Things Nobody Ever Bothered Asking About Millicent Bullstrode di Sigyn (/viewuser.php?uid=194175)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blood ***
Capitolo 2: *** Slytherin ***
Capitolo 1 *** Blood ***
Blood
Millicent Bullstrode non era una Pureblood, ed essendo una
Slytherin si
guardava bene dal dirlo in giro. Fin dal suo arrivo ad Hogwarts, grazie
agli altri studenti della sua Casa, aveva subito imparato quanto lo
stato di sangue di una persona potesse essere determinante, nel corso
della sua vita.
Comunque sia,
nessuno si era mai preoccupato di parlarne alla diretta interessata.
Beh, non da
quella volta al Primo Anno in cui Vincent Crabbe si era preso gioco
della sua scarsa conoscenza delle regole del Quidditch e si era
immediatamente ritrovato con un occhio nero e un livido bluastro sulla
guancia, almeno.
Draco Malfoy
aveva la vaga impressione di essere imparentato con Millicent da parte
di madre, ma non aveva mai badato molto a quel pensiero: era
imparentato con molta gente ben più importante, lui. Tracy
Davis talvolta la prendeva in giro – rigorosamente alle sue
spalle – ipotizzando scherzosamente che la sua goffaggine e
il suo aspetto fossero dovuti ad una parte di sangue Muggle nelle vene.
Pansy Parkinson aveva preso più seriamente queste
chiacchiere, e una volta ne aveva parlato con Daphne Greengrass e le
sue altre amiche.
Daphne era
stata l’unica a non ridere e, dopo aver intimato a Pansy di
stare zitta, era uscita sbattendo la porta dal Dormitorio.
*
Millicent
era
stata abituata fin da bambina a pensare di essere una strega. Sua madre
aveva cominciato ad impartirle le prime basilari nozioni sulla magia e
i maghi quando aveva otto anni. Un giorno, l’aveva fatta
salire in soffitta, promettendole una lezione importantissima e
alludendo, con un sorriso misterioso e un bagliore di affetto e rara
tenerezza negli occhi neri, ad un evento speciale che sarebbe accaduto
il giorno del suo undicesimo compleanno. Non dire niente a papà,
si era raccomandata, l’usuale espressione accigliata
che tornava brevemente sui lineamenti duri del volto, una nota
preoccupata nella voce.
Millicent
l’aveva visto come un gioco, una bella favola, ma non ci
aveva mai creduto davvero.
Ma era raro che gli occhi di sua madre brillassero in quel
modo, allegri e nostalgici allo stesso tempo, e qualche piccola bugia
non le avrebbe fatto certo del male.
Poi, quando
aveva nove anni, un ragazzino che abitava nel suo quartiere aveva
commesso l’errore di canzonarla per la sua stazza. Lei lo
aveva insultato per i suoi occhi tondi e sporgenti e la sua espressione
stupida, e lui aveva risposto tirandole i codini e dicendole che i maschi dovevano
portare i capelli corti.
Millicent
aveva chiuso gli occhi e stretto i pugni fino a che le nocche erano
sbiancate e le unghie avevano lasciato il segno sui palmi, sentendo la
rabbia montare dentro di lei, così calda da essere quasi
dolorosa. Si sentiva le guance andare a fuoco, e le lacrime iniziare a
pungere dietro gli occhi – ma lei non avrebbe pianto, non
voleva piangere, non
avrebbe pianto.
E poi, il
calore era diventato un formicolio sotto la pelle, un qualcosa di al
contempo uguale e completamente diverso da una leggera scossa elettrica
che le correva dalla testa alla punta delle dita. E, quando aveva
riaperto gli occhi, la stretta sui suoi capelli non c’era
più.
Davanti a lei,
con un’aria confusa che doveva essere identica alla sua,
c’era un piccolo gatto tigrato dagli occhi tondi.
L’incantesimo
era durato solo pochi minuti, ma quello non fu
l’unica cosa inspiegabile che le successe. E, quando
due anni dopo la lettera arrivò per davvero, Millicent fu
più curiosa e stupita che semplicemente sconvolta.
Il giorno in
cui un gufo dall’arruffato piumaggio grigio topo irrompe
dalla finestra aperta della cucina e atterra sgraziatamente davanti
alla scodella di latte e cereali della figlioletta undicenne non
è mai il più felice dell’anno, in una
casa abitata da una moglie strega e un marito Muggle.
Non che in
genere vada meglio per un marito mago e una moglie Muggle, sia chiaro.
Ma, quella mattina, un centinaio di campanelli di allarme si accesero e
squillarono violentemente nella testa di Kentigerna Bulstrode, mentre
la voce stridula di sua nonna straripava da un vecchio ricordo mai
completamente dimenticato e riecheggiava nella sua mente borbottando in
tono astioso su Muggle incapaci di prendersi le proprie
responsabilità, mogli ripudiate ed irresponsabili ragazze
madri abbandonate a se stesse sul ciglio della strada.
Per questo
quel pomeriggio, con Millicent chiusa in camera sua a rileggere per
l’ennesima volta il contenuto della lettera che aveva tenuto
con sé tutto il giorno e nessuna distrazione e possibile
cambio d’argomento che la donna non avrebbe esitato ad usare
a portata di mano, Kentigerna Bullstrode decise che era arrivato il
momento di fare un discorso serio con suo marito.
Beh,
più serio delle spiegazioni emozionate e confuse che era
riuscita a fornire a John quella mattina, comunque. Kentigerna aveva
sempre avuto un’alta opinione di se stessa e della sua
capacità di mantenere il sangue freddo in ogni situazione,
ma certe cose erano semplicemente troppo perfino per lei.
John
Bullstrode era un uomo ordinario, di indole tranquilla, completamente
ed indiscutibilmente privo di poteri magici e stranezze in generale. E,
in quel momento, anche un coniuge evidentemente confuso ma
straordinariamente sereno e paziente.
- Quindi, tu
mi hai nascosto per anni di essere una strega – disse. Non
pareva eccessivamente turbato, o spaventato, o infuriato ... o
qualsiasi altro aggettivo che terminasse in -ato. Invece, la
fissò con quella sua aria tranquilla e vagamente malinconica
e bevve un sorso dalla sua tazza di tè.
- Non potevo
dirtelo, John. C’è una legge che ...
– provò a spiegare lei, con
l’espressione dura e determinata che assumeva quando stava
per affrontare un argomento importante.
Suo marito la
interrupe con un gesto della mano. – Una legge? Ho sempre
pensato che non ti fidassi abbastanza di me –
replicò con un sorriso mesto.
Kentigerna
spalancò gli occhi e, già che c’era,
anche la bocca. – Tu lo sapevi? Ma come ... ? -. Suo marito,
sotto l’apparenza placida e vagamente ottusa da vecchio bue,
era un uomo molto intelligente, ma questo era certamente troppo anche
per lui!
- Kentigerna
– John si interruppe per bere un altro po’ di te
– al nostro primo appuntamento ti ho dovuto spiegare
cos’è un numero di telefono. E, quando siamo
andati a vivere insieme, siamo passati al funzionamento delle lampadine -.
Kentigerna
accennò un sorriso nervoso.
- E,
l’unica volta che l’ho incontrato, tuo padre prima
mi ha insultato in gaelico e poi mi ha puntato contro un bastoncino di
legno. E tua sorella, tentando di essere gentile, mi ha chiesto se
volevo un bicchiere di succo di zucca ... ne aveva già un calderone fatto in
casa, quindi non c’era proprio alcun disturbo, sai -.
- Va bene,
forse non sono poi così brava a fingermi una Muggle
– Kentigerna sbuffò, alzando gli occhi al cielo: -
... una persona senza poteri magici – chiarì,
sotto lo sguardo incuriosito e perplesso di John.
- E poi ci
sono i pomeriggi in cui tu e Millicent state in soffitta per ore e
tornate giù con gli abiti bruciacchiati e puzzando di spezie
e cose simili, e la volta in cui la bicicletta di Millicent
è finita sul tetto e lei non ha saputo spiegare come fosse
successo, e il tuo imprecare insultando Morgana e Merlino quando sei
davvero arrabbiata ...-.
- Ho capito, ho capito! –
sbottò Kentigerna, portando le mani davanti a sé
come per difendersi da quel fiume incessante di parole, sentendosi
all’improvviso girare la testa. Poi, un pensiero le
attraversò la mente in uno sfolgorante lampo di panico ed
incredulità: - E non hai mai pensato di ripudiarmi? -.
John
alzò un sopracciglio. – Divorziare, dici? -
sembrò pensarci sopra per qualche istante. Posò
la tazza sul tavolo e si sistemò i baffi neri con la mano.
-
C’è un modo in cui io possa farlo senza che tu mi
trasformi in un rospo per il resto della mia vita?- domandò
infine.
Kentigerna
sorrise. – No -.
- Bene.
Perché sarebbe un gesto molto stupido, da parte mia, e mi
meriterei proprio di gracidare in uno stagno -.
E, detto
questo, John riprese serenamente a bere il suo tè.
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Capitolo 2 *** Slytherin ***
Slytherin
Nessuno aveva mai capito perché Millicent Bulstrode fosse
stata Smistata in Slytherin. Nessuno tranne Millicent Bulstrode,
ovviamente, ma erano ben poche le persone sinceramente interessate alla
sua opinione su qualsiasi argomento.
Tra queste,
inaspettatamente, c’era Tracy Davis: non che Millicent le
piacesse, anzi – Millicent era goffa e sgraziata e manesca e
al loro Secondo Anno aveva ricambiato una sua battuta particolarmente
divertente con una risposta a tono e una fattura che l’aveva
costretta in Infermeria per un giorno e una notte interi. Ma il
perché della sua presenza nella sua stessa Casa era un
mistero, e a Tracy Davis i misteri erano sempre piaciuti. Non aveva mai
chiesto niente a Millicent solo perché ricordava ancora
piuttosto bene il bruciore e il puzzo delle bolle bluastre che erano
comparse sulla sua faccia quella volta.
Anche Daphne
Greengrass aveva un certo interesse in quella questione. Non che non
sapesse che Millicent era molto più intelligente di quanto
tutti si ostinassero a pensare, molto più furba, per quanto
l’associare questo aggettivo a una come lei, tutta risposte a
monosillabi e sguardi torvi e muscoli sempre pronti ad una rissa, fosse
evidentemente difficile per gli altri studenti della loro Casa.
No,
ciò che veramente mancava in Millicent era la seconda
caratteristica fondamentale di uno Slytherin: l’ambizione.
Fin dal loro Primo Anno, Draco aveva voluto disperatamente entrare
nella squadra di Quidditch della loro Casa, Tracey aveva deciso di
studiare Magisprudenza una volta uscita da Hogwarts, lei aveva cercato
di ottenere voti eccellenti in tutte le materie e Pansy ... beh, Pansy
dava un nuovo scopo alla sua vita quasi ogni giorno, dal convincerla a
lasciarle copiare il tema di Incantesimi a rendere insopportabile la
mera esistenza di Hermione Granger. Ma Millicent, per quanto ne sapeva
lei, non aspirava ad obiettivi più elevati che passare
l’ennesimo test della McGonagall, né si era mai
davvero impegnata per raggiungere un qualsiasi traguardo.
Nonostante
questo, immaginare il Dormitorio di Slytherin senza Millicent era
deprimente, sbagliato.
Il solo pensiero la faceva sentire fredda e vuota, con lo stesso
desiderio insensato di voltarsi e fuggire che invadeva ogni fibra del
suo corpo durante le cene con le amiche di sua madre. Ogni
volta che si sorprendeva a fare riflessioni di questo tipo le
abbandonava in un angolo piccolo e oscuro della sua mente, e tornava a
preoccuparsi per la cotta di Astoria per Draco, per il tema di Storia
della Magia che non aveva ancora finito, per ciò che suo
padre avrebbe detto e per lo sguardo calmo e gelido che le avrebbe
riservato se avesse saputo del suo ennesimo brutto voto in Pozioni.
C’era sempre così tanto per cui essere ansiosi, in
fondo.
Pansy
Parkinson, in teoria, avrebbe avuto tutto il tempo per interrogarsi
sulle sue amiche, perché lei non aveva fratelli e non andava
né particolarmente bene né particolarmente male
in nessuna materia. Solo, Millicent non era poi un argomento di
discussione così interessante. Non che non le piacesse:
Millicent era piuttosto simpatica, a suo modo, e se anche non lo fosse
stata al loro Secondo Anno aveva tentato di strozzare Hermione Granger
e per questo era senza dubbio meritevole di ammirazione. Quindi, Pansy
non rifletteva mai troppo intensamente su certe cose e tornava subito a
concentrarsi sugli occhi grigi e i sorrisi sarcastici e piacevolmente
arroganti di Draco Malfoy.
Draco Malfoy
aveva sempre accuratamente evitato di interagire troppo con Millicent
Bulstrode. Nel suo personale ordine delle cose, le ragazze dovevano
essere sottili e pallide e sorridenti come Daphne o sua sorella, o
compensare un brutto carattere e un bizzarro naso
all’insù con un’ironia tagliente e
un’insospettabile capacità di concedergli
attenzioni illimitate come Pansy. Millicent era ... beh, lei era solo una dei ragazzi.
Quando per ragazzi si intendeva gente come Greg e Vincent e non lui o
Theodore, ovvio. Era impensabile che avesse un briciolo di astuzia o un
poco d’ambizione e quindi Draco non ci pensava affatto.
Blaise Zabini
aveva sempre ritenuto Draco uno spaccone bravo solo a nascondersi
dietro i suoi schiavetti, e se stesso un grande osservatore. E una
delle cose in assoluto più interessanti da osservare era
l’anonimo, l’amorfo, il sottovalutato.
C’era sempre qualcosa di strano, in Millicent, qualcosa di
eternamente fuori posto in qualsiasi luogo o situazione. Uno sguardo,
un gesto, una parola di troppo.
Gli Slytherin
erano bravi a nascondere segreti, perché conoscere
ciò che gli altri non sanno ti dà automaticamente
un vantaggio su di loro. E Millicent Bulstrode era una Slytherin,
decisamente.
*
- Quindi
è ... come una squadra di calcio? -.
Lo sguardo di
Millicent vagò dall’espressione vagamente
perplessa sul volto di suo padre a quella esasperata di sua madre. La
scuola cominciava tra una settimana, e lei non era ancora sicura di
aver capito tutto.
- No. Non
è come una squadra di calcio – ribatté
sua madre, tamburellando con le dita sul tavolo. Non era arrabbiata con
suo padre, ovviamente: non lo era mai. Semplicemente, aveva davvero
poca pazienza.
Suo padre si
passò una mano grande e tozza tra i capelli neri.
– Ti fa vincere e perdere punti, e si possono formare legami
importanti tra i giocatori – disse, tranquillo, una luce
divertita negli occhi marroni, anche se la mamma non l’aveva
spiegato esattamente così: - Alla fine, è come
una squadra di calcio -. Sorrise, evidentemente soddisfatto del suo
ragionamento. Millicent annuì: in fondo, aveva senso.
Il calcio,
poi, le piaceva molto. Era familiare, semplice – non bizzarro
ed estraneo come ... beh, come tutto
il resto, da un po’ di tempo.
Non che sua
madre non le avesse già spiegato tutto, a grandi linee. Solo
adesso, però, le sue lezioni sembravano avere senso davvero.
E bisognava dire tutto anche a papà, ora, e la mamma era
molto più brava di lei con certe cose.
- Una Casa
è una cosa diversa ... ma sì, in un certo senso
il principio è simile – dovette arrendersi infine
sua madre. Rimase in silenzio per un attimo, le sopracciglia corrugate
sopra gli occhi neri. - Però, in realtà
l’equivalente magico del calcio sarebbe il Quidditch
– concluse, compiaciuta, sbattendo un pugno sul tavolo.
I suoi
genitori sapevano essere anche più testardi di lei, a volte.
Millicent scosse leggermente la testa. - Quidditch? – chiese,
incuriosita. Sua madre non gliene aveva mai parlato, ma suonava come
qualcosa di più interessante di una lezione di Artimanzia o
Storia della Magia.
La mamma
riportò rapidamente la sua attenzione su di lei, come se si
fosse ricordata solo in quell’istante della sua presenza. Si
accigliò, e per un attimo il suo sguardo si fece lontano,
freddo. – È peggio del calcio. Molto peggio.
Troppe scope, troppo in
alto -. Proprio quando Millicent stava per chiedere
più dettagli, però, il viso di sua madre si
illuminò di nuovo, come quando aveva cominciato quella
conversazione.
- Ora,
tornando alle Case. Finirai in Slytherin, ovviamente. Nella mia
famiglia siamo stati Smistati lì per generazioni –
disse sicura, qualcosa di orgoglioso e nostalgico allo stesso tempo
nella piega appena accennata delle labbra. – I migliori
finiscono in Slytherin ... i più astuti, i più
determinati, i più ambiziosi ... Molto meglio degli
Hufflepuff, e ... -.
Mentre sua
madre si perdeva nei suoi ricordi di gioventù, Millicent
lanciò un breve sguardo a suo padre. Lui scrollò
le spalle e alzò un sopracciglio. Nel linguaggio privo di
parole che usava talvolta, voleva probabilmente dire come una squadra di calcio, vedi?
Millicent
alzò le spalle di rimando. La mamma non le aveva mai parlato
molto approfonditamente delle altre Case. Sapeva solo che doveva
evitare i Gryffindor il più possibile.
Slytherin
poteva andar bene, pensò. E non voleva deludere sua madre
– e per lei da un po’ di tempo sembrava tutto
così importante.
Richiuse la
porta dello scompartimento alle sue spalle con forza, senza curarsi del
rumore. Si lasciò cadere su uno dei sedili, e
sospirò.
Troppa gente.
Troppo rumore. Troppi ragazzini esagitati dentro il treno, troppi
genitori in lacrime alla stazione.
Sua madre non
aveva pianto: le aveva augurato buona fortuna con una silenziosa, forte
pacca sulla spalla, e dopo le aveva regalato un sorriso così
abbagliante da farle credere per un attimo di essere davanti ad
un’altra donna. Suo padre si era asciugato una lacrima quando
pensava che non potesse vederlo, ma poi le aveva augurato buona fortuna
e le aveva scompigliato i capelli – Millicent protestava
sempre quando lo faceva, e lui sorrideva in silenzio. Quella volta,
però, si era dovuta trattenere dall’abbracciarlo. Non sono una bambina,
si era detta. Sto
andando via solo per qualche mese, non vuol dire mica che non li
rivedrò mai più. Torno quest’estate.
Era la prima
volta che viaggiava da sola. Era la prima volta che si allontanava
tanto e per tanto tempo dalla sua famiglia.
Si
sistemò più comodamente sul sedile, e
guardò fuori dal finestrino. Beh, almeno era riuscita a
trovare uno scompartimento libero – non sembrava
un’impresa molto facile, ed era abbastanza orgogliosa di
esserci riuscita.
Appena ebbe
finito di formulare quel pensiero, sentì un lieve toc toc e la porta
si aprì con uno scricchiolio incerto. Ah, ecco.
Non si
voltò quando sentì il rumore dei passi leggeri e
svelti del nuovo arrivato. Però, lo fece quando
sentì quel ciao,
c’è posto qui? gentile ma deciso.
Si prese
qualche istante per osservare la ragazza. Era piccola e minuta,
più bassa di lei, con i lunghi capelli biondi raccolti in
una treccia ordinata e un sorriso amichevole sulle labbra sottili e
rosee. Era carina, pensò Millicent, prima di risponderle: -
Ciao. Ci sono solo io, entra pure -.
Il sorriso
dell’altra si allargò ancora di più,
mentre prendeva posto di fronte a lei. – Piacere. Daphne
Greengrass – le disse, una nota di gratitudine nella voce.
- Millicent
Bulstrode – rispose lei, secca, prima di tornare a guardare
fuori dal finestrino.
- Non ci credo
– ribatté Millicent, stringendosi addosso il lungo
e pesante mantello che sua madre le aveva comprato solo qualche giorno
prima. Rabbrividì nell’aria fredda della sera, il
vento che le scompigliava i capelli – avrebbe voluto
tagliarli, prima o poi. Davanti a lei, l’acqua scura e
profonda del Lago Nero scorreva placida attorno alla barca del custode.
- Ma
è vero
– piagnucolò al suo fianco Daphne, alzando gli
occhi al cielo. Non usava spesso quel tono petulante ma, da quanto
Millicent aveva potuto vedere durante il resto del viaggio, era sempre
accompagnato da uno sguardo penetrante e un broncio che la faceva
sembrare più giovane dei suoi undici anni. Dovette
trattenere una risata, ma non riuscì ad evitare di lasciarsi
sfuggire un piccolo sorriso.
- Non
crederò alla storia del soffitto magico finché
non lo vedrò – si impuntò Millicent,
sia per il gusto di infastidirla sia perché – beh,
un soffitto magico. Che
rifletteva il cielo all’esterno, per di più.
- È
un soffitto incantato,
sai. C’è una differenza. Ed è tutto
scritto in Storia di Hogwarts – puntualizzò
l’altra ragazza, con l’aria di qualcuno che non si
arrendeva facilmente.
Daphne sapeva provocare in lei un bizzaro miscuglio di simpatia e
fastidio, e il viaggio in treno con lei era stato molto più
piacevole di quanto si fosse aspettata all’inizio. Per un
po’ erano semplicemente rimaste in silenzio, prima di
iniziare a conoscersi meglio – e questo, per lei, era
decisamente un punto a suo favore.
Era un
po’ una so-tutto-io, certo, ma era anche simpatica e, doveva
ammetterlo, non era tanto irritante vederla infervorarsi riguardo a
cose che le stavano a cuore, o la incuriosivano soltanto. In casa
Bulstrode, la testardaggine era qualcosa di cui andare fieri. E poi,
lei aveva l’aria di sapere già tutto
ciò che voleva ottenere dalla vita, e questo la affascinava,
in un certo senso.
Spero che ci sarai anche tu, tra gli
Slytherin, le aveva detto con quel suo sorriso timido ma
non freddo, come se fosse già stata Smistata. Tutta la mia famiglia
è stata in Slytherin. Non voglio assolutamente essere
in Hufflepuff. Non vedo l’ora di cominciare con le lezioni
... lo so che è strano, ma mi interessa molto Storia della
Magia.
Millicent
sperava di finire in Slytherin, ma non poteva saperlo
– e non era nemmeno così certa di volerlo davvero.
Millicent si chiedeva perché Storia della Magia
apparentemente non godesse di una buona reputazione, e
perché nessuno voleva stare in Hufflepuff, e cosa avrebbe
davvero studiato in quella scuola fuori dal mondo – dal suo mondo, da tutto
ciò che aveva conosciuto e vissuto fino a quel momento.
Millicent
aveva tante domande e nessuna risposta, e non era davvero il tipo da
grandi riflessioni. Sapeva solo che si sentiva insicura – e
lei odiava sentirsi così.
Guardò di nuovo davanti
a sé, dove la sagoma nera del castello si stagliava contro
il blu cupo del cielo, sempre più vicina. Si perse nei suoi
pensieri, e galleggiò per qualche attimo in una quieta
sensazione di impotenza.
Una mano si
posò sulla sua spalla, leggera come il tocco di una
farfalla, fredda.
Millicent si
voltò di scatto verso l’altra, sorpresa. Daphne
incrociò il suo sguardo per qualche secondo, e poi
fissò l’acqua intorno a loro. La mano se ne
andò veloce com’era arrivata.
Millicent fece
un piccolo sorriso, e le si avvicinò appena un po’
di più.
Era un
pensiero stupido e infantile e si rendeva conto di essere troppo grande
per certe cose – però, il suo primo obiettivo ad
Hogwarts era stare con Daphne Greengrass.
- Ci sono
determinazione e astuzia, sì ... ma anche costanza, e un
grande senso di lealtà ... Hufflepuff, forse? -.
Sotto le
larghe falde del Cappello Parlante, Millicent sgranò gli
occhi, provando un improvviso moto d’indignazione. Non Hufflepuff, non Hufflepuff,
pensò disperatamente, senza nemmeno capire veramente
perché. Il Cappello rise.
Millicent
sbuffò, e lasciò vagare il suo sguardo per la
Sala Grande. Tra la folla dei ragazzi che aspettavano ancora di essere
Smistati spuntava la testa bionda di Daphne.
Sopra di loro,
una nuvola si mosse pigramente sul soffitto.
Note finali:
Non ho
abbandonato questa storia e non ho intenzione di farlo –
anche se potrei darne l’impressione, me ne rendo conto. Sono
solo una povera fangirl con troppe idee e altrettanti blocchi dello
scrittore.
...
Sì, è un modo contorto per scusarmi per il
ritardo, nel caso qualcuno si ricordi ancora di me.
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