How I met...

di LaniePaciock
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Richard Castle ***
Capitolo 2: *** Kate Beckett ***
Capitolo 3: *** Martha Rodgers ***
Capitolo 4: *** Javier Esposito ***
Capitolo 5: *** Lanie Parish ***
Capitolo 6: *** Alexis Castle ***
Capitolo 7: *** Roy Montgomery ***
Capitolo 8: *** Kevin Ryan ***
Capitolo 9: *** Victoria 'Iron' Gates ***
Capitolo 10: *** My Always ***



Capitolo 1
*** Richard Castle ***


Cap.1 Richard Castle


Infilai le chiavi nella toppa cercando di trattenere un enorme sbadiglio con scarso successo. Finalmente avrei potuto concedermi un po’ di meritato riposo. Chiusi al porta alle mie spalle e lasciai le chiavi sul tavolo vicino all’entrata. Tolsi la giacca e la buttai su una sedia. Era appena iniziato settembre, ma già iniziava a fare fresco. Alzai le braccia e mi stirai per bene. Stavo letteralmente collassando. Solitamente non mi affatico con facilità, ma arrivati a questo punto anche i più resistenti cedono. In un mese avevo girato come una trottola da un parte all’altra del paese. A fine luglio ero al ComiCon di San Diego, in California, per parlare del Dr. Horrible. Poi una serie di interviste a Los Angeles, il party per il finale di stagione di Desperate Housewife, un passaggio a Edmonton dai miei per qualche giorno e quindi a fine agosto al DragonCon di Atlanta, in Georgia, sull’altra sponda dell’America.
Ora ero finalmente rientrato nel mio appartamento di Los Angeles. Mi guardai attorno per un momento con un lieve sorriso. Mi erano mancate quelle quattro mura. Ero un tipo da compagnia, uno di quelli che tiene sempre viva la conversazione e scherza in continuazione, ma era già da un po’ che quell’appartamento era diventato il mio rifugio.
Mi passai una mano tra i capelli, soffocando un altro sbadiglio, e mi diressi in cucina. Nel tirare fuori una birra dal frigo, notai il vuoto che vi regnava. Probabilmente se avessi parlato avrei sentito l’eco. In fondo però era più di un mese che ero fuori. Mi segnai mentalmente di fare la spesa l’indomani mattina. Stappai la bottiglia e uscii dalla cucina per andarmi a buttare sul divano del salone. Presi un sorso di birra, quindi reclinai la testa all’indietro, la appoggiai alla spalliera e chiusi gli occhi. Rimasi in quella posizione per diversi secondi, semplicemente assaporando la tranquillità. Adoravo le feste e amavo i fan, ma diavolo se sapevano come farti sentire uno straccio dopo giorni di interviste, sorrisi, battute e autografi. Sorrisi appena. Avevo da lamentarmi forse? Ero un attore per lavoro e lo amavo. Ero affascinante, simpatico e avevo un sacco di fan che mi adoravano. Stavo più che bene economicamente, anche devolvendo buona parte del mio stipendio in beneficenza, attiravo ragazze come mosche al miele e, soprattutto, avevo la possibilità di baciare alcune tra più belle attrici. Sospirai compiaciuto.
Quando riaprii gli occhi qualche minuto dopo, girai la testa alla ricerca del telecomando. Avevo voglia di un po’ di tv prima di andare a dormire, nonostante fosse già sera inoltrata. L’occhio mi cadde sul tavolino accanto al divano dove un plico di fogli mi aspettava impaziente. Sbuffai appena. Avevo un contratto particolare con la ABC. Loro mi mettevano davanti un po’ di parti che avrei potuto interpretare e io decidevo quali. Mi piaceva come cosa. Potevo scegliere di fare quello che volevo. Solo che negli ultimi tempi avevo sempre interpretato ruoli che non mi soddisfacevano del tutto. Oddio, fare il ginecologo per due volte di fila prima in Waitress e poi in Desperate Housewife non è che mi fosse dispiaciuto in realtà così tanto. Solo che mi mancava Firefly. Avevo amato il personaggio di Malcolm Reynolds dal primo momento in cui me lo avevano descritto. Inoltre era un cowboy spaziale! A chi non sarebbe piaciuto interpretare il cowboy sparatutto a capo di un’astronave?? Insomma in un solo episodio avevo sparato, ero andato a cavallo ed ero salito su una navetta spaziale!! Ok, era finzione, ma diavolo!! Inoltre non avevo mai avuto tanto affiatamento con il resto del cast e la troupe. Mi è dispiaciuto tantissimo quando hanno annullato la serie. Solo dopo la Fox si è accorta di quello che si era lasciata sfuggire. Basta pensare che dopo due anni della chiusura della serie, ci hanno fatto girare un film conclusivo, Serenity. Senza contare che ancora una volta al DragonCon di quest’anno avevamo avuto un panel tutto per noi. Sorrisi malinconico e il mio sguardo si perse ripensando ai tanti momenti che avevo passato con quel cast.
Dopo qualche secondo scossi la testa, scacciando quei pensieri. Quel periodo era finito purtroppo. Trovai il telecomando sotto un cuscino e accesi la televisione. Feci un po’ di zapping cercando qualcosa di interessante. Era passato qualche minuto quando mi squillò il cellulare. Lo tirai fuori dalla tasca dei pantaloni e sorrisi nel vedere il disegnino della casetta che avevo messo come immagine per le chiamate dai miei genitori. Schiacciai senza esitazione il pulsante verde.
“Pronto?”
“Ehi, ragazzo!” Sorrisi. Solo mio padre ormai, all’alba dei miei 37 anni, mi chiamava ancora ‘ragazzo’. “Come stai? È andato bene il viaggio?”
“Ciao papà!” risposi allegro. Ero sempre felice di sentirlo visto che lo vedevo poco. “Tutto bene. Il viaggio è stato tranquillo per fortuna, anche se lungo.”
“Vorrei ben vedere!” esclamò mio padre. “Da Atlanta a Los Angeles non è una passeggiata. E invece il Drag-come-si-chiama come è andato?” Non riuscii a non ridacchiare.
“Si chiama DragonCon, papà, ed è andato bene. Abbiamo parlato di Firefly e un sacco di gente ci ha chiesto ancora una volta perché lo hanno cancellato…” Il mio tono si intristì nonostante cercassi di non darlo a vedere. Ma era mio padre. Mi conosceva bene. Lo sentì sospirare.
“Mi dispiace per quella serie, ragazzo” disse piano. “Anche a me piaceva. Però vedi il lato positivo. Magari troverai qualcos’altro di altrettanto bello…”
“Ne dubito” mormorai sconsolato. Poi presi un respiro e tornai a sorridere. In fondo ero un attore, no? “Ehi, ma lì come sta andando? Non dovevano venire Jeff e famiglia oggi?”
“Sì, infatti sono qui” rispose felice. “Solo che volevamo sapere come era andat…”
“BOB!!” Il richiamo di mia madre sovrastò la voce di mio padre nonostante la lontananza dal telefono. “Ancora non hai finito?? Quando hai intenzione di farmi sentire il mio Nate??”
“Ma ci siamo a malapena scambiati due parole!” replicò mio padre con tono offeso. “Dammi un momento con mio figlio, donna!” Ops. Pessima scelta di parole papà. Cercai di non scoppiare a ridere. Sapevo chi portava realmente i pantaloni a casa. Mamma non avrebbe mai accettato l’appellativo di ‘donna’. Potevo quasi immaginarmi il dramma che si stava svolgendo all’altro capo del telefono: mamma con le mani sui fianchi che guardava male mio padre e papà che pian piano capiva le sue stesse parole e si faceva piccolo sotto lo sguardo assassino di mia madre.
“Robert Fillion” iniziò mia madre con tono minaccioso. “Azzardati di nuovo a chiamarmi ‘donna’ e ti farò vedere io chi è la donna!”                                                                                         
“Ehm… andiamo, Cookie, tesoro, mi è scappato” replicò mio padre velocemente con tono di scuse. “Non volevo lo sai…”
“Ora saluta nostro figlio e passamelo, su” continuò mia madre sbrigativa. Potevo quasi vederla che allungava la mano verso papà per avere il telefono. Sentii mio padre sospirare rassegnato. Amavo il loro modo di interagire. Si battibeccavano sempre e mio padre tutt’ora non sapeva resistere a mia madre. Eppure a quanto ne sapevo nessuno dei due prevaleva realmente sull’altro. Inoltre si amavano come il primo giorno. Mi chiesi se anche io avrei mai avuto una tale fortuna prima o poi.
“Ragazzo, ti saluto” dichiarò mio padre sconsolato. “Qui c’è qualcuno di piuttosto pressante che ti cerca”
“D’accordo, papà” risposi cercando di mascherare meglio che potevo una risata. “Ci sentiamo.” Mi salutò un’ultima volta e passò il telefono a mia madre.
“Nate?” la sentì chiamarmi dopo qualche secondo. “Tesoro, come stai? Come è andato il viaggio?”
“Ciao mamma! Tranquilla tutto bene, sia io che il viaggio” risposi.
“Sarai arrivato ora a casa, tesoro. Immagino sarai stanco…” Risposi affermativamente, cercando di reprimere un nuovo sbadiglio che proprio in quel momento aveva deciso di fare la sua comparsa. “Sei riuscito a mangiare qualcosa almeno?” Scossi la testa divertito. Quando ero via era sempre una delle prime domande che mi faceva.
“Sì, mamma, ho mangiato” risposi appena esasperato. “Non ho più quattro anni, so badare a me stesso.” Tralasciai il fatto che mi ero cibato a malapena di un panino appena prima di partire con l’aereo e che ora mi sostentavo con la birra. Non volevo certo darle man forte.
“Mah…” commentò poco convinta. “Ti ho visto dimagrito quando sei venuto.” Cercai di reprimere un sospiro. Lei mi vedeva sempre dimagrito.
“Ehi, c’è il mio caro fratellino al telefono?” sentì dire in lontananza. Ridacchiai. Avevo 37 anni. Mio padre mi chiamava ancora ‘ragazzo’ e mio fratello ‘fratellino’. Ci mancava solo che mamma cominciasse a chiamarmi Naty come quando ero bambino e avrei fatto tris.
Sentì mia madre rispondere affermativamente a Jeff.
“Naty, caro” Cercai di reprimere un sospiro sconfortato. Ti pareva. Avevo parlato troppo presto. “Ti passo tuo fratello qui che non vede l’ora di sentirti. Io non sono come certa gente che non fa mai parlare gli altri al telefono…” Scoppiai a ridere. Ero quasi certo che papà fosse a portata d’orecchio. Potevo quasi vedere mamma che gli lanciava un’occhiataccia, mentre lui faceva ostinatamente finta di niente. Dopo qualche secondo mi passarono mio fratello.
“Ehi, Jeff, come te la passi?” chiesi allegro. Non ero riuscito a vederlo la settimana prima purtroppo e mi era mancato scherzare con lui. Quest’anno non eravamo neanche riusciti a farci la nostra solita settimana di vacanza insieme. “Quanti bambini ti sei mangiato nell’ultima settimana?” domandai divertito.
“Ah, ah” rispose lui ironico. “Io sto bene, fratellino, e anche i bambini. Sono un preside, non l’uomo nero!” Ridacchiai. “Tu invece che mi racconti? Oh, aspetta! C’è qualcuno qui che è impaziente di salutarti!” Attesi qualche secondo e, dopo un lieve tramestio dall’altra parte del telefono, fui ricompensato da una vocetta squillante.
“Ciao zio Nath!” Non potei fare a meno di sorridere da orecchio a orecchio. Adoravo i bambini. Ma il mio nipotino era il bimbo che preferivo in assoluto.
“Ehilà, campione!” risposi felice. “Come stai? Stai facendo il bravo?”
“Sto bene e sono bravo, zio, lo sai bene!” Ridacchiai. A 7 anni aveva una linguetta che faceva invidia a molti bambini della sua età. “Quando ci vieni a trovare?” domandò poi spiazzandomi. “Non ci siamo visti settimana scorsa… Ti ricordi che devi insegnarmi a giocare a poker, vero?” continuò speranzoso. Sospirai. Non avevo molto tempo da passare con lui purtroppo.
“Mi spiace, campione, ci vorrà un po’ prima che possa tornare di nuovo…” Potevo quasi vederlo che metteva su quel suo broncino che mi faceva capitolare ogni volta. “Ma ti prometto che poi quando vengo ti insegno tutto, così stracciamo il tuo papà!” Lo sentì gioire dall’altra parte del telefono e io sorrisi. Quindi udì Jeff dirgli di non tenermi troppo al telefono. Ci salutammo e il piccolo mi ripassò mio fratello.
“Cos’è questa storia del poker?” domandò sospettoso. “Non vi posso lasciare un secondo da soli che già tramate alle mie spalle…” Io ridacchiai.
“Ehi, lo sai che io e tuo figlio siamo dei geni del male quando ci mettiamo d’impegno!” risposi divertito. Sospirò.
“E io che pensavo che tu fossi Capitan Hammer! Evidentemente sei più simile al Dr. Horrible di quanto crediamo...” A quelle parole io mi lanciai in una risata malvagia proprio in stile Dr. Horrible. Avrei potuto fare concorrenza a Neil Patrick Harris. Appena finii, ci fu un secondo di silenzio. Quindi scoppiammo a ridere.
“Allora, Nath, hai già trovato qualche altra cosa da fare?” mi domandò quando finalmente ci fummo calmati. “Magari stavolta qualche ingaggio che non comporti il porno, così almeno posso farlo vedere anche a tuo nipote!”
“Ehi, è successo una volta sola!” risposi offeso. “E non era neanche propriamente porno! Provocante certo, io e la ragazza ci siamo anche baciati, ma immagino ricordi come andava a finire!!” Sentii Jeff ridacchiare dall’altra parte del telefono.
“Sì, sì lo ricordo, te lo concedo!” replicò divertito. “Quindi hai già trovato qualche altra parte da interpretare? Altri cowboy spaziali, autisti in cerca della moglie rapita, supereroi o ginecologi?” Sospirai. Aveva toccato un tasto dolente.
“In realtà sto ancora guardando…” dissi atono facendomi coraggio e recuperando quel malloppo di carte sul tavolino per portarle accanto a me sul divano. C’erano diversi copioni ammucchiati. Un paio riguardavano film, gli altri serie tv e piccoli sketch. Li sfogliavo e intanto commentavo i titoli o qualche introduzione a Jeff. Dopo pochi minuti arrivai all’ultimo copione senza aver trovato niente che mi piacesse davvero. Presi quell’ultimo e gli lanciai un’occhiata distratta. Il titolo mi incuriosì. Castle. Era forse un film sui cavalieri medievali? Lessi la spiegazione appena sotto il titolo. Non erano cavalieri e non era neppure un film. Era un nuovo telefilm ed era incentrato su uno scrittore. Un famoso scrittore di gialli, per la precisione, che inizia a seguire una detective della Omicidi di New York per farne la sua nuova musa.
Quella storia mi interessava. Ricordava molto la serie “Murder, She Wrote”, ma al maschile. Avevo visto tutti gli episodi. Aprii copione e iniziai a leggere le prime battute. Ero talmente concentrato che non mi ero neanche accorto che era già più di un minuto che non dicevo nulla. Quando tornai alla realtà il tono di mio fratello era preoccupato. Doveva avermi già chiamato diverse volte.
“NATHAN!”
“Uh, cosa? Come?” mormorai confuso. Scossi al testa per riprendermi. “Scusa Jeff avevo la mente altrove… Senti devo andare, ti richiamo poi io. Forse ho trovato qualcosa. Salutami tutti!” Riagganciai senza dargli il tempo di rispondere. La mia stanchezza era sparita. La storia su quelle pagine mi interessava e la descrizione del personaggio anche di più. Lo scrittore era ironico, affascinante, arrogante, sbruffone, pieno di belle donne, con una figlia quindicenne e giudiziosa e una madre attrice ed esuberante al seguito. Più leggevo il copione e più me ne innamoravo. Quel personaggio era fatto per me. E il fatto che tra scrittore e detective ci fossero fin da subito scintille mi intrigava. Come anche la storia di lei. Sembrava che ci fosse molto di più sotto quella scorza dura. Non potevo assolutamente lasciare andare un ruolo del genere. Doveva essere mio. Ero impaziente. Era da molto che non mi sentivo più così.
Non preoccupandomi dell’orario, chiamai il mio agente, George Flynn. Mi rispose al quarto squillo.
“Pro…pronto?” rispose sbadigliando sonoramente.
“George, sono io, Nathan” replicai.
“Nathan??” esclamò sorpreso. “È successo qualcosa?” domandò allarmato.
“No, niente di preoccupante tranquillo” risposi. Lo sentii sbuffare.
“E allora perché diavolo mi chiami a… Mezzanotte e mezza?? Ma ti sembra normale??” mi chiese come se fossi impazzito all’improvviso.
“No, scusami, non è normale, ma ho bisogno di un favore” replicai subito con tono di scuse, ma allo stesso tempo impaziente. “Puoi farmi avere il prima possibile un colloquio con…” cercai velocemente il nome sul davanti del copione “Andrew Marlowe?”
“Il creatore di Castle?” mi domandò perplesso. Mi zittii per un attimo, la bocca aperta. Rimanevo sempre stupito dalle sue capacità di memoria. Avevo davanti qualcosa come dieci copioni differenti e lui ricordava ognuno dei registi, la storia o a che punto erano con la serie.
“Sì, lui” risposi finalmente. “Ho appena finito di leggere il copione e vorrei provare a ottenere la parte. È il ruolo per me, me lo sento!”
“Lo so” replicò George misterioso. Dovette capire la mia confusione perché mi spiegò le sue parole. “Ho letto quel copione e la descrizione dello scrittore e anche io ho pensato ti stesse a pennello. Ok, dai, domattina la prima cosa che farò sarà chiamare Marlowe.” Io sorrisi felice.
“Grazie, George! Ti devo un favore” Ridacchiò.
“Ovviamente. È il minimo per avermi svegliato a quest’ora! Ora posso tornare a dormire?” domandò infine con un sospiro.
“Certo! Scusami ancora e grazie!” replicai. Mi salutò e mise giù. A quel punto riposizionai tutte le carte sul tavolino, spensi la tv e spostai il telecomando dal divano. Quindi mi stesi e ripresi il copione del primo episodio di Castle per rileggerlo una seconda volta. Volevo imprimermi nella mente quell’uomo. Non che fosse così difficile viste le somiglianze. Non ero più stanco ora. Ero elettrizzato.
 
Nonostante tutto riuscii a dormire per qualche ora. O per meglio dire, crollai addormentato verso le tre del mattino. Alle nove George mi richiamò e mi disse che era riuscito a fissare un appuntamento per l’indomani pomeriggio. Avrei dovuto presentarmi alle cinque all’ufficio di Andrew Marlowe in uno degli edifici interni degli studios della ABC.
“Ok, tutto chiaro!” confermai eccitato. “Sarò puntuale!”
“Ne sono certo” dichiarò George ridacchiando. “Anche perché sarai già lì praticamente.” Io aggrottai le sopracciglia perplesso.
“In che senso?” domandai dopo qualche secondo. Sentii un sospiro esasperato provenire dall’altra parte del telefono.
“Nathan, ti ricordi vero che domani mattina devi essere sul set di Desperate Housewife per girare un ricordo della protagonista con te, vero?” Silenzio.
“Ehm…” Altro sospiro.
“Nath, sono due settimane che ti ho avvisato!” mi riproverò.
“Sì, sì, certo, George, tranquillo!” replicai immediatamente. “Me lo ricordavo!” Palla immensa. L’avevo completamente rimosso dalla mia memoria.
“E ricordi anche a che ora?” domandò sospettoso. Cazzo.
“Uhm… ehm… le dieci?”
“Otto e mezza, Nathan” dichiarò il mio agente rassegnato. Gli dissi che, ovviamente, lo ricordavo e avevo solo avuto una svista. Quindi lo salutai e riattaccai. Sbuffai e mi stesi di nuovo sul divano sul quale mi ero addormentato e da cui mi ero alzato mezz’ora prima per rispondere al telefono. Ripresi in mano la copia di Castle che avevo lasciato sul pavimento e la guardai con un mezzo sorriso. Avevo come il sospetto che l’indomani la mia testa sarebbe stata ben lontana dai problemi di quelle casalinghe disperate. La cosa buona era che il set in cui avrei girato la mattina era poco lontano dall’edificio in cui mi sarei dovuto recare nel pomeriggio. O per lo meno il tutto era nella stessa zona, anche se non sapevo esattamente dove. Se fosse andato tutto bene, domattina avrei interpretato la parte del dr. Adam Mayfair per l’ultima volta.
 
Ovviamente non andò tutto bene. Arrivai puntuale, ma scoprii che avevano avuto problemi con un ciack e che prima di mettere in scena me dovevano sistemarlo. Con tutta la calma che riuscì a racimolare, mi diressi in quello che era stato il mio camerino. Non avevano ancora sostituito il nome alla porta sapendo che sarei dovuto venire ancora una volta. Mi cambia e indossai uno dei più classici abiti del dr. Mayfair preparati per me: polo azzurra e pantaloni color cachi chiaro. Pochi minuti dopo arrivarono la truccatrice e la parrucchiera. Entrambe ebbero da lamentarsi, una per le mie occhiaie e l’altra per i miei capelli sparati in ogni direzione. Strinsi la mascella e mi trattenei dallo sbuffare. Che ci provassero loro a rimanere in stato di agitazione perenne per un giorno e due notti, compresi di stanchezza precedente, tentando di tanto in tanto di dormire con scarso successo. Avevo riletto il copione nemmeno io so quante volte. Ancora un po’ e avrei saputo a memoria non solo le mie parti, ma anche quelle di tutto il resto del cast.
All’alba delle undici finalmente mi dissero che giravano il ricordo con me dentro. Salutai la protagonista e scambiai un paio di parole con lei appena prima che ci dessero il via. La scena purtroppo durava diversi minuti, il che voleva dire di solito qualche ora di ripresa tra cambiamenti di visuale di camera ed errori vari. Io inoltre, come già avevo previsto, ero molto più distratto del solito. Come se non fosse abbastanza, anche un set di luci decise di lasciarci con uno scoppio e tante scintille.
Finimmo di girare alle cinque meno dieci. Salutai velocemente tutti. In fondo mi ero già accommiatato come si deve al party per il finale dell’ultima stagione. Corsi fuori dal set e mi fiondai a cercare l’ufficio di Marlowe. Trovai finalmente una cartina vicino a uno degli ingressi. Fantastico. L’ufficio era in un edificio dall’altra parte degli studios. Stessa zona sì, ma altro che poco lontano! Scroccai un passaggio da un ragazzo che guidava una delle macchinette che giravano sempre lì intorno e portavano attrezzature o persone da un fabbricato all’altro. Alle cinque in punto arrivammo davanti all’edificio. Ringraziai frettolosamente il ragazzo e scesi dal mezzo. Il custode dello stabile mi indicò di salire al terzo piano e girare a destra nel corridoio. Feci come mi aveva detto e mi avviai. Quando arrivai davanti alla porta giusta, mi fermai un secondo prima di bussare. La targhetta Andrew W. Marlowe screenwriter spiccava dorata sulla porta scura. Deglutì. Non ero mai stato tanto nervoso e insieme tanto sicuro per una parte. Feci un respiro profondo per calmarmi e bussai. Una voce all’interno mi invitò a entrare. Girai la maniglia e aprii la porta. La stanza non era molto grande. Al centro c’era un largo tavolo con diverse sedie attorno. Alcuni schedari erano addossati alle pareti, mentre c’erano almeno tre lavagne bianche appese ai muri, più o meno riempite con scritte colorate che dedussi fossero parti di dialoghi e indicazioni per location particolari. Al tavolo erano seduti due uomini con davanti sparsi diversi fogli.
Uno dei due mi sorrise affabile da sotto la folta barbetta e gli occhiali che gli coprivano la faccia. Si alzò subito e mi venne incontro, allungandomi la mano.
“Nathan Fillion, vero?” mi chiese allegro. Io sorrisi a mia volta, anche se ancora un po’ incerto, gli strinsi la mano e annuì. Lanciò un’occhiata ai miei vestiti. Nella fretta mi ero dimenticato di cambiarmi e indossavo ancora la polo e i pantaloni color cachi del dottore.
“In persona!” risposi, cercando di mascherare l’ansia dietro allo scherzo come ero solito fare. “Andrew Marlowe dico bene? Il creatore di Castle!” esclamai eccitato. L’altro uomo, con un paio di baffetti scuri, pizzetto e corti capelli neri, ancora seduto alla scrivania scoppiò a ridere.
“Andrew, direi che hai già il tuo primo fan!” esclamò divertito scuotendo la testa. Quindi si alzò e si presentò anche lui venendomi incontro. “Rob Bowman, sono il produttore. Piacere di conoscerti, Mr. Fillion.” Io feci una smorfia.
“Parte o meno” dissi in tono di supplica, ma scherzoso. “Per favore chiamatemi solo Nathan! O mi sembrerà ogni volta di avere a che fare con mio padre…” I due risero e annuirono. Mi chiesero anche loro di chiamarli per nome e mi invitarono a sedermi al tavolo. I due ripresero le loro posizioni e io presi posto di fronte a loro.
“Allora Nathan” cominciò Andrew spostando di lato i fogli pieni di annotazioni sui quali stavano lavorando e incrociando le mani davanti a sé. “Il tuo agente ci ha chiamato ieri per dirci che volevi un colloquio per Castle…”
“Smettete di cercare” dichiarai all’improvviso serio, spiazzandoli. I due si lanciarono un’occhiata perplessa.
“Come scusa?” riuscì a domandare dopo qualche secondo Andrew. Non era arrabbiato, per fortuna. Sembrava solo sorpreso e curioso. Quel comportamento mi diede in qualche modo più fiducia. Non mi era mai accaduto di essere tanto diretto per una parte, quindi non sapevo l’effetto che avrei provocato. E sinceramente non ero neanche tanto sicuro dell’effetto su me stesso.
“Smettete di cercare” ripetei. “Io sono il vostro uomo. Sono l’uomo che fa per voi per la parte di Richard Castle” affermai convinto, pregando internamente. Vidi Andrew e Rob scambiarsi un’occhiata.
“Beh” cominciò Andrew. “Devo ammettere che tu eri nella rosa dei candidati che avevamo in mente per la parte di Rick. Aspettavamo solo che tu leggessi il copione per parlarti…”
“Però non sei l’unico” continuò Rob, interrompendolo. “Abbiamo già sentito qualche altro attore. Sembri deciso, ma se permetti vorrei farti una domanda prima di farti provare una scena.” Io lo guardai curioso e ansioso, ma annuii senza esitazione. “Bene. Ecco la mia domanda: cosa ti fa pensare di essere adatto a questo ruolo?” Fui io quello che rimase spiazzato questa volta. Restai qualche secondo in silenzio e loro mi lasciarono fare. Cerai di tirare fuori una frase di senso compiuto che avesse un certo effetto, qualcosa che li stupisse, che li facesse convincere che ero io quello giusto. Ma ripensandoci, le frasi che avevo in mente erano tutte troppo stupide, pompose o arroganti. Decisi di stravolgere la mia stessa decisione. Niente di complicato o a effetto. Solo la verità. Presi un respiro profondo.
“Sinceramente?” chiesi con un mezzo sorriso. “Non ne ho idea.” I due sgranarono gli occhi e la bocca gli si aprì in parte. Credo che, vista la mia decisione di poco prima, non si aspettassero affatto questo tipo di risposta. Mi passai una mano nei capelli cercando le parole giuste. “La verità è che dal primo momento in cui ho letto il copione me ne sono innamorato. I personaggi, la storia, le indagini, tutto! So di aver letto solo il primo episodio, ma sono sicuro che ci sia molto altro in quei personaggi, forse più di quanto loro stessi sappiano… Non so esattamente cosa mi abbia fatto rimanere sveglio per due notti a leggere e rileggere quel singolo copione, ma so che è una cosa che rifarei mille volte. Forse perché in parte mi sono rispecchiato in parte in Richard Castle. Forse perché vorrei conoscere più a fondo la storia della detective Kate Beckett. O forse solo perché vorrei vedere in prima persona fino a che punto crescerà la tensione fra questi due… perché se il ritmo è quello della prima puntata, signori miei, qui si preannunciano molti momenti ‘caldi’” continuai ridacchiando. Poi tornai più serio. “Non lo so cosa mi abbia dato il coraggio di dirvi che io ero l’uomo giusto per voi. Non l’avevo mai fatto prima d’ora, ma sentivo di dover provare. Era da Firefly che non mi sentivo più così preso per una parte… E poi andiamo, dove lo trovate uno più affascinante di me?” conclusi con un mezzo sorriso per alleggerire l’atmosfera. Andrew e Rob mi fissarono per un momento immobili, senza lasciar trasparire emozioni. Quindi si scambiarono uno sguardo e sorrisero. Andrew scosse la testa divertito.
“Ok, Nathan” disse Rob allungandosi per recuperare un paio di fogli tra quelli sparsi sul tavolo. “Che ne dici di farci vedere come te la cavi nei panni di Castle?” Mi accorsi in quel momento che stavo trattenendo il fiato. Buttai fuori l’aria e ripresi a respirare.
“Certo” replicai. A quel punto Andrew si alzò e sparì dietro la porta dell’ufficio. Riapparve nemmeno un minuto dopo seguito da un ragazza. Era carina. Magra, capelli lunghi scuri e riccioluti, occhi neri, probabilmente sui venticinque anni.
“Nathan, ti presento Isabel” disse Andrew. Io mi alzai subito e le strinsi la mano sorridendo. “È una della mie assistenti e sarà la nostra detective Beckett del momento. Scusa, ma né io né Rob ci teniamo particolarmente a venire affascinati da te” continuò ridacchiando.
Provammo la scena. La ragazza era brava e conosceva bene la parte, ma ovviamente non era un’attrice. Continuava infatti ad arrossire ad ogni battutina del copione e teneva gli occhi bassi, quasi non avesse il coraggio di guardarmi. Io cercai di dare il meglio di me. Cercai di recitare pensando quello che avrebbe pensato Castle, immaginando quello che avrebbe immaginato lui (anche riguardo alle fantasie su Beckett, devo ammetterlo, nonostante non avesse ancora una faccia nella mia testa), lanciando sguardi maliziosi e facendo facce buffe o serie quando necessarie.
Finimmo il tutto venti minuti dopo. Ringraziai Andrew e Rob per il tempo che gli avevo rubato e per l’opportunità che mi avevano dato. Mi assicurarono che in qualche giorno avrei avuto la risposta e ci salutammo.
Quando tornai a casa erano quasi le otto. Ero stanco, ma felice. Ora sarebbe arrivata la parte più difficile: aspettare. Ma almeno il colloquio era andato bene, o almeno così speravo. Tirai fuori il cellulare e mi accorsi che spento. Lo avevo disattivato in mattinata appena arrivato sul set e non l’avevo più riacceso. Neanche il tempo di riattivarlo che subito iniziò a squillare a causa dei diversi messaggi da parte dei miei, di mio fratello e anche del mio agente. Quelli più vecchi, mandati durante la mattina, mi facevano gli auguri per il colloquio. Quelli più recenti invece, più numerosi, mi chiedevano come era andato. Mi preparai velocemente qualcosa da mangiare, quindi mi sedetti sul divano e iniziai a richiamarli e a raccontare loro cosa era successo.
 
La risposta arrivò quattro giorni dopo via lettera. Erano state 96 ore di agitazione. Non avevo idea di come sarebbe arrivato il responso, perciò avevo cercato di tenere il telefono il più libero possibile, ogni dieci minuti ero davanti al computer a controllare le e-mail e ogni mattina aspettavo il postino (e quasi lo aggredivo peggio di un cane) per chiedergli se avesse qualcosa per me.
Deglutii quando lessi che il mittente della lettera appena recapitata era Andrew Marlowe. Presi un respiro profondo per calmarmi e aprii la busta con mani tremanti. Lessi le poche righe del foglio all’interno e rimasi paralizzato, la bocca aperta. Quindi lanciai un urlo di gioia, che credo sentì tutto il palazzo. Ero stato preso. Ora ero ufficialmente il famoso scrittore del crimine Richard Castle.

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Xiao a tutti!! :D
Ebbene sì, sono venuta a imperversare anche da queste parti! ù.ù
Come avete potuto vedere questa raccolta è un po' diversa dal solito... In pratica sono i racconti di come ogni attore ha avuto la parte! X) Non prendete quello che scriverò come oro colato! Qualcuno sarà ispirato a fatti narrati dagli attori stessi (vedi Nathan, Stana e Susan), per gli altri... beh inventerò! X)
Spero vi possa piacere! :) Se vi fa schifo ditelo pure, non mi offendo! XD Se invece avete una parolina carina, sono più che contenta! XD
A presto! :)
Lanie

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Capitolo 2
*** Kate Beckett ***


Cap.2 Kate Beckett


Acchiappai il telefono un secondo prima che partisse la segreteria telefonica, cercando contemporaneamente di tenermi addosso l’asciugamano che mi ero avvolto in vita appena uscito dalla doccia.
“Richard Castle all’apparecchio!” esclamai allegro. Sentii ridere dall’altra parte del telefono.
“Ehi, Nathan!” mi salutò la voce di Andrew. “Vedo che ti stai calando bene nella parte!” Io ridacchiai.
“Oh, sì!” risposi. “Come vanno le cose lì? Avete deciso quando fare i provini per la detective Beckett?” Era passata quasi una settimana da quando ero stato preso ed ero impaziente di cominciare.
“In realtà sì ed è proprio per questo che ti ho chiamato” replicò l’uomo più seriamente.
“Qualche problema?” chiesi un po’ allarmato. Mi passai una mano tra i capelli, sparandoli in aria e lanciando goccioline d’acqua ovunque.
“No, nessun problema tranquillo” mi rispose Andrew. Tirai un silenzioso sospiro di sollievo. Un secondo dopo dovetti riacchiappare al volo l’asciugamano che stava per cadermi a terra. “Ma andiamo con ordine” continuò. “Per prima cosa volevo dirti che i provini sono fissati fra tre giorni…”
“Ottimo!” esclamai felice interrompendolo. “Posso esserci anch’io?” chiesi poi implorante. “Mi piacerebbe vedere la futura detective Beckett in anteprima…”
“Sì, certo!” replicò con tono sollevato. “Volevo giusto chiederti se ti andrebbe di aiutarci a trovare quella giusta. Vorresti provare la parte con le aspiranti? So che non sono in molti attori a farlo e ti avverto che sarà pure una cosa lunga perché in molte hanno risposto all’annuncio per il ruolo, ma…”
“A che ora devo essere lì?” domandai con un sorriso, ancora una volta senza dargli il tempo di finire. Speravo davvero che me lo chiedesse. Doveva esserci intesa tra i due personaggi e chissà che provando non la trovassi. Inoltre mi sarebbe piaciuto aiutare a cercare la detective adatta. E poi vogliamo parlare del recitare con non so quante donne? Del ‘rischiare’ di portare a casa anche qualche numero di telefono? Ma quanto amavo il mio lavoro??
 
Tre giorni dopo mi presentai agli studios alle otto del mattino come richiesto da Andrew. Andai direttamente nel suo ufficio dove trovai anche Rob e altre cinque persone, più che altro produttori, che avrebbero aiutato con la selezione.
“Allora” cominciai allegro quando ebbi stretto la mano a tutti i presenti. “Dove sono le ragazze?” Con la coda dell’occhio vidi Andrew scuotere la testa e ridacchiare divertito.
“Non faremo qui le prove” rispose Rob, mentre controllava alcuni fogli. “Ci spostiamo in un ufficio più grande dove ci sarà abbastanza spazio per farvi provare e per farci stare tutti. Inoltre è pure munito di macchinetta del caffè e distributore di bibite e viveri. Ho l’impressione che ci serviranno…” continuò con un sospiro. Io alzai un sopracciglio.
“Ma, ehm, esattamente quante sono?” mi azzardai a domandare. Rob prese un altro foglio, che gli porse una ragazza dietro di lui, e gli diede un’occhiata.
“Centoquaranta.” Io rimasi a bocca aperta. Quindi mi guardai attorno. Sì, in effetti l’ufficio di Andrew sarebbe stato un po’ piccolo…
Ci spostammo quindi in una stanza al primo piano, che sembrava più un’aula che un ufficio viste le dimensioni. Il nome sulla porta era Dana Rosesting. La proprietaria doveva essere una scenografa perché su quasi tutte le pareti erano appoggiati grandi pannelli colorati che di solito erano usati per le finte mura dei set. Un lungo tavolo e diverse sedie erano posizionate sulla parete alla sinistra della porta e appena dietro queste c’erano, contro il muro, i distributori di cui parlava Rob. Il centro della stanza invece era stato sgomberato per permetterci di avere dello spazio libero in cui provare. Solo due sedie e un tavolo quadrato con sopra dei fogli, che compresi essere due copioni, erano stati lasciati nello spiazzo creato.
Andrew, Rob e gli altri presero posto al tavolo laterale. Io mi tolsi la giacca, rimanendo in camicia, e la appoggiai a una delle sedie nel mezzo della stanza sulla quale poi mi sedetti. Diedi un’occhiata al copione davanti a me. Vidi che la parte che avrei recitato da tra poco a chissà quando quel giorno e con chissà quante donne era quella dell’interrogatorio di Rick. Sorrisi appena. Era una delle mie parti preferite.
Nei pochi minuti di sistemazione che seguirono, alcuni si presero un caffè, acqua o qualcosa da mangiare. Io recuperai una bottiglietta d’acqua e la posizionai accanto alla mia sedia. Quindi entrò una ragazza con una cartellina in mano. Riconobbi subito Isabel, la ragazza con cui avevo provato pochi giorni prima. Le sorrisi e le feci un cenno del capo per salutarla e lei fece altrettanto. Andò da Andrew e lo avvertì che aveva preso i nomi delle presenti. Lui diede il via libera per cominciare e le disse di fare entrare le aspiranti una alla volta. Isabel sparì di nuovo dietro la porta e poco dopo apparve la prima candidata. Alzai le sopracciglia. Però... Era alta, bionda e formosa. Tanto formosa. E… un momento, quelle labbra erano rifatte?? Non potevano essere davvero così grosse!! Era impossibile!! La donna lasciò quello che supposi essere il suo curriculum ad Andrew e si girò verso di me, giusto nell’attimo in cui mi ricordai di chiudere la bocca. Mi sorrise accattivante. Io cercai di recuperare lucidità. Ero un professionista cavolo! Mica potevo farmi influenzare da quelle grosse labbra o da quel corpo da favola o da quel se… NATHAN CONCENTRAZIONE!!
“Sono April Gerton, 32 anni” cominciò la donna parlando ai ‘giudici’ davanti a lei, ma contemporaneamente avvicinandosi a me. Mi alzai per galanteria. April continuò a parlare per qualche minuto di quello che aveva fatto in passato, ben poco a dir la verità o comunque roba a me sconosciuta, quindi provammo. Bastarono due battute e capii. Poteva essere bella e attraente quanto voleva. Ma non avrebbe mai potuto essere la detective Kate Beckett.
 
Continuammo in questa maniera per tutto il giorno. Provai sia con attrici professioniste sia con donne che volevano diventarlo. Diverse erano come April. Entravano, facevano l’elenco delle loro precedenti interpretazioni, a volte gonfiandole anche un po’, recitavano con me, ci provavano con me e se ne andavano. Talvolta mi lasciavano il loro numero prima di sparire fuori dalla stanza. Altre erano più arcigne. Entravano, giù il curriculum, prova e fuori. Altre ancora erano più semplici e timide. Con queste spesso scambiavo qualche parola per metterle a loro agio prima di provare.
Alle cinque del pomeriggio avevo recitato con centoventi donne e ancora venti ne mancavano. Sospirai stancamente. Ci eravamo concessi solo una pausa di mezz’ora per il pranzo e tutti iniziavamo ad avvertire la fatica. Il tavolo lungo, in mattinata pulito, ora era cosparso di curriculum e fogli con appunti di Andrew, Rob e degli altri per ogni aspirante. Il mio copione e quello di prova erano ormai irrimediabilmente stropicciati.
Mi aprii un altro bottone della camicia, già in parte sbottonata, e mi passai una mano sul collo. Recuperai dal pavimento la quarta bottiglietta d’acqua che avevo comprato e la finii in un lungo sorso. Quindi la abbandonai a terra insieme alle altre. Mi passai una mano tra i capelli. Di tutte le donne che avevamo visto, ne avevamo adocchiate massimo una decina che avrebbero potuto interpretare la detective Beckett. Ma di tutte le donne con cui avevo recitato, non c’è ne era stata una con cui avessi provato quell’intesa che avrebbe dovuto esserci fra Castle e Beckett. Sospirai di nuovo. In fondo erano personaggi non reali. Non potevo pretendere tanto.
Mi girai verso il tavolone e vidi che gli altri erano stanchi quanto me. Rob aveva i gomiti sul tavolo e la testa fra le mani e sembrava stesse per addormentarcisi sopra. Andrew continuava a stropicciarsi gli occhi da sotto le lenti. In quel momento entrò un’altra candidata. Le lanciai un’occhiata distratta. Poi una più approfondita. Era carina. Davvero carina. Bruna, abbastanza alta, anche se notai che portava i tacchi, e magra, ma, c’era da dirlo, con le curve al posto giusto. Inclinai appena la testa. Non era male con quel caschetto, ma secondo me con i capelli lunghi sarebbe stata una favola. Dal portamento dedussi facesse parte della schiera delle timide.
“Stana Katic, 30 anni” disse la donna porgendo il suo curriculum a Marlowe. Stana? Che nome strano… però aveva un suo fascino. E poi non l’avevo già sentito? Stana rimase per un momento davanti al lungo tavolo, insicura su cosa fare, mentre Andrew dava un’occhiata ai suoi fogli.
“Vedo che hai recitato diversi ruoli in questo periodo” commentò leggendo. La donna annuì. “Beh, ok, vai pure da Nathan e inizia a leggere il copione. Fra un momento vi facciamo provare” continuò Andrew passando poi il curriculum a Rob e iniziando a prendere appunti su un altro foglio. Stana annuì di nuovo e si girò verso di me. Solo a quel punto la vidi in volto. Davvero, davvero carina, non mi ero sbagliato. Si avvicinò a me e io mi alzai in piedi allungandole la mano.
“Nathan Fillion” mi presentai con un sorriso. Tentavo di non sembrare troppo stanco, ma penso fosse una causa già persa in partenza. Quasi sicuramente avevo un principio di occhiaie e mi sentivo pungere l’accenno di barba che non avevo rasato quella mattina. Tutte le mie energie per gli ultimi provini erano andati unicamente alla lettura del copione.
“Stana Katic” esclamò lei stringendomi la mano e sorridendomi in risposta. Wow. Quello sì che era un sorriso. Uno di quelli sinceri e dolci. Non come gli ultimi falsi e seducenti che aveva dovuto sopportare. All’inizio era stato divertente, qualche numero l’aveva anche recuperato, ma poi erano diventati solo irritanti. Era davvero bella quando sorrideva. Sembrava illuminarsi. “Ehi, tu vieni dal Canada” disse poi quasi timidamente. Io annuì.
“Sì, vengo da Edmonton” risposi.
“Sai, io sono nata a Toronto” continuò sempre con lo stesso tono. Io non riuscii a trattenere una battuta.
“Oh, il Centro dell’Universo!*” esclamai ridacchiando riferendomi a un documentario uscito l’anno precedente che aveva spopolato in Canada. Sperai non si offendesse. Ma Stana scoppiò a ridere. In quel momento mi venne in mente perché mi era familiare. “Ehi, ma tu non eri nel film Stiletto?” domandai curioso. La donna annuì con un sorriso timido.
“Sì, lo ero” rispose. Visto che sembrava una che sta al gioco, sparai un’altra battuta.
“Beh, devo dirtelo… Avreste dovuto aggiungere un sottotitolo secondo me: ‘Cento modi per trafiggere al cuore con uno stiletto’ oppure ‘Mille modi per assassinare’! Guarda che in Castle se la detective Beckett uccide è solo per difesa!” continuai ridacchiando. “Altrimenti Rick morirebbe dopo i primi dieci minuti del primo episodio!” Lei si morse il labbro inferiore in un modo che trovai alquanto… accaldante. Si avvicinò di un passo a me. Ora eravamo davvero molto vicini. Un po’ troppo per gli standard normali. Ma non avevo certo da lamentarmi.
“Oh, non hai idea dei molti modi in cui potrei ucciderti, Mr. Fillion” disse piano e con voce sensuale. Poi fece scivolare il suo sguardo sul triangolo di petto in vista dalla mia camicia, mordendosi di nuovo il labbro. Io deglutii. All’improvviso però lei indietreggiò, recuperò il copione dal tavolo e si sedette a leggerlo con un sorrisetto soddisfatto in volto. Oddio, chi era quella donna? Che fine aveva fatto la timida ragazza entrata nemmeno cinque minuti prima dalla porta? Questa non era lei! Era una sua gemella, un suo clone! Come poteva una ragazza all’apparenza tanto tenera e carina nascondere quella che sembrava… beh, una tigre dentro di sé?
“Nathan, Stana, siete pronti?” sentì Andrew richiamarci. Scossi al testa per riprendermi. Ero ancora in piedi con la bocca aperta e una probabile faccia da pesce lesso. Mi sedetti al tavolo davanti a Stana. Lei aveva ancora quel sorrisetto soddisfatto e divertito in volto che cercava però di celare mordendosi un pollice e nascondendosi dietro al copione. Un sorrisetto furbo mi salì spontaneo alle labbra. Mi piaceva. Pregai che interpretasse bene la parte. Poco dopo cominciammo a recitare. A lei la prima battuta.
“Mr. Castle. You've got quite a rap sheet for a best-Selling author. Disorderly conduct, Uh, resisting arrest?”**
“Boys will be boys.”
“It says here that you stole a police horse?”
“Borrowed.”
“Ah. And you were nude at the time.”
“It was spring.”
“And every time, the charges were dropped.”
“What can I say? The mayor is a fan. But if it makes you feel any better, I'd be happy to let you spank me.”
“Mr. Castle, this whole ‘bad boy charm’ thing that you've got going might work for bimbettes and celebutantes. Me? I work for a living, so that makes you one of two things in my world. Either the guy who makes my life easier or the guy who makes my life harder. And trust me, you do not want to be the guy who makes my life harder.”
“Okay.”
Stavamo per continuare quando Rob ci interruppe all’improvviso.
“Ragazzi, non è che potreste rifarla?” Sembrava essersi risvegliato dal suo torpore di prima. Anzi sembrava quasi eccitato, come un bambino a cui è stato dato il suo regalo di Natale in anticipo. Anche gli altri sembravano essersi ripresi. Andrew ora era seduto dritto sulla sedia e sorrideva. Tutti erano attenti. Io mi voltai a guardare Stana. Sembrava confusa da quell’improvviso risveglio tanto quanto me. Ma ripensando alle battute appena dette, al modo in cui le avevamo dette, capii cosa era successo. L’intesa era scattata. Non potei fare a meno di sorridere.
“Che ne dici, Katic?” esclamai ridacchiando. “Un altro giro?” Stana alzò gli occhi al cielo, ma era chiaramente divertita.
“D’accordo Fillion. Non mi tiro certo indietro” replicò. Quindi ricominciammo. A un certo punto ammetto di essermi messo forse un po’ troppo nei panni di Castle quando esclamai, fuori copione, “And do you know you have gorgeous eyes?”. A quell’uscita Stana rimase un momento sorpresa, ma si riprese subito.
“Can I get copies of those?”***
“Copies?”
“I have this poker game. It's mostly other writers, Patterson, Cannell, you know, best-sellers. You have no idea how jealous those would make them.”
“Jealous?”
“That I have a copycat. Oh, my gosh. In my world, that's the red badge of honor. That's the criminal cooperstown.”

“People are dead, Mr. Castle.”
“I'm not asking for the bodies, just the pictures.”
“I think we're done here.”
Wow. Quando finimmo ero senza parole. Non solo avevamo interpretato bene, ma avevamo anche fatto smorfie e cambiamenti di tono in ogni punto come se l’avessimo provato. Ok, io l’avevo già riletto parecchie volte. Ma lei?? Semplicemente… straordinaria! Anche Andrew, Rob e gli altri ne erano rimasti colpiti.
“Decisamente ti vogliamo di nuovo qui domani, Stana, per il provino registrato” esclamò Andrew. “Ok?” Lei sorrise, mentre stringeva loro la mano prima di andarsene.
Shiny!” replicò felice. Io la guardai a bocca aperta. Ok, se ora mi avesse detto anche che aveva visto Firefly, me ne sarei pure potuto innamorare… Si girò verso di me e mi allungò la mano, che strinsi prontamente. “Lo ammetto, ero una fan di Firefly” mormorò tornando a quel suo lato timido che avevo visto quando era entrata. Appena fu uscita dalla porta emisi un profondo respiro. Potevo farcela. In fondo l’avrei rivista l’indomani…
 
Finimmo di sentire le rimanenti candidate alle sette di sera. La mia testa però, dopo l’incontro con quella donna, sembrava ormai persa. Continuavo a immaginarmela nella parte della detective Beckett e più la immaginavo più mi sembrava che lei fosse perfetta. Al termine di quella lunga giornata facemmo un consulto per decidere chi richiamare l’indomani per lo screen test, il provino videoregistrato. Il nome di Stana fu il primo che proposi. Oltre a lei decisero di convocare altre due ragazze che avevano spiccato per bravura. Le ricordavo. Effettivamente avevano talento, ma con nessuna delle due avevo provato quel qualcosa in più che con Katic. Tornai a casa eccitato per la nuova scoperta e ansioso per il giorno dopo.
 
La mattina successiva arrivai agli studios con largo anticipo. In realtà non sarebbe servita fisicamente la mia presenza lì, ma mi divertito a gironzolare, a fare nuove conoscenze e ad aiutare sulle scene. E poi, lo ammetto, volevo vedere il provino di Stana o per lo meno sapere subito la decisione di Marlowe e degli altri. Entrai nel set al chiuso in cui mi aveva detto di recarmi Andrew per i provini. Lui e Rob erano già lì che trafficavano con cameramen, addetti alle luci e operai vari. Mi guardai intorno e notai che il set era molto simile a una serie di uffici. Capii che erano i primi abbozzi della stazione di polizia quando vidi un ascensore con su scritto NYPD 12th Precinct. Quando Andrew e Rob mi videro, mi salutarono allegri. Beh, ne avevano tutto il diritto, visto che oggi avremmo trovato la nostra detective.
Non avendo nulla da fare e mancando ancora un’ora prima che effettivamente girassero, iniziai a fare conoscenza con la troupe. Scherzai con i costumisti e ‘giocai’ con le telecamere dei cameramen finché non mi dissero che le tre aspiranti Beckett erano arrivate e che la prima stava per cominciare. La donna era già sul set, copione in mano, truccata e pronta. Secondo la scaletta Stana sarebbe stata l’ultima a provare. Probabilmente in quel momento era anche lei al trucco. Mi sistemai in un angolo della scena appoggiandomi a una parete, le braccia incrociate. C’era da dirlo, la ragazza era bella e brava e non sembrava essere troppo a disagio davanti alle telecamere. L’unica pecca era quel lieve tic nervoso alla mano destra. La stringeva convulsamente ogni cinque secondi. Aggrottai le sopracciglia. Non mi sembrava di ricordare questo particolare dal giorno precedente. Mezz’ora dopo aveva concluso ed era il turno della seconda aspirante detective. Anche lei aveva talento. Il suo unico difetto era forse l’impappinarsi un poco, ma in fondo il telefilm era registrato. Inoltre di solito è una tara che va via velocemente una volta abituatisi alle telecamere. Questa per lo meno non aveva tic nervosi.
Dopo i primi dieci minuti mi staccai dal muro un po’ annoiato e sgusciai silenziosamente fuori dal set per andarmi a prendere un caffè. Per fortuna il bar degli studios era lì vicino. Comprai un caffè da portar via con tanta schiuma, zucchero e una spolverata di cioccolato sopra come piaceva a me. Me lo gustai uscendo dal bar e riavvicinandomi lentamente all’edificio con il set interno. Mi fermai poco più in là della soglia della porta, non volendo disturbare fino alla fine delle riprese della ragazza. Presi un altro sorso di caffè e realizzai con sconforto che era l’ultimo. Stavo per gettare il cartone quando Stana uscì dalla porta. Aveva una lunga maglia che le arrivava a metà coscia, ma che teneva alzata per metà con una mano. Mi venne ancora una volta in mente il suo provino del giorno prima. Mi chiesi cosa ci avrebbe riservato oggi. La timida o la tigre?
Mi vide quasi subito e io le sorrisi per salutarla.
Hey, how are you doing?” domandò sorridendomi di rimando. Sembrava… sollevata? Accantonai il pensiero.
I take a cup of coffe” le risposi sollevando verso di lei il caffè che avevo appena finito e alzando contemporaneamente le spalle. Quindi gettai il contenitore nel cestino dei rifiuti e mi voltai di nuovo verso di lei. “Do you want to run lines?” chiesi sorridente. Non vedevo l’ora di fare un’altra prova con lei.
No” replicò lei. Quindi schioccò le dita della mano. “But, speaking about lines, can you cut a straight line?”**** mi domandò con un sorrisetto furbo e allegro. Io la guardai sconcertato per un momento.
I can’t promise anything” risposi cauto e divertito insieme. “But what we talking about?” No, perché mica l’avevo capito cosa volesse che facessi. L’attimo dopo dalla mano che fino a quel momento aveva tenuto sulla maglia comparve una forbice. Me la passò senza esitazione.
“Puoi tagliarmi la maglia?” domandò quindi con tono appena urgente, mordendosi il labbro inferiore in attesa della mia risposta. Io sgranai per un momento gli occhi, guardando alternativamente lei e le forbici nella sua mano. Sul serio lei voleva… Sul serio?? Non stava scherzando. Cavolo, ma era la stessa ragazza di ieri? Perché davanti a me non c’era né la timida né la tigre. C’era qualcosa di completamente nuovo. Come faceva a cambiare ogni giorno rimanendo sempre la stessa?
Appena mi ripresi, ridacchiai divertito e presi le forbici. Lei mi sorrise, ora davvero sollevata.“Da qui se puoi” mi disse indicandomi un punto poco sotto la vita. Io annuì e feci un primo taglio.
“Sicura che non vuoi che tagli un po’ più su?” domandai divertito da quella strana situazione, mentre lentamente scostavo la maglia e la tagliavo. Lei mi lanciò un’occhiataccia.
“No, credo che al momento mi farò bastare così, grazie” rispose sarcastica.
“Ma non potevi mettere un’altra maglia?” chiesi ancora senza riuscire a smettere di sorridere. Lei sbuffò.
“Che ne sapevo che questa non sarebbe andata bene?” replicò rassegnata. “Ho messo una cosa e via. Solo quando sono arrivata qui, ho capito che era troppo lunga e non mi piaceva!” Io ridacchiai di nuovo continuando a tagliare lentamente per fare il più possibile una linea dritta.
Ero arrivato a metà dell’opera quando Rob uscì dal set. Appena ci vide si bloccò nel mezzo della porta a bocca spalancata, le sopracciglia aggrottate.
“Possiamo spiegare!” dissi subito io con tono di uno preso con le mani nel sacco, anche se non stavo facendo nulla di male. Riflesso condizionato credo. Stana si girò a guardarmi con un sopracciglio alzato. Io alzai appena le spalle. “Che c’è?” domandai come se non avessi detto niente. Lei roteò gli occhi.
“Tu!” esclamò Rob a Stana, richiamando al nostra attenzione. “Appena finisci ti voglio sul set! E mi raccomando. Voglio… questo!” disse con un sorriso enorme in volto e sottolineando l’ultima parola con un gesto della mano che indicava noi due. Il momento dopo era già rientrato. Io e Stana ci guardammo perplessi per un attimo. Quindi scoppiammo a ridere. Finii il taglio e vidi la donna fare un sospiro sollevato, infilando il rimanente pezzo di maglia nei pantaloni.
Rientrammo quindi sul set parlando e scherzando. Dopo qualche secondo la chiamarono a provare. Rob sembrava eccitato e continuava a parlare concitato con Andrew. A un certo punto capii che stava raccontando di come aveva trovato me e Stana, perché lo vidi aprire e chiudere due dita della mano a modi forbice.
 
Rimasi a osservare la donna recitare dallo stesso angolo in cui mi ero appoggiato per le altre due candidate. Avevo una buona visuale e non disturbavo. Stana era… era qualcosa di spettacolare. Riusciva a rendere reale quello che era solo un personaggio su carta. Potevi quasi percepire quel bagaglio di esperienze che ognuno di noi si porta dietro e che ci rende ciò che siamo. Quel bagaglio di solito così difficile da far fuoriuscire da un personaggio su carta. Andrew le aveva spiegato com’era la detective. E lei l’aveva capita in pieno. Sembrava vera, reale. Una detective con i suoi dubbi, le sue paure, le sue ansie, le sue gioie, le sue vittorie…
Mi avevano detto che rendevo ‘vero’ il personaggio di Richard Castle, ma la mia scusa era che in fondo gli somigliavo caratterialmente. Lei era semplicemente fantastica. Oltre che molto sexy.
Quando se ne andò la salutai con una stretta di mano e qualche battuta. Poi mi precipitai da Andrew e gli altri per il responso. Attesi pazientemente per quasi un’ora. Riguardarono i video per non fare torti, ma alla fine la loro decisione fu unanime. E io fui felice come non mai. Stana Katic era ora ufficialmente la nostra detective della omicidi Kate Beckett.

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*"Centre of the Universe", as mentioned in the documentary film Let's All Hate Toronto, as the term is used derisively by residents of the rest of Canada in reference to the city. It is also infrequently used by the media. Outside Toronto, it is sometimes said to be used by residents of the city. The moniker "Centre of the Universe" was originally a popular nickname for New York City, and more specifically Times Square. It has since been used to refer to other municipalities. (Fonte Wikipedia)
 
**“Signor Castle... Ha una fedina penale notevole, per uno scrittore di best seller. Disturbo della quiete pubblica, resistenza all'arresto.”
“Cose da ragazzi.”
“Ed ha rubato un cavallo della polizia?”
“Preso in prestito.”
“E quando l'ha fatto era nudo.”
“Era primavera.”
“Ed ogni volta le accuse sono cadute.”
“Che dire? Il sindaco e' un mio fan. Ma se ti fa sentire meglio, sarei felice di farmi sculacciare da te.”
“Signor Castle, questo suo fascino da cattivo ragazzo può funzionare su qualche ochetta o qualche giovane ereditiera. Su di me? Io lavoro per vivere, perciò lei può essere due cose nel mio mondo: uno che rende la mia vita più facile o uno che la rende più difficile. E mi creda, non le conviene essere quello che la rende più difficile.”
“Ok.”
 
***“Posso avere delle copie di quelle?”
“Copie?”
“Ho una partita a poker con altri scrittori di best seller. Patterson, Cannell. Non hai idea di quanto sarebbero invidiosi.”
“Invidiosi?”
“Del fatto che ho un imitatore. Oh, mio Dio. Nel mio mondo, è come una medaglia al valore, il paradiso degli scrittori di gialli.”
“Sono morte delle persone, signor Castle.”
“Non sto chiedendo i corpi, solo le foto.”
“Abbiamo finito.”
 
****Per chi non lo capisse, è un gioco di parole tra “line” come battuta del copione e “line” come linea (dritta in questo caso! XD)
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Xiao!! :D
Ed eccomi qui con il secondo capitolo sulla nostra cara Stana! :D
Prima di tutto un mega grazie alle mie due consulenti Katy-Draghetta e Sofy-Interista!! :D:D Vi lovvo tantissimo ragazze!!! Ma quanto adoro sclerare con voi??? XD E che pazienza avete a sopportare le mie fisime sul capitolo?? XD <3<3 Un grazie anche alla consulenza "aggiunta" di Arby! Benvenuta nel pazzo mondo di Castle! ;)
Demu avant... Allora di nuovo quello che ho scritto è in parte 'reale' e in parte ovviamente no! La maggior parte di quello che ho scritto sia per Nathan che per Stana l'ho preso dall'intervista del 2010 al Paley Centre se voleste andare a vedere... in caso contrario, se voleste sapere cosa ho inventato e cosa no io sono qui! X)
Ok dovrei aver detto tutto... Beh, a presto allora!! :D Ditemi che ne pensate!!! :D
Lanie

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Capitolo 3
*** Martha Rodgers ***


Cap.3 Martha Rodgers


“Pronto?”
“Ehi, parlo con la tra poco più che famosa detective Beckett?” esclamai allegro. Sentii Stana ridere dall’altra parte del telefono. Notai che aveva una bella risata. “Come stai?”
“Ciao Nathan! Io bene e tu?” rispose. Ora che ti ho sentita meglio. “Tutto bene. I tuoi?” domandai ancora. Subito dopo averle confermato il ruolo, Stana era partita per il Canada per passare un paio di giorni con i suoi parenti. A quanto ne sapevo, doveva essere tornata a Los Angeles la sera prima.
“Bene anche loro. Gli ho raccontato di Castle e ne erano entusiasti” replicò felice.
“Ottimo” risposi. “Uhm… senti, hai da fare stasera?” Ci fu un secondo di silenzio dall’altra parte del telefono in cui, per qualche motivo, io entrai nel panico. “No, non pensare male!” aggiunsi subito preoccupato. “Solo che, ecco, ti ricordi che Andrew ci ha consigliato di uscire un po’ insieme, no?” Era vero. Marlowe c’è lo aveva chiesto per avere più intesa possibile per Castle e Beckett. Lo facevamo per la serie. Io comunque non mi lamentavo di certo. Avevo una scusa in più per vedere Stana. Un momento… da quando mi serviva una scusa per combinare un appuntamento??
“Sì, mi ricordo” dichiarò lei cauta, evidentemente non capendo bene dove volessi andare a parare.
“Beh, ecco, ehm, siccome domani ci saranno i provini per Martha, la madre di Rick, e nei giorni successivi quelli degli altri personaggi e saremo stanchi, mi chiedevo quindi se stasera ti sarebbe andato bene uscire, sempre che ovviamente tu non sia stanca, certo, allora potremmo sempre rimandare e…”
“Nath respira!” mi fermò lei con tono divertito. Avevo detto la frase tutta d’un fiato. Da quando mi innervosivo a parlare con una donna?? “Comunque va bene.” Sorrisi come un cretino.
“Davvero?” domandai un po’ troppo allegro. Mi schiarii la gola e cercai di calmarmi. “Voglio dire, sicura di non essere stanca per il viaggio?”
“Tranquillo, Nath, ieri ho dormito un po’ in aereo e stamattina me la sono presa comoda” replicò ridacchiando.
“Ok, allora che ne dici se ti passo a prendere verso le otto?” domandai allora.
“Perfetto!” replicò. “Ma dove hai intenzione di portarmi?” chiese poi curiosa.
“Se per te va bene, niente di troppo ricercato. In realtà volevo chiederti se ti piaceva l’idea di hamburger e patatine…” risposi nervoso. Non era granché come appuntamento, ma in fondo non era un vero e proprio appuntamento, no? Serviva solo per conoscerci meglio. E il clima informale di un bar mi sembrava più adatto rispetto a quello di un ristorante.
“Scherzi, vero? Ne vado pazza!” esclamò subito. Io tirai un sospiro di sollievo.
“Ok, allora a stasera! Conosco un posto dove fanno degli hamburger fantastici” dichiarai.
“Ottimo, Nath, ma prima di riagganciare, non dimentichi un dettaglio che devi chiedermi?” domandò quindi Stana. Io aggrottai le sopracciglia confuso.
“Devo chiederti se stasera mi vuoi rimboccare le coperte?” scherzai. Lei rise. Avrei potuto scommettere che aveva appena alzato gli occhi al cielo.
“No” rispose con tono esasperato e divertito insieme. “Se devi venirmi a prendere, non devi forse chiedermi dove abito?” Ah, giusto.
 
Alle otto in punto quella sera ero davanti al suo palazzo. Mi ero messo comodo, niente di ricercato. Un paio di jeans blu scuro, camicia bianca con i primi bottoni aperti e giacca di pelle. Avevo lasciato anche un filo di barba. Facevo la mia bella figura rimanendo sportivo insomma. Appena parcheggiai, le mandai un messaggio per avvertirla che ero arrivato, quindi uscii dall’auto e mi ci appoggiai sopra con la schiena per aspettarla. Nemmeno due minuti dopo la vidi aprire la porta della palazzina e sorridermi felice. Io contraccambiai subito. Mentre si avvicinava a me, passai rapidamente lo sguardo sul suo corpo. Indossava un paio di jeans neri aderenti e una giacca scura che le arrivava a mezza coscia dal quale si intravedeva una maglia verde smeraldo. Il tutto insieme a un paio di scarpe col tacco nere. Aveva i capelli sparati volutamente un po’ ovunque che le incorniciavano bene il volto.
Le andai incontro e ci salutammo con una stretta di mano. Quindi la accompagnai alla macchina e cavallerescamente le aprii la portiera per farla salire. Io salii dal lato guidatore, misi in moto e partimmo. Dopo qualche secondo di silenzio un po’ imbarazzato, la spiai con la coda dell’occhio. Vidi che stava osservando con curiosità la mia macchina.
“Non ti convince la mia auto?” domandai scherzando. Lei arrossì leggermente e scosse la testa.
“No, no, figurati mi piace! Solo che… ehm… ecco…” esitò un momento. La vidi osservare dubbiosa il simbolo della marca dell’auto sul volante e capii la sua perplessità.
“Solo che ti stai chiedendo perché guido una piccola Chevrolet Aveo invece di un bolide Ferrari o Mercedes, vero?” la anticipai ridacchiando.
“In effetti sì” rispose lei annuendo e sorridendo imbarazzata.
“Tranquilla, se ti consola saperlo sono entrambe in garage insieme alla Porche e all’Hammer!” replicai con il tono più serio che mi riuscì. Stana spalancò gli occhi per un secondo incredula. Poi capì che la stavo prendendo in giro quando vide che mi stavo trattenendo dal ridere. Sbuffò e incrociò le braccia al petto. Nel vedere la sua faccia imbronciarsi come quella di una bimba, una bimba davvero carina, scoppiai a ridere. “Scusa…” riuscii a dire dopo qualche secondo, mentre ancora sogghignavo. Lei mi lanciò un’occhiataccia. “Ok, ok, vuoi la verità?” aggiunsi subito dopo più seriamente per non farla arrabbiare e non far partire subito con il piede sbagliato la serata. “In realtà ho questa auto, che uso sempre, e una Mercedes, ma quella la uso solo per occasioni particolari. Consuma troppo. Questa invece ha motore ibrido quindi aiuto anche un po’ l’ambiente!” esclamai fiero dando una leggera pacca al cruscotto dell’auto. A quelle parole la vidi illuminarsi.
“Ehi, sapevo che avevi co-creato una fondazione benefica per i bambini…” iniziò lei.
Kids Need to Read” dichiarai orgoglioso. Era stata una delle mie scelte migliori. Io non avevo bisogno di tutti i soldi che guadagnavo, me ne bastavano una parte. Loro sì. Stana annuì sorridendo teneramente.
“Giusto. Beh, sapevo di questo, ma non pensavo ti interessassi anche all’ambiente!” esclamò lei visibilmente sorpresa da quella scoperta.
“Eh, lo so. Sono un uomo da sposare!” scherzai. “Tra l’altro so che tra poco uscirà un nuovo modello di auto elettrica della Archimoto che mi interessa parecchio…” aggiunsi eccitato. Continuammo a parlare di beneficenza e ambiente per il resto della strada. Scoprii che Stana voleva far partire, possibilmente a breve, un ATP, Alternative TravelProject, ma che ancora aveva bisogno di alcuni permessi e collaboratori per dargli il via ufficialmente.
Arrivammo al pub che adoravo dieci minuti dopo. Si chiamava Maxie’s ed era un piccolo locale che assomigliava molto ad una taverna, con bancone, tavoli e sedie ancora interamente in legno. Mi piaceva l’odore della carne, che si sentiva sfrigolare dalla cucina, che permeava l’aria mischiato a quello del legname. Inoltre conoscevo il proprietario.
“Nate!” esclamò allegro un uomo piuttosto basso e corpulento con una folta barba scura appena varcai la soglia insieme a Stana. Io sorrisi e contraccambiai la sua forte stretta di mano.
“Maxie! Come te la passi, amico?” Maxie aveva quasi sessant’anni, ma ancora guidava il suo locale quasi senza nessun aiuto, a parte quello del figlio che lavorava in cucina, ed era apprezzato per la sua giovialità nonostante l’aspetto un po’ burbero. Lui sorrise da sotto la barba.
“Gli affari vanno a gonfie vele e mio figlio si è appena sposato, quindi direi tutto bene!” rispose felice.
“Ehi, non lo sapevo!” replicai sorridendo e dandogli una pacca sulla spalla. “Fai le congratulazioni a Andy da parte mia.” Lui annuì. In quel momento si accorse di Stana.
“Oh, ma questa bella donna insieme a te?” domandò lanciandomi uno sguardo furbo.
“Maxie, lei è Stana Katic” la presentai. “Sarà la mia partner nella prossima serie che gireremo” aggiunsi subito cercando di stemperare l’imbarazzo mio e di Stana e facendo capire all’uomo che non stavamo insieme. Lui annuì di nuovo e allungò la mano verso la donna che la strinse prontamente.
“È un piacere conoscerti. Nath mi ha detto faville dei tuoi hamburger” dichiarò lei lanciandomi un’occhiata divertita. Maxie fece un gesto con la mano come a dire che esageravo, ma sorridendo compiaciuto.
“Il tuo tavolo è sempre libero, Nate” disse poi l’uomo facendo un cenno verso la sala. “Sedetevi pure e tra un momento vengo a prendervi le ordinazioni.” Annuimmo e io guidai Stana verso il mio tavolo preferito. Era un tavolino quadrato messo in un angolo della sala. Era un po’ scostato e riparato dagli alti sedili che correvano tra un tavolo e l’altro lungo la parete della sala, il che dava abbastanza riservatezza. Tra l’altro il locale non era molto pieno, essendo un giorno settimanale, quindi c’era anche poca confusione. Due menù erano già sul tavolo. Li sfogliammo per qualche secondo, mentre Stana mi chiedeva consigli sulle salse nei panini. Dopo un paio di minuti Maxie si avvicinò a noi.
“Allora ragazzi, che vi porto?” domandò tirando fuori un blocchetto per gli appunti e una penna.
“Per me un hamburger al formaggio e patatine fritte” rispose Stana.
“Io il solito hamburger alla salsa barbecue e anche a me patatine” aggiunsi io.
“Da bere?” chiese ancora l’uomo, mentre finiva di scrivere.
“Cola” esclamammo in insieme. Io e Stana ci fissammo perplessi e divertiti per un momento. Maxie sorrise.
“Ok. Datemi il tempo di cottura e torno da voi” concluse l’uomo. Quindi riprese i menù e se ne andò verso la cucina. Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, non sapendo bene di cosa parlare.
“Allora…” ruppe l’imbarazzo Stana. “Da quanto conosci questo posto?”
“Qualche anno” risposi con un’alzata di spalle. “Ci sono entrato per caso una delle mie prime volte qui a Los Angeles. Il cibo era eccellente, il proprietario un mio fan e io sono rimasto!” conclusi ridacchiando. Stana alzò gli occhi al cielo, ma sorrise. “Ehi, ma sbaglio o quando hai fatto il provino Andrew ha detto che hai recitato in diversi ruoli recentemente?” Lei scosse la testa.
“Non sbagli. Ma sono piccoli ruoli in confronto a Castle. Non vedo l’ora di cominciare!” esclamò allegra. “Non ero così eccitata neppure per l’apertura di Sine Timore!”
Sine Timore?” domandai perplesso.
“È… beh, è la mia casa di produzione” spiegò tornando a quel lato timido che avevo conosciuto ai provini. “Significa ‘senza paura’. È in piedi solo da qualche mese, ma speriamo cresca presto.” Io le sorrisi.
“Se ne sei a capo tu, di certo non ci metterà molto!” replicai facendole l’occhiolino. Lei sorrise riconoscente con le guance un po’ rosse. In quel momento tornò Maxie con un vassoio contenente le nostre ordinazioni. Mangiammo chiacchierando tranquilli, scherzando e cercando di rubarci a vicenda il ketchup (io) e la maionese (lei) che ognuno di noi aveva in bustine per le patatine. Avevo appena finito di divorare l’hamburger e iniziato ad attaccare le patatine, quando Stana, che aveva finito solo un po’ più di mezzo panino, ricevette una telefonata.
“Scusami un momento” mi disse appena un attimo prima di schiacciare il tasto per la risposta, alzandosi allo stesso tempo dal tavolo. Mentre si allontanava la sentii dire salutare e poi dire allegra “Come stanno i miei dalmati?” Mi domandai se per caso avesse dei cani. E se magari il suo fidanzato glieli stesse tenendo. Mi venne un po’ l’amaro in bocca a questo pensiero e rimisi nel piatto la patatina che stavo per mangiare. Stana tornò poco più di un minuto dopo. “Scusa, era solo un saluto veloce” mi disse imbarazzata riprendendo in mano il suo panino. Io nascosi i miei film mentali dietro un sorriso.
“Tranquilla” replicai. “Senti, ma hai dei cani?” Lei mi guardò confusa. “No, è che ti ho sentito chiedere dei tuoi dalmati quindi mi domandavo se…” Un lampo di comprensione passò negli occhi di lei. Quindi scoppiò a ridere. Io la guardai imbronciato.
“Scusa” riuscì a dirmi poco dopo riprendendosi. Quindi scosse la testa divertita. “Non erano cani. Era la mia famiglia.” Io sgranai gli occhi sorpreso e confuso. “I miei sono Serbi della Croazia e mi sono sempre divertita a chiamare la nostra famiglia ‘Dalmati’” mi spiegò. Io annuì lentamente, capendo in quel momento perché era scoppiata a ridere.
“Fratelli o sorelle?” le domandai quindi curioso.
“Quattro fratelli e una sorella” rispose Stana. Io rimasi a bocca semiaperta. Ridacchiò alla mia faccia incredula. “Tu?”
“Un fratello solo” replicai con un chiaro tono che diceva ‘uno basta e avanza’. “Fidanzati?” domandai poi a bruciapelo cercando di mantenere la mia migliore faccia da poker e giocando con una patatina nel mio piatto. Lei alzò un sopracciglio, ma alla fine rispose.
“Nessuno per il momento.” Non so neanche io perché dentro di me emisi un sospiro di sollievo.
“Oh, entrambi single allora per il momento!” esclamai con un sorriso che non riuscii a nascondere ripetendo le sue parole. Fu in quel momento che mi accorsi che le mie patatine erano ancora da finire da quando Stana era uscita con il telefono. Ricominciai a mangiarle con gusto. “Ok, lo so che sono un rompiscatole, ma sono curioso… Il tuo nome, Stana, vuol dire qualcosa? Cioè è molto bello, mi piace, ma, insomma…” mi stavo impappinando, quindi chiusi la bocca, mentre lei mi guardava divertita. Si morse il labbro inferiore, cosa che ancora una volta mi fece provare uno strano calore.
“Sì, ha un significato: vuol dire ‘malocchio’” rispose. Questa volta fui io ad alzare un sopracciglio.
“Malocchio?” domandai perplesso.  Lei annuì, mentre inforcava la prima patatina dal sul mucchio e la infilava nella maionese.
“Sembra un nome porta iella, lo so, ma in realtà serve proprio per il contrario” mi spiegò. “Era il nome di mia nonna. Nella sua famiglia molti bambini morivano giovani e lei venne chiamata così per scongiurare un’altra morte…”
“Sembra che abbia funzionato” aggiunsi sorridendo.
“Già” disse lei ridacchiando. “E sembra funzioni tutt’ora per fortuna…” continuò. Ma poi si fermò. La vidi diventare più pensierosa. Il suo sguardo si perse sulla patatina con cui stava giocando.
“Stana?” la richiamai preoccupato. Lei alzò gli occhi su di me. Sembrava ci fosse un fondo oscuro nei suoi occhi… paura forse? “Tutto bene?”
“Io… sì. Sì, sto bene” disse facendomi un mezzo sorriso. “Sono solo stata fortunata con il lavoro e tutto. In fondo ora sto per essere anche la co-protagonista di una più che brillante serie, no?” aggiunse scherzosa. Vidi però che dai suoi occhi quella strana luce non accennava a diminuire.
“Non è solo questo però vero?” domandai seriamente. Lei mi guardò per qualche secondo, quindi sospirò.
“Mi sa che ti stai immedesimando troppo in Castle…” mormorò scuotendo la testa, ma con un mezzo sorriso. Io alzai appena le spalle e attesi che continuasse. Non l’avrei forzata a parlare se non avesse voluto. Dopo qualche secondo prese un profondo respiro. “Qualche anno fa” cominciò. “Mi hanno diagnosticato un tumore…” Io la guardai spaventato e preoccupato. Prima che potessi dire qualcosa però lei mi bloccò. “Tranquillo, era benigno! E comunque l’hanno tolto” aggiunse cercando di tranquillizzarmi. Io deglutii, ma mi calmai. “Sto bene ora. Solo che, quando l’ho saputo, mi sono un po’ spaventata, ma poi tutto è tornato normale. Solo io sono cambiata. O meglio, è cambiato il mio modo di vedere le cose, se vogliamo. Anche come attrice.”
“In che senso?” le domandai confuso. La vidi aggottare le sopracciglia per cercare le parole migliori per spiegarmi.
“Beh, quando senti la parola ‘tumore’ la prima cosa a cui l’associ è ‘morte’, anche se ti specificano che è benigno” disse cercando di mantenere un tono neutro con scarso successo. Doveva essersi spaventata parecchio la mia Stana. “Quando l’ho saputo ho subito pensato: cavolo ci sono ancora un sacco di cose che voglio provare, vedere, sentire e questa forse è l’ultima volta che ne ho l’occasione…” La vidi di nuovo farsi pensierosa e attesi paziente, stringendo i pugni di nascosto. Avrei voluto girare attorno al tavolo e abbracciarla, ma ci conoscevamo da troppo poco per poterlo fare e non volevo che pensasse che mi approfittassi di un suo momento di debolezza. Aggrottò le sopracciglia e scosse la testa. Quindi si girò a guardarmi negli occhi. “Dovremmo apprezzare ciò che abbiamo. Anche solo l’essere vivi e avere i sensi che abbiamo. Perché non goderne?” domandò retorica, alzando appena le spalle. Si perse per qualche istante nei suoi pensieri e io rimasi incantato a guardarla. “Sono stata fortunata. Ma questa esperienza mi ha dato la voglia di vivere e provare tutto questo. La stessa voglia che credo ogni attore dovrebbe avere. Calarsi nei panni dei personaggi e provare e far provare ogni sfumatura possibile di emozione…” Si fermò e sbatté le palpebre un paio di volte, come se si fosse appena risvegliata da un sogno. Vidi quella strana oscurità regredire lentamente dai suoi occhi. “Beh, direi che per stasera abbiamo abbondato con gli argomenti tristi” disse quindi con un mezzo sorriso cercando di alleggerire l’atmosfera. Io continuai a guardarla per qualche secondo con sguardo perso. Poi scossi la testa per riprendermi.
“Sai” dissi pensieroso, ma con un mezzo sorriso, facendola alzare di nuovo gli occhi su di me. “Credo che ci sia molta più Kate Beckett in te di quanto immaginassi...” Mi guardò confusa e io mi spiegai. “C’è molto di più al di sotto della superficie rispetto a ciò che mostri al mondo. E devo ammetterlo, e non pensare male, ma non vedo l’ora di scoprirti…” Stana mi osservò con la bocca semiaperta e gli occhi sgranati. Quindi mi sorrise imbarazzata e arrossì, abbassando gli occhi sul piatto. “Allora, dicevi che la tua famiglia viene dalla Croazia, giusto? E la tua casa di produzione ha il titolo in latino… Per curiosità quante lingue parli?” Il mio improvviso cambio di argomento la spiazzò per un attimo. Speravo capisse che lo facevo per non farle pensare al male, per distrarle la mente da quei timori. Avrei voluto che sul suo viso ci fosse sempre il sole. Era così bella quando rideva. Capii che aveva compreso il mio intento quando mi sorrise riconoscente e mi rispose che parlava qualcosa come cinque lingue. A quella risposta la mia mascella cadde a terra.
 
Rimanemmo nel locale a parlare e scherzare per più di due ore. Alla fine chiesi a Maxie il conto, che rifiutai categoricamente di farle pagare anche solo per un centesimo, e la riaccompagnai a casa. Arrivati sotto al suo palazzo spensi l’auto e, come per l’andata, feci il giro dell’auto e le aprii la portiera per farla stavolta scendere. Quindi la accompagnai fino alla porta. Non erano che pochi metri, ma la compagnia di Stana mi piaceva. Non volevo lasciarla andare. Parlammo per qualche minuto davanti al portone, ma poi inevitabilmente tirò fuori le chiavi.
“Beh, allora grazie della bella serata Nath” mi disse sorridendo. Io sorrisi in risposta, anche se un po’ malinconicamente.
“Figurati, grazie a te. Per me è solo un piacere intrattenere una donna sexy come te” replicai. Lei roteò gli occhi e scosse la testa, ma non poté nascondermi il lieve sorriso sul suo volto. “Vuoi che ti rimbocchi le coperte?” aggiunsi poi con un sorrisetto furbo in volto. Lei alzò un sopracciglio in risposta. Io alzai le mani come ad arrendermi. “Ok, ok ho capito!” dissi ridacchiando. Abbassai le mani. Rimanemmo qualche secondo a guardarci in silenzio. Quindi mi avvicinai a lei e le lasciai un piccolo bacio sulla guancia. Quando mi scostai vidi la sua espressione sorpresa, la bocca semiaperta. “A domani allora” mormorai prima di staccarmi da lei e girarmi verso la macchina.
“A domani” mi rispose Stana con qualche secondo di ritardo. Io le sorrisi un’ultima volta, quindi mi infilai in macchina. Partii nello stesso momento in cui lei aprii il portone. Ero stupito di me stesso. Se fosse stata un’altra donna forse avrei osato di più, ma con lei no. Stana era diversa dalle altre. Non solo era bella, ma anche intelligente e divertente. Inoltre avrei dovuto lavorare con lei, se fosse andato tutto bene, per diversi anni. Non volevo rovinare da subito quella che sarebbe potuta diventare, ne ero sicuro, per lo meno una forte amicizia. Mentre ero perso in questi pensieri, mi chiesi se ci sarebbe effettivamente stata il giorno successivo per i provini per la madre di Castle.
 
La mattina dopo arrivai verso le nove agli studios. Siccome avrei provato di nuovo con tutte le aspiranti, stavolta avevo chiesto prima ad Andrew e Rob quante erano le candidate al ruolo. I due mi avevano assicurato che erano solo una quarantina, il che voleva dire finire tranquillamente per ora di pranzo. Passai al bar a prendermi un caffè e mi diressi verso i set. Stavolta i provini si sarebbero svolti sullo scenario, ancora in costruzione, del loft di Castle. Al momento era solo accennato. C’erano le pareti che contornavano le stanze già nella loro posizione definitiva, ma ancora gli interni erano tutti da allestire. Quando misi piede in quello che presto sarebbe diventato l’appartamento di Castle, vidi una grande libreria, al momento vuota, che divideva il suo studio dal salone, nel quale era invece presente un grande divano. Capii che sarebbe stato quello il luogo in cui avremmo provato perché davanti a questo avevano posizionato un tavolo con diverse sedie che non c’entravano nulla con il resto dell’arredamento.
“Ehilà, Nathan!” mi salutò Marlowe allegro da dietro le spalle. Mi voltai e gli sorrisi.
“Ciao Andrew!” risposi.
“Allora sei pronto per conoscere la tua futura madre?” mi domandò ridacchiando e dandomi una pacca sulla spalla. Io annuì e sospirai con finta espressione rassegnata.
“Non c’è ancora nessuno?” chiesi quindi indicando con un cenno il set quasi vuoto se non per alcuni operai che stavano sistemando quello che immaginai fosse il piano bar della cucina.
“Stanno arrivando” rispose lanciando contemporaneamente un’occhiata al set, probabilmente per vedere che fosse tutto in ordine. “Qualcuno doveva controllare i nominativi delle candidate, qualcuno voleva prendersi un caffè prima di cominciare e Rob stava stampando un’altra copia del copione visto che quello di prova me lo avete distrutto ai provini per Beckett…” Il tono era a metà tra il rimprovero e il divertito. Io alzai le spalle come se non ne sapessi nulla, nascondendomi dietro all’ultimo sorso di caffè. Mi chiesi se anche Stana sarebbe venuta ad assistere. Un pensiero improvviso mi passò per la testa.
“Oh, Andrew, prima che arrivino gli altri vorrei parlarti di una cosa…” Pensando a Stana, mi era venuto in mente il modo in cui ci eravamo salutati, o meglio come io l’avevo salutata. Proposi quindi a Marlowe di inserire un piccolo bacio sulla guancia di Castle per Beckett quando lui le regala la copia autografata e con dedica di Storm Fall. In fondo voleva essere un po’ un saluto e un po’ una richiesta di scuse preventiva per il fatto di averle appena rubato i documenti del caso da sotto il naso. Inoltre Rick aveva più o meno capito che la detective era una sua fan e quale fan non sarebbe stata contenta di ricevere un bacio dal proprio autore preferito? Appena finii di esprimergli la mia idea, gli altri cominciarono a tornare, Rob con copione in mano appena stampato compreso.
“Mm… sai che c’è? L’idea non mi sembra male. Ci penso e poi ti dico, ok?” dichiarò Andrew pensieroso un attimo prima che raggiungesse il resto del gruppo al tavolo. Sono molti i registi o gli scrittori da cui si sente questa frase, ma se c’è ne era uno su cui si poteva contare che dicesse sul serio, quello era proprio Marlowe.
A quel punto mi tolsi la giacca, buttandola su una sedia in più presente, e mi sedetti sul divano. Rob mi comunicò che questa volta le battute sarebbero state quelle all’inizio dell’episodio durante la festa per l’uscita del libro. Siccome non era una grande parte, avrebbero anche domandato alla candidata il tono con cui, su due piedi, avrebbe risposto a Beckett quando Martha e Alexis pagano la cauzione a Castle.
Anche questa volta fu Isabel ad avvertirci che era tutto pronto e potevamo partire.
 
Due ore e trentuno candidate dopo ero sfinito tanto quanto lo ero stato nel momento in cui era entrata Stana ai provini di Beckett. Parlare con donne giovani è molto più semplice che avere a che fare con donne più anziane. Quasi tutte avevano anni di esperienza sulle spalle e alcune ti trattavano come l’ultimo arrivato. Un paio avrebbero anche voluto cambiare copione perché ‘non gli si addiceva’. Avrei voluto spiegargli che erano loro che dovevano adattarsi al copione e non il contrario, ma mi ero morso la lingua. Avrei detto la mia a fine prove ed ero comunque sicuro che nemmeno Andrew e Rob ne fossero particolarmente entusiasti. Per fortuna c’erano anche quelle ben disposte nei confronti nostri e del copione. Nonostante tutto però, arrivati a quel punto non avevamo trovato ancora la Martha Rodgers perfetta. Io la immaginavo un po’ eccentrica, un po’ cacciatrice di uomini, ma in fondo una buona madre. Andrew aveva cercato di spiegare ogni volta il personaggio alla nuova venuta, ma sembrava fosse inutile. Quelle donne, nonostante gli anni di esperienza, non avevano capito che Castle non era un mammone. Avevano letto che Rick e Martha abitavano insieme, quindi avevano tratto le loro conclusioni. Certo, loro effettivamente abitavano sotto lo stesso tetto con Alexis, ma solo perché la madre non aveva trovato un’altra sistemazione e lui l’aveva ospitata. Eppure la maggior parte di queste donne nel recitare usava quel tono semiaccondiscendente che si usa con i bambini, prima di capire che non era questo che volevamo per Martha Rodgers.
Ogni volta che entrava una nuova candidata, io mi alzavo per salutarla e poi mi risedevo, lasciando comunque spazio sul divano per farle accomodare se avessero voluto. Loro si presentavano, facevano la lista dei film o telefilm in cui erano apparse e poi si rivolgevano a me. Alcune si sedevano, altre restavano in piedi e recitavamo. Ero stanco. L’unica cosa che mi tirava un po’ su era la presenza di Stana. Era arrivata più o meno all’ottava candidata per vedere come procedevano le selezioni e ora stava seduta nella sedia su cui avevo buttato la mia giacca. Ora che ci pensavo… quando l’avrei ripresa avrebbe profumato di lei. La trentaduesima candidata che entrò mi prese in questi pensieri.
“Susan Michaela Sullivan” si presentò. Io scossi al testa per riprendermi e osservarla meglio. Era una donna magra, abbastanza alta, anche se non più di me, e bionda. A differenza di altre che avevo visto in precedenza, lei sembrava portare le rughe d’età quasi con fierezza. Alcune candidate venute prima di lei sembrava fossero state immerse nel botulino. Lei invece pareva non preoccuparsi minimamente del tempo che passava. Questa cosa mi piacque. Inoltre, nonostante l’età, era ancora una bella donna. Inclinai appena la testa e socchiusi gli occhi. L’avevo già vista da qualche parte, ma non ricordavo dove. Quando nominò Dharma e Greg nel suo curriculum capii perché la sua faccia mi era familiare. Quella era una sitcom che avevo seguito e Sullivan vi aveva interpretato la madre di Greg. Quando finì con Marlowe si girò verso di me. Io mi alzai, le allungai la mano e mi presentai. Aveva una stretta decisa. Quindi le passai il copione, un po’ stropicciato, e mi risedetti. Lei rimase in piedi a studiare per un momento la parte. Qualche secondo dopo comunicò a Andrew di essere pronta. La prima battuta era mia, quindi iniziai a leggere. Solo in quel momento Susan dovette rendersi conto che avrebbe recitato con me perché all’inizio mi guardò sorpresa. Poi in malo modo. Io non seppi se preoccuparmi o meno. Sullivan mise la mano che reggeva il copione su un fianco e l’altra la allungò verso di me.
You!” mi chiamò minacciosa. “Up! Up!” disse con tono deciso facendomi anche segno con la mano di alzarmi. Io scattai in piedi. Vidi con la coda dell’occhio Stana che tentava di non scoppiare a ridere, come pure Andrew, Rob e il resto dei ‘giudici’. A quel punto Susan andò avanti a leggere la sua battuta come se niente fosse. Io all’inizio feci una mezza smorfia a quella improvvisata. Poi vidi che la donna attendeva la mia battuta sorridendo leggermente. Sorrisi anche io. Era quello che volevamo. Era quello il tono che mi immaginavo per Martha. Il tono di una madre che insegna al figlio come comportarsi, ma allo stesso tempo sa che è l’ultima a essere perfetta e ne ride. Senza esitare oltre lessi la mia battuta.
 
Finimmo di sentire tutte le candidate verso l’una. Andrew ci riunì prima di lasciarci andare a mangiare e a riposare. Dopo Sullivan c’era stata solo un’altra che aveva dato prova di essere una buona Martha. Parlandone però, ci accorgemmo che solo Susan aveva quel qualcosa in più che l’avrebbe resa perfetta. E non era solo l’avermi fatto scattare in piedi come un bambino sorpreso a fare una cosa sbagliata dalla mamma, come Stana ci teneva molto a ricordarmi ridendo, ma era quel qualcosa in più. Forse anche solo quella simpatia istintiva che avevo avuto verso di lei. Alla fine la decisione fu unanime. Susan Sullivan era diventata ufficialmente l’eccentrica attrice Martha Rodgers, madre di Castle.

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Xiao!!! :D
Lo so sono un poco in ritardo, ma ho pubblicato "The revenge" a mia discolpa!! XD Tra l'altro, ve lo dico già qui, il prossimo capitolo probabilmente verrà fuori tra un po' perché prima (spero vi interessi) scriverò il seguito di "The revenge"! XD
Una cosa sul capitolo... come avrete notato il titolo è per Martha, ma tutta la prima parte è su Nathan e Stana. Ecco non mi ricordo se l'ho precisato, ma oltre ai provini (veri o inventati che siano) metterò anche scorci degli attori fuori dal set per "vedere" appunto come sono diventati così amici... giusto per spiegare la mia idea! X)
Un mega grazie alle mie due pazze, sclerate e preferite consulenti Sofy e Katy!!!! :D:D:D Vi lovvo tanto ragazze!!!! <3<3<3
Beh, un commentino è sempre ben accetto!! X) A presto!! :D
Lanie

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Capitolo 4
*** Javier Esposito ***


Cap.4 Javier Esposito


Subito dopo aver deciso che Susan avrebbe interpretato Martha, scegliemmo di avvertire l’attrice immediatamente. Non avrebbe avuto senso aspettare fino a sera come pensavamo visto che eravamo già arrivati a una conclusione e sapevamo che la donna era ancora nei paraggi. Andrew, Rob, Stana e io saremmo andati a cercare Susan, mentre agli altri furono liberi. Recuperai la giacca dalla sedia su cui l’avevo buttata, e su cui poi si era seduta Stana, e me la infilai. Senza farmi vedere, alzai il bavero fino al naso per sentirne il profumo. Sorrisi leggermente. Come avevo immaginato, il profumo che avevo sentito il giorno prima su Stana era ora sulla mia giacca.
“Ehi, Nathan, sei dei nostri?” La voce della donna su cui stavo fantasticando mi fece voltare di scatto con la faccia di un bambino sorpreso a mangiare caramelle di nascosto. Mi guardò con un sopracciglio alzato.
“Ehm… sì, sì arrivo!” risposi velocemente. Mi risistemai la giacca sul collo facendo finta di niente. Quindi superai il divano di scena e raggiunsi Stana che mi stava aspettando a metà strada tra me e la porta da cui erano appena usciti Andrew e Rob.
Trovammo la Sullivan che chiacchierava tranquilla al bar degli studios con un’altra delle aspiranti Martha Rodgers con cui avevo provato in mattinata. Quando le due ci videro puntare in gruppo verso di loro, capimmo dai loro sguardi che sapevano che avevamo già preso una decisione. Se erano agitate, comunque non lo davano a vedere. Ci invitarono a sedere con loro, ma Marlowe rifiutò gentilmente. Quindi comunicò a Susan che aveva ottenuto la parte. Lei ci sorrise felice. La donna accanto a lei invece sospirò e fece all’altra le sue congratulazioni. Poi ci salutò e uscì affermando “Tanto non ho più nulla da fare qui”. Marlowe e Rob comunicarono quindi a Susan un po’ di dettagli tecnici su come e quando avremmo iniziato le riprese e i giorni degli altri provini, in caso avesse voluto assistervi. Andrew suggerì anche a lei di iniziare a fare conoscenza con noi il prima possibile. Voleva un gruppo unito e allo stesso tempo voleva essere sicuro di aver fatto le scelte giuste.
All’improvviso il mio stomaco brontolò sonoramente. Mi grattai il collo imbarazzato, mentre Stana scoppiava a ridere e gli altri tre mi guardavano con un sorriso divertito.
“Che c’è? Ho fame!” mugugnai offeso. Quella mattina mi ero alzato in ritardo e avevo fatto colazione solo con il caffè che mi ero preso al bar una volta arrivato agli studios. In pratica era dalla sera prima che non mangiavo nulla. E, dovevo ammetterlo, non ci ero molto abituato.
A sentire quelle parole, Susan ci invitò a pranzare con lei. Andrew e Rob rifiutarono. Il primo aveva già appuntamento con la moglie, Terri, che ci assicurò avremmo conosciuto a giorni. Rob invece doveva trovarsi con un paio di persone della troupe. Io e Stana al contrario accettammo volentieri l’invito. A quel punto i due ci raccomandarono di arrivare agli studios l’indomani mattina alle otto per i provini del detective Esposito e ci salutarono. Io e Stana prendemmo posto allo stesso tavolo di Susan sedendoci vicini davanti a lei. Recuperammo quindi dei menù e iniziammo a scegliere cosa ordinare. Nel frattempo cominciammo a scambiare quattro chiacchiere.
“Susan, posso chiederti una cosa?” domandò di punto in bianco Stana, riappoggiando il menù sul tavolo. Aveva uno sguardo divertito. Mi preoccupai perché era rivolta a Susan, ma i suoi occhi erano girati verso di me. “Come ti è venuta in mente quella cosa del… Up! Up!” disse mimando lo stesso gesto con la mano che Susan mi aveva fatto ai provini. “Sai, il far saltare sull’attenti Nath!” aggiunse beffarda. Io sbuffai.
“Non sono saltato sull’attenti…” borbottai offeso. Le due neanche mi sentirono.
“Oh, cara, è una cosa da niente!” rispose Susan sorridendo e facendo un gesto noncurante della mano. Io le osservai a bocca semiaperta. Sembrava parlassero di come far fare una capriola particolarmente audace ad un cagnolino! Solo che il cagnolino ero io!! “Ecco una cosa che dovrai ricordarti quando raggiungerai la mia età” aggiunse ancora l’attrice rivolta a Stana. “Non lasciare mai che ti parlino da seduti mentre tu sei in piedi. Chiaro?” La mia partner annuì come se quella fosse una seria lezione di vita. Io alzai un sopracciglio e sbuffai di nuovo. A quel punto per fortuna arrivò il cameriere e io ringraziai silenziosamente il cielo. Ordinammo tutti e tre. Susan un’insalata, Stana un panino e io un panino, patatine e dolce. L’avevo detto che avevo fame, no? Il cameriere prese le nostre ordinazioni e se ne andò di nuovo.
“Ehi, Nathan, ti conviene controllarti oppure la tua bella tartaruga qui finirà col ribaltarsi inesorabilmente!” dichiarò Stana divertita punzecchiandomi il fianco con un dito. Io le lanciai un’occhiataccia. Subito dopo però sorrisi furbescamente. In quel momento arrivò di nuovo il cameriere per consegnarci le nostre bibite e io aspettai che se ne andasse prima di ribattere.
“Deduco quindi che tu abbia dato una bella occhiata alla mia tartaruga in passato…” replicai divertendomi a farla arrossire e pensando ai diversi film e telefilm in cui avevo girato senza maglia. E in Firefly ero pure nudo…
“Come tu hai dato una bella occhiata al mio fondoschiena ai provini!” sbottò lei vendicativa. Io rimasi a bocca semiaperta. Beccato. “Cosa? Credevi non me ne fossi accorta?” aggiunse sogghignando. “Guarda che ho notato che non staccavi gli occhi da quel punto!”
“Ma… ma come…” Cavolo! E io che pensavo di essere stato attento a non farmi scoprire! E ora che le dico?? “Hai… hai gli occhi anche dietro la testa per caso??” domandai all’improvviso con finto terrore allungando il collo come se cercassi davvero un terzo occhio dietro la sua nuca. Lo so, non era stato il mio momento migliore, ma non sapevo che altro dire. Stana alzò un sopracciglio e sbuffò.
“Non servono gli occhi dietro per sentire lo sguardo di qualcuno sul… sulla schiena” dichiarò alzando appena le spalle e iniziando a sorseggiare la sua bibita. Era arrossita di nuovo leggermente. A quel punto la vidi alzare gli occhi e guardare interrogativa Susan. Mi girai a guardare anche io l’attrice e notai che ci osservava divertita.
“Posso farvi una domanda?” chiese. Nello stesso momento arrivarono le nostre ordinazioni. Il cameriere lasciò il tutto e se ne andò.
“Certo” rispose Stana. Io annuii solo, troppo occupato a dare il mio primo famelico morso al panino.
“Da quant’è che vi conoscete?” Io e Stana ci guardammo per un momento.
“Qualche giorno?” azzardai subito dopo aver inghiottito il boccone che avevo in bocca. La mia partner annuì e alzò appena le spalle.
“Ci siamo conosciuti al provino per la detective Beckett” spiegò lei. “Quindi… poco meno di una settimana fa direi.” Mentre parlava, Stana mi fregò una patatina dal piatto. Io alzai un sopracciglio, ma non obiettai perché avevo la bocca piena. Lei mi fece un sorrisetto trionfante e se la infilò in bocca. Non seppi bene perché, ma quel gesto mi fece venire un improvvisa ventata di caldo. Tentai di riportare l’attenzione sul panino. “Perché?” domandò poi curiosa Stana rivolta di nuovo a Susan. La donna scosse la testa con aria divertita e sorpresa, mentre iniziava la sua insalata.
“Niente” rispose con un mezzo sorriso. “Solo che a guardarvi sembrate così in sintonia che sembra difficile credere che vi conosciate da così poco…”
“È un’impressione” rispondemmo contemporaneamente io e Stana. Ci guardammo di nuovo, sorpresi. Poi non riuscimmo a reprimere un sorriso. Beh, forse non era tutta questa impressione che credevamo…
“Allora, Susan, stai facendo qualcosa di bello ora a teatro?” domandai dopo qualche secondo per cambiare argomento. Spostai il piatto con le patatine in mezzo tra me e Stana e diedi un altro morso al mio panino come se nulla fosse. Stana mi guardò per un momento sorpresa. Quindi mi lanciò un’occhiata riconoscente insieme a un sorriso e prese un'altra patatina dal piatto. Solo per il sorriso valeva la pena spostare quel piatto.
Chiacchierammo con Susan per più di un’ora. Era piacevole parlare con lei. Scherzava tranquillamente con noi ed era divertente ascoltare le rievocazioni di alcuni incidenti o strafalcioni sui set o a teatro di attori più o meno famosi. Ci furono dei momenti però, pochi per fortuna, in cui mi sentivo come un ragazzino imbarazzato che porta la fidanzatina a conoscere la madre. Quei momenti in cui io e Stana facevamo qualche movimento particolare insieme oppure dicevamo la stessa parola nello stesso attimo. Vedevo che Susan ci guardava con il sorrisetto classico di chi pensa di vedere oltre ciò che c’è in realtà. Ma tra me e Stana non c’era niente. Non ancora per lo meno. Andiamo! Ci conoscevamo da soli, quanto, sei giorni? Ok, forse non era molto normale che già fossimo così coordinati dopo così poco tempo né che io e Stana avessimo iniziato a stuzzicarci sin dal principio. Ma in fondo senza un po’ di anormalità che divertimento c’è?
 
Erano le due passate quando ci salutammo. Susan ci assicurò che sarebbe passata l’indomani mattina dagli studios per vedere qualche provino. Quindi se ne andò con la classe di una attrice consumata. Io non avevo nulla in programma per il pomeriggio, perciò chiesi a Stana se aveva voglia di fare una passeggiata con me sul lungo mare di Los Angeles. Quando glielo proposi mi guardò con un sopracciglio alzato.
“Suppongo che anche questo faccia parte del ‘conoscersi meglio per creare più feeling per la serie’, giusto?” mi domandò sarcastica. Io sgranai esageratamente gli occhi in un finto sguardo sorpreso.
“Certamente” risposi poi come se ritenessi la sua domanda un’offesa personale. Poi mi ricomposi teatralmente, aggiustandomi la giacca a grandi gesti, e passai ad un tono semiserio. “Però se sei al corrente di altri modi per conoscerci ancora meglio e approfonditamente, io non mi tiro certo indietro!” aggiunsi senza riuscire a trattenere un sorrisetto furbo che traditore si era fatto strada agli angoli della mia bocca. Stana alzò gli occhi al cielo, rassegnata e divertita, e mi diede un leggero schiaffo sul braccio. Io ridacchiai. Poi le lanciai un’occhiata con uno sguardo implorante che mia madre aveva soprannominato ‘da cucciolo bastonato’. Di solito funzionava sempre con le donne. “Allora?” chiesi ansioso. Stana mi osservò per un momento senza battere ciglio. Quando distolse lo sguardo e si morse il labbro inferiore, io seppi di aver vinto.
“Ok, Mr. Fillion, va bene!” rispose con un sospiro rassegnato. Eppure era un sorriso quello che vedevo farsi largo sul suo volto. Sorrisi a mia volta senza riuscire a trattenermi. “Però prima devo fare una commissione e dovrei chiamare i miei…”
“I tuoi Dalmati?” chiesi divertito. Lei annuì ridacchiando.
“Proprio loro!” replicò. “Quindi ti dispiacerebbe se ci trovassimo più tardi?” domandò poi timorosa.
“Figurati, non c’è problema” risposi tranquillizzandola. “Ti passo a prendere, non so, verso le quattro? Ti può andare bene come orario?”
“Perfetto” dichiarò Stana sorridendo. Quindi ci salutammo e ci dirigemmo alle nostre auto. Quando fui certo di non essere a portata d’orecchio di nessuno, iniziai a fischiettare.
 
Arrivai al mio appartamento mezz’ora dopo. Ero stato fortunato visto che non avevo trovato traffico. Mi gettai sul divano e poggiai stancamente la testa all’indietro sul bracciolo. Tolsi le scarpe lanciandole da qualche parte e mi stesi completamente, rilassandomi. Buttai un’occhiata distratta all’orologio dello stereo. Avevo più di un’ora da passare. Decisi di dormicchiare un po’ prima del giro con Stana. Chiusi gli occhi e sorrisi leggermente. Avrei passato il pomeriggio con quella fantastica donna che avrei avuto come partner.
Invece di spegnere il cervello, iniziai ad arrovellarmi su un pensiero fisso. Volevo fare qualcosa per stupire Stana. Qualcosa che non si sarebbe aspettata da me. Un’idea si fece strada nella mia mente. Feci una smorfia e tentai di reprimerla, ma non volle saperne. Provai a pensare ad altro, ma non mi veniva in mente niente che andasse bene come quello. Feci un sospiro rassegnato e mi sistemai meglio sul divano. Inconsciamente sperai di riuscire a far colpo su di lei almeno un poco in questo modo. Sarei tornato a casa distrutto, ma, ero sicuro, ne sarebbe valsa la pena. Con un ultimo riflesso di lucidità tirai fuori il cellulare da una tasca e rapidamente impostai la sveglia per prepararmi in tempo. Quindi mi assopii.
Dicono che la cosa più difficile in una serie tv sia non innamorarsi della propria co-star. Forse non hanno tutti i torti.
 
Il trillo della sveglia del cellulare mi fece sussultare. Con uno sbuffo scocciato pigiai il tasto per zittirlo. Stavo sognando dei cani a macchie. Dalmati, credo. Mah…
Mi stropicciai gli occhi e mi stiracchiai. In quel momento mi ricordai chi avrei dovuto incontrare nel giro di mezz’ora. Sorrisi. Mi buttai giù dal divano e corsi a cambiarmi. Serviva la tenuta adatta. Maglia a maniche corte, camicia sopra aperta e il paio di jeans più comodi che avessi sarebbero stati perfetti. A mio favore c’erano anche la giornata soleggiata e abbastanza calda. Mi guardai per un attimo allo specchio prima di uscire e mi aggiustai i capelli che si erano schiacciati durante il mio sonnellino pomeridiano. Quindi andai in garage. Mi fermai davanti al mio bolide a braccia incrociate e faccia rassegnata.
“Ok, senti, io e te non andiamo molto d’accordo, ma oggi fai la brava e non farmi fare figuracce!” le dissi come se potesse capirmi. Quindi annuii convinto, come se mi avesse risposto affermativamente o per lo meno come se avessimo raggiunto un accordo, e la tirai fuori dal garage. Uff… avevo dimenticato di gonfiare le gomme.
 
Quaranta minuti più tardi mi fermai trafelato davanti alla palazzina di Stana con gran stridore di freni. Ero in ritardo di dieci minuti. Dannate gomme. Le mandai un messaggio per avvisarla che ero arrivato e attesi che scendesse. Ero agitato ed eccitato allo stesso tempo. E se non avesse apprezzato la mia idea? E se mi avesse mandato a quel paese? Incrociai le dita e aspettai. Due minuti dopo la vidi uscire dal portone. Rimasi un momento a fissarla con una faccia da pesce lesso. Insomma non poteva uscire con jeans fino sopra il ginocchio senza avvertirmi! Avrei potuto prendermi un infarto! Tutta quelle parti di gambe scoperte…
“Ehi Nath!” La sua voce allegra mi riportò alla realtà. Sbattei gli occhi più volte per riprendermi. “Tutto bene?” mi chiese poi vedendo la mia faccia spaesata.
“Uhm… ciao! Sì, sì tutto bene. Scusa, mi ero un momento… ehm… incantato” riuscii a balbettare in risposta. I miei occhi guizzarono traditori verso le sue gambe e le fecero capire subito su cosa mi fossi incantato. Ridacchiò divertita, ma la vidi anche arrossire. Dio, lei era fantastica e io sembravo un ragazzino che non ha mai visto una donna da vicino. Cercai di riprendermi. “Senti ho una sorpresa” dichiarai all’improvviso sorridendole. “Spero ti piaccia…” aggiunsi poi un po’ nervoso. Lei mi guardò curiosa. Io le feci un grande gesto teatrale con la mano e le indicai il mezzo con cui ero venuto a prenderla, appoggiato al muro della palazzina.
“Una bici?” domandò confusa, le sopracciglia aggrottate. Io annuii.
“L’altro giorno, mentre mi parlavi del tuo progetto ATP, mi hai detto che ti piace girare in bici” dissi guardandola ansioso. “Così, vista la bella giornata, ho pensato che forse potevamo andarci in bici fino al lungomare. Però se non ti va non…”
“Nath è fantastico!” dichiarò lei felice, bloccandomi e facendomi un sorriso enorme. Il suo sguardo si era illuminato. “Puoi aspettare solo un momento che prendo anche la mia bici, allora?” aggiunse subito dopo eccitata. Io annuì subito.
“Certo!” risposi. Non potevo crederci. Il mio piano aveva funzionato. La osservai mentre tornava verso il portone del palazzo. A metà strada però si fermò e si girò di nuovo verso di me con uno sguardo perplesso e la bocca semiaperta.
“Ma… sei venuto in bicicletta fino a qui da casa tua? Non abiti a più di dieci minuti di auto?” mi domandò. Io alzai appena le spalle.
“Sì. E sono venticinque minuti in bici” aggiunsi con un mezzo sbuffo pensando al tempo che ci avevo impiegato per arrivare da lei. “Così non ti lamenterai della mia pancetta quando andremo a fare merenda!” dichiarai poi soddisfatto puntandomi un dito alla pancia. Stana scoppiò a ridere. Quindi mi disse di aspettarla e rientrò a recuperare il suo mezzo a due ruote.
 
Venti minuti più tardi stavamo pedalando sul lungo mare di Los Angeles. Avevano costruito da poco una lunga e grande pista per pedoni e biciclette che si snodava lungo quasi tutta la costa. Tra la pista e il mare c’era una piccola fascia d’erba verde. Era molto usata per picnic, dai bambini per giocare e dai semi atleti per allenarsi o fare stretching. Subito dopo questa, c’era la larga striscia di sabbia bianca. Poi il blu oceano Pacifico. La parte opposta della pista invece era popolata da negozietti di tutti i tipi, dalle collanine e souvenir, ai tacos e gelato.
Stana e io decidemmo di fare un pezzo di strada rimanendo sui nostri bolidi. Li avremmo lasciati poi più avanti, dove sapevamo c’era un piccolo spiazzo apposta per legare le bici. Avevamo chiacchierato e scherzato per buona parte della strada. E ci eravamo spiati a vicenda per tutta la strada. O almeno, io l’avevo osservata per tutto il tempo. Anche se avevo visto parecchie occhiate fugaci pure da parte sua. Soprattutto quando dovevamo procedere in fila indiana. Chissà perché, ma quando ero davanti sentivo sempre il suo sguardo su di me. E credo fosse puntato più sul mio fondoschiena che sulle mie spalle. Devo ammettere però che io non ero certo stato da meno. Le sue gambe nude erano come una calamita per il mio sguardo. E quando ero dietro di lei… beh, è ovvio dire che i miei occhi cadevano continuamente sul suo sedere? A un certo punto avevo anche rischiato di travolgere una vecchietta perché mi ero incantata a fissarla. E un’altra volta avevo anche corso il pericolo di un capitombolo perché non avevo notato una buca sull’asfalto. Ero riuscito a evitarla appena in tempo solo grazie a un richiamo di Stana. Ma la cosa che mi distraeva di più era il suo sorriso. Quel sorriso felice e bellissimo che era rimasto sul suo viso per tutto il tempo. Sapere che almeno in parte era causa mia mi entusiasmava. E probabilmente era colpa di tutto quell’entusiasmo il sorriso trentadue denti che, come lei, avevo stampata in faccia da quando eravamo partiti.
Dieci minuti dopo arrivammo alla piazzola con parcheggio bici. Allacciammo le nostre vicine con la catena. Stana si abbassò in avanti sul suo mezzo per chiuderlo alla ruota posteriore. Lo sguardo mi cadde involontariamente sulla scollatura a V della sua maglia. Deglutii, mentre parte della pelle nascosta veniva scoperta. Stana però poi alzò la testa con un sopracciglio alzato e io mi misi subito ad armeggiare sulla mia bici facendo finta di niente con la faccia più innocente che mi riuscì. Vista la temperatura, mi rimboccai le maniche della camicia fino al gomito. Fui quasi certo di aver visto un’occhiata interessata alle mie braccia da parte di Stana prima che distogliesse velocemente lo sguardo. Qualche minuto dopo ci avviammo sul lungomare a piedi.
Camminavamo vicini, abbastanza da sfiorarci le braccia, parlando e prendendoci in giro a vicenda sul nostro modo di guidare le bici. A un certo punto, senza neanche sapere in che modo, mi ritrovai a fantasticare su come sarebbe stato passeggiare insieme a lei tenendole la mano. Potevo quasi sentire la sua mano calda intrecciata con la mia. All’improvviso però una botta nello stomaco mi fece ritornare bruscamente alla realtà. Buttai fuori l’aria dai polmoni con uno sbuffo e mi piegai quasi in due.
“Ma che diavolo…” riuscii solo a dire appena ebbi ripreso un po’ di fiato, massaggiandomi la pancia. Percepii in quel momento le mani di Stana sulla mia spalla e sul mio braccio. Tentai di non emozionarmi troppo e alzai lo sguardo per capire cosa mi avesse colpito. Davanti a me vidi un bambino di non più di dieci anni, seduto per terra, che si strofinava con forza la testa. Aveva un broncetto di dolore sul viso così tenero che non riuscii ad arrabbiarmi con lui. Mi raddrizzai un poco sulla schiena e poi mi avvicinai a lui, tenendomi comunque una mano sulla pancia.
“Ehi, piccolo, tutto bene?” domandai preoccupato. Con la coda dell’occhio vidi Stana guardarmi stupita. Non feci in tempo a chiedermi il perché di quell’aria sorpresa che il bimbo alzò i suoi occhioni verdi su di me. Erano un po’ lucidi. Mi squadrò un momento.
“Mi hai fatto male alla testa…” mormorò mentre continuava a fregarsi con la mano il punto che era entrato in collisione con il mio stomaco. Io ridacchiai. Evidentemente la mia pancia non era così morbida come pensava Stana.
“Beh, scusami piccolo, ma sei stato tu a venire addosso a me” lo corressi divertito, massaggiandomi la pancia.
“Io non sono piccolo!” esclamò il bambino guardandomi male, la manina ferma sulla testa. Io lo osservai per un momento con un sopracciglio alzato. In confronto a me era uno scricciolo.
“Ok, scusa” replicai con un sorriso qualche secondo dopo, alzando una mano in segno di resa. Quindi la tesi verso di lui. Il bambino mi guardò per un momento stupito, evidentemente indeciso se accettare l’aiuto o meno. Alla fine lo accettò. Lo tirai su senza troppo sforzo. La sua testa mi arrivava giusto all’altezza dello stomaco. “Sicuro di star bene, campione?” domandai. Il piccolo si guardò la mano, che fino a quel momento aveva tenuto sulla testa, come se si aspettasse di scoprirci chissà quale segno del suo scontro con me. Non trovandone, mi sorrise appena e annuì. “Dai, torna a giocare” lo incoraggiai un secondo dopo. “Solo ricordati di guardare dove corri la prossima volta, ok?” Il bambino, che evidentemente aspettava una strigliata, si illuminò e mi sorrise allegro. Quindi annuì e scappò via. Scossi la testa divertito.
“Il piccolo sta bene… ma il grande?” la voce di Stana mi ricordò immediatamente la sua presenza. Mi guardava con un sorriso a metà tra il divertito e il dolce. Io mi massaggiai ancora la pancia.
“Il grande se l’è cavata” replicai ridacchiando. “Anche se devo ammettere di aver rischiato parecchio” aggiunsi. “Sai se fosse stato un poco più basso?? Non mi avrebbe preso lo stomaco, ma qualcosa più giù di decisamente più prezioso!” Stana roteò gli occhi alla mia uscita, ma la vidi sorridere divertita. Poi mi guardò più seriamente, si avvicinò di nuovo a me e mi appoggiò la mano sulla spalla, come aveva fatto prima che iniziassi la mia conversazione con il bambino.
“Sicuro di stare bene?” mi chiese ancora con una nota di preoccupazione. Io buttai fuori un po’ d’aria con una piccola smorfia di dolore, ma poi annuii e le sorrisi.
“Tranquilla! Non mi rompo così facilmente” replicai. “Però se vuoi controllare che non abbia qualche livido…” aggiunsi iniziando ad alzare la maglia. Stana ci mise un secondo a capire le mie intenzioni. Arrossì e distolse immediatamente lo sguardo da me.
“No, no, ok, mi fido!” replicò subito. Io ridacchiai divertito e mi rimisi a posto la maglia. Avevo preso una bella botta, doveva avere la testa dura il piccolo, ma non mi faceva già quasi più male.
“Comunque sei stato bravo…” disse all’improvviso Stana. Io la guardai confuso. Lei si morse il labbro inferiore e fece un cenno con la testa verso dove era scomparso il piccolo. “Con il bambino, intendo. Molti gli avrebbero urlato dietro di fare attenzione. Tu invece…” Si fermò cercando le parole per continuare.
“Io invece l’ho tirato su e l’ho rimandato a giocare senza neanche rimproverarlo troppo” proseguii per lei. Stana si morse di nuovo il labbro inferiore e annuì. Io alzai appena le spalle. “È solo un bambino che per troppa voglia di divertirsi non ha guardato bene dove andava. Lo capisco. E se vogliamo dirla tutta nemmeno io ero particolarmente attento alla strada…” ammisi con un sospiro ripensando alle immagini di Stana e me che passeggiavamo per mano che erano passate per la mia mente prima dell’‘incidente’. Scossi la testa nascondendo quei pensieri. “E poi mi piacciono i bambini” dichiarai un momento dopo senza sapere bene perché.
“Per colazione?” domandò Stana divertita, senza riuscire a trattenersi, indicandomi la pancia. Io sbuffai e la guardai offeso. Lei scoppiò a ridere. Quando smise di ridacchiare, ricominciammo la nostra passeggiata. Stavolta Stana si aggrappò al mio braccio, cosa che mi lasciò piacevolmente sorpreso. Lei disse “per controllare che non investissi nessuno”. Ma non mi importava realmente il motivo per il quale ora eravamo a braccetto. Sentivo il suo profumo, il calore del suo contatto. Eravamo così vicini che non avrei neanche dovuto allungarmi per abbracciarla.
“In ogni caso” aggiunse Stana qualche momento dopo. “È stato un gesto molto dolce verso quel bambino.” Mi girai a osservarla. Non c’era scherzo nel suo sguardo, né nel suo sorriso. Solo tenerezza. Le sorrisi di rimando. Una testata per un sorriso dolce. Rischiavo di diventare masochista, ma ne sarebbe valsa la pena.
Camminammo per una decina di minuti chiacchierando e godendoci il tempo tiepido. Poi vidi Stana adocchiare le vetrine dei negozi a lato della pista ciclabile. Mi chiese se era un problema per me passarci vicino. Doveva cercare un regalo per sua sorella che avrebbe fatto il compleanno la settimana prossima. Le dissi che non avevo problemi e ci avvicinammo. Dopo qualche minuto avvistammo una libreria e Stana mi tirò dentro. Quando entrammo le vidi gli occhi illuminarsi e scoprii un’altra cosa di lei. Amava i libri quanto me. Sorrisi divertito nel vedere come cercava di passare davanti agli scaffali senza guardarli per non distrarsi dalla sua missione. A un certo punto però uno di essi attrasse inesorabilmente la sua attenzione e vi si fermò davanti.
“Ti piacciono i fantasy?” domandai curioso leggendo i titoli di alcuni libri e intuendo il genere. Lei si morse il labbro inferiore e arrossì appena.
“Sì” rispose annuendo. Quindi mi indicò i libri davanti a lei. “Fantasy…” Annuii interessato. “Romanzi rosa…” Feci una smorfia. “Storici…” Inclinai appena la testa da una parte all’altra a indicare che non mi dispiacevano. “E gialli” concluse.
“Beh, dalla detective Beckett non mi sarei aspettato un genere differente!” esclamai ridacchiando. Stana alzò gli occhi al cielo, ma sorrise divertita.
“E sentiamo, quasi-scrittore-Richard-Castle, a te che generi interessano?” domandò sarcastica e curiosa insieme. Io feci un mezzo sorriso e iniziai a elencarli sulle dita.
“Fantasy, fantascienza, gialli e, di tanto in tanto, storici” dichiarai convinto. Lei mi guardò con un sopracciglio alzato. “Che c’è?” Alzò appena le spalle con un sorriso divertito.
“Niente” replicò. “Non mi sarei aspettata un genere differente dalla fantascienza né da Nathan Fillion né da Richard Castle” aggiunse prendendomi in giro e tornando a guardare i libri. Io mi trattenni dal farle una linguaccia come i bambini e mi limitai a una smorfia offesa.
In quel momento sentii una serie di tonfi provenire da dietro lo scaffale che stavamo guardando. Sporsi la testa curioso per controllare che non si fosse fatto male nessuno. E rimasi con la bocca aperta e gli occhi sgranati. A poco più di cinque passi da me c’era un omone alto due metri e grosso il doppio, le spalle enormi. Tutto in muscoli. Era vestito da motociclista, completo di giacca di pelle nera senza maniche, tatuaggi ovunque, baffoni lunghi fino al mento, occhiali da sole neri e bandana rossa allacciata in testa. La sua enorme mole doveva aver fatto cadere per sbaglio una pila di libri dietro di lui che ora giaceva abbandonata sul pavimento intorno a lui. Alzò la testa e mi lanciò uno sguardo furioso. Io deglutii e tornai immediatamente nella mia parte di scaffale, nascondendomi dietro questo.
“Tutto bene?” mi chiese Stana guardandomi perplessa. “Mi sembri pallido…” Io la guardai senza sapere bene cosa dirle. Poi sentì dei passi pesanti da dietro lo scaffale. Si dirigevano verso di noi.
“Ehm… io… io sono un po’ claustrofobico, ecco, quindi sarebbe il caso di uscire se non ti spiace, tanto qui non c’è niente che ti interessi, no? Poi torniamo un altro giorno, te lo prometto!” dissi tutto d’un fiato. Le diedi a malapena il tempo di annuire che la presi per mano e la trascinai fuori dalla libreria.
Una volta usciti e allontanati di qualche passo, tirai un sospiro di sollievo.
“Claustrofobico?” domandò all’improvviso Stana guardandomi con un sopracciglio alzato.
“Ehm…” Lo ammetto. Non era stata la mia miglior bugia. “Sì…” aggiunsi cercando di essere convincente. Mi guardò male. Non convincevo me stesso, figurarsi se convincevo lei. Ma che razza di attore ero?? “Beh… ehm... a questo punto visto che siamo fuori, che dici se continuiamo a cercare il regalo per tua sorella? A proposito come hai detto che si chiama?” chiesi velocemente per cambiare discorso. Lei mi squadrò ancora per qualche secondo, per nulla convinta della mia uscita. Stavo sudando. Poi però Stana sbuffò appena.
“Christine” borbottò. “Si chiama Christine.” Mi concessi un secondo sospiro di sollievo. Le sorrisi esitante.
“Bene… Allora, andiamo?” domandai piano. Stana annuì appena. Poi guardò in basso. Seguii il suo sguardo e solo in quel momento mi accorsi che ancora non le avevo lasciato la mano da quando l’avevo portata fuori dal negozio. Ci guardammo negli occhi preoccupati, non sapendo bene quale avrebbe potuto essere la reazione dell’altro, e il secondo dopo ci staccammo contemporaneamente, imbarazzati. Pensai di aver rovinato tutto, invece un momento dopo sentii Stana prendermi di nuovo a braccetto. La guardai confuso e lei mi sorrise appena. Non potei che sorriderle in risposta e riprendemmo la nostra passeggiata.
Qualche minuto dopo trovammo una gioielleria e Stana volle vedere alcuni braccialetti. Approfittai dell’opportunità per capire quali fossero i suoi gusti in fatto di gioielli. Non si sai mai, magari avrebbe potuto essermi utile in futuro.
“Secondo te qual è meglio?” mi domandò all’improvviso Stana riportandomi alla realtà.
“Cosa?” domandai confuso. Lei mi indicò due bracciali sotto una teca di vetro.
“Secondo te quale è meglio per mia sorella?” ripeté.
“Ma io non conosco i gusti di tua sorella!” esclamai subito allarmato. Non volevo già mettermi contro parte della famiglia se avessi scelto il regalo sbagliato. Lei sbuffò e mi fece un gesto noncurante con la mano. “Tu quale preferisci?” le chiesi poi. Guardò i bracciali sovrappensiero. Notai spuntare sulla sua fronte una sottile rughetta. L’avevo già vista durante il provino. Era adorabile. Scossi la testa e cercai di non perdermi troppo in altri pensieri. Osservai anche io i bracciali. Erano entrambi in acciaio. Uno aveva una maglia sottile e un piccolo cuore a un’estremità con incastonata una pietra. L’altro invece aveva una maglia più spessa formata da una serie di doppi cerchi. Il primo era più raffinato, il secondo più semplice e sportivo.
“Mi piace quello sottile, ma conoscendo Chri dopo mezz’ora questo povero bracciale avrebbe già almeno un anello rotto” disse con un sorriso perso e divertito insieme. “Quello più spesso credo sia più adatto a lei” continuò.
“Allora prendile quello” dichiarai semplicemente. “Sono belli entrambi, ma se tua sorella è una più sportiva, ti conviene andare sul bracciale a cui deve fare meno attenzione quando si muove.” Mi sorrise divertita e annuì.
“Ok, vada per questo. Grazie Nath.” Io le sorrisi e scossi la testa a indicare che non avevo fatto proprio niente di speciale. Stana pagò il bracciale, mentre una delle commesse le faceva un pacchetto regalo. Quindi andammo alla porta. Appena uscimmo però mi sentii urtare violentemente la spalla.
“Ahia!!” esclamai dolorante portandomi una mano al braccio. Fantastico. Due botte nel giro di un’ora. Alzai gli occhi per capire chi mi fosse venuto addosso. E gelai. Ancora il gigante della libreria. Deglutii. Mi ci volle un secondo per capire che fare. Presi Stana per mano e la tirai via con me a passo veloce in mezzo alla folla di pedoni usciti per il giro pomeridiano.
“Ehi tu!!” mi sentii chiamare da dietro. Dal vocione avrei scommesso che era il motociclista. Ed ero certo c’è l’avesse con me. Mi guardai per un attimo indietro e lo vidi venire verso di noi facendosi largo tra la gente.
“Nathan, ma che…??” cercò di chiedermi Stana, ma io la bloccai alzando un dito.
“Un attimo solo e ti rispondo!” replicai subito. Ero affannato. Il cuore mi batteva a mille, ma al momento non avrei saputo dire se era causato da quel mezzo inseguimento o dalla mano di Stana intrecciata alla mia. Girai la testa di lato e all’improvviso vidi quello che avrebbe potuto essere la nostra salvezza. Mi guardai un attimo indietro a controllare il tipo, quindi mi fiondai tra due negozi, aprii il piccolo magazzino in legno che avevo notato e mi ci infilai dentro con Stana. Chiusi per bene la porta. Lo spazio era piccolo e buio. L’unica luce proveniva da cinque sottili aperture orizzontali sulla porta. Da quelle potei vedere il motociclista tatuato passare davanti a noi tra la folla senza vederci. Tirai un piccolo sospiro di sollievo.
“Ma tu non eri claustrofobico?” mi domandò all’improvviso Stana scettica e irritata. Cazzo. Mi girai lentamente verso di lei. Avevo la faccia di un bambino preso con le mani nel sacco, che ovviamente però lei non poteva vedere visto che ero in ombra. Andai appena all’indietro e subito sentii sulla schiena diversi oggetti appesi alla parete. Mi accorsi in quel momento che lo sgabuzzino era pieno di cianfrusaglie. Tutta roba per la manutenzione del parco e altri piccoli lavoretti d’emergenza da quanto riuscivo a capire mentre mi abituavo al buio. In pratica lo spazio rimanente era appena sufficiente per noi due, in piedi uno di fronte all’altro, a pochi centimetri di distanza.
Quando realizzai quest’ultima informazione il mio cervello si disconnetté automaticamente. Rimasi a fissare quel poco che vedevo di lei a bocca semiaperta. Mi accorsi in quel momento che potevo sentire il suo respiro su di me. La luce entrante le illuminava a tratti il viso, tra cui gli occhi. Mi ricordai che doveva essere arrabbiata con me, visto il suo sguardo duro. E io l’unica cosa che riuscivo a pensare era quanto fosse bella e calda e incredibilmente vicina a me… “Allora, Nathan, vuoi darmi finalmente una spiegazione?” domandò. Il tono di voce era controllato, ma intuivo che era furiosa. Sentii, più che vedere, che aveva le braccia incrociate davanti al petto. Questo perché i suoi gomiti sfioravano il mio di petto. “E ti avverto che non usciremo di qui finché non mi avrai detto la verità!” Per un momento mi venne la pazza idea di non dirgliela mai, la verità. Poi però ci ripensai. Quella donna in fondo sapeva un poco di arti marziali da quanto mi aveva detto. Mica volevo morirci in questo bugigattolo! Sospirai rassegnato e finalmente esaudii il suo desiderio. Le dissi del tipo che avevo visto il libreria, del suo sguardo assassino nei miei confronti, del suo seguirci. Lei mi ascoltò in silenzio. Quando mi parlò non era più arrabbiata. Solo un po’ irritata.
“Scusa, Nathan, ma si può sapere che gli hai fatto?” domandò alla fine.
“Io non gli ho fatto proprio niente!” esclamai offeso.
“Ma se non gli hai fatto niente, allora perché dovrebbe avercela con te?” mi chiese ancora. Io aprii la bocca per rispondere, ma poi mi bloccai. Era vero. Io non gli avevo fatto proprio niente, quindi perché avrebbe dovuto inseguirmi? Aggrottai le sopracciglia e rimasi silenzioso per qualche secondo, cercando una spiegazione logica. “Perché la prossima volta che lo vedi non gli chiedi semplicemente cosa vuole?” domandò Stana alzando appena le spalle come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Stavo per replicare che lei diceva così perché non aveva visto la taglia di quell’individuo, ma mi bloccai ancora una volta. Una sottile striscia di luce le illuminava gli occhi. Erano puntati su di me senza più lo sguardo cattivo di prima, anzi curiosi e attenti. Fu in quel momento che percepii di nuovo la nostra esigua distanza. Stana non portava i tacchi quel giorno, così risultava più bassa di me, tanto da arrivarmi con la fronte al mento. Sentivo il profumo dei suoi capelli, il suo respiro sul mio petto, il calore del suo corpo dentro quello sgabuzzino. Percepivo tutto chiaramente. E un attimo dopo dovette percepirlo alla fine anche lei, perché il suo sguardo cambiò. Era ancora attento, ma ora sembrava anche preoccupato e insieme… speranzoso? Possibile? Vidi i suoi occhi saettare per un secondo nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la mia bocca e poi tornare su di me. Sentii un improvviso calore pervadermi. Il mio sguardo scese sulla sua bocca, illuminata da una di quelle sottili strisce di luce. Era semiaperta come la mia. Deglutii. Avevo una voglia pazzesca di eliminare quei dannati centimetri tra di noi e baciarla. Ma non volevo rovinare tutto. Dovevamo lavorare insieme! E se tutto fosse andato storto?? E se mi avesse respinto?? Come avremmo potuto recitare due come Castle e Beckett se non saremmo neppure riusciti a guardarci negli occhi?? Ero diviso a metà. Non sapevo che fare. Eppure… eppure quello sguardo… Tornai a guardarla negli occhi. E se quello sguardo, quel guizzo verso la mia bocca, avesse davvero voluto dire ‘baciami’? Forse… forse non restava che un modo per scoprirlo…
Il mio cuore batteva veloce e forte che quasi pensavo che Stana potesse sentirlo. Presi un respiro e lentamente iniziai ad avvicinarmi a lei. La vidi alzare piano, forse automaticamente, il suo viso verso il mio. Ora sentivo il suo respiro sul mento e lo sentivo farsi sempre più vicino e caldo. Socchiusi gli occhi. Persi un battito quando il mio naso sfiorò appena la sua pelle. La porta dello sgabuzzino però si spalancò all’improvviso in quel momento. Ci tirammo immediatamente indietro come scottati. Un uomo, probabilmente uno dei custodi del parco, ci guardava a bocca spalancata da fuori lo sgabuzzino con ancora la porta in mano.
“Che diavolo state facendo voi qui dentro??” ci chiese arrabbiato. Guardai per un secondo Stana. Era completamente rossa e con lo sguardo basso. Cercai di toglierci da quella situazione imbarazzante.
“Noi… ehm…” Con la coda dell’occhio vidi un tosaerba in un angolo. “Noi siamo dell’ETPCPC!” esclamai convinto. Il tipo mi guardò male.
“ETP… cosa??”
“ETPCPC! Ente Tosaerba Puliti e Curati per Parchi Cittadini!” dichiarai. Intravidi Stana trattenersi dallo scoppiare a ridere. “Stavamo controllando i vostri apparecchi. Complimenti, qui sembra tutto nella norma, quindi noi possiamo andare. Ottimo lavoro…” Guardai il suo cartellino di riconoscimento. “Justin! Ora, con permesso…” Presi Stana per mano e la trascinai via con me prima che il guardiano potesse riprendersi dal mio sproloquio. Quando ci parve di essere a distanza di sicurezza, ci fermammo a riprendere fiato. Quindi ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere.
“ET… e dio solo sa che altre lettere!” esclamò Stana dopo qualche minuto, mentre si asciugava una lacrima che le era sfuggita dal troppo ridere. “Ma come ti è venuta in mente una cosa del genere??”
“Non ne ho la più pallida idea” risposi ghignante. “Però ha funzionato, no?” Stana scosse la testa divertita e rassegnata.  Quindi si aggrappò di nuovo al mio braccio e mi tirò appena per farmi muovere.
“Dai andiamo Mr. Ente Tosaerba” mi incitò ridacchiando. “Mi è venuta fame.” Riprendemmo a camminare tranquilli. Nessuno dei due sembrava voler accennare a quello che era successo, o meglio stava per succedere, dentro quella specie di piccolo magazzino. Forse era meglio così. Per il momento.
Dopo qualche minuto le chiesi se aveva voglia di qualcosa in particolare o si voleva fidare di me per la scelta della merenda.
“Oh, di te non lo so…” replicò fingendosi pensierosa. La guardai sorpreso. “Ma della tua pancia mi fido di certo!” aggiunse divertita un attimo dopo indicandomi lo stomaco. Sbuffai offeso e lei si strinse un poco al mio braccio ridendo. Alla fine comunque mi lasciò scegliere il locale. Avendo campo libero, la portai in una gelateria italiana poco lontano da dove eravamo. Ci ero già stato altre volte. Era una delle migliori di Los Angeles a quanto ne sapevo e avevo potuto constatare personalmente. Quando vi entrammo, Stana rimase a bocca aperta e io sorrisi divertito. La gelateria non era molto grande, ma la quantità di gusti presenti era impressionante. C’erano i più classici, come cioccolato, stracciatella, nocciola, pistacchio, le varianti più particolari, come cioccolato variegata al rhum, e quasi ogni tipo di frutta, dalla fragola, al cocco, alla papaya. Che poi io era una vita che mi chiedevo chi potesse prendere un gelato alla papaya.
Scegliere i gusti fu un’impresa più per Stana, che non era mai entrata prima, che per me. Io andai quasi sul sicuro. Cioccolato, zuppa inglese e tiramisù. I miei gusti preferiti. Quando li esposi alla mia partner, lei alzò un sopracciglio seguito da un sorriso divertito, ma non disse nulla. Si morse il labbro inferiore e tornò a guardare la vetrina con i gusti. La osservai anch’io cercando di capire quali di questi avrebbe potuto preferire. Sapevo che le piaceva il cioccolato, perché a pranzo le avevo fatto assaggiare il mio dolce ricoperto di esso. Ma non avevo idea di cos’altro potesse piacerle. A un certo punto il mio sguardo si fermò su un gusto in particolare. Ci pensai un momento, poi sorrisi.
“Ti piace la menta?” le domandai all’improvviso. Lei si girò a guardarmi perplessa.
“Uhm… sì. Perché?” replicò Stana.
“Posso consigliarti un gusto?” chiesi ancora. Lei alzò le spalle e annuì.
“Menta e cioccolato allora!” esclamai indicandoglielo dal vetro. Era uno dei gusti particolari. Il gelato in sé era alla menta, ma al suo interno c’erano dei pezzi di cioccolato di diverse dimensioni. Lei aggrottò le sopracciglia.
“Cos’ha di tanto speciale?” domandò confusa. Io le feci un mezzo sorriso.
“Guardalo” dissi indicandolo di nuovo. “Sembra solo fredda menta. Invece quando arrivi nel mezzo scopri che c’è un bel pezzo di dolce cioccolato che ti aspetta! Un po’ come Beckett, se vuoi, o come te. Fuori sembri in un modo, ma all’interno sei un mondo da scoprire…” Stana mi osservò per un momento con gli occhi sgranati. Poi distolse lo sguardo e arrossì appena. Rimase qualche altro secondo a osservare pensierosa quel gusto, quindi mi sorrise.
“Sai che ti dico? Credo che lo assaggerò” replicò. Io le sorrisi in risposta. Quindi ci spostammo alla cassa per ordinare i gelati.
“Cono o coppetta?” chiese la ragazza dall’altra parte del banco.
“Cono” rispondemmo contemporaneamente. Ci guardammo per un momento stupiti. Questa cosa stava diventando allo stesso tempo strana e… incredibilmente familiare. Pagai i coni, non le permisi neanche stavolta di tirare fuori un soldo, anche se con qualche fatica in più, e ottenemmo i nostri gelati.
Stavamo per uscire e decidere se sederci su una panchina o continuare a passeggiare con i coni in mano quando il gigante tatuato della libreria ricomparve ancora una volta. Entrò infatti proprio in quel momento dalla porta del locale. Io mi bloccai con il gelato a mezz’aria davanti alla mia bocca aperta. La richiusi e deglutii. Il motociclista mi individuò subito. Quindi iniziò a venire verso di noi a grandi passi. Sentii la mano di Stana sul mio braccio e istintivamente mi portai davanti a lei come a farle da scudo. Ad un passo da me il gigante si fermò. Dio, quanto era alto. Io ero più di un metro e ottanta, ma lui mi superava abbondantemente. Ma la cosa peggiore era il fatto che fosse due volte più grosso di me, che certo non ero magrolino.
La presenza di Stana dietro di me mi diede forza. O forse diede solo un incoraggiamento al mio orgoglio maschile davanti a lei. Mi schiarii la voce e mi rivolsi al tipo.
“Ehi, tu!” Ok, forse non era il modo migliore per iniziare, ma ormai ero partito… “Mi spieghi perché continui a seguirci? E non provare a dire che non è vero. Ti ho visto alla libreria, in gioielleria e in mezzo alla folla.” Mi stupii io stesso del tono deciso che era uscito dalla mia bocca. Quello mi squadrò per un momento da sotto gli occhiali da sole. Quindi se li tolse, attaccandoli con una stanghetta alla giacca, e mi guardò di nuovo.
“Nathan Fillion?” esclamò speranzoso l’uomo con un vocione basso e un chiaro accento texano. Io lo guardai stupito. No un momento… non era mica davvero… “Capitan Malcolm Reynolds!” dichiarò quello ancora con tono di eccitamento represso. Fu in quel momento che notai che uno dei suoi tatuaggi sul braccio destro era la scritta Firefly, mentre sulla spalla sinistra riconobbi parte del musetto dell’astronave Serenity. Io sospirai sollevato. Era un fan. Solo un fan. Uno che mi aveva fatto prendere un infarto e quasi rovinato il pomeriggio con Stana, ma solo un fan. O forse avrei dovuto ringraziarlo per la storia dello sgabuzzino?
“Sì, sono io” dichiarai finalmente tranquillo allungandogli la mano. Lui la prese subito e praticamente me la stritolò scuotendola allegramente. Repressi un lamento di dolore. Udii Stana ridacchiare dietro di me.
“Sono un grande fan di Firefly!!” continuò felice con il suo accento texano lasciandomi finalmente la mano. “Scusa se ti ho spaventato, non volevo! Ma ti ho visto con la tua ragazza e non volevo distrurbare…” Io mi bloccai e guardai Stana. La vidi arrossire all’improvviso e tentare di nascondersi dietro il gelato.
“No, no, non è la mia ragazza…” …purtroppo. Ma quell’ultima parola la dissi solo nella mia testa. “Siamo solo amici” aggiunsi velocemente.
“Oh, scusate” dichiarò il texano. “Solo che sembravate così affiatati che pensavo…”
“Tranquillo, non importa” tagliai corto io cercando di essere gentile per non far imbarazzare ulteriormente Stana. Quello annuì senza aggiungere altro. Quindi, con una timidezza che mai mi sarei aspettato da quel gigante, mi chiese se potevo fare una foto con lui e firmare un autografo. Io acconsentii subito senza problemi. Mi piacevano i fan e questo si stava rivelando decisamente particolare. Stana mi prese il gelato dalle mani affinché fossi più libero. La ringraziai con un sorriso. Il texano aveva già una macchinetta fotografica in mano e spostava il peso da un piede all’altro eccitato. Mi avvicinai a lui e, con un braccio sulle spalle e sorridenti, facemmo la foto. Mi sentivo un nano al suo confronto. Era più alto di me di quasi tutta la testa. Mise via la macchinetta e tirò fuori un pezzo di carta e una penna. Però. Fornito l’amico.
“A chi devo dedicarlo?” chiesi quindi.
“A Mickey!” replicò subito euforico. Lo guardai per un secondo stupefatto, mentre sentivo Stana accanto a me trattenersi nuovamente dal ridere. Seriamente? Mickey? Come Mickey Mouse? Lui??
Mi morsi la lingua e gli firmai un autografo con tanto di dedica appoggiandomi a un tavolino del locale. Quindi gli passai il foglio e ripresi il gelato da Stana così che fosse più libera. Mickey guardò quel pezzo di carta con occhi sgranati quasi fosse un reliquia preziosa. Sorrisi nel vedere quel lato bambino in un omone del genere. E sorrisi anche perché ero stato in parte io a tirarlo fuori, grazie a Firefly.
Mickey mi ringraziò più volte e si scusò ancora per averci fatto spaventare. Quindi se ne andò infilandosi con estrema attenzione il foglio con l’autografo in una delle tasche della giacca di pelle. Uscimmo anche noi e tornammo a passeggiare sulla pista insieme ai nostri gelati.
“Wow” fu tutto quello che commentò Stana, mentre cercava di non ridere.  “In effetti faceva davvero paura…” aggiunse sogghignando. Io le feci una smorfia.
“Sei solo gelosa perché mi ha chiesto un autografo!” dichiarai fingendomi offeso e tornando al mio gelato.
“Beh, se è quella la categoria media dei tuoi fan, io starei attento a tornare a casa la sera” aggiunse ironica nascondendosi dietro il suo cono. Fu in quel momento che mi accorsi di una cosa strana. Nonostante avessi lasciato il mio gelato in mano a Stana per quasi un minuto, quello sembrava non essersi sciolto minimamente. Aggrottai le sopracciglia confuso. “Che c’è?” chiese la mia partner notando il mio sguardo perplesso fisso sul gelato. Io scossi la testa.
“Niente solo che… boh, pensavo si sarebbe sciolto un po’ il gelato, invece mi è andata bene. Insomma non ne è caduta neppure una goccia” affermai sorridendole. A quelle parole Stana abbassò lo sguardo e arrossì appena. Poi si morse il labbro inferiore e mi lanciò un’occhiata maliziosa.
“Beh, diciamo che potrei averlo assaggiato…” disse piano passando subito dopo la lingua sul suo gelato come se nulla fosse. Io mi bloccai in mezzo alla strada, gli occhi sgranati e la bocca aperta. Passai alternativamente lo sguardo tra il mio gelato e lei. Sentii un’improvvisa ondata di calore. Aveva davvero appena detto di aver assaggiato il mio gelato? La sua lingua era davvero passata lì sopra dove io avevo passato la mia?? Deglutii. “Non vieni?” chiese Stana con un sorrisetto vedendomi ancora immobile. Io annuii veloce e ripresi a camminare al suo fianco. La vidi passare di nuovo la lingua sul suo gelato e il pensiero mi corse ancora una volta all’immagine di prima. E non era l’unica immagine che mi passava per la testa. La sola frase ‘Stana ha assaggiato il mio gelato’ mi portava automaticamente a pensare a una serie di doppi sensi vietati ai minori che non facevano altro che aumentarmi il calore corporeo. I miei film mentali mi stavano facendo impazzire ed eccitare ben più del dovuto. Così ricominciai a mangiare il mio gelato per tentare di raffreddare i bollenti spiriti. E sperando forse di sentire il sapore di lei sulla lingua.
 
Arrivammo sotto il palazzo di Stana che ormai era quasi buio. Parcheggiammo le bici e rimanemmo a parlare qualche minuto di più per allungare il più possibile quel pomeriggio. Eravamo entrambi stanchi, ma in quel momento risentivamo poco della lunga giornata. O almeno ci provavamo. Infatti dopo una decina di minuti Stana non riuscì a frenare uno sbadiglio. La guardai teneramente. Sembrava una bambina mentre si stropicciava gli occhi tentando di svegliarsi. Poco dopo anche io soffocai uno sbadiglio e lei ridacchiò.
“Forse è il caso di terminare qui il nostro pomeriggio. Mi sembriamo entrambi abbastanza provati dalla giornata” disse divertita. Io feci una smorfia e misi su il mio sguardo da cucciolo. “Non guardarmi così!” mi riprese subito ridendo e mettendomi scherzosamente una mano sulla faccia. Io risi a mia volta e le bloccai la mano su di me con una delle mie. Per sbaglio però la tirai e Stana perse l’equilibrio in avanti. Riuscii a riprenderla al volo per la vita con un braccio.
“Ehi, tutto bene?” domandai preoccupato. Lei alzò lo sguardo e in quel momento mi accorsi della nostra posizione. La sua mano, che prima era sulla mia faccia, si era spostata sul mio petto. La mia si era mossa con la sua e vi era rimasta sopra. Con l’altro braccio invece le cingevo la vita e la stringevo a me. Potevo sentire distintamente il suo respiro sul mio mento e il suo corpo quasi completamente trattenuto contro di me. Ancora una volta vidi il suo sguardo cambiare in qualcosa che non sapevo ben decifrare. I suoi occhi volarono per un secondo alla mia bocca per poi tornare su di me. Quel giochetto con lo sguardo che le avevo già visto fare in precedenza mi procurò ancora una volta un certo effetto… riscaldante. Deglutii. Nell’arco di qualche ora ero di nuovo a pochi centimetri da lei e ancora una volta non sapevo cosa fare. O meglio ne avevo una mezza idea. Avrei voluto baciarla. Ma volevo davvero rischiare di rovinare tutto? Lei non era una delle mie tante sveltine o relazioni di breve durate. Lei era speciale, diversa. Lei era unica.
Il suono del mio cellulare ci fece sobbalzare e riprendere lucidità. Stana si staccò velocemente da me mormorando un ‘grazie’. Io però non volevo perdere del tutto quel contatto. Involontariamente strinsi la presa della sua mano sul mio petto. Lei alzò gli occhi e mi guardò confusa, rossa in volto. Continuammo a guardarci negli occhi ancora per qualche secondo, immobili, finché il cellulare non smise di suonare. A quel punto le staccai lentamente la mano dal mio petto e la portai alle labbra lasciandovi un piccolo bacio sopra. Quindi le feci un piccolo inchino insieme a un mezzo sorriso. Lei mi osservò a occhi sgranati.
“Buonanotte principessa” mormorai. “Ricordati che il tuo cavaliere non ti lascerà mai cadere…” Stana continuava a guardarmi stupita e imbarazzata. In quel momento suonò di nuovo il mio cellulare. Sospirai. “Ed ecco un altro momento rovinato!” dissi scherzoso tornando al mio tono normale e tirando fuori, un po’ esasperato e un po’ rassegnato, il telefono da una tasca. Stana ridacchiò e scosse la testa divertita abbassando lo sguardo. Diedi un’occhiata al cellulare e vidi il disegnino di una casetta associato alle chiamate della mia famiglia. “Sono i miei” le dissi come a volermi scusare girando il telefono nella sua direzione così che vedesse la schermata.
“Ti conviene rispondere allora” mi avvertì Stana sorridendomi. “E poi è ora di andare. Anche io dovrei chiamare i miei visto che oggi non li ho trovati…” aggiunse indicando con un cenno della testa il portone del palazzo alle sue spalle. Io annuii, anche se un po’ abbattuto.
“Bhe, allora a domani” dissi recuperando la bici e cercando di mantenere un tono allegro. Stana annuì.
“A domani” replicò. “E grazie del bel pomeriggio. Non contando l’inseguimento, ovvio” aggiunse ridacchiando. Io scoppiai a ridere. Quindi mi girai di nuovo verso di lei. Aveva un sorriso riconoscente in volto. E non credo solo per il bel pomeriggio. Io le feci un ultimo cenno di saluto con la testa e un sorriso prima di rimontare in sella alla bici e sparire nella semioscurità dopo il tramonto. Avrei telefonato ai miei dal mio appartamento. E gli avrei detto che d’ora in poi li avrei chiamati io.
 
Il mattino dopo mi presentai alle otto agli studios come Marlowe ci aveva raccomandato. Avevo appena parcheggiato quando vidi Stana entrare in quel momento con l’auto. Mi avvicinai e aspettai che posteggiasse e uscisse, prima di salutarla. Sentendo la mia voce, la vidi girarsi e sorridermi felice.
“Ehi Nathan!” mi salutò in risposta mentre chiudeva la macchina.
“Passato una bella serata?” le domandai affiancandola e iniziando a incamminarci verso il set per i provini.
“Oh, sì” replicò con aria beata. Se non avessi saputo con certezza che non aveva il ragazzo penso che avrei potuto anche spararmi in quel momento. Per fortuna continuò Stana stessa a illustrarmi la sua serata. “Un bagno caldo e un buon libro sono la cosa migliore per riprendersi dalle fatiche della giornata andando poi a letto rilassati.” Tirai un silenzioso sospiro di sollievo. Niente uomini. Se non quelli su carta. Poi, senza che potessi fermare la mia mente, mi immaginai lei, nuda, nella vasca da bagno, con tante bollicine bianche intorno che la coprivano solo in punti strategici…
“Non ne dubito” replicai sottovoce.
“Hai detto qualcosa?” mi chiese all’improvviso. Doveva avermi sentito parlottare. Mi schiarii la gola.
“No, no, niente…” risposi in fretta. “Mi chiedevo solo se potevo offrirti un caffè” mentii, anche se non del tutto. Il caffè volevo offrirglielo veramente. Stana mi guardò per un momento con un sopracciglio alzato, poco convinta della mia risposta. Poi però annuì. Entrammo al bar degli studios e comprammo due caffè. Scoprii che il suo preferito era quello con il latte e sopra la vaniglia.
Una volta sul set, il 12th ancora in via di completamento, incontrammo Andrew, Rob e i loro immancabili seguaci-giudici. Dopo i saluti, chiesero sia a me che a Stana se volessimo provare con i candidati. Io ovviamente diedi ancora una volta subito la mia disponibilità. Era stancante provare con tutti, ma mi piaceva. Acconsentì anche Stana. Andrew ci spiegò che i personaggi del distretto sarebbe stato sempre il caso di metterli alla prova insieme, visto che avrebbero lavorato con entrambi. Accettammo anche in questo caso sia io che Stana di buon grado.
Marlowe e gli altri si sistemarono ancora una volta dietro il lungo tavolo preparato per loro. Noi prendemmo i copioni con le nostre parti già segnate e controllammo che momenti avremmo dovuto interpretare. Erano in tutto tre pezzi. Il primo era di Beckett ed Esposito sulla scena del crimine. Il secondo era una parte di indagine che comprendeva anche dei commenti di Castle. Il terzo invece era la scena in cui io, o meglio Rick, si lamentava delle noiose regole della polizia e le sorpassava allegramente chiamando il sindaco. In questo pezzo in pratica Castle e Beckett discutevano ed Esposito commentava.
Dopo un paio di minuti venne come al solito Isabel a informarci che gli aspiranti Esposito erano pronti.
 
Furono tre ore stressanti. Fino a quel momento avevamo provato con poco più di una ventina di persone. Buona parte erano muscolosi uomini latini dalla carnagione più o meno scura. Quasi tutti avevano già avuto ruoli minori in altri telefilm o film. Quindi avrebbero dovuto riuscire a mantenere un briciolo di professionalità. Diavolo, alcuni di loro invece sembravano lì solo per sbavare dietro a Stana!! Ma non l’avevano mai vista prima quelli una donna?? Invece di riflettere su come recitare da detective, si scervellavano sul modo migliore per portarsela fuori a cena! Se non peggio… Scacciai dalla mente quell’idea. Avevo i brividi al solo pensarci. Per fortuna c’era anche qualche buon attore venuto per provare seriamente. Il problema era che fino a quel momento ne avevamo incontrati pochi e di questi solo uno ci aveva più o meno soddisfatto.
Sbuffai pesantemente quando, durante una piccola pausa, Stana raccolse il suo dodicesimo numero di telefono e l’ennesima richiesta di un appuntamento a cui sapevo non sarebbe andata. Perché lei non era una facile. Lei non era come le altre. Non sarebbe mai andata con uno di quei tutto muscoli senza cervello... Vero?
“Nath, tutto bene?” mi domandò Stana all’improvviso avvicinandosi a me e riportandomi alla realtà.
“Uhm… sì, sì, a posto” replicai, un po’ più abbattuto di quanto avessi voluto. Lei aggrottò le sopracciglia e mi guardò perplessa, ma non mi chiese nulla. Poi sospirò e si sedette stancamente accanto a me su una delle sedie lasciate libere dai ‘giudici’ per la pausa. Con la coda dell’occhio la vidi tirare fuori da una tasca una mucchio di piccoli fogliettini. Ci misi un secondo a capire che erano i numeri di telefono degli spasimanti. Repressi una smorfia. Poi notai che Stana osservava quei pezzi di carta con fare pensieroso. Per un attimo ebbi il terrore che stesse seriamente decidendo di dare la possibilità a uno di loro di un’uscita intima.
“Secondo te sarebbe un’azione tanto cattiva quella di buttare tutti questi fogli nel cestino?” chiese Stana qualche momento dopo continuando a fissare la carta tra le sue mani. Mi girai stupito verso di lei. Aveva un sorrisetto quasi di scuse in volto. All’improvviso percepii un peso che avevo nel petto, e che neanche mi ero accorto di avere, sciogliersi. Mi sentivo… sollevato.
“Cattiva??” ripetei incredulo. “Non credo proprio! Al contrario!” dichiarai convinto senza riuscire a fermarmi. Lei mi guardò con un sopracciglio alzato.
“Al contrario?” replicò.
“Sì, nel senso… Insomma, li hai guardati bene??” esclamai, cercando di togliermi dagli impicci, senza accorgermi di starci affondando ogni balbettio di più. “Dai, come possono uscire con te??” Mi guardò male. “NO! Non intendevo questo! Volevo dire ecco come possono pensare di uscire con te? Tu sei intelligente, simpatica… Alcuni di loro non sanno neanche distinguere tra un’arancia e una banana!” Lo so, stavo iniziando a dare di matto, ma il suo sguardo indagatore su di me mi metteva quasi in soggezione. Ero nervoso. Stavo dicendo una cazzata dopo l’altra e lei non mi aiutava certo a rimanere lucido. Continuai a impappinarmi, finché Andrew non annunciò la fine della pausa. Tirai un silenzioso sospiro di sollievo. “Oh, guarda! Dobbiamo tornare a recitare!” esclamai con voce leggermente più alta di quella che avrei voluto. Mi alzai di scatto dalla sedia e ripresi posizione al centro della scena. Stana mi guardò per qualche secondo, stupita e confusa. Poi mi sorrise divertita. Appallottolò i foglietti e li abbandonò sulla sedia. Quindi mi raggiunse e mi lanciò un sorriso dolce. Forse qualcosa aveva capito del mio sproloquio. Meno male, perché io non ci avevo capito proprio nulla.
Appena tutti ebbero ripreso i loro posti, entrò un altro aspirante detective. Era un uomo robusto, più basso di me, dalla carnagione un poco scura e i capelli neri tagliati corti stile militare. Lo avrei detto cubano, portoricano o sudamericano. Indossava una giacca grigia, una camicia bianca e una cravatta grigio scuro sopra un paio di jeans neri. Da come allungò appena il collo a disagio mentre consegnava il suo curriculum ad Andrew dedussi che non fosse abituato a portare la cravatta. Oppure era nervoso. Più probabilmente un mix di entrambi.
“Jon Huertas, 32 anni” si presentò. Andrew gli fece le solite domande di routine su quello che aveva fatto in passato mentre leggeva il suo curriculum. Rimasi a bocca aperta quando raccontò di essere stato per otto anni nelle forze armate americane. Wow. Altro che serie televisiva. Lui l’aveva visto davvero il sangue e per davvero aveva sentito i colpi dei proiettili. Anzi probabilmente ne aveva sparati un bel po’ anche lui. Prendere nota. Mai fare incazzare uno come lui. E pensare che aveva anche fatto Sabrina, vita da strega… Uno duro come lui in quel telefilm?? Sarei scoppiato a ridere se non avessi avuto paura di un osso rotto.
Appena Jon finì di elencare le sue passate esperienze, Marlowe gli disse di iniziare a leggere il copione e conoscere me e Stana. L’uomo si girò verso di noi, si avvicinò e allungò la mano per salutarci.
“Yo, Jon Huertas” si presentò.
“Stana Katic” replicò lei sorridendo e stringendogli la mano.
“Nathan Fillion” mi presentai io a quel punto quando allungò la mano verso di me. Gli passammo un copione e lui iniziò subito a dargli un’occhiata. Per fortuna Jon sembrava appartenere alla categoria degli attori seri.
Lo lasciammo leggere tranquillo. Notai però Stana mordersi il labbro inferiore e spostare il peso da un piede all’altro. Sembrava impaziente e imbarazzata. La cosa mi preoccupò. Quando finalmente Jon finì di vedere il copione, Stana si fece avanti.
“Quindi… ehm… davvero sei stato nelle forze speciali?” domandò con tono timido e allo stesso tempo eccitato. La guardai stupito. Sembrava una ragazzina che si ritrovava improvvisamente davanti al suo attore preferito. Lui la osservò per un momento sorpreso, poi annuì.
“Sì, certo” rispose.
“Quindi immagino saprai fare anche un sacco di mosse per atterrare un avversario!” continuò Stana cercando di frenare l’entusiasmo. Fu a quelle parole che capii e mi rilassai un poco. Nei giorni passati mi aveva detto che aveva imparato un po’ di arti marziali e qualche mossa per il combattimento corpo a corpo militare per Stiletto. E mi aveva anche confessato che se ne avesse avuto il tempo ne avrebbe volute imparare di più. Sorrisi appena. In effetti aveva davanti un ex-soldato delle forze speciali. Quale migliore occasione per una piccola lezione gratuita?
Jon la squadrò per un momento con un sopracciglio alzato.
“Ragazzina, posso atterrarti in 47 modi differenti, 14 di questi mortali” replicò con un tono divertito, ma la faccia seria.
“Ragazzina??” ripeté Stana aggrottando le sopracciglia e guardandolo male. Io mi trattenni dal ridacchiare. “Ho a malapena due anni meno di te!!” continuò irritata.
“E allora?” replicò Jon ghignando. “Sei comunque più piccola.” Stana lo guardò furiosa, la bocca aperta come se avesse pronta una replica, ma le si fosse fermata in gola, le sopracciglia aggrottate. Stava per scoppiare. Dovevo ammettere che anche arrabbiata era molto carina. Soprattutto quando non lo era con me.
Un secondo dopo però la sua rabbia sembrò sgonfiarsi e sulla sua bocca si aprì in un sorriso ironico e malizioso. Io la guardai sorpreso per quel repentino cambiamento.
“Te lo faccio vedere io chi è la piccola…” sussurrò Stana con aria di sfida. Poi si avvicinò di un passo a Jon e gli puntò un dito contro il petto. “Tu e io. Qui. Appena abbiamo finito il provino. Corpo a corpo.” Io deglutii. Non voleva sul serio…?? Seriamente voleva combattere con lui?? Ma avrebbe potuto farsi male con uno come Jon!! Ma dovevo calmarmi perché tanto lui non avrebbe mai accettat…
“Ci sto, ragazzina” replicò lui con lo stesso tono di sfida. Mi cadde la mascella. Seriamente??
“Uhm… ragazzi?” tentai di mettermi in mezzo. “Ragazzi, andiamo non avrete davvero intenzione di…”
“Tranquillo Nath, questo bellimbusto lo sistemo in un secondo” mi fermò Stana continuando a guardare con occhi socchiusi Jon.
“Ah!” esclamò l’ex-soldato in una finta risata ironica. “Preparati a imparare qualche vera mossa e a finire al tappeto!” esclamò. Ok, non sapevo più come fermarli. Per fortuna in quel momento Andrew ci chiese se eravamo pronti per recitare. Sospirai internamente sollevato. Stana e Jon si guardarono ancora per qualche attimo in cagnesco. Poi si voltarono e ripresero i loro copioni come se nulla fosse, entrambi però con un sorrisetto divertito sulle labbra. Scossi la testa incredulo.
Provammo quindi le tre scene. Dovevo ammettere che Jon sembrò davvero competente quando si mise nei panni del detective Esposito. E anche scherzare con lui nella scena successiva fu stranamente semplice e istintivo. Quando finimmo un quarto d’ora dopo quasi mi ero dimenticato del loro piccolo scontro. Loro no. Stana infatti chiese subito uno dei tappeti morbidi blu per allenamenti che aveva intravisto nel set della palestra del distretto. Marlowe e gli altri evidentemente dovevano aver sentito tutto, anche se avevano fatto finta di niente, perché non chiesero spiegazioni. Semplicemente guardarono i due sfidanti divertiti ed eccitati per l’incontro. Ma solo io ero preoccupato??
Jon si tolse giacca e cravatta con evidente sollievo. Quindi mise da parte le scarpe, alzò le maniche della camicia, sbottonò i primi bottoni sul collo e si portò al centro del tappeto. Stana invece levò i tacchi e la giacca rimanendo in maglietta a maniche corte e jeans. Salì sul tappeto e si piazzò davanti a Jon. La vidi mordersi il labbro inferiore. Io rimasi a osservarli ansioso da un margine del tappeto. Continuavo a passare lo sguardo dall’uno all’altra. Sapevo che non si sarebbero fatti realmente male e che anzi probabilmente si sarebbero anche divertiti. Cercai di sorridere quando Stana mi guardò e mi fece l’occhiolino. Quello che mi uscì però fu più una smorfia che un sorriso incoraggiante.
“Pronta, ragazzina?” la provocò Jon. Stana sbuffò.
“Quando vuoi, soldato” replicò lei. Si misero entrambi in posizione. Il busto leggermente in avanti, le gambe semiaperte, le braccia alzate e pronte davanti a loro. Si squadrarono e soppesarono per qualche secondo. Quindi Stana attaccò. La vidi tentare di sferrare un pugno alla mascella che venne subito schivato dall’uomo. Quasi non riuscii a vedere Jon che si girava su sé stesso e dava un colpo in mezzo alla schiena a Stana facendola crollare a terra con uno sbuffo. Io la guardai allarmato, ma per fortuna lei si tirò su subito, ancora più combattiva di prima. Mi accorsi che stavo stringendo i pugni e allentai la presa. Stana si morse il labbro inferiore quindi scattò di nuovo e stavolta tentò di colpirlo con un calcio, facendo perno sull’altro piede. L’ex soldato però le bloccò il piede a mezz’aria senza troppo sforzo, quindi le fece semplicemente perdere l’equilibrio e cadere di nuovo, stavolta di schiena. Udii dietro di me fischi e applausi della troupe che si era radunata intorno al tappeto. Avrei potuto anche giurare di sentire qualcuno scommettere.
“Tutto qui quello che sai fare, ragazzina?” domandò ironico Jon, mentre lei si rialzava sbuffando.
“Perché non mi fai vedere tu qualche buona mossa invece di bloccarmi solo?” replicò Stana provocandolo. “O forse tutte le tue chiacchiere erano solo per farti bello?” Questa volta fu il turno del soldato di sbuffare irritato. Si rimisero di nuovo in posizione. Stavolta però fu Jon ad attaccare per primo. Rapidamente tentò di colpirla alla spalla e allo stomaco con due pugni ben assestati più che altro per farle perdere di nuovo l’equilibrio. Stana accusò il primo colpo alla spalla, ma riuscii a schivare il secondo alla pancia facendo un fulmineo salto all’indietro. Quindi gli si avventò contro con un nuovo calcio, sperando di colpirlo in viso approfittando del suo sbilanciamento in avanti. Jon però non si fece sorprendere. Ancora una volta le bloccò il calcio e le spinse via la gamba. Quindi la prese per un braccio, mentre lei tentava ancora una volta di prenderlo di sorpresa con un rapido pugno, si girò e la ribaltò sul tappeto facendo leva sulla schiena.
Stana emise un lieve gemito di dolore quando atterrò e io non potei fare a meno di avanzare involontariamente di un passo in avanti. Mi bloccai solo perché la vidi alzarsi subito in piedi ancora una volta, anche se con una smorfia di dolore in volto. Ma che volevano fare? Ammazzarsi sul serio?? E le voci intorno a noi continuavano a incitarli per giunta, anche se dubito che i due sentissero seriamente il rumore viste le loro facce concentrate.
Prima che potessi fare o dire qualunque cosa, Stana ripartì all’attacco. Di nuovo provò a colpire Jon con un pugno che fu subito bloccato. Stana però proseguì la mossa con una ginocchiata all’inguine. Ahio. Questa non l’avrei augurata al mio peggior nemico.
Jon crollò a terra con un lamento soffocato e con le mani davanti alle parti basse. Eh, come ti capivo amico. Dalla troupe intorno al tappeto provenivano fischi dagli uomini e applausi dalle donne. Guardai Stana e vidi che aveva un sorrisetto trionfante in volto. Scossi la testa divertito.
Dopo un paio di respiri profondi, Jon si rialzò e le lanciò un’occhiataccia.
“Questo è colpire sotto la cintura” dichiarò stizzito. Stana alzò appena le spalle noncurante.
“In guerra e in amore tutto è concesso, no?” replicò ironica prendendo di nuovo posizione in attesa del prossimo confronto. Jon sbuffò. Quindi attaccò senza preavviso. Stana, colta di sorpresa, riuscì a deviare all’ultimo un nuovo pugno allo stomaco. Poi però Jon si buttò a terra. O meglio così sembrò a me perché invece l’attimo dopo, facendo perno su un piede e le mani, colpì con una gamba il retro delle ginocchia di Stana. Lei cadde all’indietro senza neanche rendersene conto.
Jon si alzò e la guardò dall’alto in basso divertito. Stana ci mise un secondo di più a connettere. Quindi scattò in piedi e provo a colpirlo di nuovo. Stavolta l’uomo scansò con una mano il suo pugno con un gesto quasi infastidito che lasciò Stana sorpresa e inerme davanti a lui. Poi Jon alzò di nuovo una gamba per colpirla con un calcio, stavolta mirando al volto.
In qualche modo mi ritrovai io il suo piede in faccia. Riaprii gli occhi e mi accorsi che ero sdraiato sul tappeto a pancia in giù. Feci leva sulle braccia e mi alzai appena scuotendo la testa. C’era uno strano silenzio attorno a me. Ma che diavolo…?? Girai la testa e vidi Jon in piedi che mi osservava con le mani sui fianchi e uno sguardo perplesso. Dall’altra parte, Stana mi guardava preoccupata accovacciata accanto a me.
“Nathan, ma perché diavolo ti sei messo in mezzo??” mi domandò agitata e forse anche un poco arrabbiata. Aspetta… cosa?
“Che ho fatto?” domandai confuso. Poi ricordai. Avevo visto il colpo di Jon partire. Stana era esattamente davanti a lui e non sapevo perché, ma sentivo che lei non sarebbe riuscita a deviare il colpo stavolta. L’avrebbe centrata in volto. Inconsciamente, forse un qualche rimasuglio di combattimento di Firefly mi aveva spinto a muovermi e a portarmi esattamente nella traiettoria del calcio, sperando forse di deviarlo. Ovviamente non ci ero riuscito.
Mi girai e mi misi seduto scuotendo ancora una volta la testa. L’attimo dopo mi portai la mano alla faccia. Iniziai a sentirmi la guancia pulsare e mi accorsi in quel momento del sapore di sangue che avevo in bocca. Il colpo mi aveva spaccato un labbro.
“Ehi, amico, tutto bene?” mi domandò Jon facendomi alzare la testa verso di lui. Vidi che aveva uno sguardo a metà tra il preoccupato e il divertito e mi tendeva la mano. Io lo osservai per un attimo, quindi sorrisi appena e gli afferrai la mano con cui mi aiutò a rialzarmi.
“Sì, credo…” risposi una volta in piedi. Sentivo gli occhi di tutta la troupe e dei produttori puntati su di noi. Mi toccai appena la guancia facendo una smorfia. “Però che botta!” esclamai scherzando per alleggerire l’atmosfera. “Mi hai steso con quel calcio brasiliano” dissi citando il primo paese latino che mi venne in mente che mi ricordavo avesse un tipo di lotta particolare. Jon mi guardò confuso per un attimo, poi ridacchiò e scosse la testa.
“Fratello, io sono newyorkese” dichiarò sorridendo. “Ho cambiato nome in Huertas quando sono entrato nell’esercito, ma sono nato come Jon William Scott Hofstedt.” Io sgranai gli occhi. Ah, ops.
“Scusa credevo…” cercai di dire, ma lui alzò una mano e mi interruppe.
“Non preoccuparti. Non sei il primo che lo pensa” affermò. Io annuì, poi aggrottai le sopracciglia e feci un mezzo sorriso.
“Jon William Scott… cosa??” domandai ridacchiando. Lui sbuffò e scosse la testa.
“Lascia perdere” mi consigliò. Poi mi diede una amichevole pacca sulla spalla. “Amico, sei uno tosto, ma comunque dovresti andare a metterci un po’ di ghiaccio sopra” disse indicandomi la guancia. “Ti sta diventando viola.” Io mi passai la mano sulla faccia e poi la guardai come se il cambio di colorazione potesse rimanermi sulla mano.
“Nathan, Jon ha ragione. Devi metterci su qualcosa. Non vorrei che si gonfiasse.” La voce di Susan uscì all’improvviso dalla folla di gente della troupe che si era radunata intorno a noi. Mi voltai verso di lei sorpreso. Chissà quand’era arrivata. Il suo sguardo mi faceva sentire un bambino sgridato dalla madre.
“Dai, Nath, andiamo” disse ad un tratto Stana. Mi girai a guardarla. Era in piedi accanto a me e aveva uno sguardo di rimprovero, ma allo stesso tempo preoccupato. La vidi scrutare la mia guancia come in cerca di ogni segno che le indicasse un peggioramento delle mie condizioni. “Ti aiuto a metterci un po’ di ghiaccio” aggiunse poi. Quindi mi prese per mano e mi portò via dal tappeto blu da esercizi. Un attimo prima che uscissimo dalla porta Jon mi richiamò.
“Ehi, Nathan!” Mi voltai senza lasciare la mano di Stana. “Due cose. Primo, quella che intendi tu con ‘lotta brasiliana’ si chiama Kombato ed è un tipo di arte marziale dei militari brasiliani. Noi ci stavamo solo tirando qualche colpo normale.” Io annuì. “Secondo, apprezzo il tuo coraggio, davvero, ma i miei colpi sono sempre controllati…”
“Sicuro?” domandai senza riuscire a trattenermi con un sopracciglio alzato. Lui fece un cenno con la testa verso Stana.
“La vedi ferita?” mi domandò. Mi voltai e la osservai per un momento. Lei stessa scosse la testa a indicarmi che stava bene. “Tu ti sei fatto male perché ti sei messo in mezzo prima che il colpo venisse smorzato” spiegò. Io sospirai e annuii rassegnato. In pratica avevo fatto una figuraccia per nulla.
Poi Stana mi trascinò via. La sua mano era calda nella mia. Non avrei voluto lasciargliela, ma meno di un minuto dopo arrivammo al bar degli studios. Stana mi disse di aspettare all’esterno. Lei entrò e chiese del ghiaccio. Pochi secondi dopo uscì di nuovo con un sacchetto con l’agognata acqua ghiacciata al suo interno. Mi riprese la mano e mi riportò nell’edificio, guidandomi però nel set della casa di Castle. C’era ancora il divano dal giorno precedente e vidi che i primi elettrodomestici della cucina erano stati sistemati. Non c’era nessuno a parte noi.
Stana mi portò fino al divano e mi ci fece sedere. La mancanza di contatto con la sua mano mi fece sospirare internamente. Lei si sedette sul tavolino che avevano posizionato davanti al divano. Quindi prese meglio il sacchetto e con delicatezza me lo appoggiò alla guancia lesa. Non riuscii a trattenere una smorfia al primo contatto con il freddo. Feci per posare la mano sul ghiaccio per tenerlo fermo, ma trovai la mano di Stana ancora su di esso. Lei non si mosse e io alzai lo sguardo a incontrare il suo. I suoi occhi per un momento mi sembrarono indecifrabili, come il suo volto. Poi mi sorrise teneramente. Quindi, prima che potessi realmente rendermene conto, Stana si sporse verso di me e mi lasciò un bacio sulla guancia sana. Mi dimenticai come respirare. Avevo la bocca semiaperta. Ero immobile e incredulo. Lei indugiò un secondo di più sulla mia guancia quindi si ritrasse pinao, mordendosi il labbro inferiore. Sentii un improvviso caldo nonostante il ghiaccio premuto sulla mia faccia.
“Grazie…” mormorò rossa in volto. Io la guardai se possibile ancora più confuso.
“Per cosa?” riuscii a chiedere piano. Lei mi sorrise appena, dolcemente.
“Per avermi salvato, mio bel cavaliere, nonostante non fossi davvero in pericolo” replicò scherzando, ma ancora con le guance rosse. Io ridacchiai e scossi la testa. Quel movimento mi fece ricordare che la mano di Stana era ancora nascosta sotto la mia sopra il sacchetto del ghiaccio. Gliela strinsi appena.
“Sempre al tuo servizio, mia bella dama” risposi piano con il suo stesso tono. Lei scosse la testa e abbassò gli occhi. Era così bella quand’era imbarazzata. Quando rialzò lo sguardo io ero ancora perso a guardarla. I suoi occhi quindi incontrarono i miei. Qualche secondo dopo si abbassarono per un attimo sulle mie labbra. In quel momento però aggrottò le sopracciglia e si ritrasse appena. Fece scivolare via anche la sua mano da sotto la mia sopra il sacchetto. Io nascosi la mia delusione nel vederla allontanarsi. Un momento dopo però la osservai poi tirare fuori un fazzolettino di carta da una tasca.
“Ti sanguina il labbro…” riuscì a mormorare, rossa in volto, gli occhi bassi. Quindi si riavvicinò a me, cautamente, incerta. La mano che prima aveva spostato si riposizionò sul sacchetto del ghiaccio, ma stavolta sopra la mia. Era una sensazione strana. Il freddo del ghiaccio sul palmo e il caldo di lei suo dorso. Iniziò a tamponarmi il labbro con il fazzoletto nell’altra mano. Al primo contatto feci una smorfia di dolore. “Scusa!” disse subito. Quindi riprese, con ancora più delicatezza, a fermare il sangue con il fazzoletto. Non eravamo che a pochi centimetri. Potevo vedere distintamente alcune gocce di sudore sulla sua fronte che le avevano appiccicato i capelli al volto durante il combattimento con Jon. La osservai concentrata sul mio labbro. Le era spuntata anche quella rughetta tra gli occhi che adoravo. Deglutii. Ancora una volta mi ritrovai combattuto. Sarebbe stato così grave colmare quei miseri centimetri?
Qualche secondo dopo alzò gli occhi su di me. E fui perso. Mi stavo già avvicinando lentamente a lei, quando una voce ci interruppe.
“Ah, allora siete qui!” esclamò Marlowe. Stana si allontanò immediatamente da me, quasi l’avessi punta. Tentai di non mandare a quel paese il regista e in qualche modo, mordendomi la lingua, ci riuscii. “Vi stavamo cercando. Nathan, come ti senti? C’è la fai a continuare?” Dalla sua posizione doveva aver visto a malapena la mia testa, quindi non aveva capito quello che stava per succedere. Sospirai.
“Sì, non c’è problema” risposi con lieve tono irritato. Mi schiarii la voce per tentare di riprendere un tono più normale. “Arriviamo subito.”
“Sicuro che te la senti?” mi domandò a quel punto Stana preoccupata. Io annuii e le sorrisi.
“Tranquilla” replicai. “Non è la prima volta che rischio di spappolarmi la faccia” aggiunsi divertito. Tanto ormai il momento era passato e Andrew non sembrava intenzionato ad andarsene senza di noi. Così mi tirai su, sempre reggendomi il ghiaccio, e porsi la mano libera a Stana per aiutarla ad alzarsi. Lei mi sorrise e la prese. “Pensa, una volta addirittura me la ero ammaccata davvero la faccia durante una scena di lotta in Firefly e nessuno se ne era accorto!” dichiarai facendola scoppiare a ridere. Mentre tornavamo sul set con gli uffici del 12th, le raccontai di come quella volta avessero tentato di togliermi il trucco per cinque minuti prima di capire che avevo veramente un bozzo viola in faccia.
 
Finimmo di sentire tutti i candidati a metà pomeriggio. Alla fine ancora una volta eravamo tutti stanchi, oltre che ammaccati, almeno parlando per me. Io avevo continuato a recitare con il ghiaccio sulla faccia per metà del tempo. Parlare mi faceva male, ma pensavo che prima avremmo finito, prima sarei potuto andare a riposare. Sentivo la faccia un po’ gonfia e vedevo lo sguardo preoccupato di Stana su di me mentre la mia guancia diventava violacea. Dovevo ammettere però che le sue attenzioni non mi dispiacevano per niente. Lei nel frattempo aveva recuperato altri cinque numeri di telefono che aveva prontamente buttato nel cestino con mia somma gioia.
Erano le cinque quando ci riunimmo per decidere chi sarebbe diventato ‘detective’. Tra tutti i cinquantasette candidati che avevamo visionato, avevamo scelto una rosa di sei persone. Tra queste c’era anche Jon. Ci vollero tre quarti d’ora perché fossimo tutti d’accordo. Degli aspiranti infatti tre sembravano più esperti, ma allo stesso tempo antipatici. Uno di loro sembrava essere andato particolarmente a genio a Bowman, ma particolarmente storto a me. Era uno di quelli che aveva chiesto un appuntamento con Stana. E poi era troppo muscoloso per passare per un detective! Gli altri tre invece erano un poco meno esperti forse, ma più simpatici. Jon apparteneva alla seconda categoria.
Dopo qualche discussione rimasero solo l’antipatico muscoloso e Jon. Il primo aveva a suo favore l’esperienza. Aveva girato già dei telefilm polizieschi e sapeva come muoversi, ma in realtà non aveva minimamente idea di come distinguere una calibro trentotto da una quarantacinque a meno che non fosse scritto su un pezzo di carta. Probabilmente non avrebbe neanche distinto un cadavere da un manichino…
E poi non aveva la minima capacità di improvvisazione e leggeva pari pari quello che c’era sul copione, dandogli un minimo di spessore solo dopo qualche ciak. Inoltre non mi ci trovavo proprio a scherzare con lui. Con Jon invece era tutta un’altra storia. Con lui era stato istintivo. Inoltre, nonostante mi avesse ammaccato la faccia, mi era simpatico. E poi sapeva seriamente ciò che il personaggio del detective diceva. Finalmente, con qualche sforzo, una decisione fu presa. Ed era quella che speravo. Stana mi guardò divertita quando Andrew annunciò chi sarebbe stato preso. Io feci un finto sospiro rassegnato e una smorfia portandomi una mano alla faccia ferita solo per far ridere Stana. Infatti era tutta una finta visto che io ero stato proprio uno dei suoi più accaniti sostenitori. Jon Huertas era appena diventato ufficialmente il detective Javier Esposito del dodicesimo distretto della omicidi di New York.

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Xiao!! :D
Allora prima di tutto mi scuso per il ritardo, ma ho avuto un periodo un po' così e con diverse cose da fare (tra cui anche votare Castle, Nathan e Stana ai PCA! ù.ù) che mi hanno tolto tempo per la scrittura... Però vi ho lasciato un capitolo un po' più lungo! :D Spero mi perdoniate!
Beh, oggi Esposito e domani... chi lo sa! XD
Se mi voleste lasciare un commentino su come vi è sembrato il capitolo, mi farebbe davvero piacere! :)
Ringrazio ancora una volta le mie consulenti di fiducia Katy e Sofy che mi hanno sopportato per la mia mancanza di idee su cosa far fare a Jon e a quei due e per tutto il resto!! XD Vi lovvo tanto ragazze!!! <3<3
A presto!!! :D
Lanie

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Capitolo 5
*** Lanie Parish ***


Cap.5 Lanie Parish


La mattina dopo mi svegliai con un gran male in metà faccia. La guancia mi pulsava dolorosamente. Andai in bagno e vidi dallo specchio che era diventata viola. Mi sfiorai appena il viso e non riuscii a reprimere una smorfia di dolore. Cavolo se mi aveva centrato bene Jon con quel calcio! Certo che se avessi riscosso anche oggi le attenzioni di Stana su di me, allora… Ma che stavo dicendo?? Sospirai rassegnato. Per lei ero seriamente diventato masochista.
Faticai a mangiare la mia colazione a base di uova e bacon. Mi sembrava che ogni morso fosse una punta infilzata nella guancia. Il labbro invece, nonostante fosse spaccato, non mi faceva quasi più male. Mi ficcai un’altra forchettata di uovo in bocca, finendo di mangiare e cercando di ignorare le proteste dolorose della mia faccia. Poi presi un bicchiere e recuperai dal frigo il cartone del succo d’arancia. Decisi di cercare anche una cannuccia da uno dei cassetti. Non avevo voglia di aprire ancora la bocca procurandomi altro dolore. Aspirando a piccoli sorsi aprii uno degli sportelli della cucina e recuperai il sacchetto per il ghiaccio. Quindi andai al frigo, presi un po’ di cubetti e glieli misi dentro.
Un gemito uscì immediatamente dalla mia bocca non appena poggiai il sacchetto sulla guancia dolorante. Dio, che sollievo! Il pulsare si ridusse velocemente e io ringraziai il frigo per avere sempre del ghiaccio a portata di mano.
Sciacquai piatto, forchetta e bicchiere nel lavandino, con qualche difficoltà visto che avevo una mano occupata. Quando finii, lanciai un’occhiata all’orologio. Bene, avevo ancora venti minuti prima di prendere la macchina e arrivare agli studios. Magari avrei anche fatto in tempo a comprare del caffè per Stana.
Mi diressi in bagno per lavarmi velocemente. Un mezzo urlo soffocato mi uscì dalla gola quando per sbaglio mi infilzai lo spazzolino nella parte interna della guancia già malconcia.  
Stavo per cambiarmi quando il mio cellulare squillò. Notai il nome Andrew Marlowe a grandi lettere sullo schermo.
“Ehi, Andrew!”
“Ciao Nathan!” mi rispose il regista. “Senti, volevo dirti che oggi non serve che vieni ai provini”
“Cosa??” domandai confuso. Il panico si impossessò di me. Non mi volevano più?? Che avevo combinato?? Era per la lotta tra Stana e Jon? Per non averli fermati? Ma che avevo fatto a parte prendermi un calcio in faccia??
“È per Stana” spiegò l’uomo. Gelai. Per fortuna Andrew continuò subito. “Non sta bene e le ho dato un giorno libero. Faremo domani i provini per la dottoressa Parish.” Sospirai sollevato. Ma solo in parte.
“Cos’ha?” chiesi un secondo dopo ansioso.
“Non lo so, non ha specificato” replicò Andrew. “Mi ha solo detto che non stava bene e che non se la sentiva di muoversi. E sentendola dalla voce, direi proprio che aveva bisogno di un giorno di riposo. Era abbastanza debole” mi rivelò. Io aggrottai le sopracciglia preoccupato. “Forse ha solo preso un po’ di influenza…” ipotizzò il regista.
“Sì… forse…” borbottai sentendo solo a metà. Avevo già deciso che sarei andato a vedere come stava. Avrebbe potuto avere bisogno di aiuto per qualcosa e vivendo da sola nessuno avrebbe potuto farlo. “Ok, quindi oggi niente prove né altro, giusto?” domandai per sicurezza.
“No, niente” rispose Andrew.
“Ok. Ci vediamo domani, allora” tagliai corto. Lo feci a malapena rispondere che avevo già messo giù. Cercai qualcosa da infilarmi. Dopo diversi minuti a rovistare nell’armadio finalmente trovai ciò che desideravo. Un paio di jeans scuri, una maglia bianca e un maglioncino blu elettrico. Con un sospiro rassegnato lasciai il mio fedele sacchetto del ghiaccio in cucina. Quindi mi infilai la giacca, presi portafoglio, chiavi di casa e della macchina e uscii.
Dieci minuti dopo ero quasi sotto casa di Stana. All’improvviso mi squillò il cellulare. Schiacciai il tasto del bluetooth sul volante.
“Pronto?”
“Ehi, Nathan, sono Jon” rispose la voce del neo detective Javier Esposito, Jon Huertas.
“Amico, come stai?” domandai allegro, mentre mi fermavo a un semaforo.
“Bene grazie, ma che io sappia non sono stato io a essere stato colpito in faccia da un calcio volante!” replicò quello ridacchiando. Io sbuffai appena.
“Per quello volevo ringraziarti. Ora ho un bel colorito violaceo su mezza faccia! Ehi!” esclamai all’improvviso. “Potrei fare ‘Due Facce’!! Sai, il cattivo di Batman!!” dichiarai esaltato. Sentii Jon scoppiare a ridere.
“Certo, Due Facce!” replicò l’altro ridendo e rimarcando il nome. “In ogni caso se vuoi sembrare più Batman che Due Facce, ti consiglio di metterci oltre al ghiaccio, come ti ho detto ieri, anche una pomata. Vedrai che in qualche giorno sparisce. Ah, e se all’inizio ti sembra peggiorare...” aggiunse alla fine. “… è normale. Diventa viola scuro per il primo giorno o due, poi inizia a sbiadire.” Sospirai. A quanto pareva avrei avuto la faccia bicolore ancora per un po’.
“Ok, grazie dell’avvertimento” dissi rassegnato parcheggiando sotto il casa di Stana. Lanciai un’occhiata dal finestrino verso la facciata del palazzo, quasi sperando di vederla comparire da una delle finestre. “In ogni caso mi devi per lo meno una birra!” dichiarai poi in tono semiserio. “Non pensare di potertela cavare con solo delle scuse e un consiglio su una pomata!” Jon rise di nuovo.
“In realtà era proprio perché volevo offrirti una birra una di queste sere che ti ho chiamato” replicò Huertas. “Sai, mi dispiaceva averti spappolato mezza faccia…” aggiunse divertito. Io sbuffai di nuovo e mi guardai nello specchietto retrovisore per controllarmi la guancia. In effetti era solo una mia impressione o stava diventando proprio di un bel viola scuro?
“Che dici se facciamo domani sera?” domandai. “Almeno per stasera vorrei evitare di farmi vedere in giro che bevo birra con una cannuccia…” spiegai con una mezza smorfia. “E poi potremmo chiederlo anche a Stana e alla futura dottoressa Parish, se la troviamo subito! Lo chiederei anche a Susan, ma non credo sia molto una da birra…”
“Quella donna è un mito, amico!” esclamò Jon. “È riuscita a sgridarmi per averti picchiato e dirmi che le era piaciuto vedermi combattere nello stesso momento!!” Sembrava estasiato.
“Seh, molto bello…” replicai scettico. Avevo un sopracciglio alzato, ma lui ovviamente non poteva vederlo.
“A proposito, sai che ha Stana?” domandò poi più seriamente Jon. “Marlowe prima mi ha chiamato per dirmi che avevamo la giornata libera perché non stava bene, ma non ha saputo dirmi di più…”
“Ne so quanto te” risposi con un sospiro. “Stavo giusto andando a vedere se aveva bisogno di qualcosa…”
“Aspetta, tu sai dove abita?” mi chiese Huertas all’improvviso con un tono strano.
“Uhm… sì, perché?” chiesi guardingo.
“Quante volte sei già stato a casa sua, fratello?” domandò allora ridacchiando. “Lo sapevo, mi sembrava di aver visto qualcosa di più durante le prove…”
“Ma che hai visto??” lo bloccai subito in panico. “Non c’è niente tra me e Stana!” Ok, perché quella frase suonava così falsa alle mie orecchie? “So dove abita solo perché sono venuto a prenderla a casa…”
“Per un appuntamento?” concluse per me l’ex-soldato con lo stesso tono divertito di prima.
“Va al diavolo, Huertas” replicai scherzoso. Più o meno.
“Va bene, va bene, ti lascio andare Fillion!” esclamò quello alla fine ridendo. “Ci vediamo domani! E più tardi dimmi come sta Stana!”
“Contaci!” risposi. Quindi ci salutammo e schiacciai di nuovo il tasto del bluetooth per interrompere la chiamata. Sbuffai. “Non c’è niente tra me e Stana…” mormorai con una vocetta lagnosa facendomi il verso da solo. La smorfia che feci mi procurò solo altro dolore alla guancia. Ero un idiota. Ero un idiota e lo sapevo. La conoscevo da, quanto, un paio di settimane? Non potevo essermene già innamorato! Insomma io ero quello delle relazioni ‘mordi e fuggi’, per così dire. Ogni volta che avevo creduto di essermi innamorato avevo scoperto che in realtà era solo una cotta passeggera. Stavo per un po’ con la donna e poi filavo via. Come non mi avesse ancora tirato dietro niente nessuna era un mistero per me. Ma forse perché sapevamo da entrambe le parti di non provare realmente niente oltre la passione e, se vogliamo, la simpatia iniziale. Ma con Stana… con Stana era diverso. Con le altre sentivo che in fondo non sarebbe durata già dall’inizio. Ci stavamo entrambi pur sapendo che sarebbe finita di lì a poco. Quindi mi buttavo senza pensarci troppo. Con lei invece no. Con lei avevo paura di buttarmi. Cavolo, avevo paura anche di baciarla! Eravamo arrivati ormai più di una volta dall’essere a tanto così dal baciarci, ma io avevo sempre tentennato. Con un’altra non l’avrei fatto. Ma lei non era un’altra.
Sospirai e poggiai la testa al sedile. Quindi rialzai lo sguardo verso il palazzo fuori dal finestrino. Possibile che fosse così differente? Che mi fossi innamorato davvero? Un brivido mi passò lungo la schiena. Non avrei saputo dire però se di terrore o eccitamento. O entrambi.
Scossi la testa per schiarirmi le idee. Non era il momento di pensarci. Ero qui per Stana, non per stare sotto casa sua a farmi di seghe mentali. Dovevo prima pensare a come stava e se potevo fare qualcosa per lei. Il resto poteva venire tranquillamente dopo.
Finalmente aprii la portiera e scesi dalla macchina. Mi avvicinai al portone e cercai il suo nome tra i citofoni. Però. La pensavo più piccola la palazzina. Invece c’erano tre lunghe file di nomi. Ma dove diavolo stavano tutti?? Sembrava così basso il palazzo dall’esterno! Mi misi d’impegno a cercare il suo nome. Alla fine lo trovai nella terza colonna, più o meno a metà, quando ormai le mie speranze di individuarlo stavano già iniziando a perdersi. Presi un respiro profondo. Non sapevo neppure io perché ero tanto nervoso.
Pigiai una volta il tasto con accanto scritto Katic per un paio di secondi e rimasi in attesa. Dopo un minuto buono non mi aveva ancora risposto nessuno e io iniziai a preoccuparmi. Stavo per suonare di nuovo quando in quel momento il citofono prese vita gracchiando.
“Sì?” rispose una voce stanca che doveva per forza appartenere alla mia partner.
“Stana? Sono Nathan!” replicai avvicinando la faccia al citofono.
“Nathan??” esclamò stupita. “Che ci fai qui?”
“Andrew mi ha detto che non stavi bene, quindi… ehm… ecco volevo controllare che non avessi niente di grave e sapere se ti serviva qualcosa” spiegai nervoso. Pregai che non mi cacciasse.
“Oh…” fu tutto quello che uscì in risposta. Ci fui qualche secondo di silenzio. Mi morsi l’interno della guancia ansioso. E mi maledissi il momento dopo perché mi ero morso la parte con il livido dolorante. “Sto bene…” disse alla fine cauta Stana con voce stanca e gracchiante per il citofono. “Sì, non tanto bene, ma bene.” Aggrottai le sopracciglia confuso e anche un po’ preoccupato.
“Uhm, senti, ti scoccia se salgo un momento? Starei più tranquillo se controllassi di persona…” mi azzardai a dire. Era vero, sarei stato di gran lunga più calmo se avessi constatato con i miei occhi che non era in pericolo di vita. Una piccola parte del mio cervello mi urlava che avevo fatto la strada per casa sua solo perché volevo rivederla con la scusa che stava male, ma feci finta di non sentirla. La sentii tentennare un momento. Alla fine però sospirò stancamente.
“Ok, sali” acconsentì. Il mio cuore prese a battere un po’ più veloce. “Segui il corridoio davanti a te e in fondo prendi la scala sulla destra. Sono al quarto piano. Ti lascio la porta aperta. Entra liberamente quando arrivi.” Quindi mise giù il citofono. Io lo guardai per un momento angosciato. Stana stava talmente male da non riuscire a stare in piedi ad accogliermi alla porta?
Un secondo dopo sentii che il portone veniva aperto e io mi ci infilai dentro velocemente. Feci la strada che mi aveva indicato andando dritto per il corridoio. In fondo trovai tre serie di scale, una di fronte a me, una a sinistra e una a destra. Presi quella di destra e salii i pochi gradini che mi portarono all’ascensore. Lo chiamai e attesi impaziente. Arrivato al quarto piano mi trovai davanti tre porte. Tra queste, quella di destra era socchiusa. Mi avvicinai piano e notai una targhetta con scritto Katic appena sopra il campanello. Nonostante Stana mi avesse detto di entrare liberamente, bussai.
“È permesso?” domandai entrando cautamente. Mi guardai attorno curioso. Davanti alla porta c’era un piccolo corridoio. Sul fondo potevo intravedere quattro porte chiuse o semichiuse. Almeno due di esse ipotizzai essere camera da letto e bagno. Sulla sinistra del corridoio invece c’era una porta spalancata che dava sulla cucina. Aveva le mattonelle alle pareti bianche intervallate da alcune con disegni di girasoli. Al centro della cucina c’era un tavolo in legno chiaro con tre sedie intorno. La portafinestra in fondo faceva sembrare lo spazio molto luminoso. Di fronte alla cucina invece, il corridoio si apriva su un ampio salotto. Su una parete, quella di sinistra, c’era un’altra portafinestra coperta da una leggera tenda bianca. Da questa si intravedeva un piccolo balconcino esterno su cui erano posizionate cinque o sei piantine verdi. La parete opposta invece era coperta in parte da un mobile a cassettoni che a occhio avrei detto abbastanza antico. Sopra di esso e sul muro erano posizionate diverse fotografie, qualcuna anche in bianco e nero. Ma la parete che attirò di più la mai attenzione fu quella centrale. Era occupata quasi interamente da libri. Scaffali su scaffali di libri. L’unico punto libero da volumi sembrava essere il centro, in cui aveva collocato il televisore, e un altro paio di ripiani. Rimasi a bocca aperta. Avevo capito che le piaceva leggere, ma questo… insomma non me lo aspettavo proprio. Proprio davanti alla tv c’erano un tavolino basso color legno con sopra il telefono, qualche altro oggetto e un paio di riviste e, quasi al centro della stanza, un lungo divano color crema.
Arrivato a questo punto però mi guardai ancora intorno aggrottando le sopracciglia. Nessun segno di Stana. Chiusi la porta alle mie spalle e feci timoroso un paio di passi all’interno dell’appartamento.
“Stana?” la chiamai. Un mugugno mi fece capire che era sdraiata sul divano, nascosta alla mia vista. “Che fai, ti nascondi?” scherzai cercando di farla ridere. Mi tolsi la giacca per essere più libero nei movimenti e la appesi all’attaccapanni a lato della porta. Quindi mi avvicinai facendo il giro del divano. Mi bloccai a metà strada, nel momento in cui mi fu a portata di vista, con la bocca semiaperta.
Stana era sdraiata sul divano come avevo immaginato. Aveva gli occhi chiusi e la testa abbandonata su un cuscino appoggiato su uno dei braccioli del divano. I capelli, un po’ scompigliati e lunghi fino al mento, le ricadevano ai lati del viso. Indossava una maglietta bianca a mezze maniche e un paio di pantaloni di una tuta blu scuro. Notai che era a piedi nudi. Teneva su di sé un cuscino piatto all’altezza della pancia. La prima cosa che mi venne in mente era che la trovavo bellissima.
Solo dopo mi accorsi che le sue mani sul cuscino erano strette a pugno, quasi ad avere le nocche bianche, e che aveva una smorfia di dolore sulle sue labbra. Mi precipitai accanto a lei angosciato e mi inginocchiai di lato al divano.
“Stana?? Stana che hai??” domandai preoccupato. Un gemito di dolore fu quello che ottenni in risposta. D’istinto alzai una mano e le carezzai lievemente una guancia. Mi accorsi che era sudata. Mi alzai velocemente e cercai il bagno. Lo trovai dietro la seconda porta in fondo al corridoio. Per fortuna scovai subito una bacinella d’acqua accanto alla lavatrice. La riempii, presi il primo panno sottile che vidi e rapidamente tornai da lei. Iniziai a bagnarle leggermente la fronte e il viso, parlandole piano per distrarla un po’ dal dolore e tranquillizzarla. Ogni respiro sembrava farle male. Iniziò a muoversi e a girarsi cercando una posizione comoda che non trovò. Era tesa come una corda di violino.
Tutto questo durò alcuni minuti dolorosi per lei e angoscianti per me. Stavo già per chiamare un medico quando Stana finalmente iniziò a calmarsi. Riprese a respirare normalmente e si rilassò sul divano. A quel punto aprì gli occhi. Doveva aver dormito poco quella notte perché aveva delle occhiaie scure. I capelli le si erano appiccicati alla fronte per il sudore e per l’acqua con cui l’avevo bagnata. A me sembrava comunque stupenda.
“Nathan…?” la sentii mormorare stupita. Doveva essersi dimenticata di me. E con l’inferno che mi sembrava avesse appena passato non mi stupii per niente. Le sorrisi dolcemente.
“Ehi, bellissima…” la chiamai senza riuscire a trattenermi, carezzandole una guancia e spostandole i capelli dietro l’orecchio. Mi sorrise appena. Poi la vidi aggrottare le sopracciglia. Alzò lentamente una mano e mi sfiorò il viso. Sussultai. Aveva appena toccato la guancia livida di cui mi ero completamente dimenticato. Ma non era solo per quello che ero trasalito. Aveva le dita ghiacciate. “Non ti muovere” dissi subito, come se potesse o volesse farlo. Mi alzai e mi guardai attorno. Notai una coperta verde scuro a terra appena dietro il tavolino. Doveva averla appoggiata lì e poi era caduta. Feci il giro del basso tavolo, la recuperai e tornai da Stana. Gliela stesi sopra e gliela rimboccai appena sotto il mento. Nello spostare la mano le lasciai un’altra carezza. Quindi mi inginocchiai di nuovo accanto al divano.
“Ghiaccio…” mormorò ancora. Sembrava esausta, non solo stanca.
“Vuoi del ghiaccio?” chiesi carezzandole ancora la guancia e stavolta lasciando la mia mano sul suo viso e continuando a sfiorarla con il pollice. Stana scosse appena la testa e rialzò la mano per indicarmi la faccia.
“Ti serve del ghiaccio…” riuscì a dirmi piano. “C’è un sacchetto nel secondo cassetto a destra dei fornelli… Prendilo, mettici del ghiaccio e usalo sulla faccia… Sembra ti sia passato addosso un tir…” aggiunse con un sorriso stanco. Io sbuffai appena.
“Certo, perché tu sei arzilla come un grillo, vero?” replicai ironico. Poi sospirai teatralmente come arrendendomi al suo volere. “Comunque la mia dama ordina e io eseguo! Torno subito” annunciai facendola, come speravo, sorridere divertita. Mi alzai e mi avviai in cucina prendendo sacchetto e ghiaccio come mi aveva detto. Non mi sarei voluto allontanare, ma ora che lei me lo aveva fatto notare la guancia aveva ricominciato a pulsarmi dolorosamente. Mi schiaffai il sacchetto in faccia e subito un’ondata da sollievo mi travolse. A quel punto tornai accanto a Stana. “Allora come stai?” le chiesi cercando di nascondere la preoccupazione. Non mi era piaciuto per niente lo stato in cui l’avevo trovata.
“Meglio” rispose sorridendomi. “Mi spiace, mi hai preso in piena ‘crisi’” si scusò imbarazzata. “Era un po’ che non stavo così male…” aggiunse sovrappensiero.
“Ti succede spesso?” domandai a metà tra lo stupito e il preoccupato. Mi ricordai all’improvviso che, durante la nostra prima uscita insieme, mi aveva detto di aver avuto un cancro benigno che poi era riuscita a eliminare. Ebbi paura che qualcosa avesse ripreso a crescere dentro di lei. “Perché non l’hai detto a nessuno? Dovresti fare dei controlli! Hai chiesto a un medico cosa potrebbe…”
“Nathan, calmati!” mi fermò con un sorriso. “Non è niente di preoccupante. È solo mal di pancia. È normale e…”
“Normale??” domandai quasi rabbioso. “Stana quando sono entrato stavo morendo di paura!!” esclamai ferito. “Ti contorcevi sul divano e sudavi e io non sapevo che fare e…”
“Nath guardami” mi richiamò dolcemente posandomi una mano sulla guancia sana. Io mi fermai, il respiro pesante, le sopracciglia aggrottate, gli occhi spaventati puntati i quelli rassicuranti di lei. “Sto bene. Devi credermi…” aggiunse subito dopo vedendo il mio scetticismo. “Sono sana come un pesce. Quello che ho avuto oggi è una cosa a cui sono… uhm… abituata, diciamo.” Io la guardai ancora più confuso di prima.
“Come puoi abituarti al dolore?” chiesi sconcertato. Lei mi sorrise ironica.
“Beh, in realtà non ti abitui” replicò. “In certi casi sopporti e basta. Ma… tu non hai ancora capito cos’ho, vero?” mi domandò poi divertita e imbarazzata insieme.
“Dovrei saperlo?” chiesi in risposta alzando un sopracciglio. Stana sospirò e alzò gli occhi al cielo.
“E dire che mi sembravi uno che ha avuto molto spesso a che fare con le donne nella sua vita…” commentò ironica.
“E questo cosa c’entra?” domandai perplesso.
“Prova a ricollegare i pezzi, Sherlock” mi incitò ridacchiando. “Mal di pancia, donna…” Ok, probabilmente ero tardo, ma dovevo ammettere che non ci arrivavo. Mi grattai il collo imbarazzato senza sapere che dire. “Ma non hai fatto anche il dottore in qualche film o telefilm??” sbottò la donna in seguito al mio silenzio.
“Sì, in due. Ed ero ginecologo” replicai con un mezzo sorriso. Stana sbuffò.
“Andiamo bene…” borbottò. “E non hai proprio idea di quale può essere il mio ‘male’?”
“Ok, senti, se vuoi una visita ginecologica non hai che da chiedere. Anche perché in quelle sono piuttosto bravo…” replicai sorridendo furbo. Per tutta risposta Stana mi diede un colpetto in testa.
“Non ne dubito, ma non credo che ti converrebbe al momento” dichiarò ironica. “A meno che tu non sia un vampiro, allora forse…” Ok, stava delirando. Un vampiro?? Perché diavolo avrei dovuto essere un vampiro succhiasang… Oh. Oh. Mi accorsi in quel momento che avevo appena collezionato una figuraccia. Un lampo di comprensione dovette passare nei miei occhi perché Stana ridacchiò divertita.
“Hai il ciclo, vero?” borbottai imbarazzato. Mi chiesi come mai sentissi ancora freddo sulla guancia. Non era evaporato all’improvviso tutto il ghiaccio nel sacchetto quando avevo scoperto la mia pessima figura? Lei annuì, ora un po’ rossa in volto.
“Ci sei arrivato finalmente.”
“Beh, meglio tardi che mai, no?” dichiarai tentando di buttarla sul ridere. Stana scosse la testa divertita. Poi si riappoggiò al cuscino e chiuse gli occhi.
“Mi spiace che tu abbia dovuto assistere…” mormorò. “Non è un bello spettacolo. Purtroppo il mese scorso ho finito le pillole e mi sono dimenticata di comprarle di nuovo. Così ho fatto la nottata e stamattina con continue fitte. Quella di poco fa purtroppo era una delle peggiori...” Riportai la mia mano sul suo viso e le accarezzai piano la guancia. Ormai mi era diventato quasi un gesto automatico. Volevo farle sentire la mia presenza. E poi mi piaceva sfiorare la sua pelle morbida. “Grazie per non essere scappato” aggiunse Stana alla fine. Dal modo in cui l’aveva detto, capii che in passato qualcun altro doveva aver fatto l’azione opposta alla mia. Chiunque fosse, in quel preciso istante avrei potuto spaccargli la faccia.
“Non preoccuparti” replicai piano. “Mi hai spaventato, certo. Ma non ti avrei mai lasciata sola in un momento del genere.” Lei riaprii gli occhi e mi sorrise dolcemente. Rimanemmo qualche secondo in quella posizione semplicemente a guardarci. Lei sdraiata sul divano, io inginocchiato a terra a carezzarle la guancia. Ecco, sarebbe stato tanto una cattiva azione in quel momento avvicinarmi e baciarla? Relegai quel pensiero nel fondo della mia mente. Non era il momento. “Ti preparo qualcosa?” le chiesi per cercare di concentrarmi su altro. “Una tisana, una camomilla… qualcosa?”
“Non sei obbligato a fare niente…” replicò lei. Io spostai il pollice e glielo misi sulle labbra, zittendola.
“Vero, non sono obbligato a fare niente, ma io voglio farlo. Per te” aggiunsi sorridendole dolcemente. La vidi sgranare gli occhi. “Allora vuoi qualcosa?” Tolsi il pollice e la lasciai parlare. Lei mi guardò strana per qualche secondo poi sospirò.
“Dovrebbe esserci della camomilla nella seconda anta dalla finestra” disse alla fine a bassa voce. “Vuoi prepararne un po’?” chiese un po’ imbarazzata. Io sorrisi e annuii. Quindi mi alzai e andai in cucina. Recuperai la camomilla in bustine e cercai un bicchiere pulito in un’altra credenza sopra il lavandino. Fui fortunato perché ne trovai subito una fila davanti a me. Tra questi uno colorato attirò la mia attenzione. Lo presi delicatamente e lo guardai ridacchiando. Doveva essere un ex vasetto di Nutella perché aveva sopra il logo di Kung Fu Panda e il disegno di Tigre in posizione di combattimento. Inutile dire che mi ricordò molto Stana.
Aprii il rubinetto dell’acqua calda, riempii a tre quarti il bicchiere e vi feci scivolare dentro la polvere per la camomilla. A quel punto mi girai in cerca di un cucchiaino. Non volendo infastidire la mia malata in salotto, mi misi ad aprire i cassetti lì intorno. Al secondo tentativo trovai le posate e, fra queste, i cucchiaini. Ne pescai uno e iniziai a girare il liquido nel bicchiere.
Prima di tornare da Stana, mi fermai a buttare l’acqua che si era ormai formata nel sacchetto del ghiaccio che avevo tenuto in faccia. Lasciai la borsa di lato al lavandino ad asciugare. Al momento la guancia non mi pulsava più tanto, quindi mi sentivo abbastanza tranquillo a rimanere senza ghiaccio. Pensai alle parole di Jon e al fatto di doverci mettere della pomata. Mi appuntai mentalmente di prenderla una volta uscito da casa di Stana. Anche se… forse avrei potuto fare qualcosa di più per lei. Le servivano delle pillole, no? Sicuramente si compravano in farmacia. Inoltre mi sembrava di averne intravista una vicino al suo palazzo. Sarei potuto uscire per pochi minuti e tornare con il tutto senza lasciarla sola troppo a lungo. Sì, non era una cattiva idea. Dovevo solo avvertire Stana e chiederle esattamente cosa le serviva.
Presi il bicchiere pieno e con cautela glielo portai in salone. Stavo per parlare e dirle la mia intenzione di uscire quando, arrivato di fronte al divano, mi bloccai. Si era addormentata. Rimasi fermo dov’ero a guardarla con il bicchiere ancora in mano e un lieve sorriso in volto. Era stupenda. Sembrava una bambina rannicchiata sotto le coperte, il respiro regolare, il viso rilassato, i capelli un po’ scompigliati da cornice al volto. All’improvviso la mia mente infida lavorò da sola e mi lanciò davanti agli occhi un’immagine di Stana, ovviamente molto meno vestita, addormentata nel letto accanto a me mentre la stringevo, la baciavo o semplicemente la osservavo dormire. Credo che avrei potuto restare a fantasticare su quella visione per sempre.
Non seppi neanche io quanto rimasi a osservarla. Avrebbe potuto essere un minuto quanto un’ora. Ok, forse era un po’ inquietante, con me lì in piedi davanti al divano a guardarla dormire da chissà quanto. Però avevo paura di muovermi. Non avevo neanche appoggiato il bicchiere con il terrore di fare rumore e svegliarla.
“Da quant’è che mi fissi?” borbottò all’improvviso Stana ancora ad occhi chiusi facendomi sobbalzare.
“Non ti stavo fissando!” replicai subito nonostante mi avesse colto in flagrante. Ma non stava dormendo?? Lei aprì gli occhi solo per guardarmi con un sopracciglio alzato. Mi schiarii al gola. “Uhm… ok, forse ti stavo guardando… da un poco…”
“Lo sai che sei inquietante?” domandò ironica. Sì, lo sapevo. Me l’ero detto da solo già prima.
“Non è vero…” mugugnai come un bambino. “Guarda che non ti do la camomilla se mi ferisci così!” esclamai portandomi la mano libera al cuore. La vidi sospirare come rassegnata, ma anche sorridere divertita. Era quello che speravo. Ridacchiai e mi sedetti di nuovo sulle ginocchia accanto a lei. Appoggiai la camomilla sul tavolino e la aiutai a tirarsi su un poco. Quindi le passai la bevanda, che ormai si era raffreddata, e lei iniziò a sorseggiarla lentamente.
“Come va la faccia?” mi domandò dopo qualche secondo osservando la parte violacea della mia guancia con aria preoccupata. Io alzai appena le spalle.
“Abbastanza bene direi” risposi. “Il ghiaccio ha aiutato molto, ma Jon mi ha anche consigliato di metterci su qualcosa. A proposito…” dissi poi ricordando la mia idea. “Tu hai bisogno di alcune pillole, giusto? Se mi dici quali sono te le vado a prendere in farmacia. Tanto devo già passarci per la pomata!” aggiunsi subito prevenendo le sue proteste. “Mi assenterò solo qualche minuto. Il tempo di arrivare, prendere queste due cose e tornare. Non voglio vederti soffrire ancora come quando sono entrato…” le rivelai a voce un po’ più bassa. Stana mi guardò per qualche secondo indecisa mordendosi il labbro inferiore. Poi sospirò.
“Di solito prendo l’Advil” dichiarò alla fine un po’ rossa in volto. Io annuii e mi appuntai mentalmente il nome.
“Ok” dissi alzandomi. “Dammi dieci minuti e sono di nuovo tuo!” esclamai sorridendo. La mia partner scosse la testa divertita. Feci per andare verso la porta quando mi richiamò.
“Nathan!” Mi voltai di nuovo verso di lei.
“Sì?”
“Grazie…” mormorò.
“Per cosa?” domandai sorpreso.
“Per quello che stai facendo” spiegò Stana ancora un po’ rossa in volto. “Non eri obbligato a restare, prenderti cura di me o altro. Perciò grazie.” Io le sorrisi dolcemente.
“Grazie a te per avermelo permesso” replicai. Quindi raggiunsi l’entrata, recuperai la giacca dall’attaccapanni e uscii.
Non essendo lontano, feci la strada a piedi. In due minuti ero già davanti alla farmacia. Quando entrai soffocai uno sbuffo. Perché doveva esserci sempre gente in fila?? Presi il numero dalla macchinetta accanto alla porta e lo lessi. 15. Alzai gli occhi sullo schermo in alto. 8. Uff. Altro che dieci minuti!
Sperai che la gente davanti a me non dovesse comprare cose strane. La mia fortuna era che c’erano molti farmacisti a disposizione. La sfortuna, che davanti a me c’erano almeno tre vecchietti. Non avevo assolutamente nulla contro di loro, ma gli anziani in fila, si sa, sono lunghi per definizione. Mi rassegnai ad attendere.
Un quarto d’ora dopo finalmente arrivò il mio turno. Come avevo sospettato, i vecchietti avevano occupato gran parte del tempo di tre pazienti farmaciste. Sospirai sollevato. Volevo tornare da Stana e mi ero stufato della gente che continuava a fissarmi la faccia, neanche mi stesse uscendo un alieno dalla guancia!
Mi avvicinai alla cassa indicata dallo schermo e una bella farmacista dai capelli biondi e lunghi mi sorrise affabile.
“Buongiorno, mi dica” disse gentilmente. Io le sorrisi in risposta.
“Salve, avrei bisogno di un paio di cose. Innanzitutto cosa può consigliarmi per questo?” chiesi indicandomi la faccia. Lei si allungò appena in avanti per osservare meglio la mia guancia violacea con occhio critico. Percepii subito l’odore pungente e un po’ troppo dolce del suo profumo. Era quasi fastidioso. Mi trattenni dallo starnutire.
La farmacista mi controllò l’estensione dell’ematoma spostandomi appena il mento di lato con la mano.
“Mm… ha già messo su del ghiaccio?” mi domandò. Io annuì. “Ottimo. Continui a mettercelo ancora per oggi, direi per una decina di minuti ogni paio d’ore. Giusto per controllare che non gonfi. Inoltre le darei dell’Arnica Gel da applicare…” Si allontanò verso uno dei cassetti dietro di lei e recuperò un flaconcino in plastica trasparente con dentro un denso liquido giallo ambra. “Glielo metta su un paio di volte al giorno finché non sbiadisce. Lo massaggi per qualche minuto quando lo mette. Non c’è bisogno di spingere sul livido però, basta una mano leggera.” Io annuì convinto e osservai curioso il flaconcino.
“Secondo lei in quanto dovrebbe andare via il livido?” domandai. Lei ci pensò su un momento.
“È piuttosto esteso, ma penso che in sette, otto giorni sparirà quasi del tutto.” Sospirai rassegnato. Decisamente sarei stato ‘Due Facce’ ancora per un po’. “Voleva altro?” chiese poi la ragazza.
“Sì. C’è un’altra cosa. Mi servirebbe… ecco… no, cioè non servirebbe a me, ma…” Oddio e ora perché ero tutto imbarazzato a dirgli che mi servivano le pillole per Stana?? Forza Nathan! Sei un uomo adulto, diavolo!
La farmacista mi guardò con un sopracciglio alzato, paziente, ma con un sorrisetto divertito in volto. Evidentemente non era la prima volta che qualcuno si imbarazzava a chiedere qualcosa.
“Le serve per caso un preservativo?” mi domandò la tipa. Io la guardai con le sopracciglia aggrottate mentre sentivo la faccia che stava per andarmi in fiamme e non per il livido.
“Cos…? No!” esclamai con un po’ troppo ardore. Riflettendoci, pensai che non avevo mai avuto problemi a chiedere un preservativo. Però in quel momento mi stavo incasinando la vita per un po’ di pillole neanche destinate a me! “Mi servirebbe… ecco… come si chiama??” domandai scocciato più a me stesso che alla farmacista davanti a me. “Adi… Avol.. Alid...” Niente, non riuscivo a ricordare. Mi rassegnai a chiedere a lei. “Una… ehm… una cosa simile… dovrebbero essere delle pillole per… ecco, per il mal di pancia e… insomma quelle robe lì che avete voi donne mensilmente!” Lo so, non ero stato molto carino. Per mia fortuna però la farmacista dovette capire la mia difficoltà perché mi sorrise comprensiva.
“Credo ti serva l’Advil” disse lei alla fine salvandomi.
“Sì! Quello!” esclamai con un sospiro sollevato. La ragazza ridacchiò al mio evidente sollievo e si allontanò qualche secondo per andare a prendere le pillole.
“Ecco qui” disse appoggiando una scatolina azzurra sul bancone. “Dica alla sua ragazza di prenderne non più di una ogni sei ore.” Evitai di dirgli che Stana non era la mia ragazza. Inutile perdere altro tempo. Annuii solo. “E se vuole un consiglio, un massaggio alla pancia è un ottimo modo per alleviare il dolore. Rilassa e scioglie i muscoli contratti che causano le fitte. Ma mi raccomando: come per la sua faccia, niente di pesante, solo un leggero massaggio” mi avvertì. Io annuii di nuovo. Quindi la ringraziai sinceramente, pagai e finalmente uscii.
Durante i due minuti di strada di ritorno verso il palazzo della mia partner, mi persi nei miei pensieri. Chissà se Stana mi avrebbe ucciso seduta stante se anche solo le avessi proposto di farle un massaggio alla pancia.
Arrivato al suo palazzo fortunatamente incontrai una signora che stava uscendo e io riuscii a imbucarmi dal portone senza dover citofonare. Alla porta però dovetti desistere dall’intento di non disturbare la mia malata. Mi ero dimenticato di prendere delle chiavi di riserva. Bussai. Qualche secondo dopo Stana venne ad aprirmi.
“Ehi, pensavo ti fossi perso!” esclamò sorridendo. Le diedi una rapida occhiata. Sembrava stare meglio, ma era ancora pallida e notai che era un po’ rigida, segno evidente che non le era ancora passato del tutto il dolore.
“Scusa, c’era un po’ di coda in farmacia” replicai facendo qualche passo all’interno. Non mi tolsi neppure la giacca. Chiusi la porta alle mie spalle e pilotai Stana per le spalle nuovamente al divano.
“Ma che…??” cercò di fermarmi lei, ma io la bloccai subito alzando una mano.
“Non tentare di fregarmi, vedo che non stai ancora bene” dichiarai serio. “Perciò ora ti rimetti tranquilla sotto la coperta. Io mi tolgo la giacca, ti prendo un po’ d’acqua e torno.”
“Guarda che non sono malata terminale!” esclamò lei scandalizzata .“Posso ancora andarmi a prendere da bere senza…” Si bloccò con una mano sulla pancia e un gemito di dolore. Aveva tentato di alzarsi velocemente dal divano su cui l’avevo appena fatta sedere e questo ne era stato il risultato. La aiutai a stendersi nuovamente e le spostai i capelli dalla fronte, aspettando con lei che la fitta passasse. Quando riprese a respirare regolarmente e si fu finalmente rilassata, mi tolsi la giacca e la andai ad attaccare di nuovo all’attaccapanni all’entrata. Tirai fuori dalla tasca la busta con crema e pillole e mi diressi in cucina a recuperare un bicchiere d’acqua per Stana. Poi tornai a sedermi accanto al divano, poggiando il tutto sul tavolino. Tirai fuori la sua scatoletta e il mio flacone dalla busta. Quindi scartai, sotto gli occhi attenti della mia partner, una delle pillole azzurrognole di Advil e gliela porsi insieme al bicchiere.
“La farmacista mi ha detto che devi prenderne massimo una ogni sei ore” la avvertii. Stana ingoiò la capsula senza dire nulla con una faccia schifata. Bevve poi un sorso d’acqua e si stese di nuovo a occhi chiusi. La rughetta d’espressione che aveva sulla fronte, più profonda e lunga del solito, era il mio indicatore per il suo dolore. Sperai che quella pastiglia fosse ad azione rapida.
Rimasi qualche minuto a osservarla in silenzio. Non sembravano ancora esserci segni di miglioramento. Il solo fatto che Stana non mi avesse ancora rimproverato per essere rimasto a guardarla così a lungo, mi fece capire che non aveva molta coscienza del mondo intorno a sé. Alla fine decisi di sfidare la sorte. Presi un respiro profondo e mi schiarii la gola.
“Ehm… Stana?” Lei aprì gli occhi e girò appena la testa per guardarmi con l’aria di chi si è appena ricordato della presenza di qualcun altro nella stanza. “Senti, la… la farmacista mi ha, ecco, mi ha consigliato un modo per far diminuire un po’ il mal di pancia… o almeno secondo lei dovrebbe attenuare il dolore…” Stana mi osservò attenta e curiosa. “L’idea… l’idea è quella di… uhm… di un massaggio… cioè mi ha detto che massaggiare la pancia piano scioglie i muscoli contratti e… beh, e fa meno male…”balbettai imbarazzato e quasi certo che mi avrebbe mandato a diavolo. Lei sgranò gli occhi alla mia affermazione.
“Massaggi alla pancia?” domandò piano. Io annuii lentamente. Ci pensò su qualche secondo. “L’idea non è male, ma non credo di avere la forza di…”
“Tu non dovrai fare niente” esclamai sicuro e dolce insieme. “Se lo vorrai ovvio!” aggiunsi velocemente il secondo dopo imbarazzato e preoccupato per la sua reazione. Deglutii. Lo so, avevo un modo tutto mio per chiedere a una ragazza se potevo massaggiarle la pancia. E avevo anche intenzioni caste!
Stana ci mise qualche secondo a capire il senso della mia frase. Ma poi dovette arrivarci perché all’improvviso arrossì vistosamente.
“Giuro che tengo le mani a posto” dichiarai con un mezzo sorriso nervoso. “Vorrei… vorrei solo che tu stessi meglio. E se posso fare qualcosa…” Lasciai in sospeso la frase. Quindi misi su il mio miglior sguardo da cucciolo per farla capitolare. E per la mia felicità ci riuscii. Anche più velocemente di quanto credessi in realtà.
“Ok…” mormorò alla fine infatti Stana, diventando, se possibile, ancora più rossa e mordendosi il labbro inferiore. Io annuii. Quindi presi un respiro profondo. Lentamente, senza staccare gli occhi dai suoi nel caso avesse voluto che mi fermassi, spostai la mano e la portai al limite della coperta all’altezza della sua pancia. La feci scivolare sotto di essa e qualche momento dopo sfiorai il suo corpo caldo da sopra la maglietta. La vidi trattenere il respiro e io mi bloccai. Attesi qualche secondo, ma non mi chiese di fermarmi. Quindi ricominciai a muovermi. Risalii piano con la mano lungo il suo fianco fino a incontrare il cuscino che ancora teneva sopra lo stomaco. Infilai la mano sotto di esso e la aprii sulla sua pancia sopra la maglietta. Il respiro di Stana accelerò lievemente. Mi accorsi che sulla punta delle dita non sentivo tessuto, ma pelle. Nel muoversi, la maglietta doveva esserle scivolata in su. Con cautela, e sperando che seriamente non mi uccidesse, scostai il resto della maglia dalla sua pancia. Poi vi posai di nuovo la mano aperta, stavolta sulla pelle nuda. Dio… quel calore sotto la mano… la sua pelle morbida… Sentii Stana rabbrividire al mio tocco, ma ancora una volta non mi chiese di spostarmi o fermarmi. Semplicemente mi guardò attenta, studiando ogni mia mossa. Divenni un po’ più sicuro. Mi feci coraggio e cominciai a muovere piano la mano con movimenti circolari e costanti. Cercavo sempre di mantenerla leggera per non provocarle altro dolore. Ma soprattutto cercavo di rimanere entro i confini della sua pancia facendo bene attenzione a non salire o scendere troppo. All’inizio Stana si irrigidì un poco. Poi però si rilassò e chiuse anche gli occhi, godendosi il sollievo che evidentemente le provocavo. Peccato che a me nel frattempo quel massaggio stesse provocando ben altro che conforto al cavallo dei pantaloni…
Mi costrinsi a restare concentrato. Non potevo avere simili pensieri con lei in queste condizioni! Certo, era bellissima e il fatto che stessi accarezzando lentamente la sua calda pancia nuda di certo non mi aiutava a restare lucido, ma non potevo! E le stavo toccando solo la pancia!! Non osavo immaginare se avessi dovuto passare la mano su una qualche altra parte del suo corpo…
Scossi la testa per riprendermi senza farmi vedere. Non potevo permettere che la donna con cui ero entrato così in sintonia fin da subito, mi credesse un maniaco sessuale! Sospirai. Avrei voluto restare in quella posizione per sempre, con Stana che si rilassava ogni momento di più sotto la mia mano. Purtroppo il mio autocontrollo aveva un limite. Resistetti diversi minuti. Ma quando lei lanciò involontariamente un piccolo gemito estasiato, capii che non sarei riuscito a sopportare oltre senza tentare di saltarle addosso. Fermai la mano e la ritirai piano da sotto la coperta. Il suo calore mi mancava già. Mi accorsi di avere il respiro pesante e la bocca secca. Un piccolo mugugno frustrato mi fece alzare gli occhi verso di lei.
“Perché ti sei fermato?” borbottò riaprendo gli occhi e lanciandomi un’occhiata offesa. Io non potei evitare di ridacchiare. Le risistemai la coperta addosso con attenzione e le carezzai la fronte per spostarle i capelli dal viso.
“Scusa, ma devo andare un momento in bagno…” A farmi una doccia. Fredda. Forse c’era ancora un po’ di ghiaccio nel frigo, ora che ci pensavo. Avrei potuto buttarmelo direttamente nei pantaloni. “Torno tra poco” aggiunsi. Quindi mi alzai, ben attendo a essere rivolto verso il tavolino e facendo finta di niente. Non potevo mica presentarle davanti quanto mi avesse… uhm… emozionato il massaggio che le avevo appena fatto.
Stana annuì con un piccolo sbuffo e richiuse gli occhi all’oscuro del mio problema.
“Quando torni ti aiuto a mettere la crema…” mormorò mentre mi allontanavo. Mugugnai il mio assenso. Il mio cervello in realtà non registrò completamente quello che aveva detto. Era troppo impegnato a dirmi di scappare a nascondermi.
Entrai in bagno e mi ci chiusi dentro. Appoggiai le mani ai due lati del lavabo prendendo dei lunghi respiri per cercare di calmarmi. Alzai gli occhi e mi guardai allo specchio. Quasi mi spaventai. Avevo dimenticato che avevo ancora la faccia per metà violacea. Aprii il rubinetto dell’acqua fredda e mi buttai un’abbondante quantità di liquido in viso. Anche se sapevo benissimo che non era esattamente quello il posto in cui mi serviva di più. Cercai di concentrarmi su qualcosa per non pensare alla pelle morbida e calda di Stana sotto le mie mani. Il suo corpo… caldo… e quanto era liscia la sua pelle? NO! Non potevo pensarci! Non avrei migliorato la mia situazione così!!
Alzai di nuovo gli occhi sullo specchio. E mi venne un’idea. Forse un modo per non pensare a lei c’era… Tanto ormai avevo già appurato da tempo che con lei diventavo masochista, no?
Senza pensarci oltre, presi un bel respiro e mi infilai un dito nella guancia livida. CAZZO!! Ma da dove cavolo mi era venuta in testa quell’idea?? Dio, che male!!
Non urlai per pura fortuna. Rimasi in bagno ancora qualche minuto aspettando che le fitte si attenuassero un po’. In quel momento la guancia mi pulsava dolorosamente. Ma se non altro non mi pulsavano più le parti basse. Uscii con ancora una smorfia di sofferenza in volto.
Sentendomi arrivare, Stana riaprii gli occhi. Vedendo la mia faccia si tirò su piano e si appoggiò allo schienale del divano.
“Che fai??” la rimproverai cercando di farla stendere di nuovo. Lei mi allontanò le mani con un gesto infastidito.
“Sto meglio. La pillola comincia a fare effetto” disse facendomi un mezzo sorriso. Chissà perché, ma il suo sorriso un po’ imbarazzato mi sembrava dicesse ‘e non solo quella’. “Ora però è il caso di curare te. Su, passami quella bottiglietta” aggiunse poi allungando una mano in attesa. Io sospirai rassegnato e le passai il flacone.
Stana mi fece sedere accanto a lei sul divano, quindi svitò il tappo e iniziò a spremersi un po’ di quella densa crema giallastra sulla mano. Mi lasciò poi la bottiglietta così da essere libera nei movimenti. Con la mano senza pomata mi avvicinò il volto a lei. Quindi appoggiò lievemente l’altra sulla mia faccia livida. Un brivido mi corse lungo la schiena.
“È fredda…” mugolai come spiegazione. Ovviamente non era solo quello, ma non potevo mica dirle che era lei che mi faceva sempre quell’effetto. Stana ridacchiò e iniziò a muovere piano la mano sul mio viso, quasi a copiare i movimenti circolari e costanti che avevo fatto pochi minuti prima sulla sua pancia. Solo che stavolta era un po’ diverso. Stavolta eravamo molto più vicini. I nostri nasi dovevano essere a non più di quindici centimetri. La osservavo con la bocca semiaperta mentre mi massaggiava con estrema cura la guancia. La rughetta d’espressione che trovavo tanto carina era tornata sulla sua fronte e questa volta non per il dolore. Notai che era tanto concentrata nel suo lavoro da non accorgersi di avermi attirato ancora più vicino a sé di qualche centimetro per vedere meglio l’area livida. Il respiro mi si fece più accelerato e il cuore iniziò a battermi più forte. Mi chiesi come potesse non sentirlo.
Dopo qualche minuto Stana fece un sorriso soddisfatto, probabilmente contenta di aver portato a buon fine l’opera senza farmi male, e finalmente si voltò per guardarmi negli occhi. Si bloccò e il sorriso le si spense. Si era accorta anche lei di quanto esigua fosse la distanza tra di noi. Ormai sentivo il suo respiro, che si era fatto all’improvviso più veloce, sulla pelle. Le sue mani erano ancora ai lati del mio viso. Anzi, era una mia impressione o lei mi stava pian piano tirando nella sua direzione? No, non stavo sognando. Non mi stava spingendo. Mi stava proprio tirando, millimetro dopo millimetro, a sé. E io chi ero per fare resistenza?
All’improvviso sentii il mio naso sfiorare il suo. Quasi mi si fermò il respiro. Raccolsi un po’ di coraggio e iniziai ad avvicinarmi senza l’incoraggiamento delle sue mani. Ero ad un soffio dalle sue labbra… quando il telefono di casa ci fece sobbalzare.
Ci allontanammo quasi come se ci avessero punto. Non mi ero accorto che a un certo punto avevo proprio smesso di respirare. Presi grosse boccate d’aria e mi passai la mano tra i capelli per riprendermi. Fu solo in quel momento che presi realmente coscienza del telefono sul tavolino che suonava già da qualche secondo. Lo scrutai con uno sguardo di fuoco e maledii mentalmente chiunque ci fosse dall’altra parte della cornetta. Con la coda dell’occhio guardai senza speranze Stana. Per un momento mi sembrò di vedere un lampo d’odio verso il telefono anche da parte sua, ma fu così veloce che probabilmente l’avevo solo sognato.
“Scusa…” mormorò Stana con un tono strano, un po’ rossa in viso. Quindi si allungò dal divano per prendere il cordless dal tavolino davanti a noi. “Pronto?” rispose. La nostra vicinanza e il silenzio imbarazzato e teso che impregnava ogni cosa in quel momento mi permise di sentire chi diavolo avesse avuto la brillante idea di chiamare in quel momento.
“Ehi, Stana? Sono Jon!” Strinsi la mascella. Mi appuntai mentalmente le cose da fare in settimana: 1. comprare il latte; 2. cambiare la lampadina della luce in camera; 3. uccidere Jon Huertas. Non necessariamente in quest’ordine.
“Ehm… ciao Jon” replicò Stana, lanciandomi un’occhiata.
“Allora come stai?” lo sentii chiedere. Fino a un minuto prima stava perfettamente. Anzi, no, stavamo perfettamente e meravigliosamente! E l’avevo anche proposto per il detective Esposito, maledetto me! “Nathan mi aveva detto che sarebbe passato a trovarti e mi avrebbe fatto sapere, ma poi non si è più fatto sentire. Quindi ho chiamato direttamente te…” Ma che bella idea signor Huertas. Proprio carina. MA NON AVEVI UN ALTRO FOTTUTISSIMO MOMENTO PER CHIAMARE??
“No, io… Ora sto meglio, grazie” rispose Stana. “E sì, Nathan è passato a trovarmi e…” Lasciò la frase in sospeso e mi guardò dubbiosa mordendosi il labbro inferiore. Probabilmente non sapeva se dire che ero ancora da lei o meno.
“E sono ancora qui!” dissi a voce alta per toglierla dall’imbarazzo. Essendomi ormai unito alla conversazione, Stana spostò il telefono dall’orecchio e mise il vivavoce. Chissà se si era sentito molto il mio tono scocciato.
“Ehi, amico, tutto bene?” domandò Jon perplesso. Sì, si era sentito. Presi un respiro profondo per calmarmi.
“Sì, Jon, tutto bene” mi affrettai a rispondere con tono più pacato. “Scusa se non ti ho più detto niente, ma sono passato dalla farmacia prima e ho perso un sacco di tempo…” Mezza verità. Avevo appena guardato l’orologio. Ero da Stana da quasi due ore e in farmacia c’ero rimasto in realtà sì e no mezz’ora.
“Tanta fila?” mi domandò.
“Troppa” risposi.
“Ah, poi hai chiesto a Stana se se la sente domani sera di uscire per una birra?” mi chiese ancora. Oh, cavolo. L’avevo dimenticato. Ma d’altronde ero impegnato a fare altro prima che telefonasse!
“No, non gliel’ho ancora chiesto” dichiarai imbarazzato. Alzai gli occhi su di lei che, scoprii, mi guardava curiosa. “Jon mi deve una birra per questo…” le spiegai indicandomi la faccia con una mezza smorfia che la fece ridacchiare. “Così abbiamo pensato di renderla un’uscita per fare quattro chiacchiere domani sera. Anche con te, se te la fossi sentita, e con la nuova dottoressa Parish, se l’avessimo trovata. Vuoi venire?” Stana abbassò lo sguardo e ci pensò su qualche secondo. Poi mi sorrise, un po’ rossa in volto.
“Sì, mi piacerebbe venire, ragazzi” rispose. Io le sorrisi in risposta. Mi sentii un po’ più sollevato. Quello che era quasi accaduto tra noi per fortuna sembrava non aver rovinato niente nel nostro rapporto. O almeno così mi stava sembrando e così speravo.
“Fantastico!” esclamò Jon. “Allora ci vediamo domani sul set! Rimettiti presto Stana!” Ci salutò e chiuse la comunicazione. Stana pigiò un tasto del cordless e lo rimise al suo posto sul supporto sopra il tavolino.
Poi calò un silenzio imbarazzante. Non sapevo cosa dire né cosa fare. Di cosa si può parlare con una donna che hai quasi baciato per la terza volta? Ammetto che non mi era mai successo di trovarmi in una situazione simile. Sì, un bacio mancato era capitato, ma tre?? Qualcuno da qualche parte doveva avercela con me.
Lanciai di nuovo un’occhiata distratta all’orologio, giusto per fare qualcosa. Erano passate da poco le undici. Con la coda dell’occhio guardai Stana. Sembrava che anche lei non sapesse assolutamente che fare. Si mordeva nervosamente il labbro inferiore e girava lo sguardo ovunque tranne che su di me. Notai però che era stanca. Le occhiaie le si erano scurite. Ripensai a quando, poco dopo il mio arrivo, mi aveva confessato di non essere riuscita a dormire molto quella notte. Con mio grande rammarico presi un decisione. Nonostante non volessi davvero andarmene, lei aveva bisogno di riposare e io di calmare i miei bollenti spiriti. Inoltre non era il caso di continuare a stare seduti sui lati opposti del divano come se fossimo degli appestati e volessimo stare il più lontano possibile. Anche perché, sinceramente, stare il più lontano possibile da lei era l’esatto opposto dei miei desideri.
Feci un sospiro e mi alzai in piedi. Stana girò la testa verso di me con aria confusa non capendo le mie intenzioni.
“Forse… forse è il caso che vada” dissi in tono un po’ spento. “Ti ho già disturbata anche troppo.” Pregavo internamente che mi chiedesse di restare. Lei mi guardò stupita per un momento. Poi annuì lentamente, ma con un’espressione triste. Mi schiarii la gola. “Beh… allora vado” dichiarai indicando la porta. Feci qualche passo verso l’entrata, ma poi mi fermai e mi voltai di nuovo verso di lei. “Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, mi raccomando chiamami senza problemi, ok?” Aspettai che annuisse prima di continuare. “Ci vediamo domani” la salutai infine rassegnato in tono più dolce e con un mezzo sorriso. In fondo non erano troppe ore fino all’indomani.
Stavo per riprendere la giacca dall’attaccapanni quando Stana mi fermò.
“Nathan, aspetta…” Mi girai subito verso di lei. La vidi di nuovo mordersi il labbro inferiore. “Ti… ti andrebbe di restare ancora un po’?” mi domandò alla fine a bassa voce, rossa in volto. Il mio cuore ricominciò a battere veloce. Voleva che restassi!! Non mi permisi però di lasciarmi andare subito. Presi un respiro per calmarmi.
“Non vorresti riposare un po’ senza avermi tra i piedi?” le chiesi con tono divertito e un po’ ansioso insieme. Supplicavo che mi dicesse di no. Lei sorrise imbarazzata e scosse la testa.
“Sono stanca, ma non ho sonno. E poi… mi piace averti tra i piedi…” mormorò ancora più rossa in viso e senza guardarmi, trovando meglio rivelare quel particolare alla coperta su di lei. Un sorriso enorme mi si aprì in faccia. Aveva davvero appena detto che le piaceva avermi intorno?? Bene, ora potevo morire contento.
Mi riavvicinai a lei senza riuscire a smettere di sorridere. Dio, quanto era bella così imbarazzata.
“Allora che vogliamo fare?” esclamai battendo le mani, ora decisamente più allegro. “Mi sembra un po’ presto per pranzare…” aggiunsi ricordando che erano appena le undici. Stana alzò appena le spalle.
“Potremmo guardare qualcosa” propose indicando la televisione davanti a noi. Io annuii. “C’è una fila di dvd in uno degli scaffali”aggiunse. “Scegli pure quello che vuoi.”
“Ehi, sei tu la malata qui!” esclamai scuotendo la testa. “Dimmi tu cosa vuoi vedere. Giuro che non mi lamenterò anche se sarà un film melodrammatico!” continuai portandomi una mano al petto e usando io stesso un tono melodrammatico solo per farla ridere.
“Te l’ho già detto! Non sono malata!” replicò lei con tono offeso, non riuscendo però a nascondere il sorriso sul suo volto per la mia scenetta. Io sbuffai appena e feci con la mano un gesto noncurante. Quindi mi avviai a controllare i dvd. Ne aveva circa una trentina. A occhio notai che tra i diversi generi presenti sembravano prevalere quelli romantici e d’azione.
“Malata o no, tu oggi non stai bene e su questo non puoi ribattere!” dichiarai ancora voltato verso i film. La sentii sbuffare alle mie spalle. Mi trattenni a stento dal ridacchiare. “Quindi o scegli qualcosa oppure continuerai a sentirmi blaterare finché non scegli qualcosa!”
 
Quando tornai a casa quella sera, non avrei saputo dire che film avessimo visto. Dovevo ammettere di aver prestato attenzione alla televisione i primi dieci minuti al massimo. Poi mi ero concentrato completamente su Stana Non-Sono-Stanca Katic. Quella donna… Al solo pensarci mi veniva da sorridere come un cretino.
Dopo aver fatto partire il film, mi ero seduto di nuovo sul divano vicino alla mia partner. Lei si era ritirata ancora di più al caldo nella coperta, ma aveva appoggiato la testa alla mia spalla. La sua testa sulla mia spalla!! Credo di essere rimasto qualche momento in apnea quando finalmente avevo compreso che sarebbe rimasta lì addossata a me tutto il tempo.
Stana però doveva essere davvero molto stanca perché in poco si era addormentata. Io l’avevo osservata per quasi un’ora e mezza, la durata del film in pratica, dormirmi sopra. Di tanto in tanto le spostavo qualche ciocca di capelli dalla fronte e gliela mettevo dietro l’orecchio con attenzione. Ma aveva i capelli talmente corti che poco dopo queste erano già sgusciate via. Meglio per me. Avevo avuto un sacco di scuse per sfiorarle il viso.
Verso l’una e mezza mi ero costretto ad alzarmi per vedere cosa mangiare. Purtroppo il mio movimento l’aveva svegliata. Avevo sperato di farla dormire ancora un poco. Se non altro le occhiaie le erano quasi sparite e il suo colorito era meno pallido di quando si era addormentata.
Avevamo poi discusso sul pranzo. Stana non aveva voluto che cucinassi visto che dovevo essere suo ospite. Io invece volevo fare qualcosa per lei. Alla fine, siccome dovevamo pur mangiare e non riuscivamo a venirne a capo in cucina, concordammo sul farci portare qualche preparato cinese. Ne ordinai un po’ di più del necessario, intuendo dall’adorabile brontolio della sua pancia che non aveva mangiato nulla a colazione. La pillola per fortuna sembrava aver fatto effetto su di lei perché mangiammo seduti a tavola senza che si piegasse a metà dal dolore come quando ero entrato qualche ora prima.
Dopo esserci quindi sbafati diverse scatole di cinese chiacchierando e ridendo, avevamo passato il pomeriggio a giocare a carte (dove avevo vinto io), a scacchi (dove mi aveva battuto lei) e a Trivial Pursuit (dove mi aveva completamente e inesorabilmente stracciato con mio sommo stupore e sconforto).
Verso le quattro Stana aveva ricominciato ad avere mal di pancia. Lei aveva preso un’altra pillola, mentre io, dopo aver tenuto sopra la guancia per qualche minuto il ghiaccio, mi ero spalmato di nuovo quella cremetta giallognola e appiccicosa. Stavolta avevamo deciso silenziosamente e di comune accordo di evitare altri massaggi. Anche se ammetto che avrei voluto solo sfiorarle di nuovo quella pelle calda e liscia.
Verso le sette mi ero costretto a tornare a casa. Ancora una volta non avrei voluto, ma sapevo che la sera prima di cena Stana chiamava i suoi e volevo lasciarle la sua privacy senza che dovesse cacciarmi. La salutai con un piccolo bacio sulla guancia che feci durare un po’ di più del necessario. Il suo odore, il suo calore erano qualcosa di indescrivibile.
Una volta a casa mi ero buttato letteralmente sul divano con un sospiro, il pensiero fisso di lei in testa.
Nonostante tutto trascorsi la serata con un sorriso enorme stampato in faccia. C’era stato qualche piccolo inconveniente, certo, ma avevo passato la giornata, l’intera giornata, con Stana a casa sua. Avevamo chiacchierato e scherzato. Avevo avuto l’opportunità di sfiorarla in più di un’occasione e le avevo addirittura fatto un massaggio. Le ero stato vicinissimo. E soprattutto l’avevo quasi baciata. Quasi. Ah, giusto, l’indomani avrei dovuto uccidere Jon.
 
Il mattino dopo, guardandomi allo specchio, notai che il colorito violaceo della mia guancia si era leggermente attenuato. Mi cosparsi di nuovo quella roba giallastra sopra. L’avevo comprata da a malapena un giorno e già mi aveva stufato quella crema. Certo, fosse stata Stana a spalmarla di nuovo con un massaggio in faccia… Scossi la testa per riprendere lucidità. Mi lavai, mi vestii e recuperai l’auto per arrivare sul set. Avrei fatto colazione al bar degli studios. Magari sarei riuscito anche a offrire un caffè a Stana...
Un’ora dopo ero su un nuovo set creato apposta per i provini per la dottoressa Lanie Parish a chiacchierare insieme alla mia partner entrambi con un caffè in mano. Mi disse che era riuscita a dormire quella notte e che stamattina si sentiva in forma. In effetti la vedevo allegra e molto più colorita del giorno prima. Ebbi un piccolo moto di gioia nel sapere che ero in parte artefice della sua riabilitazione.
Davanti a noi era state ricreate due scene di omicidio e parte di quello che sarebbe diventato l’obitorio. C’era infatti un lettino in metallo con già un manichino-cadavere posizionato sopra. Tutti e tre i corpi per la stanza erano coperti da un lenzuolo bianco. I tecnici stavano finendo di sistemare telecamere e luci quando arrivarono Marlowe, Bowman e una donna che non avevo ancora mai visto. Era carina, carnagione chiara, capelli lunghi mossi e rossicci. Ci salutarono e Andrew ci presentò la donna come Terri Miller, sua moglie. Le stringemmo la mano e lei ci salutò entusiasta. Scoprimmo che era una screenwriter esattamente come il marito e che avrebbe partecipato alla scrittura di diversi episodi della serie. La trovai da subito simpatica. Scambiando quattro chiacchiere con loro, capii subito che se Castle aveva trovato la sua musa in Beckett, Andrew l’aveva trovata in Terri.
Qualche minuto dopo Marlowe ci spiegò quello che avremmo dovuto fare in questi provini. Ogni candidata avrebbe avuto due corpi sulla scena del crimine e uno in obitorio da analizzare o spiegare. Dei due manichini morti a terra, uno era stato colpito al cuore da un proiettile, l’altro invece era stato brutalmente pugnalato. Quello in obitorio invece era annegato. Le dottoresse avrebbero dovuto dare alla detective Beckett e all’onnipresente Castle un sommario esame della scena del crimine e una più dettagliata descrizione post autopsia.
Nei minuti seguenti arrivarono anche gli altri produttori, o seguaci di Marlowe, come ormai mi piaceva definirli, per osservare i provini. Ci raggiunsero anche Jon e Susan. Appena vidi Huertas lo guardai malissimo, tanto che chiese a me e alla mia partner se avesse fatto qualcosa di male. Stana disse di non saperne niente, nascondendo però poi il viso dietro il contenitore del caffè. Mi sembrò fosse diventata un po’ rossa. Io non risposi, ma iniziai a progettare cento vendette differenti che andavano dall’attaccargli il caffè a una scrivania fino al farlo rapire dagli alieni. Ok, forse non erano tutte totalmente realizzabili, ma questi erano solo dettagli.
Mezz’ora dopo Andrew annunciò che tutto era pronto e che potevamo cominciare. Iniziai a dirigermi curioso verso la prima scena del crimine, cioè il manichino pugnalato. Fu solo in quel momento che tolsero i lenzuoli dai ‘corpi’ a terra. Non riuscii a reprimere una mezza smorfia. Avevo già recitato in film in cui c’erano dei cadaveri, ma quel manichino sembrava davvero… morto! Era riverso scomposto a terra e c’erano almeno quatto tagli sul torace che indicavano dove la lama sarebbe dovuta entrare. Visto di sfuggita il volto sembrava quasi reale. Anche il colorito pallido sembrava proprio quello di un cadavere e i vestiti insanguinati davano il tocco finale. Dovevo ammettere che avevano fatto davvero un ottimo lavoro.
“Wow…” mi lasciai sfuggire ammirato.
“Carino, eh?” esclamò eccitato uno dei tecnici alle mie spalle. Mi voltai e mi ritrovai davanti un ragazzo smilzo di neanche trent’anni con un folto pizzetto e una camicia hawaiana. L’avevo conosciuto uno dei primi giorni di provini e se non mi sbagliavo si chiamava Simon. Era uno degli ultimi assunti come Tecnico Effetti Speciali. “Sono miei!” aggiunse tutto orgoglioso. “Il telaio è di plastica snodabile, ma la parte superficiale è fatta di una gomma particolare che sembra pelle! Prova a toccarla e vedrai se non ti sembra vera!” Curioso e incoraggiato dal ragazzo, mi chinai e sfiorai una mano del manichino. Cavolo, sembrava davvero pelle! Ci strofinai più volte sopra la mano con la bocca semiaperta dallo stupore. Con la coda dell’occhio notai Stana poco lontana da me scuotere la testa e alzare gli occhi al cielo divertita. “Ehi, amico, piano con la toccata!” mi riprese il ragazzo. Mi riscossi con il suo richiamo dai miei pensieri e alzai di scatto la mano dal manichino. Ero stato un attimo distratto da Jon che aveva raggiunto Stana per dirle qualcosa. Un’idea mi nacque in quel momento in testa. E un piccolo ghigno malefico mi si aprì in volto. Chissà se il ragazzo mi avrebbe lasciato prendere un pezzo del manichino per fare un certo scherzo a un certo disturbatore…
“Sai, sono davvero fantastici” dissi a Simon rialzandomi. “Ma, uhm, se si dovesse girare una scena con, non so, un cadavere fatto a pezzi, useresti sempre gli stessi manichini?”
“Non sono semplici manichini!” esclamò quello offeso, guardandomi male quasi come se gli avessi appena bestemmiato in faccia. “Sono Corpi da Scena del Crimine! Ti piace come definizione? L’ho inventata io!” affermò esaltato. Alzai un sopracciglio, ma non dissi nulla. Chissà perché ma non avevo dubbi sulla sua ultima affermazione. “E poi hanno anche dei nomi! Lui è Jeff” dichiarò indicandomi il pupazzo pugnalato accanto ai nostri piedi. “Quello laggiù è Gus…” Mi fece un cenno verso quello con un buco al petto a terra poco distante. “Mentre quello sul lettino da obitorio è Zack.” Annuii lanciando un’occhiata a Zack l’annegato. Aveva dato dei nomi ai manichini dei morti?? Non sapevo se congratularmi con lui o sorridergli accondiscendente. “Ah, comunque per rispondere alla tua domanda di prima…” aggiunse Simon qualche secondo dopo. “Il telaio del corpo è in pezzi staccabili e la gomma che fa da pelle è in realtà molto facile da tagliare. Quindi in caso di cadaveri mutilati ognuno di loro può tranquillamente ‘recitare’!” Decisamente l’avrei abbracciato questo ragazzo.
In quel momento Marlowe ci chiamò a raccolta. Salutai e ringraziai Simon e mi diressi verso il regista. Andrew ci avvisò che le candidate erano una cinquantina in tutto e diede a me e a Stana il copione con le parti. Susan diede una rapida occhiata alle battute, borbottò qualcosa sui ‘troppi termini tecnici da dottorini appena usciti dall’università’ e si sedette a chiacchierare con un produttore-seguace dietro al solito tavolo lungo dal quale Andrew e gli altri avrebbero osservato i provini. Anche Jon lanciò uno sguardo al copione, ma chiese a Marlowe e Bowman se di tanto in tanto avesse potuto entrare a dire qualcosa, come se fossero davvero su una scena del crimine. I due acconsentirono senza problemi.
Ancora una volta fu Isabel, l’aiutante di Marlowe, a dare il via alle danze cinque minuti dopo annunciandoci che le aspiranti dottoresse erano pronte. Fece entrare la prima. Pelle chiara, bella, alta, capelli neri, camminata sicura. Appena questa mise piede sul set però lanciò un urlo schifato nel vedere Jeff il pugnalato a terra. Sospirai. Sarebbe stata una lunga giornata.
 
Due ore dopo Andrew decretò dieci minuti di pausa. Avevamo visto quasi una ventina di candidate di cui un paio non ci erano sembrate male. Abbastanza professionali nei panni del medico legale e con già qualche esperienza di recitazione ospedaliera. Al solito però avevamo avuto anche donne che sembrava lo facessero apposta a farci perdere tempo. Una era entrata, aveva visto i manichini a terra e aveva dichiarato che non si sarebbe mai avvicinata a uno di essi. Ma, cavolo, lo sapeva che parte veniva a provare??
Alzai le braccia e mi stiracchiai per bene. Era stancante stare metà del tempo sui talloni per esaminare più da vicino un corpo o l’altro. Non era propriamente tra quello che dovevo fare, ma Stana stava giù metà del tempo insieme alla candidata-dottoressa e per non farle torto scendevo pure io. E poi, lo ammetto, così potevo starle più vicino.
Nonostante in quel momento non stessimo provando, mi rimisi sui talloni giusto accanto al manichino pugnalato. Diedi con la coda dell’occhio un rapido sguardo in giro. Nessuno mi stava guardando. Ottimo. Velocemente mi feci più vicino al pupazzo come a voler vedere meglio un particolare. Appena fui a portata però tirai fuori di nascosto le chiavi della macchina e segai un dito al manichino. Aveva ragione Simon, quella roba gommosa simil pelle era veramente facile da tagliare. Bleah… ora che lo tenevo in mano sembrava davvero un dito mozzato. Facendo finta di niente mi infilai tutto in tasca e mi rialzai.
“Ehi, ragazzi, qualcuno vuole un caffè?” chiesi avvicinandomi al gruppetto composto da Stana, Jon, Susan, Andrew e Terri. Gli ultimi due alzarono un bicchiere di caffè già presente nelle loro mani ringraziandomi comunque. Susan disse che era a posto. Stana e Jon invece annuirono. Mi offrii di andarglielo a prendere. Stana mi chiese se volevo compagnia e fu solo per il dito del manichino nella mia tasca che le risposi di no.
Andai al bar degli studios poco lontano dal set e ordinai i tre caffè. Il mio con tanta schiuma, zucchero e una spolverata di cioccolato, quello di Stana con il latte e la vaniglia come sapevo le piaceva, mentre quello per Jon lo presi nero. A intuito avrei detto che era quello in suo preferito. Chiesi anche una brioche al cioccolato. Avevo un po’ fame ed ero quasi sicuro che Stana ne avrebbe preso volentieri un po’ per tirarsi su. Avevo notato che stava iniziando ad accusare i primi segni di stanchezza e sapevo che il ciclo di certo non l’avrebbe aiutata.
Il barman mi posizionò i tre caffè in un porta bicchieri da quattro e appoggiò nello spazio vuoto il sacchetto con il cornetto. Pagai e uscii. Appena fuori controllai che non mi guardasse nessuno. Quindi aprii il coperchio del caffè di Jon, vi infilai il dito in plastica che avevo in tasca e lo richiusi velocemente. A quel punto tornai come se nulla fosse sul set. Stana, Jon, Susan, Andrew e Terri stavano ancora chiacchierando.
“Ehi, sono arrivati i vostri caffè!” esclamò allegra la moglie di Marlowe appena mi vide rientrare. Mi unii a loro appoggiando il porta contenitori al tavolo accanto per poterli prendere meglio.
“Spero ti piaccia nero” dissi a Huertas passandogli il suo caffè ‘corretto’.
“Sì grazie. È come lo prendo di solito” mi rivelò quello un po’ stupito, ma sorridente. Uhm... no, dubitavo fortemente che questo fosse come quello che prendeva di solito. Ma io non avevo certo intenzione di dirglielo. Mi trattenni dal ghignare. Mi avrebbero scoperto subito altrimenti.
“Questo invece è per te, latte e vaniglia” dichiarai passando l’altro caffè a Stana. Lei mi sorrise per ringraziarmi e quel semplice sorriso mi fece perdere un battito del cuore. Poi vide il sacchetto.
“Che hai lì?” mi domandò iniziando a sorseggiare il suo caffè. Io presi un sorso del mio per poi tirare fuori la brioche. Stana mi guardò con un sopracciglio alzato.
“Che c’è? Avevo fame!”esclamai alla sua occhiata.
“Tu hai sempre fame” dichiarò Stana divertita scuotendo la testa. Io sbuffai e gli altri ridacchiarono.
“In ogni caso l’ho presa anche per te” dissi spezzando il cornetto a metà e allungandogliene una parte. Mi guardò sorpresa. “Mi sembravi stanca e un po’ di cioccolata pensavo ti avrebbe risollevato un po’…” aggiunsi sorridendo. Stana arrossì appena e si morse il labbro inferiore. Quindi mi sorrise dolce e imbarazzata insieme e prese il mezzo cornetto dalla mia mano.
“Grazie…” mormorò. “Ne avevo proprio bisogno.” Io annuii senza dire niente, sentendomi semplicemente bene per le sue parole, e iniziai a mangiare la mia parte.
“Ehi, a me non hai preso niente?” esclamò Jon all’improvviso con tono fintamente offeso.
“Tu non stavi male ieri” risposi ovvio. “E poi ti ricordo che mi devi ancora una birra!” aggiunsi indicandomi la faccia violacea. Per fortuna non mi aveva dato fastidio per tutta la mattina, se non per gli sguardi pietosi che attirava su di sé.
“Giusto” replicò Huertas come se ci avesse pensato solo in quel momento. “A proposito…” si girò verso gli altri e chiese anche a loro se avessero voluto unirsi a noi quella sera per una birra. Come sospettavo, Susan declinò l’offerta dicendo di essere più una da cocktail che da birra, ma che ci avrebbe invitati a cena una sera di quelle a venire. Anche Andrew rifiutò a causa di un precedente impregno con la moglie.
Fu in quel momento che mi accorsi che Terri guardava me e Stana con un sorrisetto strano.
“Posso farvi una domanda?” chiese all’improvviso. Io e la mia partner ci guardammo per un secondo prima di annuire. “Da quanto vi conoscete?” Era più o meno la terza volta che ce lo chiedevano. Dovevo iniziare a preoccuparmi?
“Qualche tempo… Due settimane e poco più” rispose Stana per entrambi sbocconcellando il suo mezzo cornetto.
“Davvero?” esclamò stupita.
“Buffo come se lo chiedano tutti, vero?” commentò Susan divertita. Jon e Andrew ridacchiarono. Io alzai le spalle come se la cosa non mi toccasse e Stana si nascose ancora una volta dietro il suo caffè. Notai comunque il lieve colorito rosso delle sue guance.
“Ah, ma allora non sono solo io!” dichiarò Terri con un sorrisetto malizioso. “Da come… interagite, avrei detto che vi conoscevate da molto più tempo.” Aggrottai le sopracciglia e mi voltai verso Stana accanto a me. Fu in quel momento che entrambi ci accorgemmo che le nostre braccia si toccavano come se fosse la cosa più normale del mondo. Stana slittò subito un poco più in là imbarazzata. Io mi trattenni dal sospirare nel non sentire più il suo calore contro di me.
“E dovresti vederli quando recitano sul serio” esclamò divertito Andrew andando al abbracciare per la vita la moglie. “Avresti dovuto esserci al provino di Stana. C’erano scintille ovunque!” Stana si nascose ancora di più dietro il contenitore del suo caffè. Io buttai giù l’ultimo sorso del mio, velocemente lo gettai nel cestino e tornai in mezzo ai manichini morti.
“Allora? Non ricominciamo?” domandai incrociando le braccia al petto e sbuffando appena. Non era il caso di far subire alla mia partner ulteriori ironie. Stana annuì subito, lasciò il caffè sul tavolo e tornò alla postazione del cadavere pugnalato anche detto Jeff. Andrew, Terri, Jon e Susan se ne tornarono ridacchiando ai loro posti. “Tutto bene?” chiesi sottovoce a Stana. Lei annuì appena con un mezzo sorriso.
In quel momento Andrew annunciò ad alta voce che i provini riprendevano. Tutti tornarono ai loro posti e meno di un minuto dopo entrò la nuova aspirante dottoressa. Carina, capelli neri corti, carnagione scura, un po’ bassina. Poi il mio sguardo si fermò sul suo petto e la mia bocca si aprì da sola. Aveva un seno… prosperoso. Parecchio prosperoso. Forse anche qualcosa in più di parecchio. E mi sa che era anche un po’ rifatto. Andiamo, non poteva essere così normalmente!
“Nathan, la bava” sentii Stana mormorarmi con un tono a metà tra il divertito e l’esasperato. Richiusi la bocca. La candidata lanciò un’occhiata curiosa ai manichini, quindi consegnò il suo curriculum a Andrew e si presentò.
“Tamala Jones, 34 anni” disse. 34? Le avrei dato qualche anno di meno. Mentre la Jones esponeva la sua carriera, notai che non ero stato l’unico a essere rimasto ‘colpito’ dalla sua entrata. Più d’uno la guardava a occhi sgranati e sembrava quasi che a Jon stesse per cadere la mascella. Mi trattenni dal ridacchiare. Sentii che la candidata non era abituata ad avere a che fare con i “cadaveri”, e in effetti i suoi precedenti ruoli erano ben lontani da quello di medico legale, ma la parte le interessava e voleva provare. Rob le passò un copione e le indicò di venire da noi. A quel punto ci presentammo.
“Ehi, come va? Nathan Fillion” dissi allungando una mano. Lei la strinse subito. Aveva una presa sicura.
“Tamala Jones. E non c’è male, grazie” rispose sorridendomi.
“Stana Katic” si presentò poi la mia partner.
“È un piacere conoscerti” replicò Tamala allegra. Parlando con lei qualche minuto mentre studiava il copione, capii che era una di quelle persone con la vitalità dentro. Quelle sempre con il sorriso sulle labbra incapaci di farsi scoraggiare da qualcosa. Notai che in poche battute stava già conquistando l’amicizia di Stana.
“Ehi, ragazzi, siete pronti?” domandò Rob ad alta voce. Annuimmo e ci posizionammo sui talloni accanto al manichino pugnalato per cominciare il provino. Tamala avrebbe avuto una cartellina in mano che nella realtà serviva per appuntarsi i primi rilevamenti sul corpo, ma che lei avrebbe usato per leggere le battute.
“Allora, dottoressa Parish, che abbiamo?” domandò Stana entrando in modalità detective Beckett.
“Ragazza, dottoressa Parish mi fa sentire vecchia” replicò subito Tamala senza prestare occhio al copione e alzando un sopracciglio. “Chiamami Lanie.” La mia partner la guardò per un momento stupita, poi le sorrise divertita e ripartirono.
“Allora, Lanie, che abbiamo?” chiese di nuovo Beckett.
“Ferite multiple da taglio al petto” rispose Lanie indicando le quattro fenditure nel corpo. “Dalla temperatura corporea posso dirti che è morto tra le nove e le dieci di questa mattina.”
“Segni di colluttazione?” domandò ancora la detective.
“Sì” replicò la dottoressa. “Se noti, le unghie sono rotte e probabilmente ci sono dei residui di pelle sotto quelle sane. Inoltre vedi queste abrasioni ai polsi? Qualcuno ha tentato di tenerlo fermo”
“Ha lottato contro il suo assassino” commentai io.
“Che acume, signor Castle” esclamò Lanie divertita. “Da un primo rilevamento posso dirti solo che i colpi sono stati profondi, ma poco precisi. Credo sia morto per dissanguamento piuttosto che per la lama.”
“Non era un professionista” concluse Beckett lanciando un’occhiata al corpo.
“Forse in un attacco di rabbia la moglie l’ha ucciso perché lo ha scoperto con l’amante” supposi. “O forse è il creatore di un nuovo robot per cucinare che però è impazzito e ha ucciso il suo creatore!” Entrambe le donne si voltarono a guardarmi con un sopracciglio alzato. Io feci il mio miglior sguardo da cucciolo innocente. Poi le due riportarono gli occhi sul cadavere.
“Uhm… detective?” la chiamò la dottoressa.
“Trovato qualcos’altro Lanie?” domandò Beckett. Lanie controllò la sua cartellina e poi di nuovo il cadavere con sguardo confuso.
“Più che altro perso…” replicò la donna. “Gli hanno mozzato un dito.”
“Un dito?” domandò Beckett.
All’improvviso un urlo ci fece voltare di scatto verso gli altri. Ci alzammo in piedi preoccupati cercando la fonte del grido. Lo trovammo accanto al tavolo dei produttori. Era Jon e guardava terrorizzato il contenitore del caffè rovesciato a terra davanti a lui. Il dito che vi avevo infilato finì di rotolare a terra proprio in quel momento poco lontano.
“Ma che cazzo…??” esclamò Jon arrabbiato. Io volevo evitare di scoppiare a ridere. Davvero. Ma semplicemente non ci riuscii. Quasi mi piegai in due dalle risate e come me altri nella sala. La mia vendetta era stata compiuta.
“Credo che abbiano appena ritrovato il tuo dito…” sentii Stana dire a Tamala. Quando alzai gli occhi sulla mia partner mi accorsi che tentava di lasciarmi uno sguardo di rimprovero, ma che allo stesso tempo non riusciva a reprimere un sorriso divertito. Avevo come l’impressione che avesse capito benissimo sia che ero stato io, sia perché l’avevo fatto. E probabilmente non sapeva lei stessa se sgridarmi o congratularsi con me.
“TU!!” esclamò all’improvviso Jon incazzato puntandomi il dito contro. Io smisi subito di ridere e deglutii. “Lo so che sei stato tu!” Cavolo, ma ero così riconoscibile?? Stavo perdendo colpi evidentemente. “Se ti prendo giuro che ti faccio diventare viola anche l’altra guancia!”
“Ah, quindi quel bel ricordo colorato è suo” commentò Tamala. Stana annuì e le spiegò in poche parole come mi ero beccato due giorni prima un calcio in faccia. Intanto io osservavo preoccupato ogni mossa di Jon che aveva stretto i pugni e sembrava stesse cercando di decidere quale morte mi si addicesse di più. “Però! Ti è andata bene, ragazza, un cavaliere bello come lui mica lo si incontra tutti i giorni” dichiarò Tamala facendo l’occhiolino a Stana. Con la coda dell’occhio vidi Stana arrossire per quell’affermazione e annuire lentamente. Bello… mi trovava bello!!
Non trovai il tempo di gioire per quella piccola scoperta perché Jon mi caricò e io dovetti iniziare a scappare. Mi inseguì per mezzo set, intimandomi di fermarmi, tra le risate generali. Io cercai nascondigli ovunque finché non mi piazzai dietro Tamala e Stana con il fiato grosso per la corsa. Non ero molto allenato dovevo ammetterlo.
“Non vale nasconderti dietro le ragazze!” esclamò Jon come un bambino offeso. Io mi mostrai quel tanto che serviva per fargli la linguaccia da dietro Stana.
“Nath, mi stai tirando la maglia” mi rimproverò Stana. In effetti mi ero messo esattamente dietro di lei e le stringevo la maglietta per tenerla ferma davanti a me.
“Ma sono sempre così bambini?” domandò Tamala ridacchiando. In effetti Jon e io sembravamo proprio due bambini che si rincorrono attorno alle gambe delle madri. Stana sospirò rassegnata.
“Per quello che ho potuto vedere…” replicò esasperata.
“Esci fuori da lì dietro! Voglio dirti due parole su cosa ne penso del tuo scherzo!” affermò Jon con tono minaccioso alzandosi le maniche della maglia.
“Ragazzi, ora basta!” ci richiamò all’ordine Marlowe cercando contemporaneamente di non ridere. “Dobbiamo continuare i provini. Dopo potrete pure continuare a rincorrervi in giro.” Jon sbuffò e mi guardò minaccioso per un’ultima volta. Poi si girò e tornò a mettersi sulla sua sedia a braccia incrociate. Io sospirai sollevato.
“Forse mi sono sbagliata… mi sa che il tuo cuor di leone qui in realtà è più un cuor di coniglio” commentò Tamala ridacchiando. Io le lanciai un’occhiata offesa. “Non guardarmi così, tesoro” mi riprese scuotendo la testa. “Non ci si nasconde dietro le ragazze per difendersi! La volta prima ti prendi un calcio e quella dopo scappi? Che razza di cavaliere sei??” domandò retorica. Quindi si voltò e si diresse al corpo di Gus petto-bucato. Capii che scherzava, ma ci rimasi comunque un po’ male. Stana dovette notare il mio improvviso abbattimento perché mi si avvicinò.
“Ehi, tutto bene?” mi chiese. “Lo sai che scherzava, vero?” Io annuii e le feci un mezzo sorriso tirato per rassicurarla. Solo che non dovette uscirmi molto bene. Lei infatti mi guardò e scosse la testa. Quindi si avvicinò di più a me, tanto che sentii il suo profumo distintamente e il suo respiro quasi sul mio orecchio. Il mio cuore iniziò a battere velocemente. “Non preoccuparti. Sarai sempre il mio cavaliere dall’armatura scintillante…” mormorò appena prima di lasciarmi un piccolo bacio sulla guancia. Rimasi immobile e con la bocca aperta. Dovevo aver smesso anche di respirare. La guardai sorridermi dolce e imbarazzata. Poi la osservai allontanarsi, un po’ rossa in volto, per raggiungere Tamala. Io ero ancora immobile. Poi Andrew mi incitò a andare insieme alle due ragazze per continuare il provino. Solo in quel momento mi riscossi. E non riuscii a trattenere un sorriso enorme.
 
Il provino di Tamala continuò tranquillo prima su Gus e poi da Zack l’annegato. Di tanto inserivamo qualche battuta nostra o le due mi lanciavano qualche occhiataccia per una cavolata mia o di Castle. Mi ricordai che la dottoressa Parish non avrebbe dovuto avere tante battute nel telefilm. Ma se la Jones fosse stata presa, io sarei stato fra i primi a chiedere che fosse più presente. Aveva solo qualche difficoltà con i termini tecnici del post autopsia, ma a quelli si poteva rimediare. Recitava bene ed era molto a suo agio. Decisamente mi sarebbe piaciuto che entrasse a far parte della compagnia di Castle!
Finimmo con gli altri provini tre ore e mezza dopo, concedendoci giusto una trentina di minuti di pausa per il pranzo. Alcune aspiranti brave c’erano, ma sia io che la mia partner ci eravamo trovati decisamente meglio con la Jones. Nel nostro solito incontro post seduta, Stana fu la prima a presentare il nome di Tamala. Non ci furono neanche troppe discussioni stavolta. In venti minuti ci fu l’unanime decisione di prendere la Jones nel gruppo. Marlowe stesso inoltre espresse il pensiero che precedentemente era venuto in mente a me: dare un po’ più di spazio all’anatomopatologa nella storia. Alle sue parole, Stana si illuminò in volto e mi guardò raggiante. Era deciso. Tamala Jones era appena diventata ufficialmente il medico legale Lanie Parish del dodicesimo distretto della polizia di New York.

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Xiao!! :D
Scusate il ritardo (lo so sono da fucilare), ma purtroppo al momento sono d'esami quindi scrivo nelle pause e la cosa va a rilento... -.- 
Vabbè spero vi piaccia la storia! ;) Stana con il ciclo era un'idea che avevo in mente già da un po' per una Stanathan che avevo iniziato, ma mai finito... alla fine stava meglio qui e l'ho messa qui! XD Anche perché Stana è donna come noi e non ci credo che non sia mai stata male anche lei! XD
Ok ho già parlato anche troppo! XD Come sempre un ringraziamento alle mie consigliere Sofia e Katia!! :D (draghetta grazie per avermi trovato i farmaci e le 'cure' a base di massaggi americane! XD)
Ho dovvero finito ora! XD A presto!! :D
Lanie

ps: al momento sono un po' incasinata quindi non so bene quando pubblicherò purtroppo, ma appena finisco riprendo più o meno normalmente! ;D

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Capitolo 6
*** Alexis Castle ***


Cap.6 Alexis Castle


Lanciai un’occhiata all’orologio e sbuffai. Erano già le otto e mezza di sera. Subito dopo l’incontro post provini, in cui avevamo deciso all’unanimità che Tamala Jones sarebbe diventata la nostra nuova anatomopatologa Lanie Parish, l’avevamo chiamata e le avevamo dato la buona notizia. Quindi le avevamo chiesto se voleva unirsi a me, Stana e Jon per una birra. Aveva subito risposto affermativamente e ci eravamo dati appuntamento. Alle nove ci saremmo dovuti trovare al King & Queen pub. Era a venticinque minuti di strada da casa mia, e io ero appena uscito dalla doccia.
Ovviamente non avevo idea di cosa mettermi. Sì, era solo una birra tra amici, ma non volevo che pensassero che mi trascuravo fuori dal set. E poi, dopo la figura della mattinata con Tamala, volevo cercare di guadagnare qualche punto. In effetti nascondersi dietro alle ragazze mentre Jon mi inseguiva per il set forse non era stata la mossa più coraggiosa, anche se di certo era stata la più sicura. Una vocina nella mia testa continuava a sussurrarmi che in realtà volevo solo far colpo su Stana, ma io preferii ignorarla.
Reggendomi l’asciugamano intorno alla vita con una mano, mi diressi velocemente all’armadio. Scrollai la testa per togliermi un po’ di gocce dai capelli evitando così che mi finissero sugli occhi. Rabbrividii quando delle goccine fredde mi finirono sul petto e sulla schiena ancora caldi per la doccia. Guardai quella massa di abiti davanti a me con un sospiro. Certe volte ringraziavo il fatto di avere uno stilista che mi vestisse per le riprese e per le occasioni particolari. In quel momento non mi sarebbe dispiaciuto che un costumista sbucasse all’improvviso fuori dalla lampada del comodino e mi indicasse cosa mettere a colpo sicuro. Lo so, a volte ero peggio di una donna in quanto ad abiti, ma che potevo farci?
Dopo qualche minuto di ricerca finalmente trovai un abbinamento che mi convinse. Camicia blu, jeans scuri e scarpe nere sportive. Niente di elegante, ma neanche trasandato. Buttai il tutto sul letto insieme a un paio di boxer blu e calzini neri. A scelta compiuta, andai ad asciugarmi velocemente i capelli in bagno. Mi ricordai di spalmarmi ancora una volta quella cremetta giallognola sul livido della guancia. Per fortuna sembrava iniziare lentamente a fare effetto. La faccia infatti mi pareva si fosse appena schiarita dal viola scuro che era.
Tornai in camera, infilai velocemente il vestiario e mi controllai allo specchio. Lasciai aperti un paio di bottoni della camicia e diedi un’ultima aggiustata ai capelli. Alla fine sorrisi compiaciuto. Ero un figurino, nonostante il violaceo della mia guancia. E quell’accenno di barba non fatta non mi stava per niente male.
Lanciai un’occhiata all’orologio. Cazzo, erano già le nove meno dieci! Recuperai giacca, chiavi varie, portafoglio e schizzai fuori di casa per andare a mettermi al volante della mia piccola Chevrolet.
Non avrei saputo dire se fu il fatto che ero in ritardo, il poco traffico cittadino di quell’ora oppure se la mia voglia di rivedere Stana mi avesse fatto pigiare un po’ sull’acceleratore. Sta di fatto che in meno di un quarto d’ora ero arrivato alla mia destinazione.
Parcheggiai e mi avviai all’ingresso del pub. L’insegna all’entrata aveva il disegno di due corone, una d’oro e una d’argento, unite e al di sotto la scritta King & Queen. Entrai e constatai che il locale era grande e accogliente. Le pareti erano color legno scuro e tutto era avvolto da luci soffuse giallognole. Un vago odore di frittura aleggiava nell’aria.
Mi guardai per qualche secondo intorno finché non vidi in un angolo le persone che cercavo. Stana, Jon e Tamala erano già seduti a un tavolo con davanti i menù e chiacchieravano allegramente. Sorrisi e mi avviai verso di loro. La mia partner mi dava la schiena. Avvicinandomi, notai che indossava un paio di scarpe nere con un tacco alto almeno una decina di centimetri, jeans dello stesso colore e a una maglia lunga rossa che le lasciava una spalla scoperta.
“Ehi, guardate chi ci ha finalmente raggiunto!” esclamò Jon vedendomi. Le due donne si girarono verso di me.
“Signore…” le salutai facendo un mezzo inchino a Tamala e Stana, che ridacchiarono. “Soldato…” dichiarai invece solenne a Huertas portandomi una mano alla testa come un saluto militare. Lui scosse la testa rassegnato. “Buonasera!” dissi infine ridacchiando e sedendomi nel posto libero tra Stana e Jon.
“Ben arrivato, ritardatario!” mi salutò di rimando Tamala.
“Per qualche minuto…” commentai con una mezza smorfia. Stana in risposta mi fece scivolare davanti il suo menù.
“Ritardo o no, muoviti a scegliere che ho fame!” esclamò divertita. Io alzai un sopracciglio, ma aprii il cartoncino per vedere cosa prendere.
“Voi avete già scelto?” domandai iniziando a osservare la lista delle pietanze. Wow, aveva un impressionante assortimento di hamburger questo posto. Com’è che non lo conoscevo?
“Sì, amico, ci sono tre hamburger e tre birre con il nostro nome sopra che ci aspettano. Attendevamo solo te per ordinare” replicò Jon esasperato facendomi capire che dovevo muovermi a scegliere. Ridacchiai. Evidentemente Stana non era l’unica ad aver fame. “A proposito, come hai fatto a ritardare?” domandò poi. “Siamo usciti dal set ore fa!” Io alzai appena le spalle.
“Hanno chiamato i miei prima e c’erano anche mio fratello e la sua famiglia a casa” risposi senza alzare gli occhi dal menù. “Mio nipote mi ha tenuto un po’ al telefono. Doveva raccontarmi della sua festa per l’inizio dell’anno scolastico…” Senza accorgermene sorrisi leggermente. Non potevo farne a meno quando parlavo del mio nipotino.
“Hai un nipote?” mi domandò Tamala curiosa. Io chiusi il menù e alzai gli occhi su di lei annuendo. In quel momento arrivò un cameriere a prendere le ordinazioni. Tutti e quattro chiedemmo hamburger e birra. Io aggiunsi anche un piatto di patatine da dividere. Tanto sapevo che almeno un’altra persona del tavolo oltre me ne era ghiotta. “Come si chiama?” mi chiese ancora Tamala, tornando al discorso di prima, quando il cameriere se ne fu andato.
“Flynn” replicai orgoglioso. “Ha sette anni, ma è già un ragazzino intelligente. Ha preso tutto da suo zio, ovviamente!”
“Beh, speriamo non prenda anche la pancetta dello zio allora” commentò Stana divertita infilandomi un dito nel fianco.
“Ehi!!” esclamai offeso balzando quasi sulla sedia. Le fermai la mano e gliela bloccai sul tavolo così che non potesse più nuocermi. Solo in quel momento però mi accorsi di quello che stavo facendo. Tolsi subito la mano dalla sua, neanche mi fossi scottato. Vidi Stana diventare rossa, mentre osservava il tavolo come se fosse l’oggetto più interessante sul pianeta. E dire che per un momento mi era sembrata la cosa più naturale del mondo scherzare con lei e prenderle la mano… Cercai di tornare velocemente al più sicuro argomento di mio nipote. Mi schiarii appena la gola. “Uhm… comunque no, non ha preso la pancetta dello zio” replicai con una mezza smorfia che fece ridacchiare tutti e tre. Non avevo la pancetta io! “È in forma. E quest’anno inizierà a giocare a hockey su ghiaccio!”
“Non è un po’ piccolo per l’hockey?” domandò Jon sorpreso. Io scossi la testa.
“Il piccolo ha la stazza del padre, dello zio e del nonno. Se la caverà” commentai con un mezzo sorriso. In effetti mio nipote non era esattamente gracilino nonostante avesse solo 7 anni. “E poi l’hockey in Canada è lo sport nazionale. Ci sono squadre anche per i ragazzini della sua età.”
“Non avete paura che si faccia male?” chiese Tamala preoccupata. “Insomma l’hockey non è esattamente uno sport a zero contatto fisico…” Io ridacchiai.
“Se conoscessi mio nipote, sapresti che non è uno che si spaventa facilmente” risposi con un sorriso. “Il farsi male non lo preoccupa minimamente. Pensa che una volta ha avuto la bella idea di scalare il muretto esterno della casa del nonno. Solo che il ‘muretto’ è alto due metri e lui all’epoca aveva appena quattro anni!” Con la coda dell’occhio notai Stana scuotere la testa divertita. “E poi dovreste vedere come ci azzuffiamo ogni volta che vado a trovarli! Ancora un po’ e inizierà pure a tenermi testa…”
“Ti azzuffi con un bambino??” esclamò Stana alzando un sopracciglio.
“Non ci facciamo male!” replicai subito con tono di giustificazione. “Solo lottiamo… un pochino…” continuai cercando di trovare le parole adatte perché non mi guardasse male. “E in ogni caso alla fine quello che al più ne esce acciaccato sono io!” dissi alla fine tutto d’un fiato. “Di certo non farei mai del male a mio nipote!”
“Si vede che ci tieni molto a lui, sai?” dichiarò all’improvviso Tamala. Mi voltai verso di lei e la vidi sorridermi teneramente. “Il modo in cui ne parli e tutto.” Notai Stana e Jon annuire alle sue parole. Io alzai appena le spalle, un po’ imbarazzato anche se non sapevo neppure io perché.
“Mi piacciono i bambini in generale, ma mio nipote… mio nipote mi ha stregato da quando è nato” rivelai loro con lo sguardo perso verso il tavolo e un lieve sorriso in volto. Sentii la mano di Stana poggiarsi sul mio ginocchio e io alzai gli occhi su di lei sorpreso. Mi guardava comprensiva con un sorriso dolce in volto, ma insieme un po’ imbarazzata per il contatto fisico. Le feci un mezzo sorriso senza staccare gli occhi dai suoi.
In quel momento tornò il cameriere con le nostre birre. Stana spostò velocemente la mano da me mentre il ragazzo posizionava le nostre pinte sul tavolo.
“Ragazzi, qui ci vuole un brindisi!” esclamai appropriandomi della mia birra. Gli altri concordarono e alzarono i calici. “A Castle” annunciai con tono solenne. “Che ci farà schizzare tra le stelle del firmamento televisivo…” Jon lanciò un urlo in segno di approvazione che ci fece scoppiare a ridere. “E ancora a Castle” aggiunsi lanciando un’occhiata a Stana. “Che ci ha dato l’opportunità di incontrarci!” Era rivolto a tutti ovviamente, ma non avrei mai ringraziato abbastanza per aver incontrato lei. La mia partner fece un mezzo sorriso imbarazzato, ma alzò appena il boccale verso di me.
“A Castle!” esclamammo quindi facendo cozzare insieme i nostri boccali un momento prima di buttare giù un sorso di birra. Fresca al punto giusto e gustosa. Direi che era un ottimo auspicio per la serie.
Iniziammo a chiacchierare del più e del meno in attesa dei nostri hamburger. Qualche minuto dopo Tamala si alzò per andare in bagno e chiese a Stana se poteva accompagnarla. Lei annuì e la seguì.
“Ma secondo te perché le donne vanno sempre in bagno in due?” mi chiese Jon sospettoso mentre le osservavamo dirigersi alla toilette. Io alzai appena le spalle. Avevo come l’impressione che la Jones l’avesse fatto apposta per parlare da sola con la mia partner. “Ehi, Nathan, già che siamo solo noi due, posso chiederti una cosa?” mi domandò poi divertito. Io alzai un sopracciglio.
“Certo” replicai cauto.
“Che rapporto c’è tra te e Stana?” Quasi mi affogai con il sorso di birra che avevo appena mandato giù. Jon iniziò a picchiarmi sulla schiena per farmi riprendere. Ma cos’era, una mania la loro?? Ce l’avevano con noi?? Quando ricominciai finalmente a respirare, dovetti schiarirmi la gola prima di parlare.
“Siamo solo amici…” riuscii a dire con un po’ di fatica. Lui annuì pensieroso e guardò nella direzione dove erano sparite le ragazze.
“Quindi non state insieme?” chiese ancora.
“No…” risposi cercando di riprendermi del tutto dal mezzo annegamento.
“E non ha il ragazzo, giusto?” continuò.
“No” replicai ancora ripulendo il tavolo dalla birra che avevo sputato per sbaglio.
“E non c’è assolutamente niente tra di voi?”
“No!” ripetei con uno sbuffo esasperato. “Te l’ho già detto, non c’è niente!”
“Quindi posso provarci con lei?” Mi bloccai mentre stavo per buttare giù un altro sorso di birra. Cosa dovevo rispondere? Rimasi qualche secondo in silenzio, la bocca semiaperta, mentre cercavo di trovare una soluzione. “Nathan?” mi richiamò Huertas. Mi ripresi scuotendo il capo e buttai fuori l’unica parola che mi passava per la testa.
“No.” Jon alzò un sopracciglio.“Non puoi provarci con lei” continuai sicuro.
“E perché no?” chiese ancora. Cazzo. E ora che gli potevo dire?? All’improvviso mi venne un’idea.
“Per essenzialmente due motivi…” iniziai cauto mentre raccoglievo i pensieri. “Il primo è che non voglio casini interni al cast che rischino di compromettere la serie.” Mi congratulai mentalmente con me stesso. Jon sospirò e annuì, capendo le mie ragioni. Per un breve momento mi sembrò stesse trattenendo un ghigno, ma forse l’avevo solo immaginato.
“E il secondo?” domandò poi curioso.
“Il secondo è che ti vedo meglio con Tamala che con Stana” risposi con un sorrisetto divertito. Lui scosse la testa ridacchiando alla mia uscita.
“Ok, ok, ho capito, amico” dichiarò alla fine Jon. “Comunque scherzavo” aggiunse ghignando qualche secondo dopo, quando vedemmo le ragazze uscire dal bagno e tornare verso di noi. “Stana non te la rubo. È tutta tua!” esclamò facendomi l’occhiolino. Io aprii la bocca per replicare, ma non riuscì a dir nulla perché Stana e Tamala si sedettero proprio in quel momento al tavolo. Fulminai Jon con lo sguardo mentre lui sghignazzava.
Quando mi voltai verso Stana però, vidi che anche lei stava guardando male una ridacchiante Tamala. La Jones poi lanciò un’occhiata d’intesa a Huertas ed entrambi fecero un sorrisetto compiaciuto. Capii che l’avevano fatto apposta a prenderci da soli. E poco dopo fui certo di non essermi sbagliato nel pensare che fossero d’accordo. Stana infatti mi rivelò che Tamala le aveva chiesto da quanto tempo andava avanti la nostra relazione segreta.
 
Il resto della cena andò avanti più o meno tranquillamente tra chiacchiere, risate e occhiate maliziose di Tamala verso me e Stana. Decisamente si era ambientata subito. Andammo avanti fin quasi a mezzanotte, quando concordammo che era ora di tornare a casa. Eravamo tutti piuttosto stanchi per la giornata di provini. Ci salutammo dandoci appuntamento per la mattina dopo. In realtà non avremmo iniziato subito a fare audizioni. Andrew ci voleva tutti sul set per darci qualche informazione sui nostri personaggi e, di nuovo, per farci stare insieme più tempo possibile per creare gruppo. Ci teneva molto a questo. Ma visto come stava andando le cose fino a quel momento, ero piuttosto fiducioso. Nel pomeriggio invece avremmo avuto i provini per trovare Alexis Castle. Siccome sarebbero state tutte ragazzine in età da scuola, Marlowe aveva trovato più saggio fare le selezioni nel pomeriggio in modo che le aspiranti non perdessero ore di lezione.
Solo una volta entrato nel mio appartamento mi accorsi di quanto fossi stanco. Sbadigliai sonoramente. Buttai le chiavi sul tavolo vicino all’entrata e mi diressi in cucina per bere un bicchiere d’acqua. Quindi andai direttamente in camera. Di solito, anche tornando tardi, restavo sempre alzato per un po’, ma quella sera sapevo che non ci sarei riuscito. Tra uno sbadiglio e l’altro riuscii in qualche modo a togliermi jeans e camicia e a infilarmi, miracolosamente dritti, un paio di pantaloni della tuta. Non cercai neanche una maglia da mettermi su tanto ero stanco. Mi ficcai direttamente sotto le lenzuola a torso nudo. Come avevo immaginato, appena poggiai la testa sul cuscino crollai addormentato.
 
Il giorno dopo mi svegliai lentamente. Aprii piano gli occhi contro la luce entrante dalla finestra, mugugnando contro le tende non chiuse. Mi stiracchiai per bene, sbadigliando nonostante mi fossi appena svegliato. Mi passai una mano sulla faccia e la sentii leggermente ruvida per la barbetta che si era formata nella notte. Stranamente mi accorsi che la guancia non mi faceva quasi più male. Osai quasi sperare che la macchia violacea fosse sparita durante la notte, ma nemmeno io ero così ottimista. Con un sospiro, mi tirai su a sedere e mi stropicciai gli occhi. Rabbrividii quando l’aria piuttosto fresca della stanza avvolse il mio petto nudo. Doveva essersi raffreddato parecchio fuori nella notte. Ma ormai eravamo alle porte di ottobre e nonostante a Los Angeles facesse sempre caldo, c’erano anche quei rari momenti un po’ più freddi.
Mi passai una mano tra i capelli con uno sbadiglio e lanciai un’occhiata alla sveglia. Erano solo le 9 e… un momento… le 9?? Cavolo in quel momento avrei dovuto già essere agli studios!! Ma perché diavolo avevo dormito così tanto?? Ah già. La sera prima dovevo essere stato talmente stanco da dimenticarmi di puntare la sveglia.
Schizzai fuori dal letto come fulmine e mi precipitai in bagno. Mi lavai velocemente senza perdere tempo a farmi la barba o a sistemarmi i capelli. Mi ricordai all’ultimo di spalarmi la crema sulla faccia per il livido. Notai con una rapida occhiata che alla fine aveva deciso di iniziare a diminuire. La macchia violacea si era ridotta un po’ di dimensione, ora non mi prendeva più tutta la guancia, ed era anche un po’ più chiara. Mi vestii in fretta con il primo paio di jeans e la prima maglia che mi trovai davanti. Quindi corsi fuori casa, quasi dimenticandomi di prendere le chiavi della macchina. Alla colazione avrei pensato più tardi. In auto tirai fuori il telefono da un tasca e cercai il numero di Stana in rubrica, accedendo contemporaneamente il bluetooth dell’auto. Dopo un paio di squilli la mia partner rispose.
“Pronto?”
“Stana? Sono Nathan”
“Ah, allora non ti hanno ancora rapito gli alieni!” esclamò divertita. Io sbuffai come offeso, ma allo stesso tempo sorrisi.
“No, nessun alieno, mi spiace!” replicai. “Sono solo in ritardo. Ieri sera mi sono dimenticato di accendere la sveglia e ovviamente non mi sono alzato. Sono uscito qualche minuto fa da casa e dovrei arrivare agli studios nel giro di un quarto d’ora. Puoi avvertire tu Andrew?” le chiesi.
“Certo, non c’è problema” rispose Stana. In quel momento frenai d’un colpo. Maledissi a bassa voce il semaforo rosso per non farla allarmare. Lei però dovette aver capito cos’era appena successo dallo stridore dei freni perché aggiunse “Fammi un favore però Nathan: vieni con calma. Noi non scappiamo mica, ti aspettiamo. Evita di fare un incidente…”
“Ti mancherei troppo?” replicai divertito con un sorrisetto furbo. Potevo quasi vederla che alzava gli occhi al cielo mentre sbuffava.
“Sì…” Il mio cuore smise di battere per un secondo a quella risposta. “Ma in realtà solo perché mi mancherebbe il mio portapillole personale!” concluse ridacchiando. Ricominciai a respirare e deglutii. Non mi ero neanche accorto di essere entrato in apnea in quella manciata di secondi. Tentai di riprendermi velocemente e un dubbio mi colse.
“Non ti serviranno mica altre pillole, vero??” domandai allarmato. Avevo già fatto la mia bella figura in farmacia una volta. Non ci tenevo particolarmente a replicare. Ma sapevo benissimo che se solo me lo avesse chiesto, sarei andato a prenderle anche degli assorbenti se necessario. Sperai con tutto il cuore però che fosse buona e non me lo chiedesse mai.
Sentii Stana ridere dall’altra parte del telefono e automaticamente sorrisi anche io. Mi piaceva la sua risata. Mi piaceva davvero tanto.
“No, no, niente pillole!” riuscì a dire quando si fu calmata, anche se sentivo ancora i postumi della risata. “In questo sei stato fortunato. Ora che Tamala è entrata nel gruppo, in quei casi di ‘emergenza’ so che posso chiedere a lei.” Sospirai sollevato. Anche se allo stesso tempo la cosa un po’ mi intristì. Non avrei più avuto scuse per farle massaggi alla pancia e per sfiorarla come mi era capitato di fare un paio di giorni prima mentre stava male. Cercai di scacciare dalla testa quei pensieri prima che si trasformassero in qualcosa di più… piccante. Avevo una mente particolarmente fantasiosa in quel campo. E il ricordo di come mi ero sentito mentre la mia mano era sulla sua calda pancia di certo non mi aiutava.
“Ok” risposi semplicemente. Guardando la strada calcolai che non dovesse mancare ormai molto agli studios. “Dai, tra qualche minuto dovrei arrivare” continuai. “Ci vediamo tra poco, Stana!”
“Ok” replicò lei. Sentivo che aveva ancora il sorriso sulle labbra. “A tra poco. E non correre!” esclamò con tono a metà tra il serio e il divertito. Le risposi affermativamente ancora una volta. Quindi ci salutammo e riattaccammo.
Otto minuti dopo entrai trafelato sul set del distretto. Avremmo fatto la nostra riunione con i produttori lì, così che il set del loft, dove invece si sarebbero svolti i provini nel pomeriggio, fosse libero per i tecnici per preparare le attrezzature. Appena messo piede all’interno però, invece dell’incontro serio che mi aspettavo, trovai tutti i presenti a girare per il set urlando alternativamente due nomi.
“Nick?? Nicholas??” “Phoebe?? Phoebe dove sei??” “Nick?? Esci fuori da bravo!!” “Phoebe??”
“Ma che succede??” domandai stupito da quel caos a nessuno in particolare.
“Ehi, sei arrivato finalmente!” esclamò Tamala spuntando all’improvviso accanto a me, facendomi sobbalzare.
“Sì, incomprensioni con la sveglia…” spiegai velocemente. Osservai di nuovo il viavai di gente davanti a me. “Che sta succedendo qui?” le chiesi poi.
“Si sono persi due bambini” replicò Tamala. Io mi voltai di scatto verso di lei, preoccupato e sorpreso insieme.
Persi??” Lei annuì seria.
“Ehi, Nathan!” mi salutò Jon vedendomi. “Ti unisci alla ricerca?”
“Certo!” replicai subito togliendomi la giacca e buttandola su una sedia per essere più libero. “Chi si è perso?”
“I figli di Josh” rispose per lui Stana avvicinandosi a noi. Mi sorrise appena come saluto e io le sorrisi di rimando. Vidi anche sul suo volto i segni della preoccupazione. La sottile rughetta, che ormai conoscevo bene, era riapparsa in mezzo alla sua fronte.
Aggrottai le sopracciglia alle parole di Stana e diedi mentalmente un volto al nome che mi aveva fatto. L’unico Josh che conoscevamo era Josh Bryan ed era uno dei cameraman. Ci avevo parlato qualche volta. Un tipo simpatico, sulla quarantina. Mi aveva parlato dei suoi figli una volta. Phoebe, una femminuccia di dieci anni, e Nicholas, un maschietto di otto. Mi aveva anche fatto vedere una loro foto ora che ci pensavo. Ricordai che mi aveva parlato di loro con molto orgoglio e amore nella voce.
Qualche secondo dopo individuai Bryan dall’altra parte del set, il viso molto più pallido e tirato del solito, il panico nella voce mentre chiamava i suoi figli. Notai che tutti stavano dando una mano, compresi Marlowe, sua moglie Terri, Bowman e Susan.
“Come mai erano qui?” chiesi iniziando a perlustrare con lo sguardo tra le scrivanie del distretto.
“Oggi erano a casa da scuola per non ho capito che problema alla struttura” mi informò Stana. “Sua moglie non poteva recarsi con loro a lavoro, così ha chiesto a Josh se poteva prendersene cura. Lui ha domandato a Marlowe se poteva portarli qui e Andrew non gli ha fatto alcun problema. Solo che i problemi li hanno creati i piccoli appena sono arrivati. Hanno iniziato a ricorrersi. Josh li ha sgridati dicendogli di stare buoni e loro sono spariti. Poco fa ha provato a chiamarli, ma non li ha trovati e così sono partite le ricerche” Annuii pensieroso. Dove avrebbero potuto nascondersi due bambini là dentro? Non dovetti chiedermelo a lungo però perché all’improvviso ci fu un urlo sollevato da uno dei tecnici.
“Ehi!! Sono qui! Li ho trovati!” Capii che il richiamo proveniva da quello che avrebbe dovuto essere lo sgabuzzino delle scope del distretto. Ci avvicinammo tutti, Byan in testa. Riuscii a sbirciare dentro e vidi due corpicini rannicchiati a terra in un angolo un po’ nascosto del ripostiglio, difficilmente raggiungibile da un adulto a causa degli ingombranti scaffali laterali e degli oggetti stipati all’interno. La bambina era davanti al fratellino e lo copriva in parte dalla nostra visuale. Ma erano entrambi lì e sembravano stare bene.
“Phoebe!!” esclamò Josh con un misto di sollievo e rabbia vedendo la figlia. “Esci subito fuori da lì, signorina! Nick!!” aggiunse poi con lo stesso tono notando anche il figlio seminascosto. “Mi avete fatto prendere un infarto! Uscite immediatamente!” Sentimmo un paio di singhiozzi provenire dall’interno, quindi vedemmo la bambina scuotere la testa.
“Josh” cercò di richiamarlo Marlowe poggiandogli insieme una mano sulla spalla. “Non credo che sia il modo migliore per…”
“Lasciami fare Andrew!” dichiarò l’uomo scacciandolo. Tutti i presenti si fecero istintivamente indietro di un passo alla sua furia. Vidi Terri sbucare dalla massa e avvicinarsi al marito, preoccupata per la reazione di Josh. “Uscite subito di lì!” urlò ancora Bryan allo sgabuzzino. “Mi stavate facendo morire! Scomparire così senza dire niente!! Ma che diavolo vi è saltato in mente?? Phoebe, fuori ho detto!” ordinò poi alla bambina, probabilmente di solito la più propensa a seguire i rimproveri. “E vedi di tirare fuori anche tuo fratello!” La bambina scosse di nuovo la testa. “PHOEBE!!” urlò il padre esasperato.
“Josh…” lo chiamò Stana, ma Bryan non la degnò di uno sguardo. “Josh!!” ripeté la mia partner a voce più alta e ferma, quasi dura, prima che lui potesse urlare ancora contro i bambini. Finalmente Bryan si voltò verso di lei di scatto. Era paonazzo in volto. Aveva gli occhi lucidi e il respiro pesante. “Posso parlare con loro?” gli chiese Stana con tono calmo. Josh la guardò per un secondo come se fosse impazzita. Per un attimo temetti che avrebbe aggredito verbalmente anche lei. “So che ti sei preoccupato…” continuò comunque la mia partner come se si stesse svolgendo la più tranquilla delle conversazioni. Avevo notato però che prima di parlare si era morsa il labbro inferiore nervosamente. “Ma vedi anche tu che stanno bene. Sbraitargli contro non aiuterà a farli uscire. Tu hai bisogno di calmarti un attimo. Fammi parlare con loro solo per qualche minuto.” Eravamo tutti con il fiato sospeso mentre aspettavamo il responso. C’era un silenzio assoluto nel quale Stana e Josh si squadrarono. Poi un piccolo singhiozzo proveniente dallo sgabuzzino spezzò l’incantesimo. Bryan si voltò e sembrò come riprendersi da un incubo. Lo vidi guardare sconvolto verso il nascondiglio dei bambini. Chiuse e riaprì gli occhi più volte, le sopracciglia aggrottate, la bocca semiaperta, come se non credesse a quello che era appena accaduto. Quindi alzò di nuovo lo sguardo su Stana. Notai che non c’era più rabbia nei suoi occhi. Solo senso di colpa.
Senza proferire parola, Josh arrancò di qualche passo all’indietro in modo da lasciarle spazio per avanzare davanti allo sgabuzzino. Tutti ci spostammo un poco per non creare soffocamento all’entrata. Con un gesto, Marlowe allontanò del tutto i presenti dal ripostiglio, in modo che la mia partner fosse il più tranquilla possibile. Portò lui stesso Josh lontano da lì, così che si calmasse. Con un cenno del capo e un piccolo sorriso Stana ringraziò Andrew per quella cortesia. A quel punto rimase solo lei davanti allo sgabuzzino. Io pure decisi di non muovermi. Ero pochi passi dietro di lei nel caso avesse avuto bisogno di qualcosa o di una mano. Anche solo per controllare che nessuno si avvicinasse, visto che Bryan continuava a lanciare occhiate nervose all’indietro verso dove erano nascosti i piccoli.
Stana si avvicinò all’entrata e, lentamente, si abbassò, mettendosi in ginocchio proprio di fronte a essa. Da quella posizione doveva essere più o meno alla stessa altezza d’occhi dei bambini.
“Ehi…” mormorò piano e con tono dolce. “Come state? Non siete un po’ scomodi là dentro?” Non riuscivo a scorgere il viso del piccolo, ma quello della bambina sì. Era carina. Aveva dei lunghi capelli castano chiaro tenuti fermi appena sopra l’orecchio con un piccolo fermaglio rosa. I suoi occhioni scuri erano lucidi, sgranati e concentrati curiosi su Stana. La vidi scuotere piano la testa in segno di diniego, senza che staccasse gli occhi dalla mia partner. “Sicura? Ok, mi fido” replicò Stana con un piccolo sorriso rassicurante. “Oh, ma non ci siamo ancora presentati. Io sono Stana. E voi?” Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi una vocina.
“Phoebe…”
“Phoebe?” esclamò Stana come stupita. “Ma sai che è un bellissimo nome?” Altri attimi di silenzio.
“Anche Stana è bello…” fu la risposta della stessa vocina di prima. Tirò su con il nasino. “Ma è strano.” Stana ridacchiò.
“È strano perché i miei genitori vengono da un altro paese” spiegò paziente. Phoebe annuì piano. “E il tuo amico nascosto lì dietro come si chiama?” domandò poi. Questa volta fu la piccola a ridacchiare. Io non riuscii a trattenere un sorriso.
“Non è un mio amico” rispose la bambina. “È il mio fratellino. Si chiama Nicholas, ma tutti lo chiamano Nick!”
“Oh, allora ciao Nick!” lo salutò Stana con un sorriso. Si sentì un lieve “ciao” provenire dall’interno dello sgabuzzino. “Ma perché siete nascosti là dentro? Avete paura che vi mangi?” domandò poi in tono scherzoso. Vidi la bambina rabbuiarsi e rannicchiarsi ancora di più.
“Papà ci ha sgridato…” mormorò Phoebe con una vocetta prossima al pianto.
“E perché mai?” domandò Stana piano. “Sembrate così simpatici.” La bimba strinse appena le spalle.
“Stavamo correndo…” confessò la piccola dopo qualche secondo. “Ci aveva detto di stare buoni, ma Nick toccava gli oggetti sui tavoli! Io gli avevo detto di non farlo, ma…”
“Non è vero! Stavo solo guardando!” esclamò all’improvviso Nicholas offeso rompendo il silenzio che aveva mantenuto fino a quel momento. “Sei tu che mi sgridi sempre!”
“Papà ci aveva detto di non toccare niente, ma tu dovevi per forza prendere gli elefantini!” lo riprese Phoebe con un tono che voleva essere un severo rimprovero. Solo che detto da una bambina di dieci anni incuteva molto poco timore e faceva anzi quasi tenerezza.
“Ragazzi, ehi, calma!” li richiamò Stana prima che la situazione degenerasse. I due si zittirono subito. “Il vostro papà vi ha sgridato solo perché si preoccupa per voi” iniziò a spiegargli in tono calmo. “Vedete, questo posto è pieno di persone tra cui potreste perdervi e di oggetti con cui potreste farvi male o far male a qualcuno senza volere…” Vidi gli occhi della bambina sgranarsi.
“Ma noi non volevamo fare niente di male!” esclamò subito spaventata.
“Sì, ovviamente” replicò la mia partner con lo stesso tono di prima. “Ma sarebbe potuto succedere. E poi soprattutto avreste potuto farvi male da soli. Il vostro papà semplicemente vi ha detto quelle cose perché vi vuole bene e non vuole che vi succeda nulla.” I due fratellini sembrarono riflettere sulle sue parole. Stana lasciò passare qualche momento quindi allungò una mano in avanti. “Allora volete uscire? Mancate al vostro papà. E poi, se state lì, non possiamo neanche fare qualche gioco per passare il tempo mentre lavora…” aggiunse con un sorriso. La guardai e vidi che diceva sul serio. Avrebbe volentieri passato un po’ di tempo con loro. Quanto era fantastica quella donna? Se ora fosse anche riuscita a farli uscire…
Neanche il tempo di pensarlo che notai un movimento all’interno dello sgabuzzino. Quindi, qualche secondo dopo, una manina che spuntava e si aggrappava a quella di Stana. La mia partner fece un grande sorriso appena la piccola Phoebe uscì.
“Davvero giochi con noi?” domandò timorosa. Stana annuì. Subito un sorriso spuntò anche sul viso della bambina e non esitò un secondo a buttarle le braccia la collo. Io sorrisi alla scena. Avevo come l’impressione che nessuno potesse resistere a Stana.
La mia partner strinse a sé la bambina, anche se con un secondo di ritardo visto che l’aveva colta impreparata. Quindi entrambe si girarono a osservare l’anfratto tra gli scaffali per vedere se anche il piccolo Nick avesse avuto intenzione di uscire. Ma del bambino neanche l’ombra.
“Nick?” provò a chiamarlo Stana. Nulla. “Nick?” riprovò. “Non vuoi uscire a giocare?”
“Io non gioco con le femmine…” fu il borbottio che uscì in risposta. Io quasi scoppiai a ridere. Che caratterino il piccolo.
Stana voltò la testa verso di me e mi fulminò con lo sguardo. Io alzai le mani in segno di resa, cercando di moderare il ghigno che avevo stampato in faccia con scarso successo. Poi però il viso della mia partner si illuminò e io iniziai a preoccuparmi.
“Ok, Nick, non giochi con le femmine. Ti va allora se ti presento un mio amico?” domandò al bambino nascosto. Quindi con la mano mi fece segno di avvicinarmi. “Lui è Nathan, Nick” mi presentò quando mi fui accomodato a terra accanto a lei e a Phoebe.
“Ehilà campione” esclamai. Con mio nipote l’appellativo funzionava. Magari sarebbe andato bene anche con lui.
“Ciao…” fu il saluto cauto di Nick.
“Come va?” domandai per fare conversazione. Il piccolo era quasi invisibile nell’ombra del suo angolo. Sperai di riuscire a tirarlo fuori. Sentivo su di me lo sguardo della mia partner. “La mia amica Stana mi ha detto che sei un tipo simpatico…”
“Hai un’amica femmina?” mi domandò stupito con tono un po’ disgustato. Io mi trattenni dal ridacchiare. Ne aveva ancora di strada da fare il piccolo. Tra qualche anno avrebbe scoperto che non avrebbe più potuto fare a meno di avere qualche amica femmina con cui giocare
“Sì. È molto simpatica anche lei” risposi.
“Io non voglio giocare con loro…” ribadì Nicholas.
“Non giochiamo con loro se non vuoi. Ho un sacco di giochi nel cellulare…” dissi per convincerlo. Attesi un momento che le mie parole facessero effetto. Sentii un lieve spostamento all’interno e sorrisi. “E poi se vuoi posso farti vedere tutti gli oggetti strani che ci sono sui tavoli…” aggiunsi ricordandomi la conversazione di prima.
“Anche gli elefantini??” domandò subito eccitato.
“Anche gli elefantini” risposi. Scambiai un’occhiata speranzosa con Stana. Si stava mordendo il labbro inferiore. Attendemmo qualche secondo, quindi la testolina castano chiaro del piccolo sbucò fuori dal nascondiglio. Nick alzò gli occhi e io mi trovai davanti due occhietti verdi che mi osservavano curiosi. Sorrisi. Quindi gli allungai la mano. Lo aiutai ad uscire e lo presi in braccio un momento prima di alzarmi. Era proprio piccolino. Calcolai che dovesse arrivarmi più o meno a metà coscia. In braccio mi pesava quanto una piuma.
Gli scompigliai i capelli e guardai Stana. Si era alzata in piedi anche lei. Era meravigliosa con la bambina in braccio mentre le dava un bacio sulla guancia. Rimasi imbambolato per qualche momento con un sorriso da ebete in faccia finché Nick non mi passò una mano sulla guancia chiedendomi perché era viola e allo stesso tempo domandandomi degli elefantini. “Ora ti porto a vedere gli elefantini” dissi con un sorriso mettendomelo meglio sul braccio.
“Prima però andiamo a dire al vostro papà che state bene e che giocheremo insieme” dichiarò Stana carezzando i capelli di Phoebe che le si stringeva contro il collo. “Non vogliamo farlo preoccupare di nuovo vero?” Entrambi i bambini scossero velocemente la testa. Guardai Nick in braccio a me con il suo broncetto preoccupato e mi accorsi che era tutto polveroso.
“Ma prima ancora sarà il caso di ripulirsi un po’...” dissi, così che anche Stana notasse che i vestiti di entrambi i bambini erano pieni di polvere. Possibile che un set tirato su da qualche giorno fosse già così sporco? Andava bene rendere le cose realistiche, ma qui si esagerava! Posai Nick a terra, mi abbassai sui talloni e iniziai a dargli delle leggere pacche sui pantaloni in modo da pulirlo. Stana accanto a noi faceva la stessa cosa con Phoebe. “Ora ci facciamo belli per papà, eh?” dissi al piccolo mentre ero concentrato nel mio lavoro. Nick annuì piano. Notai che era preoccupato. Evidentemente una nuova sfuriata del padre lo inquietava parecchio.
Appena conclusa l’opera di pulizia dei due, ripresi in braccio Nicholas e lo lanciai anche un po’ per aria così da farlo ridere e da scacciare l’ansia. Non sopportavo i bambini tristi. Per me tutti i bambini avrebbero dovuto avere il sorriso sulle labbra. Sentii Stana e Phoebe ridacchiare dietro di me mentre commentavano a bassa voce le prodezze volanti del piccolo. Dopo pochi passi raggiungemmo le postazioni del distretto dove Bryan, Marlowe e tutti gli altri ci aspettavano. Come Josh vide i suoi bambini, si precipitò verso di noi e prese in un unico abbraccio entrambi i figli, ancora nelle nostre braccia, dando un bacio sulla testa a entrambi.
“Dio, mi dispiace…” sussurrò Bryan sconvolto. “Mi dispiace bambini. Non volevo urlare così. Non dovevo. Ma ero così spaventato…”
“Lo sappiamo, papà…” mormorò Phoebe in risposta. “Ci dispiace…” Nick annuì alle parole della sorella. Josh scosse la testa con un lieve sorriso e baciò di nuovo entrambi. Aveva gli occhi lucidi.
“Papà posso giocare con zio Nathan?” esclamò all’improvviso Nicholas dopo qualche secondo. Lo guardai stupito. Ero già diventato zio? Bastava la promessa di un elefantino che già mi ero guadagnato un tale appellativo? Sorrisi senza neanche accorgermene.
“Sì, sì, per favore!” aggiunse Phoebe supplicandolo. “E anche con zia Stana!”.
“Papà, se me li fa vedere lui gli elefantini non rischio di far male a nessuno, vero?” continuò timoroso Nick. Bryan lo guardò sbalordito e confuso. Io scambiai un’occhiata d’intesa con Stana. La mia partner sorrideva imbarazzata, un po’ rossa in volto, ma decisamente bellissima.
 
Verso ora di pranzo io e Stana portammo Nick e Phoebe al bar degli studios per mangiare qualcosa. Dopo il loro ritrovamento avevamo passato quasi tutto il tempo a osservare le scrivanie e gli altri ambienti del distretto, a fingere di essere poliziotti, a giocare al cellulare e a tutto quello che ci passava per la testa. Josh aveva ripreso il suo lavoro serenamente e ci aveva ringraziato più volte per esserci voluti prendere il disturbo di badare ai due figli. Ma a me Stana non importava. Io mi stavo divertendo e potevo dire lo stesso della mia partner. Inoltre riuscimmo comunque a fare la riunione con Marlowe. Solo che la svolgemmo tra una scrivania e l’altra del distretto insieme ai due bambini. E poi, ad adunata conclusa, si erano voluti unire ai giochi anche Tamala e Jon. Susan era rimasta quasi tutto il tempo a guardarci come una nonna che osserva figli e nipoti a una riunione di famiglia.
A un certo punto avevo proposto io a Stana e ai piccoli di fermare i giochi per rifocillarci. Non credevo che sarei riuscito a sopportare ulteriormente gli sguardi maliziosi di Tamala e Jon. Avevamo approfittato di un momento di distrazione dei due e c’è l’eravamo filata dal set. Nicholas e Phoebe l’avevano preso come un gioco. Stana aveva sospirato sollevata tanto quanto me.
Avevamo appena ricevuto le nostre ordinazioni che Jon e Tamala ci trovarono. Ci individuarono subito nel bar, nonostante fossimo in un tavolo un po’ appartato. Neanche avessero avuto un radar quei due!
“Ehi, vi avevamo perso!” esclamò Jon quando si avvicinarono.
“I bambini avevano fame…” si giustificò Stana. Vero in parte.
“Quale in particolare? Il grande o i piccoli?” domandò ironica Tamala. Io le feci una smorfia offesa. I due si accomodarono ridacchiando accanto a noi nei posti liberi. “Allora, come va l’operazione Mamma e Papà?” domandò ancora la donna in tono semiserio.
“‘Mamma e Papà??’”esclamammo sorpresi io e Stana nello stesso istante. “Ma di che state parlando??” aggiunsi io esasperato. I due si scambiarono un’occhiata divertita.
“Andiamo, amico, mi stai dicendo che non ti sei accorto di come vi comportate con i bambini?” disse Jon a bassa voce per non far sentire i fratellini. Proprio in quel momento Phoebe si sporcò la faccia con della salsa del suo panino e Stana subito l’aiutò premurosamente a pulirsi con il tovagliolo. Voltai la testa verso Nick accanto a me e lo vidi fare il rombo dell’aeroplano con la bocca un attimo prima di infilarvi un bel pezzo di toast. Sorrisi. Appena era arrivato il piatto, il piccolo l’aveva guardato po’ diffidente e io gli avevo fatto quello stesso verso, con tanto di svolazzo del tost, per farlo mangiare.
All’improvviso capii cosa intendeva Jon. Mi girai di nuovo verso di lui e me lo ritrovai a un palmo dal naso con un sorrisetto trionfante stampato in faccia. Sbuffai e continuai il mio pranzo facendo finta di niente. Jon e Tamala ridacchiarono, mentre Stana diventò di una simpatica colorazione rossastra. Doveva aver sentito la conversazione ed essere giunta alle mie stesse conclusioni. Sperai che non le desse troppo fastidio. Eppure a noi veniva semplice. Insomma, lei aveva cinque fratelli più piccoli. Sapeva come ci si prendeva cura di un bambino. Io invece avevo mio nipote Flynn con cui avevo fatto un po’ pratica. Inoltre dovevo ammettere che mi ero divertito molto a fare il ‘papà per un giorno’. Lo zio sapevo farlo, certo, ma non avevo mai avuto una donna accanto quando stavo con mio nipote. Era… diverso. Avere una donna con il quale condividere e gioire dei successi di un bambino, anche solo, nel nostro caso, del punteggio più alto in un giochino del cellulare. Mi faceva sentire bene. Scaldava il cuore. Il problema era che più ci pensavo, più mi risultava difficile e strano pensare a me con un bimbo in braccio accanto a una donna che non fosse Stana…
Scossi la testa violentemente. Non era decisamente quello il momento di avere certi pensieri. E probabilmente non era neanche il caso di avere certi pensieri.
 
Il momento della separazione dai due piccoli Bryan avvenne un’ora più tardi. Alle due avremmo dovuto essere presenti ai provini per Alexis e Josh si era preso il pomeriggio per stare con i figli a casa. Phoebe e Nicholas salutarono ogni persona sul set e abbracciarono Susan, Jon, Tamala, Stana e me. Io e la mia partner ricevemmo pure un bacetto da entrambi. Nonostante il piccolo avesse detto che non giocava con le femmine, avevo notato che si era trovato piuttosto a suo agio con Stana. Anche se potevo capirlo, visto che a un certo punto lei lo aveva preso in braccio per coccolarselo un po’ sul petto. Che invidia. Potevo essere invidioso di un bambino?
Bryan guardò teneramente i due figli mentre abbracciavano me e Stana un’ultima volta appena fuori dal set dove li avevamo accompagnati insieme a Jon e Tamala. Lasciai un ultimo bacio sulla guancia di Phoebe e la misi giù.
“A presto, piccolina” la salutai con un sorriso.
“A presto zio Nate!” replicò subito. “Ci verrete a trovare presto, vero?” domandò facendomi gli occhioni.
“Sì, ci verrete a trovare, vero??” le diede man forte Nick, ancora in braccio a Stana, con un broncetto tenero in volto. “Per favore!!” Come avremmo potuto dirgli di no? Si erano pure coalizzati!
“Certo che verremo a trovarvi” rispose Stana per entrambi con un sorriso dolce. “E se vorrete tornare qui non avrete che da chiedere. Sarete sempre i benvenuti.” Nicholas sorrise felice e le si attaccò al collo. Sentii una leggera tirata alla mia mano e guardai in basso, dove la piccola Phoebe cercava di attirare la mia attenzione.
“La prossima volta che ci vediamo portate anche i vostri figli?” domandò innocentemente. La mia mascella cadde da qualche parte e il mio cuore prese a battere velocemente. Sentii Stana accanto a me trattenere il respiro. Avrei scommesso qualunque somma che era arrossita. D’altro canto io ero impallidito. Ma che…??
“Phoebe!!” la richiamò subito suo padre.
“F…figli??” riuscii a balbettare dopo qualche secondo.
“Tesoro, noi… noi non abbiamo figli…” rispose Stana. Potevo sentire chiaramente l’imbarazzo nella sua voce.
“Dio, non siamo neanche ancora sposati!” esclamai, sotto shock, con una mezza risata. Stana mi lanciò uno sguardo strano, come stupito e imbarazzato insieme. Con la coda dell’occhio vidi Tamala e Jon scambiarsi un’occhiata d’intesa. Ma perché… un momento… O cazzo, avevo davvero appena detto ancora??
Mi schiarii velocemente la voce, ma non riuscii ad aprir bocca perché Phoebe, ignara dello scombussolamento che aveva appena provocato, mi precedette.
“Ma allora chi sono i bambini di prima?” domandò dubbiosa e sorpresa. “Quelli di cui parlavate!” aggiunse quando vide i nostri sguardi confusi. “Christine, Nikola, Theodore…”
“Flynn, Dushan e Marko” completò per lei il fratellino. Li guardammo stupiti, la bocca spalancata.
“Che memoria…” mormorai senza riuscire a trattenermi. Quei nomi li avevamo menzionati un paio di volte al massimo nella mattinata. E già li ricordavano! “Phoebe, Nick…” dissi a voce più alta per richiamare la loro attenzione. “C’è stato uno sbaglio. Loro non sono nostri figli. Sarebbero un po’ troppi anche per noi, no?” aggiunsi con tono divertito rivolto a Stana per alleggerire l’atmosfera. Lei mi fece un mezzo sorriso e scosse la testa. “Flynn è mio nipote…” spiegai ai due.
“Mentre gli altri sono i miei fratelli e mia sorella più piccoli” continuò la mia partner.
“Ah, quindi… quindi non state insieme?” domandò ancora Phoebe timida. Io negai col capo.
“No, piccola” risposi dolcemente. “Mi spiace.” Mi spiace veramente avrei voluto dirle, ma non era il caso.
“Però siete bravi a fare la mamma e il papà!” esclamò all’improvviso Nick con un sorriso. Stana arrossì di nuovo. Io mi schiarii la gola imbarazzato.
“Già!” concordò la sorella. “Quando vorrete avere dei bambini, ora avete capito che sapete tenerli!” dichiarò allegra e convinta Phoebe. Forse non aveva afferrato bene il concetto che non eravamo sposati. Ancora
“Ehm… Phoebe, Nick, ora basta disturbare Nathan e Stana!” li riprese Bryan, quasi più imbarazzato di noi. “Su, salutate, così torniamo a casa prima che torni mamma e le facciamo una sorpresa.” I due piccoli esultarono alla notizia. Un ultimo abbraccio, un ultimo bacetto, un ultimo “ciao zio Nathan, ciao zia Stana” e li osservammo trotterellare allegri accanto al padre verso l’uscita.
“Che bambini intelligenti, vero?” commentò Jon con tono dolce affiancandomi. Doveva essersi affezionato un po’ anche lui ai due piccoli. Annuii. Huertas fece un sospiro. Quindi mi diede una pacca sulla spalla. “Beh, allora, amico, avete già deciso quanti marmocchi avere?” domandò ridacchiando. Io trasalii e gli lanciai un’occhiata omicida.
“Jon!!” lo richiamò Tamala con tono di rimprovero. “Non hai sentito?? Non sono neanche sposati…” Stana annuì con lo sguardo, riconoscente. “… ancora!” concluse ghignando. La mia partner le tirò una gomitata e arrossì ancora di più. Io sbuffai.
“Ragazzi, finitela!” esclami seccato. “Mi è scappato...”
“Sai come si chiama questo, tesoro? Lapsus freudiano” dichiarò Tamala convinta. “E sai cosa vuol dire?”
“Che il tuo inconscio sapeva perfettamente cosa stavi dicendo!” rispose Jon ridacchiando e puntandomi un dito alla testa. Io sbuffai di nuovo. Non avevo il coraggio di alzare gli occhi su Stana. Quindi semplicemente mi voltai e rientrai sul set piantandoli lì.
“Ehi, ci siete finalmente!” esclamò Marlowe vedendomi rientrare. “Gli altri?” Feci un cenno col capo verso la porta dietro di me.
“Sono qui fuori” risposi. “Torneranno tra poco, credo…” appena finiranno di ghignare Jon e Tamala e il colorito di Stana sarà tornato più o meno nella norma. Probabilmente la mia partner sarebbe andata a farsi un giro, o per lo meno a prendersi un caffè, prima di incontrare di nuovo quei due simpaticoni.
“Beh, non importa” replicò Andrew con un’alzata di spalle. “L’importante è che ci sia tu. Susan ha già guardato la sua parte. Vieni, così do un copione anche a te...”
 
Venti minuti più tardi stavo finendo di rileggere le mie battute semiseduto sul tavolo dei produttori-osservatori-seguaci di Marlowe posizionato nel loft di Castle. Stavolta solo io e Susan avremmo provato con la candidata per il ruolo di Alexis. Anche perché per quasi tutto il tempo avremmo recitato noi con lei.
D’un tratto un profumo di caffè mi arrivò alle narici e un momento dopo mi ritrovai un contenitore del bar davanti al naso.
“Tieni” disse Stana porgendomi il caffè. “È quello che piace a te” aggiunse un po’ imbarazzata. Io alzai lo sguardo, presi il bicchiere e le sorrisi come ringraziamento. Notai che aveva un contenitore uguale al mio in mano. Come avevo immaginato quindi si era andata a rifugiare nel bar per scappare da Jon e Tamala. Si sedette accanto a me. “Quello è il nuovo copione per i provini?” domandò dopo qualche secondo spiando oltre il mio braccio mentre iniziavo a sorseggiare la mia bevanda.
“Già” risposi. “Restiamo nel loft e proviamo qualche scena padre-figlia e padre-figlia-nonna” aggiunsi con un mezzo sorriso. Avevo come l’impressione che sarebbe risultata molto divertente questa interazione in futuro. Ne avevo già avuto un assaggio dal copione del primo episodio e mi era piaciuto.
“Sembra divertente” commentò infatti Stana. Io annuii. A quel punto calò un silenzio imbarazzato. Ognuno sorseggiava il proprio caffè ed entrambi cercavamo di leggere le battute sul foglio, tanto per fare qualcosa. Poi non riuscii a sopportare più quel silenzio opprimente e quella formalità tra di noi. Scoppiai.
“Senti, mi dispiace per prima” esclamai a bassa voce in modo che non mi sentisse tutto il set. “Non volevo dire quello che ho detto…” Stana aggrottò le sopracciglia. “No, cioè, volevo dire quello che ho detto, ma, insomma, non volevo provocare tutti quei casini e quelle battutine di Jon e Tamala, ma i bambini mi hanno colto di sorpresa e…”
“Ehi, rallenta!” mi bloccò lei ridacchiando. Mi accorsi di aver detto tutto d’un fiato senza respirare. Feci una faccia da cucciolo colpevole. “Ho capito comunque” disse infine la mia partner. Mi voltai a guardarla e vidi che mi sorrideva, anche se un po’ imbarazzata. “Hanno colto di sorpresa anche me” spiegò comprensiva. Poi abbassò lo sguardo. “Forse avremmo dovuto specificare prima chi erano…” aggiunse pensierosa. Io sospirai.
“Sì, in effetti avremmo dovuto dirgli, quando abbiamo nominato Flynn e i tuoi fratelli, che non erano nostri… beh… figli, ma parenti” dissi imbarazzato. “Non so perché non l’abbiamo fatto…”
“Forse perché Nick e Phoebe erano un po’ troppo attivi e dispersivi?” domandò retorica Stana con un mezzo sorriso. In effetti non facevamo in tempo a dire loro qualcosa che già la loro attenzione si era spostata su qualche altra cosa che li interessava. Era anche per questo che eravamo rimasti tanto stupiti che si ricordassero i nomi di mio nipote e dei suoi fratelli e sorella.
“Forse…” ripetei ridacchiando. Ci fu qualche attimo di silenzio, ma non più imbarazzato.
“Comunque avevano ragione… i bambini intendo” disse Stana all’improvviso. La osservai perplesso.
“Su cosa?” chiesi.
“Sul fatto che saresti un buon padre” dichiarò guardandomi e facendomi un piccolo sorriso. Io rimasi con la bocca semiaperta, stupito. “Ho visto come interagisci con i bambini” continuò poi. “Non so se è stata la pratica con Flynn, ma… insomma saresti davvero bravo” concluse arrossendo e spostando lo sguardo verso il pavimento. Io ero ancora immobile a fissarla. Scossi la testa per riprendermi. E sorrisi.
“Anche tu saresti un’ottima madre, sai?” replicai sinceramente facendola voltare di nuovo verso di me. Avevo visto come si era rapportata con Phoebe e Nick. Sarebbe stata davvero una madre fantastica.
Stana si morse il labbro inferiore. I nostri sguardi rimasero legati per diversi secondi. Vedevo il dubbio nei suoi occhi per le mie parole. Ma ancora una volta vedevo anche qualcosa di diverso. Qualcosa che mi attirava verso di lei come un magnete. Qual’era la distanza tra noi, quindici centimetri? E se l’avessi superata? Cosa sarebbe successo?
Non ebbi comunque modo di scoprirlo perché in quel momento Bowman venne a chiamarmi e la nostra bolla perfetta scoppiò. Mi alzai con un sospiro e altrettanto fece Stana. La vidi allontanarsi verso le sedie messe a disposizione per lei, Jon e Tamala dall’altro lato del tavolo. Forse un giorno avrei scoperto cosa sarebbe successo a superare completamente la distanza tra noi due.
Scossi al testa e mi avviai verso il divano del loft dove Susan era seduta a rivedere le sue battute. Scambiammo qualche parola e mi informò che le aspiranti Alexis erano in tutto una trentina. Beh, avevo pensato peggio. Non avremmo dovuto finire neppure troppo tardi.
Rivedemmo insieme il copione. La prima scena consisteva in nonna e nipote che parlavano di Beckett con Castle e lo prendevano un po’ in giro. La seconda era un momento in cui a Castle si accendeva una lampadina per un caso e lo risolveva grazie alle parole della figlia e della madre. Nella terza e ultima invece si sarebbe svolto un dialogo solo tra padre e figlia. Marlowe aveva espressamente chiesto, nell’annuncio per il ruolo, che le aspiranti Alexis fossero tra i 14 e i 16 anni. Una ragazza più grande sarebbe stata poco credibile come figlia di Castle, che in fondo non era così vecchio, mentre una più giovane temeva sarebbe stata poco gestibile. Ci serviva qualcuna che fosse già abbastanza indipendente e sveglia.
Dopo qualche minuto entrò sul set, come al solito, Isabel, l’assistente di Marlowe, per annunciarci che le candidate erano pronte. Andrew dichiarò ad alta voce che iniziavamo e disse alla ragazza di far accedere la prima aspirante. Qualche secondo più tardi entrò una ragazzina sui 14 anni, bassina e con i capelli corti scuri accompagnata dalla madre. Dal portamento capii quasi subito che la ragazza dove essere stata probabilmente quasi costretta a venire al provino. Quindi i casi erano due: o era molto timida, ma amava recitare, oppure, come sospettavo, sua madre sperava diventasse famosa. Dopo pochi minuti compresi che il mio sospetto era purtroppo esatto. Sospirai e mi rassegnai ad attendere che quella madre troppo pretenziosa lasciasse spazio anche alla sua povera figlia per parlare davanti a Marlowe.
 
Un’ora dopo avevamo visto circa otto candidate. Per nostra sfortuna, a un certo punto dovemmo lottare anche con una donna che pretendeva che facessimo il provino a sua figlia. L’unico problema era che la bambina aveva 12 anni. Decisamente troppo piccola per Marlowe. Di quelle otto, solo una ci aveva dato una buona impressione fino a quel momento. Una ragazzina magrolina con i capelli castano chiaro e gli occhi verdi. In realtà, lanciando di sfuggita un’occhiata a Stana, avevo pensato che sarebbe stata più credibile come figlia di Castle e Beckett, se e quando si sarebbero messi insieme, piuttosto che di Castle e un’altra donna.
In quel momento entrò un’altra candidata e io mi riscossi dai miei pensieri. La ragazza aveva dei lunghi capelli rosso acceso e due occhi azzurro chiaro. Un bel mix. Mi stupii però nel vedere dietro di lei, invece che la madre come le altre aspiranti, il padre. Era un uomo piuttosto corpulento, ma aveva un’aria tranquilla. La ragazza di presentò come Molly Caitlyn Quinn, 15 anni, del Texas. A quanto pareva la sua famiglia si era trasferita in California per permetterle di portare avanti il suo sogno di attrice. Sentii che aveva già avuto un ruolo minore in un paio di film e che era stata appena scritturata per doppiare una voce in A Christmas Carol. Sembrava promettente come ragazza. Era un po’ timida, ma rispondeva con ogni volta con maggiore sicurezza. Notai che il padre accanto a lei l’aveva lasciata parlare tranquillamente con Marlowe e Bowman, a differenza di altre madri incontrate prima, senza interrompere. Allo stesso modo però avevo osservato come l’uomo avesse controllato con lo sguardo ogni cosa o persona attorno a sé. Non avrei saputo dire se per curiosità o per accertarsi che nessuno sembrasse un maniaco nel caso l’avessimo presa.
“Ok, Molly, queste sono le tue battute” disse a un certo punto Andrew passandole un copione, già un po’ sgualcito, sul quale erano già segnate le sue frasi con un evidenziatore giallo. Le ripeté la storia di Castle in modo da aiutarla a inquadrare a grandi linee il suo personaggio. Quindi le disse di dare un’occhiata al copione e andare a conoscere me e Susan, che saremmo stati suo padre e sua nonna.
La ragazza a quel punto si voltò verso di noi, che eravamo accanto al divano del loft, e ci venne incontro. Notai che mi guardava con gli occhi sgranati. Vedendola un po’ impacciata, mi feci avanti per primo e allungai una mano sorridendo.
“Ciao, piccola, piacere di conoscerti” la salutai. “Sono Nathan Fillion e lei è Susan Sullivan” dissi facendo un gesto verso Susan accanto a me che le strinse la mano subito dopo.
“Molly Quinn!” replicò a ragazza con un tono in cui riconobbi qualcosa come eccitamento represso. “E, ehm, so chi siete…” ci rivelò arrossendo. “Sono una fan di Firefly e ho visto diverse commedie a teatro in cui lei era presente, signora Sullivan!” Susan sorrise. Qualche giorno prima mi aveva detto che era sempre felice di constatare che qualche buon genitore portava ancora i figli a teatro. Le piaceva recitare al cinema e in tv, ma era il teatro la sua grande passione e quando vedeva ragazzi in sala era al settimo cielo.
“Niente ‘signora Sullivan’, bambina” replicò scuotendo la testa con una mezza smorfia. “Per te sono Susan.” Molly annuì.
“E per me?” chiesi ironico.
“Per te ‘signora Sullivan’ resta valido!” rispose Susan sul mio stesso tono. Io feci un finto broncio e Molly ridacchiò. “Allora, vediamo queste battute?” chiese poi allegramente.
Ripassammo le battute e la ragazza lesse le sue. Ci chiese consiglio su come recitarle, ma noi le suggerimmo, per questa volta, di provare a pensare come il personaggio e di buttarsi. Lei allora aggrottò le sopracciglia e si concentrò sul testo. Io e Susan ci scambiammo uno sguardo divertito. Qualche minuto dopo Marlowe ci domandò se potevamo cominciare. Non voleva mettere fretta alle ragazze in prova, ma ovviamente non aveva un tempo infinito. Molly annuì convinta e noi gli confermammo che eravamo pronti.
La prima scena andò bene. Io e Molly avevamo già deciso di metterci dietro il bancone della cucina a recitare, come se Alexis e Rick dovessero preparare qualcosa, mentre Susan/Martha sarebbe rimasta seduta al bancone. Avevamo come l’impressione che scene del genere si sarebbero ripetute spesso, visti i soggetti. Molly recitò bene. In effetti sembrava proprio una scena familiare.
Per la seconda scena preferimmo sederci sul divano. Beh, io e Molly sul divano, mentre Susan sulla poltrona preparata lì vicino. Anche in questo caso la ragazza fu brava. Inoltre io avevo allungato un braccio sul retro del divano e lei ci si era poggiata sopra come se fosse la cosa più normale del mondo. Come in effetti avrebbe dovuto essere, visto che dovevamo sembrare padre e figlia. A un certo punto, come voleva il copione, schizzai in piedi per andare da Beckett e mi allontanai lasciandole un bacio sulla testa girando dietro il divano.
Siccome c’era un’ultima scena, tornai a sedermi accanto alla ragazza. Stavolta fu un po’ più complicato. Eravamo solo io e Molly e quello che dovevamo recitare era quasi un doppio dialogo. All’inizio Alexis e Rick parlavano di Beckett in senso positivo, anche sfottendo ancora un po’ il povero genitore, ma poi lo scherzo lasciava completamente il passo alla preoccupazione. La ragazza esponeva infatti al padre le sue paure per il suo voler seguire la detective anche nei momenti più pericolosi. Molly però passò bene da una battuta all’altra. Come le avevamo suggerito io e Susan si era buttata, provando a capire come potesse sentirsi Alexis nel pensare che il suo, praticamente unico, genitore rischiava giorno per giorno la vita.
Papà, capisco perché lo fai…” disse Alexis piano. “Ma per favore, stai attento.” Le sorrisi teneramente.
Certo, piccola” le risposi. Quindi l’attirai verso di me e l’abbracciai, lasciandole un piccolo bacio sulla testa appena prima di poggiarvi la guancia sopra. “Tornerò sempre da te. Promesso.” Sentii Molly un po’ rigida, ma potevo ben capirla. In pratica ero uno sconosciuto che la stava abbracciando, anche se da copione. Di certo era andata molto meglio che con una delle ragazze prima che, appena avevo allungato il braccio, si era ritratta quasi schifata. Mi aveva fatto crollare la mia autostima quella e le risate di Jon, Tamala e Stana dietro le mie spalle di certo non avevano aiutato.
Quando finimmo, sorrisi a Molly. Era stata in gamba. Si era inceppata solo un paio di volte in tutto nelle battute. Aveva un’aria da brava ragazza, come avrebbe dovuto essere Alexis, e quei due occhi azzurri simili ai miei avrebbero reso più reale la recita di padre-figlia. Inoltre vedevo che aveva voglia di imparare e non si dava arie. Sicuramente non sarebbe stato pesante lavorare con lei. Sarebbe stata una buona Alexis. E poi mi stava simpatica.
 
Il resto del pomeriggio lo passammo a sentire le rimanenti aspiranti Alexis. Trovammo un’altra madre frustrata che voleva far diventare la figlia un’attrice e incappammo purtroppo anche in un paio di ragazzine snob e superficiali. Una quasi mi schiaffeggiò, credendomi un maniaco sessuale, perché non aveva letto che alla fine dovevo abbracciarla. Un’altra rimase per tutto il tempo a fissarmi la parte di faccia ancora violacea, come se fossi un alieno, senza riuscire a concentrarsi sul copione. Non avevo mica capito però se avesse problemi con me o con i lividi. O magari con il viola. Forse era una di quelle patite di teatro che appena portavi del viola ti linciava con lo sguardo. Boh.
In ogni caso finimmo di sentire tutte le ragazze per le sei di sera. In tutto di buone ne avevamo scovate quattro, di cui una era la piccola Quinn. Marlowe e Bowman ci riunirono, come al solito, per decidere chi sarebbe dovuta diventare Alexis Castle. Ci furono un po’ di discussioni stavolta. Sia io che Susan fummo chiamati in causa per sapere con chi ci eravamo trovati meglio a lavorare. Entrambi rispondemmo con il nome di Molly. A un certo punto vidi un’idea balenare sul viso di Andrew.
“Susan” la chiamò con uno sguardo strano. “Se dovessi tingerti i capelli per Martha, per te sarebbe un grosso problema?” Lei lo guardò sorpresa.
“No, certo che no” rispose confusa. Poi dovette capire il perché di quella domanda perché sorrise. “Assolutamente non avrei problemi a diventare rossa!” esclamò convinta. A quelle parole sgranai gli occhi e mi voltai verso Marlowe speranzoso. In fondo l’ultima parola stava sempre a lui. E l’unica rossa con cui avevamo avuto a che fare era stata proprio Molly. Lo vidi annuire pensieroso, un sorrisetto in volto. Che altro avrebbe macchinato la sua testa stavolta?
“Mm… una casa di rosse…” lo sentimmo borbottare tra sé e sé. “No, anzi una casa di teste rosse! Sì, mi piace!” esclamò all’improvviso allegro. “E poi si può anche non tingere i capelli, ma mettere una parrucca… Sì, si può fare!” dichiarò poi di nuovo tra sé. “Voto per la signorina Quinn!” aggiunse alla fine ad alta voce perché lo sentissimo tutti. Io sorrisi. Ora che Marlowe aveva deciso, altri gli sarebbero andati dietro. E poi chissà che altro aveva architettato per il futuro. Il suo piccolo ghigno non presagiva nulla di buono per il povero Castle.
Dopo una buona mezz’ora, alla fine riuscimmo a raggiungere l’accordo che speravo. La nostra nuova attrice era stata scelta. Molly Quinn era appena diventata la studiosa e decisamente matura Alexis Castle, figlia di Rick.

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Xiao!!! :D
Finalmente c'è l'ho fatta! XD Lo so sono in ritardo! :( Tiratemi pure in testa quello che volete... (purché sia morbido! XD) Scusate ma ho ricominciato con l'università e sto semestre ho come l'impressione mi porterà via un sacco di tempo... -.- Con questo non vuol dire che smetto di scrivere, solo che purtroppo ci metterò un po' mi sa... D: Chiedo perdono fin da ora!!
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto! ;) Al solito ringrazio le mie due compagne di sclerate Katia e Sofia che leggono in anteprima e mi correggono! ;)
Ah, in tutto dovrebbero esserci ancora 4 capitoli della storia... tanto per avvertire... X) Volete scoprire chi sarà il prossimo? ;D
A presto!! :D
Lanie

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Capitolo 7
*** Roy Montgomery ***


Cap.7 Roy Montgomery


Il mattino dopo aver scelto la piccola Molly Quinn per i panni di Alexis Castle, Marlowe chiamò tutto il cast per informarci che avremmo avuto quattro giorni di libertà. A quanto pareva c’erano stati dei problemi con dei set montati male e voleva risolvere la faccenda prima di cominciare con le audizioni per il capitano Roy Montgomery.
Approfittai di quei giorni di quiete per organizzare qualche uscita con vecchi e nuovi amici, Jon e Tamala per primi. Avrei invitato volentieri anche gli altri, ma Susan aveva le ultime repliche di uno spettacolo a teatro mentre Molly doveva andare a scuola e studiare. La persona con cui avrei voluto di più passare il tempo invece era partita. Stana infatti aveva sfruttato quei giorni per tornare a casa dalla sua famiglia.
Ci ero rimasto un po’ male quando me lo aveva comunicato, giusto un’ora dopo la chiamata di Marlowe, ma in fondo potevo capirla. Una volta che avremmo iniziato a girare, saremmo stati troppo occupati per concederci anche brevi periodi di vacanza.
Nel nostro ultimo giorno libero Susan ci invitò tutti a casa sua per cena. Appuntamento era per le sette e mezza, quindi iniziai a prepararmi alle sei. Stavolta riuscii a scegliere a colpo d’occhio gli abiti: jeans blu scuro e camicia azzurro chiaro. Andai quindi in bagno e mi feci la barba, diventata decisamente troppo lunga. Lo ammetto, in quei giorni l’avevo trascurata parecchio. Secondo Tamala mi dava un tocco più affascinante, e su questo non potevo darle torto, ma io mi trovavo meglio sbarbato. Con gioia notai che finalmente il livido violaceo sulla mia faccia, a furia di crema, era diventato niente più che una macchietta sullo zigomo e non mi dava neanche più fastidio. Finita l’operazione rasoio, mi infilai sotto la doccia.
Alle sette mi guardai allo specchio soddisfatto, aprendomi un paio di bottoni al collo della camicia e sistemandomi i capelli. Ero pronto a far sfoggio di tutto il mio fascino. Presi la giacca di pelle nera e recuperai una bottiglia di vino rosso insieme a portafoglio e chiavi.
In macchina azionai il navigatore satellitare con l’indirizzo di Susan. Con un piccolo bip il telefono mi avvertì che sarei arrivato a destinazione nel giro di venti minuti. Ingranai la marcia e partì. Tra un’occhiata al navigatore e una alla strada, mi chiesi se ci sarebbe stata anche Stana. Quando lo avevo chiesto a Susan, mi aveva detto che se la mia partner fosse riuscita a tornare in tempo dal Canada sarebbe venuta. Feci un mezzo sospiro. Conoscevo più o meno i voli Los Angeles-Toronto. Se Stana avesse voluto passare un po’ più di tempo con i suoi, non sarebbe arrivata che in serata e quindi non sarebbe mai riuscita a venire. Ma se avesse voluto passare la serata con noi, allora… Scossi la testa e mi concentrai sulla strada.
Come comunicatomi in precedenza dal navigatore, venti minuti dopo trovai l’indirizzo esatto. Rallentai e vidi che la casa di Susan era una villetta bianca a un piano con il tetto spiovente. Un giardino ben curato, con alcuni cespugli di fiori sul davanti, sembrava girare tutto attorno all’abitazione.
Mi misi alla ricerca di un posto per parcheggiare. Sul ciglio della strada, proprio sul davanti e nei pressi della casa, notai alcune auto che mi parvero familiari. D’un tratto tra queste ne riconobbi per certo una. Sorrisi come un idiota senza riuscire a trattenermi. Stana era tornata prima dal Canada per la cena.
Poco dopo fermai la macchina e mi diedi un’ultima controllata ai capelli dallo specchietto retrovisore. Soddisfatto, presi la bottiglia di vino sul sedile passeggero e mi diressi alla villetta. Superai il cancello aperto e raggiunsi la piccola veranda seguendo la stradina sterrata creata apposta per non calpestare l’erba.
Avvicinandomi, notai che la finestra che dava sul davanti, esattamente accanto alla porta, era illuminata. Poiché iniziava già a fare buio, potei sbirciare l’interno della casa. Sembrava dare su un salottino in cui intravedevo delle ombre girare. Mi imposi si smettere di ficcanasare e suonai il campanello della porta. In fondo nel giro di qualche secondo sarei entrato pure io, no? Curioso com’ero però, non potei fare a meno di allungare di nuovo il collo verso la finestra. L’attimo successivo la porta si aprì di scatto e mi rizzai subito, imbarazzato per essere stato colto in flagrante. Poi registrai chi avevo davanti, il suo viso, il suo vestito, e mi cadde la mascella. Davanti a me c’era Stana, un sorriso enorme in volto e un abito chiaro a maniche corte che le fasciava il corpo enfatizzando le sue curve. Era stupenda.
“Ehi, ciao Nathan!” La sua voce allegra mi risvegliò. Scossi la testa e tentai di riprendere a respirare normalmente. Il problema fu che non ci riuscii. Stana infatti l’attimo dopo si avvicinò di un passo a me e mi stampò un bacio sulla guancia sana. Molto vicino all’angolo della bocca. Forse non l’aveva fatto apposta, visto che questa sera sembrava aver abbandonato i soliti tacchi alti per delle scarpe basse. Semplicemente non ci arrivava più in alto. Ma un’occhiata ai suoi occhi mi fece ricredere di quel pensiero. Cos’era quello sbirluccichio sospetto? Malizia? Voglia di provocarmi? Era possibile? E quel rossore leggero appena apparso sulle sue guance invece? Come avrei dovuto interpretarlo? Che davvero non l’aveva fatto apposta?
La vidi attendere tranquillamente, ma con un piccolo sorrisetto, una mia risposta. Se non fossi stato troppo impegnato a tentare di regolarizzare i battiti del mio cuore, sarei svenuto. Dio, non poteva fare così come se nulla fosse! Mi avrebbe ucciso!
“Ciao, Stana…” riuscii alla fine a replicare a mezza voce con la bocca ancora semiaperta dallo stupore.
“Ragazzi, se volete un po’ di privacy vi conviene andare in auto!” disse all’improvviso a voce alta Jon. Vidi la sua testa spuntare dietro le spalle di Stana all’interno della casa. Una serie di risate seguì la battuta.
“Anche perché tra poco arriverà anche Molly e non mi sembra il caso di sconvolgere quella povera ragazza già da ora!” gli diede man forte Tamala ridacchiando. Sbuffando tornai in me. Non avevo idea di quanti episodi avremmo fatto insieme, ma mi preoccupava il fatto che fossimo già a questo punto con quei due simpaticoni, senza nemmeno aver iniziato le riprese.
Susan passò in quel momento da quella che immaginai essere la cucina al salone.
“Nathan, ben arrivato!” mi salutò allegra. “Entra pure!” aggiunse facendomi un cenno con la mano. Stana si spostò dalla porta per permettermi di passare. Io feci un paio di passi in avanti e salutai i presenti riuniti nel salone appena a sinistra della porta. C’erano già Jon e Tamala ovviamente, poi Marlowe, Terri, Bowman e una donna e un uomo che non riconobbi. Prima di avvicinarmi a loro, porsi la bottiglia di vino che avevo ancora in mano a Susan. Mi ringraziò felice notando l’etichetta. Doveva essere un’intenditrice di vini.
Sentii Stana chiudere la porta dietro di me. Notai che gli altri erano tutti distratti e io ne approfittai. Prima che la mia partner potesse allontanarsi, le passai un braccio intorno alla vita e la tirai verso di me. La sentii irrigidirsi, più per la sorpresa che per altro. Quindi le lasciai un bacio sulla guancia vicino all’angolo della bocca, proprio come un momento prima aveva fatto lei.
“Bentornata, Stana” le sussurrai sull’orecchio. Il suo odore mi arrivò intenso al naso, tanto che chiusi per un momento gli occhi per godermelo fino in fondo. La sentii rabbrividire leggermente contro di me. Poi, prima che potesse anche solo capire quello che era appena accaduto, la lasciai andare e, come se nulla fosse, mi diressi in salone. Con la coda dell’occhio vidi che lei era rimasta immobile all’ingresso, la bocca semiaperta e le sopracciglia aggrottate. Non riuscii a trattenere un ghigno. Quella sera ero in vena di giocare. Forse perché ero felice di ritrovare tutte le persone con cui avrei lavorato e con cui stavo instaurando un rapporto così bello. O forse solo perché lei era tornata, anche se erano passati solo pochi giorni dall’ultima volta che l’avevo vista. Quando qualche secondo dopo Stana si avvicinò al gruppo, mi lanciò un’occhiataccia. Il momento dopo però mi rivolse un sorriso perfido. Ops. Forse non avevo tenuto conto del fatto che mi ero messo a giocare con il fuoco.
 
Dieci minuti dopo il mio arrivo suonarono alla porta. Questa volta fu Susan stessa che andò ad aprire. Nel frattempo io avevo cominciato a scherzare con i presenti e a conoscere le due nuove persone. La donna si chiamava Dusty Dawn Bowman ed era la moglie di Rob. Sembrava diversi anni più giovane di lui, probabilmente poco più di quindici anni. Era una bella donna, alta, snella e con lunghi capelli biondi. A quanto pareva aveva recitato in un film, ma aveva capito che per lei era meglio continuare il suo attuale lavoro, cioè igienista dentale. Scoprii in quell’occasione che avevano anche un figlioletto di due anni appena compiuti. L’uomo invece si presentò come Connell Cowan, marito di Susan. Rimasi stupefatto da quella scoperta. Che ricordassi, lei non c’è ne aveva mai parlato. L’avevo però già sentito nominare e quando mi disse la sua professione capii perché. Era uno psicologo, ma anche un autore di libri sulla stessa materia. Dovevo essermi imbattuto in qualcosa di suo in libreria. Era un uomo alto, con i capelli brizzolati tagliati a spazzola e un paio di occhiali rettangolari sul naso. A vederlo sembrava una persona molto seria e disciplinata, ma dopo solo poche chiacchiere si capiva che era molto gentile e ben disposto verso gli altri.
Il saluto raggiante di Susan ci fece voltare verso l’ingresso. Vidi la piccola Molly sulla porta, un po’ imbarazzata, e subito dietro di lei un uomo che riconobbi subito come il padre. A differenza dei provini, in cui il signor Quinn era molto rilassato, questa volta sembrava a disagio tanto quanto la figlia, se non di più. Susan li fece accomodare in casa e li mandò direttamente da noi. Sorrisi dolcemente a Molly quando il suo sguardo si posò su di me e le feci l’occhiolino. Lei mi sorrise di rimando, un po’ dell’imbarazzo che scivolava via.
Poco dopo, poiché eravamo arrivati tutti, Susan ci fece fare un rapido giro della casa per poi annunciarci che potevamo metterci a tavola. La seguimmo in sala da pranzo, dove la donna indicò a ognuno di noi i posti a sedere su un lungo tavolo rettangolare già apparecchiato. Andrew e il signor Cowan occuparono i due capotavola. Volere della sorte, o più probabilmente chiaro volere della padrona di casa, io e Stana finimmo seduti vicini. Oltre alla mia partner, accanto a me sedeva Molly e dopo di lei suo padre. Davanti a me invece c’era Jon. Susan era davanti a Stana, mentre Tamala e Terri erano rispettivamente di fronte a Molly e a suo padre.
Fin da subito mi accorsi che eravamo un po’ stretti, nonostante il tavolo fosse abbastanza lungo e largo. O forse ero io a sentirmi un po’ stretto visto che la gamba di Stana era entrata in contatto con la mia dal primo istante, strusciandola appena. E lei sembrava non avvertire nulla. Eppure la gamba di Molly stava tranquillamente nel suo spazio senza invadere il mio. Va bene che era ancora piccola, ma non è che neanche Stana fosse questo gigante.
Ero ancora preso dalle mie supposizioni mentali quando sentii il ginocchio della mia partner strusciare di nuovo contro la mia gamba. Trattenni per un momento il respiro e deglutii. Ok, poteva non essersene accorta, eravamo stretti e tutto…
“Ehi, amico tutto bene?” mi chiese Jon vedendomi irrigidire improvvisamente mentre mi mordevo il labbro inferiore. Scossi la testa per riprendermi e mi schiarii la gola. Per fortuna in quel momento Stana spostò la gamba. Sospirai appena, sollevato.
“Sì, sì tutto bene, Jon” replicai con un mezzo sorriso per tranquillizzarlo. Mi guardò con un sopracciglio alzato, scettico, ma non fece in tempo a chiedermi altro perché Susan portò in tavola gli antipasti. Approfittando della sua distrazione, lanciai un’occhiata a Stana. Seriamente, poteva non essersi accorta di niente? Un attimo dopo capii che il mio dubbio era fondato. Stana sapeva esattamente quello che faceva, perché, sentendo il mio sguardo, si girò e mi fece un sorrisetto divertito. Deglutii. Sarebbe stata una lunga cena. Sperai solo di non strozzarmi durante il pasto.
 
La cena fu semplicemente fantastica. Sia per il cibo che per la compagnia. Susan aveva cucinato un sacco di cose, dall’antipasto al dolce, ed era tutto buonissimo.
Chiacchierai molto con tutti, essendo praticamente al centro del tavolo. Ebbi anche l’occasione di parlare un poco con la piccola Molly, così da conoscerla meglio, oltre che scambiare un paio di parole con suo padre. Ovviamente l’aveva accompagnata quella sera per non lasciarla da sola in una casa piena di adulti appena conosciuti. Insomma, avremmo potuto anche essere dei pazzi psicopatici pervertiti. In effetti, se ci pensavo, forse guardare me e Jon lanciarci molliche di pane durante il pasto non doveva aver giovato molto alla nostra immagine… Sembravamo dei ragazzini. Senza contare che Stana e io continuammo per tutto il tempo a stuzzicarci a vicenda, a volte ripresi, a volte incitati dagli altri.
Non avevo idea di cosa le fosse successo in Canada, ma sembrava decisamente più spigliata di quando se ne era andata. Non che io mi lamentassi, ovvio. Ma avevo la sensazione che qualcosa la spingesse a comportarsi così. Voglio dire, non che di solito non ci stuzzicassimo, anzi, ma quella sera stavamo decisamente dando il nostro meglio. Anche senza volere a volte. Infatti, ad esempio, durante gli antipasti io presi una tartina di un gusto e Stana di un altro che a me non ispirava molto. Che posso dire, più che paté d’olive nere mi sembrava poltiglia di catrame! Lei però aggiunse non so cosa alla tartina e mi disse di assaggiarla. Dopo un po’ di proteste, cedetti. Allora lei, felice della vittoria, me lo posizionò davanti alla bocca senza pensarci. Non potei far altro che mangiarlo dalle sua mani, premendo per un momento le mie labbra sulle sue dita e muovendomi lentamente a ritroso, senza smettere mai di guardarla negli occhi. Era arrossita istantaneamente, sotto lo sguardo ridacchiante di Jon e Tamala e degli altri presenti. Stana, per ripicca, al dolce mi prese dalle mani una fragola della mia torta, che avevo già addentato a metà, e se la mangiò con fare sensuale. Come avessi fatto a non perdere il controllo e a non eccitarmi troppo, rimane un mistero. E tutto questo comunque senza contare le battutine e i vari strusciamenti di gambe durante tutta la cena!
Alla fine mi sentivo felicemente ben sazio di chiacchiere, tartine, pasta, tacchino e torta cioccolato e fragole. Ovviamente non mancarono le battute sulla mia fame e la mia pancia. Uff, io non avevo la pancia! Feci finta di non sentirle finché, al dolce, non prese a sfottermi anche Molly, ormai evidentemente a suo agio nel gruppo. La guardai a bocca spalancata, mentre tutti gli altri ridevano. Stana mi diede anche una pacchetta di incoraggiamento sulla spalla mentre ancora un po’ si piegava in due dal ridere. Bella partner che avevo.
Una volta finita la cena, dopo il consueto giro di caffè, rimanemmo un po’ a chiacchierare a tavola, quindi aiutammo Susan a recuperare piatti e posate sporche e tornammo in salone. Fu in quel momento che diedi un’occhiata alla stanza. Notai che rispecchiava i suoi due occupanti. Era pieno di oggetti, nuovi e d’epoca, ma l’ambiente non era soffocante, anzi era accogliente e caldo. Ogni riquadro, foto o statuina, ogni cosa insomma, aveva l’aria di avere una storia dietro. Memorie di una vita vissuta. Più, mi accorsi in quel momento, due gatti grigiastri e sonnacchiosi acciambellati in un angolo della sala.
“Ehi, e questi due inquilini?” domandai scherzoso a Susan indicando i due animali.
“Sono gatti, Fillion” fu la risposta pronta di Stana, apparsa all’improvviso alle mie spalle. “Sai, quei solitari animaletti che fanno le fusa.” Feci una smorfia alla sua battuta.
“Lo so, cosa sono i gatti, grazie!” replicai. “Esseri graffianti che lasciano peli ovunque e cercano sempre da mangiare!” Mi guardò stupita.
“Ma tu non hai un gatto??” Annuii.
“Due” precisai. “Ma io li odio.” Tutti mi guardarono interrogativi. Sbuffai. “Una mia ex me li ha portati in casa, mi ha costretto ad accettare che restassero e quando se ne è andata non se li è ripresi” confessai. Ci fu un momento di silenzio. Poi tutti partirono a ridere. Io mi imbronciai.
“Mollato dalla ragazza e con due figli-gatti a carico!” esclamò Jon tra una risata a l’altra. “Amico, ti sei fatto fregare!” Sbuffai di nuovo.
“Vado a prendere un po’ d’aria…” borbottai andando verso il retro della casa, dove prima Susan ci aveva mostrato un piccolo giardino. Quelli là dentro dovevano sbollire la ridarella e io avevo assolutamente bisogno di riprendermi un momento per la cena, ma soprattutto per Stana.
Uscii sulla veranda sul retro, completa di sedia a dondolo per due, e mi incamminai di qualche passo dentro il prato. L’aria fresca della notte mi fece bene. In casa faceva caldo e quello fu come un toccasana. Chiusi per un momento gli occhi e presi un respiro profondo. Certo, l’aria di Los Angeles non era la più salutare, ma per una volta potevo far finta di niente. Anche perché quel piccolo giardino recintato e nascosto alla vista delle abitazioni vicine sembrava quasi uno di quei luoghi da favola, quelli dove ti capita di veder spuntare da un cespuglio uno gnomo o un folletto.
Riaprii gli occhi e notai che il prato era poco illuminato dalla casa, ma molto dalla Luna. Alzai lo sguardo e mi trovai davanti un cielo pulito come non ne vedevo da tempo. O che forse semplicemente come non mi ero mai soffermato a vedere nell’ultimo periodo. La Luna spendeva luminosa tra le altre migliaia di stelle. Sospirai. Una volta mi piaceva l’astronomia. Da bambino potevo stare ore a osservare il cielo canadese insieme a mio fratello Jeff. Poi purtroppo non ne ebbi più il tempo.
Con un po’ di fatica individuai il Gran Carro e il Piccolo Carro insieme alla Stella Polare. Ritrovai anche la Cintura di Orione e la costellazione del Cigno. Ci fossero state meno luci dalla città, ero sicuro che in una notte come quella la Via Lattea sarebbe stata incredibile.
“Appassionato di astronomia?” Una voce mi fece sussultare. Mi girai e vidi Tom Quinn, il padre di Molly, sulla veranda a osservare il cielo con un live sorriso in volto. Abbassò lo sguardo e lo puntò su di me. “O semplicemente fuggiasco?” Sorrisi imbarazzato.
“Entrambi?” replicai passandomi una mano sul collo. Il signor Quinn ridacchiò, quindi fece qualche passo in avanti uscendo dalla veranda per raggiungermi.
“Sa, signor Fillion…”
“Può chiamarmi Nathan” lo fermai. Lui annuì appena e mi sorrise.
“Tom” replicò semplicemente. “Stavo dicendo… sai, Nathan, la mia bambina da piccola adorava il cielo” mi disse rialzando gli occhi verso le stelle. Nella sua voce c'era un lieve accento irlandese e nel suo tono qualcosa di nostalgico. “Mi chiedeva sempre nuovi libri sulle costellazioni e anche binocoli e un telescopio per le sue esplorazioni celesti.” Sorrisi appena. Potevo immaginarla una piccola Molly accanto a un grande cannocchiale astronomico. Era un’immagine tenera. “Le dicevo che doveva affidare un suo sogno a una stella perché si avverasse e lei ogni notte cercava la sua ‘stella-porta-sogni’, come la chiamava lei…” Sorrise dolcemente, ma poi tornò più serio e abbassò di nuovo lo sguardo su di me. All’improvviso mi sentii sotto esame. Le rughe sul suo volto sembrarono più profonde in quel momento. “Nathan, io non potrò essere qui mentre voi girerete. Ho bisogno di sapere che tu veglierai su di lei… proprio come Castle farebbe con Alexis.” Rimasi per un momento spiazzato dalla sua richiesta, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati. Mi stava affidando sua figlia. Sbattei le palpebre per riprendermi, poi annuii.
“Mi prenderò cura di lei come se fosse davvero mia figlia. Te lo prometto, Tom” dichiarai serio. Il padre di Molly fece un mezzo sorriso. Quindi mi allungò una mano. Dopo un momento gliela strinsi. Era un patto, il nostro. L’avrei controllata e protetta. Potevo farlo. Potevo prendermi questa responsabilità. Inoltre Molly sembrava una ragazza coscienziosa e con la testa sulle spalle. In fondo forse non avrei dovuto fare neanche tanto lavoro.
Tom mi sorrise ancora, più sereno, quindi mi lasciò la mano.
“Beh, è il caso che torni dentro. Non vorrei che Molly si scoli una bottiglia di vino da sola…” Sbarrai gli occhi. Tom ridacchiò. “Scherzo, Nathan, tranquillo! Mia figlia è una ragazzina intelligente. Non avrai problemi con lei” aggiunse, quasi avendomi letto i pensieri dalla testa. Detto questo, mi fece l’occhiolino e rientrò in casa, lasciandomi col batticuore in giardino. Presi un respiro profondo per calmarmi. Quindi ridacchiai e scossi la testa. Mi stava simpatico quell’uomo.
Guardai verso la porta, prendendo in considerazione l’idea di rientrare. Però stavo troppo bene lì fuori. Sì, amavo la compagnia e le feste, ma allo stesso modo a volte non mi dispiaceva un po’ di tranquillità. Soprattutto quando si trattava di raffreddare i bollenti spiriti derivanti dal flirtare con Stana. E poi quella notte era davvero bella. Decisi di darmi ancora qualche minuto, poi sarei rientrato.
Mi rimisi a osservare il cielo. C’era qualcosa di incredibilmente bello in quello spazio vuoto. Per questo ero stato felicissimo di interpretare il capitano Malcolm Reynolds in Firefly. Anche se per poco, mi aveva permesso di volare con lui in quello spazio immenso, fino a raggiungere i punti più lontani e sperduti della galassia. Certo, non avevamo incontrato alieni, ma il solo fatto di aver creduto di essere stato su una nave spaziale per me era abbastanza.
“Ehi, tutto bene?” Una voce, che ero certo avrei riconosciuto tra altre mille, mi risvegliò dai miei pensieri. Mi voltai e mi ritrovai davanti Stana. Mi guardava un po’ preoccupata dalla veranda. Le sorrisi.
“Sì, a posto” replicai.
“Non sei più tornato dentro…” aggiunse la mia partner facendo qualche passo nella mia direzione, uscendo dalla veranda e affiancandomi. Alzai appena le spalle, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Non potevo certo dirle che la causa principale del mio allontanamento era lei!
“Scusa, stavo osservando il cielo” spiegai rialzando il naso verso le stelle. “È molto pulito stasera.” Anche Stana alzò gli occhi. Io ne approfittai per osservarla con la coda dell’occhio. Era bellissima alla debole luce della luna. Solo parte di lei era illuminata dalla casa. Dopo qualche secondo sorrise appena e annuì.
“Hai ragione, è bellissimo…” sussurrò alla fine. Riabbassò gli occhi su di me e si accorse che la stavo guardando. Anche con la luce così tenue, riuscii a vedere che era arrossita. Una folata di vento improvvisa mi fece stringere la testa tra le spalle. Notai Stana rabbrividire.
“Hai freddo? Vuoi che torniamo dentro?” le domandai preoccupato. Io almeno avevo la camicia a maniche lunghe, il suo vestito invece lasciava le braccia nude. Scosse la testa.
“Era solo un po’ di vento” rispose. Rimanemmo qualche secondo in silenzio. La osservai che rialzava gli occhi al cielo, in quel momento persa nei suoi pensieri.
“Come stai?” mi azzardai a chiederle alla fine. Scosse di nuovo la testa.
“Sto bene, non ho freddo e…”
“Non mi riferivo a quello” la interruppi. Mi guardò aggrottando le sopracciglia, confusa. Mi schiarii al gola un po’ nervoso. Poi feci un cenno con la testa verso la casa di Susan. “Mi chiedevo solo cosa avessi stasera. Non ti sei mai comportata così con me. Insomma, noi due scherziamo e ci prendiamo in giro da quando ci conosciamo, certo, ma… ma stasera c’è qualcosa di diverso. Sembri più… non so come spiegarlo… euforica?” Stana sgranò per un momento gli occhi. Quindi li abbassò verso l’erba, imbarazzata, e si morse il labbro inferiore. “È andato… è andato tutto bene dai tuoi, vero?” domandai poi incerto. Non volevo farmi gli affari suoi, ma ero certo che ci fosse qualcosa sotto. Stana si mosse nervosamente spostando il peso da un piede all’altro, ma non aprì bocca. “Scusa, non sono affari miei…” mormorai alla fine dopo qualche secondo pentendomi della mia curiosità. “Forse è meglio se rientriamo” aggiunsi. Cercai di nascondere il tono rassegnato. Stavo già per voltarmi quando lei mi fermò.
“No, aspetta!” La guardai negli occhi e vidi un po’ di tristezza. Che avevo combinato? Perché non avevo tenuto chiusa la mia boccaccia?? “Hai ragione, qualcosa… qualcosa è successo mentre ero in Canada” mi confessò alla fine tutto d’un fiato. Notai che si stava torturando le mani con gesti agitati. Aggrottai le sopracciglia perplesso e preoccupato, ma non dissi niente per lasciarle il suo tempo per continuare. “Ecco, si tratta… si tratta di un mio zio. Lui è… è morto giusto il giorno dopo il mio arrivo…” Aprii la bocca per parlare a quella rivelazione, ma non sapevo neanche io cosa dire. Mi venivano in mente solo frasi banali e scontate. Richiusi la bocca e la guardai dispiaciuto. Quindi feci la prima cosa che mi parve davvero sensata. Feci un passo in avanti e la abbracciai.
All’inizio sentii Stana rigida contro di me, sorpresa dal mio comportamento. Ma dopo un momento ricambiò la stretta stringendo le braccia intorno al mio torso, afferrando la mia camicia tra le mani e affondando il viso nel mio petto. Appoggiai il mento alla sua testa. Dio, il suo odore mi avrebbe fatto impazzire se non fosse stato un momento tanto delicato.
“Mi dispiace…” mormorai alla fine dopo diversi secondi. Sentii le sue spalle muoversi appena. Stava singhiozzando piano. La strinsi ancora di più a me. “Perché non me ne hai parlato?” domandai poi un po’ ferito. Ci eravamo sentiti per telefono e mi aveva assicurato che andava tutto a meraviglia. Alzò appena le spalle.
“In realtà mio zio non lo vedevo da un paio di anni…” mi confessò alla fine un po’ a fatica. Sentii la camicia un po’ umida nel punto in cui Stana era appoggiata. Stava piangendo. “Ma quando ero piccola abitava vicino a noi e lui era sempre stato l’anima delle feste e tutto… Sempre il più allegro, il più sorridente, il più ottimista per la vita. Era una di quelle persone che ti convinci possano vivere in eterno, sempre con il sorriso sulle labbra. E invece… Ecco, lui non avrebbe mai voluto che piangessi… anzi mi avrebbe detto che sto sprecando tempo e che se volevo ricordarlo dovevo farlo vivendo intensamente come faceva lui, ogni giorno, festeggiando la vita…” A quelle parole capii il suo comportamento della serata. D’istinto le lasciai un piccolo bacio sulla testa.
“Se volevi sentirti viva avresti potuto dirmelo subito!” dissi cercando di tirarla un po’ su. “Conosco proprio il metodo perfetto. Non prevede alcun tipo di abito e si fa comodamente sdraiati a letto!” La sentii sbuffare divertita sulla mia spalla prima che mi desse un leggero colpo con la mano al braccio. Ridacchiai. In quel momento Stana rabbrividì di nuovo per una nuova folata di vento e sentii che aveva la pelle d’oca per il freddo. Iniziai a passarle automaticamente le mani sulla schiena e sulle braccia per scaldarla. Dopo qualche secondo si staccò da me, un po’ rossa in volto, strusciandosi il viso e gli occhi con le mani per eliminare le lacrime. Già mi mancava il suo calore, il suo corpo stretto al mio…
“Scusa, io… mi sono lasciata un po’ prendere e… e ti ho anche rovinato la camicia…” iniziò a scusarsi Stana vedendo poi la macchia scura e umida sulla mia maglia. “Mi dispiace…” La bloccai posandole le mani sulle guance. Le punte delle mie dita si intrufolarono tra i suoi capelli morbidi che aveva sparati in tutte le direzioni. Con i pollici le pulii i residui di lacrime, mentre lei mi guardava con gli occhi sgranati, e ancora un po’ lucidi, attenta a ogni mia mossa.
“Va tutto bene, tranquilla” le dissi con un sorriso. “Avevi solo bisogno di sfogarti. Spero solo di essere stato un degno cuscino…” aggiunsi con una mezza smorfia solo per farla ridere. Come avevo previsto, Stana non riuscì a reprimere un piccolo sorriso. Poi si morse il labbro inferiore.
“Un ottimo cuscino, direi…” aggiunse piano, maliziosa. Mi partì un battito. Dio, quanto avrei voluto di nuovo stringerla a me, colmare quella distanza tra di noi. Poi però l’espressione di Stana si fece più seria e io ritornai alla realtà. “Grazie” sussurrò guardandomi negli occhi. Le sorrisi teneramente.
“Qualunque cosa” mormorai. “Sappi che se avrai bisogno ci sarò per qualunque cosa, anche la più stupida. Sempre. Ok?” Mi osservò per un momento, quindi annuì piano. Sarebbe stato approfittare di lei, di un suo momento di debolezza, se mi fossi avvicinato in quel momento e l’avessi baciata? Ma non lo seppi mai, perché un’altra folata di vento ci sorprese e Stana rabbrividì di nuovo. “Forse è il caso che rientriamo davvero questa volta” dissi a voce più alta staccandomi da lei. Cos’era quello sguardo nei suoi occhi? Frustrazione? Delusione? Un secondo dopo però scomparve e io pensai di essermelo immaginato.
Stana annuì di nuovo e mi sorrise. Quindi mi precedette all’interno della casa. Io presi un respiro profondo e la seguii.
 
Il resto della serata lo passammo tranquilli e al caldo nel salotto di Susan. Anche la macchia umida sulla mia camicia scomparve in fretta. Dopo la nostra conversazione in giardino, Stana sembrava più rilassata e serena. Non smettemmo di stuzzicarci, ma eravamo tornati ai nostri soliti livelli. Ovviamente i presenti non si risparmiarono in battute su quello che avremmo potuto fare su quel “comodo prato là fuori”. Me ne curai poco di loro comunque. Sbuffai e risposi a tono, aiutato spesso anche dalla mia partner, ma internamente sorridevo per quella conversazione privata che avevamo avuto. Nonostante non ci conoscessimo da molto, Stana si era aperta con me. Insomma, avrebbe anche potuto mandarmi al diavolo e dirmi di non ficcare il naso negli affari degli altri. Invece mi aveva parlato, si era confidata e aveva anche ricambiato il mio abbraccio!
Per il resto della sera cercai di allontanare quel ricordo dalla mia mente. Il pensiero del corpo caldo e morbido di Stana attaccato al mio non mi avrebbe certo aiutato a restare concentrato. Volevo evitare di dover correre a farmi una doccia fredda nel bel mezzo della serata.
Tornai a casa che era mezzanotte passata. Avremmo fatto anche più tardi, ma Marlowe ci aveva giustamente ricordato che l’indomani avremmo dovuto essere agli studios alle nove in punto e che inoltre Molly aveva scuola alle otto e mezza. Era meglio arrivare svegli.
Chiusi la porta, mi tolsi la giacca e mi stiracchiai per bene. Andai in cucina a prendermi un bicchiere d’acqua e lo buttai giù in un sorso. Poi mi fermai in salone, indeciso se accedermi un po’ la tv o meno. Non ero troppo stanco, ma non avevo voglia di stare molto in piedi. Decisi che un libro sarebbe stata la scelta migliore. Andai in camera e mi cambiai, infilandomi un paio di pantaloni della tuta e una maglietta a maniche corte che usavo per dormire. Passai un momento dal bagno e poi mi diressi alla libreria per scegliere cosa da leggere. Dopo diversi minuti di indecisione, mi ricordai che in quei giorni avevo comprato un libro di James Patterson che però non avevo ancora iniziato. Tornai in salone e sul tavolo vidi il sacchetto con il volume abbandonato. Tirai fuori La tana del lupo e me ne rientrai contento in camera. A quel punto accesi la luce sul comodino, mi infilai sotto le coperte e mi persi tra le indagini del detective Alex Cross.
 
Il mattino dopo arrivai agli studios un po’ assonnato. Ero tornato presto a casa, ma il libro mi aveva preso talmente tanto che senza accorgermene avevo fatto le due di notte. Come ormai era diventata mia abitudine, passai dal bar e presi due caffè, uno per me e uno per Stana. Quindi andai sul set del distretto, dove avremmo fatto i provini per il capitano Montgomery. Una volta arrivato, notai subito in un angolo Marlowe parlare nervosamente con Bowman e uno della crew. Continuava a indicare diversi fogli che aveva sparsi davanti a lui sopra un tavolo. Poi vidi Stana osservare la stessa scena poco lontano da me insieme a Jon, Tamala, Susan e Terri. Mi avvicinai a loro.
“Giorno” li salutai. Loro si accorsero di me e mi salutarono a loro volta mentre io passavo uno dei due contenitori di caffè a Stana.”Che succede?” domandai poi facendo un cenno con la testa verso Andrew.
“Non sono ancora riusciti a mettere a posto il set” rispose Terri con un sospiro. “Sai che ogni parete deve essere rimuovibile per le varie riprese, no?” Annuii. “Beh, devono aver sbagliato qualcosa nel montarli perché alcune non si muovono mentre altre appena le sfiori vengono giù come niente.”
“Com’è che non ci sono ancora cadute addosso, allora?” domandò Jon sorpreso.
“Pura fortuna, credo” replicò Terri con gli occhi puntati sul marito. Il tono della sua voce nascondeva poco una nota tesa per quello che sarebbe potuto accadere. “Ho l’impressione che i vari scatoloni ancora presenti e attaccati alle pareti gli abbiano impedito di venire giù. Qualche giorno fa però dovevano fare una prova di ripresa nella sala interrogatori e appena hanno spostato gli oggetti davanti è venuta giù. Si sono accorti che qualcosa non teneva e, controllando, hanno scoperto che lo stesso problema c’era anche in altri pannelli. Ora, questi non sono pesantissimi e finché è il distretto, che ha poco o nulla sulle pareti, è ok, ma sarebbe potuto accadere a casa di Castle e allora non so…” Annuii comprensivo. Capivo le sue paure. Il loft dello scrittore era pieno di libri e scaffali pieni di roba come ce ne erano in ogni casa. Se fosse venuto giù uno di quei pannelli, con chiunque di noi sotto, non sarebbe stato propriamente salutare.
Dieci minuti dopo tutti quelli che avrebbero dovuto seguire i provini erano presenti. Aspettavamo solo che Marlowe finisse con Bowman e il tecnico. Finalmente sembrarono trovare l’intoppo nei pannelli e il regista spedì il tipo della crew a ricontrollare ogni parete del set. Noi potemmo a quel punto cominciare, ma non prima che Andrew ci avesse avvertito severamente di stare lontani dalle pareti.
Rob passò a me e Stana due copioni e un altro lo diede a Jon, nel caso avesse voluto fare qualche intervento durante i provini. Leggendo le battute, notai che erano tre scene. Nelle prime due avremmo recitato sia io e che Stana, mentre l’ultima era un faccia a faccia tra Beckett e il capitano. La prima scena prevedeva la breve opera di convincimento, che in realtà era un’imposizione, di Montgomery a Beckett per tenere Castle al distretto. La seconda riguardava la discussione di un delitto davanti alla lavagna bianca. Alzando gli occhi dal copione, notai che questa era già in posizione a pochi passi da noi, con tanto di foto della vittima e scritte in pennarello di supposizioni e linee temporali. La terza scena invece era un’ipotetica discussione tra il capitano e la detective in cui Montgomery cercava di tranquillizzarla per un caso a cui la donna non riusciva a venire a capo. Ricordandomi quello che ci aveva detto Andrew sul passato di Beckett, supposi che fosse una qualche prova di scena futura durante la riapertura del caso di Johanna Beckett.
Venti minuti dopo Marlowe, ancora piuttosto irritato, diede il permesso a Isabel, la sua solita assistente, di far entrare i candidati al ruolo di capitano.
 
Le due ore successive furono un susseguirsi di uomini d’età compresa tra i 45 e i 55 anni dall’aria più o meno seria. Fino a quel momento ne avevamo sentiti poco meno di una ventina e ne rimanevano ancora otto. Al solito trovammo alti e bassi. Quasi tutti erano attori già con esperienza, in alcuni casi anche abbastanza affermati. Un paio di loro ci sembrarono davvero buoni per il ruolo. Uno di questi pareva realmente un capitano della polizia, ma aveva un cipiglio un po’ troppo severo anche con Beckett e Castle. L’altro, al contrario, sembrava quasi un secondo padre della detective, ma parte dei termini delle indagini non gli entravano proprio in testa.
Marlowe ci chiese se volevamo una pausa, ma decidemmo di continuare e nel caso staccare un po’ prima. Isabel allora mandò dentro un altro candidato. Questa volta era un uomo di colore sui 50 anni, alto poco meno di me, con un’alta fronte e i capelli brizzolati e rasati fino a mantenerli lunghi poco più di qualche millimetro. Aveva anche un paio di baffetti ben curati dello stesso colore dei capelli.
L’uomo andò verso il solito tavolo di Marlowe, Bowman e gli altri produttori-seguaci per dare il suo curriculum. L’aveva appena passato in mano ad Andrew quando mi accorsi che c’era qualcosa di strano. Un lieve… qualcosa. Non riuscivo a decifrarlo. Sapevo solo che qualunque cosa fosse stava crescendo d’intensità. E non ero l’unico a percepirlo. Vidi che tutti si stavano guardando intorno confusi quanto me. Poi all’improvviso mi accorsi di non riuscire a reggermi in piedi. Le gambe mi tremavano. Quasi caddi a terra. Solo in un secondo momento realizzai perché. Non ero io a tremare. Era la terra. Era un terremoto.
Nello stesso istante in cui ci arrivai io, molti altri lo capirono e iniziarono a correre fuori dal set. Gli oggetti intorno a noi cominciarono a cadere. Ora il rombo era chiaro e si mescolava alle urla delle persone presenti e al rumore di tonfi e cose in frantumi. Nella confusione percepii la voce di Andrew che gridava a tutti di correre fuori. Mi mossi anch’io, ma una pila di scatoloni mi cadde davanti in quel momento e feci istintivamente un passo indietro, coprendomi il viso con un braccio.
“Nathan!” La voce di Stana mi arrivò chiara e spaventata. Alzai gli occhi e la vidi a pochi passi da me, in posizione già per correre via, ma ancora immobile ad aspettarmi. Che diavolo faceva ancora dentro?? Ormai quasi tutti erano usciti! Doveva andarsene!
“Stana, vai!” gridai calciando le scatole davanti a me per riuscire a passare. La terra continuava a tremare sotto di noi e faticavo a stare in piedi. “Esci!”
“Tu muoviti!” fu la sua risposta scocciata e terrorizzata. Sbuffai sonoramente e buttai all’aria tutti gli scatoloni davanti a me per riuscire a raggiungerla velocemente. Che testa!! Ma perché non usciva come gli altri e… “STANA!! ATTENTA!!” Vidi come a rallentatore la parete dietro di lei crollarle addosso. In qualche modo la raggiunsi appena in tempo per tirarla per un braccio con forza verso di me. La avvolsi tra le braccia e le coprii la testa con la mano, schiacciandola quasi contro di me. Alzai il capo e individuai l’uscita. “Forza andiamo! Stana c’è la fai?” urlai per farmi sentire. Lei annuì spaventata, senza riuscire a parlare, e si aggrappò alla mia camicia. Nonostante lo shock, vidi la decisione nei suoi occhi. Eravamo entrambi terrorizzati, ma non potevamo perdere la testa in quel momento. La presi per mano e il più velocemente possibile ci dirigemmo verso l’uscita di sicurezza. Il verde luminoso della scritta EXIT ci faceva da faro. All’improvviso sentii Stana tirarmi.
“Nathan attento!!” Feci appena in tempo a girarmi che vidi uno dei pannelli del distretto crollarmi addosso. Stavolta non riuscii a evitarlo. D’istinto lasciai la mano di Stana perché non finisse sotto con me. L’attimo dopo provai un dolore lancinante alla testa e mi sentii spingere brutalmente a terra. Sbattei violentemente contro il pavimento con un gemito strozzato. Una qualche parte del mio cervello capì che qualcuno stava urlando il mio nome, ma non riuscivo a metterlo a fuoco. Non riuscivo a mettere a fuoco niente. Tutto si muoveva confuso davanti a me. Mi alzai appena sulle braccia. Scossi la testa per cercare un po’ di lucidità, ma il movimento quasi mi strappò un grido. Portai una mano al capo, nel punto in cui il dolore era tale che mi sembrava mi si fosse aperta in due la testa. Sentii umido. Riportai la mano davanti a me e vidi che le mie dita erano colorate di un rosso lucido.
“NATHAN!” la voce sconvolta di Stana, all’improvviso così vicina, mi risvegliò. Alzai gli occhi e la vidi inginocchiata davanti a me. Era pallida e sudata. Stava tentando di tirarmi in piedi, ma io facevo la stessa resistenza di un peso morto. Cercai di aiutarla. Mi tirai su dalle braccia e feci per alzarmi, ma all’improvviso tutto si fece buio davanti ai miei occhi. Udii ancora una volta la voce spaventata di Stana. Poi più nulla.
 
La prima cosa che percepii quando mi risvegliai fu un gran mal di testa. Che cavolo era successo? Diavolo, mi sembrava di avere un’accetta conficcata nel cranio!
Con gli occhi ancora chiusi feci una smorfia di dolore. In quel momento sentii una leggera pressione alla mano e percepii come un suono lontano. Man mano che passavano i secondi, capii che il suono era una voce. Una voce sempre più chiara e familiare. Un volto si fece strada nella mia mente. Stana. In un colpo ricordai tutto. Il terremoto, la parete che cadeva, il sangue, lei accanto a me che rischiava pure di essere colpita. Il set stava crollando! Dovevo portarla fuori! Subito!
Aprii gli occhi scatto.
“Stana!” urlai. Cercai di alzarmi a sedere, ma una fitta alla testa mi fece bloccare a metà movimento e gemere dolorosamente.
“Nathan, calmo!” La sua voce mi fece trattenere il respiro e perdere un battito. Mi voltai, lentamente, e vidi la mia partner proprio accanto a me. Aveva delle leggere occhiaie e sembrava in ansia, ma era comunque bellissima. “Va tutto bene, Nathan. Stiamo bene.” Sbattei gli occhi per cercare di capire se fosse un sogno o se stesse bene per davvero. Aveva il viso e gli abiti un po’ sporchi, ma per il resto sembrava essere in forma come sempre. Un piccolo sorriso sollevato stava iniziando a farsi strada sul suo viso. Fu in quel momento che notai che una sua mano era stretta alla mia.
Un nuovo improvviso dolore mi distrasse da lei e mi fece portare automaticamente la mano libera alla testa. Invece di capelli e pelle però, sentii il contatto con del tessuto. Avevo una garza tutt’intorno al capo.
“Ehi, non toccarla…” mi riprese dolcemente Stana portandomi giù il braccio. “Ti serve. Hai preso proprio un bel colpo sul set.” Alle sue parole scossi piano la testa e feci un mezzo sorriso.
“Nah, sono sicuro che quello che ne è uscito peggio è stato il pannello…” replicai piano. Stana alzò gli occhi al cielo, decisamente più sollevata dal constatare che non avevo subito danni celebrali.
“Per lo meno ora sappiamo che la tua testa non ha subito lesioni gravi!” esclamò divertita. In quel momento qualcuno bussò. Stana diede il via libera per entrare e la porta si aprì, rivelando le facce preoccupate di Andrew, Jon e Tamala insieme ad un’altra a me sconosciuta. Apparteneva ad un uomo con un lungo camice bianco e uno stetoscopio che gli usciva dal taschino. Fu solo in quel momento che mi guardai intorno e capii di essere in ospedale. Aggrottai le sopracciglia. Quando ci ero arrivato? Quanto tempo ero stato incosciente? In ogni caso non doveva essere da molto perché mi accorsi di essere ancora vestito e sporco tanto quanto Stana.
“Oh, bene, si è svegliato signor Fillion!” esclamò il dottore sorridendomi e avvicinandosi a me. Gli altri mi salutarono solo con un debole e sollevato “Ciao” per lasciare che il medico mi visitasse tranquillo. “Sono il dottor Lyas e la informo che quest’oggi ha avuto l’onore di essere mio paziente!” si presentò allegro iniziando a compilare un foglio, sulla quale immaginai avrebbe appuntato i miei malanni, appoggiato ad una cartellina.
“Salve…” replicai un po’ scettico alzando un sopracciglio. Aveva l’aria di essere uscito da un uovo di pasqua. Da sotto il camice intravedevo una maglia a righe color arcobaleno e indossava un paio di pantaloni chiari lunghi fino al ginocchio. Con la coda dell’occhio notai Stana trattenersi a stento dal ridere per la mia faccia dubbiosa.
Il dottor Lyas finì di compilare il foglio, appoggiò la cartellina sul comodino accanto al mio letto e batté le mani.
“Allora, io dovrei visitare il mio qui presente paziente!” disse poi rivolto agli altri. “Quindi se poteste gentilmente uscire…” Andrew, Tam e Jon si affrettarono subito verso la porta. Stana stava per raggiungerli, ma la trattenni per la mano che non si era ancora staccata dalla mia.
“Lei almeno può restare?” domandai al medico speranzoso.
“Beh, per me non ci sono problemi, se la signorina è d’accordo…” Mi voltai subito verso Stana e sfoggiai il mio miglior sguardo da cucciolo per farla capitolare. Non volevo restare da solo con quel medico pasquale!
La mia partner resistette due secondi, indecisa, mentre si mordeva il labbro inferiore. Poi, con mia grande gioia e soddisfazione, cedette. Con un sospiro tornò accanto al mio letto nel punto in cui era stata fino a un momento prima. Il medico cominciò a quel punto la sua visita.
“Allora, signor Fillion, ora la aiuto a mettersi seduto, va bene?” mi informò il dottor Lyas. “Piano, mi raccomando.” Mi prese per un braccio e, con una delicatezza e una forza che non avrei creduto capaci in quell’uomo così smilzo, mi aiutò a tirarmi su. Mi sedetti con la schiena appoggiata ai cuscini. Il movimento mi fece pulsare la testa come un martello pneumatico e non riuscii a trattenere una smorfia di dolore. Sentii di nuovo la mano di Stana stringersi sulla mia. Doveva aver notato la mia faccia. “Ok, ora mi dica come si sente. Dolori? Nausea? Vertigini?” mi chiese il medico. In un attimo si era trasformato nel più serio dei dottori. Per un momento rimasi stupito del cambiamento. Poi cercai di trovare le risposte alle sue domande. Aggrottai le sopracciglia, concentrato. Mi ero alzato, ma non avevo né nausea né vertigini. Solo dolore.
“Non ho niente, solo… mi fa male la testa…” risposi un po’ a fatica. Il pulsare stava un po’ diminuendo, ma non accennava minimamente a sparire.
“Purtroppo ci vorrà un poco perché svanisca” replicò il dottor Lyas annuendo gravemente. “La sua testa ha subito davvero un bel colpo e abbiamo dovuto metterle qualche punti. Cinque per l’esattezza” aggiunse iniziando a cercare qualcosa in una delle tasche più basse del camice. “Più tardi, se vuole, le prescrivo un farmaco per il dolore. Mi dica ha qualche allergia in particolare?” domandò poi. Gli risposi negativamente. In quel momento trovò quello che stava cercando. Sembrava una piccola torcia. Me la puntò prima in un occhio e poi nell’altro continuando a farmi domande. “Si ricorda cosa è successo e come è arrivato qui?” Gli raccontai del terremoto, del pannello e di tutto quello che mi venne in mente, fino al buio totale e al risveglio in ospedale. Alla fine il medico annuì, evidentemente soddisfatto del risultato. “Ok, sembra che effettivamente il colpo alla testa non abbia interferito con le sue funzioni!” disse il dottor Lyas allegro. “Un ultimo test, signor Fillion, e abbiamo finito.” Annuii appena e sentii Stana accanto a me sospirare sollevata.
“Preoccupata per me?” le domandai divertito. All’improvviso sentii un forte sciocco nell’orecchio destro e per poco non balzai in aria. Ma era impazzito?? Pensava di curarmi così il mal di testa??
“Scusi…” disse il dottore con un mezzo sorriso. Aveva semplicemente fatto schioccare le dita, ma l’aveva fatto talmente vicino al mio orecchio che mi aveva sorpreso.
“Non sono preoccupata per te” mi rispose Stana in quel momento distraendomi dal medico. Mi voltai verso di lei stupito. “Sono preoccupata per la serie, ovviamente!” dichiarò ridacchiando. Io misi il broncio. Stavo per replicare quando vidi lo sguardo della mia partner cambiare. Osservava preoccupata un punto appena accanto al mio orecchio sinistro. Mi voltai confuso e mi trovai davanti le dita del dottore che schioccavano furiosamente.
“Signor Fillion, mi sente da quest’orecchio?” mi domandò serio il medico.
“No, perché?” replicai senza pensarci.
“Come sarebbe a dire perché??” esclamò Stana agitata. Passai per un momento lo sguardo tra il dottore e la mia partner e fu a quel punto che mi ricordai di aver dimenticato di dire una cosa importante.
“Oh, io non ci sento dall’orecchio sinistro. Sono praticamente sordo” dissi alzando appena le spalle. Stana mi guardò a bocca aperta, stupita. “Quando avevo due anni mi hanno curato male un’otite” spiegai a entrambi. “Non ci sento da allora.”
 
“Sei sordo e non ce lo hai mai detto??” esclamò indignata Tamala con le mani sui fianchi. Se avesse urlato ancora un poco in quel modo, mi avrebbe fatto fuori anche l’orecchio buono.
“Ehi!!” protestai. “Non sono sordo! Non del tutto almeno” aggiunsi. “Solo ad un orecchio.”
“E perché non lo hai detto?” domandò a quel punto Jon con tono molto più calmo della sua collega. Alzai un sopracciglio.
“E che dovevo dire?” replicai ironico. “Ciao, mi chiamo Nathan Fillion e sono sordo da un orecchio?” Tamala sbuffò scocciata. “Non si è mai presentata l’occasione, ecco tutto” dissi alla fine alzando le spalle. “Se fosse venuto fuori l’argomento ve ne avrei parlato. Ma non è che spesso si parli di sordità o di orecchie… E poi io ho un orecchio fuori uso da quando avevo due anni! Neanche mi ricordo com’è sentire da entrambi. Per me è una cosa normale.” Era vero. Ero cresciuto con quel problema, quindi non ne avevo mai veramente sentito la mancanza. E poi, insomma, avevo comunque un orecchio ancora funzionante!
Il dottor Lyas aveva controllato il mio timpano perforato richiedendo una copia digitale della mia cartella clinica all’ospedale canadese dove ero stato operato da bambino. La sordità era rimasta la stessa, senza fare altri danni, quindi aveva appurato che il colpo non mi aveva causato lesioni al cervello. In pratica l’unica ferita che avevo riportato era il taglio alla testa. Il dottore aveva comunque deciso di tenermi sotto osservazione per qualche ora. Già quella sera però sarei potuto tornare, per mia somma gioia, a casa. Non amavo particolarmente gli ospedali, anche se dovevo ammettere che li avevo frequentati piuttosto spesso negli ultimi anni. Non ero mai stato un tipo particolarmente tranquillo.
“Come hai fatto a diventare sordo?” chiese a un certo punto Andrew, curioso.
“Quando avevo due anni presi l’otite” iniziai a raccontare. “Non ero un bambino che si lamentava spesso…” Sentii Stana sbuffare ironica a quella affermazione. Feci finta di niente e continuai. “A un certo punto comunque mia madre capì che stavo male e mi portò dal pediatra. Quello però prese la mia otite per una comune febbre e mi rispedì a casa con un semplice antibiotico. Dopo due giorno stavo talmente male che i miei mi portarono all’ospedale, dove mi diagnosticarono subito l’otite. Poi non so come sia successo, ma in qualche modo richiamarono lo stesso pediatra che mi aveva in cura. Sbagliò ancora una volta a darmi dei farmaci. Quando gli altri medici capirono la cazzata che stava facendo tentarono di aiutarmi, ma ormai un timpano mi si era già perforato.” Cercai di tenere il mio tono neutrale, ma l’ultima frase mi uscì dura. C’era un altro motivo per cui non avevo detto niente della mia sordità. Istinto di sopravvivenza. Sì, la prima causa era che non era mai venuto fuori l’argomento. Ma un’altra era che da bambino venivo spesso preso in giro per il mio problema, o comunque trattato in modo troppo diverso, come se fossi un mentecatto, dagli altri, bambini o adulti che fossero. Per questo, arrivato a un certo punto, avevo semplicemente smesso di dirlo. Per evitare di essere deriso. Sentivo le persone che mi parlavano, per cui non vedevo il motivo di raccontare che non sentivo da un orecchio.
Gli altri dovettero capire qualcosa del mio stato d’animo perché rimasero in silenzio per qualche secondo. La mano di Stana si strinse ancora una volta alla mia. Evitai però i loro occhi. Avevo paura di leggervi pietà e di certo non era quello che volevo né quello che mi serviva. Volevo che capissero che non era cambiato praticamente niente nella mia vita da quel giorno di trentasei anni prima. Solo sentivo un po’ meno.
In quel momento la ferita alla testa cominciò a pulsarmi un poco e a prudere. Alzai un mano e inizia a sfregarla contro le bende, nonostante il dolore.
“Che stai facendo??” esclamò Stana spostandomi la mano dal capo e tenendomela giù.
“Prude” mugugnai, sperando, in quel caso sì, di smuoverla a compassione. Ma lei non si fece fregare.
“Il dottor Lyas ha detto che non devi toccarti la ferita per nessun motivo” mi ricordò la mia partner in tono severo, ma allo stesso tempo dolce. “Anche se prude. Ti aveva avvertito che avrebbe cominciato presto.” Sbuffai. La testa mi prudeva! E pulsava anche un po’, ma quello lo sentivo sempre meno. Il dottore mi aveva dato una pillola da prendere contro il dolore, ogni volta che fosse aumentato, per qualche giorno. Avevo curiosamente notato che sia la crema per la mia botta alla faccia sia la capsula erano dello stesso giallino ambrato. In ogni caso avevo presa una pillola mezz’ora prima, appena il medico era uscito, e stava facendo effetto.
Cercai di pensare a qualcos’altro per distrarmi dal prurito.
“A proposito, quanto è durato il terremoto?” domandai.
“47 secondi” rispose Tamala, ora decisamente più tranquilla di qualche minuto prima. “Magnitudo 4.8.”
“Non elevatissimo, ma abbastanza per far tremare tutto e buttar giù i pannelli” aggiunse Marlowe con uno sbuffo irritato. “Ora li stanno smontando e rimontando uno per uno su ogni set. Sarebbero venuti tutti a vedere come stavi, ma abbiamo deciso che non era il caso di affollare l’ospedale e siamo arrivati noi in ambasciata. È probabile che qualcuno verrà nel pomeriggio a farti visita, ma visto che in qualche ora sarai dimesso, credo che verranno a trovarti direttamente a casa.” Annuii piano.
“Non si è fatto male nessun altro, vero?” chiesi poi preoccupato.
“Nessuno” rispose per tutti Stana. “Tu sei stato l’unico. E mi sembra stia diventando un po’ un’abitudine…” aggiunse con un mezzo sorriso alludendo chiaramente alla mia quasi del tutto ex-faccia viola. Feci una smorfia offesa che li fece scoppiare a ridere.
“Però che non diventi troppo un’abitudine” mi ammonì Andrew. “Mi servi per una serie tv, Nathan. Se poteste evitare entrambi già da ora di fare come i futuri Castle e Beckett mi fareste un gran favore. Se ti consola, ci penseranno già loro a mettersi abbastanza nei guai anche per voi!”
“Non dirmi che pensi di far crollare la casa di Beckett con loro dentro!” dissi scherzando.
“No, niente crolli” replicò Marlowe con una scrollata di spalle. “Pensavo più a una bomba…”
“Cosa??” esclamò Stana stupita. “Mi vuoi far saltare in aria la casa??”
“Tesoro, tecnicamente non è tua, ma di Beckett…” commentò Tamala ridacchiando.
“Beh, in ogni caso è la casa del mio personaggio!” si difese la mia partner. Poi si rivolse di nuovo a Marlowe. “Spero almeno che avrai la cortesia di non farla saltare con me dentro.” Il regista si schiarì appena la voce e iniziò a spostare il peso da un piede all’altro. Fece un paio di passi indietro, verso la porta, giusto per precauzione immagino.
“Uhm… veramente…”
Veramente??” ripeté Stana offesa, quasi come se Marlowe avesse appena annunciato che avrebbero fatto saltare sul serio casa sua. Aveva un broncio talmente carino in faccia che non potei fare a meno di pensare che fosse bellissima mentre scoppiavo a ridere.
“Ehm… beh, noi ora dobbiamo andare, vero?” disse subito Andrew rivolto a Jon e Tamala. Avevo la vaga impressione che volesse scappare.
“Tu resti?” domandai speranzoso a Stana. Lei arrossì appena e annuì.
“È meglio tenerti sott’occhio ancora per un po’…” replicò lei. “Più tardi poi ti accompagno a casa. Il dottor Lyas ha detto che almeno per il momento non devi essere lasciato solo.”
“Quindi mi rimbocchi le coperte stasera?” chiesi con un sorriso a trentadue denti. Non sapevo bene io stesso se a parlare fossi stato io o l’antidolorifico. La mia partner mi guardò scioccata per un momento, poi arrossì ancora di più e scosse la testa.
“Beh, allora noi vi lasciamo soli!” esclamò Tamala sorridendo maliziosa mentre si tirava Jon e Andrew dietro. Con mia sorpresa fece l’occhiolino a Stana. La guardai a bocca aperta mentre con la coda dell’occhio vedevo la mia partner lanciare un’occhiataccia all’amica. A quel punto tutti e tre ci salutarono e scapparono fuori dalla stanza. Appena uscirono, Stana sbuffò.
“Finalmente…” mormorò sollevata. La mia bocca non poté fare a meno di aprirsi in un sorriso.
“Non vedevi l’ora di stare sola con me, Katic?” commentai ridacchiando felice. Stana alzò gli occhi al cielo. Sapevo che stava maledicendo silenziosamente le pillole. Però, nonostante quelle, non mi sfuggì il piccolo sorriso che le si era formato agli angoli della bocca.
All’improvviso però sembrò ricordarsi qualcosa perché schioccò le dita e mi puntò un indice contro. E ora che avevo fatto?
“Hanno chiamato i tuoi e tuo fratello prima” mi disse tirando fuori un cellulare dalla tasca dei pantaloni. Lo riconobbi come il mio. “Hanno sentito del terremoto e volevano sapere se stavi bene. Gli ho spiegato la situazione, ma credo che sarebbero molto più tranquilli se parlassero con te” aggiunse con un sorriso dolce porgendomi il telefono.
 
Nelle sette ore seguenti, fino a quando in pratica non fui dimesso dall’ospedale alle otto di sera, chiamai i miei genitori e mio fratello per rassicurarli sulle mie condizioni fisiche, mangiai un brodino insipido datomi dall’ospedale per pranzo e ricevetti la visita di diverse persone dal set. Susan e Terri furono tra le prime a venirmi a trovare, a quanto pare facendo il cambio con gli altri tre usciti prima e che in quel momento erano sul set. Verso metà pomeriggio passò anche Molly. Anche lei, come tutti, aveva sentito la scossa di quel mattino, ma per fortuna alla sua scuola non c’erano state conseguenze. La cosa non mi sorprese. Los Angeles era a pochissima distanza dalla faglia di Sant’Andrea. Tutto, in città e nel resto della California, era costruito con rigorose norme antisismiche e perfino i palazzi non potevano avere più di un certo numero di piani. In pratica, anche a detta del dottor Lyas, che era passato più di una volta a controllarmi, io ero stato l’unico paziente “grave” ricoverato. Per tutti gli altri era andata bene. Un po’ di paura, ma a parte qualche ferita superficiale, nessuno in tutta Los Angeles si era fatto male.
Alle otto il dottor Lyas venne a farmi l’ultima visita e a cambiarmi il bendaggio. Mi consigliò almeno un giorno a casa in assoluto riposo. Dal giorno successivo, con un po’ di attenzione, avrei potuto ricominciare con le normali attività. A quella notizia chiamai Marlowe e gli chiesi dei provini. Mi disse che ci sarebbe voluto ancora tutto un giorno per risistemare il set prima di finire le audizioni. Perfetto. Avrei fatto appena in tempo.
“Nathan, ma sei convinto?” mi domandò Stana appena chiusi la chiamata con Andrew.
“Di cosa?” replicai confuso.
“Di voler tornare così presto sul set” rispose con un tono preoccupato. “Possiamo anche fare i provini senza di te. Non sei obbligato a partecipare. Dovresti riposarti…” Le sorrisi.
“Il dottore ha detto che dopodomani potrò tornare operativo” dichiarai allegro. “Quindi non c’è da preoccuparsi! A meno che tu non voglia farmi compagnia anche domani l'altro, allora forse potrei tornare ben più che operativo, ma su tutt’altro set…” aggiunsi con un sorriso furbo. Ancora una volta mi chiesi da solo se fossero le pillole a rendermi così ‘loquace’ o fossi davvero io. Alla mia uscita Stana alzò gli occhi al cielo e scosse la testa rassegnata.
“Andiamo, playboy” disse con un sospiro. “È ora di andare a casa.”
 
Stana mi riportò al mio appartamento con la sua auto. Mi accompagnò fino in casa, controllando che fossi stabile sui piedi e che non avessi troppo dolore alla testa nel camminare. Un po’ mi faceva male. Sentivo il taglio tirare e i punti mi sembravano chiodi infilati nel capo. Ma questo perché l’effetto dell’antidolorifico stava svanendo. Appena entrato in casa, lascia la porta aperta per Stana e andai direttamente in cucina per recuperare un bicchier d’acqua con cui buttare giù la capsula gialla per il dolore. Quando tornai da lei in soggiorno, si stava guardando intorno curiosa e forse un po’ stupita.
“Sai, lo immaginavo un po’ diverso il tuo appartamento…” mi confessò con gli occhi rivolti a una delle foto appese al muro. Era un’istantanea di me e mio fratello, sorridenti e in sella a due bici nuove di zecca in mezzo alla neve. Ricordavo quel giorno. Era il giorno di Natale e avevo undici anni.
“Ti aspettavi una serie di poster e quadri con donne nude e navi spaziali per caso?” domandai ridacchiando. Fece un mezzo sorriso colpevole.
“Forse…” rispose con una mezza alzata di spalle imbarazzata. Tornò a osservare la foto e le altre vicine appese alla parete. Rappresentavano non solo mio fratello, ma anche i miei genitori e alcuni dei miei più cari amici. Le persone che amavo. A un tratto mi chiesi se avessi potuto farle una foto. Magari una insieme. “Ma preferisco decisamente questa versione del tuo appartamento” concluse Stana con un sorriso riportandomi alla realtà.
Le mostrai la casa e poi le chiesi se volesse qualcosa da bere. Scosse la testa.
“Allora, mi rimbocchi tu le coperte dopo?” chiesi ancora una volta, stavolta a voce più bassa, avvicinandomi a lei così da lasciare ben poco spazio tra di noi. Di nuovo non sapevo se fossero le pillole a parlare e agire per me. Ma questa volta non le avrei certo fermate.
“No” rispose Stana divertita posandomi una mano sul petto e spingendomi lontano da lei. Misi il broncio e riprovai ad avvicinarmi. Ancora una volta il suo braccio ci separò. Sbuffai sonoramente. Stavo per tentare un ulteriore approccio quando il campanello suonò. Ma perché cazzo la gente non si faceva gli affari propri e lasciava campare gli altri in pace??
Stana sgusciò subito via da me ridacchiando per la mia faccia evidentemente scocciata. Aprì la porta e ci ritrovammo sull’uscio Huertas. Che diavolo voleva? E perché aveva quel borsone??
Jon ci salutò e fece un paio di passi dentro casa, posando il borsone nero per terra accanto a lui.
“Allora, come sta il nostro ferito?” domandò squadrandomi.
“Meglio…” replicò Stana con un mezzo sorriso. “Sta attento però che è in vena di coccole stasera e vuole qualcuno che gli rimbocchi le coperte.” Jon sgranò gli occhi e mi guardò male.
“Se speri che ti rimbocchi qualsiasi cosa, io e te abbiamo chiuso!” dichiarò deciso con una faccia schifata. Un momento, ma… allora… oh, no. No!
“Ma… ma…” balbettai passando lo sguardo da Stana a Jon. “Ma io credevo che saresti rimasta tu!!” mugolai. Ammetto che non riuscii a nascondere la nota di disperazione nella mia voce. Decisamente quelle pillole avevano un po’ troppo effetto. Ed erano anche leggere!
Stana scosse la testa.
“No. Per stasera avrai la tua guardia del corpo personale, caro signor Fillion” replicò lei ridacchiando.
“Ehi, amico, neanche io salto di gioia” commentò Jon prendendo confidenza con la casa e andando ad allungarsi sul divano. “Ah, ottimo hai l’X-box!” aggiunse allegro iniziando a dare un’occhiata ai miei giochi. Mi voltai di nuovo verso Stana e sfoggiai il mio sguardo da cucciolo.
“Non fare quella faccia, Nath” disse la mia partner scuotendo la testa come se non l’avesse neanche visto. Cavolo, le pillole dovevano aver influito sulla sua efficacia! “Vedrai che vi divertirete.” Sbuffai.
“Mi sarei divertito di più con te…” borbottai. Stana ridacchiò e alzò gli occhi al cielo. Poi si avvicinò e, senza preavviso, mi lasciò un bacio sulla guancia. Rimasi imbambolato a guardarla.
“Riposati, Nathan” mi disse con fare materno. “Ora devo andare. Domani poi passo a trovarti. Buonanotte.” Detto questo mi fece un ultimo sorriso, salutò velocemente Jon e uscì dal mio appartamento. E io ero ancora incantato a fissare il punto in cui fino a un secondo prima c’era lei.
“Ehi, amico, ti va una partita a Call of Duty??” esclamò eccitato Huertas con il cd in mano e già pronto all’uso. Scossi la testa per riprendermi. Quindi annuii con un mezzo sospiro e mi tuffati con lui sul divano per un po’ di sano videogioco.
 
Jon e io passammo la serata ai videogiochi e andammo a dormire che era quasi mezzanotte. Lui si accucciò con una coperta e un cuscino sul divano, mentre io andai a infilarmi nel mio letto. Guardai con un sospiro la parte vuota del materasso. Nella mia follia da pillole, ero praticamente certo che se ci fosse stata Stana e non Huertas, sicuramente quella parte di letto sarebbe stata riempita. Ero in cerca di coccole, ma di certo non le volevo dall’ex-soldato in salone.
Ci misi un po’ad addormentarmi. Infatti mi ci volle tempo per trovare una posizione che non mi premesse sulla ferita. Alla fine, dopo quasi mezz’ora, capii che stare a pancia in sotto era la mia unica soluzione. Mi girai e con sollievo attesi il sonno.
Il mattino dopo mi svegliai con una smorfia di dolore. La testa mi faceva ancora malissimo. Mi alzai e presi subito una cara pillolina gialla. Uscendo dalla mia stanza, trovai Jon già in piedi e con una tazza di latte davanti.
Dopo colazione la mattinata passò più che altro tra gli amici in visita. Venne a trovarmi persino Josh insieme ai due figli piccoli, Nick e Phoebe. La cosa positiva fu che per un po’ ebbi altri due compagni di videogiochi. Jon mi aveva stracciato troppe volte la sera prima. Dovevo allenarmi per batterlo a tutti i costi.
Verso mezzogiorno suonarono nuovamente alla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti Stana e Tamala. Sorrisi allegro.
“Buongiorno!” esclamai. Mi salutarono entrambe con un sorriso e mi scostai per farle passare.
“Salve, donzelle!” le salutò Jon ridacchiando e andando loro incontro. “Finalmente mi date il cambio e mi portate un po’ via da questo drogato di pillole?” Misi su il broncio.
“Non sono drogato di pillole!” dichiarai offeso con lo stesso tono di un bambino. Tamala ridacchiò e Stana scosse la testa divertita. Poi però la mia partner divenne all’improvviso sospettosa.
“Nathan, quante ne hai prese da stamattina?” mi domandò cauta. Alzai le spalle.
“Mah, 4 credo…” Stana sgranò gli occhi per un momento. Quindi si voltò infuriata verso Jon.
“Ma tu non dovevi controllarlo?? Quante gliene hai fatte prendere??” Quasi gli urlò addosso, uno sguardo omicida negli occhi. Certo che era bellissima anche così. Huertas fece qualche passo indietro, deglutendo preoccupato per la furia della donna. “Doveva prenderne al massimo 2 nell’arco di otto ore!!” urlò ancora Stana.
“Ma… ma… mi ha detto che aveva male…” balbettò Jon. Sembrava più pallido del solito. Ma pensa, un ex-soldato delle forze speciali che si faceva mettere sotto da una ragazzina, come ancora a volte la chiamava. “E poi a me aveva detto di averne prese 2, non 4!” aggiunse alla fine indicandomi e dando la colpa a me. Ci pensai su per un attimo. In effetti non gli avevo detto delle altre due pillole che mi ero inghiottito a mattina appena alzato e poi a metà mattinata. Questa volta lo sguardo assassino di Stana arrivò a me. Deglutii.
“Ops…” mormorai.
“Fila a sederti sul divano!” mi ordinò la mia partner, con una mano sul fianco e l’altra a indicarmi appunto il divano. Il suo tono era chiaramente ancora arrabbiato. “E non azzardarti più a prendere una pillola senza dirlo o ti faccio un altro taglio in testa.” Con la coda tra le gambe e un piccolo broncio feci come mi aveva detto. Davo loro la schiena mentre Stana e Tamala sgridavano Jon. Mi sentivo un bambino messo all’angolo in punizione.
A un certo punto sentii che parlavano del pranzo. Drizzai le orecchie e mi voltai.
“Cinese allora?” domandò Jon rassegnato. Gli avevano appena imposto di andare a prendere il pranzo per tutti e quattro.
“Sì!” replicò Stana con le braccia conserte. “E abbastanza per tutti mi raccomando.”
“Tranquilla, ragazza, a lui lo controllo io!” dichiarò Tamala con gli occhi neri che ancora lanciavano piccoli fulmini all’uomo. Jon recuperò la giacca a testa bassa e insieme si avviarono alla porta. All’ultimo però, Tamala si girò vero la mia partner con un sorrisetto malizioso. “Ah, tesoro, guarda che staremo via una mezz’ora al massimo, quindi evitate di divertirvi troppo nel frattempo…”  Io alzai le sopracciglia, la bocca semiaperta dallo stupore, e guardai Stana. Credo che stesse tentando di bruciare la sua amica viva con lo sguardo.
Ridacchiando, Jon e Tamala uscirono velocemente. Stana chiuse la porta dietro di loro con un sonoro sbuffo. Quindi si voltò verso di me e vide che la fissavo con un sorrisetto.
“Non dire una parola tu…” borbottò la donna andando poi verso la cucina. Io ghignai. Poi mi venne un’idea.
“Stana!” la chiamai con tono lamentoso. “Stana!!” Lei si affacciò dall’altra stanza con un bicchiere d’acqua in mano.
“Che c’è?” chiese sospettosa.
“Guardiamo un film?” chiesi speranzoso. Alzò un sopracciglio.
“Fra mezz’ora quei due torneranno con il pranzo” disse con tono un poco più dolce. “Non faresti in tempo a finirlo.” Aggrottai le sopracciglia e mi feci pensieroso. Dovevo trovare una soluzione a quel problema.
“E se guardiamo solo un po’ di tv?” chiesi ancora con lo stesso tono della prima domanda. Stana ci pensò un momento. Quindi annuì con un sospiro.
“Prima però dobbiamo fare un’altra cosa” disse lanciando un’occhiata all’orologio. La guardai confuso e lei mi indicò la testa. “Devo cambiarti le bende. Il dottor Lyas ha detto di farlo a metà giornata.” Ah, già. Me ne ero dimenticato. Alzai appena le spalle e annuii. Mi chiese dove fosse l’occorrente per l’operazione e io le indicai il bagno. Prima che potesse uscire dal salone però mi venne in mente una cosa e la richiamai.
“Stana?” Si voltò di nuovo verso di me. “Posso togliermi la maglia?” La vidi arrossire istantaneamente. Una piccola parte del mio cervello, quella non dolorante, esultò.
“Perché devi toglierti la maglia??” domandò a sua volta sorpresa e imbarazzata.
“Perché così non rischio di sporcarla con il sangue” spiegai come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Lei alzò un sopracciglio.
“Nathan, la tua ferita non sanguina più” replicò.
“Ma è la mia maglietta preferita!” mi lamentai subito. In realtà era una vecchia maglia blu che usavo per dormire, ma ci tenevo davvero. “Posso togliermela?” la implorai ancora.
“No, non puoi” dichiarò convinta la mia partner.
“Perché no??” mugolai.
“Perché è una richiesta senza senso!” replicò irritata.
“Per me ha senso! Non voglio rovinarla! Allora posso toglierla??”
“No!”
Ci guardammo in cagnesco per qualche secondo. Lei con le braccia incrociate al petto e quell’adorabile rughetta tra le sopracciglia. Io con il mio broncio e il mio sguardo da cucciolo ferito.
Attesi dieci secondi. Quindi attaccai di nuovo.
“Posso togliermi la maglia?” domandai ancora col chiaro tono di un bambino che sarebbe andato avanti in eterno con la sua richiesta. Stana sbuffò sonoramente e alzò gli occhi al cielo.
“Uff!! Fa come vuoi! Io vado a prenderti le bende pulite!” dichiarò seccata. Quindi si girò e andò dritta verso il bagno con passo deciso e decisamente irritato. Sogghignai sotto i baffi.
Lentamente, per non toccarmi la testa, mi tolsi la maglietta e la abbandonai su un bracciolo del divano, rimanendo a petto nudo e pantaloni della tuta.
Attesi qualche momento e finalmente Stana riapparve dal bagno con delle bende pulite, un sacchetto di plastica per buttare quelle sporche e cotone e disinfettante per pulire la ferita. Si avvicinò a me senza sollevare gli occhi dalla roba che aveva in mano per paura che le cadesse. Alzò lo sguardo solo quando si fermò davanti a me. La vidi immobilizzarsi. Diventò rossa e la bocca le rimase semiaperta, come se avesse voluto dire qualcosa, ma fosse stata distratta. A occhio e croce stava constatando che la “pancia” che mi sfottevano sempre era alquanto ridotta. E che in fondo, anche se non ero proprio palestrato, non ero per niente messo male.
“Vedi qualcosa che ti interessa, Katic?” domandai con un sorrisetto furbo. Lei sbatté le palpebre e si riprese scuotendo la testa. La vidi mordersi il labbro inferiore mentre appoggiava i vari oggetti, che ancora aveva in mano, sul tavolino davanti al divano. Se possibile il mio sorriso si allargò.
“Non fare quella faccia, Fillion” ribatté lei irritata. “Piuttosto, mettiti in una posizione in cui posso raggiungere il tuo testone.” Feci una mezza smorfia, ma mi sistemai meglio sul divano. Mi misi sul bordo e allargai le gambe. Il modo migliore per rifasciarmi era stare in piedi davanti a me. E lo sapeva anche lei perché mi guardò per un momento arrossendo di nuovo. Poi però prese un respiro profondo e si posizionò esattamente tra le mie gambe. I miei occhi erano all’altezza della sua pancia. Quella pancia morbida e calda che qualche tempo primo avevo avuto modo di sfiorare, toccare e massaggiare.
All’improvviso sentii le mani di Stana sulla mia testa che delicatamente iniziavano a sbendarmi. Rimasi fermo per non darle fastidio. Intanto, senza accorgermene, iniziai a fantasticare sulla donna in piedi davanti a me. Era così vicina che avrei potuto allungarmi di poco, alzarle appena la maglia e baciarle l’ombelico. Avrei risentito la sua pelle liscia sotto le mie dita e assaporata sulle mie labbra. Con la lingua avrei tracciato dei segni invisibili sulla pelle della sua pancia e poi sarei sceso fino a…
“Ahi!!” esclamai ritirando per istinto la testa fra le spalle e facendo una smorfia di dolore. Stana doveva aver appena tolto del tutto la benda perché sentivo l’aria fresca dell’ambiente al posto del caldo fastidioso della garza. Solo che nel levarla doveva aver toccato inavvertitamente uno dei punti.
“Scusa, scusa” disse subito preoccupata prendendomi il viso tra le mani e iniziando a carezzarlo piano. “Non l’ho fatto apposta, mi dispiace” aggiunse seriamente dispiaciuta. Io rimasi immobile per qualche secondo, per permettere al dolore di scivolare via, quindi mi rilassai.
“Non importa, tranquilla” dissi per rassicurarla. “Non… non mi hai fatto male” mentii. Lei ovviamente lo capì. Scosse appena la testa, mortificata, e si girò per buttare le bende nel sacchetto che aveva preso. Quindi recuperò cotone e disinfettante. Deglutii. Sapevo che non sarebbe stato piacevole.
“Cercherò di fare il più piano possibile, ok?” disse dolcemente vedendo il mio sguardo agitato. Annuii piano e presi un respiro profondo. Strinsi i denti non appena la sentii riavvicinarsi ancora a me. Quindi il contatto con il freddo e doloroso liquido sul cotone. Mi sfuggì un gemito di dolore e mi aggrappai alla prima cosa che mi trovai davanti: le sue gambe. Non ebbi tempo di realizzare cosa avevo fatto perché il male non mi permetteva di pensare. Bruciava tanto che pensavo di avere un pezzo di carbone acceso sulla testa. Sentii Stana mormorarmi qualche parola di conforto, mentre cercava di fare il più velocemente possibile senza farmi troppo male.
Alla fine, dopo qualche minuto, la tortura finì. Stremato, lasciai che Stana mi bendasse di nuovo delicatamente la testa. Quindi chinai il capo in avanti e lo appoggiai alla sua pancia respirando forte, una smorfia in volto. Percepii le sue mani accarezzarmi le spalle e il collo mentre attendevamo insieme che la crisi mi passasse. Finalmente ripresi a respirare normalmente e alzai la testa. Mi resi finalmente conto di dov’ero e di dov’erano le mie mani. Senza spostarle, alzai lo sguardo su di lei e vidi che mi osservava. Era preoccupata, ma sembrava anche in attesa. In attesa di cosa? Di me? Di una mia mossa?
“Grazie…” mormorai. Lei mi sorrise dolcemente. A quel punto mi alzai, senza però farla spostare. Mi ritrovai in piedi davanti a lei, i nostri petti praticamente attaccati. Le mie mani dalle sue gambe erano passate lentamente ai suoi fianchi, sfiorando il tessuto dei pantaloni e della maglia nel loro passaggio. La sentii rabbrividire sotto il mio tocco. Mi guardò con gli occhi spalancati. Sembrava spaventata e speranzosa insieme. Per conto mio, c’era una sola cosa che volevo fare in quel momento. Che fossero le pillole a spingermi o cosa non mi importò. Iniziai ad abbassarmi verso di lei. Sentii il suo respiro caldo sulla mia pelle e mi persi.
Ci pensò il campanello a farci tornare entrambi con i piedi per terra con un sobbalzo. Iniziai a chiedermi se per stare un poco tranquillo in compagnia di Stana avrei dovuto ritirarmi con lei in un eremo o in qualche sperduto posto del pianeta. Chissà se preferiva l’Everest o una qualche isola tropicale? Sperai l’isola. Più parti di pelle scoperte.
La mia partner poggiò una mano sul mio petto nudo per spostarmi un poco e per un momento sentii un brivido attraversarmi. Poi lei si staccò e andò ad aprire. Avevo come l’impressione che sul suo viso ci fosse uno sguardo irritato tanto quanto il mio. O era uno scherzo delle pillole e del dolore appena subito?
“Ehilà, siamo tornati!” ci salutò Tamala con un sorriso e una busta in mano, seguita subito da Jon con altri due sacchetti. Stana cercò di sorridere a sua volta. Io non ci provai neppure.
“Tutto bene?” domandò Jon, bloccandosi a metà sulla porta vedendo il mio sguardo omicida. Poi notò che ero senza maglia. “Cavolo, Tam, qui mi sa che abbiamo interrotto qualcosa…” A quel punto anche la donna si girò verso me e rimase a bocca aperta.
“Usciamo di nuovo!” esclamò immediatamente, appena si riprese, tirandosi dietro per un braccio Jon, che la guardò come se fosse impazzita.
“Dove pensate di andare?” domandò Stana con un sopracciglio alzato. Il suo tono era chiaramente del tipo ‘ormai la frittata è fatta quindi è inutile cercare di porvi rimedio’.
“Uhm… forse… abbiamo dimenticato qualcosa al ristorante” inventò chiaramente Tamala sul momento. “Vero, Jon?”
“Che abbiamo dimenticato?” domandò l’uomo preoccupato, infilando il naso nei sacchetti che aveva in mano, non avendo inteso il senso delle parole della sua collega. Lei infatti lo fulminò con lo sguardo e solo allora lui capì. “Oh… Oh! Certo, giusto! Abbiamo dimenticato… ecco…”
“Entrate e basta, prima che stabilisca io che cosa avete dimenticato e decida di cacciarvi a calci…” mi intromisi io sbuffando e recuperando la mia maglietta per rinfilarmela. “… per il vostro decisamente pessimo tempismo” aggiunsi borbottando sottovoce in modo che nessuno mi sentisse.
“E comunque gli stavo solo cambiando le bende” si giustificò Stana, un po’ rossa in volto, mentre chiudeva la porta dietro ai due.
“Senza maglia?” chiese scettica Tamala.
“Non volevo che si sporcasse” replicai io per lei. La donna cercò ancora di protestare, ma Stana la anticipò.
“Perché ora non mangiamo, prima che si freddi tutto?” domandò velocemente prendendo le buste dalle mani dell’amica e di Jon e andandole a posare sul tavolo in cucina. I due non aggiunsero altro. Notai solo Tamala lanciare un’occhiata alla mia partner che diceva chiaramente ‘ne parliamo più tardi’.
 
Passai il resto del pomeriggio con Stana, Tamala e Jon. Ricevetti altre visite, tra cui quella di Molly appena uscita da scuola, ma furono per lo più loro a farmi compagnia e a controllarmi. La mia partner mi sorvegliò a vista e mi concesse di prendere un’altra pillola antidolorifica solo verso sera. Cenammo insieme, ma di nuovo passai la nottata solo con Jon in casa.
Il mattino dopo mi sentivo già meglio. Presi una pillola per sicurezza, ma la testa non mi pulsava quasi più, anche se sentivo ancora male nella zona del taglio.
Dopo colazione Jon e io ci dirigemmo agli studios in taxi. La mia auto era ancora lì, ma Stana, Tamala e Jon avevano già deciso che, finiti i provini, qualcuno mi avrebbe portato con la mia macchina prima in ospedale per il controllo e poi mi avrebbe riaccompagnato a casa.
Appena entrammo sul set, notai che diversi pannelli-pareti del distretto avevano cambiato leggermente posizione. Dovevano aver finito di rimetterli tutti a posto e stavolta in modo corretto. Appena mi videro, tutti i presenti, sia tecnici che produttori che attori, mi salutarono con un applauso come se fossi un soldato appena tornato dal fronte con una ferita di guerra. Sorrisi e ricambiai la loro ovazione scherzando. Molti di loro erano venuti a trovarmi il giorno prima per portare notizie delle mie condizioni agli altri. Tra la folla notai subito il sorriso di Stana.
Marlowe si fece avanti e, dopo essersi sincerato delle mie condizioni, mi chiese se me la sentivo davvero di partecipare ai provini. Risposi affermativamente senza esitazione.
Dieci minuti dopo io e Stana eravamo di nuovo sul set come prima del terremoto a rivedere le battute. Mancavano solo gli ultimi otto candidati quindi non sarebbe stata una cosa lunga per fortuna. Anche perché comunque il medico mi aveva detto non affaticarmi.
Il primo a entrare fu lo stesso uomo di colore che avevamo visto appena prima del terremoto. Porse il suo curriculum a Andrew e si presentò come Ruben Santiago-Hudson, 51 anni. Sentii che era non solo attore, ma anche sceneggiatore teatrale e che aveva al suo attivo pure qualche premio. Una volta conclusa la sua presentazione, Bowman gli diede un copione e lo mandò da me e Stana. Lui ci salutò con un sorriso affabile e subito mi chiese come stavo. Sembrava una brava persona. Chiacchierammo per un poco e leggemmo insieme le battute. Pareva molto disponibile e socievole.
Dopo qualche minuto Marlowe ci domandò se potevamo cominciare. Noi eravamo pronti, quindi partimmo. La prima scena, in cui Montgomery imponeva a Beckett di tenere Castle al distretto, fu fantastica. Ruben riuscì a mantenere una faccia completamente seria anche durante il botta e risposta con Stana. Fu esilarante.
“Sir, can I talk to you for a minute? In private?”
“Nope.”

A quel punto scoppia a ridere per la sua faccia da poker e per quella scioccata di Kate. Non potei farne a meno. Forse erano le pillole… boh.
La scena successiva era quella in cui parlavamo di un caso davanti alla lavagna bianca, ancora con foto e scritte di due giorni prima. Stavolta partecipò anche Jon. Ruben fu molto professionale. Ricordava bene i termini e sembrava prendere davvero a cuore il caso della vittima. L’ultima scena riguardava solo il capitano e la detective. Per certi versi era anche la più difficile perché doveva essere severo e paterno allo stesso tempo. Devo dire che ci riuscì perfettamente. Le parlò come se fosse sua figlia, ma allo stesso tempo le ordinò di prendersi una pausa dal caso che la stava coinvolgendo troppo. Non si avvicinò mai a lei, ognuno sapeva qual’era il suo posto al distretto, ma sembrava quasi che con le sue parole volesse abbracciarla e confortarla. Fu una scena davvero bella.
Dopo Ruben sentimmo gli ultimi candidati rimasti. Nessuno però mi colpì come aveva fatto lui.
Quando terminammo, un’ora più tardi, mi sentivo affaticato e avevo male alla testa. Non volevo perdermi però l’adunata finale per decidere chi sarebbe diventato Roy Montgomery. Andrew ci riunì e iniziammo a discutere. Il nome di Ruben saltò fuori ben presto. Oltre a lui, solo un altro paio di persone avremmo visto bene nelle vesti di capitano. Ci fu un breve dibattito in cui sia io, che Stana che Jon portammo avanti il suo nome. Era piaciuto a tutti e tre. Dopo venti minuti esultammo felici. Il nostro uomo era stato scelto. Ruben Santiago-Hudson era appena diventato il capitano Roy Montgomery del dodicesimo distretto di New York.

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Xiao!! :D
Scusatemi per l'atroce ritardo!! D'ora in poi vado dritto filato con sta storia, giuro! XD
Allora beh, eccoci arrivati al nostro adorato capitano! X) il prossimo personaggio credo sarà piuttosto facile da capire... XD
Un grazie enorme alle mie due consulenti-compagne di stanza Katia e Sofia!! Siete grandi ragazze e vi adoro!! <3<3
Boh, è tardi e non so che altro dire... XD Spero solo vi sia piaciuto il capitolo! :)
A presto!! :D
Lanie

ps:prima che mi dimentichi... volevo dirvi che le informazioni che uso sui personaggi sono più o meno tutte reali... l'unico personaggio "parente" che mi sono inventata è stato il piccolo Flynn nipote di Nathan perché ho scoperto solo dopo che aveva 2 nipoti femmine... X) Per gli altri sono veri! (del tipo, ma voi lo sapevate che Susan era sposata??? O.O)
Va beh, la smetto di farneticare che è tardi! XD 
Ciauuu!!
pps: buon Castle Monday!! :D:D

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Capitolo 8
*** Kevin Ryan ***


Cap.8 Kevin Ryan


Una volta scelto il nome di Ruben per la parte del capitano, mi accasciai su una sedia con i gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani. Ero sollevato perché un altro provino era andato bene, ma allo stesso tempo ero stanco e il taglio alla testa mi pulsava forte. Mi maledissi mentalmente per essere stato così fiducioso quella mattina da non portarmi dietro le pillole. Non avevo tenuto conto che anche un’ora sola di audizioni avrebbe potuto essere pesante e che alla fin fine ero ancora in convalescenza. Il medico mi aveva detto di andarci cauto e io subito, da bravo idiota, avevo cercato di strafare. Al mio solito. Fermo non ci sapevo proprio stare, vero?
In quel momento mi accorsi del tocco leggero di una mano sul mio collo scoperto. Anche senza sentire il suo odore, anche senza vederla, avrei riconosciuto una carezza di lei tra mille.
“Ehi, va tutto bene?” mi domandò dolcemente Stana, abbassandosi sui talloni accanto a me per tentare di guardarmi in faccia. Avrei voluto dirle che stavo bene e che non doveva preoccuparsi, ma era ovvio dal mio aspetto che non ero per niente in forma.
“Mi fa male la testa…” borbottai quindi tra i denti senza alzare la testa, continuando a godere di quelle carezze lievi sul collo. Non volevo che spostasse la mano.
“Dirti ‘te l’avevo detto’ servirebbe a qualcosa?” chiese con un mezzo sospiro. Il tono era di rimprovero, ma capii che non era arrabbiata con me. Sentivo anzi che stava sorridendo appena, ironica.
“Peggio…” borbottai ancora con un mezzo sorriso, alzando piano il capo per guardarla negli occhi. Stana scosse la testa come esasperata, ma vidi il sorrisetto sul suo volto.
“Dai, andiamo, ti porto dal dottor Lyas” disse dopo qualche secondo la mia partner alzandosi in piedi. Feci un piccolo verso di disappunto quando tolse la mano, ma riuscii a mascherarlo come un lamento di dolore per la testa. “Sicuramente avrà gli antidolorifici e te ne darà uno” aggiunse per confortarmi mentre mi tendeva le mani per aiutarmi ad alzare.
“Ok…” mugugnai. Mi drizzai lentamente in piedi, per evitare capogiri o nausee, tenendomi saldamente alle sue mani. Quando si dice che non tutti i mali vengono per nuocere…
Stana avvertì Andrew e gli altri che stavamo andando. Prima di uscire, Marlowe mi consigliò di stare tranquillo per un paio di giorni così da rimettermi prima in sesto. Tanto era venerdì e i provini per l’ultimo personaggio importante, il detective Kevin Ryan, sarebbero cominciati solo lunedì.
L’aria fresca all’esterno del set mi fece subito bene. Il dolore si attenuò un poco e arrivammo alla mia auto senza che il camminare minacciasse di farmi rimettere la colazione. Mi sedetti lentamente sul sedile passeggero, stando bene attento a non poggiare la testa da nessuna parte, mentre Stana si posizionava al volante. Mi sentii un po’ fuoriposto. Era strano stare nella propria auto nel lato opposto a quello di guida.
La mia partner guidò piano per cercare di farmi ricevere meno scossoni possibili, ma grazie al poco traffico, in mezz’ora arrivammo allo studio del dottor Lyas all’interno dell’ospedale. Il medico mi accolse ancora una volta allegramente. E ancora una volta mi diede l’idea di un coniglio pasquale. Quel giorno però aveva abbandonato i pantaloni al ginocchio dell’ultima volta per un paio lunghi chiari e pieni di tasche. La maglia invece era di nuovo color arcobaleno, ma con motivi diversi rispetto a quella che avevo visto due giorni prima. Mi chiesi se non ne avesse un armadio pieno a casa.
Il dottor Lyas mi tolse le bende alla testa e mi visitò. Controllò i punti e che la ferita non si fosse infettata, quindi mi rifasciò soddisfatto.
“Ottimo, signor Fillion” disse l’uomo finendo di bloccarmi la fasciatura. “La ferita è pulita e si sta rimarginando bene. Direi che può tornare per un controllo tra un cinque giorni e se sarà tutto a posto le toglierò i punti.” Sorrisi sollevato.
“E per il mal di testa?” chiese Stana più tranquilla per le parole del medico, ma preoccupata che io sentissi ancora dolore.
“Per quello può continuare con le pillole” rispose il dottore. “Però mi raccomando, non superi le dosi consigliate, ok?” Annuii convinto, sentendomi addosso lo sguardo di rimprovero di Stana per le troppe pillole che avevo ingurgitato il giorno prima. Colpa di Jon che non mi aveva controllato. “Il miglior rimedio comunque è il riposo. So che vuole tornare presto a lavorare, signor Fillion, ma come vede le è bastato poco per stare di nuovo male. Quindi non si affatichi di nuovo per almeno un paio di giorni. E con ‘non si affatichi’ intendo resti a casa possibilmente sdraiato e fermo.” Feci una mezza smorfia, ma annuii di nuovo. “Oh, e se possibile sarebbe meglio che almeno per oggi qualcuno rimanesse con lei, giusto per precauzione” aggiunse lanciando un’occhiata a Stana.
“Non si preoccupi, per oggi resto io a controllarlo” disse lei divertita. Lui le fece un sorriso di approvazione.
“Perfetto. Un’ultima cosa e la lascio andare: se la ferita inizia a fare troppo male o se vede del liquido uscire da essa, non esiti un secondo a chiamarmi o a venire da me, mi ha capito signor Fillion?” mi ammonì severo.
“Ok” risposi semplicemente. Volevo finire il più in fretta possibile per andare a riposarmi al mio appartamento. Ero stanco e il cambio di fasciatura non aveva contribuito molto a diminuirmi il male alla testa. Il dottore a quel punto mi diede una delle sue pilloline gialle per arrivare fino a casa senza troppo dolore, quindi mi affidò alle cure della mia partner.
 
Tre quarti d’ora dopo, a causa del traffico che all’improvviso aveva decido di fare la sua apparizione, arrivammo finalmente al mio appartamento. Appena entrato in casa, mi andai ad accasciare direttamente sul divano con gli occhi chiusi e la faccia appoggiata di lato al poggiatesta per evitare di far toccare il taglio. La pillola aveva fatto effetto e non avevo più dolore, ma mi sentivo spossato. Non me ne preoccupai molto. Il dottor Lyas mi aveva già avvertito che stanchezza e sonnolenza avrebbero potuto essere una conseguenza del farmaco. Cercai comunque di non appisolarmi. Non volevo che Stana rimanesse sola in casa mia mentre io dormivo.
Come se avesse sentito i miei pensieri, sentii la mia partner avvicinarsi e sedersi accanto a me sul divano.
“Come stai?” domandò piano. Percepii un tocco leggero all’altezza del ginocchio e ci misi un paio di secondi prima di capire che ci aveva appoggiato sopra la mano.
“Meglio…” mormorai con un mezzo sorriso aprendo a fatica un occhio per guardarla. Mi sentivo davvero esausto. Lei strinse appena la presa sulla mia gamba e mi sorrise dolcemente.
“Vuoi dormire un po’?” mi chiese. Scossi la testa e cercai di tirarmi su, ma Stana mi fermò per le spalle e mi fece riappoggiare di nuovo al divano.
“Non voglio dormire…” mugugnai come un bimbo che non vuole andare a letto.
“Ma dormire ti fa bene” replicò Stana paziente.
“Sì, ma poi tu saresti da sola…” mormorai. Mi accorsi che stavo scivolando lentamente nel dormiveglia su quel comodo divano. Cercai di spalancare gli occhi per non addormentarmi e battei più volte le palpebre. Stana mi guardò divertita, osservandomi però anche teneramente, mentre facevo strane facce pur di rimanere sveglio. “Non voglio lasciarti sola…” aggiunsi piano.
“Non preoccuparti per me” rispose Stana posando di nuovo la mano sul mio ginocchio come per rassicurarmi. “Tu devi riposarti. Ho visto che hai una biblioteca ben fornita, quindi leggerò un po’ per passare il tempo.”
“E se poi… e se poi mi sveglio e non ci sei?” mormorai ancora assonnato. Perché in effetti era anche quella la mia paura. Che si stufasse e, giustamente, se ne andasse via. La presa sulla mia gamba si strinse appena. Cercai di guardarla, ma mi accorsi di non riuscire a riaprire gli occhi tanto ero stanco. Quando mi si erano chiusi?
“Non vado da nessuna parte, Nathan” replicò dolcemente. “Dormi tranquillo. Quando ti sveglierai mi troverai sempre qui.”
“Pro… promesso?” riuscii a biascicare alla fine con tono insicuro. Sapevo che sembrava quasi infantile a chiederlo, ma avevo bisogno di saperlo e io ormai stavo per crollare.
“Promesso…” fu tutto ciò che riuscii a sentire un attimo prima di addormentarmi come un sasso.
 
Mi svegliai aprendo piano gli occhi e prendendo un lungo respiro. C’era un leggero odore nell’aria, molto familiare e buono. Ci misi qualche attimo prima di ricordarmi che ero semisteso sul divano. Diedi un’occhiata alla finestra del salone. Il sole aveva cambiato completamente posizione da quando ero arrivato. Aggrottai le sopracciglia. Quanto avevo dormito?
In quel momento mi ricordai della mia conversazione con Stana e del mio bisogno di riposo... Stana! Inizia a guardarmi attorno per cercarla. Muovendomi, sentii qualcosa scivolarmi di dosso e vidi che avevo addosso una coperta. Doveva avermela messa la mia partner. Sorrisi appena. Tornai a cercala, ma non la vidi da nessuna parte. Se ne era andata? E come potevo biasimarla? Stare ad aspettare il mio risveglio di certo non doveva essere molto divertente.
Sospirai rassegnato, quindi buttai la coperta di lato e mi tirai su a sedere piano. La testa non mi faceva più male, né mi pulsava. Sentivo solo il taglio tirarmi un po’, ma niente di troppo fastidioso. Mi passai una mano sugli occhi per svegliarmi completamente e fu in quel momento che sentii una porta chiudersi dietro di me. Mi girai e vidi Stana ferma nel corridoio interno a guardarmi con un sorriso. Era solo in bagno. Non se ne era andata.
“Ehi, ti sei svegliato dormiglione” mi salutò divertita. Si avvicinò e venne a sedersi sul divano accanto a me. “Allora come ti senti?”
“Bene!” risposi sorridendo. E ora anche meglio, pensai subito,ma questo non lo aggiunsi. Mi guardò scettica per un momento e io ridacchiai. “Davvero, sto bene. La testa non mi fa più male. A proposito, quanto ho dormito?”
“Qualche ora…” replicò Stana con noncuranza dando un’occhiata al suo orologio. “Sono le sette di sera.” Spalancai gli occhi. Così tanto?? Eravamo tornati che non era neanche mezzogiorno!
“Scusami, ti ho lasciata sola per tutto questo tempo!” esclamai subito imbarazzato. La mia partner scosse la testa e mi sorrise.
“Te l’avevo detto che sarei rimasta” replicò semplicemente alzando appena le spalle. “E poi non mi sono annoiata. Era un po’ che non trovavo il tempo per leggere e tu me ne hai lasciato un bel po’!” aggiunse facendomi l’occhiolino.
“Felice che il mio sonnellino ti sia stato utile” risposi ridacchiando. Poi tornai più serio. “Però davvero, mi spiace che…” La sua mano sulla mia bocca mi fermò le parole.
“Smettila, Nathan” mi rimproverò dolcemente. “Sono stata bene. Un po’ di tranquillità di serviva. E poi lo sapevi che quando dormi fai delle smorfie buffissime?” aggiunse divertita.
“Io non…” Stavo per replicare che non facevo smorfie, quando mi bloccai. Un pensiero infatti mi aveva appena attraversato la mente. “Tu mi hai guardato dormire!” esclamai con un sorrisetto furbo. Dentro di me gioivo. Stana arrossì all’istante.
“Cos… No!” replicò subito imbarazzata.
“Certo che sì!” dichiarai allegro. “Altrimenti come potresti dire che faccio smorfie quando dormo?” domandai trionfante. Stana si morse il labbro inferiore, arrossendo ancora di più. Potevo vedere che stava cercando una risposta plausibile alla mia domanda, che però non avrebbe trovato. La mia logica era inattaccabile!
“Uff, va bene” si arrese alla fine. “Forse ti ho guardato dormire… un poco…” disse cauta. Non so come mi trattenni dal fare un balletto per la stanza. “Ma solo per controllare se stavi bene!” Alzai un sopracciglio. Il sorriso sulla mia faccia diceva chiaramente Certo, come no!. “Beh visto che è tutto ok, direi che posso tornare a casa” aggiunse poi lei ancora imbarazzata alzandosi in piedi.
“Cosa??” esclamai stupito. “Di già? Non mi fai ancora un po’ di compagnia?” domandai mettendo in funzione il mio sguardo da cucciolo. “E poi il dottore ha detto che sarei potuto rimanere da solo domani o perlomeno non fino a sera. C’è ancora luce fuori, quindi non mi puoi lasciare ora!” esclamai convinto. La mia partner mi guardò con un sopracciglia alzato. “Per favore!” aggiunsi supplicandola. Lei rimase immobile ancora per qualche secondo, indecisa, mordendosi il labbro inferiore. Alla fine sospirò.
“Ok” si arrese. Io feci un mega sorriso. Poi mi venne in mente che a questo punto avrei potuto prendere due piccioni con una fava.
“Ehi, perché non ceniamo insieme? Ti cucinerò uno dei miei piatti e…” Stana alzò di nuovo un sopracciglio. “Che c’è?” domandai vedendo il suo sguardo.
“Ma non dovevi stare tranquillo tu?” replicò lei ironica incrociando le braccia al petto. Cavolo, un punto a suo favore. Sbuffai.
“Ok” replicai malinconico. “Però potremmo ordinare qualcosa!” esclamai poi con un nuovo moto di speranza. Lei ci pensò su qualche momento.
“Continuerai a chiedermelo finché non acconsentirò, vero?” domandò rassegnata.
“Vedo che mi conosci ormai” risposi ghignando. “Che ne dici di ordinare italiano?” le chiesi poi già sapendo che avrebbe ceduto. Non mi aveva ancora risposto, ma sapevo che ormai era questione di attimi. Vedevo nei suoi occhi, e da come si mordeva il labbro inferiore, che stava per capitolare. E poi l’italiana, insieme alla cinese, era la sua cucina preferita. Come avevo predetto, un momento dopo la mia partner sospirò rassegnata e annuì.
“Ok, mi ha convinto” dichiarò alla fine. Ridacchiai.
“So essere persuasivo quando voglio” affermai divertito e decisamente allegro. E come potevo non essere allegro? Stana avrebbe cenato con me! In casa mia! Cascasse il mondo, non avrei permesso a nessuno di interromperci stavolta.
 
Un’ora e mezza più tardi eravamo entrambi seduti al tavolo in cucina con diverse scatole di italiano aperte e svuotate. Forse avevo un po’ esagerato, ma avevo usato la scusa che a mezzogiorno non avevamo mangiato niente. Avevamo ordinato pasta al formaggio, patatine e due dolci differenti, ma entrambi al cioccolato, il tutto accompagnato da qualche lattina di Coca Cola. Avrei preferito poter innaffiare tutto con del vino o della birra, ma Stana mi aveva subito ricordato che non era una buona idea mescolare antidolorifici e alcool. Ci eravamo fatti portare il cibo da un ristorante che conoscevo e che sapevo essere ottimo. E ancora una volta non aveva deluso. Mangiammo tutto con gusto, spartendoci le patatine, sgraffignando pezzetti di dolce l’uno dall’altra e chiacchierando e ridendo un sacco. Era un po’ che non stavo così bene con una persona.
Avevamo appena finito quando mi accorsi che una striscia di cioccolato era rimasta appena di lato alla bocca di Stana. Le feci segno con il dito verso la macchia. Lei capì e cercò di pulirsi, ma mancò il bersaglio. Scossi la testa divertito e presi un tovagliolino. Quindi mi sporsi verso di lei e iniziai a pulire il cioccolato. Notai i suoi bellissimi occhi puntati verso di me sgranarsi all’improvviso. Aggrottai le sopracciglia, non capendo il problema. Poi mi accorsi di quanto, involontariamente, mi fossi avvicinato a lei e quanto vicino era la mia mano, anche se in parte coperta dal tovagliolo, alla sua bocca. Il cuore iniziò a pulsarmi con tale vigore che quasi mi chiesi se lei lo sentisse. La guardai negli occhi preoccupato. Sembrava… spaventata e… in attesa. Mi feci coraggio, non so se grazie alle pillole o per qualche dono divino.
Lentamente, scostai il tovagliolo in modo da permettere alle mie dita di accarezzare le sue labbra. Stana chiuse per un momento gli occhi al mio tocco e vedendola mi si mozzò il respiro. Rincuorato da quell’effetto che avevo provocato, mi avvicinai ancora di qualche impercettibile centimetro. Continuai ad accarezzarle il viso e ad avvicinarmi finché, ancora una volta, non sentii il suo respiro caldo sulla mia pelle. Dio, sarei potuto svenire in quel momento se la sua bocca non avesse avuto quell’attrazione magnetica su di me.
Una vocina nella mia testa diceva di tirarmi indietro, che non bisognava mai mischiare sesso e lavoro. Era una regola che conoscevo bene, ma per quella sera volevo fregarmene altamente. Volevo provare le sue labbra. Volevo rischiare.
Vidi il suo sguardo posarsi per un momento sulla mia bocca prima di tornare a guardarmi negli occhi. Quel giochetto mi provocò una vampata di calore. Dio, quanto era bella… e io continuavo ad avvicinarmi. Poi lei chiuse gli occhi. Il suo respiro era diventato decisamente più pesante e anche il mio stentava a normalizzarsi. Arrivai a sfiorare le sue labbra con le mie e quasi mi stupii che nessuno ci avesse ancora interrotti. Per un attimo mi mancò del tutto il respiro.
Poi Stana emise un lieve gemito che somigliava tanto a un ‘No’. Si allontanò velocemente da me, tirandosi indietro senza guardarmi, e si alzò. Prima che potesse fare anche un solo passo però, la bloccai per un polso e mi alzai anch’io. Non le diedi il tempo di muoversi o di riprendersi dalla sorpresa che l’attirai a me e la baciai. In realtà all’inizio non feci altro che appoggiare le mie labbra alle sue. Ero terrorizzato da una sua reazione e insieme mi sentivo in paradiso.
Per un momento, vista la sua immobilità, temetti che mi avrebbe scacciato e magari schiaffeggiato. Poi, l’attimo successivo, iniziò a muoversi con me. Come schiuse appena la bocca, ci intrufolai subito dentro la lingua, approfondendo il bacio.
Dio… ora potevo morire felice… La morbidezza delle sue labbra, il suo sapore… Erano qualcosa di unico. Indescrivibile. Le lasciai il polso e infilai le mani tra i suoi capelli corti senza smettere di baciarla, attirandola ancora di più verso di me. La sentii aggrapparsi alla mia maglia, alzandosi sulle punte dei piedi per arrivare meglio a me. Mi abbassai di più per facilitarle il compito, continuando comunque a baciare quelle dolcissime labbra delle quali pensavo già di non poter più fare a meno. Quando lei mi morse appena il labbro inferiore gemetti. In quel momento il suo corpo si fece più vicino al mio e il cavallo dei miei pantaloni ne risentì subito.
Passai a torturarle il collo. Il suo odore mi stava facendo perdere la testa. La mordicchiai appena sotto l’orecchio e subito un gemito le scappò dalle labbra mentre si aggrappava ancora di più a me. Sorrisi. Avevo appena scoperto un suo punto debole.
“Nathan…” mormorò piano con un tono quasi di scuse, mentre la sentivo cercare di staccarsi da me. Non le diedi il tempo di continuare che mi avventai di nuovo sulle sue labbra. Non volevo che mi fermasse. Non in quel momento. Sarei tornato con i piedi per terra più avanti, ma non in quell’attimo.
Cedette anche lei. Sentii le sue mani salire verso il mio collo e fermarsi lì per tenermi giù. Le mie invece fecero la strada opposta e scesero lungo il suo corpo. Stana rabbrividì e gemette piano sotto al mio tocco quando le sfiorai il seno. Poi, mentre tornavo a torturale il collo, le mie mani arrivarono ai suoi fianchi. Come guidate da una volontà propria, trovarono il lembo della sua maglia e ci si infilarono dentro. Da sotto i palmi potevo sentire i suoi respiri veloci e irregolari. La sua pelle era liscia e calda come la ricordavo. Avrei voluto non smettere mai di accarezzarla.
Poi però Stana iniziò a staccarsi di nuovo da me, lentamente, quasi avesse paura che non avrei sopportato la sua assenza. Si allontanò lasciandomi contemporaneamente dei piccoli baci sul viso, come se anche lei non volesse realmente spostarsi. Tentai di riavvicinarmi, ma stavolta la sua mano sul mio petto me lo impedì.
“Nathan…” sussurrò di nuovo per fermarmi. “Non possiamo…” dichiarò con voce decisamente ansante. Quello e i suoi capelli scompigliati mi fecero venire voglia di riprendere seduta stante a baciarla, ma mi trattenni. Sapevo che aveva ragione. “Abbiamo… abbiamo una serie tv da fare, ricordi?” disse alla fine. La guardai per un momento come un cane bastonato. I suoi occhi erano lo specchio dei miei: desiderosi e frustrati. Ma non avevamo scelta. E lo sapevamo entrambi.
Sospirai e feci un passo indietro, togliendo nel frattempo le mani dalla sua calda pelle. Feci per passarmi una mano tra i capelli e trattenni a stento una smorfia quando incontrai solo garze. Mi ero dimenticato del taglio alla testa.
“Scusami” mormorai con lo sguardo basso. Cercai di riprendere a respirare normalmente, sperando nel frattempo che la mia euforia per quel bacio non si fosse palesata troppo sul davanti dei miei pantaloni. “Hai ragione, noi… dobbiamo girare insieme.” Stana annuì, anche se vedevo nel suo sguardo il malcontento per quella scelta.
“Non possiamo rischiare di rovinare Castle a causa nostra…” aggiunse, come se bastasse a chiarire tutto e a farsene una ragione.
“Mai mischiare vita privata e lavoro” dissi per concludere, sospirando. Era una regola non scritta, ma che ogni persona conosceva. In qualche posto di lavoro, come nella polizia, era addirittura un obbligo. Noi eravamo due attori professionisti ed entrambi eravamo stati scelti per quei ruoli che sembravano calzarci così bene. Non potevamo mettere a repentaglio tutto, le nostre carriere comprese, per qualcosa che non sapevamo neanche definire. Avevo visto molti miei colleghi coinvolti emotivamente sul set. Non andava per niente bene, soprattutto se poi gli interessati si rendevano conto di non aver più nulla da condividere, che era stata solo una passione passeggera. Girare diventava pesante per tutti, fino a mettere a rischio il film o la serie televisiva. Non era la prima volta che accadeva. E noi non volevamo che succedesse. Entrambi tenevamo troppo a Castle per rovinarlo.
Stana si morse il labbro inferiore e annuì di nuovo alla mia massima. Fece per allontanarsi ancora di più da me, ma la bloccai.
“Dimmi solo…” mi fermai cercando le parole adatte mentre lei si girava di nuovo, cauta, verso di me. “Dimmi solo se per te ha significato qualcosa.” La guardai ansioso mentre lei spostava il peso da un piede all’altro, nervosa.
“Ha importanza?” mi domandò alla fine. Credo avesse cercato un tono di noncuranza che però non le uscì per niente.
“Dipende” replicai. Mi guardò confusa, aggrottando le sopracciglia.
“Dipende da cosa?”
“Da quanto sei disposta ad aspettare.” La bocca le rimase aperta quando capì il senso delle mie parole. Sospirai. “Stana, io non voglio perderti…”
“Chi ti dice che io non sia solo una delle tue conquiste?” mi domandò bloccandomi con una nota triste e amara nella voce. Beh, c’era da aspettarselo. Il mio passato amoroso non era certamente tra i più rosei o duraturi.
Le feci un mezzo sorriso per rassicurarla.
“Perché, per prima cosa, decisamente sarei io una delle tue…” replicai prendendo spunto dalle parole di Castle. Lei si morse il labbro inferiore e mi sorrise appena. “E poi perché… non so… non mi sono mai sentito così… vivo come mi sento quando sono con te” riuscii a tirare fuori a fatica cercando di spiegarle quello che provavo. Non lo sapevo nemmeno io in realtà cos’era. Sapevo solo che era qualcosa che non avevo mai provato per nessun’altra donna.
Stana scosse la testa sorridendo appena, un po’ rossa in volto.
“Non lo sai neanche tu cos’è…” mormorò come leggendomi nei pensieri.
“Quindi vuoi gettare via tutto?” le chiesi quasi con una nota disperata nella voce. Ero già a questo punto?
Tutto?” mi domandò con un sopracciglio alzato. “Nath, non c’è nessun tutto al momento…” Mi morsi la lingua. Che altro potevo fare se non darle ragione? Il mio ‘tutto’ era fatto più di film mentali che di realtà. Il mio ‘tutto’, in fondo, era fatto solo di un bacio. Stana sospirò passandosi una mano tra i capelli. “Senti perché… perché non lasciamo tutto come fino a prima di stasera?” domandò quasi timorosa. “Continuiamo da buoni amici, finiamo questi provini, giriamo gli episodi e vediamo come va la serie… Poi, chissà, forse quando entrambi capiremo cosa sentiamo e vogliamo… allora forse potremo riprovarci.” La guardai per un momento, soppesando le sue parole. Avrebbe voluto dire cancellare il bacio, far finta che non ci fosse mai stato, e intanto tentare di capire che diavolo ci sconvolgeva tanto senza mettere a repentaglio la serie.
Sospirai rassegnato. Sapevo già quale sarebbe stata la mia risposta. Sarei stato male, ma non c’erano alternative per il momento.
“Affare fatto” esclamai con un mezzo sorriso per tentare di alleggerire di nuovo l’atmosfera. Stana mi sorrise timidamente. Poi però tornò più seria.
“Forse ora dovrei andare…” disse, cercando forse di convincere più sé stessa che me. Agii d’istinto. Non ero ancora pronto a lasciarla andare.
“Perché non resti ancora un po’? Per un film magari…” La vidi combattuta, così la buttai sul ridere. “Giuro che non ti salto addosso!” aggiunsi alzando le mani con un mezzo sorriso furbo. Lei alzò un sopracciglio, dubbiosa.
“Perché? Non mi ritieni all’altezza?” chiese seria. La guardai a bocca spalancata.
“Cos… No!” dissi subito, preoccupato. “Io intendevo… non quello! Ti salterei addosso, sì, ma, insomma, non ti salterei stasera addosso e… no aspetta, non era quello che volevo dire!” iniziai a incespicare sulle parole, agitato, finché non notai che Stana era sull’orlo di un attacco di risa.
“Sei così facile da prendere in giro, Fillion” disse ridacchiando. Io sospirai sollevato. Poi le feci una smorfia offesa che la fece scoppiare a ridere. Alla fine, quando si fu calmata, le indicai il divano alle mie spalle con un cenno della testa.
“Allora, Katic, ti va un film?” domandai con un sorriso mettendo da parte lo scherzo. Stana rimase dubbiosa ancora per un attimo, mordendosi il labbro inferiore, poi, con mia grande gioia, annuì.
Scelse un film dalla montagna di dvd che avevo e ci accomodammo sul divano per guardarlo. Eravamo abbastanza vicini perché le nostre braccia si toccassero, ma senza andare oltre. Su di noi stesi la coperta che mi ero ritrovato addosso qualche ora prima, al mio risveglio. Circa a metà film, Stana, ormai stanca, appoggiò la testa alla mia spalla e io, lo ammetto, ne approfittai subito per far passare il mio braccio intorno alle sue spalle. Lei mi lanciò un’occhiata come a dire ‘bada a quel che fai’, ma io le risposi con un sorriso angelico. Alla fine crollammo entrambi addormentati, e praticamente abbracciati, sul divano.
 
La luce proveniente dalla finestra mi svegliò. Sbattei le palpebre contro la luce, quindi mi stiracchiai per riprendermi dalla posizione non propriamente comoda in cui ero rimasto tutta la notte. Con mio grande sollievo notai che il taglio non mi faceva male nonostante ci avessi dormito sopra. Alzando gli occhi, vidi che la tv era spenta. Guardai accanto a me e mi accorsi in quel momento che il divano era vuoto e freddo. Sbuffai. Era la seconda volta nel giro di poche ore che mi risvegliavo da solo.
Nello scostarmi la coperta di dosso, sentii un lieve fruscio. Cercai la fonte di quel sottile rumore e mi accorsi che un foglio di carta era caduto in terra accanto ai miei piedi. Curioso, lo presi e lo osservai. Nonostante l’avessi vista poche volte, riconobbi subito la scrittura di Stana. Anche perché chi altro avrebbe potuto lasciarmi quel biglietto?
 
Buongiorno dormiglione!
Scusa se ti lascio di nuovo da solo, ma ho un po’ di cose da fare oggi e non potevo rimandarle. Avrei voluto dirtelo di persona, ma dormivi così bene che non ho voluto svegliarti. Comunque se durante la giornata avessi bisogno di qualcosa non esitare a chiamarmi, ok? Ricordati che il dottor Lyas ha detto che non devi fare sforzi, mi raccomando. E non prendere troppe pillole!
Inoltre volevo dirti che, nonostante tutto, ho passato davvero una bellissima serata. Grazie di tutto. Davvero.
Ci vediamo lunedì sul set!
Xoxo Stana
Ps: per non disturbarti ho preso il paio di chiavi di casa tua in più che ho trovato sul tavolo accanto alla porta. Te le restituisco appena ci vediamo. Riposati.
 
Sorrisi come un idiota senza riuscire a trattenermi. Tralasciando il fatto che mi avesse abbandonato in casa da solo, il bigliettino mi aveva mandato su di giri. Un po’ per la sua preoccupazione verso di me, un po’ per le sue parole. E un bel po’ per quel ‘xoxo’, ovvero il suo modo di scrivere ‘baci’. Cavolo, se fossi stato sveglio forse almeno uno me lo sarei beccato…
La chiacchierata della sera prima però mi fece tornare subito con i piedi per terra e con il morale sotto le scarpe. No, quasi sicuramente non me ne avrebbe dati di baci. Guardai il biglietto e sospirai. Beh, almeno così potevo immaginare che me ne avesse dato perlomeno uno. Chiusi gli occhi e tornai alla sera prima. Avevamo detto che dovevamo dimenticare, ma non volevo farlo subito. Ero stato troppo bene. Le sue labbra che si muovevano sulle mie, calde e morbide, i suoi piccoli gemiti…
Rabbrividì di piacere involontariamente. Poi scossi la testa. Qualcosa al cavallo dei miei pantaloni stava già iniziando a muoversi solo al suo ricordo. Mi alzai velocemente diretto in bagno per prepararmi a una bella doccia gelata prima di colazione.
 
Passai tutto il sabato e la domenica a poltrire sul divano insieme a un libro e, sporadicamente, a un po’ di televisione e qualche visita di amici. In pratica avevo preso alla lettere il consiglio di Stana: Riposati. Sì, l’aveva detto anche il dottore, ma lui non era sexy come la mia partner.
Più di una volta mi venne voglia di prendere il telefono e chiamarla, solo per sentirla, ma ogni volta mi tratteneva il nostro accordo e il pensiero del suo sguardo assassino. Anche se era incredibilmente bella anche quando era esasperata… Dio, stavo proprio messo male! E poi non sentirla e immergermi nella lettura mi dava la possibilità di tenere la mente il più possibile occupata. Altrimenti non avrei fatto altro che pensare a lei, al suo sorriso, al suo corpo, alle sue labbra… Insomma avrei passato la giornata sotto un getto di doccia ghiacciata. E di certo non avrebbe aiutato molto la mia salute fisica e mentale.
In quei due giorni passarono a trovarmi praticamente tutti i miei futuri colleghi. Tamala fu la prima che si presentò alla mia porta nel primo pomeriggio di sabato. Da come mi interrogò, su come stavo e tutto, ebbi come l’impressione che poi sarebbe andata a riferire tutto a una certa sua amica neo detective. Dovevo stare attento a ciò che dicevo. Dopo di lei seguirono Molly insieme a Susan. La domenica invece venne a farmi un po’ di compagnia Jon insieme al nuovo capitano del 12th, Ruben. Ebbi modo di passare un po’ di tempo con lui e compresi che avevo visto giusto al provino. Era davvero un tipo simpatico e disponibile.
Alle loro visite si aggiunsero le chiamate di Terri, anche per conto del marito, di Bowman, dei miei e di mio fratello.
L’unica da cui non ricevetti notizia era anche l’unica per la quale mi tuffavo sul telefono o alla porta ogni volta che suonavano. Stana infatti non si fece né sentire né vedere. Ma forse fu meglio così. Forse stare un paio di giorni lontani avrebbe solo schiarito le idee a entrambi. E magari evitato anche che l’incontro che avremmo avuto ai provini il giorno dopo si trasformasse in qualcosa di imbarazzante. Eppure io continuavo a guardare la porta, sperando di vedere il suo volto sbucare, oppure il telefono, dal quale ogni volta pregavo di sentir uscire la sua voce. Non potevo farci niente. Nonostante tutti gli accordi, tutte le belle e giuste parole, non potevo farne a meno. Mi mancava.
 
Lunedì mattina mi sentivo decisamente più in forma e allegro. Non presi neanche la pillola gialla per il dolore. Non ne sentivo il bisogno, nonostante la fasciatura fosse ancora ben presente sulla mia testa. Neanche il taglio mi infastidiva. Mi lavai e mi preparai per andare agli studios.
Una volta arrivato sul set del distretto, dove avremmo fatto i provini per il detective Ryan, cercai quasi inconsciamente (sì, certo, a chi volevo darla a bere??) Stana. Non la vidi da nessuna parte, ma notai Jon, Tamala e Molly chiacchierare appoggiati a una delle scrivanie in mezzo alla sala. Mi chiesi cosa ci facesse la piccola Quinn sul set. Lunedì non era giorno di scuola?
“Ehilà, buongiorno!” li salutai avvicinandomi a loro.
“Giorno, bro” replicò Jon facendomi un cenno con la testa. Le due ragazze mi salutarono con un sorriso.
“Dì un po’, tu, non dovresti essere a scuola?” domandai con un sopracciglio alzato a Molly. “Ho promesso a tuo padre di prendermi cura di te. Per quanto apprezzi il fatto che tu voglia lavorare con un fusto come me…”
“Un fusto rotto” commentò ironico Jon a mezza voce. Gli feci una smorfia, ma tirai dritto come se nulla fosse mentre la piccola e Tam ridacchiavano.
“…non credo sia davvero il caso di saltare già giorni di scuola” conclusi. Molly scosse la testa.
“Oggi non dovevo andare” replicò divertita. “Per tutto il giorno ci saranno una serie di conferenze per quelli dell’ultimo anno così che possano decidere in che college andare.” La guardai dubbioso per un momento, poi annuii. “A proposito, cos’è questa storia di te e mio padre che vi siete messi d’accordo?” mi chiese poi lei di rimando con un sopracciglio altrettanto alzato. Ops.
“Cazzo…” borbottai prima che riuscissi a trattenermi.
“Fillion, evita le parolacce in presenza di una minorenne per favore” mi richiamò scherzoso Marlowe apparso in quel momento.
“Perché non ti fai pagare ogni volta che ne dice una?” aggiunse divertita Tamala facendo l’occhiolino a Molly. Sgranai gli occhi e scambiai uno sguardo preoccupato con Jon. Non che fossi un gran bestemmiatore, eh, solo che a volte scappava.
“Perché no?” dichiarò sorridente la piccola. Furba la ragazzina. Aveva preso la palla al balzo. Sbuffai, ma in fondo aveva ragione. Era una minore e dovevo imparare a trattenermi. Insomma, per quanto sembrasse strano, ero un adulto e dovevo prendermi qualche responsabilità.
“Ok…” dissi tirando fuori un dollaro dal portafoglio e porgendoglielo. “Però!” mi bloccai tirando su la mano e portando la banconota lontano dalla sua presa. “Lo stesso varrà anche per gli altri!” aggiunsi. Quindi allungai di nuovo la mano con sopra il dollaro a Molly, come a sigillare un patto. Lei mi guardò per un momento pensierosa, poi sorrise e mi strinse la mano. Quindi mi sfilò la banconota dalle dita.
“Affare fatto” replicò intascandosi i soldi. Sentii dietro di me Jon mugugnare rassegnato, mentre Andrew e Tam ridacchiavano.
“Ehi, che fate? Vi lascio soli un momento e iniziate a fare scommesse clandestine?” La voce divertita di Stana mi fece voltare immediatamente. Le sorrisi, senza riuscire a trattenermi, per salutarla e lei ricambiò con piccolo sorriso mentre arrossiva un poco. Quanto era bella quella donna quando arrossiva?
Sbattei le palpebre cercando di tornare con i piedi per terra.
“Non erano scommesse clandestine!” replicai quindi fintamente seccato. “Tamala ha suggerito a Molly il modo migliore per spillarci soldi e metter via la paghetta” aggiunsi lamentoso scuotendo la testa. “Ogni parolaccia è un dollaro.” Stana guardò verso la piccola come a chiedere conferma. Quando lei annuì, la mia partner sorrise divertita e le fece l’occhiolino. “Ehi!” esclamai offeso. “Non vorrai entrare anche tu in combutta con loro! Sono il tuo partner! Dovresti essere dalla mia parte!” Stana alzò appena le spalle cercando di non ridere.
“Scusa, partner” replicò rimarcando l’appellativo. “Ma la loro squadra mi attira di più. In fondo è quella che guadagna, no?” aggiunse ironica indicando la tasca in cui Molly aveva infilato il dollaro. Socchiusi gli occhi e la squadrai. Sul serio??
Un lieve schiarimento di voce ci fece ricordare che non eravamo gli unici sul set e che c’era un motivo se eravamo lì.
“Ragazzi, rimarrei ore a sentirvi discutere” disse Marlowe divertito. “Ma abbiamo un provino da fare. Quindi prendete i copioni e preparatevi.”
Qualche minuto dopo io, Stana e Jon stavamo studiando le nostre parti per le audizioni. Erano tre scene. Nella prima l’aspirante detective avrebbe dovuto destreggiarsi su una scena del crimine con Beckett. Nella seconda invece ci sarebbe stata una discussione, sempre sul caso, con la donna, ma anche con Castle ed Esposito. L’ultima scena invece sarebbe stata un botta e risposta solo fra i due detective maschi. Secondo quanto ci aveva già detto Marlowe infatti, nella sua testa Esposito e Ryan erano come due fratelli.
Mentre leggevamo, ne approfittavo per guardare sottecchi la mia partner. Sembrava che il bacio-che-non-c’era-stato di un paio di sere prima non avesse intaccato il nostro rapporto. Anzi in qualche modo sembravamo addirittura più rilassati. Forse il fatto che avessimo messo tutto in pausa ci rendeva entrambi più tranquilli.
Poco dopo arrivarono anche Susan e Ruben che, dopo averci salutato calorosamente, si andarono a sedere accanto a Tamala e Molly nei posto loro riservati vicino al tavolo dei produttori. Bowman ci annunciò che c’erano solo una trentina di candidati, quindi non sarebbe stata una cosa troppo lunga. Sospirai sollevato a quella constatazione. Avevo paura che la testa ricominciasse a pulsarmi dolorosamente se mi fossi stancato troppo. Terri arrivò all’ultimo, salutando comunque tutti con un sorriso, e si sedette accanto al marito. Marlowe a quel punto ci chiese se eravamo pronti. Annuimmo tutti e tre e Andrew chiamò la sua assistente, Isabel, per dirle di cominciare a far entrare i candidati.
Il primo a entrare fu un uomo piuttosto in carne con i capelli castani tagliati a spazzola e un’aria familiare. Lo squadrai inclinando appena la testa. Lo avevo già visto da qualche parte. Quando si presentò e diede il suo curriculum a Marlowe capii perché. Si chiamava Colby French e, oltre ad aver avuto diversi altri ruoli, era stato anche in Heroes, una serie televisiva di cui avevo visto qualche puntata.
French finì di parlare con Andrew e Rob e fu mandato da noi. Ci venne incontro con un sorriso sereno e allo stesso tempo sincero. Sembrava un tipo tranquillo e con un’aria tenera da orso di peluche.
“Benvenuto ai provini aspirante detective!” lo salutai divertito quando gli strinsi la mano. Lui ridacchiò e scosse la testa come a dire ‘ne riparliamo quando finisco’. Gli passammo un copione e lui si fece subito serio mentre gli dava un’occhiata. Quindi provammo qualche battuta prima che Marlowe ci chiedesse se eravamo pronti.
La prima scena andò liscia. Si muoveva sicuro intorno al manichino che era stato messo a terra per simulare il corpo della vittima e anche i termini da poliziotto scambiati con Stana/Beckett sembravano non creargli problemi. Anche la scena successiva andò bene. Rispondeva a tempo con ognuno di noi sul caso e sembrava in effetti un vero poliziotto. Pure l’ultima scena alla fine non andò male, anche se non ci convinse del tutto. Colby era un tipo simpatico e scherzava tranquillamente con Jon/Esposito, ma serviva qualcosa di più. Sembravano semplicemente amici e noi volevamo un rapporto quasi fraterno tra i due. Un po’ di sana bromance insomma. Ovviamente non contavamo di trovarla da subito, ma chissà. Marlowe era stato fortunato con me e Stana per Castle e Beckett, magari lo sarebbe stato anche per Esposito e Ryan.
 
Due ore dopo eravamo arrivati finalmente all’ultimo candidato e, lo confesso, stavamo per gettare la spugna. Si erano presentati molti attori più o meno bravi, qualcuno con il quale avevamo anche stretto amicizia in poco, ma non ce ne era stato uno che avesse quel qualcosa in più che cercavamo. Solo French era stato vicino a quel traguardo.
Cercai di passarmi una mano tra i capelli, ma poi mi ricordai della benda intorno alla mia testa e mi limitai schiaffarmi la mano in faccia per svegliarmi. Fortunatamente non avevo dolore, ma mi sentivo stanco. Guardai Stana accanto a me e la vidi scuotere la testa sconfortata con gli occhi rivolti alla schiena del candidato appena uscito dalla porta. Buon attore, ma dalla faccia di Jon avevo capito subito che non gli andava troppo a genio. In effetti era un po’ troppo pieno di sé.
Sospirai e mi passai, mugugnando appena, i palmi delle mani sugli occhi. Un attimo dopo sentii una leggera carezza dietro al collo. Sorrisi senza farmi vedere. Sarebbe stato da stupidi chiedersi chi fosse. Solo lei mi avrebbe fatto provare quel brivido con una semplice carezza.
“Dai, Nate, ancora uno e poi possiamo staccare” mormorò dolce. Quanto mi sembrava suonare bene il mio nomignolo sulle sue labbra?
Alzai la testa e le sorrisi per rassicurarla sulle mie condizioni. Quindi annuii. In quel momento entrò l’ultimo candidato e io mi rialzai dalla sedia sulla quale mi ero accasciato. Scossi la testa per riprendermi un poco e osservai il nuovo arrivato. Era un uomo piuttosto giovane dalla pelle chiara, capelli castani con un gran ciuffo sulla testa e occhi azzurri. Indossava una camicia a quadretti grigiastri con il collo aperto e un paio di jeans neri.
Diede il suo curriculum a Andrew e si presentò come Seamus Patrick Dever, 32 anni. Secondo quanto potevo sentire, Dever aveva recitato in singoli episodi di differenti serie televisive ed era apparso anche in qualche film. A quanto pareva lo avevano appena scritturato, all’inizio dell’anno, come personaggio più o meno ricorrente nella soap opera General Hospital e nella serie Army Wives. La serie non la conoscevo, ma la soap sì. Era una delle più longeve e famose della televisione americana. Poco dopo Marlowe lo mandò da noi. Dever ci salutò con un sorriso allegro e strinse la mano a tutti e tre. Noi ci presentammo e gli passammo un copione.
“Wow, devo impararmi tutti questi termini??” domandò scherzando Seamus mentre leggeva la parte riguardante la scena del crimine. “Posso usare dei fogliettini?”
“Solo se fai dare una sbirciata anche a me” rispose Jon ridacchiando.
“Andata” replicò l’altro con tono complice. Li guardai curioso. Quindi feci un mezzo sorriso e scambiai un’occhiata con Stana. Lei ricambiò il mio sguardo divertito e speranzoso. Possibile che avessimo trovato ciò che cercavamo?
Dopo qualche momento provammo le tre scene. In effetti Seamus faticò a ricordare i termini polizieschi, ma allo stesso tempo sembrava molto professionale e quando sbagliava rimaneva sorridente senza essere irritante. Fu però nella parte tra Esposito e Ryan che avemmo la conferma dei nostri sospetti. In qualche modo, Jon e Seamus riuscivano a comportarsi già come se si conoscessero da una vita, scherzando e infilando anche un paio di battute loro nella scena. Erano semplicemente fantastici. Alla fine fecero addirittura un feed the birds senza che fosse richiesto.
I due si scambiarono subito i numeri di telefono e poco dopo Seamus ci salutò e se ne andò. A quel punto ci riunimmo, attori e produttori, per decidere chi sarebbe diventato il detective Ryan. Ovviamente però non poteva andare tutto liscio. Stavolta ci fu un problema. I possibili detective erano due: Colby French e Seamus Dever. Il fatto era che non riuscivamo a decidere quale fosse il migliore. Il primo era molto professionale e simpatico, ma era con il secondo che Jon aveva trovato quel feeling che cercavamo, anche se faticava un po’ di più. Ma in fondo chi di noi nasce genio? Il problema era farlo capire a quei produttori-seguaci delle mie scarpe che sembravano non volerne saperne di Dever. Pensavano che, visto che French aveva già una base di fan, forse avrebbe portato qualcuna delle sue ammiratrici a vedere la serie. Non avevano capito che Castle avrebbe avuto in ben poco tempo un fandom sicuro. Di questo ne ero certo.
Alla fin fine dopo un’ora non eravamo ancora arrivati a niente e Marlowe fu costretto a rimandare la scelta a dopo pranzo. Non ci avevamo mai messo così tanto per decidere un personaggio. E avevo come l’impressione che non sarebbe bastato nemmeno il pomeriggio.
 
Come avevo immaginato, perdemmo altre due ore in conclave dopo pranzo, prima di capire che in questo modo non saremmo arrivati a niente. Marlowe decise che avremmo dovuto risentire French e Dever. Magari fuori dal set, giusto per vedere come se la cavavano con noi. Se Colby avesse acquisito quel pizzico in più con Huertas allora sarebbe stato dentro, se invece Seamus fosse riuscito a districarsi un poco con i termini polizieschi e avesse confermato il suo feeling con Jon, allora sarebbe entrato lui. Da quello che intuivo però, sembrava che Andrew avesse comunque l’intenzione di dare una parte a ognuno dei due. Certo, la differenza sarebbe stata che uno sarebbe stato fisso nel posto del detective Ryan, mentre l’altro invece avrebbe fatto forse da ospite per una puntata o due.
Alla fine concordammo sul rimandare la decisione. Andrew ci lascò andare a casa e disse che avrebbe pensato a qualcosa per risolvere la questione. Prima di tornarmene al mio appartamento, rimasi un poco a parlare con gli altri. Scoprii che io, Jon, Stana e Molly eravamo più orientati su Seamus. Tamala, Ruben e Susan invece non avevano ancora scelto. Venti minuti dopo ci salutammo e ce ne andammo.
Quella sera stessa Marlowe mi chiamò per dirmi che a sua moglie era venuta un’idea.
“L’idea di Terri sarebbe quella di una passeggiata al parco o una gita o qualcosa di simile. Giusto per vedere a colpo d’occhio chi si trova meglio con chi. Tu ci staresti?” Sorrisi. Adoravo le gite fuori porta con gli amici!
“Certo che ci sto!” replicai subito allegro.
“Pensavamo di fare anche qualcosa di un po’ più elaborato, come una gita in barca” aggiunse Andrew pensieroso. “Ma in effetti quella forse è meglio lasciarla per quando abbiamo già deciso tutti gli attori… Tu che dici, ti piacerebbe come idea?” Non so come diavolo feci a non iniziare a non saltellare di gioia per la stanza. Un gita in barca!! E mi chiedeva anche se mi piaceva!! Cavolo, non solo voleva dire ridere e scherzare con gli altri per mezza e più giornata, ma c’erano anche buone probabilità di farsi un bel bagno. E questo voleva dire buone probabilità di vedere Stana in costume. Come poteva il mio livello di gradimento non salire a livelli stellari??
“Uhm… sì, sì, è una buona idea” risposi come se stessi perdendo tempo a pensarci su. “Ci sto!”
“Ottimo” replicò Andrew allegro. “Comunque per il momento iniziamo a pensare per questa gita, ok? Però dovrà essere un giorno entro settimana prossima, non oltre. A te andrebbe bene comunque?”
“Sì, certo” risposi. “Basta che mi fate sapere il giorno esatto” aggiunsi divertito.
“Ovvio” ribatté. “Mica posso fare una gita di gruppo con gli attori senza il mio protagonista!” disse ridacchiando. “Ora chiamo gli altri e ti faccio sapere, d’accordo?”
“Ok. Oh, a proposito, perché non settimana prossima?” chiesi poi curioso.
“Perché gli altri dovranno andare a vedere come si lavora in una vera centrale di polizia” rispose Andrew semplicemente facendomi spalancare gli occhi e la bocca dalla sorpresa. “La sezione omicidi del 20th distretto di Los Angeles ci ha già dato il permesso. Per una settimana Stana, Jon, Ruben, Tamala e Colby o Seamus, bisogna vedere chi verrà scelto, seguiranno un paio di detective e l’anatomopatologo del distretto. Non andranno davvero sulle scene del crimine, ma gli spiegheranno come si lavora sul campo e in centrale per gli interrogatori e nel raccogliere informazioni…”
“E perché io non lo sapevo??” domandai ancora stupito e anche un po’ risentito.
“Perché Castle non è un detective!” rispose ridacchiando Marlowe per il mio tono. “Tu imparerai insieme allo scrittore come si vive in una centrale di polizia.”
“Ma… ma…” balbettai. Stavo per mettermi a piangere. Entrare in una vera centrale di polizia e parlare con dei veri detective all’opera senza dover essere vittima, sospettato o assassino!! Era una cosa fantastica!! E io me la sarei persa!! “Andrew ti prego, manda anche me!” lo supplicai. “Sarò buono, non toccherò niente e guarderò solo senza aprire bocca!”
“Nath, non posso, ho già detto che sarebbero venuti solo i futuri det…”
“Ti prego!!” lo interruppi implorandolo. Sì, probabilmente ero peggio di Castle, ma io non avevo agganci con il sindaco, quindi in qualche modo dovevo pur fare, no?
Ci fu un momento di silenzio. Quindi il sospiro rassegnato di Marlowe.
“Va bene, vedrò che posso fare, ok?” Ebbi di nuovo l’impulso di saltellare per il salone. “Però non ti prometto niente!” aggiunse velocemente.
“Grazie, Andrew! Sei un amico” replicai sincero ed esaltato insieme. Con un po’ di fortuna sarei entrato in un vero distretto di polizia. Ma quanto figo sarebbe stato??
 
Mi richiamò un’ora e mezza dopo, mentre, inquieto ed eccitato, facevo zapping compulsivo sul divano non trovando nulla di decente da vedere. Appena vidi il suo nome lampeggiare sul telefono presi immediatamente la chiamata.
“Ehi, Andrew allora??” domandai impaziente senza dargli la possibilità di parlare. “Ci sono tutti per il giro?? Posso andare anche io al distretto??”
“Posso parlare?” mi chiese divertito Marlowe. “Allora per prima cosa ci saranno tutti per la scampagnata e, se a te va bene, il giorno migliore per tutti sarebbe venerdì, soprattutto perché Molly non ha lezioni per un altro giro di conferenza per i futuri collegiali alla sua scuola. Ti crea problemi?”
“No, è perfetto” replicai sorridente. Giovedì sarei andato a farmi togliere le bende e i punti dalla testa, quindi venerdì era davvero l’ideale.
“Va bene, allora confermiamo per venerdì” disse Andrew. Sentii dei fogli muoversi dalla cornetta. Probabilmente si stava appuntando l’impegno da qualche parte.
“E per il distretto invece?” continuai con speranza e ansia represse.
“Giusto” rispose come ricordandosi in quel momento dell’altra mia richiesta. Ma dal tono divertito avevo come l’impressione che invece l’avesse fatto apposta per farmi rimanere sulle spine. “Ho chiamato la detective capo del 20th, Dana Flanders, e ha detto che ti concede mezza giornata al distretto...” Beh, mezza giornata era meglio che niente. Cacciai un urlò di felicità senza lasciarlo finire.
“EVVAI!! Grazie Andrew!!” Lui ridacchiò.
“Di nulla.”
“A proposito… Flanders? Come quello dei Simpson?” chiesi divertito.
“Ah, ecco, bravo che me lo hai ricordato! Ha aggiunto una condizione: se fai un solo commento sul suo cognome ti sbatte fuori dal distretto a pedate.” Rimasi in silenzio per qualche secondo. Però, niente male come donna. Si era già documentata su di me? Wow!
Ridacchiai.
“Ok, prometto che farò il bravo” gli assicurai. Ci salutammo e riagganciai. Quindi spensi finalmente la tv e mi stravaccai sul divano con le mani dietro la testa, gongolando. Sarei stato in vero distretto di polizia!!
 
Venerdì, il giorno designato per la nostra gita, mi alzai presto e sorridendo. Mi infilai subito sotto la doccia, mi feci la barba canticchiando con solo l’asciugamano attorno alla vita, facendo un po’ il figo allo specchio, lo ammetto, e alla fine tornai in camera per vestirmi. Optai per la comodità, pensando che, secondo le previsioni, sarebbe stata una giornata calda, una delle ultime prima dell’arrivo del freddo: un paio di pantaloni blu scuri al ginocchio, una maglietta a maniche corte azzurra, scarpe da ginnastica e, per concludere, occhiali da sole per aumentare il fascino. Appena fui pronto mi guardai allo specchio e sorrisi soddisfatto, passandomi anche una mano tra i capelli. Il giorno prima mi avevano tolto i punti, quindi ora ero libero anche dalle garze. Il dottor Lyas mi aveva avvertito solo di non toccare, né infastidire in qualunque modo la ferita appena richiusa. La cosa migliore era che i miei capelli erano abbastanza lunghi da andare a coprire il taglio, nascondendolo alla vista. Nonostante facesse molto macho, volevo evitare che la gente rimanesse a fissarmi la testa.
Andai in cucina per fare colazione e dieci minuti dopo ero pronto per la nostra passeggiata. Prima di uscire mi preparai due panini con prosciutto, formaggio, insalata e maionese. Quindi recuperai lo zainetto che mi ero preparato il giorno prima e ce li infilai dentro. Controllai di non aver dimenticato niente. Panini, c’erano. Acqua, c’era. Crema solare, c’era. Cappellino, c’era. Portafoglio, c’era. Chiavi, c’erano. Cellulare, c’era. Macchina fotografica… manca!
Mi guardai subito intorno come sperando che apparisse dal nulla davanti ai miei occhi. Dove diavolo l’avevo lasciata? Ci pensai su qualche secondo, quindi mi ricordai di averla abbandonata sul comodino di camera mia. Proprio per non dimenticarla. Che genio.
Andai in camera e trovai subito la macchinetta dove l’avevo lasciata. Quindi tornai in salone e la misi nello zaino. In realtà probabilmente avrei fatto le foto con il cellulare, ma preferivo stare tranquillo. A quel punto ero davvero pronto per andare. Diedi un’occhiata all’orologio e decisi di avviarmi.
Alla fine avevamo deciso di non fare nulla di troppo stancante. Saremmo andati tutti al Malibu Bluffs Park, a circa un’ora di auto da Los Angeles. Non ci ero mai stato, ma Molly e Seamus sì e ne avevano parlato davvero bene. Avremmo fatto un giro nel grande parco e poi un pic-nic con vista mare solo per chiacchierare e divertirci. Anche per scegliere il più adatto tra Colby e Seamus in effetti, ma questo era un altro discorso. E poi Jon aveva promesso che avrebbe portato anche un pallone!
Un’ora dopo, come previsto, vidi un grande cartello di benvenuto all’entrata del parco e appena più in là il parcheggio. L’ingresso era gratuito, uno dei pochi ancora esistenti negli Stati Uniti, ma non c’erano molte macchine visto che era ancora un giorno settimanale. Non osavo immaginare quel posto di sabato e domenica.
Parcheggiai e scesi dall’auto cercando con lo sguardo uno qualunque dei miei compagni. Dopo qualche secondo di ricerca vidi finalmente Jon farmi segno con la mano da sotto una tettoia, creata apposta per non stare sotto il sole, nel cottage all’ingresso del parco che offriva cartine e avvisava sui comportamenti da tenere. Recuperai lo zaino dal sedile passeggero e lo raggiunsi. Vidi che, oltre a lui, erano già arrivati anche Colby, Andrew e Terri. Il tempo di salutarli e un’altra macchina entrò nel parcheggio. Era Susan insieme alla piccola Molly. Cinque minuti dopo arrivarono contemporaneamente altre tre auto: una era quella di Stana, che portava con sé anche Tamala; la seconda era di Ruben; la terza era quella di Seamus. Con lui c’era una donna, piccolina, capelli biondi e occhi di un colore che non avevo mai visto, come verde mare. Ci sorrise radiosa e per nulla imbarazzata quando Seamus la presentò come Juliana Dever, ovvero sua moglie. Jon si lasciò sfuggire un fischio mentre le stringeva la mano.
“Però, amico, ti tratti bene!” esclamò guardando la donna con la bocca semiaperta. “Senti, non è che ha una sorella?” lo sentii chiedere a Seamus a bassa voce quando sua moglie si voltò per presentarsi a Stana.
“Sì, ce l’ho una sorella, Jon” replicò la diretta interessata, ancora di spalle, divertita. Vidi Jon sgranare gli occhi per la sorpresa per essere stato beccato. “E se farai il bravo magari te la farò conoscere!” aggiunse poi voltandosi e facendogli l’occhiolino. Mentre Jon aveva ancora la faccia del pesce lesso, Seamus gongolava.
“E’ mia moglie!” mi disse allegro.
Qualche minuto dopo, tutti armati di mappa e con zaini o borse in spalla, partimmo per la nostra camminata. A far tutto il giro, secondo l’omino all’ingresso, ci avremmo messo un paio d’ore se ce la fossimo presa con calma e se avessimo seguito il percorso panoramico consigliato.
Mi guardai in giro. Non molto lontano dall’ingresso riuscivo a vedere i famosi campi per lo sport di cui mi aveva parlato Molly. Anche da lontano potevo vedere il ‘diamante’ del campo di baseball e poco più in là tre diversi campetti per tennis, pallavolo e basket. Quando Jon li vide mi diede un colpetto con il gomito e aprì lo zaino per farmi vedere un pallone arancione scuro con righe nere perfetto per la pallacanestro. Gli sorrisi allegro e mi fece l’occhiolino. Magari al ritorno saremmo riusciti a organizzare una partita.
Visto che erano le undici passate e il sole era già alto e caldo, tirai fuori il mio cappellino dallo zaino, mettendomelo poi in testa.
“Ehi, guarda che qui non c’è nessun paparazzo da cui nascondersi!” esclamò Colby divertito vedendomi con gli occhiali da sole e il cappello. Alzai le spalle e feci per replicare, ma non feci in tempo ad aprire la bocca che qualcosa, meglio qualcuno, mi distrasse. Stana si stava mettendo della crema solare nello scollo a V della sua maglietta a maniche corte mentre chiacchierava con Susan. E poi anche sulle gambe coperte solo da un paio di pantaloncini che le arrivavano a mezza coscia… Deglutii e distolsi lo sguardo. Per lo meno se fossi svenuto avrei potuto attribuirlo a un colpo di calore causato dal Sole invece che dalla mia partner.
 
Nella prima mezz’ora passai diverso tempo a chiacchierare con Ruben e Tamala. Mi stava davvero simpatico quell’uomo. Con la coda dell’occhio intanto tenevo sotto controllo il resto del gruppo. Andrew era preso in un’animata discussione con Colby riguardo ad alcuni film. Stana, Susan, Juliana, Terri e Molly stavano parlando dei luoghi che avevano visitato o che avrebbero voluto vedere. Jon e Seamus chiacchieravano invece di sport e videogiochi. Notai però che la piccola Molly continuava a distrarsi. Cercare di fare la ragazza seria e restare con noi solo a parlare, ma sapevo che non avrebbe resistito molto. La vedevo che si guardava tutt’attorno come se volesse vedere più cose possibili intorno a sé. La capivo. In fondo aveva solo quindici anni e parlare sono con adulti poteva essere noioso, soprattutto se, come a lei, ti piaceva la natura e avevi voglia di esplorarla. In quel momento vidi il mare, di lato a noi, che iniziava a spuntare da una delle collinette del parco. Poiché ero il più alto, fui il primo a vederlo, ma in poco anche gli altri se ne accorsero e ci fermammo a osservarlo da una piccola altura. Sotto di noi c’era un’insenatura naturale con un breve tratto di spiaggia contornata da rocce. Era davvero bello e il mare calmo rendeva quasi magico quel luogo.
A un certo punto vidi un piccolo sentiero laterale e mi venne un’idea. Mi avvicinai a Molly.
“Ehi, piccola, che ne dici di andare a fare un po’ di esplorazioni?” domandai allegro. Lei spalancò gli occhi alla mia domanda, non pensando che qualcuno avrebbe voluto scendere là sotto. Ma evidentemente ancora non mi conosceva bene. Se c’era da esplorare qualcosa, io mi ci buttavo dentro.
“Davvero vuoi scendere?” mi domandò infatti dubbiosa. Annuii. Lei mi sorrise subito felice ed eccitata io sentii una piccola stretta al petto. Era così che si sentiva un padre quando faceva felice la figlia?
“Dai andiamo!” le dissi allungandole la mano. Lei la prese senza esitazione e mi seguii. Appena prima di scendere però mi fermai e mi voltai. “Qualcun altro ha voglia di scendere?” domandai. Vidi diverse facce indecise, più che altro per l’altezza dalla spiaggia e per il sentiero stretto. Sì, in effetti era piccolo, ma facendo attenzione si poteva scendere facilmente. “Ok, se siete troppo fifoni allora noi andiamo, vero Molly?” commentai ridacchiando. Non feci in tempo a finire la frase che ci fu un coro di voci in protesta, prima fra tutti quella di Stana che si avvicinò e diede uno schiaffetto alla visiera del mio cappello per farmelo scendere sugli occhi.
“Non darmi della fifona, Fillion, o potresti pentirtene” esclamò lei a metà tra il divertimento e la minaccia.
“Non vedo l’ora…” mormorai quando mi passò davanti in modo che non mi sentisse nessuno. Evidentemente non fu abbastanza piano perché Stana si girò, mi lanciò un’occhiataccia e poi scosse la testa divertita.
Alla fine scendemmo io, Molly, Stana, Jon, Seamus, Juliana e Tamala. Andrew, Terri, Susan, Ruben e Colby, insieme ai nostri zaini, invece rimasero sull’altura a osservarci divertiti, e forse anche un po’ preoccupati, mentre cercavamo di non ruzzolare giù dal sentiero roccioso. Tenni la mano alla piccola Molly per tutto il tempo della discesa. Non volevo che si facesse del male per un’idea che era venuta a me. Quando fummo davanti al mare però, sulla spiaggia soffice, capimmo che le nostre fatiche erano state ricompensate. Era bellissimo. Il mare si stendeva calmo davanti a noi e le rocce sembravano avvolgerti come in un abbraccio. Avevo ragione. Sembrava davvero un luogo magico.
“Non vogliamo fare una partitina a beach volley, vero??” domandai eccitato agli altri dopo qualche minuto di contemplazione.
“Beach volley?” domandò Stana con un sopracciglio alzato. Annuii subito. “Scortatelo” dichiarò tornando a guardare il mare.
“Perché no?” domandai con lo stesso tono di un cane bastonato.
“Per il beach volley serve, oltre che il pallone, il costume, Fillion.” Certo che lo sapevo.
“E quindi?” chiesi candidamente.
“Quindi scortatelo” ripeté Stana divertita. “Non reggeresti alla vista di me in bikini…” Sbuffai.
“Io volevo farlo proprio per questo…” borbottai. Mi arrivò un altro colpo sul cappello. Gli altri risero. Pensavano che stessimo solo scherzando. Non potevano sapere quanto fondo di verità ci fosse in quelle battute.
Poco dopo, io, Molly e Stana partimmo alla ricerca di possibili conchiglie sulla spiaggia facendo intanto esplorazioni tra le rocce laterali. Jon e Seamus presero a lanciare sassi per vedere chi lo mandava più lontano, mentre Juliana e Tamala si sedettero all’ombra sulla spiaggia a chiacchierare.
Venti minuti dopo Andrew ci richiamò. Conchiglie ne avevamo trovate ben poche, ma c’erano un mucchio di sassi strani tra i quali ne recuperammo uno grigiastro con striature verdi, uno che sembrava blu a pallini bianchi e un ultimo grigio scuro con venature bianche che era un perfetto ovale.
Prima di risalire tirai fuori il cellulare e scattai qualche foto in giro, sia al panorama sia ai miei compagni di scampagnata, compresi i cinque che erano rimasti sopra di noi ad aspettarci. Lo ammetto, scattai diverse foto a tutti, ma soprattutto a Stana. La presi anche in un momento in cui sembrava un po’ pensierosa a guardare il mare mentre una leggera brezza le scompigliava i capelli. Sembrava una visione. Una visione a cui non mi sarei mai abituato, ne ero certo.
Tre quarti d’ora dopo eravamo a circa metà giro del parco e trovammo una piccola collinetta con dei tavoli in legno attrezzati per pic-nic. La vista sul mare era spettacolare. Ci sedemmo tutti su uno dei tavoli più lunghi e iniziammo a tirare fuori viveri e vivande. Fu in quel momento che scoprii che Seamus e Juliana erano vegani. I loro panini sembravano fatti apposta per dei conigli tanto erano pieni di verdure. Molly sembrò molto interessata a quello stile di vita. Per conto mio, non credo sarei mai riuscito a rinunciare alla carne. Ero un carnivoro convinto.
Andò a finire che il pic-nic fu un mezzo pranzo poiché, dopo i panini, Juliana tirò fuori un’enorme ciotola piena di frutta in pezzi, mentre Susan aveva pensato bene di fare una torta per tutti. Diedi un’occhiata alle loro borse, stupito. Dove cavolo le avevano nascoste fino a quel momento quella mega teglia e l’insalatiera gigante??
Per tutto il pranzo continuai a fare foto qua e là ai presenti e al cibo. Feci anche una fantastica foto a Jon e Seamus, entrambi con due panini in bocca, che mi guardavano con gli occhi spalancati come se avessi interrotto il pranzo più importante della loro vita. Mi diedi da fare con le istantanee, in qualche modo mi avevano onorato del ruolo di fotografo ufficiale delle gita, e riuscii a farne anche alcune molto belle, come una con tutte le donne del gruppo sorridenti insieme, subito seguita da una foto di noi uomini con le facce e le pose più idiote che potessimo pensare. Altre molto belle erano quelle con le coppie Andrew-Terri e Seamus-Juliana. Sembravano sempre bellissimi insieme, qualunque espressione avessero.
A un certo punto Tamala mi rubò il telefono e iniziò a fare qualche foto a me in gruppo insieme ad altri o da solo in qualche posa stupida. Ne fece però anche qualcuna seria: in una ero insieme a Molly, seduto accanto a lei sulla panca con un braccio intorno alle sue spalle come a proteggerla; in un’altra ero con Stana. Avevo cercato di chiacchierare un po’ con lei, ma quando c’è tanta gente è sempre difficile beccare una persona da sola. Tamala aveva trovato proprio quel momento per farci una foto. Quando mi ripresi il telefono e vidi l’istantanea, sorrisi. Stana e io eravamo seduti uno accanto all’altro e semplicemente ci guardavamo. Avevo appena detto una cavolata e lei mi aveva ripreso a suo solito. Tam aveva colto esattamente il momento dopo. Quello in cui, per un attimo, avevo sperato di essere di nuovo solo con lei nel mio appartamento una settimana prima.
Finalmente ci convincemmo ad alzarci e a concludere il giro. In realtà non volevo già che finisse, ma poi mi ricordai che c’erano ancora i campi sportivi alla fine del percorso. Magari una partitella sarebbe scappata.
Il resto del parco era altrettanto bello, anche se senza la vista mare che avevamo costeggiato nel primo tratto. Qui c’era più verde e in lontananza potevamo vedere le collinette che separavano la spiaggia di Malibu dalla cittadina. Quando rividi il diamante del campo di baseball, guardai l’ora. Erano passate da poco le tre del pomeriggio.
“Abbiamo già finito?” domandò Molly sospirando. Il mio pensiero era lo stesso, ma subito scambiai un’occhiata con Jon e sorrisi.
“Forse no” replicò Huertas aprendo il suo zaino militare e tirando fuori il pallone da basket che mi aveva fatto vedere all’inizio del giro. Lo lanciò appena in aria facendolo girare e lo riprese sul dito indice continuando a farlo ruotare. Lo guardai a bocca aperta. Io era una vita che ci provavo e non ci ero mai riuscito! “Allora, chi vuole fare una partita?” domandò divertito Jon facendo segno con la testa verso uno dei campetti laterali del parco.
 
Dieci minuti dopo eravamo tutti al campo di basket a fare le squadre. Marlowe, Terri e Susan non vollero partecipare e si sedettero su alcune panchette laterali al campo per osservarci giocare e fare il tifo. Ruben disse di essere troppo vecchio per unirsi a noi, ma che non si sarebbe tirato indietro per il ruolo dell’arbitro. Alla fine quindi rimanemmo in 8. Cercammo di fare delle squadre equilibrate (nel senso che cercai in tutti i modi di stare nella stessa squadra di Stana), ma alla fine decidemmo di fare maschi contro femmine. Io, Jon, Seamus e Colby contro Stana, Tamala, Juliana e Molly. Noi eravamo più forti e alti, ma loro erano decisamente più veloci e agili.
Lasciammo giù zaini, occhiali e cappellini e ci preparammo. Da galantuomini, lasciammo a loro tenere la palla e scegliere il campo. Quindi Ruben diede il via e partimmo. Dopo mezz’ora eravamo già completamente sudati e ansanti e il risultato era 16 a 18 per noi. Cavolo, erano davvero svelte quelle quattro! Stargli dietro era un’impresa, soprattutto a Molly. Ci passava davanti che neanche un fulmine!
Terri faceva ovviamente il tifo per le donne, Andrew per noi e Susan semplicemente ci osservava giocare ridendo di noi maschi che cercavamo di bloccare quelle quattro e che ci incasinavamo da soli.
Dopo tre quarti d’ora eravamo 26 a 24 per loro e decidemmo di fare una pausa per riprenderci. Mi sedetti stancamente su una panchetta e recuperai la bottiglia d’acqua dal mio zaino.
“Ragazzi, ci stiamo facendo fregare!” esclamò Jon concitato riunendoci come se fosse una vera partita dell’NBA. Lanciò un’occhiataccia alle quattro ragazze che stavano parlando allegramente, ignare dei nostri piani malefici.
“Che pensi di fare?” domandò Colby. Il ghigno sul volto di Jon mi fece preoccupare.
“Le distraiamo ovviamente!” rispose convinto. Lo guardammo straniti. Lui sbuffò e ci spiegò il piano con la pazienza di un adulto che spiega un concetto facilissimo a un bambino idiota. Anzi a tre bambini idioti.
Quando concluse ci guardò con le braccia incrociate davanti al petto, fiero di sé stesso. Noi ci osservammo dubbiosi.
“Lo sai che una di quelle donne è mia moglie, vero?” domandò alla fine Seamus poco convinto. Jon annuii.
“Ovvio” replicò. “Ma se guarderà un fusto latino come me, non so proprio che farti” aggiunse come se fosse mortificato, scherzando. Dever fece una smorfia e io e Colby ridacchiammo. Poi mi voltai a guardare le ragazze. Stavano riprendendo fiato semisdraiate sulle panche. Notai che sembravano divertirsi parecchio ad additarci di nascosto e a ridacchiare. Juliana inoltre sembrava essere quella più maliziosa. Il che era tutto dire, visto che c’era anche Tamala nel gruppo. Sperai che non mi traviassero la piccola Molly oppure avrei dovuto fare io i conti con suo padre…
“Seam, posso farti una domanda?” chiesi a Seamus. Lui, che stava bevendo, annuì mentre buttava giù un sorso d’acqua.
“Dove hai trovato tua moglie?” domandai curioso. Sembravano così perfetti l’uno per l’altra, da quel poco che avevo visto, che quasi mi chiesi se fossero stati scelti apposta per stare insieme.
Dever sorrise e guardò verso sua moglie.
“Qualche anno fa venni a Los Angeles per cercare lavoro nel mondo del cinema. Purtroppo sai anche tu come vanno queste cose, no?” commentò lanciandomi un’occhiata. “Si comincia con la gavetta: qualche secondo di film, un apparizione in un episodio di una serie e poi in un’altra, senza alla fine nulla di concreto. Dovevo pur mantenermi però, no? Perciò mi cercai un lavoro…”Annuii. Sapevo sì come andavano queste cose. Non era scontato che ti prendessero da qualche parte e magari ci voleva un po’ prima che qualcuno si accorgesse di te e ti desse la possibilità di mostrare le tue doti. Nel frattempo dovevi pur vivere e per vivere serviva una fonte di guadagno. Io stesso, prima di affermarmi come attore, avevo fatto qualche altro lavoretto per mantenermi. “Beh, trovai un lavoro presso una libreria, al banco della cassa. Non so neanche come accadde…” aggiunse non riuscendo a nascondere un enorme sorriso, lo sguardo perso nel ricordo. “So solo che un giorno me la ritrovai davanti che mi chiedeva se potevo darle qualche informazione su un libro. L’aiutai a trovare il libro, quindi parlammo per un po’ e, prima di lasciarla andare, le diedi il mio numero di telefono. Non l’avevo mai fatto prima… non con qualcuna conosciuta così da poco comunque!” continuò ridacchiando. “Da lì è cominciata la nostra storia… e da due anni siamo sposati.”
“Wow…” mormorai stupito. “Come un incontro casuale possa cambiarti la vita, eh?” commentai sinceramente felice per loro. Lui annuì, ancora perso a guardare Juliana.
“Beh, una bella storia, fratello” esclamò all’improvviso Jon per fuoriuscire da quel momento nostalgico che si era creato. “Ma ora che ne dici di insegnare a tua moglie e alle sue amiche come si gioca a basket?” domandò con un sorrisetto divertito.
“Allora, ragazzi, vi siete ripresi o avete bisogno ancora di tempo?” ci urlò proprio in quel momento Tamala ridacchiando. “Certo che non siete un granché come uomini, vi stancate facilmente…” Prendemmo quel commento come un oltraggio personale. A un cenno di Jon, tutti e quattro ci togliemmo le magliette, rimanendo a petto nudo. Colby non era molto in forma, ma si vedeva ancora che da giovane, seppure ben piazzato, aveva avuto dei bei muscoli. Seamus al contrario era in forma, ma un po’ pallido. Jon era ovviamente palestrato. Io, nonostante tutto, facevo la mia porca figura. Pancetta ne avevo giusto il minimo, nonostante ancora sfottessero a volte sul fatto che avevo sempre fame, ma ero pronto a scommettere che almeno una delle quattro donne, quella che in realtà mi aveva già visto a petto nudo, non trovasse per niente male quella visione.
Avevo appena fatto in tempo a pensarlo che mi voltai verso le quattro e notai Stana fissarmi mentre si mordeva il labbro inferiore. Sentii Terri fischiare in segno di approvazione mentre Andrew borbottava qualcosa. Tamala stava squadrano piuttosto attentamente Jon e Juliana ovviamente sembrava non avere occhi che per il marito. Anche se mi accorsi che anche lei lanciava qualche occhiata altrove.
Ruben ci guardò con un sopracciglio alzato, ma poi, divertito, ci diede il via libera per giocare. Ricominciammo la partita che erano quasi le quattro. Devo dire che all’inizio la trovata di Jon ebbe il suo effetto. Le ragazze erano un po’ distratte e noi segnammo diversi punti. A un certo punto però si accorsero del loro errore. Stana, per il caldo o per vendetta, si annodò i lembi della camicia che indossava appena sotto il seno lasciando la pancia scoperta. Inutile dire che a quel punto fui io quello rimasto intontito. Potevo vedere il sudore colarle in piccoli rigagnoli lungo la pancia e la vista mi diede più di un brivido lungo la schiena.
In qualche modo a un certo punto i contatti fra le due squadre divennero decisamente più frequenti, anche se molto meno per Molly e Colby. Ad esempio non fu raro a un certo punto vedere Seamus bloccare Juliana praticamente abbracciandola dalle spalle oppure Tamala che quasi si attaccava alla schiena di Jon per fermarlo. Oppure ancora io che cercavo in tutti i modi di fermare Stana prendendola per la vita. In realtà accadevano anche i casi misti, in cui ad esempio ero io a bloccare Tamala o Jon a fermare Juliana e così via, ma quelle erano avvenimenti meno frequenti.
In un’azione mi vidi arrivare Stana davanti, palla alla mano, sorrisetto in volto, che cercava il passaggio migliore per sorpassarmi e andare a canestro. Ah, no, se pensava che gliela dessi vinta così si sbagliava di grosso!
La vidi andare a sinistra prima che scattasse al contrario verso destra. Riuscii a bloccarla per un pelo con un braccio, contro cui si schiantò con la pancia. Non mollò la palla però. Così la strinsi per la vita da dietro, il mio petto contro la sua schiena, per cercare di bloccarle i movimenti e prenderle la palla. Lei lanciò un urlo, che era a metà una risata, quando la tirai su dalla vita per fargliela mollare. A quel punto lanciò la palla a Tamala sulla destra. Nel passargliela però fece un movimento brusco che fece sbilanciare entrambi e ci fece cadere a terra abbracciati mentre ancora ridevamo.
L’attimo dopo mi ritrovai una Stana ansante, accaldata e sorridente con i capelli scompigliati, le mani sul mio petto, la pancia scoperta e i leggins corti, sopra di me. Non smisi di respirare solo perché ero già a corto di fiato per la partita. Senza pensarci la strinsi appena di più a me e con il pollice le carezzai il fianco scoperto. Il calore del suo corpo sul mio stava già per farmi un brutto scherzo quando lei stessa capì la situazione e si alzò velocemente da me, rossa in volto. Il lamento che mi uscì il momento dopo riuscii per fortuna a farlo passare per un dolore alla testa dato dal taglio appena rimarginato.
Decidemmo di smettere di giocare. Finì 56 a 52 per le ragazze, ma ci sarebbe stato tempo per una rivincita in futuro. Erano le cinque passate ed era ora di rientrare, senza contare che eravamo tutti stanchi, soprattutto noi che avevamo giocato la partita. Ci risistemammo, recuperammo gli zaini e ci avviamo lentamente all’uscita del parco.
Prima di rientrare nelle auto, rimanemmo qualche minuto a parlare nel parcheggio, aspettando che Marlowe finisse una telefonata che aveva iniziato poco prima. Qualche minuto dopo riagganciò e si riavvicinò a noi soddisfatto. Il primo ad andarsene fu Colby, seguito a ruota dai coniugi Dever.
“Ehi, ci conto per tua sorella, eh!” gli gridò dietro Jon ricordandosi della battuta di Juliana all’inizio della nostra passeggiata. La donna gli fece un segno con la mano per salutarlo mentre, ridacchiando, si allontanava abbracciata al marito. Li guardai felice per loro anche se con un po’ di invidia. Avrei voluto anche io essere fortunato come Seamus. Mentre formulavo quel pensiero, i miei occhi si spostarono subdoli su Stana. Dio, quanto avrei voluto ancora stringerla a me… Ma ormai avevamo fatto il nostro accordo. Prima la serie. Poi noi.
Prima che ce ne andassimo anche noi, Marlowe ci disse di presentarci la mattina dopo agli studios alle nove. A quel punto salutai tutti, salii in macchina e partii alla volta di casa, pensieroso.
 
Il mattino dopo mi presentai come concordato sul set del distretto, dove vidi già appostati tutti i produttori-seguaci di Andrew insieme al regista stesso, a Bowman, Molly, Ruben e Stana. Durante la serata avevo preso una decisione. Salutai tutti, quindi mi feci coraggio e mi avvicinai alla mia partner prima che arrivassero gli altri e fosse ora di cominciare la riunione.
“Posso… posso parlarti un momento?” le chiesi cercando di mascherare la mia ansia. Lei mi guardò curiosa per un attimo, quindi annuì e con me si spostò di qualche passo, in modo che gli altri non ci sentissero.
“Cosa volevi dirmi?” mi domandò Stana sorridendo.
“Ecco io…” cercai di rispondere, ma iniziai a balbettare. Che fine aveva fatto il bel discorso che mi ero preparato nella mia testa?? “Io stavo… stavo ripensando all’altra sera e... e a quello che si siamo detti e io non…” Non riuscii a concludere che il suo cellulare squillò.
“Scusami…” mormorò imbarazzata. Le feci segno con la testa che andava tutto bene e che poteva rispondere. Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e rimase un secondo a fissare telefono, dubbiosa. L’attimo prima che portasse il telefono all’orecchio, riuscii a leggere il nome del chiamante: Justin. Justin? Nessuno dei suoi fratelli si chiamava Justin e lei non l’aveva mai nominato. Chi diavolo era Justin??
“Pronto?” rispose mentre io attendevo, impaziente e nervoso. Sbuffai appena cercando di non farmi sentire. “Sì, ciao Justin.” Continuai ad attendere mentre la osservavo con la coda dell’occhio, come se sapessi che la cosa non doveva riguardarmi. “Domani sera?” chiese Stana esitante. Non voltarmi a guardarla fu impossibile. La vidi mordersi il labbro inferiore incerta. Poi alla fine sospirò e sorrise appena. “Va bene, ok, vada per domani sera.” Non seppi perché, ma fu in quell’attimo che sentii qualcosa dentro di me lacerarsi. Rimasi ad annaspare alla ricerca d’aria. Mi accorsi a malapena di Stana che salutava lo sconosciuto e riattaccava. “Scusa…” disse alla fine rivolta a me, mentre infilava di nuovo il telefono in tasca. “Era… un amico” aggiunse esitante senza che fosse richiesto. Ma da come lo aveva detto avevo capito che mentiva. Annuii piano. “Allora, cosa… cosa volevi dirmi?” mi chiese poi un po’ agitata. Continuava a torturarsi le mani. Aprii la bocca per replicare ma non ne uscì suono. Cosa potevo dirle? Che volevo invitarla ad uscire con me, non come semplici amici? Che avevamo sbagliato a stipulare quel ‘patto’? Che mi sarebbe piaciuto provarci con lei? Che avevo voglia di spaccare la faccia al tipo a cui aveva appena detto che avrebbe passato la sera successiva? Che non avrei voluto altro che stringerla di nuovo contro di me? Che non volevo altro che riassaggiare le sue labbra? Potevo dirglielo? Sì. Ma non lo feci.
“Niente” replicai con un mezzo sorriso forzato. Insomma che razza di attore ero?? “Niente di importante” aggiunsi più convinto. Stana aggrottò le sopracciglia, confusa. Vedevo nei suoi occhi che voleva sapere cosa avevo, ma per fortuna Marlowe ci chiamò a raccolta proprio in quel momento e ci portò via da quell’angolo che per me era diventato decisamente stretto.
Presi posto su uno sgabello e scossi la testa per riprendermi. In fondo forse era stato meglio così. Che cosa mi era venuto in mente? Non potevamo rischiare ora di mischiare lavoro e vita privata. Sarebbe stato uno sbaglio. Forse in futuro, chissà…
Senza volerlo i miei occhi cercarono Stana e la trovarono quasi subito accanto a Tamala, due sedie più in là di me. Sembrava tranquilla, anche se notavo perfettamente quella sua rughetta di espressione tra le sopracciglia. Presi un respiro profondo e cercai di allontanarla dalla mia mente. In fondo uscire con qualcun altro non era una così cattiva idea. Magari avrei potuto finalmente rispondere alle chiamate di quella modella bionda mozzafiato che avevo incontrato a una cena qualche sera prima.
Sbuffai e mi passai una mano tra i capelli. Cercai di concentrarmi. Alla fine mi decisi a lasciare i miei problemi emotivi fuori e a pensare alla discussione di Andrew con i produttori per la nomina del detective Ryan. Marlowe gli stava raccontando del giorno prima e di alcuni particolari che avrebbero fatto propendere per Colby o per Seamus. Venti minuti dopo votammo. E sorrisi. Avevamo trovato il nostro uomo. Seamus Dever era appena diventato ufficialmente il detective Kevin Ryan del dodicesimo distretto della omicidi di New York.

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Xiao!! :D
Prima di dire qualsiasi cosa, mi scuso per il ritardo, ma ho avuto un po' di casini (università compresa) e non sono riuscita a scrivere... poi è arrivato Watershed (*________*) e il giorno dopo ho scritto un terzo del capitolo che mi mancava! XD
Ok niente spero vi sia piaciuto! :) Volete indovinare il prossimo personaggio? X)
Un grazie enorme a Katia e Sofia, le mie due confidenti e compagne di stanza con cui ho sclerato per tutto questo tempo e che mi hanno sopportato e aiutato quando mi facevo venire mille fisime mentali per la storia! XD (anche quando abbiamo scoperto un "particolare" e ho dovuto cambiare mezza storia... XD)
Ah a proposito di questo... 1.il giro in barca lo faranno sul serio, ma poco prima dell'inizio delle riprese! 2.sono stati sul serio per un breve periodo in una vera centrale di polizia 3.il parco di Malibu esiste (da google maps se lo cercate si vedono i campi da baseball! XD) ma l'ho "ristrutturato" un pochino per esigenze di storia... XD
Ok ho parlato anche troppo! XD Grazie a chi ancora mi sopporta e aspetta paziente che mi dia una mossa! XD
A presto!! :D
Lanie

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Capitolo 9
*** Victoria 'Iron' Gates ***


Cap.9 Victoria ‘Iron’ Gates


Tre anni (e qualche mese) dopo.
Il suono improvviso della sveglia mi fece prendere un infarto. La spensi con un colpo secco e mi passai le mani sulla faccia. Erano già le 7?? Sbuffai scocciato. Quanto potevo aver dormito? Quattro ore in tutto? Se poi dormire si poteva chiamare il chiudere occhio per al massimo venti minuti per poi risvegliarsi...
Mugugnai scontento e cacciai la faccia nel cuscino. Non avevo proprio voglia di alzarmi. Se poi pensavo a una delle scene che avremmo dovuto girare nel giro di qualche ora, avevo solo voglia di rintanarmi ancora di più tra le coperte. Che senso aveva tanto passare da una litigata all’altra? La sera prima con Serena, in giornata con Stana! Beh, non proprio con Stana, ma con Kate. Nel pomeriggio avremmo dovuto registrare la scena dell’ultimo episodio della stagione a casa Beckett con Kate e Rick che litigavano. Poi sarebbero mancate la parte all’hangar con Ruben, che però avremmo recitato solo a sera, e quella al cimitero per i funerali di Montgomery. Tutto il resto dell’episodio era già pronto.
Mi voltai con un sospiro e rimasi diversi minuti a contemplare il soffitto, perso nei miei pensieri, prima di decidermi ad alzarmi. Passai dal bagno e poi mi diressi in cucina. Avevo voglia di qualcosa di dolce, ma allo stesso tempo non avevo voglia di preparare niente, così recuperai i cereali e una tazza di latte in cui infilai un bel cucchiaio di miele.
Appena finita la colazione, feci per tornare in camera, ma mi fermai davanti alla portafinestra del salone. La vista era stupenda: da una parte Los Angeles, dall’altra il Pacifico. Non era più quella del mio vecchio appartamento. Avevo cambiato casa poco prima dell’inizio della seconda stagione di Castle. Sinceramente non mi sarei voluto spostare da dove stavo, ma un mio vicino era diventato un fan accanito del telefilm, quasi da stalker, e io avevo adocchiato questa fantastica villetta quasi alla periferia della città. Così l’avevo comprata e mi ci ero trasferito. Dovevo ammettere di aver fatto un ottimo acquisto. Era spaziosa e con un grande giardino sul retro, ottimo per organizzare grigliate con gli amici.
La vista mi attirava. Così aprii la portafinestra e uscii sul terrazzo com’ero, in maglietta e pantaloncini. Nonostante l’orario e il fatto che fossimo ancora ad aprile, il Sole era già ben visibile e caldo sull’orizzonte. Feci qualche passo e andai ad appoggiarmi alla ringhiera del balcone. Il mio sguardo si perse oltre la linea del mare mentre i miei pensieri volavano alla litigata con la mia ragazza, Serena, della sera prima.
In fondo, senza contare il finale, era stata anche una bella serata. Eravamo stati insieme a degli amici e ci eravamo divertiti parecchio. Poi però, a un certo punto, lei aveva semplicemente pensato bene di prendere e andarsene, mollandomi lì. L’avevo poi chiamata al cellulare per tentare di capire dove fosse sparita e avevamo finito per litigare…
 
“Serena, finalmente!” esclamai appena prese la chiamata dopo il quinto squillo. “Dove sei? Perché te ne sei andata senza dire niente?” Non ero arrabbiato. Volevo solo una spiegazione, mi ero preoccupato che fosse successo qualcosa.
“Sono a casa” rispose lapidaria. Aggrottai le sopracciglia. E ora perché quel tono?
“Stai… stai bene, sì?” chiesi cauto. Ci conoscevamo da quattro mesi e stavamo insieme da tre. Probabilmente la relazione più lunga che avessi avuto negli ultimi tempi. Solo che da un po’ di tempo a questa parte, Serena a volte sembrava diventare più fredda senza che io avessi mai capito il perché.
“Sì, sto bene” replicò secca. Rimasi per qualche secondo in silenzio, confuso. Che diavolo le prendeva??
“Tesoro, se ho fatto qualcosa che non…”
“Non chiamarmi ‘tesoro’!” mi interruppe lei brusca e decisamente arrabbiata. Presi un respiro profondo per restare calmo.
“Serena, vuoi dirmi cosa c’è che non va?” le chiesi alla fine con tutta la pazienza che riuscii a racimolare.
“Non c’è niente che non va!” esclamò di rimando.
“Certo, come no!” commentai scocciato. “Senti, quando avrai deciso di darmi una spiegazione fatti sentire, ok?” aggiunsi subito dopo. Stavo per chiudere la chiamata quando mi fermò.
“No, aspetta!” Attesi qualche secondo, ma lei non aprì bocca.
“Hai intenzione di dirmi qualcosa?” domandai irritato.
“Magari sei tu a dovermi dire qualcosa!” replicò lei sarcastica. Ma che…??
“Serena, che cavolo stai…”
“Stana Katic” disse subito lei tagliandomi le parole in bocca. Rimasi zitto per un attimo, perplesso.

“Che c’entra Stana?” domandai, in quel momento più stupito che arrabbiato.
“‘Oh, ma che donna stupenda è Stana…’” iniziò a dire in falsetto. Io rimasi a bocca aperta. Stava parafrasando le parole di uno dei nostri amici mentre cenavamo. “‘Ma che intesa pazzesca avete sul set, come fate a far sembrare tutto così reale, anche il bacio pareva così sentito...’”
“Finiscila!” sibilai con la rabbia che montava. “Lascia Stana fuori da questa discussione!”
“Nathan, Stana è la causa della nostra discussione!” replicò subito lei.
“Lei è la mia partner!” replicai punto sul vivo. “È normale che…”
“Lei non è la tua partner, Nathan!” mi fermò lei con tono esasperato, come se si tenesse dentro quel peso da una vita e ora avesse deciso di rivelarmelo. “Tu e lei non siete Castle e Beckett, lo scrittore e la sua musa! Siete Fillion e Katic, due attori! Lei non è la tua partner, è la tua collega!”

“E qual è la differenza?” domandai con la rabbia che mi ribolliva nelle vene. “Illuminami, ti prego!” aggiunsi sarcastico.
“Qual è la…” ripeté lei come se fossi impazzito. “Nathan, se sei partner di Stana, allora lo sei anche di Jon e Seamus, giusto? O di Molly? O di Tamala?” Strinsi la mascella fino a farmi male, i pugni serrati. Se avessi strizzato ancora un po’ il cellulare sapevo che mi sarebbe scoppiato contro l’orecchio. Non dissi niente. Attesi, con il respiro pesante e il cuore che mi pulsava forte dalla rabbia, che finisse di parlare. Se anche avessi voluto parlare non avrei potuto, tanto la mia bocca era serrata e la mia gola secca. “Lo vedo come la guardi, sai?” disse alla fine in un sospiro, come se tutta la sua rabbia si fosse sgonfiata. “Come ti comporti con lei, come ne parli…”
“È solo lavoro…” tentai di dire, duro, per difendermi, ma lei mi interruppe ancora una volta.
“Non prendermi in giro, Nath. Per favore non farlo.” La sua voce sembrava stanca. “Tu sei una persona fantastica. Dico sul serio. Ma devi capire quello che vuoi veramente…” Sbuffai irritato e ironico alle sue parole. “Nathan, so che non è facile. Dico davvero. Stare ore e ore con una persona con cui si deve far finta di essere innamorati…” Si fermò. Non dissi niente e attesi che riprendesse a parlare. Forse voleva che le dicessi che non ero innamorato di Stana, che appunto era solo una finta e che ero in realtà follemente innamorato di lei, la mia ragazza. Se anche fosse stato così non l’avrei fatto. Non in quel momento. Alla fine sospirò. “Forse dovresti iniziare a pensare a cosa vuoi realmente, Nath. Sei un bravissimo attore e potresti cercare magari qualcos’altro da fare e…”
“Grazie delle tue perle di saggezza” risposi gelido. Mi stava seriamente suggerendo di abbandonare Castle? “Le prenderò sicuramente in considerazione.”
“Nathan…” mormorò, stavolta con tono allarmato. “Forse mi sono espressa male, io…”cercò di rimediare, ma era inutile.
“No, no, Serena, tranquilla. Ti sei espressa benissimo.” La fermai ancora più freddo di prima. “Anzi direi che ora farò esattamente quello che mi hai detto. Cercherò qualcosa d’altro da fare. Buonanotte” conclusi veloce e lapidario. Riattaccai senza nemmeno darle il tempo di replicare.

 
Sì, in effetti ormai forse avrei dovuto dire che era la mia ex-ragazza.
Mi passai una mano tra i capelli. Da tre anni a questa parte con quante delle mie ex avevo avuto simili discussioni? Quasi tutte? E l’argomento centrale era sempre lei: Stana. Eppure ogni volta, all’inizio, ero ben chiaro. Io e Stana lavoravamo insieme e se il copione diceva ‘baciatevi’ noi lo dovevamo fare, che ci piacesse o meno.
In quel momento mi venne in mente Trisha, la ragazza con cui stavo all’epoca del mio bacio con Stana nell’episodio Knockdown. L’avevo avvertita che avremmo dovuto baciarci e a lei sembrò andare bene. Poi qualche giorno dopo Trisha venne sul set e mi convinse a farle vedere in anteprima il bacio. Mi lasciò il giorno seguente, al culmine di una litigata sul come ‘io non l’avessi mai baciata come avevo fatto con la mia collega’ nella registrazione. E che potevo farci? Dirle che non era vero? Andiamo, chi volevo prendere in giro!
Lasciai vagare ancora una volta lo sguardo sul mare e miei pensieri tornarono proprio a quel giorno, a quella scena, a quel bacio. Solo in quel momento, quando avevo attirato le labbra di Stana sulle mie, avevo capito come stavano davvero le cose. Solo quel giorno avevo compreso perché non riuscissi a tenermi una ragazza per più di qualche tempo: perché avevo creduto di aver dimenticato il sapore della sua bocca. Invece mi ero accorto infatti di non averlo mai fatto. Non ero riuscito a scordare quel sapore. Neanche volendo. Avevo tentato di nasconderlo a me stesso, cercando un gusto migliore in altre labbra. Che idea stupida e impossibile.
La cosa divertente tra l’altro era stata che io stesso, proprio per paura di non riuscire a lasciarla andare, avevo detto a Stana che mi sarei lavato i denti con del tonno. Sorrisi al ricordo. Lei aveva risposto che avrebbe provveduto a trovare dell’aglio. Quell’idea l’avevo preso da Laura Prepon, ossia Natalie Rhodes, l’attrice che avrebbe dovuto interpretare Nikki Heat e che tentava di copiare Kate. Prima di baciarmi infatti, Laura si era mangiata una scatola di Pretzel con burro d’arachidi. Avevo sentito subito il sapore strano e particolare, per nulla simile a quello che immaginavo avrebbe dovuto avere. Avevo sperato che con del tonno, che mi ero sparso davvero sui denti, e l’aglio, che sperai avrebbe usato Stana, il risultato sarebbe stato lo stesso: non percepire il gusto corretto. E invece mi ero completamente sbagliato. Ma come avrei potuto sapere che per non sentirla avrei dovuto mangiare io tonno e aglio per un mese??
Chiusi gli occhi, ricordando il suo sapore. Una leggera brezza mi scompiglio il ciuffo, ma non me ne curai. Non faceva freddo. Anzi, iniziava a fare decisamente troppo caldo. E di certo non era a causa della temperatura esterna. Ero io che producevo calore al ricordo di Stana contro il mio corpo, mentre la tenevo stretta per il viso, quasi con il terrore che scappasse. Mi ricordai che durante le riprese, automaticamente, avevo cercato di approfondire il bacio, ma non ci ero riuscito perché lei si era staccata da me (come diceva il copione e come io avevo completamente dimenticato). Subito dopo era scoppiata a ridere e il mio cuore aveva perso un battito. Lavorare con lei mi permetteva di scherzare con lei e farla ridere spesso, ma erano anni che non eravamo così vicini e che Stana non mi sembrava così allegra. Non so neanche io bene in realtà perché avesse riso. Forse per la mia faccia da pesce lesso. Avevo visto le foto che ci avevano fatto e si vedeva chiaramente che ero rimasto semi paralizzato. Altrimenti l’altra possibilità era che fosse una risata liberatoria per Castle e Beckett, che finalmente si erano baciati. Possibile anche questa visto che Stana era tra le prime fan di quei due. O forse era semplicemente scoppiata a ridere perché aveva sentito che io mi ero davvero spalmato del tonno sui denti e lei l’aglio, esattamente come, scherzando, avevamo detto di fare. Come due simpatici idioti. Forse, alla fin fine, era stato un mix di tutto.
Quella constatazione mi fece tornare un mezzo sorriso sulle labbra. Scossi al testa divertito e rientrai in casa. Notai di sfuggita l’ora e feci un verso sconfortato. Avevo cinque minuti per cambiarmi e cercare di non fare tardi agli studios.
 
Tre quarti d’ora dopo entrai sul set della casa di Beckett. Appena arrivato, Kristen, la mia truccatrice e assistente tuttofare, mi prese per un braccio e mi tirò nel mio camerino lamentandosi del mio ritardo. Sarà stata alta al massimo un metro e cinquanta, tanto che dovevo sempre sedermi o abbassarmi perché arrivasse alla mia faccia, ma era tra le migliori e soprattutto non era il caso di farla arrabbiare. A meno di non volersi ritrovare una furia contro. Una furia di cinquanta chili che neanche mi arrivava alla spalla, ma sempre una furia.
Come al solito, Kristen mi diede gli abiti che avrei dovuto indossare nei panni di Castle mentre mi spiegava come si sarebbe svolta la giornata delle riprese e quello che aveva intenzione di fare Marlowe. Conoscevo il copione, ma poteva capitare che ci fossero degli inconvenienti e che quindi bisognasse rifare qualche scena o cambiare qualcosa nel programma delle riprese. Kris mi comunicò che avremmo girato al mattino e per parte del pomeriggio la scena a casa di Beckett, poi avremmo raggiunto l’hangar dell’eliporto, creato appena fuori gli studios, e fino a tarda sera avremmo registrato lì la morte di Montgomery.
Mi cambiai velocemente. L’abbigliamento era piuttosto informale rispetto agli standard di Castle, ma molto comodo: jeans neri, camicia grigio chiaro con sottili righe più scure e giacca marroncina. Al solito lasciai un paio di bottoni aperti al collo e richiamai Kristen. La donna mi truccò per le riprese e mi sistemò i capelli, quindi mi spedì in scena.
Casa Beckett era occupata da un gran viavai di tecnici che facevano gli ultimi controlli di interni, luci e telecamere. Io e la mia partner saremmo stati gli unici attori sul set quella mattina, visto che la scena post morte di Montgomery con Jon e Seamus a casa di Kate eravamo riusciti a registrarla il giorno prima e Ruben sarebbe arrivato solo nel pomeriggio.
Notai Stana seduta al tavolo al centro della sala che ripassava il copione. Indossava semplicemente un paio di jeans chiari, un maglietta a maniche corte grigia e un paio di scarpe basse nere. Sembrava estremamente concentrata e pensierosa. E sempre bellissima.
Feci lo slalom tra un paio di cameraman intenti a discutere su quale fosse l’angolazione migliore per le varie riprese e la raggiunsi.
“Ehi” la salutai per manifestare la mia presenza. Stana alzò la testa dai fogli e mi sorrise.
“Ehi” replicò. “Come va? Pronto per la scena?” Annuii come se fosse tutto normale, cercando di far finta di niente, ma spostai lo sguardo sulla sala affollata per non doverla guardare negli occhi. Avevo ancora in mente la litigata con Serena.
Come se mi avesse letto nel pensiero, il mio telefono squillò e vidi il nome della mia ex su di esso. Rifiutai la chiamata con uno sbuffo. Era dalla sera prima che continuava a chiamarmi e quella doveva essere la decima volta che non rispondevo. Stana mi guardò interrogativa, ma io scossi la testa e non dissi niente. E poi che avrei potuto dirle? Che era lei il mio problema?
“Ragazzi, potreste spostarvi un momento?” domandò Andy, uno dei cameraman. “Dobbiamo controllare le postazioni della sala.”
“Sì, certo” esclamammo entrambi. Stana si alzò e ci spostammo fuori dalla sala per lasciar lavorare i tecnici. In quel momento mi suonò di nuovo il telefono. Ancora una volta rifiutai la chiamata con un gesto nervoso. Se aveva avuto il coraggio di chiedermi se volevo lasciare Castle, allora non aveva capito niente di me e non aveva neppure rispetto per il mio lavoro. Mi decisi a scriverle un veloce messaggio, sperando che finalmente capisse il concetto.
 
Lasciami in pace, Serena. Sei già stata abbastanza chiara ieri sera e non ho voglia di litigare di nuovo. Quindi smettila di chiamarmi.
 
Non era granché lasciare le persone in questo modo, ma mi ero stufato.
“Uh, Nath, tutto bene?” La voce di Stana mi fece sobbalzare.
“Sì, sì, scusa” risposi infilandomi di nuovo il cellulare in tasca. Mi guardò con un sopracciglio alzato.
“Davvero? Perché questa mi sembra almeno la terza volta da quando sei entrato che non rispondi alla chiamata…”
“E allora?” replicai brusco. Non volevo essere scortese anche con lei, ma ero già abbastanza irritato di mio.
Allora, tu rispondi sempre” dichiarò Stana. Sbuffai e strinsi la mascella. “Problemi con Serena?” mi chiese alla fine cauta dopo qualche secondo di silenzio.
“Perché, a te che ti importa?” risposi secco. Cazzo, il mio problema sei tu Stana! Tu e la mia testa bacata che non riesce a smettere di pensarti!
Lei mi guardò male, ferita dalla mia risposta.
“Sono tua amica…” cercò di dire, ma io la bloccai.
“Ah, è questo che siamo?” le domandai sarcastico. Le parole mi erano uscite quasi spontanee, citando quelle che, avevo imparato, Beckett avrebbe detto a Castle durante la loro discussione.
Lei mi guardò stupita per un momento. Quasi mi aspettai che mi rispondesse come Rick: ‘Non lo so cosa siamo’. Ma non fece in tempo perché Bowman venne proprio in quel momento a chiamarci per girare. Senza aspettare oltre mi voltai e mi portai direttamente dietro la porta dell’appartamento di Beckett. Sentii gli ultimi spostamenti al di là della porta e ne approfittai per cercare di riprendere la calma. Respirai a fondo per un paio di volte, cercando di ricordarmi che stato d’animo dovesse avere Castle. Preoccupato senza dubbio. La sua partner stava rischiando la vita per il caso di sua madre e lo scrittore doveva fermarla. La sua partner
Alzai gli occhi e li puntai sulla porta scura davanti a me, oltre la quale potevo sentire Marlowe che dava le ultime spiegazioni a Stana su dove muoversi. Mi tornarono in testa le parole di Serena. Lei non è la tua partner. Sospirai tristemente. In fondo aveva ragione. Chi volevo prendere in giro? Eravamo colleghi, co-star magari. Ma non partner. No, noi non saremmo mai stati come Castle e Beckett. Sperai solo che quei due testoni sarebbero riusciti dove io e Stana avevamo fallito…
Il richiamo all’ordine e al silenzio di Marlowe mi fece tornare alla realtà. Scossi la testa. Presi un respiro profondo e mi preparai alla scena. Mi spostai appena per permettere alla telecamera dietro di me di avere una buona inquadratura sulla porta. Meno di un secondo dopo, Andrew diede il via.
Bussai e attesi. Stana/Kate mi aprì la porta e io, con un mezzo sorriso, le chiesi se potevo entrare. Mi rispose affermativamente, quindi mi infilai dentro l’appartamento parlandole del terzo uomo che era insieme a Raglan e McCallister. Mentre la informavo, quasi mi dispiacque per loro. Avrebbero scoperto molto presto del passato di Montgomery.
Mi mossi per la stanza mentre lei mi chiedeva perché non le avevo semplicemente telefonato. Come faceva Beckett a essere così cieca? Non era ovvio che Castle era andato da lei perché voleva vederla, perché voleva controllare con i suoi occhi che stesse bene e al sicuro? Come poteva non essersi accorta dei suoi sentimenti?
Le parlai di Lockwood, del fatto che fossi convinto che, nonostante fossi un ottimista, non avremmo vinto e che lei sarebbe stata la prossima sulla lista delle persone uccise.
“Castle, they killed my mother. What do you want me to do here?”
“Walk away. They're gonna kill you, Kate. And if you don't care about that, at least think about how that's going to affect the people that love you. You really want to put your dad through that? And what about Josh?”
“And what about you, Rick?”
“Well, of course I don't want anything to happen to you. I'm your partner. I'm your friend.”
“Is that what we are?”
Eccole. Quelle due frasi. “Sono tuo amico.” “È questo quello che siamo?” L’unica differenza era che stavolta era lei a chiederlo a me. O meglio Kate a chiederlo a Rick. Ma in quel momento non mi importava, non riuscivo a distinguere la differenza tra loro e noi. Quella frase, detta per esigenze copione, mi fece quasi impazzire. Mi trattenni a stento dall’urlare, ma non avrei voluto altro che scaricare quella rabbia che aveva iniziato a scorrermi nelle vene come un fiume in piena. Il cuore prese a battermi furioso, quasi volesse uscire anche lui per prendere a pugni qualunque cosa gli si fosse parata davanti. Cosa siamo noi, Stana??
Strinsi la mascella e serrai i pugni.
“Alright, you know what? I don't know what we are.”
Cosa siamo? Amici? Non prendiamoci per il culo, non siamo mai stati solo quello. Siamo sempre stati più che amici, ma sempre con il freno tirato. E la cosa non mi andava più bene. Mi stava rovinando la vita quel nostro patto di tre anni prima. Non perché non potessi avere nessuna donna. Al contrario. Perché sapevo di non poter sperare di avere lei.
“We kiss, and then we never talk about it.”
Frase quanto mai vera anche per noi. Dopo quel bacio, dopo il nostro patto, non ne avevamo più riparlato. Come se veramente non fosse mai accaduto. Nemmeno dopo il bacio sotto copertura di Castle e Beckett eravamo riusciti a parlarne. Semplicemente l’avevamo messa sullo scherzo. Come ogni cosa tra di noi. Come sempre.
Mentre parlavo avevo gli occhi puntati su Stana. Potevo vedere chiaramente come le nostre battute avessero colpito anche lei, anche se forse la cosa che più la ferì, sia come Stana che come Kate, fu la mia rabbia a stento controllata. Cercai di concentrarmi sulla battuta di Castle. Il rancore che avevo in corpo era più che abbastanza per simulare quello di Rick.
“We nearly die frozen in each other's arms, but we never talk about it. So, no, I got no clue what we are. I know I don't want to see you throw your life away.”
“Yeah, well, last time I checked, it was my life, not your personal jungle gym.”
Sbuffai alla sua uscita e mi passai una mano tra i capelli.
“And for the past three years, I have been running around with the school's funniest kid, and it's not enough.”
Nel dire l’ultima frase Stana/Kate si allontanò da me per andare verso la porta dell’appartamento, probabilmente per cacciarmi fuori. Ma non le diedi il tempo di arrivarci.
“You know what? This isn't about your mother's case anymore. This is about you needing a place to hide. Because you've been chasing this thing so long, you're afraid to find out who you are without it.”
“You don't know me, Castle. You think you do, but you don't.”
Il suo tono era chiaro e deciso. Quasi troppo, contando che stavamo solo recitando. Chi stava parlando in quel momento, tralasciando il caso di Johanna Beckett e il fatto di avere altri nomi. Rick e Kate o Nathan e Stana?
“I know you crawled inside your mother's murder and didn't come out. I know you hide there, the same way you hide in these nowhere relationships with men you don't love.”
Nel dire l’ultima frase mi avvicinai a lei e gliela sputai quasi in faccia, specificando bene il ‘con uomini che non ami’. Nei suoi occhi per un attimo vidi la sorpresa. Oh, andiamo! Mi credeva davvero così stupido? Come se non mi fossi accorto che anche lei, esattamente come Kate, stava sempre con un piede fuori dalla porta in ogni sua relazione. Non ne aveva avute molte, certo, ed erano sicuramente durate più delle mie, ma non era mai stata completamente presa. Non aveva lasciato che nessuno si avvicinasse al suo cuore, nonostante lei fosse molto più aperta di Beckett.
A quel punto mi calmai un poco, anche se la mia rabbia non era svanita.
“You could be happy, Kate. You deserve to be happy. But you're afraid.”
Quello che dissi per Kate, valeva anche per Stana. Meritavano entrambe quelle donne di essere felici.
“You know what we are, Castle? We are over. Now get out.”
Il suo tono era estremamente ferito. E la calma con cui lo disse fece sentire peggio me, quasi fossi io il destinatario di quelle parole e non Castle. O almeno lo sperai che fosse ancora lui.
Stana/Kate mi passò davanti senza più guardarmi né dirmi altro. Io feci un gesto stizzito per non essere riuscito a farla ragionare e, da copione, uscii dall’appartamento.
“STOP!!” L’urlo di Marlowe mi fece prendere un colpo. Ero cosciente che stavamo recitando, ma una qualche parte di me l’aveva dimenticato. “Nathan, Stana, siete stati semplicemente fantastici!” esclamò allegro avvicinandosi a noi. Stana era ancora immobile, tesa, in mezzo all’appartamento di Beckett. Io ero alla porta, voltato solo per metà verso di loro. Alzai lo sguardo e lo incrociai con quello della mia collega. Il dolore che lessi nei suoi occhi mi provocò una fitta lancinante al petto. Un momento dopo però lei distolse lo sguardo e fece un mezzo sorriso a Andrew che le stava già dicendo, eccitato come un bambino a cui fanno un regalo in anticipo, che con quel passo nel giro di un paio d’ore avremmo finito con tutte le riprese a casa Beckett, forse anche prima della pausa pranzo.
Intorno a me sentivo gli operatori muovere le varie telecamere da una postazione all’altra. Io però non ci feci minimamente caso. Ero ancora immobile alla porta, una mano sulla maniglia, lo sguardo puntato verso Stana. Mi odiavo da solo. Avevo riversato la mia rabbia su di lei, ma non ce l’avevo davvero con lei. Ce l’avevo con me stesso, per non essere riuscito ad andare avanti tre anni prima e a far finta di niente. La colpa era mia, che fino a quel momento non avevo voluto vedere quello che era cambiato davvero tra di noi. Questo pensiero mi fece sentire solo più stupido e irritato. Guardai di nuovo Stana.
“Ok, siamo tutti pronti!” esclamò Marlowe in quel momento sfregandosi le mani. Fu in quel momento che mi lanciò un’occhiata che lo bloccò. Il sorriso che aveva avuto fino a un momento prima sulla faccia scomparve. “Nath, va tutto bene?” Strinsi la mascella e mi costrinsi ad annuire e a fare un mezzo sorriso tirato. “Ok…” disse dubbioso Andrew. Guardò per un momento Stana, ora con gli occhi rivolti a un punto indefinito del pavimento, pur di non vedermi, e poi tornò su di me. “Uhm… ragazzi ormai una scena è fatta. Se andate così bene anche adesso vedete che fra un po’ abbiamo finito. Ce la fate a continuare?” Annuimmo entrambi. “Ok…” ripeté con un sospiro Marlowe, rassegnato al nostro silenzio. “Forza, in posizione!” esclamò poi rivolto a tutti i presenti, lanciandomi comunque un’ultima occhiata. Io scossi la testa, come a dire che andava tutto bene.
Stavo per uscire di nuovo dalla porta quando i miei occhi volarono di nuovo a Stana. Anche lei mi stava osservando. Con amarezza. I nostri sguardi si incrociarono di nuovo per un attimo. Poi lei si girò e tornò al suo posto. Per un secondo sperai che mi odiasse. Avrei quasi preferito l’odio all’amicizia in quel momento. Sarebbe stato un sentimento molto più forte e sincero.
 
Finimmo le riprese verso l’una, quindi andai a pranzare da solo e il resto del pomeriggio lo passai a cercare di evitare Stana. Non che fosse stato poi così difficile. Anche lei abbassava gli occhi e cambiava direzione durante le poche volte che ci eravamo incontrati tra le strade degli studios. Quando avevo un po’ di tempo da ammazzare mi piaceva farci un giro. Le vie erano grandi e piene di persone di diversi telefilm o film. Poteva capitare di assistere a un inseguimento nel bel mezzo della strada con telecamera e telo verde per il cambio sfondo a seguito oppure di sbirciare sulla scena di un crimine. Noi stessi eravamo complici di quel casino, visto che anche noi giravamo buona parte delle scene lì.
Vagai con lo sguardo perso e le mani nelle tasche fino alle cinque, ora a cui Kristen mi richiamò all’ordine tramite una ‘tranquilla’ telefonata in cui mi perforò un timpano chiedendomi dove cavolo mi fossi andato a cacciare. Tornai sul set di Castle e la vidi che mi aspettava a braccia incrociate e sguardo torvo davanti all’auto che ci avrebbe portato all’eliporto. Per la mezz’ora che durò il tragitto, Kris, subito sbollita dalla rabbia per il mio ritardo a causa della mia faccia abbattuta, cercò in tutti i modi di portarmi sull’argomento Stana e io cercai in tutti i modi di far finta di niente o di cambiare argomento. Non volevo parlare di lei. Il suo viso addolorato per le mie parole era ancora davanti i miei occhi. E poi cosa ci sarebbe stato da dire? Avevamo litigato, punto. Litigato come non avevamo mai fatto nei tre anni che ci conoscevamo… Quella constatazione mi diede una fitta dolorosa allo stomaco.
Quando scesi dall’auto sentii quasi un senso di liberazione. Volevo bene alla mia assistente, ma tendeva a preoccuparsi (e a volte impicciarsi) un po’ troppo, anche se sapevo che lo faceva per il mio bene. Kristen mi diede altri abiti con cui cambiarmi, mentre notavo che il cielo iniziava appena a imbrunire. Mi infilai nel ripostiglio che mi indicarono e guardai i miei nuovi vestiti. Camicia blu scuro e completo pantaloni e giacca blu. Ottimi per passare inosservati nella notte. Oltre che ottimi per il mio umore scuro…
Mi cambiai e uscii. All’esterno trovai Ruben già vestito per la scena e con la pistola di Montgomery in mano. Da lontano vidi arrivare Max Martini, ovvero Hal Lockwood, mentre scherzava insieme alle comparse degli scagnozzi dell’assassino. Nonostante fosse ancora presto, erano già arrivati quasi tutti. Tranne Stana. La cercai con gli occhi, ma non la vidi da nessuna parte. Possibile che fosse in ritardo? Lei era sempre puntualissima.
Sospirai e mi rassegnai ad aspettare. Recuperai il copione di Knockout e mi misi a ripassarlo distrattamente, anche se non avevo molte battute, mentre tenevo un occhio rivolto verso l’entrata dove speravo di poter vedere apparire presto la mia collega. Sapevo che non ci saremmo parlati, e che lei probabilmente avrebbe cambiato strada se mi avesse adocchiato, ma volevo rivederla. Mi serviva come l’ossigeno.
Venti minuti dopo notai che il cielo si stava facendo sempre più scuro. Probabilmente nel giro di un’ora saremmo già stati abbastanza al buio per girare. Alzai gli occhi dal copione e, sbuffando, lo poggiai su una sedia accanto a me. Con quella luce era palese che non stessi leggendo niente, visto che iniziava a non vedersi più nulla. Stavo già pensando a cosa fare per passare il tempo, quando Stana entrò trafelata nell’hangar. Notai che aveva un’aria piuttosto irritata e che stava cercando di infilarsi in malo modo il cellulare in tasca mentre correva. Mi passò davanti senza accorgersi minimamente di me, ma io d’altronde non feci nulla per richiamarla. Semplicemente la osservai con le sopracciglia aggrottate, preoccupato per quel ritardo e per la sua espressione inquieta. Jasmine, la sua assistente, si lamentò scocciata del suo ritardo e la tirò in un altro ripostiglio, simile a quello che avevo usato prima io, perché potesse cambiarsi e truccarsi. Come se Stana Katic avesse bisogno di alcun trucco per essere bellissima! Figuriamoci!
 
Un’ora dopo, come avevo immaginato, eravamo pronti per girare. Fuori era diventato quasi del tutto buio, abbastanza da permetterci di registrare come se fosse notte. Delle luci azzurrognole erano state posizionate appena all’esterno dell’hangar e messe rialzate in modo che sembrassero la luce della Luna. Eravamo tutti pronti. A un cenno di Marlowe andai a nascondermi in un angolo buio dell’hangar e attesi che iniziassero a girare. Meno di un momento dopo, Andrew diede il via alle riprese.
Mi voltai verso Stata/Kate, in mezzo all’hangar, che chiamava a bassa voce il capitano Montgomery. Trattenni un sospiro. In quei pantaloni e maglia neri era davvero sexy. Poi i miei occhi caddero ai suoi piedi e notai i suoi immancabili tacchi. Aggrottai appena le sopracciglia, ma allo stesso tempo sorrisi appena. Se avesse puntato quei cosi a terra, ci avrei messo una vita a trascinarla fuori dall’hangar come voleva il copione!
Il mio mezzo sorriso scomparve non appena Kate ricevette il suo messaggio da Esposito e Ryan e Montgomery fece la sua comparsa. Rimasi a osservarli mentre si studiavano e i miei pensieri volarono a prima delle riprese. Come avevo immaginato, Stana, una volta uscita dal camerino-ripostiglio, mi aveva accuratamente evitato, ma non avevo potuto fare a meno di notare che continuava a tirare fuori il cellulare dalla tasca, ogni volta con uno sbuffo irritato come se stesse messaggiando furiosamente con qualcuno. E poi con chi si era arrabbiata prima di arrivare all’hangar? Perché era stato palese fosse scocciata dai suoi gesti bruschi fin da quando mi era passata davanti appena arrivata. Sospirai appena. In un altro momento sarei stato il primo a chiederle se aveva problemi, ma ora non potevo. Non dopo aver buttato la mia rabbia contro di lei per una colpa mia, per non essere riuscito a togliermela dalla testa.
Il tono di voce leggermente più alto di Stana/Kate mi fece tornare al presente e alla scena. Fino a quel momento avevano parlato in poco più di un sussurro, ma ora Kate si sentiva tradita dall’uomo che aveva sempre considerato come un secondo padre.
Sentii un tono appena incrinato nella sua voce.
“That's why you brought me here, isn't it? To kill me?”
“No. I brought you here to lure them.”
“You baited them?”
Il tono di Stana/Kate era chiaramente stupito. Sembrava davvero non sapere più cosa pensare. Roy aveva aiutato gli assassini di sua madre a trovarla e allo stesso tempo stava cercando di fregarli. L’aveva tradita e insieme stava cercando di proteggerla.
In quel momento intravidi l’auto di Lockwood e compagni in lontananza. Solo due fari nella notte. Mi voltai di nuovo verso Stana/Kate e Ruben/Roy e attesi. Tra un momento sarebbe toccato a me.
“And now they're coming. I need you to leave. They are coming to kill you, and I'm not gonna let them. I'm gonna end this.”
La voce del capitano si era fatta più bassa e veloce. Ma Kate non voleva sentire ragioni.
“I'm not going anywhere, sir.”
“Yes, you are.
Castle!”
Il richiamo di Ruben/Roy fu il mio segnale per uscire allo scoperto. Feci qualche passo in avanti fino a portarmi dietro ala donna, alla luce. Stana/Kate si voltò e mi guardò per un momento, stupita che fossi spuntato dal nulla senza che se ne accorgesse.
“Get her out of here.”
Quello di Montgomery era un ordine. Come da copione però, cercai di replicare.
“Captain, I don't--”
“Don't argue. That's why I called you. Get her out of here, now!”
La richiesta del capitano era insieme un ordine e una supplica, mentre guardava apprensivo verso l’auto in lontananza. Non aggiunsi altro. Continuai avanzare fino a portarmi dietro Stana/Kate, quindi le misi una mano sulla spalla come tacita richiesta a seguirmi. Ma lei si scrollò la mia mano di dosso e si fece invece di un passo più vicina a Ruben/Roy, allontanandosi da me.
“Captain, please, just listen to me. You don't have to do this.”
La voce della detective era preoccupata e forse insieme spaventata per quello che sapeva già sarebbe accaduto.
Cercai ancora una volta di seguire l’ordine e mi riavvicinai a lei chiamandola piano e dolcemente per nome, provando di nuovo a tirarla verso di me. Ma ancora una volta lei svicolò dalla mia presa. Quasi si aggrappò alla camicia di Roy, nella foga di convincerlo a desistere dalle sue intenzioni.
“No. Please, no. Sir. I forgive you. I forgive you.”
“This is my spot, Kate. This is where I stand.”
“No. No.”
“Castle!”

La voce di Stana/Kate era rotta dalle lacrime che minacciavano di uscire. Mi si strinse il cuore a sentirla così.
Voltai la testa verso l’esterno dell’hangar e vidi l’auto spegnere i fari. Aggrottai le sopracciglia come se mi stessi chiedendo il perché. Intanto la donna continuava a supplicare il capitano.
“No, No. Sir, please. Listen to me. You don't have to do this.”
Avevo ancora gli occhi incollati all’auto. Solo in quel momento capii che era ripartita a fari spenti e che si stava avvicinando velocemente a noi.
“Castle, get her out of here now!”
La voce adirata di Montgomery mi riportò alla realtà appena in tempo. Lo guardai e capii che era arrivato il momento. Dovevo portarla immediatamente via. Ora o mai più.
Mentre lei ancora pregava il capitano di non farlo, io la presi per la vita tirandola indietro e mormorando il suo nome piano, ma allarmato. In quel momento ero io che supplicavo lei. Ci misi un attimo a capire che non si sarebbe mossa, soprattutto ricordandomi dei tacchi. Per cui feci la prima cosa che mi venne in mente. La presi di peso per la vita e la portai via più velocemente che potei, mentre Stana/Kate urlava e scalciava, pregandomi di lasciarla andare. In realtà non c’era scritto da nessuna parte che avrei dovuto prenderla così, il copione diceva solamente di portarla via. Ma in fondo era un modo come un altro per tenerla di nuovo fra le braccia e Castle doveva portarla via, che a Beckett piacesse o no. Anche se disperata e ostinata come doveva essere Kate in quel momento. Il profumo di Stana, così vicino, mi diede un brivido lungo la schiena e mi avrebbe fatto cedere se non fosse che ero consapevole che stavamo girando.
Arrivai veloce in fondo all’hangar e con una spinta aprii la porta di metallo. Meno di un attimo dopo eravamo fuori dall’aerorimessa. Castle e Beckett sarebbero dovuti uscire completamente fuori in strada, noi eravamo semplicemente entrati in una specie di stanza quasi del tutto buia per simulare l’uscita nella notte dei due.
Fu solo in quel momento, appena la porta si chiuse alle nostre spalle, che Stana si calmò tra le mia braccia. Fui contendo di quel cambiamento improvviso. Sapevo bene che stava recitando, ma stavo male perfino io a sentirla in quello stato. La rimisi con i piedi per terra. Prima di separarmi del tutto da lei però, lasciai indugiare molto più del dovuto le mie mani sui suoi fianchi. Stana per un momento alzò gli occhi su di me. Erano lucidi. Per la scena appena girata supposi. Mi si mozzò comunque il fiato in gola e il cuore cominciò a battermi furiosamente. Non mi importava della litigata. Non mi importava più di nulla. Volevo solo stringerla di nuovo a me, confortarla e baciarla come avevo fatto tre anni prima in un momento di pazzia e lucidità assoluti. E che il resto del mondo andasse a quel paese!
Prima che potessi anche solo avvicinarmi a Stana però, lei si tirò indietro, slacciando l’esile contatto tra di noi fino a lasciare un grosso spazio tra me e lei. Fu allora che notai che il suo sguardo era ancora ferito per quello che le avevo detto quella mattina. Accettai rassegnato il suo rifiuto. Sospirai e feci un passo indietro, aumentando ancora di più la nostra distanza.
Attendemmo per qualche minuto in silenzio nella scura stanzetta. Eravamo entrambi a disagio e lo sentivo. Continuavo a lanciarle occhiate furtive nel vano tentativo di capire i suoi pensieri, ma i suoi occhi era concentrati in un punto a terra, come se la polvere sul pavimento in quel momento fosse la cosa più interessante nell’universo. Di tanto in tanto si mordicchiava il labbro inferiore, mentre il suo sguardo si opacizzava appena quando si perdeva nei suoi pensieri. Non dovevano essere neanche troppo allegri quei pensieri, visto che, nonostante la fioca luce, vedevo chiaramente la rughetta di espressione sulla sua fronte di quando era preoccupata. Quella situazione mi ricordò al’improvviso la nostra prima gita al parco di tre anni prima, quando io mi ero convinto che un energumeno mi seguisse per farmi del male e invece era solo un mio fan. Ci eravamo nascosti dentro una specie di sgabuzzino dove c’era a malapena posto per entrambi. In quel piccolo spazio c’era stata una luce quasi simile a quella che avevamo in quel momento. Ricordavo ancora perfettamente i miei mille dubbi su quel che sarebbe successo se avessi preso coraggio e l’avessi baciata, se avessi interpretato correttamente il suo sguardo pieno di aspettative o se me lo fossi solo immaginato. Eravamo stati così vicini solo il giorno che finalmente l’avevo baciata. Ora invece la sentivo lontana e non pregavo altro che mi guardasse di nuovo negli occhi. Dovevo farmi perdonare. Per quella sera forse era meglio lasciarla sbollire. L’indomani avrei cercato di fare qualcosa. Magari il fatto che Castle avrebbe detto a Beckett che l’amava avrebbe giocato a mio favore, chissà. In fondo i passi avanti di quei due testoni la facevano sempre rallegrare.
“Comunque…” mormorò all’improvviso Stana spezzando quel silenzio pesante che si era venuto a creare. “Non male la trovata di… beh… tirarmi su di peso…” continuò un po’ imbarazzata. Feci un mezzo sorriso.
“Sembri stupita” replicai senza pensarci. Lei mi guardò con un sopracciglio alzato e io mi affrettai ad aggiungere “Voglio dire, l’hai detto come se fosse la prima volta che aggiungo qualcosa al copione…” Lei scosse la testa, ma sorrise appena. Quel piccolo sorriso fece accendere un lumicino di speranza. Forse sarei riuscito a far pace con lei…
Finalmente sentimmo gli spari a salve dall’hangar e poco dopo Andrew ci urlò dal megafono che potevamo rientrare in scena. Appena lo disse, non feci neanche in tempo ad avvicinarmi alla porta che Stana l’aveva già aperta e si era fiondata fuori. La guardai ferito con la bocca semiaperta. Nonostante quel piccolo sorriso, voleva stare così lontano da me da scappare?
 
Riprovammo la scena diverse volte in modo da avere diverse angolazioni. Appena usciti dallo sgabuzzino, Marlowe si era subito congratulato con me per la trovata del sollevare di peso Stana, così mi aveva chiesto di metterlo in ogni ripresa. Di certo non me lo feci ripetere. Non ci fu però un altro momento in quello stanzino tra me e Stana come dopo il primo ciak. Il resto delle volte restammo in silenzio, quasi senza il coraggio di guardarci in faccia. Cercavo un modo con cui avrei potuto farmi perdonare del tutto e giurai a me stesso che per l’indomani mattina l’avrei trovato.
Dopo quelle riprese, Marlowe decise di girare prima la scena in cui Rick trascinava Kate all’esterno dell’hangar fino alla macchina. In questo modo avremmo dato ai truccatori abbastanza tempo per preparare Ruben, Max e gli altri con il sangue finto e ai tecnici di predisporre la scena.
Ci spostammo quindi all’esterno dell’aerorimessa con tutte le attrezzature. Meno di quindici minuti dopo le luci erano pronte e le telecamere fissate. Andrew ci ricordò la scena: Rick e Kate erano appena usciti dall’hangar, lei era distrutta per quello che sapeva sarebbe successo di lì a poco e Castle, nonostante anche lui fosse molto provato, avrebbe tenuto la detective lontana e al sicuro.
A quel punto io e Stana ci avviammo verso la porta dell’hangar che dava sull’esterno e dalla quale Castle e Beckett sarebbero dovuti uscire.
“Ok, ragazzi, preparatevi!” ci avvertì Marlowe ad alta voce per farsi sentire sopra il rumore dei tecnici che sgombravano la scena. Fu a quel punto che ebbi un attimo di incertezza. Abbracciare Kate d’impeto per portarla in salvo era un conto, ma passare le braccia intorno alla vita di Stana in attesa che ci dessero il via sembrava all’improvviso la cosa più difficile del mondo. Deglutii. Mi avvicinai e posai piano le mani sui suoi fianchi. Stana dovette accorgersi della mia esitazione perché si girò in parte verso di me con un sopracciglio alzato. Notai però, nonostante la scarsa luce, che era arrossita.
Scossi la testa come a dire che andava tutto bene. Quindi mi feci coraggio, presi un respiro profondo e portai le braccia intorno al suo corpo con decisione, tanto da farle lanciare un urletto sorpreso.
“Scusa…” mormorai appena contro il suo orecchio. Dio, il suo profumo…
Un attimo dopo però mi accorsi di una cosa. Era rabbrividita. Al mio sussurro un brivido l’aveva attraversata. E non era stato certo per il fresco della notte!
Non riuscii a reprimere un sorriso divertito. Poi Marlowe impose il silenzio e io mi imposi di smettere di sorridere come un cretino. Dovevo fare una scena da sconvolto, non da pesce lesso!
“Pronti? Azione!” gridò Marlowe per farsi sentire da tutti. Il ciak venne battuto e la telecamera si puntò su di noi. Io a quel punto tirai di nuovo su Stana/Kate dalla vita mentre lei ricominciava ad agitarsi e a pregarmi, sempre più debolmente. Un momento dopo però Kate si arrese alla realtà. Stana smise di agitarsi e semplicemente si lasciò trasportare da me, mentre erano i singhiozzi a prendere il posto delle urla.
Quando si fermò del tutto, rischiò di cadermi e dovetti rimetterla a terra. Ma non smisi un secondo di tenerla per la vita con forza, come se da questo dipendesse il mio destino. A pochi passi da noi c’era l’auto di Beckett. Con un ultimo sforzo la portai fino a lì e la feci appoggiare contro la portiera. Stana/Kate vi si accasciò sopra continuando a lanciare piccoli lamenti e preghiere frammezzati da singhiozzi.
Mi voltai per un attimo verso l’hangar per controllare che nessuno ci stesse seguendo, quindi tornai a osservare la detective. Sotto i suoi occhi si erano già formate delle scie di lacrime. La vidi scivolare e mi appoggiai contro di lei per tenerla ferma contro la portiera. Se solo non fossi stato distratto dalla scena in corso, il suo corpo contro il mio mi avrebbe già fatto uscire di senno.
Kate lanciò un altro lamento e io, preoccupato che qualcuno potesse sentirci, le tappai velocemente la bocca con una mano cercando di zittirla quanto più dolcemente e rapidamente possibile.
“Shh! Shh! Please don't. Everything's okay. Everything's alright.”
Le carezzai la testa per calmarla, ma l’attimo dopo dovetti sorreggerla perché stava scivolando di nuovo giù lungo lo sportello. All’improvviso sentii qualcosa di caldo sulla faccia e mi accorsi che Stana mi stava lasciando una lenta carezza lungo la guancia. Per un attimo rimasi senza fiato. Poi mi riscossi e continuai a parlare piano a Kate, cercando di confortarla e di sorreggerla per un tempo che mi sembrò infinito. Stavo malissimo a vederla così indifesa e disperata.
Poi ci fu lo sparo. Stana/Kate mi scostò di lato veloce, ma allo stesso tempo dolce, quindi iniziò a correre verso l’hangar. Io rimasi alla macchina, appoggiato a essa con il respiro pesante come se avessi appena corso una maratona. Riuscii a portare il dolore e la sorpresa sul mio volto abbastanza facilmente. Mi bastò pensare come sarei stato se uno dei miei più cari amici mi avesse prima tradito e poi fosse morto per la sicurezza della donna che amavo.
“Stop!!” urlò Andrew. “Nathan, Stana, siete stati grandiosi!” esclamò decisamente allegro. Io presi un respiro profondo e mi passai una mano tra i capelli per riprendermi mentre Stana tornava indietro asciugandosi le guance. “Stana, l’idea di Kate di accarezzare Rick sulla guancia mi è piaciuta molto!” aggiunse Marlowe rivolto alla mia collega. Io annuii come conferma, mentre lei arrossiva appena.
“Davvero una bella trovata…” commentai sincero. Che poi, di che avrei dovuto lamentarmi io?
Lei mi guardò con un sopracciglio alzato.
“Sembri stupito” replicò lei divertita copiando le mie parole dello sgabuzzino. Io rimasi con la bocca semiaperta, volendo rispondere ma non sapendo assolutamente con cosa. E lei dovette comprenderlo benissimo perché ghignò, si voltò e tornò come se niente fosse al punto iniziale della scena davanti l’hangar. Fu solo in quel momento che mi riscossi, sbattei le palpebre per riprendermi e mi voltai verso di lei con un mezzo sorriso. Ricominciare a punzecchiarci non poteva che essere un buon segno. Un segno di pace. Forse, e dico forse, l’indomani sarei riuscito a farmi perdonare.
 
Finii di cambiarmi e mi guardai allo specchio del camerino. Il colore del mio abito rispecchiava il mio umore. Nero. La sera prima avevamo concluso di girare verso mezzanotte e mi era sembrato che le cose tra me e Stana stessero migliorando. Pian piano avevamo ripreso a parlare e a scherzare come avevamo sempre fatto. Poi però erano arrivate quelle maledette due chiamate. La prima a Stana, la seconda a me. Non so con chi avesse parlato la mia co-star, anche se un’idea l’avevo, sta di fatto che nel giro di cinque minuti di conversazione telefonica il suo umore era tornato a quello pre-riprese hangar. In un attimo era tornata agitata, nervosa, arrabbiata e soprattutto taciturna. Avevo cercato di discuterne, ma lei mi aveva chiuso ogni possibilità di dialogo. Non ne voleva parlare, diceva. Non con me, continuavo a pensare. Di riflesso, anche il mio umore era peggiorato e la chiamata che mi era arrivata poco dopo di Serena, che voleva tentare di riconciliarsi con me, non aveva certo aiutato. Non avevo chiuso occhio per il resto della notte, continuando a rigirarmi nel letto con mille pensieri e mille diversi scenari di quello che poteva aver detto lo sconosciuto a Stana per allontanarla così.
Sospirai e mi lisciai una lieve piega sulla cravatta che sentivo anche troppo stretta in quel momento. Feci una smorfia e infilai un dito nel colletto per allargarla. Preferivo di gran lunga le camicie sbottonate al collo, anche se le cravatte non mi dispiacevano, ma Castle doveva andare a un funerale. Quindi dovevo soffrire in silenzio.
“Nathan, sei pronto?” mi domandò, bussando dall’esterno del camerino, Kristen.
“Un momento” le risposi. Non avevo voglia di affrontare di nuovo Stana. E non volevo neanche che gli altri capissero subito qual’era il mio problema. Sapevo che non ci avrebbero messo molto a farlo. Era un cast sveglio quello di Castle e sarebbero arrivati tutti a momenti per girare la scena finale: il funerale di Montgomery.
Feci un sospiro e mi passai una mano tra i capelli. Ruben mi sarebbe mancato. Era diventato un caro amico e mi sarebbe dispiaciuto non vederlo più sul set. Allo stesso tempo però avevo voglia di conoscere chi lo avrebbe sostituito a capo del dodicesimo. Marlowe parlava di una donna forte e autoritaria, chiamata Victoria Gates e soprannominata ‘Irons’, ma i provini ci sarebbero stati solo la settimana successiva e il regista non voleva dare anticipazioni prima. Fino a quel momento, saremmo stati anche noi abbastanza all’oscuro. A Andrew piaceva sempre tenerci un po’ sulle spine.
Feci un mezzo sorriso a quel pensiero. Lavorare con lui era divertente e piacevole, anche perché non si arrabbiava spesso e ci faceva mettere anche qualche cavolata nostra, di tanto in tanto, nelle scene. E inoltre conosceva ognuno di noi come pochi altri. Sospirai appena e il sorriso mi si spense un po’. Il giorno prima aveva capito subito che qualcosa tra me e Stana non andava. Era il regista ed era felice che le scene filassero per il verso giusto, ma insieme si era preoccupato per noi. Aveva anche tentato di bloccarmi a fine riprese per chiedermi se andasse tutto bene, soprattutto tra me e Stana, ma io mi ero defilato con la scusa che ero stanco e che volevo tornare a casa. Eravamo degli ottimi attori io e la mia co-star, ma quando si trattava di noi eravamo davvero pessimi. Di solito infatti, per quanto la scena fosse seria, riuscivamo sempre a scherzare un po’. Il giorno prima invece quella nostra facoltà sembrava quasi sparita, se non per pochi momenti.
Un nuovo tamburellare insistente di nocche alla porta mi fece tornare con la testa nel camerino. Sbuffai e uscii dalla roulotte che mi era stata assegnata come spogliatoio per le esterne.
“Finalmente, Nathan!” esclamò Kristen con un sospiro esasperato. Osservò la mia cravatta con occhio critico e me la sistemò prontamente. A quanto pare era storta e non me ne ero minimamente accorto. “Sono arrivati praticamente tutti. Manchi solo tu” mi comunicò lei. Io annuii senza dir nulla. Kristen lanciò un’occhiata soddisfatta alla mia cravatta e infine si allontanò di un passo da me per controllare che fossi in ordine. Fu allora che notò il mio viso. “Nathan, tutto bene?” Io, che ero rimasto per un momento sovrappensiero, scossi la testa per tornare alla realtà con la sua domanda.
“Uhm, sì, sì, tranquilla” risposi facendole un mezzo sorriso. Alzò un sopracciglio. Coraggio, sono un attore! Se non convinco la mia assistente, figurarsi tutti gli altri!
Mi passai una mano tra i capelli e sbuffai appena. Quindi presi un respiro profondo e finalmente sorrisi.
“Va tutto bene, Kris, sul serio.” La sua faccia dubbiosa mi spinse ad aggiungere qualcosa. “Ho solo un po’ di pensieri per la testa, tutto qui…”
“Si vede” fu la sua risposta secca, mentre mi sistemava una ciocca di capelli uscita dai ranghi. La guardai e notai come un po’ di compassione nei suoi occhi, come se sapesse perfettamente quali fossero le mie preoccupazioni. Scossi la testa per scacciare quel pensiero.
“Beh, allora vado dagli altri” dissi per fuggire da lei e dal suo sguardo, iniziando ad incamminarmi verso il set.
“Dovresti dirglielo” fu la sua replica. Mi voltai confuso.
“Dire cosa? E a chi?” Lei mi lanciò un’occhiataccia.
“Sai, benissimo di chi parlo” Sì, ovvio che lo sapevo. Kristen mi conosceva dal primo giorno di riprese in Castle e aveva un notevole intuito.
“No, non lo so invece” replicai però nervoso. “Scusa, devo andare. Ero di fretta, no?” continuai veloce con un mezzo sorriso. Quindi le feci un cenno di saluto e mi avviai a passo svelto verso il parco.
“Ehi, bro, sei arrivato finalmente!” La voce di Jon mi fece bloccare pochi passi più in là. Mi girai verso di lui e sorrisi. Lui e Seamus stavano avanzando verso di me nelle loro nuovissime divise della polizia.
“Ehi, ragazzi!” li salutai di rimando appena un po’ più allegro.
“Siamo davvero affascinanti, non trovi?” dichiarò Seamus copiando esplicitamente le parole e l’atteggiamento di Castle.
“Ehi! Quella battuta è mia!” esclamai in risposta fintamente offeso.
“Hai visto che bel completo??” continuò Jon indicandosi i vestiti e gonfiando il petto, come se noi non avessimo parlato. “Questo attirerà un sacco di donne, te lo dico io!”
“Chissà come sarà felice Nicole a questa notizia…” commentò Seamus sarcastico.
“Sì, la tua ragazza non mi sembra proprio una che ha voglia di condividere il suo uomo” aggiunsi divertito. Lui alzò le spalle.
“Quando vedrà il suo uomo con questa veste addosso, capirà che nessuna può resistermi e se ne farà una ragione” replicò con finto tono di accettazione. Per la prima volta in due giorni sorrisi davvero. Adoravo Jon e Seamus. Erano due idioti e se mi ci mettevo anche io, in tre eravamo terribili. Ma erano anche i miei migliori amici e, pure senza volerlo, sapevano come tirarmi su il morale in ogni momento.
“Non credere di essere così irresistibile, Huertas” esclamò la voce divertita di Tamala dietro le mie spalle.
“Che intendi dire??” domandò offeso.
“Che mi spiace contraddirti, ma il più affascinante al momento è Nath col suo completo nero” rispose lei come se fosse una cosa ovvia. Io ghignai allegro.
“Che fine ha fatto il fascino della divisa??” dichiarò Jon ferito nell’orgoglio. Tam alzò appena le spalle cercando di trattenersi dal ridere. “E poi Lanie dovrebbe essere innamorata di Javier!” esclamò un momento dopo Jon avvicinandosi a lei e prendendola per la vita. “Insomma dovrebbe essere dalla sua parte, no?” continuò abbassando la voce e cercando di avere un tono suadente, accostandosi a lei fino ad avere il volto a pochi centimetri da quello di Tamala. Quella vista mi fece male e distolsi lo sguardo, il sorriso che scivolava via dalla mia faccia. Non avevo niente contro di loro, anzi mi piacevano pure insieme, senza contare che eravamo soliti scherzare così tra di noi. Tra noi tutti. Tranne che tra me e Stana. Sospirai. Scherzavamo sempre e ci divertivamo un mondo a prenderli in giro quando dovevano girare qualche scena chiaramente Esplaine, ma non riuscivamo a fare come loro. Certo, scherzando, io e Stana ci abbracciavamo, ci prendevamo per mano, ma il tutto durava un secondo e nessuno dei due si azzardava mai ad avvicinarsi troppo l’uno all’altro. Ad esempio non era cosa rara che qualche bacio volasse per scommessa o per scherzo sul set. Era capitato praticamente a tutti. Insomma perfino io avevo baciato Jon! Ma io e Stana mai…
“Ehi, Nate, tutto bene?” La voce di Seamus mi fece tornare bruscamente alla realtà. Scossi la testa e sbattei le palpebre. Alzando gli occhi mi accorsi che tutti e tre mi stavano osservando curiosi per il mio cambio d’umore. Cavolo. Era la seconda volta che mi facevano la stessa domanda nel giro di dieci minuti. Dovevo imparare a non perdermi nei meandri della mia mente mentre ero con altre persone.
“Sì, sì a posto” risposi velocemente. Lontano, dietro di loro, intravidi le figure di Molly, Susan e Scott Paulin, ovvero Jim Beckett, che parlavano già accanto alle sedie bianche preparate per il funerale. Diversi finti agenti in divisa gli giravano intorno mentre aiutavano i cameraman a spostare le telecamere per le migliori inquadrature. Fu in quel momento che sentii qualcuno urlare dietro di me.
“Ti ho già detto che non voglio parlarne ora!” La voce arrabbiata di Stana mi fece voltare immediatamente. La mia collega stava entrando velocemente nel parco con dietro un uomo che la seguiva come un’ombra. Nonostante fossero ancora lontani, anche se si stavano avvicinando velocemente, sentivo le loro voci chiaramente, tanto erano alte. Mi stupii della cosa. Il tipo doveva aver fatto seriamente incazzare Stana perché lei non urlava mai, nemmeno quando era arrabbiata.
“E io ti ho detto invece che dobbiamo parlarne adesso!” Strinsi la mascella. Conoscevo quell’altra voce. Era di Adam, l’attuale ragazzo della mia collega.
“Adam vattene! Devo lavorare!” esclamò furiosa lei senza nemmeno voltarsi, aumentando il passo e costringendo l’uomo a inseguirla. Ormai tutti e quattro eravamo girati verso di loro e ci sarebbe mancato davvero poco che anche Susan, Molly, Scott e gli altri li sentissero. Notai che Stana era già pronta nella sua divisa da poliziotta, berretto compreso.
“No, tu non vai da nessuna parte finché non chiariamo questa cosa!” replicò furioso Adam prendendola violentemente per un braccio e strattonandola indietro con tale forza da farle cadere il cappello. Strinsi i pugni e mi bloccai mentre avevo già fatto un passo verso di loro. Sapevo che se fossi intervenuto, Stana mi avrebbe preso a pedate. Non accettava interferenze di nessun tipo con la sua vita privata. Ma come si permetteva quello stronzo di metterle le mani addosso??
Dietro di me sentii anche Seamus e Jon agitarsi nervosi.
“Adam, lasciami!!” gli ordinò Stana, togliendogli con forza la mano dal suo braccio. Mi sentii male. Più la sentivo gridare, più capivo che aveva iniziato a piangere. Lacrime di rabbia e forse dolore. In quel momento avrei voluto fare come Castle con Beckett: portarla via. Come Rick aveva portato via di peso Kate dall’hangar in cui stava per morire Montgomery, così io avrei voluto portare via Stana da quel parco. Via dalla battaglia contro quell’uomo a cui teneva, ma che non amava. Portarla al sicuro e stringerla di nuovo a me per tranquillizzarla…
L’attimo dopo lui la riprese per il braccio, ancora più brutalmente.
“LASCIAMI UN CAZZO!!” urlò lui facendo questa volta girare anche le persone più lontane. “TU SEI MIA!!” Doveva averla stretta ancora più forte perché vidi la mia collega abbassarsi leggermente sulle ginocchia.
“Lasciami, ho detto!!” gridò ancora Stana. Questa volta però, oltre la rabbia, sentii anche una nota di paura nella sua voce. Quella singola nota mi fece scattare. Non ci vidi più.
Prima che qualcuno potesse fermarmi, mi precipitai verso di loro e, anche prima che quello stronzo potesse registrare la mia presenza, gli tirai un pugno dritto su quel suo lungo naso del cazzo che si ritrovava. Per un attimo ci fu un silenzio assoluto. Il tipo mollò Stana e cadde a terra come un sacco di patate. Mi sembrò quasi di vedere la scena a rallentatore e sentivo in me un grido di gioia nel vederlo precipitare. Mi misi immediatamente in mezzo a loro. Non gli avrei più permesso neanche di avvicinarsi a Stana.
“TU!!” mi urlò dietro furioso Adam mentre si rialzava tenendosi una mano sul naso. Sanguinava. La faccia e la maglia gli si stavano imbrattando velocemente di un colore rosso scuro. Non fui mai così contento di vedere del sangue come in quel momento. “Brutto figlio di puttana!! È tutta colpa tua!! Ora ti insegno io a metterti in mezzo tra me e la mia ragazza!!” Adam aveva appena ululato quelle parole come un cane rabbioso, che già mi stava caricando. Io ero pronto all’impatto, gli occhi fissi su di lui, la mascella serrata, i pugni chiusi in avanti, il corpo completamente rigido. Non sapevo nulla di pugilato, ma non me ne importava niente. L’importante era tenerlo il più possibile lontano da Stana.
Prima che riuscisse a toccarmi però, Jon e Seamus lo placcarono lateralmente facendolo rotolare di nuovo a terra e tenendogli la testa piantata sull’erba.
“Vuoi calmarti stronzo??” gli sibilò adirato Jon mentre gli teneva un ginocchio puntato sulla schiena per tenerlo giù. Un attimo dopo arrivarono gli uomini della sicurezza, chiamati probabilmente da Tamala appena dietro di loro, che presero in consegna Adam e lo scortarono, ancora agitato e rabbioso fuori dal parco. Mi accorsi in quel momento che non stavo respirando.
Presi un respiro profondo e cercai di calmarmi. Notai che le mie mani tremavano leggermente. Non sapevo se per l’adrenalina o per la paura. In quell’attimo mi ricordai come mai ero quasi finito in mezzo a una rissa. Mi voltai e vidi Stana ancora seduta a terra dietro di me, il viso pallido e spaventato con gli occhi puntati su quello che era il suo ragazzo portato via. Notai le sue mani ancorate a terra e il suo cappello abbandonato a pochi passi da lei. I suoi capelli, sempre in ordine, ora le ricadevano a ciocche lungo il volto e vedevo dei piccoli rigagnoli di sudore misti a lacrime sulle guance. Sentii il petto farmi male come nel ricevere una coltellata nel vederla in quello stato. Avrei voluto abbracciarla, spostarle i capelli dal viso, asciugarle gli occhi con un pollice, dirle che andava tutto bene mentre le lasciavo piccoli baci sulla testa… Ma ancora una volta avevo paura. Paura della sua reazione, paura che lei mi allontanasse.
Così rimasi lì impalato a guardarla. Prima che potessi decidermi su cosa fare, Tamala mi passò accanto di corsa per andarsi a inginocchiare accanto a Stana. L’abbracciò e, preoccupata, le chiese come stava. Stana sembrava ancora sotto shock. Era abbracciata a Tam, ma il suo sguardo era perso chissà dove.
“Stana, ragazza, parlami…” mormorò ancora la donna. Sembrava quasi che stesse per avere un attacco di panico. Ma conoscevo Tamala. All’inizio si spaventava a morte, ma era dopo che bisognava temerla. Non essendoci ancora reazione dalla mia collega, mi decisi a fare qualcosa. Mi abbassai lentamente sui talloni davanti a lei, senza staccarle gli occhi di dosso.
“Stana…?” la chiamai piano. Notai che la voce mi tremava leggermente. Deglutii e ci riprovai, non avendo avuto risposte. “Stana?” Ma la mia co-star sembrava ancora persa in un altro mondo. Non sapevo che fare. Sentivo intorno a me che anche altri stavano iniziando ad arrivare e mi sembrava di aver udito qualcuno chiamare un medico, ma io non ci badavo minimamente. Ero completamente concentrato su di lei. Alla fine mi decisi a fare qualcosa di più. Dopo aver preso un respiro profondo, allungai una mano e la appoggiai piano sul suo ginocchio mezzo alzato. Fu a quel punto che Stana sembrò tornare in sé e il suo sguardo si focalizzò su di me. La guardai preoccupato e sorpreso. Era odio quello che leggevo oltre la rabbia?
“E’ tutta colpa tua…” mormorò all’improvviso. La voce le tremava e notai che i suoi occhi si stavano facendo di nuovo lucidi. Rimasi a bocca aperta.
“Cos…?”
“E’ tutta colpa tua!!” ripeté alzando la voce all’improvviso e quasi scagliandosi contro di me. Caddi all’indietro col sedere a terra mentre la guardavo paralizzato. Se non fosse stato per Tamala, che aveva ancora le braccia intorno a Stana, ero certo che mi avrebbe preso a pugni. “Tua!!” urlò con una nota disperata nella voce. “Perché ti sei intromesso?? Perché lo hai colpito??” Io la guardavo sempre più stupito.
“Ma che stai dicendo Stana?? Se io non…” Ancora una volta non mi fece finire.
“E’ colpa tua se se ne è andato!!” gridò ancora lei. Vedevo Tamala che cercava di fermarla e calmarla, ma con scarsi risultati. Non la ascoltava. Stava riversando il suo dolore su di me e non sentiva altro. “E ora lo hai anche preso a pugni!! Ma che pensavi?? Non dovevi intrometterti!! Non erano affari tuoi!!” A quella frase il sangue cominciò ad andarmi alla testa mentre mi montava una rabbia che andava a prendere il posto della sorpresa iniziale.
“Non erano affari miei?” domandai gelido mentre mi alzavo in piedi. Non le diedi il tempo di replicare che continuai. “Quel coglione ti avrebbe fatto seriamente male se non lo avessi fermato!”
“Me la sarei cavata!” replicò lei con lo stesso tono di prima. Sbuffai ironico.
“Certo! Con un paio di costole rotte e qualche livido magari!” risposi acido.
“Tu non lo conosci! Lui non avrebbe mai…”
“No, non lo conosco” la interruppi subito. “Ma ho visto abbastanza da capire che non si sarebbe fermato. E se sei tu che non vuoi capirlo, allora va bene! Resta nel tuo mondo immaginario!” dichiarai, ormai fuori controllo. Sotto il suo dolore vidi la sorpresa per la mia risposta, ma non ci badai. Ero troppo fuori di me. Mi voltai e me ne andai a passo svelto, i pugni e la mascella serrati. Dopo tre passi però mi girai di nuovo verso di lei. “Ah, e se sei convinta di essere nel giusto, allora d’accordo, hai ragione tu” dichiarai gelido. “Ma ti avverto: visto che non sono gradito, io non ti salvo più.” Mi voltai ancora una volta e, senza più guardarmi indietro, arrivai al mio bungalow e mi ci chiusi dentro. Mi fermai un secondo nel mezzo della stanza, il respiro pesante. Quindi lanciai un urlo rabbioso e tirai un pugno alla parete. Sentii una fitta lancinante alle nocche, ma non ci badai. In realtà una piccola parte del mio cervello sapeva perché Stana mi era andata addosso così. Per lo stesso meccanismo di difesa che mi aveva fatto rispondere male a lei quando avevo appena lasciato Serena. Arrabbiarsi con la prima persona che ci si trova davanti anche se non ha colpa. Potevo giustificare la rabbia di Stana, il suo sfogo per quel litigio. Potevo giustificare tutto. Ma non che non capisse che sarebbe uscita male dallo scontro con il suo ragazzo. L’avevo sentita, aveva avuto paura quando l’aveva strattonata. Come poteva essere così cieca??
Iniziai a girare in circolo per il camerino come un animale in gabbia con le mani serrate infilate in tasca, la mascella contratta, il respiro irregolare e il cuore che batteva forte. Sentivo chiaramente il sangue pulsarmi nelle orecchie. Nella testa invece mi rimbombavano ancora le sue parole. Perché non capiva?? Perché??
Continuai a vorticare incessantemente per quel piccolo spazio per non so quanto tempo. Di solito sbollivo facilmente, ma questa non potevo lasciarla passare. Mi aveva fatto preoccupare quasi a prendermi un infarto per la sua incolumità e a lei l’unica cosa che importava era che era colpa mia se quel bastardo se ne era andato!!
All’improvviso un secco bussare alla porta mi fece bloccare in mezzo alla stanza. Per un attimo mi guardai intorno spaesato, non riconoscendo quasi il mio bungalow.
“Nath?” riconobbi la voce di Jon che mi chiamava. Avrei dovuto aspettarmelo. Se c’era qualcuno che riusciva a mettermi in riga dopo Stana, quello era lui. “Bro, sei lì dentro?”
“Lasciami in pace, Jon, non è il momento!” replicai ancora furioso, sapendo bene però che il mio amico là fuori non c’entrava nulla con la mia rabbia.
“Amico, andiamo, esci fuori!” mi chiamò ancora. “Non costringermi a entrare…” mi minacciò, ma non lo lasciai finire.
“E tu non costringermi a uscire!” replicai secco. Era così difficile capire che non volevo vedere nessuno?? “Chiamatemi quando iniziano le riprese se volete, ma ora lasciatemi in pace” aggiunsi con tono più calmo.
“Nathan…” riprovò Jon, ma lo interruppi di nuovo.
“Per favore, Jon” lo supplicai. “Ho bisogno di un po’ di tempo…” Sentii un breve silenzio e poi un sospiro dall’altra parte della porta.
“Nate…” Gelai sul posto. Il respiro mi si mozzò in gola e il cuore ricominciò a pulsarmi veloce. Stana. Con una voce talmente lieve che quasi non l’avevo sentita. “So che non vuoi parlare con me… e avresti ragione…” mormorò ancora. “Ma io… insomma…”
“Stana, ho davvero bisogno di stare solo ora” dichiarai duro. Non ce l’avrei fatta a litigare ancora con lei. Non per quello.
“Ok…” sussurrò dopo qualche attimo con tono triste e rassegnato. “Volevo… volevo solo dirti che mi dispiace…” aggiunse poi. Io sbuffai piano e non replicai. Sentivo gli occhi farsi lucidi tanto erano agitati i sentimenti dentro di me nel sentire in quel momento la sua voce così piccola e nel ricordare insieme quella rabbiosa. Ma non avrei ceduto. Non subito almeno. Forse ero un po’ vendicativo, ma non avrebbe mai capito come mi ero sentito nel vederla in quella situazione con l’essere che chiamava ‘il suo ragazzo’.
Dopo qualche secondo di silenzio sentii un nuovo sospiro dietro la porta.
“Allora… ci vediamo dopo sul set…” mormorò ancora. Percepii i suoi passi allontanarsi. Poi solo silenzio.
Chiusi gli occhi e mi accasciai stancamente su una sedia, i gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani. E ora? Dovevo uscire e affrontarla? Far finta di niente? Come mi sarei comportato? E gli altri che avrebbero pensato? Praticamente tutti avevano visto la nostra ‘scenetta’… Sospirai pesantemente e mi passai le mani tra i capelli senza però avere comunque idea di cosa fare. Non so per quanto tempo rimasi in quella posizione, ma all’improvviso un nuovo bussare mi fece alzare la testa lentamente, come se mi fossi appena svegliato.
“Nathan, sono Kristen. Dobbiamo girare” mi avvertì la mia assistente. “Te la senti?” chiese comunque un attimo dopo, preoccupata. Rimasi per un attimo in silenzio. Me la sentivo? No. Però che scelta avevo? E poi prima avremmo finito le riprese, prima la stagione sarebbe finita e io sarei tornato a casa.
“Arrivo…” risposi alla fine. Mi alzai, presi gli occhiali da sole che avrei dovuto indossare in scena e uscii, trovandomi Kristen appena fuori dalla porta che già mi radiografava come a voler cercare un malessere esteriore. La sua espressione era dubbiosa.
“Nath, sei sicuro che…”
“Sono a posto, grazie Kris” replicai interrompendola e appoggiando le lenti scure sul naso. “Andiamo a fare queste riprese” aggiunsi poi con un mezzo sorriso vuoto, giusto per tranquillizzarla. Mi avviai attraverso il parco fino a raggiungere una sua estremità dove già era tutto pronto. Gli attori in divisa davanti alla macchina contenente la bara, la banda poco più in là, i cameraman e il regista non aspettavano che me. Eppure mi sembrava mancasse il solito fermento. Tutto era più silenzioso, più teso.
Senza che nessuno mi chiedesse niente, e senza che io dicessi nulla, presi il mio posto in fila dietro l’auto funebre. Sentivo gli sguardi di tutti puntati su di me. Specialmente quelli di Stana, che sarebbe stata dalla parte opposta della bara rispetto a me. Non la guardai. Non volevo che vedesse quanto stavo soffrendo, né io avevo intenzione di controllare le sue emozioni. Rimasi con lo sguardo fisso verso il bagagliaio, senza curarmi di altro.
Un momento dopo Bowman, regista dell’episodio, fece partire le riprese. Marlowe, appena dietro di lui  controllava lo svolgimento delle registrazioni. Mentre Jon davanti a me apriva la macchina per tirare fuori la bara, pensai, in un momento di cupa ironia, che le nostre facce erano davvero da funerale e che quindi la scena sarebbe sicuramente venuta benissimo.
Sotto l’occhio attento delle telecamere, portammo la bara pochi passi più in là discendendo per una piccola collinetta per simulare la marcia verso il pezzo di terra a cui Roy Montgomery sarebbe stato destinato. Al solito ripetemmo la stessa scena per diverse volte in modo da avere più angolazioni. Quindi passammo alla scena del funerale vero e proprio, con tanto di colpi a salve e bandiera americana ripiegata e consegnata alla moglie del caduto.
Il clima delle riprese era grave. Non solo per la scena in sé che stavamo girando. Nessuno rideva o scherzava durante le pause. Tutti facevano il proprio lavoro senza dire nulla se non lo stretto indispensabile. Notai più di una volta Tamala appartarsi con Stana poco lontano dal set e discutere con lei animatamente di qualcosa. Di tanto in tanto Jon o Seamus cercavano di farmi parlare un poco, di tirarmi su, di farmi reagire, ma ogni volta rispondevo atono o non rispondevo affatto, così alla fine rinunciarono. Quella litigata aveva buttato giù il morale a tutti.
Alla fine, dopo quasi un’ora e mezza, arrivammo al momento culminante del funerale: il discorso di Beckett. Pensai all’ironia della cosa. Io, che avevo appena detto che non l’avrei più salvata, entro pochi minuti mi sarei dovuto buttare su di lei per cercare di tirarla via dalla traiettoria di un proiettile.
Andai a prendere il mio posto davanti alla bara e poco lontano dal leggio. Bowman mi fece segno da dietro una telecamera di togliermi gli occhiali da sole che mi ero rimesso sul naso dopo una ripresa. Li levai del tutto e li lasciai a Kristen, già al mio fianco per recuperarli e controllarmi il trucco. Gli attori si diressero per la maggior parte alle sedie destinate ai familiari e agli amici del capitano, mentre altri, tutti in divisa, si sistemavarono in piedi intorno alla bara e alla folla. Stana prese la via per il leggio. Nel salirci, si voltò per un momento verso di me e i nostri sguardi si incrociarono. Esitò un momento sulla pedana, come se volesse prima scoprire cosa stessi pensando o si aspettasse un cenno da me. Ma io non mossi un muscolo. Rimasi indifferente e dopo qualche attimo voltai lo sguardo alle file di lapidi che si estendevano davanti a noi e che tra poco avrebbero dato rifugio al quasi assassino della detective Beckett. Con la coda dell’occhio vidi Stana abbassare il capo e scuoterlo leggermente, come rassegnata.
In quel momento Rob ci avvertì di tenerci pronti a girare. Feci un respiro profondo e chiusi per un secondo gli occhi. Dovevo ancora una volta tornare Castle. Cosa provava e avrebbe provato? Avevano appena ucciso uno dei suoi amici. Dolore. Aveva litigato con la sua partner. Rabbia. E tra poco sarebbe stato testimone del quasi omicidio della donna che amava… Terrore. Assoluto terrore. Quello non sarebbe stato difficile in fondo. Dovevo solo riprendere il sentimento che mi aveva spinto qualche ora prima a lanciarmi contro Adam e amplificarlo.
Riaprii gli occhi. Ero pronto. Lanciai un’occhiata intorno a me e vidi i volti di tutti sfregiati dalla tristezza. Sì, sarebbe venuta davvero bene come sequenza…
Bowman ci segnalò che stavamo per cominciare. 3…2…1… Azione.
“Roy Montgomery taught me what it meant to be a cop. He taught me that we are bound by our choices, but we are more than our mistakes.”
Stana/Kate parlava con calma, ma percepii anche una nota diversa nella sua voce. Tensione. E come un groppo in gola, tenuto a freno per miracolo, che si notava da come si fermava spesso per riprendere fiato. La guardai sorpreso. Non solo per quel coinvolgimento che sembrava quasi reale. Anche per le sue parole. ‘Siamo legati alle nostre scelte, ma valiamo più dei nostri errori.’ Quella frase mi colpì più di quanto mi aspettassi, nonostante l’avessi letta e riletta sul copione, nonostante sapessi che si parlava del mondo di Castle e non del nostro.
Tornai a guardare la folla davanti a me con uno strano peso nel petto mentre Beckett continuava a parlare.
“Captain Montgomery once said to me that, for us there is no victory. There are only battles. And in the end, the best you could hope for is to find a place to make your stand. And if you're very lucky, you find someone willing to stand with you.”
A quelle parole, Beckett si girò lentamente verso di me, quasi avesse paura che io potessi andarmene. Ma io non mi mossi. Non mi sarei mai mosso. Perché nonostante il dolore e la rabbia, Rick sarebbe sempre rimasto accanto a Kate. Una domanda però mi distraeva dalla scena. Io avrei fatto la stessa cosa per Stana?
Quando Stana/Kate riprese a parlare, per un attimo rimasi confuso su chi realmente fossimo in quel momento. Un secondo dopo però scacciai quel pensiero e tornai a concentrarmi. Alzai lo sguardo, mentre controllavo a che punto era il discorso. Ancora un momento e… un riflesso tra le lapidi!
Aggrottai le sopracciglia, perplesso da quel fenomeno. Che diavolo…?? Di nuovo quel riflesso… puntato su Kate! Finalmente capii e scattai. Ma troppo tardi.
“Kate!!”
Mi buttai su di lei, mentre gli altri, appena compresi lo sparo silenziato e il mio grido, si gettavano a terra urlando. Cademmo insieme a terra, lei a peso morto sotto di me, il cappello volato all’indietro chissà dove. Mi alzai subito sulle braccia per controllare come stesse e per un attimo fui davvero terrorizzato, tanto da dimenticarmi quasi il confine tra realtà e finzione. Avevo dimenticato che per la prima ripresa, da fare intera senza interruzioni, Stana aveva già indossato dei guanti con del finto sangue. “Kate…” mormorai con ancora residui di autentico spavento. Le guardai il petto dove sarebbe dovuto entrare il proiettile e mi immaginai una pozza di sangue rosso. Il terrore si impossessò di nuovo di me, come se lo vedessi realmente il sangue, come quando avevo visto cedere le ginocchia a Stana mentre affrontava Adam e avevo immaginato in un istante quali avrebbero potuto essere le conseguenze. “Shh…” la zittii come se volesse dirmi qualcosa. Le tirai su la testa con una mano per non farla poggiare a terra, mentre l’altra la passavo nervoso tra il suo fianco e il braccio. Kate, please. Stay with me, Kate.”Vedevo Kate guardarmi come spaesata, come se non avesse ancora compreso a fondo perché si trovava a terra e con me sopra. “Don't leave me, please. Stay with me, okay?” Fu a quelle parole che la voce mi si ruppe. Più andavamo avanti con la scena, più io dimenticavo che avevo Kate e non Stana davanti. Poi tentai il tutto per tutto. “Kate…” la richiamai ancora, ma stavolta con voce più ferma e sicura. Volevo che capisse che non lo facevo perché stava morendo tra le mie braccia, ma perché lo provavo davvero. “I love you.” Mormorai guardandola intensamente negli occhi, perché capisse che erano sinceri. Gli occhi di Stana/Kate (non riuscivo più a distinguerne la differenza) ebbero un reale moto di sorpresa e per un attimo li vidi brillare. Come avrei fatto se non avessi più visto quei bellissimi occhi? “I love you, Kate.” Quel nome stonò con quello che avrei voluto davvero dire e mi fece tornare faticosamente alla realtà. Stana mi guardava con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta. Mi ricordai in quel momento che avrebbe dovuto lasciar cadere all’indietro la testa, ma non lo fece. Rimase a guardarmi, mentre quello che sembrava un piccolo sorriso iniziava a formarsi sulle sue labbra. I nostri occhi rimasero incollati per diversi secondi. Avevo paura di muovermi. Se mi fossi mosso saremmo tornati del tutto alla realtà, dove avevamo litigato, e io non volevo. Sarei anche rimasto nel limbo tra Castle e realtà per sempre se avesse voluto dire vedere quegli occhi scintillare di felicità e quel sorriso allargarsi sulle sue labbra solo per me.
Ma fu la voce di Bowman a farci tornare bruscamente con i piedi per terra.
“Stoop!” urlò. “Ragazzi davvero bravi, ma Stana alla fine tu dovevi svenire!” Sbattei le palpebre come a riprendermi da un sogno, mentre Rob si avvicinava a noi. Per un secondo notai un’espressione di disappunto sul volto di Stana. Me l’ero solo immaginato? In quel momento mi ricordai che ero ancora sopra di lei. Mi alzai velocemente. Mi passai una mano tra i capelli per riprendermi, quindi allungai una mano a Stana per aiutarla a rialzarsi. Per quella gentilezza mi regalò un piccolo sorriso mentre le guance le si arrossavano velocemente. Evidentemente stava rimettendo anche lei insieme i pezzi della nostra performance.
Mentre Stana si scusava con Rob per non essere svenuta, io rimasi a osservarla. Lei era bellissima e straordinaria tanto quanto Kate. E solo in quel momento mi accorsi di una cosa. Avevo detto molte volte ti amo per mia volontà o per volontà di un regista. Ma non ci avevo mai creduto così tanto, non l’avevo mai sentito più giusto, che rivolto verso Stana pochi minuti prima. In quell’attimo fui certo di quello che provavo. Non era più qualcosa di indefinito. Non c’era più la domanda ‘che cosa siamo?’. Beh, ok, forse la domanda c’era ancora, ma almeno ora ero sicuro di una cosa. Ero innamorato di Stana.
 
Rifacemmo la scena più volte e stavolta Stana ‘svenne’ come da copione. Notai che qualcosa sul set era cambiato. L’atmosfera sembrava… più leggera. Io e Stana non ci parlavamo ancora, ma non ci guardavamo più nemmeno in cagnesco. A volte mi trovavo a fissarla senza motivo con un mezzo sorriso ebete, mentre altre la beccavo io che mi osservava con la coda dell’occhio, come a studiarmi. Qualche volta ci scappava anche un mezzo sorriso imbarazzato per qualche momento di scena venuto male, ad esempio quando, nel caderle addosso, ero scivolato ed ero crollato completamente su di lei. Non che la cosa mi fosse dispiaciuta particolarmente in realtà, ma avevo avuto paura di farle male e quando lei aveva fatto una battuta sulla mia instabilità non avevo potuto far altro che sorridere.
Il nostro cambiamento a quanto pare aveva influenzato ancora una volta tutto il cast e i tecnici. C’erano più sorrisi, più battute. Tamala arrivò perfino a domandare a Stana, con un sorrisetto malizioso, se per caso non avrebbe preferito stare sdraiata ancora un po’ a terra prima di svenire davvero, visto il sorriso che le aveva procurato la prima ripresa. Non era il solito umore, ma di certo era migliore di prima.
Passammo la giornata sul set per completare le riprese con tutte le angolazioni possibili che vennero in mente a Andrew e andammo a casa soddisfatti, anche se un po’ malinconici perché le registrazioni erano finite.
 
La sera ci fu la festa per il finale di stagione. L’atmosfera era festosa perché avevamo passato con successo un altro anno e c’era già gente che si chiedeva se saremmo arrivati alla quota di cento episodi. Per conto mio, passai la serata a scherzare con tutti (dopo la mia illuminazione della mattina il mio umore aveva avuto un crescendo per tutto il giorno) e intanto controllavo con un occhio Stana. La vedevo pensierosa e spesso in fitta conversazione con Tamala, ma non avrei saputo dire di cosa stessero parlassero. Anche se a un certo punto fui quasi convinto di aver sentito le parole ‘cimitero’ e ‘sguardo’. Quando i nostri occhi si incontravano poi, lei si mordeva il labbro inferiore e sembrava sempre indecisa, come se non sapesse se sorridermi o mandarmi al diavolo.
Tornai a casa la sera con la testa piena di dubbi. Tra l’altro non avevo ancora chiarito niente con Stana. Non avevamo parlato della litigata, per quelle poche chiacchiere che avevamo fatto, ma solo delle riprese e su cosa avremmo fatto durante le vacanze.
Alla fine mi addormentai pensieroso, ma con ancora davanti agli occhi l’immagine di Stana sotto di me che mi sorrideva, mentre gli occhi le brillavano.
 
Lunedì mattina mi svegliai allegro. Dopo quasi una settimana finalmente avrei rivisto Stana. Era dalla festa del finale di stagione che non la vedevo e mi mancava il suo sorriso. Beh, in realtà mi mancava tutto di lei. Mi ero trattenuto a stento nei giorni precedenti dal chiamarla e avevo usato tutte le mie energie per non pensarla e per organizzare le vacanze con mio fratello. Non avrei saputo neanche che dirle d’altronde. Quante volte mi ero immaginato una nostra conversazione telefonica?
‘Pronto?’ ‘Pronto Stana, sono Nathan. Volevo chiederti se potevamo vederci perché non abbiamo parlato molto dalla litigata e volevo dirti che mi dispiace che sia finita male, ma anche che ho scoperto una cosa sorprendente, cioè che sono innamorato di te e scusa se non te l’avevo ancora detto, ma non sapevo come dirtelo e in realtà non volevo neanche dirtelo al telefono, ma è capitato così perché sto parlando a manetta e non volevo aspettare un momento di più e…’
No. Decisamente, no. Avrei voluto dirglielo in faccia, ma ero terrorizzato da una sua reazione. Sapevo che aveva lasciato Adam (per fortuna!!), ma non avevo idea di cosa provasse per me. Solo amicizia? E se davvero non avesse provato altro? Sarebbe stata solo una pugnalata nel cuore scoprirlo…
Quel pensiero mitigò decisamente il mio buon umore. Sospirai e mi passai una mano tra i capelli. Qualunque cosa fosse accaduta oggi, dovevo parlare con lei. Avevo bisogno di parlare con lei. Forse era il caso di farmi un caffè con cioccolato. Giusto per avere il coraggio necessario.
Abbassai gli occhi però e guardai la pancetta che mi si era formata e che negli ultimi tempi i miei cari colleghi avevano deciso di prendere di mira. Magari un caffè forte sarebbe bastato.
Finalmente mi decisi ad alzarmi dal letto per andarmi a fare una doccia e prepararmi per i provini del nuovo capitano Victoria Gates.
 
Raggiunsi gli studios con dieci minuti di anticipo. In effetti avevo tirato un po’ sull’acceleratore, ma volevo arrivare prima per passare dal bar a prendere due caffè per me e per Stana. Mi ero accorto infatti che era diverso tempo che non glielo portavo. Quale migliore occasione per condividere un ‘caffè della pace’?
Entrai sul set del distretto dove ci sarebbero stati i provini. Avevano già spostato tutti i tavoli e liberato la zona, tanto che sembrava che il distretto fosse in restaurazione. Era stato lasciato solo il tavolone lungo che Marlowe, Bowman e i produttori avevano usato tre anni prima per le prime selezioni dei miei colleghi e che fino a quel giorno era per servito per appoggiare viveri e vivande per tecnici e cast in uno dei corridoi laterali nascosti del set. Andrew e Rob erano già arrivati ed erano chini su un copione a confabulare di chissà cosa. Qualche tecnico gironzolava ancora per i vari set finendo di sistemare gli oggetti di scena al sicuro. In fondo avremmo dovuto già essere in vacanza, ma eravamo rimasti solo per quei provini. Poi saremmo tornati tutti a metà luglio per girare la quarta stagione. A quel pensiero mi si chiuse lo stomaco. Se non fossi riuscito a parlare faccia a faccia con Stana quel giorno, non avrei più potuto farlo per i prossimi tre mesi, visto che poi saremmo partiti in date diverse e per luoghi lontani.
Mi guardai attorno, ma non la vidi da nessuna parte. C’erano già Jon e Seamus che chiacchieravano in un angolo e con la coda dell’occhio notai Tamala entrare e raggiungere i due. Sospirai e mi unii ai tre per passare quei minuti angoscianti. Sperai che Stana non decidesse di arrivare in ritardo proprio oggi.
“Ehi, bro!” mi salutò Jon vedendomi. “Tutto bene?” domandò poi squadrandomi da capo a piedi.
“Ciao, ragazzi” risposi. “Sì, sto bene, perché?” chiesi a mia volta confuso per quello sguardo indagatore.
“Così, tanto per sapere…” replicò Seamus alzando appena le spalle. Ma i due continuavano a guardarmi con l’aria di chi si aspetta che da un momento all’altro mi sarebbe caduta sulla testa qualche calamità. Tamala invece pareva studiarmi come se attendesse una qualche mia mossa. Ma che avevano stamattina?? “Tutto bene con Stana, sì?” si decise alla fine a chiedermi Seamus.
Lo osservai guardingo. Non è che c’era qualcosa che non sapevo?
“Uhm… sì… perché?” domandai di nuovo. Seamus si passò una mano sul collo e lanciò un’occhiata a Jon, come se sperasse che l’amico dicesse qualcosa. Infatti venne in suo soccorso.
“Diciamo che è dal giorno della litig… delle riprese del funerale…” Stava per dire ‘litigata’, ma un’occhiataccia di Tamala l’aveva fatto cambiare subito. “…che siete strani” concluse. “Voglio dire, parlate a malapena, e posso ancora capirlo, ma…” Si fermò a disagio, non trovando le parole adatte per continuare.
“Oh, insomma!” esclamò Tamala sbuffando. “Quello che Jon vuole dirti è di alzare il tuo bel didietro e parlare con Stana!” Sgranai gli occhi stupito. Sì, ok, già volevo parlare con la mia collega, ma che fosse Tam, che era la sua migliore amica, a dirmelo, significava che forse qualcosa si era mosso tra me e Stana. “Fillion non azzardarti a guardarmi così!” mi riprese minacciosa socchiudendo gli occhi e puntandomi contro un dito. Feci un passo indietro e alzai i caffè come a cercarvi riparo dietro. “Cerca di chiarire la tua posizione con lei oppure… Quelli sono due caffè??” Si fermò bruscamente, stupita, quando vide i cartoni che avevo in mano. Annuii confuso. “Per te e Stana?” chiese ancora sospettosa. Annuii di nuovo e velocemente. Il suo viso arrabbiato si rilassò un poco e mi sorrise appena. “Da quanto tempo era che non le portavi il caffè?” mi domandò più dolcemente. Stavolta fui io a fare un mezzo sorriso.
“Troppo” replicai. Tamala mi guardò negli occhi a fondo, quasi volesse scavarmi dentro per capire i miei pensieri. Poi sorrise di nuovo e alzò gli occhi al cielo.
“Lo sapevo io, se non li si prende a testate non ci arrivano…” commentò a chissà chi, divertita. Jon e Seamus continuavano a passare alternativamente lo sguardo tra me e Tam e ci osservavano come fossimo improvvisamente impazziti. Un attimo dopo lo sguardo della Jones fu attirato verso qualcosa alle mie spalle. “Ti conviene portarle il suo caffè prima che si freddi allora…” aggiunse facendomi un cenno verso dove stava guardando. Mi voltai e vidi Stana entrare sul set un po’ trafelata per paura di essere in ritardo. Solo a me sembrava all’improvviso così bella? “Muoviti, testone!” esclamò Tamala, esasperata, ma divertita dalla mia faccia da pesce lesso. “E vedete di chiarirvi per favore!” Mi girai ancora una volta verso Tam e le sorrisi come ringraziamento. Quindi mi scusai e scappai veloce verso Stana.
“Ehi!” esclamai sorridendo per salutarla. Lei si voltò di scatto mentre appoggiava la sua borsa a tracolla su una sedia.
“Ehi…” replicò con un mezzo sorriso. Notai che era un po’ nervosa da come si portò velocemente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Ecco, e ora? Ora che ero davanti a lei non sapevo più che dirle! Tutto il bel discorso che mi ero mentalmente preparato nei giorni precedenti era svanito completamente davanti ai suoi bellissimi occhi curiosi e ansiosi.
Mi ricordai in quel momento di ciò che avevo in mano.
“Io… ecco, ti ho preso il caffè” dissi porgendole il suo contenitore. Lei mi guardò per un momento stupita, quindi mi sorrise, un poco più tranquilla.
“Grazie…” mormorò timida prendendo il caffè tra le mani e chiudendo gli occhi per sentirne l’odore dall’apertura sul tappo.
“Figurati” replicai sincero. “Era un po’ che non lo prendevo e… beh, avevo paura che il barista non mi riconoscesse più e non mi facesse più lo sconto” scherzai. Stana ridacchiò nascondendosi dietro al caffè. Perché lo faceva? Era così bella quando rideva… Scossi la testa e mi sforzai di concentrarmi. Presi un bel respiro prima di parlare. “In realtà io… ecco, io volevo chiederti scusa…” Stana alzò gli occhi su di me e mi guardò interrogativa. “Avevi ragione, io non… io non avrei dovuto intromettermi quel giorno…” mi sforzai di dire. “Solo che ti avevo visto in difficoltà e…”
“No, avevi ragione tu” mi fermò Stana scuotendo la testa. “Se non fossi intervenuto non ho idea fin dove si sarebbe spinto Adam. Ero accecata dal fatto che avevo paura di restare sola da non accorgermi del male che mi stava facendo…” Vidi il suo sguardo fermarsi inconsciamente per un attimo sui suoi polsi. Con quel gesto seppi che l’ultimo incontro con Adam doveva averle lasciato dei segni sulla pelle. Se lo avessi avuto davanti in quel momento gli avrei rotto tutte le ossa delle mani una per una e avrei goduto nel farlo.
“Tu non sei mai sola” replicai sicuro. Lei alzò di nuovo gli occhi su di me. “Qui c’è tutto un cast e una troupe che farebbe di tutto per te…” aggiunsi facendo un cenno con la mano al set. Vidi il suo sguardo intristirsi per un attimo. “E io…” cercai di trovare le parole adatte per continuare, ma i suoi occhi, ora attenti su di me, mi distraevano. “Io sarò sempre qui per te. Sono il tuo cavaliere, ricordi?” domandai con un mezzo sorriso riferendomi alle prime uscite che avevamo fatto insieme, quando la nostra amicizia, con quel qualcosa in più, stava ancora nascendo.
Lei mi sorrise timida.
“Il mio partner” replicò semplicemente. A quelle parole fui io ad alzare gli occhi su di lei, stupito. Partner… Perché ora le parole di poco più di una settimana fa di Serena mi suonavano così vuote e senza senso? Anzi, come avevano fatto allora ad avere un qualche senso per me? Noi eravamo partner, non semplici colleghi. Semplici colleghi non lo eravamo mai stati.
Le sorrisi come non facevo da tempo. Saperlo prima che sarebbe bastato parlare con lei per chiarire ogni dubbio!! Ora ero più certo che mai di quello che provavo.
“Stana, io…” cominciai, ma la voce di Marlowe ci interruppe mentre urlava a tutti di prepararsi per i provini e soprattutto a noi di avvicinarci così da recuperare i copioni. Lo maledissi silenziosamente.
“Dobbiamo andare” commentò velocemente Stana con gli occhi bassi e un po’ rossa in volto. La fissai per un attimo, quindi sospirai e annuii. Quindi sorrisi, anche se di un sorriso un po’ tirato.
“E andiamo!” esclamai scherzando e facendole un largo gesto con la mano per farla passare avanti. Lei ridacchiò e scosse la testa, ma poi mi precedette verso il tavolo dei produttori. Non era pronta. Non era pronta a quello che stavo per dirle e l’avevo capito subito. Come lei probabilmente aveva capito quello che avrei voluto confessarle. Forse perché aveva appena rotto così bruscamente con il suo ex, voleva un po’ di tempo per riprendersi. Inoltre di certo non ero l’uomo più facile con cui avere a che fare, visti i miei trascorsi amorosi. Ma io le avrei fatto cambiare idea. Le avrei dimostrato di potersi fidare di me non solo in amicizia, ma anche in amore.
 
Leggemmo i copioni mentre due tecnici recuperavano la lavagna bianca di Beckett. Avremmo recitato due scene: la prima era un faccia a faccia Gates-Beckett sul suo ritorno al distretto; la seconda riguardava invece un caso di omicidio di cui la Gates voleva un rapporto e avrebbe coinvolto sia la detective che Castle, Ryan ed Esposito.
Nel ripassare le battute con Jon e Seamus, mi accorsi che appena potevano ci osservavano attenti e curiosi. Io e Stana eravamo decisamente più rilassati che negli ultimi giorni e sicuramente l’avevano notato. Tamala invece ci studiava senza preoccuparsi che noi la vedessimo e sembrava tentare di capire che cosa ci fossimo detti e se finalmente avessimo risolto qualcosa.
“Certo che questa Gates è un tipo interessante…” commentò Stana a un certo punto quando finimmo di ripassare il copione.
“A me fa un po’ paura” replicò Seam con una mezza smorfia pensando sicuramente al suo personaggio era semi-terrorizzato dal nuovo capitano.
“Ma per favore!” esclamò Jon incredulo, scuotendo la testa con disapprovazione all’amico.
“Ragazzi, siete pronti?” ci chiamò Bowman in quel momento.
“Arriviamo!” risposi per tutti.
“Questa almeno forse riuscirà a far rigare dritto Castle” continuò Jon ridacchiando mentre ci incamminavamo verso il tavolone.
“Ehi!” esclamai offeso. “Forse all’inizio mi odierà, ma sono sicuro che prima o poi le piacerò!” aggiunsi convinto come se fossi Castle e stessimo recitando.
“Sì, nei tuoi sogni…” commentò Stana ridendo e usando una frase di Kate. Misi il broncio e la guardai offeso.
“Anche tu la pensi così?? Questo è un colpo al cuore, detective Beckett!” dissi teatralmente portandomi una mano al petto.
“Uff, sono sicura che prima o poi le piacerai anche tu, Castle!” replicò lei scuotendo la testa e rimarcando divertita sul ‘prima o poi’.
“Ovvio!” risposi come se effettivamente fosse la cosa più normale del mondo. “Il mio fascino non ha paragoni! Perfino tu sei capitolata, detective, quindi capitolerà anche la Gates!”
“Non ne sarei così sicuro, Castle… e poi chi ti dice che io sia capitolata?” domandò poi lei con un sopracciglio alzato, ma anche con un sorrisetto malamente nascosto. Mi avvicinai a lei di un passo e abbassai la voce.
“Oh, credimi, detective, so cogliere i segnali…” dissi con un sorriso furbo.
“Ragazzi, detesto interrompervi” disse all’improvviso Marlowe. Ci voltammo spaesati, come se ci avessero appena svegliato da un sogno, e notammo che tutti ci stavano osservando divertiti. “Ma lasciate un po’ di spirito Caskett anche per le prove, ok?” Io ridacchiai e Stana arrossì, ma entrambi annuimmo.
Prendemmo posizione al centro della sala insieme a Jon e Seamus in attesa della prima candidata, mentre Tamala andò a sedersi al tavolo dei produttori con uno strano sorrisetto soddisfatto in faccia. Isabel, l’assistente di Marlowe, ci avvertì che le aspiranti erano una trentina, quindi fece entrare la prima. Era una donna sui quarant’anni, pelle bianca, labbra rosse e carnose e capelli nero pece. Nonostante l’età, mi venne subito in mente la favola di Biancaneve nel vederla. Era una bella donna e sembrava anche simpatica, ma non emanava il carisma che avrebbe dovuto avere il capitano Gates.
Mi passai pensieroso una mano tra i capelli mentre aspettavamo che si presentasse ai produttori. Mi chiesi se per trovare la Gates, Marlowe avrebbe avuto la sua solita fortuna sfacciata in fatto di attori.
 
Avevamo già visto una ventina di candidate, quando entrò una faccia conosciuta. Era una donna sulla cinquantina, non molto alta e dalla carnagione scura. Da amante di Star Trek qual’ero, avevo visto negli anni tutte le serie televisive uscite sul tema. E lei la ricordavo bene: era il capitano Kasidy Yates. Dovette riconoscerla anche Stana, perché sorrise nel vederla.
“Quella è Sherry Palmer!!” mi sussurrò eccitata. La guardai confuso.
“Chi?” Stana mi lanciò un’occhiataccia.
“Sherry Palmer. Ha recitato nella serie 24” mi spiegò. Annuii comprensivo. Era una serie che la mia partner amava molto e vi aveva anche partecipato in uno o due episodi.
“Penny Johnson Jerald” si presentò l’attrice dando il suo curriculum a Andrew. Nel spiegare la sua carriera nominò sia 24 che Star Trek, oltre a una sit-com e a diversi altri telefilm per singole brevi apparizioni.
“Perfetto, signora Jerald. Ora può raggiungere gli altri laggiù che le daranno un copione” disse Marlowe qualche minuto dopo indicandoci. La donna si girò e venne a passo spedito verso di noi con un sorriso in volto. Si presentò allegra allungandoci la mano. Notai che aveva una presa sicura e forte, nonostante la statura. Le passammo un copione che subito lesse con interesse. Nel frattempo iniziammo a conoscerla e scoprimmo che conosceva Castle e che era stata una grande fan di Montgomery. Soprattutto per come, un po’ più sottilmente, aveva cercato di far avvicinare Rick e Kate. Anche lei, come Stana, era pazza per il rapporto tra Castle e Beckett e non vedeva l’ora che si mettessero insieme. Io ero un po’ più scettico, ma mi astenni dal commentare. Molte serie tv erano finite perché i protagonisti si erano messi insieme e se quello era il prezzo da pagare per continuare a lavorare in Castle con gli altri, ma soprattutto con Stana, allora a me sarebbe andata bene pure se avessero continuato a girarsi intorno per sempre.
Qualche minuto dopo cominciammo il provino. La Jerald era fantastica. Un momento prima sembrava seria come la morte mentre recitava la parte della Gates, mentre l’attimo dopo, appena tornava sé stessa, era la persona più allegra e attiva di questo mondo. Il dialogo Beckett-Gates sembrò uno scontro all’ultimo sangue e la serietà con cui il capitano seguì il caso (e riprese Castle) furono magistrali.
Quando la salutammo, sembrava estremamente eccitata e allegra. La sua risata era piena di vita e contagiosa. Era felice di averci conosciuto e sperava con noi che la Gates, col tempo, imparasse a conoscere i suoi sottoposti e migliorasse un po’ di carattere.
 
Un’ora e mezza dopo ci riunimmo a consiglio per eleggere il nuovo capitano. Mi mancavano quelle mega riunioni. Mi ricordavano molto i primi tempi in Castle grazie ai quali avevo trovato una famiglia in pratica, oltre che fantastici amici e una donna stupenda. Non ci mettemmo nemmeno troppo. Dopo soli venti minuti, all’unanimità avevamo scelto la nostra donna. E poi chi altri meglio di un capitano della flotta stellare avrebbe potuto interpretare un capitano di polizia? Penny Johnson Jerald infatti era appena diventata ufficialmente il nuovo capitano Victoria ‘Iron’ Gates del dodicesimo distretto di New York.

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Xiao!! :D
Sono in un mostruoso ritardo, lo so... *me si frusta da sola* ... purtroppo sono in periodo esami e, dovendo studiare, riesco a combinare qualcosa solo la sera... Se poi inoltre mi ostino pure a controllare la lunghezza dei capitoli solo alla fine sono rovinata... -.- Non mi ero neanche accorta di quanto era lungo!! In ogni caso spero vi sia piaciuto e ancora scusate *me si frusta di nuovo* per il ritardo...
Cooomunque... allora quanti si aspettavano la Gates? XD Ho fatto un bel saltino in avanti e le cose purtroppo non andavano tanto bene tra quei due, ma come sapete io sono per gli happy endings (anche se a quanto pare adoro farvi soffrire almeno un pochetto... XD) e quindi sembra che ora si sistemerà un poco... X)
Ah, c'è ancora un capitolo mancante poi anche questa fic sarà finita... (dio non pensavo sarebbe venuta così oblunga!! O.o) Anyway, volete provare a indovinare chi c'è dopo? X) 
Un grazie enorme come sempre alle mie 'consulenti' Katia e Sofia! :D Vi adoro ragazze! (Anche quando mi fate aggiungere pezzi o mi ricordate cose i mi cambiano mezzo mondo, vero draghetta? XD)
Boh, that's all folks!
A presto! ;D (spero, ma purtroppo sta arrivando il periodo nero per gli esami e non penso sarà tanto "presto"... abbiate pietà)
Lanie

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Capitolo 10
*** My Always ***


Cap.10 My Always

"Amore è rivelazione improvvisa, il bacio è sempre una scoperta"
(Anonimo)


Un anno dopo.
Aprii un occhio. La luce proveniente dalla finestra mi accecò, quindi lo richiusi subito. Mugugnai scocciato e ficcai di nuovo la faccia nel cuscino. Che ore erano? Presto di sicuro. La sveglia non era nemmeno suonata e… Un momento. Mi ero seriamente svegliato prima del penetrante suono della sveglia??
Riaprii l’occhio e iniziai a girarlo alla ricerca del fastidioso apparecchio luminoso segna ora sul comodino. 6.38 am. Ok, mi ero decisamente svegliato prima. Fantastico, pensai con sarcasmo. Avevo dormito poco e mi ero svegliato presto. Che notte del cavolo con mille pensieri e la testa che non ne voleva sapere di spegnersi. Come se non ne avessi saputo il motivo…
Sospirai e infilai di nuovo la faccia nel cuscino. Non era che non volessi alzarmi, tutt’altro, ma avevo sentimenti contrastanti per le riprese di quel giorno. Eravamo ormai arrivati all’ultimo episodio della quarta stagione e Marlowe aveva deciso di chiuderlo col botto. O almeno col botto che tutti i fan aspettavano e non con il letterale botto dell’anno scorso. Castle e Beckett infatti si sarebbero finalmente baciati.
Sospirai e mi voltai sulla schiena, incrociando le braccia dietro la testa. Il lenzuolo mi scivolò sulla pancia, scoprendomi in parte il petto nudo, ma me ne curai poco visto che non faceva freddo. Sorrisi leggermente ripensando ai salti di gioia che aveva fatto Stana appena aveva finito di leggere il copione. Ancora un po’ e avrebbe baciato lei Andrew, talmente era contenta. Dopo tante sofferenze, alla fine anche per quei due era arrivato il momento di stare insieme. Certo, continuavo a essere preoccupato per la quinta stagione (avevo una paura matta della ‘Maledizione di Moonlighting’, ossia la maledizione dei telefilm in cui appena i protagonisti si mettevano insieme, gli ascolti della serie crollavano), ma da quello che avremmo girato e da qualche anticipazione di Andrew per la prossima stagione, forse non sarebbe successo niente. Anzi probabilmente sarebbe andata ancora meglio. Inoltre se c’era una serie che poteva essere a prova di qualsiasi maledizione, quella era proprio Castle.
Tentai di convincermi che era la maledizione mia unica preoccupazione, ma fallii miseramente. Sbuffai piano e mi misi a osservare il soffitto irritato. Chi volevo prendere in giro? Non era davvero la maledizione che mi preoccupava. Era il fatto che Castle e Beckett sarebbero stati insieme, il che significava più contatti, ma soprattutto più baci con Stana. E io come diavolo avrei fatto?? Già mi terrorizzavano le riprese che avremmo avuto nel giro di qualche ora… non osavo immaginare un’intera stagione a dannarmi! Insomma girare ore e ore a contatto con lei senza poterla seriamente avvicinare era già frustrante, ma a così stretto contatto sarei letteralmente impazzito!!
Era da un anno che la tensione tra di noi era al massimo. Dal giorno della litigata con l’ormai ex-ragazzo di Stana, Adam, avevo cercato di fare di tutto per guadagnarmi la sua fiducia. Ma l’unica volta, circa a metà stagione, che ero uscito con una ragazza, che era seriamente solo mia amica e con cui non avevo mire di sorta, avevamo litigato per una cazzata! Giusto per litigare! Perché non potevano essere solo mie paranoie il fatto che mettessi una foto su twitter di me e una ragazza e due ore dopo litigassi con Stana senza un motivo apparente! Era mai possibile?? Un anno a stare vicino a lei, a tentare di convincerla che ero cambiato, che poteva fidarsi e tutto per nulla. Ero stato solo peggio e mi sembrava che invece di fare passi avanti, ne facevamo dieci indietro!
Il divertente era che spesso i miei amici o i miei fan mi chiedevano come facevo a far sembrare così veri, così reali e comprensibili i sentimenti di Castle. Semplice: mi sentivo come lui. Provavo per Stana quello che Rick provava per Kate. Se ero con lei scherzavo e cercavo di fare tutto per guadagnarmi una sua risata o un suo sorriso. Se non eravamo insieme non potevo fare a meno di chiedermi che faceva e se c’era già un altro accanto a lei dove avrei voluto essere io. Lei era il mio pensiero costante. Ma evidentemente io non ero il suo.
Sospirai stancamente e mi passai una mano sulla faccia. Quindi mi venne in mente una cosa. Scostai il lenzuolo e mi alzai. Con solo i boxer addosso mi diressi al cassettone laterale al letto e iniziai a spostare, con sempre maggior irritazione, ogni cosa. Cercai in tutti i cassetti per circa dieci minuti, imprecando silenziosamente perché non riuscivo a trovare quello che volevo e sbattendo ogni cosa fuori, dalle calze, alle mutande, alle magliette. Finalmente le mie ricerche diedero i loro frutti nell’ultimo cassetto. Esultai allegro e tirai fuori quello che cercavo: un album di fotografie. Sì, è vero, per un ultratecnologico come me sembra strano, ma dei miei scatti più cari preferivo sempre avere una copia cartacea, invece che solo quella digitale.
Osservai distrattamente le prime foto che ritraevano più che altro la mia famiglia. Ne vidi una con mio fratello, di cui non ricordavo nemmeno l’esistenza, al mare da bambini, entrambi vestiti con maschera, boccaglio, pinne e salvagente. Ridacchiai divertito da quanto sembravamo idioti nonostante all’epoca fossimo fierissimi dei nostri equipaggiamenti. In un’altra rividi me stesso, di diversi anni più giovane, con in braccio il mio nipotino poco più che neonato che rideva divertito dalle mie facce stupide. Poi trovai le foto con i miei amici. Alcune erano di vacanze passate, altre sul set di qualche film o telefilm. Diverse venivano da Firefly. Finalmente trovai le foto con il neo cast di Castle. La prima era una di me, Jon e Seamus che tentavamo di fare i fighi davanti alla macchina. Ricordavo l’effetto risate-infinite che aveva provocato quella foto non appena Stana e Tamala l’avevano vista. Subito avevano ritenuto doveroso mandarne una copia anche a Juliana, che ci aveva simpaticamente informato poi di essere rimasta venti minuti a ridere davanti all’immagine prima di essere riuscita a ritrovare abbastanza calma da respirare più o meno normalmente. Sorrisi nel rinvenire un’immagine del cast nel nostro primo anno insieme in una foto di gruppo raffigurante Ruben, Susan, Molly, Tamala, Jon, Seamus, Stana e me.
Finalmente ritrovai le foto della nostra prima gita al Malibu Bluffs Park di quattro anni prima. Scorsi un’istantanea di Tamala in cui aveva beccato me, Jon e Seamus con i nostri rispettivi panini in bocca che la guardavamo con gli occhi spalancati. Ne avevo fatta una simile poco prima a solo Jon e Seamus, ma Tam aveva pensato bene che con tutti e tre sarebbe venuta più divertente.
Alla fine vidi le due immagini che mi erano tornate alla mente e che stavo cercando con tanta impazienza. Nella prima era immortalata Stana. Gliela avevo scattata io mentre eravamo in riva al mare nella piccola baia che avevamo trovato. Sorrisi appena. Era bellissima. I suoi capelli, allora ancora corti, erano tutti scompigliati dalla brezza, ma il suo sguardo, sognante e pensieroso sul mare, l’aveva resa una visione indimenticabile. Sospirai piano. Quella donna mi avrebbe fatto impazzire del tutto prima o poi. Impazzire nel modo più dolce e irrimediabile…
Scossi la testa per riprendermi dai miei pensieri e guardai l’altra foto che avevo in mano. L’aveva scattata Tamala e rappresentava me e Stana. Ci stavamo guardando negli occhi. Solo quello. Ma le nostre espressioni dicevano abbastanza. Era come se tutti in quell’attimo fossero spariti, lasciandoci da soli nel nostro mondo. Com’è che lo chiamavano per Castle e Beckett? Eye-sex? Ecco, direi che l’idea era più o meno quella.
Non avevo idea di dove mi fosse venuto fuori il bisogno impellente di rivedere quelle foto dopo quattro anni. Forse per convincermi che c’erano stati dei momenti in cui ancora nessuno dei due misurava ogni gesto e ogni parola che rivolgeva all’altro. O per ricordarmi che una volta non dovevamo nascondere quello che provavamo. Non avrei saputo dirlo. Ma quelle immagini mi fecero sorridere dolcemente, oltre che sospirare con rassegnazione. Non sapevo neanche da quanto tempo le stessi osservando. A un certo punto però alzai lo sguardo e mi accorsi che ero in ritardo.
Infilai di nuovo l’album nel cassetto e velocemente ributtai dentro tutti i vestiti che avevo lanciato fuori nella ricerca delle foto. Quindi corsi subito a lavarmi, mi cambiai in un paio di jeans comodi e maglietta e feci velocemente colazione ingurgitando una tazza di latte e qualche biscotto.
 
Tre quarti d’ora dopo entrai sul set di casa Castle. Mi accorsi che c’era molto meno fermento del solito, ma conoscevo la ragione. Marlowe aveva detto di voler meno gente possibile sul set per le riprese della scena del bacio. Credeva che così io e Stana saremmo riusciti a concentrarci meglio senza il solito trio (Jon, Seamus e Tamala) che ci prendeva in giro. L’eccitazione dei pochi presenti però era palpabile. Non era solo perché era l’ultima scena da registrare, ma anche perché molti erano i fan dei Castle e Beckett che quel giorno avrebbero visto avverarsi le loro aspettative.
Deglutii e mi passai una mano tra i capelli. Più il momento si avvicinava, più io diventavo nervoso. La consapevolezza che nel giro di minuti avrei baciato Stana mi mandò lungo la schiena una scarica di adrenalina e al contempo di terrore. Come avrebbe reagito? E come avrei reagito io?? E se avesse peggiorato la nostra situazione?? E se ancora una volta non ne avessimo parlato e avessimo fatto finta di niente??
Stava già per venirmi una crisi d’ansia quando Kristen, la mia assistente tuttofare, mi vide e mi richiamò alla realtà intimandomi di filare subito nel mio camerino per prepararmi e cambiarmi d’abito. Presi un respiro profondo per calmarmi e feci come mi aveva ordinato.
Una volta nel camerino, guardai i vestiti di Castle sistemati ordinatamente sulla sedia del trucco: pantaloni neri e camicia bordeaux. Semplice, ma elegante. Erano gli stessi abiti che avevo usato per la scena del diploma di Alexis, ma d’altronde doveva sembrare che Rick fosse appena tornato a casa proprio dalla scuola della figlia.
Alzai lo sguardo e incontrai la mia immagine riflessa nello specchio davanti a me. Sembravo più stanco e con un po’ di occhiaie. Sbuffai. Ma perché mi facevo tutti questi problemi?? In fondo era solo Stana! Baciarla avrebbe dovuto essere addirittura facile, visto che ormai avevo appurato che ero innamorato di lei. E allora che cavolo mi succedeva?? Non avevo mai avuto problemi di sorta a baciare una ragazza, mentre con lei sembrava che se solo l’avessi sfiorata sarebbe venuto giù il mondo! Eppure non vedevo l’ora di farlo.
Feci un verso scocciato e buttai con rabbia per terra la prima cosa che mi trovai davanti, il copione, come se quello avesse potuto portare un minimo di chiarezza nelle emozioni mescolate che provavo. Come diavolo era possibile che volessi baciarla e insieme non baciarla?? Andiamo, lavoravo con una delle donne più sexy del pianeta!!
A quel pensiero, un’immagine di Stana con un vestito corto nero che le lasciava per buona parte nude le gambe e una profonda scollatura a V, come l’avevo vista non molto tempo prima in una foto per una serata, mi si materializzò davanti. Un brivido di eccitazione mi passò involontario lungo la schiena fino a finirmi nel davanti dei pantaloni. Scossi la testa cercando di riprendere lucidità. Ecco. Ora mi ricordavo perché non volevo baciarla. Perché se il solo suo pensiero era in grado di farmi questo, non osavo immaginare quando l’avrei davvero tenuta stretta tra le braccia. Sarebbe stato seriamente imbarazzante. Soprattutto con lei. Avrebbe pensato che ero solo un maniaco sessuale che non vedeva l’ora di saltare addosso a un qualsiasi essere femminile, senza dubbio. Proprio l’immagine di me che volevo cancellare.
Un improvviso bussare alla porta mi fece voltare di scatto.
“Nathan, sei pronto??” domandò Kristen con tono scocciato. Ero in ritardo.
“Solo un momento!” replicai subito. Non avevo ancora finito la risposta che già mi stavo togliendo la maglia con una mano e slacciando i pantaloni con l’altra. Tolsi tutto in fretta, buttando i miei vestiti sul divanetto del camerino, e mi infilai quelli di Castle. Poco più di un minuto dopo ero pronto. Mi sistemai il colletto della camicia, slacciandomi al solito un bottone, e mi controllai allo specchio. Nonostante tutto facevo ancora la mia figura, pensai con un mezzo sorriso.
“NATHAN??” mi richiamò di nuovo Kristen sbuffando sonoramente e tamburellando di nuovo sulla porta. Sospirai rassegnato.
“Arrivo, arrivo…” replicai. Avrebbe potuto entrare anche da sola, ma aveva questa fissazione di accedere ai camerini solo se il proprietario gli spalancava la porta. Avevo come l’impressione che in passato avesse beccato qualcuno in atteggiamenti compromettenti, ma quando provavo a chiederglielo evitava sempre la domanda.
Dopo neanche un passo però mi bloccai vedendo il copione aperto a terra dove lo avevo lanciato prima. Per evitare spiacevoli domande, e anche perché Kris odiava il disordine, mi affrettai a raccoglierlo. Lanciai un’occhiata distratta alle battute e mi accorsi che si era aperto alle pagine della litigata di Castle e Beckett a casa della detective. Ricordavo bene quella scena. L’avevamo girata un paio di giorni prima, ma non era per quello che era fresca nella mia memoria. Era per le parole e le emozioni. Ero quasi certo che quella parte fosse arrivata da un piccolo aiuto di Terri a Marlowe. Non perché non mi piacesse quello che scriveva Andrew, tutt’altro, ma alcune scene particolarmente sentite sapevo che venivano dalla scrittura congiunta di marito e moglie.
L’occhio mi cadde su alcune frasi in particolare.
“And how the hell could you do this?”
“Because I love you.”
Non riuscii a trattenere un sorrisetto ironico. Quante cose stupide si fanno per amore, eh? Seguire una detective per quattro anni… indagare di nascosto per salvarle la vita… lavorare fianco a fianco con lei come se niente fosse, aspettando, a volte fin troppo pazientemente, che tutti i muri crollino…
Mi ricordai che durante la registrazione, preso dal momento e dalle emozioni di Rick, mi erano venuti anche gli occhi lucidi per la rabbia e la frustrazione. Marlowe alla fine si era anche complimentato con me per la mia interpretazione sentita. Ma quella non era tutta interpretazione. Per buona parte ero io.
“How am I even supposed to trust anything that you say?”
“How are you s—? Because of everything we’ve been through together! Four years I’ve been right here. Four years just waiting for you to just open your eyes, and see that I’m right here…and that I’m more than a partner. Every morning, I bring you a cup of coffee just so I could see a smile on your face, because I think you are the most...remarkable…maddening…challenging…frustrating person I have ever met. And I love you…”
…Kate. Fosse stato per me avrei usato un altro nome, ma il copione richiedeva quello in quel momento. Avevo capito benissimo quello che provava Castle, tanto da farmi venire le lacrime agli occhi nel dar voce ai suoi pensieri. Mi veniva facile recitarlo. Molto più facile di qualsiasi altro personaggio avessi mai interpretato. Io ero un attore. Copiavo le emozioni, cercavo di farle mie per trasmetterle a chi mi avrebbe visto. Ma non avevo mai trovato un personaggio come Castle. Un personaggio così simile a me, al mio carattere, da non saper più distinguere spesso tra realtà e finzione. Perché con lui io non avevo copiato emozioni. Io gliele avevo letteralmente rubate, quasi senza accorgermene.
Kristen bussò ancora una volta con impazienza alla porta e mi riportò alla realtà. Scossi la testa e poggiai il copione sul tavolo, quindi mi affrettai ad andarle ad aprire.
“Finalmente!” esclamò lei scocciata, passandomi davanti decisa per infilarsi nel mio camerino. “Si può sapere quanto ci hai messo per cambiarti??” continuò appoggiando la sua cartellina con gli appunti dei miei appuntamenti sul tavolo davanti allo specchio. “Stavo già pensando se chiamare una squadra di soccorso!” aggiunse indicando con un dito la sedia davanti a lei in modo che potesse sistemarmi trucco e capelli.
“Esagerata…” borbottai mentre prendevo posto. Lei mi lanciò un’occhiataccia. “E poi potevi entrare!” replicai come scusante, mentre già si metteva all’opera con una spazzola. “La porta era aperta ed ero vestito. Ancora non capisco che problemi hai nell’entrare nei camerini se ti invitano dentro…”
“Il ciuffo lo mettiamo come al solito?” domandò in modalità parrucchiera sistemandomi i capelli ed eludendo come al solito l’argomento ‘entrata nei camerini’.
Alzai gli occhi al cielo e sospirai piano, divertito. Quindi le dissi che il solito ciuffo sarebbe andato benissimo.
 
Venti minuti dopo ero sul set del loft di Castle e di Stana neanche l’ombra. Iniziavo già a chiedermi che fine avesse fatto quando Bowman mi avvertì che avremmo cominciato a girare la scena in cui Rick parla al telefono con Alexis, chiude la chiamata di Kate e cancella i dati del caso di Johanna Beckett. Solo dopo avremmo registrato l’incontro-scontro di Kate e Rick, non appena avessero finito di truccare/bagnare la mia partner. Quando Rob mi disse “la stanno lavando” l’avevo guardato scioccato. Avevo dimenticato che Beckett si sarebbe presentata alla porta di Castle fradicia dalla pioggia.
Proprio mentre lo pensavo, un tecnico provò l’effetto tuono dall’altra parte della stanza. Tutto era pronto e io stavo ricominciando a diventare nervoso mentre il momento del bacio si avvicinava. Per fortuna Bowman mi distrasse dai miei pensieri dicendomi di prendere il telefono e andare a posizionarmi al mio posto nel loft per girare.
 
Tre quarti d’ora dopo avevamo concluso con ogni possibile angolazione le scene pre-incontro fino al bussare alla porta.
“Ok, dieci minuti di pausa e partiamo con la scena del bacio!” annunciò Marlowe visibilmente eccitato. Deglutii e mi passai la mano sulla faccia per tentare di nascondere il mio terrore. Avrei sicuramente fatto qualche cazzata che avrebbe allontanato Stana da me. Eppure allo stesso tempo volevo che il tempo accelerasse fino al momento del bacio. La desideravo come un quindicenne alla prima cotta e non potevo farne a meno.
Presi un respiro profondo tentando di calmarmi, quando Stana fece il suo ingresso nel loft. Rimasi con la bocca semiaperta a osservarla. L’avevano seriamente bagnata completamente, tanto che i suoi vestiti, così come i suoi capelli, erano completamente appiccicati al suo corpo. E dio se era bellissima con quegli abiti che mostravano le sue curve e quei capelli che le incorniciavano il viso…
“Ehi!” mi salutò con un gran sorriso vedendomi.
“Ehi…” replicai io con la bocca secca. Aspetta, dovevo respirare. Com’è che si faceva? Ah sì, aria nei polmoni, aria fuori dai polmoni.
“Allora sei… sei pronto per la scena?” mi domandò poi all’improvviso timida, arrossendo. Dio, quand’è che cominciavamo a girare??
“Io… no…” balbettai con la bocca evidentemente sconnessa dal cervello a causa della visione davanti a me. Lei aggrottò le sopracciglia. “Voglio dire sì!” esclamai subito. “Cioè, io… credo… sì?” Fantastico, non sapevo più articolare un pensiero con un minimo di filo logico. Mi andò bene però perché Stana ridacchiò alla mia confusione. Il suo sorriso… I miei occhi non poterono fare a meno di scendere traditori sulle sue labbra. Quelle labbra che nel giro di poco avrei di nuovo assaggiato.
Stana seguì il mio sguardo e, quando capì dove andava a finire, automaticamente si morse il labbro inferiore cercando di nascondere un mezzo sorriso. Cavolo, così non mi aiutava proprio a non saltarle addosso!!
“Nathan! Stana!” ci chiamò Bowman mentre si sistemava dietro a uno dei cameraman insieme a Marlowe per monitorare la scena. “Ai vostri posti!” Stana si voltò in fretta e uscì dal loft. Io presi prima un respiro profondo, quindi, lentamente, mi avvicinai alla porta da cui era appena scomparsa la mia partner. Presi un altro respiro per calarmi nella parte. Dovevo riprendere i sentimenti di Castle. Alexis si era appena diplomata quindi era felice, ma a questo fatto era da aggiungere la rabbia verso Beckett. La cancellazione del caso di Johanna mostrava bene fino a che punto lo scrittore aveva deciso di farla finita con la detective. Quello che non si sarebbe mai aspettato però era proprio quello che stava per succedere…
“Silenzio!” urlò Bowman a tutti. In un attimo gli ultimi ritardatari raggiunsero i loro posti e tutto divenne quieto. Misi una mano sulla maniglia e attesi. “Azione!” Aspettai tre secondi, quindi spalancai la porta. L’espressione curiosa che avevo in faccia si tramutò subito in indifferenza, anche se la mascella contratta tradì la mia rabbia, non appena vidi davanti a me Beckett, bagnata probabilmente fino all’osso. Sembrava incerta e determinata al tempo stesso. Probabilmente pensava che gli avrei sbattuto la porta in faccia senza neanche farla parlare.
“Beckett, what do you want?”
Non esitò un secondo a rispondermi.
“You.”
Quindi Stana/Kate fece un passo all’interno dell’appartamento. Come lei venne in avanti io automaticamente andai all’indietro. Non appena vide il mio gesto, la detective protese le braccia e mi prese velocemente la faccia tra le mani. La sua pelle fredda mi fece passare un brivido involontario lungo la schiena. Un secondo dopo Stana/Kate si alzò sulle punte e mi baciò, protendendosi verso di me. Appoggiò, o meglio schiacciò, solo le sue labbra sulle mie, niente di più, ma questo bastò a stordirmi. Rimasi senza fiato. Come Rick e come Nathan.
Come previsto dal copione, mi sforzai di tirarmi indietro. Sentivo il cuore pulsarmi forte, tanto da rendere per un momento il mio respiro pensante, quasi ansante.
Stana/Kate non mi lasciò andare. Spostò le mani dal mio volto alle mie spalle e vi si aggrappò, quasi temendo che scappassi via, appoggiando contemporaneamente la sua fronte alla mia. A quella distanza potevo sentire il suo profumo andarmi direttamente alla testa. Cercavo di tenermi rigido e distante davanti a lei per quanto possibile.
“I’m so sorry, Castle.”
Sussurrò piano.
“I’m so sorry.”
Un lieve singhiozzo la sorprese mentre continuava a parlare e per un attimo rimasi stupito da quel suono.
“I’m so sorry.”
Si protese di nuovo verso di me per baciarmi, cogliendomi di sorpresa. Raggiunse la mia bocca, ma, anche se a malincuore, la presi per i polsi e la allontanai da me. Avevo bisogno di guardarla negli occhi. Mi accorsi che li aveva lucidi. Mi guardava come se fosse in attesa di un mio giudizio. Ma sapevo che se era tornata da me, da Castle, in quello stato, qualcosa doveva essere successo.
“What happened?”
Lei sorrise appena, come se si aspettasse la domanda.
“He got away, and I didn’t care.”
Lo dichiarò come se fosse la cosa più ovvia del mondo, ma sapevo che per Kate era un enorme passo in avanti.
“I almost died…”
Rimasi con la bocca semiaperta, scioccato da quelle rivelazioni.
“…and all I could think about was you.”
Lo disse mentre la sua voce si affievoliva, come se avesse paura che io iniziassi a urlarle contro e la respingessi. Poi i suoi occhi volarono alla mia bocca mentre pronunciava le ultime parole.
I just want you.”
Il mio cuore per un momento si fermò. Poi Stan… No, non Stana. Kate. Kate si protese verso di me come per baciarmi di nuovo, la bocca già aperta e pronta per me. Ma io rimasi immobile, come voleva la scena, e Kate si allontanò di nuovo un poco con sguardo rassegnato. Poi però alzò una mano e mi carezzò piano la guancia, arrivando a sfiorare con la punta delle dita le mie labbra.
A quel punto ci fu un lampo e un tuono. Il segnale per me di baciarla. Il momento che attendevo con più impazienza e ansia. Per un attimo entrai nel panico. Il copione diceva solo ‘Bacio passionale’ a quel punto. Così le presi il viso fra le mani e la baciai, purtroppo con più incertezza che passione.
“STOOOP” urlò Marlowe. Lo sapevo. Mi allontanai velocemente da Stana deglutendo. Andrew si avvicinò e si piantò davanti a me con le braccia conserte al petto e un’espressione truce. “Cos’era quello?” domandò irritato.
“Ehm… uhm… io…” balbettai passandomi una mano sul collo nervoso e iniziando a spostare il peso da un piede all’altro.
“Nathan, sul copione c’è scritto ‘Bacio passionale’…” continuò scocciato Marlowe. “Non bacio da adolescente alle prime armi!”
“Mi dispiace…” risposi mortificato.
“Pensavo che sapessi come si bacia una donna!”aggiunse poi lui con un sopracciglio alzato, andando a stuzzicare il mio ego maschile.
“Ho capito, Andrew, scusami…” replicai risentito. Lui sbuffò e tornò dietro la telecamera. Con la coda dell’occhio notai Stana guardarmi perplessa.
“Si riprende dall’inizio!” esclamò Bowman dopo aver scambiato qualche parola con Andrew. Li guardai con gli occhi sgranati. “Andremo avanti a ripetere la scena finché non verrà perfetta da ogni angolo” continuò Rob. Sospirai rassegnato. Fantastico… il mio autocontrollo con Stana era già al limite così. Non osavo immaginare cosa sarebbe successo dopo ore a baciarla.
 
Un’ora e mezza dopo eravamo ancora allo stesso punto di prima. Ogni volta non andava bene come baciavo Stana. Ero troppo davanti alla telecamera, poi davanti alla luce, poi accecato dalla luce… e sempre, immancabilmente, troppo fiacco nel bacio! Ma che potevo farci?? Avevo un massimo di autocontrollo, non potevo lasciarmi andare!! Alla settima volta che rigiravamo la scena però non ce la feci più. Volevano passione? Ebbene, l’avrebbero avuta!
Ripetemmo la scena ancora una volta. Quando arrivarono il lampo e il tuono, Stana/Kate fece appena in tempo ad accarezzarmi le labbra con le dita che io la spinsi contro la porta e la baciai famelico. Per un attimo sentii la mia partner irrigidirsi leggermente contro di me per la sorpresa, poi però rispose pienamente al bacio. Come supponevo, stavolta non ci interruppe nessuno. Allo stesso tempo però, come avevo immaginato e avevo tentato di evitare, io fui irrimediabilmente perso. La scarica di adrenalina, data dalla frustrazione per le riprese, mi aveva tenuto lucido per i primi secondi, poi il mio desiderio aveva preso il sopravvento. Non sentii più niente. Solo il corpo di Stana contro il mio, il suo profumo, le sue curve, il suo calore, le sue labbra, la sua pelle sotto le dita.
La baciai con forza e a lungo, spostandomi sul suo collo quando sentivo che avevamo bisogno di aria. Le morsi piano il labbro inferiore e la sentii aggrapparsi alla mia camicia. Le presi il viso tra le mani per tenerla più stretta a me, quasi avessi paura che si allontanasse, continuando imperterrito a baciarla mentre lei si alzava sulle punte e si sosteneva alle mie spalle. Giocai con la lingua sul suo collo fino al limite della camicia, mordendola appena di tanto in tanto, sentendo contro di me ogni brivido che le passava lungo il corpo grazie alla mia opera. Quando la sentii gemere piano contro il mio collo e capii che le ginocchia le stavano cedendo, la strinsi ancora di più tra me e la porta e la baciai ancora più avidamente. Il suo profumo mi dava alla testa e mi rendeva ancora più vorace. Sentivo la mia eccitazione crescere, anche se per fortuna c’era ancora una qualche parte del mio cervello che la teneva a bada per evitare che si manifestasse troppo nei miei pantaloni. In realtà in quel momento non mi importava che qualcuno mi vedesse in quello stato. La cosa che mi preoccupava era che lei sentisse la mia eccitazione e mi respingesse. Non mi rendevo neanche più conto che in effetti eravamo ancora sul set di Castle. Per me in quel momento non c’era più niente al di fuori di noi. Niente cameraman, tecnici o registi. Solo io e Stana.
“STOOOP!” L’urlo di Bowman mi riportò bruscamente alla realtà. Aprii di scatto gli occhi e alzai la testa. Ansimavo e sentivo decisamente caldo. Stana, davanti a me, mi guardava con la bocca semiaperta, gli occhi sgranati e il respiro altrettanto pesante. Ci misi un paio di secondi prima di capire che la stavo ancora schiacciando contro la porta. Mi spostai velocemente e feci un paio di passi indietro, deglutendo mentre cercavo di tornare a respirare normalmente, lottando per respingere quella parte del mio istinto che voleva solo tornare a baciarla. Alzai gli occhi e per un attimo mi sembrò di notare uno sguardo strano in Stana, come frustrato.
Fu solo in quel momento che mi accorsi che i presenti ci stavano applaudendo. Anzi solo in quel momento mi ricordai che non eravamo soli nella stanza. Mi guardai attorno come perso, mentre osservavo facce sorridenti e ammiccanti verso di me quasi senza riconoscerle.
“Finalmente!” esclamò Andrew allegro. “Questo era il bacio che volevo!” Feci un mezzo sorriso tirato alla sua uscita. Sicuramente quello era il bacio che voleva. Era anche il bacio che volevo io! Solo che non era reale. Non era tra me e Stana. Era tra Rick e Kate. Quel pensiero mi fece scendere il morale sotto i piedi. “Però Nath, alla prossima ripresa ricordati che devi arrivare alla cicatrice di Kate…” A sentire le parole di Marlowe impallidii. Scendere sulla cicatrice di Kate voleva dire slacciarle la camicetta, mettere in bella mostra il suo reggiseno, baciarla tra i seni e poi poggiarci la mano sopra… Come minimo sarei svenuto.
“Credo di aver bisogno di una pausa...” mormorai disperato. Marlowe dovette notare il mio colorito perché ci concesse cinque minuti di riposo. Filai dritto nel mio camerino per riprendermi. Dio, il solo pensiero di quello che avrei dovuto fare mi aveva mandato una scarica di eccitazione dritta nei pantaloni. Mi passai una mano tra i capelli nervoso, mentre lanciavo occhiate preoccupate a me stesso dallo specchio. Non andava bene. Non andava bene per niente.
Cercai di concentrarmi su qualunque cosa pur di non pensare a Stana e, alla fine della pausa, sembrava fossi riuscito a calmare i bollenti spiriti. Uscii dal camerino più rilassato e tornai sul set dove tutti erano di nuovo ai loro posti. Mancavo solo io. Rob mi indicò di andare la porta del loft, vicino alla quale la truccatrice della mia partner le stava ricontrollando il viso per la scena. Capii che ancora una volta avremmo girato tutto dall’inizio.
Quando mi avvicinai a Stana le sorrisi appena, ma lei per tutta risposta mi lanciò un’occhiataccia. Mi bloccai perplesso. Che avevo fatto?? Un dubbio mi colse e mi lanciai una veloce occhiata ai pantaloni per controllare che tutto fosse tranquillo, ma non vidi nulla di anormale. Prima che potessi chiederle spiegazioni, Stana si voltò e uscì dalla porta, sbattendomela poi in faccia. Rimasi a bocca aperta dallo stupore, le sopracciglia aggrottate.
“Pronti?” domandò Bowman già dietro alla telecamera. Mugugnai un ‘sì’ e mi rassegnai ad attendere la fine delle riprese per chiederle cosa fosse successo.
Girammo di nuovo la scena e stavolta ebbi abbastanza lucidità da controllarmi un poco e da ricordarmi alla fine di scendere sul suo petto lasciandole una scia di baci. Mi fermai nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la cicatrice e rimasi lì per un attimo, con le labbra sulla sua pelle calda, beandomi silenziosamente di quel contatto. Sotto di me sentii Stana/Kate trattenere il fiato. A quel punto mi rialzai e, cercando di nascondere il lieve tremito delle mie mani, le slacciai un bottone della camicetta, scoprendole in parte il reggiseno. Dio, ma ne doveva indossare proprio uno semi trasparente?? Un brivido mi passò lungo la schiena e in qualche modo finì dritto sul davanti dei miei pantaloni. E al diavolo l’autocontrollo.
Rimasi qualche secondo imbambolato a fissarle il petto. Per fortuna la cicatrice mi dava un pretesto per guardare proprio in quel punto, anche se in effetti il mio sguardo era indirizzato un poco più giù e a lato. Poi Stana/Kate mi prese la mano e la portò tra i suoi seni, oscurandomi la vista, ma lasciandomi toccare la sua pelle liscia e la ‘cicatrice’. La dimostrazione che la detective aveva superato quel trauma.
Emozionato da quel gesto, mi feci di nuovo avanti per baciarla. Un bacio più casto e dolce stavolta, ma ugualmente sentito. Ehm… probabilmente particolarmente sentito perché mi resi subito conto che la mia eccitazione si stava di nuovo palesando per quei gesti. Il più piano possibile, per non disturbare la scena, allontanai il mio bacino dal suo, in modo da evitare a Stana imbarazzanti… uhm… incontri.
Stana sembrò non accorgersene per fortuna perché proseguì col copione e mi sorrise dolcemente, sfiorando poi il mio naso con il suo. Quindi fece scendere la mia mano dal suo petto (già mi mancava il contatto con la sua pelle) e la intrecciò alla sua. Alzai gli occhi e la guardai, perplesso e incredulo per quello che era appena accaduto tra di noi. O meglio, tra Castle e Beckett. A quel punto Stana/Kate si allontanò appena da me, sempre tenendomi per mano, e mi portò con sé mordendosi appena il labbro inferiore. Deglutii mentre sentivo una nuova ondata di calore percorrermi il corpo a quel suo piccolo gesto con la bocca. Dio, sarei andato ovunque con lei in quel momento…
“STOOOP!” COSA?? Di nuovo?? Quasi mi presi un infarto per l’urlo di Bowman, tanto la mia testa era altrove e aveva dimenticato il luogo in cui eravamo. Se non altro ebbe, per fortuna, la facoltà di raffreddarmi un po’ all’altezza dei pantaloni, almeno il minimo per rendere invisibile o quasi la mia eccitazione.
Scossi il capo per riprendermi. Non era possibile… io cercavo di controllarmi e poi bastava un suo sorriso o un suo sguardo e, BAM, la mia testa partiva per un’altra galassia. Era stato sufficiente distrarmi un secondo, nel vederla mordersi il labbro, che subito avevo perso quel poco di lucidità che ero riuscito più o meno mantenere. Sospirai silenziosamente, disperato. Ero seriamente peggio di un quindicenne alla prima cotta. E solo lei mi rendeva così.
Approfittai di nuovo di quei pochi minuti di pausa tra una ripresa e l’altra per allontanarmi un poco e calmarmi nuovamente. Quando tornai sul set, notai ancora una volta Stana lanciarmi un’occhiataccia un attimo prima di voltarsi senza più degnarmi di uno sguardo. Sbuffai e mi passai una mano tra i capelli, scocciato. Io cercavo di non saltarle addosso e lei mi guardava male per chissà quale motivo!!
Non ebbi di nuovo il tempo di chiederle che diavolo avesse perché, nel vedermi rientrare, Marlowe si congratulò con noi per la scena e ci disse di ripeterla così anche per le volte successive. Deglutii. Le volte successive. Dio, si prospettava davvero una lunga giornata…
 
Girammo la stessa scena per ore, tanto da finire solo alle due del pomeriggio passate. In qualche modo però ne uscimmo senza troppi danni. Mentre baciavo Stana infatti, avevo cercato di controllarmi il più possibile, ma quando sentivo di non potercela più fare, allora mi allontanavo a forza dal suo corpo per scendere a baciarle l’incavo dei seni. Sì, ok, non sembrava una così geniale idea visto che poi mi si prospettava sempre davanti l’immagine del reggiseno di Stana, ma era l’unico modo per continuare la scena senza farle sentire chiaramente cosa tutti quei baci scatenassero in me.
Quando finimmo le riprese, andai a cambiarmi velocemente, bagnandomi anche la faccia con abbondante acqua fredda (anche se forse avrei dovuto usarla da un’altra parte invece che sulla faccia) prima di rivestirmi. Poi uscii di nuovo in cerca della mia partner. Era tardi e non avevo mangiato niente, ma non avevo fame. Probabilmente se avessero sentito quel pensiero Jon o Seamus avrebbero detto che ero malato. Ma l’unica cosa che mi premeva in quel momento era trovare Stana. Dovevo parlarle. Qualcosa di nuovo non andava fra di noi e non riuscivo a comprendere cosa. Ogni pausa io mi allontanavo e quando tornavo Stana mi guardava male o non mi calcolava affatto. Perché ce l’aveva come me? Perché me ne andavo per quei pochi minuti? Non capiva che lo facevo per non mettere in imbarazzo nessuno dei due??
Sbuffai scocciato mentre vagavo alla ricerca di Stana. Da quando avevo compreso di essere innamorato di lei, quasi un anno prima, i miei sentimenti non erano cambiati, ma dovevo ammettere che erano stati messi duramente alla prova dalle nostre continue battaglie. Sembrava che il momento prima andasse tutto bene e invece l’attimo dopo ci stavamo azzuffando per una cosa qualsiasi. Ovviamente poi bastava poco perché tutto tornasse alla normalità, come se nulla fosse, ma io mi ero scocciato. Non volevo più che tutto tornasse ‘normale’ di noi. Non volevo più quel tira e molla. Senza contare che avevo sempre il terrore costante di vederla spuntare un giorno con un nuovo ragazzo al suo fianco. Scossi la testa deciso. Basta, avrei messo un freno a tutto quello una volta per tutte, in un modo o nell’altro. Desideravo qualcosa di certo, magari qualcosa di più tra di noi. Perché non mi sarei accontentato questa volta. Io volevo di più.
 
Cercai Stana per più di mezz’ora ovunque sul set, ma di lei nessuna traccia. Alla fine decisi di tornarmene al mio camerino per recuperare le mie cose e andarmene a casa. Camminavo a testa china, le mani infilate in tasca, il morale a terra e mille pensieri in testa. Evidentemente non era il giorno giusto per dire a Stana quello che provavo. Mi venne in mente che quella sera ci sarebbe stata anche la festa per il finale di stagione. Avevo come l’impressione che non sarei stato di alcun divertimento. L’unica nota positiva sarebbe stata che magari lì avrei incontrato Stana… sempre che non deciso di evitarmi anche lì come la peste! Sbuffai scocciato e tirai un calcio a un povero sassolino lungo la strada. Cavolo, quanto mi faceva dannare quella donna!!
“Nathan, dove ti eri cacciato??” La voce irritata di Kristen mi fece sobbalzare. Mi stava aspettando davanti al mio camerino con le mani sui fianchi e un piede che batteva nervoso a terra.
“Stavo… stavo facendo un giro” mentii, anche se non del tutto, raggiungendola. In fondo un giro l’avevo fatto, anche se a vuoto. Prima che potesse farmi qualsiasi paternale, le passai davanti per aprire il camerino e continuai. “Mi cercavi?”
“Sì” sbottò solo dopo qualche secondo, il tempo evidentemente di valutare se valeva la pena di sgridarmi o no. Doveva aver notato la mia faccia abbattuta e aver deciso di risparmiarmi per stavolta. “Marlowe e Bowman stanno facendo il montaggio della scena del bacio e hanno chiesto se i due protagonisti vogliono unirsi a loro per vedere il risultato finale.”
“Kris, scusa, ma non so se…” Neanche il tempo di finire la frase che mi bloccai, la mano ancora sulla maniglia appena aperta, gli occhi sgranati. Mi voltai di scatto verso di lei. “Ripeti!” Lei mi guardò con un sopracciglio alzato, sorpresa e forse un po’ irritata dal mio tono di comando.
“Marlowe e Bowman stanno facendo il montaggio della scena del bacio…” Scossi la testa infastidito.
“No, no, quello che hai detto dopo!!” esclamai quasi pregandola. Mi osservò confusa.
“Che… beh, che volevano sapere se i due protagonisti, cioè tu e Stana, avevate voglia di raggiungerli e…”
“Quindi Stana è in sala di montaggio??” domandai subito con un’eccitazione repressa a stento, fregandomene della porta aperta del camerino e sporgendomi verso Kristen. Lei indietreggiò di un passo per la mia irruenza e, vista la mia stazza in confronto alla sua (mi arrivava sì e no al petto), potevo anche capirla.
“Uhm… sì?” replicò lei, squadrandomi per tentare di capire le mie intenzioni. Feci un verso di gioia per la scoperta. Ecco perché non riuscivo a trovare Stana!! La sala montaggio era in un altro edificio degli studios!! Stavo già per raggiungerla, quando mi ricordai che non avevo ringraziato Kris. Mi voltai verso di lei, mi abbassai di scatto, le presi il viso tra le mani e le lasciai un sonoro bacio sulla guancia. Mi guardò scioccata.
“Grazie, Kris, ti devo un favore!!” esclamai allegro mentre già stavo partendo di corsa alla volta dell’edificio con la sala che cercavo. Forse sarei riuscito a parlare finalmente!
Quel pensiero mi mise le ali ai piedi e cinque minuti dopo ero davanti alla sala di montaggio con il fiatone. Mi fermai un secondo con una mano appoggiata al muro a riprendere fiato. Non ero più abituato a certe corsette. Alla fine presi un respiro profondo e mi convinsi a entrare, anche se sentivo comunque che il mio cuore non voleva saperne di rallentare i battiti. Mi sistemai un poco i capelli e bussai alla porta. La voce di Bowman mi invitò a entrare e io lo feci.
“Ah, ma allora non ti sei perso!” esclamò Marlowe divertito quando mi vide. “Ancora un po’ e finivamo senza di te!”
“Ho incrociato Kris solo pochi minuti fa” mi difesi facendo una smorfia offesa che fece ridacchiare diversa gente. Mi guardai attorno, cercando di capire chi fosse presente. La stanza era oscurata e l’unica luce presente proveniva dal mega monitor attaccato alla parete su cui passavano le parti di filmato da montare. Davanti allo schermo era posizionata una grande tastiera con tanti tasti colorati e manopole per la composizione delle diverse scene e l’aggiunta delle musiche. Mi sarebbe piaciuto molto andare a esplorare quei tasti, ma Andy, il tecnico del montaggio che notai già all’opera davanti alla tastiera, in quattro anni non mi aveva mai lasciato avvicinare. Chissà perché poi…
Dietro Andy c’erano in piedi Andrew e Rob. Poco più in là, nella penombra, intravidi che erano presenti alcuni tecnici e diversi cameraman, curiosi di vedere se avevano fatto un buon lavoro. Mi sembrò di scorgere anche Robert Duncan, il nostro compositore, appoggiato al muro mente osservava attento la scena per poter poi inserire la musica giusta di sottofondo. Se c’era qualcuno che poteva trovare la colonna sonora adatta a quel bacio, quello era lui.
Cominciavo già a disperare quando finalmente, in un angolo dall’altra parte della stanza, vidi la persona che stavo cercando con tanta impazienza. Stana. La fioca luce del monitor illuminava solo il suo viso e le sue curve e la faceva sembrare quasi una visione. Era bellissima.
Feci un respiro profondo e iniziai ad avvicinarmi lentamente a lei, tenendo però un occhio sullo schermo come se stessi semplicemente cercando la visuale migliore sul monitor. Stavano passando le immagini di me che sbattevo la mia partner contro la porta e iniziavo a baciarla avidamente. Abbassai gli occhi, cercando di togliermi quelle immagini dalla testa. Ero certo che se mi ci fossi soffermato un poco di più, ripensando alle sue morbide labbra, avrei dovuto scappare a nascondermi di nuovo per non saltarle addosso.
Dopo qualche passo nella direzione di Stana però, notai con la coda dell’occhio che mi stava squadrando. Alzai lo sguardo e vidi per un secondo una sua occhiata ostile prima che la mia partner spostasse di nuovo gli occhi sul monitor. Rimasi immobile, confuso, disperato e arrabbiato insieme. Ma perché ce l’aveva tanto con me??
Mi bloccai dov’ero, quasi nel mezzo della stanza, e incrociai le braccia al petto, rimuginando sulle nostre ultime conversazioni e attendendo con impazienza la fine del montaggio in modo da poter finalmente parlare da solo con Stana. Anche perché sapevo che se mi fossi avvicinato in quel momento come minimo mi avrebbe mandato a quel paese o ignorato completamente con la scusa del video. Di tanto in tanto le lanciavo qualche occhiata fugace, ma lei imperterrita teneva gli occhi fissi sullo schermo. Sbuffai scocciato e rialzai gli occhi sullo schermo. Erano ormai arrivati a montare le ultime scene. Rick stava baciando Kate più dolcemente e ora lei aveva intrecciato le loro mani. Di solito mi piaceva osservare come veniva fuori la scena finale, anche se era sempre un po’ strano rivedersi in schermo, ma questa volta solo una piccola parte del mio cervello stava registrando quelle informazioni. La mia attenzione era quasi del tutto focalizzata su ogni più piccolo movimento della mia partner.
A un certo punto il mio sonar interno scattò. Voltai la testa e vidi che Stana si stava protendendo un poco verso lo schermo con occhi socchiusi, le sopracciglia aggrottate, come se cercasse di comprendere qualcosa. Aggrottai a mia volta le sopracciglia, confuso, e guardai il monitor. Stavano montando la scena con Kate che si morde il labbro inferiore seguita da una con visuale sulle loro mani intrecciate mentre i Castle e Beckett si allontanavano. Che aveva di strano? Fu quando rimandarono la scena che capii e impallidii. Dietro le mani intrecciate si intravedevano i miei pantaloni. E a quell’altezza si notava piuttosto chiaramente un rigonfiamento sul davanti. Oh, cazzo.
Stavo già sperando che nessuno se ne accorgesse, e soprattutto che Stana lo prendesse per uno scherzo della sua immaginazione, quando qualcuno nella stanza esclamò sarcastico: “Ehi, mi sembra che qualcuno si sia divertito a fare quella scena!” Non appena capirono il senso della frase, in pratica non appena videro l’immagine dei miei pantaloni sul quale si era fermato Andy, tutti si voltarono verso di me ridacchiando. Con la coda dell’occhio vidi Stana sgranare gli occhi quando capì anche lei che quello che vedeva era proprio quello che immaginava. Sarei voluto sprofondare. Essere inghiottito seduta stante dal pavimento per finire in un universo parallelo, anche se pieno di mostri assetati di sangue. Qualunque cosa. Ma il pavimento non mi prese e io dovetti inventarmi seduta stante qualcosa, nonostante sentissi le guance che mi stavano andando in fiamme per l’imbarazzo.
“Beh, che avete da ridere??” esclamai offeso. “Non sono io, è uno scherzo dei pantaloni!” continuai cercando di essere il più convincente possibile.
“Sì, Nath, sicuro!” replicò uno dei cameraman, Kyle, quasi piegato in due dal ridere. Come se quella fosse la cosa più divertente dell’universo. Beh, non lo era affatto. Era imbarazzante. E umiliante. “Certo non ti si può dar torto, ma almeno ora sappiamo che hai fatto nelle pause delle riprese!” continuò lui sfottendomi. Cazzo, sta zitto! Quanto avrei voluto tappargli la bocca con le mie mani in quel momento! E dire che mi era sempre risultato un ragazzo simpatico.
“Vaffanculo, Kyle” risposi duro senza curarmi del linguaggio. Lanciai un’ultima occhiata a Stana, che ora sembrava guardarmi più confusa e imbarazzata che altro, quindi mi voltai e lasciai la sala senza dire un’altra parola, scocciato e umiliato. Va bene fare la figura del dodicenne alle prime armi, ma un conto era tra noi, un conto era con Stana davanti. Ora sicuramente mi avrebbe preso per un maniaco sessuale.
 
Per la festa di fine stagione, quella sera, mi cambiai con una camicia leggera azzurro chiaro e un paio di semplici jeans scuri. Non ero proprio in vena di festeggiare nulla, ma che altro potevo fare? In fondo ero il protagonista, non potevo non presentarmi.
Per gran parte della serata mi sforzai di tirar fuori una risata o una battuta, ma il massimo che mi uscì fu un sorriso tirato di tanto in tanto. Tenni d’occhio Stana tutto il tempo, ma solo per evitare di incontrare i suoi occhi e per defilarmi da lei ogni volta che arrivavamo a essere troppo vicini. Non volevo che lei si sentisse in imbarazzo a causa mia. Inoltre ero convinto che se solo mi fossi avvicinato mi avrebbe dato dell’immaturo che pensa solo al sesso. Tutti i miei buoni propositi sul parlarle, e magari riuscire una buona volta a dirle cosa provavo, erano andati alla malora nel giro di tre secondi per quella stupida ripresa. Ma con tutti i primi piani con noi a baciarci, proprio le mani con lo sfondo dei miei pantaloni dovevano prendere??
Alla decima volta che mi perdevo nei miei pensieri, invece di prestare ascolto alla mia attuale conversazione con Jon e Seamus, sbuffai e mi passai una mano nei capelli nervoso. Quindi borbottai che avevo bisogno d’aria.
“Nath, va tutto bene?” mi chiese Seam preoccupato.
“Sì, sì, è solo che… fa troppo caldo qui dentro” inventai.
“Ok…” replicò quello poco convinto.
“Se hai bisogno però chiama, amico” aggiunse Jon serio. “Non hai una bella cera e la tua testa è decisamente altrove stasera…” Entrambi avevano capito che qualcosa doveva essermi successo durante il giorno, ma nessuno dei due mi aveva chiesto niente, aspettando che fossi io a parlarne. O forse sapevano, ma volevano comunque che fossi io a cominciare il discorso. In ogni caso mi lasciarono andare, anche se sentii i loro sguardi fissi sulla mia schiena mentre mi allontanavo.
Uscii dal locale e subito sentii una brezza leggera passarmi sulla pelle. Appena chiusa la porta dietro di me, il rumore e la musica forte furono subito attutiti. Chiusi gli occhi e respirai a pieni polmoni. L’aria di mare mi riempì subito le narici. Per la festa Marlowe aveva affittato un pub spazioso e molto carino sul lungo mare. Eravamo così vicini che probabilmente, se non ci fosse stato il sottofondo della musica, avrei sentito lo sciabordio delle onde sul bagnasciuga. Feci qualche passo in avanti nel piccolo spazio sul retro. Era una specie di cortiletto in cemento, chiuso ai lati da due muri con mattoni a vista e davanti con un cancello, che veniva usato probabilmente per il carico e scarico merci. Il proprietario ce l’aveva consigliato a inizio serata nel caso avessimo voluto un po’ di tranquillità, visto che l’entrata del locale era assediata da paparazzi, giornalisti e fan. Alzai gli occhi al cielo, ma l’unica cosa visibile, a causa dell’inquinamento luminoso di Los Angeles, era la Luna. Sospirai appena e mi appoggiai con la schiena a uno dei muri, le mani in tasca e gli occhi puntati a quell’unica forma visibile.
Non avevo idea di quanto tempo fosse passato da quando ero lì, ma all’improvviso la musica del locale si fece più forte per qualche secondo, quindi si abbassò di nuovo. Qualcuno doveva aver aperto la porta sul retro. Non abbassai neppure gli occhi per controllare chi fosse. Ero in un punto un po’ nell’ombra, male illuminato, quindi ero poco visibile. Probabilmente era solo qualcuno uscito per fumare o per prendersi una pausa dal frastuono interno.
“Nate…?” Abbassai di scatto la testa. Avevo riconosciuto subito la voce timida di Stana. “Nate, sei qui?” mi chiamò di nuovo facendo qualche passo nel cortiletto. “Nate?” Per qualche secondo rimasi in silenzio, non sapendo se dirle o no dov’ero. Poi la mia curiosità sul perché mi stava cercando prese il sopravvento sull’imbarazzo.
“Sono qui” dissi piano per non spaventarla. Si voltò subito verso il suono della mia voce, ma, non vedendomi bene nel buio, aggrottò le sopracciglia confusa. Approfittai dell’oscurità per osservarla avidamente lungo tutto il corpo senza essere visto. Indossava una maglia blu con dei brillantini argentei, tanto da sembrare il cielo stellato che prima avevo cercato, lunga fino alla cinta e aderente in vita, con lo scollo a barchetta che le lasciava le spalle scoperte. Sotto questa aveva un paio di jeans bianchi che sembravano quasi illuminarsi nel buio e ai piedi portava un paio dei suoi immancabili tacchi neri. Dopo essermi perso per un momento tra le curve dei suoi fianchi, rialzai gli occhi e vidi che aveva i capelli sciolti che le ricadevano lunghi e mossi sulle spalle e attorno al volto. Erano così diversi dal taglio con cui l’avevo conosciuta, corto e sbarazzino. Eppure a me, in ogni sua forma, sembrava sempre la più bella. Oltre che, se potevo ancora una volta rubare le parole a Castle, la più incredibile, esasperante, stimolante e snervante persona che io avessi mai conosciuto. Forse solo Beckett la batteva.
“Nate?” La sua voce mi risvegliò ancora una volta dai miei pensieri. Scossi la testa e mi decisi a uscire dall’ombra. Presi un respiro profondo, quasi come se dovessi andare al patibolo, e mi staccai dal muro, facendo quei pochi passi fino alla luce a testa bassa. “Allora sei qui davvero…” disse lei con un mezzo sorriso quando mi vide. Alzai appena le spalle.
“Già” replicai solo. “Mi cercavi?” domandai poi con tono indifferente. Quelle poche parole sembrarono freddare quel poco di entusiasmo con cui aveva accolto la mia uscita dall’ombra.
“Io…” Sembrò tentennare per un momento, poi però aggrottò le sopracciglia e scosse la testa. “No” disse con un sospiro scocciato. “No, è solo che dentro iniziavano a chiedersi dove fossi e nel cercarti sono finita qui. Ma potevo anche evitare di scomodarmi a quanto pare. Ora posso dirgli che stai bene. Ti lascio in pace e torno dentro” concluse con un tono duro, non suo, che mi colpì come una pugnalata al petto. “Buon proseguimento di serata, Nathan.” Fece per rientrare, ma appena voltate le spalle si girò di nuovo verso di me. “Comunque mi sa che hai sbagliato lato” disse sarcastica. La guardai confuso, non capendo cosa intendesse. “Se volevi rimorchiare qualche donnetta per passare la serata, dovevi uscire dalla porta principale!” Ma che…??
“Stana, aspetta!” la richiamai prima che potesse arrivare alla porta sul retro. Lei si bloccò, ma non si girò. “Non cercavo donnette, come le chiami tu” replicai. “Io volevo… ehm… io…” Quanto era difficile trovare le parole a questo punto? Perché mi si era svuotata la testa?? All’improvviso feci un verso scocciato, tanto che Stana si voltò verso di me sorpresa e preoccupata. Mi passai una mano sulla faccia e dopo qualche secondo mi decisi a mugugnare qualcosa. “Vuoi… vuoi fare una passeggiata con me?” le chiesi piano, quasi timoroso. Lei mi guardò come se fossi impazzito.
“Adesso??” mi domandò infatti. “Nath, sei il protagonista! Ci stanno aspettando dentro e…”
“Ti prego…” mormorai abbassando la mano dalla mia faccia e guardandola negli occhi. “Solo cinque minuti. Non ti chiedo altro. Là dentro fa troppo caldo e c’è troppo casino per parlare. Siamo in riva al mare…” dissi facendo un largo gesto con la mano a indicare il luogo in cui eravamo. “Prendiamoci una pausa. Nessuno si accorgerà che siamo spariti per qualche minuto.”
“Lo dicono anche i nostri sospettati e alla fine li freghiamo sempre per quei pochi minuti” borbottò Stana riferendosi ai nostri personaggi. Feci un mezzo sorriso divertito e scossi la testa. Quindi le allungai una mano, una tacita richiesta a seguirmi. Lei rimase qualche secondo a osservarmi il palmo, indecisa. Quindi sospirò e annuì. Si avvicinò a me, ma non mi prese la mano. Dovevo aspettarmelo alla fin fine, ma già sapere che aveva accettato di fare una passeggiata con me era abbastanza per il momento.
Arrivammo insieme al cancello che chiudeva il cortiletto, lo aprii e le feci un cenno plateale, quasi inchinandomi, a indicarle di passare prima. Lei cercò di far finta di niente, ma non riuscì a nascondermi un piccolo sorrisetto divertito al mio gesto.
Raggiungemmo la strada pedonale sul lungo mare. Tutto era quieto intorno a noi. Durante il giorno la gente al mare e quella sul tratto erboso accanto alla spiaggia creavano un intenso rumore di sottofondo fatto di chiacchierate, grida e risate. Insieme alla musica proveniente dai negozi aperti lungo l’area pedonale, proprio accanto a quella d’erba, tutto diventava caotico e frastornante. Ma a quell’ora della notte, a occhio dovevano essere circa le undici, le uniche persone presenti oltre a noi erano delle coppiette sulle panchine e dei ragazzi che facevano un falò in riva al mare.
In silenzio, iniziammo a percorrere la strada pedonale passando accanto ai negozi chiusi. Eravamo vicini, ma non abbastanza da sfiorarci per sbaglio. Di nuovo non sapevo come iniziare il discorso. Più di una volta avevo aperto la bocca per dire qualcosa, ma non era mai uscito suono. Il silenzio stava diventando pesante e la mia testa sembrava più vuota che mai.
Dopo un po’ alzai gli occhi e mi accorsi di riconoscere il posto. Il lungomare era lungo chilometri e non ci venivo spesso, ma quel pezzo di strada sarebbe rimasto impresso nella mia memoria per sempre.
“Riconosci questo posto?” le domandai all’improvviso con un mezzo sorriso, rompendo il silenzio creatosi. Lei si guardò attorno curiosa, quindi non riuscì a trattenere un sorriso.
“Certo” replicò con una nota che avrei definito dolce. “Qui è dove quel bambino ti è venuto addosso quattro anni fa!” aggiunse dopo un attimo divertita. Io sbuffai e lei scoppiò a ridere. Non potei fare a meno di guardarla ridere e pensare, con un piccolo guizzo del mio cuore, che anche lei si ricordava di una delle nostre prime uscite. “Senza contare il tuo ‘caro’ fan che ti ha rincorso per mezzo lungomare!” continuò divertita, ripensando evidentemente alla scena.
“Non farmici pensare!” esclamai con una smorfia che ebbe l’unico effetto di far ridere ancora di più lei e far battere il cuore a me. Ricordavo ogni singolo istante di quella uscita. Quel giorno le avevo proposto un giro in bicicletta e ci eravamo fermati un po’ in quel tratto per passeggiare. Quindi, mentre lei cercava un regalo per sua sorella, prima un bambino mi era venuto addosso e poi un armadio a quattro ante vestito da motociclista aveva deciso di inseguirci ovunque andassimo. Proprio dalla libreria davanti a cui stavamo passando in quel momento, la nostra fuga aveva avuto inizio. Beh, a dir la verità la mia fuga, visto che pensavo ce l’avesse con me. Che poi, come avrei mai potuto indovinare che era un mio fan?? In ogni caso, avevo scoperto la verità solo quando, fermandoci in una gelateria, lui ci aveva raggiunto e mi aveva chiesto l’autografo. Ma non era per quello che ricordavo così bene quella scampagnata con lei. Era perché, mentre facevamo i fuggiaschi, avevo pensato bene di farci nascondere entrambi in uno sgabuzzino tra due negozi che serviva al custode del parco come piccolo magazzino per tenere gli attrezzi della manutenzione. Era stata la prima volta in cui ero stato seriamente intenzionato a baciarla. All’epoca però non avevo capito ancora cosa mi legasse a lei e questo mi aveva fermato dal farlo davvero. Oltre che l’intervento del custode che aveva aperto all’improvviso lo sgabuzzino. Ricordai divertito quanto avevo odiato in quel momento quel pover’uomo. Anche se, seriamente, avrebbe potuto anche scegliere un momento migliore per rimettere a posto il parco…
“NATHAN FILLION???” Un urlo improvviso proveniente dalle nostre spalle fece balzare me e Stana dalla sorpresa. “OMMIODIO!! E QUELLA NON E’ STANA KATIC??” Ci voltammo immediatamente e rimasi paralizzato. ‘Ommiodio’ avrei dovuto dirlo io! Una mandria di fan proprio adesso?? Dovevano essere almeno una quindicina di donne tra i 16 e i 40 anni che doveva essersi stufata di aspettare che uscissimo dal locale e aveva deciso di farsi un giro nell’attesa.
“Devono essersi staccate dal gruppo fuori dal pub” commentò Stana, dando voce al mio stesso pensiero, con tono rassegnato. Feci un verso sconfortato. Di solito non avevo niente contro i fan, anzi mi piacevano e stavo volentieri con loro, ma, cavolo, proprio ora?? Non solo non ci avrebbero mollato per un po’, ma avrebbero anche fatto delle foto e commentato su Twitter, Facebook e quant’altro che eravamo insieme di sera a passeggiare!! Stana ci sarebbe rimasta malissimo. Anche a lei piaceva intrattenersi con i fan, ma non quando era con qualcuno, soprattutto con me. Teneva tantissimo alla sua privacy e non le piaceva che la sua vita privata finisse spiattellata ovunque.
Un’idea mi balzò all’improvviso in testa. Le fan erano ancora a diversi metri di distanza, anche se ci stavano raggiungendo velocemente. Se correvamo, potevamo farcela.
“Vieni!” esclamai all’improvviso prendendo la mano di Stana e tirandomela dietro.
“Cos…??” Non ebbe il tempo di replicare che stava già procedendo dietro di me. Per fortuna sapevo che non aveva troppe difficoltà a correre sui tacchi, altrimenti forse non avrei tentato un’impresa del genere. “Nath, che stiamo facendo??” mi domandò, quasi urlando, con un tono tra l’arrabbiato e il confuso.
“Scappiamo!!” risposi divertito, anche se con un po’ di fiatone. Sentivo dietro di me le fan urlare a gran voce i nostri nomi e i loro passi farsi veloci per starci dietro.
“NATHAN!” esclamò Stana cercando di frenarmi, ma avevo sentito anche una mezza risata uscirle nella minaccia.
“Un attimo!” replicai in risposta. Finalmente vidi la piccola curva del viale poco più avanti. Svoltai, sempre correndo e tenendo la mano della mia partner, e dopo pochi passi svoltai di nuovo in un vicoletto fino a fermarmi di botto. Sentii Stana sbattermi contro la schiena tanto era stato improvviso il mio arresto.
“Nath, che diav…” Non la feci finire che la zittii con una mano sulla bocca, mentre con l’altra aprivo la piccola porta davanti a noi. Per nostra fortuna a quanto pareva il custode la lasciava sempre aperta. Un attimo dopo mi infilai in quel piccolo spazio tirandomi ancora una volta dietro Stana, che finì contro di me con una mezza piroetta. Chiusi la porta alle nostre spalle proprio nel momento esatto in cui sentii le fan passare davanti al viottolo senza fermarsi, chiamando ancora a gran voce, con un misto di eccitazione e disperazione, i nostri nomi.
Rimanemmo in silenzio per qualche attimo, immobili, mentre cercavamo di regolarizzare i nostri respiri per la corsa. Non avevo neanche realizzato che stavo abbracciando la mia partner da dietro e che la sua schiena era completamente attaccata al mio petto.
“Ho come un senso di déjà vu…” borbottò divertita Stana alla fine voltando a metà la testa verso di me. Notai, grazie alla luce della luna che filtrava da alcuni piccoli anfratti della porta, che sorrideva. Ridacchiai divertito. Non potevo che darle ragione. Infatti eravamo nello stesso sgabuzzino in cui ci eravamo nascosti anni prima per scappare dal motociclista. “Mi spieghi perché ogni volta che veniamo qui finiamo inseguiti dai tuoi fan?” mi domandò poi con un sopracciglio alzato.
“Guarda che non erano solo miei fan…” le sussurrai divertito all’orecchio. “Gridavano anche il tuo nome, nel caso non te ne fossi accorta...” Alle mie parole mormorate la sentii rabbrividire contro il mio corpo. E fu in quel momento che realizzai pienamente che stavo continuando a stringerla contro di me come se fosse un fatto assolutamente normale. Trattenni il respiro, ma l’unico effetto fu che il suo profumo mi salì immediato alle narici. Quasi inconsciamente chiusi gli occhi e lo ispirai più profondamente.
Stana però doveva essersi accorta anche lei della nostra posizione, poiché si mosse a disagio. Essendo ancora attaccati, quel piccolo movimento mi procurò una scarica lungo il corpo, che mi finì nuovamente dritta sul davanti dei pantaloni. Cavolo, ero seriamente peggio di un quindicenne.
Lasciai cadere immediatamente le braccia dal suo corpo e cercai di allontanarmi di un passo, ma una tavola inchiodata alla parete dietro di me me lo impedì. Lanciai una bassa imprecazione quando gli oggetti metallici sul ripiano si mossero fragorosamente. Non potevo permettere che Stana sentisse l’effetto che aveva su di me dopo quello che aveva visto in sala montaggio. Ci mancava solo che mi prendesse di nuovo per un maniaco!
“Scusami, io…” dissi subito imbarazzato, ma lei mi interruppe.
“Non fa nulla” dichiarò piano, girandosi del tutto verso di me e anche lei facendosi appena più indietro. Uno spiraglio di luce le colpì gli occhi e per un attimo notai che sembravano tristi. “Forse dovremmo tornare…” continuò lei abbassando lo sguardo. La sentii, più che vedere, mettere una mano sulla maniglia della porta per aprirla. D’istinto portai subito la mia mano sulla sua per bloccarla.
“No, aspetta!” esclamai allarmato. Lei alzò gli occhi su di me, confusa. Dovetti improvvisare una scusa per non lasciarla uscire. “Non… non vorrai che quelle fan ci assalgano di nuovo, vero? Hai visto quanto erano agguerrite?” domandai per alleggerire l’atmosfera. “Ci avrebbero attaccato e noi saremmo stati senza scampo!” Stana non riuscì a trattenere un mezzo sorriso alla mia uscita.
“Ne parli come se fossero degli animali impazziti scappati da una riserva naturale” commentò scuotendo la testa divertita.
“Beh, non dirmi che non hai avuto anche tu paura quando ci hanno adocchiato!” dichiarai per confermare la mia tesi. “Andiamo, non hai mai visto Madagascar??” Non sapevo da dove mi era uscita quella citazione, ma ormai mi ero buttato, quindi tanto valeva andare avanti, no? “Quando c’è il leone affamato che morde perfino il suo amico?? Ci avrebbero mangiato un solo boccone, te lo dico io! GNAM!!” esclamai facendo il gesto di una bocca che morsica con la mano contro il suo fianco e facendola scoppiare a ridere. Il mio cuore perse un battito. Dio, quanto amavo la sua risata.
“Quindi...” iniziò a dire quando si fu calmata. “Devo dedurre che mi hai salvato di nuovo?” mi chiese piano Stana dopo qualche secondo con gli occhi bassi. Aggrottai le sopracciglia perplesso. Lei si morse il labbro inferiore. “Insomma quel… quel giorno al cimitero… avevi detto che non mi avresti più… più salvato, ecco…” continuò timida. La guardai ancora più confuso per un momento. Poi capii e un flash di un anno prima, del giorno delle riprese al cimitero, mi venne in mente. Insieme alle sue parole contro di me dopo averla salvata dal suo ex, che stava indubbiamente per picchiarla. E alla mia risposta.
“Ah, se sei convinta di essere nel giusto, allora d’accordo, hai ragione tu. Ma ti avverto: visto che non sono gradito, io non ti salvo più.”
Quelle erano state le mie parole.
Sospirai e mi passai una mano tra i capelli.  Quindi mi avvicinai appena e le alzai delicatamente il mento con una mano così che mi guardasse, per quanto possibile vista la scarsa luce.
“Credevi seriamente che l’avrei fatto?” le domandai retorico e dolce. “Ero arrabbiato e parlavo a vanvera, lo sai. Non potrei non salvarti se avessi bisogno di me. E non solo perché sono il tuo partner… ma anche perché sei la mia principessa, ricordi?” le domandai con un mezzo sorriso, ricordandomi del modo in cui scherzavamo anni prima, quando ci eravamo conosciuti. “Quale cavaliere lascerebbe la sua principessa in pericolo?” Lei sorrise imbarazzata e abbassò per un attimo gli occhi. Se non fosse stato per il buio, ero sicuro che l’avrei vista arrossire.
“Era tanto che non mi chiamavi così…” mormorò piano, come persa dal ricordo.
“Era tanto che non avevo più l’occasione di farlo” replicai serio. Rialzò gli occhi su di me. “Ho già rischiato di perderti e più di una volta. Non voglio ripetere lo stesso errore. Non voglio più rischiare di lasciarmi sfuggire qualcosa di così unico come te.” Rimase con la bocca semiaperta. Per un attimo vidi brillare i suoi occhi alla luce della Luna. Erano splendidi. Lei era splendida.
Una voce dentro la mia testa mi urlò di farmi avanti ORA, in quell’esatto momento. Il mio cuore riprese a battere furiosamente. La mia mano, ancora sotto il suo mento, si spostò appena per andare ad accarezzarle una guancia lentamente. Per un secondo vidi i suoi occhi scendere sulla mia bocca, con quel giochetto che lei faceva inconsciamente e che mi aveva sempre mandato fuori di testa. Da quello presi coraggio e mi avvicinai ancora di un passo. Mi ritrovai praticamente a sfiorare il suo corpo col mio, il suo seno contro il mio petto, tanto poco era lo spazio tra di noi. Mi abbassai appena e sentii il suo respiro caldo e veloce sulla pelle. La vidi chiudere gli occhi e avanzai di quell’ultimo centimetro rimasto tra le nostre bocche.
Prima che potessi arrivare a sfiorare le sue labbra però, lei sfilò d’un tratto la mano che aveva ancora sotto la mia e sopra la maniglia e la mise sul mio petto, spingendomi appena all’indietro.
“Posso chiederti una cosa?” mi domandò con le sopracciglia aggrottate e il respiro ancora un po’ pesante, la mano che non si era mossa dal petto. Non dissi nulla e aspettai che continuasse per evitare di cacciare un urlo di frustrazione e dolore. “Perché?” Aggrottai le sopracciglia confuso.
“Perché cosa?” chiesi a mia volta stupito, con una voce più bassa e roca di quanto avrei voluto.
“Perché questo!” esclamò Stana con un misto di frustrazione e imbarazzo, facendo un gesto con la mano a indicare noi due. “Insomma ci baciamo durante le riprese, ma ti allontani come se volessi vomitare!” La guardai come se fosse impazzita. “Poi in sala montaggio scopro che ti sei…” Rimase per un attimo senza parole, troppo imbarazzata forse per dirlo. “Eccitato, ecco, e ora di nuovo questo!!” La vidi quasi ansante per quella semisfuriata. “Nathan, io non ti capisco! Non capisco se mi consideri così male da volerti allontanare da me come schifato o se ti ecciti non appena ti avvicini a una donna qualsiasi o…”
“Da vomitare??” esclamai senza parole. Mi ero bloccato su quelle parole e continuavo a non comprenderle. “Pensi seriamente che… tu… stai scherzando, vero?” le chiesi dopo qualche attimo, ancora troppo stupefatto della cosa. Lei scosse la testa come a negare, ma piano, quasi non ci credesse davvero neppure lei. Feci un sospiro profondo. “Stana, tu sai cosa mi provochi realmente?” le domandai. “Questo!” Senza che ebbe il tempo di dire o fare niente, le passai una mano intorno alla vita e la attirai con forza verso di me. Il suo urletto sorpreso nascose il mio mugugno soffocato di piacere quando il suo bacino colpì il mio.
“Nath, ma che…??” In quel momento dovette accorgersi dell’effetto che aveva su di me, perché abbassò di scatto gli occhi sui nostri corpi attaccati. Doveva aver sentito il mio eccitamento per la sua vicinanza. Per la scarsa illuminazione non riuscivo a vedere, ma ero sicuro che Stana fosse arrossita istantaneamente. Una lama di luce entrante nello sgabuzzino mi permise di vederla tornare a guardare verso di me con gli occhi sgranati.
Questo è quello che mi provochi…” le sussurrai piano all’orecchio con voce bassa, continuando a stringerla a me. La sentii rabbrividire leggermente tra le mie braccia. “Durante le pause delle riprese tra un bacio e l’altro mi assentavo perché ero sicuro che se fossi rimasto accanto a te non sarei riuscito a fermarmi e ti sarei probabilmente saltato addosso. Tu non hai idea della fatica che ho fatto per controllarmi e restare lucido. Ma il video in sala di montaggio ha evidentemente fatto fallire tutti i miei tentativi di non sembrare un maniaco sessuale…”
“Ma se eri… insomma… ti avrei lasciato più tempo e…” balbettò Stana. “Perché non me lo hai detto?” mi chiese alla fine rassegnata. Sorrisi appena.
“Non volevo che pensassi che nella mia testa ci fosse solo quello o che facessi così con ogni donna, come infatti mi hai detto di aver pensato.” Abbassò gli occhi imbarazzata. “Perché non è così. C’è semplicemente una parte di me che non è mai riuscita a smettere di pensare a te. E l’effetto…” dissi stringendola appena di più contro il mio corpo. “Che hai su di me ne è una prova. Con nessuna, nessuna, mi era mai successo solo grazie alla loro vicinanza.” Quando aprì la bocca le uscì un piccolo gemito strozzato che mi mandò il sangue alla testa. Ma attesi. Stana aveva capito cosa le stavo dicendo, ma sembrava ancora avere dei dubbi da come si mordeva nervosa il labbro inferiore. E io volevo eliminare ogni incertezza.
“Non voglio essere una delle tue tante…” mormorò a un certo punto con gli occhi bassi, tanto piano che quasi non la sentii. Sospirai e scossi la testa.
“Stana, guardami” la implorai alzandole di nuovo piano il mento con una mano. I suoi occhi, timorosi e speranzosi insieme, incontrarono i miei. “Tu non potrai mai essere una delle tante. Tu sei… tu sei speciale e unica e…” Ora che mi servivano le parole non riuscivo a trovarle e con lei che mi guardava attentamente non era facile. Sospirai e chiusi per un attimo gli occhi. “Quattro anni fa, quel giorno nel mio appartamento, ti ho chiesto tempo per capire che diavolo provassi per te” dissi seriamente incrociando di nuovo il suo sguardo. “Perché qualcosa c’era già, anche se di ancora indefinito. Finalmente, anche se dopo tanto ritardo, l’ho capito. L’ho capito l’anno scorso, quando ho avuto paura che rimanessi ferita per colpa del tuo ex, quando ho impersonato Castle e ho provato per un momento cosa volesse dire veder quasi morire una persona che si ama tra le proprie braccia…” La sentii per un momento trattenere il respiro a quelle parole. “Perché io provo questo per te Stana: amore. Mi sono innamorato di te in una maniera talmente forte e profonda da pensare che esistesse solo nelle favole. E invece… invece ho scoperto che è reale” dissi con un mezzo sorriso. “E sai quando l’ho capito?” Stana mi guardava con la bocca semiaperta, senza parole, ma negò appena col capo. “Quando ho sentito il cuore iniziare a galoppare forte per un tuo sorriso, per una tua carezza, per una tua risata o per la tua sola vicinanza. E, ammetto, anche per quei vestiti che ti piacciono tanto e che coprono ben poco del tuo corpo, facendomi letteralmente perdere il fiato!” esclamai per alleggerire l’atmosfera. Stana infatti non riuscì a trattenere un sorriso divertito e abbassò per un momento il capo per tentare di nasconderlo con poco successo. Quando mi guardò di nuovo negli occhi, mi feci più serio. Le carezzai appena il volto con la mano libera e lasciai vagare il pollice sulle sue labbra. “Ho provato a fare come mi avevi detto, a cercare un’altra donna per cui valesse la pena provare qualcosa…” sussurrai piano. “Ma alla fine ogni mia scelta riportava a te. Non voglio passare un altro giorno senza poter essere libero di sfiorarti o baciarti. Non voglio passare un altro giorno senza di te…” L’ultima frase quasi gliela soffiai sulle sue labbra, alle quali mi ero pericolosamente avvicinato durante il mio discorso. “Perché? Perché io ti amo, Stana...” Feci appena in tempo a finire di pronunciare il suo nome che mi ritrovai la sua bocca sulla mia. E in un attimo ci stavamo di nuovo baciando come nelle riprese per Castle e Beckett. Ma stavolta era reale. Stavolta nessuno ci avrebbe interrotto. E, in più, stavolta non avevo nessuna intenzione di controllarmi.
Appena lei schiuse la bocca io ci infilai dentro la lingua per approfondire il bacio. Il suo profumo mi diede ancora una volta alla testa e il suo sapore… dio, il suo sapore era qualcosa che non avrei mai dimenticato. Quando lei mi morse il labbro inferiore, strusciandosi nel frattempo contro di me, non riuscii a trattenere un gemito. La baciai con foga e passione e, quando il bisogno di ossigeno divenne impellente, mi spostai sul suo viso iniziando a lasciarle baci sulla guancia e scendendo lentamente lungo il suo collo. Appena lo raggiunsi, baciai e morsi un punto, che ricordavo sensibile, sotto il suo orecchio. Gemette e quasi le cedettero le gambe al mio gesto. Se non l’avessi tenuta stretta tra me e la parete dello sgabuzzino, e se lei non fosse stata così aggrappata alla mia camicia, sarebbe caduta a terra sicuramente.
Mentre la baciavo, ne approfittai per esplorare con le mani ogni centimetro raggiungibile del suo corpo. Se in Castle mi ero in parte trattenuto, in quel momento le lasciai vagare come con vita propria. Le alzai la maglia e ci infilai sotto le mani per passarle sulla sua pelle calda. Quindi continuai a far salire una mano fino a raggiungere il suo seno, mentre l’altra la feci al contrario scendere, passandogliela poi sulla parte alta della coscia e sul suo fondoschiena. Quella doppia sensazione le fece lanciare un gemito più alto del precedente e io aumentai la mia pressione su di lei.
Ci volle diverso tempo prima che il bacio iniziasse a diminuire d’intensità, finché non ci ritrovammo a baciarci in modo lento e dolce. Non che la passione fosse finita, anzi, ma evidentemente una qualche parte del nostro cervello si era ricordata del fatto che eravamo in uno scomodo e piccolo sgabuzzino per gli attrezzi da giardinaggio del parco.
Finalmente ebbi abbastanza facoltà mentali da lasciarle un ultimo bacio sulle labbra, prima di appoggiare la mia fronte alla sua. Entrambi stavamo cercando di tornare a respirare normalmente.
“Wow…” mormorai. Stana ridacchiò e mi lasciò un altro piccolo bacio sulle labbra. Alzai la testa e la guardai negli occhi, mentre con le dita tracciavo disegni invisibili sui suoi fianchi dove le mie mani erano posate. “Allora il mio discorso ha funzionato” commentai fintamente sorpreso. Stana rise e scosse la testa.
“Sì, credo che possa aver avuto un suo peso…” replicò divertita. Ghignai e stavolta le lasciai io un casto bacio, prima di appoggiare di nuovo la fronte alla sua.
“Credo che ora però dovremmo tornare davvero” mormorò Stana alla fine con un lieve tono sconsolato.
“Dobbiamo proprio?” borbottai spostandomi sul suo collo e iniziando a baciarlo piano. La sentii trattenere il respiro quando raggiunsi l’orecchio e non trattenni un sorrisetto furbo. “Potremmo sempre andare a coccolarci a casa…” sussurrai soffiandole appena sul collo. A quelle parole si irrigidì e quando realizzai cosa avevo detto mi spostai di scatto per guardarla. “Scusa, non volevo dire questo!” esclamai subito mentre lei aggrottava le sopracciglia perplessa. “Oh, beh, insomma sì, volevo dirlo, ma non è che voglio portarti solo a letto, è solo che…” Non feci in tempo a finire il mio sproloquio che Stana mi prese i lembi della camicia e mi attirò di nuovo a sé per baciarmi e farmi stare zitto. Un ottimo modo per zittirmi, direi. Avrei anche potuto farci l’abitudine…
“Lo so, tranquillo” dichiarò lei ridacchiando quando mi lasciò andare. “Stavo solo pensando che non possiamo andare subito, ma dobbiamo aspettare almeno la fine della festa.” Mi calmai istantaneamente, riprendendo il sorriso.
“Ripeto: dobbiamo proprio?” mugugnai come un bimbo a cui negano di giocare se prima non ha fatto i compiti. Stana rise divertita.
“Sì!” esclamò. Feci una smorfia contrariata che lei vide solo in parte a causa della scarsa luce, ma che la fece comunque ridacchiare ulteriormente. Quindi Stana mise la mano sulla maniglia della porta con la chiara intenzione di uscire, ma io la bloccai ancora una volta con la mia.
“Aspetta…” La attirai di nuovo a me e la bacia profondamente, con meno foga, ma più dolcemente di prima. “Ti amo” le mormorai sulle labbra quando ci staccammo. Quindi, senza aspettare che replicasse, aprii io la porta dello sgabuzzino e uscii tenendola per mano. Per fortuna non c’era nessuno in giro. Chissà da quanto eravamo là dentro. E chissà dove erano finite le fan. Boh. In ogni caso se le avessi riviste avrei fatto loro tutti gli autografi e le foto che volevano per ringraziarle di averci inseguito.
Ci incamminammo di nuovo in silenzio verso il pub mano nella mano. Stavolta però non era un silenzio teso. Era consapevole e complice. Passammo di nuovo dal retro del locale, ma a pochi passi dalla porta mi fermai e portai Stana davanti a me. Le spostai una ciocca di capelli dal visto e rimasi con la mano ad accarezzarle il viso. L’avevo vista pensierosa durante la strada e la cosa mi aveva in parte preoccupato. Lei fece un piccolo sorriso al mio gesto.
“Un penny per i tuoi pensieri” dissi divertito, anche se con un velo di ansia insieme. Lei scosse la testa alla mi uscita, sempre sorridendomi.
“Scusa” rispose. “Stavo solo pensando agli altri…”
“Altri?” domandai confuso. Fece un piccolo cenno con la testa verso la porta dietro di lei e capii che parlava dei nostri amici e colleghi.
“Come la prenderanno…”
“Conoscendo Tamala farà i salti di gioia” commentai con un mezzo sorriso, un poco sollevato dal fatto che fosse quello il problema e non noi due. “E se parliamo di Jon e Seam, quelli sono peggio di Espo e Ryan! Si metteranno subito a raccogliere scommesse vedrai!” Lei alzò gli occhi al cielo alla mia uscita e io ridacchiai. “Comunque nessuno ci obbliga a dirglielo stasera” continuai poi più serio, abbassandomi appena per far incontrare lievemente il mio naso con il suo. “Possiamo farlo domani o fra una settimana o fra un anno, come preferisci.” Lei mi guardò per un momento negli occhi, come se cercasse là la conferma alle mie parole.
“E tu credi che fra un anno saremo ancora insieme?” domandò piano, con un tono che voleva essere divertito, ma che uscì un po’ preoccupato per la possibile risposta.
“Se lo chiedi a me, non ho dubbi a riguardo…” mormorai con un mezzo sorriso prima di prenderle il viso tra le mani e lasciandole un piccolo bacio sulle labbra. “E se sarò così coglione da lasciarmi scappare una donna come te…” aggiunsi quando ci staccammo. “Allora l’unica spiegazione valida sarà che gli alieni mi avranno mangiato il cervello.” Alla mia uscita Stana scoppiò a ridere.
“Aspetta, mi stai dicendo che non l’hanno già fatto?” mi domandò, decisamente più tranquilla e divertita di prima. Feci una smorfia offesa che la fece solo ridere di più. “Dai, andiamo” mi disse alla fine riprendendo la mia mano e trascinandomi fino alla porta pochi passi dietro di noi. Avevo già la mano sulla maniglia quando Stana mi richiamò.
“Ah, Nate…” Mi voltai verso di lei in attesa. Lei mi prese per il colletto della camicia e mi fece abbassare appena mentre si alzava sulle punte. Pensavo già volesse baciarmi, ma all’ultimo deviò verso il mio orecchio. “Ti amo anch’io” mi sussurrò un attimo prima di staccarsi da me con un sorrisetto in volto e scomparire dietro la porta. Io rimasi immobile, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati e il cuore a mille all’ora. Avevo dimenticato anche di dover respirare. Stana Katic aveva appena detto di amarmi. Appena realizzai la cosa, un sorriso enorme e idiota mi spuntò in faccia, ma non potei farne a meno. Stana mi amava!!
Dopo qualche secondo mi decisi a riprendere a respirare e a seguire la mia donna all’interno. La mia donna… molto maschilista e possessivo forse, ma cavolo!! Lo era davvero!! Fosse stato un sogno non avrei voluto svegliarmi mai più.
Un attimo dopo vidi proprio Stana due passi davanti a me. La raggiunsi velocemente, con la testa già a quello che avremmo fatto quando saremmo stati finalmente soli, a come l’avrei baciata e a come l’avrei stretta a me per non lasciarla più andare…
“NATHAN! STANA!” L’urlo di Tamala, Jon e Seamus insieme mi fece prendere un colpo. Ci girammo entrambi verso di loro. “EHI!! Sono tornati!!” esclamò Jon voltandosi all’indietro verso chissà chi. “Ragazzi, che fine avevate fatto??” continuò poi girandosi di nuovo verso di noi con tono scocciato.
“Nessuna!” replicai subito d’istinto. “Perché?”
“Come perché??” esclamò Seam che mi osservava come se fossi impazzito. “E’ più di un’ora che siete spariti! Iniziavamo a preoccuparci seriamente!”
“Più di un’ora??” ripeté Stana stupita, voltandosi a guardarmi. Oh, cavolo. Non avevo realizzato che eravamo stati via per così tanto. “Pochi minuti, eh?” borbottò poi sarcastica Stana sottovoce in modo che la sentissi solo io, rinfacciandomi le mie parole di quando l’avevo portata via dal locale.
Mi passai una mano sul collo imbarazzato.
“Ehm… scusate è colpa mia…” iniziai io. “Ci siamo allontanati per causa mia e non ci siamo accorti del tempo che passava e…” Ma non riuscii a continuare che Tam mi interruppe.
“Aspetta, eravate davvero insieme?” mi chiese stupita. Cavolo la mia lingua. Ma perché non stavo mai zitto?? Di sicuro avevano azzardato mille ipotesi su dove fossimo e una di queste molto probabilmente era andata molto vicina alla realtà…
“Cos… no!” esclamai subito, anche a voce più acuta del normale, cercando di negare quello che la mia boccaccia aveva appena pronunciato. “No, no, noi eravamo… cioè io ero…”
“Insieme a Stana!” concluse per me Tamala che continuava a squadrarci da capo a piedi. Poi all’improvviso si soffermò sul volto della mia partner, sgranò gli occhi e le saltò al collo. “CE L’AVETE FATTA!!” Urlò talmente forte che ebbi paura che spaccasse un timpano a Stana.
“Fatto cosa?” cercò di arginarla la mia partner mentre il rossore sulle sue guance la tradiva palesemente. Sentendola, Tam si tirò indietro e la minacciò puntandole un dito contro.
“Non provare a mentirmi, ragazza! Mr. Fillion qui non riesce a trattenere un sorriso a trentadue denti quando un’ora fa sembrava fosse appena uscito da un funerale, mentre tu sembri fin troppo rilassata rispetto a quando sei sparita!” Io e Stana ci scambiammo uno sguardo rassegnato di chi è stato appena colto sul fatto.
“Aspetta, voi due sul serio…” balbettò Jon a bocca aperta.
“AH!! Lo sapevo! Paga, amico!” esclamò di rimando Seam allungando una mano verso Jon. Quello borbottò qualcosa di poco carino mentre tirava fuori il portafoglio. Stana mi guardò stupita e io alzai le spalle ridacchiando. Che potevo farci se ero un veggente?
“Ok, pausa ricreazione finita!” si mise in mezzo Tam prendendo sotto braccio Stana. “Fillion, te la rubo per un po’, ma stai tranquillo che te la riporto prima della fine della serata!”
“Ci conto!” replicai divertito.
“Tam, aspetta un secondo” la fermò Stana. Si staccò un momento dall’amica e tornò verso di me. “Sai che Marlowe mi ha dato qualche anticipazione sulla nuova stagione?” mi sussurrò con tono malizioso all’orecchio facendomi rabbrividire. Deglutii e negai appena col capo.
“Davvero?” riuscii a dire con voce tesa. “E cosa ti avrebbe detto?” mi azzardai a chiedere. La sentii sorridere contro il mio collo.
“Che Castle e Beckett si risveglieranno dopo una notte estenuante…” mi sussurrò ancora. “E non credo di sapere bene come sia svegliarsi la mattina dopo aver fatto quattro… round.” Calcò particolarmente sull’ultima parola in modo che ne capissi il significato. “Credo che dovrò fare un po’ di prove per calarmi nel personaggio, non trovi? Pensi di volermi aiutare più tardi?” Smisi di respirare. Noi avremmo… avremmo fatto… Dio santo, come avrei passato il resto della serata sapendo cosa mi aspettava una volta a casa??
“Cer… certo…” riuscii a biasciare con voce rauca dopo qualche secondo.
“Grazie” replicò lei lasciandomi un bacetto sulla guancia, pericolosamente vicino alla mia bocca, che bastò a scatenare applausi e fischi da quelli intorno a noi. Quindi, con un sorrisetto malefico sulle labbra, si voltò e riprese a braccetto Tamala. Mentre si allontanavano (Stana muovendo particolarmente i fianchi, cosa che mi fece mordere involontariamente il labbro inferiore nel guardarla), sentii Tam dire subito alla mia partner “Ok, adesso racconta tutto e con i particolari!”
“Allora, bro, vuoi darci qualche informazione di come è accaduto il miracolo?” mi domandò Jon allegro dandomi una pacca sulla spalla.
“Dai, siamo tuoi amici!” gli diede man forte Seam con un sorrisetto angelico. Mi avevano accerchiato. Io sospirai e mi rassegnai a dovergli raccontare almeno qualcosa. Prima di farlo però, guardai un’ultima volta nella direzione di Stana, nell’angolo in cui stava discutendo con Tamala, che sicuramente voleva più dettagli. Per un attimo la mia partner alzò gli occhi e incrociò il mio sguardo. Mi sorrise dolcemente prima di tornare a concentrarsi sull’amica che chiedeva attenzione. Sospirai appena. Stana era bellissima e speciale. Unica. Straordinaria quanto Kate se non di più, visto che era reale. E mi amava. Quanto potevo essere fortunato? Ci avevo messo tre anni a capirlo e uno per dirglielo, ma l’attesa era stata decisamente uno scotto che avrei pagato ancora se quel bacio nello sgabuzzino era davvero solo l’inizio. Perché ormai ne ero certo più che mai. Lei era la mia partner. Lei era la donna che amavo. Lei era il mio always.

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Xiao!!! :D
Ok, lo so sono oscena, ci ho messo ventimila anni a pubblicare, ma proprio non becco mai il periodo giusto per fare long... -.-
Anyway, questo è l'ultimo capitolo di How I Met... e, che dire, spero vi sia piaciuto! :) Spero che abbiate capito e vi siate ricordate i rimandi agli altri capitoli, anche se li ho scritti ere fa... chiedo ancora venia per il ritardo... :)
Ok non so che altro dire... Grazie a chi ha seguito/ricordato/preferito questa storia e a chi ha speso anche solo qualche minuto per dirmi cosa ne pensava... vi adoro tutte!! *___*
Beh, ora che ho finito questa storia direi che posso tornare a dedicarmi a Rick e Kate... mi mancano! XD
Boh penso di aver detto tutto... 
Ah un'ultima cosa... questo capitolo voleva essere una sorpresa per tutti, anche per le mie due consulenti, quindi se non vi piace la colpa è interamente mia e me ne scuso in anticipo...
Boh ho finito davvero!! XD 
(No ancora una cosa... SETTEMBRE ARRIVA PRESTO TI PREGO!!!!!)
Ok via, vado! XD
A presto! :D
Lanie

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