For ever

di roxy_xyz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


For ever

I




Era un gennaio insolito, diverso dagli anni precedenti. Freddo, caldo e di nuovo freddo si erano alternati velocemente lasciando le persone sempre più confuse. Per questo motivo aveva deciso di vestirsi ‘a strati’, consapevole che quel caldo innaturale sarebbe durato poco.
“Non ci sono più le stagioni di una volta”, gli ricordava sempre sua madre, e non aveva poi tutti i torti; era il tredici gennaio e indossava una canottiera, una felpa, e teneva un caldo maglione di lana all’interno del suo borsone per qualsiasi emergenza.
Si recò in ufficio con poca voglia di lavorare, come gli succedeva da molti mesi ormai. I colleghi avevano cercato in tutti i modi di rallegrarlo un po’ con una serie di inviti, ma più continuava a mentire a se stesso e più sentiva un enorme peso all’altezza del petto.
Non poteva scappare.
Non poteva dimenticare.
Mise il borsone della palestra sotto la scrivania, nascosto da occhi indiscreti, e accese il computer per cominciare a lavorare; aveva così tante pratiche in arretrato che temeva di non riuscire a finire in tempo per le 18:00, e quell’ora di nuoto aveva il potere di fargli dimenticare le preoccupazioni o forse, solo di distrarlo dai pensieri. Fissò lo schermo nero con un crescente nervosismo, tamburellando le dita sulla scrivania: perché tutti dovevano essere così lenti?
“Buongiorno, Marco.” Una voce femminile, una delle tante, alla quale non rispose nemmeno. La fronte corrugata si fece distesa dopo una decina di minuti; dallo sfondo di Windows le dune del deserto gli infusero un po’ di buonumore. Con la mente immaginò di essere lì, disteso in quelle sabbie calde e sotto un sole cocente. Passò la lingua sulle labbra, come se quelle fossero veramente screpolate e lui avesse bisogno di un po’ d’acqua.
Poteva solo fantasticare.


*


Un crampo le segnalò che era da troppo tempo in quella posizione scomoda, eppure sembrava accettare stoicamente ogni piccolo dolore. Come una statua, sedeva immobile e senza muoversi di un millimetro; persino il vento sembrava non sconvolgerla più di tanto.
I lunghi capelli neri si muovevano in piccole onde, mentre dei fiocchi di neve si erano incollati alle sue ciglia. Nonostante stesse nevicando ormai da una buona mezz’ora, sedeva sulle ginocchia senza badare al pavimento freddo e duro. Più di una persona le aveva rivolto uno sguardo incredulo; non accadeva tutti i giorni di vedere una giovane ragazza seduta per terra in un cimitero e inginocchiata di fronte a una lapide.
Ai suoi lati erano sparpagliati dei fiammiferi che, molto probabilmente, aveva usato per accendere il cero rosso posto di fronte a lei, unica fonte di calore.
Era da poco passato mezzogiorno quando Marco, uscendo da lavoro per la pausa pranzo, la trovò vicino alla lapide della sua fidanzata. Sembrava recitasse una qualche preghiera, ma dopo pochi secondi capì che stava parlando. Chiacchierava con la persona che occupava la tomba, come se stessero conversando al telefono.
Aveva cercato di intravedere la foto sulla lapide di fronte a lei più di una volta, ma dei graziosi garofani rossi coprivano per intero la sua visuale e non poté soddisfare la propria curiosità. Fu solo quando la sentì ridere che non riuscì a frenare la sua lingua.
“Tutto bene?” aveva domandato gentilmente, credendo di trovarsi al cospetto di una paziente di una clinica psichiatrica.
La ragazza si era girata lentamente verso di lui e l’aveva guardato senza rispondergli. Due occhi azzurri lo avevano scrutato senza mostrare un minimo di disagio.
“Io sì, e lei?” Era stato il suo unico commento prima di riprendere la sua chiacchierata univoca. Completamente basito, Marco si limitò a fissarla.
Come ogni giorno, prese i fiori ormai appassiti e li sostituì con quelli freschi, per poi dirigersi verso la pattumiera e gettarli.
“È crudele.”
“Mi scusi?”
“Non ha un po’ di cuore?” aveva domandato lei, invece di rispondere.
Dal tono di voce di Marco traspariva una certa irritazione. “Non capisco di cosa stia parlando, signorina!”
Una folata di vento spense il cero rosso e la donna si affrettò a prendere un altro fiammifero. “Vuole?”
“Cambia sempre argomento quando offende dei perfetti sconosciuti?”
Le labbra della donna erano distese in quello che doveva essere un timido sorriso. “Solo con chi uccide i fiori.”
“È una fioraia?”
Quella volta il sorriso era stato più aperto, allegro. “Mi batto per loro da anni, ormai. Sono una loro sostenitrice e poi, scusi tanto, ma cosa non andava in quei fiori? Erano stupendi.”
“Erano di ieri, solo per questo, non ho nessun odio verso di loro. Semplicemente tendo a cambiare i fiori ogni volta che vengo qui.” Aveva alzato le spalle mentre spiegava le sue ragioni, non trovando niente di male nel suo comportamento.
“E lei viene tutti i giorni qui?” Quella volta era stata lei a rimanere stupita.
“Certo.”
“Non ha una vita?”
Lei era la mia vita.” Un sussurro. Non si era curato di parlare con un tono di voce più alto.
“Era molto bella…” La voce della donna si era fatta più dolce, quasi comprensiva.
“E come lo sa? Da quella posizione non riesce a vedere la sua foto.” Possibile che una sconosciuta lo irritasse così tanto? O forse era lui che non riusciva più a scambiare due parole con una persona che respirasse ancora?
“Lo vedo dai suoi occhi e da come ne parla. È stato molto fortunato ad averla incontrata, anche se per poco.” Una folata di vento le aveva scompigliato i capelli che le erano finiti sul viso, spegnendo nuovamente il cero. Allora aveva di nuovo preso un fiammifero per riaccendere la fiamma.
“Credo che questa volta ne prenderò uno” aveva detto, rubandoglielo dalle mani in un gesto veloce. Aveva sfregato la punta sul muro e acceso il cero che aveva sempre ignorato. Non sapeva neanche di averlo richiesto quel giorno in cui aveva svolto le pratiche per il funerale; anche perché era stato l’ultimo dei suoi pensieri. Ricordava solo una folla di persone che non aveva fatto altro che stringergli la mano e rivolgere parole inutili; chi poteva comprendere almeno in parte il suo dolore? Nessuno.
Nessuno aveva visto Elisa svegliarsi la mattina con il trucco tutto sbavato e scoppiare a ridere dopo aver visto la sua espressione.
Nessuno sapeva quanto fosse buffa mentre dormiva, e come le sue labbra si tirassero sempre in su per qualche sogno.
Nessuno amava Elisa quanto lui.
Tutto era successo così velocemente da lasciarlo incredulo. Chi aveva avuto l'incidente? Di chi era il funerale?
E lui non era riuscito neanche una volta a piangere. Pensava a lei ogni giorno, ma nulla. Sembrava che con la sua morte si fosse prosciugato ogni cosa. Prima le lacrime, poi la sua voglia di vita.
“Così va meglio, no?” gli aveva detto la donna, e in effetti aveva sentito qualcosa scaldarsi nel petto, come se la fiamma avesse a tutti gli effetti portato un po' di calore.
“Grazie.”
Gli aveva sorriso un'ultima volta, e finalmente si era alzata da quella posizione scomoda. “A domani, allora.”


*


Ormai era diventata un'abitudine: tutti i giorni Marco portava i fiori a Elisa e trovava al suo fianco la strana donna, di cui peraltro non sapeva neanche il nome. Nessuno dei due sembrava però badare alla cosa, bastava condividere quella mezz'ora insieme.
Spesso era successo che si scambiassero nient’altro che monosillabi.
Lei gli passava un fiammifero e cominciava a parlare a bassa voce, iniziando il solito monologo. Più di una volta Marco aveva cercato di capire l'argomento e, alla fine era arrivato a quella conclusione: ogni giorno dava un resoconto dettagliato della giornata passata. Aveva anche sentito il suo nome in un bisbiglio e la cosa non lo aveva turbato; anzi, sapere di far parte della vita di quella strana donna aveva avuto il potere di alleggerire un po' quelle giornate sempre così tristi.
“Dovresti parlarle, sai?” Gli aveva detto un giorno.
“Non ci riesco, non so come tu faccia. Mi sembra così strano... lei non è qui.”
Era scoppiata a ridere dopo quella risposta. “Ovvio che non lo è. Lì ci sei tu, semmai.”
“Come?”
“Dovresti provarci, ti senti più leggero. Magari potresti scriverle delle lettere...” Come sempre aveva evitato evitava di rispondere a domande scomode preferendo cambiare argomento, e ormai anche Marco aveva imparato a non insistere.
Scrivere lettere a una persona defunta. Un’idea bizzarra che poteva avere solo lei, eppure una piccola parte del suo inconscio sembrò apprezzare la proposta e prenderla in considerazione; forse avrebbe potuto vivere il lutto come lei, in modo molto più sereno.
Perché no? Magari a forza di parlare con lei aveva perso del tutto il senno, ma non aveva mai dato peso a certi pensieri, neanche quando da ragazzo frequentava persone che tutti sconsigliavano.
Dopotutto aveva conosciuto così Elisa.



Era il 2005. Estate torrida, una di quelle più calde, e lui odiava il caldo. Se qualcuno gli avesse chiesto dove preferiva passare le vacanze, la sua risposta sarebbe arrivata subito e senza esitazione: montagna.
Non si potevano paragonare, secondo il suo umile punto di vista. Al mare si annoiava: se ne stava lì, sdraiato, e dopo neanche cinque minuti si sentiva sciogliere al sole. La verità è che non poteva patire il caldo e puntualmente finiva a passare il tempo in acqua. Non che non amasse nuotare, anzi; però scoprire nuovi percorsi o sentieri lo rendeva entusiasta, come un bambino alle prese con un’avventura. La mattina si svegliava presto e dopo una veloce colazione, partiva con lo zaino in spalle e pieno di buona volontà. Sì, la montagna non aveva nulla da invidiare al mare, soprattutto in estate.
Quel giorno aveva deciso di puntare su un percorso più difficile, ma che l’avrebbe portato ad una quota più alta da cui avrebbe potuto apprezzare meglio il panorama.
In hotel gli avevano detto che solo da quel punto si poteva vedere il ghiacciaio – anzi quello che rimaneva del ghiacciaio, dato che con le temperature così alte aveva cominciato a sciogliersi poco alla volta.
Era arrivato a destinazione completamente sudato e stremato, ma quando si era affacciato… beh, era stato qualcosa di veramente emozionante, uno spettacolo unico.
Si era seduto e, per premiarsi della tenacia, aveva deciso di pranzare osservando il panorama. Ogni volta che dava un morso al panino un piccolo pezzo di ghiaccio rotolava per andare a finire nelle acque gelide.
Con lo sguardo cercava di non perdersene neanche uno, e ben presto il pranzo si trasformò in un gioco. Era così assorto da non accorgersi dell’arrivo di una ragazza che, come lui, aveva deciso di pranzare lì e di godersi il panorama.
Fu la sua risata a destarlo. Probabilmente si era accorta di come gli occhi di Marco non si perdessero nemmeno un sassolino e la cosa l’aveva incuriosita.
Fu così che conobbe Elisa. Una ragazza di appena ventitré anni, piccola di statura, ma più tenace e cocciuta di tanti altri. Ogni giorno partiva alle otto del mattino e, nonostante lo zaino fosse anche più grande e pesante di lei, tornava sempre felice e con tanta voglia di vivere.
E con lei Marco aveva vissuto a pieno, perché Elisa era capace di spronarlo, di portarlo in nuovi posti, di farlo entusiasmare con attività che prima aveva sempre snobbato.
Erano andati persino al mare per un mese, e lui aveva passato il tempo sdraiato a osservarla, o meglio a osservare quel naso impertinente già bruciato dal sole e quel sorriso furbo che aveva sempre stampato in viso. Era pazzesco, ma non ricordava di averla mai vista con l'espressione triste o corrucciata, come se il malumore non la toccasse mai; i suoi occhi brillavano di una luce perenne.
Anche quel giorno in cui qualcuno aveva soffiato sulla sua fiamma e l’aveva spenta.
“Ci vediamo dopo e mi raccomando, sii puntuale” gli aveva detto scherzando, e per la prima volta lo era stato.
Da quanto tempo la stava aspettando?
Seduto alla solita scrivania prese carta e penna e scrisse; le parlò di quei mesi, di quello che faceva ogni giorno, di quanto sentisse la sua mancanza.
Vorrei stringere te tra le braccia. Non il vuoto.
Vorrei ridere con te. E anche per qualche tua espressione buffa.
Vorrei dormire con te, baciarti, amarti. Le lenzuola sono fredde e la lana sembra pungermi ogni notte.
Mi manchi. Sono ancora qui, sotto la tua finestra. Affacciati, Elisa. Torna da me.

Ed ecco il primo capitolo della mia minilong! Era da tanto che non scrivevo una storia originale, per questo vorrei ringraziare Jaybree che, oltre ad averla valutata, mi ha permesso di riprendere in mano una vecchia storia e di completarla.
E infine, un doveroso grazie va a Bea che mi sta costringendo a pubblicarla e che mi sprona a mettermi alla prova. Grazie di credere in me, PIPPA!
Prossimo capitolo tra una settimana, a presto.

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Capitolo 2
*** II ***


For ever

II




Era un mercoledì quando Marco si presentò al solito orario al cimitero e non trovò nessuno. La sua mano era ancora sollevata in aria quando si bloccò come se avesse ricevuto un rimprovero. I garofani rossi sembravano ammiccargli, chiedergli di non gettarli nella pattumiera. Non vedi quanto siamo freschi?
“Va bene.” Cercò di sistemare tutti i fiori insieme facendo attenzione a non guastarli, e il risultato, per fortuna, fu anche più bello rispetto ai giorni precedenti.
Elisa sembrò sorridergli dalla foto, o forse era lui ad avere aveva troppa immaginazione.
“Ciao.” Fu l’unica cosa che riuscì a dire. Era un imbranato al primo appuntamento, un adolescente che balbettava e sudava freddo di fronte alla ragazza più bella del liceo. “Non so, magari starai pensando che sono completamente pazzo, ma… ti ho scritto una lettera. E farò così tutti i giorni, perché, per colpa tua, ora do retta anche agli estranei! Insomma, non pensare male… oh mamma, che dico!”
“Be’, se devo essere sincera, eri strano anche prima di conoscermi.”
Una voce calda aveva interrotto quello strano monologo, salvando Marco dall’imbarazzo.
“Ehi.”
“Ehi” aveva risposto la giovane donna. Con la solita calma si era avvicinata e inginocchiata come faceva tutti i giorni.
“Mi stavo cominciando a preoccupare non vedendoti. Sei sempre stata precisa come un orologio svizzero.”
“Oh, beh, io a differenza tua ho una vita.” Solito cinismo e solita verità sbattuta in faccia.
“Ah sì? E quando potrò sapere il tuo nome?” Desiderava conoscerlo sin dal primo incontro, ma si era sempre controllato.
“Un giorno.” Aveva inclinato la testa come se stesse pensando a una data in particolare, con lo sguardo rivolto verso l’alto. “Forse.”
“Forse” ripeté Marco.
Alla vista della busta della lettera tra i garofani si era girata di scatto. “Le hai scritto!”
Nonostante Marco si vergognasse del gesto, gli bastò guardarla negli occhi per capire che era sincera e che non lo stava prendendo in giro. Sembrava quasi fiera di lui.
Con una mano si era grattato la testa, scompigliando i capelli. “Sì” aveva detto con un filo di voce.
“Bravo. Come premio ti meriti un mio fiammifero al prezzo speciale di un sorriso.” Si era alzata e gli aveva allungato il bastoncino.
“Solo un sorriso?”
“Sì.”
“E come farai con il mutuo della casa, il bollo e le rate della macchina, se mi darai tutti i fiammiferi gratis?” domandò, con un pizzico di ironia.
“Oh mamma, come fai a conoscere tutti i miei debiti?” Il tono della voce era allegro, consapevole dello scherzo del ragazzo.
“Sono uno stalker e so tutto su di te!” Marco sperò che non si spaventasse e stesse al gioco; non voleva farla scappare.
“Vorrà dire che dovrò chiedere l’elemosina per non morire di fame” buttò lì, come se non fosse nulla di grave.
“Sicura?” domandò ancora.
“È solo un fiammifero, non morirò mica!” aveva detto, sbuffando per fargli capire di non avere tutti quegli scrupoli.
“Sicura, sicura?” Non capiva perché, ma ogni volta che perdeva le staffe sembrava anche più bella.
Bella? Ma cosa stava dicendo?
Come per volerlo zittire, si era alzata e gli aveva tolto il bastoncino dalle mani per accendere il cero. “Ecco, detto e fatto. Ora, taci per almeno trenta minuti.”
Per tutto il tempo non aveva fatto altro che osservarla, cercando di seguire il movimento delle labbra per sapere se avrebbe pronunciato il suo nome, per sentirsi vivo attraverso i suoi racconti.


*

“Marco, smettila di fissarmi!” Elisa si era spalmata una maschera sul viso, convinta che quel giorno il suo fidanzato sarebbe tornato tardi, invece aveva suonato al campanello ed era scoppiato a ridere alla vista della sua faccia verde.
“Non ci riesco, giuro che mi sto impegnando, ma sei troppo buffa!”
Si era coperta con le mani. “Smettila, sono un mostro.”
“Sei bellissima.” Si era avvicinato e gli aveva afferrato le dita con gentilezza. “Apri gli occhi e guardami,” aveva continuato a dire.
“No.”
“Eli…”
Come una bambina aveva sbattuto i piedi per terra e aveva aperto un occhio per sbirciare Marco e controllare la sua espressione.
Vide le labbra del suo fidanzato avvicinarsi e posarsi sulle proprie, inebriandola e stordendola. Erano forti e sicure, ed Elisa si poggiò completamente su di lui, come se con un semplice bacio l’avesse privata di ogni forza.
“Non smettere mai di baciarmi” aveva detto con un sussurro.
“Contaci.”


*

“Ci vediamo domani?” aveva indagato Marco.
“Non lo so, domani sarà una giornata lunga.”
“Capisco.” Dal tono si poteva sentire quanto fosse rattristito da quell’idea, e la donna non poté evitare di sollevare una mano verso il suo viso in una carezza.
“Farò di tutto per esserci. Contaci.
Una volta arrivato in ufficio, dopo la pausa pranzo, non smise un attimo di pensare alle due donne. Completamente differenti eppure così simili. Una strana contraddizione che sembrava colpirlo, come se qualcuno dall’alto volesse spronarlo.
Una valanga di e-mail gli ricordarono che doveva smetterla con quei pensieri per concentrarsi su qualcosa di reale.
“Buongiorno, Marco.”
Quando si girò per rispondere, vide che non c’era più nessuno. Si appuntò mentalmente di ricambiare prima o poi al quel saluto; stava diventando un vero e proprio maleducato.
Facendo un gran sforzo sulla propria volontà, fece 'clic' sul primo messaggio. “Prima finiamo, meglio è.”



Salve gente! Capitolo molto più corto del precedente, ma non temete che il prossimo vi soddisferà... cioè credo!
Alla prossima settimana per l'ultimo appuntamento.

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Capitolo 3
*** III ***


For ever

III




“Tu, uomo delle caverne, esci stasera con me e non mi importa un fico secco se hai impegni o se non ti senti ancora pronto. Marco, tu esci. Punto e a capo. Anzi, facciamo che ti porto anche qualche mia amica così ti distrai un po'. Fine comunicazione di servizio.”
Alberto, il suo migliore amico, nonché collega di lavoro, lo aveva appena incastrato in una delle sue solite uscite. Non che non si divertisse in compagnia della comitiva, ma non amava la birra e tanto meno parlare con persone che aveva visto solo sporadiche volte.
“Albe, vada per l’uscita, ma portami una ragazza e giuro che è l’ultima cosa che fai.”
“Ma perché?”
“Perché hai dei gusti orrendi e sei schifosamente miope. Ergo, a cuccia.” Aveva parlato, puntandogli il dito in modo che le sue parole fossero anche più intimidatorie. Era consapevole di quanto poco considerasse la sua opinione, perché Alberto era convinto che tutto gli fosse concesso dato che agiva in buona fede. Lo faceva per tirare su il morale di Marco, no?
Un disastro d’amico, ma anche il più caro, proprio perché non lo aveva abbandonato mai.
E gli aveva dato buca un miliardo di volte, per giunta.
“Non mi sembra che Alessia ti fosse dispiaciuta.”
“Guarda che Alessia te la sei portata a casa tu, mentre a me hai lasciato Giovanna. 29 anni, più asociale di me e con una profonda paura per l’acqua e il sapone.” Marco non avrebbe mai dimenticato quella serata. Anche perché l’aveva passata quasi in apnea, e tutto per colpa del suo migliore amico.
“D’oh, che bravo che sei con i nomi. Visto? Ti devo portare solo per quello, altrimenti rischio una delle mie solite figure.”
“22? Così abbiamo il tempo di rilassarci un po' a casa.”
“Aggiudicato!” Alberto allungò la mano per stringere l’accordo, per poi dirigersi verso il suo ufficio con un enorme sorriso stampato in faccia.
E a Marco non rimase altro che scuotere la testa, prima di riprendere il lavoro e quelle maledette e-mail.


*



Alle tredici in punto spense il computer e si avviò verso l’uscita per il solito rito: pasto in mensa e passeggiata fino al cimitero. Se avesse condiviso con qualcun altro queste sue giornate era certo che l’avrebbe preso per pazzo, e il fatto che ormai fosse chiaro anche a lui era un segnale d’allarme. Eppure non voleva andare altrove; certo, non era normale che passasse tutto quel tempo in un luogo così triste e solitario, ma la verità era che si sentiva in pace, tranquillo. Dalla mensa erano appena due chilometri, e lui li faceva sempre molto volentieri; aveva la possibilità di pensare e di godersi quelle giornate invernali, che poi tanto rigide non erano.
Pensava a sé e a quello che doveva fare, a Elisa, al lavoro, alla sua famiglia che non sentiva da tanto, a un cane che aveva intravisto in una vetrina e che desiderava comprare. Pensava, e questo lo faceva stare bene. Come anche andare al cimitero e incontrare le solite persone.
A quell’ora c’era sempre una signora piuttosto anziana che passava il tempo a lucidare la lapide. Con una scopa in mano, spazzava le foglie secche rivolgendo delle occhiate torve alle povere piantine, come se fosse colpa loro. A quel punto prendeva un panno bagnato e, con quella poca forza che aveva, cercava di togliere tutte le macchie. Infine, completamente soddisfatta, sorrideva a un uomo. A suo marito. Giovanni era morto giovane e in quella foto sorrideva felice.
Percorsi duecento metri, Marco scendeva le scale e girava a destra. Lì c’erano due sorelle che avevano perso prematuramente la loro sorella minore. Stavano sedute e si tenevano per mano, con lo sguardo sempre in movimento, ma mai fisso sulla foto della lapide. Perché le sorelle minori dovevano aiutare le maggiori e stare con loro fino alla vecchiaia, non potevano morire perché un pazzo non si era fermato ad un incrocio.
A pochi passi da loro c’era poi il personaggio vero e proprio di quel cimitero. La regina indiscussa, ovvero la donna vestita in nero, sempre arrabbiata e sempre con il broncio. Ogni santo giorno litigava con il marito, per qualsiasi motivo. Pioveva, e lui sapeva quanto invece amasse il sole; non avevano fatto “Beautiful” perché lui non sopportava quel genere di soap opera. Ogni cosa, ogni avvenimento nella vita di questa strana signora era il risultato delle piccole vendette che si prendeva il marito anche dall’al di là. Lei era estremamente convinta di ciò e quindi gli urlava sempre tutto quello che aveva taciuto durante i loro anni di matrimonio.
E poi c’era la piccola fiammiferaia, la ragazza con cui lui parlava sempre e di cui non sapeva nome o altro. Tutte le volte la trovava già lì, e quando andava via lei invece restava. Come poteva andare a controllare il nome e la foto della lapide? Avrebbe fatto la figura del cafone e lei non lo meritava. Perché grazie a lei aveva cominciato a parlare nuovamente con Elisa, e non lo faceva piangendo o iniziando con le sfilze di “e se”, ma sorridendo. Sì, perché le raccontava quello che gli succedeva, e poi scherzavano insieme anche sulle cose banali. Succedeva tutto dentro la sua testa, non era reale, ma a lui non importava; era un inizio per andare avanti. Piccoli passi. Anche strascicati, ma sempre in avanti.
“Ciao.”
“Oh, guarda chi si rivede… il serial killer dei fiori, nonché mio personal stalker!” disse la giovane donna, scherzando.
“Non dirlo ad alta voce che poi mi arrestano, e se lo fanno, chi ti ruba i fiammiferi?”
“Il tuo discorso non fa una piega, come ho potuto pensare di incriminarti?” disse, per poi avvicinarsi e accendergli il cero. “Ecco fatto, ora lei ti può vedere.”
Piccole frasi, dette con una sincerità tale da spiazzarlo, ma che avevano la capacità di scuoterlo da quel torpore dal quale non riusciva a uscire.
La vide inginocchiarsi e allungare una mano verso il freddo marmo, per poi ritrarla subito dopo.
“Ti manca, vero?”
Non rispose subito, Marco era abituato a quei lunghi silenzi o alle volte in cui non si degnava neanche di replicare. Aveva imparato a conoscerla, sapeva che era il suo modo di reagire quando si avvicinava troppo a quella sottile linea rossa che era stata lei stessa a imporre.
“Domani non verrò più” disse, invece. La notizia lo sconvolse così tanto che, inavvertitamente, fece cadere uno dei garofani che aveva tolto, perché ormai secco.
“Come… perché?”
“E tu dovresti smettere di venire qua ogni giorno, devi uscire e rifarti una vita.”
Lentamente si era alzata e, recuperato il fiore da terra, aveva cominciato a giocherellarci.
“È morto anche lui. Ti ricordi quanto era bello qualche giorno fa? Così rosso e vivace.” Prima di proseguire aveva allungato la mano e fatto cadere il fiore in una delle tante pattumiere del cimitero. “Poi arriva quel giorno e ti accorgi che non puoi evitare quel momento, e allora muori, non puoi fare nulla, solo accettare gli eventi, anzi l’evento. Diventi solo una foto che col tempo perde colore, e alla fine sei solo una macchia indistinta. Sei polvere che il vento spazzerà alla prima bufera, capisci?”
“No, non capisco questi tuoi discorsi. Perché ora? Cosa è cambiato?”
Gli aveva sorriso teneramente. “Non ti servirà a nulla passare le giornate qui, in compagnia di una svitata. Dobbiamo andare avanti, e l’ho capito grazie a te. Per troppo tempo sono rimasta incatenata a questo luogo, perché non riuscivo a prendere una decisione. Ero spaventata, e non volevo allontanarmi dai posti che amo, o meglio dalle persone che amo; temevo di tradire la loro fiducia in quel modo. Sono stata una stupida invece, perché in questo modo ho solo fatto del male.
Devo smetterla di venire qua e di perdere tempo a parlare a una lapide, ma trovare il coraggio di proseguire nel mio cammino. Anche se ho paura e vorrei tanto fermarmi qui, continuare a sognare una vita.”
Parlava e giocava con uno dei suoi lunghi capelli, un gesto che serviva a calmarla e che aveva il potere di ipnotizzarlo ogni volta che lei lo faceva. L’umidità di quel giorno aveva reso i suoi capelli mossi, piccole onde che avrebbe voluto accarezzare, strofinarvi le dita.
In lontananza le sorelle avevano recuperato le loro cose in modo da avviarsi. Si tenevano per mano, sostenendosi. Quanto aveva desiderato anche lui la stessa cosa? Si era illuso di aver trovato un appoggio in lei, perché condividevano la stessa disperazione, quel dolore che gli strappava sempre gemiti e che, forse, l’avrebbe fatto sempre.
Quei giorni erano stati speciali per Marco, perché aveva trovato una persona come lui, disperata e sola quanto lui, e l’idea di essere abbandonato a se stesso come prima lo terrorizzava.
“Non siamo costretti a farlo ora, possiamo pensarci più tardi.”
“Credi veramente di avere tutto questo potere sul tempo? Quante volte hai rimandato qualcosa, dicendo che l’avresti fatta l’indomani e poi non ne hai avuto la possibilità? Io ho preso la mia decisione e mi sembrava giusto comunicartela, perché sei come me.”
Per la prima volta, nessuno dei due pensava al vero motivo che li aveva portati in quel cimitero; Marco non aveva ancora letto la sua quotidiana lettera a Elisa. L’aveva scritta in ufficio, quando aveva versato del caffè sulla tastiera, e aveva riso ricordando tutte le volte che l’aveva fatto lei. Rideva perché Elisa aveva cambiato più spesso tastiere che taglio di capelli, e puntualmente sorseggiava il caffè davanti al computer, consapevole di quello che sarebbe successo.
E nemmeno la donna aveva raccontato quello che le era successo, bisbigliato al freddo marmo le sue paure, sussurrato le sue richieste di aiuto. Quel giorno non era come tutti gli altri, e lo sapevano entrambi; erano arrivati a un bivio e lei aveva scelto una direzione piuttosto che un’altra: una scelta che l’avrebbe portata lontana da Marco.
“Voglio provarci, anche se ho paura, anche se forse quest’ottimismo non mi porterà da nessuna parte, ma mi è rimasto solo quello.”
Parole, speranze, forse illusioni.
La vide chiudere gli occhi, emettere piccoli respiri prima di aprirli e di sorridergli. Aveva deciso e sembrava felice, per la prima volta da quando l’aveva conosciuta.
“Vivi, vivi come se dovessi farlo anche per lei” gli disse, prima di baciarlo delicatamente sulla guancia. Dopodiché, Marco la vide allontanarsi e salire le scale, diventare un puntino sempre più lontano.
Era nuovamente solo.


*



“Sei con noi?” Alberto gli aveva messo di fronte una birra media, invitandolo a bere. Alla fine era uscito lo stesso, anche se la sua testa era altrove; da quando aveva varcato la soglia di quel locale, non aveva fatto altro che pensare alle parole che la donna gli aveva rivolto. Era troppo presto per smettere di pensare a Elisa, non aveva voglia di frequentare un’altra donna, perché… perché era sbagliato. Forse. I suoi stessi pensieri gli risultarono stupidi, dopotutto non c’era un tempo prestabilito per superare il lutto; c’era gente che non si risposava più e chi lo faceva quasi subito.
Gettò un’occhiata al pub e agli amici della sua tavolata: Alberto lo stava fissando sempre più preoccupato, mentre la sua comitiva rideva e scherzava, senza accorgersi di nulla. Osservò quelle persone e fu invidioso di loro, di quella felicità che condividevano. Si era allontanato da tutti ed era consapevole di averlo fatto volontariamente, per evitare domande e bugie.
Come stai? Bene, quando invece avrebbe voluto rimanere a casa e guardare la televisione.
Cosa mi racconti? Tante cose, e nulla. Sei mesi e solo lavoro. Non chiamava sua madre e sua sorella da parecchie settimane, e aveva ormai finito le scuse da raccontare loro, smettendo di rispondere al telefono; inviava solo brevi messaggi con il cellulare, per evitare di trovarle fuori dalla porta.
“Marco, stai bene?”
Guardò il suo migliore amico, l’unica persona che non lo aveva mai abbandonato, e per la prima volta rispose sinceramente.
“No.”
Non avrebbe più raccontato bugie a se stesso.


*



Rialzarsi dalla caduta non fu per nulla facile; per mesi era stato in quella situazione precaria, in un vicolo cieco in cui lui stesso si era infilato e dal quale non voleva uscire. Aveva capito di essere uno di quei tanti uomini disperati; uno dei tanti, appunto. Doveva reagire per Elisa, per la donna del cimitero, per la sua famiglia. E per se stesso. Doveva volerlo innanzitutto lui, altrimenti ogni suo sforzo sarebbe stato vano; si conosceva fin troppo bene, purtroppo.
Piccoli passi, come gli diceva sempre Alberto.
Il suo amico non aveva più preteso uscite serali, aspettando che fosse proprio lui a volerlo. Era stato anche fin troppo buono e paziente, e non si era mai lamentato, imparando ad accettare i suoi silenzi e riuscendo a interpretarli. Era una presenza costante e premurosa, come solo un vero amico riesce a essere. Arrivò poi il giorno in cui fu Marco a bussare alla porta di Alberto per invitarlo a fare una passeggiata fuori, e quel giorno, anche se era stato susseguito da mesi e mesi di solitudine, segnò l’inizio della sua guarigione.
L’inverno era finito, c’era stata la primavera e poi era finita anche quella. E Marco aveva perso le foglie e si era rivestito, come un vecchio albero, più forte di prima, riuscendo a ritrovare i colori che aveva perso.
Poi un giorno comprò alcune margherite e andò al cimitero; non lo aveva fatto per troppo tempo e ora si sentiva un uomo nuovo, aveva bisogno che anche lei lo vedesse. Le raccontò quei lunghi mesi tramite le lettere che non aveva mai cessato di scrivere.

14 Febbraio

È San Valentino, oggi. Ho ritrovato la felpa che ti avevo regalato; era nascosta in un cassetto, sotto un mucchio di vestiti che non ti ho mai visto usare. Diamine, è terribilmente brutta. Come ho potuto comprartela? Ho iniziato a ridere come uno scemo quando mi sono ricordato la tua reazione di allora. Mi avevi odiato per il mio cattivo gusto e poi mi avevi riempito di baci. Elisa… avevi ragione, ma soprattutto, come hai fatto a indossarla quel giorno a casa dei tuoi?

13 Marzo

Piove. Dai, non è giusto! Il meteo non ci azzecca mai. E tu non esserne felice, perché so benissimo quanto tu impazzisca per i temporali. Mi hai sempre preso in giro; eravamo una strana coppia: io saltellavo alla vista del sole, e tu ti precipitavi fuori in balcone per assaggiare la pioggia. Che poi con tutto l’inquinamento che c’è, non so che gusto avesse. Sei sempre stata folle. E io di te.

21 Aprile

Buon compleanno, Eli. Sono le dieci del mattino e non ho proprio voglia di stilare il preventivo che il mio capo sta aspettando da ieri. Non cominciare a dirmi che sono pigro! È uno di quei clienti strani, ha l’aspetto di un barbone a dire il vero, e non sembra minimamente interessato. L’ho capito subito! Solo che il mio capo ha insistito così tanto che alla fine lui si è ritrovato ad accettare la sua proposta di pensarci su. Cavolo, mi ha appena inviato una mail con il sollecito!
Ritorno a lavorare anche se vorrei continuare a parlare con te. Ancora auguri, amore.

2 Maggio

Sono stato promosso. Non ci credo ancora... cioè, so di aver messo le radici qua ultimamente, ma pensavo che il mio lavoro avesse risentito della mia mancanza di interesse. Alberto ha comprato una bottiglia di champagne, ovviamente l’ha messo sul mio libro spese. Lo so, è Alberto.
A proposito, sai che è sempre più distratto ultimamente? E credo di aver intuito il motivo: biondina, terza scrivania, a ore tre. Devo indagare, magari lo champagne mi aiuterà a renderlo malleabile!

8 Giugno

Perché ho accettato di andare a mare con quel pazzo? Ora capisco perché tu e Albe siete sempre andati d’accordo! Folli e istintivi, e io a corrervi dietro. Sono un cane, ecco l’ho detto.
“Passiamo una giornata al mare?” Io ero dubbioso, fa ancora freddo per farsi il bagno, ma lui ha cominciato a parlare senza fermarsi più, finché ho capito di alzare bandiera bianca. Siamo partiti tutti entusiasti e in spiaggia abbiamo trovato un meraviglioso temporale ad accoglierci.
È Giugno e io ho la febbre!

13 Giugno

Ti amo.

5 Luglio

Voglio vederti, Eli.
Voglio raccontarti il mio nuovo me.
Non ce la faccio più.



*



Loro non c’erano più, le sorelle, la signora in nero, e nemmeno la moglie di Giovanni. Nuove persone avevano preso il loro posto, uomini e donne di cui lui non conosceva la storia.
Ma era così importante, poi? No. Girò a destra e andò da lei.
Elisa era sempre lì, sorridente nella foto. L’aveva scattata durante una delle sue tante escursioni, quando si erano avventurati per vedere una diga dall’alto. Quanto avevano camminato! Il sole era forte e lei si era bruciata il naso come sempre, e lui l’aveva presa in giro.
Si avvicinò alla lapide e tolse quei fiori appassiti per sostituirli con quelli nuovi. Questa volta era necessario e non si stava comportando da killer seriale di fiori. Rise, pensando a quello scambio di battute, e poi parlò con lei. Lo fece per più di un’ora, fino a sentire l’esigenza di un bicchiere d’acqua. Non avrebbe dovuto smettere di venire, si sentiva colpevole e temeva che Elisa si fosse sentita abbandonata. Lui aveva pensato ogni momento a lei, continuava ad amarla come il primo giorno, ma aveva imparato a riconoscere le sue tracce. Era ovunque: nei luoghi che avevano frequentato, nei film che avevano visto insieme, e infine dentro di lui.
Elisa era nel sorriso di Marco, un po’ sghembo, a tratti amaro, ma mai finto. Non aveva più bisogno di andare ogni giorno a fissare un pezzo di marmo.
“Buongiorno” aveva detto una voce, e lui per un attimo pensò che si trattasse della piccola fiammiferaia.
Alzò lo sguardo di scatto, ritrovandosi di fronte una ragazza, dai tratti che a lui sembrarono familiari.
“Buongiorno a lei” si limitò a rispondere, sperando di riuscire a ricordare chi fosse.
“Credevo non avresti mai risposto al saluto, Marco.”
“Ci conosciamo?” Ora era nel panico più completo.
“Sono Anna. Lavoriamo nello stesso ufficio da anni, forse non mi hai mai notato, però io… beh, mi ricordo di te. Sei l’amico di Alberto, vero?”
Ecco, era la donna che l’aveva salutato sempre, e a quanto pare aveva una cotta per il suo amico.
Un’altra nella sua lunga lista, ma forse era meglio non dirlo.
“Non ti avevo mai vista qua” disse, invece.
La vide cambiare espressione improvvisamente, mentre allungava una mano verso i suoi capelli. Erano cortissimi e neri, e le donavano un fascino da folletto.
La sua domanda doveva averla innervosita perché cominciò a giocherellare con una ciocca e a non alzare lo sguardo da terra. Marco dubitava che quella fredda pietra fosse così attraente.
“È per mia sorella, l’ho sognata spesso ultimamente… e ieri mi sono svegliata in lacrime.”
Per la seconda volta nell’arco di una giornata, Marcò si sentì un cafone.
“Mi dispiace, non dovevo chiederlo. Mi sembra di non combinarne una giusta con te.”
Anziché mandarlo al diavolo, Anna gli sorrise. “Non fa niente, non potevi sapere.”
Perché lei non aveva domandato nulla a Marco, sapevano tutti cosa aveva passato e chi aveva perso.
“Come si chiamava?”
“Sara.” Con un gesto della mano, gli indicò la lapide vicina. E lui si avvicinò curioso, per vedere il volto della sorella. Nella foto, una ragazza dai lunghi capelli neri gli sorrideva, ammiccando verso l’obiettivo. Era la donna misteriosa, la piccola fiammiferaia.
“Era mia sorella gemella” continuò Anna, “anche se eravamo completamente differenti. Lei è sempre stata un tipo estroso e per tutta l’adolescenza ha fatto impazzire mia madre. Io ero la sorella secchiona e completamente imbranata con gli uomini. Però ci volevamo bene, ci capivamo ecco. E alla fine ci completavamo perché formavamo una squadra.”
“Com’è morta?” domandò Marco.
“Cancro, un anno fa. L’ha devastata, togliendole anche il suo grande ottimismo, perché lei l’aveva sconfitto, ce l’aveva fatta. Poi un giorno si è svegliata e ha cominciato a stare nuovamente male, lui era tornato. Era ovunque e alla fine si è portato via lei. Non ho potuto fare nulla, la fissavo, le stringevo la mano, ma era lei in quel letto d’ospedale. Lei, quella più forte e intelligente!”
Aveva cominciato a piangere, parlare con un estraneo gli aveva dato la possibilità di pronunciare ad alta voce i suoi sensi di colpa, perché il giorno del funerale aveva desiderato essere al posto di sua sorella. Era sola, non aveva amici e alcun talento, perché Dio aveva scelto Sara?
Marco rimase in silenzio dopo quello sfogo, alla ricerca delle parole giuste da rivolgerle.
Con grande calma prese il pacchetto di fiammiferi che aveva portato con sé e accese il cero, come avrebbe fatto Sara stessa. La fiammella tremò per qualche secondo, e Marco s’incantò per qualche secondo ad osservarla; una folata di vento la sfiorò, ma quella rimase fissa, forte, creando un gioco di ombre e luci sui fiori. Un petalo cadde giù, verso terra, iniziando a rotolare lontano da loro.
“Tua sorella ti amava e non dovresti parlare così. Scommetto che in questo momento si sta mordendo la lingua per trattenere il fiume di rimproveri. Amava la vita, ma non quanto te, e ora che lei è andata via, devi essere tu a tenere bada a tutti. Tu sei lei, Anna. Devi vivere per due persone.”
In lontananza suonava la sirena, il cimitero stava per chiudere.
Faceva caldo, troppo caldo e i fiori sarebbero appassiti entro qualche giorno, lasciando la tomba spoglia e priva di colori. Anche la fiamma si sarebbe spenta, perché era giusto così.
Marco si sarebbe recato a lavoro, avrebbe scherzato con quel buffone di amico che si ritrovava, e avrebbe risposto al saluto di Anna. Il sorriso di Sara gli suggeriva anche di invitare sua sorella a uscire. Forse. Un giorno, senza fretta.
Era solo, ma per la prima volta non aveva paura di quello che sarebbe successo l’indomani; sapeva che sarebbe stato qualcosa di incredibile, perché qualcuno gli aveva ricordato che bisognava lottare per la vita e che questa poteva essere ricca di sorprese.
Elisa e Sara gli stavano sorridendo; erano lì, con lui e Anna, erano dentro di loro. E sarebbero rimaste con loro. Per sempre.


Ed eccoci gunti alla fine di questa storia. Spero che abbiate capito ogni cosa e non vi stiate domandando se Sara è un fantasma oppure no. Perché altrimenti vado a seppellirmi!
Comunque il mio intento era scrivere una storia in cui i personaggi imparassero l'uno dall'altro, perché Marco aveva smesso di vivere, mentre Sara non voleva staccarsi dalla sua vita. Il lieto fine esiste e dobbiamo crederci! Lo so, sono strana e contorta. E anche un po' pazza.
Grazie e alla prossima storia... magari più allegra, eh!

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