Diario di una principessa normale.

di Applejack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Roma, 08/10/2012. ***
Capitolo 2: *** Roma, 09/10/2012. ***
Capitolo 3: *** Roma, 10/09/2012. ***
Capitolo 4: *** Roma, 12/10/2012. - Roma, 13/10/2012. ***
Capitolo 5: *** Roma, 20/10/2012. ***
Capitolo 6: *** Roma, 27/10/2012. ***
Capitolo 7: *** Roma, 10/11/2012 ***
Capitolo 8: *** Roma, 20/10/2012. ***
Capitolo 9: *** Roma, 24/12/2012. ***



Capitolo 1
*** Roma, 08/10/2012. ***


Roma, 08/10/2012

C’è qualcosa di strano oggi nell’aria.
Forse perché l’estate è iniziata e Roma è esplosa. Le strade, assolate già alle otto del mattino, sono una tela zeppa di colori, come il viso di Cesare quando si arrabbia: rosso, viola, una punta di giallo, verde scuro per un momento e poi di nuovo rosso. Se ci fosse Giulio direbbe: “ ‘a Lazio sarà pure azzurra come er cielo, ma ‘a Roma…rossa come er core, gialla come er Sole!

Ed è vero, perché Roma pulsa e riscalda e accoglie: ha accolto persino me, che in mezzo a tutti questi forti tronchi saldamente ancorati alle loro sicurezze mi sento come un fragile dente di leone, pronto a volar via al primo soffio di vento. La nonna ne sarebbe felice; non oso pensare ai suoi commenti se dovesse scoprire che vivo così, condividendo il bagno con quattro ragazzi e facendo le pulizie al soldo di un uomo che non ha moglie. Probabilmente sverrebbe, poi si indignerebbe e infine comincerebbe una lunga ramanzina, perché una principessa non si abbassa a pulire e cucinare Maya, tanto meno chiedendo soldi ad uno sconosciuto celibe. Chissà che penserebbe la contessa d’Aurillac se lo venisse a sapere! E tuo padre, poi. Mi accuserebbe di non averti istruita come si conviene. Il tuo rango ti impedisce di compiere certe azioni, a cominciare dal fare la lavandaia.”
Chissà come se la passerebbe qui, mangiando cornetti e panini con quell’ottima mortadella che solo Cesare sa strappare al macellaio, e con le canzoni di Marco nelle orecchie. Già, Marco: se ne sta seminascosto dietro la porta, pensando che io non l’abbia visto. Invece, arrischiandomi ad alzare gli occhi verso la finestra, scorgo il suo riflesso: gli occhi scuri, concentrati nell’indovinare cosa sto scrivendo, le labbra tese in un sorriso curioso, le mani pronte a richiudere la porta ad un minimo cenno di movimento da parte mia, per non sembrare invadente.
Marco, dietro quella facciata da donnaiolo incurante che si è costruito, è un ragazzo dolce ed altruista, anche se lo nasconde per paura di soffrire ancora. A volte, quando dorme, mi accovaccio a terra e osservo la sua chitarra; provo a immaginare cosa deve aver ispirato le sue canzoni, a chi pensava quando cercava le note giuste. Una volta l’ho sentito borbottare nel sonno e quasi sono caduta addosso all’amplificatore: si è girato e rigirato per tre volte, ha sbuffato il nome di Eva e si è zittito. Non so quale sia la loro storia, ma mi incuriosisce: se fossimo ancora nella fase “non-mi-vai-a-genio-e-farò-di-tutto-per-scoprire-la-verità-su-di-te”, non mi farei scrupoli nel chiederglielo, magari con quel tono brusco che Alice riserva a Rudi e un sorrisetto cattivo a fior di labbra. Da quando l’ho sentito piangere tra le braccia del padre, invece, non riesco ad avercela con lui, anche se mi ha spiata e mi ha quasi scoperta. Se ci ripenso mi viene un groppo in gola, al ricordo di quegli occhi desiderosi di ritrovare un equilibrio.
È ancora lì, sembra che stia tentando di leggermi nel pensiero tanto è concentrato. Chissà cosa pensa di me: forse che sono una ragazzina che ancora non sa come va il mondo, e ha ragione. Quasi sicuramente sospetta che io abbia un’indole snob e magari non aspetta altro se non vederla uscire fuori, per poi puntarmi il dito contro. Chissà…

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Capitolo 2
*** Roma, 09/10/2012. ***


Roma, 09/10/2012

 
Brava Maya, davvero complimenti: per colpa della tua assurda e morbosa curiosità hai riaperto le ferite di Marco, ci hai gettato sopra chili di sale e le hai lasciate lì, a bruciare. Ero in salotto a piegare i calzini spaiati di Rudi, quando è entrato Mimmo per guardare la TV. Mimmo, fra i tre fratelli Cesaroni, era l’unico a cui chiedere di Eva e Marco. Così l’ho fatto: “Ehi Mimmo, come va la scuola? Tutto bene? Senti, ehm, tu…tu conosci tutta la storia tra tuo fratello ed Eva?”.
Mimmo mi ha sorriso, ha lanciato uno sguardo veloce alle mie dita attorcigliate e ha cominciato a raccontare.
 
È durata quattro anni. Si sono amati, inseguiti, trovati, sono stati scoperti. Marco è scappato. Si sono lasciati, poi lei ha incontrato Alex. È andata fino in America con lui e ha scoperto di essere incinta. Di Marco.
È tornata, lui l’ha accudita e quando ha scoperto di essere il padre di Marta, si sono quasi sposati. Poi lui l’ha tradita, ma lei l’ha perdonato. E ora, dopo quattro anni, ora che forse lo ama e non lo sa, ora l’ha lasciato.
 
Stavo cercando di riordinare le idee quando ho sentito qualcosa che era a metà tra un gemito e un grugnito; ho girato la testa e ho visto la sagoma di Marco volare su per le scale, ma non prima di avermi scavato un buco nel cuore con uno sguardo pieno di disprezzo.
Marco!” gli ho gridato dietro. Ho dato un buffetto sulla testa di Mimmo, l’ho ringraziato, mi sono scusata e sono corsa dalla mia vittima. Ho trovato la porta della sua stanza sbarrata e ho sentito un pezzo di vetro spaccarsi.
Marco?” ho chiamato, sforzandomi di non alzare la voce e di non tempestare la porta di pugni.
Marco, ti prego, apri!
Scusami tanto Marco, io non volevo…!
Marco, dai, fammi entrare!
Marco non rispondeva e ho cominciato a preoccuparmi. Ho bussato altre cinque volte e a quel punto lui mi ha urlato contro.
Vai via!” ha detto, e ha dato un calcio alla porta.
L’ho pregato di nuovo, lui ha spalancato l’anta e ha gridato ancora. Ha cominciato a vomitarmi addosso fiumi di parole: “non sei nessuno.” – “Non c’entri nulla con la mia famiglia.” – “Vattene via.” – “Non sai niente, tu.” – “Vai via.” – “Ti odio!”.
Mi odia. È chiaro, matematico. Ha ragione, io non ho il diritto di impicciarmi.
Tu non sai un cazzo di me, Maya! Ti odio! Vattene ora!
Quelle parole, pronunciate con odio, mi rimbombano ancora nelle orecchie. Avevo le pupille inchiodate nelle sue, incapace di sfuggire a quella gabbia scura così bella e profonda: ho visto l’irritazione diventare rabbia, poi ira incontenibile, e infine tristezza, quella vera, quella che ti colpisce con uno schiaffo e ti brucia gli occhi, mandandoti a fuoco i pensieri. Finché non resta che un fantasma a ricordarti, con un pugno di cenere tra le mani.
Ho sentito la sua incrinarsi, rotta dalle lacrime che gli sono rimaste incastrate in gola. Quando ha smesso di urlare è rimasto a guardarmi per sette secondi, i più tesi che io ricordi; poi se n’è andato, si è rintanato nella sua grotta spezzando con un passo un frammento di cristallo. A terra, prima che la porta si richiudesse, ho notato la foto che ritrae Eva e Marta, che Marco ha cacciato sotto il letto con un piede.
 
Mi ci è voluto più di un pizzicotto per realizzare cos’era successo: mi sono guardata intorno, in cerca di qualche segno dello scontro, ma non ce n’erano. Per un momento ho pensato di essere impazzita, di essermi immaginata tutto. Sono scesa al piano di sotto, tenendomi aggrappata alla ringhiera per non ruzzolare giù, scossa com’ero.
Ai piedi delle scale ho incontrato un paio di occhi gentili, comprensivi: Mimmo, il piccolo dolce Mimmo, che aveva sentito tutto. Due piccole gocce di sale hanno rinfrescato le mie guance bollenti, le stesse che sento scendere ora.
Mimmo mi si è avvicinato e mi ha abbracciato, gesto che mi ha riportata alla realtà. Mi ha tenuta così per un po’, aspettando che esaurissi le lacrime, mi ha accarezzato i capelli ed è salito di sopra, con tutta probabilità per controllare il fratello.
Lo stesso fratello che stava pian piano diventando mio amico, e che ora mi detesta.
Brava Maya, davvero, brava.

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Capitolo 3
*** Roma, 10/09/2012. ***


Roma, 10/09/2012

 
Sono stanca. Stanotte non ho dormito: le immagini di ieri hanno continuato a torturarmi per tutto il tempo, finendo con lo scavarmi due profonde occhiaie. Marco non è ancora uscito dalla sua tana, eppure è quasi ora di pranzo; forse qualcuno gli ha detto che saremo soli fino a stasera e l’idea l’ha disgustato.
Vorrei parlare ancora con Mimmo, per sapere che si sono detti, ma non tornerà a casa: rimarrà da Matilde per fare i compiti. Alice andrà da Jolanda, Rudi in qualche negozio di videogames e Giulio in bottiglieria, e poi al vigneto per controllare l’uva. Sembra proprio che oggi sarò sola, se non considero quell’ectoplasma rinchiuso al piano di sopra.
Vorrei chiamarlo. Scusarmi. Spiegargli che non era mia intenzione ridurlo così. Vorrei sbirciarlo di sottecchi mentre se ne sta affacciato alla porta a osservarmi, o che fosse pronto a smontarla se dovesse bloccarsi, come quando sono rimasta chiusa in bagno…
 

 

 

 
Scusami un momento. Mi armo di cacciavite, tiro fuori la rana dal buco e torno.
 

Un po’ più tardi…

Marco stava dormendo, forse spossato dal pianto che, a giudicare dal cuscino zuppo, l’ha tenuto sveglio tutta la notte. Se ne stava appallottolato su se stesso, come un animale spaventato, tenendo serrati i pugni. Gironzolando per la stanza ho trovato CD a terra, fogli sparsi, vestiti per aria. In un angolo ho notato un borsone scuro, ai piedi del quale ho visto due paia di scarponcini e un berretto simile a quello dei pescatori.
Ho rimesso in ordine la stanza, ho raccolto dei pezzi di vetro, ho afferrato gli abiti, li ho sprimacciati e li ho riposti nell’armadio; poi sono scesa in cucina a preparargli qualcosa.
Forse è troppo pensare che mi perdonerà” pensavo mentre tostavo il pane, ma speravo che fosse comunque un passo avanti.
Quando sono tornata, Marco era sveglio e si guardava intorno con aria interrogativa; mi ha vista e il suo sguardo si è subito indurito. Con gli occhi bassi, ho lasciato il vassoio sul comò e mi sono infilata nella porta, pronta a scappar via.
“Maya.”
La sua voce arrochita mi ha fermata di colpo, facendomi diventare i piedi due blocchi di piombo. Non sapevo che dirgli, perciò mi sono limitata a guardarlo.
“Scusa” abbiamo detto all’unisono, e ci è scappato un risolino liberatorio.
Mi sono avvicinata e mi sono appollaiata sul letto, portando con me il piatto che ha pian piano svuotato.
“Ti chiedo scusa Marco” ho sussurrato.
“Non è colpa tua Maya. Ho avuto una reazione esagerata.”
“Non è vero. Non dovevo chiedere una cosa così privata.”
Ha soppesato le mie parole e mi ha risposto: “Eva mi manca. Mi manca come non mi è mai mancato nessuno. Mi ha distrutto sapere che non mi voleva più. Ma io non voglio vivere all’ombra di questa scelta.”
“Io sono certa che ti ama ancora.”
“Incrociamo le dita” ha risposto, sorridendo triste.
Dopo un momento di silenzio ha chiesto: “Come hai fatto a entrare?”
“Ho scassinato la porta” ho ammesso, vergognosa. Se lo sapesse la nonna…
“Davvero?”
“Già.”
È scoppiato a ridere così forte che alla fine era piegato in due.
“Non c’è nulla da ridere!” ho esclamato, contenta di averlo tirato su di morale. Gli ho dato una spintarella e lui ha replicato con una cuscinata: siamo finiti a lanciarci cuscini, ridendo come due bambini la mattina di Natale. È stato divertente, e bellissimo.
Scrivo queste righe con la testa di Marco appoggiata sulle ginocchia, il suo respiro caldo che me le riscalda.

 
 
 

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Capitolo 4
*** Roma, 12/10/2012. - Roma, 13/10/2012. ***


Roma, 12/10/2012

 
È straordinario come una cosa possa venir distrutta un secondo dopo essere stata costruita: come se una stella appena nata venisse oscurata prima ancora di emettere la sua luce sfavillante.
La nonna è stata qui, oggi. Le ha aperto Marco. È stato un miracolo che non si sia presentata recitando il suo titolo nobiliare.
Ci siamo chiuse in cucina, e dopo una rapida occhiata critica all’ambiente, mi ha rimproverata, accusandomi di vivere una vita che non mi appartiene.
Stai prendendo tutti in giro” ha detto.
So che non è cattiva, che mi vuole bene, che lo fa per evitarmi una sofferenza maggiore più avanti, perciò non riesco a ribellarmi alla sua decisione.
 
Domani torno a casa.
 
Spero che non la prendano male. Spero che Mimmo migliori sempre di più in inglese. Che Alice faccia pace con Rudi. Che Giulio ritorni con Lucia. Che Marco riesca a essere di nuovo il ragazzo sorridente e spensierato che ieri pomeriggio mi ha fatto il solletico nella pancia.
Oggi, per un momento, ho avuto l’impulso di raccontargli tutto, di entrare in camera sua e dirgli che “Sai, Marco, io sono una principessa. Hai ragione a pensare che vi ho riempiti di bugie. Hai sempre avuto ragione.
Ma preferisco che mi ricordi come una squattrinata sincera piuttosto che come una riccona bugiarda.
Domani torno a casa e devo decidere come fare per evitare sguardi incuriositi dalla mia valigia: forse la cosa migliore è sgattaiolare via di notte, mentre tutti dormono tranquilli, senza sospetti; quando si sveglieranno, senza l’odore del mio caffè bruciato nelle narici, io sarò lontana e non sarò più, mai più, Maya Smith.
Ma questo non è giusto, non per loro che mi hanno trattata da figlia, da sorella, da amica. Meritano di sapere, anche se questo cancellerà tutte le belle cose che hanno pensato di me.
Ho deciso, glielo dico. Glielo dirò. Domani. Forse.






 Roma, 13/10/2012

Dio benedica la mia vigliaccheria. Resto a Roma! :D
Calma Maya, respira. Smetti di fischiettare e di agitare i piedi sotto il tavolo; limitati a sorridere tanto da sentire male alle guance. Resto a Roma. Alla Garbatella. Con Giulio, Lucia, Ezio, Stefania, Cesare, Pamela, Rudi, Alice, Mimmo, Matilde,  e Marco. Sai cos’ha detto la nonna per giustificarsi? “Non ti ho mai vista così felice.” 
Quando se n’è andata ha lanciato uno sguardo a Marco, con l’aria di saperla lunga, ha alzato gli occhi al cielo ed è sparita dietro la porta. Non so dare un nome alla sua reazione e non sono abbastanza lucida per iniziare un lungo esame. Sono semplicemente felice, come non mi succedeva da un sacco di tempo. Sono ancora Maya. La vera Maya. La ragazza che lava, stira e impara a cucinare. E i Cesaroni sono ancora la mia famiglia.

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Capitolo 5
*** Roma, 20/10/2012. ***


Roma, 20/10/2012

 
-Io non sento più niente, il dolore pulsante è diventato sangue e poi ricordo di due amanti perdenti, mentre guardo in avanti incontro a nuovi occhi sorridenti-
 
Sembra che Marco mi abbia letto nel pensiero: è riuscito a tradurre in ventisette parole tutta l’angoscia, la tristezza, la colpevolezza e sì, la rabbia, che si aggrovigliano attorno al mio cuore quando penso a Jay.
Jay è il mio fidanzato da che mi ricordi: praticamente siamo nati già con le fedi al dito. Non abbiamo mai avuto altre storie al di fuori della nostra.
Da una parte, è rassicurante sapere che siamo e saremo così vicini per sempre; non sono mai riuscita a spiegarmi come facesse la gente comune a scegliere da sola. Ma da quando ho conosciuto Marco, comincio a capirlo. Quando sono con Jay mi sento sicura e protetta, quasi soffocata, da tutto ciò che conosco. Ma con Marco divento curiosa dell’ignoto e, cosa che mi spaventa a morte, mi sento amata.
Jay mi ama perché ha avuto ventun’anni per elaborare questo sentimento; Marco mi vuole bene, pur conoscendomi da un paio di mesi. Jay sa tutto di me e ancora, a volte, mi parla come se avessi sette anni. Tutto ciò che Marco sa è in gran parte frutto delle mie bugie, eppure mi da fiducia.
 
Marco ha distrutto la mia idea dell’amore e ha cominciato a costruirne una totalmente nuova. Pensavo che l’amore fosse vedere il mondo con gli occhi a cuoricino, mano nella mano con l’altra metà di te. Ma Jay non mi completa, non del tutto: la sua tessera del puzzle si è incastrata a fatica con la mia e non sempre riesce a riempire il piccolo spazio vuoto che lascia.
Il giovane Cesaroni, invece, mi ha fatto capire che per amarsi bisogna confrontarsi, aprirsi, scontrarsi.
Marco mi fa sentire leggera; con Jay, la zavorra di responsabilità mi trascina a terra.
Fa male pensarci. Ieri sera sono arrivata ad ubriacarmi pur di non farlo. Con la mente annebbiata il meccanismo del pianto si è fermato, ma gli occhi gonfi e arrossati sono una prova sufficiente: a Marco, perlomeno, sono bastati. Mi ha portata a casa e poi a letto. Stretta nel suo abbraccio saldo mi sono sentita beata, forse a causa dell’alcool oppure del suo ottimo profumo: sa di Sole, di calore, e di cielo azzurro dopo un temporale.
 
Chiudi gli occhi, anche se sono più belli quando sorridono.
Quando me l’ha detto, per un momento ho smesso di respirare. Mi è venuta in mente una frase della sua nuova canzone: incontro a nuovi occhi sorridenti.
Parlava di me? Davvero?

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Capitolo 6
*** Roma, 27/10/2012. ***


Roma, 27/10/2012

 
 
Lettera che, se mi conosco bene, rimarrà confinata nelle profondità del mio zaino.
 
Caro Jay,
che fine ha fatto l’idea che avevo di te? Tra le lenzuola che ho steso stamattina non l’ho trovata!
Sì, hai letto bene: che ho steso.

Ti ho mentito; ho mentito a tutti, in realtà. Non sto seguendo alcun corso di fotografia, eppure le foto che ho scattato in queste settimane sono talmente vere, talmente vive che qualsiasi professore mi farebbe i complimenti.



In questi giorni ho imparato cos’è una famiglia, cosa vuol dire essere una sorella; ho appreso cos’è il lavoro e quale immensa gratificazione possa darti; ho capito cosa voglio essere e chi voglio al mio fianco. Sarò Maya.
Sono Maya. E con me voglio qualcuno che sappia amarmi per chi sono e non per ciò che rappresento, un peso che mi tenga in piedi quando rischio di cadere.
A Roma questo peso l’ho trovato. Marco riesce a evitarmi una brutta caduta con un solo sguardo, mi viene in soccorso con una parola gentile e mi guarisce con una carezza sulle dita.
Quando gli sono vicina reagisco come una calamita: se lui sorride, io sorrido. Se si rattrista, la sua malinconia diventa la mia. Comincio a capirlo osservando i suoi gesti.
Jay, io non ti capisco. Non comprendo questa smania che hai di far sapere a tutto il mondo che mi ami. L’amore non dovrebbe essere l’unico sentimento a cui è concesso di essere esclusivo?
Marco è un poeta, possiede il dono sottile di scrivere d’amore senza essere mai scontato. Lo mormora in un soffio che è innamorato, magari proprio di te. 
 
Oh Jay, come faccio a spiegartelo? Come faccio a descrivere il brivido che mi attraversa le unghie, le spalle, giù giù fino alle ossa, quando lo vedo sorridere? Veder sorridere te è tutta un’altra storia. Tu mi coinvolgi come potrebbe coinvolgermi un bambino che grida contento con un gelato in mano.
Ma il suo riso, il riso di Marco, mi fa tendere le labbra prepotentemente all’insù, senza che io possa ordinare loro di restare a posto.
È questo che voglio. Voglio ridere, e guardare il mondo in cerca di un colore che non conosco ancora, e riuscire ad essere Maya. Solo Maya.
Devo solo trovare il coraggio di dirtelo.

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Capitolo 7
*** Roma, 10/11/2012 ***


Roma, 10/11/2012

 
Sono le 5 e 30 del mattino. Le nuvole fuori dalla mia finestra sono rosa e grigie, e prendono le forme più disparate: un fenicottero, un airone, una tartaruga, una chitarra. Una chitarra come quella che Marco, nel sogno che mi ha svegliata di soprassalto, ha lasciato cadere a terra pur di non lasciarmi andar via.
 
Stavamo litigando, io gli avevo appena confessato chi sono e lui aveva cominciato ad accusarmi, come mia nonna prima di lui.
Sei solo una falsa.”
Ricordo solo questa frase, pronunciata con tono deluso; poi ho sentito le lacrime e, d’istinto, sono scappata.
Ho sentito lo schianto del legno sul pavimento e il rumore dissonante delle corde che vibravano per il colpo. Come in un film, la visuale si è allargata: ho visto lo strumento a terra, fracassato, e il viso di Marco farsi sempre più vicino alle mia spalle. Mi ha afferrata per la vita, costringendomi a voltarmi; poi, d’impulso, mi ha baciata.
 
 
Sembrava così reale. La morbidezza delle labbra, le sue dita tra i miei capelli, i nostri respiri mischiati. Ho aperto gli occhi, infilzando un raggio di sole che mi ha accecata per un quarto d’ora; e con gli occhi chiusi il sogno è diventato ancora più vivido, mandandomi in iperventilazione.
Le nuvole continuano a cambiare forma, prendendosi gioco di me, scivolano via attorcinandosi su se stesse e mutando gradazione di colore: rosa confetto, pallido, grigio, crema, bianco latte. Tra poco la sveglia suonerà, Rudi imprecherà e correrà in bagno, rubando il posto ad Alice, Mimmo si trascinerà in corridoio guardandosi attorno con aria confusa, Giulio sbadiglierà a bocca spalancata, simile ad un leone che ruggisce. Tra qualche minuto in casa ci sarà un buon profumo di cornetti caldi che si infiltra nelle serrature delle porte, accompagnato dalle grida aquiline di Stefania e le scuse campate in aria di Ezio che chiederà man forte a Cesare, impegnato a coccolare Matilde e a convincerla che sì, può mangiare un altro cornetto e no, non metterà su nemmeno un grammo, tanto è magrissima, una top model, “la mia bellissima principessa”.
E Marco scenderà in cucina, col solito sorriso mattutino impigrito dal sonno e la barba che dovrebbe radere, ma ancora va bene così.
Allora mi vesto e scendo, dando un rapido sguardo al giardino illuminato. Voglio incontrare gli altri con quest’immagine negli occhi. Non due labbra che si sfiorano, ma una margherita bianca che dondola colpita dal venticello.
Devo lasciare le illusioni sul cuscino, ad aspettarmi.

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Capitolo 8
*** Roma, 20/10/2012. ***


Roma, 20/12/2012

 
Novembre in casa Cesaroni è volato via in un soffio.
L’anno sta volgendo al termine e mi sorge spontanea una domanda: cosa mi ha portato di nuovo? Potrei riempire pagine su pagine con la risposta, ma in fondo mi basta una parola sola: famiglia. E questo si traduce, ovviamente, in Cesaroni. Però ci vuole un altro sottopunto, che mi è inevitabile aggiungere: Marco. Sfoglio le pagine di questo diario che ho voluto riempire di ricordi romani, e  mi accorgo che il suo nome compare tantissime volte, più di quanto la mia memoria selettiva nei confronti dei miei doveri reali mi abbia permesso di ricordare.
Marcolì, come lo chiama a volte Giulio, e nei suoi occhi rivedo il bambino cicciotello della foto che l’altro giorno, per scherzo, gli ho rubato.
Lo scrivo ora, dopo giorni interi passati a sussultare per ogni rumore improvviso, sperando che l’avessero prodotto i suoi piedi, le sue mani, i suoi pensieri. Ci ho messo parecchio per realizzare che forse, quel bacio che ho sognato e che ci siamo quasi dati –quasi, la nonna ha un tempismo tremendo per le chiamate- significa che non sono l’unica ad essere innamorata. Perché ormai mi sembra chiaro; sono un caso perso. Sono nel bel mezzo del tunnel dell’amore, e non vedo uscite abbastanza luminose da offuscare il bagliore bianco del sorriso di Marco.
Ci sono arrivata qualcosa come cinque minuti fa, mentre strofinavo via lo sporco dal ripiano che Rudi ha lasciato disseminato di resti di qualcosa che dovrebbe essere uovo; mi si è accesa la lampadina, mi è caduta la spugna di mano e i miei piedi hanno trovato da soli la strada per le scale.
Mi viene da ridere se ci ripenso: mi ci sono voluti tre giorni –tre!- per interpretare le occhiate interrogative che Marco mi ha lanciato. È questo che mi da la forza per intrufolarmi nella sua stanza, affondare il naso in una delle sue magliette e aspirare forte il suo profumo, una sorta di gesto propiziatorio; glielo dico. Gli dico chi sono. In barba alla nonna, a papà, a Jay, glielo dico. Non mi sono mai sentita tanto determinata, forse perché non ho mai avuto dalla mia un sentimento così prepotente che mi spingesse a combattere. Sai come lo so? I brividi. Gli stessi che mi stanno facendo tremare. Quelli che mi attraversano ogni volta che sfioro con lo sguardo un certo ciuffo di capelli neri che spunta da sotto le coperte, di notte.
Quando tornerà a casa lo prenderò per mano e gli farò sentire come freme; gli dirò…non so cosa gli dirò. Credo che le parole giuste arriveranno al momento. Ma saranno comunque le più vere e sincere e pentite.
Ci baceremo ancora, contenti di poter essere finalmente solo Marco e Maya, e rideremo di quanto io sia stata fifona.
 
Caro Marcolì, preparati alla verità.

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Capitolo 9
*** Roma, 24/12/2012. ***


Roma, 24/12/2012

 
Sì.
Gli ho detto di sì.
Volevo gridargli che no, non potevo, non volevo sposarlo, perché non ha apprezzato il mio lavoro e perché ha guardato Roma come se fosse un cumulo di spazzatura. Volevo dire di no perché io sono cambiata in meglio e a lui il mio meglio non è piaciuto. Volevo dire di no, ma le responsabilità mi hanno schiacciata e il mio cuore è stato strangolato, e ho risposto di sì.
Quando mi ha abbracciato, complimentandosi in segreto con se stesso per avermi incastrata, per un attimo mi sono immaginata stretta a Marco, con un anello piccolo e delicato, e non questo smeraldo invadente, al dito.
Dove sei, Marco? Ieri sera sei tornato tardi e stamattina sei uscito prestissimo, senza lasciarmi il tempo di parlarti. Sarà stato un segno del destino, che non ci vuole insieme?
Non mi importa di quel che pensa lui. Ti prego, ti prego, portami via da questo posto. Invitami di nuovo in trattoria. Chiedimi ancora di scattare delle foto per il tuo album. Vieni a salvarmi da questa porta che si è chiusa, intrappolandomi.
 
Odio tutto questo. Odio Jay, che non ha capito e non capirà mai; odio la nonna che mi guarda con fare incoraggiante, tutta soddisfatta; odio Ingrid, che mi rincorre per tutta casa con quell’orribile anello in mano, dimenticato apposta sul bordo del lavandino; e odio anche me stessa, per non essere rimasta sveglia ad aspettarti, ma soprattutto per non avere avuto il coraggio di piantare lì Jay con un sonoro “no” a rimbalzargli nella testa.
E ora mi ritrovo con un futuro marito che non amo e un mucchio di sensazioni che pulsano sotto la pelle, da qualche parte dietro gli occhi.
Chi l’avrebbe mai detto? Da ragazza innamorata a sposa intrappolata in meno di 18 ore. Un record.
Non riesco a pensare, ho troppe emozioni ammassate nelle orecchie bollenti e fischianti: sento l’ira a dominarle tutte, ma anche la paura, la tristezza, l’instabilità, l’incredulità. E poi una cosa nuova, che sta nascendo nel mio piccolo cervelletto ribelle.
La determinazione.
Quest’amore che mi fa camminare coi piedi sospesi per aria, respirare solo i profumi delle persone e non il pessimo odore della cattiveria, ascoltare tutte le voci del mondo e cercare di distorcerle per farle assomigliare a quella di Marco, e puntare il naso verso il cielo piuttosto che verso i vermicelli che sbucano dalla terra, io quest’amore voglio tenermelo stretto. Perché è molto più semplice stare così bene piuttosto che dover sopportare ogni giorno il peso della nostalgia.
Voglio essere egoista e tenermi quest’amore vicino al cuore, con tanta forza da intorpidirmi le dita ma, intanto, sentirmi viva.
Io voglio quest’amore. Dovranno capirlo.
 
 
Ma glielo dirò dopo Natale.

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