Minutae res - Piccole cose

di Ely79
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Corporis ornatus ***
Capitolo 2: *** II - Mater et filia ***
Capitolo 3: *** III - In excelsis ***
Capitolo 4: *** IV - Lamina amoris ***
Capitolo 5: *** V - Minutae res ***



Capitolo 1
*** I - Corporis ornatus ***


I - Corporis ornatus
Storia prima classificata al "Miscellaneous - Un altro Diabolico Contest" indetto da Releeshahn.

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ely 79
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Pacchetto: Immagini
Elementi del pacchetto utilizzati: Canzone: the little things give you away - Linkin Park
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Titolo: Minutae res – Piccole cose
Generi: Commedia, Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale.
Rating: arancione
Avvertimenti:  -
Beta-Reader: No
NdA: la canzone fa da sottofondo alla storia, emergendo a tratti. Così ho impiegato il testo originale per creare la lingua di Armada, scrivendolo al contrario, mentre la traduzione l’ho impiegata nel modo più tradizionale all’interno del racconto.  Ambientazione steampunk.

aleena

I - Corporis ornatus1

Le aeronavi dondolavano placide lungo le passerelle dell’aviostazione, cullate da una brezza leggera. Palloni gonfi d’aria rovente e dalle forme più svariate sembravano prossimi a cozzare l’uno contro l’altro, allontanandosi repentini non appena le cime li richiamavano in posizione sopra i ponti e le gondole. Il borbottio di qualche caldaia nascosta nei ventri affusolati segnava il tempo asincrono su cui s’innestava il brusio delle attività mercantili.
Duecento piedi più in basso, i tetti di Borgo Maggiore erano una pennellata di rosso fra il verde dei campi e il grigio della parete rocciosa. L’unico altro colore l’azzurro del cielo terso che sovrastava ogni cosa.
Seduta a gambe incrociate, Farisa era intenta a ripulire una grossa valvola di bronzo che aveva rimosso dalla pompa del motore di babordo. Attorno a lei, sparsi sulle assi del ponte e su ogni possibile superficie offrisse un ripiano, c’erano attrezzi e strofinacci unti. Quel maledetto strozzo si era dimostrato più delicato del previsto e andava pulito con estrema cura ad ogni sosta, se non si voleva correre il rischio di restare in panne a centinaia di piedi da terra. Infilare le mani in quegli affari era uno dei compiti che annoverava tra le attività che detestava svolgere, ma non c’era da stupirsene: l’elenco era pressoché infinito.
«Non ho preso i gradi di Comandante per ritrovarmi ancora morchia tra le chiappe! Nikaerb era seevel eht!» grugnì, spingendo a forza lo straccio nel blocco di alloggiamento.
E dire che solo qualche anno addietro si sarebbe divertita un mondo. Era proprio vero che il potere cambiava le persone.
La stoffa faticava a raggiungere in profondità le pieghe del metallo, costringendola a contorcersi come una serpe. Sentì i residui di grasso infiltrarsi sotto le corte unghie e nei tagli che si era procurata smontando il meccanismo. Grugnì un paio d’imprecazioni, ricordando come la cuoca di bordo l’aveva apostrofata poco prima, dicendole che se non fosse stato per via dei suoi sbuffi da caldaia in pressione, l’avrebbe scambiata per un enorme macchia di sporcizia.
Si passò un braccio sul cranio rasato, lucido di sudore, e gettò da un lato lo strofinaccio.
Un gridolino strozzato le fece levare gli occhi dall’odiosa operazione, fin sulla porta che conduceva alla stiva e a quelle trappole per topi che il suo equipaggio definiva cabine. Sulla soglia, con un piede ancora sospeso a mezz’aria sopra al cencio unto, era apparsa un’altra donna. Ed era un’altra nel senso più ampio del termine perché mai, sulla Zenobia, si era vista una figura più elegante.
Il lungo abito color rosso veneziano seguiva i dettami della moda più recente: la gonna, che scendeva piatta sul davanti, aveva mantenuto balze e decorazioni di merletto finissimo, evitando però i goffi rigonfiamenti della crinolina; sotto la giacca bordata di volant s’intravedeva appena una camicetta chiara dall’alto colletto rigido, ornato da un piccolo cammeo di sardonica, raffigurante una Nike. Sul braccio, una borsetta a secchiello trapunta di perline, un paio di guanti intonati al vestito ed un parasole in merletto Chantilly.
I capelli scuri erano la sola cosa che potesse identificarla come una navigatrice: a differenza delle donne “di terra”, erano raccolti in una miriade di elaborate trecce di differenti spessori, da cui pendevano svariati ornamenti, dalle sferette traforate tipiche del Marocco alle minuscole piastrine smaltate del Mar Baltico.
Farisa avrebbe voluto dire qualcosa per celebrare l’apparizione, una frase ad effetto adatta alla situazione, ma le venne solo d’arricciare le labbra mostrando l’espressione più sbalordita che le riuscì.
L’altra avanzò fino a raggiungere i tubi della condensa che dal pallone scendevano fin nel ventre del mezzo e lì si fermò, aggrappata ai condotti come se si trattasse di un paracadute. Non sembrava particolarmente a suo agio sul ponte che percorreva abitualmente ogni giorno almeno un migliaio di volte, il tutto a causa dell’elegante paio di stivaletti di vernice che faceva capolino da sotto la balza della gonna.
«Syaced epoh. Non so più che fare con te. Non c’è speranza» sospirò paonazza, cercando di tenersi dritta con evidenti difficoltà.
Si era rassegnata ai tiri dell’amica; la speranza che non le procurasse qualche impiccio era precipitata giù dalle murate più di un decennio addietro, nella vana illusione di abituarcisi.
«Tu hai detto stringi» sbuffò facendo spallucce in maniera tutt’altro che innocente.
«Sì, ma non fino a soffocarmi, dannazione!» strepitò, inspirando a fatica. «Mi hai fatto perdere non so quanto tempo per aggiustare quest’affare e ancora non respiro come si deve» si lagnò, dando strattoni alla rigida stoffa del corpetto.
La donna camminava rigida sul ponte dell’aeronave, tentando di mantenere il precario equilibrio sugli alti tacchi. Procedeva lenta, bilanciandosi con le braccia tese ai lati del corpo e trovando appiglio in ogni oggetto sporgente o penzolante.
Il Capitano ridacchiava, mostrando denti di un candore impressionante contro la pelle nerissima.
«Finiscila, non è divertente» la ammonì, cominciando a ritrovare un passo sicuro e regolare.
«Dici? A me sembri uno spasso. Se ti vedessero camminare conciata così ad Armada2, finiresti su tutti i rapporti ed i giornali della città. Vedo già i titoli: “Mala-femmina. Nuovo esemplare di cartografa da esibizione avvistato ai nostri ponti d’imbarco”» ghignò, fingendo d’ignorare l’occhiata truce che ricevette.
Sapeva perfettamente che il genere di appellativi che conteneva il suo nome le faceva perdere le staffe.
«Non darle retta, Mala. Stai benissimo» s’intromise una voce dalla finestrella che si apriva sotto il castelletto di comando, sul lato opposto dell’aeronave. «Ti metterei in cima a una torta, se fossi sicura che non ruzzoleresti giù al primo alito di vento» soggiunse ridendo a crepapelle.
«Molto carino da parte tua, Delizia».
«Prego» replicò, tornando a spignattare.
«Non capisco proprio perché hai voluto metterti addosso quella roba. Non è la prima volta che vai a prenderla» sbottò Farisa stiracchiandosi.
Mala scrollò le spalle. Avevano fatto quel discorso un migliaio di volte in quei giorni, ma il suo Capitano insisteva a farle sempre domande la cui risposta, ai suoi occhi, avrebbe dovuto essere palese.
«Lo so benissimo. Il fatto è che per la prima volta uscirà da scuola come tutti gli altri, non dovrà aspettarmi per colpa di qualche intoppo burocratico o meteorologico. Non voglio si senta a disagio perché le altre madri saranno l’emblema della rispettabilità ed io quello della pirateria… i suoi compagni la tartassavano a sufficienza in passato, non voglio far peggiorare di nuovo le cose ora che si sono sistemate» disse, riflettendo su come il termine “pirata” fosse passato nel giro di pochi anni da un’accezione negativa a una estremamente positiva.
Potenza della mente infantile e delle suggestioni che produceva.
E poi, loro non erano affatto pirati, bensì commercianti, trasportatori, esperti di logistica che avevano abbandonato le rotte “basse” per sfruttare quelle più impervie e meno trafficate dei cieli. La cosa più illegale che avevano fatto era stata prelevare un paio di bottiglie di vino spagnolo da un carico, per festeggiare il mancato inabissamento della Zenobia durante una tempesta a largo di Fuerteventura.
Tuttavia, il loro modo di abbigliarsi, l’immagine bizzarra con cui si presentavano, faceva sì che una buona fetta dell’onesta e bigotta società civile li guardasse con disprezzo.
«E non pretendo che tu capisca, quindi risparmiami le tue solite rampogne» soggiunse, intuendo che dietro alla maschera indolente di Farisa stesse prendendo forma qualche perfida osservazione.
«Noi siamo così, se a quelli dà fastidio, beh, che vadano a buttarsi di sotto. Qui è un bel voletto, per togliersi certe idee dalla testa. E dal resto del corpo» fece l’altra, sputando nel baratro al di sotto dell’aeronave.
Ben sapendo che avrebbe solo perso tempo, impelagandosi in un’ennesima discussione a sfondo sociologico con uno degli esseri meno socievoli del mondo – a qualunque quota lo si frequentasse -, Mala decise di raggiungere lo stretto ponte sospeso che spuntava dal fianco destro della Zenobia.
«È meglio che vada. Non voglio far tardi».
Rispose appena ai saluti delle due compagne, concentrata a mantenere i piedi su un appoggio sicuro, per quanto instabile. La passerella non le era mai parsa tanto lunga e tremebonda. Percorrerla fu un doppio supplizio, abituata com’era nel procedere a lunghe falcate: la linea dell’abito le impediva di allungare il passo quanto avrebbe voluto.
Non appena fu all’altro capo, si diede una rapida controllata, per accertarsi che ogni cosa fosse in ordine e fosse sopravvissuta allo strapazzo di quei primi minuti.
Costatata l’assenza di strappi, macchie e buchi, attraversò svelta il pontile di pietra proiettato sul vuoto, raggiungendo la terrazza semicircolare di fronte agli uffici. Dalla murata dell’Andanacirri3 le gettarono un paio di fiori sottratti al carico. Qualcuno si azzardò persino a fischiarla, alcuni diedero fiato alle sirene di manovra, riempiendo l’aria di dense nuvole di vapore. Sentiva addosso gli occhi di tutti gli equipaggi attraccati e se da un lato la infastidivano, dall’altro, doveva ammetterlo, la lusingavano. Non era abituata a indossare abiti tanto eleganti e femminili, tuttavia l’occasione lo richiedeva e non avrebbe mai e poi mai messo in imbarazzo Ester presentandosi in tenuta da lavoro.
Rimase ferma qualche istante per riprendere fiato e assicurarsi di riuscire a restare in piedi sulla terraferma bene quanto sull’aeronave. Poteva sembrare assurdo per chi non viaggiava giornalmente su quei mezzi, ma quando si era abituati a contrastare rollii, folate improvvise e fremiti, camminare su una superficie immobile poteva diventare una tortura.
Controllò l’ora sul grosso orologio posto sopra il cancello di ferro battuto.
Fece per riprendere la strada, ma sentì la gonna tirare, rischiando di farla cadere a faccia in giù. Ci fu qualche risatina priva di volto dai velivoli.
«Passi piccoli, passi piccoli» ribadì seccata a sé stessa. «Non hai addosso dei pantaloni, accidenti a te. Vedi di ricordartelo!»
Dagli uffici commerciali uscì un impiegato. Aveva poco più di vent’anni, tuttavia la carnagione pallida, gli spessi occhiali e i capelli scarmigliati già indicavano quale sarebbe stato il suo aspetto di lì ad un paio di lustri. Camminava a capo chino, rileggendo a mezza voce gli appunti e le note di carico sui documenti.
Senza volerlo le andò incontro. Vedendo l’ombra a terra si discostò un poco, pensando si trattasse di una segretaria o dell’occasionale avventura di uno dei naviganti quando, alzando lo sguardo, si rese conto di aver di fronte una persona ben nota.
Rimase a fissarla a bocca aperta, le lenti che scivolavano a scatti verso la punta del naso.
«M-Mala?» esclamò incredulo, mordendosi la lingua un attimo dopo.
In genere manteneva un tono molto distaccato e formale, esattamente come gli era stato insegnato alla scuola di commercio. Chiamare per nome i membri degli equipaggi non solo era poco professionale e poteva dare adito a dicerie su presunti favoritismi, ma in quel caso particolare era molto imbarazzante.
Un paio d’anni prima, Alfonso aveva accettato l’invito di un drappello di Avieri della Repubblica. Approfittando della giovane età, i militari avevano deciso di divertirsi alle sue spalle usando la scusa della cena per farlo ubriacare. Uscito dalla taverna praticamente sulle ginocchia, il ragazzo aveva barcollato per mezza città fino a raggiungere i pontili, da cui si era apertamente dichiarato alla navigatrice della Zenobia. Peccato avesse urlato i propri sentimenti all’aeronave sbagliata (un piccolo cargo prussiano maneggiato da ex-galeotti) mentre l’interessata scuoteva il capo quattro stalli più indietro. Non c’era un solo mercante tra quelli che facevano tappa a San Marino che non fosse a conoscenza del fattaccio.
«Che vi prende, Alfonso? Mai vista una donna in ghingheri?» lo stuzzicò, aprendo il parasole con tanta foga da rischiare di spezzarlo in due.
Immediatamente il giovane si riscosse, riposizionando gli occhiali sul naso senza però riuscire a nascondere l’espressione ebete.
«S-sì, ma… n-non… l-lei…» balbettò, fingendo di scribacchiare qualcosa sulla cartelletta che teneva in mano.
La sua goffaggine era esilarante e parecchio tenera.
«E?» insisté Mala.
«E… e…»
«Si spicci, ho fretta» lo incalzò, senza cattiveria.
«E… e c’è che… che le dona» ammise infine, la faccia che virava a un intenso cielo di ponente.
La donna aggiustò il cappellino e fece una smorfia civettuola mentre usciva dall’aviostazione.
Poteva immaginare il giovane che sospirava appoggiato al parapetto nel tentativo di calmarsi mentre teneva lo sguardo puntato sulla balza di pizzo che ondeggiava alla base della sua schiena.
Si divertiva a stuzzicarlo, ma solo perché sperava che se ne facesse una ragione e cercasse altrove l’altra metà del suo cuore. Dopo tutto, anche senza un anello al dito, lei era comunque una donna impegnata.
E poi, Alfonso era un bravo ragazzo, meritava di amare una donna con una vita più tranquilla di quella riservata a una commerciante dei cieli: dubitava che il suo cuore avrebbe retto alle lunghe attese prive di notizie.
Imboccò la discesa che passava accanto alla Cava dei Balestrieri, pregando di non infilare i tacchi nelle commessure del selciato. Voleva arrivare indenne al Convento.

1 Corporis ornatus: abbigliamento
2 Armada: è una citazione da “La città delle navi” di China Miéville.
3 Andanacirri: il nome -ovviamente inventato- deriva da due parole. L’andanatore è un attrezzo agricolo che viene usato per la raccolta del foraggio o di alcuni tipi di ortaggi (es. pomodori); i cirri sono nubi che si formano negli strati più alti dell’atmosfera.

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Capitolo 2
*** II - Mater et filia ***


II - Mater et filia
Aleena

II – Mater et filia1

Era arrivata in leggero anticipo, nonostante avesse perso tempo a rimirarsi in una vetrina nella Piazzetta del Titano, stentando quasi a riconoscersi. La sagoma a clessidra che normalmente il suo corpo sfoggiava era accentuata dalla rigida gabbia di stecche e lacci del corsetto che insisteva ad attentare alla sua respirazione.
«Chissà cosa dirà…» aveva mormorato mentre sistemava la coccarda sul capellino.
Più che alla figlia, il suo pensiero andava al padre di questa. Mala aveva tutta l’intenzione di mostrare quella sua nuova versione a Tancredi, a costo di farsi prendere in giro per il resto della vita.
Non si vedevano dall’estate precedente, quando per una manciata di giorni le rotte avevano concesso loro di riunirsi come una vera famiglia. In quelle occasioni tuttavia, c’era sempre un sottofondo lavorativo da cui non potevano liberarsi e che impediva loro d’azzardare slanci di quel tipo: la moda non era una priorità quando ci si trovava in navigazione tra le nubi o si contrattavano partite di merce nel suq di Damasco.
Nell’attesa che i grandi battenti si aprissero, Mala venne avvicinata da un’altra donna. Era Benedetta, la madre di Cristina, la migliore amica di Ester. Una donna allegra e loquace, sempre sorridente anche sotto una grandinata, abituata a lasciare i giudizi in un angolo. Non avrebbe potuto essere diversamente, dato che lavorava come donna di servizio presso uno dei più rinomati bordelli della Repubblica.
«Dodici anni. Ma ti rendi conto? Ieri gli davano la poppata e oggi succhiano al seno della vita» proclamò entusiasta, arricciando una ciocca bionda attorno all’indice.
Man mano che i capelli si attorcigliavano, la sua espressione cambiava, sfumando in un cupo avvilimento.
«Cielo, mi sento vecchia» sospirò, fingendo di cercare conforto appoggiandosi alla spalla della cartografa.
Mala tentò di ridere, emettendo poco più che qualche rantolo.
«T-ti prego… B-Be… nedetta… non far-rlo… non rie-sco» e indicò il corsetto boccheggiando.
Indispettita dal colore livido che stavano assumendo le labbra della navigatrice, Benedetta fece un piccolo passo indietro, quel tanto da permetterle d’infilarle una mano sotto la giacca senza che nessuno dei presenti la notasse. Sfilò un poco la camicetta e individuò svelta le asole incriminate.
«Oh, tesoro, ma chi diavolo te l’ha messo? Un fachiro?» allentando con movimenti esperti i lacci del busto.
«No… un dannatissimo mamba isterico» ansimò, sentendo finalmente l’aria tornare nei polmoni.
«Ah, il Capitano. Mi spiace, mia cara. Più di così non posso fare. Dovresti toglierti tutto e non penso proprio che questo sia il luogo adatto a certi spettacoli» si scusò, risistemando la giacca e la tornure di pizzo.
«Concordo, ma grazie comunque, Benedetta. Va già molto meglio» sorrise, tastando con circospezione il costato attraverso la stoffa rigida, in cerca di costole fratturate o fuori posto.
Aveva la strana impressione che il torace avesse preso una forma diversa.
«Guarda al lato positivo: la sua poca dimestichezza con la biancheria intima ti ha consentito di passare il tempo concentrandoti su qualcosa come il restare in vita per tua figlia, piuttosto che su altro».
«Vale a dire?»
Benedetta non ebbe modo di replicare: la risposta si palesò a pochi passi da loro.
C’era un gruppo di donne, in gran parte balie e servette, intente nell’ossequioso ascolto di una di loro.
«Sì, insomma, quello grande dicevo, adesso non so bene quale sia… comunque, quello lì, seguirà il suo desiderio e prenderà il posto di suo padre. Perché è questo che vogliamo e che vorrà anche lui, chiaro. Non potete capire quanto siamo orgogliosi, dubito che i vostri figli siano tanto giudiziosi. E le sorelle faranno ciò che vogliono anche loro, quando lo decideranno, perché intanto sono piccole. Oh, non mi ricordo esattamente quanti anni hanno… mi pare… sei? O nove? Sì, credo che quella di mezzo abbia nove anni. O dieci, qualcosa così. E la femmina piccola… ma ho anche una che non va a scuola? Oh, ma certo, certo che ce l’ho. La perla dei miei gioielli. Voi non potete capire! Lei ha… sette anni? Forse cinque. Ah, no, deve averne sei o sette, altrimenti non andrebbe a scuola. Lei certamente dovrà sposarsi con qualcuno d’importante, perché è così bella che sarebbe sprecata con un bottegaio qualunque. Almeno, io penso sia bella. Non saprei. Non l’ho mai guardata bene, ma sicuramente è così. Non potete capire quanto mi fa stare in ansia pensare di avere una figlia tanto bella. Chissà quanti hanno messo gli occhi sulla mia bambina! Non potete capire quanto sia orribile avere una figlia. E poi ci sono gli altri due maschietti, terribili e scansafatiche… ma perché ve lo dico? Voi non capite la mia situazione! Oh, è così difficile avere tanti figli! Ma è un dovere che le persone per bene devono fare, sono il simbolo di quello che siamo, devono renderci orgogliosi e ricambiare i sacrifici che facciamo per farli diventare qualcuno».
Mala inorridì a quelle parole, ma il monologo non era ancora finito.
«Per fortuna c’è il collegio, almeno le femmine stanno qui tutto il giorno. I maschi sono di là, nell’altra scuola vicino a San Francesco, perché non ce la farei proprio a gestirli da sola tutti quanti. Insomma sono… cinque? No… sei forse. Tanto non è che si paghi chissà che. No? Si paga? Ed è caro? Oh, queste cose io non le so, le sa mio marito. Penso, almeno. Non potrei mai lambiccarmi la testa in queste cose! Non si possono comprendere! E poi peggiorano solo la mia salute. Oh, ma perché mi è toccato tutto questo? Non ne ho abbastanza di tutto quello che già mi affligge? No, non dite nulla per consolarmi, vi prego, non potete capire! Voi non sapete cosa mi accade! Prendete oggi, per esempio: vestirmi perché dovevo per forza venire è stata una tortura. Oh! Sapeste che dolore alla schiena! E le braccia! Per non parlare delle caviglie… è un supplizio, non potete capire. E quelle inutili sguattere che non sanno fare altro che riempirmi di lividi mentre mi vestono. E non avete idea di che gusti orrendi abbiano! Devo dire sempre io che cosa desidero indossare! Se fosse per loro, quelle rare volte che la salute mi da un po’ di tregua per consentirmi di uscire, dovrei andarmene in giro combinata come una di loro! Devo fare tutto io! Io devo pensare a tutto, io che sono sempre afflitta da quell’orrenda emicrania… davvero, non potete capire!»
Mentre parlava, non guardava in faccia nessuno. Teneva gli occhi bassi o fissi su un punto imprecisato lungo le facciate dei palazzi, come se stesse recitando un copione con sé stessa.
«Se stai pensando: “questa ha le piume in testa”, sappi che sei in buona compagnia: lo dicono tutti qui».
In effetti, lo pensava davvero. Quelle ciance le avevano ricordato i discorsi dei suoi genitori, talmente ciechi e sordi da anteporre il prestigio della famiglia alla felicità della figlia. Non avevano mai tentato di capirla, di dimostrarle almeno un poco d’affetto. Ricordava quel ritornello applicato a ogni loro decisione “questo è tutto quello che hai sempre voluto” ma non c’era stata una volta in cui qualcuno le avesse domandato quali fossero i suoi sogni o le sue speranze.
«Ti dico solo che l’hanno soprannominata la Madonna del Pesce2» proseguì sottovoce Benedetta. «Non fa che lamentarsi, struggersi, soffrire, tutta pia e devota a nessuno sa cosa. Accusa tutti di non capirla, ma si spiega benissimo. Peccato che poi si contraddica sempre».
«Quindi, tutto quello che vuole è qualcuno che l’ammiri
Benedetta fece spallucce.
«Chissà. Forse soffre davvero. O forse non ha mai provato un solo dolore autentico in tutta la sua vita e prende male tutte quelle piccole cose che ci vengono servite giornalmente sul piatto della vita».
«Siamo poetiche?» domandò Mala, senza riuscire a nascondere una punta d’amarezza nella voce.
Udire quei discorsi l’aveva profondamente infastidita.
«Colpa del professor Casali. Ieri sera ho dovuto tenergli compagnia fin quando Dalloyau3 ha potuto riceverlo. Chissà perché, quando è con quella francesina, non parla di filosofia e pensatori morti…» scherzò.
«Ci sei tu ad ascoltarlo» la stuzzicò l’altra, poco convinta.
«Sentissi solo lui… non hai idea dei gorgheggi! A che serve andare all’opera quando si hanno tanti cantori tutti insieme? E mai due volte la stessa aria! Poi la gente parla schifata di un mestiere così… artistico!»
Abbandonarono il discorso, sentendo i grossi cardini stridere. Da dietro le porte eruppe una torma di ragazzini di varie età, accompagnati da scampanellii forsennati e vani richiami da parte delle religiose.
Una ragazzina si fece strada tra i gruppi di alunni vocianti, camminando composta nella divisa scura del collegio. I grandi occhi castani puntavano dritto avanti, forse un po’ troppo seri e decisi per la sua età, ma scintillanti per l’allegria trattenuta. I capelli bruni avevano una sfumatura tendente al rosso, appena accennata, identica a quella della donna dinanzi cui si fermò.
Si scambiarono una lunga occhiata, studiandosi a vicenda. Mala non aveva mai visto sua figlia con indosso la divisa del collegio, sobria e composta, né Ester aveva mai avuto occasione di vederla sfoggiare abiti eleganti, degni di una nobildonna.
«Madre» salutò educata, facendo un breve inchino.
«Ester» rispose lei, imitandola.
Ad entrambe scappava da ridere, ma sapevano di dover resistere fintanto che tra i presenti si fossero aggirate le consorelle a dispensare i resoconti dell’anno scolastico. A loro toccò l’onore di essere informate direttamente dalla Madre Superiora, una donna altissima, asciutta, il volto rugoso macchiato dalla vitiligine.
«Veste inconsueta la vostra, signora Fioritto» commentò, le labbra tese da una smorfia insolitamente ostile.
«Signorina Cortinovis, veramente» la redarguì mentalmente Mala.
Lei e Tancredi non erano sposati, o almeno, non lo erano secondo le leggi delle società terrestri. I riti matrimoniali di Armada non erano riconosciuti fuori dai suoi impalpabili confini: erano considerati poco più che mere pagliacciate o attacchi alle civilissime società di città, a seconda di chi commentava.
«Ester si è dimostrata una fanciulla dotata e ricettiva, rispettosa ed educata. Non ha mai mancato di aiutare i compagni in difficoltà e di prestare servizio alla Santa Messa. Ha voti molto buoni in ogni materia, esattamente come ci si aspetta da una delle nostre allieve. Ne siamo compiaciute».
«Lo sono anch’io, Madre».
Avrebbe voluto essere un’affermazione carica d’orgoglio, ma la voce di Mala aveva un tono interrogativo. Non capiva perché la suora fosse tanto indispettita. Non l’aveva mai trattata a quel modo, anche quando aveva accompagnato Ester calandosi nel cortile della scuola direttamente dal ponte della Zenobia.
Mentre la monaca si accomiatava con fare sbrigativo, Mala vide passare la Madonna del Pesce. La guardò allontanarsi con l’espressione svagata e affranta di chi non ha una sola, vera preoccupazione nella mente. I figli, appena arrivati con una bambinaia, scorrazzavano chiassosi risalendo la via con le sorelle inseguite da un’altra balia, mentre lei, sola, avanzava con passo stanco in direzione opposta, l’aria dolente e rassegnata al nulla. Così simile a quella di sua madre, anni addietro.
«Mamma?» chiamò impensierita Ester.
Lei si riscosse, rivolgendole un grande sorriso mentre la prendeva sotto braccio.
«Andiamo. La scuola è finita» e si avviarono verso l’aviostazione.
Salutarono a distanza Benedetta e Cristina, prese in disparte da un’altra monaca che pareva aver tutta l’intenzione di recitare con loro il Santo Rosario almeno un paio di volte.
Si nascosero in uno degli androni che passavano da parte a parte le basi delle case di Contrada Omerelli, lanciandosi l’una nelle braccia dell’altra, dimentiche del contegno richiesto dal Collegio.  
«Mamma! Mamma, mamma, mamma!»
«Tesoro! Tesoro, la mia Ester! Cieli e zefiri, quanto mi sei mancata!» singhiozzò Mala, sentendo il cuore stretto dalla sorpresa: la bambina che aveva salutato l’inverno precedente davanti alla scuola ora si stava trasformando in un’adolescente.
«Che te ne pare?» chiese, facendo una lenta giravolta per mostrarle l’abito.
Ester la esaminò a metà tra l’entusiasta e il critico, seguendola in strada e correndole intorno.
«Il pizzo! E le perline sulla borsetta! E… e quello!» trillò indicando il parasole.
«Manico in avorio e copertura in pizzo e seta. Non mi sono fatta mancare niente!» disse, ruotando piano l’ombrellino. «Allora? Qual è il responso?»
«Sei… sei strana! Se ti vedesse papà!» esclamò ridendo e improvvisando uno strano balletto.
«Strana? A me quella strana sembri tu. Che ti prende?» domandò perplessa, notando con quanta foga si agitasse e saltellasse.
Sembrava un automa con la condotta di alimentazione in sovraccarico o una scimmia ammaestrata. Per quanto fosse un tipo vivace, Ester non aveva mai amato prodursi in simili scene, proprio come suo padre.
«Possiamo alzare il passo, mamma?» domandò tutto d’un fiato.
Mala, di tutta risposta, si fermò, fissandola con enorme perplessità.
«Ma… come? E la nostra fetta di torta? Non la vuoi?» domandò, indicando la salita di fronte.
Era un rito che avevano istituito sin dal primo anno in cui Ester aveva cominciato a frequentare il Collegio delle Clarisse, sei anni prima. Ad ogni visita dei genitori, che fossero in coppia o uno alla volta, era d’obbligo una tappa in una piccola pasticceria lungo la Salita alla Rocca per mangiare insieme un dolce. Per Mala e Tancredi era uno dei tanti piccoli modi per chiedere perdono delle proprie assenze.
«Sì… sì, che la voglio. Però…» iniziò impacciata, guardando nervosamente attorno.
«Però? Ester, che c’è?»
«Mamma… questi vestiti…» disse, mordicchiandosi le labbra come se faticasse a trattenersi dal fare qualcosa di orribile.
La donna le fece cenno di proseguire, di spiegarsi, tuttavia la scolara era restia a parlare. Si strinse nelle braccia, passando una mano sul collo, strusciando un piede contro la caviglia, incapace di restare immobile persino con lo sguardo.
«Mi stanno facendo impazzire! Pizzicano!» sibilò infine esasperata, stringendo il braccio che avrebbe voluto grattare con forza. «Non so che ha fatto Coletta quando li ha lavati, ma non si possono portare! È dalla messa di stamattina che sembra che abbiamo le pulci tutti quanti! Padre Anselmo sembrava una biscia mentre ci dava la comunione!» piagnucolò.
Ed ecco anche spiegata la strana espressione della Madre Superiora: non la osservava con biasimo, stava morendo dalla voglia di grattarsi.
«Oh, beh, stando così le cose… al diavolo la torta!» esclamò, infilando il parasole sotto il braccio e sollevando la gonna quel tanto da sveltire la camminata. «Voglio levarmi questo coso di dosso prima di farlo a pezzi! Come diamine fanno queste matte? Vivono in apnea?»
«Secondo Cristina, sua madre respira solo di notte» ridacchiò ansiosa Ester, trotterellandole accanto.
«A me invece l’aria piace e voglio respirarla quando mi pare!»


1 Mater et filia: madre e figlia
2 nel libro “Iconologia” di Cesare Ripa, il pesce è fra gli attributi dell’ignoranza.
3 Dalloyau: è una rinomata pasticceria di Parigi, oltre che il nome di una delle sue torte con mandorle e meringa.

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Capitolo 3
*** III - In excelsis ***


III - In excelsis
Aleena
III – In excelsis1

«Meduse eoliche!» strillò eccitata Ester, saltellando e indicando l’ammasso di globi luccicanti che era salito a schermare il sole. «Delizia, le meduse! Le meduse!»
La cuoca emerse dal ventre della Zenobia per osservarle con attenzione. Era un donnone immenso, al punto da chiedersi come potesse stare tutta quanta nell’angusto spazio della cucina. La carnagione color zenzero era punteggiata dalle gocce del romesco2 che stava preparando e nella crocchia nerissima era infilato uno spiedo a mo’ di fermacapelli. Strinse gli occhi a mandorla fino a contornarli di rughe sottili, seguendo la direzione indicata dall’ospite.
«Oh, piccola, quelle non sono da zuppa. Servono quelle rosa, che sono appena nate e non hanno tentacoli velenosi. Quelle là sono grigie, sono adulte. Van bene da servire alla concorrenza. O a Farisa» scherzò.
«Ti ho sentita, brutta culona!» strillò il Comandante, sporgendosi dal castelletto di comando.
«Ehi! Modera i termini!»
«Perché? Sennò cosa mi fai? Mi copri di glassa per addolcirmi?»
«Yawa uoy evig sgniht elttil eht» minacciò, piantando gli enormi pugni sui fianchi.
«Nikatsim on eb… lliw ereht».
«Od I» replicò l’altra, sprezzante, incrociando le braccia sul petto.
All’udire quelle poche sillabe, Farisa perse il controllo e scavalcò la balaustrina con un salto.
«Uoy ot pu kool ylurt ot enoemos saw!» sbraitò, puntandole contro l’indice.
«Reappasid snoitareneg» replicò Delizia, posandole una mano sulla testa calva.
«Detnaw reve ev’uoy lla!» berciò furibonda, agitandosi come un tubo dell’olio rotto.
Le due si zittirono, volgendo lo sguardo su Ester che le squadrava a sua volta. Non avrebbero dovuto dimenticarsi che, nonostante trascorresse gran parte dell’anno a terra, Ester era nata nei cieli di Armada e capiva perfettamente la lingua di quel mondo sospeso, anche se non la parlava.
«Forse è meglio se vado dalla mamma. Se scopre che vi sento dire certe cose, siete nei guai. Ed io pure» fece la ragazzina, indicando la donna seduta a prua.
Mala alzò gli occhi dalle carte che stava tentando di leggere da quando avevano lasciato l’aviostazione di San Marino. Di solito erano il vento e le basse temperature ad alta quota a darle problemi, ma quel giorno, era l’immagine della Madonna del Pesce a infastidirla. Strinse la fibbia sul colletto della casacca, scacciando l’indolenza e la superficialità di quei discorsi dalla mente.
Guardò sua figlia che le andava incontro. Eccettuato per i capelli, la si sarebbe potuta scambiare per la sua copia in piccolo, soprattutto ora che aveva smesso la divisa scolastica. Indossava una giacca chiara fasciata di pelle sulle braccia e in vita, letteralmente ricoperta di tasche, che le arrivava poco sopra le ginocchia, e dei pantaloni neri di tela robusta - un cotone proveniente dalle colonie inglesi oltreoceano -. Ai piedi un paio di stivali senza tacco, stretti sul lato da un intreccio di lacci.
«Ehi, ti stanno bene. Temevo di aver sbagliato misura».
«Perché?» chiese lei, sedendole accanto.
«Ti ho trovata più cresciuta di quanto mi aspettassi» ammise. «Ti piacciono?»
Ester annuì con convinzione, sistemando i nodi delle stringhe. Vestita a quel modo si sentiva come Alina, la giovane piratessa dell’aria dei romanzi d’avventura che Cristina portava di nascosto nel dormitorio.
«Sì, tantissimo. E sono contenta che li hai presi senza fiocchetti e merletto. Sono una signorina, adesso» annunciò. «Per davvero» rimarcò con fare allusivo.
Il sorriso della donna si affievolì. Il lapis le sfuggì di mano, rotolando sul ponte.
«Cosa inte… aspetta. Stiamo parlando di…» e s’interruppe, studiandola con gli occhi spalancati per la sorpresa. «Parliamo del passaggio a diventare donna?»
Ester fece segno di sì con aria solenne e impacciata.
«Vuoi dire che…»
«Sì, mamma. Proprio quello».
Mala scrollò il capo sospirando e si stese sulla schiena con un braccio sugli occhi. Una ciocca, da cui pendeva un paio di sferette di vetro veneziano, sbatacchiò sull’assito.
«Che c’è, mamma?»
«Non ero lì con te» gemette.
«Beh, non è che avresti potuto fare chissà cosa…» replicò imbarazzata, stringendosi le ginocchia.
In quei momenti ricordava molto il padre, sempre restio ad approfondire le questioni più personali con chiunque.
«Lo so. Però è un momento particolare per una ragazza. Io avrei pagato qualsiasi cosa per avere vicino una persona che, non so… che mi dicesse che andava tutto bene, che non dovevo avere paura. Che il dolore sarebbe passato in un paio di giorni» disse, facendole una carezza in segno di scuse.
«Ma c’era Cristina. E anche Suor Celestina. Non ero da sola» obbiettò.
«Non è la stessa cosa, Ester. Io ero spaventata a morte. Nessuno mi aveva mai parlato di quel lato dell’essere donna. Pensavo di star per morire per i miei peccati come aveva annunciato tante volte mia madre, l’unica che avrebbe dovuto essermi d’aiuto e che non ha mai fatto altro che affossarmi».
«Perché dovevi morire per i tuoi peccati? La Madre Superiora dice che alla nostra età, il massimo dei peccati che si possono fare sono quelli di gola o di superbia. E per quelli mica si muore. Sono solo dieci Ave Maria e dieci Pater Noster» replicò con semplicità.
«Vedo che la Chiesa ha alleggerito le pene. Ai miei tempi erano venti per ciascuno e una decina di Actus contritionis… detestavo quella preghiera, era deprimente. Comunque, so che ti sarà difficile da credere, ma alla tua età ero tutto fuorché una brava bambina. O questo soprannome non me lo sarei meritato».
«Non te l’hanno dato ad Armada?»
«No» rispose, scuotendo il capo tintinnando. «È l’ultimo ricordo che ho della mia famiglia».
«L’hanno inventato gli zii?»
Ester non conosceva la famiglia di sua madre, se non attraverso i vaghi racconti suoi e di Suor Celestina, che era stata la sua insegnante di storia quando ancora frequentava la scuola. Sapeva che Mala era l’ultima di sei figli, tutti maschi. Il più grande di loro, lo zio Antonio, aveva nove anni più della sorella mentre zio Prisco, l’ultimo, ne aveva tre. Nel mezzo c’erano gli zii Giustino, Tiziano e Valerio. Secondo Mala erano cinque belve scatenate, capaci di buttar giù intere cinte murarie a mani nude solo per il gusto di far danno, ma Ester si domandava spesso come dovesse essere avere una famiglia tanto grande. Una vera famiglia, perché faticava a considerare gli equipaggi della Zenobia e del Turbinante come membri della sua.
«No. I nonni. Gli zii nemmeno mi chiamavano per nome. Proprio non esistevo per loro. Almeno finché non cominciavo a picchiarli» ridacchiò, allungando un paio di diretti a un avversario inesistente. «Guai a te se scopro che picchi i tuoi compagni. Tu non devi farlo, non ne hai bisogno».
«Ecco perché sai fare a pugni così bene» osservò Delizia dalla finestrella, rivolgendosi a Mala.
Di lei si scorgeva solo un occhio a mandorla, assottigliato da un sorriso.
«No, mamma, non picchio nessuno. Al massimo ho dato un libro in testa a Paola, ma di piatto. E piano. E l’ho fatto solo per difendermi» specificò con un sospiro annoiato.
In genere quelle rampogne erano appannaggio di suo padre, ma negli ultimi tempi ci si era messa anche lei. Proprio non capiva perché non si fidassero di quel che faceva al collegio. In fondo, erano stati loro a mandarcela.
«Tesoro, non hai idea di cosa voglia dire dover combattere con cinque maschi viziati e presuntuosi ogni giorno. I dispetti, le angherie,…  figuriamoci combattere sul serio per difendere la tua vita» la ammonì torva, ben sapendo che non avrebbe capito fino in fondo.
«Sì, sì, va bene, faccio la brava. Ma il soprannome che ti hanno dato i nonni?» riprese.
«Oh, di soprannomi veri e propri non me ne avevano dati. Di solito per identificarmi bastava trovare la parola giusta: malacreanza, malagrazia, malanimo, malalingua, malavoglia, malafede, malandrina, malasorte, malaugurio, malaventura. Ogni parola che cominciasse con “mala”. A tredici anni si aggiunse malafemmina, quando mio padre mi vide salutare – e ribadisco: salutare – un nostro vicino di casa che mi aveva praticamente vista nascere. Così, un po’ alla volta, di Malvina rimase solo la parte peggiore: Mala».
«Ma… erano davvero così cattivi i nonni?»
«Non erano cattivi. Solo troppo ottusi e pigri per cercare di capirmi» osservò stupita, scoprendo in quel momento di essersi fatta quell’idea.
«E per questo sei finita in collegio. Pensavano fossi cattiva e volevano darti una raddrizzata» ribadì.
«Sì, ma dopo quel saluto, mio padre pensò che fossi una disgraziata a tal punto che lo studio fosse solo uno spreco di tempo e denaro, perché nessuno avrebbe comunque voluta in moglie una svergognata come me, e decise che avrei dovuto farmi suora, visto che con loro stavo tanto bene» ridacchiò.
Ormai trovava la cosa divertente.
«Saresti andata bene come suora quanto me come membro di un harem!» ghignò Farisa, dondolandosi dal predellino sotto il pallone aerostatico.
«Però in convento non ci sei andata» proseguì Ester. «Suor Celestina dice sempre che averti fatto scappare dal collegio sarà stata pure una cosa brutta e che l’ha obbligata a lasciare Bergamo, ma che il Signore la perdonerà, perché sa di aver salvato un’anima. E poi, dice che San Marino le piace di più, perché è meno fredda d’inverno».
«Amen» concordò Mala, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso.
Ricordava ancora quella notte di vent’anni prima, quando le mani già ossute di Celestina l’avevano spinta oltre la porticina del muro di cinta, verso un vicolo buio ai piedi di Città Alta3. Sentiva le sue parole d’incoraggiamento, le indicazioni per raggiungere l’aviostazione di San Vigilio4, il freddo delle monete con cui la monaca aveva finanziato la sua fuga verso la città volante di Armada.
A Ester ora non interessava più conoscere ulteriori dettagli, ne aveva a sufficienza per fantasticare a volontà. La sua attenzione era rivolta all’abbigliamento della madre. Rivedendola nei suoi soliti vestiti da navigatrice la trovava più bella, più vera. Persino più giovane, nonostante le intemperie e la fatica avessero già segnato il suo viso.
«Sai che stavi benissimo prima? La madre di Miranda e Clara si veste sempre con quel tipo di abiti quando le accompagna a lezione. Lei è una cantante d’opera. Io però ti preferisco così» sentenziò abbracciandola. «Questa è la mamma che voglio, senza stecche e pizzi, ma con tanta ferraglia!»
«Insomma, preferisci un ingranaggio a una nuvoletta» ridacchiò Mala, contraccambiando la stretta.
«Quando finisco con la scuola, posso farmi i capelli come i tuoi?»
«Vedremo. Dipende dalla vita che sceglierai di costruirti».
Un’aeronave si era posizionata sopra la Zenobia, gettando una larga ombra sulla costa sottostante. Il brontolio torpido delle immense caldaie pioveva dall’alto, accompagnato dal ronzio cadenzato delle eliche.
Un tubo metallico scese dal mezzo, fendendo l’aria come un dito immerso in un bicchiere d’acqua.
Sul rivestimento si poteva leggere il nome del mezzo, dipinto in lettere bianche con una calligrafia semplice e precisa: Turbinante.
Uno sportello scivolò verso l’alto, spinto da pistoni a vapore che scaricarono nel vento sottili nubi di condensa.  Un uomo era aggrappato alla scaletta interna, cui era assicurato tramite una coppia di cavi. Una cicatrice saliva dal lato destro della mascella fin oltre l’attaccatura dei corti capelli scuri, diramandosi ai lati come una foresta di spine pallide, inquadrando l’occhio cieco.  Se non fosse sbucato dal condotto di sentina dell’aeronave, sarebbe stato facile scambiarlo per un pescatore, tanto la pelle era cotta dal sole.
Mise una mano alla fronte per ripararsi dal vento e dal riverbero del sole sugli ottoni della Zenobia.
«Ehilà, belle signorine! Vi va un po’ di compagnia?» salutò agitando il braccio destro, sostenuto da un marchingegno di metallo scuro.
Ester scattò in piedi con un enorme sorriso stampato in faccia.
«Papà!» gridò, raggiungendo di corsa il parapetto di sinistra.
«Farisa, rallenta a due e falli abbordare» gridò Mala, indicando le manette dei focolari.
«Cosa?! Quelli non ci mettono piede sulla mia Zenobia!»
«Ah, ci risiamo…» pianse la cartografa, aspettandosi l’ennesima lagna.
«Veramente è di tutte e tre!» ribadì Delizia, agitando un cucchiaio di legno dalla finestrella della cucina. «Io voto per l’abbordaggio. Se gli occhi non m’ingannano, nella cucina di Shara vedo delle rape e a me ne servirebbero un paio. Ehi, Shara! Shara! Avanti, fondo di tegame, retaw rednu xis dna!» strillò, infilando la testa nell’oblò lungo la fiancata.
«Faccio quello che mi pare! Non prendo ordini da voi due! Io sono il Capitano!» urlò l’altra, la testa lucida di sudore, dove cominciavano a intravedersi le vene gonfiarsi per l’isteria.
«Farisa, ti prego! Ti prego-ti prego-ti prego! Ti preeeeeeego!» pigolò Ester raggiungendola di corsa e saltellando aggrappata al suo braccio.
«Avanti, poche storie» ruggì Tancredi facendosi serio. «Il codice parla chiaro: se si è avvicinati da un’aeronave, a decidere dell’abbordaggio è il Capitano della più grande» e non c’era bisogno di porre l’accento chi fosse la persona in questione.
«Dai, Farisa, dai! Dai-dai-dai! Falli abbordare! Dai! Ti prego! Ti prego, Farisa! Dai!» piagnucolò Ester abbracciandola forte.
Farisa le scoccò un’occhiataccia inferocita, che avrebbe fatto battere in ritirata chiunque, ma non una ragazzina desiderosa di rivedere il padre dopo un anno di assenza.
«Oh, va bene! Basta che la smetti di strillare, gabbianella!»


1 In excelsis: in cielo.
2 Romesco: salsa spagnola a base di mandorle, pomodori, aglio, aceto e olio.
3 Città Alta: centro storico di Bergamo.
4 San Vigilio: rocca sovrastante Città Alta.

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Capitolo 4
*** IV - Lamina amoris ***


IV - Lamina amoris
Aleena
VI – Lamina amoris1

Gli equipaggi avevano raggiunto la loro meta da poco più di un’ora, con la Zenobia rimorchiata nella scia del Turbinante. Durante le quattro ore di tragitto, Ester aveva raccontato ai genitori dell’anno scolastico appena trascorso, interrompendosi di continuo per sapere dei loro viaggi o per cercare – e ottenere – quelle coccole che non aveva potuto ricevere.
La costa garganica era immersa negli ultimi sprazzi sanguigni del crepuscolo. La sagoma tozza e scrostata dalla salsedine di Torre Mileto2 si ergeva sopra i massi scuri, la piattaforma superiore coronata dalle sagome panciute del Turbinante e della Zenobia, che danzavano come due amanti capricciosi nella brezza. Un mare d’inchiostro rumoreggiava oltre lo sterrato ai piedi della torre rischiarata dai falò. Sparse tutt’intorno c’erano lunghe tavolate e focolari da cui s’innalzavano colonne di fumo odoroso di carne e legna, che si mescolava nel cielo col vapore dei motori in quiete.
Parole, rutti, richiami e risa si mescolavano al ritmo incalzante della pizzica e al tintinnare delle stoviglie che passavano di mano in mano, trasportando succulente specialità della campagna circostante. La festa del paese in cui Tancredi era nato era una gioia per ogni senso, eccettuato il buon senso di una persona.
«Levati di torno, prima che ti prenda a calci!» tuonò la voce del Capitano del Turbinante.
«Ma che ho fatto?» ghignò Rinaldo, perdendo un attimo dopo ogni briciola d’ilarità vedendo la mano dell’altro correre alla pistola appesa alla cintura.
«Dai, papà… lascialo stare» rise Ester, strattonandolo perché tornasse a sedere.
Non le piaceva vedere lo zio bistrattato da suo padre. Aveva sempre trovato lo zio Rinaldo molto divertente, un vero spasso. Sapeva farla ridere con un sacco di storie buffe, la faceva sognare con le sue canzoni d’amore e a volte la faceva spazientire come le sue compagne del collegio.
«Lo sai benissimo. Niente vino a Ester! E non fare quella faccia da innocente! Forse ti sei dimenticato che da quest’occhio ci vedo meglio di te e che quella roba lì non deve starci. Mai!» urlò additando la coppa incriminata. «E ora sparisci, prima di andare a far compagnia a questa!» ruggì Tancredi, brandendo un fascio di muscish’ka3 come un’arma da fuoco.
Al musico toccò battere in ritirata col tamburo sottobraccio, prima che la minaccia si concretizzasse.
«Papà, per farlo a strisce come quella dovevi usare il kris della mamma, non la pistola. Zack! Zack! Lo facevi a striscioline!» scherzò la ragazzina, sfoderando il pugnale dalla custodia.
«No. Ho giurato di non usarlo mai più» sbottò, prendendoglielo dalle mani e porgendolo alla donna.
«Ma… perché no?» chiese perplessa.
Raramente suo padre assumeva un tono di riprovazione tanto intenso.
«Perché ho quasi ucciso tua madre, con quello» disse semplicemente.
Ester sgranò gli occhi, sconvolta dalla notizia. Fin da piccola aveva sempre adorato quell’arma dalla lama sinuosa e lucente, sognando di brandirla contro i pirati dell’aria. Nessuno le aveva mai detto che dietro a quel metallo ci fosse un fatto tanto orribile. Anche se li aveva visti litigare furiosamente qualche volta, non riusciva ad immaginare suo padre che tentava di uccidere sua madre.
«U-uccisa? Perché?» domandò, squadrando alternativamente i genitori.
«Non guardarmi così! Non l’ho fatto con intenzione, è stato un incidente» ribadì l’uomo, evidentemente a disagio per l’espressione sgomenta della figlia.
«Che cosa è successo?» chiese lei, il volto tra le mani e i gomiti sul tavolo, in attesa di spiegazioni.
Spiazzato dall’improvviso interesse, Tancredi cercò sostegno nella compagna. Con suo stupore, la trovò nella medesima posizione della figlia, che gli sorrideva sorniona, imitata da Delizia, Farisa e alcuni membri del suo equipaggio.
«Sì, amore. Che cosa è successo?»
Parlare di merci, rotte, motori e tempistiche era un conto, raccontare la propria vita un altro. E lui trovava particolarmente odioso rivelare dettagli del proprio passato, specie davanti ad un pubblico tanto nutrito.
Sbuffando e roteando gli occhi spazientito, il Comandante si costrinse a raccontare.
All’epoca, lui era ufficiale in seconda su un cargo greco, l’Akropolis, e poteva vantare il rispetto di diversi altri equipaggi, dopo essere sopravvissuto a un violento attacco di predoni egiziani, pur avendoci rimesso l’occhio destro e la mobilità del braccio. Mala, dal canto suo, era salita a bordo da qualche mese e tentava di condividere la cabina assegnatale con uno dei tecnici di bordo: la già insopportabile Farisa.
Tra i due era emersa dapprima una naturale simpatia, che li aveva portati a tessere lunghe discussioni durante le notti di navigazione. Erano passati poi a frequentarsi anche durante gli scali a terra, finché il rapporto si era fatto più stretto, quasi ingestibile: bastava uno sguardo o un banale cenno per temere dicerie da parte dell’equipaggio. Nessuno di loro poteva rischiare di perdere il posto per un intermezzo amoroso con un altro membro dell’aeronave (cosa peraltro vietata dal regolamento di bordo e osteggiata in ogni modo dal Capitano Samartzidis), tuttavia, ignorarsi era impossibile.
Tancredi sorvolò deliberatamente sulla visione della giovane cartografa, che un giorno aveva sorpresa mezza nuda mentre fingeva di cambiarsi nella sua cabina, con la scusa di non poter accedere alla propria a causa di un litigio con il meccanico. Si limitò a tratteggiare un loro incontro fortuito, vagamente tenero e romantico, come sarebbe potuto piacere ad una ragazzina di dodici anni.
«Eravamo soli e, insomma, ci piacevamo. Così quel giorno la mamma mi guardò e mi disse…»
«Non vuoi raggiungermi, vero?» concluse lei, usando un tono più scherzoso e meno provocante di allora.
La porta era stata solo una misera difesa di quell’intimità illecita e nonostante ciò, le ore insieme non avevano fatto altro che susseguirsi, finché un giorno, mentre stavano abbracciati nel caldo soffocante della stanzetta, parlando sottovoce di progetti futuri e rotte appena percorse, un grido mandò in frantumi ogni cosa. Tancredi aveva fissato sgomento Mala che gli si aggrappava alle spalle boccheggiando. Abbassando lo sguardo in cerca del motivo di quell’urlo aveva scoperto con orrore il metallo del kris immerso nel fianco destro della donna. Il meccanismo di ritenuta aveva ceduto e la lama era scattata in avanti, trapassandola poco sopra il fianco. L’uomo aveva tentato di rinfoderare l’arma, ma a ogni tentativo le urla di Mala e il sangue che sgorgava copioso avevano dichiarato danni sempre maggiori. Così, ignorando la reciproca nudità e la certezza di essere scoperti, Tancredi si era risolto a chiedere aiuto. Per tutto il tempo che era occorso a trovare una soluzione, aveva tenuto la compagna stretta a sé perché non si muovesse, rischiando di aprire nuovi squarci. Era stato in quella posizione che li aveva soccorsi il medico.
«Per tre settimane rimasi in bilico tra la vita e la morte, stando al dottor Pintasilgo» raccontò Mala.
«Un idiota, piccolina, fidati. Un vero idiota. Meno male che è crepato di tisi» sbottò Farisa, masticando a bocca aperta un boccone di pane.
Tutti i presenti si voltarono verso di lei con aria di biasimo sia per l’interruzione sia per le parole dette: molti di loro erano passati dall’ambulatorio di Pintasilgo e lo stimavano per la sua capacità di curare ogni infortunio o malattia con i risicati mezzi disponibili sulla città volante.
«Idiota o no, ci mise del suo per non farmi precipitare oltre la murata di quest’aeronave. E ci riuscì» puntualizzò Mala, irritata.
Ripensò alle poche memorie che aveva di quei giorni fatti di febbre, sete e dolori lancinanti. E alle mani del medico, sempre pronte a richiudere la ferita quando un nuovo rivolo di sangue si faceva strada tra le bende o ad aprirla quando un accenno d’infezione sembrava dover mandare tutto a monte.
Ester la guardava con occhi sbarrati d’ansia, dimentica del fatto che se sua madre le stava parlando, significava che quei momenti erano passati.
«Devi sapere che il kris è tra le armi più micidiali al mondo proprio perché è così bello» intervenne Tancredi mostrandogliela. «La lama ondulata non è una scelta estetica. Crea ferite molto irregolari, che è quasi impossibile richiudere perfettamente. Pintasilgo fece un vero miracolo con tua madre».
La ragazzina osservò sbigottita la cicatrice che la donna indicava sul suo fianco, uno spesso grumo pallido e allungato, che lei chiamava fin da piccola “la limaccia”. L’aveva vista altre volte, senza prestarvi troppa attenzione, ma ora che ne conosceva la storia non poteva che immaginare il dolore, il sangue, la paura e tutto quello che aveva significato. Si sentiva un po’ intimorita e sciocca, per aver dato per scontato si trattasse di un banale incidente.
«Ti fa ancora male, mamma?»
«Solo quando cambia il tempo. O se papà mi fa arrabbiare» scherzò, massaggiando lo sfregio.
«Dice così per farmi sentire in colpa, ma sa perfettamente che non ci casco. Sta benissimo» ribatté l’uomo.
«Ah, davvero?» lo stuzzicò, sfoggiando un’espressione di grande sofferenza.
«Cos’è successo dopo, quando sei guarita?» intervenne Ester, troppo curiosa per lasciar perdere.
«Quando sono guarita? Beh, passato un mese, Pintasilgo alzò i tacchi, dicendo che ormai potevo arrangiarmi. Solo allora tuo padre mise il naso nella cabina. Non riusciva a spiccicare parola. Continuava a guardare la fasciatura e…»
«La fasciatura? Vorresti farci credere che eri lì, con le tette al vento – e non solo quelle -, e lui…» intervenne ancora Farisa, mentre con un dito rovistava nel carapace di una cicala di mare.
La sua capacità d’interrompere i discorsi altrui con quel genere di uscite era una delle piccole cose che Mala mal tollerava del suo Comandante. Specie se Ester era presente.
«Guardava la fasciatura» ripeté seccata, rigirando la lama tra le dita. «E se ne stava lì in silenzio…»
«A palparsi…» ciancicò.
«Farisa, apri la bocca un’altra volta e la Zenobia cambia guida!» la minacciò, puntandole il kris alla gola.
Tutt’altro che intimorita, il Capitano allontanò la lama con la punta delle dita.
«Ma smettila! Tanto lo sappiamo benissimo che non riuscite a evitare di…»
Nessuno seppe cosa stesse per dire, pur intuendolo: Delizia le aveva ficcato una costoletta in bocca prima che potesse aggiungere altre sconcezze alle precedenti.
«Tranquilla, tesoro. La faccio star zitta io. Tu finisci il racconto, Ester sta aspettando il gran finale» intervenne la cuoca, riempiendo a forza le fauci del Capitano con tutto il ben di dio che c’era sulla tavolata.
«Che cosa hai fatto?» insisté trepidante la ragazzina.
Dopo un profondo respiro per calmarsi, Mala proseguì.
«Gli ho sorriso e ho detto: “se questo è il tuo modo per dirmi che ti appartengo, e che piuttosto che sapermi di un altro preferisci farmi fuori, direi che sei stato chiarissimo”» disse, allungando la mano fino a intrecciare le dita con quelle del compagno.
Lo sguardo che passò tra i due la diceva lunga su quanto fossero stati duri quei momenti. Quanta ansia, pena e rabbia si fosse addensata nell’esiguo spazio tra la porta e il letto.
«E tu, papà? Cosa hai fatto quando la mamma ti ha detto così?»
Tancredi la guardò, notando quanto i lineamenti da bambina stessero tramutandosi in quelli di una giovane donna. Una giovanetta impicciona come sua madre, accidenti a lui. Se non fosse stato tanto abbronzato, probabilmente avrebbe mostrato un colorito da fuochista anche nella penombra del banchetto.
«Ho fatto rimuovere il kris con tutto il dispositivo e l’ho dato a tua madre, perché non accadesse più».
Le mostrò il tutore, indicando dove erano stati gli alloggiamenti delle molle e dei perni. In alcuni punti il metallo era stato levigato e spazzolato, in altri si scorgevano ancora dei solitari moncherini.
«Sì, ma prima?»
Ecco l’interrogativo che sperava di aver evitato.
«Prima?» domandò, fingendo di non capire.
«Prima di togliere il pugnale. Cos’hai fatto quando la mamma ti ha detto quelle cose?»
Aveva gli occhi dilatati dalla curiosità e dal romanticismo, era evidente. E lui detestava parlare di quella parte della storia: era troppo personale e sentimentale per essere raccontata in pubblico. Anche solo per accontentare sua figlia.
«Cosa avrei dovuto fare? Ho detto che mi dispiaceva e che dovevamo battere palmo a palmo ogni aviostazione di Armada in cerca di un imbarco, perché Samartzidis ci aveva sbarcati in via definitiva» sviò.
Non avrebbe mai potuto dimenticare le urla di disapprovazione di quella vecchia tartaruga: su dieci parole, tre erano articoli del codice di navigazione di Armada, una un versaccio a caso e le altre sei sonore bestemmie e imprecazioni. Persino il magistrato aeroportuale che aveva assistito alla scena era sbiancato per l’orrore e l’imbarazzo.
«E poi?»
«E poi cosa? La storia è tutta qui» tagliò corto.
«No, non può essere. Non ci credo. C’è qualcosa che non vuoi dirmi» obbiettò Ester sfoderando lo stesso sguardo indagatore che usava Mala durante le contrattazioni.
«Non c’è nient’altro da dire» affermò perentorio.
Indispettita, la ragazzina si volse verso la madre, insistendo perché le svelasse ogni cosa.
«Tuo padre ha ragione. Non c’è altro» concordò lei.
Preferì non accennare al fatto che, dopo le sue parole, Tancredi era crollato in ginocchio accanto al letto, piangendo di sollievo col volto nascosto contro le bende. Così come non disse nulla riguardo ai baci e alle carezze con cui il mercante l’aveva esaminata da capo a piedi, per assicurarsi che fosse davvero fuori pericolo; né volle accennare allo splendido esito di quell’analisi nove mesi più tardi e che in quel momento sedeva tra di loro, borbottando come una caldaia insoddisfatta.


1 Lamina amoris: lama d’amore
2 Torre Mileto: torre costiera di avvistamento e difesa, sita tra i laghi di Lesina e Varano.
3 Muscish’ka: strisce sottili di carne bovina essiccata con aglio, chiodi di garofano, sale e peperoncino.

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Capitolo 5
*** V - Minutae res ***


V - Minutae res
Aleena

V – Minutae res1

Ai piedi della torre, su un palchetto rialzato, Ester stava bevendo vino da una coppa allungatale di nascosto dallo zio. Assaggiava incerta il contenuto della coppa, sorridendo divertita al sileno dallo sguardo ammiccante e la carnagione olivastra che la incitava sottovoce.
La navigatrice assottigliò lo sguardo, dando di gomito al proprio compagno.
Si erano allontanati dalle tavolate ancora gremite di gente per accomodarsi su un grande mucchio di fieno dietro al quale s’indovinavano deboli nitriti, sbuffi bovini e gemiti soffocati. La mastodontica figura di Delizia campeggiava ai piedi di Torre Mileto, intenta a carpire i segreti della cucina locale. Farisa doveva aver trovato qualche sciagurato abbastanza brillo da essere trascinato fra le ombre della scogliera.
«Sai, vero, che stanotte ucciderò tuo fratello?» sibilò, lo sguardo furibondo fisso sulla scena.
Disteso sul fianco sinistro, Tancredi strizzò un seme di finocchio tra i denti, mascherando un moto di stizza.
«Mettiti in coda, vanto molti più crediti di te» rispose calmo, guardando nella stessa direzione.
«Io sono sua madre. Devo proteggerla!» sbottò, intingendo un pezzo di pane nell’olio rimasto sul fondo del piatto tra di loro.
«Ester non l’hai fatta da sola, posso esigere la mia parte di diritti genitoriali» le rammentò, addentando un torcinello2.
«Tu sei responsabile per quello scapestrato!» sbraitò, indicando il cognato che tracannava vino direttamente da un otre, sbrodolandosi sul petto e sulle gambe. «Venti e bonacce, guardalo! Dar da bere a una ragazzina! Quale adulto con un po’ di buon senso lo farebbe? Erehwyreve naeco na ekil».
«A maggior ragione, lo ammazzo io» decretò, chiudendo il discorso.
Mala si morse la lingua, tornando a sedere composta. Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui era riuscita a zittire il suo uomo. Riprese a mangiare con calma pezzi di carne arrostita, seguitando a tenere d’occhio il cognato, fortunatamente reso inoffensivo dal suo ruolo di musicista.
Attorno, la festa era un crescendo di risa sguaiate, richiami, bicchieri che sbattevano, schiocchi di legna, onde nascoste nel buio. Il divertimento saliva di livello man mano che il vino e il cibo scendevano nelle gole. E la pizzica che seguitava imperterrita a scandire il tempo di ogni gesto, strappando sorrisi anche a chi aveva la mente offuscata dal vapore di altri pensieri.
«Cos’è successo, questa mattina?» domandò a un tratto Tancredi.
«Nulla, perché?» rispose, piluccando distrattamente una ciotola di olive condite col finocchio selvatico.
«Ester mi ha detto che fissavi una donna. Non sapeva se la conoscessi o meno, però ha notato che avevi un’espressione strana. Diceva di non averti mai vista con una faccia del genere».
«Che faccia?»
«Non riusciva a trovare una definizione adatta. Diceva che sembravi arrabbiata, incattivita, ma anche triste. E ha detto anche che avete parlato della tua famiglia mentre venivate qui».
Lei fece un sorriso tirato, inghiottendo il boccone poco alla volta nella speranza di sottrarsi alla domanda. Non le andava proprio di parlare di quella donna, anche se il tarlo le girava in testa di continuo. Le tornava in mente il suo sguardo di assoluta sufficienza, i modi da matrona vissuta e saccente, l’illusorio scudo dell’insoddisfazione con cui si difendeva dal confronto con la realtà.
Inavvertitamente, strinse le dita sulla coppa fino a far sbiancare le nocche.
Tutto d’un tratto, il ritmo forsennato della pizzica aveva perso d’allegria e le risate della gente riecheggiavano lontane. Poteva quasi sentire le onde del mare sovrastare ogni cosa.
«Che faccia avevi, Mala?» insisté Tancredi, masticando lentamente.
«Ero invidiosa» confessò a denti stretti.
Tancredi soppesò la risposta accompagnandosi con un paio di sorsate, l’espressione da ingranaggio pronto alla rotazione.
Intanto la musica dei tamburelli aveva lasciato il posto alla voce lamentosa e struggente di una cantante, mentre sotto la torre tutti ascoltavano in silenzio. I falò allungavano a dismisura le ombre sulle magre sterpaglie e sulle mura sbrecciate.
«Invidiosa» ripeté assorto. «Perché? Cos’aveva di tanto speciale?»
Mala gettò indietro il capo, facendo tintinnare gli ornamenti fra i capelli. Di solito non aveva problemi nell’esporre i propri pensieri, eccezion fatta quando la facevano sentire sciocca. Come in quel momento.
«È fortunata e neppure se ne rende conto. Lei può vedere i suoi figli crescere giorno per giorno, può essere al loro fianco quando hanno bisogno di un consiglio, di un abbraccio… non deve interrogarsi ogni secondo della giornata se stiano bene, se siano felici, cosa stiano facendo… se sentano la sua mancanza…» spiegò, soffocando un singulto dietro una lunga sorsata di vino.
Tancredi le posò la mano cigolante sulla spalla. Quel dannato sostegno si faceva sentire sempre nei momenti più inopportuni.
«Malvina…» cominciò, ma fu subito interrotto.
«Non riesce a capire che grande fortuna abbia e delega ogni cosa ad altri» proseguì, la voce che s’induriva in un ringhio dentro alla coppa. «Non so cosa darei per stare vicino a Ester ogni santo giorno, per poterla aiutare quando ne ha bisogno, senza che debba attendere giorni o settimane in attesa di una risposta da quelle dannate onde radio! Vorrei poter essere più presente. Non voglio diventare come mia madre, non voglio allontanare nostra figlia».
Quel pensiero la tormentava dal mattino e quando aveva parlato con Ester non aveva fatto altro che peggiorare il suo senso d’inadeguatezza. Eppure, al di là del dispiacere, del vuoto nella vita della figlia, Mala aveva una certezza.
«Ho fatto una scelta, anni fa. Ho voluto staccarmi da terra per trovare me stessa e il mio destino. E ora, la vita che mi sono costruita e che desideravo mi tiene lontana dalla cosa più preziosa che ho. E quella… quella! Speerc retaw!» imprecò furibonda. «Dava tutto per scontato, riteneva che ogni cosa le fosse dovuta, al punto tale che nemmeno ricordava il nome dei figli e pretendeva le ubbidissero comunque, solo perché facesse bella figura! Li ha resi dei trofei da esibire per appagare il suo ego, per rispondere a quello che le hanno messo in testa e che ha accettato senza batter ciglio senza domandarsi se fosse giusto o sbagliato. O forse l’ha fatto, ma ha scelto di non voler conoscere la risposta. Troppo comodo starsene in bonaccia ad aspettare il traino. Serats ylpmis noitan a sa» commentò prima di intingere un altro pezzo di pane nell’olio.
Tancredi tacque riguardo al come fosse venuta a sapere dei dettagli: conosceva bene le capacità della sua donna d’ottenere informazioni tramite l’osservazione e l’ascolto dei discorsi altrui. Un metodo da investigatore e da mercante, necessario a carpire i segreti che potevano determinare l’esito di un affare.
«Perché te la prendi tanto? Nostra figlia è in gamba, sa cavarsela benissimo da sola. E poi, passa la maggior parte del tempo in un posto sicuro, non al nostro fianco, rischiando di farsi male o peggio. Abbiamo deciso insieme che avremmo cercato di proteggerla ed evitarle di correre pericoli per causa del nostro lavoro e per ora ci stiamo riuscendo. Anche se non stiamo vicino a Ester ogni giorno, sa che ci siamo e che i nostri pensieri sono sempre rivolti a lei. E che siamo sempre pronti ad aiutarla, in qualsiasi momento, in ogni modo ci sia possibile» la rassicurò.
«Mi fa rabbia lo stesso. Come si può sprecare un dono del genere?»
La sua voce era carica di amarezza, di parole non dette.
«Stai pensando di abbandonare?» le chiese, aggiustando l’imbottitura tra il tutore e il gomito.
Mala sospirò, esitando un istante mentre giocherellava con uno dei monili della sua chioma.
«No» ammise infine. «A terra morirei. Perderei il rispetto per me stessa e quello che ho ottenuto fino ad ora. I sacrifici fatti diventerebbero inutili e non li ho fatti solo per me stessa, ma soprattutto per Ester, per il suo futuro».
Tancredi la fissò a lungo, l’occhio cieco che pareva più severo di quello sano.
«Cosa c’è?»
«Lo sai» rispose con una smorfia eloquente.
«Oh, niar gnillihc» replicò Mala, stizzita, ma lui non aveva intenzione di far cadere il discorso.
«Non ci sei ancora riuscita» la rimproverò.
«Pensi che sia stato facile per me, lasciarmi tutto quanto alle spalle? Dimenticarmi ogni cosa, tutto quello che ho dovuto sopportare?» rimbrottò seccata, tracannando l’ultimo sorso di vino. «Il passato non si cancella mai del tutto, ci si può solo soffiare sopra per renderlo più evanescente, come fa il vento con le nuvole. Però, per quanto m’impegni, c’è sempre qualche brandello che sfugge all’alito del tempo. A volte ho come l’impressione di avere le scarpe piene di quei fastidiosi sassolini… hai presente?»
«No, perché non mi pongo la marea di problemi che ti fai tu. Non riesci a dimenticare, non riesci a smettere di dare importanza a fatti e persone che non ne hanno mai meritata. Ti ostini a rimuginare su cose insignificanti» spiegò Tancredi, allungandosi sul mucchio di fieno. «Io ho smesso da tempo. Se ho di fronte persone che mi rispettano e che dimostrano di meritare qualcosa da parte mia, allora sono ben disposto a concedere ciò che è opportuno nei loro riguardi. Se invece m’imbatto in disprezzo e gesti che mi indispettiscono, tanti saluti. Non si fanno affari con chi non ha di che pagare, né con chi scambia l’oro con la sabbia. Mi libero all’istante delle cianfrusaglie che mi danno noia e appesantiscono il mio navigare, anche quando sfiorano soltanto i miei piedi. Pazienza se un giorno mi ritroverò ad avere poche persone attorno, saprò che sono quelle giuste. Saranno quelle che si sono guadagnate il mio rispetto e la mia stima, quelle su cui saprò di poter contare. Quando sarai riuscita a farlo anche tu, tutte quelle piccole cose che avrai dato via non ti tormenteranno più, non getteranno ombre sul tuo presente e riuscirai a vederle per ciò che sono: solo piccole cose passate e inutili».
Mala osservò per diversi minuti il suo uomo, meditando sulle parole appena dette. Non era la prima volta che ne parlavano, così come non era la prima volta che lui la riprendeva per quell’atteggiamento. Aveva l’impressione che dell'acqua entrasse attraverso le finestre della sua mente e del suo cuore, ribollendo sulle scale della sua storia personale, quasi avesse l’intento di lavare via quelle piccole cose – come le aveva chiamate lui – per ripulirle dagli anni di acredine in cui le aveva lasciate macerare.
Dopo tutto, era solo colpa sua se non scioglieva completamente quelle catene: aveva la chiave per aprirle, ma si rifiutava di usarla, temendo, suo malgrado, che una volta aperte queste l’avrebbero privata dello stimolo ad andare avanti. Era scappata dal collegio per dimostrare di essere più forte del male ricevuto, e per farlo si era aggrappata all’odio sommesso che si portava dentro, anche se ridotto al lumicino.
Che motivo aveva ora, di tener vivo quel legame? Perché insistere, quando non ne aveva più motivo? Le persone che popolavano il suo passato non avrebbero visto chi era divenuta, ciò che aveva realizzato con le sue forze e i suoi sogni. Non avrebbero potuto scorgere il futuro e cambiare idea in quei giorni lontani, per darle ciò che le avevano negato.
Ora aveva mille altri motivi per essere orgogliosa delle scelte fatte. Ed il primo, il più grande e bello, quello attorno a cui ruotavano le sue scelte di ogni giorno, era lì, su quell’aia, che ballava la pizzica agitando un drappo di seta scarlatta. Rideva, saltellava, seguiva il gruppo di ragazzine al centro delle danze. Vederla così felice le riempiva il cuore d’orgoglio: niente al mondo era paragonabile a sua figlia.
O al suo uomo. Lui ed il modo che aveva di farle sublimare ogni goccia di ansia e rabbia, facendole gocciolare fuori del motore della sua anima. Lui, che pur senza ammetterlo apertamente, condivideva il suo desiderio di riunire la loro famiglia, di cancellare le distanze che abitualmente li costringevano ad aspettare che il vento portasse a ciascuno la voce dell’altro.
Mala gli sorrise, gli occhi nuovamente sereni. Non aveva bisogno di un astio vecchio come le pietre della torre per dimostrare quanto valeva. Perché non se ne era resa conto prima?
«E adesso non ci saranno errori» mormorò, prendendolo per mano.
Lui avrebbe voluto rispondere, ma si accorse che stava parlando a sé stessa. Le allungò il calice ormai vuoto.
«Pensa a qualcosa di più interessante. Ad esempio a riempire questo: ho sete» scherzò.
«Posso?» cinguettò Ester, comparendo dal nulla e buttandosi a corpo morto tra i genitori che fecero appena in tempo ad afferrare i piatti per evitare che ci finisse sopra.
«Ci siamo date alla pazza gioia, eh?» la canzonò severa la madre, notando il rossore sulle guance.
Se suo cognato aveva mancato di un soffio la condanna a morte, era solo perché Ester li aveva raggiunti sana e salva.
«Anche tu» protestò lei, mettendosi a sedere e abbracciando il padre.
«Io sono solo un po’ allegra, tu hai già abbondantemente passato il limite imposto alle signorine per bene».
«Io reggo benissimo il vino! Quello che ci passa Suor Celestina dopo messa è più forte di questo qui. E ne bevo anche di più!» obbiettò, tornando ad appoggiarsi contro il petto di Tancredi.
«Suor Celestina… cosa?» domandò l’uomo, colto alla sprovvista dalla rivelazione.
«Ci da il vino della Messa!» ripeté intontita. «E poi, anche mamma lo beveva. L’ha detto Suor Celestina».
Ecco come l’unico collegamento tra la sua infanzia e quella di sua figlia fosse diventato un problema. Altro che pia donna: era una santa sputata fuori dall’Inferno!
«Un piccolo segreto del collegio» si schermì Mala, facendo una smorfia colpevole e addolorata.
«Piccolo segreto? E quelli grossi quali erano?»
La donna fece spallucce roteando gli occhi come chi aveva una colpa da tacere, la ragazzina invece si mise seduta a fatica, ondeggiando e con i capelli bruni arruffati.
«Il segreto grosso è che io e Cristina nel turibolo ci abbiamo messo il granoturco. L’altare tuuutto pieno di palline biaaanche che scoppiavano… pah! Pah! Pah! Padre Anselmo urlava che gli angioletti stavano facendo la cacca…» biascicò Ester, sbadigliando e lasciandosi cadere all’indietro sul fieno imitata da Mala.
«Non vuoi raggiungerci, vero?» chiesero in coro, tendendo entrambe una mano.
Sfoggiavano un sorriso talmente tenero e perfido che Tancredi, mentre si stendeva e le prendeva fra le braccia, non poté fare a meno di pensare a quanto le sue donne fossero simili.


1 Minutae res: piccole cose
2 Torcinello: specialità tipica della provincia di Foggia. Potremmo definirlo una sorta di involtino fatto con budello di agnello, farcito con pezzi di interiora (fegato, polmone, cuore).

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