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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Capitolo uno - Meet Elettra *** Capitolo 2: *** Capitolo due - Meet Christian *** Capitolo 3: *** Capitolo tre - Tell me about yourself *** Capitolo 4: *** Capitolo quattro - Departure *** Capitolo 5: *** Capitolo cinque - Miami *** Capitolo 6: *** Capitolo sei - Meet Duke *** Capitolo 7: *** Capitolo sette - Slamming doors *** Capitolo 8: *** Capitolo otto - What the hell are you doing? *** Capitolo 9: *** Capitolo nove - The moth *** Capitolo 10: *** Capitolo dieci - You're a dream to me *** Capitolo 11: *** Capitolo undici - Collision *** Capitolo 12: *** Capitolo dodici - Born to run *** Capitolo 13: *** Capitolo tredici - Fainted *** Capitolo 14: *** Capitolo quattordici - Whatever it takes *** Capitolo 15: *** Capitolo quindici - Tangled *** Capitolo 16: *** Capitolo sedici - Begin again *** Capitolo 17: *** Capitolo diciassette - Daylight ***
«Si informano i passeggeri del volo
Alitalia G3279 per Miami che ci sono dei ritardi a causa del maltempo. A breve
sarà comunicato il nuovo orario di partenza. Grazie per la pazienza.»
No, per favore.
Mi lascio cadere su una
sedia con un sospiro esasperato, imprecando a voce non tanto bassa. Non è
possibile, davvero. Avrò una qualche fattura addosso che riguarda i voli aerei.
«È il suo?»
Una voce interrompe i
miei borbottii e dopo qualche secondo mi volto per capire se quella voce ce
l’ha con me. Pare di sì. Una donna sulla cinquantina con un paio di occhiali da
vista poggiati sulla punta del naso è seduta due posti più in là e sposta lo
sguardo da me al Marie Claire che sta sfogliando.
«Prego?»
«È il suo volo?» Ripete
lei, con gentilezza.
«Purtroppo sì.» Annuisco
con uno sbuffo. «Anche il suo?» Mi costringo a domandare, anche se non ho
proprio voglia di fare conversazione. Già d’abitudine mi infastidiscono le
chiacchierate di circostanza, figuriamoci in un momento come questo.
«No, il mio è stato già
rimandato a domani.» Replica lei, portandosi un dito alla bocca per inumidirlo
leggermente. Gira la pagina del giornale e mi guarda, forse per cogliere la mia
espressione a metà tra lo sconcertato e l’incredulo. Ora ricordo di aver
sentito circa dieci minuti fa un annuncio riguardante un volo per l’Australia
che era stato rimandato per un malore del pilota. Ma non dovrebbero esserci i
piloti di riserva? Come può una compagnia così importante perdersi per la
cagarella di un pilota? Se proprio non avete i soldi per pagarne un altro
mettetegli un tappo e fatelo partire, magari nella stratosfera la pressione gli
crea l’effetto sottovuoto. O, male che vada, come disse un ingegnere, saranno “schizzi
di merda da tutte le parti”! Che sarà mai?
«Come mai viaggia per
Miami? Lavoro? Piacere?» La signora insiste. Che faccio, invento una scusa e
vado via o le faccio (mal)educatamente capire che forse dovrebbe farsi un pelo
gli affaracci suoi?
Perché sei così poco disponibile ai rapporti umani, Elettra?
«Che ci fa lei ancora
qui se il suo volo è stato rimandato a domani?» Okay, forse mi è uscita un
pochino male. Però non si può dire che non ci abbia provato. La signora sgrana
appena gli occhi e schiude la boccuccia contratta, sorpresa dal mio tono poco
socievole. Poi torna a leggere il giornale e borbotta qualcosa su suo marito
che è andato a prendere la macchina. Fine della conversazione con la signora. Pace.
«Mi scusi?» Neanche due
secondi dopo, una ragazza mi piomba alle spalle tutta trafelata, con due
borsoni enormi a tracolla e documenti vari tra le mani. «Scusa, sai per caso se
il volo per Miami è partito già?!» Ma cos’ho scritto in fronte, Infopoint? Non
sono neanche lontanamente vestita come le hostess di terra, che qualcuno
potrebbe confondermi. Faccio schioccare la lingua per mostrare almeno un due
per cento del fastidio che mi sta dando questa ragazza col suo respiro
affannato e gli occhi spiritati e poi scuoto la testa.
«No, non è partito. Devo
prendere anch’io quel volo ma c’è stato un ritardo, non si sa di quanto.»
«Oh, cazzo, cazzo, no!»
Neanche il tempo di pregare perché non si segga vicino a me – sembra un tipo
molto loquace – che la vedo sparire alla volta di un vero punto informazioni,
poco distante da dove sono ora. Vedo che discute animatamente con la signorina
in blu, che cerca invano di calmarla. Per un attimo mi fa tenerezza. Chissà
cos’avrà da fare di così urgente a Miami. Forse è una ballerina, il che
spiegherebbe i borsoni. Forse ha un provino in una delle migliori compagnie di
danza della Florida e se lo supera diventerà la nuova SvetlanaZakharova.
Mh.
Ma, onestamente… chissenefrega.
***
Due ore e molti caffè
dopo, sono ancora qui.
Tra parentesi tutte le
caffetterie degli aeroporti dovrebbero essere denunciate per furto. Un caffè
espresso con uno sputo di schiuma TRE EURO E VENTI! Ma non te ne vai da
Starbucks e ti prendi un frappuccino con doppia panna? Tra volo e bevanda ti
viene a costare meno, quasi. Ho osato solo guardare una bottiglia d’acqua da
mezzo litro e per poco non versavo lo sputo di schiuma a terra. Infimi succhiasangue.
Torno a guardare il
tabellone dei voli – che non sapevo esistesse anche in Italia – e il mio sguardo
cade sempre sulla scritta “DELAY” che compare accanto al numero del mio volo da
troppo tempo. Quasi quasi preparo una bella lettera di reclamo, magari propongo
anche degli ottimi antidiarroici per la cagarella dei piloti, tanto non ho
niente da fare. Tra l’altro questo trolley mi sta iniziando a stancare. Comodo
un emerito ca…volo
– mi sono ripromessa di non dire più parolacce, vero Ele? Ecco, da brava – devo
denunciare anche la Samsonite. Il commesso mi aveva detto che può fare più
chilometri di una Ferrari senza scalfirsi di mezzo millimetro, e invece queste
ruote della mi…seria – accidenti,
però una sana parolaccia a volte rende proprio bene il concetto, no? – già
stanno iniziando ad incepparsi. Questo viaggio si sta rivelando proprio
fortunato, insomma. Si sapeva. Puòmaiandarmibenequalcosa?
#I’m at a payphone
trying to call home all of my change I spent on you#
Eh, Adam, che figo che
sei. Sospiro – purtroppo è solo il mio cellulare che squilla – e faccio
scorrere il dito sul display del mio Galaxy per
rispondere.
«Eva?»
«Ele! Tutto a posto? Ma
non sei partita?»
«Evidentemente no, se ti
sto rispondendo.»
Per niente scalfita
dalla mia risposta sarcastica – dopotutto ci è abituata – mia sorella riprende
a parlare immediatamente: «Era una domanda retorica, in effetti. Ho letto su
internet che ci sono ritardi ovunque, pare che ci sia maltempo…»
«A meno che non sia
Katrina che si vendica con un altro uragano, non vedo perché non farci partire
lo stesso. Che sarà mai un po’ di pioggia? Com’è possibile che ci sia il
nuvolone di Fantozzi su tutta l’America?!»
«Parli proprio tu che ti
fai sotto ogni volta che prendi l’aereo. Per favore. Non fare la sbruffona con
chi ti conosce come i propri calzini, toppe e buchi inclusi. Il tuo calzino ha
un buco sull’alluce enorme come quello della Befana, ed è la paura di volare.
Quindi ringrazia. E non sbuffare. Ho fatto la rima e sono più bella di prima.»
«Ma…» Eva è l’unica che
riesce a zittirmi. Davvero. Ed è anche l’unica persona che sopporto sulla
faccia della terra, il che è tutto dire.
«E comunque non hai da
prendere nessuna pillola a Miami, ti ricordo.»
«Ma tu non sei a lavoro?
Non hai qualche vita da salvare? Qualche emorroide da impomatare?» Se c’è una
cosa per la quale potrei prenderla in giro tutta la vita è il suo lavoro di
infermiera, con tutti gli annessi e connessi scomodi e schifosi del caso.
«La tua, se continui a
bere caffè come sono sicura starai facendo già da un po’ troppo.»
«Guarda, al massimo mi
viene una diarrea.» E siamo sempre lì, agli antidiarroici per il pilota.
«E non- uo- dare- gno-»
La voce di Eva si sente a tratti. Mi sposto per trovare un punto migliore per
il segnale, e mi porto due dita all’orecchio per cercare di ascoltare la
risposta di mia sorella; sto per chiederle di ripetere quando vengo
praticamente alzata in aria da qualcuno che correva con i paraocchi.
«STRONZO, guarda dove
metti i piedi!» Scusate, ma quando ci vuole ci vuole. Mi massaggio il sedere
che è stato il primo ad atterrare sul pavimento e recupero il cellulare che
nella caduta mi è scivolato di mano. Se non funziona glielo faccio mangiare,
digerire, espellere e comprare nuovo! No, okay, funziona. La linea però è
caduta definitivamente.
«Oddio, scusami! Scusa,
sono scivolato!» Un giovane uomo con occhi azzurri e capelli scuri mi si para
davanti, tendendomi le mani per aiutarmi a rimettermi in piedi. Lo ignoro e mi
alzo da sola.
«Sei scivolato? A quanto
andavi, Alonso?» Questi pavimenti sono talmente ruvidi che nemmeno con venti
passate di cera diventerebbero scivolosi.
Lui mi sorride
impacciato e si scusa di nuovo. «Ti sei fatta male?»
«No, sfracellarmi sul
pavimento è il mio passatempo preferito, ormai ci ho fatto il callo.» Gli
rivolgo un sorriso tirato e mi chino per raccogliere il trolley. La botta l’ho
presa eccome, emerito imbecille. Mi uscirà anche un bel livido.
«Permettimi di offrirti
un caffè, per farmi perdonare.» Avevo ripreso a camminare col cellulare
all’orecchio per richiamare Eva, ma la sua mano sulla spalla mi costringe a
fermarmi. Noto il velo di barba, lo sguardo sicuro di sé, le labbra carnose.
«Non bevo caffè, mi
dispiace.» Mi volto prima che il mio naso arrivi a Miami, e mi dirigo verso un
punto informazioni per sapere quand’è che si decideranno a farci partire.
«Allora un tè, una
camomilla, una coca-cola?» Oddio, ma quanto ti ci vuole per riconoscere i segnali
di un chiaro e semplice rifiuto? Il ragazzo mi riappare davanti, e stavolta non
nascondo uno sbuffo scocciato.
«Sto per azzopparti col
mio bagaglio e lo farò sembrare un incidente. Decidi tu se vuoi offrirmi
qualche altra cosa.» Gli sorrido, serafica. Lui aggrotta la fronte e scuote la
testa, probabilmente pensando che io sia appena uscita dalla Carica dei 101 – e
non nel ruolo di Anita – e poi, finalmente, alza i tacchi e scompare.
Tu hai qualche serio problema.
No, è lui che ha un
problema. Io sono perfettamente normale.
Mi avvicino a una delle
hostess di terra dietro al banco e prendo un bel respiro. Conta fino a dieci e
non dire la prima cosa che ti passa per la testa.
Uno, due, tre…
«Mi dica.» Dice la
ragazza, con un sorriso cordiale.
Quattro, cinque, sei…
«Qualche problema?» QUALCHE PROBLEMA? Ho metà sangue e metà
caffeina in corpo, tu non vuoi
davvero chiedermi se c’è qualche problema.
Sette, otto, nove…
«Secondo lei faccio
prima a prendere il brevetto come pilota e offrirmi per il volo diretto a
Miami, o riusciremo a partire entro la prossima fumata bianca?» Okay, poteva
andare peggio.
La ragazza impallidisce
e digita veloce qualcosa sul computer.
«Le faccio subito sapere
qualcosa…» Mentre controlla, mi lancia occhiate impaurite alle quali rispondo
con la massima indifferenza. Poi si morde il labbro e si schiarisce la gola.
«Il server è stato appena aggiornato, il suo volo per Miami partirà domattina
alle nove.» In quel preciso istante, la voce metallica e gracchiante annuncia
dagli altoparlanti la stessa cosa. «Alitalia mette a disposizione una camera
d’albergo per i passeggeri e si scusa per il disagio.» Prosegue la giovane
donna, leggendo la frase così com’è scritta sul suo computer. Poi mi porge un
foglio fresco di stampa sul quale è riportato il nome dell’hotel e la
prenotazione a nome mio. «Mi dispiace.» Mi dice, con un sorriso di
comprensione.
«Certo, posso solo
immaginare quanto.» Rispondo ironica, e vado via.
***
Sospiro, provata, e mi
butto a peso morto sul letto, affondando la testa tra i cuscini.
Mmh, sono morbidi.
Devo farmi una doccia.
Sì, solo cinque minuti…
Mi alzo, controvoglia, e
mi avvio ciabattando verso il bagno. Mi sfilo i vestiti con una pseudo-velocità
dettata più che altro dalla frustrazione di essermi alzata da quel comodissimo
letto e apro l’acqua. Ma l’acqua non scende.
Siamo ancora sul letto, baby.
Ohhhh. Mi capita sempre.
Penso di aver fatto una cosa e invece la sto solo sognando a occhi… beh,
chiusi.
Okay, ora mi alzo. Il
mio alter ego interiore – che in questo momento ha assunto le sembianze di un
bradipo – sbuffa e si strofina gli occhi. Stavolta nel bagno ci entro davvero,
mi svesto alla bene e meglio, lasciando cadere distrattamente sul pavimento quello
che indosso, e rabbrividisco appena per il contatto con la ceramica gelida
della doccia sotto i piedi. L’acqua fresca mi risveglia appena dal torpore, e
porta via un po’ di sonno. Sbadiglio. Quando esco, avvolta da un asciugamano di
spugna rosa pallido, faccio una smorfia. Non c’è un tappeto e non ho messo nulla
per simularne uno, per cui si è formata una piccola pozza d’acqua ai miei
piedi. Pazienza, qualcosa dovranno pur fare quelli delle pulizie, no?
Canticchio una canzone
dei Nickelback mentre, nuda, frugo nella valigia alla
ricerca del pigiama. Vorrei stare il più comoda possibile, penso, mentre tasto
il morbidissimo pigiama di Intimissimi
di cotone lilla e bianco. Purtroppo però in questa camera fa un caldo infernale
e non mi va di accendere l’aria condizionata, che sicuramente si paga a parte –
che tirchi, quelli dell’Alitalia! – quindi opto per quello marcato Victoria’s Secret, un regalo di laurea, di satin
nero. Un po’ meno comodo dell’altro ma sicuramente freschissimo, dato che
praticamente copre soltanto lo stretto necessario e poco altro. Lego i capelli
in una treccia veloce e finalmente accontento la me-bradipo che anela il
contatto con quei cuscini dal primo momento in cui li ha visti.
Ahhh… relax.
Oh, no, devo lavarmi i
denti. E ho anche lasciato il cellulare in bagno. Due ottimi motivi per rialzarmi.
Mi dispiace, Siddina,
mormoro al mio alter ego, che mi manda allegramente – anzi, non tanto – a quel
paese. Recupero il beauty-case dalla valigia e ne tiro fuori spazzolino e
dentifricio. Torno a canticchiare, stavolta sono gli Hoobastank.
Come sono melodrammatica stasera. Davvero nel mio stile, essere masochista e
ascoltare o cantare canzoni tristi quando già l’umore è quello che è. Alitalia
del cacchio. Mpf… Beh, se non altro si può dire che non mi aspettavo di essere
trasferita in albergo per l’attesa, anche se potevano sempre scegliere di
meglio, perché la- oddio. Cos’è stato quel rumore?
Sembrava la porta della
camera. Tendo l’orecchio per capire se mi sono impressionata e sento la porta
che si chiude. Oh, merda. Cerco con lo sguardo un oggetto che almeno dia solo
l’impressione di essere pericoloso e non trovo di meglio della pinzetta per le
ciglia.
Ah certo, se è un ladro o un qualsiasi altro malintenzionato
si fermerà, vedendoti puntargli addosso quella.
Esco titubante dal bagno
nascondendo la pinzetta nel pugno stretto e mi blocco, vedendo un tizio fermo
al centro della stanza con due borsoni, che fissa la mia valigia sul letto con
un’espressione a dir poco confusa.
Okay, definisci meglio la parola ‘tizio’, Elettra. Credo che
chi ti legga ne abbia bisogno.
Il ‘tizio’ è un uomo
sulla trentina, con una giacca di pelle nera e un paio di occhi disarmanti.
Hai dimenticato i capelli biondo scuro che gli incorniciano
il viso squadrato e forte, le spalle larghe e decisamente muscolose, le labbra sottili
increspate in un sorriso, nonché la sua stessa presenza che riempie
la stanza e crea una strana tensione...
Ah, bene. Grazie per
averci fornito maggiori dettagli. Ma sono sicura che questo non risolverà il
problema creatosi, né dissolverà nel nulla la domanda che mi lampeggia in
testa, e cioè CHE DIAMINE CI FA QUESTO TIZIO NELLA MIA STANZA?!
~ Note
Orbene, bella gente. Non credevo di farlo
prima della prossima era glaciale, ma pare proprio che invece io stia per
cliccare su “pubblica una storia”. Se state leggendo, in effetti, l’ho già
fatto.
Non ho molto da dire, se non che di tutte
le storie che ho scritto – incluse quelle che non pubblicherò mai – questa è
quella a cui tengo di più. Non so bene perché, forse perché Elettra mi somiglia
più di quanto io voglia ammettere – dunque mi odierete profondamente, sì – o
forse perché sono innamorata persa del tizio che è appena piombato nella camera
della protagonista, come se lo conoscessi davvero. Intendo proprio il
personaggio, non l’attore che ho scelto per dargli un volto (anche se il caro
Hemsworth non mi è affatto indifferente).
Insomma, ci terrei a sapere il vostro
parere. Grazie in anticipo per aver letto, e spero di pubblicare presto il
secondo capitolo. Dipende tutto da voi. Intanto vi lascio un piccolo spoiler,
un assaggino.
«Stai
dicendo che sono una pazza isterica?» Chiedo, e mi rendo conto di essere passata
al tu anch’io. Pazienza. Ci adattiamo alla maleducazione.
«Pazza
non credo, isterica direi di sì. Esagerata anche, un tantino. Io non avrei
reagito così al posto tuo.»
«E io
non sarei mai entrata nella camera di un altro, non avrei mai poggiato le
valigie a terra, non mi sarei spogliata e non me ne starei mezza nuda
sull’uscio della porta del bagno! DI UN
ALTRO!»
E vi ricordo, per chi mi conosce già, o vi
informo, per chi mi sta leggendo per la prima volta – fuggite, sciocchi! – del
mio gruppo su Facebook, per spoiler, domande, critiche, scleri e tanto altro.
«Ci dev’essere un
errore.» Ah, ecco, lui. Perspicace, il ragazzo, devo ammetterlo.
«Decisamente.» Rispondo,
e mi accorgo troppo tardi di essere suonata abbastanza acidella. Vedo che
controlla la scheda magnetica che ha in mano, quella che apre la porta della
camera, e poi distoglie subito lo sguardo puntandolo nel mio. «Non credo siano
passe-partout. Il numero è quello, 815.» Mi mostra le tre cifre dorate incise
sulla scheda.
«Certo, ma come vede la
stanza è occupata. Quante copie hanno della stessa scheda?» Ricordo di averne
viste almeno tre, in effetti, in ognuno dei piccoli scomparti retrostanti il
bancone della reception. Lui alza le spalle e poggia i borsoni sul pavimento.
Che ha intenzione di fare?
«Il concierge mi ha
detto che erano appena finite le stanze, ma non avevo capito che avessero
iniziato a distribuire i clienti nelle stanze già occupate.» Cosa? Cosa vuole
dire, che ha intenzione di dormire qui?
«Guardi, dev’esserci
sicuramente un errore. L’albergo è enorme, non credo proprio che…»
«Anche tu dovevi essere
su un volo Alitalia a quest’ora? Anzi, probabilmente già saresti dovuta
atterrare, come me, giusto?» Primo, come si permette di darmi del tu? Avremo
anche la stessa età, o quasi, ma ciò non toglie che siamo due estranei. E io
sono una donna! Questo tizio già mi irrita. Secondo, cos’è che mi ha chiesto?
Ah, sì.
«Sì, ma non capisco cosa
c’entri questo con-»
«C’entra. Hai idea di
quanti voli sono stati rimandati oggi?» Dice, mentre si siede con tranquillità
sul letto e inizia a sfilarsi le scarpe eleganti. Ma, ma… ma… che crede, di
stare a casa sua?!
«Sì, quasi tutti, ma ci
sono tanti altri-»
«L’Alitalia non è
conosciuta per il suo essere larga di maniche.» E come mi infastidiscono le
persone che mi interrompono mentre parlo! AAAHHHH!
Ora, tra parentesi, si
sta togliendo la giacca, scoprendo una maglia bianca con lo scollo a V non
troppo profondo, che rivela però un tratto di pelle chiara del petto. E una
sottile collana d’argento.
Ma che sto facendo, mi
perdo nei dettagli?
Senza perdermi in
chiacchiere – o in pensieri, che è lo stesso, se non peggio – mi fiondo sul
telefono del comodino dal lato mio del letto – lato mio? Ma che dico, tutto il letto
è mio! – e alzo la cornetta, espirando rumorosamente dalle narici.
«Che stai facendo?»
Chiede lui, mentre si abbassa sui talloni per aprire la cerniera laterale di
uno dei due borsoni.
«Cosa le sembra? Sto
chiamando la reception.» Replico, alzando gli occhi al cielo, seccata all’inverosimile.
Lui non risponde, ma gli passa sulle labbra l’ombra di un sorriso che ha tutta
l’aria di essere sarcastico.
«Mi dica...» Risponde svelto
qualcuno all’altro capo del telefono. «…signorina Wayne, giusto?»
«Sì, giusto! Lei è
arrivato direttamente al punto.» Dico, un po’ sorpresa dal fatto che abbia
subito collegato la telefonata al numero dell’interno e poi al mio nome in così
pochi secondi. «Ha appena pronunciato il mio cognome, quindi questo cosa vuol
dire?» Chiedo, stizzita. Il tipo dall’altro lato mugugna qualcosa, forse un po’
spiazzato dalla mia domanda. In effetti, anche a me è suonata un tantino
strana.
«Glielo dico io. Che la
stanza è prenotata a MIO nome, ergo sono IO a doverne usufruire, giusto?»
«Ehm… suppongo di sì,
signorina.» Mormora lui, poco convinto.
«E allora potreste gentilmente spiegarmi cosa diamine ci fa
quest’uomo NEL MIO LETTO?!»
Non ti sembra di esagerare un pochino?
No, vaffanculo, ormai è
diventata una questione di principio. E voglio che questo zotico irriverente si
tolga quel dannatissimo sorrisetto ironico dal viso. Ma chi si crede di essere?
«Un attimo che
controllo.» Risponde il concierge, concitato. Sembra di stare al telefono con
la Telecom. Vediamo di risolvere questo “guasto”.
«C’è stato un mix-up coi nomi, signorina Wayne. Può
confermarmi che l’“uomo nel suo letto” è Christian Wayne?» Che diamine ne so
io. Non si è neanche presentato.
«Lei è Christian Wayne?»
Gli chiedo, voltandomi a guardarlo. Deglutisco appena nel vederlo di nuovo in
piedi, imponente nella sua t-shirt bianca, jeans scuri e piedi nudi.
«Sissignora, sono io.»
Dice, sorridendo di sbieco. «Quello è il bagno?» Indica la porta socchiusa con
un cenno del capo. Annuisco. «Posso andare o hai intenzione di accoltellarmi con
quella?» Ora sta puntando lo sguardo sulla pinzetta che ho ancora tra le mani.
Avvampo, posandola sul comodino con uno scatto nervoso. Lui ridacchia e si
chiude in bagno. Mentre sto per chiedere spiegazioni al tipo della hall, lui
riapre la porta e tira fuori la testa, fissandomi divertito. «Ehi, c’è una
perdita in bagno o hai annaffiato il pavimento volontariamente?» Okay, ora è davvero
troppo.
Aggancio la cornetta
alla bene e meglio, fregandomene di chi mi stava aspettando all’altro capo e
vado verso il bagno con la pinzetta tra le mani. Lui indietreggia appena e apre
del tutto la porta, rivelando il suo stato di parziale nudità, dalla vita in
su.
Oh, Gesù. Io mi calmerei un attimo, se fossi in te. Li hai
visti quei bicipiti, vero? Questo ti spezza con uno schiocco di quelle
splendide dita!
In effetti mi sono un
po’ persa tra il pettorale e la leggera peluria per niente fastidiosa ai miei
occhi, stranamente, che amo gli uomini depilati. Deglutisco a vuoto e torno a
puntargli la pinzetta sul naso.
«Tu… non mi conosci.»
Dico, cercando di apparire minacciosa.
Lui non si scalfisce per
niente. Incrocia le braccia al petto – oddio, quei bicipiti! – e alza un
sopracciglio.
«Non credo di perdermi
molto. A meno che tu non asserisca il contrario…» Fa una pausa voluta, e
aspettando che io gli dica il mio nome, percorre il mio corpo con lo sguardo.
Voglio morire. No, voglio ucciderlo.
«Elettra.» Dico in un
lampo, e lui fa un’espressione quasi compiaciuta, aggrottando la fronte e
piegando gli angoli delle labbra all’ingiù. «Caspita, bel nome. Si addice alla
tua personalità.»
Sì, ma non era questo il
punto. Perché non mi lascia sfogare in pace? Ho perso il filo del discorso. E
poi che c’entra questo con la mia personalità?!
Lui sembra leggermi nel
pensiero. «Elettra e elettricità derivano dalla stessa parola
greca, elektron, che significa ambra.
I primi fenomeni elettrostatici vennero scoperti proprio grazie a questa.»
«Stai dicendo che sono
una pazza isterica?» Chiedo, e mi rendo conto di essere passata al tu anch’io. Pazienza. Ci adattiamo alla
maleducazione.
«Pazza non credo,
isterica direi di sì. Esagerata anche, un tantino. Io non avrei reagito così al
posto tuo.»
«E io non sarei mai
entrata nella camera di un altro, non avrei mai poggiato le valigie a terra, non
mi sarei spogliata e non me ne starei mezza
nuda sull’uscio della porta del bagno! DI UN ALTRO!» Sbotto, alzando un po’ la voce. Christian socchiude
leggermente le palpebre, e fa scorrere lo sguardo su di me, soffermandosi sulle
labbra, sul collo, sul seno, sulla pancia…
«Di questo non posso
dire che non mi perderei molto.»
Non arrossire, non
arrossire, NON ARROSSIRE.
Maledizione!
«Ho davvero bisogno di
una doccia.» Dice, prendendo atto del mio mutismo, conseguenza naturale di ciò
che mi ha appena detto. «Quindi vado. Se vuoi restare qui a guardarmi con
l’aria di chi ha appena visto Freddie Mercury
passeggiare in mutande per le strade di Roma fai pure.» Aggiunge, e inizia a
sbottonarsi il jeans. Quando tira giù la cerniera afferro la maniglia della
porta con uno scatto fulmineo e me la chiudo alle spalle. Ho gli occhi sbarrati
e l’espressione di chi ha visto Christian Wayne in mutande in un albergo di
Roma. Il mio cuore riprende a battere normalmente solo dopo qualche secondo. Il
mio alter ego interiore, Violet – che è anche il mio secondo nome – sta pulendo
i litri di bava con uno sguardo deliziosamente perso nel vuoto. E vagamente
ninfomane.
Mi siedo sul letto e
cerco di pensare lucidamente. Nemmeno il tempo di iniziare a mettere a posto i
neuroni che qualcuno bussa alla porta. Vado ad aprire e mi trovo davanti il
concierge.
«Ah, signorina Wayne.
Pensavo fosse successo qualcosa. Non riuscivo a richiamarla.» Mi volto a
guardare il telefono e noto che la cornetta è fuori posto. Ops.
«Come avrà capito, c’è stato
un errore a causa dei vostri cognomi uguali, e in più abbiamo già un
sovraffollamento di fondo. Ora stiamo per così dire “smistando” i nuovi che
arrivano in altri alberghi della nostra catena, che però sono più lontani
dall’aeroporto, quindi comporteranno più disagi. Mi scuso a nome dell’hotel per
l’inconveniente, se volete provvedo a una nuova sistemazione per il signor
Wayne in uno degli alberghi fuori zona.» Conclude, accorato. Mi mordo il labbro
dall’interno, questo tizio mi fa pena. L’errore, o “mix-up”, come l’ha chiamato
prima, è comprensibile. Non accettabile, ma comprensibile. Espiro, pensando a
cosa fare. Lancio uno sguardo alla porta del bagno e sento il rumore dell’acqua
che scorre sotto la doccia. Che faccio, lo mando via? Ormai si è fatto anche la
doccia. Dopotutto, si tratta di una notte soltanto. Chiudo gli occhi per un
istante, cercando di controllare il nervosismo crescente, e quando li riapro
accenno un sorriso all’uomo davanti a me, che aspetta irrequieto una mia
risposta.
«Non fa niente, grazie
lo stesso. Si può avere la cena in camera?» So che di solito non si può, negli
alberghi, specialmente quando hanno ben due sale apposite per la ristorazione,
ma ho il sospetto che il nostro inconveniente
ci dia libero accesso a molte cose altrimenti inaccessibili.
«Ehm, certo, signorina.
La cena sarà servita alle otto in punto.» Risponde sollevato lui, si profonde
in un piccolo inchino e si dilegua celere lungo il corridoio.
Ottimo.
Quando torno dentro, mi
trovo davanti l’uomo che ha invaso la mia stanza coperto solo da un asciugamano
avvolto sui fianchi. Fortunatamente ha preso quello grande. Inspiro
profondamente, cercando di far tornare in sé – o meglio, in me – l’Elettra che
sono sempre stata, e che ora è nascosta da qualche parte. O probabilmente, si è
congiunta con Violet, che nuota allegramente nella bava facendo vistose piroette
e tuffi con triplo salto mortale.
«Se non sei ancora
intenzionata a pugnalarmi con la pinzetta, non è che potresti prestarmela?»
Christian interrompe ancora il silenzio, e io gli rivolgo uno sguardo
interrogativo. Non vorrà farsi le sopracciglia, vero? Impallidisco al solo
pensiero. Violet ha la mascella a terra e la libido sotto i piedi. Mi avvicino
a lui e gli guardo di sfuggita le sopracciglia. Si vede che ogni tanto qualcuno
gliele sfoltisce, ma senza ombra di dubbio sono le sopracciglia di un uomo. Il
mio alter ego tira un sospiro di sollievo e si fa aria con la mano per lo
spavento.
«Non devo farmi le
sopracciglia, Elettra. Ho una scheggia di qualcosa, forse legno, nel dito.» Mi
mostra l’indice, e noto la zona rossa attorno a un puntino marrone sul
polpastrello.
«Mmmh…»
Faccio una smorfia di dolore, come se ce l’avessi io, e gli passo la pinzetta.
Lui la prende e si siede sul letto. Osservo il suo volto accigliato mentre si
concentra sulla scheggia, tenendo la pinzetta nella mano sinistra. A meno che
non sia mancino, non deve essere per niente semplice estrarla con l’altra mano.
Vedo che espira lentamente, forse per stare calmo. Io avrei già iniziato a sbraitare.
Improvvisamente mi sento la bocca secca, quando vedo che si passa la lingua
sulle labbra, molto lentamente. Probabilmente un gesto istintivo che dimostra
concentrazione e dedizione alla causa. Vedo che stringe la pinzetta e tira, ma
senza risultati. Espira di nuovo, stavolta emettendo un suono simile a un
ringhio. Si sta innervosendo.
«Vuoi…
una mano?» Gli chiedo, d’istinto. Mi sono trovata anch’io un paio di volte
nella sua situazione, quando da piccola andavo a fare delle gite con la mia
famiglia. È fastidiosissimo, specialmente quando provi a togliere la scheggia
ma non ci riesci. La zona si gonfia e fa un male cane!
Christian alza lo
sguardo, a metà tra il sorpreso e il riconoscente. «Grazie.»
Mi avvicino al letto e
mi siedo alla sua sinistra. Lui si gira col corpo verso di me e nel farlo
l’asciugamano si allarga scoprendogli la parte alta di una gamba, poco sopra il
ginocchio. Oh, mio Dio. Non voglio guardare.
Guarda quella gamba! È…è… una colonna! Signore Onnipotente!
Sarò sicuramente
diventata bordeaux come le lenzuola. Queste sono reazioni che non posso
controllare.
Mi faccio coraggio e gli
prendo la mano, che lui mi offre gentilmente. Con la mano sinistra si appoggia
al letto, rivelando dei muscoli delle braccia che non sapevo neanche esistessero.
Eppure non sembra Schwarzenegger, con muscoli schifosi dappertutto. Ogni
movimento ne scopre uno diverso, e non è mai troppo.
Sì, però ora concentrati sul suo dito.
«Dunque…» Gli alzo
leggermente il dito e delicatamente sfioro il polpastrello col mio, per capire
quanto esce fuori la punta della scheggia. «Non è entrata troppo dentro, sei
fortunato. Ti fa male?» Gli chiedo, sovrappensiero.
«È fastidioso.» Replica
lui, sistemandosi meglio sul letto. Non oso guardare l’asciugamano. Ma
purtroppo ce l’ho a qualcosa come cinquanta centimetri dal naso, perfettamente
in prospettiva con la mano che gli sto tenendo, quindi anche volendo è
impossibile non guardare. Non sono una macchina fotografica che riesce a
sfocare lo sfondo!
«Devo vestirmi?» Quando
le sue parole mi giungono alle orecchie, non so esattamente se iniziare a
scavare per raggiungere i miei amici cinesi o prendere la pala e suonargliela semplicemente
in testa.
«Ma sei sempre così
sfrontato?» Gli chiedo, sincera e allibita. Lui sembra vagamente spiazzato
dalla domanda, ma solo per una frazione di secondo. Si ricompone subito e
sfodera il suo mezzo sorriso senza togliere quell’azzurro intenso dai miei
occhi.
«Di solito sì. E tu sei sempre così puritana?» Non credo
alle mie orecchie. Io, puritana?! Ma… ma…
«Solo con gli
sconosciuti che mi piombano in camera e non si presentano e mi danno del tu
senza permesso e si fanno la doccia come se stessero a casa loro e si
permettono anche di prendermi in giro sulle mie reazioni!» Replico, piccata, ma
in fondo divertita. Appena finisco di parlare, tiro la pinzetta e riesco a
estrarre la scheggia.
Lui ridacchia, si guarda
il dito con ammirazione e poi guarda me: «Va bene, hai ragione. Ricominciamo. Salve,
io sono Christian. Posso darle del tu?» Dice, come se stesse parlando a una
bambina delicata e fragile. Io alzo gli occhi al cielo e stringo la sua mano
appena guarita.
«Ciao Christian, io sono
Elettra. Sì, possiamo darci del tu.» Dopo la stretta di mano lui mi sorride, ma
ha sempre quell’espressione come se stesse perennemente per prendermi in giro.
«Ora è meglio che mi
metta qualcosa addosso, o ti si brucerà il… pigiama… per autocombustione.»
Mormora, guardando curioso il completo di Victoria’s Secret, che ora rimpiango
tantissimo di aver indossato. Mi sento nuda. E, anche se non lo ammetterò mai
ad alta voce, ha ragione, sto per andare a fuoco.
…e avevo ragione
anch’io, mi ha presa in giro per l’ennesima volta.
***
Mentre Christian si ritira in bagno per
vestirsi, io guardo la mia valigia con la coda dell’occhio, valutando se sia il
caso di mettermi qualcos’altro. Almeno l’altro pigiama. Anche se suderei come
la Sfinge.
«Ecco fatto. Così va
meglio?» La voce di Christian interrompe tutte le mie congetture e mi porta a
guardarlo.
«Ah, certo. Quello
sarebbe il tuo concetto di vestirsi?» Indico i pantaloncini del pigiama e… beh,
nient’altro.
Lo vedo, STAI SBAVANDO! Inutile nasconderlo!
«Ho detto che mi sarei
messo qualcosa addosso, non che mi sarei vestito.» Dice, riponendo il
deodorante in una tasca interna della valigia. «Hai per caso un asciugacapelli?
Quello dell’albergo fa ridere.»
Ah, già. Non vi avevo
detto che ha ancora i capelli umidi.
Non devi trascurare questi dettagli! Blatera Violet seduta su un letto a gambe aperte pronta per
essere violentata.
In effetti, il contrasto
tra le ciocche bagnate – e quindi più scure – che gli cadono sulla fronte e gli
occhi è qualcosa di indescrivibile.
«Sì, l’ho messo in uno
dei ripiani dell’armadio.» Glielo indico. «Ma non fa troppo caldo?» Dico con
una smorfia, soffrendo per lui al solo pensiero dell’aria bollente sulla pelle.
«Quando li porto così
lunghi se non li asciugo almeno un po’ mi viene il mal di testa, il novanta per
cento delle volte… e divento molto
irritabile con un mal di testa del genere.»
«Diventi?» Gli chiedo,
con un sorriso interiore pari solo a quello dello Stregatto e il mio fido
sopracciglio alzato. Lui, come al solito, replica con un mezzo ghigno e mi
guarda dritta negli occhi.
«Non hai idea di come
posso diventare, Elettra.»
Sembra di stare in un
film. Il mio coinquilino-per-una-notte si è trasformato in Edward Cullen
vestito da Thor. Vuole fare il tenebroso del cavolo. Ma per favore.
«Beata ignoranza!» Dico
ironica, e mi giro a pancia sotto sul letto, mentre accendo il laptop per
controllare la posta. Sento il rumore dell’asciugacapelli che si aziona e per
un attimo mi sembra di essere tornata a casa: io sul letto a studiare ed Eva a
prepararsi in bagno per una delle sue serate in discoteca.
Un trillo mi avverte
della ricezione di un messaggio su Skype. Apro la finestra, rivelando il volto
sorridente di Anne, mia cugina, e di suo marito Cooper, immortalati nel mare
cristallino delle Canarie.
AnneCuginastra,
come stai? Ho saputo del delay!
Elettra
Più
sfigata non si può, eh?
AnneQuando
hai il nuovo volo?
Elettra
Domani
mattina alle 9:00. Spero di svegliarmi in tempo. Mi verranno le crisi isteriche.
AnneMetti
la sveglia cinque o sei ore prima.
Elettra
Scherzavo.
Fortunatamente – o sfortunatamente – non ce ne sarà bisogno.
AnneSei
in camera col pilota? Hahaha.
Elettra
No.
Sono in camera col dio greco dei muscoli e delle battute sarcastiche che è sul
mio stesso volo.
AnneSEI
IN CAMERA CON UN UOMO? TU?!
Elettra
Perché,
sono allergica al testosterone e non lo sapevo?
AnneAd
ogni tipo di contatto umano e relazione sociale, specialmente coi portatori
sani di testosterone, sì. Dev’essere proprio bello questo tipo, per non averti fatto mettere sottosopra un intero albergo!
Elettra
Ragazzi,
ma che opinione avete di me? Ora sto davvero iniziando a domandarmelo!
AnneL’opinione
di una che all’università si armò di coltello e cacciavite per bucare la ruota
alla segretaria che aveva osato mettere un suo compagno di corso nella stessa
camera. E le stanze erano separate!
Elettra
Ma a
quello puzzava l’alito! E poi quella segretaria la odiavano tutti, non diciamo
scemenze.
AnneAhhh,
sei incredibile.
Elettra
Lo
so. Ora devo proprio andare. Il dio del tuono, qui, ha finito di asciugarsi i
capelli.
AnneNon
so se augurarti di fare la brava o meno.
Elettra
Ma
per chi mi hai presa?!
AnneFammi
sapere se e quando ti deciderai a togliere le vesti della befana e a indossare
quelle di Catwoman. A domani.
Elettra
Spero
che a Cooper caschi il pisello. A domani.
Chiudo il laptop e lo
ripongo sul comodino. Adone è in piedi di fronte allo specchio, apparentemente
controllandosi il velo di barba che gli scurisce le guance. Quando ha
constatato che è tutto a posto, si volta verso di me, seduta sul letto a gambe
incrociate. Guarda l’orologio. Sono quasi le otto.
«Che vuoi fare?» Mi
domanda, all’improvviso.
Alzo un sopracciglio,
vagamente imbarazzata.
Tu imbarazzata!
No, è che mi ha colto
alla sprovvista.
«Niente. Che dobbiamo
fare?»
Stavolta ad alzare il
sopracciglio è lui, ma sono sicura che io non avevo quel sorriso malizioso
dipinto in volto.
«Qualcosa da fare si
trova sempre.»
Alzo gli occhi al cielo
e gli tiro un cuscino in faccia. Che schifo di mira. Osservo il cuscino
rimbalzargli contro il petto e cadere con un tonfo – sicuramente beato – a terra.
Lui segue il mio sguardo e poi lo rialza, incrociando i miei occhi, con
un’espressione a metà tra il divertito e l’infastidito.
«E ora, precisamente,
come vorresti essere punita per questo?» Lo vedo avanzare minaccioso verso di
me. Il materasso si abbassa sotto il peso del suo ginocchio e senza che possa
rendermene conto mi ha afferrato una caviglia e mi sta trascinando verso il
bordo del letto come se fossi una trapunta.
Ohhh, questo sì che è eccitante!
Taci, VIOLET! Questo lo
conosco sì e no da mezz’ora!
E in mezz’ora ti ha messa KO e si è quasi spogliato davanti
a te. Precisiamo.
Quando arrivo a toccare
col sedere il bordo del letto, e cerco di indovinare la sua prossima mossa,
terrorizzata e a un passo dall’urlare come Tina Turner in pieno acuto, si sente
bussare alla porta.
Oh, grazie al cielo! La
cena.
~ Note
Secondo capitolo di questa emozionante
storia! Ha-ha, come mi faccio ridere.
Che dire, questa volta? Innanzitutto,
grazie per l’accoglienza e grazie a
chi ha recensito e inserito nei preferiti/seguite/da ricordare.
E così, Christian Wayne ha fatto il suo
ingresso in tutto il suo libidinoso splendore di maschio alfa, e devo dire che
il presta volto Hemsworth mi ha reso le cose molto più facili, in questo. È in
suo onore che Mr Wayne si chiama Christian, ci tengo a dirlo. Poi mi paghi per
la pubblicità, Hem. In natura, ovviamente.
Con questo capitolo anche il titolo di
questa storia ha un suo perché, e un ringraziamento va ad Anna (Aine Walsh su Efp) per aver contribuito
al ‘parto’. Ti ho ripagata bene, facendoti sposare Cooper, vè? (L)
Non ci sono altre note particolari da
portare alla vostra attenzione (tranne un "non fate caso alla formattazione del testo della conversazione su Skype, ma Word a volte non collabora"), per cui vi lascio con un brevissimo spoiler del
prossimo capitolo.
«Le
minacce non hanno mai portato da nessuna parte, signorina Wayne.»
E quella
fu la mia fine.
Come sempre, nel gruppo Fb trovate altri
spoiler, news sulla storia e vari ed eventuali simpaticissimi deliri
dell’autrice e delle sue adorabili affezionate.
Capitolo 3 *** Capitolo tre - Tell me about yourself ***
Mi riapproprio della mia caviglia con uno
strattone e scivolo dal letto come una murena, sfuggendo alla sua mano che
tenta di riacciuffarmi. Apro la porta e mi trovo davanti un cameriere, vestito
di tutto punto, con un carrello pieno di pietanze distribuite su due ripiani. Christian
appare dietro di me e il cameriere, vedendo lui mezzo nudo e me altrettanto,
arrossisce fino alle estremità del cravattino.
«S-spero di non aver
interrotto nulla. La cena è servita. Buon appetito.» Mormora velocemente, poi
spinge il carrello verso di noi e con un piccolo inchino si congeda a passo
svelto.
Chiudo la porta mentre
Christian si siede sul bordo del letto e posiziona il carrello davanti a sé,
sfregandosi le mani. Alza i vari coperchi per controllarne il contenuto e gli
sfugge qualche mugolio soddisfatto. Sorride come un bambino. Ah, il potere del
cibo...
«Vuoi restare tutto il
tempo lì a guardarmi mangiare?» Dice dopo un po’, senza neanche alzare lo
sguardo.
«Dal modo in cui ti sei
posizionato sembra quasi che tu non voglia condividere nemmeno l’odore dei
piatti.» Rispondo subito, ricevendo in cambio il suo silenzio. Sorride
scuotendo la testa e poi dice: «Dai, siediti.»
Obbedisco – più che
altro al mio stomaco – e mi avvicino al letto. Lui prende un vassoio e lo mette
al centro del letto, per poi sistemarsi da un lato. Capisco che dovrò sedermi
dal lato opposto. Ora sembriamo due egiziani, con l’unico vantaggio che siamo seduti
su un lenzuolo fresco e non su un tappeto su cui albergano allegramente
pidocchi, peli, puzze e acari vari. Bleah, non ci tornerei mai più in uno di
quei ristoranti.
«Perché quella faccia?
Non ti piace? Li ho assaggiati, sono ottimi.» Christian mi strappa al pensiero
degli acari e indica con un cenno del capo gli spaghetti ai frutti di mare che
abbiamo davanti.
«Oh no, non è questo.»
Stavo solo pensando ai tappeti egiziani che in alcuni luoghi sono talmente duri
e puzzolenti che sembra ci siano passati settanta dromedari con la colite. Certo, diglielo pure! Gli sorrido e
avvicino alla bocca la prima forchettata per soffiarci un po’ sopra.
«Mmm, è buonissimo!»
Commento deliziata. Lui annuisce, mentre si passa un tovagliolo sulle labbra,
per pulire non si sa cosa.
«Allora…» Esordisce dopo
qualche boccone, e io tremo al solo sentire quella parola, prevedendo il
peggio. «Raccontami un po’ di te.»
Ecco, lo sapevo.
Su una scala da uno a
dieci, odio questa frase… novemila.
Io non so raccontare di
me. Non so raccontare e basta. Odio quando mi dicono “Raccontami qualcosa”. Che
ti devo raccontare? Quante volte ho fatto pipì ieri? Quanti cocktail ho bevuto
sabato? Tanto non te ne frega un emerito cavolo alla fine, lo sappiamo. La mia
vita non è nulla di entusiasmante. Non mi accadono cose eclatanti, e se anche
mi accadessero non aspetterei certo te che mi chiedi di raccontartele per
farlo. Sempre ammesso che io voglia farlo, puntualizziamo. Se non parlo tanto
ci sarà un motivo, ce ne sono diversi, a seconda delle persone con cui ho a che
fare. A volte, semplicemente, mi rompo le scatole. Altre volte, so che mi viene
chiesto solo per giudicare la mia vita sociale, e allora vai a cagare, non ti dico
nulla. Tanto penserai che sono un’asociale lo stesso. Altre ancora, non mi va
di condividere cose personali con gente che conosco appena. Molto raramente,
non parlo perché alcune persone mi mettono soggezione. So benissimo che hanno
avuto millanta esperienze più di me, che raccontano ogni minuto pieni di
entusiasmo, e io li ascolto rapiti. Quando poi tocca a me mi sento un minuscolo
sputo di cammello, sempre per restare in tema di egiziani. Anche se i cammelli
sputano parecchio. Diciamo un cammellino con la raucedine. E alla fine,
insomma, preferisco parlare il meno possibile, per non sentirmi completamente
cogliona. Ecco.
Sto diventando volgare
di nuovo. Porco spino.
Fisso Christian con
un’espressione sicuramente poco amichevole. Lui aspetta che io inizi a parlare.
Sì, aspetta e spera.
Quando vedo che apre la
bocca per incitarmi a emettere qualche suono, si sente lo squillo di un cellulare.
Dall’espressione che fa capisco che è il suo. Mi fa un cenno col capo verso
qualcosa alle mie spalle, e io mi giro e vedo una tracolla grigia sul comodino,
dalla quale sembra provenire lo squillo. Mi allungo appena sul letto, la prendo
e gliela passo.
Si è già appropriato di
tutti gli spazi, noto. Come fosse a casa sua. Bravo, eh.
«Pronto?» Tiro un
sospiro di sollievo quando lui si alza e va fuori al minuscolo balcone per
parlare. So che durerà poco, e quando tornerà mi rifarà la fatidica domanda, ma
voglio godermi questi ultimi attimi di pace.
Finisco il mio primo
piatto e passo al secondo: frittura mista di gamberi e calamari e seppia
arrostita con contorno di patate. Potrei morire in questo istante.
Si sono fatti
decisamente perdonare per l’inconveniente della stanza, direi. Anche se è fin
troppo facile prendermi per la gola, ammettiamolo. Okay, così mi sento un uomo.
Mi sta venendo qualche dubbio, in effetti.
Solo perché non sto
sbavando copiosamente sulla statua greca che sta parlando al telefono? Tu sei
troppo banale. E hai qualche problema.
No, tu hai qualche problema. O qualche disfunzione, situata
precisamente tra l’ombelico e l’interno coscia. Fatti risarcire per il
disservizio!
Il mio stomaco però
funziona eccome, perciò sparisci!
Preparo il campo di
battaglia disseminando fazzoletti in ogni dove, sicura di sporcarmi, e porto
alla bocca il primo gambero dopo averlo sgusciato. Mmm, cosa sarà mai un
orgasmo in confronto a una delizia del genere?
Non l’hai davvero pensato, Elettra! Violet si sta strappando i capelli dalla disperazione, sul
volto l’espressione de “L’urlo” di Munch.
Mentre addento un
boccone di seppia, Christian torna dentro con un’espressione seria, di chi non
ha ricevuto belle notizie. Cala il silenzio, interrotto solo dal tintinnio
delle posate sui piatti.
«Vuoi?» Christian mi
offre del vino e io annuisco, porgendogli il bicchiere.
«Come sei serio.» Dico,
con una voce da bambina aggrottando le sopracciglia e parlando con la bocca curvata
all’insù. Lui mi guarda e si apre in un sorriso mozzafiato. Okay. Ammetto di
essere veramente colpita.
Il silenzio ci avvolge
nuovamente, come una coperta calda. E appiccicosa. Stranamente sento il bisogno
di ridurla in brandelli.
«Cosa ti porta a Miami?»
Gli chiedo, mordendomi la lingua subito dopo.
«Ci vivo.» Risponde lui,
come se fosse ovvio. Ma certo, Elettra. Uno che si chiama Christian Wayne non
può che viverci, in America.
«Cosa ti ha portato in
Italia, allora?» Vorrei che sappiate che l’ho fatto solo per non fargli avere
l’ultima parola sulla ridicola domanda di prima.
Lui fa spallucce, mentre
succhia la coda di un gambero e poi si passa la lingua sulle labbra. «Un
incontro di lavoro, ma mi sono preso una settimana di ferie.» Torna a torturare
un altro gambero con quella bocca. «Sardegna.» Aggiunge, prima di bere un sorso
di vino. «Ci sei mai stata?»
Io scuoto la testa. «No,
ma sono stata in Corsica. Che è praticamente la stessa cosa, credo.»
Lui mi rivolge un
minuscolo sorriso, e finalmente torna a mangiare con la forchetta. In un modo
casto e non vietato ai minori di quattordici anni.
«A giudicare dalla
padronanza della lingua ci devi venire spesso, qui.» Se non avessi saputo il
suo cognome non l’avrei mai scambiato per un americano. E se non l’avessi
visto, certo. In Italia di belli così se ne vedono uno ogni era glaciale.
«Mia nonna era italiana.
Siciliana, per l’esattezza. Anche se non hanno mai vissuto più di qualche mese
in Italia, ha sempre voluto che i suoi figli imparassero l’italiano. Mia madre
ha fatto lo stesso con noi. Una sorta di tradizione, diciamo.» Che carini.
«Beh, vedi, ogni tanto
torna utile.» Gli sorrido.
Oh mio Dio. Questo è un primitivo accenno di flirt?
Lui ricambia il sorriso
e io avvampo come una scolaretta.
«E tu invece? Da dove
hai preso quel cognome? Copiona.»
Ridacchio e sposto il
piatto ripulito fino all’ultima antenna di gambero. No, scherzo. Quelle le ho
lasciate.
«Mio padre è americano,
di Miami. Si è trasferito qui quando ha conosciuto mia madre, a una fiera del
cioccolato. Un incontro da film.» Alzo gli occhi al cielo, pensando al miliardo
di volte in cui me l’hanno raccontato. «Mi aspetta mia zia, a Miami.
Precisamente, mia cugina.»
«Starai con loro?»
«Oh, no. Mia zia è
vedova da circa quattro anni, e ora vive con cinque gatti e il canarino, non
esce mai di casa. Ha un’intera collezione di maglioncini di lana di tutte le
forme e i colori e recentemente è passata all’uncinetto. Soffocherei in quella
casa. Tra l'altro dovrei anche contribuire, quindi tanto vale pagare per me e
non per cinque gatti che lasciano i peli ovunque e un canarino che ti sveglia
all’alba col suo cinguettio assordante.» Spiego, esaurita solo all’idea, e lui
scoppia a ridere. «Mia cugina invece è sposata da poco, non posso mica stare da
loro e fare il terzo incomodo? No, ho trovato un piccolo appartamento a poco
prezzo a qualche isolato da loro. A dire il vero non è neanche tanto piccolo,
considerato quello che pagherò. Sembra davvero un affare. Sono abbastanza
convinta che ci sia qualche fregatura, spero solo non sia una vecchietta
assassina come in Duplex o un maniaco.
Anche se saprei difendermi, in ogni caso.» Non
ci credi neanche tu a questo, ma facciamo gli stoici, dai.
«Non ho dubbi. In effetti
facevi molta paura con quella pinzetta.» Commenta Christian serio, succhiando
via dall’indice il sugo dei gamberi.
«Non è che viaggio con
le motoseghe, di solito, sai com’è.»
Lui sorride e finalmente
mette via i gamberi.
«E in che zona l’hai trovato,
l’appartamento?»
Avvampo senza alcun
motivo apparente. «Vicino… beh, vicino al cimitero. Cioè, è l’unica cosa
“famosa” nei dintorni che io ricordi.» Rispondo, sentendomi improvvisamente
un’emerita cretina. Certo che hai trovato casa in una zona molto allegra,
Elettra.
Christian sorride con
quel suo solito fare canzonatorio. Mi aspetto una delle sue battute simpatiche
come una puntura d’ape in un occhio. Nel mentre, valuto se agguantare o meno un
cuscino per tirarglielo in faccia. Sperando di fare centro, stavolta.
«La zona non è proprio
delle migliori, in effetti… è anche vicina alla Interstate
395. Un bel po’ di casino.» Sembra valutare la cosa tra sé.
«Il tizio che me l’ha
affittata ha detto che non si sente molto. In caso contrario posso sempre infilargli
la pinzetta su per il- ehm, da qualche parte.» Sorrido. «Passiamo al dessert?» Sì, brava, sorvola sulle tue doti di
infilatrice di pinzette a tradimento.
«Vediamo un po’.»
Christian alza il coperchio di quelli che dovrebbero essere i dessert e io mi
scopro a sbavare come se non mangiassi da un mese. Millefoglie di cioccolato
nero e bianco con mousse di... menta, credo, su frutti di bosco. Va bene, quasi
quasi l’idea di perdere un altro volo non mi sembra poi così malvagia.
«Se non lo mangi tutto
non mi offendo.» Gli dico, dopo averlo assaggiato.
«Sei una buona
forchetta, eh? Non si direbbe.» Suppongo si riferisca al mio fisico.
«Ho un buon
metabolismo.» Replico imbronciata. Non si dicono queste cose a una donna,
perdinci!
Guarda che era un complimento. Violet è seduta sul divano col gomito sul bracciolo e la
mano sulla fronte, totalmente rassegnata.
«C’è un ottimo
ristorante italiano che devi provare allora, il DeVito South Beach, aperto da Danny De Vito in persona.» Mi consiglia
lui. Ha una piccola traccia di cioccolato all’angolo delle labbra. Glielo dico
o non glielo dico?
Fossi in te gliela toglierei. Non ti dico come, ma gliela
toglierei.
«Cos’ho? Mi sono
sporcato?» Christian intercetta il mio sguardo e io cerco di mostrarmi indifferente.
«Un po’, qui.» Indico il
punto sulle mie labbra. «Ehm, comunque, per il ristorante… beh, per quanto mi
piaccia mangiare non credo di poter fare un mutuo per una cena.» Ridacchio.
Essere stato fondato da De Vito deve pur significare qualcosa. In più è un
ristorante italiano negli Stati Uniti, quindi oso solo immaginare che tipo di
conto possa presentare alla fine della serata. Del tipo che paghi solo a
guardarlo.
«No, non è particolarmente
costoso. Se vuoi ti ci porto qualche volta.» La butta lì con nonchalance, e io
con altrettanta nonchalance me la faccio scivolare addosso. Queste sono le
classiche cose che si dicono tanto per dire. Domani, una volta atterrati, non
ci ricorderemo nemmeno di questo incontro, qualunque cosa accada – cioè, che io
lo uccida o meno, intendo, naturalmente – e ognuno tornerà alle proprie vite.
«Come va la testa?
Qualche accenno di emicrania?» Come sono brava a cambiare argomento, vero?
Vero? Troppo forte.
Lui mi guarda un po’
stranito mentre ripone i piatti vuoti – il mio sembra appena uscito dalla
lavastoviglie – sul carrello. «No, fortunatamente. L’aria si sta rinfrescando,
vero? Non è il caso di chiedere l’aria condizionata. Un’altra cosa che evito
volentieri.»
«Anche a me, fa venire
mal di testa.» Guardo l’orologio. Sono le undici e un quarto?! Com’è possibile
che siano passate tre ore e io non me ne sia accorta? Dev’essere il jet lag. Il jet lag ancora prima di
partire.
«Bene. Non so tu, ma io
sono stanca morta.» Mi alzo e vado in bagno, senza nemmeno aspettare la
risposta. Mi lavo velocemente i denti, faccio pipì, mi ri-sciacquo
e ri-spruzzo un po’ di deodorante – che non si sa mai
– e, casualmente, mi riavvio i capelli. Mhm. Come sono sexy con queste
occhiaie.
Quando esco dal bagno
trovo Christian sdraiato supino sul letto, sempre e solo in pantaloncini, con
un braccio sopra la testa e una gamba piegata. Dio, sembra ancora più alto. Mi
guarda, senza alcuna apparente traccia di scherno.
«Wow, la figlia di
Flash. Posso immaginare la tua impazienza, ma non credevo ci mettessi così
poco.»
Non a caso avevo detto apparente.
Mi chino per raccogliere
una pantofola e gliela tiro in faccia, stavolta cogliendolo in pieno. Non
faccio in tempo a captare la sua espressione che mi ritrovo sotto di lui, condannata
ad un attacco di solletico.
«NOOOO, CHRISTIAN
SMETTILA SUBITO, LASCIAMI! AHAHAHAH-NOOOO!»
Ora, alla luce di quello che avete imparato su di lui, vi
aspettereste che smetta? Certamente… no!
Lo imploro in tutte le
lingue che conosco – e non sono poche – ma lui sembra sempre più determinato a
farmi morire senza fiato. O a farmi fare gli addominali. Domani avrò i crampi, ci
scommetto le tette.
Violet intanto sta
ballando la macarena agitando il sedere come una brasiliana provetta.
Come faccio a farlo
smettere?! Non mi dà neanche il tempo di afferrargli le mani! Come se potessi
tenergli testa, poi.
«Christian, ti giuro che
ti castro mentre dormi!» Riesco a urlare, tra un contorcimento e l’altro. Se
non ci riesco sul piano fisico...
Lui si ferma per un
attimo – e in quell’attimo sento in modo distinto tutto l’addome che protesta vibratamente – e mi guarda scuotendo la
testa, come un maestrino in disappunto. Si avvicina al mio viso. Il suo respiro
odora di menta e cioccolato.
«Le minacce non hanno
mai portato da nessuna parte, signorina Wayne.» E quella fu la mia fine.
Dopo, credo, circa una
vita e mezza e tante suppliche – non mi abbasserò MAI più a questo livello di
piagnistei – ma senza alcun risultato, decido di fingermi morta. Insomma, dovrà
pur fermarsi in questo modo. Il difficile sarà restare impassibile e
perfettamente immobile. Improvviso una specie di svenimento-barra-collasso-barra-momento-di-cedimento e mi butto a
peso morto sul cuscino. Christian continua a pizzicarmi sui fianchi e io cerco
di raccogliere tutta la calma interiore in mio possesso. Non ridere, non
ridere, ohmmmm…
Oh mio Dio, ha
funzionato?
Ci vuole qualche secondo
prima che decida di sbirciare con un occhio semichiuso. Vedo Christian davanti
a me, inginocchiato sul materasso, che mi guarda con le braccia conserte e un
sorriso divertito. Apro anche l’altro occhio, però del tutto.
«Fingersi morta, wow,
ottima mossa. Questa te la devo. Chapeau!» Dice, togliendosi un immaginario
cappello dalla testa. Io torno a respirare, sollevata.
«Tregua?» Domando,
stremata. Se prima ero stanca, beh, ora sono letteralmente distrutta. Lui
annuisce e si alza dal letto dirigendosi in bagno. Lascia la porta aperta, per
cui lo intravedo mentre si lava i denti e il viso. Se ho contato bene, ha
qualcosa come quindici muscoli sulla schiena. Lo so che un essere umano ne ha
solo cinque, ma giuro che lui ne ha quindici.
«Posso spegnere?» Mentre
sto ancora riflettendo sul numero esatto, lui esce dal bagno e posa una mano
sull’interruttore della luce.
«Sì, sì.» Annuisco e un
secondo dopo siamo nel buio più totale. La luce della luna proveniente dalla
finestra alla mia destra illumina appena il muro e la scrivania di fronte al
letto. A quanto pare non c’è neanche una stella in cielo, speriamo solo che
domani non sia di nuovo maltempo.
Sospiro e mi sistemo sul
cuscino, girandomi sul fianco sinistro. L’ombra di Christian si avvicina al
letto e si stende velocemente. Avverto il calore del suo corpo rivolto verso il
mio, steso sul fianco destro, e mi sento terribilmente a disagio. Dalla
finestra arriva un soffio di vento che mi fa rabbrividire, ma sembra che
Christian non se ne sia accorto.
«Beh, buonanotte
Elettra.» Mormora, e nel buio mi sfiora il naso con l’indice. Sorrido – ma non
glielo farò mai vedere – e ricambio, con un filo di voce: «Buonanotte,
Christian.»
~ Note
Allora.
Prosegue la lunghissima e insofferente
convivenza – che finirà nel prossimo capitolo, promesso – che sta portando
parecchi problemi (mentali) alla nostra eroina. Eroina un cavolo, direte voi, è
simpatica come un clistere di mezzo litro!
Lo so, lo so. Ma anche il signor Wayne non
è da meno, vi pare? Lui però lo sopportate meglio, ammettetelo.
Mi dispiace che i capitoli non siano più
lunghi, ma ho dovuto dividerli in questo modo per lasciare la saspensssss! Poi
vedrete che più andiamo avanti e più diventeranno interminabili, come i
rotoloni Regina. E allora rimpiangerete le sei/sette pagine di Word, ha-ha. Mi
farò perdonare e cercherò di pubblicare il prossimo più presto, d’accordo?
Intanto vi lascio con lo spoilerino, asusually, e grazie a chi
recensisce o semplicemente legge questa piccola follia.
Sappi che tengo a conoscere anche il tuo
parere, o lettore silenzioso. Le recensioni sono come le ciliegie: una tira
l’altra. E in più vi danno i punti. Affrettatevi, che tra poco esce pure il
catalogo premi.
«[...]
Lo so che sono comodo come cuscino, non mi offendo se me lo dici.».
Per altre info, spoiler e news consultare
il foglio illustrativo.
Le note di Hall of Fame riecheggiano nella stanza, strappandomi dolcemente dal
sogno che stavo facendo. Allungo una mano per prendere il cellulare sul
comodino ma le mie dita afferrano il vuoto più volte. Strano. È come se ci
fosse qualcosa che mi impedisce la completa libertà di movimento. La sveglia
smette di suonare – ma ricomincerà tra cinque minuti esatti – e io mi prendo
qualche secondo per scollare le palpebre e scoprire cosa c’è che non va. Un
folletto è entrato nella stanza stanotte e ha spostato i comodini? Com’è possibile
che non – oh. Oh, oh.
Non... no.
Non ho dormito sul petto di
Christian.
Non ho una mano poggiata sul
suo addome.
Non ho il suo braccio attorno
alle spalle che mi limita i movimenti e una gamba tra le sue.
«MA PORCA PUTTANA.» Mi
alzo di scatto, ignorando deliberatamente il fatto che posso disturbarlo o
addirittura svegliarlo coi miei movimenti bruschi. Mi metto a sedere
nell’angolo più lontano del letto e lo vedo muoversi e strofinarsi gli occhi,
per poi puntare quell’azzurro disarmante nel verde dei miei.
«Mmm, sei sempre così
gentile appena sveglia?» Bofonchia con la voce leggermente arrochita.
«Mi hai abbracciato nel
sonno!» Strillo, ancora incredula. Lui si tira a sedere e si appoggia alla
testiera del letto, incrociando le mani davanti a sé.
«A onor del vero, sei
stata tu a rabbrividire e ad avvinghiarti come un panda al suo bambù
all’ennesima folata di vento. Folata, poi. Direi più una brezza fresca, ma tu
hai dormito praticamente nuda e hai sentito freddo.» Indica il mio pigiama di
satin con un cenno del capo. I nervi che non mi erano saltati prima mi saltano
adesso, rendendomi tesa come la corda di un arco.
Non si dice come una corda di violino?
Lo so che si dice come
una corda di violino, ma era per cambiare un po’. E comunque, non è questo il
punto.
«E tu hai pensato bene
di approfittarne, naturalmente. Non potevi semplicemente coprirmi col
lenzuolo!» Ribatto, stizzita. Lui come al solito non si scompone, nemmeno in un
capello. Nemmeno un guizzo del sopracciglio. Nemmeno in un fremito della
palpebra.
«Ti ho coperta, Elettra. Ho anche chiuso la finestra.» Indica col dito
le ante chiuse della finestra alle mie spalle che non oso nemmeno guardare.
Sento un leggero calore risalire verso le guance. «Ma sei tornata di nuovo. Lo
so che sono comodo come cuscino, non mi offendo se me lo dici.» Conclude,
dandomi la botta finale, e si alza. Passa per l’armadio, prende dei vestiti e
si chiude in bagno, lasciandomi sul letto come un’emerita idiota.
Va bene, forse l’ho un
po’ aggredito. Un po’ troppo. Anche se non posso sapere se le cose siano andate
effettivamente così. Non ho prove, a parte la finestra chiusa e il lenzuolo
tirato solo dalla mia parte del letto.
Cos’altro vuoi?! La registrazione di una telecamera
nascosta?
Dovrei chiedergli scusa?
No. No, in fin dei conti mi sono solo accertata della mia... incolumità. No?
Violet è disperata. Ha
preso un saggio di Sigmund Freud e sta leggendo avidamente.
«Al diavolo.» Scendo dal
letto e preparo i vestiti, raccattando le varie cose che ho sparso per la
stanza. Ho bisogno di un caffè. Passo davanti allo specchio e saluto il mio
riflesso coi capelli in disordine, gli occhi a palla e nessun segno del cuscino,
visto che ho usato Christian per dormire.
Dio, non ci posso
credere. Non è da me, io non faccio queste cose.
È anche vero che non dormi con un uomo dai secoli dei
secoli, amen.
Non c’entra niente.
Quando Christian esce
dal bagno, vestito di tutto punto, non posso fare a meno di lasciarmi andare in
un breve, leggerissimo sospiro.
Ha tirato indietro i
capelli in un codino, fatto la barba, e indossato un pantalone classico grigio
chiaro con una camicia azzurra. Io non ho un debole per gli uomini con le camicie
azzurre. Io svengo per gli uomini con
le camicie azzurre. Ma non sverrò per lui, no. Mi ha abbracciato mentre
dormivo!
Proprio per quello dovresti svenire, mica tanto per la
camicia.
Odio avere questa
seconda personalità che non sono ancora riuscita a reprimere.
«Buongiorno, Elettra.» Dice,
come a voler ricominciare daccapo. Certo, di tutte le persone presenti nella
stanza, lui era l’ultimo da cui mi sarei aspettata un saluto.
Come fai ridere, ah ah ah.
«Ehm, buongiorno.» Mi
schiarisco la voce, che mi tradisce nei momenti meno opportuni. Raccolgo i
vestiti che avevo sistemato sul letto e sparisco in bagno prima di venire
risucchiata dal mio stesso imbarazzo. Chiudo la porta a chiave e inspiro il
profumo del dopobarba di Christian che riempie ancora l’ambiente. Cos’è, Hugo
Boss? Mmm...
Mi faccio una doccia
veloce e indosso un abito corto e fresco, con scollo a barca e maniche a
pipistrello che arrivano poco sotto il gomito. È bianco con fantasie arancio,
rosa e color caramello. Mi ricorda l’estate. Metto una cintura in vita di cuoio
chiaro e gli stivali bassi abbinati. Un po’ di trucco che non guasta mai e sono
pronta.
Ho ancora bisogno di un
caffè.
Esco dal bagno e mi
viene un piccolo infarto. Dov’è Christian? Il mio sguardo corre subito
all’armadio. Lo apro e con grande sgomento scopro che è vuoto. Un’ondata di
sollievo percorre il mio corpo quando vedo che la tracolla è ancora sul comodino.
Quella è l’unica traccia che segnala la sua presenza nell’albergo. O, almeno,
segnalava.
Possibile che se ne sia
andato così? Non mi sembra il tipo che dimentica le cose in giro, e poi non
sarebbe stato così maleducato da andarsene senza salutare, giusto? È vero che
praticamente gli ho dato del maniaco, ma non l’ho davvero pensato. Non può
essersene andato. Mi rifiuto di crederlo.
Sono quasi tentata di
sbirciare nella tracolla per vedere se ha lasciato cellulare e portafogli
quando la porta della camera si apre, rivelando Christian – sempre impeccabile,
con l’aggiunta della giacca del completo grigio – con un vassoio ricolmo di ogni
genere di cosa dolce esistente sulla faccia della terra. Ai lati del vassoio, due
bicchieri di succo di frutta e due tazze di caffè.
Sono letteralmente senza
parole.
Christian mi passa
davanti col vassoio e un sorriso appena accennato, che coinvolge più gli occhi
che la bocca. Lo poggia sulla scrivania e scosta la sedia per invitarmi a
sedere.
Ora, lo so che qualsiasi
persona sana di mente, con un minimo di sale in zucca e una briciola di
coscienza, si proferirebbe in scuse. Non dico scuse in ginocchio, con la
lacrimuccia appesa e il labbro inferiore in fuori, ma almeno un semplice “Mi
dispiace per la scenata di prima”. Purtroppo io non sono così. Io sono
orgogliosa fino alla radice dei capelli, il più delle volte non mi interessa di
quello che gli altri pensano di me, e odio perdere. Qualsiasi cosa comporti una
minima percentuale di mortificazione... beh, io la detesto. Così evito direttamente,
e finisco anche per fare la figura della maleducata pazza isterica.
Violet si sta tagliando
le vene, e sta urlando al pubblico “Il bello è che lo sa pure!”
«Come hai fatto? Non mi
sembra fosse inclusa la colazione...» Balbetto, lasciandomi cadere estasiata
sulla sedia.
Lui si appoggia alla
scrivania, né seduto né in piedi, e prende un bignè. «Ho corrotto il maître.»
Lo guardo sorpresa e lui
scoppia a ridere. «No, non ce n’è stato bisogno. Sai, a volte le cose basta
chiederle con gentilezza.» Cento punti
per Christian Wayne, colpita e affondata.
Addento un cornetto al
cioccolato quasi con disperazione, e quando rischio di affogarmi lui mi porge
il bicchiere di succo d’arancia.
«Grazie.» Mormoro, dopo
aver bevuto. In quel grazie ci ho messo tutto, ma davvero tutto. Non so perché,
ma ho la sensazione che lui l’abbia capito.
Ci guardiamo per qualche
istante, poi lui allunga una mano e mi scompiglia i capelli. Lancio un gridolino,
spostandogli la mano e minacciando di sporcargli il vestito elegante con un
cannolo ripieno di cioccolato bianco.
«I. Capelli. No.» Gli
intimo, puntando il cannolo contro il suo naso come se fosse una Calibro 38.
Lui alza le mani in
segno di resa e con un gesto fulmineo addenta il cannolo, cogliendomi
totalmente di sorpresa. Guardo la mia “arma” ormai dimezzata e poi le rughe
d’espressione che gli compaiono intorno agli occhi quando ride. Come in un
deja-vu, una goccia di cioccolato gli rimane nei dintorni delle labbra, ma
stavolta d’istinto gliela tolgo con l’indice e la assaggio.
«Uh, buono.»
«Buono, vero?» Dice lui,
e sfila il resto del cannolo dalle mie dita per poi mangiarlo in un boccone.
«Sei un vero gentiluomo,
devo ammetterlo.» Alzo gli occhi al cielo e ne prendo un altro dal vassoio, facendo
attenzione a tenerlo ben lontano da lui. Prendo anche il caffè, inspirandone
l’aroma familiare.
«Formato famiglia?»
Chiedo, indicando la dimensione della tazza. È
una tazza da tè, più o meno.
«È per farti abituare ai
beveroni americani. Se sei abituata a un buon espresso in tazzina, beh,
scordatelo.» Spiega lui con un’alzata di spalle, e prende quella che sembra una
sfogliatella riccia napoletana. Sto sbavando solo a guardarla.
«Quindi invece di farmi
salutare decorosamente l’Italia con l’ultimo caffè degno di questo nome hai
pensato bene di anticipare la sofferenza. Ripeto, sei davvero un gentiluomo.»
Finirò per mettere su ottocento chili se allungo la mano e prendo un altro
dolce. Christian, per tutta risposta, spinge il vassoio verso di me con due
dita. Okay, al diavolo la dieta sana. Fammi assaggiare quello...
Dopo aver ripulito il
vassoio fino all’ultimo grammo di panna – devo assolutamente trovare una
palestra a Miami – facciamo un check-up della stanza per essere certi di non
dimenticare nulla in albergo e poi scendiamo nella hall, dove Christian fa
chiamare un taxi. Io intanto prendo il cellulare, digito il numero di mia
sorella e mi sposto in una zona meno rumorosa.
«Risponde la segreteria telefonica di Eva Wayne. Al momento sono
impegnata. Se è lunedì mattina, probabilmente sono ancora sbronza, per cui
lasciate un messaggio e vi richiamerò non appena la stanza smetterà di girare.
Ah-ha, scherzo. Arriva il bip, pronti? #BIP#»
«Hai cambiato di nuovo
il messaggio? Sai, non si addice molto a un’aspirante infermiera. Dopo averlo
ascoltato non mi verrebbe mai voglia di chiamarti per un’emergenza. Comunque,
sto andando in aeroporto. Il volo parte tra circa due ore, quindi credo che ci
sentiremo direttamente stasera. Che per me sarà ora di pranzo. Ti voglio bene.
A presto.»
Decido di avvisare anche
i miei genitori e poi torno da Christian, che sta recuperando i suoi bagagli
alla reception. Ecco dov’erano finiti, deve averli portati giù prima di prendere
la colazione.
«Signori Wayne, il taxi
è arrivato.» Detto così sembriamo sposati. «Mi dispiace ancora per
l’inconveniente della camera, spero che il soggiorno non sia stato troppo sgradevole.»
Guardo Christian di
sottecchi e cerco di interpretare il suo sorriso. Nessuno dice nulla.
«Io spero non accada
più.» Affermo alla fine, e trascino me e il mio stupido trolley fuori
dall’albergo. Il tassista ci dà una mano a caricare i bagagli in auto e
finalmente ci dirigiamo verso l’aeroporto, un passo più vicini a Miami.
Dopo la prima svolta a
destra imbocchiamo una delle strade principali di Roma, e scopriamo che è
bloccata da almeno un chilometro di traffico. Semafori di merda.
Radio a parte,
nell’abitacolo c’è un silenzio davvero fastidioso. Christian guarda fuori dal
finestrino e non sembra intenzionato a conversare.
Cosa ti aspetti, Elettra? Cosa ti aspetti da quest’uomo?
Niente, perfettamente
niente. Mi aspetto di salutarlo in aeroporto per poi non rivederlo più. È così
che deve andare. Voglio che vada
così. Sarà un bel ricordo, lui che mi piomba in camera e che mi “costringe” a
condividerla con lui. Un aneddoto divertente da raccontare ai miei futuri amici
di Miami.
Punto.
Chiuso.
Finito.
Anche perché
probabilmente lui avrà una bellissima fidanzata che lo aspetta, che per qualche
oscura ragione non lo ha accompagnato in Italia. Cosa che non mi interessa
comunque.
«Il nostro volo ha i
posti assegnati?» Mi domanda Christian all’improvviso, riportandomi bruscamente
alla realtà.
«Ehm, non saprei...
posso controllare sul biglietto. Perché?» Frugo nella borsa alla ricerca del
porta-documenti.
«Beh, se non fossero
assegnati potremmo sederci vicino. È molto meglio passare undici ore accanto a
una persona che bene o male conosci, piuttosto che andare alla cieca, non
credi?» In effetti, il ragionamento fila. Potrei capitare accanto a una
logorroica vecchietta che dopo dieci ore di storia della sua vita si
addormenterebbe sulla mia spalla per il tempo restante lasciando anche una
striscia di bava sul mio adorato vestito.
Dio, non sia mai! Già
undici ore di volo e basta sono
abbastanza traumatiche. Anche se non lo ammetterò mai.
Mentre valuto se
comprare o meno un pacchetto di noccioline per soffocare l’eventuale vecchietta
in stile Colin Farrell in Daredevil, le
mie mani finalmente pescano il porta-documenti dalla mia borsa senza fondo.
«No, sono assegnati.»
Dico, sperando che non si accorga della minuscola, irrilevante nota dispiaciuta
nella mia voce. Gli faccio vedere il biglietto, io sono al D24. Lui prende il
suo, G39.
«Lontanucci...»
«Peccato.» Sibila in un
sospiro, chiudendo l’argomento con un’alzata di spalle.
Una volta arrivati in
aeroporto, ci scopriamo a parlare nello stesso momento.
«Io vado...»
«Io dovrei...»
«Dai, prima tu.»
Ridacchia lui. Ora vorrebbe fare il
gentiluomo?
«Vorrei un caffè decente
prima di partire.» Indico il bar alle mie spalle.
«Io devo passare in
libreria.»
«È al piano di sopra...»
Mormoro, e lui annuisce.
Bene, quindi sembriamo essere
giunti al momento topico.
Siamo fermi, l’uno di
fronte all’altra, io vestita da turista fashion e lui vestito da uomo d’affari
pronto per una sfilata Armani collezione autunno/inverno.
«Se non dovessimo
rivederci... beh, è stato un piacere, Elettra.» Mi porge la mano, come a
volersi riscattare per non essersi presentato subito quando ha fatto la sua
comparsa nella mia stanza.
«Anche per me,
Christian.» Stringo la mano e trattengo il fiato quando lo vedo chinarsi e
posarmi un bacio sulla guancia. Poi, fortunatamente, si volta e si perde tra la
folla, scomparendo veloce com’è apparso nella mia vita.
***
Check-in, navetta,
pista.
Appena metto piede
sull’aereo, due hostess mi salutano cordiali e, dopo aver controllato il
biglietto, una di loro mi indica il mio posto. Mentre cammino nel corridoio,
non posso fare a meno di guardare tre file indietro, e quando scorgo la chioma
bionda tirata a lucido appartenente a Christian, il mio cuore perde un battito.
Maledizione.
Indugio qualche secondo nel
riporre il bagaglio a mano nel comparto sopra i posti a sedere, con la segreta
speranza che lui alzi lo sguardo e mi veda. Sembra intento a leggere qualcosa.
«Signorina, si siede?
Dovrei passare.» Mi volto e incrocio lo sguardo di un uomo sulla sessantina che
sta indicando il posto dietro al mio. Mi sposto per farlo passare, e dopo aver
lanciato un’ultima occhiata nella direzione di Christian, senza però essere
ricambiata, mi decido a sedermi. Se non altro ho il posto vicino al finestrino.
“Se non dovessimo
rivederci... è stato un piacere.” Che diavolo significa? È un controsenso bello
e buono. Se è stato un piacere, allora dovresti volermi rivedere, mettere le basi per farlo. O no? Almeno fai la
finta di lasciarmi il tuo biglietto da visita, se ne hai uno. Sto sbagliando?
Sicuramente no, ma è stato meglio così. Sì.
La gente continua a
salire: donne, uomini, bambini. Chi tranquillo, chi terrorizzato, chi una via
di mezzo, come me. Li osservo uno ad uno quando passano accanto alla mia fila,
mentre cercano il loro posto. Mi scopro a pensare “No, speriamo che non capiti
vicino a me”, oppure “Mh, questo potrebbe essere accettabile”, o ancora “No, se
si siede questo scendo dall’aereo”.
I passeggeri salgono ma
nessuno si ferma al D25. Quando una delle hostess chiude il portellone
dell’aereo, tiro un sospiro di sollievo. Da sola, ancora meglio. Che culo.
Sto pensando di prendere
il bagaglio a mano e piazzarlo sul sedile accanto al mio, quando l’altra
hostess richiama la nostra attenzione e inizia quell’orribile dimostrazione
sugli atterraggi di emergenza e l’avaria in volo. Già mette l’ansia, cavolo.
“Smettila!”, vorrei
urlarle, e magari tirarle qualcosa in testa in caso di recidività.
Basta, Elettra, calmati
e respira. Non succederà nulla. Ricordi Superman? Quel saggio uomo diceva
sempre che l’aereo è il mezzo più-
«È occupato questo
posto?»
«Come...? Cosa...?» Ce la puoi fare. Soggetto, predicato e
complemento, non è difficile.
«Ho chiesto a Gina se
potevo spostarmi qui. Nessuno sa dirmi di no.» Quando Christian si siede
accanto a me, senza neanche aspettare la mia risposta, e il suo profumo mi
invade le narici, mi sembra di essere tornata a casa. Maledizione.
«Chi è Gina?» Domando,
confusa.
«Signor Wayne, posso
fare qualcos’altro per lei?» Una hostess dai capelli rosso fuoco e una
minigonna giro-passera sbuca dal nulla e si sporge sinuosamente verso
Christian.
«No, grazie, sto bene
così.» Christian le sorride e lei va via sculettando, dopo avergli detto di
essere a sua disposizione per tutto. E qualcosa mi dice che non si riferiva
soltanto alla coca-cola.
«Quella è Gina.»
«L’avevo intuito.»
Commento, con un sopracciglio inverosimilmente alzato.
«Volevi qualcosa?» Che
la smettesse di sventolarti le tette in faccia.
«No, sto benissimo da
sola. Cioè, così, volevo dire.» Aaaah, smettila di parlare!
Incrocio le braccia al
petto e guardo fuori dal finestrino. Bene, ci stiamo muovendo.
#Il comandante vi invita ad allacciare le
cinture, ci stiamo preparando al decollo#
Aggancio nervosamente la
mia cintura e deglutisco a vuoto quarantacinque volte di seguito. La gamba
destra fa nervosamente su e giù, seguita dalla sinistra che vi è accavallata
sopra.
Calmati, calmati.
Inspira, espira.
Prima che uno stupido
che sembra perseguitarmi decidesse di interrompere il mio training autogeno,
stavo dicendo che Superman afferma che l’aereo resta sempre il mezzo più sicuro
per – AAAAAHHH STIAMO DECOLLANDO!
Stringo istintivamente
pugni e occhi per un tempo indefinito, pregando che questa orribile sensazione
che mi fa sentire come un razzo sparato in aria a tutta velocità finisca
presto.
«Puoi aprire gli occhi.»
Più che la sua voce, a riscuotermi è il calore della sua mano sulla mia, che a
contatto con la mia pelle fredda è una vera meraviglia. Riapro lentamente gli
occhi ed effettivamente constato che siamo tornati orizzontali. Tiro via la
mano.
«È stata una vera
fortuna che il posto accanto al tuo fosse libero, perché ero capitato accanto a
un transessuale che cercava di molestarmi. Le ho provate tutte: Ipod, libro,
cellulare... non la smetteva di guardarmi!» Ridacchia tra sé, scuotendo la
testa.
Io gli rivolgo un
sorriso tirato e una delle mie battute acide. «Beh, avresti sempre potuto
corrompere il pilota per farti viaggiare nella cabina con lui.» Mi sono
trattenuta giusto in tempo dal dire “Gina” al posto di “pilota”. È già un passo
avanti.
Christian ride, allegro
e spensierato come sempre. Io ho ancora tutta l’adrenalina che mi circola nel
sangue per il decollo. Non sono proprio in vena di conversazione, spero lo
capisca. O devo provare anch’io con l’Ipod e un libro? Intanto provo con l’appoggiare
il gomito sul bracciolo e la testa sulla mano. Torno a respirare regolarmente e
piano piano, sento che il mio corpo si rilassa.
Magari non sarà
traumatico come pensavo...
***
«Elettra, siamo
arrivati.»
«Mmh?» No, voglio
dormire ancora un po’. Il volo parte tra tre ore, ho ancora un po’ di tempo...
«Elettra, svegliati,
dobbiamo scendere.»
Apro lentamente un
occhio, poi l’altro, per capire chi ha osato disturbarmi mentre dormo. E
ucciderlo.
Quando i miei occhi
mettono a fuoco quello che mi circonda, vedo l’aereo davanti a me quasi vuoto e
le hostess che mi guardano, entrambe piegate stranamente verso sinistra.
Cosa? Piegate verso
sinistra?
Sbatto le palpebre e
prendo coscienza del mio corpo, accorgendomi che è la mia testa ad essere
piegata verso sinistra.
Esattamente sulla spalla
di Christian Wayne.
Non ci posso credere. Mi
sono DI NUOVO addormentata ADDOSSO a lui!
«Scusami, non volevo! Ti
ho stropicciato un po’ la giacca...» Ci passo una mano sopra come se fosse un
ferro da stiro e sento un calore familiare aggrapparsi alle guance. «Io... ho...
dormito per tutto il viaggio?» Strabuzzo gli occhi, pregando che dica no.
«Praticamente sì.»
Sorride lui, visibilmente insonnolito.
«A... ehm... addosso a
te?»
Lui scoppia a ridere.
«Sì. Ma ne ho approfittato un po’ anch’io. Mi sono appoggiato alla tua testa
per un paio d’ore.» Mi informa mentre si alza e recupera i nostri bagagli a
mano. Mi porge il mio e lo ringrazio, mentre percorriamo il corridoio dell’aereo.
Saluto le hostess, lievemente imbarazzata, e scendo i gradini della scaletta
d’acciaio, per poi mettere finalmente i piedi a terra sulla famigerata Miami.
~ Note
Yuppi-ye! Grazie al cielo sono arrivati sani e salvi a Maiemi. Elettra può iniziare la sua nuova
vita lasciandosi Christian Wayne alle spalle.
Sì, fidatevi.
Mi dispiace, dovevo aggiornare domenica ma non
ho potuto, lo so, lo so. Sono una persona orribile. ç_ç
Inutile dire che vi ringrazio infinitamente
per le recensioni e l’aggiunta a preferite, seguite, eccetera... e che vi
aspetto nel gruppo di folleggianti donzelle per aggiornamenti, spoiler o
semplicemente quel che volete.
Questa è la scritta che
vedo dopo aver recuperato il mio trolley dal nastro ed essere uscita dal caos
dell’aeroporto. È scritta in blu navy, con qualche tocco di bianco e di rosso,
i miei colori preferiti, su un cartellone lungo a occhio e croce un metro e
mezzo. Chi lo regge – reggeva, in questo momento lo sta agitando come una
forsennata – è, naturalmente, mia cugina Anne, aiutata da suo marito.
Appena mi avvicino e
supero un tizio con trecento valigie, Anne molla il cartellone e mi corre
incontro.
«Ciaaaaaooooooooooo!
Com’è andato il viaggio? Come ti senti? Stai bene? Hai fame?»
«Smettila di sembrare
mia madre e fai la cugina, grazie. Ciao, Cooper.» Ci avviciniamo al mio cugino
acquisito che saluto con un abbraccio. Che bella coppia che sono, l’ho sempre
detto. E lui è adorabile, davvero. Oltre che molto, molto, molto affascinante.
«Mi sto solo
preoccupando per la tua salute, so che non ti piace volare.» Mormora apprensiva
Anne, e io alzo gli occhi al cielo.
«Ma chi l’ha detta
questa cosa? Io amo volare. Ero perfettamente a mio agio, ho dormito tutto il
tempo.» Piccola bugia e piccola omissione. Ma nessuno se ne accorgerà mai.
«Sarà.» Commenta Anne,
mentre ci avviamo verso l’auto di Cooper.
«Allora, come ti senti?
Pronta ad iniziare la tua nuova, eccitante vita a Miami?» Quanto vorrei avere
il suo entusiasmo, davvero. Sono sicura che quando troverò un marito del genere
sarò anch’io in pace col mondo.
Peccato che non accadrà
mai.
Certo, se tu ti addormenti sulle spalle degli uomini invece
di bearti della loro bellezza e compagnia.
«Sì, più o meno.» Faccio
un piccolo sorriso. «Ho solo bisogno di una doccia, adesso. Poi dovrò fare la
spesa.»
«Stasera e domani sei a
cena da noi, così non devi preoccuparti di nulla. Possiamo anche andare a
visitare qualcosa domani, visto che è sabato. Se ce la fai e non hai residui di
jet lag, ovviamente.» Mi sorride speranzosa, eccitata come una bimba a cui
regalano una Barbie nuova. Quanto la adoro. Anche se tutto questo sorridere
inizia a innervosirmi. Non so perché, ma è come se questo viaggio fosse
iniziato male.
Basta, non pensiamoci
più.
***
Sto armeggiando col roastbeef, tagliando la carne
tenera a fettine sottili; il profumino delizioso della crema di funghi che
l’accompagna mi solletica le narici. Anne è intenta a preparare la macedonia di
frutta, gli odori che si fondono mi fanno girare un po’ la testa, ma in senso
buono. Amo stare in cucina.
«E quindi l’ha lasciato
lei?» Mi sta chiedendo Anne, mentre versa dello zucchero nel grande recipiente
colorato. Stiamo parlando di mia sorella e del suo ex, Pietro.
«Sì. L’ho praticamente
costretta a farlo. Quel cretino la trattava malissimo…
e lei testarda come un muro di cemento lo lasciava fare. Eva si sottovaluta
troppo, crede che non riuscirà a trovare qualcuno adatto a lei…
perciò si accontenta del primo scoglionato che passa. Ops, volevo dire uomo
senza attributi. Pardon.» Sorrido serafica e Anne
ridacchia, scuotendo la testa.
«Ripetilo pure:
scoglionato. Se li ha ancora, che gli possano cadere.» Fa schioccare la lingua
e prende a girare la macedonia. Mmm, ho l’acquolina in bocca!
«Perché augurargli che
cadano? Una bella malattia urticante non ti piace?» Propongo sadica e lei
scoppia a ridere. Copre la macedonia con della pellicola trasparente e si
prepara a metterla in frigorifero.
«Ehi, senti un po’…»
Incalza poco dopo mentre spinge la ciotola sul ripiano. «…ma
poi quel figone che era in camera con te? Non dirmi che l’hai fatto scappare
dopo cinque secondi di condivisione della stanza!»
Domande che arrivano
come secchi d’acqua gelata in testa. Perché le ho detto di Christian? Ora che
avevo seppellito la cosa sotto tonnellate di altri ricordi, ecco che torna a
galla. Cavolo, è sempre così. Alcuni hanno la capacità di tornare indietro,
direttamente o indirettamente, sempre nell’istante in cui la corda si sta
spezzando.
«No, è sopravvissuto. Mi
sono comportata abbastanza civilmente.» Rispondo, vaga.
«E poi? Potevi farmelo
vedere, in aeroporto! Non ci hai pensato?» Certo, la prima cosa che ho pensato
quando sono scesa è stata “Facciamo conoscere a Christian la mia famiglia di
Miami!”
«Ma no, che bisogno
c’era? Tra l’altro ci siamo persi di vista appena abbiamo messo piede a terra.»
Questo è vero. Subito dopo il check-out lui è stato raggiunto e risucchiato da
altri quattro o cinque uomini tutti vestiti in modo impeccabile e non ho avuto
occasione di salutarlo. Né lui ci ha provato, in ogni caso. Quindi, ho
ufficialmente archiviato il capitolo – anzi paragrafo – Christian Wayne in
“Aneddoti da raccontare quando sarò troppo sbronza per pensare lucidamente”.
«Uhm… tu non me la conti
giusta.» Anne mi scruta con occhio critico e io ne approfitto per spostarmi sul
tavolo e iniziare ad apparecchiarlo. «Avete dormito insieme, non è possibile
che tu non abbia nulla da dire al riguardo.»
Violet alza la mano per
prendere la parola, dice che lei ha molte
cose da dire al riguardo.
Sbuffo e inizio a
piegare i tovaglioli, che ripongo accuratamente accanto ai piatti. «Cosa devo
dire? È stata una coincidenza, un errore, un caso… ci
siamo ritrovati lì e basta, cosa doveva succedere? Cosa ti aspettavi?» Non so
nemmeno come argomentare la cosa, è una discussione senza né capo né coda.
«A volte le cose che
accadono per caso si rivelano le migliori.» Sapevo che avrebbe risposto così. Queste
frasi da “com’è bella e imprevedibile la vita”… puah.
Io ho imparato che la vita è sì imprevedibile, ma nel senso più negativo del
termine. Per quanto ti facciano piacere certe cose o certi incontri o certe
relazioni, alla fine si riveleranno un disastro e porteranno sofferenza.
Sempre. E non dite che non è vero.
«Io non ci credo. E
comunque, ormai è troppo tardi.» Rispondo, e sancisco la cosa collocando con
veemenza la bottiglia d’acqua al centro del tavolo. Anne si gratta il capo con
aria pensosa. Posso vedere l’esercito di criceti del suo cervello fare a gara
per chi gira più veloce nella propria ruota.
«Potremmo cercarlo sulle
pagine gialle!» Esclama all’improvviso, spalancando la bocca.
«Cosa? Ma sei
impazzita?» La guardo come se fosse completamente partita per la tangente e lei
alza un sopracciglio.
«Ti piaceva! Scusa, hai
detto che era bello, se uno ti piace cerchi di rincontrarlo, no?» Dice come se
fosse la cosa più naturale del mondo. «A meno che non scoreggi mentre dorme o
sia simpatico come un gambo di sedano infilato nel sedere.» Aggiunge, dubbiosa.
Alzo gli occhi al cielo.
«Che schifo, Anne!»
Lei sghignazza, mentre
si riempie un bicchiere d’acqua. «Deduco che lui non emani cattivi odori e che
sia almeno tollerabile in quanto a simpatia. Ergo, dov’è il problema?»
Ma perché le donne
vogliono sempre far accoppiare le altre donne? Solidarietà femminile? Istinto
da crocerossine? Noia?!
«No, non voglio. Basta.»
Agito le mani per chiudere l’argomento e lei incrocia le braccia al petto,
guardandomi seria.
«Ma perché fai così?»
Sul serio? Anne, sul serio? «Devo ricordarti il nostro
ultimo incontro? Te ne sei dimenticata?» Voglio mettere fine a questa
conversazione ora.
«È stato più di un anno
fa, Elettra.» Mi prende una mano e io la ritraggo, scuotendo la testa.
«Per favore, mangiamo?
Sono stanca.» Dico in un soffio, e lei serra le labbra dispiaciuta, per poi
annuire e chiamare suo marito.
***
Dopo mangiato, Cooper mi
accompagna a quella che d’ora in poi dovrò definire ‘casa’, anche se non ha
esattamente l’aria di poter essere definita tale. Per ora va bene così,
comunque, per quel che costa. Domani sarà un grande giorno di pulizie, penso con uno sbuffo mentre infilo il
pigiama e passo un dito sul velo di polvere che copre il comodino. Ah, devo
anche chiamare Eva e vedere a che punto è la spedizione dei miei vestiti. Sono
o non sono un genio a spedirmeli a parte per non portarmi centoquaranta valigie
in viaggio? Non che abbia l’armadio di Kate Middleton,
ma comunque. Al momento non ho nemmeno i suoi soldi per rifarmi un guardaroba
qui, quindi non avevo molta scelta. Ma perché mi sto giustificando da sola?
Sembra che tu voglia evitare di pensare a qualcosa.
Chi, io?
No, nonna Filomena.
Nonna Filomena è morta
tanto tempo fa.
Appunto.
Buonanotte.
Sei una disillusa e frustrata schizofrenica senza speranza.
E tu sei il mio alter
ego. Bella merda, eh?
**********
Il mio primo giorno da
abitante di Miami inizia con la telefonata di Eva che non ha capito
perfettamente niente del jet lag. Mi sveglia
mentre stavo facendo un bel sogno, che non ricordo, ma sono certa che fosse un
bel sogno, e quando attacchiamo ho gli occhi spalancati e nemmeno una minuscola
traccia di sonno. La sveglia segna le sei e venti. Mi passo le mani sul viso e
decido di alzarmi. Magari inizio le pulizie di primavera...
Ore 9:30
Dopo aver ripulito la
casa da ogni minuscolo granello di polvere, mi butto sfinita sotto la doccia,
lavando via sudore e pensieri.
Il programma di oggi
consiste in sei punti salienti: esplorare il quartiere, fare la spesa, recuperare
i vestiti dal servizio spedizioni, passare a salutare zia Libby, fare un giro
della città con Anne e Cooper e capire come arrivare al lavoro dopodomani.
Ore 22:57
Cosa ho fatto oggi?
Ho “esplorato” il
“quartiere”: in realtà non so se si possa davvero definire tale, sembra di stare
nelle terre confinanti con l’aeroporto. Desolazione totale. La zona infatti è
abbastanza isolata, per non dire disastrata. Cemento, cemento e ancora cemento.
In lontananza grandi grattacieli tagliano improvvisamente l’aria, e incutono
timore solo a guardarli. Quando sono arrivata all’appartamento, ieri sera, non
ho fatto caso alla palazzina dove è situato: un edificio in uno stile
ridicolmente vittoriano dipinto di un rosa salmone inquietante, che dà su un
marciapiede sul cui lato opposto si erige un muro con un murales enorme. Non so
nemmeno dire cosa ritragga, ma anche quello è vagamente angosciante. Non c’è un
briciolo di verde intorno, giusto un albero rinsecchito ogni cinquecento metri
e qualche aiuola spennata dall’erba bisunta. Insomma, un gran bel posto. Ora
capisco come mai costa così poco. E l’Interstate si sente, dannazione…
aveva ragione Chr- beh, posso sempre usare dei tappi per le orecchie.
Ho fatto la spesa, dopo
aver vagato alla ricerca di un supermercato decente e non di squallidi discount
che avevano tutta l’aria di essere spacci di droga – okay, forse sono un
tantino esagerata e facilmente impressionabile – e sono passata a recuperare il
pacco di vestiti. Che, naturalmente, non era ancora arrivato. Il che significa
che se la scena si ripeterà domani, lunedì dovrò indossare un vestito di carta
igienica fermato con delle spille da balia, di quelle giganti sullo stile dei
pannolini dei cartoni animati.
Potrebbero sempre
scambiarmi per Lady Gaga. Con molta, molta fantasia. Potrei tingermi i capelli
di rosso aragosta e giallo zafferano e mettere gli occhiali alla John Lennon
per camuffarmi meglio. Dubito però che mi lascerebbero entrare anche solo nella
metropolitana.
Non sono passata a
salutare zia Libby. Dopo la questione delle spedizioni ero talmente incavolata
e depressa che ho deciso di svuotare un piccolo barattolo di gelato davanti al
mio laptop, sul cui schermo scorrevano le immagini di Midnight in Paris. Vorrà dire che la chiamerò un giorno o l’altro.
Non sono nemmeno andata
a visitare la città con Anne e Cooper. Ho semplicemente visto da lontano l’Art
Decò District mentre li accompagnavo all’Ikea per comprare un armadio nuovo. Sono
tornati con l’armadio, una scrivania e tre lampade strane. Ho approfittato per
comprare asciugamani, lenzuola e biancheria in generale, così che posso
bruciare quella che ho trovato nell’appartamento. E Anne mi ha regalato una
tazza che cambia colore quando la riempi col caffè o tè caldo. “Nella speranza
che il calore di un uomo ti possa ridonare la spensieratezza di una
ventiseienne e la dolcezza di una donna, che al momento è... sparita”, ha
detto, con la fronte aggrottata, mentre riponeva la tazza nel carrello. Inutile
dire che le ho rivolto uno sguardo talmente assassino che il tizio della sicurezza
di quel reparto stava quasi per intervenire.
In ultimo, ho capito
come arrivare al lavoro. La stazione della metropolitana è a cinque minuti dal
mio appartamento, e mi ci vogliono tre fermate per arrivare a destinazione. Si può
dire che questa sia l’unica scoperta positiva della giornata. Il picco di nevrosi
l’ho raggiunto quando ho incrociato l’inquilina del piano di sopra: una
studentessa con gli occhi cerchiati pesantemente di nero, una tracolla talmente
lunga che strusciava a terra, un’imminente stempiatura che probabilmente si è
provocata da sola e un colorito verdognolo di chi fuma l’erba un secondo sì e l’altro
pure. In un lampo di follia ho quasi pensato di trasferirmi da zia Libby coi ventordici
gatti e il canarino, ma per una volta ho voluto essere ottimista.
È con questo pensiero
che vado a dormire, stringendo il cuscino fasciato dalla stoffanuova e profumata, lasciando che la speranza
di iniziare col piede giusto questa nuova vita mi accompagni nel sonno.
**********
E così, è arrivato il
fatidico lunedì.
È terribile quando il
tuo primo giorno di lavoro capita di lunedì. Non solo il lunedì è già
traumatico di suo: voglio dire, dopo il weekend – a prescindere da quanto
“libertino” sia stato – riprendere le normali attività è dannatamente
difficile, in più mettiamoci il doversi ambientare in una nuova città, con un
nuovo primo importante lavoro, con nuovi colleghi, nuovi orari, nuovo tutto.
Io sono una disadattata
quando si tratta di queste cose, meglio che lo sappiate. Odio i cambiamenti.
Non mi ci so abituare, ecco.
Il che mi renderà ancora
più nevrotica, scortese, insopportabilmente acida e sarcastica del solito. Ma
forse non è saggio mostrare la mia vera natura il mio primo giorno di lavoro.
Fortunatamente oggi faccio mezza giornata, per iniziare. Così almeno se
l’impatto dovesse rivelarsi troppo traumatico, ho sempre l’altra metà per
assimilare tutto.
Mi sono alzata un’ora
prima, per essere sicura di arrivare in anticipo – il mio secondo nome in
realtà non è Violet, è Ritardo – e – ah, e puntualmente litigo con chi mi
aspetta perché odio essere nel torto – ora sono seduta al tavolo della cucina
fissando la mia colazione all’americana. Uova, bacon, pancake. Non ho fame.
Sento che l’ansia si sta avvicinando pericolosamente al mio stomaco, come le
mani della strega della Sirenetta che vogliono prendere la sua voce. Facciamo
che metto tutto in frigo e scendo a prendermi un caffè, eh?
***
“Macmillan Publishers
Ltd”
Ci siamo. Con dieci
minuti di anticipo e quasi trenta centilitri di caffè nello stomaco –
annacquato come solo gli americani sanno prepararlo – varco la soglia dell’edificio
che ospita, agli ultimi due piani, una delle case editrici emergenti di Miami. Gli
altri due piani, ovvero i primi due, sono la sede di uno studio legale importante,
se ho capito bene.
La prima persona che
vedo, quando arrivo al terzo piano e spingo la gigantesca porta a vetri, è un
uomo sulla quarantina, con un taglio alla moda – un trascurato fatto apposta,
con un ciuffo per aria che gli dona un’aria sbarazzina e affascinante – e il
pizzetto. Due occhi scuri mi scrutano con interesse.
«Salve, posso aiutarla?»
Mi chiede, gentile ma sbrigativo.
«Sì, sono la nuova
traduttrice, Elettra W-»
«Ah, finalmente! C’era
parecchia fibrillazione in studio per il tuo arrivo, Elettra. Bel nome, tra
parentesi. Io sono Tony, è un piacere fare la tua conoscenza. Posso darti del
tu, vero?» Questo tizio già mi piace. Stringo la sua mano e scopro che ha una
presa salda e sicura.
«Certo. Il piacere è mio,
Tony. Sapresti indicarmi dov’è l’ufficio del capo?» Gli domando con un sorriso.
Lui annuisce e con un gesto della mano richiama l’attenzione di una ragazza che
sta sistemando dei giornali su uno dei tavolini bassi alla nostra sinistra. È
molto carina, sembra timida, coi capelli castani, gli occhi azzurri e la
frangetta.
«Elettra, lei è
Alexandra, la nostra segretaria. Dolce come uno zuccherino e innocua come una
colomba. Se hai qualsiasi tipo di dubbio o richiesta, puoi chiedere a lei.
Alex, puoi accompagnare la signorina all’ascensore? Deve presentarsi a
rapporto!» E, con un gesto della mano che imita quello di un militare,
scompare. Che tipo!
Guardo Alexandra e le
sorrido, stringendo con impazienza la mia borsa in attesa di incontrare Macmillan
in persona.
«Ti troverai bene qui,
vedrai. Sono tutti molto simpatici e c’è un atmosfera abbastanza familiare.» Mi
spiega Alexandra mentre ci incamminiamo verso un’altra porta vetrata alla
destra della reception. Da quello che posso vedere da qui, la porta dà su un
lungo e ampio corridoio, con tre porte sulla parete destra e una sulla parete
sinistra, in fondo.
La reception, c’è da
dire, mi è sembrata molto ben fatta. Come accoglienza, nell’arredamento, è
fantastica. Il banco è di una particolare forma ondulata, e sul soffitto ci
sono tanti faretti che di sera devono essere strepitosi. Alla sinistra del
banco, c’è un grande spazio con dei divani, diverse poltrone, e in mezzo tanti
tavolini bassi, tutto nei toni del marrone, rosso scuro e panna. Sulle pareti
attorno ai divani, oltre alle finestre ci sono tante mensole in ordine sparso e
quasi messe a caso, ma in maniera simpatica, piene zeppe di libri di ogni
genere.
Quando Alexandra apre la
porta vetrata e imbocchiamo il famoso corridoio, vedo la zona operativa della società.
Sulla sinistra ci sono due grandi spazi aperti, separati da un tramezzo, con
tre scrivanie ciascuno, oltre a scaffali, mobili, ripiani e varie attrezzature
d’ufficio. Dopo questi spazi, c’è una stanza di discrete dimensioni, con due
scrivanie praticamente vuote. Ogni stanza che abbia una porta, noto, è
completamente “aperta” a tutti gli sguardi. Vanno pazzi per le porte a vetri,
insomma. Però ci sono delle veneziane, o almeno così mi sembra d’aver intravisto.
Sulla destra del corridoio, invece, ci sono effettivamente tre porte: due sono
uffici, uno addirittura con la parete esterna in vetro, l’altro solo la porta.
Sono entrambi abbastanza grandi, o almeno più di quello di fronte, con la
differenza che hanno una sola scrivania, con due sedie davanti. Immagino che
uno sarà l’ufficio dell’editor. La terza porta, invece, è a doppia anta, ma è
colorata. In alto leggo la scritta “Toilette”. Wow.
«Questo è l’ascensore,
non puoi sbagliarti, va solo al piano di sopra. Che è anche l’ultimo, quindi
non puoi fuggire da qui.» Mi informa Alexandra, ridacchiando. «Io devo tornare
in reception, se hai bisogno di qualcosa chiamami.»
«Grazie, a dopo.»
Non ho potuto fare a
meno di notare, penso mentre salgo in ascensore, che tutto il piano era
praticamente vuoto, fatta eccezione per Alexandra e Tony. Forse perché non sono
ancora le nove. Eh sì, effettivamente…
#Din#
Le porte si aprono
velocemente su una grande stanza con un pavimento in marmo rosa antico e la
parete di fondo in listelli di legno marrone scuro, dove spicca una scrivania in
vetro – saranno fissati? – e legno, dietro la quale è seduta una graziosa donna
bionda, coi capelli raccolti in uno chignon e un paio di occhiali dalla
montatura rettangolare.
«Buongiorno, io sono
Elettra Wayne, la nuova traduttrice.» Mi presento, porgendole la mano che lei
stringe prontamente.
«Certo, ti stavamo
aspettando. Io sono Nancy, l’assistente di Martin.» Mentre parla con me, pigia
un tasto sul telefono e alza la cornetta.
«Martin, c’è Elettra
Wayne, posso farla entrare? Bene.» Riattacca e si alza, lisciandosi il tailleur
pantalone che ha un’aria davvero costosa. Mentre raccoglie alcuni fogli di
carta dalla scrivania, mi guardo intorno. Da un lato della “reception dei piani
alti”, come per il piano di sotto, ci sono due divanetti di pelle scura e un
tavolino basso al centro. Dall’altro lato, c’è un’esposizione di libri. Su una
parete c’è una bacheca, con tanti articoli di giornale esposti. Nancy mi guida
oltre la parete alle spalle della scrivania che dà su un corridoio e cinque
stanze: tre sulla sinistra e due sulla destra, di cui una praticamente enorme. La
prima a sinistra è un bagno, a giudicare dalle porte uguali a quelle del piano
di sotto; la seconda è una sala riunioni, o almeno credo, e la terza è un
ufficio. Noi ci stiamo dirigendo verso la stanza sulla destra. Ovviamente, il
capo ha la stanza più grande.
Nancy bussa alla porta –
che stranamente non è in vetro – e si sente un “Avanti, avanti” chiaro e tondo
proveniente dall’interno. Entriamo e Nancy, dopo aver lasciato quei fogli sulla
scrivania di Martin, va via chiudendo la porta. Nella stanza ci sono due
uomini, uno seduto alla scrivania e uno in piedi, di spalle. Quando quello
seduto, che suppongo sia Macmillan, mi fa cenno di avvicinarmi, il tizio di
spalle si volta e mi rivolge un sorriso. È alto, coi capelli di un colore
indefinito tra il castano chiaro e castano scuro, passando anche per il rosso,
e un lieve accenno di barba. Occhi chiari, vestito elegantemente con camicia
bianca e gilet blu, abbinato ai pantaloni classici dello stesso colore. Ha
perfino la cravatta.
«Ehm, salve.» Mormoro.
Macmillan si alza dalla scrivania e si allunga per darmi la mano.
«Benvenuta, Elettra. Io
sono Martin Macmillan, ma puoi chiamarmi Martin. Lo sai già, ma lo ripeto
perché è una pappardella che tocca a tutti: sono il direttore editoriale, il
fondatore di questa casa editrice. Tutto quello che accade qui dentro passa
sotto i miei occhi, tutti gli scritti devono avere la mia approvazione. È dura
essere il capo, già. Ma ho validi collaboratori, a partire da questo losco
individuo che vedi qui. Lui è Thomas Blackwood, l’amministratore delegato. Il
mio vice.» Stringo la mano anche a lui, e lui con mia somma sorpresa se la
porta al viso e vi posa un lieve bacio. Oddio, davanti al capo? È impazzito.
«Quando non ci sono io, tutti quanti rispondete a lui. So che non fa paura a
vederlo così, ma un po’ dovresti averne.» Ride, e Thomas lo guarda come a dire
“Ma cosa stai dicendo?”.
«Se ci vuoi scusare un
attimo, Thomas, riprendiamo il discorso dopo. Io illustro ad Elettra tutto ciò
che le serve sapere per iniziare al meglio la sua esperienza qui.» Dopo averlo
congedato, mi fa cenno di sedermi su una delle poltrone davanti alla scrivania.
Oddio, sono comodissime. Quasi ci affondo dentro.
«Dunque. Qualcosa te
l’ho già detta telefonicamente, ma ribadiamo tutto per esserne sicuri. Gli
orari sono 9,00 – 13:30 e 14:30 – 18:30, ma quando siamo sotto pubblicazione è
probabile che si finisca molto più tardi. Questo capita spesso quando qualcuno
non fa il proprio lavoro giorno per giorno, cosa che non ti consiglio di fare,
o la tua vita qui durerà davvero poco.»
«Non ne ho alcuna
intenzione.» Ribatto prontamente, e lui sorride. Mentre parla mi scopro a
pensare che, da ragazzo, doveva essere un uomo davvero affascinante. In realtà
lo è ancora adesso, nonostante i cinquanta e passa anni; sarà per questo che lo
chiamano “scapolo d’oro”, in giro.
«Benissimo. Il tuo
lavoro, come ben sai, consisterà nel tradurre i manoscritti, e dico manoscritti
perché a volte questi ci arrivano prima che siano pubblicati nella lingua
originale, quindi ancora privi della loro veste grafica e di qualche ultima
correzione dell’ultimo minuto. Avrai un limite di tempo appropriato a seconda del
libro in questione, e se dovrà essere tradotto in più lingue potrai essere
affiancata da qualcun altro. Pensando alla nostra ultima conversazione, però,
ho pensato che se necessario, potresti dare una mano al nostro editor, vista la
tua passione per i libri in generale. Anche nel curriculum hai scritto che ti
piacerebbe diventare correttrice di bozze, non è così?»
Annuisco con vigore.
«Sì, è così. Mi è sempre piaciuto correggere cose scritte, che fossero temi a
scuola o canzoni o diari personali…» Ops, forse
quello era meglio non dirlo. Martin sembra non farci caso.
«Bene. Come saprai, il
redattore, o editor, ha studiato tanti anni per arrivare a fare questo
mestiere. Non si può partire da zero e pretendere di correggere da sola un
manoscritto, ma puoi affiancarlo, aiutarlo quando ne ha bisogno, in compiti
meno complessi, per iniziare.» Fa una pausa per bere un sorso di caffè. «Quello
che voglio, Elettra, è che ognuno dei miei dipendenti sia completo; non dico
formato a trecentosessanta gradi, né pretendo che siate tutti interscambiabili,
perché in un lavoro come questo è difficile esserlo in breve tempo, ma se tutti
collaborano tenendo presente il fine comune, e magari anche con la voglia di
imparare qualcosa di nuovo, allora ne varrà decisamente la pena, in tutti i
termini.»
Annuisco, estasiata.
Sento che mi troverò alla grande, qui.
«Ottimo. Ora Nancy ti
farà fare il giro degli uffici e ti presenterà i tuoi nuovi colleghi. Ormai
dovrebbero essere arrivati tutti.» Prende una sigaretta dal taschino della camicia
e chiama la sua assistente all’interfono. Due secondi dopo Nancy compare sulla
soglia della porta, e io la raggiungo, dopo aver salutato Martin.
«Seguimi, Elettra.
Quanti anni hai?» Mi chiede, spostandosi a destra dell’ufficio di Martin, verso
l’ultima stanza del corridoio.
«Ventisei, tu?» Senza
neanche bussare, apre la porta e facciamo irruzione in quello che credo sia
l’ufficio di Thomas. Lui è in piedi accanto alla finestra, impegnato in una
conversazione telefonica. Si volta e fa un gesto della mano in segno di saluto,
indicando poi il telefono.
«Io trentatré. Lui è
l’amministratore delegato, Tommy. Simpatico, ha sempre una perla di saggezza da
dispensare, a volte risulta un po’ arrogante. Non ho ancora capito
effettivamente se ci è o ci fa, credo che la “scalata” verso il ruolo di
direttore lo stia facendo diventare parecchio ambiguo. È gentilissimo,
comunque. Un vero lord.» Mi spiega Nancy, mentre apre la seconda porta, che dà
su una grande stanza con un enorme tavolo ovale al centro e diversi mobili. In
fondo c’è una di quelle lavagne con i fogli che usa il Dr House e un proiettore
sulla parete.
«Questa, come avrai
immaginato, è la sala riunioni. Quando si riempie di gente sembriamo quasi una
società seria.» Ridacchia. Ha un senso dell’umorismo molto simile al mio, mi
piace. E per piacere a me, ho detto
tutto.
Apre la terza porta, che
dà su un bagno non troppo grande, ma sufficiente per la quantità di personale
che lavora su questo piano. Forse va un po’ in sovraffollamento durante le
riunioni.
«Ah, quello di fronte
allo studio di Tommy è una specie di magazzino. Teniamo le scorte di tutto il
materiale “scortabile”: carta, cancelleria, accessori dei computer e via
dicendo.»
Quando torniamo al piano
di sotto, sembra di stare in un altro ufficio: gente ovunque, rumori di fax,
stampanti, click vari. C’è un piacevole chiacchiericcio di sottofondo e un
odore di caffè.
«Avete le macchinette?
Per il caffè, intendo.» Chiedo a Nancy e lei scuote la testa.
«Sì, una nella reception
e una nell’antibagno di sopra, ma non le usiamo mai. Abbiamo una convenzione
con lo Starbucks dall’altro lato della strada. Se chiami puoi ordinare
qualsiasi cosa sul conto della società, dando il tuo codice personale. Te l’ha
dato Alexandra?» Faccio segno di no con la testa.
«Non eri ancora un
membro ufficiale della Macmillan Publishers, dieci minuti fa, senza la stretta
di mano del grande capo.» Ridacchia lei.
«Bonjour! Buenos dias! Doh-bro-ya
ooh-tra!» Un ragazzo con un sacco di capelli scuri e una camicia
rossa stile Clark Kent aperta su una maglia nera, mi si para davanti tutto
sorridente.
«Ehm, ciao.» Gli rivolgo
un sorriso tirato e allungo la mano. «Elettra.»
«Lui è Mike, il nostro
super tecnico informatico. In realtà è un impaginatore, ma all’occorrenza
diventa peggio di un hacker. A proposito, devi controllare il computer di Duke.»
Nancy indica la stanza accanto alla toilette, poi torna a rivolgersi a me.
«Quello è per l’appunto il suo ufficio, ma oggi il redattore non c’è, è fuori
città per delle commissioni. Non c’è nemmeno Tony, oh, lui devi conoscerlo, è
uno spasso.»
«L’ho conosciuto,
credo.» Replico, abbastanza convinta che quel Tony sia lo stesso che ho
incontrato prima.
«Tony Shark? Davvero?
Era in ufficio?» Ribatte lei, sorpresa.
«Sì, è stata la prima
persona che ho visto... però è subito andato via. Ehi, sul serio si chiama Tony
Shark?»
«Sì, Iron Man
sbagliato.» Ride. «Lo ucciderò, perché non è venuto a salutarmi?» Sospira e
scuote la testa.
«Bene, alla tua destra
c’è il tuo ufficio, mia cara Elettra.» Indica la stanza con due scrivanie,
vicina all’ascensore. Sono sicura di avere gli occhi che brillano.
«Per chi è l’altra
scrivania?» Domando, confusa.
«Per me!» Una ragazza
più giovane di me, capelli castani, occhi verdi e un’aria terribilmente vivace
appare magicamente davanti a noi. «Io sono Lilian Bradshaw, ma puoi chiamarmi
Lily. Sarò la tua ombra!» Oh, Dio, no. Vi prego, non affidatemi marmocchi.
«Ah...» Provo a ridere
ma non mi riesce molto bene. «Sei... mmm... una...?»
«È una stagista, un po’
il jolly della crew. Sta studiando lettere e lingue, quindi potrà tranquillamente
aiutarti qualora ne avessi bisogno.» Interviene Nancy. Mmm, allora non sarà poi
una stupida. E sono piuttosto sicura, ora che la guardo meglio, che abbia
praticamente la mia età.
«Questi sono i polmoni
della società.» Prosegue Nancy, indicando le due “isole” operative, divise non
da un tramezzo, come avevo pensato inizialmente, ma da una sottile parete
attrezzata divisoria, davvero carina e anche utile. Delle sei scrivanie
complessive ne sono occupate soltanto quattro.
«Buongiorno, bella
gente. Questa è la vostra nuova collega, Elettra, che prenderà il posto di
Jessica, la vecchia traduttrice.» Per un istante, mi domando che fine abbia
fatto questa Jessica. Poi vedo le facce sorridenti dei ragazzi e mi
tranquillizzo un po’.
«Io sono Daniel. Walker.
Ma tutti mi chiamano Danny.» Dice un ragazzo dai capelli scuri e con un paio di
occhiali che sembrano messi più per bellezza che per necessità, alla Johnny
Depp. Quando si alza per stringermi la mano, scopro che gli arrivo poco sopra
la spalla. Ma cos’è, un metro e novanta?
È un pezzo di figliolo, cavolo. Due spalle, wow! Questo
posto è il paradiso!
Mi scopro a pensare, in
un remoto angolino della mia mente, che dev’essere alto come Christian,
centimetro più, centimetro meno, e mi maledico subito. Come mi salta in mente
di pensare a quello?
«Insieme a quella
piattola dietro di te – indica Mike – mi occupo della “riuscita grafica ed
estetica dei libri”.» Continua Danny, mimando le virgolette. «Preso pari pari dal mio curriculum. Adoro dirlo.»
Scoppio a ridere e
annuisco. La terza scrivania è vuota. Nancy sembra leggermi nel pensiero e si
affretta a spiegare. «Qui lavora il freelance di turno, ultimamente è Margot,
che aiuta Duke nella correzione delle bozze.»
Margot. Già il nome non
mi piace. Mi ricorda quella tettona di Lupin.
Passiamo all’altro
“blocco”, dove ci sono una ragazza che ha tutta l’aria di essere una precisina
e un tipo piuttosto anonimo, somiglia all’attore che ha fatto il signor Bingley
in Orgoglio e Pregiudizio... Simon qualcosa, tipo. Ha i capelli rossi e gli
occhi azzurri. È proprio lui il primo ad alzarsi per presentarsi.
«Ciao, sono Christopher,
il webmaster. Mi occupo del sito web della Macmillan Publishers e affianco Tony
come assistente addetto stampa.» Bene, presentazione soddisfacente. Sono tutti
molto concisi, noto.
La ragazza precisina,
invece, si presenta come Clara, la contabile. Mi stupisce un po’ il fatto che
non si trovi al piano di sopra, visto che si occupa di cose che riguardano più
Martin che tutti noi, ma in fin dei conti non mi interessa più di tanto il
motivo di questa decisione.
«Quello, infine, è
l’ufficio di Tony. Come vedi è incasinatissimo. Il promotore editoriale, o
addetto stampa, ha sempre un gran bel lavoro da fare. È spesso in giro in
presentazioni e cose varie, magari qualche volta puoi chiedergli di
accompagnarlo. È uno spasso, giuro. Un altro scapolo d’oro. Un pensierino ce lo
farei, se non fossi impegnata con Andrew.» Sussurra, con un sorriso innamorato.
Non so se di Andrew o di Tony.
«Pazienza.» Commento,
con un’alzata di spalle e un sorriso.
«Quindi, credo di aver
visto tutto adesso. Posso andare nel mio ufficio?» Wow, mi sento super
importante. Ho un ufficio tutto mio!
«Certo. Ti mando subito
Lily.»
Beh, da condividere con
una stagista spero non troppo invadente. Lo spero per lei, naturalmente.
~ Note
Capitolo che sembra di transizione ma non
lo è del tutto. Ci sono alcuni riferimenti al passato di Elettra che solo i più
arguti lettori avranno colto ò_ó (seh, manco stia scrivendo un romanzo di
Agatha Christie. Potete anche lanciarmi i pomodori, adesso).
Così, abbiamo scoperto cosa fa Elettra
nella vita, e chi la accompagnerà in questo nuovo percorso. A proposito dei
nuovi colleghi, ci tengo a sottolineare il tributo a Pearl Harbor (meraviglioso film, se non l’avete visto dovete
assolutamente rimediare!) attraverso il caro “Danny Walker” e il tributo al
mitico “Tony Stark”, alias Iron Man,
di cui mi sono divertita a storpiare il cognome per usarlo a mio uso e consumo
nella storia.
Bon, non vi dico più nulla...
...se non che la frase “Alcuni hanno la capacità di tornare
indietro, direttamente o indirettamente, sempre nell’istante in cui la corda si
sta spezzando” è una citazione liberamente scopiazzata da inveceerauncalesse, blog su Tumblr.
Rendiamo a Cesare ciò che è di Cesare.
Nel gruppo trovate un
album con i volti dei personaggi, nel caso v’interessasse. E un disegno dei due
piani della Macmillan Publishers, per capirci qualcosa della disposizione interna,
che mi rendo conto sia un po’ difficile da immaginare dalla descrizione.
Spoiler del prossimo capitolo:
Se, in questo preciso istante,
potessi avere degli elettrodi attaccati al cervello, l’encefalogramma
risulterebbe piatto.
Secondo
una delle versioni, le Pleiadi erano le compagne vergini di Artemide, la dea
della caccia.
Orione,
il famoso cacciatore, le inseguiva per tutta la terra e loro fuggirono nei
campi della Beozia.
Perseguitate da Orione, vennero mutate in stelle da Zeus.
«Ti giuro che questa cosa del badge col codice
personale è strepitosa, sembra di avere una carta di credito illimitata per
Starbucks! Infatti credo che ingrasserò a dismisura. Devo chiedere a Nancy dove
va in palestra, perché con un fisico del genere deve per forza andare in palestra.»
«Oppure fa tanto sesso.» Ecco, in momenti come
questi posso dire che Eva non mi manca per niente.
Alzo gli occhi al cielo, esasperata dalle sue
continue battutine. «E per chi non fa sesso ci sono le palestre.» Replico,
piccata.
«Ma il sesso è gratis. E dopo stai da Dio.»
Niente, non c’è nulla da fare con lei.
«Ciao, Eva, devo andare al lavoro!» La saluto e
senza aspettare la risposta, attacco. Così impara.
Attraverso la strada col mio bel bicchierone di
cappuccino alla vaniglia e approfitto di un avvocato che sta entrando per farmi
tenere aperta la porta.
«Grazie.» Gli dico, e corro su per le scale.
Sono quasi in ritardo. Quasi. Ma naturalmente non è colpa mia, è la commessa
che ci ha messo sette anni per preparare il caffè.
Mentre sto salendo, vedo qualcuno che sta
facendo lo stesso. È Danny, che si volta a guardarmi e mi saluta con un
sorriso.
«Buongiorno, dormito bene?» È di una gentilezza
e tenerezza disarmante, nonostante il fisico da nuotatore che potrebbe far
pensare il contrario.
Perché,
i nuotatori sono dei buzzurri?
Come al solito non hai capito cosa intendevo
dire.
«Sì, abbastanza.» La mia risposta standard.
«Scusa ma sono in ritardo.» Gli spiego, prima di superarlo in velocità nella
seconda rampa di scale. Anche lui deve entrare allo stesso orario, e quindi è
in leggero ritardo come me, ma a) lui lavora qui da chissà quanto, non è
l’ultimo arrivato come la sottoscritta e b) avere una persona che arriva in ritardo
dopo di te è sempre meglio che essere la persona che arriva in ritardo
dopo un’altra, vi pare?
«Buongiorno!» Mi saluta cordiale Alexandra
appena varco la soglia della reception, leggermente affannata. Seduti ai
divanetti ci sono un paio di persone, ben vestite, che stanno leggendo
qualcosa. Dietro il banco c’è un’altra ragazza che ieri non ho visto. Forse
aiuta Alex che, poverina, altrimenti starebbe da sola tutto il giorno.
Corro nel mio ufficio salutando soltanto con un
cenno della mano i ragazzi seduti alle scrivanie – quelli che ci sono, almeno.
Qualcuno manca ancora – e trovo Lily già dentro che sta sistemando diversi
plichi sulla mia scrivania.
«Buongiorno.» Mi sorride, allegra come sempre.
«Questi sono freschi freschi, li ha portati Tony qualche
minuto fa. Mi ha detto di dirti di andare nel suo ufficio, appena puoi.» Mi
informa, e io annuisco. Poso la borsa sulla scrivania e la giacca sulla sedia e
mi liscio la camicetta, pronta ad un tête-à-tête col
gran simpaticone. No, davvero mi è simpatico. Però mi dà l’impressione di
quelle persone che stanno sempre a prendere in giro gli altri... come me,
praticamente. Mhm.
«Elettra...»
«Sì, vado, vado.» Vado. Sto andando. Un minuto.
Camminando
verso l’ufficio di Tony, noto che quello dell’editor,
Duke, è ancora vuoto.
Busso alla porta, e senza aspettare, entro. Come
ieri, nello studio di Martin, anche oggi c’è Tony seduto alla scrivania e un
tizio di spalle che gli sta dicendo qualcosa; quando si accorge della mia
presenza, si volta. Succede tutto molto velocemente.
Se, in questo preciso istante, potessi avere
degli elettrodi attaccati al cervello, l’encefalogramma risulterebbe piatto.
«Chi non muore si rivede.» Christian mi saluta con
un bel sorriso e la solita aria canzonatoria. Non sembra affatto sorpreso di
vedermi.
«E tu che ci fai qui?» Io invece sono
sbigottita. Anzi, di più, sono sgomenta.
«Ci lavoro.» Risponde lui, con tutta la
semplicità di questo mondo.
«Cosa? No, tu mi hai detto di lavorare per...»
Mi blocco, in effetti non mi ha mai detto cosa facesse per lavoro. Chissà
perché lo immaginavo nel campo delle pubbliche relazioni o qualcosa del genere.
«Sono il redattore, Elettra.»
Scoppio letteralmente a ridergli in faccia. «Sì,
e io sono Martin Macmillan, piacere.» Allungo la mano
ma lui non la stringe. Non è serio ma non è nemmeno divertito. Ha la sua solita
espressione che non sopporto, perché non capisco cosa gli passi per la testa.
«No, aspetta, il redattore si chiama Duke, lui-» Non faccio in tempo a finire
che vengo travolta dalla sua risata, stavolta. Anche Tony ride di cuore,
portandosi una mano sull’addome. Ora prendo le loro teste e le uso come
maracas.
«Duke è il soprannome che mi hanno dato per via
del mio cognome. John Wayne, hai
presente? Lo chiamavano “il duca” o, in inglese, “Duke”.»
Che dicevo, sono sgomenta? No, sono
letteralmente scioccata.
Se uno più uno fa effettivamente due, Christian
Wayne è il mio CAPO.
C-A-P-O. Oddio. No, odio questo lavoro.
Cos’ho detto l’altro giorno? Che volevo essere
ottimista? Beh, non avrei dovuto nemmeno pensarlo. L’ho sempre detto che
l’ottimismo è l’inculata della vita.
«Ehm, deduco che vi conosciate già?» Si
intromette Tony per, non so, salvarmi dall’essere inghiottita dal pavimento?
Mi viene da ribattere “Purtroppo sì”, ma mi
interrompo ancor prima di iniziare: non sarebbe saggio dire che lo conosco,
visto che ormai le raccomandazioni sono all’ordine del giorno. Non voglio che
lui pensi che abbia ottenuto questo posto per-
«Sì, abbiamo passato una notte insieme a Roma,
la settimana scorsa.»
COSA?!
Non so esattamente se prendere a pugni Christian
per la frase talmente equivoca che ha appena detto, o Tony, sperando che gli
venga un trauma cranico e dimentichi tutto.
«Ah! Ti tratti sempre bene, Wayne.» Ammicca Shark e quell’altro imbecille non fa nulla per spiegare il
qui pro quo.
Grazie
al cavolo, l’ha inventato lui, il qui pro quo!
«No, non è vero! Cioè sì, ma non è come sembra.
In realtà-»
«Allora ci vediamo dopo nello studio di Martin
per discutere di quelle cose.» Dice Christian a Tony, ignorando totalmente il
mio tentativo di spiegare come sono andati i fatti, e poi va via. Osservo con
la bocca spalancata la porta chiudersi e poi torno a guardare Tony.
«Ti assicuro che non è come dice lui. Mi è
piombato nella stanza, lui... io non lo conoscevo nemmeno!» Blatero cercando di
salvare la situazione. Lui mi ascolta interessato, con il viso sulla mano e le
sopracciglia sollevate.
«Sesso tra sconosciuti, wow. Se vuoi provare anche
con me faccio volentieri finta di non conoscerti.» Sorride smagliante, e sento
un’ondata di rabbia risalirmi lungo ogni singolo nervo. Esco decisamente
furiosa dall’ufficio di Tony e, infischiandomene delle buone maniere, entro in
quello di Christian e sbatto la porta. Cacchio, forse non è una buona idea
sbattere la porta a vetri. La guardo per constatare eventuali danni, e appurato
che non ce ne sono, coi pugni stretti e la faccia livida mi avvicino alla
scrivania dove si è appena seduto, tranquillo.
«Ti senti bene?»
«MI SENTO BENE?! MI SENTO BENE?! Christian, ma che ca-» Elettra, respira. «Che diamine ti salta in mente?! Abbiamo
passato una notte insieme a Roma?! Tu hai IDEA di cosa penserà di me ora
Tony? Tu hai IDEA di cosa sarebbe successo se l’avessi detto davanti a tutti?
Ma cos’hai al posto del cervello? I popcorn?! Dio mio che umiliazione!» Mi
passo una mano sul viso e cerco di calmarmi. Praticamente impossibile.
«Non vedo che bisogno c’è di agitarti tanto. Se
vuoi vado a dirglielo, che non c’è stato nessun tipo di contatto intimo. La notte insieme a Roma
l’abbiamo passata davvero, però, per quanto per te sembra essere stata
un’esperienza orribile.»
«Per te è tutto semplice, vero? Il grande
redattore, tu sei già “arrivato”. Io sto iniziando adesso, invece, Christian.
Preferirei che nessuno, neanche lontanamente e neanche per errore, pensasse che
ho ottenuto questo posto grazie a una conoscenza, specialmente di quel tipo.» E sono costretta a fermarmi,
perché le guance iniziano a pizzicare. Spero di non avere gli occhi lucidi. Lo
spero davvero. Io non piango davanti
alla gente. Io non piango e basta. Christian perde l’aria impertinente di poco
prima e per un attimo sembra davvero dispiaciuto.
«Mi dispiace, non ci ho pensato. Tony è un
amico, non trarrebbe mai conclusioni affrettate. E in ogni caso sapevamo tutti
del tuo arrivo molto prima che ci conoscessimo, quindi puoi stare tranquilla.»
Spiega lui. Riascolto mentalmente le sue parole e aggrotto la fronte.
«“Sapevamo”? Tu... tu sapevi già che sarei
venuta qui quando mi hai incontrata in albergo? Avevi capito che ero io?» Okay,
se prima ero scioccata, ora sono... non so neanche più come definirmi.
Traumatizzata, direi.
«Non credo esistessero molte Elettra Wayne in partenza
per Miami. Sì, ero abbastanza convinto che fossi tu.» Sorride.
«E perché non me l’hai detto?» Non ha senso
arrabbiarmi. La sua reazione calma mi fa irritare ancora di più. Circa un
milione di pensieri mi turbinano in testa.
Lui riflette un secondo prima di rispondere:
«Perché volevo che mi conoscessi come Christian, non come il tuo capo. Volevo
che ti comportassi in modo naturale, suppongo, senza essere condizionata da
altri elementi.»
Ora si spiegano tante cose: la sua espressione
quando gli ho detto il mio nome, il suo “se non dovessimo rivederci, è stato un
piacere”… lui sapeva che ci saremmo
rivisti!
«Cos’era, una sorta di esperimento sociale?»
Alzo gli occhi al cielo.
«L’ho fatto anche per me. Anch’io volevo
conoscere te in un ambiente il più
naturale possibile. Magari si avesse la possibilità di farlo con tutti… si
eviterebbero primi mesi imbarazzanti, sorrisi ingessati, frasi di circostanza.
Capisci cosa intendo?»
«Sì, ma io al posto tuo l’avrei detto comunque.
Potevi aggiungere qualcosa tipo “Però ora siamo in un albergo e tu mi stai
offrendo un posto nel tuo letto, quindi fa’ come se fossi uno sconosciuto
qualunque.”» Replico.
«E tu l’avresti fatto? Ti saresti comportata
come se fossi stato uno sconosciuto qualunque?»
«Sì, Christian. Io sono come mi hai conosciuta,
in qualsiasi circostanza e in qualsiasi situazione. Non so fingere, e per
questo mi ritrovo poca gente intorno. Ma adesso che sei il mio capo, queste
cose non posso raccontartele più. Buon lavoro.» E lo lascio lì, sentendomi il suo
sguardo sulla schiena mentre esco dalla stanza.
Incredibile. Stento ancora a crederci.
Se solo l’avessi saputo prima, altro che
pinzette per le ciglia.
Ma posso sempre rimediare, no?
***
Secondo una delle
versioni, le Pleiadi erano le compagne vergini di Artemide, la dea della
caccia. Orione, il famoso cacciatore, le inseguiva per tutta la terra e loro
fuggirono nei campi della Beozia. Perseguitate da Orione,
vennero mutate in stelle da Zeus.
Elettra era una delle
Pleiadi.
Ora posso ufficialmente battezzare Christian
Wayne come Orione.
Altro che Duke. Duca di questo...
Ehm.
«Toc toc.
Elettra?» Sono seduta alla mia scrivania con il mio primo manoscritto da
tradurre, quando la testa scarmigliata di Tony fa capolino dalla porta. «Posso
entrare un momento?» Annuisco.
«Non ho sedie su cui farti accomodare, spero non
ti dispiaccia. Magari quando avanzerò di livello...» Poi ci penso su, pensando
a chi mi ritrovo per capo. «No,
nemmeno allora.»
«Non preoccuparti... volevo solo...» Si volta a
guardare Lily, che sta lavorando alla sua postazione. Fa finta di lavorare ma
si vede che sta ascoltando ogni virgola. Non me la sento di mandarla via, manco
chissà quale segreto di stato debba dirmi Tony. «Volevo scusarmi per prima, non
intendevo mancarti di rispetto. Sei scappata con un diavolo per capello, e mi
sono sentito abbastanza un verme. Perdonami. Volevo solo scherzare.»
«No, scusa tu, non ce l’avevo con te.
Semplicemente non voglio passare per quella che non sono, ma non è colpa tua.
Dalle parole che ha usato Christian chiunque avrebbe tratto la conclusione
sbagliata.»
«Assolutamente no, io conosco Christian e so che
non farebbe mai una cosa del genere. Davo per scontato che lo sapessi anche tu,
cosa impossibile però perché non lo conosci, e ho fatto quella battuta
infelice. Sono stupido, decisamente.» Annuisce convinto.
Che vuol dire che Christian non farebbe mai una
cosa del genere? Che sono troppo brutta per lui? O che è troppo un gentiluomo e
non è uno da “una botta e via”? O che non mischia lavoro e vita privata? O che
ha una fidanzata?
Sento
parecchio caldo qui nel tuo cervello, Elettra. Smettila di pensare così
turbinosamente!
Comunque non mi interessa.
«Mmm, sì. No, tranquillo. Ti ripeto, non ce l’ho
assolutamente con te.» Cerco di mostrarmi il più convincente possibile. «Come
mai mi avevi chiamata nel tuo ufficio?»
«Ah, sì, mi serviva una mano con un’e-mail. Ho
contattato un’agenzia di Berlino per una probabile futura collaborazione e mi
hanno risposto in tedesco, idioti. Mi chiedevo se potessi girartela perché non
ci capisco nulla.» Si passa una mano sulla nuca e io ridacchio.
«Certo, te la traduco subito.» Se lo merita,
dopo essere venuto fin qui a scusarsi.
«Grazie mille.» Fa un mezzo inchino ed esce dal
mio ufficio. “Il mio ufficio”, ah ah! Ancora non ci credo.
Non faccio in tempo ad aprire Outlook Express
che Lily mi si para davanti con l’espressione di chi vuole spiegazioni. Ah, no,
bella. Non uscirà una sola parola da questa bocca.
«Cosa hanno appena sentito le mie orecchie? Sei
appena arrivata e già litighi con editor e promoter?
Wow, devi essere un tipo tosto!» Sorride a sessantacinquemila denti. Io la
ignoro, per quanto sia possibile ignorare una che si è praticamente spalmata
sulla tua scrivania.
«Dovrei leggere, Lil.»
Le dico, sperando che funzioni. Anche per me, intendo.
«Però poi mi racconti nella pausa caffè, vero?»
Ho la sensazione che si metterà in ginocchio se le dico di no.
«Io non racconto, Lily. Questa è una delle cose
fondamentali da sapere su di me.» Lei mi guarda con un’espressione confusa e
curiosa allo stesso tempo.
«Nemmeno nella pausa pranzo?»
«Ohhh, per l’amor del
cielo, TORNA A LAVORARE!» Alzo appena la voce e lei fila subito alla scrivania.
Ecco. Sono pur sempre il suo capo, che diamine. O almeno, uno dei suoi capi. Ma
non parliamo di capi.
Bene, finalmente sola col mio manoscritto. In
russo. È di un’autrice emergente che ha conquistato tutte le lettrici del suo
paese; dalla trama sembra una storia di guerra. Speriamo non sia la brutta
copia de “Il cavaliere d’inverno”.
***
Sono arrivata alla quinta pagina – di
trecentocinque, vorrei ben dire – quando intravedo Danny passare davanti alla
porta e indugiare qualche secondo prima di bussare. Faccio finta di leggere per
dargli l’agio di sistemarsi e trovare il coraggio di entrare.
«Avanti.» Dico, quando finalmente bussa.
«Ciao, vi ho portato due muffin caldi caldi. E il caffè alla vaniglia. Spero piaccia anche a te,
Elettra.» Posa il vassoio sulla mia scrivania e il delizioso profumo dei muffin
riempie l’ambiente, facendo brontolare appena il mio stomaco. Guardo
l’orologio, sono le undici e cinque. Effettivamente, ho un po’ di fame. Lily
scatta in piedi e raggiunge Danny che mi sta porgendo il bicchierone di caffè.
«Grazie tesoro.» Gli dice, passandogli una mano
sul braccio. Mhmm.
«Sì, mi piace, grazie del pensiero.» Sarò stata
meno calorosa di Lily, perché al mio ringraziamento Danny annuisce e si defila
senza aggiungere altro. Beh, che si aspettava? Un abbraccio? Non sono abituata
a queste cose in un ambiente lavorativo.
«È questa la “pausa caffè”?» Domando a Lily, che
sta raccogliendo una briciola dalla scrivania con il polpastrello. Lei
annuisce.
«Sì, di solito quando abbiamo tempo scendiamo a
coppie da Starbucks, ma oggi siamo tutti un po’ impegnati quindi scende uno
solo, oppure ce li facciamo salire da Rachel.» Spiega Lily. Wow, la pausa caffè
addirittura fuori dall’edificio era una cosa che mi sarei sognata al vecchio
studio a Londra.
«Rachel è la barista. È molto simpatica. Se
attacchi a parlare con lei non la finisci più.» Ridacchia. Quand’è che le ho
chiesto chi fosse Rachel? Devo essermi persa qualche passaggio.
«Mh-mh.» Mormoro,
sperando di chiudere il discorso.
«E per di più-»
«Lily, per favore. Ho altre trecento pagine
fitte di tante belle paroline russe scritte in Calibri dieci, tu sai cosa
significa? Che finirò per la notte dei tempi, invece Wayne vuole il manoscritto
tradotto per la fine della settimana.» Affermo, atona. Lei annuisce e si porta
due dita alla fronte. «Ricevuto, capo.»
«Bene. Quando avrò finito con le prime dieci
pagine, tu controllerai che non ci siano errori di sintassi. Poi proseguirai
con le successive dieci, e così via. Non dovrebbero esserci errori, ma può sempre
sfuggirmi qualcosa, specialmente se sono sottoposta ad interruzioni continue.
Ergo, più parli, più lavoro avrai da fare. Capisci il nesso tra le due cose?»
Ribadisco, sperando di non essere stata troppo brusca.
«Ahhh, quindi lo fai
per il mio bene?» Ribatte lei sarcastica, alzando le sopracciglia. Io sorrido.
Sì, sarà un’ottima collaboratrice.
***
«Pausa pranzo!» Sento un click e vedo Lily
alzarsi di scatto. Guardo l’orologio. Le 13:30 in punto. Quando vede che non mi
alzo, si ferma e aggrotta la fronte.
«Non vieni?»
«Ehm... no, io sono arrivata un po’ in ritardo
stamattina, dovrei restare altri dieci minuti...»
«Avanti, alzati!» Fa il giro della scrivania e
mi tira per un braccio, costringendomi ad alzare il sedere dalla sedia.
«Va bene, va bene, almeno fammi salvare!» Clicco
sull’icona del floppy e chiudo.
Quando usciamo dalla stanza, vedo gente andare e
venire per il corridoio, e il silenzio che c’era fino a poco fa è stato
sostituito da uno di quei gradevoli brusii che trovi in una rimpatriata tra
amici di vecchia data.
«Cosa vuoi per pranzo?» Mike compare nella mia
visuale con un blocchetto in mano che ricorda quello dei camerieri. Lily mi ha
spiegato che ordinano dei piatti pronti da una specie di trattoria vicina,
sempre con la convenzione di cui gode la società. Devo informarmi se ci sono
altri tipi di convenzioni, magari con qualche outlet della zona.
«Fanno un’ottima pasta al forno.» Comunica
Alexandra. Strano, non si direbbe una buona forchetta tanto è magra.
«Vada per la pasta al forno allora.» Sorrido e
Mike appunta celere sul suo blocchetto, poi passa a Tony che si è appena
materializzato in mezzo al gruppetto.
«Dove mangiamo?» Domando a Clara, l’unica che
non sta parlando con nessuno.
«Di solito al piano di sopra, nella sala
riunioni. Oggi dovremmo mangiare ognuno alla sua postazione, per non perdere
troppo tempo, ma siccome è il tuo primo pranzo qui faremo un’eccezione.» Chi ha
parlato purtroppo non è Clara. È Orione. Perché deve sempre impicciarsi in cose che non gli riguardano e interrompermi sempre quando sto dicendo qualcosa?
Sbuffo, per palesare la mia smisurata gioia al
suo intervento e mi concentro su quello che ha detto. Non poteva dire di
peggio. L’istinto di sopravvivenza invade ogni mia cellula e sento davvero che
potrei fuggire da un momento all’altro.
«Non è necessario, non serve l’iniziazione per
la pausa pranzo, davvero.» Borbotto, terrorizzata all’idea di trovarmi al
centro dell’attenzione. Ma a chi è che vengono queste idee?
«Non se ne parla, devi avere il migliore benvenuto
possibile.» Un’altra voce. È Thomas, che mi posa una mano sulla spalla e mi
rivolge un bel sorriso. Sono un po’ circospetta quando si tratta di lui, dopo
quello che mi ha detto Nancy, ma in fondo in fondo il mio istinto mi suggerisce
che non c’è niente da temere. Però la mano sulla spalla no, dai… mi conosci da
mezza giornata. Sono troppo calorosi qui dentro.
«Credevo di essere capitata in una casa
editrice, e invece mi ritrovo in una puntata di Friends!» Biascico, al telefono con Eva. L’ho chiamata per
disperazione, dopo essermi rintanata nell’ufficio.
Eva scoppia a ridere. «Dai, invece di essere
contenta che l’ambiente non è rigido e pesante... sei sempre la solita
lamentosa.»
«Non è vero. È che non sono compatibili col mio
carattere, io sono...»
«Rigida e pesante?»
«No, sono poco aperta alle relazioni sociali con
gli sconosciuti.»
«E io che ho detto?»
Sbuffo. In lontananza sento qualcuno che dice “È
arrivato il pranzo!” e mi trovo costretta ad interrompere la mia adorabile
conversazione con la mia adorabile sorellina, con la promessa di risentirci
presto.
Va bene, andiamo in guerra.
Cioè, a pranzo.
In sala riunioni c’è un odore pazzesco di cibo
che ha tutta l’aria di essere ottimo. Vedo che Lily mi ha preso il posto accanto
a lei. Ti prego, fa’ che non capiti vicino a Chris-
Ah-ha.
Signora Sfiga, ma che problema hai con me? No, perché sono disposta a parlarne.
Gentilmente ed educatamente. Metto via la spranga, promesso.
«I posti sono... ehm, assegnati?» Sussurro a Lily.
Dici di no. Dici di no.
«Sì. Almeno, non ufficialmente, ma
ufficiosamente ci sediamo così da secoli. Perché, non ti piace questo posto?»
Lily non sembra percepire il mio disagio. Intanto posso quasi sentire lo
sguardo di Christian che mi brucia la nuca.
«No, non... non importa. Chiedevo.» Tuffo la
forchetta nella pasta e mugolo di piacere quando assaggio questa delizia.
«È davvero buona.» Mormoro, più a me stessa che
agli altri.
«Allora, Elettra...» È Tony a parlare. No, no,
non dirlo... «Raccontaci un po’ di te.»
Ora mi alzo e mi strappo i capelli.
Faccio una risata più falsa del seno di Victoria
Beckham e scuoto la testa.
«No, dai... non mi sembra il caso.» Asserisco,
intimandogli con uno sguardo da killer di chiudere l’argomento.
«Ma come, abbiamo organizzato questa bella
tavolata solo per te e tu ti neghi in questo modo?» Tony, non farti odiare più
del necessario, ti prego. Guardo Nancy che mi rivolge un’occhiata comprensiva e
Alexandra che sorride solidale.
«Elettra non ama parlare di sé. È un tipo
riservato.» Un commento del genere me lo sarei aspettato da Lily, non da
Orione. Quest’uomo non fa altro che sorprendermi. Il più delle volte
negativamente parlando, s’intende.
Al suo commento tutti si zittiscono e Tony
desiste dal coinvolgermi nella conversazione. Sembra che abbia parlato Dio.
Wow.
«Beh, direi che qualsiasi cosa abbia fatto per
farti arrabbiare stamattina, sta facendo il possibile per farsi perdonare.»
Bisbiglia Lily, complice. Io le lancio un’occhiata inceneritrice,
sperando che Christian non abbia sentito. Quando torno a guardare il mio
piatto, con la coda dell’occhio vedo che sta sorridendo.
Lo ucciderò.
Non subito, per non destare sospetti. Ma lo
ucciderò.
~ Note
Ta-daaaaaaaan! Christian Wayne è rientrato prepotentemente nella storia
sgomitando con le sue braccia muscolose. Non ho potuto fare molto per
trattenerlo.
Il redattore! Ve lo aspettavate? Sì, vero?
Sono banale come una patata lessa.
Insomma, qui tutti credevano che non
l’avrebbe più rivisto, e che sarebbe stata destinata a una vita da zitella
scorbutica. E INVECE! L’ha rivisto ma diverrà lo stesso una zitella scorbutica,
tranquilli. Povero Christian. *fapatpat sulla sua spalla, pensando a cosa dovrà sopportare*
Grazie mille, duemila, ventimila per tutto
l’affetto che dimostrate a me, alla storia, ai personaggi. Davvero, ho i
lettori e le lettrici più belli del mondo!
Un paio di note, giusto per: la citazione
che trovate all’inizio della storia è presa da Wikipedia. Cercando qualcosa sul nome della svitata che fa da protagonista
della storia, ho scoperto la storia delle Pleiadi, tra cui c’era, appunto una
chiamata ‘Elettra’.
La frase “L’ottimismo è l’inculata della
vita” è una citazione di un mio collega di lavoro. Ciao, Camillo.
Detto ciò, ciò detto, vi bacio affettuosamente
e vi lascio col solito piccolo spoiler. Nel prossimo capitolo conosceremo anche
un nuovo personaggio:
«E poi mi piace pensare che io
sia l’unico qui a cui tu abbia raccontato qualcosa di te.» Appunto, cosa vi
dicevo? Io queste cose non
le voglio sapere.
Quando arrivo alla Macmillan Publishers, il
giorno dopo, resto sorpresa nel vedere che la stanza di Christian non è più
“trasparente”. La porta vetrata non c’è più, al suo posto c’è una porta in
legno chiaro intonata alle pareti circostanti. Che cosa strana. Sembra quasi
che voglia nascondere qualcosa, in quell’ufficio. Oppure avrò incrinato il
vetro quando ho sbattuto la porta? Oddio. Magari si è fatto male qualcuno.
Spero di no, non ho tempo per scusarmi. Devo tornare al mio manoscritto.
Dattiloscritto, precisamente, ma è il concetto è quello.
«Buongiorno, buongiorno, buongiorno,
buongiorno.» Dico un buongiorno per tutti i colleghi che incrocio mentre mi
dirigo nel mio ufficio. Non ho intenzione di fermarmi a parlare con nessuno. Sicuramente
loro hanno meno lavoro di me, e non posso permettermi distrazioni.
«Buongiorno.» Oh, Martin. È fermo davanti alla
porta del mio ufficio e sta leggendo degli appunti.
«Buongiorno. Come va?» Domando, cordiale. Solo
perché lui è il capo dei capi.
«Abbastanza bene, grazie. Tu come stai? Ti stai
trovando bene? Tony ti importuna?» Sorride e io scuoto la testa. Sono tentata
dal dire “No, non Tony”, e invece mi limito a dargli una risposta negativa
secca. «Mi sto trovando bene, comunque, sì.» Aggiungo.
«Christian mi ha detto che stai lavorando bene.»
Cosa? Davvero?
Alla mia faccia perplessa lui si spiega meglio:
«Gli ho detto di dare un’occhiata al tuo lavoro e stamattina è arrivato il
responso positivo. Se tutto va bene e questa settimana riesci a finire la
traduzione, tra circa un mese faremo uscire il libro.»
«Ottimo.» Annuisco. Lui mi dà una pacca sulla
spalla e prosegue il suo giro, dicendo di andare a tirare le orecchie a Danny o
qualcosa del genere.
E così, Christian ha letto parte della mia traduzione?
Quando? E perché io non ne sapevo nulla? Ah, come mi irrita il fatto che lui
abbia libero accesso alle mie cose. Ora mi sento osservata.
Quando entro nella mia stanza la prima cosa che
noto è la sedia vuota di Lily. Possibile che non sia ancora arrivata?
Effettivamente non c’è nessuna traccia di lei. Strano. Spero che non faccia
troppo tardi, perché mi è assolutamente indispensabile in questo momento.
Sbuffo, e mentre aspetto che il computer si
avvii mi guardo le unghie. Devo togliere questo smalto, ormai sono cresciute di
due o tre millimetri. Da “rigida e pesante” quale sono non posso mica lasciarlo
così. Eh.
Controllo la mia casella di posta elettronica e
nel frattempo apro il file del romanzo russo. Devo dire che tutto sommato,
finora la storia non è così malvagia. Anche in Russia sanno scrivere.
Lo squillo improvviso del telefono sulla
scrivania mi fa saltare sulla sedia. Lo guardo come se al suo posto ci fosse un
alieno che mi fissa con un occhio solo e la bava alla bocca. Non ha mai
squillato questo telefono, finora. Al quarto squillo, decido di alzare la
cornetta.
«Sì?» Dovevo rispondere “Pronto?”
«Cerca di rispondere subito, la prossima volta.
Pensavo fossi morta.» Ma ciao anche a te, Orione.
«Ma se non mi hai nemmeno vista entrare. Come facevi
a sapere che ero qui?»
«Me l’ha detto Alexandra.» Certo. Ora quella fa
anche rapporto sulle presenze?
«Cosa c’è?» Gli chiedo, sperando che non si
tratti di un qualche suo scherzo idiota per farmi perdere tempo. TEMPO NON NE
HO, come ve lo devo dire?!
«Vieni un momento nel mio ufficio.» E attacca.
Oh Signore Onnipotente.
Sbuffo circa quarantacinque volte nel tragitto
dal mio al suo ufficio, e quando apro la porta e lo vedo seduto alla scrivania
resto per un istante senza fiato, sentendo il mio cuore accelerare la sua corsa
senza il mio permesso.
«Così si usa qui? Vi chiamate per dirvi “vieni
nel mio ufficio”?» Chiedo, seccata.
«Beh, il telefono interno serve anche a questo,
sì.» Telefono interno? Questa devo farmela spiegare da Lily.
«Mh. Ti serve qualcosa?» Cerco di esprimere la
mia scocciatura il più possibile, tra tono della voce ed espressione facciale.
«Volevo darti questo.» Mi allunga un fascicolo
di fogli tenuto insieme da un dorsetto blu. «Sono
alcune cose che devi sapere per iniziare un’eventuale collaborazione sulla
correzione delle bozze.» Quando sento queste parole, mi illumino d’immenso.
«Quando hai tempo dacci un’occhiata, e se hai
dubbi me lo dici. Naturalmente il lavoro di traduzione ha la priorità, questa
settimana.» Annuisco, questo era ovvio.
«Perché mi hai fatto venire fin qui per una cosa
che potevi darmi stasera, prima di andarcene?» Non ho potuto fare a meno di
chiederglielo. I suoi occhi mi sorridono.
«Perché non mi hai salutato, quando sei
arrivata.»
Inspira, espira. «Sono arrivata da cinque
minuti, Christian.»
«E sei passata di qui senza salutare il tuo
capo.» Continua lui, imperterrito. Si porta la penna alle labbra e ne passa
un’estremità su tutto il labbro superiore. Vuole distrarmi dalle stronzate che
sta dicendo?
«Lo sai che mi stai facendo perdere un sacco di
tempo, capo?» Mi lamento, ironizzando
vagamente sull’ultima parola.
«Confido nelle tue capacità.» Finalmente ha
posato quella penna. «Ma, oltre ad una traduttrice capace, vorrei una
traduttrice educata.»
«Mi stai irritando in una maniera che pochi
riescono a raggiungere, sai?» In risposta ricevo un bellissimo sorriso
canzonatorio. Ah, se lo ucciderò. A sangue freddo.
«Come mai hai cambiato la porta?» Gli chiedo,
curiosa.
«Nel caso ti venisse voglia di sbatterla ancora.
Almeno non dobbiamo preoccuparci che ti cada addosso.» Violet si sta
sciogliendo.
Seh, Violet.
«Hai intenzione di farmi arrabbiare spesso?»
Alzo un sopracciglio e lui ride. Anch’io sono divertita, in fondo. Ma davvero
in fondo.
«Io non faccio nulla con l’intenzione di farti
arrabbiare, sei tu che sei troppo suscettibile.» Asserisce, alzandosi dalla
sedia. Si toglie la giacca, la appende all’attaccapanni e inizia ad arrotolarsi
le maniche della camicia fino al gomito. Sarà meglio che vada prima che…
Gli
salti addosso? O inizi a sbavare?
La mia vocina interiore è ancora peggio di mia
sorella.
«E allora ti conviene adeguarti al mio
caratteraccio, o ne cambierai molte di porte.» Replico, mentre mi avvio fuori
col mio bel fascicolo tra le mani.
Qualcosa nella mia testa mi fa rallentare fino a
fermarmi. Mi volto e lo trovo a pochi passi da me. Guardo il pavimento. Sono
quasi sicura che mi verrà un attacco di orticaria per quello che sto per dire.
«Comunque, ehm, grazie... per ieri, nella
pausa.» Dai, almeno ho resistito quasi ventiquattrore. Glielo dovevo un
ringraziamento. Mi ha praticamente salvato da un interrogatorio in piena
regola.
«Figurati. Tony sa essere molto invadente, è
fatto così. È la persona più esuberante che conosca.»
«Non so proprio perché tu l’abbia fatto, ma
insomma...» A volte me le vado a cercare, lo ammetto. Non potevo semplicemente
andarmene?
«So come ci si sente quando qualcuno ti
costringe a fare qualcosa controvoglia.» Alza le spalle. «E poi mi piace
pensare che io sia l’unico qui a cui tu abbia raccontato qualcosa di te.»
Appunto, cosa vi dicevo? Io queste cose non
le voglio sapere.
«Sai veramente poco di me, non illuderti.» Dico,
ed esco da quella stanza, troppo opprimente per i miei gusti.
«Ehi, sei arrivata.» Noto con un sospiro di
sollievo quando vedo Lily che sta sistemando delle carte sulla sua scrivania.
«Eh sì, ho avuto un contrattempo ma ce l’ho
fatta. Dov’eri?»
«Da Wayne, mi ha dato degli appunti.» Alzo il
fascicolo e lei annuisce. «Ah, mi spieghi come funziona questa cosa del
telefono interno?» Indico l’apparecchio sulla scrivania.
«È come quando alzi la cornetta a casa tua e
qualcun altro lo fa da un altro telefono in un’altra stanza. Riuscite a
sentirvi, no? Qui sarebbe un po’ complicato così, andare a “tentativi”, per cui
ognuno di noi ha un interno, corrispondente a un numero che tu digiti e
automaticamente ti metti in contatto con chi vuoi. La lista degli interni dev’essere da qualche parte sulla scrivania. Te la
ristampo, aspetta.» Digita velocemente qualcosa sul computer e due secondi dopo
la stampante sputa fuori un foglio scritto per metà. Lo prendo e vedo una
piccola tabella con tutti i nostri nomi. Prima di ogni nome c’è una casellina
con un numero diverso per ognuno, preceduto dalla lettera R. Io sono R 48.
Christian è R 44. Ma questo cosa c’entra? Nulla, l’ho detto tanto per dire.
«Io l’ho attaccato al monitor, guarda.» In
effetti sul lato sinistro del suo monitor c’è un piccolo foglio attaccato col
nastro adesivo a cui non avevo fatto caso. Faccio lo stesso col mio elenco,
dopo averlo ritagliato, e sorrido soddisfatta al risultato finale. Bella questa
cosa. Sembra di aver scoperto l’acqua calda, ma tant’è.
***
«Ho bisogno di staccare, sto per vomitare.» Mi
alzo di scatto dalla sedia e prendo la pashmina
dall’appendiabiti. È mezzogiorno, il che vuol dire che sono quattro ore che
lavoro ininterrottamente e per di più oggi non è venuto nessuno a portarci i
muffin e il caffè, quindi vorrà dire che ci andrò da sola. Se non metto
qualcosa sotto i denti entro cinque minuti, potrei davvero svenire.
Mi butto a peso morto sullo sgabello davanti al
bancone di Starbucks e rivolgo un’occhiata implorante alla ragazza che sta
servendo i due clienti accanto a me. Quando arriva il mio turno, le chiedo un
super frullato e due muffin e aspetto impaziente.
«Hai una faccia distrutta.» Mi dice comprensiva
dopo avermi porto i due muffin.
«È tutta la mattina che leggo e traduco frasi in
russo, ho pensato di scendere a mangiare qualcosa prima che mi venisse una
crisi ipoglicemica.» Spiego con la bocca piena. Ahhh,
paradiso.
«Lavori alla MP?» Ci metto qualche secondo a
capire di cosa sta parlando, poi annuisco.
«Sì, da qualche giorno.» Ingoio e allungo la
mano. «Elettra.»
«Rachel.» Ah, è lei la famosa Rachel che parla
tanto. In effetti, ha tutta l’aria di essere una brava ragazza e ti fa venire
voglia di parlare.
«Come ti trovi?» Mi domanda mentre pulisce il
bancone e mi porge il frullato.
«Bene. Sono tutti abbastanza simpatici, c’è
un’atmosfera diversa da quella che mi aspettavo.» Confesso.
«Ed è una cosa negativa o positiva?»
«Positiva, suppongo. Sono tutti molto “amiconi”,
o almeno per quel che ho visto finora. Non c’è il capo che guarda dall’alto in
basso i suoi dipendenti, non ci sono tanti fronzoli, è tutto molto spontaneo.
Forse troppo però, a volte.» Spero di essermi spiegata, altrimenti pazienza.
Rachel annuisce. «Capisco cosa intendi. Beh,
questo però può essere un vantaggio quando ti trovi a lavorare con uomini di
quel... mmm, calibro.»
«Qualcosa mi dice che stavi dicendo
qualcos’altro al posto di ‘calibro’.» Le scocco un’occhiata indagatrice e lei
arrossisce.
«Stavo dicendo ‘fascino’, ma non mi sembrava
molto appropriato.» Ecco. Sono sicura che anche lei sbava per Christian.
“Anche”
lei?
Come Alexandra. E Clara, indubbiamente.
Ehm,
bullsh- ehm ehm.
«Non sei d’accordo?» Mi imbecca, sorridendo.
«Su cosa? Sulle relazioni di quel tipo sul lavoro? No, non direi.»
Replico, estremamente contrariata.
«Veramente parlavo semplicemente della figaggine di alcuni tuoi colleghi.» Ribatte Rachel,
rivolgendomi un’occhiata sospettosa. Mi nascondo dietro al frullato, fingendo
indifferenza. Ho dato l’impressione di essere un tantino sulla difensiva, vero?
«Mh, sì. Anch’io.» Bluffo, e frugo nella borsa
alla ricerca del badge. Lei mi dice che non c’è bisogno e quindi ne approfitto
per dileguarmi.
Brava,
scappa sempre. Prima o poi non ci sarà un posto nel quale rifugiarsi, sai?
Potresti ritrovarti con le spalle al muro.
Beh, so tirare calci ben assestati.
***
Sono di ritorno in ufficio dopo circa dieci
minuti, e sembra che nessuno faccia caso al mio rientro. Tranne, chiaramente,
Christian, che si trova a uscire dall’ascensore proprio quando io sto per
entrare nella mia stanza.
«Sei uscita?» Indica la borsa. Io, mio malgrado,
mi ritrovo ad annuire e a giustificarmi.
«Dopo quattro ore e cinque miliardi di parole
russe avevo bisogno di zuccheri.» Spero di aver recuperato un po’ di colorito e
di non avere più la faccia distrutta, come ha detto Rachel.
«Io ti porto la colazione in camera e tu,
invece? Pensi solo a te. Poi dicono che gli uomini sono stronzi.» Scuote la
testa. Ma perché fa così? Sembra davvero
amareggiato.
«Anche le donne lo sono, fidati.» Rispondo, e mi
costringo a tornare alla mia scrivania.
Lily, che naturalmente ha seguito il dialogo
dalla porta vetrata, oltretutto aperta, mi sorride sorniona. Ora immagino di
dover dare qualche spiegazione.
«Colazione
in camera?» Chiede, quando chiudo la porta e calo la veneziana. «Non vorrei
essere invadente o indiscreta, ma questa devi davvero spiegarmela o parto coi
film mentali. Per poi andare da lui a chiedere conferma.» Annuisce, seria.
La guardo sconcertata. «Non dirai sul serio.»
Lei si stringe nelle spalle. «È da tanto che non
c’è un po’ di sano gossip, qui! Né qualcuno con cui farlo.»
«Mi fa piacere che tu mi abbia “arruolato” come
tua compagna di gossip, ma non so se è il caso di parlartene, non prenderla a
male...»
«Wow, è talmente intricata la cosa?» La vedo
sempre più interessata. Oh, e che diamine.
«No che non lo è, in realtà sarai molto
delusa... non c’è niente di appetitoso in quello che vuoi sentirti dire.» Spero
che questo basti a farla desistere, ma ho la sensazione che niente ci
riuscirebbe, per cui sospiro e le racconto come sono andati i fatti.
«Caspita.» Commenta lei alla fine, assorta in
chissà quali pensieri. «Hai dormito con Duke.»
Alzo gli occhi al cielo. «Ma hai sentito quello
che ti ho detto?» Possibile che abbia carpito solo la parte in cui abbiamo
dormito insieme? Questa è un’altra che ha i popcorn al posto della materia
grigia. Popcorn caramellati, però.
«E dimmi, russa? No, vero? Ha la faccia cucciolosa quando si sveglia? Secondo me si sveglia come un
modello pronto per una sfilata, ci scommetto la testa.» Mi sta totalmente
ignorando.
«Lily, ti prego. Se anche russasse non verrei
certo a dirtelo.» Ma cosa le interessa, poi? Se uno russa o meno saranno anche
affari suoi!
«No, RUSSA?! Nooo, mi
crolla un mito così!» A momenti si straccia le guance. Sbuffo e scuoto la
testa.
«No, non russa, contenta? Sì, ha la faccia cucciolosa e allo stesso tempo pronta per una sfilata,
okay? Soddisfatta? Ora torna a lavorare.» Le ordino, torva. Basta dettagli
sulla vita privata di Christian. E che cavolo, un po’ di privacy.
«Come compagna di gossip fai schifo, sappilo.»
Borbotta lei in risposta, accompagnando la frase con una linguaccia che
ricambio prontamente. Poi, con un sorriso, finalmente ci rimettiamo al lavoro.
***
«DeoGratias, sono le sei e mezza.» Emetto un sospiro
liberatorio e mi preparo a chiudere tutto. Questa lingua è davvero stancante.
Se avessi potuto scegliere, avrei preferito qualcosa in francese o in spagnolo,
per iniziare. Vediamo il lato positivo, almeno così posso dimostrare di che
pasta sono fatta.
«Te la svigni, Duchess?» Mi blocco in mezzo al
corridoio quando sento la voce di Thomas e non so per quale sciocca ragione
intuisco che ce l’ha con me. Mi volto e incontro il suo sorriso.
«Ah, però si gira.» Ridacchia Thomas. «Presumo
che qualcuno ti abbia spiegato il soprannome di Chris.»
«In effetti, sì.» Confermo, sollevata. Per un
brevissimo, infinitesimale istante ho temuto che Thomas mi avesse chiamata così
perché a conoscenza del mio “precedente” con Christian. In tal caso, il
soprannome non avrebbe riguardato John Wayne, ma Christian stesso.
Sollevata
sì, ma noto anche una briciola di delusione, o sbaglio?
Assolutamente no.
Dio
punisce i bugiardi, lo sai?
Mpf. Anche
gli impiccioni.
«Comunque sì, sto andando via. È un problema?
C’è qualcosa che devo fare?»
«No, Duchess, vai pure.»
Thomas mi fa l’occhiolino e io vado via, sentendomi tutti gli occhi addosso.
***
Cosa c’è di più straordinario di una bella
dormita?
Mi stiracchio sul letto cigolante, allargando
braccia e gambe, totalmente rilassata. Fuori è già buio. Guardo l’orologio:
cavolo, ho dormito tre ore! Sono le nove passate.
Con uno sforzo immane mi alzo e ciondolo in
cucina, mettendo a riscaldare la piastra sul fornello. Carne e insalata, massì, mangiamo leggero stasera.
Mentre aspetto che la carne si raffreddi, faccio
zapping alla tv, con la pigrizia di un bradipo. Che noia, ragazzi. Potrei
chiamare Anne ma ho paura di beccarla in un momento “intimo” con Cooper… meglio risparmiarci quest’imbarazzo. In Italia
invece saranno tipo le tre di notte, quindi non posso chiamare nemmeno Eva.
Pazienza. Morirò da sola in questo appartamento.
Alle dieci in punto, qualcosa sotto di me si
muove.
Mhmm,
magari detta così è fraintendibile.
Alle dieci in punto, sento dei rumori al piano
di sotto. O a quello sotto ancora, non saprei. Sento della musica, e un gran
vociare. Annoiata, infilo il trench e decido di andare a dare un’occhiata.
Oh mio Dio. Sono qui da una settimana e non mi
sono accorta che c’è un locale al piano terra, proprio accanto alla palazzina
in cui abito?
“The Vagabond”, leggo. Sarà un pub? A giudicare
dall’insegna lampeggiante che ritrae una donna in reggiseno non credo. Ma mi
sento ispirata, e siccome non ho nulla da fare e ormai mi è passato tutto il
sonno, mi ritrovo ad entrare.
Lo spettacolo che mi si para davanti è qualcosa
che in Italia non avevo mai visto: l’ambiente è scuro, ci sono tante luci
fosforescenti che permettono a malapena di vedere gli interni del locale. Da
quel che riesco a percepire, sono tutti nei toni del rosa acceso e del viola.
In particolare, le pareti e i pilastri sono rosa, mentre il soffitto e il
pavimento sono viola. A illuminare, per modo di dire, il locale, ci sono dei
neon che proiettano una luce azzurra; quella che fa più luce, però, è la
passerella che attraversa tutto il locale, seguendo una linea irregolare. I
bordi sono illuminati di un bianco fosforescente, che cambia colore ogni
quindici secondi circa, così come la specie di pavimento di cui è rivestito. Di
tanto in tanto, vedo dei pali al centro della passerella.
Ah, quindi è un night club. Bene.
Sparsi qui e là ci sono dei divani, in un
tessuto zebrato anch’esso semi-fosforescente, e davanti ad essi dei tavolini a
forma di parallelepipedo, indovinate di che colore? Rosa pallido, ma
rigorosamente fosforescente. In fondo al locale vedo il bancone del bar, con
numerosi sgabelli posizionati davanti, quasi tutti occupati. Il locale si sta
riempiendo minuto dopo minuto.
Non so come, mi ritrovo al bancone.
«Cosa ti faccio?» Mi chiede svelta una delle
ragazze, mentre prepara circa trentamila cocktail in mezzo secondo. Sembra di
stare al Coyote Ugly.
«Ehm…» Non ho un
dollaro con me, e in più non amo molto i cocktail, quindi mi sa che dovrei…
«Due Martini, grazie.» Mi volto verso il tizio
che si è appena seduto accanto a me. È un uomo sulla trentina, o qualcosa in
più, dai capelli castani e lo sguardo profondo. Mi sta davvero offrendo da
bere? Oh mio Dio. No, no, non ci siamo, no.
«No, io… stavo per
andarmene, cioè…» Indico l’uscita col pollice e
indietreggio fino a urtare qualcuno dietro di me. Balbetto una scusa e il tizio
richiama la mia attenzione.
«Ti prego, lasciati offrire un drink. Un drink
di benvenuto nel palazzo. Non ho avuto occasione di prepararti una torta.»
Sorride, e indica lo sgabello accanto al suo.
Cosa?
«Tu abiti nel mio palazzo?» Aggrotto la fronte.
Credevo ci fosse solo quella studentessa-nerd sul mio pianerottolo.
«Sì, ho i due appartamenti al piano terra.» Mi
porge il Martini che la barista ci ha messo davanti in un lampo. «Piacere, io
sono Ethan.»
Stringo la sua mano, la presa è forte. «Elettra,
piacere mio.»
Noto che ha la barba brizzolata in qualche punto
e il labbro superiore leggermente più grande di quello inferiore. Tutto
sommato, è un uomo affascinante.
Sorseggio il mio Martini sperando che mi tolga
gli occhi di dosso. Non mi piace quando la gente mi fissa. Mi distraggo per
qualche secondo quando delle ragazze più svestite che altro fanno la loro
comparsa sulla passerella e iniziano ad avvinghiarsi ai pali.
«Iniziano presto, qui.» Indico le ragazze con un
cenno del capo. Saranno appena le dieci e mezza.
«Fino alle undici fanno solo qualche movimento
per intrattenere i clienti, più che altro si fanno vedere camminando avanti e
indietro per la passerella. Dalle undici in poi iniziano a ballare sul serio, e
a spogliarsi.»
«Frequentatore assiduo?» Lo imbecco, posando il
bicchiere vuoto sul bancone. Lui alza le spalle.
«Abito qui da sempre, quando non ho nulla da
fare vengo qui per passare il tempo. Ormai ho imparato i tempi.» Mi fa
l’occhiolino e ordina un altro Martini. Io scuoto la testa, non ne voglio un
altro.
«Scusami, abiti qui hai detto?» La ragazza che
ci sta servendo si intromette nella conversazione. Stava origliando? Mio
malgrado, annuisco.
«Non è che ti andrebbe un impiego part-time? Ci
serve una ragazza che serva ai divanetti. Ti paghiamo a serata, puoi venire
quando ti fa più comodo.» Cosa? Pensa davvero che io possa lavorare in un posto
del genere?
«È tranquillo qui, è uno dei migliori night club
di Miami.» Mi rassicura Ethan.
«Ma…» Non so che dire.
La proposta si fa strada nella mia mente, diventando a poco a poco più
accettabile.
«Non ti sto dicendo di ballare la lap dance, devi semplicemente portare i drink ai tavoli.
Visto che abiti vicino non ti sarebbe neanche troppo scomodo. Poi, fai come
vuoi.» Prosegue la ragazza.
«Sei la proprietaria?» Le domando.
«La figlia del proprietario. Controllo io le
assunzioni e le paghe orarie. Prenderesti, su per giù, diciannove dollari
l’ora. Se lavori una serata intera, dalle dieci alle tre sono cinque ore.»
«Quasi cento dollari.» Cavolo.
«Più le eventuali mance, tutte tue.» Aggiunge,
mentre pulisce un bicchiere.
Guardo Ethan, come a chiedergli un consiglio.
Lui sembra capirlo e mi sorride. «Secondo me, conviene. Non è un impiego fisso
e puoi scegliere tu quando venire, se ho capito bene. Per arrotondare mi sembra
ottimo.» La figlia del proprietario conferma.
«Ci penso.» Le dico, senza aggiungere altro.
«Ora vado, domani devo svegliarmi presto.» Mi aspetta l’ultima manche di traduzione del libro di quella
maledettissima Lena Ivanov. Saluto Ethan con una
stretta di mano e mi defilo, rifugiandomi subito nel portone del palazzo.
Certo che, cento dollari più le mance, non è una
cosa da sottovalutare. Per una sera soltanto. Una notte, in realtà. Se non ho
altro da fare, potrei farci un pensierino sul serio.
Sbadiglio, mentre mi spoglio e mi metto a letto.
Sì, ci penserò.
~ Note
Diamo il benvenuto anche a Ethan, forza! *partono gli applausi registrati*
E al Vagabond, pure, che avrà un ruolo particolare
nella storia. *partono i fischi*
Prima che mi spoileri
da sola, passiamo a commentare il capitolo, va. Cosa dire? I “punzecchiamenti”
tra i due protagonisti continuano, quei due sono due pietre che si sfregano a
vicenda. Scoppierà il fuocherello? O sarà solo Elettra a dare fuoco al codino
di Christian? MAH.
Intanto vi lascio un indizio nello spoiler,
e vi ricordo che per altre anticipazioni, domande, o qualsiasi altra cosa, c’è
il gruppo su
Facebook:
Tutto il mio corpo formicola in
risposta ai movimenti delle sue mani, e ogni tanto mi sento mugolare qualcosa.
Senza rendermene conto chiudo gli occhi.
P.S.: A proposito di gruppo su Facebook,
tra l’altro, dovevo rendere pubblico un recente sclero/trovata geniale della
mia Cos (Cocchi su EFP, amatela tutti). Screenshot qui.
Questo è quello che facciamo nel gruppo,
sì, tra le altre cose. Siamo adorabili.
Capitolo 8 *** Capitolo otto - What the hell are you doing? ***
“La nostra paura del peggio è più forte del nostro desiderio
del meglio”
– Elio Vittorini
#Buongiorno popolo di Miami! Sono le sette in punto e
gli uccellini cinguettano allegramente! No, non è vero, piove che Dio la manda#
Insomma, come svegliarsi piacevolmente con la
radio di sottofondo.
Con l’occhio destro semiaperto, guardo fuori
dalla finestra. Cavolo, sapevo che settembre è abbastanza piovoso a Miami, ma
sta venendo giù proprio un diluvio! Già uno ha tanta voglia di andare al
lavoro, eh.
«Mmmhhhh…» Brontolo
rigirandomi nel letto. Sbuffo sonoramente e rimpiango di non avere mia sorella
che mi sveglia con un caffè appena fatto.
Basta, Elettra, alzati! Hai un sacco di lavoro
da fare oggi!
Il
training autogeno non è mai stato il tuo forte, diciamocelo.
In effetti.
Qualche effetto però sembra sortire, perché mi
ritrovo giù dal letto. Seduta, è vero, ma è già un passo avanti. Da quella
posizione non tanto scomoda guardo l’armadio, pensando a cosa indossare. Non ce
la farò mai.
***
Col mio fido k-way azzurro sfido la pioggia e
raggiungo annaspando la stazione della metro. Sono già stanca. Speriamo che non
mi si appiccichino tutti i capelli in testa.
Passano le tre fermate di routine, poi tocca
alla mia. Scendo controvoglia, alzando il cappuccio del k-way. Sembro Puffetta. La cosa che mi consola è che ce ne sono di molto
peggiori, in giro. Tipo quello della signora che sta correndo alla mia
sinistra, giallo a pois arancioni. Orribile. Sembra una papera col morbillo.
«Scusi, può tenere aperto?» Urlo a una donna che
sta entrando nell’edificio. Lei mi fa la cortesia di aspettarmi e io la
ringrazio, bagnata fradicia. Pessima idea non portarsi un ombrello. Devo
assolutamente comprarlo stasera.
Sono le nove in punto e pare ci siano soltanto
Alexandra e Nancy.
«Tesoro, togliti questo coso prima che ti venga
una bronchite!» Nancy accorre in mio aiuto e mi aiuta a sfilare il k-way.
«Grazie. Dovevo portarmi una tenda da campeggio,
anzi, da neve. Che tempaccio!» Commento rattristata guardando il cielo grigio.
«Mi sa che dovrai farci l’abitudine, qui è
spesso così. D’altronde però queste giornate orribili si alternano a giornate
soleggiate e caldissime, anche in pieno inverno. C’è chi va a fare surf a
dicembre, vengono perfino in vacanza in quel periodo. Vacanza al mare,
intendo.» Specifica Alexandra. Questo lo sapevo, ed è una cosa che mi è subito
piaciuta di Miami. Prima che conoscessi i suoi temporali, però.
«Siete sole?» Domando, prima di rintanarmi in
ufficio per non uscirne mai più fino a quando l’ultimo punto e l’ultima virgola
non saranno stati tradotti.
«No, c’è Duke. E Thomas, ma è impegnato con
alcuni agenti letterari di sopra.» Risponde Alexandra. Annuisco e mi avvio nel
corridoio. Quando passo davanti alla porta dello studio di Christian, mi
vengono in mente le sue parole: “Oltre ad una traduttrice capace, vorrei una
traduttrice educata”, e siccome oggi mi sento buona, decido di bussare.
«Avanti.»
Apro la porta ed entro, lasciandola socchiusa.
Christian distoglie lo sguardo dal monitor del computer e mi rivolge un
sorriso.
«Sembri un pulcino bagnato.» Si alza e mi viene
incontro. Che ha intenzione di fare?
«Sono
un pulcino bagnato.» Bofonchio, vagamente offesa. Come si permette di darmi del
pulcino bagnato? Prima che possa replicare qualcosa di meglio – ho ancora il
cervello annacquato – Christian mi abbraccia e inizia a sfregare la sua mano
contro la mia schiena, nel tentativo di riscaldarmi.
«Beh? Sei venuta a mani vuote? Dov’è il mio
caffè?» Si lamenta, parlando piano tra i miei capelli. Comincio ad avvertire un
piacevole calore al centro della schiena.
«Non so se hai notato l’uragano Isaac, qui
fuori.» Mugugno, totalmente rilassata tra le sue braccia. «E poi non sono la
tua assistente, Christian.»
«Ah no? E io che pensavo fosse per quello che ti
chiamano Duchess.»
Allontano la testa dal suo petto muscoloso e
maledettamente accogliente e lo guardo accigliata. «Spero di no. Dovrebbe
essere sempre per la storia di John Wayne. In caso contrario, dovrò ucciderti
per far sì che lo sia. Desolata.» Gli sorrido e lui ricambia con una risata
divertita.
Ci guardiamo per qualche istante, col sorriso
sulle labbra. Le sue braccia circondano ancora il mio corpo.
ELETTRA, che diamine stai facendo?
«Ehm, sono asciutta adesso.» Mi libero dal suo
abbraccio e rabbrividisco appena quando l’aria fredda mi avvolge al suo posto.
«Vado. Ho altre ottanta pagine da tradurre.»
Senza aspettare la risposta, mi dirigo a passo
svelto verso il mio ufficio. Nel frattempo, sono arrivati Danny e Christopher,
anche loro praticamente zuppi.
«‘giorno Ele!» Mi saluta allegro Danny, e io
ricambio con un gesto della mano e un sorriso tirato. Spero capisca che ho
tanto da fare oggi.
Bella
scusa il lavoro per evitare le relazioni sociali.
«Eeeetciùùùùù!» Questo
è il saluto che ricevo qualche minuto dopo essermi seduta, da una Lily col viso
paonazzo che gronda acqua da tutte le superfici possibilmente grondanti del suo
corpo.
«Credo ti convenga andare in bagno ad
asciugarti.» Le suggerisco, al secondo starnuto. «Ma non dovreste essere
abituati almeno voi di Miami?» Sembrano tutti sconvolti per questo temporale,
ma se come dice Nancy questi acquazzoni sono all’ordine del giorno, dovrebbero
essere attrezzati, o no?
«Questo è il primo della stagione. E poi mi si è
rotto l’ombrello in metro.» Si giustifica soffiandosi il naso. Istintivamente
alzo la cornetta del telefono e digito un numero.
«Starbucks, buongiorno.»
«Ehm, salve, sono Elettra Wayne, Macmillan
Publishers. Vorrei un tè caldo se è possibile. Non è necessario portarlo
adesso...» Mormoro guardando la pioggia incessante. «magari appena spiove un
pochino.»
«Certo signorina Wayne, mi dica il suo codice
per favore.»
«Due quattro zero.»
«Perfetto, arriva tra poco. Arrivederci.» Ricambio
il saluto e attacco.
Lily mi guarda sorpresa: «Hai ordinato un tè per
me?»
«Perché, non ti piace?» Come sono strani tutti,
oggi.
«Sì, mi piace... non me l’aspettavo, ecco.
Grazie.»
Sono questi i momenti in cui mi rendo conto di
essere troppo dura a volte, con le persone. «Beh, è perché non possiamo
permetterci di rallentare il ritmo, capisci.» Affermo, sistemandomi meglio
sulla sedia. Lei sorride e va in bagno ad asciugarsi, promettendo di tornare
subito.
Quando rientra, tutta sorridente, è avvolta in
una sciarpa nera a righe. Sembra maschile. La osservo mentre si va a sedere, e
lei se ne accorge.
«Che c’è?» Domanda, circospetta.
«Niente.» Sollevo le spalle. Mi viene da ridere.
«È di Danny, okay?» Sbotta lei, alzando le mani.
Il mio sorriso si allarga, è diventata color lampone. «Perché ho freddo.»
Aggiunge, in un sussurro.
«Non devi giustificarti. Non ti ho chiesto
nulla.» Scuoto la testa, mentre scorro col mouse le pagine che sto scrivendo.
«Mi guardi con l’espressione di chi ti ha
scoperto mentre rubi le collane della mamma per indossarle segretamente!» Lo
dice in un modo così comico che stavolta scoppio proprio a ridere, con la testa
all’indietro e le mani sulla pancia.
«Oh, cielo. Non ridevo così da secoli.» Mugolo,
tra una risata e l’altra. In quel mentre, entra Danny – parli del diavolo e
spuntano le corna, si sa – con il tè di Starbucks fumante tra le mani.
«L’ho preso io per te, spero non ti dispiaccia.
È appena passato Josè.» Immagino che Josè sia uno dei ragazzi di Starbucks. Ah
sì, forse quel brasiliano che serve ai tavoli.
Vedo Lily che ostenta indifferenza mentre
allunga la mano e prende il bicchiere che gli sta porgendo Danny.
«Grazie.» Dice, senza quasi guardarlo. «Ora, mhmm, devo lavorare.» E lo liquida con un gesto della mano.
Lui, sorpreso, mi guarda cercando di capire cos’abbia. Io mi stringo nelle
spalle.
«Beh, buon lavoro. Quando vuoi venire a vedere
le nuove copertine per il romanzo della Mitchell, io
sono di là. Anche tu, Elettra.» Mi dice, e poi va via. Lo saluto agitando la
mano.
«Non c’è niente di male ad ammettere che ti
piace. È un bel ragazzo.» Osservo, dopo un po’. Lily mi incenerisce con lo
sguardo. Sembra una ragazzina di tredici anni che è costretta a parlare con la
madre delle sue prime cotte. «Scusa, volevi o no una compagna di gossip?»
«Sì, ma tu sei una compagna di beffe!» Alza gli
occhi al cielo. «Prometti di non prendermi in giro su questa cosa, ti prego. È
solo una stupida cotta, deve passarmi.» Afferma, pare più a se stessa che a me.
«Va bene, va bene. Eviterò di farti notare le
volte in cui arrossisci quando lui passa, il livello di imbranataggine che si
impossessa di te quando ti gira intorno, eccetera eccetera.»
Potrebbe sempre tornarmi utile in futuro, questo compromesso. «Dai, nella pausa
pranzo mi racconti. Ora mettiamoci al lavoro.» Le dico, e con un sorriso
complice iniziamo le nostre attività.
**********
«Elettra, se hai bisogno posso restare, davvero.
Facciamo trattenere anche qualcun altro magari, per-»
«No.» Dico secca. «Lily, tranquilla, ce la
faccio. Mi mancano sette pagine, le rileggo io dopo per controllarle. Va’ a
casa.» Mi passo una mano sul viso. Sono esausta, ma cerco di non darlo troppo a
vedere. Sorrido a una super scettica Lily che non sa se andare o meno. «HO DETTO
VAI A CASA.» Le ripeto per l’ennesima volta. Stavolta sembra funzionare.
«Okay, vado, vado.» Mi saluta con un mezzo
abbraccio e poi esce dalla stanza, incrociando Tony che stava uscendo dal
bagno. Quest’ultimo si affaccia dalla porta e richiama la mia attenzione con un
piccolo fischio.
«Ehi, hai bisogno di una mano? Sono a
disposizione. Quando vuoi, come vuoi.» Sorride sornione. Quasi gli lancio il
fermacarte addosso.
«Idiota. No, ce la faccio da sola. An-da-te-ve-ne. Chiudo io, se mi lasciate le chiavi.» Propongo,
per convincerli ad andarsene. Ho bisogno di silenzio. Un’altra ora di silenzio
e avrò finito. Non chiedo tanto!
«Va bene, dico a Nancy di portartele prima di
andare via. Buona serata.» Agita la mano e io ricambio, sospirando quando
chiude la porta.
Qualcun altro viene a salutarmi, nei successivi
dieci minuti, ma non Nancy. Digito il numero del suo interno, e quando non
ricevo risposta compongo quello di Alexandra. Niente, non ci sono. Forse mi
hanno lasciato le chiavi sul bancone della reception.
Allora, dov’ero arrivata? Ah, ecco. Qui mi serve
il dizionario, devo controllare che l’aspetto perfettivo del verbo sia giusto.
Non dovrebbe esserci una costruzione particolare…
«Caffè?» Oh Dio, ma si può essere lasciati un
po’ in pace?
Alzo gli occhi e lo sbuffo che stavo per
emettere si ferma, gonfiandomi le guance in maniera ridicola.
Christian è appoggiato allo stipite della porta,
con una mano in tasca. Ha i capelli sciolti e sventola un bicchiere con l’altra
mano. Si è tolto la giacca, rimanendo con una maglia nera a maniche lunghe con
scollo a V, sotto la quale si intravede una collana lunga, credo la stessa che
portava anche in albergo.
«Caffè?» Valuto la proposta, mentre lui attende
senza accennare a muoversi. «Un po’, grazie.» Abbasso lo sguardo sul romanzo
aspettando che mi porti il bicchiere, ma quando vedo che non lo fa lo rialzo,
senza capire.
«Alzati, dai.» Mi dice, e allarga un braccio
come se mi invitasse ad abbracciarlo. Un leggero formicolio mi attraversa la
nuca, intontendomi per qualche secondo.
«No, non posso, devo completare.» Scuoto la
testa nervosamente e accavallo le gambe sotto la scrivania. Perché non se ne
va? Ah, dannazione. Non ha nulla di meglio da fare?
«Elettra, alzati. Ti aiuto io a completare, ma
tra cinque minuti. Il tempo di sgranchirti le gambe e bere un sorso di caffè,
dai.» Per quanto sia allettante la proposta, visto che ormai il mio sedere ha
assunto una forma più simile a un quadrato che altro e il mio osso sacro è in
sciopero, non mi alzo dalla sedia. Le gambe non si muovono proprio. Non oso
guardare Christian.
«Ah, ma sei testarda.» Emette un sospiro che sa
di esasperato e mi viene incontro. Mi aspetto che mi prenda di peso e mi lanci
in corridoio, invece fa il giro della scrivania, posa il bicchiere davanti a me
e mette le mani sulle mie spalle. Ohhhh, sì. Adoro i
massaggi.
Tutto il mio corpo formicola in risposta ai
movimenti delle sue mani, e ogni tanto mi sento mugolare qualcosa. Senza
rendermene conto chiudo gli occhi. Dio, sono stata seduta per troppo tempo, mi
fa male tutto. Spero che le prossime scadenze non siano così ravvicinate, o di
questo passo dovrò andare da un fisioterapista, altro che in palestra.
«Hai lavorato davvero sodo questa settimana.»
Quando sento la voce di Christian, salto sulla sedia. Come se avesse rotto una
specie di incantesimo, mi alzo di scatto e agguanto il caffè.
«Ti ho fatto male?» Chiede Christian confuso.
Certo che non mi hai fatto male, stupido.
Almeno, non alle spalle.
«No, però... non...» Non cosa? Non voglio che mi
tocchi? Non voglio che ti mostri così gentile? Non voglio che tu mi illuda
perché le illusioni sono la cosa più dolorosa al mondo?
«Tranquilla.» Perché sembra sempre leggermi nel
pensiero e capire ogni mio stato d’animo? È incredibile. Bevo un sorso di caffè
e mi rendo conto che il bicchiere è mezzo vuoto.
«È il tuo?» Lui annuisce con una parvenza di
sorriso.
«Non ho malattie, bevi pure. Nemmeno un accenno
di raffreddore.» E fa un gesto con la mano per incitarmi a bere ancora. Mando
giù un altro sorso, poi copro la bocca con la mano per nascondere uno
sbadiglio.
Voglio un letto. Ora e subito.
Una forza sconosciuta mi attira verso il petto
di Christian, convincendomi che potrei appoggiarmici
per qualche minuto, chiudere gli occhi, riposarmi. Ci sarebbero le sue braccia
a sostenermi, come stamattina. Come se non bastasse, da qui riesco a sentire il
suo profumo fresco, che mi attira come una falena alla fiamma.
Christian mi osserva tranquillo, non si sposta,
non parla. I suoi occhi azzurri sono ancora più luminosi del solito, con la
poca luce che c’è nello studio. Mentre lo guardo, sento delle strane sensazioni
nello stomaco e tutt’intorno. Non mi piacciono. No, per niente.
«I cinque minuti sono passati.» Mi riscuoto da
questi pensieri e torno a sedermi. Christian fa lo stesso, prendendo la sedia
di Lily e posizionandola di fronte a me, dall’altro lato della scrivania.
«Col russo non posso aiutarti, ma rileggo
volentieri quello che hai tradotto.» Dice con un sorriso. Io, senza proferir
parola, gli stampo le ultime pagine che Lily non è riuscita a correggere.
Così, passiamo un’ora a leggere, modificare,
scrivere, confrontarci. Ridere, anche. Mi fa notare che ho fatto un paio di
errori stupidi e ridiamo come due idioti, segno di estrema stanchezza.
«Oh, eccone un altro. Sei pronta?» Quasi non
riesce a parlare, sta ridendo troppo. «“Andrej ringhiò e gli si lanciò contro,
afferrandolo per le palle”.» Non completa neanche la frase che siamo
letteralmente piegati sulla scrivania dal ridere.
«Basta, basta, mi fa male la pancia!»
Piagnucolo, cercando di calmare l’attacco di risa. Poi faccio l’errore di
guardarlo e ricomincio.
«Sto piangendo, aiuto!» Mormora lui mentre si
asciuga una lacrima. Vedo che riprende a leggere per tornare serio. Non passano
nemmeno due secondi. Inizia con una risatina nasale ma non riesce più a
trattenersi.
«Cosa c’è ancora?!» Urlo, divertita.
«“In quell’istante, Veronika
aprì la stanza ed entrò nella porta. Quando vide Andrej e Pavel, si
coprì le mani con la bocca.”» Non respiro più.
«Due in una frase no, dai!» Mi passo una mano
tra i capelli, accaldata sia per le risate che per l’imbarazzo.
«L’ultimo paragrafo ti è venuto un po’ male, a
cosa stavi pensando?» Ammicca Christian con un sorriso irriverente. Chissà
perché sento che lui sa perfettamente a cosa stessi pensando. Anche se in
realtà era solo stanchezza.
«Al modo in cui ucciderti.» Lo punzecchio,
socchiudendo gli occhi.
«Allora fai proprio sul serio...» Lo vedo
appoggiarsi con la schiena alla sedia e incrociare le mani in grembo. «E
sentiamo, cos’hai pensato?»
«Beh, le solite cose. Corda alla gola...» No, pessima idea guardare la sua gola. «Vene
tagliate...» Sì, ti distrarresti facilmente con quei bicipiti, deltoidi e
settemila altri muscoli di cui non conosci nemmeno il nome. «Veleno nel
caffè...» Dalla padella alla brace, vuoi davvero guardare la sua bocca?
«Sei un tipo convenzionale.» Commenta lui, e non
so per quale ragione la prendo come una battuta a doppio senso.
«Per niente.» Beh, è una risposta lecita, no?
«Mmm, è da vedere.» Il suo sorriso si allarga.
Christian Wayne è un malpensante.
Ah,
perché tu no?!
No. Piantala.
«Caspita, si è fatto proprio tardi. Direi che ci
siamo trattenuti abbastanza.» Dico annuendo da sola e inizio a spegnere il
computer.
Ed ecco
Elettra in versione “Barry Allen”, alias Flash.
Dopo aver chiuso tutto, infilo il mio bel basco
color lavanda e mi sistemo le ciocche di capelli che sfuggono. Christian sta
indossando la giacca.
«Ti andrebbe... ti va di andare a bere
qualcosa?» Mi chiede all’improvviso, proprio mentre sto per salutarlo. «Non ti
faccio fare tardi, promesso.» Aggiunge, con un minuscolo sorriso.
Non so se ho ancora un cuore o piuttosto un
tamburo impazzito, al suo posto, al centro del petto. Che gran traditore. Mi
perdo per un istante nello sguardo speranzoso di Christian, e una miriade di
sensazioni diverse mi attraversano il corpo.
«I-io devo andare,
sono stanca. Mi dispiace.» Balbetto, voltandomi subito dopo verso la grande
porta a vetri con la stampa in caratteri grigi del nome della società.
«Elettra...» Sento a malapena il suo sospiro
prima di affrettarmi per le scale.
Ripeti
insieme a me: sono una cogliona.
Non posso dire parolacce. L’ho promesso a me
stessa.
Stronzate.
Già.
Se non altro ha smesso di piovere. Seduta in
metropolitana, rifletto sulla giornata di oggi. C’è stato un avvicinamento non
previsto, non voluto. Non capisco cosa voglia Christian. Un giorno magari non
si fa vedere, l’altro mi abbraccia per riscaldarmi o mi fa un massaggio. Non
dovrebbe comportarsi così, è il mio capo. Devo smetterla di dargli corda. Non
che gliene stia dando particolarmente, ma forse mi sono mostrata troppo
gentile.
Chi,
tu? Gentile?
«Elettra!» Quando sento il mio nome, alzo la
testa di scatto. Non capisco chi mi ha chiamato, poi vedo un movimento in fondo
al vagone. Il proprietario della voce si fa spazio tra la gente e mi raggiunge.
«Ciao, Ethan.» Gli sorrido. «Anche tu di ritorno
a casa?»
Lui annuisce e si aggrappa a una delle maniglie
in alto per reggersi.
«Sei andata al lavoro?» Alla mia risposta
affermativa mi chiede che lavoro faccio.
«Sono una traduttrice. Lavoro alla Macmillan
Publishers.»
«Aaah, allora sei una
importante.» Sorride lui. «Io sono un chimico.»
Un chimico? Non l’avrei mai detto.
«Hai programmi per stasera?»
Oh, per l’amor del cielo, uomini della terra lasciatemi in pace.
«Mmm no, sono abbastanza esausta. È stata una
giornata molto pesante.» Molto
pesante. E complicata. E inaspettata.
«Capisco.» Ethan fa un sorriso di circostanza, probabilmente
pensando “che palla questa tipa” o qualcosa di simile. Pazienza. È che non
voglio scocciature. Quando non sono in pace col mondo preferisco starmene da
sola. Questo accade praticamente sempre, ma sono dettagli.
«La nostra fermata.» Annuncia Ethan, insieme
alla voce metallica della metro. Scendiamo e percorriamo insieme le due miglia
che ci separano dalla nostra palazzina.
«Beh, buona serata.» Gli dico, una volta davanti
alle scale. Lui ricambia il saluto e finalmente, alle otto in punto, metto
piede in casa.
***
Mmmh...
Che ore sono? Mi sono appisolata?
Mi tiro a sedere per scoprire che sì, mi sono
appisolata sul divano. Sono le dieci meno venti. Ciabatto in cucina e metto a
riscaldare qualcosa di pronto. Mentre sto mangiucchiando, inizio a sentire un
po’ di trambusto in strada. Si stanno preparando per l’apertura del Vagabond.
A proposito...
Oggi è venerdì, il che vuol dire che domani non
si lavora. Potrei anche farci un pensierino. Prima che possa realizzare l’idea,
alle dieci in punto sono davanti al bancone del bar. Marion, la figlia del
proprietario, mi sta porgendo il top che dovrò indossare per lavorare qui, con
il nome del locale scritto al centro. Vado a cambiarmi in bagno e quando esco
il night si sta già riempiendo. Com’è scollato questo coso.
«Prendi gli ordini con questo e me li vieni a
portare.» Marion mi porge un blocchetto di carta e una penna. «Mentre continui
il giro porti i drink ai tavoli e poi mi ridai i bicchieri. Semplice. Cerca di
essere il più veloce possibile e non dare troppa confidenza ai guardoni. Se hai
qualche problema, in ogni angolo del locale ci sono i nostri buttafuori. Basta
un cenno e loro accorrono.» Mi sembra giusto.
«Perfetto.»
La serata scorre abbastanza tranquilla, anche se
la stanchezza inizia a farsi sentire. L’orologio segna mezzanotte meno venti.
Il che significa che mancano altre tre ore e mezza prima che possa tornare al
mio lettuccio. Tutto sommato però, non è troppo stancante. Il personale è
simpatico, un po’ meno i “guardoni” viscidi come li chiama Marion, ma dopo un
po’ ci fai l’abitudine.
Mi ha spiegato, in un momento di meno affluenza
al bancone – cioè, quando le spogliarelliste hanno iniziato a darci giù pesante
– che di solito il martedì sono aperti fino alle tre, mentre dal giovedì al sabato
fino alle cinque. Le ho detto che non potrei mai farcela fino alle cinque, ma
lei è stata comprensiva, dicendo che in quelle due ore sono tutti talmente
ubriachi che la cosa è facilmente gestibile.
«Non posso venire nemmeno il martedì e il
giovedì, a meno che il giorno dopo non sia festivo.» Lei annuisce, ha detto che
ha già provveduto a prendere un’altra ragazza per i giorni infrasettimanali.
«Cameriera!» Mi chiama un uomo in lontananza,
seduto praticamente sotto la passerella, con gli occhi attaccati al sedere di
una delle ballerine.
«Sì, cosa le porto?»
«Una vodka liscia e un Long Island.» Senza
neanche guardarmi, mi allunga una banconota stropicciata che porto prontamente
al bancone. Marion incassa e mi dà il resto, che tengo come mancia visto che il
signore mi ha liquidato biascicando qualcosa come “prendili”, quando gli ho
portato i drink.
«Vuoi qualcosa, tu?» Marion mi guarda mentre
lava dei bicchieri sporchi. Scuoto la testa.
«No, non mi piacciono molto gli alcolici.»
Poggio i gomiti al bancone e muovo appena la testa a tempo di musica,
guardandomi intorno di tanto in tanto per vedere se qualcuno deve ordinare.
«E così eri stanca, eh?» Quando quelle parole mi
giungono alle orecchie hanno lo stesso effetto di un pugno nello stomaco.
Sussulto, e per un momento penso – prego – che sia Ethan, invece quando mi
volto mi accorgo che è proprio Christian. Cazzo.
«Che diavolo ci fai qui?» Stavolta è lui a
dirlo, i ruoli si sono invertiti. Solo che io non ero così arrabbiata quando
gliel’ho chiesto, nell’ufficio di Tony.
«Ci lavoro.» Rispondo, usando le sue stesse
parole di qualche giorno fa.
«Cosa? Qui?»
Indica con una smorfia sprezzante il locale e io mi impettisco.
«Beh? Non interferisce col mio lavoro alla MP, non
vedo che problema ci sia.» Osservo, sicura di me.
«Da quanto tempo sei qui?» Sembra davvero
infuriato. Che cavolo sarebbe questa, una scenata da fidanzato geloso? O una
sottospecie di paternale?
«Non credo che siano affari tuoi. Piuttosto, che
ci fai tu qui, Mister Moralità?»
Quasi gli faccio il verso, poi ricordo a me stessa che ho ventisei anni e non è
il caso.
Christian espira dal naso, furioso. Dà
un’occhiata veloce al locale, poi mi afferra una spalla e si china su di me.
«Stammi bene a sentire. Non mettere più piede qui dentro, non è un ambiente per
te. Mi hai capito?» Sibila, a pochi millimetri dal mio orecchio.
«Detto così suona quasi come una minaccia.» Lo
istigo, risultando irritante perfino a me stessa.
«Non far sì che lo diventi.» Replica lui, per
poi sparire tra la folla.
Sono sconcertata. Mi sembra di aver avuto a che
fare con un altro Christian, un suo sosia arrogante e borioso. Che significa
“non mettere più piede qui dentro”? Chi è lui per decidere della mia vita e per
contestare le mie scelte? Contestare, poi. Me l’ha proprio proibito!
Passo le successive tre ore a rimuginare sulle
sue parole e sul tono odioso che ha usato mentre parlava; a ogni secondo che
passa mi innervosisco sempre di più.
Se credi di avere a che fare con una ragazzina
che si lascia intimidire da un voce un po’ più grossa…
beh, Christian Wayne, ti sbagli di grosso.
~ Note
Vi avevo illuso un po’ con lo spoiler dello
scorso capitolo, vero? E invece Elettra continua a comportarsi da “pisella”, come dico io. In più, ha avuto questo pseudo-scontro col nostro Adone. Ehhhhhh*sospirone di chi sa
ma non può parlare*.
È riapparso magicamente anche Ethan, avete
visto?
Ditemi se non è semplicemente adorabile
Christian, o se sono l’unica a essere ormai perdutamente innamorata di lui. Io
cerco di convincerla, Elettra, ma lei non mi dà retta. Davvero.
Vediamo un po’ se nel prossimo capitolo
succederà qualcosa:
«Devo metterti sotto di nuovo,
allora.» Prosegue, e io lo guardo sbigottita. «Intendo col solletico.» Precisa,
ma sotto sotto sogghigna. «Maliziosa.»
«Ah, IO!»
Lui si stringe nelle spalle.
«Io non ho pensato a niente di
male, lo giuro!» Sta ridendo come un bambino.
P.S.
A. I. (post scriptum alquanto inutile): questo
è Christian coi capelli sciolti. Anche questo, via.
Però il primo è quello della scena del caffè. Bene, fine della nota inutile XD
Dopo l’incontro-scontro di quel venerdì, non ho
più visto Christian al Vagabond. Ho casualmente chiesto a Marion se fosse un
frequentatore abituale, e lei mi ha detto che va lì più o meno ogni dieci giorni,
sempre intorno a mezzanotte o l’una, ma mai nel weekend. Si siede allo stesso
divanetto in un angolo con tipi strani e va via dopo dieci minuti, un quarto
d’ora al massimo. In ogni caso, sembra che il nostro incontro lì non sia mai
avvenuto, almeno per lui. Dal lunedì successivo è tornato tutto alla normalità,
si è comportato nello stesso modo indefinibile e beffardo di sempre, rendendomi
la vita praticamente impossibile.
***
«Non ti arrabbiare, cugina, ma se continuiamo di
questo passo non ce la farò nemmeno per la prossima fumata bianca.»
Anne mi fa una linguaccia, aumentando la
velocità. «È che io scruto tutti
i potenziali negozi, mica come te che cammini come un Panzer e ti fermi solo in
quelli che ti piacciono!» Si giustifica, alzando le braccia.
«Entriamo qui, mi ispira.» Giro a destra e apro
la porta di un negozio non troppo vistoso ma carino.
«Sarà la settima volta che lo dici, e
puntualmente esci bestemmiando per la taglia che non c’è, il prezzo troppo
alto, o troppo basso – non ti capisco davvero – la scortesia delle commesse… sei incontentabile!»
E insomma sì, se ve lo state chiedendo, stiamo
facendo shopping.
«Salve, mi servirebbe un tailleur.
Preferibilmente scuro. Una cosa non troppo attempata.» Vado dritta al punto, e
la commessa mi dice di seguirla.
«Questa è la volta buona.» Sussurro ad Anne,
sicura di me. Lei alza un sopracciglio.
E va bene, forse l’avrò detto altre volte. E
quindi?
«Ecco. Questo potrebbe andar bene?» La commessa
mi agita davanti un tailleur color bradipo morto e io scuoto la testa,
schifata.
«Preferirei un tailleur con la gonna, comunque.»
La commessa mi mostra almeno cinque modelli diversi, uno peggio dell’altro.
“Avevo detto modello non attempato.”
“Oh cielo, questo non lo indosserebbe neanche
Heidi Klum ad Halloween.”
“Le sembra un colore scuro questo?”
“Per questo prezzo ne ordino uno da Valentino in
persona.”
Insomma, vi risparmio tutta la trafila.
«Possibile che non ci sia un fottuto tailleur
decente in questa città?» Mi porto le mani al viso, stizzita. La commessa non
sa che pesci prendere, si guarda intorno.
«E quello cos’è?» Come una striscia di terra in
lontananza per un marinaio, le parole di Anne mi infondono un po’ di speranza.
Mi volto a guardare il punto che sta indicando e vedo un manichino vestito alla
perfezione, con un tailleur gonna blu scuro, una maglia a righe bianche e blu
con un fiocco rosso in un angolo, ai piedi delle scarpe abbinate col tacco
dodici. È perfetto.
«Vado a prenderle la sua taglia.»
«Di tutto!» Le grido in risposta. Quando torna,
corro in camerino sgambettando allegra.
Anne mi segue. «Non devo neanche portarli in
lavanderia, ti pare? Erano incellophanati fino all’ultimo filo. Profumano
anche.» Le dico, e lei annuisce.
«Anche perché non hai molto tempo. La
presentazione è tra un’ora.»
A circa un mese dal mio
arrivo alla Macmillan Publishers, come aveva anticipato Martin, c’è stata la
presentazione del libro della famigerata Lena Ivanov
nelle principali librerie di Miami. Di solito di queste cose se ne occupa Tony,
che infatti è praticamente assente in ufficio da quattro giorni. Questa mattina
c’è l’ultima presentazione, a cui dovrò partecipare io dato che l’interprete
della Ivanov si è beccata un febbrone da cavallo
proprio questa notte. Non so per quale oscuro motivo Martin abbia deciso di
mandarmi insieme a Christian, invece di Tony. Mi sarebbe piaciuto passare un
po’ di tempo con lui.
Mmh, pazienza.
Ri-vestita da capo a piedi, saluto Anne con un abbraccio
e vado sull’altro binario della metro, che mi porterà al cimitero, dove ho
appuntamento con Christian.
«Certo che ha scelto un posto allegro, eh.» Ha
commentato Anne quando gliel’ho detto, stamattina.
Ho fatto spallucce. «Magari la presentazione è
tutta una scusa e la verità è che vuole farmi fuori.»
Anne mi ha guardato con un sopracciglio che le
arrivava all’attaccatura dei capelli. «Io non credo proprio. Perché dovrebbe?
Lo stai trattando male?»
Io, naturalmente, le ho rivolto la faccia più innocente
del mondo. «Certo che no. Ho solo, tipo, rifiutato di uscire con lui. Sì,
questa è una delle ultime.»
Lei si è passata una mano sul viso e,
sconsolata, ha scosso la testa. «Elettra Violet Wayne, sei irrecuperabile.»
Quando intravedo il cartello che recita la
scritta “Miami City Cemetery” torno al presente e mi
apposto proprio fuori i cancelli. Menomale che sono appena le undici del
mattino, altrimenti avrei qualche serio problema a restare qui. So che ha
scelto questo posto per comodità e so anche che questa strada è una delle più
trafficate del quartiere, ma a me inquieta lo stesso.
Di tanto in tanto mi guardo intorno circospetta,
con la speranza di avvistare l’auto di Christian. Che, per inciso, non so
neanche che modello è. Avrei dovuto chiederglielo. Non sopporto quando devo
curiosare in tutti gli abitacoli che passano per vedere se è la macchina
giusta. Puntualmente poi non me ne accorgo mai in tempo e resto impalata come
una cretina quando quella si avvicina al marciapiede.
Due colpi di clacson mi fanno voltare,
provengono dalla mia sinistra. Vedo un’Audi RS5 rossa che rallenta fino a
fermarsi davanti a me. Scorgo la testa bionda di Christian – in tempo – e mi
accingo a salire.
L’auto di un uomo ti dice tutto di lui: quella
di Christian è, naturalmente, impeccabile. Gli interni in pelle scura sono
tutti perfettamente lucidati. L’abitacolo profuma di pulito, di vetiver e di Christian.
«È Hugo Boss?» Gli chiedo, senza neanche
rendermene conto. Lui mi guarda da dietro gli occhiali da sole e aggrotta la
fronte.
«Buongiorno anche a te.» Sorride. «Il mio
profumo, dici? Sì, ti piace?» Mi chiede mentre riparte a tutta velocità.
«Ehm. No, sai, chiedevo soltanto. Così.» Ma che
ho detto?
Faccio l’errore di guardarlo e mi sento
avvampare. Un pensiero mi si intrufola tra i neuroni, facendoli sgomitare per
la sorpresa: è proprio bello, accidenti. Sempre elegantissimo in camicia nera e
completo grigio, simile a quello che aveva in albergo. Se ne sta col braccio
sinistro appoggiato sulla portiera e quello destro sullo sterzo, del tutto a
suo agio.
Io, invece, ho gli spilli nel sedere.
«Stai bene.» Il suo commento improvviso mi fa
sussultare. Ero sovrappensiero.
«Cosa?» Gli chiedo di ripetere. Per quanto ne
so, potrebbe aver fatto un discorso di mezz’ora e io non ho seguito neanche una
parola.
«Stai… bene.» Ripete,
e indica con un cenno della mano il mio abbigliamento nuovo di zecca.
«Ah. Grazie.» Non che io di solito in ufficio
vada vestita male. È questo che sta insinuando? Sono sempre elegantissima, io!
«È un complimento, non fare quella faccia. Dirti
che sei bellissima probabilmente ti avrebbe fatto scappare dall’auto, quindi ho
pensato di cambiare forma.»
«Per non avermi sulla coscienza, quindi.» Come
rigirare la frittata quando qualcuno ti fa un complimento. Imparate dalla
numero uno.
«Naturalmente.» Annuisce lui.
Mi schiarisco la gola, improvvisamente ho una
gran sete. «Grazie, comunque.» Sussurro, e lui, per tutta risposta, avvicina la
mano al mio viso e in un movimento rapido mi scompiglia i capelli.
«CHRISTIAN!» Esclamo, e immediatamente abbasso
lo sportellino con lo specchio per riparare il danno. Mmh, okay, pensavo
peggio.
«Che c’è? Avevi uno scarafaggio tra i capelli.»
Replica, e io lo guardo scioccata.
«COSA?! Dov’è?! L’hai tolto? CHRISTIAN, l’hai tolto?!»
Mi agito sul sedile come una trottola impazzita.
«Sì, tranquilla. Ora è al sicuro sul sedile
posteriore.»
Mi ci vuole un secondo per realizzare. «Non
avevo niente tra i capelli, vero?» A parte una goccia gigante che mi pende come
quella di un manga giapponese.
Christian sorride. «No.»
«Ohhh! Sei… irritante,
e cocciuto e insopportabile!» Sbotto, sbattendo lo sportellino.
«Wow. Non c’era bisogno di ricambiare il mio
complimento, ma ti ringrazio.» Risponde lui, e piega il braccio poggiato sulla portiera
portandosi un dito alle labbra. Per distrarmi, ne sono sicura. Ah-ha, non
funziona, Wayne. Incrocio le braccia al petto e decido di non rispondere.
«Allora, dai, dimmi qualcosa in russo. Così ti
alleni.»
Bella scusa. Sospiro e ci penso un po’ su.
«Jakhochupogovorit's advokatom.» Dico, infine.
«Che significherebbe…?»
«Voglio parlare con un avvocato.» Traduco,
ridacchiando. Lui mi imita e stavolta mi tira una ciocca di capelli.
«Ahi.» Mugolo. «Tysdelalmnebol'no!(*)»
«Scusa. Tu mi provochi.» Gli faccio una
linguaccia. Dopo un minuto di silenzio, riprende a parlare: «Come si dice “Sei
davvero bella quando arrossisci”?»
E come si dice “Smettila di dirmi queste cose a
tradimento”? Lo fa proprio apposta, lo dice con quella tranquillità assurda,
come se il suo vero mestiere fosse quello di fare complimenti alle donne. AAAH.
«Non lo so.» Balbetto. «Ci vuole molto per
arrivare?» Riesco a malapena a deglutire.
«Siamo arrivati.» Dice, come al solito per
niente scalfito dai miei sbalzi di umore. Mentre lo dice, accosta al
marciapiede. Lo vedo togliersi la cintura di sicurezza, sfilare la chiave e
aprire la portiera. Quando provo a fare lo stesso, scopro che è bloccata.
«Ma cos-» Prima che possa emettere mezza sillaba
– al novanta per cento l’inizio di un’imprecazione – vedo Christian fare il
giro dell’auto e venire ad aprirmela. Scendo, senza fare troppo caso alle
occhiate curiose delle persone sul marciapiede e aspetto che Christian si giri
per dirgliene quattro.
«Che diamine-»
«Posso farti sbattere le porte dell’ufficio e
perfino lo sportellino dello specchio. Ma la portiera della mia Audi non si
tocca.»
Io provo a ribattere ma lui posa un dito a
mezz’aria a qualche centimetro dalla mia bocca.
«E non dire che non l’avresti fatto.» Mi
ammonisce, agitando il dito.
Ci penso su per qualche istante, poi sbuffo.
«Okay, fair enough.»
***
Stiamo entrando dal retro della libreria, per
evitare la folla appostata all’ingresso: ragazzine urlanti e scodinzolanti,
armate di macchine fotografiche e pennarelli indelebili. Manco questa fosse la
nuova rivelazione della narrativa contemporanea. Sì, è un bel libro, ma niente
di eccezionale. Tanto amore. Troppo
amore.
«Sei pronta?» Mi dice Christian, prima di
entrare. Si toglie gli occhiali e scruta la mia espressione. Caspita, avevo
dimenticato quanto fossero azzurri i suoi occhi.
«Sono nata pronta.» Più o meno.
Apre la porta e ad accoglierci ci sono i
dipendenti della libreria, con i loro responsabili al seguito, e una giovane
donna accompagnata da un tizio in giacca e cravatta.
«Lei deve essere Lena. Piacere, io sono Elettra
Wayne, mi sono occupata della traduzione del suo libro.» Mi fiondo a dirle non
appena mi si avvicina. Guardo Christian con la coda dell’occhio che mi fissa
contrariato. Ops, forse doveva presentarmi lui.
«Signora Ivanov.»
Orione le stringe la mano e la porta al viso per posarvi un bacio. «Christian
Wayne.» Le sussurra. «È un piacere conoscerla.» Lei è estasiata. La stronza.
Perché alla Ivanov ha dato
subito del lei?! Ignobile razzista. E cos’ha da guardare lei? Perché non la
smette di fargli gli occhi languidi?
«Io sono Roman, il suo agente.» Il tizio in
giacca e cravatta si presenta e noi lo salutiamo con altrettanto entusiasmo.
Pari a zero.
Ora che la guardo bene, la Ivanov
non mi sembra poi tanto giovane. Ha tante piccole rughette
intorno agli occhi e qualcuna nei dintorni delle labbra. E anche un principio
di alopecia, noto, all’attaccatura dei capelli.
Inizia subito a parlare in russo, rivolta a
Christian. Poi mi guarda e io traduco: «Sono felice che la vostra casa editrice
abbia scelto il mio libro, sono sicura che avete fatto un ottimo lavoro.» Ho
vagamente omesso la parte in cui diceva “lei mi sembra un uomo davvero
professionale”. Nessuno se ne accorgerà, tanto.
Christian risponde: «Grazie a lei per aver
scritto questo capolavoro.» Traduco, schifata, cambiando “capolavoro” in “bel
libro”. Capolavoro. CAPOLAVORO! Ma l’ha letto? Lo guardo allibita e lui
intercetta il mio disappunto. Mi rivolge un’occhiata della serie “Lo so, ma
sono cose che bisogna dire per forza”.
«Vogliamo andare?» Chiedo, indicando l’ambiente
principale della libreria dov’è pronta una bella scrivania con settecentomila
copie del suo “capolavoro”. I tre annuiscono, e Lena riprende a parlare. Quanto
parla!
«Se è
possibile vorrei che mi stesse vicino, per assistermi.» Dice sbattendo gli
occhi da cerbiatta a Christian. Traduco: «Mi dispiace che sia dovuto venire,
non c’è davvero bisogno di tanta gente attorno a me.»
Lo sai
proprio bene il russo, eh?
Una bomba, vero?
Christian risponde che non c’è problema, e io
traduco innocentemente: «Farò il possibile.»
Ci avviamo verso la scrivania, dove Lena si
sistema e io mi siedo alla sua sinistra. Vedo il suo agente prendere in disparte
Christian per qualche istante. Gli mormora qualcosa all’orecchio e Christian mi
guarda, poi sposta lo sguardo su Lena e gli risponde. Proprio quando stanno
tornando e io sto per chiedere a Christian cosa c’è che non va, uno dei
dipendenti apre le porte della libreria e l’orda di fan prende d’assalto il
locale. Si piazzano tutti davanti al nastro che fa da transenna e aspettano
ordinatamente – sì, certo – il loro turno per farsi autografare il libro e
scattare qualche foto.
Prima che inizino a sfilare davanti alla
scrivania, Lena fa un piccolo discorso di ringraziamento a tutti quanti, spiega
quanto sia stato importante scrivere questo libro per lei e blablabla. Le solite moine di
turno che sono costretta mio malgrado a tradurre.
«E vorrei
ringraziare infinitamente il mio editor, Christian
Wayne, una persona dolcissima e straordinariamente affascinante, e la
traduttrice che ha contribuito a rendere questo libro accessibile anche a voi.»
Puah, devo tradurre tutte queste smancerie?
«E vorrei ringraziare la Macmillan Publishers,
qui rappresentata dal valido editor Christian Wayne,
e la traduttrice – che sarei io – che ha reso questo libro accessibile ai
lettori americani.» Mh, ora va molto meglio. Sorrido soddisfatta e torno a
sedermi accanto a lei.
Che la sfilata abbia inizio.
Nell’ordine, chi vuole comprare una copia del
libro e farselo autografare dalla Ivanov, passa prima
davanti alla scrivania coi libri, poi davanti a Lena, poi ci sono io, di
seguito Roman affiancato da un tizio che scatta le foto con le macchine
fotografiche dei fan, e infine Christian, che chiude la coda. Se ne sta nei
dintorni dell’ingresso con le braccia incrociate davanti a sé e la solita
espressione irridente e terribilmente sexy. Di tanto in tanto infila le mani in
tasca e muove qualche passo.
Hai
definito Christian terribilmente sexy. È inutile che fai finta di niente.
No, non è vero. Hai capito male.
Le tue
difese stanno cedendo, ah-ha.
Di tanto intanto qualche giovinetta
intraprendente azzarda un’occhiata in direzione di Christian, ma non oso
voltarmi per vedere il tipo di reazione dall’altra parte.
«Posso venire a lavorare anch’io per voi? Non
serve un’assistente personale all’Adone che avete per collega?» Sussurra con un
sorrisone una ragazza poco più piccola di me, lanciando occhiate di fuoco verso
l’ingresso.
Sì, fidati, stavamo proprio aspettando te.
«Mi dispiace, il signor Wayne non ha bisogno di
assistenti.» Le rispondo, distaccata. Mi sta odiando, si vede.
«Cos’è che sei tu, la traduttrice?» Chiede,
sprezzante, mentre allunga la sua copia del libro a Lena.
«Elettra Wayne,
piacere.» Annuisco con un sorriso, enfatizzando sul mio cognome uguale a quello
di Christian. L’effetto desiderato è presto ottenuto, infatti lei strabuzza gli
occhi e sposta lo sguardo da me a lui, sconvolta.
«Siete... sposati?» Balbetta, prima di andare
via.
Io le sorrido, sadica, senza confermare né
negare, ma sono sicura che lei adotterà il “chi tace acconsente”.
Con la coda dell’occhio vedo che si riunisce al gruppetto
di amiche che hanno già avuto la loro copia del libro e sussurra ancora sotto
shock la notizia alle loro orecchie attente. Loro mi guardano con un misto di
stupore e invidia.
Ah, com’è bello il mondo oggi.
***
«Grazie per la disponibilità.» Sta dicendo
Christian al proprietario della libreria, salutandolo con una stretta di mano.
Fanno altrettanto Lena e il suo agente, e infine io, che li seguo all’uscita.
Christian guarda l’orologio, stringendo appena
gli occhi per via del sole battente che oggi illumina Miami. «Manca un quarto
d’ora alle tredici, io ho un certo languorino... che
dite, andiamo a mangiare qualcosa insieme?» Propone, e si passa una mano sullo
stomaco a confermare l’appetito crescente. Effettivamente, anche io avverto
qualche movimento interno. Traduco ai due russi e loro annuiscono di buon
grado. E quando mai.
«Siamo vicini al DeVito
South Beach, vi piace la cucina italiana?» Chiede Christian e io mi blocco
mentre stiamo camminando, rimanendo indietro di qualche passo. Mi affretto a
raggiungerli prima che se ne accorgano. Christian, ovviamente, se n’è già
accorto, e mi rivolge uno sguardo interrogativo. Traduco e i due annuiscono di
nuovo. A chi non piace la cucina italiana, dopotutto?
Superiamo qualche isolato a piedi e ci troviamo
davanti al famoso ristorante. Christian tiene aperta la porta e lascia entrare
Lena e Roman. Quando tocca a me, mi ferma con le sue parole: «Hai visto? Avevo
promesso che ti ci avrei portato. Sono un uomo di parola.»
Indugio sulla soglia del ristorante e penso a
cosa rispondergli, trattenendo un sorriso.
«Non avevo capito che saremmo venuti in
compagnia di una scrittrice semi-calva e del suo agente 007.» Lui ride e io
avanzo verso l’interno. Un istante dopo percepisco il suo calore addosso e la
sua bocca a pochi millimetri dal mio orecchio mi fa rabbrividire dalla testa ai
piedi. «Se ci sei rimasta male possiamo tornare da soli.»
Elettra, respira.
«Non ci tengo, ma grazie.» Gli rivolgo un
sorriso fintissimo che lui ignora, e continuo a
camminare verso il tavolo al quale si sono seduti i nostri ospiti russi.
Christian mi accompagna con una mano poggiata impercettibilmente sulla mia
schiena.
Quando prendiamo posto, mi tolgo la giacca e la
sistemo sulla sedia vuota accanto a me. I tavoli sono tutti rotondi, ognuno di
essi ha sei sedie. Chiamiamole sedie, poi. Sono vere e proprie poltrone
imbottite e rivestite di un morbido tessuto color crema sul davanti e nero
dietro. Il locale si sviluppa nei toni del rosso, nero e crema con la parete
principale rivestita in mattoncini rustici. C’è anche un bancone in marmo in
stile bar, e in alternativa ai tavoli rotondi ci si può sedere su dei grossi
divani color crema posti davanti a dei tavoli bassi e rettangolari. Sul
soffitto scendono eleganti dei lampadari a forma di bouquet rovesciato. Tutto
molto carino.
Il cameriere arriva celere e cordiale a portarci
i menu e io leggo le varie pietanze con l’acquolina in bocca. Consigliamo a
Lena e Roman dei piatti tipici e, mentre aspettiamo che il cameriere torni a
prendere le ordinazioni, facciamo un po’ di conversazione. Tradotto: Lena sbava
palesemente su Christian e io continuo ad omettere le parti peggiori.
«Allora,
Christian, che ci racconti di te? Sei sposato?» Questa sono costretta a
tradurla uguale. Il diretto interessato sorride e scuote la testa.
«No, ma’am.» Tranne
che per quel gruppetto di ragazze sbavanti in libreria, penso con un malvagio
sorriso interiore.
«Oh, e
come mai? Sei fidanzato, allora. Un bell’uomo come te non può essere single.»
Traduco cambiando “un bell’uomo come te” in “uno come te” e tossendo
casualmente alla fine della frase. Roman mi guarda in modo strano. Lo ignoro e
torno a guardare Christian.
«Ti ringrazio e mi dispiace deluderti, ma non
sono neanche fidanzato.» Ah no? Mhmm. Traduco e Lena si illumina.
«Devi
venire a trovarmi in Russia.» Non volevo scoppiare a ridere, giuro. Mi
schiarisco la gola cercando di dissimulare la risata il più possibile e mi
accingo a rivolgermi a Christian, che aspetta la traduzione.
«Dice che in Russia sono tutti fidanzati.»
Affermo, con gli occhi fissi sul centrotavola rosso. Lena aspetta una risposta
piena di speranza, ma Christian, ascoltato quello che gli ho detto, non sa che
dire. Si limita a sorriderle, il che va anche bene.
«Beati loro, cosa vuole che le dica?» Sussurra
infine, rivolto più a me che a lei, e io mi lascio sfuggire una risatina.
«Spero non siano tutte come lei, le fidanzate.»
Mormoro in risposta, e stavolta gli strappo io una risata. Ci guardiamo
complici per un momento e poi torniamo a includere nella conversazione anche i
cosacchi dello Zar.
Proprio quando Roman sta per parlare per la
prima volta in mia presenza, si sente lo squillo di un cellulare, con una
strana suoneria che ricorda un sirtaki o qualcosa di simile. Roman scava nella
sua giacca, è evidentemente il suo. Risponde, in russo, e si alza dal tavolo.
Mi scoccio di origliare, per cui torno a Lena e Christian, che si stanno
guardando senza sapere che dire.
«E tu, Lena, sei fidanzata?» Le chiedo, per
passare il tempo. Lei scuote la testa.
«Sto
aspettando uno come il signor Wayne.» Ma quanto è sfacciata!
Christian, sentendosi chiamato in causa, senza
però capire nulla, mi rivolge uno sguardo interrogativo e io mi affretto a
spiegargli: «Le ho chiesto se lei è fidanzata, e mi ha risposto “No, proprio
come il signor Wayne.”»
Sono
senza parole.
Christian annuisce, ignaro. «Ma non aveva detto
che sono tutti fidanzati in Russia?»
Faccio spallucce. «È un po’ confusa. Sai, la
popolarità dà un po’ alla testa.» Ma cosa sto blaterando? Mah.
Roman torna con una faccia scura e si rivolge a
Lena: «Dobbiamo andare, Lena. Il volo è
stato anticipato.» Poi sposta il suo sguardo su di me. «Mi dispiace, abbiamo avuto un contrattempo.
È stato un piacere conoscervi, comunque.»
Christian intuisce la situazione senza che io
traduca e si alza per salutare Roman e la sua “protetta”, che in questo momento
ha una faccia triste perché deve lasciare il suo amato editor.
Ben ti sta, tzè.
Li guardiamo andar via e mentre stiamo per
sederci, ci si avvicina il maître.
«I signori sono andati via?» Noi annuiamo, e lui
ci invita a sederci nell’area per i non fumatori, dove ci sono dei tavoli per
due. Giustamente, è inutile occupare un tavolo da sei quando siamo rimasti
soltanto Christian e io.
Prendiamo posto al nuovo tavolo e approfittiamo
della cameriera che sta sistemando i coperti per ordinare. Quando lei si
allontana, appoggio le braccia incrociate sul tavolo, alla faccia del galateo.
«Beh, non abbiamo avuto nemmeno bisogno di
tornarci da soli, hai visto?» Sapevo che l’avrebbe detto.
«Te la sei cavata. Fortunato.»
«Sappi che mi devi ancora un aperitivo insieme.
Questa non conta come uscita.»
Christian ha appena ammesso di avermi invitato a
uscire con lui? Christian mi ha appena invitatodi nuovo a uscire con lui?
«Sempre con calma e per favore.» Borbotto in
risposta.
Questo
sarebbe una sottospecie di sì camuffato da battuta ironica?
No, è un modo per non rispondere e dirottare la
conversazione sulla sua presunta maleducazione.
«Certo, certo.» Christian alza le mani come a
scusarsi. Fortunatamente non insiste sull’argomento, e io ne approfitto per
cambiarlo.
«E allora, Christian, da quanto tempo lavori
alla MP?» L’occhiata vagamente rassegnata che mi rivolge mi fa capire che ha
intuito il mio tentativo di tergiversare, ma non sembra volersi soffermare
sulla cosa.
Sant’uomo,
aggiungerei. Io ti avrei già uccisa.
No, ma tu hai notato che gli ho fatto una
domanda per fare conversazione?
Elettra Wayne e conversazione nella stessa frase! Che vuoi di più?
Violet si lancia con la testa contro uno spigolo
di muro. Violentemente e più volte.
«Da più tempo di quanto possa ricordare.»
Ridacchia Christian, rispondendo alla mia domanda. «Ho iniziato come stagista
qualche mese prima di laurearmi, un po’ come sta facendo Lily. È in gamba,
quella piccolina.» Commenta, senza smettere di sorridere. Ricambio il sorriso
solo perché sono d’accordo sul fatto che sia una ragazza promettente. Quel
“piccolina”, però, mi suscita una nota di disappunto.
Gelosia,
Elettra, gelosia. Diamo alle cose il loro nome.
«Nancy mi ha detto che Thomas è il candidato a
rimpiazzare Martin, quando andrà in pensione.» Quando finisco di parlare, un
cameriere ci interrompe con le nostre portate tra le mani. Mmm, che profumino.
«Teoricamente sì, lui è l’amministratore
delegato.» Ora che sono arrivati i piatti mi rendo conto che siamo davvero in
un ristorante, da soli, come fossimo andati a cena fuori. Questo pensiero, mio
malgrado, mi provoca un brivido piacevole e un sorriso.
«Teoricamente?» Ecco, brava, concentrati sulla
conversazione. Un po’ di sano gossip sulla società.
Christian reagisce alla mia domanda con uno
sguardo pensoso, sembra stia valutando se rispondermi o no. Nel frattempo però
non mi toglie gli occhi di dosso, rendendomi ancora più agitata di quanto non
sia già.
«Sì. In realtà Martin vuole nominare me
direttore.» Dice alla fine, e fa sparire una forchettata di linguine all’astice
tra le sue labbra mentre scruta con attenzione la mia reazione a quello che ha
appena detto.
Ah, questa mi mancava. «E Thomas lo sa?» Io al
posto suo non sarei tanto contenta, ma potrebbe anche darsi che l’abbia
proposto lui. Magari gli piace il posto di vice.
«Sì, e per questo praticamente mi detesta.» No,
a nessuno piace l’eterno ruolo di “secondo”.
«Mi dispiace. È brutto avere problemi di questo
genere sul lavoro.»
Lui accenna una risata. «Sei seria?» Io serro le
labbra per non ridere. «E che mi consigli? Sai, ho qualche difficoltà anche con
una nuova collega. Pare che perfino lei mi detesti.»
Ogni riferimento a persone o cose è sempre
puramente casuale, vero?
Sospiro. «Io non ti detesto, Christian.» Gli
dico, sincera. Lui alza gli occhi dal suo piatto e li punta dritti nei miei.
Quell’azzurro così limpido mi fa tremare il cuore. Non mi ci sono ancora
abituata.
Christian non parla, sembra non voler
interrompere questo momento di “confessione”, e io mi sento sempre più a
disagio. Il suo sguardo mi incita a continuare, è come se mi stesse chiedendo
“E allora perché ti comporti come se fosse così?”.
«Però mi fai arrabbiare spesso.» Mi mordo la
lingua all’ennesimo tentativo ben riuscito di far scivolare la conversazione
verso un punto di non ritorno. Ho l’improvvisa voglia di buttarmi con la testa
nella mia bolognese e non uscirne più.
«È complicato, Christian. Non…»
Non so che dirgli. Non voglio dirgli nulla. Scuoto la testa e torno a mangiare.
Sul nostro tavolo cala un silenzio
insopportabile. Chiudo gli occhi e mi sento una stupida. Non oso guardare in
alto, tutto quello che vedo da qui è la sua mano che stringe la forchetta. Mi
basta quella.
«Sai, comunque dovrei punirti perché non stai
mantenendo fede alla tua promessa.» È lui a infrangere il silenzio, togliendo
un immaginario peso di cinquecento quintali dal mio stomaco.
«Cosa? Quale promessa?» Che sta dicendo ora?
«Mi hai promesso di non prendermi mai in giro,
di parlare sempre bene di me, mi hai detto di essere il tuo re, e-»
«Ma che ti sei fumato?!» Stavolta a
interromperlo mentre parla sono io.
«È inutile che fai la finta tonta, me l’hai
giurato quando ti ho fatto il solletico in albergo.»
Scoppio a ridere, sciogliendo un po’ di
tensione. «Ma è come prendere per buone le confessioni fatte sotto torture
cinesi! Certe cose si dicono di proposito per far smettere il supplizio, che
credi? E poi non sapevo che ti avrei rivisto!» Oddio, chissà cos’altro ho
blaterato in preda agli attacchi di risate. L’avevo detto io che non mi sarei
mai più abbassata a certi livelli di scongiuri.
«È davvero un peccato, mi hai detto tante altre
cose carine... che immagino non sentirò mai più nemmeno per sbaglio.» Alza un
sopracciglio e io annuisco, del tutto d’accordo. Che gli avrò detto di così
carino?
«Devo metterti sotto di nuovo, allora.»
Prosegue, e io lo guardo sbigottita. «Intendo col solletico.» Precisa, ma sotto
sotto sogghigna. «Maliziosa.»
«Ah, IO!»
Lui si stringe nelle spalle. «Io non ho pensato
a niente di male, lo giuro!» Sta ridendo come un bambino.
Scuoto la testa e finalmente tutti i miei
muscoli si rilassano. Il cameriere viene a riprendersi i piatti e domanda se
desideriamo il secondo. Christian mi guarda.
«No, per me no. Sono piena.» Tutta quest’ansia
mi ha fatto passare gran parte dell’appetito. C’è da dire comunque che il primo
piatto era davvero abbondante. Christian sembra d’accordo con me.
«Vuoi il dolce? Io avrei voglia di un bel
tiramisù.» Propone, e io annuisco con la bavetta appesa come un cagnolino. Che
ci posso fare, i dolci sono la mia condanna e la mia maledizione.
«Mmm, sì! Dividiamo?» Impensabile, ma sono
davvero piena. Confermiamo l’ordinazione al cameriere che va via lasciandoci di
nuovo da soli.
***
«Comunque sei proprio una stronza, sai?»
Ora siamo in auto, di ritorno verso casa. Ho
ancora il sapore del tiramisù tra le labbra. Christian ha insistito per pagare,
sostenendo comunque che dobbiamo organizzarci per quel famoso aperitivo. Ho
annuito distrattamente e l’ho ringraziato per il pranzo.
«Ehi, modera i termini. Perché sarei una
stronza?» Credo sia la prima volta che gli sento dire una parolaccia.
«Perché non hai tradotto a dovere quello che
diceva Lena.» Oh-oh. A quale parte della mattinata si
riferisce?
«Come fai a dirlo, scusa? Conosci il russo?»
Replico con il tono più distaccato e altezzoso che mi riesce.
«No, ma Roman mastica un po’ d’inglese, e mi ha
detto che stavi praticamente sabotando la conversazione.» Ops. Una sirena
lampeggiante nella mia testa strepita: “Scoperta! Scoperta! Errore!”
«Non è vero. Roman si è sbagliato.» Negherò fino
alla morte, sì. Come può credere a quel russo puzzolente piuttosto che a me?
«Stai arrossendo.»
«NON È VERO.» Mi ricordo quello che mi ha detto
all’andata, in auto, e mi sento arrossire ancora di più. Dannazione.
Christian ride. «Io comunque gli ho risposto che
forse puoi aver confuso qualche espressione, e lui mi ha detto che stranamente
hai tradotto esattamente il contrario di quello che diceva.»
Taccio, imbarazzata. Christian continua a
guardarmi, alternando lo sguardo da me alla strada. Serro le labbra per non
ridere ma gli angoli mi iniziano a tremare. Scoppiamo a ridere insieme. Lui
scuote la testa.
«Sei incredibile. Perché l’hai fatto?» E tu
perché non ti fai un’insalata di cavoli tuoi?
Faccio spallucce. «Mi stava antipatica.» E l’Oscar per l’originalità va a... Elettra!
«Quindi anch’io ti sto antipatico.» Roman gli ha
detto che modificavo accidentalmente anche le sue frasi? Gli possano venire le
emorroidi fulminanti! Ecco perché mi guardava storto...
Sbuffo. «Qualche volta. Semplicemente, sai, non
volevo illuderla con quelle tue frasi carine di circostanza. Ho fiutato il suo
interesse per te e ti ho salvato da una futura piattola russa! Dovresti
ringraziarmi, invece di arrabbiarti.» Tzè, beccati
questa. Sono un genio, lo so.
«Non sono arrabbiato.» Risponde semplicemente
lui, con un sorriso.
Ma perché fa così, perché? Perché dice sempre la
cosa giusta?
«E allora che parli a fare?» Alzo gli occhi al
cielo.
«“E allora che parli a fare?”» Mi fa il verso,
imitando una voce femminile. Poi emette un sospiro e inizia a pizzicarmi sui
fianchi, facendomi contorcere dalle risate. «Quanto sei indisponente!» Dice, a denti stretti ma col sorriso.
«SMETTILA! Concentrati sulla guida, idiota!»
Grido tra una risata e l’altra. Gli prendo la mano e la allontano dal mio
corpo. La tengo tra le mie per qualche istante, senza sapere dove mettergliela.
Non c’è nemmeno il cambio, che gliel’avrei poggiata lì.
«Sei gelata. Ti senti bene?» Prima la sua mano
era tra le mie, adesso è lui che le stringe, e inizia a sfregare il pollice
contro la mia pelle.
«Sì.» Una minuscola parte di me prega che non si
accorga del battito cardiaco lievemente accelerato. «Ho sempre le mani fredde.»
E adesso puoi anche smettere di riscaldarmele, grazie.
Chissà
perché questa non l’hai detta ad alta voce.
Io agisco direttamente, ricordalo sempre.
E, per l’appunto, sfilo le mani e le poggio in
grembo. Lui ritira la sua e la mette sullo sterzo, senza aggiungere altro. Mi
domando quand’è che si deciderà a mandarmi sonoramente a quel paese.
Segretamente, spero mai.
~ Note
Ma buonsalveeeeeeeeeeee!
Che piacere ritrovarvi.
Capitolo un po’ poliglotto, come avrete
notato. Un grazie ENORME a Pyra per avermi aiutato col russo. Quella scricciola ha
appena tredici anni e m’ha bastonata per le castronerie che avevo erroneamente
tradotto.
(*) La seconda frase, come avrete
facilmente intuito, significa “Mi hai fatto male!”
Mi sono divertita tantissimo a scrivere del
sabotaggio di Elettra nelle conversazioni con Lena Ivanov.
Purtroppo è una cosa che farei anch’io. Ma non ditelo a nessuno.
Un po’ di foto per voi: questa è l’Audi di
Christian (qui) e questi gli interni
del DeVito South Beach (qui). Tutto vero, eh.
Intendo il ristorante, non l’Audi. Quella, insieme al suo proprietario,
purtroppo sono ancora frutto della mia immaginazione. Ahimè.
Non vedo l’ora di farvi leggere il prossimo
capitolo. È uno dei miei preferiti.
Una piccola nota a tutti quelli che hanno
aggiunto questa storia a preferiti/seguite/ricordate: siete tanti, e di questo
sono felicissima, ma apprezzerei se mi lasciaste una recensione. Fatevi
sentire, o lettori silenti! Sembra nulla, ma una recensione conta davvero tanto
per chi scrive.
Vi lascio, come al solito, uno spoiler,
ricordando che per altri c’è il gruppo. Ho modificato l’impostazione della
privacy da “Chiuso” a “Segreto”, quindi non troverete più il gruppo ma potete
chiedermi di aggiungervi tramite MP qui:
Mentre
sto per urlargli in faccia, la porta si apre ed entrambi ci voltiamo di scatto.
I capelli sparati di Tony fanno capolino e
osservo distintamente la sua espressione cambiare quando vede come siamo messi.
«Ho
interrotto qualcosa?»
La cosa
bella è che né io né Christian ci muoviamo di mezzo millimetro.
P.S.: Una piccola “chicca” riguardante il
titolo: per chi non lo sapesse, moth significa
falena. “You’re the moth and I’m the flame”, cantava Hilary Duff. Insomma,
anche se non si vede, qui si fanno progressi, gente. XD
Capitolo 10 *** Capitolo dieci - You're a dream to me ***
«Christian, la verità è che mi sei piaciuto dal
primo momento in cui sei magicamente apparso in quella camera d’albergo. Solo
che ero troppo cogliona per ammetterlo, devi scusarmi.»
«Anche tu, Elettra. E credo di averlo ammesso ogni
giorno da quando ti ho incontrata.»
Christian si avvicina a me e proprio quando sta
per baciarmi, Danny – voce dei The Script – mi strappa dal suo abbraccio
urlandomi “Standing in the hall of fame!”
Sussulto, svegliandomi di soprassalto.
Con gli occhi sbarrati cerco tracce di Christian
intorno a me. Tutto quello che vedo, però, è solo il soffitto sgangherato della
mia stanza. Sbuffo, snocciolando un paio di imprecazioni a voce alta. Spengo la
sveglia e urlo con la faccia contro il cuscino.
Odio i sogni. ODIO. I. SOGNI.
«Maledetti, maledetti, maledetti!» Ringhio
mentre mi alzo per andare a fare colazione. Accendo la televisione
sintonizzandola su un canale di intrattenimento, con la segreta speranza che la
scia del sogno svanisca nel nulla, o finisca nel dimenticatoio con tutti gli
altri.
***
«Buongiorno a tutti.» Oggi ho un diavolo per
capello. Già. E ho tanti capelli, nel caso non ve ne siate accorti. I miei
colleghi – o almeno, quelli che sono arrivati – ricambiano il mio saluto ed
evitano accuratamente di rivolgermi la parola. Ormai si può dire che abbiano
imparato a conoscermi: sanno quando possono e quando non possono. Oggi non
possono.
Sbatto la porta della mia stanza facendo tremare
la veneziana e butto la borsa sulla scrivania, irritata.
«Ti senti bene?»
Ah, c’è Lily. Non l’avevo vista. Mi sta
guardando con gli occhi sbarrati, sembrano ancora più a palla del solito.
«Mai stata meglio.» Commento, acida. Mi siedo e
accendo il computer. Tamburello con le dita sul legno della scrivania, e
osservo la mia compagna d’ufficio controllare delle carte e sistemarle in tanti
plichi ordinati.
«Io oggi dovrei aiutare Danny con delle
rilegature, però se hai bisogno di me gli chiedo se posso rimandare.» Mi
informa, cauta.
Io scuoto la testa. «No, vai pure, non mi
servi.» La liquido con un gesto nervoso della mano. Lei si defila senza
aggiungere nulla. Tra l’altro non so neanche io cosa fare, oggi. Devo aspettare
ordini superiori da Martin, oppure mal che vada posso chiamare Thomas. Sì,
adesso lo chiamo.
Il lieve bussare della porta interrompe il mio
flusso di pensieri.
«Avanti.» Dico scocciata. Alzo la cornetta del
telefono e quando la porta si apre resto col dito a mezz’aria sul numero
quattro.
«Buongiorno. Come stai?» Orione – sì, perché decisamente mi perseguita – chiude la
porta accompagnandola con un fianco e viene avanti con due tazze di caffè tra
le mani.
No, no, no.
Le appoggia sulla mia scrivania e prende la
sedia di Lily.
No, no, no.
Si siede di fronte a me e mi rivolge un sorriso
mozzafiato.
No, no, NO!
«Che ci fai qui? Cosa vuoi?» Sotto la scrivania,
agito la gamba come in aereo. Sembra attaccata agli elettrodi di Tesmed. O a una centralina elettrica.
«Avevo sentito qualcuno borbottare “Oggi è la
reincarnazione di Hitler”, ma non credevo dicessero sul serio. È successo
qualcosa?»
Tu mi sei
successo, ecco cosa.
E ora la mia mente si prende anche la libertà di
sognarti. Questo è un cattivissimo, pericolosissimo segno. Devo prendere le
distanze.
«Niente che ti riguardi.» Bugia.
Christian espira lentamente, gli occhi fissi su
di me che non oso guardarlo.
«Guardami.» Appunto. Scuoto la testa, non ci
penso nemmeno.
«Non hai da fare?» Clicco su una finestra a
caso, per far finta di essere impegnata. Dalla sua posizione non può vedere lo
schermo del mio computer.
«Sta’ zitta e guardami.» Una mano blocca la mia,
quella posata sul mouse; l’altra mi prende il mento e mi costringe a
rivolgergli lo sguardo. «Cos’hai? Non me ne vado finché non me lo dici.» Allora
staremo qui fino alla fine dei tempi, caro.
«Primo: smettila di bloccarmi il viso.» Sibilo,
e lui allontana la mano dal mio mento. Okay, ora si inizia a ragionare.
«Secondo: non ho nulla. Una persona non può essere nervosa per i cazzi suoi?»
Che sono anche cazzi tuoi in questo caso, ma sorvoliamo.
«Parla bene.» Mi rimprovera, e io alzo gli occhi
al cielo. «Oggi dobbiamo lavorare insieme, quindi stammi bene a sentire. E
guardami, ti ho detto.» Il tono si fa più duro e mi costringo a fare come dice.
Poi riascolto mentalmente le sue parole.
«Dobbiamo lavorare insieme?!» Oh no. No, no, no.
NO!
Ora mi metto a piangere.
«Sì. Bevi e calmati.» Alza la tazza di caffè e
me la mette sotto il naso. La prendo con un gesto stizzito e ne sorseggio un
po’.
«A saperlo ti avrei portato una camomilla.»
Aggiunge, ironico.
«Ah ah ah, sto morendo dal ridere.»
Faccio appena in tempo a posare la tazza sulla
scrivania che sento uno schiaffetto sulla tempia sinistra. Leggero, ma pur
sempre uno schiaffo.
«EHI!» Mi alzo e ricambio la sberla, colpendolo
però sulla mano che usa per schivarsi. Continuo a picchiarlo con tutta la foga
possibile e lui si difende splendidamente, beccandosi ogni tanto qualche colpo
solo per farmi contenta.
«Ora basta.» Due secondi dopo si stufa e mi
blocca le braccia, serrando le mani attorno ai miei polsi. La scrivania separa
i nostri corpi, ma i nostri visi sono a poco meno di venti centimetri di
pericolosa distanza.
“EH!
EH! EH! DANGER! DANGER! MAYDAY! MAYDAY! PREPARARSI ALL’IMPATTO!”
L’immaginaria sirena schiamazza impazzita nella mia testa, come i sensori di
parcheggio di un’auto.
«Lasciami.» Sussurro, torva. Lui stringe gli
occhi e fa la faccia da cattivo.
«No. Dimmi cos’hai, altrimenti te lo scordi.» Aaaahhh, ma che ho fatto di male per meritare un bambino
capriccioso come capo?!
«Ti ho già detto che NON-HO-NIE-»
Mentre sto per urlargli in faccia la porta si
apre ed entrambi ci voltiamo di scatto. I capelli sparati di Tony fanno
capolino e osservo distintamente la sua espressione cambiare quando vede come
siamo messi.
«Ho interrotto qualcosa?» La cosa bella è che né
io né Christian ci muoviamo di mezzo millimetro. «Posso aggiungermi?» A queste
parole, scoppio in una risata isterica. Christian mi lascia e io mi piego
letteralmente in due. Sto talmente male che mi siedo per terra e continuo a
ridere. Tony entra e chiude la porta, per poi avvicinarsi circospetto.
«Cosa le hai fatto? Mi sa che non ha
funzionato.» Bisbiglia a Christian, che sta sghignazzando. Io smetto di ridere
con uno strascico di mugolii e li guardo dal basso in alto.
«Aiutatemi ad alzarmi, per favore.» Allungo una mano
e l’impiccione – al secolo Christian Orione Wayne – la afferra e mi tira su.
Mi liscio la gonna e torno a respirare
normalmente. «Okay, sono pronta.»
Tony sorride sornione e si porta una mano sulla
cerniera dei pantaloni. «Mi spoglio?»
Gli mollo uno schiaffetto sulla spalla e guardo
Christian che ha fatto lo stesso dall’altro lato.
«Tra moglie e marito non mettere il dito, avete
ragione. Ero venuto a darvi il buongiorno con uno dei miei abbracci stritolanti
e pieni di amore ma noto che qui di amore ce n’è abbastanza. Me ne vado!» Alza
le mani in segno di saluto e sparisce sgambettando.
«È sempre il solito.» Commenta Christian con un
mezzo sorriso. Io lo fisso ancora vagamente inebetita per tutte quelle risate.
«Allora? Ti sei calmata? Possiamo tornare a parlare di lavoro o vuoi picchiarmi
ancora un po’?»
«L’idea non mi dispiace, ma è una lotta persa in
partenza.» Indico il bicipite che si intravede dalla maglia e mi appoggio alla
scrivania, riappropriandomi della tazza di caffè.
«Prima o poi scoprirai i miei punti deboli, è
solo questione di tempo.» Mi fa l’occhiolino e si siede. «Comunque, tornando a
noi, oggi mi aiuterai con la correzione di un manoscritto.»
E a quelle parole, si aprono le porte del
paradiso.
***
«Questo è un paragrafo con alcuni errori
ricorrenti dell’autore, che ho riscontrato anche nei successivi due capitoli.
Se non capisci qualche simbolo te lo spiego.» Christian mi porge un piccolo
fascicolo pieno di correzioni in rosso sul margine laterale destro. «Inizia a
guardare e a inquadrare gli errori e poi passi a correggere i capitoli tre e
quattro.»
Mi sento eccitata come un cane a cui stanno
lanciando un osso. Tra un po’ scodinzolo.
Ti
rendi conto di essere lunatica quanto una cinquantenne in crisi di mezza età,
vero?
Chi, io? Davvero?
Siamo nel suo ufficio, lui al suo posto davanti
al computer e io appollaiata su una delle due sedie davanti alla scrivania.
«Hai una bella grafia.» È ordinata, chiara. Mi
piace, sì.
«Senza quella non potrei fare il lavoro che
faccio.» Risponde lui senza alzare gli occhi dal suo manoscritto.
«Antipatico.» Bofonchio. Mezza volta che gli
faccio un complimento... da non ripetere mai più, prendi nota Elettra.
Okay, questo simbolo significa che la parola va
scritta in corsivo. Lo slash semplice si usa per sostituire
una lettera errata, mentre lo slash con un pallino a
ciascuna estremità per inserire una parola omessa in una riga. L’arco tra due
parole serve per regolare la distanza tra due parole spaziate... mmm. Questa specie di ipsilon rovesciata invece credo serva
per inserirlo, lo spazio.
«Questo cos’è?» Mostro il foglio a Christian col
dito puntato su un simbolo strano.
«Questo indica che la frase deve andare a capo.»
Spiega. «Quest’altro invece è l’esatto contrario. Vedi? Questi periodi vanno
scritti di seguito, senza interruzioni.» Annuisco.
«Okay, grazie.» Quando ho finito di interpretare
i vari simboli, inizio a leggere il nuovo capitolo, armata di penna rossa. Mi
sento potente.
Ah-ha! Scovato il primo errore. Incerta, torno a
confrontare il testo precedente per essere sicura del simbolo da scrivere. Sì,
è quello. Lo traccio con la massima precisione accanto alla riga in questione e
poi alzo lo sguardo, incrociando quello di Christian.
«Che c’è?» Mi sta guardando con un mezzo sorriso
nascosto dalla mano su cui ha appoggiato il viso.
«Ho la sensazione che quei fogli cambieranno
totalmente colore. Oggi non è il giorno giusto per farti correggere una bozza,
forse. Stai impugnando quella penna come se fosse un coltello.»
«Sono solo precisa.» Protesto. «E se mi guardi
non mi concentro.» Ho sempre avuto questo pallino, anche a scuola. Durante le
verifiche in classe, per esempio, se un professore passava tra i banchi per
controllare lo svolgimento del compito – nonostante avesse tutte le intenzioni
di aiutarmi, magari – io coprivo il foglio con la mano sostenendo che non
riuscivo a lavorare con gli occhi addosso. Della serie: piccole fissate
crescono. Già.
«Va bene, proverò a non guardarti.» Dice, col
tono di chi asseconda il capriccio di un bambino. «Ci vuole un libretto di
istruzioni con te, ogni volta tiri fuori una novità.»
«Stai dicendo che sono una persona difficile?»
La cosa non è che mi piaccia poi tanto.
«No, tu fai
la difficile. Per qualche nebuloso motivo che sono deciso a scoprire.»
«Nebuloso
motivo?»
«Sì, l’ho appena letto. Questo autore si diverte
a inserire aggettivi a caso.» Scuote la testa e io rido.
«Che dici, ci iniettiamo un’altra dose di
caffeina? Non sono ancora del tutto sveglio.» Me lo sta chiedendo ma in realtà
già ha alzato la cornetta del telefono per comporre il numero dello Starbucks.
Gli dico che sono d’accordo e lui ritorna a leggere. Mentre aspetta che
rispondano, si mordicchia distrattamente l’interno del labbro.
«Salve, Christian Wayne.» Dice con tono solenne
qualche istante dopo.
Ma chi sei, Gesù? Simulo un inchino e lui mi
pizzica il braccio.
«Ahia.» Mi massaggio il punto dolente e gli
metto il broncio.
«Sì, vorrei due caffè. Anzi, due cappuccini. Con
la mousse al caramello.» Esiste la mousse al caramello? Mi stanno brillando gli
occhi, sicuramente. Per un istante ho smesso di tenere il broncio, ma corro
subito ai ripari. Quando Christian se ne accorge, si porta un dito all’angolo
delle labbra e fa finta di tirarlo verso l’esterno per invogliarmi a sorridere.
È talmente carino che ci riesce.
«Sì, grazie mille. Buona giornata anche a lei.»
«Grazie infinitissime, le auguro una splendida giornata, spero che
la costellazione di Pandora si allinei perfettamente con quella di Saturno e le
faccia avverare l’oroscopo.» Gli faccio il verso vivacizzando le sue
affermazioni, e lui scoppia a ridere di cuore. «Ma quanto sei gentile?» Chiedo, quasi schifata.
«Sono gentile per me e per te, visto che tu non
lo sei mai.» Spiega lui, alzando le sopracciglia come un maestrino scrupoloso.
«Gnegnegne.» Gli faccio la
linguaccia e torno a leggere. Sembriamo due bambini delle elementari, vero?
Ma
anche dell’asilo, guarda.
***
Sono arrivata a metà del terzo capitolo quando
sentiamo bussare alla porta. Christian dice “avanti” e io osservo soddisfatta
tutte le modifiche che ho apportato. In effetti, noto con una smorfia, ci sono
quasi più correzioni che parole esatte. Forse mi sono lasciata un tantino
prendere la mano.
«Buongiorno, duca. Oh, c’è anche la duchessa.» A
parlare è Thomas, che entra diretto e si siede sulla sedia accanto a me. Mi
sorride e io ricambio, discreta.
«Christian, ho bisogno di anticipare l’uscita
del libro di Annette Simmons. Lo so, la scadenza era fissata per lunedì
prossimo, ma il suo agente mi sta letteralmente succhiando il sangue dalle
vene. Lo vuole per questo venerdì.»
Guardo Christian per scrutare la sua reazione. È
mai possibile che niente al mondo scalfisca quest’uomo?
«Volevo approfittare di questa settimana per
indirizzare Elettra alla correzione...» Mi guarda pensieroso. «Va bene, non fa
niente, la seguirò comunque. Tanto è brava, se la caverà anche senza una
supervisione costante.» Si rivolge a me con un sorriso.
«Certo, mi fa anche più piacere.» Ops, non
volevo davvero dirlo ad alta voce. «Cioè, nel senso che così imparerò più in
fretta...» Basta, taci!
Thomas ci guarda interessato. «Questa donna ti
darà filo da torcere, Wayne.»
«Ah, me lo dà già, se è per questo.» A me non sembrano
così rivali come mi vogliono far credere tutti. Lo vedete come si divertono a
prendermi in giro?
«Quindi credi di farcela per venerdì? Cosa ti
manca?» Thomas torna serio.
«Il controllo della copia cianografica, la
scheda promozionale e la quarta di copertina. Dopo controllo Danny, ma dovrebbe
aver finito.» Replica Christian. Thomas annuisce, valutando ciò che ha appena
ascoltato.
«Va bene, dovresti farcela senza problemi. Ah,
Annette vuole anche il sito web. Le ho detto che al massimo possiamo darle uno
spazio maggiore nella nostra sezione autori, ma lei ha insistito.» Continua il
vice, seccato.
«Isterica megalomane.» Commenta Christian con
uno sbuffo. «Va bene, parlerò anche con Christopher e Mike. C’è altro?»
«No, credo sia tutto... ah, ho sentito anche
la-» Thomas si blocca quando qualcun altro bussa alla porta. Dio mio, sembra di
stare agli uffici comunali.
«Ehm, permesso?» Il viso dolce di Rachel compare
al di là della porta.
«Ah, sì, entra, entra.» Christian le sorride
gentile e lei si fa avanti con il vassoio di Starbucks tra le mani. Lancia
un’occhiata fugace alla stanza e immediatamente avvampa. L’effetto di
Christian, sicuramente. Seguo il suo sguardo e vedo che invece sta guardando
Thomas. Mhmm...
«Salve.» Ci saluta, riservandomi un sorriso.
Posa i due cappuccini – che profumano di caramello in un modo assurdo – e si
riprende il vassoio.
«A me niente?» Scherza Thomas, e lei se
possibile diventa ancora più rossa. Questo è un altro che si diverte a burlarsi
di dolci fanciulle innocenti come noi.
Come
lei, semmai.
«Ehm, l’ordine era di due cappuccini...» Mormora
lei, desolata.
«Non fare caso a lui. Si diverte a mettere in
imbarazzo la gente, ma lo fa solo con le persone che gli piacciono.» Christian
le fa l’occhiolino e Rachel sembra cercare conferma di quelle parole nello
sguardo di Thomas, che le sta sorridendo. Mhmm...
Rachel
si lascia sfuggire una minuscola risatina ad alto tasso di isterismo. «Bene, io
torno giù. Buona giornata.» Ricambiamo tutti e tre insieme, Christian aggiunge
un cenno della mano e Thomas ed io un sorriso. Poi il vice-boss riprende a
parlare.
«Dicevo, mi ha telefonato la responsabile di
Weekly, per chiedermi se potevamo recensire i libri di O’Malley
e Thompson. Potresti occupartene tu? Io devo partire per la fiera del libro
stasera, se hai qualche problema possiamo sentirci telefonicamente.»
«D’accordo, ci penso io. Fai buon viaggio.»
Christian serra le labbra in un sorriso che mi sa di impostato, e Thomas va
via.
«Sapevo già delle recensioni, Martin mi ha
chiamato stamattina per dirmelo.» Mi spiega Christian, leggendomi nel pensiero.
«Ma a volte è meglio tacere piuttosto che dire tutto quello che ci passa per la
testa.» Mi scocca un’occhiata divertita e io ricambio con l’innocenza di un
angelo.
«È quello che faccio sempre.»
«Al contrario, però.» Replica lui.
«Sottigliezze.»
**********
Credo
di avere la vista a pallini.
Anzi, a linee e scarabocchi vari. Dopo una
giornata intera a correggere bozze e disegnare geroglifici, ho davvero bisogno di
qualcosa per ricaricarmi. Il nostro fidato Starbucks sembra chiamarmi a gran
voce. Decido di assecondarlo.
All’interno non c’è troppa folla, noto
sollevata: qualche coppia seduta in disparte, un paio di uomini al computer e
Rachel che sta riordinando la vetrina delle meraviglie insieme ad Elizabeth, la
cassiera.
«Ehi.» La saluto mentre mi arrampico su uno
sgabello.
«Cara, come stai? Sei sempre piuttosto stanca a
fine giornata, ma che ti fanno fare?» Chiede con un sorriso vagamente
malizioso.
«Leggere, leggere, leggere.» Le rispondo con
un’occhiataccia. «I libri sono la mia vita ma a volte vorrei bruciarli tutti.»
«Almeno sei in compagnia. Cogli il lato
positivo.»
«E che compagnia.» Commento ironica, facendo
roteare gli occhi. Rachel ride e mi mette davanti il mio frappuccino.
«Non mi sembrano antipatici, dai. Christian è
estremamente gentile, e Thomas…» Quando pronuncia il
suo nome le guance le diventano di quel colore indistinto tra il rosso carminio
e il porpora che ho già visto in ufficio. Ho deciso che lo chiamerò “Rosso
Thomas”.
«Beh, insomma, anche lui. E anche il ragazzo con
gli occhiali, altissimo, sguardo tenero…» Sorrido al
suo tentativo di cambiare argomento e le vengo in aiuto: «Danny?»
«Sì, Danny. Anche lui dev’essere
un tipo a posto.»
«Lo è, sì.»
La conversazione va improvvisamente a scemare
mentre lei fa finta di pulire briciole immaginarie dal bancone.
«Da quanto ti piace?» Le domando dopo aver
tirato un sorso di frappuccino ed essermi
momentaneamente congelata il cervello. Lei capisce subito a chi mi riferisco,
perché assume di nuovo la tonalità Rosso Thomas. «Si vede lontano dieci miglia.
Non trovare scuse e non dire “non so di cosa tu stia parlando”.»
«Che razza di domanda è “da quanto ti piace?”»
Sbotta, punta sul vivo.
«Una domanda con varie opzioni di risposta: “Mi
è piaciuto a prima vista”, “Mi piace da quando l’ho visto fare questa tale
cosa”, “Mi piace da tutta la vita perché siamo cresciuti insieme”, che ne so
io? Anche se non credo sia l’ultima. Spero.»
«No, è la prima. Contenta?» Rido alla sua
esasperazione.
«Rachel, sto cercando di fare l’amica. Non mi
conosci ancora, ma te lo dico io: non è proprio da me.» Lei mi guarda e prende
uno sgabello dal lato suo del bancone, appollaiandosi sopra.
«Scusa, hai ragione. È che davvero mi piace da troppo tempo ed è una cotta troppo stupida. Ho venticinque anni, che
cavolo.» Sbuffa, premendo la fronte contro il palmo della mano.
«Cosa c’entra l’età e cosa c’entra il tempo? Tu cos’hai fatto di concreto per
farglielo capire?» Dalla sua espressione imbarazzata capisco la risposta, anche
se non emette una sola sillaba.
«Ma non è colpa mia.» Balbetta infine. «È che
non lo vedo spesso. E quando lo vedo è solo per qualche minuto, come
stamattina.» Si stringe nelle spalle per giustificarsi. «Mica come te, che lo
vedi tutti i giorni.»
«A dire il vero non lo vedo quasi mai.» È vero,
se ne sta sempre al piano di sopra.
«Non parlavo di Thomas.» Ah. Fingo indifferenza
e stupore assieme.
«E di chi?» Domando poi, innocente come una
colomba.
Rachel alza un sopracciglio, non se l’è bevuta.
«Sai benissimo di chi. L’orsacchiottone con gli occhi di ghiaccio.»
«L’orsacchiottone?» Scoppio a ridere, lei mi
segue a ruota.
«Sì, mi sa di tenero, di protettivo. Un buon
partito, sì. A quando le nozze?» Batte le mani come una bambina.
«Ma che dici? Se non ci hai mai visti insieme!
Io almeno so come ti comporti tu in presenza di Thomas e studierò il suo
comportamento nei tuoi confronti, ma tu cosa sai di Christian? E poi non mi
piace. È troppo… alto.» Potevi impegnarti di più.
«Sì, e io sono la figlia di Cappuccetto Rosso.»
Dice, ironica. «E comunque vedo come ti guarda. Chiamale coincidenze, ma l’ho
visto osservarti dalla finestra del suo studio più di una volta quando andavi
via. Vogliamo parlare del cappuccino al caramello? Non ha mai ordinato una cosa
del genere da quando lavoro qui, e guarda un po’, ha deciso di cambiare quando
è arrivata la nuova collega che metterebbe il caramello anche sulla pizza.»
Finito il suo sermone, indica il mio frappuccino – al
caramello – per sostenere la sua tesi.
«Ma…» Ma dai! Che significa?! Basare le proprie
ipotesi sul gusto di un caffè! È ridicolo. «Come Stranamore
vali poco, sai.» Scuoto la testa, succhiando nervosamente quel che resta della
mia bevanda.
«Pensala come vuoi, intanto credo che tra noi
due quella che ha più probabilità sei tu. Se non altro, hai il vantaggio di
vederlo tutti i giorni. E senza dubbio lui sa che esisti.» Aggiunge, alzando
gli occhi al cielo.
Sbuffo. Sembra che tutto il mondo si stia
coalizzando contro di me. Chiunque conosca me e Christian inizia a fare
battutine strane su Christian e me. Ma dico, è possibile?
«Sai, i tuoi tentativi di deviare la
conversazione evitando l’argomento “Thomas” non attaccano.»
«Nemmeno i tuoi se è per questo. Più che una
conversazione sembra una partita di palla avvelenata.» Ci guardiamo minacciose
per qualche istante e poi ridiamo.
Aspetto che serva un paio di clienti e poi le
domando cosa le è piaciuto a prima vista di Thomas. Mi piace sentire queste
storie.
«A dire il vero mi ha colpito prima la sua
personalità. Non è una bellezza da colpo di fulmine, ci vuole un po’ per
notarlo, ma ho sempre avuto davanti i suoi sorrisi, i suoi sguardi gentili, le
sue buone maniere, le perle di saggezza che dispensa al mondo intero.» Sorride
da sola, guardando il vuoto. È proprio persa, sì. «E poi ha quelle mani…»
«Ti sta partendo un cuoricino dall’orecchio.» La
sfotto, e lei mi fa una linguaccia.
«Ha le mani sottilissime da pianista. Christian
invece le ha grosse. Sempre affusolate, ma grosse. Come tutto il resto.»
Trattengo a stento una risatina nasale. Lei si
accorge del doppio senso e sostiene che non voleva far nascere fraintendimenti.
Come no.
«Però secondo me ce l’avrà un bel Mjolnir nei
pantaloni.» Mi fa l’occhiolino.
Colgo il riferimento al
martello di Thor e la guardo
scettica. «Hai testato?»
«No, ho notato.» Si
mette un dito sotto l’occhio con l’aria esperta da tenente Colombo degli
attributi maschili. Le do un leggero spintone e faccio schioccare la lingua.
«Ma va, va.»
La osservo servire i
nuovi clienti mentre mi lancia occhiate complici, e decido che è ora di
andarmene.
«Vado. Qualche volta
dobbiamo vederci, ci prendiamo un caffè. Non qui, però.» Propongo,
ridacchiando.
«Ma sì. Andiamo dalla
concorrenza.» Annuisce lei e mi saluta con un abbraccio.
**********
Quando il mattino seguente varco la porta dello
studio di Christian, pronta – più o meno – per affrontare una nuova giornata di
scarabocchi, tutto quello che vedo è la scrivania vuota. Chiudo la porta e mi avvicino,
notando un post-it attaccato su un plico di fogli accuratamente impilati.
Faccio il giro della scrivania e lo stacco delicatamente.
“Per
Elettra – questi sono i successivi tre capitoli da correggere.”
Mentre l’area destra del mio cervello è impegnata
a osservare la curva delicata della E, l’area sinistra si chiede cosa
significhi questo biglietto: verrà? Non verrà? Perché è stato così sintetico?
Con uno sbuffo nasale degno del toro Ferdinando,
mi tolgo il trench e lo poggio sulla sedia. Senza pensarci, mi siedo sulla
poltrona di Christian. Con tutta probabilità non lo scoprirà mai.
Questa stanza profuma di lui. Con la coda
dell’occhio vedo che ieri ha dimenticato la sciarpa qui. Non ho pensato di
alzarmi e annusarla, no.
E se l’ho fatto, comunque, è perché mi piace
Hugo Boss. Giusto per puntualizzare.
***
A metà mattinata mi decido a uscire da quella
stanza.
«Ehi Elettra, ci sei anche tu? Ho visto il tuo
ufficio vuoto, pensavo non ci fossi.» Mi dice Danny sorpreso quando mi vede.
«Sì, sto lavorando qui con Christian. Che non
c’è, in effetti. Vabbè.» Clara mi lancia un’occhiata
strana. Che vuole, quella secchiona antipatica? Scuoto la testa,
disinteressata, e attraverso il corridoio per andare da Alexandra. Nel tragitto
incrocio Tony.
«Buongiorno! Hai resistito parecchio, pensavo di
vederti vagare piagnucolando molto prima.» Mi dà un bacio sulla tempia e io lo
guardo perplessa.
«Perché dovrei vagare piagnucolando?» Un
formicolio mi attraversa la nuca quando credo di aver indovinato la sua
risposta.
«Perché tuo marito ti ha abbandonata.» Ecco. Se
non avesse questa faccia da bambino cresciuto lo picchierei. O proprio per
questo dovrei picchiarlo? Mi sa la seconda.
«Simpatico come un dito chiuso nella sedia a
sdraio.» Replico, spazientita.
«Ahia.» Fa una smorfia di dolore all’idea e mi
dà una pacca sulla spalla. «Ci vediamo dopo, se ti senti troppo sola ti vengo a
fare compagnia. Non lo dico a Christian, tranquilla.» Sorride accattivante. Mi
sembra Jafar, il cattivo di Aladdin.
Fingo stupore ed eccitazione. «Non mi dire, sarà
il nostro piccolo segreto?» Poi torno subito seria e lui scoppia a ridere.
«Sei adorabile. A dopo, piccola.»
Piccola? Piccola?
Razza di donnaiolo andato a male.
«Alex, sai mica che fine ha fatto Christian?»
Chiedo, appoggiando i gomiti al banco della reception. Lei mi guarda coi suoi
occhioni blu.
«Mmm, è venuto stamattina presto ma è dovuto
subito andare via. Problemi di famiglia, credo. Non ho indagato.» Mi domando a
che ora arrivi questa tizia: all’alba? Scaccio il desiderio di chiederle se ha
lasciato detto qualcosa, o almeno se sa che tornerà, grattandomi il capo come
se questo prurito fosse dovuto alla curiosità morbosa che mi sta divorando lo
stomaco.
«Va bene. Grazie.» Mi costringo ad andarmene.
Torno nella stanza di Christian e mi siedo di nuovo al suo posto. Sprofondo
nella poltrona e mi puntello coi piedi contro il pavimento girando a destra e a
sinistra come a cullarmi. Sembro una pazza invasata, lo so.
Guardo fuori dalla finestra. Da qui si vede
benissimo tutta la strada principale, Starbucks incluso, e l’incrocio che porta
alla metropolitana. Come se stessi ascoltando una registrazione, mi vengono in
mente le parole di Rachel: l’ho visto
osservarti dalla finestra del suo studio più di una volta quando andavi via.
Sospiro. Ci pensate? Magari è un maniaco che mi spia.
Scuoto la testa e mi rigiro verso la scrivania.
Basta, Elettra. Focus. Concentrazione.
Mi armo di penna rossa e riprendo a leggere da
dove avevo interrotto.
***
A circa mezz’ora dalla pausa pranzo, getto la
penna sulla scrivania, stizzita.
Che fine ha fatto quel maledetto codino biondo?
Dannazione, ora mi preoccupo. Non ha nemmeno telefonato, niente di niente. Mi
lascia qui a sbrigare un lavoro di cui non so praticamente nulla, con un misero
post-it e la sciarpa che continua a emanare il suo profumo come se fosse un
nebulizzatore per ambienti.
Mi massaggio le tempie, cercando di respirare a
ritmi lenti e regolari. Sto pensando di chiamare Rachel o Anne, per disperazione,
quando improvvisamente la porta si apre.
Alzo di scatto lo sguardo e lo vedo. Giubbotto
di pelle, maglia nera e grigia, occhiali da sole. (*)
Sembra appena uscito da Top Gun. Non l’ho mai visto in tenuta “sportiva”. Wow.
Si toglie gli occhiali e mi rivolge un sorriso
sorpreso. «Mi assento per mezza giornata e già mi soffi il posto?» Si avvicina
alla scrivania e alza una mano, portandola a qualche centimetro dai miei
capelli. «Posso scompigliarteli? Dai, una volta sola.» Quasi mi fa il musetto
da cucciolo. O da orsacchiottone, come dice Rachel.
Alzo le mani, consegnandomi al nemico, e lo
lascio fare. Chiudo gli occhi quando sento le sue dita tra i capelli e non
posso fare a meno di sbuffare, tanto per ricordargli quanto mi dia fastidio
questo gesto. Li riapro quando sento la sua mano spostarsi sulla mia guancia e
lo vedo chinarsi su di me per posare un lieve bacio sull’altra.
«Hai lavorato bene senza di me?» Si toglie la
giacca e si siede di fronte a me, sulla sedia dove dovrei stare io. Ormai
sembra essersi capovolto tutto. Maledetti sogni e maledette Rachel e Anne e Eva
e Tony e Lily e tutti quanti. E Violet, ovviamente, altrimenti s’offende.
«Una favola.» Mormoro, poco convinta. Oggi
Elettra non è in sé. No, per niente. Questa giornata sta andando di male in
peggio.
Mi domando se dovrei chiedergli se va tutto
bene, poi mi dico che è meglio farmi gli affari miei. Sì. Mostrarmi interessata
non è la migliore delle mosse.
«A cosa
sei arrivata? Fammi vedere.» Mentre gli porgo il plico, si sente lo squillo del
telefono interno. Alzo la cornetta e la passo a Christian.
«Sì? Ah, sì, fallo entrare. Grazie.» Rimetto la
cornetta al suo posto e mi chiedo chi stia per entrare. Il mistero è presto
svelato.
Un tizio in impermeabile fa il suo ingresso e
Christian si alza per andargli a stringere la mano. Imbarazzata, mi sposto e
torno alla mia posizione originale. Poi ci ripenso e mi metto in un angolino,
lasciando che il tizio si sieda davanti alla scrivania.
«Salve.» Noto che Christian ha perso il sorriso
ed è fin troppo serio mentre invita il tizio ad accomodarsi. Lui scuote la
testa e poi mi guarda. Quando incrocio i suoi occhi, aggrotto la fronte. Io
questo tipo l’ho già visto. Cerco di fare mente locale e dopo un po’ ci arrivo:
l’ho visto al night club due o tre volte. Ora sono ancora più confusa. Come si
conoscono lui e Christian? Che razza di gente frequenta?
Anche lui sembra riconoscermi e viene a
stringermi la mano. «Sergei.» Si presenta, e io rispondo pronunciando il mio
nome. «Tu sei ragazza del Vagabond?» Chiede con un forte accento russo, e vedo
che Christian si irrigidisce.
«Lei è la nostra traduttrice, Sergei. Era al
Vagabond per errore.» Mi lancia un’occhiataccia e io mi sento arrossire.
Fortuna ha voluto che non ci incontrassimo più, e io ho accuratamente evitato
di dirglielo, ma al night club ci lavoro ancora nei weekend.
Il russo mi scruta pensoso. «Mmm… capisco.»
«Elettra, puoi scusarci un attimo? Ti chiamo
appena ho finito.» Annuisco alla richiesta di Christian ed esco dalla stanza,
ancora più turbata.
Nei quindici minuti seguenti, fisso il telefono
senza ricevere nessuna telefonata. Ho giocato circa trentasei volte a solitario
– vincendo solo dieci partite – e sette volte a scacchi, imbrogliando col
comando ‘annulla’ – e perdendo lo stesso.
Quando Mike passa col solito blocchetto a
prendere le ordinazioni per il pranzo, gli comunico distrattamente la mia e vado
in bagno a lavarmi le mani. Approfitto anche per fare la pipì, va. Seduta sulla
tazza del water, mi rendo conto di essere proprio giù di morale, senza sapere
neanche il perché.
Belle queste rivelazioni nel momento del
‘bisogno’.
Sto impazzendo, sì, è ufficiale.
«Oggi si pranza in sala riunioni!» Sento dire da
qualcuno quando esco dal bagno, e la notizia non fa che peggiorare il mio
umore. È sempre così, quando vuoi startene per i cavoli tuoi ti costringono a
stare in mezzo al mondo intero.
La prima persona che vedo in sala riunioni è
Lily, che agita la mano per attirare la mia attenzione. Vado a sedermi accanto
a lei e le sorrido. Sorriso tirato, ma almeno è un sorriso.
«Non ti ho proprio vista tutta la mattina, stai
bene?» Mi chiede, e io annuisco distrattamente. Nel frattempo i posti a tavola
si riempiono e fanno il loro ingresso anche Martin e Christian; quest’ultimo
viene a sedersi alla mia sinistra, come d’abitudine.
Iniziamo a mangiare e per un po’ si sente
soltanto il rumore di forchette, bottiglie d’acqua e un lieve chiacchiericcio
di fondo. Poi Martin si schiarisce la gola e attira l’attenzione di tutti.
«Ragazzi, come ben sapete ogni anno alla
Macmillan Publishers organizziamo un viaggio di circa una settimana nel periodo
natalizio, a cui tutto lo staff è libero di partecipare. A beneficio di
Elettra, ripetiamo che è tutto pagato dal sottoscritto – chiaramente in misura
al fatturato della società al quale contribuite anche voi, cari dipendenti – e
che la meta si deciderà mettendo ai voti le varie destinazioni che proporrò.»
Tutti parlottano eccitati scambiandosi commenti e sguardi felici. «La novità di
quest’anno» prosegue poi Martin «è che il viaggio sarà anticipato a Novembre.»
Aspetta che tutti abbiano assimilato la notizia e va avanti, spiegandone il
motivo: «A dicembre abbiamo preso dei lavori importanti e acquisito nuovi
autori, grazie anche al prezioso impegno del nostro redattore, quindi con tutta
probabilità non avremo tempo di organizzare e prendere parte al viaggio in quel
periodo.»
Wow. Un viaggio tra colleghi.
Oh no. Un viaggio tra C O L L E G H I. Dove la C sta
sicuramente per Christian.
«Nancy vi girerà una mail con le destinazioni.
Avete una settimana per rifletterci e confermare la vostra partecipazione.»
«E se volessimo proporre una meta diversa?»
Chiede Tony, passandosi una mano sul pizzetto.
«Questa è una dittatura, non l’hai ancora
capito?» Scherza Martin, strappandoci una risata. «Certo, potete proporre una
destinazione a testa senza varcare i confini del territorio americano. In ogni
caso, avete parecchia scelta.» Dice, pulendosi poi la bocca col tovagliolo.
«Ah, ricordo che potete portare una persona con voi, ma a vostre spese. Dovete
comunicarmelo ugualmente, per farla rientrare nel numero che darò all’agenzia.
Detto ciò, andate in pace.» Conclude, e chi ha finito di mangiare, come me, si
alza e va via, sparpagliandosi nel corridoio. Io vado diretta all’ascensore.
Premo il pulsante di chiamata e mi volto quando qualcuno mi affianca.
«Allora, che te ne pare? Nemmeno un mese e mezzo
che sei qui e già ti portiamo in giro per il mondo.» Mi punzecchia Christian
con un sorriso. Quel plurale sottintende la sua partecipazione, suppongo. E
certo, come potrebbe mancare il redattore nonché mio persecutore personale?
«La tua adesione è un forte deterrente a
restarmene qui, sai?» Gli dico mentre entriamo nell’ascensore.
«Coooosa? Ho sentito
“restarmene qui” o mi sono impressionata?» La voce squillante di Lily ci
raggiunge ancora prima di vederla entrare insieme a noi. «Non fare l’asociale
del cazzo, per favore. Scusate il termine. Duke, è vero che deve venire anche
lei? È vero? È vero?» Oddio, penso mentre mi porto una mano sulla fronte,
questi mi ci portano di peso.
«Non starla a sentire, sta blaterando, poverina.
Certo che verrà.» Risponde Christian battendo piano la mano sulla mia testa
come si fa a un bambino scemo per assecondare i suoi scleri.
Lo guardo torva, allontanando la sua mano con uno schiaffo. Lily sorride a
sessantacinquemila denti.
«Ci divertiremo un sacco!» Batte le mani
eccitata.
«Sì, sì, certo.» Mormoro distrattamente mentre
usciamo dalla cabina dell’ascensore. Sto aprendo la porta della mia stanza
quando la mano di Christian si posa sulla mia spalla, costringendomi a
guardarlo.
«Appena ti sei sistemata ci vediamo nel mio
ufficio per continuare con la correzione.» Mi comunica e io annuisco mentre
osservo Lily tornare alla scrivania accanto a quella di Danny. Quando apro la
casella e-mail noto che Nancy ha già fatto il suo dovere.
Da: Nancy Bishop
– Amministrazione
A: Staff
Oggetto: Destinazioni viaggio Novembre 2012
Come anticipato da Martin, ecco
le dieci possibili destinazioni del viaggio di quest’anno:
·Vancouver
·Toronto
·Philadelphia
·Sacramento
·San Diego
·Manhattan
·La Paz
·Panama
·Havana
·Caracas
Potete
rispondere entro le ore 16:00 a questa e-mail per suggerire un’altra meta. Nel
caso in cui una destinazione fosse proposta da più persone, l’elenco sarà
aggiornato entro le ore 17:00. Da domani potete invece comunicare le vostre
preferenze definitive – due al massimo – inviando un e-mail con le destinazioni
che avete scelto ed eventuali richieste particolari (posti extra, partenze
anticipate/posticipate etc.)
Buona
giornata e buon lavoro.
Nancy Bishop
Amministrazione
–Macmillan
Publishers Ltd.
Ah, però. San Diego, Toronto... wow.
Devo dirlo a Eva. Morirà d’invidia. Chissà che
non possa venire anche lei...
Mentre ci sto pensando la spia rossa del
telefono indica che sto ricevendo una telefonata da un interno. Alzo la
cornetta e prima che possa rispondere sento: «Vota PANAMA!»
«Lily?»
«No, Babbo Natale. Chi altro ha una voce così
carina?»
«Così stridula, vorrai dire.»
«Non cambiare argomento e domani vota Panama. Se
non sei convinta vai un po’ a cercare le immagini dei litorali panamensi su
Google.» E riattacca. Poi richiama. «Anzi, te le invio per posta. Poi cancella
l’e-mail.»
Due secondi dopo Outlook mi avverte della
ricezione di un nuovo messaggio di posta elettronica con mittente LilianBradshaw. Apro e mi trovo
davanti due fotografie giganti che ritraggono un mare dalle mille sfumature di
blu e spiagge chilometriche di sabbia bianchissima. Eh, beh. Non male. Chiudo e
decido che ci penserò domani.
***
Quando apro la porta dello studio di Christian,
lo trovo al telefono. Mormora un “Mh, d’accordo” e attacca.
«Mi hanno appena minacciato di morte se non voto
Panama.» Mi informa, mentre mi siedo.
«Anche a me. La minaccia non era esplicita, ma
adesso che mi ci fai pensare il tono coercitivo e il ringhio di sottofondo
c’erano tutti.» Rispondo, con aria grave.
«Non hanno capito che posso farli licenziare in
tronco per mobbing?»
«Interessante. Dovrei pensarci anch’io.» Replico
con un ghigno. Lui mi dà una spintarella sul braccio e iniziamo a lavorare.
«Partecipate tutti, al viaggio?» Gli chiedo dopo
un po’. Christian alza lo sguardo dal foglio e ci pensa su.
«L’anno scorso sì, mancava solo Clara mi sembra.
Però c’erano Margot e Jessica, la vecchia traduttrice. Siamo andati a Santa
Monica, uno spasso.» Racconta esaltandosi. «Sembra di tornare alle gite
scolastiche. Dal viaggio vero e proprio, alle stupidate in albergo... no, non
puoi non venire.» Dice alla fine. «Devi.»
«Ehi, ehi, questo è mobbing. Attento.» Lo prendo
in giro. «Ti faccio mettere in camera con Thomas.»
Lui fa spallucce. «Io non ho nessun problema nei
suoi confronti. Nemmeno lui, sotto sotto, o almeno
niente di personale. È Martin che mette tutta questa pressione per fargli dare
il massimo.» Spiega. «In ogni caso preferirei stare in camera con Tony, se
proprio dovessi scegliere.» Sì, già ce li vedo. Tony darebbe il meglio di sé,
proprio.
«Spero di non capitare accanto a voi, allora.»
Commento con una linguaccia.
«Non so se Thomas verrà, comunque. Di solito
viene in compagnia, con suo fratello – che ora mi sembra stia in Svizzera per
uno stage – o con la sua ragazza. Beh, ex, adesso.»
Le rotelline del mio cervello girano come
ballerine del San Carlo. «Sai, a proposito di Thomas... mi serve il tuo aiuto.»
Dico dopo un po’, con tanto tantotanto sforzo.
Christian si volta a guardare fuori dalla
finestra e poi torna a puntare quell’azzurro su di me. «Scusa, controllavo se
era in corso qualche uragano.»
«Ah-ha, quanto sei spiritoso.» Mi compiaccio
della sua risata e proseguo. «Seriamente, ho un’idea. A Rachel piace Thomas.»
Quando sente queste parole, Christian posa la penna e incrocia le mani sotto il
mento.
«Uh, non mi dire.» Sbatte in modo volutamente
leggiadro le palpebre, fingendosi estremamente interessato. Gli allungo uno
spintone e lui torna serio. Forse. Alza le mani e mi incita a proseguire.
«Pensavo che dovremmo fare qualcosa. Insomma, a
me sembrano carini insieme. Lei è completamente persa, lui non mi è sembrato
dispiaciuto ieri. Almeno, potrebbero provarci. E lei potrebbe distrarlo dall’ossessione
di avere la meglio su di te. Quest’unione va anche a tuo vantaggio. Che ne
pensi?» Gli chiedo, sorridente.
«Ma tu non sei contro l’amore e le relazioni e
la vita sociale in genere?» Mi domanda in risposta, alzando un sopracciglio.
Sbuffo. «Non quelle degli altri.»
Christian annuisce lentamente, valutando la
cosa. «Ti aiuto solo se vieni a bere qualcosa con me.» Ahhhh,
di nuovo?! «Stasera.» Conclude, con l’aria di chi sa che ha già vinto.
«Infimo ricattatore.» Sibilo, ormai con le
spalle al muro. Lui mi sfiora la punta del naso col dito e poi si alza per
prendere il cellulare che sta squillando nella tasca del suo giubbotto.
«Lo prendo come un sì.»
**********
«Allora, Hitch, cos’hai in mente?»
Siamo seduti a uno dei tavolini bianchi dell’Ocean’s Ten Lounge Bar, illuminati
ancora per poco da un sole arancione che sta scomparendo oltre la linea
dell’orizzonte. La brezza fresca mi scompiglia i capelli, provocandomi un
piacevole brivido lungo la schiena.
Una giovane donna dai capelli neri ci ha appena
portato le nostre ordinazioni. Christian ha insistito perché prendessi la
‘specialità della casa’: l’Ocean’s Ten Daiquiri. Ha un aspetto davvero
invitante, se proprio devo ammetterlo.
«Non ho nulla in mente, è per questo che ho
chiesto il tuo aiuto.» Replico come se fosse ovvio. «Potevo chiederlo a Lily,
ma non mi ispira esattamente discrezione. Nancy è sempre super indaffarata, e
Tony non ne parliamo proprio. Farebbe un annuncio mondiale a reti unificate.»
«Lo prendo come un “sei tutto quello che mi
resta” e non come un “sei la mia ruota di scorta”.» Dice, scuotendo la testa.
«Anche se sono praticamente la stessa cosa.»
«Prendilo come un “sembri il più affidabile”.»
Suggerisco, e lui sembra soddisfatto della risposta. «Cavolo, è buonissimo!»
Esclamo dopo aver assaggiato il mio drink.
Christian mi sorride con l’aria di chi sa il
fatto suo. «Potevo mai consigliarti male?»
«Ah però, modesto.» Fingo sorpresa. «Fammi
assaggiare il tuo. Cosa c’è dentro?» Mi sembra che si chiami Miami Vice, ma non
ho idea di quali siano gli ingredienti. Christian mi allunga il bicchiere.
«È un mix tra piñacolada e daiquiri alla fragola. O al lampone, non ricordo.»
Tiro un sorso dalla cannuccia e mugolo di soddisfazione.
«Anche questo è buonissimo!» Ci devo venire con
Rachel, penso, mentre restituisco il bicchiere al suo proprietario. «Adesso
torniamo a noi, però.» Cerco di riportare la conversazione al suo topic originale.
Christian annuisce e ci pensa su.
Qualche istante dopo, alza l’indice. «Credo di
avere un’idea.»
~ Note
Splendori! Sono tornata! (Potevi anche
restartene dov’eri, dite voi.)
Mi piace tanto questo capitolo, le cose si
iniziano a smuovere anche se Elettra è come al solito satura di pisellaggine, ma Christian non demorde. Voi fate il tifo
per lui e vedrete che prima o poi griderete al miracolo. (Dite la verità,
avevate sperato in qualcosa durante l’aperitivo!)
Novitààààà: il viaggio!
Novitààààà n. 2: il piano “Cupido”!
Riusciranno i nostri eroi a far incontrare
Thomas e Rachel? E riusciranno i nostri altri due eroi a convincere Elettra a
partecipare al viaggio? Già prevedo il peggio, devo ammetterlo.
Fatemi sapere che pensate di tutto ciUò, sono davvero interessata a conoscere i vostri pareri!
Anche dei lettori/trici in passamontagna!
Per premiarvi in anticipo, vi lascio uno
spoiler succoso:
Quando il suo viso si trova
sopra il mio, penso che non vorrei essere in nessun’altro posto al mondo. Il
suo sguardo è titubante, incerto, sembra aspettare ancora qualche altra
conferma.
“Io credo semplicemente che quello che non ti uccide ti rende… più strano.”
– Joker, Il Cavaliere
Oscuro
~ Un anno prima ~
«Si
informano i passeggeri del volo Iberia 815 per Roma
che il Gate 32 per l’imbarco è stato momentaneamente
chiuso. Siete pregati di presentarvi al Gate numero
12. Ci scusiamo per il disagio.»
Ah,
bene.
Sono
notoriamente sfigata quando prendo gli aerei, non c’è dubbio. Anche quando sono
tornata da Parigi con Giovanni l’aeroporto era bloccato per neve, e quando sono
andata a Milano con Eva avevano deciso di fare delle esercitazioni proprio quel
giorno, ritardando le partenze. Ma dico, si mettono d’accordo? Quando un
biglietto viene prenotato a nome “Elettra Wayne” si inventano qualcosa per
rendermi il viaggio impossibile?
Sbuffo
e alzo lo sguardo per cercare questo benedetto Gate
12.
Non
perdiamo il buonumore, Elettra. Oggi rivedrai la tua famiglia, le tue amiche e
il tuo fidanzato dopo quasi tre mesi. È stata dura affrontare gli ultimi mesi
di master senza poterli vedere, ma tra impegni miei e loro non siamo riusciti a
passare nemmeno un misero weekend insieme.
«Ultima
chiamata per i passeggeri del volo Iberia 815 per
Roma.»
Vedo il
numero 12 giusto in tempo e corro ignorando il borsone enorme che batte
ripetutamente contro il mio fianco e la valigia che pesa settecento quintali e
mezzo e che mi aspetto di lasciare per terra insieme al braccio. Raggiungo col
fiatone il punto d’imbarco e mostro il biglietto alla hostess di terra che mi
sorride e mi augura buon viaggio.
Il
viaggio andò bene, penso, mentre prendo il calendario attaccato
alla parete della cucina e lo giro al contrario, riappendendolo con la parte
bianca in vista. Fu quello che trovai una
volta tornata casa, che ha fatto schifo.
La voce di Adam Levine
mi avverte dell’arrivo di una telefonata e, mentre infilo la giacca, sfioro il
display per rispondere e poi porto il cellulare all’orecchio.
«Cosa stai facendo? Sei al lavoro? Ci stai
andando? Come stai?» Anne cerca come al solito di nascondere la sua apprensione
dietro un tono di voce apparentemente tranquillo e disinteressato.
«Sto bene, perché non dovrei?» Ho solo girato il
calendario che rimarrà così fino a dopodomani per non vedere quelle due date
che mi rendono più inviperita di quanto non lo sia già di solito.
Mia cugina, dall’altro capo del telefono,
sospira. «Se hai bisogno di qualsiasi cosa basta chiamarmi, lo sai. Perché non
vieni a cena da noi stasera? Oppure potresti prenderti la giornata libera
domani e andiamo a fare shopping, che ne dici?»
«Anne, sto bene. Devo andare, a presto.»
Riattacco e prendo le chiavi di casa, pronta per uscire.
«Mamma?
Eva? Sono tornata!» Urlo mentre mi pulisco i piedi sul tappeto. Poso i bagagli
per terra e due secondi dopo il viso elettrizzato di mia sorella compare nel
corridoio.
«AAAAAHHHHH!»
Mi salta praticamente addosso, gridando eccitata. Eva è la persona a cui tengo
di più al mondo, oltre ai miei genitori. Con le lacrime agli occhi la stringo
forte e le sussurro che mi è mancata troppo. Ci separiamo solo quando nostra
madre ci raggiunge e pretende di avermi tutta per sé.
«Tesoro
mio, finalmente! Com’è andato il viaggio?» Mugolo qualcosa in risposta tra i
suoi capelli e allungo una mano per afferrare quella di Eva e tirarla verso di
noi.
«Chiamo
subito papà, gli dico che sei tornata.» Dichiara mamma quando ci sciogliamo
dall’abbraccio di gruppo.
«Io
devo avvertire Giovanni.» Affermo, ma non faccio in tempo a prendere la borsa
che Eva mi trascina su per le scale, in camera nostra. «Lo chiami dopo il tuo
trottolino amoroso, ora devo raccontarti un sacco di cose!» Saltella, e io le
sorrido.
«Almeno
fammi mandare un messaggio!» Protesto, mentre lei si siede sul letto e incrocia
le gambe, pronta ad aggiornarmi sugli ultimi mesi. Ah, la cosa è proprio seria,
allora, per mettersi così.
«No! Se
ti avvicini al cellulare te lo brucio. Li conosco i vostri “messaggi” e le
vostre “brevi telefonate”: finirei col riavere mia sorella l’anno prossimo.
Visto che sono passati sei mesi senza vederti e mentre tu facevi la bella vita
in Spagna io ero qui a dannarmi coi miei compagni di tirocinio, adesso devi
sorbirti tutte le cazzate che ho fatto.» Dal tono che ha usato, capisco che non
ammette repliche. È peggio di me, se possibile, in quanto a testardaggine.
«Vorrei
solo precisare che non ho fatto la bella vita, ma un pallosissimo master con
dei docenti sessisti e appiccicosi. Però hai ragione, in qualità di sorella
maggiore devo ascoltarti. Vediamo quante bastonate ti meriti, va.»
Sbadiglio poco discretamente mentre vago tra gli
scaffali del reparto dolci e schifezze varie. Stamattina sono scesa quaranta
minuti prima per passare al supermercato e provvedere a riempire un po’ quei
mobili e il frigorifero che piangono di solitudine. Ho preso cose necessarie e
sane, come carne, latte, verdure e simili, ma ho la sensazione che stasera e
domani mi serviranno anche cibarie di consolazione, come quel barattolo di
gelato da mezzo chilo e quelle tavolette di cioccolato al latte. Quasi quasi prendo anche i marshmallow.
Per ogni evenienza.
Passo davanti al reparto dedicato alla cosmesi e
i miei occhi cadono sulle scatole di kleenex. Indugio
qualche istante e poi scuoto la testa. No, quelli non mi serviranno. Non voglio che mi servano.
Continuo a camminare e, sovrappensiero, urto un
altro carrello. Alzo lo sguardo per scusarmi e incrocio due occhi scuri
familiari.
«Ethan! Ciao, come va?» Forzo un sorriso per non
apparire esageratamente sconsolata e lui si fa avanti per abbracciarmi.
«Bene, a te? Anche tu sei scesa presto
stamattina.» Nota, ricambiando il sorriso. Io annuisco distrattamente,
mormorando qualcosa sull’eco che c’è nel mio frigo e vedo che il suo sguardo
cade sulle schifezze che ho messo nel carrello.
«Pigiama party? Film strappalacrime e gelato a
go-go?» Domanda sardonico.
Improvviso una risatina frivola e guardo
l’orologio. «No, niente del genere. È proprio tardi, devo sbrigarmi o farò
tardi al lavoro. Ciao, Ethan.» Lo saluto con la mano e mi allontano. Che
strano, averlo incontrato qui a quest’ora. Non mi sembra un tipo mattiniero.
Oltretutto il suo carrello era vuoto.
Una vibrazione nella tasca interrompe il flusso
di pensieri, informandomi dell’arrivo di un sms. È di Eva.
“Sorellona, torno da un turno di sedici ore e mi
aspetta un altro di diciotto, ma domani sera ti chiamo appena arrivo a casa. Ti
penso e ti voglio un bene dell’anima, oggi più di ieri e meno di domani.
Dopodomani ti vorrò bene uguale, tranquilla. A presto, E.”
Mio malgrado, avverto un lieve pizzicore agli
occhi. Maledetta Eva, solo lei può farmi questo effetto. La stronza che non è
altro.
Prendo un bel respiro, guardo brevemente in alto
per far sparire il velo davanti agli occhi e mi avvio verso la cassa.
«Sono
scioccata. Quanti...?» Conto i nomi che mi ha enunciato sulla punta delle dita.
«Quattro. Eva, QUATTRO in tre mesi?! Nemmeno uno al mese!» La guardo con gli
occhi sbarrati e lei si morde un labbro.
«Ma...
non sono andata a letto con tutti e quattro.» Dice, guardando il copriletto di
Batman. Devo rubarglielo, a proposito. Lo voglio anch’io.
«E ci mancherebbe,
guarda!» Non voglio che mia sorella diventi quel tipo di ragazza. È
comprensibile che abbia una fila di corteggiatori da qui a Milano, dopotutto è
bellissima, ma questo non vuol dire che debba accontentarli tutti.
«Comunque,
penso che con l’ultimo possa esserci qualcosa di serio.» Ecco, ora già si
ragiona.
«Chi è
l’ultimo?» Mi informo, tanto per essere sicura.
«Pietro.»
Eva mi dà la conferma e io mi appunto mentalmente di cercare tutte le
informazioni possibili su questo tizio.
«Toc
toc.» Una voce familiare si inserisce nella conversazione. Mi volto e con un
gran sorriso saluto mio padre.
«Stai
bene?» Mi dice, mentre mi viene incontro per abbracciarmi. Lo stringo forte e
annuisco sulla sua spalla.
«Sì,
papà. Tu?» Quanto mi è mancato anche lui. Cosa sarebbe la vita senza la propria
famiglia?
«Bene,
adesso meglio.» Mi dice e mi scompiglia i capelli, facendomi sbuffare. Sa
quanto non mi piace che mi si tocchino i capelli, ma lo fa sempre. Lo adoro per
questo.
Lo
squillo del mio cellulare mi costringe a sciogliere l’abbraccio. Eva me lo
porge, sul display leggo il nome del mio fidanzato. Decido di non rispondere e
afferro la borsa.
«Vado a
fargli una sorpresa. Torno per cena!»
Nonostante i miei piani, arrivo in ufficio con
cinque minuti di ritardo. Raggiungo a passo svelto il mio ufficio e saluto Lily
con un mezzo sorriso.
«Ciao capo. Tutto bene?» Mi domanda, mentre mi
spoglio e accendo il computer.
«Sì, tutto bene.» Prima di sedermi ripeto
l’operazione che ho fatto a casa col calendario che abbiamo nella nostra stanza
e quello da tavolo che ho sulla scrivania.
Lily aggrotta la fronte. «Perché hai girato a
novembre? Sei impaziente di partire?»
«No, per niente.» Anche se una parte di me sa
che mi ci vorrebbe proprio un bel viaggio. «Non mi va di guardare il
calendario, oggi. E neanche domani.» Replico con una scrollata di spalle,
pregando che non faccia domande aggiuntive. Per fortuna si rassegna al primo
colpo, lasciandosi sfuggire solo un “okay” poco convinto.
«Ah, ti voleva Christian.» Mi informa mentre
controllo le mail. Annuisco e digito il numero del suo interno.
«Sì?» Sentire la sua voce mi fa sorridere e
innervosire allo stesso tempo. Mi innervosisco perché ho sorriso.
«Christian, ciao, sono-»
«La mia sciagurata traduttrice che non passa mai
a salutarmi, lo so.» Decido di sorvolare sull’aggettivo possessivo e mi scuso.
«Non è giornata, Duke.» Anzi no, non mi scuso.
«Non mi hai mai chiamato così. Non mi piace,
preferisco che mi chiami Christian.» Avverto un leggero capogiro e mi faccio
aria con una cartellina nelle vicinanze del telefono.
«Ti ho chiamato perché Tony mi ha girato alcune
e-mail da tradurgli» dico, cambiando argomento «e quindi verrò ad aiutarti con
la correzione quando avrò finito qui. Per te va bene?» Resto in ascolto mentre
lui sospira.
«Sì, va bene.» La sua risposta secca mi spiazza
leggermente, ma decido di ignorarla e riattacco. Apro la prima e-mail e inizio
a tradurla.
Quando arrivo alla seconda, il telefono squilla.
Alzo la cornetta e a rispondere è Alexandra.
«Elettra, c’è una telefonata per te. Te la
passo.»
«Okay.» Rispondo, titubante.
«Pronto? Signorina Wayne?» Un forte accento
russo che ho già sentito prima mi arriva all’orecchio. «Sono Sergei Vasilyev.
Ci siamo incontrati qualche giorno fa.»
«Sì, mi ricordo di lei. Mi dica.» Rispondo,
cauta.
«Andrò dritto al punto: questa sera io terrò
incontro molto importante al Vagabond, e avrei bisogno di traduttrice per
russo.» Dice, tranquillo. Mi guardo intorno come se qualcuno potesse spiarmi, e
capire dall’espressione del mio viso con chi sto parlando.
Qualcuno?
O Christian Wayne?
Sta’ zitta e fammi pensare.
«Il compenso sarà più che adeguato, signorina
Wayne.» Prosegue quello, per convincermi. Non che mi servano soldi, ecco… okay,
un po’ di soldi in più non fanno male a nessuno. E poi è il mio lavoro. Io
traduco, no? E poi mi distrarrei da questa giornata.
Direi che ci sono ottimi motivi per accettare.
Direi
che non conosci nulla di questo tizio e Christian ti spelerebbe viva.
Direi che Christian non è mio padre.
«D’accordo, signor Vasilyev. Accetto.»
Dopo il
solito inevitabile quarto d’ora di traffico, finalmente svolto in via Sestino e come al solito parcheggio nella strada adiacente
alla villetta dove abita Giovanni. Chiudo la portiera, premo il pulsante sulla
chiave per inserire l’allarme e mi do un’occhiata veloce nel finestrino, per
controllarmi. Riavvio i capelli e inizio a camminare sul marciapiede. Proprio
quando sto per voltare l’angolo, sento la sua voce. Istintivamente mi blocco,
sentendolo urlare.
«Valeria,
sei impazzita?!» Valeria? Oh, c’è anche lei! Sorrido nel sentire il suo nome,
ma non riesco a capire perché stanno litigando. Lei gli risponde qualcosa che
non afferro.
«Oggi torna Elettra, ti sembra il caso di
venirmi a trovare?!» Sta gridando Giovanni. Un tuffo al cuore. Che significa?
Stavolta
sento chiare e tonde le parole di Valeria. «Sono venuta proprio per questo! Hai
intenzione di dirglielo?» Dirmelo? Dirmi cosa?
Una strana
consapevolezza si fa strada tra i miei pensieri, lasciandomi l’amaro in bocca.
Decido di ascoltare la risposta di Giovanni, ma sto già indietreggiando verso
la macchina.
«Non
voglio rovinarle la festa. Glielo dirò... quando sarà il momento.»
Schiaccio
il piede sull’acceleratore, ingoiando il groppo che mi si è formato in gola.
Non è come penso. Sicuramente c’è un’altra spiegazione. Non... no...
Quando
varco la porta di casa, mi trovo davanti Francesca, un’altra mia cara amica.
Lei e Valeria sono come due sorelle per me. Anche se adesso non ne sono più
tanto sicura.
«Ehiii! Bentornata!» Fra corre ad abbracciarmi, Eva alle sue
spalle mi guarda accigliata.
«Sei
già tornata? Strano.»
Annuisco
distrattamente sperando di non avere gli occhi lucidi e dico che Giovanni non
era in casa. Francesca sembra interdetta per qualche secondo. Mi dirigo in
camera come un automa e lei mi segue.
«Tutto
a posto?» Mi chiede, cauta. Annuisco e provo a parlare ma il groppo in gola non
ne vuole sapere di scendere. Provo a calmarmi, non voglio piangere.
«Ho
visto Valeria e Giovanni.» Riesco a dire, infine. Sto per correggermi, perché
in realtà li ho solo sentiti e non so nemmeno cosa significhi quello che ho
sentito, ma non c’è bisogno di aggiungere altro, perché Francesca sbarra gli
occhi e fa una faccia mortificata.
«Oddio,
Elettra, mi dispiace tanto... tu... non dovevi saperlo così...» Un altro tuffo
al cuore. Sapere cosa, porca miseria?! Cerco di non mostrarmi sconvolta quanto
in realtà so di essere e penso a una risposta che possa farla parlare. Poi
ricordo che i migliori psicologi restano in silenzio, così invogliano
l’interlocutore a parlare, e opto per il silenzio.
Funziona.
«Loro...
è una cosa di un po’ di tempo fa, ma non potevano dirtelo mentre eri in
Spagna... io mi sento un verme per averli coperti, ma cosa potevo fare? Tu eri
lontana e mi sembrava di tradire due amici... e...» Balbetta, gesticolando
confusamente. «Loro si amano davvero, Valeria è innamorata di Giovanni da
sempre... io... mi dispiace tantissimo...»
«Potresti
lasciarmi sola?» Le dico con un sorriso mesto e le lacrime agli occhi. «Per
favore. Ci vediamo domani sera alla festa.» Lei annuisce e prova ad
abbracciarmi. Scuoto la testa e la accompagno alla porta.
Quando
rientro in camera trovo Eva col mio cellulare in mano che squilla. Lo spengo e
incrocio gli occhioni azzurri di mia sorella, interrogativi e preoccupati.
«Cos’è
successo?»
Non
rispondo subito. Sto combattendo contro il fiume di lacrime che non riesco ad
arginare. Eva va a chiudere la porta e poi mi abbraccia. Quel gesto mi fa
crollare.
«Ehi.»
Salto sul posto, persa nei ricordi, quando sento
la voce di Christian alle mie spalle. Stavo chiudendo la porta del mio ufficio
prima di andare via e lui si è materializzato dietro di me come Patrick Swayze
in Ghost.
Oh, sì.
Chiedigli se gli piace lavorare l’argilla.
Chiudo Violet in un armadio immaginario e mi
volto verso Orione l’onnipresente.
«Hai la capacità unica di apparire quando sono
sovrappensiero. Rigorosamente alle spalle, poi.» Borbotto, incrociando il suo
sguardo e le piccole rughe d’espressione che gli si formano attorno alle labbra
quando sorride. «Che c’è?»
Christian incrocia le braccia e alza un
sopracciglio, impedendomi di avanzare nel corridoio. «Stai bene?»
«Una bomba.» Rispondo seria, tentando di
aggirare il suo corpo. Lui muove una gamba a destra, spostando il peso da un
piede all’altro e mettendosi di nuovo davanti a me. Alzo gli occhi al cielo e
lo guardo.
«Una bomba pronta a scoppiare, intendi?» Lo
chiede con un tono talmente innocente e un tale candore negli occhi che per un
momento mi viene da piangere. Invece rido.
«Dai, scemo, fammi passare.» Gli metto una mano
sul braccio e lo spingo. Mal che vada lo farò indietreggiare fino a raggiungere
la porta. «Voglio andare a casa, sono stanca.»
Christian pianta i piedi per terra e mi blocca
di nuovo. «D’accordo. Però sorridi, non mi piace vederti triste.»
Trattengo il respiro a quella frase e mi mordo
il labbro inferiore.
Solo
Eva era capace di farti quest’effetto, eh?
«Dai, un bel sorriso e ti lascio andare.»
Sbuffo piano e alzo gli occhi al cielo, per poi
allargare smisuratamente le labbra fino a scoprire tutti i denti. Christian
scoppia a ridere.
«Okay, così mi fai paura, però va meglio di
prima.» Chiudo la bocca e gli sorrido normalmente. «Puoi andare adesso. Buona
serata.»
«Anche a te.» Gli dico, indugiando qualche
istante davanti a lui come se stessi per abbracciarlo. Poi gli do una leggera
pacca sul braccio e vado via.
«Sei
pronta?»
Eva
appare alle mie spalle mentre mi sto guardando allo specchio. Immagino che non
si riferisca al vestito, né al trucco. Sono pronta ad affrontare una serata tra
tanta gente, dopo tutte queste lacrime? Sono pronta ad affrontare la visione di
Giovanni? Di Valeria?
Guardo il
mio riflesso, la mia espressione è più dura, le labbra strette in una linea
seria, gli occhi spenti. Non mi riconosco.
«Sì,
sono pronta.» Mento, perché non ho altra scelta. Mentre scendo le scale, mi
sento stranamente tranquilla. È come se uno strato di ghiaccio avesse
circondato il mio cuore. Non sento più nulla. Solo tanto schifo.
«Ele!»
Mi volto per ricambiare il saluto e un gran sorriso mi passa sul volto.
«Anne!»
La stringo forte, saranno secoli che non la vedo. Alzo lo sguardo e riconosco
Cooper, il suo neo-marito. Oh, c’è anche zia Libby!
Finché
sono con loro, la mia mente si distrae. Mi raccontano della vita a Miami, Anne
come al solito mi invita ad andare a trovarla. Ci devo fare un pensierino.
«Buonasera!»
Eccola lì. La voce che incrina la patina di ghiaccio. Saluta i miei genitori
con due baci sulle guance e mi cerca con lo sguardo. Quando lo vedo, il cuore
mi sale in gola. Mi fa male, il ghiaccio è appuntito.
Dietro
di lui ci sono Francesca e Valeria. Dall’espressione di quest’ultima intuisco
che Francesca deve averle raccontato della nostra piccola conversazione di
ieri.
«Che
coraggio a presentarsi.» Mormora Eva, mentre mi passa vicino e lancia
un’occhiata disgustata a Giovanni. Lui non se ne accorge, è preso a salutare
tutti quelli che conosce dispensando i suoi grandi sorrisi affascinanti, il suo
charme da grande architetto, sicuro nella camicia nuova che porta le sue
iniziali, aperta sul petto di due bottoni. Si è sempre ostinato a portarla
così, nonostante gli dicessi che due bottoni forse erano eccessivi.
«Finalmente.»
Dice, posandomi le mani sui fianchi in un gesto possessivo che mi fa arrabbiare
ma che purtroppo non mi lascia indifferente. Mi bacia velocemente e poi mi fa i
complimenti per il vestito. «Sei bellissima... non è bellissima?» Domanda a chi
ci sta intorno, col suo solito modo di fare esuberante.
«Andiamo
a mangiare? Ho fame.» Mento di nuovo, ma devo andarmene da qui e riempirmi la
bocca prima che inizi a dire tante ma tante parolacce.
Quando
siamo tutti riuniti intorno al buffet pieno di squisitezze tutte preparate
dalla mia adorabile mamma, aspetto che ognuno abbia mangiato a sufficienza per
poi alzare un flûte di champagne e attirare
l’attenzione di tutti.
«Ehm,
salve.» Gli ospiti, parenti e non, si fermano a guardarmi, sorridenti. Qualcuno
un po’ meno. «Vorrei ringraziarvi per essere venuti. Un omaggio speciale va ai
miei splendidi genitori e a sorella Eva, che presto inizierà la sua carriera di
pulisci-vomito e tira-sangue,
i quali mi hanno sostenuto durante tutto questo percorso iniziato quando ero
ancora una ragazzina timida e impacciata. Adesso comincia la vera vita, e direi
che è stata “inaugurata” proprio coi fiocchi.» Faccio una piccola pausa e
guardo Valeria. Lo sguardo mortificato che ricevo in risposta mi fa esaltare in
un modo assurdo. «Ringrazio anche tutto il parentado, incluse le dislocate
Lewis, e il cugino acquisito Cooper, che non ho ancora perdonato per essersi
riportato in America la mia cugina preferita.» Mi fermo ancora, pensando a cosa
sto per dire. Devo farlo. «Infine, ultimi ma non ultimi, ci tengo a ringraziare
il trio delle meraviglie lì in fondo: grazie Francesca, per avermi pugnalato
alle spalle, tenendo ben nascosta la storia del mio fidanzato Giovanni con la
nostra amica comune Valeria. Un brindisi a voi, spero che abbiate tanta
felicità.» Bevo lo champagne tutto in un sorso e me ne vado di sopra.
Quando arrivo al Vagabond, il buttafuori mi
saluta con un cenno impercettibile della palpebra. Fa sempre così, è come se
avesse un monocolo incorporato e fotografasse tutti quelli che entrano. Però
credo di stargli simpatica.
Mi guardo intorno, alla ricerca di quel tizio.
Vago con lo sguardo tra i divanetti ma non lo trovo, quindi decido di andare al
bancone da Marion. Mentre sto per raggiungerla, mi sento chiamare.
«Signorina Wayne.» Sergei si alza dal divanetto
su cui era seduto e mi si para davanti.
Caspita quanto è alto, mica me li ricordavo
tutti questi centimetri.
«Buonasera signor Vasilyev.» Dico in russo,
stringendogli la mano. Lui mi fa cenno di accomodarmi sul divanetto accanto al
suo, e io imbarazzata obbedisco, guardandomi attorno esitante. Con lui ci sono
tre uomini, dalle facce non esattamente simpatiche. Uno di loro sta fumando un
sigaro che emana una puzza nauseante proprio nella mia direzione.
Per un minuscolo, impercettibile istante mi
domando perché diamine ho accettato di fare da interprete a questi tizi.
«Lei fa parte dello scambio?» Sento dire in
inglese da uno dei loschi individui seduti di fronte a me. Gli altri due
ridacchiano, e Vasilyev rivolge loro uno sguardo che non so interpretare.
«Dì loro di smetterla di fare chiacchiere e di
passare al sodo, e poi avranno quel che vogliono.» Traduco la frase così come
mi è stata riferita e il loro ghigno si allarga. Ho la brutta sensazione che
abbiano inteso male il significato dell’asserzione di Vasilyev, poi con un
brivido piuttosto agghiacciante mi domando se quella tratta in inganno non sia
solo e soltanto io.
«Signor Vasilyev, io non c’entro nulla in questa
storia, vero?» È un bene che gli altri tre non capiscano nulla di quello che
sto dicendo, perché sarebbe troppo imbarazzante altrimenti.
Sergei mi sorride e mi accarezza viscidamente
una spalla. «Tu traduci, poi si vedrà.»
No, aspetta.
Con la coda dell’occhio lancio uno sguardo ai
buttafuori. Va bene, mal che vada faccio “il cenno”, giusto? E loro accorrono.
Giusto? Quest’uomo non può essere quel
genere di uomo. Dopotutto conosceva Christian.
Proprio quando decido di puntualizzare
ulteriormente la mia posizione a Sergei, una mano sulla spalla mi fa
letteralmente saltare sul divanetto. Mi volto e il mio cuore continua a
galoppare, per lo spavento, per il sollievo, per la confusione, quando vedo
spuntare le “corna” del “diavolo” di cui stavo parlando tra me. Christian,
nella sua imponente presenza, avanza per intromettersi nella conversazione.
«Che diamine ci fai di nuovo qui?» Mi afferra il
braccio e mi strattona, costringendomi ad alzarmi. No, mi sa che non voleva
intromettersi nella conversazione, ma solo farmi la paternale. DI NUOVO!
«Ehi! Ma chi ti credi di essere?!» Urlo,
massaggiandomi il braccio. «Mi hai fatto male!» Guardo di traverso i tre uomini
più Sergei che assistono alla scena in silenzio.
«Vattene subito.» Mi intima Christian, scuro in
viso. I suoi occhi sono quasi… spaventati. Io, invece, mi sento tremare dalla
rabbia.
«Io faccio quello che voglio, e se voglio
restare qui resto qui. Sto
lavorando.» Di sicuro non mi aspettavo una risata in risposta. Una risata
derisoria, più simile a un ghigno sarcastico che ad altro. Ah, quanto mi
prudono le mani!
Christian torna serio e si china, posandomi una
mano sulla nuca e avvicinando la bocca al mio orecchio. «Torna. Subito. A.
Casa.» Sibila. «Per favore.» Aggiunge stringendo appena i miei capelli, ma è
come se non l’avesse detto.
Mi allontano, incavolata nera, e torno a sedermi
ai divanetti, ignorando totalmente le sue parole. «Allora, dicevamo?» Sorrido a
Sergei che mi guarda perplesso e lancia occhiate dubbiose anche all’impossibile
uomo che si è piantato alla mia destra e non vuole saperne di andarsene.
«Elettra, per la miseria.» Sento a malapena il
suo sussurro prima di essere trascinata in pochi secondi fuori dal locale, come
una bambina disobbediente che merita una punizione.
«Andiamo, ti accompagno a casa. Dove abiti?» Il
polso è ancora serrato tra le sue dita, sento il metallo dell’anello che porta
all’anulare affondarmi nella pelle. Provo a tirare il braccio per liberarmi
dalla presa d’acciaio, ma finisco per farmi ancora più male, perché lui non me
lo permette.
«Smettila di agitarti e cammina.» Mi dice,
avanzando di qualche passo. Sbuffo spazientita e gli chiedo dove sta andando.
«A casa tua. Ho l’auto parcheggiata laggiù.»
Indica un punto in lontananza.
«Io abito qui, Christian!» Esclamo, puntando la
mano libera in un gesto esasperato verso la palazzina adiacente al Vagabond.
«Cosa? Abiti qui?» I suoi occhi azzurri si
spostano dal palazzo a me più volte, diventando dapprima sorpresi, poi
atterriti, poi seri e impenetrabili. Si riscuote quando do un nuovo strappo al
polso, mugolando per il dolore. Così come mi ha portato fuori dal locale, in un
nanosecondo mi trovo sul pianerottolo di casa. Apro la porta con non poca
difficoltà – visto che non sono mancina e sto usando la mano sbagliata – e
Christian mi spinge dentro come un padrone col suo cagnolino. Se possibile, mi
innervosisco ancora di più. Vedo che si guarda intorno, osservando il piccolo
salone, la cucina, e il corridoio che porta alla camera da letto.
«Devi andartene da qui.» Afferma, scuotendo la
testa. «Perché non mi hai detto che abitavi in questo posto? È pericoloso,
Elettra.» La sua espressione sinceramente preoccupata fa sbollire parte della
rabbia che mi infiamma il corpo, sostituita da un crescente imbarazzo a cui non
so neanche dare un nome.
«Perché avrei dovuto dirtelo? Per beccarmi
un’altra ramanzina?» Replico, ormai senza forze. Il braccio che lui stringe
ancora è abbandonato mollemente lungo il mio fianco. Christian scuote la testa.
«Ramanzina? Io lo dico per te, perché non voglio
che ti faccia del male da sola! Ma sembra che tu ti ci tuffi a braccia aperte
nelle situazioni complicate, come stasera al Vagabond. Ci lavori ancora? Ti
avevo detto di non tornarci.» Asserisce, mollando finalmente la presa sul mio
polso che è diventato rosso.
«Ma ti rendi conto di cosa stai dicendo? Se è
così pericoloso come dici, tu che ci fai qui?» Gli chiedo, aspettandomi la
solita risposta da delirio di onnipotenza “io posso e tu no”. Con quei muscoli
a sostenere la frase, forse, un po’ di ragione ce l’avrebbe anche.
Lui espira lentamente e scuote di nuovo la
testa, poi guarda il mio polso, che pulsa a livelli impensabili, ma questo lui
non lo sa.
«Ti ho fatto male, scusami…
mi sono lasciato prendere la mano.» Mormora, provando ad avvicinarsi per constatare
il danno. Io allontano il braccio. «È che vederti lì, in mezzo ai quella… gente… mi hai
fatto davvero innervosire.» Sbotta, incrociando le braccia al petto.
Spalanco la bocca. «Ah, IO ti ho fatto innervosire?! Ma senti questa!» Prima che possa pensare
a cosa sto per fare, la mia mano è già atterrata sul suo petto, e non so se è
la scarica di adrenalina o tutta la rabbia accumulata, ma lo spintone riesce a
farlo indietreggiare di due passi. Approfitto della sua espressione stupita e
ripeto il gesto, stavolta colpendolo sulla guancia e poi sulla tempia. Cavolo,
ci sto prendendo gusto!
Scarico una serie di botte malferme a causa del
polso che mi fa male, e la sua reazione non tarda ad arrivare: come in ufficio,
risponde con degli schiaffi leggeri sulle braccia e sul capo, senza farmi
realmente male ma con lo scopo di farmi arrabbiare ancora di più.
Riesco a farlo indietreggiare fino a fargli
toccare il muro con la schiena, e continuo a dargliele di santa ragione,
chiudendo perfino la mano a pugno e picchiando più forte che posso. Lui mi
afferra i polsi e me li blocca dietro la schiena, imprigionandomi quasi
definitivamente. Quasi, perché con un calcio ben assestato dritto al Mjolnir di
famiglia – o nei dintorni, insomma – riesco a fargli allentare la presa e torno
a sfruttare le mani libere per percuoterlo sul torace, sui fianchi, sulle
braccia.
«Ma la vuoi smettere-» Mormora a denti stretti e
allunga le mani a cercare di riacciuffare le mie, con scarsi risultati. Imparo
in fretta, Wayne. Alzo le mani puntando nuovamente al suo viso – ha proprio una
faccia da schiaffi, sì – ma un attacco deliberato ai miei fianchi mi impedisce
di farlo. Christian mi afferra per la vita e mi fa voltare; incrocia le braccia
davanti alle mie e infila la testa nell’incavo del mio collo, spingendo verso
sinistra per bloccarmi anche quella. Sono in trappola. Provo a muovermi ma lui
mi stringe ancora di più a sé. Sono decisamente in-
«Dimmi che non ho
davvero sentito quello che ho sentito.» Dico sbigottita. Christian mi lascia di
colpo e io mi volto a guardarlo. Vedo che si passa una mano sulla bocca,
vagamente imbarazzato. Distoglie lo sguardo dal mio e poi si infila le mani in
tasca, tipico gesto di “camuffamento” maschile.
«Mi stai mettendo le
mani ovunque da mezz'ora, non sono fatto di vetro!» Esclama lui per
giustificarsi, e io sento un calore bruciante avanzare verso le guance. Si
passa una mano tra i capelli e mi guarda, aspettando una mia risposta.
Tanti i pensieri che mi
affollano la mente, ricordi che galleggiano su un mare di stupore.
«Vatti a sbollire dalle
ragazze del club, allora.» Mormoro, rendendomi conto solo qualche istante dopo
di quello che ho appena detto e del carattere incredibilmente scoordinato che
mi ritrovo. Ma ormai la frittata è fatta, e l’espressione di Christian è… qualcosa che fa davvero male.
Quando lo vedo andare
via, accompagnando gentilmente la porta al contrario di come sono abituata a
fare io, nonostante quello che gli abbia detto, mi sento precisamente come una
cacca di cane seccata al sole e circondata da mosche appiccicose.
***
«Pronto?»
«…»
«Pronto? Elettra!»
«Ehi.» Mi decido a
rispondere, dopo un po’.
«Stai bene? Perché
chiami e poi non parli?!» Un po’ da scemi, in effetti.
«Così.» Sono seduta per
terra, con la schiena contro il divano e le gambe incrociate.
«È successo qualcosa?»
Sì. “Qualcosa”.
«Credo di aver davvero
esagerato, questa volta.» Inizio a parlare. «…capisci, l’ho messo in imbarazzo!
Io… non volevo, non me ne sono resa conto…» Blatero
dopo averle raccontato brevemente l’accaduto.
Anne tace per un po’,
sento che espira lentamente. È arrabbiata.
«Ma cacchio, Ele! Lui fa
l’eroe senza macchia e senza paura e il suo corpo ti palesa pure la sua
attrazione per te e tu gli dai del puttaniere?! Ma… ma…
te lo meriti, cioè, io ti avrei mandata proprio spudoratamente a fanculo!» Commenta Anne, peggiorando la situazione e il mio
umore.
«Sono solo preoccupata
per il fatto che è il mio capo, cioè, lo vedo tutti i giorni…
come farò a guardarlo in faccia domani?» Batto la fronte contro il palmo della
mano destra, finendo per scontrarmi col polso “infortunato”. Ahia.
«Io non mi preoccuperei
di questo… da quel che ho potuto capire di lui, la
professionalità non gli manca.» Replica lei.
«E di cosa ti
preoccupi?» Domanda di cui immagino già la risposta.
«Di cosa mi preoccupo?
Mi preoccupo del fatto che tu abbia trovato una persona che potrebbe far parte
della tua vita e renderla migliore e tu la stai allontanando in tutti i modi
possibili, di questo mi preoccupo!»
«Ma tu non capisci… io non ce la faccio, non mi fido, non-»
«Prima o poi dovrai
ricominciare a fidarti delle persone, Ele. Il passato deve aiutarti a vivere
meglio il presente, non a rovinartelo. Valuta onestamente quello che pensi di
lui, quello che provi quando sei con lui, come ti senti quando siete insieme. Io un’idea già ce l’ho, ma voglio
che sia tu a capirlo da sola.» Conclude. «Adesso devo andare, fammi sapere se
ci sono novità domani. Non fare stronzate, per favore.»
Sbuffo. «Va bene, ciao.»
**********
Il mattino seguente mi sveglio con un gran mal
di testa e il cuore che mi batte forte. Mi sento stranamente ansiosa, come se
aspettassi un grande evento non esattamente piacevole. Mentre provo a scollare
le palpebre, il flash di tutto quello che è successo ieri mi investe in pieno,
regalandomi un buongiorno senza pari.
Porca miseria.
Arrivo al lavoro con lo stomaco stretto in una
morsa, caratteristica di chi come me somatizza le proprie emozioni in modo
eccessivo. A ogni persona che incrocio il cuore mi batte più veloce, credendo
che sia lui. Cosa farò quando lo vedrò? Gli sorrido? Mi scuso? Lo saluto? Mi
sento nella merda più totale. Vago in strati e strati di merda senza fine.
Attraverso il corridoio fino alla mia stanza
senza però riscontrare nessuna traccia di Christian. Domando a Lily se per caso
è nel suo ufficio, e lei scuote la testa.
«No, non è venuto.» Risponde, con un’alzata di
spalle.
Maledizione.
Vederlo e scoprire che non vuole più parlarmi
sarebbe traumatico, penso, ma non vederlo affatto e rimanere col dubbio è
decisamente peggio.
«Deve venire per forza…»
borbotto, più a me stessa che a Lily «…abbiamo quasi
finito il manoscritto, e lui ha la quarta di copertina da scrivere, e…» Mi
blocco, che parlo a fare? Elettra, smettila di trastullarti in pensieri inutili
e trovati qualcosa di produttivo da fare.
Per esempio, pensare a come far incontrare
Rachel e Thomas. Christian mi ha dato un’idea, quando siamo andati a bere
quell’aperitivo, ma visti gli ultimi sviluppi dubito che si possa attuare quel
piano. Devo pensare a qualcos’altro.
Osservo Lily andare in bagno e mi appoggio con
la schiena alla sedia, per concentrarmi meglio. Cosa potrei inventarmi? Potrei
ordinare un caffè a nome suo spacciandomi per Nancy. Lei glielo porterebbe e
sarebbero costretti a parlarsi, quanto meno per spiegare l’equivoco. Chi ha
capito male e chi no, chi è stato a ordinare…
passerebbero almeno una decina di minuti insieme. Uhm… da valutare, sì.
«È venuto Christian, se ti interessa.» Dichiara
Lily quando rientra, e io mi metto a sedere composta, esagitata.
«D’accordo, grazie.» Le sorrido ostentando
indifferenza. Decido di aspettare un po’, sicuramente dovrà chiamarmi per
completare quel lavoro. Mi chiama sempre lui, d’altronde.
A meno che non sia cambiato qualcosa.
No, Christian è professionale. Ha ragione Anne.
Un quarto d’ora dopo, col fegato che galleggia
nella bile e lo stomaco divorato dall’ansia, mi alzo e mi dirigo verso il suo
studio. Potrebbe sentirsi troppo in imbarazzo per chiamarmi, in tal caso è
meglio che mi mostri superiore e sorridente, e magari…
«Avanti.» Il mio cervello si svuota quando, dopo
aver aperto la porta, vedo Christian seduto alla scrivania con una stangona
bionda ed esageratamente bella che gli sorride dall’altro lato, appollaiata su
quella che era la mia poltrona fino
al giorno prima.
«Ehm… ciao, io… sono
venuta per quel manoscritto, dovremmo finire di correggerlo…»
Mormoro, cercando di guardarlo il meno possibile. Lui ha di nuovo quel suo
sguardo impenetrabile e l’espressione serena ed ermetica che lo contraddistingue.
Dannazione.
«Tranquilla, puoi tornare nel tuo ufficio, oggi
non ho bisogno di te.» Mi risponde, e torna a guardare la bionda, che sta
scrivendo qualcosa su un foglio.
Completamente scioccata, chiudo la porta senza
aggiungere altro. Mentre torno nella mia stanza, cerco di preparami
psicologicamente ad affrontare la giornata – decisamente di merda, ora ne ho la conferma – da sola.
**********
Alle sei e venti mi alzo dalla scrivania,
iniziando a sistemare tutto.
Non ho visto Christian nemmeno una volta per
tutto il giorno, rifletto, mentre spengo il computer. Nella pausa pranzo non ha
mangiato con noi, ma Alexandra mi ha detto di averlo visto scendere con la
stangona, per poi rientrare un’ora dopo. Ho scrollato le spalle con noncuranza
alla notizia, ma forse sarò riuscita a prendere in giro lei. Io mi sento
malissimo.
Di ritorno a casa, decido di passare da Rachel
al bar per distrarmi un po’.
Non appena intercetta il mio sguardo, mi chiede
subito se c’è qualcosa che non va. Io serro le labbra e mi lascio andare in un
sospiro, raccontandole tutto quello che è successo la sera prima. Rachel si
sporge oltre il bancone e mi abbraccia. Sento un pericoloso nodo formarsi
all’altezza della gola e mi allontano, perché non voglio assolutamente che la
situazione degeneri. Ci sono rimasta male, sì, ma non esageriamo.
«Tesoro, sono sicura che non è come pensi. Se
Christian è effettivamente così come ne parlano gli altri, allora capirà perché
hai detto quella frase. Eri imbarazzata, eri sorpresa…
ciò non toglie che dovrai scusarti, anche se è l’ultima cosa al mondo che
vorresti fare. Lo sai questo, vero?»
Annuisco con gli occhi bassi. È proprio vero che
i baristi sono gli psicologi del futuro, questa ragazza mi conosce da pochissimo
e già ha compreso tutto di me. A me, invece, sembra di non essermi mai
conosciuta. Non mi capisco più.
«Quando lo rivedrai?»
Faccio spallucce. «Non lo so, immagino domani al
lavoro. O meglio, lo intravedrò, se si presenta di nuovo con Barbie Malibu.» Commento acida, strappando una risata alla mia
nuova amica.
«Dai, stai tranquilla, dormici su e vedrai che
domani riuscirete a chiarire.»
Con quella frase e un briciolo di speranza in
mente torno a casa. Leggerò un bel libro per svagarmi e andrò a letto presto,
per ricaricarmi in vista di domani. Sì, farò così.
***
Naturalmente, non riesco a pensare ad altro.
Chiudo il libro, dopo aver riletto almeno
settanta volte lo stesso paragrafo, e mi alzo dal divano. Inizio a vagare
avanti e indietro per la casa, sistemando e spostando oggetti, ripulendo
superfici da una polvere immaginaria, rifacendo il letto come se non dovessi
andare a dormire stasera.
Mi tuffo di nuovo sul divano e accendo la
televisione. La spengo dopo aver fatto il giro dei canali senza soffermarmi per
più di mezzo secondo su ognuno.
Basta, ho bisogno di bere.
Varco l’ingresso del Vagabond scacciando il
ricordo di quello che è successo l’ultima volta che sono stata qui. Sembrano
passati cent’anni, ma è stato solo ieri.
«Elettra! Di nuovo qui?» Mi freddo sul posto,
diretta al bancone, quando quella domanda mi giunge alle orecchie.
«Ethan, ciao!» Devi morire ora e subito,
accidenti a te! Mi hai fatto prendere un colpo. Mi porto una mano al cuore,
fingendo di alleviare un prurito, ma in realtà sto cercando di calmare la sua
corsa impazzita. Ho davvero rischiato un ictus.
«Proprio oggi pensavo a te.» Dice il mio vicino
di casa, accompagnandomi a sedere su uno degli sgabelli. Ordina due Mojito – drink che odio, tra l’altro – e si spiega: «Dobbiamo
proprio uscire insieme, un giorno o l’altro. Non conoscerai molto della città,
se ti sei trasferita da lontano. Posso portarti in molti posti carini, sai.»
Ammicca, alzando il bicchiere come a voler brindare per qualcosa e poi bevendo
un sorso di liquido trasparente. Per un momento mi chiedo come faccia a sapere
che mi sono trasferita “da lontano”, poi mi dico che devo averglielo detto io,
ma vista la mia memoria proverbiale – peggio di un colabrodo – l’avrò
dimenticato.
«Certo…» Mormoro,
imbarazzata al suo invito a uscire. «Possiamo organizzarci, qualche volta.»
Resto sul vago. Non voglio prendere impegni con nessuno. Ero decisa a farlo
molto prima di venire a Miami e sono ancora decisa a mantenermi su questa
linea.
Tranne
che per qualche proprietario di un codino biondo e due occhi da infarto, forse.
Questa è Violet che si è coalizzata con Anne e
Rachel?
«Sai, mi ricordi mia moglie.» Quando sento
quella frase, mi scolo il Mojito in un solo sorso, tossendo
appena per il gusto orribile del lime, e ne ordino un altro. Più forte.
«Cosa? Sei sposato?» Gli chiedo, sorpresa.
Lui guarda mestamente il suo bicchiere, e la
foglia di menta che vi galleggia dentro.
«Lucy è morta un anno fa.» Oh, cavolo. Io non
sono brava in queste cose. Scolo il secondo drink con la stessa velocità del
primo, cercando di trovare un po’ di coraggio e di parole di conforto da
dirgli.
«Mi dispiace molto…» Biascico, e con un cenno
della mano ordino il terzo drink. Non starò un tantino esagerando? Naaah. «Non lo sapevo…»
Ethan mi sorride. «Tranquilla.» Beve un sorso
del suo cocktail. «Tu le assomigli molto. Anche lei era bellissima, proprio
come te.»
Ah, certo, per essere uno che ancora piange la
sua scomparsa non ti perdi in chiacchiere, diciamo. Scommetto che se “Lucy”
potesse sentirti te ne direbbe quattro. Già.
Uh, questo drink è buonissimo. Cosa ci sarà
dentro? Ho detto alla barista di farmene un paio a piacere. Chissà.
«Esagerato…» Biascico,
con la bocca leggermente impastata e la testa che inizia a farsi leggera. Oh,
sì. È proprio questo l’effetto che voglio.
Quando Ethan posa una mano sulla mia gamba e si
sporge pericolosamente verso di me, nell’allontanarmi quasi cado dallo
sgabello.
«Che fai?» Frappongo il mio bicchiere tra me e
lui e faccio un altro sorso, giusto per tenermi impegnata.
«Scusami, è che sei davvero stupenda stasera.»
Mormora lui, avvicinandosi di nuovo. Mi sposto e decido di scendere dallo
sgabello. Senza cadere, possibilmente. Nel farlo, mi volto verso l’entrata del
locale e scorgo una testa bionda familiare. Il mio cuore scalpita all’interno
del petto. Poi guardo meglio: le teste bionde sono due.
Stronza.
Ingollo quel che resta del mio quarto drink – o
sono arrivata al quinto? Non ricordo – e arriccio il naso quando l’alcool
scorre incandescente giù per la gola. In quel momento, Christian mi vede. La
sua espressione meravigliata mi fa sorridere.
Sento il calore di un corpo che si avvicina da
dietro, mentre la musica aumenta di volume e io inizio a muovermi seguendone il
ritmo. È Ethan, che è venuto a ballare con me.
Quando avverto le sue mani sui fianchi, mi
allontano scocciata. Voglio ballare in santa pace, sto così bene adesso! La
testa mi gira in un modo delizioso e parecchi ragazzi mi guardano con un mezzo
sorriso. Ricambio a mia volta, felice.
«Elettra, che stai facendo?» Riconoscerei questa
voce profonda tra mille, penso, ridacchiando. Incrocio l’azzurro dei suoi occhi
che brillano sotto le luci fosforescenti del locale e faccio spallucce.
«Mi diverto. Torna dalla tua fidanzata.» Gli
sorrido. «Ah, e scusa per ieri. Non volevo, è che ero imbarazzata…»
La frase si confonde con una risata strascicata, che dopo un po’ capisco
appartenere a me.
«Ehi, amico, stavo ballando io con lei…» Vedo
Ethan farsi avanti e tornare da me. Sbaglio o Christian l’ha guardato proprio
male? Ahahahaha, sembra arrabbiato. Mi dispiace farlo
arrabbiare sempre. Mi guardo intorno alla ricerca della cavalla che l’ha
accompagnato, e la trovo in piedi accanto a un buttafuori, che parla al
cellulare.
«Sta’ lontano da lei.» Sento le parole di
Christian anche con la musica che rimbomba, o forse ho solo visto il suo
braccio allontanare Ethan da me.
«Lascialo stare.» Biascico. «Si sta divertendo.
La tua fidanzata si sente sola, vai a farle compagnia. Io sto bene.» Indico la
bionda con un cenno della mano.
«Vai bambola!» Sento un uomo dall’altra parte
della passerella che guarda con ammirazione una delle ballerine del locale.
Wow, che darei per essere guardata così.
Sento a malapena il mio nome pronunciato da
Christian e mi arrampico alla bene e meglio sulla piattaforma zebrata,
iniziando a sculettare con un sorriso malizioso dipinto in viso. O almeno credo
che sia malizioso.
«Woh, guarda quella, è
una nuova?» Le grida eccitate dei ragazzi mi esaltano ancora di più, e allora
mi avvicino a uno dei pali per la lap dance e cerco di imitare i movimenti di
un’altra ragazza poco lontana da me.
«Elettra, scendi immediatamente!» I richiami di
Christian sono lontani, quello che sento sono soltanto i fischi di approvazione
di chi mi sta intorno, che chiede di più. Rido, felice. Provo a girare intorno
al palo con una gamba sola ma l’equilibrio mi tradisce e prima che possa
rendermene conto, sto chiudendo gli occhi per non vedere il mio incontro ravvicinato
col pavimento.
Che non avviene. Riapro gli occhi e sento delle
urla di disappunto da quelli che poco prima mi stavano acclamando a gran voce.
Poi, il silenzio e l’aria fredda che mi congela le membra.
«Che su-scede?» Ho
davvero questa voce ridicola? Scoppio a ridere, cercando di reggermi in piedi.
Un momento. Non sono in piedi.
«Dove hai le chiavi di casa? Hai lasciato la
borsa dentro?» Cosa? Chi è che sta parlando? Strizzo gli occhi per mettere a
fuoco e vedo il viso di Christian a pochi centimetri dal mio. Il suo bellissimo
profumo mi investe in pieno, e io lo inspiro a pieni polmoni, beandomene.
«Adoro questo profumo…»
Mormoro.
«Elettra, le chiavi, dove ce le hai?» Mi rendo
conto dopo un po’ che stiamo salendo le scale. Però io non ricordo di aver
messo i piedi a terra.
Elettra, concentrati.
Quando la testa smette finalmente di girare, mi
accorgo di essere tra le braccia di Christian. Sorrido.
«Sono ubriaca?» Forse quell’Ethan mi ha drogata.
Per portarmi a letto.
Rido da sola all’idea. Chi si sognerebbe mai di
portarmi a letto?
«Sì, sei ubriaca. E credo che tu non lo faccia
spesso. Però ora ho bisogno che ti concentri e pensi a dove hai messo le
chiavi. Hai capito?» Christian mi parla piano e dolcemente, con tanta pazienza.
Decido di ascoltarlo e dopo un po’ rispondo: «In tasca.»
Mi sento mettere giù, e colta da un capogiro, mi
appoggio alle sue spalle forti. Mmmmmm…
«Ehi, mi stai palpando?» Esclamo quando avverto
le sue mani nei dintorni del mio sedere. Poi sento il rumore delle chiavi e la
porta che si apre.
Le sue braccia mi sollevano di nuovo in aria e
con un piede chiude la porta. Come fanno i mariti quando portano le mogli per
la prima volta a casa, penso con una risata.
Mi è sempre piaciuto associare i cognomi dei
ragazzi che mi piacevano al mio nome, per vedere come suonavano.
Elettra
Wayne. Rido ancora di più.
«Non avrei neanche bisogno di cambiare cognome
se mi sposassi con te, sai?»
Christian mi sorride e annuisce. «Comodo, vero?
Si sa quanto ci tenete voi donne al vostro cognome.» Replica, e accende la
luce. Quando il fascio luminoso riempie la stanza, mi copro gli occhi con le
mani, mugugnando qualcosa di indistinto persino alle mie orecchie.
«Aspetta, tra poco la spengo. Un altro po’ di
pazienza.» Improvvisamente mi ritrovo distesa. La mia testa non pulsa più
tanto, e scopro che ce l’ho poggiata sul cuscino. Uhhh,
che bello. Ho tanto sonno.
Quando la testa smette di girare, è come se
tutto mi apparisse più chiaro. Anche Christian. Com’è bello, penso, mentre lo vedo tornare dal corridoio e venire
verso di me con un bicchiere d’acqua e qualche pastiglia tra le mani.
«Prendi queste, sono aspirine.» Si siede sul
letto accanto a me e mi solleva reggendomi la nuca. Scuoto la testa, non le
voglio.
«Dai, Ele, altrimenti domani ti sveglierai con
un gran mal di testa e te la prenderai con me. Non voglio che mi picchi di
nuovo.» Alzo gli occhi al cielo e mando giù l’acqua e le aspirine.
«Mi piace che mi chiami Ele.» Sorrido, e mi
aggrappo al suo braccio, poggiandovi la testa. Chiudo gli occhi, godendomi la sensazione…
«No, aspetta, non ti addormentare!» Mi scuote
leggermente e io lo guardo contrariata. Perché non vuole farmi dormire? Mi
stavo rilassando…
«Cosa c’è? Che ti prende? Lasciami in pace. Devo
dormire, domani mi aspetta una giornata di lavoro col mio capo stronzo che non
mi parla più.» Bofonchio, triste. Sento la sua breve risata e poi le sue
braccia che mi rimettono in piedi.
«Vieni, facciamoci un giro per la stanza mentre
mi racconti del tuo capo stronzo. Perché non ti parla più?»
In realtà so benissimo che il mio capo stronzo è
quello che mi sta reggendo, ma mi piace questo gioco. «Perché l’ho messo in
imbarazzo in una situazione imbarazzante perché anch’io ero imbarazzata.»
Spiego, e lo vedo annuire pensoso.
«Mhmm… e sei proprio convinta che lui sia
arrabbiato con te?» Ma dove stiamo andando? Io voglio tornare a letto!
«Sì, perché mi ha cacciato dalla sua stanza e mi
ha rimpiazzato con la versione scema di Charlize Theron.» La sua risata divertita
mi fa sorridere a mia volta. «Torniamo a letto? Voglio dormire.» Piagnucolo.
«Non ancora. Se ti addormenti adesso non so cosa
ti può succedere, è la prima volta che soccorro un’ubriaca. Meglio non
rischiare.» Sbuffo e protesto qualcosa in risposta. «Devi andare in bagno?» Mi
chiede e io annuisco, sentendo un’improvvisa voglia di fare pipì. E devo anche
lavarmi i denti, penso, con quel po’ di lucidità che mi è rimasta. O che sto
recuperando, non lo so. Seeeempre
lavare i denti, come dice papà. Il mio papà è un bravissimo dentista. Già.
Un’altra luce investe in pieno le mie palpebre,
e con un po’ di sforzo intuisco che è quella del bagno. Caccio Christian con un
gesto della mano e lui si allontana titubante.
«Non ti addormentare, hai capito?» Dice oltre la
porta.
Annuisco distrattamente, e mi abbasso i
pantaloni. Ah, liberazione.
Tiro lo sciacquone e lui apre la porta, mentre
sto ancora tirando su la cerniera.
«Ehi! Ma l’educazione…»
Brontolo, avvicinandomi al lavandino. Il contatto con la ceramica fredda mi fa
rabbrividire e mi riscuote un po’. Ci metto un’eternità e mezzo a lavarmi i
denti – o forse ho solo troppo sonno – e quando sputo l’ultima volta Christian
mi porge l’asciugamano per pulirmi.
«Tutto questo è davvero imbarazzante.» Borbotto,
arrabbiata. «Ci manca solo il vomito e poi posso dire di- woooh.» Gli adorabili capogiri
tornano di nuovo, e questa volta sembrano più forti di prima.
«Ehi, stiamo ballando?» Domando ad occhi chiusi.
Christian non risponde. «Pronto? Pronto? Pianeta Terra chiama Capo Stronzo.»
Riapro gli occhi solo quando mi rendo conto di
trovarmi di nuovo in posizione orizzontale. Oh, che schifo, mi gira lo stomaco.
Smettetela di girare tutti, ho detto!
«Sono qui, sono qui.» Mormora Christian. La sua
voce è davvero vicina e sento improvvisamente le sue dita tra i capelli. Li sta
spostando dalla mia fronte.
«I capelli noooo…» Biascico, scuotendo la
testa. Lui si ferma.
«Hai ragione, scusa.» Sussurra. «Ti senti un po’
meglio? Così ti lascio dormire.»
«Cosa?!» Riapro gli occhi, e dopo qualche
secondo per abituarmi al buio intravedo i suoi. «Non ti azzardare a lasciarmi
qui sai? Ho paura di vomitare. E ho paura di quell’Ethan che voleva portarmi a
letto.» Cosa c’entra quel povero ragazzo?,
penso, subito dopo. Questa, Elettra, è una scusa beeeella e buona. Rido.
«Non vomiterai, tranquilla.» Mi rassicura
Christian, e io gli afferro malamente un polso quando sento che si sta
allontanando.
«Sarai anche un capo stronzo, ma non
abbandonerai la tua traduttrice col rischio che affoghi nel suo stesso vomito,
vero?» Lo tiro verso di me ma lui non si muove.
«No, hai ragione. Non potrei rischiare una cosa
del genere.»
«E allora resta…» Mi
sento mormorare. «Abbracciami.» Dico, forse più lucida di quanto io creda di
essere.
Christian si lascia sfuggire un sospiro e poi si
stende di nuovo accanto a me. Apre le braccia e mi attira a sé, posandomi un
bacio sulla fronte. Qui, tra il suo profumo, il suo torace, il suo collo e le
sue mani, mi sento bene.
«Sei arrabbiato?» Gli domando, con gli occhi
chiusi. Lui ci mette un po’ per rispondere, per un momento temo che si sia
addormentato.
«No, non sono arrabbiato.»
«Sì, sei arrabbiato.» Lo correggo,
accoccolandomi ancora di più sul suo petto. La camicia che indossa si sposta e
con la guancia sfioro la sua pelle calda. È il paradiso.
«Cosa te lo fa pensare?» Riesco appena a
percepire le sue mani che mi accarezzano la schiena.
«Beh, tanto per cominciare ti ho fatto
abbandonare la tua stallona, poi hai dovuto salvarmi da… mmm,
non ricordo bene cosa, e poi mi hai visto sputare il dentifricio nel lavandino.
Io sarei molto arrabbiata.» Ma di
cosa sto blaterando? Mi meraviglio che non abbia iniziato a parlare in lingue.
«Beh, in effetti…»
Risponde lui. «Per quanto riguarda gli sputi, comunque, se ti può consolare sputi
sempre con molta grazia.»
Ridacchio contro il suo collo. «Mi trovi bella?»
Elettra, ti sembrano cose da chiedere alle… beh, non
so che ore sono, ma sarà tardi.
Lui non risponde subito. Aggrotto le
sopracciglia e alzo la testa, per guardarlo meglio, col mento appoggiato sul
suo petto. La luna gli illumina il viso, rendendogli i tratti ancora più belli
di quanto non lo siano normalmente.
«Sì, ti trovo bella.» Risponde, infine,
guardandomi. «Anche quando sei ubriaca e bevi con gli sconosciuti e ti improvvisi
ballerina di lap dance. E anche quando mi fai arrabbiare perché ti comporti
come una psicolabile. Ti trovo sempre bellissima.»
«Anche io.» Ignoro le palpebre pesanti, la testa
che gira, lo stomaco che protesta e le gambe che mi fanno male. Mi sollevo
sulle braccia e mi sposto dal suo petto al mio cuscino. Afferro il collo della
sua camicia e lo attiro a me, lasciando che inverta la posizione in cui ci
trovavamo poco fa. Quando il suo viso si trova sopra il mio, penso che non
vorrei essere in nessun’altro posto al mondo. Il suo sguardo è titubante,
incerto, sembra aspettare ancora qualche altra conferma. Gli passo la mano
sulla nuca in una muta richiesta, che lui accoglie senza ulteriori indugi.
***
Mmmmh…
Non ho la forza di aprire gli occhi.
Le mie palpebre sono talmente pesanti che
sembrano premermi sulle pupille. Vorrei sollevarle ma davvero non ci riesco.
Mmmmh…
Ma che ore sono?
E che giorno è oggi?
Oddio, devo andare a lavorare!
Il pensiero di essere rovinosamente in ritardo
agisce da tenaglia sulle mie palpebre. Mi giro subito a destra per guardare la
radiosveglia. I numeri rossi segnano le sette e uno, ovvero quattordici minuti
prima di quanto mi alzi normalmente. Grazie al cielo.
Mi rilasso sul cuscino, cercando di riacciuffare
quelle ultime briciole di sonno…
Oh mio Dio.
Christian? Che
diamine ci fa nel mio letto?
Mi tiro a sedere e lo guardo con gli occhi
sbarrati. È disteso supino, col braccio sinistro abbandonato sulla pancia – pancia… farei meglio a dire la tavola del lavatoio che mia
nonna usava per strofinare il bucato – e l’altro rivolto verso di me, come se
mi stesse abbracciando, o tenendo la mano.
Un flash mi attraversa la mente: io avvinghiata
al suo braccio, con la guancia all’altezza della sua spalla. Beata.
Perché ha dormito qui? Avvicino le ginocchia al
petto e mi ci appoggio col mento, mentre lo osservo dormire. Ha un’espressione
serena, anche se non riesco a vederlo bene perché ha il viso rivolto a
sinistra.
Lascio vagare lo sguardo sui suoi capelli,
appena spettinati, sulla linea forte del collo e della mascella, sulle labbra
leggermente schiuse…
Le labbra.
Oh, cazzo.
Ci siamo baciati.
Lui mi ha portata fuori dal locale e ci siamo
baciati.
Ero ubriaca e ho blaterato tutto il tempo. E ci
siamo baciati.
Ci siamo
baciati, vero?
Corrugo la fronte, cercando di ricordare.
Ricordo che era buio e io ero stanchissima. Ricordo qualcosa riguardo a… degli sputi? Possibile?
“Se ti può
consolare sputi con molta grazia.”
“Ti
trovo sempre bellissima.”
Porco spino.
Ci siamo davvero baciati.
E io non ricordo praticamente nulla.
Ho baciato Christian Wayne e non ricordo com’è
stato. Complimenti, Elettra, sul serio.
Va bene, guardiamo il lato positivo: se anche mi
fosse piaciuto, non ricordandolo non potrei rimuginarci sopra e tornerò con disinvoltura
a sostenere la campagna “fuggi da Orione”. Mhmm.
Christian si muove nel sonno, sospirando. Si
volta verso di me, continuando a dormire.
Oddio, e quello cos’è?!
Mi porto la mano alla bocca e mi avvicino al suo
viso.
Un taglio di un paio di centimetri gli rovina la
parte alta dello zigomo, proprio sotto l’occhio sinistro. Tutt’intorno c’è un
bel livido irregolare color melanzana, ma già tendente a una tonalità più
chiara nei bordi.
Possibile che non me ne sia accorta ieri sera?
Non ce l’aveva, non l’ho visto… almeno credo. Non
gliel’ho potuto fare io. Ero ubriaca, sì, ma dubito fortemente di essere
riuscita a fare una cosa del genere.
Senza pensarci, scendo dal letto e mi dirigo in
bagno. Apro il mobiletto accanto allo specchio e vedo lo scatolo delle aspirine
sul ripiano sbagliato. Cosa? Ah, Christian, ieri sera. Giusto.
Prendo la pomata e la appoggio sul lavandino.
Approfitto per fare pipì e sciacquarmi un po’ e poi torno in camera da letto,
dove Christian è ancora addormentato.
Mi siedo accanto a lui e metto un po’ di pomata
sul polpastrello. Osservo il taglio: è superficiale. Poco più di un graffio, ma
deve aver sanguinato ugualmente. Quando ci passo il dito sopra, lo sento
sussultare e afferrarmi i polsi in uno scatto fulmineo. Sono praticamente
addosso a lui, imprigionata e col cuore in gola per lo spavento.
Quando Christian sbatte le palpebre e mi
inquadra, mi lascia subito.
«Scusami, mi hai colto di sorpresa, pensavo…»
Cosa? Che volessi fargli del male?
Mi sposto aspettando che si metta a sedere. Si
strofina gli occhi, con un’espressione imbronciata.
«Mi hai spaventata. Non volevo ucciderti.» Ci
penso su. «Almeno, non in un modo così semplice.» Mi correggo. Lui sorride e si
stiracchia, per poi sistemarsi i capelli nel codinoordinato che porta di solito.
«Fatti stendere questa crema…»
Dico, avvicinando le dita allo zigomo che luccica per via della pomata
trasparente concentrata tutta in un punto.
Christian contrae il viso quando passo il dito
sul taglio, probabilmente brucerà un po’.
«Non sono stata io, vero?» Domando col dubbio
che mi assale.
«Ti piacerebbe.» Replica lui con un sorriso
sghembo e il sopracciglio alzato.
«Tantissimo, guarda.» Sono più o meno seria.
«Cos’è successo? Non mi sembrava che ce l’avessi, ieri sera.»
«Non mi sembrava che fossi abbastanza lucida da
notarlo, ieri sera.»
Aspetta un momento.
«Stai evitando di rispondermi?» Al suo sorriso
gli do uno schiaffetto sulla spalla. Lui mi guarda minaccioso.
«Vuoi davvero
iniziare a picchiarmi?» Quando ricordo quello che è successo l’ultima volta,
ingoio la lingua e scuoto la testa. A proposito, devo ancora scusarmi per
quello che gli ho detto. Forza e coraggio.
«Ehm… a proposito... scusami, comunque, per…ehm…» Compri una vocale?
«Ho già accettato le tue scuse, ieri.» Mi salva
lui, strappandomi al vortice di imbarazzo che mi stava trascinando via. «Anche
se in effetti non me l’aspettavo, e se tu non lo ricordi vuol dire che eri già
decisamente fuori di testa.» Commenta, annuendo da solo.
Decido di cambiare argomento e sorvolare sulle
mie pessime condizioni di ieri sera.
«Mi spieghi come ti sei ridotto così? Non è
proprio un bel vedere.» Lo costringerò a parlare in qualche modo. Quale modo?
Fortunatamente non c’è bisogno di pensare a varie
ed eventuali torture, perché Christian sospira e inizia a parlare dopo essersi
alzato dal letto.
«Ieri sera, dopo il…»
Esita per un momento e mi guarda, come se non sapesse se parlare o meno. «Beh,
quando sei crollata, sono sceso al night.» Racconta, mentre si sistema la
camicia nei pantaloni. Gesto che cattura una buona parte della mia attenzione.
«Avevo un conto in sospeso con una persona.»
«Ah, la cavalla.» Intervengo, alzando gli occhi
al cielo. Lui scoppia a ridere.
«La smetti di chiamarla così? Margot è una cara
amica, nonché nostra collaboratrice da tempo.» Oddio, Margot è la freelance che
aiuta Christian saltuariamente? Quella
era Margot? Deglutisco a fatica. Sorrido con estrema innocenza e con la scusa
di trovare gli abiti puliti da indossare gli do le spalle infilando la testa
nell’armadio.
«Comunque non ero sceso per lei. E non ero
neanche venuto con lei, se ti interessa. L’ho incontrata all’ingresso con suo
marito.» Specifica, non so per quale motivo. Ah, bene. È maritata, la cavalla.
«È sposata con uno dei buttafuori.» Aaaaah, ora si
spiega tutto.
«E allora per quale motivo sei sceso?» Tiro
fuori la testa dall’armadio con una camicia e un cardigan tra le mani. Mi volto
e vedo Christian appoggiato al muro con le mani in tasca. Sembra ancora più
alto, in questa stanza piccola. Tutto ciò è surreale.
Torno nell’armadio per prendere un jeans.
«Sono sceso per quell’idiota che ti stava
mettendo le mani addosso.»
«Cosa? AHI!» Per la sorpresa, ho alzato la testa
senza ricordarmi che ce l’avevo praticamente incastrata tra due mensole, e ho
sbattuto contro quella superiore.
«Sei un disastro.» Ridacchia Christian. Si
avvicina e mi passa la mano sul capo, accarezzando piano la parte dolente.
«Non sono un disastro.» Mi lamento, corrucciata.
«Sono solo stanca e ho la testa pesante. Per colpa di ieri sera, perché ho
bevuto troppo. E ho bevuto troppo per colpa tua, che ti sei presentato con la
cavalla e mi hai cacciato dal tuo ufficio, per colpa mia che ti ho detto quella
cosa mentre ci stavamo picchiando. Però l’ho detto per colpa tua che mi avevi
fatto la paternale per l’ennesima volta. Quindi, in definitiva, sei tu il
disastro.» Concludo, soddisfatta, ricevendo in risposta uno schiocco della sua
bellissima lingua.
«Comunque, che stavamo dicendo?» Alzo un sopracciglio
per ricordare. «AH! Come ti salta in mente di fare a botte con Ethan?!» Lo vedo
roteare gli occhi, infastidito.
«Ora sarei io il cattivo? Guarda che questo me
lo sono beccato per te.» Si indica l’occhio con l’indice, e io mi mordo il
labbro, con una punta di dispiacere e una di gratitudine.
Elettra
sta diventando umana, wow!
«Non te l’ho chiesto io, eh.» Rispondo, piccata.
No,
come non detto.
Nel sospiro che emette, Christian sembra voler
cacciare via tutte le emozioni negative che gli attraversano il corpo. Poi
inspira lentamente, come se nell’aria ci fossero particelle di pazienza da
inalare all’occorrenza.
«Ti stava importunando, e quando ho provato ad
allontanarlo, mentre tu ti trasformavi in Liza Minnelli, mi ha detto cose poco
carine. Così sono tornato per pareggiare i conti.» Dopo la vampata iniziale per
il paragone con l’attrice – e sono sicura che non è per il film Arturo – lo guardo riducendo gli occhi a
due fessure.
«Quindi l’hai picchiato tu! Lo sapevo!» Mentre io
dormivo ubriaca e ignara, per di più!
«Assolutamente no, io volevo pareggiare i conti
verbalmente, almeno per fargli capire che non ero scappato perché sono un
vigliacco, ma perché la mia traduttrice stava decisamente male, e, ancora
peggio, qualche viscido malintenzionato avrebbe potuto approfittare di lei.»
Spiega senza smettere di guardarmi.
“Mia
traduttrice.”
«Quindi è stato lui a spappolarti la faccia.»
Cattivo Ethan, non si fa. Forse anche lui era ubriaco. Però non mi va che
queste cose succedano a causa mia. Appena lo vedo mi sente!
«Sono ridotto così male?» Christian si avvicina
all’armadio dove sto ancora trafficando e guarda il suo riflesso nell’anta a
specchio. Si sfiora la parte offesa con le labbra strette e poi incrocia il mio
sguardo beccandomi a fissarlo. Mi volto di scatto raccogliendo i vestiti.
«Ehm, io dovrei vestirmi, quindi...» Vai via
prima che mi abitui a vederti girare in casa mia.
«Sì, hai ragione. Devo cambiarmi anch’io, quindi
vado.» Poso di nuovo i vestiti e lo accompagno alla porta. Lo vedo infilarsi la
giacca e controllare la presenza delle chiavi in tasca. Accertato che è tutto a
posto, si ferma sulla soglia e mi guarda.
Sono sicura al diecimila percento che anche lui
sta pensando a quello che sto pensando io. Il cuore mi batte forte all’idea di
quel bacio, anche se ricordo poco e niente. So solo di essere imbarazzata
all’ennesima potenza. Oddio, sarà una giornata tremenda, me lo sento.
Perché non se ne va?!
«Ci vediamo tra poco.» Mormora, infilando una mano
in tasca. L’altra si avvicina lentamente al mio viso sfiorandolo appena, in una
carezza a metà.
Sorride. «Ciglio.» E mi volta le spalle,
dileguandosi giù per le scale.
Resto immobile con la testa appoggiata alla
porta per parecchi minuti, con lo sguardo perso.
«Qui si mette male.» Dico, rivolta al gatto
disegnato sul mio tappeto, e con un sospiro rientro in casa.
~ Note
Bene. Tante cose da dire per questo
capitolo.
Innanzitutto, scusate per la lunghezza
abnorme. Non mi ero accorta che fosse così lungo fino a quando non l’ho
estrapolato per pubblicarlo. Non sapevo dove dividerlo, però, quindi ho
preferito lasciarlo così. Spero siate ancora vive/i.
Ora che ci penso, però, non voglio dire
nulla sul capitolo. Lascio la parola a voi e uno spoiler qui sotto.
Non so se ridere, piangere,
scappare o baciarlo. Mi mordo un labbro, e smetto di torturarlo solo quando
Christian tira leggermente indietro la testa per guardarmi negli occhi. Aspetta
una risposta... e una risposta avrà.
Va bene, non sarà difficile. Io sono Elettra
Wayne e notoriamente posso tutto.
Posso anche evitare Christian Orione Wayne, e fare
finta che la serata di ieri non abbia mai avuto luogo. Idem come sopra per i
dieci secondi più imbarazzanti della mia vita di questa mattina sull’uscio
della porta.
È semplice: basta ignorarlo, evitarlo,
schivarlo, fingere di non vederlo... anche quando fai il tuo ingresso nella
reception e lo vedi circondato da un capannello di persone, che gorgogliano
concitate fissandogli il viso.
«Oh mio Dio! Cos’hai fatto?»
«Ti fa male? Sei andato al pronto soccorso?»
«Oh, Duke! Sicuro che tu stia bene?»
Continuo a camminare cercando di passare
inosservata ma Lily mi afferra il braccio e mi trascina nel cerchio.
«Hai visto cos’ha combinato Christian?» Mi
mostra il suo occhio, e io lo guardo fingendomi sorpresa. Lui è imbarazzato e
allo stesso tempo infastidito dall’essere al centro dell’attenzione, si
percepisce dal corpo proteso verso il corridoio e la voglia di scappare che gli
fa spostare il peso da una gamba all’altra in continuazione.
«Oh, mi dispiace. Com’è successo?» E io perché
mi do la zappa sui piedi da sola? Cretina, di tutte le domande che potevi fare!
Christian mi lancia un’occhiata tra l’incredulo
e il rassegnato e io cerco, per quanto sia possibile farlo senza attirare
troppa attenzione, di suicidarmi.
«Sì, infatti, com’è successo? Con chi hai fatto
a botte?» La malefica Lily che in questo momento sto odiando insiste
sull’argomento, curiosa come una bertuccia.
Mi gratto la nuca, desiderando di scomparire, e
prego che Christian sia il più ermetico possibile. Gli riesce bene, di solito.
«Con un mobile. Nessuna storia succosa, mi
dispiace. Ho semplicemente sbattuto la testa contro l’anta di un mobile. Il
sonno fa brutti scherzi.» Ridacchia, facendosi strada verso il corridoio. Quasi
mi sciolgo dal sollievo.
«Ma dai, Chris!» Clara la nerd che non si fa mai
gli affari suoi. «Non ci credo nemmeno se vedo l’anta incriminata! Hai fatto a
botte con qualcuno, ammettilo!» Lo imbecca con un sorriso divertito. Io la
fulmino con uno sguardo dei miei.
Christian sorride e scuote la testa. Ormai siamo
tutti nel corridoio, chi si va a sedere alle proprie scrivanie e chi aspetta
che tutta la processione finisca per potersi rintanare nel proprio ufficio,
tipo una a caso.
«Il nostro redattore non fa a botte, folks. Non
si vede? Come potrebbe, con questo viso d’angelo?» A parlare è Tony, che passa
un braccio sulle spalle di Christian e gli stringe il mento con fare scherzoso
quando parla del suo viso. “Viso d’angelo” lo guarda con un sorriso complice e
io ho la sensazione che Tony sappia come sono andati realmente i fatti. Quei
due sono troppo amici. Troppo. «E ora filate tutti a lavorare, che siamo in
scadenza. Giusto, Duke?» L’altro annuisce e tutti si defilano obbedienti.
***
Sono quasi certa che manchino più o meno
quaranta secondi prima che il mio telefono interno squilli e Christian mi
chieda di andare nel suo ufficio.
Cosa che, naturalmente, non voglio fare. Perciò,
devo assolutamente inventarmi qualcosa. Una diarrea fulminante non credo sia la
scelta migliore.
«Lil, che tu sappia Danny ha bisogno di aiuto?»
Chiedo alla stagista impicciona seduta a consultare dei libri di fronte a me.
«Mmm... no, non mi sembra. Perché, non devi
aiutare Duke?» Poi dicono che rispondo male e mi arrabbio e assumo le sembianze
di un cattivo dittatore tedesco.
«Nnnn-ii-on lo so ancora.» Farfuglio, beccandomi
un’occhiata perplessa. In quel preciso istante, tra Lily che si chiede se abbia
una collega mongoplettica e la sottoscritta che guarda con aria indifferente lo
schermo del computer, il telefono squilla.
Sono Nostradamus.
Mi alzo, sotto lo sguardo confuso di Lily, e mi
affaccio in corridoio.
«Elettra, il telefono... non rispondi?» Io
scuoto la testa e indico la stanza di Christian, lasciando intendere che andrò
direttamente da lui. Lei annuisce e mi saluta.
Busso alla porta ed entro quando sento
“Avanti!”.
«Raggio di sole, qual buon vento?»
Sorrido sentendomi più o meno all’incirca
un’ebete, e mi siedo davanti alla scrivania.
«Ehm, ciao. Per caso avresti del lavoro per me?»
Chiedo girandomi i pollici distrattamente.
Tony alza un sopracciglio; posso quasi vedere le
rotelline nella sua testa girare e incastrarsi per cercare di interpretare la
mia domanda.
«Cosa intendi per “lavoro”, di preciso?» Gli
tiro un calcio sotto la scrivania e lui mugola ridendo. «Scusa, scusa. Faccio
il serio.» Chissà come mai ne dubito. «Ma tu non affianchi il tuo omonimo
oggi?» Indica col pollice la parete a sinistra che divide le loro stanze.
«No. Ehm. Per favore, posso aiutarti? Faccio
qualsiasi cosa!» Sono tentata di giungere le mani in segno di preghiera, ma non
mi abbasserò mai a tanto.
«Sento puzza di fedifraga. Crisi del settimo
anno? Avete litigato davanti ai bambini? Conosco un buon consulente di coppia,
sai...» Al mio sguardo assassino la smette di sparare cretinate a raffica.
«Okay. Però lo sai che qualunque sia il motivo che ti spinge a disertare
dovresti parlarne con lui, vero?» Chiede grattandosi il pizzetto.
Io sbuffo, facendo sollevare un ciuffo di
capelli. «Tony, mi aiuti o no?»
Lui alza le mani. «E va bene, va bene, ti aiuto.
Tanto stasera vi ritroverete nella stessa casa e tu, mia cara, non potrai farci
perfettamente nulla.» Dice, premendo il dito sulla punta del mio naso mentre
parla. Spalanco la bocca.
«Cosa?! E perché mai?»
«La festa di fidanzamento di Nancy, ricordi?»
Agita una mano a due centimetri dal mio viso.
Cacchio, è vero! Quella sciagurata e il suo
ragazzo si sono fidanzati ufficialmente la settimana scorsa e ci hanno invitati
tutti a casa di lui per festeggiare la promessa di matrimonio. E io devo ancora
comprarle un regalo! Dio mio ma quanto si può essere sbadati?! Però c’è da dire
che non è del tutto colpa mia, è solo
che sono successe tante cose negli ultimi giorni, e... okay, è colpa mia. Sono
una scriteriata.
«Dalla tua espressione sconcertata mi sa di no.»
Tony mi sorride bonario.
«Devo ancora pensare a un regalo, porca miseria
ladra, me ne sono proprio dimenticata!» Mi strofino un occhio, facendo
attenzione a non spargere tracce di mascara ovunque.
«Lo so, lo so, Christian distrae parecchio, è
proprio una sua caratter-»
«Tony Shark, smettila immediatamente di parlare
di Christian o ti infilo questa penna in un posto poco piacevole.» Alzo la
suddetta penna in un gesto intimidatorio e lui sbarra gli occhi.
«D’accordo, d’accordo.» Mi guarda con l’espressione
di chi aspetta solo che si calmino le acque per ricominciare a sfottere, poi
finalmente acconsente alla mia richiesta di aiutarlo. «Potresti tradurre questi
comunicati stampa nelle rispettive lingue degli autori, così da renderli
disponibili per la pubblicazione nei loro paesi, nel caso volessero farlo.» Mi
allunga dei fogli scritti in francese e tedesco che afferro con la stessa
veemenza di Gollum con l’anello del potere.
Il mio tesssssssooooro!
«Grazie, grazie, grazie.» Mi alzo e gli schiocco
un bacio sulla guancia. Mentre mi avvio alla porta col mio trofeo tra le mani,
sento che esclama: «Non finisce mica qui, sai!»
Agito la mano in segno di saluto e vado via.
«Vai da
Christian.» Non metto nemmeno piede nella stanza che Lily indica lo studio di Orione
con il braccio, mentre è concentrata nella lettura di un libro enorme dall’aria
noiosissima. Alzo gli occhi al cielo e faccio retromarcia, trovandomi di nuovo
in corridoio.
Entro, come al solito senza bussare, e trovo
Christian con Alexandra. Lei è in piedi accanto a lui, piegata per fargli
leggere qualcosa da alcuni fogli che ha tra le mani. Sbaglio o quando mi ha
visto si è avvicinata ancora di più? Come se mi importasse qualcosa.
«Mi volevi?» Gli chiedo, senza farmi scrupolo di
interromperli.
«Certo che ti volevo.» Risponde lui, calmo.
Alexandra lo guarda con un misto di stupore e sconforto. La frase
effettivamente è un po’ fraintendibile. «Ti ho chiamata ma non hai risposto.»
Continua, lo stronzo. Alexandra balbetta che ha delle cose da fare e si dilegua
il più velocemente possibile.
«L’hai fatta scappare, poverina. Non si fa così
quando qualcuna è disperatamente cotta di te.» Scuoto la testa, in segno di
rimprovero.
«Hai ragione, si fa intervenire la propria
traduttrice per sabotare la conversazione.» Il riferimento a Lena Ivanov mi fa
arrossire. Sventolo casualmente i fogli che ho tra le mani e mi affretto a
spiegargli come stanno le cose. Voglio uscire da questa stanza.
«Oggi non posso stare qui.» Lavorare qui, lavorare, Elettra. «Lavorare qui, cioè.
Tony mi ha dato delle cose da fare, cose che non può fare da solo, a differenza
tua. Quindi... vado.» Mi volto senza aspettare una sua risposta. Solo un
cretino non si accorgerebbe che sono tremendamente a disagio e che sto fuggendo
come Forrest Gump davanti ai bulletti che lo rincorrono con le biciclette.
«Elettra...» Mi blocco con la mano sulla porta,
e mi costringo a guardarlo. I suoi occhi, di quell’azzurro così vivido e
luminoso, sembrano volermi chiedere scusa. Aspetto che mi dica qualcosa, ma non
lo fa. La frase si limita a un sospiro, e scuotendo la testa è come se dicesse
“niente, vai pure”.
***
Il pranzo è sicuramente la parte della giornata
che preferisco di meno.
Tutti interagiscono fra loro, si fanno domande,
confidenze, ammissioni, pettegolezzi. Viviamo nell’era del “facciamoci i fatti
degli altri”. Come al solito, da quando sono qui, tutte le volte che dovremmo
restare alle nostre postazioni per mangiare, visto che c’è tanto da fare,
succede qualcosa che ci costringe a riunirci di sopra. Oggi è il viaggio: si
sceglierà la fatidica destinazione.
Quando arrivo in sala riunioni, Christian è già
seduto. Per un momento valuto l’ipotesi di cambiare posto, ma sarebbe come
farsi puntare un riflettore addosso. Pessima idea. Dovrò sopportare e
continuare a ignorarlo, sì.
Cosa che sembra riuscirmi benissimo, dal momento
che non ho alzato la testa dal mio piatto di lasagne.
«Allora.» Esordisce Martin, quando tutti abbiamo
finito. «Dalle vostre e-mail, le destinazioni più gettonate sono risultate
Panama e Sacramento.» Un mormorio si leva dalla parte sinistra del tavolo. «A
dare il voto finale sarà Elettra, che ha votato entrambe e scegliendone una
sola decreterà la destinazione prescelta.»
Tutti gli occhi si puntano su di me. Oh, ma dai!
«Quale parte del “non voglio essere al centro
dell’attenzione” non vi è chiara?» Chiedo, con una comicità tale da farli
ridere tutti. «Non voglio queste responsabilità, per favore!» Incrocio le
braccia al petto, con tutta l’intenzione di non rispondere. Per me possiamo
andare avanti così all’infinito. Qualcun altro dovrà pur cambiare idea.
«A me sembrava di averti suggerito qualcosa.» Mi
imbecca Lily, con fare intimidatorio. Sbuffo e penso a un modo per uscirne
indenne.
«Chi è per Sacramento?» Domando, e vedo Christopher,
Clara, Mike, Alexandra e l’altra ragazza della reception alzare la mano. Beh,
credo di poter sopportare le loro proteste. «Okay, allora ascolto la mia
minacciosa collaboratrice e voto Panama.» Come prevedevo, i cinque che hanno
alzato la mano esclamano “No! Dai!” lamentandosi per la scelta, mentre gli
altri esultano per aver vinto questa sottospecie di guerra all’ultima
destinazione.
Ma, a proposito di destinazioni e partenze... io
ho una missione da compiere.
***
Mi schiarisco la gola e mi preparo a rispondere,
sedendomi composta per calarmi nella parte.
«Starbucks, buonasera.» La voce di Rachel
dall’altro lato mi fa sorridere, e quasi dimentico che non devo salutarla.
«Salve, sono Nancy Bishop, vorrei ordinare un
caffè per il signor Blackwood.» Improvvisamente mi domando se Thomas abbia
gusti particolari, per il caffè.
«Il solito?» Grazie al cielo. Beh, era ovvio che
lei conoscesse “il solito” di Thomas.
«Certo, il solito. Il signor Blackwood desidera
che gli venga recapitato direttamente da lei.» Sento che Rachel annaspa nel suo
stesso respiro, e chiede di ripetermi. Trattengo una risata e mi affretto a
replicare: «Non lo dia alla reception, lo porti lei stessa nel suo ufficio.»
«Ah, d’accordo. Sarà fatto. Arrivederci.» Riattacca
e io scoppio a ridere. Mi sento Monsieur d’Arque, il
guardiano del manicomio de “La Bella e la Bestia”.
Esattamente un quarto d’ora dopo, la porta della
mia stanza si spalanca e ne viene fuori una Rachel col viso rosso Thomas e il
dito puntato verso di me. Lily la saluta sorridente e lei la ignora,
continuando ad avanzare verso la mia scrivania. Dietro l’espressione
imbarazzata ha l’ombra di un sorriso.
«Stronza, sei stata tu?» Mi preme il dito sulla
fronte spingendomi all’indietro. Io nascondo una grassa risata e fingo di non
sapere di cosa stia parlando.
«A fare cosa?» Alzo anche il mio fido
sopracciglio per rendere la scena più credibile. Lei li alza tutti e due, non
se l’è bevuta neanche lontanamente. Si appoggia alla scrivania di Lily.
«A fare cosa? A farmi avere l’esperienza più
imbarazzante del secolo, ecco cosa!» Esclama. «Devo ucciderti, come minimo!»
Stavolta scoppio proprio a ridere. «È andata
così male?» Per un momento ho paura di aver combinato un guaio.
Lei mi guarda di sottecchi e si morde il labbro.
«No.»
«E allooooooora!» Le lancio una matita addosso,
sollevata. «Racconta, ORA.»
«La telefonata mi era sembrata un po’
sospetta...» Incalza, sorridendo. «ma Nancy a volte è sovrappensiero per il suo
Andrew e quindi mi aspetto che parli arabo, ci sono abituata.» Chissà con
quanta gente strana avrà a che fare ogni giorno.
Tu sei
la prima.
«E insomma, dopo essermi controllata allo
specchio almeno sessantacinquemila volte, sono salita e ho salutato Nancy, la
quale ha ricambiato decisamente sorpresa di vedermi. La cosa ha iniziato a
puzzare parecchio, ma ho deciso di sorvolare e ho bussato alla porta di
Thomas.» Ecco che avvampa di nuovo. «Lui ha detto “avanti” e io sono entrata. A parte il fatto che, wow, l’hai visto com’è assolutamente
super divinamente meraviglioso oggi?» Sbatte le palpebre sognante, poi si
riscuote. «Comunque, entro e dico “Salve”.
Lui mi sorride...» Fa un’altra espressione beata ed estatica. «...e risponde “Salve. Come va?”. Io dico “Bene,
ecco il suo caffè”. Al che lui mi guarda perplesso e si alza per
raggiungermi. Io muoio sette volte nel frattempo.» Alzo gli occhi al cielo e
sorrido. «Lui fa “Dammi del tu, Rachel”,
roba che, giuro, non ho mai amato tanto questa targhetta che porto sulla tetta… e poi dice “Questo
è per riscattarti dell’altra volta?” e SBEM, capisco che quest’ordine è
stato decisamente un equivoco. Subito ti ho pensato e mi sono appuntata
mentalmente di strangolarti.» Mi lancia un’occhiataccia, e Lily ride. Sta
seguendo con molta partecipazione, la piccoletta. «Ma ho deciso di cogliere la
palla al balzo e gli ho detto “Sì,
esattamente come piace a lei… a te, cioè…” con un tono da sotterramento istantaneo.»
«E lui?» Interviene Lily, con un sorriso che va
da orecchio a orecchio.
Rachel saltella sul posto. «Lui mi ha guardato
sorpreso e ha detto “Wow, ricordi a
memoria come mi piace il caffè?”, e io con la faccia da “Nooo, you don’t say?!”» Scoppiamo a
ridere tutte e tre. Quanto è comica quando racconta le cose.
«E poi?! CONTINUA!» Lily ha finalmente ritrovato
la compagna di gossip adatta a lei.
«Gli ho risposto “Beh, devo dire che la memoria è dalla mia parte, ma il cliente rende le
cose più facili”.»
«Caspita! Da che non volevi neanche provarci!
Chi è che picchia chi, ora?» Le faccio una linguaccia, contenta che si sia
esposta così tanto.
«ZITTA ELE FAMMI SENTIRE!» Guardo Lily che ha
urlato come un’indemoniata e anche a lei tiro una gomma in testa. Piccola
impertinente.
«No, non litigate! Comunque lui mi ha regalato
uno dei suoi sorrisi da infarto e ha risposto “E me lo dici solo ora?”» Lily trattiene a stento un urlo. Rachel
ride e le mette una mano sulla bocca, lanciando un’occhiata nel corridoio.
Okay, sembra che nessuno ci abbia fatto caso. «Insomma, abbiamo deciso che un
giorno o l’altro usciremo insieme.» Conclude, stringendosi nelle spalle con
l’aria decisamente persa.
«Che significa “un giorno o l’altro”? Ti ha
detto lui così?» No, perché se lui le ha detto così, veramente, gli taglio le-
«No, l’ho fatto io. Non volevo sembrare troppo
disperata, e allora quando lui ha detto “Se
non hai da fare, potremmo uscire insieme” io ho subito risposto “Sì, un giorno o l’altro”, e me ne sono
andata con un sorriso diabolico stampato in faccia.» Ce lo fa vedere, e quasi
le spuntano i canini di Dracula mentre lo fa. Poi si rabbuia e mi guarda. «Ho
fatto bene, vero?»
«Certo, da vera femme fatale. Sono sicura che
sta ancora pensando a te chiedendosi se ha detto qualcosa di sbagliato.»
Uomini, tutti uguali. «Comunque, non per smontarti, ma la scusa della targhetta
era solo per guardarti le tette.» Annuisco, e lei ride.
«Servono anche a quello, diciamocelo.» Ribatte,
e trova d’accordo anche Lily, che con un gesto fiero se le soppesa con fare da
pin-up.
«Non vorrei mandarti via, Megan Fox dei miei
stivali, ma abbiamo tutte un lavoro, qui, e sono sicura che nessuna di noi tre
vuole perderlo. Perciò, hastaluego!»
Rachel non se lo fa dire due volte e ci saluta mandandoci un bacio con la mano.
***
#You and I go hard at each other like we’re
going to war#
Eh, Adam, lo so, che vuoi farci. L’amore non è
bello se non è litigarello.
Prendo il cellulare e, dopo essermi beata ancora
un po’ della mia nuova suoneria, rispondo: «Eva?»
«Sistah! Come stai?»
La voce squillante di mia sorella mi riporta per un istante a casa.
«Io bene, tu? Mamma e papà?»
«Bene, tutti bene. A parte il nubifragio che
persiste da sette secoli e mezzo, all’incirca. Ormai ci spostiamo con le canoe,
come tante piccole Pocahontas.»
«O Pocamontas,
come dicevi da piccola.» Sorrido al ricordo.
«Beh, avevo molta fantasia. Comunque, ti chiamo
per darti una bellissima notizia! Ricordi Chiara, la mia amica del pilates? Ti feci leggere la sua storia, “Glitter”.»
«Certo che la ricordo, ho adorato quella storia.
Beh?»
«Con qualche piccolo accorgimento l’ha
trasformata in un romanzo, e indovina? Glielo pubblicano il mese prossimo!»
Esclama, eccitata.
«Accidenti, sono contenta per lei! Era ora che
qualcuno si accorgesse di quel piccolo capolavoro!» E qui posso degnamente
usare la parola “capolavoro”.
«Sì, appunto! Sai, mi ha detto che la casa
editrice che la pubblica ha deciso che in base alle vendite e al successo che
avrà il romanzo, potrebbero pensare alla diffusione anche all’estero. La casa
editrice è piccola, per cui si affida a contatti esterni per la traduzione. Non
potresti parlarne col tuo capo? Non l’ho ancora detto a Chiù, in realtà. So già
che per com’è fatta non accetterebbe mai un aiuto del genere, ma a cose fatte
sarà solo costretta a ringraziare. Che ne pensi?»
«Posso parlarci, certo. Martin potrebbe dare
un’occhiata al manoscritto, almeno per valutare se la cosa è fattibile o meno,
ma lo sarà, perché Chiara è bravissima.» Dichiaro con un sorriso convinto.
«Grazie, sistah. Vedi
che quando vuoi sai essere adorabilmente normale?»
«Dura poco, lo sai.»
«Sì, come i miei quattro giorni di ferie. Che
passerò tra divano, gelaterie e cinema di seconda mano. Ormai sono troppo
vecchia per le discoteche.»
A queste parole, dopo una breve interazione di
neuroni, la mia mano si muove da sola, digitando delle parole sulla tastiera
del computer. Click, click, click.
«Eva, te la senti di fare una piccola follia?»
***
«Ehm, permesso? Posso entrare?» Allungo la testa
oltre la porta e vedo Thomas che sta sistemando dei raccoglitori su una mensola
del suo archivio.
«Ehi, entra, entra.» Quando mi vede mi rivolge
un gran sorriso e mi fa accomodare, accompagnando addirittura la sedia, da
perfetto gentleman.
«Come va? Problemi? Ti trattano tutti bene?» Mi
chiede una volta seduto. Io annuisco. Mi trattano tutti bene, sì. Già. Fin
troppo.
«Ehm, volevo chiederti…
un favore. Cioè, in realtà è qualcosa che si avvicina a una proposta lavorativa…» Oddio, ma non è che non si possono fare cose
del genere? Che è raccomandazione o istigazione a pubblicare? «Arrivando al
dunque, una scrittrice che conosco ha avuto un riscontro positivo da una
piccola casa editrice italiana, che ha detto di aspettare la risposta dei
lettori per passare ad una eventuale traduzione e diffusione all’estero. Mi
chiedevo se, insomma, tu o Martin poteste dare un’occhiata al suo lavoro, così
da mettervi in contatto con la casa editrice e proporvi per un’eventuale
collaborazione futura.» Concludo la mia filippica con lo sguardo fisso sul
trita documenti.
«Certo.» Risponde Thomas. Lo guardo speranzosa,
come a chiedergli di ripetere per essere sicura di non essermelo inventato. «Ne
parlerò con Martin, ma sono sicuro che prenderà in considerazione la tua
proposta. L’ha sempre fatto coi suoi collaboratori. Ti consiglio di parlarne
anche con Christian, che è il tuo “capo” immediato, nell’ordine. Dovresti
sempre parlarne prima con lui.» E io che volevo andare direttamente da Martin.
Ma questo non glielo dirò mai.
«D’accordo, sarà fatto.» Forse. «Grazie mille,
Thomas.» Mi alzo e lui fa altrettanto per accompagnarmi alla porta. Vorrei
dirgli qualcosa su Rachel ma mi sembra azzardato. No, meglio non rovinare
quanto di buono è riuscita a fare quella piccola folle innamorata.
Nell’ascensore, ripenso alle parole di Thomas:
“dovresti sempre parlarne prima con lui”. Forse Martin gli chiederebbe il suo
parere, a maggior ragione dato che è il suo pupillo, e se scoprisse che invece
Christian non ne sa nulla potrebbe arrabbiarsi con me. O con lui.
Mi dondolo sui piedi, in fondo al corridoio, con
una mano sulla maniglia della porta del mio ufficio, e gli occhi fissi su
quella dell’ufficio di Christian. Che faccio? Toccata e fuga?
Mhm, detto così sembra… qualcos’altro. Che non
ho assolutamente pensato.
Il rumore delle mie nocche sulla superficie di
legno mi fa perdere un battito: sto davvero bussando volontariamente alla porta
di Christian Wayne, che ho baciato all’incirca…
diciannove ore fa. Dovrei proprio dirglielo che non me lo ricordo, vorrei
vedere la sua faccia. Dev’essere una cosa orribile da sentirsi dire. Rido da
sola al pensiero, ed è così che Christian mi vede quando la porta si apre
rivelando Danny in procinto di uscire con le nuove copertine fresche di stampa
tra le mani.
«Grazie Duke!» Gli dice, e dopo avermi fatto
l’occhiolino, torna alla sua workstation. Christian risponde con un cenno del
capo e torna a volgere lo sguardo su di me. Ehm, per cosa ero venuta? Ah, sì,
giusto.
«Duke.» Incalzo, ignorando le sue varie ed
eventuali preferenze personali sul soprannome. «Ho parlato a Thomas di un
romanzo che sta per uscire in Italia, è di una scrittrice che conosco ed è
molto bello. Thomas mi ha assicurato che accennerà la cosa a Martin per
un’eventuale collaborazione futura in caso di pubblicazione all’estero. Pensavo
che dovessi saperlo anche tu.»
«Perché non entri?» Di tutte le cose che poteva
dire, di tutte le parole che esistono al mondo, lui doveva scegliere quelle tre. «Non mordo.» Insiste,
guardandomi con una strana luce negli occhi.
No, non mordi. Baci.
«Mmm, non ho tempo. Devo tornare ai comunicati
stampa. Ciao.» Chiudo la porta col cuore tra la trachea e la laringe, che sta
suonando un accordo con le mie corde vocali, sfiorandole a mo’ di arpa.
Okay, ce l’ho fatta. Missione compiuta ancora
stavolta.
Non
potrai evitarlo all’infinito.
Posso sempre provarci.
E
stasera? Quando avrai finito di tracannare champagne e noccioline, di farti
raccontare tutta la storia della loro vita dai promessi sposi, e di nasconderti
in bagno facendo finta di doverti incipriare il naso, credi che riuscirai
ancora a evitarlo? Ma soprattutto, credi che uno come Christian Wayne non sia
capace di prenderti per un braccio e trascinarti in un angolo per parlarti?
Di sicuro trascinarmi è una delle cose che sa
fare meglio.
Ma, parlando di promessi sposi... il REGALO!
Maledizione!
***
Okay, ci sono.
Guardo la ragazza alta – tacco dodici – bella – truccata
– elegante – vestito
rosso con un bustino che mi fa due tette così – che mi fissa dallo
specchio e inclino la testa di lato, incerta. Stringo il mio regalo tra le mani
e arriccio le labbra, pensosa.
Chissà se gli piace il rosso.
Il pensiero che attraversa la mia mente è tanto
inaspettato quanto inafferrabile. È sfrecciato attraverso i neuroni con la
velocità di Superman, lasciandomi completamente di stucco. Poi mi dico che c’è
solo un motivo per il quale vorrei saperlo: se non gli piacesse, indosserei
questo vestito tutti i giorni.
Sì, ben detto.
Lo squillo del cellulare mi avverte che devo
scendere. Percorsa la seconda rampa di scale, mi trovo davanti Ethan, che sta
entrando in casa sua.
«Ehm, ciao.» Lo saluto da lontano senza smettere
di camminare.
«Ehi, Ele!» Ele?
Come ti permetti di chiamarmi Ele? «Dove vai così elegante? Sei... wow, uno
spettacolo!» Si sta avvicinando, e io ho già le mani sul portoncino blindato.
«Ahm, grazie, vado a una festa di fidanzamento.
Buona serata!» Apro il portoncino e lo richiudo il più velocemente possibile,
arrancando sui tacchi mentre cerco con lo sguardo l’auto di Danny. Non voglio
passare un secondo di più con quell’uomo. Mi inquieta. Non sono sicura che mi
stesse davvero mettendo le mani addosso al night, come ha detto Christian, ma
non mi ispira comunque fiducia. Magari non farebbe del male a una mosca, ma si
sa che sono una persona acida e scostante, no? Allora continuiamo su questa
scia.
«Eleeeeeee! Siamo qui!» Vedo un braccio che si
agita in una Ford Fiesta blu, e riconosco i due volti all’interno. Sgambetto
fino alla portiera, la apro e salgo in macchina.
«Ciao ragazzi!» Saluto prima Lily e poi Danny,
che si è gentilmente offerto di fare da chauffeur a entrambe, e mi lascio
andare sul sedile, trovando finalmente un attimo di pace. Ho fatto le corse
appena uscita da lavoro per andare in un centro benessere a Miami Beach e poi
tornare ed essere pronta in tempo.
Arriviamo a Miami Springs circa venti minuti più
tardi, e dando un’occhiata in giro mi rendo conto che siamo proprio in un altro
mondo, rispetto a dove abito io. Qui il colore prevalente è il verde, e non il
grigio ammuffito del cemento. Piante, fiori, erba ovunque. Ogni isolato – solo
di nome e non di fatto – ha le sue bellissime ville, molto simili tra loro se
non per dimensioni, con giardini curati tutt’intorno e grandi piscine
interrate. Sembra sia uno di quei quartieri in cui puoi uscire a piedi e
lasciare la porta di casa aperta, tanto sai che non ti succederà nulla. La zona
è piena di luce, grazie all’illuminazione principale della strada e a quella
singola di ogni villetta.
La villa di Andrew Perkins si trova al 508 di
Hunting Lodge Drive, dove più che a Miami sembra di stare a Cannes: davanti
all’ingresso c’è una mezzaluna di prato con ben sette palme altissime. Il viale
d’ingresso, che circoscrive questo prato, è pavimentato con tanti blocchetti di
pietra colorati, nei toni del grigio e del rosa, posati in una trama irregolare
davvero carina. La villa è sviluppata su un solo livello, come tutte del resto
qui a Miami, e la prima cosa che noto quando ci avviciniamo è l’imponente
ingresso ornato da due colonne bianche, colore che richiama le cornici delle
finestre e le entrate dei due garage. La grande porta d’ingresso, in legno
scuro e vetro, è aperta. Dall’interno provengono le luci gialle della cucina e
un vocio divertito. Ci apprestiamo ad entrare.
«Permesso?» Trilla Lucy, spingendo la porta.
«Prego, prego!» Una voce dolce ma decisa ci
accoglie, e poco dopo riusciamo a vedere la sua proprietaria, che scopriamo
essere la madre di Andrew, Sandra. «Entrate, ragazzi. Sono tutti sul retro.»
Tutti.
Christian.
Aiuto.
Stringo convulsamente la borsetta, sentendo
l’agitazione crescere e diffondersi in tutte le mie membra, concentrandosi
principalmente nello stomaco. Io sono
Elettra Wayne e posso tutto, mi ripeto come un mantra.
Io sono
Elettra Wayne e... posso... quasi tutto.
Io sono
Elettra Wayne e... posso.
Io sono...
Christian.
Il cuore mi schizza in gola come uno shuttle
lanciato nello spazio, e sembra voler esplodere quando i suoi occhi di ghiaccio
incrociano i miei e sorridono. Sì, perché i suoi occhi sorridono in un modo che
pochi altri riescono a fare.
Sta venendo verso di me? No, non sta venendo
verso di me. Non venire verso di me.
Oddio.
«Chi è questa bomba sexy in rosso?»
L’inconfondibile voce di Tony è un’àncora di salvezza a cui mi aggrappo
metaforicamente e letteralmente. Cingo il suo braccio con disperazione e gli
sorrido, forse fin troppo.
«Ciaaao Tonyyy!»
«Ti senti bene?» Mr Sopracciglio mi guarda con
sospetto, poi alza gli occhi e vede Christian, quindi schiude le labbra. «Ah,
d’accordo. Non hai ancora fatto pace con tuo marito.» Gli assesto una gomitata
nello sterno, lui si piega appena con un lamento sulle labbra.
Christian nel frattempo ci ha raggiunto. Dà una
pacca sulla spalla a Tony e saluta me con un cenno della testa, poi continua a
camminare verso l’interno della casa.
Cosa?
«Ehi, allora è proprio grave. Da quant’è che
non...» Tony fa un gesto inequivocabile e io premo di nuovo il gomito nel suo
stomaco. «Va bene, ahia, la smetto.
Andiamo a salutare i festeggiati.» Ecco, finalmente ha detto una cosa buona.
Dove sono i festeggiati?
Cammino sottobraccio con Tony che sembra sapere
esattamente dove sta andando. Ah, eccoli. Avvisto Nancy, splendida in un
miniabito grigio legato al collo che le lascia la schiena scoperta. Accanto a
lei, il famoso Andrew, un bell’uomo sui trentacinque anni con un sorriso
gentile e occhi solo per la futura sposa. La guarda come se stesse venerando
una dea. Accanto a loro, a dare gli auguri, ci sono anche Lily, Danny e...
Christian. Ma certo, stronzo di un Tony!
«La pagherai, sappilo.» Sibilo, prima di andare
ad abbracciare Nancy.
«Lo faccio solo per te, dolce primula di
maggio.» Risponde lui, spingendomi con un dito sulla schiena verso il mio
incubo corrente.
Io sono Elettra Wayne e posso tutto, per la miseria!
«Auguriiiiiiii!» Esclamo, circondando le esili
spalle di Nancy con le braccia. Tony nel frattempo è evaporato; evidentemente
li aveva già salutati, il bastardo.
«Grazie, tesoro!» La stringo ancora una volta e
poi mi allontano per fare gli auguri ad Andrew. Nel muovermi, mi trovo faccia a
faccia con Orione, che stava facendo lo stesso per congratularsi con Nancy. Con
un sorriso forzato mi sposto a sinistra per passare, ma lui mi imita
contemporaneamente, poi la scena si ripete a destra.
«Okay, cerchiamo di coordinarci.» Mi dice,
ridacchiando. «Io vado a sinistra.» Indica la mia destra col dito e io
annuisco. Faccio un passo alla mia sinistra e così riusciamo a scambiarci di
posto. Dio mio, queste cose imbarazzanti non mi capitavano da quando ero
innamorata del rappresentante d’istituto del liceo.
Scuoto la testa scacciando il pensiero e
abbraccio Andrew, che ricambia amabile.
«Allora, quand’è che tocca a voi?» Chiede Nancy,
con un sorriso. Io la guardo sbigottita e anche Christian sembra un tantino
interdetto. Nancy se ne accorge e aggrotta la fronte. «Non intendevo insieme.»
Balbetta, grazie al cielo.
«Ah!» Scoppio a ridere, non istericamente ma
peggio, ed entrambi mi guardano strano. «Io mai.» Rispondo, facendomi seria
all’improvviso. Nancy sembra credermi sulla parola e rivolge lo sguardo a
Christian, che si stringe nelle spalle.
«Quando lei mi troverà.» Risponde, infine. Nancy
gli sorride rapita, e gli assicura che la donna giusta arriverà presto. Io sono
momentaneamente in coma irreversibile.
Smettila di pensare che si riferisse a te.
Quanta importanza! Non si riferiva a te, ma all’“anima gemella”, sostantivo
femminile generico.
Mhmm.
Ma allora perché ha detto “quando lei mi troverà” e non “quando io la troverò”?
Oh cielo.
Stai
facendo progressi, complimenti!
«Nancyyyyyy!» Alexandra investe la collega
abbracciandola di spalle. Nancy si volta insieme ad Andrew e Christian ed io
restiamo impalati a guardarli. Lo spio con la coda dell’occhio e vedo che si
passa una mano sulla nuca, sembra a disagio. Mentre lo fa, il cardigan grigio
con le cuciture nere che indossa si gonfia seguendo la linea del bicipite, e io
lo guardo imbambolata per qualche istante.
«Hai... già preso da bere?» La mano infilata tra
i capelli si sposta indicando il tavolo poco distante da noi, che ospita un
buffet degno di un banchetto regale. Faccio segno di no con la testa – chissà
dove si è cacciata la mia lingua – e lui avanza di un passo, aspettando che lo
segua. Affondo col tacco nell’erba e perdo appena l’equilibrio. Christian mi
offre il braccio e io scuoto la testa. Ce la faccio da sola. Faccio un altro
passo incerto e sento il lieve sospiro di Orione, che per tutta risposta mi
afferra il braccio e lo fa passare sotto il suo, stringendolo poi a sé. Le
nostre mani si sfiorano: se solo volesse potrebbe afferrare la mia e
intrecciarvi le dita in un battito di ciglia.
«Bianco o rosé?» Mi chiede una volta arrivati al
tavolo.
«Bianco, grazie.» Mi aspetto che mi lasci il
braccio ma non lo fa. Prende la bottiglia di champagne con la mano libera e ne
versa il contenuto nei classici bicchieri dalla forma allungata, poi mi porge
il mio. Una volta preso il suo, lo alza, come a voler fare un brindisi.
Socchiude gli occhi, meditabondo, senza smettere
di guardarmi. «Ai nuovi inizi.»
Imito il suo gesto: «A Nancy ed Andrew.»
Lasciamo tintinnare i bicchieri, poi lui scuote la testa, sorridendo tra sé.
«Cosa ridi?» Non posso fare a meno di
chiederglielo.
Lui fissa un punto lontano. «Anch’io mi riferivo
a Nancy ed Andrew, ma tu hai voluto specificare, nel caso qualcuno – cioè io –
avesse potuto fraintendere. Mi fai davvero il tipo che si illude per una cosa
del genere? Per aver brindato ai “nuovi inizi”?»
Improvvisamente mi sento una povera stupida.
Sei una
povera stupida, confermo.
La domanda è retorica e naturalmente lui non
aspetta una risposta, ma mi guarda lo stesso, forse per capire cosa mi stia
passando per la testa. Mi aggrappo allo champagne per prendere tempo.
«Bel vestito.» Dice infine, salvandomi ancora
una volta dall’imbarazzo. Prima mi ci mette e poi mi salva, ma si può?
«Grazie.» Rispondo, desiderando di indossare un
burqa. Mi sento come se avesse i raggi X e potesse vedermi nuda.
Ma il
pensiero non ti dispiace.
Devo bere un altro po’.
Mi verso altro champagne e lo mando giù come
fosse acqua fresca, sotto lo sguardo perplesso di Christian. Ora penserà che
sono un’ubriacona. In realtà, se si allontanasse, tutto questo non
succederebbe. Ecco. È colpa sua, sempre.
«Christian!» Una voce che non conosco mi fa
voltare, anche se non sono stata chiamata in causa. Vedo una testa bionda
comparire accanto al soggetto appena interpellato, e guardandola meglio scopro
che appartiene a Margot. Ha tirato indietro i capelli, non l’avevo
riconosciuta. Abbraccia Christian come se non ci fosse un domani e poi posa con
lui per le foto che sta scattando Mike, il paparazzo della serata. È mezz’ora
che lo vedo andare in giro con la Canon tra le mani ed evito accuratamente il
suo sguardo per non attirare l’attenzione.
Con mio sommo orrore, dopo la fotografia, vedo
che Christian si volta verso di me.
«Elettra, ti presento ufficialmente Margot. O
Charlize, come l’hai chiamata tu.» Cosa? Che sta blaterando?
Stringo la mano alla cavalla e abbozzo un sorriso
poco convinto, mentre lancio uno sguardo di fuoco a Christian, sperando che
possa leggermi nel pensiero e sentire tutte le imprecazioni che gli sto
rivolgendo.
«Charlize?» Ridacchia Margot, confusa.
«Elettra ha detto che somigli alla Theron,
quando ti ha vista al Vagabond.» Spiega Christian. Davvero? Non ricordo questo
particolare. E so che neanche da ubriaca avrei potuto dire una cosa del genere.
Andiamo, la Theron è di un altro pianeta!
«Oh, grazie. Anche tu sei molto bella, Elettra.»
Le sorrido di rimando. «Ci vediamo dopo.» La vedo allontanarsi diretta verso
Thomas, appena arrivato anche lui.
Mi porto due dita all’attaccatura del naso,
espirando lentamente.
«Come vuoi essere ucciso, precisamente? Un’idea
adesso ce l’avrei, ma sono aperta ai suggerimenti.» Sibilo. «Che cos’è questa
storia di Charlize?!» Mi viene voglia di strappargli quel cardigan di dosso e
arrotolarglielo attorno al collo.
Christian ride di gusto. «Non ti ricordi?» Ride
ancora di più. «A casa tua mi hai detto di averti cacciato dal mio ufficio e di
averti rimpiazzato con la versione scema di Charlize Theron.»
Oh Signore.
Serro le labbra, avvertendo l’onda di risate che
sta iniziando a gonfiarmi le guance.
«Ho davvero detto così?» Okay, attacco di
ridarella scongiurato. Per ora.
«Sì.» Annuisce Christian, poi sembra tornare
serio. «Hai detto tante cose. Non ricordi nulla?»
Perché dobbiamo parlarne per forza? Lo so dove
vuoi andare a parare, Wayne dei miei stivali. Ma io sono Elettra Wayne e posso
anche parlare dei miei deliri da sbronza senza problemi, che ti credi coccodè?
«Ricordo di averti chiamato “capo stronzo”.»
Mormoro, in fondo soddisfatta di averlo fatto. «E di averti costretto a dormire
da me.» Proseguo, distogliendo lo sguardo dal suo. Sorvoliamo poi sul bacio
della buonanotte.
Christian rimugina su quello che ho appena
detto, battendosi la punta dell’indice sulle labbra. «Mmm, sì, questo è vero.»
Sbuffo e alzo occhi e mani al cielo. «Avanti,
cos’altro ho detto? Stai fremendo dalla voglia di mettermi in imbarazzo, ammettilo.
Su, sputa il rospo, una volta per tutte.» Incrocio le braccia al petto col
suono della sua risata nelle orecchie, e punto una delle sedie a sdraio
posizionate attorno alla grande piscina. Mi ci siedo sopra e gli faccio spazio.
Nel sedersi, le nostre braccia si sfiorano. Christian si china in avanti e
poggia gli avambracci sulle gambe, congiungendo poi le mani.
«Vuoi davvero saperlo?» Chiede, e io sono quasi
tentata di dire di no. Dai, cos’avrò mai potuto dire? Che non mi sta antipatico
come sembra?
Faccio spallucce e lui sorride. «Mi hai detto
che adori il mio profumo.» Deglutisco tre volte di seguito ma riesco a
mantenere il volto inespressivo, o almeno spero. «Mi hai detto che se ti
sposassi con me non avresti bisogno di cambiare cognome.» Oddio, non posso
averlo detto! Ma dai! Mi mordo il labbro per non ridere. «Poi mi hai detto che
ti piace quando ti chiamo Ele.» Spalanco la bocca e gli do uno spintone.
«Questa te la sei inventata!» Non ci credo
neanche se mi fanno ascoltare una registrazione. Christian ride e scuote la
testa, mentre io cerco di ricordare.
«Giuro, l’hai detto. Ti stavo supplicando di
prendere le aspirine e ho detto “Dai, Ele”, per non sembrare troppo brusco... e
tu hai risposto-»
«Mi piace
che mi chiami Ele.» Continuo al posto suo, con lo sguardo vacuo e il suono
della mia voce che mi rimbomba nella scatola cranica. Ha ragione.
PARBLEU!
«L’alcool fa male.» Commento, grattandomi la
nuca.
Christian alza il dito, come a voler prendere la
parola. «Mi hai detto anche un’altra cosa.»
«Qualunque cosa sia, ripeto: l’alcool fa male.»
Dico, a scanso di equivoci. «Spara.»
«Mi hai detto che mi trovi bellissimo.» Afferma
con un sorriso malizioso, e la camionetta dei pompieri si ferma sulle mie
guance.
«Però! Sono simpatica, da ubriaca.» Ironizzo,
beccandomi un’occhiataccia. Va bene, faccio la seria. «A onor del vero, tu hai detto di trovarmi bellissima e io
ho risposto “anch’io”. Non è esattamente la stessa cosa.» Lo correggo,
accavallando le gambe. Lui sorride, piacevolmente sorpreso.
«Allora qualche ricordo ce l’hai.» Ehm,
purtroppo sì. Fa una pausa, e so che
sta per dire qualcosa che farà decollare di nuovo il mio cuore come un Boeing
747. «Ricordi... cos’è successo dopo?» Parlando per l’appunto di decolli, ora
mi sento proprio come in un aereo in partenza: avverto distintamente il vuoto
d’aria nello stomaco e la testa leggera.
Sto anche per vomitare, se vi interessa.
Mi schiarisco la gola, per prendere tempo. Tolgo
un pelo immaginario dal vestito. Disegno distrattamente un cerchio a terra con
la punta del piede.
«Sì.» Rispondo infine, e stranamente mi sento
come se mi fossi tolta un grosso peso dalle spalle.
Le labbra di Christian si increspano in un
sorriso timido. «Okay.»
Il cuore dev’essermi arrivato nelle orecchie,
perché non riesco a sentire nient’altro al di fuori del suo battito impazzito.
«Foto per il duo più strepitoso degli ultimi
cent’anni!» Sussulto quando Mike spunta fuori dal nulla davanti a noi puntandoci
addosso l’enorme obbiettivo della sua Canon. Quando vede che né io né Christian
ci muoviamo, ma continuiamo a guardarlo interdetti, lui abbassa la macchina
fotografica e ci fa un gran sorriso. «Dai, Waynes,
mettetevi in posa!»
«Waynes è orribile.» Commento, e sento che sto
per beccarmi il copri obbiettivo in fronte.
«Come vi pare, però mettetevi in posa, che tra
poco si mangia.» Nasconde nuovamente il suo viso dietro l’apparecchio e io mi
avvicino un po’ a Christian. Lui fa il resto, circondandomi la vita con il
braccio e inclinando la testa verso di me, così che le nostre guance si
sfiorano. Il suo profumo mi dà alla testa. Miracolosamente riesco anche a
sorridere.
Il flash finisce di intontirmi, e quando i
puntini bianchi scompaiono dalla mia vista, vedo il volto entusiasta di Mike
che guarda il display della sua Canon con aria soddisfatta.
«Grazie ragazzi.»
Sarò sicuramente venuta con la faccia da pesce
lesso, o da sniffatrice di cocaina targata Hugo Boss. Però non m’importa, la
sua interruzione è stata provvidenziale. Ogni tanto la signora Sfiga mi concede
la grazia.
«Andiamo a mangiare?» Propongo e scatto in
piedi, con la smania di chi non riesce a stare fermo. So benissimo di essermi
appena comportata come la solita latitante che se la svigna al minimo accenno
di argomenti compromettenti, ma non posso farci niente.
Non vuoi farci niente. Cacasotto che non sei altro.
«Propongo un brindisi!» Sento che dice Thomas,
quando ci avviciniamo al gruppo di persone riunite attorno al tavolo. «Alla
nostra super collaboratrice che ho l’onore di avere come assistente in
amministrazione, che ha trovato la felicità con lo strizzacervelli più
affascinante d’America. Vi auguro tanta felicità, ragazzi.» Solleva il
bicchiere, e mentre sta per concludere il brindisi Tony alza la mano. Thomas
gli cede la parola.
«No, vorrei aggiungere che ha trovato la
felicità dopo aver tribolato e averci fatto due pal-
ehm, due nuvole così descrivendo per
filo e per segno com’erano le fette di prosciutto che Andrew aveva sugli occhi,
che non si accorgeva di lei e non capiva che tra loro c’era qualcosa di
speciale. Non so cosa tu abbia fatto per farglielo capire, ma ne è valsa la
pena. A voi!» Alza anche lui il bicchiere e tutti gli facciamo eco. «Se hai
qualche consiglio da dispensare a quei poveretti che hanno a che fare con
portatrici sane di prosciutto, illuminaci pure.» Continua, dopo aver mandato
giù un sorso di rosé. Le sorride e poi guarda me.
Che stronzo!
Nancy non sembra intercettare il suo sguardo, e
gli domanda chi sia la fortunata: «La conosciamo? Posso corromperla se vuoi,
Martin mi ha dato un aumento.» Dice, e tutti ridono.
Tony agita la mano. «Oh no, non è per me.»
Oddio, ti prego non farlo. «È una domanda generica, senza riferimenti o
allusioni a persone... presenti o meno.» E mi guarda di nuovo, camuffando un
sorriso dietro la mano. Sto per togliermi la scarpa e lanciargliela dove non
gli farebbe piacere.
«Beh, in ogni caso, il consiglio che posso dare
alla portatrice di prosciutto è di non pensare troppo, qualunque sia la cosa
che le offusca la vista e la rende praticamente ottusa. Al poverino esasperato
che le sta accanto, direi solo... non arrenderti.»
Tony fa un’espressione compiaciuta e annuisce
convinto. «Dopo questa perla di saggezza, direi che possiamo darci dentro.»
***
Mi sto ingozzando come se domani iniziasse una
carestia mondiale e dovessi fare scorte per i prossimi vent’anni. Andiamo di
male in peggio. Ogni volta che qualcuno si avvicina per rivolgermi la parola,
infilo una cosa in bocca: una tartina, un involtino, una focaccina, quella
deliziosa quiche con la pancetta e
ogni altro tipo di finger food che le mie mani riescono ad agguantare. È
risaputo che a questo genere di ricevimenti tutti si interessano alla tua vita
sentimentale, così come a Natale siamo tutti più buoni. Col mio super geniale
stratagemma, il “delfino curioso” di turno, stufo di aspettare che la mia bocca
finisca di ruminare – rigorosamente con la velocità di una lumaca in dialisi –
se ne va con un sorriso di circostanza, oppure, nel caso dei più arguti, cambia
argomento.
Come se non bastasse, sto schivando Tony come la
peste, perché so che le sue frecciatine non finiranno praticamente mai, e col
livello di stronzaggine che si ritrova potrebbe aspettare che ripulisca il
buffet fino all’ultima briciola pur di strapparmi un qualsiasi tipo di
confessione.
«Bellissima!» Due mani che si posano sulle mie
spalle mi fanno sputacchiare l’acqua che stavo bevendo. Il sorriso luminoso di
Thomas compare nella mia visuale, ed è talmente contagioso e innocuo che decido
di non depredare ulteriormente il tavolo. Ma tengo sott’occhio le olive, per
ogni evenienza.
«Thomas.» Lo saluto ricambiando il sorriso.
«Allora, come ti va la vita?» Allargo il sorriso fino a scoprire probabilmente
anche i denti del giudizio che non ho, mentre mi scervello per trovare un modo
delicato di chiedergli di Rachel. Lui mi lancia un’occhiata stranita e poi fa
spallucce.
«Solite cose, tutto bene. A te?»
«Bene, bene. Mmm…» Pensa, pensa, pensa. «Che carini che sono Nancy ed Andrew, vero?»
Ah, certo, sei molto credibile come donna dei complimenti.
Thomas continua a guardarmi in modo perplesso.
«Sì, sono una splendida coppia.»
«Già.» Mi dondolo sui piedi. «E tu? Amori in
vista?» Ridacchio nervosamente ma cerco di non darlo troppo a vedere.
«No, per ora no.» Mi risponde lui con un
sorriso.
«Ma vorresti?» Mi piacerebbe estorcergli qualche
informazione, ma questo tipo mi sembra fin troppo perspicace. Chi vuoi fregare,
Elettra? Non ti chiami Patrick Jane.
Lui fa spallucce. «Diciamo che non lo sto
cercando, ma se dovesse capitare…»
«Mmm…» Annuisco, interessata. Agito il piede
facendo su e giù in un ritmo estenuante e piuttosto isterico.
Oh, al diavolo.
«Ti piace Rachel?» Okay, forse non dovevo essere
così diretta.
Thomas sembra sinceramente spiazzato dalla
domanda, poi fortunatamente accenna un sorriso imbarazzato. «Siete amiche?»
Deglutisco un paio di volte, mentre il criceto
nel mio cervello si affanna per cercare una risposta non troppo falsa ma nemmeno
troppo compromettente. «La conosco abbastanza da credere che ci siano buone
probabilità che tu le piaccia.» Dico, alla fine.
Non è
vero,
gli trasmetto col pensiero, in realtà
Rachel è completamente persa senza speranza di recupero.
«Buone probabilità? Speravo in qualcosa di più sicuro…» Commenta lui, grattandosi la nuca. «In effetti non
sembra aver accolto bene la mia allusione a una futura uscita…»
Mormora, tra sé.
«Cos-? No, ma che vai a pensare!» Oddio, lo
sapevo. Troppo femme fatale, troppo.
«Perché, cosa ti ha detto? E quando?» Gli chiedo, fingendo di non sapere nulla
al riguardo. Thomas mi rivolge un’occhiata incerta. Parla a zia Elettra, forza,
confidati…
«Stamattina. È venuta a portarmi il caffè e io
le ho chiesto se magari le andava di uscire con me. L’ho buttata lì così, senza
pensarci troppo. Non era la prima volta che la notavo, passo spesso nella
caffetteria e lei è sempre molto gentile. Molto carina, anche. Però stamane mi
ha risposto “sì, un giorno o l’altro, magari”… come se stesse cercando un modo
per rifiutare senza causare danni irreparabili alla mia autostima.» Racconta,
con lo sguardo perso nel vuoto. Poi scrolla le spalle e mi guarda crucciato.
«Tu che ne pensi?»
Penso che se le chiedessi di sposarti lei
accetterebbe prima di subito.
Ma forse
è meglio tenerti un po’ sulle spine.
«Penso che a volte noi donne possiamo essere
molto ambigue su quello che vogliamo realmente, e con ogni probabilità Rachel
non voleva mostrarsi troppo elettrizzata all’idea di uscire con te per non
smorzare il tuo entusiasmo.» Replico, sorridendo soddisfatta della risposta.
«Tu dici? Mmm. Certo che siete strane…» Eh, parli
con la regina delle stranezze, guarda.
Mentre sto per rispondergli che non deve farsi
intimorire da queste cose, il suo cellulare squilla e lui è costretto ad
allontanarsi. Va bene, almeno non si può dire che non ci abbia provato. Gli ho
messo una bella pulce nell’orecchio.
Improvvisamente si sente un battito di mani e
una voce che esclama qualcosa.
«Dai, dai, facciamo le prove del matrimonio!
Vogliamo il ballo degli sposi!» L’idea “geniale” arriva stranamente da Clara,
sostenuta da Mike che si è nuovamente armato di obbiettivo telescopico. Clara,
ti facevo meno idiota, davvero.
Tutti annuiscono entusiasti e spingono la coppia
al centro della grande terrazza. Da un punto ignoto parte una musica, che
riconosco come Against all odds, di
Phil Collins. Un classico. Mio malgrado, mi ritrovo a dondolare sui tacchi,
ondeggiando sulla scia della canzone e perfino accennando a canticchiarla.
«Allora in fondo sei una romanticona.» Nel
momento clou della canzone incrocio lo sguardo di Christian, che è apparso alle
mie spalle con la sua solita disinvoltura, spargendo nell’aria Hugo Boss e
testosterone in quantità industriali.
«C’è ancora qualche traccia che non sono ancora
riuscita a sopprimere.» Replico, facendolo sorridere. Mi perdo a guardare il
volto sognante di Nancy, i suoi occhi innamorati che si specchiano in quelli di
Andrew, la mano di lui che le accarezza la schiena. Una punta di nostalgia mi fa
sospirare. Non vedo l’ora che arrivi la torta, così posso affogare la mia
disperazione nel cioccolato.
«Vuoi ballare?»
O affogare Christian Wayne, in mancanza d’altro.
È
inutile che fai la sarcastica del cavolo: il tuo cuore sta scalpitando come
Furia il cavallo del West.
Guardo Christian senza riuscire a rispondere.
Faccio l’errore di spostare lo sguardo e incrocio quello di Tony, che se ne sta
in un angolo del giardino con le braccia incrociate e mi sta fissando con
un’aria decisamente contrariata e minacciosa. Oh, per l’amor del cielo! Che ha
intenzione di fare se rifiuto, picchiarmi?!
Forse sì.
La canzone intanto finisce, e i due innamorati
restano sulla “pista” in attesa di quella seguente. Decido che, se la prossima
mi piace, allora potrei anche accettare l’invito di Christian. Speriamo che il
disc jockey, chiunque sia, non tiri fuori una canzone alla My heart will go on, o mi butto in piscina.
Qualche secondo dopo, le note inconfondibili di I’ll be si diffondono nell’aria,
facendomi rabbrividire. Adoro questa canzone, accidenti. Torno a guardare
Christian e abbozzo un minuscolo sorriso.
Lui non aspettava altro. Accenna un inchino e mi
prende la mano.
«Madame.»
Mi è sempre piaciuta questa parola: “mia dama”. Sorrido mentre mi lascio
condurre accanto a Nancy ed Andrew. Ci troviamo l’uno di fronte all’altra e per
un istante restiamo così. Quando la sua mano destra mi circonda la vita e la
sinistra si intreccia alla mia, realizzo che stiamo davvero per ballare davanti
a tutti i nostri colleghi. E siamo l’unica coppia oltre ai festeggiati. Dio,
menomale che ho messo i tacchi.
«Odio essere al centro dell’attenzione.» Sibilo,
col desiderio di tuffare la faccia nell’incavo del suo collo. Per nascondermi,
mica per altro.
Christian china la testa e la sua guancia mi
sfiora la tempia. «Allora siamo in due.»
«Trovata geniale, quella di ballare.» Mi sento
dire, poi finalmente vedo un’altra coppia unirsi a noi: Danny e Lily. Sorrido
entusiasta all’espressione di puro visibilio che anima il volto di lei.
#The strands in your eyes that color them wonderful
stop me and steal my breath#
«Hai visto, lamentosa di poca fede? Impara l’arte
della pazienza.» Sussurra Christian, vicinissimo al mio orecchio.
Istintivamente la mano con cui sono aggrappata alla sua spalla destra stringe
appena la stoffa del cardigan che indossa.
Smettila di fare così. Smettila di avere questa
voce, questi occhi, questo sorriso. Smettila di ballare così bene. Smettila di
reggermi con delicatezza e al tempo stesso con decisione.
#Emeralds from mountains thrust towards the sky never
revealing their depth#
«Chiedo perdono, sommo Mahatma Gandhi.» Lascio
la sua mano e la congiungo all’altra per profondermi in un breve saluto
indiano. Christian ride e mi pizzica i fianchi facendomi contorcere per il
solletico. In lontananza vedo il volto sorridente di Tony che sta dicendo
qualcosa a Thomas.
#Tell me that we belong together#
«Puoi dirlo forte.» Per un secondo mi si ferma
il respiro: ho pensato che stesse commentando il verso della canzone, “dimmi che ci apparteniamo”. Poi un
neurone mi ha salvato dallo svenimento ricordandomi quello che gli ho detto
pochi istanti fa su Gandhi.
Gli sollevo il gomito con la mano in un gesto di
sufficienza e lo guardo col sopracciglio alzato. «Non ti sembra di esagerare un
tantino?»
Lui piega le labbra all’ingiù e scuote la testa.
«Nient’affatto. Sei decisamente insopportabile.» Sapevo che stava parlando di me. Stiamo sempre parlando di me, di
lui, di... noi.
«Ma tu sei ancora qui. Il che significa che o
hai trascorso sette anni in Tibet e sei diventato davvero il figlioccio di
Gandhi...» O cosa? C’è davvero una seconda opzione?
Christian sembra volermi scrutare l’anima con
quegli occhi disarmanti fissi nei miei.
«Oppure?» Mi incalza, e ora mi domando se con
questo sguardo non voglia che sia io a leggere la sua, di anima.
«Oppure niente, non c’era nessun oppure.» Balbetto,
distogliendo lo sguardo. Lui stringe la mano che mi accarezza la schiena
avvicinandomi ancora di più al suo torace, e quando sento la pressione leggera
delle sue labbra sull’orecchio non posso fare a meno di chiudere gli occhi.
«Oppure
credo che possa valerne la pena.» Sussurra, la voce ferma e calda. «Se è vero
che in vino veritas, le cose che hai
detto ieri sera le pensi davvero...» La gola riarsa e il frenetico battito del
mio cuore confermano le sue parole. «...ma non voglio che ti ubriachi per
sentirle di nuovo.» Vuole sentirle di
nuovo. Non so se ridere, piangere, scappare o baciarlo. Mi mordo un labbro,
e smetto di torturarlo solo quando Christian allontana leggermente la testa per
guardarmi negli occhi. Aspetta una risposta... e una risposta avrà.
«A cosa ti riferisci? A quando ti ho chiamato
‘capo stronzo’ o quando ti ho detto che mi stavi palpando?» Mormoro, con un
sorriso che non riesco a contenere. Forse la mia ironia è l’unica cosa bella
che ho e che sembra non subire il fascino indiscusso di quest’uomo. «Se vuoi
posso ripetertelo anche adesso.»
Osservo le sue labbra schiudersi e curvarsi in
un sorriso. «Sarebbe già qualcosa.»
Ti
rendi conto che ti sta aprendo il cuore e tu fai dell’ironia? E lui non ti ha
ancora affogata nella piscina?
Restiamo in silenzio per un’intera strofa, poi
Christian si abbassa di nuovo e il suo respiro caldo mi infiamma il collo.
Ahhh, ma perché fa così, maledetto!
Cerco di controllare il mio, di respiro, mentre ascolto quello che sta per
dire. Quando si avvicina in questo modo è sempre un cattivo segno. «Comunque,
se proprio ci tieni a saperlo, non mi riferivo soltanto a quello che hai detto.»
Appunto.
Quando torna a guardarmi mi schiarisco la gola,
ma non per rispondere, piuttosto per cercare di mandare giù il cuore.
La voce di Edwin McCain che piano piano va a sfumare segna la fine di questi interminabili
minuti e mi salva dal secondo momento più imbarazzante della serata.
«Posso avere l’onore, signorina Wayne?»
Christian sposta lo sguardo oltre il mio viso e mi lascia, sorridendo a Tony
che adesso sta prendendo il suo posto. Senza che io possa oppormi, mi ritrovo a
ondeggiare di nuovo, ma tra braccia diverse. Quando poso la mano sulla sua
spalla e lo guardo, mi scopro a pensare che no, non è per niente la stessa cosa
ballare con Tony.
Tony è più basso, più asciutto, più rapido, più
moro, più tutto. È... sbagliato.
«Avete fatto pace?» E perfino più impertinente,
dimenticavo. Gli pesto un piede di proposito, sbattendo poi gli occhi da
cerbiatta a mo’ di scusa.
«Non abbiamo mai litigato, per la cronaca.» Mi
sento rispondere, con un sospiro esasperato. Tony sembra confuso.
«E allora perché lo evitavi come Lucia con Don
Rodrigo? Hai fatto un voto di castità? Non mi sembri così candida.» In quel momento, Christian ci passa accanto e vedo
che sta ballando con Alexandra. Tony mi posa due dita sulle palpebre e imita il
suono di un fuoco che viene smorzato: «Pssssss.
Wow, l’hai incenerita.»
«Non l’ho incenerita!» Protesto a bassa voce,
con la bocca spalancata.
«Se avessi due pistole al posto degli occhi ti
assicuro che Ethan Hunt ti farebbe un baffo.» Afferma placido. «Perché ti
ostini a negare l’evidenza?» Avvicino pericolosamente il tacco alla punta delle
sue scarpe.
«Non c’è nessuna evidenza.» Mormoro con lo sguardo
basso. Improvvisamente mi trovo con la testa penzoloni a un metro da terra e
nessuna mano a sorreggermi la nuca. Poi Tony mi tira su di scatto, e aspetta
sorridente che la mia testa smetta di girare.
«Ma che ti prende?! Non è un tango!»
Lui fa spallucce. «Lo so. Volevo dare una
scrollata ai tuoi neuroni. Vediamo se ha funzionato: ti piace Christian Wayne?»
«NO!» Esclamo, attirando l’attenzione delle
coppie che ballano con noi. «Ma ti riesce così difficile farti gli affaracci
tuoi?»
Lui sorride beffardo. «Non immagini nemmeno
quanto.»
Sbuffo, sperando che la conversazione sia finita
qui. Lascio correre lo sguardo nel giardino, sulle coppie che stanno ballando –
alle quali si sono aggiunti Mike, Clara e i genitori di Andrew – su Thomas che
parla al telefono, su Christopher che si è praticamente steso sul tavolo e sta
quasi leccando le briciole del vassoio di focaccine; sento i sussurri
innamorati di Nancy, la voce nasale di Clara, la risata di Alexandra. Mi ero
ripromessa di non guardarli più ma dopo un po’ cedo a una breve sbirciata.
Christian la sostiene con una mano a metà schiena – a me la teneva più in basso
o sbaglio? – e lei gli sta casualmente accarezzando la spalla, senza smettere
di sorridere. Oca giuliva.
«Devo andare in bagno.» Dichiaro appena intuisco
che la canzone sta volgendo al termine. Tony mi accompagna fino all’ingresso
della casa e poi lo sento chiamare Sandra.
Ah, finalmente silenzio. E solitudine. E nessuno
che pronuncia il nome Christian.
Chiudo la porta a chiave e, dopo aver controllato
il trucco che stranamente resiste, do le spalle allo specchio e mi appoggio al
mobile del lavandino, aspettando qualcosa.
La voglia di uscire e tornare in giardino, per esempio.
Oh mio Dio, ci siamo trasferiti in discoteca?
Cos’è, Rihanna? Tendo l’orecchio verso la finestra e riconosco le note di We found love. Vabbè, se non altro
questo non è un ballo di coppia. Faccio un bel respiro e mi decido a uscire.
Quando torno in terrazza, mi lascio sfuggire una risata, nel vedere Mike
improvvisarsi ballerino di reggaeton e Clara la nerd che ci dà dentro con gli
occhi chiusi e le mani per aria, muovendosi come se stesse sul set di Step Up. Però è brava. Anche Tony prova
a imitarla, affiancato e sostenuto da un sorridente Thomas. Un’altra risata mi
scuote le spalle, nel vedere i loro movimenti impacciati ma fieri: non hanno il
minimo pudore di ridicolizzarsi in pubblico.
Nella penombra della zona circostante la
piscina, seduto su una sedia a sdraio che mi sembra di riconoscere, c’è
Christian, che controlla qualcosa al cellulare e di tanto in tanto alza lo
sguardo sui due breaker improvvisati,
sul volto un sorriso divertito.
Trattengo il respiro quando i suoi occhi si
posano su di me, scoprendomi a fissarlo. Mi impongo di non distogliere lo sguardo
per almeno altri tre secondi, per non fare completamente la figura dell’idiota.
L’ombra di un sorriso gli attraversa le labbra e gli occhi, che poi si
abbassano di nuovo sul cellulare.
Mi muovo sul posto come avessi il pepe nel
sedere, poi sbuffo con una sottospecie di ringhio e decido di assecondare le
mie gambe, che si muovono in una direzione precisa.
Quando mi siedo sulla sdraio, con le mani sulle
ginocchia come la statua di un faraone e la posa rilassata di un palo della
luce, Christian si volta a guardarmi. L’angolo della sua bocca è sempre
sollevato, in un sorriso che adesso ha un non so che di... compiaciuto.
«Cosa c’è?» Gli domando, titubante.
Lui scuote la testa lentamente. «Niente.» Quel niente che racchiude tutto mi provoca un brivido che non
riesco a nascondere.
«Hai freddo?» Mi domanda con un velo di
apprensione. Sembra non essersi accorto della causa del brivido, o forse l’ha
capito benissimo ma non vuole mettermi in imbarazzo. Non lo saprò mai. Però, al
di là di tutto, un po’ di freddino lo avverto. La temperatura deve essersi
abbassata, e io non ho pensato di portare nessun tipo di giacca, giacchino,
foulard o quel che è. Capisco di avere decisamente
freddo quando Christian avvolge le mie mani tra le sue, scoprendole gelate.
Senza dire una parola, si inizia a sbottonare il cardigan. Lo guardo con gli
occhi sgranati, e quando arriva all’ultimo bottone la mia lingua si sblocca.
«No, che fai? Fermati!» Lui mi ignora beatamente
e sfila le maniche, scoprendo la camicia bianca e immacolata che gli fascia il
fisico perfetto. No, no, no, oddio come profuma...
Christian mi copre le spalle col cardigan e mi
costringe a infilarlo, poi insiste anche per abbottonarlo. Osservo il suo viso
concentrato nell’infilare i bottoni nelle rispettive asole senza toccarmi,
specialmente nei dintorni della scollatura. Alzo un braccio e lo agito, facendo
penzolare la stoffa in eccesso. Ha delle braccia... wow.
«Dovrei andare un po’ in palestra per riempirlo
bene.» Scherzo, e lui ride.
«Ti sta benissimo.» Commenta garbato quando ha
finito con l’ultimo bottone.
Ora, a parte l’immediato e provvidenziale calore
che emana questa stoffa, vogliamo parlare del profumo che sembra sprigionare
ogni singolo filo? Mi sento avvolta
in questo torpore, oltre che nell’azzurro degli occhi di Christian, adesso un
po’ più scuro per via della poca luce. Il suo sguardo scorre sul mio corpo,
adesso riparato dal tessuto che gli appartiene. L’accostamento col mio vestito
di cui si intravede la parte finale, che arriva poco sopra il ginocchio, è
sicuramente qualcosa che farebbe storcere il naso a Carla Gozzi, ma io sto bene
così. Anche perché non vorrei prendermi un malanno.
«Sei carina.» Dice Christian regalandomi un
sorriso allegro.
Gli allungo una spintarella con la mano e poi
rido vedendo che la manica me la copre tutta. Sembro una bambina che ha
indossato i panni del papà. Questo pensiero, questa idea di “intimità” mi fa
arrossire, ma è buio e lui non dovrebbe essersene accorto. Spero.
«L’ultima volta che hai detto una cosa simile ci
siamo baciati.» Gli rispondo a mo’ di rimprovero, e lui si passa una mano sulla
nuca, dapprima sorridente, poi serio.
«Sai, non pensavo che sarebbe successo così.
Confesso di averci pensato qualche volta, ma non era quello il contesto.» Ci ha
pensato? Ha pensato di baciarmi? Oh Signore.
Ma
quanto puoi essere ritardata per non averlo capito?
Tossicchio, imbarazzata. «Se ti può consolare io
non ricordo nulla.» Violet si para il viso con le mani, aspettando una reazione
catastrofica. Christian alza le sopracciglia. «Non sto scherzando.» Aggiungo,
seria.
«Non ti ricordi di avermi baciato? Ma se hai
detto che-»
Lo blocco alzando una mano a mezz’aria. «So che ci siamo baciati. Ricordo che...
che ti sei avvicinato a me...»
«Che mi hai tirato per il colletto della camicia,
vorrai dire...» Precisa lui.
Se
qualcuno vuole cuocere una bistecca, sono disponibili le guance di Elettra!
«Ehm, sì, quello che è.» Balbetto, cercando di
riprendere il filo del discorso. «E poi ricordo di aver sentito la tua... le
tue... insomma, per farla breve ricordo il contatto,
ma non il resto, ecco.» Improvvisamente le mie unghie mi sembrano molto
interessanti. Davvero carina questa tonalità di rosso, sì. Un ottimo acquisto.
Non cogliendo segnali di vita dal mio
interlocutore, alzo lo sguardo e lo vedo grattarsi la mascella, con le labbra
appena arricciate in una smorfia dubbiosa.
«No, tu mi hai proprio baciato. Eri... parecchio
partecipe. Ne sono sicuro.» Mormora e mi viene voglia di dargli un abbraccio di
consolazione.
«E poi cos’è successo?» Gli domando, invece,
curiosa.
«Poi mi hai detto “buonanotte Chris” e mi hai
tirato di nuovo accanto a te per usarmi come cuscino.»
«Wow.» Come perdersi i momenti più interessanti
della propria vita. «Ti ho davvero chiamato Chris?» Siamo entrati proprio in
confidenza, pare.
Lui annuisce con un sorriso. «Già.» Poi pensa a
qualcosa e scuote la testa. «Se avessi capito che... è che non sembravi così sbronza. Se avessi saputo che non
avresti ricordato nulla non mi sarei mai fatto trascinare dalla tua mano.»
«Ci tieni proprio a specificare questo
particolare, eh.»
Lui si stringe nelle spalle. «Sei così
sfuggente, Ele, che devo
accontentarmi di quel poco che mi concedi, anche se non esattamente nel pieno
delle tue facoltà mentali.» Mi guarda di sbieco, canzonatorio.
Gli do una lieve spallata, scontrandomi col suo
bicipite. «E smettila di fare la vittima!»
Christian sghignazza e io lo guardo minacciosa.
Lui sta al gioco, accigliandosi di proposito. Poi sorridiamo e lui allarga un
braccio. «Vieni qui.» Mi mordo il labbro, esitante. Lui sospira e alza gli
occhi al cielo. «Avanti, per una volta puoi
non farti pregare?» Trattengo a malapena una risatina e poi mi raggomitolo sul
suo petto, circondandogli il torace con le braccia. Mi sento doppiamente
avvolta, da Christian e dal suo cardigan. C’è tanto Christian nell’aria,
adesso.
***
«Grazie di tutto, Nancy. Anche a te, ‘drew.»
Stringo i due piccioncini in un abbraccio da Teletubbies.
«Grazie a te per essere stata qui e grazie
davvero tanto per il regalo! Ce lo godremo al massimo.» Sorrido pensando alla
trovata geniale del weekend in un centro benessere, completo di ogni tipo di
massaggio e trattamento esistente sulla faccia della terra.
«Non ho dubbi.» Sghignazzo, e li saluto con la
mano mentre mi avvio verso la porta d’ingresso.
«Duchessa, te ne vai senza salutarmi?» La voce
di Thomas mi fa voltare. Mi raggiunge in due o tre passi e mi abbraccia.
«Scusami, non ti ho visto.» Mormoro, passandogli
la mano sulla schiena. Da quando in qua sono diventata l’orso-abbraccia-tutti?
No, qualcuno me lo spieghi.
«Mi raccomando con Rachel.» Gli intimo,
puntandogli un dito sul naso. Lui annuisce, da bravo bambino, e prima di
andarsene mi assicura che le chiederà di uscire non appena la rivedrà.
Il che significa che devo combinare un altro
incontro.
Mmmh...
«Christian!» Alzo la voce per farmi sentire dal
portatore sano di testosterone che sta parlando con Tony e i due si
interrompono voltandosi nella mia direzione. Sento che Tony dice “Io scappo, ci
vediamo lunedì” e Christian lo saluta con una pacca sulla spalla, dopodiché
viene verso di me.
«Dimmi. Cosa ti serve?» Mi chiede, con un
braccio stretto al petto e l’altro poggiato sopra, che si sfiora il mento
pensoso.
«C-come fai a sapere che mi serve qualcosa?»
Balbetto stupita.
«Perché altrimenti non mi avresti mai chiamato.
Ti sei già avvicinata una volta di tua spontanea volontà, stasera. Due sarebbe
stato troppo.» Spiega, sagace, accompagnando la frase con un occhiolino.
«Touché.»
Mormoro, ammettendo la verità. «Comunque, sorvolando sul tuo vittimismo
perenne, ti volevo ricordare del nostro piano per Thomas e Rachel.»
«Ah, sì. Devo ancora comprare l’arco e le
frecce, credi che nel weekend questo genere di negozi sia aperto?» Alzo gli
occhi al cielo ma non riesco a contenere un sorriso.
«Sei un idiota, lo sai?»
«Attenta a come parli, potrei offendermi.»
«Oh, certo.» Mi fingo intimidita e imito la sua
voce profonda, ricordando cosa mi disse in albergo: «Non hai ideeeea di come posso diventare, Elettra.»
Riesco appena a intravedere il suo sorriso
tagliente e poi mi ritrovo a testa in giù, appesa alla sua spalla come un sacco
di patate.
«AIUTO! Christian mettimi giù IMMEDIATAMENTE!
AAAAAHHH!» Sono costretta ad aggrapparmi al trionfo di muscoli che si
intravedono dalla camicia per non essere sballottata eccessivamente, mentre lui
cammina tranquillo sotto lo sguardo divertito degli altri ospiti, o almeno di
quelli che sono rimasti.
«Ciaooo, noi ce ne
andiamo!» Esclama, agitando la mano in segno di saluto verso Nancy ed Andrew.
«Mi vuoi mettere giù? CHRISTIAN WAYNE!» Continuo
a scalpitare ma lui mi ignora portandomi a spasso senza il minimo sforzo.
«Ah, la porti tu a casa?» Questa è la voce di
Danny, ma non riesco a vederlo. La schiena del cretino che mi ha preso per una
bambina di sei anni mi copre tutta la visuale. Vedo i piedi di Lily fare il
giro e poi la sua testa compare davanti alla mia.
«Ci vediamo lunedì?» Dice con un gran sorriso.
«Stronza!» Le urlo dietro mentre la vedo
sparire. Sbuffo e quando ci troviamo fuori dalla casa, inizio a tirare pugni a
non finire sulla schiena di Christian.
«Lasciami!» Pugno. «Fammi scendere!» Pugno. «Christiaaaaan!» Due pugni.
«La smetti di sbraitare? La macchina è a due
isolati da qui, vuoi svegliare tutto il vicinato con le tue urla?» Per quanto
la posizione mi consenta, gli allungo uno schiaffo sulla testa e lui risponde
con un pizzico sulla gamba scoperta.
«AHIA!» Piagnucolo. «Christian, tutto questo è
veramente ridicolo, veramente... bastamettimiimmediatamentegiùchemisivedonolemutandine!»
Strillo tutto d’un fiato, e sembro toccare il tasto giusto perché lui si ferma
e mi fa scendere. Mi abbasso il vestito che era risalito a metà coscia e mi
stringo nel cardigan, per poi incrociare le braccia al petto e iniziare a
camminare. Camminerò fino a che non vedrò la sua auto, sì. Non ci dovrebbero
essere molte Audi rosse, in giro.
«Sei arrabbiata, per caso?» Christian mi
raggiunge in un battito di ciglia e io non gli rispondo. Continuo a camminare
col naso per aria e la convinzione di chi sa di avere ragione.
Non so come faccia a stare al mio passo. O
meglio, non so come faccia a non sembrare un soldatino affannato come invece
sono sicura di sembrare io, che per di più sarò molto vicina allo spiaccicarmi
al suolo per via di questi tacchi altissimi. Lui invece cammina con la
nonchalance di un modello della nuova collezione di Calvin Klein, con le mani
in tasca e quella camicia bianca che…
«Aaaarrrgh.» Questo suono inarticolato simile al ruggito di
un leone con la tracheite sembra proprio essere provenuto dalla mia gola.
Frustrazione,
Elettra, dicesi ‘frustrazione’.
«Vuoi tornare a piedi?» La voce di Christian
stranamente mi arriva attutita alle orecchie. Mi volto e vedo che è fermo
all’angolo della strada a circa cinquanta metri da me. «L’auto è di qua.» Dice,
indicando la via alla sua destra col pollice.
Con l’eleganza della regina Elisabetta faccio
retromarcia e imbocco la strada che fa il giro dell’isolato, più impettita di
prima. Mentre sto camminando, mi sento bloccata e vedo che Christian ha
infilato due dita nel cardigan, all’altezza del collo, gesto che mi sta
limitando nei movimenti.
«Hai finito?» Mi chiede, e io mi mordo un labbro
per mascherare un sorriso. Scuote la testa, come a dire ‘ma come devo fare con
te?’ e io, per farmi perdonare, infilo il braccio sotto il suo e lo trascino
verso la macchina.
***
L’Audi rallenta a poco a poco fino a fermarsi
davanti al palazzo rosa salmone che riconosco a malapena per via della scarsa
illuminazione.
Mi schiarisco la gola, imbarazzata come una
tredicenne al primo appuntamento. Con una mano sulla portiera e la borsetta
nell’altra, mi volto a guardare Christian, per salutarlo.
«Allora… buonanotte. Grazie del passaggio.» Dico
con un filo di voce. Lui mi rivolge un minuscolo sorriso, poi posa una mano sul
mio braccio e mi attira a sé, chinandosi a sua volta verso di me. Sembra
puntare alla mia guancia, ma involontariamente io mi muovo e le sue labbra
sfiorano l’angolo delle mie.
«Scusa.» Sussurra, indietreggiando di circa un
millimetro.
Fisso le sue labbra e penso che potrei morderle
da un momento all’altro, se non scendo subito da quest’auto. La voglia è troppo
forte ma la mia parte razionale è categorica e anche questa volta ha la meglio
su tutto il resto. Sono io, quindi, ad allontanarmi del tutto e ad augurargli
un buon weekend, prima di aprire la portiera e lasciarmi avviluppare dal freddo
pungente della sera. Christian mette in moto e alza due dita per salutarmi, io
ricambio col cuore che scalpita ed entro subito nel palazzo, senza guardarmi
indietro.
Salgo velocemente le scale, apro la porta e con
un calcio sfilo le scarpe, gettandole in un angolo dell’ingresso. Mi lavo
velocemente i denti, mi strucco e vado in camera, per poi spogliarmi. Poggio
delicatamente il vestito sulla sedia e poi torno verso il letto, recuperando
l’indumento che ho tolto per primo. Ripensando alle sue mani, infilo i bottoni
nell’ordine indugiando sul terzo e sorridendo al ricordo del suo sospiro
impacciato; poi, una volta finito, mi accoccolo sul letto e mi porto la stoffa
al viso, inspirandone il profumo. Chiudo gli occhi e, per la prima volta dopo
una lunga battaglia interiore, un pensiero indugia nella mia mente per più di
pochi secondi soltanto, facendomi battere forte il cuore e stringere ancora di
più nel morbido tessuto che evoca la sua presenza.
Mi
manca.
~ Note
Molto bene(h).
Cos’abbiamo di nuovo? Altri piccoli passi,
più consapevolezza nella mente di Elettra – e forse anche nel suo cuore – ma ha
bisogno di una piccola spinta.
Qualche nota qui e lì: “Pocamontas” lo
diceva davvero mia sorella qualche anno fa; la canzone sulle cui note ballano i
due Wayne è questa, ascoltatela
perché è molto bella; “Sette anni in Tibet” è, come spero sappiate xD, un film con Brad Pitt (sbavsbav); “Glitter” è davvero una
storia – al momento breve – di una cara amica e meravigliosa scrittrice, a cui
auguro un giorno di poter pubblicare un bel libro per la nostra giUoia. Questo è il suo
profilo su Efp; Questo
invece è il cardigan di Christian (sbav); Un
ringraziamento a Elisa (TheBritish) per avermi aiutato nella scelta della meta del viaggio
(c’è un perché); La casa di Andrew Perkins (il cui nome proviene da un
personaggio di Grey’sAnatomy)
esiste davvero a Miami, per cui mi scuso col proprietario della stessa e gli
faccio i complimenti perché da quel che si vede su Google Maps
è davvero bella XD; Il titolo del capitolo è liberamente scopiazzato dal titolo
di una puntata di Lost.
Credo di aver dato a tutti i Cesari quel
che gli appartiene, quindi mi dileguo e aspetto i vostri pareri (P.S.: Grazie
per tutte le meravigliose recensioni, aggiunte a preferiti/seguite/ricordate.
Grazie, davvero!). Spoileeer:
Quello che sento poco dopo mi
fa rabbrividire da capo a piedi, e ogni altro pensiero viene dissolto, lasciando
spazio a un puro terrore.
Anne sgomita tra la gente sollevandosi sulle
punte e poi torna coi piedi per terra, nel vero senso della parola, e scuote la
testa.
«Dovrebbe essere atterrata, scusa, sono le dieci
e- ECCOLA!» Agito le braccia nella
direzione in cui sto guardando e dopo un paio di tentativi attiro l’attenzione
della persona desiderata, la quale fa una corsa verso di noi e ci salta
praticamente addosso.
«Puzzi come una ciminiera, hai iniziato a
fumare?!» Le dico allontanando il viso dai suoi capelli.
Lei mi sorride e scuote la testa. «No, ma anche
tu mi sei mancata, stronza d’una sorella maggiore.»
***
Rivedere mia sorella dopo due mesi è stato
decisamente favoloso. Con lei esce fuori quel po’ di istinto protettivo –
giusto una briciola insignificante, eh – che c’è in me e che la esaspera fino
allo stremo. Siamo quasi coetanee ma per me sarà sempre la mia sorellina, non
ci posso fare nulla. Ho visto la sua cacca puzzolente e le sue tonsille quando
piangeva come un’ossessa per le coliche. Le ho dato la manina quando ha mosso i
primi passi e l’ho consolata quando le è caduto il primo dentino. Così come
quando ha dato il primo bacio, e non ha voluto parlare con un ragazzo per i
successivi tre mesi. Poi però le è passato tutto e ho dovuto mettere un elimina
code per i troppi ragazzi che bussavano alla sua porta. Ci sono sempre stata
nella sua vita, così come lei c’è sempre stata per me.
L’asfalto chiaro di Lincoln Road, zona pedonale
famosa per lo shopping, riflette le nostre ombre, quattro sagome scure che
camminano in sincronia con la disinvoltura delle bagnine di Baywatch. Oltre a mia sorella e
ad Anne, a noi si è aggiunta Rachel, che è forse quella più esperta della città
e che ha deciso di aiutarci a passare una giornata all’insegna del
divertimento. Ieri ci ha fatto da guida culturale, oggi ci porta a fare spese.
«Qui ci sono Gap, Juicy
Couture, Miss Sixty… più avanti ci sono Sephora, Banana Republic, Diesel, Desigual
e… no, non ci vedo più di tanto. Da dove volete iniziare?» Domanda Rachel,
strizzando gli occhi contro il sole per cercare di scovare qualche altro
negozio.
«Ele, non ti serviva roba per il mare? Crema,
olio, doposole…?» Interviene Anne, rivolgendo lo
sguardo al poco distante Sephora. Rifletto, storcendo
la bocca.
«In effetti, sì.»
«Mare? Andate a mare a novembre?» Piccola Eva,
non conosci ancora Miami.
«Beh, tra un uragano e l’altro il Nord e Centro
America sono famosi per la presenza di bagnanti in qualunque stagione. E poi,
la nostra signorina Wayne ha in programma un viaggio. Con un certo
orsacchiottone che sbava per lei, tra l’altro.» Ammicca Rachel, mostrando tutti
i suoi denti. Lo sguardo di Eva non lascia presagire nulla di buono.
«Cosa?!»
Non so come ho fatto a distrarre mia sorella
dall’argomento viaggio e “orsacchiottone”. No, non le avevo ancora parlato di
Christian. Ma, del resto, cosa ci sarebbe da dire? Nulla!
‘Nulla’
tipo: ‘è il mio uomo ideale ed è palesemente cotto di me’, intendi?
Taci tu, brutta megera!
L’importante è che ora siamo perse tra creme
autoabbronzanti e burro cacao alla noce di cocco, e nessuno parla di codini
biondi o di muscoli guizzanti.
«A cosa serve questa, dai? A che scopo dovrei
sembrare abbronzata da un giorno all’altro senza neanche essere stata al sole
mezzo minuto?» Protesto, rimettendo al suo posto un flacone di crema, che Eva
riprende e mette nella grande busta di tela che ha tra le mani.
«Tu non capisci un cavolo, dai retta a me. Lo
fanno tutti, tranquilla. È meglio sembrare una che si è spalmata un po’ di
autoabbronzante piuttosto che una mozzarella appena uscita da un caseificio!»
Eva alza gli occhi al cielo e si dirige verso lo scaffale dei doposole, con
l’aria stufa di chi ha una sorella invasata. Anne la raggiunge e continua a
confabulare con lei come stanno facendo da mezz’ora a questa parte.
«Sai, dovresti fare un regalo a Christian.»
Oh, Signore. Ti prego, cosa ho fatto di male? Dimmelo!
Vorrei saperlo davvero, perché a me sembra di comportarmi decentemente, e…
«Dico sul serio.» Rachel continua, valutando la
mia espressione, che naturalmente non ha nulla di amichevole ma somiglia a
quella di un mastino napoletano.
«Ele! Ho trovato l’acqua scintillante, vieni a
vedere!» Eva richiama la mia attenzione con la voce e la mano e io guardo
Rachel facendo spallucce, mentre mi avvio verso mia sorella.
«Adesso direi che è il momento di passare ai
costumi da bagno, di cui sarai completamente sfornita, nevvero?» Siamo appena
uscite da Sephora e Anne sta spuntando delle voci da
una lista sul suo Iphone. Ha preparato una lista per il mio viaggio?! Oh,
cielo. Non oso immaginare cosa ci sia, in quella lista.
«Adesso
direi che è il momento di fermarci lì perché il mio stomaco reclama del cibo.»
Dichiara Eva, indicando uno Starbucks alla cui vista le si illuminano gli
occhi. Perché solo in Italia non ne
abbiamo uno. Solo in Italia.
«D’accordo, andiamo.» Le altre concordano – fin
troppo, per i miei gusti – e dunque ci avviamo verso il “negozio” più bello di
tutti. Passano circa dieci minuti, tra l’ordinazione e il ritorno della
simpatica cameriera, prima che una frase mi faccia quasi strozzare.
«Beh, sorellina? Novità col megafusto?» A
parlare è, ovviamente, Eva, prima di mandare giù un morso del suo cornetto
gigante.
«Cosa?» La guardo stranita e interrogativa e mi
nascondo dietro un bicchiere di succo d’arancia. Rachel sta sorridendo come una
iena, Anne invece si mordicchia l’angolo della bocca. La cosa puzza e
parecchio. Il mio cuore batte un po’ più veloce.
«Avanti, il tuo collega figo! Lo voglio vedere,
ce l’hai una foto?» Mia sorella è nota per il suo essere chiara e concisa,
sempre e comunque. Chissà da chi ha preso…
«Di chi stai parlando, scusa?» Domando innocente
tuffando un muffin nel caffè di Rachel. Eva sbuffa vistosamente.
«Anne mi ha detto tutto, perciò non fare la
finta tonta. Ti conosco. Stai evitando l’argomento. E sono anche arrabbiata
perché non me ne avevi parlato prima.»
Di fronte alla sua espressione perentoria,
sbuffo anch’io. «Ah, Dio buono, non è possibile che mi perseguitiate tutte con
questa storia. Io vi dico che non c’è nulla che… oh, è il mio?» La suoneria del
cellulare mi interrompe e ringrazio mentalmente chiunque sia per avermi
salvato. Momentaneamente, lo so, ma almeno è già qualcosa. Magari le ragazze
saranno colte da un lapsus improvviso e dimenticheranno tutto, sì.
«Pronto?» Rispondo con un certo sospetto: non mi
piace parlare al telefono quando non conosco l’interlocutore.
«Salve, parlo con la signorina Wayne?»
«Sì, sono io. Mi dica.»
«Sono Mike Harris, agente immobiliare della House&House. So che sta valutando l’acquisto di un
appartamento, e avrei delle inserzioni da sottoporle, in due zone a lei
congeniali. Se vuole, possiamo prendere un appuntamento e vederci dove le è più
comodo per valutare le varie possibilità. Abbiamo selezionato degli affitti
molto interessanti, ma c’è anche qualche occasione nelle compravendite. Le zone
sono CoconutGrove e Coral Way, ma la ricerca può essere estesa ai quartieri
limitrofi, qualora non trovasse nulla di suo gradimento.»
Quando il tizio smette di parlare, resto
attonita come un pesce palla gonfiato a tradimento da una guida esperta di una
località turistica.
Rachel, Anne ed Eva mi scrutano cercando di
capire con chi sto parlando, ma non riesco nemmeno a mimare loro un indizio per
farglielo capire. Sono… stordita.
«Io non ho mai chiamato la vostra agenzia.»
Replico, e il tipo dall’altra parte ridacchia tranquillo, come se sapesse che
gli avrei fatto questa domanda.
«Lo so, signorina Wayne. Qualcun altro l’ha
fatto per lei, e sono sicuro che ha le migliori intenzioni. Quello col quale
sto chiamando è il mio numero personale, la prego di richiamarmi per fissare
quell’appuntamento. Siamo – e sono – a sua completa disposizione.»
«Ahm, d’accordo.» Balbetto, poco convinta.
«Grazie.»
Riattacco senza averci capito molto.
«Chi era?»
«Mh, nessuno.» Bofonchio, riempiendomi la bocca
con del cibo. «Avevano sbagliato numero.» Continuo, mentre mastico.
L’espressione che accomuna le tre Moschettiere
mi fa abbassare lo sguardo dall’imbarazzo. Va bene, è chiaro che non se la sono
bevuta.
«Era un agente immobiliare. Voleva... mhmm...
propormi un lavoro.» Bevo un sorso d’acqua ma la loro espressione non è mutata
di una virgola. Da quando in qua non riesco più a dire bugie e risultare
credibile?!
«E va bene! Era un agente immobiliare e mi ha
proposto degli appartamenti. Deve averlo chiamato Christian.»
«AAAAAAAAH!» Athos, Porthos e Aramis urlano in contemporanea,
portandosi le mani alla bocca. «Ma è dolcissimo!»
Scuoto la testa contrariata. «Non doveva farlo.
Si è intromesso nelle mie cose personali, sono molto arrabbiata.»
«Non è vero. Sei calma come un elefante
anestetizzato e sotto sotto sei anche lusingata.»
Pigola Anne, puntandomi il dito contro.
«E non c’è niente di male nell’intromettersi
nelle tue cose personali. Magari si intromettesse nelle mie!» Questa, ça va sans dire, è mia sorella. E per
“cose personali”, naturalmente, non intendeva la casa.
«Ma è possibile che pensi solo a quello?»
Sbuffo, e le lancio un fazzoletto in faccia. Lei sta per rispondermi ma un
nuovo suono del mio cellulare la blocca. Mi è arrivata un’e-mail. È di
Christopher.
Oh. Wow.
«Cos’è quella faccia? Che hai visto? Fai vede-
oh Signore Onnipotente.»
All’affermazione di Eva, le altre due comari si
sporgono verso il mio cellulare, sul cui schermo compare una delle due foto che
Christopher ha fatto a me e Christian alla festa di fidanzamento. È quella per
la quale abbiamo posato, sulla sedia a sdraio. Mentre parlavamo del nostro...
bacio.
«Perdo bava dalle orecchie.»
«Siete... bellissimi!»
«HAI IL SUO CARDIGAN ADDOSSO?!»
Tre commenti in contemporanea mi fanno avvampare
e rabbrividire al ricordo.
«Quel cardigan l’ho visto a casa tua stamattina!
Ce l’hai ancora! Non l’hai restituito! Ah-HA! SCOPERTA!» Trilla Eva impazzita
con lo sguardo trionfante di chi ha risolto un mistero.
«Volevo lavarlo prima di renderglielo.» Rispondo
semplicemente, smorzando il suo entusiasmo. Nel frattempo, scorro la pagina e
sullo schermo appare una seconda foto, che Christopher ha scattato mentre
ballavamo. Mentre ne osservo ogni frammento, il mio cuore batte più veloce.
«No, ma avete notato quanto è da stupro?» No.
Anne non può aver pronunciato questa frase. Esci da questo corpo!
«Ma da stupro violento, del tipo con
l’aggravante!*» No, ragazze, qui si degenera!
«È romanticissima questa foto, lo vedi quanto
state bene insieme?» Mormora Rachel sognante.
Il mio sospiro dice più di quanto non voglia in
realtà, e quello che esce dalle mie labbra poco dopo è sicuramente inaspettato.
Per tutte e quattro.
«Ci siamo baciati.»
Com’è possibile che ogni espressione di stupore
sul loro viso cambi a seconda della notizia recepita? Potrei farci un book
fotografico con le loro facce da pesce lesso.
«COSA?!» Okay, mi correggo: quella è una faccia da maniaca assassina.
«Tu… voi… dopo…
quando? Perché? Come? Cioè, intendo… oh mio Dio!» La
reazione sconnessa di Anne mi fa sorridere, un po’ per l’imbarazzo, un po’ perché
mi sento in colpa per non averglielo raccontato. Spiego brevemente com’è andata
la situazione, a partire dallo pseudo salvataggio al Vagabond, prima dai tizi
russi e poi da Ethan.
«Io lo amo.» Mormora Eva sognante, poggiando il
viso sui palmi delle mani.
«E… com’è stato? Hai avuto le farfalle nello
stomaco? Ti è piaciuto? Bacia bene?» Rachel sbatte gli occhi interessata e io
mi mordo il labbro. Deglutisco a vuoto un paio di volte, per trovare il
coraggio di dire che…
«Non me lo ricordo.»
Le tre Marie sono sempre in sincrono, quando
reagiscono a una mia frase. Stavolta, poggiano la fronte sulla mano con un’aria
disperata, esasperata, senza speranze. Sì, abbiamo capito il concetto. Alle tre
si unisce Violet che, essendo un esserino virtuale,
può permettersi un triplo salto mortale sul pavimento.
«Solo tu, Elettra Wayne. Solo tu.» Commenta
Anne, scuotendo la testa. «Io non so più cosa fare con lei, davvero.»
Il tono serio che usa tocca una corda sensibile dentro
di me. «Ma cosa volete che faccia? Tu, Anne, cosa vuoi che faccia?» La mia voce
si sta incrinando. E questo non va bene. «Lo sai perché non ci riesco… tu lo sai.» Mi blocco, schiarendo la gola. Sono
stufa di essere etichettata come la svitata asociale di turno, se non riesco a
lasciarmi andare c’è un motivo e questo motivo lo conoscono entrambe. Eppure
non mi lasciano in pace...
Anne mi prende la mano, comprensiva. Eva espira
lentamente, con l’aria di chi si sta mantenendo dall’urlare qualcosa. So che
odia quell’essere ignobile del mio ex più di chiunque altro, e le prudono le
mani solo a pensarci.
«È stato più di un anno
fa, Elettra… devi andare avanti.» Mi sta dicendo
Anne, stringendo la mia mano. La ritiro, per passarmela sul viso.
«Perché, c’è una
scadenza? Christian non è stato l’unico a mostrare una sottospecie di
interesse, in tutto questo tempo, perché dovrebbe essere diverso dagli altri?»
Questa è una domanda che non ho mai voluto fare ad alta voce. Forse ho paura
della risposta, che in fin dei conti so di conoscere. Anne mi sorride
dolcemente.
«Perché ti fa battere il
cuore, ti fa arrossire, ti sa zittire ma ti fa essere te stessa. Perché
potrebbe essere il tuo modo per voltare le spalle al passato e iniziare la tua
nuova vita qui.»
Lo sapevo. Dio, sto per
piangere. No, Elettra. No.
Sollevo lo sguardo per
un po’ e poi torno a guardare le tre ragazze meravigliose che, nonostante
tutto, sono al mio fianco. Rachel non conosce i precedenti, ma come al solito
sa sempre cosa dire.
«Sai cosa ho letto,
ultimamente? Coelho. E una frase mi ha colpita molto, diceva: “Non si
deve giudicare un amore futuro in base alla sofferenza passata”. Credo che
dovresti rifletterci. Io non so molto di te, di quello che è successo un anno
fa, ma loro sì. Eva è tua sorella, Anne tua cugina. Non credi che vogliano il
meglio per te? Non credi che sappiano cosa è giusto per te?»
«Oh, sì. Io lo so cos’è
giusto.» Eva mi salva ancora una volta, e so che l’ha fatto apposta per
salvarmi dal dover rispondere a una domanda di per sé retorica. Ma,
conoscendola, mi lancerà dalla padella alla brace. «Infatti, dobbiamo
indirizzare il nostro shopping verso QUEL negozio lì.» Sbotta, scattando in
piedi e indicando quello che sembra un negozio di costumi e... intimo.
Oh, no.
Lo sapevo!
«Salve, posso esservi
d’aiuto?»
«NO!»
«Sì, grazie, vorremmo
dei completini super sexy per mia sorella. Niente rosso o bianco, tranne forse
per qualche fiocchetto qui e là.» Pigola Eva sfilando per il negozio in preda
all’estasi. Questo posto è enorme! Una Rinascente dell’underwear!
«E niente prugna.»
Aggiungo, atona. Era il colore preferito di Giovanni. Aveva anche un colore
preferito per il mio intimo. Dio, come sapeva essere fissato.
«Già, niente prugna.
Prego. Ci guidi lei.» La commessa non se lo fa ripetere due volte e inizia a
raccattare reggiseni, culotte, babydoll e chi più ne ha più ne metta mentre io
osservo la scena con sommo orrore e panico negli occhi. Noto – purtroppo – che
il negozio ha anche cose da uomo, e me ne accorgo dalla presenza di ragazzi
allupati che studiano i reggiseni valutandone l’indossabilità di chi li sta
acquistando.
«Io vado a cercare
qualche costume!» Dichiara Anne, sparendo nel reparto apposito insieme a
Rachel. Ma che brave, mi hanno lasciato con la mia carnefice e la sua nuova
amica diabolica!
«Prova questo! È
favoloso!» Eva solleva un... cos’è questo?
«Ma non ti piacciono i
due pezzi normali? Devono per forza essere... collegati?» Indico la fascia di
pizzo e velo che unisce i due pezzi rendendo il tutto molto più... aggressivo.
Eva mi ignora e la commessa sbatte le palpebre confusa.
«Mia sorella è poco
donna in queste cose.» Commenta Lucifero, suscitando una risatina nasale
nell’altra.
«Cosa?! Ma come ti
permetti! È solo che... mi sembra esagerato. Non mi deve vedere nessuno!»
Piagnucolo. Nessuno mi capisce!
«Quando avrai questo
addosso ti sentirai talmente sensuale che ti vorranno vedere tutti, credimi.»
Interviene la commessa con un sorriso abbastanza convincente. «Provalo.»
E così finisco nel
camerino con cinquecento completini da provare, che solo a pensare a tutto quel
pizzo mi viene l’ansia. Il pizzo mica è tanto comodo, specialmente quando si è
tutte depilate...
Okay, basta. Devo
provarli. Uno alla volta ce la farò.
Sono Elettra Wayne, no?
«Eva?»
Al richiamo “della
foresta”, la tenda del camerino si apre in uno scatto fulmineo, facendomi
balzare all’indietro dallo spavento.
«WOW. Sei una figona!»
Ho iniziato da quello che mi sembrava il più semplice dei completi: reggiseno e
culotte beige con inserti bordeaux. Va bene, non è male. Carino.
«Ti sono cresciute le
tette?» Eva si avvicina al mio decolleté e affonda il dito in un seno. «Che
stronza. Ti sono cresciute le tette. Ancora!»
«Ma che dici...» Le
allontano la mano e chiudo la tenda, per provare un altro completo. Andiamo con
un babydoll, va.
Ci stai prendendo gusto, ammettilo.
Mhmm...
FAI USCIRE LA BOMBA SEXY CHE È IN TE E FALLO MORIRE!
Chi?
Il peluche di Winnie the Pooh, Elettra. Christian! Chi
sennò?!
Ma che c’entra
Christian?!
C’entra sempre Christian. Spero che c’entrerà, Christian.
ENTRA, CHRIST-
Molto bene.
Mi hai censurata?!
Quando è troppo è
troppo.
Uhm, questo è proprio
carino. È un babydoll con reggiseno di raso beige e nero, aperto sul davanti.
Sotto ha una mutandina meno striminzita di quella precedente, con una parte
velata al centro. Dio, che vergogna.
«Eva?» Pigolo,
attendendo l’apertura tempestiva della tenda. Che non avviene.
«Eva?» Ripeto, scostando
un po’ il tessuto per sbirciare nel corridoio dove sono situati i camerini.
Dov’è andata quella disgraziata? Sbuffo, guardandomi allo specchio. Non del
tutto convinta dell’effetto push up. Mi saranno davvero cresciute le tette?
Guarda qua!
«Eva?!» Ringhio, e
decido di affacciarmi di nuovo in corridoio. È deserto, accidenti. Ora la vado
a prendere per i capelli, lo giuro. Prima mi costringe a provare questa roba
che al momento non mi serve e poi
sparisce. Ma si può?
Quando metto piede fuori
dal camerino e avanzo di un passo, mi domando se questa zona sia solo per la
prova femminile o anche quella maschile. N-non credo che...
«Tony? Hai finito?»
Succede tutto così in
fretta che non ho neanche il tempo di urlare, arrossire o scappare.
«Mmmh, sì. Il costume lo
prendo. Che dici, mi sta bene lo slip con la proboscide?»
O vomitare e ridere contemporaneamente.
Davanti a me, nello
spazio ricoperto da una morbida moquette rossa che accomuna i camerini di
prova, c’è Tony, in canottiera bianca e uno di quei ridicoli slip con, per
l’appunto, la “proboscide” e le orecchie di un elefante – ROSA – che sfila con
la fierezza di un Tarzan metropolitano davanti a... Christian, che è sbucato
praticamente dal nulla.
E io voglio morire. Ora,
subito, per favore.
Non è possibile che lui
sia qui. Mi sta seguendo. È uno stalker! È l’unica dannatissima spiegazione!
Non riesco a muovermi e a smettere di pensare a tutto quello che mi hanno detto
Anne, Eva e Rachel. La telefonata dell’agente immobiliare. Christian. Il quasi-bacio di venerdì alla festa. Il bacio che non ricordo
della sera prima. DIO! Sto impazzendo.
«Cosa vedono i miei
occhi? Elettra Violet Wayne? Sei
proprio tu?» Tony mi si para davanti con la... proboscide e le mani sui fianchi
e mi guarda scioccato.
PERCHÉ NON HO LA FORZA DI MUOVERMI DA QUI?!
«Beh, Wayne. Sempre detto
che hai ottimi gusti.» Stavolta si rivolge a Christian, dandomi le spalle e non
solo. Sì, mi riferisco al suo sedere.
Christian è nella stessa
posizione in cui l’ho visto quando è comparso all’improvviso: sul viso
un’espressione divertita – probabilmente dovuta alla vista esilarante di Tony –
coperta da una mano che si è portato alla bocca, dopo aver visto me. Quando
incrocio il suo sguardo, la mano va a grattarsi la nuca. Così come io non
riesco a muovermi, lui non mi stacca gli occhi di dosso.
«Saltatevi pure addosso,
eh. Io assisto con piacere. Se volete, intervengo anche. Sono già pronto!» Tony
si indica con un sorriso smagliante, ed è quella frase che mi riscuote e mi fa
scappare nel camerino, desiderando di non uscirne mai, mai, MAI più.
«Christian, vedi? Ti sta
aspettando nel camerino.» Il cretino continua, mentre io mi spoglio di questo
sfigatissimo babydoll del cavolo.
«Vestiti e chiudi quella
bocca, idiota!» Sento che risponde Christian, e questo mi consola un po’.
«Scommetto che si sta
spogliando, vuoi vedere?» Quando queste parole mi giungono alle orecchie e
contemporaneamente vedo un’ombra al di là della tenda, ne stringo un’estremità
con la mano mentre con l’altra mi copro alla bene e meglio, sperando che non
apra.
«NON TI AZZARDARE O TI
RENDO UN EUNUCO IN MENO DI TRENTA SECONDI!» Strillo,
minacciosa, e devo trattenere una risata quando sento quella di Christian.
L’ombra, però, non si muove da lì.
Non sto per farlo.
No.
«C-Christian...?»
«Ele?»
Oooh. Qui qualcuno perde
battiti.
«Ehm, potresti per
favore controllare che il tuo amico imbecille muoia nel suo camerino invece di
invadere il mio mentre mi rivesto?» E mentre mia sorella si decide a tornare,
aggiungo mentalmente. Poi ci rifletto. No, speriamo di no! Se vedesse Christian
sarebbe la FINE. Porco spino, ma perché capitano tutte a me?!
«Non ti guarderà un
secondo di più.» La risposta di Christian mi fa battere il cuore come un
tamburo. «Spostati, malato!» Dice, la sua voce è più vicina. L’ombra di Tony si
sposta, sbuffando e piagnucolando – “Volevo solo controllare se, insomma, era
tutto così naturale anche senza pizzo e seta... l’ho fatto per te, sai!” – e al
suo posto resta quella di Christian. Dev’essersi appoggiato al muro che divide
i nostri camerini. Santo cielo, sto per morire per autocombustione.
L’idea che lui possa
sbirciare e vedermi nuda mi rende...
Eccitata.
NERVOSA.
Impaziente.
TERRIBILMENTE A DISAGIO.
Pffff... devo dire come ti rende realmente?!
TI CENSURO DI NUOVO.
«A cosa è dovuto questo
shopping sexy? Evento speciale? Dimmi che è per Christian. Il poverino non ce
la fa più, st-umurunudustusu-»
Tony ha iniziato a parlare di nuovo, ma fortunatamente pare che qualcuno gli
abbia tappato la bocca con la mano.
«Ma è possibile che tu
dica cazzate dalla mattina alla sera?» Questo è Christian; il suo tono di voce
ha un che di esasperato. Tony è insopportabile, santo cielo! È peggio di mia
sorella. Se quei due si conoscessero sarebbe una catastrofe. Il mondo
imploderebbe per tanta esuberanza e irriverenza.
Mentre sto chiudendo la
zip del pantalone, l’ombra torna ad accostarsi alla tenda.
«Noi andiamo. Scusa per…
prima.» Mormora Christian, anche se non sembra per niente dispiaciuto. Scosto
la tenda e lo guardo con un sopracciglio alzato. Lui sta sorridendo.
«Se posso, comunque... complimenti.»
Aggiunge, e mi fa l’occhiolino. «Ci vediamo domani.» E sparisce, come è
abituato a fare. Tony esce dal camerino e mi lancia un’occhiata soddisfatta con
quella faccia da schiaffi che si ritrova, poi raggiunge l’amico.
A.A.A. versione 2.0: Cercasi
lingua di Elettra.
«Non ho parole.» Dico,
guardandomi allo specchio. «E sto parlando anche da sola.»
«ELEEEEE!» Questa è la
voce della sciagurata di mia sorella. Dove si era cacciata in tutto questo tempo?!
Cavolo, ha mancato Christian per un pelo. Quando svolta l’angolo della zona dei
camerini, dietro di lei fanno la loro comparsa le altre due, cariche di roba.
«Indovina?! Scorta di costumi! Perché ti sei vestita?! Fila subito nel camerino
e provali TUTTI!»
***
A fine giornata posso
dire di aver speso quasi un intero stipendio, e adesso mi fanno male le braccia
per il peso di tutte le buste che mi ritrovo.
«Ele, fermiamoci un
secondo qui, voglio prendere un regalo a papà.» Dichiara Eva, trascinandomi
verso il negozio di Tommy Hilfiger.
«Papà non è tipo da
Tommy Hilfiger.» Commento, storcendo il naso nel vedere il tipico stile
“preppy” del marchio.
Eva alza un maglioncino
a righe bianche e blu e sorride. «Non dire sciocchezze. Tutti sono tipi da Tommy
Hilfiger.»
«Anche Christian.» La
butta lì Rachel, come se le fosse scappato. Alzo un sopracciglio, mentre Anne
intercetta lo sguardo di Rachel e sorride. Ignorerò questa frase e nessuno
pronuncerà più quel nome, sì. Ecco il mio nuovo proposito. Anche e soprattutto
perché non ho raccontato a nessuno dell’incontro nei camerini e muoio dalla
voglia di dirlo. Ma NON LO FARÒ.
«Qualcuno ha parlato di
regalo al megafusto? Sìììì, che idea geniale! Dai il cinque, Rach!» Eva e
Rachel battono la mano e io le guardo inespressiva. «Cosa puoi regalargli?
Mhmm. Una cintura? Un portafogli? Un paio di occhiali da sole? Ce li ha già?»
Eva sembra aver già dimenticato la faccenda del regalo a nostro padre e si sta
lanciando verso il reparto accessori con la stessa leggiadria di una mandria di
tori.
«Ma sei fuori di testa?
Perché mai dovrei fargli un regalo?!» Sbraito, assolutamente contraria.
«Perché ti offre sempre
il caffè.» Suggerisce Rachel, nella speranza di convincermi.
Scuoto la testa. Ah-ha.
Pessimo motivo. «C’è la convenzione.» Rispondo, con una linguaccia.
«Beh, se non ci fosse te
lo offrirebbe ugualmente. E poi te lo porta in ufficio.» Insiste lei,
incrociando le braccia al petto.
«E per questo io dovrei
regalargli un portafogli?! Ma stiamo scherzando?» Ma si rendono conto che un
regalo del genere è da fidanzati? Vedo che hanno una cosa in comune con
Christian, tutte e tre: i popcorn al posto del cervello.
«Beh, magari non un
portafogli... però...» Mentre Anne sta valutando titubante il da farsi, Eva mi
lancia qualcosa centrando in pieno il mio viso. Afferro la cosa morbida e la guardo torva: è una cravatta.
«Compragli questa.»
«Ma perché?!»
«Perché è carino con
te!»
«Carino un corno! È una
persecuzione, è irritante, mi mette a disagio e io non lo sopporto!»
Eva, Anne e Rachel mi
guardano col sopracciglio alzato. Okay, non credo a nessuna di quelle cose,
tranne forse alla prima. È vero che mi perseguita.
«Allora comprala per
strozzarlo. Meglio?!» Sbuffa Rachel, alzando le braccia al cielo.
«O legarlo a letto e...»
«EVA!»
MA HA RAGIONE!
«Oppure può
semplicemente usarla per una conferenza, è molto elegante come... ehm... perché
mi state guardando così?» Eva e Rachel stanno osservando Anne con l’espressione
di chi guarda un caso perso. «Volevo trovare un motivo per convincerla. Di
certo non la convincete con la scusa del sesso sadomaso!» Sbotta, e io scoppio
a ridere per il tono isterico che ha usato.
«Questo è vero.» Faccio
spallucce, appoggiando mia cugina.
«Però secondo me gli farebbe
piacere, dai. Comprala, mal che vada la regali a Cooper!» Mi incoraggia Anne,
usando il suo tono dolce e persuasivo che funziona con tutti e persino con me.
Mh. D’accordo, potrei regalarla a Cooper. È un avvocato, dopotutto... queste
cose le usa. Osservo la cravatta, i colori, la fantasia elegante ma particolare
e non posso fare a meno di immaginarla addosso a Christian.
«D’accordo. Mettiamo
fine a questo strazio.» Sollevo la cravatta con una finta espressione
trionfante e le tre saltellano felici mentre ci avviamo verso la cassa per
concludere questa giornata di shopping decisamente folle.
**********
La settimana inizia con un gran bel sorriso
positivo. Avere Eva tra i piedi, nonostante tutto, mi era mancato troppo, e mi
fa dimenticare tutte le cose spiacevoli. Questa mattina l’ho lasciata che
dormiva placidamente sul mio cuscino – per qualche oscuro e malsano motivo le
ho strappato di mano il cuscino dove ha dormito Christian, e lei mi ha guardato
come se fossi decisamente fuori come un citofono, ma non le ho dato nessuna
spiegazione. Anche perché, ora che ci penso, è stato un gesto irrazionale che
mi sto spiegando solo adesso – e sono uscita lasciandole la colazione pronta
sul tavolo.
Mentre attraverso la strada per arrivare
all’edificio che ospita la MP, un po’ di positività se ne va a quel paese
quando una fitta mi attraversa l’addome, strappandomi un gemito. Dannato ciclo
e dannato sangue e dannato tutto. Ma perché dobbiamo soffrire così, perché?
Perché gli uomini non devono avere una parte in tutto questo? Ne faccio una
questione di stato ogni mese, lo so, ma è una faccenda che davvero mi fa
saltare i nervi.
Speriamo che l’antidolorifico faccia effetto,
altrimenti l’Elettra positiva e sorridente lascerà il posto all’Elettra di
sempre, quadruplicata nel nervosismo e nell’irritabilità. E non è un bel
vedere, ve lo assicuro. Nemmeno un bel sentire, se è per questo.
Ma insomma.
«Buongiorno.» Saluto Alexandra con un sorriso,
passo a salutare Tony nel suo ufficio e mi fermo a guardare il lavoro di Danny
e Mike complimentandomi con loro, sinceramente colpita dalla loro bravura. Una
volta tanto, entro anche nello studio di Christian e gli rivolgo un buongiorno
e un sorriso, ricevendo in cambio un’occhiata perplessa.
«C’è qualcosa che devo sapere? Ti senti bene?»
Alzo gli occhi al cielo, ignorando il suo
sarcasmo, e gli dico che dopo devo parlargli.
«Quando vuoi.» Sorride sghembo e mi saluta con
un occhiolino.
«Ciao Lily!» Dispenso baci e sorrisi anche alla
mia collaboratrice, che mi guarda stranita. Oh, andiamo, non posso essere così male di solito da lasciare tutti di
stucco con qualche sorriso in più! O forse sì? Mah. «Passato un bel weekend?»
Le chiedo, mentre accendo il computer. Lei annuisce, decisamente felice.
«Molto bello. Devo ringraziare Christian per
averti portato con sé venerdì sera…» Arrossisce, al
ricordo di ciò che è successo e che evidentemente sta per raccontarmi. «Danny
mi ha baciato. Ci siamo baciati. CI SIAMO BACIATI,
capisci?!» Viene verso di me e mi afferra per le spalle scuotendomi mentre
ripete circa venti volte che si sono baciati. Le fermo le braccia e annuisco,
sorridendo al suo entusiasmo.
«Va bene, va bene, ho capito!» Ridacchio. «E
siete stati insieme anche sabato e domenica?»
Lei torna svolazzando alla sua scrivania. «Sì.» Mormora,
poggiando il volto sognante sulle mani. Le sue guance si imporporiscono di
nuovo, lasciandomi intendere il tipo di incontro che è avvenuto tra loro.
«Bene, non voglio sapere altro.» Dico con
un’occhiata che parla al posto mio e lei mi fa una linguaccia.
«E tu? Sei parecchio di buonumore stamattina,
hai avuto un weekend di fuoco anche tu o cosa?» Mi guarda maliziosa. Io scuoto
la testa.
«Sei fuori strada. È venuta mia sorella da Roma
a trovarmi.»
«Oh, che cosa bella!»
«Sì, davvero. AH-» Mi porto una mano alla bocca e una alla pancia avvertendo lo
spasmo che mi fa quasi piegare in due dal dolore. Mugolo qualcosa e torno a
respirare dopo qualche secondo, quando i tessuti si distendono. «Cazzo che
male.»
«Ciclo?» Le donne si capiscono al volo, non c’è niente
da fare. Annuisco, purtroppo, e lei mi guarda comprensiva. «Hai preso
qualcosa?»
«Sì, ma avrebbe dovuto già fare effetto. Devo
solo distrarmi.» Apro la casella di posta e l’occhio cade su un e-mail già
letta che come oggetto ha una sola parola: foto.
Il mio indice si muove da solo sul mouse, cliccando su quella parola e
lasciando che la pagina si carichi. Il volto sorridente di Christian e quello
timido, stralunato e incantato che purtroppo appartiene a me mi guardano dallo
schermo, e sembra proprio che vogliano dirmi qualcosa. Passo il dito sulla
rotellina del mouse e la foto cambia, mostrando i nostri profili. Mi perdo a
guardare la linea perfetta del naso di Christian, la piccola curva delle sue
labbra, la mascella forte, il codino sbarazzino. Sussulto per l’accenno di una
nuova fitta che però riesco in qualche modo a fermare “spingendo” il dolore
verso il basso, come avevo letto in un articolo su internet. Sembra funzionare.
Chiudo l’e-mail e mi metto a lavorare, promettendomi che alle undici in punto
andrò da Christian.
***
«Sono le undici e cinque, Ele.»
Sollevo lo sguardo dal manoscritto e guardo
sorpresa Lily. Le avevo chiesto di avvisarmi alle undici, ma non credevo che arrivassero
così presto! Bene. D’accordo. Manteniamo fede alle promesse fatte, su.
Quando busso alla porta di Christian e non
ricevo risposta, abbasso la maniglia sentendomi una piccola ladra e la apro
piano, sbirciando con un occhio solo. Christian è in piedi davanti alla
finestra e sta parlando al telefono, di spalle. Entro in punta di piedi e
chiudo la porta il più silenziosamente possibile. Con la leggiadria e l’agilità
di Catwoman, mi avvicino a lui facendo attenzione a non fargli vedere il mio
riflesso nella grande vetrata. Quando gli circondo la vita con le braccia, lui
trattiene il respiro per un istante e si volta a guardarmi, rilassandosi subito
dopo.
«Ascolta, ti richiamo… sì, a presto.» Riattacca
e infila il telefono in tasca, poi poggia le sue mani sulle mie e sfrega piano
i pollici sulla mia pelle liscia.
«Mi hai spaventato. Qual buon vento ti porta da
me?» Mi chiede e io mi allontano, scivolando a sedermi sulla sua comodissima
sedia con un sorriso. Lui si appoggia alla scrivania, le nostre gambe si
sfiorano. In quel frangente, ripenso all’“incidente” del camerino. Prima che il
pensiero si espanda e mi faccia avvampare come una scolaretta, mi decido a
rispondere.
«Hai chiamato l’agenzia immobiliare per me?»
Vado dritta al punto, come sono abituata a fare. Con lui, poi, figuriamoci.
Lui sorride colpevole e annuisce. «Ti hanno
richiamato?»
«Sì. Mi hanno proposto un paio di appartamenti a
CoconutGrove e a Coral Way, le conosci come zone?»
«Caspita, sono stati veloci…
sì, avevo proposto io qualche zona per affinare la ricerca. A CoconutGrove abita Tony, e mi
sembra anche Thomas. Forse Thomas è più vicino a East Havana, però. Coral Way è dove abito io.» Spiega, abbassando leggermente
il tono della voce sull’ultima frase. Ha proposto anche il quartiere dove abita
lui…
«Mhmm…» Mi giro sulla
sedia mentre rifletto. Farò una ricerca per confrontare le zone, magari la
scelta sarà semplice perché una non è servita dalla metro, oppure la stazione è
troppo lontana… ma conoscendo Christian, chissà
perché, penso che ha dovuto valutare anche quello. «Ci penserò. Intanto grazie… non dovevi.»
«Sì invece, non posso permettere che tu stia in
quel quartiere. È orribile, Elettra. Spero che valuterai le proposte il più in
fretta possibile. Anzi, se hai bisogno di compagnia o di un passaggio per
andare a vedere gli appartamenti, tienimi presente.» Dice concitato. Io
annuisco distrattamente, mentre guardo le foto dello screensaver che stanno
passando sullo schermo. La maggior parte sono foto con Martin, Thomas e gente a
cui stringono la mano, forse scrittori che hanno vinto qualche premio. Di tanto
in tanto però c’è qualche foto personale. Davanti ai miei occhi scorre una foto
che ritrae Christian e una ragazza seduti su una panca in legno di quella che
sembra una casa di campagna. Lei è davvero stupenda. Ha i capelli un po’ più
scuri dei suoi e gli occhi azzurrissimi.
«Chi è?» Mi mordo l’interno della guancia subito
dopo aver realizzato di essermi espressa a voce alta.
«Mia sorella, Diane. Ero con lei al telefono.»
Sorride lui. L’immagine cambia, e stavolta sullo sfondo ci sono, oltre a loro
due, quelli che credo siano i suoi genitori.
«La mia famiglia al completo.» Lo sento dire, e
ciò conferma la mia intuizione. Mio Dio, sua madre è bellissima. Anche suo
padre, se è per questo.
Sono senza parole. «La vostra bellezza è quasi… preoccupante.» Alzo un sopracciglio nella sua
direzione e poi torno a guardare lo schermo.
Non l’avessi mai fatto.
Un primo piano che definirlo incantevole è
riduttivo riempie il monitor, catturando il volto di Christian con lo sguardo
lontano e un sorriso appena accennato.
Non è… legale. Non può
essere vero. Mi giro appena verso di
lui e poi di nuovo verso lo schermo. Poi ancora verso di lui. Sì, sembrano
proprio la stessa persona.
«Cosa c’è? Sono più brutto dal vivo? Lì ero a un
matrimonio, preparato bene…» Ridacchia passandosi due
dita sulla mascella. Sembra che creda davvero a un suo immaginario
imbruttimento.
«Oh, sì, sei decisamente inguardabile.» Scherzo
io, con un finto tono solenne. Trattengo a stento un commento inopportuno
quando la foto cambia ancora e mostra Christian insieme alla sposa, che
riconosco come sua sorella, e quello che dovrebbe essere suo marito. Loro due
sono bellissimi ma lo sposo è praticamente insignificante, specialmente
paragonato a Christian. È moro, non molto alto – forse un metro e
settantacinque – ha gli occhi chiari ma non come quelli del neo-cognato… tutto
sommato un bell’uomo, ma per favore fatelo togliere da lì perché Christian lo
fa sfigurare!
«Che bel vestito aveva tua sorell-oh. Mmm.» Ingoio la lingua quando
passa un altro primo piano di Christian, stavolta di profilo, serio, con la
mano che sfiora il lobo dell’orecchio. Cioè. «Vabbè.» Mi costringo ad alzarmi
prima di fare qualcosa di cui potrei pentirmi e cerco di ricordare per quale
altro motivo sono venuta qui. Ah, sì.
«Senza battute idiote su archi e frecce,
potremmo seriamente prendere in considerazione l’idea di attuare il nostro
piano per Rachel e Thomas?» Mi metto davanti a lui, con le braccia incrociate e
un’espressione che non ammette repliche. Vedo che il suo sguardo va oltre le
mie spalle, verso il basso. Sorride.
«Ehi, parlando del diavolo…
eccola lì! Ciaaao!» Agita la mano in segno di saluto
verso Rachel che ci guarda dalla strada. No, cazzo! Senza pensarci due volte,
alzo la mano e do uno schiaffo a Christian, cogliendo la guancia in pieno.
«Ma sei impazzita?!» Christian mi guarda
sbigottito e io, di spalle alla grande finestra, gli faccio segno di tacere.
«Se ci vede andare d’amore e d’accordo non ci
cascherà mai, stupido! Ora me ne vado, tu fai una faccia arrabbiata. O triste.
O quel che è. A dopo!» Esco dalla stanza fingendomi incavolata come una iena e
una volta in corridoio torno normale. Non arrivo neanche ad aprire la porta del
mio ufficio che il telefono inizia a squillare. Chi sarà mai? Mah, non ne ho
proprio la più pallida idea!
«Che c’è?» Rispondo, alzando gli occhi al cielo.
«Mi hai fatto male. Potevi almeno scusarti.»
«Dai, è stato più il rumore che altro! Tutti
quei muscoli e poi vuoi farmi credere di avere il viso ipersensibile?» Lily mi
sta già guardando con la faccia di chi mi minaccerà di morte se non le racconto
tutto non appena avrò riagganciato la cornetta.
«Non tirare sempre in ballo i miei muscoli, guarda
che lo schiaffo di una donna può essere incredibilmente doloroso.»
«Povero piccolo puccipuccibuuuh.
Vedi se Alexandra ha una pomata da metterti. Se glielo chiedi quella è capace
di percorrere l’intero quartiere strisciando sulle ginocchia pur di trovare una
farmacia.» Lo sento ridere dall’altro lato.
«Sei gelosa?»
«Prevedibile e scontato come i saldi di fine
stagione. Devo lavorare, ci vediamo a pranzo. E non ti scordare del piano
Cupido.» Dico sbrigativa.
«Signorsì sergente istruttore!»
Sorrido e riattacco. Sto per dire a Lily di non
chiedermi nulla ma il suono si blocca a metà strada lasciando spazio a un
lamento inarticolato, dovuto a una nuova contrazione del basso ventre, che mi
lascia senza fiato.
«Elettra? Oh Dio... vuoi... vuoi andare al pronto
soccorso?» Lily si avvicina, agitata, e mi stringe la mano mentre io torno a
respirare normalmente.
«No, no, tranquilla. Ho sempre avuto dolori
forti, ci sono abituata.» Sorrido ma le mie labbra tremano appena. Mi ci vuole
ancora qualche secondo prima di riprendermi del tutto.
Mal che vada aspetterò il pranzo e prenderò
un’altra pillola di ibuprofene. Per forza.
***
«Allora, sei pronto?»
«Sì signor caporale.»
«Ma la smetti?»
«Okay.» Sbuffa come un bambino. «Però ti ci vedo
con la tuta mimetica e la canottiera verde militare, tutta sporca di fango, un
fucile d’assalto sulla spalla e un cinturone di granate intorno ai fianchi.
Molto sexy.» Ammicca, facendomi avvampare. Altro che verde militare, qui siamo
al rosso arteria spappolata.
Sbirciamo cauti l’ingresso della caffetteria e
aspettiamo che manchino cinque minuti alla fine del turno di Rachel. In quel
frangente, Christian manda un messaggio a Thomas dicendo che Martin lo sta
aspettando alla fermata della metropolitana per consegnargli dei documenti.
«Ti ricordi cosa devi dire, vero?» Gli chiedo
mentre ci prepariamo ad attraversare la strada.
«Che sei inetta e ritardataria e per colpa tua
abbiamo perso un cliente.» Risponde, annuendo. «Cavolo, dovrei proprio
licenziarti.» Aggiunge, e io gli do una gomitata, a cui lui risponde con uno
schiaffetto sulla testa.
Okay, ci siamo. Facciamo attenzione a non farci
vedere da Rachel e io indosso già la mia maschera di incazzatura.
«È tutta colpa tua!» Grida Christian, una volta
arrivati sul marciapiede. Accompagna la frase con un lieve spintone che mi fa
indietreggiare.
«Non mettermi le mani addosso!» Replico, alzando
il tono della voce per adattarlo al suo. «Non è colpa mia! Io non lo sapevo, mi
è stata detta un’altra cosa!» Continuo, allargando un braccio per enfatizzare
la giustificazione.
Christian scuote la testa, incredulo. «Certo,
ora diamo anche la colpa agli altri! Tu sei qui da pochi mesi e vorresti
scaricare la responsabilità su chi lavora alla MP da anni?!»
Wow, devo ammettere che come attore non è niente
male.
Elettra, non ti distrarre.
«Non sto scaricando nessuna colpa, sto solo
dicendo che ho ricevuto un altro tipo di ordine, e-»
«Tu devi ascoltare solo quello che ti dico IO, e
devi fare esattamente COSÌ!» Sbotta lui puntandomi un dito contro.
Io mi passo le mani tra i capelli e mi volto,
come se stessi per piangere. In realtà sto per morire dalle risate. Con la coda
dell’occhio vedo Rachel che mi lancia sguardi stupiti e cerca di capire cosa
stia succedendo. Quando mi volto di nuovo, Christian alza il suo sguardo di
scatto, da un punto molto più in basso del mio viso.
«Mi stavi guardando il sedere?» Gli chiedo,
sbalordita. Lui si gratta la nuca e distoglie lo sguardo voltandosi a destra,
dove Thomas sta attraversando la strada.
«Stiamo litigando per un presunto mio errore e
tu mi guardi il SEDERE?!» Sbraito, restituendogli lo spintone di prima e
aggiungendo anche uno schiaffo sul braccio. Proprio in quel momento, Thomas ci
raggiunge e mi afferra per le spalle.
«Ragazzi, che sta succedendo? Va tutto bene?!»
«NO!» Strillo io, infervorata. Christian sta
trattenendo una risata con una nonchalance e un’eleganza che ho visto in pochi.
«Questo… idiota mi sta accusando di cose non vere, e io sono davvero STUFA di
tutto questo!» Urlo, sbracciandomi.
«Stai dicendo che sono un bugiardo?! Tu non sai
contro chi ti stai mettendo, Elettra!»
Siamo a pochi centimetri di distanza, e ci
stiamo contenendo come se potessimo prenderci a pugni da un momento all’altro.
A me
sembra che possiate prendervi a baci, da un momento all’altro.
«Ragazzi!» La voce di Rachel ci fa voltare. È
uscita dalla caffetteria con le mani puntate sui fianchi. Quando vede Thomas,
la vedo vacillare per un istante, ma si riprende subito dopo e viene verso di noi.
«Perché state litigando? Non mi piace che litighiate, entrate subito dentro e
chiarite da persone adulte! Vi preparo una camomilla.»
Io, ancora calata nella parte, incrocio le
braccia al petto e alzo il viso, boriosa. Thomas sorride e mi prende sottobraccio.
«Avanti, mi sembra un’ottima idea. Andate.» Dice, rivolto anche a Christian.
«Tu non vieni?» Chiede quest’ultimo, con una
nota ansiosa nella voce.
«Devo andare alla stazione a prendere quei
documenti…» Mormora Thomas, confuso.
«Oh, no, Martin mi ha richiamato per dirmi che
ti manderà un’e-mail. Vieni anche tu, serve qualcuno che mi mantenga nel caso
decidessi di strangolarla.» Si affretta a dire con un mezzo sbuffo, indicandomi
con un cenno del capo.
Serro le labbra per non ridere e Christian mi fa
l’occhiolino, gesto che Thomas e Rachel non notano perché troppo presi a
scrutarsi a vicenda.
Una volta entrati nel mio paradiso personale, ci
sediamo attorno a uno dei tavoli vicini all’ingresso e Rachel, sebbene abbia
finito il turno, ci prepara qualcosa da bere. Abbiamo dovuto insistere per non
farci preparare davvero due camomille.
«Ecco a voi. Vi siete chiariti?» Domanda,
sedendosi tra me e Thomas. La sua mano destra, pericolosamente vicina a quella
di lui, stringe convulsamente la tazza.
«Chiariti? Con lei?» Chiede ironico Christian
indicandomi col pollice. «Ah ah ah. Che battutone.»
«Ma stai zitto per favore.» Replico, piccata,
guardandolo male. Non sono del tutto sicura che si riferisca solo al finto
litigio di poco fa.
«Voi due dovreste passare del tempo insieme.
Parlarvi da esseri umani, senza il lavoro di mezzo e senza ansie o problemi...»
Prova a dire Rachel, esitante. Esitante perché ha visto la mia espressione.
«Senti chi parla.» Sorrido serafica spostando lo
sguardo dall’una all’altro.
Christian, fortunatamente, mi viene in aiuto.
«Questo venerdì c’è la band di un mio amico che suona al Dragonfly,
è un pub molto carino e loro sono davvero bravi. Dovreste andarci.»
«Anche voi, dovreste.» Ah, ma è guerra? Ora la
sistemo per le feste.
«Purtroppo non posso. Eh, già. Ho degli
appartamenti da valutare, anzi, ora che torno in ufficio devo chiamare l’agente
immobiliare per fissare l’appuntamento. Ma voi andate pure!»
Christian mi guarda aggrottando appena la
fronte, divertito. Intercettando il nostro scambio di sguardi, Thomas si volta
educatamente e si rivolge a Rachel, sorridendole.
«Vorresti andarci?» Sento che le chiede, prima
che Christian copra la sua voce dicendomi qualcosa.
«Dici sul serio per gli appartamenti?» So che mi
sta parlando per lasciare la dovuta privacy ai due – si spera prossimi –
piccioncini, ma pare che l’argomento gli stia ugualmente a cuore.
Abbasso lo sguardo sul tavolo e accenno un
sorriso. «Non costa nulla tentare.»
«Bella frase.» Replica lui, in una delle solite
frecciatine che purtroppo sortiscono il loro effetto. Ma non lo saprà mai.
«Ciò non toglie che mi stavi guardando il
sedere.» Lo guardo assottigliando le palpebre e lui scopre i denti in un
sorriso di sbieco.
«E questo cosa c’entra?» Ribatte tranquillo.
Faccio spallucce. «Non lo so, non sapevo cosa
dire.» Ammetto, ridacchiando. Lui sorseggia il suo caffè e si passa un dito
all’angolo della bocca.
«Le tue strategie di difesa sono formidabili.»
Le piccole rughe di espressione intorno agli occhi che accompagnano il suo
sorriso catturano per qualche secondo la mia attenzione.
«Mi stai prendendo in giro?» Domando quando mi
riscuoto.
«Un po’.» Risponde, per poi prendere il
cellulare dalla tasca. Dal tipo di suoneria, dev’essergli arrivato un
messaggio. Osservo l’azzurro dei suoi occhi che scorre attento sul display, poi
guarda di sottecchi Rachel e Thomas, che stanno continuando a parlare.
«Io rientro, devo chiamare la tipografia. Vieni
con me?» Dice, a voce più bassa per non farsi sentire da Thomas. Annuisco, voglio
lasciarli da soli.
«Ragazzi, noi andiamo, abbiamo delle cose da
fare. Tom, ci vediamo dentro. A presto, Rachel.» Christian si china su di lei
per darle un mezzo abbraccio e io la saluto con un bacio svolazzante ed
eccitato per lei. È in visibilio, e il rosso Thomas non l’ha ancora
abbandonata, ma so che se la caverà benissimo. Prima di varcare la porta della
caffetteria, le faccio un gesto d’incoraggiamento col pollice alzato e le dico
di farmi sapere.
«Siamo stati bravissimi.» Gongolo soddisfatta, mentre
saliamo le scale del nostro edificio.
«Non abbiamo avuto nemmeno bisogno di recitare.»
Commenta Christian, e io lo guardo accigliata. Poi mi passa un braccio sulle
spalle e mi stringe delicatamente. «Sto scherzando, stupidona.»
Il sorriso che gli rivolgo non è altro che
un’ombra di quello che avevo in mente. È più simile a una smorfia di Joker che
a un sorriso serio. La fitta che mi coglie è più dolorosa e più lunga di quelle
precedenti, e sono costretta a fermarmi a metà rampa e aggrapparmi al corrimano
col respiro mozzato.
Quando Christian se ne accorge, un gradino più
in alto, si precipita accanto a me, sostenendomi per la vita.
«Elettra? Cos’hai? Cosa ti fa male? Elettra,
guardami!» Sento la sua mano sul viso e avverto una lacrima indugiare nel mio
occhio sinistro prima di rotolare giù senza che io possa fermarla. «Elettra?
Cazzo, ora chiamo qualcuno...»
«NO!» Esclamo, per quanto il dolore mi consenta,
e Christian si ferma. Salgo due gradini col suo aiuto e, per quanto gli spasmi
non accennino a diminuire, penso che devo solo arrivare alla mia borsa e
prendere un antidolorifico. Ce la posso fare.
Devo anche andare in bagno a cambiarmi. Mi sento
un lago tra le gambe. Dio, spero di non essermi sporcata. Quando Christian
spinge la porta a vetri, Nancy accorre immediatamente al nostro fianco.
«Che è successo? Non sta bene?» La sua voce è
lontana, o le mie orecchie ovattate. Non saprei dirlo. Il volto di Christian
davanti a me è pieno di macchie gialle fosforescenti, che cambiano posizione a
ogni battito di ciglia.
«S-sto bene. Devo solo... prendere... ah-» Se le sue braccia non mi avessero
sostenuto, sarei sicuramente caduta in ginocchio. Premo forte le mani
sull’addome, avvertendo il dolore in ogni punto, sopra, sotto, dentro... tanti
coltelli e il fuoco che brucia. Una gocciolina mi percorre la nuca, sto
iniziando a sudare freddo e quindi probabilmente tra poco perderò i sensi. Non
voglio. Devo... sedermi soltanto. Devo solo...
~
Anne POV
Guardo Eva uscire dal camerino e batto le mani,
entusiasta. Questa maledetta ha un fisico da paura, accidenti! Sta provando un
vestito talmente corto che a me, col bel sederino che mi ritrovo, arriverebbe
praticamente poco sotto l’ombelico. Ma Cooper non si è mai lamentato del mio
didietro... prosperoso. No, in effetti dice sempre che-
«Secondo te mi fa le gambe grosse?» La mia
statuaria cugina gira su se stessa, osservandosi perplessa le gambe lisce e
toniche. Incrocio le braccia e faccio roteare gli occhi.
«Oh, sì, ma guardati! Sembri Adele che ha
mangiato la Aguilera!» Commento ironica, e lei mi sorride mordicchiandosi un
labbro.
«Allora
lo prendo?» Annuisco fino a rischiare la paralisi e lei torna in camerino a
spogliarsi. La vibrazione nella tasca del jeans mi fa sussultare. Con non poco
sforzo riesco a estrarre il cellulare – Dio quanto può essere stretta una tasca – e sorrido leggendo
il nome di Elettra. Chissà cos’avrà combinato quella disgraziata ora. Scommetto
che sta ancora mandando ai matti quel povero dio greco...
Il silenzio dall’altra parte mi fa aggrottare la
fronte. Sto per ripetere quando una voce maschile riempie il microfono. «Ah...
parlo con Anne? La... cugina di Elettra? Sono Christian Wayne, un suo
collega...»
Non so perché le mie guance si colorano di rosa,
sentendo quel nome e associando tutto quello che mi ha detto Elettra a quella
voce. Poi però torno a concentrarmi sulla telefonata: come mai sta chiamando
col suo cellulare?
«Sì, sono io... mi dica.» Vorrei dirgli di darmi
del tu, ma non mi sembra il caso per telefono.
Quello che sento poco dopo mi fa rabbrividire da
capo a piedi, e ogni altro pensiero viene dissolto, lasciando spazio a un puro
terrore.
«Elettra è in ospedale.»
***
Corro nell’atrio del Jackson Memorial Hospital e nella foga investo un paio di
infermiere. Chiedo frettolosa dove sono gli ascensori e loro indicano il
corridoio alla mia sinistra. Cooper ed Eva mi stanno dietro, quest’ultima
pallida come un lenzuolo.
Quando le porte dell’ascensore si aprono sul
terzo piano, muoviamo qualche passo avanti, incerti sulla direzione da
prendere.
«Anne?» Una voce, la stessa voce con cui ho
parlato al telefono pochi minuti fa, ci fa voltare. Dal corridoio alla nostra
destra compare Christian Wayne, in tutta la sua affascinante presenza. In una
situazione diversa dovrei prendere qualche fazzoletto e portarlo alla bocca per
non perdere liquidi, ma adesso mi limito solo ad andargli incontro. Quando vede
me ed Eva, indugia titubante con la mano a mezz’aria.
«Sono io Anne, lui è mio marito Cooper e lei è
mia cugina Eva, la sorella di Elettra.» Gli vengo in aiuto e lui stringe la
mano a tutti e tre. Ha un’aria preoccupata e il colletto della camicia
allargato, come se l’avesse allentato in un momento di agitazione.
«Cosa... cosa è successo?» Mormora Eva in
italiano, invogliandomi a chiedere qualche notizia a Christian. Lui le risponde
direttamente, sorprendendoci con una padronanza della lingua quasi perfetta.
«Elettra si è sentita male dopo pranzo... mentre
salivamo le scale ha lamentato delle fitte all’addome e pochi minuti dopo è
praticamente svenuta tra le mie braccia.» Spiega, passandosi una mano sulla
fronte. «L’ho portata subito qui, io... non sapevo... ora è in sala operatoria,
credo si tratti di ginecologia. Una nostra collaboratrice ha spiegato meglio i
sintomi di Elettra e ci hanno portato qui, questo dovrebbe essere il reparto
ginecologia e ostetricia...» Si guarda intorno come a cercare un’indicazione.
In quel frangente, una giovane ragazza viene fuori da un altro corridoio e si
avvicina a noi.
«È lei la collaboratrice di cui parlavo. Lilian
Bradshaw, una nostra stagista. È stata con Elettra tutta la mattina, e ha detto
che ha accusato dolori da subito, vero?» Le domanda e lei annuisce.
«Sì, lei mi ha detto di...» guarda i due uomini,
incerta, poi prosegue «...di avere le sue cose, e che ha sempre avuto dolori,
ogni mese... quindi non si preoccupava più di tanto. Poi però le fitte sono
aumentate di frequenza e di intensità, fino a...» Indica Christian senza riuscire
a continuare. È terrorizzata. «Aveva un mare di sangue...» Balbetta, e si porta
una mano alla bocca al ricordo. Traduco a Eva e vedo i suoi occhi riempirsi di
lacrime. Cazzo, ora anche i miei. No, no, non facciamoci prendere dal panico.
«Cosa vi hanno detto i dottori?» Interviene mio
marito, visibilmente preoccupato.
«Ci hanno detto di non preoccuparci, che avevano
tutto sotto controllo... erano quasi certi di quale fosse la causa del
problema...» Risponde Christian, scuotendo la testa. Eva si va lentamente a
sedere, poggia i gomiti sulle ginocchia e affonda il viso tra le mani. Le vado
vicino con un groppo in gola e nessuna parola adatta alla situazione.
«Andrà tutto bene, ne sono sicura. Elettra è...
la donna più forte che abbia mai conosciuto, credete che ci lascerebbe qui
così? No, tornerà a rompere fino alla fine dei nostri giorni.» Ci rassicura Lilian con un sorriso.
«Non so se avvertire mamma e papà. Che faccio?»
Eva si rigira il cellulare tra le mani, nervosa e col viso tendente più al
verde che al bianco.
«Secondo me dovresti aspettare qualche notizia
in più, non farli preoccupare inutilmente.» Le risponde Christian, e lei
annuisce piano.
Dio, speriamo non sia niente di grave. Può
essere un appendicite? Non ricordo se l’ha avuta. Però forse l’appendicite non
porta emorragia... guardo Eva e penso che non sia una buona idea chiederglielo.
In caso negativo si preoccuperebbe ancora di più. Mi passo le mani sul viso,
pensando a cosa fare. Non posso fare nulla. Devo solo aspettare che qualcuno
esca dalla sala operatoria e ci informi di... quello che sta succedendo.
Fortunatamente quest’ospedale è uno dei migliori, devo ammetterlo, per quanto
io sia sempre stata contraria al sistema sanitario americano...
«L’assicurazione.» Esclamo con gli occhi sgranati.
«Elettra non ha l’assicurazione, non credo che sia riuscita a...» Mi blocco
vedendo Christian scuotere la testa.
«Tranquilla.» Replica con un gesto della mano,
lasciando intendere che è stato lui ad occuparsene.
«Non... doveva, signor Wayne...» Balbetto,
ricevendo in risposta un piccolo sorriso.
«Christian.»
Ricambio il sorriso, ringraziando Dio che
quest’uomo sia capitato nella vita di Elettra. E quella cocciuta testa di rapa
si ostina a trattarlo come uno qualunque. Ah, ma appena si sveglierà dall’anestesia
mi sentirà. Eccome se mi sentirà. Li farò sposare, fosse l’ultima cosa che
faccio!
***
Christian cammina avanti e indietro per il
corridoio, il passo è relativamente lento ma trasmette angoscia. Non parla da un’ora,
che è più o meno metà del tempo che è passato da quando Elettra è stata portata
in sala operatoria. Controlla l’orologio, lancia un’occhiata alla porta della
sala operatoria, torna indietro, infila le mani in tasca, chiude gli occhi e si
porta le dita alla sommità del naso, controlla di nuovo l’orologio. È questa
più o meno la routine che segue da circa cinquanta minuti. Ha bevuto tre caffè,
parlato al telefono con un Martin e un Tony e ha riattaccato da poco con una
tale Diane. Ho cercato di origliare la conversazione con quest’ultima, e credo
di avergli anche lanciato qualche sguardo assassino, poi ho sentito che
pronunciava il nome ‘Elettra’ e mi sono calmata un attimo. Non si parla alla
tua ragazza di un’altra ragazza, giusto? Soprattutto, non diresti alla tua
ragazza che aspetti da due ore un responso dalla sala operatoria quando
potresti tranquillamente andartene perché ci sono tre parenti della tua
collega, vero? E poi Elettra ha detto che non è fidanzato. Ah, Christian Wayne,
se stai facendo il doppio gioco ti taglio i gioielli di famiglia. È meglio che
tu lo sappia.
«Cristo santo, potresti per favore sederti?!»
Sbotta Eva all’improvviso, e Christian si gela sul posto. Senza dire una
parola, poi, viene a sedersi accanto a me.
«È di famiglia, allora.» Bisbiglia guardandomi
di sottecchi. Io non posso fare a meno di sorridere. Povero Christian,
bistrattato da entrambe le sorelle Wayne.
«Elettra non avrebbe detto ‘per favore’.» Alla
mia affermazione lui si lascia andare in una breve risata, carica di tensione.
Imita Eva nella posizione, chinandosi in avanti e prendendosi parte del viso
tra le mani congiunte.
«Grazie per... quello che hai fatto.» Gli dico,
sincera. Grazie perché la sopporti, perché le stai vicino, perché sei paziente
con lei. Credimi, ne vale la pena. Capirà quanto è fortunata, ne sono sicura.
Tutte queste parole indugiano sulle mie labbra, vorrei davvero dirgliele ma
qualcosa mi trattiene dal farlo. Sono del parere che dobbiamo sempre seguire il
nostro ‘sesto senso’, l’istinto, o come vogliamo chiamarlo, e quindi taccio.
«Vorrei poter fare di più.» Risponde in un
sussurro, e a vederlo così mi viene voglia di abbracciarlo. Ma non sono sicura
che Cooper gradirebbe.
Circa mezz’ora dopo, quello che sembra un
dottore appare finalmente nella sala d’aspetto. Ha la mascherina abbassata sul
collo e un’aria stanca ma serena. Il suo sguardo cerca subito Christian, che si
alza e lo raggiunge svelto.
«Lei è suo marito?» A quella domanda Christian
tace per qualche istante, interdetto, e mi sembra anche di intravedere qualche
traccia di imbarazzo passargli sul viso.
«No, ma mi interessa ugualmente. Come sta
Elettra?» Anche noi tre ci alziamo, raggiungendo i due uomini. Vorrei aver
registrato la frase che ha appena detto, non posso credere alle mie orecchie!
Vedo che Eva ha ripreso un po’ di colore e mi sta guardando con un’espressione
che lascia intendere che ha intuito quello a cui sto pensando. Ha capito la
frase.
«La signorina Wayne sta bene, ha avuto
un’emorragia dovuta alla rottura di una cisti ovarica. Fortunatamente non ha
perso molto sangue, quindi non è stata necessaria alcuna trasfusione. Abbiamo
tolto la cisti e ricostruito l’ovaio. Potrà tranquillamente avere figli.»
Spiega il chirurgo. Tanto disturbo per nulla, penso, l’ultima cosa che Elettra
desidera è un pargolo sgambettante per casa. Traduco a Eva che immediatamente
mi abbraccia e a momenti anch’io svengo per il sollievo.
«A cosa è dovuta questa cisti? Può
ripresentarsi? Come...?» Christian riempie di domande il dottore, cercando di
capire. L’argomento non è dei migliori per un uomo, ma lui sembra fregarsene
altamente. Il chirurgo risponde sommariamente all’interrogatorio dicendo che
spiegherà tutto alla paziente una volta che si sarà svegliata dall’anestesia.
«Anzi, dite all’infermiera di chiamarmi quando
si sarà svegliata. In ogni caso passerò ogni mezz’ora.» Ci indica la stanza
dove hanno portato Elettra e ci lascia per andare a mettere qualcosa sotto i
denti. «Ah, non fatela mangiare né bere assolutamente per le prossime tre ore.»
Ci dice, prima di andare via.
Entriamo nella stanza 315 come un gregge di
agnellini, Eva ed io per prime, mano nella mano. La stanza è grande e spaziosa,
con la parete lunga interamente finestrata che dà sul cortile interno e sul
pronto soccorso. Ci sono tre letti, di cui uno vuoto e l’altro occupato da una
donna sulla quarantina che sta dormendo. In fondo alla stanza, accanto alla
parete del bagno, c’è il terzo letto dove, pallida e priva di sensi, giace
Elettra.
Eva scoppia a piangere, e va a sedersi sul letto
accanto a sua sorella. Posso semplicemente immaginare la paura e anche il
sollievo dall’altro lato: il sollievo che sia andato tutto bene e il sollievo
di trovarsi qui con lei, e non dall’altra parte del mondo. Cerco di scacciare
il nodo alla gola che sta tormentando anche me e mi impongo di pensare che non
c’è nulla da piangere, è andato tutto bene e appena sarà sveglia dovrò
picchiarla per questo coccolone che ci ha fatto prendere.
Cooper mi circonda le spalle col braccio e mi dà
un bacio sulla fronte. Mi rifugio sul suo petto, felice che anche lui sia qui.
Ha lasciato il lavoro per correre in ospedale, e ora che ci penso non ha
neanche mangiato.
«Amore, vuoi andare a mangiare qualcosa? Dai,
ora è tutto a posto. Porta anche Eva a mangiare, falla uscire un po’
dall’ospedale. Resto io con Elettra.» Cooper annuisce e mia cugina, dopo
essersi asciugata le lacrime e aver controllato la flebo e il drenaggio di sua
sorella – deformazione professionale – si lascia convincere a prendere una
boccata d’aria con mio marito. È solo dopo che sono usciti dalla stanza che
Christian prende una sedia dal tavolo vicino all’ingresso, si avvicina
lentamente e si siede accanto al letto. Allunga una mano sul viso di Elettra e
le sposta i capelli dalla fronte, in un gesto che mi fa tremare il cuore. Non
vorrei sbagliarmi, ma vedo un leggero velo anche davanti ai suoi occhi. O forse
sono i miei occhi umidi che mi fanno vedere tutto “bagnato”?
«Mi hai fatto prendere un cazzo di spavento.» Il
sussurro di Christian è appena udibile, ma a mio avviso potrebbe resuscitare
anche i morti. Almeno, se fossi in Elettra, mi sveglierei in questo istante per
baciarlo fino a fargli esaurire le riserve di ossigeno.
Ora le ha preso la mano. Tiene le dita tra le
sue, delicato come se fossero di cristallo, e di tanto in tanto le sfiora col
pollice. Non saprei dire come la guarda: da un lato sembra vederla per la prima
volta, dall’altro sembra sorriderle con gli occhi come se stesse ricordando
qualcosa. Poi i suoi occhi incrociano i miei, dall’altra parte del letto, e il
mio cuore fa una capriola. È impossibile restare indifferenti a un paio d’occhi
del genere. Non mi riferisco solo al colore, ma all’intensità dello sguardo, ai
discorsi che sono capaci di fare senza bisogno di esprimersi a parole.
Mi guarda con una tale purezza, una tale
disarmante sincerità in quello sguardo che non posso fare a meno di
costringermi a dirgli qualcosa.
«Non arrenderti con lei.» Mormoro, col cuore in
mano. Un fiume di parole mi inonda la testa e sento che non riuscirò a
fermarlo. «Io... non so bene cosa c’è tra voi, ma so che qualcosa c’è,
qualcos’altro c’è stato – e qui lui
sorride, comprendendo a cosa mi riferisco – e so che lei sta cambiando
atteggiamento nei tuoi confronti. Non ha passato un periodo facile, l’anno
scorso. Se potesse sentirmi adesso mi ucciderebbe perché sto per dirti questa
cosa, ma correrò il rischio.» Sorrido vedendola dormire placidamente. «L’anno
scorso è tornata da un master in Spagna, e ha trovato il suo fidanzato storico
– primo amore, insieme da anni – che la tradiva con una delle sue amiche più
strette. Un’altra loro amica comune li stava coprendo, tenendole tutto
nascosto. È stato uno shock per lei, Eva ha detto che da allora non l’ha più
vista piangere. Quello stronzo l’aveva cambiata, o meglio era lei ad essere
cambiata per lui. È sempre stata l’Elettra che conosci: pungente, sarcastica,
divertente e che a volte ti manda davvero al manicomio, ma per lui era
diventata un agnellino. Piano piano si era spenta, la
sua personalità scoppiettante si era ridotta a un timido fuocherello, che è
esploso poi quando ha scoperto del tradimento. Da quel momento è diventata
irritabile, inavvicinabile soprattutto con gli uomini, ha rifiutato
categoricamente di uscire anche solo a prendere un caffè con qualsiasi ragazzo
ci abbia provato in quest’anno, credendo di non avere più amore da dare agli
altri. Pensa di essere inaridita, pensa di aver dato tutto a quell’ignobile
vegetale ma non è così. Io so che non è così, e credo te ne sia accorto anche
tu.» Mi fermo per riprendere fiato. Sorrido pensando a quello che sto per dire.
«Sai, tu sei esattamente il tipo di uomo che lei ha sempre desiderato, anche
esteticamente parlando. L’innominabile stronzo invece era l’opposto: moro,
occhi scuri, fisico asciutto ma niente di che, un classico ragazzo normale che
per qualche oscura ragione l’ha fatta innamorare. Dovevi vederlo, io l’ho visto
solo due volte e l’ho trovato insopportabile: eccentrico, spilorcio, pieno di
vizi, fumava come una ciminiera, fissato con la cura del corpo ma poi si
trascurava nelle cose più evidenti...» Scuoto la testa, rabbrividendo al
ricordo. «Monopolizzava tutte le conversazioni. Certo, sapeva come vendersi. È
sempre stato scaltro, credo che Elettra si sia innamorata del suo essere utopista,
pieno di idee, della sua esperienza nella vita, del suo continuo raccontare dei
viaggi che aveva fatto e delle persone che aveva conosciuto... del fatto che le
tenesse testa, in qualche modo. Ma non è mai stato il tipo da fidanzamento
duraturo né fedele, lo diceva sempre anche lui, scherzando. Chissà come mai ha
resistito più di due anni con Elettra. Non mi sorprenderebbe sapere che ha
avuto varie ed eventuali storielle sul lavoro nel corso di quegli anni. Non mi
sorprenderebbe affatto. Pezzo di merda.» Alzo lo sguardo dal pavimento blu
della stanza e lo punto nel blu degli occhi di Christian. Ecco, concentriamoci
sul presente. «Tu, invece, sembri uscito dal diario che scriveva quando aveva
dieci anni. Ogni volta che giocavamo con le Barbie lei sceglieva sempre questo
Ken biondissimo e con gli occhi chiari, e a me toccava sempre quell’energumeno
mulatto di Big Jim. Non che fosse male, eh, ma anch’io preferivo – e preferisco
– i biondi, infatti ne ho sposato uno.» Sorrido e Christian fa lo stesso.
«Insomma, credo sia solo un po’ spaventata dal fatto di aver trovato qualcuno
che possa piacerle davvero, e se lo capisce il resto sarà solo in discesa. È
una persona talmente meravigliosa... nonostante tutta la pazzia e le volte in
cui sembra evasa da un istituto di igiene mentale, io le voglio davvero bene.
Si fa voler bene.» Le accarezzo il viso e mi chino a baciarle la fronte.
«Scusa, ho parlato davvero tanto.» Balbetto poi tornando con lo sguardo al mio
interlocutore che ha ascoltato paziente il mio interminabile monologo.
Lui scuote la testa lentamente. «No, io... ti
ringrazio di avermi detto queste cose. Credo che nemmeno con le peggiori
torture cinesi Elettra mi avrebbe raccontato questa storia.» Sorrido a
quest’affermazione. Sì, direi che ormai la conosce piuttosto bene. La paziente chiamata in causa si muove e
mugola qualcosa, e vedo la testa di Christian voltarsi nella sua direzione e
scrutarne ogni movimento, vigile e attento. Lei però è ancora assopita. Sto già
pensando al colore del bouquet quando una Rachel trafelata fa il suo ingresso
nella stanza, col rossore in viso tipico di chi ha fatto una corsa.
«Oddio, come sta? Cos’è successo? Ho visto tardi
il messaggio... sta... sta bene?» Rachel è un altro esempio palese di quanto
Elettra sia capace di farsi volere bene in poco tempo. Lei è testarda e
cocciuta e non vuole capirlo, non fa niente per agevolare la cosa – anzi,
spesso e volentieri fa l’esatto contrario – ma alla fine i risultati sono
evidenti: la adorano tutti.
«Ciao, Christian.» Rachel saluta il biondo
posandogli una mano sulla spalla e lui alza il viso per sorriderle, poi torna a
guardare Elettra. Spiego brevemente la situazione a Rachel e lei mi guarda
dispiaciuta ma allo stesso tempo contenta che non sia nulla di grave. «Conosco
tantissime donne che hanno avuto questo problema o qualcosa di simile.
Fortunatamente non è niente di più serio.» Commenta, e io concordo in pieno. Il
suo cellulare squilla nella borsa e lei esce dalla stanza per non disturbare.
Qualche secondo dopo, Elettra apre lentamente gli occhi.
Il suo viso è rivolto verso Christian, quindi
sarà la prima persona che vedrà. Sorrido a questo pensiero. Deve vedere il suo
eroe.
~ Note
Lettori e lettrici adorate! Mi scuso tanto per
il ritardo! Il capitolo era completo, fatta eccezione per due pezzi che sono
stati un parto XD Ma alla fine ce l’ho fatta. È quel che conta, no?
Mi accorgo sempre più che non so cosa dire
nelle note. Questo capitolo, il prossimo e parte del successivo saranno
ambientati in ospedale. Ci tengo particolarmente, perché lo scorso anno ho
affrontato lo stesso intervento – fortunatamente non d’urgenza – e quindi tutto
ciò che ho scritto e che leggerete è reale. Ho sempre pensato che bisogna
scrivere di cose che si conoscono, quando ne si ha la possibilità.
Ogni capitolo ormai riporta il cambiamento
di Elettra, la sua apertura mentale e di cuore è maggiore del precedente e
spero ne siate contente!
La frase contrassegnata da un asterisco (*)
è di proprietà di Francesca, che dispensa sempre tali perle di saggezza delle quali mi
permetto di usufruire; le foto dello screensaver di Christian sono ispirate a questa e questa.
Vi lascio, al solito, lo spoiler, e
perdonatemi se non sono riuscita a rispondere alle vostre recensioni per lo
scorso capitolo. Grazie, grazie, GRAZIE!:
«E allora mangia.» Replica
categorico, porgendomi il cucchiaio che afferro con uno sbuffo.
«Ce l’ho già un padre, grazie.»
Gli faccio una linguaccia e lui solleva un angolo della bocca in un sorriso. Lo
conosco quel sorriso. Aiuto.
«Sei adulta e vaccinata, tuo
padre non avrebbe alcuna autorità su di te. Io, invece, in qualità di tuo
superiore, posso sempre minacciare di sculacciarti se non mi obbedisci.»
Capitolo 14 *** Capitolo quattordici - Whatever it takes ***
Cosa.
Diavolo.
Sta.
Succedendo.
Mi sento... non so come. Cerco di capire cosa mi
sta accadendo, da dove arriva questo... fastidio... e perché sono tutta
intontita. Con uno sforzo apro gli occhi, e la prima cosa che vedo è...
Christian? Oh, Orione, ma sei onnipresente? Ahi!
Sento la pelle che mi tira all’altezza del fianco sinistro e non riesco a
capire perché. È un dolore strano.
Mi volto appena e vedo Anne, in piedi alla mia
sinistra. Da dov’è sbucata fuori? Provo a dire qualcosa ma ho la gola come
carta vetrata e le labbra talmente secche che sembrano roccocò. Mi passo la
lingua sulle labbra cercando di ammorbidirle e deglutisco, strizzando gli occhi
per il fastidio.
«Che è successo?» Riesco a chiedere infine con
un filo di voce. Christian e Anne si guardano, poi lui fa un cenno con la mano
per cederle la parola.
«Hai avuto un’emorragia. Avevi una cisti ovarica
che è scoppiata e ti ha causato tutto quel dolore. Sei stata operata d’urgenza,
ma il dottore si è detto davvero soddisfatto dell’intervento. Dovrebbe passare
tra poco per spiegarti bene tutto. Tesoro mio...» Quando mi stringe la mano,
sento le lacrime affiorarmi agli occhi. Li chiudo, per fermarle.
Ho qualche vago ricordo del mio arrivo qui, era
come se perdessi conoscenza e rinvenissi a brevi e frequenti intervalli di
tempo. Ricordo di essere stata messa su una barella, ricordo gli occhi di
Christian, ricordo l’odore pungente della sala operatoria, e il freddo che mi
ha avvolto le membra. Ricordo la sensazione del... sangue, tra le gambe, mentre
mi spostavano dalla barella a quel minuscolo tavolo operatorio. Poi non ricordo
più nulla.
Riapro gli occhi, ancora velati di lacrime, e
guardo Christian.
«Mi hai...» Deglutisco con uno sforzo immane.
«...mi hai portata tu qui?»
Lui annuisce e avvicina la mano al mio viso.
Vorrebbe toccarmi, forse, ma le sue dita afferrano solo la stoffa bianca e dura
del lenzuolo. La suoneria del suo cellulare interrompe quel momento, e per un
istante temo che possa dover andare via. Non voglio che se ne vada. Non
voglio...
«È Lily. È stata con noi fino a poco prima che
uscissi dalla sala operatoria. È dovuta tornare al lavoro, ma ha già chiamato
due volte.» Mi spiega velocemente prima di rispondere. «Lily? Ciao. Sì, ora è
sveglia. Sì, è andato tutto bene e tra poco dovrebbe passare il chirurgo per
darci maggiori informazioni sull’intervento.» Sposta lo sguardo dal letto a me.
«No, credo che abbia difficoltà a parlare... forse per via dell’intubazione. Te
la saluto io. D’accordo, d’accordo. A presto.» Preme il tasto rosso e stavolta
afferra la mia mano senza esitare. «Ti saluta. Ha detto che se volevi scansarti
il manoscritto della Rousseau non te la caverai così facilmente.»
Non posso fare a meno di ridere, cosa che però
mi porta dolore alla pancia e fastidio alle labbra. Devo essere un disastro.
«È sveglia?!» La voce di mia sorella mi fa
voltare verso la porta della stanza. La vedo correre verso di me e prendere il
posto di Christian, che è costretto a lasciarmi la mano e indietreggiare verso
la finestra.
«Ele...» Eva mi abbraccia, per quanto possibile
con le flebo e tutto il resto, e poi fruga nella borsa, tirando fuori un...
lucidalabbra? «Hai le labbra tutte screpolate, ma il dottore ha detto che non
puoi bere per un po’, così ho pensato di prendere un burro cacao.» Toglie il
tappo e mi guarda. Non ti azzardare a mettermelo come se avessi due anni.
Allungo la mano destra e lo prendo, facendo da sola.
«Oh mio Dio ti sei svegliata!» Chi è adesso?
Serro le labbra per distribuire il burro cacao e vedo Rachel accorrere al mio
capezzale. Mamma mia, ma chi l’ha chiamata tutta questa gente?! Non ho ancora
salutato Cooper, tra l’altro.
«Vi odio. Non dovreste vedermi in queste
condizioni.» Biascico, imbronciata.
«Invece sì, così potremo prenderti in giro a
vita.» Ridono tutti, e io alzo gli occhi al cielo.
«Vi piace vincere facile, insomma.» Li imbecco,
e vedo che Eva sta per replicare qualcosa ma si blocca scorgendo un’infermiera
venire verso di noi per cambiarmi la flebo. Oh, io non le devo vedere queste
cose...
Sento che armeggia con l’ago infilato nel mio
braccio e mi inizia a girare lo stomaco. Deglutisco lentamente, cercando di
attenuare la sensazione sgradevole, ma finisco per peggiorare la situazione,
col disastro che mi ritrovo in gola.
«Devo vomitare.» Riesco appena in tempo ad
avvertire l’infermiera che lei mi piazza un catino bianco davanti salvando le
lenzuola immacolate.
«Oh cazzo, ma quello è sangue!» Sento che dice Anne,
e quando metto a fuoco effettivamente vedo un liquido scuro sul fondo del
catino.
«Probabilmente il tubo col quale l’hanno
intubata le ha graffiato la gola. Hai fastidio alla deglutizione?» Mi chiede
l’infermiera, e io annuisco decisa, mentre torno ad appoggiarmi al cuscino. «E
allora è stato il tubo. Non è sangue vivo, evidentemente qualche goccia dev’essere
finita nello stomaco durante l’intervento e ora il tuo corpo la sta rigettando.
Stai tranquilla, adesso ti sentirai subito meglio.»
Voglio morire ora e subito.
«Tesoro...» Rachel mi stringe la mano. «Io devo
scappare, mi hanno chiamata a sostituire una mia collega all’ultimo momento.
Però torno domani appena smonto, hai capito? O in ogni caso ti chiamo stasera.
Tu riposati.» Mi dà un bacio sulla guancia e va via, incrociando nel corridoio
della stanza quello che sembra un dottore, a giudicare dal camice bianco.
«Allora, Elettra. Come ti senti?» Si siede sul
letto e mi prende affettuosamente la guancia tra due dita. Io espiro
lentamente. «Ho la gola scartavetrata, la testa pesante, ho appena vomitato
sangue, ho la sensazione che tra poco il braccio della flebo se ne cadrà, ho un
fastidio perenne al fianco sinistro e mi fa male l’osso sacro.» Dico tutto d’un
fiato, stringendo i denti per il bruciore alla gola. «Ah, e ho fame.» Aggiungo,
arrossendo.
«Quadro clinico perfetto!» Esclama sorridente il
dottore. «Vediamo di tranquillizzarti: per quanto riguarda la gola, è colpa del
tubo. Hai il collo longilineo, e per quanto il tubo sia piccolo ha potuto
ugualmente graffiare le pareti della laringe, ma questo passerà fra qualche
giorno. Per la testa, è la conseguenza dell’anestesia generale, assolutamente
normale. Il braccio della flebo non tenerlo immobile, muovilo tranquillamente e
vedrai che non avrai più quella sensazione. Il fastidio al fianco sinistro è dovuto
al tubo del drenaggio.» A questo punto il dottore si alza e fa il giro del
letto, spodestando Anne dal punto in cui si era inchiodata. Si china e alza una
busta, che sembra quella del catetere ma invece raccoglie sangue. Nel
movimento, sento distintamente il tubo di cui parlava muoversi nella mia pancia
e sussulto dal dolore.
«Cazzo! Fa male.» Lui lo rimette giù e mi spiega
a cosa serve.
«Il drenaggio serve a pescare il sangue e i
liquidi dall’utero e a segnalare un’eventuale emorragia. Lo terrai fino a
mercoledì.» Mamma mia. Che bella notizia. «L’intervento non è stato una
passeggiata: avevi una cisti delle dimensioni di una grossa arancia, che poteva
torcere l’ovaio e generare serie complicazioni. Fortunatamente sei stata
portata subito in ospedale, e siamo riusciti anche a evitare di intervenire
attraverso laparotomia.» Dieci paia d’occhi lo guardano perplessi. «Non hai
avuto il taglio. Hai quattro bei buchetti sulla pancia, di cui uno
nell’ombelico. Quello del drenaggio è un po’ più grande, infatti hai avuto due
punti di sutura lì, ma col tempo le cicatrici saranno davvero minime, solo un
occhio attento se ne accorgerà.»
«Okay.» Mormoro, elaborando tutte quelle
informazioni. Niente cicatrici, molto bene.
«Per mettere a riposo le ovaie ti è stata fatta
un’iniezione che comporterà l’assenza del ciclo per due mesi. Dopodiché inizierai
a prendere la pillola, se non la prendevi già.» Io scuoto la testa. «Bene,
allora te ne prescriverò una a basso dosaggio ormonale. Intanto farai una cura
di ferro, che hai già iniziato qui – indica una delle due flebo, che in effetti
è di un marroncino chiaro – e che continuerai a casa per un’altra settimana. Per
quanto riguarda il cibo, stasera potrai iniziare a bere ma non a mangiare.
Domani avrai il tuo bel brodino.» Detto ciò, si alza e mi scompiglia i capelli.
Istintivamente guardo Christian e lo vedo sorridere divertito. Si porta una
mano alla bocca come a prevedere la mia reazione contrariata che non arriva
perché, per una volta, decido di trattenermi. E poi sono troppo stanca per
arrabbiarmi.
Il dottore va via e io sbuffo sonoramente,
facendo sollevare un ciuffo di capelli che mi ricadeva sul viso. Anne scoppia a
ridere.
«Come sei comica.»
«Se non avessi un tubo nella pancia ti
ucciderei, poi vediamo quanto sono comica!» Borbotto, piccata.
«Avanti, non è così male…» Dice Cooper,
sghignazzando.
«Ho vomitato sangue, sto facendo pipì in un
catetere come se avessi centoventidue anni e il dottore ha appena sbandierato
ai quattro venti la mia situazione ginecologica. Noooo,
non è per niente male! Credo di aver
perso anche quel briciolo di pudore che mi era rimasto.» E adesso datemi una
pala che devo sbrigare un affare in Cina.
«“E smettila di fare la vittima!”» Christian mi
fa il verso e si avvicina, allungando la sua minacciosissima mano su di me. Mi
prende le guance e stringe piano, serrando le labbra come se si stesse
trattenendo dal fare qualcosa. Per esempio… mangiarmi.
Anne ci sta guardando con un sorriso che parte
da un orecchio, fa il giro dell’ospedale e arriva all’altro. Cooper sta mimando
un neonato tra le braccia, cullando l’aria con un’espressione tenera e a tratti
rincoglionita. Eva invece è stata posseduta da Violet e sta violentando il
muro. Fortunatamente Christian è di spalle e non li vede. Se solo potessi allungarmi
a prendere quella borsa che è ai piedi del letto gliela lancerei in fronte.
Christian, che stupido non è, intercetta il mio sguardo e si volta, causando
l’immediata paralisi dei miei tre parenti-serpenti, che adesso sembrano giocare
a Un, due, tre, stella!
Cooper si gratta il capo, Eva fa finta di
affacciarsi alla finestra e Anne sta trattenendo una risata, ma tra poco le
esploderanno le orecchie per lo sforzo. Io piano piano
scivolo sotto il lenzuolo, desiderando il dono dell’invisibilità. Cosa ho fatto
per meritare questo?
«Sono dieci idioti. Tu ne vedi tre, ma in realtà
ne sono dieci. Un concentrato di scemenza formato tascabile. Non fare caso a
loro.» Agito la mano come a voler liquidare la faccenda e Christian sorride col
suo solito fare canzonatorio, della serie ‘niente mi tange, nemmeno i tuoi
parenti che giocano a Indomimandoalle nostre spalle’.
Uno sbadiglio mi coglie di sorpresa, portando
con sé un’improvvisa ondata di sonnolenza che mi intorpidisce tutto il corpo,
cervello compreso.
«Ragazzi, mi dispiace ma io vado in stand-by.
Non mostrate il meglio di voi a Christian. Christian, salvati finché puoi.» Gli
dico, e il suo sorriso dolce è l’ultima cosa che vedo prima di sprofondare in
un sonno beato.
***
«Sembra quasi…
innocua.»
«Sembra, hai detto bene. In realtà emana
radiazioni cancerogene anche da addormentata.»
«Dai smettetela, non è corretto prenderla in
giro mentre dorme! Aspettate che si svegli.»
«Sì, poi possiamo anche iniziare a correre.»
«Guardate che vi sento.» Mormoro con gli occhi
ancora chiusi. Si sente una risatina nasale, che al novanta per cento
appartiene a mia cugina.
«Da quanto sei sveglia?» Questo è Christian. È
ancora qui? Che ore saranno?
«Da poco. Le radiazioni cancerogene però le ho
sentite.» Apro gli occhi e scopro che fuori è buio; ad illuminare la stanza ci
sono le luci singole dei letti, meno “sfolgoranti” di quelle del soffitto. Sposto
lo sguardo da Christian ed Anne, seduti alla mia destra, alle due nuove losche
figure comparse alla mia sinistra: Nancy ed Andrew.
«Ragazzi, non dovevate…»
Lei mi stringe la mano, scuotendo la testa.
«Che dici, stupida. Tu ti sei sorbita la nostra
smielata festa di fidanzamento, era il minimo che potessimo fare.»
«Mhmm, su questo hai ragione.» Replico, anche se
Violet sta protestando. Sventola le fotografie che ritraggono me e Christian e
il suo cardigan, che a proposito giace ancora sul mio letto a casa. Quanto
vorrei averlo addosso adesso.
Oddio. No, non l’ho pensato.
Violet si sta sfregando le mani, sul volto ha un
sorriso simile a quello della maschera di Guy
Fawkes. Cioè, fa quasi paura.
«Ti senti bene? Hai una faccia sconvolta, ti fa
male qualcosa?» Anne, super premurosa come sempre, si alza per guardarmi
meglio. Io scuoto la testa velocemente e la allontano con il braccio.
«No, no. Pensavo.» Guardo Christian di sottecchi
e sarei pronta a giurare che sa a
cosa sto pensando.
Pensando,
fantasticando, desiderando, bramando come il cioccolato per un diabetico.
«Evento raro, attenzione.» Dice, rispondendo poi
con una linguaccia alla smorfia che gli faccio. «Con l’anestesia, poi,
figuriamoci... riprenderai totalmente le funzioni cerebrali tra un mese. Poveri
noi.» Continua imperterrito e io allungo la mano a dargli uno schiaffo, ma non
ci arrivo. Christian si china in avanti e se la porta sul viso, strizzando
appena gli occhi nell’attesa della sberla. Per un microscopico attimo guardo
Anne e vedo il suo sorriso totalmente innamorato che non riesco a non
ricambiare e poi do un pizzico sulla guancia a Christian. La sua pelle è liscia
e calda. Mi scopro a pensare che vorrei ricordare com’è stato sfiorarla con le
labbra, con il viso. Il solo pensiero di quel contatto mi provoca un gradevole
formicolio alla nuca. Ma chi mi ha dato la brillante idea di ubriacarmi, quella
sera?
Stringi
la mano a te stessa, cara.
Già.
«Tesoro, si è fatto tardi, dobbiamo andare dai
miei.» Sento che dice Andrew, rivolto alla futura moglie. Nancy annuisce e si avvicina
per abbracciarmi.
«Tanti tanti auguri, esci presto da qui ma
approfittane per farti coccolare!» Mi fa l’occhiolino e fa passare Andrew che
mi saluta con una carezza sulla spalla.
Mentre escono salutando educatamente i parenti
della signora del primo letto, commento la frase di Nancy: «Coccolare...» Alzo
gli occhi al cielo e faccio schioccare la lingua. «Come se avessi tre anni.»
Christian schiude le labbra e alza le
sopracciglia in una finta espressione desolata e guarda Anne. «Allora mi sa che
non se ne parla per il frappuccino al caramello e il pacco di Mars che avevo
pensato di portarle domani...» Scuote la testa, dubbioso, e Anne fa un sospiro
dispiaciuto.
«No, mi sa di no, Christian. Elettra potrebbe
sentirsi viziata o troppo riverita.»
Sono talmente teatrali che scoppio a ridere.
«Ehi! Mica ho proprio detto così! Forse per i Mars farei un’eccezione.» Il mio
stomaco è d’accordo, a giudicare dal rumore.
«Ormai Christian si è offeso.» Commenta
addolorata Anne. «Devi farti perdonare.» Ecco che sparisce il cruccio e appare
il sorriso dello Stregatto. Stronza.
Christian ride sotto i baffi e io espiro
rumorosamente. Poi alzo il braccio sinistro e sorrido amabile. «Se vuoi
dividiamo la flebo di ferro, ti vedo un po’ sciupato...»
I due scoppiano a ridere e poi Christian si alza
per andare in bagno. Appena chiude la porta, Anne inizia a saltellare sul
posto.
«TU LO DEVI SPOSARE!» Sussurra con la voce che
trema dall’emozione. Io lancio un’occhiata perplessa alla parete del bagno che
sta sì e no a cinquanta centimetri da noi.
«Anne, non dire-»
«È rimasto a guardarti tutto il pomeriggio, ha
chiamato l’infermiera due volte per farti controllare le flebo e la
temperatura... tu non hai idea di
quant’è dolce!» Dice velocemente stringendo le mani e portandosele alla bocca.
Dal bagno si sente prima il rumore dello sciacquone, poi dell’acqua del
rubinetto.
«Di che avete parlato mentre dormivo, bastarda
infame?» La guardo minacciosa e lei fa un sorriso angelico. Sto per minacciarla
seriamente di dirmi tutto quando sentiamo la serratura della porta sbloccarsi e
lei si ricompone. O quantomeno smette di saltellare.
Quando l’oggetto della conversazione riappare
nel nostro campo visivo, ci guarda con non poco scetticismo, intuendo forse che
l’improvviso silenzio e i sorrisi serafici nascondono qualcosa.
«Ohiohi.»
Mugolo sentendo una fitta all’addome. Era troppo strano che non avessi ancora
dolore dopo l’operazione.
«Ti fa male? Prima l’infermiera ha detto che se
hai dolore ti fanno tranquillamente un antidolorifico. La chiamo?» Anne è
pronta a soccorrermi. Christian si avvicina al letto e mette un dito sul
campanello col quale si chiamano gli infermieri. Io annuisco e lui lo fa
suonare. Il ‘bip’ insistente che proviene dal corridoio cessa dopo qualche
secondo, e un giovane infermiere entra nella stanza per chiederci cos’è che non
va.
«Si può avere una siringa di antidolorifico?»
Chiede Anne per me, e lui annuisce. Torna poco dopo con un flacone che mette al
posto della flebo di ferro che è finita.
«Questa ti basterà anche per stanotte. Con
questi dolori non basta una siringa, specialmente il primo giorno.» Spiega
l’infermiere e poi va via dopo aver controllato l’altra paziente. Io resto con
gli occhi chiusi e la mente concentrata sugli spasmi per un tempo indefinito,
sperando che passino il prima possibile. Li riapro solo quando sento la voce di
Eva riempire la stanza.
«Eccoci! Come stai Ele? Oh. Non hai una bella
faccia. Ti hanno tolto una flebo?» Si avvicina al supporto metallico dove sono
fissati i flaconi e controlla con aria professionale il loro contenuto. «Ah, è
Toradol. Con questa passa tutto, tranquilla.» Mi accarezza la testa e si siede
sul letto. Anne ciondola lentamente verso Cooper e lo abbraccia, strofinando il
naso contro il suo petto. Dev’essere stanca morta, povera.
«Anne, perché non vai a casa?» Mormoro,
sentendomi in colpa. Cosa stanno a fare tutti qui? Anne combina solo guai con
Christian. Meglio che vada via, decisamente.
«Sì, è vero. Resto io per la notte, tranquilli.
Andate tutti. Anche tu, Christian, se vuoi.» Interviene mia sorella. Perché a
Christian dice “se vuoi” e ad Anne ha detto “va via e basta”? Lo dico io che
sono delle complottatrici.
Christian si strofina un occhio con la mano e
annuisce, dev’essere stanco anche lui. Mia cugina inizia a riporre nella borsa
i vari oggetti che aveva posato sul letto e sul tavolino e con uno sbadiglio
che riesce a malapena a contenere si avvicina per abbracciarmi.
«Grazie.» Mormoro e lei mi schiocca qualcosa
come trenta baci consecutivi sulla guancia.
«Cerca di dormire, e se non ci riesci o ti fa
troppo male non farti scrupolo di chiamare l’infermiere. Anche se conoscendoti
potresti anche far svegliare l’intero ospedale se ne avessi bisogno, quindi su
questo posso stare tranquilla.» Risponde con un sorriso.
«Ci vediamo domani, per qualsiasi cosa puoi
chiamare noi, lo sai.» Dice Cooper e mi saluta affettuosamente. «Anche se dalle
dieci a mezzanotte potremmo essere impegnati.» Guarda malizioso Anne e tutti
scoppiamo a ridere. Lei gli dà uno spintone e fa roteare gli occhi.
«Sono talmente stanca che dovresti fare tutto da
solo.» Afferma in risposta, e lo prende sottobraccio. «Andiamo dai. Ciao,
Christian... se non ci vediamo in questi giorni è stato un piacere conoscerti,
nonostante le circostanze insomma...»
Christian saluta i due consorti con una stretta
di mano. «Anche per me. Domani dovrei passare, comunque.» Sorride, poi mi
guarda. «Se non è di troppo disturbo alla malata.»
Anne mi sorride con un’espressione che nasconde
un “rispondi bene altrimenti ti sgozzo davanti a tutti” e io serro le labbra
per non ridere. «Se porti i Mars...» Dico, alla fine, speranzosa.
«Vedremo. Intanto fai la brava e non fare
arrabbiare tua sorella.» Con questa frase probabilmente si sarà guadagnato l’eterno
amore di quest’ultima, che ridacchia con aria ebete. Sto per commentare la cosa
ma mi blocco quando capisco che Christian sta per salutarmi. Lo vedo chinarsi
su di me e sento le sue labbra sulla fronte, insieme alla mano che mi accarezza
la nuca. «Buonanotte, per dopo.» Sussurra e io approfitto degli ultimi secondi
di vicinanza per inspirare il suo profumo.
Non posso fare a meno di notare gli sguardi
impressionati delle due figlie della signora dall’altro lato della stanza: lo
stanno praticamente mangiando con lo sguardo mentre attraversa il piccolo
corridoio. Lui invece guarda solo me, per l’ultima volta prima di uscire, e mi
rivolge un piccolo sorriso che ricambio col cuore che fa una capriola. Quando
torno a guardare Eva la trovo assorta con gli occhi persi nei dintorni della
porta. Senza staccarli da lì, sorride.
«Sai, se proprio non lo vuoi... lo prendo io.»
Non ho neanche bisogno di chiederle a chi o cosa
si stia riferendo. «Non ti tiro un cuscino in faccia solo perché mi fa male
sollevarmi per prenderlo.»
«Se non sono io sarà qualcun altro, sorellona. Io fossi in te mi darei una
mossa.» Dice, e poi si alza per andare in bagno, lasciandomi con questa frase
che mi rosicchia il cervello come un tarlo insistente.
Mpf.
Dormiamoci sopra.
**********
«Buongiorno!»
Una voce che non conosco si insinua nelle mie orecchie strappandomi dal sonno
leggero che mi ha accompagnato tutta la notte. Apro gli occhi e la forte luce
bianca della stanza mi costringe a socchiuderli di nuovo. Fuori è ancora
piuttosto scuro, almeno per quel che si riesce a intravedere dalle serrande
bianche.
Ma che ore sono? È l’alba?
Un’infermiera di mezza età dal sorriso gentile
mi si avvicina con una siringa contenente un liquido giallo e un termometro.
«Dobbiamo misurare la febbre e darti
l’antibiotico.» Spiega, garbata. Fortunatamente, non c’è bisogno di bucarmi il
sedere. Il mio braccio è già bucato e al cateterino
venoso che mi hanno messo in sala operatoria è stato aggiunto un ‘rubinetto’,
come mi ha spiegato Eva, che ha tre vie – o ingressi – per le flebo o per le
siringhe, come in questo caso. Dopo aver posizionato il termometro, spinge il
liquido giallo nel mio braccio e istantaneamente avverto un sapore orribile in
gola.
«Che schifo, lo sento in bocca.» Sorvolo
sull’estremo doppio senso della frase, ma l’infermiera non sembra accorgersene.
Annuisce e mi dice che è normale e passerà subito. Poi, quando il termometro
con due lievi bip annuncia di aver
registrato la temperatura, lei lo sfila dal mio braccio e legge sul piccolo
display.
«Trentasei e due, perfetto.» Dichiara con un
sorriso, per poi andare a ripetere il procedimento alla signora del primo letto.
Mugolo qualcosa mentre uno sbadiglio mi sfigura
momentaneamente la faccia, e poi mi volto verso Eva.
«Ma è normale che vengano così presto?» Borbotto
insofferente.
«Sì, l’antibiotico dev’essere somministrato con
precisione ogni dodici ore, ieri sera te l’hanno dato alle sei.»
Ah, quindi sono le sei del mattino.
Ottimo.
Dovete morire tutti.
***
«Ele? Ele, c’è mamma al telefono, vuoi
parlarle?» Per la seconda volta in troppo poco tempo vengo svegliata contro la
mia volontà, stavolta da mia sorella e da un profumo di caffè. Apro gli occhi e
la vedo seduta ai piedi del letto con un bicchierone fumante in una mano e il
cellulare nell’altra.
Caffè anche io!
Allungo la mano per prendere il telefono e nel
farlo controllo l’orario sul display. Sotto le otto e trentadue, ma le finestre
sono ancora oscurate. Forse l’altra signora sta ancora dormendo. Poverina, ha
avuto un intervento complicato, mi hanno detto ieri. Infatti non fa altro che
lamentarsi per il dolore. E ruttare. Ma ruttare tanto.
«Mamma?» Biascico strofinandomi gli occhi.
«Ele! Come stai amore? Quella disgraziata di tua
sorella mi ha chiamata ieri sera, non posso crederci che non l’abbia fatto
prima!» Brontola mia madre dall’altro capo, apprensiva.
«Tranquilla mamma, sto bene. Non volevamo che ti
preoccupassi troppo. In ogni caso, essendo dall’altra parte del mondo non
avresti potuto fare molto, a meno che papà non abbia inventato il
teletrasporto... ma ne dubito.» Eva sorride al mio solito sarcasmo, mentre
ostenta quel suo caffè pur sapendo che io avrò le crisi d’astinenza a breve.
«Lo so, lo so, ma sono pur sempre tua madre.
Comunque, quando ti fanno uscire?» Ecco, una persona che pensa positivo e
guarda oltre.
«Giovedì mattina credo. Devo restare qui altri
due giorni.» Sbuffo, e mi pento subito quando sento il tubo del drenaggio
tirare nella pancia.
«Ho capito... va bene, cerca di stare
tranquilla, adesso chiamo Anne e la zia Libby e mi assicuro che ti stiano
vicino. Ho provato a convincere Eva a trattenersi un altro po’ lì ma ha detto
che non può proprio e deve tornare.»
«Certo che deve tornare, ha il suo tirocinio.
Cosa resta a fare qui? C’è chi si prende cura di me, non preoccupatevi.» La
rassicuro, e quando mi sente, Eva annuisce e si raccoglie i capelli fermandoli
in un codino con la mano, poi gonfia il petto e mi guarda maliziosa, in una
evidente imitazione di Christian. Prendo il pacco di fazzoletti che ho sul
tavolino e glielo lancio addosso. «Mi dispiace solo di non averle fatto godere
il soggiorno a Miami.» Dico, sincera. Eva scuote la testa e viene a stringermi
la mano.
«Molto meglio che sia stata lì con te.» Risponde
mia madre, e Eva dice la stessa cosa contemporaneamente. «Dille di chiamarmi
stasera prima di partire. Con te ci sentiamo domani.» Prosegue, e quasi mi
sembra una minaccia.
«Va bene mamma, saluta papà. Un abbraccio
forte... vi voglio bene.» Riattacco e torno con la testa sul cuscino. Prendo il
telecomando che controlla il letto e schiaccio il primo pulsante in alto, che
istantaneamente fa alzare lo schienale.
«Questo letto è fighissimo, dici che non posso
portarlo a casa come souvenir?» Domando euforica a mia sorella, e lei
ridacchia.
«Non credo. Come vanno i dolori? La flebo sta
quasi per finire, dimmi se devo fartene portare un’altra.»
«Direi di sì, stanno iniziando a farsi
risentire...» Annuisco e mi porto una mano alla pancia, espirando scocciata.
Quando Eva torna con l’infermiera che mi cambia
la flebo, la faccio sedere di nuovo accanto a me. «Mi dispiace davvero che
questa... cisti del cacchio abbia rovinato il tuo viaggio. Sei sicura di non
poter venire nemmeno a Panama?»
Lei scuote la testa. «No, purtroppo. Ma vorrò
sapere ogni cosa!» Sorride sorniona, già so a cosa sta pensando e faccio
roteare gli occhi, scocciata.
«Non succederà nulla di rilevante.» Affermo,
convinta.
Lei mi picchietta la testa con la mano.
«Vedremo, sorellona, vedremo.»
***
Ohhh.
Che stanchezza.
Non faccio altro che dormire, svegliarmi,
dormire, svegliarmi, col risultato che non mi riposo quando dormo e non sono
perfettamente ricettiva quando sono sveglia. Ergo, sono un vegetale.
Cerco di aprire gli occhi ma non voglio, meglio
sondare prima il terreno con le orecchie e scoprire se è venuto qualcun altro a
trovarmi. Prima, all’ora di pranzo, sono passati Tony, Lily e Danny ed è stato
assolutamente l’imbarazzo totale. Tony voleva una foto ricordo col mio catetere
per incorniciarla e appenderla nella bacheca della MP e ho dovuto minacciarlo
di chiamare la guardia per farlo smettere. Danny invece ha letteralmente
stregato un’infermiera che entrava ogni due e tre per controllare – inutilmente
– le flebo sotto gli sguardi minacciosi di Lily. Menomale che la pausa pranzo
dura poco, così, visto che non avevo potuto mangiare, sono ritornata al mio
stato vegetativo dormiente.
Tendo l’orecchio ma non sento nulla, a parte il
chiacchiericcio delle figlie della signora e lo sgambettio della nipotina.
«Nonninaaaaa!» Sento che dice con la sua vocina
adorabile, e mi ritrovo a sorridere. Apro gli occhi per vedere cosa sta facendo
e invece di ritrovarmi davanti il suo faccino tondo contornato da una frangetta
sbarazzina, quello che vedo è il viso squadrato di Christian, concentrato a
leggere qualcosa. Osservo i suoi occhi scorrere tra le parole, attenti, e di
tanto in tanto segnare qualcosa al margine con la penna rossa. Si passa la
lingua sulle labbra, lentamente, in un gesto inconsapevole che mi fa perdere
litri di bava. Inconsapevolmente.
Mentre sta sottolineando una frase, alza lo
sguardo su di me, beccandomi a fissarlo. Finisce di tracciare la linea e
sorride nel frattempo, con l’aria di chi sa. Cosa sappia non lo so, ma ha
l’aria di chi sa.
Sa di
piacerti, no? Ma devo sempre dirti tutto?
«Cosa stai leggendo?» Gli chiedo, prima che
possa soltanto accennare a una delle sue battutine.
«Un manoscritto italiano. Indovina?» Sorride,
allegro, e poi mi mostra la copertina, dove al centro della pagina spicca la
scritta “Glitter”. Spalanco la bocca e rido per la
sorpresa.
«Oh mio Dio! È
arrivato?! Cioè, tu... come... cosa... perché io non ne sapevo niente?»
Christian mi guarda con un sopracciglio alzato in maniera decisamente
altezzosa. «Non dire perché sei il redattore del cavolo, l’ho data io l’idea e
dovevo essere avvisata!»
«Non ti scaldare, piccola Elettra.» Alza il
manoscritto e me lo sventola davanti al naso. «È arrivato stamattina. Non mi
sembrava il caso di chiamarti alle otto per dirtelo, visto che sarei passato
nel pomeriggio. Devi smetterla di arrabbiarti senza conoscere tutta la versione
dei fatti. Ho fatto anche la rima.»
«E sei più scemo di prima.»
Ci guardiamo seri per qualche istante e poi
scoppiamo a ridere.
«Che ore sono?» Domando, ormai ho perso
totalmente la concezione del tempo.
«Le cinque e venti. Tra un’oretta dovrebbero
portarti la tua prima cena, sei contenta?»
Alzo gli occhi al cielo. «Tantissimo, guarda.
Sono secoli che muoio dalla voglia di mangiare un brodino, avevo proprio
intenzione di chiederlo a Babbo Natale quest’anno, e invece vedi che fortuna!»
Christian continua a ridere: quel suono incantevole riempie la stanza e perfino
la piccola Daisy ne resta affascinata. La vedo muovere qualche passo incerto
nel corridoio, ignorando sua madre che la chiama, fino ad arrivare davanti a
Christian.
«Ciao, principessa! Quanto sei bella con questo
vestito!» Le dice, dolcissimo, e la bambina mostra il suo sorriso sdentato di
un incisivo.
«Oh, e quel dentino lì dov’è finito?» Le chiede,
e lei ridacchia imbarazzata.
«L’ha preso la fatina.» Dice poi con la sua
vocina adorabile. Christian si finge sorpreso.
«L’ha preso la fatina dei denti? Davvero?» Daisy
annuisce e incrocia le braccia dietro la schiena, girando su se stessa.
«Che brava! E me lo dai un bacino?» Christian si
indica la guancia col dito e lei si mette una mano sulla bocca, guardando la
madre che ride. Poi torna con lo sguardo su di lui e scuote lentamente la
testa.
«Come no? Lo sai che se mi dai un bacino il
dentino ti crescerà più in fretta?» Dice, allungandosi in avanti per porgerle
la guancia. Lei lo guarda coi suoi occhioni ingenui e si avvicina,
schioccandogli poi un timido bacio che lo fa sorridere. Sua madre sta morendo:
scommetto che vorrebbe essere al posto della figlia, che adesso sta ricevendo
lo stesso bacio da Christian. Daisy torna sgambettando dalla madre e la
abbraccia, nascondendo il viso nel suo seno.
«Fai lo stesso effetto a tutte, grandi e
piccine, eh?» Mi volto a sinistra e vedo Anne, stesa sulla sedia per gli ospiti,
che è rinvenuta dal lungo sonno in cui era scivolata dopo pranzo e ora sta
guardando Christian con gli occhi a cuore. Ovvio.
Lui si limita a sorriderle e torna a leggere il
manoscritto.
***
«Che schifo la frutta cotta!» Piagnucolo,
imbronciata, quando mi portano il vassoio con la mia prima cena dopo
l’intervento. Guardo di sottecchi il brodino dal colore arancione - giallognolo
e inizio a girare il cucchiaio dentro, smuovendo tanti piccoli semini di pasta
nascosti sul fondo del piatto.
Al primo boccone, il liquido salato è una pura
sofferenza contro la mia gola scartavetrata, ma ho troppa fame e decido di
riprovarci. Dio, come brucia! Lascio il cucchiaio e mi rilasso contro il
cuscino.
«Non posso mangiare con la gola che mi ritrovo.»
Dico, e spingo il labbro inferiore in fuori per muovere a pietà i due
“guardiani” che mi sorvegliano.
Christian scuote la testa. «Devo imboccarti?»
«Cosa? No!» Non so perché la prendo malissimo,
manco fosse una battuta a doppio senso.
«E allora mangia.» Replica categorico,
porgendomi il cucchiaio che afferro con uno sbuffo.
«Ce l’ho già un padre, grazie.» Gli faccio una
linguaccia e lui solleva un angolo della bocca in un sorriso. Lo conosco quel
sorriso. Aiuto.
«Sei adulta e vaccinata, tuo padre non avrebbe
alcuna autorità su di te. Io, invece, in qualità di tuo superiore, posso sempre
minacciare di sculacciarti se non mi obbedisci.»
Anne serra le labbra per non ridere e io sento
distintamente ogni cellula dell’epidermide sulle mie guance prendere fuoco.
«Christian 1 – Elettra 0, palla al centro.»
Annuncia Anne con voce da telecronista.
«Zero?! Ma che dici, starò come minimo a
ventimila, io!» Ribatto, accanita.
«Hai ragione. Ma le mie valgono di più, perché
riesco a zittirti senza scappare.» Replica, e mi sfiora la punta del naso col
dito, sorridendo.
«Christian 2000 – Elettra 0. L’atmosfera si fa
incandescente.» Commenta mia cugina, usando la mano chiusa a pugno a mo’ di
microfono.
A salvarmi – io, Elettra Wayne che ha bisogno di
essere salvata! – è Rachel, che viene a trovarmi insieme a Eva. Mando giù quel
salatissimo brodino strizzando gli occhi per il bruciore e cerco di godermi al
massimo queste ultime ore in compagnia di mia sorella.
**********
Il mattino seguente la routine siringa-termometro
si ripete, e stavolta mi misurano anche la pressione. Ma quando uscirò da qui?
Non mi faccio scrupolo a chiederlo per
l’ennesima volta al dottore che è venuto a controllare le mie condizioni.
Lui sorride: «Presto, però oggi devi alzarti.»
Alla sola idea inorridisco e mi tiro il lenzuolo fino al naso. «Adesso chiamo
l’infermiera e ti facciamo togliere il catetere, così sarai costretta ad
alzarti per andare in bagno. Mi raccomando...» Dice poi rivolto ad Anne, che
ascolta attenta. «...deve assolutamente alzarsi e camminare. Io ripasso oggi
pomeriggio per vedere quanti chilometri orari riesci a fare, d’accordo?» E
scompare, con un centinaio di altre cartelle cliniche in mano. Sbuffo sonoramente.
Quando finalmente mi liberano di quel tubicino
che mi fa sentire una vecchia malata di Alzheimer, Anne si punta le mani sui
fianchi e fa il giro del letto per prendere il telecomando che ne regola
l’altezza e la posizione dello schienale.
«Ora ti abbasso il letto, così sarà più semplice
scendere.» Detto, fatto. Il letto cala con un ronzio lento e terrificante.
«No, no, non voglio, mi fa male.» Piagnucolo,
sentendo il tubo del drenaggio che mi tira in modo pazzesco a ogni minimo
movimento.
«Lo so che fa male, ma devi alzarti. Avanti,
vieni.» Mi tende le mani e io le afferro controvoglia, lasciando che mi sollevi
fino a portarmi seduta al bordo del letto.
«Ahiaaaaa!» Mi lamento, e lei mi guarda
dispiaciuta. Oddio, è orribile questa sensazione, no, no, voglio tornare
distesa!
«Ele ti prego, un ultimo sforzo e sei in piedi.
Dai, così cambiamo anche il pigiama...» Il cuore mi batte forte per il dolore e
lo sforzo e quando metto i piedi a terra sento un leggero capogiro. Quel
maledetto affare nella pancia mi fa malissimo.
Riesco a muovere qualche passo incerto e poi mi
siedo di nuovo sul letto.
«Non ce la faccio, davvero. Fa troppo male.»
Dico a mia cugina con le lacrime agli occhi, e lei si morde un labbro,
sconcertata.
«Riproviamo tra cinque minuti, dai. Respira e
cerca di rilassarti.»
***
Con uno sforzo immenso sono riuscita a camminare
fino al bagno per lavarmi e cambiare il pigiama. Sono passata dall’essere una
vecchia rimbambita all’essere una bambina di un anno che non può vestirsi da
sola. Un’esperienza che non consiglio a nessuno.
Okay, forse a qualcuno sì.
Adesso voglio restare in questo letto per il
resto della giornata. Non voglio alzarmi mai più, a costo di farmi venire le
piaghe alla schiena. Mpf.
«Permesso?» Sentiamo bussare alla porta e poco
dopo un codino familiare attira tutta l’attenzione dei presenti. Le figlie
della signora sgomitano tra loro, sposate e buone, e si mordicchiano
nervosamente le unghie mentre Christian passa loro davanti per raggiungere il
mio letto.
«Come ti senti?» Mi chiede, dopo aver salutato
Anne con un abbraccio.
«Una meraviglia, guarda. Non vedi come saltello
allegramente per la stanza?» Chiedo ironica e Christian guarda mia cugina
scuotendo la testa rassegnato.
«Christian, il dottore ha detto che Elettra deve
alzarsi.» Inizia a parlare quest’ultima, e io la guardo fulminandola. Lei mi
ignora beatamente. «Adesso, approfittando che porteranno il pranzo, mi aiuti a
farla scendere?»
«Certo.» Annuisce lui, e io mi metto un cuscino
in faccia, sperando che i tizi della cucina si dimentichino di questa stanza.
Cosa che, manco a dirlo…
non succede.
Quando un inserviente porta il vassoio in
camera, Christian e Anne si alzano e mi guardano intimidatori. Lui si avvicina
e mi porge le mani, aspettando che io le afferri. Guaisco come nemmeno un
cagnolino sa fare tanto bene e Christian scuote la testa, con uno sguardo che
non ammette obiezioni.
«Ti odio.» Brontolo, con un mezzo ringhio. Mi
sto trasformando in un mastino a tutti gli effetti.
«Non è vero.» Risponde lui, tranquillo. Afferra
il lembo del lenzuolo e mi scopre le gambe, poi mi fa mettere seduta. Vedo che
esita un attimo quando del sangue scende dal tubo del drenaggio – cosa che
succede praticamente a ogni mio movimento – ma constatandone la quantità
irrisoria procede nel suo intento e mi tira, così che sono costretta a puntare
i piedi per terra per mettermi in posizione verticale. Trattengo una miriade di
imprecazioni al dolore insopportabile del tubo e premo la fronte sul suo petto,
espirando piano con un gemito sofferente. Lui mi accarezza la testa con una
mano e mi sorregge con l’altra, forse per infondermi un po’ di coraggio.
«Bravissima. Dai, vieni a sederti per mangiare.»
«C’è il tavolino accanto al letto per
mangiare...» Mormoro afflitta, e lui stringe la presa sulla mia nuca. Non mi
risponde, ma mi trascina piano in avanti per invogliarmi a muovere qualche
passo. Stringo i denti e due minuti dopo mi siedo con un sospiro fiacco sulla
sedia blu accanto al tavolo. Solo quando la ferita smette di pulsare mi rendo
conto che ho attraversato tutto il corridoio con le mie gambe.
Anne è sbigottita. «Non ci posso credere. Io ho
sudato freddo per farla semplicemente mettere in piedi!»
Christian sorride, e all’ilarità generale si
uniscono anche le figlie della signora. «Nessuno può opporsi al mio volere.»
Afferma con un sopracciglio alzato e l’aria di chi la sa lunga.
Faccio schioccare la lingua e agito il cucchiaio
di plastica. «Ma smettila, che ti faccio il bagno col brodo...»
***
Nel tardo pomeriggio, all’allegra combriccola
composta – sempre e comunque – dai due pilastri irremovibili al secolo
conosciuti come Anne e Christian, si aggiunge Cooper. Entra con un sorriso
smagliante tutto rivolto a sua moglie. Troppo smagliante. Le si avvicina
delicatamente, la stringe a sé e la culla piano tra le braccia, solleticandole
la fronte con le labbra. Okay, sto per vomitare di nuovo. Non ho mai visto una
scena del genere in casa Lewis. Cioè, non che di solito si scannino, ma
insomma, il livello di zuccheri è schizzato alle stelle!
C’è qualcosa che non quadra, e me ne accorgo
dallo sguardo di Anne che intercetta il mio e lo distoglie subito. Mhmm.
«Ciao cugina, come ti senti?» Dice infine Coop,
sollevando una mano nella mia direzione.
«Oh, ma tranquillo, non badare a me. Non sono mica
io il motivo per cui siamo tutti riuniti in questa stanza.» Replico sarcastica,
ma mantenendo il sorriso. Anne si muove sul posto con un piglio isterico. Sta
nascondendo qualcosa. Oh, sì. Guardo Christian di sottecchi e vedo che sorride
rivolto a lei.
Complottatrice! Ha cospirato qualcosa contro di
me mentre dormivo. Me lo sento! Sta uscendo con la testa fuori dal sacco, la
piccola Anne... merito di Rachel, sicuramente, quell’altra pazza schizzata che
vuole appiopparmi al codino biondo che non si sgancia da questa sedia manco a
pagarlo. Oh, cielo.
Povera me.
#Well,
I’m back, back, Well I’m back in black, Yes I’m back in black#
«Oh. Oh. Il capo.» Annuncio, solenne,
riconoscendo la suoneria del mio cellulare. Anne guarda Christian che guarda me
e io alzo gli occhi al cielo mentre afferro il telefono. «Il grande capo. Pronto? Ehi, Martin. Ciaaao.»
Sorrido e cerco di sistemarmi sul letto come se potesse vedermi. «Sì, sto
meglio, grazie. Non posso ancora camminare senza piegarmi in due dal dolore ma,
almeno a detta dei medici, dovrebbe passare in fretta. Già. Sì, sì, lo so.
Credo di sì... mhmm... d’accordo. Sì, è qui. Te lo passo? Oh, va bene. Ciao.» Riattacco
e guardo Christian.
«Ha chiesto di me?»
Annuisco, e mentre sto per chiedergli come mai
non vada in ufficio invece di farmi la guardia, qualcuno bussa alla porta. È un
ragazzo con un grande mazzo di fiori. Muove qualche passo incerto nel corridoio
e poi legge distrattamente il biglietto che accompagna il regalo.
«Elettra? Chi è?» Alzo la mano quando sento il
mio nome e lui recapita la sorpresa fiorita direttamente tra le mie braccia.
Apro il biglietto e leggo ad alta voce: «Tanti
cari auguri di pronta guarigione. Christopher, Mike e Clara.»
«Wow, si sono sprecati.» Commenta Anne,
corrugando la fronte mentre passa la mano sui petali finti.
«Questo è per aver scelto Panama.» Rispondo,
alzando gli occhi al cielo. Odio i fiori. Sono inutili, puzzano e sporcano.
Come i cani.
«Etciùùùù! Oh,
Signore. Come faccio a essere allergica anche ai fiori finti?» Anne si porta
una mano sul naso e starnutisce di nuovo, per poi sbattere gli occhi già
semigonfi.
«Tesoro, vieni via. Dai, ti fa male. Attenta.»
Borbotta Cooper, allontanandola dal mazzo incriminato con fin troppa veemenza.
Cosa le farà male? Starnutire troppo? Ha paura che le parta un embolo?
«C’è qualcosa che devo sapere?» Aggrotto la
fronte e Anne serra le labbra, imbarazzata. Cooper invece guarda altrove efinge di non aver sentito. Bene, come volete,
ignoratemi. Ma sto per ripetere la domanda all’infinito finché uno dei due non
sputerà il rospo. O mi darà una botta in testa. Quindi, tre, due, uno…
«Ciaaaao!» A
interrompermi è la voce di Rachel, che entra tutta saltellante e mi guarda con
un sorriso a più denti del normale.
«Ciao! Oh mio Dio.» Anne la abbraccia e
arrossisce quando, dopo di lei, vede un uomo alto, dai capelli castano-rossicci
e gli occhi azzurri che noialtri conosciamo molto bene. «Salve.» Balbetta,
timida, stringendogli la mano.
«Buonasera. Io sono Thomas, lieto di
conoscervi.» Replica lui, presentandosi a mia cugina e suo marito. Poi si
rivolge a Christian e gli si avvicina salutandolo con una pacca sulla spalla, a
me invece dà un bacio sulla guancia.
«Come ti senti? Senza di te è una noia mortale.»
Mi dice, sedendosi sulla sedia che Christian gli cede.
«Ma se non mi vedi mai…»
Rispondo, ridendo.
«Beh, gli aneddoti che ti riguardano fanno il
giro dell’ufficio molto in fretta, cara Miss Wayne.» Per un microscopico
momento mi si ferma il respiro, pensando al fatto che abbia associato il cognome
di Christian a me. Poi ricordo di avere lo stesso cognome e torno a inspirare
regolarmente.
Come
sei scema.
Vero?
«Non vi manca Christian? Perché non ve lo
riprendete?» Alzo una mano per indicarlo e Thomas ride sotto i baffi. Scuote la
testa e incrocia le braccia al petto.
«Lasciami un po’ di respiro. Non è bello avere
sempre il cocco di Martin tra i piedi, sai.» Lo sfotte, ma Christian non si
muove di un millimetro. Sorride composto, come sempre. Ma sorride sempre?
Cielo. Come fa?
«Come siete eleganti. State uscendo?» Interviene
Anne, attenta osservatrice della mise
di entrambi.
Rachel diventa rosso Thomas e annuisce
timidamente. «Andiamo in quel pub… dove dovevate
venire anche voi, o sbaglio?» Lancia un’occhiataccia più a me che a Christian e
io la ignoro beatamente.
«Oh, che bello! Perché non andate voi due con
loro, invece, ragazzi?» Devio prontamente l’attenzione da me e Christian e
sorrido ai miei cugini.
«Ah… non lo so…» Incalza Anne, guardando Cooper che scuote
immediatamente la testa. Anne è contrariata, lo vedo dal suo sguardo. «Mmm…
beh, forse volete uscire da soli… perché
accompagnarsi a due vecchi sposati?» Ridacchia, e Rachel la guarda stranita.
«Cosa? No, ci fa piacere se venite. Dai, ci
divertiamo!»
Anne guarda di nuovo Cooper e Cooper guarda la
sua pancia. «No, potresti stancarti, amore… non credi
che sia meglio-»
«Oh, per l’amor del cielo, Coop! Sono incinta di
tre settimane e tu sei già così apprensivo!»
Una volta sganciata la bomba, nella stanza cala
un silenzio degno delle catacombe cristiane. Una roba inquietante, se ci siete
stati.
«Ecco, non dovevate venire a saperlo così, ma…
sorpresa!» Sdrammatizza Anne con un sorriso accecante. «Ta-dàn!»
«Ma auguriiii! Congratulazioniii! Cosa si dice in questi casi? Felicitàààà!» Grida Rachel mentre si precipita ad
abbracciare Anne.
«Ecco cos’avevate di strano tutti e due!
Potevate dirlo subito, accidenti. Beh, Coop. Congratulazioni ai tuoi
spermatozoi per aver ingravidato mia cugina. Cugina…
sei contenta?» Anne mi sorride raggiante. Non c’è bisogno che risponda. «Allora
tanti auguri, vieni qui.» Lei non se lo fa dire due volte e viene ad
abbracciarmi. «Anche se non ti farò mai da babysitter, lo sai vero?»
«Certo che lo so. Ma cambierai idea, un giorno.»
L’occhiata che scocca a Christian non se la perde nessuno.
«Bene, ora che siamo tutti d’accordo perché non
ve ne andate così la smettete di parlare di amore, di cene e di figli?» Dico
risoluta facendo cenno di sloggiare con le mani.
«Oh, d’accordo. La paziente ci sta cacciando.
Mai mettersi contro le pazienti isteriche, sono pericolose.» Dichiara Rachel,
tirando Thomas per un braccio mentre si allontana nel corridoio. Anne e Cooper
sono altrettanto veloci a squagliarsela quasi senza salutarmi.
“Ciao, ciao, ciao, baci, baci, ci vediamo, sì,
sì, baci.”
E in men che non si
dica, tra un battito di ciglia e l’altro, sono rimasta da sola. Con Christian.
Porca miseria.
D’accordo.
Niente di nuovo, no? Dopotutto siamo sempre soli in ufficio. Beh, quasi. E a
casa mia siamo stati soli. E in macchina anche. E...
Ti
devo ricordare che ti ha vista in lingerie provocante come nemmeno Alessandra
Ambrosio di Victoria’s Secret?
No,
grazie, non c’è bisogno.
«Hai
caldo?» Mi chiede Christian, interrompendo il dialogo immaginario con Violet e
tornando al suo posto sulla sedia.
«No,
perché?» Alzo un sopracciglio. Che domanda è?
«Sei
arrossita.» Spiega, sorridendo. E ti pareva. Da quando mi hanno operato, non
capisco più il mio corpo.
Io
non capisco più il tuo corpo da quando hai incontrato Christian.
Infatti
tu non esistevi!
Mpf.
«No,
stavo pensando.» Rispondo, e un istante dopo sento di essermi scavata la fossa
da sola, con tanto di pala e di terreno accumulato in un angolo.
«A
cosa?» Ecco. L’ho già detto che sono Nostradamus? Maledizione.
«Ma… un
etto di affari tuoi?» Contrattacco con un sorriso. «Piuttosto, perché non mi
racconti tu qualcosa?» Rilancio, piccata.
Christian
ripone il manoscritto che stava leggendo e si china in avanti, poggiando le
braccia sulle ginocchia, come quella sera sulla sdraio. Il che non presagisce
nulla di buono.
«Cosa
vuoi sapere?» Domanda, tranquillo.
Espiro
lentamente e distolgo lo sguardo dal suo mentre penso a cosa chiedergli.
Guardando oltre la sua schiena, vedo le sedie vuote accanto al letto della
donna che sta dormendo. Siamo proprio soli.
Torno
con gli occhi in quell’azzurro, mi ci perdo per un istante. Faccio spallucce,
poi ripenso agli ultimi giorni.
«Siete
molto amici tu e Tony, vero?»
Che
domanda profonda.
Christian
annuisce senza perdere il sorriso. «Sì, è uno dei migliori. Sono fortunato a
lavorare con lui.» Dice, e fa una piccola pausa per valutare il mio interesse.
Quando capisce, da non so cosa, che l’argomento mi incuriosisce davvero,
prosegue. «Tony è stato l’unico ad accogliermi con un sorriso genuino e una
pacca sulla spalla, alla MP. Avendo qualche anno in più mi ha, per così dire, adottato
come un fratello minore e mi ha insegnato tanto. Certo, è pazzo. A volte
insopportabile, l’hai constatato anche tu. È proprio per questo che ho dovuto
ospitarlo tre mesi quando ha divorziato da sua moglie.»
«Cosa?
Tony è divorziato?» Lo interrompo, incredula. «Credevo fosse single perché
donnaiolo incallito!»
Lui
ride. «Sì, anche. Lo è sempre stato, ma Susan l’ha amata davvero. Peccato che
lei abbia preferito un cubano più giovane di vent’anni, dopo sette di
matrimonio.»
«Cielo.»
Mi passo una mano sulla fronte, sgomenta. Ora mi fa tutto un altro effetto
pensare a lui. «E così avete convissuto tre mesi. Wow. Immagino cosa sarà
diventata casa tua.»
«Un
night club.»
Scoppio
a ridere e lui si stropiccia piano un occhio, mentre sorride al ricordo.
«Ho
dovuto tirarlo su col cucchiaino a volte, ma alla fine ce l’ha fatta. Ora sta
benissimo, come vedi.»
La
domanda che mi preme sulla bocca dello stomaco non riesce a restare lì. «Ora
sarebbe pronto per un’altra storia importante?» Parlo fissando il lenzuolo, poi
incrocio i suoi occhi e mi sento arrossire. Perché ho la sensazione che sappia
cosa c’è dietro a questa domanda?
«Non si
è mai pronti a livello mentale. Se glielo chiedessi ti zittirebbe con una
risposta ironica delle sue. In fondo, però, so – e lo sa anche lui, nel suo
cuore – che se incontrasse la persona giusta si lancerebbe a occhi chiusi, e le
darebbe più di quanto non abbia fatto con Susan. Deve solo incontrarla.»
DIN
DINDINDINDIN! Christian 3.000.000 – Elettra X
Affondo
nel cuscino e sospiro confusa, poi lo guardo di sottecchi.
«Ma non
ti dicono nulla a lavoro che sei sempre qui?» Sibilo col broncio.
«Sono
così fastidioso e inopportuno?» Domanda interessato mentre si raddrizza sulla
sedia e incrocia le braccia al petto.
«No,
io... non volevo dire questo.» Balbetto, la gola improvvisamente riarsa.
«E
allora non preoccuparti del lavoro.» Mi sorride gentile e vittorioso. Ah,
maledetto.
La ruota nella mia testa continua a girare alla ricerca di
una nuova domanda da fargli. «Cosa fai nel tempo libero, oltre a soccorrere
traduttrici malate?»
«Accompagno colleghi dai gusti discutibili in giro per
negozi.»
«E contatti agenzie immobiliari.»
«Già. Proprio così.»
Mi
specchio nel suo sorriso contagioso e bellissimo e non posso fare a meno di abbassare
lo sguardo, imbarazzata. È lui a riprendere le redini della conversazione per
riportarla sul piano originale.
«Nel
tempo libero – che attualmente è molto poco, perché mi sto dedicando molto al
lavoro – cerco di passare del tempo con gli amici e la famiglia. E vado in
palestra.»
«Ah, ma
dai? Non si direbbe.» Mi porto una mano sotto il mento e lo squadro dubbiosa.
Lui ride, grattandosi la tempia, gesto che esalta il bicipite chiamato in
causa.
«Hobby?
Oltre la palestra, se la consideri tale. E dovresti, visto che non ne hai bisogno…» Ma sto blaterando da sola e quindi è meglio smetterla…
«Ti
rispondo solo se ti alzi.» Replica lui, mettendosi in piedi e offrendomi le
mani.
«Cosa?
Che razza di ricatto è mai questo?» Mi lamento spazientita. «No che non mi
alzo. Sto così bene qui.» Piccola bugia. Ignoriamo il dolore alla schiena per
la posizione che non cambio da due giorni.
«Per
favore. Il dottore ha detto che domani mattina torni a casa. Vorrai tornarci
sulle tue gambe, spero.» Alla sua risposta sbuffo e gli stringo le mani, mentre
faccio leva sulle gambe per alzarmi.
«Altrimenti
che fai, mi ci porti in braccio?» Borbotto con un sopracciglio sollevato.
Quando incrocio il suo sguardo corredato di sorriso sadico emetto un sospiro scocciato.
«Sì, è da te. Va bene, uno, due…ossantocielo
che male.» Mi tengo la pancia con una mano mentre con l’altra mi reggo al
braccio di Christian che mi accompagna fino alla sedia.
«Hai
visto? Niente di impossibile.» Mi imbecca gentile, portandomi una ciocca di
capelli dietro l’orecchio. Dio, devo fare uno shampoo. Prima di subito.
«Se,
se. Tanto mica fa male a te. Ahi.» Mi massaggio l’addome con una smorfia e lui
mi scruta con gli occhi da cucciolo dispiaciuto. No, dai, non guardarmi così…
Che
si scioglie.
Ma chi,
io? Tzè.
«Allora,
questi hobby?» Mugugno con un filo di voce quando la pelle smette di tirare
almeno un po’.
«Dunque…
beh, la lettura su tutti. Sembra strano, dovrei averne fin sopra le orecchie di
libri e manoscritti con il lavoro che faccio, ma ho sempre meno tempo per
leggere libri finiti, puliti e stampati che non necessitano di correzioni di
alcun genere. Ho una pila di libri da leggere che tra poco festeggiano il loro
primo compleanno a casa mia. Assurdo.» Si passa una mano sul viso, stanco, poi
torna a sorridere. «Adoro il surf, ma non posso definirlo un hobby a tutti gli
effetti visto che lo pratico solo in qualche periodo dell’anno. Sono contento
che tu abbia scelto Panama, a proposito, proprio per questo. Ah, sarà stupendo surfare lì!» Gli occhi gli si illuminano al solo pensiero e
per un istante sembra sprizzare quell’ardore e l’entusiasmo tipico della
giovinezza da ogni poro. A volte dimostra più anni della sua età, ma credo sia
per la responsabilità che il suo lavoro comporta. Rieccolo
che torna in sé, riflettendo ancora sulla domanda. «Quando posso vado a giocare
a tennis con mio padre e, in ultimo… colleziono farfalle.»
Conclude con un sorriso.
«Cosa? Vive?» Chiedo con gli occhi sbarrati
immaginando barattoli della marmellata o cilindri di vetro pieni di farfalle
svolazzanti come nel film di Sherlock Holmes. Le incanta anche lui coi violini?
«Certo
che no.»
Un
piccolo dubbio spunta nella mia mente come un germoglio di soia. «Parli in
senso figurato?» Domando a voce estremamente bassa. Ma lui sente lo stesso, e
scoppia a ridere. Quando riprende fiato, prova a rispondere ma un altro accesso
di risa glielo impedisce.
«Ah,
Elettra. Sei meravigliosa.» Dice, una volta calmatosi. «No, nemmeno in senso
figurato. Sono essiccate. Come quelle che vedi nei musei, possibile che tu non
le abbia mai viste?»
Improvvisamente
vengo colta da un lampo di genio. «Aaaaaaaah. Certo.
Wow, davvero? Non ti facevo un tipo… farfallone.
Cioè, amante delle farfalle. Okay, riuscirò a dirlo senza che abbia un doppio
senso? Hai capito, comunque.» Christian annuisce. «Anche a me piacciono.»
«L’ho
notato.» Commenta con un angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso.
«Orecchini, stampe sulle maglie, scarabocchi sui manoscritti…»
Simulo
un colpo di tosse e mi sento avvampare, manco avesse detto che mi ha vista
nuda. Il che sarebbe anche vero. In parte. Il fatto che Christian mi osservi mi
inquieta.
«Mi
piacciono anche le piume, comunque.» Dico, tanto per dire qualcosa. Poi, con
mia – e sua – grande sorpresa, provo ad alzarmi da sola per tornare a letto. Lui
mi accompagna lasciandomi fare ma sempre vigile nel caso abbia bisogno di
aiuto. Mi sostiene con una mano mentre mi stendo sul materasso ed emetto un
lungo sospiro.
«Si è
fatto tardi, dovresti andare.» Indico con un cenno del capo le finestre che
danno su un cielo quasi scuro e lui annuisce.
«Sì, è
vero, ma ora sei da sola. Anne e Rachel sono fuori…»
«Tranquillo,
è l’ultima notte qui e sto già meglio. Ce la faccio a restare da sola.»
Christian
sembra abbastanza sereno. «D’accordo. Anne mi ha detto che starai da lei per il
weekend, vero?»
Faccio
una mezza risata. «Già. Per tua somma gioia non torno ancora nella bettola.»
«Sì, ci
mancherebbe solo qualche vicino approfittatore a farti da infermiere...»
Non so perché penso a Ethan e ciò mi provoca uno spiacevole brivido che maschero grattandomi una
spalla. Lui ha la bocca piegata in una smorfia talmente sdegnata che sembra
aver mangiato del sushi avariato. «Beh, comunque. Indovina chi ti viene a
prendere domani, per tua somma
gioia?» Christian torna all’argomento precedente con un sorriso beffardo che mi
fa venire voglia di prenderlo a schiaffi.
«Oh ma
non mi dire, tu?» Mi fingo sorpresa e lui scoppia a ridere, poi si alza.
«Già.
Cooper ha una incontro importante e Anne non sapeva come venire. Per fortuna ci sono io… lo so, lo so,
non sai come ringraziarmi. Tranquilla. Un giorno saprai ripagarmi.» Imita la
voce profonda di un doppiatore e agita la mano in segno di condiscendenza.
Premo le labbra una contro l’altra per non ridere e per un attimo mi perdo nel
suo sguardo.
«A
domani, James Bond dei poveri.»
~ Note
Lo so, lo so, sono imperdonabile. Non starò
qui a discolparmi anche se di giustificazioni ne avrei a sufficienza, semplicemente
non voglio ammorbarvi. Quello che conta è che questo capitolo sia finalmente
approdato qui e che vi sia piaciuto!
Note particolari non ce ne sono, se non che
la scena della prima “camminata” con drenaggio e tutto è successa davvero –
come tutto, del resto –, soltanto che al posto di Christian c’era il mio
fighissimo ginecologo. Ci tengo anche a dire che i rutti della signora del
primo letto li ho sentiti con le mie orecchie ed erano una cosa assurda. Povera
donna, certo, ma avrebbe potuto contenersi XD
Spero, spero davvero vivamente e con tutto
il cuore di riuscire a scrivere come una volta – l’ispirazione è una brutta
bastarda a volte – per aggiornare presto. Ci sono tante cose che devono
succedere.
Vi ringrazio, non infinitamente ma di più per le splendide recensioni e
per i numeri di preferiti, seguite e ricordate che lievitano ogni giorno.
Grazie, davvero.
“I said maybe you’re
gonna be the one who saves me,
And after all you’re my wonderwall”
– Oasis, Wonderwall
«Eccoci quaaaaa!» Anne
saltella di metro in metro come un ape vola di fiore in fiore e mi schiocca un
bacio sulla guancia, felice come una Pasqua. Christian dietro di lei, ormai
onnipresente, mi saluta con una carezza sul capo e inizia ad aprire l’armadio
per recuperare tutta la mia roba.
«Oggi si esceeee, sei
contenta? Dai, alzati, vediamo quanto sei brava.» Guardo Anne con palese scetticismo
e con non poca fatica riesco a mettermi in piedi da sola. Anche Christian mi
guarda sorpreso e compiaciuto. Devo ammettere che senza drenaggio è tutto un
altro paio di maniche, anche se sono sempre indolenzita. Bleah,
il solo ricordo dell’estrazione di quel tubo mi provoca i brividi. Dio,
menomale che il dottore ha fatto uscire Christian. Mi sarei suicidata piuttosto
che farlo assistere a quella scena macabra. Anne a momenti scoppiava a
piangere.
«Finisco io di rimettere tutto in valigia, tu
puoi accompagnarla dal dottore così le toglie l’affare della flebo dal braccio
e le firma la cartella clinica?» Chiede Anne a Christian, il quale acconsente
senza replicare. Mi sostiene con una mano dietro la schiena mentre cammino
lentamente verso l’infermeria, dove credo mi stia aspettando il chirurgo.
«Come ti senti? Capogiri? Nausea?» Si informa
quest’ultimo una volta entrati nella stanza. Io scuoto la testa, anche se
debolmente; un po’ di vertigini le avverto, ma non voglio passare un minuto di
più qui dentro. Dopo avermi liberato dell’ultimo tubicino che avevo infilato
nel braccio e dopo aver chiuso le faccende burocratiche del caso, mi fornisce qualche
altra indicazione.
«I punti che ti ho messo cadranno da soli tra
una settimana o anche meno. Cerca di non bagnarli quando fai la doccia, tieni
sempre le medicazioni sopra. Adesso ti prescrivo la pillola...» Dice, e cerca
un foglio sul quale scrivere. Scarabocchia qualcosa con la tipica grafia
incomprensibile dei medici e mi porge la pagina, che piego e metto in borsa.
«Che altro dire? Mangia leggero in questi giorni, non affaticarti. Riposa
tanto. Se hai problemi di qualsiasi genere chiamami, ma ti sei ripresa
splendidamente quindi sono decisamente ottimista.» Mi sorride e poi guarda
Christian. «Per la ripresa dei rapporti sessuali non c’è problema, basta una
settimana perché possiate ritrovare la vostra intimità.» Spalanco la bocca
allibita a quell’affermazione e la mia faccia diventa una superficie bollente
sulla quale arrostire le castagne. Nessuno fiata e il dottore non si accorge di
nulla, piuttosto ci dà una pacca sulla spalla e ci saluta, sparendo nel
corridoio. Christian e io rimaniamo a fissare l’aria davanti a noi per qualche
secondo.
Vedo che schiude le labbra per dire qualcosa ma
alzo un dito e lo blocco: «Non. Dire. Niente.» Sibilo, ricevendo una risata in
risposta.
«Che succede? Sei rossa come l’Audi di
Christian.» Esclama Anne quando ci viene incontro in corridoio con la valigia
in mano, di cui lui la libera subito per aiutarla.
Lascio che lui si avvii all’ascensore e le
sussurro cos’ha detto il dottore. «Quell’imbecille non ha capito proprio
niente!»
«Invece secondo me ha capito tutto e vi ha
mandato una frecciata bella e buona.» Commenta lei, sicura di sé.
«Certo, perché ormai lo scopo del genere umano
non è più la pace nel mondo ma far mettere insieme Christian ed Elettra!»
Sbuffo, esasperata. Lei ride sommessamente e finge indifferenza quando entriamo
nell’ascensore con Orione. Le porte si chiudono e io posso finalmente dire
addio a quest’ospedale.
***
Arriviamo a casa Lewis mezz’ora dopo,
sfrecciando nella fiammeggiante auto di Christian. La giornata è soleggiata e
abbiamo viaggiato con la capote abbassata, gongolanti e fiere del nostro
chauffeur.
Scendo lentamente dall’auto e percorro il
vialetto lastricato in cotto con l’aiuto di Anne, mentre Christian porta dentro
armi e bagagli. La casa profuma di limone e di pulito.
Anne mi accompagna nella camera degli ospiti
dove fino a due giorni fa dormiva mia sorella e io mi lascio cadere sul letto –
molto delicatamente perché i punti tirano – ed emetto un sospiro strascicato da
drogata in preda a una crisi. Christian sta posando la valigia a terra e la mia
borsa sul comodino. Sorride, e io chiudo gli occhi e continuo a mugolare per
l’orribile sensazione di indolenzimento, semi-paralisi nonché dolore all’osso
sacro per l’essere stata troppo tempo sdraiata nella stessa posizione.
«Mmmmmhhhh... mi sento
un’invalida di guerra. Odio le mie ovaie!» Mi porto le mani sugli occhi e i due
scoppiano a ridere. «Che ridete? Cosa c’è
da ridere? Bah.»
«È che non ti abbiamo mai vista in questo stato.
Sei divertente. Ispiri anche un po’ di tenerezza, sai.» Mormora Anne, con
Christian alle sue spalle che non perde il sorriso.
«Io vi detesto. E tu non ridere, mi avevi
promesso i Mars e invece sei un traditore!» Esclamo petulante rivolta a
Christian che, appena mi sente, si china sulla valigia e poco dopo fa atterrare
una busta da cinque Mars sulla mia fronte. «Ahi.» Mi lamento, a bassa voce.
«Donna di poca fede, non li meriteresti per come
mi hai appena chiamato.» Mi rimprovera e io serro le labbra, imbarazzata. Mi
rigiro il pacco di Mars tra le mani con l’acquolina in bocca e sollevo lo
sguardo con gli occhi da cerbiatta più convincenti che riesca a fare, poi
allargo le braccia.
«Abbraccio?» Mormoro, provocando un’improvvisa
esultanza da stadio in Violet e un sorriso sorpreso in mia cugina. Christian,
invece, mi guarda con l’aria di chi ha capito il gioco ma mi asseconda
ugualmente. Si siede sul letto accanto a me e mi stringe.
«Ruffiana.» Sussurra, e io sorrido contro il suo
collo. Mi scopro a trattenermi dal posarvi sopra le labbra, e questo pensiero
mi fa stringere lo stomaco. Quando scioglie l’abbraccio e si allontana, poso la
testa sul cuscino e mi delizio delle ultime tracce del suo profumo imprigionate
nell’aria attorno al mio naso.
«Mangiane una metà alla volta.» Mi ordina,
indicando le barrette che stringo tra le mani e che sto già assaporando
mentalmente. «Il dottore ha detto che devi mangiare sano e leggero. Non voglio
averti sulla coscienza.» Continua, e si alza, lisciandosi la camicia.
Io annuisco da brava bambina e penso che dovrò
chiedere ad Anne di metterli sotto chiave come gli alcolici o rischio di
mangiare tutto il pacco nel giro di un quarto d’ora.
«Fanciulle, adesso devo lasciarvi.» Dichiara
Christian dopo aver guardato l’orologio. «Torno al lavoro.» Mi posa un bacio
sulla fronte, invitandomi a riposare. Poi passa davanti ad Anne, le stringe il
braccio affettuosamente e lei gli si aggrappa al collo ringraziandolo
infinitamente per tutto quello che ha fatto.
***
«Ele, è pronta la cena, ce la fai ad alzarti?»
A svegliarmi è Cooper, che parla piano accanto
al letto, fissandomi coi suoi occhi chiari e sorridenti.
«Mmmh…» Basta, ho davvero assunto le sembianze
di un bradipo, non posso dormire tutto questo tempo! Beh, almeno oggi ho fatto
qualcosa di costruttivo: lo shampoo. Subito dopo aver salutato Christian, mi
sono trascinata in bagno e con non poco sforzo Anne è riuscita a lavarmi i
capelli. Erano un disastro totale, una cosa abominevole, che persino Filippo
appena tolta la ‘maschera di ferro’ sarebbe inorridito. Poi sono letteralmente
crollata, dopo aver visto sì e no venti minuti di una replica decennale di Una mamma per amica. Peccato, perché mi
piaceva quella puntata.
«Se non ce la fai te la porto qui, ma dovresti
davvero alzarti, sai cos’ha detto il dottore.» Mi dice premuroso il mio caro
cugino acquisito, e io annuisco.
«Sì, dammi il tempo di smobilizzarmi e sono da
voi.»
Quando Cooper esce dalla camera, mi tiro a
sedere, inspirando profondamente per il dolore alla pancia e ai punti. Lancio
un’occhiata al comodino per vedere che ore sono e noto che sul display del
cellulare lampeggia l’icona di una lettera.
Sblocco lo schermo e apro la casella dei
messaggi: Christian. Sorrido, senza neanche sapere perché. È la prima volta che
mi manda un messaggio.
“Come sta la malata?”
Controllo l’ora: l’ha mandato dieci minuti fa.
Le dita si muovono da sole sul display.
“Male. La mania assassina si è centuplicata. Non
posso muovermi troppo perché potrebbe esplodermi la pancia” Rispondo, e dopo
qualche secondo il cellulare vibra di nuovo.
“Vuoi che venga a farti un massaggio?”
Dannazione.
Tu-tump,
tu-tump, tu-tump.
Lo sento da me, grazie, non c’è bisogno che me
lo fai notare.
“Potresti finire con un altro occhio nero, per
essere ottimisti” Scrivo, ghignando da sola.
La sua risposta non tarda ad arrivare: “Correrei
il rischio”
Violet sta scegliendo un abito da sposa, vagando
in strati e strati di tulle bianco.
“No, non voglio che tu mi veda così” Non sono
molto soddisfatta della risposta, avrei potuto fare di meglio. Mentre sto
ancora riflettendo, il telefono vibra.
“Stai seriamente facendo la pudica con me dopo
che ti ho visto vomitare in ospedale?”
Mio malgrado mi ritrovo a ridere tra me. Digito
in fretta, Anne mi sta chiamando.
“Ok, hai ragione. Ma non c’è bisogno, davvero. È
pronta la cena, devo andare. A presto”
Aspetto la sua risposta prima di scendere dal
letto e camminare lentamente verso la cucina.
“Non affaticarti troppo. Ti chiamo domani. A presto”
Stai
sorridendo. Perché sorridi?
No che non sto sorridendo. È una smorfia dovuta
al dolore, che credi?
Allontano momentaneamente il pensiero che lui mi
chiamerà domani e mi siedo delicatamente sulla sedia accanto ad Anne.
«Perché sorridi?»
«Cosa?» Alzo gli occhi dal mio piatto e li punto
in quelli di Cooper, che mi guarda con un mezzo ghigno. È carinissimo quando
ride, ha un’espressione da prenderlo costantemente a sberle. In senso buono,
s’intende.
«È vero, stai ridendo.» Nota Anne, curiosa. «Che
ci nascondi?»
«Niente. È una contrazione involontaria delle
mie labbra dovuta ai punti che tirano. Già. Buon appetito, mpf.»
Nascondo la bocca nel piatto – quant’è carino il mio brodino incolore insapore
e inodore – e cerco di stare attenta ai miei muscoli facciali. Non stavo mica
sorridendo perché aspetto la telefonata di Christian. Io, Elettra Wayne? Ma per
favore.
«Mi ha chiamato Rachel. L’appuntamento è andato
benissimo.» Dice Anne, dopo aver mandato giù l’ultimo pezzo di pollo al curry.
Solidale mia cugina, vero?
«Sul serio? Grande!» Tiro indietro il gomito col
pugno chiuso in un gesto di esultanza che si trasforma in un lamento quando la
pelle dell’addome si tira come quella di un tamburo africano. «Beh? Racconta!»
Anne è tutta un sorriso. «Voleva essere lei a
dirtelo, ma lo sai che non so tenere nulla per me.» Prende fiato prima di
iniziare a riferirmi quello che le è stato detto.
«Sì, infatti.» Conferma Cooper alzando gli occhi
al cielo, forse riferendosi alla notizia della gravidanza.
«Zitto tu.» Lo liquida con un gesto della mano.
«Allora… partendo da quando è andata a prenderla sotto casa prima di venire in
ospedale da te, mi ha raccontato che naturalmente era in super ansia, e si
aspettava chissà cosa – cioè d’esser presa e sbattuta nel muro – ma lui si è
comportato da perfetto gentleman con tanto di baciamano e tutto il resto.»
Quasi vomito per la dolcezza. «Forse un po’ ingessato, come in ospedale.
Secondo me è timido. Comunque, arriviamo al ristorante e dopo neanche dieci
minuti Cooper e Thomas iniziano a discutere di rugby. Ti giuro, non ci potevo
credere. Non ci hanno degnato di uno sguardo per quasi tutta la cena. Rachel
era isterica.» Lancia un’occhiataccia
al marito e io inizio a ridere disperatamente. Disperatamente convinta di aver
fatto un errore madornale a combinare questo appuntamento. «Quando finalmente
la smettono e ci includono nella conversazione, Rachel dice sì e no tre parole
in croce, crocifiggendo Thomas nella sua mente. Quando poi Coop e io ce ne
siamo andati, mi ha raccontato che sono andati a fare una passeggiata sul
lungomare accanto al ristorante, e lui ha avuto il barbaro coraggio di
chiederle cosa avesse.»
Mi porto una mano sul viso. «Non vorrei essere
stata al suo posto. L’ha sbranato?»
Anne ride. «Sì. Gli ha praticamente urlato
qualcosa tipo: “Cosa dovrebbe esserci che non va? Tutte le ragazze che escono
finalmente con il tipo per cui stravedono da anni non desiderano altro che
vedere una stupida partita di rugby e sentirlo parlare di quella tutto il
tempo! Anche se hai una voce sexy non vuol dire che debba stare a sentirti
ammorbarmi di rugby per tutta la sera, dannazione!”»
«Oh mio Dio. E lui?» Prevedo il peggio. Aiuto.
«Lui l’ha baciata.»
Spalanco la bocca. «No!»
«Sììììì!» Anne sprizza gioia da tutti i pori.
Sono sicura che anche la minuscola creaturina dentro di lei stia esultando, in
qualche modo. «E poi hanno passeggiato romanticamente parlando di cose smielate
che non starò qui a raccontarti, e quando l’ha riaccompagnata a casa l’ha
baciata di nuovo.» Conclude con un sospiro sognante. «Che peccato che non siate
potuti uscire anche tu e Christian. Sono sicura che Rachel vi avrebbe
costretti.» Tutti i cuoricini svaniscono; Anne mi sta guardando con un’aria
vagamente malvagia.
«Che credi, l’ho fatto apposta a farmi scoppiare
una cisti. Tutto calcolato. Come sono brava, eh?» Sorrido a ottantanove denti e
Anne scuote la testa.
«Come no. Tuo malgrado, sono sicura che saresti
stata più contenta di andare a cena con Christian, e ora staresti al settimo
cielo come Rachel, piuttosto che andare in ospedale.»
«No. Diciamo che sareistata più contenta se ci fosse finito lui, in ospedale.» Ribatto,
fiera di me.
«Sì, con te che prendi il posto di
un'infermiera, lo rinchiudi nello stanzino delle scope con un cerotto sulla
bocca e abusi di lui!(*)» Non posso fare a meno di ridere con loro a
quest’affermazione, immaginando la scena.
Quando torno in camera, mi stendo sul letto e
controllo il cellulare: sul display lampeggia l’icona di una chiamata persa. In
un angolo dell’icona c’è un piccolo tre, che indica tre tentativi di chiamata.
Il mio cuore perde parecchi battiti mentre sblocco il telefono per scoprire chi
è stato a cercarmi. Una piccola, minuscola, flebile speranza si fa strada tra i
miei pensieri.
Quello che leggo, però, mi fa soltanto
rabbrividire da capo a piedi, senza sapere neanche perché.
“Sconosciuto”.
***
L’amour toujours, di Danielle
Rousseau.
Dopo la calva e guastafeste Lena Ivanov,
stavolta mi tocca un manoscritto francese. Il fatto che questa tizia si chiami
come quella schizzata del telefilm Lost
mi inquieta un po’, ma dopotutto era una brava donna. Sì.
Alla novantaduesima pagina, il calore del laptop
si fa sentire sulle gambe e anche nel mio cervello. Decido di fare un break e
perciò sfilo un Mars dalla busta che ho sul comodino. Christian ha detto che
devo mangiarne solo metà, altrimenti mi vengono le coliche e poi lui è
costretto a portarmi di nuovo in ospedale. Certo, gli piacerebbe.
Mentre strappo la carta che lo avvolge, penso al
viaggio che dovrò affrontare tra poco più di una settimana. La ripresa, per
allora, dovrebbe essere più che completa.
Quella
fisica, ovviamente. Quella mentale mi sa non ancora.
Beh…
#And when the daylight comes I’ll have to go, but
tonight I’m gonna hold you so close#
Sì, Adam, come
to mama.
Sorrido alla mia nuova fantastica suoneria – non
azzardo cambiamenti radicali neanche in quella, mai – e, mio malgrado, mi
ritrovo ad allargare il sorriso leggendo il nome sul display.
«Pronto?» Rispondo al terzo squillo, la voce
trema appena.
«Salve, parlo con la signorina Invalida?» Sta
sorridendo anche lui, lo sento.
«No, sono la Menomata, lei chi è?» Sto al gioco,
arricciando le labbra mentre fisso il Mars ancora intatto.
Christian, dall’altro capo, ridacchia. «Siamo di
buon umore oggi?»
La sua domanda mi spiazza un po’, facendomi
esitare prima di rispondere.
«Sono tornata a lavorare.» Rispondo, osservando
con la coda dell’occhio il manoscritto che giace abbandonato sul copriletto e
il laptop che starà per prendere fuoco.
Bugia.
Non è per quello che sei di buon umore.
«Mmm, sono contento. Ci manchi qui. Non c’è
nessuno che ci bacchetta e Alexandra mi sta addosso come una piattola venti ore
su dieci.»
«Ah sì?» Domando, alzando un sopracciglio.
«Già. Sembrava che tu la tenessi lontana.» Dal
tono che usa non sembra poi così dispiaciuto. Io sto pensando ai modi per
raparle il cranio senza che lei se ne accorga. Potrei provare con qualche
polverina acida…
«Oh, aspetta, ho un’altra telefonata… resti in
linea?»
«Sì, capo.» Quasi me lo immagino mentre si mette
sull’attenti come prima del piano Cupido. Allontano il cellulare dall’orecchio
e metto in attesa la sua conversazione. Quando leggo nuovamente “Sconosciuto”
sul display, mi agito nel letto senza sapere cosa fare.
Dopo quattro squilli, scorro il dito per
rispondere.
«Pronto?»
Dall’altro lato il silenzio.
«Pronto?»
Sento qualche rumore in lontananza ma non riesco
a capire di cosa si tratti. Sembrano macchinari in funzione, ma non capisco di
che genere.
«Se avete voglia di scherzare, sappiate che
state facendo tutto tranne che allietarmi la giornata. Idioti.»
Per un momento penso a Christopher e Clara. No,
non sarebbero capaci di chiamarmi col numero privato senza parlare. Vero? È uno
scherzo da ragazzini. Roba che neanche alle superiori.
«Chris…tian?» Mi correggo giusto in tempo prima
di chiamarlo col mio soprannome personale. Personale, poi. Che fantasia, eh?
«Rieccoti. Chi era? Ah, come sta Eva?» Domanda
allegro.
Cosa ti interessa di Eva ora? Mh, deve averlo
colpito. Ovvio. Colpisce sempre tutti. Al pari di una botta in testa.
«Mmm, nessuno. Eva sta bene, è tornata a curare
le pustole ai lebbrosi.»
«Ah, ti prego. Stavo cercando di mangiare,
grazie.» Commenta disgustato, facendomi ridere. Effetto sperato ottenuto.
«Mangi a quest’ora?» Sono quasi le sette, manca
qualche minuto.
«Sì, ho un appuntamento tra poco.»
«Ah, d’accordo.» Dico, dopo una breve,
infinitesima pausa. Non mi è nemmeno passato per l’anticamera del cervello
l’idea di chiedergli che tipo di appuntamento abbia. Mai.
Mai.
«Beh, devo continuare a lavorare. Vorrei
completare la traduzione per domani, domenica al massimo.» Dichiaro sbrigativa,
storcendo il naso. Non ho nessuna voglia, ora, di mettermi di nuovo a tradurre,
ma in qualche modo dovrò pur impiegare il tempo. E poi Christian ha un
appuntamento, non posso mica tenerlo al telefono. Non voglio nemmeno.
Mai.
«Oh.» Il suo tono vagamente sorpreso – deluso? –
mi fa trattenere il respiro. «D’accordo. Io mi preparo allora.» Prosegue, dopo
aver mandato giù un boccone di non so cosa.
«Già. A presto.»
«A presto.»
Riattacco io, con una smorfia crucciata. Perché
la conversazione è iniziata benissimo ed è finita nell’esatto modo opposto?
Per
colpa delle tue paranoie da corteggiata gelosa.
Certo che no.
Certamentissimamente
che sì.
Neologismo?
Tutto
per te.
D’accordo, rimettiamoci al lavoro. Con l’umore
decisamente sotto i piedi.
***
Il mattino seguente, a svegliarmi è la suoneria
del cellulare.
Quando i falsetti di Adam raggiungono la parte
più profonda e meno stupida del mio cervello e riesco a capire che non è un
sogno, mi scuoto di soprassalto e scollo le palpebre per cercare il cellulare.
È Rachel.
«Pronto?» Biascico, assonnata, tuffandomi di
nuovo nel cuscino.
«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH TU NON PUOI
IMMAGINARE!» Strilla lei dall’altro capo, costringendomi ad allontanare
l’apparecchio dal mio timpano.
«Cosa, il motivo per cui ti salta in mente di
chiamarmi così presto?!» Borbotto, accogliendo un grande sbadiglio.
«Presto? Ele, sono le undici e mezzo.»
«COSA?!» Con gli occhi sbarrati mi tiro a
sedere, stringendo i denti subito dopo. Fare movimenti bruschi dopo
un’operazione non è propriamente indicato. Cerco conferma nella radiosveglia ed
effettivamente, sembrano proprio essere le undici e trentadue. ACCIDENTI!
«Vabbè, non devi mica andare a lavorare.»
Osserva perspicace Rachel, sottolineando l’ovvio.
«Non devo andare in ufficio, ma non vuol dire
che non debba lavorare. Cielo, ho un sacco di pagine da recuperare adesso. Mi
ero proposta di iniziare appena sveglia... credevo di farlo prima, in effetti.»
Rifletto, scuotendo la testa. Lentamente, ma con meno difficoltà degli altri
giorni, scendo dal letto e mi avvio in cucina per fare colazione. Quasi pranzo,
diciamo.
«Non è questo il punto. Anne è lì?» Mi chiede
Rachel, sembra impaziente.
«Mmm, credo di sì. Non mi pare sia uscita.» Mi
affaccio in soggiorno e la vedo seduta sul divano a guardare una replica di Shopping night UK. «Sì, eccola. Te la
passo?»
«No, metti in vivavoce.»
«Agli ordini. Però vado a prendere qualcosa da
mangiare, aspetta.» Poso il cellulare sul tavolino basso davanti al divano e
corro – per quanto riesca a correre, cioè al pari di una lumaca in rollerblade
– in cucina a prendere dei cereali. Quando torno, mi sistemo accanto ad Anne e
posiziono la ciotola sulle gambe, a mo’ di popcorn.
«Dica. Siamo pronte.» Annuncio, a voce più alta.
Poi guardo Anne. «Buongiorno, cugina.»
«Buongiorno, reincarnazione di un ghiro. Non
dovevi lavorare stamattina?»
Sbuffo e le sgranocchio i cereali in faccia, a
bocca aperta. «Io sono Elettra Wayne e posso tutto.»
Come
no, l’ultima volta che hai detto questa frase…
…non continuare.
«Allora.» Incalza Rachel, dopo essersi schiarita
la gola. «Thomas mi ha chiesto di uscire. Di nuovo. STASERA!»
Al suo urlo di gioia si unisce anche Anne,
saltellando sul divano di pelle e formando un bel solco col suo sederino
delicato. Io sorrido, felice.
«Ma che bella notizia! Dove ti porta?!»
«L’ho detto o non l’ho detto che sono un genio?»
Commento, guardandomi le unghie con finto disinteresse.
«Mi porta al cinema. Volete venire anche tu e
Cooper?»
«Cosa? Perché mai dovresti passare un’altra
serata con due candele ambulanti? Anzi, due e mezzo, con la possibilità che
quei due cretini inizino a parlare di sport di nuovo?»
«Fiuuu, l’avevo
chiesto solo per cortesia. Sai com’è. Non vorrei far offendere una donna
incinta.»
«Tranquilla. Tra l’altro, stasera siamo a cena
dai miei suoceri. Dobbiamo dare la lieta novella anche a loro!»
Sto per prenderla in giro sulla reazione della
madre di Cooper, quando sentiamo lo squillo del telefono di casa. Mi alzo e mi
avvio verso la cucina, dove afferro il cordless e lo porto all’orecchio.
«Pronto?» Di solito odio rispondere ai telefoni
degli altri, non sai mai cosa dire e perdi dieci anni di vita a spiegare che
no, non sei tu la padrona di casa nonostante “la tua voce sia identica alla sua!”
«Pronto?» Ripeto. Forse non ho sentito la
risposta perché ero impegnata a pensare.
Il silenzio dall’altra parte è interrotto ogni tanto
da un rumore di autovetture. Riattacco di botto, come se mi fossi scottata. Chi
diavolo si diverte a fare queste telefonate, adesso anche sul telefono di
Anne?!
«Chi era?» Anne mi raggiunge e mi porge il
cellulare.
«Quali sono i tuoi programmi per oggi? Vuoi
aiutarmi a preparare la torta di fragole?»
Guaisco, affranta. «Mi piacerebbe tantissimo, ma
devo finire il manoscritto. Sono terribilmente indietro.» E poi mangerei tutte
le fragole prima che possano anche solo immaginare di toccare il pan di spagna.
«D’accordo. Se dovessi cambiare idea, sono qui. A lievitare semplicemente col
profumo della crema chantilly.» Alza gli occhi al cielo e borbotta qualcos’altro
mentre tira fuori da un mobile una ciotola e la frusta elettrica.
«A dopo, paranoica.» Le do una carezza sul
pancino e ciabatto verso la stanza degli ospiti.
***
«I posti della casa li hai imparati, se hai
problemi di qualsiasi genere i nostri numeri li conosci... sicura che possiamo
lasciarti sola?» Mormora mia cugina per l’ennesima volta, apprensiva come non
mai.
«Sìììì.» Li liquido
con un gesto della mano senza staccare gli occhi dallo schermo del computer.
Quando mi accorgo che non accennano a muoversi, sollevo lo sguardo e li fisso
in cagnesco da sopra gli occhiali. Sì, porto gli occhiali da vista quando passo
molto tempo al computer o a leggere. Ma non ditelo a nessuno. Mai.
«Vuoi che chiamiamo Christian? Magari può farti
compagnia.» Propone Cooper, con un ghigno malamente nascosto.
«Assolutamente no. Starò benissimo! Ciaaao.»
Li stai
cacciando.
Non li sto cacciando.
Ma sono
solo preoccupati per te.
Ma non sono invalida.
Beh, io
qualche dubbio ce l’avrei.
Zitta, mi deconcentri.
Bla, bla, bla...
Ho solo bisogno dello sprint finale. Mi mancano
“solo” novantotto pagine. Ce la posso fare. Batto velocemente “Capitolo
quattordici” in cima alla pagina e schiaccio due volte il tasto Invio.
“Cet hiver futextrêmementfroid et très long.” Leggo,
e mi accingo a tradurre: quell’inverno fu estremamente rigido e lungo.
Posso
dire che tutto sembra tranne che un inverno?
VIOLET!
Che
vuoi? Per esempio, potrebbe essere una mazza da baseball!
Rido da sola e nel deglutire, avverto una
leggera – mica tanto – sete. Cavolo, ho lasciato la bottiglia d’acqua in
cucina. Sbuffo sonoramente e mi alzo per andare a recuperarla.
Come metto piede in soggiorno, sobbalzo allo
squillo del telefono. Santi numi, questa storia deve finire. Non posso saltare
sul posto ogni volta. Mi avvicino all’apparecchio fisso per rispondere e mi
sento come da ragazzina, quando mamma usciva e cinque minuti dopo iniziavano a
chiamare persone di tutto il mondo, e io lì a dire “No, mamma non c’è. Richiami
più tardi” almeno cento volte al giorno. A pensarci, avrei potuto scrivere che
ho lavorato anche come centralinista, nel curriculum.
Prendo un respiro prima di alzare la cornetta e
poi la avvicino all’orecchio.
«Pronto?»
«Anne? Sono mamma.» Nel momento in cui riconosco
la voce, mi sento una cacca spiaccicata.
«Zia Libby! Sono Elettra!» E sono una sciagurata
perché non sono ancora venuta a trovarti dopo tutto questo tempo.
«Elettra chi? Ho per caso una nipote che si
chiama Elettra, che è venuta ad abitare a Miami e non è ancora passata a
salutarmi?» Risponde arzilla lei, con una nota dolce nella voce, sotto vari
strati di sarcasmo. «Come stai tesoro? Ho chiamato per sapere come stavi. Mi ha
tenuta aggiornata Anne in questi giorni.»
«Sto bene, zia. La ripresa è abbastanza veloce, cammino
ancora come un rinoceronte ingessato ma sono ottimista. Ascolta, ti vengo a
trovare prima di partire per Panama. Promesso. Voglio uno dei tuoi Bloody Mary.»
La sua risata compiaciuta fa venire da ridere
anche a me. «D’accordo. Anne e Cooper sono dai suoceri, vero?»
«Sì, esatto. Io sto lavoricchiando.» Ma tra poco
andrò ad affogare i miei dispiaceri nel barattolo di gelato king size che si
trova nel freezer, dietro i peperoni surgelati. L’ho visto mentre cucinava ieri
sera. Muhahahaha.
«Allora ci vediamo la settimana prossima? Ti
aspetto, disgraziata.»
Sorrido e le assicuro che ci sarò. Poi riattacco
e torno in camera con la mia bella bottiglia d’acqua fresca. Me ne verso un
bicchiere e gorgoglio ritemprata. L’acqua mi va di traverso quando trovo l’icona
lampeggiante di una chiamata persa sul display del cellulare.
No, per favore. Basta.
Mentre lo sto prendendo per controllare il
mittente, mi vibra tra le mani.
Sconosciuto,
ancora.
«Chi cazzo sei?» Rispondo, con la voce che trema
dalla rabbia. Dall’altro lato, una risata maschile e una macchina che si mette
in moto. Poi il silenzio di chi ha riattaccato.
Stavolta sono io a digitare un numero e ad
aspettare la risposta. Nel frattempo, mentre l’ansia cresce al pari degli
squilli che vanno a vuoto, torno in soggiorno e mi affaccio alla finestra,
restando dietro la tenda.
«Sogno o son desto? È la prima volta che leggo
il tuo nome sul display del mio cellulare.» Sentire la sua voce dall’altro capo
del telefono è quanto di più confortante mi sia capitato negli ultimi giorni. A
dire il vero, sentire anche solo una voce, dall’altro lato, è già confortante
di per sé. Rido nervosa alla sua affermazione ironica e cerco di racimolare il
coraggio per dirgli quello che vorrei.
«Ehm... c’è sempre una prima volta, no?» Con le
dita che tremano appena chiudo la tenda della finestra e cammino lentamente
verso il divano.
«Va tutto bene? Sei a casa?» Colgo la palla al
balzo e annuisco, come se potesse vedermi.
«Sì. Da Anne, sempre. Io... Christian, ho
bisogno che tu venga qui. Per favore.»
«Cos’è successo? Stai bene?» Vederlo sulla
soglia della porta, con quell’espressione preoccupata e tutto il corpo teso, mi
fa venire voglia di abbracciarlo e scoppiare a piangere. Fortunatamente, riesco
a mantenere il mio ordinario dignitoso contegno.
«Sì, io... entra...» Mi sposto per farlo passare
e indico il divano mentre chiudo la porta, ma lui non fa più di un passo. Noto
che è vestito elegante, chissà da dove l’ho fatto correre. Un pensiero in un
angolino remoto della mia mente mi dice che forse aveva un appuntamento.
«Mi spieghi che succede? Non ti senti bene?»
Guarda la mia pancia e io mi affretto a scuotere la testa.
«No, no, non è quello. È che... io penso che ci
sia qualcuno che... mi stia spiando, o qualcosa del genere. Lo so che suona un
po’ megalomane come cosa, manco fossi il sindaco... però mi sono arrivate delle
telefonate anonime sul cellulare, e poi è squillato il telefono anche qui.
Dall’altro capo non rispondeva nessuno, io...» Detto ad alta voce suona
ridicola come cosa, ma ormai gliel’ho spiegato e non posso far altro che
aspettare la sua reazione. Lui mi ha ascoltato attento e quando finisco di
parlare si avvicina alla finestra, scostando appena la tenda per dare
un’occhiata discreta.
«Quella macchina l’ho già vista da qualche
parte, ma non ricordo dove...» Gli dico, raggiungendolo e indicando la Hyundai
grigia appostata sul marciapiede in fondo alla strada.
«C’è qualcuno dentro. Da quanto tempo è qui?» Mi
chiede mentre fa correre lo sguardo sul resto della strada.
«Non lo so... dieci minuti... me ne sono accorta
dopo la seconda telefonata di oggi. Alla terza ti ho chiamato, e poi mentre
arrivavi c’è stata un’altra sul telefono di casa.»
Christian ci mette un po’ a rispondere. «Se
c’entra qualcosa con le telefonate, adesso quel tizio starà aspettando che io
me ne vada.»
Sbarro gli occhi e quando lo vedo allontanarsi
dalla finestra lo afferro per il polso. «Non ti far venire strane idee in mente
del tipo “vado a controllare, ma poi ritorno” e mi lasci qui, chiaro?!» Gli
intimo allarmata.
Lui mi sorride e mi prende la guancia tra due
dita. «Posso sempre portarti una pinzetta per le ciglia se ti fa sentire più
sicura.» Risponde, ricevendo uno schiaffo sul petto.
«Cretino idiota.» Borbotto, incrociando le
braccia al petto. Io sono terrorizzata e lui si improvvisa cabarettista!
«Adesso stai tranquilla e non pensarci, ci sono
io e non devi preoccuparti di nulla.» Non finisce neanche di parlare che si
sente squillare il telefono. Fisso l’apparecchio col cuore in gola e vedo
Christian avvicinarsi per rispondere. Alza la cornetta e dopo un po’ parla:
«Pronto?» Resta in ascolto ma dalla sua espressione capisco che non ha ricevuto
risposta. Dopo aver riattaccato, mi guarda pensieroso.
Io sono seduta sul divano con una gamba piegata
sotto il sedere e le mani in grembo. Lo vedo venire verso di me e togliersi la
giacca, per poi sedersi e poggiare le braccia sulle ginocchia come fa di
solito.
«Almeno adesso, chiunque sia, ha la certezza che
ci sono io. Vorrei andare a vedere chi è in macchina, ma se è lui a telefonare
potrebbe essere con qualcun altro che aspetta nei dintorni della casa...» Non
gli do neanche un nanosecondo per valutare la cosa che gli punto un dito contro
e parlo con un tono perentorio anche se un po’ atterrito: «Non ti azzardare a
lasciarmi da sola, Christian.»
«Non ti lascio.» Risponde lui, e me lo dice con
gli occhi, con le mani, con la linea delle labbra che esprime la serietà della
sua affermazione. «Hai fatto bene a chiamarmi. Tra l’altro, mi hai salvato da
una noiosissima riunione con Martin.» Ignoro Violet che sorride sorniona al
pensiero che no, non ha dato buca a nessuna ragazza ma semplicemente al suo
capo «Come sei carina con gli occhiali.»
ODDIO. Ne avevo completamente dimenticato
l’esistenza!
Li tolgo subito e li poggio sul tavolino accanto
al divano con una risatina isterica.
«Dove sono Cooper e Anne? Come mai sei sola?»
Riemergo dall’imbarazzo e mi accingo a
rispondere: «Dai suoceri.» Alzo gli occhi al cielo. «Thomas e Rachel sono a
cena fuori. Abbiamo fatto centro con quei due.» Christian solleva gli angoli
della bocca soddisfatto e continuo a parlare: «Ti ho chiamato perché non sapevo
chi altro chiamare. I quattro dell’Apocalisse sono impegnati, Danny è con Lily,
Tony mi avrebbe presa in giro per il resto della mia vita... Mike e Christopher,
senza offesa, non mi danno più sicurezza della famosa pinzetta, e quindi…»
Faccio spallucce e lo vedo scuotere la testa, contrariato.
«E io che mi illudevo di essere il tuo cavaliere
senza macchia e senza paura. Mi sono detto ‘Wow, ha subito pensato a me, devo
correre!’»
«Sì, correre per scappare da Martin!» Lo
canzono, e scoppiamo a ridere.
Sapete
entrambi che state mentendo, vero?
«In realtà credo che volesse darmi un aumento,
ragion per cui detrarrò dal tuo stipendio quello che ho perso per venirti a
salvare.» Christian incrocia le braccia a mo’ di dittatore e io faccio
schioccare la lingua contro il palato.
«Non sei il mio capo. Il mio capo è Martin.» Lo
sfido, anche se dopotutto ciò che ho detto è corretto. Non so perché mi sento
leggermente arrossire all’idea di Christian come capo pensando alla posizione
‘dominante’ che la parola evoca.
Beh…
Non iniziare. NO.
«Ho valutato io
il tuo curriculum. Ho detto io a
Martin di assumerti. Con uno schiocco di dita potrei farti licenziare, senza
nemmeno darti una spiegazione. Dovresti considerarmi molto più che un tuo
superiore.»
Per
esempio mio re, mio principe e mio signore? Mi offro come tua schiava!
«Ohhhh, certo. Dì la
verità, mi hai pedinato in aeroporto e hai annullato tu il mio volo e hai
corrotto il direttore dell’albergo per farti mettere nella mia stanza. Chi sei,
Bryan Mills?»
Colto il riferimento al personaggio di Taken, Christian diventa serio e fa una
voce profonda, guardandomi dritto negli occhi. «Io non so chi siete. Non so cosa volete.» Dice, imitando quasi alla
perfezione la voce di Neeson. «Io vi
cercherò.» È talmente serio che non riesco a trattenere una risata. «Vi troverò.» Rido ancora di più quando
si avvicina col corpo e le mani e sento che sta per iniziare una guerra. «E vi ucciderò.» Nel momento incui le sue dita pizzicano la pelle dei miei
fianchi, mi dimeno sul divano ridendo come una pazza.
«Ahia, ahia, i punti!» Dico tra le risate,
quando questi iniziano a tirare. Cioè, praticamente subito. Mi hanno salvato,
grazie al cielo. Chissà cos’avrei potuto dire stavolta per farlo fermare. Non
oso immaginare.
«Oh, hai ragione!» Christian mi lascia subito
chiedendomi scusa se mi ha fatto male. Lo tranquillizzo con un sorriso e lui
dopo un po’ sbuffa. Si arrotola le maniche della camicia fino al gomito e poi
congiunge le mani. «Bene. Se non posso neanche torturarti col solletico, cosa
facciamo?»
Io
un’idea ce l’avrei.
Dopo essersi fatto pregare in tutte le lingue
che conosco per restare a farmi compagnia fino al ritorno di Cooper e Anne,
Christian ha deciso di accettare a patto che lo batta a Ruzzle. Lo so, lo so. È un gioco stupido e crea dipendenza, e
all’inizio lo criticavo anche io quando vedevo Lily giocarci in ogni momento
libero. Ma poi l’ho provato.
Dannazione, crea dipendenza davvero.
Christian aveva optato per lo Scarabeo, ma visto
che non siamo a casa sua e non ho idea se Anne ce l’abbia, ci siamo dovuti accontentare.
Tra l’altro, non credevo che lui ci giocasse. Quando gli ho detto che sono
diventata bravissima, mi ha sfidato senza battere ciglio. E ora sono pronta e
carica per sfoderare tutto il mio vocabolario. Accidenti, se lo batterò.
Mi sgranchisco il dito indice e prendo un
respiro prima di premere su Gioca!.
Christian mi guarda di sbieco con un sorriso malizioso che gli scopre i denti e
che mi abbaglia per un attimo.
Elettra, concentrati. Non puoi perdere.
«Sei pronta?»
«Certo che sono pronta.» Sono nata pronta. Anche
se, quando si tratta di te, non ci giurerei.
«E allora, prova a battermi.» Pigiamo nello
stesso istante il tasto per iniziare il gioco e le nostre dita scorrono
frenetiche sui display per i fatidici due minuti.
Osservo il timer raggiungere lo zero,
soddisfatta di me stessa. Ho trovato 69 parole. Tzè, voglio proprio vedere
quante ne ha trovat-
«Hai imbrogliato!» Gli urlo contro quando vedo
il suo punteggio: 876 punti, rispetto ai miei 712. Quante parole? «Sei un
imbroglione! 86 parole su 199! Ma dai!» Piagnucolo, tirandogli uno schiaffo sul
bicipite mentre lui se la ride.
«Ehi, sono un redattore. Credi davvero che
conosca meno parole di te?»
«Ti faccio vedere io. Ora i punteggi si alzano.
Tzè.» Ringhio, preparandomi al secondo round. «E poi io posso batterti in
almeno cinque lingue diverse!» C’è da dire che stiamo giocando in italiano. Mi
ha voluto agevolare, ha detto.
E menomale!
Iniziamo il secondo round e il mio dito vola
sullo schermo, anche se a un certo punto mi blocco per qualche frazione di
secondo e vado nel panico più totale. Non posso perdere.
Credi
davvero che se ne andrebbe, lasciandoti qui da sola, anche se perdessi?
Ma cosa c’entra, è una questione di principio!
Negli ultimi venti secondi ritrovo l’ispirazione
e riesco a formare parole abbastanza lunghe, per un totale di 81 vocaboli su
232. Il mio massimo è 83, finora. DEVO averlo superato adesso.
Lo guardo mentre il cellulare carica i
risultati, e con mio grande sgomento scopro che il mio punteggio supera il suo
di soli dieci punti. MA DAI!
«Tu hai l’applicazione che bara, vero? CE L’HAI!
Confessa!» Gli punto il Samsung contro il naso come avevo fatto col cannolo in
albergo. Almeno questo non lo mangerà.
Lui sposta con disinvoltura la mia mano e vi
chiude l’altra sopra, accarezzandola delicatamente. «Mi dispiace deluderti. Se
ti arrendi adesso, resto ugualmente. Non sei obbligata a subire l’umiliazione
della sconfitta. Ti risparmio.» Mi dice benevolo – sì, un cavolo – e io
ritraggo la mano con un grugnito molto femminile. Femminile come quello di un
rottweiler.
«Mai.»
Forza, Elettra. So che non è una questione di
stato, ma non puoi farti battere da questo dannato codino biondo. Sarà quella
l’origine della sua forza? Il codino? Come Sansone? Mmm, devo tagliarglielo
mentre dorme.
Sto scherzando.
Appunto.
Tu impazzisci per gli uomini col codino!
Chi, io? Pfffff. Solo che è un peccato, capisci.
Poi lui si arrabbierebbe tanto.
Come
no. Lui, eh?
Zitta, devo batterlo. Ho l’ultima occasione.
Premo per la terza volta sulla scritta Gioca! e mi concentro più che posso.
La griglia è ottima, ci sono un sacco di parole
interessanti e dal punteggio altissimo. Ne cerco tutti i possibili derivati, raggiungendo
in meno di un minuto i duemila punti. Oooh, guarda questa! “Disarciono”,
trecentosessanta punti! GRANDE! Speriamo lui non se ne sia accorto. Cerco anche
lo stesso verbo alla seconda e terza persona, aggiungendo centinaia di punti ai
tremila e passa che ho già. Allo scadere del tempo, sono abbastanza certa di
avere una possibilità, o almeno di aver perso con dignità.
«Ti ho stracciato, ne sono sicuro.» Dice
Christian, guardandomi gongolante mentre aspettiamo il risultato. Quando il suo
telefono vibra, prima del mio, lo vedo sgranare gli occhi. «Non è possibile!»
Vado a controllare e… «HO VINTO! HAAAAAA! HO
VINTOOOO!» Scatto in piedi e improvviso un balletto della vittoria. Sembrerò un
tronchetto della felicità, con la rigidità che mi consente l’addome in questa
settimana, ma al diavolo. Ho vinto! ALLA FACCIA SUA!
«È solo perché ti ho agevolato.» Brontola
Christian, scuotendo la testa incredulo mentre un minuscolo sorriso gli
increspa le labbra quando mi fermo, vagamente ansimante.
«Come no. Ammetti la sconfitta e prendi e porta
a casa!» Dichiaro fiera, col naso per aria. Tutta la faccenda delle telefonate
anonime e il panico che aleggiava nell’aria sembrano essersi dissolti in un
battito di ciglia, quando è arrivato lui.
Do una sbirciata alla finestra per controllare
le auto parcheggiate, e con mia sorpresa la Hyundai non c’è più. Mhmm.
Torno a guardare Christian sul divano che si
massaggia lo stomaco. «Avrei una discreta fame. A che ora mangi di solito?»
Faccio spallucce. «Quando ho fame.» Guardo
l’orologio del lettore dvd, sono quasi le otto. «Non ho fatto preparare nulla
ad Anne, per non farla stancare. Pensavo di ordinare una pizza.» Lo guardo
interrogativa, tacendo la domanda retorica.
«Per me va bene. Conosco un ristorante qui
vicino che fa anche pizze da asporto. Le vado a prendere e torno subito. Che
pizza vuoi?» Quando lo vedo alzarsi e sollevare con due dita la giacca, sbarro
gli occhi.
«Dove credi di andare?! Esistono i telefoni, si
chiama e loro la consegnano.» Spiego, con somma ovvietà.
«Ma dovremo aspettare molto tempo, non…»
«CHRISTIAN.» Ruggisco, come il leone della MGM.
Lui posa la giacca e solleva le sopracciglia con fare condiscendente.
«Sì?» Il suo sorriso impertinente mi fa sbuffare
dalla rabbia.
«Ma lo fai apposta per farti pregare? AVANTI!»
Esclamo, scioccata. «Credevo che avessi un po’ più di amor proprio, non che
fossi costretto a elemosinare qualche supplica qui e là.» SBAM. Colpito e
affondato. Finalmente un punto a mio favore!
Christian ride alzando le mani e prende il
cordless dalla base per ordinare le pizze.
Venti minuti dopo siamo seduti sul divano, sotto
una coperta leggera, con le pizze fumanti in grembo e Katherine Heigl sul
maxischermo di Cooper.
No, non stiamo guardando una replica di Grey’s Anatomy.
Per tenerci compagnia – come se non avreste potuto farlo da soli!, pigola Violet – abbiamo
deciso di guardare un film, tra quelli della collezione immensa di Anne.
Io volevo vedere Magic Mike, ma lui me lo ha impedito piazzandolo nello scaffale più
alto, così che non ho potuto più recuperarlo.
«Se proprio ci tieni posso farti io un balletto
in cravatta e perizoma.» Ha scherzato, mentre assecondava i miei piagnistei con
dei buffetti sul capo. Inutile dire che l’ho fulminato, anche se la visione di
lui che muoveva il bacino a un ritmo lento e sensuale mi ha destabilizzato per
qualche istante.
Quando ha tirato fuori da uno dei ripiani il dvd
di Fight Club, gliel’ho strappato di
mano minacciando di lanciarlo dalla finestra. «Non ci pensare neanche.» Quel
film mi rende mentalmente instabile.
«D’accordo, troviamo una via di mezzo.» È stato
lui ad annunciare la tregua, scrutando a braccia conserte la schiera di dvd
accuratamente sistemati in ordine alfabetico. Quasi maniacale.
«Che ne dici di questo?» Ho estratto da una
mensola il dvd de La dura verità e
l’ho sottoposto ai suoi occhi azzurri, incorniciati dalle sopracciglia che si
sono contratte appena.
«Non l’ho mai visto.»
«Sul serio?! Oh, è carinissimo!» Ho trillato
contenta, e senza aspettare il suo consenso mi sono avviata verso il lettore,
posizionando nell’apposito cassetto il disco con l’adeguata cautela.
E così, eccoci qui a guardare Katherine, o per
meglio dire Abby, andare al suo appuntamento disastroso col tizio conosciuto su
internet.
«Un po’ esaurita la tizia, eh?» Christian
commenta il suo sproloquio sulla “tap water” e la lista di argomenti di conversazione
che tira fuori dalla borsa e io mi faccio scappare una risatina isterica, che
per poco non mi fa affogare con la mozzarella della pizza.
«Primo: non commentare mentre sto masticando o
bevendo.» Gli ordino. Non ho mai saputo controllare la mia epiglottide a
dovere. Non è colpa mia. «Secondo: non è esaurita. È fantastica. Sono queste cose che ti fanno innamorare di
una donna. Non le gambe lunghe o le tette grosse, perché quelle ce le abbiamo
tutte.» Sentenzio, muovendo la fetta di pizza su e giù mentre gesticolo.
«Siamo sagge stasera, signorina Wayne.» Risponde
Christian con un sorriso.
Quando arriviamo al momento di conoscere Gerard Butler, ovvero Mike Chadway, sono
proprio curiosa di sapere che faccia farà Christian quando sentirà una delle “dure
verità” enunciate da lui nel programma.
“Volete conquistare un uomo? Non vi servono
dieci passi: ve ne basta uno! Un ricco pom…”
Quando Mike pronuncia quella parola, Christian –
che stava bevendo – sputacchia e si batte un pugno sul petto per calmare la
tosse.
Inevitabilmente, scoppio a ridere come una
bambina. «Quanto siete prevedibili!»
Ehi, sbaglio o quello è un velo rosato sulla
guancia del mio capo?
Christian sgomita contro il mio braccio e scuote
la testa sorridendo. «Sta’ zitta.»
Ecco, finalmente in scena lui: Colin. Quel dio
greco e abbronzato con un sorriso da urlo ma, purtroppo, la virilità di Sailor
Moon. Almeno, in confronto a Butler.
Emetto un sospiro sognante quando Colin esce
dalla doccia avvolto dalla classica nube di vapore e un tipico asciugamano
bianco in vita.
Christian fa schioccare la lingua e alza gli
occhi al cielo quando mi sente. «Avrei detto che preferivi l’altro.»
«Beh, in quanto a mascolinità Colin non ha
chance, ma è risaputo che ho una certa preferenza incondizionata per i biondi.»
Lo dico senza pensarci, poi mi blocco. «Cioè, non è risaputo… cioè, le mie amiche lo sapevano, ma… e comunque… lascia
perdere.» Sono diventata rossa come la coperta, vero?
Accidenti.
Christian, grazie al cielo, ignora il mio
delirio e torna a guardare lo schermo. Mentre passa la scena di Abby che chiama
Colin per chiedergli un appuntamento, ripuliamo tutto e io vado a gettare
velocemente i cartoni della pizza nella spazzatura. Porto una salvietta a
Christian per pulirsi le mani e la bocca già pulita, e due minuti dopo siamo di
nuovo accoccolati sotto la coperta come due fidanzati. Non ho la più pallida
idea di come la mia testa sia finita sulla sua spalla – ammettilo che hai un debole per la sua spalla! – e di come il suo
braccio mi stia stringendo la vita, tenendomi stretta contro di lui.
Questa
non è l’Elettra che conosco. Che ti succede?
Sarà l’effetto dell’anestesia. So che genera
squilibri di ogni genere, magari anche mentali?
O
magari ti ha curato lo squilibrio che senz’altro avevi prima?
«Oh, no.» Christian si copre gli occhi con la
mano quando Abby rovescia la bibita sul cavallo dei pantaloni di Colin e inizia
a strofinarlo con un fazzoletto per mandare via la macchia. La scena è
decisamente imbarazzante; sbircio l’espressione di Christian che continua a
guardare tra due dita con un mezzo sorriso irridente e fastidiosamente
piacevole.
Finalmente i due si baciano. Il momento è sempre
dolce e anche qui, ahimè, mi ritrovo a sospirare e sorridere come una cretina.
Christian si volta a guardarmi senza perdere l’aria di scherno e mi stringe per
qualche secondo.
«Guardatela, la tenerona!»
Gli mollo un pugno sulla pancia – pancia, sì. È proprio obeso! – e lui ride
piano, scompigliandomi i capelli. Stavolta evito di crocifiggerlo per il gesto,
perché si avvicina il momento della scena del ristorante. Santa me, forse è
meglio allontanarmi un po’ da lui. Non vorrei percepire strani movimenti come
quando ci picchiammo a casa mia.
Il ricordo si precipita nella mia mente come un
mattone che cade dal quarto piano di un palazzo.
Stavolta sono io a coprire gli occhi e Christian
mi guarda interrogativo. Abby si è appena seduta al tavolo e sta per dare un
calcio a Mike, calcio che farà cadere dalla sua borsetta il telecomando che
controlla le sue divertentissime mutandine. Oh, devo regalarne un paio a Clara.
Magari riderebbe di più.
Facci
un pensierino anche tu, che dici?
«Perché ti copri gli occhi?» Christian non fa in
tempo a domandarlo che solleva entrambe le sopracciglia quando accade quello
che avevo anticipato. «No, non ci credo.» Inizia a ridere e si calma
gradualmente, con l’aumentare dei gemiti di Abby. «Beh...»
Gli assesto una gomitata. «Non. Commentare.»
Sibilo perentoria.
Lui si schiarisce la gola mentre Abby dà lo
strillo finale. «Wow. È un’attrice bravissima.»
Sento qualcosa pizzicarmi il fegato a
quest’affermazione.
«Io sono meglio.» Borbotto crucciata.
Violet si porta le mani alla bocca in
un’espressione totalmente scioccata.
Christian piega le labbra in una smorfia
scettica e saccente. «Da verificare.»
Ora lo uccido.
Non parlo per il resto del film, nonostante lui
mi lanci qualche occhiata dubbiosa per cercare di capire cosa mi stia passando
per la testa.
Te lo
dico io Christian: te nudo, una notte di passione, Giovanni, commenti invidiosi
su Katherine Heigl, voglia di fragole, il tuo profumo, “chissà se ha qualche-”
VIOLET!
Alla scena finale, Christian finalmente si decide
a dire qualcosa.
«Vedi? Siete tante buone a nulla! Brave solo a
fingere!» Esclama, con le mani per aria. «Com’è possibile che lui stia sudando
come un maiale e lei sia perfettamente intatta
come una bambola di porcellana? Semplice. Ha finto.»
«NOI FINGIAMO?! Se noi fingiamo i buoni a nulla
siete voi, CARO.» Ribatto accanita. Lui incassa senza battere ciglio. Qualcosa
mi dice che sta per incastrarmi.
«Non mi dire che non hai mai finto un orgasmo.»
Ecco, lo sapevo.
«Certo che non ho mai finto un- d'accordo, forse
una volta. Due. Oh, cielo, perché ti sto raccontando queste cose? Piuttosto, tu
hai avuto brutte esperienze al riguardo?» Domando angelica, alzando un dito e
facendolo afflosciare davanti al suo naso.
Lui trattiene un sorriso, gli zigomi si
sollevano ma la bocca è serrata.
«Se lo vuoi sapere, giochiamo al gioco del 'Non
ho mai'.»
Sento che sto mettendomi in qualcosa di molto
pericoloso.
«Con la vodka? Non so se ti conviene.»
«No. Non voglio doverti soccorrere di nuovo,
grazie.»
«Beh, Mr Simpatia, ti ricordo che quella sera mi
hai baciato.»
«Appunto. Bruttissima esperienza.»
Il botta e risposta è veloce e tagliente.
Arrossisco come se una lampadina da 220 volt si fosse appena accesa sulle mie
guance e mi alzo dal divano, dirigendomi in cucina. Perché mi sento come se mi
avesse offeso, o quasi?
Forse
perché, per una volta, è lui a scherzare nei tuoi confronti e non viceversa?
Stava scherzando,
vero?
Tu hai
seri problemi.
«Se non la vodka, allora cosa?» Alzo la voce per
farmi sentire mentre lui mi raggiunge. Apro il frigorifero e l’occhio cade
sulle fragole. Christian segue il mio sguardo e sorride.
«Cioccolato o panna?»
«Cioccolato, ovviamente. Blasfemo.» Bofonchio,
tirando fuori i pochi ingredienti che mi servono per prepararlo.
«Cos’hai contro la panna?» Christian mi guarda
accigliato.
Faccio una smorfia accompagnata da un brivido di
disgusto. «Bleah, la odio.»
Prendo un pentolino e ci verso il latte e il
cacao in polvere.
«Serve aiuto?» Domanda garbato Christian, che si
sta già lavando le mani.
«Sì, mescola un po’ con la frusta per sciogliere
i grumi mentre io cerco il fondente.» Gli porgo l’attrezzo che inizia ad
agitare nel pentolino con l’abilità di Gordon Ramsey.
Sì, certo. Gli piacerebbe.
«Non cucini spesso, vero?» Lo canzono, e lui
sorride imbarazzato riprendendo a girare come meglio può la frusta, facendo
sollevare di tanto in tanto sbuffi di polvere.
«Non proprio.»
Mentre cerco la tavoletta di cioccolato –
sperando che ci sia – nel mobile di fronte alla cucina, lo sento canticchiare
qualcosa. Non riconosco la canzone, ma è piuttosto intonato. Ecco! L’ho
trovato! No, è al latte. Mhmm… possibile che non ci sia? Frugo più a fondo e
finalmente lo trovo.
Torno dal piccolo cuoco e gli tiro il codino.
Lui mi mette lo sgambetto e per poco non mi trovo con la testa nel latte. Mi
affaccio per controllare che sta combinando e vedo che ha fatto un bel lavoro.
Noto il misurino dello zucchero sporco. L’avevo riposto o sbaglio?
«Hai messo lo zucchero?»
«Sì.»
«Ma l'avevo già messo io! Perché non me l’hai
detto?!» Strepito, con la bocca spalancata.
«Come facevo a sapere di dovertelo dire?!» Si
giustifica lui, riversando l’irritazione nel latte.
«Tu dillo e basta!» Esclamo, grugnendo.
Christian inspira rumorosamente e lascia la
frusta, spostandosi verso il ripiano dove ho poggiato la tavoletta di fondente.
Poi inizia a parlare scandendo lentamente e con decisione le parole: «Adesso
taglio la cioccolata e la faccio sciogliere a bagnomaria. Se mi passi
gentilmente un altro pentolino.» Quando glielo porto, fa come ha detto e
inizia a girare, stavolta con più padronanza. Mi guarda sfrontato mentre la
mano si muove in gesti circolari e io sostengo lo sguardo con aria di sfida. Dopo
una manciata di secondi, riprende a parlare. «Ora giro la cioccolata, ci inzuppo
un dito e ti macchio il naso.»
«Non oseresti.» Dichiaro, stringendo gli occhi.
SPLAT.
Il gesto è talmente repentino che non ho la
prontezza di schivarlo.
«AHIA, BRUCIAAAAAA!» Cerco uno strofinaccio nei
dintorni e me lo passo sulla punta del naso che scotta.
Christian ride e si guarda il polpastrello,
scuotendolo su e giù con aria vagamente sofferente. «È vero, accidenti!»
Scoppiamo a ridere entrambi e un minuto dopo ci ritroviamo a osservarci in
cagnesco, io dietro un cubetto di ghiaccio appiccicato sul naso, e lui diviso
tra il lavello e i fornelli, dove con una mano gira il cioccolato e con l’altra
lascia sbollire il dito sotto il getto dell’acqua fredda.
«Sei o non sei un cretino? Mi hai ustionato!»
Bofonchio, nascondendo un sorriso.
«Dopo ti do un bacino sulla bua.» Mi dice, in
italiano. Non so perché, ma provo un brivido piacevole a sentirlo a parlare
nella mia lingua.
«Ci conto.» Dico, con una linguaccia.
No, non l’ho davvero detto.
Oh, sì.
Oh, no.
Oh, sì.
Oh, no.
Sembriamo
Lumière e la Spolverina.
Cielo.
«Bene. Allora inizio io con un non ho mai e completo la frase. Se tu l’hai
fatto, mangi una fragola. Poi tocca a te.»
«Mmm. Le affermazioni devono essere per forza attinenti
con quelle precedenti?» Domando, dubbiosa.
«No, non necessariamente. Puoi anche fingere di
non aver fatto una cosa e poi mangiare la fragola dopo di me.»
«Uhm, interessante.» Un grande sorriso sadico si
apre sul mio viso. «D’accordo, vai.»
Christian si sistema sul divano, tirandosi le
mie gambe sulle sue. Tutta questa intimità mi scombussola, ma decido di non
farci caso.
«Non ho mai fatto cilecca.» Annuncia fiero,
inspirando il profumo delle fragole dalla ciotola.
«Beh, posso rispondere che non ho mai fatto fare
cilecca.» Replico alzando il sopracciglio. Lui mi illumina con un sorriso che
mi fa attorcigliare tutti gli organi interni.
Sembra mi stia dicendo “Ci credo. Ti ho vista in
lingerie, perbacco!”
Non ci pensare. No. Rimuovi questi piccoli,
insignificanti particolari dalla tua mente. Come il cardigan che hai ancora sotto il cuscino – e che ti sei
portata dietro anche da Anne – e la cravatta che gli hai comprato e non sai
ancora quando e come regalargli.
No.
Christian deve restare un minuscolo puntino
nell’universo.
«Tocca a te.» Il minuscolo puntino dagli occhi
incredibilmente azzurri mi riscuote dai miei dialoghi interiori.
«Uhm, sì. Dunque…» Ci penso su. «Non ho mai
avuto una relazione con un collega.»
Devo
indagare.
Cioè, almeno assicurarmi che… non che stia
pensando specificamente ad Alexandra,
ma…
Christian, con mio grande sollievo, non allunga
la mano a prendere la fragola. Scuote la testa e inizia a pensare.
«Non ho mai desiderato la donna d’altri.» Dice,
cauto, e io spalanco la bocca.
«Ma dai! Questo è impossibile! Se anche solo pensiamo a Vanessa Paradis,
beh, certo che ho desiderato il suo uomo! Ne mangio venti di fragole.»
Christian scoppia a ridere e agguanta una fragola insieme a me per poi tuffarla
nel cioccolato. «Ah, ecco. Dicevo io. Non saresti stato normale altrimenti.»
Ah, cielo, è buonissima! Mugolo di soddisfazione
mentre assaporo la dolcezza genuina della fragola mischiata a quella calda e
più forte del cioccolato.
«Non ho mai tradito.» Dichiaro, tornando ad
appoggiarmi allo schienale. Tiro un altro sospiro di sollievo, non ha mangiato.
«Non sono mai stato tradito.» Rilancia lui, e
qui, dopo un po’ di esitazione… mi tocca mangiare.
Mangio un fragolone carico di cioccolato alla faccia di quel maledetto lurido
infimo… okay, basta.
Christian non sembra sconvolto dalla notizia. La
cosa mi fa insospettire.
Cerco di non pensarci e penso alla prossima cosa
da dire. «Non ho mai fatto il bagno nuda.»
Christian si schiarisce la voce come se avesse
il Sahara in gola, non so per quale motivo, e inzuppa la fragola.
«Sul serio? Quando?» Gli domando con una risata
a fior di labbra. Non l’avrei mai immaginato. Christian Wayne, l’editor tutto compito e sempre in giacca e cravatta… nudo. A fare il bagno.
«I miei amici non sono quella che definirei una
compagnia tranquilla, a volte.» Spiega lui, e io per la prima volta mi rendo
conto che non so nulla della sua vita al di fuori dell’ufficio.
«Poi mi racconterai.» Abbiamo una settimana a
Panama per farlo, no? Visto che mi hanno praticamente costretta ad andare.
«Sicuro.» Sorride lui, succhiando i residui di
cioccolato da un pollice. «Vediamo… non ho mai bevuto
così tanto da non ricordare nulla.»
«Bastardo.» Sibilo, e prendo un’altra fragola
mentre lui ride spensierato.
«Non ho mai guardato un porno.» Tiè, mi ci gioco le tette su questa!
Vedo le sue labbra schiudersi in una smorfia di
amara sconfitta e poi un’espressione di puro imbarazzo farsi strada sul suo
volto. Con riluttanza, allunga la mano a prendere una fragola. «A quindici
anni, forse. Non ero bello come adesso e non avevo molto successo con le
ragazze.»
La sua tenera spiegazione mi fa piegare in due
dalle risate. Gli prendo la guancia tra due dita e serro le labbra. «Povero,
piccolo Christian rifiutato.» Tiro fuori il labbro inferiore e poi ripenso alle
sue parole. «Ehi, chi ti ha detto che ora tu sia bello?»
«Tu.»
«D’accordo.» L’avevo dimenticato. È vero.
«Non ho mai fatto uno striptease.» Torniamo al
gioco con la sua affermazione e io deglutisco e cerco di deviare l’attenzione
sulla domanda.
«Oh, ti saresti offerto la prima volta per me?»
Sbatto gli occhi da cerbiatta riferendomi alla battuta di qualche ora prima.
Lui ridacchia e alza il contenitore con le
fragole. «Non mangi?»
«Beh…» Sbuffo e alzo gli occhi al cielo.
«D’accordo. L’ho fatto. Ma non dirò altro.» Rispondo categorica e lui alza le
mani. «Non ho mai sorpreso qualcuno a fare sesso.»
Christian inizia a ridere e prende una fragola.
Senza che possa domandargli chi, risponde subito: «Tony.»
«No!»
«Sì.» Ridiamo insieme e mi faccio promettere che
racconterà anche questo a Panama.
Di nuovo a lui. Sentiamo.
«Restando in tema… non ho mai fantasticato su
colleghe di lavoro.»
Maledetto! Lo fulmino e decido che potrei
mentire. Ma i suoi occhi sono così limpidi e puri e… e… sento che potrebbe
leggermi nel pensiero e… quindi mangio. Quando lo faccio, mangia anche lui.
Cielo, fa che non sia Margot.
D’accordo,
sei tarda. È chiaro. Potresti compilare il modulo per l’invalidità, può darsi
che anche qui sia prevista una pensione?
«Non ho mai avuto due relazioni
contemporaneamente.» Anche qui indago. Questo gioco è un ottimo modo per
conoscere certi particolari che altrimenti non avresti mai il coraggio di
scoprire da sola.
Christian scuote la testa. «Per chi mi hai
preso? Sono un bravo ragazzo. Piuttosto, non sono mai stato operato d’urgenza
con un’emorragia che ha rischiato di farmi morire dissanguato.»
«Ma lo sai che l’ho fatto!» Esclamo, confusa.
«Perché è rimasta l’ultima fragola. Pensavo la
volessi tu.» Dice dolce, poi prende la fragola, ne bagna la punta con del
cioccolato e la avvicina alle mie labbra con un sorriso.
Violet sta sbrodolando dall’emozione.
Chiudo le labbra sulla fragola senza distogliere
lo sguardo dal suo. Ho la netta sensazione che mi bacerà da un momento
all’altro. La stanza è carica di tensione e riesco a mandare giù il boccone per
non so quale grazia divina. Christian avvicina il pollice alle mie labbra e ne
sfiora la morbidezza. Sembra voler togliere una traccia di cioccolato, ma so
che quel gesto significa molto di più.
Sto per morire.
È Adam a interrompere quel momento, tagliando
l’aria con la sua voce acuta proveniente dal mio cellulare. Mi allontano da
Christian all’istante, col cuore che mi batte all’impazzata.
È Anne.
«Pronto?» Rispondo, e mi accorgo di avere il
fiato corto. Sono alle spalle del divano, Christian non si è voltato. È nella
stessa posizione in cui l’ho lasciato, con la differenza che al posto del mio
viso vicino al suo, adesso c’è la mano chiusa a pugno che strofina sulle
labbra, pensoso.
«Tesoro? Come va? Tutto bene?»
«Sì, tutto bene. Voi?»
«Benone. Mi chiedevo se potessimo trattenerci
ancora un po’, abbiamo dato la grande notizia e ora la madre di Cooper sta
chiamando tutti i parenti per festeggiare. Assurdo. La odio quando fa così, ma
tant’è. Se vuoi che torniamo, però, ce ne andiamo subito!»
«No, no. Tranquilli. Sto bene.» Non so perché
non menziono la presenza di Christian. Non voglio che mia cugina si profonda in
inutili gridolini e pseudo minacce/auguri o cose del genere, perciò taglio
corto e torno sul divano, col passo più lento del previsto.
Christian mi sorride quando mi siedo di nuovo.
«Stanno tornando?» Mi domanda gentile. Sul viso
una traccia di stanchezza, chissà da quanto è in piedi a differenza della
sottoscritta che non fa altro che dormire da giorni.
Ci metto una manciata di secondi in più del
previsto a scuotere la testa in segno di negazione. «Ma se vuoi, puoi andare.
Sei stanco, non preoccuparti.»
«No. Di certo non ti lascio sola a mezzanotte.»
Rifiuta categorico. «Però, un po’ di stanchezza la avverto. Non mi sono fermato
un minuto oggi.» Si passa le mani sul viso e poi mi domanda come va con la
traduzione.
«Ehm, bene. Prima delle telefonate, almeno. Ero
sicura di riuscire a terminare per oggi ma… ero troppo terrorizzata dopo.»
Ammetto, sentendomi un po’ sciocca e colpevole.
«Va bene così. Stai già facendo tanto.
Tranquilla.» Christian mi attira a sé passandomi un braccio intorno al collo.
Mi lascio poggiare al suo petto come se fosse il gesto più naturale del mondo.
Per qualche minuto, l’unico rumore che avverto
nella stanza è quello della lancetta dell’orologio che scandisce il passare dei
secondi.
Tic, toc. Tic, toc. Tic, toc.
«Potresti dormire qui.» La frase mi scivola
inaspettatamente dalle labbra e quasi non mi accorgo di averla pronunciata ad
alta voce, almeno finché lui non risponde.
«Ti ho sentita davvero o mi ero appisolato?»
Chiede, con la voce roca.
«Prendere o lasciare Wayne, non so neanche come
mi sia uscito dalla bocca.»
«D’accordo. Non vedo alternative valide,
comunque. Faresti tornare a casa il tuo adorato redattore mezzo addormentato
per le pericolose strade di Miami a quest’ora?»
«Adorato? Io non ti adoro.» Mi sollevo sulle
braccia per guardarlo negli occhi e purtroppo mi accorgo che siamo più vicini
di quanto pensassi.
«No?» Domanda in un soffio, gli occhi chiari
come il cielo.
Lo fisso con le labbra schiuse e un nodo allo
stomaco. Tutto questo mi fa troppa paura. La risposta a quella domanda mi fa
paura.
«Dove preferisci dormire?»
«Mi chiedevo in quanto tempo avresti cambiato argomento.
Hai superato i dieci secondi, wow.» Replica canzonatorio lui, senza traccia di
delusione o simili nella voce o nell’espressione.
Quest’uomo
è un santo. Un santo.
«Posso dormire anche sul divano. Riposo giusto
il tempo che impiegheranno Anne e Cooper per rientrare.»
«Mhm. D’accordo.» Commento, alzandomi. Non sono
propriamente soddisfatta di questa decisione. Vado in cucina a riporre ciotole
e ciotoline nella lavastoviglie e poi ciabatto da lui. Si è alzato, mi sta
venendo incontro.
«Non mi dai la buonanotte?» Tende le braccia,
gesto che ripete spesso con me e al quale non sono più tanto indifferente. Faccio
un passo verso di lui, poi mi fermo.
Fisso il pavimento, poi il divano, poi le sue
scarpe, poi risalgo lentamente fino agli occhi. Lo guardo scettica, ed esalo
l’ultimo respiro prima di condannarmi a morte: «Vuoi dormire con me?»
~ Note
Puff, pant, ce l’ho fatta! Sono di
nuovo tra voiiiiii! (Che gioia, ammettetelo!)
Mi sono costretta a finire questo capitolo
perché ve lo devo. A tutte voi meravigliose personcine
che recensite e a chi legge soltanto – siete tantissimi e ogni volta che
controllo le cifre di preferiti/seguite/ricordate mi emoziono come una
bimbetta! -, sappiate che è solo grazie a voi che riesco a partorire i
capitoli. Non ho più l’ispirazione di una volta, quella vecchia bacucca
s’inceppa e mi fa sudare ogni volta. Ma per voi, questo e altro.
Allora, che ne dite? Dite che Elettra ha
fatto un giro nel paese dei dolcificanti oppure no?
Lascio a voi i commenti. Pensavo che questo
fosse il capitolo prima del viaggio vero e proprio, ma poi, scrivendo scrivendo, mi sono accorta che ho dovuto dividerlo O_O
Ergo, un altro po’ di pazienza. Anche
perché, dopo il viaggio, ne mancano giusto un paio per concludere! Credo.
Sempre che non venga colpita da diarrea verbale come in questo capitolo.
(*) Frase di proprietà di June_.
Ormai tutte le ragazze del gruppo Daydreamers (di cui potete far parte chiedendo l’amicizia qui) sono ben consapevoli che qualunque cosa dicano durante gli
scleri quotidiani potrà essere adoperata a mio uso e
consumo per questa storia. Ragazze, vi voglio bene, e questa storia è dedicata
tutta a voi, splendide creature.
Vorrei tanto lasciarvi uno spoiler ma, ahimé, non ho nemmeno una riga del prossimo capitolo!
Sicuramente, però, appena avrò qualcosa, sarà reso pubblico sul gruppo!
Scollo una palpebra e muovo la pupilla fino a
inquadrare la figura di Anne che sta aprendo le tende. Vuole uccidermi? Io sono
invalida!
«Ospiti? Che ospiti?» Apro anche l’altro occhio
e mi metto a sedere. La schiena scricchiola facendomi storcere il naso. Ho la
stessa mobilità di Tutankhamon, a forza di stare sempre a letto. Menomale che
domani si torna al lavoro!
Ugh.
Lavoro.
Christian.
Magari rimando ancora… non è che mi senta poi così bene…
A me
pareva ti sentissi una favola ieri mattina quando ti sei svegliata col suo
petto a un palmo dal naso.
«Anne? Mi rispondi?» Mia cugina mi ignora alla
grande e si dilegua con un sorriso e la scusa di dover passare l’aspirapolvere.
Perché ho una bruttissima sensazione a proposito
degli ospiti che ha invitato la mia cara consanguinea? Il mio sesto senso è
quasi sempre infallibile, sapete.
Sì,
come quando hai pensato che Christian stesse dietro a Margot.
Perché, non può essere vero?
Certo,
infatti è rimasto tutta la notte abbracciato a Margot a tenerle compagnia
mentre sua cugina tornava dalla casa dei suoceri, nevvero?
Tu sei un esserino diabolico e io scoprirò come
sopprimerti.
«Sei ancora lì? Almeno va’ in cucina, che cambio
le lenzuola.» Anne entra con panno e spruzzino e inizia a pulire le ante
specchiate del mobile accanto al letto.
La fisso per qualche secondo senza guardarla
veramente. Perché tutta questa efficienza alle otto del mattino? Che venga la
zia Libby a trovarci? Si sa, quando vengono le mamme a casa si vuole sempre
apparire come le regine del pulito. Tipo la pubblicità del Viakal, esatto.
Espiro lentamente, dal naso, mentre tasto il
pavimento coi piedi alla ricerca delle pantofole. Quando raggiungo la cucina,
scorgo un Cooper assonnato coi capelli sparati in almeno tre direzioni diverse
che inzuppa un biscotto nel latte con sguardo vacuo.
«Ha buttato anche te giù dal letto?» Chiedo,
sprofondando sulla sedia – il che mi causa un’onda d’urto a partire dall’osso
sacro che va a sbattere direttamente contro la parete superiore del cranio – e
lui annuisce mentre cerca di mettermi a fuoco.
«Come faccia ad essere piena di energia con una
creatura in grembo è un mistero.» Commenta, grugnendo quando la metà bagnata
del biscotto cade nel latte prima che possa portarla alla bocca.
«Non è neanche al secondo mese, Coop. È presto
per sentirsi stanche!» A conferma di ciò, Anne passa svolazzando dal corridoio
al soggiorno spolverando tutto ciò che trova nel suo passaggio.
«Chi viene a cena?» Domando a Cooper, fingendomi
disinteressata. Poi cambio idea. Disinteressata un cavolo. Io sono malata e
loro invitano gente, tzè!
«Rachel.» Risponde lui dopo un po’, non prima di
aver lanciato un’occhiata dubbiosa alla moglie.
Rachel? Oh.
«A pranzo, non a cena: Anne vuole accendere il
barbecue. Di cui mi occuperò io. Arrostendomi la faccia, naturalmente.»
«Siamo particolarmente allegri stamattina, eh?»
Aggrotto la fronte, e lui sorride. Sembra isterico.
«Che vuoi, stanotte mi ha mandato in bianco con
la scusa del bambino!» Esclama, e sembra un neonato a cui hanno strappato il
sonaglino. Pare che possa mettersi a urlare da un momento all’altro.
Inizio a ridere e credo che non mi riprenderò
più. «Te l’ha ritorto contro!» Dico fra le risate, tenendomi la pancia tra le
mani. Mentre mi riprendo, mi accorgo che i punti non tirano più come prima. Si
stanno riassorbendo. O stanno per cadere, o come cavolo ha detto il dottore.
«Perché non mi date una mano invece di stare lì
a ridere alle mie spalle?» Sbraita Anne, armata di guanti gialli e detersivo.
Cooper e io ci scambiamo un’occhiata furtiva,
quasi fossimo stati scoperti a combinare una marachella, e lentamente ci
defiliamo verso le rispettive camere per vestirci e metterci in azione.
***
«Dunque, come mai quest’idea di invitare
Rachel?» Domando, con la nonchalance di Horatio Caine davanti a un cadavere.
Anne smette di pelare le patate e mi guarda
timorosa per un piccolo frangente, poi riprende come se nulla fosse successo.
Fa spallucce. «Così. Pensavo che le facesse piacere. Ho invitato anche Thomas,
così possono stare ancora un po’ insieme prima che lui parta. Non credi?»
Spiegazione del tutto logica. E allora perché ha
l’espressione di un cerbiatto che ha appena visto le luci di un camion puntate
sulla sua faccia mentre attraversa la strada?
«Fai parte anche tu del piano Cupido, ora?» Sorrido,
mentre taglio le patate sbucciate nella classica forma a bastoncino da fast
food e poi le immergo in una ciotola d’acqua fredda.
«Perché no? Tu sei stata fuori uso, tanto vale
darvi una mano.» Replica lei, passando alla mia sinistra per scolare le patate
precedentemente ammollate e asciugarle con un panno per togliere l’acqua in
eccesso. Noi cuciniamo sano, mica come il McDonald’s.
«A che ora arrivano? Sei sicura che Thomas si
troverà a suo agio qui? Dopotutto, vi conosce a malapena.» Anne si mordicchia
un’unghia prima di versare l’olio nella friggitrice.
«Conosce te però, no? Puoi aprire anche l’altra
anta della finestra? Altrimenti puzzeremo di frittura in eterno.» Faccio come
dice e torno da lei. Pare che si tenga impegnata per non parlarmi e/o guardarmi
in faccia.
Mette a riscaldare l’olio e ticchetta sul
ripiano di marmo per un secondo e mezzo, poi si morde l’interno della guancia.
«Sai come funziona la friggitrice, vero? Prima cottura a 150°, seconda a 190°.
Dovrei finire di lavare il bagno…» Indica dietro di sé col pollice e, senza
nemmeno aspettare una risposta, sparisce. Poi ricompare per un istante. «Ah,
arrivano tra meno di mezz’ora.»
Meno di mezz’ora dopo, esco dalla stanza vestita
e profumata e vado ad aprire la porta, mandata da Anne che sta sgridando Cooper
sulla quantità di carbone che ha usato per accendere il barbecue.
«Ciaaaoooo!» Davanti a me, una coloratissima
Rachel e un elegante Thomas, con un vassoio di dolci – suppongo – tra le mani,
mi salutano gioviali. Abbraccio la prima e stringo la mano al secondo,
spostandomi per farli entrare.
«Wow, che bella casa.» Commenta Thomas educato,
mentre Anne appare in soggiorno per accoglierli. Sto per chiudere la porta
quando Rachel mi ferma.
«Aspetta, sta venendo Christian. Siamo arrivati
insieme.»
Anne diventa piccola come Pollicina e dal mio
sguardo, Rachel intuisce che non ne sapevo niente.
«Oh, meraviglioso. Tutti al riparo!»
«Sei una…» Punto il dito contro Anne con una
miriade di insulti sulla punta della lingua, ma mi fermo perché ci sono due
orecchie non ancora formate nella sua pancia e non voglio che sentano queste
cose. «Hai capito.» Sibilo, espirando lentamente. Lei mi guarda colpevole con
un sorriso a fin troppi denti e si volta verso la porta quando Orione – già, è
tornato all’assalto! – bussa con la mano affacciandosi timidamente.
«Prego, prego, entra! Ormai sei di casa, si può
dire, giusto?» Mia cugina continua lo show improvvisando una risatina frivola.
Ah, giusto.
Lo so che non avete dimenticato e che state
morendo dalla voglia di sapere cos’è successo venerdì notte nel mio letto.
Tecnicamente, nel letto della camera degli ospiti di Anne.
Beh, perfettamente nulla. Cosa vi aspettavate?
Christian ha accettato l’invito a dormire con me
– mi faceva pena, poverino, su quel divano – e i miei cugini sono stati talmente gentili da farlo restare per
tutta la notte. Ovviamente in quel momento mi sono amaramente pentita di averlo
invitato nel mio letto, ma ero stanca e non ci ho badato più di tanto. Nemmeno
quando si è fatto prestare un paio di pantaloncini e una canottiera da Cooper e
si è infilato sotto le coperte e sembravamo marito e moglie.
Cielo.
Vogliamo
parlare di cosa ti è VERAMENTE passato per la testa in quel momento?
Cosa? No, non interessa a nessuno. Il succo
della cosa, comunque, è che poi è andato via alle sette scrollandosi qualcosa
di dosso – me, completamente e convulsamente appollaiata sul suo braccio – e
dandomi un bacio sulla fronte mentre io mugugnavo qualcosa sulla sua
maleducazione ad andare via a quell’ora.
E dunque, non l’ho più sentito da quel bacio.
Sulla fronte, sempre, s’intende.
«Ciao.» Dopo aver salutato Anne, che ha voluto
immediatamente far fare il giro della casa ai piccioncini, mi ritrovo – di
nuovo – sulla soglia della porta con Christian Wayne e il suo profumo che
inizia a riempire l’aria. Si attacca agli atomi fluttuanti e ci resta per ORE.
E non scherzo!
Chiudo la porta e torno a guardarlo. «Ciao. Non
sapevo venissi anche tu.»
Direttamente
da “Cortesie per gli ospiti”, proprio.
Christian sembra interdetto – mi pare ovvio, cretina! – e allunga lo
sguardo oltre le mie spalle per cercare aiuto. Deve aver individuato Cooper in
terrazza, perché fa un cenno di saluto nella sua direzione, poi sposta lo
sguardo su di me.
Espira con le labbra serrate, l’espressione da
interdetta a rassegnata. «Anch’io sono felice di vederti, Elettra.» Mi dà una
specie di pacca amichevole sulla spalla e sparisce alla volta della cucina con
una busta della spesa in mano che noto solo ora.
Resto a fissare la porta e l’aria vuota davanti
a me e per un istante mi viene da piangere.
Quando mi giro, vedo che Rachel mi sta fissando
con uno sguardo di disapprovazione.
«Che c’è?» Chiedo, stizzita.
«Potresti essere meno… te, per una volta nella vita?!» Alza le braccia e aspetta una
risposta. Mando giù un improvviso groppo che mi si è formato in gola e mi rendo
conto di odiarmi quando faccio così. Lo sguardo speranzoso e allegro di
Christian si è spento, quando l’ho accolto con quella frase. Non era necessario
dirgli quella cosa. No.
Soprattutto
dopo tutto quello che ha fatto per te, direi,commenta Violet nella mia testa e per una volta non trovo nulla da
ribattere.
Quando noi donne combiniamo un guaio, la prima
cosa che ci viene in mente è… cercare di ripararlo?
No, certo che no. Dopotutto, abbiamo avuto senz’altro un buon motivo per
combinarlo. Piuttosto, proviamo a sondare il terreno, per capire quanto grande
sia il buco nero che abbiamo generato.
È per questo motivo che mi dirigo in terrazza,
dove Cooper e Christian mi danno le spalle e sembrano concentrati a disquisire
di carne. Mi avvicino furtivamente.
«Caspita, hai svaligiato una macelleria?»
Ridacchio, vedendo la quantità decisamente abbondante di carne che Christian ha
tirato fuori dal suo sacco della spesa. Sul tavolo vedo due bottiglie di
Chianti che prima non c’erano. Ha portato di tutto!
Guardo Orione in attesa di una risposta ma lui
sembra non avermi sentito. Sta parlando di costolette con Cooper e sembra
piuttosto assorto. Finisce di svuotare il sacco sul ripiano accanto alla griglia,
poi piega il sacco di cartone con cura e cerca con gli occhi un posto dove
poggiarlo.
«Dai a me, lo ripongo io…» Mi offro, allungando
la mano davanti a lui.
«Sì.» Risponde secco, mollandomi il sacco senza
degnarmi neanche di uno sguardo. «Penso che dovremmo cuocere prima le
salsicce…» Continua a dire a Cooper. Entro in cucina come un fantasma e apro
l’anta del mobile dove Anne tiene i sacchi della spesa. Osservo Christian
togliersi la camicia azzurra e restare in t-shirt bianca. Dio, quei muscoli. Hanno
già acceso la brace? No? Ah, era una vampata?
Lo scollo a V gli scopre parte del torace, dove
indugio con lo sguardo prima di essere colta in flagrante da Anne. Mia cugina
mi infila due dita nei fianchi facendomi sobbalzare.
«Esci o no? Portiamo gli antipasti fuori, dai.»
«Sì, sì. Certo.» Borbotto e l’aiuto insieme a
Rachel. Thomas, intanto, ha imitato Christian liberandosi del cardigan leggero
e restando in camicia.
«Mi aiuti ad arrotolare le maniche?» Chiede a
Rachel, sorridendole timido. Lei diventa rosso Thomas e lo fa aumentando di
gradazione a ogni risvolto. Lui la guarda tenero mentre lei cerca di fare il
lavoro più accurato possibile. Vedo che anche Christian li osserva con un
sorriso negli occhi; prima di tornare a guardare la griglia incrocia i miei e
io sorrido incoraggiante, ma lui sposta lo sguardo su Cooper senza ricambiare.
Sì, è arrabbiato.
La risposta
è... ESATTA! Hai vinto un orsacchiotto. O meglio, un orsacchiottone
indiavolato.
Esco di nuovo in terrazza nascondendomi dietro
le bottiglie d’acqua e coca-cola, ma il camuffamento è inutile dal momento che
i tre uomini sono sempre rivolti dalla parte opposta. D’accordo. Tanto
Christian finisce sempre per sedersi accanto a me, quindi parleremo a tavola e
scoprirò che è tutto a posto e mi sono semplicemente impressionata. Sì. Andrà
così.
«Come ci sistemiamo?» Domanda, per l’appunto,
Thomas, quando Anne invita tutti ad accomodarsi.
«Chi si siede a capotavola?» Cooper indica il
posto e io, nella totale convinzione che ci si sarebbe messo lui, non posso far
altro che assistere sgomenta al movimento quasi impercettibile della mano di
Christian che si solleva e indica chiaramente che quel posto sarà suo. Anne
sbatte le palpebre manifestando la sua sorpresa e prova a dissuaderlo: «Ma no,
si siede Cooper lì…» Mi lancia un’occhiata
preoccupata e al tempo stesso confusa, che scema nella delusione quando
Christian rifiuta gentilmente e prende definitivamente posto.
«Cooper può sedersi qui, così continuiamo quella
conversazione…?» Indica il posto alla sua sinistra e mio cugino annuisce e si
siede obbediente.
Anne guarda il posto alla destra di Christian
come Scrat può guardare la sua amata ghianda.
«Io mi siedo qui allora, tra uomini…»
Ridacchia ingenuamente Thomas, adocchiando la stessa sedia che stava avidamente
guardando mia cugina. Prego in aramaico che non prova a opporsi anche stavolta.
Fortunatamente non lo fa, ma si limita a lasciarsi cadere sulla sedia accanto a
suo marito. Rachel fa lo stesso dall’altro lato; quando si siede, Thomas le
mette un braccio intorno alle spalle e la stringe dolcemente per qualche
istante.
Dunque, a me tocca il posto all’altro capo del
tavolo. Beh, se non altro, ce l’ho di fronte. Se Anne avesse avuto un tavolo da
otto posti, mi sarei dovuta sedere accanto a lei (perché Rachel oggi mi odia) e
avrei dovuto mangiare praticamente spalmata sul tavolo per avere un minimo di
contatto visivo o conversazione con qualcuno. Almeno, così, li vedo tutti.
Bene.
Iniziamo a mangiare con un ‘buon appetito’
generale e io ripeto esattamente la scena della festa di fidanzamento di Nancy:
mi tuffo sul cibo per riempirmi la bocca. Ascolto educatamente Anne e Rachel
parlare di ecografie e di possibili nomi, e ogni tanto intervengo commentando
questo o quello.
«E se fosse maschio? Che nomi vi piacciono?»
Domanda Rachel, addentando il suo crostino. «Mmm, è buoniffimo!» Commenta con
la bocca piena alzandolo in segno di omaggio a mia cugina.
Anne sorride e poi riflette sulla domanda. «Beh…
se proprio devo dirlo, il mio nome maschile preferito è sempre stato
Christian…»
«HA.» Faccio una risata finta e breve quanto un
battito di mani, carica di sarcasmo e di isterismo dovuto alla situazione.
Rachel guarda sommessamente il suo piatto e Anne accenna un timido sorriso.
Ehi, perché sono tutti in silenzio?
Guardo davanti a me e vedo che Christian ha
seguito il botta e risposta. O botta e “suono gutturale indistinto simile al
colpo di tosse di una iena”.
Se
fossi in te mi scuserei gentilmente e mi andrei a cuocere la faccia sulla
griglia.
Cooper e Thomas non si sono accorti di nulla, ma
quando percepiscono il silenzio si interrompono e per qualche secondo ci
guardiamo tutti in maniera piuttosto confusa.
«Che è successo?» Domanda Cooper, cadendo dalle
nuvole.
«Niente.» È Christian a rispondere, guardandomi
dritto negli occhi. È tornato il suo sguardo indecifrabile. Oh, santa me. Non
ne faccio una giusta oggi, ho capito! «Dicevi, di quella serie?» Si rivolge a
Thomas e la conversazione riprende così come si era interrotta.
Riesco a trovare un po’ di pace quando Christian
si alza per rispondere ad una telefonata di lavoro. Dato che si dirige verso la
casa, intuisco che ci metterà un po’ di tempo, perciò decido di alzarmi e in
uno scatto fulmineo finisco per appollaiarmi sulla sua sedia, sorridendo a
Cooper. Mi sento estraniata laggiù, oh.
Il mio caro cugino acquisito distoglie lo
sguardo da sua moglie e, parlando mentre maciulla un peperone, mi dà di gomito.
«Sai, è proprio arrabbiatissimo.» Cogliendo la
mia espressione confusa si accinge ad aggiungere dettagli. «Christian. Con te.»
Sbuffo, pentendomi immediatamente del cambio di
posto. Ora me ne torno dall’altro lato a infilzarmi con i bastoncini degli
spiedini.
«Oh, per favore, non ti ci mettere anche tu! Anne
ti ha fatto il lavaggio del cervello?» Me la immagino di notte che gli sussurra
frasi ambigue su me e Christian, in loop, per lobotomizzarlo psicologicamente e
costringerlo ad adempiere la sua volontà.
«No, io sono un futuro papà e vedo dove c'è
l'amore. Lo fiuto. Lo sento con ogni fibra del mio essere.» Solleva le mani in
piena pratica mantra e poi torna a guardarmi. «Io SO.»
Alzo un sopracciglio e mi inclino leggermente
all’indietro, scansando gli ultrasuoni di demenza che sta emettendo in questo
momento. «Credevo fossi un avvocato, non un sensitivo del cavolo.»
Cooper ride. «Dev’essere
un nuovo superpotere del mio status.»
«Comunque, potrebbe essere arrabbiato per i
cavoli suoi. Che c'entro io?»
Coop mi lancia un’occhiata molto eloquente, poi
sospira. Per finta. «Okay, hai ragione. Magari è nervoso per lavoro. Guadagnati
una promozione e vai a sentire cos’è successo.» Indica la casa con un cenno del
capo e io inorridisco.
«Non mi avvicino neanche morta. Quello mi
sbrana.»
«Allora tu c'entri qualcosa...» Agitando una
salsiccia davanti alla mia faccia scrutandomi con occhio critico. «Sputa il
rospo.»
«Io... No. Cioè, d’accordo, potrei non averlo
accolto come si aspettava. Ma che vuole, che gli faccia la festa ogni volta che
lo vedo? E poi ormai dovrebbe conoscermi.» Incrocio le braccia al petto e
grugnisco.
Cooper mastica lentamente, con aria pensosa.
Scommetto che ora mi darà una risposta arguta da avvocato, di quelle che ti
fanno vincere le cause. O perdere, nel mio caso.
«Quindi lui è arrabbiato per come lo hai
accolto. Si aspettava un trattamento diverso dal saluto – spero tu l'abbia
salutato almeno – e questo significa che è successo qualcosa che pensava
avrebbe influito sul tuo caratteraccio…» Prende un respiro e sento che avevo
ragione. Quasi quasi mi piaceva di più come
sensitivo. «Anche io ti conosco e direi che possono essere successe due o tre
cose al massimo per influenzarti nei saluti, di cui UNA ed UNA soltanto che
causerebbe la tua ira dopo. Dunque… CHE AVETE FATTO?»
Sbarro gli occhi e la mia mascella cade al
suolo. NO, NO, NO! È arrivato alla conclusione sbagliata! Mentre penso a come
formulare una risposta non fraintendibile, lui si volta di scatto verso Anne e
parte in quarta: «Anne, non puoi portare i piatti nelle tue condizioni!» Mia
cugina lo guarda come se gli fosse partito qualche neurone. «Ti aiuto,
andiamo.» E così, mi lascia a fissare la mezza salsiccia ancora infilzata nella
forchetta.
Ironia della sorte… l’oggetto delle nostre
confabulazioni decide di tornare proprio in quel momento. Notando che la sua
sedia è occupata – già, proprio e ancora
dalla sottoscritta – prende posto su quella di Cooper.
Oh
salve Chris, ci sei anche tu a questo tavolo!
Si guarda
intorno per un istante e poi, vedendo che Rachel e Tom sembrano impegnati in
una conversazione piuttosto intima, sposta lo sguardo sul cellulare.
Il tuo
fegato sta friggendo come un wurstel sulla piastra.
Potrei chiedergli di passarmi il sale.
Peccato
che non tu non stia mangiando. E che, oltretutto, sia seduta al posto sbagliato.
E lui non mi ha detto nulla al riguardo. È
troppo impegnato a far cosa, poi? Giocare a Candy Crush
Saga?
Christian
Wayne non potrebbe mai giocare a Candy Crush Saga.
E allora perché non butta quel dannato telefono?
Hai mai
sentito parlare di “evitare qualcuno usando qualsiasi cosa si abbia tra le mani”?
Grrr.
«Sai che è maleducazione guardare il cellulare
quando sei in compagnia?» Giuro, non avevo pensato di dirla così.
Christian alza lentamente lo sguardo dallo
schermo del suo smartphone e mi rivolge un’occhiata raggelante.
«Sai che è maleducazione rivolgere la parola a
qualcuno solo per fargli notare che è maleducato?»
Rispondo dapprima guardandolo in cagnesco ed
espirando come se potesse uscirmi del fumo dalle narici da un momento
all’altro.
«Sei tu che non mi rivolgi la parola, mica io.»
Christian stira le labbra in un sorriso
decisamente forzato. «Forse invece di stare a puntualizzare sulla mia educazione
potresti chiederti perché!»
Faccio roteare gli occhi esasperata e gonfio le
guance. «Dovevo farti le fusa?! Scusa tanto se non sono un persiano! Sei stato
abituato male con Alexandra che scodinzola ogni volta che ti vede!» Ho
pronunciato il nome di Alexandra come se fosse veleno e credo anche di aver
leggermente sputacchiato.
«I gatti non scodinzolano, quelli sono i cani.»
Sto per tirare fuori il mio bazooka di riserva
dal reggiseno e stavolta prenderò accuratamente la mira.
«Capisci il senso, idiota! Erano due paragoni
diversi!»
«Idiota. Hai anche il coraggio di darmi
dell'idiota? Tu. Quella che ha ballato la lap dance da ubriaca in un locale
malfamato! Tu. Tu dai dell'idiota a me?!»
«Beh, almeno tu sei sobrio ora!»
«Certo che sono sobrio. Non sono abituato ad
ubriacarmi, io...»
«Ci mancherebbe, già deliri da lucido!»
«Io starei delirando? Ovvio, come al solito la
perfetta Elettra Wayne non ha fatto niente per darmi sui nervi. Io mi chiedo
cosa diavolo ho fatto per meritar...»
Si blocca di colpo quando, nella foga del discorso che sta prendendo
decisamente una brutta piega, si volta e vede Anne che lo osserva rapita. «Che
c'è?» Domanda, accigliato.
Mia cugina agita la mano come a liquidare la
faccenda. «Oh, nulla, continuate pure! Può darsi che arriverete finalmente a baciarvi, come nei litigi
dei film!» Batte le mani eccitata e guarda Cooper che sbatte lentamente le
palpebre e deglutisce vistosamente.
«Oh, ehm, non farci caso. È incinta...» Dice
rivolto a Christian e gira l’indice accanto alla tempia, tipico gesto di chi
indica la perdita di una qualche rotella.
Anne intercetta il movimento e spalanca la
bocca. «CARO, se c'è uno svitato fra me e te perché IO sono incinta, sei tu!»
«Oh buon Dio, non iniziate a discutere! Voi
siete innamorati e gli innamorati non discutono.» Dichiaro, perentoria.
Cooper prende un gran respiro e assume di nuovo
l’espressione dell’illuminato. «Invece sì, Elettra. E la parte più bella è fare
pace.» Rivolge un sorriso smagliante a me e Christian con tanto di sopracciglia
sollevate a mo’ di incoraggiamento.
«Cosa avete messo nella carne? State delirando
tutti e quattro. Beh, a dire il vero tutti e cinque, perché Thomas mi ha appena
chiesto di venire a Panama con voi!» Rachel torna tra noi con il volto che
sprizza gioia da tutti i pori e finalmente fa rilassare un po’ l’atmosfera. Non
che fosse tesa, capiamoci. Almeno, non in senso cattivo. È solo che c’è sempre
una strana tensione quando sono con Christian. No, Violet, non intervenire, ti
censuro in partenza.
«A Panama?! Sul serio?!» Mi porto una mano alla
bocca e guardo Thomas riconoscente. Una faccia amica! Almeno non sarò sola con
quello svitato di Tony e quella sciagurata di Lily.
E Christian, sì, già.
Che mi odia, sì, già.
Non era
questo che volevi, Elettra?
«Mi accompagneresti in bagno?» Rachel si alza e
mi trascina via dai commensali e dalla mia voce interiore che parla sempre a
sproposito. È talmente emozionata che ha dimenticato di avercela anche lei con
me.
«Cosa vuol dire secondo te?» Mi chiede, confusa
e agitata, una volta entrate in bagno. «Gli piaccio davvero? Vuole andare
oltre? Oddio, cioè, siamo usciti solo tre volte e... invitarmi a venire con
voi... io...»
La interrompo bloccandole le mani che agita
convulsamente e la guardo divertita.
«Rach. È un viaggio a
cui avrei potuto invitarti anche io. Non è nulla di eccessivamente impegnativo
se non vuoi che lo diventi. E comunque, come direbbe mia sorella, dopo il terzo
appuntamento di solito si passa al... livello successivo. Magari Thomas voleva
una location più esotica.» Scoppio a ridere e lei diventa paonazza. Quando si
ricompone, facendosi aria con la scatola di strisce depilatorie che ha trovato
nell’armadietto, mi guarda minacciosa.
«Verrò solo se fai pace con l’orsacchiottone.»
«Cosa?!» No, no, non mi piace questa
conversazione. «Perderesti la possibilità di passare intere giornate con Thomas
per colpa di un presunto litigio tra me e quel decerebrato?!» Starà sicuramente
scherzando.
Rachel fa spallucce. «Non ho ancora dato una
risposta a Thomas, quindi...» Si guarda distrattamente le unghie, l’aria
altezzosa.
«Ma non badare a Christian! Quando gli passerà
la sindrome premestruale tornerà come prima!»
«A me non sembra proprio.» Va bene, è decisa su
questa linea.
«Cosa dovrei fare, sentiamo? Prostrarmi al suo
cospetto e baciargli i piedi?» E magari fargli aria con un ramo di palma. Ma
per favore!
«Beh, baciarlo potrebbe essere un’idea...»
«Assolutamente non contemplata, era questo che
stavi per dire?» La guardo torva. Il solo pensiero di baciarlo mi agita tutti
gli organi interni.
Rachel riflette battendosi un dito sulle labbra.
«D’accordo, faremo finta che aspetti anche tu una location migliore per quello.» Mima il segno delle virgolette con
le dita, facendomi il verso. «Però adesso potresti approfittare del momento in
cui Anne e io prepareremo le coppette col gelato e la macedonia e Cooper e
Thomas saranno impegnati a smontare il barbecue per parlargli. Scusarti. Fai qualcosa,
per l’amor del cielo! Cerca di rimediare in qualche modo. Intese?» Punta i suoi
occhi con due dita e poi le sposta verso i miei. «Ti tengo d’occhio.»
Alzo le braccia e mi arrendo. «E va bene. Ti
odio.»
Il fatidico momento non tarda ad arrivare. Anzi,
arriva troppo presto e io non ho ancora pensato a cosa dirgli.
Rachel prende quasi di peso Anne per portarla in
cucina, scoccandomi un’occhiata di incoraggiamento/minaccia. Cerco di
trattenere uno sbuffo e, prima che Christian possa alzarsi per aiutare i due
uomini, gli afferro delicatamente un braccio per attirare la sua attenzione. Si
volta, quell’azzurro guarda proprio me.
«Ehm...» Deglutisco a vuoto e faccio uno sforzo immane per ripescare la lingua che s’era
nascosta chissà dove. Riesco perfino ad accennare un sorriso simile a una
smorfia spastica. «Possiamo parlare un attimo?»
Ci spostiamo sulla parte più lontana del
terrazzo, su un grande dondolo al riparo dal sole e da orecchie indiscrete.
Quando ci sediamo, mi pento di averlo invitato a parlare. Non ho la minima idea
di cosa dirgli e lui mi sta guardando con quegli occhi che... non lo so,
davvero.
Mi sta passando tutta la vita davanti.
Fossi
in te mi soffermerei sugli ultimi mesi e ci farei un pensierino sul baciargli i
piedi.
Christian sospira, torna a fissare il pavimento
e, con mio sommo sgomento tira fuori il cellulare dalla tasca.
«Sul serio?! Di nuovo?!» Esclamo scioccata.
Lui blocca lo schermo e mi sorride. «Oh, allora
parli...»
«Può sembrarti facile.» Bofonchio, infastidita.
Christian si stringe nelle spalle. «Solitamente
lo è. Pensi una cosa, prendi fiato e lasci che le parole ti escano di bocca...»
Colgo la palla al balzo e annuisco timidamente.
«Beh, a volte escono quelle sbagliate...»
«Oh, tipo “non sapevo venissi anche tu” invece di
“oddio, che bello, ci sei anche tu, non vedevo l'ora di rivederti”?» Fa un gran
sorriso pieno di entusiasmo nel pronunciare la frase e io gli do un mezzo
spintone.
«Sì, vabbè, come no! La prossima volta ti salto
addosso, che dici?!»
«Con comodo.» Dice, sornione, aprendo le braccia
e indicandosi. Poi intercetta il mio sguardo e alza le mani. «No, okay,
scherzavo. Non uccidermi.»
«Flirti così spudoratamente con tutte o sono
fortunata?» Mi informo, sbattendo le ciglia in modo amabile.
«Con te è più divertente.» Replica lui con un
sorriso malizioso.
«Ah. Okay. Bene.» Incrocio braccia e gambe e
cerco di restare impassibilmente indifferente. O indifferentemente impassibile.
«Mmm... gambe e braccia incrociate: segno di
chiusura totale.» Riflette Christian squadrandomi.
«Che c’è, adesso sei diventato Freud?» Tutti
psicologi al giorno d’oggi!
«No, se fossi Freud parlerei di sesso. E anche lì
avrei molto da dire.»
Lo guardo incredula ma non riesco a trattenere
un sorriso. «Credevo di star parlando con Christian, non con Tony.»
Lui ridacchia, poi si fa serio. «D’accordo, ti
ascolto.»
«No, adesso non mi va più di chiederti scusa.»
Mormoro, alzando piano piano lo sguardo per osservare
la sua reazione.
«Se ripeti la parolina magica e poi scappi via
come al solito va bene lo stesso. Non mi aspetto un sermone di due ore.»
«Intendi “per favore”? Quella parolina magica?»
Sbatto innocentemente gli occhi e lui per risposta li alza al cielo.
«Sei peggio di una bambina di tre anni.»
«È sempre buono per una donna dimostrare meno
anni di quanti ne abbia in realtà, no?» Lo sfido con un sorriso interiore
gigantesco.
Christian ne accenna uno e si avvicina
lentamente col viso, la mano destra va ad accarezzarmi la pelle della guancia e
due secondi dopo... mi stringe le guance tra le dita muovendomi la faccia a
destra e sinistra.
«Chiedimi scusa o continuerò a torturarti la
faccia come faceva mia sorella con me quando ero piccolo!»
«EHII!» Provo a dire con le labbra strette in
modo ridicolo, cercando di staccare le mani che sembrano ancorate alla mia
faccia come i tentacoli di una piovra. Per un istante immagino Christian coi
capelli e la pancia di Ursula e mi viene da ridere.
«Lossciomi!» Quello doveva essere un ‘lasciami’, ma sono
stata privata dell’uso della bocca da questo immenso demente che ho di fronte.
Allungo la mano a tirargli i capelli e lui me la blocca senza il minimo sforzo.
I muscoli sotto la maglia bianca guizzano deconcentrandomi parecchio.
«Una parolina e sei libera.» Sussurra, tanto serafico
ed etereo che mi viene voglia di rovesciargli un secchio di vernice in testa.
«Voffonculo
ti vo bone?!» Rispondo, tentando un sorriso idiota.
Christian contiene una risata e scuote la testa.
«No, non vo bone.» Sono tentata di sbuffare ma temo che gli farei la doccia.
Quasi quasi questo mi tenta ancora di più. «Su,
piccola Lemon, ce la puoi fare!»
«Lemon? Perché Lemon, scusa?» Domando,
accigliata.
Perché
sei acida.
Christian sembra colto alla sprovvista e
distoglie lo sguardo dal mio. «Ovviamente per i tuoi…ehm…»
Sbalzi
d’umore degni di una vedova allampanata che è appena andata in menopausa?
«…capelli? Sono
diventati più biondi ultimamente.»
Sorrido interiormente al suo tentativo di non
spiattellare tutta la verità come invece sta allegramente facendo la mia vocina
interiore, e gli intimo di lasciarmi una volta per tutte.
Lui sembra valutare la cosa, poi accenna una
smorfia dubbiosa. «No, mi piace vederti con le labbra protese verso di me.»
Sento però che allenta leggermente la presa, permettendomi almeno di parlare
senza sembrare diversamente scema.
Sono seriamente tentata di farti la doccia,
Christian. No, non come credi tu.
«Eddai.» Piagnucolo. «Ho anche detto “scusa”. In
“Perché Lemon, scusa?”» Azzardo un altro sorriso angelico e il mio carceriere
alza gli occhi al cielo, per poi finalmente mollare l’osso. Mi massaggio le
guance che sembrano essere rientrate di cinque centimetri ed emetto un sospiro
di sollievo.
«Domani allora torni in ufficio? Ce la fai?»
Chiede apprensivo lanciando uno sguardo veloce al mio addome.
«Certo, sto molto meglio. Il mio osso sacro non
vuole vedere più il materasso se non per la notte.» Faccio una smorfia di
dolore al solo pensiero di quello che mi ha fatto patire durante la
convalescenza.
«Non affaticarti inutilmente, comunque. Non puoi
permetterti di trattenerci al tuo capezzale, a Panama.» Mi fa l’occhiolino e io
faccio schioccare la lingua.
«Nessuno ve lo chiederebbe, in ogni caso. Così
come nessuno te l’ha chiesto in ospedale.» Aggiungo, per poi mordermi la lingua
quando vedo la sua espressione. Simulo due colpetti di tosse e, nel mezzo,
mormoro: «Però mi ha fatto piacere, grazie.» La sua espressione torna serena
anche se non del tutto soddisfatta.
«D’accordo, Lem. Accetto le tue pseudo scuse,
ora possiamo tornare dagli altri.» Prima che possa replicare si alza e io gli
corro dietro col dito puntato.
«Smettila di chiamarmi così!» Ordino, ma lui non
sembra ascoltarmi.
«Preferisci Lemmy?» Rilancia, abbagliandomi con
un sorriso. No, caro. Quello potrà funzionare con Alexandra, ma con me…
«Ele! Lo vuoi il gelato o no?» Rachel mi fa un
cenno e io annuisco.
«Sì, sì, arrivo.» Esclamo, e rimando il
dibattito sul mio nomignolo nuovo di zecca a un momento più opportuno.
«Grazie della splendida compagnia. Thomas, è
stato un piacere conoscerti meglio. Senza rugby di mezzo.» Sta dicendo Anne a
Rachel e al suo nuovo-quasi-boyfriend-wannabe.
«Oh, il piacere è stato mio.» Ridacchia lui.
«Prometto di non parlarne più in tua presenza. Pare che le donne in stato
interessante siano inclini alla violenza brutale.» Ridiamo tutti e ne
approfitto per stritolare Rachel e abbracciare Thomas.
«Ci vediamo domani.» Mi strizza l’occhio e cede
il posto a Christian.
«Grazie anche a te. Non c’è bisogno che ti dica
quanto ti-»
«No, non c’è bisogno.» Diciamo in contemporanea
io e Cooper, bloccando la frase sul nascere. Anne diventa color porpora e si
nasconde dietro a un sorriso a trentadue denti.
Christian sogghigna e saluta affettuosamente la
coppia, accordandosi con Cooper per “quella partita”. Quale partita? Cooper
pratica qualche sport?
Prima che possa scavare a ritroso nella mia
mente alla ricerca di qualche indizio al riguardo, Christian mi posa una mano
sul braccio. Ci guardiamo senza dire nulla, né un ‘ciao’, né un ‘a domani’. È
come se ci fossimo già detti tutto prima, tra un mezzo insulto e l’altro. Il
mio cuore fa un capitombolo quando si china velocemente per baciarmi una
guancia e contemporaneamente stringe di più la presa sul braccio. La mia mano
corre automaticamente sulla sua, carezzandone leggermente il dorso prima di
lasciarlo andare.
Quando Anne chiude la porta, mi accorgo di aver
trattenuto il respiro per tutto il tempo.
**********
«BENTORNATA!»
È un coro unanime ed allegro quello che mi
accoglie nella reception della Macmillan Publishers
alle nove in punto del mattino seguente.
All’appello ci sono
proprio tutti, tranne il grande capo e… il “piccolo” capo. Cerco con lo sguardo
il suo codino biondo con l’insana, irrisoria e totalmente fuori luogo speranza
di trovarlo in corridoio, ma resto delusa.
«Mi stavate spiando o
siete appostati qui dalle otto? Non è una valida scusa per non lavorare,
sapete.» Rido per nascondere un po’ del mio imbarazzo nel vedere tutte queste
persone che mi sorridono e vengono ad abbracciarmi con affettuosa veemenza. Mi
fa sentire… strana.
Quando tocca a Tony, aggrotto le sopracciglia
notando il sorriso idiota e un tantino maligno che gli curva le labbra.
Qualcosa mi dice che ha combinato un guaio dei suoi, o sta pensando di farlo.
«Hai salutato tutti?» Mi chiede, sciogliendo il
nostro abbraccio.
Annuisco. «Sì, sì.» Confermo, guardando i nostri
colleghi tornare pian piano alle rispettive postazioni.
«Allora vieni con me.» Non faccio in tempo a
chiedergli spiegazioni che vengo trascinata nello studio di Christian. Pare che
alla gente piaccia proprio trascinarmi nei luoghi meno opportuni!
Quando chiude la porta alle nostre spalle, non
posso credere ai miei occhi. Nel bel mezzo della stanza c’è un lettino che ha
l’aria di essere del tipo ospedaliero e Christian con un camice bianco addosso
e un’espressione del tutto rassegnata. “Non è colpa mia”, sembra urlare da ogni
poro della sua pelle.
Guardo Tony per un istante prima di snocciolare
tutte le imprecazioni possibili e immaginabili ma lui sfodera un amabile
sorriso – sì, amabile un corno! – e mi spinge verso il lettino.
«Ora voi due giocate al dottore.»
SANTO CIELO!
Mi sveglio di soprassalto, tutta sudata, e
sgrano gli occhi verso il soffitto riacquistando tranquillità man mano che
realizzo che era soltanto un sogno.
Devo
smetterla di guardare le repliche di Grey’s
Anatomy.
Perché,
vuoi dire che non avresti gradito l’idea?
Certo che no. Come puoi solo pensare di pensare una cosa del genere?
Tu non
hai idea di quello che ti aspetta in vacanza, vero?
Ehm.
Speakingof, devo
ancora fare una lista di cose da portare, anche se so che chiuderò la valigia
esattamente dodici ore prima di partire. Come sempre. Mai una volta che non
procrastini, io. E devo anche andare a trovare la zia Libby, se non voglio
rischiare il linciaggio estremo e l’esclusione da ogni testamento della mia
famiglia.
La lista magari la faccio stamattina al lavoro,
se non devo stare dietro a Christian. Ti prego, ti prego, Dio, no. Voglio stare
da sola nel mio ufficio a compilare la mia lista chilometrica e più dettagliata
del protocollo di sicurezza della Casa Bianca e a cercare info su Panama – e/o
vie di fuga nel caso in cui Tony voglia coinvolgermi in qualche attività discutibile, ma acqua in bocca.
Il pensiero di Tony e le sue idee strambe mi
accompagna in ufficio, con un leggero batticuore e un oscuro presentimento
dovuto anche al sogno di questa mattina.
Quando varco la soglia della mia amata casa
editrice, però, vengo accolta dal silenzio. Le luci sono spente, fatta
eccezione per quelle di emergenza, che illuminano discretamente l’ambiente.
Resto immobile al centro della reception in attesa che il mio cervello decida
il da farsi.
«Ehilà?» Domando, incerta. «C’è nessuno?»
Dopo aver ricevuto in risposta semplicemente
l’eco di quello che ho appena detto, mi avvio lentamente verso il corridoio che
porta al mio ufficio. Sbircio in quello di Christian ma è tutto buio e non vedo
nulla.
Il rumore della fotocopiatrice mi fa sobbalzare.
Sta arrivando un fax.
«Che paura...» Mi porto una mano al petto e
proseguo verso la mia stanza. Da quel che riesco a vedere è vuota, come l’ho
lasciata. O forse no, perché non ero propriamente lucida quando l’ho lasciata.
In ogni caso non c’è traccia di Lily.
Che abbiano anticipato le ferie? Perché non mi
hanno avvertito? E perché l’ufficio era aperto? Forse c’è solo Martin, di
sopra?
Mentre mi pongo tutte queste domande, mi infilo
nell’ascensore e attendo sommessamente che mi porti al piano di sopra. Quando
le porte si aprono, lo scenario si ripete: tutto buio, qualche raggio di sole
filtra dalle tende illuminando la scrivania di Nancy. Strano, non sembra la
scrivania di una che è andata in ferie. No, non è possibile...
Nel momento in cui faccio un passo davanti alla
sala riunioni, il mio cuore rischia di balzarmi fuori dal petto verso
l’infinito e oltre, quando scorgo delle ombre e subito dopo, neanche il tempo
di realizzare, un “SORPRESA!” mi esplode nei timpani terrorizzandomi dalla
paura.
«AAAAAAAAAAAHHH!» Grido, sopraffatta dalle luci
e i palloncini e i coriandoli e tutto lo staff della MP che sorride e saltella
allegramente per la stanza trascinandomi al suo interno.
Quando riapro gli occhi, oltre a tutti i colori
coi quali è addobbata a festa la nostra seria e austera sala riunioni, vedo sul
lungo tavolo sette torte di medie dimensioni, ognuna con una lettera del mio
nome disegnata sopra con qualcosa di sicuramente commestibile e dall’aspetto
veramente invitante.
«Non sapevamo che gusti ti piacessero, perciò
abbiamo optato per sette torte più piccole con gusti differenti.» Commenta Lily,
intercettando il mio sguardo tra il perplesso e lo scioccato.
E il
riconoscente. Sì, lo vedo, è inutile che fai la dura, Rambo
dei poveri!
«M-mi piace tutto...»
Balbetto, emozionata.
«Ne abbiamo scelta una ciascuno, tirando a
indovinare. Poi decreterai il vincitore. BENTORNATA ELE!» La piccolina tutto
pepe mi abbraccia, dando il via ad un applauso che sta quasi per terminare con
le mie lacrime. Non ci posso credere.
Ad uno ad uno, tutti vengono ad abbracciarmi,
compreso il grande capo Martin che sono sicura non vede l’ora di tuffarsi nella
torta con le fragole. La sta fissando manco fosse Monica Bellucci. Giuro.
Tony mi stritola sballottandomi su e giù come se
avessi tre anni, e Thomas invece fa il solito gentiluomo con tanto di
baciamano.
«E Rachel?» Domando, ormai mi manca sempre ed è
come se fosse di casa anche qui.
«Sta lavorando, ma ha scelto la torta insieme a
me. È quella lì.» Indica la torta che porta la lettera “L”, che somiglia tanto
a un dolce tipico italiano, di pasta sfoglia e pan di spagna ricoperto dallo
zucchero a velo e farcito con la crema chantilly.
«C’è il liquore dentro?» Domando, con
l’acquolina in bocca.
«Esatto. Ti piace?»
«Potrei morirci.» Sbavo copiosamente
pregustandone il sapore. Complimenti a Rachel, ha praticamente azzeccato il mio
dolce prefer...
«Bentornata.» Una carezza leggera sul capo mi
distoglie dal pensiero della mia succulenta torta. Christian mi sorride, chinandosi
a darmi un bacio veloce sulla fronte. «Come ti senti?»
«A parte il fatto che vi odio e che non dovevate,
bene.» Borbotto, arrossendo. Questo posto mi sta cambiando. Io non sono così.
No, tu eri così. È stato quel senza palle a cambiarti.
Tony approfitta del momento di silenzio per
stappare lo champagne. «Ottimo. Appurato che la nostra traduttrice sta bene e
che, come sapevamo, ci detesta per questa sorpresa che l’ha messa al centro
dell’attenzione per ben dieci minuti,
direi che possiamo buttarci sulle torte. Chi le taglia?»
Ho la pancia piena come un uovo e sto per
vomitare.
Mi vogliono male in quest’ufficio, chiaramente.
Ho assaggiato tutte le torte e fatto il bis di due, le più buone: quella scelta
da Thomas e Rachel e quella scelta da… beh, Christian. Il fatto è che non ho la
più pallida idea di come abbia fatto
a capire che amo la combinazione menta-cioccolato e la sua torta era, appunto,
una After Eight. Deliziosa.
Sì, è stata lei la vincitrice. Quella ufficiosa,
intendo. Ufficialmente ho fatto vincere la torta diplomatica di Thomas e
Rachel. Ma sono sicura che Christian abbia colto l’espressione di pura estasi
che ha pervaso le mie membra quando ho assaggiato la sua. Ha tenuto quel
sorrisino soddisfatto sul volto per tutto il tempo.
Quando tutti torniamo di sotto, mi dirigo senza
pensarci due volte nel mio ufficio, lieta di rivedere le cose a me familiari.
Sposto le tende in modo che passi la luce e resto senza fiato quando noto un
mazzo di rose rosse sulla scrivania.
Sorpresa, non riesco a fare a meno di sorridere.
Ora mi sente quel codino biondo completamente impazzito! Ha avuto anche il
coraggio di scrivere un biglietto? Ha proprio esagerato con questi…
“Sono
felice che ti sia ripresa. Sei bellissima. E.”
Rabbrividisco da capo a piedi e getto il
biglietto sulla scrivania come se mi avesse morso. Ho il cuore che batte
all’impazzata e mi accorgo, grazie alla brezza leggera che soffia dalla
finestra, di avere la fronte imperlata di sudore.
«Non capisco proprio perché tu non mi abbia
fatto vincere. Sei una testarda e pensavo che avessimo trovato un accordo
riguardo alla tua- ehi, tutto bene?» Christian piomba provvidenzialmente nel
mio ufficio beccandomi a fissare il fascio di rose come se fosse un alieno. Si
avvicina cauto alla scrivania e segue il mio sguardo atterrito per poi emettere
un “oh” alquanto perplesso.
«Portali via.» Mormoro, immobile. «Ti prego.»
Christian fa il giro della scrivania e avvicina
una mano al mio viso, senza però toccarlo. Sembra averci ripensato. Torna a
guardare i fiori e poi legge il biglietto.
«“E”?» Aggrotta le sopracciglia. «“E” di…?»
«Ethan.» Rispondo in un soffio.
«Chi? Quel maniaco che mi ha dato un pugno?!» La
sua fronte si distende per il tempo necessario a fargli ricordare l’accaduto,
poi si acciglia nuovamente. «Sul serio?! Come sa che lavori qui?»
«Lui… abita al piano di sotto…» Deglutisco a
fatica per continuare. So già che Christian mi ucciderà per non averglielo
detto. La cosa bella è il fatto che non l’abbia scoperto già. Quel montato di
Ethan non gliel’ha detto che abitava sotto di me? «Come fa a sapere che mi sono
ripresa se ho passato la settimana da Anne?»
Il brillante redattore non sembra per niente
scalfito dalla mia domanda indagatrice. Non credo per disattenzione, no. E
nemmeno per menefreghismo. Semplicemente la sua mente non sarà andata oltre la
prima informazione recepita.
«Cosa? Lui
abita al piano di sotto?!» La sua
espressione è a dir poco furibonda. Gli occhi azzurrissimi sono spalancati e
sono fermamente convinta che voglia farmi morire in modo lento, doloroso e
pressoché infinito. «Stai scherzando.»
«Ehm, no.» Dico, la vocina piccola e sottile.
Christian alza una mano e istintivamente stringo
gli occhi, pronta a… non so, essere schiacciata come una zanzara tigre contro
la parete immacolata. Lui però non vuole colpirmi – eh, ci mancherebbe sai – ma si porta semplicemente la mano nei
capelli, seguendone la superficie perfettamente tirata a lucido. Espira
lentamente. È arrabbiatissimo.
«Non osare farmi un’altra paternale, sai?» Dico,
quando torna a piantarmi quei diamanti blu pungenti e spigolosi negli occhi.
«Se l’avessi saputo prima…» Sibila, a denti
stretti.
«Cosa?» Alzo le braccia. «L’avresti chiuso in
casa o mi avresti rapita e portata nel tuo appartamento?» Mi rendo conto che
sto alzando la voce e inspiro profondamente per calmarmi. Non ho voglia di
litigare, ho mangiato troppi dolci e non riesco a trovare abbastanza cattiveria
per battibeccare col mio caro omonimo.
«Quando torniamo dal viaggio tu ed io andiamo a
vedere quegli appartamenti.» Mi intima, puntandomi il dito contro a mo’ di
monito.
«O cosa, mi sculacci?» Non so davvero cosa mi
prenda. Giuro che non avevo intenzione di rispondere così. Semplicemente, la
sua abitudine di comandarmi a bacchetta mi infastidisce più di ogni altra cosa
al mondo!
Christian sta facendo uno sforzo per non fare
qualcosa di davvero brutto. Ha le narici dilatate e lo sguardo più ostile che
abbia mai visto.
Senza dire una parola, fa marcia indietro e se
ne va dal mio ufficio, sbattendo la porta e facendomi sussultare. Resto a
fissare il vetro che vacilla con le labbra schiuse e il cuore che mi scalpita
nella gabbia toracica.
Santo cielo, ma guardate che mi tocca fare
adesso!
«Ehi, dove correte tutti?» Domanda allegro
Danny, ma quando vede la mia espressione il suo sorriso si spegne di botto.
«Dov’è andato Duke?» Chiedo, tesa, quando vedo
che il suo ufficio è aperto e tristemente vuoto.
«È volato per il corridoio esattamente cinque
secondi fa.» Indica col pollice la reception e io mi ci precipito senza nemmeno
ringraziarlo. Faccio la stessa domanda ad Alexandra, che risponde nel medesimo
modo, aggiungendo qualche secondo.
Non so davvero cosa sto per fare.
Con uno sbuffo esasperato mi dirigo verso la
grande porta a vetri e scendo le scale di corsa, nel tentativo di beccare
Christian ancora per strada.
ECCOLO!
Con un balzo in avanti degno della Vedova Nera,
lo afferro per un braccio e lui si ferma, voltandosi prima di attraversare la
strada.
«Elettra…» Mi guarda stupito, incredulo di
vedermi proprio davanti a lui. Sono meravigliata anch’io, se è per questo.
«Ciao…» Ridacchio, adesso non troppo convinta di
aver fatto la scelta giusta seguendolo.
Lo stupore dura poco, lasciando spazio alla
freddezza glaciale di poco prima, e con essa Christian si tira indietro
liberandosi anche dalla presa sul suo braccio.
«Cosa vuoi?»
Deglutisco per prendere tempo e poi farfuglio
con un’alzata di spalle: «Controllo che tu non faccia danni.» Lui mi guarda con
un’espressione che, tradotta in gergo moderno, potrebbe essere solo espressa
con un “WTF?!” e io mi affretto ad aggiungere: «E inoltre voglio il numero del
tizio che ti ha cambiato la porta.»
Christian mi scruta impassibile per un istante,
poi scoppia in una risata alquanto isterica, che sebbene sia tale almeno mi
tranquillizza un po’.
«Sei così… Elettra.» Dice, scuotendo la testa,
mentre si riprende dall’attacco di risate.
«E cos’è, un’offesa?» Domando accigliata.
Lui sospira, perso nel mio sguardo. «No... sei
tu. Sei così, prima mi fai incazzare a morte e poi con una frase idiota riesci
a calmarmi all'istante.»
Se
quello non è uno sguardo innamorato io non so proprio cosa potrebbe esserlo.
«Q-questo perché ormai ho capito come funzioni e
sfrutto la cosa a mio favore. Tzè.» Balbetto, imbarazzata. Quello sguardo mi ha
toccato fin dentro le viscere.
«Dovrei farti licenziare per quanto sei
fastidiosamente saccente.» Replica lui, puntandosi le mani sui fianchi.
Faccio lo stesso e lo guardo con aria di sfida.
«E perché non lo fai?»
Proprio quando i suoi occhi stanno indugiando
pericolosamente sulle mie labbra, Rachel appare alle nostre spalle ed esclama
stridula: «Si può sapere cos’ha questo marciapiede che vi fa sempre litigare?»
Sono
sicura che Christian sta pensando: “Si può sapere perché non riesco mai a
baciare questa benedetta ragazza?”
In effetti, colgo una traccia di impazienza
mista ad esaurimento nel sospiro di Orione.
«Non saprei, tu che dici?» Mi chiede, alzando un
sopracciglio.
Sono talmente confusa da tutti questi sguardi e
quei sospiri e Violet che non la smette di parlare, che non riesco a trovare
una risposta decente.
«Su, fate pace. Da bravi bimbi.» Propone la
malefica Rachel, tirandoci nel suo rifugio per i caffeinomani.
«Nooo, non voglio!» Non voglio dover passare
ancora del tempo con lui! Lui è pericoloso!
«Come puoi resistere alla tentazione di qualcosa
di caramelloso?» Ecco, vedete? Lui conosce tutti i miei punti deboli!
«Ooooh, vi odio!» Biascico, mentre mi lascio
trascinare verso le dolci tentazioni di Christian e il caramello. E verso l’obesità
più totale.
**********
Ho sempre pensato che la zia Libby somigliasse a
KathyBates. Sì, insomma,
la “Molly Brown” di Titanic. Ha la stessa corporatura, lo stesso taglio vaporoso e gli
stessi occhi vispi.
Dopo aver fatto la conoscenza dei due nuovi
pappagallini e del rimpiazzo del povero vecchio Sandokan, glorioso gatto
persiano morto alla veneranda età di diciassette anni, zia Libby mi fa
accomodare su uno dei divani color verde pistacchio che riempiono il suo
salotto.
«Allora, disgraziata, come stai?» Chiede
sorridente, incrociando le dita fresche di manicure. Si tratta ancora bene, la
zia.
«Sto bene, direi. Il cambiamento si è rivelato
sorprendentemente semplice, in confronto alle aspettative. Mi piace molto,
qui.» Sorrido, ed è vero. Miami è proprio una bella città.
«Il lavoro come va?»
Dovete sapere che la zia Libby non è una di
quelle zie che fanno domande a caso, magari sempre le stesse – che tu abbia
dieci anni o trentanove – quando ti vedono. Sono quasi sicura che, pur non
aspettando la mia visita, sa bene dove andare a parare in questa conversazione.
È troppo arguta. Le laccano anche il cervello insieme alle unghie?
«Va bene. Sono stata accolta positivamente…»
Mormoro, lasciando cadere la frase.
Se per
positivamente intendi da colleghi simpatici e gentili e da un capo che ti muore
dietro, beh, magari hai usato un piccolo eufemismo.
Eccolo lì. Lo sguardo indagatore della zia
Libby. Mi affretto a cambiare argomento.
«E tuuu, piuttosto? Diventerai nonna! Ma ci
pensi?» Esclamo con un sorriso smagliante.
Pessima, pessima scelta. Non dovevo dirlo con
così tanto entusiasmo. Mi sono praticamente puntata i riflettori addosso.
«Come si chiama, cara?»
Deglutisco a vuoto.
«Chi?»
«L’uomo che ti sta facendo perdere la testa.»
«Cosa?!» Scoppio in una risata da persona
nevrotica e instabile e lei sorride. Anzi, ghigna. Ah, il gossip. Cosa non può
fare alla gente. «Cosa te lo fa pensare?»
Lei fa spallucce, sapendo di aver messo a segno
un punto. «Mah. Il fatto che sembra tu abbia le emorroidi, per esempio. Sei
seduta sulla punta del cuscino, rigida come il mio povero Napoleone quand’è
morto.» Chi? Ah, l’altro gatto. Nomi poco impegnativi, vero?
Mi limito a sorridere, colpevole. Il fatto è che
lei ispira troppa fiducia. Fa troppo
venir voglia di parlare. E io non voglio parlare.
Perché vuoi
continuare a negare l’evidenza, idiota.
«Zia…» Piagnucolo, nascondendomi il viso tra le
mani.
«Ho capito, tesoro. Vado a preparare un Bloody
Mary.»
Mezz’ora dopo, ho praticamente riassunto gli
ultimi mesi a una Libby sempre più attenta e partecipe. Le sue guanciotte si
riempiono di soddisfazione quando le mostro una foto di Christian.
«Anne aveva ragione. Manzo di prima scelta, uh?»
Mi dà di gomito.
Okay. Questa non è mia zia. Questa è la
reincarnazione di Dolly Parton.
Un momento. «Anne? Che ti ha detto Anne?!» Lo
sapevo, c’era da immaginarselo. Piccola megera in stato interessante.
«Oh, solo qualcosina. Del tipo che in ospedale ti
sorvegliavano centonovantuno centimetri di bicipiti e pettorali. Mica male.»
Alzo gli occhi al cielo e lei scopre i denti
sotto le labbra tinte di rosso.
«Dunque, mi pare ovvio che lui abbia intenzioni
serie, con te.»
«Serie? No, non credo. Io…»
«Lascia parlare me, d’accordo?» Mi blocca
chiudendo gli occhi come se le mie risposte le provocassero un’istantanea
emicrania.
Sì,
perché dici un sacco di idiozie.
«Ma…»
«Cos’hai intenzione di fare, tu?» Mentre parla,
si alza per dar da mangiare al pappagallino numero uno, ovvero Pepito.
«Perché, devo per forza avere intenzione di fare
qualcosa?» Ribatto accigliata. Pepito sembra aver capito quello che ho detto e gracchia
qualcosa di terribile nella mia direzione.
«Vuoi semplicemente continuare a trattarlo più o
meno come il tuo tappetino per la doccia finché non cambia qualcosa? Per
esempio, il tuo cervello bacato?» Domanda lei scandendo piano le parole, con
un’espressione innocente. Come se non mi stesse dando dell’idiota.
Sbuffo e mi sistemo meglio tra i cuscini. «Per
voi è tutto facile!» Esclamo, stufa. «Fai questo, Elettra! Dici quello,
Elettra! E tu perché non ti sei più risposata dopo zio John?» Chiedo, forse con
troppa veemenza. Ops. Magari questo è un tasto che non avrei dovuto toccare.
Mi aspetto di essere mandata a cogliere ma zia
Libby soppesa la mia domanda con una strana luce negli occhi.
«Perché non ho mai trovato nessuno come lui.»
Dice, infine. Guardo la foto che li ritrae felici e spensierati qualche mese
prima che venisse a mancare e mi lascio andare in un sospiro.
«Tu credi di poter essere felice con lui, Elettra?»
La domanda squarcia l’aria come un coltello farebbe con un lenzuolo.
«Non so, io… non credo di conoscerlo
abbastanza…»
Lei mi blocca posando una mano sulla mia. «Sì,
ma a pelle… il tuo istinto cosa ti dice?»
Guardo i suoi occhi limpidi e sinceri e ci
penso. Il mio istinto – se non consideriamo Violet, che è il mio basso istinto – mi dice che sì, potrei
provarci. Forse Christian è davvero la manna dal cielo, ma in tal caso perché
avrebbe scelto proprio me, con un mondo di ragazze a sua disposizione? Meno
complicate, meno isteriche, meno idiote?
Non faccio in tempo ad esternare queste mie
perplessità che la mia perspicace zia coglie subito il punto.
«Tu hai paura. Ed è comprensibile, dopo quello
che è successo con colui che porta il nome di tuo zio ma non ha nemmeno un
decimo dei suoi attributi. Sai che succede, piccola mia, quando non si è più
abituati a ricevere amore? Succede che non ti fidi più, che preferisci restare
solo. Succede che quando qualcuno ti dice che ti vuole bene davvero, tu sorridi
e pensi ‘come no’. Succede questo, e quando trovi qualcuno che ti ama davvero,
muori di paura.(*)» Le sue parole sono quanto di più doloroso io abbia sentito
negli ultimi tempi. «Devi ricominciare a fidarti delle persone. Christian è un’ottima
partenza.»
Annuisco lentamente ma resto in silenzio, perché
so che se parlassi la voce mi si incrinerebbe. Il fatto è che ha ragione, così
come ce l’avevano le tre Marie scellerate prima di lei. Non a caso una è sua
figlia.
«Lo vuoi un consiglio dalla tua vecchia zia e il
suo Bloody Mary Bum BumBum?»
Chiede, scimmiottando la canzone di un vecchio film e strappandomi un sorriso.
«Approfitta del viaggio per conoscerlo meglio. Smonta per un po’ la corazza
dell’ultimo samurai che ti ritrovi e passa del tempo con lui. Spassionatamente.
O passionatamente, se te la senti.»
Quasi le lancio il mio bicchiere addosso ma mio malgrado mi ritrovo a ridere.
«Va bene vecchia bacucca. Ci proverò.» La
abbraccio forte, contenta di averla rivista e, sinceramente, anche di essermi
confidata con lei.
**********
“I
passeggeri del volo DF660 sono pregati di recarsi all’imbarco.”
«Mica è il nostro?»
«Ti risulta che il nostro sia diretto alle
Mauritius? Ci senti o l’alta quota ti ha già otturato le orecchie?!»
FHISJSJADSBUSHH.
«Ahia!»
Scene d’ordinaria follia in un ordinario
aeroporto tra due ordinari colleghi di lavoro.
Beh, in realtà di ordinario non c’è proprio
nulla, a partire dal gruppo sgangherato di cui faccio parte, passando per la
valigia extra large che mi ha prestato Anne e concludendo col mio nuovo compagno
di giornale. Sì, sto dividendo il quotidiano con Christian e ho sbuffato
soltanto una volta. Faccio passi da gigante, vero?
«Christopher, vuoi un caffè?» Mormora Danny,
forse per salvarlo dalle grinfie di Clara la nevrotica prima che si azzuffino per
un semplice volo aereo.
«Ma io non avevo sentito, perciò ho domandato!»
Si sta giustificando ancora il povero webmaster mentre Danny lo trascina verso
il bar.
«Ditemi, fanno spesso così?» Domanda confuso
Martin, che alla fine ha deciso di partecipare con la nuova fiamma Phoebe. Ma
non ditelo a nessuno o perderà il titolo di bello e dannato cinquantenne in
auge, anche se fiuto una storia seria, sì, sì.
«Solo quando Clara è sessualmente frustrata.»
Rispondo. Il che si verifica praticamente sempre, e dall’occhiata che le
rivolge Martin noto che è cosa risaputa anche nei piani alti.
«Anche loro due sono sessualmente frustrati.»
Interviene Rachel, indicando me e Christian.
Ma come le salta in mente di dire una cosa del
genere davanti a Macmillan?!
Le tiro uno schiaffo senza farmi notare troppo.
«Cretina!»
«E questo cosa vorrebbe sottintendere, che a
Clara piace Christopher?» Ribatte confusamente il boss cercando di associare le
due cose sulla base della verità universalmente accettata che io e Christian ci
piacciamo. Assurdo, vero?!
«Non vuol dire assolutamente nulla.» Borbotto e
scatto in piedi, trascinando la prima persona che mi trovo davanti – Lily – in
direzione di non so cosa.
Non facciamo neanche mezzo metro che veniamo
sballottate da qualcuno che stava correndo. Alzo gli occhi e ne incrocio un
paio alquanto familiari.
«Di nuovo l’idiota della pista di Monza? Ma ce
l’hai per abitudine?!»
Il giovane uomo scoppia a ridere profondendosi
in scuse e, come prevedibile, prova a offrirmi di nuovo un caffè.
«Il lupo perde il pelo ma non il vizio…» Faccio
schioccare la lingua, annoiata.
«E nemmeno la speranza.» Replica lui con un
sorriso smagliante mentre si passa una mano tra i capelli scuri.
«No, grazie…» Indugio sul nome che non conosco.
«Marcel.» Mi aiuta lui, con un piccolo inchino.
«Sì, Marcel, è stato un piacere scontrarsi di
nuovo con te, ma vedi-»
«C’è qualche problema?» Quando Christian appare
accanto al bel francesino – solo adesso che ho saputo
il suo nome ho realizzato cosa avesse di strano il suo accento – d’un tratto il
suo charm da Petit Prince svanisce come una bolla di sapone dopo un tête-à-tête
con un riccio di mare. La bellezza di Christian offuscherebbe quella di
parecchi, parecchi uomini, e la sua altezza e forma fisica direi che ne
intimorisce almeno la metà di loro.
«No, nessuno.» Mi affretto a dire, prima che
Orione s’infiammi di gelosia. Dopo la faccenda dei fiori di Ethan – cosa che
lui ha pensato di collegare alle telefonate anonime – sta sempre sull’attenti
quando un portatore di testosterone mi gira intorno troppo a lungo. «Il ragazzo
è scivolato e voleva offrire un caffè a Lily per scusarsi, ma gli stavamo giustappunto spiegando che il suo
ragazzo è proprio lì al bar che ci guarda, e quindi…»
«…stavo tagliando la corda.» Marcel capisce
tutto al volo e sparisce altrettanto velocemente prima che Christian lo
incenerisca.
«Chi era quel tizio?» Si informa Danny
comparendo alle nostre spalle, rivolto principalmente a Lily. Ho notato che
anche lui squadrava il povero Marcel come un falco, prima. Lily gli strappa di
mano il suo shakerato e dopo averlo sorseggiato rumorosamente glielo
restituisce facendo spallucce.
«Un tizio.»
Quando Danny sposta lo sguardo su di me per
avere qualche notizia in più, non posso fare a meno di sorridere per la
malcelata apprensione nella sua espressione apparentemente disinteressata.
Christian si sposta accanto a lui e gli poggia un gomito sulla spalla.
Praticamente è l’unico che può farlo tra noi, vista l’altezza da watusso che
condividono. Fanno quasi paura e quasi schifo, per quanto sono belli. Opposti
nei colori ma entrambi schifosamente attraenti.
Sì,
certo, schifosamente.
Danny lo guarda e gli sorride, dandogli una
pacca sulla schiena. Due amiconi.
Ah, sì, volevano sapere chi era quel “tizio”.
«Quel tizio
mi ha investito all’aeroporto di Roma quando sono partita per Miami. Correva a
cento all’ora e mi ha fatto prendere una bella botta al sedere.» Faccio una
smorfia e istintivamente me lo massaggio, ricordando il dolore come se fosse
ieri. «Visto che è recidivo, voleva scusarsi con un caffè, ma allora come oggi
abbiamo rifiutato. Idiota. Avrebbe dovuto pagarmi la visita dall’osteopata,
altroché!» Con la battuta salvo un po’ la situazione e torniamo tutti a
sorridere spensierati. Poi, quando Christopher e Clara ricominciano a litigare
come Tom e Jerry decidiamo di fare un giro prima che Danny li prenda di peso e
li spedisca sul primo aereo per lo Zimbabwe.
In quel momento, Tony ci raggiunge e mi circonda
le spalle col braccio, pizzicandomi la guancia con due dita.
«Allora, ce lo fai o non ce lo fai il siparietto
caraibico con quel completino dei camerini, mia adorabile geisha?»
Gli tiro una gomitata che lui aveva
evidentemente previsto perché la scansa con poca difficoltà.
«Di che stai parlando, mio adorabile idiota?»
Chiedo vagamente isterica ma senza farlo notare troppo, cercando di
trasmettergli mentalmente che se non cambia argomento all’istante sarà morto
entro la fine del prossimo minuto.
Danny e Lily – ma soprattutto Lily – hanno già
teso occhi e orecchie per capire di che sta parlando quel cialtrone.
«Ti verso l’acido muriatico sulle tue sfere
preferite.» Sibilo tra i denti, facendo finta di dargli un bacio sulla guancia,
e dall’espressione con tanto d’occhi sbarrati capisco che ci siamo intesi
splendidamente.
«Mi aveva promesso di insegnarmi a ballare la
danza del ventre, ma è talmente cattiva questa ragazza…cattiva.» Dice, salvandosi in calcio
d’angolo. «Sei cattiva, frrrr.»
Borbotta, trasformandosi in un gattaccio dispettoso che, fortunatamente, è
talmente convincente da far distogliere lo sguardo ai due curiosoni che tornano
a tubare in pace. Quando non ci guardano più, Christian tira l’orecchio a Tony.
«Aaaaaaaahiaaaahairagionescusa!» Orione lo
lascia sorridendo e io non posso non alzare gli occhi al cielo, divertita. «Non
lo faccio più, va bene. È solo che è davvero uno spreco, capisci… tu sprechi questo ben di Dio e... d’accordo,
ho capito, non c’è bisogno di aggiungere altro.» Cambia rotta quando Christian
gli lancia un’occhiata fulminante degna del più incavolato degli Zeus.
«Ciaooooooooo!» Una
Alexandra sorridente ed eccitata saluta il gruppo con un bacio generale soffiato
in aria. Marilyn Monroe la vendetta. Quando la vedono, tutti si alzano in piedi
e iniziano a raccattare la loro roba. Stavamo aspettando lei per fare il check-in,
visto che a sua detta è la prima volta che prende l’aereo e non sapeva come
fare. Contenta lei. Non stiamo qui senza poter fare nulla e lei arriva pure in
ritardo. Come se non mi fosse già simpatica abbastanza!
«Non guardarla come se fosse un sondino gastrico.
È una brava ragazza.» Mi sfotte Christian, sempre pronto a cogliere ogni mio
sguardo, sospiro, smorfia o guizzo del sopracciglio.
«Il sondino gastrico devi sopportarlo per un
quarto d’ora al massimo. Pensavo più a un catetere, vista la mia recente
esperienza in ospedale…»
«Da quando ti sta così antipatica?»
Da quando ho scoperto che ti va dietro.
«Mpf, non lo so. Da sempre.
Con quel sorriso alla Monna Lisa e quegli occhioni da cucciolo indifeso. Puah.
È delle santarelline che devi preoccuparti…» Scuoto
la testa, bofonchiando una specie di sermone sulla presunta innocenza delle
ragazze con l’aria smarrita mentre ci avviciniamo alle sedie dove erano
appostati gli altri.
Sollevo il mio valigione che più che un bagaglio
sembra un mobile a quattro ante – e non passa nemmeno inosservato, visto che è
di un color melone decisamente acceso e molto lucido – e appendo la tracolla
sulla spalla, barcollando appena quando mi metto in moto carica come un somaro.
Sarà anche più capiente, questa valigia, ma pesa quanto due morti. Anne me l’ha
voluta prestare sostenendo che mi sarebbe servita più roba essendo così lontana
da casa, in un paese che lei crede essere al pari del precedentemente citato
Zimbabwe.
«Vuoi una mano?» Christian ridacchia guardando
il mobile aranciato e, senza attendere una risposta o un cenno affermativo,
sposta la mia mano e afferra il gancio per trascinarla praticamente senza
sforzo. Ha almeno la decenza di avere le rotelle, la valigia... pure funzionanti,
devo ammettere. Sempre meglio della mia.
Mi schiodo da terra quando lui è a una ventina
di passi più avanti e mi schiarisco la voce prima di parlare. «Ehm, grazie. Vuoi
che ti porti la borsa?» Mi fa pena caricato di un mobile, di un trolley di
dimensioni normali – perché gli uomini sono così efficienti? – e del suo
bagaglio a mano, una tracolla simile alla mia.
«Non preoccuparti, ce la faccio.» Mi domando se
dovrei insistere. «Hai portato anche Anne e Cooper?» Ride, indicando l’armadio.
Sono talmente tesa e imbarazzata che non posso fare a meno di unirmi alla
risata.
«Beh, da momento che me l’ha prestata così
grande ho pensato di riempirla bene.»
«Con scorte di cibo per l’intera durata del
soggiorno? Guarda che abbiamo l’all inclusive, non c’era
bisogno…» Continua a prendermi in giro, ma in un modo che non mi dà fastidio. Gli
mollo uno schiaffo sul braccio e lui ride, le guance sollevate e gli occhi
divertiti. Sembra felice. Sono io a renderlo così?
«Mi prendi il biglietto e il passaporto dalla
borsa, per favore?» La sua domanda mi distoglie dalla mia.
«Certo.» Mormoro, senza sapere dove mettere le
mani. La cerniera della borsa è proprio davanti al primo bottone appuntato della
camicia sportiva che indossa. Mentre la apro, ne sfioro la stoffa e il suo
profumo inizia a solleticarmi le narici. È già abbastanza invitante quando sono
a distanza di sicurezza, ma adesso che sono a un palmo dal suo collo mi
destabilizza parecchio. Trovo la cartellina coi documenti al primo colpo – che fortuna! – e richiudo la zip come se, a
inspirare di nuovo, mi sarei potuta giocata il cervello.
Cervello? Quale cervello?
Dopo aver fatto la coda al check-in e passati i
controlli di sicurezza, ci sistemiamo al piano di sopra aspettando che chiamino
il nostro volo. Christopher ha finalmente smesso di andare nel panico ad ogni
annuncio e così ha scongiurato la sua dipartita per la Papua Nuova Guinea. Stringo
la mia bella tracolla viola contenta di essermi liberata del mostro arancione e,
a tal proposito, cercando anche di dimenticare la mia gigantesca figura di
escremento allo stato liquido quando, al check-in, la valigia non passava nell’apposito
spazio per mandarla all’imbarco. Tra l’altro quando l’ho sollevata – cioè,
quando Christian l’ha sollevata – credevo non rientrasse nei minimi consentiti
per un bagaglio. Invece sì, come mi aveva assicurato Anne, ovviamente. Sarà il
colore a farla sembrare più grande? O sono gli altri che hanno portato una pochette
in confronto? Dubbi amletici pre-partenza.
Mezz’ora dopo la voce gracchiante ci avverte di metterci
in fila al gate. Abbiamo fatto giusto in tempo, penso con un sospiro. Vorrei ben
dire, per colpa di quella scansafatiche di Marilyn stavamo anche per perdere l’aereo!
Lo vedete che la mia antipatia è più che giustificata?!
Quando metto piede sulla scaletta metallica,
inizio ad avvertire la stretta allo stomaco. Rachel dietro di me si affaccia
per invitarmi a proseguire, visto che ho rallentato la coda, e io mi faccio
coraggio. Un passo dopo l’altro mi avvicino alle hostess che ci accolgono e ci
indicano il nostro posto. Sbaglio o quest’aereo è più piccolo del solito? No,
sono paranoica. Paranoia pura, sì. È tutto normale. Quante ore di volo sono?
Poche. Sì. Poche. In un batter d’occhio saremo arrivati.
Mi sistemo al mio posto e subito dopo arriva
Lily che si sistema accanto a me. Le sorrido poco convinta e lei si guarda
intorno alla ricerca del suo amato. Lo trova due file dietro di noi, seduto
accanto a Christian.
«Oooh, sei laggiù!» Inizia a mugolare,
beccandosi un’occhiata malevola da parte di una hostess dall’aria
intransigente.
«Signorina, le consiglio di non voltarsi e di
allacciare le cinture di sicurezza.» Le dice, facendola sbuffare.
«Spero proprio che le si rompa un tacco. Cicciona.»
Fa una smorfia e mi guarda. Io sono già parecchio allacciata – se possibile mi allaccerei
anche la sua cintura – e più che parecchio nervosa. «Oh, no. Non mi dire che
hai paura di volare.»
«Certo che non ho paura. No, non si vede?!»
Gracchio, stridula. Suppongo di avere anche gli occhi iniettati di sangue, a
questo punto.
«Oh, cielo.» Lily si appoggia al sedile e si fa
aria con uno dei fogli delle emergenze. «Anche io ho un po’ paura e non posso
sedermi vicino a una persona già impanicata, oh no.» D’un tratto è diventata
bianca come la camicia della hostess cicciona.
«Vattene! Vattene vicino a Danny, forza!» Strepito
con un gesto stizzito della mano. Non voglio più sentire gente parlare. State zitti
e fate partire questo dannato affare! Oddio, oddio.
Oddio, stanno chiudendo la porta.
Ho la netta sensazione che moriremo, o ci
schianteremo come in Grey’s Anatomy. E poi Mark dirà finalmente a Lexie che la
ama, e lei morirà, e poi anche lui morirà, e poi-
«Signore, le posso chiedere di prendere posto?» Dice
un’altra hostess a qualcuno proprio vicino a me.
«Sì, ecco fatto.» Risponde lui, sprofondando nel
sedile accanto al mio. «Ciao.» Christian mi sorride, per niente sorpreso di
vedermi rilassata come un uomo che cammina scalzo sui carboni ardenti e in più,
accidentalmente, inciampa in un porcospino. Sì, sono rilassatissima.
«Christian…»
Piagnucolo, cercando un po’ di conforto. Ho già volato con lui e spero che
anche stavolta riesca a tranquillizzarmi. ODDIO STIAMO PARTENDO. Moriremo. Cioè,
per forza. C’è Clara che porta una sfiga colossale e l’hostess cicciona che
pesa troppo per questo aereo!
«Vuoi?» Christian mi riscuote porgendomi una
cuffia del suo iPod. Sto quasi certamente per morire ma ciò non vuol dire che
non possa farlo con della sana musica nelle orecchie, giusto? Prendo la cuffia
e mi preparo ad ascoltare la selezione musicale di Christian. Chissà che gusti
ha. Se ascolta roba metal giuro che mi paracaduto senza pensarci due volte.
Quando sento le prime note di Love Somebody,
dei Maroon 5, spalanco la bocca. Gli piacciono i Maroon 5? Gli
piacciono i Maroon 5?!
«Che c’è, credevi di essere l’unica?» Dice
leggendomi nel pensiero. Sono scioccata e quasi non mi accorgo quando l’aereo
inizia a decollare.
Non è vero, me ne accorgo troppo.
Christian mi stringe la mano e Adam inizia a
cantare. Quando torniamo diritti, tira fuori un Mars formato mini dal taschino
della camicia e me lo porge con un sorriso dolcissimo.
#But if I fall for you, i’ll
never recover
If I fall for you, i’ll
never be the same#
La verità di quelle parole mi viene sbattuta in
faccia come una porta blindata e non riesco a distogliere lo sguardo da quello
di Christian mentre la canzone prosegue.
#I know we’re only half way there
But you can take me all the way#
Prendo il Mars e Christian mi fa appoggiare
sulla sua spalla. Il cuore mi batte forte mentre mi accarezza delicatamente il
braccio; mi sa che morirò per altre cause, inutile dare la colpa all’aereo.
#Love me today, don’t leave me tomorrow#
Sollevo il viso a questa frase e Christian mi
stringe ancora di più, scuotendo lentamente la testa per dire che no, non mi
lascerà. Ed ecco che Adam ricomincia: se
mi innamoro di te, non guarirò più.
Io odio davvero ammetterlo, ma credo che a
questo punto sia troppo tardi.
~ Note
Ma buon salve! Ebbene sì, non sono un
miraggio ma ho aggiornato davvero! XD
Mi dispiace tanto, troppo per il ritardo. Non
posso promettere che i prossimi aggiornamenti saranno più regolari ma ci
proverò, sul serio. Grazie anche alle “minacce” via MP XD
Lo so che in fondo in fondo non mi odiate,
soprattutto per come è finito il capitolo.
VERO?
So come farmi perdonare, ammettetelo.
Almeno, ci ho provato.
Fatemi sapere cosa ne pensate, io intanto
ringrazio enormemente la mia fida Cos e la sua abile sostituta #WikiFede, colonne portanti della mia ispirazione, insieme
a tutte le altre ragazze del gruppo. Mary, grazie anche a te per il soprannome “Lemon”
e per aver dato un tocco in più alla zia Libby col suo Bloody Mary! Siete u-ni-che.
Visto? So anche fare la divisione in sillabe.
(*) Questa frase, è di proprietà di
Francesco Roversi, un talentuoso ragazzo di appena diciassette anni che scrive cose
del genere sulla sua pagina Facebook. Facciamo un po’ di sano spam, eccola qui.
Non mi resta che dire: PANAMA
ARRIVIAMOOOOOOO!
Fatemi sapere cosa pensate di questo
capitolo e beccatevi un miliardo di abbracci per le stupende recensioni che mi lasciate e per i numeri di
preferite/seguite che aumentano sempre più. Mi fate piangere.
Allyours,
Sara.
P.S.: In arrivo una grandissima
sorpresa per i fan di Rachel e Tom :D (Così non ti puoi più tirare indietro,
Cos! BWAHAHAH ♥)
l’istmo di Panama sarebbe il posto più ovvio
per ricoprire questo alto ruolo”
–Simon Bolivar
«È il comandante che parla. Siete pregati di
allacciare le cinture, ci prepariamo all’atterraggio.»
Il dlin-dlon metallico mi riscuote dal torpore
in cui ero scivolata durante la lettura dell’ultimo romanzo di Zafón e mi
riporta lentamente sull’aereo. Mugolo qualcosa mentre controllo la mia cintura
con gli occhi ancora socchiusi e, constatato che le due estremità sono saldate
come nemmeno due gemelle siamesi possono essere, cerco di capire come mai mi
sento la testa pesante. Sembra che abbia un peso che preme sulla mia spalla…
Il peso
che senti è l’amabile testa innamorata del tuo redattore preferito.
Christian!
Che
brava, vedo che l’altitudine non ha intaccato la sede della tua memoria…
Mi sollevo appena sul sedile – visto che
praticamente ero sprofondata e il mio sedere stava per toccare il poggiapiedi –
facendo attenzione a non muovermi troppo bruscamente.
Bene. Stiamo atterrando e Christian si è
placidamente appisolato sulla mia spalla. Come posso svegliarlo?
…e il
tuo sonno cesserà, se l'amor ti bacerà!Sia
questo il più fulgido dei tuoi doni, che la speranza mai ti abband-
VIOLET. Hai finito?
Che c’è?
Serenella è sempre stata la mia fata preferita!
«Christian?» Provo a mormorare, muovendogli
delicatamente un braccio. Non ottengo nessun risultato e a giudicare dal
fischio alle orecchie siamo quasi arrivati sulla pista. «Christian?» Ci riprovo, ottenendo lo stesso
risultato.
Oh, al diavolo.
«SVEGLIA!» Dico a voce alta, scuotendolo
energicamente. Lui sussulta e poi fa una smorfia, strizzando gli occhi prima di
aprirli.
«Tu sì che sai come svegliare un uomo…» Borbotta, mentre il suo peso abbandona la mia
spalla. Si preme due dita alla sommità del naso e si guarda intorno per capire
dove siamo. In quel momento, l’aereo sobbalza e le ruote toccano l’asfalto.
Dopo circa tre amabili ore di volo e dieci
minuti a fare il giro panoramico della pista di atterraggio, mettiamo piede a
terra con la testa un po’ leggera – e per quanto mi riguarda, anche le spalle –
investiti dalla calda aria panamense. Non vedo l’ora di togliere questi jeans
che più appiccicosi non si può, e mettere un paio di shorts, ignorando naturalmente
il fatto che sono bianca come il pavimento dell’aeroporto. Una vocina
nell’angolo remoto della mia mente mi ricorda che ho l’autoabbronzante, ma
siccome non l’ho mai usato, temo di preferire il colorito cadaverico alle
chiazze arancioni stile dermatite acuta.
All’ingresso dell’aeroporto, un gruppo di
piccoli ragazzini mulatti ci mette al collo ghirlande di fiori coloratissimi.
Oddio, credevo che queste cose succedessero solo alle Hawaii! Christian,
accanto a me, deve abbassarsi sui talloni per permettere a una bambina alta
poco più di un metro di fargli indossare la sua. Lei, felice, lo guarda rapita
come se fosse un essere mitologico. Come darle torto?
«Che figata. Aaaalooohaaa!»
Tony ci sfila davanti muovendo le braccia nel tipico movimento ondeggiante
degno di una prima ballerina di Hula. Prima che inizi a sculettare sul serio –
senza il minimo accenno di pudore, ma addirittura incitato dagli sguardi
divertiti dei bambini – lo trasciniamo verso il nastro dove recupereremo le
nostre valigie.
Uno ad uno, tutti i componenti del gruppo
adocchiano il proprio bagaglio e lo tirano giù dal nastro. Tranne me.
La mia valigia non c’è.
Il mio mobile NON C’È!
Quando il nastro si ferma, sento distintamente
una gocciolina pendermi dalla fronte in pieno stile manga giapponese.
«Aspettate, dov’è la mia valigia?» Avvicino un
tizio vestito da addetto a qualcosa, e gli chiedo se le valigie sono tutte qui
o potrebbero essere altrove. Ovviamente, il tizio non capisce una sola parola
di quello che dico.
«Ma che razza di gente incompetente assume
quest’aeroporto?! E COME SI PUÒ PERDERE UN BAGAGLIO ARANCIONE DELLE DIMENSIONI DI UNA VASCA DA BAGNO DI LUSSO?!»
Strillo, attirando l’attenzione di tutti gli altri passeggeri.
«L’avranno scagliato apposta giù dall’aereo
perché era troppo pesante.» Risponde Christian accanto a me, ridacchiando.
Lo guardo con occhi fiammeggianti. «Zitto tu e
usa le tue doti da seduttore per estorcere informazioni a quella tizia. Vieni
con me!» Gli afferro un braccio e provo a smuoverlo nella mia direzione.
«Perché proprio io? Potrebbe farlo Tony.» In
quel momento guardo Tony e lo vedo impegnato a osservare il sedere di una
hostess di terra, piegata a raccogliere un blocco di fogli.
«Tony saprebbe solo peggiorare la situazione.
Dai, non farti pregare.» Piagnucolo, totalmente demoralizzata. Andiamo, è la
mia valigia! C’è tutta la mia vita lì dentro! Possibile che nessuno lo capisca?
«Uhm... che ottengo in cambio?» Christian
incrocia le braccia e mi guarda pensoso. Dal suo mezzo sorriso intuisco che mi
aiuterà comunque, ma decido di stare al suo gioco.
«Desideri qualcosa in particolare?»
«Sicura di volerlo sapere?» Adesso il suo
sguardo è più che malizioso, e io alzo un sopracciglio.
«Se stai per chiedermi il siparietto caraibico
sappi che la risposta è no.» Replico, categorica. Christian sbuffa e si dirige
dalla hostess senza neanche avvisarmi, o quanto meno aspettarmi. Lo seguo
trotterellando.
«Mi scusi, il bagaglio della mia collega non era
presente sul nastro. Possibile che sia rimasto in aereo? O forse l’hanno
caricato sul nastro sbagliato. Potrebbe controllare?»
Ah, certo. Ora sono la sua collega. Ma sentitelo! E guardatelo, più che altro! Impettito e
offeso come un moccioso a cui hanno tolto la macchinina preferita.
«Non ci credo che stavi per chiedermi quello.»Mormoro, mentre la signorina digita qualcosa
sul computer.
«Non saprai mai quello che stavo per chiederti.»
Risponde lui, schioccando la lingua.
«È qualcosa di peggio del siparietto? Perché
magari con un burqa addosso potrei pensarci.» Meglio contrattare su un terreno
che conosco, piuttosto che tentare il pericoloso ignoto.
«Speravo con quel completo di cui parlava Tony
stamattina... tanto ormai ho già visto.» Mi fa l’occhiolino e io muoio per
circa cinque secondi.
«T-tu non hai visto proprio un bel niente.»
Oddio, ho balbettato? «MI SCUSI, ci sono notizie del
mio amato bagaglio? Dentro c'è davvero tutta la mia vita, perfino un cervello
nuovo per il mio amico qui.» Esclamo, rivolta all’addetta alle informazioni. Christian,
intanto, sghignazza soddisfatto.
La ragazza mi rivolge un’occhiata tutt’altro che
amichevole. «Il bagaglio è stato rintracciato, deve attendere nell'area
apposita. Per quanto riguarda il cervello del suo amico...» Lascia cadere la
frase, guardando Christian con un’aria da mangiatrice di uomini. So bene come
vorresti procurarglielo. O mandarglielo in pappa, brutta arpia!
«Credo che terrò quello vecchio ancora per un
po', grazie.» Interviene Christian, con un sorrisino tirato. Mi mette il
braccio intorno alle spalle e mi porta via.
***
Un’ora e qualche patimento dopo, finalmente
mettiamo piede in albergo. Alla reception ci accoglie una donna sulla
cinquantina, coi capelli scuri tirati indietro e un sorriso garbato. Quando
vede la mia astronave arancione sgrana appena gli occhi, poi li riporta su di
me e mi rivolge uno sguardo di compatimento. Cosa c’è, signora panamense? Non
ha mai visto una valigia capiente?
«Allora, la prenotazione è a nome Macmillan, è
esatto?»
«Ecco, vediamo di non fare mix-up.» Borbotto, scimmiottando il concierge
dell’albergo in quel di Roma dove, per mia sfortuna, ho conosciuto Christian.
«Sì, sono io. Eccomi qui.» Martin si fa avanti e
mostra i documenti alla donna che annota tutto al computer. Ci chiama poi uno
per volta e poi ci consegna le chiavi delle stanze.
«Le stanze sono disposte sullo stesso piano, ma
non sono tutte vicine. 171, 172, 173, ecco a voi.» Consegna le chiavi a me – in
stanza con Rachel e Lily –, a Martin – in stanza, ovviamente, con Phoebe – e a…
oh, no. Siamo vicine a Clara e Alexandra.
«Stanze numero 178, 179 e 180, ecco le chiavi.»
La prima delle stanze appartiene a Christian e Tony, la seconda a Danny e
Thomas e l’ultima ai restanti ragazzi, ovvero Christopher e Mike.
Christian mi guarda e io gli sorrido sollevata:
ringraziando il cielo, non mi è toccata la stanza accanto alla sua. Con Tony,
poi, figuriamoci.
Mentre i facchini si caricano delle nostre
valigie – sì, d’accordo, ho dato la mancia extra per la mia – saliamo in
ascensore e ci prepariamo a scoprire le camere dove soggiorneremo nei prossimi
sette giorni.
«Bene, ragazzi.» Annuncia Martin, una volta
riuniti tutti in corridoio. «Il pranzo inizia tra circa un’ora, ci vediamo
tutti di sotto al ristorante. Non bussate. Tony, mi hai sentito?»
Tony, sovrappensiero, sussulta e si porta una
mano alla fronte. «Sissignore, certo signore. Mai più si ripeterà
l’inconveniente dell’anno scorso. Mai, signore.» Enfatizza il gesto facendolo
diventare la solita presa in giro per la quale è noto, e Martin alza gli occhi
al cielo. Guarda Christian e dice: «Mi spieghi perché non dovrei licenziarlo?»
Christian gli mette una mano sulla spalla.
«Perché è il migliore nel suo lavoro.»
«Già, già.» Martin scuote la testa e con un
gesto della mano ci saluta tutti, prima di rintanarsi in camera con Phoebe.
«Sul serio avresti voce in capitolo per farlo
licenziare?» Domanda Rachel, esitante. Christian aggrotta la fronte e apre la
bocca per rispondere, ma Clara lo precede: «Certo, è il cocco di Martin!»
Ridacchia e sparisce in camera. Brava, sparisci, prima che ti lanci giù per il
vano ascensore. E non dalla cabina.
«Non è vero, stava solo scherzando…» Mormora
Christian, e in quel frangente colgo lo sguardo preoccupato di Rachel rivolto a
Thomas, che sta sbuffando mentre cerca di aprire la porta della stanza.
«Oookay, non siamo qui per parlare di lavoro,
giusto? A dopo, ciaaao!» Rachel spinge me e Lily in camera e poi richiude la
porta come se in corridoio fosse appena scoppiata una bomba.
«Abbiamo bisogno di un piano.»
***
Ho appena scoperto che Christian, in realtà, ha
cinque anni.
Stiamo percorrendo Calle 58 Este verso la
fermata dell’autobus che ci porterà al Casco Viejo,
ovvero la città vecchia di Panama, e qualcuno ha messo su un broncio da
manuale.
«Io volevo andare al mare, tu non volevi andare
al mare?»
Lo sta chiedendo a tutti, adesso è arrivato in
fondo alla fila.
«No.» Rispondo, scrollando le spalle.
«E tu, Rachel?» Non si arrende, eh?
Rachel non lo guarda nemmeno. «Dove va Thomas
vado io, lo vedi al mare per caso? No, è qui. Quindi no.»
«Thomas, vieni al mare!»
«Ma la vuoi smettere?» Esclamo, fermandomi.
Lui mi guarda torvo. «D'accordo, ci vado da solo
al mare.» Ed eccolo lì, il suo fondoschiena da statua greca che si incammina
nella direzione opposta alla nostra.
Sbuffo dalle narici e con un grugnito lo
raggiungo in pochi passi. Gli afferro il codino e lo tiro fino a farlo fermare.
«Ahia, ma sei imp-»
«Tu non ti muovi da qui perché ho paura degli
indigeni.» Sibilo, guardandomi intorno circospetta. Alcuni passanti ci
osservano perplessi e io faccio finta di niente.
Christian alza un sopracciglio. «Non ci sono
indigeni a Panama City.»
«Invece sì, sono TRAVESTITI da civili!» Esclamo,
mentre lo trascino di nuovo nel gruppo.
«Elettra, funzionava anche se gli dicevi la verità.»
Gracchia Tony, facendo scoppiare una bolla col chewingum dritta nel mio
orecchio.
«Io ho detto la verità! Di che diavolo stai
parlando?»
«Del fatto che vuoi che stia con te.» Guardo
Christian che ha incrociato le braccia e mi sta guardando con un sorrisetto
molto esplicito.
«Bene, vai al mare. Ciao.»
«D'accordo.» Così come lo pronuncia, si
allontana verso il mare e gli altri verso il centro, così che resto perfettamente
impalata al centro della strada senza sapere che fare.
«Sapete cosa c’è, quasi quasi
resto in albergo e mi riposo, non è che sia poi così lucida e pimpante per…»
«Ooooh, che diamine! Non fate gli asociali!»
Tuona Martin esasperato, e devo dire che sinceramente aspettavo questa reazione
parecchie battute fa. Non faccio in
tempo a dare la colpa a Christian che mi sento sollevata in aria e ho un
terribile déjà vu.
Quando mi deposita a terra davanti a tutti, e
intendo proprio dopo aver attraversato tutta
la fila, sono talmente furiosa da non riuscire a parlare. Punto il dito indice
proprio di fronte al suo naso maledettamente dritto e riesco a far uscire
qualche parola fra i denti.
«Tu… tu sei pieno
di brutti vizi!»
Lui mi circonda le spalle col braccio contro la
mia volontà, oscurandomi la vista con la sua mano gigante da orsacchiottone. «Lemon,
stai zitta o domani al mare ti affogo.»
«Giuro che ti farò mangiare crudo dagli
indigeni!» Strillo, lottando contro la mano che sta cercando di affogarmi.
Certo,
affogarti…
«Oppure ti lascio da sola al largo in mezzo agli
squali.»
Se avessi anche solo pensato di crogiolarmi nell’illusione
che la nostra fosse una conversazione privata, beh, non avevo tenuto conto di
Clara. «Squali? Ci sono gli squali qui?!» E con lei anche i due mitici eroi
Christopher e Mike, che hanno iniziato a googlare “Panama” e “Squali”.
Sbuffo, e con l’ennesimo schiaffo riesco a
togliermi la sua mano dal viso. «Sei un cretino, hai scatenato il panico.» Mi
libero anche dalla presa del suo braccio e cammino per una decina di metri in
silenzio. Poi lo guardo di sottecchi. «Ci sono davvero gli squali qui?»
Il suo sorriso dolce e al tempo stesso malizioso
mi fa perdere due o tre battiti. «Non necessariamente a mare.»
***
«No, io non sono razzista, ma quel tizio davvero
mi sembra un indigeno. Guarda, ha un dente d’oro!»
Siamo appena saliti sull’autobus che ci porterà
nella città vecchia: tredici turisti per caso abbarbicati alla bene e meglio ai
supporti per le mani. Questi autobus sono chiamati diablosrojos, ovvero ‘diavoli rossi’, e quando ha
chiuso le porte ho capito perché. Credevo fosse solo perché somigliano a dei
murales ambulanti, pieni di disegni
inverosimili dove Gesù è affiancato a Madonna (non Maria, ma la pop
star), e invece scopro che questi aggeggi infernali sono guidati da pazzi che, tra slalom e sorpassi
da tutte le parti, sfrecciano nel traffico a velocità da formula uno.
Qualche fortunato di noi è riuscito a trovare un
posto. Io, naturalmente, no, e sono altamente instabile, oltre che
pericolosamente vicina a un indigeno travestito da civile. Sono sicura che
sotto l’ascella pelosa nasconda un lacrimogeno.
E
perché mai un indigeno dovrebbe avere un lacrimogeno? Quelli sono i terroristi,
e tu hai visto troppi thriller contemporanei.
Christian alza gli occhi al cielo. «Anche Johnny
Depp ha un dente d’oro.» Bisbiglia, cercando di non attirare l’attenzione
dell’indigeno, cosa di cui io, intelligentemente, non mi preoccupo.
«Quello era Jack Sparrow, in realtà.»
L’autobus si ferma e decine di bambini con i
loro zaini salgono con la grazia di un branco di elefanti imbufaliti, urtando
tutto quel che trovano al loro passaggio, ovvero il mio braccio, la mia
schiena, le mie gambe e i miei piedi. Contemporaneamente e convulsamente.
«Sì, e nemmeno Jack Sparrow era un indigeno.» Mi
fa notare Christian, pazientemente. Asseconda tutti i miei scleri
paranoici senza battere ciglio, e ormai sento di essere su un terreno scivoloso
ma sono troppo orgogliosa per ammettere di aver iniziato un dibattito inutile
sui denti d’oro.
«Beh, no, ma ha avuto a che fare con gli indigeni… se lo sono quasi mangiato arrosto!» Ribatto,
appunto, sulla buona scia per cambiare totalmente argomento, cosa che mi riesce
particolarmente bene.
Tranne che con Christian, che mi guarda con
tanto di sopracciglio aggrottato in un’espressione snob. «Devo anche
risponderti?»
Alzo gli occhi al cielo, ormai con le spalle al
muro e con l’ombra di un piccolo sorriso. «No, d’accordo.»
Christian non fa in tempo ad apprezzare il mio
mezzo ghigno che si ritrova pesantemente sbilanciato all’indietro con un peso
massimo di – no, non vi dirò mai quanto peso – addosso, troppo impegnata a
guardare gli indigeni per mantenermi da qualche parte. Imprechiamo tutti contro
l’autista che ha inchiodato di botto per cosa? Far attraversare una tartaruga
marina? Santo cielo, neanche a New York inchiodano così.
«Razza di imbecille, ti è venuta una mossa
spastica al piede? EH?» Esclamo, facendo girare un paio di indige... abitanti
del posto.
«Potresti, per esempio, evitare di farmi saltare
un timpano la prossima volta?» Christian si massaggia l’orecchio offeso e io mi
rendo conto di essere ancora spalmata addosso a lui come paté alle olive.
Mi allontano da lui con tutta la nonchalance del
caso, stavolta aggrappandomi saldamente a un supporto alla mia destra.
«È questa la vostra fermata, signori!» Esclama
l’autista col morbo di Parkinson una manciata di minuti dopo, come se non
vedesse l’ora di farci scendere. Ehi, che problemi ti stiamo dando, amico? Tzè.
Gli aborigeni non capiscono la classe.
E tu
non sai distinguere una persona mulatta da uno pseudo selvaggio.
«Molto bene.» Alexandra la secchiona apre una
grande cartina e cerca di capire dove siamo.
«A me sembra di stare in una terra di mezzo. Tra
Portobello e il Bronx.» Commento, osservando le case di diversi colori più o
meno in rovina.
«Ehi, lì c’è scritto che parte una guida ogni
mezz’ora.» Interviene Mike, spulciando il suo dizionario di spagnolo. Martin
sembra d’accordo, così ci dirigiamo tutti al punto d’incontro, dove
effettivamente si presenta una bionda super abbronzata con tre strati di ciglia
finte e un rossetto rosso sgargiante.
«Questa sarebbe una guida? Sa parlare?» Borbotta
Lily, alzando un sopracciglio. «Cielo. Sembra uscita da una puntata di Dire, fare, baciare.»
L’unico intraprendente che avrebbe potuto
arrischiarsi a parlare è, naturalmente, Tony Shark.
Le si avvicina col suo sorriso migliore e si spettina un po’ i capelli prima di
rivolgerle la parola.
«Hola, niña.» Incalza, sicuro di sé. Poi inizia a balbettare. «Noi…ehm…nosotros…somos… ehi, aspetta. Elettra, perché non vieni un po’ qui?» Mi sta facendo cenno di
andare a tradurre qualche stupida avance alla sorella di Nicki Minaj, ma non ci
penso nemmeno.
«Ce la puoi fare, muchacho.»
Gli faccio il verso, fingendo un conato di vomito subito dopo.
Tony mi lancia un’occhiataccia e torna a
guardare Nicki. «Somosestatunidenses
y quieremos…»
«Queriamos.» Mormoro,
alzando gli occhi al cielo.
Tony prosegue gesticolando col massimo charme e
ammiccando a più non posso. «Queriamos vere el.. er… che cazzo questo spagnolo…cientro…elCasco…»
«Centro, non cientro.»
Intervengo di nuovo, stavolta a bassa voce prima che Tony si dia al linciaggio
pubblico di traduttrici innocenti.
«Claro, por aquíjoia bela.» La bionda sbatte
le ciglia e si incammina verso una delle tante vie che ci circondano. «Los hombres adelante!» Esclama, facendo una risata frivola e
sculettando a più non posso. Rachel, Lily ed io la guardiamo torve e ci
piazziamo in prima fila, contrariamente a quello che ha detto.
«Ma joia bela non è
portoghese?» Bisbiglia Rachel, confusa.
«A me sembra un trans, hai sentito che voce?»
Lily è a dir poco inorridita.
Tony invece ha il volto di chi ha visto l’Eden e
un sorriso ebete stampato in faccia. Si è messo accanto a lei e camminano a
braccetto. Quanto è caduto in basso.
Improvvisamente, Miss Finezza 2013 inizia a
parlare inglese. A modo suo, ovviamente.
«Inisiamo col PalacioPresidencial,
dove vive lospresidencie
di Panama.» Ci indica un palazzo interamente bianco, talmente bianco che sembra
un plastico, contraddistinto da diverse bandiere, stendardi, striscioni e chi
più ne ha più ne metta, tutti riportanti i colori della bandiera di Panama.
«Questo edifisio è chiamado
anche Palacio de lasGarzas, por las…garzas…» Si porta sbadatamente la mano alla testa, come se
avesse dimenticato qualcosa.
«Gli aironi.» Traduco, secca, e lei sorride
melensa.
«Sgiusto, gli airroni! Por gli airroni che caminano nel patio.» Sculetta ancora un po’ indicando
chissà cosa e poi prosegue, instabile sugli zoccoletti altissimi.
«Sono d’accordo con Lily. È un trans portoghese.
Anzi, secondo me nemmeno quello. Parla peggio di mia nonna senza dentiera e la
sua conoscenza della città è pari a quella che potrei avere anch’io leggendo la
pagina di Wikipedia.» Osservo, scrutando attentamente le sopracciglia tatuate.
Christian e Danny, appena dietro di noi, stanno commentando i suoi pantaloncini
praticamente inesistenti. Lo sguardo assassino da parte mia e di Lily non passa
inosservato.
Continuando a camminare, arriviamo in una
piazza, che la signorina ci presenta come Piazza Bolivar. Ma c’è scritto
ovunque quindi è stato uno spreco di fiato alla fragola.
«Questa plaza se llama così porquéSimón Bolívar il libertador si
riunì per aposgiare l’unione dei paesi latini y americani. Quello è il Teatro Nacional, belissimo! Tutto pieno
de rosso e oro e cristalofranscese!»
Nel modo esagerato in cui gesticola mi ricorda EffieTrinket. Solo che Effie avrebbe
il duecento per cento di classe in più di lei.
Imbocchiamo il PaseoGeneralEstebánHuertas, un lungomare sopraelevato, e
proseguiamo fino a giungere in capo al promontorio dove sorgePlaza de
Francia.
«Questa plaza è dedicada a Ferdinand de Lesseps e
agli inscegnerifranscesi
che lavorarono al canale di Panamá. Guardate l’obelisco! Mi fascio una foto con
voi, hombres! Venite!»
Christopher si arma di macchina fotografica e
scatta foto a più non posso. A me tocca farne una a Christian con Pamela – sì,
si chiama PAMELA. Non ridete. – e sono sicura di non aver mosso la macchina di
proposito. Sarà venuta sfocata per un caso.
Continuiamo per due isolati e visitiamo i resti
dell’antica Iglesia y Convento de Santo Domingo, e poi la piazza più grande del centro
storico, ovveroPlaza de la Indipendencia.
Pamela alias Dolores, come l’ho ribattezzata io,
ci illustra le bellezze della piazza narrandoci qualche aneddoto che capisce
solo lei, mischiando parole spagnole, portoghesi e credo di aver sentito
perfino qualcosa di francese. È come se camminasse con un cartello appeso al
collo con scritto “Impostora”. Ma la seguono tutti.
Dopo esserci inoltrati in un quartiere pieno di
case pericolanti, ci fermiamo davanti a un’altra chiesa, quella di San José.
«Qui restate tutiunidi e sopratutolosmuchachosposono
venire da questa parte per protegere la guida ahahah!» Dolores trascina letteralmente Christian, Tony e
Thomas con sé mentre inizia a parlare della chiesa.
Rachel ha un diavolo per capello.
«Ma tu guarda quella sottospecie di viscida
piovra travestita da donna se deve mettere le sue luride zampe pelose addosso
al mio Thomas!» Sta sibilando da dieci minuti, mentre Lily cerca di calmarla.
Certo, perché Ursula non ha ancora accalappiato Danny.
Inizio a vedere doppio quando traballa sui
trampoli e prende Christian per il braccio per essere sorretta.
«Lo ha tirato per un braccio.» Dico, e sono
quasi sicura di avere uno sguardo vacuo. Che preannuncia la tempesta.
«Ma no che non lo ha tirato per un braccio, ti
sei impressionata.» Lily mi tocca la spalla e Rachel spalanca la bocca.
«Adesso con Thomas!»
«CHRISTIAN vieni a darmi una mano, per favore?»
Strillo, fingendo di aver bisogno d’aiuto. Per fare cosa? Non ci ho ancora
pensato, ma ci arriverò. Christian si volta a guardarmi ma Alexandra – che sarà
morta prima di tornare a Miami – richiama la sua attenzione mostrandogli un
dipinto nella chiesa.
«Christian a te non piacciono i dipinti, vero?»
Dico tra i denti dopo averli raggiunti. «Piuttosto, guarda quell’altare!»
«In realtà mi piacciono…»
Oh cielo. Perché gli uomini sono tutti ottusi?
D’accordo. Piano B.
Vado da Danny e lo prendo sottobraccio per
fargli vedere l’altare. Traduco le note illustrative così che Christian veda
che sto parlando. «Questo è l’Altar de Oro,uno splendido altare barocco d’oro
risalente al XVII secolo. La leggenda vuole che i frati riuscirono a sottrarlo
alla razzia del pirata Morgan, dipingendolo completamente di nero.» Ci aggiungo
qualche altra cosa inventata per allungare il brodo, e finalmente dopo un po’
la mia geniale strategia porta i suoi frutti.
«Che dicevi, di quest’altare? Dan, Lily ti sta
cercando.» Christian mette amorevolmente una mano sulla spalla a Danny, mentre
gli indica la posizione esatta della sua ragazza. Certo, amorevolmente.
Si può
sapere che problemi hai, Elettra?
Nessuno, perché?
«Bleah, profumi di fragola zuccherata con una
spruzzata di cannella giamaicana.» La butto lì, storcendo appena il naso e
avanzando verso un arazzo. Non è vero, Christian profuma sempre di Christian e
di Hugo Boss, ma dovevo dire qualcosa.
«E tu profumi di stragelosia avariata, piccola
Elettra.» Risponde lui con tutta la calma del mondo, passandomi un dito alla
base del collo mentre mi raggiunge dall’altro lato.
«Devi smetterla di chiamarmi piccola Elettra, mi
fai sentire una bambina di tre anni.» Grugnisco, concentrata ad ammirare
qualcosa di non meglio precisato, solo per non guardare lui.
«Non sei una bambina di tre anni.» Lo sento
dire, e a quel punto incrocio il suo sguardo divertito. «Sei una bambina di
ventisei anni.»
Stavolta riesco a tirargli un destro ben
assestato che lo fa mugolare più per la sorpresa che per il dolore, ma sono
ugualmente soddisfatta. D’altra parte, però, non so proprio cosa rispondere
senza insultarlo pesantemente – e oltretutto confermerei la sua affermazione –,
così giro sui tacchi e raggiungo Martin e Phoebe. Butto lì qualche frase di
circostanza sul tempo e il panorama, e dopo un po’ inizio a parlare con questa
splendida donna, che per giunta è anche simpaticissima. Non conosco bene
Martin, ma direi che sono una meraviglia insieme.
«Allora, Elettra. Tu sei la new
entry del gruppo ma sei con noi da abbastanza tempo per dirmi cosa pensi della
MP.» Naturalmente, a origliare arrivano subito anche Lily e Tony, come se
avessero un radar per captare le occasioni in cui mettermi in imbarazzo
pubblicamente.
«Cosa penso? Ehm… beh…» Cerco di trovare le
parole adatte, ma in fin dei conti non ce n’è neanche troppo bisogno. «Penso
che sia una squadra eccezionale, formata da professionisti più o meno
eccentrici – e qui Tony ridacchia – ma anche da persone di cuore, genuine. Mi
piace molto lavorare con voi.» E ora lasciatemi in pace, grazie.
«E hai avuto modo di notare qualche… come dire… legame, tra i tuoi colleghi?» Il tono di
Martin è estremamente innocente, ma ha quello sguardo indagatore che non
promette nulla di buono, specialmente con quei due chiacchieroni nei paraggi.
Sto per battere in ritirata con la scusa di cercare un bagno, quando Mr Gola
Profonda, senza battere ciglio, butta lì la frase più catastrofica della
giornata.
«Certo, digli di te e Christian.»
«Te e Christian?» Ripete Martin, incalzante.
Li guardo sbigottita. «Cosa? Non c’è niente da
dire su me e Christian. Piuttosto, Lily…»
«Dai, digli che vi piacete da circa un millennio
e tu lo stai torturando, poverino…» Subdola, subdola
serpe di una Lily… non te la caverai mica con quel
sorrisetto innocente.
«Sì, e per giunta hanno anche dormito insieme e
lui l’ha vista seminuda, e poi…»
«...lui ha scelto la sua torta preferita, ma poi
hanno litigato, e…»
«…è stato tutto il
tempo in ospedale ad assisterla…»
«RAGAZZI!» Strillo, col viso ormai in fiamme.
«Voi siete matti. Siete… oh, Dio, non riesco a
credere di aver appena assistito a questa conversazione. Devo sedermi.»
Mormoro, con la testa che mi gira. Hanno appena spifferato ai quattro venti
alcuni dei dettagli più imbarazzanti e al tempo stesso significativi del mio
rapporto con Christian. Come se stessero raccontando la trama dell’ultimo
episodio di Doctor Who! Ora mi butto nel canale.
Martin mi ferma e mi poggia una mano sulla
spalla. «Elettra, stai tranquilla, non è mica un problema…
vorrei solo non essere l’ultimo a sapere le cose…»
«Danny e Lily amoreggiano sempre nella stanza
delle fotocopie!» Esclamo, e vedo Lily spalancare la bocca, in una smorfia tra
il comico e l’indignato.
«E allora? Anche io l’ho fatto una volta. Che
c’è di strano?» Interviene Tony, corrugando la fronte. Martin, attonito, sbatte
le palpebre per qualche istante e poi fa spallucce. Lily è salva, ma io sono
sempre più sconcertata.
«Lo dicevo io che ero capitata nel Grande
Fratello.»
***
Il sole è quasi arrivato alla fine della sua
corsa, ma noi siamo ancora belli arzilli e pimpanti nonostante la stanchezza
del viaggio. Abbiamo fatto compere in alcuni adorabili negozietti
caratteristici del paese e pranzato al ristorante dell’albergo. Dopo una doccia
rigenerante, siamo tutti riuniti nella hall per decidere il da farsi.
«Io propongo la spiaggia.» Sta dicendo
Christian, per la… quarantesima volta?
«Signore Onnipotente, andiamo in spiaggia prima
che gli venga una crisi epilettica.» Esclama Danny, esasperato dall’insistenza
del suo redattore. La frase ci fa ridere e Martin acconsente, a una condizione:
faremo equitazione.
«Però prendiamo un taxi.» Intervengo, ancora
scioccata dalla corsa sul diablo rojo.
Quando arriviamo su una spiaggia della costa di
Coclé, Martin sembra già sapere il fatto suo, e si dirige verso un maneggio
poco distante. Clara e Christopher si chiamano fuori, cosa che avrei voluto
fare anch’io, ma Rachel me l’ha impedito. Nuove esperienze, dice. Anch’io avrei
in mente un paio di nuove esperienze
da farle fare, se vogliamo dirla tutta.
Le coppiette decidono di cavalcare
romanticamente insieme, dunque escono i primi tre cavalli per Martin, Danny,
Thomas e compagne. Mike e Christian scelgono i loro, dopodiché tocca a me e
Tony. Adocchio un cavallo nero, bellissimo. Devo ammettere che in una delle mie
innumerevoli fantasie ho sempre sognato di cavalcare un cavallo nero.
Certo,
ora si dice così.
«Chi di voi sa cavalcare?» Domanda un tizio
vestito di tutto punto, che suppongo sia un istruttore, e resto sbalordita
quando almeno quattro di noi alzano la mano, ovvero Martin, Danny, Tony e
Christian. Ovviamente. Cos’è che non sa fare quell’uomo?
Conquistarti,
pare.
«D’accordo. Se voi altri vi sentiste insicuri,
io o uno degli altri istruttori siamo a disposizione per aiutarvi. In ogni
caso, i cavalli sono tutti addestrati e non hanno mai dato problemi.» Rivolge
lo sguardo a noi poveri ignoranti di cavalcate, e nessuno fiata. Si vede che
Alexandra se la sta facendo sotto dalla paura, ma non accenna il minimo
movimento. Orgogliosa.
Ah,
senti chi parla! Come mai stai a dieci chilometri dal tuo bellissimo cavallo
nero?
L’istruttore ci lascia dopo aver appurato che
nessuno ha bisogno di aiuto – come siamo temerari! – e Martin, d’ora in avanti
soprannominato Lady Oscar, inizia a spiegarci come prendere confidenza col
cavallo e prepararlo alla cavalcata. Vedo gli attrezzi che ci hanno fornito i
tizi del maneggio e un brivido agghiacciante mi percorre la schiena.
Non mostrare mai la paura a un animale: loro lo
fiutano. Da brava, Elettra. Che sarà mai? È solo uno stupido cavallo. Non
c’entra niente il fatto che potrebbe azzopparti con un lieve movimento della
zampa, o darti un morso e staccarti tutte le dita.
«Per prima cosa, prendete quell’arnese dall’aria
raccapricciante che si chiama striglia e iniziate a spazzolare il pelo del
cavallo. Ecco, così. Poi togliete i residui con la spazzola rigida e rifinite
con quella morbida. Se volete, col pettine a coda potete dedicarvi alla criniera
o alla coda.» Spiega Martin, mostrandoci come si fa.
Sì, certo. Come se fossi così stupida da toccare
la coda di un cavallo!
Guarda
che non gliela stai mica pestando. E non è una tigre!
«Buono, cavallo. Ciao. Salve.» Mi avvicino
lentamente a Tornado – ho deciso che lo chiamerò così. Quanto posso essere
originale da uno a dieci? Non ditemelo – e con la striglia comincio a pulire il
pelo. D’accordo, non è così difficile, e il cavallo sembra non detestarmi
troppo. Fa un paio di sbuffi e io indietreggio di circa tre metri ma poi
capisco che è normale e mi limito a trattenere il fiato sperando che non mi
atterri con un calcio.
«Adesso monteremo la sella, in quest’ordine:
sottosella, agnellino e poi la sella vera e propria.» Ci mostra come fare e io
stranamente riesco a eseguire il tutto senza combinare casini. O almeno, se non
contiamo il fatto che sono caduta due volte mentre cercavo di agganciare la
cinghia e Tornado stava per uccidermi, ma sono dettagli.
Quando arriva il momento delle briglie, sto per
sentirmi male. Io dovrei infilare questa cosa in bocca al cavallo? Ma sono
impazziti?
«Va bene, cavallino.» Lo guardo negli occhi e
inizio a sudare freddo. Si vede che mi odia. Perché non ho scelto un pony? «Ora
apri lentamente la bocca e mordi questo, d’accordo? Non la mia mano. Questo.»
Gli indico quest’affare che non so neanche come si chiama – Martin l’ha detto,
ma ero troppo impegnata a farmela addosso per ascoltare – e lui, con mio sommo
gaudio e tripudio, obbedisce senza battere ciglio.
Tra un
po’ se lo metteva da solo in bocca, idiota. Cosa credi che lo addestrino a
fare?
Taci tu, vecchia baldracca!
Prima di salire, Martin passa a controllare i
finimenti di noi inesperti. Stringe un po’ la cinghia al cavallo di Alexandra e
ci dice che siamo tutti pronti ad andare.
Dopo aver infilato il casco, che mi fa sembrare
un soldato tedesco più che una cavallerizza, ci prepariamo a montare. Ah-ha,
come se fosse facile. Cerco di calarmi nella parte di un’intraprendente
amazzone e mi mantengo alla sella mentre infilo il piede nella staffa. Prego
per circa dieci secondi di non fare una gigantesca figura di profondo sterco, e
poi mi do lo slancio per salire e sedermi. Quando credo di avercela fatta,
perdo l’equilibrio e finisco per aggrapparmi al collo di Tornado – i cavalli
hanno un collo? – lasciandomi sfuggire un gridolino di terrore. Provo a
ignorare gli sguardi degli altri e piano piano mi
sistemo sulla sella fino a raddrizzarmi e ritrovare la posizione di una persona
seduta su un cavallo. Va bene, ce l’ho fatta. Mi asciugo una gocciolina dalla
fronte e guardo Tony sorridente.
«La cosa da ricordare sempre è guardare in
avanti e tenere la schiena dritta, allineata con i talloni. Se vi sembra di
perdere l’equilibrio, afferrate la criniera del cavallo finché non lo riacquistate.»
Spiega Martin, e io inorridisco. Credo che anche Tornado sia inorridito, così
lo accarezzo piano e gli sussurro qualcosa.
«Stai tranquillo, non voglio mica tirarti la
criniera. A me dà fastidio quando mi toccano i capelli, figuriamoci se me li
tirassero. Tranquillo, cavallino.» Per concludere gli do due colpetti e lui,
inaspettatamente, inizia a camminare. «Oddio, cavallino. Vuoi avvertirmi?!»
Resta calma. Calma. Respira, su.
Come si ferma questo coso?!
«Ehm, Martin?» Provo a dire, con gli occhi spalancati
e il terrore che mi scorre nelle vene. Lui si gira e mi raggiunge col suo
cavallo marrone, Phoebe dietro di lui che si tiene saldamente ma con la postura
di una dea greca.
«Se vuoi fermarti, affonda la seduta nella sella
e fai pressione con le redini. Puoi anche dire “hoo”!» Mi dice, e per tutta
risposta il suo cavallo si ferma.
«Certo. Mi ci vedi a dire “hoo”? Chi sono, il
nonno di Heidi?!» Infatti, Tornado non mi ha nemmeno preso in considerazione.
Che sia femmina? Devo provare a chiamarla Violet.
Un piccolo sforzo dopo l’altro, riusciamo a
partire tutti. Chi trotta, chi si muove e poi si ferma dopo due passi, chi si
fa una galoppata e torna indietro. Io sono a metà tra le prime due categorie, con
Tony alle calcagna che mi prende in giro non appena il cavallo si ferma, e
quando mi giro a guardarlo Tornado intercetta il movimento della mia testa e
gira anche lui, facendomi tornare dov’ero prima. Mi sto innervosendo parecchio,
sapete.
«Elettra, potresti anche fare tre metri
consecutivi, non c’è niente di male!» Mi sfotte Lily, beffarda.
«Infatti, dovrei proprio imparare da te. Guarda
con che bravura stai guidando il tuo cavallo… ops, non lo stai guidando tu.» Le
rispondo con una linguaccia, e lei ride.
Quando Tornado si ferma per l’ennesima volta,
lasciandomi sempre per ultima – diamine, perfino Alexandra è avanti con gli
altri! –, mi chino in avanti e stringo i polpacci, più forte delle volte
precedenti.
Non l’avessi mai fatto.
Tornado inizia dapprima a trottare velocemente,
poi quando tiro le redini per fermarlo, o almeno così credevo, parte al galoppo
facendomi urlare come una disperata.
«Cavallinoooo! AAAAAAAAAAHHHHHHIIIIUUUUTOOO!»
Cerco di aggrapparmi a lui il più possibile, e gli tiro anche la criniera con
tutta la mia forza, col risultato che il bastardo – o a questo punto dovrei
dire proprio la bastarda – raddoppia la velocità. Ormai
sobbalzo a ritmo di samba e il riso col pollo del pranzo sta pericolosamente
risalendo verso l’uscita sbagliata.
«Elettra, non stringere le gambe!» La voce della
salvezza. Mi volto a guardare Christian, e poi mi ricordo che i cavalli seguono
lo sguardo del cavaliere, per cui spalanco gli occhi terrorizzata in attesa di
una sterzata che non arriva, perché ormai Tornado ha deciso di raggiungere la
Florida entro sera.
«CHRISTIAAAAAAAN!» Mai avrei pensato di urlare
il suo nome in questo modo. Sto quasi per mettermi a piangere. Quando vedo la
testa del suo cavallo un singhiozzo mi scuote il petto. Vedo che incita il suo
destriero – bianco, che ve lo dico a fare? – a correre più veloce con fare
esperto e per un momento penso che sia la cosa più bella che abbia mai visto.
Poi torno a singhiozzare.
«Adesso mi avvicino e tu ti aggrappi a me. Mi
hai capito, Ele? Devi aggrapparti più forte che puoi!» Esclama, fissandomi con
quell’azzurro così intenso in cui leggo tracce di inquietudine e al tempo
stesso determinazione. Annuisco e aspetto il momento in cui il suo cavallo
affianca il mio per lasciarmi afferrare dalle sue braccia e stringerlo a mia
volta, mentre mi trascina davanti a sé con una forza incredibile. Ho ancora gli
occhi chiusi quando mi rendo conto che siamo fermi.
«È tutto finito, Elettra. Sei al sicuro.» Le sue
parole mi fanno scappare una lacrimuccia invisibile che mando via con un gesto
repentino del braccio. Sono stretta al suo petto, coccolata dalla sue mani che
mi tranquillizzano con gesti lenti e rassicuranti. Tiro su col naso e lui mi
stringe ancora di più, posandomi un bacio sui capelli. «Accidenti. Neanche i
cavalli ti resistono.» Dice, e nonostante tutto mi scopro a ridere
sommessamente contro la sua camicia.
«Grazie.» Mormoro, dopo un po’, ma credo che non
mi abbia sentito perché in quel momento arrivano gli altri, che domandano
concitati cosa è successo e come sto adesso.
Sto bene. Sì, ora sto bene.
***
Se di giorno le città di Panamá possono apparire
sonnolente, di notte si scatena la vita notturna. E onestamente, dopo lo
spavento di oggi, un po’ di sano alcol e musica caraibica era proprio quel che
ci voleva.
Dopo aver riportato i cavalli al maneggio,
compreso il mio traditore che si era fermato un chilometro dopo avermi lasciato
tra le braccia di Christian, Martin ci ha portati in un villaggio poco
distante, dove l’oscurità ha assunto mille tonalità colorate e l’infrangersi
delle onde sulla costa è stato sostituito dai ritmi della musica salsa e
reggae.
Siamo in un locale davvero carino, tranquillo e
semplice, e per un attimo sembra di stare in quelle località tropicali dove gli
aperitivi vengono serviti in chioschi coperti di foglie di palma secche e sono
tutti allegri e spensierati.
Aspetta un attimo, ma noi siamo davvero in una
località tropicale. Il locale affaccia sulla spiaggia, e anche se il tetto è
ovviamente più solido, è ricoperto ugualmente da foglie di palma per ricreare
l’atmosfera. Potrei anche dire che siamo tutti allegri e spensierati,
specialmente dopo aver bevuto quantità industriali di seco, la bevanda alcolica nazionale. A me non fa impazzire l’alcol,
ma questo scende giù che è una meraviglia.
Perciò, ringraziatelo pure se ho raggiunto
Christian in terrazza. È seduto su una specie di divanetto, con le gambe
allungate in avanti e il volto rilassato mentre si gode la brezza serale. Non
mi ha sentito arrivare, per cui mi prendo il tempo di osservarlo per qualche
istante con un piccolo sorriso sulle labbra.
Quando mi siedo accanto a lui, apre gli occhi e
mi guarda. Sorride, è dolcissimo.
«Come ti senti?» Mi domanda, girandosi
leggermente verso di me.
Ho voglia di baciarti.
Cosa?
No, sono i fumi dell’alcol.
«Bene. Io… beh, pare proprio che debba ringraziarti
per l’ennesima volta. Non puoi fare a meno di salvarmi.» Ridacchio, e mi sento
stupida. Non avrei mai dovuto provare a cavalcare quel ridicolo animale.
Christian si stringe nelle spalle. «È uno sporco
lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.» Sorride, poi si fa serio. «Non ho altra
scelta.» La sua frase, come un soffio, mi fa rabbrividire. Poi una muta
richiesta, quella di tornare tra le sue braccia, che allarga per accogliermi.
Questa volta, non indugio affatto.
~ Note
Meglio tardi che mai, diciamocelo. Avevo
promesso a diverse di voi che il capitolo sarebbe arrivato entro l’anno passato
ma ho tardato di qualche giorno. Su, su. Sorridete XD
Nuovo blend,
nuova Elettra. Nuova mica tanto, però sta cambiando parecchio. Nel prossimo
capitolo sganciamo la bomba *corre a rifugiarsi in un
angolo*
Che dire? Devo ammettere che scrivere di
questo viaggio si sta rivelando più complicato del previsto (tutte in coro: “MA
DAI?!”) ma ho buone aspettative per il prossimo.
Intanto, ringrazio Luisiana e Wikihow per le dritte
sull’equitazione, di cui non sapevo una cippa lippa,
e Costanza e Federica per l’ultima risposta di Christian. So che così ho praticamente
distrutto la sua reputazione di fluff-repellente (e vi cito testuali parole
uscite dalle sue dita in chat: “ODDIO COSA MI FAI
SCRIVERE, T'AMMAZZO, NON DIRE A NESSUNO DI QUESTA
CONVERSAZIONE!”) ma lei sa che la adoro alla follia e non so cosa farei senza
di lei NÉ senza le altre meravigliose
ragazze del gruppo. Ragazze che stanno addirittura pensando di scrivere MissingMoments su questa storia,
cosa di cui sono altamente onorata (e riguardo a questo leggete il P.S.).
Rinnovo come sempre l’invito a far parte
del gruppo, chiedendo l’amicizia qui, e torno a darvi uno spoiler del prossimo capitolo, per
ringraziare tutti voi lettori, silenti e non, che crescete di giorno in giorno.
Siete arrivati a 500 e io non so davvero cosa dire, se non che non merito tutto
questo seguito.
Spoiler:
«Ho
un’ideeeea.» Dichiara, mentre apre la bottiglia.
«Sedetevi tutti per terra. Forza, in cerchio.» Agita le dita descrivendo una
circonferenza immaginaria e noi, più o meno scettici, facciamo come dice.
«Vuoi
fare una seduta spiritica?» Domanda Lily con un sopracciglio alzato. Tony
scoppia a ridere e prende posto tra Christian e Thomas. Io mi metto esattamente
di fronte, vicino a Rachel.
«Per
esorcizzarti quei capelli forse ci vorrebbe, ma no, facciamo qualcosa di
divertente: giochiamo.» Danny ride scompigliando la chioma elettrizzata di Lily
e Thomas si passa una mano sul mento, valutando la cosa.
«A
cosa?» Chiedo, con una punta di terrore mitigata dall’alcol.
Tony
continua a sorridere malefico mentre estrae il cellulare dalla tasca dei
pantaloni. «Obbligo e verità.»
Allyours,
Sara.
P.S.: About Wayne ha già un Missing
Moment, scritto da colei che ispira la mia Rachel. Lo trovate QUI, e dovete leggerlo
perché riguarda Rachel e Thomas e so che li amate. E poi perché è bellissimo,
ovvio.