Better Than White.

di dearjoseph
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Chapter One ***
Capitolo 3: *** Chapter Two ***
Capitolo 4: *** Chapter Three ***
Capitolo 5: *** Chapter Four ***
Capitolo 6: *** Chapter Five ***
Capitolo 7: *** Chapter Six ***
Capitolo 8: *** Chapter Seven ***
Capitolo 9: *** Chapter Eight ***
Capitolo 10: *** Chapter Nine ***
Capitolo 11: *** Chapter Ten ***
Capitolo 12: *** Chapter Eleven ***



Capitolo 1
*** Prologue ***



Prologue 

Uno. 
Due. 
Tre.
Quella sera, dei piccoli fiocchi di neve avevano deciso di entrare in scena.
Erano leggeri, tanto da essere spazzati via dal vento prima ancora di toccare terra.
Ed erano fragili, così fragili da diventare acqua prima ancora di entrare in contatto con il resto del mondo.
Una ragazza aprì il palmo della mano e aspettò che uno di quei fiocchi insignificanti le si posasse sulla pelle che non si era nemmeno curata di coprire con dei guanti, ma nulla. Nessuno di essi era abbastanza forte da lasciare una prova della sua esistenza.
Danae si sentiva così, proprio come quei fiocchi di neve.
Troppo debole per arrivare fino in fondo. Troppo fragile per resistere alle intemperie di ciò che la circondava, e sola. Spesso si sentiva tanto sola.
Ma non in quel momento, non insieme alla sua amica più fidata, all’unica cosa che l’aiutava a vedere il mondo con occhi diversi e in un certo senso meno critici.
Prese la pesante macchinetta fotografica appesa al collo e la puntò appena più in alto. Il tempo di sistemare l’obiettivo, che già il suo flash aveva catturato il cielo ormai quasi del tutto privo di luce che abbracciava la Cattedrale di Saint Paul in uno spettacolo dalla bellezza quasi surreale.
Ecco, era quella la lente in grado di ricordarle che non poteva essere sempre tutto nero, bianco e grigio.
La conferma che di colori il mondo ne offre in quantità, ma che spetta ad ognuno scegliere su dove puntare l’obiettivo; se sul rosso fuoco di un papavero, il blu profondo del mare, o il bianco candido della neve.
Irrilevante, freddo, noioso bianco.
Presa dal suo lavoro, non sentì nemmeno qualcosa pizzicarle la mano.
No, pizzicare non era proprio il termine corretto, pungere si addiceva molto di più. Prima che se ne rendesse conto un altro di quegli spilli di ghiaccio le punse la fronte, e un’altro di nuovo la mano che continuava a stringere il prezioso oggetto.
Stava nevicando.
Contro le aspettative della serata, quelle palline di neve erano riuscite ad arrivare fino alla sua pelle, dove avevano sostato solo per pochi secondi prima di sciogliersi e scomparire come quelle precedenti.
Danae aprì di nuovo il palmo della mano e stavolta la sua richiesta fu accolta immediatamente: la neve ora cadeva incessante, i fiocchi erano più grandi e numerosi e riempirono la mano della giovane in così poco tempo che dovette ritirarla nella tasca della sua giacca perchè completamente bagnata.
Cristalli d’avorio continuavano a rimanere intrppolati tra i suoi riccioli ramati, perciò decise di tirar su il cappuccio, avvolgendosi tra la pelliccia color crema che le limitava la vista ma almeno la riscaldava.
E così anche quella sera la neve era riuscita a diventare la protagonista, abbandonando il suo ruolo di comparsa.
I fiocchi stavano lasciando la loro traccia, non indelebile, ma pur sempre una traccia del loro passaggio.
E cosa poteva significare se non che qualunque cosa è in grado di emergere se destinata a ciò, per quando fragile e debole essa possa sembrare?

 

Innanzi tutto ciao e grazie a chi è arrivato a leggere fin qui.
Devo ammettere che ieri sera ho scritto tutto questo di getto, e ancora non sono in grado di sapere esattamente come la storia si evolverà ma ho voluto comunque postarlo per sapere se è gradito o no.
Perciò ditemi che ne pensate 

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Capitolo 2
*** Chapter One ***




 

Chapter One

Danae odiava il suo nome; così insolito, praticamente inestistente in realtà, frutto solo della stravagante fantasia dei suoi genitori.
Perchè Danae? Facile, perchè i suoi erano entrambi professori di letteratura con una fissa per la mitologia greca.
Cosa poteva esserci di peggio? Domanda retorica, naturalmente.
Per colpa della spiccata fantasia dei Signori White, Danae era stata costretta ad imparare a memoria il significato del suo nome e la sua provenienza, scenetta che prontamente recitava con ben poca enfasi a chiunque le chiedesse spiegazioni. La gente sembrava affascinata da quella storia, ma lei non riusciva a capirne il perchè. In fin dei conti era solo la triste storia di una ragazza costretta a vivere in una torre da un padre squilibrato che non voleva avere dei nipoti, ma che nonostante tutto concepì un figlio con niente di meno che il dio Zeus. Assurdo.
E come se non bastasse, la leggenda legata al suo nome le risultava alquanto ridicola, soprattutto se veniva collegata a lei: Danae infatti non aveva la minima intenzione di sposarsi, o avere dei figli.
Trovare qualcuno con cui passare la vita magari si, ma non nutriva grandi speranze nel solito eterno ed immacolato per sempre.
Nulla era per sempre, e lo aveva già provato sulla sua pelle.
Alcuni la definivano pessimista, scettica, ma lei si sentiva semplicemente realista.
Era inevitabile che il tempo prima o poi finisse, così come che l’amore si affievolisse o un’amicizia mutasse fino a perdere quasi d’importanza.
L’unica cosa che non mutava era la memoria. Quella andava preservata, a tutti i costi.
E forse era per questo che amava così tanto la fotografia; un oggetto così sottovalutato come la fotocamera rendeva eterni i ricordi, li imprigionava su un pezzo di carta plastificata a disposizione di tutti coloro che ne volessero fare uso. Una fotografia poteva raccontare una storia, poteva rimandare a ricordi belli, altri meno piacevoli, altri ancora del tutto ignorati fino a quel momento.
Ma cosa più importante, una fotografia faceva in modo che nessuno venisse dimenticato.
 
Il vento che si era alzato all’improvviso cominciò a far svolazzare le pagine del libro che la giovane aveva tra le mani, non permettendole più di proseguire nella lettura. Danae piegò l’angolo superiore della pagina alla quale si era fermata e lo ripose nella borsa mentre i capelli le si appiccicarono al viso. Prima ancora che avesse il tempo di prendere un elastico e legarli in uno chignon improvvisato, la folata di vento cessò di disturbarla e quello che rimase fu solo il lieve fruscio proveniente dalla chioma dell’albero proprio sopra la sua testa.
Quel giorno il Regents Park non era troppo affollato, il che poteva sembrare strano dato che nessun londinese si spaventava davanti a qualche nuvolone scuro qua e là. Tutti erano piuttosto abituati a quella situazione. Inoltre, era una giornata mediamente calda per gli standard e c’era persino il rischio che il sole spuntasse da un momento all’altro.
Tuttavia quell’insolita situazione non la rallegrava nè la turbava più di tanto. In realtà non la toccava minimamente, perchè anche se ci fosse stata metà della città chiusa in quel parco lei sarebbe comunque riuscita a trovare un bell’albero al quale appoggiarsi e passare un paio di ore di tranquillità, accompagnata magari dall’innoqua presenza di qualche scoiattolo curioso o alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Stava quasi per decidere di tornare a casa, quando il sole fece capolino tra due nuvole e un paio dei suoi raggi la colpirono. Danae alzò il volto e, come ammaliata da quello spettacolo, cominciò a muovere istintivamente le mani nella sua borsa alla ricerca della macchinetta fotografica.
Non poteva non immortalare quel meraviglioso gioco di luce e colori, i raggi del sole filtrati dal fitto fogliame dell’albero che era diventata la sua dimora per quel pomeriggio lo rendevano un paesaggio davvero suggestivo.
Un gruppo di bambini che si rincorrevano l’un l’altro attirò la sua attenzione mentre era intenta a percorrere il viottolo che l’avrebbe condotta all’uscita principale. Sorrise, soddisfatta di quegli scatti che raffiguravano i volti di quei ragazzini sorridenti, pieni di vita e dotati di quell’incapacità di vedere il male che tanto caratterizza la fanciullezza.
Il telefono cominciò a squillare ma Danae non ci fece troppo caso dato che immaginava già chi fosse l’emittente della chiamata. Come risposta, invece, cercò di affrettare il passo.
Si guardò un pò attorno, come faceva sempre, e non potè fare a meno di notare un ragazzo che correva: canotta nera e un paio di pantaloni chiari fino al ginocchio; un abbigliamento insolito se si pensava ai diciotto gradi che incombevano sulla città quel giorno.
Ma non fu quello a far si che la ragazza puntasse l’obbiettivo su di lui. Anche ad una certa distanza, non si poteva discutere sulla buona preparazione atletica del giovane e soprattutto sull’ammirevole forma fisica.
Dopo aver fatto un paio di scatti, Danae lasciò cadere la macchinetta all’interno della tracolla e si incamminò verso l’uscita del parco, luogo dove anche il ragazzo si era appostato, forse stanco per la lunga corsa alla quale si era sopposto.
La giovane comandò a se stessa di guardare in modo discreto e non troppo invadente quando gli fosse passata accanto, ma si lasciò tentare dal farlo quando vide che lui era voltato di lato.
E comunque quel ragazzo non avrebbe fatto caso a lei neppure se gli fosse caduta tra le braccia, questo era più o meno quello che pensò tra sè e sè.
Danae ebbe così il modo di notare il suo respiro irregolare dalle spalle e il torace che si alzavano e abbassavano più velocemente del normale, prima che lo vedesse stirare le braccia verso l’alto e ricominciare a correre nella direzione opposta alla sua. I muscoli delle braccia sembravano guizzare ad ogni movimento e, nonostante la temperatura bassa, erano ricoperti da un velo di sudore che continuava sulla maglia per tutta la lunghezza della schiena.
Quando la ragazza diede un’ultima occhiata al moro prima che uscisse definitivamente dalla sua visuale, si pentì per non essere riuscita a vederlo in volto ma poi si disse che non aveva alcuna importanza.
In fondo era solo uno sconosciuto, no?
Eppure, durante il tragitto verso la metropolitana, e anche dopo, si ritrovò stupita dal fatto che più e più volte l’immagine di quel ragazzo che correva le si era presentata davanti all’improvviso.
Non che fosse stata particolarmente colpita dal suo fisico palestrato ma asciutto nei punti giusti, dai riccioli corvini, o da quella vena sul collo che giurava di poter ancora veder pulsare per il recente impiego di forza fisica, proprio no.
 
Quando rientrò a casa, fu subito assalita dal fratello che non le lasciò nemmeno il tempo di togliere il giubbotto.
“La mamma ha detto che domani mi porterai al cinema!” la voce entusiasta di Joshua la travolse e solo dopo un pò capì che quella frase era rivolta a lei.
“Io non ho mai detto una cosa del genere” si giustificò Danae, scocciata del fatto che sua madre promettesse sempre cose impossibili e poi toccasse a lei sistemare tutto.
“Ma lo sai che quando la mamma dice una cosa noi dobbiamo rispettarla” il tono serio e autoritario del fratellino la fece sorridere. Joshua era un ragazzino vivace, loquace e dimostrava sicuramente più dei sette anni che aveva compiuto da nemmeno una settimana. A volte dimostrava una maturità tale a quella della sorella di venti, e questo faceva andare Danae in bestia, ma tutto sommato era un buon fratello minore.
Lei lo amava più di chiunque altro al mondo, nonostante i modi bruschi con in quali alle volte gli si rivolgeva e nonostante non glielo confessasse tanto spesso quanto doveva.
“E da quando fai caso alle regole della mamma?” lo sfidò lei e Joshua era già pronto a replicare se non fosse stato per la madre che li aveva raggiunti e li guardava dalla soglia della cucina.
Prima ancora di salutarla, fece segno alla ragazza e le indicò con la mano il tavolino scuro sul quale era impossibile non notare la bianca lettera che giaceva sopra. Danae si avvicinò cauta a quel pezzo di carta e, prendendola in mano, il suo cuore perse di sicuro qualche battito.
La lettera era firmata a caratteri stampati dal London College of Communication, e lei cercò di scartarla prima ancora di avere il tempo di pensare sul perchè la sua università la stesse contattando.
 
 
 


Ciao a tutti! Ho un pò di cose da dirvi, perciò non mi dilungo:

  1. Il nome Danae è insolito, lo so. Ma da quando l’ho sentito ne sono rimasta affascinata, quindi ho voluto usarlo come nome di questa protagonista altrettanto insolita. Alcuni diranno “e che noia”, ma questo pessimismo che si respira nell’aria è dovuto ad una storia che per ora non vi racconterò MUAHAHAHAHA (?)
  2. il primo capitolo ha avuto solo 2 recensioni. Non credo di continuare con così pochi commenti (o almeno, la continuerò ma non la pubblicherò), quindi confido in voi LOL
  3. se avete consigli sarò contentissima di riceverli, davvero. Avrei bisogno di tante belle critiche costruttive, quindi fatevi avanti.
  4. Credo di aver finito
  5. Ah no! Come avete visto tutta la storia si svolge a Londra, mi ero stancata della solita New York, Los Angeles ecc.

Starete già dormendo sulla tastiera o avrete già chiuso la pagina quindi mi chiedo cosa ci faccio io ancora qui...

Alla prossima,
Martina 

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Capitolo 3
*** Chapter Two ***







Chapter Two

 
Per Annabelle Clarks quella non era stata una settimana facile, e il fattore età di certo non giocava a suo favore.
Era una donna sulla sessantina, anno più anno meno. Come tutte le donne di questo mondo non amava rivelare la propria età, ma la maggior parte degli studenti che avevano avuto il privilegio di entrare in contatto con lei la stimavano intorno a quegli anni. Un fattore che sicuramente non passava inosservato a chi la conosceva era la sua corporatura minuta, che andava riducendosi nel corso degli anni ma che ancora le permetteva di essere a capo del London College of Communication, una delle maggiori università londinesi.
Da circa dieci minuti la donna aveva congedato l’ultimo dei tanti che quella mattina aveva avuto il piacere di accogliere e alla quale aveva rifilato la stessa risposta data agli ospiti precedenti.
Anche se sapeva che quel silenzio non sarebbe durato molto, cercò di convincersi che in quella mattina d’inverno nessun altro sarebbe venuto a lamentarsi della lettera che era stata costretta a mandare qualche giorno prima, ma quel suo desiderio durò meno del previsto.
"Signorina White.." sbuffò esasperata la preside Clarks quando vide Danae entrare nel suo ufficio. Ormai aveva rinunciato a tenere il conto degli studenti che si erano presentati da lei in quella che per i suoi gusti sembrava una mattinata fin troppo lunga. Danae però non fu affatto intimorita dall’atmosfera pesante che sembrò schiacciarla appena mise piede in quella stanza e si accomodò su una delle due poltrone scure che ormai aveva imparato a conoscere nei dettagli.
"Se è qui per la revoca della borsa di studio, mi dispiace dirle che molti dei suoi compagni l'hanno preceduta, e senza buoni risultati sottolinerei"
La giovane, che durante la notte passata insonne aveva preparato per filo e per segno il discorso da presentare alla preside Clarks, rimase qualche minuto in silenzio ad elaborare quello che lei le aveva appena riferito.
Da quando aveva letto le cinque righe nella quale era stato deciso  di annullare la borsa di studio che le permetteva di frequentare la struttura con molte agevolazioni in campo economico, Danae era stata convinta che tutto ciò in qualche modo fosse ingiustamente collegato alla storia riguardante l’episodio avvenuto poco prima dell’inizio delle vacanze estive e contro cui lei stava ancora combattendo.
Al solo pensiero si sentì lo stomaco in subbuglio e in preda alla nausea. A quello stato di agitazione ben presto si era sostituita una gran voglia di spiegazioni e una rabbia che era del tutto lecita nel suo caso. Ma ora che si era ritrovata faccia a faccia con la Clarks, separata solo dal tavolo in ciliegio le quali sfumature avevano catturato la sua attenzione durante tutti i suoi ragionamenti a riguardo, aveva capito che non era solo una questione personale. Molti altri ragazzi si erano già lamentati di quest’improvvisa notizia, e questo la fece pentire di tutti i brutti pensieri che aveva rivolto ad una donna che probabilmente non aveva nulla a che fare con tutto ciò.
“Potrei sapere il perchè di quest’improvviso cambiamento?” Danae si rivolse alla donna col tono più rispettoso che sapesse utilizzare pur non sentendosi affatto la benvenuta in quella stanza bianca e asettica.
“Lei più di tutte dovrebbe sapere perchè, signorina White”
Quella sola frase diede il via al senso di nausea di cui Danae era riuscita a liberarsi qualche ora prima e il pensiero che si fece prepotentemente spazio nella sua testa venne subito dopo confermato dalla signora Clarks.
“Come ben ricorda, l’incidente dello scorso anno scolastico ci è costato un bel pò e nessuno è disposto a darci i fondi per riparare la struttura danneggiata dagli studenti” mentre parlava, Danae sentì l’odiosa sensazione che la donna la guardasse come la colpevole di un delitto che, per una ragione ben nota a tutti, non poteva essere incriminata. Colpevole di qualcosa che non le era completamente estraneo, questo Danae non poteva negarlo. Quella era una sensazione che ormai la ragazza aveva imparato a sopportare.
Del resto, quella donna la stava guardando come tutta la scuola faceva da mesi, ormai.
“Quindi siamo stati costretti a tagliare su molte delle borse di studio dei nostri studenti per far fronte a quest’ingente impegno economico. Mi dispiace ma non potrà frequentare più le lezioni o i corsi straordinari se non pagherà prima la retta mensile. Sono sicura che capirà” Annabelle Clarks concluse la spiegazione come da copione e accennò un sorriso ad una Danae piuttosto scossa.
Bene, naturalmente non si era soffermata molto sul quello che lei aveva definito incidente ma i riferimenti ad esso erano più che chiari, così come l’accusa indiretta del suo coinvolgimento. Prima che le venisse la sfortunata idea di confrontarsi con lei, Danae preferì ringraziare cordialmente ed uscire da quel posto che era diventato fin troppo stretto e soffocante per i suoi gusti, così come i ricordi di quella notte che ora erano risaliti a galla e non le lasciavano modo di pensare lucidamente a quello che stava succedendo.
Quando uscì finalmente fuori dall’edificio prese a respirare a pieni polmoni l’aria fredda di quella mattina e si ritrovò a pensare che ora sarebbe stato ancora più difficile entrare in quel posto senza far caso alle occhiatacce che le avrebbero riservato tutti coloro che, come lei, avevano perso la borsa di studio.
Come se lei ne fosse responsabile.
Come se lei fosse l’unica responsabile.
Un ultimo profondo respiro e si sentì di nuovo scaricata dall’orrenda sensazione dello sguardo intimidatorio della preside Clarks. Quando ricevette due o tre spintoni da gente così indaffarata da non trovare nemmeno il tempo di biascicare delle scuse, capì che non poteva rimanere lì, ferma come un manichino, e cominciò a vagare senza una meta precisa e con i suoi pensieri come unica guida.
Il vento le pungeva gli occhi e li fece anche lacrimare per un pò, ma lei riusciva solo a pensare a come avrebbe potuto dare la notizia ai suoi genitori.
Come avrebbe spiegato che la lettera non era affatto uno sbaglio?
Cosa avrebbero detto quando lei si fosse presentata chiedendo tutti quei soldi che loro di certo non avevano modo di procurarle?
Dopo tutto quello che era successo non potevano sostenere una spesa del genere, e lei non doveva neppure pensarlo.
D’altronde la signora Clarks era stata piuttosto chiara a riguardo: pagare o andare via. Questo significava che Danae non avrebbe più potuto frequentare nulla se prima non avesse pagato la retta mensile che tutti gli studenti erano tenuti a versare.
Nonostante i genitori lavorassero entrambi come insegnanti, la somma di denaro a cui l’università stava imponendo di far carico era, comunque, troppo elevata. Loro avrebbero certamente accettato di pagarle uno o due mesi, ma poi?
Se non fosse stato per la borsa di studio che Danae era riuscita a ottenere grazie al suo eccellente andamento scolastico precedente, lei non avrebbe di certo scelto il corso di fotografia di un’università tanto prestigiosa e ora non si sarebbe trovata nei guai.
C’era un unico modo per continuare ad andare avanti; Danae doveva trovare un lavoro, e alla svelta.
La prima, e anche unica, soluzione che le venne in mente fu proprio quella.  Avrebbe potuto lavorare la mattina e frequentare i corsi pomeridiani dell’università per pagarsi da sola gli studi. Sarebbe stata dura, ma quello che le sembrava completamente impensabile era permettere ai suoi genitori di farsi carico dei suoi problemi.
Danae allora decise di non perdere tempo; comprò un giornale, lo sfogliò e andò subito a leggere gli annunci in fondo all’ultima pagina per poi utilizzare il resto della mattinata in giro per la città e alla ricerca di anche una delle più insignificanti opportunità di guadagno. Si fermò in un bar e, accompagnata da una grande tazza di caffè, iniziò a chiamare la lunga lista di bar,fast food, negozi, ristoranti italiani,giapponesi, messicani nei quale si imbattè durante la lettura, ma nulla. Nessuno sembrava aver bisogno di personale, soprattutto non di una ragazza con esperienza zero e nessuna carta che valesse davvero qualcosa. Persino il negozio di souvenir all’angolo della sua strada non voleva assumerla senza un’opportuna qualifica e la ragazza stava per ritornare a casa con la convinzione di doversi abbassare ad un’occupazione quale dog-sitter o qualcosa del genere, prima che le venisse in mente una cosa. C’era un numero che aveva volutamente saltato, ma se quella era l’unica proposta rimasta, nulla le impediva di fare una prova.
Prese il telefono e compose il numeno sotto al nome “Rainbow”.
“Buongiorno, posso esserle d’aiuto?”Per una qualche strana ragione, Danae non si sentì affatto sollevata nell’udire la voce della donna dall’altra parte della cornetta.
“Si, sono Danae White. Vorrei chiederle se avete bisogno di personale, ma la informo subito che non ho nessuna esperienza a riguardo” si affrettò a precisare. Il tono frettoloso con cui Danae si era rivolta fece ridere la donna e la giovane si chiese se fosse così evidente il fatto che quello fosse l’ultimo lavoro che avrebbe voluto fare.
Per un attimo sperò che rifiutasse come avevano fatto tutti gli altri, nonostante tutto ciò che avrebbe comportato dopo, ma per sua sfortuna quella sembrò essere la volta giusta.
“Certo signorina Danae, se è interessata al lavoro domani mattina può iniziare la sua settimana di prova”
Con in mano il bigliettino con su scritto l’indirizzo del suo probabile nuovo lavoro, Danae si alzò dal tavolino che aveva occupato per più di un’ora e mezza e gettò il bicchiere di carta nel cestino della spazzatura lasciandosi andare ad un rumoroso sospiro.
Lavorare in un asilo nido non si poteva propriamente definire il lavoro dei sogni per una che i bambini li sopportava a malapena.
 
 
 
 
Ciao a tutti, come va?
Come potete vedere ho deciso di aggiornare alla fine! *ricevepizzeinfaccia*
Spero che la storia dell’incidente vi abbia incuriosito un pò, e se non ci avete capito una mazza dell’inizio non preoccupatevi perchè è normale (?)
Vi piace il banner? *grilliepalledifieno*
PS. Se volete passare dall’altra mia fan fiction forever the name on my lipsne sarei felice!


Beh, fatevi sentire e alla prossima 

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Capitolo 4
*** Chapter Three ***






Chapter Three
 
Per quanto Danae avesse sperato che il giorno dopo cominciasse il più tardi possibile, il sole non volle ascoltarla granchè e, anzi, le sembrò anche che esso fosse arrivato prima del solito.
Dopo qualche minuto si era arresa a quello strumento di tortura comunemente chiamanto sveglia ed era anche riuscita ad alzarsi dal letto, ma da quel momento in poi non aveva fatto altro che rimanerci seduta sopra con l'armadio aperto e lo sguardo fisso nel vuoto.
"Che cosa fai?" Il rumore di cereali sgranocchiati arrivò ancora prima della voce di Joshua.
“Aspetto che un qualsiasi vestito mi cada tra le mani" rispose lei annoiata mentre continuava a chiedere a se stessa come ci si dovesse vestire il primo giorno di lavoro.
Elegante? Forse, ma lei stava pur sempre andando a lavorare con dei bambini; non che questo stesse a significare che doveva indossare un paio di pantaloni larghi a pois e una parrucca color melanzana, ma se si fosse vestita in modo troppo formale l'avrebbero licenziata prima ancora di assumerla e lei non doveva farsi sfuggire quel lavoro.
Per quanto lo volesse, non poteva proprio.
Prima di rendersene conto si ritrovò più confusa di quanto fosse prima di aprire l'armadio. Il fratello continuò la conversazione nonostante sapesse quanto lei odiasse parlare appena sveglia, o forse proprio per questo motivo.
"Non fai prima a prenderne uno tu?"
"Si Josh, farei prima se sapessi cosa mettermi" Danae vide che il ragazzino stringeva tra le mani una tazza di cereali e decise di non cacciarlo dalla stanza solo perchè avrebbe potuto ricavarne qualcosa. Così addolcì la sua voce e sorrise teneramente a Josh.
"Perchè non mi dai un po' di cereali?"
"Perchè non vai a prenderteli?" Joshua si voltò leggermente di lato come a proteggere meglio la sua colazione e la sorella continuò la sua commedia cominciando a fargli gli occhi dolci.
"Perchè sono così impegnata a cercare qualcosa da mettere per il mio primo giorno di lavoro" disse imbronciata "per favore" concluse poi e Josh sembrò cederle.
A volte era davvero difficile determinare chi fosse più bambino dell'altro.
“Ok, ma solo un cucchiaio"
Danae sorrise soddisfatta e si affrettò ad accettare l'offerta prima che il fratello trovasse qualche nuova scusa. Mangiò in fretta il suo cucchiaio di cereali, per poi riempirlo di nuovo prima che Joshua lo impedisse.
"Avevi detto uno!" La rimproverò lui e Danae gli spettinò i capelli castani con una mano prima che lui si volatizzasse. In quel momento si rese conto che non aveva ancora detto nulla ai suoi riguardo al lavoro, e doveva farlo prima del fratello dalla lingua troppo lunga. Perciò mandò al diavolo ogni problema riguardo all’outfit e indossò dei semplici jeans, un maglioncino pesante e gli stivali prima di correre in cucina, dove si aspettava di trovare tutti. E infatti fu così. Diede il buongiorno prima di poggiare la tracolla di pelle sul tavolo che non era stato nemmeno preparato per la colazione.
“Mamma, papà. Vorrei parlarvi dell’Università” disse Danae direttamente, non avendo nessun altro discorso a disposizione per cominciare la conversazione.
Margaret White, d’altronde, sembrava essersi già preparata alla richiesta della figlia e le rispose più prontamente di quando Danae si immaginasse “Abbiamo già pagato la retta di questo mese”
Danae guardò meravigliata prima la madre, dai capelli lunghi e l’aria severa, poi il padre. A differenza di Margaret, Mark White aveva qualche capello bianco che spuntava qua e là tra i riccioli castani e l’aria stanca; entrambi erano il segno evidente di quanto quella famiglia si stesse lentamente sgretolando all’interno senza che i figli potessero farci nulla.
“Grazie” disse lei, un pò in colpa di quello che i suoi erano stati costretti a fare “Ma volevo dirvi che ho trovato lavoro, perciò appena riceverò il primo stipendio restituirò tutto quanto” si affrettò a precisare e l’unica reazione che vide fu il padre che annuì prima di abbassare la testa sul piatto di uova e pancetta mentre la madre continuava a passare uno strofinaccio sul tavolo.
Danae sospirò e si disse che era molto più di quanto avrebbe potuto ottenere. Impedì a se stessa di pensare al perchè i suoi genitori fossero così poco interessati alla sua vita, perchè non le avessero chiesto dove sarebbe dovuta andare a lavorare, o quando avrebbe frequentato le lezioni, o semplicemente perchè non le avevano neppure augurato buona fortuna e uscì da casa per fare colazione nel solito bar: per affrontare la dura giornata che l’attendeva non bastavano di certo un paio di cucchiaiate di latte e cereali.
Fino a qualche mese prima questa semplice azione non sarebbe stata nemmeno pensabile; la colazione era una specie di immancabile riunione di famiglia, un momento estremamente piacevole al quale gli White non avrebbero mai potuto rinunciare. Al solo pensiero già la ragazza poteva immaginare di sentire l’odore delle frittelle che cuocevano, il rumore dell’impasto a contatto con la padella bollente, il tavolo tondo apparecchiato come per la più grande delle feste, e le risate.
Risate che avevano smesso di esistere nello stesso momento in cui sua madre aveva smesso di preparare la colazione per tutti come da abitudine. Quello fu più o meno il periodo in cui Danae cominciò a cercare tutti i modi possibili per uscire e allontanarsi da quella casa, triste e irrimediabilmentevuota. E così, l’eliminazione di quel rituale giornaliero si era portato via anche quel po’ di legame che era il collante di quella famiglia.
 
Danae era in ritardo. Era molto in ritardo, ma quando arrivò di fronte alla struttura che corrispondeva esattamente all’indirizzo che il giorno prima una donna le aveva fornito non potè fare a meno di fermarsi per qualche minuto.  La temperatura di quella giornata di fine Novembre si era abbassata ancora e tutto il suo corpo la spingeva ad entrare ma per una qualche ragione l’idea di guardare le nuvolette bianche di aria condensa che le uscivano dalla bocca non sembrava tanto male.
Il fatto era che quell’edificio le sembrava troppo... colorato.
Le finestre erano state abbellite da disegni, la porta era a vetri colorati e sopra ergeva una terrificante scritta color arcobaleno con tanto di unicorni qua e là. Aveva collegato a quest’ultimi i brividi che avevano preso il sopravvento su gran parte del suo corpo, ma dovette ammettere che aveva davvero bisogno di ripararsi dal freddo perciò si incamminò verso l’entrata prima che qualcuno la vedesse congelarsi in mezzo al nulla.
Quando entrò fu anche peggio: i bambini correvano avanti e indietro, gridando, ululando perfino, e i colori si erano moltiplicati così come i disegni e gli unicorni. L’arrivo di una donna, probabilmente colei con cui aveva parlato al telefono, le impedì da scappare da quella che sarebbe stata la sua prigione privata per tutta la durata dell’anno scolastico.  Una gran bella prigione, piena di cuori e fiocchetti rosa barbie, pensò.
“Ciao,tu devi essere Danae!” la donna che si presentò sotto il nome di Maila Michealson utilizzò uno strano tono eccitato mentre salutava e stringeva la mano a Danae. La ragazza riuscì a ricambiare il saluto solo dopo qualche secondo “Ciao, si sono io” disse indecisa mentre sperava che lavorare in quel luogo non l’avrebbe costretta a parlare in quel modo ridicolo e altamente irritante. Come se Maila avesse letto i pensieri della giovane attraverso quegli occhi nocciola, assunse un’aria più disinvolta e finalmente decise di parlarle con un tono di voce accettabile.
“Non preoccuparti, limitati a parlare così solo in presenza dei genitori e del capo supremo” accompagnò le ultime due parole con uno strano gesto con le mani e Danae sorrise di gusto “E chi sarebbe questo capo supremo?”
“La padrona di questo posto. Non c’è praticamente mai, quindi il più delle volte faccio io il ruolo del capo supremo” rispose Maila e Danae riuscì persino a pensare che quella donna le potesse stare simpatica ma quando ricordò il posto in era quell’allegria sparì completamente.
“Bene, da cosa comincio?” disse allora strofinandosi le mani l’un l’altra in un gesto che pareva dovuto più alla tensione che al freddo. Maila la invitò a seguirla in un piccolo ufficio accando alla sala dove quattro o cinque ragazze tentavano di tenere l’ordine e, dopo averla fatta accomodare, le mise di fronte un foglio. Danae lo compilò in fretta con tutti i suoi dati, tentennando a rispondere alla domanda che le chiedeva se avesse esperienza nel settore.
“Bene” esclamò la donna togliendole il foglio dalle mani quando Danae ebbe finito “Sei dei nostri allora”
“Ma non aveva parlato di una settimana di prova o qualcosa del genere?” domandò Danae. Come era possibile che le avesse dato il posto senza nemmeno aver visto cosa sapeva fare?
Beh, a quanto pare era possibile.
“Abbiamo urgente bisogno di personale” confessò Maila senza troppi giri di parole e Danae degludì rumorosamente al pensiero di non sapere neppure da dove cominciare “Non preoccuparti, se non sai qualcosa la imparerai” cercò di rassicurarla lei. Ma quelle parole non ebbero su Danae l’effetto desiderato.
 
Finalmente era arrivata l’ora del pranzo e i bambini erano tutti seduti a mangiare; o quasi tutti.
Le tre ore precedenti erano sembrate le più lunghe della sua vita ma, guardando le altre ragazze che lavoravano lì sicuramente da molto più tempo, Danae pensò che come primo approccio non se l’era cavata tanto male e forse anche Maila la pensava così, dal momento in cui non era intervenuta neanche una volta.
O magari questo era solo dovuto al fatto che Maila sopportava quel lavoro ancora meno di Danae.
I bambini ridevano, parlavano tra di loro come solo bambini di tre o quattro anni possono fare, ma quel rumore era quasi piacevole se confrontato alla situazione di nemmeno un ora prima. Danae finì di aggiustare la bavetta ad un marmocchio che non voleva saperne delle verdure nel suo piatto prima di vedere una bambina dai capelli corvini seduta ancora tra giochi e costruzioni e si disse che per quel giorno il suo lavoro non era ancora finito. Le si avvicinò e cercò di imitare il tono con cui Maila le si era rivolta per la prima volta.
“Perchè non vieni a mangiare con tutti gli altri bambini?” Danae sorrise, ma dall’espressione con cui la bambina la guardò non sembrava che la voce da amante dei mostriciattoli le fosse uscita tanto bene. La piccoletta che non doveva avere più di quattro anni riabbassò lo sguardo sulla costruzione nella quale era impegnata e Danae decise di riprovarci “Che bella, è una casa vero?” e dicendo così avvicinò una mano a sfiorare la costruzione di lego colorati.
Cosa che non avrebbe mai dovuto fare.
La bambina cominciò a piagnucolare, poi singhiozzare fino a piangere disperatamente come se le fosse stata fatta la cosa peggiore del mondo sotto lo sguardo esterrefatto di Danae. Inutilmente la ragazza cercò di calmarla. Anzi, più le si avvicinava e più lei continuava ad alzare la voce. Non voleva chiedere aiuto a nessuno durante il suo primo giorno, ma fu quasi costretta a chiamare qualcuno del personale che ci capisse qualcosa in più se non fosse per la bambina che immediatamente smise di piangere, tutto questo da un secondo all’altro.
"Ehi Jenn" Danae sentì una voce maschile proprio dietro di sè e sperò con tutto il cuore che qualcuno fosse venuto a prendere quell’incubo dalla lacrima facile "Perchè la mia fidanzata sta piangendo?"
La ragazza si voltò e vide la bambina dai capelli scuri che non riusciva a far smettere di piangere correre incontro al proprietario di quella voce. Jennifer non ci mise molto a sostituire quel continuo lamento che sembrava non l'avrebbe più abbandonata con un grande sorriso allegro e Danae fu presa da uno strano sconforto misto a incredulità. Il moro di fronte a lei sembrò non vederla neanche, continuando a parlare con la bambina che stringeva tra le braccia e Danae ebbe l'impressione di conoscerlo, o almeno di averlo già visto da qualche parte. Era sicura che non avesse nulla a che fare con l'università perchè, per quanto le desse fastidio ammetterlo, un ragazzo del genere non sarebbe passato inosservato. Quindi, eliminati i corsi di studio, non le rimaneva molto tra cui scegliere dato che aveva smesso di frequentare da un bel pezzo qualsiasi posto che le permettesse di incontrare suoi coetanei.
“Quella ha chiamato casa il mio bel castello” piagnucolò Jenn indicando poi minacciosamente Danae con un dito. La ragazza trattenne a stento una risata isterica.
“Allora dobbiamo dire alla signorina che è proprio cattiva” rispose il giovane dai capelli corvini proprio come la bambina, utilizzando anche lui quell’irritante tono. Danae pensò che sarebbe stato un miracolo non uscire da lì pazza. Infastidita dal comportamento del ragazzo che continuava ad ingnorarla, la rossa si schiarì rumorosamente la voce, avendo finalmente l’onore di incontrare i suoi occhi.
“Scusala, sai come sono i bambini” disse lui ma Danae preferì non rispondere. Mise entrambe le mani sui fianchi continuando a guardare quello sconosciuto. Forse il suo comportamento sembrò più strano di quanto in realtà fosse, perchè il moro corrugò le folte sopracciglia in attesa di una risposta che non arrivò.
“Va bene” canticchiò per poi passarsi la lingua sulle labbra carnose “Forse è meglio se vado” disse infine, prima di voltarsi con in braccio ancora la bambina che giocava con alcuni dei suoi riccioli più lunghi. Danae immaginò anche di aver intravisto un sorriso sul suo volto ma non ci fece troppo caso.
Allontanandosi, il moro fece scendere Jennifer e le prese la manina mentre gli occhi di Danae puntarono un particolare che non aveva notato prima ma che le fece capire esattamente perchè quel giovane le sembrava così familiare; la sua vena sul collo.
 
 

Mie belle ragazzuole, come va?
Devo precisare che il bellissimo benner dell’inizio è stato fatto da more_
Bene bene, avete capito qualcosina in più su Danae? No? Neanche io (?) AHAHAHAHAH 
Sono in ansia per il compito di matematica che avrò venerdì quindi credo che non avrò proprio la testa per scrivere in questi giorni, ma fa nulla vero?

Ps. Mentre scrivevo il capitolo più di una volta mi sono ritrovata a scrivere Hanna al posto di Danae, perciò ditemi se ci sono errori di nomi ahahahah
Un bacione grandissimo

Martina.

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Capitolo 5
*** Chapter Four ***






Chapter Four

Il moro che aveva incontrato il giorno prima era il ragazzo del parco.
Questo Danae l’aveva capito giusto prima che egli andasse via con la bambina, colei che le aveva dato filo da torcere per un’insignificante castello di lego. Ma ora che la ragazza era davanti al computer poteva avere la completa certezza della sua ipotesi. Guardava e riguardava le foto scattate quel giorno al Regents Park e, anche se il volto del ragazzo non era visibile, era palese la somiglianza nel fisico con quell’individuo con cui aveva avuto a che fare all’asilo.
Mentre zoomava sulle foto di lui, si chiese perchè stesse ancora lì a contemplare l’immagine di un ragazzo che si era comportato in modo totalmente inadeguato con lei ma non trovò risposta.
Lui l’aveva ignorata, e poi le si era rivolto come se Danae fosse una coetanea di quel mostriciattolo, Jennifer. 
La ragazza si costrinse a chiamarla per nome; doveva cambiare atteggiamento riguardo ai bambini, in fondo ora lavorava in un asilo.
Mentre i suoi pensieri puntavano tutti su una qualche possibilità di apparire simpatica ai bambini, gli occhi invece puntarono fissi dinanzi ad essi; squadravano l’ultima foto che Danae aveva scattato e sulla quale lei si stava soffermando un pò più di quanto in realtà dovesse. Il protagonista di quell’immagine era sempre lo stesso, quel ragazzo moro a maniche corte con stampata sul volto la fatica della corsa ma che appariva così gradevole ai suoi occhi.
No, più che gradevole; le sembrava affascinante. E attraente.
In quel momento avrebbe tanto voluto prendersi a schiaffi da sola, ma se l’avesse fatto sarebbe sicuramente spuntato il fratello con una videocamera in mano. Se c’era una cosa che Joshua sapeva fare bene era fiutare i momenti di stranezza e imbarazzo più assoluto e immortalarli in modo che la genererazione futura potesse godere di grosse risate. Un pò in questo si somigliavano, ma le cose in comune tra i due iniziavano e terminavano lì.
Distolse lo sguardo e chiuse il portatile con un gesto nervoso come se non vedere più quella foto bastasse a farle ritornare la mente lucida. Cercò di elaborare cosa ci fosse di particolare in quella foto, e forse l’unica cosa che c’era di particolare era proprio la presenza di quel giovane ma decise di ignorare ogni sua supposizione quando si rese conto dell’orario.
Era affamata, infreddolita, e in ritardo. Di nuovo.
Due volte in due giorni, di questo passo avrebbe persino superato il suo record personale. Non che ne fosse così tanto entusiasta, e per questo si affrettò a prepararsi per quella che le sembrava  l’ennesima, lunga giornata di lavoro ma che in realtà era solo la seconda. Una cosa però la tranquillizzava: il fatto che il pomeriggio avrebbe potuto ricominciare le lezioni all’università. Pensiero che inevitabilmente faceva volgere l’attenzione ai suoi genitori, alla retta mensile che avrebbe dovuto pagare e poi di nuovo al lavoro.
Per quanto volesse, tutto sembrava collegato all’edificio del quale si preparava a varcare la porta proprio il quell’istante.
 
Danae non ebbe nemmeno il tempo di entrare nell’asilo che già Maila le corse incontro; entrambe le mani occupate, una stringeva un bambino e l’altra una targhetta che immediatamente gettò a Danae.
“Scusa il ritardo” disse lei mentre lesse il suo nome sulla targetta e, prima ancora di avere il tempo di appuntarla al petto, Maila le lasciò cadere tra le braccia il bambino di nemmeno due anni.
“Non importa. Cambiagli il pannolino, ora” urlò quasi, prima che Danae la vedesse correre verso due dei bambini più grandi che si contendevano una macchinina rossa.
Inutile specificare che l’ultima volta che aveva cambiato un pannolino era stata sette anni prima, con Joshua, ma ciò non l’allarmò. Non poteva di certo definirsi la maga dei pannolini, ma quanto mai sarebbe stato difficile cambiarne uno?
Erano passati quasi cinque minuti da allora e Danae si disse che era più difficile di quanto ricordasse. Soprattutto se il bambino di cui non conosceva nemmeno il nome continuava a muoversi e scalciare come se avesse dimenticato di essere fuori dal pancione della madre da un bel pezzo o come se l’unico modo per salvarsi dal mostro che aveva davanti fosse quello di buttarsi giù dal fasciatoio.
Più probabile che fosse per la seconda, teoria che inevitabilmente confermava già la precaria fama che Danae aveva sempre avuto tra i minori di dieci anni.
Come se ciò non bastasse, si sentì tirare giù la maglia e, quando abbassò lo sguardo, si ritrovò a guardare i due grandi occhioni marroni di Jennifer.
“Ehi, sono un pò impegnata. Puoi andare da qualcun’altra?” le rispose Danae con un tono un pò troppo nervoso. Gettò nel bidone il pannolino che aveva in mano per poi prenderne un’altro con la speranza di non staccarne nuovamente una delle fascette laterali.
“Ha detto che se non ti chiedo scusa non mi compra il little pony”
La ragazza ignorò totalmente il significato delle ultime due parole e si lasciò sfuggire solo un “Cosa?” mentre alzava i piedini del piccolo e sistemava sotto il pannolino.
“Ho detto a Jennifer che se non ti chiede scusa non le compro il little pony, qualunque cosa esso sia”
Danae roteò gli occhi quando riconobbe quella voce e si chiese quante volte ancora le sarebbe comparso dietro quello sconosciuto. Si voltò di lato, tenendo sempre sotto controllo il bambino sul fasciatoio che nel frattempo si era calmato, forse stanco anche lui di aspettare lì, disteso, nelle mani di una totale ignorante in materia. Nonostante la giovane avesse già capito chi si sarebbe trovata di fronte, quando lo ebbe davanti sgranò gli occhi al pensiero che fosse perfino più bello di quello che aveva visto in foto la mattina. Forse perchè ora stava sorridendo.
“Possiamo anche saltare le scuse” rispose Danae sforzandosi di sorridere a sua volta per un tempo che non superò i due secondi al massimo.
“Ciao” concluse poi, prima che potesse crearsi un silenzio imbarazzante o, meglio, prima che lui avesse modo di rivolgerle ancora la parola. Gli rivolse le spalle nel tentativo di tornare al suo compito senza aspettatori attorno.
Forse i pensieri del moro erano un tantino differenti da quelli della ragazza, perchè lui non sembrò avere l’intenzione di allontanarsi e, anzi, continuò a parlarle.
“Sono Joe” disse, continuando a sorridere mentre aspettava che lei si voltasse di nuovo. Cosa che non accadde. “E stanotte non ho quasi dormito per il pensiero di chiederti scusa”
Danae strinse le labbra nel tentativo di non scoppiare a ridergli in faccia dopo aver sentito quella frase e finalmente riuscì a chiudere quel dannato pannolino. Prese in braccio il piccolo e tornò a voltarsi verso colui che si era presentato sotto al nome di Joe. Intanto Jennifer era scappata via verso un gruppo di altre bambine ma il suo interlocutore non sembrò nemmeno notarlo.
“Ne dubito” rispose poi, ancora divertita dallo stupido modo con cui ci stava provando con lei. Danae non ci aveva mai saputo fare con i ragazzi, ma la sua prima impressione fu quella. Forse sbagliata. Sicuramente sbagliata. Questo pensiero fece si che si ricomponesse per poi prendere a guardarlo in modo più scettico.
Joe, nel frattempo, continuò a studiare la figura di fronte a sè corrugando istintivamente le sopracciglia, gesto che Danae notò subito come familiare, giacchè aveva fatto lo stesso la prima volta che avevano parlato.
Beh, in realtà quella volta aveva parlato soltanto lui.
Danae si chiese se fosse un suo strano tic o fosse lei quella talmente strana da provocargli quella reazione, poi si rese conto che Joseph stava guardando il bambino che lei aveva dimenticato di avere in braccio.
“Non credo vada così” esordì lui dopo la lunga pausa nella quale Danae aveva fermamente sperato di essere richiamata da qualcuno a fare il suo lavoro, ma nessuno sembrava avere bisogno di lei in quel momento; buffo, davvero.
Prima che capisse a pieno a cosa si riferisse quella frase, il ragazzo le prese dalle mani il bambino ridacchiando un “Lascia fare a me” che Danae trovò alquanto irritante. Come il resto del suo comportamento, d’altronde.
Lo guardò poggiare piano il piccolo sul fasciatoio, aprire il pannolino e girarlo dall’altro lato, e in quel momento si sentì abbastanza stupida; anche se non sapeva bene se per aver sbagliato a mettere un semplice pannolino o per il fatto di aver sbagliato a causa del suo fiato sul collo.
 "Posso farti una domanda?" chiese lui, dopo aver concluso il suo lavoro. Danae si allontanò col bambino per poi sistemarlo su un girello. Lo vide scarrozzare via mentre sapeva benissimo di avere Joe ancora alle calcagna.
"Posso in qualche modo impedirtelo?" chiese a sua volta lei. Joe scosse la testa divertito.
"Allora sono tutta orecchi" il suo tono fin troppo entusiasta trasudava falsità da tutti i pori ma il moro fece finta di nulla.
"Lavori in un asilo e non sai cambiare un pannolino, e non sembra neanche che i bambini ti piacciano granchè” non era una domanda.
“Come mai sei qui? Non sembra un posto per te" Danae fu colpita dalla veridicità di quelle parole ma soprattutto dal modo naturale e spontaneo con cui Joe le aveva riferito il resoconto sulla sua persona senza praticamente conoscerla.
“Non è vero. I bambini mi piacciono” si difese allora, trovando ancora una volta inconcepibile il suo comportamento.
“Certo” Joe rise di gusto e Danae si trattenne dal cacciarlo fuori da quel posto perchè, dopo lui, sicuramente sarebbe arrivato ben preso il suo turno.
“Dico davvero. Mi piacciono... fino a quando sono stampati su una foto o non hanno bisogno di pannolini e pappette liquide” rispose stizzita, per poi tentare di chiudere il discorso una volta per tutte con l’immortale “È una storia lunga"
"Per tua sfortuna ci vedremo spesso"
Come se sapesse perfettamente le parole che Danae gli avrebbe riferito, Joseph non tardò a incalzarla e Danae sentì che l’unico modo per liberarsi di quell’individuo fosse quello di assecondarlo.
"È per pagare l'università" rispose sbuffando e Joe mise entrambe le mani nelle tasche del cappotto scuro che aveva addosso, in attesa di una qualsiasi continuazione del discorso. Un pò più tardi capì che in realtà il discorso era già concluso.
"Beh, non mi sembra una storia tanto lunga"
"Perché questo è quello che dico ai ficcanaso sconosciuti" questa volta fu lei a prenderlo, piacevolmente, di sorpresa.
“Ora posso farti io una domanda?” Joseph annuì.
“Lavori qui?”
“No” rispose lui, “Sono venuto solo per lasciare Jennifer”
 Danae non ebbe alcuna reazione, lasciando al ragazzo ben poco da capire “Ma tu lo sapevi già”
Lei si aprì in un sorriso furbo.
“E quello era solo un modo carino per dirmi che dovrei andare, giusto?” chiese lui, seppur lo sguardo della ragazza non potesse essere sottoposto a fraintendimento alcuno.
“Perspicace” concluse lei, per poi dargli una pacca sul braccio.
Un attimo dopo si pentì di quel gesto stupido e sperò vivamente che per un qualsiasi motivo lui non ci avesse fatto caso. Inutile dire che non fu così.
Joseph, seppure si rendesse perfettamente conto di aver sorriso un pò troppo in quelli che non erano stati neanche dieci minuti, non potè trattenersi dal farlo di nuovo quando notò l’imbarazzo della giovane che ora trapelava anche dalle guance diventate più rosee di quanto già fossero.
Poi le parole successive uscirono dalla sua bocca senza che nemmeno se n’accorgesse.
"Sai, spero di essere uscito bene nelle tue foto"
Danae spalancò gli occhi per tutto il tempo durante il quale fu sottoposta allo sguardo scrupoloso di Joe; tempo che le sembrò infinitamente lungo. Un groppo in gola le impedì di dire una qualsiasi cosa, mentre il giovane la guardava attento a cogliere ogni reazione istintiva nel viso pallido di lei.
Joe capì subito che non era estranea all’avvenimento a cui lui aveva fatto esplicito riferimento.
“Ci si vede, Danae” la salutò allora, sporgendosi un attimo in avanti per leggere il nome sul cartellino appuntato alla giacca della ragazza.
 

 
 
 

Ciao bellissime
Questo capitolo non serve a niente LOL
No, davvero. Non ha nè capo nè coda, perdonatemi ma in questi giorni ho la testa un pò così.
Mi sento di dover specificare una cosa, nel caso non l’abbiate capito o non sia stata brava io a farvelo capire: Joe Jonas in questa storia NON è assolutamente famoso!
 Non mi piace scrivere di persone famose che poi girano per le vie senza neanche un paparazzo o una guardia del corpo perchè non sarebbe realistico e sinceramente mi scoccia mettere questi elementi nella storia, quindi Joe Jonas è un normalissimo ragazzo (normalissimo si fa per dire)
Bene, specificato questo punto spero la storia vi piaccia lo stesso e non vi preoccupate, si scopriranno tante cose su Danae e la sua famiglia e anche su Joseph.
Abbiate pazienza belli bimbi (direbbe la mia prof, eh si, ha qualche rotella fuori posto)
PS. Ho iniziato un’altra fan fiction  (Cliccate qui)
 E chissà, forse ne faccio una anche su Hunger Games... AHAHAHAHA
Ma non vi preoccupate, le concluderò tutte (prima o poi)
Non voglio annoiarvi quindi vado.
Alla prossima YA YAA (?)

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Capitolo 6
*** Chapter Five ***





Chapter Five

Danae seguì con lo sguardo i movimenti di quel ragazzo, Joe, da quando si avvicinò a Jennifer lasciandole un bacetto in fronte fino a quando non scomparve dietro la porta a vetri colorati. Accertatasi che si fosse allontanato uscendo irrimediabilmente dal suo campo visivo, cominciò a prendere consapevolezza di quello che lui le aveva detto. Quasi non sentì la voce proveniente dalla sua destra, presa da quella strana ansia.
“Danae, c’è bisogno di te qui. Muoviti”
La ragazza si sentì sfiorare il braccio, e quando si voltò lo fece con un meccanismo meccanico tanto che ci vollero un paio di secondi prima che mettesse a fuoco il viso di Maila. Annuì poco convinta di quello che le era stato riferito, quando in testa aveva ancora la voce di quel moro; quel ragazzo che la conosceva, l’aveva riconosciuta, nonostante lei avesse sempre creduto che fosse passata inosservata davanti a lui. Inosservata, come le succedeva sempre.
“Si, vado” rispose poi, notando che Maila era ancora lì. E continuava a fissarla; sorridendo. Danae pensò che la stesse implicitamente rimproverando di quell’atteggiamento distante, ma sentì che c’era qualcos’altro. Forse lo scambio di sguardi tra lei e il riccio le era sembrato più intenso di quanto in realtà era stato, perchè Maila la guardava con un sorriso malizioso sulle labbra colorate di un rosso brillante.
“Devi dirmi qualcosa?” le chiese poi, lasciando Danae stranita da quella domanda. La rossa rispose scuotendo velocemente il capo, ancora non riuscendo a capire a pieno il comportamento di Maila nei suoi confronti. Era come se quella donna avesse visto molto di più in quella che in verità era stata solamente una chiacchierata.
Ma Danae non poteva contraddirla. Soprattutto perchè il solo ripensare a Joe l’aveva fatta arrossire di colpo, e mancava poco che cominciasse a sudare in pieno inverno. Tutto ciò non fece altro che incuriosire ancor di più la donna che la scrutava traendone anche un certo divertimento.
“Se tutti i papà che vengono qui fossero così!” sospirò infine Maila, ancora con una nota di divertimento nella sua voce. Ammiccò alla giovane ragazza in modo eloquente, prima di voltarsi molto lentamente. Mentre si allontanava pensò che, se la sua vasta esperienza non la ingannava, Danae l’avrebbe raggiunta presto. Cominciò allora a contare dentro sè: uno, due, tre-
“Maila!” esclamò Danae, prima di piombare d’avanti alla sua figura, bloccandole completamente il passaggio. Maila sorrise ancora, questa volta soddisfatta della reazione così scontata e anche più pronta e decisa di quanto si aspettava da lei.
“Maila” disse ancora. Dopo un rumoroso respiro, continuò. “Cosa dicevi? Riguardo Joe-“ Danae si corresse subito “Riguardo quel ragazzo, e i papà?” cercò di mantenere un tono di voce distaccato e quasi annoiato mentre chiedeva informazioni su colui che non le sarebbe mai dovuto interessare.
Danae aveva già pensato che quella bambina potesse essere sua figlia. Insomma, la somiglianza tra i due era troppo evidente; stessi riccioli scuri, stessi lineamenti, stesso pessimo carattere.
E poi era bravo a mettere i pannolini.
Anche se si rese conto che quell’ultimo dettaglio non era poi così rilevante, quell’unica volta in cui si era concessa di ipotizzare qualcosa sulla vita di Joe il pensiero che egli fosse il padre di Jennifer non l’aveva turbata particolarmente per tutta la serie di motivi precedenti. Ecco perchè ora non riusciva a spiegarsi il perchè una notizia non poi così inaspettata l’aveva stordita completamente.
L’aveva colta di sorpresa, forse l’aveva anche un pò delusa.
“Ho detto che se tutti i padri fossero così giovani e belli tutte noi avremmo un motivo in più per esser felici di lavorare qui” Maila ripetè il concetto senza nascondere un riferimento a Danae che non si era neanche curata di celare troppo. Tutto questo fu confermato dall’occhiolino rivolto proprio a Danae, mentre la donna sussurrava qualcosa che lei capì solo attraverso il movimento delle sue labbra.
“Ma forse qui qualcuna lo ha trovato il motivo per venire al lavoro col sorriso”
Maila si riferiva a lei?
Oh. Certo che si riferiva a lei.
Danae evitò di rispondere a quella provocazione quando capì che parlare con Maila non avrebbe portato a nulla di buono. Spiegarle che lei aveva travisato tutto non avrebbe portato ad altro che alla continuazione di quel discorso fondato sul nulla più assoluto. E in più, se avesse insistito troppo su tal punto la donna avrebbe potuto persino pensare che Danae fosse davvero interessata a lui, tanto da nasconderlo con le unghie e coi denti. Quindi la giovane fece spallucce con il viso più innocente che era riuscita a recuperare e, quando voltò le spalle a Maila, la donna  rimase stranita dal suo comportamento, stavolta non più così scontato.
Intanto Danae riprese a lavorare intrattenendo un gruppetto di bambini che disegnavano, tra cui anche la piccola Jenn. Fece qualche complimento qua e là, ed evitò minuziosamente ogni parere riguardo il disegno di quella che sapeva di per certo essere la figlia di Joe, per paura che questa scoppiasse di nuovo a piangere urlando che quella era una principessa, non una bambina.
Nonostante i suoi sforzi, si ritrovò a guardare Jennifer più spesso di quanto facesse con gli altri, soffermandosi su quegli occhi castani, quelli che erano decisamente gli occhi del padre. Poi la vide sorridere, mentre due piccole fossette si rivelavano sulle sue guancette rosse. Joe aveva sorriso tanto, ma non aveva mai notato quelle sue stesse fossette.
-Chissà, forse avrà preso dalla madre- pensò, e questo le bastò a farle distogliere lo sguardo da quella bambina. Danae carezzò il capo di un bambino che le aveva chiesto aiuto e prese in mano il suo pennarello.
Quanti anni poteva avere, Joe? Ventitré? O forse venticinque? Immediatamente le era sembrato troppo giovane per esserne il padre. E per essere sposato.
“Non so fare i fiorellini” si lamentò il bambino accato a lei, e Danae gli sorrise.
“Guarda, ti insegno io” disse in tono affettuoso, più di quanto si era mai rivolta a quei bambini. Nonostante questo, la sua mente rimaneva distante.
Così, mentre aiutava a disegnare cuoricini e fiori, Danae si chiese se Joseph fosse sposato,o fidanzato. Si domandò anche come avrebbe fatto a guardarlo di nuovo, ogni santissimo giorno di quella che ora era la sua vita, ora che sapeva che lui l’aveva vista da sola mentre gli scattava foto come un’asociale che si accontenta di contemplare un immagine nella sua stanza buia invece di avvicinarsi e parlare al diretto interessato. Danae sperò vivamente che Joe capisse quelle che erano state le sue vere intenzioni: lei stava scattando solo qualche foto qua e là senza motivo. Lui era un soggetto come tanti altri; come la chioma dell’albero al quale si era poggiata per leggere, i bambini che giocavano o quella coppia di anziani che l’aveva fatta sorridere di tenerezza. Lui non era nulla di speciale.
O almeno, questo era quello di cui Danae stava fermamente cercando di convincersi.
 
 
Il giovane si strinse nel cappotto lungo e nero, il passo più svelto del solito. Nuvolette bianche si formavano a periodi regolari all’altezza del naso, del quale Joseph non aveva più percezione da un paio di minuti. Nonostante questo, però, il moro continuava ad avere in volto stampato un sorriso; aveva solamente gli angoli della bocca lievemente alzati all’insù, ma quello era pur sempre un sorriso. Stranamente, non era una contrazione del volto involontaria, e non era neppure colpa del freddo che aveva irrigidito i muscoli del viso.
Da quanto l’aveva riconosciuta il giorno prima, Joe moriva dalla voglia di sapere se la ragazza notata al parco l’avesse a sua volta riconosciuto e, non con troppa sorpresa, grazie alla sua frase ad effetto aveva potuto constatare che era stato proprio così,  che non era passato indifferente.
Inutile descrivere il piacere che ebbe nell’entrare nell’edificio ben riscaldato che era lo studio di registrazione. Il tepore che fuoriusciva dal condizionatore posto all’entrata lo scaraventò nella realtà e dimenticò quelle che erano state le sue riflessioni per tutto il tragitto dall’asilo fin lì. Prima che potesse anche solo sfilare il cappotto, si trovò uno dei clienti davanti alla porta. Era un uomo in giacca e cravatta, elegante, troppo elegante per essere un cantante che aveva affittato una delle sue sale di registrazione, quindi si ritrovò a pensare che quello fosse il manager.
“Siamo pronti ad incidere questo disco?” chiese quella voce formale cercando di imitare un tono entusiasta, e Joseph sorrise con amarezza.
“Certo” rispose poi. Entrò nella stanza numero 3 e poggiò il cappotto contro lo schienale della sua sedia. Sfiorò con le dita qualcuno dei centinaia di tasti che aveva di fronte, prima di dare il via al ragazzo biondo che si era già sistemato all’interno della sala di registrazione. Una voce cominciò a risuonare chiara nelle sue cuffie e Joe cominciò a smaneggiare con i tasti cercando di eliminare ogni più piccola imperfezione. Joseph individuò subito qualche punto in cui la melodia perdeva d’intensità, altri dove il testo non legava minimamente con le note, ma preferì non interferire. Era la prima volta che vedeva quel giovane cantante nello studio nel quale lavorara ormai da un bel pò, e se c’era una cosa che gli avevano sempre spiegato era che lui era lì per registrare al meglio la performance, non per dare consigli. Così, quando il biondo ebbe finito, il riccio gli fece segno con la mano invitandolo ad uscire, imitando un sorriso soddisfatto. Joe si congratulò, come sempre, e un’altra giornata di lavoro trascorse nella sua solità monotonia.
Nonostante ci fosse abituato, non poteva fare a meno di sospirare tristemente ogni qual volta si ritrovava a pensare che lui ogni giorno aiutava a realizzare il sogno degli altri, ma nessuno ancora era disposto a realizzare il suo.

 


Ciao bellezze :D
Scusate il ritardo, ma alla fine ce l'ho fatta a scrivere il capitolo, complimentatevi (?) no, non fatelo AHAHAHAHA
Siete contente per il papà Joseph? Ce lo vedete in queste vesti? Io si, tantissimo.
Lo avete visto il nuovo tatuaggio di Mister Jonas? Io lo amo, voi?
Beh che dire, aspetto il vostro commento.
Alla prossima (che sarà prima di dieci giorni, prometto ahaha)

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Capitolo 7
*** Chapter Six ***





Chapter Six

La piccola Jennifer si svegliò nel suo lettino dalle lenzuola rosa antico prima ancora del padre. Non passò molto che già si ritrovò in piedi, le mani aggrappate alle fasce bianche dello schienale, prima di cominciare a saltellare come faceva ogni mattina. Stranamente, quella volta Joseph non si svegliò al rumore delle molle del materrasso della bambina, ma Jenn non si arrese. Era sempre stata una bambina testarda, lei.
“Jenn!” urlò Joseph, quando la piccola saltò su di lui ancora dormiente, ridacchiando. Joseph, dopo un momento di imbarazzante spavento, prese a ridere con lei, dandole poi il solito bacio del buongiorno.
Joe prese a baciare le guance rosse della figlia che, divertita, si dimenava per sfuggirgli. Prima che il giovane se ne rendesse conto, Jennifer riuscì a scappare dalle sue braccia muscolose e a riprendere a saltellare, questa volta sul letto del padre.
“Alzati, è tardi!”
Lui sorrise e si lasciò cadere di nuovo sul letto. Prese a guardare il soffitto, consapevole che fosse troppo presto anche per una bambina iperattiva come Jennifer, ma decise di alzarsi comunque. Non che avesse un’altra opzione; se Jenn decideva che era ora di svegliarsi, era ora di svegliarsi.
“Andiamo amore” disse il riccio, prendendo in braccio la piccola “Andiamo a fare un bel bagnetto, okay?”
Jennifer fece un acuto da fargli invidia come risposta affermativa e Joe la strinse a sè. Come da rituale, aspettò che il padre si piegasse a terra in modo da salire a cavalcioni sulle sue spalle, e a nulla valsero le scuse di lui. Joseph si sentì penetrare dai due grandi occhioni color cioccolato della piccola, cedendo alla sua richiesta anche quella volta.
Jennifer salì in groppa al padre, tenendosi ben salda al colletto della canotta che egli utilizzava come pigiama e spronandolo ad avanzare più velocemente così come aveva imparato guardando i film western che piacevano tanto al papà.
I due risero fino a quando il breve tragitto verso bagno non terminò, e chiunque li avesse visti avrebbe potuto affermare che quella era una bellissima scena. Bella davvero.
Per fortuna, i 25 anni di Joseph gli permettevano di compiere tranquillamente tutte le spericolatezze che i bambini amano fare; eppure in quel periodo il giovane si sentiva stanco.
Stanco fisicamente. Mentalmente. Era stanco di avere storie occasionali e di non poter mettere su una vera famiglia. E poi era stanco del suo lavoro. Di dover rinunciare ai suoi sogni per motivi piuttosto ovvi.
Ogni volta che si ritrovava a pensare questo, si sentiva un pò in colpa, nei confronti di Jennifer, e questo lo rendeva consapevole che era davvero stupido sentirsi stanchi di una vita che aveva voluto lui.
“Non voglio andare all’asilo oggi” finse di piagnucolare Jennifer mentre Joe lasciava che l’acqua sgorgasse dal rubinetto fino a riempire l’intera vasca da bagno, ma evitando che ciò accadesse anche ai pensieri nella sua mente. Jennifer prese in mano la sua barchetta preferita in attesa di entrarvi.
“Ma lo sai che papà deve andare al lavoro” rispose dolcemente lui. Il moro testò l’acqua e, dopo essersi accertato che quella fosse la temperatura perfetta, vi immerse una Jennifer sorridente come al solito.
Oltre agli occhi, e ai capelli, quella era forse la più evidente delle somiglianze trai due. Entrambi emanavano attorno un calore che non era facile da trovare; il loro era un sorriso che fermava il tempo, si imprimeva nella memoria di chi lo guardava. Illuminava, riscaldava, un pò come il sole.
Stranamente, però, Joe aveva notato che la piccola rivelava il suo essere tanto spensierata e amorevole solamente in sua presenza. Ma nelle varie volte in cui ci aveva ripensato, egli si era convinto che sarebbe stato strano il contrario, nelle sue condizioni.
Mentre giocava spensierata immersa tra la schiuma bianca e qualche bollicina color arcobaleno che le volava leggera attorno, Joseph scrutava il viso sereno della figlia.
Jennifer ci aveva messo un pò di più ad abituarsi all’assenza del padre, in confronto a tutti gli altri bambini della sua età. Ogni  volta che Joe era costretto ad allontanarsi da lei anche solo per poche ore, era un’agonia, per entrambi. All’inizio, lasciarla all’asilo, o dal fratello Kevin, era stata davvero dura. Questo pensiero lo fece sciogliere.
“Se vuoi, per oggi posso lasciarti da zio Kevin. Ti va?” propose sorridendo. Inutile specificare che la piccola accolse felicemente quella proposta.
Joseph si rendeva perfettamente conto di essere un pò troppo permissivo con lei; ma cosa altro poteva fare?
Jennifer aveva solo lui. Non aveva una madre. Non l’aveva mai avuta. Il padre era l’unica figura fissa nella sua vita.
Joe era il sole. Il sole di Jennifer.
E beh, Jennifer era il sole di Joe.
 
 
“Sono tornata!” urlò Danae appena varcata la soglia di casa. Erano più o meno le 8 di sera, e lei non aveva mangiato nulla se non un disgustoso panino prosciutto e maionese preso alla caffetteria dell’università che rischiava di venir su da un momento all’altro. Posò accuratamente la tracolla di pelle contenete la sua macchinetta fotografica su una delle sedie della cucina, e corse ad aprire il frigo. Prese in mano un piatto ricoperto da carta stagnola con scritto il suo nome e, tolta quest’ultima, lo mise a riscaldare nel microonde.
Sempre meglio di nulla, si disse.
La mattinata era trascorsa abbastanza tranquillamente; il terzo giorno era andato decisamente meglio del primo, ma ancora non ci sapeva fare con i bambini. In realtà, si chiese se mai ci avrebbe saputo fare con i bambini. Il tempo lo avrebbe detto, probabilmente.
Il microonde cominciò a emettere squilli a intervalli regolari, quindi Danae prese il suo piatto di pasta e si accomodò al tavolo senza nemmeno curarsi di mettere la tovaglia.
Un particolare che fece ritornare i suoi pensieri alla mattina del giorno stesso fu, a suo malgrado, Jennifer. Non l’aveva vista, quella mattina. E tutto questo stava a significare che non aveva visto neanche Joe.
Meglio così, pensò di nuovo.
Quel giorno si sentiva particolarmente positiva. L’ottimismo non era mai stato nelle sue vene, ma il fatto di aver trascorso il pomeriggio di nuovo all’università la faceva stare bene. Le lezioni erano state interessanti, e non vedeva l’ora di avere un pò di tempo libero per provare le nuove tecniche che l’insegnate aveva proposto durante il corso di fotografia. Si appuntò mentalmente di andare a South Bank, nel weekend. O magari al Regents Park.
Magari lì avrebbe anche rivisto...
Nel momento stesso in cui esso le si presentò davanti, cacciò via quello stupido pensiero. Allettante, seducente pensiero, ma pur sempre stupido.
 Doveva smetterla. Smetterla di pensare a quel ragazzo... a quell’uomo.
Ha una figlia, Danae, si rimproverò mentre vuotava il bicchiere di succo all’arancia che si era versata. Il liquido scese lungo la sua gola rinfrescando le pareti rimaste secche fin troppo a lungo, ma non dissetandola completamente. Decise allora di bere dell’acqua, fredda da frigo, nonostante fosse inverno.
Intanto, mentre quanche gocciolina di acqua le scendeva sul mento e lei l’asciugava con un movimento meccanico, il rumore di passi pesanti si fece spazio verso di lei e la cucina. Senza neanche voltarsi, capì essere suo fratello Joshua. La voce risoluta del bambino le diede ragione anche quella volta.
“Ehi Danae. Mi dai un consiglio?” la ragazza si voltò, e una ciocca rossa le ricadde sulla fronte.
Vide Joshua far svolazzare un foglio di carta davanti a lei “Tra un pò è Natale e a scuola mi hanno detto di fare un disegno della nostra famiglia”
Danae aspettò che continuasse perchè non riusciva a capire cosa lei c’entrasse in quella faccenda. Poi il fratellino continuò “Mi dici se ti piace?”
Anche se lei non capiva molto di arte e non era mai stata brava a disegnare, annuì con un lieve sorriso sulle labbra pensando che per dire ad un bambino di 7 anni che il suo è un bel disegno non aveva bisogno di queste gran doti. Dovette ammettere che le aveva fatto piacere, il fatto che lui si fosse rivolto proprio a lei. Sembrava stupido, ma ogni volta quelle piccola attenzioni la sorprendevano. E soprattutto le facevano ripromettere di trattare meglio il fratello, cosa che prontamente non avveniva. Danae prese in mano il foglio.
“E’ davvero bellissimo” disse, dopo una veloce occhiata a quello che era davvero un bel disegno. Ecco un’altra cosa in cui Josh sarebbe stato più bravo di lei. Stranamente quel pensiero non la infastidì come al solito. Prima che riconsegnasse il ritratto della famiglia nelle mani del suo creatore, qualcosa, forse il suo inconscio, fece stringere di nuovo le dita sui margini di quel foglio, stropicciandolo un pò.
Danae si sentì mancare d’aria, e si trattenne dall’aggrapparsi al tavolo.
Quel disegno raffigurava cinque persone. Ma nella loro famiglia erano solo quattro.
Come aveva potuto non notarlo?
Gli occhi castani della ragazza fissarono quella che doveva essere lei, raffigurata su quel pezzo di carta. Accanto vi era un’altra figura, un ragazzo, aveva la sua stessa altezza. E un braccio attorno alla sua spalla.
Stavolta la giovane dovette davvero posare una mano sul tavolo per mantenere l’equilibrio.
“Non ti piace?” chiese Joshua, preoccupato per l’espressione che aveva preso possesso del viso della sorella e il suo improvviso colorito pallido. La sua voce incerta fece distogliere lo sguardo di Danae, che in quel momento si posò sul viso del bambino.
“Come hai potuto” chiese lei, la voce soffocata per la rabbia.
Perchè Joshua l’aveva fatto? E perchè per un momento, un bellissimo momento, lei aveva pensato che in quel disegno non ci fosse nulla di strano? Nulla in più?
 “Non c’è più, Joshua” disse, il tono di voce aumentò di potenza mentre pronunciava il nome del fratello.
“Non c’è più!” urlò più forte facendo spaventare il piccolo Joshua, che indietreggiò di un paio di passi. Danae se ne accorse, e cercò di controllarsi. Si impose di respirare lentamente, mentre il suo volto assumeva il giusto colorito, abbandonando il bianco perlaceo di poco prima.
“Non capisci? Non c’è più.” ripetè un’ultima volta, con un tono più controllato.
Disperazione. Ecco cosa c’era nella sua voce.
Gli occhi le si arrossarono, chiedendo prepotentemente di lasciare che le lacrime le rigassero il viso. Ma, ancora una volta, lei lo impedì.
Joshua sembrò non riuscirci.
“Cosa sta succedendo qui?” chiese improvvisamente Margaret White, che era corsa in cucina allarmata dalle grida della figlia più grande. Si appoggiò allo stipite della porta, come a sostenersi.
Lo sguardo di Danae cadde sul viso della madre, e dall’espressione che aveva in volto capì che sapeva di cosa, o di chi, i suoi due figli stessero parlando. Allora guardò Joshua, che sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Continuò a fissare prima l’una, poi l’altro, in un meccanismo che si ripetè più di un paio di volte. Poi sussurrò: “Scusa”.
Si avvicinò al fratello, abbracciandolo forte. Il foglio ancora stretto tra le dita.
“Scusa” ripetè di nuovo, lasciando che entrambi i loro corpi scivolassero sul pavimento freddo.
Danae lo strinse forte a sè, affondando per un momento il volto nei capelli castano ramati di Joshua. Non era uno dei loro soliti battibecchi. C’era di più, c’era molto di più. C’era un dolore che le lacrime, il tempo, nulla poteva mai curare. Affievolire si, ma mai curare del tutto. Una ferita che avrebbe sempre sanguinato.
Danae ricacciò dentro le lacrime imponendosi di fermarle prima che le bagnassero gli occhi. Se non l’avesse fatto lei, chi avrebbe dato forza al piccolo Joshua?  In quel momento ricordò di essere in presenza anche della madre, che non stava facendo nulla. Rimaneva lì, ferma sulla porta, con gli occhi rossi di chi ormai è anche stanco di piangere. Guardava i due suoi figli accovacciati a terra, che si cullavano l’un l’altro, il piccolo Joshua scosso dai singhiozzi che avevano preso il sopravvento sul suo minuto corpo.
La giovane invidiò il fratello, che riusciva a sfogarsi come era giusto fare.
Mentre lei non poteva. Mentre lei aveva promesso il contrario.
 




Lo so, è passata una vita dall’ultima volta. Ma non mi andava più di scrivere.
In compenso, il capitolo mi piace (lo so che non vi interessa il mio parere, ma qualcuno sa che a me difficilmente piace ciò che scrivo AHAHAH).
Lo so che non succede nulla, ma in realtà si scoprono un bel pò di cose su Joe e Danae, quindi non vi potete lamentare. Comunque se avete critiche ditemi pure. Anche se mi dite che è noiosa e state perdendo d’interesse, ditemelo (è un ordine).
Ci si sente nelle recensioni, un bacione bellezze
PS. BUON NATALE IN RITARDO E FELICE ANNO NUOVO.

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Capitolo 8
*** Chapter Seven ***





Chapter Seven.

Un eccesso di tosse svegliò bruscamente Danae. Una tosse secca, che le chiuse la gola. La ragazza degludì rumorosamente rimandendo con uno strano sapore di fumo in bocca, e in quell’istante capì che quella tosse non era nata dal nulla. Gli occhi erano socchiusi, cercavano di proteggersi dalla nebbia nera che la circondava e le oscurava la vista.
Provò a urlare. Tutto ciò che uscì dalle sue labbra fu un grido senza suono.
Sentì i polmoni che le si stringevano nel petto, dolorosamente. Come a contorcersi.
Aveva bisogno di aria, di ossigeno, ma tutto ciò che la circondava era un miscuglio di sostanze che bruciavano la sua gola come se avesse ingoiato una palla infuocata. E voleva allontanarsi, e scappare da quella nube nera, ma non poteva.
Più e più volte provò a muoversi, ma i muscoli del suo corpo non risposero ai comandi. Erano congelati. Dal terrore, forse, o da una forza esterna di cui non riusciva a concepirne la provenienza.
Ci provò ancora, e ancora, fino a quando il dolore al petto non scomparve e lo stesso fece il bruciore in gola. Si sentì tutt’a un tratto debole. Gli occhi le si stavano chiudendo, strascinandola nell’oscurità che si era materializzata in quella nube. Poi si accorse che anche la nube era scomparsa.
No, non era scomparsa. Aveva solo mutato forma, diventando più affusolata, alta e stretta. Era una figura... una figura umana.
La figura di un giovane che prese fuoco.
 
“Damon!”
Danae si trovò a squarciare il silenzio della notte con quell’urlo disperato. Chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte, per accertarsi che fosse tutto apposto. Si rese conto di essere nel suo letto. Non era avvolta da nubi grigie, ma aveva ancora nelle orecchie il suono di quell’urlo freddo e soffocato che aveva emesso lei stessa.
Ora poteva urlare.
 Gli occhi non le bruciavano più per il fumo e avrebbe potuto respirare normalmente se solo fosse stata in grado di calmarsi. Dovettero passare una decina di minuti prima che il suo respiro potesse tornare alla normalità, tempo in cui lei era rimasta immobile nel letto a guardare il soffitto.
Si disse che non sarebbe mai riuscita ad abituarsi a quegl’incubi, seppur ne facesse almeno tre a settimana che comprendessero fiamme e urla. E poi, da quando era accaduto l’episodio di Joshua e del suo disegno, quegl’incubi erano ritornati a essere giornalieri. E lei non sapeva come sopportarlo ancora.
Sentì uno strano sapore in bocca, solo dopo capì essere il sapore del sangue. Doveva essersi morsa l’interno della guancia, sopraffatta nel sonno dalla paura.
Non fu in grado di addormentarsi di nuovo, anche per colpa della sveglia che la disturbò non appena gli occhi avevano ricominciato a diventare pesanti e stanchi di rimanere vigili.
Si preparò in fretta. Si lavò, si vestì, e riuscì anche a fare una misera colazione a casa, quando stranamente sua madre le aveva fatto trovare una tazza di cereali e una brocca di latte caldo accanto. Probabilmente l’aveva sentita urlare, quella notte, e voleva in qualche modo dimostrarle il suo aiuto. Danae lo accettò, ma  si ripromise di non abituarcisi troppo.
Guando uscì di casa si pentì di non essersi coperta come avrebbe dovuto. L’aria era ancora più fredda di quella che si era lasciata alle spalle la sera precedente, e lei non aveva indossato nè sciarpa nè guanti. Per proteggersi, allora, fece sprofondare il viso nell’alto colletto del suo cappotto color panna lasciando scoperti solo gli occhi, mentre le mani trovarono calore immediato nelle tasche imbottite di pelliccia.
La settimana di prova del lavoro era trascorsa da un pezzo, e secondo Maila era stata superata brillantemente. Danae non capì se la donna avesse fatto quel commento perchè le stava simpatica, o perchè erano così bisognosi di personale da tenersi stretta anche una come lei, oppure se avesse davvero fatto un buon lavoro in quei primi sette giorni. Qualunque fosse stata la ragione, Danae avrebbe continuato a lavorare nell’asilo.
Era circa metà di Dicembre, si respirava una forte aria natalizia per le strade di Londra e così Danae aveva preferito di gran lunga camminare a piedi invece di prendere la solita metropolitana con fermata a Warren Street. Le vie erano illuminate, gli alberi ai lati delle strade erano decorati a festa con fiocchi di neve luminosi e le vetrine dei negozi erano riempite da regali e dolci tradizionali.
Danae si chiese se camminare tra tutta quella gente che sfidava il freddo pur di accapararrsi gli ultimi acquisti natalizi fosse stata una buona idea. Erano tutti così felici, e lei dopo quel brusco risveglio...
Non appena arrivò sul posto di lavoro, vide correre incontro un bambino dai capelli castani. Lei si piegò e lui le strinse le braccia al collo, dandole poi un bacetto sulla guancia. Poi, naturalmente, scomparve alla velocità della luce. Quello era il bambino a cui Danae aveva insegnato a disegnare i fiorellini. La giovane si ritrovò a sorridere e dimenticò perfino quello a cui lei stava pensando, di nuovo.
Quel bambino sembrava essersi affezionato a lei; quello era un risultato che non si sarebbe mai aspettato in sole tre settimane di lavoro; eppure contare qualcosa per quei bambini cominciava a interessarle più di quanto aveva potuto immaginare prima di cominciare quella che per lei era di certo un’esperienza insolita.
Forse quella era lo stimolo in più che le serviva: soprattutto le ultime due settimane erano trascorse veloci tra lavoro, studio, casa, e di nuovo lavoro; Danae si disse che non ce l’avrebbe fatta a continuare con quel ritmo fino alla fine degli studi.
E non ce l’avrebbe fatta a continuare a guardare Joseph con la consapevolezza di non potercisi avvicinare.
I giorni passavano, e con la pazienza di Danae nei confronti di quei piccoli combina guai aumentavano anche le volte in cui lei vedeva Joe. E lui la guardava, da lontano. Senza che nulla accadesse.
Ogni volta che portava o veniva a prendere Jennifer, Joseph le sorrideva come se stesse aspettando ancora la risposta alla frase che aveva spiazzato Danae l’ultima volta in cui i due avevano parlato.
Anche quel giorno. Joseph entrò, con appresso la piccola Jennifer imbacuccata per affrontare la fredda giornata, e Danae non riuscì a trattenere un sorriso alla sua vista.
Della bambina si intravedevano solo gli occhi; il resto era ricoperto da lana coloratissima e un giubotto a palloncino che limitava di molto i suoi movimenti. Il cappello aveva due lunghe trecce di lana gialla e arancione che ricadevano ai lati del visino tondo di Jenny. Joe doveva essere un padre davvero protettivo, si ritrovò a pensare la rossa.
Il ragazzo si limitò ad alzare gli angoli della bocca non appena Danae puntò gli occhi su di lui per poi distogliere lo sguardo come se nulla fosse. Lei sapeva perfettamente cosa voleva che facesse; lui aveva fatto la sua mossa, e ora aspettava solo lei. Il punto era che lei non aveva la minima intenzione di stare al suo gioco.
Dall’altra parte della stanza, Joe, al contrario di lei, continuava a guardare quegli occhi nocciola puntati di proposito chissà verso cosa. Era convinto che lei si sarebbe fatta avanti prima o poi, magari giustificando l’avvenimento al parco, oppure con una scusa qualsiasi. Ma lei non l’aveva ancora fatto,e la sua vocina interiore si prendeva gioco di lui intimandogli che non l’avrebbe mai fatto. Nel profondo, sapeva che la sua vocina interiore aveva sempre ragione.
Forse non avrebbe dovuto dirle che l’aveva vista.
Eppure il giovane uomo sentiva che a lei era piaciuto parlare con lui, nonostante si sforzasse così tanto di dimostrare il constrario.
Cosa doveva fare, mollare tutto?
Per un paio di secondi, Danae incrociò di nuovo il caramello degli occhi di Joe e questo bastò a lui per convincersi.
Certo che no! Urlò qualcosa dentro di lui. Egli prese un foglietto stropicciato che recuperò dall’interno della sua tasca, poi si fece prestare un pennarello colorato da uno dei bambini più vicini a lui. Se lei non voleva parlargli di persona, allora avrebbe trovato un altro modo.
Intanto Danae corrugò la fronte quando vide che Joseph si era messo a smanettare nervosamente con un pennarello in mano. Lo guardava di sottecchi, come impaurita che lui potesse beccarla sul fatto. Si era sentita gli occhi addosso per tutti quelli che non erano stati nemmeno dieci minuti. E li sentiva ancora, ora che Jennifer le si era avvicinata e la stava chiamando tirandole la maglietta come aveva già fatto una volta; quando Joe l’aveva mandata a chiederle scusa o qualcosa del genere.
Danae si ritrovò con in mano un biglietto di carta accuratamente piegato, nonostante fosse piuttosto malandato. Jenn fuggì via verso i suoi amici non appena ebbe compiuto la sua commissione. Senza alzare lo sguardo, per paura di quello che si sarebbe ritrovata davanti, aprì il biglietto e lesse quelle parole scritte con una calligrafia svelta e poco curata.
Quando guardò il proprietario di quell’orrenda calligrafia, lui aveva già messo in mostra il suo miglior sorriso. Non era il suo solito dolce, bel sorriso. Quello che le aveva fatto mancare il fiato per più di una volta.
Aveva curvato le labbra in un arco di puro appagamento. I denti bianchi a dimostrare il suo essere soddisfatto. Compiaciuto. Terribilmente attraente.
 
 
Eehm.
Volete uccidermi?
Se proprio dovete, aspettate che indosso il giubbotto antiproiettili, almeno.
Lo so che non avrete capito molto neanche da questo capitolo. Ma avete il nome almeno.
Tranquille, la verità sta per arrivare, e con essa l’inizio di una nuova era (?)
(sembra la profezia maya detta così)
Però sono stata brava perché ho aggiornato presto, quindi ho un punto a mio favore èè
PS. Se ve lo state chiedendo, adoro The Vampire Diares AHAHAH
Alla prossima bellezze

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Capitolo 9
*** Chapter Eight ***






Chapter Eight
 
 
lo so che un biglietto ti sembrerà infantile, ma tu non    Mi chiedo se un giorno di questi ti piacerebbe  VUOI USCIRE CON ME?“
 
Danae guardò di nuovo il foglio tra le mani.  Alternò a quelle lettere scarabocchiate di un fucsia brillante (e quelle perfino cancellate freneticamente), l'immagine di Joe che ora sembrava più vicino di quanto in realtà non fosse. La sua immaginazione si stava prendendo gioco di lei, evidentemente. Una biondina tutta fiocchi e rosa confetto pretese indietro il pennarello che Joe aveva ancora in mano, distogliendolo dall'ipnotico sorriso ammaliatore con il quale aveva rapito Danae, lasciandogli ben poche probabilità di insuccesso.
Ha una figlia.
Danae ripetè il suo mantra. Una, due volte, come a trovare la forza per fare quello che era giusto fare.
Ha una figlia. Ha una figlia. Ha una figlia.
Forse, se l’avesse ripetuto all’infinito si sarebbe finalmente convinta del guaio in cui si sarebbe certamente cacciata accogliendo quella proposta assurda. E poi, non lo conosceva nemmeno.
Nonostante quegli occhi color caramello le sembrassero la cosa più pura e familiare che avesse mai avuto il privilegio di ammirare, non sapeva niente sul suo conto. Si ritrovò a fare una breve lista delle informazioni che aveva su quel moro: si chiamava Joseph, aveva una figlia di quattro anni, quando si trovava a disagio o in una situazione di confusione muoveva le sopracciglia in modo strano, ma carino.
Danae riuscì a spuntare mentalmente solo tre dita; era tutto lì quello che conosceva della sua vita.
Avrebbe potuto conoscere più cose, man mano, magari uscendo con lui. Ma per fortuna il suo mantra allontanò quel pensiero, come se qualcuno si fosse messo a schiaffeggiarla per farle riprendere i sensi. Ad un tratto si rese conto di non sapere nemmeno il suo cognome e questo le bastò per convincersi del tutto che non avrebbe mai potuto accettare quell’appuntamento (ammesso che lo fosse).
Quando guardò di nuovo Joseph, questa volta non era più intimidita come prima. Senza staccare lo sguardo dai suoi occhi, chiuse a pugno la mano facendo della proposta del giovane padre un inutile pallina di carta. Poi la gettò per terra, incrociando le braccia al petto con aria di sfida.
Joe sembrò dapprima confuso. Lei notò anche che aveva sollevato le sopracciglia nere come lo aveva visto fare spesso e, per quel poco che ne sapeva, poteva esserne certa: era confuso.
Tu hai già abbastanza problemi, Danae.
Così, facendo affidamento a quella che doveva essere la sua coscienza, non tentò nemmeno di fermarlo quando il moro uscì da quella porta, portandosi dietro anche quella poca felicità che Danae aveva provato nel leggere le sue parole.
Ma era davvero quello il motivo? Era la situazione familiare di Joe, era Jennifer, che la spaventava?
Prima che quella stessa coscienza potesse impedirglielo, raccolse il biglietto e lo infilò presto nella tasca posteriore dei jeans.
Quando si voltò, incontrò lo sguardo complice di Maila a qualche metro di distanza. Soffocava un sorriso, nascondendolo con la mano, ma Danae si ripromise di concentrarsi solo su lavoro. Almeno per quella mattina.
Prima di abbandonare completamente quel pensiero, però, si chiese se avesse dovuto accettare. E per un attimo le parve di leggere la richiesta che si celava dietro le parole scarabbocchiate su quel foglio: Danae capì dove lo avrebbe potuto trovare.
Il problema fondamentale, ora, era che non era più tanto sicura che ci sarebbe stato.
Si odiò con tutta se stessa perchè, in fondo, lei sapeva che non era davvero il fatto che avesse una figlia, a spaventarla.
Lui la spaventava.
 
I piedi di Joseph quasi non toccavano terra. Volavano e sfioravano appena qualche ciuffo d'erba con la punta anteriore della scarpa, per poi scattare di nuovo in avanti in una corsa che, per il momento, non sembrava avere fine. Il moro guardava dritto, d'avanti a sè, durante quello che doveva essere circa il suo settimo giro del parco. Le gambe iniziavano a crollare ad intervalli irregolari, il cuore batteva all'impazzata e sentiva che la vena del collo poteva esplodere da un momento all'altro. Il familiare e dolce dolore negli arti inferiori era tutto ciò che lo spingeva a correre ancora e ancora.
Era da un paio di settimane che non correva. Da quando aveva incontrato Danae al Regents Park, lo stesso che stava attraversando ora per la prima volta dopo quell'avvenimento. Non sapeva bene perchè non correva da così tanto tempo; correre era l'unica cosa che riusciva a distrarlo un po', che faceva staccare la mente, l'unica cosa che poteva fare per se stesso. Ogni tanto ne aveva un disperato bisogno, come quel pomeriggio. Aveva lasciato la piccola Jennifer nelle affettuose mani dello zio Kevin e di sua moglie, Danielle. Ora poteva godersi un po' di tranquilla solitudine.
Mentre divorava il terreno a grandi falcate, un pensiero balenò nella sua mente, troppo scomodo per essere ritenuto veritiero.
Lui andava a correre quando aveva bisogno di dimenticare, staccare, sfogarsi, stare da solo, ricaricarsi. E in quelle ultime settimane non aveva provato il desiderio di fare nulla di tutto questo. Ora, però, era tutto diverso.
Non si voltò mai, neanche una volta.  Per paura di vederla. O forse di non vederla, nonostante lui sapesse benissimo che non l’avrebbe mai incontrata lì. Non dopo il modo in cui si era rifiutata di uscire con lui, ma soprattutto perchè non aveva senso: lei non sapeva che l’avrebbe trovato di nuovo tra gli alberi del Regents Park. E allora, perchè pensarlo? O meglio... perchè sperarci?
Era strano tutto quello che stava accadendo nella sua mente, così strano che non preferì non impegnarsi troppo ad analizzarlo.
Quando capì di essersi spinto troppo oltre, si fermo e poggiò una mano sulla corteccia ruvida di un albero, mentre con l'altra spostava tutto il suo peso sulle ginocchia piegate. Ci volle un bel po' prima che riuscisse a respirare anche solo decentemente. Passarono altri 10 minuti perchè la nausea allo stomaco scomparisse e il volto paonazzo ritornasse alla normalità, seppur ancora fradicio di sudore.
Decise che per quel pomeriggio aveva corso abbastanza.
Quando correva, di solito, non prestava troppa attenzione alla gente che superava, al paesaggio che aveva attorno, tranne forse fatta qualche eccezione. Di solito, quando correva esistevano solo due cose: Joseph e il terreno sotto i suoi piedi. Così, quando si sedette ai piedi di quello stesso albero, iniziò finalmente a percepire tutti gli altri stimoli del mondo circostante: l’erba sul quale si era seduto era bagnata, forse per la pioggia leggera che c’era stata durante la mattinata, ma lui non si preoccupò troppo dei pantaloncini lunghi fino al ginocchio che sicuramente aveva sporcato di fango. Anche nell’aria si sentivano i postumi della pioggia, nell’odore di umido che le foglie bagnate degli alberi emanavano. Insieme a tutto questo, per la prima volta da quando era arrivato cominciò anche a sentire la pelle delle braccia fremere sotto al tocco leggero del vento fin troppo freddo. Tocco che, pur con addosso solo una maglia a maniche corte, prima era passato indifferente a causa dell'attività fisica continua e frenetica.
A malincuore dovette ammettere che anche quell'anno l'inverso era arrivato. Dicembre era iniziato e presto avrebbe portato con sè la festa tanto amata dalla sua bambina. Tra poco sarebbe stato il quinto compleanno di Jennifer, e Joseph sapeva bene cosa portava il suo compleanno: sofferenza.
Come avrebbe fatto Joe a spiegare per l'ennesima volta che neanche quel compleanno avrebbe portato la visita di sua madre? Come avrebbe potuto spezzarle il cuore in quel modo, di nuovo?
Il pensiero che magari nel nuovo anno Elizabeth si sarebbe fatta viva, almeno per un giorno, risultava troppo inverosimile. Doloroso. Senza rendersene nemmeno conto, Joe si ritrovò infuriato.
No, non avrebbe mai permesso che Elizabeth si avvicinasse a sua figlia... loro figlia. Non dopo tutto quel tempo. Non per abbandonarla di nuovo.
Troppo perso nei suoi pensieri, non sentì nemmeno il suo nome pronunciato alle sue spalle. Una, due, quattro volte.
Quando si voltò, sperò quasi di vedere un’ondata di capelli mogano dai riflessi rosso incendiati dal sole che splendeva nonostante il cielo che si era rabbuiato di nuvole grigie. Quel pensiero svanì alla vista del suo amico Marcus.
"Joe, amico, mi hai fatto spaventare" Joe alzò un sopracciglio, come tacita domanda sul perchè di tale comportamento.
"Ti ho chiamato un centinaio di volte e non ti sei mosso neanche di un centimetro" si giustificò Marcus.
Il riccio si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo davanti l'esagerazione dell'uomo sulla trentina che ora si era piazzato proprio di fronte, oscurando qualsiasi altra visuale. Marcus continuò a parlare.
"Ti ho visto e ho colto l'occasione per chiederti se eri disponibile, domani"
Joe pensò di rispondere che era sempre disponibile, ma il suo orgoglio glielo impedì.
"Si" rispose "Domani si" disse poi, alzandosi in piedi. I due si guardarono per un po', poi Marcus scomparve dietro le sue spalle dopo un saluto appena accennato col capo.
Joe era pronto a ripartire e tornare a casa, quando si sentì sfiorare una spalla.
Questa volta, quando si voltò di nuovo verso quel flebile stimolo, si trovò totalmente disarmato dalla sorpresa che seguì la vista di quei boccoli incendiati dal sole che tanto aveva agoniato.
 

 
Non so come scusarmi. Prima di tutto per l’enorme ritardo. Secondo, per lo schifo che siete state costrette a leggere (sempre se lo abbiate letto). Io sono sempre molto critica rispetto a quello che scrivo, raramente sono soddisfatta, il più delle volte ho la sensazione che tutto ciò sia banale, scontato. Ma con questo capitolo credo di aver toccato il fondo .
Non abbiate paura di essere troppo dure. Anzi, sarei immensamente grata di ricevere delle critiche tanto per capire cosa non va in questo capitolo.
Purtroppo il blocco dello scrittore (anche se io non mi definisco tale) ha colpito anche me, e da un pò non riesco proprio a sedermi e far uscire qualcosa di sensato.
Grazie per le recensioni. Sappiate che per me è tantissimo sapere che qualcuno impiega un pò del suo tempo a dirmi il suo parere SOPRATTUTTO se ha delle critiche costruttive da farmi.
Un bacione, bellezze

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Capitolo 10
*** Chapter Nine ***






Chapter Nine
 
Quando Joseph voltò lo sguardo verso il sole, vide che questo si era abbassato di parecchio, il che gli fece pensare che era rimasto seduto accanto all’albero molto più tempo di quanto in realtà avesse percepito. Quella vista, però, venne presto sostituita da una altrettano ammaliante. Che lo rapì di piacere.
Joseph non riusciva a staccare gli occhi dai capelli fluenti che Danae aveva raccolto in una morbida treccia che pendeva sulla spalla destra. I raggi del sole facevano uno strano effetto sui capelli intrecciati, e il cielo del tardo pomeriggio che iniziava a colorarsi dell’arancione del tramonto non faceva altro che incrementare il tutto. Era come se avessero preso vita, come se emanassero calore. Erano diventati del colore delle fiamme, come i carboni ardenti del camino che rimangono quando ormai la legna è già tutta bruciata.
“Ciao“ disse lui, prima che riuscisse a mettere una dietro l’altra qualche parola in più.
Con una più attenta osservazione, il moro notò che diversi ciuffi ramati erano sfuggiti alla semplice acconciatura e ora le ricadevano sulla fronte. Troppo corti per essere intrecciati, e troppo lunghi per essere lasciati liberi di svolazzare davanti al viso. Danae si preoccupò subito di ricacciare i capelli dietro l’orecchio prima di ricambiare il saluto con un tono amichevole (atteggiamento che Joe vedeva ora per la prima volta).
Il tono sicuro della rossa sarebbe potuto sembrare quasi sincero; se non fosse per il fatto che la giovane continuò a toccare insistentemente i suoi capelli anche dopo che questi, ormai saldamente sistemati dietro l’orecchio, non avevano più nessuna libertà di movimento, nonostante il vento fosse aumentato.
Joe incrociò lo sguardo di Danae per la prima volta dal suo arrivo, prima che la sua attenzione venisse di nuovo attirata da qualcosa che era del tutto nuova per lui ma che non riusciva bene a focalizzare. Gli bastò un attimo in più per capire a cosa era dovuta quella strana sensazione di novità: Joe aveva visto i capelli di Danae solo sotto la luce bianca e artificiosa dell’asilo nella quale la vedeva ogni giorno e ogni tanto scambiava qualche chiacchiera (che non andava mai oltre a questioni esclusivamentelavorative). Ecco perchè quel colore tanto intenso e quelle sfumature vivaci lo disorientavano un pò. Dopo tutto il tempo che aveva passato ad osservarla, giorno per giorno, pensava di sapere quello che c’era da sapere, su di lei.
Naturalmente, non pensava di conoscere davvero tutto, del suo corpo. Solo ciò che un estraneo è tenuto a vedere di un altro estraneo.
Il pensiero che seguì lo mise in agitazione, così tentò di approcciare un discorso, uno qualsiasi. Tutto pur di evitare che i suoi pensieri prendessero quella piega.
“Bel tempo, oggi. Vero?”
Il tempo. Ecco come annientare una conversazione sul nascere.
Insomma, a nessuno interessa mai parlare del tempo. Nonostante tutti dicano che sia un modo per riempire gli imbarazzanti vuoti di una conversazione, non è altro che il modo peggiore per procurarsene altri. Nessuno riuscirebbe mai ad incentrare una buona conversazione sulla situazione meteorologica del giorno, neanche il migliore degli oratori. Parlare del tempo è come gridare al mondo ‘ehi, mi interessa così poco di te che preferisco guardare il cielo, piuttosto che la tua faccia’. O forse peggio.
Danae corrucciò la fronte, poi sorrise come a sperare di nascondere la sua perplessità. Troppo tardi.
In quel momento Joseph desiderò solo prendersi a schiaffi da solo senza sembrare uno psicopatico agli occhi di Danae. O almeno rimpicciolirsi fino a scomparire, evaporare. Naturalmente nulla di tutto ciò accadde.
“Si, se non fosse per il fatto che ci saranno meno di cinque gradi” rispose lei, scossa da un breve brivido dovuto alla vista del ragazzo con addosso solamente una leggera maglia a maniche corte. La rossa si chiese come facesse a resistere in quelle condizioni mentre lei, chiusa nel solito pesante cappotto color panna, era diventata un ghiacciolo vivente. Ebbe voglia di chiederglielo, ma poi si trattenne pensando che, avendo le scarpe da ginnastica e pantaloncini larghi e comodi, probabilmente aveva terminato ora di allenarsi o cose del genere. Poi notò anche che non c’erano segni di sudore sul viso, al contrario della maglietta.
Il resoconto più che dettagliato sulle condizioni fisiche del ragazzo di fronte a lei le fece pensare che forse l’aveva osservato un pò troppo. Ma stranamente il pensiero non la disturbò come avrebbe fatto normalmente.
In fondo, non era quello che stava facendo anche lui in quel preciso istante?
Infatti, dall’altro interlocutore, ad arrivare erano più sguardi, che parole.
Cos’era? Quella strana conversazione senza parole? Nessuno dei due lo sapeva, in verità, ma in quel momento ad entrambi sembrava andare bene così.
Ogni tanto lo sguardo di Joe era ancora attirato dai giochi di colore che i capelli della ragazza facevano ad ogni spostamento, anche minimo. Era incantevole. In seguito cercò di non perdere più il contatto con i suoi occhi.
“Qualcosa non va?” chiese Danae, corrucciando le fine sopracciglia dello stesso colore dei capelli, quando il tempo degli sguardi-senza-parole iniziò a risultare troppo prolungato anche per loro due.
“No” si affrettò a rispondere Joe “No, tutto a posto. Sono solo un po’ stanco, per la corsa”
La rossa annuì, poi strinse le labbra con fare improvvisamente imbarazzato. Nascoste nelle maniche del cappotto, le sue dita giocavano freneticamente con la pelle scorticata che aveva sollevato attorno ai pollici.
Era lei ad essergli andata incontro, quindi Joe si aspettava sicuramente qualcosa.
Sobbalzò leggermente quando, con un movimento esasperato, tirò via la pellicina di un pollice. Cercò disperatamente una continuazione a quella conversazione senza parole prima di pensare al bruciore che partiva dal punto in cui la pelle era stata violentemente tirata via. Sensazione sgradevole che era moltiplicata per cinque, dieci, mille volte, in quella situazione tutt’a un tratto altrettando sgradevole e innaturale.
Però non rimpiangeva affatto di essere andata.
Ricordò di essere lì per un motivo preciso, e questo pensiero le fece recuperare un pò del suo innato autocontrollo.
“Joseph...” cominciò, prima di essere immediatamente interrotta dalla voce del proprietario di quel nome.
“Joe. Puoi chiamarmi Joe” sorrise lui. Danae avrebbe voluto dirgli che le piaceva di più chiamarlo Joseph, ma sI sforzò di seguire la sua richiesta perchè, dal suo sorriso,poteva capire quanto ci tenesse. Forse voleva allontanare la formalità che si era impossessata dell’aria tutt’attorno a loro. O forse i suoi amici lo chiamavano Joe, e questo era un modo per capire se potevano diventare amici anche loro, un giorno o l’altro.
“Joe, sono qui per scusarmi” disse, prima che un lungo silenzio prendesse il posto delle parole. Durante questo, per un attimo le sembrò di vedere un lampo di delusione nel volto del ragazzo. Si aspettava sicuramente qualcosa in più di quelle quattro stupide parole.
Perchè? Pensava forse che fossi venuta per accettare l’appuntamento?  Si chiese.
“Per stamattina” continuò prima che il senso di colpa per averlo inconsapevolmente illuso le facesse dire qualcosa che non era nel copione attentamente studiato.
“Non mi sono comportata bene. Insomma, mi sono comportata come...”
“Come un bambino dell’asilo?” la incalzò Joseph.  Quella frase le diede fastidio, perchè sapeva che stava dicendo la verità, ma lei si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo o dal fare qualsiasi cosa che potesse farla apparire sgarbata ancora una volta.
“Si, proprio così” rispose allora con un sorriso sardonico "Dovevo almeno darti una risposta"
"Si, dovevi" Joseph la guardò, poi chiese “Beh, sei qui per rimediare allora?” alzò un sopracciglio istintivamente.
Si, stupida Danae. Credeva proprio quello, si disse, cercando poi di nascondere a lui il senso di colpa che ormai non riusciva più a sopprimere. Per fortuna era brava, a nascondere le cose. Lo era quasi con tutti.
“Veramente sono qui solo per questo. Per chiederti scusa”
“E quello lo hai già fatto” le fece notare lui. Danae tirò fuori le mani dalle tasche prima che le potesse scorticare entrambe.
“Avanti, non puoi essere venuta fin qui, senza neppure avere la certezza di trovarmi, solo per farmi delle scuse che avresti potuto fare anche domani mattina”
“Certo che posso” rispose subito lei, sulla difensiva “Non mi piace passare per una maleducata, tutto qui”
“Tutto qui” ripetè Joe, ridacchiando. “Allora dimmi perchè non hai voluto accettare il mio appuntamento”
Questa volta Danae non riuscì a trattenersi dal roteare gli occhi in tono teatrale.
Perchè hai una figlia e quindi una moglie o una fidanzata nei dintorni, pensò, ma non lo disse.
“Ho capito. Non vuoi avere a che fare con uno con la fedina penale sporca. Rubare macchine non è poi cosa da poco”
“Cosa?” Danae socchiuse gli occhi, come a capire se quello che le era stato detto era vero o no. “Mi stai prendendo in giro” constatò infine, e Joe sorrise.
“Si, ti sto prendendo in giro. Ma devi ammetterlo, ti sarebbe piaciuto. Sarebbe stato eccitante” solo dopo averlo detto si rese conto della situazione imbarazzante nella quale si stava cacciando.
“... Sai, guidare come Fast and Furious” continuò, facendo poi una buffa imitazione di un pilota da corsa per smorzare la tensione che la sua frase precedente aveva creato. Per fortuna sembrò riuscirci, perchè Danae rispose "Non dirmi che guardi quei film idioti! Ho fatto bene a dirti di no, allora” con un espressione più rilassata di quella che aveva avuto fino ad allora e Joseph scoppiò in una risata, posando una mano a coprire lo stomaco. Quel gesto fece partire una leggera risata anche a Danae, mentre lo guardava curiosa di scoprire altri suoi gesti abituali, movenze, frasi, particolari del suo corpo e sfumature del suo carattere che avrebbero potuto contribuire ad allungare la misera lista che si era ritrovata a fare la mattina sulle ‘cose che so di Joe Jonas’.
Nonostante non fosse lo scopo per il quale si era recata da lui, Danae scoprì di aver voluto fin dall’inizio conoscerlo come in quel momento stava imparando a fare.
Così, quando si sedettero l’uno di fronte all’altra sull’erba ancora un pò bagnata, fu felice di ascoltarlo mentre parlava del suo lavoro nello studio di registrazione, mentre vedeva i suoi occhi illuminarsi quando parlava della sua piccola Jenn e ridere quando raccontava di qualche suo pasticcio. Notò anche che quando lo faceva, quando rideva di gusto, portava spesso la mano sullo stomaco come aveva visto qualche minuto prima, e aggiunse mentalmente questo particolare alla sua lista.
Un’altra cosa che scoprì era la sua innata simpatia, il suo sorriso onnipresente che avrebbe potuto colorare un intero mondo dipinto solo di grigio, e il suo sembrare totalmente privo di difetti;  così privo di difetti da intimorirla. 
Mentre parlavano,mentre il cielo prendeva le tonalità del blu, mentre la gente passava ed andava via, le sembrò perfino facile parlare di sè: gli raccontò della scuola, del perchè era stata costretta ad iniziare il lavoro nell’asilo per pagarsi gli studi, di Joshua, gli disse quale era il suo colore preferito e quanto amasse fotografare i paesaggi.
Per un pò, la sua vita le sembrò così semplice.
 
 
Erano le 10 quando Joseph tornò a casa. Dopo il non-appuntamento con Danae, era dovuto scappare un attimo alla casa discografica per dire al suo capo di non poter fare straordinari, il giorno dopo, per l’impegno nel locale di Marcus. Poi era passato a casa di Kevin, per prendere Jennifer. Ma la piccola si era già addormentata e i due sposi avevano tanto instistito perchè Joseph la lasciasse dormire lì, per quella notte. In fondo non era la prima volta che Jennifer dormiva a casa degli zii. A volte era necessario, quando Joe aveva da fare in sala di registrazione, o era in giro per qualche locale da quattro soldi, o ancora aveva semplicemente bisogno di una serata libera. Una serata da passare come tutti i suoi amici: da ragazzo, e non da padre single.
Joe aveva accettato, anche perchè il clima era diventato troppo rigido e non voleva assolutamente correre il rischio di far ammalare la figlia, con un tale sbalzo di temperatura.
Dato che la mattina dopo lui (come tutte le mattine, d’altronde) si sarebbe dovuto svegliare molto  presto, Kevin e Danielle avevano insistito affinchè fossero loro ad accompagnare Jennifer all’asilo, e l’uomo, nonostante non fosse del tutto convinto, aveva finito con l’accettare anche quella proposta. Sorrise nel pensare che non solo lui si sarebbe svegliato di buon ora, la mattina seguente. Ma in fondo, l’avevano voluto loro.
Sapeva quanto Jennifer avesse bisogno di passare più tempo con altre persone, oltre a lui. E sapeva anche quanto a suo fratello e a sua moglie facesse piacere la presenza di una bambina nella loro casa vuota e troppo grande per due persone. Joseph si fermò a pensare a quanto fosse strano, il fato. A quanto fosse ingiusto che loro due non fossero ancora riusciti ad avere dei bambini, nonostante tre anni di matrimonio e decine di visite mediche e trattamenti; mentre Jennifer era arrivata senza nessun preavviso dall’amore con una ragazza anche fin troppo giovane.
 
 
La mattina seguente Danae si recò al lavoro con un’insolita energia, che non fece altro che aumentare quando Maila le si era avvicinata sorridente e raggiante con in mano una busta bianca.
“Questo è il tuo primo mese di paga. Sei ufficialmente dei nostri, adesso” aveva detto la donna che, prima che se ne fosse resa conto, si era ritrovata le braccia di Danae al collo e la sua risata felice che le risuonava nell’orecchio.
“Grazie” aveva risposto la rossa, dopo essersi staccata da quella che doveva essere la sua datrice di lavoro ma che si era dimostrata più un’amica, che un autorevole capo. Era un bene, perchè aveva proprio bisogno di un’amica con cui parlare quel giorno.
La notte non era riuscita a prendere sonno, e non era stata causa di uno dei suoi soliti incubi. Mentre si girava e rigirava nel letto, non aveva potuto fare altro che pensare che durante la loro conversazione Joe non aveva mai fatto riferimento ad un’ipotetica madre di Jennifer. Quindi forse si era sbagliata. Non aveva senso essere così trattenuta nei confronti di quel ragazzo, perchè forse l’idea che Joe non avesse una ragazza o una moglia non poteva essere del tutto scartata.
Peccato che tutta la sua teoria crollò quando vide entrare Jennifer, imbottita nel suo cappottino giallo lime, accompagnata da una ragazza che poteva avere si e no l’età di Joe. Aveva lunghi capelli castani e mossi, e Jennifer l’abbracciava come se la conoscesse da quando era nata.
A quanto pare, il pensiero della madre di Jennifer non era poi così ipotetico.
 
 
Ma saaalve bellezze.
Questa volta ho aggiornato relativamente presto, e spero che il capitolo piaccia perchè (non lo dico  quasi mai) questa volta piace tanto anche a me. Forse è un pò inconcludente, e l’inizio può sembrare noioso, ma questa è la prima vera conversazione/contatto tra Danae e Joe, e intendevo soffermarmici quanto ritenevo giusto.
Pooi, volevo dirvi che (in una noiosa giornata) ho deciso di fare un video/trailer della storia.
Ve lo farò vedere appena lo avrò postato da qualche parte.

Ah, dimenticavo! Credo che abbiate tutti saputo dell'incidente della ragazza che stava andando al suo primo concerto dei Jonas Brothers. Se non l'avete ancora fatto, vedete il video della canzone che i ragazzi le hanno dedicato. Io ho pianto a dirotto e lo faccio ancora se ci penso.

Beh, aspetto le vostre considerazioni.

Un bacione
- Peppa (come richiesto da una di voi AHAHAHAH)

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Capitolo 11
*** Chapter Ten ***






Chapter Ten

La mano di Danae era saldamente aggrappata ad una delle maniglie gialle attorno la quale vi erano circa altre sei persone, mentre la metropolitana partiva provocandole il solito fastidioso rimbalzo all’indietro. Con la mano libera stringeva la borsa contenente gli sforzi di un mese di lavoro e, nonostante invidiasse da morire tutti coloro che erano seduti e che in quel momento non avevano a che fare con l’uomo grasso e sudato proprio appiccicato a lei, non poteva lamentarsi di come stavano procedendo le cose.
Quando Danae aveva contato i soldi della sua prima busta paga aveva provato uno strano senso di potere, il che era assurdo dato che la cifra non era questo granchè. Il denaro ottenuto per il suo primo mese all’asilo era sufficiente a pagare la retta all’Università, con uno scarto di poco più di un centinaio di pounds.
Danae sapeva benissimo che non avrebbe fatto molta strada in quel modo, ma in quel momento era tutto ciò che le serviva e si immaginò perfino mentre sbatteva quei soldi in faccia alla preside Clarks.
L’astio per quella donna era assolutamente infondato. In fondo alla Clarks interessava che tutti versassero la propria quota, e non di certo da dove ricavassero quel denaro. Comunque a Danae non era mai piaciuta.
Per qualche motivo, però, pagare con i soldi che si era guadagnata da sola le sembrava quasi un modo per ripagarla. Per quanto lo negasse, nel profondo Danae credeva ancora di essere la causa di tutto. Il motivo per cui molti (compresa lei stessa) avevano perso la borsa di studio per permettere la restaurazione della parte di edificio distrutta dall’incidente. Forse credeva di essere la causa dell’incidente stesso.
Era stupido, si. Ma la disperazione fa spesso pensare cose stupide alla gente.
Quando gli altoparlanti della metropolitana chiamarono la sua fermata Danae riuscì a malapena a sentirla, in quel mondo buio e ovattato dove i suoi pensieri l’avevano condotta. Riacquistata un pò di aria attorno a sè, fece un grande respiro per liberarsi dalla puzza di alcool con la quale l’uomo grassoccio l’aveva quasi stordita e in dieci minuti percorse meccanicamente la strada di casa.
Altrettanto meccanicamente trascorse il resto della serata. Parlò con Josh, corresse perfino uno dei testi che avrebbe dovuto portare il giorno dopo come compito a scuola, accertandosi di non farlo diventare troppo perfetto. Poi cenò con il resto della famiglia, cosa che la rese piuttosto felice, nonostante avesse delle riserve ad ammetterlo anche a se stessa.
Beh, forse felice era un termine esagerato, uno di quelli che lei prima fra tutti doveva maneggiare con le pinze. Comunque si era sentita bene, in pace, serena. In famiglia, in qualche modo.
Quella sera si comportò come una sorella, come una figlia qualsiasi e, entrata nella sua camera, si comportò proprio come una qualsiasi altra ragazza delusa avrebbero fatto: gettandosi sul letto senza neppure togliere i vestiti. Questo era più o meno il punto dove le ragazze dei telefilm cominciavano a piangere e disperarsi e farsi colare il mascara in maniera troppo melodrammatica per i suoi gusti.
Naturalmente Danae non avrebbe mai pianto. Mai. Non di certo perchè aveva scoperto che il ragazzo che ci aveva provato con lei aveva una moglie/fidanzata con il quale era legato da una bambina e da chissà cos’altro. Sfilò le scarpe strisciando i piedi l’uno con l’altro e s’infilò sotto le coperte.
L’unica cosa che fece prima di addormentarsi fu (come ogni sera) baciare la foto sul suo comodino e poi rimetterla a posto. Delicatamente. Come se le si potesse sbriciolare tra le dita e, con essa, tutta la sua vita.
Così come la sera, anche la mattina le sembrò un copione visto e rivisto: quando fu sveglia, pulita e sazia, si recò sul posto di lavoro dove bambini vivaci e personale poco paziente la aspettavano.
Era venerdì, il che stava a significare che la settimana era terminata e che ne mancava solamente un’altra prima delle vacanze di Natale. Quando, appena arrivata, tentò di togliersi il cappotto, Ryan l’aveva già raggiunta e aveva teso le braccia verso di lei.
La rossa aveva soprannominato mentalmente Ryan come ‘il bambino dei fiori’. Non sapeva bene il perchè, ma le era rimasto impresso quell’avvenimento, tanto che ogni volta che vedeva dei fiori disegnati il suo pensiero andava al bambino dai capelli scompigliati e gli occhi grandi che ora stava abbracciando. Forse le era rimasto così impresso perchè sentiva che Ryan era un bambino speciale, o forse perchè era così strano che un bambino (che non fosse suo fratello) le si fosse affezionato tanto.
O che lei si fosse affezionata tanto a lui, magari.
Comunque, Ryan era speciale. Non sapeva spiegare in cosa, ma lo era, nonostante a momenti lo vedesse isolato e distratto. Non succedeva sempre, in realtà con lei non succedeva quasi mai ma due delle sue colleghe avevano dichiarato di averlo visto spesso mentre si perdeva nei suoi pensieri.  Danae aveva sempre preso in giro quelle donne, pensando che tutto ciò a cui un bambino tanto piccolo poteva pensare erano le macchine o le figurine, quindi non ci vedeva nulla di male a farlo vagare un pò con la fantasia.
Dopo aver lasciato Ryan alla sua costruzione di lego salutò anche Maila, che nulla sapeva della guerra che la vista dell’accompagnatrice di Jennifer, la donna alta e mora che il giorno prima si era presentata con la bambina proprio all’asilo, le aveva causato il testa.
Mentre ripassava mentalmente cosa il suo noioso copione proponeva per la giornata, si rese conto che c’era una cosa che esso non aveva proprio previsto; ovvero il tuffo al cuore che ebbe alla vista di Joseph.
 
Joseph lasciò la sua piccola Jennifer nelle mani di Maila, mentre con lo sguardo cominciò a vagare per la stanza colorata alla ricerca di Danae e, tra quella miriade di tonalità, trovò finalmente il rosso che tanto stava cercando. Danae era di spalle, perciò le si avvicinò piano come a volerle fare una sorpresa.
Si sarebbe detto che una sorpresa comprendesse qualcosa di piacevole e inaspettato, e invece negli occhi nocciola della giovane donna non vide che il contrario; tristezza e noia. Fece finta di nulla, però. Magari era solo una giornata ‘no’, e lui era il migliore a risollevare l’animo della gente anche nei momenti più bui.
Peccato che Danae fosse un pò diversa dal resto della gente.
“Perchè sei ancora qui?” chiese la ragazza, atona, dopo essersi data un occhiata attorno e aver notato che Jennifer era con un gruppo ristretto di quattro bambini. “Jennifer è al suo posto. E tu invece dovresti essere a lavoro”.
“Beh, trovo difficile trovare qualcuno con cui voler passare del tempo. Quindi appena lo faccio, ne approfitto”  disse, e sentì Danae ridere mentre gli voltava le spalle. Ma c’era qualcosa di strano, in quella risata. Joseph si chiese cosa fosse successo. Ripercorse mentalmente il loro ultimo incontro, ma non notò nulla di strano. Si erano divertiti, e gli sembrava che lei si fosse aperta mentre parlava della sua vita e delle sue passioni. Il giorno dopo, poi, era stata Danielle a portare all’asilo Jenn. Quindi, qual era il problema?
Tentò di nuovo.
“Ti ricordi l’altro giorno? Quando ti avevo parlato di quel locale su..”
“Mmh mmh” rispose lei, senza neppure far terminare la frase al riccio che subito alzò gli occhi al cielo, sentendosi tutt’a un tratto disturbato dall’atteggiamento di quella ragazza. Non era successo niente di strano tra loro, quindi il suo comportamento era assolutamente incomprensibile. Forse era uno dei giochetti delle donne, quello dello ‘scappare solo per la voglia di essere inseguite’, ma questo iniziava a infastidirlo. Insomma, lui era un mago in quei giochetti. Era uno dei motivi per cui piaceva alle donne, ma adesso cominciava a diventare snervante. Forse perchè, con Jennifer, si era reso conto che non aveva più tempo per i giochi. O forse perchè i giochi andavano bene quando ci si doveva divertire, e lui non voleva solo divertirsi.
Quando guardò ancora la giovane, si rese conto che, però, non poteva essere solo quello. Che non poteva essere solo uno stupido gioco da ragazzina, il suo. C’era tristezza nel suo sguardo. Qualcosa che non poteva raggiungere, qualcosa che andava oltre ogni cosa. C’era qualcosa che teneva per sè, e che lui voleva scoprire.
"Danae, puoi smetterla ora"
"Smettere di fare cosa?"
"Di far finta che non t’importi" disse lui, legandola ai suoi occhi attraverso uno sguardo profondo e amareggiato. Danae incrociò le braccia al petto, con fare protettivo più che intimidatorio.
"Ma a me non importa davvero di quello stupido locale"
"Di far finta che non ti importi del mondo!" si corresse Joseph sotto lo sguardo attonito di lei.
"Ti comporti come se fossi superiore a tutti gli altri. Come se gli altri non siano all'altezza di conoscerti. Fai la finta menefreghista e allontani chiunque sia abbastanza stupido da avvicinarsi a te. Tutto questo per avere una buona scusa per continuare a crogiolarti nel dolore e continuare a dare la colpa a chiunque non sia te stessa" Joe non urlava ma il suo tono sprezzante fece alterare la ragazza.
"Con me non funziona, quindi smettila"
Danae lo prese per un braccio e lo trascinò dentro la stanza di Maila, accertandosi di chiudere bene la porta dietro alle sue spalle.
"Non puoi parlarmi così. Tu non sai nulla di me" andò sulla difensiva la rossa, senza sapere cosa altro ribattere.
"E di chi credi sia la colpa?"
"Non ho mica detto che non mi vada bene così!” cercò di moderare il tono della voce, così da non attirare ascoltatori indesiderati. Prese un lungo respiro, così da ottenere una voce decisa e risoluta. “Senti Joe, perchè non torni dalla tua ragazza e la finiamo qui?” la voce però la tradì verso la fine della frase, incrinandosi e abbassandosi di qualche tono. Joseph assunse un’aria accigliata. Poi capì, finalmente.
“Parli di Danielle? La ragazza che ieri ha accompagnato mia figlia?” chiese lui, ancora troppo sorpreso della situazione. Danae annuì piano, mentre sentiva di aver preso un grosso, enorme buco nell’acqua. Prima ancora che Joseph pronunciasse le seguenti parole, divenne rossa in viso per la vergogna.
“Danielle non è la mia ragazza. E nemmeno mia moglie” sorrise amaramente lui “E’ la moglie di mio fratello. E se tu hai anche solo potuto pensare che io potessi mentirti su una cosa del genere, vuol dire che non c’è modo per noi di conoscerci. Non finchè non cominci a fidarti un pò delle persone che ti stanno attorno”.
Dicendo così, si allontanò dalla stanza senza neppure la forza di sbattere la porta.
 
Il resto della giornata di Joe passò tra tasti e note musicali, come sempre. Quando guardò l’orologio, si rese conto di aver terminato con il suo ultimo cliente del giorno con netto anticipo e quindi rimaneva circa un quarto d’ora di sala libera prima che andasse a riprendere la figlia dall’asilo. Dopo quello che gli era sembrato un secolo, decise di trovarsi finalmente dall’altra parte del vetro. Dalla parte del microfono, e non dei tasti e dei suggerimenti. Dopo aver battuto un paio di volte l’indice sul microfono sistemato all’altezza dell’ultimo cantante che ci aveva usufruito, si assicurò che fosse spento e, recuperata una vecchia chitarra dalla stanza degli strumenti, cominciò a strimpellarla. La accordò finchè non sentì uscire i suoni completamente limpidi e poi canticchiò una delle canzoni che aveva cantato il giorno prima al locale di Marcus, il tizio che aveva incontrato al parco poco prima di Danae e che ogni tanto gli chiedeva di intrattenere i suoi clienti con piccoli spettacoli, perlopiù improvvisati. La cifra che Marcus gli dava a fine serata era così misera che copriva solo le consumazioni al bar che Joseph faceva in una settimana, quindi lavorava praticamente gratis. Ma non andava di certo per farsi offrire qualche bicchiere di birra. Ci andava per passare il tempo e perchè amava farlo, un pò come quando andava a correre tra i prati verdi del Regents Park.
I quindici minuti liberi volarono e così anche il suo pensiero volò sulla figlia. Quando arrivò all’asilo, si ripromise di ignorare Danae, nonostante le sembrasse una sfida più o meno ardua. Jennifer gli si avvicinò correndo e un sorriso sincero si aprì sul volto di Joseph quando egli si chinò per farsi dare un bacino sulla guancia ispida per via della barba. La piccola fece una buffa smorfia prima di criticarlo, dicendogli che la sua barba l’aveva punta. Joseph la abbracciò e le ripromise di toglierla appena tornati a casa. Mentre le metteva il solito cappottino giallo limone, Jenn le diede un bigliettino e in un primo momento il padre pensò ad un disegno che aveva fatto per lui. Poì notò che il biglietto era troppo piccolo per contenere un disegno.
Fu imprevedibile, completamente imprevedibile, la sorpresa che colpì Joseph in pieno petto. Jennifer gli aveva portato un bigliettino stropicciato e lui, dopo averlo aperto, aveva notato essere ben conosciuto. La calligrafia incerta e il colore fucsia lo riportarono al giorno in cui lui stesso aveva scritto su quel foglio racimolato chissà come. Eppure era convinto che Danae l’avesse stracciato e buttato a terra, tanto per cambiare i suoi modi cortesi.
Cercò la ragazza con gli occhi e la vide avvicinarsi con un timido sorriso a colorarle il volto perlaceo. Joseph ebbe il presentimento che quel gesto fosse un ennesimo rifiuto, ma si ricredette subito quando, girando il bigliettino come lei stessa gli aveva ordinato, trovò scritto ‘domani’ con tanto di ora, e un indirizzo, che doveva essere quello di casa sua.
“Hai ragione. È vero, scusa. Forse allontano la gente e-” Danae si bloccò notando lo sguardo divertito di Joe.
“Ok, è riscontrato...” sottolineò quella parola con un filo di imbarazzo “che allontano la gente, ma ora chiedimi qualunque cosa e risponderò”
Il silenzio che si protrasse le sembrò così lungo che ormai si aspettava solo un no, e invece.
"Perche non iniziamo col chiederti se ti piace la cucina giapponese" sorrise Joe, e Danae potè finalmente ritornare a respirare, dato che aveva trattenuto il fiato troppo a lungo nell’attesa della risposta.
"Preferisco italiana"
"E italiana sia"
 
 
 
 
 
Mi sorprenderei se ci fosse ancora gente che legge quello che ora sto scrivendo lol.
Davvero, spero non mi abbiate abbandonata perchè io non l’ho fatto, nonostante sembri il contrario.
Manca un mese alla fine della scuola, quindi poi sarò tutta vostra ma fino ad allora dovete avere un pò di pazienza. Mi dispiace tantissimo.
Prima che veniate a lanciarmi pomodori, parliamo della storia.
Il malinteso era la spinta che ci voleva alla nostra bella (e stupida) Danae YEEEEE.
Dato che vi ho fatte aspettare tantissssimo, vi do un piccolo spoiler sul prossimo capitolo: finalmente si scopriranno un pò/tante cose su Damon.
Quindi, non mancate (?)
Spero di ricevere tante recensioni e di non aver parlato a vuoto (si dice così?).
Fatevi sentire, anche solo per insultarmi. Mi mancano i vostri commenti ♥

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Capitolo 12
*** Chapter Eleven ***



Chapter Eleven.
 
Prima di suonare alla porta corrispondente all’indirizzo che Danae aveva scritto in bella grafia sul foglietto, Joseph si chiese se fosse giusto cominciare un primo appuntamento così. In una mano aveva due buste bianche che emanamano un odore invitante e l’altra, al posto di stringere un mazzo di fiori o uno scatolo di cioccolatini come si ricordava era giusto fare, stringevano la manina di Jennifer. La piccola era imbronciata, e lui lo poteva capire bene, ma davvero non sapeva a chi poterla lasciare quella sera.
Danae probabilmente si sarebbe infuriata. Non lo avrebbe dato a vedere, ma era certo che una cena da asporto, pur se dal migliore ristorante italiano della zona, non era quello che si sarebbe immaginata per la serata. E neanche lui aveva immaginato ciò.
Quando Danae aprì la porta, dimenticò che cosa stava pensando. Era bella, particolarmente bella quella sera. Aveva i capelli scesi come sempre, non era vestita particolarmente elegante, non indossava tacchi vertiginosi e il viso non era truccato più del solito, se si tralasciava il rosso acceso che le colorava le labbra, eppure la trovava bellissima. Non seppe bene come interpretare la reazione di Danae quando vide che Joe era andato a casa sua con tanto di cena, e figlia.
“Ti ho portato la cucina italiana direttamente a casa” cercò di dirlo in tono naturale ma quello che uscì dalla sua bocca fu tutto il contrario. Danae, non sapendo cos’altro fare, sorrise.
Imbarazzante? No.
Di più.
Dopo che si furono accomodati in cucina Joseph si sentì in dovere di spiegare il perchè di quella singolare situazione, nonostante Danae non avesse dimostrato in nessun modo il suo disagio o la sua perplessità. Il giovane padre si spiegò quest’apparente calma dicendosi che probabilmente Danae era solo una ragazza beneducata (quando ne aveva voglia). Poi pensò che poteva esserci di mezzo qualcos’altro, che magari la rossa che gli aveva sorriso timidamente era davvero felice di passare la serata con lui, nonostante il cibo nei piatti di plastica e una persona in più. Decise di non fare troppo affidamento su questa prospettiva.
“Scusa, oggi Jennifer doveva rimanere con mio fratello Kevin ma poi c’è stato un contrattempo” disse lui a mò di scusa e Danae si affrettò a rispondere che andava tutto bene e che avrebbe preparato la tavola per tutti e tre. Joseph continuò a sorprendersi che quella fosse la stessa ragazza con cui aveva parlato solo la mattina. Forse era imbarazzata e si sa, l’imbarazzo fa apparire sempre l’opposto di come si è. Ecco perchè Danae White era diventata un’agnellino, in quel momento. Per un qualche motivo preferiva la Danae acida e che parlava, nonostante spesso quello che diceva non era granchè carino. Forse avrebbe dovuto rimandare tutto, come aveva deciso all’inizio. Cosa gli era passato per la mente quando aveva deciso di portare anche Jennifer? Si era sempre detto che non le avrebbe presentato ragazze. E questa era anche la sua maestra di asilo, il che rendeva il divieto ancora più rigido, no?
Comunque, ora erano lì, tutti e tre e, dato che non poteva più tornare indietro, l’unica cosa che poteva ancora fare era cercare di metterla a suo agio il più possibile.
Jennifer, dopo aver chiesto gentilmente alla padrona di casa il permesso, era corsa in salotto a vedere i cartoni animati. La piccola aveva ammesso di aver perdonato Danae per il terribile malinteso della Casa-Castello, ma ancora non la vedeva di buon occhio. Joseph però non si era neanche mai posto il problema se a Jennifer avrebbe potuto piacerle una come Danae, più che altro perchè non c’era l’esistenza di nessun problema, ancora. Non aveva senso fare previsioni o aggiungere preoccupazioni a quelle già esistenti. Se la cosa fossa andata avanti ci avrebbe dovuto riflettere a lungo, è vero. Ma per ora, Joe e Danae non erano assolutamente niente.
“E’ successo qualcosa di grave?” chiese Danae, distogliendolo dai pensieri. Joseph fece segno di non aver capito. “A tuo fratello, intendo”
“Oh, no no no” si affrettò a tranquillizzarla mentre la aiutava ad apparecchiare la tavola con i piatti che la rossa gli aveva consegnato. “Danielle, quella che tu pensavi fosse mia moglie...” Joe aspettò qualche secondo, prima di continuare la frase, aspettandosi forse di vederla ridere. In realtà tutto ciò che Danae fece fu arrossire. “Come stavo dicendo, Danielle ha scoperto di essere incinta e ho preferito che mio fratello andasse a festeggiare come si deve”.
In realtà, quando Kevin gli aveva riferito che non avrebbe potuto badare alla figlia quella sera, Joseph era andato fuori di testa. Ma questo, naturalmente, non lo disse alla ragazza che ora si apprestava ad aprire le buste contenenti il cibo non più bollente come prima, ma sempre abbastanza caldo. Quando Kevin, poi, aveva riferito al fratello minore il perchè di quell’imminente rifiuto, Joe non aveva avuto cuore di dirgli di no e nemmeno di essere arrabbiato con lui. Lo aspettavano da così tanto, un bambino. La notizia lo aveva rallegrato a tal punto che il moro non riuscì a chiamare Danae per rimandare l’uscita.
Solo dopo essere uscito di casa Joe si era reso conto che non avrebbe potuto comunque chiamare Danae, dato che non aveva neanche il suo numero. Quindi cercò di provvedere immediatamente.
La roba che il ragazzo aveva portato a casa era pensata per cinque, sei persone. Non di certo per due e mezzo.
C’erano spaghetti in salsa di pomodoro, ravioli con un ripieno di carne saporito, le lasagne alla bolognese e il vitello tonnato. Poi, con grande felicità della ragazza, Joe aveva preso anche qualche trancio di pizza.
Anche Jennifer si era unita alla cena, nonostante la tv fosse ancora accesa.
Forse, guardando da lontano, potevano perfino sembrare una famiglia felice, quei tre. Il pensiero corse nella mente di Danae un paio di volte e in quella di Joe poco più, ma nessuno dei due lo disse o ci fece caso più di tanto.
A cena finita, bastarono una decina di minuti perchè Jennifer si addormentasse sul divano, mentre ancora andava in onda Spongebob. Joe era accanto a lei, e Danae dalla parte opposta, entrambi mentre gustavano il loro ultimo pezzo di pizza.
“Usi tua figlia come scusa per guardare i cartoni animati?”
“Cosa?” chiese Joe, troppo impegnato a guardare la tv per ascoltare la domanda.
“Ho detto che non credo sia da uomini maturi guardare ancora i cartoni animati” sorrise Danae.
“Non mi sembra che tu ti stia lamentando molto” la accusò lui, e Danae rise di gusto.
“Si è vero. Sono innamorata di quella stupida spugna gialla” ammise infine. L’imbarazzo di quella casa era sparito dopo qualche battuta durante la cena, che era trascorsa in fretta e abbastanza piacevolmente. I due avevano scoperto di avere molte cose in comune, e di pensarla diversamente sul triplo. Questa comunque era una buona cosa. Non finisce mai molto bene tra persone troppo uguali.
“Per fortuna i miei sono usciti portandosi dietro mio fratello Joshua. Non oso immaginare cosa avrebbero potuto fare questi due messi insieme” Joe annuì, facendo una faccia terrorizzata che fece ridere la ragazza. Poco dopo Danae si rese conto di sentirsi come... incompleta. Non si trattava di nessun pensiero profondo o cose del genere. Era qualcosa di molto più pratico e molto meno romantico di quanto si possa pensare. Quando anche Joe finì il suo petto di pizza, e si pulì le mani ad un tovagliolo di carta un pò sporco di sugo, capì a cosa era riferito quel vuoto.
“Mi hai portato la cucina italiana a casa...” riprese le parole con cui Joe si era presentato un paio di ore prima “ma non mi hai portato nulla per dolce. Così mi ferisci” disse poi la giovane, portandosi una mano al cuore con fare teatralmente addolorato. Joe rimase un attimo a guardarla, ripercorrendo il cambiamento che era avvenuto sotto i suoi occhi in poco più di due ore. Non la vedeva più rigida e timida. Ora sembrava più spontanea e allegra e, doveva ammetterlo, lo era diventato anche lui. In fondo non era stato affatto un primo appuntamento da dimenticare, quello.
“Potrei trovare mille scuse o dirti semplicemente che il tuo dolce sarei io -“ cominciò Joe mentre Danae alzava gli occhi al cielo e incrociava le braccia con fare spavaldo, più per nascondere il suo rossore che per altro.
“Ma la verità è che avevo finito i soldi. Mi dispiace di averti ferita così tanto”
Danae rise. Dio, da quanto non rideva così tanto? Riguardando indietro nella serata le sembrava quasi che ridere fosse l’unica cosa che avesse fatto.
Chissà che cosa pensava Joe a riguardo... magari ora la vedeva come una ragazza un pò scema che sapeva solo ridere. Stranamente il problema non la preoccupava più di tanto. Anche Joe aveva riso molto, e poi era da così tanto che non passava una serata così piacevole che, per una volta, il giudizio della gente non le importava per niente. Avrebbe riso fino a che non l’avrebbero chiusa in un manicomio, se ne avesse sentito la necessità.
Quel ragazzo la faceva quasi felice. Non aveva motivo di nasconderlo.
 “Potremmo rimediare. Ti piace la nutella?”
“A chi non piace la nutella?” chiese Joseph di rimando e Danae o invitò a seguirlo verso quella che doveva essere la sua camera. Il ragazzo rimase sulla soglia della porta fino a che Danae non lo invitò ad entrare, quasi per paura di entrare troppo prepotentemente nella sua vita così oscura e sconosciuta. Anche la camera della ragazza, rispecchiava quel mistero dovuto alla totale mancanza di informazioni sul passato, il presente, e il futuro di quella ragazza. Mentre Danae cominciò a frugare nell’armadio, dietro un montone di vestiti, Joe si prese il lusso di ammirare un po’ più approfonditamente la stanza nella quale era appena entrato.
I mobili erano di un legno scuro, c’era una grande finestra al centro di un muro coperta da una tenda bordeaux. Il resto era come una normale stanza da letto, anche se sulle pareti rosse erano appese decine e decine di fotografie. Joseph le guardò solo di sfuggita, sempre per quel senso di disagio dovuto all’infiltrarsi in pezzi di vita di cui lei ancora non gli aveva parlato. Forse un giorno gliele avrebbe mostrare lei stessa, una ad una.
Proprio mentre Joe le era arrivato accanto, Danae alzò con aria trionfante il trofeo che aveva trovato dietro i vestiti dell’armadio.
“Eccolo!” disse poi, e Joe la guardò tra i divertito e il perplesso. “Nascondo sempre un barattolo di nutella nella mia stanza, per precauzione. Joshua è capace di mangiarne un barattolo al giorno e non posso rischiare di rimanerne senza” disse lei con gli occhi bassi sul barattolo di nutella, a mò di spiegazione.
“Oh” disse Joe “una riserva di nutella, interessante”
“Si. È esattamente accanto alle mie macchinette fotografiche” per un qualche motivo Danae si sentì subito imbarazzata. “Sei l’unico a sapere il mio nascondiglio. Quindi se dovesse sparirmi qualcosa so chi andare a cercare” ironizzò per smorzare la sua stessa agitazione. Un po’ sembrò funzionare.
Joe si avvicinò all’armadio, e in un angolo vide cinque o sei macchinette fotografiche, tutte di forma ed epoche diverse.
“Posso?” chiese poi cautamente, quasi si aspettasse un no. Infatti quella era proprio la risposta che Danae stava per dare, quando le parole di Joe le tornarono in testa come in un flashback.
 
Ti comporti come se fossi superiore a tutti gli altri. Come se gli altri non siano all'altezza di conoscerti. Fai la finta menefreghista e allontani chiunque sia abbastanza stupido da avvicinarsi a te.
 
Si, era proprio quello che faceva. Allontanava la gente. Si chiudeva in sè.
In quel momento ripromise a se stessa che Joe sarebbe stato colui che avrebbe cambiato quella situazione.
“Si” rispose allora, anche se non con la decisione che si era proposta. Joe allora prese tutti quegli aggeggi e li poggiò sul letto uno ad uno. Poi anche i due ragazzi si sedettero, non troppo vicini.
Quando Joe iniziò a guardare quelle che rapressentavano la sua passione, quasi sentì un tuffo al cuore. Era così abituata a tenere le cose per sè che la presenza di qualcun’altro la disorientava, ma non la turbava. Nè la infastidiva. No, forse le faceva persino piacere.
"Qual è la tua macchinetta preferita?" chiese Joe passandosi un vecchio rullino sul palmo della mano. a quella domanda Danae si sentì quasi impallidire e si chiese se questo fosse visibile dall’esterno.
 
Allontani chiunque sia abbastanza stupido da avvicinarsi a te.
 
"Questa" rispose porgendogli un vecchio modello a rullino prima che il troppo pensarci la facesse tornare al punto di partenza.
"Come mai?" Lei si avvicinò e cominciò ad indicargli con le dita alcune scheggiature piuttosto evidenti.
"L'obbiettivo è rovinato.. qui, vedi?" Joseph sfiorò con l'indice il punto che Danae gli stava indicando.
"Ed è proprio quello che la rende speciale. Riesce a catturare la luce come nessun'altra"
Joseph sorrise, "mi piacerebbe vedere qualche foto di questa macchinetta"
Danae sembrò ricomporsi. Non credeva di essere pronta ad aprirsi fino a quel punto. "Le foto di questa macchinetta sono... personali" ci mise qualche secondo per scegliere accuratamente quell'aggettivo.
"Vuoi dire che tu puoi impossessarti della vita degli altri mentre gli altri non possono intromettersi nella tua?"
Ahi, quello faceva male.
"Si, diciamo di si" disse infine, combattendo tra la parte testarda che le impediva di parlare e quella che voleva davvero avvicinarsi a quel ragazzo.
"Chi è stato a romperla?" riprese a parlare Joe, che per un attimo si perse nello scrutare quell’oggetto tanto caro e pieno di ricordi e sentimenti.
"Mio fratello"
"Dovevo immaginare che fosse stato Joshua"
"Non è stato Joshua"
Joseph corrucciò la fronte, poi prese a guardare il viso di Danae che sembrava essere diventato ancora più pallido del solito.
Lo stava facendo? Si stava intromettendo nella sua vita senza che lei lo volesse? Il repentino cambiamento dell’umore di lei andava tutto a favore della sua teoria, ma non poteva fermarsi. Non voleva. Voleva sapere, conoscerla.
"Non pensavo avessi un altro fratello"
A Danae si creò un groppo in gola "infatti" disse solamente, e Joseph si disse che forse era il momento di cambiare argomento, che se lei avesse voluto dire qualcosa l’avrebbe già fatto, quando lei cominciò a parlare.
"Mio fratello Damon. Lui -" Era la prima volta che parlava dell'accaduto da quel giorno.
"Lui è morto".
 
 
Ciao mie bellizzime donzelle.
Prima di tutto voglio dirvi che non era mia intenzione lasciare il capitolo così. Vi avevo promesso l’intera storia di Damon ma mi sono appena resa conto che il capitolo sarebbe diventato infinitamente lungo. Inoltre, dato che non aggiorno da molto, ho preferito postare questa prima parte. Spero vada bene lo stesso.
Come va? Siete pronte a lasciare finalmente la scuola? (domanda cretina, lo so che siete pronte lol).
forse ci sono errori di battitura, ma non ho riletto perchè non vedevo l'ora di postare qualcosa. 
Sinceramente non so cosa pensare della storia... non so, non mi convince più tanto. Forse vado troppo a rilento, vero? Vi annoio? Fatemi sapere, vi prego, e recensite in tante anche solo per dirmi che fa schifo o non so proprio se la continuerò o meno.
Spero passi questo brutto blocco, e in fretta.
Grazie mille a chi è arrivato fin qui. Un bacio enorme bellezze <3

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