La stanza numero 24 del Blue Motel.

di Grace Slick
(/viewuser.php?uid=167165)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I put a spell on you! ***
Capitolo 2: *** Blue Valentines. ***
Capitolo 3: *** Wednesday Morning. ***
Capitolo 4: *** Porgy and Bess. ***



Capitolo 1
*** I put a spell on you! ***


“I put a spell on you, ’cause you’re mine.
 You better stop the things you do, I ain’t lyin’, no I ain’t lyin’ "…
 
 
"...sso, carta, forbice! Ho vinto! Tu che hai messo? Io sasso, e tu? Carta? Naaa, non è vero, hai messo forbice… Senti lo so che è un'idea balorda giocarci al telefono, ma pensa a quando lo racconterai alla tua nuova ragazza, potrai dirle che per una volta nella vita hai giocato a sasso carta forbice per telefono, e che ti ci ho costretto io...sai che spasso! Quella ti dirà "ma con chi diavolo sei st..."
E misi giù.
Erano ore che origliavo alla cornetta la conversazione di una coppia. Erano il mio conforto e il mio passatempo. L’unico concessomi.
 
 
Un'altra notte cominciava nella stanza numero 24, dodicesimo piano, esattamente come quella precedente, e come quella prima ancora e ancora. Fino alla notte dell'eternità. E niente faceva pensare che qualcosa sarebbe cambiato.
Ero rimasta lì attaccata al ricevitore grigio, ginocchia a terra, schiena al muro sporco, i lunghi capelli scuri intrecciati sul volto, inanellati tra il filo del telefono e le dita.
Per un attimo ho creduto che il suono si propagasse lungo quei fili sottili, che l'induzione magnetica scorresse veloce lungo i miei capelli, e che dai capelli si espandesse nella mia stanza. La stanza numero 24, che pulsava in mezzo al nulla.
Tra le gambe, sparse per tutto il pavimento di linoleum, un manto di schegge impazzite, taglienti come rasoi caduti dal soffitto, o spirati nella stanza dalla finestra spalancata. Mi alzai per richiuderla e abbassai piano la tapparella, lasciando filtrare la crudele luce elettrica cremisi che pulsava intermittente dalla grande insegna a neon del Blue Motel.
Quella maledetta insegna singhiozzava a intervalli regolari proprio davanti alla finestra della mia stanza, così
spensi l’interruttore: ora il reticolato che si scioglieva sul pavimento e sui muri era un tumulto di strisce di luce rossa su pugnali di carta. Schegge nere di polivinilcloruro che risplendevano lucide lungo i solchi circolari interrotti di Blood On The Tracks, tagliavano il braccio a Diane Keaton in gilet e cravatta, affacciata ad un terrazzino che dava su una pagina di Norwegian Wood sgualcita: paragrafi evidenziati dai battiti del neon che illuminavano quei passi di carta sulle strade di Tokyo…
“You know I can’t stand it, you’re runnin’ around, you know better daddy, I can’t stand it cause you put me down...”
… Che portavano dritte al fiume caro a Suzanne vestita di piume e di stracci dell’Esercito della Salvezza, lì dove lo sguardo di Antoine Doinel si era fermato vicino al mare dopo la grande corsa da un vecchio poster al muro…
I put a spell on youbecause you’re mine, you’re mine!”…
Mi accesi una Laramie. Screamin’ Jay Hawkins continuava a stridere dolcemente nella mia testa propagandosi nella stanza, poi la musica si affacciò alla finestra e risuonò giù per tutta Bleeding Street.
Così come Davide avrebbe suonato per il re Saul, pensai.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Blue Valentines. ***


Non sapevo da quanto tempo ero rimasta accasciata a terra accanto al tavolino del telefono, con la cornetta ancora in mano. Non saprei nemmeno dire da quanto tempo ormai il battito cardiaco della linea occupata mi giungesse all’orecchio, come un indifferente elettrocardiogramma dal mondo. O da quando diavolo la neve fosse scesa a Bleeding Street. Probabilmente nevicava da sempre. Da quando non ricordo.
Era una cosa strana. La neve che ora aveva ghiacciato alcune lettere dell’insegna a neon, aveva creato un rassicurante filtro translucido, stemperando la luce cremisi e addolcendo quelle lame sanguigne come un foulard posato su un abatjour.
Mi sentivo meglio: quella pioggia di ghiaccio aveva soffuso tutto il mondo, creando una tensione di tregua. 
Attutito, ma non spento. La morsa di cristallo aveva ovattato il suono dei passi, ma i miei sensi erano in allerta. Fu allora che lo sentii.
Anche quella notte, come tutte le notti, un visitatore bussò alla porta del 24, dodicesimo piano. Il numero di ottone tremò lievemente.
Nei lunghi corridoi tappezzati di vecchia carta da parati scarlatta, qualcosa di candido si stava posando sul pavimento logoro. Negli immemori corridoi del Blue Motel stava nevicando.
Mi accorsi dell’incedere dei passi che sprofondavano nel pavimento, i suoni provenivano dalla punta del corridoio al dodicesimo piano. Dallo spioncino della porta, vidi che la neve si stava posando silenziosamente sulla moquette bordeaux, accomodandosi sulla panca di mogano scrostato, sfiorava il vetro dei lampadari verdi a goccia, oltrepassava candidamente il soffitto e si adagiava infine sulle sue spalle. 
Rimasi a contemplare tutto ciò dietro la lente deformante dello spioncino, in piedi dietro la porta, come chi voglia scattare una fotografia mentale con uno strano fisheye.
Non mi ci volle molto per capire di chi fossero quelle spalle. Attraverso il cerchio distorto quella giacca di pelle nera un po’ logora gli scendeva sulle spalle non troppo larghe, una giacca aperta che lasciava intravedere un semplice maglione rosso. Come al solito, niente sciarpa. Nonostante la neve.
Ma ciò che l’obiettivo distorceva meglio era quel suo collo bianco e forte: della barba di una settimana lo ricopriva fin sotto il mento, e con lo sguardo, seguendo il pomo d’Adamo, vidi il suo piccolo neo galleggiare scuro al centro del collo bianco, come un segnale non ancora compreso appieno.
Mi girai nervosamente l’anello al dito come se volessi sintonizzare delle onde radio su un preciso programma. Ora la neve aveva completamente assorbito ogni suono. Passarono forse altri dieci minuti prima che si udisse il suo lieve bussare alla porta. Io ero sintonizzata su quei suoni dietro la porta, e speravo che svanissero con la neve nel corridoio. Che evaporassero insieme a me.
Mi sentivo come l’oppresso che intercetta la stazione radio delle forze ribelli. 
– Aprimi Grey, - disse semplicemente la sua voce. 
Poi riprese – Se non mi apri sento che prima o poi cadrò a terra e allora il mio corpo farà un fracasso enorme. Potrei anche restare a morire mezzo congelato qui fuori. Ma ti prego Grey, lasciami entrare.
L’anello aveva smesso di girare. Sono stata scoperta ad ascoltare, e ora vengono a prendermi. Si era concluso il programma radio sovversivo… Trasmetteremo ora per i nostri cari radioascoltatori un pezzo di Tom Waits, “Blue Valentines”…
E aprii di scatto la porta. 
 
 
“Just send me Blue Valentines… 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Wednesday Morning. ***


Credevo che non avrei aperto la porta a nessuno quella notte. Quella notte avrei voluto avere una tregua dai ricordi, ma sapevo che era impossibile. Ben era in piedi di fronte a me, ed entrò lentamente nella mia stanza come chi sta attraversando la sottile linea di confine tra il raggio verde e la sera.
La porta si chiuse alle sue spalle, portando con sé alcuni fiocchi di neve che si sollevarono stancamente, andandosi a confondere con la polvere. 
“Someone that I used to be…
Rimasi ferma come in trance davanti a lui, le spalle poggiate al muro. Il blues ebbe per un attimo un sussulto, la traccia saltò, poi riprese regolarmente. Lui era davvero riuscito a trovarla.
- Ciao Ben… Non credevo che mi avresti trovata. Ma ho sempre immaginato che un giorno saresti venuto. Solo non immaginavo sarebbe stato in un giorno di neve qui a Bleeding Street.
- Neanch’io immaginavo che ci saremmo rivisti in un posto come questo. Ma sei tu che l’hai deciso. Ricordi? E poi, questo posto… Finiscono tutti in questo stramaledetto posto, in un modo o nell’altro. Era solo questione di tempo. Solo che ci ho messo un po’ più degli altri a trovarti perché prima ancora ce ne ho messo un po’ per cominciare a cercarti.
Uno specchio incrinato e storto appeso in alto rifletteva la scena, rimandando nella stanza i bagliori al neon singhiozzanti e convulsi, come le note di un sassofono strozzato.
- Tutti finiscono qui prima o poi, hai ragione. Ma quello che non ti hanno spiegato là fuori è che nessuno riesce più ad uscire di qui una volta entrati.
- Le regole del Blue Motel sono molto chiare a riguardo. Nessuno può uscire se prima non si sono chiuse tutte le porte. Se anche una sola porta rimane aperta si dovrà restare ancora una notte nel Motel. E’ molto difficile chiuderle tutte, specialmente se continuano a riaprirsi nel tempo. E poi il custode notturno è molto scrupoloso a riguardo. Ogni notte viene a controllare che siano tutte chiuse, controlla che le chiavi che gli abbiamo lasciato alla reception siano state usate. Le mie chiavi sono poche, due o tre, ma c’è chi ha lasciato dieci o undici mazzi appesi alla reception sotto il proprio numero di stanza. 
Il pezzo di Tom Waits alla radio era ormai finito, quasi un sussurro. La puntina scorreva a vuoto sul disco.
 - Tu sei la mia ultima porta Ben, quella che non riesco a chiudere da sette anni.
Ben si fece strada nella stanza semibuia, avanzando tra la polvere e il tumulto di fogli, libri, vinili rotti e sedie a terra. Sul muro ancora le artigliate intermittenti a neon, accanto, lo specchio inclinato. L’aria gelida alitava nella stanza passando tra le dita della tapparella. Guardando giù si potevano vedere salire al cielo colonne di vapore dai lati della strada.                                                                                 
- Hai ragione, questo Motel non è come tutti gli altri, ha qualcosa di diverso. Fuori dall’ordinario. L’ho avvertito appena ci ho messo piede. E non è stato facile mettercelo, credimi Grey. Quest’edificio ha l’anomalia di essere trasparente al genere umano che ci passa davanti pestando il suo stesso marciapiede. Sembra che si comprima tra la caffetteria e il negozio di dischi qui all’angolo. Di giorno è pressoché invisibile, come se volesse assecondare i desideri dei suoi stessi ospiti di voler sparire dalla faccia della terra. Quest’albergo ha assorbito i vostri umori e si comporta di conseguenza. E’ come se avesse imparato ad avere una vita propria.
- Era da un po’ che sapevo della sua esistenza ma non riuscivo ad entrarci. La barriera per gli intrusi è davvero efficace. Nessuno può percepirne la presenza tranne coloro che abbiano davvero il fegato di entrarci e prendere una stanza. O che vogliano disperatamente metterci piede.
- Per un anno non sono riuscito ad entrarci. Tutto è cominciato una mattina di gennaio, mentre uscivo dal Jacksons’s verso le tre di notte. Avevo sentito qualcosa, della musica. Bleeding Street riverberava alle note di Wednesday Morning.
Era quasi un sussurro, subito la percepii come una faccenda personale, come se qualcuno la stesse suonando solo per me. Un messaggio privato tra la caffetteria e il negozio di dischi jazz."

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Porgy and Bess. ***


Non sapevo se avessi fatto bene a dirglielo. Ma sapevo che non era stata solo la mia immaginazione.
Grey poggiò la mano sul muro, voltandosi. Solo ora che mi dava le spalle mi accorsi che lei era scalza. Avevo notato il suo ginocchio, che nudo e bianco, si intravedeva da sotto i suoi collant neri smagliati sulla gamba sinistra. Indossava solo dei pantaloncini di jeans strappati e una maglia a righe bianche e blu rimboccata fino ai gomiti. 
Un abbigliamento leggero per un clima così rigido. Fuori, nel corridoio, sentivo che la neve stava ancora cadendo. 
Vidi la sua mano minuta e chiara, poggiata al muro, tradire un piccolissimo neo stretto tra il medio e l’anulare.
Un sottile anellino d’argento le cingeva il mignolo. Aveva nocche screpolate dal freddo e un polso sottilissimo e bianco. Cingerlo avrebbe potuto forse spezzarlo, e il rumore sarebbe stato come quello di una corda d’arpa che salta improvvisamente.
Rimasi un po’ sorpreso nel vedere come i lunghi capelli mossi castani le fossero ormai arrivati all’altezza del gancio del reggiseno, che si intravedeva leggermente da sotto la maglia. 
Era decisamente un abbigliamento leggero, pensai.
Un piccolo fremito scosse quel corpo fragile, come se avvertisse il mio sguardo scrutarle la persona, rendendola trasparente. D’un tratto si sentì così vulnerabile, che si allontanò di scatto dal muro, andò verso il comodino e afferrò il pacchetto di Laramie tirandone fuori una lunga sigaretta che si ficcò in bocca senza una parola, cercando con veemenza l’accendino tra le coperte del letto in disordine.
Ma io fui più veloce: capii quello che stava cercando, e glielo stava offrendo ammiccante una statuetta di Betty Boop, una piccola pistola poggiata sul suo palmo di plastica.
Presi l’arma dalla mano di Betty e gliela porsi. Grey puntò la pistola alla bocca, la sigaretta stretta tra le labbra, premette il grilletto e una piccola fiamma spuntò dalla canna.
L’odore agre del fumo spirò vischioso dalle sue labbra, danzando sinuoso verso il soffitto decrepito. Ad ogni boccata sembrava sentirsi meglio e sentii crescere in lei la fermezza di qualcosa che doveva fare.
- Vedo che compri ancora quegli assurdi accendini da due soldi a forma di pistola… Questa stanza è un casino, tu sei un casino. Come fai a trovare ancora il letto? Se entrasse tua madre qui dentro ci rimarrebbe secca. E’ lecito chiedere se quel liquido in quella tazza sul tavolo è caffè?
Effettivamente tra i vari libri sparsi sul tavolo, tra il carteggio di Anna Achmatova e Il giovane Holden, c’era una tazza dal liquido nero pece che emanava un tenue bagliore biancastro. La tazza blu scuro faceva da segnalibro tra le pagine inchiostrate di un manga.
- Sì Ben, è caffè. E sì, sono un casino. Sapevo che l’avresti detto di nuovo. E anch’io vedo che porti ancora quell’orrendo maglione rosso che ti ha comprato tua madre. Siediti, ti porto dell’altro caffè.
E con un leggero sorriso, andò a prendere il termos del caffè e una tazza sopra il comò, e schivando abilmente con il piede scalzo il telefono sul pavimento, si sedette di fronte a me, versandomi il liquido nero e denso come la notte. 
Accese la lampada sul tavolo. Le ombre vermiglie della sera erano svanite sfumando inevitabilmente nel nero dell’orizzonte. Ora la luce a neon dell’insegna si era fatta meno tagliente sul muro.
Chissà che ora era. Non aveva mai avuto con sé un orologio. In quella stanza non ce n’erano. A scandire il tempo c’erano solo la neve e il battito cardiaco della cornetta.
La osservai portarsi la tazza alle labbra e fu allora che scrutò con attenzione per la prima volta il mio viso. 
Notò un po’ divertita che qualche fiocco di ghiaccio era rimasto intrappolato tra i miei capelli spettinati e un po’ lunghi. Non dimostravo per lei più di ventisette anni. Esattamente come lei.
- Sono passati sette anni e ancora non hai imparato a fare un caffè come si deve… Con questo a mala pena ci annaffi le piante.
Grey non fece caso all’apprezzamento e continuò a fumare impassibile, la Laramie stretta tra l’indice e il medio, osservando ogni mia mossa dall’altra parte del tavolo. Ogni tanto scrollava un po’ di cenere nella lattina vuota di Pepsi accanto alla sua tazza, ma non si perdeva un solo movimento. Era curiosa di capire come ero riuscito ad arrivare fino a lei.
Come diavolo avevo fatto a trovarla?
Gettò la cicca nella lattina, che a contatto con il liquido sul fondo sfrigolò dolcemente.
- Raccontami ancora di te, di quella notte fuori dal Jackson’s, quando sentisti Wednesday Morning a Bleeding Street. Cosa ti ha dato l’impressione che fosse diretta a te? Magari la trasmettevano da qualche autoradio in una macchina in sosta. O forse proveniva da qualche locale nelle vicinanze…
Lo specchio incrinato restituiva dall’alto l’immagine impolverata dei due ragazzi seduti l’uno di fronte all’altro.
La lampada accesa creava per metà ombre calde e morbide sui loro volti, cedendo il resto all’oscurità.
La fissai. Quella luce elettrica dava uno strano scintillio ai suoi grandi occhi castano chiaro, scivolando lungo il naso piccolo e regolare e insinuandosi tra le sue labbra fin sotto il mento minuto. Alcune ciocche dei capelli mossi e disordinati che le ricadevano davanti agli occhi venivano allontanati bruscamente, riportandoseli dietro all’orecchio, o soffiandoli indietro. Era un po’ nervosa.
Rumore di passi dal soffitto.
- Grey, erano le tre di notte e ti assicuro che non c’erano né macchine in sosta, né locali nelle vicinanze che a quell’ora mandassero quella musica. A nessuno viene in mente di mandare Simon & Garfunkel nei pub di Brooklyn nel cuore della notte. La gente ancora sveglia a quell’ora non ha voglia di andare a dormire, vuole solo qualcuno con cui passare la notte, e in genere i locali mandano solo Fleetwood Mac e Elvis Presley. Roba che ci puoi andare avanti così per ore. 
- Invece io ho avuto un impressione ben precisa, quella musica era diretta solo a me, e sono sicuro che solo io riuscivo a sentirla. E soprattutto, sono sicuro che sei stata tu a mandarla.
Qualcuno di sopra aveva acceso la tv. Stralci di battute di un talk show e risate registrate giungevano attraverso il soffitto ed echeggiarono nella stanza. Sembrava provenissero da un altro pianeta, e la stanza numero 24 ne era un altro. Ma alla fine erano tutti pianeti appartenenti allo stesso sistema solare.
Grey continuava a fissarmi incredula senza staccarmi gli occhi di dosso. Di nuovo si accese un’altra Laramie con la sua “arma da fuoco”. Era chiaro che ancora non riuscisse a credermi.
- Non essere così stupita. Quella non è stata l’unica volta. Quasi ogni notte, appena uscito da quella caffetteria, sentivo una musica sempre diversa che sembrava provenisse dal cielo per amplificarsi nelle mie orecchie. Prima erano solo Simon & Garfunkel, poi divennero John Martyn, Nick Drake e Nina Simone. Un giorno era Chet Baker, un altro era Leonard Cohen. 
- Poi cominciò a capitarmi anche di giorno. Una mattina stavo andando da Jackson’s come al solito per pranzo, quando, poco prima di entrare, potevo scommetterci di aver sentito un inconfondibile giro di basso di Sterling Morrison. 
- Provai ad entrare per vedere se non fosse della musica proveniente dalla caffetteria, ma appena mi sporsi vidi che era in corso una rapina a mano armata con tre tizi con delle maschere di plastica di Micheal Moore, George Bush e Bill Crosby. Fortuna che George Bush non si accorse che avevo visto tutto, era troppo impegnato a controllare che Walt Disney avesse preso tutto dal registro di cassa. 
Grey emise una risatina roca, tra il divertito e l’ironico, la cenere della sigaretta pericolosamente in bilico sulla tazza.
- E comunque era impossibile che provenisse da quel locale, Jackson’s ha sempre mandato solo robaccia da quattro soldi e musica pop demenziale e logorante. Immagina che al momento della rapina alla radio stava passando Why Can’t We Be Friends. Cristo, roba da restarci secchi.
Grey stavolta scoppiò in una risata strozzata, il fumo le uscì di getto dalla bocca e si dissolse. Aveva rovesciato un po’ del suo “caffè”. Ma io continuai, imperterrito, ormai semiserio.
- Penso che Micheal, George, Bill e Walt un giorno dovrebbero andare tutti insieme un po’ più avanti e provare a rapinare il negozio di dischi jazz, almeno ascolterebbero musica decente. Anche se credo che troverebbero sicuramente meno grana alla cassa rispetto a quella del Jackson’s. Sempre meno gente compra dischi jazz, ma tutti sentiranno sempre la necessità di prendere un caffè e una fetta di cheesecake. 
Scostò la tazza del suo “caffè”. Il pensiero mi era andato a quel negozio disastrato, posandosi su un certo vinile impolverato di Porgy and Bess.
- Frank ha sempre venduto solo musica jazz eccellente. Ricordo che quando ci lavoravo mezzo negozio era pieno dei più bei vinili della Atlantic, ci trovavi dischi d’annata di chiunque dei più grandi, da Ray Charles a John Coltrane. Lavorare in quel posto fu forse uno dei più bei periodi della mia vita.
Ci guardammo per un attimo leggermente sorridenti, poi Grey domandò:
- Era davvero dal cielo che sentivi provenire quella musica?
- Sì. Prima non mi era chiaro come potesse accadere, poi col tempo ho capito che veniva direttamente dal dodicesimo piano di questo motel. Eri tu Grey, che la stavi ascoltando, perché non poteva essere solo una coincidenza che percepissi solo la tua musica preferita. La nostra musica preferita.
David Letterman fece una domanda irriverente dal piano di sopra. Ancora risate registrate.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1307916