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Sonia non
riusciva a vedere niente di quello che succedeva sul ponte. Il lontano crepito
delle fiamme, lo stridere dell’acciaio, le grida di uomini
che probabilmente venivano abbattuti dai proiettili o trafitti dalle spade. La
Comet era una nave giovane. E come quasi tutte le navi
giovani, resisteva difficilmente agli attacchi dell’equipaggio esperto di una
splendida nave come la Coleridge.
Da
qualche parte esplosero gli schianti rimbombanti delle bordate della Coleridge.
La Comet tremò pericolosamente e s’inclinò. Sonia venne
spinta dalla parte opposta della stiva, trascinata via sotto il peso di uno
scatolone.
Si rialzò
immediatamente, cercando nel buio il violento tossire del padre. La sua voce
rauca la chiamò dall’ombra. Sonia trovò la mano ruvida e callosa dell’uomo e
tremò dal terrore quando la voce di suo padre la chiamò di nuovo. Non era il
freddo dell’acqua che penetrava lentamente da una piccola falla, né il sangue
che colava dalle fenditure delle assi non perfettamente congiunte della sua
nave. Ma era lo scrocchio delle ossa già vecchie del
suo giovane padre, la vacuità liquida dei suoi occhi, l’inespressività dello
sguardo di un morente. Sarebbe sopravvissuto a quell’arrembaggio?
- Sonia… Sonia…
-
L’uomo
continuava a chiamare. Morbosamente, quasi. Il volto di bambina di Sonia si
rigò di lacrime silenziose. Era per evitare d’essere
scoperta, per quanto inutile e vano fosse lo sforzo?
Era forse per risparmiare a suo padre un’altra tortura?… non avrebbe
mai voluto che sua figlia, la sua piccola Sonia, piangesse, non quando
aveva davanti una vita probabilmente affatto migliore.
La Comet
s’inclinò di nuovo, la falla s’ingigantì e di sopra le urla aumentavano e il
sangue colava in gocce sottili come quelle di una pioggia estiva. Sonia sentì
che suo padre rotolava via, tossendo sempre più impercettibilmente, e seppe che
a quella notte non sarebbe sopravvissuto.
- Papà! -
chiamò. Ma la sua voce lei stessa non la sentì quasi.
E probabilmente il padre era già parzialmente nel mondo dei morti, non
abbastanza lucido per poter sentire la sua presenza.
Sonia
trovò di nuovo le mani del padre e le strinse nelle sue, piccole e vellutate;
quell’atto istintivo poteva forse trattenerlo dal seguire la via della morte?
Il padre si accasciò sulle ginocchia di Sonia, continuando a ripetere il suo
nome e quello di sua madre. Almeno Sonia suppose che lo fosse.
- Non
andartene via… - mormorò l’uomo.
- No… -
fu solo capace di rispondere Sonia. Non sapeva che cosa dire. Non c’era niente
da dire. Poteva soltanto invocare Dio, se ce n’era uno: ma in quell’inferno le
cui ceneri della Comet sarebbero state sicuramente spazzate via dalla furia
della Coleridge, la mano di un Dio misericordioso era ben lungi
dall’intervenire. - Neanche tu, papà. -
Ormai il
padre non poteva più sentirla. L’amarezza quotidiana di Sonia si era
trasformata da tempo in autentica angoscia. E il momento della separazione dall’unico suo affetto nella
vita sembrava giunto in quel giorno di vento.
Sonia
rabbrividì: urla trionfanti. Non appartenevano al Capitano dal quale Sonia era
solita prendere ordini, tuttavia. La bimba strinse addosso a sé il padre ormai
in delirio, come se con quella stretta potesse scomparire e riapparire altrove,
lontano da lì, da quei pirati.
Ci fu un
momento in cui le parve che tutti i suoni fossero stati risucchiati in un
attimo eterno di immobilità: soltanto il sordo suono
ritmico del suo cuore che batteva all’impazzata rimbombava nella sua testa come
l’eco di un ciclone. Perfino il corpo di suo padre ora rassomigliava più che
altro ad un saccone pieno di sabbia.
- Tutti
morti, - sentenziò un uomo, da lontano, una voce stridula, acuta e ancora
assetata di sangue.
-
Potrebbe esserne rimasto qualcuno nella stiva, - suggerì un secondo pirata.
-
Bruciamola, allora! - latrò il primo pirata, e la sua esortazione fu seguita da
una serie di alte grida trionfanti. - E vedrete che non resterà nessuno! -
- No, -
intervenne un uomo dal tono di voce completamente diverso da quello degli
altri. Pareva più giovane, o forse soltanto più calmo, più rilassato. - Apriamo
la stiva. Possono esservi rimasti solo dei codardi che
meritano di essere trafitti da una spada nel cranio. Capitano? -
Ci furono
dei passi. Sopra, sul ponte insanguinato e ingombro di cadaveri umani squartati
crudelmente, com’era nello stile dei pirati della Coleridge, il Capitano annuì.
Un sorriso soddisfatto gli aveva stirato le labbra attraversate da una
disgustosa, lunga cicatrice.
Sonia
cessò perfino di piangere. Si avvicinavano alla botola. Vedeva le loro ombre
riflettersi nella luce che filtrava dalla grata. Adesso nei suoi occhi c’era
solo il terrore più puro, che aveva diradato perfino la nebbia della
disperazione. Si guardò rapidamente intorno: non c’erano vie di fuga. La falla
imbarcava lentamente acqua, ed era impossibile passarvi attraverso in quei
pochi secondi. L’unica uscita in quel momento l’avevano
spalancata i pirati della Coleridge.
Una
vampata di luce inondò la stiva, era la luce del
tramonto dei Caraibi. Il sole che all’orizzonte si tuffava nelle profondità
marine dipinse un rettangolo arancione sulla stiva, illuminando agli occhi del
pirata la bambina dagli abiti miseri e su suo padre, dall’aspetto ancora più
dimesso.
- Due
prigionieri, Gabrièl - constatò
il pirata, facendo cenno ai suoi compari di venire a dare un’occhiata, - nient’altro
che due miserabili. -
- Hanno
più l’aspetto di due mozzi, - lo contraddisse il giovane pirata dalla voce
calma, al quale il primo filibustiere era rivolto, - Che sono qui da molto
tempo, probabilmente. -
Una rozza
manata strappò il padre di Sonia dalle braccia della bimba. Fortunatamente per
lui non era in grado di comprendere, di percepire niente, come fosse stato in
coma.
- E tra l’altro questo è anche un imbecille, - ghignò un
pirata gobbo e deformato come un vecchio.
- Lasciatelo, vi prego! Lasciatelo andare! - implorò Sonia, gli occhi grigio scuri affogati di lacrime.
- Nessun
tesoro… nessuna preda interessante, - commentò acidamente il pirata che poco
prima aveva identificato, a ragione, Sonia e suo padre come due mozzi. - Erano
completamente dei falliti. -
- Lasciatelo! Vi ho detto di lasciarlo! -
gridò Sonia con tono più risoluto, per quanto le fosse possibile, e i pirati si
volsero con aria divertita e un po’ disgustata verso di lei. A Sonia non
interessava. Fissò l’uomo simile a un cadavere che uno
di quei pirati reggeva sospeso in aria, l’uomo malato, con la bava alla bocca e
l’espressione serena, ormai quasi morto. Quello era suo padre! E loro dovevano lasciarlo andare!
Un
violento schiaffo calò sulla pelle liscia del viso di Sonia.
- Quello
rassomigliava grottescamente a un ordine, signorina
Mozzo. -
Sonia
alzò la testa, terrorizzata. Su di lei troneggiava l’imponente figura di un
uomo alto e robusto vestito molto meglio del resto della sua ciurma, a parte
forse del pirata dall’aria tranquilla. La sua scimitarra era lustra di sangue e
la sua pistola fumava ancora dopo la carneficina.
La ciurma
rise.
- Vi prego… - singhiozzò Sonia, chinandosi a terra più che poté, -
Lasciatelo… -
Il
Capitano fece cenno al pirata che sorreggeva il padre della bambina, e questi
si avvicinò, strattonando con aria beffarda il corpo inerte dell’uomo malato.
Il Capitano si esibì in un’acerba imitazione delle suppliche di Sonia, e la
ciurma rise ancora di più. Dopodiché si chinò verso la bambina, costringendola
ad alzare la testa.
- Non è
il caso di piangere, - disse il Capitano con un falso tono rassicurante che non
servì a lenire la disperazione di Sonia. - Che cosa
puoi fare per lui, ormai? -
- Io… non
lo… non lo so… Vi prego… Non fategli del male… -
- Soffrirà giusto un po’, vedrai… -
- No! No,
vi scongiuro… farò qualsiasi cosa! Vi prego! -
- Oh,
dubito che tu abbia qualcosa di interessante con il
quale poter contrattare con noi, non pensi anche tu? -
Ad un
altro cenno del Capitano della Coleridge, due pirati trotterellarono con occhi
malvagi verso Sonia. Uno di loro la tenne ferma al suo posto, stringendole i
polsi e schiacciandola quasi a terra, l’altro la costrinse a tenere la testa
ben sollevata, in modo che potesse assistere alla sorte che suo padre stava
andando ad incontrare.
Sonia non
poteva tenere gli occhi aperti, non dopo aver incontrato lo sguardo candido di
suo padre, quello sguardo ignaro, o forse del tutto consapevole che quella era
l’ultima occhiata che poteva dare a sua figlia.
- Per
prima cosa… la lingua. - disse lentamente il Capitano.
- No! Non fatelo! - gridò Sonia, un grido
da sputare le viscere, un grido completamente fiori di sé, che fece vibrare violentemente l’aria ed alimentò la malvagità dei
pirati che avevano ormai colmato la stiva. Alla luce del tramonto dei Caraibi,
a Jhonathan Livingstone fu tagliata la lingua.
I pirati
sollevarono anche una volta la testa di Sonia su quel collo moscio, incapace di
tenersi dritto.
Sul
pavimento gocciolava sangue rosso, caldo, vivo.
- Le
mani. - proseguì il Capitano.
- Per favore! Per favore!! Vi supplico, vi scongiuro! Lasciatelo stare! -
Ma le
suppliche e gli scongiuri furono vani. Le mani di Jhonathan si sganciarono
lentamente dai polsi a causa della ruggine che avvolgeva il rudimentale
coltello del torturatore. Sonia vide una mano deforme ed indistinguibile di suo
padre rotolarle in grembo. - No! No!
Adesso basta, in nome di Dio!! Che muoia, piuttosto!
- arrivò a gridare Sonia. Non ce la faceva, non resisteva.
Stava per vomitare, stava per svenire. Non poteva
sopportarlo.
- Lo ha
detto lei, - sorrise il Capitano con un sorriso innocente. La ciurma rise a
squarciagola. Il torturatore imbrattato di sangue rideva più di tutti, ma
sembrava contemporaneamente anche un po’ deluso. - Avvicinalo. -
Sonia si
trovò ad un millimetro dal corpo amputato di suo padre.
- Lei lo
ha condannato! - rise il Capitano della Coleridge, - Che venga
tranciato in due e che entrambe le sue metà le caschino addosso! Che il sangue di suo padre la imbratti del tutto! Non
uscirete di qui sino a quando il corpo di questa figlia degenere non sarà
completamente rosso! -
- No… no…
- Sonia non riusciva più a gridare. Aveva finito le lacrime,
aveva finito la voglia di vivere, la voglia di combattere invano.
- Sì, sì,
- contraddisse il Capitano, - Pare proprio di sì. -
Il mobilio riccamente lavorato dell’abitazione del
Governatore Swann s’intonava armoniosamente con i colori della tappezzeria e il
calore dell’ambiente circostante. La soffice penombra causata dalle luci basse
e dalle tende tirate cercava di combattere l’afa che proveniva dall’esterno,
trasformandola in niente più che un piacevole calore.
Il Commodoro Norrington attendeva pazientemente il momento
d’essere convocato a colloquio con il Governatore, riflettendo intanto sulle
notizie che aveva da dargli e cercando di articolare discorsi appropriati.
Soprattutto, avrebbe cercato di conferire alle sue parole una nota di perfetta
impassibilità, quasi che a parlare fosse stata una statua: non voleva che
trapelasse vergogna o imbarazzo nell’eventualità di trovarsi al cospetto della
donna la quale, inizialmente, lo aveva accettato per salvare la vita di quello
che poi sarebbe divenuto il suo avversario -vincente.
Norrington osservava
distrattamente le ben note intarsiature sul medesimo armadio a due ante anche
ogni volta si ritrovava a fissare quando era convocato dal Governatore. Indugiò
a lungo sull’intreccio scolpito a mo’ di bordo per entrambi gli sportelli, poi
il suo sguardo sfiorò i numerosi quadri o pergamene incorniciate appesi al
muro, fin quando non raggiunse la finestra aperta.
Oltre la tenda riuscì a
intravedere alcuni bambini che correvano, e sentì le loro grida felici o i loro
pianti quando cadevano. Questo non solo gli rammentò che le cose per lui
avrebbero potuto andare così se non fosse stato per le vicende passate, ma gli
fece venire anche in mente del doloroso aggiornamento che aveva da dare al
Governatore riguardo ad una nave pirata e al suo barbarico equipaggio.
Finalmente un maggiordomo gli
comunicò con voce discreta e modulata in modo da non insidiarlo che il
Governatore era pronto per riceverlo. Con sollecitudine Norrington si fece
avanti oltre alla porta della biblioteca-studio che avevano sempre usato per i
colloqui, e non poté fare a meno di sentirsi sollevato quando constatò che
Elizabeth era assente.
Swann lo accolse con il suo
sguardo gioviale, impacchettato e incartapecorito nei suoi abiti nobili e nella
lunga parrucca brizzolata.
- Governatore Swann, - esordì
Norrington dandosi al cerimoniale di saluto. Mentre inclinava leggermente il
busto in avanti, non poté fare a meno di udire ancora quelle allegre voci
infantili.
- Commodoro, - fece, a sua volta,
il Governatore.
Seguirono istanti di lungo
silenzio. Le frasi che Norrington si era precostruito non gli servirono a molto
perché non si adattavano al caso in cui entrambi ammutolissero, ma
fortunatamente la sua abitudine ad essere un uomo per bene e ligio al suo
dovere gli fece trovare le parole giuste.
- Le notizie che porto non sono
buone, - iniziò con indifferenza il Commodoro Norrington, ignorando le grida di
bambini, portatrici di ricordi e supposizioni grottesche e spaventose, secondo
quanto aveva da dire. - Non riusciamo a tracciare la rotta della nave pirata
chiamata “Coleridge”. Non possiamo sapere dove colpiranno. -
- Non è l’unica nave pirata che in
questo periodo appare un po’… come posso dire?... sfuggevole… non è vero, Commodoro Norrington? -
Norrington ondeggiò impettito e
rigido, lievemente interdetto. Fortunatamente quella variante del discorso
l’aveva prevista con discreta facilità.
- In verità, Milord, la Perla Nera
passa a ben ovvie ragioni in secondo piano… - sillabò, con una nota decisamente
evidente di acredine che non riuscì ad evitare, come se avesse avuto la bocca
inasprita dal limone.
- Eppure la pirateria è da
prendere in seria considerazione, senza prevalenze, - arguì il Governatore, e
Norrington si scoprì irritato dal tono ancora troppo semplice e leggero del
vecchio Swann.
- Ma le vite umane sono ben degne
di prevalenze. - osò contraddirlo Norrington, forte della sua posizione in
effetti di poco inferiore a quella del Governatore, - La Perla Nera a livello
umano non ha causato tutti i danni della Coleridge. - Norrington controllò
l’espressione del Governatore, per accertarsi che lo lasciasse parlare, poi
proseguì. - I pirati della Coleridge non esercitano i vari crimini della
pirateria in sé stessa, ma piuttosto sono semplicemente… dei rapitori. -
- Conosco la storia, - lo
interruppe bruscamente il Governatore Swann. - Non ho intenzione di sentirla
ancora. -
- Sarebbe necessario, - suggerì
Norrington. Non poté rendersi conto se il suo tono di voce fosse stato
addolorato o magari leggermente soddisfatto. Certo il Governatore Swann era
rimasto turbato dal sentire nominare ancora i rapimenti particolari della
ciurma della Coleridge, e doveva aver pensato al suo nipotino. Di nuovo
Norrington non riuscì a fare a meno di provare ad immaginarsi come padre di
quel nipotino e come marito di Elizabeth Swann. - I rapiti sono innumerevoli,
ormai. In un frangente come questo siamo tutti a rischio, anche qui a Port
Royal. -
- Avete ragione, - convenne il
vecchio Swann, - Ma vedete, alla mia età è molto difficile sostenere certe
storie senza vacillare e, resti detto tra di noi, non gradirei molto
dimostrarmi spossato e nauseato in presenza di un’ufficiale del vostro livello,
Commodoro. Quando si raggiunge la mia età, come dicevo, non c’è niente di
importante come i propri nipotini. - Norrington strinse i pugni. - E non riesco
proprio a concepire come possano quei pirati indegni della fede di Dio rapire
soltanto bambini! Innumerevoli bambini! E non riportarli mai più indietro! -
A quelle parole dette con tanta
foga da parte del tranquillo Governatore, ritenuto ormai pacioccone come un
vecchio tricheco, perfino Norrington fece un passo indietro con una gamba per
sostenere il proprio peso. Swann abbandonò la discrezione e si lasciò
letteralmente rotolare su una sedia, dietro il suo ampio banco di studio.
- Questi infami vanno fermati… Ma
non mi risulta che fino a questo momento siano state prese misure sufficienti a
garantire la salvezza. -
Anche quelle parole di Swann
furono come una pugnalata. Norrington non sapeva esattamente se a rammaricarlo
fosse l’idea di poter perdere la posizione o di lasciare che l’equipaggio della
Coleridge facesse razzie di bambini in ogni città costiera che si trovava dinanzi.
Era anche vero che non seguivano una rotta precisa, e spesso, misteriosamente,
riuscivano anche a navigare del tutto controvento. Non avevano mai tempeste sul
loro cammino, né vortici tropicali, né giorni di eccessiva bonaccia che erano
sempre molto dannosi per le navi. Sembrava che la Coleridge volasse. Sì, doveva
essere proprio così: fluttuava a poca distanza dal pelo dell’acqua e se ne
andava ovunque volesse, sviando e distanziando la marina britannica e
proseguendo nella sua terribile serie di rapimenti.
- Eppure l’ultima volta che
abbiamo veduto la Coleridge voi stesso avete affermato che doveva trattarsi di
un vascello robusto ma non velocissimo… - riflettè Swann a voce alta, come se
lui e Norrington avessero seguito la medesima linea di pensiero.
- E’ così, - annuì Norrington,
intrecciando le mani dietro la schiena e inchinandosi nuovamente, - Abbiamo
valide ragioni per crederlo, signor Governatore. La sua forma, e il legname
probabilmente utilizzato… E deve avere un carico… ingente… Non dev’essere
senz’altro inafferrabile. Non più della nostra Mary Stuart. -
- Eppure sembra esserlo. -
- Signore… -
- No, Commodoro Norrington, - lo
interruppe il Governatore con un gesto della mano fin troppo eloquente.
Sventolò ancora per qualche istante il palmo della mano destra di fronte ad un
impaziente Commodoro, poi si rese conto che in effetti quest’ultimo non aveva
più aperto bocca, e lasciò andare il braccio su un fianco pasciuto. Norrington
attese qualche istante, poi aprì bocca per parlare, ma il Governatore lo
interruppe ancora una volta, alzandosi in piedi di colpo con la sua faccia più
gioviale.
- Elizabeth! Ah, cara Elizabeth! -
Norrington, per quanto seccato,
s’irrigidì come l’albero di una nave. Spingendo delicatamente la porta, Elizabeth
Swann raggiunse suo padre, accompagnata da un’altra piccola sagoma che il
Commodoro fu in grado di distinguere solo quando uscì dall’ombra dell’ampia
gonna di sua madre per venire illuminata dalla luce che proveniva fioca da
dietro le tende.
Un bambino. Non doveva avere più
di quattro anni. I capelli a metà fra il biondo e il castano erano corti e
leggermente ondulati. Sul volto del giovane William Turner scintillavano,
vispi, gli occhi di sua madre Elizabeth.
- Vi ho interrotto, padre? -
domandò Elizabeth come le era stato insegnato, nonostante non si sentisse
veramente così colpevole.
- Nient’affatto, Elizabeth! -
rispose il padre, per niente interessato al fatto che fossero stati
effettivamente interrotti. - Non erano questioni sufficientemente importanti,
bambina mia… Qual buon vento? -
- Niente, padre… ero soltanto
venuta a farvi visita, - disse nervosamente Elizabeth, tenendo per mano il
giovane figlio.
Norrington vide che l’imbarazzo
sul volto di Elizabeth era almeno pari al suo, e decise che in fondo non
sarebbe riuscito ad ottenere dal Governatore un aiuto concreto in quella
guerriglia alla pirateria. Non in quel momento… né in nessun altro momento. Il
massimo che il Governatore poteva fare, o poteva degnarsi di fare, era
complimentarsi col Commodoro quando un altro pirata penzolava esanime dalla
forca, nonostante il vecchio Swann non avesse contribuito alla sua cattura
tanto da poterne essere soddisfatto.
- Milord… - esordì il Commodoro
per richiamare nuovamente l’attenzione su di sé. Il Governatore si voltò
tranquillamente, troppo preso dai giochi con il nipote seduto sulle sue
ginocchia per dare il giusto peso al tono grave di Norrington. - Se non avete
alcuna disposizione… -
- Oh, non preoccupatevi, James!
Saremmo grati di avervi a pranzo, se permettete! -
Il tono di voce indicava
perfettamente con il Governatore, come sempre, non gli stava chiedendo di restare a pranzo, glielo
stava semplicemente ordinando.
Fortunatamente la vista del nipotino e della sua giovane madre avevano
ingentilito a sufficienza Swann da non fargli interpretare la sollecitudine di
Norrington come una mancanza di rispetto.
- Non è mia intenzione arrecarvi
disturbo, - rispose Norrington, inchinandosi di nuovo, ma sempre più rigido. -
Il mio dovere è proteggere il popolo della Corona, mio signore, non banchettare
con esso. - Norrington uscì rapidamente, mantenendosi impettito e lasciando la
porta aperta.
Elizabeth fu la sola a rendersi
conto dello strano atteggiamento del suo ex promesso sposo, e quando chiese al
distratto vecchio padre di che cosa avessero parlato di così sconcertante,
questi era troppo intento a proteggere la sua preziosa parrucca dalle grinfie
del curioso nipote per prestarle attenzione.
Su Port
Royal tramontava un sole sfavillante, ma la vita frenetica della bella
cittadina di mare non era ancora spenta, anzi, sembrava destinata ad animarsi
ancora di più fra le casette delle classi inferiori. Così almeno, il vecchio
Barty amava chiamare quel ceto che, da pochi mesi, si era dimenticato che fosse
anche il suo.
Nell’affollata
bottega Barty si ostinava a dire che c’era sempre lavoro ed era inammissibile
il riposo, nonostante fosse passato molto tempo dall’ultima volta che avevano
avuto un cliente. Immerso nei suoi fogli di pergamena, la sua mano di
cartografo ormai tremante di vecchiaia tracciava linee costiere ancor più
frastagliate di com’erano già. Il suo aiutante se n’era andato da un pezzo e lo
stomaco di Barty reclamava una sontuosa cenetta, pur sapendo di non potersela
permettere. Del resto, non c’erano molti falliti chiamati Bartholomew da quelle
parti, e per lui il suo nome nobile rappresentava già il permesso di accedere a
una situazione migliore. Ignorare l’evidenza era la sua specialità. Forse però
era solo incapace di dimenticare quel lunghissimo, felice periodo in cui era
stato tanto ricco e benestante, sosteneva, da fare invidia al Governatore
stesso.
Barty si
alzò placidamente dalla sedia, arrancando sul suo tarlato bastone da passeggio.
Zoppicando dalla sedia fino alla porta alla sua destra, un percorso assai breve
che richiese discreti venti minuti, Barty imprecò numerose volte per quella
sciocca ragazzina che non si faceva mai trovare.
Ma quando
il suo braccio dalle ossa piuttosto ritorte spalancò la porta sulla stanza
della domestica, Barty trovò che la caotica stanzetta era vuota. Numerose tele
giacevano ovunque, al muro, sui mobili e sul pavimento, coperte da grossi pezzi
di stoffa pesante. Ma della cameriera nessuna traccia. Barty sputò a terra e si
fermò un attimo a riposare dopo la sua lunga camminata.
Chiamò a
gran voce il suo aiutante perché andasse a cercare quella scellerata, poi si
ricordò che questi se n’era andato a casa da almeno un paio d’ore e si prefisse
di aumentargli l’orario di lavoro, anche se i soldi per lo stipendio non glielo
permettevano.
Si arrese
all’idea di farsi una lunga passeggiata per Port Royal, alla ricerca di quella
stupida Livingstone.
*
Il disco
arancione del sole al momento del tramonto era circondato di tante nuvole
variopinte, dal viola al giallastro e dall’azzurro al rosa, mentre il cielo
pareva fasciato di innumerevoli fasci di seta dei medesimi colori. Alcuni
volatili stridevano inseguendosi a pelo dell’acqua limpida. Il celeste e il
verde acqua che di giorno risplendevano come perle adesso sfavillavano dei
colori del tramonto caraibico, come se il mare stesso fosse stato pieno di
tante pietre preziose che galleggiavano fra i dolcissimi e piccoli flutti.
Dal colle
sul quale Sonia si trovava era possibile dominare con lo sguardo tutta Port
Royal. Al porto era ormeggiato il degno sostituto dell’Interceptor, un vascello
da poco costruito ed inaugurato di nome “Mary Stuart”, la cui polena era una
splendida sirena accuratamente scolpita con in testa una corona la quale, se
non fosse stata di legno, sarebbe parsa quasi vera.
La Mary
Stuart non era grande come le navi che la circondavano, ma saltava senz’altro
più all’occhio per la sua forma affusolata e la perfezione con la quale era stata
fabbricata per tener fede alla fama che aveva l’Interceptor.
Dietro
alle passerelle del molo c’era il porto vero e proprio, ricco di locali, brutti
ceffi e un chiasso infernale, come ogni sera. Di giorno Port Royal poteva dirsi
benissimo un luogo “tranquillo e civilizzato” ma trascorso il ciclo del sole,
lontano dagli sguardi della Marina Britannica, il vero volto della cittadina,
come di tante altre, era ben diverso e a Sonia ricordava certi vascelli sui
quali aveva navigato e che desiderava fossero affondati al più presto.
Oltre le
case, al confine opposto al mare di Port Royal, cresceva la più intricata e
ricca vegetazione, in un turbine di colori dal verde smeraldo al rosso fuoco,
che ad ogni ora era un vero ammasso di schiamazzi prodotti dagli animali che la
abitavano.
Attraversando
un piccolo rigagnolo tramite il ponte di legno si raggiungeva una salita
attraverso la quale ci si trovava sulla stessa altura erbosa dalla quale Sonia
stava dipingendo il suo centesimo quadro.
Il
pennello di Sonia scorreva sulla tela con un che d’isterico, quasi con
disperazione. La foga dello stile di Sonia non solo aveva spelacchiato in poco
tempo i peli di bue dello strumento, ma aveva trasformato il lussureggiante
scenario marino di fronte a lei in un mare rosso intenso dal quale sorgevano
moltitudini di scheletri. Il sole che tramontava all’orizzonte era il volto del
teschio più grande di tutti e molti di quei morti viventi, resuscitati
dall’inferno immaginario, portavano una maschera sontuosa adorna di piume.
Sonia si
fermò un attimo a contemplare la sua opera grottesca e, come ogni volta, restò
disgustata del suo stesso lavoro. Lo guardò solo per qualche istante, poi quel
mare rosso che aveva disegnato si legò immediatamente a ricordi che non amava
rievocare. Trafisse la tela con un pugnale ripetutamente e, esattamente come
molti degli altri quadri, lo scaraventò giù dall’altura e sperò che il mare
dissolvesse quell’orrendo colore. Ma sapeva benissimo che entro breve sarebbe
tornata indietro a riprenderselo.
Non aveva
ancora terminato la sua autocommiserazione quando sentì frusciare sull’erba
degli inconfondibili quanto affannosi passi alle sue spalle.
Individuò
la presenza di Barty prima ancora che quest’ultimo si rendesse conto di dove si
trovasse. Era troppo abituata a percepire ed identificare qualsiasi suono o
rumore. Non poteva abbandonare la sua eccessiva tensione fisica dopo il terrore
costante che aveva vissuto negli anni precedenti. Anche se avesse provato, non
ci sarebbe riuscita.
- Ancora
qui, sciagurata? - gridò il vecchio, sputacchiando. I suoi denti ormai mezzi
staccati fischiavano e ondeggiavano quando Barty parlava così concitatamente. -
Sai che ore sono? -
- Mi
dispiace, Barty, - rispose docilmente la ragazza.
- Mi
dispiace un corno! - replicò seccamente il vecchio cartografo, - Devi ancora
preparare la cena e pulire i pavimenti! E i vetri, fanno schifo! -
- Li ho
puliti ieri, - fece notare Sonia, straordinariamente paziente.
- Fanno
schifo ugualmente! Il vento ha portato il salmastro, non lo sai? -
- Non ci
sono stati vènti forti, tra ieri e oggi. -
Barty
sbattè entrambi i piedi a terra come un bambino furioso, procurandosi un gran
dolore ai femori, dopodichè fece per tirare un colpo a Sonia col bastone da
passeggio, il quale si fracassò letteralmente su un ramo che si trovava lì
vicino e che ovviamente Barty non aveva visto. Sonia si guardò bene dall’alzare
gli occhi al cielo. Si limitò a sorridere; quel vecchio le provocava un misto
di pena e tenerezza, ma senz’altro il sentimento che prevaleva era la
gratitudine.
- Ti sei
già dimenticata di tutto quello che ho fatto per te? - protestò il vecchio con
voce lamentosa, tremante sulle sue stesse ginocchia. Sonia si affrettò a
soccorrerlo, sorreggendogli le spalle. - Se non fosse stato per me, staresti
ancora lì a lucidare il ponte di quella sudicia… sudicia… -
-
Coleridge, - concluse Sonia per lui, pensando, contemporaneamente, ma senza un
filo d’odio, che le sue sorti non erano poi molto cambiate. Se non altro non
era più il giocattolo comune della ciurma sanguinaria.
- Coleridge! - ripeté, urlando, il
vecchio, con un furore senz’altro maggiore di quello della mite Sonia Livingstone.
- Nessun padre di famiglia ti avrebbe accolto come ho fatto io! Nessun tenente!
-
Peccato
che Barty non fosse più un tenente da molto tempo, a causa della sua tendenza
ad ubriacarsi, e si era ritirato per fare una vita tranquilla. Sonia questo
preferì non dirlo. Aveva cessato con il rum da quando aveva lasciato la Marina,
e aveva vissuta la “vita tranquilla” che desiderava. Ma da un po’ di tempo, gli
affari non andavano più così bene. Non c’era più bisogno di un cartografo
esperto come Barty da quando le sue cartine si erano tramutate in linee
sbilenche ed incongruenti, a causa delle quali molte navi si erano spesso
fracassate contro una sporgenza rocciosa o erano rimaste incagliate in un
dislivello del quale Barty si era dimenticato.
- Gli
affari vanno a rotoli… - commentò Barty quando furono rientrati nella
scalcinata bottega, - E tu non fai altro che scappare qua e là! -
- Se tu
lasciassi che ti dessi una mano… -
- Una
mano! - ripeté indignato Barty, e i suoi denti vibrarono come non mai, - Tu sei
una domestica, una cameriera, non hai alcuna dote particolare! Ho già il mio
aiutante, Sonia Livingstone! Il tuo compito per ora è soltanto quello di
preparare una cena adatta al mio nobile lignaggio! -
Sonia
stavolta sopirò vistosamente, ma il vecchio era sordo come una campana,
fortunatamente. Sorrise, scuotendo la testa in modo affabile. Quella scena le
faceva una strana tenerezza. Aveva sopportato ben di peggio per indignarsi di
fronte a quella dimostrazione di senile ottusità, che al massimo poteva farla
divertire un po’.
In verità
il valido aiutante di Barty altro non era che un ragazzo costretto a lavorare
dai genitori, l’una occupata con altri cinque figli, l’altro privo di gran
parte delle gambe e sopravvissuto per miracolo. Se Sonia non aveva nessuna
dote, quel tipo ne aveva ancora meno, e la sua mano tremava come quella di Barty,
ma non certo per la vecchiaia. Almeno, riflettè Sonia mettendo un po’ d’olio
sulla fetta di pane raffermo, Tom distingueva il caffè dall’inchiostro, dote
fondamentale che al vecchio Barty mancava decisamente.
Ignorando
l’espressione disgustata che si dipinse sul volto rugoso di Barty alla vista
della sua nobile cena, Sonia si rassegnò ad uscire per lavare di nuovo i vetri.
Decisamente,
Barty non aveva idea di cosa fosse veramente perdere qualcosa.
Nel giro
di poche ore si era levato un forte vento nel quale ora la Perla Nera galoppava
come un cavallo imbizzarrito. La scarsità di rifornimenti e l’eccessiva
bonaccia di quel mese, condizioni che stavano per trasformarsi in una situazione
fatale, di colpo non rappresentavano più un problema. Il vento tirava dritto in
direzione di Greenfield Bay, una cittadina di mare ancor più fiorente e fornita
di Port Royal.
- C’è il
rischio di restare incagliati sul basso fondale, - fece notare la scura
Anamaria, facendosi di fronte al timone e al capitano Jack Sparrow. Quest’ultimo,
però, non condivise la sua preoccupazione. Guardava tranquillamente oltre le
spalle della giovane donna, e non dava segno di essere
intenzionato a risponderle. - Capitano,
- riprese lei in tono tremendamente acido, - Se andiamo avanti così la nave si infrangerà sulla barriera corallina come una foglia
nel vento. -
Al che Jack ondeggiò leggermente la testa, inclinandola di lato,
scrutando un punto dello spazio indefinibile con espressione altrettanto
indefinibile.
- Mi fido
perfettamente della Perla Nera, dolcezza, - replicò il Capitano con un ironico
tono di voce svenevole.
- Fidati
pure, - commentò sarcasticamente Anamaria, - Ma non è un buon affare restare incagliati
per giorni con i pochi rifornimenti che abbiamo, su un fondale tanto basso da
non poterci nemmeno calare una scialuppa! -
- Suvvia,
- la rimbeccò amichevolmente Jack, - Non è pensabile che una bassa marea possa
fermare noi rudi pirati le cui anime sono forgiate dal Diavolo, non trovi? -
Anamaria
alzò gli occhi al cielo invocando pazienza, ma non poté trattenersi dal
sorridere. Dopo mesi di vento debole, appena capace di gonfiare le vele scure
della Perla Nera, era bello sperimentare quella specie di piccola tempesta che
scuoteva selvaggiamente le acque azzurre dei Caraibi. Scese le brevi scale di
legno e si unì alla ciurma indaffarata per tenere a bada le vele della Perla.
Le casse sul ponte scivolavano a destra e a sinistra, sbattendo violentemente
contro le murate. Il ruggito del mare negli anfratti della costa rocciosa a occidente si sentiva fin da lì, nonostante il vento forte
estinguesse la maggior parte dei rumori medio - bassi. Il cielo era color del
fumo, e fumo sembravano quelle nuvole che si
addensavano e si attorcigliavano lassù, sospinte dal respiro del cielo stesso.
Gocce d’acqua volavano nell’aria insieme con l’odore e il sapore del salmastro,
impregnando le vele della Perla Nera che sbattevano al vento.
Greenfield
Bay ormai non era più tanto lontana, e così pure neanche i bassi fondali che la
circondavano in gran parte e che, a volte, potevano essere attraversati
soltanto a bordo di una scialuppa o di altre piccole
imbarcazioni. Soltanto il lato opposto a quello verso il quale navigava la
Perla era perfettamente percorribile anche da navi di più maestoso stampo.
Dopo
qualche ora il vento si placò e, in lontananza, cominciarono a vedersi le
sporgenze rocciose a picco sul mare. Una roccia nera, scura,
di cui era composto tutto il litorale intorno a Greenfield Bay. Sopra di
esse crescevano scheletrici arbusti rinsecchiti dal
caldo e dall’asprezza del terreno e si intravedevano le fronde delle palme,
fluttuanti al vento come ampi ventagli.
Jack fece
ormeggiare la Perla Nera in un’insenatura perfettamente riparata da venti, onde
e soprattutto sguardi indiscreti. Era possibile avvistarla soltanto passandovi
davanti. Dal momento che non era pensabile di attraversare le muraglie di
coralli e bassa marea che sorgevano sotto il pelo dell’acqua a bordo di una
nave di quella stazza, vennero calate delle scialuppe
e un paio di uomini furono lasciati sulla Perla.
Il cielo
si era un po’ schiarito e, nonostante vi fossero ancora delle nuvole, era
tornato del suo consueto azzurro limpido. Le scialuppe passarono senza
difficoltà attraverso l’ostacolo naturale a est di
Greenfield Bay. Sarebbe stato molto più semplice, ipotizzò un membro della
ciurma, sparare con i cannoni verso il paesino da lontano e poi entrarvi successivamente, in modo da non trovare ostacoli. Ma Jack era abituato ad agire in condizioni non del tutto
favorevoli, e la ciurma aveva imparato che non era altrettanto avvezzo ai
fallimenti.
Si
trattava soltanto di recuperare alcuni rifornimenti in modo da poter
trascorrere un altro mese errando per i mari, come avevano sempre fatto.
Ma se
pensavano che in questo avrebbero trovato degli ostacoli, si sbagliavano di
grosso. Il grosso del lavoro che sarebbe spettato loro, in condizioni normali, era già stato svolto da qualcun altro.
Perché Greenfield Bay aveva appena incontrato la Coleridge.
*
Il tempo
era ottimo, ma sembrava ugualmente calata la nebbia. O
almeno questo era il riflesso degli sguardi bassi dei cittadini, il riverbero
nelle loro lacrime, nei loro singhiozzi malcelati o semplicemente la visuale
era ostruita dal fumo che si levava dalle macerie delle abitazioni.
La ciurma
della Perla Nera rimase allibita.
La
risacca del mare sussurrava, lontana, contro gli ormeggi delle navi e i loro
scafi semidistrutti e ancora fumanti a causa delle cannonate. La leggera brezza
della terraferma soffiava spazzando via il fumo nero. Alcuni uomini spegnevano
fiaccamente le fiamme che stavano lentamente divorando ogni cosa si trovavano
davanti, flosci come se fossero state loro asportate tutte le ossa. Guardarono
tutti in direzione della ciurma di Jack Sparrow, e dopo averli identificati
come pirati, non si diedero neppure alla fuga. Continuarono come se niente
fosse stato, cupi, tetri come un popolo di becchini. Una donna cadde a terra,
in ginocchio, affondando il viso nelle mani, piangendo disperatamente la
perdita dei suoi bambini. Ovunque giacevano dei cadaveri: ma
da loro non era stata portata via neanche una singola, piccola goccia di sangue.
Erano stati strangolati da particolari corde di materiale plastico che venivano lanciate e, dotate di due uncini taglienti,
incollavano al muro la vittima per il collo, costringendola a morire strozzata.
Altri
civili pendevano dalla forca, e non c’era scritto il medesimo “Pirati, siete avvertiti”, che spesso si
poteva leggere in altre città di mare; c’era scritto “I loro bambini non torneranno indietro” con vernice nera ancora
fresca e gocciolante.
Alcuni
uomini e donne erano stati annegati negli abbeveratoi sudici delle bestie,
altri ancora erano morti sotto le cannonate che
evidentemente erano state sparate dopo la razzia.
Le donne
piangevano e venivano consolate dai mariti, dalle
amiche, o dai figli più grandi, troppo grandi per interessare al capitano della
Coleridge.
Piangevano
perché i loro bambini non c’erano più. E non ci
sarebbero mai più stati.
Mentre la
ciurma ancora stava camminando, sbigottita, attraverso la strada che
attraversando tutto il porto raggiungeva il confine del paesino, una giovane
madre si buttò ai piedi di Jack riversando a terra una quantità veramente
attraente di monete d’oro, farfugliando qualcosa di incomprensibile
e poi correndo via, terrorizzata. I suoi occhi erano gli occhi di qualcuno che implora pietà. E per una volta, la
ciurma della Perla Nera non si appropriò di quel tesoro, per quanto posto su un
piatto d’argento proprio di fronte ai suoi occhi.
- Corpo di un baccalà! - gracchiò il
pappagallo Cotton, - Nemico a poppa! -
Inizialmente
nessuno capì che cosa stesse dicendo Cotton, ma poi
tutti si voltarono indietro, verso il mare. Sembrava che non ci fosse niente,
ma poi là, sulla superficie cristallina dell’acqua, i cannoni fumanti e le vele
ingrossate dal vento, beccheggiava una nave dall’aspetto imponente e decisamente maestoso. Jack chiese un cannocchiale: poi il
putto dal viso infantile e le sue grandi ali scolpite che fungevano da polena
gli fu perfettamente familiare, così come il vessillo
raffigurante un teschio girato al contrario, come se stesse cadendo verso il
baso. All’inferno.
- La
Coleridge, - disse Jack deponendo lentamente il cannocchiale, e confermando
ulteriormente la certezza che tutti avevano avuto dal momento stesso in cui
avevano preso atto di quella carneficina così pulita. Come molte altre persone,
Jack Sparrow aveva visto soltanto una volta la Coleridge, e si era sempre
augurato che l’esperienza non si ripetesse.
- Sapevo
che… a lei non piacciono gli spargimenti di sangue, -
sentenziò Gibbs.
- Ma vedo che la gente, quando uccide, preferisce farla
soffrire. - fece eco un altro.
- Rapire
bambini… -
- Non a
caso la chiamano “la Balia” -.
-
Prendete quello che riuscite e andiamo, - ordinò di
colpo il Capitano, interrompendoli, con un tono di voce troppo serio e
contenuto perché potesse davvero essere il suo.
- Come,
Capitano…? - tentò di obbiettare Anamaria, guardandosi intorno. La popolazione
di Greenfield Bay non aveva più niente, era necessario
depredarla? Ma l’impassibilità di Jack la convinse di una logica che non poteva
ignorare: non era possibile andare avanti senza rifornimenti, e comunque dovevano salpare prima possibile, considerando che
la Coleridge avrebbe anche potuto abbordarli. Andava proprio nella direzione
dell’insenatura in cui avevano ormeggiato la nave, e poi il bottino che avevano
recentemente ripescato dall’Isla de Muerta, per chiunque si sarebbe
rivelato un’occasione particolarmente ghiotta.
Muti come
tombe, aggiungendo silenzio ad altro silenzio, i pirati della Perla Nera fecero
razzia di ciò che era rimasto a Greenfield Bay, senza che la popolazione di quest’ultimo
porticciolo avesse la minima forza o volontà di opporsi.
Il suono
cristallino di un flauto traverso percorreva l’infinito della distesa d’acqua.
Un bellissimo strumento d’argento. Proveniva dalla Coleridge. L’aria vibrava della sua intensa melodia, tutto il mondo vivente pareva
in ascolto. Poi, la Balia cessò di produrre la sua melodia, e si rimise la
maschera. Il meriggio intorno a loro era tranquillo e ora, grazie al flauto, il
vento era propizio e le vele gonfie. Il loro compito anche per quel giorno era
giunto al termine. Ed era proprio questo il peggio.
La ricca
maschera adorna di piume che nascondeva completamente il viso della Balia aveva una sola espressione: perciò non era possibile
definire con quale sguardo il Capitano della Coleridge stesse fissando il mare
da lunghissimi, interminabili minuti. Ma a nessuno della ciurma interessava
particolarmente sapere che cosa passasse per la testa
al loro Capitano. Si erano sempre limitati ad eseguirne gli ordini e l’avevano
fatto con la riluttanza più estrema. La Balia sapeva
benissimo che erano vicinissimi all’idea di ammutinarsi, ma non lo avrebbero
mai fatto, avevano troppa paura del suo patto ultraterreno. In ogni caso, era
ben consapevole che la sua stabilità al comando dipendeva da quella maschera, e
quindi non se la sarebbe mai tolta.
Nel
frattempo, mentre la ciurma di affaccendava con le
cime per tenere a posto le vele, la Balia stringeva il suo flauto nel pugno destro
e osservava l’inconsueto spettacolo di un albatro che volteggiava sopra le loro
teste, attirato, come sempre, dal suono dello strumento d’argento che lei aveva
appena cessato di suonare.
Rowena
scrutava con occhio di lince ogni possibile movimento alle sue spalle, e
intanto trovava il tempo di ammirare la magnificenza della sua nave. L’angelo
bambino con le grosse ali spiegate a prua, il teschio capovolto sul loro enorme
vessillo, il tappeto rosso che veniva steso ovunque
lei avesse intenzione di camminare… Decisamente la Coleridge era molto
migliorata dall’ultimo capitano.
- Con i
bambini abbiamo finito, Capitano, - annunciò una voce alle sue spalle. Rowena sapeva
che si trattava di Gabrièl, suo “fedele” sovrintendente,
ma riuscì comunque a sobbalzare. Il suo corpo era
costantemente teso, nonostante ostentasse quella tranquillità e quella
risolutezza che tutti i Capitani devono avere.
- Quante
botti? - domandò Rowena.
- Cinque.
-
Il Capitano annuì lentamente, molto lentamente. Erano davvero pochi, allora.
- Non
sarebbe meglio depositarle a terra? Siamo troppo pesanti con tutto questo
liquido a bordo. -
- No, non
ancora, - ringhiò la Balia, continuando con lo sguardo a percorrere il tragitto
della spuma marina. - Qualcuno potrebbe trovarle e scambiarle per bevande, o
gettarne via il liquido. Tu sai che io ne ho bisogno. -
Gabriel
annuì: dietro il suo rispetto fasullo si celavano
l’odio più puro e la consapevolezza che, alcuni anni prima, quando ancora
quella tipa non era niente, non
avrebbe mai osato darsi tutte quelle arie da imperatrice. Ma
non c’era niente da fare: ormai era lei il Capitano.
-
Nascondi quelle manacce, Gabriel, - intimò il Capitano, e il francese si
affrettò a intrecciare la mani dietro la propria
schiena, spargendosi sulle vesti il sangue di cui erano macchiate. - Appena puoi ti suggerisco di lavartele. -
- Sarà
fatto, Capitano, - sibilò Gabriel con una delle sue intonazioni più melliflue. Indovinava
perfettamente la tensione di Rowena nel toccare quell’argomento, pur non avendo
mai compreso il motivo di quell’agitazione. Era soltanto sangue.
- Dimmi,
Gabriel… - fece Rowena cambiando bruscamente argomento. Per quanto era possibile capire dalla maschera veneziana, sembrava che
stesse guardando intensamente l’alta costa rocciosa di fronte a sé. - … quante
persone possono esserci a bordo, laggiù? -
Gabriel
aguzzò gli occhi, ma dovette arrendersi: Rowena aveva vissuto per anni nel
terrore più completo al buio di una stiva, e i suoi sensi si erano estremamente acutizzati. Le poche volte che saliva sul ponte
riusciva ad avvistare una nave in lontananza molto prima degli altri,
spaventata com’era all’idea di un arrembaggio, e così fu anche quella volta: la
Balia aveva visto la Perla Nera molto, molto prima che anche Gabriel riuscisse
a rendersene conto.
- Non più
di cinque, - constatò Gabriel, osservando attentamente
la nave e notando che le scialuppe non c’erano, - Senz’altro meno. Il fondale è
basso dalla loro parte: avranno ormeggiato la nave al coperto per raggiungere
il porto con le scialuppe. -
Rowena si
voltò lentamente verso Gabriel, che ancora osservava la Perla Nera schermandosi
gli occhi con la mano per proteggerli dal riverbero, ed il Capitano non poté
fare a meno di notare lo sguardo avido che si celava dietro agli occhi acquosi
del francese.
Rowena
non ci fece caso. Sospirando intensamente ed inclinandosi all’indietro, come un
uccello che sta per prendere il volo, alzò lo sguardo verso il cielo,
ipnotizzata dal lento volo del gigantesco albatro. Dondolava le gambe come una
bambina annoiata, del tutto rapita da quello spettacolo. La lunghissima chioma
bionda che sgorgava come una cascata da dietro il volto inespressivo e un po’
grottesco della maschera si agitava nel vento come un
gonfalone. Era straordinariamente liscia, lucida e ben pettinata per
appartenere a una pirata, e questo Rowena lo sapeva
bene: non era una di loro, e non ci teneva ad esserlo.
Gabriel
osservò disgustato il suo Capitano in quell’atteggiamento così infantile e
contemplativo, poi gridò al suo equipaggio che quel giorno avrebbero fatto un
ottimo bottino. Mentre i pirati accorrevano verso il
tribordo, per controllare quale nave sarebbe stata finalmente la loro vittima,
Gabriel si voltò verso il Capitano per rendersi conto se era riuscito ad
irritarla dando un ordine senza il suo permesso: ma dovette farsi vincere dalla
rabbia, perché Rowena non si era nemmeno accorta che aveva parlato.
-
Assaliremo quella nave, - sentenziò Gabriel facendosi all’orecchio del
Capitano, il quale finalmente si volse verso di lui con quella lentezza di
gesti che aveva imparato a terrorizzare il francese. - La Perla Nera. -
-
Assalitela, - approvò Rowena. La ciurma rimase sbigottita da quel consenso che
non si sarebbe mai aspettata, e Gabriel, che aveva sperato di irritare Rowena,
si stava torcendo le mani, rabbioso. L’equipaggio non aveva ancora iniziato a
gioire, che Rowena parlò di nuovo. - Ma non con la Coleridge. -
I sorrisi
diabolici si congelarono sui volti rovinati dal mare dei pirati, per poi tramutarsi
in smorfie deluse, o forse cariche d’odio.
- Non
mettiamo le mani su un bottino accettabile da quasi un anno! - protestò
qualcuno.
- E’
vero! E’ vero! - gridarono altre voci dalla calca.
- Li
sentite, Capitano? - commentò acidamente un Gabriel decisamente
soddisfatto di sé stesso, - Reclamano l’azione! Il sangue! L’assalto! Forse voi
non amate l’ideologia, ma noi siamo pirati, lo eravamo prima del vostro arrivo
e tali resteremo anche quando ve ne andrete! -
Dalla
ciurma si levò un unico grido. Tutti erano con Gabriel, ma non potevano
ribellarsi al loro Capitano, e dovettero tacere quando questa alzò la mano, in
un gesto ironico che reclamava la parola.
- Vi
offro una città al giorno. Due, forse. Vi offro tutto
il sangue che desiderate. Sangue innocente… candidi bambini. Ve ne nutrite… come gli orchi delle fiabe. - disse Rowena. Le
sue parole erano talmente lente e magnetiche da far rabbrividire tutta la
ciurma, ma fu solo un breve istante. - Ed è qualcosa
di più che un semplice tesoro, non la pensate anche voi così? O forse, vi apporta notevole soddisfazione sottrarre un
bottino da quelle due o tre persone di guardia che vi opporranno relativa
resistenza? Io credo di no. -
Nessuno
osò parlare. Tra una frase e l’altra di Rowena c’erano sempre grandissime
pause, e per lunghi istanti tutti tacevano, nel terrore di interromperla. Anche
se non era propriamente di lei che avevano paura.
Appurato
che Rowena aveva cessato di parlare, Gabriel la fronteggiò ancora con un
coraggio che faceva senz’altro invidia e generava
rispetto agli occhi degli altri pirati della Coleridge.
- Ci
accolliamo ogni compito ingrato al posto vostro, e lo facciamo di buon grado,
se è per adempiere ai vostri ordini, - mentì Gabriel, -
Ma anche noi vogliamo qualcosa in cambio. Ed in questo
momento, vogliamo la Perla Nera. -
Rowena lo
fissò, o almeno così si poteva desumere dalla posizione verso cui era orientata
la sua maschera, ma in realtà i suoi occhi erano ancora puntati verso il volo
del candido albatro.
Gabriel
impiegò lungo tempo per rendersene conto. Dopodiché, Rowena
scoppiò a ridere, una risata fredda che gli torse le viscere come la morsa
d’una tagliola. La sua risata durò a lungo, ancora molto a lungo. Quando
si calmò, ormai era chiaro che la Perla Nera era
spacciata.
*
Una
grossa sporgenza di roccia nerastra ostruiva la visuale dalle scialuppe; oltre
quel torrione di pietra a picco sul mare era ormeggiata
la Perla Nera, e la ciurma si aspettava come sempre di trovarla lì, tranquilla,
un po’ oscillante sui flutti. Ma l’incontro indiretto
con la ciurma della Coleridge aveva gettato addosso a loro un alone di tensione
tanto spesso che si sarebbero aspettati l’arrivo anche di uno di quei
leggendari serpenti marini, pronto a sbranarli tutti e distruggere la Perla.
Non si sbagliavano poi tanto.
La
Coleridge era scivolata veloce come un lampo fino all’insenatura che custodiva
la Perla Nera, ed era apparsa di colpo, col vento perfettamente favorevole
grazie al flauto d’argento. Veloci e silenziosi come un serpente
di mare.
Quando però la ciurma della Perla, vedendo dalle scialuppe una colonna
di fumo levarsi verso il cielo, si distrassero dai loro pensieri e fu allora
che udirono delle urla. Jack scattò in piedi, proteso verso il
cielo come una statua. Impossibile quantificare la sua indignazione. La Perla
Nera era completamente indifesa, e appunto per questo motivo stava subendo
facilmente un arrembaggio.
Bastò un
suo sguardo, e le incitazioni furono totalmente inutili, affinchè la ciurma prendesse a remare con un vigore mai visto.
E la
Perla Nera era là, di fianco alla Coleridge. Quest’ultima era decisamente più grande della Perla, anche se la sua forma
non era delle più slanciate e adatte alla velocità. La colonna di fumo, come la
ciurma aveva previsto, si levava dall’albero maestro della Perla Nera, al quale
era stato appiccato il fuoco.
Raggiungere
la Perla e salirvi a bordo fu un tutt’uno della ciurma. In un attimo stavano
già dando furiosamente battaglia ai sanguinari pirati della Coleridge, non
particolarmente allenati a quel genere di cose. I due uomini lasciati a guardia
della nave di Jack giacevano a terra. Strangolati.
Jack
intravide una figura spettrale avvolta in trine e pizzi scrutare l’assalto da
dietro le fessure di una maschera. Rowena la Balia. Quasi a volerle lanciare un
messaggio, cacciò un grido selvaggio e infilzò un pirata avversario che stava
portandosi via una dose ingente di tesoro, e poi con la pistola ne uccise altri
due che avevano già raggiunto il loro capitano. Rowena non fece una piega.
L’albatro fluttuava ancora sopra di lei, e lei sapeva che questo poteva
significare soltanto fortuna. Si tolse il grande
mantello nero e vi avvolse i due cadaveri, ordinando ad un mozzo di buttarli
immediatamente il mare.
Così
Rowena faceva con qualsiasi cadavere che potesse
portare macchie di sangue.
Jack
rimase quasi deluso dalla mancanza di sensazioni che la statua Rowena sembrava
dimostrare, ma volle credere che si trattasse solo di un’apparenza dettata
dall’abitudine. Non era la prima volta che si trovava di fronte a un caso simile, in fondo. Lanciò una rapida occhiata alla
sua ciurma, e li individuò immediatamente: stavano avendo la meglio. Era fin
troppo evidente che i pirati della Coleridge non davano
l’arrembaggio ad una nave da molto tempo, e la Perla Nera non era un nemico
così scarso da meritarsi l’esclusiva dopo tanti mesi di tranquillità.
L’albatro
fischiò, stridette, e questo fu come un segnale. Rowena aveva già impugnato il
suo flauto, e la ciurma riconobbe che era quello il
momento di andarsene. Saltarono sulla Coleridge nello stesso istante in cui la
melodia del flauto traverso iniziava, tersa e magica come un tramonto. Sembrò
che il vento cambiasse di colpo, ma a modo tutto suo: una forte ventata fece
sollevare un gigantesco e improvviso cavallone che, se spinse violentemente
verso la roccia la Perla Nera, rischiando di
sfracellarla, sortì l’effetto contrario sulla Coleridge: sulle ali del vento,
la Balia si allontanò gettando in mare chiunque sanguinasse, candidamente
incurante di tutti gli uomini che aveva perduto a causa dell’esperto equipaggio
della Perla Nera. In fin dei conti, se qualcuno ci aveva rimesso, era soltanto
Gabriel.
-
Signori, - annunciò Jack Sparrow sollevando il braccio destro, la cui mano
impugnava la spada dalla lama insanguinata, - Alle botti! La Coleridge è in
fuga! -
Altissime
grida risuonarono nell’eco dell’insenatura fin quando non si fusero in un unico
boato. Sotto la perla, squali e piccoli pesci divoravano i resti dei morti,
immersi in un’intensa colorazione rosso sangue, mentre la ciurma della Perla
Nera stappava le botti di rum per festeggiare la facile vittoria. Si
domandavano tutti quale fosse il segreto della Coleridge, come avesse fatto a
raggiungere così velocemente la loro nave, sfidando il vento contrario… ma
erano troppo presi dai festeggiamenti per dedicare attenzione a uno di quei tanti, innumerevoli misteri di mare.
Gli echi della tragedia di Greenfield Bay non avevano
impiegato molto tempo per raggiungere Port Royal, e ora erano sulle bocche di
tutti, miserabili ed aristocratici. Si mormorava che i Corsari della Regina
fossero stati inviati verso i Caraibi per porre fine a quei massacri
ingiustificati, ma non tutte le navi riuscivano ad attraversare l’oceano sane e salve. C’erano i giorni di bonaccia, c’era
la mancanza di rifornimenti, c’erano le tempeste, e naturalmente c’erano anche
tutte le altre navi illegalmente pirata, che bloccavano i
corsari prima ancora che potessero raggiungere la loro destinazione.
Coloro che ce la facevano, ed erano stati al massimo due, non erano ancora riusciti a raggiungere la
Coleridge. Essa doveva procedere alla sua normale e non invidiabile velocità,
ma attorno alla nave del Capitano mascherato fiorivano tempeste, gorghi e
cavalloni come non se n’erano mai viste. L’ultima cosa che sentivano
i corsari che sprofondavano nell’oceano con la loro nave era una candida
melodia di flauto traverso.
Proprio uno di questi corsari ciondolava seduto al banco del “Vecchio
Marinaio”, raccontando delle sue disgrazie a chiunque fosse disposta
ad ascoltarlo. All’ombra di un angolino riparato, Sonia
ascoltava senza un particolare interesse. Quell’uomo era stato vittima della
Coleridge, come molti altri prima di lui, e non sarebbe stato
certo l’ultimo. Era stato ritrovato sulla spiaggia bianca vicino
a Port Royal con una corda stretta intorno alla gola, le cui vene
bluastre ormai sporgevano dalla pelle. Era stato un miracolo se non era morto
soffocato, ucciso dalla perfezione come al solito
pulita e asciutta tipica della Balia.
Sonia sospirò, passandosi una mano
fra i capelli corti, biondi. I suoi occhi un tempo
neri e lustri come scarabei adesso erano di un grigio scuro e molto spento,
piatto. Non che fosse ubriaca: del resto, poteva permettersi di bere soltanto
acqua.
La notte volgeva al termine,
colorando l’ambiente del grigio azzurrino tipico del momento che precede l’alba. Sonia si sporse per osservare dalla finestra
le stelle ancora visibili, e non poté che rasserenarsi. Non si sentiva sicura
la notte. Era il regno dei suoi incubi peggiori, dei suoi ricordi più
spiacevoli. Quando arrivava il tramonto il suo cuore
aveva un tonfo, riconoscendo nei colori pastello gli stessi che avevano
illuminato il corpo tranciato in due dell’infimo signor Livingstone. Poi la
notte calava gocciolante intorno a lei, come un calamaio che viene
rovesciato su un quadro mal riuscito. E allora il cielo trapunto
di stelle non le appariva come uno splendido spettacolo; era il riflesso di un
incubo a occhi aperti, che purtroppo non era soltanto un miraggio, ma era la
realtà. Non le restava altro da fare che nascondersi al Vecchio Marinaio a leccarsi le ferite. Era l’unico luogo che
traspirava una sorta di atmosfera, qualcosa che la
riportava ai suoi primi due anni di vita, quando i pirati non avevano avuto
ragione della sua esistenza, quando ancora era bello navigare per i mari del
continente Americano.
E quel corsaro sventurato sembrava
fosse lì apposta per farle sentire distintamente quell’emozione, non per le
storie che raccontava. Era più il suo aspetto, o il suo tono di voce. Anche lui
un sopravvissuto, come lei, alla Coleridge, anche lui aveva vissuto l’incubo
del mare ingrato del quale aveva osato desiderare di essere
sovrano.
Sonia non riuscì a trattenere il
flusso delle sue riflessioni e così, per evitare che sfociassenell’assurdo, uscì dal Vecchio Marinaio. Attraversò la silenziosa Port Royal che tra poche
ore si sarebbe risvegliata per riprendere la solita vita, cercando di respirare
al massimo quell’odore notturno. Magari un giorno sarebbe riuscita ad
apprezzarlo; per ora ne era soltanto terrorizzata. Conosceva bene quel buio, lo ricordava, dolorosamente. Il buio nel quale aveva vissuto molti dei suoi anni.
L’intervento dei corsari
dall’Inghilterra si era rivelato del tutto inutile. Chi aveva visto la
Coleridge almeno una volta, non voleva parlare, e se parlava, non diceva nulla
di rilevante per la caccia. Il Commodoro Norrington non sapeva più dove
sbattere la testa, come egli stesso aveva ammesso di
fronte ad alcuni suoi fidati sottoposti.
Greenfield Bay era uno dei paesi
di mare più vicini a Port Royal, il quale a suo volta
era uno dei pochi luoghi che non avevano ancora subito le razzie della
Coleridge. E non ci voleva molta fantasia per
immaginarsi che presto la fortuna si sarebbe capovolta per le famiglie che
popolavano Port Royal.
Stavolta Norrington non si sarebbe
lasciato fermare dalle titubanze di un vecchio nonno troppo intento ad ammirare
i suoi nipoti per prendere in mano la situazione. Poteva essere la sua
occasione per raggiungere un gradino ancora più alto, dimostrando
contemporaneamente a ogni Inglese che si rispetti che
solo lui era in grado di porre fine per sempre all’incubo della Coleridge.
Aveva deciso di inviare soltanto
un messaggio al Governatore Swann circa i suoi intenti di dare il via ad una
controffensiva. Era certo che l’urgenza del pericolo avrebbe risvegliato
perfino il Governatore. L’attacco a Greenfield Bay aveva gettato tutti nel panico,
e se Norrington non prendeva subito gli adeguati provvedimenti, chi poteva
farlo?
- Commodoro Norrington…? - azzardò
timidamente un uomo, ridestando improvvisamente il suo superiore: voltandosi
dalla finestra del suo ufficio fino alla porta, sul lato opposto di esso, Norrington si rese conto che il suo sottoufficiale
aspettava ancora degli ordini.
- Fate armare la Mary Stuart, -
ordinò freddamente il Commodoro, scrutando di nuovo la vita fiorente del porto
che si poteva ammirare dall’altro guardando dalla sua finestra. - E voglio una piccola flottiglia pronta ad intervenire in
caso di bisogno. -
L’altro
annuì meccanicamente, con una certa fretta di andarsene. Chiunque non amava
molto parlare con il Commodoro Norrington quando quest’ultimo preparava una
controffensiva all’insaputa del Governatore, cosa che per lui era già una
specie di sacrilegio.
- Che i
cannoni siano pronti ad accogliere qualsiasi attacco! - aggiunse Norrington con
un latrato che increspò la sua voce misurata, - E’ molto probabile che la
Coleridge ci attaccherà dal mare senza avvicinarsi. Voglio tre turni di guardia
da otto ore, venti guardie sul camminamento ovest e altre dieci su ogni altro
lato. Appena la Coleridge viene avvistata, faremo
evacuare gli abitanti di Port Royal fin dentro il forte, e tenderemo un agguato
a quelle creature di Satana! -
- Funzionerà senz’altro,
Commodoro, - convenne il tenente, pur non essendo del tutto convinto. Port
Royal aveva un buon piccolo esercito ed era bene organizzata… ma chi poteva
competere contro la protezione che le tempeste tropicali sembravano offrire
alla Coleridge e al suo equipaggio?
- Non ho chiesto da te
un’informazione sulla mia probabilità di riuscita, - fece presente il Commodoro
senza risentimento, ma con un’acutissima punta di stizza. In verità non era
molto sicuro che fosse prudente trasferire numeri così ingenti di soldati sulle
navi e sulle mura, ma non aveva altra scelta.
- Date
disposizione affinchè ogni cittadino della zona portuale trasferisca i
suoi averi all’interno del forte. In caso di pericolo nessuno dovrà restare
indietro… soprattutto i bambini. -
E se ne andò,
dopo un perfetto saluto militare, lasciando il Commodoro Norrington immerso nei
suoi dubbi. In quel momento il messaggio doveva essere senz’altro già pervenuto
al Governatore, ma ora non c’era più tempo di guardarsi indietro: la
controffensiva di Port Royal stava per scattare.
Una figura si mosse dietro la
porta del Commodoro, figura che aveva sentito ogni parola restando nascosta
nell’ombra, ma Norrington parve non accorgersene; né seppe mai che Sonia Livingstone
aveva udito segretamente ogni sua singola disposizione.
- C’è movimento, giù al porto… -
Will Turner scrutava attentamente
la grande agitazione che fioriva nella zona portuale
del suo paese, cercando invano di immaginarsi che cosa ci fosse dietro
quell’improvvisa animazione.
- Ne sai qualcosa? - domandò,
rivolto a uno dei pochissimi maggiordomi della loro
nuova abitazione. Quest’ultimo alzò le spalle in modo molto educato.
- Nulla, signore, - rispose, e
Will indovinò facilmente la percentuale di bugie che poteva nascondersi dietro
quella frase che, come tutte le risposte del domestico, era sempre discreta e controllata.
- Sembra quasi che tutti se ne
stiano andando… -
Il maggiordomo proseguì incurante
nelle sue pulizie. Non era difficile tenere in ordine casa Turner. Era decisamente più piccola delle ville del resto
dell’aristocrazia di Port Royal, ricordava piuttosto una casa di ricchi
borghesi. Era situata su una collina ricca di vegetazione, poco lontana
dall’abitazione del Governatore Swann. Era stato proprio quest’ultimo a farla
costruire, per lui e sua moglie Elizabeth. Da essa si
aveva uno scorcio della zona più animata del porto, e dietro, s’innalzava
imponente il forte, con le sue mura bianco giallastre, dentro il quale
sembravano confluire tutti gli spostamenti che avvenivano giù al porto. Decine
di persone sciamavano armate di casse e carriole, trasportando ogni genere di oggetto fino, appunto, al fortino centrale.
- Sembra un’evacuazione generale… -
commentò Will Turner fra sé, a voce non troppo alta. D’un tratto però sentì una
serie di passi concitati, seppure ostacolati dall’abito, e li identificò
senz’altro come quelli di Elizabeth.
Semi strozzata dal corsetto che ancora la sua
domestica la esortava ad indossare, con la giustificazione che si trattava di
un regalo del Governatore, e che fosse quindi buona norma accettare, la moglie
di William gli fu a fianco e indovinò immediatamente che cosa avesse catturato
l’attenzione di suo marito.
- Ho appena saputo da mio padre… -
ansò Elizabeth, e Will, premuroso, si affrettò ad allentarle i nodi del
corsetto, - Grazie… Ho appena saputo che il Commodoro Norrington sta preparando
una controffensiva alla Coleridge senza richiedere il suo consenso! -
- Non l’ha presa
bene, eh? -
- No, - annuì Elizabeth sorridendo
maliziosamente, - Era paonazzo. -
Per entrambi, comunque,
il fatto più eclatante della notizia non era il fatto che si fosse agito senza
approvazione del Governatore di Port Royal: senz’altro il fattore più degno di
nota era che, almeno fino a quel momento, nessuna città si era mai arrischiata
nel dichiarare battaglia alla Coleridge.
- Dunque Norrington ha intenzione
di nascondere la gente di Port Royal nel forte, - arguì William, ma fu
immediatamente redarguito da un gesto eloquente della moglie, che si premette
l’indice sulle labbra per ricordargli che, nella stanza attigua, loro figlio stava ancora dormendo. Will si strinse nelle
spalle come se avesse appena pronunciato un’eresia, poi riprese, a voce più
bassa: - Tuo padre che cosa ne pensa? -
- Dice che è un’impresa folle, -
commentò amaramente Elizabeth, - Che nessuno può sconfiggere la Coleridge… e
dice anche che comunque non si avvicinerebbero mai a
Port Royal. -
- Come fa ad esserne certo? - si
meravigliò Will.
Sua moglie scosse le spalle. Non
sapeva altro, e neanche lei capiva il perché del comportamento del padre.
- Io, comunque…
ritengo che il Commodoro abbia ragione. -
Will non era
meravigliato di quelle parole, non le trovava strane, soltanto un po’
inaspettate. Si volse rapidamente alla sua destra, verso Elizabeth, soltanto
scoprire i suoi occhi lucidi e l’espressione di pianto trattenuto. - E’ solo
che penso… che… magari… se la Coleridge arrivasse fin
qua… cosa succederebbe a lui? -
- Liz… - Will era al metà fra il confuso e l’amareggiato. Poteva immaginare
che cosa affliggesse a tal punto Elizabeth, ma in un certo senso avrebbe preferito non saperlo, soltanto per non doversi fare
un’idea troppo pessimistica. Posò le mani sulle spalle di Elizabeth
e la strinse addosso a sé, mentre lei lottava sempre di più per respingere le
lacrime. - Sveglierai il bambino, - sorrise Will per tirarla su di morale. Il
maggiordomo pensò bene di togliere il disturbo.
I singhiozzi di Elizabeth
si fecero sempre più convulsi, fin quando non si trasformarono in una risata
che la donna non si sforzò di reprimere. Non sapeva esattamente perché le fosse
venuto da ridere a quel modo. Ma le era tornata un po’
di speranza.
Sollevando da
terra la gonna vaporosa perché non la intralciasse, corse istintivamente verso
la stanza dove suo figlio ancora dormiva, in un gesto impulsivo di controllare
che andasse tutto bene, che lui fosse ancora lì, che non c’era alcun motivo di
preoccuparsi.
Il bambino dormiva, infatti, tranquillamente nella sua culla, sommerso dai
pizzi dei suoi vestiti infantili. Le guance erano
rosee e l’espressione serena. Teneva teneramente il pollice fra i denti,
essendosi addormentato in quella posizione.
Will si fece alle spalle di Elizabeth, cingendole la vita con le braccia.
- Oh, Will… -
sospirò Elizabeth, guardando intensamente il suo bambino, - Come vorrei che
fosse un po’ più grande… soltanto un po’ più grande… -
- Non gli succederà
niente, Elizabeth, - la rassicurò Will, - Non glielo permetteremo. -
Elizabeth trasse conforto da
quelle parole, ma soltanto fino a un certo punto.
Sapeva che né lei né Will avrebbero mai permesso che
la Balia portasse via anche a loro quel dono così importante, ma era
equivalente la consapevolezza che, contro i pirati della Coleridge, ogni
resistenza fino a quel momento dimostrata si era sempre rivelata vana.
Coleridge: un nome del quale la pronuncia era più che sufficiente per
gettare chiunque nel terrore. Rowena ne era consapevole, e
sorrideva a quella situazione. Non avevano a bordo teschi non morti, mostri raccapriccianti,
resti umani rinchiusi in casse di legno, né emettevano nebbia al loro
passaggio. Non avevano niente di inquietante.
Quell’angelo a prua era perfino molto tenero. Era anche vero che il loro
carico, nelle stive, era decisamente insolito, motivo
per cui Rowena, non sopportandone l’odore, non scendeva mai nello scafo della
sua stessa nave.
D’altro
canto, pensò il Capitano della Coleridge, non c’era altra scelta per portare a
termine il compito che le era stato assegnato. Non poteva seguire altre vie se
non quella. E lui, lo spirito gemello… chissà dove si
era cacciato.
Non le
interessava saperlo. Rowena ammise a sé stessa, con rabbia e profonda
frustrazione, che la sua esistenza non sarebbe mai stata possibile senza il suo
spirito gemello. Ma chi lo aveva stabilito, poi?
Rowena era l’unica, era la sola, non apparteneva al
noma e al cognome di qualcun altro. Rowena era Rowena, era la Balia, e tutti la
temevano.
Rowena
era qualcuno; lo spirito gemello, invece, trascorreva la sua vita essendo niente. Sempre che
fosse ancora vivo.
Rowena se
ne stava tranquillamente a cavalcioni sul tronco orizzontale dell’albero
maestro, lassù, in alto: lì si sentiva, più che “qualcuno”… semplicemente
“tutto”. Era straordinariamente gratificante scrutare la massa d’acqua che la
circondava da lassù. Lo scenario forse era sempre uguale, ma riusciva sempre a
sorprenderla. Rowena scosse la testa: non ricordava di essere stata mai
sensibile a quel genere di bellezza.
Dopotutto
si trattava di un panorama affatto originale: solo acqua, e acqua ovunque
andassero, dal momento che per loro della Coleridge una vita della terraferma
non era decisamente pensabile. Per Rowena lo sarebbe
stato: non era come tutti gli altri pirati, anzi, non erauna pirata, e non aveva quella
stupida fobia filosofica della vita a terra. Semplicemente, i brocchi che si
affaccendavano sotto i suoi piedi erano l’arma
migliore per portare a termine la sua missione in modo rapido e pulito. Senza
lasciare tracce.
Al
termine del patto lei avrebbe riavuto ciò a cui anelava, e allora avrebbe anche
potuto ritirarsi per vivere da donna per bene. Ma
avrebbe davvero voluto lasciare il posto di Capitano a qualcun altro?
Rowena ci
pensò soltanto un attimo. No… sicuramente no.
-
Capitano! - chiamò l’accento francese di Gabriel. Rowena chiuse il suo libro di
letteratura marinaresca e, afferrando una cima con l’altra mano, si lasciò
semplicemente scivolare giù, dalla cima dell’albero fino al ponte, godendosi il
morbido rigonfiamento che il vento creava nella vela ocra.
- Che cosa vuoi, Gabriel? - chiese lentamente ma seccamente, -
Mi pareva di averti richiesto di non disturbarmi per nessun motivo. -
- Io non
c’entro, Capitano, - si discolpò svogliatamente Gabriel - facendo ben
trasparire il suo tono riottoso, - La ciurma vuole sapere quale sarà la nostra
prossima tappa. -
- La
ciurma dovrà accontentarsi del vento a favore, - replicò Rowena, - Non c’è
nessuna prossima tappa, Gabriel, andremo dove andrà la
marea. -
-
Vorremmo sbarcare a Tortuga, non ci troviamo a grande
distanza da lì, - azzardò Gabriel, lieto che l’espressione del suo Capitano non
si vedesse dalla maschera che portava: un volto signorile bianco come lo
zucchero, un neo dipinto sopra l’angolo destro della bocca, poi una seconda
maschera disegnata che si allargava in due ventagli simili ad ali di farfalla,
dietro i quali svettavano enormi piume di pavone. Gabriel si chiese come
facesse Rowena a portare in testa tutta quella roba.
- Vi ho
concesso di attaccare la Perla Nera, - ricordò Rowena alzando l’indice sottile
e completamente ricoperto di fondotinta bianco, tanto da formare uno strato a
sé di tintura pallidissima. - E non avete esattamente
dimostrato un ottimo controllo della situazione. Che
cosa mai potrebbe succedere se vi lasciassi liberi a Tortuga? Neppure dei cani
bastardi proverebbero invidia per voi. -
- Abbiamo
rubato una considerevole parte di tesoro. Ma comunque
la ciurma della Perla Nera era tutt’altro che inesperta, - disse Gabriel.
- Inutile
rammentarmelo, - annuì severamente il Capitano, - Non ho mai detto di essere
stata convinta che potevate sconfiggerli. Vi ho soltanto concesso di attaccare.
-
- In tal
caso, possiamo recuperare la vostra fiducia razziando il più vicino porto di
mare, e poi fare rotta a Tortuga, se ci riterrete meritevoli. -
Rowena lo
scrutò. La sua espressione si sarebbe detta divertita, se soltanto qualcuno
avesse potuto scorgerla. - Suppongo che non verrà mai il giorno in cui vi
riterrò meritevoli di qualcosa, miei fedeli sottoposti. - constatò,
voltando le spalle a Gabriel e camminando con passo leggero fino alla prua.
Come se fosse stata profondamente esausta, si sedette sul parapetto e gettò il
braccio sinistro intorno al collo del grosso putto dalle ali dispiegate,
reggendo con l’altro braccio, posato in grembo, reggeva ancora il suo libro
dalla copertina logora e le pagina a tratti bagnate
dal mare.
Gabriel
conosceva i doppi sensi e le implicazioni che era
necessario poter cogliere per sostenere una conversazione con Rowena, perciò interpretò
quell’atteggiamento come un mezzo consenso, e decise di insistere.
Le si fece alle spalle con una cartina, stando attento a non violare i confini
di vicinanza da lei tollerati.
- Ci
troviamo piuttosto vicini a Port Royal, - disse Gabriel dopo una rapida
consultazione della cartina.
- Sei diventato piuttosto patetico da quando ti ho visto la prima
volta, Gabriel, - sentenziò Rowena dopo alcuni secondi di silenzio.
Gabriel
la ignorò.
-
Possiamo attaccare al crepuscolo e dileguarci con le tenebre senza che i
cannoni del forte possano raggiungere la Coleridge. -
Rowena
sospirò intensamente, inclinando di nuovo la schiena all’indietro. Sembrava sul
punto di spirare da un momento all’altro, ma anche a questo Gabriel era più che
abituato. E comunque, sarebbe stato molto felice che
il Capitano morisse.
- Port Royal… - disse finalmente Rowena, come contemplando molto
intensamente quelle due piccole parole. - Che nome altisonante. -
- Ci
hanno già veduti una volta, - osservò Gabriel -
Episodio del quale senz’altro rammenterete. -
- Certo che lo ricordo. -
-
Stavolta sarebbe meglio agire di nascosto. Port Royal non ha un ottimo ricordo
di noi e senz’altro l’attacco a Greenfield Bay li ha messi tutti all’erta.
Dobbiamo agire con cautela. Immagino che sarebbe una buona idea
se calassimo una sola scialuppa e ci facessimo coprire la spalle dai cannoni. -
Rowena
scoppiò a ridere.
Gabriel
indietreggiò, e con lui la ciurma. La risata di Rowena era la risata sia di un
bambino candido sia di Satana, la cui pelle stessa sarebbe addirittura
impallidita, se avesse sentito quella voce tagliente
squarciare il cielo terso con quell’atroce manifestazione di un sentimento
indefinibile.
-
Scialuppe, - ripeté Rowena ancora in preda alle risa. - Niente scialuppe, mio
buon francese. Port Royal ricorda di noi come di pirati su una nave maestosa
qual è la Coleridge, e se dovessimo attaccare coperti dal rombo dei cannoni,
costretti a nasconderci, proverei vergogna per tutta
la mia esistenza! No, Gabriel! Rotta su Port Royal, e fuoco
alle polveri. -
Concluse quell’ordine, a metà con un’esortazione, con un’altra delle sue
risate. L’allegro e bifolco cicaleccio che aveva animato la ciurma di Rowena si spense immediatamente. Tutti tornarono alle loro occupazioni silenziosi come un cimitero. Gabriel
si ritrasse, contrassegnando Port Royal come prossima rotta e impartendo alcuni
ordini fiacchi al timoniere. Decisamente, non
conosceva niente di peggio del suo Capitano quand’era così divertito. Sempre che divertito fosse.
Era il
centesimo… no, almeno il millesimo
sonno agitato che era abituata a dormire da quando era
capitano della Coleridge. Da poco tempo, quindi. Due anni, o tre. Non ci aveva
mai fatto particolare caso. Sapeva soltanto che odiava la notte. La notte era
il suo incubo, la sua maggiore preoccupazione e la portatrice di tutti quei
ricordi, condivisi con lo spirito gemello, da anni e anni.
Durante
la notte, Rowena doveva dormire con la maschera e doveva tenere mentalmente un
occhio aperto affinchè nessuno riuscisse a
sfilargliela. Con la costante consapevolezza che un membro qualsiasi della sua
ciurma sarebbe stato lieto di ucciderla in quel momento di vulnerabilità.
Nessuno
voleva ammutinarsi, per la verità: troppa paura della cosa che giaceva sotto il
mare, o forse sulla sommità del cielo; insomma, qualsiasi cosa fosse, era dalla
parte di Rowena, se così si poteva dire, e se Rowena fosse stata tradita quella
cosa stessa avrebbe punito i dannati che si macchiavano di un peccato così
deplorevole.
Rowena non
aveva mai pianto.
Aveva
desiderato farlo, ma da quando una mano divina l’aveva creata nessuna lacrima
era mai sgorgata dai suoi occhi, sembrava quasi che non avesse nessuna goccia
d’acqua in corpo che potesse essere versata.
La sua
ciurma non poteva capire niente.
E
neanche tutti quelli che soffrivano quando lei portava via i loro bambini,
neanche loro potevano comprendere il motivo che si celava dietro a tutto ciò,
né si degnavano di prenderlo in analisi, di ipotizzarlo almeno. No: il suo
crimine era senz’altro spaventoso, ma che cos’era quello
rispetto a ciò che ne avrebbe ricavato successivamente, a lavoro ultimato?
Aveva un
patto.
E
nessun altro al mondo, che non fosse Satana, poteva permettersi di giudicarlo.
Fiamme si dipanavano verso il cielo terso, oscurandolo con
il loro fumo nerastro. Decisamente il quadro più bello
che Sonia avesse mai dipinto: perché quel quadro era reale. Non si trattava di una tela, di un’immagine di scarso
valore, di effetto tutt’altro che permanente. La Mary
Stuart bruciava inesorabilmente, o almeno a bruciare era quel che rimaneva
dell’esplosione: una nave appena armata viaggiava con molta polvere da sparo
nelle stive, e questo l’aveva portata ad appiccare il fuoco anche alle navi
circostanti, alle casse sul molo, alle banchine di legno.
Sonia osservava dall’alto quello spettacolo decisamente insolito. I soldati accorrevano da ogni parte,
cercando invano di porre un freno a quella devastazione, ma ormai l’intera flotta
della Marina Britannica era irrecuperabile, salvo per la Dauntless, ormeggiata
a grande distanza dalle altre imbarcazioni. Sonia fece
una smorfia. Era sempre affascinante osservare le lingue di fuoco che
saettavano in tutte le direzioni, increspando l’aria circostante col loro
calore, avviluppando in una morsa fatale tutto ciò che si trovavano intorno. Ma
soltanto il fuoco era bello di tutto quello spettacolo: quella distruzione,
tutto quel lavoro divorato dalle fiamme, il legno solido della Mary Stuart
ridotto in ceneri sprofondate sul fondale marino… era qualcosa di inguardabile.
L’unica sua consolazione era l’aver fatto il suo dovere.
Non che qualcuno le avesse affidato un compito del genere: ma se Norrington
muoveva contro la Coleridge con tutte quelle navi, le probabilità della nave pirata di restare a galla sarebbero molto calate.
Sonia non poteva permettere che chiunque toccasse la
Coleridge.
Norrington rifletteva sul recente sabotaggio e su quanto
gli aveva appena detto il Governatore. Era già abbastanza adirato per il fatto che nessuno avesse atteso il suo consenso per
far preparare la controffensiva: quando poi la Mary Stuart era esplosa anche il
Governatore Swann aveva fatto altrettanto.
Il Commodoro non riusciva neppure lontanamente ad indovinare
chi potesse essere il sabotatore. Un pirata che si
aggirava per Port Royal? Una spia della Coleridge? Ma
i pirati di solito non seminavano spie: sapevano molto bene che un bicchiere di
rum di troppo scioglieva la lingua a qualunque ufficiale.
Doveva essere andata così. Qualcuno della Coleridge aveva
corrotto o semplicemente fatto ubriacare un soldato che era a conoscenza del
piano di Norrington. Ma non si erano avvicinate navi a Port Royal,
recentemente, e questo faceva desumere che il sabotatore fosse
già nella cittadina da molto prima.
Impossibile avere una certezza. Norrington poteva solo
sperare che il criminale avesse lasciato delle prove, una prova qualunque,
anche se fino a quel momento non se n’erano trovate
alcune. L’esecuzione del boicottatore avrebbe raffreddato la bollente
alterazione del Governatore Swann, ma Norrington non poteva
neanche impiccare qualcuno alla cieca.
Poteva soltanto sperare che la Coleridge si sarebbe
lasciata fermare dall’offensiva che avrebbe ricevuto da terra, anche se le
probabilità che fosse sufficiente rasentava di poco lo
zero.
Scappare non faceva parte delle abitudini di Will Turner.
Eppure sembrava che non ci fosse scelta.
Molti avevano già lasciato Port Royal verso nascondigli più sicuri, per mettere
in salvo sé stessi, i loro averi e i loro bambini, e il Governatore aveva deciso di fare altrettanto, portando con sé Elizabeth
e il resto della sua famiglia. Will non poteva sottrarsi a quel giusto
desiderio: nessuno avrebbe voluto rimanere a Port
Royal, specie da quando era stato annunciato che la Coleridge aveva
oltrepassato l’istmo ad ovest, e stava avvicinandosi sempre più
inesorabilmente, con le correnti sorprendentemente sempre a proprio favore.
In una cavità della costa, lontana dal molo e da altri eventuali
sabotaggi, la nave del Governatore Swann era stata preparata ed era pronta a
fuggire più lontano possibile da Port Royal. Neanche il Commodoro Norrington ne era al corrente: come egli aveva osato fare con Swann,
avrebbe soltanto trovato un messaggio che lo avrebbe informato all’ultimo momento
della fuga del Governatore.
Will, sotto ordine di quest’ultimo, stava recandosi a
passo incerto dal cartografo per una mappa attendibile - anche se tutti
sapevano benissimo che Barty era troppo vecchio per fare
qualcosa di attendibile. In casi normali si sarebbero rivolti a qualcun altro,
ma il tempo stringeva e l’unico a Port Royal che
potesse fornire informazioni riguardo a quel lato della costa era Bartholomew.
Attraverso una delle più squallide
zone di Port Royal, assolata e dalle case molto basse tutte ammassate l’una
sull’altra, Will raggiunse la bottega scalcinata nella quale Barty lavorava.
Niente lasciava immaginare che si trattasse di un cartografo: l’insegna era
tanto consunta da apparire illeggibile, e per il resto l’edificio assomigliava
soltanto alla migliore fra quelle casupole orrende. Le pareti erano scrostate,
le travi di legno piene di schegge, e tutto intorno crescevano
incolte alcune erbacce. Will spinse lentamente la porta, che col tempo si era
ridotta tanto male da entrare fin troppo largamente nel suo vano, e fu assalito
dal un acutissimo odore di carta vecchia. Ovunque giacevano pergamene, distese, arrotolate, accartocciate.
Il caminetto aveva l’aria di non essere usato da un pezzo, perché ora fungeva
da tavolino secondario. C’erano uno scrittoio tarlato piuttosto ampio, sommerso
di carta, e un letto, nell’angolo della stanza. Nonostante
l’umiltà della costruzione e il disordine, non c’era un solo granello di
polvere nell’aria o sul pavimento.
Oltre all’ingresso c’erano
soltanto altre due porte. Una, chiusa, conduceva probabilmente alla
stalla col vecchio ronzino, sul retro. L’altra era semiaperta, e da essa proveniva un odore forte quanto quello della carta, ma
era odore di pittura. Will vide degli strani colori spuntare dallo spiraglio di
stanza visibile, e non seppe resistere.
Si fece avanti lentamente, quasi che avesse avuto paura di
svegliare qualcuno, e spinse anche quella porta di legno vecchio: davanti a lui
ora c’era una stanzetta decisamente angusta, piena
zeppa di quadri, quasi tutti trafitti da lame e coltelli, o recanti i segni di
alcune sassate. Raffiguravano soltanto paesaggi che senz’altro non
appartenevano a Port Royal. Colorati di rosso sangue, di blu intenso o di nero
assoluto, alcuni erano tanto sinistramente ipnotici da dar fastidio agli occhi.
Uno, che doveva essere il più recente, era dipinto su un foglio di pergamena,
probabilmente in mancanza di tele. Will era certo che quello fosse un paesaggio
esistente: era il molo di Port Royal con le navi che bruciavano.
Incurante del fatto che il
proprietario poteva tornare da un momento all’altro, Will decise di provare le
sue ipotesi: doveva scoprire la verità. Aperta la porta sul retro, raggiunse come
previsto la stalla puzzolente. Il vecchio cavallo ben strigliato stava
tranquillamente cospargendo il fieno circostante dei propri bisogni. Will non
impiegò molto a scorgere, in un angolo, alcuni recipienti vuoti che puzzavano
ancora di pece.
Proprio in quell’istante Will sentì il cigolio dei cardini
rugginosi della porta d’ingresso e si precipitò fuori dalla
stalla, guardandosi dal chiudersi l’entrata alle spalle. Avrebbe fatto il giro
da dietro e sarebbe rientrato come un normale cliente, facendo finta di niente.
Non c’era dubbio, tuttavia, riguardo al colpevole del
sabotaggio: Bartholomew aveva bruciato e fatto esplodere la stiva della Mary
Stuart.
*
Il rullo dei tamburi riempiva l’aria della piazzola
dell’esecuzione.
Poche persone vi assistevano, in verità. Non che fosse un’esecuzione di vitale importanza. Per motivi
formali, più che altro, era presente l’aristocrazia di Port Royal, tra cui
ovviamente il Governatore Swann, che aveva presentato l’accusa diretta a
Bartholomew. Will aveva taciuto, affatto convinto che il vecchio c’entrasse
qualcosa, ma aveva commesso l’errore di lasciarsi scappare ciò che aveva visto
parlandone con Elizabeth in casa Swann. E adesso il presunto colpevole
dell’incendio sulla Mary Stuart stava, ingobbito, con cappio alla gola, in attesa che il banditore terminasse la declamazione dei
suoi crimini.
- Siate ragionevole, signor
Governatore! - tentò ancora una volta Will, cercando di richiamare l’attenzione
del Governatore su di sé prima che fosse troppo tardi -
E’ un povero vecchio! Per incendiare la Mary Stuart senza che nessuno se ne accorga ci vogliono agilità e passo silenzioso! -
Il Governatore riflettè sul fatto che senz’altro Barty non
era dotato di quelle caratteristiche, ma era deciso a portare la cosa fino in
fondo. Gli altri nobili, dal canto loro, non avrebbero mai dichiarato un errore
burocratico, rischiando una colossale pessima figura.
- A me sembra, William… - disse il Governatore, - Che abbiate una certa inclinazione
per tirar giù i condannati dal patibolo… Ma è anche vero che voi stesso avete
visto i secchi di pece nella stalla del vecchio Bartholomew. -
- Ma chiunque potrebbe averceli
messi! Non ho mai accusato quell’uomo! -
Elizabeth si protese verso il
padre con sguardo gelido ma speranzoso, ma questo non lo commosse a
sufficienza, come non commosse Norrington.
- Chi dovrebbe essere stato, dunque? L’aiutante? - arguì
sarcasticamente il Commodoro, indicando con un cenno del capo le prime file
dinanzi alla forca. Effettivamente Tom non aveva un’aria sufficientemente
intelligente per poterlo accusare di un’azione così macchinosa. - O magari la domestica? - aggiunse Norrington godendosi,
segretamente, la leggera smorfia dipinta sul volto di Will. Anche
Sonia aveva un’espressione affatto accusabile di sabotaggio. I suoi occhi gonfi
e arrossati piangevano lacrime abbondanti. Le mani dalle dita incrociate sul
petto e la posizione dritta e tesa le davano un’aria colpevole ma, soprattutto,
profondamente distrutta. Sembrava semplicemente triste per la morte di Barty.
Il cartografo, però, con quell’espressione costantemente
torva di uno che ha veduto i più terribili venti del
mare caraibico e che ha affrontato i peggiori pirati in esso circolanti,
sembrava decisamente più affine all’accusa. E anche sulla
forca, Barty manteneva il medesimo grugno e la medesima ostinazione, nonostante
la vecchiaia l’avessero ridotto ad un rottame.
D’un tratto, la voce del banditore
si spense. Di scatto. Sonia sobbalzò. Non se lo aspettava. Non poteva vedere
quel povero vecchio macchiato ingiustamente di cospirazioni ed alto tradimento
ciondolare dalla forca, non quella schiena contorta, non quegli arti
striminziti di una mummia, non quegli occhi lustri e malati. Come quelli di suo
padre.
Era tardi per opporsi: il boia aveva tirato
la leva. La botola s’era aperta.
Il vecchio si dibatté. La sua espressione apparentemente
immutabile divenne un ghigno di puro terrore, poi di rassegnazione, poi ancora
di foga speranzosa di poter vivere. Ma la corda era
stretta attorno al suo collo grinzoso e la sua figura ritorta si agitava in
vano. Passarono pochi minuti, poi Sonia, disgustata e terrorizzata, abbassò lo sguardo e corse via, lontano di lì.
La cenere svolazzava e rotolava al vento, sul molo di Port
Royal. Il cielo era grigio, e questo, in un certo senso, era
stato interpretato come un brutto segno. Già un’altra volta, più di un anno
prima, il vento era giunto all’improvviso, il cielo si era ingrigito ed era
giunta una piccola tempesta: quegli avvenimenti avevano coinciso con le
cannonate che la Perla Nera aveva sparato su Port Royal. E ora sembrava che
quella caricatura in piccolo di un tifone tropicale rappresentasse l’estrema
vicinanza della Coleridge, e cioè delle tempeste che
sempre la circondavano.
Non c’era un’anima né al porto né
per le strade più interne. Se ne stavano tutti in casa, rannicchiati come topi
timorosi del gatto. I soldati sembravano risentire della medesima tensione;
s’aggiravano ovunque, sui camminamenti, controllavano i cannoni, le armi,
scrutavano costantemente l’orizzonte.
Da ore la situazione andava avanti
così, ma della Coleridge neanche l’ombra. Eppure
l’ansia non voleva saperne di allentarsi. Il corpo del vecchio era stato
rimosso da tre giorni dal patibolo, che ora ciondolava fiaccamente al vento. Le
fronde delle palme sembravano fluttuare, oltre i tetti delle case, in un cielo
grigio perla. Poi, un bellissimo albatro solcò il cielo. Uno spettacolo
insolito.
Sonia stava completando l’ordine
che era stato richiesto al vecchio, prima che morisse. Aveva corretto alla meno peggio le linee storte della costa tracciate da Barty,
aveva disegnato una perfetta rosa dei venti e delineato con estrema precisione
i meridiani. Doveva fare tutto da sola, dal momento che, morto il vecchio, Tom
non si era più presentato a lavoro, privo di quel poco di stipendio che aveva.
Presto sarebbe morto anche il ronzino, dal momento che non c’erano molti soldi
per nutrirlo, così Sonia lo aveva liberato nelle
foreste, ben sapendo che avrebbe avuto ancora meno speranze, ma era sempre
meglio che vederselo morire sotto gli occhi.
Era al lavoro da ore, e non si era
accorta del vento che si era alzato e della colorazione fumosa che la volta del
cielo aveva assunto.
Pensava soltanto di rendere quella
cartina più perfetta possibile, di lavorarci giorno e notte, anche, perché in
quel modo i suoi pensieri non sarebbero tornati al vecchio gobbo appeso sulla
forca.
A volte però, era sufficiente una
pausa anche soltanto di un secondo perché la sua mente ripensasse a quattro
giorni prima. Lei aveva bruciato la Mary Stuart. Lei ne aveva
silenziosamente cosparso di pece la stiva, e con la stessa silenziosità che
aveva imparato ad adottare negli anni, era scappata e aveva nascosto le prove
nella stalla. Non le era venuto in mente niente di migliore, forse perché era
assolutamente certa che nessuno sarebbe venuto a cercare nella stalla del
vecchio Barty.
Ma qualcuno l’aveva fatto.
Inutile
incolpare il curioso che si era spinto fin lì a cercare delle prove: doveva
incolpare sé stessa. Aveva ucciso l’unico che avesse mai avuto
un briciolo di compassione per lei, aveva ucciso l’essere umano che al mondo
poteva fungerle quasi da padre. E ora era
completamente sola. Sola sarebbe morta, e prima ancora di
lei sarebbe morto quel posto, quella botteguccia che già cascava
in pezzi di suo conto.
Altre due lacrime le rigarono il
volto, e lei le asciugò appena in tempo per sentire qualcuno bussare alla
porta, proprio mentre l’ultima linea - fra quelle effettivamente necessarie,
almeno - veniva tracciata sulla carta.
Will Turner apparve sull’uscio.
<< Io… ecco.. in verità non ho ancora finito, penso che sarà pronta
domani… >> si giustificò Sonia prima ancora che quello potesse chiederle
qualcosa.
Will si avvicinò al tavolo da
lavoro e diede una rapida occhiata alla cartina: impossibile non notare la
differenza fra il tratto confusionario e impreciso di Barty con la
straordinaria fermezza di quello di Sonia.
<< Io credo che sia
perfetta, >> la contraddisse Will, << Il
Governatore ne sarà entusiasta, >> aggiunse, con un tono di voce
evidentemente più acido. << Hai un ottimo tratto. >>
<< Bhe… mi piace disegnare.
>>
Will stirò le sopracciglia. C’era cascata.
<< Anche quei quadri sono
tuoi, immagino… >>
Sonia non pensò ad intuire
l’inganno, e annuì. Soltanto quando Will se ne fu andato le venne in mente che
in quel modo si era praticamente messa nel sacco da
sola. Il fatto che fosse andata a dipingere il molo di Port Royal con la Mary
che bruciava poteva essere, se non una prova nei suoi confronti, almeno un
agente di sospetto.
Non che le
importasse più di tanto, effettivamente: ormai aveva deciso che non poteva più
restare a Port Royal.
C’era un'unica cosa da fare per
ripulirsi la coscienza. Doveva evitare che Rowena raggiungesse il centesimo
bambino. Ne aveva abbastanza di aiutarla.
*
Quando la prima cannonata partì dalla Coleridge per infrangere poi una parte di mura
del forte di Port Royal, dai cannoni di quest’ultimo erano partiti così tanti
colpi a vuoto che il fondale marino, di fronte alla Coleridge, doveva esser
tanto bucherellato quanto una groviera.
Se c’era una cosa della quale la
Coleridge poteva vantarsi di essere superiore rispetto
alle altre navi, erano i cannoni, capaci di colpire il segno anche da grandi
distanze. Contrariamente alla volontà di Rowena, i pirati razziatori erano
stati costretti a tenersi lontani dal molo. Si erano immaginati una
controffensiva da parte delle autorità di Port Royal, ma non avrebbero
mai creduto che sarebbe stata così vivace.
<< Sparate ancora! >> ordinò Rowena. << Sparate finché non vi caschino le braccia!
>>
<< Non serbiamo alcune palle di
cannone per l’attacco navale che ci attende sicuramente da un momento
all’altro? >> chiese Gabriel. Rowena rispose con una risata malvagia,
ciononostante pura e cristallina.
<< Le navi sono bruciate!
>> rise Rowena in faccia ad un meravigliato Gabriel. A quanto pareva era
stata in grado di vedere la cenere e i brandelli di legno che ancora
affollavano il molo di Port Royal.
Gabriel non sapeva se Rowena
condivideva una sensazione come quella, ma gli dava un senso d’immortalità
osservare come i loro colpi centrassero sempre il
segno, mentre quelli di Port Royal li mancavano sempre, anche se di poco. Ma se lui stava pensando al bottino ricavabile dalla città,
la Balia stava senz’altro pensando ai bambini.
Una cannonata giunse a sfiorare lo
scafo della Coleridge: essa ondeggiò paurosamente, ma a bordo nessuno si scompose,
nonostante essere quasi colpiti da una cannonata fosse uno spettacolo insolito
per quella nave.
Gli spari su Port Royal
continuarono, e il fumo che si levò dalle macerie tramutò l’aria asciutta in un
turbine di polvere grigia e marrone che toglieva quasi del
tutto la visuale.
Un semplice gesto del braccio teso
di Rowena bastò a far sì che la Coleridge si tranquillizzasse. Le cannonate, il
fracasso infernale, le grida e perfino il vento parvero
arrestarsi in un unico istante. La Coleridge avanzò.
*
Col fiato sospeso, nessuno osava
muoversi. Ogni sguardo era puntato sulla nave che, sempre più inesorabilmente,
si avvicinava a Port Royal dopo averlo largamente sconfitto. Coloro che erano
rimasti sul porto, senza fare in tempo ad andarsene, non potevano spostarsi di
lì, piedi di terrore per ciò che stava per succedere. I cuori della gente
sembravano fermi. Nessuno mostrava più di respirare.
Una passerella di legno spuntò
dallo scafo della Coleridge, facendo in modo che i pirati potessero approdare.
E infatti, immediatamente, un’ondata di ghigni
diabolici e di sguardi perversi alimentò il terrore degli abitanti di Port
Royal. Di fronte alla superiorità dell’equipaggio della
Coleridge ogni difesa si annullava.
Dopodiché si sentì un fruscio
lontano, ma nitido come uno sbatter d’ali. Un tappeto rosso fu lanciato dalla
Coleridge e si srotolò giù per la passerella, fin quando non raggiunse quasi la
fine della strada del molo. Tutti sapevano di quale apparizione quell’azione fosse un preludio. Poco dopo, come previsto, si affacciò in
cima alla passerella una donna. In un tenue fruscio di vestiti color verde
acqua, un po’ consunti ma lisci e impeccabilmente dritti, il capitano della
Coleridge scese lentamente la passerella, volgendo intorno lo
sguardo celato dalla maschera bianchissima. La vita era stretta in un corsetto
che si stringeva dietro la schiena grazie ad alcuni lacci, nascosti da una chioma biondo cenere. Una gonna vaporosa, formata di
stoffe e pizzi, descriveva una ruota intorno alle gambe di Rowena, ed era
orlata di nastri blu e dorati. Una cintura di perle girava intorno ai fianchi
irrigiditi della Balia, identica alla sontuosa collana che decorava il collo di
quest’ultima, insieme ad una collana con un ciondolo a
forma di crocifisso ribaltato. La parte superiore del vestito aveva una larga
scollatura rettangolare e maniche aderenti fin sotto il gomito, dove
esplodevano in uno sbuffo di merletti candidi che toccava
quasi il pavimento.
Ogni tanto alla piccola folla
sfuggiva un gemito.
Alcuni erano andati a cercare i
loro parenti, ma da quando Rowena era scesa, seguita da Gabriel, nessuno si
arrischiava più a muoversi dalla sua posizione. Le donne si strinsero addosso i bambini, imponendo loro, disperatamente, di
tacere. Chi poteva tentava di nascondersi, pur essendo consapevole che lo
sforzo era vano. Rowena era arrivata al termine della passerella, ma continuò a camminare lentamente, esasperando i civili
circostanti, fin quando non fu al centro della strada, sul tappeto rosso che
era stato steso per lei.
Girò intorno lo
sguardo, restando immobile come una statua, effettuando soltanto una forte
rotazione del collo. Annusò l’aria. Quel posto traboccava di bambini.
<< Gabriel, >> ringhiò
malignamente Rowena, con un cenno della mano avvolta in un guanto bianco,
<< Il forte. >> Gabriel annuì, sadico. Con un altro cenno, Rowena
impose ad alcuni uomini di seguirlo, godendosi appieno il singulto di fiati
mozzati che era partito dalla massa di gente
terrorizzata. << E voi altri, togliete di mezzo
quella roba. >> Si capiva bene che Rowena si riferiva ai corpi dilaniati
che giacevano nelle sue vicinanze. Subito altri pirati
si affrettarono a gettare in mare i cadaveri sanguinanti, lenendo un po’ la
puzza. Rowena sembrò soddisfatta, e tornò a fissare i presenti, uno per uno,
sondandoli con tutta la calma del mondo, come se dai loro occhi avesse potuto
leggere un’intera vita. Ignorava completamente i ringhi assetati di sangue che
provenivano dal rimanente della sua ciurma. Al forte qualcuno doveva essere già
morto: si udivano da lì le detonazioni delle armi da fuoco.
Non furono necessari più altri
gesti da parte del capitano: fischiarono nell’aria cordicelle assassine dotate
di ganci affilati. La ciurma era allenata a lanciarle in modo impeccabile. Si
avvolsero intorno ai colli delle donne che stringevano i loro bambini,
spaventandole a terra e incollandole al muro negli spasimi più atroci. E in un attimo fu il pandemonio.
La gente prese a correre in tutte le direzioni,
tentando di evitare quelle armi che non lasciavano speranza se incontravano una
gola da strangolare. Rowena osservava immobile ma compiaciuta il disastro e il
terrore che come sempre erano… era
riuscita a seminare. Ormai sapeva che il nome della Coleridge era associato a
lei, e non al resto della ciurma. Associato alla sua
immagine, al suo modo di atteggiarsi, al suono cristallino del suo flauto.
Il problema era che anche Gabriel lo aveva sempre saputo.
Una bambina che doveva avere circa
quattro anni corse di fronte a Rowena nel tentativo di
raggiungere la madre, dalla parte opposta rispetto al tappeto rosso. Incespicò
leggermente, tanto quanto bastava per rallentarla. Due mani innaturalmente
gelide, come due pezzi di marmo, le si strinsero
delicatamente intorno ai fianchi, stretta che alla bimba parve la morsa di una
tagliola. Rowena la prese in braccio come avrebbe fatto una madre.
Terrorizzata dalle fessure nere
che corrispondevano agli occhi della maschera e dallo sguardo vagamente
malvagio di essa, la bambina tentò di dibattersi, ma
fu inutile. Quella presa delicata della Balia si rivelò irremovibile. Con voce
suadente, melliflua, Rowena parlò nell’orecchio della bambina. Intorno tutto si arrestò. Nessuno aveva mai visto una scena
così cupamente orribile.
<< Dimmi, bambina, >>
sussurrò Rowena con una voce demoniaca e angelica insieme
da far rizzare i capelli, << Qual è il tuo nome? >>
La bambina non rispose subito.
Attaccò in un pianto dapprima timoroso, nervoso, poi disperato, senza
inibizione. Un liquido bollente infradiciò la sua gonna sgualcita e strappata.
Rowena sembrò non accorgersene neanche.
<< Per… Per favore,
signorina… >> implorò la bimba, stringendo la mano alla donna in gesto di
supplica. << Lasciatemi andare… devo tornare… dalla
mamma… mi lasci tornare dalla mamma… >>
La bambina non fu più in grado di
dire nient’altro. Sul porto giacque il silenzio, i presenti
osavano soltanto respirare. D’un tratto Rowena,
appena in tempo per non perdersi troppo a fondo nei propri pensieri, avvertì un
singulto proveniente dalla folla alla sua destra, in gridolino strozzato di
donna. Si voltò di scatto, e vide una donna che era scoppiata in lacrime:
piangeva ma non parlava. Nei suoi occhi c’erano la stessa profonda supplica, la
medesima prostrazione che si leggevano in quelli della bimba.
<< Quella là è tua madre?
>> domandò Rowena con voce affabile, indicando la donna alla bimba.
Quest’ultima parve non capire. Si domandava il perché della gentilezza di
quella persona che le era sempre stata descritta come una sanguinaria, quelle
poche volte che non si evitava di parlare di lei.
La bambina non vide i gesti della
madre: annuì.
<< Suppongo che ti
piacerebbe tornare subito da lei, >> arguì
Rowena. Qualcuno dei suoi pirati sghignazzò, ma lei con uno sguardo li fece
tacere tutti quasi nello stesso istante in cui avevano cominciato. Rowena
pareva quasi la vera madre di quella creatura. Una donna elegantemente
grottesca, dall’abito sontuoso, sollevava la piccola stracciona ergendosi sul
suo tappeto rosso, mormorandole parole gentili. La bambina annuì nuovamente.
<< Ma come? >> si
meravigliò Rowena, fingendosi profondamente e irrimediabilmente offesa,
<< Non vuoi restare con me? Davvero mi odi così tanto? >>
<< Vi prego… lasciatemi…
>>
Vi prego. Lasciatemi. Lasciatelo…
Vi prego…
Rowena per un attimo barcollò. Nessuno
colse quel suo istante di esitazione. Un altissimo
cavallone si gonfiò nelle sue viscere, un gorgo che risucchiò ogni cosa la
Balia avesse in corpo, una corrente che le fece quasi
perdere l’equilibrio.
Lasciatelo andare… non fategli del male!...
Tutti stavolta s’avvidero
dell’improvviso cambiamento del Capitano della
Coleridge. La sua figura stoica traballò incrinandosi come un bicchiere di
cristallo. La bambina continuava a piangere, sua madre pure, in un coro di
lamenti e singhiozzi imploranti circondati dalla folla tutto intorno che
tratteneva il respiro. Tutto era in quiete. Tutti aspettavano.
Così, era morto…
Squartato, dissanguato, amputato…
diviso in due…
Del tutto inaspettatamente, Rowena
estrasse la sua pistola dalla cintura di perle. Una bella pistola decorata che
sembrava adatta più al ruolo di fermacarte che di arma
da fuoco. Ma il suo impiego si rivelò del tutto
efficace: un solo colpo, una detonazione. La donna singhiozzante rotolò giù,
cadde a terra, aprendo le braccia come il Cristo in croce, e in croce rimase
quando sprofondò a terra.
La bimba gridò.
<< Non hai
una madre, >> sibilò perversamente Rowena, mordendo l’orecchio
della bambina, respirandole addosso dai buchi della maschera veneziana,
<< Non hai più niente di niente! >>
Non guardò il sangue che sgorgava
dalla ferita della donna. In un attimo la folla le si era
strinta attorno involontariamente, visto il caos che si era scatenato. Tutti
correvano in ogni direzione.
Rowena spaventò la bambina sul
ponte, con molta malagrazia. Attese solo un istante che Gabriel tornasse con i bambini che aveva trovato, indugiò qualche
attimo ancora perché altri teneri piccoli esseri umani fossero razziati dal
porto che aveva dinanzi agli occhi, e poi il suo flauto suonò ancora,
trascinando la Coleridge in un vento magico che, in pochi secondi, l’avvolse di
nebbia lattiginosa e la condusse lontano, all’orizzonte.
Quello stesso giorno, sulla
Coleridge si era imbarcato un intruso.
Urla
agghiaccianti provenivano dalla stiva della Coleridge, urla
infantili che straziavano il cuore, dilaniandolo, spaccandolo in due. Ma non sortivano lo stesso effetto sul cuore di Rowena.
Quelle urla… quel dolore. Conosceva bene le suppliche che i bambini rivolgono
ai carnefici per non arrendersi al loro destino… tante altre volte aveva gridato
in quello stesso modo.
Copriva
quei rumori atroci e disgustanti col suono limpido del suo flauto. Un suono simile alla sua risata e alla sua stessa voce.
Qualcosa di angelico, qualcosa che allo stesso tempo
avrebbe spaventato il diavolo. Del resto era proprio il Diavolo che lo aveva
forgiato.
Come lei.
Un pirata
elegantemente vestito le si fece accanto con
discrezione. Rowena interruppe dolorosamente la melodia del flauto, e la
melodia stessa dei propri pensieri, mostrando le mani al pirata. Egli riversò
su di esse acqua fresca e petali di rosa, segno
evidente che la Balia si stava lavando le mani dell’ultimo sacrificio del quale
avevano bisogno: adesso la cifra era completa. Non mancava nessuno.
Rowena
non seppe subito definire se questo fosse un lato
positivo o negativo.
- Abbiamo
un problema, Capitano, - suonò la voce di Gabriel da un punto imprecisato della
nera coltre notturna.
Rowena si
alzò pigramente, per poter ruotare sé stessa in direzione del subordinato.
- Parla, -
lo incitò semplicemente.
Ad un
cenno di Gabriel due uomini nerboruti avanzarono trascinando il corpo di un
pirata della Coleridge, svenuto, o morto, forse. Era floscio come un cencio
bagnato, aveva un’esile corporatura e una larga bandana che copriva
magistralmente i lineamenti cruciali del suo viso. Un trucco
che Rowena aveva visto molte altre volte.
- Che cosa le è successo? -
- Si intuisce così facilmente che è una donna? - sghignazzò
Gabriel, - Ha molto da imparare riguardo ai travestimenti, -
- Che cosa le è successo? - ripeté Rowena con voce tranquilla.
Gabriel rimase a lungo in silenzio, interdetto, poi si decise a spiegare al suo
Capitano che la ragazza era stata assegnata alle stive per l’ingrato compito
che spettava alla ciurma dopo ogni razzia: ma non
appena aveva visto un taglio sanguinante sul collo di uno di quei bambini, era
immediatamente svenuta.
Rowena si
ritirò pensosa nella propria mente.
La
situazione non lasciava molte ipotesi da considerare.
-
Strappatele di dosso quegli stracci, - ordinò, - E bagnatela di
acqua fredda. -
Come iene
sulla carcassa di un’antilope, i pirati della ciurma si affrettarono ad
eseguire l’ordine. Sul corpo seminudo della donna fu poi riversata
un’abbondante secchiata d’acqua marina, che lentamente fece svegliare l’intrusa.
Da prima che parlasse, Rowena aveva capito di chi si
trattava.
La
ragazza si alzò barcollando, ancora intontita e pallida. Aveva corti capelli
biondi e occhi di un nero spento e profondo al tempo
stesso, come un pozzo del quale non si vedeva il fondo. Quando
fu finalmente in piedi, si guardò intorno con occhi un po’ perplessi e un po’
scombussolati: aveva previsto anche quella spiacevole piega che la situazione
poteva prendere, ma non aveva ancora avuto tempo di pensare a cosa avrebbe
fatto poi.
Rowena le
lanciava occhiate tanto terribili che anche dietro la
maschera provocarono brividi sulla schiena della ciurma.
- Sonia Livingstone…
- disse Rowena con voce beffarda, - Ci chiedevamo tutti che fine tu avessi fatto... Ma questo non era sinonimo di salire
travestita sulla mia nave senza
essere invitata. -
I pirati
accennarono ad una risata stupida, poi, interpretando sicuramente quella frase
come un sinonimo di “gettatela in mare”, si affrettarono verso Sonia
strizzandole entrambe le braccia in una morsa con le mani callose, ma prima che
potessero scaraventarla giù, questa riprese a parlare.
- Non è
la tua nave, - precisò Sonia
scrollandosi di dosso la presa dei pirati della
Coleridge. Stava lentamente recuperando il controllo di sé stessa. Ma non della situazione, sfortunatamente. - Visto come sono
andate le cose, direi che dovrebbe essere più che
altro la mia nave. -
Rowena
tremò di rabbia. Nessuno l’aveva mai vista in tali condizioni, il suo
autocontrollo vacillava e s’incrinava pericolosamente ogni secondo di più.
- Tu non
saresti mai esistita senza di me. - aggiunse Sonia.
La goccia che fece traboccare il vaso. Rowena fece un solo risoluto
passo avanti, e nello stesso istante un forte schiaffo frustò la guancia di Sonia,
facendola cadere giù. Ancora una volta, vi fu un incerto coro di risa sciocche.
- Non
invertire i ruoli, stupida mocciosa! Devo ricordarti chi delle due è mai
riuscita a combinare qualcosa nella vita? - Sonia guardò verso la maschera
bianca massaggiandosi la guancia dolorante. Non disse una parola. - Guardati!
Sei nata serva e sei serva tutt’ora! -
- Anche tu sei nata serva, - fece notare Sonia.
- Ma io adesso sono padrona. -
Sonia non
ebbe niente da obiettare. Non c’era niente di sbagliato in quella logica conclusione,
ma ammetterlo era comunque molto più difficile che
continuare a fronteggiare la Balia in mezzo a un cerchio di pirati dai grugni
porcini.
- Perché allora non togli quella maschera? - gridò cercando di
sfidarla, - Dopotutto una padrona non ha niente da temere dai suoi sottoposti! O forse sai benissimo a chi appartiene il volto che stai
cercando di nascondere? -
Rowena le
puntò contro la pistola.
In breve
tempo non esistette altro che il cigolio leggero del legname della Coleridge
dondolante sui flutti marini, e lo sbattere delle possenti vele.
Tutti ora
guardavano Rowena, i pirati aspettando una risposta al dubbio che li portava di
giorno in giorno sulla soglia dell’ammutinamento, Sonia con occhi terrorizzati
e la bocca semiaperta nel tentativo di limitare il fiatone.
- So che
non lo farai… - disse a Rowena, per quanto lei stessa ne fosse poco convinta.
Aveva sparato a quella donna a Port Royal; poteva sparare anche a lei.
-
Spiegami, - ghignò Rowena, - Dammi almeno una ragione per la quale non dovrei
farlo. -
Sonia non
conosceva neanche una ragione. Rowena era in vantaggio. Sonia non poteva
uccidere lei, ma viceversa la Balia non avrebbe avuto
nessun rimorso riguardo alla morte della ragazza. Un grido ben noto fermò il
dito di Rowena, pronto all’unico sparo necessario per porre fine alla vita di Sonia.
- Nave in
vista! - gridò un pirata dall’alto del possente albero maestro, - Nave a
tribordo! -
Rowena
non distolse subito lo sguardo. A lei furono necessari dieci dei pochi attimi che
aveva impiegato il resto della ciurma per cadere in agitazione - ma non troppo.
Sonia rimase a terra, col cuore in tumulto, mentre i pirati correvano a
controllare quale nave potesse navigare in quelle acque capricciose.
Rowena fu
la prima a riconoscerla. Del resto quelle vele color fuliggine e quella forma
dello scafo erano inconfondibili.
- Vengono
verso di noi, Capitano, - notò Gabriel, ben sapendo che Rowena se n’era accorta
benissimo da sola. In realtà ci teneva a precisare che la ritirata della volta
precedente necessitava,in quel momento perfetto, una
vendetta appropriata. - L’albatro vola sopra le nostre teste e i venti sono
dalla nostra parte. -
Quell’affermazione
generò un grido soddisfatto da parte dei pirati. Rowena non si scompose. Se la sua maschera avesse potuto rivelarlo, avrebbe mostrato
una delle peggiori espressioni che potessero esistere sul volto di un essere
umano. Ma del resto Rowena non era affatto un completo
essere umano.
-
Aspettiamola, dunque, - concesse Rowena, ben sapendo che non c’era molta scelta.
Poi si volse lentamente verso Sonia, squadrandola con occhi malvagi. La ragazza
si era irrigata come una statua di marmo. - E lei
morirà domani. Rinchiudetela da qualche parte. Nella stiva, per esempio… - concluse con una mezza risata. Sapeva benissimo che Sonia
aveva il terrore di un posto del genere, specialmente se doveva stare segregata
nello stesso posto e quasi nella stessa situazione in cui suo padre era morto.
Rowena si
ritirò nella sua cabina, lasciando che fossero gli altri ad occuparsi della
Perla.
*
Acciaio
contro acciaio, grida, schizzi di sangue, detonazioni, esattamente come quel
giorno di tanti anni prima. La nave di Jack Sparrow aveva rivelato esattamente
le stesse intenzioni che la ciurma della Coleridge aveva previsto. Rowena non
era stata di nessun aiuto col suo flauto, quella volta. Avevano tutti avuto
modo di constare il suo cattivo umore, e così non si erano stupiti quando la
Perla Nera, rapida come una freccia, si era fatta loro addosso
e aveva cominciato a prenderli a cannonate.
La
Coleridge aveva risposto immediatamente, e nel frattempo alcuni uomini della
Perla Nera avevano fatto irruzione sulla nave nemica.
Impossibile definire chi fosse in vantaggio: ogni pochi attimi un
ferito o un morto stramazzava sul ponte macchiandolo di rosso. Non c’era da stupirsi se Rowena era rimasta nella sua cabina e non si degnava nemmeno di
dare un’occhiata dall’interno di essa.
Sonia
sapeva che quella era la sua unica possibilità. Doveva trovare il modo di
uscire dalla stiva, e il tesoro che la ingombrava era senz’altro un ottimo
incentivo per i pirati della Perla Nera a sfondare la porta. Ma
a quel punto cosa avrebbe fatto? Era semisvenuta dalla puzza emanata dalle
decine e decine di botti ammassate ovunque nel magazzino gigantesco, ed era a
conoscenza di cosa contenevano. Solo pensarci la faceva stare ancora più male.
Non avendo altra scelta, si fece lentamente avanti verso un grosso coltello
insanguinato che giaceva per terra. Cercando di non
guardarlo, lo strofinò sui propri pantaloni, in un punto che fosse difficile da
adocchiare per lei.
Era un
coltellaccio rugginoso, poco adatto per tagliare il legno o per smuovere la
serratura che la imprigionava nella stiva, ma doveva comunque
tentare.
Cercando
di respingere gli incubi che le affollavano la testa da quando aveva messo
piede sulla Coleridge, Sonia si arrampicò per la scala a pioli, e cominciò a
sferrare coltellate alla serratura della botola che la imprigionava. Provò
centinaia di volte senza ottenere un gran risultato (probabilmente all’esterno
c’era anche un lucchetto o una catena), e proprio quando stava per mettere la
mano fuori, da un’apertura, per attaccare la serratura dell’esterno, un’accetta
volò nella sua direzione tranciando di netto in catenaccio. Sonia si era
appiattita sul pavimento appena in tempo. Immaginò che i pirati stessero per
scendere nella stiva a rubare il tesoro, quindi probabilmente la Perla Nera era
in vantaggio. Doveva muoversi ad uscire.
Combattendo
contro il ritmo martellante del proprio cuore, Sonia spinse la botola e schizzò
via come un fulmine, per quando le fosse possibile
dalla spossatezza che quel posto orribile le aveva causato. Trovatasi sul
ponte, dette una rapida occhiata per evitare di incontrare con lo sguardo
schizzi di sangue, e cominciò a correre. Il suo piano iniziale era gettarsi in
mare e poi salire sulla Perla Nera di nascosto. Ma non
voleva che le cose andassero a finire come prima: forse avrebbe fatto meglio a
parlare col capitano della Perla, anche se sapeva benissimo che era una follia.
Mentre
correva in quel modo, senza senso, soltanto per evitare di vedere del sangue in
un attimo di esitazione, andò a sbattere contro
qualcosa e cadde quasi in terra. Immediatamente fu presa dal terrore: aveva
contato sul fatto che nel trambusto di un arrembaggio nessuno avrebbe fatto
particolare caso a lei.
Sonia
sollevò lo sguardo, aspettandosi un colpo di spada o uno sparo al petto da un
momento all’altro.
Non
successe niente.
Un uomo
ancora un po’ barcollante per lo spintone stava di fronte a lei e la scrutava
con sguardo interdetto. Sonia riconobbe quell’aspetto bizzarro del quale aveva
avuto modo di sentir parlare da Barty, quando era in vita. Jack
Sparrow, il capitano della Perla Nera.
Un solo
istante che parve durare qualche minuto separò Sonia dalla realtà: poi si rese
conto che non avrebbe avuto altre occasioni.
Malmessa e ancor più dondolante del solito, la Perla Nera
solcava lentamente le acque di quel tratto sconosciuto di mare, molto lontano
da Port Royal e soprattutto molto lontano dalla Coleridge appena sconfitta. O
forse soltanto placata. Jack aveva lanciato Sonia sulla sua nave come si
sarebbe fatto con un sacco di patate: e appena la ciurma della Coleridge ne
aveva preso conoscenza, era andata in confusione. Ma poco più tardi la Perla
Nera stava già sfiorando l’orizzonte dopo aver recuperato il tesoro perduto
l’ultima volta. Era troppo lontana perfino dalla portata dei cannoni della
Coleridge. I pirati di Rowena sapevano benissimo che la Balia avrebbe
strangolato qualcuno quando avesse saputo che colei che doveva morire il giorno
dopo le era stata sottratta dalle grinfie.
Sonia ringraziò il cielo di essere oramai troppo lontana
per assistere alla scena. Ma non fu altrettanto contenta della reazione che la
sua presenza aveva innescato nella ciurma. Non sembravano contenti di
trovarsela a bordo. E nemmeno lei lo era più di tanto. Ma non aveva altre
speranze per salvarsi la vita. Era salita di nascosto sulla Coleridge senza un piano
preciso, forse con il solo scopo di convincere alcuni pirati a ribellarsi a
Rowena, ma non aveva considerato che le cose potessero andare in quel modo.
- E lei chi
sarebbe? - domandò Gibbs in tono fin troppo sarcastico.
- Non ne ho idea, - fu la tranquilla risposta del suo
Capitano.
Tutti gli sguardi ora si spostarono su Sonia. Lei non si
sentiva a disagio. Aveva solo voglia di andarsene di lì il più presto
possibile. Gli sguardi divennero via via più eloquenti, e alla fine Sonia capì
che le stavano silenziosamente chiedendo il suo nome.
- Sonia, - rispose, vagamente balbettando. - Vengo da Port
Royal. -
- Una prigioniera, suppongo, - arguì Gibbs. - Rapita? -
- Bhe… sì. - si affrettò a dire Sonia. In che altro modo
avrebbe potuto presentare la situazione? Ma non sembrava tanto brava a mentire,
era stata prigioniera della Coleridge solo molto tempo prima. O almeno, i
pirati della Perla Nera davano segno di aver capito benissimo che non era
esattamente stata rapita.
- E cosa ti fa pensare che la Perla Nera sia una specie di
ospizio per gli orfanelli? - domandò aspramente un altro pirata che stava nelle
ultime file. Intorno a Sonia si era formata una piccola folla.
- Niente me lo fa pensare, - rispose Sonia, già
esasperata, - Spero soltanto che mi riporterete… non lo so… da qualche parte!
Volevo solo scappare da quella nave! -
Dal coro di risate che si scatenò, sembrò che la richiesta
di Sonia fosse qualcosa di particolarmente esilarante. Jack non rideva, non era
partecipe delle bonarie frasi di scherno. Scrutava la ragazza con occhi
curiosi. Aveva qualcosa di strano. Non aveva il migliore degli aspetti,
effettivamente, ma non ancora tanto malmesso da sembrare quello di una
prigioniera di Rowena.
Jack Sparrow aveva avuto modo di incrociare quei medesimi
occhi grigi, una volta. E li aveva incrociati vicino a Greenfield Bay: sfavillavano
dietro una maschera veneziana.
Sonia si rese conto che due occhi la stava fissando e si
voltò di scatto verso il Capitano della Perla Nera. Stava per dire qualcosa: ma
d’un tratto, qualcos’altro attirò la sua attenzione, una macchia scarlatta
sulla guancia magra e scura. Sonia ebbe un brivido, che durò diversi istanti.
Un taglio. Un taglio sanguinante.
- Sangue… - il sussurro di Sonia era a mala pena percettibile.
La ciurma non ebbe nemmeno il tempo di ridere di nuovo,
che Sonia era svenuta.
Gli occhi di Sonia si riaprirono quando la seconda
secchiata d’acqua marina nell’arco della stessa giornata le si riversò addosso
per intero, alcuni minuti dopo. Le chiacchiere e le discussioni non si erano
interrotte sulla Perla Nera. Ma tutti avevano capito che era a causa del sangue
che la ragazza era svenuta, e per quanto trovassero singolare la cosa, si erano
trattenuti dal provarne ilarità. Sonia aveva parlato mentre era svenuta. E quel
poco che si era capito li aveva indotti tutti a restare in silenzio.
Appena Sonia si risvegliò capì che cosa era successo e non
ebbe il tempo di sentirsi in imbarazzo. I pirati stavano ancora decidendo che
cosa farsene di lei, e spesso le ipotesi proposte erano tutt’altro che
umanamente tollerabili.
- Che facciamo, Capitano? La buttiamo in mare? - propose
ad un tratto, ancora in lacrime dalle risate, uno dei pirati.
- Non sarebbe meglio tenerla fino al prossimo porto? Ci farebbe
comodo, - obiettò Anamaria, per sentirsi rispondere che avevano già una donna a
bordo e che non volevano tirarsi addosso qualche altra sventura, accettandone
un’altra. Gli occhi di Sonia erano supplichevoli, ma trasparivano ancora una
nota d’orgoglio, per quanto sembrasse difficile che lei potesse provarne.
- Dunque, Capitano? - incalzò Gibbs.
Jack dette un’ultima occhiata a Sonia, inclinando per un
attimo la testa sulla spalla sinistra.
- Gettate una scialuppa, un pezzo di legno, qualcosa… - ordinò
in tono leggermente mugolante, - E lasciatecela. -
Sonia sgranò gli occhi. Non riusciva a credere a quello
che aveva appena sentito.
- Ma… e allora perché? Perché mi hai preso a bordo? -
- Perché me lo hai chiesto, - rispose semplicemente Jack. Sonia
era sconcertata da tanta semplicità, e più ancora dal fatto che avrebbe dovuto
probabilmente morire in mare, abbandonata quando aveva creduto di potersi
salvare. - Mi hai detto che se fossi scappata dalla Coleridge tutti si
sarebbero distratti, - proseguì il Capitano, - E così è stato, e ci ha recato
vantaggio, mi pare. Ma io rivolevo soltanto il mio tesoro, cara… non mi sono
buttato contro quella simpatica donna per salvare ostaggi. -
Sonia si sentì mancare. Dal punto di vista di Jack,
effettivamente, quel ragionamento non aveva niente di sbagliato. Ma come
potevano ragionare così? Come potevano pensare soltanto al tesoro? Come
potevano rifiutarsi di aiutarla quando lei aveva indirettamente aiutato loro?
Li aveva supplicati, glielo aveva chiesto per favore, ma a nulla erano valsi i
tentativi: ormai era deciso.
Sonia sentì che i pirati scoprivano una scialuppa dai
teloni ingialliti.
Ebbe appena il tempo di girare su sé stessa, nervosamente,
con espressione disperata, per controllare se qualcuno avesse cambiato idea,
impietosito, forse. Non le interessava di assomigliare ad una che ha bisogno
soltanto di supplicare. Non conosceva altro modo per farsi ascoltare. Non aveva
avuto modo di conoscerne altri.
- Non è… non è affatto giusto, così! - tentò ancora una
volta Sonia, rivolgendosi di nuovo a Jack, - Non potete lasciarmi in questo
modo! Non so niente del mare, di come si tiene una scialuppa! Vi prego!
Portatemi almeno su un’isola qualsiasi, a chilometri da un porto. Ma non
lasciatemi in mare… vi prego! -
A quel punto anche Jack alzò le sopracciglia, vicino allo
scoppiare a ridere. Un carattere di quel genere era veramente uno spettacolo
insolito anche dopo anni e anni di viaggi.
- Sul serio, forse ti converrebbe farti più sveglia, -
consigliò Jack, squadrandola e fissandola negli occhi senza sosta, - Sembri la
principessa di una fiaba. In mare nessuno si preoccuperà di questo. -
Sonia non poteva dargli torto: aveva avuto le sue
occasioni per impararlo. Ma si era illusa che i pirati della Coleridge fossero,
se non un caso isolato, almeno la peggior specie di marmaglia che esistesse, e
che quindi al mondo ve ne fossero di migliori. Questo era senz’altro vero, ma
c’era un limite all’aggettivo “migliori”, come si stava rendendo conto.
Venne caricata di peso sulla scialuppa appena preparata, e
poi questa fu affidata al mare, flagellata dal sole alto del mezzogiorno e
trasportante quella che probabilmente di lì a poco sarebbe morta di fame, o di
disperazione.
*
Furibonda? Perversamente soddisfatta? Malignamente
desiderosa di infliggere una punizione fatale agli incapaci che l’avevano
delusa?
Nessuno poteva dare una definizione calzante a Rowena, non
in quel momento. Uno di quei casi in cui era impossibile definire se fosse di
buon umore o di cattivo umore, considerando che spesso questi due casi si
assomigliavano sufficientemente da confonderli. Ma adesso i pirati della
Coleridge erano certi che lo stranissimo nervosismo già precedentemente
acquistato da Rowena fosse precipitosamente calato dopo la fuga di Sonia. La
sua preda, la sua vittima designata. Rowena era precisa e spietata come una
tigre: e se sceglieva una sua vittima, doveva ucciderla, se non altro per non
fare la figura della persona arrendevole. Ma adesso Sonia le era sfuggita. E se
lei non poteva morire, sarebbe senz’altro morto qualcun altro al posto suo.
- Vi avevo dato delle disposizioni ben precise, razza di
infimi tagliagole! - ruggiva Rowena, eppure anche nella sua ira appariva più
tranquilla che agitata. Faceva ugualmente una paura terribile, anche a dei
pirati come quelli. - Non solo avete fallito per la seconda volta un’impresa
che, sempre per la seconda volta, siete stati voi ad incoraggiare, - elencò,
sondando con lo sguardo tutti i suoi sottoposti, in particolar modo Gabriel,
che si fece piccolo come un tappo di bottiglia. Ma allo stesso tempo il
francese ribolliva di collera, tanto ben repressa da fargli pensare che sarebbe
veramente esploso. - Ma vi siete lasciati sfuggire una mocciosa come quella!
Nient’altro che una camerieretta che a mala pena riusciva a reggersi in piedi!
E io dovrei tenervi ancora tutti in vita, secondo voi? -
Eppure Rowena non aveva fatto niente per tutta la durata
dell’assalto! Come doveva essere facile parlare, per lei. Gabriel, stavolta,
era deciso a non farsi mettere i piedi in testa, neanche se quella che aveva
dinanzi fosse stata la personificazione di Cristo. Avrebbe reagito.
- Non potete ucciderci, o non riuscireste a dominare la
nave soltanto con le vostre forze, - notò Gabriel. Dovette correggersi. A
Rowena fu sufficiente estrarre il suo bel flauto d’argento per ricordargli due
cose: sia che non poteva interferire con le disposizioni di Satana stesso, non
avrebbe osato, sia che con quel flauto Rowena poteva tranquillamente lasciare
che i venti da lei comandati governassero la nave come l’avrebbero governata le
braccia di centomila uomini.
Le parole di Gabriel, comunque, non erano state vane. Non
per la ciurma.
Rowena non aveva apparentemente bisogno di loro, perché
con quel flauto era potente, protetta dall’inferno stesso. Ma allo stesso tempo
non poteva ucciderli. Non poteva provvedere da sola al lavoro sporco. Non
poteva trascinare i bambini giù nella stiva e fare ciò che ordinava di fare
agli altri al posto suo. Tutti lo sapevano, ormai: Rowena aveva bisogno della sua ciurma.
- Siamo stanchi! - gridò Gabriel, sovrastando il coro di
ululati primordiali levatosi dalla ciurma, - Tutti noi adesso siamo stanchi! Di
voi, di tutti i vostri ordini, di tutto! Da quando siete voi al comando non
abbiamo visto l’ombra di un tesoro! Non abbiamo visto gloria, ricchezza,
saccheggi, niente di tutto questo! -
Rowena non era stupita da una reazione del genere. Se
l’era sempre aspettata, prima o poi, ma l’aveva sempre considerata un momento
molto distante. Non sapeva bene come avrebbe risposto a tutte quelle
provocazioni.
- Avete conosciuto la gloria della decadenza! L’allegoria
del male puro! - ribatté Rowena, - Che cosa volete adesso di più? Tesori?
Puttane? Sangue che sgorga sul ponte? Non ne avete avuto abbastanza? Non siete
davvero in grado di spingervi più oltre? -
- Non sappiamo che cosa farcene delle vostre allegorie! - ruggì Gabriel.
- Soltanto io vi ho portato dove siete! Non avreste potuto
essere niente senza di me! Se non ci fossi stata io voi sareste a succhiare
tesori come sanguisughe soltanto per accumulare materia su materia senza mai
capirne niente! Non sareste nessuno, nessuno di voi, senza di me! -
Nessuno fu d’accordo con le sue parole. Nessuno che le
avesse ascoltate. E tutti gli altri erano anch’essi dell’avviso che non c’era
più tempo di attendere: troppo a lungo avevano sopportato la presunzione di
Rowena, e troppo a lungo avevano assecondato ogni suo capriccio. Non valeva
niente come capitano. Sarebbe stata bene soltanto come dittatrice. Ma nessuno
aveva bisogno di una dittatrice sulla Coleridge, non ora che avevano capito che
era giunto il momento di ribellarsi, a qualsiasi costo.
- Questo è un ammutinamento! -
- Lo è, Rowena! E questa volta lo sarà fino in fondo! -
Immediatamente un altissimo cavallone si sollevò dalla
superficie dell’acqua marina, fino a poco tempo prima piatta, e si infranse
parzialmente sul ponte della Coleridge. Un avvertimento. Dopo poco tempo però,
composto di istanti di pietrificato panico da parte della ciurma, la temporanea
manifestazione meteorologa si estinse: il mare tornò alla sua calma abituale
nel tempo di un battito di ciglia. La Coleridge, bagnata e danneggiata dal
recente arrembaggio, troneggiava ancora una volta sulle acque grigio azzurre
del mare tranquillo.
- Voi non potete ribellarvi! - gridò Rowena, e la sua voce
fu tagliente come un pezzo di vetro schizzato via da uno specchio in frantumi, -
Avete lasciato Dio, e ora state tradendo anche il Diavolo! -
Per un attimo i pirati sembrarono frenare i loro stessi
impulsi. Ma durò pochissimo. Stavolta niente avrebbe impedito loro di andare
fino in fondo. Gabriel estrasse un coltello, e fece alcuni passi verso Rowena.
Quest’ultima non indietreggiò, ma fu evidente anche da sotto la maschera che
gli occhi erano sgranati. I suoi pugni chiusi tremavano. Le unghie premevano
sulla carne delle mani, fin quando i guanti di seta bianca lentamente
iniziarono a tingersi di rosso. Rowena non osò guardarli.
Gabriel non poteva ucciderla. Non avrebbe mai avuto il
coraggio di farlo.
- Tu non oserai, cane rognoso! - ruggì Rowena, facendoli
tutti rabbrividire: eppure erano altrettanto calamitati dal coraggio di
Gabriel.
- Mi hai sottratto col tradimento il ruolo che spettava a
me, - sibilò Gabriel, di poco differenze ad un serpente pronto a scattare e
affondare i denti da un momento all’altro. Ansava. - Mi hai costretto per più
di due anni a sopportare tutti i tuoi capricci da signora d’alta classe… Ma ora
noi torneremo ad essere ciò che saremmo stati se tu non fossi mai esistita! Io
conosco il tuo punto debole, Rowena! -
Rowena svenne, si afflosciò pesantemente sul ponte della
nave: Gabriel si era tagliato sul petto e da quella ferita era sgorgato del
sangue rosso. Abbagliante, lustro come una luce in cielo.
La ciurma trattenne il fiato, dando vita ad unico sospiro
di tensione. Che cosa sarebbe successo?
Era un altro trucco di Rowena? O forse di lì a poco
avrebbero conosciuto l’ira che Satana riservava a coloro che ostacolavano il
suo patto?
Non accadde niente.
A poco a poco anche Gabriel recuperò la sicurezza. Sollevò
Rowena per un braccio. Le strappò la maschera dal volto, sotto gli occhi
attoniti di tutti i pirati della Coleridge. La maschera cadde e si spezzò in
due metà quasi perfette. Gabriel staccò via la parrucca bionda dalla testa,
rivelando un volto pallido, le palpebre semichiuse sugli occhi grigi, dietro ai
ciuffi dei corti capelli di uno smorto color biondo cenere.
Sotto il sole di mezzogiorno Rowena venne lasciata su una rudimentale
zattera ottenuta da un pezzo di legno staccatosi durante l’arrembaggio. Nessuno
sapeva che lo spirito gemello, in quel preciso momento, stava subendo, in modo
diverso, lo stesso destino.
La zattera venne calata giù. Rowena doveva morire da sola,
non doveva sembrare un assassinio, per il bene della Coleridge. Un pirata
rivolse uno sguardo eloquente al flauto d’argento che ora Gabriel reggeva in
mano. Gabriel rispose allo sguardo scaraventando giù il bello strumento, che
andò incastrarsi in una scanalatura fra una trave e l’altra della zattera,
accanto alle due metà della maschera.
- Ora sono io il Capitano, - proclamò Gabriel, ben sapendo
che ormai tutti lo avevano capito, - E non abbiamo più niente a che vedere col
suo Diavolo. -
McKirk infranse alcune casse di rum che
si trovavano sul molo quando un pugno del vecchio Chad
gli spezzò la mandibola. Rotolò quasi in mare, urlando, quando il vecchio
arzillo caricò verso di lui e gli saltò addosso per finirlo. Non ricordava
esattamente perché si trovasse lì con le ossa rotte e un occhio cerchiato da un
livido violaceo, ma per il momento l’importante era dimostrare a quel
vecchiaccio che non si sarebbe lasciato sconfiggere da lui. Assestò un colpo
sulla testa di Chad con una mezza bottiglia rotta,
sbalzata via dalle casse che aveva distrutto, e un frammento di vetro si
conficcò nell’occhio ancora sano del vecchio filibustiere. Al che quest’ultimo
afferrò un remo prendendolo da una piccola imbarcazione, sul molo per
riparazioni, e cominciò a pestare McKirk alla cieca.
Questi rimase per molti minuti a patire e subire le
percosse di Chad, fin quando non riuscì ad afferrare
il remo e, benché avesse la vista appannata dall’alcol, scaraventare Chad dalla parte opposta del molo. Prima di cadere in
acqua, il vecchio si piegò e si contorse come un insetto calpestato: sbattè la
testa sulla banchina inferiore e poi il suo corpo scomparve nelle acque nere
battute dalla notte.
Quando fu certo che non avrebbe più
sentito parlare di Chad né si sarebbe trovato davanti
quell’occhiaccio vitreo che lo aveva mandato in isteria alla locanda - ah! Ecco
cos’era che aveva scatenato la rissa - McKirk fece
ritorno alle chiassose viuzze di Tortuga.
Il molo restò deserto. Le navi pirata
che beccheggiavano nella brezza notturna, sicure ai loro ormeggi, parevano
imponenti fortezze di pietra dondolante, tanto la notte era nera e priva di
luci. Ogni tanto si sentiva lo stridore del verso di un qualche volatile
marino, che tuttavia sembrava insufficiente a spezzare il silenzio lattiginoso
sprofondato sul porto deserto.
Una mano scheletrita, rossa e spellata dal sole, dalle
unghie sporche, affiorò dal mare e si appese al molo. Ad essa
seguì un braccio altrettanto scheletrico, avvolto a mala pena in vestiti
strappati ed incrostati di sale. Un'altra mano si attaccò saldamente alla
pietra solida della banchina, poi con un gemito misto ad un sospiro di immenso sforzo, un corpo esile e magrissimo si issò
faticosamente sulla terra ferma. Fissò per un istante il posto dove era
capitata: poi si alzò, barcollando e minacciando di cadere. Si tolse un’alga
dai capelli spettinati. Non le interessava dove fosse finita:
voleva soltanto magiare e bere, fin quando le sue membra esauste dal
“naufragio” non si fossero rifocillate.
Sonia si diresse stancamente ma senza esitazione verso le
luci di Tortuga.
Una zattera rudimentale, che pareva più che altro la
rimanenza di una nave dopo un assalto pirata o una tempesta, navigava
lentamente, minacciando ogni secondi di ribaltarsi o
di affondare definitivamente. Da quelle parti le acque erano veramente infide.
Vicino alla Gola del Drago, del resto, lo stretto più pericoloso per miglia e
miglia, venti e correnti forti erano piuttosto naturali.
A bordo della zattera quasi del
tutto immersa nell’acqua pareva che ci fosse un fantasma, o uno strano mostro
dalle sembianze di uno scheletro. Il volto era talmente immobile e dai lineamenti secchi
che pareva scolpito nel marmo. Il fondotinta bianco si
scioglieva lasciando il posto alla pelle ormai essiccata e bruciata dal sole.
Il lunghissimo, sfarzoso vestito era strappato in più punti, così che pareva
una vecchia tenda sbiadita, appartenente a uno dei
tanti spettri che popolavano le leggende marinaresche.
Ma non si trattava di una leggenda
marinaresca. Rowena aprì gli occhi, impiegando almeno un minuto per rendersi
conto della situazione. Doveva essere la terza volta che sveniva per la fame.
Il sole la faceva stare male, al pari di fame e sete. Il
suo stomaco ormai era rattrappito come una prugna secca. Aveva troppo caldo o
spaventosamente freddo, a causa della differenza
eccessiva di clima che c’era fra il giorno e la notte. L’acqua era gelida. A
vederla dalla superficie sembrava che abbondasse di pesce, ma non era possibile
catturare neanche uno di quegli animali. Rowena si reputava già abbastanza
fortunata a non aver incontrato squali. Non sapeva da quanti giorni la sua
piccola imbarcazione era in navigazione. Sapeva soltanto che il suo flauto era
riuscito a spingerla molto lontano negli ultimi giorni, ma il suo potere
sembrava indebolito. A volte, poi, aveva troppa fame per restare sveglia.
Sveniva. Era troppo debole, e non era avvezza a certi eccessivi bisogni fisici.
Gli occhi
di Rowena scintillavano di rabbia, di frustrazione. Era sempre riuscita a non
piangere, ma ci era molto vicina. La ferita nel suo
orgoglio era stata troppo grande, troppo profonda,
troppo dolorosa per poterle resisterle.
La sua
salvezza - se tale la si poteva definire - sembrò
giungere assieme alle vele scure gonfie di vento di una nave che compariva
all’orizzonte.
Sonia non
sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto quando avrebbe dovuto dire all’oste, prima o poi, che non aveva un soldo. Nonostante si fosse
ingozzata come mai nella sua vita non si era posta il problema del denaro per
pagare; e le sembrava che il proprietario quell’affollata locanda di Tortuga,
per quanto immerso e assordito da caos e schiamazzi, fosse bene attento a coloro che non pagavano il conto. Era nerboruto abbastanza per poterle spezzare facilmente l’osso del collo, in tale
eventualità.
Probabilmente
il meglio che le potesse capitare era trovarsi nuovamente a lavare piatti per
chissà quanto. Ormai era decisamente un’esperta del
mestiere. Non riusciva ancora a maledire i pirati che l’avevano lasciata al
mare, nonostante tutto. Non era mai riuscita a maledire nessuno, neanche
Rowena, che in quel momento doveva soffrire veramente molto. Sonia lo sentiva.
Sulla sua stessa pelle.
Poi, ad
un tratto, Sonia avvertì che Rowena stava più o meno come lei: nel suo stomaco
erano scivolati del rum e qualcosa di commestibile. Forse anche lei era
riuscita ad approdare da qualche parte.
Nonostante
tutto, Sonia si sorprese ad augurarle di stare bene.
Rowena aveva un vecchio telo gettato sulle spalle. Aveva
da poco cessato di rifocillarsi, anche se tutto ciò che le era stato dato non
era ancora sufficiente a lenire la fame e la sete di giorni e giorni di deriva.
Guardò con sospetto i pirati che l’avevano presa a bordo, e scoprì che il suo
sguardo diffidente era pienamente ricambiato. Gli occhi della ciurma sembravano
sputare fuoco e lapilli come bocche di un vulcano. Del resto non potevano
dimenticare tutti i danni a loro inferti dalla Coleridge, né tanto meno la
scena cui avevano assistito nella desolazione di Greenfield Bay dopo il suo
passaggio.
Le parole scritte sulla trave di legno vibravano ancora
nel vento. “I loro bambini non torneranno indietro”… Rowena rivedeva di fronte
a sé la sagoma scura dei civili impiccati profilata contro il sole arancione di
quell’ora tarda. Non ne provava rimorso.
- Di’, ci hai preso per una corriera? - protestò un uomo
dalla folla, avvicinandosi al suo capitano. - E’ la seconda tipa che raccattiamo
dal mare! -
- Se non altro la prima non era una pazza furiosa, - fece
notare qualcun altro.
Il Capitano tuttavia non ascoltava. Nessuno poteva negare
di essere rimasto attonito quando avevano trovato la “zattera” di Rowena. Il
volto un po’ infantile era spellato dal sole. Su di esso ricadevano dei corti
capelli biondo cenere, che ora incorniciavano degli occhi grigi e spenti,
fissati nel medesimo punto da circa mezz’ora.
Rowena aveva perduto la sua maschera.
Nessuno capiva che cosa ci fosse da disperarsi tanto. Ma
Rowena lo sapeva. E sapeva che ora era tutto irrimediabilmente rovinato. Stava
tentando disperatamente di formulare un piano, ma sembrava che non ci fossero
speranze di ricostruire quello che giorni prima era andato in pezzi. Ad
animarla c’era un unico proposito: la stiva e il suo prezioso carico, e la
morte che desiderava infliggere a Gabriel. Si accorse che, più che altro, stava
progettando quale fosse il modo migliore di ucciderlo, e non si stava curando
minimamente di come avrebbe fatto a tornare alla Coleridge senza essere
condannata dell’ammutinamento di qualche anno prima. E quindi uccisa. Ma non
poteva ancora morire, o meglio, non sarebbe mai morta, non per mano di quegli
sciocchi sciacalli.
D’un tratto si accorse che il Capitano della Perla Nera la
fissava come se fosse stato partecipe dei suoi pensieri, come se avesse potuto
leggerli. Impossibile, ovviamente. Tuttavia non si era mai sentita così
scrutata fin dentro all’anima da quando la sua maschera era stata spezzata in
due.
Pensò a Gabriel che in quel momento si stava godendo la
sua cabina di capitano. Non aveva mai avuto così voglia di farlo a pezzi. O
forse era meglio soffocarlo. Vederlo annaspare. Precipitarlo nelle profondità
dell’oceano.
- Lasceremo in mare anche lei, Jack, o preferisci
ucciderla subito? - domandò un pirata. Poi si rese conto, dall’espressione di
Jack, di essersi dimenticato di chiamarlo “capitano”, e rimediò all’istante,
facendo un passo indietro. Rowena lo trovò patetico.
- Dipende, - rispose Jack, facendo qualche passo elastico
in direzione di Rowena, che non si curò di alzar troppo lo sguardo per
fissarlo. Era stanca, sfibrata, da quegli occhi penetranti. Non ricordava di
essersi mai sentita così spoglia, così priva di protezione da qualsiasi cosa provenisse
dall’esterno, - … Se mai avesse qualcosa di interessante con cui contrattare. -
- Perché non mi uccidi adesso, invece? O lasciami in mare,
come è stato proposto. - rispose Rowena, - Come si infrangerà la Perla Nera
contro gli scogli della Gola del Drago, così io e la mia zattera non avremo
speranze quando avremo raggiunto quelle onde e quei gorghi infernali. -
Jack comprese le implicazioni nascoste fra quelle frasi.
Volse a occidente uno sguardo storto, pensieroso; la Gola del Diavolo risparmiava
poche navi, specie se erano mal ridotte come lo era in quel frangente la Perla
Nera. Era anche vero che avevano bisogno di oltrepassare quello stretto se
volevano raggiungere l’unico porto che avrebbe ospitato la loro nave e le
avrebbe offerto riparazioni: Tortuga.
- Questo
è vero, - disse Jack, - Ma non sembra che la tua presenza possa determinare le
sorti della Perla Nera quando avrà raggiunto lo stretto, ne convieni? -
- Non ne
convengo, - rispose Rowena. Si alzò in piedi, e il telo le cadde dalle spalle
tremanti, che ora cercavano di mantenersi salde per non far trasparire alcuna
ombra di debolezza. I suoi occhi grigi avevano un bagliore d’argento che
riluceva nel crepuscolo, come una squama di pesce o l’occhio senza palpebre di
uno squalo. Rowena raccolse, nell’alzarsi, il flauto d’argento posto sul ponte
accanto ai suoi piedi, e lo mostrò alla ciurma. Nessuno parve capire, non fin
quando Rowena parlò, squadrandoli tutti nella speranza di intimidirli - ma non
aveva più sul volto la maschera che l’aveva resa, un tempo, ancora più
minacciosa: - La Coleridge ha superato qualsiasi tempesta e ne ha generate di
nuove per scacciare ogni nave che le si avvicinasse, - disse a voce abbastanza
alta perché tutti la sentissero. Scattò un brusio sommesso tra la ciurma. -
Questo strumento è nato dalla lava dell’inferno, - aggiunse a voce più bassa,
girandosi ora verso Jack Sparrow, - E può placare le correnti della Gola del
Drago per me e per la mia zattera, mentre le ingigantirà quando sarà il momento
della Perla Nera di passarvi. Io posso sopravvivere da sola, ma la Perla no,
non ridotta a un tale colabrodo. - I suoi occhi si strinsero in due fessure e
la sua voce divenne tanto malvagia da far accapponare la pelle, - Ne convenite?
-
Silenzio.
Nessuno parlò per almeno un quarto d’ora.
Il patto
che Rowena stava proponendo era fin troppo chiaro, perfino agli occhi di un
imbecille. Jack assunse un’espressione pensierosa volutamente un po’ ridicola.
Infine sollevò l’indice e aprì la bocca per parlare. Soltanto un attimo dopo si
decise ad accettare la condizione.
- E che
cosa vorrebbe Vossignoria in cambio? - domandò.
-
Oltrepasserete incolumi la Gola del Drago e tornerete a Tortuga senza
incontrare ostacoli. Ma quando avrete riparato la nave a dovere… - si avvicinò
di un passo, tanto che Jack poté sentire sulla pelle il suo respiro. Il sorriso
contorto di Sonia esalava parole sibilate come se la sua voce fosse stata il
verso d’una serpe, - … Mi riporterete alla Coleridge. So dove si trova. Il
Diavolo lo sa. Indosserò di nuovo la maschera… Ucciderò il traditore Gabriel e
sarò di nuovo Capitano. Chiedo soltanto che prendiate tempo… intrattenendo la ciurma fino ad allora. -
- Non è
poi tanto vantaggioso per noi, - ribatté Jack con un largo gesto del braccio
destro, - Perché durante questo… intrattenimento potremmo subire delle perdite.
-
- Il
dieci per cento del nostro tesoro, in gemme e monete d’oro, - rispose Rowena
sollevando le sopracciglia, - Per ogni uomo caduto dei vostri. -
Si
allontanò di un passo e tese la mano perfettamente liscia, nonostante non fosse
più fasciata da guanti di morbida seta. Jack era incerto se accettare o no.
Rowena era una persona falsa ed infida. Avrebbe potuto distruggere la ciurma
della Perla Nera una volta ridiventata Capitano, così da sottrarre loro il
tesoro. Ma tutto sommato la ciurma della Coleridge non era più abile nei
combattimenti come un tempo.
Jack
dette un rapido sguardo alla sua nave. Per quanto fosse duro ammetterlo, aveva
bisogno di un restauro. Così come Rowena aveva bisogno di riottenere il comando
della Coleridge: nient’altro le interessava.
- Venti
per cento, - la contrastò Jack del tutto inaspettatamente, - Per ognuno dei
miei che sia morto o non più in grado di lavorare. -
- E
allora il quindici per cento, - propose ancora Rowena inarcando le braccia sui
fianchi, - Per morti o mutilati a braccia e gambe. -
- Venti! -
-
Quindici! -
Si
scrutarono per lunghissimi istanti con espressioni furiose, determinati a non
cedere completamente alle proposte dell’altro. Rowena riflettè: Jack Sparrow
non avrebbe ceduto senz’altro, o avrebbe proposto qualcosa di ancora più
vantaggioso per lui e meno per lei. Conosceva quelle tattiche sottili.
-
Facciamo dieci per cento, - disse Rowena, ormai irremovibile, e aggiunse, prima
che l’espressione di Jack divenisse contrariata, - E il risarcimento completo
di qualsiasi danno passato, presente e futuro alla Perla Nera che sia causato
dalla mia Coleridge! -
- Questo
è aver le tasche bucate, - convenne divertito Jack, ovviamente ben lieto di
accettare.
- I
tesori posso rubarli di nuovo, Capitano Sparrow… - disse Rowena con un sorriso
ancor più contorto e maligno, - Ma il resto del carico… Oh, non puoi neppure
immaginartelo. -
Jack
cercò di ostentare impassibilità mentre osservava le acque infernali della Gola
del Drago divenire placide e favorevoli alla navigazione, come serpenti di mare
incantati dalle note cristalline del flauto d’argento di Rowena. La ciurma non
si sprecò a tenere a bada le vele. Non ci fu bisogno di stringere corde, tenere
il timone, alleggerire il carico: sembrava che il mare obbedisse ciecamente aglio
ordini del Capitano della Coleridge. Come valeva per il resto della ciurma, per
Jack fu impossibile rendersi imperturbabile; non aveva mai assistito ad un
incantesimo di tale potenza.
-
Stregoneria! - esclamò Gibbs in piena meraviglia. Rowena, appollaiata vicino
alla polena, finse di ignorarlo.
- Chi…
chi ha creato quello strumento? Com’è possibile che il mare gli ubbidisca? -
fece eco la voce meravigliata di Anamaria, quasi un
sospiro.
Rowena
cessò di suonare soltanto quando furono molto lontani dalla Gola del Drago,
ormai in viaggio nel vento favorevole, diretti a Tortuga, che avrebbero
raggiunto in meno di due giorni.
- E’ il
simbolo di un patto, - rispose distrattamente, guardando il cielo. La ciurma
osservò meravigliata l’enorme ombre di un albatro che
prendeva a volteggiare in larghi cerchi nel cielo sovrastante la Perla Nera. Il simbolo della mia esistenza, pensò. A differenza di quel che Sonia diceva.
Lei
esisteva.
Non
dipendeva da nessuno. Era lei la creatura primaria, non quella mocciosa!
- E con chi avreste formulato questo patto, madame? - disse
sarcasticamente Jack, avvicinandosele. Rowena scrollò le spalle.
- Con un
amico… - rispose con voce sognante. Fissava il cielo. Le
nuvole che si rincorrevano. Il fluttuare di un candido
albatro, dominatore del vento con le sue immense ali venate di piume nerastre.
- Sì… Proprio un vecchio amico. -
Si voltò
verso Jack, guardandolo intensamente. Jack fissò la curva delle sue labbra
rosee mentre esse si stiravano in un sorriso amaro.
*
I calcoli
si erano rivelati esatti e la Perla Nera era giunta a Tortuga senza intoppi e
senza ritardi rispetto alle previsioni di Sonia. Adesso Jack aveva qualcosa da
raccontare, ebbro di rum alla locanda, e la ciurma poteva vantarsi di aver
superato la Gola del Drago e di aver recuperato il suo tesoro dalle stive della
Coleridge. O almeno, questo era quello che avrebbero
narrato a coloro che si fossero dimostrati disposti a crederci.
Rowena
aveva preso una stanza alla locanda e da lì non si muoveva mai se non a notte
inoltrata, fin quando il cielo non s’avvicinava al risorgere dell’alba. Lontano
dalle luci. Lontano da tutti quegli sguardi, che penetravano
la sua anima fino a polverizzarle le ossa.
Ma
forse avrebbe fatto meglio ad uscire altre volte, ogni tanto: se non altro per
rendersi conto che Sonia Livingstone si aggirava per Tortuga esattamente come
si aggirava lei.
Sonia
sapeva della presenza di Rowena. L’aveva sentita. E,
come sempre succedeva, aveva sentito
con la stessa intensità dei propositi celati dietro al patto che aveva stretto
con Jack Sparrow una settimana prima. La Perla Nera era quasi pronta per
tornare in mare, e quindi per dirigersi verso la Coleridge: erano necessari al massimo altri cinque giorni.
Prima di
allora, Sonia doveva assolutamente convincere Jack a spezzare il patto che
aveva suggellato, in un modo o nell’altro.
Come
aveva previsto, per pagare il debito con l’oste era stata assunta a tempo
indeterminato come cameriera, il che era sì meno schifoso ma decisamente
più rischioso che lavare i piatti. Se non altro, Sonia
aveva la possibilità di individuare facilmente Jack Sparrow - presenza fissa da
quelle parti - e aspettare il momento propizio per parlargli.
Finalmente
il momento venne. Non era ancora completamente brillo e se ne stava da solo al
tavolo. Gli altri pirati della locanda erano troppo impegnati in una rissa
collettiva per rendersi conto di movimenti sospetti.
- Devo
parlarti! - disse Sonia, tutto d’un fiato, dopo
essersi fatta alle spalle di Jack. Quest’ultimo sobbalzò e quasi cadde dalla
sedia. Era mezzo addormentato. Quando si volse gli fu
impossibile non riconoscere quel viso da adolescente, quelle labbra rosee,
quegli occhi grigi.
- Che ci fai qui vestita da cameriera, madame? - disse nel suo
solito tono sarcastico, per prendere in giro l’altezzosità di Rowena.
Ovviamente non immaginava che la donna della quale si stava facendo beffe si
trovava molto lontano da lì. Sonia non intuì il malinteso, ma tirò ugualmente
via il Capitano della Perla Nera, che annaspò e incespicò fin quando non furono
sul retro della locanda, un luogo riservato ai dipendenti, dove per tanto non
andava mai nessuno, visto che di dipendenti ce n’erano
veramente pochi.
Dopo
qualche minuto Jack sembrò rinsavire. Scosse la testa e si girò lentamente
verso Sonia, con un movimento fluido e ondeggiante. Sembrò rendersi conto che
era praticamente impossibile che quella dinanzi a lui
fosse Rowena. Aveva gestualità e modi di fare del tutto
differenti.
- Tu sei…
-
- Sì, mi
avete buttata in mare due settimane fa, - rispose Sonia con un tocco di acidità nella voce. Ma non era
da lei portare rancore.
- Oh… -
fece Jack, stupito che si fosse salvata, - Vuoi schiaffeggiarmi, bastonarmi o
qualcosa di questo genere? -
- Adesso
l’importante è che tu lasci a terra Rowena, - rispose di scatto Sonia, senza
por tempo in mezzo facendo troppe introduzioni, - Non deve arrivare alla
Coleridge! Spezza il patto, fai qualcosa! Se tornasse Capitano sarebbe la fine! -
Jack,
stupito da quell’improvvisa veemenza, alzò le mani come a dirle silenziosamente
di calmarsi.
Si
guardarono per un po’. Jack non poteva fare a meno di notare il bagliore
argenteo degli occhi grigiastri, il medesimo barlume, la stessa scaglia di
luna: l’aveva visto negli occhi di Rowena, e l’aveva visto troppe volte per non
ricordarsene.
- Non
posso rompere il patto, - rispose tranquillamente Jack, - E comunque
perché dovrei? - Sonia sospirò, tenendo a bada la propria impazienza.
- Non
posso spiegartelo, - disse Sonia. Le sue braccia divennero
flosce, ciondolarono sui fianchi magri. Sembrava amareggiata, stremata,
al cospetto della storia incredibile che avrebbe dovuto raccontare a Jack, - In
ogni caso non mi crederesti mai. -
- Parli di altre storie di spettri e mostri terrificanti? - disse
Jack protendendo il viso in avanti per cogliere l’espressione ora indecifrabile
della ragazza che aveva dinanzi.
- No. -
replicò Sonia. - Sto parlando di Satana. -
Jack
vacillò, ma non lo dette a vedere. Tuttavia la sua
espressione era un viso aperto. Capitava spesso, specie a Tortuga, che
si parlasse del Diavolo così, tanto per fare un
paragone esagerato o per metter paura alla gente. Il Diavolo,
Satana, lo spauracchio e l’emblema delle peggiori caratteristiche che un umano
potesse avere. Ma Sonia non l’aveva detto
senz’altro con l’intenzione di utilizzarlo come icona: Jack aveva udito il suo
tono di voce. Lo stesso che Rowena aveva usato giorni prima,
seduta vicino alla polena della sua nave. La stessa amarezza e la stessa
vaga disperazione. Non poteva esserci niente di poco serio in
quanto Sonia stava dicendo, a meno che non si trattasse di uno scherzo
ben costruito. Ma Jack aveva bisogno di una sola
occhiata per rendersi conto che Sonia non sapeva mentire né tanto meno
preparare un bello scherzo perfido.
Ora Sonia
stava ansando. Pareva che ogni sua parola le stesse recando un dolore
psicologico ad effetto ritardato.
-
Spiegati, dunque, - le disse, cercando di dare alla sua voce un’intonazione
affabile.
Sonia
sospirò; Jack aveva intenzione di crederle?
Sarebbe
stata una cosa insolita. Nessuno avrebbe mai creduto ad una storia come quella.
Ma dopotutto, quello era il capitano della Perla Nera:
forse c’era una speranza.
- Chi sei
tu? - chiese Jack. Quella per Sonia fu la conferma che Jack voleva veramente
ascoltare e prestare attenzione alla sua storia.
- Io sono nessuno, - rispose cupamente Sonia, - Sono nessuno come
nessuno fu mio padre. Sono nata nella totale mancanza di identità
e di importanza. -
- Sei
nata prigioniera di una nave? -
- Sì. -
rispose Sonia, - Mio padre fu catturato mentre viaggiava dall’Inghilterra alla
Spagna come marinaio su una nave militare. Erano corsari Francesi. A loro volta
furono assaliti dai pirati sull’Atlantico. Mio padre fu costretto a fare il mozzo.
Non so chi fosse mia madre, era un caso, sicuramente,
uno sbaglio. Nacqui io e mia madre morì una settimana dopo della stessa
malattia che prese mio padre. Lentamente anche lui divenne pazzo. -
- Nessuno
tentò di curarlo, immagino… -
-
Nessuno. -
Jack si
rese conto che la voce di Sonia si stava incrinando. Sembrava che stesse per
piangere. Forse non riusciva ad esprimere a parole la fase successiva del suo
racconto.
- C’entra
qualcosa la Coleridge con tutto questo? - chiese Jack per facilitarle l’impresa
e, soprattutto, per confermare i suoi sospetti.
-
Aggredirono la nave dove ci trovavamo. Mio padre morì quella notte. -
- La
malattia… -
- No…
non… non era affatto la sua malattia. -
La testa
di Sonia si rovesciò in basso e i ciuffi corti di capelli di quel biondo
fuligginoso s’incresparono come onde marine. Aveva iniziato a piangere. Ma
doveva parlare: in qualche modo avrebbe dovuto fare, comunque.
- M… me…
me lo uccisero davanti… - soffiò Sonia, col respiro troncato dai singhiozzi mal
repressi - Lo amputarono… gli tolsero la lingua… gli tolsero le mani… e mi
obbligarono a guardare… sempre… Allora io dissi… dissi
che lo uccidessero, piuttosto, che avessero pietà… è che non volevo vederlo
soffrire così, perché lui era pazzo, e non poteva dire niente, non si muoveva
più… -
Jack
ascoltava disgustato. Sapeva che torturare era un’abitudine molto in voga fra i
pirati, ma in qualche modo aveva sempre ignorato la questione. Non aveva mai
udito di quell’abitudine vista dagli occhi di chi doveva subirla.
- Non
volevo farlo… non volevo condannarlo… ma non avevo scelta, capisci?
Che altro potevo fare? Stavo male, stavo per svenire…
e mio padre mi chiamava, e mi guardava con gli occhi bianchi… - prese fiato, - Allora mi dissero che… e-ero una figlia
degenere… Lo tranciarono in due. Lasciarono che sanguinasse addosso a me. Il
busto mi cadde addosso. E credo che… non svenni, m… ma
avrei voluto farlo. Restai sveglia… Mi presero a frustate… dissero che Dio
doveva punirmi per la mia disumanità… -
Jack
inclinò leggermente la schiena e si rese conto che, dietro la scollatura
posteriore del vestito da cameriera, trasparivano i segni delle frustate
probabilmente ricevute nel corso degli anni: la più evidente era un profondo
solco verticale scavato di poco alla sinistra della colonna vertebrale, che
dalle spalle probabilmente raggiungeva la parte bassa della schiena. Jack non
si stupì che Sonia non potesse più vedere una sola goccia di sangue senza
svenire. Doveva aver sviluppato una sorta di fobia, un’ossessione costante. Ma anche Rowena aveva la stessa paura…
- Che
altro avresti potuto fare per quel poveraccio? - disse
Jack cercando di calmarla, se non altro perché parlasse in tono di voce più
basso. Non era esattamente un’ottima cosa che tutti sentissero
quei discorsi, soprattutto l’oste, se avesse beccato Sonia sul retro quando
avrebbe dovuto lavorare per pagare il suo debito.
Sonia si
asciugò le lacrime e cercò di calmarsi, comprendendo il suo timore.
- E che cosa c’entrano Satana e la donna con la maschera con
questa storia? - chiese implacabile Jack, quando fu sicuro che Sonia sarebbe
riuscita a parlare senza piangere.
- Io non
potevo vivere senza mio padre, - rispose Sonia. La voce era così bassa che Jack
dovette avvicinarsi per distinguere le parole, - Era l’unico… l’unico che mi avesse mai amata, l’unico sul quale avessi sempre potuto
contare. Credetti veramente in quello che mi disse il
Capitano della Coleridge. Credetti davvero che Dio mi avesse punita. E allora io… io abbandonai
Dio. - si fermò. Non era sicura che fosse il caso di andare avanti, eppure
ormai non era capace di interrompersi. Era la prima volta che parlava a
qualcuno della sua storia. - So che è disgustoso, ma…
io mi sentivo veramente traditrice. Priva di fede. E allora… vendetti la mia anima… al Diavolo. -
Jack
indietreggiò di un passo. Nel credere o non credere in Dio non aveva mai posto
una grande importanza. Ma non aveva mai creduto che
una persona potesse vendersi a Satana.
- Feci un
patto. Ero disperata. Non sapevo che cosa fare, e allora diedi retta
all’istinto, alla tentazione… era sbagliato. Ma che
potevo fare? -
- E qual era questo patto? - incalzò Jack.
- Avrei
riavuto mio padre. Vivo, sano… ma ad una condizione. - Sonia deglutì e strinse
i pugni, vergognandosi di sé stessa e di ciò che aveva fatto. - Satana voleva
il sangue di cento bambini che avessero al massimo la
stessa età che avevo io quando mio padre fu torturato e ucciso. Allora lo avrei
evocato. Al suono di uno strumento forgiato nell’inferno, capace di plasmare le
correnti marine, Satana sarebbe emerso dagli abissi e avrebbe raccolto i
prodotti del sacrificio. -
Jack
inspirò profondamente. Cominciava a capire molte cose, nonostante i punti
oscuri fossero rimasti molteplici. Sapeva che la storia non era ancora
terminata. Tuttavia, d’un tratto, gli era passata la voglia
di ascoltarne il resto.
Sonia
però parlava. E avrebbe continuato a parlare fino alla
fine.
- Avevo
regalato la mia anima al Diavolo e il Diavolo me la restituì priva di ogni lato umano… un demone dall’aspetto umano. La mia
copia, il mio spirito gemello. L’esatto riflesso di me, ma
con i miei vizi nascosti e con la mia malvagità altrettanto nascosta, emerse in
superficie. Satana creò Rowena. Come aveva creato il flauto. -
Sonia
stava ricominciando a piangere, ma tentò di evitarlo. Doveva farcela. Mancava
poco. E sembrava che Jack stesse credendo alle sue
parole… forse poteva ancora evitare che si verificasse il peggio.
- Perché… perché creò Rowena? Che
bisogno c’era? -
- Vuoi
domandarglielo? - sul volto di Sonia si delineò un
sorriso amaro. - Satana sapeva che da sola non sarei mai riuscita a completare
la missione. Sia Rowena sia il flauto sarebbero stati
strumenti per portarla a compimento. Rowena restò dentro di
me… poi un giorno… la Marina Britannica assalì la Coleridge. Mi
trovarono… e… e… fui presa da un uomo di nome Bartholomew, che mi portò a Port
Royal… non ho più rivisto Rowena fino a qualche settimana fa. Ho cominciato a
dipingere… cercando di respingere il demone che avevo creato e che parlava
dentro di me… cercando di imprigionarlo nella tela. Ho bruciato le navi del
Commodoro quando ho saputo che voleva distruggere la Coleridge. Ho sempre
favorito Rowena. Ho sempre fatto in modo che non le accadesse niente… rivolevo davvero mio padre! Non consideravo le vite che in
quel modo stavo distruggendo… e mi odiavo… sempre di
più… fin quando non ho deciso di smetterla. Sono salita sulla Coleridge… speravo di salvare quei bambini, di smascherare Rowena… non
sapevo come avrei fatto… -
… E dopo
era successo quel che anche Jack aveva visto coi
propri occhi. Ora non aveva difficoltà a collegare il racconto alla realtà,
nonostante il racconto di Sonia fosse piuttosto nebuloso. Che
cosa poteva aspettarsi da una che aveva venduto la propria anima al Diavolo
dopo aver visto il padre tagliato in due di fronte ai propri occhi?
Rowena
era uscita dal corpo di Sonia quando aveva compreso che quest’ultima non
sarebbe mai riuscita ad ottenere una volontà tanto malvagia da dissanguare cento
bambini di otto anni per regalarli al demone
sotterraneo.
- Perché Rowena divenne capitano della Coleridge? - domandò,
aggrottando la fronte.
Sonia
chiuse gli occhi, e li riaprì molto tempo dopo, sospirando intensamente.
- Si mise
una maschera… una maschera italiana che trovò fra i tesori della Coleridge. Il
giorno dopo che fui salvata, e la Coleridge si era ritirata dall’arrembaggio… sparò al Capitano… lo gettò subito in mare… per non vederne
il sangue… allora divenne Capitano. Non potevano accusarla di
ammutinamento. Tutti sapevano che ero io… o meglio… credevano che fossi
io perché avevamo lo stesso aspetto… Ma ufficialmente con quella maschera avrebbe potuto essere chiunque…
- Parlò
alla ciurma del patto col Diavolo. Si dette il nome di Rowena… e nessuno si
ammutinò per due anni perché avevano tutti paura della
vendetta di Satana… -
- … fino a due settimane fa, - concluse Jack con tono ironico e
amareggiato insieme.
- La
ciurma era stanca di lei… - spiegò Sonia, - Aveva sottratto il ruolo che tutti
sapevano sarebbe spettato ad un certo Gabriel… e li
ridicolizzava, e non voleva mai vedere spargimenti di sangue… inibiva tutti i
loro istinti e negava loro il minimo desiderio. Tutti la temevano e insieme la
disprezzavano… e quando sono giunti al culmine, l’hanno abbandonata coi simboli del suo legame con Satana, lasciando che fosse
il mare innocente ad ucciderla al loro posto. -
Se
fosse stato un libro, ci sarebbe stata la parola “Fine”. Sonia aveva il tono di
voce di chi non avrebbe più detto altro. Adesso non riusciva
veramente più a parlare, nonostante lo sfogo le fosse inequivocabilmente
servito. Fissò il mare davanti a sé, oltre la staccionata. Osservò per
molti minuti interminabili il volo dei gabbiani, le sagome nere delle navi
dondolanti sulla superficie scintillante dell’acqua nera, che rifletteva il
cielo notturno. In alto, nella volta celeste, spiccava come uno straccio di
seta più chiara, tempestata di stelle luminose e, poco distante, la luna, uno
spicchio minuscolo che ogni tanto usciva dalle nuvole, illuminando di una luce
spettrale le strade umide del molo.
- C’è
solo una cosa che non è chiara… - Sonia sentì la voce di Jack e avrebbe
preferito potersi tappare le orecchie. Non le andava di spiegare ancora
qualcos’altro. Si voltò il Capitano, annuendo, come esortandolo
a parlare. - Come puoi sapere cosa è successo a… Rowena, - gli sembrava strano
chiamarla per nome, specialmente adesso che sapeva quel che era in realtà, - …
mentre eri a Port Royal? -
Sonia
chiuse di nuovo gli occhi. Sembrava stanca.
- Rowena
è il mio spirito, - rispose Sonia con occhi sognanti, - E anche se lei non lo
sa, io so sempre quello che succede al suo corpo, quello che sente… Se io
dovessi morire, anche lei morirebbe. Ma non viceversa. Non finché il patto non viene
spezzato. - Jack rimase pensieroso: a quest’ultima parte della storia era
ancora più difficile credere. Sonia decise che non
c’era nient’altro da spiegare, che le avesse creduto oppure no. Avrebbe voluto
poter avere delle prove consistenti.
Inaspettatamente,
Jack le si parò davanti, le afferrò il braccio
sinistro e tirò su la manica lunga bianca e blu scura, quasi nera: almeno in
parte, Sonia non aveva mentito. Poco sopra il polso, inciso rudemente sulla
pelle, c’era un tatuaggio raffigurante un mostro marino di forma serpentina del
quale si vedevano solo tre spire che affioravano simmetricamente dalle acque
marine, raffigurate da due linee curve, anch’esse simmetriche. Al centro, sopra
la seconda spira del serpente marino, era incisa una bella “C” in caratteri
corsivi. Il vecchio simbolo della Coleridge. A confermare la storia raccontata
da Sonia, il nuovo simbolo, quello deciso da Rowena, mancava. C’era poi la
tipica “P”, incisa con la lama, che testimoniava la sua appartenenza a una nave pirata.
Sonia
lasciò che Jack esaminasse quei simboli: se non altro sarebbero
serviti come prova, e magari l’avrebbero indotto a darle ascolto quando avrebbe
udito ciò che ancora Sonia aveva da dire.
- Rowena
non deve diventare Capitano della Coleridge, non ora che ha il sangue dei cento
bambini che le occorrevano, - disse, col tono un po’ profetico adatto per una
conclusione di quel genere, - Se evocherà Satana… -
- … Gli
darà il sangue, il paparino tornerà a casa vivo e vegeto
e il Diavolo sprofonderà nuovamente nell’inferno, - concluse Jack con tono
irriverente, necessario per nascondere lo sgomento che si era impossessato di
lui da quando avevano iniziato a fare quei discorsi su demoni, anime vendute, e
bambini dissanguati.
- Non
credo che sarà così semplice, Jack… - replicò Sonia, - Oh, ok… Capitano Jack Sparrow, - fece in tempo a
correggersi, - Rowena non è regolare. Rowena non sarebbe mai dovuta esistere. -
- E quindi? - Da quella domanda Sonia capì:
se Jack le aveva creduto, non aveva intenzione di muovere un dito per spezzare
il patto ed evitare così di guadagnare una percentuale del tesoro della
Coleridge. E se invece non le aveva creduto, com’era
ancor più presumibile, si era comportato in modo serio soltanto perché era
mezzo ubriaco, e la mattina dopo si sarebbe dimenticato di tutto, e avrebbe
condotto Rowena fra le braccia di Satana. Sonia non gli disse a quale prezzo
tutto questo si sarebbe verificato.
Jack le
sferrò un’amichevole pacca sulla spalla. Sonia sentì più dolore del voluto
all’altezza della scapola, come il pungere di una piccola lama, ma non disse
niente. Strinse i denti: probabilmente era solo il freddo, anche se come
ipotesi era veramente poco attendibile. Restò ancora per qualche minuto ad
osservare il Capitano che si allontanava, nella sua forse irreversibile
inconsapevolezza di quale fosse la verità, poi, riluttante, tornò a lavoro
nella locanda.
Il flauto
aveva appena cessato di suonare, e la Perla Nera avanzava sicura verso la sua
preda, con una persona di più nella stiva, nascosta fra le casse di provviste
all’insaputa di tutti. Probabilmente. Ora la nave era perfettamente messa a
nuovo e pronta per compiere una traversata anche molto lunga. Rowena stava in
piedi a poppa, col vestito strappato fluttuante nel forte vento. Si era rimessa
la maschera, ma l’aveva fatta tingere di un altro colore: presto sarebbe giunto
il momento di riprendere il comando, e non poteva farlo senza questo genere di accorgimenti.
Jack
Sparrow stava pensieroso al timone, e lo teneva fermo soltanto per dar
l’impressione di avere qualcosa da fare, visto che grazie al flauto la Perla
Nera procedeva benissimo da sola. Si domandò che gusto ci avessero
mai provato i pirati della Coleridge a navigare su un pezzo di legno che si
pilotava da solo senza mai incontrare una tempesta, un gorgo, un vento
contrario, una bonaccia, una corrente sfavorevole. Esagerando si immaginò che era quello il motivo per cui si erano
ammutinati da Rowena: tutto lo spirito che pervadeva le navi pirata - anche se
non sempre - andava annullandosi sapendo che uno strumento del diavolo pilotava
per loro la nave e la preservava da ogni genere di problema. Niente tesori,
niente saccheggi, niente tempeste da combattere e tentare di sconfiggere: come viaggiare
in una carrozza su una strada liscia.
Considerò
nuovamente alle parole che da poco aveva pensato: uno strumento del diavolo.
Senza saperlo aveva forse creduto alla storia di Sonia Livingstone? Era molto
più probabile, invece, che il dolore per la morte di suo padre e gli episodi
che doveva aver vissuto - a quelli ci credeva - avessero fertilizzato la sua
immaginazione fin quando essa non era germogliata in un fiore nero fatto di incubi infernali e patti demoniaci.
C’era un
solo modo per saperlo.
- Dite un
po’, Vostra Sublime Vertiginosità… - Rowena alzò gli
occhi e si sentì mancare dalla noia che quelle costanti uscite di sarcasmo
apportavano alla sua mente già oberata dalle preoccupazioni. - … Che cosa c’è di tanto interessante dietro di noi? Sono ore
che non vi muovete di lì. - Non si volse per controllare l’effetto delle sue
parole: sapeva benissimo che Rowena, per dimostrargli che non c’era niente di interessante e per indurlo a tacere, si sarebbe spostata
e, con un po’ di fortuna, sarebbe venuta verso di lui.
Infatti
così fu.
- Era un
modo come un altro per darti le spalle, - rispose Rowena, secca. - A meno che tu non preferisca che io ti parli dell’inutilità del
tuo stare testardamente al timone, anche quando non ce n’è alcun bisogno.
-
- E’ un
modo come un altro per darvi le spalle, Altissima, - fu la risposta di Jack.
Un
sorriso indugiò per un istante sulle labbra di Rowena, poi fu sconfitto dalla
solita espressione pietrificata e truce, e volò via nel vento come una manciata di sabbia bianca. Rowena, con le mani intrecciate
in grembo, si avvicinò a Jack per scrutarlo con la peggiore
delle sue espressioni, esattamente come il Capitano si era immaginato.
- Ci sono
altri modi per darmi le spalle, - disse Rowena, - Ma devo ammettere che sono
veramente pochi quelli che consentono di farlo senza rimetterci la pelle. -
- Tremo e
inorridisco, - rispose distrattamente Jack, guardando avanti a sé.
D’un
tratto afferrò per un braccio Rowena e la tirò poco distante da sé, poi le mise
una mano dietro la nuca, spingendola verso il basso, per controllare, col
favore della larga scollatura posteriore del vestito della donna, se
all’altezza della scapola vi fosse un taglio
probabilmente scavato da un pezzo di vetro.
E
c’era. Insieme con esso, tracce di frustate, delle
quali la più evidente era una centrale, verticale, posta di poco alla sinistra
della colonna vertebrale.
Sonia
aveva ragione.
Jack si
sentì vacillare, ma durò solo per un istante. Rowena si sollevò, barcollando
per recuperare l’equilibrio, e prese a coprirlo d’ingiurie, domandandogli che
accidenti gli fosse preso e pregando che il Diavolo lo maledicesse.
- Dite, mia gentile dama, - disse Jack Sparrow interrompendo il fiume
di frasi taglienti, - Vi siete ferita alla schiena, recentemente? Un
chiodo, un pezzo di vetro? -
- Non che
io sappia, - rispose gelidamente la Balia. Lo fissava con occhi penetranti: si
domandava cosa si nascondesse dietro quelle domande
apparentemente innocenti, e quale stupidità lo avesse spinto a quel gesto
insensato che prima l’aveva quasi fatta cadere.
- E’
probabile che altri si siano feriti al posto vostro? - insistette il Capitano
cercando di nascondere un sorriso.
- Feriti…
al posto mio? Che cosa hai ingerito di sospetto
stamattina prima di alzarti, Capitano Jack Sparrow? - fu la veemente risposta
che Jack ottenne.
Un attimo
dopo, prima che Rowena potesse anche solo iniziare a sospettare, Jack lanciò in
aria un frammento di vetro azzurro levigato dal mare, e le recuperò al volo.
Rowena fu colta alla sprovvista. Che cosa significava?
- O magari voi non siete quel che il vostro aspetto umano
potrebbe dare a vedere… -
Inaspettatamente,
Rowena estrasse la pistola. Jack era praticamente
sicuro che non avrebbe sparato: il rischio di vedere il sangue, di sentirne
l’odore, sarebbe stato troppo elevato. Se avesse
voluto chiudere gli occhi per non vedere, non avrebbe potuto prendere bene la
mira, e se invece avesse tenuto gli occhi aperti, non sarebbe fuggita in tempo.
- Non sai
un po’ troppe cose, a questo punto? Chi ti ha detto questo? -
- Qualcuno che conosci bene, - rispose tranquillamente Jack, cessando
di darle del voi e abbassandole l’arma con due dita. - E che
conosce bene te, - Rowena non fece resistenza. Ancora una volta si sentì
distrutta. Il fatto che Jack sapesse della sua natura
non era esattamente la migliore delle notizie. Tuttavia avrebbe potuto
utilizzare quella storia come un incentivo a temerla ulteriormente, anche se
qualcosa le diceva che ci sarebbe voluto ben altro per
spaventare il Capitano della Perla Nera.
- Sonia… -
disse Rowena fissando il vuoto a occhi spalancati. Era
ancora viva. E aveva parlato.
- Bhe,
non volevo fare nomi. - Jack ignorò apparentemente il suo strano ringhio e si
voltò nuovamente verso il timone, alzando le spalle.
- Che cosa vedi? - domandò impaziente Gabriel all’uomo col
cannocchiale, che fissava l’orizzonte da molti minuti, - Sto cominciando a
perdere la pazienza! -
- Non è così semplice, Signore, la nave è ancora lontana. -
Gabriel
non sapeva che il pirata stava lentamente mettendo a fuoco la sagoma
lontanissima della Perla Nera, che perfino attraverso le due lenti appariva
tanto lontana di risultare minuscola.
- Pensi
che vengano verso di noi? - fece Gabriel.
- Troppo
lontani per definirlo, - rispose l’altro cercando di
mascherare la stizza.
Gabriel
era iperteso da quando avevano abbandonato Rowena in mare. Si aspettava la
punizione di Satana da un momento all’altro, e ogni minimo puntolino avvistato
all’orizzonte doveva essere avvistato, definito e schivato, per sicurezza.
Nessuno sapeva dire se la situazione fosse migliorata da quando Rowena aveva
lasciato il comando della Coleridge: senz’altro non era peggiorata, ma Gabriel
come Capitano non valeva più di lei.
Era abbagliato
dal suo posto di comando. Tanto abbagliato e innamorato della sua autorità che
si riteneva padrone della vita e della morte di chiunque sulla nave, ed in effetti era così che stavano le cose. Stabiliva ogni
cosa, anche la più piccola e insignificante. Per lui esistevano solo le sue regole, contro il codice e contro
qualsiasi altro limite umano stabilito. Nessuno invocava il ritorno di Rowena,
ma tutti volevano che Gabriel se ne andasse. Con lui
non avevano paura di tradire il Diavolo, e perciò non avrebbero avuto alcun
timore di scalzarlo e ucciderlo, quando fosse giunto
il momento opportuno.
Gabriel
era accecato dalla luce della sommità della scala gerarchica, da lui occupata:
troppo accecato, in effetti, per rendersi conto che prima o
poi avrebbe fatto la stessa fine dei due che l’avevano preceduto.
- Siete
solo una marmaglia di cani rognosi! Non meritate la metà dei privilegi a voi
concessi! - gridava sempre Gabriel: nessuno capiva di quali
privilegi stesse parlando.
E
proprio mentre ripeteva queste parole, si rese conto che qualcosa non andava.
Se ne accorse in ritardo: era salita una nebbia fitta
e bassa, che aveva imbevuto l’aria di una lattiginosa coltre grigiastra. Il
vento era cessato di colpo e le vele erano flosce, prive di spinta.
Nel silenzio, il legname cigolava e non si sentiva neppure l’acqua che si infrangeva contro lo scafo. La barca dondolava
lentamente, mentre il grido di un albatro il lontananza
infrangeva la barriera d’aria densa per giungere alle loro orecchie.
Poi, un
suono di campanelli d’argento. Uno scrosciare d’acqua, un
torrente montano, una pioggerellina estiva. Un suono
tanto candido da sembrare appartenente ad un'altra dimensione, ad un altro
mondo, come una neve che scendeva lentamente dal paradiso. Ma non era la melodia dolce del Paradiso, non era la voce di
un qualcosa di divino: si era trasformando, rivelando agli umani la sua natura
ingannevole. Era il ruggito dei demoni dell’inferno.
Era un
flauto d’argento che suonava nella nebbia.
- Oh, Dio
onnipotente… -
La voce
di Gabriel era un sospiro, un soffio, un vago alito di vento a mala pena
percettibile. In un attimo i colori abbaglianti della zona circostante si erano
tramutati in scale di grigio venate di un blu
scurissimo. Il suono del flauto cessò: Gabriel si voltò. La Perla Nera svettava
oltre la murata di babordo.
- Ai cannoni! - gridò immediatamente Gabriel, confuso e sbigottito, - Sparate! Sparate immediatamen…! -
La frase
di Gabriel terminò in un rantolo. Tutta la ciurma ora si era voltata a
guardarlo: una gamba lo teneva schiacciato contro il ponte, e la sua spina
dorsale era orribilmente curva all’insù, dal momento che una corda lo teneva
per il collo. La Balia lo sovrastava. Non fu difficile accorgersi che si
trattava di Rowena, nonostante la maschera.
- Visto?
Non ci sarà bisogno di spargere troppe vittime… - disse
la sua voce tagliente. Era lei. Le vibrazioni della sua malvagità fecero tremare le ossa di Gabriel, ora piegate fino
all’inverosimile.
- Le mie
congratulazioni, - giunse una voce alle sue spalle, ironica e non solare come
una voce veramente intenzionata a congratularsi. Dalla nebbia
emersa il Capitano della Perla Nera, l’espressione imperturbabile e le mani
intrecciate dietro la schiena.
Rowena
tornò a fissare Gabriel, uno scarafaggio che si contorceva a terra, alla sua
completa mercé, pronto per essere del tutto spiaccicato. Rowena però non voleva
che finisse così presto: tirò la corda ancora un po’ più in alto e il collo di
Gabriel si tese come una vela piena di vento, mentre la schiena prendeva a
scricchiolare. Rowena sapeva che sarebbe morto se lei avesse spezzato
irrimediabilmente le vertebre. Aspettò; lo tenne in quella terrificante
posizione come se fosse stato una trave di legno molto
flessibile, in modo che, fra un grido e l’altro, si rendesse conto di cosa
stava succedendo.
Entrambe
le ciurme erano ammutolite. Jack finse di guardare il mare per distogliere lo
sguardo.
- In
qualche maniera gli ammutinati verranno sempre puniti,
Gabriel, - disse Rowena, sorridendo, - A meno che non abbiano l’accortezza di
mascherare la propria identità, non essendo così sicuri che i cadaveri
risorgeranno per riprendere il loro posto. -
Gabriel
non poteva seguire le parole: le sue ossa si stavano spezzando una dopo
l’altra, come legamenti di una nave che cedono sotto
il ruggito del vento d’una tempesta.
Rowena ne
sentiva lo scricchiolio. Le ricordavano le tarme nel legname vecchio. L’albatro
galleggiava sulla superficie delle acque. Non si udiva più il suo stridore.
- Oggi è
il giorno in cui Satana otterrà la sua moneta, - dichiarò Rowena, - E’ il
giorno del giudizio! -
Gabriel
rantolò. Chiese perdono a Dio, e a tutte le divinità di qualsiasi religione che
potesse ricordare. Inutile.
La corda
tirò, e la sua schiena si spezzò, in un unico cigolio sordo.
n solo, singolo attimo fu necessario per generare
un’incommensurabile pandemonio. Le ire represse esplosero. Il giorno della
vendetta si manifestò in un unico grido che squarciò il silenzio, e l’albatro volò
via, per non fare ritorno. La ciurma della Perla Nera accolse l’ondata di
pirati nemici, respingendoli e gettandoli in mare, mentre qualcun altro cadeva
sotto le armi. Poi, con un balzo, tutto il combattimento si spostò sul ponte
sudicio di salmastro della Coleridge. La nebbia non si diradò.
Se Gabriel era stato un pessimo
capitano, Rowena non era senz’altro migliore. Erano senza Dio i pirati della
Coleridge: potevano essere anche senza Capitano. Si precipitarono addosso a
Rowena, che li respinse sventolando davanti ai loro occhi il cadavere moscio di
Gabriel, che pareva sorretto solamente da un fine strato interno di
cartilagine. Stranamente, la cosa funzionò, e le ostilità
si trasferirono altrove.
Fu il momento per Sonia di
scappare dalla stiva della Perla Nera, dove aveva trascorso ogni minuto della
navigazione senza che nessuno s’accorgesse di lei o avesse notizia della sua
presenza.
O forse sì: non era così sicura che
Jack Sparrow fosse inconsapevole di lei. Probabilmente si era reso conto che, con
o senza di lei, la differenza sarebbe stata minima. Sapeva che Sonia stava solo
tentando di impedire che Rowena evocasse Lucifero dalle profondità abissali
dell’oceano. E questo a Jack faceva ben poca
differenza, ora che il patto era stato portato a termine e che mancava soltanto
la parte di tesoro che spettava a lui. Si gettò nel combattimento. Nessuno fece
caso a Sonia.
Tranne Rowena.
Quest’ultima era riuscita a
raccogliere quei pochi che si erano arresi alla sorte e avevano deciso di darle
ascolto. Che corressero a prendere le botti nella
stiva, prima che un nuovo sole sorgesse! Non c’era più tempo da sprecare con
gli arrembaggi e i tesori.
Mentre i pochi che avevano intenzione di
farlo ubbidivano all’ordine, lo sguardo di Rowena si estese oltre la gente che
si uccideva a vicenda, e incontrò la figura ben nota di Sonia Livingstone. I
loro sguardi identici si incrociarono. Rowena ebbe un
brivido, e lo stesso brivido lo ebbe Sonia: era come uno specchio. Non c’era
niente di diverso nel guardare sé stessi riflessi nell’acqua o nel vetro. I
vestiti erano diversi, molte altre cose non combaciavano.
Ma entrambe le donne erano consapevoli che il riflesso
era perfetto, e che non c’era nulla di differente.
- Dunque ci incontriamo
ancora una volta! Sembra che tu non riesca a fare a meno di mettermi i bastoni
fra le ruote! -
Sonia non ebbe paura, nonostante
quella voce le facesse drizzare i peli sulla nuca: aveva intenzione di sfidarla
a quattrocchi, senza che la sua codardia potesse intervenire.
- Io ti chiedo di usare la
ragione! - ribatté Sonia apparentemente senza prestare ascolto alla
provocazione di Rowena, - Non fare quello che stai facendo! -
- Dammi un motivo, almeno, per il
quale non dovrei! -
Sonia non poteva darglielo: non le
avrebbe creduto. Lei stessa si rifiutata di crederci.
Intorno, la battaglia infuriava.
Jack scaraventò a terra due pirati
infilzati nella stessa lama come pezzi di carne su uno spiedino, e si voltò
appena in tempo per impedire di essere colpito da un proiettile che gli proveniva
da dietro le spalle. L’albero maestro della Coleridge era in fiamme. E presto in fiamme sarebbe stato anche il resto della nave.
Dalla stiva giunsero le prime
botti. Rowena prese a ridere selvaggiamente, una risata primordiale che fece
arretrare Sonia. La puzza del sangue contenuto in quei recipienti chiusi le
causava un senso di nausea incontenibile, e anche per Rowena era così, ma
quest’ultima non lo dava a vedere. Il totale abbandono alla follia del suo
piano finalmente giunto a compimento la accecavano
completamente.
- Ti prego, Rowena! Non farlo! -
tentò un’ultima volta Sonia.
Inutile. Completamente inutile.
Altre botti si ammassarono, e
intanto gli adepti si moltiplicavano: adesso che il Diavolo stava per apparire
di fronte agli occhi dei mortali, erano pochi quelli che non avevano nessuna intenzione di obbedire a Rowena.
Le botti vennero
trafitte da colpi di spada, liberando una puzza tremenda, e poi vennero gettati
in mare. Le aperture così praticate cominciarono a riversare
in acqua il loro liquido accumulato nell’arco di due anni e in breve tempo il
mare grigio divenne completamente rosso. La nebbia cominciò a piovere in
piccolissime goccioline d’acqua fredda. Tutti si erano fermati, perché il
flauto di Rowena aveva ripreso a suonare, ma stavolta si trattava di una
melodia completamente diversa. Tendeva ogni nervo. Per quando fosse tranquilla, aveva un qualcosa di grottesco che
impediva al cervello di rilassarsi abbandonandosi a quella melodia.
Poi si sentì un rombo.
Si diffondeva dal profondo del
mare fino al più alto dei cieli, e vibrava nelle ossa, s’insinuava fra il
legname delle navi, rombava nel petto.
Sembrava un terremoto o
un’eruzione sottomarina, ma era ben altro.
Qualcosa schizzò via dalle onde
che si erano formate. Qualcosa di serpentino. Una figura verdastra, o forse
azzurra, o forse non aveva un colore definibile. Cangiante,
gocciolante, ruggente come una belva feroce. Le sue squame rilucevano
d’acqua fredda. Un serpente marino. Ma possedeva la
chioma nera e fluente di un essere umano e il volto pure antropomorfo di una
statua greca raffigurante il dio Nettuno. Aveva la bocca aperta nella più
orrenda smorfia da maschera teatrale. Gli occhi erano due orbite nelle quali le
pupille erano appena distinguibili. Aveva una barba grigiastra che gli fasciava
il mento fino a congiungersi coi capelli, all’altezza
dei pronunciatissimi zigomi. Le corna di un caprone o
di un toro partivano dalla nuca e si attorcigliavo incorniciando il volto
pazzesco di quel mostro.
Nuotava nel sangue. Era giunto a
raccogliere la sua offerta. Semplicemente il Diavolo, in una
delle sue tante forme.
Puoi
cessare di suonare.
Erano tutti ammutoliti.
Nessuno osava più aprir bocca e
quasi era impossibile muovere un solo passo a causa della tremenda apparizione
emersa da un gorgo nell’oceano. Sguazzava nelle acque rosse e nella loro puzza.
Le fiamme sulla Coleridge non si stavano estinguendo, e ora erano impegnate a
divorare la fiancata destra della nave. Presto sarebbe completamente affondata,
ridotta in cenere.
Rowena stessa era paralizzata. Tuttavia la follia ancora scorreva nelle sue vene.
Qualcosa
manca.
Rowena rimase interdetta. Sonia
ebbe la conferma a ciò che aveva sempre sospettato, che costituiva il motivo
per il quale Rowena non avrebbe dovuto mai spingersi a quel punto.
Neanche per riavere suo padre.
- Che… Che cosa manca? - domandò Rowena,
vincendo il terrore puro che le germogliava dentro e si espandeva a macchia
d’olio. Dopotutto perché doveva temere il Diavolo? - E’ il sangue ci cento bambini.
Nessuno di loro aveva più di otto anni compiuti. Non
manca niente! -
Qualcosa
manca.
Rowena scosse la testa e abbassò
lo sguardo.
- Non capisco… -
No, non capiva: che cosa mancava?
Aveva adempiuto al suo dovere e aveva versato in mare
tutto quel sangue. Aveva evocato il diavolo con la melodia che stranamente
conosceva. Di colpo aveva di nuovo paura.
- No… Io… Davvero non capisco… -
- Rowena… - Sonia stava mettersi
nuovamente a piangere. Cadde sulle ginocchia. Il colpo risuonò in tutta la nave
come se si fosse trattato di un urlo. Sì, stava per succedere; e adesso non
c’era nient’altro a parte le fiamme, e il rombo delle acque, e la desolazione
della nebbia che si condensava lentamente.
Ciò
che fu creato all’Inferno, all’Inferno dev’essere restituito.
- No! - Rowena e Sonia gridarono
insieme.
La prima non capiva, non voleva
rendersi conto, e avrebbe preferito che quelle parole
non fossero state la verità; mentre la seconda sapeva benissimo che quel
momento sarebbe giunto, o almeno lo aveva immaginato con sorprendente
sicurezza, ma ancora non voleva accettarlo.
Rowena doveva tornare nelle
viscere dell’inferno. Il suo sangue doveva essere restituito a Satana.
Dev’essere
fatto.
Il corpo di Rowena prese a
tremare, e nessuno seppe dire se fosse a causa della collera,
dell’indignazione, della paura o di chissà cos’altro.
Rowena era soltanto fuori di sé. Come quando Sonia si era
intrufolata nella sua nave per parlare. Come quando, sempre Sonia, era
fuggita sulla Perla Nera scampando alla sua condanna.
Dunque il prezzo da pagare sarebbe
stato quello in ogni caso: lei non avrebbe mai dovuto
esistere, ed era stata vana l’illusione che anche per lei potesse esserci una
vita vera e propria, da qualche parte. Doveva tornare da Satana che l’aveva
creata, di lei sarebbe sparita ogni traccia, ogni
memoria, e presto o tardi sarebbe diventata soltanto una leggenda popolare da
raccontare ai bambini al posto dell’Uomo Nero o del lupo cattivo. E tutto questo per restituire un padre a sé stessa, o meglio alla
matrice di sé stessa, a ciò che lei non sarebbe mai stata. La sua scomparsa e la scomparsa di cento bambini, per pagare la
felicità di un’altra persona che lei aveva amato come non aveva amato nessun
altro: sé stessa, in fondo.
Per la prima volta, ora che si era giunti alla resa dei conti… a Rowena parve ingiusto e
inumano.
Il mostro era ancora davanti a lei
ad aspettava pazientemente una risposta. Le sue spire
emergevano dall’oceano: era sottile ma immenso. Doveva essere in grado di
toccare facilmente il fondo della discreta fossa oceanica sopra la quale si trovavano. E quel volto umano… espressivo e terrificante
come lo erano migliaia volti umani che Rowena aveva
avuto occasione di vedere in tutti luoghi dove era capitata.
- No… - sussurrò Rowena, e
continuò ossessivamente a ripetere quella parola, come se volesse
convincersene. - No… -
Sonia non osava parlare. Sapeva
che parlando avrebbe rovinato tutto: in ogni caso qualcuno doveva essere
condannato. Ed era tutta colpa sua.
Jack era l’unico a osservare la scena con l’autocontrollo necessario per non
mettersi a tremare, il che era piuttosto insolito, trovandosi di fronte al
demone supremo dell’Inferno. Era difficile cogliere la logica di quel patto:
così tante vite umane, per salvarne un’altra sola? Oppure
rinunciare a tutto, e uccidere anche Rowena, che dopotutto era una creatura
vivente come lo era Sonia? Era questo il Diavolo, erano questi i suoi patti e
le sue promesse: e in quel modo aveva avuto la prova che Sonia era
sufficientemente malvagia e disperata per condannare altre mille persone pur di
riavere suo padre.
- Io… - Rowena rantolò, come un
animale ferito a morte, - Io… Mi rifiuto! -
Per
Rowena non c’era stato neppure il tempo di pentirsi di quel che aveva detto.
Jack si era fatto avanti, e senza neppure conoscere il perché delle proprie
azioni, aveva afferrato quel dannato flauto d’argento e l’aveva scagliato in
mare, più distante che poteva. Rowena avrebbe voluto dire qualcosa, ma era rimasta senza parole, come muta, e così pure Sonia.
Nessuno più aveva voglia di parlare.
Era stato
come un miracolo: niente più nebbia, niente più fiamme, niente più
personificazioni sataniche che affioravano dal pelo dell’acqua. E ovviamente, Jhonathan Livingstone non era mai risorto né
sarebbe tornato in vita mai più.
Era tutto
finito. Sonia e rowena finalmente sciolte da quel diabolico
patto, con un demone in più che camminava sulla Terra in forma umana.
Satana
era scomparso.
Lentamente
tutti ripresero a parlare. Ma lo stupore e il terrore
erano ancora grandi e oppressivi per consentire tanti discorsi. Ora Rowena
stava dinanzi a Sonia, entrambe in piedi, ma con espressioni diverse. La Balia sembrava stesse per sputare fuoco. Era furente, furente come
una tigre appena messa in gabbia.
- Tu hai
sempre saputo che questo poteva succedere? - domandò a Sonia, ostentando calma
quando non ne possedeva in corpo neanche un po’.
- Ho
tentato di fermarti, - cercò di giustificarsi Sonia.
- Ma quando ti è convenuto non ci hai messo molto
a stringere i tuoi patti! Dunque chi
è la parte malvagia tra di noi? Avresti barattato la
mia vita e quella di altri cento bambini per riavere
nostro padre? -
- Anche tu lo avresti fatto, - ribatté Sonia, - Tu lo hai
fatto e ne hai provato un piacere perverso! Io mi sarei fermata se avessi
potuto! -
- Ma ora stai soffrendo! - gridò Rowena, - E non perché il
sangue di quella gente è stato versato in vano! -
- Tuttavia mi sento in dovere di confermare, -disse Jack a voce bassa ma con la sua
consueta spavalderia, che ormai gli era impossibile abbandonare, - che la
ragazza ha provato a farmi rompere l’accordo con te perché tu non evocassi il
Diavolo. -
- Ma si è pentita troppo tardi, - sussurrò Rowena al culmine
della disperazione. Sì, era stato troppo tardi. E ora Rowena sapeva che la sua vita non aveva nessun senso.
Era sempre stata il riflesso di qualcun altro, e a dare scopo alla sua vita
c’era la missione che doveva portare a termine per adempiere
al patto con Satana.
Ma
adesso tutto questo era scomparso. E sulla solitudine
degli oceani restava soltanto la sua anima ormai futile, consapevole che il suo
corpo derivava dal corpo di Sonia, che la sua anima era filtrata da quella di
Sonia, che i suoi pensieri avrebbe potuto formularli anche Sonia, sebbene
nell’intimo della sua mente.
Non aveva
ragione d’essere. La pirateria? Che cosa aveva
significato per lei? Soltanto una nave utile e veloce, con la
quale terrorizzare la gente e ottenere dai porti razziati il numero di vittime
necessario. L’unica cosa che per lei aveva mai avuto un qualche significato era quella sua missione che in qualche modo la
risvegliava e la faceva sentire viva, quando sentiva di non esserlo affatto.
Non
poteva rifugiarsi nel suo passato o nelle speranze per il futuro, come gli
umani facevano: il suo passato non era affatto il suo, quindi non ne aveva uno… mentre il suo futuro non era altro che il
futuro di un corpo senz’anima propria.
Non aveva
mai odiato Sonia fino a quel punto. Ciò significava… che non aveva mai odiato
sé stessa fino a quel punto.
Di colpo
la vanità della sua esistenza astratta le fu chiara. Era come se lei fosse stata soltanto un sogno, e nient’altro di più. Nulla
di concreto. Non poteva parlare di “spiriti gemelli” come un tempo aveva fatto:
Sonia non aveva gemelli. Rowena non era niente per lei, soltanto una scoria,
una scaglia di quel che Sonia era in realtà.
No: lei
non valeva niente.
Cadde a
terra e iniziò a piangere.
Il suo
pianto non differiva particolarmente dalla sua risata: era così angelico e così
demoniaco insieme che faceva rabbrividire. E durò a
lungo, molto a lungo. Se mai delle lacrime erano
cadute dagli occhi di Rowena, lo avevano fatto in silenzio. Adesso però il suo
dolore era esplicito, esposto al vento dei Caraibi. Rowena era a pezzi.
- Mi
dispiace, Rowena… - iniziò Sonia, incerta su cosa fosse più giusto dire.
Mosse
qualche passo in direzione del Capitano della Coleridge -se aveva ancora senso
definirla così- e le tese la mano tremante. Tutti erano in
attesa, come se stessero aspettando un verdetto di vitale importanza.
Rowena
alzò la testa.
- Non
avrebbe dovuto finire così… - proseguì Sonia. Non sapeva che cosa fare, non si
era mai sentita così empia come quel giorno. Rowena scosse il capo. - Noi…
possiamo vivere, Rowena… - Rowena ebbe un fremito. Quelle parole erano decisamente fuori luogo: possiamo vivere. Dopo tutto ciò che era successo? E che
senso avrebbe mai potuto avere? - Co… Come… come due sorelle. -
Rowena
non si era mai sentita accettata da nessuno.
…E neanche in quel momento si sentì tale.
Tuttavia
accettò l’aiuto di Sonia. Afferrò la sua mano esile che l’aiuto ad alzarsi
nuovamente in piedi, sotto gli sguardi un po’ ansiosi e un po’ incerti di Jack
e degli equipaggi delle due navi pirata.
- Due
sorelle? - disse Rowena. Sembrava speranzosa.
Sonia
annuì energicamente con un sorriso affabile stampato in faccia. Rowena le si avvicinò, ancheggiando con grazia, fin quando non
furono ad un millimetro l’una dall’altra. Tutti aspettavano con il fiato
sospeso. Sonia prese le mani di Rowena e le sollevò: interpretò quel silenzio
come un “permesso” da parte di Rowena a considerare la sua proposta come
possibile.
- Sai,
Sonia… - disse Rowena in un sussurro lento e poco percettibile, - Ti ho sempre amata. In ogni secondo della mia vita. - Sonia la fissò; non
sapeva che cosa rispondere. - Ed in ognuno di questi
attimi mi rendevo conto che il mio amore non era affatto amore, ma smisurato narcisismo! Come credi che io mi sia
sentita, allora? Dove credi che trovassi la voglia di vivere? -
Sonia era
atterrita.
- Rowena,
noi possiamo rifarci una vita… possiamo ripartire da
capo… -
Rowena
abbassò la testa, liberandosi dalla stretta delicata della
mani di Sonia. Si avvicinò ancora di più, abbracciandola. - … Da capo… -
ripeté, morbosamente. - Sì… da capo… -
Da capo.
Non era possibile.
La lama
della spada di Rowena si conficcò nello stomaco di Sonia, e lì fu rigirata
inesorabilmente, due, tre, dieci volte, fin quando un fiume di sangue colorò i
suoi abiti.
*
Il corpo
di Sonia non era mai apparso così esile come in quel momento mentre, supina,
fissava il cielo sopra di sé con occhi vacui. Sembrava non vedere la figura di
Jack inginocchiato alla sua destra, da poco dopo che Rowena aveva lasciato
andare la scimitarra e aveva lasciato che Sonia cadesse sul ponte come uno
straccio smunto riempito di sassi.
Era
pallida in volto. Il rossore causato dal sole nei giorni precedenti aveva
lasciato il posto ad una colorazione grigiastra, a causa del sangue che
defluiva da lei come l’acqua dal tubo di una grondaia. La spada era ancora
conficcata nel suo ventre.
- Ci ho
provato… - rantolava, - ci ho provato… -
- Non potevi
fare altro, - disse Jack, senza sapere perché pronunciava quelle parole.
Neanche lui ne coglieva bene il senso, ma non voleva dirle niente che potesse
scoraggiarla, non nel momento in cui stava per morire.
- Dio…
Dio non mi perdonerà mai… andrò all’Inferno… -
- Sarà
senz’altro più interessante del Paradiso, - rispose Jack.
Sonia
sorrise. Un sorriso largo, un vero sorriso, come glie ne erano
capitati pochi nella vita.
-
Perdonala… Perdonatela tutti… Ti prego… -
Gli prese
la mano, e la strinse, come se volesse farsi promettere di perdonarla a tutti i
corsi. E poi si spense. Il sangue era scorso via del
tutto e il cuore si era fermato. Così, semplicemente, era morta.
Jack si
rialzò lentamente. Ancora una volta dava le spalle a Rowena, e ancora una volta
era decisamente felice di questo. Sentiva dietro di sé
la pura malvagità di Rowena. Era certo di poterla percepire. Sentiva quando fosse soddisfatta di quando era successo, captava con quanto
piacere aveva affondato e rigirato la lama nella stessa carne che l’aveva
generata.
- Hai
ucciso l’unica persona che abbia mia avuto pietà della
tua miserevole vita, - disse Jack, implacabile. Stranamente si sentiva
arrabbiato. O forse non era mai stato disgustato così
tanto da una persona, come in quel momento era disgustato da Rowena. Tutta la
pena che le aveva fatto quando aveva pianto era
scomparsa. Era rimasta soltanto una coltre di disprezzo. E
Rowena non aveva particolare interesse per questo.
Dalla
ciurma - non importava da quale - si levarono le medesime affermazioni. Era
come se tutti avessero partecipato a quella vicenda dall’inizio con ardore, e
avessero preso le loro parti come in uno spettacolo
teatrale. Ma non si trattava di una messa in scena.
Rowena si
avvicinò a Jack Sparrow come si era avvicinata a Sonia, prima. Come un cobra che attende di uccidere la sua vittima designata.
Ma stavolta non aveva intenzione di seminare altra
morte, la disgustava abbastanza tutto il sangue che era fluito dal corpo di
Sonia, e Jack lo sapeva.
- Sei più esperto di me nella carriera di un pirata, Jack, -
disse in tono sprezzante, prendendo il viso del Capitano fra le mani calde di
sudore, - Sembri il principe allocco di una fiaba. E
in mare nessuno si preoccupa mai di questo, non è così? -
Ripeteva
quelle stesse parole che un tempo lui aveva detto a
Sonia. E le ripeteva con la stessa goduria che avrebbe
sicuramente provato se avesse gettato in mare qualche altra botte di sangue
umano.
- No,
direi di no, - rispose, guardandola negli occhi. Apparentemente era come
sempre: come se Sonia Livingstone non fosse mai morta, come se non fossero
passate che due ore da quando era stato evocato il Diavolo, proprio davanti ai
suoi occhi.
- Dunque che cosa c’è da preoccuparsi? E’ come ha detto lei…
posso rifarmi una vita. Forse e ora che tu parta per
dedicarti nuovamente alla tua. -
- Certo… -
Rowena
non notò l’espressione di Jack.
La ciurma
aveva iniziato ad agitarsi, tanto quella della Coleridge quanto quella della
Perla Nera. La strana tranquillità, priva di fretta e di agitazione,
che ispirava quella scena, contribuiva ancora di più a creare tensione fra
tutti gli astanti.
Almeno
fino al momento della detonazione.
Sul volto
di Jack e nei suoi occhi era impressa la stessa espressione di quando aveva
inferto un colpo di pistola a Barbossa, in giorno in cui la maledizione era
stata spezzata sull’Isla de Muerta. E ora che cosa era
variato? Una maledizione era stata comunque spezzata,
e chi meritava una punizione l’aveva ottenuta. Forse.
La
maschera veneziana di Rowena fissava Jack con la stessa immutabile espressione,
scudo perfetto del volto che nascondeva. Almeno fin quando
dall’orlo che ne delimitava il mento aveva cominciato a colare un rivolo di
sangue, trasformato poi in una piccola cascata rossa.
La
pistola di Jack era puntata al ventre di Rowena, sommersa nei pizzi consunti
del vestito strappato dal mare, nello stesso punto in cui la lama era penetrata
nella carne di Sonia. Jack si scansò. Rowena era morta, ed era morta in piedi:
e quando aveva toccato il ponte con un tonfo sordo come il battito di un
tamburo sulla piazza d’esecuzione, ormai il suo cuore aveva smesso di battere
da pochi secondi.
Cadde
addosso a Sonia; la maschera la scivolò dal viso ormai insanguinato a causa del
fiotto che era esploso dalle sue labbra, e la testa di Rowena affondò nel
ventre piatto dell’altra. I due spiriti gemelli erano ormai uniti per sempre,
sulla nave pirata semi carbonizzata che beccheggiava sui flutti placidi lambiti
da un nuovo sole gentile.
E
così anche Rowena era caduta. Protetta dall’inferno, e dall’inferno stesso
tradita.
Le due
navi che componevano la flotta del Commodoro Jack Sparrow
si erano allontanate da tre settimane da Port Royal, lasciando il loro macabro
carico alle dovute cerimonie funebri, e dirigendosi ancora una volta verso
Tortuga, con le sue locande, i porticcioli chiassosi e le vie malsicure per
qualunque civile.
Anche
se erano passati poco più di venti giorni dall’arrivo a Port Royal dei due
cadaveri, tutti ricordavano ancora distintamente l’episodio, che era ancora
argomento di pettegolezzo in tutti i locali, e perfino nei salotti più
eleganti.
La Balia
era morta.
E con
lei era morta quella ragazzina che nessuno sapeva identica a lei, nonostante
l’avessero incontrata altre volte in paese. Ma non era
di lei che valeva la pena ricordare: era Rowena. Rowena che con la sua morte
aveva posto fine ad un regno apparentemente ingiustificato di terrore, Rowena
che ora non avrebbe più perseguitato gli incubi di ogni
madre e di ogni bambino che potesse comprendere il pericolo costituito da
quella donna.
Will ed Elizabeth
osservavano le due tombe perfettamente identiche,
costituite da un perimetro rettangolare delimitato sul terriccio fresco da
alcuni sassi grigi levigati. Una croce di ferro troneggiava su entrambi
sepolcri.
E
sotto giacevano i cadaveri delle ultime due persone che il Governatore si
sarebbe sognato di far sotterrare, ma alla fine aveva dovuto cedere.
Loro
figlio osservava distratto; non capiva a chi appartenessero quelle tombe -e se
lo avesse chiesto, non avrebbe ottenuto risposta.
Da
qualche parte, la Coleridge veleggiava a poca distanza dalla Perla Nera,
diretta verso l’unico porto sicuro per i pirati. Da qualche altra parte, le
anime di Rowena e Sonia avevano ottenuto la loro eterna pace, o la loro eterna
dannazione. E lì, a Port Royal, nient’altro avrebbe
più turbato la quiete.
Il
Commodoro Norrington continuava a fare piani per lo sterminio dei pirati, il
Governatore Swann si beava dell’innocenza del suo bel nipotino e Will ed
Elizabeth avrebbero continuato la loro vita come
avevano sempre fatto.
Come
l’avrebbero presa tutti i cadaveri del cimitero se
avessero potuto parlare e rendersi conto che le loro morti non avevano mai
alterato il ciclo di quegli eventi?
Ma i
morti non risorgevano: forse osservavano la vita dei viventi da una loro nuvola
in Paradiso, e non c’era più dolore che potesse scalfirli.