Minutae res - Piccole cose di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Corporis ornatus ***
Capitolo 2: *** II - Mater et filia ***
Capitolo 3: *** III - In excelsis ***
Capitolo 4: *** IV - Lamina amoris ***
Capitolo 5: *** V - Minutae res ***
Capitolo 1 *** I - Corporis ornatus ***
I - Corporis ornatus
Storia prima classificata al "Miscellaneous - Un altro Diabolico Contest" indetto da Releeshahn.
Nickname sul forum: ely 79
Nickname sul Efp: ely79
Pacchetto: Immagini
Elementi del pacchetto utilizzati: Canzone: the little things give you away - Linkin Park
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Titolo: Minutae res – Piccole cose
Generi: Commedia, Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale.
Rating: arancione
Avvertimenti: -
Beta-Reader: No
NdA: la canzone fa da
sottofondo alla storia, emergendo a tratti. Così ho impiegato il
testo originale per creare la lingua di Armada, scrivendolo al
contrario, mentre la traduzione l’ho impiegata nel modo
più tradizionale all’interno del racconto.
Ambientazione steampunk.
I - Corporis ornatus1
Le aeronavi dondolavano placide lungo le passerelle
dell’aviostazione, cullate da una brezza leggera. Palloni gonfi
d’aria rovente e dalle forme più svariate sembravano
prossimi a cozzare l’uno contro l’altro, allontanandosi
repentini non appena le cime li richiamavano in posizione sopra i ponti
e le gondole. Il borbottio di qualche caldaia nascosta nei ventri
affusolati segnava il tempo asincrono su cui s’innestava il
brusio delle attività mercantili.
Duecento piedi più in basso, i tetti di Borgo Maggiore erano una
pennellata di rosso fra il verde dei campi e il grigio della parete
rocciosa. L’unico altro colore l’azzurro del cielo terso
che sovrastava ogni cosa.
Seduta a gambe incrociate, Farisa era intenta a ripulire una grossa
valvola di bronzo che aveva rimosso dalla pompa del motore di babordo.
Attorno a lei, sparsi sulle assi del ponte e su ogni possibile
superficie offrisse un ripiano, c’erano attrezzi e strofinacci
unti. Quel maledetto strozzo si era dimostrato più delicato del
previsto e andava pulito con estrema cura ad ogni sosta, se non si
voleva correre il rischio di restare in panne a centinaia di piedi da
terra. Infilare le mani in quegli affari era uno dei compiti che
annoverava tra le attività che detestava svolgere, ma non
c’era da stupirsene: l’elenco era pressoché infinito.
«Non ho preso i gradi di Comandante per ritrovarmi ancora morchia tra le chiappe! Nikaerb era seevel eht!» grugnì, spingendo a forza lo straccio nel blocco di alloggiamento.
E dire che solo qualche anno addietro si sarebbe divertita un mondo. Era proprio vero che il potere cambiava le persone.
La stoffa faticava a raggiungere in profondità le pieghe del
metallo, costringendola a contorcersi come una serpe. Sentì i
residui di grasso infiltrarsi sotto le corte unghie e nei tagli che si
era procurata smontando il meccanismo. Grugnì un paio
d’imprecazioni, ricordando come la cuoca di bordo l’aveva
apostrofata poco prima, dicendole che se non fosse stato per via dei
suoi sbuffi da caldaia in pressione, l’avrebbe scambiata per un
enorme macchia di sporcizia.
Si passò un braccio sul cranio rasato, lucido di sudore, e gettò da un lato lo strofinaccio.
Un gridolino strozzato le fece levare gli occhi dall’odiosa
operazione, fin sulla porta che conduceva alla stiva e a quelle
trappole per topi che il suo equipaggio definiva cabine. Sulla soglia,
con un piede ancora sospeso a mezz’aria sopra al cencio unto, era
apparsa un’altra donna. Ed era un’altra nel senso
più ampio del termine perché mai, sulla Zenobia, si era
vista una figura più elegante.
Il lungo abito color rosso veneziano seguiva i dettami della moda
più recente: la gonna, che scendeva piatta sul davanti, aveva
mantenuto balze e decorazioni di merletto finissimo, evitando
però i goffi rigonfiamenti della crinolina; sotto la giacca
bordata di volant s’intravedeva appena una camicetta chiara
dall’alto colletto rigido, ornato da un piccolo cammeo di
sardonica, raffigurante una Nike. Sul braccio, una borsetta a
secchiello trapunta di perline, un paio di guanti intonati al vestito
ed un parasole in merletto Chantilly.
I capelli scuri erano la sola cosa che potesse identificarla come una
navigatrice: a differenza delle donne “di terra”, erano
raccolti in una miriade di elaborate trecce di differenti spessori, da
cui pendevano svariati ornamenti, dalle sferette traforate tipiche del
Marocco alle minuscole piastrine smaltate del Mar Baltico.
Farisa avrebbe voluto dire qualcosa per celebrare l’apparizione,
una frase ad effetto adatta alla situazione, ma le venne solo
d’arricciare le labbra mostrando l’espressione più
sbalordita che le riuscì.
L’altra avanzò fino a raggiungere i tubi della condensa
che dal pallone scendevano fin nel ventre del mezzo e lì si
fermò, aggrappata ai condotti come se si trattasse di un
paracadute. Non sembrava particolarmente a suo agio sul ponte che
percorreva abitualmente ogni giorno almeno un migliaio di volte, il
tutto a causa dell’elegante paio di stivaletti di vernice che
faceva capolino da sotto la balza della gonna.
« Syaced epoh. Non so
più che fare con te. Non c’è speranza»
sospirò paonazza, cercando di tenersi dritta con evidenti
difficoltà.
Si era rassegnata ai tiri dell’amica; la speranza che non le
procurasse qualche impiccio era precipitata giù dalle murate
più di un decennio addietro, nella vana illusione di abituarcisi.
«Tu hai detto stringi» sbuffò facendo spallucce in maniera tutt’altro che innocente.
«Sì, ma non fino a soffocarmi, dannazione!»
strepitò, inspirando a fatica. «Mi hai fatto perdere non
so quanto tempo per aggiustare quest’affare e ancora non respiro
come si deve» si lagnò, dando strattoni alla rigida stoffa
del corpetto.
La donna camminava rigida sul ponte dell’aeronave, tentando di
mantenere il precario equilibrio sugli alti tacchi. Procedeva lenta,
bilanciandosi con le braccia tese ai lati del corpo e trovando appiglio
in ogni oggetto sporgente o penzolante.
Il Capitano ridacchiava, mostrando denti di un candore impressionante contro la pelle nerissima.
«Finiscila, non è divertente» la ammonì, cominciando a ritrovare un passo sicuro e regolare.
«Dici? A me sembri uno spasso. Se ti vedessero camminare conciata
così ad Armada2, finiresti su tutti i rapporti ed i giornali
della città. Vedo già i titoli: “Mala-femmina.
Nuovo esemplare di cartografa da esibizione avvistato ai nostri ponti
d’imbarco”» ghignò, fingendo d’ignorare
l’occhiata truce che ricevette.
Sapeva perfettamente che il genere di appellativi che conteneva il suo nome le faceva perdere le staffe.
«Non darle retta, Mala. Stai benissimo» s’intromise
una voce dalla finestrella che si apriva sotto il castelletto di
comando, sul lato opposto dell’aeronave. «Ti metterei in
cima a una torta, se fossi sicura che non ruzzoleresti giù al
primo alito di vento» soggiunse ridendo a crepapelle.
«Molto carino da parte tua, Delizia».
«Prego» replicò, tornando a spignattare.
«Non capisco proprio perché hai voluto metterti addosso
quella roba. Non è la prima volta che vai a prenderla»
sbottò Farisa stiracchiandosi.
Mala scrollò le spalle. Avevano fatto quel discorso un migliaio
di volte in quei giorni, ma il suo Capitano insisteva a farle sempre
domande la cui risposta, ai suoi occhi, avrebbe dovuto essere palese.
«Lo so benissimo. Il fatto è che per la prima volta
uscirà da scuola come tutti gli altri, non dovrà
aspettarmi per colpa di qualche intoppo burocratico o meteorologico.
Non voglio si senta a disagio perché le altre madri saranno
l’emblema della rispettabilità ed io quello della
pirateria… i suoi compagni la tartassavano a sufficienza in
passato, non voglio far peggiorare di nuovo le cose ora che si sono
sistemate» disse, riflettendo su come il termine
“pirata” fosse passato nel giro di pochi anni da
un’accezione negativa a una estremamente positiva.
Potenza della mente infantile e delle suggestioni che produceva.
E poi, loro non erano affatto pirati, bensì commercianti,
trasportatori, esperti di logistica che avevano abbandonato le rotte
“basse” per sfruttare quelle più impervie e meno
trafficate dei cieli. La cosa più illegale che avevano fatto era
stata prelevare un paio di bottiglie di vino spagnolo da un carico, per
festeggiare il mancato inabissamento della Zenobia durante una tempesta
a largo di Fuerteventura.
Tuttavia, il loro modo di abbigliarsi, l’immagine bizzarra con
cui si presentavano, faceva sì che una buona fetta
dell’onesta e bigotta società civile li guardasse con
disprezzo.
«E non pretendo che tu capisca, quindi risparmiami le tue solite
rampogne» soggiunse, intuendo che dietro alla maschera indolente
di Farisa stesse prendendo forma qualche perfida osservazione.
«Noi siamo così, se a quelli dà fastidio, beh, che vadano
a buttarsi di sotto. Qui è un bel voletto, per togliersi certe
idee dalla testa. E dal resto del corpo» fece l’altra,
sputando nel baratro al di sotto dell’aeronave.
Ben sapendo che avrebbe solo perso tempo, impelagandosi in
un’ennesima discussione a sfondo sociologico con uno degli esseri
meno socievoli del mondo – a qualunque quota lo si frequentasse
-, Mala decise di raggiungere lo stretto ponte sospeso che spuntava dal
fianco destro della Zenobia.
«È meglio che vada. Non voglio far tardi».
Rispose appena ai saluti delle due compagne, concentrata a mantenere i
piedi su un appoggio sicuro, per quanto instabile. La passerella non le
era mai parsa tanto lunga e tremebonda. Percorrerla fu un doppio
supplizio, abituata com’era nel procedere a lunghe falcate: la
linea dell’abito le impediva di allungare il passo quanto avrebbe
voluto.
Non appena fu all’altro capo, si diede una rapida controllata,
per accertarsi che ogni cosa fosse in ordine e fosse sopravvissuta allo
strapazzo di quei primi minuti.
Costatata l’assenza di strappi, macchie e buchi,
attraversò svelta il pontile di pietra proiettato sul vuoto,
raggiungendo la terrazza semicircolare di fronte agli uffici. Dalla
murata dell’Andanacirri 3 le gettarono un paio di fiori
sottratti al carico. Qualcuno si azzardò persino a fischiarla,
alcuni diedero fiato alle sirene di manovra, riempiendo l’aria di
dense nuvole di vapore. Sentiva addosso gli occhi di tutti gli
equipaggi attraccati e se da un lato la infastidivano,
dall’altro, doveva ammetterlo, la lusingavano. Non era abituata a
indossare abiti tanto eleganti e femminili, tuttavia l’occasione
lo richiedeva e non avrebbe mai e poi mai messo in imbarazzo Ester
presentandosi in tenuta da lavoro.
Rimase ferma qualche istante per riprendere fiato e assicurarsi di
riuscire a restare in piedi sulla terraferma bene quanto
sull’aeronave. Poteva sembrare assurdo per chi non viaggiava
giornalmente su quei mezzi, ma quando si era abituati a contrastare
rollii, folate improvvise e fremiti, camminare su una superficie
immobile poteva diventare una tortura.
Controllò l’ora sul grosso orologio posto sopra il cancello di ferro battuto.
Fece per riprendere la strada, ma sentì la gonna tirare,
rischiando di farla cadere a faccia in giù. Ci fu qualche
risatina priva di volto dai velivoli.
«Passi piccoli, passi piccoli» ribadì seccata a
sé stessa. «Non hai addosso dei pantaloni, accidenti a te.
Vedi di ricordartelo!»
Dagli uffici commerciali uscì un impiegato. Aveva poco
più di vent’anni, tuttavia la carnagione pallida, gli
spessi occhiali e i capelli scarmigliati già indicavano quale
sarebbe stato il suo aspetto di lì ad un paio di lustri.
Camminava a capo chino, rileggendo a mezza voce gli appunti e le note
di carico sui documenti.
Senza volerlo le andò incontro. Vedendo l’ombra a terra si
discostò un poco, pensando si trattasse di una segretaria o
dell’occasionale avventura di uno dei naviganti quando, alzando
lo sguardo, si rese conto di aver di fronte una persona ben nota.
Rimase a fissarla a bocca aperta, le lenti che scivolavano a scatti verso la punta del naso.
«M-Mala?» esclamò incredulo, mordendosi la lingua un attimo dopo.
In genere manteneva un tono molto distaccato e formale, esattamente
come gli era stato insegnato alla scuola di commercio. Chiamare per
nome i membri degli equipaggi non solo era poco professionale e poteva
dare adito a dicerie su presunti favoritismi, ma in quel caso
particolare era molto imbarazzante.
Un paio d’anni prima, Alfonso aveva accettato l’invito di
un drappello di Avieri della Repubblica. Approfittando della giovane
età, i militari avevano deciso di divertirsi alle sue spalle
usando la scusa della cena per farlo ubriacare. Uscito dalla taverna
praticamente sulle ginocchia, il ragazzo aveva barcollato per mezza
città fino a raggiungere i pontili, da cui si era apertamente
dichiarato alla navigatrice della Zenobia. Peccato avesse urlato i
propri sentimenti all’aeronave sbagliata (un piccolo cargo
prussiano maneggiato da ex-galeotti) mentre l’interessata
scuoteva il capo quattro stalli più indietro. Non c’era un
solo mercante tra quelli che facevano tappa a San Marino che non fosse
a conoscenza del fattaccio.
«Che vi prende, Alfonso? Mai vista una donna in ghingheri?»
lo stuzzicò, aprendo il parasole con tanta foga da rischiare di
spezzarlo in due.
Immediatamente il giovane si riscosse, riposizionando gli occhiali sul
naso senza però riuscire a nascondere l’espressione ebete.
«S-sì, ma… n-non… l-lei…»
balbettò, fingendo di scribacchiare qualcosa sulla cartelletta
che teneva in mano.
La sua goffaggine era esilarante e parecchio tenera.
«E?» insisté Mala.
«E… e…»
«Si spicci, ho fretta» lo incalzò, senza cattiveria.
«E… e c’è che… che le dona»
ammise infine, la faccia che virava a un intenso cielo di ponente.
La donna aggiustò il cappellino e fece una smorfia civettuola mentre usciva dall’aviostazione.
Poteva immaginare il giovane che sospirava appoggiato al parapetto nel
tentativo di calmarsi mentre teneva lo sguardo puntato sulla balza di
pizzo che ondeggiava alla base della sua schiena.
Si divertiva a stuzzicarlo, ma solo perché sperava che se ne
facesse una ragione e cercasse altrove l’altra metà del
suo cuore. Dopo tutto, anche senza un anello al dito, lei era comunque
una donna impegnata.
E poi, Alfonso era un bravo ragazzo, meritava di amare una donna con
una vita più tranquilla di quella riservata a una commerciante
dei cieli: dubitava che il suo cuore avrebbe retto alle lunghe attese
prive di notizie.
Imboccò la discesa che passava accanto alla Cava dei
Balestrieri, pregando di non infilare i tacchi nelle commessure del
selciato. Voleva arrivare indenne al Convento.
1 Corporis ornatus: abbigliamento
2 Armada: è una citazione da “La città delle navi” di China Miéville.
3 Andanacirri: il nome -ovviamente inventato- deriva da
due parole. L’andanatore è un attrezzo agricolo che viene
usato per la raccolta del foraggio o di alcuni tipi di ortaggi (es.
pomodori); i cirri sono nubi che si formano negli strati più
alti dell’atmosfera.
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Capitolo 2 *** II - Mater et filia ***
II - Mater et filia
II – Mater et filia1
Era arrivata in leggero anticipo, nonostante avesse perso tempo a
rimirarsi in una vetrina nella Piazzetta del Titano, stentando quasi a
riconoscersi. La sagoma a clessidra che normalmente il suo corpo
sfoggiava era accentuata dalla rigida gabbia di stecche e lacci del
corsetto che insisteva ad attentare alla sua respirazione.
«Chissà cosa dirà…» aveva mormorato mentre sistemava la coccarda sul capellino.
Più che alla figlia, il suo pensiero andava al padre di questa.
Mala aveva tutta l’intenzione di mostrare quella sua nuova
versione a Tancredi, a costo di farsi prendere in giro per il resto
della vita.
Non si vedevano dall’estate precedente, quando per una manciata
di giorni le rotte avevano concesso loro di riunirsi come una vera
famiglia. In quelle occasioni tuttavia, c’era sempre un
sottofondo lavorativo da cui non potevano liberarsi e che impediva loro
d’azzardare slanci di quel tipo: la moda non era una
priorità quando ci si trovava in navigazione tra le nubi o si
contrattavano partite di merce nel suq di Damasco.
Nell’attesa che i grandi battenti si aprissero, Mala venne
avvicinata da un’altra donna. Era Benedetta, la madre di
Cristina, la migliore amica di Ester. Una donna allegra e loquace,
sempre sorridente anche sotto una grandinata, abituata a lasciare i
giudizi in un angolo. Non avrebbe potuto essere diversamente, dato che
lavorava come donna di servizio presso uno dei più rinomati
bordelli della Repubblica.
«Dodici anni. Ma ti rendi conto? Ieri gli davano la poppata e
oggi succhiano al seno della vita» proclamò entusiasta,
arricciando una ciocca bionda attorno all’indice.
Man mano che i capelli si attorcigliavano, la sua espressione cambiava, sfumando in un cupo avvilimento.
«Cielo, mi sento vecchia» sospirò, fingendo di cercare conforto appoggiandosi alla spalla della cartografa.
Mala tentò di ridere, emettendo poco più che qualche rantolo.
«T-ti prego… B-Be… nedetta… non
far-rlo… non rie-sco» e indicò il corsetto
boccheggiando.
Indispettita dal colore livido che stavano assumendo le labbra della
navigatrice, Benedetta fece un piccolo passo indietro, quel tanto da
permetterle d’infilarle una mano sotto la giacca senza che
nessuno dei presenti la notasse. Sfilò un poco la camicetta e
individuò svelta le asole incriminate.
«Oh, tesoro, ma chi diavolo te l’ha messo? Un fachiro?» allentando con movimenti esperti i lacci del busto.
«No… un dannatissimo mamba isterico» ansimò, sentendo finalmente l’aria tornare nei polmoni.
«Ah, il Capitano. Mi spiace, mia cara. Più di così
non posso fare. Dovresti toglierti tutto e non penso proprio che questo
sia il luogo adatto a certi spettacoli» si scusò,
risistemando la giacca e la tornure di pizzo.
«Concordo, ma grazie comunque, Benedetta. Va già molto
meglio» sorrise, tastando con circospezione il costato attraverso
la stoffa rigida, in cerca di costole fratturate o fuori posto.
Aveva la strana impressione che il torace avesse preso una forma diversa.
«Guarda al lato positivo: la sua poca dimestichezza con la
biancheria intima ti ha consentito di passare il tempo concentrandoti
su qualcosa come il restare in vita per tua figlia, piuttosto che su
altro».
«Vale a dire?»
Benedetta non ebbe modo di replicare: la risposta si palesò a pochi passi da loro.
C’era un gruppo di donne, in gran parte balie e servette, intente nell’ossequioso ascolto di una di loro.
«Sì, insomma, quello grande dicevo, adesso non so bene
quale sia… comunque, quello lì, seguirà il suo
desiderio e prenderà il posto di suo padre. Perché
è questo che vogliamo e che vorrà anche lui, chiaro. Non
potete capire quanto siamo orgogliosi, dubito che i vostri figli siano
tanto giudiziosi. E le sorelle faranno ciò che vogliono anche
loro, quando lo decideranno, perché intanto sono piccole. Oh,
non mi ricordo esattamente quanti anni hanno… mi pare…
sei? O nove? Sì, credo che quella di mezzo abbia nove anni. O
dieci, qualcosa così. E la femmina piccola… ma ho anche
una che non va a scuola? Oh, ma certo, certo che ce l’ho. La
perla dei miei gioielli. Voi non potete capire! Lei ha… sette
anni? Forse cinque. Ah, no, deve averne sei o sette, altrimenti non
andrebbe a scuola. Lei certamente dovrà sposarsi con qualcuno
d’importante, perché è così bella che
sarebbe sprecata con un bottegaio qualunque. Almeno, io penso sia
bella. Non saprei. Non l’ho mai guardata bene, ma sicuramente
è così. Non potete capire quanto mi fa stare in ansia
pensare di avere una figlia tanto bella. Chissà quanti hanno
messo gli occhi sulla mia bambina! Non potete capire quanto sia
orribile avere una figlia. E poi ci sono gli altri due maschietti,
terribili e scansafatiche… ma perché ve lo dico? Voi non
capite la mia situazione! Oh, è così difficile avere
tanti figli! Ma è un dovere che le persone per bene devono fare,
sono il simbolo di quello che siamo, devono renderci orgogliosi e
ricambiare i sacrifici che facciamo per farli diventare qualcuno».
Mala inorridì a quelle parole, ma il monologo non era ancora finito.
«Per fortuna c’è il collegio, almeno le femmine
stanno qui tutto il giorno. I maschi sono di là,
nell’altra scuola vicino a San Francesco, perché non ce la
farei proprio a gestirli da sola tutti quanti. Insomma sono…
cinque? No… sei forse. Tanto non è che si paghi
chissà che. No? Si paga? Ed è caro? Oh, queste cose io
non le so, le sa mio marito. Penso, almeno. Non potrei mai lambiccarmi
la testa in queste cose! Non si possono comprendere! E poi peggiorano
solo la mia salute. Oh, ma perché mi è toccato tutto
questo? Non ne ho abbastanza di tutto quello che già mi
affligge? No, non dite nulla per consolarmi, vi prego, non potete
capire! Voi non sapete cosa mi accade! Prendete oggi, per esempio:
vestirmi perché dovevo per forza venire è stata una
tortura. Oh! Sapeste che dolore alla schiena! E le braccia! Per non
parlare delle caviglie… è un supplizio, non potete
capire. E quelle inutili sguattere che non sanno fare altro che
riempirmi di lividi mentre mi vestono. E non avete idea di che gusti
orrendi abbiano! Devo dire sempre io che cosa desidero indossare! Se
fosse per loro, quelle rare volte che la salute mi da un po’ di
tregua per consentirmi di uscire, dovrei andarmene in giro combinata
come una di loro! Devo fare tutto io! Io devo pensare a tutto, io che
sono sempre afflitta da quell’orrenda emicrania… davvero,
non potete capire!»
Mentre parlava, non guardava in faccia nessuno. Teneva gli occhi bassi
o fissi su un punto imprecisato lungo le facciate dei palazzi, come se
stesse recitando un copione con sé stessa.
«Se stai pensando: “questa ha le piume in testa”,
sappi che sei in buona compagnia: lo dicono tutti qui».
In effetti, lo pensava davvero. Quelle ciance le avevano ricordato i
discorsi dei suoi genitori, talmente ciechi e sordi da anteporre il
prestigio della famiglia alla felicità della figlia. Non avevano
mai tentato di capirla, di dimostrarle almeno un poco d’affetto.
Ricordava quel ritornello applicato a ogni loro decisione “questo
è tutto quello che hai sempre voluto” ma non c’era stata una volta in cui qualcuno le avesse domandato quali fossero i suoi sogni o le sue speranze.
«Ti dico solo che l’hanno soprannominata la Madonna del Pesce 2»
proseguì sottovoce Benedetta. «Non fa che lamentarsi,
struggersi, soffrire, tutta pia e devota a nessuno sa cosa. Accusa
tutti di non capirla, ma si spiega benissimo. Peccato che poi si
contraddica sempre».
«Quindi, tutto quello che vuole è qualcuno che l’ammiri?»
Benedetta fece spallucce.
«Chissà. Forse soffre davvero. O forse non ha mai provato
un solo dolore autentico in tutta la sua vita e prende male tutte
quelle piccole cose che ci vengono servite giornalmente sul piatto
della vita».
«Siamo poetiche?» domandò Mala, senza riuscire a nascondere una punta d’amarezza nella voce.
Udire quei discorsi l’aveva profondamente infastidita.
«Colpa del professor Casali. Ieri sera ho dovuto tenergli compagnia fin quando Dalloyau 3
ha potuto riceverlo. Chissà perché, quando è con
quella francesina, non parla di filosofia e pensatori
morti…» scherzò.
«Ci sei tu ad ascoltarlo» la stuzzicò l’altra, poco convinta.
«Sentissi solo lui… non hai idea dei gorgheggi! A che
serve andare all’opera quando si hanno tanti cantori tutti
insieme? E mai due volte la stessa aria! Poi la gente parla schifata di
un mestiere così… artistico!»
Abbandonarono il discorso, sentendo i grossi cardini stridere. Da
dietro le porte eruppe una torma di ragazzini di varie età,
accompagnati da scampanellii forsennati e vani richiami da parte delle
religiose.
Una ragazzina si fece strada tra i gruppi di alunni vocianti,
camminando composta nella divisa scura del collegio. I grandi occhi
castani puntavano dritto avanti, forse un po’ troppo seri e decisi
per la sua età, ma scintillanti per l’allegria trattenuta.
I capelli bruni avevano una sfumatura tendente al rosso, appena
accennata, identica a quella della donna dinanzi cui si fermò.
Si scambiarono una lunga occhiata, studiandosi a vicenda. Mala non
aveva mai visto sua figlia con indosso la divisa del collegio, sobria e
composta, né Ester aveva mai avuto occasione di vederla
sfoggiare abiti eleganti, degni di una nobildonna.
«Madre» salutò educata, facendo un breve inchino.
«Ester» rispose lei, imitandola.
Ad entrambe scappava da ridere, ma sapevano di dover resistere fintanto
che tra i presenti si fossero aggirate le consorelle a dispensare i
resoconti dell’anno scolastico. A loro toccò l’onore
di essere informate direttamente dalla Madre Superiora, una donna
altissima, asciutta, il volto rugoso macchiato dalla vitiligine.
«Veste inconsueta la vostra, signora Fioritto» commentò, le labbra tese da una smorfia insolitamente ostile.
«Signorina Cortinovis, veramente» la redarguì mentalmente Mala.
Lei e Tancredi non erano sposati, o almeno, non lo erano secondo le
leggi delle società terrestri. I riti matrimoniali di Armada non
erano riconosciuti fuori dai suoi impalpabili confini: erano
considerati poco più che mere pagliacciate o attacchi alle
civilissime società di città, a seconda di chi
commentava.
«Ester si è dimostrata una fanciulla dotata e ricettiva,
rispettosa ed educata. Non ha mai mancato di aiutare i compagni in
difficoltà e di prestare servizio alla Santa Messa. Ha voti
molto buoni in ogni materia, esattamente come ci si aspetta da una
delle nostre allieve. Ne siamo compiaciute».
«Lo sono anch’io, Madre».
Avrebbe voluto essere un’affermazione carica d’orgoglio, ma
la voce di Mala aveva un tono interrogativo. Non capiva perché
la suora fosse tanto indispettita. Non l’aveva mai trattata a
quel modo, anche quando aveva accompagnato Ester calandosi nel cortile
della scuola direttamente dal ponte della Zenobia.
Mentre la monaca si accomiatava con fare sbrigativo, Mala vide passare
la Madonna del Pesce. La guardò allontanarsi con
l’espressione svagata e affranta di chi non ha una sola, vera
preoccupazione nella mente. I figli, appena arrivati con una bambinaia,
scorrazzavano chiassosi risalendo la via con le sorelle inseguite da
un’altra balia, mentre lei, sola, avanzava con passo stanco in
direzione opposta, l’aria dolente e rassegnata al nulla.
Così simile a quella di sua madre, anni addietro.
«Mamma?» chiamò impensierita Ester.
Lei si riscosse, rivolgendole un grande sorriso mentre la prendeva sotto braccio.
«Andiamo. La scuola è finita» e si avviarono verso l’aviostazione.
Salutarono a distanza Benedetta e Cristina, prese in disparte da
un’altra monaca che pareva aver tutta l’intenzione di
recitare con loro il Santo Rosario almeno un paio di volte.
Si nascosero in uno degli androni che passavano da parte a parte le
basi delle case di Contrada Omerelli, lanciandosi l’una nelle
braccia dell’altra, dimentiche del contegno richiesto dal
Collegio.
«Mamma! Mamma, mamma, mamma!»
«Tesoro! Tesoro, la mia Ester! Cieli e zefiri, quanto mi sei
mancata!» singhiozzò Mala, sentendo il cuore stretto dalla
sorpresa: la bambina che aveva salutato l’inverno precedente
davanti alla scuola ora si stava trasformando in un’adolescente.
«Che te ne pare?» chiese, facendo una lenta giravolta per mostrarle l’abito.
Ester la esaminò a metà tra l’entusiasta e il critico, seguendola in strada e correndole intorno.
«Il pizzo! E le perline sulla borsetta! E… e quello!» trillò indicando il parasole.
«Manico in avorio e copertura in pizzo e seta. Non mi sono fatta
mancare niente!» disse, ruotando piano l’ombrellino.
«Allora? Qual è il responso?»
«Sei… sei strana! Se ti vedesse papà!» esclamò ridendo e improvvisando uno strano balletto.
«Strana? A me quella strana sembri tu. Che ti prende?»
domandò perplessa, notando con quanta foga si agitasse e
saltellasse.
Sembrava un automa con la condotta di alimentazione in sovraccarico o
una scimmia ammaestrata. Per quanto fosse un tipo vivace, Ester non
aveva mai amato prodursi in simili scene, proprio come suo padre.
«Possiamo alzare il passo, mamma?» domandò tutto d’un fiato.
Mala, di tutta risposta, si fermò, fissandola con enorme perplessità.
«Ma… come? E la nostra fetta di torta? Non la vuoi?» domandò, indicando la salita di fronte.
Era un rito che avevano istituito sin dal primo anno in cui Ester aveva
cominciato a frequentare il Collegio delle Clarisse, sei anni prima. Ad
ogni visita dei genitori, che fossero in coppia o uno alla volta, era
d’obbligo una tappa in una piccola pasticceria lungo la Salita
alla Rocca per mangiare insieme un dolce. Per Mala e Tancredi era uno
dei tanti piccoli modi per chiedere perdono delle proprie assenze.
«Sì… sì, che la voglio.
Però…» iniziò impacciata, guardando
nervosamente attorno.
«Però? Ester, che c’è?»
«Mamma… questi vestiti…» disse,
mordicchiandosi le labbra come se faticasse a trattenersi dal fare
qualcosa di orribile.
La donna le fece cenno di proseguire, di spiegarsi, tuttavia la scolara
era restia a parlare. Si strinse nelle braccia, passando una mano sul
collo, strusciando un piede contro la caviglia, incapace di restare
immobile persino con lo sguardo.
«Mi stanno facendo impazzire! Pizzicano!» sibilò
infine esasperata, stringendo il braccio che avrebbe voluto grattare
con forza. «Non so che ha fatto Coletta quando li ha lavati, ma
non si possono portare! È dalla messa di stamattina che sembra
che abbiamo le pulci tutti quanti! Padre Anselmo sembrava una biscia
mentre ci dava la comunione!» piagnucolò.
Ed ecco anche spiegata la strana espressione della Madre Superiora: non
la osservava con biasimo, stava morendo dalla voglia di grattarsi.
«Oh, beh, stando così le cose… al diavolo la
torta!» esclamò, infilando il parasole sotto il braccio e
sollevando la gonna quel tanto da sveltire la camminata. «Voglio
levarmi questo coso di dosso prima di farlo a pezzi! Come diamine fanno
queste matte? Vivono in apnea?»
«Secondo Cristina, sua madre respira solo di notte» ridacchiò ansiosa Ester, trotterellandole accanto.
«A me invece l’aria piace e voglio respirarla quando mi pare!»
1 Mater et filia: madre e figlia
2 nel libro “Iconologia” di Cesare Ripa, il pesce è fra gli attributi dell’ignoranza.
3 Dalloyau: è una rinomata pasticceria di Parigi, oltre che il nome di una delle sue torte con mandorle e meringa.
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Capitolo 3 *** III - In excelsis ***
III - In excelsis
III – In excelsis1
«Meduse eoliche!»
strillò eccitata Ester, saltellando e indicando l’ammasso
di globi luccicanti che era salito a schermare il sole. «Delizia,
le meduse! Le meduse!»
La cuoca emerse dal ventre della Zenobia per osservarle con attenzione.
Era un donnone immenso, al punto da chiedersi come potesse stare tutta
quanta nell’angusto spazio della cucina. La carnagione color
zenzero era punteggiata dalle gocce del romesco2 che stava
preparando e nella crocchia nerissima era infilato uno spiedo a
mo’ di fermacapelli. Strinse gli occhi a mandorla fino a
contornarli di rughe sottili, seguendo la direzione indicata
dall’ospite.
«Oh, piccola, quelle non sono da zuppa. Servono quelle rosa, che
sono appena nate e non hanno tentacoli velenosi. Quelle là sono
grigie, sono adulte. Van bene da servire alla concorrenza. O a
Farisa» scherzò.
«Ti ho sentita, brutta culona!» strillò il Comandante, sporgendosi dal castelletto di comando.
«Ehi! Modera i termini!»
«Perché? Sennò cosa mi fai? Mi copri di glassa per addolcirmi?»
«Yawa uoy evig sgniht elttil eht» minacciò, piantando gli enormi pugni sui fianchi.
«Nikatsim on eb… lliw ereht».
«Od I» replicò l’altra, sprezzante, incrociando le braccia sul petto.
All’udire quelle poche sillabe, Farisa perse il controllo e scavalcò la balaustrina con un salto.
«Uoy ot pu kool ylurt ot enoemos saw!» sbraitò, puntandole contro l’indice.
«Reappasid snoitareneg» replicò Delizia, posandole una mano sulla testa calva.
«Detnaw reve ev’uoy lla!» berciò furibonda, agitandosi come un tubo dell’olio rotto.
Le due si zittirono, volgendo lo sguardo su Ester che le squadrava a
sua volta. Non avrebbero dovuto dimenticarsi che, nonostante
trascorresse gran parte dell’anno a terra, Ester era nata nei
cieli di Armada e capiva perfettamente la lingua di quel mondo sospeso,
anche se non la parlava.
«Forse è meglio se vado dalla mamma. Se scopre che vi
sento dire certe cose, siete nei guai. Ed io pure» fece la
ragazzina, indicando la donna seduta a prua.
Mala alzò gli occhi dalle carte che stava tentando di leggere da
quando avevano lasciato l’aviostazione di San Marino. Di solito
erano il vento e le basse temperature ad alta quota a darle problemi,
ma quel giorno, era l’immagine della Madonna del Pesce a
infastidirla. Strinse la fibbia sul colletto della casacca, scacciando
l’indolenza e la superficialità di quei discorsi dalla
mente.
Guardò sua figlia che le andava incontro. Eccettuato per i
capelli, la si sarebbe potuta scambiare per la sua copia in piccolo,
soprattutto ora che aveva smesso la divisa scolastica. Indossava una
giacca chiara fasciata di pelle sulle braccia e in vita, letteralmente
ricoperta di tasche, che le arrivava poco sopra le ginocchia, e dei
pantaloni neri di tela robusta - un cotone proveniente dalle colonie
inglesi oltreoceano -. Ai piedi un paio di stivali senza tacco, stretti
sul lato da un intreccio di lacci.
«Ehi, ti stanno bene. Temevo di aver sbagliato misura».
«Perché?» chiese lei, sedendole accanto.
«Ti ho trovata più cresciuta di quanto mi aspettassi» ammise. «Ti piacciono?»
Ester annuì con convinzione, sistemando i nodi delle stringhe.
Vestita a quel modo si sentiva come Alina, la giovane piratessa
dell’aria dei romanzi d’avventura che Cristina portava di
nascosto nel dormitorio.
«Sì, tantissimo. E sono contenta che li hai presi senza
fiocchetti e merletto. Sono una signorina, adesso»
annunciò. «Per davvero» rimarcò con fare
allusivo.
Il sorriso della donna si affievolì. Il lapis le sfuggì di mano, rotolando sul ponte.
«Cosa inte… aspetta. Stiamo parlando di…» e
s’interruppe, studiandola con gli occhi spalancati per la
sorpresa. «Parliamo del passaggio a diventare donna?»
Ester fece segno di sì con aria solenne e impacciata.
«Vuoi dire che…»
«Sì, mamma. Proprio quello».
Mala scrollò il capo sospirando e si stese sulla schiena con un
braccio sugli occhi. Una ciocca, da cui pendeva un paio di sferette di
vetro veneziano, sbatacchiò sull’assito.
«Che c’è, mamma?»
«Non ero lì con te» gemette.
«Beh, non è che avresti potuto fare chissà
cosa…» replicò imbarazzata, stringendosi le
ginocchia.
In quei momenti ricordava molto il padre, sempre restio ad approfondire le questioni più personali con chiunque.
«Lo so. Però è un momento particolare per una
ragazza. Io avrei pagato qualsiasi cosa per avere vicino una persona
che, non so… che mi dicesse che andava tutto bene, che non
dovevo avere paura. Che il dolore sarebbe passato in un paio di
giorni» disse, facendole una carezza in segno di scuse.
«Ma c’era Cristina. E anche Suor Celestina. Non ero da sola» obbiettò.
«Non è la stessa cosa, Ester. Io ero spaventata a morte.
Nessuno mi aveva mai parlato di quel lato dell’essere donna.
Pensavo di star per morire per i miei peccati come aveva annunciato
tante volte mia madre, l’unica che avrebbe dovuto essermi
d’aiuto e che non ha mai fatto altro che affossarmi».
«Perché dovevi morire per i tuoi peccati? La Madre
Superiora dice che alla nostra età, il massimo dei peccati che
si possono fare sono quelli di gola o di superbia. E per quelli mica si
muore. Sono solo dieci Ave Maria e dieci Pater Noster»
replicò con semplicità.
«Vedo che la Chiesa ha alleggerito le pene. Ai miei tempi erano
venti per ciascuno e una decina di Actus contritionis… detestavo
quella preghiera, era deprimente. Comunque, so che ti sarà
difficile da credere, ma alla tua età ero tutto fuorché
una brava bambina. O questo soprannome non me lo sarei meritato».
«Non te l’hanno dato ad Armada?»
«No» rispose, scuotendo il capo tintinnando.
«È l’ultimo ricordo che ho della mia famiglia».
«L’hanno inventato gli zii?»
Ester non conosceva la famiglia di sua madre, se non attraverso i vaghi
racconti suoi e di Suor Celestina, che era stata la sua insegnante di
storia quando ancora frequentava la scuola. Sapeva che Mala era
l’ultima di sei figli, tutti maschi. Il più grande di
loro, lo zio Antonio, aveva nove anni più della sorella mentre
zio Prisco, l’ultimo, ne aveva tre. Nel mezzo c’erano gli
zii Giustino, Tiziano e Valerio. Secondo Mala erano cinque belve
scatenate, capaci di buttar giù intere cinte murarie a mani nude
solo per il gusto di far danno, ma Ester si domandava spesso come
dovesse essere avere una famiglia tanto grande. Una vera famiglia,
perché faticava a considerare gli equipaggi della Zenobia e del
Turbinante come membri della sua.
«No. I nonni. Gli zii nemmeno mi chiamavano per nome. Proprio non
esistevo per loro. Almeno finché non cominciavo a
picchiarli» ridacchiò, allungando un paio di diretti a un
avversario inesistente. «Guai a te se scopro che picchi i tuoi
compagni. Tu non devi farlo, non ne hai bisogno».
«Ecco perché sai fare a pugni così bene»
osservò Delizia dalla finestrella, rivolgendosi a Mala.
Di lei si scorgeva solo un occhio a mandorla, assottigliato da un sorriso.
«No, mamma, non picchio nessuno. Al massimo ho dato un libro in
testa a Paola, ma di piatto. E piano. E l’ho fatto solo per
difendermi» specificò con un sospiro annoiato.
In genere quelle rampogne erano appannaggio di suo padre, ma negli
ultimi tempi ci si era messa anche lei. Proprio non capiva
perché non si fidassero di quel che faceva al collegio. In
fondo, erano stati loro a mandarcela.
«Tesoro, non hai idea di cosa voglia dire dover combattere con
cinque maschi viziati e presuntuosi ogni giorno. I dispetti, le
angherie,… figuriamoci combattere sul serio per difendere
la tua vita» la ammonì torva, ben sapendo che non avrebbe
capito fino in fondo.
«Sì, sì, va bene, faccio la brava. Ma il soprannome che ti hanno dato i nonni?» riprese.
«Oh, di soprannomi veri e propri non me ne avevano dati. Di
solito per identificarmi bastava trovare la parola giusta: malacreanza,
malagrazia, malanimo, malalingua, malavoglia, malafede, malandrina,
malasorte, malaugurio, malaventura. Ogni parola che cominciasse con
“mala”. A tredici anni si aggiunse malafemmina, quando mio
padre mi vide salutare – e ribadisco: salutare – un nostro
vicino di casa che mi aveva praticamente vista nascere. Così, un
po’ alla volta, di Malvina rimase solo la parte peggiore:
Mala».
«Ma… erano davvero così cattivi i nonni?»
«Non erano cattivi. Solo troppo ottusi e pigri per cercare di
capirmi» osservò stupita, scoprendo in quel momento di
essersi fatta quell’idea.
«E per questo sei finita in collegio. Pensavano fossi cattiva e volevano darti una raddrizzata» ribadì.
«Sì, ma dopo quel saluto, mio padre pensò che fossi
una disgraziata a tal punto che lo studio fosse solo uno spreco di
tempo e denaro, perché nessuno avrebbe comunque voluta in moglie
una svergognata come me, e decise che avrei dovuto farmi suora, visto
che con loro stavo tanto bene» ridacchiò.
Ormai trovava la cosa divertente.
«Saresti andata bene come suora quanto me come membro di un
harem!» ghignò Farisa, dondolandosi dal predellino sotto
il pallone aerostatico.
«Però in convento non ci sei andata» proseguì Ester. «Suor Celestina dice
sempre che averti fatto scappare dal collegio sarà stata pure
una cosa brutta e che l’ha obbligata a lasciare Bergamo, ma che
il Signore la perdonerà, perché sa di aver salvato
un’anima. E poi, dice che San Marino le piace di più,
perché è meno fredda d’inverno».
«Amen» concordò Mala, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso.
Ricordava ancora quella notte di vent’anni prima, quando le mani
già ossute di Celestina l’avevano spinta oltre la
porticina del muro di cinta, verso un vicolo buio ai piedi di
Città Alta3. Sentiva le sue parole d’incoraggiamento, le indicazioni per raggiungere l’aviostazione di San Vigilio4, il freddo delle monete con cui la monaca aveva finanziato la sua fuga verso la città volante di Armada.
A Ester ora non interessava più conoscere ulteriori dettagli, ne
aveva a sufficienza per fantasticare a volontà. La sua
attenzione era rivolta all’abbigliamento della madre. Rivedendola
nei suoi soliti vestiti da navigatrice la trovava più bella,
più vera. Persino più giovane, nonostante le intemperie e
la fatica avessero già segnato il suo viso.
«Sai che stavi benissimo prima? La madre di Miranda e Clara si
veste sempre con quel tipo di abiti quando le accompagna a lezione. Lei
è una cantante d’opera. Io però ti preferisco
così» sentenziò abbracciandola. «Questa
è la mamma che voglio, senza stecche e pizzi, ma con tanta
ferraglia!»
«Insomma, preferisci un ingranaggio a una nuvoletta» ridacchiò Mala, contraccambiando la stretta.
«Quando finisco con la scuola, posso farmi i capelli come i tuoi?»
«Vedremo. Dipende dalla vita che sceglierai di costruirti».
Un’aeronave si era posizionata sopra la Zenobia, gettando una
larga ombra sulla costa sottostante. Il brontolio torpido delle immense
caldaie pioveva dall’alto, accompagnato dal ronzio cadenzato
delle eliche.
Un tubo metallico scese dal mezzo, fendendo l’aria come un dito immerso in un bicchiere d’acqua.
Sul rivestimento si poteva leggere il nome del mezzo, dipinto in
lettere bianche con una calligrafia semplice e precisa: Turbinante.
Uno sportello scivolò verso l’alto, spinto da pistoni a
vapore che scaricarono nel vento sottili nubi di condensa. Un
uomo era aggrappato alla scaletta interna, cui era assicurato tramite
una coppia di cavi. Una cicatrice saliva dal lato destro della mascella
fin oltre l’attaccatura dei corti capelli scuri, diramandosi ai
lati come una foresta di spine pallide, inquadrando l’occhio
cieco. Se non fosse sbucato dal condotto di sentina
dell’aeronave, sarebbe stato facile scambiarlo per un pescatore,
tanto la pelle era cotta dal sole.
Mise una mano alla fronte per ripararsi dal vento e dal riverbero del sole sugli ottoni della Zenobia.
«Ehilà, belle signorine! Vi va un po’ di
compagnia?» salutò agitando il braccio destro, sostenuto
da un marchingegno di metallo scuro.
Ester scattò in piedi con un enorme sorriso stampato in faccia.
«Papà!» gridò, raggiungendo di corsa il parapetto di sinistra.
«Farisa, rallenta a due e falli abbordare» gridò Mala, indicando le manette dei focolari.
«Cosa?! Quelli non ci mettono piede sulla mia Zenobia!»
«Ah, ci risiamo…» pianse la cartografa, aspettandosi l’ennesima lagna.
«Veramente è di tutte e tre!» ribadì Delizia,
agitando un cucchiaio di legno dalla finestrella della cucina.
«Io voto per l’abbordaggio. Se gli occhi non
m’ingannano, nella cucina di Shara vedo delle rape e a me ne
servirebbero un paio. Ehi, Shara! Shara! Avanti, fondo di tegame, retaw rednu xis dna!» strillò, infilando la testa nell’oblò lungo la fiancata.
«Faccio quello che mi pare! Non prendo ordini da voi due! Io sono
il Capitano!» urlò l’altra, la testa lucida di
sudore, dove cominciavano a intravedersi le vene gonfiarsi per
l’isteria.
«Farisa, ti prego! Ti prego-ti prego-ti prego! Ti
preeeeeeego!» pigolò Ester raggiungendola di corsa e
saltellando aggrappata al suo braccio.
«Avanti, poche storie» ruggì Tancredi facendosi
serio. «Il codice parla chiaro: se si è avvicinati da
un’aeronave, a decidere dell’abbordaggio è il
Capitano della più grande» e non c’era bisogno di
porre l’accento chi fosse la persona in questione.
«Dai, Farisa, dai! Dai-dai-dai! Falli abbordare! Dai! Ti prego!
Ti prego, Farisa! Dai!» piagnucolò Ester abbracciandola
forte.
Farisa le scoccò un’occhiataccia inferocita, che avrebbe
fatto battere in ritirata chiunque, ma non una ragazzina desiderosa di
rivedere il padre dopo un anno di assenza.
«Oh, va bene! Basta che la smetti di strillare, gabbianella!»
1 In excelsis: in cielo.
2 Romesco: salsa spagnola a base di mandorle, pomodori, aglio, aceto e olio.
3 Città Alta: centro storico di Bergamo.
4 San Vigilio: rocca sovrastante Città Alta.
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Capitolo 4 *** IV - Lamina amoris ***
IV - Lamina amoris
VI – Lamina amoris1
Gli equipaggi avevano raggiunto la loro meta da poco più di
un’ora, con la Zenobia rimorchiata nella scia del Turbinante.
Durante le quattro ore di tragitto, Ester aveva raccontato ai genitori
dell’anno scolastico appena trascorso, interrompendosi di
continuo per sapere dei loro viaggi o per cercare – e ottenere
– quelle coccole che non aveva potuto ricevere.
La costa garganica era immersa negli ultimi sprazzi sanguigni del
crepuscolo. La sagoma tozza e scrostata dalla salsedine di Torre Mileto 2
si ergeva sopra i massi scuri, la piattaforma superiore coronata dalle
sagome panciute del Turbinante e della Zenobia, che danzavano come due
amanti capricciosi nella brezza. Un mare d’inchiostro
rumoreggiava oltre lo sterrato ai piedi della torre rischiarata dai
falò. Sparse tutt’intorno c’erano lunghe tavolate e
focolari da cui s’innalzavano colonne di fumo odoroso di carne e
legna, che si mescolava nel cielo col vapore dei motori in quiete.
Parole, rutti, richiami e risa si mescolavano al ritmo incalzante della
pizzica e al tintinnare delle stoviglie che passavano di mano in mano,
trasportando succulente specialità della campagna circostante.
La festa del paese in cui Tancredi era nato era una gioia per ogni
senso, eccettuato il buon senso di una persona.
«Levati di torno, prima che ti prenda a calci!» tuonò la voce del Capitano del Turbinante.
«Ma che ho fatto?» ghignò Rinaldo, perdendo un
attimo dopo ogni briciola d’ilarità vedendo la mano
dell’altro correre alla pistola appesa alla cintura.
«Dai, papà… lascialo stare» rise Ester, strattonandolo perché tornasse a sedere.
Non le piaceva vedere lo zio bistrattato da suo padre. Aveva sempre
trovato lo zio Rinaldo molto divertente, un vero spasso. Sapeva farla
ridere con un sacco di storie buffe, la faceva sognare con le sue
canzoni d’amore e a volte la faceva spazientire come le sue
compagne del collegio.
«Lo sai benissimo. Niente vino a Ester! E non fare quella faccia
da innocente! Forse ti sei dimenticato che da quest’occhio ci
vedo meglio di te e che quella roba lì non deve starci.
Mai!» urlò additando la coppa incriminata. «E ora
sparisci, prima di andare a far compagnia a questa!» ruggì
Tancredi, brandendo un fascio di muscish’ka 3 come un’arma da fuoco.
Al musico toccò battere in ritirata col tamburo sottobraccio, prima che la minaccia si concretizzasse.
«Papà, per farlo a strisce come quella dovevi usare il
kris della mamma, non la pistola. Zack! Zack! Lo facevi a
striscioline!» scherzò la ragazzina, sfoderando il pugnale
dalla custodia.
«No. Ho giurato di non usarlo mai più» sbottò, prendendoglielo dalle mani e porgendolo alla donna.
«Ma… perché no?» chiese perplessa.
Raramente suo padre assumeva un tono di riprovazione tanto intenso.
«Perché ho quasi ucciso tua madre, con quello» disse semplicemente.
Ester sgranò gli occhi, sconvolta dalla notizia. Fin da piccola
aveva sempre adorato quell’arma dalla lama sinuosa e lucente,
sognando di brandirla contro i pirati dell’aria. Nessuno le aveva
mai detto che dietro a quel metallo ci fosse un fatto tanto orribile.
Anche se li aveva visti litigare furiosamente qualche volta, non
riusciva ad immaginare suo padre che tentava di uccidere sua madre.
«U-uccisa? Perché?» domandò, squadrando alternativamente i genitori.
«Non guardarmi così! Non l’ho fatto con intenzione,
è stato un incidente» ribadì l’uomo,
evidentemente a disagio per l’espressione sgomenta della figlia.
«Che cosa è successo?» chiese lei, il volto tra le mani e i gomiti sul tavolo, in attesa di spiegazioni.
Spiazzato dall’improvviso interesse, Tancredi cercò
sostegno nella compagna. Con suo stupore, la trovò nella
medesima posizione della figlia, che gli sorrideva sorniona, imitata da
Delizia, Farisa e alcuni membri del suo equipaggio.
«Sì, amore. Che cosa è successo?»
Parlare di merci, rotte, motori e tempistiche era un conto, raccontare
la propria vita un altro. E lui trovava particolarmente odioso rivelare
dettagli del proprio passato, specie davanti ad un pubblico tanto
nutrito.
Sbuffando e roteando gli occhi spazientito, il Comandante si costrinse a raccontare.
All’epoca, lui era ufficiale in seconda su un cargo greco,
l’Akropolis, e poteva vantare il rispetto di diversi altri
equipaggi, dopo essere sopravvissuto a un violento attacco di predoni
egiziani, pur avendoci rimesso l’occhio destro e la
mobilità del braccio. Mala, dal canto suo, era salita a bordo da
qualche mese e tentava di condividere la cabina assegnatale con uno dei
tecnici di bordo: la già insopportabile Farisa.
Tra i due era emersa dapprima una naturale simpatia, che li aveva
portati a tessere lunghe discussioni durante le notti di navigazione.
Erano passati poi a frequentarsi anche durante gli scali a terra,
finché il rapporto si era fatto più stretto, quasi
ingestibile: bastava uno sguardo o un banale cenno per temere dicerie
da parte dell’equipaggio. Nessuno di loro poteva rischiare di
perdere il posto per un intermezzo amoroso con un altro membro
dell’aeronave (cosa peraltro vietata dal regolamento di bordo e
osteggiata in ogni modo dal Capitano Samartzidis), tuttavia, ignorarsi
era impossibile.
Tancredi sorvolò deliberatamente sulla visione della giovane
cartografa, che un giorno aveva sorpresa mezza nuda mentre fingeva di
cambiarsi nella sua cabina, con la scusa di non poter accedere alla
propria a causa di un litigio con il meccanico. Si limitò a
tratteggiare un loro incontro fortuito, vagamente tenero e romantico,
come sarebbe potuto piacere ad una ragazzina di dodici anni.
«Eravamo soli e, insomma, ci piacevamo. Così quel giorno la mamma mi guardò e mi disse…»
«Non vuoi raggiungermi, vero?» concluse lei, usando un tono più scherzoso e meno provocante di allora.
La porta era stata solo una misera difesa di
quell’intimità illecita e nonostante ciò, le ore
insieme non avevano fatto altro che susseguirsi, finché un
giorno, mentre stavano abbracciati nel caldo soffocante della
stanzetta, parlando sottovoce di progetti futuri e rotte appena
percorse, un grido mandò in frantumi ogni cosa. Tancredi aveva
fissato sgomento Mala che gli si aggrappava alle spalle boccheggiando.
Abbassando lo sguardo in cerca del motivo di quell’urlo aveva
scoperto con orrore il metallo del kris immerso nel fianco destro della
donna. Il meccanismo di ritenuta aveva ceduto e la lama era scattata in
avanti, trapassandola poco sopra il fianco. L’uomo aveva tentato
di rinfoderare l’arma, ma a ogni tentativo le urla di Mala e il
sangue che sgorgava copioso avevano dichiarato danni sempre maggiori.
Così, ignorando la reciproca nudità e la certezza di
essere scoperti, Tancredi si era risolto a chiedere aiuto. Per tutto il
tempo che era occorso a trovare una soluzione, aveva tenuto la compagna
stretta a sé perché non si muovesse, rischiando di aprire
nuovi squarci. Era stato in quella posizione che li aveva soccorsi il
medico.
«Per tre settimane rimasi in bilico tra la vita e la morte, stando al dottor Pintasilgo» raccontò Mala.
«Un idiota, piccolina, fidati. Un vero idiota. Meno male che
è crepato di tisi» sbottò Farisa, masticando a
bocca aperta un boccone di pane.
Tutti i presenti si voltarono verso di lei con aria di biasimo sia per
l’interruzione sia per le parole dette: molti di loro erano
passati dall’ambulatorio di Pintasilgo e lo stimavano per la sua
capacità di curare ogni infortunio o malattia con i risicati
mezzi disponibili sulla città volante.
«Idiota o no, ci mise del suo per non farmi precipitare oltre la
murata di quest’aeronave. E ci riuscì»
puntualizzò Mala, irritata.
Ripensò alle poche memorie che aveva di quei giorni fatti di
febbre, sete e dolori lancinanti. E alle mani del medico, sempre pronte
a richiudere la ferita quando un nuovo rivolo di sangue si faceva
strada tra le bende o ad aprirla quando un accenno d’infezione
sembrava dover mandare tutto a monte.
Ester la guardava con occhi sbarrati d’ansia, dimentica del fatto
che se sua madre le stava parlando, significava che quei momenti erano
passati.
«Devi sapere che il kris è tra le armi più
micidiali al mondo proprio perché è così
bello» intervenne Tancredi mostrandogliela. «La lama
ondulata non è una scelta estetica. Crea ferite molto
irregolari, che è quasi impossibile richiudere perfettamente.
Pintasilgo fece un vero miracolo con tua madre».
La ragazzina osservò sbigottita la cicatrice che la donna
indicava sul suo fianco, uno spesso grumo pallido e allungato, che lei
chiamava fin da piccola “la limaccia”. L’aveva vista
altre volte, senza prestarvi troppa attenzione, ma ora che ne conosceva
la storia non poteva che immaginare il dolore, il sangue, la paura e
tutto quello che aveva significato. Si sentiva un po’ intimorita
e sciocca, per aver dato per scontato si trattasse di un banale
incidente.
«Ti fa ancora male, mamma?»
«Solo quando cambia il tempo. O se papà mi fa arrabbiare» scherzò, massaggiando lo sfregio.
«Dice così per farmi sentire in colpa, ma sa perfettamente
che non ci casco. Sta benissimo» ribatté l’uomo.
«Ah, davvero?» lo stuzzicò, sfoggiando un’espressione di grande sofferenza.
«Cos’è successo dopo, quando sei guarita?» intervenne Ester, troppo curiosa per lasciar perdere.
«Quando sono guarita? Beh, passato un mese, Pintasilgo
alzò i tacchi, dicendo che ormai potevo arrangiarmi. Solo allora
tuo padre mise il naso nella cabina. Non riusciva a spiccicare parola.
Continuava a guardare la fasciatura e…»
«La fasciatura? Vorresti farci credere che eri lì, con le
tette al vento – e non solo quelle -, e lui…»
intervenne ancora Farisa, mentre con un dito rovistava nel carapace di
una cicala di mare.
La sua capacità d’interrompere i discorsi altrui con quel
genere di uscite era una delle piccole cose che Mala mal tollerava del
suo Comandante. Specie se Ester era presente.
«Guardava la fasciatura» ripeté seccata, rigirando
la lama tra le dita. «E se ne stava lì in
silenzio…»
«A palparsi…» ciancicò.
«Farisa, apri la bocca un’altra volta e la Zenobia cambia
guida!» la minacciò, puntandole il kris alla gola.
Tutt’altro che intimorita, il Capitano allontanò la lama con la punta delle dita.
«Ma smettila! Tanto lo sappiamo benissimo che non riuscite a evitare di…»
Nessuno seppe cosa stesse per dire, pur intuendolo: Delizia le aveva
ficcato una costoletta in bocca prima che potesse aggiungere altre
sconcezze alle precedenti.
«Tranquilla, tesoro. La faccio star zitta io. Tu finisci il
racconto, Ester sta aspettando il gran finale» intervenne la
cuoca, riempiendo a forza le fauci del Capitano con tutto il ben di dio
che c’era sulla tavolata.
«Che cosa hai fatto?» insisté trepidante la ragazzina.
Dopo un profondo respiro per calmarsi, Mala proseguì.
«Gli ho sorriso e ho detto: “se questo è il tuo modo
per dirmi che ti appartengo, e che piuttosto che sapermi di un altro
preferisci farmi fuori, direi che sei stato chiarissimo”»
disse, allungando la mano fino a intrecciare le dita con quelle del
compagno.
Lo sguardo che passò tra i due la diceva lunga su quanto fossero
stati duri quei momenti. Quanta ansia, pena e rabbia si fosse addensata
nell’esiguo spazio tra la porta e il letto.
«E tu, papà? Cosa hai fatto quando la mamma ti ha detto così?»
Tancredi la guardò, notando quanto i lineamenti da bambina
stessero tramutandosi in quelli di una giovane donna. Una giovanetta
impicciona come sua madre, accidenti a lui. Se non fosse stato tanto
abbronzato, probabilmente avrebbe mostrato un colorito da fuochista
anche nella penombra del banchetto.
«Ho fatto rimuovere il kris con tutto il dispositivo e l’ho
dato a tua madre, perché non accadesse più».
Le mostrò il tutore, indicando dove erano stati gli
alloggiamenti delle molle e dei perni. In alcuni punti il metallo era
stato levigato e spazzolato, in altri si scorgevano ancora dei solitari
moncherini.
«Sì, ma prima?»
Ecco l’interrogativo che sperava di aver evitato.
«Prima?» domandò, fingendo di non capire.
«Prima di togliere il pugnale. Cos’hai fatto quando la mamma ti ha detto quelle cose?»
Aveva gli occhi dilatati dalla curiosità e dal romanticismo, era
evidente. E lui detestava parlare di quella parte della storia: era
troppo personale e sentimentale per essere raccontata in pubblico.
Anche solo per accontentare sua figlia.
«Cosa avrei dovuto fare? Ho detto che mi dispiaceva e che
dovevamo battere palmo a palmo ogni aviostazione di Armada in cerca di
un imbarco, perché Samartzidis ci aveva sbarcati in via
definitiva» sviò.
Non avrebbe mai potuto dimenticare le urla di disapprovazione di quella
vecchia tartaruga: su dieci parole, tre erano articoli del codice di
navigazione di Armada, una un versaccio a caso e le altre sei sonore
bestemmie e imprecazioni. Persino il magistrato aeroportuale che aveva
assistito alla scena era sbiancato per l’orrore e
l’imbarazzo.
«E poi?»
«E poi cosa? La storia è tutta qui» tagliò corto.
«No, non può essere. Non ci credo. C’è
qualcosa che non vuoi dirmi» obbiettò Ester sfoderando lo
stesso sguardo indagatore che usava Mala durante le contrattazioni.
«Non c’è nient’altro da dire» affermò perentorio.
Indispettita, la ragazzina si volse verso la madre, insistendo perché le svelasse ogni cosa.
«Tuo padre ha ragione. Non c’è altro» concordò lei.
Preferì non accennare al fatto che, dopo le sue parole, Tancredi
era crollato in ginocchio accanto al letto, piangendo di sollievo col
volto nascosto contro le bende. Così come non disse nulla
riguardo ai baci e alle carezze con cui il mercante l’aveva
esaminata da capo a piedi, per assicurarsi che fosse davvero fuori
pericolo; né volle accennare allo splendido esito di
quell’analisi nove mesi più tardi e che in quel momento
sedeva tra di loro, borbottando come una caldaia insoddisfatta.
1 Lamina amoris: lama d’amore
2 Torre Mileto: torre costiera di avvistamento e difesa, sita tra i laghi di Lesina e Varano.
3 Muscish’ka: strisce sottili di carne bovina essiccata con aglio, chiodi di garofano, sale e peperoncino.
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Capitolo 5 *** V - Minutae res ***
V - Minutae res
V – Minutae res1
Ai piedi della torre, su un palchetto
rialzato, Ester stava bevendo vino da una coppa allungatale di nascosto
dallo zio. Assaggiava incerta il contenuto della coppa, sorridendo
divertita al sileno dallo sguardo ammiccante e la carnagione olivastra
che la incitava sottovoce.
La navigatrice assottigliò lo sguardo, dando di gomito al proprio compagno.
Si erano allontanati dalle tavolate ancora gremite di gente per
accomodarsi su un grande mucchio di fieno dietro al quale
s’indovinavano deboli nitriti, sbuffi bovini e gemiti soffocati.
La mastodontica figura di Delizia campeggiava ai piedi di Torre Mileto,
intenta a carpire i segreti della cucina locale. Farisa doveva aver
trovato qualche sciagurato abbastanza brillo da essere trascinato fra
le ombre della scogliera.
«Sai, vero, che stanotte ucciderò tuo fratello?» sibilò, lo sguardo furibondo fisso sulla scena.
Disteso sul fianco sinistro, Tancredi strizzò un seme di finocchio tra i denti, mascherando un moto di stizza.
«Mettiti in coda, vanto molti più crediti di te» rispose calmo, guardando nella stessa direzione.
«Io sono sua madre. Devo proteggerla!» sbottò,
intingendo un pezzo di pane nell’olio rimasto sul fondo del
piatto tra di loro.
«Ester non l’hai fatta da sola, posso esigere la mia parte
di diritti genitoriali» le rammentò, addentando un
torcinello2.
«Tu sei responsabile per quello scapestrato!»
sbraitò, indicando il cognato che tracannava vino direttamente
da un otre, sbrodolandosi sul petto e sulle gambe. «Venti e
bonacce, guardalo! Dar da bere a una ragazzina! Quale adulto con un
po’ di buon senso lo farebbe? Erehwyreve naeco na ekil».
«A maggior ragione, lo ammazzo io» decretò, chiudendo il discorso.
Mala si morse la lingua, tornando a sedere composta. Poteva contare
sulle dita di una mano le volte in cui era riuscita a zittire il suo
uomo. Riprese a mangiare con calma pezzi di carne arrostita, seguitando
a tenere d’occhio il cognato, fortunatamente reso inoffensivo dal
suo ruolo di musicista.
Attorno, la festa era un crescendo di risa sguaiate, richiami,
bicchieri che sbattevano, schiocchi di legna, onde nascoste nel buio.
Il divertimento saliva di livello man mano che il vino e il cibo
scendevano nelle gole. E la pizzica che seguitava imperterrita a
scandire il tempo di ogni gesto, strappando sorrisi anche a chi aveva
la mente offuscata dal vapore di altri pensieri.
«Cos’è successo, questa mattina?» domandò a un tratto Tancredi.
«Nulla, perché?» rispose, piluccando distrattamente una ciotola di olive condite col finocchio selvatico.
«Ester mi ha detto che fissavi una donna. Non sapeva se la
conoscessi o meno, però ha notato che avevi un’espressione
strana. Diceva di non averti mai vista con una faccia del genere».
«Che faccia?»
«Non riusciva a trovare una definizione adatta. Diceva che
sembravi arrabbiata, incattivita, ma anche triste. E ha detto anche che
avete parlato della tua famiglia mentre venivate qui».
Lei fece un sorriso tirato, inghiottendo il boccone poco alla volta
nella speranza di sottrarsi alla domanda. Non le andava proprio di
parlare di quella donna, anche se il tarlo le girava in testa di
continuo. Le tornava in mente il suo sguardo di assoluta sufficienza, i
modi da matrona vissuta e saccente, l’illusorio scudo
dell’insoddisfazione con cui si difendeva dal confronto con la
realtà.
Inavvertitamente, strinse le dita sulla coppa fino a far sbiancare le nocche.
Tutto d’un tratto, il ritmo forsennato della pizzica aveva perso
d’allegria e le risate della gente riecheggiavano lontane. Poteva
quasi sentire le onde del mare sovrastare ogni cosa.
«Che faccia avevi, Mala?» insisté Tancredi, masticando lentamente.
«Ero invidiosa» confessò a denti stretti.
Tancredi soppesò la risposta accompagnandosi con un paio di
sorsate, l’espressione da ingranaggio pronto alla rotazione.
Intanto la musica dei tamburelli aveva lasciato il posto alla voce
lamentosa e struggente di una cantante, mentre sotto la torre tutti
ascoltavano in silenzio. I falò allungavano a dismisura le ombre
sulle magre sterpaglie e sulle mura sbrecciate.
«Invidiosa» ripeté assorto. «Perché? Cos’aveva di tanto speciale?»
Mala gettò indietro il capo, facendo tintinnare gli ornamenti
fra i capelli. Di solito non aveva problemi nell’esporre i propri
pensieri, eccezion fatta quando la facevano sentire sciocca. Come in
quel momento.
«È fortunata e neppure se ne rende conto. Lei può
vedere i suoi figli crescere giorno per giorno, può essere al
loro fianco quando hanno bisogno di un consiglio, di un
abbraccio… non deve interrogarsi ogni secondo della giornata se
stiano bene, se siano felici, cosa stiano facendo… se sentano la
sua mancanza…» spiegò, soffocando un singulto
dietro una lunga sorsata di vino.
Tancredi le posò la mano cigolante sulla spalla. Quel dannato
sostegno si faceva sentire sempre nei momenti più inopportuni.
«Malvina…» cominciò, ma fu subito interrotto.
«Non riesce a capire che grande fortuna abbia e delega ogni cosa
ad altri» proseguì, la voce che s’induriva in un
ringhio dentro alla coppa. «Non so cosa darei per stare vicino a
Ester ogni santo giorno, per poterla aiutare quando ne ha bisogno,
senza che debba attendere giorni o settimane in attesa di una risposta
da quelle dannate onde radio! Vorrei poter essere più presente.
Non voglio diventare come mia madre, non voglio allontanare nostra
figlia».
Quel pensiero la tormentava dal mattino e quando aveva parlato con
Ester non aveva fatto altro che peggiorare il suo senso
d’inadeguatezza. Eppure, al di là del dispiacere, del
vuoto nella vita della figlia, Mala aveva una certezza.
«Ho fatto una scelta, anni fa. Ho voluto staccarmi da terra per
trovare me stessa e il mio destino. E ora, la vita che mi sono
costruita e che desideravo mi tiene lontana dalla cosa più
preziosa che ho. E quella… quella! Speerc retaw!»
imprecò furibonda. «Dava tutto per scontato, riteneva che
ogni cosa le fosse dovuta, al punto tale che nemmeno ricordava il nome
dei figli e pretendeva le ubbidissero comunque, solo perché
facesse bella figura! Li ha resi dei trofei da esibire per appagare il
suo ego, per rispondere a quello che le hanno messo in testa e che ha
accettato senza batter ciglio senza domandarsi se fosse giusto o
sbagliato. O forse l’ha fatto, ma ha scelto di non voler
conoscere la risposta. Troppo comodo starsene in bonaccia ad aspettare
il traino. Serats ylpmis noitan a sa» commentò prima di intingere un altro pezzo di pane nell’olio.
Tancredi tacque riguardo al come fosse venuta a sapere dei dettagli:
conosceva bene le capacità della sua donna d’ottenere
informazioni tramite l’osservazione e l’ascolto dei
discorsi altrui. Un metodo da investigatore e da mercante, necessario a
carpire i segreti che potevano determinare l’esito di un affare.
«Perché te la prendi tanto? Nostra figlia è in
gamba, sa cavarsela benissimo da sola. E poi, passa la maggior parte
del tempo in un posto sicuro, non al nostro fianco, rischiando di farsi
male o peggio. Abbiamo deciso insieme che avremmo cercato di
proteggerla ed evitarle di correre pericoli per causa del nostro lavoro
e per ora ci stiamo riuscendo. Anche se non stiamo vicino a Ester ogni
giorno, sa che ci siamo e che i nostri pensieri sono sempre rivolti a
lei. E che siamo sempre pronti ad aiutarla, in qualsiasi momento, in
ogni modo ci sia possibile» la rassicurò.
«Mi fa rabbia lo stesso. Come si può sprecare un dono del genere?»
La sua voce era carica di amarezza, di parole non dette.
«Stai pensando di abbandonare?» le chiese, aggiustando l’imbottitura tra il tutore e il gomito.
Mala sospirò, esitando un istante mentre giocherellava con uno dei monili della sua chioma.
«No» ammise infine. «A terra morirei. Perderei il
rispetto per me stessa e quello che ho ottenuto fino ad ora. I
sacrifici fatti diventerebbero inutili e non li ho fatti solo
per me stessa, ma soprattutto per Ester, per il suo futuro».
Tancredi la fissò a lungo, l’occhio cieco che pareva più severo di quello sano.
«Cosa c’è?»
«Lo sai» rispose con una smorfia eloquente.
«Oh, niar gnillihc» replicò Mala, stizzita, ma lui non aveva intenzione di far cadere il discorso.
«Non ci sei ancora riuscita» la rimproverò.
«Pensi che sia stato facile per me, lasciarmi tutto quanto alle
spalle? Dimenticarmi ogni cosa, tutto quello che ho dovuto
sopportare?» rimbrottò seccata, tracannando l’ultimo
sorso di vino. «Il passato non si cancella mai del tutto, ci si
può solo soffiare sopra per renderlo più evanescente,
come fa il vento con le nuvole. Però, per quanto
m’impegni, c’è sempre qualche brandello che sfugge
all’alito del tempo. A volte ho come l’impressione di avere
le scarpe piene di quei fastidiosi sassolini… hai
presente?»
«No, perché non mi pongo la marea di problemi che ti fai
tu. Non riesci a dimenticare, non riesci a smettere di dare importanza
a fatti e persone che non ne hanno mai meritata. Ti ostini a rimuginare
su cose insignificanti» spiegò Tancredi, allungandosi sul
mucchio di fieno. «Io ho smesso da tempo. Se ho di fronte persone
che mi rispettano e che dimostrano di meritare qualcosa da parte mia,
allora sono ben disposto a concedere ciò che è opportuno
nei loro riguardi. Se invece m’imbatto in disprezzo e gesti che
mi indispettiscono, tanti saluti. Non si fanno affari con chi non ha di
che pagare, né con chi scambia l’oro con la sabbia. Mi
libero all’istante delle cianfrusaglie che mi danno noia e
appesantiscono il mio navigare, anche quando sfiorano soltanto i miei
piedi. Pazienza se un giorno mi ritroverò ad avere poche persone
attorno, saprò che sono quelle giuste. Saranno quelle che si
sono guadagnate il mio rispetto e la mia stima, quelle su cui
saprò di poter contare. Quando sarai riuscita a farlo anche tu,
tutte quelle piccole cose che avrai dato via
non ti tormenteranno più, non getteranno ombre sul tuo presente
e riuscirai a vederle per ciò che sono: solo piccole cose
passate e inutili».
Mala osservò per diversi minuti il suo uomo, meditando sulle
parole appena dette. Non era la prima volta che ne parlavano,
così come non era la prima volta che lui la riprendeva per
quell’atteggiamento. Aveva l’impressione che dell'acqua entrasse attraverso le finestre
della sua mente e del suo cuore, ribollendo sulle scale della sua
storia personale, quasi avesse l’intento di lavare via quelle
piccole cose – come le aveva chiamate lui – per ripulirle
dagli anni di acredine in cui le aveva lasciate macerare.
Dopo tutto, era solo colpa sua se non scioglieva completamente quelle
catene: aveva la chiave per aprirle, ma si rifiutava di usarla,
temendo, suo malgrado, che una volta aperte queste l’avrebbero
privata dello stimolo ad andare avanti. Era scappata dal collegio per
dimostrare di essere più forte del male ricevuto, e per farlo si
era aggrappata all’odio sommesso che si portava dentro, anche se
ridotto al lumicino.
Che motivo aveva ora, di tener vivo quel legame? Perché
insistere, quando non ne aveva più motivo? Le persone che
popolavano il suo passato non avrebbero visto chi era divenuta,
ciò che aveva realizzato con le sue forze e i suoi sogni. Non
avrebbero potuto scorgere il futuro e cambiare idea in quei giorni
lontani, per darle ciò che le avevano negato.
Ora aveva mille altri motivi per essere orgogliosa delle scelte fatte.
Ed il primo, il più grande e bello, quello attorno a cui
ruotavano le sue scelte di ogni giorno, era lì, su
quell’aia, che ballava la pizzica agitando un drappo di seta
scarlatta. Rideva, saltellava, seguiva il gruppo di ragazzine al centro
delle danze. Vederla così felice le riempiva il cuore
d’orgoglio: niente al mondo era paragonabile a sua figlia.
O al suo uomo. Lui ed il modo che aveva di farle sublimare ogni goccia
di ansia e rabbia, facendole gocciolare fuori del motore della sua
anima. Lui, che pur senza ammetterlo apertamente, condivideva il suo
desiderio di riunire la loro famiglia, di cancellare le distanze che
abitualmente li costringevano ad aspettare che il vento portasse a
ciascuno la voce dell’altro.
Mala gli sorrise, gli occhi nuovamente sereni. Non aveva bisogno di un
astio vecchio come le pietre della torre per dimostrare quanto valeva.
Perché non se ne era resa conto prima?
«E adesso non ci saranno errori» mormorò, prendendolo per mano.
Lui avrebbe voluto rispondere, ma si accorse che stava parlando a sé stessa. Le allungò il calice ormai vuoto.
«Pensa a qualcosa di più interessante. Ad esempio a riempire questo: ho sete» scherzò.
«Posso?» cinguettò Ester, comparendo dal nulla e
buttandosi a corpo morto tra i genitori che fecero appena in tempo ad
afferrare i piatti per evitare che ci finisse sopra.
«Ci siamo date alla pazza gioia, eh?» la canzonò severa la madre, notando il rossore sulle guance.
Se suo cognato aveva mancato di un soffio la condanna a morte, era solo perché Ester li aveva raggiunti sana e salva.
«Anche tu» protestò lei, mettendosi a sedere e abbracciando il padre.
«Io sono solo un po’ allegra, tu hai già
abbondantemente passato il limite imposto alle signorine per
bene».
«Io reggo benissimo il vino! Quello che ci passa Suor Celestina
dopo messa è più forte di questo qui. E ne bevo anche di
più!» obbiettò, tornando ad appoggiarsi contro il
petto di Tancredi.
«Suor Celestina… cosa?» domandò l’uomo, colto alla sprovvista dalla rivelazione.
«Ci da il vino della Messa!» ripeté intontita.
«E poi, anche mamma lo beveva. L’ha detto Suor
Celestina».
Ecco come l’unico collegamento tra la sua infanzia e quella di
sua figlia fosse diventato un problema. Altro che pia donna: era una
santa sputata fuori dall’Inferno!
«Un piccolo segreto del collegio» si schermì Mala, facendo una smorfia colpevole e addolorata.
«Piccolo segreto? E quelli grossi quali erano?»
La donna fece spallucce roteando gli occhi come chi aveva una colpa da
tacere, la ragazzina invece si mise seduta a fatica, ondeggiando e con
i capelli bruni arruffati.
«Il segreto grosso è che io e Cristina nel turibolo ci
abbiamo messo il granoturco. L’altare tuuutto pieno di palline
biaaanche che scoppiavano… pah! Pah! Pah! Padre Anselmo urlava
che gli angioletti stavano facendo la cacca…»
biascicò Ester, sbadigliando e lasciandosi cadere
all’indietro sul fieno imitata da Mala.
«Non vuoi raggiungerci, vero?» chiesero in coro, tendendo entrambe una mano.
Sfoggiavano un sorriso talmente tenero e perfido che Tancredi, mentre
si stendeva e le prendeva fra le braccia, non poté fare a meno
di pensare a quanto le sue donne fossero simili.
1 Minutae res: piccole cose
2 Torcinello: specialità tipica della provincia
di Foggia. Potremmo definirlo una sorta di involtino fatto con budello
di agnello, farcito con pezzi di interiora (fegato, polmone, cuore).
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