It Should Have Been Me - Avrei Dovuto Essere Io

di Marika Jane Seven
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Avrei dovuto essere io.

Spalancai gli occhi e il mio sguardo guizzò subito verso la cifra rossa lampeggiante della mia sveglia. Le 05:59. Erano più di otto anni – cioè da quando ero stato preso all’NCIS - che il mio cervello sembrava avere imparato a svegliarsi un minuto prima che la sveglia suonasse. Non volevo certo deludere Gibbs.
Quella mattina, comunque, c’era qualcosa che non quadrava. Mi sentivo come se qualcosa mi avesse turbato e credo potesse essere un sogno che avevo appena fatto ma per qualche ragione non riuscivo a ricordare niente. Strano. Sapevo benissimo che accadeva spesso che al risveglio i sogni venissero dimenticati ma mi sembrava che questo stesse ancora vagando per il mio cervello in attesa di una spiegazione. Ero davvero turbato. Tirai fuori le gambe dalle lenzuola e misi i piedi nudi a terra. Di solito questo gesto valeva più di mille docce fredde – ero davvero sensibile al pavimento ghiacciato del mio appartamento – ma qualcosa mi diceva che questa mattina sarebbe stata diversa dalle altre. Appoggiai i gomiti sulle ginocchia e posai le mani sulle tempie. Cosa avevo sognato? Il suono della sveglia mi fece sobbalzare e tornai al presente. Qualsiasi cosa fosse che avevo sognato, se fosse stata davvero importante prima o poi mi sarebbe tornata in mente. Adesso dovevo concentrarmi e cominciare la mia solita routine prima di andare al lavoro. Gibbs non mi avrebbe perdonato se avessi fatto ritardo. Conoscendolo, sarebbe stato già lì a bere caffè aspettando di avere un incarico. Lo ammiravo per questo. Beh, lo ammiravo per tante altre ragioni ancora ma la sua dedizione al lavoro era davvero tra le prime tre. Se avesse saputo che tenevo una lista di cose per cui lo ammiravo mi avrebbe dato uno scappellotto.
Mi costrinsi ad alzarmi e mi diressi verso la cucina. C’era un bel po’ di confusione: ai vari piatti sporchi della settimana (avevamo indagato su un caso davvero complicato e non avevo potuto occuparmi delle pulizie) si erano aggiunti cartoni e buste del take-away cinese della sera prima e anche tre lattine di birra vuote. Avevo smesso di bere birra e alcolici in generale da quattro anni per condurre una vita più salutare ma, non so, ieri ne avevo sentito il bisogno. Forse perché finalmente avevamo risolto il caso di quel marine scomparso e la tensione si era allentata o forse perché nonostante gli sforzi di DiNozzo di “farmi avere una vita sociale”, come diceva lui, con Maxine non era andata bene. Eppure, sempre a detta di Tony, eravamo anime gemelle: io amo i videogames, lei detiene il record della maggior parte dei giochi di ruolo online a cui anch’io partecipo. Insomma, siamo due “nerd”. A quanto pare non è bastato. Due giorni fa lei mi aveva mandato un messaggio in cui mi chiedeva di vederci; aveva qualcosa di importante da dirmi. Per un attimo avevo temuto che fosse incinta, ma di certo non sarebbe stata opera mia dato che a quella fase non ci eravamo ancora arrivati. Avevo trovato un po’ di tempo mentre Tony e Ziva erano in perlustrazione a casa dell’ex moglie del marine che stavamo cercando e avevo detto a Maxine di vederci nella sala ristoro dell’NCIS. Con il senno di poi forse sarebbe stato meglio vederla almeno al bar fuori dalla sede: avrei evitato di rendermi lo zimbello di tutta l’agenzia federale. Sempre se, grazie a Tony, non lo fossi già. Avrei dovuto indagare.
Maxine mi aspettava già lì quando scesi a perdifiato con la camicia madida di sudore per le troppe ore passate seduto nella sala conferenze a mettere in comunicazione Gibbs con Al Qaida. Lei era splendida come sempre, stretta nel suo giubbotto di pelle e con la frangetta che le copriva gli occhi, cosa che le faceva da scudo quando si sentiva a disagio. Era seduta a un tavolino vicino la macchina per il caffè. A quanto pareva ne aveva già bevuto uno mentre mi aspettava, dato che giocava soprappensiero con il bicchiere di carta. Appena mi vide alzò la testa e mi fece un timido sorriso.
“Ciao”, disse.
Cominciai a riprendere fiato pensando che forse non era una brutta notizia quella che era venuta a dirmi con tanta urgenza.
“Ciao”, risposi e ricambiai il sorriso e mi chinai per darle un bacio sulla guancia prima di sedermi di fronte a lei. Mi sembrò che avesse sobbalzato, il che era strano dato che di solito ci salutavamo così.
Continuai a guardarla con un’espressione perplessa e questo forse la fece rilassare un po’ perché mi osservò e poi scoppiò a ridere.
“Tim, sei sempre così allerta. Stai tranquillo.” E forse lo sarei anche stato se nella sua voce non avessi colto una punta di apprensione.
“Hai ragione,” mi costrinsi comunque a dire e sospirai forte. “Allora, come stai? Voglio dire, è successo qualcosa? Mica qualcuno ti minaccia ancora per i codici cifrati che hai scoperto?”
“No, no. Certo che no. Quella ormai è una storia chiusa. Grazie a te.” Mi guardò cercando di capire se finalmente mi fossi rilassato o meno. Non lo ero.
“Grazie a tutta la squadra. Gibbs ha un suo modo personale di avere a che fare con i computer”, dissi, ricordando come il mio capo aveva fermato il programma che avrebbe potuto hackerare i firewall del Pentagono: aveva sparato a tutti i computer trovati nella stanza del programmatore. Mio malgrado, sorrisi.
“Vero. Ma è stato efficace.” Maxine si portò una ciocca dei capelli biondi dietro l’orecchio e si aggiustò la frangetta. Adesso era di nuovo lei a essere a disagio. Non ne potevo più.
“Quindi…se non è niente che ha a che fare con minacce informatiche, cosa c’è di così urgente?”
Lei sollevò di colpo lo sguardo e sembrò ferita dalla mia domanda diretta e priva di tatto. Diamine, detestavo ammetterlo ma aveva ragione Tony: non ci sapevo proprio fare con le donne.
“Sai, potrei essere qui solo perché è più di una settimana che non ci vediamo o almeno sentiamo e potrei aver sentito la tua mancanza.”
Oh. “Beh, questo è bello. Cioè, non è bello che non ci sentiamo o vediamo ma è bello che hai sentito la mia mancanza.” Iniziavo a blaterare. Perché è così difficile farmi capire?
Maxine mi guardò incerta. “E tu?”
Io? “Ehm…cosa?”
Fece un altro sorriso timido, uno di quelli che volevano dire ‘lo sapevo’.
“Tim…hai detto ch’è bello che io abbia sentito la tua mancanza. Ma tu? Hai sentito la mia mancanza?”
Ah. Ecco dove voleva arrivare. Strabuzzai gli occhi e rimasi a bocca aperta per quello che credo fosse qualche secondo ma mi sembrò un secolo. Non sapevo cosa dire e questo era sbagliato perché ovviamente la mia risposta avrebbe dovuto essere ‘sì, certo che ho sentito la tua mancanza. Mi sei mancata giorno e notte’…ma non era così.
Credo che anche lei lo avesse capito o forse lo sapesse già perché mi precedette e disse:
“Non sforzarti. Non sei bravo a mentire.” Sorrise ancora, un sorriso stanco stavolta.
“Tim, hai mai conosciuto una persona – no, una donna che fosse indispensabile per te? Se fosse così mi piacerebbe davvero vederla perché è evidente che non sono io. Da quello che mi hai raccontato sulle tue storie passate so che non ce n’è stata nessuna e speravo potessi esserlo io ma a quanto pare non è così e non credo potrà mai essere possibile. Essere simili non basta. Però, Tim, è quello di cui ho bisogno adesso: di sentirmi indispensabile per qualcuno che voglia vedermi e sentirmi anche s’è occupatissimo con il suo lavoro e che quando mi veda la prima cosa a cui pensi è ‘voglio stringerla, mi è mancata’ e non darmi un semplice bacio di saluto dato quasi di riflesso. Mi sbaglio?”
L’avevo ascoltata con gli occhi ancora spalancati. Cercavo davvero di pensare a Maxine nel modo che lei desiderava e alla sua domanda avrei voluto rispondere che si sbagliava ma la realtà è che aveva ragione, non era indispensabile per me. Tony avrebbe avuto altro materiale per prendermi in giro.
Maxine continuò: “Okay, ho capito. La tua espressione spiega benissimo come ti senti.” Fece per alzarsi e prese la sua borsa con le spille del videogame che adoravamo entrambi.
Finalmente mi riscossi dai miei pensieri. “Mi dispiace, Maxine.” Mi alzai anch’io e cercai di continuare a dirle quanto fossi davvero dispiaciuto ma lei mi fermò alzando una mano in segno di stop.
“Va bene così, Tim. Lo sapevo già ed ero venuta qui con l’intento di chiarire e lasciarti andare. In fondo non abbiamo un contratto di appartenenza l’uno all’altra e non credo che tu mi fermerai e cambierai idea.”
Si alzò sulle punte, appoggiò le mani alle mie spalle e mi baciò la guancia. Lasciai che le sue mani scivolassero lungo le mie braccia fino a prendermi le mani. Abbassai lo sguardo sulle nostre dita intrecciate e poi guardai Maxine. Anche lei mi stava fissando.
“Sai, spero proprio che troverai La Donna Indispensabile. Voglio vederti felice.”
“Anch’io voglio che tu lo sia.” Guardai di nuovo le nostre mani. Qualcosa mi diceva che non era giusto trovarmi in quella situazione con lei. Ancora una volta mi ritrovai a pensare che aveva ragione e che per lei non avevo provato niente più di un semplice affetto. Sciolse la stretta a una mano come se mi avesse letto nel pensiero e cominciò ad avviarsi tenendo ancora l’altra mano nella mia. Rimasi fermo immobile a guardarla finché non si fosse allontanata tanto che era impossibile continuare a camminare senza abbandonare la mia mano. Gliela lasciai. Era proprio così, non l’avrei fermata.
 
Uscii dalla doccia ancora frastornato per il vapore e i pensieri che mi affollavano la mente. Avrei dovuto liberarmene se avessi voluto continuare la stesura del mio prossimo romanzo giallo quella sera. Ammesso che al lavoro non ci fosse stato un nuovo caso. Controllai l’orologio a muro mentre mi tamponavo i capelli con l’asciugamano. Per quanto ci tenessi a essere impeccabile, mi sa che per quel giorno avrei fatto a meno del phon. Ero in ritardo. C’era decisamente qualcosa che non andava in me.
 
“Ehi McGhiro, oggi ti sei alzato dalla parte sbagliata del letto? O hai fatto la lotta con i cuscini con le tue amiche dello Sleepover Club fino a tardi? Ah, ma che dico? Tu non hai amici maschi, figuriamoci amiche!” Non ero neanche uscito dall’ascensore che subito Tony mi aveva intercettato e mi squadrava da capo a piedi. Nonostante la doccia e la corsa per arrivare in agenzia non ero ancora abbastanza sveglio per trovare qualcosa da controbattere.
“Buongiorno, Tony”.
“Io sono amica di McGee.” Ziva sedeva alla sua scrivania e, per quanto fosse divertita dalla battuta di Tony, era anche tanto leale nei miei confronti da prendere sempre le mie difese. Feci un sorriso trionfale mentre posavo lo zaino sulla mia scrivania. Guardai Tony e indicai Ziva con una mano.
“Grazie, Ziva.”
“Certo, non capisco una scopa dei suoi discorsi informatici ma non per questo non siamo amici.”
“Si dice ‘una mazza’, non ‘una scopa’.” Tony la corresse con il suo solito sorriso sornione a trentadue bianchissimi denti.
“Sì, beh, quello ch’è. Comunque io e McGee siamo amici. E per quanto possiate litigare e negarlo fino allo sfinimento, siete amici anche voi due. Sì, Tony,” lo additò mentre lui alzava gli occhi al cielo e io scuotevo la testa, “hai capito bene: siete amici. A te importa di McGee, altrimenti non ti saresti fatto in quattro per mettere una buona parola per lui con quella ragazza, Maxine.”
Oh. Oh. No, Ziva, non tirare fuori Maxine adesso. Non voglio che Tony l’aggiunga alla lista dei miei fiaschi.
Senza volerlo mi ero fatto sfuggire un sibilo e di colpo mi ritrovai entrambi i miei colleghi alla mia scrivania. Mi sedetti e feci del mio meglio per concentrarmi sullo schermo del mio computer fingendo di essere impegnato in un’operazione importante. Niente da fare, restavano fermi alla mia postazione e potevo sentire i loro sguardi folgorarmi.
“Cos’era quel verso, Tim? E’ successo qualcosa tra te e la bella ragazza informatica?” Era stato Tony il primo a cedere. La sua curiosità era senza fine.
“Ehm…io…”
“Lasciate stare McGee. Forza, marine morto trovato in un bosco dietro la casa del sergente Riley.” Era arrivato Gibbs, con il suo tono imperioso a darci istruzioni per il nuovo caso. Tony e Ziva avevano annuito e lasciato subito il loro posto vicino alla mia scrivania e si dirigevano a prendere i loro zaini. Tirai un forte sospiro di sollievo.
“Stai attento, McGee. Se continuerai ad essere così rumoroso la prossima volta non basterà un marine morto a salvarti.” Gibbs fece un segno con la testa in direzione di Tony. Aveva ragione. Ziva avrebbe potuto anche aspettare che fossi io a confessare, ma un altro sospiro del genere e per Tony sarebbe stato come un invito a nozze. Mi avrebbe messo alle strette.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


“Capitano Andrew Foster,” lessi sul display del dispositivo portatile per il rilievo delle impronte digitali.
Ziva e Tony perlustravano la zona in cerca di indizi e tracce di sangue mentre Gibbs stava finendo di interrogare i due giovani che avevano chiamato la polizia subito dopo aver trovato il corpo del capitano.
“Sai, Timothy,” disse il professor Mallard, mentre esaminava il cadavere cercando di capirne la causa della morte, “questo mi ricorda quando al college ci intrufolavamo nella proprietà dei professori per spiare la loro vita privata.”
“Ti intrufolavi in casa d’altri, Ducky?” Non potei fare a meno di sorridere al pensiero del giovane Mallard senza ancora fissazione per cravatte e farfallini che si introduceva furtivamente nelle abitazioni dei suoi professori.
“Oh sì, eravamo tanto curiosi, all’epoca, e non c’erano tutte queste diavolerie tecnologiche tipo Facebook per dirti cosa faceva una persona quando non lavorava.”
“Beh, professore, invece adesso anche lei è su Facebook.” Jimmy Palmer si era avvicinato a noi trascinandosi dietro la barella e ci guardava con il suo solito sorriso ingenuo.
“Lo ricordo bene, signor Palmer, ma non credo ci sia qualcuno che voglia sapere cosa fa questo vecchio scozzese nel tempo libero.”
Sorrisi di nuovo. Per quanto Ducky si potesse definire vecchio ero certo che la sua vita fosse più emozionante della mia. Stavo per dirglielo quando arrivò Gibbs.
“Allora, Ducky, hai scoperto qualcosa?” chiese chinandosi in avanti di fianco al medico.
“Sì, Jethro. La causa è stata più semplice del solito, stavolta. Sembra proprio che il capitano non abbia avuto il tempo di difendersi. Le uniche ferite sono quelle alla testa e sono, quindi, anche la causa della morte. Sembra sia stata ripetutamente colpita da un oggetto molto pesante.”
“Che cosa ci faceva il capitano nella proprietà del sergente Riley?” era stato Tony a parlare. Teneva ancora in mano la macchina fotografica ma dall’espressione che aveva sembrava poco soddisfatto della sua perlustrazione.
“Voglio dire, il sergente non è neanche in casa. Cosa voleva spiare?”
“Non sono certa che questa sia la scena del delitto. Non abbiamo trovato indizi rilevanti e non ci sono neanche molti schizzi di sangue intorno al corpo.” Ziva si guardava ancora intorno.
Il professor Mallard alzò la testa per sorriderle. “Hai ragione, Ziva. Infatti le strisce di sangue presenti sul collo e i vestiti della vittima sono incompatibili con la posizione in cui si trova. Se fosse stato ucciso qui o nei dintorni sarebbe crollato subito a terra lasciando una pozza di sangue solo vicino alla testa.”
“Dobbiamo, quindi, capire dov’è stato il capitano quando era ancora vivo.” Disse Gibbs. “McGee, torna indietro e controlla i tabulati del cellulare. Tony, Ziva, andate a casa del capitano.” Prese il cellulare e cominciò ad avviarsi verso la sua auto. Lo guardai.
“E tu dove vai, capo?”
“A cercare il sergente Riley.”
 
Niente di più facile. Ero tornato in agenzia e avevo subito scaricato i tabulati telefonici del capitano. C’erano chiamate effettuate al sergente e altre a un numero sconosciuto che poi avevo identificato come quello dell’ex moglie del capitano. Ricercai informazioni su di lei e chiamai Gibbs per aggiornarlo. Non avevo altri incarichi urgenti da sbrigare quindi decisi di scendere in sala ristoro per prendere un caffé. Avevo ancora la sensazione di non essere completamente sveglio e il sogno che avevo fatto occupava uno spazio sempre più grande nei miei pensieri. Perché non mi tornava in mente se era così importante? C’era una frase, soprattutto, che mi rimbalzava per la testa ma non riusciva a formarsi.
Tornai alla scrivania e mi tappai gli occhi con le mani sperando che, magari, mi sarei concentrato meglio. Niente da fare.
“Ehi, McGee, cos’hai? Nausea mattutina?”
”Ha-ha. Molto divertente, Tony.” Continuai a tenere le mani sugli occhi sperando che l’interruzione del mio fastidioso collega si fosse fermata lì. Ero troppo ottimista.
“Oh, dai, non prendertela, ma in questo momento sembri proprio una di quelle donne incinte che combattono l’istinto di correre al bagno a rimettere la colazione.” Rise tra sé della sua battuta ed ero certo che quella fosse solo la prima di tante che mi avrebbe rifilato se non lo avessi distratto. Pensai velocemente a come cambiare discorso.
“Perché sei qui, comunque? Non dovresti essere con Ziva a perquisire la casa del capitano?”
“Argh, non me ne parlare. La casa puzzava di marcio come se non ci avesse messo piede – o almeno dato una pulita – da quando Bush non è più presidente.” Intuii dal modo in cui aveva pronunciato le ultime parole che il ricordo delle condizioni dell’abitazione gli aveva fatto fare un’espressione disgustata. Mi venne da ridere. Tony, intanto, continuava con la sua descrizione. Non c’era modo di fermarlo.
“Era anche scattato l’allarme antincendio e c’era acqua ovunque. Mi sentivo quasi come John Cusack in 1408, il film tratto dal racconto di Stephen King.” Fece una pausa. Aspettava di sicuro che io mostrassi di conoscere John Cusack, il film, l’opera e Stephen King – cose che sapevo davvero ma non volevo dargli l’opportunità di dilungarsi. Speravo che prima o poi si fosse arreso.
“Comunque, Gibbs ha chiamato e ha chiesto a Ziva di raggiungerlo per interrogare il sergente e altri ufficiali. Non lo trovo giusto. Perché lasciare a Ziva tutto il divertimento? Gli interrogatori sono la mia specialità e l’ultima volta è toccato ancora a lei farli. Stavolta avrei dovuto essere io.”
Staccai di scatto le mani e aprii gli occhi. “Cos’hai detto?”
“Su 1408? E’ un film del 2007 diretto da Mikael Håfström…”
“Non quello, Tony! L’ultima frase!” esclamai quasi esasperato.
“Cosa? Avrei dovuto essere io?”
Avrei dovuto essere io. Era questa l’ultima e unica frase che ricordavo del sogno. Cosa significava? Avrei dovuto essere io a far cosa? Gli interrogatori? No, non era niente che riguardava il lavoro. Sentivo che riguardava qualcosa di personale, forse una donna.
La vibrazione del mio cellulare mi fece sobbalzare e i pensieri che finalmente cercavo di riordinare mi sfuggirono. Era Gibbs.
“McGee, scendi in laboratorio. Da Abby.”

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Mentre l’ascensore scendeva verso il piano inferiore in cui si trovava il laboratorio, non riuscivo a fare a meno di rimuginare sulla frase che avevo appena ricordato e che era stata anche l’ultima cosa a cui avevo pensato durante il sogno. Cosa riguardava? Tamburellavo con le dita sul corrimano in modo frenetico e se le porte non si fossero aperte in quel momento credevo che il cervello mi sarebbe esploso. Anni e anni di calcoli e nozioni informatiche non erano niente in confronto all’enigma personale davanti al quale mi trovavo. Qualsiasi pensiero mi ronzasse in testa, però, venne bruscamente rimpiazzato dalla musica assordante che proveniva dal laboratorio. Era tipico di Abby concentrarsi ascoltando canzoni heavy metal. Avanzai portandomi le mani a coprirmi le orecchie. La mia collega mi dava le spalle. La sua testa ondeggiava a ritmo di musica e i codini le dovevano sferzare il viso data la forza che stava imprimendo in quel movimento.
“Abby! Abbassa il volume!” Urlai. Ripetei la frase più volte ma senza risultato. Mi guardai intorno alla ricerca del telecomando dello stereo che per fortuna trovai subito. Premetti il tasto ‘Mute’. Ahhh, le mie orecchie ringraziano.
Abby si girò di scatto. “Ah! McGee, sei tu! Dov’è Gibbs? Lo sto aspettando.”
“Non è ancora tornato. Ha mandato me a vedere le novità che hai.” Mi avvicinai al bancone dove stava lavorando e le sorrisi. Abby ricambiò con uno sguardo vispo e raggiante che di solito significava che già aveva trovato tutte le informazioni necessarie a un caso.
“Allora” esordì, “non c’è mai stata nella mia carriera una ricerca più facile. Quasi mi dispiace di aver trovato così presto un riscontro. Sì, non guardarmi così, Timothy, arrivo subito al dunque.” Mi tirò una gomitata nel fianco in risposta alla mia espressione.
“Non c’è molto da dire, in realtà. Il capitano Foster è stato colpito con un comunissimo centrotavola. Come lo so?” Ingrandì delle foto sullo schermo del computer. “Perché dalle foto scattate alla testa del capitano si possono notare le iniziali di una nota marca di accessori per la casa. Chiunque l’abbia colpito, non ha pensato a scegliere bene il lato con cui farlo.” Si girò soddisfatta verso di me. Stavo ancora fissando l’ingrandimento della foto nel tentativo di mettere meglio a fuoco le iniziali. L’intontimento da sonno – e sogno – mi aveva annebbiato anche la vista. Quando mi voltai verso di lei, Abby aveva un’espressione accigliata.
“Tutto bene?” A quanto pare aveva notato che qualcosa non andava in me.
“Uhm, sì. E delle impronte digitali che mi dici?” Il mio misero tentativo di cambiare discorso non la convinse ma ‘il lavoro prima di tutto’.
“Per quelle sto ancora aspettando un riscontro. Ho esteso la ricerca dato che la prima interna alla marina non ha avuto nessun risultato.”
“Bene.” Di riflesso mi chinai verso di lei e le baciai la fronte. Stava quasi diventando un’usanza, ormai, premiare Abby in questo modo. Di solito era Gibbs a farlo ma ogni volta che lo sostituivo ero ben felice di poter assolvere anche a questo ‘dovere’. Abby era come una mascotte.
Per un attimo mi sentii completamente rilassato, come se avessi avuto una normale notte di sonno e un altrettanto normale risveglio e non avessi altri pensieri se non quelli legati al lavoro. Inspirai e l’aroma agrodolce dei capelli di Abby mi invase. Sì, mi sentivo proprio bene. Avrei voluto chiudere gli occhi e continuare a bearmi di quel momento. Mi resi conto di aver avuto un comportamento davvero strano quando sentii le dita calde di Abby posarsi sulla mia fronte. Incrociai il suo sguardo preoccupato.
“Sei sicuro di star bene, Tim? Mi sembri un po’ stanco.” Quella vicinanza inaspettata mi disarmò lasciando trasparire la mia confusione. Che mi sta succedendo?
“Sì, davvero. Tutto bene, tranquilla.” Riuscii a balbettare sorridendole.
“Uhm, se lo dici tu.” Stava per aggiungere altro quando le squillò il cellulare. Non feci in tempo a leggere il nome sul display che lei aveva già rifiutato la chiamata. Questo era decisamente un comportamento non-da-Abby.
“Chi era?” La mia curiosità era tanta che solo dopo aver fatto la domanda mi accorsi che non l’avevo solo pensata ma bensì detta ad alta voce.
Abby sembrava a disagio. Non solo, sembrava stesse arrossendo.
“E’…ehm…James.”
James? James chi? Ah, certo, la sua ‘nuova fiamma’. Ricordo che qualche settimana fa mi aveva già parlato di una nuova conoscenza con cui aveva cominciato a uscire. Abby iniziò a camminare avanti e indietro per il laboratorio, agitando le mani come quando parlava a raffica. La cosa strana, però, era che non stava affatto parlando. Incrociai le braccia e mi appoggiai al bancone.
“Abby? Vuoi dirmi qualcosa?”
Forse quella era proprio la domanda che aspettava perché mi guardò e subito iniziò a spiegarmi dell’ultima volta che aveva incontrato James, di cosa avessero fatto e cosa si fossero detti. Sentivo un peso gravarmi al centro del petto ma cercai di non farci caso. Un malessere fisico era proprio ciò che mancava in quella giornata! Strofinai la zona dove avvertivo dolore come se in quel modo potesse andar via e intanto continuavo a guardare Abby camminare e parlare senza sosta. All’improvviso mi si fermò davanti e mi bloccò la mano che avevo sul petto.
“McGee, mi ascolti? Non capisco. Non mi capisco. Questa volta sembra tutto così nuovo, così diverso. Forse è una cosa seria.” Disse le ultime due parole mimando con le dita libere il gesto delle virgolette. Abbandonò la mia mano che ricadde molle lungo il fianco e si coprì per un attimo il viso che le era diventato rosso. Abby era innamorata?
Lei, intanto, aveva ripreso contegno e si avvicinò di nuovo al computer come se non fosse successo niente. Balbettai un “bene” riuscendo ad abbozzare anche un sorriso e mi affrettai a uscire dal laboratorio. Premetti più volte il pulsante di chiamata dell'ascensore senza davvero capire cosa stessi facendo mentre sentivo il dolore al petto farsi sempre più intenso. Ero certo che Abby mi avesse confessato quelle cose non solo perché avesse bisogno di sfogarsi ma anche perché cercava il sostegno e l’appoggio di un amico. Non mi sentivo, però, nelle condizioni di poterle mostrare quanto mi facesse piacere per lei. Quando mi aveva detto cosa provava, la felicità non era per niente tra le emozioni che avevo provato.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Cosa c’era che non andava in me quel giorno? Ancora non riuscivo a capirlo.
Fu con grande sollievo, quindi, che non appena uscii dall’ascensore quasi andai a sbattere contro Gibbs. Certo, non ero sollevato per averlo urtato, ma lo ero perché mi diede subito nuove direttive e quindi la giornata proseguì senza che potessi lasciar vagare la mente verso pensieri che non riguardassero il lavoro. Non mi resi conto di quante ore avessi passato concentrato al computer finché qualcuno non mi fece trasalire buttando un sacchetto sulla mia scrivania. Avvertii un forte odore di kebab e il mio stomaco brontolò di riflesso. Pensandoci, non avevo messo qualcosa sotto i denti da almeno quattordici ore. Alzai lo sguardo e incontrai quello di Tony che stava in piedi davanti alla mia scrivania e mi guardava bevendo il suo solito tè freddo facendo rumore con la cannuccia.
“Vai a casa, McGee. Per oggi basta così.” Si girò e cominciò a prendere il cappotto e lo zaino dalla sua scrivania.
“Ma Gibbs -”
“Tranquillo, è stato lui a congedarci. E sinceramente non credo che riuscirai a fare molto se non ti riposi un po’.”
Beh, questa era nuova. Tony DiNozzo che mostrava interesse per la salute di qualcuno che non fosse se stesso o una bella donna. Presi la mia giacca, lo zaino e il sacchetto con quella che a quanto pareva sarebbe stata la mia cena e seguii il mio collega verso l’ascensore.
“Uhm…grazie, Tony”, dissi alzando la busta contenente il kebab.
Tony scrollò le spalle e fece un verso di risposta tenendo ancora la cannuccia tra i denti. Probabilmente era il suo modo per dire “non c’è di che”. Sorrisi. Non lo avremmo mai amesso, ma Ziva aveva ragione: eravamo amici.
Ci dirigemmo verso il parcheggio delle nostre auto riflettendo sugli ultimi risvolti del caso. La marca che Abby aveva trovato sull’arma del delitto non era poi così diffusa. Poteva essere definita una specie di “Ikea per pochi eletti”. Avevo scoperto che in tutta la città erano stati venduti solo venti centrotavola, il che restringeva di molto la ricerca. Purtroppo, essendo la casa di produzione molto discreta, non aveva ancora voluto rivelare i nomi dei clienti. L’indomani, però, una visita del mio capo avrebbe potuto far cambiare idea ai proprietari.
“Non voglio perdermi la scena quando Leroy Gethro Gibbs metterà al loro posto questi venditori con la puzza al naso!” Solo guardandolo, potevo capire che la mente di Tony già la immaginava, la scena, e ne era compiaciuto. Premetti il pulsante di apertura dell’auto che mi salutò facendo lampeggiare due volte le frecce. Salutai Tony e mi accinsi ad aprire lo sportello del guidatore. Con la coda dell’occhio, però, notai che Tony era ancora fermo vicino alla sua Audi e mi fissava. Stavo per chiedergli come mai non se ne andasse ma mi precedette.
“McGee, va tutto bene?”
Lo guardai interdetto e probabilmente anche lui capì il mio sguardo perché continuò spiegandosi.
“Voglio dire, sembri un po’ tra le nuvole, oggi. Non che di solito tu non lo sia – perché, credimi, lo sei spesso – ma di solito riesci a lasciare qualsiasi problema fuori di qui. C’entra per caso Maxine?”
Stavolta lo guardai quasi rincuorato. “No”, risposi calmo.
“Ma non ti vedi più con lei, dico bene?” il suo tono da investigatore cominciava a farsi sentire ma anche stavolta la mia risposta fu un tranquillo “No”.
“Beh, mi dispiace. Non conosco i particolari, ma sembravate molto simili.”
“Tony, non è per questo motivo che oggi ero tra le nuvole, come affermi tu.”
“Okay, okay”, disse alzando le mani in segno di resa. “Comunque vedi di tornare il solito McGranRottura.”
“Credevo ti desse fastidio”, risposi trattenendo un sorriso.
“Sì, ma è sempre meglio del McGnomoDaGiardino che sei stato oggi. Non sei utile né a te né a nessun altro.” Voleva farlo risultare un insulto, ma l’espressione divertita lo tradì. Cercava di scuotermi, cosa che di solito le sue battutine su di me riuscivano a fare. Alzai gli occhi al cielo e feci per entrare in macchina. Lo sentii ridere.
“A domani, Pivello.”
Tempo fa mi sarei offeso per il modo in cui pronunciava quel nomignolo ma ormai avevo capito che era così che DiNozzo dimostrava stima e affetto. Scossi la testa ridendo a mia volta e misi in moto l’auto.
 
Non appena entrato in casa lasciai andare un sospiro. Che fosse di stanchezza o di sollievo per la fine della giornata non saprei dirlo. Probabilmente era un po’ entrambe le cose. Divorai il kebab offertomi da Tony e solo dopo mi resi conto di aver mangiato ancora vestito in giacca e camicia. Era un miracolo che non le avessi sporcate. Indossai una maglietta e il pantalone della tuta e decisi che per quella sera sarebbe stato meglio non accendere il computer altrimenti mi sarei fatto prendere da qualche gioco di ruolo online e avrei potuto dire addio a una notte di riposo che invece corpo e mente mi richiedevano.
Nonostante le premesse, però, non riuscii ad andare subito a letto. Affondai le mani nelle tasche dei pantaloni e percorsi con lentezza avanti e indietro il corridoio dell’appartamento. Arrivato alla porta del bagno, la vista del bicchiere con dentro due spazzolini mi fece all’improvviso venire in mente una discussione che avevo avuto con Maxine qualche giorno prima che smettessimo di vederci.
Aveva finito per passare la notte a casa mia dato che avevamo perso la cognizione del tempo sfidandoci a un gioco online (se Tony lo avesse saputo, avrebbe dubitato ancora delle mie capacità di seduzione). Preparai il divano in modo che potesse fungere da letto occasionale per me mentre lei si cambiava in bagno con una delle mie magliette che le avrebbe fatto da pigiama.
Mentre aspettavo che finisse, cominciai ad arrovellarmi il cervello cercando di trovare le parole giuste che la convincessero che non le avrei fatto niente e che poteva dormire tranquilla. Ero così preso dalla preparazione del mio discorso che non mi accorsi della testa bionda che aveva fatto capolino dalla porta del bagno.
“Hey, Tim, mi ascolti?” mi chiese per quella che molto probabilmente era la terza volta.
“Oh…oh! Sì! Cosa c’è?”
Il mio sguardo allarmato la fece ridere.
“Tranquillo, volevo solo sapere se posso usare questo spazzolino, dato che ne hai due e sull’altro c’è scritto il tuo nome. A proposito, molto carino. Sembri un bambino delle elementari che mette le etichette alle sue penne.” Rise ancora ma si aggiustò meglio la frangetta sugli occhi, segno che nonostante la battuta anche lei era un po’ imbarazzata per la situazione in cui ci trovavamo.
Potei sentire le mie orecchie farsi rosse per l’imbarazzo e balbettai in maniera sconnessa quello che avrebbe dovuto essere un sì. Solo qualche istante dopo, però, capii davvero cosa mi aveva chiesto.
Scattai su dal divano e corsi verso il bagno. Spalancai la porta e vidi Maxine trasalire. Aveva ancora in mano lo spazzolino. Le afferrai il polso.
“No!” Avevo quasi urlato e non era certo una cosa da me. Maxine era immobile e mi guardava quasi spaventata. Cercai di farla rilassare sorridendole.
“Scusami. Ripensandoci, non puoi usare lo spazzolino. Scusa.”
“Oh, certo…va bene.” Lo sguardo di Maxine era ancora un po’ incerto e smarrito ma non chiese altro. Sapeva che, trattandosi di me, quel rifiuto sarebbe potuto essere un’altra delle mie innumerevoli manie.
 
Scossi la testa ripensando al mio comportamento di quel giorno. Mi avvicinai alla mensola su cui tenevo il bicchiere, presi lo spazzolino e cominciai a rigirarlo tra le dita. L’unica persona che lo avesse mai usato era stata Abby. Ogni tanto, quando la pericolosità di un caso la allarmava o semplicemente perché sentiva il bisogno di stare con qualcuno che la conoscesse bene, veniva a trovarmi. Passavamo le notti a parlare: lei mi confidava ogni suo dubbio e timore sulla riuscita dell’indagine e io la rassicuravo. Quando, poi, riusciva finalmente a calmarsi, i nostri discorsi cominciavano a variare fino a non avere più un senso. La maggior parte delle volte finivamo per ridere di noi stessi e a prenderci in giro a vicenda.
Riposi lo spazzolino al suo posto, a fianco al mio.

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