavate agli eroi-».
«Non hai capito» lo interruppe il direttore. «Quello che voglio dire è: perché stai ancora perdendo tempo con gli automi? Sconfiggi Doom, e sconfiggi anche quei figli di puttana. Ti credevo più intelligente di così, Stark».
«Steve aveva detto…»
«Rogers aveva bisogno che qualcuno salvasse i miei agenti, e io ti sto dicendo che, dopo che tu hai decimato quegli affari, se la possono cavare. Chiaro?»
«Chiaro, ma non abituarti troppo a darmi ordini, Monocolo. Rimango sempre più intelligente di te». Tony arricciò il naso, ma, quando il Doombot crollò a terra con un ultimo rantolo metallico, fece un cenno alla manciata di agenti che lo stavano aiutando a tenere a bada i robot e si allontanò, prendendo quota per individuare i membri della Cabala nel caos.
Li trovò più o meno al centro della mischia, insieme agli altri Avengers: Clint e Natasha affrontavano Goblin e Amora, Hulk si occupava di Doom e Steve e Thor si scontravano con Thanos.
Loki non era in vista, ma i suoi giganti di ghiaccio stavano sterminando l’orda dei chitauri.
Scendendo in picchiata verso quelli che se la passavano peggio – Steve e Thor – Tony rilasciò una gragnola di proiettili e una scarica laser in direzione di Thanos: i proiettili rimbalzarono sulla sua pelle rossastra, ma il laser gli colpì la mano su cui fluttuava una sfera di energia violacea e la fece dissolvere con un guizzo.
Il titano sgranò gli occhi, stupito, ma gli fu sufficiente un movimento delle dita per riportare in vita il globo magico.
Figlio di puttana.
Mentre saliva di nuovo in volo, qualcosa crepitò contro il suo piede destro e minacciò di mandarne in cortocircuito il sistema. Abbassando lo sguardo, Tony scoprì che si trattava di una serpe di energia verde scagliatagli contro da Amora.
In cielo era un bersaglio facile, ma era anche la posizione più semplice per aiutare i compagni.
Stava per rispondere all’Incantatrice, quando la voce di Natasha proruppe nell’auricolare per fermarlo. «Di lei mi occupo io, Stark. Tu, Rogers e Thor dovete sconfiggere Thanos: è lui che controlla i chitauri. Tagliate la testa al toro».
Tony annuì tra sé e diresse il colpo preparato per Amora verso il titano, che questa volta era preparato e si gettò di lato per schivarlo.
Thor ne approfittò per mulinare Mjolnir contro il suo fianco scoperto e Thanos ululò di dolore, un suono orribile che echeggiò nell’altoparlante di Tony con la forza delle anime disperate di chi quel giorno era caduto per difendere la Terra.
Malgrado la sua potenza, la martellata non bastò a metterlo fuori combattimento. Per quello sarebbe stato necessario bloccare la sua magia, almeno in maniera temporanea, ma una scarica laser non era sufficiente per riuscire nell’intento.
Avrebbe avuto bisogno di più potenza, e lui aveva qualcosa che potesse produrne il quantitativo necessario – a livello teorico, se non altro.
«Jarvis, credi che il prototipo possa reggere un concentrato di energia del reattore arc?»
Ebbe la strana impressione che l’AI stesse esitando – oppure aveva solo bisogno che qualcuno si preoccupasse per lui. «È possibile, signore, ma c’è anche la possibilità che un simile dispendio di energia, se veicolato in maniera imperfetta come potrebbe accadere con una versione beta, la uccida. Per la verità, la statistica è a sfavore di questa strategia. Inoltre, non posso stabilire con sicurezza se servirà a impedire al nemico di accedere alla propria riserva di magia. Se posso suggerire un’altra linea d’azione, signore…»
«Quante altre vite costerebbe la cautela, Jarvis?» Tony scosse il capo. «Mi basta che si possa fare». Passò al canale condiviso. «Thor, ragazzone, ho bisogno del tuo supporto. Tra poco scaricherò su Thanos tutta la potenza del mio nuovo chip anti-magia: questo dovrebbe bloccare il suo potere abbastanza a lungo perché tu possa attaccarlo. Ci sei?»
Doveva averlo spiegato in chiave abbastanza semplicistica, perché la risposta giunse quasi subito: «Chiaro, Uomo di Metallo. Tu spari, io lo assalgo».
«Perfetto. Steve, tu coprilo».
«Aspetta, cosa significa che scaricherai “tutta la potenza”-?»
Ma Tony non aveva tempo di soffermarsi a chiarire, altrimenti avrebbe perso il coraggio che lo animava e avrebbe finito col deludere tutti di nuovo. Non era mai stato un eroe, non aveva lo stesso spirito di sacrificio di Steve e non era il caso di ricordarselo proprio in quella particolare circostanza.
Chiuse la finestra olografica aperta sul canale condiviso e diede l’ordine: «Jarvis, convoglia l’energia nel reattore».
«Energia convogliata: cinque percento…»
Mentre aspettava che l’AI portasse a termine il proprio compito, Tony usò qualche altro stralcio di potenza per lanciare alcuni raggi di poco conto che distraessero Thanos e non gli consentissero di sospettare quanto stesse tramando.
Era costretto a schizzare ovunque per evitare i colpi che occasionalmente lo prendevano di mira, perché, se uno l’avesse centrato e ostacolato in qualche modo il processo, quella piccola speranza di porre fine allo scontro sarebbe andata perduta e, senza armatura, non avrebbe avuto nessuna opportunità di sopravvivenza.
«Energia convogliata: sessantasette percento…»
Non che questo sia meno mortale, considerò a denti stretti, scoccando una breve occhiata alla barra che si stava caricando sullo schermo, ma se non altro la Terra rimarrà intatta. Credo. Spero.
Dovunque fosse Loki, si augurò che lui e il suo esercito di jotun riuscissero se lui avesse fallito.
Se anche Iron Man fosse morto, lo sforzo condiviso degli Avengers e del Dio dell’Inganno avrebbe dovuto sconfiggere la Cabala.
Il reattore arc al centro del suo petto si stava scaldando così tanto che scottava nei punti in cui era in contatto con la sua pelle.
«Energia convogliata: novantadue percento…»
Era piuttosto deprimente udire e vedere il conto alla rovescia della propria morte, pensò Tony. Faceva tanto film pulp di terza categoria.
Deve funzionare. I cattivi non vincono mai. E poi non possiamo farci battere da un mostro verde in calzamaglia viola o dalla brutta coppia di un dinosauro. O da una strafiga con un corpo da paura…
«Convoglio energia completato. Inizializzazione».
Tony atterrò di fronte a Thanos, chiuse gli occhi e imprecò mentre un raggio blu, denso di potenza, scaturiva dal suo petto e schizzava verso il titano. Sperò che fosse abbastanza, perché ormai su Iron Man calava il sipario.
 
 
Quando il ponte di luce blu che collegava Thanos e Tony come un filo mortale venne meno, Thor non perse tempo a meravigliarsi per quello che l’umano era riuscito a fare. Afferrato il martello con entrambe le mani, si gettò sul titano, che barcollava e si sforzava di rimanere in piedi affidandosi a una magia che non trovava, e fece per sollevare Mjolnir sopra la testa, ma Thanos fu più svelto e lo caricò con una spallata per fargli perdere la presa sull’arma.
Steve ebbe la prontezza di riflessi di frapporsi tra loro e bloccare la mole del titano con lo scudo, che vibrò violentemente sotto quel peso, ma non si spezzò.
«Mortali!» sibilò Thanos, strappandoglielo di mano e scagliandolo lontano in un gesto dettato dalla collera. «Voi non potete vincere né la Morte né il suo umile vassallo! Siete destinati a cadere fra le sue braccia eterne, non ha importanza cosa facciate per evitarlo!»
Steve non si diede la pena di rispondergli, ma si concentrò sulla traiettoria dello scudo, che a breve sarebbe tornato indietro. Doveva fare in modo che Thanos si trovasse ancora lì. «Natasha, Clint, Hulk… chiunque, non lasciate Tony da solo!»
In mezzo al ventaglio creato dai membri della Cabala, Tony giaceva privo di sensi.
Il reattore arc conservava una luce debole che andava spegnendosi.
Loki calcolò che non si muoveva da almeno due minuti, mentre Thanos stava già recuperando le forze. In fretta, molto in fretta. Il tentativo del midgardiano era stato audace, ma, se il Dio del Tuono e il supersoldato non fossero stati all’altezza del compito che Stark aveva lasciato loro, anche inutile.
Doveva agire prima che il titano si riprendesse a sufficienza, ma doveva anche essere cauto, altrimenti il nemico si sarebbe accorto di lui.
Stupido umano. Avresti dovuto aspettare il mio arrivo.
Perché i terrestri fossero sempre così ansiosi di fare gli eroi, non riusciva a spiegarselo. Anziché attaccare d’impulso, avrebbe potuto attendere, pianificare. D’altra parte, poteva immaginare cosa Stark dovesse avere pensato, come il suo cuore avesse tremato dinanzi alla carneficina che si stava consumando, come il suo animo avesse gridato, disperato, che qualcuno fermasse lo scempio.
E quel qualcuno doveva essere proprio lui, perché Anthony Stark aveva un ego da lusingare.
Se soltanto fosse stato un po’ più accorto e un po’ meno impaziente di immolarsi per la causa, forse ora non sarebbe stato steso a terra, agonizzante, e Loki avrebbe avuto il tempo di organizzare l’attacco a sorpresa, di modo da attuarlo nel momento esatto in cui Stark avesse liberato il potere del reattore.
Invece il midgardiano lo aveva colto alla sprovvista e ora poteva solo affidarsi alla fortuna.
Scivolando nel mondo delle ombre e dell’incorporeità, il semidio avanzò verso Thanos. Nessuno poteva mettersi sulla sua strada: se anche accadeva, in quella realtà metafisica si limitava a passargli attraverso senza neppure sfiorarlo.
In quel modo fu semplice attraversare le decine di metri che lo separavano dal titano, quando al contrario nel mondo tangibile avrebbe dovuto farsi largo in una massa di corpi e armi.
Nell’istante in cui mise piede nel cerchio disegnato intorno alla Cabala e agli Avengers, la cui circonferenza era un confine oltre il quale nessuno – chitauri o agenti dello S.H.I.E.L.D. che fossero – osava andare, lo scudo di Rogers colpì Thanos sulla nuca e lo spinse a barcollare in avanti, offrendo al supersoldato l’occasione per affondare il gomito sotto il suo mento, una mossa che avrebbe sfondato la gola di un uomo comune, una mossa che, nel pieno delle forze, Thanos avrebbe deviato con facilità.
Sei mio.
Finalmente, dopo mesi vissuti nel terrore di essere scovato e ucciso, avrebbe potuto prendersi la vendetta che gli spettava di diritto.
Arrivato alle sue spalle, strinse lo scettro con entrambe le mani, ma, prima che potesse tentare un gesto qualsiasi, il titano fece appello all’ira che lo animava e assalì il primo avversario su cui riuscì ad allungare le dita artigliate.
Thor, che non si aspettava un approccio tanto diretto.
Loki lo vide sgranare gli occhi e socchiudere la bocca in un’espressione incredula, e capì che lo stupore lo aveva immobilizzato. Non si sarebbe scostato. Alle sue spalle, ancora immobile e rigido, intravvide Stark.
E la realizzazione di quello che stava succedendo lo colpì con la forza di un pugno che gli tolse il fiato.
Prima il midgardiano, poi Thor.
Thanos gli stava strappando tutto ciò che gli spettava di diritto, tutto ciò che soltanto lui doveva avere il potere di distruggere.
La rabbia lo investì insieme al morso rassicurante della magia, che gli attraversò le braccia e lo scettro e si condensò nell’estremità affilata, pronta a uccidere, a sventrare, qualsiasi cosa lui avesse desiderato.
Non dovette neppure richiamare alla mente le parole dell’incantesimo; si affacciarono nel suo cervello, come se aspettassero quel momento da tempo, e si stamparono a fuoco nei suoi occhi mentre varcava la soglia della realtà fisica e la sua voce si elevava al di sopra di ogni altro rumore della battaglia: «Thanos, io ti esilio!»
Spingere l’Amante della Morte nell’abbraccio della sua Signora a insaputa di quest’ultima sarebbe stato un atto arrogante, impensabile; di conseguenza, c’era un’unica soluzione: costringere il titano il più lontano possibile da quella dimensione, dove non avrebbe potuto nuocergli più.
Mostrandogli universi e nuove forme di magia, Thanos aveva firmato la propria condanna, perché ora Loki possedeva un potere in grado di eclissare il suo, anche se non di annientarlo.
Mentre il portale divorava il corpo del titano, l’attenzione generale si trasferì dal rispettivo nemico a Loki e a Thanos.
Tutti li stavano guardando, senza parlare, senza muoversi.
Il titano spalancò gli occhi e la sua bocca disgustosa si arricciò in un ringhio che non aveva nulla della dolcezza umana o della bellezza trascendentale propria degli Æsir. Il ringhio di un mostro.
Conscio degli sguardi del suo pubblico puntati addosso, il semidio stese le labbra in un sorriso di teatrale compiacimento. Ringhia quanto ti aggrada, sibilava quel ghigno con il veleno di mille serpenti. Il tuo non è che un capriccio inappagabile.
Quando infine Thanos scomparve, Loki non riuscì a rendersi pienamente conto di quanto era avvenuto finché i chitauri non crollarono a terra, privati dell’energia vitale dall’eccessiva distanza da colui che l’aveva loro fornita. Quel clangore metallico lo riportò alla realtà con una spietatezza crudele, rovesciandogli addosso tutta la stanchezza della battaglia e in particolare dell’incantesimo, uno dei più difficili che conoscesse, reso ancora più arduo a causa del suo obiettivo.
Era così spossato che si ritrovò ad aggrapparsi allo scettro per sostenersi.
Intorno a lui, gli altri impiegarono di più a recuperare le capacità motorie.
Thor fu il primo a farlo, gli si avvicinò con lentezza, quasi con timore, ma Loki non gli diede il tempo di fare nulla: lo degnò a malapena di un’occhiata, concentrato nel mettere un piede davanti all’altro per raggiungere la sagoma immota di Stark.
Si lasciò cadere in ginocchio al suo fianco e premette le mani aperte ai lati del reattore arc, la cui luce era ridotta a una debole fiammella. Raccolse le poche energie che ancora gli rimanevano, ma la sua mente pareva incapace di evocare le parole nell’antica lingua che avrebbero dato vita al sortilegio.
Tentò più volte, ma invano.
Quando un mago sta finendo le proprie riserve di magia e sfruttarle ancora potrebbe condurlo alla morte, essa gli viene preclusa dall’istinto di sopravvivenza.
Se Loki vi avesse attinto con la forza, sarebbe morto.
Riemerso dalla dimensione astratta della propria interiorità, laddove si trovava il fulcro del suo potere, il semidio fissò il volto cereo di Stark e socchiuse la bocca, ma non ne uscì alcun suono.
Aveva scacciato Thanos, l’aveva bandito dai Nove Regni, eppure il titano aveva vinto comunque.
E vedi di tornare, prima che quelli ci facciano il culo”.
Alla fine era stato Stark a non tornare.
Una collera senza principio e senza fine si impossessò di lui, diede colore al suo volto pallido e restituì le fiamme ai suoi occhi spenti, ma non c’era forza sufficiente nel suo corpo per sostenere quel sentimento così prorompente, che anziché spingerlo all’azione lo confondeva, lo spossava ancora di più.
Quando la mano grande di Thor gli afferrò una spalla per impedirgli di accasciarsi a terra come una bambola di pezza, Loki sfruttò le ultime stille di energia per voltarsi di scatto in direzione della macchia indistinta che somigliava al viso del fratello.
«Salvalo» ansimò, la voce raschiante e arida come se non bevesse da secoli. «Salvalo».

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Capitolo 9
*** #08: Hit the ground ***


#08: Hit the ground
 
But just tonight I won’t leave
I’ll lie and you’ll believe
-Just Tonight, The Pretty Reckless
 
Buio. Luce. Buio. Luce.
Essere morti era seccante, avrebbe voluto che quell’alternanza cessasse, a lungo andare gli provocava una sgradevole emicrania.
Ehi. Fece un passo indietro. Aveva l’emicrania; per quel poco che ne sapeva, in teoria con la morte non avrebbe più dovuto avere un corpo, che l’aldilà esistesse o meno. Niente corpo, niente cervello, niente emicranie. Che sta succedendo qui?
Non era necessario un genio per indovinare che, evidentemente, non era morto.
In contemporanea con quella consapevolezza giunse anche il dolore, un dolore atroce che gli fece riguadagnare la percezione del proprio corpo, un ammasso di sofferenza e fiamme e fasci di nervi. Beh, stavo molto meglio morto. Sarà per la prossima volta.
Con il tempo, riacquistò anche l’uso dei cinque sensi.
Non riusciva a muoversi, ma era emerso dal silenzio e ora udiva un vociare di sottofondo di cui non avrebbe saputo distinguere le parole, però se non altro lo avvertiva, non aveva più l’impressione di essere rinchiuso nella campana di vetro del Paradiso – o dell’Inferno. No, c’è troppo casino per essere l’Oltretomba.
Qualche volta arrivava a socchiudere le palpebre e a cogliere delle immagini confuse, talora non più di una macchia di colori indistinti, in altre occasioni, invece, una scena più a fuoco, tanto che alla fine stabilì di trovarsi in un ospedale – o qualcosa di simile – considerato il bianco sulle pareti, delle lenzuola e dello scarso mobilio che aveva intravisto.
Quando non provava troppo dolore per pensare a qualcos’altro, si chiedeva dove fossero gli altri, se stessero bene, se avessero vinto la guerra o meno, ma per la gran parte del tempo era preda di una sofferenza così lacerante che non c’era spazio per nient’altro.
Poi, un giorno, un cambiamento, il cambiamento.
Una sfumatura di verde in quella camera troppo bianca. Verde e nero.
Prima di sprofondare in una nuova fase del delirio provocato dal dolore, la sua mente, che talvolta sembrava quasi volersi sfilacciare dal corpo e allora temeva che sarebbe morto per davvero, mise insieme quattro lettere.
Loki.
Poi ci furono di nuovo buio e sofferenza.
Quando il tormento che lo logorava si placò di nuovo ed ebbe occasione di rivedere la stanza, Loki era di nuovo lì. Forse ancora lì, non riusciva a capire quanto durassero le ricadute, se un giorno, un’ora o pochi secondi. Insieme a lui c’era del rosso, ora – Pepper.
Apparvero anche altri colori – oro, azzurro, viola, nero, di nuovo rosso e marrone scuro – ma il verde non mancava mai in mezzo a loro. Persino al fianco dell’oro.
Era ormai divenuto una presenza abituale accanto al suo letto – doveva esserci una sedia, perché era molto più basso di come lo ricordava – quando, all’improvviso, un giorno non c’era più. C’erano il blu e il rosso, ma del verde nessuna traccia. Lo cercò invano per l’intero minuto in cui riuscì a rimanere cosciente, poi svenne.
 
 
«Si sta svegliando?»
«È già sveglio. Gli dia un altro minuto per rendersene conto, vedrà che aprirà gli occhi. Ormai è guarito, il dottor Banner ha reinserito il reattore ieri sera. È fuori pericolo e perfettamente funzionante. Oh, ecco: è di nuovo con noi. Ben svegliato, signor Stark».
La voce sconosciuta di una donna, quella più familiare di Pepper, la luce brillante che si rifletteva su ogni superficie candida e la consapevolezza che non provava alcun dolore – a parte un leggero indolenzimento dei muscoli – lo colpirono senza soluzione di continuità e per una manciata di minuti non fu in grado di fare altro che battere le palpebre e sforzarsi di abituarsi al forte chiarore.
«Pep».
Parlare era stata una reazione istintiva e non riconobbe immediatamente la propria voce: flebile e roca, era quella di qualcuno che non pronunciasse una parola da giorni – una condizione che Tony Stark non aveva mai sperimentato in vita propria.
«Sì, Tony». C’erano lacrime e commozione nel tono gentile di Pepper e una mano prese la sua con delicatezza. Lunghe dita affusolate, indubbiamente femminili. Dita che l’avevano accarezzato e amato tante volte, dita che conosceva meglio delle proprie, le dita di lei. «Sono io. Pepper. Sono qui. Tranquillo. Non devi parlare per forza…»
«Miss Potts ha ragione, signor Stark» aggiunse la dottoressa, intervenendo con molto tatto nella loro intimità. «Parli solo quando se la sente».
«Figuriamoci». Tony si sforzò di sollevarsi a sedere, ma il suo corpo non rispondeva bene agli stimoli inviati dal cervello: le braccia tremarono nel tentativo di sorreggerlo, poi ricaddero inerti lungo i fianchi. «Non so nemmeno… da quanto tempo non lo faccio… e pretendete che non parli…?»
Mise a fuoco un sorriso spezzato sul volto di Pepper, che stava piangendo davvero. Piangere, in realtà, non era l’espressione giusta: le lacrime le solcavano le guance leggermente paffute, ma le sue spalle erano ferme e non un solo singhiozzo lasciava le sue labbra.
«Un mese, Tony». Quella che per chiunque altro sarebbe stata una battuta, per lei era una domanda. Come avrebbe fatto senza di lei? «Dopo che sei svenuto, Thor ti ha portato d’urgenza in ospedale. Il dottor Banner ha aggiustato il reattore. Saresti morto, senza il suo aiuto. Sei stato privo di conoscenza per un mese».
La dottoressa se n’era andata, discreta e silenziosa.
Pepper gli accarezzava con insistenza il dorso della mano, tracciava figure invisibili con il pollice, come se volesse sincerarsi che quella mano esisteva ancora, che era ancora calda, viva. Come avrebbe fatto senza di lui?
«Ricordami che… gli devo un drink». Con sua soddisfazione, stava recuperando in fretta la facoltà di conversare. Quella, se non altro. «La guerra…?» Aggrottò la fronte, mentre i ricordi emergevano sulla superficie confusa dei suoi pensieri. Troppo lenti, troppo indistinti. «Come è andata? Come stanno… gli altri?»
Avrebbe voluto porre altre domande, ma la raffica di parole che gorgogliavano nel suo stomaco, impazienti di risalire la gola, provocò un eccesso di tosse che lo fece piegare in due per il dolore – metaforicamente, dal momento che era disteso. Stupide costole.
Pepper scosse il capo, ma era un gesto di sollievo. «È finita. Quei mostri sono stati distrutti e i criminali – Osborn, Doom – sono stati catturati. Va tutto bene ora. Puoi smettere di fare l’eroe».
Sul finire della frase una nota di collera e risentimento trovò spazio nella voce della donna, sebbene gli angoli della sua bocca fossero ancora piegati all’insù.
Tony conosceva bene quell’espressione: significava che Pepper era in dubbio tra il prenderlo a pugni e il gettarsi fra le sue braccia, che per una volta era lei ad avere bisogno di lui e non il contrario – ti prego, smetti di fare l’eroe, smetti di rischiare di morire. Smetti.
Per un attimo, Tony pensò a come sarebbe stato lasciare gli Avengers, appendere l’armatura al chiodo e ritirarsi a vita privata. Magari sposare Pepper, avere dei bambini.
La paura, il terrore di provare dei sentimenti, di poter correre il rischio di perderli, era in agguato, così come la consapevolezza che, se non si fosse fatto coraggio, allora avrebbe perso Pepper, forse avrebbe perso anche se stesso, perché lei era una parte di lui. Bianco o nero, era costretto a scegliere.
Poi pensò a Loki.
Loki con l’armatura verde, che progettava di distruggere New York. Loki con la pelle blu e gli ornamenti dorati di Jotunheim, che salvava la vita a tutti. Che tentava.
Grigio.
«Per ora posso prendermi una vacanza» ammise con lentezza, gli occhi bassi, la voce ridotta a un mormorio. «Finché al mondo non servirà di nuovo Iron Man».
Alla fine alzò lo sguardo e incrociò quello di Pepper, la guardò e seppe che, anche se non poteva decidere tra bianco e nero, lei sarebbe rimasta, sarebbe rimasta sempre. Anche se non poteva renderla felice, lei l’avrebbe amato sempre. Anche se lui aveva paura di offrirle il suo amore in cambio, lei sarebbe stata lì.
Dopotutto gliel’aveva già domandato, un altro giorno, in un’altra vita. “Sei stata al mio fianco per tutti questi anni. Vuoi andartene adesso?
Pepper abbozzò una risatina. «Naturalmente. Dovrai accontentarti di essere Tony per un po’. Non Tony Stark, soltanto Tony: ti proibisco di mettere mano a un qualsiasi attrezzo per almeno un’altra settimana. Devi riprenderti, sei quasi morto, santo cielo».
Tony levò gli occhi al soffitto e Pepper gli tirò un pugno scherzoso sul braccio, salvo poi ricordarsi che era ancora in convalescenza e affrettarsi a scusarsi. Cadde un silenzio che avrebbe dovuto essere quieto, ma Tony non riusciva a rilassarsi; trepidante, voleva fugare altri dubbi, ma temeva che lei non fosse la persona giusta con cui farlo.
Alla fine fu proprio Pepper a introdurre l’argomento, cogliendolo di sorpresa. «Pensavo mi avresti chiesto anche di Loki».
Spiazzato, Tony cercò l’accusa o il rancore nei suoi occhi, ma non ne trovò; allora si schiarì la voce e si sforzò di far suonare convincente la replica stiracchiata: «Cosa, uhm, cosa te lo fa pensare, di preciso?»
«Il fatto che se lo meriti, per esempio» enumerò lei, seria in volto. Tony le scoccò un’occhiata incredula, la donna si spiegò in tono mesto: «Quando ti ho detto che speravo meritasse la tua preoccupazione, ero sincera. Lo speravo per davvero. Non mentirò: non posso affermare che mi faccia piacere che tu abbia scelto proprio Loki».
C’era un sospiro tra le righe, un sospiro cui però lei non diede voce, come invece avrebbe fatto solo due mesi prima. Forse era prematuro sostenere che stesse imparando ad apprezzare il semidio, ma era senza dubbio passata oltre la fase di puro e semplice rifiuto.
«Però non sono così sciocca da fingere di non vedere la realtà. Si rifiutava di uscire da questa stanza. All’inizio il direttore Fury non sapeva come comportarsi con l’uomo che aveva tentato di conquistare il mondo e poi l’aveva salvato; quando ha provato a discutere la sua permanenza qui e Loki gli ha dato fuoco, ha lasciato perdere. Era sempre qui, seduto su quella sedia». Ammiccò alla sponda opposta del letto rispetto a dove si trovava lei. «Sospetto non abbia mai dormito. Per questo mi stupisce che tu non avessi ancora domandato di lui».
Tony aspettò che proseguisse, ma lei non lo fece. «Però…?» la incoraggiò in tono calmo.
«Quando hanno arrestato i membri della Cabala, la maga asgardiana – se non sbaglio, Thor l’ha chiamata Amora – è riuscita a fuggire. Loki si è offerto di rintracciarla e farla prigioniera» riprese Pepper, chiaramente di malavoglia. «Ha scoperto dove si trovava la settimana scorsa ed è partito per catturarla. Da allora nessuno ne ha più avuto notizie».
Tony annuì.
Si limitò a incassare il colpo senza altro gesto che quel lieve cenno d’assenso, in parte perché non c’era molto altro che potesse fare, nella sua posizione, in parte perché lui stesso era incerto sulla reazione che quelle parole avevano provocato.
Non che si illudesse che Loki sarebbe rimasto per sempre, che sarebbero diventati migliori amici e sarebbero piovuti arcobaleni e pony rosa, però era strano, dopo quello che avevano passato insieme – loro malgrado – e ciò che aveva visto e che Pepper gli aveva raccontato, svegliarsi e non trovarlo accanto al letto, se non altro per rendergli quel pugno di cui aveva preso nota Jarvis.
Non trovarlo e non poter neppure ipotizzare se sarebbe mai tornato.
Dopotutto, non gli era più di alcuna utilità: Thanos era stato esiliato, la guerra scongiurata e il semidio era anche diventato re, non aveva più alcuna ragione per abbassarsi ad avere a che fare con un banale umano.
A parte il fatto che si erano baciati, naturalmente.
Pepper era sul punto di riprendere la parola, forse per confortarlo, forse per cambiare argomento nel tentativo di metterlo a suo agio, quando fu lui a spezzare quel nuovo silenzio, molto meno accogliente del precedente: «Beh, fantastico, l’unico che poteva provare che il mio coinvolgimento con il Dio dell’Inganno aveva uno scopo onesto ha deciso di sparire. Fury mi trascinerà in tribunale e mi sbatterà in cella solo perché finalmente ero morto e poi sono resuscitato per indispettirlo».
La donna batté le palpebre, colta alla sprovvista da quell’uscita improvvisa, poi scelse di assecondarlo e scosse il capo. «Il direttore ha acconsentito a proscioglierti da qualsiasi accusa, dal momento che Loki si è rivelato un alleato». Sulle sue labbra si disegnò un sorriso maligno che fece scorrere un brivido lungo la schiena di Tony – un sorriso molto alla Loki che Pepper sfoggiava solo quando voleva incutergli terrore. E funzionava bene. «Anche se io sospetto l’abbia fatto perché Loki gli ha dato fuoco e perché non poteva rischiare di perdere la faccia facendoti causa dopo che hai salvato la Terra».
Tony non aveva mancato di notare che era già la seconda volta che menzionava il fatto che Loki aveva dato fuoco al direttore e di colpo realizzò che la divertiva.
Pepper e Loki avevano gli stessi gusti in materia di scherzi – inquietante.
«Ah, beh, buono a sapersi» mugugnò mentre tentava con scarso successo di ignorare la consapevolezza che aveva appena maturato. «Wow, mi sono appena svegliato e ho già ricevuto più buone che cattive notizie. Se mi dici che domani non vado al lavoro, il mio compleanno dev’essere arrivato in anticipo. Insieme a Natale. E a tutte le feste».
 
 
Sebbene, una volta ripresosi dal coma, le sue condizioni fossero abbastanza stabili, al punto che i medici gli proposero di venire dimesso prima del previsto, Pepper mantenne la propria promessa e impose che non tornasse alla Stark Tower prima di una settimana.
Un’intera settimana senza nient’altro da fare che parlare o ascoltare gli altri. Per fortuna era quasi sempre in compagnia di qualcuno, che fossero gli Avengers, Pepper, gli agenti dello S.H.I.E.L.D. o Fury, che lo aggiornavano quotidianamente e gli raccontavano gli sviluppi avvenuti durante la sua convalescenza, perché non si annoiasse troppo.
Ciononostante, fu sollevato quando finalmente poté lasciare l’ospedale. Steve si offrì di accompagnarlo a casa, nemmeno fosse suo padre, ma a parte quello il suo ritorno fu perfetto.
Niente più bianco, niente più obbligo di stare a letto, niente più ordini di non toccare l’alcool.
Dopo che aveva rifiutato la proposta di Steve, gli altri Avengers avevano acconsentito a rispettare il suo bisogno di trascorrere del tempo da solo con se stesso, nel suo dominio, Pepper si era trovata da fare al lavoro e persino Fury gli aveva fatto la concessione di non presentarsi a infastidirlo circa il Progetto Winx e quanti altri dati aveva accumulato sulla magia di Loki e blablabla.
Soltanto lui e Jarvis.
«Bentornato a casa, signore».
Lui, Jarvis e un semidio comodamente seduto sul sofà con le gambe accavallate, come se farsi sorprendere in un’altrui dimora con gli abiti intrisi di macchie scarlatte – eppure in perfetto ordine, segno che quel sangue non gli apparteneva – fosse la cosa più normale dell’universo.
Trascorsi i primi secondi di smarrimento, Tony proruppe in un’esclamazione soffocata: «Jarvis, traditore, l’hai lasciato entr-!»
«Nessun tradimento, Stark». Loki si osservò la mano, assorto, prima di ravviarsi con disinvoltura i capelli. «Mi sono semplicemente teleportato. Jarvis non è programmato per prendere delle contromisure contro un trucco del genere».
Che il semidio conoscesse il verbo programmare era ancora peggio – non avrebbe dovuto permettergli di leggere tutti quei libri, durante il suo breve soggiorno alla Stark Tower. Se la conoscenza di Loki si fosse estesa anche alla tecnologia, non voleva immaginare che cosa sarebbe accaduto.
«A ogni modo, mi offendi,» aggiunse il semidio, scoccandogli un’occhiata pungente «credevo saresti stato più contento di vedermi».
«Scusa se sono un tantino disturbato dal vederti apparire in casa mia grondante sangue!»
Loki aggrottò la fronte, abbassò gli occhi sulle vesti, risollevò pigramente il capo e ribatté: «Oh, questo? Ti ringrazio per la premura, ma non è il mio». Sulle iridi verde chiaro calò un velo nero che lo fece apparire più antico, più pericoloso. «È dell’Incantatrice. Non so se te l’abbiano detto, ma ho pensato di ricordarle qual è il prezzo da pagare quando mi si tradisce».
Tony era curioso per natura, ma quella volta non volle sapere altro, non era necessario e non era sicuro che, dopo tutta la morte che aveva visto, sarebbe stato in grado di tollerarlo, anche se si trattava di un nemico, anche se quella donna non avrebbe esitato un secondo prima di ucciderlo.
Il semidio si riscosse, la ferinità della sua espressione venne meno. «Tu sei turbato, Stark. Forse disapprovi che io abbia ottenuto vendetta per i tuoi morti?»
Per una volta, Tony rifletté con cura sulle proprie parole prima di pronunciarle: «Abbiamo metodi diversi, Loki. Mi dispiace, davvero, di non essere nato mostro assetato di sangue. La prossima volta mi impegnerò di più, parola di scout». Non che il risultato fosse meno fatale, anche quando tentava di concentrarsi.
Sfortunatamente il suo organismo non riusciva ad accettare di fare a meno del sarcasmo, in particolar modo in compagnia di Loki.
Peccato che molto spesso il semidio non cogliesse il suo senso dell’umorismo.
Questi dovette prendere la sofferta decisione di concedergli ancora qualche anno di vita, perché si limitò a studiarlo per un lungo istante, in silenzio, prima di mormorare: «Quando ti sei svegliato?»
Il cambio di argomento fu talmente repentino che Tony boccheggiò, smarrito. E poi Pepper si lamentava che pensava troppo in fretta, parlava troppo in fretta e che lasciava fuori tutti gli altri dalla sua mente e così facendo non si sarebbe mai fatto degli amici, ma – quasi dimenticava – in effetti Loki non aveva amici, forse il motivo era lo stesso per cui Pepper lo rimproverava, e non era importante perché non aveva ancora risposto e le sopracciglia del semidio si stavano sollevando a un’angolazione poco rassicurante.
E si diceva che gli dei fossero pazienti.
«Una settimana fa» replicò, Loki annuì, assorto, Tony si domandò che cosa stesse meditando, si stancò di chiacchierare con il proprio cervello e buttò lì un argomento qualsiasi. «Tu sei tornato da molto?»
«No».
Non aggiunse altro, si limitava a guardarlo, come se avesse in mente qualcosa, oppure stesse aspettando che qualcosa accadesse, Tony non riusciva a stabilirlo e cominciava a provare un certo disagio sotto l’esame di quegli occhi penetranti. Di conseguenza provò a ravvivare la conversazione: «E da quanto di preciso…?»
«No, Stark» lo interruppe di colpo il semidio, un istante prima seduto mollemente sul divano, l’istante dopo di fronte a lui, vicino, vicino. «Non ti interessa».
Poi Loki lo stava baciando e non erano più in piedi, ma in qualche modo era finito seduto e il semidio sulle sue gambe, a cavalcioni, le dita strette sulla sua camicia e la lingua contro le sue labbra, in bocca, avvinghiata alla sua, e – era vero – non gli interessava.
«Jarvis,» mugugnò in una pausa tra un bacio e l’altro «non ci sono per nessuno. Fino a domani».
Loki arricciò le labbra tumide in un sogghigno famelico e Tony avrebbe voluto avere il tempo di correggere il tiro – domani non bastava, aveva bisogno almeno di una settimana – ma il semidio insinuò una mano nello spazio tra i boxer e la sua pelle, le dita lunghe e sinuose che avvolgevano la carne bollente, le gambe che lo serravano in una morsa estremamente piacevole, il bacino che si muoveva con una lentezza esasperante contro il suo, e nient’altro aveva davvero importanza.
 
 
Al proprio risveglio, Tony non riuscì a stupirsi nel trovarsi nel proprio letto anziché sul sofà o dovunque si trovassero lui e Loki l’ultima volta che il suo cervello aveva provato un guizzo di curiosità nei confronti dell’ambiente circostante.
A spingerlo seduto, ancora per metà immerso nel sonno e sbadigliante, fu la sconcertante consapevolezza di essere solo.
Fu abbastanza per costringerlo a scrollarsi e guardarsi attorno con attenzione per individuare il semidio in piedi accanto a una delle vetrate che rivestivano le pareti, di spalle, immobile e nudo come una statua di marmo.
«Devo andare, Stark».
Non si era voltato, non sembrava neppure che stesse respirando, eppure sapeva che lui era sveglio e lo stava fissando. Ancora non del tutto strappatosi al torpore, Tony impiegò diversi secondi a comprendere quell’affermazione. Non una domanda, non un’incertezza, non devo andare? o forse dovrei andare. Solo me ne vado.
Eh?
Cercò di uscirsene con qualcosa di meglio di quello che la sua mente gli propinò. Non ottenne risultati soddisfacenti. «Eh?»
«Sono stato lontano dal mio regno troppo a lungo. Il mio popolo ha riportato una vittoria, ma ci sono state delle perdite anche tra gli jotun». Loki si volse con lentezza, Tony si prese tutto il tempo per ammirare il suo corpo statuario alla luce della luna. «Hanno capito quando ho detto loro che dovevo vendicare delle morti; ora, tuttavia, è giunto il momento che dedichi loro la mia attenzione. D’altra parte, non c’è posto per me, su Midgard: non vorrei creare uno spiacevole incidente diplomatico. Io sono di Jotunheim, adesso».
«Beh, a Jarvis sei sempre piaciuto» gli sfuggì e, Dio, non aveva proprio nient’altro con cui rendersi ridicolo? Si schiarì la gola per darsi un tono e aggiunse: «Voglio dire, puoi tornare».
«Lo farò, Stark». Un sorriso aleggiava sulle labbra del semidio mentre gli si avvicinava a lunghe falcate che lo facevano apparire senza peso, intangibile, eloquenti dimostrazioni della sua grazia millenaria. «Anche se non posso prometterti quando. Però lo farò».
Tra loro, me ne vado bruciava.
«Rimani stanotte» propose Tony prima che il filtro tra il cervello e la bocca potesse fermarlo – sempre che ne avesse uno.
Considerando nella penombra l’espressione dipintasi sul volto di Loki, ebbe la duplice quanto contraddittoria impressione che stesse aspettandosi quell’offerta e ne fosse compiaciuto, oppure che fosse indeciso sulla risposta da dare.
Dopo un secondo che parve cristallizzarsi in dieci anni, il semidio appoggiò un ginocchio sul bordo del materasso, lo afferrò per la spalla e lo attirò a sé. Soffiò sulla sua bocca, il fiato caldo e impalpabile contro la sua pelle.
«Solo stanotte».
Fu allora che a Tony sovvenne un dubbio, fino a quel momento relegato in un angolo della memoria, e sapeva che Loki era sul punto di baciarlo, ma quella domanda lo stava tormentando da giorni. Spezzato tra il desiderio di tacere e assecondarlo e quello di porgli il quesito, finì con il farfugliarlo senza particolare coerenza e baciarlo al tempo stesso.
Il semidio sospese il bacio con uno sbuffo irritato e su Tony si aprirono due pozzi di fastidio. «Cosa c’è ora, Stark?»
Quella fu probabilmente l’unica volta in cui Tony Stark maledisse la propria parlantina, di cui altrimenti andava molto fiero – come d’altra parte andava fiero di qualsiasi parte di se stesso. «Mi ero dimenticato di chiederti perché non mi hai ucciso. Quel giorno, intendo, quando tu eri nella cella dell’Elivelivolo e volevi conquistare il mondo e- sì, insomma, hai capito».
Loki lo fissò, forse non del tutto convinto che fosse uno scherzo o meno, poi, colta l’ingenua spontaneità nel tono e nello sguardo del midgardiano, non riuscì a trattenere un sogghigno. «Oh, quel giorno. Credi davvero che sarei stato così imprudente da rivelare che potevo lasciare liberamente quell’inutile prigione?»
Non gli lasciò il tempo di elaborare l’informazione, ma Tony non aveva alcuna intenzione di risentirsi.
 
 
Il fruscio delle vesti che scorrono sulla pelle nuda, assordante nel silenzio.
«Thor si prenderà cura di te durante la mia assenza».
Poco più di un sussurro nella stanza intrisa di sonnolenta oscurità.
«Thor… Thor?!»
Lo sfolgorare di un sorriso, il baluginio verde della magia che appariva e spariva, e portava via con sé tutto, meno che un ultimo saluto.
«Thor sa tutto, Stark».




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Questo momento, il momento di concludere Save your enemy, è arrivato prima di quanto pensassi. Ammetto che avevo cominciato questa fanfiction con l'intenzione di finire da tutt'altra parte: all'inizio era una storia su cui dovevo sfogare tutti i miei p0rnfeels, poi è finita col diventare una storia piena d'azione (rispetto ai miei standard, almeno), in cui per certi versi l'IronFrost principale è passato in secondo piano, anche se (come avrete senza dubbio notato XD) non ha mai smesso di essere parte integrante della trama. Quest'ultimo capitolo, notevolmente più breve degli altri, vuole ricollegarsi al prologo, vuol essere un capitolo per tirare le fila di tutto ciò che è successo (il titolo, tra parentesi, si rifà a quello del prologo, Prelude of the fall, per sottolineare che la caduta è terminata) e, beh, volevo anche un momento da infarcire di FrostIron e, almeno in parte, di p0rnfeels. Con una mancata scena di sesso, lo so, ma che volete farci? Ogni volta che mi propongo di scrivere p0rn (beh, quasi ogni volta) alla fine prende tutto una strada strana.
Ciò detto, passo ai ringraziamenti. Mi sembra inutile fare copiaincolla delle liste di chi ha inserito la storia tra i preferiti/seguite/whatever, ma ci tengo se non altro a dire grazie a tutti quelli che hanno letto e commentato questa storia. I vostri pareri sono stati molto importanti per me e mi hanno spronata a portare a termine Save your enemy (ritengo doveroso anche citare Shi_Tsu_Geass per aver fatto richiesta d'inserire Save your enemy tra le Storie Scelte. Grazie!). Grazie per esservi sorbiti novanta pagine di Word, grazie.

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