Diagnosi: riservata.

di HarryJo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Advisory: I'm lost and I'm found. ***
Capitolo 2: *** Breathe, breathe in the air. ***
Capitolo 3: *** Tell me when the kiss. ***
Capitolo 4: *** You're simply not in the pink. ***
Capitolo 5: *** I took a walk down a road. ***
Capitolo 6: *** I can't write a love song. ***
Capitolo 7: *** After all it was a great big world. ***



Capitolo 1
*** Advisory: I'm lost and I'm found. ***


Diagnosi: riservata.

 
 

∞ Advisory ∞

 

Le ragazze non possono fare a meno di pensare a quanto sarebbe bello dimagrire un po’. Anche chi è in forma, ha un fisico perfetto e non dovrebbe godere di certi problemi, si ritrova a dire spesso: “Devo mettermi a dieta, maledizione!”, ignorando quale sia, la vera maledizione.
Perché avere qualche chilo in più può sembrare una disgrazia, qualche volta. È una tortura mangiare quel poco che serve e vedersi ingrassare sempre di più.
Ma nessuno pensa che può esserci un altro male, molto ben più grave.
Immaginate, per un momento, di avere un fisico perfetto. Di essere magre al punto giusto, proprio come vorreste essere quando pensate di avere qualche chilo di troppo. E fantasticate anche sul fatto che Dio, o il Destino, o qualsiasi entità che si annida nei meandri dell’universo, vi abbia fatto dono di un regalo prezioso: potete mangiare quanto vi pare e piace senza mettere su nemmeno un etto. Sarebbe bellissimo, non è vero?
Bene, continuate ad usare la vostra mente e a focalizzarvi con questo essere perfetto. Siete voi, quella ragazza lì. Mangiate tantissimo, il doppio di quanto avete mai sognato di fare, di ogni squisita pietanza. Vi abbuffate a tutte le ore, come se niente fosse, perché non dovete più preoccuparvi della vostra dieta, finalmente.
Poi un giorno vi andate a pesare. Per sfizio, sì, tanto sapete che non dovrete storcere il naso per una volta tanto vedendo il numero sulla bilancia.
E invece infatti, vi si ritorcono le budella.
Siete dimagrite.
La cosa vi sembra talmente strana che non potete fare a meno di andare a mangiare, ancora e ancora, e poi di andare a pesarvi, ancora e ancora, ma continuate a perdere peso.
Che ne dite di ritornare sul vostro mondo? Qualche chilo in più non sembra così male ora, non è vero?
Oppure continuate a leggere. Perché questa è la storia di una diagnosi riservata. Il verme solitario ha paura di questo romanzo, e ne avrà anche la vostra bilancia.
Siete ancora in tempo per tornarvene nel vostro mondo.

 

 

∞ Prologo ∞
 
I’M LOST AND I’M FOUND,
AND I’M HUNGRY LIKE THE WOLF.
“Hungry like the wolf”, Duran Duran, Rio, 1982.

 
 

E

 
ra normale per me svegliarmi con due occhiaie enormi sotto agli occhi, alla mattina, e infatti perdevo la maggior parte del tempo che avevo prima di prendere l’autobus proprio per nascondere le imperfezioni con un po’ di fondotinta e fard. Il trucco salvava ogni giorno della mia vita da quando soffrivo d’insonnia, cioè, praticamente da sempre. Per me era difficilissimo riuscire ad addormentarmi alla sera, ma la sveglia, purtroppo, suonava inesorabile alla mattina presto e quindi dovevo per forza di cose alzarmi dal letto per dirigermi a scuola, anche se avevo dormito solo poche ore. La media era di quattro, cinque al massimo a notte e per la prima e la seconda ora non riuscivo mai a tenere gli occhi aperti, le palpebre erano pesanti e le parole dei professori non passavano nemmeno per l’anticamera del cervello.
Non mi ero mai preoccupata di questo, talmente abituata a viverlo come se fosse normale da non vederci nulla di strano. La mia preoccupazione, invece, stava nel non riuscire a ricordare proprio nulla di quello che spiegavano in quelle ore a scuola, perché la mia mente era completamente appannata dal sonno, e prendere appunti si rivelava un’impresa fin troppo difficile. Non che questo mi facesse stare male o sentire in colpa, tutt’altro, ma era il fatto che molte persone si accorgevano di quanto bisogno avevo di un cuscino in quei momenti, e poteva risultare scomodo. Una volta la professoressa mi aveva persino chiesto se c’era qualcosa che non andava. “Hai gli occhi di una che ha pianto per giorni,” mi aveva detto, “ti ha per caso lasciato il tuo ragazzo?” Io le avevo semplicemente risposto che sarebbe stato bello, ma ero completamente single da più di un anno, ormai.
Non avevo avuto molti ragazzi fino ad allora, cinque in tutto, due dei quali erano semplicemente i “morosetti” che ogni ragazza si trova alle elementari. Con Andrea, uno dei due, avevo addirittura inscenato un matrimonio, in cui avevamo mandato anche gli inviti. Ovviamente appena iniziate le scuole medie praticamente nemmeno ci parlavamo più. Mi ero sempre chiesta se l’annullamento della nostra unione fosse stata riconosciuta da tutti o se in un futuro prossimo avrei scoperto di dover convivere con quel ragazzo per tutto il resto della mia vita.
In quel momento ero da sola, ma questo non significava che non ero innamorata. Oh, sì, lo ero eccome, ormai da due anni. Avevo conosciuto Francesco ad una festa di una mia amica e subito mi ero trovata benissimo a parlare con lui; nel giro di qualche mese eravamo diventati inseparabili, migliori amici. Ma non c’era stata nessuna svolta di nessun tipo nel nostro rapporto: lui si era preso una decina di cotte in quegli anni, mentre io segretamente mi ostinavo sempre e solo su una persona. Su di lui.
Non che lui se ne accorgesse, chiaramente: come tutti gli esseri maschili esistenti in questo pianeta il suo unico interesse era rivolto lontano mille miglia dai miei occhi. Ero quasi giunta alla conclusione che lo facesse apposta ad innamorarsi di altre. Più io mi avvicinavo, più lui non mi vedeva. Ma non mi lamentavo troppo, a me andava bene anche solo stargli vicino. Per capriccio, sì.
Chiara, la mia migliore amica, non riusciva a fare a meno di dirmi che dovevo prendere tutto il coraggio che avevo in corpo e dichiararmi una volta per tutte: secondo lei saremmo stati perfetti insieme. Io tre volte su due la zittivo perché non volevo illudermi, le dicevo che non potevo piacergli. Dopotutto avevo un carattere abbastanza difficile e non ero nemmeno poi così bella. Quando glielo dicevo, lei mi rispondeva: “Scherzi? Ma ti sei vista? Guarda che fisico perfetto che hai! Io pagherei per averlo come il tuo.”
La odiavo. Quando faceva così la detestavo sul serio.
Era vero, non potevo lamentarmi di nulla. Il mio fisico era magro e abbastanza slanciato, proprio quello che invidiavano tutti. Quando avevo quattordici anni tutti mi dicevano che sarei diventata una buona candidata per Miss Italia con quella silhouette, ma sinceramente a me non importava. Innanzitutto odiavo il programma e poi non mi ritenevo un granché. Anche se il fatto di poter mangiare quanto mi pareva non era una brutta cosa. Non avevo mai provato una dieta in vita mia, e mangiavo tantissimo, il doppio di quello che facevano gli altri. Mi abbuffavo, letteralmente, e mi sentivo anche sempre e costantemente a stomaco vuoto. Le mie amiche continuavano a dirmi che non era giusto, che anche loro avrebbero voluto essere così, ma le liquidavo sempre con un timido sorriso.
In realtà ne ero assai contenta. Era una delle poche cose che mi andavano a genio del mio essere, il fatto che ogni cosa che facessi non influisse sulla mia corporatura. I ragazzi non mi guardavano, ma mi ammiravano, lo vedevo. Era una bella sensazione, anche perché il mio volto era anche guardabile, quindi tutto sommato mi ritenevo una ragazza carina, molto di più di tante mie amiche.
Stavo bene col mio corpo, sì. Fino a quel giorno.
Non credo che ci fossero altre cose che mi dessero più fastidio del sentirmi rivolta la fatidica domanda: “Ma sei dimagrita?”, o peggio ancora: “Sei anoressica?” – ovviamente chi mi chiedeva quest’ultima cosa non mi aveva mai vista mangiare, altrimenti non gli sarebbe mai nemmeno passato per la mente di chiedermelo. Io rispondevo sempre con tono distaccato: “No, sono sempre stata così – No, mangio un sacco e non ingrasso”, con una punta di risentimento nella voce. Quando mi domandavano quelle cose mi sentivo male perché intaccavano il mio corpo, quello che probabilmente era la mia unica soddisfazione. Ci tenevo, per me era impensabile lasciare che gli altri si permettessero di insultarlo in quel modo, anche volontariamente.
Quel giorno – il giorno in cui tutto cambiò, il giorno che segnò la mia vita, il giorno che rovinò ogni cosa – non pensavo che sarebbe andata a finire così.
Ero con mio padre, in cucina, che stavo mangiando il dolce. Il mio pranzo aveva previsto i soliti 150 grammi di pasta al salmone, un hamburger con patatine, una banana e una fetta di tiramisù.
“Arianna,” mi disse mio padre. Alzai lo sguardo verso di lui e vidi che mi stava squadrando male, come se stesse cercando di mettere a fuoco qualcosa senza gli occhiali.
“Sei dimagrita,” disse pacato. Non era una domanda, era un’affermazione. Mia madre subito posò la forchetta nel piatto e tutti puntarono gli occhi sul mio volto, mio fratello compreso.
Mi sentii davvero male in quel momento perché nessuno della mia famiglia mi aveva mai detto nulla del genere. Subito mi misi sulla difensiva, senza dar modo loro di parlare o di ribattere.
“Sono sempre stata così, smettila.”
“No,” insistette lui. “Sei dimagrita, vai a pesarti.”
Lasciai la fetta di tiramisù sul piatto, arrabbiata, e mi diressi verso il seminterrato. Lì la luce era fioca e ci misi un bel pezzo a trovare quella maledetta bilancia, che era stata coperta da svariati scatoloni. Si vedeva che nessuno l’aveva più usata da un bel pezzo semplicemente dal fatto che molta polvere ne ricopriva la superficie. Su un lato di un muro era appeso un foglio con scritte tutte le misurazioni che avevamo fatto, soprattutto per tenere sotto controllo il peso di mio padre, che doveva dimagrire di almeno una decina di chili. L’unica che per più di tre anni aveva sempre il peso invariato ero rimasta io, che riportavo sempre il numero 45 svogliatamente da quando avevo dodici anni. L’ultimo numero risaliva a sei mesi prima.
Accesi la bilancia e mi misi sopra, già pronta a scendere per segnare l’ennesimo 45 all’elenco, ma dovetti aspettare un bel pezzo prima di riuscire a prendere un pennarello per segnare i miei chili.
Perché non erano più quarantacinque.
La bilancia doveva sbagliarsi, per forza. Non poteva essere vero, tutto quello non aveva benché il minimo senso.
Eppure il numero era lì, incontestabile, chiaro e preciso nel display.
 
42,50.





{ Spazio HarryJo.

Buonsalve a tutti, come state?
Lo so, vi sono mancata. *passano palle di fieno*
No, okay, non è vero, ma a me invece siete mancati tutti voi, dal primo all'ultimo, perciò sono tornata a infestare EFP con i miei bellissimi racconti allegri. *passano altre palle di fieno*
Quiiiindi, spiegazioni: Diagnosi: riservata nasce da un mio incubo ricorrente. Sì, siete stufi marci del mio self-insert, e lo capisco, ma a parte il fatto che Arianna è magra e che è innamorata del suo migliore amico vi posso giurare che in questa storia non troverete altro di me in lei. Promesso. In caso sapete che potete uccidermi.
Come potete vedere ho recuperato la voglia di usare testi di musica anni 70/80 per iniziare i capitoli, così spero anche di trasmettervi un po' d'amore per questa musica.
Per chi si sta domandando che ci faccio io a iniziare una nuova long originale con in sospeso Nient'altro importa... eh, dovete sapere che Nient'altro importa si è rivelata molto difficile da proseguire, per una serie di motivi che non vorrei elencarvi sennò vi annoierei. Pertanto, ora come ora è TEMPORANEAMENTE SOSPESA. Tornerò a dedicarmici quando riuscirò ad essere più libera da tante altre cose. In questo momento rituffarmi nei ricordi di un incendio non sarebbe molto utile per me.
Tornando a parlare di questa nuova long, è nata come idea per un libro ma poi, a causa dei vari impegni e altri progetti in corso (sto scrivendo già un libro abbastanza impegnativo e prendo costantemente appunti per un altro) ho deciso di non buttarla via e di pubblicarla qui su EFP. Gli aggiornamenti saranno regolari, ogni giovedì salvo imprevisti, ma non la abbandonerò dato che è quasi completamente già tutta scritta.
Bene, credo d'aver finito, potete tornare a fare tutto quello che stavate facendo prima di incappare qui. Vi ricordo solo che sono contattabile (per qualsiasi insulto o domanda) qui:
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A presto belli. Se avete il coraggio di lasciarmela, una recensioncina è più che gradita da parte mia.
Ci sentiamo il prossimo giovedì con il primo capitolo.

Erica

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Capitolo 2
*** Breathe, breathe in the air. ***


∞ Capitolo primo ∞
 
BREATHE, BREATHE IN THE AIR,
DON’T BE AFRAID TO CARE.
“Breathe”, Pink Floyd, The dark side of the moon, 1973.

 
 
 

I
 

l profumo dell’erba fresca raggiungeva le mie narici ed io ispiravo a fondo senza voler pensare ad altro se non a quanto era raro e importante sentire quell’odore. Mi ero distesa sul giardino vicino al Sile, ignorando bellamente il cartello che recava la scritta non calpestare l’erba. Dopotutto chi aveva inserito quel cartello doveva averla pur calpestata, no? Quindi se l’aveva fatto lui io non mi ritenevo da meno. E poi non mi importava, in quel momento, di venir sgridata o multata per una sciocchezza simile: non si deve pagare perché si vuole vivere. Respirare quell’odore, infatti, per me era la più grande forma di vita che potessi desiderare.
L’acqua del fiume quel giorno era incredibilmente limpida, come se fosse stata appena depurata. Rifletteva l’azzurro caldo del cielo ed accoglieva alcune anatre che continuavano a nuotare avanti e indietro, come alla ricerca di qualcosa. Mi piaceva soffermarmi a ipotizzare che cosa stessero pensando in quel momento: cercavano del cibo? Oppure stavano facendo una gara come se fossero in una vasca di una piscina? E in quel caso, quale sarebbe stato il premio finale? Di sicuro le anatre non avevano medaglie che potevano sfoggiare in giro per dimostrare di esser le migliori.
Una di queste, un po’ più piccola rispetto alle sue compagne, restava ferma in un angolo a guardare il suo riflesso nell’acqua e a studiarsi. Anch’io spesso lo facevo, quando vedevo me stessa rispecchiata in uno specchio, sul retro di una pentola o al mare: cominciavo a chiedermi quale fosse la vera me, se la debole rifrazione oppure quella in carne ed ossa. Una volta, mentre mi rimiravo nell’acqua marina alla ricerca di una risposta a quell’inutile domanda, era arrivato un pallone giusto a colpire quello sprazzo di riflesso del mio volto, costringendolo a svanire in tante piccole onde. Avevo subito pensato che avessero appena ucciso una parte di me e che da allora non sarei mai più riuscita a vedermi nell’acqua. Dopo qualche minuto avevo scoperto subito che non era così, ma, nonostante ciò, per me non era più lo stesso; avevo il terrore di esser di nuovo colpita e di svanire tra le onde.
Mentre continuavo a pensare a quello, cominciai a sentire un brontolio allo stomaco e sospirai, triste. Avevo fame, di nuovo. Ormai era diventata quasi una tortura questa orrenda insaziabilità. I latini avrebbero definito il mio stomaco “vastus”, esattamente come Sallustio aveva definito l’animo di Catilina nel suo celeberrimo ritratto: grande e mai completamente pieno, mai soddisfatto.
Guardai l’ora e con un piccolo sbuffo mi alzai dalla comodissima posizione che avevo ormai assimilato e mi rimisi a posto la felpa, togliendo qualche ciuffo d’erba che vi era rimasto impresso, pronta per prendere la corriera e andarmene a casa. Raccolsi lo zaino da terra e me lo issai sulla spalla destra, distrattamente: un gesto talmente meccanico e abituale che nemmeno mi rendevo conto di compiere.
Mi recavo spesso, lì. Non ricordo esattamente quale fosse stata la prima volta in cui mi sia seduta in quel prato a pensare, in silenzio con i miei pensieri. Era uno dei pochissimi posti in cui riuscivo a stare calma in tutta Treviso, senza l’ansia costante di dover per forza parlare, stare attenta a dove mettere i piedi, preoccuparmi di non andare addosso a nessuno. Lì potevo appoggiarmi a terra, guardare il fiume o il cielo e respirare, semplicemente. Mi ero accorta solo poco tempo prima di quanto fosse bello respirare e l’avevo assunto quasi come fosse una specie di hobby, insieme ad ascoltare la musica anni Settanta/Ottanta e strimpellare distrattamente la chitarra fingendo di essere davvero brava.
Respirare, semplicemente.
Potete darlo per scontato, dopotutto è un gesto involontario che compiamo tutti, bambini, giovani, adulti, anziani, indistintamente. Eppure come respiravo io non respiravano in molti, perché mi sentivo più viva che mai, più consapevole che mai di esistere in un frangente di spazio e tempo in cui tutti erano troppo impegnati a recarsi a lavoro, a scuola, a casa, a guardare quel telefilm o a giocare a quel videogioco, per rendersi veramente conto di esistere.
La mente dimentica certe sensazioni. Comincia a darle per scontate, a sottovalutarle e quindi a obliarle in qualche punto remoto dei pensieri. Respiro, cammino, parlo. Non vi rendete mai conto di quanto sia a dir poco sensazionale tutto questo? No, siamo troppo immersi a vivere la nostra vita per renderci conto di come la viviamo.
Io invece avevo cominciato a farci parecchio attenzione. Per quello spesso cercavo uno spazio per restare da sola; non che non amassi la compagnia, ma la solitudine mi rinfrancava. Mi permetteva di ascoltare me stessa e i pensieri che nessun altro avrebbe mai potuto sentire.
Così utilizzavo quei giorni vuoti, quelle ore perse, quei momenti rubati a qualsiasi altra occasione: respirando la mia vita, chiedendomi se davvero ogni giorno mi perdevo così tante cose, nella fretta di riuscire a competere con il tempo. A volte, come quella mattina, non mi rendevo conto dei minuti che passavano, e prendevo la corriera proprio per un soffio, dopo una corsa a perdifiato.
Tagliavo la strada attraverso vicoli che a malapena riuscivo a riconoscere, in fretta e furia, per riuscire ad arrivare in tempo. Non che mi sarebbe dispiaciuto rimanere lì più a lungo, ma i miei genitori erano sempre stati abbastanza severi in questo: niente ritardi se non per seri motivi.
Di certo vivere era un serio motivo, ma dubito che loro avrebbero mai capito. Era come chiedergli di ascoltare la poesia di Marooned dei Pink Floyd: non avrebbero mai saputo restare ad ascoltare un brano strumentale e coglierne l’appagamento totale. Non tutti, purtroppo, sono capaci di mettere per un secondo in stand-by la propria vita per respirare.
Io ero orgogliosissima di me, sotto questo punto di vista.
 
 
“E ce la fa!”
Chiara mi sorrise, mentre mi sedevo al suo fianco, con il fiatone, e la corriera ripartiva, veloce. Era serena quel giorno: gli occhi marroni le illuminavano il volto cereo, e i lunghi capelli castani erano curatissimi, come se li avesse appena piastrati. I miei, invece, erano incrostati di sudore e risultavano una nera chioma ribelle e indomabile.
“Sinceramente, Arianna, dovresti metterti una sveglia. Non puoi sempre correre la maratona per prendere la corriera.”
“Fino ad oggi ha funzionato,” sospirai, chiudendo gli occhi e distendendomi contro il sedile, cercando di calmare i battiti del cuore. Assurdo: in quei momenti, nel pieno dell’adrenalina, non mi sentivo così viva come quando me ne stavo per conto mio a respirare. “Com’è andata a scuola?”
“Bene,” rispose. “Finché non mi interrogherà in latino andrà sempre tutto bene.”
Risi, piano. “E quando succederà che farai?”
“Andrò a nascondermi in Australia e alleverò canguri, cercando di sfuggire alle ire di mio padre.” Alzò le spalle.
Chiara sapeva benissimo che i suoi genitori avevano molto a cuore la sua istruzione, ma nonostante questo non si premurava troppo di studiare. Era convinta che vedere tutte le puntate di Doctor Who e di Glee fosse molto più importante della vita di qualsiasi altro autore latino. Potevi chiederle qualsiasi cosa di quello che facevano in televisione e lei era informata su tutto. Aveva visto ogni film esistente al mondo, conosceva un sacco di attori e registi e aveva persino creato un elenco delle migliori pubblicità del momento.
Era completamente immersa in quel mondo virtuale, cosa che la rendeva un’inguaribile sognatrice, un’ottimista di prima categoria. Eravamo molto diverse e questo era il nostro più grande punto di forza e allo stesso tempo il nostro più grande distacco.
“A te com’è andata?” domandò, mentre apriva lo zaino.
“Hai del cibo?” chiesi, ingorda, ignorando completamente la sua domanda. Non avevo nulla da raccontarle: avevo saltato l’ultima ora per evitare una disastrosa interrogazione in storia e, a parte i momenti di respiro che mi ero concessa al suo posto, non c’era stato nulla di emozionante quella mattina.
“Sì, devo avere dei biscotti al cioccolato da qualche parte,” rispose, continuando a cercare tra i libri.
Lei non mangiava mai una merenda in ricreazione, ma sua madre gliela preparava ogni mattina sopra al tavolo, quindi la metteva nello zaino aspettando di vedermi. Sapeva che non mi sarei mai tirata indietro per far sparire le tracce della sua non-fame.
Tirò fuori il pacchetto un po’ sciupato tra due libri molto grossi e me lo porse; non aspettai due volte per afferrarlo e mangiare ciò che era contenuto al suo interno.
“Non riesco a capire come fai,” commentò, guardandomi mentre facevo sparire anche l’ultima briciola. “Io mi rovinerei il pranzo se mangiassi a quest’ora.”
“Non c’è problema,” borbottai tra gli ultimi morsi. Non avevo mai lasciato nulla sul piatto per sazietà, quindi non c’era da preoccuparsi.
Inserii la confezione vuota all’interno del cestino del sedile che avevo davanti e sorrisi, felice. Non mi ero accorta di quanto avessi bisogno di mettere qualcosa sotto ai denti prima di aver assaporato il gusto della cioccolata tra le mie labbra.
“Perché sorridi in quel modo?” domandò Chiara, curiosa. “Hai visto Francesco? È successo qualcosa?” Mi guardava maliziosa.
Accidenti, Francesco. Avrei dato qualsiasi cosa, persino i suoi biscotti, purché si accorgesse di me. Ma era impossibile.
Scossi la testa. “Mi ha semplicemente detto che vuole chiedere a Ilaria di uscire.” Percepii il mio cuore emettere un suono di lamento ma cercai di non farci troppo caso.
Era difficile, tremendamente difficile, fingere che non mi importasse. Continuare ad essere la sua migliore amica e restare in un angolo mentre qualcun’altra lo abbracciava, lo baciava e lo scaldava con il proprio corpo. Erano anni che proseguiva in quel modo e ormai ero giunta alla triste conclusione che avevo più speranze di vedere la fine di Beautiful che riuscire a conquistare un piccolo spazio nel suo cuore.
Non che non ci avessi provato a dimenticarlo, anzi. Avevo tentato un sacco di volte, provandoci con altri ragazzi, interessandomi a chi mi chiedeva di uscire, ma era inutile. La fregatura di innamorarsi del proprio migliore amico è che alla fine non troverai mai nessun altro che potrà conoscerti meglio e con cui riuscirai a capirti in un batter d’occhio. È la dannazione dell’anima, per definizione. Secondo me bisognerebbe inventare un modo per proibire alle persone di innamorarsi tra migliori amici, una specie di vaccino da somministrare ancora quando si è bambini. E, più di tutto, bisognerebbe abolire tutti i libri o film che ne parlano e fanno vedere come invece finisca tutto bene in questi casi.
Almeno non avrei avuto una migliore amica fissata con Harry ti presento Sally che in ogni occasione non poteva fare a meno di ricordarmi che tra loro era finita bene; un tentativo di creare in me una vana illusione.
“Vedrai che gli dirà di no,” mi consolò, dandomi una pacca sulla spalla. “Si conoscono da troppo poco tempo.”
“Mmh,” sospirai. “Comunque mi dispiacerebbe, lui ci resterebbe malissimo ed è l’ultima cosa che voglio.” Era a verità. Per quanto potesse risultare incredibile o addirittura surreale, io tenevo veramente alla felicità di Francesco e, a forza di essere la sua migliore amica, mi ritrovavo mio malgrado a sperare che ogni sua cotta andasse a finire bene.
“Arianna, Arianna,” mi richiamò Chiara, lasciando in sospeso la frase. Sapevo bene cos’avrebbe voluto dirmi: le dispiaceva.
Sospirai, cercando di smettere di pensarci.
“Tieni,” mi disse poi, porgendomi uno degli auricolari che teneva alle orecchie.
“Cos’è?” La scrutai, diffidente. In fatto di musica eravamo agli antipodi, più o meno come su tutto il resto delle cose.
“Cose che piacciono anche a te.” Alzò le spalle.
Non ero del tutto convinta, ma accettai lo stesso di ascoltare qualche nota. Dopo pochissimi secondi mi rilassai, soddisfatta.
“Bon Jovi,” commentai. “Mi fa piacere sentire che qualche consiglio lo ascolti, ogni tanto.”
Mi fece una linguaccia, mentre canticchiava sottovoce il ritornello di Livin’ on a prayer.
Mi lasciai cullare nella storia di Tommy e Gina, cercando di eludere i pensieri e respirare. Non mi riusciva semplice, con tutta quella gente attorno.
Lo stomaco cominciava a brontolare, ma cercai di ignorarlo. Di lì a poco avrei potuto saziarlo come si deve e, dei due lamenti che mi avvolgevano, almeno uno sarei riuscita a placarlo. Almeno momentaneamente.




{ Spazio HarryJo.
Ehilà! Oggi è giovedì e come promesso eccomi qui per voi con il primo capitolo di questa storia.
Ho lavorato abbastanza intensamente su questi personaggi, specialmente su Arianna, indi per cui prima di entrare nel vero e proprio "problema" che dà origine a tutta la storia e che ne è il tema portante, nei primi capitoli si avrà più o meno una sua presentazione, le sue relazioni, la situazione che deve vivere ogni giorno e le sue particolarità. Come avrete notato, i capitoli non sono nemmeno molto lunghi, spero che vadano bene così.
Spero che non vi annoi troppo: certamente non potevo iniziare la storia entrando già nel dramma che ho intenzione di raccontarvi. Arianna è, a tutti gli effetti, una ragazza come altre, e quindi come loro ha i suoi pensieri e le sue (a volte strane) abitudini.
Beh spero che questo capitolo primo vi sia piaciuto almeno un po', vi lascio, fatemi sapere che ne pensate...
Ringrazio chi mi ha già inserito tra i preferiti e i seguiti e anche chi mi ha recensito.
Vi adoro, tantissimo.

A giovedì!

Erica 

 

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Capitolo 3
*** Tell me when the kiss. ***


∞ Capitolo secondo ∞
 
TELL ME WHEN THE KISS
OF LOVE BECOMES A LIE.
“In a darkened room”, Skid Row, Slave to the grind, 1991.

 
 
 

U

na cosa di cui di certo non potevo lamentarmi era la mia famiglia. Mentre sentivo parlare di persone che si separavano, divorziavano, tradivano, picchiavano o quant’altro, io avevo trovato un ambiente familiare di cui certamente non potevo risultare insoddisfatta. Certo, non eravamo le persone più felici del mondo, ma riuscivamo a risolvere i nostri problemi senza la necessità di urlarci dietro o chiamare un avvocato. Insomma, eravamo a tutti gli effetti una famiglia. Non dico come quella del Mulino Bianco, ma probabilmente più vera.
Al contrario, Chiara aveva i genitori separati sin da quando aveva quattro anni e Francesco aveva dovuto passare gli ultimi mesi andando dentro e fuori dal tribunale. Non era stato semplice per nessuno dei due vivere in quel modo, tra i litigi e le gare a chi tiene i figli durante le feste natalizie o pasquali. Credo che se avessi dovuto sopportare certi disagi non avrei avuto molta forza, legata com’ero ai miei genitori e a mio fratello.
Mio fratello, Mattia, aveva solo dieci anni eppure era uno dei miei migliori amici. Con lui potevo parlare di ogni cosa: gli raccontavo tutto ciò che succedeva nella mia vita, da Francesco ai compiti di storia non completamente sufficienti. Mi ascoltava e cercava di consigliarmi, a modo suo, come rimediare ai problemi giornalieri e, anche se litigavamo, sapevamo sempre esserci l’uno per l’altra. O almeno credo.
“Arianna,” mi chiamò non appena arrivai a casa quel giorno. La sua voce proveniva dalla cucina, insieme ad un buonissimo profumo. “Vieni, la mamma ha fatto le lasagne.”
Il mio stomaco fece un rumore d’approvazione, mentre inspiravo l’odore appoggiando la cartella accanto alla porta d’ingresso.
“Oh, arrivo subito!” esclamai, correndo verso la cucina. Mattia mi guardava, contento, mangiando con soddisfazione una porzione di lasagne. Gli andai incontro e lo strinsi forte contro di me, cosa che lo fece ridere.
“Allora, come stai, Mat?” gli chiesi quando ci staccammo. I suoi occhi azzurri brillavano di gioia. Era così bello ammirarlo, vedere come la sua innocenza di bambino irradiasse da tutti i pori: era davvero raro vederlo giù di morale.
“Bene,” rispose, continuando a mangiare. Io versai sul piatto accanto al suo la mia porzione di lasagne, molto più abbondante della sua. “Oggi la maestra ci ha divisi in gruppi e vuole che scriviamo una storia.”
“Uh, sembra interessante,” commentai. “Avete già iniziato? Con chi sei capitato?”
“Con Ale,” mi comunicò, allegro. “E quella matta di Agnese,” aggiunse poi sottovoce, scuotendo la testa e sospirando.
Risi, per schernirlo. Agnese era l’unica sua compagna di classe che non sopportava. Credo che avrebbe preferito buttarsi nudo in mezzo ad un oceano piuttosto che trascorrere del tempo insieme a lei.
“Hai proprio fortuna, eh?”
“Non me ne parlare,” borbottò, ingoiando un boccone enorme. “Afrei foluto ucciferla.”
“Bocconi più piccoli, Mat,” dissi, sorridendo, e cominciai a mangiare. Il mio stomaco iniziò a cantare l’Alleluia silenziosamente, mentre le lasagne lo raggiungevano, calde.
“Comunque stiamo scrivendo la storia di un pirata che parla in versi.”
“Davvero? Che idea originale!”
“Sì, l’abbiamo soprannominato il pira-poeta. Ovviamente l’ho scelto io, Ale è troppo pigro per farsi venire un’idea, e la Stramba non è affidabile.”
“Meglio così, le tue idee sono sempre le migliori,” lo incoraggiai. Era vero: aveva una fantasia e una creatività da fare invidia a tutti, per la sua età. Probabilmente grazie alla grande quantità di libri che divorava come se fossero stati l’aria. Mattia respirava leggendo.
“E tu? Visto Francesco?” mi domandò.
Sorrisi, scrollando le spalle. “Solito copione, chiede ad un’altra di uscire.”
“A chi, questa volta? Se è ancora Cecilia vado lì e lo uccido.”
“No, Ilaria.”
“Ilaria? La figlia di quelli che vendono i nostri biscotti?”
Annuii, mesta. Non avevo molta voglia di parlarne, al momento, occupata com’ero a placare il morso della fame. Per mia fortuna, prima che Mattia potesse aggiungere qualsiasi altro commento alla questione, mia madre comparve in cucina, tutta di fretta.
“Ciao, mamma,” la salutai.
“Eh? Sì, ciao, Ari,” ricambiò, distrattamente.
“Le chiavi sono vicino al forno,” la informai. Ultimamente era sempre un po’ distratta e le lasciava ovunque, con il risultato di scordarsene sempre quando le servivano per andare al lavoro.
“Grazie,” sospirò, acciuffandole. Era già in ritardo di una decina di minuti, non riusciva mai a essere puntuale quando le toccava il turno di pomeriggio.
“Ciao,” la risalutai, mentre si dirigeva verso l’uscita.
Se mi rispose, non la sentii nemmeno, ma non mi preoccupai. Era sempre di corsa quando doveva partire, ci saremmo parlate meglio alla sera, come ogni giorno.
“Dov’è papà?” chiesi invece a Mat, dato che ancora non si era fatto vivo. Mi rialzai e mi versai un’altra porzione di lasagne, perché non ero rimasta soddisfatta – come sempre.
Appena lo dissi, comparve la sua figura dalla porta della cucina.
“Ciao, Ari, scusa se non ti ho servito, ero al telefono con un cliente importante.” Alzai le spalle, facendogli capire che non c’era alcun problema.
Lui continuò a squadrarmi un po’. “Mangia, mi raccomando.”
Lo guardai, dura. “È già la seconda volta che mi servo, non ti preoccupare.”
Lui fissò per un momento mio fratello, che annuì piano con la testa, a confermare quello che avevo detto. Alzai lo sguardo al soffitto, incapace di accettare la sua diffidenza.
Da quando avevamo scoperto che ero dimagrita e non di poco, mio padre aveva cominciato a diventare assillante. Continuava a ripetermi che dovevo mangiare, come se fosse certo che in realtà tutto il cibo che ingoiavo andasse a finire in una barriera spazio-temporale lontana chilometri dal mio stomaco. Mi dava fastidio, enormemente, perché non si fidava di me.
Eppure nemmeno io sapevo spiegarmi quel calo improvviso: non avevo mai smesso di mangiare, com’era possibile che fossi dimagrita?
“Va bene,” sospirò. “Com’è andata oggi?”
Non risposi nemmeno, seccata. Semplicemente mossi la testa come per dire “così e così”, e lui non mi chiese altro. Era a dir poco frustrante vedere che non mi credeva.
“Ok, io guardo un po’ il telegiornale,” mormorò, un po’ imbarazzato. “Metti a posto, quando hai finito,” aggiunse, e scomparve di nuovo oltre la porta. Dopo qualche secondo il brusio della tivù arrivò a cullare il mio pranzo in un sottofondo di catastrofi.
“Sorridi,” mi incoraggio Mattia. Lui credo che non capisse molto bene quale fosse la situazione, ma aveva intuito che il rapporto tra me e mio padre non stava andando troppo bene dopo quell’ultima pesata. “Se lo fai, poi ti faccio mangiare una delle mie merendine.”
Lo guardai, grata, e gli scompigliai tutti i capelli con una mano.
“Tu sì che sai conquistarmi,” commentai, mostrandogli un sorriso. In tutta risposta mi fece una linguaccia, prima di alzarsi e dirigersi verso la sua camera a fare i compiti.
Io finii il mio pranzo molto lentamente, resettando la cucina e azionando la lavastoviglie, poi afferrai il mio zaino e mi rinchiusi dentro la mia stanza, preoccupata.
Lo stomaco aveva cominciato di nuovo a farmi male.
 
 
 
La mia stanza non era molto grande: ci stava a malapena il letto e un piccolo armadio bianco. Appeso al muro c’erano dei poster che mia madre in tutti i modi aveva cercato di farmi togliere, perché secondo lei avere una gigantografia di Nikki Sixx non era esattamente tra le cose che potevano conciliare il sonno. Per un periodo avevo anche appeso fuori dalla porta un poster di Ozzy Osbourne nel pieno del suo fascino per cercare di tenerla fuori dalla mia stanza, e mi aveva urlato dietro in almeno sessantadue lingue – compreso il greco antico – di toglierla. Alla fine avevo ceduto solo perché minacciava di fargli prendere fuoco, e l’avevo spostato all’interno dell’anta del mio armadio.
Avevo preparato una serie di vestiti abbastanza eleganti sopra al letto, quella mattina, sperando di riuscire a trovare qualcosa di giusto da mettermi per l’incontro con il medico, quel pomeriggio. Mio padre infatti lo aveva chiamato subito e gli aveva chiesto un appuntamento urgente, quasi come se stessi per morire.
In quel momento, però, guardando tutte le mie camicette migliori, non avevo voglia di indossare niente di tutto ciò. Così, con un gesto brusco, rimisi tutto dentro all’armadio, senza nemmeno curarmi di piegarle o sistemarle nel modo corretto. Aprii un cassetto e tirai fuori una felpa leggera, ma grande: indossai quella.
Fu la prima volta in cui preferii indossare qualcosa di grande, anziché di attillato. Io, che del mio fisico ero sempre stata orgogliosa, avevo cominciato a nascondermi. Allora non me ne ero preoccupata molto, convinta che sarebbe stata una cosa sporadica; non avevo capito che quello sarebbe stato solo l’inizio di una vita completamente diversa da quella che avevo vissuto finora. L’inizio del mio nascondiglio al mondo.
Presi anche dei pantaloni larghi e, afferrando la mia borsa, cominciai a giocherellare con il portachiavi a forma di orsacchiotto. Non ricordavo nemmeno quale fosse la sua storia, dove l’avessi comprato o da quanto l’avessi con me, eppure ogni volta che ero nervosa lo afferravo e lo torturavo. Come se servisse veramente a qualcosa.
Mancava ancora mezz’ora per l’appuntamento, però non avevo voglia di fare nulla. Né di studiare né di leggere né di ascoltare musica, quindi, già preparata, uscii dalla stanza e mi diressi verso il divano, dove mio padre faceva zapping alla ricerca di qualcosa da guardare.
Si era preso mezza giornata libera, quel giorno, per me. Non succedeva spesso di guardarlo vestito da casa: solitamente era sempre ben composto ed elegante, come il suo lavoro – direttore di un’importante azienda immobiliare – gli imponeva di vestirsi. Ora aveva addosso una casuale felpa nera, con la scritta “Lonsdale” ricalcata in bianco e dei pantaloni di una tuta tutta frugata. Mi guardò un momento, quando mi sedetti accanto a lui.
“È già ora?” chiese, un po’ svogliato, stropicciandosi gli occhi castani con fare stanco e appoggiando il telecomando sul tavolino. Si era fermato su un canale che stava dando un documentario sulle usanze Maya e sulle loro profezie.
“No, hai ancora un po’ di tempo,” dissi, cercando di ascoltare il cataclisma previsto per il dicembre del 2012.
“Allora vado a cambiarmi,” mormorò, alzandosi e andandosene dalla stanza.
Io spensi la televisione, rimanendo a osservare uno schermo nero e cullandomi nel silenzio della stanza. Avrei tanto voluto parlare un po’ con mio padre di quello che stava succedendo, prima di andare alla visita, ma evidentemente era impossibile.
Avevo già avuto dei problemi per cui andare dal medico con lui per accertamenti: una brutta irritazione cutanea, delle reazioni allergiche e due attacchi di gastroenterite acuta che mi avevano messo a dir poco KO: in tutti quei momenti, però, c’eravamo entrambi messi a fare supposizioni su ciò che potevo aver contratto, prima di andare alle visite. Quel giorno era diverso: quel giorno credo che lui nemmeno volesse ascoltare il parere di un medico. O forse era solo una mia impressione, forse era solo stanco.
“Eccomi,” disse dopo pochi minuti, tornando vestito molto più elegantemente. “Dici che dovrei radermi la barba, anche?”
“Va benissimo così,” mi limitai a rispondere, alzandomi dalla posizione comoda che avevo assunto e afferrando il giubbotto, appeso all’attaccapanni lì vicino. “Andiamo?”
Prima di rispondermi mi squadrò ancora una volta, come se volesse scavarmi. Quello sguardo mi mise i brividi, consapevole che non c’era niente di buono.
“Mangi, vero?” domandò, esitando. “Cioè… mangi quello che ti diamo?”
Per un momento non capii cosa intendesse dirmi e lo osservai confusa. Come poteva porsi un problema simile? Mi vedeva sempre, a pranzo e a cena, mentre ingoiavo bocconi infiniti di cibo e mi lamentavo perché non ne avevo abbastanza.
Poi, quasi come avessi ricevuto uno schiaffo in pieno viso, mi resi conto che quello che voleva sapere era se il cibo mi rimaneva dentro. Temeva che rigurgitassi tutto, gli era scritto in pieno viso. Per poco non venni travolta da un senso di disgusto nei suoi confronti.
“Certo,” dissi, a denti stretti. Sentii la rabbia avvolgermi in ogni centimetro quadrato del corpo.
Se ne accorse perché, prima che me ne potessi rendere conto, si avvicinò a me e mi stampò un bacio sulla fronte, come faceva sempre. Lo sentii tremare leggermente, e questo mi spezzò il cuore: era evidente che non mi credeva. Perché? Perché non poteva semplicemente fidarsi di me?
Prima che potesse dirmi qualsiasi cosa, aprii la porta e mi fiondai dentro la macchina, accendendo l’autoradio a tutto volume non appena mi raggiunse.
E, mentre le note di Africa cominciarono ad avvolgermi, partimmo, diretti verso il luogo della verità.





{ Spazio HarryJo.
Buon primo novembre a tutti! Come state? Contenti di stare a casa? Io sicuramente sì, avevo proprio bisogno di un po' di pausa in questo periodo...
Come vedete, ecco qui un altro capitolo in un giovedì! Non siete anche voi del tutto sorpresi dalla mia incredibile puntualità? Non succedeva da secoli che mantenessi i tempi promessi per la pubblicazione dei miei capitoli... meriterei un premio, giàggià.
A parte questo, spero che questo secondo capitolo vi sia piaciuto. Ho introdotto un personaggio tenerissimo (almeno per me), Mat, e il padre, un'altra figura molto importante ai fini della storia, anche se non completamente positiva, come avrete potuto intuire.
Nel prossimo capitolo si finisce all'interno della vera storia, del vero problema che sconvolgerà la protagonista: scommetto che tutti voi non vedrete l'ora di leggerlo! *passano palle di fieno*
Ooookay, che altro vi posso dire. Allora, Africa è una canzone dei Toto, che spero TUTTI voi conosciate, sennò andate IMMEDIATAMENTE ad ascoltarla sul Tubo *minaccia*
Per il resto, spero solo che vi sia piaciuto.
Un bacio enorme a tutti voi, al prossimo giovedì! Come sapete per qualsiasi cosa trovate dove contattarmi nelle note alla fine del prologo.
Grazie anche a chi mi recensisce, a chi ha inserito la storia tra i preferiti e a chi l'ha inserita tra le seguite.
A presto,

Erica

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Capitolo 4
*** You're simply not in the pink. ***


∞ Capitolo terzo ∞
 
YOU’RE SIMPLY NOT IN THE PINK, MY DEAR
TO BE HONEST YOU HAVEN’T GOT A CLUE.
 “I’m going slightly mad”, Queen, Innuendo, 1991.

 
 
 

A

 ndare dal medico non mi era mai particolarmente piaciuto. Beh, è vero: nessuno è mai entusiasta di farsi visitare, ma io proprio lo odiavo. Probabilmente era a causa del carattere del mio dottore, che non poteva fare a meno di prendermi in giro per qualsiasi cosa, ogni qualvolta mi ritrovavo lì. Si divertiva anche a diagnosticarmi malattie improbabili peggio di Dr. House, tantoché ormai avevo rinunciato a capire cos’avessi davvero, quando andavo lì malata. Quella volta, poi, pensavo che la situazione fosse talmente strana da non aver nessuna spiegazione possibile. Mi aspettavo di sentirmi dire: “È fatta così per costituzione,” ed essere lasciata andare alla mia vita. Forse era anche per quello che non mi preoccupavo minimamente e che trovavo assurdo invece l’agitarsi di mio padre.
“Hai portato la tessera sanitaria?” mi chiese, in sala d’attesa. Le sue gambe avevano preso un tic nervoso, come sempre quando era preoccupato.
“Sì.”
“Sicura?”
“Sì, stai tranquillo.” Sospirai, voltandomi dall’altra parte.
La sala d’aspetto era la cosa peggiore di quel posto, a parer mio. C’era sempre un sacco di gente che aspettava il suo turno: malati, doloranti, persone che non la smettevano di parlare, persone che ascoltavano musica con gli auricolari in un volume esageratamente alto, persone che giocavano con i cellulari con l’audio al massimo, pettegolezzi a non finire. Era una cosa per me insopportabile, perché a me piaceva restare zitta e non dire nulla, in quei momenti. Secondo me, se una persona sta male e deve andare dal medico, certamente vuole un po’ di silenzio nella sua vita, almeno in quel momento… oppure no?
Mentre una signora parlava del più e del meno raccontandoci tutti gli aneddoti possibili e immaginabili della sua noiosissima vita, il paziente che in quel momento era in ambulatorio uscì, lasciando il posto alla persona successiva.
Io.
Mi alzai controvoglia, e vidi mio padre fare lo stesso con molta più fretta di quanta ne avessi io. Mi superò per entrare in ambulatorio e io lo seguii, mesta.
Non era un posto molto grande. La stanza era bianca; in un lato risiedeva un lettino e accanto a esso una bilancia molto vecchia. Al centro vi era un tavolo con sopra un computer obsoleto e una miriade di scatolette con i vari medicinali, che probabilmente nessuno sapeva a cosa servissero; c’era anche una stampante e alcuni libri aperti buttati là, al massimo del disordine possibile. Sull’altro lato c’era un piccolo scaffale con vari libri di medicina e sul resto del muro erano appesi dei poster raffiguranti varie parti del corpo umano e di una campagna contro il fumo. Una volta avevo proposto al mio medico di regalargli uno dei miei poster degli Skid Row per dare un po’ di emozione alla stanza, ma lui non era stato d’accordo. Tsk, non sa cosa si è perso.
Il dottor Marsili, così si chiamava, era un uomo che aveva una cinquantina d’anni circa. Indossava sempre degli abiti eleganti, e la sua barba era sempre perfettamente curata. In tutta la mia vita non l’avevo mai visto scomposto, magari mezzo addormentato o con qualche vestito fuori posto. Forse anche per questo non mi piaceva andare lì: mi pareva di essere in un ambiente serio, dove tutto doveva avere un ordine preciso.
“Arianna, ciao,” mi salutò, continuando a sorridere per diversi secondi. Mi mise a disagio, sembrava quasi un ghigno.
“Ciao,” salutai, mentre mio padre faceva lo stesso.
“Cosa ti porta qui? Quando una ragazza della tua età viene accompagnata dal dottore dal padre non ci si può aspettare qualcosa di poco conto,” disse, squadrandomi – sempre con quello stupido sorriso stampato in volto.
“Perché, scusa?” domandai, stupita.
“No, niente,” mi rispose, lasciando cadere il discorso. “Ditemi, cosa succede?”
“Arianna ha un problema,” cominciò mio padre. Subito spostai gli occhi verso di lui: aveva intenzione di parlare al posto mio? Probabilmente sì, dato che io mi ero mostrata assai poco contenta di andarmi a visitare. Forse credeva che, se avesse lasciato parlare me, non avrei detto le cose nel modo corretto o esattamente com’erano. Questo mi fece irritare ancora di più. “Lei mangia, mangia molto anche, direi, eppure non ingrassa. Anzi, abbiamo scoperto che dimagrisce.”
Almeno aveva ammesso che mangiavo.
Spostai lo sguardo verso il dottore, che mi stava già studiando. Subito ringraziai il cielo per aver avuto l’idea di mettermi una felpa: avrei trovato molto fastidioso quello sguardo, altrimenti.
“Uhm, capisco,” mormorò, mettendosi a digitare tasti sul computer. Probabilmente stava guardando la mia scheda ed esaminando i miei trascorsi, nel tentativo di trovarvi un collegamento. “E dimmi, hai altri sintomi oltre alla perdita di peso?”
“In che senso?” chiesi. Non sapevo cosa rispondere: il resto della mia vita era rimasto tutto normale, da quel che potevo ricordare.
“Ad esempio: come va con il sonno? Una volta sapevo che soffrivi di insonnia.”
“Ne soffro ancora,” confermai. “Molto.”
“Quindi sei sempre stanca? Prendi ancora la valeriana che ti avevo dato per dormire?”
“Sì, certo.”
“E funziona?”
Esitai. “Non… cioè, mi addormento molto più facilmente di prima, ma di notte mi sveglio molto spesso.” Non sapevo come altro descriverlo. In effetti, prima di prendere la valeriana impiegavo ore e ore per riuscire ad addormentarmi e a volte ci riuscivo solo quando ormai era ora di alzarsi; poi, assumendola, avevo cominciato a ridurre sempre di più i tempi, però il mio sonno era molto più frammezzato, più discontinuo, e questo non migliorava la situazione.
“Insonnia, perdita di peso… uhm… come stiamo a umore?”
“Cioè?”
“Cioè,” sembrava quasi spazientito, “sei felice?”
Mi fermai, immobile, incredula. Non sapevo cosa rispondere, in realtà, perché in quel momento, tra la rabbia nei confronti di mio padre e il fatto che mi trovavo dal medico, felice proprio non lo ero. Ma in generale, nei giorni scorsi, ero felice? Non sapevo dirlo. In realtà credevo di esser diventata molto apatica nell’ultimo periodo, tra la cotta per Francesco e le delusioni che avevo dovuto sopportare in quel campo non ero esattamente all’apice del mio umore. Ma era legale chiedere certe cose?
Prima che potessi escogitare qualcosa da rispondere, mio padre mi anticipò. “È parecchio irritabile ultimamente.”
“Cosa?” Mi sorpresi sentendoglielo dire. Dopotutto non ci eravamo visti molto nell’ultimo periodo e non mi sembrava proprio di essermi comportata in modo diverso dal solito.
“Beh, in questi giorni rispondi male un po’ a tutti,” affermò, tenendo lo sguardo duro nei miei occhi. Mi stava sfidando a dire il contrario, lo sapevo.
“No,” lo corressi, furente, “solo a te, perché non mi credi.”
Calò il silenzio, e l’unico suono che rimase nella stanza fu il rumore dei tasti del computer.
“Non sono esattamente felice,” mi limitai a dire. “Ma niente di particolare rilevanza.”
“Credo di sapere di cosa si tratta,” disse il dottore, lisciandosi per un momento la barba. “Mai sentito parlare di ipertiroidismo?”
Feci di no con la testa, curiosa. La parola non mi piaceva molto.
“L’ipertiroidismo è una disfunzione della tiroide,” iniziò a spiegare, guardando in alternanza prima me e poi mio padre. “È una sindrome derivata dall’eccessiva produzione di ormoni tiroidei nel circolo ematico.”
Lo guardai con gli occhi spalancati. “E quindi significa che…”
“Che viene stimolata la calori genesi, come aumento del metabolismo basale,” rispose, con fare ovvio.
Per me continuava a parlare una lingua sconosciuta, quindi rimasi zitta a guardarlo, sperando che una luce scendesse su di me per illuminarmi. Ovviamente non successe.
“Ed è per questo che dimagrisce?” chiese mio padre.
Il medico annuì. “È uno dei sintomi principali, insieme all’affaticamento, l’insonnia, l’irritabilità…” L’unica cosa che mi irritava era il fatto che pensavano fossi irritabile.
“E la depressione,” aggiunse poi. “Per questo ti ho chiesto se stavi bene.”
“Sto bene,” ribattei, dura.
“Per ora,” specificò lui. Mi ammutolii a quella risposta e, notando la serietà del suo sguardo, capii che non stava scherzando. Probabilmente, se davvero soffrivo di ipertiroidismo, presto anche il mio morale avrebbe raggiunto i minimi storici.
Dopo un imbarazzante silenzio, mio padre si decise a parlare. “Cosa dobbiamo fare, quindi?”
“Innanzitutto fate questi esami,” rispose il dottore, prendendo in mano il blocchetto per compilare un’impegnativa. “Sono necessari e confermeranno o smentiranno l’ipertiroidismo di Arianna, anche se sono praticamente sicuro che risulteranno positivi, considerati i suoi precedenti. Dopodiché, una volta ricevuti i risultati, dovrete tornare da me, così vi potrò elencare quali pastiglie prendere. La maggior parte delle volte la tiroide si sistema da sola, senza problemi, però credo che sia necessario che tu prenda queste pillole. Sei molto magra,” concluse, guardandomi di nuovo come se volesse scavarmi, alla ricerca di qualche pericoloso segreto.
“Sto bene così,” ribattei, trovando ancora un pizzico di quella fierezza che avevo sempre avuto nei riguardi del mio corpo. “Non dovete preoccuparvi. Se ho l’ipertiroidismo guarirò senza problemi, non mi sembra una cosa poi così grave.”
Percepivo una scossa elettrica all’interno di tutto il mio corpo, come sempre quando mi sentivo in vena di sfidare il mondo, per mostrargli che ero più forte di quello che credevano. Continuai a mantenere il mio sguardo duro e deciso verso il mio dottore e anche verso mio padre, che intanto parevano quasi ammutoliti. Infine, il primo decise di finire quell’imbarazzante gioco di sguardi.
“Va bene, Arianna.” Mi porse l’impegnativa, dove con una scrittura sghemba e incomprensibile aveva elencato una serie di esami a cui sottopormi. “Vai il prima possibile a farli, mi raccomando.”
“Andremo domani mattina,” assicurò mio padre, annuendo.
“Sicuramente,” dissi, ansiosa di mettere fine a tutta quella storia.
“Vi aspetto nei prossimi giorni allora,” ci congedò il dottore, e noi ci dirigemmo verso la porta, pronti per tornare a casa.
Entrai in macchina senza fiatare e mi misi la cintura, aspettando. Mio padre, prima di girare la chiave e partire, disse: “Non devi comportarti in modo così freddo con le persone.”
“Non mi piace che mi trattino in questo modo,” affermai, per poi correggermi: “Non mi piace che mi trattiate in questo modo. Non sono malata, né tanto meno depressa o incapace di badare a me stessa.”
“Sappiamo che sei forte,” disse. “Ma non puoi combattere il mondo tutto da sola, e se c’è un problema va risolto.”
Sospirai. “Tu mi credi?” domandai, per cercare di fargli capire quale fosse il vero problema in tutta la faccenda. “Mi credi se ti dico che mi sento bene, che non sento di stare male?”
Esitò per un momento. “Non lo so,” ammise.
Per me quelle tre parole furono una ferita che non riuscii mai più a risanare.
Se in quel momento mi sentivo male, sicuramente non era per la malattia che si stava prendendo possesso del mio corpo, ma perché la fiducia da parte sua cominciava a venire meno nei miei confronti. Perché cominciavo a sentirmi una perfetta estranea.





{ Spazio HarryJo.
Buonasera efpiani! Sono in ritardo di qualche giorno, lo so, ma tra l'acquisto dei biglietti del concerto dei Bon Jovi, tra lo sclero post-acquisto dei biglietti dei Bon Jovi e tra una cervicale orribile che mi ha colpito proprio oggi, non sono riuscita a fare di meglio. Per fortuna Rosie Bongiovi mi ha ricordato del capitolo oggi (grazie, ti meriti un bel sandwich <2345) in modo che potessi postarlo (anche se poi mi ha continuata a distrarre tutto il giorno).
Grazie comunque a tutti quelli che stanno recensendo, perché le vostre parole mi fanno piacere-piacerissimo e mi danno sempre una ragione per continuare a scrivere. Anche perché in questi giorni il mio morale non è dei migliori - altro che Arianna! - quindi siete tutti molto carini con me. *sparge amore*
Riguardo al capitolo: ta-dam! Ecco la diagnosi del dottore. Ora voglio che cerchiate di capire una cosa: se fosse così semplice, non esisterebbe questa storia. Se la diagnosi fosse giusta, non sarebbe riservata (l'ipertiroidismo dopotutto è parecchio diffuso da quel che so). Quindi... beh, spero che abbiate capito, perché non voglio spoilerare il seguito.
Ho cercato di spiegare l'ipertiroidismo cercando di ricordare le parole che aveva detto a me il dottore. Quindi se non capite niente è comprensibile: non sono medico!
Beeeh, non so cos'altro dire: ringrazio chi mi ha inserito tra i seguiti/preferiti/da ricordare e mando un abbraccio a tutti-tutti. Se volete lasciarmi una recensioncina siete i benvenuti. :3
Buon week-end, a giovedì!

A presto, 

Erica

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Capitolo 5
*** I took a walk down a road. ***


∞ Capitolo quarto ∞
 
I TOOK A WALK DOWN A ROAD
IT’S THE ROAD I WAS MEANT TO STAY.
 “Coming home”, Cinderella, Long cold winter, 1988.

 
 
 

T

 ornammo a casa senza dire una parola. Nemmeno la musica era accesa, e quel viaggio fu un continuo tormento interiore, per me. Continuavo a pensare, a pensare, a ripensare e non capivo.
Ero davvero malata? Davvero soffrivo di ipertiroidismo? Avrei dovuto cominciare a prendere un sacco di pastiglie per mangiare tranquillamente e ricominciare ad acquistare peso? E se non me ne fossi mai resa conto, come sarebbe andata a finire? Non potevo crederci. Mi sentivo bene: nonostante la stanchezza che mi prendeva ogni giorno, non mi ero mai preoccupata e non mi era mai nemmeno passato per la mente la possibilità di poter essere affetta da qualche strana disfunzione. E avevo dovuto ricredermi in pochissimo tempo, a causa di un numero sulla bilancia.
Ripercorrevo con la mente ogni ricordo in cui le persone a cui volevo bene mi chiedevano se fossi anoressica: era quello che vedevano? Una ragazza che continuava a dimagrire, inconsapevolmente? Cominciavo a farmi del male con quei pensieri, perciò smisi di preoccuparmene. Tappai le orecchie nella mia testa.
Quando arrivammo a casa, mi richiusi di nuovo in camera, cercando di fare qualche compito per il giorno dopo, ma anche se rileggevo una ventina di volte le frasi del libro non riuscivo a concentrarmi e a capirle. Dopo poco mi stufai e richiusi tutto, lasciando il disordine più completo nella scrivania. Accesi lo stereo, vi inserii un cd di vari artisti che mi aveva registrato Francesco qualche anno prima e mi gettai a letto, cullandomi tra le note di Stairway to heaven. Ogni tanto si bloccava: l’avevo ascoltato così tante volte che in certi punti si era rovinato, ma c’ero talmente legata che non avevo la minima intenzione di smettere di consumarlo. Almeno fino a quando Francesco non me ne avrebbe regalato un altro.
Passai alcune ore, lì, sul letto, semplicemente a pensare e ad ascoltare i brani che ogni tre o quattro minuti si susseguivano in riproduzione casuale. Ogni tanto mi mettevo a canticchiare, proprio per contrastare con la mia stessa voce i pensieri che cercavano di prendere il possesso del mio cervello. Ma non volevo che accadesse: ero ancora convinta di non avere nulla di male. Ero convinta di non essere malata. Quegli esami sarebbero andati bene.
“Arianna,” mi chiamò mia madre, “vieni a preparare la tavola?”
Guardai l’ora: erano arrivate già quasi le otto di sera. Non mi ero accorta che il tempo fosse trascorso così in fretta; con estrema riluttanza mi alzai dal letto.
“Arrivo,” mormorai, un po’ forzando la voce. Prima di uscire dalla stanza, mi guardai per un momento nel riflesso dell’anta di vetro dell’armadio: era solo un’impressione o il mio volto era un po’ sciupato? Lo era sempre stato?
Scossi la testa, togliendo quei brutti pensieri e andai in cucina. Trovai mia madre ai fornelli, che stava tagliando a pezzettini il salmone per farne la pasta. Il mio stomaco cominciò a fare le fusa, mentre annusavo l’aria.
“Com’è andata, tesoro?” mi chiese, appena mi vide.
“A scuola?” chiesi, per abitudine. “Bene. La professoressa di matematica ci ha raccontato per la dodicesima volta della sua fuga a Milano con il suo ragazzo quando era giovane.”
“Ancora non gli avete detto che sono due anni che ve lo racconta?”
“No, figurati,” risposi, spiegando la tovaglia rossa alla bell’e meglio. “Perdiamo ore di lezione così e a noi sta bene.”
“E quella d’inglese? Ancora in foga per i tagli alla scuola?”
“Più che mai,” mi limitai a dire. “A te, il lavoro?”
“Tutto bene, oggi è nata una nuova bambina.”
Mia madre lavorava in ospedale, nel reparto natale. Era molto entusiasta del suo lavoro: nonostante la rendesse sempre un po’ occupata, diceva sempre che era il suo sogno da quando era piccola, aiutare a far nascere i bambini. Diceva che la nascita era uno dei fenomeni più belli della vita.
“Come si chiama?”
“Alessia,” rispose. “È molto carina.”
Non le feci notare che da piccoli sembriamo tutti carini e irriconoscibili. Non le piaceva quando lo dicevo.
“Comunque volevo sapere com’era andata dal medico, in realtà,” mi disse dopo un po’, con la voce leggermente incrinata. “Ti ha detto qualcosa?”
“Che potrei essere affetta da ipertiroidismo,” risposi, fredda. “Dobbiamo fare degli esami per vedere.”
“Oh,” sospirò lei, girandosi a guardarmi. Non sapeva cosa dire. Sembrava quasi che si sentisse in colpa, per non aver capito prima cosa mi stava succedendo, ma io non la ritenevo responsabile di nulla. Non ero arrabbiata con lei, nemmeno perché non mi diceva nulla. Almeno si comportava da madre, almeno era lì con me a farmi da mangiare e mi stava ascoltando.
“Posso venire con te a lavoro domani mattina?” le domandai, esitando per un momento. “Potrei fare subito gli esami che devo fare.”
“Non vuoi andare con tuo padre?” mi chiese, squadrandomi. “Pensavo che foste d’accordo che…”
“Non siamo d’accordo su niente,” la interruppi. “E poi papà va a lavorare tardi, invece se venissi con te potrei fare presto gli esami, prendere l’autobus e riuscire a entrare a scuola solo un’ora dopo.”
“Va bene,” mi rispose. Mi avvicinai e, senza averlo nemmeno premeditato, mi fiondai tra le sue braccia. All’inizio rimase un po’ sorpresa dal mio gesto, poi mi strinse cautamente a sé, stringendo ancora in mano il coltello.
“Grazie,” le dissi, leggermente in imbarazzo. “È meglio che torni a cucinare, sennò la pasta diventa colla.”
Subito si girò presa dal panico. “Vai a chiamare tuo fratello, intanto!”
Come se avesse letto nel pensiero, Mattia era appena entrato e si era già seduto a tavola. “Sono già qui! Devo dirti una cosa, mamma,” disse, serio.
“Cosa c’è? Stai male?”
“No. Ma non voglio più che compriamo questi biscotti.” Mi girai e lo osservai: in mano aveva il pacco di biscotti che mangiava a colazione da quando ne avevo memoria.
“Cosa?” chiese mia madre. “Ma tu li adori!”
“Sì, ma li fa la mamma di Ilaria,” ribatté, quasi come se fosse ovvio. Mia madre lo squadrò senza capire, mentre io mi avvicinai a lui e lo abbracciai. Era il fratello migliore del mondo.
“Allora, che malattia grave hai contratto?” mi domandò.
“Oh, non posso dirtelo,” sussurrai. “È talmente grave che la diagnosi è ancora riservata!” E, dicendoglielo, gli morsi l’orecchio. Lui cercò di mandarmi via, con le sue piccole manine che allontanavano il mio volto.
Allora non sapevo quanto avessi ragione. Allora non sapevo quanto mi sarebbero poi mancate le sue mani nel mio volto, la sua risata contro la mia.
 
Feci gli esami il giorno dopo: un’infermiera con i capelli ricci e neri raccolti in un’elegante chignon mi aveva legato un tubicino attorno al braccio e aveva cominciato a prelevare fialette di sangue cercando di distrarmi raccontandomi di come suo figlio volesse diventare un astronauta. Io continuavo a guardare nauseata il sangue che usciva con difficoltà dal mio braccio e che andava a riempire le fiale, una dopo l’altra.
Poi ero uscita e, un po’ dolorante, mi ero diretta a scuola, aspettando l’autobus davanti all’ospedale.
Il mio liceo era poco lontano da lì, un grandissimo edificio color rosa in cui venivano studenti di tre indirizzi diversi: scientifico, linguistico e psicopedagogico. Eravamo molti, noi studenti, ma io conoscevo solo alcuni di quelli del mio piano; il resto era una serie di volti per lo più sconosciuti.
Aspettai impazientemente il suono della campanella che dava inizio alla seconda ora, per poter entrare in classe. Avevo saltato l’ora di inglese; poco male, era una delle poche materie in cui potevo dire di non aver problemi di alcun tipo.
Ero lì che attendevo quando, improvvisamente, qualcuno mi diede una pacca sulla spalla. Mi girai, presa alla sprovvista, e mi trovai di fronte un ragazzo moro, alto, con gli occhi azzurri e con un sorriso stampato in faccia.
“Ciao,” mi disse. “Che ci fai fuori?”
“Ciao Francesco,” lo salutai. Le mie gambe quasi non mi reggevano in piedi per vederlo davanti a me, così bello, così intrigante. “Sono andata a fare gli esami del sangue, entro ora,” gli spiegai, mostrandogli il cotone che copriva il punto in cui mi avevano bucata. “Tu invece?”
“Vado al bagno,” disse, indicandomi la strada che stava facendo. “Tutto bene? Hai dovuto fare gli esami per qualcosa di particolare?” Era preoccupato, il suo sopracciglio era leggermente alzato e i lineamenti un po’ corrucciati. Solo il fatto che lui si interessasse tanto a come stavo mi fece sentire estremamente meglio.
Esitai un momento prima di rispondere: non volevo mentirgli, ma allo stesso tempo non avevo intenzione né di farlo preoccupare né di parlare dei problemi fisici che mi stavano colpendo. Avevo paura di leggere qualcosa nel suo volto, avevo paura di vedere una reazione come quella di mio padre; avevo paura che non sarei più riuscita a mangiare accanto a lui senza che lui mi guardasse in modo strano o comunque diverso dal solito.
Non poteva sapere. Almeno non fino a quando non saremmo stati sicuri noi per primi di cosa mi stava accadendo.
“Niente di che, esami di routine,” minimizzai quindi, cercando di fingere un sorriso. Mi squadrò per un momento, ma parve convincersi perché abbozzò un sorriso. Si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia, facendomi avvampare.
“Devo andare,” sussurrò, andandosene verso il bagno mentre la campanella risuonava, “ho verifica. Buona giornata, Ari.”
“Anche a te, Francesco! E buona fortuna,” gli sorrisi, mentre la porta della mia classe si apriva e la professoressa di inglese usciva.
“Buongiorno,” la salutai, composta.
Quasi non mi notò, nella fretta di andarsene. Entrai in aula salutando i miei compagni distrattamente e andando a sedermi in fondo, vicino a Laura, che era così concentrata a ripassare italiano che quasi non si accorse del mio arrivo.
“Non mi ricordo niente! Mi bocceranno!” piagnucolò non appena mi sedetti accanto a lei. Era una brava ragazza, solo che non riusciva a ricordarsi le cose, nonostante ci mettesse tutto l’impegno possibile. Era continuamente in ansia per le interrogazioni, nelle quali non riusciva a esprimersi a dovere e che le rovinavano già la sua discreta media. Nonostante tutto, però, se l’era sempre cavata fino ad allora ed ero convinta che ce l’avrebbe fatta anche quell’anno.
“Dai, Laura,” la spronai, “non è niente di impossibile. Machiavelli?”
Annuì. “Lui e la sua stupida verità effettuale.”
“Non è difficile,” la incoraggiai.
Mi ignorò completamente, continuando a snocciolare informazioni che, ne ero certa, si sarebbe dimenticata da lì a cinque minuti.
Mi stiracchiai e tirai fuori dalla mia cartella i libri di matematica, mentre il professore entrava in classe e diceva di aprire le finestre.
Mentre Laura si dirigeva nei banchi davanti pronta al patibolo, io tolsi il cotone dal gomito, trattenendo un gemito per il dolore dello stacco del cerotto dalla pelle. Sembrava che stessi togliendo la pelle stessa. Non avevo idea di quante volte avrei dovuto ripetere quel gesto dopo allora; non avevo idea che lentamente avrei tolto tutta la mia pelle, assieme alla gioia, alla speranza, alla vita.



{ Spazio HarryJo.
Scusate. Scusate, scusate, scusate; dovete infinitamente scusarmi. Lo so che sono due settimane che non aggiorno, ma posso spiegarvi: all'inizio la mia connessione non funzionava più - problemi col computer - poi ho avuto una serie di problemi con la scuola, perché avevo verifiche e interrogazioni ogni giorno e in questi ultimi due giorni sono stata male - scrivo questo da sotto alle coperte, tossendo ogni due minuti.
Perciò... scusate.
Al momento posso dirvi che credo che aggiornerò il prossimo capitolo sabato, considerando i vari impegni. Se sabato non riesco ad aggiornare, temo che dovrete aspettare dopo il 6 dicembre, perché dal 2 al 6 vado a Roma a trovare Sara, MedusaNoir qui su EFP.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto: a me non piace particolarmente, anche se introduce la figura di Francesco, che sarà molto rilevante ai fini della storia. Inoltre, anche la madre di Arianna come vedrete avrà il suo peso e Mattia... beh, per me è sempre una dolcezza infinita *-*
Bene, a presto, e scusatemi ancora tantissimo per il tempo che vi ho fatto aspettare ç_ç Spero che l'attesa sai valsa la pena!
A presto, ringrazio tutti quelli che mi seguono - siete tanti! - che mi recensiscono - siete degli amori! - che mi hanno inserita tra i preferiti - siete dei tesori! - e tra i ricordati - siete unici!
E dopo questa serie di ringraziamenti, me ne vado a prendere un Oki.
Un cuoricino a tutti voi,

Erica 
 ♥

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Capitolo 6
*** I can't write a love song. ***


∞ Capitolo quinto ∞

I CAN’T WRITE A LOVE SONG
THE WAY I FEEL TODAY.
“My guitar lies bleeding in my arms”, Bon Jovi, These days, 1995.




 
M
entre tornavo a casa, quel giorno, avevo osservato le persone che mi erano accanto, quelle conosciute e quelle sconosciute. Quali segreti celavano dietro di loro? Cosa aveva sconvolto la loro vita esattamente come aveva stravolto la mia un numero sulla bilancia? Sembrava che fosse tutto surreale, incredibile. Parevano tutti normali, tutti felici, con le loro vite perfette e senza problemi.
È questa l’apparenza della normalità: ti fa sentire come se fossi l’unica persona ad avere delle ustioni all’anima, in mezzo a serenità e fuochi fatui.
Mi resi conto di quanto tutto quel ragionamento fosse sciocco: era risaputo che tutti avessero i propri problemi. Se non li scorgevo a vista d’occhio, non significava che non fossero presenti. La più grande abilità dell’uomo è quella di nascondersi dietro alle più felici maschere. Eppure in quell’istante era come sentirsi macchiata di un morbo che nessun altro avrebbe mai potuto comprendere. I giorni passati ad amarmi erano svaniti e io ancora non lo sapevo: una bilancia aveva disintegrato completamente il rispetto che avevo sempre avuto per me stessa. Sarebbe iniziata una salita, da allora, ma io ancora non lo sapevo; forse lo sentivo – probabilmente era quella sensazione che mi rendeva così difficile camminare tra la gente in quel momento.
Quando mi sedetti sull’autobus, vidi qualche sguardo su di me e cominciai a chiedermi cosa pensasse la gente del corpo che vedeva, del corpo che portavo. Ero sempre stata assolutamente certa di essere bella, magra, addirittura invidiata, e che quegli sguardi di sbieco fossero semplicemente reazioni di gelosia per chi non poteva permettersi un fisico slanciato come quello che possedevo io. Ma se non fosse stato così? Se quegli occhi avessero voluto invece biasimare la mia magrezza e quasi compatirmi?
Smisi di pensare, smisi di crogiolarmi su riflessioni che non avevano né capo né coda. Non ero troppo magra, ero perfetta, me l’avevano sempre detto. E nessun chilo era sparito improvvisamente dal mio corpo in maniera tale da rendermi orribile agli occhi della gente. Ero sempre io. Bella. Slanciata.
Io.
Due auricolari nelle orecchie e il mondo svanì davanti ai miei occhi.

“Che fai, Mat?” Quando tornai a casa lo trovai sul tavolo, intento a scrivere qualcosa mentre aspettava il mio arrivo. Non si alzava mai da tavola prima che arrivassi io nonostante avesse finito già da un bel po’ di pranzare.
“Cerco di fare qualche disegno per la nostra storia.”
“Quella del pira-poeta?” Mi sedetti accanto a lui, dove un piatto di ravioli mi attendeva, fumante. Mi sentivo molto più allegra di quanto lo fossi stata durante tutta la giornata.
“Esatto. Abbiamo scritto la storia completamente,” mi indicò i fogli sparsi sul tavolo, metà scritti e metà bianchi, “lasciando lo spazio per i disegni. La maestra ha detto che sono facoltativi ma io vorrei che li facessimo perché renderebbe tutto molto più bello, visto che dobbiamo poi farne dei librettini.”
Annuii, piano. Se c’era una cosa che sapevo nella mia vita era quanto mio fratello fosse affezionato alla scrittura e al renderla più artistica possibile. “Quindi come stanno venendo?” chiesi, notando che stava nascondendo il foglio dove prima stava disegnando.
“Non molto bene,” ammise. “Non sono poi così bravo a disegnare.”
Ricordai i disegni di improbabili navi e case che faceva solitamente e che avevano generato non poche ilarità in famiglia e intuii che quel “non molto bene” stesse a significare un completo disastro. “Ale non sa disegnare?”
Scosse la testa. “Ale disegna solo macchine, nient’altro, forse qualche supereroe. Poi se fosse per lui non dovremmo nemmeno fare i disegni, dice che basta così. Per quello ci stavo provando io.”
“E Agnese?”
Mattia mi guardò. “Non lo so.”
“Perché non glielo chiedi?” lo spronai.
“Perché è Agnese,” rispose, calcando particolarmente il nome. “Quella matta. Non credo di poter affidare il pira-poeta nelle sue mani.”
Soffocai una risata. Era proprio mio fratello, non c’era alcun dubbio. “Magari a disegnare invece è brava, potrebbe darti una mano. Poi se non è brava ci riprovi tu.”
Fece una smorfia. “Non potresti aiutarmi tu?” Sembrava che nel suo tono di voce ci fosse l’ultima sospirata implorazione: era evidentemente disposto a tutto purché non si trovasse costretto a chiedere una mano alla sua compagna di classe.
“Mi piacerebbe, ma non sono molto brava, Mat. Inoltre ho moltissimi compiti da fare in questi giorni, non ti dedicherei il tempo che vorresti.” Gemette. “Dai, Mat. Ti prometto che se nemmeno Agnese è capace di fare alcunché ti do una mano, ma prima provate a farlo tra di voi, il lavoro è vostro.”
Non mi rispose nemmeno, sembrava combattere con se stesso. Forse era un bambino un po’ troppo orgoglioso, ma io vedevo solo una certa tenerezza in quel modo di comportarsi, cercando di non chiedere aiuto a nessuno, di dimostrare di essere capace di fare qualunque cosa. Con la sua determinazione, ne ero certa, sarebbe arrivato molto in alto.
“Va bene, Ari. Com’è andata oggi dal medico?” Evitava il mio sguardo, come se sembrasse preoccupato. Capii in quel momento che avrebbe voluto chiedermelo nello stesso momento in cui avevo messo piede a casa, ma si era trattenuto solo per non sembrare ansioso. Mi si strinse un nodo allo stomaco.
“Niente, mi ha fatto gli esami. Un’infermiera mi ha stretto un tubicino lungo il braccio e tolto sangue, mentre continuava a chiedermi perché una bella ragazza come me non avesse un fidanzato.”
“Le hai risposto che è perché sei scema?” domandò, sembrando un po’ più sollevato.
“Ehi, ma come ti permetti!” Gli arruffai tutti i capelli. Sapevo benissimo cosa intendesse dire: se non mi fossi fossilizzata su Francesco, probabilmente la mia vita sentimentale avrebbe avuto qualche risvolto negli ultimi anni, invece era rimasta più piatta di un elettrocardiogramma effettuato su una persona morta.
Lo guardai, ancora una volta. I suoi occhi, il suo viso dolce e ingenuo, la sua purezza. Pensai distrattamente a come sarebbe stata la mia vita senza di lui e la immaginai vuota, insignificante. Istintivamente lo afferrai e lo strinsi più forte possibile a me.
“Ehi!” mugugnò, soffocando tra le mie braccia. Ma dopo poco più di due secondi ricambiò l’abbraccio con tutta la sua forza.
“Quando saprai i risultati?” La sua voce era debole, come se non avesse voluto davvero domandarlo.
“Due giorni.” Mi chiesi quando fosse diventato così fragile, quando fossi diventata io così importante nella sua vita, al punto di stare così in ansia per uno stupido esame. Un macigno affondò nel mio stomaco e venni pervasa da alcuni sensi di colpa inspiegabili e dalla rabbia per mio padre, che aveva dato il via a tutto questo, a questa inutile inquietudine che aveva coinvolto un innocente bambino di dieci anni. “Non ti devi preoccupare per me,” sussurrai.
Non sono sicura che mi avesse sentito, non disse nulla. Cercò solo di tenermi più stretta ancora, come se avesse paura che sarei scivolata via da un momento all’altro.
Era come se se lo sentisse. Era come se lui avesse capito ciò che ancora era oscuro a tutti noi. Questo rende speciale Mattia: il suo animo, da sognatore, che gli permette di cogliere l’importanza di ogni attimo molto più delle altre persone. E se avessi saputo come sarebbe andata a finire, avrei fatto in modo che quell’istante stretta a lui non finisse mai.

Una mezz’ora più tardi ero in camera – cuffie alle orecchie, libro di filosofia inutilmente aperto sopra alla scrivania e pensieri tutti rivolti ai Pentimento, un gruppo sconosciuto che avevo appena incontrato nella mia strada musicale – quando squillò il telefono.
Sullo schermo lampeggiava un nome: Francesco.
Non riuscii a trattenere un sorriso, prima di schiacciare il pulsante per rispondere.
“Buongiorno!” esclamai.
“Ohilà, Ari. Disturbo?” La sua voce mi giunse alle orecchie e mi fece sorridere ancora di più. Ero un caso irrecuperabile.
“Sai che non disturbi mai.” Come poteva dopotutto disturbarmi la presenza di un tale angelo? Avrei voluto, piuttosto, che disturbasse più spesso di quanto faceva.
“Magari stavi studiando.”
Guardai il libro aperto distrattamente sopra al tavolo, pieno di parole che ancora non avevo azzardato nemmeno a leggere. E il giorno dopo c’era una bella verifica che mi aspettava. “Nah, non ti preoccupare.”
“Senti, volevo dirti che sabato non riesco a venire a vedere la cover band dei Queen.”
“Cosa? Me l’avevi promesso!” Aspettavamo una data dei Toys da mesi, ormai, e quando avevamo scoperto che avrebbero suonato al nostro pub preferito avevamo deciso che ci saremmo andati insieme, cascasse il mondo. Quindi, come minimo, doveva essere caduto un meteorite che aveva abbattuto la sua casa, tutta la sua famiglia e il suo cane. “Perché?”
“Esco con Ilaria.”
Ecco. Il meteorite aveva colpito me. “Ah… le hai chiesto di uscire quindi?”
“Sì, oggi dopo scuola.”
“E ha accettato.”
“Sì. Le ho chiesto se potevamo uscire domenica pomeriggio ma lei era impegnata.”
Cercai di mantenere un tono di voce che non lasciasse trasparire nessun buco che si era appena formato dentro di me. “Ma aspettavamo questa data da mesi, Fra’. Non potreste uscire la prossima settimana?”
“Aspetto anche da mesi di uscire con lei, Ari, lo sai.”
Deglutii sonoramente. Mesi. Avrei voluto che sapesse da quanti anni io aspettavo di uscire con lui, qualche mese non era niente a confronto. “Va beh.”
“Mi dispiace, Ari, ci andremo la prossima volta.”
“Sì.” Guardai di fronte a me, ma vidi solo una parte della mia camera appannata, come se fosse ricoperta di un velo invisibile. “Ora devo studiare.”
“Ok, ciao, Ari.”
Non risposi nemmeno, chiusi la chiamata e appoggiai lentamente il telefono sulla scrivania. Continuavo a ripetermi che sarei stata forte anche questa volta, che c’ero già passata spesso, che non mi importava, che c’ero abituata. Rimisi le auricolari alle orecchie, ascoltando distrattamente la canzone che era appena iniziata.
We're just friends 'cause that seems to be what makes sense, too bad it's all we'll ever have…
Non mi trattenni più. Non riuscivo a credere di essere di nuovo caduta in quell’incubo, avevo sperato di evitarlo per un tempo molto più lungo. Erano passati solo pochi mesi dall’ultima ragazza. Erano passati solo pochi mesi dall’ultima volta in cui il mio cuore si era spezzato e avevo fatto tanta fatica per provare a ricucirlo nel miglior modo possibile.
E ora si ricominciava da capo.
Espirai piano, cercando di non fare scendere alcuna lacrima. Mi alzai dalla scrivania e andai in bagno, senza reale motivo. Mi guardai allo specchio.
Ripensai a quello che mi avevano detto tutti i giorni da quando avevo memoria ogni persona che mi aveva conosciuto. Quanto sei bella! Che bel fisico, i maschi ti guarderanno tutti! Ma che senso aveva avere quella magrezza, quel corpo perfetto, se l’amore non ti degnava di uno sguardo? E se nemmeno i tuoi genitori ne andavano fieri, ma, anzi, ne facevano motivo di preoccupazione?
Non mi trattenni più e piansi tutte le lacrime che avevo in corpo.






{ Spazio HarryJo.
Ciao a tutti. Vi ricordate di me? Lo so, okay, merito la fucilazione. Siamo tutti d'accordo su questo, credo che nessuno abbia alcun dubbio e non so come farmi perdonare - se sono perdonabile.
Sono passati troppi mesi, più di un anno, dall'ultima volta in cui ho aggiornato questa storia e mi dispiace perché so che molti di voi l'avevano molto apprezzata e aspettavano con impazienza mie notizie. Immagino che potrei trovarvi con i forconi sotto casa, sigh.
Comunque alla fine ho deciso che volevo provare a ritornare qui su EFP poiché mi mancava l'ambiente, le persone che avevo conosciuto e proprio anche il mio account. Così ho deciso che potevo fare di nuovo un tentativo, qui, con voi; spero che siate contenti della mia decisione e di non deludervi troppo - sempre se non volete che ritorni dove me ne stavo u.u
Questo è il nuovo capitolo di questa storia. Spero che vi sia piaciuto e che possa continuare a interessarvi, poiché rimane sempre una delle storie a cui io mi sento più legata in assoluto.
Fatemi sapere che ne pensate se siete ancora vivi e se non mi odiate troppo! Vi spedisco tanti cuoricini comunque. :*
Un bacio grande,

Erica.

P.S.: Se a qualcuno di voi può interessare, ho iniziato anche una long noir, Contaminati, a cui tengo davvero molto. Se vi va fateci un salto! :)

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Capitolo 7
*** After all it was a great big world. ***


∞ Capitolo sesto ∞
 
AFTER ALL IT WAS A GREAT BIG WORLD
WITH LOTS OF PLACES TO RUN TO.
“American Girl”, Tom Petty and the Heartbreakers, Tom Petty & the Heartbreakers, 1977.
 
 
 
N
 ove minuti. Nove minuti e sarebbe suonata la sveglia anche quella mattina.
Sospiravo, guardando continuamente l’orologio. Continuavo a svegliarmi sempre prima, da sola, senza alcuna sveglia ed era pressoché inutile ogni tentativo di tornare a dormire. I pensieri si accumulavano uno dopo l’altro dentro di me, creando una specie di vortice da cui non potevo neanche sperare di scappare. Ero entrata in un buco nero che mi attirava completamente e non mi concedeva alcun tipo di via d’uscita.
Otto minuti. Come avrei affrontato la giornata? Mi sarei alzata, avrei fatto distrattamente colazione, sarei salita sul pullman, diretta a scuola e poi? Davanti a Francesco? Sarei stata quella di sempre o la mia gelosia avrebbe inficiato tutto? E se Ilaria fosse stata lì accanto a lui? Avrei saputo resistere a quella visione? Al mio cuore di nuovo in mille pezzi? Avevo ancora un po’ di colla da parte per rimettere assieme quei cocci di me?
Sette minuti. Mi voltai dall’altra parte del letto, serrando gli occhi il più possibile e rannicchiandomi, come se potessi darmi maggiore calore. Avrei voluto un abbraccio, uno di quelli in cui sparire e non tornare più in superficie fino a quando non sarei stata abbastanza forte. Mi domandavo cosa avrebbe pensato Francesco se mi avesse vista soffrire così a causa sua; probabilmente sarebbe rimasto zitto, incapace di proferire parola.
Sei minuti. Non era tanto complicato, dovevo solo rivestire la maschera che avevo indossato in quegli anni così tante volte da perdere il conto. Il sorriso allegro, la spensieratezza, l’allegria. Tutti quegli elementi che Arianna normalmente portava con sé ogni volta in cui usciva di casa. Dovevo solo imparare a essere me stessa anche quando il cuore me lo impediva.
Cinque minuti. E se invece fossi andata a dire a mio padre che non stavo molto bene e che dovevo rimanere a casa? Così avrei evitato di vedere i suoi occhi e la fatica di fare quei falsi sorrisi, la fatica di essere l’amica del cuore. Bastava inventarsi un po’ di mal di testa e avrei potuto rimandare la faccenda a quando sarei stata più pronta.
Quattro minuti. Stavo per alzarmi dal letto quando mi tornò in mente la situazione con mio padre e quella sua stupida fissazione sulla mia salute. Non potevo di certo dargli motivo di sospettare una malattia incurabile ancor di più di quanto già fosse nei suoi pensieri. Maledizione a lui. Dovevo affrontare nuovamente il mondo senza armi né scudi.
Tre minuti. Potevo sempre rinchiudermi in classe in ricreazione, così non avrei corso il rischio di incontrarlo nei corridoi. Avrei chiesto ad Alessia, l’unica mia compagnia di classe con cui ero davvero amica e a cui rivelavo ogni cosa, di stare davanti alla porta e, se lui avesse chiesto di me, di dirle che ero in bagno o qualcosa del genere, per non aver modo di parlarci. Così avrei potuto passare questa giornata pressoché indenne – o quasi, insomma, intenta a combattere solo con me stessa.
Due minuti. Ma perché continuavo a farmi tutte queste paranoie? No, non potevo organizzare questi tristi trucchetti da ragazzina, dovevo affrontare il mondo, affrontare l’amore, affrontare lui. E avrei agito come avevo sempre fatto: stringendo forte i denti come ti insegnano quando sei bambina, per cercare di sentire meno il dolore.
Un minuto. Avrei stretto i denti, sì.
Driiin.
 
1. Delinea l’influenza della rivoluzione scientifica nel pensiero di Cartesio.
Cercai di sorridere. Per non piangere, s’intende. Una delle cose che si dimentica di fare quando si ha il cuore in mille pezzi è quella di studiare e adempiere ai propri compiti quotidiani. Potevo dire addio al mio otto in filosofia.
Tutti attorno a me scrivevano furiosamente; probabilmente era la prima volta che si erano messi così di impegno a studiare, poiché il professore aveva garantito una maggiore rigidità con i voti, dato che sospettava che copiassimo continuamente durante i suoi compiti. Stava anche sorvegliando con maggior accuratezza tutti noi. Ero proprio sfortunata, non poteva capitarmi giorno peggiore. Rimpiansi il momento in cui non mi ero alzata da quel letto e non avevo finto una cefalea cronica da ricovero ospedaliero immediato.
Cercai di tornare a concentrarmi, a ricordare cosa avevo scritto negli appunti durante la spiegazione di Cartesio, massaggiandomi la testa. Non mi veniva in mente nulla.
Stavo per disperarmi quando vidi volare sopra al mio banco un bigliettino. Perfetto, ci mancava solo che qualcuno mi chiedesse una mano che io non ero in grado di dare.
Aprii, sconsolata, e trovai invece una serie di parole, l’una dietro l’altra. Capii immediatamente che erano i punti chiave del pensiero cartesiano. Mi girai a vedere meglio i miei compagni di classe per capire a chi dovevo quella salvezza improvvisa e a chi avrei giurato amore eterno.
Lorenzo, poco più a destra di me, mi fece un cenno della mano e sorrise, per poi tornare a scrivere la sua risposta. Vidi il professore alzarsi e venire verso la mia direzione appena in tempo; nascosi il bigliettino sotto il foglio della verifica e iniziai intanto a scrivere qualcosa, sorridendo al pensiero che ci fosse qualcuno nel mondo a capire che avevo bisogno d’aiuto senza che io lo chiedessi esplicitamente.
 
Due ore più tardi suonò la campanella della ricreazione e ancora ero indecisa su dove andare. Escludevo di fiondarmi come al solito nella classe di Francesco: avevo deciso di affrontare la cosa, ma ciò non significava che volessi andare a cercarmela. Rimanere in classe era escluso, perciò andai a prendere un caffè alle macchinette, per cercare di calmare i nervi.
Lì trovai qualche mio compagno di classe tra cui Lorenzo, perciò gli feci cenno di aspettarmi; mentre i suoi amici se ne tornavano in classe, io mi avvicinai a lui, pigiando più volte sopra al bottone dello zucchero e inserendo i soldi.
“Calo di zuccheri?” domandò, non potendo fare a meno di notare il mio gesto.
“Calo di nervi più che altro,” risposi senza pensare. “Senti, Lorenzo, grazie per il bigliettino durante il compito.”
“Ma figurati! Con tutte le volte in cui mi hai aiutato tu in latino.”
“Già, in effetti è strano che sia stato tu a passare il compito a me.” Sorrisi, ripensando ai suoi sei strappati nelle materie umanistiche solo grazie a me.
“Eh, ma oggi avevo studiato per bene, quindi tranquilla. Ciò che ti ho detto è giusto. O almeno spero.” Sorrise a mo’ di scuse, ma non ci feci caso. Anche se avesse sbagliato a passarmi qualcosa, mi aveva comunque aiutato, perché se fosse stato per me avrei consegnato il compito in bianco. E non potevo fare a meno di essergli grata.
“Grazie comunque.”
“Ma come mai un genio come te non era preparata per il compito dell’anno?” domandò, con finta noncuranza. Mi girai verso di lui, osservandolo meglio: sembrava un po’ preoccupato o era solo la mia impressione? O era solo il fatto che avevo bisogno di qualcuno che si preoccupasse per me in modo diverso da come faceva la mia famiglia a farmi pensare che fosse realmente così?
“Ieri ho avuto una brutta giornata,” minimizzai.
“Oh, del tipo ti si è rotta un’unghia?” Lorenzo era sempre stato il classico ragazzo che considerava le ragazze un gregge di pecore stupide (e spesso trovava la mia comprensione).
“Più del tipo mi si è conficcato un pezzo di vetro nel cuore.” Sorrisi garbatamente, sforzandomi di essere forte.
Lorenzo non disse nulla per un po’, poi appoggiò la sua mano sopra alla mia spalla, come a farmi coraggio, come a tenermi ferma. “Vedrai che una volta tolto con quel vetro farai tanta sabbia colorata.”
Gli sorrisi, incredula. Poi sbiancai, vedendo dietro di lui Francesco, che ancora non mi aveva notata. Avevo poco tempo per sparire da lì e non doverlo incontrare.
“Ehi, Lorenzo. Ti va di andare un po’ in giardino?”
 
Quello che chiamavano giardino, nella nostra scuola, in realtà era un semplice appezzamento di terra grande non più di una decina di metri quadri, di solito riempiti da gente che fumava qualche sigaretta di nascosto dai professori. Io non ci andavo quasi mai, poiché a me e a Francesco piaceva molto più girare per l’interno della scuola, anziché rimanere fermi in un posticino così piccolo. Non vi erano nemmeno alberi, era solo un posto di natura ritagliato in un luogo dove non c’era niente di naturale.
“Canti ancora?” chiesi a Lorenzo, giusto per iniziare a parlare di qualcosa.
“Ogni tanto, sai, il gruppo si è sciolto quindi…”
“Oh, mi dispiace. E perché?”
“Divergenze artistiche.” Scrollò le spalle. “Diciamo che non cercavamo più le stesse cose quindi abbiamo preferito concludere. Ormai sono passati un paio di mesi, mi manca un po’ ma capisco anche io che fosse la cosa giusta da fare.”
“E quindi? Pensi di cercare un altro gruppo?”
“No, non credo. In realtà vorrei più che altro fare qualcosa di acustico, sai, solo chitarra e voce. Credo di essere più portato per questo, quindi spero di avere modo di imparare a suonare presto.”
Annuii. Avevo sentito poche volte la sua voce ma ricordavo che ne avevo apprezzato molto il timbro e pensavo che non sarebbe stato male in acustico. “Se riuscirai a mettere su qualcosa devi dirmelo, voglio sentirti.”
Mi guardò, quasi sorpreso. In effetti non è che avevamo mai avuto un grande rapporto come compagni di classe, ero sempre e solo stata la sua salvezza durante i compiti impossibili, mai un’amica. “Va bene, Arianna. Tu fammi sapere se riesci a toglierti quel pezzo dal cuore, altrimenti potremmo sempre tirarci su il morale con qualche birra, una sera. Potresti uscire con noi, sempre se non vai fuori con le nostre compagne a ballare.”
Scossi la testa, ridendo. “Chi, io? Nah, non sono tipo. Mi piacerebbe molto.”
“Forte.” Mi sorrise. “Ti farei conoscere i miei amici, ti piacerebbero.”
“Ah sì? Perché, come sono?”
“Mh. Dei tipi.” Risi alle sue descrizioni così dettagliate.
“È meglio che rientriamo, a momenti suona e sai che la professoressa di Arte non vuole che arriviamo in ritardo.”
“Sia mai!”
E corremmo in classe, e mi sentii meglio. Il mondo, fuori dalle preoccupazioni, era grande e bello, se c’erano posti in cui poter correre.
 
Arrivata a casa controllai il cellulare, distrattamente, e vidi che erano arrivati tre messaggi.
Uno era di Chiara.
Come sta la mia Brie?
Brie era il nome della protagonista di un libro che avevamo letto entrambe mille o più volte, che all’inizio della storia moriva perché le si era spezzato il cuore. Sorrisi, pensando che forse in Paradiso avrei trovato pure io un Patrick con cui stare.
Risposi brevemente: Giorno 1: Pericolo scampato, cuore triturato.
Il secondo messaggio, invece, era di Francesco.
Dove sei sparita oggi? Non ti ho trovata da nessuna parte. Eri a casa? Stavi male?
Ingoiai il fiume di parole che gli avrei voluto scrivere, su come la sofferenza mi stesse dilaniando petto e cuore, su come avrebbe dovuto guardare meglio per trovarmi, su come avrebbe anche solo dovuto amarmi. Risposi invece: No, scusa, ero con dei miei compagni.
Il terzo messaggio invece era di mio padre.
Arianna, ricordati di controllare i risultati degli esami e di stamparli, così andiamo dal medico appena torno.
Deglutii, dimenticando Chiara, Francesco, Ilaria e Lorenzo.
Era ora.
Era ora di conoscere la verità.









{ Spazio HarryJo.
Ciao, come state? Eccomi qui, sono ritornata con il nuovo capitolo di Diagnosi, incredibile ma vero. Devo dire che questa storia mi è mancata molto più di quanto pensassi, perché rivedendola in questi giorni mi sono completamente ritrovata in questo mondo e sono contenta quindi d'esservi tornata. Spero faccia piacere anche a voi.
Dopo questo capitolo si tornerà a parlare della "malattia" di Arianna con più attenzione, essendo ancora all'inizio lei ora non ha ancora i pensieri così fissi lì. Ma dal prossimo capitolo sarà tutta un'altra musica.
Qui si è conosciuto, inoltre, un nuovo personaggio: Lorenzo. Un compagno di classe che lei fino ad allora non aveva mai guardato sotto occhi diversi della persona che le copiava i compiti di latino, ma che in quel giorno ha avuto una grande importanza. Chissà che non ritorni a farle e a farci compagnia. :)
Ah, il libro a cui fa riferimento Arianna è Storia catastrofica di te e di me di Jess Rothenberg, uno dei miei preferiti. Vi consiglio caldamente di leggerlo!
Ringrazio tutti coloro che mi hanno letto, recensito e seguito fino ad ora. Fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo se volete, un bacio,

Erica.
Vi ricordo, per chiunque volesse, che sto scrivendo un'altra long,
Contaminati.

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