Melodia di Remiel (/viewuser.php?uid=248522)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Preludio ***
Capitolo 2: *** Cap. 1 - Lento ***
Capitolo 3: *** Cap. 2 - Adagio ***
Capitolo 4: *** Cap. 3 - Andante ***
Capitolo 5: *** Cap. 4 - Staccato ***
Capitolo 6: *** Cap. 5 - Scherzo ***
Capitolo 7: *** Cap. 6 - Sonata ***
Capitolo 8: *** Cap. 7 - Vivace ***
Capitolo 9: *** Intervallo - disegni dei personaggi ***
Capitolo 10: *** Cap. 8 - Rondò ***
Capitolo 11: *** Cap. 9 - Presto ***
Capitolo 12: *** Cap. 10 - Accelerando ***
Capitolo 13: *** Cap. 11 - Capriccio ***
Capitolo 14: *** Cap. 12 - Minuetto ***
Capitolo 15: *** Cap. 13 - Marcia ***
Capitolo 16: *** Cap. 14 - Cadenza ***
Capitolo 17: *** Cap. 15 - Tacet ***
Capitolo 18: *** Cap. 16 - Crescendo ***
Capitolo 19: *** Cap. 17 - Eroica ***
Capitolo 20: *** Epilogo - Ensemble ***
Capitolo 1 *** Prologo - Preludio ***
[Opening,
Take
This to Heart - Maybeshewill]
[In
my Remains
- Linkin Park]
«Emile!»
gridai con quanto fiato
avevo in corpo.
Sapevo
che nonostante corressi il
mio passo non sarebbe bastato a raggiungerlo in tempo.
Mi
scorrevano davanti agli occhi tutti
gli avvertimenti che mio padre mi aveva lanciato in quei giorni,
avvertimenti
che avevo deciso di ignorare troppo ebbra della felicità di
aver trovato nuovamente
qualcuno da amare. Qualcuno di cui potermi fidare.
Mentre
la lacrime cominciavano a
scorrere dagli occhi, appannandomi la vista, un urlo disumano si
levò dal fondo
della foresta e mi ferì le orecchie.
“…Ti
prego, non morire!”
ebbi il tempo di pensare, i polmoni in
preda alle fiamme e avidi d’aria.
---
Nota
dell'Autrice:
Gli
aggiornamenti che
sto apportando a questa storia (ormai conclusa) sono relativi
esclusivamente
alla grammatica e al font del testo! Nient'altro sarà
modificato.
Grazie
dell'attenzione! :)
Remiel ♥
|
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Capitolo 2 *** Cap. 1 - Lento ***
[Flowers and
Silence - Sneaker Pimps]
[Tear the
World Down - We Are The Fallen]
«Cithara
Greenwood, giusto?»
Non
avevo la forza di domandarmi
come fosse possibile nascondere un corpo da cavallo sotto una
carrozzina, non
dopo tutto quello che mi era capitato almeno.
Davanti
a me si ergeva il centauro
Chirone che fino a qualche minuto fa credevo essere Brunner, il mio
professore
di storia, per l'appunto costretto a girare su di una carrozzina.
Eleuse
mi strinse una mano sulla
spalla per darmi coraggio.
«Sì,
è lei Chirone. Purtroppo prima
di trasportarla qui è avvenuto un
incidente…» rispose la mia custode satiro.
Avevo
ancora davanti agli
occhi l’espressione terrorizzata
di mia madre che mi implorava di fuggire mentre uno Stinfalide stendeva la presa sui suoi
fianchi per
ghermirla e portarla con sé nel cielo. Non era valso a nulla
il mio tentativo
di richiamare l’attenzione dell’uccello, questo se
n’era semplicemente andato
emettendo un suono stridulo, con
il
corpo di mia madre stretto tra gli artigli.
Il
suo verso continuava a
rimbombarmi nelle orecchie, sebbene ormai fossero passate
già parecchie ore
dalla scomparsa del mostro.
Eleuse
aveva assistito a tutto ma
non aveva potuto far altro che caricarmi in macchina e portarmi fino al
Campo,
proprio dove avevo scoperto la vera identità del professor
Brunner e la
possibile causa per la quale ero stata attaccata da un mostro
mitologico
proveniente dallo Stinfalo.
«Benvenuta
nel Campo dei
Mezzosangue, Cithara. Sono dispiaciuto per quello che è
accaduto a tua madre ma
ho motivo di credere che sia ancora viva. Per la verità non
ho ancora chiara la
ragione di questo attacco, visto che sei solo figlia di Apollo, ma sono
sicuro
che presto lo scopriremo.»
Quel
“solo figlia di Apollo”
mi fece sorridere, a dispetto di tutto, ma
appena mi tornò in mente il volto della mamma sprofondai
nuovamente nello
sconforto. Scoprire di essere figlia di un dio non serve a risollevare
il
morale quando tua madre potrebbe essere morta proprio a causa di questo
tuo
sangue divino.
Ebbi
appena la forza di annuire quando
Eleuse mi prese sotto braccio per mostrarmi il luogo in cui da quel
momento
sarei vissuta al sicuro tra miei “simili” e
‒perché no‒ anche tra i miei
fratelli e sorelle. Infatti a quanto pareva mio padre di certo non
poteva
essere considerato secondo al dio Ermes in fatto di donne e amanti.
Il
meraviglioso dio della musica
che si lascia incantare da ingenue fanciulle umane e sparge il suo seme
divino
tra di loro… una scena digustosa.
A
quel pensiero mi venne quasi
l’impulso di buttare il violino regalatomi proprio da Apollo
in occasione del
mio quinto compleanno; era però l’unica cosa che
mi legava alla vita normale
che avevo dovuto abbandonare a forza e questo mi fece desistere.
«Thara…
Perdonami se non sono stata
d’aiuto. Come Custode sono un vero e proprio
fallimento.»
Mi
voltai per osservare meglio Eleuse,
e quando vidi il dolore nei suoi occhi verdi capii che era sbagliato
l’atteggiamento che stavo assumendo. Rimanere in silenzio e
diventare passiva
non poteva di certo riportarmi mia madre. Solo che… Era
successo tutto così in
fretta. Avevo ancora bisogno di tempo.
Scossi
leggermente il capo per
farle comprendere che avevo ascoltato, ricevendo uno sguardo
preoccupato in
risposta.
«Oh
tesoro…»
I
suoi capelli brillarono sotto al
sole mentre scuoteva a sua volta il caschetto biondo paglierino. Era
davvero un
incantevole contrasto con la sua pelle ambrata e non mi sarei stupita
se avesse
avuto uno stuolo di ammiratori anche al Campo.
Avevo
appena rivolto nuovamente lo
sguardo al terreno, quando un paio di All Stars nere entrarono nel mio
campo
visivo.
«…Emile?»
sentii sussurrare stupita
la mia custode «Non eri fuori in missione?»
«Purtroppo
il caro vecchio signor D
ha deciso di mandare quell’incapace di mio fratello Luke al
posto mio.»
La
voce calda del ragazzo mi
incuriosì e non riuscii ad evitare di alzare gli occhi.
Era
alto e attraente, gli occhi di
un verde più chiaro di quelli di Eleuse ‒come se brillassero
di luce propria‒ e
i capelli color dell’oro.
…Forse
il Campo non sarebbe stato
così male.
Anche
lui rivolse lo sguardo verso
di me e fu difficile non rispondere al sorriso allegro che mi
regalò.
«Sei
Cithara giusto?»
Eleuse
assunse un’espressione
imbronciata.
«Cos’è,
avete tutti intenzione di
farle il terzo grado? Povera, è appena arrivata ed
è stanca: abbiamo passato
tutta la notte in macchina per arrivare fino a qui!»
Il
ragazzo sorrise nuovamente
riuscendo a far calmare un poco la mia Custode.
«Piano,
piano Ele! Non devi
prendertela con me, Chirone mi ha chiesto di farle da tutore e
addestrarla nei
giorni a venire. Volevo solo presentarmi e accompagnarla alla propria
stanza.»
Detto
questo mi pose la mano.
«Sono
Emile Noir, purtroppo figlio
di Ermes, onorato di fare la tua conoscenza» fece, sfoderando
un altro dei suoi
sorrisi amichevoli.
«Cithara...
Greenwood» risposi in
tono flebile, stringendogli la mano. Mai avrei pensato di perdere
l’uso della
voce tanto da ridurmi a sussurrare in quel modo.
Emile
mi rivolse uno sguardo
comprensivo e si offrì di farmi continuare il giro al posto
di Eleuse.
«Ora
riposati cara, ci vediamo dopo»
mi disse lei, baciandomi sulla testa. Era una specie di sorella
maggiore, mi
trattava ancora come quando non sapevo di essere figlia di un dio e si
spacciava per mia vicina di casa ‒una giovane studentessa universitaria
in
trasferta.
La
osservai allontanarsi in modo
sensuale e sentii subito una stretta al cuore, come se avessi paura di
perdere
anche lei.
La
voce del mio nuovo
accompagnatore non tardò a strapparmi dai tristi pensieri.
«Bene
Cithara... Se è vero che
avete viaggiato tutta la notte forse è meglio rimandare il
nostro giro turistico
a quando sarai più tranquilla, non credi? Vieni, ti mostro
la tua stanza.»
Cercai
di evitare gli sguardi
curiosi degli altri abitanti del Campo durante il tragitto e ascoltai
interessata la spiegazione di Emile sulla ripartizione delle abitazioni.
«Sei
stata fortunata, fossi venuta
qualche mese fa avresti dovuto condividere la stanza con altri tuoi
fratellastri ma da un po’ abbiamo ampliato le case e ognuno
può permettersi una
stanza per sé.»
Ci
fu una breve pausa in cui mi
parve di sentire un piccolo sospiro provenire da Emile.
«…Cioè,
quasi ognuno.»
Quando
passammo davanti alla casa
dei figli di Ermes capii il motivo del suo disappunto: oltre ai propri
figli,
nella sua dimora il dio protettore dei viandanti accettava tutti i
“figli di
nessuno”, gli Indeterminati. Doveva essere davvero dura avere
un po’ di privacy
per Emile…
Poco
dopo, il mio giovane tutore si
fermò davanti a una costruzione color arancione con uno
stemma raffigurante un
sole paffuto ornato
da una corona d’alloro.
Eravamo
davvero arrivati alla casa
di Apollo.
Emile
non fece in tempo ad aprire
il portone che questo si spalancò apparentemente da solo. Ne
uscì un ragazzo
piacente sui 20 anni, con i capelli color ebano molto simili ai miei e
gli
occhi grigi. Sembrava che ci stesse aspettando.
«Qual
buon vento Emile! Spero tu
non stia perdendo tempo a scorrazzare per il Campo invece di allenarti
per la
Caccia alla Bandiera… Non vorrai ripetere la figuraccia
dell’altra volta.»
Dal
sorriso tirato di Emile e
quello sfrontato del ragazzo più grande compresi al volo che
tra i due non
correva buon sangue. Sarei sprofondata nel terreno più che
volentieri.
«Non
preoccuparti Raven, tra due
settimane sarò più che pronto per farti
rimangiare l’insulto dell’altro giorno.
Sono solo venuto ad accompagnare la mia allieva alla sua nuova
casa.»
A
queste parole Raven ‒mai nome mi
parve più azzeccato‒ ignorò totalmente Emile e mi
guardò con interesse mentre i
suoi occhi grigi sorrisero con lui.
Rettificai
mentalmente: non ci
stava aspettando, mi
stava aspettando.
«Quindi
tu saresti una nostra
sorella.. Vieni, sei la benvenuta figlia di Apollo. Io sono Raven
Lionhard, il
capo dormitorio.»
Un'altra
stretta di mano al mio
nuovo fratello acquisito, e Raven mi fece cenno di seguirlo. Immagino
sapesse
che ci avrebbe seguito anche Emile.
Fui
sollevata dal trovare il
corridoio deserto fino al secondo piano, dove si trovava la mia stanza,
e non
ebbi la forza di chiedermi come facessero i miei bagagli ‒se una lurida
cartella dell’eastpack e un violino possono essere definiti
bagagli‒ a trovarsi
già lì. Sapevo solo di essere distrutta e di
volermi abbandonare a un sonno
senza sogni.
Raven
fu il primo ad andarsene.
«Se
hai bisogno di qualcosa non
esitare a chiedere, sarò più che felice di
colmare le innumerevoli lacune del
tuo tutore» fece, sorridendo poi al mio accompagnatore
«Non preoccuparti Emile,
non mi sono dimenticato dell’insulto che ti ho rivolto. Non
è colpa mia se sei
uno sfigato, te lo
dimostrerò nuovamente
alla prossima Caccia.»
Lui
non rispose, limitandosi ad
osservarlo allontanarsi con sguardo superiore.
Forse
stava cercando di trattenere
la rabbia solo a causa della mia presenza o forse era veramente
convinto di
poter battere Raven. In quel momento non avrei potuto scommettere sulla
vittoria di Emile, probabilmente perché il capo dormitorio
mi era parso molto
sicuro di sé e pareva circondato dalla tipica aura da
leader... Insomma era uno
da cui non ti saresti mai aspettato una sconfitta.
«Ehi...
Lascia perdere i brutti
pensieri e vai a riposarti, ok?»
Le
parole di Emile mi colsero di
sorpresa. Sapeva già cosa mi era accaduto?
«Uhm...»
annuii in modo debole, e
adocchiai involontariamente il letto che si intravvedeva dalla porta
della
stanza.
«Scusa,
adesso ti lascio anch’io! ...Se
hai bisogno di qualcosa chiedi pure, passerò a prenderti per
l’ora di cena.»
Uscì
dalla stanza, chiudendosi la
porta alle spalle e abbandonandomi ai miei pensieri.
Era
stato carino a lasciarmi
riposare ma non avevo previsto la bufera di negatività che
mi avrebbe investita
una volta sola. Se me lo fossi aspettata probabilmente avrei lasciato
perdere
la stanchezza e mi sarei fatta trascinare in giro per il Campo ancora
per ore.
Senza
forze e disillusa, riuscii
solo ad allungarmi verso la cartella dopo essermi stesa sul letto, per
prendere
l’mp3 e venire avvolta dal calore rassicurante della musica.
---
«Are you looking for happiness?
Are you looking for something better?
Do you ever feel emptiness?
Are you scared it's gonna last forever?
Don't give it away, don't give it away.
I don't want your happiness.
I don't need your happiness.
So never show me happiness.
I don't want your happiness.
Everybody needs sanctuary.
Everybody needs hope and fear,
But not everybody needs a preacher
Don't tell me what you want me to
hear….»
♫♪♫
Che
sogno assurdo avevo fatto! Centauri,
satiri, mostri mitologici... Ero sicura che anche mamma si sarebbe
fatta
quattro risate sentendo questo racconto.
…Appena
aprii gli occhi, compresi
di non essere in camera mia e che purtroppo quello che credevo essere
un sogno
era invece realtà.
Sospirai,
voltandomi dalla parte
opposta e quasi mi prese un colpo nell’incontrare gli occhi
verdi di Emile.
«…Scusa!
Stavi dormendo così bene
che non ho avuto il coraggio di svegliarti…» lo
sentii giustificarsi dopo
essermi tolta le cuffie dalle orecchie.
«Non
preoccuparti…» dissi, con un
filo di voce, ancora assonnata. In realtà mi aveva fatto un
certo effetto
vedere violata la mia privacy con così tanta leggerezza.
Mi
stropicciai gli occhi.
«Che
ore sono?»
Emile
sembrò svegliarsi di colpo
dallo stato d’imbarazzo in cui era caduto.
«È
ora di cena! Per questo ero
venuto a chiamarti… Sai, dopo una certa ora la tavola viene
sparecchiata
ed
è impossibile reperire cibo.»
«E…
La tavola rimane imbandita fino
alle 21?» feci, dopo aver dato una sbirciata
all’orologio.
«Sparecchiano
alle 21:10 circa...
Perché?» Il verde dei suoi occhi si accese in un
lampo di comprensione. «…Diamine,
si è fatto così tardi? Forza, vieni con me,
proviamo lo stesso ad andare!»
Nonostante
volessi declinare
l’invito, il brontolio del mio stomaco gli diede ragione e
senza neanche
aggiustarmi il trucco mi ritrovai a correre dietro ad Emile, nella
speranza di
trovare ancora almeno una pagnotta.
…Ma
poi, perché era venuto a
chiamarmi così tardi? A meno che non fosse rimasto a
guardarmi dormire più dei
dieci minuti che avevo creduto all’inizio…
Sentii
un lieve rossore salirmi
alle guance al pensiero di essere stata sorpresa in un momento
così privato da
uno sconosciuto. Certo, Emile sembrava simpatico, ma questo non
giustificava il
fatto di essersi intrufolato nella mia stanza senza permesso. Mi
ripromisi di
chiudere la porta a chiave, la prossima volta.
Quando
giungemmo ansimanti davanti
alle tavole per trovarle vuote e immacolate, sentii lo sconforto
assalirmi. La
dormita era servita a rilassare le membra, ma la stanchezza per
l’incidente di
mia madre e la fame non mi aiutavano certo a tranquillizzarmi.
Emile,
ancora ansimante, mi guidò
poco lontano dal luogo che col suo candore continuava a ricordarci la
nostra
sconfitta, e appoggiò la schiena contro il muro per
riprendere fiato.
Lo
imitai.
«Perdonami…
Non ho fatto caso
all’orario…» Sbuffò.
«…Forse avrei fatto meglio a svegliarti.»
Mugugnai
leggermente in segno
d’assenso. Ero convinta che almeno lui avesse mangiato
qualcosa, per questo
rimasi stupita nel sentire gorgogliare anche il suo stomaco.
Lo
guardai con aria interrogativa e
ricevetti un sorriso imbarazzato in risposta.
«Cosa
credevi, avevo detto che
sarei passato a prenderti per cena! Non avrebbe avuto senso andare a
mangiare
per poi tornare indietro.»
Effettivamente
non faceva una piega.
Iniziai
a sentirmi in colpa:
probabilmente a lui non era venuto in mente che stessi ancora dormendo
e
trovandomi assopita aveva preferito attendere che mi svegliassi da
sola… In
fondo era stato gentile ‒un po’ invadente, ma gentile‒ tanto
più che mi aveva
aspettato per cenare, rimando poi a
bocca asciutta assieme a me.
«…Forse
avrei fatto meglio a
svegliarmi prima.» Abbassai lo sguardo mentre facevo il verso
alla frase
pronunciata da poco da Emile.
Al
contrario di quello che mi
aspettavo, quando incrociai gli occhi coi suoi mi rivolse un sorriso
ancor più
radioso di prima.
Sembrava
divertito.
«Spero
davvero che tu possa
trovarti bene qui al Campo. È difficile stare dietro a tutto
all’inizio… Ma
dopo un po’ ci si abitua.» Fece una breve pausa in
cui, nonostante la penombra,
mi parve di vederlo arrossire. « Insomma… Ti hanno
affidata a me e farò di
tutto perché tu possa ambientarti e migliorare le tue doti
di semidea.»
Le
sue parole mi rincuorarono in
parte e non potei fare a meno di sorridere a mia volta.
«Ti
ringrazio…» Avrei voluto
aggiungere qualcosa, dirgli che ero sicura che sarebbe riuscito ad
aiutarmi e
che mi sarei trovata benissimo, ma ancora una volta mi tornò
in mente mia madre
e sprofondai nuovamente nel mio pseudo mutismo. Era durata molto poco
la lieve
spensieratezza derivata dal riposo pomeridiano.
Sembrava
che Emile stesse per
aggiungere qualcosa ma fu interrotto da una calda voce familiare.
«Eccovi
qui finalmente! …Una cosa
dovevi fare, Emile, possibile che non ti riesca mai di essere in
orario?» Davanti
a noi si ergeva un’Eleuse un po’ contrariata.
Quando si arrabbiava, la sua
fierezza di satiro la rendeva ancora più bella e il verde
dei suoi occhi si
accentuava.
«Perdonami
Ele… Come dire, c’è
stato un piccolo contrattempo…»
Decisi
di sollevare Emile
dall’imbarazzo.
«Non
volevo svegliarmi.»
La
mia Custode fu sorpresa dal
sentirmi parlare ‒non le rivolgevo la parola da quasi due giorni ormai‒
e mi
sorrise.
«Thara,
non preoccuparti tesoro, è
comprensibile… È con questo testone che ce
l’ho!» continuò, fulminando Emile
con gli occhi.
Di
tutta risposta lui si limitò a
guardare da un’altra parte con aria colpevole.
Quando
Eleuse si chinò ad
abbracciarmi, fui felice di sentire il suo profumo di pesco avvolgermi
assieme
alle sue braccia sottili. Le fui ancora più grata quando
percepii il profumo di
affettato e banana provenire dall’involucro che mi porse.
«Sono
riuscita a prenderti un bel
panino e un paio di banane! Mi dispiace di non aver potuto fare di
più, il
signor D era insolitamente sobrio stasera e mi avrebbe dato una bella
strigliata se mi avesse scoperto…»
La
ringraziai con un bacio e le
diedi la buona notte, promettendole di riposarmi.
«Oggi
è il mio turno di
sorveglianza, purtroppo non posso rimanere con voi. Comunque, caro il
mio Emile,
ti pregherei di stare più attento alla mia protetta
d’ora in poi!»
«…Mi
farò perdonare!» fece Emile,
tra il divertito e il dispiaciuto.
«Bah,
ma che perdo tempo ancora a
parlare con te…» concluse Eleuse, allontanandosi
con la testa china, come se il
ragazzo fosse un caso perso.
Dovevano
conoscersi da tanto la mia
custode e il mio tutore, per scherzare così… Una
strana sensazione di fastidio
mi prese alla bocca dello stomaco.
Mi
accorsi di essere rimasta
imbambolata col pacchetto del cibo in mano e lo aprii con troppa foga,
rischiando di far cadere sull’erba il contenuto.
«…È
anche colpa mia se non hai
mangiato, mi sembra giusto fare a metà» dissi a
Emile mentre gli porgevo parte
del panino al salame.
«Sicura?
Se ti becca Ele…» Nel
sentir pronunciare il diminutivo del nome della mia custode, il
bruciore allo
stomaco aumentò. Era la loro complicità ad
infastidirmi… La stessa che avevo
anch’io con gli amici che avevo dovuto abbandonare assieme
alla scuola. E,
soprattutto, la stessa che avevo con mia madre.
Decisi
di affogare il malessere
opprimente proveniente dallo stomaco col cibo e insistei
perché Emile mangiasse
con me.
---
«Ah…
Direi che ora si sta decisamente
meglio.»
Annuii
con la testa: dopo aver
mangiato anche il fastidio era diminuito, anzi, quasi scomparso.
Speravo solo
che non si fosse sopito per poi tornare all’attacco in modo
inaspettato, perché
iniziavo a sospettare che quella provata fosse gelosia.
Dopo
aver consumato il nostro pasto
frugale, Emile si era steso supino per mirare le stelle e io mi trovavo
seduta
al suo fianco, ancora indecisa se stendermi del tutto o meno. Mi
sembrava un
gesto troppo intimo per
due conoscenti,
già il fatto di essergli così vicina mi turbava e
stavo ben attenta a non
entrare nel suo spazio vitale.
«Ogni
volta che osservo le stelle
penso a mio padre che si trova
sull’Olimpo…» Mi aveva fatto sussultare
leggermente nello strapparmi ai miei pensieri. Lo vidi esitare e un
sorriso
insolitamente sarcastico si dipinse sulle sue labbra. «O
meglio, penso a mio
padre che si trova sull’Olimpo o chissà dove a
ingravidare giovani ragazze
ignare del suo sangue divino.»
Mi
fece uno strano effetto sentirlo
parlare con un tono sprezzante. Pareva così diverso
dall’Emile allegro che mi
aveva accolto quella mattina.
«È
quello che ho pensato anch’io
stamattina quando ho scoperto di essere figlia di Apollo.» Le
parole erano
uscite prima che me ne potessi rendere conto.
Anche
Emile sembrò stupito, ma
subito la sua espressione di addolcì.
«Dev’essere
stato uno shock
scoprirlo così… Mi spiace veramente per quello
che è accaduto. Chirone sa il
fatto suo, sono sicuro che riuscirà a riportarti tua
madre.»
Ogni
dubbio si dissolse: sapeva
cosa mi era successo. Era stato Chirone stesso a dirglielo? O era stata
forse
Eleuse?
Di
nuovo, una pressione allo
stomaco.
Abbassai
lo sguardo, annuendo
leggermente. Quando si tirava in ballo mia madre, diventavo taciturna
ed ero solo
in grado di annuire.
«Gli
dèi… Non credevo nemmeno che
esistessero» continuò Emile, evidentemente
incitato dal mio silenzio. «Mi viene
da pensare che forse, un po’ di affetto per mia madre deve
averlo provato Ermes
per mettermi al mondo. Poi però vedo mia madre sola, che
ancora lo aspetta
nella speranza di poterlo rivedere anche solo una volta… E
torno a credere che
le divinità non siano altro che creature mitiche possedute
dall’istinto e le
passioni, indifferenti ai sentimenti umani.» Lo udii
sospirare, come vinto
dalla stanchezza.
Tornai
a posare gli occhi su di lui
e lo trovai con lo sguardo basso, perso
nell’oscurità. Era davvero bello, con
gli occhi chiari che riflettevano la luce delle stelle e i capelli
dorati mossi
leggermente dalla brezza del vento estivo.
Si
voltò verso di me con un sorriso
timido.
«Perdonami
se ti ho rattristata,
non era mia intenzione.» Lo guardai con aria interrogativa
quando iniziò a
ridere. «Ah ah… Oggi sembra proprio la giornata
delle scuse!»
Sorrisi
anch’io e sentii le spalle
distendersi. Iniziava a sembrarmi meno improponibile l’idea
di rimanere a lungo
nel Campo.
---
Nota dell'Autrice:
Qui
ho cambiato
qualcosa rispetto alla scorsa versione...
Prima
la canzone
ascoltata da Cithara era "Break Me" dei the GazettE (volevo inserire
parte della mia passione per il Giappone XD) ma mi sono resa conto che
strideva
col testo. Allora ho preferito usare "Happiness" degli Hurts, canzone
meravigliosa che consiglio a tutti di ascoltare!
Remiel
♥
|
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Capitolo 3 *** Cap. 2 - Adagio ***
[Happiness
-
Hurts]
[The
World
Calling - There for Tomorrow]
Mi
guardai attorno con aria
spaesata.
Il
giorno precedente non mi ero
accorta di quanta gente fosse presente nel Campo e trovarmi in mezzo
alla ressa
dei miei compagni diretti alle tavole per la colazione per poco non mi
creò un
attacco di panico. Eravamo così tanti… Davvero
gli dèi non avevano nulla di
meglio da fare che creare figli con gli esseri umani?
Emile
aveva detto che sarebbe
passato a prendermi per andare a mangiare assieme, ma non riuscivo a
vederlo da
nessuna parte. Continuavo a guardare a destra e a sinistra ma non avevo
avuto
la prontezza di spostarmi dall’entrata della casa di Apollo,
creando non pochi
problemi a chi tentava di uscire.
Probabilmente
fu quello il motivo
per il quale mi presi un’occhiataccia e qualche spallata dai
miei fratellastri,
ma una volta liberato l’ingresso, alcuni continuavano a
squadrarmi con aria
poco amichevole.
Avevo
qualcosa che non andava?
Eppure prima di uscire mi ero truccata abbastanza bene, avevo pettinato
i
capelli…
Prima
che riuscissi a terminare il
mio monologo interiore alla ricerca di qualche imperfezione, sentii una
mano
calda sulla mia spalla. Mi voltai, sicura di trovarmi davanti gli occhi
verdi
del mio tutore, ma venni invece inglobata da un paio di iridi grigie.
«Cithara,
giusto?» Raven sorrise
con fare rassicurante. «Forse è meglio
incamminarsi verso le tavolate. Non so
cosa ti abbia detto lo sfigato, ma normalmente ogni casa ha un tavolo
riservato
quindi è inutile aspettarlo.»
Sentii
un fastidioso bruciore alla
bocca dello stomaco nell’udirlo offendere il biondo
così apertamente. Mi era
sembrato un bravo ragazzo e non trovavo davvero il motivo di tutto
questo astio
nei suoi confronti.
«…Emile.
Si chiama Emile» feci con
un filo di voce. Non so bene perché sentii la
necessità di difenderlo, ma mi
ritrovai a parlare senza aver prima pensato.
Raven
mi rispose con uno sguardo
dapprima stupito e poi divertito, forse non si aspettava nemmeno che
parlassi.
«Hai
ragione. Pensavo solo che un
aggettivo potesse descriverlo meglio del suo nome di battesimo:
è inutile
distinguere il gelato al cioccolato da quello alla fragola. Sono
entrambi
gelato.»
Dovevo
avere un’espressione confusa
perché il mio fratellastro sfoggiò un sorriso
ancora più ampio e, se possibile,
compiaciuto. Rimasi un attimo in silenzio mentre lo seguivo verso i
tavoli
imbanditi.
«…
Trovo stupido definire uguali
due tipi diversi di gelato» dissi infine, rimanendo in piedi
davanti alla mia
sedia mentre Raven prendeva posto accanto a me. «Sono pur
sempre diversi, no? A
qualcuno potrà piacere quello alla fragola piuttosto che
quello al cioccolato… È
vero, è sempre gelato, ma è il gusto a
determinarne la differenza.»
Alzai
gli occhi per vedere la
reazione del bruno, ma in quel momento una mano leggera si
posò sulla mia
schiena all’altezza del cuore. Questa volta quando mi girai
vidi finalmente le
due iridi verdi che stavo aspettando sorridermi con imbarazzo.
«Scusami,
mi hanno trattenuto
alcuni ragazzi più piccoli per un problema alle
docce…» Emile non degnò Raven
nemmeno di uno sguardo e quest’ultimo sembrò fare
lo stesso. «Se vuoi puoi
venire a mangiare con noi al tavolo di Ermes, ho chiesto anche ad
Eleuse di
unirsi al gruppo.»
Di
certo non era la scelta migliore
mettersi contro tutta la mia Casa, abbandonandola per stare vicino alla
mia
amica e al mio nuovo conoscente, ma lì per lì non
ci pensai. Volevo solo
allontanarmi il più possibile dagli sguardi diffidenti dei
miei fratellastri e dalle
domande strane di Raven. Le sue argomentazioni erano degne di quelle
del
Brucaliffo di Alice nel Paese delle Meraviglie. E questo mi innervosiva
parecchio.
Salutai
con un cenno del capo i
ragazzi del tavolo di Apollo per seguire Emile e sedermi al suo fianco,
davanti
alla mia Custode satiro.
«Stai
meglio oggi, cara?» mi chiese
Eleuse con un sorriso dolce allungandosi per darmi un buffetto sulla
guancia.
Stare con lei riusciva a rilassarmi, a sentire ancora un po’
di “casa” in mezzo
a quel mondo strano e ignoto che era per me il Campo.
«Sì,
grazie.»
«Hai
passato una buona notte? Ho
sentito dire che i vostri letti sono molto confortevoli!»
fece Emile, forse con
una punta di invidia nella voce. Ancora una volta mi chiesi quanto dura
fosse
per tutti i ragazzi della Casa di Ermes.
«Ho
dormito abbastanza bene. E il
letto era… comodo.» Avrei voluto dire che nulla
poteva essere comodo come il
letto che mi aspettava nella mia vecchia casa a New York, con
l’odore di lavanda
dell’ammorbidente che usava mamma e i miei peluches con la loro pelliccia
rassicurante accomodati
sulle coperte, ma mi trattenni: avevo la sensazione che anche Emile
soffrisse
la lontananza da sua madre. Certo, la sua era viva e lo aspettava a
casa,
mentre io della mia non ricevevo notizie da quasi tre giorni, ma questo
non mi
autorizzava a mostrare la mia infelicità e ingigantirla.
Mamma
era stata rapita da uno
Stinfalide, però dopo una nottata di sonno tranquillo mi
sentivo abbastanza
positiva e riuscivo quasi a credere di non dovermi preoccupare. Quasi.
Il
signor D (che mi era stato
spiegato essere niente di meno che Dioniso) aveva appena finito il suo
discorso
e Emile mi mostrò come riempire il mio piatto e la mia tazza.
«Basta
che pronunci il nome del
cibo che vuoi mangiare e questo apparirà magicamente! Prova
se non mi credi.»
Mi fece l’occhiolino.
Spostai
lo sguardo dubbiosa sulla
tazza vuota che avevo davanti e dissi sottovoce
«Caffèlatte col cacao», per
poco non caddi dalla sedia nel constatare che la ciotola si era
effettivamente
riempita del liquido che avevo richiesto! Sentii Emile sghignazzare e
un rumore
sordo sotto al tavolo, Eleuse doveva avergli dato un calcio
perché il ragazzo
si piegò un momento a tenersi la gamba in una silenziosa
smorfia di dolore.
«Augh…
Ehm, visto che funziona?»
concluse, una volta ripresosi.
Gli
sorrisi e ordinai delle uova
all’occhio di bue e del bacon, mi era sempre piaciuta una
colazione salata ma
non avevo mai avuto l’opportunità di gustarla in
santa pace.
Mi
riempii per bene lo stomaco dopo
aver bruciato parte della colazione in onore di mio padre Apollo (era
una
tradizione del Campo per ringraziare gli dèi, sembrava che
gradissero il
profumo del cibo offerto loro), e mi alzai assieme ad Emile.
«Bene,
ti lascio in mano a lui.
Devo tornare ancora una volta ai miei doveri di satiro… Ci
vediamo per pranzo!»
Eleuse si allontanò, non prima di avermi schioccato un
rumoroso bacio sulla
fronte.
Guardai
Emile un po’ imbarazzata.
«Ok…
Adesso che facciamo? Avevi
detto che mi avresti addestrata, se non erro… Ma a fare
cosa?»
Gli
altri ragazzi si erano già
dileguati, tutti diretti con sicurezza alle proprie mansioni.
Il
mio tutore annuì.
«Qui
nel Campo noi semidèi veniamo preparati
all’uso delle armi per difenderci da attacchi di eventuali
mostri interessati al
nostro sangue divino… E naturalmente impariamo anche a far
emergere le nostre
doti innate, donateci dai nostri genitori.»
Mi
zittii all’istante.
…Combattere?
Io che sentivo venire
meno le forze anche nel tirare un semplice schiaffo, che svenivo alla
vista del
sangue… Di certo io non avrei combattuto. Non ne ero capace.
Scossi
la testa.
«M-mi
spiace, ma io non so
combattere.»
«Ti
insegnerò io a difenderti!»
fece lui, battendosi una mano sul petto con sicurezza.
«Non
hai capito… Non lo so fare.
Non sono in grado.»
Lui
mi sorrise e mi prese una mano
nelle sue, facendomi rabbrividire dalla sorpresa al contatto.
«Nessuno
pensa di essere in grado
di farlo fino a quando non prova o non si trova alle strette. Fidati di
me,
riuscirò a insegnarti come usare
un’arma.»
«Io
non credo che… Insomma, non
credo proprio di essere portata.»
Emile
rise.
«Non
preoccuparti! Vedremo di
risolvere il problema, devi solo volerlo!»
Ecco,
forse era quello il problema:
non volevo risolvere un bel niente. Sapevo di non essere portata per il
combattimento e non ero intenzionata a cambiare la situazione.
Annuii
poco convinta e mi lasciai
trascinare da Emile in uno spiazzo dove si esercitavano alcuni ragazzi
al tiro
con l’arco. La maggior parte di loro avevano una faccia
conosciuta, solo poco
dopo mi resi conto che era perché appartenevano alla mia
stessa Casa.
«Tutti
i figli di Apollo sono adatti
al tiro con l’arco, mi sembrava logico portarti qui per prima
cosa» si
giustificò Emile per rispondere al mio sguardo perplesso.
Nel
vedere con quale facilità gli
altri scoccavano le frecce mi tranquillizzai. Non doveva essere
così difficile,
non c’era contatto diretto con l’avversario. Quando
il biondo mi porse un arco,
iniziai però ad agitarmi.
«Devo…
Farlo qui?»
Adesso
fu lui a guardarmi con aria
perplessa.
«Intendo
dire…» abbassai la voce
per farmi sentire solo da Emile «…Devo tirare le
frecce con tutta questa gente
che mi fissa?» Sentivo l’ansia montarmi nel petto.
Il
biondo mi diede un buffetto
sulla testa per tranquillizzarmi.
«Nessuno
farà caso a noi due! Sono
tutti concentrati sui propri bersagli.»
Avrei
tanto voluto dargli ragione,
ma sentivo gli sguardi dei miei fratellastri farsi insistenti. Avevo
come la
sensazione che volessero accertarsi che fossi davvero loro sorella,
dovevo dare
loro una prova del mio legame sanguigno con Apollo.
Emile
prese un arco a sua volta e
mi mostrò la posizione da tenere mentre si incocca una
freccia.
«Rilassi
le spalle, prendi bene la
mira… Tendi l’arco… Fai un bel respiro
e…» Lasciò andare il dardo, che si
conficcò
molto vicino al centro del bersaglio circolare.
«…Scocchi la freccia.»
Un
risultato che non aveva nulla da
invidiare ai figli di Apollo.
«Sei
bravo…»
«Ermes
è una specie di dio
tuttofare, quindi anche i suoi figli se la cavano bene in
più o meno tutte le
discipline. Poi ciascuno si specializza in quelle che gli riescono
meglio» mi
spiegò Emile.
«Direi
quasi che siete
avvantaggiati…» dissi, sorridendo. Sarebbe stato
bello poter scegliere le
proprie specialità.
Anche
lui mi sorrise e mi incitò a
provare a mia volta.
«Non
è difficile!» Si posizionò
dietro di me mentre cercavo di imitare la sua posizione di attacco.
Alzò
leggermente il mio braccio
sinistro ‒quello che teneva l’arco‒ e chiuse la sua mano
destra sulla mia ‒quella
che incoccava la freccia.
«Ricorda…»
Cercavo
di rimanere concentrata sul
bersaglio ma risultava abbastanza difficile con la voce di Emile
così vicino al
mio orecchio. Potevo sentire il suo respiro sul mio collo.
«Rilassa
le spalle…»
Un
brivido mi corse lungo la
schiena, ma lui non sembrò accorgersene.
«Prendi
bene la mira…»
Non
ero decisamente abituata a
stare così vicina a un ragazzo.
«Tendi
l’arco…»
Iniziava
a girarmi la testa. Potevo
sentire gli sguardi dei miei fratellastri conficcarsi come spine sui
miei
fianchi.
«Fai
un bel respiro…»
«Emile,
non credo che…» La sua
presa sulla mia mano si fece più dolce.
«Non
preoccuparti, ci sono io con
te.» Era proprio quello che mi preoccupava, purtroppo.
«Sei pronta?»
«…Non
molto.» Feci appena in tempo
a pronunciare il mio dissenso che Emile mi diede un colpetto sulla mano
per
dirmi di lasciar andare la freccia.
Tutto
avvenne quasi senza che me ne
accorgessi, avevo chiuso gli occhi per paura di scoprire di essere una
schiappa
in quello che invece sarebbe dovuto essere il mio cavallo di battaglia.
Dopo un
po’ di silenzio, mi decisi ad aprirli.
«…Niente
male, davvero» sentii
commentare Emile dietro di me.
Mentre
mettevo a fuoco il bersaglio,
il cuore mi batteva a mille. C’era qualcosa che non andava,
riuscivo a vedere
solo una freccia.
«La
mia qual è?...» Il mio biondo
tutore si mise a ridere.
«Probabilmente
hai preferito
prendere di mira la mia freccia piuttosto che il centro del bersaglio!
L’hai colpita
in pieno, per quello vedi un solo dardo.»
«Wow.»
Non riuscivo a credere ai
miei occhi. Era la prima volta che mi cimentavo nel tiro con
l’arco!
Appena
mi
ripresi dallo stupore, guardai gli altri tiratori per constatare che
‒sì‒
avevano osservato la mia performance e finalmente il sospetto sembrava
aver
abbandonato i loro occhi.
«Bene
bene… Che
ne dici di scoccare qualche altra freccia? Diamoci da fare.»
Rinvigorita,
ma
anche un po’ preoccupata (e se il primo tiro fosse stato solo
un colpo di
fortuna?), presi di nuovo posizione.
«Ok,
ma tu
aiutami lo stesso.» Potevo vedere il ragazzo sorridere, con
la coda
dell’occhio.
«Ai
suoi ordini…»
«…Ehm,
per
favore, intendo» mi sentii in obbligo di aggiungere. Emile
scoppiò di nuovo a
ridere.
«Nessun
problema! Ti aiuto volentieri, altrimenti che tutore sarei?»
Detto questo,
aggiustò di poco la posizione delle braccia e mi fece
tirare. Ancora, e ancora,
e ancora…
---
«…Sono
…un po’
stanca» dissi, mentre mi asciugavo il sudore dalla fronte con
l’asciugamano.
Avevo
tirato
molte frecce, ma una cosa non smetteva di infastidirmi. Non ero veloce
come
avrei voluto.
Dopo
sole cinque
frecce dovevo far riposare le braccia per poi tornare a tirare, mentre
i miei
fratellastri continuavano imperterriti, tirando addirittura quattro o
cinque
frecce alla volta.
Ok,
era la mia
prima volta, ma… Beh, in effetti era già un
miracolo che fossi riuscita a fare
ottimi punti e non mancare il bersaglio nemmeno una volta.
«Ti
meriti una
bella pausa, che ne dici?» mi sorrise Emile.
Annuii.
«Sei
stata
brava! Ti ci vuole solo un po’ di esercizio per migliorare la
resistenza…»
aggiunse pensieroso, guidandomi fuori dal padiglione di tiro con
l’arco.
Ero
persa nelle
mie riflessioni e quasi mi prese un colpo quando Emile mi strinse un
braccio,
raggiante.
«Ma
certo! Il
modo migliore per migliorare resistenza e velocità
è imparare a usare la spada!»
Sgranai
gli
occhi preoccupata.
«Ehm,
questa non
l’ho mai sentita» provai a dissentire, ma il
ragazzo era tutto perso nella sua
euforia.
«Dovrò
insegnarti gli affondi, le parate… Ce la possiamo fare,
diventerai una
spadaccina perfetta!»
«Non
stai
correndo un po’ troppo? Cioè… Gli altri
figli di Apollo come se la cavano con
la spada?»
Credo
che lo
avessi preso in contropiede, perché fece una smorfia
indecifrabile.
«Non
devi
proprio guardare tutto quello che fanno loro, ognuno è una
cosa a sé…»
Chissà
perché,
il suo tono poco spavaldo non mi convinse nemmeno un po’.
«Per
me devi
provarci. Devi essere in grado di proteggerti anche in uno scontro
diretto.»
Lo
sguardo con
cui mi fissò era talmente serio che non me la sentii di
ribattere ancora.
Abbassai gli occhi e sospirai rumorosamente.
«Non
prometto
nulla.»
Emile
tornò
raggiante come prima e iniziai a sentirmi a disagio. Non ci sarebbe
voluto
molto perché scoprisse il mio problema col contatto, con la
vista del sangue e
gli dèi solo sanno con cos’altro.
Mi
dispiaceva
l’idea di dare una delusione al mio tutore. Che poi,
“tutore”… Anche gli altri
ragazzi del Campo avevano avuto un tutore? Sembravo l’unica
ad essere seguita
così accuratamente. Certo, ero l’ultima arrivata,
ma questa particolare attenzione
per me risultava assai sospetta.
Ci
dirigemmo a
pranzo al suono della campana e lì decisi di affogare dubbi
e dispiaceri nel
cibo.
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Capitolo 4 *** Cap. 3 - Andante ***
[Wasteland
-
Woodkid]
[Nocturne
for
Violin and Piano - Frederic Chopin]
[Alone
Together - Lovers and Liars]
«Qui
può andare»
disse Emile, poggiando a terra lo zaino, che atterrò con un
rumore poco
rassicurante.
Lo
aveva
preparato dopo pranzo e, anche se non conoscevo il suo esatto
contenuto,
purtroppo potevo immaginarlo e non avevo per nulla voglia di scoprire
se mi
sbagliavo o meno.
Ci
trovavamo in
un posto distante dalla piazza centrale del Campo, dove si svolgevano
tutte le
attività. Il ragazzo aveva scelto uno spiazzo vicino al
bosco, lontano da occhi
indiscreti (forse per la mia reazione da antropofobica al padiglione
del tiro
con l’arco).
Lo
vidi estrarre
dallo zaino due spade ‒per fortuna di materiale molto simile al legno‒
e uno
scudo, doveva averli presi in prestito dall’arena dove si
allenavano tutti i semidèi.
Naturalmente ignoravo fosse contro il regolamento.
«Bene,
cominciamo con le basi. Prendi questa» fece, porgendomi il
manico di una spada.
Non ero nemmeno convinta di come si impugnasse, figuriamoci menare dei
fendenti!
Strinsi
le dita
attorno all’elsa con fare insicuro ed Emile mi sorprese
poggiando la sua mano
sulla mia, con una presa forte.
«Devi
stringerla
bene, altrimenti potrebbe sfuggirti se ricevi un colpo troppo
forte.»
Annuii
in
silenzio senza guardarlo, il volto in fiamme per l’ennesimo
contatto con il
ragazzo. Non riuscivo proprio a capire se lo facesse senza malizia o se
avesse
secondi fini.
«Immagina
di doverti
difendere da me. Non preoccuparti, naturalmente ci andrò
piano» aggiunse poi,
con un sorriso. Sorrisi anch’io di rimando, ma non mi sentivo
affatto sicura.
Impugnò
a sua
volta la spada e menò un fendente ‒che a me parve
tutt’altro che leggero‒ nella
mia direzione. Le lame cozzarono e la spada mi sfuggì di
mano, facendomi cadere
e lasciandomi del tutto indifesa.
Un’espressione
poco convinta passò sul volto di Emile, per lasciare spazio
a uno sbuffo.
«Tieni»
disse,
porgendomi nuovamente la spada dopo che mi fui rialzata.
Il
cuore batteva
a mille, le orecchie rosse come dei peperoni per la vergogna. Speravo
con tutta
me stessa che il supplizio finisse in fretta e che il ragazzo si
rendesse conto
di avere a che fare con un caso perso, ma ero piuttosto sicura che non
avrebbe
desistito così facilmente.
«Presa
convinta!
Immagina di lottare contro la morte… Dovrai pur proteggerti
in qualche modo,
no? Non dico di attaccare, ma almeno difenderti. Come quando stai
cadendo e
porti d’istinto le mani davanti al viso per
proteggerti.»
Sorrisi
tra me e
me sarcasticamente: purtroppo nemmeno quello sapevo fare, ero quel tipo
di persona
che quando cade sbatte direttamente la faccia a terra.
Cercai
di
annullare i pensieri negativi e assumere uno sguardo sicuro, questa
volta con
una presa decisa sull’elsa della spada.
Il
fendente di
Emile arrivò veloce ma più leggero di prima, e
riuscii a pararlo senza tanti
problemi. Continuai a tenere botta per un altro paio di colpi ma non mi
ero resa
conto di stare indietreggiando. Dopo poco andai a sbattere
dolorosamente con la
schiena contro un albero, e per poco non mi scivolò di nuovo
la spada dalle
mani.
«Sei
andata
meglio, ma devi tenere conto di tutti i fattori. Il mio obiettivo era
proprio
quello di farti indietreggiare, stai attenta a quello che è
il vero interesse
del tuo avversario, devi cercare di studiarlo. Non concentrarti solo
sulla
spada, guarda anche i miei occhi!» Speravo non si fosse
accorto che stavo
evitando il contatto visivo di proposito ma ero stata colta in
castagna. «Molti
avversari sono come libri aperti, guardare il loro volto può
esserti d’aiuto
per capire la loro prossima mossa.»
Ok…
Forse non
aveva proprio capito che non lo guardavo negli occhi perché
mi vergognavo della
nostra vicinanza.
Lo
conoscevo
solo da poco ‒quanto, ventiquattrore?‒ e già era in grado di
mettermi
soggezione. No, più che soggezione il contatto con Emile mi
metteva proprio
agitazione.
Palpitazione,
rossore alle guance e aumento della temperatura corporea, Eleuse
avrebbe detto
che mi piaceva. Io non sapevo se era attrazione quella che provavo per
Emile,
sapevo solo che non era normale andare nel panico per una cosa
così stupida.
Non potevo farci nulla però, avevo sempre avuto problemi con
il sesso opposto.
Presi
un respiro
profondo e mi allontanai dall’albero.
«Per
favore,
porta pazienza. Per me è difficile.» Rimasi
stupita io stessa dalla voce dura ‒forse
per via della mia rassegnazione‒ con cui lo dissi. Il biondo
annuì con fare
accomodante.
«Nessun
problema, sei qui per imparare e io per insegnarti!»
Andammo
avanti
per non so quante ore a menare fendenti e, tra brutte figure, cadute e
ruzzoloni, arrivò anche l’ora della cena.
Stavo
fantasticando sulla doccia che avevo intravisto nei bagni comuni del
dormitorio
di Apollo, quando Emile prese la parola.
«Non
devi
arrenderti! La spada non sarà il tuo forte, ma devi
allenarti anche con quella
per diventare completa. Fidati di me, in poco tempo diventerai anche
molto più
veloce a lanciare le frecce.»
Volevo
tanto
credergli, ma in cuor mio sentivo che quello era tutto tempo perso. Ero
riuscita a non far capire al ragazzo che mi impaurivano il contatto
della lama
di una spada col corpo e la vista del sangue solo perché
avevamo usato spade
non affilate ma ero sicura che prima o poi avrei fatto una mossa falsa.
«Spero
tu abbia
ragione.»
Camminammo
ancora un po’ in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.
«Uhm…
Ti
dispiace se prima di cena vado a farmi una doccia?» chiesi ad
Emile, un po’
imbarazzata.
«Va
benissimo,
così mi lavo anch’io! Vengo a prenderti tra
un’oretta, ok?»
Annuii
col capo
per l’ennesima volta in una giornata e ci salutammo.
Finalmente
avevo
un po’ di tempo da sola per pensare alla situazione anomala
in cui mi trovavo e
invece non facevo altro che pensare alle mosse che mi aveva mostrato
Emile poco
prima.
Emile…
Era
davvero un bel ragazzo. Eleuse mi aveva spiegato che tutti portavano
una collana
con una perlina per ogni estate passata nel Campo, e mi sembrava di
aver
intravisto otto perle in quella del biondo. Contando che sembrava avere
sui
diciannove anni, aveva conosciuto la vera essenza di suo padre a undici
anni.
Chissà com’era successo, se i mostri mitologici
avevano attaccato anche lui e
sua madre e come era riuscito a difendersi così piccolo
contro di loro…
Mi
resi conto di
non sapere quasi nulla su di lui e mi rattristai. Non avevo il diritto
di
sentirmi attratta da una persona che era poco più di un
gentile sconosciuto, mi
dissi.
Sovrappensiero,
ero arrivata fino all’ingresso della Casa numero sette,
ovvero quella di mio
padre Apollo, e dopo essere passata da camera mia per prendere
accappatoio e
bagnoschiuma mi diressi alle docce. Speravo fossero libere, e la mia
tacita
preghiera sembrò essere esaudita. Probabilmente la maggior
parte dei miei
compagni si trovava già a cena.
Mi
lavai
lentamente, assaporando ogni secondo di acqua calda che sciacquava il
mio
corpo, quasi purificandolo e rinvigorendolo dalle fatiche del giorno. I
capelli
neri, mossi e ribelli, si lisciarono sotto le carezze del balsamo e
mentre li
pettinavo mi accorsi che si erano allungati parecchio, ora mi
arrivavano sotto
le scapole.
Avrei
fatto
volentieri un salto dal parrucchiere, ma non mi sembrava di averne
visti al Campo
e dubitavo che mi lasciassero uscire dopo quello che era successo a mia
madre.
Già,
la mamma…
Speravo stesse bene. Emile mi aveva detto che ci sarebbe voluto un
po’ per
scoprire qualcosa, ma erano passati quasi tre giorni dal suo rapimento
e non
credevo che sarei riuscita a sopportare di rimanere
all’oscuro delle sue condizioni
ancora per molto. Purtroppo non immaginavo che avrei saputo qualcosa
solo molto
tempo dopo il mio arrivo al Campo.
Chiusi
l’acqua
con svogliatezza ‒mi sarebbe piaciuto rimanere sotto la doccia ancora
un po’‒ e
andai direttamente in camera ad asciugarmi i capelli, sempre senza
trovare
nessuno nei corridoi.
Ero
riuscita a
prepararmi velocemente rispetto a quanto pronosticato da Emile, e per
passare
il tempo decisi di fare un giro per la Casa di Apollo.
L’edificio
era
formato da quattro piani e aveva una forma circolare: dal centro si
diramavano
i corridoi con le stanze dei miei fratellastri, come raggi del sole
sprigionati
dalla palla di fuoco, mentre bagni e docce erano posti a nord su ogni
piano. In
realtà la pianta era piuttosto lineare, ma gli arabeschi
sulle pareti e sul
soffitto tradivano la meticolosità con cui era stato
progettato. Era semplice
ma elegante, proprio come Apollo nei miei ricordi di bambina.
Immaginavo
che
tutte le divinità andassero a trovare i propri figli, per
quello non davo molto
peso agli incontri fugaci che avevo avuto con mio padre. In
particolare, mi era
rimasta impressa la volta in cui mi aveva regalato il violino al mio
quinto compleanno.
Mi aveva sorriso e abbracciato, dicendomi nell’orecchio
qualcosa in greco che
avevo interpretato come “suonalo, è un
portafortuna” e dopo poco era dovuto
svanire per svolgere faccende divine che a quel tempo non comprendevo.
In
realtà non le comprendevo nemmeno a diciotto anni, ma questa
è un’altra storia.
Mi
accorsi che
era tempo di andare all’entrata e scesi le scale circolari
con calma,
assaporando il rimbombo del rumore che i piccoli tacchi delle ballerine
producevano a contatto col marmo bianco. Chiusi gli occhi, deliziata da
questo
suono, mentre riconoscevo senza problemi prima un La, poi un Do
provocato da un
passo più deciso, un Fa… Questo era il vero dono
che mi aveva fatto mio padre:
la Musica.
Mi
ritrovai a intonare
un motivetto sconosciuto e ballare scendendo per le scale. Non mi
aspettavo ci
fosse qualcuno, e mi gelai all’istante nel sentire la voce di
Raven. Non avevo
nemmeno percepito i suoi passi, forse erano entrati in sintonia coi
miei nel
motivetto oppure li aveva celati, non avrei saputo dirlo con certezza.
«Te
la cavi
molto bene con la musica, vedo. Sono sicuro che sai suonare
egregiamente almeno
uno strumento!» fece lui con un sorriso dolce. Sembrava
diverso dal ragazzo che
quella mattina aveva insultato Emile e faceva strani ragionamenti su
gusti diversi
di gelato.
Ero
titubante,
ma mi pareva scortese non rispondere.
«Suono
il
violino» dissi a bassa voce. Ero turbata da Raven, la sua
aura armonica (così
avevo definito tra me e me quello che percepivo come
“melodia” emanata dalle
persone) dava l’impressione di essere molto potente ma
soprattutto, come dire… Lugubre.
Mi ricordava tanto la Marcia Funebre di Chopin, o uno dei suoi Notturni.
«Il
violino… Io
invece suono il pianoforte.» Non so come mai, ma lo avevo
intuito al primo
sguardo. Un tipo come lui non avrebbe potuto suonare nessun altro
strumento,
doveva essere al centro dell’attenzione, ghermire tutti con
l’unico suono del
suo piano…
«Ti
calza a
pennello» riuscii solo a dire.
Raven
rise
divertito.
«Anche
il
violino ce lo vedo bene, su di te» mi rispose con fare
complice. Forse aveva
fatto il mio stesso ragionamento e trovava che fosse uno strumento
adatto a una
che come me si nascondeva all’ombra degli altri, cercando di
passare inosservata.
A parer mio, il violino suona bene da solo, ma ha una vibrazione povera
e
triste. Solo in mezzo a molti suoni riesce a dare il meglio di
sé, inseguendo
le melodie degli altri strumenti.
Scesi
gli ultimi
scalini con passi lievi e mi avviai verso il portone
d’ingresso, ritenendo
chiuso il discorso.
«Cithara.»
Il
modo in cui pronunciò il mio nome provocò dei
brividi lungo la mia schiena.
Aveva cambiato tono di voce, sembrava più duro.
Mi
voltai
lentamente.
«Sì?»
«Mi
piacerebbe
vederti partecipare alle prove del nostro concerto annuale. Sono sicuro
che ti
troverai bene.» Ancora quel sorriso dolce. Avevo
l’impressione che fosse falso,
ma non riuscivo a capire il perché.
«Vedrò
di
venire, se riuscirò a trovare spazio tra i miei
impegni.»
Prima
di
voltarmi, notai il suo sguardo percorrermi palesemente da testa a piedi
e
sentii un moto di fastidio provenire dallo stomaco. Perché
diamine avevo scelto
di mettere un vestitino bianco invece dei soliti jeans e maglietta?
«Comunque,
bel
vestito. Ti sta bene il bianco Cithara, fa risaltare il nero dei tuoi
capelli.»
Biascicai
un
debole ringraziamento al complimento non gradito e finalmente corsi
fuori dalla
Casa, andando a sbattere contro qualcuno.
«Scusa,
io non…»
«Oh,
sei tu!»
Alzando la testa, scoprii di aver quasi travolto Emile. Dovevo avere
ancora
un’espressione turbata, perché il biondo mi
posò la mano sulla testa. «Ehi…
tutto bene?»
«U-uh,
ho solo
un po’ di fame» cercai di sdrammatizzare.
Se
anche lui mi
aveva squadrato dalla testa ai piedi, di certo non lo aveva dato a
vedere.
«Allora
corriamo
a mangiare!» mi rispose con un sorriso sincero. Ecco, lui mi
dava l’impressione
di possedere una melodia stupenda e allegra, di quelle che ti
trascinano e
fanno venire voglia di ridere e ballare fino a quando non sei distrutto
ma
felice.
Arrivati
al
tavolo di Ermes, si ripeté il copione del pranzo e lasciai
la mente libera di
vagare mentre ascoltavo i discorsi dei fratellastri di Emile. Sembrava
che i
figli del dio protettore dei ladri fossero avvezzi a combinare
marachelle, e
trovavo divertente sentire i resoconti degli ultimi problemi che
avevano creato.
«Com’è
andata
oggi? Spero che Emile non ti abbia spremuta per bene, sono intimamente
convinta
che sia un ragazzo iperattivo…» fece Eleuse
guardando il biondo di sottecchi.
Scoppiai
a ridere
senza ritegno nel vedere Emile ricambiare l’occhiata
preoccupato e girarsi per
chiedermi con lo sguardo una cosa del tipo “non ho esagerato,
vero?”
«No,
abbiamo
lavorato tanto ma è stato magnanimo, mi ha lasciata
riposare…» riuscii a dire, riprendendo
fiato.
Dopo
un attimo
di silenzio, feci caso al largo sorriso che era comparso sul volto di
Ele.
«Va
bene, credo
di averti rivalutato testone. Sembra che stare al tuo fianco faccia
bene alla
mia Thara.» Arrossii e vidi Emile fare lo stesso.
«Ne
sono felice!»
rispose, con lo sguardo basso e un sorriso. Forse era solo la mia
immaginazione,
ma mi sembrò che tutto fosse stato architettato fin
dall’inizio da Eleuse
piuttosto che da Chirone.
Mettere
la
povera e triste ragazza appena arrivata sotto l’ala
protettiva del veterano
allegro e iperattivo della Casa numero undici… Insomma,
sembrava un buon piano
per tirare su di morale la nuova arrivata e calmare il figlio di Ermes.
Decisi
di non
indagare oltre e dare ragione a Eleuse, erano passati due giorni e,
nonostante
il primo l’avessi trascorso per la maggior parte del tempo a
dormire, la
vicinanza di Emile mi aveva fatto davvero bene. Tutta
quell’attività, poi,
riusciva a non farmi pensare alla mamma.
Finito
di
mangiare andammo tutti a sederci in cerchio attorno a un fuoco magico
(il suo
colore e l’altezza delle sue fiamme dipendevano
dall’umore di quelli che si
trovavano attorno ad esso, o almeno così mi aveva riferito
Emile) e i miei
fratellastri guidarono i canti di
tutti
noi, dedicati alle divinità greche.
Mi
ripromisi
mentalmente di impararli uno ad uno per poterli cantare nel modo
corretto.
Prima
che Emile
mi riaccompagnasse alla Casa numero sette, la mia custode mi prese da
parte.
«Perdonami
se in
questi giorni non potrò essere molto presente, ma sto
indagando per conto di Chirone
sul rapimento di Lynette.» Mi fece strano sentire pronunciare
il nome della
mamma. «Ho chiesto a quel testone di starti vicino e spero
che non faccia nulla
di stupido. Sembra che andiate d’accordo, e ne sono felice,
Emile è un bravo ragazzo.
Sono sicura che vi aiuterete a vicenda.»
Non
capivo
perché ma quelle parole suonavano come un addio.
«Devi
allontanarti dal Campo?» Eleuse non rispose, preferendo
abbracciarmi. «Ele, ti
prego voglio saperlo. Dove devi andare?»
Lei
mi sorrise.
«Non
preoccuparti cara, cercherò solo qualche indizio e
tornerò subito qui, ok? Ci
vorranno solo pochi giorni.» Probabilmente ero io ad essere
troppo sospettosa,
ma non riuscì a convincermi.
«Poco
quanto?»
Eleuse
scosse la
testa.
«Non
lo so
ancora, dipende da molti fattori… Ma non devi preoccuparti
di nulla, fidati di
Emile se dovesse servirti qualcosa» ripetè,
baciandomi sulla fronte e
abbracciandomi nuovamente. «Partirò domattina, ora
però vai a dormire, va bene
piccola?»
Avrei
tanto
voluto rifiutare e chiederle di dormire assieme a me, ma sentivo la
necessità
di mostrarmi forte anche per lei. Intuivo che avrebbe corso molti
pericoli in
quella missione, e volevo che non dovesse preoccuparsi anche di me per
potersi
concentrare unicamente sul suo obiettivo.
«Va
bene. Tu
però fai attenzione, hai capito? Sarà meglio che
non ci metti troppo tempo o mi
toccherà venirti a cercare!» Lo dissi in tono
scherzoso ma Eleuse parve
preoccuparsi.
«Non
fare nulla
di stupido, Thara. Là fuori è
pericoloso.»
«…Non
preoccuparti, Emile baderà a me e tu tornerai sana e salva
al Campo» le
sorrisi, trovando approvazione nei suoi occhi.
Decisi
di
imprimermi nella mente il ricordo di quei capelli paglierini e le sue
iridi
verdi.
«Buonanotte
cara.»
«Buonanotte
anche a te, Ele.» L’abbracciai un’ultima
volta e la vidi allontanarsi dopo aver
salutato anche il mio tutore.
Emile
fu subito
al mio fianco per farmi strada verso la mia Casa. Aveva le mani in
tasca e
sembrava leggermente agitato.
«Uhm…»
«Dimmi
pure»
feci in tono rilassato, per cercare di metterlo a suo agio. Capivo che
voleva
dirmi qualcosa, ma non riusciva a trovare il modo adatto.
Rimase
un attimo
in silenzio.
«Stai
tranquilla, Eleuse se la sa cavare.» Ci fu un'altra pausa di
silenzio. «Ti
prego, se hai bisogno di qualcosa ricorda che ti aiuto
volentieri» riuscì
infine a dire.
Non
credevo che
esistesse una qualche situazione in grado di mettere a disagio Emile,
ma notai
di essermi sbagliata. Si era imbarazzato per ben due volte nel giro di
una sola
sera.
«Me
lo ricorderò»
risposi semplicemente. Credo che il ragazzo me ne fu grato,
perché annuì e
riprese il suo solito fare disinvolto.
Nel
frattempo
eravamo arrivati davanti al portone della Casa di Apollo.
«Bene,
ci
vediamo domani allora» disse Emile, abbassando lo sguardo.
«Certo!
Buonanotte.»
Sorridemmo entrambi e mi voltai per entrare nella Casa.
Forse
era solo
una mia impressione, ma avevo la sensazione che lo sguardo del biondo
stesse scorrendo
la mia figura avvolta nel vestitino bianco.
E questa volta la percezione dello
stomaco fu simile a un piacevole sfarfallio.
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Capitolo 5 *** Cap. 4 - Staccato ***
[How
we kill
stars - Shaka Ponk]
[Because
-
Yoko Kanno]
[Starry
Eyed -
Ellie Goulding]
«Oh…
Oggi niente
tiro con l’arco?» chiesi con una punta di delusione.
Emile
scosse la
testa.
«No,
dovrai
concentrarti prima sull’aumento della resistenza delle
braccia. L’arco potrai
tornare a imbracciarlo tra qualche giorno.»
Non
potei fare a
meno di emettere uno sbuffo insoddisfatto. Il mio tutore purtroppo
sembrava
convinto, sapevo che nulla sarebbe riuscito a fargli cambiare idea e mi
arresi.
Passammo
qualche
ora a esercitarci con le spade finte quando, dopo l’ennesima
brutta figura,
Emile mi tolse l’arma di mano.
«…Ok,
qui ci
vuole una dimostrazione. Andiamo all’Arena, ti faccio vedere
come si combatte
realmente!»
Un
campanello di
allarme trillò nella mia testa: voleva davvero andare
all’Arena? Quell’enorme
spazio in cui avevo visto i ragazzi del campo prendersi a colpi di
spada e per
gran parte delle volte allontanarsi con ferite (seppur superficiali)
sul corpo?
Scossi
la testa.
«Non
penso sia
necessario… Basta solo un altro po’ di
tempo…»
Non
ebbi bisogno
di alzare lo sguardo su Emile per capire che di tempo non ce
n’era, ricordavo
che la Caccia alla Bandiera sarebbe stata tra una decina di giorni.
«Sono
sicuro che
dopo aver osservato i movimenti di schivata e parata usati in un
combattimento
serio riuscirai a eseguirli meglio!»
Mi
rivolse uno
dei suoi sorrisi accoglienti e, presa la mia mano nella sua,
iniziò a
trascinarmi verso l’Arena. Forse il verbo
“trascinare” non è propriamente adatto
‒ormai mi ero arresa all’idea di svenire alla vista del
sangue e fare una
figura orrenda‒ ma esercitavo un minimo di resistenza sui piedi, se non
per
ostacolarlo, almeno per non agevolargli la salita. Soprattutto
perché iniziavo
a sentirmi terribilmente a disagio a causa del contatto con Emile e
potevo
avvertire distintamente le gocce di sudore che andavano a formarsi
sulla mia
mano stretta nella sua.
Appena
arrivati
all’interno dello spazio, il ragazzo lasciò la
presa sulla mia mano e potei
riprendere a respirare.
Avevo
ancora il
batticuore quando Emile si allontanò verso la teca delle
armi per prendere una
spada e saggiarne l’impugnatura. Le mie paure purtroppo erano
fondate, l’arma
non era di legno come quelle che usava per allenarsi con me.
Deglutii
nel vedere
il bagliore della lama d’acciaio.
«Bene,
non resta
che aspettare un degno avversario.»
Il
biondo si
guardava intorno, come alla ricerca di qualcuno in particolare. Ebbi un
brutto presentimento
ma speravo di sbagliarmi.
«Hai
deciso di
mostrare a mia sorella la tua inettitudine sul campo di battaglia prima
del
tempo, Emile?»
Raven
si era
avvicinato immediatamente, come un ape attratta dal miele, e si ergeva
fiero
rigirando uno stocco nella mano sinistra.
Emile
non
raccolse la provocazione.
«Che
ne dici di
un combattimento veloce?»
La
tensione era
palpabile, l’aria si era fatta elettrica.
Raven
sorrise e
aprì le braccia in un gesto conciliante.
«Sai
che
combatto volentieri con te, Emile. Cercherò di andarci piano
per non farti fare
brutta figura, lo prometto.»
Il
biondo
sogghignò.
«Preoccupati
per
te, piuttosto. Non vorrei mai che ti facessi male e non potessi
partecipare
alla Caccia.»
Avevo
la
sensazione di dover fare qualcosa ma non avevo la più
pallida idea di come
calmare quei due, così mi limitai a nascondere il viso tra i
capelli.
«Cithara,
osserva attentamente.»
Alzai
lo
sguardo.
Emile
e Raven si
trovavano uno di fronte all’altro, entrambi sembravano avere
gli occhi
incollati sullo sfidante, pronti a scattare al minimo cenno di
movimento.
Mi
forzai a
guardarli e sperai con tutta me stessa di non dover assistere a scene
cruente.
L’ultima cosa che volevo era svenire di fronte a tutti!...
Tutti, sì, perché
gran parte dei ragazzi che si stava allenando era accorsa ad osservare
lo
scontro tra il mio tutore e il mio fratellastro.
Lo
scatto di
Raven fu quasi fulmineo, tanto che faticai a capire cos’era
successo. Il
corvino aveva provato un affondo, prontamente respinto da Emile che
aveva
aperto la guardia dell’avversario con una stoccata diretta
allo sterno. Raven
era però indietreggiato e adesso i due erano tornati a
studiarsi con gli
sguardi infuocati, camminando su di un’immaginaria
circonferenza disegnata a
terra.
Notai
un
improvviso guizzo negli occhi di Emile quando si lanciò
contro Raven.
Il
colpo indirizzato
alle gambe fu parato e, mentre Emile tornava in difesa, Raven
menò un fendente.
Lì
per lì
credevo fosse stato un colpo alla cieca, tanto per far indietreggiare
il
biondo, ma nel sentire le ginocchia diventare di burro compresi
cos’era accaduto.
La punta dello stocco aveva ferito Emile sulla guancia e ora una
leggera
striscia rossa gli colorava lo zigomo.
Lo
sguardo del
biondo si era indurito, probabilmente non si aspettava un colpo
così alto. Piuttosto,
ebbi l’impressione che Raven non fosse stato del tutto
corretto. Forse aveva
mirato al viso per deconcentrare l’avversario ma senza
protezioni avrebbe
potuto infliggergli molto di più di un piccolo taglio.
All’idea
di
quello che sarebbe potuto accadere sentii le mie gambe protestare e
venire
meno.
Deglutii.
Non
potevo lasciarmi andare per così poco!
Sollevai
gli
occhi su Emile e mi costrinsi ad osservare in modo critico la ferita:
pareva
leggera, sarebbe guarita nel giro di due, massimo tre giorni.
Fu
di nuovo
Raven ad attaccare, e questa volta i fendenti erano talmente forti che
il
cozzare delle lame creava scintille. Uno, due, tre… I colpi
si susseguivano
senza tregua, Emile costretto a parare, perennemente in difesa.
Una
sensazione
spiacevole allo stomaco mi costrinse a portare la mano al ventre.
Cercai di
convincermi che fossero i morsi della fame, mentre iniziavo a rendermi
conto
che quella era preoccupazione. Capivo che una sconfitta contro Raven
avrebbe
bruciato troppo ad Emile.
Stavo
per
distogliere lo sguardo nel vedere il biondo indietreggiare, dapprima
impercettibilmente e poi sempre di più, quando vidi di nuovo
quello scintillio
nei suoi occhi verdi.
Non
sapevo
perché, ma ebbi la sensazione che Emile stesse solo fingendo
di trovarsi in
difficoltà. Mi tornarono in mente le sue parole del giorno
precedente: “Stai attenta a quello
che è il vero
interesse del tuo avversario.”
Quando
il
tallone del biondo sfiorò la staccionata dietro di lui
capii. Con uno scatto
felino, Emile si abbassò scartando Raven e lo
colpì al fianco con la lama,
cercando di mandarlo a sbattere contro la recinzione.
Il
moro riuscì a
riprendere l’equilibrio in tempo per girarsi e in una
frazione di secondo,
proprio mentre Emile si voltava a fronteggiarlo dopo averlo colpito,
gli ferì
un braccio.
Dovevo
essere
indietreggiata anch’io, perché mi ritrovai a
sbattere la schiena contro uno dei
ragazzi che erano venuti ad assistere allo scontro del secolo.
Sentendo
il
clangore delle lame lasciate cadere a terra, capii che i due avevano
smesso di
fronteggiarsi dichiarando la lotta finita con un pareggio.
Avevo
visto
perfettamente la spada di Emile penetrare (benché in modo
leggero) nel fianco
senza protezioni di Raven, così come il fendente colpire il
braccio di Emile.
Una serie di sensazioni ‒una più sgradevole
dell’altra‒ si stavano susseguendo
dentro di me, in subbuglio, e riuscii a calmarmi solo dopo una serie di
lunghi
respiri.
«Lascia,
Dan, è
una cosa da niente…» Emile stava parlottando con
un ragazzo più giovane di lui,
coi capelli color paglia. Immaginavo fosse un altro figlio di Ermes.
Tentai
di darmi
un contegno quando si avvicinò a me.
«Scusa,
forse è
stato un combattimento un po’ rude… Ma spero tu
abbia assimilato qualcosa lo
stesso.»
Aprii
la bocca
per replicare ma la richiusi immediatamente nel posare lo sguardo sul
braccio
ferito.
Lo
teneva
stretto con l’altra mano con molta nonchalance, mentre una
macchia rossa andava
via via allargandosi sulla manica strappata della camicia bianca.
«Andiamo
in
infermeria, devi bendare la ferita.»
In
realtà non
ero nemmeno sicura ci fosse un’infermeria, ma speravo che
avessero almeno un
kit di pronto soccorso al Campo.
«Mah…»
Sbuffando,
Emile
si girò verso l’uscita dell’Arena e mi
fece cenno di seguirlo.
«Noir!»
La
voce di Raven
alle nostre spalle non tradì nemmeno un minimo di sofferenza.
Il
mio tutore si
arrestò, senza voltare la testa.
«…
Sei stato
bravo. Spero tu possa migliorare per la Caccia alla Bandiera,
però, perché ti
servirà molto di più per vincere. Continua ad
allenarti.»
«…
Contaci, Lionhard.»
Diedi
una fugace
occhiata al mio fratellastro per accertarmi che stesse bene (era stato
già
accerchiato da un po’ di persone, tra le quali mi parve di
riconoscere alcune
ragazze della nostra Casa) e mi affrettai a seguire Emile.
---
«…
Quando
servono, gli infermieri non ci sono mai.»
Eravamo
entrati
in uno dei tendoni bianchi posti poco lontano dall’Arena da
qualche minuto ma
sembrava non ci fosse nessuno oltre a noi due.
Mentre
gli occhi
si abituavano alla penombra, mi avvicinai al piano di lavoro di fianco
ai
lettini e osservai le varie erbe riposte nei barattoli trasparenti,
assieme
alle pomate e le garze. C’era tutto l’occorrente.
«Non
serve
l’infermiere.»
«…
Vorresti
medicarmi tu…?»
L’occhiata
dubbiosa che mi rivolse il ragazzo mi offese un po’.
Sostenni
il suo
sguardo ricambiandolo con uno di sfida e alzai leggermente il mento.
«Ti
dispiacerebbe?»
Non
potevo
esserne certa, ma mi parve di vederlo arrossire mentre abbassava lo
sguardo e
si sedeva docile sul lettino più vicino.
«Mi
sembrava di
averti vista in difficoltà nel vedere il sangue, tutto
qui…» Allora se n’era
accorto!
Non
risposi e mi
avvicinai a lui con una garza e del disinfettante in mano. Evitai il
contatto
coi suoi occhi quando si scoprì la ferita al braccio.
Nonostante
il taglio
non fosse troppo profondo, il sangue non si era ancora fermato. Mi
appoggiai
con una mano al lettino per non svenire e chiusi gli occhi respirando
profondamente.
“‘Non
è nulla, è solo una lieve ferita…
Se non ti muovi, Emile starà peggio.”
«…
Posso
riuscirci» dissi, dopo aver deglutito per
l’ennesima volta e cacciato il gusto
acido della nausea, più per convincere me stessa che per lui.
Tamponai
il
taglio delicatamente ma Emile sussultò lo stesso.
«Scusa,
cercherò
di fare in fretta.»
«Non
fa male…»
Repressi
un
sorriso quando un altro sussulto silenzioso scosse il corpo del
ragazzo. Non
capivo davvero questa ostinazione tutta maschile nel dover fingere di
non
provare dolore.
«Tieni
una
attimo la garza.»
Dopo
poco tornai
con una poltiglia violacea che presi a spalmare sul taglio aperto.
«…Cos’è?»
«Aiuterà
la
ferita a cicatrizzare più velocemente. Non preoccuparti, mia
madre è una farmacista,
so quello che sto facendo» aggiunsi per tranquillizzarlo.
In
realtà non capivo
perché fossi così sicura che
quell’intruglio lo avrebbe aiutato, semplicemente
SAPEVO che era così.
Sentii
Emile
ridacchiare e lo guardai incuriosita.
«Scusa,
avevo
dimenticato che i figli di Apollo sono anche degli ottimi
medici… Grazie.»
«Oh,
di nulla…»
Ecco, adesso che stavo bendando il braccio avevo perso tutta la mia
spavalderia. Naturalmente non mi ero dimenticata del taglietto sul
volto, anzi
credo proprio che questo mio cambiamento fosse dovuto alla
consapevolezza che
di lì a poco avrei dovuto toccare il suo viso.
Alzai
lo sguardo
e mi bloccai immediatamente nel vedere che mi stava fissando. Con un
bel
sorriso stampato in faccia, oltretutto.
«Ehm…
Potresti
chiudere gli occhi?»
L’occhiata
interrogativa che ricevetti in risposta mi fece pensare di aver solo
immaginato
quell’ombra di malizia nel suo sorriso.
«Perché?»
«…»
“Perché mi
metti a disagio”, avrei voluto dirgli.
A
quanto pare il
mio silenzio fu sufficiente, perché Emile chiuse le palpebre
dopo poco.
«Ok.»
Esitai,
soffermandomi a guardarlo.
Era
carino.
Molto.
Davvero,
tanto
carino.
Sentii
le guance
avvampare e aggrottai le sopracciglia per scacciare quei pensieri
inutili.
Mentre
gli
disinfettavo la ferita, mi permisi di osservarlo un altro po’
da vicino.
Le
ciglia erano
lunghe, stranamente più scure rispetto ai capelli oro puro,
stesso colore delle
sopracciglia ben delineate, e l’incarnato olivastro faceva
risaltare le labbra
rosee leggermente dischiuse ‒morbide e invitanti‒ che lasciavano
intravvedere una
fila di denti smaglianti.
Spostai
lo
sguardo sulle sue palpebre proprio mentre riapriva gli occhi per
sbirciare.
Voltai
il capo
di lato per nascondere il rossore che ormai mi coloriva
l’intero viso.
«Ti
avevo
chiesto di tenere gli occhi chiusi.»
Udii
Emile
sbuffare con una nota divertita nella voce.
«Scusa,
scusa…»
Non
potei fare a
meno di notare il mezzo sorriso ancora accennato sulle labbra quando
applicai i
cerotti per sutura sul taglio. Questa volta, quando aprì gli
occhi ero intenta
ad attaccare i punti e riuscii più facilmente a dissimulare
l’imbarazzo.
«Grazie
Thara.»
Sussultai
nel
sentirlo pronunciare il mio diminutivo.
«Posso
chiamarti
così?»
«Credo
che sia
ok…» “Certo, mi fa piacere!”
sarebbe stata una risposta più adatta ma Emile
parve contento lo stesso.
«Andiamo
a
mangiare?»
«Va
bene, Emile.»
Mi sentii un’idiota a chiamarlo per nome.
Alzando
gli
occhi rimasi colpita nel vedere l’espressione del biondo. La
tenerezza con cui
mi guardava mi ricordò lo sguardo pieno di affetto di mia
madre e di Eleuse.
«Mi
piace come
pronunci il mio nome.»
«Oh,
ehm…
Cercherò di pronunciarlo più spesso,
allora» conclusi, abbassando la testa.
Ero
convinta che il mio volto
sembrasse un tizzone ardente, quindi decisi di continuare per un
po’ a seguire
Emile col viso nascosto tra le onde dei miei capelli ebano.
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Capitolo 6 *** Cap. 5 - Scherzo ***
[Shrinking
Universe - Muse]
[Crystallize
-
Lindsey Stirling]
Mi
lasciai
cadere sul letto sospirando.
Era
ormai sera e
mi sentivo distrutta come non mai: Emile aveva deciso di allenarsi con
me
nonostante il braccio ferito e le mani mi dolevano, affaticate dal peso
della
spada di legno.
«Uff…»
Speravo
fosse
una mia impressione ma per tutto il resto della giornata mi pareva di
aver
intravisto uno strano sorriso beffardo affiorare più volte
sulle labbra del biondo.
“Scema…!”
Affondai
il viso
nel cuscino, soffocando un gemito
di
protesta. Ebbi un moto di tristezza nel pensare che solo una stupida
sarebbe
stata capace di farsi prendere dalle emozioni in quel modo.
Ripercorrendo
mentalmente gli avvenimenti della giornata, mi accorsi di non aver
notato Raven
a cena. Forse la sua ferita era più grave di quello che mi
era parso
inizialmente ed era stato costretto a rimanere a letto. Mi morsi le
labbra: ero
stata scortese ad andarmene così, lasciandolo
nell’Arena senza nemmeno
informarmi sull’entità effettiva della lesione.
Non
avevo neanche
la più pallida idea di dove si trovasse la sua stanza ma
pensai fosse giusto
fare un tentativo.
Uscii
dalla mia
camera con circospezione per avviarmi verso il salone centrale del
piano terra,
sperando di riuscire a carpire qualche informazione in più
ai miei fratellastri
senza destare troppi sospetti.
Arrivata
a
scendere l’ultimo gradino, dedicai qualche minuto a osservare
le teste brune
che affollavano il salone. Qualcuno si accorse della mia presenza e si
limitò a
rivolgermi uno sguardo di sufficienza, di certo dopo la mia uscita di
oggi non
avevo guadagnato dei punti simpatia!
“Ci
sarà almeno una persona vagamente amichevole in questa
stanza…”
continuavo a ripetere tra me e me portandomi verso il centro del
salone, cercando
di attirare meno attenzione possibile.
Finalmente
una
ragazza incrociò il mio sguardo senza ombra di
ostilità.
«Ciao!
Sei
quella nuova, vero?» Si era avvicinata dopo aver ricevuto un
sorriso
imbarazzato in risposta alla sua occhiata incuriosita.
«Piacere…
Cithara Greenwood» annuii, porgendole in modo meccanico la
mano. Quando me la
strinse rimasi sorpresa nel sentire delle mani morbide e paffute. I
capelli castani,
corti e ricci le cadevano in ciocche ribelli sugli occhi ambrati,
mentre delle
lentiggini color caffèlatte le coprivano parte delle guance
e del naso.
Aveva
un’aria
simpatica.
«Io
sono Martha
Lowel! Benvenuta tra noi, spero che
tu
possa ambientarti quanto prima.»
Il
suo sorriso
sincero era contagioso e mi ritrovai ben presto a sorridere a mia volta.
«Lo
spero
anch’io…» sospirai.
Iniziavo
a
pensare che sarebbe stata più dura del previsto fare
amicizia coi miei fratelli
mentre rimanevo sempre e solo con Emile. Non che passare tutto il tempo
con lui
mi dispiacesse…
«…Ti
senti bene?»
Dovevo essere arrossita, perché Martha mi stava guardando
preoccupata.
Decisi
di
imputare l’improvviso cambio di colorito all’afa
estiva.
«Scusa,
posso
chiederti una cosa? Oggi Raven è stato ferito
all’Arena e non l’ho visto a cena
stasera… Per caso sai se sta bene?» Rimasi stupita
dall’essere riuscita a
comporre una frase così lunga dopo giorni e giorni di quasi
mutismo.
Martha
arricciò
le labbra, indecisa
sul da farsi.
«Mmm…
Sì, ho
saputo di quello che è successo.» Mi
guardò per un attimo in silenzio con i
suoi occhi ambrati, come se dovessi capire qualcosa di sottointeso.
«L’ho visto
poco fa mentre tornava in camera a riposare! …Volevi andare
a trovarlo?»
Annuii
con un
sorriso colpevole. La ragazza ‒faticavo ancora a realizzare che si
trattava di
una mia sorella, come d’altronde tutti quelli che si
trovavano in quella stanza‒
pareva molto acuta: ero convinta che conoscesse la storia e avesse
intuito il
motivo del mio imbarazzo.
«La
stanza è al
terzo piano, in fondo al corridoio a destra delle scale. Detto tra
noi…» si
avvicinò, abbassando la voce «…non
comprendo
tutto questo rancore tra quei due. Non sentirti in colpa, a volte i
ragazzi
sono difficili da capire!»
«Grazie»
dissi
semplicemente, molto grata a Martha per aver tentato di rincuorarmi.
All’improvviso
non mi dava più fastidio l’idea di avere dei
fratelli, se questo significava
avere una sorella gentile come lei.
«Domani
dopo
pranzo vieni alle prove?»
Ci
misi qualche
secondo a capire che si riferiva alle famose prove del concerto di cui
mi aveva
parlato Raven.
Emile
mi aveva
promesso di darmi lezioni di ripetizione sulla storia
dell’Antica Grecia la
mattina, avrebbe voluto allenarmi di pomeriggio. Sperai che non si
arrabbiasse
se per un giorno mi fossi presa una pausa.
«Stavo
pensando
di venire… Dove le fate?»
«Ti
aspetto al
dormitorio alle 15:00! Così andiamo assieme.» Mi
sorrise di nuovo, allungando
la mano verso la mia spalla per darmi un colpetto affettuoso.
«Ok,
grazie
ancora Martha.»
Annuì
con il
capo e fece un cenno verso le scale.
«Un’ultima
cosa…
Raven è un tipo difficile a volte ma non è
cattivo. Dagli un po’ di fiducia.»
---
Erano
passati
ormai cinque minuti da quando avevo trovato la porta della stanza di
Raven e
ancora non mi ero decisa a bussare. Stavo lì, immobile e
incerta sul da farsi.
Cos’avrei
detto
una volta dentro? “Ciao Raven, sei
ancora
tutto intero? Oh, mi dispiace tanto per essere scappata in quel modo
stamattina
ma ero troppo impegnata a seguire i miei stupidi ormoni e correre
dietro ad
Emile! Spero che non ti dispiaccia.” …No
ok, così non andava decisamente
bene.
La
cosa più strana
è che all’inizio la mia azione non mi
era sembrata terribile ma col passare delle ore avevo realizzato che
dovevo
essere sembrata un’insensibile o peggio, una traditrice.
Maledizione, era pur
sempre uno dei miei fratelli quello che era stato ferito più
gravemente!
Era
tutto così
dannatamente difficile… Quando andavo a scuola non dovevo
preoccuparmi tanto, a
forza di stare a contatto coi miei compagni per tutte quelle ore le
cose
venivano da sé. Le amicizie lì mi erano parse
facili da costruire, anche se mi
ero accorta di quanto fossero altrettanto facilmente deperibili.
È brutto
ritrovarsi a pensare dopo anni di essere amica di tutti ma di nessuno
in
particolare.
Le
uniche due
figure a cui mi appoggiavo, mia mamma ed Eleuse, erano attualmente
fuori dalla
mia portata e fu strano realizzare di essere stata lasciata da sola con
i miei
problemi.
Uno
scricchiolio
proveniente dalla porta mi strappò ai miei pensieri.
«Oh…?
Cithara?»
Non poteva essere lo stesso Raven che avevo conosciuto, quello che
avevo
davanti in quel momento. Con i capelli arruffati e un pigiama scuro di
seta, aveva
l’aria sorpresa e ‒incredibile a dirsi!‒ indifesa.
«Ah…
Perdonami,
stavo per bussare ma avevo paura che stessi dormendo.» La
scusa mi risultò
parecchio patetica, tuttavia Raven non la mise in dubbio.
«…Vuoi
entrare
un momento?» fece, spostandosi di lato per lasciare libera
parte dell’ingresso.
«Ti
ringrazio.»
Rimasi
piacevolmente
colpita da come aveva arredato la sua piccola camera, c’erano
un sacco di
scaffali pieni di libri in greco e sulla scrivania, davanti alla
finestra,
spiccavano dei barattoli in vetro contenenti delle erbe in polvere.
Con
la mano fece
cenno di accomodarmi sulla sedia mentre lui si sedeva sul letto
semidisfatto.
«Scusa
il
disordine, non aspettavo ospiti.» Era imbarazzo quello che
avevo appena
percepito nella sua voce?
«Volevo
solo
vedere come stavi. La ferita al fianco è grave?»
Nel pronunciare la domanda
spostai lo sguardo sulle bende che si intravvedevano dallo scollo del
pigiama.
Raven
alzò le
spalle con noncuranza e si passò una mano tra i capelli
ebano. Sembravano
morbidi…
«Nulla
di cui
preoccuparsi. Guarirà in tempo per la Caccia alla
Bandiera» aggiunse
sorridendo. Di sicuro stava progettando un modo per farla pagare ad
Emile.
«Riguardo
oggi
pomeriggio all’Arena… Mi spiace di essere scappata
in quel modo.»
I
suoi occhi
grigi mi studiarono a lungo prima di sorridere e diventare simili a
opali
scuri.
«Non
ti devi
scusare, ho capito subito che ti dà fastidio la vista del
sangue! D’altro
canto, anche l’inetto…» alzai un
sopracciglio «…Pardon, Emile, necessitava di
cure. È normale che tu lo abbia seguito.»
Rilassai
un poco
le spalle ed emisi mentalmente un sospiro di sollievo. Almeno Raven
pareva
ancora ben disposto nei miei confronti.
“Raven
è un tipo difficile a volte ma non è cattivo.
Dagli un po’ di fiducia.”
«Posso…
Posso
farti una domanda?»
Quando
mi
sorrise sornione mi aspettai quasi che rispondesse una cosa del tipo “L’hai appena fatta”,
invece fece un
cenno col capo.
«Dimmi
pure.»
«C’è
un motivo
particolare per il quale tu ed Emile non andate molto
d’accordo?»
Dire
che non
andavano d’accordo era un eufemismo, pareva piuttosto che tra
i due ci fosse
una sorta di rivalità viscerale.
Sembrò
pensarci
su a lungo.
«Beh,
siamo
arrivati assieme al Campo Mezzosangue otto anni fa. Lui è
sempre stato, come
dire… Molto attivo. Io, per contro, ero un bambino
abbastanza tranquillo e
avere sempre addosso un ragazzino assillante che cercava di trascinarmi
nei
suoi giochi spericolati… Non era il genere di divertimento
che mi attirava,
ecco.» Raven aveva lo sguardo perso mentre raccontava, le
immagini gli
scorrevano davanti agli occhi. «Quando siamo cresciuti ho
deciso di mettere in
chiaro le cose con un combattimento e, dopo essere stato battuto, Emile
mi
promise solennemente che si sarebbe allenato per superarmi. Da quel
momento ci
sono stati continui scontri tra di noi per determinare chi fosse il
migliore.»
Provai
a
immaginare un piccolo Raven importunato da un mini Emile e mi venne da
ridere.
Mio fratello mi sorrise.
«Non
posso dire
di odiarlo veramente, mi sono affezionato alle nostre scaramucce. Se
non ci
azzuffiamo entro un tot di giorni ne sento la mancanza.»
Non
riuscii più
a trattenermi e mi sfuggì una risata mentre cercavo di
asciugare le lacrime che
mi erano salite agli occhi.
«A-ehm…
Scusa» feci,
cercando di riprendere contegno. Lui sorrise bonario e scosse la mano.
«Figurati!
Capisco che sia difficile da credere ma è così.
Quindi, per rispondere alla tua
domanda, non c’è un vero e proprio motivo per il
quale non andiamo d’accordo… È
solo ordinaria amministrazione.»
“Non
è poi così difficile da credere…
Piuttosto, non riesco a credere che questo sia
lo stesso Raven che ho conosciuto l’altra mattina! Come ha
potuto farmi una
così brutta impressione…?”
Ricordai
l’aria
arrogante che aveva la prima volta che l’avevo visto e
compresi: non ero mai
stata brava con le prime impressioni. Mi ero, come al solito, fermata
alla
scorza e fidata dell’aura armonica che avevo percepito. Chi
dice che una
melodia lugubre debba essere per forza negativa?
«Grazie
per il
racconto, è stato illuminante» dissi, mentre mi
alzavo dopo aver notato che
Raven aveva trattenuto uno sbadiglio.
Mi
guardò con
aria smarrita.
«Oh,
vai di già?
…Spero che la mia storia non abbia messo in cattiva luce
Emile, non potrei mai
sopportarlo.» La vena ironica nella sua voce indicava tutto
il contrario.
Sospirai
mentalmente per la seconda volta, ora in segno di rassegnazione: non
poteva
proprio sopportare Emile. Forse c’era dell’altro
che non mi aveva raccontato.
«Immagino
che
sarai stanco e devi riposare per riprenderti del tutto.»
Gli
si
illuminarono gli occhi, non si aspettava che mi preoccupassi per lui.
«Su
questo hai
ragione… Grazie per la visita, mi ha fatto piacere vederti,
Cithara.» Nella sua
voce c’era una nuova dolcezza nel pronunciare il mio nome che
mi fece
arrossire.
«Ci
vediamo
domani, Raven. Buonanotte!»
«Buonanotte
anche a te.»
---
«E
quindi mi
tradisci così?»
Abbassai
lo
sguardo con aria colpevole.
«M-mi
spiace, è
che…» biascicai, sempre senza guardare Emile negli
occhi. Mi era sembrato davvero
deluso quando gli avevo chiesto di lasciarmi il pomeriggio libero per
partecipare alle prove della banda.
Emile
mi colse
alla sprovvista, arruffandomi i capelli e rischiando di farmi venire un
attacco
di cuore.
«Ho
capito, devi
legare anche con i tuoi fratelli. Non preoccuparti per me,
troverò qualcosa da
fare!»
Sapevo
che non
avrei dovuto alzare gli occhi su di lui, perché lo sguardo
amabile che mi stava
rivolgendo traspariva già dal suo tono di voce, ma non potei
farne a meno.
«Grazie,
Emile.»
Il
suo sorriso
si allargò di più.
«Naturalmente,
questo significa che perderemo del tempo prezioso per
l’allenamento… Dovrai
farti perdonare in qualche modo.»
Rabbrividii
in
modo impercettibile alle sue parole ed iniziai a preoccuparmi. Mi
trovavo pur sempre
di fronte a un figlio di Ermes, e avevo sentito racconti poco
raccomandabili
sui tipi di pagamento che prediligevano (come biancheria intima
femminile e
cose di questo tipo)…
Deglutii
e
cercai di dissimulare l’agitazione.
«Cosa
dovrei
fare?»
«Andrai
a
suonare con la banda, no? Dunque presumo che suoni uno
strumento…» disse in
tono suadente e con un sorriso angelico, abbassando la voce
«…Vorrei che
suonassi per me.»
Mi
guardò
incuriosito quando tirai un sospiro di sollievo.
«Solo?
Oh,
pensavo che…» Avevo dimenticato che stavo parlando
con Emile, non con un figlio
di Ermes qualunque. Insomma, a sentire Eleuse, il biondino era una
specie di
santo in mezzo a tanti arrapati…
«Beh,
se vuoi
ripagarmi in qualche altro modo… Forse se ne può
parlare.»
Ritirai
mentalmente tutto quello che avevo pensato. Nonostante la sua apparente
noncuranza, Emile rimaneva un figlio di Ermes in tutto e per tutto,
oltre che
essere un ragazzo, in primis.
«...Sì,
suonare
andrà bene.»
Non
lo guardai
mentre soffocava un risolino e tornava ad arruffarmi i capelli.
«Sono
curioso si
sentire il tuo violino, si dice che si possano capire tante cose di una
persona, sentendola suonare…»
«Come
sai che
suono il violino?» Mi diedi della scema nel momento stesso in
cui glielo
chiesi. «Te l’avrà detto Eleuse,
immagino…»
Emile
sorrise,
scuotendo la testa.
«Ho
visto la
custodia quando sono venuto a prenderti la prima sera per la
cena.»
Sentii
imporporarsi le guance al pensiero di Emile che, nella mia stanza,
aveva avuto
tutto il tempo di studiarmi mentre dormivo e provare a capire qualcosa
di me
guardando i miseri bagagli che ero riuscita a portare al Campo.
«Scusa
ancora
per quella volta! Non verrò più a importunarti,
lo prometto» si sentì in
obbligo di aggiungere, forse preoccupato dal mio mutismo.
«…A meno che non sia
tu a invitarmi nella tua stanza, s’intende.»
Ok,
due battute
sagaci nel giro di qualche minuto erano un po’ troppe. Doveva
essersi accorto
del mio imbarazzo il giorno precedente…!
Per
non perdere
del tutto la faccia, l’unica cosa da fare era mostrare
indifferenza.
«Non
ci vedo
nulla di male, se vuoi sei il benvenuto. Naturalmente quando sono
sveglia,
s’intende» conclusi, scimmiottando la sua frase.
Il
biondo rise
di gusto e per quella mattina tornò ad essere il santo di
sempre, almeno in
apparenza.
Alle
15:00 in
punto, Martha scese la scalinata principale della nostra Casa con un
cofanetto
dalla forma affusolata sulle spalle. Immaginai fosse il contenitore del
suo
strumento musicale e strinsi più saldamente la presa sulla
custodia di pelle
del mio violino.
«Eccoti
qui,
Cithara! La stanza in cui ci esercitiamo è poco lontana da
qui ma vorrei arrivare
un po’ prima per presentarti alcuni dei nostri fratelli. A
proposito, lui è
Loren.»
Non
mi ero
accorta della figura allampanata dietro di Martha nonostante la
custodia del
suo strumento fosse decisamente ben visibile, talmente grande da
superare la
sua altezza mentre la portava sulle spalle.
Gli
occhi verde
scuro del ragazzo mi scrutarono pigri da sotto i lisci capelli castani
prima di
sorridermi.
«Piacere,
Loren Kylies.
Sono il violoncellista» disse, indicando col pollice il
borsone alle sue
spalle.
«Cithara
Greenwood. Suono il violino.»
Il
suo sguardo
s’illuminò alla parola violino e lo vidi annuire
soddisfatto.
«Finalmente
un
violino! Ero stanco di tutti questi strumenti a fiat...
Ouch!» Martha gli aveva
tirato una gomitata nel costato, creando non pochi problemi al suo
equilibrio,
precario a causa del peso del violoncello.
«Loren
è
simpatico, ma dovrebbe imparare a non criticare i gusti degli altri.
Non è
colpa di nessuno se ultimamente partecipano alle prove per lo
più clarinetti,
flauti traversi e trombe… Anzi, ci sono Ruth alla viola e
Chama all’arpa, non
dovresti nemmeno lamentarti!»
«Siamo
così in
pochi alle prove?» Dovevo aver toccato un tasto dolente,
perché entrambi
smisero di bisticciare e mi rivolsero un’occhiata addolorata.
«Molti
nostri
fratelli non sono interessati all’idea del concerto di fine
estate…
Intervengono nel suonare e cantare le canzoni attorno al
falò ma per il resto
preferiscono dedicarsi all’allenamento con le armi e allo
studio delle erbe
medicinali.»
Questa
storia mi
puzzava, da quello che avevo capito i figli di Apollo erano noti per
suonare
egregiamente gli strumenti, perché mai avrebbero dovuto
metterli da parte per
le armi? Come se si fossero dovuti preparare per qualcosa…
«…Sono
tutti
impegnati per la Caccia alla Bandiera? È così
importante?» Martha e Loren
scoppiarono a ridere all’unisono, lui era addirittura piegato
in due e la
ragazza dovette aiutarlo per far si che non rimanesse schiacciato sotto
il peso
della custodia del violoncello.
«S-scusa…
No,
ovvio che no! La Caccia alla Bandiera è più un
divertimento che altro…» mi
rispose Loren con le lacrime agli occhi. Aveva davvero una bella voce,
la sua
risata cristallina mi ricordava il rumore della dolce pioggia estiva.
«In
effetti
tutte le Case sono in subbuglio, ma di certo non per la
Caccia» continuò la
riccia, in tono serio «Sembra che là fuori stiano
succedendo cose strane e,
anche se gli insegnanti non ci dicono nulla, abbiamo capito che
qualcosa di
importante bolle in pentola sull’Olimpo.»
Rimasi
in
silenzio a riflettere, mentre seguivo i due che nel frattempo avevano
ricominciato a beccarsi. Possibile che anche il rapimento di mia madre
c’entrasse qualcosa?
Non
riuscii a
formulare altri pensieri utili a unire i tasselli del puzzle che si
stava
formando nella mia mente, perché appena arrivati
nell’aula una mano dalle dita
affusolate si posò sulla mia nuca in modo affettuoso.
«Cithara,
sei
venuta alla fine! Sono felice che ti sia voluta unire a noi.»
«…Raven!
Ma sei ferito, non credi che sarebbe meglio…?» Mi
zittì con due colpetti sulla
spalla, come a dire “va tutto bene”, e si
allontanò per prendere posto al
piano.
«Buon
pomeriggio a tutti, fratelli! È con grande onore che vi
annuncio l’arrivo di un
nuovo elemento nel gruppo: Cithara Greenwood col suo violino.»
Stavo
pregando di svanire nel nulla o venire risucchiata dalle pareti per
paura di
rivedere i volti ostili dell’altra sera, e invece rimasi
colpita dal constatare
che tutti mi fissavano con aria di speranza, piuttosto che di
risentimento.
Dovevano davvero sentire la mancanza degli strumenti a corda.
Dopo
aver salutato i miei fratelli ed essermi presentata (cercando di
ricordare
almeno qualche nome tra la quindicina di persone che componeva la
nostra mini
orchestra), mi abbandonai su di una sedia e aprii la custodia con
dolcezza. Con
tutto il trambusto che c’era stato dopo il mio arrivo al
Campo, non avevo avuto
la possibilità di suonare.
Accarezzai
con affetto la vernice bianca del mio violino, assaporandone ogni
asperità.
Il
suono dolce del pianoforte mi riportò alla realtà
e Raven iniziò a illustrare
il pezzo sul quale ci saremmo esercitati quel giorno, un arrangiamento
orchestrato di una delle canzoni che avevo sentito intonare attorno al
falò.
Mentre
iniziavo a pizzicare le corde del violino sotto lo sguardo vigile del
corvino,
capii perché era venuto alle prove nonostante la ferita e
come potesse essere
seguito così ubbidientemente da tutti.
Senza
di Raven, il gruppo non esisteva. Lui era come il Sole per i fiori, la
Luna per
le maree, l’acqua per la vita… Era tutto.
Capii
questo, e guardandolo con
occhi diversi compresi anche perché Emile era tanto
desideroso di superarlo.
Iniziai
a pensare che non ci
sarebbe mai riuscito.
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Capitolo 7 *** Cap. 6 - Sonata ***
[Undress
me -
Anggun]
[Chasing
cars
- Snow Patrol]
[Solitude
-
Ryuichi Sakamoto]
Era
ormai
passato un po’ da quando avevo conosciuto la banda, e mi
sentivo in colpa.
Un
giorno sì e
uno no andavo a suonare di pomeriggio, trascurando
l’allenamento con Emile. Lui
si mostrava tranquillo ma sapevo che era preoccupato per
l’avvicinarsi
inesorabile della Caccia alla Bandiera.
«Thara,
anche
oggi ci vediamo alle 15:00?» mi chiese Martha, scacciando un
ricciolo ribelle
dagli occhi.
Loren,
di fianco
a lei, mi guardò speranzoso mentre ingurgitava una ciambella
seduto al tavolo
di Apollo.
Emile
mi aveva
convinta a sedere coi miei fratelli almeno a colazione e, se da un lato
gli ero
grata perché avevo stretto più amicizia con Loren
e Martha, dall’altro iniziavo
a sentirmi messa da parte.
Tornai
a
guardare mia sorella e scossi leggermente la testa, tentando di
ignorare
l’espressione da cucciolo ferito di mio fratello.
«Mi
dispiace
ragazzi, devo andare ad allenarmi… La Caccia è
vicina e so di non essere
decisamente pronta.»
Martha
assottigliò gli occhi, e un sorriso furbetto le si
formò sulle labbra fine.
«Allenarti,
eh?
…Con Emile?»
Cercai
di non
strozzarmi con il succo d’arancia.
«S-sì,
perché?
Sta cercando di rendere accettabile la figuraccia che farò
quando tutti si
accorgeranno di quanto sia inutile in battaglia.»
«Uh,
chissà
perché avrei giurato che nessuno di voi due fosse
così interessato
all’allenamento. O almeno non a quello con le
armi.» Mentre ammiccava distolsi
lo sguardo, il calore alle guance palpabile, e mi ritrovai a guardare
verso il
tavolo di Ermes. Il cuore fece una capriola quando vidi che Emile mi
stava
osservando con sguardo dolce.
Ricambiai
il
saluto e rivolsi di nuovo l’attenzione ai miei fratelli, il
castano ora
guardava Martha di sottecchi.
«Ma
saranno
fatti loro? E poi, se Thara dice che si allenano, allora è
vero. È una persona
seria, lei.» Ringraziai silenziosamente mio fratello.
«Sei
proprio noioso…
Qui al Campo non c’è mai nulla di nuovo, sono alla
ricerca di uno scoop! Sarebbe
divertente se Cithara ed Emile si mettessero assieme, no?»
Decisi
di
prendere in mano la situazione prima che Loren potesse risponderle male.
«Martha…
Posso
assicurarti che non c’è niente del genere tra di
noi. Emile è solo un buon
amico che sta tentando di aiutarmi.»
«…Per
ora»
concluse lei.
Sospirai
rumorosamente e trasalii quando una mano che conoscevo fin troppo bene
mi si
posò sulla schiena. Emile salutò i miei due
fratelli e si chinò, sussurrandomi
all’orecchio.
«Ti
aspetto al
solito posto.»
Riuscii
solo ad
annuire, ormai avevo due tizzoni al posto delle guance.
Udii
la risata
di trionfo di Martha e lo sbuffo di Loren.
«…Per
ora!»
---
Camminando,
carezzai la custodia del violino.
Avevo
lasciato
Emile dopo pranzo, facendogli credere che sarei andata ad esercitarmi
con la
banda ma avevo intenzione di fargli una sorpresa e suonare per lui.
Cosa avrei
potuto suonargli? Non mi sembrava tipo da musica classica,
d’altronde col mio
violino elettrico avrei potuto intonare qualsiasi melodia, magari
accompagnandola al suono della mia voce…
Rallentai
il
passo, incerta. Un flashback mi travolse e mi ritrovai ad avere otto
anni,
mamma con le mani tra i miei capelli.
«Thara,
tesoro. Ricorda che la Voce è un dono molto importante,
bisogna usarla con
prudenza.»
«Ma
mamma… Hai visto come quell’uccellino è
volato via quando ho cantato? Prima
stava male e invece adesso…»
Il
tocco di mia madre si fece più gentile.
«È
perché hai raggiunto la Melodia emessa dalla sua anima. La
Musica può guarire
tutto, ancor più della medicina, ma non bisogna mai
abusarne.»
«…Non
devo più cantare?» Una lacrima fugace mi scese
lungo la guancia, facendomi il
solletico.
«Hai
il violino, no? Suona con tutta te stessa e trasmetti agli altri la tua
Melodia
con questo strumento. Un giorno sarai in grado di controllare anche la
tua Voce
e potrai utilizzarla, ma fino a quel giorno sarà meglio
trattenerla.» Mi baciò
sulla guancia. «Non preoccuparti, tutto verrà da
sé…»
Sbattei
le
palpebre un paio di volte. Cosa diamine mi era successo?
Aggrottai
le
sopracciglia, preoccupata. Non mi era mai capitato di perdere il
contatto con
la realtà come allora, era stato tutto come un sogno ad
occhi aperti. Eppure la
notte precedente avevo dormito abbastanza…
Mi
accorsi che alcuni
ragazzi del Campo, vedendomi ferma in mezzo alla strada con quella che
immaginavo essere un’espressione imbambolata, mi lanciavano
occhiate
incuriosite quindi decisi di continuare a camminare fingendo che non
fosse
successo nulla.
Mamma
aveva
parlato della mia voce come di una cosa particolare. Cosa intendeva con
“non bisogna mai abusarne”?
L’ultima
volta che mi ero concessa di cantare… Effettivamente non
riuscivo proprio a
ricordarla. Probabilmente era a uno di quei concerti scolastici nei
quali le
voci più o meno meritevoli si mescolavano, andando a creare
una melodia pressoché
accettabile. Avevo mai cantato veramente in qualche occasione, tranne
quando
ero da sola a casa o sotto la doccia?
“È
colpa della mia maledetta timidezza”,
mi ero sempre detta,
ma dopo quella visione (perché non poteva essere altro che
una visione, molto
vivida per giunta) iniziai a chiedermi se non ci fosse sotto
qualcos’altro.
Persa
nei miei
pensieri, non mi ero resa conto di aver raggiunto lo spiazzo in cui mi
allenavo
con Emile.
«Cithara…?
Oggi
non avevi le prove?» fece il biondo, spostando lo sguardo da
me al violino, per
poi tornare a guardarmi con aria interrogativa.
Gli
sorrisi,
scacciando dalla mente tutti i dubbi e le domande che fino a poco prima
mi
affollavano la mente.
«Ho
pensato di
venire ad allenarmi un po’ e pagare il mio debito.»
Un
sorriso andò
a disegnarsi anche sul suo volto, estendendosi agli occhi.
«Uhm…
E con cosa
desideri iniziare?»
La
spada di
legno con cui si stava allenando prima del mio arrivo danzava tra il
palmo e il
dorso della sua mano, come stregata.
«…Ok,
prima il
dovere» dissi, avvicinandomi ad una spada posata a terra.
Tirammo
di
scherma per un po’, fino a quando non riuscii a disarmare
Emile, strappandogli
un verso di stupore misto ad orgoglio.
«Vuoi
provare a
tirare con l’arco?» mi chiese lui, mentre mi
passava una bottiglietta d’acqua.
Era davvero caldo e cominciavo a sentire la fatica da mancanza di
allenamento.
«Magari,
se mi
sarà rimasta qualche energia dopo aver suonato…
Oppure domani.»
«Vuoi
allenarti
anche domani?» Sembrava sorpreso.
Annuii
vigorosamente, non avevo intenzione di deluderlo durante la Caccia!
«La
Caccia sarà
tra quattro giorni, giusto? Non voglio essere un peso, ti prego di
allenarmi
ancora un po’.»
Emile
rise e mi
scompigliò i capelli. Pareva che ci provasse gusto nel
rendere vane le mie
passate di spazzola su quella capigliatura ribelle.
«Fidati,
non
sarai un peso! Stai tranquilla, sei migliorata tantissimo.»
«Spero
tu abbia
ragione…» Rimasi qualche secondo in silenzio ad
ascoltare il mio respiro, reso
affannoso dallo sforzo, tornare regolare.
Mi
stesi
sull’erba per rilassarmi prima di suonare e chiusi gli occhi.
Il fruscio che mi
sfiorò l’orecchio mi fece intuire che anche Emile
si era sdraiato al mio
fianco.
«So
di non
essere fatta per il combattimento… Ho una paura tremenda di
deludere tutti voi
che credete in me.»
“Ho
paura di deludere te.”
«Smettila
di
preoccuparti, Thara. Pensi forse che le figlie di Afrodite sappiano
tenere in mano
una spada?»
Riportai
alla
mente le ragazze leggiadre che avevo visto più volte
specchiarsi sul lago e non
far altro che pettinarsi i lunghi capelli biondi. Dubitavo fortemente
che sapessero
affrontare una battaglia.
«Ognuno
ha le
proprie capacità, si tratta solo di essere in grado di
difendersi.»
La
voce di Emile
sembrava più profonda a causa della posizione coricata, e
adesso risultava alle
mie orecchie come una melodia irresistibile.
Aprii
gli occhi
e mi voltai a guardarlo, trovando subito i suoi adorabili occhi verdi.
«…E
secondo te?
Ora ne sono capace?»
Lui
mi sorrise
per l’ennesima volta, il volto a un nonnulla dal mio.
«Ora
te la sai
cavare. Ma devi continuare ad allenarti, per Eleuse, per tua madre, per me… Le persone che ti
vogliono bene
devono sapere che anche se sei da sola non corri pericoli.»
Forse
era una
mia impressione, eppure mi era parso marcare quel “per
me”. Come a dire “sì,
hai capito bene, sei importante per me”.
…Ma
probabilmente era tutto frutto della mia immaginazione.
Sorrisi
imbarazzata
di rimando e mi alzai a sedere, raggiungendo con le mani la custodia in
pelle
del violino.
«Vorresti
sentire qualcosa in particolare?» gli chiesi, cercando di
ignorare l’accelerare
dei battiti del mio cuore.
«Fai
come se non
ci fossi. Suona quello che suoneresti per te stessa in questo
momento.» Si era
messo a sedere anche lui con espressione serafica, mentre io mi ero
drizzata in
piedi del tutto.
Saggiai
le corde
dello strumento mordendomi le labbra. Come potevo fingere di essere da
sola? Tutto
nell’aria mi parlava di lui, dal suo profumo alla sua
presenza silenziosa.
Inspirai
lentamente e chiusi gli occhi. Spostai l’archetto sulle
corde, la mano che
tremava leggermente, in armonia con la vibrazione della cassa del
violino.
La
melodia che
stavo intonando ricordava molto Solitude, di Ryuchi Sakamoto. Era da
sempre una
delle canzoni che più adoravo suonare quando mi sentivo
triste.
In
realtà non
comprendevo il motivo di questa tristezza. Più che altro
l’avrei definita…
Malinconia.
Il
volto di mia
madre, il sorriso dolce di Eleuse… Avevo in mente loro,
mentre suonavo. Quando avrei
potuto riabbracciarle? Eleuse di certo mi avrebbe detto di non piangere
ed
essere forte, quindi mi sentii una stupida quando mi accorsi di avere
gli occhi
umidi. Nonostante tenessi le palpebre chiuse, alcune lacrime sfuggirono
dalle
ciglia e mi rigarono le guance.
In
mezzo a tutta
questa malinconia, la brezza estiva mi portò il profumo di
Emile e la melodia
cambiò.
Le
note si
fecero più allegre, come se un raggio di sole fosse arrivato
a rischiarare la
via che stavo percorrendo. L’archetto si muoveva veloce sulle
corde, fino quasi
a ferirmi le dita della sinistra, per poi rallentare un momento e
tornare a
spostarsi veloce, avido di note.
Era
così
maledettamente bella, quella Melodia… Ora stava diventando
simile ad un walzer.
Mi immaginai avvolta da un abito bianco, ballare con Emile. Ed era
proprio
quella la sensazione che avevo: suonare una musica che lo rappresentava
nelle sue
sfaccettature che adesso conoscevo mi dava l’impressione di
capirlo e dialogare
con lui.
Non
so per
quanto tempo suonai, so solo che alla fine i polpastrelli torturati
dalle corde
dolevano come non mai e anche le spalle non scherzavano. Probabilmente
non era
stata la scelta migliore, suonare con così tanto ardore dopo
l’allenamento.
Ripresi
fiato e
mi voltai a cercare Emile con lo sguardo. Non aveva fatto ancora
commenti sulla
mia performance.
Lo
vidi dove lo
avevo lasciato, seduto accanto a un albero. C’era un silenzio
irreale ‒specialmente
dopo tutto quel suono che avevo liberato dal violino‒ e non volevo
arrischiarmi
a parlare per paura di interrompere quell’attimo quasi magico.
«Thara…
Oh dèi,
era magnifica» disse infine, con gli occhi lucidi.
«Ti
è piaciuta?»
Il cuore, che durante l’esibizione se n’era stato
buono, ricominciò a battere
all’impazzata.
«Non
solo la
musica… Tu, sei stata meravigliosa.»
«Ahah,
esagerato…» risi per mascherare
l’imbarazzo.
«No,
dico
davvero. Non riesco a trovare le parole… Era come se mi
stessi parlando, con
quel violino.»
Allora
l’aveva
sentita! Aveva sentito il richiamo della sua Melodia
all’interno della mia
musica.
Iniziavo
a
comprendere il significato della visione che avevo avuto raggiungendo
Emile.
Avevo sempre intuito la presenza di quella che chiamavo “aura
armonica” in ogni
persona… Per toccarle il cuore dovevo solo
“sintonizzarmi” sulla sua lunghezza
d’onda e intonare una Melodia appropriata.
E
se ero in
grado di fare questo con il mio violino, cos’avrei potuto
fare con la mia voce?
Forse l’effetto era ancora maggiore, per questo mia madre mi
aveva proibito in
passato di usarla?
Il
tocco di
Emile mi strappò immediatamente alle mie supposizioni.
«Ti
prego,
suonerai ancora per me?» Il suo tono di voce era quasi
implorante mentre mi
teneva le mani.
Mi
imposi di
mantenere l’autocontrollo.
«Ne
sarei
felice.»
Quando
poggiò la
fronte sulla mia, trattenni il respiro.
«Grazie…
Adoro
la tua musica.»
Non
tentai di correggerlo,
dicendogli che quella era la sua, di musica.
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Capitolo 8 *** Cap. 7 - Vivace ***
[Aura - Two Steps From Hell]
[Shinku
no Fatarythm - Kanon Wakeshima]
[The
Listening - Lights]
Mi
sciacquai il
viso con dell’acqua fresca. Avevo appena finito un lungo
allenamento di tiro
con l’arco, e finalmente potevo dire di ritenermi soddisfatta
delle mie
capacità offensive.
Insomma,
ero
partita da zero e in una decina di giorni ero migliorata in modo
notevole!
Almeno adesso riuscivo a finire le frecce della faretra più
piccola, prima di
sentire le braccia indolenzite dal peso dell’arco.
Lasciai
lo
sguardo libero di vagare e osservai lo spazio circostante attraverso lo
specchio, mentre racchiudevo nuovamente i capelli in uno chignon
arruffato.
Il
bagno
femminile vicino al padiglione di tiro con l’arco era
rivestito di mattonelle
squisitamente rosa confetto, cosa che ‒in abbinamento alla rubinetteria
dorata‒
contribuiva a dargli un’aria pacchiana. Mi chiesi se erano
state interpellate
le figlie di Afrodite per quel design così azzardato.
Scossi
la testa
con uno sbuffo e in quel momento vidi entrare due ragazze, che
riconobbi come
figlie di Ares, impegnate a discutere
animatamente.
Ricordavo
bene
le raccomandazioni di Emile e Loren riguardo i figli del dio della
guerra!
Meglio fingere indifferenza e allontanarmi con lo sguardo basso.
Ero
quasi
riuscita nel mio intento, ancora qualche passo e sarei uscita dal
bagno…
«Ehi
tu. Sei la
tipa nuova, vero?»
“Maledizione!”
Mi
voltai
lentamente e sorrisi.
«Se
ti riferisci
alla Casa di Apollo, sì sono io l’ultima arrivata.
Posso fare qualcosa per voi?»
Quella
più alta
mi squadrò dalla testa ai piedi con fare poco amichevole. I
capelli lisci rosso
scuro le davano un aspetto piuttosto minaccioso.
«La
figlia di
papà che è entrata al Campo già come
Determinata. Hai trovato la pappa pronta
eh?»
«Perdonami,
ma
non ti seguo.» Il respiro iniziava ad accelerare assieme ai
battiti del cuore,
l’aria intorno a noi tesa come le corde del mio violino.
L’altra
accennò
una risata.
«Appena
sei
arrivata, Chirone ti ha accolto a braccia aperte! E poi ti ha affidato
a
qualcuno che ti potesse coccolare e tirare su di morale…
Pare che gli ultimi
arrivi vengano trattati coi guanti.»
«Chissà
perché,
mi chiedo. Non è che forse ci nascondi qualcosa?»
Ricambiai
la sua
occhiata con uno sguardo confuso. Non avevo la più pallida
idea di dove
volessero andare a parare.
«Già,
forse sai qualcosa su quello che sta
accadendo al di fuori di qui. Forse
sai tutto e fai la preziosa!»
Il
modo in cui
calcava quel “forse” mi infastidiva, come se
sapessi sul serio quello che stava
succedendo. Beh, se avessi avuto qualche idea, di certo non me ne sarei
rimasta
con le mani in mano mentre Eleuse era alla ricerca di mia madre.
«Mi
spiace, non
posso esservi d’aiuto. Ne so quanto voi.» “Se
non di meno”, aggiunsi tra me e me.
La
rossa tirò
una gomitata alla compagna che stava sghignazzando, e tornò
a fissarmi
intensamente.
«Mia
sorella
intendeva dire che, SE tu ci stessi
nascondendo
qualcosa, sarebbe davvero poco carino. Tra cugini bisogna aiutarsi,
no?» disse,
sorridendo. Nonostante fosse figlia di Ares, nata come macchina da
guerra, aveva
dei lineamenti piacenti e mi ritrovai a pensare che se fossi stata un
ragazzo
quel sorriso mi sarebbe sembrato quasi sincero. Quasi, infatti.
Le
sorrisi il
più spontaneamente possibile, desiderando solo di potermi
allontanare al più
presto da quel luogo (l’aria tesa e il rosa confetto
iniziavano a darmi il
voltastomaco).
«Certamente!
SE dovessi scoprire qualcosa, di
sicuro
voi sareste le prime a saperlo.»
«Allora
ricorda
il mio nome, Alyssa Fingermann» fece la rossa, bloccandomi
l’uscita.
Strinsi
la mano
che mi stava porgendo, presentandomi a mia volta, e imboccai finalmente
la
tanto agognata porta, camminando a passo spedito.
---
«Thara,
stai
tranquilla!» cercò di rassicurarmi Martha mentre
saggiava l’elasticità del suo
arco.
Il
grande momento
della mia prima Caccia alla Bandiera era finalmente ‒o meglio,
purtroppo‒ arrivato,
mettendo a dura prova il mio autocontrollo.
Tutti
si stavano
aggiustando l’armatura o controllavano le proprie armi e,
nell’aprire e
chiudere per l’ennesima volta le cinghie del corpetto di
cuoio, mi sentivo come
in un sogno. Le membra si erano intorpidite, i suoni mi giungevano
ovattati…
“Wow
campionessa, non svenire ancor prima di cominciare.”
«Che
entrino le
Bandiere! La squadra capitanata dai figli di Apollo con le Case di
Atena,
Afrodite e Demetra, contro la squadra dei figli di Ares con le Case di
Ermes,
Dioniso ed Efesto.»
La
voce di
Chirone mi risvegliò dal torpore.
«Aspetta…
Le
Case di Apollo e Ermes sono avversarie?»
Dovevo
avere gli
occhi sgranati, perché Martha mi lanciò
un’occhiata preoccupata.
«Sì,
per questo
Raven e Emile parlavano di scontro… Credevo che lo avessi
intuito.»
Ero
stata
un’idiota a non capirlo.
«Io,
credevo
che… No, lascia perdere.»
Guardai
con apatia
i grandi stendardi ‒uno dorato, con un sole paffuto coronato da uno
stelo di
alloro, l’altro rosso sangue, con una testa di cinghiale
conficcata sulla punta
di una lancia‒ che venivano trasportati verso i luoghi stabiliti, tra
urla di
giubilo.
«Le
regole sono
le solite: vietato ferire gravemente o uccidere i
contendenti.» I figli di Ares
vociarono, e deglutendo voltai lo sguardo verso di loro alla ricerca di
una
testa rossa. «Il ruscello fungerà da linea di
confine, per il resto avete campo
libero.»
Individuai
Alyssa, stava dando degli ordini ad alcuni fratelli con espressione
seria.
«Eeehi,
niente
contatti tra le squadre avversarie!...» sentii protestare da
qualche parte alle
mie spalle.
«E
non rompere!
…Ehm, ti ho trovata alla fine.» Emile mi rivolse
un sorriso imbarazzato. Notai
che Martha, al mio fianco fino a qualche secondo prima, si era
volatilizzata.
«Siamo
avversari
adesso, eh?...» Abbassai lo sguardo, avvilita. Sapevo di
essere melodrammatica,
ma non potevo fare a meno di chiedermi come avrei fatto a sopravvivere
senza il
suo aiuto.
«Non
preoccuparti per questo, sono solo formalità. In teoria
dovremmo essere
avversari, ma nulla mi vieta di aiutare un’amica della
squadra opposta. Certo,
tranne il codice d’onore, ma quello è un altro
discorso» borbottò poi, tra sé.
Mi
prese una
mano mettendomela sul palmo della sua e rabbrividii al contatto con un
piccolo
oggetto metallico.
«Cos’è?»
Pareva
un fischietto ma era quasi lungo quanto una spanna: in argento
traslucido e
intarsiato di arabeschi aveva tutta l’aria di essere un
oggetto magico.
«Se
dovessi
trovarti in difficoltà non esitare a soffiarci dentro.
Correrò ad aiutarti!»
Parlava a bassa voce, tenendo le sue mani sulle mie attorno al
fischietto, come
per nasconderlo da occhi indiscreti.
«…Posso
chiederti dove lo hai trovato?»
Lui
rise e
ammiccò.
«Segreto!
Diciamo che l’ho preso in prestito.»
Sospirai
sorridendo e misi l’oggetto in tasca, ben attenta a non farmi
notare.
«Grazie.
Buona
Caccia, allora!»
«A
dopo.»
Lo
osservai
allontanarsi mentre Chirone annunciava l’inizio della Caccia
alla Bandiera.
Non
avevo
davvero intenzione di chiamare Emile e distrarlo dal suo obiettivo, ero
conscia
del fatto che sarei stata solo un intralcio al suo confronto con Raven.
Intromettermi tra loro due era l’ultima cosa che volevo.
«Che
carino, è
venuto a darti supporto morale?» sussurrò Martha
in tono canzonatorio e con sguardo
d’intesa.
«Sì,
è stato
molto gentile… Tu piuttosto, dov’eri
finita?»
Lei
volse gli
occhi al cielo con fare innocente, alzando le spalle.
«Ero
andata ad
ascoltare il piano di Raven! A quanto pare ha intenzione di avvicinarsi
alla
bandiera nemica con un manipolo di figli di Atena. Noialtri con gli
archi
abbiamo il compito di stare nelle retrovie o appartarci sugli alberi,
per
coprire loro le spalle.»
«Immagino
che i
figli di Afrodite e Demetra non saranno molto
d’aiuto…»
«Fungeranno
da
sentinelle nei pressi della nostra bandiera… Meglio di
niente. Ah, quasi
dimenticavo!» continuò, prendendomi sotto braccio
«Tu farai parte degli addetti
alla protezione della bandiera!»
«…Prego?»
Mi si
seccò la gola. «Io devo proteggere cosa?»
Martha
rise di
gusto alla mia espressione sconvolta.
«Su,
su… Non
sarai mica da sola! Devi solo controllare il perimetro vicino alla
bandiera e
fare in modo che nessuno si avvicini troppo. In caso puoi chiedere
sempre aiuto
ai figli di Atena o ai nostri fratelli.»
Avvicinò
le
labbra al mio orecchio, abbassando la voce.
«Naturalmente
con “nessuno si avvicini”, intendo dire NESSUNO.
Nemmeno Emile, intesi?»
Forse
era colpa della
mia immaginazione, ma mi parve di cogliere una nota di minaccia nelle
sue parole.
Loren mi aveva accennato al carattere combattivo di Martha, non le
piaceva
perdere… Evidentemente valeva lo stesso per la Caccia alla
Bandiera.
«Naturalmente»
la rassicurai, cercando di dissimulare l’ansia crescente nel
petto.
Raven
stava
dando disposizioni ai nostri fratelli mentre gli alleati avevano
già preso
posizione.
«Ah,
Cithara…
Vorrei che aiutassi quelli che proteggono lo stendardo, ti dispiace? La
maggior
parte di noi andrà in prima linea e ho bisogno di essere
sicuro che rimanga
qualcuno di valente a proteggerlo.»
Un
sorriso amaro
andò a formarsi sulle mie labbra, involontario.
“Ed
ecco di ritorno il lato agguerrito di Raven.”
Di certo, in
quanto a carisma e forza di persuasione ‒per non dire faccia tosta‒,
non era
secondo a nessuno.
«Nessun
problema. Spero solo di poter essere effettivamente
d’aiuto.»
Raven
mi diede
un buffetto d’incoraggiamento sulla testa e si
allontanò assieme agli altri,
lasciandomi col mio gruppo.
Seguii
in silenzio
quello che pareva aver preso il comando della nostra comitiva, un
figlio di
Atena coi capelli biondo cenere e gli occhi scuri, rassegnata al mio
compito.
Mano
a mano che
ci avvicinavamo alla bandiera, alcuni ragazzi venivano lasciati
indietro e si
sparpagliavano per poter perlustrare meglio i confini.
«Oh,
ci sei
anche tu?» Una voce familiare mi riscosse dal torpore al
quale mi ero
abbandonata.
«Loren!
Cosa ci
fai qui? Ero convinta che avessi seguito Martha.»
Lui
fece un
gesto di dissenso con la mano.
«Io
in prima
linea? Per carità… Preferisco che si occupino gli
altri di sbrigare il lavoro.»
«Pensi
che sia
meglio rimanere a proteggere la bandiera?»
«Mah,
dipende
dai punti di vista… Io sarò il più
vicino alla bandiera, assieme a Gilleon»
fece, indicando col mento il figlio di Atena. «In teoria
quello è il posto
migliore quando la difesa della squadra è buona,
perché i nemici che arrivano
sono già indeboliti dagli scontri precedenti.»
Guardai
dubbiosa
i pochi rimasti nel nostro gruppo e Loren seguì il mio
sguardo.
«Sembra
che
questa volta Raven abbia fatto affidamento più
sull’attacco, che sulla difesa.
Di solito i figli di Ares lasciano la bandiera piuttosto scoperta,
credo che
Raven punti a una vittoria veloce.» Rimase un attimo in
silenzio, pensieroso. «Spero
solo non si sia dimenticato dei figli di Ermes, maghi dei
sotterfugi.»
Continuammo
a
camminare affiancati, fino a quando non arrivò anche il mio
momento di
separarmi dalla compagnia.
«Buona
fortuna
Thara, che il Sole illumini il tuo cammino!» Sembrava
più una presa in giro che
un augurio, visto che di raggi di sole non ce n’era neanche
l’ombra a quell’ora
della sera, per di più nella foresta, ma gli sorrisi lo
stesso.
«Buona
fortuna
anche a te!»
Rimasta
sola mi
guardai attorno, incerta sul da farsi. Accarezzai il tronco di un
albero e
alzai lo sguardo sui suoi rami: non pareva un’idea malvagia
quella si
acquattarsi tra il fogliame là in alto. Certo, senza tenere
conto del fatto che
soffro di vertigini.
Presi
dei
respiri profondi e iniziai ad arrampicarmi con l’arco sulla
spalla e la piccola
spada al fianco che tintinnava ad ogni passo, cozzando col fischietto
nella
tasca. Una volta raggiunto un ramo abbastanza robusto, mi ci accoccolai
sopra,
posando il viso contro la corteccia dell’albero per
riprendere fiato.
Chiusi
gli occhi
e mi abbandonai al tepore del venticello estivo.
---
Non
avrei saputo
dire da quanto stavo aspettando in quella posizione, ma di certo era
trascorsa
una mezz’ora buona. Nessun rumore o movimento sospetto; erano
passati solo uno
scoiattolo e alcuni passerotti, rischiando di farmi venire un attacco
di cuore,
qualche minuto prima.
Repressi
uno
sbadiglio e mi costrinsi ad aguzzare l’udito.
“Possibile
che non passi nessuno? Forse la Fortuna finalmente mi
arride…”
Feci appena in tempo a terminare il pensiero, e delle voci attutite mi
giunsero
all’orecchio.
Sperai
fino
all’ultimo che si trattasse dei nostri alleati ma ne dubitavo
fortemente.
«…da
qualche
parte. Sono sicuro, ti ripeto che siamo vicini.»
«Certo
che siamo
vicini, idiota! Solo che mi dà fastidio essermi separata da
Alyssa. Volevo
prendere la bandiera assieme a lei.» “Oh
porca…” Riconobbi la voce della ragazza
dai capelli castani che mi aveva
fermata nel bagno assieme alla rossa.
«Senti,
l’importante è vincere. Possono pure prenderla
quelli di Ermes, per quanto mi
riguarda, io voglio sgranchirmi un po’ con qualcun
altro.»
La
castana
ridacchiò.
«Quelli
di prima
erano debolucci, vero?»
Lasciai
perdere
le parole dei due figli di Ares e mi concentrai sul mio respiro,
affannoso per
l’agitazione.
Era
meglio
rimanere acquattata sull’albero nella speranza che non mi
vedessero (perché se
avessi provato ad attaccarli, di certo non me l’avrebbero
fatta passare
liscia), o scendere per provare a rallentarli e avvertire Loren in
qualche modo?
Lasciarli
andare
via così mi dava l’impressione di tradire i miei
fratelli…
Il
mio corpo si
mosse prima ancora che avessi finito di prendere in considerazione le
due
ipotesi e scesi agilmente dall’albero, silenziosa. Incoccai
una freccia,
aspettando il momento opportuno.
Le
voci
diventavano sempre più distinte…
La
freccia
partì, andandosi a conficcare con un sibilo ai piedi del
ragazzo e bloccando i
due a circa cinque metri dalla mia postazione.
«Ehilà,
guarda
chi abbiamo qui… La piccoletta dell’altro
giorno.» La derisione nel tono della
ragazza accrebbe l’adrenalina che ormai girava in circolo nel
mio sangue da
quando avevo sentito le loro voci.
Mi
bastò alzare
lo sguardo sul giovane, però, perché questa mi si
congelasse istantaneamente
nelle vene.
«Sei
un po’
gracilina per essere lasciata da sola a guardia del perimetro, non
trovi?»
Sarà
stato alto
almeno un metro e ottanta, con delle spalle larghe quanto le ante di un
armadio
e i capelli castani a spazzola che si intravvedevano, schiacciati
dall’elmo. I
piccoli occhi scuri con cui mi stava scrutando e il ghigno che andava
allargandosi sulle sue labbra non promettevano niente di buono.
«Vi
sconsiglio
di passare di qui, fareste meglio a tornare sui vostri
passi.» Cercavo di
suonare risoluta e sicura di me, ma avevo l’impressione che
anche un’idiota si
sarebbe accorto del bluff.
Per
l’appunto, i
due scoppiarono a ridere sguaiatamente.
«Altrimenti
ci
infilzi con le tue frecce, figlia di Apollo? Sei divertente, potrei
quasi
prendere in considerazione l’idea di non romperti entrambe le
gambe…»
“Ehi,
ma Chirone non aveva detto che era vietato ferire gravemente?”
Forse spezzare qualche osso non rientrava nelle ferite gravi, per i
figli di
Ares.
«Lena,
vai pure,
qui ci penso io.»
Quando
la
ragazza fece per allontanarsi, scoccai un’altra freccia nella
sua direzione,
scalfendole l’elmo.
«A
quanto pare
la piccoletta ci vuole tutti per sé» fece lei,
sogghignando.
Tentai
di
tenerli a bada per un po’ con le frecce, facendoli
indietreggiare di qualche
metro, ma non ci misi molto a capire che era piuttosto inutile come
strategia.
Non avevo di certo la magica faretra inesauribile di Artemide.
Abbandonai
l’arco a terra e sguainai la spada per lanciarmi
all’attacco verso la castana.
Parò il mio colpo con la lancia e si lasciò
andare a una serie di colpi che
mano a mano crescevano d’intensità.
Mi
abbassai
appena in tempo per evitare la mazza ferrata del ragazzo,
allontanandomi per
riprendere fiato e soppesare la situazione. Non sarei resistita
più di qualche
minuto.
«Allora?
Hai già
finito i tuoi colpi?» mi canzonò lui, facendo
roteare la mazza.
Speravo
ardentemente che mi avrebbero seguita.
«Sono
al Campo
da poco più di una settimana e ho notato che voi figli di
Ares siete bravi solo
a fare a botte. Mi chiedevo, avete qualche altra capacità
oltre alla forza
bruta? Perché di certo non brillate per
intelligenza.» Cominciai ad arretrare mentre
la ragazza grugnì in risposta alla provocazione.
«Neanche
tu devi
essere molto intelligente, per permetterti di insultarci.»
Sorrisi,
pensando
che non aveva tutti i torti.
«Ti
consiglio di
correre.» Lo scatto del ragazzo fu repentino, e ancora una
volta evitai la
mazza per un secondo. Non dovetti guardarlo in volto per capire che
faceva sul
serio, piuttosto, decisi di prendere alla lettera il suo suggerimento e
iniziai
a correre come non avevo mai fatto in vita mia.
Sapevo
che mi
stavano inseguendo entrambi, sentivo i loro passi pesanti e affrettati
abbattersi
sul terreno alle mie spalle.
Ok,
offenderli
non era stata una buona idea. Ripensandoci, era stata pessima.
Correvo
a
perdifiato e avevo ormai perso l’orientamento, non avrei
saputo dire se mi
stavo avvicinando alla bandiera o se stavo portando i due energumeni
fuori dal
perimetro che dovevo proteggere. Nella prima ipotesi avrei avuto
qualche
possibilità in più di salvezza perché
qualcuno mi avrebbe aiutato a metterli
fuori gioco, ma se avessero vinto sarebbero riusciti a prendere la
bandiera e
addio Caccia. Nella seconda, Martha, Loren e gli altri sarebbero stati
fieri
della mia dedizione alla causa, ma non ero del tutto sicura di riuscire
a sopravvivere
abbastanza da godermi la loro riconoscenza.
Ora
come ora,
non mi restava che sperare nella prima eventualità.
Scartai
di lato
l’ennesimo albero, con il fiato mozzo e il cuore martellante
che pareva volermi
schizzare fuori dal petto. Per un attimo presi in considerazione
l’idea di fermarmi
e chiedere perdono ai due figli di Ares, ma dubitavo che mi avrebbero
ascoltata
prima di massacrarmi di botte.
Con
la mano
urtai il fischietto che giaceva dimenticato nella mia tasca. Lo strinsi
con
foga, tirandolo fuori a malincuore. Era la mia unica speranza.
Fischiai
con
quanto fiato mi era rimasto in corpo e un suono cristallino mi
riempì le
orecchie, come se stessero trillando mille campanelle di vetro. Mi
voltai,
stremata, a fronteggiare i due nemici con la spada in mano.
Dovevo
riconoscerlo, i figli di Ares non erano troppo veloci ma avevano una
resistenza
dannatamente elevata. Lena si scostò dagli occhi una ciocca
castana che era
sfuggita da sotto l’elmo e si erse fiera al fianco del
fratello, entrambi
brandivano l’arma con sicurezza.
«Hai
finito di
scappare, topolino?» “Bene,
dopo
piccoletta ha coniato anche questo nuovo termine. Davvero
azzeccato.”
pensai, nella confusione ovattata che era diventata la mia mente.
«…Non
male.
Siete… veloci.»
«Risparmia
il
fiato per le suppliche. E ti prego, fammi divertire un
po’» fece il ragazzo,
avvicinandosi con aria minacciosa.
Non
so cosa mi
aspettassi di preciso, soffiando in quel fischietto, ma mi sembrava che
Emile
ci stesse mettendo più del dovuto. Pregai di non aver
interrotto qualcosa di
importante.
Lena
si mise in
mezzo tra me e suo fratello, col braccio con la lancia teso a dividerci.
«Piano,
voglio
giocarci prima io. Mi ha scalfito l’elmo!»
«Ma
gli ultimi
due li hai battuti tu! Voglio farlo io.»
Ero
indecisa se
mettermi a ridere o tornare a scappare a gambe levate, davanti alla
scena dei
due fratelli che litigavano su chi dovesse farmi fuori per primo.
Indietreggiai
lentamente per non dare nell’occhio, sperando che Emile
arrivasse il prima
possibile.
«…Ehi,
non
scappare tu!» disse lei, scagliandomi contro la lancia. Mi
scansai in tempo per
vederla piantarsi sul terreno dove poco prima c’era il mio
piede.
Un
barlume di
comprensione si accese negli occhi di Lena ma era troppo tardi, avevo
già
impugnato la sua arma. Mi lanciai in quello che aveva tutta
l’aria di essere un
attacco suicida, verso la ragazza.
Il
fratello non
si aspettava una mossa del genere, e scartò di lato
lasciandomi campo libero.
Non so come, riuscii a ferire la ragazza su una gamba mentre provava a
scansare
il mio affondo, strappandole un grido di dolore.
La
mia presa
sull’arma si fece più debole alla vista del
sangue, fino a quando la lasciai
cadere a terra.
«Maledetta…!»
Sentii
lo
spostamento d’aria provocato dalla mazza ma non potei fare
altro che chiudere
gli occhi e attendere il colpo.
CLANG!
Mi
voltai di
scatto, trovandomi davanti un profilo familiare.
«Scusa
se ti ho
fatto attendere un po’… Sono arrivato.»
La
spada di
Emile aveva bloccato il colpo del figlio di Ares, diretto alla mia
schiena. Se
mi avesse raggiunta, di sicuro avrebbe spezzato qualche costola sotto
al
corpetto di cuoio.
«…Ma
tu sei
nella nostra squadra! Perché la proteggi?!»
urlò Lena, inferocita. Era ancora a
terra dopo il mio attacco e teneva stretta a sé la gamba
sanguinante.
«Voglio
evitare
che commettiate sciocchezze, le regole sono chiare. Non vogliamo feriti
gravi,
vero?» Nella voce vibrava un tacito ammonimento.
Nonostante
la
situazione spiacevole, mi trovai a pensare di non aver mai visto niente
di più
bello di Emile in quel momento. La sottile armatura aderiva
perfettamente alla
sua figura, come fosse fatta su misura, e la spada lucida pareva un
prolungamento del braccio, tanto era armoniosa; potevo indovinare i
muscoli
definiti, che spesso mi era capitato di scorgere durante i nostri
allenamenti, fremere
pronti a scattare sotto le protezioni. Quasi non mi accorsi
dell’assenza
dell’elmo, abituata com’ero a godere della vista
dei suoi capelli color
dell’oro.
La
risposta del
ragazzo mi riportò alla realtà.
«Non
c’è nessun
regolamento che vieta di combattere contro un traditore,
giusto?» ruggì,
roteando la mazza ferrata con rinnovato vigore.
Emile
fece in tempo ad allontanarmi con una spinta, prima di ritrovarsi a
fronteggiare
l’energumeno infuriato. Era affascinante osservarli
combattere, l’uno che
attaccava spinto dalla furia e dalla forza bruta, l’altro che
si difendeva e
contrattaccava con mosse calcolate e precise.
«Io
l’ho sempre detto che di voi figli di Ermes non ci si
può fidare!» grugniva il
castano, colpendo con forza.
«Vacci
piano con le accuse, qui gli scorretti non siamo
noi…!» controbatté Emile a
denti stretti.
Con
un colpo di piatto, riuscì a disarmare il figlio di Ares e
ferirlo a una
spalla. La mazza volò lontano e, vedendo la spada puntata
alla gola
dell’armadio, pensai che fosse finalmente tutto finito.
«Facciamo
finta che non sia successo niente, eh?» Il tono basso e
accattivante di Emile
mi fece rabbrividire.
Feci
per alzarmi, rincuorata, quando con la coda dell’occhio vidi
Lena scattare
verso la lancia e scagliarsi con foga verso il mio salvatore.
«Emile!»
Per
un attimo, il tempo sembrò fermarsi. Emile era stato colto
di sorpresa da un
angolo cieco e la lama lo aveva colpito, ma era riuscito infine a
disarmare
anche la ragazza.
Dopo
lo smarrimento iniziale, corsi verso il biondo per accertarmi che
stesse bene e
in quel momento un corno annunciò la fine della Caccia alla
Bandiera.
«Eh
eh, questa volta sono sicuro che abbiamo vinto
noi…» sussurrò Emile con un
sorriso sinistro, portandosi la mano al basso ventre.
Non
badai troppo a Lena e suo fratello che si allontanarono di gran
carriera, sbraitando.
«Emile…?
Stai bene?» Abbassando lo sguardo verso la pancia del
ragazzo, mi morirono le
parole in gola.
Stava
sanguinando copiosamente, non come quella volta all’Arena.
«Oh
dèi!…» Lena gli aveva inflitto una
ferita profonda.
«Non
è nulla, fa solo un po’
male…» La voce gli si affievolì, mentre
si accasciava
contro di me.
«Emile!!!
Maledizione… Aiuto! Qualcuno mi aiuti» gridai
disperata, tornando a prestare
attenzione al ragazzo. «Emile, ti prego…»
«…Stai
tranquilla, non è grave» disse, una volta
ripresosi. Inspirò a fondo prima di
tornare a parlare. «Davvero. Devo solo trovare il modo di
arrivare fino
all’infermeria.»
Dopo
aver tamponato la ferita con una fasciatura d’emergenza, lo
presi sotto braccio
ignorando le sue proteste e camminammo affiancati per un po’.
«…Scusa»
mormorai ad occhi bassi.
«Per
cosa?»
Rimasi
un attimo in silenzio per cercare le parole giuste.
«…Ti
hanno ferito a causa mia. Non avrei dovuto chiamarti.»
Un
suono soffocato sfuggì dalle labbra di Emile, ci misi un
po’ a capire che si
trattava di una risata.
«Scherzi?
Quelli fanno sul serio, quando scelgono una preda non la lasciano
andare
facilmente. E poi…» si voltò a
guardarmi, le sue labbra pericolosamente vicine
alla mia guancia «…Mi ha fatto piacere poterti
aiutare. Su di me puoi contare,
Thara, ricordalo sempre.»
Abbassai
ancora di più la testa ma non potei fare a meno di sorridere.
«Grazie
Emile. Solo che… Mi sento così inutile! Vorrei
essere più forte.»
«Ma
tu sei già forte! Qualche giorno fa non avresti nemmeno
immaginato di poter
ferire una figlia di Ares. A proposito, come hai fatto a farli stancare
così
tanto? Il tipo era affaticato quando si è battuto con
me…»
«Diciamo
che li ho invitati a fare una corsetta…»
Scoppiammo
entrambi a ridere fino a quando Emile non fu scosso da degli spasmi di
dolore.
«Ouch…
Scusa. È una bella seccatura» fece, premendosi
l’addome con una smorfia.
Il
peso del suo corpo aggravato dall’armatura iniziava a farsi
sentire sulle mie
spalle affaticate e ci sedemmo su una roccia per prendere fiato. Ormai
si era
fatto buio.
«Dovremmo essere
vicini, comunque.»
Annuii
seguendo lo sguardo del ragazzo, alla vista di alcune luci in fondo al
bosco.
Il
silenzio era quasi irreale, rotto soltanto dal vociare attutito e
lontano degli
altri abitanti del Campo, mentre il suono più vero era
quello dei nostri respiri.
«Prima,
quando ti ho chiamato… Ho interrotto qualcosa?»
Iniziai
a tormentarmi le mani, improvvisamente tornata la Cithara timida di
dieci
giorni prima.
«Nulla
di importante.» Sospirò. «Ti preoccupi
troppo, Thara! Sono venuto da te perché
era quello che volevo fare.»
Anche
nella penombra vidi il suo sorriso dolce e il tocco della sua mano
sulla
guancia mi diede il capogiro.
Sorrisi
anch’io, poggiando la mia mano sulla sua, ignorando il calore
che mi era salito
in volto.
«Forse
hai ragione.»
Emile
si avvicinò di più, lentamente.
«Thara,
io…» Si bloccò quando la calma della
foresta venne interrotta da un vocio.
Dopo
poco il rumore si fece sempre più insistente. Io ed Emile ci
allontanammo in
tempo per sfuggire alle occhiate curiose di alcuni ragazzi appena
sbucati dagli
alberi.
«Voi
due cosa ci fate qui? …Per tutti gli dèi, cosa ti
è successo Noir?» chiese
allarmato Loren con lo sguardo rivolto alla fasciatura intrisa di
sangue.
«Sono
stato ferito da un animale…» rispose elusivo il
biondo.
«A
chi vuoi darla a bere? Ok, tu prendi l’armatura, io lo porto
in infermeria»
continuò Loren, rivolgendosi a un nostro fratello.
Si
caricò Emile sulle spalle senza dire una parola e
cominciò a camminare.
«Grazie!»
Mi
sembrò di sentirlo borbottare
una cosa come “Queste donne che
vogliono
fare tutto da sole…” e mi lasciai andare
a una risata liberatoria assieme
ad Emile, seguendoli verso l’infermeria.
|
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Capitolo 9 *** Intervallo - disegni dei personaggi ***
Nota per i vecchi Lettori:
Da ora
in poi i capitoli avranno finalmente un nome! E all’inizio di
ognuno di essi, saranno elencate le canzoni che, o per il significato
del testo
o per la melodia, si accordano con i capitoli in questione.
Se
siete interessati, date pure un’occhiata!;)
Riguardo l’
“Intervallo”…
In
questo “capitolo” mi prendo un breack per mostrarvi
i volti dei
personaggi che abbiamo incontrato fino ad ora. Spero che i disegni
possano
piacervi e che non siano troppo in disaccordo con l’idea che
vi eravate fatti,
in caso contrario sono curiosa di conoscere le vostre opinioni. Accetto
qualunque commento!:D
Ah, se
doveste notare aggiornamenti in questo “capitolo”,
probabilmente sarà perché ho aggiunto qualche
nuovo disegno. Mi piacerebbe
tenerlo aggiornato!
Cithara Greenwood
Emile Noir
Raven Lionhard
Eleuse
Martha Lowel
Loren Kylies
E, dal capitolo 7... XD
Alyssa Fingermann
Lena & il fratello
“armadio”
|
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Capitolo 10 *** Cap. 8 - Rondò ***
[Here
with me -
Dido]
[Gabriel
-
Lamb]
[Not
Alone -
RED]
I
festeggiamenti per la vittoria dei figli di Ermes si
protrassero a lungo quella sera. Durante il tragitto per
l’infermeria, la folla
gioiosa dei vincitori quasi ci travolse.
Un
ragazzo biondo, molto simile ad Emile ma dai
capelli leggermente più scuri, stava sorreggendo lo
stendardo che adesso
rappresentava il caduceo di Ermes con espressione raggiante.
«A-ha!
Abbiamo vinto!» Al suo passaggio, gli altri
fratelli lo acclamavano chiamandolo con quello che avevo intuito essere
il suo
nome, Luke.
Mentre
questi chinava il capo in segno di ringraziamento,
notai Emile voltare lo sguardo dalla parte opposta, come se tentasse di
rendersi invisibile sulle spalle di Loren. Lo osservai con aria
interrogativa
ma lui non colse la mia muta domanda, continuando a guardare in basso
con
espressione imbronciata.
«Siamo
arrivati… Thara, aspetta qui» mi fermò
Loren.
Rimasi interdetta, avrei voluto assistere Emile come la volta
precedente per
sdebitarmi.
Spostai
lo sguardo sulla ferita e trasalii: il sangue
aveva inzuppato ormai buona parte delle bende.
«O-ok,
ci vediamo dopo…» sussurrai, rivolta al biondo.
Lui
mi sorrise condiscendente e ammiccò.
«A
dopo.»
Li
osservai sparire al di là della tenda bianca e mi
costrinsi ad aspettare.
Il
rumore della festa era davvero insistente, ringraziai
mentalmente di non aver ancora incontrato Martha o Raven
perché immaginavo che
loro non avrebbero gradito tutta questa ostentazione da parte dei
vincitori.
Specialmente visto che i perdenti eravamo noi.
Mi
stavo guardando attorno con aria annoiata, quando
riconobbi il fratello incaricato di riportare al Campo
l’armatura di Emile.
Stava parlottando a bassa voce con un gruppo di nostri fratelli e figli
di
Atena, quelli incaricati di proteggere la Bandiera.
«Certo
che è strano quel Noir, andarsene via così, di
punto in bianco…»
«Io
l’ho visto distintamente: aveva la Bandiera in
mano ed è sbiancato tutto a un tratto, come se avesse visto
un fantasma!»
Mi
avvicinai, sperando di aver capito male.
«Cos’è
successo?» domandai.
I
ragazzi si girarono verso di me, quello con
l’armatura con aria contrariata.
«Questo
dovresti dircelo tu! Un attimo prima Noir ha
la vittoria in pugno e sta portando la Bandiera verso il fiume,
l’attimo dopo
molla tutto per lasciarlo a Castellan. Poco dopo lo ritroviamo con te,
ferito
gravemente. Si può sapere cosa è
successo?!»
Castellan
doveva essere il cognome di Luke, il ragazzo
che stava portando fiero lo stendardo per tutto il Campo. Notai che
nessuno
aveva accennato al rumore del fischietto.
«Stava
per valicare il confine?»
«Mancava
ancora un po’, ma ce l’avrebbe fatta di
certo. Aveva Castellan e la Fingermann a coprirgli le spalle»
mi rispose
Gilleon, reprimendo un gemito. Perdere era stato un brutto colpo per
tutti,
anche per i figli di Atena.
Continuavano
a guardarmi, aspettando una spiegazione
che non ero intenzionata a dare. Emile aveva sviato la domanda di Loren
per non
creare problemi ai figli di Ares, e di certo non sarei stata io a
rendere vano
il suo gesto di cavalleria.
«…Non
saprei. Sono stata attaccata da un cinghiale ed
Emile mi ha aiutata, per questo si è ferito.»
Sostenni le loro occhiate
scettiche con uno sguardo disinteressato. «Era un cinghiale
particolarmente
aggressivo.»
Stavano
per ribattere qualcosa ma in quel momento
arrivò Loren a salvarmi.
«Thara,
se vuoi
dovrebbero aver finito di medicarlo.» Feci per
andarmene, ma lui mi
prese sotto braccio. «…Poi io e te dobbiamo fare
quattro chiacchiere» sussurrò
a bassa voce.
Annuii
con un sorriso colpevole e mi allontanai verso
il tendone.
All’interno
dell’infermeria una ninfa mi indicò la
strada per raggiungere il letto di Emile, dopodiché ci
lasciò soli. Unica
barriera per la privacy, un separé bianco di quelli che si
vedono negli ospedali.
«Emile…?»
mormorai, avvicinandomi al ragazzo, steso
supino.
«Ehi…»
rispose con un cenno della mano.
C’era
stato qualche altro infortunato durante la
Caccia, e i lamenti di dolore ‒vero o simulato‒ attorno a noi mi
ricordarono
che non eravamo soli.
«Stai
meglio?»
Emile
annuì con un sorriso.
«Mi
hanno fasciato e ho bevuto dell’ambrosia, sto
bene. Anche se devo ammettere che avrei preferito essere curato da te,
l’infermiere mancava un po’ di
delicatezza…»
«Oh,
solo per quello?» Risi e mi avvicinai di più,
sedendomi sul letto accanto a lui.
«No,
certo! Mi hai medicato così bene quella volta…
È
ovvio che sei molto competente.» Aveva assunto un tono
reverente che con le
occhiate sornione che mi stava lanciando aveva ben poco a che fare.
«Vorrà
dire che quando sarà il momento di cambiare le
fasciature lo farò io.»
Mi
sorrise ancora, questa volta in modo dolce.
«Grazie,
Thara.»
Gli
misi una mano sui capelli con l‘intenzione di
dargli un buffetto, e mi ritrovai ad accarezzarli.
Scostai
la mano in silenzio, imbarazzata.
«Emile…
Devo essere io a ringraziarti.» Lui mi guardò
con aria smarrita. «Ho saputo quello che è
successo, mi spiace per la Bandiera.
Alla fine l’hai lasciata a tuo fratello per venire a salvare
me.»
Rimase
in silenzio per qualche secondo, lo sguardo
perso.
«Tu
sei più importante di una stupida Bandiera. Avrò
altre occasioni per dimostrare il mio valore a Raven o Luke.»
Mentre
parlava aveva gli occhi fissi sui miei e per un
attimo pensai che mi sarei lasciata annegare più che
volentieri in quel verde
avvolgente.
«Grazie
ancora, Emile» gli sorrisi.
«No,
grazie a te per farmi sentire così importante.»
Arrossii,
portando dietro l’orecchio una ciocca di
capelli ribelli sfuggita allo chignon.
Avrei
voluto rispondere, ma fece capolino la ninfa che
mi aveva accompagnata.
«Scusate,
l’orario delle visite è finito. Sta per
scattare il coprifuoco e sarebbe ora di andare a dormire.»
Emile
sbuffò mentre io ringraziai l’infermiera con un
cenno del capo.
«Allora
ci vediamo domani… Ti porto qualcosa per
colazione?»
«Non
preoccuparti, ci penseranno le infermiere al
cibo!» Aveva l’aria di chi la sapeva lunga e mi
chiesi quante altre volte era
stato costretto a letto in infermeria, negli anni di permanenza al
Campo.
«…
Buonanotte.»
«’Notte
anche a te, Thara.»
Stavo
per andarmene, quando mi fermai per tornare
indietro.
Emile
mi volgeva le spalle, troppo stanco per rendersi
conto della mia presenza e sicuro di essere ormai solo. Mi avvicinai in
silenzio,
abbassandomi e sfiorandogli la spalla.
Lo
baciai sulla guancia, ignorando il suo sussulto
sorpreso.
«Sogni
d’oro…»
Mi
voltai e uscii velocemente, lasciando raffreddare
le guance in fiamme dal dolce vento notturno.
---
«Sai,
ieri sera ho fatto un sogno strano…»
Da
quando ero entrata nell’infermeria, Emile non la
smetteva di fissarmi con un’espressione bonaria stampata sul
viso. Forse avevo
fatto male a lasciarmi andare…
«Ah
sì? E cosa hai sognato?» lo incalzai,
più per distrarmi
dalla brutta ferita al ventre che gli stavo medicando che per interesse
vero e
proprio. L’infermiere era stato bravo a ricucire il taglio ma
l’ematoma
violaceo che si era formato non aveva lo stesso
un bell’aspetto.
Il
nuovo sorriso che si formò sulle sue labbra mi fece
arrossire, nonostante tutto.
«…
Credo che qualcuno mi abbia dato un bacio sulla
guancia, tu ne sai qualcosa?»
Lo
ignorai deliberatamente, premendo di più sulla
ferita con la garza e strappandogli un singulto di protesta.
«Ops,
scusa… Non saprei, può capitare di fare sogni
del genere. L’altro giorno Martha mi ha raccontato di aver
sognato che Brad
Pitt la invitava al ballo scolastico di fine anno e di aver ballato con
lui
fino a quando un’Idra non è spuntata dal
pavimento, cercando di ingoiare tutti
gli invitati…» Dovevo averlo preso in contropiede,
perché mi stava fissando con
uno sguardo tra il confuso e l’imbronciato.
Non
è che non mi piacesse… Anzi, mi ero resa conto di
quanto fossi attratta da Emile prima ancora di quando avevo deciso di
ammetterlo tra me e me. Semplicemente, sono sempre stata una tipa
troppo
razionale e lasciarmi andare non era nel mio personaggio.
«Sì,
immagino sia successo anche a te di sognare Brad
Pitt…» mi rispose lui con quella che mi
sembrò una punta di gelosia.
Rimasi
un attimo a fissarlo attonita e poi scoppiai a
ridere.
«No,
lui non è decisamente il mio tipo! …Uh uh, non
l’ho mai sognato.» Ahi, un altro passo falso!
Mi
voltai con la scusa di prendere la fasciatura per
sfuggire allo sguardo furbo di Emile.
Lo
fasciai in silenzio, conscia del calore della sua
pelle sotto le mie dita e dei suoi occhi vigili su di me.
«Ecco
fatto! Non so cosa ti abbia detto l’infermiere
ma secondo i miei calcoli dovresti poter uscire di qui tra tre giorni.
Certo,
eviterei l’allenamento per almeno una
settimana…»
«Va
bene, dottore… Ha qualche terapia particolare da
suggerirmi?» Non c’era sarcasmo nella sua voce,
solo dolce ironia.
«Lei
ha qualche idea, signor Noir?»
Era
la prima volta che mi rivolgevo a lui chiamandolo
per cognome, non pensavo sarebbe risultato così intimo,
sussurrato a quel modo.
«Mi
piacerebbe ascoltare della buona musica… Forse lei
può aiutarmi.»
«Se
si tratta di buona musica, il mio violino è al suo
servizio!» lo canzonai, accennando un inchino.
Il
verde dei suoi occhi prese a brillare d’entusiasmo.
«…Una
volta che sarà uscito di qui, naturalmente. Non
vorrei disturbare gli altri pazienti.»
Emile
sbuffò, borbottando qualcosa sul fatto che era
impossibile chiamare “disturbo” quella melodia
meravigliosa e che piuttosto
avrebbe fatto bene a tutti i ricoverati. Gli feci notare che le
infermiere non
sarebbero state dello stesso avviso.
Parlammo
ancora del più e del meno per un po’ senza
badare allo scorrere del tempo, fino a quando non giunse una visita
inaspettata
per Emile.
«Fratellino!
Sono venuto a vedere come stai… Ma noto
con piacere che hai già un ospite, e che ospite!»
aggiunse infine Luke, il
figlio di Ermes che il giorno prima aveva portato lo stendardo per il
Campo,
lanciandomi un’occhiata languida. Non sapevo da dove potesse
aver indovinato le
mie curve (poco generose, tra l’altro), ben nascoste sotto la
t-shirt arancione
del Campo Mezzosangue e gli shorts. Forse gli shorts erano davvero
troppo
short, riflettei corrugando la fronte.
Persa
tra i miei pensieri, non mi ero accorta subito
del cambio repentino di Emile. Aveva irrigidito le spalle e il suo
corpo era
diventato un fascio di nervi, pronto a scattare. Non potei fare a meno
di
pensare che tutto questo non avrebbe giovato alla ferita.
«…Luke.»
«Sei
stato bravo ieri, è un vero peccato che tu non
sia riuscito a portare la Bandiera dall’altra parte del
fiume.»
Emile
digrignò i denti, quando parlò colsi una vena di
frustrazione nella sua voce.
«Avevo
qualcosa di più importante da portare a
termine. La prossima volta sarò io a vincere.»
Anche
in questo caso si trattava di rivalità, come con
Raven?
Luke
sorrise.
«Questo
lo avevi detto anche l’altra volta, e invece
ti sei fatto fregare la Bandiera da Lionhard… Ma sono sviste
che capitano.
D’altronde la squadra sa già su chi fare
affidamento nei momenti di difficoltà!»
concluse alzando le spalle. «Devo ammetterlo, sei una buona
spalla, ma il capo dormitorio
rimango io, Emile.»
Il
silenzio stava diventando opprimente, e per un attimo
ebbi paura di una reazione da parte di Emile. Invece lui rimase
apparentemente
calmo, solo l’assottigliarsi dei suoi occhi e la respirazione
più profonda mi
fecero intuire quanto Luke stesse mettendo alla prova il suo
autocontrollo.
«Hai
ragione. Non c’è che dire, hai salvato la
situazione
per l’ennesima volta Luke. Ora, ti ringrazio per
l’interessamento, sei stato
molto gentile a passare di qui… Ma avrei bisogno di
riposare»
Un
sorriso di trionfo attraversò il volto di Luke per
lasciare poi il posto a un’espressione falsamente addolorata.
«Scusa,
è ovvio che sei affaticato! Ultimamente questi
animali selvatici si sono fatti così aggressivi, quel
cinghiale deve averti
inflitto una brutta ferita! Buon riposo, allora.»
Prima
di andarsene si volto per un momento e mi fece
l’occhiolino.
«Abbi
cura di lui, cara.»
Appena
i passi di Luke non furono più udibili, Emile
emise un sospiro di sollievo e abbandonò la testa sul
cuscino.
Cos’era
successo? Mi era sembrato di assistere a uno
di quei documentari sui lupi, quando mostrano come un lupo
più giovane sfidi il
capobranco per prendere il suo posto. Avevo l’impressione,
però, che questa
volta l’aspirante se ne fosse tornato al suo posto con la
coda tra le gambe.
«…Mi
spiace che tu abbia dovuto assistere a tutto
questo.» La sua voce mi giunse attutita, si era coperto il
volto con una mano.
«Non
è niente. Mi chiedevo solo il motivo di tanto
astio…»
Non
volevo risultare invadente ma ero curiosa, perché
finalmente iniziavo a vedere un lato di Emile che non conoscevo.
C’era
qualcos’altro oltre all’allegria e
l’espansività che mi aveva mostrato in quei
giorni.
«All’inizio
sembrava un ragazzo simpatico, uno su cui
si può fare affidamento insomma. E così
è stato anche per me, per i primi
tempi. Dopo qualche anno però è
cambiato…» Il biondo espirò, ad un
tratto mi
sembrava così stanco. «Non so dirti con certezza
da quando abbiamo iniziato a
litigare. So solo che non riesco più a dargli fiducia e non
ce lo vedo come capo
dormitorio. È molto carismatico, questo è vero,
ma ogni tanto mi dà
l’impressione di nascondere qualcosa.»
Annuii
distratta, ripensando alla prima impressione
che avevo avuto di Luke. Non mi era sembrato un cattivo ragazzo, pareva
solo un
po’ pieno di sé.
Lasciai
perdere quei pensieri: già più volte avevo
mostrato di essere una frana con le prime impressioni.
«Scusa,
non volevo metterti di cattivo umore! Posso
fare qualcosa per farmi perdonare?» chiesi.
Emile
sogghignò.
«Spero
tu non abbia programmi per oggi, perché ho
intenzione di rapirti per tutto il pomeriggio! Credi che mi sia
dimenticato che
siamo indietro di parecchie lezioni sulla mitologia e il greco
antico?»
«Oww…»
emisi uno sbuffo di protesta ma dentro di me
esultai.
Non
andavo matta per il greco, la mitologia invece la
trovavo interessante, forse perché speravo anche di poter
trovare qualche
indizio sul rapimento di mia madre.
Stavo
perdendo il conto dei giorni passati senza avere
notizie sue e di Eleuse… Decisi di non pensarci e dedicarmi
alla lezione di
ripasso sulle creature mitologiche acquatiche.
Avevo
passato gli ultimi giorni in infermeria per tenere
compagnia ad Emile, dimentica di tutto il resto. Fui grata a Loren per
non
avermi assillato di domande su quanto accaduto durante la Caccia (cosa
che non
potevo dire di Martha, curiosa come non mai) e dopo che il biondo venne
dimesso
mi fece strano tornare a passare la maggior parte del tempo
all’aria aperta.
Stavo
tirando con l’arco sotto lo sguardo vigile di
Emile quando vennero a chiamarci.
«Che
c’è, Connor?»
Il
ragazzo aveva un’espressione corrucciata, sembrava
preoccupato.
«Chirone
vuole parlarvi nel suo ufficio… »
Lasciai
l’arco e mi avvicinai ad Emile, scambiando con
lui un’occhiata esitante.
«Dici
che si tratta di mia madre?» gli chiesi sottovoce
mentre affrettavo il passo per stargli dietro.
«Non
saprei… Spero solo che si tratti di buone notizie.»
Lo
speravo anch’io con tutto il cuore ma avevo un
brutto presentimento.
Arrivati
nell’ufficio, Chirone si fece attendere per
qualche minuto, e ci lasciammo cadere sulle poltroncine di velluto
rosso
davanti alla scrivania. Iniziai a tormentarmi le mani con lo sguardo
basso,
ricordavo di aver provato una sensazione simile solo a scuola, durante
la
scelta della vittima sacrificale da interrogare in geografia.
L’attesa e
l’ignoto erano sempre così snervanti per
me…
Emile
posò una mano sul mio braccio e diede una dolce
stretta rassicurante, come a ricordarmi che anche in quel momento era
con me.
«Scusate
se vi ho fatto aspettare.»
Io
e il ragazzo ci alzammo in contemporanea.
«Ci
sono novità?» fece Emile.
Chirone
annuì.
«Abbiamo
scoperto qualcosa di nuovo. Ci sono stati
altri rapimenti, oltre a quello di tua madre. Le ragioni ci sono ancora
oscure,
le vittime non sembrano avere nulla in comune oltre al fatto che sono
tutte di
sesso femminile…» Ebbe un attimo di esitazione e
capii che ci stava nascondendo
qualcosa. Chi erano le altre donne rapite?
«Quante
ne sono scomparse?»
«Cinque,
per ora. Eleuse stava cercando di individuare
la prossima donna presa di mira.»
Lo
fissai intensamente per spronarlo a continuare.
«Ed
è riuscita a capire di chi si tratta?»
Chirone
distolse lo sguardo dal mio ed emise un sospiro.
«…Purtroppo
non
lo sapremo mai. Abbiamo perso i contatti con lei da tre
giorni.»
|
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Capitolo 11 *** Cap. 9 - Presto ***
[Tears in my
eyes - Cecile Corbel]
[Honeythief
-
Halou]
[Relative
minors - Maybeshewill]
Boccheggiai
in cerca d’aria, sperando che stesse scherzando.
«Mi
dispiace… Non sappiamo se sia stata rapita anche
lei o sia impossibilitata a contattarci perché ferita da un
mostro.»
No.
No,
no, no… NO.
Anche
lei no…!
La
voce del centauro si era fatta ovattata, avevo
smesso di ascoltare il suo monologo su quanto gli dispiacesse e come
avrebbe
cercato di mandare qualcun altro a indagare.
Non
mi importava della sua voce stanca e afflitta, non
mi importava che fosse preoccupato anche lui per la perdita di una
valente Custode.
Davvero, non mi importava di nulla. Riuscivo solo a pensare
all’ultima volta
che avevo visto Eleuse, al suo sorriso e al fatto che probabilmente non
l’avrei
mai più rivista.
…Chirone
non aveva incluso nelle possibilità quella
della morte ma sapevo che non era da escludere.
Improvvisamente
sentii le ginocchia diventare deboli e
la stanza prese a girare.
Mi
sentii bisbigliare una cosa come “Non mi sento
troppo bene” e mi trovai, prima a camminare e poi a correre,
fuori dall’ufficio
per il Campo.
Le
lacrime mi offuscavano la vista, eppure sapevo che
mi stavo avvicinando pericolosamente alla barriera che separava il
Campo
Mezzosangue dal resto del mondo e che impediva ai mostri di attaccarci.
«Thara!»
Emile
mi aveva ovviamente seguito.
Quando
mi abbracciò da dietro ‒in parte per consolarmi,
in parte per fermare la mia corsa senza senso‒ cercai di fare
resistenza ma, appena
lo sentii soffocare un gemito perché gli avevo colpito la
ferita, smisi di
lottare.
«Shhh…»
Mi lasciai andare tra le sue braccia a un
pianto convulso, fino a quando non restai senza lacrime e i singhiozzi
scemarono.
«Senza
di lei io… Come farò? Lei è la mia
migliore
amica, non può essere finita così, non
può…» iniziai a vaneggiare dopo essere
rimasta in silenzio per non so quanti minuti.
Emile
non diceva nulla, si limitava ad abbracciarmi e
accarezzarmi di tanto in tanto la testa.
Capii
di essere stata ingiusta, ora non ero più sola.
Avevo
Raven, Martha, Loren, Emile… Potevo piangere la
perdita di Eleuse ma Emile mi era sempre restato accanto, adesso era
lui la
persona più importante per me.
«…Scusa.
Era anche tua amica…» Voltai la testa verso
di lui, cercando i suoi occhi.
Emile
poggiò la fronte sulla mia.
«…Io
sono sicuro che sia ancora viva. Ele non è una
che si può battere facilmente! Quindi…»
tornò ad abbracciarmi più forte
«…Credi
in lei. Troveremo il modo per andarla a cercare.»
Ricambiai
l’abbraccio, inspirando a fondo il suo
profumo. Decisi di dargli fiducia e per la prima volta dopo tanto tempo
capii
che stavo facendo la cosa giusta.
Tornammo
nell’ufficio di Chirone fianco a fianco, io
con la testa bassa per nascondere gli occhi ancora lucidi di lacrime,
lui con
un braccio attorno alle mie spalle con fare protettivo.
«Eleuse
aveva iniziato le proprie ricerche dal luogo
dov’è stata rapita la signora Lynette, a Lancaster
in Pennsylvania» cominciò a
spiegare il centauro, superato il momento iniziale di imbarazzo.
Emile
mi guardò perplesso.
«Vivi
a Lancaster?»
Scossi
la testa.
«Eravamo
andate lì per passare le vacanze dalla nonna.
Poi, nel cuore della notte, mamma è venuta a svegliarmi e ha
trascinato me e
Eleuse in macchina senza darmi spiegazioni… Purtroppo non ha
avuto il tempo di
fare alcunché, è stata trascinata via dallo
Stinfalide dopo aver chiuso la mia
portiera.»
Chissà
cos’aveva pensato la nonna il giorno successivo,
quando si era accorta che eravamo sparite tutte e tre nel
nulla… Non potevo
fare a meno di preoccuparmi per quella dolce signora che consideravo
come una
nonna a tutti gli effetti: anche se non avevamo legami di sangue Zila
era
sempre stata presente per me e mia madre.
Già,
mia madre… Come faceva a sapere che un mostro era
sulle nostre tracce? L’aveva avvertita qualcuno?
«È
lì che ha scoperto che già altre due donne erano
state rapite. Tutte le vittime colpite finora si trovavano in
America.»
Forse
mia madre lo sapeva già e aveva paura di essere
il prossimo obiettivo… Ma perché?
«Ho
ragione di credere che siano state portate negli
Inferi, al cospetto di Ade. È da qualche tempo che ha
diminuito i contatti con
l’Olimpo e i rapporti con Zeus si sono fatti più
freddi…» Dal tono in cui lo
disse capii che non era la prima volta che accadeva una cosa del
genere. Per
quel poco che avevo studiato, Ade non sembrava aver avuto mai buoni
rapporti
con Zeus a causa della spartizione dei Regni. Come dire… Non
aveva gradito di
essere stato relegato nel sottosuolo.
«L’ultima
volta che mi ha contattato era diretta alla
città di New Haven.»
Emile
drizzò la testa e mi parve di scorgere ancora
una volta un lampo fugace nei suoi occhi: aveva avuto un’idea.
«Appena
saprò qualcosa in più vi avvertirò.
Cithara…»
disse poi Chirone, guardandomi con espressione sinceramente addolorata
«Per
quanto possano valere le mie scuse ora… Mi dispiace.
Farò il possibile affinché
tu possa riabbracciare tua madre e la tua Custode.»
Gli
sorrisi in risposta, sussurrando un debole “Grazie”
e uscii dall’ufficio con Emile.
L’aria
pomeridiana si era fatta ancora più calda negli
ultimi giorni, non era stata una scelta intelligente quella di lasciare
i
capelli sciolti.
«Pensavo…
Dovrei proprio chiedere a Chirone un
permesso per andare a trovare mia madre» fece Emile con finta
noncuranza.
Dapprima
confusa, iniziai a capire dove voleva andare
a parare.
«Oh…
E dove vive?»
Le
sue labbra si distesero in un sorriso.
«A
Milford.»
---
Milford,
ridente cittadina nel Connecticut, ma soprattutto
distante solo una quindicina di minuti da New Haven.
Avevo
i miei dubbi sulla riuscita della richiesta di
Emile ‒Chirone non era uno sprovveduto e avrebbe di certo mangiato la
foglia‒
ma tanto valeva provare. Certo, non avrei saputo come giustificare la
mia
domanda di accompagnare il ragazzo al di fuori del Campo, quindi decisi
tra me
e me che la scusa ufficiale sarebbe stata quella di andare a recuperare
i miei
affetti personali nella mia casa di New York. Non ci sarei potuta
andare da
sola, qualcuno mi avrebbe dovuto accompagnare e avevo un impellente
bisogno di
aumentare il mio guardaroba… Non che questa fosse una bugia,
mi ero stancata di
mettere la solita maglietta del Campo Mezzosangue e qualche misero
vestito che
mamma era riuscita a recuperare prima di lanciarmi in macchina.
Passarono
alcuni giorni prima che Chirone si decidesse
a dare il suo consenso. Mi innervosiva sapere di stare perdendo tempo
prezioso
per la ricerca della mia amica, perché diamine non potevamo
andarcene di nostra
iniziativa?
«Pazienta
ancora un po’, Thara. Sono sicuro che ci lascerà
andare.»
Non
mi restava che aspettare.
Nel
frattempo, in quei giorni mi esercitai con la
Banda e trovai come sempre un rifugio sicuro nella musica.
«Cithara,
sei molto brava a suonare» mi disse Raven,
una volta finita le prove.
Gli
sorrisi lusingata.
«Come
tutti, del resto.»
Lui
mi studiò per un attimo, prima di rispondere.
«Sì,
immagino tu abbia ragione… Però hai qualcosa di
speciale. Non saprei dire cosa, ancora non l’ho capito, ma
suoni in modo
diverso... Me ne sono accorto già da tempo.» Non
sapevo cosa ribattere, quindi
restai a fissarlo stupita. «…Potrei quasi essere
invidioso!» concluse,
sorridendo con gli occhi.
Eravamo
rimasti solo noi due nell’aula, gli altri stavano
tornando al dormitorio per posare gli strumenti.
«Ehi…
Ho saputo quello che è successo alla tua Custode.
Mi dispiace.»
Chiusi
la custodia del violino e mi voltai verso di
lui.
«Grazie.»
Raven
abbassò lo sguardo, sedendosi sullo sgabello del
pianoforte.
«Hai
intenzione di andarla a cercare, vero?» Mi
sembrava preoccupato, non lo avevo mai visto con l’aria
così provata.
«Lei
farebbe lo stesso per me.» Non gli dissi che
avevo promesso ad Eleuse di rimanermene buona al Campo ad aspettarla,
senza
fare pazzie.
Raven
rimase in silenzio qualche secondo e mi chiesi
quali pensieri affollassero la sua mente.
«Sai
già quando partirai?»
«No,
io ed Emile stiamo aspettando che Chirone ci dia
il suo benestare.» Nel sentire il nome del biondo,
scoppiò a ridere
sommessamente.
«Ahah…
Quindi sarà lui ad accompagnarti…! Bene, spero
sia in grado di proteggerti.»
Lo
osservai alzarsi e venire verso di me con andatura
elegante. Mi posò una mano sulla guancia, facendomi
arrossire fino alla punta
dei capelli. Non sapevo se ritrarmi o rimanere immobile…
Beh, se anche avessi
voluto muovermi non avrei potuto perché mi sentivo
totalmente paralizzata.
«Allora, buona
fortuna Cithara. E mi raccomando, torna tutta intera»
sussurrò, baciandomi
sulla fronte.
Se
ne andò lasciandomi lì, imbambolata con la
custodia
del violino in mano.
Era
finalmente arrivato il giorno della partenza
(Chirone aveva acconsentito a patto che ritornassimo entro 72 ore
massimo) e mi
si strinse il cuore nel salutare Martha e Loren.
«Non
fare pazzie» mi disse il castano, abbracciandomi
calorosamente. Mentre rispondevo alla stretta, non potei fare a meno di
notare
il solito sorriso malizioso di mia sorella farsi spazio tra le
lentiggini.
«Giusto,
non fate stupidaggini» continuò, sussurrando
«…In
caso, fermati a una farmacia e compra tu-sai-cosa. Non vorrete mica
tornare in
tre al Campo!» concluse in una risata, scappando alla mia
presa.
«Martha…!»
Tornò
seria e mi sorrise.
«…
Scherzi a parte, tornate sani e salvi.»
Le
sorrisi a mia volta e mi voltai verso Loren, che
stava raccomandando ad Emile di tenermi d’occhio.
«Non
preoccuparti, la proteggerò io.» Lo sguardo che
gli lanciò mio fratello lo fece arrossire. Credo che si
riferisse in modo
sottinteso a quello che era successo durante la Caccia. Una cosa del
tipo “Sì grazie, ma
evita di farti ammazzare”.
Raven
non era venuto a salutarci ‒non che ci tenessi a
vederlo dopo la scena nell’aula delle prove, mi ero
già imbarazzata abbastanza‒
eppure un po’ mi dispiaceva. Continuavo a ripetermi che avrei
rivisto tutti
dopo nemmeno tre giorni, ma dopo la scomparsa di Eleuse non potevo
più essere
sicura di nulla.
Stavamo
per uscire dalla barriera, quando una voce che
non mi sarei mai aspettata di sentire mi chiamò.
«…
Greenwood!» Alyssa, la rossa della Casa numero 5,
si stava avvicinando a noi con grandi falcate.
«…Sì?»
Anche con il fiatone e il volto arrossato dalla
mancanza d’ossigeno, quella tipa mi metteva in soggezione.
«…Ricorda
il nostro patto, tieni gli occhi aperti lì
fuori e fammi sapere.» Sinceramente, non ricordavo di aver
fatto alcun patto
con lei, ma non mi parve il caso di farlo notare.
Annuii
in silenzio, Alyssa sembrò soddisfatta.
«…E
buona
fortuna, naturalmente.»
La
ringraziai con un altro cenno del capo, salutando
tutti per l’ennesima volta e voltandomi verso il confine
della barriera, questa
volta per attraversarlo definitivamente.
Il
taxi ci stava aspettando al di fuori della
boscaglia e il conducente non parve più di tanto stupito nel
vederci spuntare
da dietro degli alberi con gli zaini sulle spalle.
«Dove vi porto?»
«New York, 225 Rector
Place.»
Assaporai
il suono di quelle parole con il cuore in
gola: dopo più di due settimane di follia, stavo tornando a
casa.
---
Sapevo
che non avrei ritrovato mia madre, aprendo la
porta dell’appartamento, ma in qualche modo mi deluse
l’aria desolata che
aleggiava in casa. Speravo forse che tornare lì avrebbe
riportato tutto alla normalità?
Posai
le chiavi nel portaoggetti all’ingresso, come al
solito, e andai diretta in camera mia.
«Permesso…»
Mi ero quasi dimenticata, c’era anche
Emile!
«Oh,
scusa… Prego, entra pure!»
Tornai
a dare una sbirciata veloce alla stanza, sperando
di averla lasciata in ordine prima di andare da Zila a Lancaster.
Emile
osservò curioso gli scaffali della mia libreria
(nonostante la dislessia tipica dei semidèi non mi ero
arresa all’idea di non
poter leggere in inglese e mi ero messa di buona lena ad esercitarmi
sin da
piccola), spostando poi lo sguardo su un quadro attaccato alla parete
arancione.
«Dovremmo
essere io, mamma e papà.»
Una
‘o’ di stupore si formò sulle sue labbra.
«…
L’hai disegnato tu?»
«Qualche
anno fa.» Dal quadro, tre facce sorridenti mi
restituirono un’occhiata raggiante.
A
riguardare bene quel disegno, c’erano tanti errori
nelle ombre del viso. La verità era che sul volto di mio
padre non ero riuscita
a segnare troppe ombre perché lo ricordavo come il viso
più luminoso che avessi
mai visto, come l’incarnazione del sole stesso. “Infatti.”
«È…
Meraviglioso.»
Risi,
tornando a rivolgere l’attenzione all’armadio
aperto e lo zaino dell’eastpack sul letto.
«Ti
ringrazio, ma non posso dire che sia uno dei
migliori.»
Nonostante
gli errori, ero molto legata a quel quadro.
Quando lo avevo disegnato non avevo la più pallida idea del
perché potessi
vedere mio padre così raramente ‒una volta
all’anno, quando andava bene‒ e di
certo non mi sognavo che fosse una divinità. Sentendo i
racconti dei ragazzi al
Campo, di come quasi nessuno avesse visto il proprio genitore divino
più di un
paio di volte, il rancore che avevo provato per mio padre una volta
scoperta la
sua vera identità era scomparso. Dovevo quasi essergli grata
per tutte le
attenzioni che mi aveva rivolto, neanche fossi la sua unica figlia.
Chiusi
la zip dello zaino lottando con un vestito blu
e, una volta vincitrice, andai verso camera di mia madre per prendere
un po’ di
dollari. Ok, con tutti coloro che avevano a che fare col mondo greco
andavano
bene le dracme, ma dubitavo che avrei potuto comprare un mazzo di fiori
con
quelle. Perché proprio un mazzo di fiori? Beh…
«A
tua madre piacciono i fiori?»
Emile
mi guardò un po’ spaesato.
«Sì,
perché?»
Gli
sorrisi.
«Allora,
prima di arrivare a Milford facciamo tappa da
un fioraio. Spero tu sappia cosa le possa piacere!»
Provò
a replicare ma dopo poco lasciò perdere. Insomma,
non potevo mica presentarmi a casa sua a mani vuote!
Mi
sembrava quasi di sentire Martha sussurrarmi che sarebbe
stato carino portare qualcosa alla mia “futura
suocera”…
---
Dopo
una buona mezz’ora, avevo optato per una piantina
di gardenia bianca e Emile aveva insistito per andare a comprare anche
un
cabaret di dolcetti, quindi adesso eravamo ancora più
bizzarri di com’eravamo
partiti, con la nostra mise da studenti in gita scolastica, zaino sulle
spalle,
vaso e dolci.
Una
signora anziana, con cane al seguito, ci squadrò
insistentemente dall’altro lato della strada, mentre
aspettavamo che la madre
di Emile aprisse la porta della villetta. Finsi di non averla notata e
sprofondai il viso nelle gardenie, sperando di non risultare troppo
assurda a
presentarmi conciata a quel modo.
La
porta si aprì con un cigolio e apparve una donna
sui quarant’anni, dal fisico esile, con i capelli biondo
pallido raccolti in
uno chignon e un sorriso stupito stampato sul volto, lo stesso dolce
sorriso di
Emile.
«Emile!
Oh caro, che sorpresa!»
Non
senza un po’ di imbarazzo, il ragazzo abbracciò la
madre col braccio libero dai dolcetti, e le stampò un bacio
sulla guancia.
«Ho
ottenuto un permesso per venire a trovarti, spero
di non disturbare.»
«Tesoro,
non potresti mai disturbarmi! Sono così felice
che tu sia venuto…» La donna si accorse di me e
prese a fissarmi incuriosita,
spostando lo sguardo da me al figlio, per poi tornare a guardarmi.
«E lei? Non
dirmi che è…»
Decisi
di sollevare Emile dall’imbarazzo e presentarmi
io stessa.
«Sono
Cithara Greenwood, vengo anch’io dal Campo
Mezzosangue e ho avuto il permesso di aggregarmi a suo figlio durante
quest’uscita» dissi tutto d’un fiato,
accompagnando le ultime parole con
l’accenno di un inchino.
Lei
mi sorrise accomodante e fece cenno di entrare.
«Capisco…
È la prima volta che Emile porta a casa una
ragazza, sai?»
«M-mamma…»
Era avvampato lui, abbassando lo sguardo.
«Su,
su caro, non c’è bisogno di essere
teso!» La
madre tornò a girarsi verso di me. «Vieni pure!
Posso offrirvi una tazza di tè?»
Le
diedi il vaso di gardenia mentre Emile poggiava sul
tavolo della cucina i dolci, borbottando tra sé.
«Scusa,
non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Angelique
Noir e, beh, sono la mamma di questo scapestrato!» Mi
abbandonai a una risata assieme
alla madre, assicurandole che suo figlio era tutt’altro che
scapestrato.
Lasciai
lo zaino ad Emile e aiutai Angelique a preparare
la merenda, portando le tazze da tè e lo zucchero a tavola
(pregando gli dèi di
non far cadere alcunché con la mia solita goffaggine).
Quando Emile tornò, il tè
era pronto e io e sua madre stavamo già conversando da
parecchi minuti.
«Quindi
tuo padre sarebbe Apollo… Devi essere molto
brava nelle arti!» Anche se di colore diverso, le iridi
nocciola della signora
mi ricordavano in qualche modo gli occhi di Emile.
«Me
la cavo…» risposi elusiva, prendendo un sorso di
tè.
Nonostante il caldo estivo, il tepore della bevanda risultava piuttosto
piacevole.
«Non
è vero. È bravissima, specialmente a suonare il
violino!» fece Emile, sorridendo mentre addentava un
bignè al cioccolato. «È
solo modesta.»
Passammo
non so quanto tempo a parlare di musica
classica (a quanto pareva, Angelique era un’amante di Bach),
fino a quando il
discorso si spostò sul mistero delle sparizioni e il vero
motivo della nostra
visita.
«Domani
andremo a New Haven per cercare qualche
indizio.» Il ragazzo ebbe un’esitazione.
«Posso prendere…?»
Angelique
lo interruppe con un gesto della mano e un
sospiro rumoroso.
«…E
va bene. Basta che non corri troppo e non la
riduci come l’altra volta!»
Emile
sorrise.
«Grazie!
Starò attento, lo prometto.»
Non
avevo capito a cosa si riferissero, ma immaginavo
stessero parlando di un mezzo di trasporto. Di certo doveva trattarsi
dell’auto
della madre. Speravo vivamente che Emile non avesse una guida sportiva
come
quella di Eleuse, che più volte aveva creato problemi al mio
stomaco delicato.
Dopo
aver sparecchiato, il biondo fece strada verso la
sua camera, passando per un corridoio con un’immensa libreria
in legno scuro
piena di cd musicali, suppellettili in ceramica e libri per bambini.
Rimasi
colpita nell’accorgermi che molti di questi erano in francese.
«Oh…
Mamma voleva che imparassi anche la sua lingua
madre. Ed è un’insegnante alle scuole elementari,
quindi…»
Accarezzai
la costina dell’edizione francese di “Viaggio
al centro della Terra” di Jules Verne e sorrisi.
«Dev’essere
un bel lavoro, il suo.»
Lui
alzò le spalle e si voltò, entrando nella stanza.
«Se
i bambini sono tranquilli sì, a volte invece torna
a casa distrutta.» Chissà se era stato geloso da
piccolo, se aveva sofferto il
dover dividere la propria madre con altri bambini?
Lasciai
cadere il discorso e mi apprestai a seguirlo.
La
camera era spaziosa, sulle pareti azzurre spiccavano
medaglie di eventi sportivi ‒per non parlare delle coppe sugli
scaffali‒ e
alcune foto. Una in particolare, ritraeva un piccolo Emile sorridente
abbracciato
alla madre con lo sfondo della Tour Eiffel e un tramonto mozzafiato.
Rimasi
incantata ad osservare i boccoli biondi del
bambino arricciarsi attorno ai capelli corti della giovane Angelique,
assieme
alle loro espressioni felici. La gioia che pervadeva quella foto era
quasi
palpabile.
Lo
sbuffo emesso dal letto una volta che Emile ci si
fu seduto sopra, mi risvegliò dai miei pensieri.
«Mia
madre ha accatastato un sacco di quadri e tutte
le cose che non sapeva dove mettere nella stanza degli
ospiti…» Notai che il
mio eastpack si trovava ai piedi del letto di Emile.
«…Quindi io andrò a
dormire di là, mentre tu puoi pure dormire qui. Se non ti
dispiace» aggiunse, rispondendo
al mio sguardo smarrito.
«Finalmente
torni a casa e sei costretto a non dormire
nel tuo letto? No, non se ne parla.»
Lui
represse una risata e fece cenno di avvicinarmi.
«Se
dormire in un altro letto significa averti a casa
mia, lo faccio più che volentieri» disse,
tirandomi a sé per i passanti della
cintura. Il mio cuore perse dei battiti quando mi abbracciò
all’altezza della
vita.
«…Sono
felice che tu sia qui.»
Il
martellamento del cuore si era fatto assordante,
adesso, e le gambe mi parevano di burro.
«…E
io sono felice di essere qui, con te.»
Non
so come riuscii a parlare, visto che sembrava che
le forze mi stessero abbandonando. Due erano le cose: o stavo per
svenire per
mancanza di zuccheri (cosa assai improbabile, dati i dolci che avevo
appena
finito di mangiare assieme al tè), o quei sintomi erano
dovuti alla troppa
vicinanza a un ragazzo. Anzi, avevo il presentimento che non si
trattasse più
della mia stupida agitazione da contatto con esseri di sesso maschile,
ma che
piuttosto fossi agitata perché quel ragazzo era
proprio Emile.
Presi
coraggio e lo abbracciai a mia volta, affondando
il volto nei suoi capelli.
Di
sicuro avrei fatto di più, se Angelique non avesse
ingenuamente bussato alla porta per consigliarci di fare una
passeggiata serale
per le stradine di Milford.
«Ehm…»
Ci allontanammo l’uno dall’altra un po’
impacciati.
Ogni volta che si creava una situazione intima tra me ed Emile arrivava
qualcuno a interromperci… Iniziavo a pensare di essere
perseguitata da una
qualche maledizione.
Mentre
mi passavo le dita tra i capelli per nascondere
l’imbarazzo, mi venne in mente Zila. Forse Eleuse era tornata
da lei ‒per
rassicurarla sulle nostre condizioni, se non altro‒ e si era lasciata
sfuggire
qualcosa che avrebbe potuto esserci d’indizio.
«Posso
fare una telefonata?»
«Certo»
mi rispose Emile, un po’ preoccupato. Aveva
per caso paura che chiamassi qualcuno al Campo per farmi venire a
riprendere?
Sorrisi tra me e me, dirigendomi verso il telefono.
Tuuu…
tuuu… tuuu…
“Rispondi,
rispondi, rispondi… Oh dèi, spero non sia
successo qualcosa anche a lei!”
«…Pronto?»
Emisi
un sospiro di sollievo. La nonna era appesantita
dall’età, ci metteva sempre un po’ a
raggiungere la cornetta del telefono.
«Nonna!
Sono Cithara… Tutto bene?»
«Oh
piccola! Certo, qui tutto a posto. Piuttosto,
l’incendio non ha causato troppi danni vero?»
«Incend…io?»
Aspetta. Quale incendio?
«Ma
sì, Eleuse mi ha spiegato perché siete scappate
così… C’era stato un cortocircuito o
non so cosa, quindi la vostra palazzina ha
preso fuoco, no?»
«Oh
giusto… L’incendio…» Certo
che Eleuse avrebbe
potuto inventarsi qualcosa di meno tragico. Una volta trovata le avrei
senza
dubbio consigliato di guardare meno film di spionaggio.
«…Tutto ok. C’è voluto
un po’ per spegnere le fiamme ma ora hanno finito di
ristrutturare il palazzo.»
Un
respiro rammaricato dall’altra parte della cornetta.
«Mi
avete
fatto prendere un colpo quella sera…»
Che
stupida. A lei non avevo proprio pensato in quei giorni di disperazione
per mia
madre… Era stato davvero crudele da parte mia, non farle
nemmeno una chiamata.
«…
Oh,
quasi dimenticavo!»
«Cosa?»
«La
cara
Eleuse mi aveva detto di riferirti qualcosa, se avessi
chiamato… Aspetta… Oh
mamma, dove l’ho messo…?» Il trambusto
dei cassetti aperti e chiusi mi
costrinse ad allontanare il telefono dall’orecchio.
La
mente
aveva preso a divagare veloce: cosa poteva averle mai detto? Se
c’entrava con
la missione, sapeva che sarebbe potuta incappare in qualche
problema… Ma allora
perché non informare direttamente Chirone?
«Ecco!
Era una specie di filastrocca…
“Quando
le Grandi verranno riunite,
le
speranze se ne andranno ormai svanite;
Catene
ed Equilibrio spezzati saranno,
sotto
le trame dell’Inganno.
Come
le Gorgoni,
costrette
nelle proprie prigioni.
Come
le Furie,
trasandate
e abbandonatesi alle incurie.
Come
le Moire,
padrone
del Destino a cui tutti vogliono ambire.
Tante
di numero la linfa delle quali è dovuta,
perché
avvenga la nefandezza che verrà compiuta.
I
riflessi diverranno carcerieri,
dai
quali si potrà però fuggire grazie ai desideri.
Il
Dono è necessario,
affinché
il Bene cali infine il sipario.
Una
cosa cara di certo andrà perduta,
ma
la sua importanza dipenderà dalla funzione
adempiuta.”
…
Credo
che sia tutto qui.»
Presi
al
volo carta e penna, chiedendole di ripetere più lentamente.
«Non
ti
ha per caso detto dove sarebbe andata?» Come si dice, la
speranza è l’ultima a
morire.
Le
mie
aspettative non vennero deluse neanche questa volta.
«Giusto,
ecco cosa stavo dimenticando… Aveva detto che sarebbe andata
a trovare un
amico, un certo Kimon Dreamwalker. Non è un nome
buffo?»
«Dev’essere
un compagno di Università…» Non le
avevo mai sentito pronunciare quel nome. Chi
diamine era questo Kimon? «Ti ha dato anche un
indirizzo?»
«Certo! 240 College Street,
New Haven. Tutto
a posto, cara?»
Scrissi
il
recapito accanto alla profezia.
«…Grazie
di tutto, nonna. Ora devo andare!»
«Va
bene,
piccola. Salutami tanto Lynette… E fatevi sentire
più spesso!»
Una
sensazione spiacevole mi afferrò il cuore.
«Ti
saluta anche lei… Un bacione.»
Riattaccai
la cornetta con gli occhi lucidi, dovetti strofinarli con il braccio
per
cancellare l’avvisaglia delle lacrime.
Emile
doveva
aver sentito il mio tono rattristarsi ed era comparso dietro di me, con
un’espressione ansiosa.
«…
Tutto
bene, Thara?»
Tirai
fuori il mio sorriso migliore, avvicinandomi con il foglietto in mano.
«Finalmente
abbiamo una pista! Mi chiedo perché non ci ho pensato
prima…»
«…È
una
profezia?» chiese, osservando il foglio con
curiosità.
«Sembra
proprio di sì. Abbiamo anche l’indirizzo
dell’ultimo posto dov’è andata
Eleuse.»
Dentro
di me,
sapevo che il mistero della sua scomparsa ruotava attorno a Kimon.
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Capitolo 12 *** Cap. 10 - Accelerando ***
[That home - The Cinematic Orchestra]
[Holding
onto Nothing - Lovers and Liars]
[Shut
Me Up - Mindless Self Indulgence]
Avevamo
passato l’intera serata a cercare di interpretare la
profezia, facendo una
pausa solo per la cena.
«Ad
esempio, la parte in cui parla delle Gorgoni, delle Furie e delle
Moire… Sono
tutti gruppi di tre donne. Nella strofa successiva dice “Tante di numero la linfa delle quali è
dovuta”… Intende dire che
verranno rapite tre donne?»
Scossi
la
testa.
«Non
è
possibile, ne sono state rapite già cinque, se non di
più per quel che ne
sappiamo» risposi, ticchettando sul foglio di carta con la
punta della penna. E
se invece…?
«…Allora
si tratta di sommarle. Le donne sono nove!» disse Emile,
trionfante,
concludendo il mio pensiero.
«Ma
perché proprio nove…?» chiesi a nessuno
in particolare. “E
perché proprio mia madre?”
A
questo
non eravamo ancora riusciti a dare una riposta.
«E
se
dovessimo guardare i luoghi in cui sono state rapite?»
Un
lampo
di comprensione attraversò gli occhi verdi di Emile.
«Magari
servono a creare un cerchio magico o qualcosa del genere!» Ma
l’entusiasmo
iniziale venne ben presto sostituito dalla delusione.
«Giusto, non sappiamo
dove sono avvenuti i rapimenti. È già tanto che
Eleuse sia riuscita a ottenere
queste informazioni.»
C’era
qualcosa che continuava a sfuggirmi…
«…No,
forse ho detto un’idiozia. Mamma era terrorizzata, sapeva che
stavano cercando
lei… Altrimenti sarebbe bastato rapire una donna qualunque.
A meno che…»
Sollevai lo sguardo su quello di Emile. «…Le donne
da rapire non dovessero
avere delle caratteristiche particolari.»
Lui
mi
restituì un’occhiata scoraggiata.
«Però
Chirone ha detto che non avevano nulla in comune.»
«Hai
ragione, questo è quello che ha detto lui. Non dico che ci
stia nascondendo
qualcosa, ma forse… Ecco, forse non ha preso in
considerazione tutte le
possibilità.»
Rimanemmo
in silenzio a fissarci negli occhi per qualche secondo (troppo a lungo,
a detta
del mio cuore), prima che lui annuisse.
«Okay,
proviamoci. Cosa potevano avere in comune? Dev’essere una
cosa particolare.»
Abbassai
lo sguardo sulle mani, iniziando a giocare con la penna. Era snervante
il
ticchettio dello scatto della biro, eppure riusciva in qualche modo a
rilassarmi.
Ebbi
un
sussulto quando Emile poggiò la sua mano sulla mia, prima di
capire che il suo
intento era fermare il mio tic nervoso.
«Oh,
scusa… Ehm.» Deglutii, tornando a pensare. “Qualcosa
di particolare, qualcosa di particolare…”
«…Ci sono! E se tutte avessero un
figlio semidio?»
«…Non
è
affatto una brutta idea!» fece Emile, prendendomi la biro
dalle mani e
appuntando l’ipotesi sul foglietto. «Dubito che i
figli si trovino al Campo,
però, altrimenti Chirone li avrebbe di sicuro
avvertiti.»
Annuii
in
silenzio: non era una brutta deduzione, ma presentava qualche lacuna.
«Altrimenti…»
Provai a pensare a una qualche peculiarità posseduta da mia
madre, senza successo.
«…Uffa, non lo so.»
Mi
lasciai sfuggire uno sbuffo di frustrazione portandomi le mani ai
capelli.
Avevo sempre odiato il dover tirare a indovinare, specialmente per
rispondere a
quesiti dei quali non si conoscerà mai la risposta certa.
Almeno non in tempi
brevi.
La
testa
di Angelique fece capolino dalla porta che collegava la cucina al
corridoio.
«Si
è
fatto tardi ragazzi… Non andate a dormire?»
Guardando l’orologio in stile
barocco attaccato alla parete compresi che non aveva tutti i torti,
erano già le
undici e mezza.
«Sì,
adesso andiamo… Mi spiace che ti sia persa Milford di sera,
è un posto molto
carino» disse infine Emile, rivolgendosi a me. Avevo
l’impressione che nelle
sue parole ci fosse una frase come “A
meno
che tu non voglia uscire adesso con me” lasciata
sottintesa.
…Ok,
stavo iniziando a perdere la concentrazione e fare pensieri stupidi.
Probabilmente l’emozione di rientrare a casa, conoscere la
madre di Emile e scoprire
la profezia erano davvero troppe cose da sostenere tutte in una
giornata, per
me.
«Scusi
il
disturbo, andiamo subito a dormire…» Mi alzai
dalla sedia, seguendo Emile verso
la sua camera.
Oh
no,
stavo dimenticando che avrei dovuto dormire da lui, invece che nella
stanza
degli ospiti!
«Ehi…
Sul
serio, vai in camera tua. A me non dà fastidio dormire tra i
quadri!»
Lui
rise
piano.
«Dici
così perché non hai visto la camera…
Sembra un campo di battaglia!»
Mi
sentivo a disagio a rubargli la stanza a quel modo.
«Dai,
non
posso sfrattarti…»
Un
sorriso malizioso gli illuminò il volto.
«Se
vuoi
dormire con me non devi far altro che chiedere.»
In
quel
momento, sul mio viso passarono tutte le sfumature più o
meno violente del
rosso. Soprattutto perché avevo preso davvero in
considerazione l’idea, per un
attimo.
«Scemo…»
riuscii solo a dire con un filo di voce, spintonandolo in modo giocoso.
Emile
tornò a ridere e mi attirò tra le sue braccia. Oh
dèi, il suo profumo era così
inebriante…
Lo
sentii
sospirare tra i miei capelli mentre me li carezzava.
«Emile…»
«Devi
essere molto stanca…» La sua voce era un sussurro
dolcissimo.
Non
risposi, abbracciandolo e lasciandomi cullare dalle sue braccia.
«…Forse
è
meglio andare a dormire, domani sarà una lunga giornata.
Buonanotte» disse
infine, bisbigliano al mio orecchio e baciandomi il collo. A contatto
con le
sue labbra, un brivido piacevole mi attraversò il corpo e
dovetti fare molta
fatica per non darlo a vedere.
«B-buonanotte.»
Il
sorriso che mi rivolse andando via mi lasciò un
po’ contraddetta. Ero convinta
che mi avrebbe baciata, o comunque non pensavo che mi avrebbe lasciata
da sola
davanti alla sua camera con un’espressione
tutt’altro che intelligente.
Entrai
nella stanza scuotendo la testa, ancora più confusa di prima.
Certo,
ora
che era nel suo “territorio” si sentiva molto
più sicuro… Bel modo, però, di
darmi la buonanotte! Altroché, adesso ero più
sveglia di prima, sarebbe stata
dura dormire…
Mi
tolsi
i vestiti con calma, cercando di rallentare i battiti del cuore.
La
verità
era che me la stavo prendendo con lui per non arrabbiarmi con me
stessa. Per
una volta avrei voluto lasciare i miei freni inibitori e prendere
l’iniziativa.
Misi
la
vestaglia e mi accoccolai sotto le coperte del letto di Emile. Le
lenzuola
erano pulite, quindi l’unico profumo che si sentiva era
quello di bucato, ma mi
ritrovai a immaginare Emile dormire in quello stesso letto.
Cos’aveva visto
quella stanza? I suoi momenti felici, quelli tristi… La
gioia dei successi, e
l’avvilimento per gli insuccessi…
Posai
uno
sguardo pigro sugli oggetti nelle mensole e alcune medaglie brillarono
nella
penombra.
Avrei
voluto conoscerlo di più, sapere tutto di lui.
«Se
c’è
un dio che mi sta ascoltando… Per favore, fa che questa
storia finisca bene.
Che io possa riabbracciare Eleuse, mamma… E che possa alla
fine stare con lui.»
Dalla
finestra, mi rispose un debole frullio di ali.
Nonostante
le previsioni, avevo dormito molto bene quella notte.
Durante
la colazione Emile si comportò come al solito, lanciandomi
solo di tanto in
tanto qualche occhiata furtiva che mi fece realizzare che non mi ero
sognata le
avances della sera precedente.
«Tra
quanto sei pronta?» mi chiese con un sorriso.
«Cinque
minuti e possiamo andare.»
In
realtà
avrei voluto metterci molto più di cinque minuti, per
truccarmi per bene e fare
un’acconciatura elaborata, ma dovevo ricordarmi che quello
non era un
appuntamento! Assolutamente, stavamo andando a cercare informazioni su
Eleuse,
tutto questo non aveva NULLA a che fare con me ed Emile…
Rivolsi
i
miei pensieri alla mia amica e Custode per tranquillizzarmi e decidermi
ad infilare
il vestito grigio e nero coi volant. Ok, l’uscita non aveva a
che fare con me
ed Emile, però mettere un bel completo non avrebbe guastato.
Quando
uscii dalla camera, Emile mi guardò in un tal modo che mi
fece avvampare.
«Eh,
f-forse è meglio che mi cambi…» dissi
imbarazzata, facendo per rientrare nella
stanza.
«Oh
no!
Cioè, stai bene così…»
Angelique
comparve dal bagno con una spazzola in mano.
«Che
bel
vestito! Però, non credi che avrai un po’ di
freddo?»
«…Freddo?»
Ci saranno stati almeno una trentina di gradi fuori, come avrei potuto
aver
freddo? «Beh, in macchina starò bene…
Immagino.»
Emile
e
sua madre si scambiarono un’occhiata che giudicai poco
rassicurante e
scoppiarono a ridere.
«Macchina?
…Emile, non le hai detto che andrete in moto?»
Impallidii.
«Ops,
dev’essermi sfuggito… Sì, andremo in
moto!» Mise una mano dietro alla mia
schiena e mi portò in garage dopo aver salutato la madre,
continuando a
parlare. «…Cos’è
quell’espressione? Andrò pianissimo!»
Anche
ad
una profana come me la moto, di un magnifico nero opaco, appariva
stupenda. Era
uno di quei modelli sportivi, dove il secondo passeggero deve
avvinghiarsi al
conducente se non vuole venire sbalzato via.
“Basta
che non corri troppo e non la
riduci come l’altra volta!”
Chissà
perché, le parole di Angelique continuavano a tornarmi in
mente mentre mettevo
il casco, con aria assente.
«Non
è
che avete delle biciclette…?» chiesi, in un
ultimo, disperato tentativo di non
morire prima di aver riabbracciato mamma ed Eleuse.
Emile
si
limitò a ridere accendendo la moto, che rispose con un rombo.
«Salta
su!»
Eseguii
l’ordine sospirando e chiusi gli occhi.
---
Appena
posai il piede sul marciapiede, ringraziai tutte le divinità
a me conosciute,
senza badare al futuro viaggio di ritorno. In realtà Emile
non aveva guidato in
modo così spericolato, ma l’ultimo sorpasso a
serpentina che aveva compiuto per
superare una macchina col semaforo rosso mi aveva fatto salire il cuore
in
gola.
«Scusa…
Tutto bene?» s’informò dopo aver notato
la mia espressione turbata.
«Sì,
ho
solo un po’ caldo…» biascicai togliendo
il casco e cercando di tirarmi giù la
gonna del vestito con fare disinvolto.
Altro
che
freddo, con quell’abito avevo avuto non pochi problemi a
tenermi stretta ad
Emile sulla moto ed evitare di scoprire gran parte delle cosce!
Maledetta
quella volta che avevo deciso di lasciare gli shorts
nell’eastpack a casa Noir…
Tornai
a
concentrarmi sull’obiettivo della missione: parlare con il
fantomatico Kimon
Dreamwalker.
Anticipai
Emile, che si stava assicurando di rendere la moto immune da furti,
andando a
controllare i cognomi dei citofoni. Guardai più volte, ma
non mi parve di
scorgere alcun Dreamwalker.
«Emile?«
lo chiamai «…Ehm, ho un problema. Puoi aiutarmi a
cercare il citofono?»
Lui
aggrottò le sopracciglia in riposta, osservando attentamente
tutte le
targhette. Dovette ripassarle un paio di volte, ma infine
esultò mostrandomi
quella che stavamo cercando.
«Eccolo
qui!» disse, indicando una targhetta diversa dalle altre, con
il nome inciso in
bianco che spiccava su di uno sfondo blu notte. Come avevo fatto a non
vederla
prima? Eppure, adesso che Emile me l’aveva fatta notare, mi
sembrava talmente
evidente che sarebbe mancata solo un’insegna al neon per
metterla più in vista.
«Deve
trattarsi della Foschia…» lo sentii borbottare,
assorto. Ricordavo che me ne
aveva parlato una volta, la Foschia era quella che mascherava i mostri
e tutto
ciò che di particolare riguardava il mondo greco agli occhi
degli umani, e
qualche volta poteva ingannare anche i semidèi.
«…Dunque abbiamo decisamente a
che fare con qualcuno che non appartiene al mondo degli esseri
umani» concluse
in tono grave.
Speravo
solo che questo non significasse guai in arrivo. Insomma,
“non umano” non
voleva per forza dire “nemico”… Giusto?
Quando
mi
decisi a premere il pulsante, il portone si aprì da solo. Un
chiaro invito ad
entrare.
Varcammo
l’ingresso un po’ circospetti e non ebbi dubbi,
vedendo che l’ascensore era al
piano ed aperto. Sapevo perfettamente che era lì per noi;
infatti, una volta
entrati, le porte si chiusero portandoci all’ultimo piano. Mi
inquietò constatare
che le cifre dell’ascensore ‒quelle che segnano il piano
corrente‒ sembravano
come impazzite, fino a quando non ci fermammo e formarono
“000”. Come se fosse
possibile essere al piano terra, dopo tutto quel tempo trascorso
salendo…!
Uscii,
seguita da Emile, ed esitai un poco davanti alla porta aperta che ci
stava
aspettando. Non aveva niente di particolare, non sembrava altro che una
banalissima porta d’ingresso di un appartamento, ma il
profumo d’incenso che ne
fuoriusciva era talmente denso da essere palpabile e aveva qualcosa di
terribilmente sbagliato.
Emile
mi
prese la mano, guardandomi intensamente per infondermi coraggio. Se non
ci
fosse stato lui sarei tornata indietro con un nulla di fatto.
Dentro
l’appartamento, tutto pareva avvolto da quel forte odore
d’incenso e una lieve
melodia ci guidò fino a una stanza adibita a studio.
Lentamente, misi a fuoco
la figura di un uomo seduto dietro alla scrivania su una poltrona
dall’aspetto
molto comodo.
«…Buongiorno,
vi stavo aspettando» disse una voce bassa e armoniosa.
Per
qualche secondo mi dimenticai di respirare: era una creatura magnifica.
Aveva
un viso dai lineamenti decisi ma al contempo dolci, gli occhi allungati
e
orientaleggianti erano di una strana sfumatura viola mentre i capelli,
castano scuro,
gli ricadevano delicatamente in riccioli sulla fronte, accarezzando le
spalle.
Emile
prese la parola, riscuotendomi dallo stato di trance in cui ero caduta.
«Se
ci
stava aspettando, di certo saprà anche perché
siamo venuti.» Il suo tono era
duro, forse perché a dispetto di tutto anche lui si sentiva
intimidito da
quell’uomo.
La
risata
cristallina di Kimon riempì la stanza, facendo risuonare
nell’aria quel suono
meraviglioso.
«Ma
certo! Sedetevi pure, intanto direi di cominciare dalle
presentazioni.»
Presi
posto su una delle due poltrone davanti alla scrivania, imitata da un
Emile
alquanto riluttante. Non riuscivo a capire il perché della
sua tensione,
l’incenso era così rilassante e la bellezza di
quell’uomo instillava una
tranquillità disarmante. Avrei voluto tanto chiudere gli
occhi e addormentarmi,
lasciando tutti i problemi alle spalle…
«…Ora
mi
faccio chiamare Kimon Dreamwalker, ma questo voi dovreste
già saperlo» disse
sorridendo. «Avete capito chi sono?»
Aveva
un’espressione divertita mentre scrutava i nostri volti alla
ricerca di una
risposta. Dal canto mio, sarei sprofondata in un sonno profondo se non
fosse
stato ancora una volta per Emile.
«Di
certo
un dio…» sussurrò.
«…Morfeo, forse?» concluse, incerto.
Kimon
sospirò rumorosamente, portandosi una mano alle tempie.
«Possibile
che tutti debbano sempre scambiarmi per mio figlio? Capisco di avere
un’aria
così giovanile, ma…»
«…Ipno?»
provai a rispondere timidamente. Il volto di Kimon si
illuminò e mi rivolse un
sorriso stupendo.
Dunque
era il dio del Sonno!
«Perfettamente,
dolce Cithara. Onorato di poterti finalmente incontrare»
fece, mimando un
inchino con la mano.
Emile
si
agitò nella poltrona accanto alla mia.
«…Bene
Ipno. Piacere di fare la sua conoscenza» disse stizzito,
guardandomi torvo.
Qual’era il problema?
«Ora
che
ci siamo presentati, è il caso di parlare del
perché siamo qui. Sappiamo che la
Custode Eleuse Oak è venuta a farle visita
approssimativamente una settimana
fa, data dalla quale non abbiamo più sue notizie.»
Il biondo si fermò per
prendere fiato e scrutare la reazione di Kimon, che non fece altro che
continuare a sorridergli con un’espressione indecifrabile sul
volto. Proseguì:
«…Vorremmo
sapere qualcosa riguardo quella visita
e le saremmo grati se potesse illuminarci sul luogo in cui possa
trovarsi
adesso la Custode.» Sembrava costargli fatica rivolgersi a
Kimon in modo
educato.
Il
dio
annuì, aggiustandosi meglio sulla poltrona.
«Oh
sì,
Eleuse è passata di qui. Le era stata affidata una missione
importante,
riguardo le sparizioni di alcune donne… È stata
lei a parlarmi di te, Cithara»
disse, lanciandomi un’occhiata amabile. Emile si stava
alzando per ribattere,
ma Kimon lo azzittì. «…Naturalmente mi
ha anche parlato di te, Emile Noir.»
Il
ragazzo si bloccò e tornò lentamente ad
accomodarsi sulla poltrona, senza
staccare gli occhi dal dio. Su di lui pareva avere un effetto contrario
a
quello rilassante che aveva con me.
Iniziai
a
lasciarmi contagiare dal nervosismo di Emile e presi a giocare col
braccialetto
di legno che avevo al polso, per stemperare la tensione. Mi era stato
dato da
Chirone prima di partire per la missione, non si trattava di un
semplice
bracciale: una volta sganciata la catenella, questa diventava la corda
dell’arco
mentre la parte in legno si ingrandiva fino a diventarne
l’impugnatura. I sei
pendagli a forma di piuma attaccati al bracciale, altro non erano che
sei
frecce. Anche Emile aveva ricevuto un’arma simile: il
ciondolo a forma di croce
appeso alla sua collana era in realtà una spada.
Ringraziai
Chirone di aver preso queste precauzioni perché, nonostante
ci fosse la Foschia
a proteggerci da sguardi indiscreti, avrei voluto evitare di dovermi
portare in
giro un arco per tutto il tempo della mia permanenza al di fuori dal
Campo.
«Eleuse
aveva scoperto che tutte le donne erano state portate negli Inferi, per
questo
era venuta a chiedermi aiuto. Non credo ne siate a conoscenza ma, anche
se
passo la maggior parte del mio tempo nel mondo degli umani, ho delle
stanze
nella residenza di Ade che mi spettano di diritto.»
Presa
tra
lo stupore e l’incredulità, notai con la coda
dell’occhio lo sguardo scettico
di Emile, che pareva dire “Non vedo
come
questo possa c’entrare con Eleuse”.
Kimon
sbuffò, spazientito.
«…Per
dirla alla vostra maniera, posso teletrasportarmi direttamente nelle
mie stanze
tramite un portale, senza dover passare dall’entrata
principale degli Inferi.»
Ora aveva catturato del tutto anche l’attenzione di Emile.
«Allora,
Eleuse le ha chiesto un passaggio per poter indagare da
vicino» conclusi io,
abbassando lo sguardo.
«Esattamente.
Purtroppo non so cos’altro dire, se non è riuscita
a contattarvi devo
presupporre che sia ancora negli Inferi, perché credo sia
difficile utilizzare
l’Iride-phone in un posto così buio»
disse Kimon, non senza una nota di
sarcasmo.
Aveva
ragione, anche se Eleuse avesse avuto la dracma d’oro con cui
pagare la dea
messaggera Iride, dubitavo che avesse trovato il modo di creare un
arcobaleno
per riuscire a contattare Chirone.
«…Sarebbe
in grado di portare anche noi nelle sue stanze?» Ignorai
l’occhiata preoccupata
di Emile. Mi stavo riprendendo dall’apatia in cui ero caduta
da quando avevo
messo piede in quella stanza e non sopportavo l’idea di dover
aspettare ancora
per aiutare Eleuse. Proprio adesso che sapevamo anche dove si trovava!
Kimon
mi
osservò pensieroso, passandosi una mano tra i capelli.
«Vedete,
il problema è che adesso Ade si accorgerebbe
dell’entrata di intrusi… Ho accompagnato
la Custode in una notte di luna nuova, per questo è potuta
passare inosservata.»
«Dovremmo
aspettare la prossima luna nuova?» Impossibile, si trattava
di quasi tre
settimane!
Stavo
già
disperando, quando la voce armoniosa del dio riprese a parlare.
«In
realtà basterebbe anche solo la luna piena. Durante le fasi
di novilunio e
plenilunio si crea come una sorta di velo che annebbia le percezioni di
Ade… Si
accorgerebbe che ho usato il mio potere per entrare nelle mie stanze,
ma non
sarebbe in grado di dire se effettivamente sono io ad essere passato o
quante
persone hanno utilizzato il portale.»
Mi
voltai
verso Emile, che nel frattempo era rimasto in silenzio a osservare
Kimon.
«Manca
una
settimana» disse il biondo, con le braccia conserte. Sembrava
non aver
accantonato del tutto la sua antipatia per lui.
Il
dio
sorrise e annuì, guardandomi.
«Non
dovrei aiutarvi, d’altronde non è mio interesse
quello che sta accadendo… Ma se
a chiedermelo è una bella fanciulla non posso di certo
tirarmi indietro.»
Sorrisi
a
mia volta, un po’ imbarazzata, cercando di non far caso al
gesto di stizza di
Emile che aveva voltato la testa dalla parte opposta.
«Se
riuscirete a tornare qui tra una settimana vi farò arrivare
nel castello di
Ade.»
«Bene,
alla prossima.» Emile si alzò senza tanti
convenevoli e imboccò velocemente il
corridoio, lasciandomi sola con Kimon. Mi affrettai a seguirlo,
ringraziando il
dio della sua gentilezza con un cenno della testa.
«…Quel
ragazzo è piuttosto divertente!» lo sentii
sussurrare.
Voltai
la
testa, pensando di aver capito male.
«…Prego?»
Il
dio
rise sommessamente e si alzò dalla poltrona.
«Perdonami,
non sto ridendo di lui. Trovo solo che sia dolce il modo in cui cerca
di
attirare la tua attenzione.»
Mi diede un
buffetto sulla testa mentre ancora lo stavo fissando un po’
meravigliata. «Fossi
in te gli farei capire che tieni a lui, o la sua parte inquieta
potrebbe
prendere il sopravvento su quella gentile.»
«Ah…
Ehm,
lo farò, grazie.» Non sapevo davvero cosa
rispondere, quindi mi limitai a un
altro sorriso e raggiunsi con una corsa Emile, che mi aspettava davanti
all’ascensore.
«…Almeno
sappiamo dov’è finita Eleuse»
disse cupo, per poi chiudersi in un silenzio tombale.
Tormentare
il braccialetto/arco non servì affatto ad alleviare la
tensione che si era
creata dentro l’ascensore, Emile sembrava terribilmente di
cattivo umore e non
riusciva a venirmi in mente niente da dire per rallegrare
l’atmosfera.
«Sono
sicura che sia lei, sia mamma stiano bene… E poi, una
settimana passa in fretta,
giusto?» Aspettai un po’, ma ricevendo solo un
silenzio in risposta, continuai.
«…È un vera fortuna che Kimon abbia
acconsentito a darci una mano per
raggiungerle.»
Il
ragazzo sospirò rumorosamente con insofferenza.
«Sì,
una
vera fortuna. Peccato che sia stato in grado solo di portare Eleuse
negli
Inferi e non di farla tornare indietro… Non mi fido di
quello.»
Adesso
ero io ad essere infastidita.
«Emile,
sei troppo sospettoso. Dagli almeno una chance, a me è
sembrato sincero quando
ha detto di volerci aiutare!»
Speravo
di non aver alzato troppo la voce, ma ero stanca della sua diffidenza.
Era
sempre scontroso con Raven, che avevo invece scoperto essere una brava
persona,
e anche Luke non mi era sembrato così male. Iniziavo a
pensare che fosse lui ad
avere problemi di relazione con gli altri.
L’occhiata
ferita che mi rivolse fu come una pugnalata al cuore.
«Certo…
Ho notato come ti abbia fatto una buona impressione, non vi staccavate
gli
occhi di dosso!»
«…Cosa?!»
Con
un
“dindon”, le porte dell’ascensore si
aprirono e mi trovai a seguire il ragazzo
in silenzio, un tumulto crescente nel mio cuore.
«Emile.
Hai frainteso tutto.»
Lui
mi
degnò appena di un’occhiata, tornando a voltarmi
le spalle.
«Non
importa, era affascinante quel dio, in fondo.»
Fu
molto
difficile trattenermi dal tirargli uno scappellotto e rimanere calma
per
tentare di farlo ragionare. Si era messo a trafficare col bloccadisco
della
moto, dopo avermi dato i caschi in custodia.
«Ehi…
Non
sarai per caso geloso?»
Alzò
la
testa di scatto, andando a sbattere contro il manubrio.
«Ouch…C-cosa?
Cosa te lo fa pensare?!» balbettò mentre si
massaggiava il capo. Soffocai le
risate e gli sorrisi: aveva ragione Kimon, Emile era adorabile.
«Beh,
se
lo fossi, sappi che non ne avresti motivo» dissi, mentre gli
porgevo il casco
con un’occhiata colma di affetto. Lui arrossì
abbassando lo sguardo e mise il
casco, forse per nascondere l’imbarazzo.
«…Okay.»
Indossai
il casco anch’io, preparandomi psicologicamente a un nuovo
viaggio travagliato
in moto, quando notai dall’altro lato della strada
un’anziana signora
passeggiare col suo cane. La scena di per sé non sarebbe
stata strana, se non
fosse che la signora era proprio quella che il giorno precedente stava
guardando me ed Emile prima che entrassimo a casa sua, e che il cane
‒un chow
chow‒ ci stava fissando.
Ora
che
lo osservavo più attentamente, quel cane mi sembrava avere
qualcosa di strano…
Avevo sempre pensato che i chow chow somigliassero a dei leoni in
miniatura, ma
quello più che in miniatura sembrava un chow chow troppo
cresciuto. Anzi, più
lo guardavo e più mi convincevo che pareva un leone vero e
avevo l’impressione
che stesse crescendo a vista d’occhio sotto il mio sguardo
attonito.
Alzai
la
voce per farmi sentire sopra al rumore del motore della moto, appena
accesa.
«…Emile?
Non ti sembra che quel cane sia un po’ strano?»
Doveva essere la mia
immaginazione, gli occhi del chow chow erano addirittura due dardi
fiammeggianti!
«…Oh,
merda!»
Il
cane (che
ormai si era trasformato del tutto in un leone fuori misura)
scattò nella
nostra direzione con un ringhio bestiale e io feci appena in tempo ad
aggrapparmi
ad Emile, che partì a tutto gas con un rombo assordante.
---
Kimon,
alias Ipno:
|
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Capitolo 13 *** Cap. 11 - Capriccio ***
[Drive
it like
you stole it - The Glitch Mobe]
[The
World
Calling - There for Tomorrow]
[Sunrise
-
Norah Jones]
[Due
Respiri -
Chiara]
Avevo
dimenticato di tirare giù la visiera e, a contatto col
vento, gli occhi mi si
stavano appannando di lacrime.
«Emile!
Cosa diamine è quel coso che ci sta inseguendo?!»
La
moto
aveva di certo superato gli 80km/h, cosa non molto saggia in un centro
cittadino, eppure la belva continuava a tenerci testa senza perdere
terreno.
«Non
ne
sono sicuro... Ma ho paura che quello sia il Leone di Nemea!»
urlò Emile per
sovrastare il rumore della moto.
«Beh…
Qualunque cosa sia, non pare per niente amichevole!»
Certo,
l’unico posto tranquillo per i semidèi era il
Campo Mezzosangue, dove i mostri
mitologici attratti dal nostro sangue divino non potevano entrare...
Non
essendo ancora mai stata importunata da questi (tralasciando il
rapimento di
mia madre da parte di uno Stinfalide) non mi ero resa conto di quanto
potesse
essere pericoloso per un semidio lasciare il Campo.
«…Tieniti
forte, Thara!» Mi strinsi di più a lui mentre
passava col rosso, evitando per
un pelo un camioncino proveniente da destra.
«Spero
che non ti tolgano la patente…» Non potei fare a
meno di pensare anche alle
eventuali multe che sua madre si sarebbe ritrovata a pagare.
A
dispetto della situazione assurda in cui ci trovavamo, scoppiammo a
ridere
entrambi.
«Speriamo
piuttosto di arrivare vivi a casa…»
commentò lui, scartando un’altra macchina.
Grazie
alla sua guida spericolata, finalmente il Leone pareva aver rallentato
l’andatura per non finire la propria corsa addosso a un
veicolo.
«Non
possiamo continuare così per sempre!» disse Emile
imprecando.
Ci
eravamo allontanati dal centro cittadino, e adesso la moto sfrecciava
lungo una
larga strada costeggiante un parchetto col campo da calcio. Senza
preavviso
Emile sterzò rapidamente verso il giardino, facendomi
prendere un colpo. Grazie
agli dèi non c’era nessuno nei paraggi: un morto
sulla coscienza era l’ultima
cosa che volevo!
Il
ruggito infuriato del Leone mi fece intuire che non aveva gradito il
nostro
cambio di rotta, gelandomi il sangue nelle vene.
«Benvenuta
al West River Memorial Park, Thara!» fece lui, rallentando
leggermente.
«River?
Dove sarebbe il fiu…?» La domanda mi
morì in gola quando vidi davanti a noi il
fiume avvicinarsi a velocità vertiginosa.
Speravo
che Emile sapesse cosa stava facendo, perché avevo la
maledetta impressione che
saremmo volati dritti dentro l’acqua se non avesse frenato o
sterzato in fretta.
Forse intuendo i miei pensieri, il ragazzo virò e prese a
fiancheggiare il
fiume.
Feci
in
tempo a chiedermi cosa fosse quell’ombra scura che si stava
avvicinando da destra
prima di realizzare che il Leone ci era piombato addosso, facendo
perdere il
controllo della moto ad Emile.
Urlai
con
gli occhi sgranati dal terrore mentre volavo al rallentatore verso il
fiume,
finché non entrai a contatto con l’acqua gelida e
tutto divenne buio.
Dopo
essermi ripresa dallo shock iniziale, trafficai con la cinghia del
casco per
non morire annegata. L’acqua aveva cominciato a riempirlo e
non avevo più aria
da respirare.
Appena
lo
tolsi, una mano dalla stretta sicura mi prese per il braccio, tirandomi
in
superficie a forza.
«Thara!
Stai bene?» Emile era bagnato fradicio, con la spada di
Chirone in mano e
un’espressione preoccupata sul volto. Lì per
lì mi chiesi se era più ansioso
per lo scontro col Leone che si sarebbe svolto di lì a poco
o per la sorte
della moto, abbandonata al suo destino verso i cespugli del campo.
«Più
o
meno…» annuii con poca convinzione, tentando di
riprendere fiato.
Il
ruggito del Leone interruppe il nostro discorso e impallidii nel
realizzare
quanto grande fosse. Sarà stato alto almeno tre metri, con
una fila di denti aguzzi
come pugnali, una coda fiammeggiante e uno sguardo decisamente poco
cordiale.
Ruggì
di
nuovo, avvicinandosi alla nostra postazione, e questa volta Emile non
si fece
intimidire, partendo all’attacco. Il Leone scartò
i primi fendenti con
facilità, continuando ad emettere un roco borbottio dalla
gola e menando
artigliate.
Mentre
mi
apprestavo a riportare alla forma originale di arco il mio
braccialetto, pensai
fosse davvero una fortuna che l’acqua dov’eravamo
caduti fosse così bassa
(anche se arrivava alla cinta, rallentando un po’ i
movimenti) e la corrente
non fosse abbastanza forte da trascinarci con sé.
«Hyaaa!!!»
La spada andò finalmente a cozzare con la pelle del mostro,
producendo però un
clangore non molto rassicurante. Giusto, il Leone di Nemea era famoso
per la
sua pelle impenetrabile.
Emile
sbuffò frustrato, parando una zampata e
indietreggiando.
Cercai
di
uscire dall’acqua mentre pensavo a una strategia di attacco
per non sprecare le
sei frecce contro la pelle adamantina del mostro, quando realizzai che
il
gorgoglio della sua gola si era fatto più insistente.
Alzai
lo
sguardo preoccupata e mi paralizzai nel sentire l’urlo di
Emile. Il Leone aveva
appena sputato una fiammata nella sua direzione, bruciandogli parte
della
camicia.
«…Ma
il
Leone di Nemea sparava fiamme?!»
«Non
mi
sembrava!» Eppure non c’era dubbio, quello doveva
essere il Leone di Nemea.
Il
ruggito fu seguito da un’altra fiammata ed Emile fu costretto
ad allontanarsi
verso l’acqua per cercare riparo. Io ero già
uscita dal fiume e continuavo a
guardarmi attorno alla ricerca di una soluzione.
Il
mostro
tentò un paio di agguati al ragazzo, costringendomi a usare
tre frecce per
deviare la sua attenzione su di me e lasciare ad Emile il tempo di
riprendersi
e tornare a fronteggiare il Leone.
«Non
credo resisteremo a lungo se non troviamo un’idea»
fece lui. Aveva ragione, mi
doleva ammetterlo ma sembravamo spacciati!
Poi
ricordai. Ercole lo aveva eliminato strangolandolo con la sua
innumerevole
forza, che noi non possedevamo, ma l’unica parte vulnerabile
del corpo del
mostro rimaneva sempre quella.
«…
Emile,
il punto debole è la bocca, mira lì!»
Non
potevo essere certa che avrebbe funzionato (d’altronde il
vero Leone di Nemea
non avrebbe dovuto lanciare fiamme, quindi chi mi assicurava che il suo
punto
debole fosse lo stesso dell’originale?) ma tanto valeva
provare.
“O
la va, o la spacca.”
«…È
una
parola…!» rispose lui, parando al meglio le
artigliate.
Era
madido di sudore e immaginavo avesse paura di avvicinarsi troppo
all’essere per
la fiammata di prima. Il braccio leso doveva ancora bruciargli.
Quando
il
Leone ruggì nuovamente, tirai una freccia verso le fauci
aperte ma il mostro la
deviò coi denti e mi rivolse uno sguardo carico di odio.
Ebbi l’inquietante
sensazione che avesse capito il mio obiettivo e che non avrebbe
più aperto la
bocca senza motivo.
Cosa
potevo fare per indurlo a mostrare il suo punto
vulnerabile…? Mi restavano due
frecce (non volevo arrischiarmi a raccogliere quelle cadute, troppo
vicine alla
belva) e sembravano pressoché inutili contro la bocca
serrata del Leone.
«…
Provo
ad arrampicarmi sulla sua groppa!» mi urlò Emile.
«Ok,
ma…»
Già, ma a cosa poteva servire se non apriva le fauci?
Continuai
a guardarmi attorno fino a quando lo sguardo non mi cadde sul tubo di
plastica
usato per annaffiare le piante del giardino. Forse…
Tornai
a
voltarmi dopo aver sentito un ruggito di protesta: Emile era
inaspettatamente
riuscito a saltare sul Leone! Stava tentando di rimanere aggrappato
alla sua
criniera mentre questo si scrollava senza sosta.
Trascinai
l’irrigatore il più vicino possibile al Leone
infuriato, correndo poi ad aprire
la valvola dell’acqua.
«Emile?
Tieniti forte e stai pronto con la spada!»
«Cosa…?»
Presi
il
tubo tra le mani e lo alzai verso il mostro. Il getto d’acqua
fu talmente
violento da travolgerlo del tutto, tanto che ebbi paura che Emile
cadesse dalla
sua groppa.
Il
Leone
cominciò a ruggire e cercò di vomitare qualche
lingua di fuoco, subito spenta
dall’acqua, allora tornò a divincolarsi dalla
stretta di Emile.
«Maledetto…
E stai un po’ fermo!» sentii urlare il ragazzo.
Tra
gli
spruzzi, vidi baluginare la spada alla ricerca della bocca del Leone.
«GAAAAAAAHHHH!!!»
…Doveva averla appena trovata.
Buttai
a
terra il tubo per tornare a imbracciare l’arco. Incoccai
entrambe le frecce,
tirandole verso le fauci spalancate del Leone, l’elsa della
spada appena visibile
che spuntava dalla gola tra i fiotti di sangue.
Con
un
ultimo ruggito, l’animale si scrollò nuovamente in
un grido di dolore,
lanciando Emile nel fiume prima di scomparire in una nuvola di fumo.
«Emile!!!»
urlai, correndo verso il punto in cui era caduto.
“E
se fosse caduto male? E se avesse
battuto la testa su un sasso sul letto del fiume?”
La
spinta era stata piuttosto violenta… Ma perché
diamine non riaffiorava?!
Le
lacrime iniziavano già a salirmi agli occhi quando
finalmente la sua testa
bionda apparve dall’acqua.
Gli
saltai letteralmente addosso, senza lasciargli il tempo di riprendere
fiato e
abbracciandolo con foga.
«…Idiota!!!
Mi hai fatto prendere un colpo! …Avevo paura di averti
ammazzato!»
Lo
sentii
ridere accanto al mio orecchio.
«In
effetti l’idea dell’irrigatore è stata
un po’ azzardata e rischiosa…. Ma ha
funzionato.»
Non
ne
volevo sapere di staccarmi dal suo abbraccio per non fargli vedere le
lacrime
sul mio viso, così lui iniziò ad accarezzarmi i
capelli bagnati fino a quando
non ebbi ripreso un po’ di contegno.
«…Sei
stata stupenda. Ti rendi conto che siamo riusciti a sconfiggere un
mostro
mitologico?» In effetti, pareva molto più
importante di vincere una Caccia alla
Bandiera, forse anche perché c’era stata in ballo
la nostra vita.
Annuii
sorridendo.
«…Siamo
una bella squadra.»
Il
tocco
di Emile si fermò per spostarsi sotto
l’attaccatura dei capelli, sulla nuca,
causandomi un brivido.
«…No,
siamo una bella coppia.» Mi sembrò quasi che il
cuore si fosse fermato.
Sciolsi
l’abbraccio per poterlo guardare negli occhi e capire se
aveva realmente detto
ciò che avevo sentito.
Incontrai
lo sguardo e il sorriso più dolci del mondo,
perché sì, avevo capito bene.
«Thara…
Mi piaci da impazzire.»
Aveva
tentato di dirmelo molte volte e in tanti modi e finalmente ci era
riuscito, ma
soprattutto, finalmente io ero pronta a dare una risposta. Ormai ne ero
sicura,
lo sapevo già la prima volta che mi aveva fatto da
istruttore al tiro con
l’arco, quando le sue braccia avevano cinto le mie. Quando lo
avevo curato e
quando era venuto a proteggermi, nonostante tutto, durante la Caccia. E
ancora,
in camera sua e la sera prima, quando mi aveva dato la buonanotte.
Ero
totalmente innamorata di Emile.
Non
aveva
senso dare una risposta a parole, quindi lasciai i miei soliti freni
inibitori,
decisa a fregarmene di tutto, e lo baciai.
…In
realtà non avevo mai baciato nessuno prima, non ero troppo
sicura della tecnica
da adottare, ma nello stesso momento in cui le mie labbra toccarono
quelle di
Emile capii che non c’era bisogno di farsi tutte quelle
domande.
Ero
con
Emile, tra le sue braccia, consapevole del suo corpo contro il mio e
delle sue mani
calde sul mio bacino. Null’altro mi importava che sentire le
sue labbra avide
sulle mie, forse inesperte ma altrettanto bramose.
Ci
staccammo brevemente per concederci una risata di gioia e lui mi
baciò sulla
punta del naso.
«Sei
la
cosa più bella che mi sia capitata.»
Lo
baciai
ancora sulle labbra, inebriata da questo nuovo tipo di contatto fisico,
prima
di rispondere.
«…Non
dovrei dirlo prima di aver riabbracciato mamma ed Eleuse,
ma… Sono quasi felice
che sia iniziata tutta questa storia, perché mi ha permesso
di incontrarti.»
«Oh
Thara…» Quando posò la fronte sulla mia
chiusi gli occhi, assaporando la sua
voce. «…Finirà tutto bene. Ne sono
certo.»
Strinsi
di più le braccia attorno a lui, nascondendo il viso
nell’incavo del suo collo
per nascondere il
rossore delle guance.
«Grazie
per essere sempre al mio fianco, Emile.»
Mi
abbracciò forte, cullandomi.
Stava
per
sussurrarmi qualcosa all’orecchio, ma un misterioso bagliore
di luce al nostro
fianco attirò la mia attenzione.
«Oh,
ehm…
Capito al momento sbagliato?» Il mezzobusto di Chirone
galleggiava sull’acqua
accanto a noi grazie alla magia dell’Iride-phone.
Io
ed
Emile ci allontanammo quel tanto che bastava per avere
un’aria composta,
rimanendo però mano nella mano.
«No,
no… È
successo qualcosa?» rispose Emile,
più pronto di me.
Il
centauro annuì con aria grave.
«Dovete
subito tornare al Campo, sembra che sia troppo rischioso uscire dalle
sue
barriere protettive. I mostri si sono fatti più forti.
Piuttosto… Stavate
cercando refrigerio dall’afa estiva?» ci chiese con
un sopracciglio alzato. Eravamo
stati così presi dai nostri sentimenti da dimenticarci di
uscire dal fiume,
dovevamo apparire ridicoli ammollo nell’acqua, con i vestiti
e i capelli fradici!
«Abbiamo
incontrato un mostro e…»
«…È
stata
una battaglia un po’ travagliata» conclusi con un
mezzo sorriso.
«Capisco»
disse Chirone, accondiscendente. «A maggior ragione, vi
consiglio di tornare il
più presto possibile. Il permesso di 72 ore vi è
stato revocato, dovete essere
al Campo per stasera al massimo.»
Annuimmo
all’unisono, salutandolo. Non era nemmeno ora di pranzo,
darci un lasso di
tempo così lungo per tornare era stato molto gentile ‒anche
se un po’
sconsiderato per la nostra incolumità‒ da parte sua.
Probabilmente aveva
intuito qualcosa, notando le nostri mani intrecciate.
Una
volta
scomparso Chirone in una nuvola arcobaleno, io ed Emile scoppiammo a
ridere
uscendo dal fiume.
«Sembra
che non vogliano lasciarci in pace!» mormorai tra le lacrime,
aggrappandomi a
lui.
«Però
una
cosa buona c’è… Abbiamo un
po’ di tempo per noi.» Lo disse con la sua voce
provocante e l’espressione maliziosa che mi ricordava il
tempo passato all’infermeria
dopo quel bacio sulla guancia.
«Uhm…
Prima dovrei medicarti la bruciatura» feci, accarezzando il
suo braccio destro.
Il
sorriso si allargò sul suo volto e mi domandai se avessi
forse detto qualcosa
di provocante.
«Hai
ragione… A proposito, ti ho accennato che mamma non
sarà a casa prima delle 17,
oggi?» sussurrò al mio orecchio, abbracciandomi.
Avvampai
all’istante all’idea di noi due da soli a casa sua.
Per un attimo ripensai alle
parole di Martha e l’idea di fermarmi in farmacia non mi
sembrò così assurda,
poi tornai alla realtà.
«Sempre
a
fare lo scemo tu…» dissi, ma lo baciai premendomi
contro di lui.
Emise
un
sospiro.
«Tu
mi
farai morire, credi a me…» Lo guardai senza capire
mentre si allontanava con un
sorriso, per andare a recuperare la moto.
Per
fortuna aveva finito la sua folle corsa contro un cespuglio e non era
ridotta
poi così male, escludendo qualche graffio e un po’
di fango. Non sapevo quanto
l’avesse danneggiata la volta precedente ma di sicuro adesso
se l’era cavata
bene.
Presi
i
caschi abbandonati vicino al fiume e mi accostai ad Emile
«Ora
sì
che avremo freddo…» borbottò, alludendo
agli abiti bagnati. Se avessi saputo
che ci saremmo ridotti in questo stato, avrei optato per i jeans
piuttosto che
rovinare il vestito.
Saltai
in
sella dietro di lui, cingendogli la vita.
«Resisti,
pensa alla doccia calda che faremo a casa!» Mi accorsi troppo
tardi di come la
mia frase potesse sembrare una proposta sexy.
Lo
sentii
ridere dentro il casco, le spalle scosse dal freddo e dalle risa.
«Uh
uh…
Mi piace come idea… Se intendi dire di farla assieme allora
preparati a varcare
l’uscio in meno di cinque minuti!»
Battei
i
pugni sulla sua schiena ma tornai subito ad aggrapparmi a lui quando
mise in
moto.
Inutile
dire quanto il rossore al volto avesse già provveduto ad
innalzare oltre il
necessario la mia temperatura corporea.
---
«Piccola?
… Siamo arrivati.»
Il
dolce
sussurro di Emile e il suo bacio mi svegliarono dallo stato di torpore
in cui
ero caduta.
Dovevo
essermi addormentata quasi subito nel taxi, perché ricordavo
qualche strascico
di discorso e l’abbraccio rassicurante di Emile, dopo
c’era stato soltanto un
calore piacevole.
Scesi
dalla vettura ancora un po’ intontita, mano nella mano con
lui, e ci dirigemmo
verso la foresta alla ricerca dell’ingresso del Campo
Mezzosangue.
«Avrei
voluto avere più tempo…» si
lamentò, attardando il passo alla vista della
barriera e stringendomi più forte a sé.
Riflettendoci,
come ci saremmo dovuti comportare al Campo? Avremmo potuto continuare a
stare vicini
come adesso, ignorando le occhiate sospettose di alcuni nostri
fratelli, o
avremmo dovuto fingere, vivendo una “storia
clandestina”?
Questi
pensieri mi causarono una sensazione spiacevole all’altezza
dello stomaco,
quindi decisi di lasciar cadere il discorso.
«Io
non
potrei desiderarne di più, Chirone è stato
già troppo buono.»
Lo
sguardo che mi lanciò Emile mi fece arrossire.
«…Vuoi
dire che ti sarebbe dispiaciuto stare ancora un po’ a casa
mia? …Nella mia
camera?» Si avvicinò al mio orecchio.
«…Nel mio letto?»
In
realtà
la descrizione più appropriata sarebbe stata “SUL
mio letto”, ma non glielo
feci notare. Nascosi il volto nella sua maglietta e gli assestai uno
schiaffetto
sulla spalla.
«Ovvio
che mi sarebbe piaciuto, scemo...»
Ridacchiò
debolmente, avvicinando il suo viso al mio per cercare le mie labbra.
Era
stata
davvero una bella giornata, non potevo negarlo… Una volta
tornati a casa, avevo
convinto Emile a rendere presentabile la moto mentre mi facevo la
doccia e,
dopo essersi lavato a sua volta, si era arreso all’idea di
farsi medicare la
bruciatura prima di fare alcunché. Poi… Beh, poi
tutto era intriso del profumo
di Emile, delle sue carezze e dei suoi baci. Avevamo passato il
pomeriggio
accoccolati sul suo letto, raccontandoci qualche aneddoto di quando
eravamo
piccoli o del Campo, anche se la maggior parte del tempo eravamo
semplicemente
rimasti abbracciati a baciarci. La verità è che
sarei rimasta volentieri in
quella stanza, dimenticandomi di tutto e di tutti.
«…Piccioncini?»
Una vocina invadente che ben conoscevo mi riportò al
presente, urlando al di là
della barriera.
Sospirai
scrollando la testa, senza avere la forza di lanciare
un’occhiataccia a Martha:
ed ecco che l’ipotesi della “storia
clandestina” e di un po’ di riservatezza
per me ed Emile andava in fumo. Quanto ci sarebbe voluto, prima che
l’intero
Campo venisse a conoscenza della nostra relazione?
Lui
la
salutò piuttosto allegro, trascinandomi per mano verso il
Campo.
«Scusate,
non volevo interrompervi ma il Signor D. si stava
spazientendo…» disse mia
sorella, sinceramente dispiaciuta.
«Figurati…
Ehm, magari la prossima volta però evita di urlare quella
parola ai quattro
venti quando ci vedi…» cercai di obiettare.
«Quale?
“Piccioncini”?» …Senza
risultati.
Emile
rise, abbracciandomi.
«A
me non
dà fastidio! Adesso ho te, perché dovrebbe
importarmi di essere preso in giro
dai miei fratelli?»
Abbassai
lo sguardo imbarazzata quando mi baciò sulla guancia.
«Uff…
È
solo una questione di discrezione.»
Martha
mi
sorrise.
«Oh,
ma
tanto lo avevano capito già tutti che vi piacevate! Non
siete tanto bravi a
dissimulare i vostri sentimenti.»
Ora
era
il mio turno di ridere. Come se Emile avesse mai cercato di
dissimularli!
«…E
va
bene! Adesso però sarà meglio andare da Chirone a
fare rapporto.»
Emile
convenne con me e ci allontanammo assieme, lasciando una Martha felice
come una
pasqua a saltellare vicino alla barriera.
Il
colloquio con il centauro era sembrato un vero e proprio
interrogatorio. Fino
all’ora di cena eravamo rimasti a rispondere alle sue
domande, raccontando per
filo e per segno quello che era successo da quando avevamo messo piede
a New
Haven.
Alla
fine, io ed Emile avevamo deciso di non rivelare il dettaglio della
profezia.
Se Eleuse non l’aveva fatto doveva aver avuto i suoi motivi e
noi ci fidavamo
di lei, quindi perché avremmo dovuto dirlo?
Dopo
aver
mangiato coi miei fratelli (ed essermi sorbita pure le occhiate
maliziose di
Martha e quelle diffidenti di Raven, alleviate solo dal supporto morale
di
Loren), andai direttamente in camera, seguita a distanza da Emile. Mi
ero
appena adagiata sul letto, distrutta dalla giornata faticosa, quando
lui entrò
socchiudendo piano la porta e venendosi a sedere accanto a me.
«È
stato
un giorno pieno di emozioni, eh?» disse in tono affabile,
carezzandomi il viso.
Posai
la
mano sulla sua e gli sorrisi.
«Decisamente!
Diciamo che credo di essere a posto per un bel
po’…» Purtroppo non avevo
dimenticato che trascorsa una settimana, volenti o nolenti, saremmo
dovuti
tornare da Kimon per andare a salvare Eleuse e mamma. In effetti, non
avevamo
detto nemmeno questo particolare a Chirone.
Emile
si
chinò a baciarmi e dopo poco si stese al mio fianco. Il suo
cuore risuonava
come una dolce melodia sotto la mia mano…
«…Come
riuscirai a filartela da questa stanza senza farti notare?»
gli chiesi,
sottovoce.
«Mmm,
pensavo di andarmene di soppiatto una volta che ti fossi
addormentata… Potrei
uscire dalla porta a notte fonda e…» Con le dita
cominciò a mimare dei piccoli
passi sul mio braccio «… Scivolare lungo il
corridoio buio e poi aprire piano
piano il portone…» Le dita si spostarono dolci
verso il mio collo. «…Per
correre verso la mia Casa.» Avvicinò le labbra
dove prima mi aveva accarezzato,
deponendo una serie di baci che mi fecero ridere per il solletico.
«Uh
uh…
Allora spero tu riesca a non farti beccare da quelli di guardia! Non so
quanto
siano indulgenti riguardo le infrazioni del
coprifuoco…»
«Ehi,
ho
detto che me ne andrò solo una volta che ti sarai
addormentata! Ma non credo lo
farai molto presto…»
Sorrisi
stretta nel suo abbraccio, decisa a godere di tutta la
felicità donata da quel
piccolo momento d’intimità.
Relegai
i
problemi in un cassetto della mia mente: avevo ancora a disposizione
sette
giorni da passare senza troppe preoccupazioni. Di certo non potevo
immaginare che
proprio la notte, il periodo della giornata in cui cercavo rifugio per
rilassarmi, sarebbe diventata la mia maggiore fonte di angosce assieme
ai
sogni, in quei sette giorni.
---
Nota
dell’Autrice:
Ciao
a tutti!
Piaciuto il capitolo? :) Insomma... Finalmente questi due poveri
ragazzi si
sono dichiarati!!! XD
Bene
bene, pensavo di condividere con voi qualche disegno partorito durante
la
stesura della storia.
Emile
e Thara ripresi
durante il loro volo al rallentatore verso il fiume. Lo so, nella
storia hanno
i caschi, ma disegnando ho preferito l'effetto swissh dei capelli,
rendono
meglio l'idea!;) Ah... Ecco cosa stava realmente pensando Emile, altro
che
Leone!X'D
Thara
ed Emile dopo
essersi dichiarati... Li trovo così dolci. :')
...E
ancora, un'altro
disegno di loro due. (E' una mia impressione o sembrano più
grandi?)
Remiel
♥
|
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Capitolo 14 *** Cap. 12 - Minuetto ***
[A
Dream Within
A Dream - The Glitch Mob]
[Falling
Inside the Black - Skillet]
[The
Pure and the
Tainted - Blue Stahli]
«…Cithara,
ti senti bene? Sei pallida.»
Raven
aveva smesso di battere il tempo per la banda quando si era accorto che
non
stavo suonando, e mi si era avvicinato con aria preoccupata.
«Scusa,
mi gira un po’ la testa… Ma sto bene.»
Non
era
affatto vero, stavo da schifo. La mia occhiata apatica dovette
allarmarlo, perché
mi mise una mano sulla fronte per controllare se avessi la febbre.
«Non
sembri calda ma… Senti, lascia perdere le prove per oggi e
vai a riposare, ok?»
Annuii
senza obiettare, misi nella custodia il violino e lasciai la stanza
dopo aver
salutato con un cenno i miei fratelli.
Il
caldo
vento estivo mi investì una volta fuori
dall’edificio, facendomi desiderare una
bella rinfrescata sotto la doccia.
Cosa
mi
stava succedendo?
Erano
almeno tre notti che non riuscivo a dormire decentemente, tutti i miei
sogni
sembravano popolati da incubi che al risveglio mi lasciavano una
sensazione
orrenda. Non riuscivo a ricordare i dettagli e, anzi, per la maggior
parte
delle volte si trattava solo di immagini molto confuse, ma sentivo
l’inspiegabile urgenza di provare a tenerli a mente. Avevo
tentato con un
sonnifero naturale a base di valeriana, senza nessun risultato, e la
tensione
di tutte quelle notti insonni si stava facendo sentire.
…Stavo
impazzendo.
Sospirai
rumorosamente, imboccando il corridoio verso la mia stanza. Quando ero
entrata
nella Casa numero sette? Avevo addirittura fatto le scale senza
accorgermene…!
Posai
lo
strumento sopra la scrivania, accanto al libro sui mostri mitologici
preso in
prestito da Loren e, quando lo sguardo mi cadde sulla pagina aperta sul
Leone
di Nemea, aggrottai le sopracciglia. Emile aveva ragione, sembrava che
le
fiammate sparate dal felino non fossero previste, visto che non erano
menzionate in nessuno scritto.
Mi
sedetti sul letto con prudenza, per via del giramento di testa, e
aspettai un
poco prima di coricarmi.
Avevo
il
terrore di rivivere ancora quei sogni senza senso o
di scoprire che non sarei più riuscita a
dormire serenamente. Era una paura stupida, lo confesso, eppure era
più forte
di me: cadere nel panico per una situazione sulla quale non ho il
controllo fa
parte del mio essere.
Provai
a
chiudere gli occhi e ignorare la luce che filtrava dalle tende,
inspirando
profondamente.
Il
mio
ultimo pensiero cosciente fu per Emile, il primo (per ovvi motivi) ad
accorgersi del mio indebolimento di quei giorni. Era stato tutto
così
repentino, e pensare che mancava poco a quando saremmo dovuti andare da
Kimon!
Non era davvero il momento di abbandonarsi alla stanchezza…
Il
sonno
arrivò all’improvviso e tutto divenne buio.
L’aria
aveva qualcosa di stantio, così
come la stanza incavata nella roccia, pregna di umidità, e
la luce debole delle
candele che tremolava, minacciando di spegnersi da un momento
all’altro.
Avanzai
di qualche passo nell’oscurità,
incerta, con le mani dritte davanti a me, finché non
incontrai la fredda
superficie della pietra. “Dove sono…?”
Un
rantolio alle mie spalle mi fece
rabbrividire e mi voltai di scatto. Adagiate per terra
c’erano delle figure
femminili; quelle di cui riuscivo a scorgere il volto sembravano
piuttosto
sofferenti.
Mi
avvicinai per osservarle meglio e
notai che i polsi e le caviglie delle donne erano ancorate al muro
tramite
delle catene che emanavano un bagliore sinistro. Non dovetti dar loro
un’altra
occhiata per capire che si trattava di manette intrise di magia.
Contai
rapidamente le sagome femminili:
uno, due, tre… erano otto in tutto. Possibile che fossi
finita nel luogo dove
tenevano prigioniere le donne rapite?
Il
cuore prese a battermi forte mentre
mi abbassavo all’altezza dei loro visi, cercando quello di
mia madre. Lo
trovai.
I
lunghi capelli ebano, mossi come i
miei, le cadevano scomposti davanti agli occhi. Aveva il volto emaciato
e
teneva il braccio attorno alle spalle di un’altra prigioniera
più giovane che
le si era accoccolata accanto per trovare conforto.
«Mamma!!!
Mamma, sono io!» urlai,
cercando di abbracciarla. Rimasi atterrita quando vidi che le mie
braccia le
stavano passando attraverso. Sembravo aver preso la consistenza di un
fantasma.
«Mamma…
Puoi sentirmi almeno?» mormorai
speranzosa, provando anche a scuotere una mano davanti ai suoi occhi.
Le
sue iridi ambrate non diedero segno
di avermi vista e rimasero annebbiate, rivolte verso il pavimento.
Tirando su
col naso, portai le mani al viso per asciugare le lacrime che avevano
iniziato
a scorrere copiose. Le ero così vicina ma non potevo fare
niente per farle
sentire la mia presenza…! Mi sentivo dannatamente impotente.
Un
lampo di luce illuminò per un secondo
la stanza e un brivido gelido percosse la maggior parte delle
prigioniere,
mentre dei passi lievi riecheggiarono nell’aria.
«…Vi
siete decise a parlare?» La voce
femminile della nuova arrivata suonava fredda e aggressiva. Non
riuscivo a
vederla in viso, ma mi parve di distinguere un bagliore rosso nella
penombra.
Fu
mia madre a parlare.
«Anche
se sapessimo dove si trova, non
te lo diremmo mai! Non riuscirete nel vostro intento.»
Ero
totalmente rapita dal barlume di
determinazione negli occhi di mia madre, non l’avevo mai
vista con
un’espressione così determinata.
La
donna rise sarcastica, portandosi la
mano davanti alle labbra.
«…Devo
dire che mi colpisce la tua caparbietà,
Ca… No, aspetta. Com’è che ti fai
chiamare adesso…? …Ah giusto, Lynette.
Proprio un bel nome, si riferisce forse al Linnet, il Fanello,
uccellino canterino?
Trovo che ti doni!»
Lo
sguardo di mia mamma s’indurì.
«Vi
fermeranno.»
«Ancora
con questa storia? Guarda in
faccia la realtà. Nessuno sa nulla. Nessuno verrà
a liberarvi.» La donna prese
un respiro profondo. «…E nessuno potrà
fermarci. Il piano è già stato messo in
atto.»
Mia
madre non rispose e le altre
prigioniere non sembravano intenzionate ad aprir bocca.
«Nem?
Quei due ti hanno detto qualcosa?»
Non mi ero accorta della presenza di un’altra figura alle
spalle della nuova
venuta fino a quando non
si rivolse a
lei.
Anche
questa era una donna, avvolta da
un lungo abito nero che la rendeva quasi invisibile
nell’oscurità della stanza.
Alla domanda dell’altra, scosse la testa.
«Niente
di sicuro, ma sono sulle sue
tracce. Dovrebbero essere in grado di portarla qui entro la luna
piena.» A
differenza della prima, la voce della donna nell’ombra era
più grave, con una
nota di mestizia.
L’altra
sorrise compiaciuta.
«Visto?
Tutto procede secondo i piani.
Ovunque si sia nascosta la prenderemo e completeremo il
rituale.»
Si
allontanò verso quello che mi pareva
uno specchio a figura intera dalla superficie acquosa e si
voltò un’ultima
volta.
«Buonanotte,
uccellino!» Poi, con un
lampo, lei e la donna nell’ombra passarono attraverso lo
specchio e la stanza
ripiombò nell’oscurità.
Il
sospiro provato di mia madre mi
strinse il cuore.
«…Secondo
te abbiamo davvero qualche
possibilità di sventare i loro piani?» le chiese
la ragazza di fianco a lei,
quella stretta nel suo abbraccio protettivo.
«Sono
certa che ci troveranno. Non sono
stupidi sull’Olimpo, non lasceranno che le cose si compiano,
creerebbero
problemi anche a loro.»
La
ragazza annuì, leggermente
rincuorata, e tornò a poggiare la testa sulla spalla di mia
madre.
Sembrava
che si conoscessero, eppure non
riuscivo a ricordare di aver mai visto quel volto…
La
stanza intorno a me cominciò a
tremolare, i contorni si fecero più labili.
«Mamma….!»
Allungai la mano verso di lei,
tentando per l’ultima volta di attirare la sua attenzione.
Questa volta alzò lo
sguardo nella mia direzione e mi sembrò consapevole della
mia presenza.
Durò
solo un attimo.
Mi
svegliai
di soprassalto. “Solo un sogno, era
solo
un sogno” continuavo a ripetermi, ma ormai non ne
ero più tanto sicura.
Se
quella
che avevo avuto era una visione reale, allora c’era da
preoccuparsi. A quanto
avevo capito, mancava solo una donna all’appello e tra pochi
giorni i rapitori
avrebbero avuto campo libero nell’attuazione del loro piano.
Il problema era
che ancora non avevo la più pallida idea di cosa
intendessero fare.
Almeno
mamma stava bene… Eleuse però non era con lei, e
questo pensiero mi provocò una
fitta allo stomaco. D’altro canto, potevano averla
imprigionata da qualche
altra parte, se era stata catturata…
Scossi
la
testa. Forse ero semplicemente troppo stanca e la mia mente aveva
sublimato i
brutti presentimenti in quel sogno molto vivido, simile a una visione.
Mi
ripromisi di chiedere a uno dei miei fratelli se fosse possibile per un
semidio
avere dei sogni premonitori o cose del genere, tanto più se
figlio di Apollo,
il dio dei grandi Oracoli.
In
quel
momento Emile aprì di soppiatto la porta della mia stanza
dopo aver bussato.
«Oh,
sei
sveglia? …Come stai? Raven mi ha detto che avevi una brutta
cera alle prove.»
Sorrisi
mentalmente: da quando stavo con Emile, tra lui e mio fratello si era
stabilita
una sorta di tacita tregua. Certo, continuavano a scambiarsi battutine
acide e
occhiate torve di tanto in tanto, ma non si erano più
sfidati apertamente e
tentavano di mantenere un atteggiamento di neutra tolleranza.
Emile
si
sedette sul letto, affianco a me, accarezzandomi i capelli lentamente,
come se
avesse paura che potessi spezzarmi sotto il suo tocco. Posai la testa
sul suo
petto e lo abbracciai.
«Non
preoccuparti, sono solo un po’ stanca… Non ho
dormito molto bene le ultime
notti.» L’ultima volta che mi era stato concesso un
sonno ristoratore era stato
quattro giorni prima, quando eravamo tornati dalla missione.
Alzai
lo
sguardo su Emile e sorrisi, vedendolo accigliarsi.
«…E
prima
che tu possa dire qualcosa, no, non è assolutamente colpa
tua! Anzi, la tua
presenza mi tranquillizza, dovresti saperlo.»
Anche
la
sua espressione si distese e mi rivolse un timido sorriso rassicurato.
«Ne
sono
felice.» Quando si chinò a baciarmi, rimase
qualche secondo a fissarmi negli
occhi. «Thara… Se hai un problema sentiti libera
di parlarne con me. Vorrei
poterti aiutare…»
Socchiusi
le palpebre e rabbrividii leggermente al ricordo di mia madre in
catene,
costretta in quella grotta buia.
«…Lo
so.
Grazie, Emile» dissi, rispondendo al suo bacio con dolcezza.
Non ero ancora
pronta a rivelare a qualcuno del sogno, perché volevo
convincermi che fosse
solo frutto della mia fantasia.
«Che
ore
sono?» gli chiesi, cambiando argomento.
Lui
mi
sorrise.
«È
ora di
cena. Gli altri ti hanno tenuto il posto al vostro tavolo, come al
solito.
Erano preoccupati perché non ti avevano più vista
da dopo le prove ma non
volevano venire a svegliarti, così hanno chiesto a
me.»
Immaginavo
che Martha c’entrasse qualcosa con la delega ad Emile, doveva
aver convinto lei
Raven a raccontargli di oggi pomeriggio.
«Allora
andiamo, non vorrei farli aspettare!»
Lo
presi
per mano e uscii dalla stanza assieme a lui, lasciandomi alle spalle
quel
brutto sogno.
La
cena
fu piuttosto tranquilla, e con la pancia piena le sensazioni sgradevoli
della
visione mi parvero più lontane. Avevo rassicurato Martha,
Loren e Raven sulle
mie condizioni di salute e adesso stavo tornando verso la casa di
Apollo con
Emile.
«Oggi
vai
a letto presto, mi raccomando.» Sorrisi.
«Va
bene,
papà.»
Emile
si
mise a ridere,
stringendomi di più a sé.
«Ehi,
non
sto scherzando! Hai bisogno di riposo…»
Avevo
troppa paura di tornare a sognare mia madre... Nascosi il viso nella
sua
maglietta con un sospiro.
«…Solo
se
rimarrai con me fino a quando non mi sarò
addormentata.»
Le
dita
di Emile presero ad accarezzarmi dolcemente i capelli.
«Ma
certo.»
Chiusi
gli occhi, assaporando la brezza estiva.
«…Ti
dispiace se prima di andare in camera ci sdraiamo un po’
sull’erba?» Avevo
bisogno di aria fresca, un cielo stellato e la presenza di Emile al mio
fianco.
Con lui accanto a me, tutto il resto perdeva di significato.
Emile
annuì e ci adagiammo supini su uno spiazzo d’erba,
lontano dai rumori del
Campo. Lasciai cadere la testa sul suo petto, socchiudendo gli occhi.
«…So
che
sei tesa, ma non devi avere paura» disse lui, dopo avermi
baciato i capelli. «Ti
proteggerò a qualunque costo e torneremo tutti a
casa.»
Era
proprio quello che mi preoccupava…! Quel “a
qualunque costo”. La profezia parlava di un
qualcosa che sarebbe andato
perduto, e avevo la terribile sensazione che potesse benissimo
trattarsi di una
persona.
Non
potevo sopportare di perdere Emile, mia mamma o Eleuse… Era
un’idea
inconcepibile.
«Lo
so,
Emile… Solo, non voglio che tu faccia follie.»
Lui
mi
sorrise in modo dolce, e a un tratto arrossì.
«Thara…
Io ti amo. Sarò all’antica, ma non
permetterò che ti sfiorino, nemmeno con un
dito.»
Nella
penombra della sera ero arrossita anch’io, perché
era la prima volta che Emile
pronunciava quelle parole. Aveva sempre detto “Mi
piaci moltissimo, mi fai impazzire”… Mai
“Ti amo”.
Lo
baciai, un po’ intimidita, e sorrisi a mia volta.
«…
Anch’io ti amo.»
Il
suo
volto s’illuminò e mi abbandonai tra le sue
braccia, dimentica di tutto, venendo
completamente avvolta dal suo profumo. Intorno a me, il mondo divenne
buio.
Ero
sdraiata su qualcosa di scomodo e
freddo. Sbattei le palpebre un paio di volte, prima di aprirle e
realizzare di
essere sulla panchina di un parco.
Mi
guardai attorno spaesata: l’ultima
cosa che ricordavo era di essere sull’erba accanto a Emile,
come avevo fatto a
uscire dal Campo?
Mentre
facevo queste considerazioni,
realizzai che c’era qualcosa che non andava nei miei occhi.
Riuscivo a vedere
ma le cose mi apparivano come sfocate, dai contorni evanescenti, e in
un attimo
capii di essere di nuovo in un sogno e seppi che era diverso da quello
in cui
avevo visto mia madre. Lì i profili erano ben definiti e
avevo osservato i
fatti nello stesso momento in cui stavano avvenendo, mentre
adesso… Avevo la
certezza che si trattasse di un sogno premonitore e che tutto dovesse
ancora
accadere.
L’ansia
della consapevolezza di poter
cambiare il futuro mi prese il petto in una morsa, spingendomi a
guardarmi
nuovamente intorno per recuperare qualche indizio. Dove mi trovavo?
Un
grande orologio che torreggiava
su di un palo segnava le 22:43 e
mi stupii del fatto che il parco fosse totalmente deserto a
quell’ora. In alto,
una pasciuta luna piena brillava sinistra: doveva essere il giorno del
plenilunio, quello in cui io ed Emile saremmo dovuti andare da Kimon.
Mi
mossi circospetta sui ciottoli,
cercando di fare meno rumore possibile. In teoria nessuno avrebbe
dovuto
potermi vedere, ma la prudenza non era mai troppa.
Il
silenzio era innaturale, come se non
aspettasse altro che di essere spezzato. Avanzai ancora qualche passo
nell’ombra, verso la fine del parco, fino a trovare una
targhetta di bronzo.
Aguzzai
gli occhi per leggere: delle
lettere in corsivo recitavano la scritta “Seward
Park”. Ero passata qualche volta
in quel parco con mia madre!
“Bene,
adesso so che siamo a New York”
pensai, troppo timorosa di esprimere qualcosa ad alta voce.
A
un tratto, il silenzio venne riempito
da un suono, prima lontano e poi sempre più insistente, di
zoccoli e ruote.
“Cavalli..?!”
Il
rumore era tutto attorno a me, come
un rombo, non aveva una provenienza precisa.
Mi
guardai alle spalle, improvvisamente
conscia che qualunque cosa stesse producendo quel frastuono sarebbe
spuntata da
lì, e vidi ‒come al rallentatore‒ una sagoma di donna
sbucare tra gli alberi,
inseguita da quello che sembrava un carro trascinato da quattro cavalli
neri
espiranti fiamme dalle narici.
Quasi
urlai dal terrore quando questi
presero a venire verso di me, la donna sempre in testa che correva a perdifiato, voltandosi di
tanto in tanto per
constatare che la distanza tra lei e gli inseguitori stava
pericolosamente
diminuendo.
«Aha,
è inutile che scappi mia cara,
ormai ti abbiamo in pugno!» urlò uno dei due
uomini sulla biga, quello più
magro. Un minaccioso bagliore rosso scaturiva dai suoi occhi ed ebbi la
sensazione che, se lo avessi guardato troppo a lungo, sarei potuta
essere
ingoiata da quelle pupille inquietanti.
L’altro,
un omone enorme dalle fattezze
di un marines dei film d’azione, guidava i cavalli ridendo in
modo sguaiato,
come se il fatto di inseguire una povera donna indifesa lo eccitasse.
Il
gruppo mi raggiunse passandomi
attraverso, proprio come quando avevo provato ad abbracciare mamma
nella
visione, e continuò la propria corsa ancora per poco. La
donna inciampò con un
grido e i due le furono addosso in un attimo, caricandola sul carro e
mettendola a tacere con un colpo ben assestato dietro la nuca.
Il
cocchio ripartì a una velocità
sovrumana, lasciando dietro di sé una scia di polvere.
Il
parco sprofondò nuovamente nel
silenzio.
---
Dopo
essermi svegliata dal sogno premonitore, non ero più
riuscita a riposare. Avevo
passato le restanti ore a fissare il soffitto della mia camera ‒dove
probabilmente
mi aveva portata Emile, in braccio (ancora arrossivo al pensiero e
all’idea che
qualcuno potesse averci visto)‒ e ora avevo gli occhi cerchiati
dall’ennesima
nottata insonne.
Avevo
intenzione di correre da Emile per raccontargli tutto e chiedere aiuto,
ma
dovetti aspettare dopo colazione per potergli parlare con calma.
«Cithara…
Stai bene? Sei ancora più pallida di ieri» mi
chiese Raven, decisamente
preoccupato.
Elusi
la
domanda con un sorriso e un cenno del capo.
«Sono
solo un po’ stanca, tutto qui.»
Lui
non
insistette, ma per il resto della colazione continuò a
lanciarmi occhiate
circospette di sottecchi.
«Ehi
bella addormentata, ti sei riposata un po’?» fece
Emile, portando un braccio
attorno alla mia vita.
«Scusa
per ieri sera, credo di essermi addormentata su di
te…»
Lui
ridacchiò.
«A
quanto
pare ho un effetto soporifero o qualcosa del genere, perché
quando ti sei
poggiata a me sei quasi svenuta! …Se è servito a
farti dormire, però, sono contento.»
«Ecco,
in
realtà…»
Gli
raccontai del sogno.
Mentre
scendevo nei dettagli, Emile assunse un’espressione
pensierosa. Annuiva di
tanto in tanto, passandomi una mano distratta tra i capelli.
«…Penso
di aver intuito chi sono quei due sulla biga, ma non capisco
perché dovrebbero
essere invischiati in questa faccenda» disse infine, cadendo
in un mutismo che
non era da lui.
«Secondo
te cosa dovremmo fare?»
Sapevo
già quale sarebbe stata la sua risposta.
«...Andare
a Seward Park.» Aveva omesso di dire “da soli, di
sera, uscendo senza permesso
dal Campo”. Chissà perché, avevo la
sensazione che Chirone non ne sarebbe stato
affatto contento.
«E
da lì
riusciremo ad arrivare da Kimon in tempo?» Era piuttosto
ovvio che usando i
mezzi convenzionali non ne saremmo stati in grado.
Emile
mi
rivolse un sorriso enigmatico, forse un po’ sarcastico.
«Sono
sicuro che sarà lui a venire da noi. Mi era sembrato
abbastanza annoiato e
volenteroso di aiutarci, l’altra volta…
Sì, verrà lui.»
Non
capivo perché fosse così certo, ma
l’alternativa era di lasciare la donna al
suo destino e addentrarci negli Inferi senza un piano. Magari, se
fossimo riusciti
a salvarla o catturare uno degli inseguitori, avremmo potuto sapere
qualcosa in
più sui piani di Ade… Sempre che si trattasse di
lui. Dopo le visioni iniziavo
a nutrire qualche dubbio.
Sospirai,
abbandonando la testa sulla spalla di Emile.
«Spero
tu
abbia ragione.»
Restammo
per un po’ così, in silenzio, seduti di fronte al
laghetto in cui erano solite
specchiarsi le figlie di Afrodite, finché lui non riprese a
parlare.
«Alla
fine sarebbe domani sera.»
«Già.»
Non
avevo la più pallida idea di come saremmo riusciti a
sgattaiolare fuori dal
Campo senza farci scoprire.
«…Devo
andare a completare i preparativi, allora» disse, alzandosi
con aria assorta.
Aveva in mente qualcosa. «Tu non strafare, ci vediamo a
pranzo!» concluse
infine, schioccandomi un bacio sulla fronte e lasciandomi da sola a
pensare.
Nonostante
la stanchezza, l’idea di rimanere con le mani in mano non mi
allettava per
niente, quindi avevo deciso di esercitarmi un po’ col tiro
con l’arco prima di
rilassarmi suonando il violino.
Finalmente
riuscivo a padroneggiare l’arma con destrezza: le frecce
colpivano tutte il
bersaglio e le braccia non si intorpidivano più
così facilmente. Non brillavo
di certo per potenza (i dardi scagliati da me non penetravano a fondo
nell’obiettivo, come quelle di Raven o Loren), ma avevo
acquisito una certa
velocità nell’incoccare la freccia e prendere la
mira. Speravo che queste mie
abilità sarebbero potute tornarmi utili contro i due tipi
del carro, anche se
non sarei stata al massimo delle mie capacità.
Per
suonare il violino decisi di rifugiarmi in camera,
lontano da tutto. Lasciai libero sfogo alle emozioni, premendo i
polpastrelli
fino a sentirli pulsare e rimanere senza fiato per il bruciore.
“Posso
farcela… Ho Emile, noi due insieme possiamo
farcela”
continuavo a ripetermi per calmare il
battito del cuore, che minacciava di impazzire ogni volta che pensavo a
cos’avremmo fatto una volta salvata la donna e raggiunti gli
Inferi. Se fossimo riusciti a
salvare la donna.
Scossi
la testa, sedendomi davanti alla scrivania con
un sospiro. Dovevo smetterla di preoccuparmi a quel modo o, una volta
davanti
al pericolo, avrei ceduto al panico senza sapere cosa fare.
Il
ramoscello d’alloro, regalatomi da Raven in segno
di benvenuto dopo che avevo accettato di far parte della banda, giaceva
sul
tavolo, ormai quasi rinsecchito. Lo accarezzai dolcemente, attenta a
non
staccare le fragili foglie accartocciate, iniziando a intonare un
motivetto a
labbra chiuse.
“Padre…
Non ti ho mai chiesto nulla in particolare, ma
adesso… Ti prego, dammi la forza di tornare
vittoriosa.”
La
Melodia che stava prendendo forma mi risultava estranea,
eppure, sentivo di conoscerla in qualche modo. Come se fosse intrisa
del mio
essere e scorresse da me, in un flusso di note che spingevano
prepotentemente
dalla gola per venire alla luce. Per essere liberate.
Chiusi
gli occhi, continuando a carezzare l’alloro, il
flebile motivetto che cresceva d’intensità fino a
diventare una vera e propria
canzone, e delle parole s’insinuarono nella musica.
«Melo̱día,
Óla
eínai éna kai éna eínai
óla
I̱
zo̱í̱ mou, i̱ zo̱í̱ sas.
To
rév̱ma roí̱ mésa sto Sýmpan,
af̱thórmi̱ti̱.
Epistrofí̱
sto Néa Zo̱í̱.»
♫♪♫
Sapevo
che dovevano suonare qualcosa come:
“Melodia,
Tutto
è Uno e Uno è Tutto
la
Mia Vita, la Tua Vita.
Il
Flusso scorre nell'Universo,
spontaneo.
Torna
a nuova Vita.”
…Ma
cosa significavano?
Riaprii
gli occhi, improvvisamente spossata, per
trovarmi davanti a uno spettacolo sconcertante.
L’alloro
era tornato verde e rigoglioso come appena
tagliato dall’albero, c’erano addirittura alcune
gemme di foglie nuove, appena
nate.
Ero
rimasta imbambolata a fissare il ramoscello
d’alloro per non so quanto, prima di decidermi a uscire dalla
stanza e andare a
pranzo. Dovevo avere un’espressione ancora scossa,
perché a tavola Raven non la
smetteva di fissarmi, a metà tra l’incuriosito e
l’ansioso. Avevo deciso tra me
che non avrei parlato con nessuno dell’accaduto, speravo
forse che si trattasse
solo di un’allucinazione da mancanza di sonno.
Quando
finalmente mi ritrovai con Emile al solito
posto, rimasi colpita nel notare la presenza di una terza persona.
«…Raven?»
Aveva abbandonato il tavolo abbastanza in
fretta rispetto ai suoi standard, ma di certo non immaginavo fosse per
incontrare Emile.
Stava
discutendo sommessamente con il biondo,
aggrottando le sopracciglia.
«Thara!
Spero non ti dispiaccia, gli ho raccontato del
tuo sogno.»
«N-no,
è che…» Potevo comprendere la tregua
che si era
stabilita tra loro da quando stavo con Emile, ma addirittura arrivare a
tanto…!
Raven
mi sorrise beffardo.
«Il
caro Noir si è accorto di non essere in grado di
risolvere tutto da solo e ha deciso di chiedermi aiuto.»
Emile
lo guardò torvo, sbuffando.
«Consiglio,
prego. Volevo solo avere una conferma.»
Continuai
a spostare lo sguardo da uno all’altro,
mentre i due perseveravano nel punzecchiarsi cercando di chiarirmi il
significato del sogno, finendo solo col fare ancora più
confusione nella mia
povera mente rallentata dal sonno. Alla fine, decisi di zittirli.
«Scusate…
Non credo di aver capito molto. Chi erano i
due sulla biga?»
Mio
fratello sospirò.
«Te
l’ho già detto… Da come l’hai
descritta, sembrerebbe
essere la biga di Ares. Quelli erano senza dubbio Phobos e Deimos,
anche se non
riesco a spiegarmi cosa dovrebbero c’entrare con Ade. A meno
che…»
«…A
meno che Ade non si sia alleato con Ares, cosa non
del tutto improbabile» concluse Emile.
«Phobos
e Deimos?» Dal canto mio, ero ancora rimasta
ai nomi delle due divinità minori. Alzai uno sguardo
imbarazzato su Emile,
chiedendogli spiegazioni.
«Uh,
non te li ricordi? Te ne avevo parlato in una
delle prime lezioni del corso accelerato…» No, non
li ricordavo. I primi giorni
ero ancora troppo impegnata a deprimermi per mia madre e osservare
Emile intimidita,
per badare alle sue parole. Scosse la testa e riprese a parlare.
«Phobos
incarna la Paura e destabilizza le persone utilizzando le loro fobie.
Deimos
invece è il Terrore, con i suoi poteri può
gettare le folle nel panico. Sono
entrambi figli di Ares e hanno l’incarico di guidare la sua
biga… Tutto chiaro?»
«Oh.»
Bene! A quanto pareva, erano dei tipi tosti da
abbattere. Mi sfuggì un anso di frustrazione quando
abbandonai le spalle,
demoralizzata.
«È
per questo che, nonostante la mia indubbia forza
sia abbastanza da sopperire alla mancanza di talento di Noir, ho
pensato fosse
meglio chiedere la partecipazione di qualcun altro!»
«Ma
cosa…?! Se l’altro giorno ti ho battuto
all’Arena!»
«È
stata solo fortuna, non vantarti.»
Il
bisticcio sarebbe di certo continuato se Alyssa non
fosse apparsa, quasi evocata dalle parole di Raven.
«Eccoti!
Stavo giusto parlando di te.»
La
rossa si scostò i capelli con una mano, posando i
suoi occhi di ghiaccio sui miei prima di sciogliersi in un sorriso.
«Finalmente
si passa all’azione! Sono felice che tu
abbia mantenuto la promessa.»
Raven
non perse tempo a spiegarle che non era stata
una mia idea quella di chiamarla (cosa della quale gli fui grata), e
passò a
spiegare il piano per l’indomani.
«In
realtà non è così complicato. Tutti e
quattro faremo
in modo di sparire dalla circolazione senza destare sospetti,
l’importante è
riuscire a trovarsi per le 22:15 vicino all’albero di Talia
ed evitare sguardi
indiscreti. La dracma d’oro la porterai tu Noir, sono sicuro
che riuscirai a
recuperarne una in qualche modo…»
«Per
quello non ci sono problemi… È in questi casi che
risulta utile essere figli di Ermes» annuì il
biondo.
«…Nel
dubbio, prendine alcune in più. Forse vorranno
un’aggiunta, visto che siamo in quattro.»
Interruppi
Raven, incuriosita.
«A
cosa serve la dracma?»
Alyssa
‒che era rimasta in silenzio fino a quel momento‒
si mise a ridere come se avessi appena fatto una battuta molto
divertente.
«Ahahah…
Dai, non è ovvio? Non andremo mica a piedi
fino a New York!»
Emile
le lanciò un’occhiataccia.
«Smettila,
non è mai salita sul taxi delle Sorelle.»
La
ragazza sollevò le spalle con una finta espressione
dispiaciuta e mi fece l’occhiolino.
«Allora
è meglio non rovinarti la sorpresa, lo vedrai
domani.»
---
«Eh?
Vai già a letto, Thara?»
Sorrisi
a Martha, sperando che la mia agitazione non
trasparisse dal volto.
«Sì,
ho un po’ di sonno.» Sbadigliai platealmente, a
conferma delle mie parole.
Mia
sorella mi passò una mano sulla fronte per poi
accarezzarmi i capelli in modo affettuoso.
«E
va bene, allora riposati pure… Vedi di rimetterti
in fretta che non manca molto al grande Concerto di fine estate! Non
vorrai
mica ammalarti proprio adesso» rise lei.
Mentre
le davo la buonanotte, deglutii al pensiero di
non tornare viva dalla spedizione e mettere a repentaglio anche la vita
di
Emile, Alyssa e Raven. “Mi auguro
che
riusciremo ad assistere al Concerto ancora vivi e
vegeti…”
Aspettai
l’avvicinarsi dell’orario stabilito in camera
e uscii di soppiatto, ben attenta a non farmi notare dai miei fratelli.
La
brezza serale mi accolse, scompigliandomi i capelli sciolti e facendomi
rabbrividire.
Trovai
Emile e Alyssa già pronti sotto l’albero di
Talia, rivestiti entrambi di un’armatura leggera di cuoio,
che fissavano
l’oscurità in silenzio.
«Greenwood…
Metti questo, ti proteggere» fece la
rossa, porgendomi un corpetto simile al suo. Rimasi colpita dal suo
gesto, non
mi aspettavo sarebbe stata così premurosa nei miei confronti.
«Ti
ringrazio! Sei molto gentile Alyssa.»
«Di
niente, Greenwood. Devi essere ben equipaggiata in
uno scontro, o rischierai di essere solo d’impiccio se non
sarai in grado di
proteggerti.» Lasciai correre l’ultima frase, che
suonava più come un insulto
velato che un consiglio, e le sorrisi.
«Ehm,
hai ragione… Comunque puoi chiamarmi per nome,
mi farebbe piacere» le dissi, affrettandomi poi ad aggiungere
«Sempre che non
ti dia fastidio!»
Mi
parve di vederla arrossire nell’abbassare gli occhi
al terreno.
«Oh,
uh, okay… Allora va bene, Cithara.» Sembrava un
po’ tesa anche lei. Non credevo che l’avrei mai
vista agitata, i figli di Ares
mi erano sempre sembrati solo esaltati davanti alle nuove imprese, come
se
fossero tutti un branco di incoscienti.
“Un
momento… Alyssa è figlia di Ares, ma lo sono
anche
Phobos e Deimos!”
«Alyssa?
Forse è un po’ tardi chiedertelo adesso
ma…
Sei sicura di voler affrontare due tuoi fratelli?»
Sulle
prime non sembrò capirmi, poi le si illuminarono
gli occhi.
«Ah,
intendi Phobos e Deimos? …Figurati. Può solo che
farmi piacere dare una lezione a quei due, li ho visti un paio di volte
e li
detesto dal profondo.» Prese un respiro.
«…Grazie per l’interessamento comunque,
non devi preoccuparti.»
Annuii,
poco convinta, tornando a cercare con gli
occhi Raven, nelle tenebre della sera.
«…Dove
diamine si è cacciato quel corvaccio?»
borbottò
Emile, dando voce ai miei pensieri. A dispetto della circostanza
spiacevole, mi
ritrovai a sorridere del soprannome affibbiato a mio fratello.
«Ehi
Noir, chiama il taxi. L’orario è già
passato da
un pezzo, se non ci muoviamo rischiamo di mandare tutto
all’aria.» Alyssa aveva
ragione.
Emile
ci fece cenno di seguirlo e uscire dalla barriera,
sussurrando qualcosa in greco antico e gettando la dracma a terra con un gesto
insofferente. Mi aspettavo
che la moneta tintinnasse, invece questa venne letteralmente inglobata
dal
terreno, che iniziò ad emettere sinistri gorgoglii,
finché una grande pozza
liquida dal colore simile al sangue non andò a formarsi
lì dove prima era
caduta la dracma.
Sussultai
impaurita arretrando, quando uno strano taxi
color fumo ‒o meglio, della consistenza
del fumo!‒ affiorò dalla pozza.
Una
testa brizzolata, dai lunghi capelli selvaggi, si
sporse dal finestrino.
«Serve
un passaggio?» chiese la vecchia signora, con
voce roca. Non sapevo perché, ma il non poter vedere i suoi
occhi, coperti
dalla massa di capelli, mi inquietava.
«Tre
per Seward Park, New York» rispose Emile, aprendo
lo sportello posteriore per farmi salire.
Lo
guardai a occhi sgranati, ancora un po’ allarmata,
prima di decidermi a salire sulla macchina e stringermi per far posto a
lui e
alla rossa.
«Perdonatemi,
possiamo aspettare un minuto prima di
partire? Dovrebbe arrivare un’altra
persona…» bisbigliai una volta seduta. Mi
rispose un’altra voce rauca, realizzai così che la
vecchietta non era sola: ce
n’erano ben tre!
«Il
tassametro scorreee!»
«Tempesta!!!
Non urlarmi nell’orecchio! …Per il
trasporto di un’altra persona ci vuole un pedaggio extra, un
pedaggio extra!
Giusto Vespa?»
«Un’altra
dracma, sì, Rabbia!» rispose quella che
pareva l’autista, muovendo energicamente la testa avanti e
indietro.
«Sì
sì, ce l’abbiamo… Sempre che arrivi
quell’altro»
sbuffò Emile, accanto a me. «Si sta
così stretti qua dentro…! Ehi, e se lo
facessimo mettere nel bagagliaio?»
Mi
scappò una risata e anche Alyssa si fece sfuggire
un sorriso.
«Non
credo che Raven sarebbe d’accordo!»
replicò la
rossa.
La
portiera dalla sua parte si aprì, e la testa
corvina di mio fratello fece finalmente capolino.
«Scusate,
ho avuto qualche problema a eludere la
sorveglianza di Martha… Certo che quella ragazza sa essere
davvero caparbia!»
Emile
diede la seconda dracma alla vecchietta di nome
Tempesta, che iniziò a litigare con le altre due su chi
dovesse tenerla, mentre
Raven prendeva posto nel taxi, non senza qualche difficoltà.
«È
piccolo qui… Noir? Hai pensato a metterti nel
bagagliaio per farci un po’ di spazio?» fece lui,
beffardo.
Emile
sogghignò.
«Stavamo
proprio riflettendo, prima che entrassi, che
forse quello dovrebbe essere il tuo posto in quanto ritardatario! Si
stava
meglio senza di te.»
«Ah,
ti sei forse pentito di aver chiesto il mio aiuto?»
«Non
ti ho chiesto di accompagnarci, hai fatto tutto
tu.»
«Uhm,
io la ricordavo diversamente… “Oh, Lionhard,
devi aiutarmi! Si tratta di Thara!”…»
fece Raven, scimmiottando Emile, con un
tono di voce quasi femmineo. Il biondo avvampò.
«Cooosa?!?
…Ringrazia solo che non posso prenderti da
qui, quando scendiamo ti faccio vedere io!»
I
due continuarono ad azzuffarsi per tutto il tragitto
e ormai non sapevo se essere più impensierita dal loro
battibecco o dalla guida
pessima della vecchietta Vespa. Specialmente da quando Alyssa, per
giustificare
l’andatura spericolata del taxi, mi aveva sussurrato che le
Sorelle Grigie
avevano a disposizione un solo occhio per tutte e tre.
Disperata,
chiusi le palpebre e mi raggomitolai nel
mio sedile, pregando silenziosamente di arrivare sana e salva a Seward
Park.
---
Nota
dell’Autrice:
Perdonatemi
se vi ho
fatto aspettare un mese, prima di aggiornare! çAç
Sono stata totalmente
inghiottita dalle giornate frenetiche universitarie.
Spero
tanto che
questo capitolo non sia risultato troppo deprimente (insomma, dopo la
parte
felice e allegra del cap. precedente qui si scende in una depressione
pazzesca...!XD) e che abbiate potuto apprezzarlo. :')
Ho
aggiornato il
cap.10, aggiungendo un disegno di Kimon (Ipno), se siete interessati a
vedere le
fattezze del mitico dio del sonno!:D
Vi
lascio con un
disegno della mamma di Thara.
Un
bacione, al
prossimo aggiornamento! ;)
Remiel
♥
|
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Capitolo 15 *** Cap. 13 - Marcia ***
[Kara
Kul -
Mark Petrie]
[The
Last
Firstborn - Celldweller]
[Group
Four -
Massive Attack]
Il
grande orologio sul palo ‒lo stesso della visione‒
segnava le 22:40. Di lì a qualche minuto si sarebbe sentito
il rumore della
biga…
Deglutii
nervosamente, spostando lo sguardo verso le
postazioni degli altri. Alyssa e Raven si erano nascosti con le armi
sguainate
dietro agli alberi che Phobos e Deimos avrebbero attraversato con la
biga,
mentre Emile era acquattato tra me e loro, i luccichii della spada che
aveva in
mano coperti dalle foglie dei cespugli.
Il
piano era piuttosto semplice: dovevo mirare al
carro e rallentarlo con le mie frecce, per fare in modo che la donna
riuscisse
a fuggire intanto che gli altri attaccavano le due divinità
minori. Più che
semplice, continuavo a ripetermi che il piano fosse stupido, ma non
avendo
avuto un’idea migliore da suggerire mi ero dovuta adeguare a
quella di Raven.
…La
verità? Avevo una paura terribile. Temevo di mancare
il bersaglio o mandare tutto all’aria.
Non
avevo ben compreso perché mio fratello si fosse
intestardito nel voler portare quel makaira, una specie di largo
coltello curvo,
piuttosto che l’arco; a quanto pareva, nonostante fosse
figlio di Apollo, si
sentiva più a suo agio con il corpo a corpo. Alyssa, poi, mi
aveva colpita
particolarmente: ero rimasta sbalordita quando il fermaglio che aveva
tolto dai
capelli si era trasformato in una scure dall’aria pericolosa.
Emisi
l’ennesimo sospiro e rilassai le spalle. Speravo
davvero che il nostro gruppo mal assortito potesse fare la differenza,
quella
notte.
Il
rumore delle ruote e degli zoccoli ruppe il silenzio,
costringendomi a irrigidirmi nella posizione di tiro. La freccia
incoccata,
sentivo il sudore che iniziava a colarmi lungo la schiena e il cuore
minacciava
di scoppiarmi nel petto dalla forza con la quale batteva.
Ero
protetta dall’ombra, non mi avrebbero vista…
Il
fragore si fece più forte, finalmente iniziai a scorgere
le figure del carro e della fuggiasca che procedevano a tutta
velocità verso di
me.
Ecco
che il più magro, Phobos, iniziava a canzonare la
donna…
«Aha,
è inutile che scappi mia cara, ormai ti abbiamo
in pugno!»
“Ora!”
La
freccia sfiorò la criniera di uno dei cavalli e si
conficcò nella spalla di Phobos, strappandogli un urlo di
dolore. Deimos cercò
di riprendere il controllo della biga, mentre gli equini cominciarono a
nitrire
come impazziti.
«Ma
che diamine…?!» L’icore dorato, il
sangue degli
dèi, prese a scorrere dalla ferita quando estrasse la
freccia con un sussulto.
La
donna non perse tempo a domandarsi cosa fosse
successo e continuò a correre, le lacrime agli occhi e il
fiatone. Raven e
Alyssa assaltarono il carro proprio mentre Phobos ne balzava
giù furioso,
puntando verso di me.
«Grazie
agli dèi, qualcuno è venuto ad
aiutarci!» bisbigliò
la donna abbracciandomi, una volta che mi ebbe raggiunta.
«Cercheremo
di fare il possibile, lei intanto si allontani
da qui…» Le parole mi si fermarono in gola nel
vedere l’espressione stupita
della fuggitiva. Mi aveva preso il volto tra le mani, passando le dita
tra i
miei capelli.
«Ma
tu sei…» Non riuscii a sentire se aveva terminato
la frase o meno, perché dovetti scansarla di lato per
evitare il giavellotto
lanciato da Phobos.
«Fugga!»
Le urlai, scoccando un’altra freccia. Emile
era uscito allo scoperto e adesso si stava confrontando proprio col dio
della
Paura a colpi di spada.
Gli
occhi rossi di Phobos brillarono sinistri
nell’ombra.
«Di
cos’hai paura…?» Lo sentii sussurrare al
biondo.
Avrei tanto voluto poter essere d’aiuto, ma temevo di colpire
Emile…
«Non
c’è nulla che mi faccia paura!»
urlò il ragazzo,
parando un fendente. In realtà il dio non sembrava molto
forte ‒i colpi che
aveva diretto ad Emile non erano precisi‒ ma i suoi occhi continuavano
a infondermi
un inspiegabile senso di inquietudine.
La
risata di Phobos mi gelò all’istante il sangue
nelle
vene.
«…Io
so, so di cos’hai paura!» gongolò
trionfante.
Nello
stesso momento, Emile prese a urlare e indietreggiare,
come in preda a un incubo terribile, e lasciò cadere a terra
la spada crollando
in ginocchio in preda ai singulti.
«N-no…
No, è un’illusione! Basta…»
«Ahahah!!!»
Phobos si stava avvicinando con la lama in
mano, pronto a finire Emile una volta per tutte.
Non
aspettai oltre, fremente di rabbia, tirai una
freccia nella sua direzione.
«Qualunque
cosa tu gli stia facendo, smettila. Subito.»
Il
dio voltò lentamente la testa verso di me, con un
sorriso perverso sulle labbra.
«Deimos?
Pensaci tu a questi tre.»
Il
bestione, che nel frattempo se la stava vedendo con
Alyssa e Raven, aveva trasformato la biga in una specie di trincea e si
era
barricato al suo interno, impossibilitato a muoversi. La risata e il
grugnito
che seguirono l’invito di Phobos non preannunciavano niente
di buono.
Emile
sembrava essersi ripreso da quando avevo distolto
l’attenzione del dio della Paura da lui, ma adesso stava
guardando verso il
carro con espressione atterrita.
«Per
tutti gli dèi...!»
Anche
mio fratello e la rossa avevano cominciato ad
allontanarsi da Deimos, scuotendo le armi in aria come per scacciare
dei mostri
invisibili.
«Non
fatevi ingannare… È di certo una delle loro
allucinazioni!» udii gridare Alyssa. Non avevo idea di cosa
Deimos stesse mostrando
loro, ma doveva trattarsi di una cosa orribile, vista la titubanza
della rossa
che pur sapeva di cosa erano capaci i suoi fratelli.
Phobos
non mi lasciò il tempo di pensare ai miei
compagni, e si avvicinò con fare minaccioso.
«Tu,
invece… Di cosa hai paura?»
Indietreggiai,
scoccando un’altra freccia. Di cosa
avevo paura? …La domanda giusta sarebbe stata “Di
che cosa NON hai paura?”!
Non
risposi.
Imprecai
mentalmente quando realizzai che la donna non
era ancora scappata ma si era limitata a nascondersi titubante dietro
di me. Le
iridi del dio continuavano a emanare bagliori rossi come il sangue, era
difficile non rimanerne ipnotizzati.
«Credevo
fossi stata rapita…» mormorò la giovane.
Replicai
continuando a tenere gli occhi fissi su
Phobos, pronta a scattare se avesse cercato di attaccare.
«Mi
perdoni, credo che mi stia confondendo con qualcun
altro.» E se mi avesse scambiata per mia madre? A parte per
gli occhi,
somigliavo a una sua versione più giovane. Ma il tempo era
passato, anche se
avesse conosciuto mia madre all’età di
diciott’anni era ovvio che non avrebbe
potuto mantenere questo aspetto per tutti quegli anni… O
forse no?
Un
lampo attraversò le iridi di Phobos, che sorrise.
«…Trovato!»
Non
capii a cosa si riferisse finché non vidi mutare
il parco in un luogo scuro e freddo, pregno di aria stantia. Mi si
seccò la
gola e il cuore smise di battere per alcuni secondi nel capire dove mi
trovavo:
era la grotta dov’era rinchiusa mia mamma assieme alle altre
donne.
C’era
una differenza, però, rispetto al sogno. Il luogo
sarebbe sembrato deserto se non fosse stato per un impercettibile
rantolio…
«C’è
qualcuno?» chiesi sottovoce.
«Thara…»
«…Mamma!»
Poco distante, mia madre era distesa supina,
gli occhi rivolti al soffitto di roccia.
La
raggiunsi in lacrime, prendendo la sua mano tra le
mie.
«Mamma…
Mamma, cosa ti hanno fatto?...» I capelli
erano una massa aggrovigliata attorno al suo viso esangue, le dita
gelide prive
di forza.
«Thara…
Scappa…»
Adesso
il cuore stava esplodendo, sembrava aver
raggiunto la gola e, assieme al groppo che si era formato, mi impediva
di
respirare. Scoppiai in singhiozzi sconnessi nel sentirla esalare quello
che
credevo essere il suo ultimo sospiro.
Ero
ancora scossa dai singulti, quando mi accorsi di
un altro corpo privo di vita accanto al suo, quello di Eleuse.
«No…
NO!!!» Le carezzai i capelli paglierini, col
fiato mozzo. «Non è vero…»
Rimasi
accovacciata su di lei, finché un’altra presenza
apparve alle mie spalle.
«Thara…»
Mi voltai verso la voce sofferente di Emile.
Si era appoggiato contro la parete, tenendo una mano stretta al fianco
ferito
dal quale fuoriusciva una quantità preoccupante di sangue.
Si
accasciò al suolo e fui subito accanto a lui, guidata
più da gesti meccanici che dalla mia volontà. Era
come se i pensieri si fossero
bloccati, nella mia mente.
«Thara,
mi dispiace… Non sono riuscito a
salvarle…»
Poggiai
la testa sul suo petto, senza essere in grado
di pronunciare alcunché.
Non
poteva essere vero, doveva
trattarsi di un incubo.
«Perdonami…»
Fu scosso da un attacco di tosse. «…Ti
amo.»
Sollevai
lo sguardo sul suo.
«Emile…»
Feci per accarezzarlo, quando una voce
femminile s’insinuò nei miei pensieri. Dapprima
ovattata, stava diventando via
via più insistente, fino a trasformarsi in un urlo che mi
perforò i timpani.
«…Svegliati
Greenwood, è solo un’illusione! Noir è
vivo!»
Alzai
la testa e, nel momento in cui decisi di capire
da dove proveniva la voce, il mondo attorno a me mutò.
Fu
come se qualcuno stesse strappando un enorme telo
per rivelarmi che, no, non ero nella grotta, ma piuttosto a Seward Park
e, sì,
quella visione così vivida era solo un trucco di Phobos. Lo
stesso che, adesso,
guardava con odio Alyssa ‒la figura in piedi davanti a me‒ mentre
ringhiava e si
tamponava la nuova ferita
da scure, ben più profonda di quella che gli avevo inflitto
io con la freccia.
Non
poteva morire (era pur sempre un dio), ma sembrava
che l’idea di provare dolore non lo allettasse affatto.
«Stupidi
Semidèi… Non potete fermarci! Deimos,
smettila di giocare!» fece Phobos, all’indirizzo di
suo fratello.
Emile
e Raven erano piuttosto malconci eppure avevano
continuato a tentare di forzare la barriera di Deimos, rischiando
più volte di
venire impallinati da uno dei fucili dell’arsenale della
biga. Lo scimmione non
se lo fece ripetere due volte e, con una risata volgare, si
alzò dalla sua
postazione.
«Peccato,
stavo iniziando a divertirmi… Alla prossima,
poppanti!» Così dicendo toccò il
carro-trincea, che prese a trasfigurarsi in
una Harley-Davidson nera e rossa dal motore rombante.
«Merda!»
Ero
ancora troppo intontita dalla visione per capire
realmente cosa stava accadendo e Alyssa mi tirò su di peso,
spostandomi
rapidamente dalla traiettoria della moto, senza che potessi replicare.
«Prendi
la donna!» urlò il dio della Paura.
Il
grido che seguì subito dopo, mi fece presupporre
che la fuggitiva non fosse andata troppo lontano. Perché
diamine non era
scappata prima, quando eravamo appena arrivati?
Il
boato della moto si fece di nuovo più vicino:
Deimos stava tornando a prendere suo fratello.
Alyssa
si alzò di scatto, pronta a lanciare la scure
contro Phobos, quando un forte profumo d’incenso si diffuse
per tutto il parco.
«Accidenti,
accidenti! Come siamo focosi.»
La
voce suadente di Kimon ci fece sussultare e il
tempo parve fermarsi. Phobos sgranò gli occhi, terrorizzato.
Deimos
inchiodò, fissando per qualche interminabile
secondo suo fratello e il dio del Sonno, prima di voltarsi e darsela a
gambe a
tutto gas, con la donna svenuta stretta tra le braccia.
«Idiota!
Non lasciarmi!» inveì Phobos, anche se il suo
sembrava più un piagnucolio.
«…Traditore» sussurrò infine,
mordendosi il
labbro. A vederlo così, faceva pena.
Mi
alzai, scuotendo la testa e scacciando dalla mente
l’ipotesi di tranquillizzarlo. Nonostante si comportasse come
un bimbo
abbandonato dai genitori, si trattava del dio che fino a qualche minuto
prima
mi aveva fatto vivere l’incubo peggiore della mia vita.
«Bene…
Che ne dite di venire a prendere un tè a casa
mia?» propose Kimon con fare pacato, dopo essersi presentato
ad Alyssa, appropinquandosi
al tremante dio della Paura. «…Anche tu, caro
Phobos, sei invitato. Anzi,
oserei dire che sarai l’ospite d’onore!»
Emile
e Raven si avvicinarono a noi, un po’ frastornati.
«Thara,
stai bene?»
«Sì…»
«Di
certo non grazie a voi»
mi interruppe Alyssa. «Si può sapere
dove
avevate la testa? Non avevate capito che quella visione infernale era
una delle
illusioni di Deimos?!» Era parecchio contrariata, a nulla
valse il mio tentativo
di calmarla.
Dopo
un po’, sbuffò.
«Non
ne volevate sapere di svegliarvi… Non sapevo come
fare. Questo qui» fece, indicando Phobos «stava per
decapitare Cithara e voi
continuavate a lanciarvi come due scemi contro il bestione, da bravi aspiranti suicidi senza
cervello.»
I
due ragazzi abbassarono lo sguardo, afflitti. Raven
pareva piccato nell’orgoglio, mentre Emile aveva
un’espressione sofferente.
«Grazie»
le rispose quest’ultimo, posando delicatamente
una mano sulla mia schiena. Notai che evitava di guardarmi negli occhi.
«Non
succederà più» borbottò mio
fratello, anch’egli
con lo sguardo basso.
Io
le sorrisi, accarezzando i capelli di Emile per
confortarlo.
«Grazie,
Alyssa. Ti sono debitrice.» La rossa mugugnò
qualcosa come un “figurati”
con aria
forzatamente infastidita, e mi chiesi se il suo atteggiamento
distaccato non
fosse solo una tattica per allontanare le persone. Chissà
cos’aveva contribuito
a farla diventare così cinica…
«Scusate,
non vorrei mettervi pressione ma… Possiamo
continuare il nostro discorso a casa? Avevo attrezzato la stanza a New
Haven,
ci metterò un po’ per effettuare di nuovo i
preparativi… Specialmente visto che
i viaggiatori sono aumentati» concluse con uno dei suoi
soliti sorrisi affabili,
alludendo alla presenza non prevista di Raven e Alyssa.
«Ha
un appartamento anche a New York?»
Kimon
annuì mentre prendeva sotto braccio Phobos,
ormai piegato in due dalla stessa paura della quale era il dio, facendo
strada.
Scambiai
uno sguardo sorpreso coi miei compagni e mi
apprestai a seguirlo.
---
«Ci
vorranno una decina di minuti… Voi intanto
mettetevi a vostro agio.»
L’appartamento
sembrava una copia in piccolo di quello
di New Haven, il profumo sonnolento che aleggiava per le stanze e la
rilassante
musica soffusa erano gli stessi.
Il
dio del Sonno ci fece cenno di accomodarci e gustare
le tazze di tè che erano magicamente apparse sul tavolino,
lasciandoci in
soggiorno con Phobos per andare a trafficare nel suo ufficio.
Approfittai
dell’attimo di calma e medicai le ferite dei miei amici.
«Lascia
perdere, a me basterà un po’ di
ambrosia» mi
scostò Alyssa. Dopo aver bevuto la sua razione di
rigenerante si allontanò in
disparte, ignorando la tazza di tè destinata a lei.
Raven
si era accostato a Phobos e aveva iniziato a
porgli delle domande, ben attento a non fissarlo per troppo tempo negli
occhi.
Ero interessata a quello che avrebbe potuto raccontare, ma decisi che
era più
importante occuparmi di Emile.
Da
quando era tornato in sé dalla visione di Deimos,
non mi aveva guardata nemmeno una volta, riducendosi solo a rispondere
in modo
debole ai miei gesti d’affetto.
Mi
sedetti al suo fianco con la scusa di controllare
le ferite e, con la mano sulla sua guancia, gli sollevai dolcemente il
viso per
incontrare il suo sguardo.
«Emile?
Cosa c’è che non va?» Ancora una volta,
distolse gli occhi dai miei.
Rimase
un po’ in silenzio a contemplare la tazza di tè
tra le mani, accigliato, prima di rispondere.
«…Non
sono riuscito a proteggerti, ecco cosa. Se non
ci fosse stata Alyssa, a quest’ora la visione che ho avuto a
causa di Phobos si
sarebbe realizzata.» Allora il dio della Paura gli aveva
mostrato la mia morte!
Gli
scostai una ciocca bionda dal volto e poggiai la
fronte sulla sua.
«È
anche per questo che Raven e Alyssa sono con noi,
tra compagni ci si aiuta. Non eravamo preparati a quello che abbiamo
affrontato, siamo stati degli incoscienti… Ma
l’importante è essere arrivati
sani e salvi fin qui.»
Emile
mi bloccò la mano, prendendola nella sua.
«L’ultima
donna è stata rapita, e abbiamo Phobos solo
perché Kimon è venuto in nostro
soccorso…! È stato un fiasco totale.»
«Ma
tu avevi previsto che Kimon ci avrebbe aiutato»
replicai. Emile scosse la testa.
«Lo
avevo ipotizzato, è diverso… Inizio a chiedermi
se
saremo in grado di portare a compimento qualcosa di positivo, negli
Inferi.»
Prima
che potesse aggiungere qualcosa e minare pure la
mia determinazione, appena ritrovata, lo zittii con un bacio.
«Thara…»
cercò di protestare lui.
In
realtà anche io ero preoccupata e conscia del fatto
che non fossimo forti abbastanza, ma ritirarsi a così poco
dal traguardo era
impensabile. Specialmente dopo la scena terribile che Phobos mi aveva
mostrato:
non volevo che le mie paure si avverassero.
«Tu…
Non devi fare promesse che non puoi mantenere. Se
fosse dipeso da te io non avrei corso alcun pericolo, però
ci sono cose che non
si possono controllare, come il potere di Deimos e Phobos.»
«Alyssa
ci è riuscita.»
“Certo
che, in quanto a ostinazione, Emile fa davvero
concorrenza a Martha! …Nel bene e nel male.”
Cercai
di mantenere la calma per farlo ragionare.
«Lei
ha già avuto a che fare con loro… È
diverso. Io
non te ne faccio una colpa.»
«Scusa
ma… Sono io che non riesco a perdonarmi.» Non
mi lasciò aggiungere altro e mi abbracciò.
«…Giuro che non permetterò a nessun
altro di farti del male»
«Emile…
Te l’ho già detto, non puoi avere il controllo
su tutto.»
Lui
non rispose.
«…Ti
amo» fece dopo poco, come se con quelle parole
stesse suggellando la promessa tra sé.
«Anch’io.»
Lo
baciai senza aggiungere altro, e mi alzai dal divano
solo dopo aver ricevuto un suo sorriso rassicurante.
Posai
lo sguardo su Raven, ancora intento a cercare di
estrapolare informazioni utili a Phobos che era però caduto
nel mutismo più
totale. Mio fratello era talmente preso dal suo compito che sembrava
avesse
deciso di rendersi utile con l’interrogatorio per lavare
l’onta di essere stato
superato da Alyssa, o qualcosa del genere.
A
proposito della rossa… Voltai la testa verso
l’angolo
dove si era ritirata la ragazza, fuori in terrazza.
Stava
contemplando le luci colorate della città newyorkese
seduta con aria assorta, forse un po’ malinconica. In
silenzio, mi avvicinai con
prudenza per paura che mi allontanasse con un’occhiataccia.
«…Com’è
tua madre?»
Rimasi
interdetta dalla domanda a bruciapelo e ci misi
qualche secondo a rispondere.
«Ehm…
Buona e giusta, una brava madre. Tranquilla,
fino a quando non la fai arrabbiare… In quel caso ti
conviene scappare, è
un’abile lanciatrice di pantofole.»
Alyssa
rise divertita, lasciandomi ancora una volta
sorpresa.
«Uh,
scusa. Stavo pensando che forse vi somigliate,
dai l’impressione di essere un osso duro se ti
arrabbi.»
Le
sorrisi.
«Hai
ragione! …E tu invece? Tua madre dev’essere una
tosta, è stata scelta da Ares!» Credei di aver
detto qualcosa di male, perché
lei abbassò gli occhi tornando a osservare il panorama
notturno.
«Mah,
non saprei. Sono stata cresciuta in un orfanatrofio.»
«Scusa»
riuscii solo a dire, per poi nascondere tra le
ginocchia il volto arrossito dalla vergogna.
«Non
preoccuparti, non potevi saperlo. È che a volte
mi chiedo come sia avere una famiglia…»
Dopo
un attimo di riflessione in silenzio, si alzò,
portando una mano sulla testa a scompigliarmi i capelli.
«Forza,
entriamo. Ormai Kimon avrà finito i preparativi.»
Mi
alzai anch’io, stupita da quell’attimo di
confidenza
che la rossa mi aveva concesso. Per l’ennesima volta da
quando ero entrata al
Campo, mi chiesi come avevo potuto avere avuto una brutta sensazione
riguardo a
una persona del genere.
In
salotto, anche Emile si era messo di buona lena ad
aiutare Raven con quella sorta di interrogatorio. Inutile dire che
Phobos aprì
bocca solo dopo l’arrivo di Kimon e sotto le sue velate
minacce.
«Caro
Phobos, non hai bevuto il tè? Prego, mettiti
comodo… Ci sono anche i biscotti di pastafrolla, se
desideri.»
Il
dio della Paura si rannicchiò sulla poltrona con la
tazza in mano, spostando gli occhi a destra e a sinistra in cerca di
una via di
fuga che sapeva inesistente. I dardi fiammeggianti che erano i suoi
occhi, ora
si erano ridotti a due tizzoni consumati.
«Io
non so nulla… Eseguo solo gli ordini. Lasciatemi
andare…»
Per
tutta risposta, Kimon gli allungò il piatto dei biscotti.
«Serviti
pure.» Sorrise. «Allora? Chi ti ha dato questi
ordini?»
Phobos
soffocò un gemito di apprensione.
«…Mio
padre.» Alle nostre occhiate insistenti, si
eclissò nella tazza di tè prima di continuare.
«…Ma lui non c’entra
direttamente nella faccenda. Pensa solo che sia un piano
interessante…»
«Insomma,
chi c’è dietro a tutto questo?»
sbottò
Emile, colpendo il tavolo con un pugno. Phobos si
acciambellò ancor di più,
come se volesse sparire, e Kimon (seppur comprensivo) scoccò
un’occhiata severa
al biondo.
«A
te non importa, ma io devo salvare mia madre. Se
fossi così gentile da darci qualche informazione in
più sulle donne rapite, ti
sarei grata» gli dissi con tutta la calma di cui ero capace,
imitando
l’approccio tranquillo di Kimon.
Phobos
spalancò gli occhi, fissandomi incredulo.
«…Madre?!»
Cominciò a ridere in modo folle, fermandosi
di tanto in tanto per riprendere fiato.
«Cosa
c’è di tanto divertente?» Adesso
iniziavo a
spazientirmi anch’io.
Finalmente,
il dio smise di ridere e tornò a guardarmi
negli occhi. I dardi avevano ripreso a bruciare, divertiti.
«Wow,
era da un po’ di tempo che non si vedeva una
cosa del genere… E sentiamo, quale sarebbe tua
madre?»
«Si
chiama Lynette ma… Di cosa stai parlando?»
Phobos
mi sorrise mellifluo.
«Come,
non dirmi che non sai chi è tua madre!» Prese
un respiro teatrale e mostrò ancora di più i
denti bianchi, quasi affilati come
rasoi. «Giovane Semidea… O no, non saprei nemmeno
come definirti. Allora, ti
chiamerò semplicemente fanciulla… Bene, cara la
mia fanciulla, sappi che tua
madre è una delle nove Muse.»
---
Nota
dell’Autrice:
Come
vi è sembrato il
capitolo? Ho preferito separare la parte dello scontro con Phobos e
Deimos da
quella dell'Ingresso agli Inferi... Insomma, faceva figo chiudere con
una
rivelazione shock! XD
Quanti
di voi avevano
già intuito l'identità delle donne rapite?:)
Probabilmente non è stato uno
schock così grande, ma voglio credere lo stesso che alcuni
di voi non ci
avessero pensato.
Spero
che il capitolo
vi sia piaciuto e che continuerete a seguire l'avventure di Thara e i
suoi
compari, fino alla risoluzione del mistero...
Un
bacione!:D
Remiel
♥
|
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Capitolo 16 *** Cap. 14 - Cadenza ***
[St
John - We Are The Fallen]
[Shadow
of Doubt - Yoko Kanno]
[Reset - Cryptex]
«…
Non è divertente» disse Raven, con voce ferma.
Phobos
scoppiò nuovamente a ridere come a contraddire
le sue parole, mentre gli altri erano rimasti in silenzio allibiti. Una
Musa?!
“Tutto
questo non ha senso… O forse sì?”
Le donne rapite avevano una peculiarità, quella di
essere Muse, e l’ultima doveva avermi scambiato per mia madre
perché, proprio
come le divinità, anche lei avrebbe potuto cambiare il
proprio aspetto mantenendo
quello di quando aveva la mia età. Avevo sempre trovato che
non mostrasse i
suoi quarant’anni, ma di certo non immaginavo fosse questo il motivo.
“Se
mia madre è una Musa e mio padre è Apollo, allora
io… COSA sono?”
Emile
aveva preso Phobos per il bavero, intimandogli
di smetterla.
«Io…?»
Mi voltai frastornata verso Kimon.
Il
dio del Sonno si era allontanato un poco a braccia
conserte, tenendosi il mento tra l’indice e il pollice.
«Lo
immaginavo. Anche Eleuse lo aveva intuito cercando
informazioni… Hai detto che si chiama Lynette, giusto? Se il
suo ragionamento
per trovare un nomignolo è stato simile al mio, allora credo
che si tratti di
Calliope. Il suo nome significa “bella
voce”.»
Bene.
Dunque non c’erano più dubbi, mia madre era
davvero una delle Muse.
…Non
che sapere che fosse Calliope mi rasserenasse più
di tanto.
Kimon
interpretò il mio silenzio come un invito e
continuò il suo discorso, tra lo sbigottimento dei miei
compagni.
«Da
tempo ormai alcune delle Muse, stanche di essere
coinvolte nelle diatribe degli dèi e in cerca di
tranquillità, hanno deciso di
allontanarsi dall’Olimpo, facendo perdere le proprie
tracce… Calliope è una di
queste.»
Decisi
di esprimere il mio dubbio al dio.
«Quindi
mia madre è una Musa… Immortale. Mio padre,
invece, è addirittura un dio. Io… Cosa
sono?»
Finalmente
Phobos aveva smesso di ridere e si fece più
attento nel sentire la mia domanda. Tutti stavamo fissando Kimon, in
attesa.
Si
passò una mano tra i capelli, sospirando rumorosamente
prima di parlare.
«In
realtà… Ci sono stati altri casi come il tuo
nella
storia. Calliope stessa ha avuto altri figli con Apollo, il
più famoso penso
che sia Orfeo, ne hai sentito parlare?»
«Il
ragazzo che eccelleva nel suonare la lira, se non
erro…»
Sussultai
leggermente nel sentire la mano di Emile
posarsi sulla mia schiena.
«Aveva
anche una voce meravigliosa. Entrò negli Inferi
per riprendere la sua sposa Euridice, morta accidentalmente, e commosse
Persefone e Ade con la sua musica» aggiunse lui.
«…Sappiamo
tutti che non andò a finire bene.
Quell’idiota si voltò a guardare Euridice prima di
essere uscito dagli Inferi,
rompendo la promessa fatta ad Ade, e così la perse per
sempre.» Il tono di
Alyssa suonò duro e pieno di risentimento. Pareva che le
desse molto fastidio
l’idea di perdere un qualcosa a così poco dal
traguardo.
Kimon
annuì, sorvolando sull’epiteto colorito di
Alyssa, e continuò.
«Orfeo,
così come altri figli di Muse e divinità, era
mortale. Probabilmente sarebbe vissuto più a lungo se non
avesse fatto
infuriare le Menadi… L’unica caratteristica che
distingue questi figli dagli
altri Semidèi è un potere particolare dovuto alla
maggior presenza di sangue
divino.» A questo punto, il dio del Sonno si
bloccò per guardarmi intensamente.
«…Immagino tu sappia a cosa mi sto
riferendo.»
Ci
fu un attimo di silenzio nel quale il mio cuore
saltò qualche battito. L’immagine
dell’alloro rinverdito grazie al mio canto
tornò prepotente nella mia mente.
«…Allora
avevo ragione! Ti avevo detto che hai
qualcosa di speciale… Suoni in modo unico. Sei come
Orfeo!» sobbalzò Raven. Mi
stava osservando con occhi pieni di emozione, come se si trovasse
davanti a una
bestia rara.
Anche
Emile mi fissava, ma in modo diverso. La sua
occhiata di amorevole stupore rasente l’adorazione mi metteva
in imbarazzo,
quindi distolsi lo sguardo con le guance in fiamme.
Non
avevo detto a nessuno dell’ipotetico potere curativo
della mia voce e non me la sentii di svelarlo nemmeno in quel momento.
Era una
cosa che ancora non comprendevo, parlarne avrebbe significato rimettere
la mia
voce al giudizio degli altri… Finché non sarebbe
stato necessario, l’avrei
tenuto per me.
«Okay,
alla fine non c’è niente che può
tornarci utile
in questa missione nel tuo Dono. A meno che tu non voglia suonare per
distrarre
gli ipotetici nemici.» Le parole della rossa mi ferirono un
po’, la simpatia
che mi aveva mostrato qualche minuto prima aveva lasciato il posto alla
sua
solita freddezza.
Raven
le scoccò un’occhiata torva.
«Certo,
un dono del genere non può capirlo una figlia
di Ares.»
«No,
Alyssa ha ragione» intervenni subito. Un battibecco
era l’ultima cosa che ci serviva, in un momento delicato come
quello. «Scusate,
avevo solo bisogno di qualche rassicurazione… Adesso
possiamo andare.»
Avevo
notato come lo sguardo di Kimon non si fosse mai
staccato da me, sondando il mio comportamento. Forse era a conoscenza
del mio segreto.
«Bene
ragazzi! Venite pure, il passaggio è pronto»
disse mentre lo seguivamo nel suo studio, Phobos sempre con aria
più
abbacchiata.
«Non
avremo perso troppo tempo…?» chiese Emile,
rivolto a nessuno in particolare. In effetti, da quando avevamo
lasciato il
parco era passata almeno una mezz’ora.
Kimon
gli batté una mano sulla spalla.
«Non
preoccuparti, hanno aspettato fino ad adesso per
il momento propizio del plenilunio, non sprecheranno
mai l’opportunità di effettuare
il rito a mezzanotte.»
…Speravo
davvero che avesse ragione.
Il
portale altro non era che uno specchio a figura intera
dalla superficie lattiginosa. Appena Kimon allungò la mano
verso la superficie
del vetro, questa si increspò formando dei curiosi giochi di
luce.
«Che
dire… Buon viaggio! Unica raccomandazione, per tornare
indietro dovete passare dallo specchio dal quale uscirete.
Terrò il passaggio
aperto nella speranza di vedervi ricomparire al più
presto.»
Calò
un silenzio denso di significato. Guardai Emile,
Alyssa e Raven con il cuore in gola nel considerare l’ipotesi
del fallimento e
incontrai i loro sguardi determinati.
«Andiamo»
ordinò la rossa, portandosi davanti allo
specchio. Si voltò solo una volta a controllare che la
stessimo osservando e
poi balzò nel portale, seguita subito da Raven.
Emile
mi strinse teneramente la mano.
«…Andiamo
anche noi?»
Annuii
con un sorriso che voleva essere rassicurante e
feci per accodarmi a lui, quando Kimon mi bloccò prendendomi
per un polso.
«Figlio
di Ermes, gentilmente potresti precederla?»
Emile
gli rivolse uno sguardo ostile e sospettoso:
ancora non riusciva a fidarsi.
«…Cos’è
quell’aria cupa? Non la rapisco, vorrei solo
scambiare qualche parola con la tua fanciulla! Sarò
breve.» Non capii se fu il
fatto di avermi riconosciuto come la sua ragazza a tranquillizzarlo o
cosa.
«Va
bene. Ti aspetto di là, Thara» fece Emile senza
degnare più di uno sguardo Kimon, sfiorandomi con le labbra
il dorso della mano
prima di passare a sua volta al di là dello specchio.
Una
volta soli (senza tener conto di Phobos, rannicchiato
in un angolino), il dio del Sonno tornò a fissarmi
intensamente.
«Cithara…
Qualunque cosa accada, abbi fiducia in te
stessa. I Doni sono molto potenti, spesso paragonabili ai poteri di noi
divinità, e per questo sono anche pericolosi. Nel momento
del bisogno cercherò
di esserti di supporto, ma tutto dipende da te! Non abbandonare la
speranza e
credi anche negli altri, ricorda solo questo.» Nel parlare,
mi aveva cinto le
spalle con le mani e aveva abbassato la voce. Non sapevo a cosa
alludesse, ma
le sue raccomandazioni mi avevano in parte tranquillizzata.
Un
sorriso di gratitudine mi affiorò alle labbra.
«Grazie,
lo terrò a mente.»
«Bene…
Allora vai! Ci vediamo presto.»
Gli
strinsi la mano e mi voltai verso il portale a testa
alta.
“Mamma,
Eleuse… Sto arrivando.”
---
L’attraversamento
dello specchio fu un’esperienza
senz’altro particolare.
Erano
passati alcuni minuti dal mio passaggio, eppure
la sensazione di viscido che avevo provato a contatto con la barriera
non
accennava a sparire e non riuscivo a fare a meno di sfregarmi la pelle
di tanto
in tanto, per accertarmi che fosse pulita.
Appena
arrivata, ero stata avvolta dal tipico profumo
di incenso che ormai avevo imparato ad associare a Kimon. Quando gli
occhi si
furono abituati alla penombra, realizzai che mi trovavo in una versione
molto
più ampia e bizzarra dello studio che ci eravamo lasciati
alle spalle. La
stanza era un tripudio di colori caldi e oggetti esotici, i cuscini
disposti
sul letto a baldacchino ‒che occupava gran parte dello spazio‒ avevano
l’aria
di essere molto comodi…
«Ancora
non riesco a crederci, siamo nel palazzo di
Ade!» La voce di Raven mi riportò alla
realtà.
Mi
divertì constatare che di noi quattro proprio lui,
di solito dall’aria così seria e controllata,
sembrava il più eccitato.
«Siamo
qui, ok. E adesso da dove si parte?» fece
Alyssa, guardando verso di me.
Sentii
tutta la sicurezza acquisita da Kimon abbandonarmi
di botto: non avevo idea di dove andare.
«Nella
mia visione, le donne erano rinchiuse in una
stanza dalle pareti rocciose con un portale simile a questo. Deve
trovarsi qui,
da qualche parte nella dimora di Ade…» Abbassai
gli occhi senza riuscire a
sostenere lo sguardo dubbioso della rossa.
«Direi
di uscire da questa stanza, innanzitutto. Non
so voi, ma mi sta venendo una sonnolenza…»
sussurrò Emile mentre soffocava uno
sbadiglio.
Dovemmo
superare vari usci, prima di trovarci definitivamente
fuori dalle camere riservate al dio del Sonno. Uno sbuffo
d’incenso agli agrumi
sfuggì pigramente dall’ultima porta che chiusi,
una volta nel corridoio.
Mi
girai lentamente, conscia all’improvviso di essere
in un territorio sconosciuto e potenzialmente pericoloso.
Sembrerà stupido, ma
l’idea di poter riabbracciare mia madre e la mia Custode
aveva allontanato momentaneamente
l’ansia dettata dall’istinto di sopravvivenza, che
mi avrebbe suggerito
piuttosto di raccontare tutto a Chirone o chi di dovere.
“…Cosa
sto facendo? Ormai siamo qui. Non posso tornare
indietro.”
Ma
il portale era lì, dietro la porta che avevo appena
chiuso, e sarei potuta correre al Campo con la coda tra le gambe
invocando
l’aiuto del centauro.
“Sto
perdendo tempo… Le Muse hanno bisogno di noi.”
Giusto…
Le Muse! Perché mia madre mi aveva nascosto la
sua identità? Perché Eleuse non aveva avvertito
Chirone? Kimon aveva alluso al
fatto che le Muse avessero tagliato i ponti con
l’Olimpo…
“…Mamma
non mi ha detto nulla perché non si fida di
me?”
…Che
assurdità! L’unico motivo per il quale avrebbe
dovuto tacere la sua natura divina era di sicuro per proteggermi. Ma
allora
perché continuavo a sentire quel peso sul cuore, come una
triste disillusione,
premermi nel petto?
«…Thara?»
Mi
voltai verso Emile con quella che doveva essere
un’espressione frastornata.
«Stai
tremando, ti senti bene?» continuò lui, allungando
le mani verso la mia fronte. Chiusi gli occhi per assaporare il
contatto con la
sua pelle e riprendere il controllo.
“Abbi
fiducia in te stessa”,
aveva detto Kimon ed era quello che avevo intenzione
di fare. Ma avere fiducia in me stessa significava credere anche in mia
madre e
nelle persone che avevo accanto.
«Non
è nulla, non è nulla» ripetei
più convinta. La
sensazione di disagio si dissolse, così come si era
insinuata impercettibile nella
mia mente, tanto che iniziai a sospettare ci fosse lo zampino di un
dio. Non
sapevo se questa mia convinzione fosse un modo per esorcizzare la paura
o se
fosse effettivamente fondata.
Presi
per mano Emile e feci cenno a Raven e Alyssa di
seguirmi.
«Ragazzi,
purtroppo non so con certezza dove dobbiamo
andare, il sogno non è stato così chiaro.
Però ho l’impressione di conoscere la
strada…» Le parole mi morirono in gola. Come
facevo ad avere la minima idea di
che percorso prendere se fino a qualche secondo prima dubitavo perfino
di me
stessa?
Mi
aspettavo una replica sarcastica di Alyssa, invece
lei mi fissò comprensiva e annuì. Anche Raven non
obiettò, chiedendomi
piuttosto se non si trattava di uno dei Doni avuti dai miei genitori
divini.
Sorrisi
tra me e me: il mio senso dell’orientamento aveva
sempre fatto cilecca, quindi dubitavo si trattasse di uno dei miei
poteri.
Altrimenti, si sarebbe potuto risvegliare molti anni prima per tornarmi
utile
nella caotica New York!
Camminammo
in silenzio per alcuni minuti attraverso i
corridoi della residenza di Ade, pronti a scattare in caso di attacco.
La cosa
più inquietante, oltre agli scheletri posti ai lati di ogni
ingresso vestiti
con abiti militari di vari periodi storici, era l’assoluta
assenza di rumori,
fatta eccezione per i nostri passi. Tutto taceva, anche le fiamme delle
torce
appese alle pareti guizzavano sinistre senza emettere un suono.
Continuavo
a procedere guidata da una forza invisibile.
Cos’era questa presenza che mi attirava inesorabilmente a
sé…?
Non
avevo preso in considerazione nemmeno per una
volta che fosse una trappola, per qualche oscuro motivo ero sicura che
ci
stavamo avvicinando al luogo dov’erano tenute le prigioniere.
Sembravo in
trance, la vista si era offuscata e anche l’eco delle nostre
scarpe mi giungeva
attutita, quando avvertii un cambiamento avvenire nella Melodia
circostante.
Fino
a quel momento non ero riuscita a percepirla in
modo conscio, forse a causa dell’atmosfera del luogo, ma
c’era una lieve nenia
nell’aria. Qualcuno stava cantando.
«La
sentite anche voi…?» sussurrai, rapita da quella
Voce.
Mi
bastò una rapida occhiata preoccupata di Emile e
gli altri per comprendere che non riuscivano a sentirla.
Eppure,
adesso che le mie orecchie l’avevano captata,
mi sembrava così nitida!
Tornai
a camminare nella direzione dalla quale proveniva
la canzone.
«…Dormi
bimba, dormi cara,
la
tua mamma non si allontana.
Dormi
tanto, dormi Thara,
ascolta
la voce che ti chiama.
Del
buio non avere paura,
perché
in te ne hai la Cura.
Quando
sei triste o ti senti sola
c’è
una Voce che ti consola.
Il
mondo è una grande Melodia
che
io trasformo in Rapsodia.
Ora
è tardi per cantare,
ascolta
il mio canto e vai a riposare.
Piccola
mia, non farti del male,
conserva
la Voce e non ti destare.»
♫♪♫
…Era
la voce di mia madre! Stava intonando la ninna
nanna che mi cantava da bambina.
Avanzai
senza indugi verso la porta chiusa, così anonimamente
uguale alle altre, e la spalancai.
«…Per
tutti gli dèi! Cos’è questa
stanza?» esclamò
Raven, portandosi una mano alle labbra.
Le
pareti erano disseminate di schermi che riprendevano
vari luoghi degli Inferi, mentre al centro della camera
c’erano cinque specchi
a figura intera disposti a semicerchio.
«Si
direbbe la sala di controllo di Ade, o qualcosa di
simile!» mormorò Emile in risposta senza riuscire
a nascondere il suo stesso
stupore.
Alyssa
mi superò, avvicinandosi agli specchi.
«Ehi…
Questi sembrano come il portale di Kimon.»
Sfiorò la superficie opalescente di quello più a
destra e la sua immagine
cominciò a ondeggiare fino a scomparire, lasciando spazio a
una grotta scura.
Era
lo specchio dal quale proveniva la Voce di mia
madre.
Mi
accostai ad Alyssa, accompagnata dai ragazzi, per
osservare più da vicino la scena. Come nel mio sogno, le
donne giacevano a
terra, agganciate alle pareti tramite lunghe catene, e anche da lontano
si
potevano intuire i loro volti smunti.
Contai
mentalmente le figure, erano otto. Deimos
doveva essere già arrivato a destinazione, non capivo dove
potesse trovarsi la
nona Musa se non assieme alle altre. Forse…
«Sono
loro?» Il respiro di Emile mi solleticò
l’orecchio.
Annuii.
«Sì.
Ma sono solo otto, l’ultima Musa non è stata
ancora portata qui…»
«Forse
Deimos non è libero di muoversi come vorrebbe.
Oppure… Deve evitare di farsi notare. Per questo ci sta
mettendo più tempo del
previsto» concluse Raven, dando voce ai miei ragionamenti.
Pensavo
che Ade fosse all’oscuro di quello che stava
avvenendo, in quel caso avrebbe avuto senso il ritardo di Deimos.
Trasportare una
donna svenuta non doveva essere una cosa semplice da nascondere al
padrone di
casa.
Ero
ancora presa nei miei pensieri quando, a un tratto,
la Voce si azzittì e un rumore di passi cominciò
a provenire dal corridoio.
Alzai gli occhi su Emile, terrorizzata, mentre Raven correva a chiudere
la
porta.
«…Stanno
venendo qui!» dissi in un soffio, le parole ridotte
a un sussurro strozzato.
Cercai
di rimanere lucida e non cedere al panico, ma
il suono sempre più vicino dei passi e delle voci femminili
che avevo sentito
nella visione mi fecero balzare il cuore in gola.
Emile
si frappose tra me e la porta, con la mano
pronta a trasformare il pendente della sua collana in un gladio.
«Entriamo
nel portale!» Non ebbi il tempo di riflettere
più di tanto sull’idea di Alyssa ‒non che avessimo
altre alternative tra
l’entrare in uno specchio o l’affrontare il nemico‒
e mi trovai a spingere
Emile oltre il portale delle Muse.
«Veloce…!»
sussurrai a denti stretti, preparandomi ad
attraversare la superficie traslucida a mia volta.
Prima
che potessi seguire Emile e Raven però, una mano
forte mi agguantò per il corpetto di pelle.
Guardai
Alyssa con aria interrogativa, senza capire.
«Che
succede?»
Rabbrividii
nell’incontrare i suoi occhi di ghiaccio:
non erano mai stati così distanti.
«…Perdonami
Cithara» disse, prima di scagliarmi con
indifferenza verso un altro specchio.
Mentre
cadevo
all’indietro attraverso il portale, i suoni si spensero e
attorno a me tutto
venne inghiottito dal colore della notte.
---
Nota
dell'Autrice:
Chiedo
scusa per la
brevità del capitolo ma sembra che ci stia prendendo gusto a
terminarli con
colpi di scena! O meglio, spero che il gesto di Alyssa sia stato almeno
un po'
inaspettato.
Per
saperne il
motivo, naturalmente dovrete aspettare il prossimo capitolo!:) ...Che
vorrei
riuscire a scrivere il più presto possibile.
Ringrazio
ancora una
volta tutti voi che state continuando a seguire la storia di Thara e
spero che
vogliate accompagnarci fino alla fine di questo viaggio! ♥
N.B.
Riguardo alla ninna nanna:
premetto che è stata partorita dalla mia mente carente
di sonno alle 2 della notte, quindi è legittimo il fatto che
alcuni non ne
abbiano compreso il senso. :)
Tolte
le rime
astruse, il succo del discorso è che in realtà
Lynette/Calliope non aveva
davvero nascosto le sue origini a Cithara. Non le aveva di certo detto
di
essere una Musa o le aveva parlato del suo Dono da Semidèa,
ma nella ninna
nanna che le cantava quando era bambina ci sono tanti piccoli indizi
velati che
riportano all’identità di Lyn e Thara.
La
“Voce” che consola
Thara altri non è che il Dono dentro di lei, la
“Cura” che è in grado di
dissipare le tenebre che tanto la impauriscono.
“Il
mondo è una
grande Melodia”: all’inizio della storia si capisce
che Cithara associa alle
persone una determinata Melodia (da qui il nome della storia), per
questo il
mondo intero inteso come natura è Melodia.
“Rapsodia” è un altro modo per
definire la Poesia Epica della quale Lynette/Calliope è la
Musa.
Il
“non farti del
male” è riferito al Dono di Thara, ricordate che
quando ha ridato vita al
ramoscello di alloro ha sentito le forze venire meno? Il suo
è un Dono che -per
dirla alla “Fullmetal Alchemist”- necessita di uno
scambio equivalente. Se usa
la Voce, Thara perde energia vitale per trasferirla al soggetto che sta
curando. Per questo dice “conserva la Voce” e il
“non ti destare” sta lì
perché
si tratta pur sempre di una ninna nanna.XD
…Ok,
spero tanto che
questa spiegazione sia realmente servita a chiarire il significato
ermetico
della canzone e non abbia creato più confusione che altro.
^^’
Baci,
Remiel
♥
|
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Capitolo 17 *** Cap. 15 - Tacet ***
[Redemption
- Zack Hemsey]
[Crawl
- Superchick]
[The
Requiem - Linkin Park]
Buio.
Freddo.
Dolore.
Riuscivo
a pensare solo a questo, massaggiandomi le
tempie dopo essere rinvenuta.
Aprii
gli occhi con cautela, richiudendoli subito a
causa delle fitte atroci che mi attraversarono la testa come scariche
elettriche;
rimasi ancora un po’ a terra, cercando di riprendere
lentamente coscienza del
mio corpo.
La
schiena doleva da morire, sembrava che avessi
sbattuto su qualcosa di molto duro. Dovevo essere caduta male,
perché la testa
continuava a girarmi e urlare dal dolore.
Mi
lasciai sfuggire un rantolio di sofferenza nel
mettermi finalmente a sedere per cercare di capire dove fossi finita.
Tutto
era immerso nell’oscurità, solo qualche lieve
bagliore azzurro di tanto in tanto rischiarava il luogo in cui mi
trovavo.
Provai ad alzarmi, ma trovai una superficie liscia e fredda a
costringermi in
una posizione accovacciata. Dov’era lo specchio dal quale ero
entrata…?
L’ultima
cosa che ricordavo era il volto di Alyssa,
più severo che mai, mentre mi gettava al di là
del portale vicino a quello
delle Muse, dove si erano diretti Raven ed Emile.
«…Perché?»
fu la domanda che mi salì alle labbra in un
sussurro.
Non
poteva averci tradito. Non poteva fare anche lei
parte del piano. Tutto questo non aveva senso!
L’avevo
vista combattere contro Phobos e Deimos con i
miei occhi. Si era ferita anche lei, anzi, mi aveva addirittura
salvata. Per
quale motivo avrebbe dovuto tradirci?
“Il
modo migliore per far abbassare la guardia agli
altri è fare in modo che si fidino di te… Il
gruppo non penserà mai di covare
una serpe in seno.”
Scossi
la testa violentemente, tanto che le tempie ricominciarono
a pulsare.
«No.
No, non può essere vero!»
Ero
sicura di aver visto la vera Alyssa, seduta fuori
dal terrazzo di Kimon. Aveva abbandonato per un attimo la corazza,
permettendomi di scrutare nel suo cuore, e la Melodia che avevo sentito
era
pura e chiara come il suono di un’ocarina. Un anima con quel
suono non poteva
di certo fare una cosa del genere.
“Mentire,
mentire… Le persone sanno solo mentire.
Menti sapendo che anche gli altri mentono.”
«Cosa…?»
Ci misi un po’ a capire che la voce che
credevo appartenere ai miei pensieri era invece quella di Alyssa.
“Non
fidarti di nessuno. Aspettano solo il momento
buono per usarti a loro piacimento. Non farti usare, usali.”
Le
strette pareti tra le quali ero rinchiusa, rilucevano
di un pallido azzurro a ogni parola. Mi guardai attorno ansiosa
allungando le
mani verso le pareti. Ora che controllavo meglio, parevano proprio
fatte di
ghiaccio.
“Madre…
Madre, Riconoscimi. Dai un senso alla mia
esistenza. Io sto facendo come mi hai insegnato.”
Aveva
detto di essere stata cresciuta in orfanatrofio…
Perché appellarsi alla madre umana? Credevo fosse
più logico rivolgersi ad
Ares, per quanto non riuscissi a immaginare il dio della guerra nei
panni di un
bravo padre.
“Madre…
Sono nel giusto?”
Le
pareti cominciarono a vibrare.
“Madre…
Perché non rispondi?”
La
voce di Alyssa si incrinò in quello che sembrava un
pianto sommesso, mentre il ghiaccio brillava in modo malinconico per
poi far sprofondare
nuovamente la mia gabbia nel buio più assoluto. Aspettai
qualche secondo prima
di cadere nel panico.
«Alyssa?
Alyssa, mi senti? ...Maledizione, c’è
qualcuno?!»
Iniziavo
a credere che sarei rimasta rinchiusa lì dentro
per sempre quando un’altra voce familiare mi
solleticò l’orecchio.
«…Cithara,
puoi sentirmi?»
«Kimon?»
Non mi chiesi come era riuscito a raggiungermi,
il solo fatto di sentire una voce amica mi tranquillizzò.
«Wow,
allora questo gingillo funziona… Ecate non si
smentisce mai.»
«Ecate,
la dea della Magia?» domandai dubbiosa,
dimentica per un momento della mia situazione.
«Lascia
perdere… È una faccenda lunga da spiegare.
L’importante è che sia riuscito a stabilire un
contatto con te.»
Decisi
di sorvolare l’argomento Ecate e tornai a tastare
le pareti circostanti.
«Kimon…
Sono bloccata al di là di uno specchio. Non so
dove mi trovo o cosa fare per uscirne, non riesco a trovare il
portale.»
Dall’altra
parte, mi rispose la sua risata
cristallina.
«Eppure
te lo avevo detto prima che partissi… Devi
usare il Dono.»
Abbassai
le mani, portandole attorno al corpo per
abbracciarmi. Faceva sempre più freddo lì dentro.
«…Non
so come fare. Mi è capitato di usarlo solo una
volta, senza volerlo.»
In
quel momento, una voce femminile s’intromise e
Kimon tacque.
“È
giusto che tu veda.”
Era la seconda donna della visione, quella dal tono
mesto.
La
parete davanti a me tornò a brillare di un azzurro gelido
fino a generare un vortice argenteo. Quando la superficie del ghiaccio
si fu
placata, mi ritrovai a osservare la scena che si stava svolgendo nella
grotta
delle Muse come se la stessi guardando da un televisore.
Allungai
la mano verso lo schermo ma, nel sentire le
dita congelarsi, la ritirai con uno scatto. Per ora dovevo limitarmi a
osservare.
Le
Muse erano state tutte riunite, prive di forze e legate
una accanto all’altra a una lunga catena magica che emetteva
gli stessi
bagliori colore del ghiaccio che mi circondava. Sentii un peso sul
cuore quando
mi accorsi che Emile e Raven erano trattenuti per le spalle da Deimos.
Entrambi
stavano fissando Alyssa avvicinarsi alla
donna che aveva interrogato mia madre nel sogno, attoniti.
«…Cosa
significa?» ebbe la prontezza di dire Raven.
Notai che gli tremava la voce.
La
rossa lo fissò in silenzio, fu la donna a parlare.
«Sei
stata brava, bambina… Sono fiera di te»
mormorò
in tono affettato, carezzandole i capelli.
«Questo
e altro per Voi, madre.»
Mi
lasciai scappare un verso di stupore e anche i ragazzi
sgranarono gli occhi.
Emile
non poté far altro che ripetere la domanda di
mio fratello.
«Cosa
significa? Alyssa, cosa sta succedendo?» Sentivo
la sofferenza nella sua voce. Aveva pur sempre combattuto al suo fianco
nella
Caccia alla Bandiera e, a quanto avevo capito, potevano considerarsi se
non
amici almeno degli alleati comprovati.
«Ve
lo spiego subito… Alyssa è mia figlia»
fece la
donna. Realizzai che il bagliore rosso che avevo intravisto nella
visione,
altro non era che il riflesso dei suoi lunghi capelli: lo stesso colore
di
quelli di Alyssa. «Trovo riprovevole che non mi conosciate ma
vi svelerò lo
stesso la mia identità. Io sono Eris, la dea della
Discordia.»
«…Ma
Ares ti ha Riconosciuta! Ho visto il suo simbolo
volteggiare sulla tua testa, l’estate scorsa!»
sbottò Raven, cercando di
divincolarsi dalla presa marmorea di Deimos.
Eris
portò un braccio attorno ad Alyssa e rise. Sentii
la pelle accapponarsi a quel suono.
«Strano
che nessuno si sia chiesto perché Ares ci
abbia messo così tanto a Riconoscere una bimba valente come
lei! E nessuno
avrebbe mai pensato che un dio avrebbe accettato di Riconoscere una
figlia non
sua per un bene superiore… Ovvio.»
«Ares
l’ha Riconosciuta perché faceva parte del vostro
piano?!» Raven non poteva credere alle sue orecchie.
D’altronde, nemmeno io ed
Emile riuscivamo a crederci.
La
dea sorrise sinistra, assottigliando gli occhi da
volpe.
«Io
e Ares abbiamo un legame particolare… Credo che
almeno questo ve lo abbiano spiegato a scuola. Ci è voluto
un po’ per
recuperare le informazioni sulle nove Muse e, quando abbiamo scoperto
che una
di loro aveva avuto una figlia, abbiamo pensato che sarebbe stato utile
avere
una spia tra le fila del Campo Mezzosangue. Chi meglio di mia
figlia?» Fece una
pausa e si voltò a guardare Alyssa con uno sguardo amorevole
che mi pareva
trasudare falsità. «Sarebbe stata accettata
meglio se fosse stata Riconosciuta da un dio… E
Ares ha pensato che il
nostro piano fosse abbastanza interessante da darci il suo
appoggio.»
«…Cosa
hai fatto a Thara?» ringhiò Emile, in direzione
di Alyssa. Non sembrava aver posto particolare attenzione al discorso
della
dea. «Alyssa, cosa le hai fatto?!»
La
ragazza alzò gli occhi su di lui e rispose con espressione
noncurante.
«Ho
fatto in modo che non possa interferire. Dovresti
ringraziarmi, è più al sicuro di voi.»
Rabbrividii
nella mia prigione ghiacciata, il respiro
condensato in nuvolette. Forse ero al sicuro da una eventuale battaglia
ma se
fossi rimasta ancora a lungo avrei rischiato di cadere in ipotermia!
«Quale
sarebbe il vostro piano?» Il tono di Raven era
di accettazione. Si era arreso senza lottare?
La
donna che mi aveva permesso di assistere alla
scena, avanzò dall’ombra. Dei lunghi boccoli ebano
dal colore opaco le
incorniciavano il viso, gli occhi all’ingiù le
davano un’espressione triste.
«Eris,
è ora…»
«C’è
tempo, Nemesi. Non voglio privare i valenti Semidèi
giunti fin qui della spiegazione che bramano!» le rispose la
dea della
Discordia.
Tornò
a osservare i ragazzi con sguardo di sfida e
cominciò a parlare.
«È
da tempo immemore che Zeus relega alcuni di noi a
ruoli secondari, come se fossimo divinità di poca
importanza, comportandosi da
despota. Stanca di essere bistrattata, mi sono messa alla ricerca di un
modo
per fargliela pagare, assieme ad alcuni complici. Ho pensato e
ripensato a cosa
potesse creare seriamente problemi al povero Zeus… Cosa
può mai temere un dio
così potente come lui? Non riuscivo a trovare una soluzione,
finché non ho
compreso.» Parlando, aveva preso a camminare verso Emile e
Raven e, adesso che
era arrivata davanti a loro, si abbassò per fissarli negli
occhi. «La cosa di
cui un re ha paura è il Caos. Lo stravolgimento
dell’Equilibrio. Or dunque,
sapete che le Muse si sono allontanate dall’Olimpo? La
versione ufficiale è
che, estenuate dai numerosi problemi che derivano dal contatto
giornaliero con
divinità importanti, hanno deciso di vivere tra gli umani
limitando al minimo
le interazioni con l’Olimpo. Ma la realtà
è che la loro Linfa è in grado di
sovvertire l’Ordine.»
«Cosa?!»
Sapevo che non poteva sentirmi, ma portai lo
stesso le mani alle labbra per ammutolirmi.
Davvero
le Muse erano così importanti?
Eris
rise ancora davanti alle espressioni sempre più allibite
dei ragazzi. Sembrava che ci godesse nello stupire gli altri.
«Non
dovete essere così meravigliati! Le Muse, in
quanto padrone delle Arti, sono le protettrici dell’Armonia
del Mondo. Di
comune accordo, vedendo l’insofferenza che
s’impadroniva di una divinità dopo
l’altra, si sono allontanate dall’Olimpo per
preservare l’Equilibrio. Anche dopo
aver scoperto la potenzialità della loro Linfa, è
stato difficile risalire alle
loro identità umane. Ce n’è voluto di
tempo… Ma finalmente il giorno è giunto.
Credo che alcuni di voi Semidèi abbiano già
potuto saggiare la forza degli archetipi
rinvigoriti con la forza delle Muse.»
Emile
alzò la testa e vidi la sua espressione passare
dallo stupore alla consapevolezza.
Il
Leone di Nemea! Quel mostro, a differenza della sua
forma originaria descritta nei libri, sputava fiamme. Il loro grande
piano
consisteva nel creare mostri con dei poteri speciali in modo che
diventassero
imbattibili?
«Avete
intenzione di creare degli archetipi ancora più
potenti?» chiese Emile, un’ombra di nervosismo
nella voce.
«Oh
no, vogliamo fare molto, molto di più.» La dea
della Discordia gli alzò il mento con le dita e si
avvicinò ancora di più al
suo volto (forse, anzi, decisamente
un po’ troppo per i miei gusti). «…Con
la Linfa libereremo dal Tartaro tutti
gli archetipi, più potenti di prima, in una volta sola.
Creeranno il Caos sulla
Terra, ne puoi stare certo!» aggiunse con un sorriso melenso.
«Eris…»
le ricordò Nemesi. Iniziavo a capire perché
fosse così mesta; credo che stesse vivendo una sorta di
lotta interiore.
Dev’essere difficile essere al contempo la dea della Vendetta
e della
Giustizia, quasi un controsenso.
Eris
si allontanò dai ragazzi, lasciandoli alle
“cure”
di Deimos mentre si avviava verso lo specchio, trascinando dietro si
sé la
catena delle prigioniere. Le Muse sembravano esauste, camminavano come
spinte
da una forza invisibile lamentandosi di tanto in tanto senza opporre
una vera e
propria resistenza. Mia madre non era da meno, i capelli un tempo
lucenti erano
diventati un groviglio indistinto e camminava come le altre con le
spalle
incurvate. Durò qualche secondo ma vederla in quello stato
mi distrusse.
«Deimos,
Nemesi. Pensate voi a tenerli a bada. E
Alyssa… Mia cara, occupatene assieme a loro. Grazie ancora
per quello che hai
fatto.» Sorrise alla figlia prima di scomparire attraverso lo
specchio con le
Muse.
Subito,
Emile e Raven fecero del loro meglio per
sfuggire alle grinfie dell’energumeno, sotto lo sguardo
vigile della rossa e di
Nemesi.
In
realtà, la dea dai capelli ebano sembrava disinteressata;
diede le spalle ai due ragazzi, guardando dalla mia parte. Alyssa
assisteva ai
tentativi dei ragazzi con aria di superiorità, i suoi occhi
di ghiaccio ancora
una volta insondabili.
«Lasciate
perdere… Se aspettate buoni fino alla fine
non dovrete temere niente.»
Con
una testata, Raven destabilizzò Deimos facendogli
mollare la presa. Entrambi i ragazzi corsero a recuperare le armi a
terra ma il
dio si riprese subito, assaltando Emile che era più vicino.
Un
grido mi scappò dalle labbra quando lo vidi su di
lui ma ‒fortunatamente‒ Emile aveva già la spada in mano ed
era riuscito a
trapassare la spalla del dio, strappandogli un ululato di dolore.
«Non
dovremo temere niente, dici?» La voce affannosa
di Raven mi costrinse a cercarlo con gli occhi. Stava fronteggiando la
scure di
Alyssa con il suo coltello curvo e la fissava come se fosse stata
un’idiota. «Ti
rendi conto di cosa vogliono fare questi pazzi?! Non saranno in
pericolo solo
gli dèi o i Semidèi, anche gli esseri umani
rischiano la vita! Hai idea di cosa
potrebbero fare dei mostri impazziti in giro per la Terra?!»
Alyssa
non gli rispose subito, preferendo allontanarlo
da sé con un colpo rovescio della scure.
«…Tu
non sai cosa significa» sibilò tra i denti con
gli occhi che mandavano scintille.
«No,
TU non sai cosa significa tutto questo casino!»
ribatté mio fratello, tornando alla carica.
La
rossa parò il colpo, cercando di aprirsi un varco
nella difesa di Raven. Il suo grido risuonò tra le pareti
della grotta e le
fece tremare.
«Cosa
c’è di sbagliato nel voler essere amata dalla
propria madre?!»
Fui
costretta a tornare a guardare verso Emile per
accertarmi che stesse bene. Dopo aver provato
un altro assalto, Deimos era infine scappato dal portale
uggiolando come
un cucciolo ferito.
«Alyssa!
Dove hai portato Thara?!» si rivolse con
rabbia alla rossa.
Lei
schivò l’affondo.
«Te
l’ho già detto, è al sicuro. Di certo,
tu non la
puoi raggiungere.»
Avrei
voluto urlargli “Sono
qui!” o fargli capire in qualche modo che ero
ancora viva.
Certo, forse ancora per poco visto che la temperatura continuava a
diminuire.
Furente,
Emile tentò un altro attacco ad Alyssa, ma la
sua lama cozzò inaspettatamente contro quella di Raven.
«Non
fare il cretino, Noir. Eris si è portata dietro
le Muse e ha intenzione di compiere quella pazzia, credo che sia
più importante
seguirla che rimanere qui ad accanirsi contro di lei» fece,
indicando Alyssa
con un cenno del capo.
«Raven
ma… Thara potrebbe essere in pericolo!»
Intervenne
Nemesi, con il suo tono sommesso.
«…La
ragazza ha detto la verità. La vostra amica si
trova in un posto che non può essere raggiunto, deve trovare
il modo di uscirne
da sola.» Rabbrividii nel constatare che la mia unica via di
salvezza consisteva
in me stessa.
Vidi
l’indecisione farsi spazio sul volto di Emile, le
sopracciglia corrugate in un’espressione combattuta. Alla
fine, con uno sbuffo
di frustrazione, corse verso lo specchio. Nemesi non tentò
di fermarlo, anzi lo
osservò incuriosita.
«Lascio
tutto a te, Lionhard.»
«Dove
pensi di andare?» Alyssa stava per lanciarsi al
suo inseguimento ma Raven le si parò davanti col coltello
ricurvo ben stretto
nella mano.
«Mia
cara, mi concederesti questo ballo?» le disse,
tornando al suo solito fare baldanzoso e mimando un inchino.
Non
potevo esserne sicura, eppure mi sembrò che Alyssa
fosse arrossita.
«Sei
fastidioso, Lionhard.»
«Oh,
forse intendevi dire fascinoso!»
La
situazione mi sarebbe sembrata divertente se non
avessi avuto parte della mente occupata a escogitare un modo per uscire
dalla
mia prigione e un’altra in ansia per mia madre ed Emile. Per
non parlare di
Eleuse, non l’avevo ancora incontrata da quando eravamo
entrati negli Inferi!
Non potevo credere che fosse scomparsa nel nulla.
A
un tratto la visuale sulla grotta dove si stavano affrontando
Alyssa e Raven divenne sfocata.
“Adesso
sai.”
sussurrò
al mio orecchio la voce di Nemesi, mentre la visione scompariva del
tutto.
Rimasi
un attimo in silenzio, tornata al buio gelido
del ghiaccio, poi mi ricordai di Kimon.
«Kimon…?
Ci sei ancora?»
Un
lungo fischio di stupore mi segnalò la sua presenza.
«Oh
sì, ci sono. Credo di aver capito più o meno la
situazione… Si fa interessante. Piuttosto, non credi sia
arrivato il momento di
uscire?»
Non
sapevo davvero cosa fare.
«Pensi
che la tua amica ti abbia realmente tradito?» La
domanda a inaspettata mi lasciò confusa.
«Alyssa?
…Non credo lo abbia fatto per cattiveria.»
All’inizio mi ero sentita tradita dal suo gesto ma, quando
aveva urlato “Cosa
c’è di sbagliato nel voler essere
amata dalla propria madre?!” a Raven, mi si era
stretto il cuore. La stessa
ragazza che mi aveva confessato di essere vissuta in un orfanatrofio:
quella
era la vera Alyssa.
«Bene.
Dunque credi negli altri. Ora, se ti dicessi
che una tua cara amica sta aspettando che ti liberi da queste catene
per
liberare anche lei e portarla a casa?»
“…Eleuse!”
Il cuore
accelerò i battiti per l’emozione.
«…Eleuse
è qui?»
«Probabile.
Lo scoprirai solo se riesci a liberarti!
Io in…ce dev…» La voce del dio andava e
veniva, come quando il cellulare non
prende campo.
«Kimon?
Kimon?!»
«…tire
gli altr…on preoc…sa il Do…amo
dop…» riuscii
solo a sentire, finché il rumore cessò del tutto
e mi lasciò davvero sola. Al
silenzio e nel buio.
Strofinai
le mani contro le braccia per cercare di
trasmettere un po’ di calore al mio corpo ormai congelato.
“Il
Dono, il Dono… Devo cantare. Ma cosa devo
dire…?”
Con
il ramoscello di alloro non avevo pensato davvero
alle parole, erano semplicemente uscite dalla mia bocca come se fosse
la cosa
più naturale del mondo. Provai a riportarle alla mente.
«Melo̱día,
Óla
eínai éna kai éna eínai
óla…
I̱
zo̱í̱ mou, i̱ zo̱í̱ sas...»
♫♪♫
Non
sembrava funzionare più di tanto. In realtà, non
stava funzionando affatto.
Feci
dei respiri profondi per non cedere al panico.
E
se non fossi riuscita a usare la Voce? E se fossi
rimasta rinchiusa lì dentro per sempre? E se…
I
pensieri andavano a briglia sciolta.
Forse
Emile ce l’avrebbe fatta anche senza di me,
immaginavo che Kimon fosse andato ad informare le altre
divinità dell’accaduto
e che sarebbero arrivati presto i soccorsi. Ma sarebbero riusciti a
ritrovare
Eleuse? Davvero sarei dovuta morire lì dentro, senza poter
riabbracciare mia
madre? Ed Emile… Non potevo immaginare di non sentire
più il suo profumo, di
non poter più godere dei suoi baci e delle sue carezze.
Avevo paura che se mi
fosse successo qualcosa avrebbe potuto fare una qualche pazzia,
sentendosi in
colpa.
“…Fa
freddo”,
pensai
ancora una volta. Ero così stanca… “Padre,
ti prego… Aiutami.”
…Lentamente,
una Melodia mi affiorò alle labbra.
«Krýo,
kánei krýo.
Skotádi,
eínai skotádi.
Fo̱ní̱
gínetai Fo̱s mou.
Fo̱s,
gínetai Flóga.
Lió̱sei
o págos kai ta fó̱ta to drómo.
Libera
ména apó ti̱ fylakí̱!»
♫♪♫
“Freddo,
fa freddo.
Buio
, è
buio.
Voce,
diventa la mia Luce.
Luce,
diventa Fiamma.
Sciogli
il ghiaccio e illumina la via.
Liberami
dalla prigione!”
Sentendola
ardere, portai le mani alla gola. Sembrava
che ne scaturisse una luce che stava rischiarando le tenebre,
più nere della
pece fino a un momento prima. Il gelo iniziò poco a poco ad
abbandonarmi,
lasciando posto a una sensazione di tepore, e il bagliore azzurro del
ghiaccio
si dissolse, sciogliendosi.
Dovette
passare qualche minuto prima che potessi
riprendermi dalla sensazione di bruciore delle corde vocali, talmente
forte da
togliermi il respiro.
Alzai
lo sguardo mentre cercavo di tirarmi a sedere
dalla posizione carponi in cui ero caduta, alla ricerca di qualcosa di
familiare. Delle mani gentili mi presero per le spalle e mi aiutarono
ad
alzarmi.
«Sorella…
Ti sei sforzata troppo» mi sussurrò una
morbida voce maschile.
Un
uomo sulla quarantina dall’aria saggia, con una
barba grigia e i capelli mossi, mi stava fissando benevolo, posandomi
più volte
la mano sulla gola. A contatto con la sua pelle, il dolore diminuiva.
«Lei
chi è…?»
Il
sorriso si fece più ampio.
«Dammi
del tu, sono un tuo fratello. Mi chiamo
Asclepio.» Ricordavo qualche racconto di Emile al riguardo:
doveva essere il
dio della Medicina, come me figlio di Apollo. Era nato Semidio ma Zeus
gli
aveva poi concesso l’immortalità. Cosa ci faceva
un dio così, a zonzo per gli
Inferi?
Quasi
indovinando la mia domanda, si mise a ridere.
«Ah,
questo è un luogo dove molte anime sono costrette
a sopportare terribili sofferenze. Quando posso vengo a lenire il loro
dolore,
ma mai mi sarei immaginato di imbattermi in una giovane
satiro.»
Allora
era vero che Eleuse si trovava lì!
«Satiro?
Per favore, puoi dirmi dov’è adesso?»
chiesi
con trepidazione, ripresami del tutto dallo stordimento del freddo.
«Oh,
ma è proprio dietro di te.»
Mi
voltai lentamente, come in un sogno. Non feci in
tempo a vedere il biondo paglierino dei suoi capelli, che Eleuse mi fu
addosso,
abbracciandomi.
Scoppiai
in lacrime come una bambina, rilasciando
tutta la tensione accumulata in quei giorni in un pianto liberatorio.
«Thara…
Oh tesoro! Mi sei mancata!...»
Il
suono della sua voce mi sembrava la cosa più bella
del mondo, in quel momento. Volevo parlare e dirle quanto era mancata
anche a
me, ma le lacrime non mi lasciavano respirare e i singhiozzi
continuavano a
mozzarmi il fiato.
«Ele…
Avevo paura di non vederti più!» riuscii alla
fine a dire, col naso semi tappato.
«La
tua amica è davvero coraggiosa, è resistita tutto
questo tempo senza mangiare il cibo degli Inferi» fece
Asclepio.
Quando
mi convinsi a lasciare per un attimo il riparo
protettivo delle braccia di Eleuse, la guardai. Era dimagrita, il volto
era un
po’ incavato e il caschetto paglierino aveva un colore molto
più spento del suo
solito biondo. Gli occhi, però, erano rimasti quelli vivaci
di sempre.
«Cos’hai
mangiato in queste settimane» le chiesi allibita.
«Mi
ha aiutata il Maestro Asclepio. Senza di lui non
credo che ce l’avrei fatta» rispose, sorridendo
radiosa. Avevo paura che
scomparisse da un momento all’altro e la sfiorai
più volte per accertarmi che
fosse realmente davanti a me.
«Sorella,
non voglio interrompere questo incontro… Ma
adesso hai altro a cui devi pensare.» Sembrava essere
già al corrente della
situazione.
Osservai
il dio con gratitudine e annuii.
«Lo
so. Ho bisogno del tuo aiuto per raggiungere l’ingresso
del Tartaro.»
Asclepio
scosse la testa.
«Prima
bisogna avvertire Ade. Con l’aiuto dei suoi
demoni sarà più facile contenere
l’ondata degli archetipi.» Non mi lasciò
aggiungere altro e mi indicò lo specchio ‒presumibilmente
quello dal quale ero
uscita io. «Torna nella stanza dei portali e entra in quello
centrale, è
collegato direttamente alla sala del trono.»
Ero
un po’ dubbiosa: possibile che Ade non si fosse
ancora accorto del pandemonio che stava accadendo nella sua dimora?
Poi,
Asclepio era un dio mentre io una semplice Semidea. Sarebbe potuto
andare lui a
parlare con Ade.
…La
verità era che continuavo a pensare a mia madre
trascinata verso il Tartaro e a Emile, solo ad affrontare Eris. Sempre
sperando
che la dea non fosse già riuscita a compiere il rito,
perché a quel punto Emile
avrebbe dovuto combattere anche contro dei mostri semi invulnerabili.
«Non
potresti andare tu…?» provai a convincerlo, ma
Asclepio fu irremovibile.
«Ho
passato già troppo tempo negli Inferi, devo informare
Zeus di quello che sta avvenendo qui. Spero di essere di ritorno in
tempo utile,
ma è giusto che vada tu da Ade.»
Eleuse
mi strinse la mano nella sua con fare protettivo.
«Andremo
assieme.» Avrei preferito che si tenesse
fuori dalla battaglia, malconcia com’era, e mi ripromisi di
farla tornare a
casa il più in fretta possibile.
Salutai
con un inchino Asclepio, imitata da Eleuse, e
mi diressi verso lo specchio con la mia Custode al fianco.
«…Andiamo.»
“Emile,
mamma, resistete ancora un po’.”
---
Nota
dell'Autrice:
Aaaahem...
Come vi è
sembrato il capitolo? Sarebbe dovuto essere breve, e invece... XD
Spero
non siano state
troppe informazioni da digerire tutte assieme! E spero soprattutto che
vi sia
sembrato credibile il falso Riconoscimento di Alyssa da parte di Ares.,
con
annessa storia delle Muse.
...
Devo ammettere
che Emile non sta facendo bella figura ultimamente. u_u Si deprime, fa
promesse
che non può mantenere, perde le staffe facilmente,
aggredisce Alyssa (seppur a
ragione)... Povero ragazzo, bisogna rimediare. Raven invece si
è ripreso alla
grande e brilla come non mai nella sua figaggine! Uhm, sento odore di
Raven x
Alyssa o sbaglio...?;)
Comunque,
in questo
capitolo si è svelato tutto! Più o meno.
...Restate
con noi
fino allo scontro finale!
Remiel
♥
P.S.
Ecco uno schizzo
di Eris e Nemesi, per dare un'idea vaga di come le immagino.
Eris
Nemesi
|
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Capitolo 18 *** Cap. 16 - Crescendo ***
[Kingdom
-
Anathema]
[So
Cold - Ben
Cocks]
[Dissolved Girl -
Massive Attack]
Posai
la mano leggermente tremante sulla maniglia
della porta in onice nero, incerta.
Una
volta uscite dal portale, io ed Eleuse eravamo arrivate
in quella che sembrava essere un’anticamera
dall’aspetto lugubre. La stanza era
piccola e circolare, con le pareti scure; solo due lumi posti ai lati
della
porta ‒davanti allo specchio‒ a rischiarare le tenebre.
Come
sarebbe stato incontrare uno dei Tre Pezzi
Grossi? Il dio della Morte, per giunta…
Deglutii
rumorosamente, cercando di scacciare i brutti
pensieri.
“Al
diavolo, non può essere così terribile! Devo
sbrigarmi
e correre ad aiutare Emile.”
Il
braccio di Eleuse attorno alle mie spalle mi infuse
il coraggio necessario a girare la maniglia, quindi aprii la porta. Non
avevo
pensato alle regole basilari della buona educazione e mi chiesi se non
fosse stato
meglio bussare quando era ormai troppo tardi.
A
destra, un enorme trono di ossa fuse torreggiava
nella stanza, ancora una volta circolare, e sopra di esso era
rannicchiata una
figura dall’aria annoiata. Nel momento in cui aprii la porta,
Ade (chi altri poteva
essere?) si voltò verso di noi con un’espressione
confusa.
«Ma
cosa…?!»
Durò
solo un attimo e il dio si riprese, rabbuiandosi.
Si alzò imperioso e puntò contro di noi un dito
affusolato.
«Chi
diamine siete e cosa ci fate nel mio palazzo?»
Rimasi
atterrita per qualche secondo nel cercare di
escogitare una risposta decente.
Ade
era diverso dalle altre divinità che avevo incontrato
fino a quel momento, irradiava una potenza spaventosa. Era
destabilizzante.
Alto e magro, con la pelle tanto pallida da essere quasi livida, i
lunghi
capelli neri gli attorniavano il volto fino a giungere alle spalle.
«Divino
Ade» cominciai, una volta riavutami «Io sono
Cithara Greenwood, figlia di Apollo, e vengo per informarla di un grave
fatto
che sta avvenendo nel suo territorio…»
Il
dio non mi lasciò terminare la frase e schioccò
le
dita.
«Furie…!
Com’è possibile che abbiano oltrepassato la
sorveglianza? Maledizione, questo posto non è un parco
divertimenti…» Adesso,
sembrava più scocciato che adirato, come se avesse avuto a
che fare altre volte
con la violazione del proprio domicilio.
Alle
sue parole, tre esseri dalla testa di donna e il
corpo d’uccello giunsero dall’alto. Non mi ero
accorta che non ci fosse il
soffitto, lì sotto terra era così buio che era
difficile da notare.
Prima
che potessi replicare, Eleuse mi spinse da
parte, parandosi davanti a me.
«…La
prego! Divino Ade, ci ascolti. Ne và della sicurezza
dell’equilibrio!»
Ade
scosse la testa ancora più seccato di prima,
sbuffando.
«Pff,
adesso ci si mettono anche i satiri… Non ho
intenzione di perdere altro tempo. Lasciatemi alla mia tristezza e
andatevene!»
concluse, facendo cenno alle Furie di portarci fuori e non degnandoci
più di
uno sguardo.
Le
donne si avvicinarono con aria poco amichevole ad
Eleuse, che indietreggiò scalpitando impaziente con gli
zoccoli.
«Divino
Ade, rifletta! Se siamo qui è solo perché
vogliamo evitare una catastrofe, non è certo per recarle
disturbo.»
Il
dio voltò impercettibilmente gli occhi verso di me.
«…Cosa
può esserci di peggio degli ultimi tristi
giorni in attesa della mia consorte?» sussurrò con
voce grave.
Era
di cattivo umore perché gli mancava Persefone?
Sondai la sua espressione in silenzio, ragionando velocemente. Avevo
aperto una
breccia, ma adesso cosa potevo fare per farmi ascoltare?
«Andate
a infastidire qualcun altro.»
Alzai
lo sguardo puntandolo sul suo, profondo e
melanconico. Quando una Furia mi prese per il braccio, mi divincolai
con
fermezza.
«…Eris
ha radunato le Muse e si sta dirigendo
all’ingresso del Tartaro per compiere un rito.»
Finalmente
Ade si voltò del tutto verso di me con aria
guardinga ma interessata.
«Continua»
disse, fermando le Furie con un gesto della
mano.
Presi
un respiro profondo prima di proseguire.
«Ha
intenzione di compromettere l’equilibrio e far
uscire gli archetipi, potenziati rispetto agli originali, tutti in una
volta.»
Rimase
a fissarmi per un po’, tentennante.
«Può
controllare lei stesso nella stanza degli specchi!»
continuai, nella speranza di convincerlo.
Forse
fu un passo falso, perché si irrigidì sentendo
nominare la stanza.
«Bene!
Avete bighellonato nella mia dimora e pretendete
anche di dettar legge! Direi che ho ascoltato abbastanza.» Si
alzò dal trono e
fece per andarsene.
«Cosa
posso fare affinché lei mi creda?» Ero sicura
che avesse percepito la disperazione nella mia voce, ma non lo diede a
vedere.
Anzi, mosse una mano nell’aria volgendomi la schiena, a
simulare disinteresse.
«Oggi
mi sento magnanimo, vi farò solo rispedire a
casa dalle Furie.»
Stavo
per perdere la pazienza ‒la voglia di urlargli
contro come una pazza era incontenibile‒ ma sapevo che avrei ottenuto
solo
l’effetto contrario.
“Sto
perdendo tempo…!”
Poi,
un’idea mi balenò nella mente.
Orfeo
era riuscito a convincere Ade e Persefone con la
sua musica, perché non ci sarei dovuta riuscire
anch’io?
Chiusi
gli occhi e iniziai a pensare a come raggiungere
la Melodia di Ade, in pena per la lontananza della moglie. Lentamente,
delle
immagini cominciarono a delinearsi nella mia mente…
«Mátia
tou violetí,
ta
malliá tou kalampokioú pou.
Ta
chéria me pétala,
triantáfyllo
sto stóma.
Áro̱ma
ánoixi̱s,
Áro̱ma
Zo̱í̱s.»
♫♪♫
“Occhi
di violetta,
capelli
di grano.
Mani
di petali,
bocca
di rosa.
Profumo
di Primavera,
profumo
di Vita.”
Dal
fruscio della veste intuii che Ade si era girato a
guardarmi. Continuai a cantare con le palpebre chiuse, la figura di
Persefone
ora era talmente vivida che riuscivo a sentirne quasi la presenza
accanto a me.
«Eímai
polý makriá,
mazí
me ti̱n mi̱téra mou,
allá
eínai í̱di̱ Kalokaíri
Ptó̱si̱
érchetai.
Na
échete apachtèí
Kai
me ti̱n sti̱n pláni̱ écho̱ éthrepse:̱
Éxi
spórous rodioú,
éxi
mí̱nes mazí sas.
Edó̱
ta pánta eínai zo̱í̱,
edó̱
ta pánta eínai Í̱lios ...
Ómo̱s mou leípei
To í̱sycho apó to
spíti mou,
Skótous tou mou toméa,
i̱ sio̱pí̱ tou vasileíou
mou.
Kai metá apó
af̱toús tous
mí̱nes
Mou leípeis pára
polý.
Periménete Ádi̱,
Tha epanéltho̱ sýntoma,
na s 'agapó̱
kai
diépoun mas vasíleio mazí.»
♫♪♫
“Sono
lontana,
assieme
a mia madre,
ma
ormai è già Estate
l’Autunno
sta arrivando.
Tu
mi hai rapita
E
con l’inganno mi hai nutrita:
Sei
semi di melograno,
sei
mesi insieme a te.
Qui
tutto è Vita,
qui
tutto è Sole…
Eppure
mi manca
La
quiete della mia casa,
il
Buio del mio campo,
il
silenzio del mio Regno.
E
dopo questi mesi
Mi
manchi anche tu.
Aspettami
Ade,
tornerò
tra poco,
per
amarti
e
governare il nostro Regno assieme.”
Aprii
gli occhi e subito li abbassai per l’imbarazzo. Tutti
‒le Furie, Eleuse e soprattutto Ade‒ mi stavano guardando a bocca
aperta.
Ignorai
il bruciore alla gola derivato dal canto, e
tornai a parlare.
«…Ma
non ci sarà nessun regno su cui dominare se
lasciamo che Eris compia il rito. Anche l’Oltretomba potrebbe
venire sopraffatto
dall’ondata degli archetipi, oltre alla Terra.»
Il
dio mi fissò in silenzio con le iridi lucide.
«…Sei
figlia di una Musa. Ricordo un ragazzo col
potere simile al tuo…» disse, gli occhi persi nei
pensieri. «Non mi sarei
dovuto fidare di Eris e Nemesi. Le ho accolte in casa mia per
solidarietà,
perché anch’io non sono ben visto
sull’Olimpo, ed è così che mi
ripagano?!»
Da
arrabbiato incuteva davvero timore, alto quasi tre
metri e con la sua scura aura divina.
Si
diresse di gran carriera verso la stanza dalla quale
eravamo uscite io ed Eleuse, chiedendoci di seguirlo.
«Non
sapevo avessi quel potere…» mi sussurrò
la mia Custode,
dopo essersi avvicinata. Il suo tono tradiva l’emozione.
«L’ho
scoperto anch’io solo qualche giorno fa» decisi
di liquidare velocemente la faccenda, senza cogliere la sua muta
ammirazione.
Ormai
pensavo di aver capito il meccanismo: cantando
in greco antico potevo sprigionare tutto il potere della mia Voce e
utilizzare
veramente il Dono, mentre il canto in inglese non ne era che una
pallida
imitazione.
Sospirai,
conscia infine delle mie capacità, e deglutii
per saggiare la gola. Aveva ricominciato a dolere come in fiamme, ma
non avevo
il tempo di preoccuparmi anche di quello.
Quando
attraversammo il portale per tornare nella
stanza degli specchi, la figura di Ade torreggiava ancora davanti a me,
impedendomi la vista.
«Nemesi,
credo che tu mi debba delle spiegazioni.» La
voce del dio fece quasi tremare le pareti e gli specchi attorno a noi
cominciarono a vibrare.
Mi
sporsi di lato per cercare di vedere qualcosa. Nemesi
stava guardando Ade di sottecchi, forse con aria dispiaciuta, in piedi
accanto
ad un’Alyssa e un Raven decisamente malconci. Notai che Raven
le teneva le
braccia dietro alla schiena per impedirle di muoversi liberamente, non
che Alyssa
sembrasse desiderosa di combattere.
«…Non
sono riuscita a fermarla» rispose la dea.
«Non
mi sembra che tu ci abbia provato. Un bel
ringraziamento, davvero, attuare il vostro folle piano a casa
mia… Spero solo
di chiarire al più presto la mia estraneità a
tutto questo!»
Nemesi
abbassò il capo in silenzio, sempre guardando
Ade dritto negli occhi.
«Divino
Ade, credo che il tempo sia agli sgoccioli…»
Non avevo certo intenzione di interferire in una diatriba divina, ma il
pensiero fisso di mia madre e Emile in balìa di Eris
minacciava di mandarmi in
tilt. Avrei dovuto fare qualcosa prima di cedere totalmente al panico.
Finalmente
Raven si accorse di me e mi sorrise. Il
sorriso si fece ancora più largo quando vide anche Eleuse.
«State
bene entrambe!»
«Per
fortuna state bene anche voi» dissi, spostando lo
sguardo su Alyssa. Lei voltò il viso dalla parte opposta per
non incontrare i
miei occhi. Avrei voluto farle capire che non provavo risentimento, che
non la
ritenevo responsabile.
«Sì,
abbiamo avuto uno scontro un po’ movimentato ma
ora è tutto sottocontrollo» fece Raven, liberando
i polsi di Alyssa e posandole
una mano sulla spalla. Ora che guardavo meglio, un taglio abbastanza
profondo
gli percorreva il braccio sinistro. Mi chiesi come avesse fatto a
combattere,
essendo mancino…
«Giovane
Semidea, come hai detto non abbiamo tempo da
perdere. Devo chiamare la mia armata infernale a raccolta, chi
è in grado di
combattere mi segua» ci interruppe Ade, perentorio. Era
tornato lucido.
Raven
fece per accodarsi a me trascinando Alyssa,
quando mi ricordai delle condizioni di Eleuse.
«Raven…
Forse avresti bisogno di riprenderti. Quella
ferita sembra seria.»
«Questa?»
Alzò il braccio con fare non curante.
«È
solo un graffio. E poi non penserai che lascerò tutta la
gloria a te e Noir,
vero?» ridacchiò.
Lo
presi da parte, sotto lo sguardo vigile di Ade.
«Devi
farmi un favore. Torna nelle stanze di Kimon e
porta con te Eleuse. Necessita di cure, ma sai meglio di me quanto sia
testarda.»
«Thara?
Che succede?» Eleuse doveva aver capito.
«Ti
prego!»
Mio
fratello mi guardò in silenzio, incerto.
«…Tornerò
coi rinforzi, puoi scommetterci. Aspettami e
vedi di non fare niente di stupido!» mi rispose infine,
prendendo sottobraccio
la mia Custode e Alyssa.
«Ehi,
che fai?! Thara ti prego, non andare da sola!»
Mi faceva male separarmi da Eleuse dopo averla rincontrata, ma era per
il suo
bene. Annuii per convincermi e sorrisi.
«Grazie
Raven.» Mi voltai verso Ade. «Possiamo
andare.»
«Bene.»
Nemesi
era rimasta in disparte, in religioso silenzio.
Sapevo che non avrebbe interferito.
Mentre
seguivo Ade nello specchio di sinistra e mi
lasciavo alle spalle la stanza, mi accompagnarono le ultime parole di
mio
fratello.
«…Stai
tranquilla, sono certo che Noir sta bene e non
aspetta altro che mettersi in mostra.»
“Spero
che tu abbia ragione…”
---
Mi
guardai attorno disorientata.
Lo
specchio ci aveva portato in quella che sembrava
una steppa desolata, eccezion fatta per alcuni raggruppamenti di alberi
neri
dall’aria sinistra. Portai le mani alle braccia per
trasmettere un po’ di
calore al resto del corpo, rabbrividendo.
«Sono
le Praterie degli Asfodeli» mi spiegò Ade.
Camminava
con sicurezza sull’erba secca, invece per me
era difficile tenere il passo delle sue gambe lunghe, tanto che
rischiai spesso
di inciampare.
Rialzandomi
per l’ennesima volta, vidi in lontananza
una struttura che riconobbi come il castello dov’eravamo fino
a qualche minuto
prima, quando un particolare attirò la mia attenzione.
«Il
Tartaro è in quella direzione?» chiesi allarmata.
Un
orrendo bagliore violaceo scaturiva da una foresta
in lontananza, rifrangendosi sulle pareti della caverna che conteneva
l’intero
Oltretomba.
«Sì.
Ma quella boscaglia non dovrebbe esserci! Che sia
un effetto collaterale della linfa delle Muse…?»
Non
ascoltai oltre le parole di Ade, perché la paura
mi ottenebrò la mente.
“Emile
è lì!”
Iniziai
a correre.
«Aspetta!
È pericoloso per te!»
“Emile,
Emile, Emile…”
Corsi
come non avevo mai fatto in
vita mia. La luce viola si fece sempre più intensa,
finché un rombo mi fece
tremare la terra sotto i piedi.
«Emile!»
gridai con quanto fiato
avevo in corpo.
Sapevo
che nonostante corressi il
mio passo non sarebbe bastato a raggiungerlo in tempo.
Mi
scorrevano davanti agli occhi
tutti gli avvertimenti che mio padre mi aveva lanciato in quei giorni,
avvertimenti che avevo deciso di ignorare troppo ebbra della
felicità di aver
trovato nuovamente qualcuno da amare. Qualcuno di cui potermi fidare.
“Non
posso perderti così… Non posso perdere sia te che
mia madre!”
Mentre
la lacrime cominciavano a
scorrere dagli occhi appannandomi la vista, un urlo disumano si
levò dal fondo
della foresta e mi ferì le orecchie.
“…Ti
prego, non morire!”
ebbi il tempo di pensare, i polmoni in
preda alle fiamme e avidi d’aria.
---
Nota
dell'Autrice:
...Vi
chiedo
infinitamente perdono! *si genuflette* Sono stata totalmente assorbita
dalla
preparazione ai terribili esami universitari e non sono più
riuscita ad andare
avanti con la storia... Avete tutto il diritto di odiarmi.
So
che il capitolo
non è assolutamente lungo, ma dopo un'attenta riflessione ho
deciso di
separarlo dal resto della battaglia. Vorrei tanto che fosse una cosa
epica! Ok
no, so che sarà assai difficile riuscire a scrivere qualcosa
di epico... Ma io
ce la metterò tutta!
Per
farmi perdonare,
pubblicherò anche dei disegnini extra. °v°
Mi
scuso ancora una
volta e, se potete perdonare la mia lentezza, vi prego di rimanere con
noi.
<3
A
presto,
Remiel
♥
P.S.
Sì, l'ultima
parte è il Prologo. Siamo arrivati alla fine! Mi fa strano,
sono eccitata e
triste allo stesso tempo...
P.P.S.
Intanto, un
disegno di Thara nel cap.12, quando scopre il suo Dono. :D
|
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Capitolo 19 *** Cap. 17 - Eroica ***
[Call
your
name - Sawano Hiroyuki]
[Code
Name
Vivaldi - The Piano Guys]
[Immortalis
-
Future World Music]
[Robot
Koch
ft. John LaMonica -
Nitesky]
“Resisti,
manca poco!”
continuavo a ripetermi per spronarmi a correre. “Più
veloce… Più veloce!”
Nel
frattempo portai la mano al bracciale, tramutandolo
in arco. Sentendo il peso rassicurante dell’arma mi
confortai: avevo pur sempre
solo sei frecce ma almeno non ero disarmata.
Mano
a mano che mi avvicinavo, la boscaglia si infittiva
e rallentava la mia corsa.
«Maledizione!»
urlai disperata, accanendomi contro un
cespuglio di rovi che mi bloccava la strada. Quanto avrei voluto avere
una
spada in quel momento, invece che un arco…!
Ebbi
l’impressione che il passaggio si stesse restringendo,
tanto che mi sembrò di trovarmi in un tunnel piuttosto che
nell’immensa grotta
dell’Oltretomba. “Un
tunnel senza uscita,
immagino… Magnifico.”
All’improvviso,
un bagliore accecante mi costrinse a
chiudere gli occhi.
Ero
arrivata.
Rimasi
stordita per qualche secondo mentre cercavo di
riprendermi dalla visione paradossale che si stagliava davanti a me.
Eris
era protesa su di una grande voragine e stava
versando al suo interno un liquido dorato dalla coppa che teneva
stretta tra la
mani. Era proprio la coppa a rilucere di viola, così
violentemente da essere
abbagliante. Come se non bastasse, da quello stesso burrone si stava
levando
una nube dall’aspetto venefico che aveva preso ad avanzare
verso di me ‒o
meglio, verso l’uscita.
Vidi
la follia nello sguardo di Eris rivolto
all’abisso, assieme all’odio covato per
chissà quanti millenni, ed ebbi paura.
La sua risata cupa fece tremare le pareti della grotta.
«Finalmente!
Dopo tutto questo tempo…»
Come
in trance, cercai con lo sguardo le nove Muse.
Stese
prone in semicerchio dietro ad Eris e col volto
smunto rivolto a terra, erano ormai prive di forze. A vederle
così risultava
difficile sperare in una loro ripresa, pareva che le catene avessero
risucchiato loro ogni forza vitale. Gli anelli erano stretti attorno ai
polsi e
alle caviglie di ciascuna, collegando tra loro le donne, mentre i due
capi
delle catene erano ben saldati in un grosso cerchio, agganciato allo
stelo del
calice tra le mani della dea della Discordia.
“Ma
certo… Le catene!”
Dovevano essere quelle la causa delle loro
sofferenze!
Il
calice sembrava senza fondo, il liquido scorreva
inesorabile. Era la Linfa delle Muse?
Mi
concessi un’ultima occhiata alla massa indistinta
ch’era mia madre e avanzai. Ora come ora mi chiedo come
avessi potuto
dimenticare un dettaglio così importante, il vero motivo
della mia corsa folle…
Incoccai
una delle mie preziosissime frecce per
scagliarla contro la dea.
“Non
si è ancora accorta di me, è la mia occasione. Se
le strappassi quel calice dalle dita…”
Le
mani mi tremavano dalla tensione. Fu allora che una
dolce voce familiare riemerse dai miei pensieri per tranquillizzarmi.
“Rilassa
le spalle…
Prendi
bene la mira…
Tendi
l’arco…
…E
scocca!”
«Emile!»
Non
riuscii a cambiare la traiettoria della freccia
quando Emile mi si parò davanti all’ultimo. Il mio
cuore perse un battito
credendo di averlo colpito, ma tirai un sospiro di sollievo nel
realizzare che
l’aveva deviata da solo, con la lama della sua spada.
«Dèi,
grazie…» sussurrai, ricacciando indietro le
lacrime che minacciavano di uscire.
Ci
misi un po’ a capire che qualcosa non andava.
«…Emile?»
Cercai il suo sguardo, senza risultato.
I
suoi occhi verdi erano vitrei.
“Sono
inutile.”
Lo
guardai confusa. Non aveva parlato, ma era sua la
voce che avevo sentito.
“Cerco
sempre di aiutare gli altri… Perché? Per
sentirmi dire grazie? No, forse è per provare quella
sensazione di forza che
segue la resa degli altri. Se mi chiedi aiuto, allora riconosci che
sono più
forte di te. È appagante...”
Stava
succedendo la stessa cosa che mi era capitata
con la Voce di Alyssa nella prigione di ghiaccio.
“Sono
sempre stato debole. Come può qualcuno amare un
debole? Anche lei… Vuole proteggermi perché sa
che sono debole. Ma io non
voglio essere inferiore a nessuno!”
Alzò
il suo sguardo spento sul mio e giurai di aver
visto una scintilla rossa baluginare in quel verde.
«Emile,
cosa succede?» Cercai di suonare sicura ma mi
tremavano le gambe.
“Io…
Non voglio essere debole.”
In
un lampo mi fu addosso. Non tentai nemmeno di
evitarlo, era tutto troppo assurdo per essere vero.
«Uccidila,
sai che quando ti guarda amorevolmente in
realtà ai suoi occhi non sei altro che un gingillo da
proteggere. Ora che sa di
essere la figlia di una Musa e di un dio non avrà
più bisogno di te! Si beerà
del suo potere come tutti gli altri e ti
sottometterà.» Le parole di Eris mi
giunsero ovattate, l’unica cosa di cui ero consapevole erano
le mani di Emile
strette attorno al mio collo.
Ora
avevo la certezza che era stata la dea della Discordia
a instillarmi il dubbio appena uscita dalle stanze di Kimon. Il suo era
un
potere subdolo, forse peggiore anche di quello di Phobos, capace di
entrarti
dentro e minare la tua volontà con l’odio, la
paura e il rancore.
«Non
è vero…! Emile, sai che mente!»
mormorai tentando
di riprendere fiato, le mie dita avvinghiate ai suoi polsi.
A
cosa era servito scoprire il piano di Eris in anticipo?
A cosa era servito correre, disperarsi in quel modo?
“Non
sono debole. Sono forte. L’ho promesso a me
stesso.”
«E…mile…»
Quando allontanò una mano dalla mia gola,
una flebile speranza si riaccese in me, per poi lasciar posto
all’angoscia nel
vedere quella stessa mano raccogliere la spada da terra, al suo fianco.
Le
lacrime che avevo tentato di cacciare indietro scendevano copiose,
impregnandomi
i capelli e le orecchie.
Raccolsi
le ultime forze in un grido disperato.
«…Ti
amo!»
La
lama riflesse la luce viola del calice prima di attaccare.
Chiusi gli occhi d’impulso, preparandomi al dolore.
“È
la fine.”
Sentii
il rumore della lama penetrare nella carne. “Credevo
facesse più male… O no, forse sto
solo perdendo conoscenza.”
Un
liquido caldo mi bagnò il volto e il collo mentre
un forte odore metallico mi riempì le narici.
«Ahahah…»
La risata sofferente di Emile mi costrinse a
riaprire le palpebre. «…Sarei stato davvero un
debole se ti avessi fatto del
male. Ho giurato che ti avrei protetto da tutto, e questo significa
proteggerti
anche da me.»
Stringeva
ancora la spada nella destra, la lama conficcata
nell’altro braccio. Si era ferito per riprendere il controllo!
Ancora
troppo scossa per dire alcunché, mi limitai a
spostare le dita sul taglio.
«Emile…»
«Non
potrei mai colpirti, Thara» disse, posando rapidamente
le sue labbra sulle mie.
Un
mugghio aggressivo ci interruppe e mi fece balzare
il cuore in gola. Emile fu più lesto di me, si
alzò in fretta parando il colpo
del Minotauro appena uscito dalla voragine.
Rimasi
paralizzata per un attimo nel realizzare quanto
fosse enorme: alto poco meno di tre metri con delle corna appuntite
come rasoi,
gli occhi brillavano di un viola intenso. L’intero corpo del
mostro era
ricoperto da peluria ispida ma più di tutto mi preoccupavano
i suoi muscoli
rigonfi e pronti a scoppiare, quasi che grazie al rito di Eris avesse
fatto il
pieno di steroidi.
E
noi avremmo dovuto cercare di tenere a bada altri
mostri forti come ‒se non più‒ di quello?
“Padre,
fa che i rinforzi arrivino in fretta. Altrimenti
non ce la faremo mai.”
Mi
sollevai anch’io, recuperando velocemente l’arco e
incoccando una freccia, pronta all’attacco. Mi restavano solo
cinque frecce…
“Sono
stata un’idiota a non prendere una faretra seria
dall’armeria. Non l’avrei rubata, si sarebbe
trattato solo di ‘prendere in
prestito’…”
Sorrisi tra me e
me, perché stavo cominciando a ragionare come una figlia di
Ermes. Forse stare
con Emile aveva iniziato a influenzare anche il mio modo di pensare.
«È
inutile combattere! Arrendetevi, miserabili Semidèi,
non avete speranze di vincere!» gridò Eris
dall’altra parte della caverna, il
calice sempre stretto tra le mani. Dovevo sottrarglielo ad ogni
costo…
“Una
cosa alla volta.”
Emile
evitò l’ennesimo pugno lanciato dal Minotauro,
sgusciando dalla sua presa, e mirò alle gambe con la spada.
La lama rimbalzò
all’indietro contro la sua pelle coriacea.
«Porca…
Non può essere come quel maledetto Leone!»
imprecò Emile.
«Non
lo è infatti…» sussurrai, tendendo
l’arco. In
realtà non ne ero per niente convinta, ma avevo bisogno di
infondermi coraggio.
Il
Minotauro non si era allontanato molto dal luogo
dal quale era uscito, la fenditura era proprio dietro ai suoi enormi
zoccoli.
Se solo fossi riuscita a farlo indietreggiare appena ‒quel tanto che
bastava
per farcelo cadere dentro‒ almeno sarei riuscita a prendere un
po’ di tempo. Attualmente
sembrava l’idea migliore, soprattutto perché dei
ruggiti provenienti dalla
bocca del Tartaro preannunciavano l’arrivo di nuove creature
altrettanto
desiderose di ridurci a brandelli.
Scoccai
la freccia.
«Gwoooooh!!!»
«Bel
colpo, Thara!»
L’uomo
toro arretrò di qualche passo tra le grida di
dolore, tenendosi l’occhio ferito con entrambe le mani
artigliate. Un fiotto di
sangue e materia gelatinosa prese a scorrergli attraverso le dita e a
impregnargli la barba incolta.
“Non
è abbastanza…!”
pensai
mentre cercavo di rimanere lucida e trattenevo i conati.
Emile
lo colpì al basso ventre facendolo retrocedere
ancora, finché non decisi di sacrificare un’altra
freccia.
Questa
volta mirai al naso taurino. Con un ultimo
muggito, il Minotauro cadde all’indietro e scomparve
nell’abisso.
Non
ebbi il tempo di esultare, che degli occhi serpentini
attirarono la mia attenzione. Dapprima un paio, gli occhi parvero
moltiplicarsi
in mezzo alla nube viola sempre più fitta, tanto che mi
chiesi se non si
trattasse di un’allucinazione. La risata malefica di Eris
tornò a risuonare
attorno a noi, rimbombando tra le pareti.
Emile
si voltò verso di me gridando.
«Sta’
giù!»
Prima
che potessi correre al riparo, una raffica di
spilli piombò su di noi.
«Scusate,
è qui la festa?» Profumo d’incenso.
«Ehi
Noir, smettila di fare il figo. Pensavi che ti avrei
lasciato tutto il palcoscenico?»
Sussultai.
«…Kimon!
Raven!»
«Guarda
che ci siamo anche noi!» mi rispose la calda
voce di Loren.
Allontanai
la testa dall’abbraccio protettivo di Emile,
che si era buttato su di me all’attacco del mostro, e sorrisi
ai nostri
compagni. Grazie al tempestivo arrivo di Raven e Loren con due larghi
scudi
davanti a noi non eravamo stati colpiti dagli aculei velenosi.
«Alla
buon’ora eh?» fece Emile, aiutandomi a rialzarmi.
Qualcuno
replicò in tono sgarbato.
«La
colpa è vostra, avreste potuto invitarci subito!»
Non credevo Kimon avesse annoverato tra i rinforzi anche i figli di
Ares Lena e
suo fratello energumeno (che avevo scoperto chiamarsi Garrit).
Da
lontano, Martha mi mandò un bacio e strizzò
l’occhio, alludendo probabilmente alla mia vicinanza con
Emile. Stavo per farle
la linguaccia quando il sibilo stizzito del mostro mi fece accapponare
la
pelle.
Giusto,
non era ancora finita.
Quello
che si parava davanti a noi era uno scenario da
incubo: dal baratro era appena uscita l’Idra in tutta la sua
magnificenza, con le
nove teste che continuavano a fissarci con aria davvero poco cordiale.
«Ehm…
Non la ricordavo così grande» fu l’unico
commento
che fece Kimon, prima di eclissarsi. Era un dio, certo, ma non credevo
che
avesse qualche potere particolare oltre la sua aura assopente.
Immaginavo
avrebbe cercato di essere utile dalle retrovie.
«Bene,
dobbiamo resistere solo fino a quando non
arriveranno gli dèi, giusto? Poi ci penseranno
loro» chiese conferma Loren.
Anche in una situazione del genere non lasciava da parte quel pizzico
di svogliatezza
che lo caratterizzava.
Di
tutta risposta Raven caricò una delle teste
dell’Idra, spalleggiato dalle frecce di Martha.
«Per
tutti gli dèi, abbiamo l’occasione di entrare
nella storia Loren! Sii serio per una volta!» lo
rimbrottò nostra sorella.
Dentro
la caverna si era creato un putiferio, eliminare
l’Idra si stava rivelando più difficile del
previsto.
«Thara…
Forse è meglio se vai via. Qui è
pericoloso»
mi sussurrò Emile, prendendomi da parte. La ferita che si
era inflitto doveva
fargli male perché era diventato pallido, con la fronte
imperlata di sudore. Strappai
un lembo della mia maglia per stringerla attorno al suo braccio e
scossi la
testa.
«Devo
raggiungere Eris e toglierle quella dannata
coppa dalle mani, solo così gli archetipi smetteranno di
uscire dal Tartaro.»
“Solo
così riuscirò forse a salvare mia
madre.”
Abbassò
lo sguardo, pensieroso, prima di rispondere.
«…Ho
capito. Tu vai, ti copro io.»
Gli
accarezzai la guancia e poi iniziai a correre, abbassandomi
di tanto in tanto per evitare gli attacchi fulminei
dell’Idra. Dietro di me
sentii la lama di Emile cozzare contro quella che immaginavo essere la
pelle
del mostro.
Con
un’ultima capriola e un’agilità che non
credevo di
possedere, raggiunsi un punto abbastanza tranquillo da permettermi di
mirare al
calice e dargli la giusta traiettoria per allontanarlo da Eris.
La
Discordia sembrava inconsapevole di quello che le
stava accadendo attorno, teneva gli occhi rossi fissi sulla bocca del
Tartaro
mentre mormorava qualcosa di incomprensibile. Poteva un dio cedere alla
follia?
“Niente
distrazioni, tira!”
«Aaaargh!»
La
coppa rimbalzò sul terreno roccioso con un tintinnio,
scaraventata lontano dalla freccia. Eris si voltò di scatto
e mi fissò furente,
le iridi iniettate di sangue.
«Tu…
Hai idea di cosa hai fatto?! Hai interrotto il
rituale!»
Deglutii,
imponendomi di mantenere la calma e
mostrarmi decisa nonostante l’aura omicida emanata dalla dea.
Le puntai contro
l’ultima freccia che avevo a disposizione.
«Divina
Eris, è finita. Le altre divinità saranno qui
tra poco... Ha perso.»
Lei
cominciò a ridere in modo sgraziato, come se
avessi detto qualcosa di molto divertente.
«Ti
credi tanto grande perché hai più sangue divino
degli altri tuoi compagni, eh? Sì, è questa la
verità. Ma mi dispiace, arrivati
a questo punto nemmeno Zeus in persona può fermare il corso
degli eventi. Anche
se non tutta la Linfa delle Muse è finita nel
Tartaro… Buona parte di essa è
già stata assorbita dalle creature.»
Prese
un respiro e mi sorrise, mostrando i suoi affilati
denti bianchi.
«Il
Caos è giunto. Ho vinto.»
Un
nuovo terremoto scosse la terra, quasi a conferma
delle sue parole. Rabbrividii con orrore quando un paio di artigli
cercarono
appiglio tra le rocce e la testa leonina della Chimera sbucò
dall’abisso, seguita
dalla quella bicefala dell’Ortro e di non so quale altro
archetipo.
La
nebbia viola che non era riuscita a sfociare dall’imboccatura
del tunnel, ora stagnava nell’aria rendendola irrespirabile.
«Merda,
questi cosi non finiscono più!» sentii gridare
Lena.
Purtroppo
non fu necessario dare un’occhiata attorno
per capire che aveva dannatamente ragione e che eravamo in una
situazione
disperata.
Eris
rise ancora, di gusto, avvicinandosi a me. Speravo
che fosse l’effetto allucinogeno della nube o qualcosa del
genere, ma sembrava
che stesse aumentando di statura avvolta nella sua aura rosso granato.
«Dovresti
ringraziarmi, non farai nemmeno tanta strada
per raggiungere l’Eliseo al momento della
tua morte! Quando avrò finito con te troverai i
tuoi amici ad aspettarti
all’altro mondo.»
Il
panico mi assalì e mollai la presa sulla cocca della
freccia, lanciandola involontariamente verso la dea.
Lei
rimase imperturbabile anche con l’icore dorato che
le scendeva in un rivolo dalla nuova ferita sulla guancia, con quel suo
sorriso
perfido stampato sul volto.
Indietreggiando
mi trovai a toccare con la schiena le
pareti della grotta e realizzai di non avere vie di fuga.
Senza
un’arma e con le spalle al muro.
Ero
spacciata.
Il
terreno tornò a tremare ma questa volta anche Eris
trasalì, fino a quando qualche spiraglio di luce comparve
dall’entrata dov’era
nata la foresta.
«FUORI
DAL MIO REGNO!!!» La voce tonante di Ade
risuonò all’interno della caverna sovrastando
tutti gli altri rumori. «Eris,
sarai punita severamente per le tue colpe! Arrenditi!»
«Questo
mai! …Ade, proprio tu dovresti capirmi!»
sibilò lei, dimentica della mia presenza.
L’armata
degli Inferi era finalmente arrivata a dare
man forte.
«Desiderare
il Caos è qualcosa di malato, Eris!
Sconvolgere l’ordine è sbagliato. Anche il Regno
dei morti ha un ordine, tutto
deve averlo!»
«…Zeus
deve pagare!» Scandì ogni parola con odio.
Cercai
di
rendermi invisibile per non interferire con il loro diverbio. Assistere
a uno
scontro tra divinità era terribile, la tensione
nell’aria quasi soffocante.
Lanciai un’occhiata ansiosa a mia madre, ma da quella
distanza non riuscivo a
capire se si stesse riprendendo.
«Combatti
contro di me, se ne hai il coraggio. Zeus non è privo di
colpe però questo non
ti dà il diritto di venire a casa mia e coinvolgermi nella
tua vendetta
personale!»
Eris
si
allontanò da me procedendo a grandi falcate verso Ade,
più rabbiosa che mai.
«Io
sono
la Discordia!»
«…E
io
sono la Morte!»
La
terra
tremò ancora.
Ignorai
i
brividi e i crampi allo stomaco provocati dall’agitazione e
ne approfittai per
correre da mia madre, rischiando di inciampare sul terreno disconnesso.
«Mamma…
Mamma come stai?» sussurrai dopo averle preso la testa fra le
mani. Sostenere
il peso morto del suo corpo abbandonato mi provocò il magone
e lo sguardo spento
che mi rivolse fu come una pugnalata.
«Mamma…!»
Anche
le
donne al suo fianco avevano smesso da tempo di lamentarsi, giacevano in
pose
scomposte con gli occhi chiusi e il volto contratto in
un’espressione
sofferente.
Mi
rannicchiai su di lei per farle scudo col mio corpo dai rumori della
battaglia,
mentre le lacrime tornarono ad appannarmi la vista.
“Ci
dev’essere qualcosa che posso fare… Non
può morire
così!”
«Thara…
Bambina mia…»
«…Mamma!
Sono qui!» risposi, con rinnovata speranza. «Cosa
posso fare?!» Mi spaventai
della foga con cui glielo chiesi, sembrava più
un’imprecazione rivolta alla
sorte piuttosto che una richiesta disperata.
Mia
madre
riuscì solo a biascicare qualcosa prima di tornare
incosciente.
«…Le
catene…»
Subito,
presi le catene in mano saggiandone la consistenza e le battei sulla
roccia più
vicina. Come era ovvio che fosse, il metallo azzurrino non diede cenno
di
volersi rompere.
Mi
guardai intorno alla disperata ricerca di qualcosa di contundente
finché non
vidi luccicare una delle mie frecce. Corsi a prenderla e tornai da mia
madre,
cominciando a picconare gli anelli con violenza sempre maggiore.
«Perché
non ti rompi?! Perché?!» Un altro colpo. La punta
della freccia s’incrinò.
«Perché…»
Eppure
il
bronzo divino avrebbe dovuto rompere con facilità quelle
catene!
Stavo
per
abbandonarmi alla disperazione, non riuscivo nemmeno più a
vedere dove stavo
colpendo per colpa delle lacrime e finii per ferirmi alla mano.
«Mamma…»
Un
boato
proveniente dall’ingresso mi obbligò a voltarmi di
scatto.
«Mi
sembra un po’ troppo affollato qui dentro!»
osservò una voce maschile in tono
scherzoso.
«Tu
e le
tue solite manie di protagonismo…»
Questa
volta era stata una ragazzina sui dodici anni a parlare.
«Meritavamo
un’entrata in scena spettacolare. Siamo divinità,
sorellina» le rispose lui,
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Una
donna
con un’armatura lucente, una lancia in mano e
l’aspetto molto più serio di loro
li affiancò, mettendo fine al loro battibecco.
«Smettetela
di blaterare e proteggete i Semidèi!»
Dietro
di
lei si delineò la figura massiccia di un uomo con la barba
nera e grigia e un
cipiglio severo, una saetta sprizzante piccoli lampi stretta nella
destra. La
sua aura, in quanto a potenza, non aveva nulla da invidiare a quella di
Ade.
«Nessun
archetipo generato dal tuo rituale uscirà di qui,
Eris!»
Forse
sarei dovuta rimanere affascinata dalla forza emanata da Zeus, ma in
quel
momento ero troppo impegnata a osservare il ragazzo che era entrato per
primo.
Non
dimostrava più di vent’anni e, perfino nella
penombra in cui era caduta la
caverna, il biondo dei suoi capelli era così chiaro da
abbagliare. Nella sua
armatura dorata era magnifico, la perfetta incarnazione del Sole.
Quello
che avevo davanti agli occhi era mio padre.
Il
cuore palpitò
quando i suoi occhi incontrarono i miei. Mi aveva riconosciuta? Erano
anni che
non lo vedevo. Anzi, era la prima volta che lo vedevo nella sua
versione
giovanile.
«Thara…
Vai via…» Mia madre aveva riaperto gli occhi e ora
mi stringeva il braccio con
debolezza.
Scossi
la
testa con vigore, riprendendo a colpire le catene.
«Non
me
ne andrò senza di te.»
Una
mano
calda mi bloccò il polso a mezz’aria, mentre stavo
caricando un altro colpo.
«Lascia
stare, qui ci penso io.»
Non
mi
chiesi come avesse fatto a raggiungermi così in fretta
‒d’altronde era un dio‒
e rimasi a osservare Apollo spezzare le catene di tutte le prigioniere
con
facilità grazie a un pugnale. Le manette che stringevano i
polsi e le caviglie
delle Muse si aprirono, cessando di rilucere di azzurro.
«Ora
va
meglio» mormorò soddisfatto.
Tornai
a
guardare mio padre, in silenzio, rapita dalla sua figura simile a
un’apparizione. L’aura scintillante della sua
armatura era dannatamente ipnotica.
Apollo
diede
un bacio sulla fronte a mia madre, mi carezzò la testa e si
alzò sorridendo,
per poi tornare alla battaglia e sparire nella mischia velocemente,
così come
era giunto.
Restai
a
fissare il vuoto che aveva lasciato per qualche secondo prima di
concentrarmi
nuovamente su mia madre. Pur non avendo delle ferite visibili, tutte le
Muse
versavano in condizioni preoccupanti.
«Stai
meglio?» le chiesi.
Vedendola
annuire mi rilassai e sospirai di sollievo.
«Tesoro…
Hai usato il Dono?»
«Credo
di
sì… Sì.» Ormai non aveva
senso nasconderlo.
Inaspettatamente
l’espressione di mia madre si
rabbuiò.
«…Quante
volte?»
La
domanda mi lasciò spiazzata, ci misi un po’ a
rispondere.
«Io…
Non
lo so. Un paio di volte. Perché?» Presa
dall’ansia e dalla foga del momento
avevo dimenticato il male alla gola, che tornò subito a
farsi sentire.
«Non
devi
più usare la Voce! Altrimenti tu…»
«Thara!
Attenta!» urlò qualcuno.
Riuscii
a
girarmi in tempo per vedere una coda gigantesca dalle scaglie
adamantine venire
a tutta velocità verso di me, prima di venire scaraventata
contro la parete
rocciosa.
«Aaahhh!»
Soffocai
un gemito mentre il dolore si propagava lungo l’intero corpo
come una scarica
elettrica, la vista appannata. Portai la mano alla testa e la osservai:
stavo sanguinando.
Una
figura mi si parò davanti a tutta velocità,
fronteggiando il mostro per
difendermi.
Quando
finalmente riuscii a rialzarmi, misi a fuoco i capelli biondi del mio
salvatore.
«Papà…?»
sussurrai, per poi correggermi subito.
«…Emile!»
Non
so da
quanto stesse combattendo in quelle condizioni ma era ovvio che non
sarebbe
resistito a lungo. Alcuni dei lunghi aculei velenosi vomitati
dall’Idra
spuntavano dalle parti scoperte dal corpetto di cuoio, sulla schiena, e
una
lunga ustione gli copriva parte della gamba destra.
Presi
la
prima cosa che mi capitò tra le mani, una roccia, e la
scagliai contro il
Pitone con tutta la forza che mi rimaneva.
«Emile,
ti prego scappa!»
Lui
non
rispose e rimase stoicamente a difendere la sua posizione, senza cedere
di un
passo.
Non
stava
proteggendo solo me, si era messo davanti alle Muse esanimi per non
lasciarle
in balìa del mostro. Stava proteggendo anche mia madre.
Arrancai
verso di lui, urlando tra le lacrime.
«Padre!
Aiutami!»
Possibile
che nessuno potesse arrivare in suo soccorso?!
«Stai
lontana!»
Il
Pitone
emise un sibilo minaccioso e inarcò la schiena per
prepararsi all’assalto. Quando
vidi i suoi denti acuminati lacerare il braccio di Emile il tempo parve
rallentare.
La
lama
del gladio aveva passato da parte a parte la fauce superiore del
mostro, rubandogli
un grido di dolore, ma questo aveva arpionato il braccio di Emile e non
sembrava intenzionato a lasciarlo andare. Il sangue del Pitone
andò a
mescolarsi a quello del Semidio.
«Emile!!!»
Un
dardo
dorato perforò la gola del mostro, che dimenò le
spira in modo convulso fino a
sparire in una nube di fumo. Sapevo che era stato mio padre a scagliare
quella
freccia.
Con
un
clangore metallico, la spada rimbalzò a terra mentre Emile
cadde in ginocchio
prima di accasciarsi al suolo.
Mi
gettai
su di lui e lo presi tra le braccia.
«…Emile!
Ti prego, resisti…» Asciugai con violenza le
lacrime che mi ostacolavano la
vista, portando le mani al suo viso. L’odore acre del sangue
mi penetrò le
narici.
«Ehi…
Cos’è quell’espressione
triste?» mormorò con un
sorriso. Il morso del Pitone gli aveva lacerato il braccio riducendolo
a
brandelli e il sangue usciva abbondante. Mi accarezzò la
guancia con la
sinistra.
«Immagino
non sia una bella visione, eh…?» cercò
di
sdrammatizzare riferendosi alla ferita. «Per te che hai
così paura del sangue…»
Fu scosso da un colpo di tosse.
Avrei
voluto dirgli di smetterla, che quello non era
un problema adesso e che sarebbe andato tutto bene, ma non riuscivo a
parlare.
Continuavo solo a singhiozzare.
Improvvisamente,
come un raggio di sole si fa spazio
tra le nuvole dopo la tempesta, così la mia mente si
rischiarò e compresi.
Le
ultime strofe della Profezia…
“Una
cosa cara di certo andrà perduta,
ma
la sua importanza dipenderà dalla funzione
adempiuta”
Una
cosa cara… O meglio, una persona cara. Avevo
ritrovato Eleuse e mia madre sembrava essersi ripresa, senza le catene
ad
assorbirle la Linfa vitale.
I
rumori della battaglia si fecero improvvisamente
lontani, simili a una debole eco.
Colui
che avrei perso era Emile.
Tornai
al presente e osservai con nuova lucidità le
sue ferite, per cercare una conferma.
«Thara,
devi ascoltarmi…» biascicò mentre lo
giravo su
un fianco per estrarre gli aculei dell’Idra.
«Non
parlare. Devi mantenere le energie per quando ti
porteranno in infermeria.»
Sussultando
a ogni ago estratto, continuò.
«…Non
mi importa cosa succederà. Voglio solo che tu
sappia… Questi giorni al Campo, con te… Sono
stati i più belli della mia vita.»
Ignorai
il nodo alla gola che mi si era formato nel
sentire le sue parole e gli rivolsi un sorriso.
«Lo
sono stati anche per me.» Pregai con tutto il
cuore che non riuscisse a leggere nella tristezza dei miei occhi il mio
vero intento.
Nonostante
avessi cercato di tamponare la ferita, il
sangue non accennava a fermarsi.
«…Ti
amo.»
Lo
baciai sulle labbra, assaporando quello che sapevo
sarebbe stato il mio ultimo bacio.
«…Ti
amo anch’io» sussurrai.
Lui
chiuse gli occhi con espressione soddisfatta. Poteva
finalmente riposare.
«Sono
felice di averti conosciuta…»
Rallentai
il ritmo del respiro, socchiudendo le palpebre.
Mia madre mi aveva intimato di non usare ancora il Dono, probabilmente
avrei
rischiato la vita.
“La
persona per
la quale vivere, è anche la persona per la quale
morire?”
Lo
guardai per un’ultima volta e gli passai le dita
fra i capelli.
“…Sì,
lo è.”
«…Non
ti dimenticherò mai, Emile.»
Riportai
alla mente le parole che avevo cantato al
ramoscello di alloro. Che buffo, erano passati solo alcuni giorni
eppure pareva
fosse trascorsa un’eternità da quel giorno!
Cantai.
«Melo̱día,
Óla
eínai éna kai éna eínai
óla
I̱
zo̱í̱ mou, i̱ zo̱í̱ sas…»
♫♪♫
Una
luce calda mi pervase le braccia, irradiandosi
dalla gola, e andò ad avvolgere le ferite di Emile.
Il
flusso del sangue si interruppe, la bruciatura alla
gamba iniziò a guarire.
Sentii
qualcuno gridare il mio nome, forse era mia
madre.
«…To
rév̱ma roí̱ mésa sto Sýmpan,
af̱thórmi̱ti̱.
Epistrofí̱
sto Néa Zo̱í̱.»
♫♪♫
La
carne tornò a ricoprire il suo braccio, solo il sangue
sul terreno era rimasto a ricordare la ferita del Pitone. Lentamente,
il
colorito stava riapparendo sul volto di Emile.
Continuai
a cantare finché non sentii le energie abbandonarmi
e la testa cominciò a girare.
Il
dolore alla gola si era fatto lacerante, oltre ad ardere
ora era come se mi avessero costretta a ingoiare una miriade di spilli.
Con
le ultime forze, mi stesi al suo fianco. Osservai
il suo volto sereno e sorrisi.
«…Spero
tu possa essere felice.»
Ancora,
udii più voci chiamare il mio nome.
Poi,
il mondo
attorno a me divenne buio e la Melodia scomparve per lasciare spazio a
un
rassicurante Silenzio.
---
Nota
dell'Autrice:
...Quanto
ho faticato
per scrivere questo capitolo!ç_ç Spero che non
risulti come un'accozzaglia di
cose a caso, ma che abbia un nesso logico anche per voi lettori. Mi
è
dispiaciuto non poter dare molto spazio ai ragazzi del Campo ma,
essendo la
storia dal punto di vista di Thara, mi è sembrato
più naturale che corresse ad
aiutare la madre senza prestare troppa attenzione alla battaglia.
Se
qualcuno si chiede
il perché dell'arrivo dei ragazzi, ebbene ecco la
spiegazione: Raven (con
Eleuse e Alyssa al seguito) è stato accompagnato da Kimon al
Campo tramite uno
dei suoi portali. Lì, hanno spiegato la situazione a Chirone
e al Signor D. e
mentre questi decidevano il da farsi Raven è andato a
recuperare le persone di
cui si fida di più (Loren e Martha) per portarle con lui e
soccorrere Cithara.
Lena e Garrit lo hanno seguito perché adorano Alyssa e
volevano farla pagare ad
Eris per come l'ha trattata.
Inutile
dire che
l'hanno tutti perdonata. :)
Riguardo
questo
capitolo... Non dirò nulla oltre a "non disperate".
C'è ancora
l'Epilogo. ♥
Che
dire... Spero che
i disegni e il capitolo vi siano piaciuti! Restate con noi per
l'ultimo, vero
round finale!
Remiel
♥
|
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Capitolo 20 *** Epilogo - Ensemble ***
[Because
-
Yoko Kanno]
[Teardrop - Massive Attack]
Non
immaginavo
fosse così morire.
Immersa
in un
mondo tranquillo, nessun dolore, nessuna sensazione spiacevole. Solo un
dolce, calmo
oblio.
Ma
ecco che, proprio
quando stavo cominciando a pensare che sarebbe stato bello poter
rimanere per
sempre in quella nera quiete, una Voce si fece spazio nel Silenzio.
“…Thara…Cithara…”
‘No!
Non
interrompere questa perfezione. Questo posto è sicuro, qui
niente può ferirmi…’
“Cithara…
Non
dovresti essere qui. Tutti ti stanno aspettando.”
‘Tutti…?
Io
conosco solo il Nulla. Non c’è un Tutto.’
Un’altra
Voce,
questa volta più dolce.
“Siamo
in
pensiero per te, Thara… Ci manchi.”
Un’altra,
più decisa.
“Torna
con noi.”
Una
piccola luce
iniziò a brillare nel buio pulsando, dapprima debole e poi
più insistentemente,
quasi invadente.
‘Vi
prego, no… Il
Nulla è confortante, ho paura di conoscere il
Tutto.’
“Ma
tu lo conosci
già, devi solo ricordarlo. A volte è fonte di
sofferenza, ma è anche una gioia
immensa. Se rimarrai nel Nulla non potrai provare la bellezza del
Tutto.”
‘Io…’
Nel
Rumore creato
dalle Voci, si insinuò una Voce calda che non aveva ancora
parlato, prendendo
il sopravvento.
“Thara,
ho
bisogno di te.”
‘Emile…?’
La
luce divenne
accecante mentre dei flash attraversavano il buio e i ricordi
cominciavano a
fluire.
“…Ti
stiamo
aspettando.”
Finalmente,
il
Rumore si fece Melodia e il Tutto prese il posto del Nulla.
Riprendere
coscienza del mio corpo fu doloroso.
Prima
le spalle, le braccia e le mani, irrigidite e sofferenti;
poi il petto, il ventre, le gambe e i piedi intorpiditi. Da ultimi,
aprii gli
occhi.
Mi
accolse il soffitto della tenda dell’infermeria del
Campo.
«…Si
è svegliata!» trillò Eleuse, dopo
essere entrata
nel mio campo visivo con un’espressione radiosa.
Portai
involontariamente le mani alle orecchie (il
tono squillante della mia Custode sembrava troppo alto per essere
sopportato
dai miei sensi intontiti) e provai ad alzarmi.
Una
mano sicura ma gentile mi spinse nuovamente le
spalle verso la branda.
«È
troppo presto per rialzarsi, aspetta ancora un po’»
mi sussurrò mio padre.
Decisi
di ascoltare il suo consiglio e richiusi un attimo
gli occhi, massaggiandomi le tempie. Tornai con la mente a quello che
era
successo nell’Oltretomba…
Il
tradimento di Alyssa, la follia di Eris, l’assalto
degli archetipi, l’arrivo delle divinità, il
salvataggio di mia madre… Il
ferimento di Emile e la mia drastica decisione. La Voce e il Silenzio.
Deglutii
cautamente al ricordo della sensazione orribile
che mi aveva attanagliato la gola durante il mio ultimo canto, ma il
dolore
sembrava essere svanito. Degli spilli acuminati restava solo un lieve
formicolio.
“Cos’è
successo
dopo?”
mi domandai, senza la forza per
parlare. Voltai gli occhi per cercare un responso e, prima che dovessi
dar voce
al mio quesito, mia madre mi rispose.
«Dopo
aver usato il Dono sei svenuta. Se ci fosse stato
Asclepio…»
Apollo
le poggiò una mano sulla spalla.
«…Se
la sarebbe cavata lo stesso. La nostra bambina è
molto forte e coraggiosa.»
Abbozzai
un sorriso abbassando lo sguardo, certa di
essere arrossita.
Era
davvero bizzarro vedere mio padre nella sua
versione giovanile, assieme alla mamma con il suo solito aspetto da
donna adulta
ma senza età. Accanto a lui, adesso anche mia madre sembrava
più giovane.
Provai
a mettermi a sedere ancora e questa volta Eleuse
mi aiutò.
Una
lieve agitazione si impadronì di me quando notai
che attorno al letto c’erano solo loro tre, degli altri
nessuna traccia.
“Gli
altri stanno
bene?”
Inevitabilmente, il mio pensiero volò
di nuovo ad Emile.
Eleuse
si accorse della mia ansia.
«Oh
Thara, stai tranquilla! Nessuno ha riportato ferite
gravi…» mi passò una mano tra i capelli
con sguardo dolce «Hai perso un po’ di
cose, sei stata addormenta per una settimana.»
Sgranai
gli occhi e aprii la bocca per lo stupore.
“Una
settimana!”
«…Forse
dovremmo ringraziare anche Kimon se ti sei
risvegliata. È stato lui a guidarti nel sonno, cercando di
mettersi in contatto
con te. Ha sprecato molte energie» aggiunse poi, volgendo la
testa di lato
verso una delle tende che dividevano il mio letto dagli altri.
Un
sentore di incenso si sparse per la stanza quando
una mano scostò la tendina e la testa di Kimon fece
capolino. Era steso sulla
branda vicino alla mia e aveva un’espressione provata,
nonostante il sorriso
che gli rallegrava gli occhi.
«Non
si abbandona una principessa in difficoltà, era
il minimo che potessi fare» disse, facendo
l’occhiolino.
Eleuse
sbuffò divertita e si alzò per richiudere la
tenda e intimargli di riposare.
Sorrisi
anch’io, rilassandomi: gli altri stavano bene.
E…
«…Ah,
anche Emile sta bene. È stato accanto al tuo
letto per tutti questi giorni, l’ho dovuto mandare via
letteralmente a calci
per obbligarlo a prendere una pausa!» mi anticipò
Eleuse.
Tirai
un sospiro di sollievo. Avrei voluto chiedere
tante altre cose, ma continuavo a sentirmi spossata...
“Cosa
n’è stato
di Eris?”
Mio
padre mi fissò intensamente, prima di rispondere
alla mia tacita domanda.
«Eris
è stata punita da Zeus con l’incarcerazione in
un luogo sperduto dell’Oltretomba. Sta progettando una pena
esemplare che le
faccia passare la voglia di mettersi contro di lui. Nemesi, invece, se
l’è cavata
con l’esilio momentaneo dall’Olimpo.»
Ricordai
che anche Ares era implicato nel piano e
ripensai ad Alyssa.
«Ares
è stato solo redarguito» continuò, con
espressione
torva «Con lui nostro padre è stato troppo
buono… Sono sicuro che creerà ancora
problemi in futuro, come ha sempre fatto
d’altronde.»
Speravo
con tutto il cuore che almeno non li avrebbe
più creati a noi.
Aprii
la bocca per parlare, decisa a chiedere qualche altra
informazione su quella settimana passata nell’oblio, ma mi
bloccai all’istante.
Ingoiai un po’ di saliva e provai ancora, l’ansia
che tornava a crescere dentro
di me.
Al
terzo tentativo fallito, abbassai lo sguardo confusa,
portando le mani alla gola.
Nonostante
non provassi alcun dolore, il formicolio
che avevo sentito appena ripresi i sensi c’era ancora e avevo
decisamente
qualcosa che non andava. Non riuscivo ad emettere alcun suono.
Rialzai
gli occhi e incontrai quelli tristi di mia madre.
«Hai
usato troppo la Voce, Thara. È un miracolo che tu
sia con noi qui, sana e salva.»
Eleuse
si limitò a continuare a carezzarmi i capelli
con fare protettivo, mentre prese la parola mio padre.
«Sei
in grado di trasferire la tua energia agli altri,
tramite il tuo Dono. Quando Asclepio ti ha curato eri in una situazione
disperata e ha dovuto concentrarsi sul ripristinare le funzioni dei
tuoi organi
vitali… Il ragazzo che hai curato era sull’orlo
della morte per questo la Voce
ti ha prosciugato ogni risorsa.»
Assunsi
uno sguardo deciso, pronta ad assorbire il
colpo delle sue prossime parole.
«…Mi
dispiace, ma sembra che per ora le tue corde
vocali siano inutilizzabili.»
Ecco
il vero prezzo di cui parlava la profezia: la mia
voce. Ero diventata totalmente muta.
Mi
ripresi, scossi la testa e sorrisi ai miei genitori
e ad Eleuse per tranquillizzarli. Ero stata pronta a morire per Emile,
perdere
la voce era il minimo che potesse accadermi.
«…Ma
Asclepio ha detto di non disperare! Il tuo è un
potere curativo, quindi se starai a riposo le corde vocali potrebbero
guarire
da sole» cercò di rassicurarmi Eleuse, piena di
ottimismo.
Poggiai
la fronte sulla sua e la ringraziai con gli occhi.
«Perdonatemi,
ma adesso devo andare. Mi chiamano i
miei doveri di dio» fece Apollo, avvicinandosi a me per
un’ultima volta. Chissà
quando avrei potuto rivederlo…
Rimasi
colpita dal suo abbraccio inaspettato e risposi
in ritardo, un po’ in imbarazzo. Mi baciò la
fronte e si rialzò.
«Forse
non è molto, ma ricorda che potrai sempre
continuare a parlare al cuore degli altri con il tuo violino»
mi disse
sibillino, prima di allontanarsi.
«Devo
andare anch’io per sistemare le ultime cose con
le altre Muse. Mi mancherai tanto…»
mormorò mia madre con aria dispiaciuta. Mi
abbracciò deponendomi un dolce bacio sulla guancia.
«Tornerò tra qualche giorno
a prenderti, fai la brava.»
Avevo
quasi dimenticato che la stagione estiva era
ormai finita, era ovvio che la maggior parte dei Semidèi
sarebbe tornata dalle
rispettive famiglie, ma nel realizzarlo mi prese un moto di tristezza.
Guardai
i miei genitori sparire dalla mia vista e tornai
a concentrarmi su Eleuse.
«Forse
dovrei raccontarti quello che è successo in
questi giorni…» cominciò, sedendosi
più comodamente su parte del mio letto. «Si
è generato un bel trambusto quando siete tornati al Campo.
Tu ed Emile eravate
incoscienti ma, mentre lui sembrava stare bene, il tuo battito era
molto
debole. Ho creduto di morire quando ti ho vista così
pallida, quasi non
respiravi…» asciugò una lacrima furtiva
sfuggita dalle palpebre e si concesse
un attimo per riprendersi.
«Gli
altri stavano bene. L’unico ferito più gravemente
era Raven, penso che abbia dato tutto se stesso per farsi notare da
vostro
padre. Non lo aveva mai visto prima…»
Sperai
che Apollo avesse salutato anche i miei fratelli,
uscendo dal Campo.
«…Comunque,
tu non davi segno di volerti svegliare
anche dopo essere stata curata dal divino Asclepio. Ha detto che eri
caduta in
un sonno profondo indotto dal tuo Dono per non farti soffrire, dal
quale ti
saresti potuta destare da sola. Allora, Kimon ha deciso di provare ad
aiutarti
e ha passato tutti questi giorni accanto al tuo letto per mettersi in
contatto
con te e spronarti a tornare da noi. Emile si è ripreso dopo
un giorno di
riposo e da quel momento non si è più mosso dal
tuo capezzale… Non ho esagerato
quando ho detto che l’ho mandato via a forza. Se
n’è andato solo dopo aver
parlato con tuo padre, è stata dura convincerlo.»
A questo punto mi sorrise. «Sono
contenta che stiate assieme. Emile è un ragazzo
d’oro e non potevo sperare di
meglio per la mia protetta» fece, schioccandomi un sonoro
bacio sulla guancia.
Risi,
afona, e tentai di chiederle di Alyssa. Assunsi
un’aria corrucciata e mi lisciai i capelli, tirandoli con le
mani, per simulare
una buffa caricatura della rossa.
Eleuse
scoppiò a ridere.
«…Intendi
dire Alyssa? Anche lei sta bene. Non è stata
punita e sembra che rimarrà nella Casa di Ares, visto che
ormai il dio l’ha
riconosciuta. Si è già ambientata e farla tornare
come Indeterminata in quella
di Ermes non avrebbe senso… Finché saranno solo
dodici le Case divine, resterà
lì.»
Annuii,
compiaciuta della scelta di Chirone.
La
mia Custode rimase per un attimo a guardarmi
amorevole e poi si alzò dal letto.
«…Vado
a chiamarti Emile?»
Scossi
la mano, portandola al petto e alzandomi a mia
volta. Ora mi sentivo bene, sarei andata io da lui.
Roteò
gli occhi per dimostrare il suo dissenso ma mi
sostenne con un braccio attorno alla vita.
«Okay,
ma non sforzarti troppo. Forse è nella sua
stanza.»
La
ringraziai, separandomi da lei all’uscita
dell’infermeria. Sapevo dove lo avrei trovato.
La
calda brezza estiva s’infilò furtiva tra le pieghe
del vestito, minacciando di alzarmi la gonna. La rassettai con la mano
libera
dalla custodia del violino e un sorriso mi affiorò alle
labbra.
Avevo
deciso di andare a prenderlo nella mia stanza
prima di raggiungere Emile, per dare ascolto a mio padre.
Già una volta avevo
suonato per lui e il mio violino aveva accarezzato la Melodia del suo
cuore, se
adesso non potevo esprimermi a parole allora lo avrei fatto con la
Musica.
Procedetti
con calma verso il nostro luogo d’incontro,
quello dove mi allenava in segreto, certa di trovarlo lì.
“…Infatti.”
Era
steso sull’erba, all’ombra di un albero, con lo
sguardo pensoso rivolto al cielo. Il biondo dei suoi capelli brillava,
e la sua
espressione assorta lo rendeva ancora più bello di come lo
ricordavo, molto
simile a una di quelle malinconiche statue greche che avevo visto nei
libri di
Arte.
Avanzai
di qualche passo e
lui mi sentì. Spostò gli occhi su di me in
silenzio, alzandosi subito per raggiungermi anche se
all’inizio un po’ titubante.
Negli
interminabili secondi in cui mi guardò, vidi
diverse emozioni attraversargli il viso: sorpresa, sollievo,
preoccupazione,
sofferenza, amarezza, vergogna. Ma l’ultima, quella che
illuminò il suo volto
quando gli sorrisi, mi fece sentire davvero al sicuro. Amore, oltre
ogni
limite.
Abbandonai
ogni remora e gli corsi incontro, saltandogli
al collo.
«Thara…!»
Non disse altro, continuando a stringermi
tra le sue braccia e pronunciando il mio nome in un sussurro sempre
più debole,
finché non fu costretto a tacere per trattenere le lacrime.
Sciolsi
l’abbraccio e portai la mano alla sua guancia,
baciandolo dolcemente.
«Io…
È colpa mia, ancora una volta ti ho messa in
pericolo.»
Scossi
violentemente la testa, per fargli capire che
era nel torto. Lasciai la custodia del violino e gli presi il volto con
entrambe le mani, guardandolo negli occhi e cercando di trasmettergli
tutto il
mio amore.
“Tu
mi hai
salvata.”
dissi con le labbra.
Nel
Nulla, la Voce portante era stata quella di Kimon
tra quelle degli altri, ma senza la sua
Voce probabilmente non sarei mai uscita dall’oblio. Gli dissi
tutto questo con
un sorriso, sollevata nel vedere il tormento nel suo sguardo lasciare
spazio
alla speranza.
Appoggiò
la fronte sulla mia, le sue mani calde sulla
mia schiena.
«Non
ringrazierò mai abbastanza Asclepio e Kimon… E
non ringrazierò mai abbastanza te.» Poi mi
guardò severo. «Sei stata
sconsiderata a usare il tuo Dono su di me, avresti dovuto lasciarmi
morire.»
Chiusi
le palpebre, avvicinando di più il mio viso al
suo. L’attesa mi rese febbrile.
«…Ma
se posso stare ancora al tuo fianco lo devo a te,
e sono felice che tu lo abbia fatto» concluse, baciandomi con
maggiore ardore e
stringendomi come se avesse paura che fossi un sogno e potessi svanire
da un
momento all’altro.
Mi
adagiai sull’erba con lui, dimentica del resto.
Quando il mio piede sfiorò il violino lo allontanai con
premura, soffocando una
risata assieme ad Emile.
“Oh
beh… Forse ci
sono anche altri modi per toccare il suo cuore ed esprimergli il mio
amore.”
---
La
folla proruppe in un applauso e in fischi di approvazione,
alcuni chiesero addirittura il bis.
Leggere
la soddisfazione negli occhi di Raven mi
rallegrò, tanto che anch’io mi lasciai andare allo
stato di euforia in cui era
caduta l’intera Banda del Campo. Insomma, il Concerto di fine
estate era stato
un successone.
Emile,
Eleuse e mia madre si avvicinarono, complimentandosi
con me e i miei fratelli per l’ottima esibizione, nel mentre
si formarono dei
piccoli gruppi di Semidèi che si salutavano e si davano
appuntamento all’estate
successiva, tra lacrime e abbracci.
Per
quanto assurdo che fosse, mi era sembrato di aver
scorto Apollo tra la folla e credo che pure Raven se ne fosse accorto.
Forse
anche per quello aveva suonato in modo eccellente, ancora di
più rispetto alla
sua solita perfezione.
“Devi
essere
fiero dei tuoi figli, padre, sono dei ragazzi meravigliosi. Anzi, tutti
dovrebbero essere fieri dei propri figli. Nessuno di noi dovrebbe
rimanere
Indeterminato.”
Mi ritrovai a
pensare che sarebbe stato bello se un giorno ogni Semidio sarebbe
potuto essere
riconosciuto dal proprio genitore divino.
Ero
persa in queste riflessioni quando Alyssa mi venne
in contro.
Emile
mi cinse la vita con le braccia, squadrandola a
lungo, ma lo tranquillizzai carezzandogli una mano e rivolsi un sorriso
accomodante alla ragazza.
Lei
distolse lo sguardo.
«…Volevo
chiederti scusa» iniziò. «Mi dispiace di
aver
tradito la vostra fiducia. Non mi aspetto il tuo perdono, Cithara, e
nemmeno la
tua comprensione, io… Ecco, volevo solo scusarmi e augurarti
un buon ritorno a
casa» mormorò in un soffio.
Le
presi una mano tra le mie, facendola trasalire, e
la portai al cuore.
“Non
hai colpe.
Io ti perdono e, anzi, spero che potremo diventare amiche.”
Ora
fui io a sussultare, vedendo i suoi occhi velarsi
di lacrime. Fu un attimo, poi Alyssa nascose il volto dietro a un
braccio con
fare un po’ stizzito.
«…Io
rimarrò qui. Se venissi a trovarmi ogni tanto, anche
prima della prossima estate, ne sarei felice.»
La
lasciai ancora senza fiato, sfuggendo alla stretta
di Emile e abbracciandola.
Da
lontano, Lena urlò leggermente irritata mentre si avvicinava
con Garrit.
«Piccoletta,
smettila di dare fastidio a nostra sorella!
Non vedi che la stai soffocando?»
Liberai
Alyssa dall’abbraccio e sorrisi di più.
Martha
‒da bravo gazzettino del Campo Mezzosangue‒ mi
aveva avvertita di come Lena e Garrit si fossero stretti ancora
maggiormente
attorno ad Alyssa da quando avevano scoperto la verità. Per
loro era un’amica a
tutti gli effetti, quasi una sorella, e non l’avrebbero
lasciata da sola per
niente al mondo.
«…Resteremo
anche noi al Campo» aggiunse Garrit, a
conferma delle parole di Martha.
Potevo
stare tranquilla che non si sarebbe annoiata
durante l’inverno.
«…Rimarrò
anch’io al Campo ad allenarmi. La prima
Caccia alla Bandiera della prossima estate la vinceremo
senz’altro noi figli di
Apollo, così come tutte le altre!» fece Raven,
sbucando da dietro Alyssa
e posandole il braccio attorno alle
spalle, con uno sguardo beffardo a Lena e Garrit.
La
rossa scostò il braccio di mio fratello e tornò
l’Alyssa ostinata che mi aveva placcato nei bagni del
padiglione di tiro con
l’arco.
«Dovranno
passare secoli prima che tu possa battermi,
Lionhard. Negli Inferi sono stata magnanima, ma non ti
lascerò vincere qui al
Campo!»
Raven
scoppiò a ridere e le cinse nuovamente le spalle.
«Non
è quello che hai detto l’altra
sera…!»
La
voce gentile di Loren mi distolse dalla zuffa che
stava per scatenarsi tra gli avvelenati Lena e Garrit, un Raven
sbruffone e
un’Alyssa rossa come un peperone (a detta di Martha, per
l’imbarazzo piuttosto
che per la rabbia).
«Qui
ci separiamo… Hai suonato stupendamente Thara»
fece Loren. Lui era stato magnifico, mentre suonava il violoncello
sembrava
un’altra persona e abbandonava la propria indole svogliata
come fosse stata una
crisalide, mettendoci tutto se stesso e divenendo una meravigliosa
farfalla.
Quando
riuscì a capirmi, si grattò la testa un
po’
impacciato per il complimento e mi sorrise. «Mi mancherai
tanto, compagna di arco.»
«Divertiti
con Emile! Ma sempre con le dovute precauzioni,
non vorrei diventare zia troppo presto» scherzò
Martha. Le diedi uno
schiaffetto prima di abbracciarla assieme a Loren e vederli uscire
dalla
barriera, verso le proprie macchine.
“Mi
mancherete
tutti.”
pensai, mentre qualche lacrima già mi rigava
le guance.
Emile
non mi aveva detto nulla riguardo l’inverno, non
sapevo quali sarebbero stati i suoi piani.
Mi
voltai in tempo per vederlo confabulare con mia
madre ‒perso in un imbarazzo adorabile‒ ed Eleuse, poi la mia custode
annuì ed
Emile mi si avvicinò raggiante.
Gli
restituii uno sguardo perplesso, in attesa.
«Sai,
era da tempo che pensavo di stabilirmi a New
York… È che è difficile trovare un
appartamento ad un prezzo accessibile, lo
sai anche tu.»
Gli
presi la mano per incalzarlo a proseguire, già col
sorriso sulle labbra.
«Ehi,
non essere impaziente!» disse lui, ridendo. Gli
feci una linguaccia. «Dicevo… È
difficile trovare un appartamento con un
affitto a buon prezzo. Ma si dà il caso che Eleuse abbia una
camera in più nel
suo appartamento, accanto al tuo…»
Non
lo lasciai finire e lo abbracciai entusiasta.
«Sembra
che non ti libererai di me così facilmente» mi
disse in un dolce sussurro, ricambiando l’abbraccio e
baciandomi.
Ero
sicura che non sarebbe riuscito a leggere il labiale,
quindi mi lasciai andare.
“Vorrei
che ci
fossero tante sere come quella dell’altro
ieri…”
Lui
mi sorprese e ridacchiò.
«…Tante
quante ne vuoi.»
Sorrisi.
Sarebbe
stato un lungo e interessante inverno anche
per me.
THE
END.
THE
BEGINNING.
---
RINGRAZIAMENTI
...E'
assurdo pensare di essere arrivata davvero a
scrivere i ringraziamenti, per la prima volta nella mia vita. Se in
passato
qualcuno mi avesse detto "un giorno riuscirai a completare una storia
seria, dall'inizio alla fine", probabilmente sarei scoppiata a ridere
prima, e poi a piangere per arrendermi alla mia evidente e tristissima
lentezza.
"Non
sarò mai in grado di scrivere una storia che
abbia un capo e una coda, che riesca a invogliare qualcuno a leggerla
fino alla
fine", mi dicevo.
E
invece no, adesso posso finalmente dire che non
bisogna arrendersi mai, si deve continuare a lottare e credere in se
stessi!
...Ma
naturalmente, tutto questo non sarebbe stato
possibile senza il supporto di molte persone che sono state al mio
fianco.
E'
d'obbligo ringraziare per prima la persona che ha
permesso la nascita di questa storia e dei personaggi, chiedendomi di
inventare
un'OC che mi rappresentasse nel mondo di Percy Jackson. E' solo grazie
a te,
Tinkerbell92, che è nata Thara, accompagnata da Emile ed
Eleuse, seguiti da tutti
gli altri. Proprio come Emile non riuscirà mai a ringraziare
abbastanza Thara
per averlo salvato da morte certa, io non riuscirò mai a
mostrarti tutta la mia
gratitudine per aver risvegliato la mia voglia di scrivere, assopita
dalle
troppe critiche ricevute dalla mia prof di italiano negli ultimi anni.
Ti
ringrazio infinitamente, per essere sempre stata al mio fianco e avermi
invogliato a prendere di nuovo in mano una penna, invece della solita
matita.
Un grazie enorme.
Ringrazio
con tutto il cuore coloro che hanno
commentato i capitoli, sia chi mi ha accompagnato fino alla fine, sia
chi si è
perso per strada o mi ha donato parte del suo tempo per commentarne
anche
soltanto uno:
Ailea
Elisewin, BlackKay97, Ciacinski, cristy_black,
Cup_Cake, eragarattini99, Lisajackson, nemi23, P e r s e f o n e
Ringrazio
anche chi non ha commentato, ma ha aggiunto
la storia alle preferite, alle seguite o alle ricordate: sia che
vogliate
lasciare un commento alla storia, anche solo a questo capitolo finale,
o che
preferiate rimanere dei ninja nell'ombra, grazie di cuore per aver
seguito
Thara fino alla fine.
A
proposito di ninja, uno dei grazie più grandi va
obbligatoriamente ad Arashi21, la migliore supporter che si possa
avere! Grazie
per aver ceduto alla mia richiesta di leggere questa storia nonostante
non
conoscessi Percy Jackson, e scusa per le attese e le ansie che ti ho
riversato
addosso durante la stesura. Spero tu possa perdonarmi per tutte le
volte in cui
ti ho mandato un messaggio in piena notte con scritto "Scusa l'orario
ma.... Ho pubblicato il nuovo capitolo!!!" (come quello che hai appena
ricevuto XD), facendoti pressione per avere un tuo parere. Davvero,
grazie per
supportarmi (e sOpportarmi!) sempre e comunque. Ti voglio tanto bene.
<3
Grazie
a tutti coloro che cominceranno a leggere la
storia ora che è finita e che magari la commenteranno dopo
la pubblicazione di
questo ultimo capitolo: anche a voi, grazie per aver deciso di seguire
Thara
fino alla fine nonostante il numero dei capitoli potesse sembrare
proibitivo!
<3
Un
altro grazie enorme va a mio padre, che è riuscito
a resistere fino ad adesso nonostante gli abbia rotto le scatole per
sapere
cosa pensava di ogni capitolo. Grazie papà, per avermi
sempre incoraggiato a
scrivere ed essere stato al mio fianco in questo percorso. Le tue
critiche
giuste mi hanno fatta crescere, spero che tu possa continuare a starmi
vicino,
sempre.
...
E dopo questa sfilza di grazie, posso annunciare
con una soddisfazione mista a tristezza che la storia è
davvero conclusa.
Questa
è la Fine, o meglio l'Inizio.
Sì,
perché questo capitolo della vita di Thara si è
concluso, ma i personaggi continueranno a vivere dentro di me e -spero-
anche
dentro di voi. Non me la sento di escludere una raccolta di brevi
storie su di
loro o una nuova storia... Tutto è possibile!
Spero di non
aver dimenticato di ringraziare nessuno (in tal caso mi scuso
çAç) e che i
disegni vi piacciano. Ancora una volta,
GRAZIE.
♥
Remiel
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