Melodia

di Remiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Preludio ***
Capitolo 2: *** Cap. 1 - Lento ***
Capitolo 3: *** Cap. 2 - Adagio ***
Capitolo 4: *** Cap. 3 - Andante ***
Capitolo 5: *** Cap. 4 - Staccato ***
Capitolo 6: *** Cap. 5 - Scherzo ***
Capitolo 7: *** Cap. 6 - Sonata ***
Capitolo 8: *** Cap. 7 - Vivace ***
Capitolo 9: *** Intervallo - disegni dei personaggi ***
Capitolo 10: *** Cap. 8 - Rondò ***
Capitolo 11: *** Cap. 9 - Presto ***
Capitolo 12: *** Cap. 10 - Accelerando ***
Capitolo 13: *** Cap. 11 - Capriccio ***
Capitolo 14: *** Cap. 12 - Minuetto ***
Capitolo 15: *** Cap. 13 - Marcia ***
Capitolo 16: *** Cap. 14 - Cadenza ***
Capitolo 17: *** Cap. 15 - Tacet ***
Capitolo 18: *** Cap. 16 - Crescendo ***
Capitolo 19: *** Cap. 17 - Eroica ***
Capitolo 20: *** Epilogo - Ensemble ***



Capitolo 1
*** Prologo - Preludio ***


[Opening, Take This to Heart - Maybeshewill]
[In my Remains - Linkin Park]
 
«Emile!» gridai con quanto fiato avevo in corpo.
Sapevo che nonostante corressi il mio passo non sarebbe bastato a raggiungerlo in tempo.
Mi scorrevano davanti agli occhi tutti gli avvertimenti che mio padre mi aveva lanciato in quei giorni, avvertimenti che avevo deciso di ignorare troppo ebbra della felicità di aver trovato nuovamente qualcuno da amare. Qualcuno di cui potermi fidare.
Mentre la lacrime cominciavano a scorrere dagli occhi, appannandomi la vista, un urlo disumano si levò dal fondo della foresta e mi ferì le orecchie.
“…Ti prego, non morire!” ebbi il tempo di pensare, i polmoni in preda alle fiamme e avidi d’aria.
 
 
 
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Nota dell'Autrice:
Gli aggiornamenti che sto apportando a questa storia (ormai conclusa) sono relativi esclusivamente alla grammatica e al font del testo! Nient'altro sarà modificato.
Grazie dell'attenzione! :)

Remiel 

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Capitolo 2
*** Cap. 1 - Lento ***


[Flowers and Silence - Sneaker Pimps]
[Tear the World Down - We Are The Fallen]

«Cithara Greenwood, giusto?»
Non avevo la forza di domandarmi come fosse possibile nascondere un corpo da cavallo sotto una carrozzina, non dopo tutto quello che mi era capitato almeno.
Davanti a me si ergeva il centauro Chirone che fino a qualche minuto fa credevo essere Brunner, il mio professore di storia, per l'appunto costretto a girare su di una carrozzina.
Eleuse mi strinse una mano sulla spalla per darmi coraggio.
«Sì, è lei Chirone. Purtroppo prima di trasportarla qui è avvenuto un incidente…» rispose la mia custode satiro.
Avevo ancora  davanti agli occhi l’espressione terrorizzata di mia madre che mi implorava di fuggire mentre uno Stinfalide  stendeva la presa sui suoi fianchi per ghermirla e portarla con sé nel cielo. Non era valso a nulla il mio tentativo di richiamare l’attenzione dell’uccello, questo se n’era semplicemente andato emettendo un suono stridulo,  con il corpo di mia madre stretto tra gli artigli.
Il suo verso continuava a rimbombarmi nelle orecchie, sebbene ormai fossero passate già parecchie ore dalla scomparsa del mostro.
Eleuse aveva assistito a tutto ma non aveva potuto far altro che caricarmi in macchina e portarmi fino al Campo, proprio dove avevo scoperto la vera identità del professor Brunner e la possibile causa per la quale ero stata attaccata da un mostro mitologico proveniente dallo Stinfalo.
«Benvenuta nel Campo dei Mezzosangue, Cithara. Sono dispiaciuto per quello che è accaduto a tua madre ma ho motivo di credere che sia ancora viva. Per la verità non ho ancora chiara la ragione di questo attacco, visto che sei solo figlia di Apollo, ma sono sicuro che presto lo scopriremo.»
Quel “solo figlia di Apollo” mi fece sorridere, a dispetto di tutto, ma appena mi tornò in mente il volto della mamma sprofondai nuovamente nello sconforto. Scoprire di essere figlia di un dio non serve a risollevare il morale quando tua madre potrebbe essere morta proprio a causa di questo tuo sangue divino.
Ebbi appena la forza di annuire quando Eleuse mi prese sotto braccio per mostrarmi il luogo in cui da quel momento sarei vissuta al sicuro tra miei “simili” e ‒perché no‒ anche tra i miei fratelli e sorelle. Infatti a quanto pareva mio padre di certo non poteva essere considerato secondo al dio Ermes in fatto di donne e amanti.
Il meraviglioso dio della musica che si lascia incantare da ingenue fanciulle umane e sparge il suo seme divino tra di loro… una scena digustosa.
A quel pensiero mi venne quasi l’impulso di buttare il violino regalatomi proprio da Apollo in occasione del mio quinto compleanno; era però l’unica cosa che mi legava alla vita normale che avevo dovuto abbandonare a forza e questo mi fece desistere.
«Thara… Perdonami se non sono stata d’aiuto. Come Custode sono un vero e proprio fallimento.»
Mi voltai per osservare meglio Eleuse, e quando vidi il dolore nei suoi occhi verdi capii che era sbagliato l’atteggiamento che stavo assumendo. Rimanere in silenzio e diventare passiva non poteva di certo riportarmi mia madre. Solo che… Era successo tutto così in fretta. Avevo ancora bisogno di tempo.
Scossi leggermente il capo per farle comprendere che avevo ascoltato, ricevendo uno sguardo preoccupato in risposta.
«Oh tesoro…»
I suoi capelli brillarono sotto al sole mentre scuoteva a sua volta il caschetto biondo paglierino. Era davvero un incantevole contrasto con la sua pelle ambrata e non mi sarei stupita se avesse avuto uno stuolo di ammiratori anche al Campo.
Avevo appena rivolto nuovamente lo sguardo al terreno, quando un paio di All Stars nere entrarono nel mio campo visivo.
«…Emile?» sentii sussurrare stupita la mia custode «Non eri fuori in missione?»
«Purtroppo il caro vecchio signor D ha deciso di mandare quell’incapace di mio fratello Luke al posto mio.»
La voce calda del ragazzo mi incuriosì e non riuscii ad evitare di alzare gli occhi.
Era alto e attraente, gli occhi di un verde più chiaro di quelli di Eleuse ‒come se brillassero di luce propria‒ e i capelli color dell’oro.
…Forse il Campo non sarebbe stato così male.
Anche lui rivolse lo sguardo verso di me e fu difficile non rispondere al sorriso allegro che mi regalò.
«Sei Cithara giusto?»
Eleuse assunse un’espressione imbronciata.
«Cos’è, avete tutti intenzione di farle il terzo grado? Povera, è appena arrivata ed è stanca: abbiamo passato tutta la notte in macchina per arrivare fino a qui!»
Il ragazzo sorrise nuovamente riuscendo a far calmare un poco la mia Custode.
«Piano, piano Ele! Non devi prendertela con me, Chirone mi ha chiesto di farle da tutore e addestrarla nei giorni a venire. Volevo solo presentarmi e accompagnarla alla propria stanza.»
Detto questo mi pose la mano.
«Sono Emile Noir, purtroppo figlio di Ermes, onorato di fare la tua conoscenza» fece, sfoderando un altro dei suoi sorrisi amichevoli.
«Cithara... Greenwood» risposi in tono flebile, stringendogli la mano. Mai avrei pensato di perdere l’uso della voce tanto da ridurmi a sussurrare in quel modo.
Emile mi rivolse uno sguardo comprensivo e si offrì di farmi continuare il giro al posto di Eleuse.
«Ora riposati cara, ci vediamo dopo» mi disse lei, baciandomi sulla testa. Era una specie di sorella maggiore, mi trattava ancora come quando non sapevo di essere figlia di un dio e si spacciava per mia vicina di casa ‒una giovane studentessa universitaria in trasferta.
La osservai allontanarsi in modo sensuale e sentii subito una stretta al cuore, come se avessi paura di perdere anche lei.
La voce del mio nuovo accompagnatore non tardò a strapparmi dai tristi pensieri.
«Bene Cithara... Se è vero che avete viaggiato tutta la notte forse è meglio rimandare il nostro giro turistico a quando sarai più tranquilla, non credi? Vieni, ti mostro la tua stanza.»
Cercai di evitare gli sguardi curiosi degli altri abitanti del Campo durante il tragitto e ascoltai interessata la spiegazione di Emile sulla ripartizione delle abitazioni.
«Sei stata fortunata, fossi venuta qualche mese fa avresti dovuto condividere la stanza con altri tuoi fratellastri ma da un po’ abbiamo ampliato le case e ognuno può permettersi una stanza per sé.»
Ci fu una breve pausa in cui mi parve di sentire un piccolo sospiro provenire da Emile.
«…Cioè, quasi ognuno.»
Quando passammo davanti alla casa dei figli di Ermes capii il motivo del suo disappunto: oltre ai propri figli, nella sua dimora il dio protettore dei viandanti accettava tutti i “figli di nessuno”, gli Indeterminati. Doveva essere davvero dura avere un po’ di privacy per Emile…
Poco dopo, il mio giovane tutore si fermò davanti a una costruzione color arancione con uno stemma raffigurante un sole paffuto  ornato da una corona d’alloro.
Eravamo davvero arrivati alla casa di Apollo.
Emile non fece in tempo ad aprire il portone che questo si spalancò apparentemente da solo. Ne uscì un ragazzo piacente sui 20 anni, con i capelli color ebano molto simili ai miei e gli occhi grigi. Sembrava che ci stesse aspettando.
«Qual buon vento Emile! Spero tu non stia perdendo tempo a scorrazzare per il Campo invece di allenarti per la Caccia alla Bandiera… Non vorrai ripetere la figuraccia dell’altra volta.»
Dal sorriso tirato di Emile e quello sfrontato del ragazzo più grande compresi al volo che tra i due non correva buon sangue. Sarei sprofondata nel terreno più che volentieri.
«Non preoccuparti Raven, tra due settimane sarò più che pronto per farti rimangiare l’insulto dell’altro giorno. Sono solo venuto ad accompagnare la mia allieva alla sua nuova casa.»
A queste parole Raven ‒mai nome mi parve più azzeccato‒ ignorò totalmente Emile e mi guardò con interesse mentre i suoi occhi grigi sorrisero con lui.
Rettificai mentalmente: non ci stava aspettando, mi stava aspettando.
«Quindi tu saresti una nostra sorella.. Vieni, sei la benvenuta figlia di Apollo. Io sono Raven Lionhard, il capo dormitorio.»
Un'altra stretta di mano al mio nuovo fratello acquisito, e Raven mi fece cenno di seguirlo. Immagino sapesse che ci avrebbe seguito anche Emile.
Fui sollevata dal trovare il corridoio deserto fino al secondo piano, dove si trovava la mia stanza, e non ebbi la forza di chiedermi come facessero i miei bagagli ‒se una lurida cartella dell’eastpack e un violino possono essere definiti bagagli‒ a trovarsi già lì. Sapevo solo di essere distrutta e di volermi abbandonare a un sonno senza sogni.
Raven fu il primo ad andarsene.
«Se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere, sarò più che felice di colmare le innumerevoli lacune del tuo tutore» fece, sorridendo poi al mio accompagnatore «Non preoccuparti Emile, non mi sono dimenticato dell’insulto che ti ho rivolto. Non è colpa mia se sei uno sfigato,  te lo dimostrerò nuovamente alla prossima Caccia.»
Lui non rispose, limitandosi ad osservarlo allontanarsi con sguardo superiore.
Forse stava cercando di trattenere la rabbia solo a causa della mia presenza o forse era veramente convinto di poter battere Raven. In quel momento non avrei potuto scommettere sulla vittoria di Emile, probabilmente perché il capo dormitorio mi era parso molto sicuro di sé e pareva circondato dalla tipica aura da leader... Insomma era uno da cui non ti saresti mai aspettato una sconfitta.
«Ehi... Lascia perdere i brutti pensieri e vai a riposarti, ok?»
Le parole di Emile mi colsero di sorpresa. Sapeva già cosa mi era accaduto?
«Uhm...» annuii in modo debole, e adocchiai involontariamente il letto che si intravvedeva dalla porta della stanza.
«Scusa, adesso ti lascio anch’io! ...Se hai bisogno di qualcosa chiedi pure, passerò a prenderti per l’ora di cena.»
Uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle e abbandonandomi ai miei pensieri.
Era stato carino a lasciarmi riposare ma non avevo previsto la bufera di negatività che mi avrebbe investita una volta sola. Se me lo fossi aspettata probabilmente avrei lasciato perdere la stanchezza e mi sarei fatta trascinare in giro per il Campo ancora per ore.
Senza forze e disillusa, riuscii solo ad allungarmi verso la cartella dopo essermi stesa sul letto, per prendere l’mp3 e venire avvolta dal calore rassicurante della musica.
---
«Are you looking for happiness?
Are you looking for something better?
Do you ever feel emptiness?
Are you scared it's gonna last forever?
Don't give it away, don't give it away.

I don't want your happiness.
I don't need your happiness.
So never show me happiness.
I don't want your happiness.

Everybody needs sanctuary.
Everybody needs hope and fear,
But not everybody needs a preacher
Don't tell me what you want me to hear….»
♫♪♫
 
Che sogno assurdo avevo fatto! Centauri, satiri, mostri mitologici... Ero sicura che anche mamma si sarebbe fatta quattro risate sentendo questo racconto.
…Appena aprii gli occhi, compresi di non essere in camera mia e che purtroppo quello che credevo essere un sogno era invece realtà.
Sospirai, voltandomi dalla parte opposta e quasi mi prese un colpo nell’incontrare gli occhi verdi di Emile.
«…Scusa! Stavi dormendo così bene che non ho avuto il coraggio di svegliarti…» lo sentii giustificarsi dopo essermi tolta le cuffie dalle orecchie.
«Non preoccuparti…» dissi, con un filo di voce, ancora assonnata. In realtà mi aveva fatto un certo effetto vedere violata la mia privacy con così tanta leggerezza.
Mi stropicciai gli occhi.
«Che ore sono?»
Emile sembrò svegliarsi di colpo dallo stato d’imbarazzo in cui era caduto.
«È ora di cena! Per questo ero venuto a chiamarti… Sai, dopo una certa ora la tavola viene sparecchiata
ed è impossibile reperire cibo.»
«E… La tavola rimane imbandita fino alle 21?» feci, dopo aver dato una sbirciata all’orologio.
«Sparecchiano alle 21:10 circa... Perché?» Il verde dei suoi occhi si accese in un lampo di comprensione. «…Diamine, si è fatto così tardi? Forza, vieni con me, proviamo lo stesso ad andare!»
Nonostante volessi declinare l’invito, il brontolio del mio stomaco gli diede ragione e senza neanche aggiustarmi il trucco mi ritrovai a correre dietro ad Emile, nella speranza di trovare ancora almeno una pagnotta.
…Ma poi, perché era venuto a chiamarmi così tardi? A meno che non fosse rimasto a guardarmi dormire più dei dieci minuti che avevo creduto all’inizio…
Sentii un lieve rossore salirmi alle guance al pensiero di essere stata sorpresa in un momento così privato da uno sconosciuto. Certo, Emile sembrava simpatico, ma questo non giustificava il fatto di essersi intrufolato nella mia stanza senza permesso. Mi ripromisi di chiudere la porta a chiave, la prossima volta.
Quando giungemmo ansimanti davanti alle tavole per trovarle vuote e immacolate, sentii lo sconforto assalirmi. La dormita era servita a rilassare le membra, ma la stanchezza per l’incidente di mia madre e la fame non mi aiutavano certo a tranquillizzarmi.
Emile, ancora ansimante, mi guidò poco lontano dal luogo che col suo candore continuava a ricordarci la nostra sconfitta, e appoggiò la schiena contro il muro per riprendere fiato.
Lo imitai.
«Perdonami… Non ho fatto caso all’orario…» Sbuffò. «…Forse avrei fatto meglio a svegliarti.»
Mugugnai leggermente in segno d’assenso. Ero convinta che almeno lui avesse mangiato qualcosa, per questo rimasi stupita nel sentire gorgogliare anche il suo stomaco.
Lo guardai con aria interrogativa e ricevetti un sorriso imbarazzato in risposta.
«Cosa credevi, avevo detto che sarei passato a prenderti per cena! Non avrebbe avuto senso andare a mangiare per poi tornare indietro.»
Effettivamente non faceva una piega.
Iniziai a sentirmi in colpa: probabilmente a lui non era venuto in mente che stessi ancora dormendo e trovandomi assopita aveva preferito attendere che mi svegliassi da sola… In fondo era stato gentile ‒un po’ invadente, ma gentile‒ tanto più che mi  aveva aspettato per cenare, rimando poi a bocca asciutta assieme a me.
«…Forse avrei fatto meglio a svegliarmi prima.» Abbassai lo sguardo mentre facevo il verso alla frase pronunciata da poco da Emile.
Al contrario di quello che mi aspettavo, quando incrociai gli occhi coi suoi mi rivolse un sorriso ancor più radioso di prima.
Sembrava divertito.
«Spero davvero che tu possa trovarti bene qui al Campo. È difficile stare dietro a tutto all’inizio… Ma dopo un po’ ci si abitua.» Fece una breve pausa in cui, nonostante la penombra, mi parve di vederlo arrossire. « Insomma… Ti hanno affidata a me e farò di tutto perché tu possa ambientarti e migliorare le tue doti di semidea.»
Le sue parole mi rincuorarono in parte e non potei fare a meno di sorridere a mia volta.
«Ti ringrazio…» Avrei voluto aggiungere qualcosa, dirgli che ero sicura che sarebbe riuscito ad aiutarmi e che mi sarei trovata benissimo, ma ancora una volta mi tornò in mente mia madre e sprofondai nuovamente nel mio pseudo mutismo. Era durata molto poco la lieve spensieratezza derivata dal riposo pomeridiano.
Sembrava che Emile stesse per aggiungere qualcosa ma fu interrotto da una calda voce familiare.
«Eccovi qui finalmente! …Una cosa dovevi fare, Emile, possibile che non ti riesca mai di essere in orario?» Davanti a noi si ergeva un’Eleuse un po’ contrariata. Quando si arrabbiava, la sua fierezza di satiro la rendeva ancora più bella e il verde dei suoi occhi si accentuava.
«Perdonami Ele… Come dire, c’è stato un piccolo contrattempo…»
Decisi di sollevare Emile dall’imbarazzo.
«Non volevo svegliarmi.»
La mia Custode fu sorpresa dal sentirmi parlare ‒non le rivolgevo la parola da quasi due giorni ormai‒ e mi sorrise.
«Thara, non preoccuparti tesoro, è comprensibile… È con questo testone che ce l’ho!» continuò, fulminando Emile con gli occhi.
Di tutta risposta lui si limitò a guardare da un’altra parte con aria colpevole.
Quando Eleuse si chinò ad abbracciarmi, fui felice di sentire il suo profumo di pesco avvolgermi assieme alle sue braccia sottili. Le fui ancora più grata quando percepii il profumo di affettato e banana provenire dall’involucro che mi porse.
«Sono riuscita a prenderti un bel panino e un paio di banane! Mi dispiace di non aver potuto fare di più, il signor D era insolitamente sobrio stasera e mi avrebbe dato una bella strigliata se mi avesse scoperto…»
La ringraziai con un bacio e le diedi la buona notte, promettendole di riposarmi.
«Oggi è il mio turno di sorveglianza, purtroppo non posso rimanere con voi. Comunque, caro il mio Emile, ti pregherei di stare più attento alla mia protetta d’ora in poi!»
«…Mi farò perdonare!» fece Emile, tra il divertito e il dispiaciuto.
«Bah, ma che perdo tempo ancora a parlare con te…» concluse Eleuse, allontanandosi con la testa china, come se il ragazzo fosse un caso perso.
Dovevano conoscersi da tanto la mia custode e il mio tutore, per scherzare così… Una strana sensazione di fastidio mi prese alla bocca dello stomaco.
Mi accorsi di essere rimasta imbambolata col pacchetto del cibo in mano e lo aprii con troppa foga, rischiando di far cadere sull’erba il contenuto.
«…È anche colpa mia se non hai mangiato, mi sembra giusto fare a metà» dissi a Emile mentre gli porgevo parte del panino al salame.
«Sicura? Se ti becca Ele…» Nel sentir pronunciare il diminutivo del nome della mia custode, il bruciore allo stomaco aumentò. Era la loro complicità ad infastidirmi… La stessa che avevo anch’io con gli amici che avevo dovuto abbandonare assieme alla scuola. E, soprattutto, la stessa che avevo con mia madre.
Decisi di affogare il malessere opprimente proveniente dallo stomaco col cibo e insistei perché Emile mangiasse con me.
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«Ah… Direi che ora si sta decisamente meglio.»
Annuii con la testa: dopo aver mangiato anche il fastidio era diminuito, anzi, quasi scomparso. Speravo solo che non si fosse sopito per poi tornare all’attacco in modo inaspettato, perché iniziavo a sospettare che quella provata fosse gelosia.
Dopo aver consumato il nostro pasto frugale, Emile si era steso supino per mirare le stelle e io mi trovavo seduta al suo fianco, ancora indecisa se stendermi del tutto o meno. Mi sembrava un gesto troppo intimo  per due conoscenti, già il fatto di essergli così vicina mi turbava e stavo ben attenta a non entrare nel suo spazio vitale.
«Ogni volta che osservo le stelle penso a mio padre che si trova sull’Olimpo…» Mi aveva fatto sussultare leggermente nello strapparmi ai miei pensieri. Lo vidi esitare e un sorriso insolitamente sarcastico si dipinse sulle sue labbra. «O meglio, penso a mio padre che si trova sull’Olimpo o chissà dove a ingravidare giovani ragazze ignare del suo sangue divino.»
Mi fece uno strano effetto sentirlo parlare con un tono sprezzante. Pareva così diverso dall’Emile allegro che mi aveva accolto quella mattina.
«È quello che ho pensato anch’io stamattina quando ho scoperto di essere figlia di Apollo.» Le parole erano uscite prima che me ne potessi rendere conto.
Anche Emile sembrò stupito, ma subito la sua espressione di addolcì.
«Dev’essere stato uno shock scoprirlo così… Mi spiace veramente per quello che è accaduto. Chirone sa il fatto suo, sono sicuro che riuscirà a riportarti tua madre.»
Ogni dubbio si dissolse: sapeva cosa mi era successo. Era stato Chirone stesso a dirglielo? O era stata forse Eleuse?
Di nuovo, una pressione allo stomaco.
Abbassai lo sguardo, annuendo leggermente. Quando si tirava in ballo mia madre, diventavo taciturna ed ero solo in grado di annuire.
«Gli dèi… Non credevo nemmeno che esistessero» continuò Emile, evidentemente incitato dal mio silenzio. «Mi viene da pensare che forse, un po’ di affetto per mia madre deve averlo provato Ermes per mettermi al mondo. Poi però vedo mia madre sola, che ancora lo aspetta nella speranza di poterlo rivedere anche solo una volta… E torno a credere che le divinità non siano altro che creature mitiche possedute dall’istinto e le passioni, indifferenti ai sentimenti umani.» Lo udii sospirare, come vinto dalla stanchezza.
Tornai a posare gli occhi su di lui e lo trovai con lo sguardo basso, perso nell’oscurità. Era davvero bello, con gli occhi chiari che riflettevano la luce delle stelle e i capelli dorati mossi leggermente dalla brezza del vento estivo.
Si voltò verso di me con un sorriso timido.
«Perdonami se ti ho rattristata, non era mia intenzione.» Lo guardai con aria interrogativa quando iniziò a ridere. «Ah ah… Oggi sembra proprio la giornata delle scuse!»
Sorrisi anch’io e sentii le spalle distendersi. Iniziava a sembrarmi meno improponibile l’idea di rimanere a lungo nel Campo.
 
 
 
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Nota dell'Autrice:
Qui ho cambiato qualcosa rispetto alla scorsa versione...
Prima la canzone ascoltata da Cithara era "Break Me" dei the GazettE (volevo inserire parte della mia passione per il Giappone XD) ma mi sono resa conto che strideva col testo. Allora ho preferito usare "Happiness" degli Hurts, canzone meravigliosa che consiglio a tutti di ascoltare!

Remiel

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Capitolo 3
*** Cap. 2 - Adagio ***


[Happiness - Hurts]
[The World Calling - There for Tomorrow]
 
Mi guardai attorno con aria spaesata.
Il giorno precedente non mi ero accorta di quanta gente fosse presente nel Campo e trovarmi in mezzo alla ressa dei miei compagni diretti alle tavole per la colazione per poco non mi creò un attacco di panico. Eravamo così tanti… Davvero gli dèi non avevano nulla di meglio da fare che creare figli con gli esseri umani?
Emile aveva detto che sarebbe passato a prendermi per andare a mangiare assieme, ma non riuscivo a vederlo da nessuna parte. Continuavo a guardare a destra e a sinistra ma non avevo avuto la prontezza di spostarmi dall’entrata della casa di Apollo, creando non pochi problemi a chi tentava di uscire.
Probabilmente fu quello il motivo per il quale mi presi un’occhiataccia e qualche spallata dai miei fratellastri, ma una volta liberato l’ingresso, alcuni continuavano a squadrarmi con aria poco amichevole.
Avevo qualcosa che non andava? Eppure prima di uscire mi ero truccata abbastanza bene, avevo pettinato i capelli…
Prima che riuscissi a terminare il mio monologo interiore alla ricerca di qualche imperfezione, sentii una mano calda sulla mia spalla. Mi voltai, sicura di trovarmi davanti gli occhi verdi del mio tutore, ma venni invece inglobata da un paio di iridi grigie.
«Cithara, giusto?» Raven sorrise con fare rassicurante. «Forse è meglio incamminarsi verso le tavolate. Non so cosa ti abbia detto lo sfigato, ma normalmente ogni casa ha un tavolo riservato quindi è inutile aspettarlo.»
Sentii un fastidioso bruciore alla bocca dello stomaco nell’udirlo offendere il biondo così apertamente. Mi era sembrato un bravo ragazzo e non trovavo davvero il motivo di tutto questo astio nei suoi confronti.
«…Emile. Si chiama Emile» feci con un filo di voce. Non so bene perché sentii la necessità di difenderlo, ma mi ritrovai a parlare senza aver prima pensato.
Raven mi rispose con uno sguardo dapprima stupito e poi divertito, forse non si aspettava nemmeno che parlassi.
«Hai ragione. Pensavo solo che un aggettivo potesse descriverlo meglio del suo nome di battesimo: è inutile distinguere il gelato al cioccolato da quello alla fragola. Sono entrambi gelato.»
Dovevo avere un’espressione confusa perché il mio fratellastro sfoggiò un sorriso ancora più ampio e, se possibile, compiaciuto. Rimasi un attimo in silenzio mentre lo seguivo verso i tavoli imbanditi.
«… Trovo stupido definire uguali due tipi diversi di gelato» dissi infine, rimanendo in piedi davanti alla mia sedia mentre Raven prendeva posto accanto a me. «Sono pur sempre diversi, no? A qualcuno potrà piacere quello alla fragola piuttosto che quello al cioccolato… È vero, è sempre gelato, ma è il gusto a determinarne la differenza.»
Alzai gli occhi per vedere la reazione del bruno, ma in quel momento una mano leggera si posò sulla mia schiena all’altezza del cuore. Questa volta quando mi girai vidi finalmente le due iridi verdi che stavo aspettando sorridermi con imbarazzo.
«Scusami, mi hanno trattenuto alcuni ragazzi più piccoli per un problema alle docce…» Emile non degnò Raven nemmeno di uno sguardo e quest’ultimo sembrò fare lo stesso. «Se vuoi puoi venire a mangiare con noi al tavolo di Ermes, ho chiesto anche ad Eleuse di unirsi al gruppo.»
Di certo non era la scelta migliore mettersi contro tutta la mia Casa, abbandonandola per stare vicino alla mia amica e al mio nuovo conoscente, ma lì per lì non ci pensai. Volevo solo allontanarmi il più possibile dagli sguardi diffidenti dei miei fratellastri e dalle domande strane di Raven. Le sue argomentazioni erano degne di quelle del Brucaliffo di Alice nel Paese delle Meraviglie. E questo mi innervosiva parecchio.
Salutai con un cenno del capo i ragazzi del tavolo di Apollo per seguire Emile e sedermi al suo fianco, davanti alla mia Custode satiro.
«Stai meglio oggi, cara?» mi chiese Eleuse con un sorriso dolce allungandosi per darmi un buffetto sulla guancia. Stare con lei riusciva a rilassarmi, a sentire ancora un po’ di “casa” in mezzo a quel mondo strano e ignoto che era per me il Campo.
«Sì, grazie.»
«Hai passato una buona notte? Ho sentito dire che i vostri letti sono molto confortevoli!» fece Emile, forse con una punta di invidia nella voce. Ancora una volta mi chiesi quanto dura fosse per tutti i ragazzi della Casa di Ermes.
«Ho dormito abbastanza bene. E il letto era… comodo.» Avrei voluto dire che nulla poteva essere comodo come il letto che mi aspettava nella mia vecchia casa a New York, con l’odore di lavanda dell’ammorbidente che usava mamma e i miei peluches  con la loro pelliccia rassicurante accomodati sulle coperte, ma mi trattenni: avevo la sensazione che anche Emile soffrisse la lontananza da sua madre. Certo, la sua era viva e lo aspettava a casa, mentre io della mia non ricevevo notizie da quasi tre giorni, ma questo non mi autorizzava a mostrare la mia infelicità e ingigantirla.
Mamma era stata rapita da uno Stinfalide, però dopo una nottata di sonno tranquillo mi sentivo abbastanza positiva e riuscivo quasi a credere di non dovermi preoccupare. Quasi.
Il signor D (che mi era stato spiegato essere niente di meno che Dioniso) aveva appena finito il suo discorso e Emile mi mostrò come riempire il mio piatto e la mia tazza.
«Basta che pronunci il nome del cibo che vuoi mangiare e questo apparirà magicamente! Prova se non mi credi.» Mi fece l’occhiolino.
Spostai lo sguardo dubbiosa sulla tazza vuota che avevo davanti e dissi sottovoce «Caffèlatte col cacao», per poco non caddi dalla sedia nel constatare che la ciotola si era effettivamente riempita del liquido che avevo richiesto! Sentii Emile sghignazzare e un rumore sordo sotto al tavolo, Eleuse doveva avergli dato un calcio perché il ragazzo si piegò un momento a tenersi la gamba in una silenziosa smorfia di dolore.
«Augh… Ehm, visto che funziona?» concluse, una volta ripresosi.
Gli sorrisi e ordinai delle uova all’occhio di bue e del bacon, mi era sempre piaciuta una colazione salata ma non avevo mai avuto l’opportunità di gustarla in santa pace.
Mi riempii per bene lo stomaco dopo aver bruciato parte della colazione in onore di mio padre Apollo (era una tradizione del Campo per ringraziare gli dèi, sembrava che gradissero il profumo del cibo offerto loro), e mi alzai assieme ad Emile.
«Bene, ti lascio in mano a lui. Devo tornare ancora una volta ai miei doveri di satiro… Ci vediamo per pranzo!» Eleuse si allontanò, non prima di avermi schioccato un rumoroso bacio sulla fronte.
Guardai Emile un po’ imbarazzata.
«Ok… Adesso che facciamo? Avevi detto che mi avresti addestrata, se non erro… Ma a fare cosa?»
Gli altri ragazzi si erano già dileguati, tutti diretti con sicurezza alle proprie mansioni.
Il mio tutore annuì.
«Qui nel Campo noi semidèi veniamo preparati all’uso delle armi per difenderci da attacchi di eventuali mostri interessati al nostro sangue divino… E naturalmente impariamo anche a far emergere le nostre doti innate, donateci dai nostri genitori.»
Mi zittii all’istante.
…Combattere? Io che sentivo venire meno le forze anche nel tirare un semplice schiaffo, che svenivo alla vista del sangue… Di certo io non avrei combattuto. Non ne ero capace.
Scossi la testa.
«M-mi spiace, ma io non so combattere.»
«Ti insegnerò io a difenderti!» fece lui, battendosi una mano sul petto con sicurezza.
«Non hai capito… Non lo so fare. Non sono in grado.»
Lui mi sorrise e mi prese una mano nelle sue, facendomi rabbrividire dalla sorpresa al contatto.
«Nessuno pensa di essere in grado di farlo fino a quando non prova o non si trova alle strette. Fidati di me, riuscirò a insegnarti come usare un’arma.»
«Io non credo che… Insomma, non credo proprio di essere portata.»
Emile rise.
«Non preoccuparti! Vedremo di risolvere il problema, devi solo volerlo!»
Ecco, forse era quello il problema: non volevo risolvere un bel niente. Sapevo di non essere portata per il combattimento e non ero intenzionata a cambiare la situazione.
Annuii poco convinta e mi lasciai trascinare da Emile in uno spiazzo dove si esercitavano alcuni ragazzi al tiro con l’arco. La maggior parte di loro avevano una faccia conosciuta, solo poco dopo mi resi conto che era perché appartenevano alla mia stessa Casa.
«Tutti i figli di Apollo sono adatti al tiro con l’arco, mi sembrava logico portarti qui per prima cosa» si giustificò Emile per rispondere al mio sguardo perplesso.
Nel vedere con quale facilità gli altri scoccavano le frecce mi tranquillizzai. Non doveva essere così difficile, non c’era contatto diretto con l’avversario. Quando il biondo mi porse un arco, iniziai però ad agitarmi.
«Devo… Farlo qui?»
Adesso fu lui a guardarmi con aria perplessa.
«Intendo dire…» abbassai la voce per farmi sentire solo da Emile «…Devo tirare le frecce con tutta questa gente che mi fissa?» Sentivo l’ansia montarmi nel petto.
Il biondo mi diede un buffetto sulla testa per tranquillizzarmi.
«Nessuno farà caso a noi due! Sono tutti concentrati sui propri bersagli.»
Avrei tanto voluto dargli ragione, ma sentivo gli sguardi dei miei fratellastri farsi insistenti. Avevo come la sensazione che volessero accertarsi che fossi davvero loro sorella, dovevo dare loro una prova del mio legame sanguigno con Apollo.
Emile prese un arco a sua volta e mi mostrò la posizione da tenere mentre si incocca una freccia.
«Rilassi le spalle, prendi bene la mira… Tendi l’arco… Fai un bel respiro e…» Lasciò andare il dardo, che si conficcò molto vicino al centro del bersaglio circolare. «…Scocchi la freccia.»
Un risultato che non aveva nulla da invidiare ai figli di Apollo.
«Sei bravo…»
«Ermes è una specie di dio tuttofare, quindi anche i suoi figli se la cavano bene in più o meno tutte le discipline. Poi ciascuno si specializza in quelle che gli riescono meglio» mi spiegò Emile.
«Direi quasi che siete avvantaggiati…» dissi, sorridendo. Sarebbe stato bello poter scegliere le proprie specialità.
Anche lui mi sorrise e mi incitò a provare a mia volta.
«Non è difficile!» Si posizionò dietro di me mentre cercavo di imitare la sua posizione di attacco.
Alzò leggermente il mio braccio sinistro ‒quello che teneva l’arco‒ e chiuse la sua mano destra sulla mia ‒quella che incoccava la freccia.
«Ricorda…»
Cercavo di rimanere concentrata sul bersaglio ma risultava abbastanza difficile con la voce di Emile così vicino al mio orecchio. Potevo sentire il suo respiro sul mio collo.
«Rilassa le spalle…»
Un brivido mi corse lungo la schiena, ma lui non sembrò accorgersene.
«Prendi bene la mira…»
Non ero decisamente abituata a stare così vicina a un ragazzo.
«Tendi l’arco…»
Iniziava a girarmi la testa. Potevo sentire gli sguardi dei miei fratellastri conficcarsi come spine sui miei fianchi.
«Fai un bel respiro…»
«Emile, non credo che…» La sua presa sulla mia mano si fece più dolce.
«Non preoccuparti, ci sono io con te.» Era proprio quello che mi preoccupava, purtroppo. «Sei pronta?»
«…Non molto.» Feci appena in tempo a pronunciare il mio dissenso che Emile mi diede un colpetto sulla mano per dirmi di lasciar andare la freccia.
Tutto avvenne quasi senza che me ne accorgessi, avevo chiuso gli occhi per paura di scoprire di essere una schiappa in quello che invece sarebbe dovuto essere il mio cavallo di battaglia. Dopo un po’ di silenzio, mi decisi ad aprirli.
«…Niente male, davvero» sentii commentare Emile dietro di me.
Mentre mettevo a fuoco il bersaglio, il cuore mi batteva a mille. C’era qualcosa che non andava, riuscivo a vedere solo una freccia.
«La mia qual è?...» Il mio biondo tutore si mise a ridere.
«Probabilmente hai preferito prendere di mira la mia freccia piuttosto che il centro del bersaglio! L’hai colpita in pieno, per quello vedi un solo dardo.»
«Wow.» Non riuscivo a credere ai miei occhi. Era la prima volta che mi cimentavo nel tiro con l’arco!
Appena mi ripresi dallo stupore, guardai gli altri tiratori per constatare che ‒sì‒ avevano osservato la mia performance e finalmente il sospetto sembrava aver abbandonato i loro occhi.
«Bene bene… Che ne dici di scoccare qualche altra freccia? Diamoci da fare.»
Rinvigorita, ma anche un po’ preoccupata (e se il primo tiro fosse stato solo un colpo di fortuna?), presi di nuovo posizione.
«Ok, ma tu aiutami lo stesso.» Potevo vedere il ragazzo sorridere, con la coda dell’occhio.
«Ai suoi ordini…»
«…Ehm, per favore, intendo» mi sentii in obbligo di aggiungere. Emile scoppiò di nuovo a ridere.
«Nessun problema! Ti aiuto volentieri, altrimenti che tutore sarei?» Detto questo, aggiustò di poco la posizione delle braccia e mi fece tirare. Ancora, e ancora, e ancora…
---
«…Sono …un po’ stanca» dissi, mentre mi asciugavo il sudore dalla fronte con l’asciugamano.
Avevo tirato molte frecce, ma una cosa non smetteva di infastidirmi. Non ero veloce come avrei voluto.
Dopo sole cinque frecce dovevo far riposare le braccia per poi tornare a tirare, mentre i miei fratellastri continuavano imperterriti, tirando addirittura quattro o cinque frecce alla volta.
Ok, era la mia prima volta, ma… Beh, in effetti era già un miracolo che fossi riuscita a fare ottimi punti e non mancare il bersaglio nemmeno una volta.
«Ti meriti una bella pausa, che ne dici?» mi sorrise Emile.
Annuii.
«Sei stata brava! Ti ci vuole solo un po’ di esercizio per migliorare la resistenza…» aggiunse pensieroso, guidandomi fuori dal padiglione di tiro con l’arco.
Ero persa nelle mie riflessioni e quasi mi prese un colpo quando Emile mi strinse un braccio, raggiante.
«Ma certo! Il modo migliore per migliorare resistenza e velocità è imparare a usare la spada!»
Sgranai gli occhi preoccupata.
«Ehm, questa non l’ho mai sentita» provai a dissentire, ma il ragazzo era tutto perso nella sua euforia.
«Dovrò insegnarti gli affondi, le parate… Ce la possiamo fare, diventerai una spadaccina perfetta!»
«Non stai correndo un po’ troppo? Cioè… Gli altri figli di Apollo come se la cavano con la spada?»
Credo che lo avessi preso in contropiede, perché fece una smorfia indecifrabile.
«Non devi proprio guardare tutto quello che fanno loro, ognuno è una cosa a sé…»
Chissà perché, il suo tono poco spavaldo non mi convinse nemmeno un po’.
«Per me devi provarci. Devi essere in grado di proteggerti anche in uno scontro diretto.»
Lo sguardo con cui mi fissò era talmente serio che non me la sentii di ribattere ancora. Abbassai gli occhi e sospirai rumorosamente.
«Non prometto nulla.»
Emile tornò raggiante come prima e iniziai a sentirmi a disagio. Non ci sarebbe voluto molto perché scoprisse il mio problema col contatto, con la vista del sangue e gli dèi solo sanno con cos’altro.
Mi dispiaceva l’idea di dare una delusione al mio tutore. Che poi, “tutore”… Anche gli altri ragazzi del Campo avevano avuto un tutore? Sembravo l’unica ad essere seguita così accuratamente. Certo, ero l’ultima arrivata, ma questa particolare  attenzione per me risultava assai sospetta.
Ci dirigemmo a pranzo al suono della campana e lì decisi di affogare dubbi e dispiaceri nel cibo.

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Capitolo 4
*** Cap. 3 - Andante ***


[Wasteland - Woodkid]
[Nocturne for Violin and Piano - Frederic Chopin]
[Alone Together - Lovers and Liars]
 
«Qui può andare» disse Emile, poggiando a terra lo zaino, che atterrò con un rumore poco rassicurante.
Lo aveva preparato dopo pranzo e, anche se non conoscevo il suo esatto contenuto, purtroppo potevo immaginarlo e non avevo per nulla voglia di scoprire se mi sbagliavo o meno.
Ci trovavamo in un posto distante dalla piazza centrale del Campo, dove si svolgevano tutte le attività. Il ragazzo aveva scelto uno spiazzo vicino al bosco, lontano da occhi indiscreti (forse per la mia reazione da antropofobica al padiglione del tiro con l’arco).
Lo vidi estrarre dallo zaino due spade ‒per fortuna di materiale molto simile al legno‒ e uno scudo, doveva averli presi in prestito dall’arena dove si allenavano tutti i semidèi. Naturalmente ignoravo fosse contro il regolamento.
«Bene, cominciamo con le basi. Prendi questa» fece, porgendomi il manico di una spada. Non ero nemmeno convinta di come si impugnasse, figuriamoci menare dei fendenti!
Strinsi le dita attorno all’elsa con fare insicuro ed Emile mi sorprese poggiando la sua mano sulla mia, con una presa forte.
«Devi stringerla bene, altrimenti potrebbe sfuggirti se ricevi un colpo troppo forte.»
Annuii in silenzio senza guardarlo, il volto in fiamme per l’ennesimo contatto con il ragazzo. Non riuscivo proprio a capire se lo facesse senza malizia o se avesse secondi fini.
«Immagina di doverti difendere da me. Non preoccuparti, naturalmente ci andrò piano» aggiunse poi, con un sorriso. Sorrisi anch’io di rimando, ma non mi sentivo affatto sicura.
Impugnò a sua volta la spada e menò un fendente ‒che a me parve tutt’altro che leggero‒ nella mia direzione. Le lame cozzarono e la spada mi sfuggì di mano, facendomi cadere e lasciandomi del tutto indifesa.
Un’espressione poco convinta passò sul volto di Emile, per lasciare spazio a uno sbuffo.
«Tieni» disse, porgendomi nuovamente la spada dopo che mi fui rialzata.
Il cuore batteva a mille, le orecchie rosse come dei peperoni per la vergogna. Speravo con tutta me stessa che il supplizio finisse in fretta e che il ragazzo si rendesse conto di avere a che fare con un caso perso, ma ero piuttosto sicura che non avrebbe desistito così facilmente.
«Presa convinta! Immagina di lottare contro la morte… Dovrai pur proteggerti in qualche modo, no? Non dico di attaccare, ma almeno difenderti. Come quando stai cadendo e porti d’istinto le mani davanti al viso per proteggerti.»
Sorrisi tra me e me sarcasticamente: purtroppo nemmeno quello sapevo fare, ero quel tipo di persona che quando cade sbatte direttamente la faccia a terra.
Cercai di annullare i pensieri negativi e assumere uno sguardo sicuro, questa volta con una presa decisa sull’elsa della spada.
Il fendente di Emile arrivò veloce ma più leggero di prima, e riuscii a pararlo senza tanti problemi. Continuai a tenere botta per un altro paio di colpi ma non mi ero resa conto di stare indietreggiando. Dopo poco andai a sbattere dolorosamente con la schiena contro un albero, e per poco non mi scivolò di nuovo la spada dalle mani.
«Sei andata meglio, ma devi tenere conto di tutti i fattori. Il mio obiettivo era proprio quello di farti indietreggiare, stai attenta a quello che è il vero interesse del tuo avversario, devi cercare di studiarlo. Non concentrarti solo sulla spada, guarda anche i miei occhi!» Speravo non si fosse accorto che stavo evitando il contatto visivo di proposito ma ero stata colta in castagna. «Molti avversari sono come libri aperti, guardare il loro volto può esserti d’aiuto per capire la loro prossima mossa.»
Ok… Forse non aveva proprio capito che non lo guardavo negli occhi perché mi vergognavo della nostra vicinanza.
Lo conoscevo solo da poco ‒quanto, ventiquattrore?‒ e già era in grado di mettermi soggezione. No, più che soggezione il contatto con Emile mi metteva proprio agitazione.
Palpitazione, rossore alle guance e aumento della temperatura corporea, Eleuse avrebbe detto che mi piaceva. Io non sapevo se era attrazione quella che provavo per Emile, sapevo solo che non era normale andare nel panico per una cosa così stupida. Non potevo farci nulla però, avevo sempre avuto problemi con il sesso opposto.
Presi un respiro profondo e mi allontanai dall’albero.
«Per favore, porta pazienza. Per me è difficile.» Rimasi stupita io stessa dalla voce dura ‒forse per via della mia rassegnazione‒ con cui lo dissi. Il biondo annuì con fare accomodante.
«Nessun problema, sei qui per imparare e io per insegnarti!»
Andammo avanti per non so quante ore a menare fendenti e, tra brutte figure, cadute e ruzzoloni, arrivò anche l’ora della cena.
Stavo fantasticando sulla doccia che avevo intravisto nei bagni comuni del dormitorio di Apollo, quando Emile prese la parola.
«Non devi arrenderti! La spada non sarà il tuo forte, ma devi allenarti anche con quella per diventare completa. Fidati di me, in poco tempo diventerai anche molto più veloce a lanciare le frecce.»
Volevo tanto credergli, ma in cuor mio sentivo che quello era tutto tempo perso. Ero riuscita a non far capire al ragazzo che mi impaurivano il contatto della lama di una spada col corpo e la vista del sangue solo perché avevamo usato spade non affilate ma ero sicura che prima o poi avrei fatto una mossa falsa.
«Spero tu abbia ragione.»
Camminammo ancora un po’ in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.
«Uhm… Ti dispiace se prima di cena vado a farmi una doccia?» chiesi ad Emile, un po’ imbarazzata.
«Va benissimo, così mi lavo anch’io! Vengo a prenderti tra un’oretta, ok?»
Annuii col capo per l’ennesima volta in una giornata e ci salutammo.
Finalmente avevo un po’ di tempo da sola per pensare alla situazione anomala in cui mi trovavo e invece non facevo altro che pensare alle mosse che mi aveva mostrato Emile poco prima.
Emile… Era davvero un bel ragazzo. Eleuse mi aveva spiegato che tutti portavano una collana con una perlina per ogni estate passata nel Campo, e mi sembrava di aver intravisto otto perle in quella del biondo. Contando che sembrava avere sui diciannove anni, aveva conosciuto la vera essenza di suo padre a undici anni. Chissà com’era successo, se i mostri mitologici avevano attaccato anche lui e sua madre e come era riuscito a difendersi così piccolo contro di loro…
Mi resi conto di non sapere quasi nulla su di lui e mi rattristai. Non avevo il diritto di sentirmi attratta da una persona che era poco più di un gentile sconosciuto, mi dissi.
Sovrappensiero, ero arrivata fino all’ingresso della Casa numero sette, ovvero quella di mio padre Apollo, e dopo essere passata da camera mia per prendere accappatoio e bagnoschiuma mi diressi alle docce. Speravo fossero libere, e la mia tacita preghiera sembrò essere esaudita. Probabilmente la maggior parte dei miei compagni si trovava già a cena.
Mi lavai lentamente, assaporando ogni secondo di acqua calda che sciacquava il mio corpo, quasi purificandolo e rinvigorendolo dalle fatiche del giorno. I capelli neri, mossi e ribelli, si lisciarono sotto le carezze del balsamo e mentre li pettinavo mi accorsi che si erano allungati parecchio, ora mi arrivavano sotto le scapole.
Avrei fatto volentieri un salto dal parrucchiere, ma non mi sembrava di averne visti al Campo e dubitavo che mi lasciassero uscire dopo quello che era successo a mia madre.
Già, la mamma… Speravo stesse bene. Emile mi aveva detto che ci sarebbe voluto un po’ per scoprire qualcosa, ma erano passati quasi tre giorni dal suo rapimento e non credevo che sarei riuscita a sopportare di rimanere all’oscuro delle sue condizioni ancora per molto. Purtroppo non immaginavo che avrei saputo qualcosa solo molto tempo dopo il mio arrivo al Campo.
Chiusi l’acqua con svogliatezza ‒mi sarebbe piaciuto rimanere sotto la doccia ancora un po’‒ e andai direttamente in camera ad asciugarmi i capelli, sempre senza trovare nessuno nei corridoi.
Ero riuscita a prepararmi velocemente rispetto a quanto pronosticato da Emile, e per passare il tempo decisi di fare un giro per la Casa di Apollo.
L’edificio era formato da quattro piani e aveva una forma circolare: dal centro si diramavano i corridoi con le stanze dei miei fratellastri, come raggi del sole sprigionati dalla palla di fuoco, mentre bagni e docce erano posti a nord su ogni piano. In realtà la pianta era piuttosto lineare, ma gli arabeschi sulle pareti e sul soffitto tradivano la meticolosità con cui era stato progettato. Era semplice ma elegante, proprio come Apollo nei miei ricordi di bambina.
Immaginavo che tutte le divinità andassero a trovare i propri figli, per quello non davo molto peso agli incontri fugaci che avevo avuto con mio padre. In particolare, mi era rimasta impressa la volta in cui mi aveva regalato il violino al mio quinto compleanno. Mi aveva sorriso e abbracciato, dicendomi nell’orecchio qualcosa in greco che avevo interpretato come “suonalo, è un portafortuna” e dopo poco era dovuto svanire per svolgere faccende divine che a quel tempo non comprendevo. In realtà non le comprendevo nemmeno a diciotto anni, ma questa è un’altra storia.
Mi accorsi che era tempo di andare all’entrata e scesi le scale circolari con calma, assaporando il rimbombo del rumore che i piccoli tacchi delle ballerine producevano a contatto col marmo bianco. Chiusi gli occhi, deliziata da questo suono, mentre riconoscevo senza problemi prima un La, poi un Do provocato da un passo più deciso, un Fa… Questo era il vero dono che mi aveva fatto mio padre: la Musica.
Mi ritrovai a intonare un motivetto sconosciuto e ballare scendendo per le scale. Non mi aspettavo ci fosse qualcuno, e mi gelai all’istante nel sentire la voce di Raven. Non avevo nemmeno percepito i suoi passi, forse erano entrati in sintonia coi miei nel motivetto oppure li aveva celati, non avrei saputo dirlo con certezza.
«Te la cavi molto bene con la musica, vedo. Sono sicuro che sai suonare egregiamente almeno uno strumento!» fece lui con un sorriso dolce. Sembrava diverso dal ragazzo che quella mattina aveva insultato Emile e faceva strani ragionamenti su gusti diversi di gelato.
Ero titubante, ma mi pareva scortese non rispondere.
«Suono il violino» dissi a bassa voce. Ero turbata da Raven, la sua aura armonica (così avevo definito tra me e me quello che percepivo come “melodia” emanata dalle persone) dava l’impressione di essere molto potente ma soprattutto, come dire… Lugubre. Mi ricordava tanto la Marcia Funebre di Chopin, o uno dei suoi Notturni.
«Il violino… Io invece suono il pianoforte.» Non so come mai, ma lo avevo intuito al primo sguardo. Un tipo come lui non avrebbe potuto suonare nessun altro strumento, doveva essere al centro dell’attenzione, ghermire tutti con l’unico suono del suo piano…
«Ti calza a pennello» riuscii solo a dire.
Raven rise divertito.
«Anche il violino ce lo vedo bene, su di te» mi rispose con fare complice. Forse aveva fatto il mio stesso ragionamento e trovava che fosse uno strumento adatto a una che come me si nascondeva all’ombra degli altri, cercando di passare inosservata. A parer mio, il violino suona bene da solo, ma ha una vibrazione povera e triste. Solo in mezzo a molti suoni riesce a dare il meglio di sé, inseguendo le melodie degli altri strumenti.
Scesi gli ultimi scalini con passi lievi e mi avviai verso il portone d’ingresso, ritenendo chiuso il discorso.
«Cithara.» Il modo in cui pronunciò il mio nome provocò dei brividi lungo la mia schiena. Aveva cambiato tono di voce, sembrava più duro.
Mi voltai lentamente.
«Sì?»
«Mi piacerebbe vederti partecipare alle prove del nostro concerto annuale. Sono sicuro che ti troverai bene.» Ancora quel sorriso dolce. Avevo l’impressione che fosse falso, ma non riuscivo a capire il perché.
«Vedrò di venire, se riuscirò a trovare spazio tra i miei impegni.»
Prima di voltarmi, notai il suo sguardo percorrermi palesemente da testa a piedi e sentii un moto di fastidio provenire dallo stomaco. Perché diamine avevo scelto di mettere un vestitino bianco invece dei soliti jeans e maglietta?
«Comunque, bel vestito. Ti sta bene il bianco Cithara, fa risaltare il nero dei tuoi capelli.»
Biascicai un debole ringraziamento al complimento non gradito e finalmente corsi fuori dalla Casa, andando a sbattere contro qualcuno.
«Scusa, io non…»
«Oh, sei tu!» Alzando la testa, scoprii di aver quasi travolto Emile. Dovevo avere ancora un’espressione turbata, perché il biondo mi posò la mano sulla testa. «Ehi… tutto bene?»
«U-uh, ho solo un po’ di fame» cercai di sdrammatizzare.
Se anche lui mi aveva squadrato dalla testa ai piedi, di certo non lo aveva dato a vedere.
«Allora corriamo a mangiare!» mi rispose con un sorriso sincero. Ecco, lui mi dava l’impressione di possedere una melodia stupenda e allegra, di quelle che ti trascinano e fanno venire voglia di ridere e ballare fino a quando non sei distrutto ma felice.
Arrivati al tavolo di Ermes, si ripeté il copione del pranzo e lasciai la mente libera di vagare mentre ascoltavo i discorsi dei fratellastri di Emile. Sembrava che i figli del dio protettore dei ladri fossero avvezzi a combinare marachelle, e trovavo divertente sentire i resoconti degli ultimi problemi che avevano creato.
«Com’è andata oggi? Spero che Emile non ti abbia spremuta per bene, sono intimamente convinta che sia un ragazzo iperattivo…» fece Eleuse guardando il biondo di sottecchi.
Scoppiai a ridere senza ritegno nel vedere Emile ricambiare l’occhiata preoccupato e girarsi per chiedermi con lo sguardo una cosa del tipo “non ho esagerato, vero?”
«No, abbiamo lavorato tanto ma è stato magnanimo, mi ha lasciata riposare…» riuscii a dire, riprendendo fiato.
Dopo un attimo di silenzio, feci caso al largo sorriso che era comparso sul volto di Ele.
«Va bene, credo di averti rivalutato testone. Sembra che stare al tuo fianco faccia bene alla mia Thara.» Arrossii e vidi Emile fare lo stesso.
«Ne sono felice!» rispose, con lo sguardo basso e un sorriso. Forse era solo la mia immaginazione, ma mi sembrò che tutto fosse stato architettato fin dall’inizio da Eleuse piuttosto che da Chirone.
Mettere la povera e triste ragazza appena arrivata sotto l’ala protettiva del veterano allegro e iperattivo della Casa numero undici… Insomma, sembrava un buon piano per tirare su di morale la nuova arrivata e calmare il figlio di Ermes.
Decisi di non indagare oltre e dare ragione a Eleuse, erano passati due giorni e, nonostante il primo l’avessi trascorso per la maggior parte del tempo a dormire, la vicinanza di Emile mi aveva fatto davvero bene. Tutta quell’attività, poi, riusciva a non farmi pensare alla mamma.
Finito di mangiare andammo tutti a sederci in cerchio attorno a un fuoco magico (il suo colore e l’altezza delle sue fiamme dipendevano dall’umore di quelli che si trovavano attorno ad esso, o almeno così mi aveva riferito Emile) e i miei fratellastri guidarono i canti  di tutti noi, dedicati alle divinità greche.
Mi ripromisi mentalmente di impararli uno ad uno per poterli cantare nel modo corretto.
Prima che Emile mi riaccompagnasse alla Casa numero sette, la mia custode mi prese da parte.
«Perdonami se in questi giorni non potrò essere molto presente, ma sto indagando per conto di Chirone sul rapimento di Lynette.» Mi fece strano sentire pronunciare il nome della mamma. «Ho chiesto a quel testone di starti vicino e spero che non faccia nulla di stupido. Sembra che andiate d’accordo, e ne sono felice, Emile è un bravo ragazzo. Sono sicura che vi aiuterete a vicenda.»
Non capivo perché ma quelle parole suonavano come un addio.
«Devi allontanarti dal Campo?» Eleuse non rispose, preferendo abbracciarmi. «Ele, ti prego voglio saperlo. Dove devi andare?»
Lei mi sorrise.
«Non preoccuparti cara, cercherò solo qualche indizio e tornerò subito qui, ok? Ci vorranno solo pochi giorni.» Probabilmente ero io ad essere troppo sospettosa, ma non riuscì a convincermi.
«Poco quanto?»
Eleuse scosse la testa.
«Non lo so ancora, dipende da molti fattori… Ma non devi preoccuparti di nulla, fidati di Emile se dovesse servirti qualcosa» ripetè, baciandomi sulla fronte e abbracciandomi nuovamente. «Partirò domattina, ora però vai a dormire, va bene piccola?»
Avrei tanto voluto rifiutare e chiederle di dormire assieme a me, ma sentivo la necessità di mostrarmi forte anche per lei. Intuivo che avrebbe corso molti pericoli in quella missione, e volevo che non dovesse preoccuparsi anche di me per potersi concentrare unicamente sul suo obiettivo.
«Va bene. Tu però fai attenzione, hai capito? Sarà meglio che non ci metti troppo tempo o mi toccherà venirti a cercare!» Lo dissi in tono scherzoso ma Eleuse parve preoccuparsi.
«Non fare nulla di stupido, Thara. Là fuori è pericoloso.»
«…Non preoccuparti, Emile baderà a me e tu tornerai sana e salva al Campo» le sorrisi, trovando approvazione nei suoi occhi.
Decisi di imprimermi nella mente il ricordo di quei capelli paglierini e le sue iridi verdi.
«Buonanotte cara.»
«Buonanotte anche a te, Ele.» L’abbracciai un’ultima volta e la vidi allontanarsi dopo aver salutato anche il mio tutore.
Emile fu subito al mio fianco per farmi strada verso la mia Casa. Aveva le mani in tasca e sembrava leggermente agitato.
«Uhm…»
«Dimmi pure» feci in tono rilassato, per cercare di metterlo a suo agio. Capivo che voleva dirmi qualcosa, ma non riusciva a trovare il modo adatto.
Rimase un attimo in silenzio.
«Stai tranquilla, Eleuse se la sa cavare.» Ci fu un'altra pausa di silenzio. «Ti prego, se hai bisogno di qualcosa ricorda che ti aiuto volentieri» riuscì infine a dire.
Non credevo che esistesse una qualche situazione in grado di mettere a disagio Emile, ma notai di essermi sbagliata. Si era imbarazzato per ben due volte nel giro di una sola sera.
«Me lo ricorderò» risposi semplicemente. Credo che il ragazzo me ne fu grato, perché annuì e riprese il suo solito fare disinvolto.
Nel frattempo eravamo arrivati davanti al portone della Casa di Apollo.
«Bene, ci vediamo domani allora» disse Emile, abbassando lo sguardo.
«Certo! Buonanotte.» Sorridemmo entrambi e mi voltai per entrare nella Casa.
Forse era solo una mia impressione, ma avevo la sensazione che lo sguardo del biondo stesse scorrendo la mia figura avvolta nel vestitino bianco.
E questa volta la percezione dello stomaco fu simile a un piacevole sfarfallio.

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Capitolo 5
*** Cap. 4 - Staccato ***


[How we kill stars - Shaka Ponk]
[Because - Yoko Kanno]
[Starry Eyed - Ellie Goulding]
 
«Oh… Oggi niente tiro con l’arco?» chiesi con una punta di delusione.
Emile scosse la testa.
«No, dovrai concentrarti prima sull’aumento della resistenza delle braccia. L’arco potrai tornare a imbracciarlo tra qualche giorno.»
Non potei fare a meno di emettere uno sbuffo insoddisfatto. Il mio tutore purtroppo sembrava convinto, sapevo che nulla sarebbe riuscito a fargli cambiare idea e mi arresi.
Passammo qualche ora a esercitarci con le spade finte quando, dopo l’ennesima brutta figura, Emile mi tolse l’arma di mano.
«…Ok, qui ci vuole una dimostrazione. Andiamo all’Arena, ti faccio vedere come si combatte realmente!»
Un campanello di allarme trillò nella mia testa: voleva davvero andare all’Arena? Quell’enorme spazio in cui avevo visto i ragazzi del campo prendersi a colpi di spada e per gran parte delle volte allontanarsi con ferite (seppur superficiali) sul corpo?
Scossi la testa.
«Non penso sia necessario… Basta solo un altro po’ di tempo…»
Non ebbi bisogno di alzare lo sguardo su Emile per capire che di tempo non ce n’era, ricordavo che la Caccia alla Bandiera sarebbe stata tra una decina di giorni.
«Sono sicuro che dopo aver osservato i movimenti di schivata e parata usati in un combattimento serio riuscirai a eseguirli meglio!»
Mi rivolse uno dei suoi sorrisi accoglienti e, presa la mia mano nella sua, iniziò a trascinarmi verso l’Arena. Forse il verbo “trascinare” non è propriamente adatto ‒ormai mi ero arresa all’idea di svenire alla vista del sangue e fare una figura orrenda‒ ma esercitavo un minimo di resistenza sui piedi, se non per ostacolarlo, almeno per non agevolargli la salita. Soprattutto perché iniziavo a sentirmi terribilmente a disagio a causa del contatto con Emile e potevo avvertire distintamente le gocce di sudore che andavano a formarsi sulla mia mano stretta nella sua.
Appena arrivati all’interno dello spazio, il ragazzo lasciò la presa sulla mia mano e potei riprendere a respirare.
Avevo ancora il batticuore quando Emile si allontanò verso la teca delle armi per prendere una spada e saggiarne l’impugnatura. Le mie paure purtroppo erano fondate, l’arma non era di legno come quelle che usava per allenarsi con me.
Deglutii nel vedere il bagliore della lama d’acciaio.
«Bene, non resta che aspettare un degno avversario.»
Il biondo si guardava intorno, come alla ricerca di qualcuno in particolare. Ebbi un brutto presentimento ma speravo di sbagliarmi.
«Hai deciso di mostrare a mia sorella la tua inettitudine sul campo di battaglia prima del tempo, Emile?»
Raven si era avvicinato immediatamente, come un ape attratta dal miele, e si ergeva fiero rigirando uno stocco nella mano sinistra.
Emile non raccolse la provocazione.
«Che ne dici di un combattimento veloce?»
La tensione era palpabile, l’aria si era fatta elettrica.
Raven sorrise e aprì le braccia in un gesto conciliante.
«Sai che combatto volentieri con te, Emile. Cercherò di andarci piano per non farti fare brutta figura, lo prometto.»
Il biondo sogghignò.
«Preoccupati per te, piuttosto. Non vorrei mai che ti facessi male e non potessi partecipare alla Caccia.»
Avevo la sensazione di dover fare qualcosa ma non avevo la più pallida idea di come calmare quei due, così mi limitai a nascondere il viso tra i capelli.
«Cithara, osserva attentamente.»
Alzai lo sguardo.
Emile e Raven si trovavano uno di fronte all’altro, entrambi sembravano avere gli occhi incollati sullo sfidante, pronti a scattare al minimo cenno di movimento.
Mi forzai a guardarli e sperai con tutta me stessa di non dover assistere a scene cruente. L’ultima cosa che volevo era svenire di fronte a tutti!... Tutti, sì, perché gran parte dei ragazzi che si stava allenando era accorsa ad osservare lo scontro tra il mio tutore e il mio fratellastro.
Lo scatto di Raven fu quasi fulmineo, tanto che faticai a capire cos’era successo. Il corvino aveva provato un affondo, prontamente respinto da Emile che aveva aperto la guardia dell’avversario con una stoccata diretta allo sterno. Raven era però indietreggiato e adesso i due erano tornati a studiarsi con gli sguardi infuocati, camminando su di un’immaginaria circonferenza disegnata a terra.
Notai un improvviso guizzo negli occhi di Emile quando si lanciò contro Raven.
Il colpo indirizzato alle gambe fu parato e, mentre Emile tornava in difesa, Raven menò un fendente.
Lì per lì credevo fosse stato un colpo alla cieca, tanto per far indietreggiare il biondo, ma nel sentire le ginocchia diventare di burro compresi cos’era accaduto. La punta dello stocco aveva ferito Emile sulla guancia e ora una leggera striscia rossa gli colorava lo zigomo.
Lo sguardo del biondo si era indurito, probabilmente non si aspettava un colpo così alto. Piuttosto, ebbi l’impressione che Raven non fosse stato del tutto corretto. Forse aveva mirato al viso per deconcentrare l’avversario ma senza protezioni avrebbe potuto infliggergli molto di più di un piccolo taglio.
All’idea di quello che sarebbe potuto accadere sentii le mie gambe protestare e venire meno.
Deglutii. Non potevo lasciarmi andare per così poco!
Sollevai gli occhi su Emile e mi costrinsi ad osservare in modo critico la ferita: pareva leggera, sarebbe guarita nel giro di due, massimo tre giorni.
Fu di nuovo Raven ad attaccare, e questa volta i fendenti erano talmente forti che il cozzare delle lame creava scintille. Uno, due, tre… I colpi si susseguivano senza tregua, Emile costretto a parare, perennemente in difesa.
Una sensazione spiacevole allo stomaco mi costrinse a portare la mano al ventre. Cercai di convincermi che fossero i morsi della fame, mentre iniziavo a rendermi conto che quella era preoccupazione. Capivo che una sconfitta contro Raven avrebbe bruciato troppo ad Emile.
Stavo per distogliere lo sguardo nel vedere il biondo indietreggiare, dapprima impercettibilmente e poi sempre di più, quando vidi di nuovo quello scintillio nei suoi occhi verdi.
Non sapevo perché, ma ebbi la sensazione che Emile stesse solo fingendo di trovarsi in difficoltà. Mi tornarono in mente le sue parole del giorno precedente: “Stai attenta a quello che è il vero interesse del tuo avversario.”
Quando il tallone del biondo sfiorò la staccionata dietro di lui capii. Con uno scatto felino, Emile si abbassò scartando Raven e lo colpì al fianco con la lama, cercando di mandarlo a sbattere contro la recinzione.
Il moro riuscì a riprendere l’equilibrio in tempo per girarsi e in una frazione di secondo, proprio mentre Emile si voltava a fronteggiarlo dopo averlo colpito, gli ferì un braccio.
Dovevo essere indietreggiata anch’io, perché mi ritrovai a sbattere la schiena contro uno dei ragazzi che erano venuti ad assistere allo scontro del secolo.
Sentendo il clangore delle lame lasciate cadere a terra, capii che i due avevano smesso di fronteggiarsi dichiarando la lotta finita con un pareggio.
Avevo visto perfettamente la spada di Emile penetrare (benché in modo leggero) nel fianco senza protezioni di Raven, così come il fendente colpire il braccio di Emile. Una serie di sensazioni ‒una più sgradevole dell’altra‒ si stavano susseguendo dentro di me, in subbuglio, e riuscii a calmarmi solo dopo una serie di lunghi respiri.
«Lascia, Dan, è una cosa da niente…» Emile stava parlottando con un ragazzo più giovane di lui, coi capelli color paglia. Immaginavo fosse un altro figlio di Ermes.
Tentai di darmi un contegno quando si avvicinò a me.
«Scusa, forse è stato un combattimento un po’ rude… Ma spero tu abbia assimilato qualcosa lo stesso.»
Aprii la bocca per replicare ma la richiusi immediatamente nel posare lo sguardo sul braccio ferito.
Lo teneva stretto con l’altra mano con molta nonchalance, mentre una macchia rossa andava via via allargandosi sulla manica strappata della camicia bianca.
«Andiamo in infermeria, devi bendare la ferita.»
In realtà non ero nemmeno sicura ci fosse un’infermeria, ma speravo che avessero almeno un kit di pronto soccorso al Campo.
«Mah…»
Sbuffando, Emile si girò verso l’uscita dell’Arena e mi fece cenno di seguirlo.
«Noir!»
La voce di Raven alle nostre spalle non tradì nemmeno un minimo di sofferenza.
Il mio tutore si arrestò, senza voltare la testa.
«… Sei stato bravo. Spero tu possa migliorare per la Caccia alla Bandiera, però, perché ti servirà molto di più per vincere. Continua ad allenarti.»
«… Contaci, Lionhard.»
Diedi una fugace occhiata al mio fratellastro per accertarmi che stesse bene (era stato già accerchiato da un po’ di persone, tra le quali mi parve di riconoscere alcune ragazze della nostra Casa) e mi affrettai a seguire Emile.
---
«… Quando servono, gli infermieri non ci sono mai.»
Eravamo entrati in uno dei tendoni bianchi posti poco lontano dall’Arena da qualche minuto ma sembrava non ci fosse nessuno oltre a noi due.
Mentre gli occhi si abituavano alla penombra, mi avvicinai al piano di lavoro di fianco ai lettini e osservai le varie erbe riposte nei barattoli trasparenti, assieme alle pomate e le garze. C’era tutto l’occorrente.
«Non serve l’infermiere.»
«… Vorresti medicarmi tu…?»
L’occhiata dubbiosa che mi rivolse il ragazzo mi offese un po’.
Sostenni il suo sguardo ricambiandolo con uno di sfida e alzai leggermente il mento.
«Ti dispiacerebbe?»
Non potevo esserne certa, ma mi parve di vederlo arrossire mentre abbassava lo sguardo e si sedeva docile sul lettino più vicino.
«Mi sembrava di averti vista in difficoltà nel vedere il sangue, tutto qui…» Allora se n’era accorto!
Non risposi e mi avvicinai a lui con una garza e del disinfettante in mano. Evitai il contatto coi suoi occhi quando si scoprì la ferita al braccio.
Nonostante il taglio non fosse troppo profondo, il sangue non si era ancora fermato. Mi appoggiai con una mano al lettino per non svenire e chiusi gli occhi respirando profondamente.
Non è nulla, è solo una lieve ferita… Se non ti muovi, Emile starà peggio.”
«… Posso riuscirci» dissi, dopo aver deglutito per l’ennesima volta e cacciato il gusto acido della nausea, più per convincere me stessa che per lui.
Tamponai il taglio delicatamente ma Emile sussultò lo stesso.
«Scusa, cercherò di fare in fretta.»
«Non fa male…»
Repressi un sorriso quando un altro sussulto silenzioso scosse il corpo del ragazzo. Non capivo davvero questa ostinazione tutta maschile nel dover fingere di non provare dolore.
«Tieni una attimo la garza.»
Dopo poco tornai con una poltiglia violacea che presi a spalmare sul taglio aperto.
«…Cos’è?»
«Aiuterà la ferita a cicatrizzare più velocemente. Non preoccuparti, mia madre è una farmacista, so quello che sto facendo» aggiunsi per tranquillizzarlo.
In realtà non capivo perché fossi così sicura che quell’intruglio lo avrebbe aiutato, semplicemente SAPEVO che era così.
Sentii Emile ridacchiare e lo guardai incuriosita.
«Scusa, avevo dimenticato che i figli di Apollo sono anche degli ottimi medici… Grazie.»
«Oh, di nulla…» Ecco, adesso che stavo bendando il braccio avevo perso tutta la mia spavalderia. Naturalmente non mi ero dimenticata del taglietto sul volto, anzi credo proprio che questo mio cambiamento fosse dovuto alla consapevolezza che di lì a poco avrei dovuto toccare il suo viso.
Alzai lo sguardo e mi bloccai immediatamente nel vedere che mi stava fissando. Con un bel sorriso stampato in faccia, oltretutto.
«Ehm… Potresti chiudere gli occhi?»
L’occhiata interrogativa che ricevetti in risposta mi fece pensare di aver solo immaginato quell’ombra di malizia nel suo sorriso.
«Perché?»
«…» “Perché mi metti a disagio”, avrei voluto dirgli.
A quanto pare il mio silenzio fu sufficiente, perché Emile chiuse le palpebre dopo poco.
«Ok.»
Esitai, soffermandomi a guardarlo.
Era carino.
Molto.
Davvero, tanto carino.
Sentii le guance avvampare e aggrottai le sopracciglia per scacciare quei pensieri inutili.
Mentre gli disinfettavo la ferita, mi permisi di osservarlo un altro po’ da vicino.
Le ciglia erano lunghe, stranamente più scure rispetto ai capelli oro puro, stesso colore delle sopracciglia ben delineate, e l’incarnato olivastro faceva risaltare le labbra rosee leggermente dischiuse ‒morbide e invitanti‒ che lasciavano intravvedere una fila di denti smaglianti.
Spostai lo sguardo sulle sue palpebre proprio mentre riapriva gli occhi per sbirciare.
Voltai il capo di lato per nascondere il rossore che ormai mi coloriva l’intero viso.
«Ti avevo chiesto di tenere gli occhi chiusi.»
Udii Emile sbuffare con una nota divertita nella voce.
«Scusa, scusa…»
Non potei fare a meno di notare il mezzo sorriso ancora accennato sulle labbra quando applicai i cerotti per sutura sul taglio. Questa volta, quando aprì gli occhi ero intenta ad attaccare i punti e riuscii più facilmente a dissimulare l’imbarazzo.
«Grazie Thara.»
Sussultai nel sentirlo pronunciare il mio diminutivo.
«Posso chiamarti così?»
«Credo che sia ok…» “Certo, mi fa piacere!” sarebbe stata una risposta più adatta ma Emile parve contento lo stesso.
«Andiamo a mangiare?»
«Va bene, Emile.» Mi sentii un’idiota a chiamarlo per nome.
Alzando gli occhi rimasi colpita nel vedere l’espressione del biondo. La tenerezza con cui mi guardava mi ricordò lo sguardo pieno di affetto di mia madre e di Eleuse.
«Mi piace come pronunci il mio nome.»
«Oh, ehm… Cercherò di pronunciarlo più spesso, allora» conclusi, abbassando la testa.
Ero convinta che il mio volto sembrasse un tizzone ardente, quindi decisi di continuare per un po’ a seguire Emile col viso nascosto tra le onde dei miei capelli ebano.

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Capitolo 6
*** Cap. 5 - Scherzo ***


[Shrinking Universe - Muse]
[Crystallize - Lindsey Stirling]
 
Mi lasciai cadere sul letto sospirando.
Era ormai sera e mi sentivo distrutta come non mai: Emile aveva deciso di allenarsi con me nonostante il braccio ferito e le mani mi dolevano, affaticate dal peso della spada di legno.
«Uff…»
Speravo fosse una mia impressione ma per tutto il resto della giornata mi pareva di aver intravisto uno strano sorriso beffardo affiorare più volte sulle labbra del biondo.
“Scema…!”
Affondai il viso nel cuscino, soffocando un  gemito di protesta. Ebbi un moto di tristezza nel pensare che solo una stupida sarebbe stata capace di farsi prendere dalle emozioni in quel modo.
Ripercorrendo mentalmente gli avvenimenti della giornata, mi accorsi di non aver notato Raven a cena. Forse la sua ferita era più grave di quello che mi era parso inizialmente ed era stato costretto a rimanere a letto. Mi morsi le labbra: ero stata scortese ad andarmene così, lasciandolo nell’Arena senza nemmeno informarmi sull’entità effettiva della lesione.
Non avevo neanche la più pallida idea di dove si trovasse la sua stanza ma pensai fosse giusto fare un tentativo.
Uscii dalla mia camera con circospezione per avviarmi verso il salone centrale del piano terra, sperando di riuscire a carpire qualche informazione in più ai miei fratellastri senza destare troppi sospetti.
Arrivata a scendere l’ultimo gradino, dedicai qualche minuto a osservare le teste brune che affollavano il salone. Qualcuno si accorse della mia presenza e si limitò a rivolgermi uno sguardo di sufficienza, di certo dopo la mia uscita di oggi non avevo guadagnato dei punti simpatia!
“Ci sarà almeno una persona vagamente amichevole in questa stanza…” continuavo a ripetere tra me e me portandomi verso il centro del salone, cercando di attirare meno attenzione possibile.
Finalmente una ragazza incrociò il mio sguardo senza ombra di ostilità.
«Ciao! Sei quella nuova, vero?» Si era avvicinata dopo aver ricevuto un sorriso imbarazzato in risposta alla sua occhiata incuriosita.
«Piacere… Cithara Greenwood» annuii, porgendole in modo meccanico la mano. Quando me la strinse rimasi sorpresa nel sentire delle mani morbide e paffute. I capelli castani, corti e ricci le cadevano in ciocche ribelli sugli occhi ambrati, mentre delle lentiggini color caffèlatte le coprivano parte delle guance e del naso.
Aveva un’aria simpatica.
«Io sono Martha Lowel! Benvenuta tra noi, spero che  tu possa ambientarti quanto prima.»
Il suo sorriso sincero era contagioso e mi ritrovai ben presto a sorridere a mia volta.
«Lo spero anch’io…» sospirai.
Iniziavo a pensare che sarebbe stata più dura del previsto fare amicizia coi miei fratelli mentre rimanevo sempre e solo con Emile. Non che passare tutto il tempo con lui mi dispiacesse…
«…Ti senti bene?» Dovevo essere arrossita, perché Martha mi stava guardando preoccupata.
Decisi di imputare l’improvviso cambio di colorito all’afa estiva.
«Scusa, posso chiederti una cosa? Oggi Raven è stato ferito all’Arena e non l’ho visto a cena stasera… Per caso sai se sta bene?» Rimasi stupita dall’essere riuscita a comporre una frase così lunga dopo giorni e giorni di quasi mutismo.
Martha arricciò le labbra,  indecisa sul da farsi.
«Mmm… Sì, ho saputo di quello che è successo.» Mi guardò per un attimo in silenzio con i suoi occhi ambrati, come se dovessi capire qualcosa di sottointeso. «L’ho visto poco fa mentre tornava in camera a riposare! …Volevi andare a trovarlo?»
Annuii con un sorriso colpevole. La ragazza ‒faticavo ancora a realizzare che si trattava di una mia sorella, come d’altronde tutti quelli che si trovavano in quella stanza‒ pareva molto acuta: ero convinta che conoscesse la storia e avesse intuito il motivo del mio imbarazzo.
«La stanza è al terzo piano, in fondo al corridoio a destra delle scale. Detto tra noi…»  si avvicinò, abbassando la voce «…non comprendo tutto questo rancore tra quei due. Non sentirti in colpa, a volte i ragazzi sono difficili da capire!»
«Grazie» dissi semplicemente, molto grata a Martha per aver tentato di rincuorarmi.
All’improvviso non mi dava più fastidio l’idea di avere dei fratelli, se questo significava avere una sorella gentile come lei.
«Domani dopo pranzo vieni alle prove?»
Ci misi qualche secondo a capire che si riferiva alle famose prove del concerto di cui mi aveva parlato Raven.
Emile mi aveva promesso di darmi lezioni di ripetizione sulla storia dell’Antica Grecia la mattina, avrebbe voluto allenarmi di pomeriggio. Sperai che non si arrabbiasse se per un giorno mi fossi presa una pausa.
«Stavo pensando di venire… Dove le fate?»
«Ti aspetto al dormitorio alle 15:00! Così andiamo assieme.» Mi sorrise di nuovo, allungando la mano verso la mia spalla per darmi un colpetto affettuoso.
«Ok, grazie ancora Martha.»
Annuì con il capo e fece un cenno verso le scale.
«Un’ultima cosa… Raven è un tipo difficile a volte ma non è cattivo. Dagli un po’ di fiducia.»
---
Erano passati ormai cinque minuti da quando avevo trovato la porta della stanza di Raven e ancora non mi ero decisa a bussare. Stavo lì, immobile e incerta sul da farsi.
Cos’avrei detto una volta dentro? “Ciao Raven, sei ancora tutto intero? Oh, mi dispiace tanto per essere scappata in quel modo stamattina ma ero troppo impegnata a seguire i miei stupidi ormoni e correre dietro ad Emile! Spero che non ti dispiaccia.” …No ok, così non andava decisamente bene.
La cosa più  strana è che all’inizio la mia azione non mi era sembrata terribile ma col passare delle ore avevo realizzato che dovevo essere sembrata un’insensibile o peggio, una traditrice. Maledizione, era pur sempre uno dei miei fratelli quello che era stato ferito più gravemente!
Era tutto così dannatamente difficile… Quando andavo a scuola non dovevo preoccuparmi tanto, a forza di stare a contatto coi miei compagni per tutte quelle ore le cose venivano da sé. Le amicizie lì mi erano parse facili da costruire, anche se mi ero accorta di quanto fossero altrettanto facilmente deperibili. È brutto ritrovarsi a pensare dopo anni di essere amica di tutti ma di nessuno in particolare.
Le uniche due figure a cui mi appoggiavo, mia mamma ed Eleuse, erano attualmente fuori dalla mia portata e fu strano realizzare di essere stata lasciata da sola con i miei problemi.
Uno scricchiolio proveniente dalla porta mi strappò ai miei pensieri.
«Oh…? Cithara?» Non poteva essere lo stesso Raven che avevo conosciuto, quello che avevo davanti in quel momento. Con i capelli arruffati e un pigiama scuro di seta, aveva l’aria sorpresa e ‒incredibile a dirsi!‒ indifesa.
«Ah… Perdonami, stavo per bussare ma avevo paura che stessi dormendo.» La scusa mi risultò parecchio patetica, tuttavia Raven non la mise in dubbio.
«…Vuoi entrare un momento?» fece, spostandosi di lato per lasciare libera parte dell’ingresso.
«Ti ringrazio.»
Rimasi piacevolmente colpita da come aveva arredato la sua piccola camera, c’erano un sacco di scaffali pieni di libri in greco e sulla scrivania, davanti alla finestra, spiccavano dei barattoli in vetro contenenti delle erbe in polvere.
Con la mano fece cenno di accomodarmi sulla sedia mentre lui si sedeva sul letto semidisfatto.
«Scusa il disordine, non aspettavo ospiti.» Era imbarazzo quello che avevo appena percepito nella sua voce?
«Volevo solo vedere come stavi. La ferita al fianco è grave?» Nel pronunciare la domanda spostai lo sguardo sulle bende che si intravvedevano dallo scollo del pigiama.
Raven alzò le spalle con noncuranza e si passò una mano tra i capelli ebano. Sembravano morbidi…
«Nulla di cui preoccuparsi. Guarirà in tempo per la Caccia alla Bandiera» aggiunse sorridendo. Di sicuro stava progettando un modo per farla pagare ad Emile.
«Riguardo oggi pomeriggio all’Arena… Mi spiace di essere scappata in quel modo.»
I suoi occhi grigi mi studiarono a lungo prima di sorridere e diventare simili a opali scuri.
«Non ti devi scusare, ho capito subito che ti dà fastidio la vista del sangue! D’altro canto, anche l’inetto…» alzai un sopracciglio «…Pardon, Emile, necessitava di cure. È normale che tu lo abbia seguito.»
Rilassai un poco le spalle ed emisi mentalmente un sospiro di sollievo. Almeno Raven pareva ancora ben disposto nei miei confronti.
“Raven è un tipo difficile a volte ma non è cattivo. Dagli un po’ di fiducia.”
«Posso… Posso farti una domanda?»
Quando mi sorrise sornione mi aspettai quasi che rispondesse una cosa del tipo “L’hai appena fatta”, invece fece un cenno col capo.
«Dimmi pure.»
«C’è un motivo particolare per il quale tu ed Emile non andate molto d’accordo?»
Dire che non andavano d’accordo era un eufemismo, pareva piuttosto che tra i due ci fosse una sorta di rivalità viscerale.
Sembrò pensarci su a lungo.
«Beh, siamo arrivati assieme al Campo Mezzosangue otto anni fa. Lui è sempre stato, come dire… Molto attivo. Io, per contro, ero un bambino abbastanza tranquillo e avere sempre addosso un ragazzino assillante che cercava di trascinarmi nei suoi giochi spericolati… Non era il genere di divertimento che mi attirava, ecco.» Raven aveva lo sguardo perso mentre raccontava, le immagini gli scorrevano davanti agli occhi. «Quando siamo cresciuti ho deciso di mettere in chiaro le cose con un combattimento e, dopo essere stato battuto, Emile mi promise solennemente che si sarebbe allenato per superarmi. Da quel momento ci sono stati continui scontri tra di noi per determinare chi fosse il migliore.»
Provai a immaginare un piccolo Raven importunato da un mini Emile e mi venne da ridere. Mio fratello mi sorrise.
«Non posso dire di odiarlo veramente, mi sono affezionato alle nostre scaramucce. Se non ci azzuffiamo entro un tot di giorni ne sento la mancanza.»
Non riuscii più a trattenermi e mi sfuggì una risata mentre cercavo di asciugare le lacrime che mi erano salite agli occhi.
«A-ehm… Scusa» feci, cercando di riprendere contegno. Lui sorrise bonario e scosse la mano.
«Figurati! Capisco che sia difficile da credere ma è così. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non c’è un vero e proprio motivo per il quale non andiamo d’accordo… È solo ordinaria amministrazione.»
“Non è poi così difficile da credere… Piuttosto, non riesco a credere che questo sia lo stesso Raven che ho conosciuto l’altra mattina! Come ha potuto farmi una così brutta impressione…?”
Ricordai l’aria arrogante che aveva la prima volta che l’avevo visto e compresi: non ero mai stata brava con le prime impressioni. Mi ero, come al solito, fermata alla scorza e fidata dell’aura armonica che avevo percepito. Chi dice che una melodia lugubre debba essere per forza negativa?
«Grazie per il racconto, è stato illuminante» dissi, mentre mi alzavo dopo aver notato che Raven aveva trattenuto uno sbadiglio.
Mi guardò con aria smarrita.
«Oh, vai di già? …Spero che la mia storia non abbia messo in cattiva luce Emile, non potrei mai sopportarlo.» La vena ironica nella sua voce indicava tutto il contrario.
Sospirai mentalmente per la seconda volta, ora in segno di rassegnazione: non poteva proprio sopportare Emile. Forse c’era dell’altro che non mi aveva raccontato.
«Immagino che sarai stanco e devi riposare per riprenderti del tutto.»
Gli si illuminarono gli occhi, non si aspettava che mi preoccupassi per lui.
«Su questo hai ragione… Grazie per la visita, mi ha fatto piacere vederti, Cithara.» Nella sua voce c’era una nuova dolcezza nel pronunciare il mio nome che mi fece arrossire.
«Ci vediamo domani, Raven. Buonanotte!»
«Buonanotte anche a te.»
---
«E quindi mi tradisci così?»
Abbassai lo sguardo con aria colpevole.
«M-mi spiace, è che…» biascicai, sempre senza guardare Emile negli occhi. Mi era sembrato davvero deluso quando gli avevo chiesto di lasciarmi il pomeriggio libero per partecipare alle prove della banda.
Emile mi colse alla sprovvista, arruffandomi i capelli e rischiando di farmi venire un attacco di cuore.
«Ho capito, devi legare anche con i tuoi fratelli. Non preoccuparti per me, troverò qualcosa da fare!»
Sapevo che non avrei dovuto alzare gli occhi su di lui, perché lo sguardo amabile che mi stava rivolgendo traspariva già dal suo tono di voce, ma non potei farne a meno.
«Grazie, Emile.»
Il suo sorriso si allargò di più.
«Naturalmente, questo significa che perderemo del tempo prezioso per l’allenamento… Dovrai farti perdonare in qualche modo.»
Rabbrividii in modo impercettibile alle sue parole ed iniziai a preoccuparmi. Mi trovavo pur sempre di fronte a un figlio di Ermes, e avevo sentito racconti poco raccomandabili sui tipi di pagamento che prediligevano (come biancheria intima femminile e cose di questo tipo)…
Deglutii e cercai di dissimulare l’agitazione.
«Cosa dovrei fare?»
«Andrai a suonare con la banda, no? Dunque presumo che suoni uno strumento…» disse in tono suadente e con un sorriso angelico, abbassando la voce «…Vorrei che suonassi per me.»
Mi guardò incuriosito quando tirai un sospiro di sollievo.
«Solo? Oh, pensavo che…» Avevo dimenticato che stavo parlando con Emile, non con un figlio di Ermes qualunque. Insomma, a sentire Eleuse, il biondino era una specie di santo in mezzo a tanti arrapati…
«Beh, se vuoi ripagarmi in qualche altro modo… Forse se ne può parlare.»
Ritirai mentalmente tutto quello che avevo pensato. Nonostante la sua apparente noncuranza, Emile rimaneva un figlio di Ermes in tutto e per tutto, oltre che essere un ragazzo, in primis.
«...Sì, suonare andrà bene.»
Non lo guardai mentre soffocava un risolino e tornava ad arruffarmi i capelli.
«Sono curioso si sentire il tuo violino, si dice che si possano capire tante cose di una persona, sentendola suonare…»
«Come sai che suono il violino?» Mi diedi della scema nel momento stesso in cui glielo chiesi. «Te l’avrà detto Eleuse, immagino…»
Emile sorrise, scuotendo la testa.
«Ho visto la custodia quando sono venuto a prenderti la prima sera per la cena.»
Sentii imporporarsi le guance al pensiero di Emile che, nella mia stanza, aveva avuto tutto il tempo di studiarmi mentre dormivo e provare a capire qualcosa di me guardando i miseri bagagli che ero riuscita a portare al Campo.
«Scusa ancora per quella volta! Non verrò più a importunarti, lo prometto» si sentì in obbligo di aggiungere, forse preoccupato dal mio mutismo. «…A meno che non sia tu a invitarmi nella tua stanza, s’intende.»
Ok, due battute sagaci nel giro di qualche minuto erano un po’ troppe. Doveva essersi accorto del mio imbarazzo il giorno precedente…!
Per non perdere del tutto la faccia, l’unica cosa da fare era mostrare indifferenza.
«Non ci vedo nulla di male, se vuoi sei il benvenuto. Naturalmente quando sono sveglia, s’intende» conclusi, scimmiottando la sua frase.
Il biondo rise di gusto e per quella mattina tornò ad essere il santo di sempre, almeno in apparenza.
 
Alle 15:00 in punto, Martha scese la scalinata principale della nostra Casa con un cofanetto dalla forma affusolata sulle spalle. Immaginai fosse il contenitore del suo strumento musicale e strinsi più saldamente la presa sulla custodia di pelle del mio violino.
«Eccoti qui, Cithara! La stanza in cui ci esercitiamo è poco lontana da qui ma vorrei arrivare un po’ prima per presentarti alcuni dei nostri fratelli. A proposito, lui è Loren.»
Non mi ero accorta della figura allampanata dietro di Martha nonostante la custodia del suo strumento fosse decisamente ben visibile, talmente grande da superare la sua altezza mentre la portava sulle spalle.
Gli occhi verde scuro del ragazzo mi scrutarono pigri da sotto i lisci capelli castani prima di sorridermi.
«Piacere, Loren Kylies. Sono il violoncellista» disse, indicando col pollice il borsone alle sue spalle.
«Cithara Greenwood. Suono il violino.»
Il suo sguardo s’illuminò alla parola violino e lo vidi annuire soddisfatto.
«Finalmente un violino! Ero stanco di tutti questi strumenti a fiat... Ouch!» Martha gli aveva tirato una gomitata nel costato, creando non pochi problemi al suo equilibrio, precario a causa del peso del violoncello.
«Loren è simpatico, ma dovrebbe imparare a non criticare i gusti degli altri. Non è colpa di nessuno se ultimamente partecipano alle prove per lo più clarinetti, flauti traversi e trombe… Anzi, ci sono Ruth alla viola e Chama all’arpa, non dovresti nemmeno lamentarti!»
«Siamo così in pochi alle prove?» Dovevo aver toccato un tasto dolente, perché entrambi smisero di bisticciare e mi rivolsero un’occhiata addolorata.
«Molti nostri fratelli non sono interessati all’idea del concerto di fine estate… Intervengono nel suonare e cantare le canzoni attorno al falò ma per il resto preferiscono dedicarsi all’allenamento con le armi e allo studio delle erbe medicinali.»
Questa storia mi puzzava, da quello che avevo capito i figli di Apollo erano noti per suonare egregiamente gli strumenti, perché mai avrebbero dovuto metterli da parte per le armi? Come se si fossero dovuti preparare per qualcosa…
«…Sono tutti impegnati per la Caccia alla Bandiera? È così importante?» Martha e Loren scoppiarono a ridere all’unisono, lui era addirittura piegato in due e la ragazza dovette aiutarlo per far si che non rimanesse schiacciato sotto il peso della custodia del violoncello.
«S-scusa… No, ovvio che no! La Caccia alla Bandiera è più un divertimento che altro…» mi rispose Loren con le lacrime agli occhi. Aveva davvero una bella voce, la sua risata cristallina mi ricordava il rumore della dolce pioggia estiva.
«In effetti tutte le Case sono in subbuglio, ma di certo non per la Caccia» continuò la riccia, in tono serio «Sembra che là fuori stiano succedendo cose strane e, anche se gli insegnanti non ci dicono nulla, abbiamo capito che qualcosa di importante bolle in pentola sull’Olimpo.»
Rimasi in silenzio a riflettere, mentre seguivo i due che nel frattempo avevano ricominciato a beccarsi. Possibile che anche il rapimento di mia madre c’entrasse qualcosa?
Non riuscii a formulare altri pensieri utili a unire i tasselli del puzzle che si stava formando nella mia mente, perché appena arrivati nell’aula una mano dalle dita affusolate si posò sulla mia nuca in modo affettuoso.
«Cithara, sei venuta alla fine! Sono felice che ti sia voluta unire a noi.»
«…Raven! Ma sei ferito, non credi che sarebbe meglio…?» Mi zittì con due colpetti sulla spalla, come a dire “va tutto bene”, e si allontanò per prendere posto al piano.
«Buon pomeriggio a tutti, fratelli! È con grande onore che vi annuncio l’arrivo di un nuovo elemento nel gruppo: Cithara Greenwood col suo violino.»
Stavo pregando di svanire nel nulla o venire risucchiata dalle pareti per paura di rivedere i volti ostili dell’altra sera, e invece rimasi colpita dal constatare che tutti mi fissavano con aria di speranza, piuttosto che di risentimento. Dovevano davvero sentire la mancanza degli strumenti a corda.
Dopo aver salutato i miei fratelli ed essermi presentata (cercando di ricordare almeno qualche nome tra la quindicina di persone che componeva la nostra mini orchestra), mi abbandonai su di una sedia e aprii la custodia con dolcezza. Con tutto il trambusto che c’era stato dopo il mio arrivo al Campo, non avevo avuto la possibilità di suonare.
Accarezzai con affetto la vernice bianca del mio violino, assaporandone ogni asperità.
Il suono dolce del pianoforte mi riportò alla realtà e Raven iniziò a illustrare il pezzo sul quale ci saremmo esercitati quel giorno, un arrangiamento orchestrato di una delle canzoni che avevo sentito intonare attorno al falò.
Mentre iniziavo a pizzicare le corde del violino sotto lo sguardo vigile del corvino, capii perché era venuto alle prove nonostante la ferita e come potesse essere seguito così ubbidientemente da tutti.
Senza di Raven, il gruppo non esisteva. Lui era come il Sole per i fiori, la Luna per le maree, l’acqua per la vita… Era tutto.
Capii questo, e guardandolo con occhi diversi compresi anche perché Emile era tanto desideroso di superarlo.
Iniziai a pensare che non ci sarebbe mai riuscito.

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Capitolo 7
*** Cap. 6 - Sonata ***


[Undress me - Anggun]
[Chasing cars - Snow Patrol]
[Solitude - Ryuichi Sakamoto]
 
Era ormai passato un po’ da quando avevo conosciuto la banda, e mi sentivo in colpa.
Un giorno sì e uno no andavo a suonare di pomeriggio, trascurando l’allenamento con Emile. Lui si mostrava tranquillo ma sapevo che era preoccupato per l’avvicinarsi inesorabile della Caccia alla Bandiera.
«Thara, anche oggi ci vediamo alle 15:00?» mi chiese Martha, scacciando un ricciolo ribelle dagli occhi.
Loren, di fianco a lei, mi guardò speranzoso mentre ingurgitava una ciambella seduto al tavolo di Apollo.
Emile mi aveva convinta a sedere coi miei fratelli almeno a colazione e, se da un lato gli ero grata perché avevo stretto più amicizia con Loren e Martha, dall’altro iniziavo a sentirmi messa da parte.
Tornai a guardare mia sorella e scossi leggermente la testa, tentando di ignorare l’espressione da cucciolo ferito di mio fratello.
«Mi dispiace ragazzi, devo andare ad allenarmi… La Caccia è vicina e so di non essere decisamente pronta.»
Martha assottigliò gli occhi, e un sorriso furbetto le si formò sulle labbra fine.
«Allenarti, eh? …Con Emile?»
Cercai di non strozzarmi con il succo d’arancia.
«S-sì, perché? Sta cercando di rendere accettabile la figuraccia che farò quando tutti si accorgeranno di quanto sia inutile in battaglia.»
«Uh, chissà perché avrei giurato che nessuno di voi due fosse così interessato all’allenamento. O almeno non a quello con le armi.» Mentre ammiccava distolsi lo sguardo, il calore alle guance palpabile, e mi ritrovai a guardare verso il tavolo di Ermes. Il cuore fece una capriola quando vidi che Emile mi stava osservando con sguardo dolce.
Ricambiai il saluto e rivolsi di nuovo l’attenzione ai miei fratelli, il castano ora guardava Martha di sottecchi.
«Ma saranno fatti loro? E poi, se Thara dice che si allenano, allora è vero. È una persona seria, lei.» Ringraziai silenziosamente mio fratello.
«Sei proprio noioso… Qui al Campo non c’è mai nulla di nuovo, sono alla ricerca di uno scoop! Sarebbe divertente se Cithara ed Emile si mettessero assieme, no?»
Decisi di prendere in mano la situazione prima che Loren potesse risponderle male.
«Martha… Posso assicurarti che non c’è niente del genere tra di noi. Emile è solo un buon amico che sta tentando di aiutarmi.»
«…Per ora» concluse lei.
Sospirai rumorosamente e trasalii quando una mano che conoscevo fin troppo bene mi si posò sulla schiena. Emile salutò i miei due fratelli e si chinò, sussurrandomi all’orecchio.
«Ti aspetto al solito posto.»
Riuscii solo ad annuire, ormai avevo due tizzoni al posto delle guance.
Udii la risata di trionfo di Martha e lo sbuffo di Loren.
«…Per ora!»
---
Camminando, carezzai la custodia del violino.
Avevo lasciato Emile dopo pranzo, facendogli credere che sarei andata ad esercitarmi con la banda ma avevo intenzione di fargli una sorpresa e suonare per lui. Cosa avrei potuto suonargli? Non mi sembrava tipo da musica classica, d’altronde col mio violino elettrico avrei potuto intonare qualsiasi melodia, magari accompagnandola al suono della mia voce…
Rallentai il passo, incerta. Un flashback mi travolse e mi ritrovai ad avere otto anni, mamma con le mani tra i miei capelli.
«Thara, tesoro. Ricorda che la Voce è un dono molto importante, bisogna usarla con prudenza.»
«Ma mamma… Hai visto come quell’uccellino è volato via quando ho cantato? Prima stava male e invece adesso…»
Il tocco di mia madre si fece più gentile.
«È perché hai raggiunto la Melodia emessa dalla sua anima. La Musica può guarire tutto, ancor più della medicina, ma non bisogna mai abusarne.»
«…Non devo più cantare?» Una lacrima fugace mi scese lungo la guancia, facendomi il solletico.
«Hai il violino, no? Suona con tutta te stessa e trasmetti agli altri la tua Melodia con questo strumento. Un giorno sarai in grado di controllare anche la tua Voce e potrai utilizzarla, ma fino a quel giorno sarà meglio trattenerla.» Mi baciò sulla guancia. «Non preoccuparti, tutto verrà da sé…»
Sbattei le palpebre un paio di volte. Cosa diamine mi era successo?
Aggrottai le sopracciglia, preoccupata. Non mi era mai capitato di perdere il contatto con la realtà come allora, era stato tutto come un sogno ad occhi aperti. Eppure la notte precedente avevo dormito abbastanza…
Mi accorsi che alcuni ragazzi del Campo, vedendomi ferma in mezzo alla strada con quella che immaginavo essere un’espressione imbambolata, mi lanciavano occhiate incuriosite quindi decisi di continuare a camminare fingendo che non fosse successo nulla.
Mamma aveva parlato della mia voce come di una cosa particolare. Cosa intendeva con “non bisogna mai abusarne”? L’ultima volta che mi ero concessa di cantare… Effettivamente non riuscivo proprio a ricordarla. Probabilmente era a uno di quei concerti scolastici nei quali le voci più o meno meritevoli si mescolavano, andando a creare una melodia pressoché accettabile. Avevo mai cantato veramente in qualche occasione, tranne quando ero da sola a casa o sotto la doccia?
“È colpa della mia maledetta timidezza”, mi ero sempre detta, ma dopo quella visione (perché non poteva essere altro che una visione, molto vivida per giunta) iniziai a chiedermi se non ci fosse sotto qualcos’altro.
Persa nei miei pensieri, non mi ero resa conto di aver raggiunto lo spiazzo in cui mi allenavo con Emile.
«Cithara…? Oggi non avevi le prove?» fece il biondo, spostando lo sguardo da me al violino, per poi tornare a guardarmi con aria interrogativa.
Gli sorrisi, scacciando dalla mente tutti i dubbi e le domande che fino a poco prima mi affollavano la mente.
«Ho pensato di venire ad allenarmi un po’ e pagare il mio debito.»
Un sorriso andò a disegnarsi anche sul suo volto, estendendosi agli occhi.
«Uhm… E con cosa desideri iniziare?»
La spada di legno con cui si stava allenando prima del mio arrivo danzava tra il palmo e il dorso della sua mano, come stregata.
«…Ok, prima il dovere» dissi, avvicinandomi ad una spada posata a terra.
Tirammo di scherma per un po’, fino a quando non riuscii a disarmare Emile, strappandogli un verso di stupore misto ad orgoglio.
«Vuoi provare a tirare con l’arco?» mi chiese lui, mentre mi passava una bottiglietta d’acqua. Era davvero caldo e cominciavo a sentire la fatica da mancanza di allenamento.
«Magari, se mi sarà rimasta qualche energia dopo aver suonato… Oppure domani.»
«Vuoi allenarti anche domani?» Sembrava sorpreso.
Annuii vigorosamente, non avevo intenzione di deluderlo durante la Caccia!
«La Caccia sarà tra quattro giorni, giusto? Non voglio essere un peso, ti prego di allenarmi ancora un po’.»
Emile rise e mi scompigliò i capelli. Pareva che ci provasse gusto nel rendere vane le mie passate di spazzola su quella capigliatura ribelle.
«Fidati, non sarai un peso! Stai tranquilla, sei migliorata tantissimo.»
«Spero tu abbia ragione…» Rimasi qualche secondo in silenzio ad ascoltare il mio respiro, reso affannoso dallo sforzo, tornare regolare.
Mi stesi sull’erba per rilassarmi prima di suonare e chiusi gli occhi. Il fruscio che mi sfiorò l’orecchio mi fece intuire che anche Emile si era sdraiato al mio fianco.
«So di non essere fatta per il combattimento… Ho una paura tremenda di deludere tutti voi che credete in me.»
“Ho paura di deludere te.”
«Smettila di preoccuparti, Thara. Pensi forse che le figlie di Afrodite sappiano tenere in mano una spada?»
Riportai alla mente le ragazze leggiadre che avevo visto più volte specchiarsi sul lago e non far altro che pettinarsi i lunghi capelli biondi. Dubitavo fortemente che sapessero affrontare una battaglia.
«Ognuno ha le proprie capacità, si tratta solo di essere in grado di difendersi.»
La voce di Emile sembrava più profonda a causa della posizione coricata, e adesso risultava alle mie orecchie come una melodia irresistibile.
Aprii gli occhi e mi voltai a guardarlo, trovando subito i suoi adorabili occhi verdi.
«…E secondo te? Ora ne sono capace?»
Lui mi sorrise per l’ennesima volta, il volto a un nonnulla dal mio.
«Ora te la sai cavare. Ma devi continuare ad allenarti, per Eleuse, per tua madre, per me… Le persone che ti vogliono bene devono sapere che anche se sei da sola non corri pericoli.»
Forse era una mia impressione, eppure mi era parso marcare quel “per me”. Come a dire “sì, hai capito bene, sei importante per me”.
…Ma probabilmente era tutto frutto della mia immaginazione.
Sorrisi imbarazzata di rimando e mi alzai a sedere, raggiungendo con le mani la custodia in pelle del violino.
«Vorresti sentire qualcosa in particolare?» gli chiesi, cercando di ignorare l’accelerare dei battiti del mio cuore.
«Fai come se non ci fossi. Suona quello che suoneresti per te stessa in questo momento.» Si era messo a sedere anche lui con espressione serafica, mentre io mi ero drizzata in piedi del tutto.
Saggiai le corde dello strumento mordendomi le labbra. Come potevo fingere di essere da sola? Tutto nell’aria mi parlava di lui, dal suo profumo alla sua presenza silenziosa.
Inspirai lentamente e chiusi gli occhi. Spostai l’archetto sulle corde, la mano che tremava leggermente, in armonia con la vibrazione della cassa del violino.
La melodia che stavo intonando ricordava molto Solitude, di Ryuchi Sakamoto. Era da sempre una delle canzoni che più adoravo suonare quando mi sentivo triste.
In realtà non comprendevo il motivo di questa tristezza. Più che altro l’avrei definita… Malinconia.
Il volto di mia madre, il sorriso dolce di Eleuse… Avevo in mente loro, mentre suonavo. Quando avrei potuto riabbracciarle? Eleuse di certo mi avrebbe detto di non piangere ed essere forte, quindi mi sentii una stupida quando mi accorsi di avere gli occhi umidi. Nonostante tenessi le palpebre chiuse, alcune lacrime sfuggirono dalle ciglia e mi rigarono le guance.
In mezzo a tutta questa malinconia, la brezza estiva mi portò il profumo di Emile e la melodia cambiò.
Le note si fecero più allegre, come se un raggio di sole fosse arrivato a rischiarare la via che stavo percorrendo. L’archetto si muoveva veloce sulle corde, fino quasi a ferirmi le dita della sinistra, per poi rallentare un momento e tornare a spostarsi veloce, avido di note.
Era così maledettamente bella, quella Melodia… Ora stava diventando simile ad un walzer. Mi immaginai avvolta da un abito bianco, ballare con Emile. Ed era proprio quella la sensazione che avevo: suonare una musica che lo rappresentava nelle sue sfaccettature che adesso conoscevo mi dava l’impressione di capirlo e dialogare con lui.
Non so per quanto tempo suonai, so solo che alla fine i polpastrelli torturati dalle corde dolevano come non mai e anche le spalle non scherzavano. Probabilmente non era stata la scelta migliore, suonare con così tanto ardore dopo l’allenamento.
Ripresi fiato e mi voltai a cercare Emile con lo sguardo. Non aveva fatto ancora commenti sulla mia performance.
Lo vidi dove lo avevo lasciato, seduto accanto a un albero. C’era un silenzio irreale ‒specialmente dopo tutto quel suono che avevo liberato dal violino‒ e non volevo arrischiarmi a parlare per paura di interrompere quell’attimo quasi magico.
«Thara… Oh dèi, era magnifica» disse infine, con gli occhi lucidi.
«Ti è piaciuta?» Il cuore, che durante l’esibizione se n’era stato buono, ricominciò a battere all’impazzata.
«Non solo la musica… Tu, sei stata meravigliosa.»
«Ahah, esagerato…» risi per mascherare l’imbarazzo.
«No, dico davvero. Non riesco a trovare le parole… Era come se mi stessi parlando, con quel violino.»
Allora l’aveva sentita! Aveva sentito il richiamo della sua Melodia all’interno della mia musica.
Iniziavo a comprendere il significato della visione che avevo avuto raggiungendo Emile. Avevo sempre intuito la presenza di quella che chiamavo “aura armonica” in ogni persona… Per toccarle il cuore dovevo solo “sintonizzarmi” sulla sua lunghezza d’onda e intonare una Melodia appropriata.
E se ero in grado di fare questo con il mio violino, cos’avrei potuto fare con la mia voce? Forse l’effetto era ancora maggiore, per questo mia madre mi aveva proibito in passato di usarla?
Il tocco di Emile mi strappò immediatamente alle mie supposizioni.
«Ti prego, suonerai ancora per me?» Il suo tono di voce era quasi implorante mentre mi teneva le mani.
Mi imposi di mantenere l’autocontrollo.
«Ne sarei felice.»
Quando poggiò la fronte sulla mia, trattenni il respiro.
«Grazie… Adoro la tua musica.»
Non tentai di correggerlo, dicendogli che quella era la sua, di musica.

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Capitolo 8
*** Cap. 7 - Vivace ***


[Aura - Two Steps From Hell]
[Shinku no Fatarythm - Kanon Wakeshima]
[The Listening - Lights]
 
Mi sciacquai il viso con dell’acqua fresca. Avevo appena finito un lungo allenamento di tiro con l’arco, e finalmente potevo dire di ritenermi soddisfatta delle mie capacità offensive.
Insomma, ero partita da zero e in una decina di giorni ero migliorata in modo notevole! Almeno adesso riuscivo a finire le frecce della faretra più piccola, prima di sentire le braccia indolenzite dal peso dell’arco.
Lasciai lo sguardo libero di vagare e osservai lo spazio circostante attraverso lo specchio, mentre racchiudevo nuovamente i capelli in uno chignon arruffato.
Il bagno femminile vicino al padiglione di tiro con l’arco era rivestito di mattonelle squisitamente rosa confetto, cosa che ‒in abbinamento alla rubinetteria dorata‒ contribuiva a dargli un’aria pacchiana. Mi chiesi se erano state interpellate le figlie di Afrodite per quel design così azzardato.
Scossi la testa con uno sbuffo e in quel momento vidi entrare due ragazze, che riconobbi come figlie di Ares, impegnate a  discutere animatamente.
Ricordavo bene le raccomandazioni di Emile e Loren riguardo i figli del dio della guerra! Meglio fingere indifferenza e allontanarmi con lo sguardo basso.
Ero quasi riuscita nel mio intento, ancora qualche passo e sarei uscita dal bagno…
«Ehi tu. Sei la tipa nuova, vero?»
“Maledizione!”
Mi voltai lentamente e sorrisi.
«Se ti riferisci alla Casa di Apollo, sì sono io l’ultima arrivata. Posso fare qualcosa per voi?»
Quella più alta mi squadrò dalla testa ai piedi con fare poco amichevole. I capelli lisci rosso scuro le davano un aspetto piuttosto minaccioso.
«La figlia di papà che è entrata al Campo già come Determinata. Hai trovato la pappa pronta eh?»
«Perdonami, ma non ti seguo.» Il respiro iniziava ad accelerare assieme ai battiti del cuore, l’aria intorno a noi tesa come le corde del mio violino.
L’altra accennò una risata.
«Appena sei arrivata, Chirone ti ha accolto a braccia aperte! E poi ti ha affidato a qualcuno che ti potesse coccolare e tirare su di morale… Pare che gli ultimi arrivi vengano trattati coi guanti.»
«Chissà perché, mi chiedo. Non è che forse ci nascondi qualcosa?»
Ricambiai la sua occhiata con uno sguardo confuso. Non avevo la più pallida idea di dove volessero andare a parare.
«Già, forse sai qualcosa su quello che sta accadendo al di fuori di qui. Forse sai tutto e fai la preziosa!»
Il modo in cui calcava quel “forse” mi infastidiva, come se sapessi sul serio quello che stava succedendo. Beh, se avessi avuto qualche idea, di certo non me ne sarei rimasta con le mani in mano mentre Eleuse era alla ricerca di mia madre.
«Mi spiace, non posso esservi d’aiuto. Ne so quanto voi.» “Se non di meno”, aggiunsi tra me e me.
La rossa tirò una gomitata alla compagna che stava sghignazzando, e tornò a fissarmi intensamente.
«Mia sorella intendeva dire che, SE tu ci stessi nascondendo qualcosa, sarebbe davvero poco carino. Tra cugini bisogna aiutarsi, no?» disse, sorridendo. Nonostante fosse figlia di Ares, nata come macchina da guerra, aveva dei lineamenti piacenti e mi ritrovai a pensare che se fossi stata un ragazzo quel sorriso mi sarebbe sembrato quasi sincero. Quasi, infatti.
Le sorrisi il più spontaneamente possibile, desiderando solo di potermi allontanare al più presto da quel luogo (l’aria tesa e il rosa confetto iniziavano a darmi il voltastomaco).
«Certamente! SE dovessi scoprire qualcosa, di sicuro voi sareste le prime a saperlo.»
«Allora ricorda il mio nome, Alyssa Fingermann» fece la rossa, bloccandomi l’uscita.
Strinsi la mano che mi stava porgendo, presentandomi a mia volta, e imboccai finalmente la tanto agognata porta, camminando a passo spedito.
---
«Thara, stai tranquilla!» cercò di rassicurarmi Martha mentre saggiava l’elasticità del suo arco.
Il grande momento della mia prima Caccia alla Bandiera era finalmente ‒o meglio, purtroppo‒ arrivato, mettendo a dura prova il mio autocontrollo.
Tutti si stavano aggiustando l’armatura o controllavano le proprie armi e, nell’aprire e chiudere per l’ennesima volta le cinghie del corpetto di cuoio, mi sentivo come in un sogno. Le membra si erano intorpidite, i suoni mi giungevano ovattati…
“Wow campionessa, non svenire ancor prima di cominciare.”
«Che entrino le Bandiere! La squadra capitanata dai figli di Apollo con le Case di Atena, Afrodite e Demetra, contro la squadra dei figli di Ares con le Case di Ermes, Dioniso ed Efesto.»
La voce di Chirone mi risvegliò dal torpore.
«Aspetta… Le Case di Apollo e Ermes sono avversarie?»
Dovevo avere gli occhi sgranati, perché Martha mi lanciò un’occhiata preoccupata.
«Sì, per questo Raven e Emile parlavano di scontro… Credevo che lo avessi intuito.»
Ero stata un’idiota a non capirlo.
«Io, credevo che… No, lascia perdere.»
Guardai con apatia i grandi stendardi ‒uno dorato, con un sole paffuto coronato da uno stelo di alloro, l’altro rosso sangue, con una testa di cinghiale conficcata sulla punta di una lancia‒ che venivano trasportati verso i luoghi stabiliti, tra urla di giubilo.
«Le regole sono le solite: vietato ferire gravemente o uccidere i contendenti.» I figli di Ares vociarono, e deglutendo voltai lo sguardo verso di loro alla ricerca di una testa rossa. «Il ruscello fungerà da linea di confine, per il resto avete campo libero.»
Individuai Alyssa, stava dando degli ordini ad alcuni fratelli con espressione seria.
«Eeehi, niente contatti tra le squadre avversarie!...» sentii protestare da qualche parte alle mie spalle.
«E non rompere! …Ehm, ti ho trovata alla fine.» Emile mi rivolse un sorriso imbarazzato. Notai che Martha, al mio fianco fino a qualche secondo prima, si era volatilizzata.
«Siamo avversari adesso, eh?...» Abbassai lo sguardo, avvilita. Sapevo di essere melodrammatica, ma non potevo fare a meno di chiedermi come avrei fatto a sopravvivere senza il suo aiuto.
«Non preoccuparti per questo, sono solo formalità. In teoria dovremmo essere avversari, ma nulla mi vieta di aiutare un’amica della squadra opposta. Certo, tranne il codice d’onore, ma quello è un altro discorso» borbottò poi, tra sé.
Mi prese una mano mettendomela sul palmo della sua e rabbrividii al contatto con un piccolo oggetto metallico.
«Cos’è?» Pareva un fischietto ma era quasi lungo quanto una spanna: in argento traslucido e intarsiato di arabeschi aveva tutta l’aria di essere un oggetto magico.
«Se dovessi trovarti in difficoltà non esitare a soffiarci dentro. Correrò ad aiutarti!» Parlava a bassa voce, tenendo le sue mani sulle mie attorno al fischietto, come per nasconderlo da occhi indiscreti.
«…Posso chiederti dove lo hai trovato?»
Lui rise e ammiccò.
«Segreto! Diciamo che l’ho preso in prestito.»
Sospirai sorridendo e misi l’oggetto in tasca, ben attenta a non farmi notare.
«Grazie. Buona Caccia, allora!»
«A dopo.»
Lo osservai allontanarsi mentre Chirone annunciava l’inizio della Caccia alla Bandiera.
Non avevo davvero intenzione di chiamare Emile e distrarlo dal suo obiettivo, ero conscia del fatto che sarei stata solo un intralcio al suo confronto con Raven. Intromettermi tra loro due era l’ultima cosa che volevo.
«Che carino, è venuto a darti supporto morale?» sussurrò Martha in tono canzonatorio e con sguardo d’intesa.
«Sì, è stato molto gentile… Tu piuttosto, dov’eri finita?»
Lei volse gli occhi al cielo con fare innocente, alzando le spalle.
«Ero andata ad ascoltare il piano di Raven! A quanto pare ha intenzione di avvicinarsi alla bandiera nemica con un manipolo di figli di Atena. Noialtri con gli archi abbiamo il compito di stare nelle retrovie o appartarci sugli alberi, per coprire loro le spalle.»
«Immagino che i figli di Afrodite e Demetra non saranno molto d’aiuto…»
«Fungeranno da sentinelle nei pressi della nostra bandiera… Meglio di niente. Ah, quasi dimenticavo!» continuò, prendendomi sotto braccio «Tu farai parte degli addetti alla protezione della bandiera!»
«…Prego?» Mi si seccò la gola. «Io devo proteggere cosa?»
Martha rise di gusto alla mia espressione sconvolta.
«Su, su… Non sarai mica da sola! Devi solo controllare il perimetro vicino alla bandiera e fare in modo che nessuno si avvicini troppo. In caso puoi chiedere sempre aiuto ai figli di Atena o ai nostri fratelli.»
Avvicinò le labbra al mio orecchio, abbassando la voce.
«Naturalmente con “nessuno si avvicini”, intendo dire NESSUNO. Nemmeno Emile, intesi?»
Forse era colpa della mia immaginazione, ma mi parve di cogliere una nota di minaccia nelle sue parole. Loren mi aveva accennato al carattere combattivo di Martha, non le piaceva perdere… Evidentemente valeva lo stesso per la Caccia alla Bandiera.
«Naturalmente» la rassicurai, cercando di dissimulare l’ansia crescente nel petto.
Raven stava dando disposizioni ai nostri fratelli mentre gli alleati avevano già preso posizione.
«Ah, Cithara… Vorrei che aiutassi quelli che proteggono lo stendardo, ti dispiace? La maggior parte di noi andrà in prima linea e ho bisogno di essere sicuro che rimanga qualcuno di valente a proteggerlo.»
Un sorriso amaro andò a formarsi sulle mie labbra, involontario.
“Ed ecco di ritorno il lato agguerrito di Raven.” Di certo, in quanto a carisma e forza di persuasione ‒per non dire faccia tosta‒, non era secondo a nessuno.
«Nessun problema. Spero solo di poter essere effettivamente d’aiuto.»
Raven mi diede un buffetto d’incoraggiamento sulla testa e si allontanò assieme agli altri, lasciandomi col mio gruppo.
Seguii in silenzio quello che pareva aver preso il comando della nostra comitiva, un figlio di Atena coi capelli biondo cenere e gli occhi scuri, rassegnata al mio compito.
Mano a mano che ci avvicinavamo alla bandiera, alcuni ragazzi venivano lasciati indietro e si sparpagliavano per poter perlustrare meglio i confini.
«Oh, ci sei anche tu?» Una voce familiare mi riscosse dal torpore al quale mi ero abbandonata.
«Loren! Cosa ci fai qui? Ero convinta che avessi seguito Martha.»
Lui fece un gesto di dissenso con la mano.
«Io in prima linea? Per carità… Preferisco che si occupino gli altri di sbrigare il lavoro.»
«Pensi che sia meglio rimanere a proteggere la bandiera?»
«Mah, dipende dai punti di vista… Io sarò il più vicino alla bandiera, assieme a Gilleon» fece, indicando col mento il figlio di Atena. «In teoria quello è il posto migliore quando la difesa della squadra è buona, perché i nemici che arrivano sono già indeboliti dagli scontri precedenti.»
Guardai dubbiosa i pochi rimasti nel nostro gruppo e Loren seguì il mio sguardo.
«Sembra che questa volta Raven abbia fatto affidamento più sull’attacco, che sulla difesa. Di solito i figli di Ares lasciano la bandiera piuttosto scoperta, credo che Raven punti a una vittoria veloce.» Rimase un attimo in silenzio, pensieroso. «Spero solo non si sia dimenticato dei figli di Ermes, maghi dei sotterfugi.»
Continuammo a camminare affiancati, fino a quando non arrivò anche il mio momento di separarmi dalla compagnia.
«Buona fortuna Thara, che il Sole illumini il tuo cammino!» Sembrava più una presa in giro che un augurio, visto che di raggi di sole non ce n’era neanche l’ombra a quell’ora della sera, per di più nella foresta, ma gli sorrisi lo stesso.
«Buona fortuna anche a te!»
Rimasta sola mi guardai attorno, incerta sul da farsi. Accarezzai il tronco di un albero e alzai lo sguardo sui suoi rami: non pareva un’idea malvagia quella si acquattarsi tra il fogliame là in alto. Certo, senza tenere conto del fatto che soffro di vertigini.
Presi dei respiri profondi e iniziai ad arrampicarmi con l’arco sulla spalla e la piccola spada al fianco che tintinnava ad ogni passo, cozzando col fischietto nella tasca. Una volta raggiunto un ramo abbastanza robusto, mi ci accoccolai sopra, posando il viso contro la corteccia dell’albero per riprendere fiato.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai al tepore del venticello estivo.
---
Non avrei saputo dire da quanto stavo aspettando in quella posizione, ma di certo era trascorsa una mezz’ora buona. Nessun rumore o movimento sospetto; erano passati solo uno scoiattolo e alcuni passerotti, rischiando di farmi venire un attacco di cuore, qualche minuto prima.
Repressi uno sbadiglio e mi costrinsi ad aguzzare l’udito.
“Possibile che non passi nessuno? Forse la Fortuna finalmente mi arride…” Feci appena in tempo a terminare il pensiero, e delle voci attutite mi giunsero all’orecchio.
Sperai fino all’ultimo che si trattasse dei nostri alleati ma ne dubitavo fortemente.
«…da qualche parte. Sono sicuro, ti ripeto che siamo vicini.»
«Certo che siamo vicini, idiota! Solo che mi dà fastidio essermi separata da Alyssa. Volevo prendere la bandiera assieme a lei.» “Oh porca…” Riconobbi la voce della ragazza dai capelli castani che mi aveva fermata nel bagno assieme alla rossa.
«Senti, l’importante è vincere. Possono pure prenderla quelli di Ermes, per quanto mi riguarda, io voglio sgranchirmi un po’ con qualcun altro.»
La castana ridacchiò.
«Quelli di prima erano debolucci, vero?»
Lasciai perdere le parole dei due figli di Ares e mi concentrai sul mio respiro, affannoso per l’agitazione.
Era meglio rimanere acquattata sull’albero nella speranza che non mi vedessero (perché se avessi provato ad attaccarli, di certo non me l’avrebbero fatta passare liscia), o scendere per provare a rallentarli e avvertire Loren in qualche modo?
Lasciarli andare via così mi dava l’impressione di tradire i miei fratelli…
Il mio corpo si mosse prima ancora che avessi finito di prendere in considerazione le due ipotesi e scesi agilmente dall’albero, silenziosa. Incoccai una freccia, aspettando il momento opportuno.
Le voci diventavano sempre più distinte…
La freccia partì, andandosi a conficcare con un sibilo ai piedi del ragazzo e bloccando i due a circa cinque metri dalla mia postazione.
«Ehilà, guarda chi abbiamo qui… La piccoletta dell’altro giorno.» La derisione nel tono della ragazza accrebbe l’adrenalina che ormai girava in circolo nel mio sangue da quando avevo sentito le loro voci.
Mi bastò alzare lo sguardo sul giovane, però, perché questa mi si congelasse istantaneamente nelle vene.
«Sei un po’ gracilina per essere lasciata da sola a guardia del perimetro, non trovi?»
Sarà stato alto almeno un metro e ottanta, con delle spalle larghe quanto le ante di un armadio e i capelli castani a spazzola che si intravvedevano, schiacciati dall’elmo. I piccoli occhi scuri con cui mi stava scrutando e il ghigno che andava allargandosi sulle sue labbra non promettevano niente di buono.
«Vi sconsiglio di passare di qui, fareste meglio a tornare sui vostri passi.» Cercavo di suonare risoluta e sicura di me, ma avevo l’impressione che anche un’idiota si sarebbe accorto del bluff.
Per l’appunto, i due scoppiarono a ridere sguaiatamente.
«Altrimenti ci infilzi con le tue frecce, figlia di Apollo? Sei divertente, potrei quasi prendere in considerazione l’idea di non romperti entrambe le gambe…»
“Ehi, ma Chirone non aveva detto che era vietato ferire gravemente?” Forse spezzare qualche osso non rientrava nelle ferite gravi, per i figli di Ares.
«Lena, vai pure, qui ci penso io.»
Quando la ragazza fece per allontanarsi, scoccai un’altra freccia nella sua direzione, scalfendole l’elmo.
«A quanto pare la piccoletta ci vuole tutti per sé» fece lei, sogghignando.
Tentai di tenerli a bada per un po’ con le frecce, facendoli indietreggiare di qualche metro, ma non ci misi molto a capire che era piuttosto inutile come strategia. Non avevo di certo la magica faretra inesauribile di Artemide.
Abbandonai l’arco a terra e sguainai la spada per lanciarmi all’attacco verso la castana. Parò il mio colpo con la lancia e si lasciò andare a una serie di colpi che mano a mano crescevano d’intensità.
Mi abbassai appena in tempo per evitare la mazza ferrata del ragazzo, allontanandomi per riprendere fiato e soppesare la situazione. Non sarei resistita più di qualche minuto.
«Allora? Hai già finito i tuoi colpi?» mi canzonò lui, facendo roteare la mazza.
Speravo ardentemente che mi avrebbero seguita.
«Sono al Campo da poco più di una settimana e ho notato che voi figli di Ares siete bravi solo a fare a botte. Mi chiedevo, avete qualche altra capacità oltre alla forza bruta? Perché di certo non brillate per intelligenza.» Cominciai ad arretrare mentre la ragazza grugnì in risposta alla provocazione.
«Neanche tu devi essere molto intelligente, per permetterti di insultarci.»
Sorrisi, pensando che non aveva tutti i torti.
«Ti consiglio di correre.» Lo scatto del ragazzo fu repentino, e ancora una volta evitai la mazza per un secondo. Non dovetti guardarlo in volto per capire che faceva sul serio, piuttosto, decisi di prendere alla lettera il suo suggerimento e iniziai a correre come non avevo mai fatto in vita mia.
Sapevo che mi stavano inseguendo entrambi, sentivo i loro passi pesanti e affrettati abbattersi sul terreno alle mie spalle.
Ok, offenderli non era stata una buona idea. Ripensandoci, era stata pessima.
Correvo a perdifiato e avevo ormai perso l’orientamento, non avrei saputo dire se mi stavo avvicinando alla bandiera o se stavo portando i due energumeni fuori dal perimetro che dovevo proteggere. Nella prima ipotesi avrei avuto qualche possibilità in più di salvezza perché qualcuno mi avrebbe aiutato a metterli fuori gioco, ma se avessero vinto sarebbero riusciti a prendere la bandiera e addio Caccia. Nella seconda, Martha, Loren e gli altri sarebbero stati fieri della mia dedizione alla causa, ma non ero del tutto sicura di riuscire a sopravvivere abbastanza da godermi la loro riconoscenza.
Ora come ora, non mi restava che sperare nella prima eventualità.
Scartai di lato l’ennesimo albero, con il fiato mozzo e il cuore martellante che pareva volermi schizzare fuori dal petto. Per un attimo presi in considerazione l’idea di fermarmi e chiedere perdono ai due figli di Ares, ma dubitavo che mi avrebbero ascoltata prima di massacrarmi di botte.
Con la mano urtai il fischietto che giaceva dimenticato nella mia tasca. Lo strinsi con foga, tirandolo fuori a malincuore. Era la mia unica speranza.
Fischiai con quanto fiato mi era rimasto in corpo e un suono cristallino mi riempì le orecchie, come se stessero trillando mille campanelle di vetro. Mi voltai, stremata, a fronteggiare i due nemici con la spada in mano.
Dovevo riconoscerlo, i figli di Ares non erano troppo veloci ma avevano una resistenza dannatamente elevata. Lena si scostò dagli occhi una ciocca castana che era sfuggita da sotto l’elmo e si erse fiera al fianco del fratello, entrambi brandivano l’arma con sicurezza.
«Hai finito di scappare, topolino?» “Bene, dopo piccoletta ha coniato anche questo nuovo termine. Davvero azzeccato.” pensai, nella confusione ovattata che era diventata la mia mente.
«…Non male. Siete… veloci.»
«Risparmia il fiato per le suppliche. E ti prego, fammi divertire un po’» fece il ragazzo, avvicinandosi con aria minacciosa.
Non so cosa mi aspettassi di preciso, soffiando in quel fischietto, ma mi sembrava che Emile ci stesse mettendo più del dovuto. Pregai di non aver interrotto qualcosa di importante.
Lena si mise in mezzo tra me e suo fratello, col braccio con la lancia teso a dividerci.
«Piano, voglio giocarci prima io. Mi ha scalfito l’elmo!»
«Ma gli ultimi due li hai battuti tu! Voglio farlo io.»
Ero indecisa se mettermi a ridere o tornare a scappare a gambe levate, davanti alla scena dei due fratelli che litigavano su chi dovesse farmi fuori per primo. Indietreggiai lentamente per non dare nell’occhio, sperando che Emile arrivasse il prima possibile.
«…Ehi, non scappare tu!» disse lei, scagliandomi contro la lancia. Mi scansai in tempo per vederla piantarsi sul terreno dove poco prima c’era il mio piede.
Un barlume di comprensione si accese negli occhi di Lena ma era troppo tardi, avevo già impugnato la sua arma. Mi lanciai in quello che aveva tutta l’aria di essere un attacco suicida, verso la ragazza.
Il fratello non si aspettava una mossa del genere, e scartò di lato lasciandomi campo libero. Non so come, riuscii a ferire la ragazza su una gamba mentre provava a scansare il mio affondo, strappandole un grido di dolore.
La mia presa sull’arma si fece più debole alla vista del sangue, fino a quando la lasciai cadere a terra.
«Maledetta…!»
Sentii lo spostamento d’aria provocato dalla mazza ma non potei fare altro che chiudere gli occhi e attendere il colpo.
CLANG!
Mi voltai di scatto, trovandomi davanti un profilo familiare.
«Scusa se ti ho fatto attendere un po’… Sono arrivato.»
La spada di Emile aveva bloccato il colpo del figlio di Ares, diretto alla mia schiena. Se mi avesse raggiunta, di sicuro avrebbe spezzato qualche costola sotto al corpetto di cuoio.
«…Ma tu sei nella nostra squadra! Perché la proteggi?!» urlò Lena, inferocita. Era ancora a terra dopo il mio attacco e teneva stretta a sé la gamba sanguinante.
«Voglio evitare che commettiate sciocchezze, le regole sono chiare. Non vogliamo feriti gravi, vero?» Nella voce vibrava un tacito ammonimento.
Nonostante la situazione spiacevole, mi trovai a pensare di non aver mai visto niente di più bello di Emile in quel momento. La sottile armatura aderiva perfettamente alla sua figura, come fosse fatta su misura, e la spada lucida pareva un prolungamento del braccio, tanto era armoniosa; potevo indovinare i muscoli definiti, che spesso mi era capitato di scorgere durante i nostri allenamenti, fremere pronti a scattare sotto le protezioni. Quasi non mi accorsi dell’assenza dell’elmo, abituata com’ero a godere della vista dei suoi capelli color dell’oro.
La risposta del ragazzo mi riportò alla realtà.
«Non c’è nessun regolamento che vieta di combattere contro un traditore, giusto?» ruggì, roteando la mazza ferrata con rinnovato vigore.
Emile fece in tempo ad allontanarmi con una spinta, prima di ritrovarsi a fronteggiare l’energumeno infuriato. Era affascinante osservarli combattere, l’uno che attaccava spinto dalla furia e dalla forza bruta, l’altro che si difendeva e contrattaccava con mosse calcolate e precise.
«Io l’ho sempre detto che di voi figli di Ermes non ci si può fidare!» grugniva il castano, colpendo con forza.
«Vacci piano con le accuse, qui gli scorretti non siamo noi…!» controbatté Emile a denti stretti.
Con un colpo di piatto, riuscì a disarmare il figlio di Ares e ferirlo a una spalla. La mazza volò lontano e, vedendo la spada puntata alla gola dell’armadio, pensai che fosse finalmente tutto finito.
«Facciamo finta che non sia successo niente, eh?» Il tono basso e accattivante di Emile mi fece rabbrividire.
Feci per alzarmi, rincuorata, quando con la coda dell’occhio vidi Lena scattare verso la lancia e scagliarsi con foga verso il mio salvatore.
«Emile!»
Per un attimo, il tempo sembrò fermarsi. Emile era stato colto di sorpresa da un angolo cieco e la lama lo aveva colpito, ma era riuscito infine a disarmare anche la ragazza.
Dopo lo smarrimento iniziale, corsi verso il biondo per accertarmi che stesse bene e in quel momento un corno annunciò la fine della Caccia alla Bandiera.
«Eh eh, questa volta sono sicuro che abbiamo vinto noi…» sussurrò Emile con un sorriso sinistro, portandosi la mano al basso ventre.
Non badai troppo a Lena e suo fratello che si allontanarono di gran carriera, sbraitando.
«Emile…? Stai bene?» Abbassando lo sguardo verso la pancia del ragazzo, mi morirono le parole in gola.
Stava sanguinando copiosamente, non come quella volta all’Arena.
«Oh dèi!…» Lena gli aveva inflitto una ferita profonda.
«Non è nulla, fa solo un po’ male…» La voce gli si affievolì, mentre si accasciava contro di me.
«Emile!!! Maledizione… Aiuto! Qualcuno mi aiuti» gridai disperata, tornando a prestare attenzione al ragazzo. «Emile, ti prego…»
«…Stai tranquilla, non è grave» disse, una volta ripresosi. Inspirò a fondo prima di tornare a parlare. «Davvero. Devo solo trovare il modo di arrivare fino all’infermeria.»
Dopo aver tamponato la ferita con una fasciatura d’emergenza, lo presi sotto braccio ignorando le sue proteste e camminammo affiancati per un po’.
«…Scusa» mormorai ad occhi bassi.
«Per cosa?»
Rimasi un attimo in silenzio per cercare le parole giuste.
«…Ti hanno ferito a causa mia. Non avrei dovuto chiamarti.»
Un suono soffocato sfuggì dalle labbra di Emile, ci misi un po’ a capire che si trattava di una risata.
«Scherzi? Quelli fanno sul serio, quando scelgono una preda non la lasciano andare facilmente. E poi…» si voltò a guardarmi, le sue labbra pericolosamente vicine alla mia guancia «…Mi ha fatto piacere poterti aiutare. Su di me puoi contare, Thara, ricordalo sempre.»
Abbassai ancora di più la testa ma non potei fare a meno di sorridere.
«Grazie Emile. Solo che… Mi sento così inutile! Vorrei essere più forte.»
«Ma tu sei già forte! Qualche giorno fa non avresti nemmeno immaginato di poter ferire una figlia di Ares. A proposito, come hai fatto a farli stancare così tanto? Il tipo era affaticato quando si è battuto con me…»
«Diciamo che li ho invitati a fare una corsetta…»
Scoppiammo entrambi a ridere fino a quando Emile non fu scosso da degli spasmi di dolore.
«Ouch… Scusa. È una bella seccatura» fece, premendosi l’addome con una smorfia.
Il peso del suo corpo aggravato dall’armatura iniziava a farsi sentire sulle mie spalle affaticate e ci sedemmo su una roccia per prendere fiato. Ormai si era fatto buio.
 «Dovremmo essere vicini, comunque.»
Annuii seguendo lo sguardo del ragazzo, alla vista di alcune luci in fondo al bosco.
Il silenzio era quasi irreale, rotto soltanto dal vociare attutito e lontano degli altri abitanti del Campo, mentre il suono più vero era quello dei nostri respiri.
«Prima, quando ti ho chiamato… Ho interrotto qualcosa?»
Iniziai a tormentarmi le mani, improvvisamente tornata la Cithara timida di dieci giorni prima.
«Nulla di importante.» Sospirò. «Ti preoccupi troppo, Thara! Sono venuto da te perché era quello che volevo fare.»
Anche nella penombra vidi il suo sorriso dolce e il tocco della sua mano sulla guancia mi diede il capogiro.
Sorrisi anch’io, poggiando la mia mano sulla sua, ignorando il calore che mi era salito in volto.
«Forse hai ragione.»
Emile si avvicinò di più, lentamente.
«Thara, io…» Si bloccò quando la calma della foresta venne interrotta da un vocio.
Dopo poco il rumore si fece sempre più insistente. Io ed Emile ci allontanammo in tempo per sfuggire alle occhiate curiose di alcuni ragazzi appena sbucati dagli alberi.
«Voi due cosa ci fate qui? …Per tutti gli dèi, cosa ti è successo Noir?» chiese allarmato Loren con lo sguardo rivolto alla fasciatura intrisa di sangue.
«Sono stato ferito da un animale…» rispose elusivo il biondo.
«A chi vuoi darla a bere? Ok, tu prendi l’armatura, io lo porto in infermeria» continuò Loren, rivolgendosi a un nostro fratello.
Si caricò Emile sulle spalle senza dire una parola e cominciò a camminare.
«Grazie!»
Mi sembrò di sentirlo borbottare una cosa come “Queste donne che vogliono fare tutto da sole…” e mi lasciai andare a una risata liberatoria assieme ad Emile, seguendoli verso l’infermeria.

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Capitolo 9
*** Intervallo - disegni dei personaggi ***


Nota per i vecchi Lettori:

Da ora in poi i capitoli avranno finalmente un nome! E all’inizio di ognuno di essi, saranno elencate le canzoni che, o per il significato del testo o per la melodia, si accordano con i capitoli in questione.

Se siete interessati, date pure un’occhiata!;)

 

Riguardo l’ “Intervallo”…

In questo “capitolo” mi prendo un breack per mostrarvi i volti dei personaggi che abbiamo incontrato fino ad ora. Spero che i disegni possano piacervi e che non siano troppo in disaccordo con l’idea che vi eravate fatti, in caso contrario sono curiosa di conoscere le vostre opinioni. Accetto qualunque commento!:D

Ah, se doveste notare aggiornamenti in questo “capitolo”, probabilmente sarà perché ho aggiunto qualche nuovo disegno. Mi piacerebbe tenerlo aggiornato!

 

Cithara Greenwood

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Emile Noir

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Raven Lionhard

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Eleuse

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Martha Lowel

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Loren Kylies

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E, dal capitolo 7... XD Image Hosted by ImageShack.us

Alyssa Fingermann

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Lena & il fratello “armadio”

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Capitolo 10
*** Cap. 8 - Rondò ***


[Here with me - Dido]
[Gabriel - Lamb]
[Not Alone - RED]
 
I festeggiamenti per la vittoria dei figli di Ermes si protrassero a lungo quella sera. Durante il tragitto per l’infermeria, la folla gioiosa dei vincitori quasi ci travolse.
Un ragazzo biondo, molto simile ad Emile ma dai capelli leggermente più scuri, stava sorreggendo lo stendardo che adesso rappresentava il caduceo di Ermes con espressione raggiante.
«A-ha! Abbiamo vinto!» Al suo passaggio, gli altri fratelli lo acclamavano chiamandolo con quello che avevo intuito essere il suo nome, Luke.
Mentre questi chinava il capo in segno di ringraziamento, notai Emile voltare lo sguardo dalla parte opposta, come se tentasse di rendersi invisibile sulle spalle di Loren. Lo osservai con aria interrogativa ma lui non colse la mia muta domanda, continuando a guardare in basso con espressione imbronciata.
«Siamo arrivati… Thara, aspetta qui» mi fermò Loren. Rimasi interdetta, avrei voluto assistere Emile come la volta precedente per sdebitarmi.
Spostai lo sguardo sulla ferita e trasalii: il sangue aveva inzuppato ormai buona parte delle bende.
«O-ok, ci vediamo dopo…» sussurrai, rivolta al biondo.
Lui mi sorrise condiscendente e  ammiccò.
«A dopo.»
Li osservai sparire al di là della tenda bianca e mi costrinsi ad aspettare.
Il rumore della festa era davvero insistente, ringraziai mentalmente di non aver ancora incontrato Martha o Raven perché immaginavo che loro non avrebbero gradito tutta questa ostentazione da parte dei vincitori. Specialmente visto che i perdenti eravamo noi.
Mi stavo guardando attorno con aria annoiata, quando riconobbi il fratello incaricato di riportare al Campo l’armatura di Emile. Stava parlottando a bassa voce con un gruppo di nostri fratelli e figli di Atena, quelli incaricati di proteggere la Bandiera.
«Certo che è strano quel Noir, andarsene via così, di punto in bianco…»
«Io l’ho visto distintamente: aveva la Bandiera in mano ed è sbiancato tutto a un tratto, come se avesse visto un fantasma!»
Mi avvicinai, sperando di aver capito male.
«Cos’è successo?» domandai.
I ragazzi si girarono verso di me, quello con l’armatura con aria contrariata.
«Questo dovresti dircelo tu! Un attimo prima Noir ha la vittoria in pugno e sta portando la Bandiera verso il fiume, l’attimo dopo molla tutto per lasciarlo a Castellan. Poco dopo lo ritroviamo con te, ferito gravemente. Si può sapere cosa è successo?!»
Castellan doveva essere il cognome di Luke, il ragazzo che stava portando fiero lo stendardo per tutto il Campo. Notai che nessuno aveva accennato al rumore del fischietto.
«Stava per valicare il confine?»
«Mancava ancora un po’, ma ce l’avrebbe fatta di certo. Aveva Castellan e la Fingermann a coprirgli le spalle» mi rispose Gilleon, reprimendo un gemito. Perdere era stato un brutto colpo per tutti, anche per i figli di Atena.
Continuavano a guardarmi, aspettando una spiegazione che non ero intenzionata a dare. Emile aveva sviato la domanda di Loren per non creare problemi ai figli di Ares, e di certo non sarei stata io a rendere vano il suo gesto di cavalleria.
«…Non saprei. Sono stata attaccata da un cinghiale ed Emile mi ha aiutata, per questo si è ferito.» Sostenni le loro occhiate scettiche con uno sguardo disinteressato. «Era un cinghiale particolarmente aggressivo.»
Stavano per ribattere qualcosa ma in quel momento arrivò Loren a salvarmi.
«Thara, se vuoi  dovrebbero aver finito di medicarlo.» Feci per andarmene, ma lui mi prese sotto braccio. «…Poi io e te dobbiamo fare quattro chiacchiere» sussurrò a bassa voce.
Annuii con un sorriso colpevole e mi allontanai verso il tendone.
All’interno dell’infermeria una ninfa mi indicò la strada per raggiungere il letto di Emile, dopodiché ci lasciò soli. Unica barriera per la privacy, un separé bianco di quelli che si vedono negli ospedali.
«Emile…?» mormorai, avvicinandomi al ragazzo, steso supino.
«Ehi…» rispose con un cenno della mano.
C’era stato qualche altro infortunato durante la Caccia, e i lamenti di dolore ‒vero o simulato‒ attorno a noi mi ricordarono che non eravamo soli.
«Stai meglio?»
Emile annuì con un sorriso.
«Mi hanno fasciato e ho bevuto dell’ambrosia, sto bene. Anche se devo ammettere che avrei preferito essere curato da te, l’infermiere mancava un po’ di delicatezza…»
«Oh, solo per quello?» Risi e mi avvicinai di più, sedendomi sul letto accanto a lui.
«No, certo! Mi hai medicato così bene quella volta… È ovvio che sei molto competente.» Aveva assunto un tono reverente che con le occhiate sornione che mi stava lanciando aveva ben poco a che fare.
«Vorrà dire che quando sarà il momento di cambiare le fasciature lo farò io.»
Mi sorrise ancora, questa volta in modo dolce.
«Grazie, Thara.»
Gli misi una mano sui capelli con l‘intenzione di dargli un buffetto, e mi ritrovai ad accarezzarli.
Scostai la mano in silenzio, imbarazzata.
«Emile… Devo essere io a ringraziarti.» Lui mi guardò con aria smarrita. «Ho saputo quello che è successo, mi spiace per la Bandiera. Alla fine l’hai lasciata a tuo fratello per venire a salvare me.»
Rimase in silenzio per qualche secondo, lo sguardo perso.
«Tu sei più importante di una stupida Bandiera. Avrò altre occasioni per dimostrare il mio valore a Raven o Luke.»
Mentre parlava aveva gli occhi fissi sui miei e per un attimo pensai che mi sarei lasciata annegare più che volentieri in quel verde avvolgente.
«Grazie ancora, Emile» gli sorrisi.
«No, grazie a te per farmi sentire così importante.»
Arrossii, portando dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelli sfuggita allo chignon.
Avrei voluto rispondere, ma fece capolino la ninfa che mi aveva accompagnata.
«Scusate, l’orario delle visite è finito. Sta per scattare il coprifuoco e sarebbe ora di andare a dormire.»
Emile sbuffò mentre io ringraziai l’infermiera con un cenno del capo.
«Allora ci vediamo domani… Ti porto qualcosa per colazione?»
«Non preoccuparti, ci penseranno le infermiere al cibo!» Aveva l’aria di chi la sapeva lunga e mi chiesi quante altre volte era stato costretto a letto in infermeria, negli anni di permanenza al Campo.
«… Buonanotte.»
«’Notte anche a te, Thara.»
Stavo per andarmene, quando mi fermai per tornare indietro.
Emile mi volgeva le spalle, troppo stanco per rendersi conto della mia presenza e sicuro di essere ormai solo. Mi avvicinai in silenzio, abbassandomi e sfiorandogli la spalla.
Lo baciai sulla guancia, ignorando il suo sussulto sorpreso.
«Sogni d’oro…»
Mi voltai e uscii velocemente, lasciando raffreddare le guance in fiamme dal dolce vento notturno.
---
«Sai, ieri sera ho fatto un sogno strano…»
Da quando ero entrata nell’infermeria, Emile non la smetteva di fissarmi con un’espressione bonaria stampata sul viso. Forse avevo fatto male a lasciarmi andare…
«Ah sì? E cosa hai sognato?» lo incalzai, più per distrarmi dalla brutta ferita al ventre che gli stavo medicando che per interesse vero e proprio. L’infermiere era stato bravo a ricucire il taglio ma l’ematoma violaceo che si era formato non aveva lo stesso  un bell’aspetto.
Il nuovo sorriso che si formò sulle sue labbra mi fece arrossire, nonostante tutto.
«… Credo che qualcuno mi abbia dato un bacio sulla guancia, tu ne sai qualcosa?»
Lo ignorai deliberatamente, premendo di più sulla ferita con la garza e strappandogli un singulto di protesta.
«Ops, scusa… Non saprei, può capitare di fare sogni del genere. L’altro giorno Martha mi ha raccontato di aver sognato che Brad Pitt la invitava al ballo scolastico di fine anno e di aver ballato con lui fino a quando un’Idra non è spuntata dal pavimento, cercando di ingoiare tutti gli invitati…» Dovevo averlo preso in contropiede, perché mi stava fissando con uno sguardo tra il confuso e l’imbronciato.
Non è che non mi piacesse… Anzi, mi ero resa conto di quanto fossi attratta da Emile prima ancora di quando avevo deciso di ammetterlo tra me e me. Semplicemente, sono sempre stata una tipa troppo razionale e lasciarmi andare non era nel mio personaggio.
«Sì, immagino sia successo anche a te di sognare Brad Pitt…» mi rispose lui con quella che mi sembrò una punta di gelosia.
Rimasi un attimo a fissarlo attonita e poi scoppiai a ridere.
«No, lui non è decisamente il mio tipo! …Uh uh, non l’ho mai sognato.» Ahi, un altro passo falso!
Mi voltai con la scusa di prendere la fasciatura per sfuggire allo sguardo furbo di Emile.
Lo fasciai in silenzio, conscia del calore della sua pelle sotto le mie dita e dei suoi occhi vigili su di me.
«Ecco fatto! Non so cosa ti abbia detto l’infermiere ma secondo i miei calcoli dovresti poter uscire di qui tra tre giorni. Certo, eviterei l’allenamento per almeno una settimana…»
«Va bene, dottore… Ha qualche terapia particolare da suggerirmi?» Non c’era sarcasmo nella sua voce, solo dolce ironia.
«Lei ha qualche idea, signor Noir?»
Era la prima volta che mi rivolgevo a lui chiamandolo per cognome, non pensavo sarebbe risultato così intimo, sussurrato a quel modo.
«Mi piacerebbe ascoltare della buona musica… Forse lei può aiutarmi.»
«Se si tratta di buona musica, il mio violino è al suo servizio!» lo canzonai, accennando un inchino.
Il verde dei suoi occhi prese a brillare d’entusiasmo.
«…Una volta che sarà uscito di qui, naturalmente. Non vorrei disturbare gli altri pazienti.»
Emile sbuffò, borbottando qualcosa sul fatto che era impossibile chiamare “disturbo” quella melodia meravigliosa e che piuttosto avrebbe fatto bene a tutti i ricoverati. Gli feci notare che le infermiere non sarebbero state dello stesso avviso.
Parlammo ancora del più e del meno per un po’ senza badare allo scorrere del tempo, fino a quando non giunse una visita inaspettata per Emile.
«Fratellino! Sono venuto a vedere come stai… Ma noto con piacere che hai già un ospite, e che ospite!» aggiunse infine Luke, il figlio di Ermes che il giorno prima aveva portato lo stendardo per il Campo, lanciandomi un’occhiata languida. Non sapevo da dove potesse aver indovinato le mie curve (poco generose, tra l’altro), ben nascoste sotto la t-shirt arancione del Campo Mezzosangue e gli shorts. Forse gli shorts erano davvero troppo short, riflettei corrugando la fronte.
Persa tra i miei pensieri, non mi ero accorta subito del cambio repentino di Emile. Aveva irrigidito le spalle e il suo corpo era diventato un fascio di nervi, pronto a scattare. Non potei fare a meno di pensare che tutto questo non avrebbe giovato alla ferita.
«…Luke.»
«Sei stato bravo ieri, è un vero peccato che tu non sia riuscito a portare la Bandiera dall’altra parte del fiume.»
Emile digrignò i denti, quando parlò colsi una vena di frustrazione nella sua voce.
«Avevo qualcosa di più importante da portare a termine. La prossima volta sarò io a vincere.»
Anche in questo caso si trattava di rivalità, come con Raven?
Luke sorrise.
«Questo lo avevi detto anche l’altra volta, e invece ti sei fatto fregare la Bandiera da Lionhard… Ma sono sviste che capitano. D’altronde la squadra sa già su chi fare affidamento nei momenti di difficoltà!» concluse alzando le spalle. «Devo ammetterlo, sei una buona spalla, ma il capo dormitorio rimango io, Emile.»
Il silenzio stava diventando opprimente, e per un attimo ebbi paura di una reazione da parte di Emile. Invece lui rimase apparentemente calmo, solo l’assottigliarsi dei suoi occhi e la respirazione più profonda mi fecero intuire quanto Luke stesse mettendo alla prova il suo autocontrollo.
«Hai ragione. Non c’è che dire, hai salvato la situazione per l’ennesima volta Luke. Ora, ti ringrazio per l’interessamento, sei stato molto gentile a passare di qui… Ma avrei bisogno di riposare»
Un sorriso di trionfo attraversò il volto di Luke per lasciare poi il posto a un’espressione falsamente addolorata.
«Scusa, è ovvio che sei affaticato! Ultimamente questi animali selvatici si sono fatti così aggressivi, quel cinghiale deve averti inflitto una brutta ferita! Buon riposo, allora.»
Prima di andarsene si volto per un momento e mi fece l’occhiolino.
«Abbi cura di lui, cara.»
Appena i passi di Luke non furono più udibili, Emile emise un sospiro di sollievo e abbandonò la testa sul cuscino.
Cos’era successo? Mi era sembrato di assistere a uno di quei documentari sui lupi, quando mostrano come un lupo più giovane sfidi il capobranco per prendere il suo posto. Avevo l’impressione, però, che questa volta l’aspirante se ne fosse tornato al suo posto con la coda tra le gambe.
«…Mi spiace che tu abbia dovuto assistere a tutto questo.» La sua voce mi giunse attutita, si era coperto il volto con una mano.
«Non è niente. Mi chiedevo solo il motivo di tanto astio…»
Non volevo risultare invadente ma ero curiosa, perché finalmente iniziavo a vedere un lato di Emile che non conoscevo. C’era qualcos’altro oltre all’allegria e l’espansività che mi aveva mostrato in quei giorni.
«All’inizio sembrava un ragazzo simpatico, uno su cui si può fare affidamento insomma. E così è stato anche per me, per i primi tempi. Dopo qualche anno però è cambiato…» Il biondo espirò, ad un tratto mi sembrava così stanco. «Non so dirti con certezza da quando abbiamo iniziato a litigare. So solo che non riesco più a dargli fiducia e non ce lo vedo come capo dormitorio. È molto carismatico, questo è vero, ma ogni tanto mi dà l’impressione di nascondere qualcosa.»
Annuii distratta, ripensando alla prima impressione che avevo avuto di Luke. Non mi era sembrato un cattivo ragazzo, pareva solo un po’ pieno di sé.
Lasciai perdere quei pensieri: già più volte avevo mostrato di essere una frana con le prime impressioni.
«Scusa, non volevo metterti di cattivo umore! Posso fare qualcosa per farmi perdonare?» chiesi.
Emile sogghignò.
«Spero tu non abbia programmi per oggi, perché ho intenzione di rapirti per tutto il pomeriggio! Credi che mi sia dimenticato che siamo indietro di parecchie lezioni sulla mitologia e il greco antico?»
«Oww…» emisi uno sbuffo di protesta ma dentro di me esultai.
Non andavo matta per il greco, la mitologia invece la trovavo interessante, forse perché speravo anche di poter trovare qualche indizio sul rapimento di mia madre.
Stavo perdendo il conto dei giorni passati senza avere notizie sue e di Eleuse… Decisi di non pensarci e dedicarmi alla lezione di ripasso sulle creature mitologiche acquatiche.
 
Avevo passato gli ultimi giorni in infermeria per tenere compagnia ad Emile, dimentica di tutto il resto. Fui grata a Loren per non avermi assillato di domande su quanto accaduto durante la Caccia (cosa che non potevo dire di Martha, curiosa come non mai) e dopo che il biondo venne dimesso mi fece strano tornare a passare la maggior parte del tempo all’aria aperta.
Stavo tirando con l’arco sotto lo sguardo vigile di Emile quando vennero a chiamarci.
«Che c’è, Connor?»
Il ragazzo aveva un’espressione corrucciata, sembrava preoccupato.
«Chirone vuole parlarvi nel suo ufficio… »
Lasciai l’arco e mi avvicinai ad Emile, scambiando con lui un’occhiata esitante.
«Dici che si tratta di mia madre?» gli chiesi sottovoce mentre affrettavo il passo per stargli dietro.
«Non saprei… Spero solo che si tratti di buone notizie.»
Lo speravo anch’io con tutto il cuore ma avevo un brutto presentimento.
Arrivati nell’ufficio, Chirone si fece attendere per qualche minuto, e ci lasciammo cadere sulle poltroncine di velluto rosso davanti alla scrivania. Iniziai a tormentarmi le mani con lo sguardo basso, ricordavo di aver provato una sensazione simile solo a scuola, durante la scelta della vittima sacrificale da interrogare in geografia. L’attesa e l’ignoto erano sempre così snervanti per me…
Emile posò una mano sul mio braccio e diede una dolce stretta rassicurante, come a ricordarmi che anche in quel momento era con me.
«Scusate se vi ho fatto aspettare.»
Io e il ragazzo ci alzammo in contemporanea.
«Ci sono novità?» fece Emile.
Chirone annuì.
«Abbiamo scoperto qualcosa di nuovo. Ci sono stati altri rapimenti, oltre a quello di tua madre. Le ragioni ci sono ancora oscure, le vittime non sembrano avere nulla in comune oltre al fatto che sono tutte di sesso femminile…» Ebbe un attimo di esitazione e capii che ci stava nascondendo qualcosa. Chi erano le altre donne rapite?
«Quante ne sono scomparse?»
«Cinque, per ora. Eleuse stava cercando di individuare la prossima donna presa di mira.»
Lo fissai intensamente per spronarlo a continuare.
«Ed è riuscita a capire di chi si tratta?»
Chirone distolse lo sguardo dal mio ed emise un sospiro.
«…Purtroppo non lo sapremo mai. Abbiamo perso i contatti con lei da tre giorni.»

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Capitolo 11
*** Cap. 9 - Presto ***


[Tears in my eyes - Cecile Corbel]
[Honeythief - Halou]
[Relative minors - Maybeshewill]
 
Boccheggiai in cerca d’aria, sperando che stesse scher­zando.
«Mi dispiace… Non sappiamo se sia stata rapita an­che lei o sia impossibilitata a contattarci perché ferita da un mostro.»
No.
No, no, no… NO.
Anche lei no…!
La voce del centauro si era fatta ovattata, avevo smesso di ascoltare il suo monologo su quanto gli dispiacesse e come avrebbe cercato di mandare qualcun altro a indagare.
Non mi importava della sua voce stanca e afflitta, non mi importava che fosse preoccupato anche lui per la perdita di una valente Custode. Davvero, non mi importava di nulla. Riuscivo solo a pensare all’ultima volta che avevo visto Eleuse, al suo sorriso e al fatto che probabilmente non l’avrei mai più rivista.
…Chirone non aveva incluso nelle possibilità quella della morte ma sapevo che non era da escludere.
Improvvisamente sentii le ginocchia diventare deboli e la stanza prese a girare.
Mi sentii bisbigliare una cosa come “Non mi sento troppo bene” e mi trovai, prima a camminare e poi a correre, fuori dall’ufficio per il Campo.
Le lacrime mi offuscavano la vista, eppure sapevo che mi stavo avvicinando pericolosamente alla barriera che separava il Campo Mezzosangue dal resto del mondo e che impediva ai mostri di attaccarci.
«Thara!»
Emile mi aveva ovviamente seguito.
Quando mi abbracciò da dietro ‒in parte per consolarmi, in parte per fermare la mia corsa senza senso‒ cercai di fare resistenza ma, appena lo sentii soffocare un gemito perché gli avevo colpito la ferita, smisi di lottare.
«Shhh…» Mi lasciai andare tra le sue braccia a un pianto convulso, fino a quando non restai senza lacrime e i singhiozzi scemarono.
«Senza di lei io… Come farò? Lei è la mia migliore amica, non può essere finita così, non può…» iniziai a vaneggiare dopo essere rimasta in silenzio per non so quanti minuti.
Emile non diceva nulla, si limitava ad abbracciarmi e accarezzarmi di tanto in tanto la testa.
Capii di essere stata ingiusta, ora non ero più sola.
Avevo Raven, Martha, Loren, Emile… Potevo piangere la perdita di Eleuse ma Emile mi era sempre restato accanto, adesso era lui la persona più importante per me.
«…Scusa. Era anche tua amica…» Voltai la testa verso di lui, cercando i suoi occhi.
Emile poggiò la fronte sulla mia.
«…Io sono sicuro che sia ancora viva. Ele non è una che si può battere facilmente! Quindi…» tornò ad abbracciarmi più forte «…Credi in lei. Troveremo il modo per andarla a cercare.»
Ricambiai l’abbraccio, inspirando a fondo il suo profumo. Decisi di dargli fiducia e per la prima volta dopo tanto tempo capii che stavo facendo la cosa giusta.
Tornammo nell’ufficio di Chirone fianco a fianco, io con la testa bassa per nascondere gli occhi ancora lucidi di lacrime, lui con un braccio attorno alle mie spalle con fare protettivo.
«Eleuse aveva iniziato le proprie ricerche dal luogo dov’è stata rapita la signora Lynette, a Lancaster in Pennsylvania» cominciò a spiegare il centauro, superato il momento iniziale di imbarazzo.
Emile mi guardò perplesso.
«Vivi a Lancaster?»
Scossi la testa.
«Eravamo andate lì per passare le vacanze dalla nonna. Poi, nel cuore della notte, mamma è venuta a svegliarmi e ha trascinato me e Eleuse in macchina senza darmi spiegazioni… Purtroppo non ha avuto il tempo di fare alcunché, è stata trascinata via dallo Stinfalide dopo aver chiuso la mia portiera.»
Chissà cos’aveva pensato la nonna il giorno successivo, quando si era accorta che eravamo sparite tutte e tre nel nulla… Non potevo fare a meno di preoccuparmi per quella dolce signora che consideravo come una nonna a tutti gli effetti: anche se non avevamo legami di sangue Zila era sempre stata presente per me e mia madre.
Già, mia madre… Come faceva a sapere che un mostro era sulle nostre tracce? L’aveva avvertita qualcuno?
«È lì che ha scoperto che già altre due donne erano state rapite. Tutte le vittime colpite finora si trovavano in America.»
Forse mia madre lo sapeva già e aveva paura di essere il prossimo obiettivo… Ma perché?
«Ho ragione di credere che siano state portate negli Inferi, al cospetto di Ade. È da qualche tempo che ha diminuito i contatti con l’Olimpo e i rapporti con Zeus si sono fatti più freddi…» Dal tono in cui lo disse capii che non era la prima volta che accadeva una cosa del genere. Per quel poco che avevo studiato, Ade non sembrava aver avuto mai buoni rapporti con Zeus a causa della spartizione dei Regni. Come dire… Non aveva gradito di essere stato relegato nel sottosuolo.
«L’ultima volta che mi ha contattato era diretta alla città di New Haven.»
Emile drizzò la testa e mi parve di scorgere ancora una volta un lampo fugace nei suoi occhi: aveva avuto un’idea.
«Appena saprò qualcosa in più vi avvertirò. Cithara…» disse poi Chirone, guardandomi con espressione sinceramente addolorata «Per quanto possano valere le mie scuse ora… Mi dispiace. Farò il possibile affinché tu possa riabbracciare tua madre e la tua Custode.»
Gli sorrisi in risposta, sussurrando un debole “Grazie” e uscii dall’ufficio con Emile.
L’aria pomeridiana si era fatta ancora più calda negli ultimi giorni, non era stata una scelta intelligente quella di lasciare i capelli sciolti.
«Pensavo… Dovrei proprio chiedere a Chirone un permesso per andare a trovare mia madre» fece Emile con finta noncuranza.
Dapprima confusa, iniziai a capire dove voleva andare a parare.
«Oh… E dove vive?»
Le sue labbra si distesero in un sorriso.
«A Milford.»
---
Milford, ridente cittadina nel Connecticut, ma soprattutto distante solo una quindicina di minuti da New Haven.
Avevo i miei dubbi sulla riuscita della richiesta di Emile ‒Chirone non era uno sprovveduto e avrebbe di certo mangiato la foglia‒ ma tanto valeva provare. Certo, non avrei saputo come giustificare la mia domanda di accompagnare il ragazzo al di fuori del Campo, quindi decisi tra me e me che la scusa ufficiale sarebbe stata quella di andare a recuperare i miei affetti personali nella mia casa di New York. Non ci sarei potuta andare da sola, qualcuno mi avrebbe dovuto accompagnare e avevo un impellente bisogno di aumentare il mio guardaroba… Non che questa fosse una bugia, mi ero stancata di mettere la solita maglietta del Campo Mezzosangue e qualche misero vestito che mamma era riuscita a recuperare prima di lanciarmi in macchina.
Passarono alcuni giorni prima che Chirone si decidesse a dare il suo consenso. Mi innervosiva sapere di stare perdendo tempo prezioso per la ricerca della mia amica, perché diamine non potevamo andarcene di nostra iniziativa?
«Pazienta ancora un po’, Thara. Sono sicuro che ci lascerà andare.»
Non mi restava che aspettare.
Nel frattempo, in quei giorni mi esercitai con la Banda e trovai come sempre un rifugio sicuro nella musica.
«Cithara, sei molto brava a suonare» mi disse Raven, una volta finita le prove.
Gli sorrisi lusingata.
«Come tutti, del resto.»
Lui mi studiò per un attimo, prima di rispondere.
«Sì, immagino tu abbia ragione… Però hai qualcosa di speciale. Non saprei dire cosa, ancora non l’ho capito, ma suoni in modo diverso... Me ne sono accorto già da tempo.» Non sapevo cosa ribattere, quindi restai a fissarlo stupita. «…Potrei quasi essere invidioso!» concluse, sorridendo con gli occhi.
Eravamo rimasti solo noi due nell’aula, gli altri stavano tornando al dormitorio per posare gli strumenti.
«Ehi… Ho saputo quello che è successo alla tua Custode. Mi dispiace.»
Chiusi la custodia del violino e mi voltai verso di lui.
«Grazie.»
Raven abbassò lo sguardo, sedendosi sullo sgabello del pianoforte.
«Hai intenzione di andarla a cercare, vero?» Mi sembrava preoccupato, non lo avevo mai visto con l’aria così provata.
«Lei farebbe lo stesso per me.» Non gli dissi che avevo promesso ad Eleuse di rimanermene buona al Campo ad aspettarla, senza fare pazzie.
Raven rimase in silenzio qualche secondo e mi chiesi quali pensieri affollassero la sua mente.
«Sai già quando partirai?»
«No, io ed Emile stiamo aspettando che Chirone ci dia il suo benestare.» Nel sentire il nome del biondo, scoppiò a ridere sommessamente.
«Ahah… Quindi sarà lui ad accompagnarti…! Bene, spero sia in grado di proteggerti.»
Lo osservai alzarsi e venire verso di me con andatura elegante. Mi posò una mano sulla guancia, facendomi arrossire fino alla punta dei capelli. Non sapevo se ritrarmi o rimanere immobile… Beh, se anche avessi voluto muovermi non avrei potuto perché mi sentivo totalmente paralizzata.
«Allora,  buona fortuna Cithara. E mi raccomando, torna tutta intera» sussurrò, baciandomi sulla fronte.
Se ne andò lasciandomi lì, imbambolata con la custodia del violino in mano.
 
Era finalmente arrivato il giorno della partenza (Chirone aveva acconsentito a patto che ritornassimo entro 72 ore massimo) e mi si strinse il cuore nel salutare Martha e Loren.
«Non fare pazzie» mi disse il castano, abbracciandomi calorosamente. Mentre rispondevo alla stretta, non potei fare a meno di notare il solito sorriso malizioso di mia sorella farsi spazio tra le lentiggini.
«Giusto, non fate stupidaggini» continuò, sussurrando «…In caso, fermati a una farmacia e compra tu-sai-cosa. Non vorrete mica tornare in tre al Campo!» concluse in una risata, scappando alla mia presa.
«Martha…!»
Tornò seria e mi sorrise.
«… Scherzi a parte, tornate sani e salvi.»
Le sorrisi a mia volta e mi voltai verso Loren, che stava raccomandando ad Emile di tenermi d’occhio.
«Non preoccuparti, la proteggerò io.» Lo sguardo che gli lanciò mio fratello lo fece arrossire. Credo che si riferisse in modo sottinteso a quello che era successo durante la Caccia. Una cosa del tipo “Sì grazie, ma evita di farti ammazzare”.
Raven non era venuto a salutarci ‒non che ci tenessi a vederlo dopo la scena nell’aula delle prove, mi ero già imbarazzata abbastanza‒ eppure un po’ mi dispiaceva. Continuavo a ripetermi che avrei rivisto tutti dopo nemmeno tre giorni, ma dopo la scomparsa di Eleuse non potevo più essere sicura di nulla.
Stavamo per uscire dalla barriera, quando una voce che non mi sarei mai aspettata di sentire mi chiamò.
«… Greenwood!» Alyssa, la rossa della Casa numero 5, si stava avvicinando a noi con grandi falcate.
«…Sì?» Anche con il fiatone e il volto arrossato dalla mancanza d’ossigeno, quella tipa mi metteva in soggezione.
«…Ricorda il nostro patto, tieni gli occhi aperti lì fuori e fammi sapere.» Sinceramente, non ricordavo di aver fatto alcun patto con lei, ma non mi parve il caso di farlo notare.
Annuii in silenzio, Alyssa sembrò soddisfatta.
 «…E buona fortuna, naturalmente.»
La ringraziai con un altro cenno del capo, salutando tutti per l’ennesima volta e voltandomi verso il confine della barriera, questa volta per attraversarlo definitivamente.
Il taxi ci stava aspettando al di fuori della boscaglia e il conducente non parve più di tanto stupito nel vederci spuntare da dietro degli alberi con gli zaini sulle spalle.
«Dove vi porto?»
«New York, 225 Rector Place.»
Assaporai il suono di quelle parole con il cuore in gola: dopo più di due settimane di follia, stavo tornando a casa.
---
Sapevo che non avrei ritrovato mia madre, aprendo la porta dell’appartamento, ma in qualche modo mi deluse l’aria desolata che aleggiava in casa. Speravo forse che tornare lì avrebbe riportato tutto alla normalità?
Posai le chiavi nel portaoggetti all’ingresso, come al solito, e andai diretta in camera mia.
«Permesso…» Mi ero quasi dimenticata, c’era anche Emile!
«Oh, scusa… Prego, entra pure!»
Tornai a dare una sbirciata veloce alla stanza, sperando di averla lasciata in ordine prima di andare da Zila a Lancaster.
Emile osservò curioso gli scaffali della mia libreria (nonostante la dislessia tipica dei semidèi non mi ero arresa all’idea di non poter leggere in inglese e mi ero messa di buona lena ad esercitarmi sin da piccola), spostando poi lo sguardo su un quadro attaccato alla parete arancione.
«Dovremmo essere io, mamma e papà.»
Una ‘o’ di stupore si formò sulle sue labbra.
«… L’hai disegnato tu?»
«Qualche anno fa.» Dal quadro, tre facce sorridenti mi restituirono un’occhiata raggiante.
A riguardare bene quel disegno, c’erano tanti errori nelle ombre del viso. La verità era che sul volto di mio padre non ero riuscita a segnare troppe ombre perché lo ricordavo come il viso più luminoso che avessi mai visto, come l’incarnazione del sole stesso. “Infatti.”
«È… Meraviglioso.»
Risi, tornando a rivolgere l’attenzione all’armadio aperto e lo zaino dell’eastpack sul letto.
«Ti ringrazio, ma non posso dire che sia uno dei migliori.»
Nonostante gli errori, ero molto legata a quel quadro. Quando lo avevo disegnato non avevo la più pallida idea del perché potessi vedere mio padre così raramente ‒una volta all’anno, quando andava bene‒ e di certo non mi sognavo che fosse una divinità. Sentendo i racconti dei ragazzi al Campo, di come quasi nessuno avesse visto il proprio genitore divino più di un paio di volte, il rancore che avevo provato per mio padre una volta scoperta la sua vera identità era scomparso. Dovevo quasi essergli grata per tutte le attenzioni che mi aveva rivolto, neanche fossi la sua unica figlia.
Chiusi la zip dello zaino lottando con un vestito blu e, una volta vincitrice, andai verso camera di mia madre per prendere un po’ di dollari. Ok, con tutti coloro che avevano a che fare col mondo greco andavano bene le dracme, ma dubitavo che avrei potuto comprare un mazzo di fiori con quelle. Perché proprio un mazzo di fiori? Beh…
«A tua madre piacciono i fiori?»
Emile mi guardò un po’ spaesato.
«Sì, perché?»
Gli sorrisi.
«Allora, prima di arrivare a Milford facciamo tappa da un fioraio. Spero tu sappia cosa le possa piacere!»
Provò a replicare ma dopo poco lasciò perdere. Insomma, non potevo mica presentarmi a casa sua a mani vuote!
Mi sembrava quasi di sentire Martha sussurrarmi che sarebbe stato carino portare qualcosa alla mia “futura suocera”…
---
Dopo una buona mezz’ora, avevo optato per una piantina di gardenia bianca e Emile aveva insistito per andare a comprare anche un cabaret di dolcetti, quindi adesso eravamo ancora più bizzarri di com’eravamo partiti, con la nostra mise da studenti in gita scolastica, zaino sulle spalle, vaso e dolci.
Una signora anziana, con cane al seguito, ci squadrò insistentemente dall’altro lato della strada, mentre aspettavamo che la madre di Emile aprisse la porta della villetta. Finsi di non averla notata e sprofondai il viso nelle gardenie, sperando di non risultare troppo assurda a presentarmi conciata a quel modo.
La porta si aprì con un cigolio e apparve una donna sui quarant’anni, dal fisico esile, con i capelli biondo pallido raccolti in uno chignon e un sorriso stupito stampato sul volto, lo stesso dolce sorriso di Emile.
«Emile! Oh caro, che sorpresa!»
Non senza un po’ di imbarazzo, il ragazzo abbracciò la madre col braccio libero dai dolcetti, e le stampò un bacio sulla guancia.
«Ho ottenuto un permesso per venire a trovarti, spero di non disturbare.»
«Tesoro, non potresti mai disturbarmi! Sono così felice che tu sia venuto…» La donna si accorse di me e prese a fissarmi incuriosita, spostando lo sguardo da me al figlio, per poi tornare a guardarmi. «E lei? Non dirmi che è…»
Decisi di sollevare Emile dall’imbarazzo e presentarmi io stessa.
«Sono Cithara Greenwood, vengo anch’io dal Campo Mezzosangue e ho avuto il permesso di aggregarmi a suo figlio durante quest’uscita» dissi tutto d’un fiato, accompagnando le ultime parole con l’accenno di un inchino.
Lei mi sorrise accomodante e fece cenno di entrare.
«Capisco… È la prima volta che Emile porta a casa una ragazza, sai?»
«M-mamma…» Era avvampato lui, abbassando lo sguardo.
«Su, su caro, non c’è bisogno di essere teso!» La madre tornò a girarsi verso di me. «Vieni pure! Posso offrirvi una tazza di tè?»
Le diedi il vaso di gardenia mentre Emile poggiava sul tavolo della cucina i dolci, borbottando tra sé.
«Scusa, non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Angelique Noir e, beh, sono la mamma di questo scapestrato!» Mi abbandonai a una risata assieme alla madre, assicurandole che suo figlio era tutt’altro che scapestrato.
Lasciai lo zaino ad Emile e aiutai Angelique a preparare la merenda, portando le tazze da tè e lo zucchero a tavola (pregando gli dèi di non far cadere alcunché con la mia solita goffaggine). Quando Emile tornò, il tè era pronto e io e sua madre stavamo già conversando da parecchi minuti.
«Quindi tuo padre sarebbe Apollo… Devi essere molto brava nelle arti!» Anche se di colore diverso, le iridi nocciola della signora mi ricordavano in qualche modo gli occhi di Emile.
«Me la cavo…» risposi elusiva, prendendo un sorso di tè. Nonostante il caldo estivo, il tepore della bevanda risultava piuttosto piacevole.
«Non è vero. È bravissima, specialmente a suonare il violino!» fece Emile, sorridendo mentre addentava un bignè al cioccolato. «È solo modesta.»
Passammo non so quanto tempo a parlare di musica classica (a quanto pareva, Angelique era un’amante di Bach), fino a quando il discorso si spostò sul mistero delle sparizioni e il vero motivo della nostra visita.
«Domani andremo a New Haven per cercare qualche indizio.» Il ragazzo ebbe un’esitazione. «Posso prendere…?»
Angelique lo interruppe con un gesto della mano e un sospiro rumoroso.
«…E va bene. Basta che non corri troppo e non la riduci come l’altra volta!»
Emile sorrise.
«Grazie! Starò attento, lo prometto.»
Non avevo capito a cosa si riferissero, ma immaginavo stessero parlando di un mezzo di trasporto. Di certo doveva trattarsi dell’auto della madre. Speravo vivamente che Emile non avesse una guida sportiva come quella di Eleuse, che più volte aveva creato problemi al mio stomaco delicato.
Dopo aver sparecchiato, il biondo fece strada verso la sua camera, passando per un corridoio con un’immensa libreria in legno scuro piena di cd musicali, suppellettili in ceramica e libri per bambini. Rimasi colpita nell’accorgermi che molti di questi erano in francese.
«Oh… Mamma voleva che imparassi anche la sua lingua madre. Ed è un’insegnante alle scuole elementari, quindi…»
Accarezzai la costina dell’edizione francese di “Viaggio al centro della Terra” di Jules Verne e sorrisi.
«Dev’essere un bel lavoro, il suo.»
Lui alzò le spalle e si voltò, entrando nella stanza.
«Se i bambini sono tranquilli sì, a volte invece torna a casa distrutta.» Chissà se era stato geloso da piccolo, se aveva sofferto il dover dividere la propria madre con altri bambini?
Lasciai cadere il discorso e mi apprestai a seguirlo.
La camera era spaziosa, sulle pareti azzurre spiccavano medaglie di eventi sportivi ‒per non parlare delle coppe sugli scaffali‒ e alcune foto. Una in particolare, ritraeva un piccolo Emile sorridente abbracciato alla madre con lo sfondo della Tour Eiffel e un tramonto mozzafiato.
Rimasi incantata ad osservare i boccoli biondi del bambino arricciarsi attorno ai capelli corti della giovane Angelique, assieme alle loro espressioni felici. La gioia che pervadeva quella foto era quasi palpabile.
Lo sbuffo emesso dal letto una volta che Emile ci si fu seduto sopra, mi risvegliò dai miei pensieri.
«Mia madre ha accatastato un sacco di quadri e tutte le cose che non sapeva dove mettere nella stanza degli ospiti…» Notai che il mio eastpack si trovava ai piedi del letto di Emile. «…Quindi io andrò a dormire di là, mentre tu puoi pure dormire qui. Se non ti dispiace» aggiunse, rispondendo al mio sguardo smarrito.
«Finalmente torni a casa e sei costretto a non dormire nel tuo letto? No, non se ne parla.»
Lui represse una risata e fece cenno di avvicinarmi.
«Se dormire in un altro letto significa averti a casa mia, lo faccio più che volentieri» disse, tirandomi a sé per i passanti della cintura. Il mio cuore perse dei battiti quando mi abbracciò all’altezza della vita.
«…Sono felice che tu sia qui.»
Il martellamento del cuore si era fatto assordante, adesso, e le gambe mi parevano di burro.
«…E io sono felice di essere qui, con te.»
Non so come riuscii a parlare, visto che sembrava che le forze mi stessero abbandonando. Due erano le cose: o stavo per svenire per mancanza di zuccheri (cosa assai improbabile, dati i dolci che avevo appena finito di mangiare assieme al tè), o quei sintomi erano dovuti alla troppa vicinanza a un ragazzo. Anzi, avevo il presentimento che non si trattasse più della mia stupida agitazione da contatto con esseri di sesso maschile, ma che piuttosto fossi agitata perché quel ragazzo era  proprio Emile.
Presi coraggio e lo abbracciai a mia volta, affondando il volto nei suoi capelli.
Di sicuro avrei fatto di più, se Angelique non avesse ingenuamente bussato alla porta per consigliarci di fare una passeggiata serale per le stradine di Milford.
«Ehm…» Ci allontanammo l’uno dall’altra un po’ impacciati. Ogni volta che si creava una situazione intima tra me ed Emile arrivava qualcuno a interromperci… Iniziavo a pensare di essere perseguitata da una qualche maledizione.
Mentre mi passavo le dita tra i capelli per nascondere l’imbarazzo, mi venne in mente Zila. Forse Eleuse era tornata da lei ‒per rassicurarla sulle nostre condizioni, se non altro‒ e si era lasciata sfuggire qualcosa che avrebbe potuto esserci d’indizio.
«Posso fare una telefonata?»
«Certo» mi rispose Emile, un po’ preoccupato. Aveva per caso paura che chiamassi qualcuno al Campo per farmi venire a riprendere? Sorrisi tra me e me, dirigendomi verso il telefono.
Tuuu… tuuu… tuuu…
“Rispondi, rispondi, rispondi… Oh dèi, spero non sia successo qualcosa anche a lei!”
«…Pronto?»
Emisi un sospiro di sollievo. La nonna era appesantita dall’età, ci metteva sempre un po’ a raggiungere la cornetta del telefono.
«Nonna! Sono Cithara… Tutto bene?»
«Oh piccola! Certo, qui tutto a posto. Piuttosto, l’incendio non ha causato troppi danni vero?»
«Incend…io?» Aspetta. Quale incendio?
«Ma sì, Eleuse mi ha spiegato perché siete scappate così… C’era stato un cortocircuito o non so cosa, quindi la vostra palazzina ha preso fuoco, no?»
«Oh giusto… L’incendio…» Certo che Eleuse avrebbe potuto inventarsi qualcosa di meno tragico. Una volta trovata le avrei senza dubbio consigliato di guardare meno film di spionaggio. «…Tutto ok. C’è voluto un po’ per spegnere le fiamme ma ora hanno finito di ristrutturare il palazzo.»
Un respiro rammaricato dall’altra parte della cornetta.
«Mi avete fatto prendere un colpo quella sera…»
Che stupida. A lei non avevo proprio pensato in quei giorni di disperazione per mia madre… Era stato davvero crudele da parte mia, non farle nemmeno una chiamata.
«… Oh, quasi dimenticavo!»
«Cosa?»
«La cara Eleuse mi aveva detto di riferirti qualcosa, se avessi chiamato… Aspetta… Oh mamma, dove l’ho messo…?» Il trambusto dei cassetti aperti e chiusi mi costrinse ad allontanare il telefono dall’orecchio.
La mente aveva preso a divagare veloce: cosa poteva averle mai detto? Se c’entrava con la missione, sapeva che sarebbe potuta incappare in qualche problema… Ma allora perché non informare direttamente Chirone?
«Ecco! Era una specie di filastrocca…
“Quando le Grandi verranno riunite,
le speranze se ne andranno ormai svanite;
Catene ed Equilibrio spezzati saranno,
sotto le trame dell’Inganno.
Come le Gorgoni,
costrette nelle proprie prigioni.
Come le Furie,
trasandate e abbandonatesi alle incurie.
Come le Moire,
padrone del Destino a cui tutti vogliono ambire.
Tante di numero la linfa delle quali è dovuta,
perché avvenga la nefandezza che verrà compiuta.
I riflessi diverranno carcerieri,
dai quali si potrà però fuggire grazie ai desideri.
Il Dono è necessario,
affinché il Bene cali infine il sipario.
Una cosa cara di certo andrà perduta,
ma la sua importanza dipenderà dalla funzione adempiuta.”
… Credo che sia tutto qui.»
Presi al volo carta e penna, chiedendole di ripetere più lentamente.
«Non ti ha per caso detto dove sarebbe andata?» Come si dice, la speranza è l’ultima a morire.
Le mie aspettative non vennero deluse neanche questa volta.
«Giusto, ecco cosa stavo dimenticando… Aveva detto che sarebbe andata a trovare un amico, un certo Kimon Dreamwalker. Non è un nome buffo?»
«Dev’essere un compagno di Università…» Non le avevo mai sentito pronunciare quel nome. Chi diamine era questo Kimon? «Ti ha dato anche un indirizzo?»
«Certo! 240 College Street, New Haven. Tutto a posto, cara?»
Scrissi il recapito accanto alla profezia.
«…Grazie di tutto, nonna. Ora devo andare!»
«Va bene, piccola. Salutami tanto Lynette… E fatevi sentire più spesso!»
Una sensazione spiacevole mi afferrò il cuore.
«Ti saluta anche lei… Un bacione.»
Riattaccai la cornetta con gli occhi lucidi, dovetti strofinarli con il braccio per cancellare l’avvisaglia delle lacrime.
Emile doveva aver sentito il mio tono rattristarsi ed era comparso dietro di me, con un’espressione ansiosa.
«… Tutto bene, Thara?»
Tirai fuori il mio sorriso migliore, avvicinandomi con il foglietto in mano.
«Finalmente abbiamo una pista! Mi chiedo perché non ci ho pensato prima…»
«…È una profezia?» chiese, osservando il foglio con curiosità.
«Sembra proprio di sì. Abbiamo anche l’indirizzo dell’ultimo posto dov’è andata Eleuse.»
Dentro di me, sapevo che il mistero della sua scomparsa ruotava attorno a Kimon.

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Capitolo 12
*** Cap. 10 - Accelerando ***


[That home - The Cinematic Orchestra]
[Holding onto Nothing - Lovers and Liars]
[Shut Me Up - Mindless Self Indulgence]
 
Avevamo passato l’intera serata a cercare di interpretare la profezia, facendo una pausa solo per la cena.
«Ad esempio, la parte in cui parla delle Gorgoni, delle Furie e delle Moire… Sono tutti gruppi di tre donne. Nella strofa successiva dice “Tante di numero la linfa delle quali è dovuta”… Intende dire che verranno rapite tre donne?»
Scossi la testa.
«Non è possibile, ne sono state rapite già cinque, se non di più per quel che ne sappiamo» risposi, ticchettando sul foglio di carta con la punta della penna. E se invece…?
«…Allora si tratta di sommarle. Le donne sono nove!» disse Emile, trionfante, concludendo il mio pensiero.
«Ma perché proprio nove…?» chiesi a nessuno in particolare. “E perché proprio mia madre?”
A questo non eravamo ancora riusciti a dare una riposta.
«E se dovessimo guardare i luoghi in cui sono state rapite?»
Un lampo di comprensione attraversò gli occhi verdi di Emile.
«Magari servono a creare un cerchio magico o qualcosa del genere!» Ma l’entusiasmo iniziale venne ben presto sostituito dalla delusione. «Giusto, non sappiamo dove sono avvenuti i rapimenti. È già tanto che Eleuse sia riuscita a ottenere queste informazioni.»
C’era qualcosa che continuava a sfuggirmi…
«…No, forse ho detto un’idiozia. Mamma era terrorizzata, sapeva che stavano cercando lei… Altrimenti sarebbe bastato rapire una donna qualunque. A meno che…» Sollevai lo sguardo su quello di Emile. «…Le donne da rapire non dovessero avere delle caratteristiche particolari.»
Lui mi restituì un’occhiata scoraggiata.
«Però Chirone ha detto che non avevano nulla in comune.»
«Hai ragione, questo è quello che ha detto lui. Non dico che ci stia nascondendo qualcosa, ma forse… Ecco, forse non ha preso in considerazione tutte le possibilità.»
Rimanemmo in silenzio a fissarci negli occhi per qualche secondo (troppo a lungo, a detta del mio cuore), prima che lui annuisse.
«Okay, proviamoci. Cosa potevano avere in comune? Dev’essere una cosa particolare.»
Abbassai lo sguardo sulle mani, iniziando a giocare con la penna. Era snervante il ticchettio dello scatto della biro, eppure riusciva in qualche modo a rilassarmi.
Ebbi un sussulto quando Emile poggiò la sua mano sulla mia, prima di capire che il suo intento era fermare il mio tic nervoso.
«Oh, scusa… Ehm.» Deglutii, tornando a pensare. “Qualcosa di particolare, qualcosa di particolare…” «…Ci sono! E se tutte avessero un figlio semidio?»
«…Non è affatto una brutta idea!» fece Emile, prendendomi la biro dalle mani e appuntando l’ipotesi sul foglietto. «Dubito che i figli si trovino al Campo, però, altrimenti Chirone li avrebbe di sicuro avvertiti.»
Annuii in silenzio: non era una brutta deduzione, ma presentava qualche lacuna.
«Altrimenti…» Provai a pensare a una qualche peculiarità posseduta da mia madre, senza successo. «…Uffa, non lo so.»
Mi lasciai sfuggire uno sbuffo di frustrazione portandomi le mani ai capelli. Avevo sempre odiato il dover tirare a indovinare, specialmente per rispondere a quesiti dei quali non si conoscerà mai la risposta certa. Almeno non in tempi brevi.
La testa di Angelique fece capolino dalla porta che collegava la cucina al corridoio.
«Si è fatto tardi ragazzi… Non andate a dormire?» Guardando l’orologio in stile barocco attaccato alla parete compresi che non aveva tutti i torti, erano già le undici e mezza.
«Sì, adesso andiamo… Mi spiace che ti sia persa Milford di sera, è un posto molto carino» disse infine Emile, rivolgendosi a me. Avevo l’impressione che nelle sue parole ci fosse una frase come “A meno che tu non voglia uscire adesso con me” lasciata sottintesa.
…Ok, stavo iniziando a perdere la concentrazione e fare pensieri stupidi. Probabilmente l’emozione di rientrare a casa, conoscere la madre di Emile e scoprire la profezia erano davvero troppe cose da sostenere tutte in una giornata, per me.
«Scusi il disturbo, andiamo subito a dormire…» Mi alzai dalla sedia, seguendo Emile verso la sua camera.
Oh no, stavo dimenticando che avrei dovuto dormire da lui, invece che nella stanza degli ospiti!
«Ehi… Sul serio, vai in camera tua. A me non dà fastidio dormire tra i quadri!»
Lui rise piano.
«Dici così perché non hai visto la camera… Sembra un campo di battaglia!»
Mi sentivo a disagio a rubargli la stanza a quel modo.
«Dai, non posso sfrattarti…»
Un sorriso malizioso gli illuminò il volto.
«Se vuoi dormire con me non devi far altro che chiedere.»
In quel momento, sul mio viso passarono tutte le sfumature più o meno violente del rosso. Soprattutto perché avevo preso davvero in considerazione l’idea, per un attimo.
«Scemo…» riuscii solo a dire con un filo di voce, spintonandolo in modo giocoso.
Emile tornò a ridere e mi attirò tra le sue braccia. Oh dèi, il suo profumo era così inebriante…
Lo sentii sospirare tra i miei capelli mentre me li carezzava.
«Emile…»
«Devi essere molto stanca…» La sua voce era un sussurro dolcissimo.
Non risposi, abbracciandolo e lasciandomi cullare dalle sue braccia.
«…Forse è meglio andare a dormire, domani sarà una lunga giornata. Buonanotte» disse infine, bisbigliano al mio orecchio e baciandomi il collo. A contatto con le sue labbra, un brivido piacevole mi attraversò il corpo e dovetti fare molta fatica per non darlo a vedere.
«B-buonanotte.»
Il sorriso che mi rivolse andando via mi lasciò un po’ contraddetta. Ero convinta che mi avrebbe baciata, o comunque non pensavo che mi avrebbe lasciata da sola davanti alla sua camera con un’espressione tutt’altro che intelligente.
Entrai nella stanza scuotendo la testa, ancora più confusa di prima.
Certo, ora che era nel suo “territorio” si sentiva molto più sicuro… Bel modo, però, di darmi la buonanotte! Altroché, adesso ero più sveglia di prima, sarebbe stata dura dormire…
Mi tolsi i vestiti con calma, cercando di rallentare i battiti del cuore.
La verità era che me la stavo prendendo con lui per non arrabbiarmi con me stessa. Per una volta avrei voluto lasciare i miei freni inibitori e prendere l’iniziativa.
Misi la vestaglia e mi accoccolai sotto le coperte del letto di Emile. Le lenzuola erano pulite, quindi l’unico profumo che si sentiva era quello di bucato, ma mi ritrovai a immaginare Emile dormire in quello stesso letto. Cos’aveva visto quella stanza? I suoi momenti felici, quelli tristi… La gioia dei successi, e l’avvilimento per gli insuccessi…
Posai uno sguardo pigro sugli oggetti nelle mensole e alcune medaglie brillarono nella penombra.
Avrei voluto conoscerlo di più, sapere tutto di lui.
«Se c’è un dio che mi sta ascoltando… Per favore, fa che questa storia finisca bene. Che io possa riabbracciare Eleuse, mamma… E che possa alla fine stare con lui.»
Dalla finestra, mi rispose un debole frullio di ali.
 
Nonostante le previsioni, avevo dormito molto bene quella notte.
Durante la colazione Emile si comportò come al solito, lanciandomi solo di tanto in tanto qualche occhiata furtiva che mi fece realizzare che non mi ero sognata le avances della sera precedente.
«Tra quanto sei pronta?» mi chiese con un sorriso.
«Cinque minuti e possiamo andare.»
In realtà avrei voluto metterci molto più di cinque minuti, per truccarmi per bene e fare un’acconciatura elaborata, ma dovevo ricordarmi che quello non era un appuntamento! Assolutamente, stavamo andando a cercare informazioni su Eleuse, tutto questo non aveva NULLA a che fare con me ed Emile…
Rivolsi i miei pensieri alla mia amica e Custode per tranquillizzarmi e decidermi ad infilare il vestito grigio e nero coi volant. Ok, l’uscita non aveva a che fare con me ed Emile, però mettere un bel completo non avrebbe guastato.
Quando uscii dalla camera, Emile mi guardò in un tal modo che mi fece avvampare.
«Eh, f-forse è meglio che mi cambi…» dissi imbarazzata, facendo per rientrare nella stanza.
«Oh no! Cioè, stai bene così…»
Angelique comparve dal bagno con una spazzola in mano.
«Che bel vestito! Però, non credi che avrai un po’ di freddo?»
«…Freddo?» Ci saranno stati almeno una trentina di gradi fuori, come avrei potuto aver freddo? «Beh, in macchina starò bene… Immagino.»
Emile e sua madre si scambiarono un’occhiata che giudicai poco rassicurante e scoppiarono a ridere.
«Macchina? …Emile, non le hai detto che andrete in moto?»
Impallidii.
«Ops, dev’essermi sfuggito… Sì, andremo in moto!» Mise una mano dietro alla mia schiena e mi portò in garage dopo aver salutato la madre, continuando a parlare. «…Cos’è quell’espressione? Andrò pianissimo!»
Anche ad una profana come me la moto, di un magnifico nero opaco, appariva stupenda. Era uno di quei modelli sportivi, dove il secondo passeggero deve avvinghiarsi al conducente se non vuole venire sbalzato via.
“Basta che non corri troppo e non la riduci come l’altra volta!”
Chissà perché, le parole di Angelique continuavano a tornarmi in mente mentre mettevo il casco, con aria assente.
«Non è che avete delle biciclette…?» chiesi, in un ultimo, disperato tentativo di non morire prima di aver riabbracciato mamma ed Eleuse.
Emile si limitò a ridere accendendo la moto, che rispose con un rombo.
«Salta su!»
Eseguii l’ordine sospirando e chiusi gli occhi.
---
Appena posai il piede sul marciapiede, ringraziai tutte le divinità a me conosciute, senza badare al futuro viaggio di ritorno. In realtà Emile non aveva guidato in modo così spericolato, ma l’ultimo sorpasso a serpentina che aveva compiuto per superare una macchina col semaforo rosso mi aveva fatto salire il cuore in gola.
«Scusa… Tutto bene?» s’informò dopo aver notato la mia espressione turbata.
«Sì, ho solo un po’ caldo…» biascicai togliendo il casco e cercando di tirarmi giù la gonna del vestito con fare disinvolto.
Altro che freddo, con quell’abito avevo avuto non pochi problemi a tenermi stretta ad Emile sulla moto ed evitare di scoprire gran parte delle cosce! Maledetta quella volta che avevo deciso di lasciare gli shorts nell’eastpack a casa Noir…
Tornai a concentrarmi sull’obiettivo della missione: parlare con il fantomatico Kimon Dreamwalker.
Anticipai Emile, che si stava assicurando di rendere la moto immune da furti, andando a controllare i cognomi dei citofoni. Guardai più volte, ma non mi parve di scorgere alcun Dreamwalker.
«Emile?« lo chiamai «…Ehm, ho un problema. Puoi aiutarmi a cercare il citofono?»
Lui aggrottò le sopracciglia in riposta, osservando attentamente tutte le targhette. Dovette ripassarle un paio di volte, ma infine esultò mostrandomi quella che stavamo cercando.
«Eccolo qui!» disse, indicando una targhetta diversa dalle altre, con il nome inciso in bianco che spiccava su di uno sfondo blu notte. Come avevo fatto a non vederla prima? Eppure, adesso che Emile me l’aveva fatta notare, mi sembrava talmente evidente che sarebbe mancata solo un’insegna al neon per metterla più in vista.
«Deve trattarsi della Foschia…» lo sentii borbottare, assorto. Ricordavo che me ne aveva parlato una volta, la Foschia era quella che mascherava i mostri e tutto ciò che di particolare riguardava il mondo greco agli occhi degli umani, e qualche volta poteva ingannare anche i semidèi. «…Dunque abbiamo decisamente a che fare con qualcuno che non appartiene al mondo degli esseri umani» concluse in tono grave.
Speravo solo che questo non significasse guai in arrivo. Insomma, “non umano” non voleva per forza dire “nemico”… Giusto?
Quando mi decisi a premere il pulsante, il portone si aprì da solo. Un chiaro invito ad entrare.
Varcammo l’ingresso un po’ circospetti e non ebbi dubbi, vedendo che l’ascensore era al piano ed aperto. Sapevo perfettamente che era lì per noi; infatti, una volta entrati, le porte si chiusero portandoci all’ultimo piano. Mi inquietò constatare che le cifre dell’ascensore ‒quelle che segnano il piano corrente‒ sembravano come impazzite, fino a quando non ci fermammo e formarono “000”. Come se fosse possibile essere al piano terra, dopo tutto quel tempo trascorso salendo…!
Uscii, seguita da Emile, ed esitai un poco davanti alla porta aperta che ci stava aspettando. Non aveva niente di particolare, non sembrava altro che una banalissima porta d’ingresso di un appartamento, ma il profumo d’incenso che ne fuoriusciva era talmente denso da essere palpabile e aveva qualcosa di terribilmente sbagliato.
Emile mi prese la mano, guardandomi intensamente per infondermi coraggio. Se non ci fosse stato lui sarei tornata indietro con un nulla di fatto.
Dentro l’appartamento, tutto pareva avvolto da quel forte odore d’incenso e una lieve melodia ci guidò fino a una stanza adibita a studio. Lentamente, misi a fuoco la figura di un uomo seduto dietro alla scrivania su una poltrona dall’aspetto molto comodo.
«…Buongiorno, vi stavo aspettando» disse una voce bassa e armoniosa.
Per qualche secondo mi dimenticai di respirare: era una creatura magnifica. Aveva un viso dai lineamenti decisi ma al contempo dolci, gli occhi allungati e orientaleggianti erano di una strana sfumatura viola mentre i capelli, castano scuro, gli ricadevano delicatamente in riccioli sulla fronte, accarezzando le spalle.
Emile prese la parola, riscuotendomi dallo stato di trance in cui ero caduta.
«Se ci stava aspettando, di certo saprà anche perché siamo venuti.» Il suo tono era duro, forse perché a dispetto di tutto anche lui si sentiva intimidito da quell’uomo.
La risata cristallina di Kimon riempì la stanza, facendo risuonare nell’aria quel suono meraviglioso.
«Ma certo! Sedetevi pure, intanto direi di cominciare dalle presentazioni.»
Presi posto su una delle due poltrone davanti alla scrivania, imitata da un Emile alquanto riluttante. Non riuscivo a capire il perché della sua tensione, l’incenso era così rilassante e la bellezza di quell’uomo instillava una tranquillità disarmante. Avrei voluto tanto chiudere gli occhi e addormentarmi, lasciando tutti i problemi alle spalle…
«…Ora mi faccio chiamare Kimon Dreamwalker, ma questo voi dovreste già saperlo» disse sorridendo. «Avete capito chi sono?»
Aveva un’espressione divertita mentre scrutava i nostri volti alla ricerca di una risposta. Dal canto mio, sarei sprofondata in un sonno profondo se non fosse stato ancora una volta per Emile.
«Di certo un dio…» sussurrò. «…Morfeo, forse?» concluse, incerto.
Kimon sospirò rumorosamente, portandosi una mano alle tempie.
«Possibile che tutti debbano sempre scambiarmi per mio figlio? Capisco di avere un’aria così giovanile, ma…»
«…Ipno?» provai a rispondere timidamente. Il volto di Kimon si illuminò e mi rivolse un sorriso stupendo.
Dunque era il dio del Sonno!
«Perfettamente, dolce Cithara. Onorato di poterti finalmente incontrare» fece, mimando un inchino con la mano.
Emile si agitò nella poltrona accanto alla mia.
«…Bene Ipno. Piacere di fare la sua conoscenza» disse stizzito, guardandomi torvo. Qual’era il problema?
«Ora che ci siamo presentati, è il caso di parlare del perché siamo qui. Sappiamo che la Custode Eleuse Oak è venuta a farle visita approssimativamente una settimana fa, data dalla quale non abbiamo più sue notizie.» Il biondo si fermò per prendere fiato e scrutare la reazione di Kimon, che non fece altro che continuare a sorridergli con un’espressione indecifrabile sul volto. Proseguì:
 «…Vorremmo sapere qualcosa riguardo quella visita e le saremmo grati se potesse illuminarci sul luogo in cui possa trovarsi adesso la Custode.» Sembrava costargli fatica rivolgersi a Kimon in modo educato.
Il dio annuì, aggiustandosi meglio sulla poltrona.
«Oh sì, Eleuse è passata di qui. Le era stata affidata una missione importante, riguardo le sparizioni di alcune donne… È stata lei a parlarmi di te, Cithara» disse, lanciandomi un’occhiata amabile. Emile si stava alzando per ribattere, ma Kimon lo azzittì. «…Naturalmente mi ha anche parlato di te, Emile Noir.»
Il ragazzo si bloccò e tornò lentamente ad accomodarsi sulla poltrona, senza staccare gli occhi dal dio. Su di lui pareva avere un effetto contrario a quello rilassante che aveva con me.
Iniziai a lasciarmi contagiare dal nervosismo di Emile e presi a giocare col braccialetto di legno che avevo al polso, per stemperare la tensione. Mi era stato dato da Chirone prima di partire per la missione, non si trattava di un semplice bracciale: una volta sganciata la catenella, questa diventava la corda dell’arco mentre la parte in legno si ingrandiva fino a diventarne l’impugnatura. I sei pendagli a forma di piuma attaccati al bracciale, altro non erano che sei frecce. Anche Emile aveva ricevuto un’arma simile: il ciondolo a forma di croce appeso alla sua collana era in realtà una spada.
Ringraziai Chirone di aver preso queste precauzioni perché, nonostante ci fosse la Foschia a proteggerci da sguardi indiscreti, avrei voluto evitare di dovermi portare in giro un arco per tutto il tempo della mia permanenza al di fuori dal Campo.
«Eleuse aveva scoperto che tutte le donne erano state portate negli Inferi, per questo era venuta a chiedermi aiuto. Non credo ne siate a conoscenza ma, anche se passo la maggior parte del mio tempo nel mondo degli umani, ho delle stanze nella residenza di Ade che mi spettano di diritto.»
Presa tra lo stupore e l’incredulità, notai con la coda dell’occhio lo sguardo scettico di Emile, che pareva dire “Non vedo come questo possa c’entrare con Eleuse”.
Kimon sbuffò, spazientito.
«…Per dirla alla vostra maniera, posso teletrasportarmi direttamente nelle mie stanze tramite un portale, senza dover passare dall’entrata principale degli Inferi.» Ora aveva catturato del tutto anche l’attenzione di Emile.
«Allora, Eleuse le ha chiesto un passaggio per poter indagare da vicino» conclusi io, abbassando lo sguardo.
«Esattamente. Purtroppo non so cos’altro dire, se non è riuscita a contattarvi devo presupporre che sia ancora negli Inferi, perché credo sia difficile utilizzare l’Iride-phone in un posto così buio» disse Kimon, non senza una nota di sarcasmo.
Aveva ragione, anche se Eleuse avesse avuto la dracma d’oro con cui pagare la dea messaggera Iride, dubitavo che avesse trovato il modo di creare un arcobaleno per riuscire a contattare Chirone.
«…Sarebbe in grado di portare anche noi nelle sue stanze?» Ignorai l’occhiata preoccupata di Emile. Mi stavo riprendendo dall’apatia in cui ero caduta da quando avevo messo piede in quella stanza e non sopportavo l’idea di dover aspettare ancora per aiutare Eleuse. Proprio adesso che sapevamo anche dove si trovava!
Kimon mi osservò pensieroso, passandosi una mano tra i capelli.
«Vedete, il problema è che adesso Ade si accorgerebbe dell’entrata di intrusi… Ho accompagnato la Custode in una notte di luna nuova, per questo è potuta passare inosservata.»
«Dovremmo aspettare la prossima luna nuova?» Impossibile, si trattava di quasi tre settimane!
Stavo già disperando, quando la voce armoniosa del dio riprese a parlare.
«In realtà basterebbe anche solo la luna piena. Durante le fasi di novilunio e plenilunio si crea come una sorta di velo che annebbia le percezioni di Ade… Si accorgerebbe che ho usato il mio potere per entrare nelle mie stanze, ma non sarebbe in grado di dire se effettivamente sono io ad essere passato o quante persone hanno utilizzato il portale.»
Mi voltai verso Emile, che nel frattempo era rimasto in silenzio a osservare Kimon.
«Manca una settimana» disse il biondo, con le braccia conserte. Sembrava non aver accantonato del tutto la sua antipatia per lui.
Il dio sorrise e annuì, guardandomi.
«Non dovrei aiutarvi, d’altronde non è mio interesse quello che sta accadendo… Ma se a chiedermelo è una bella fanciulla non posso di certo tirarmi indietro.»
Sorrisi a mia volta, un po’ imbarazzata, cercando di non far caso al gesto di stizza di Emile che aveva voltato la testa dalla parte opposta.
«Se riuscirete a tornare qui tra una settimana vi farò arrivare nel castello di Ade.»
«Bene, alla prossima.» Emile si alzò senza tanti convenevoli e imboccò velocemente il corridoio, lasciandomi sola con Kimon. Mi affrettai a seguirlo, ringraziando il dio della sua gentilezza con un cenno della testa.
«…Quel ragazzo è piuttosto divertente!» lo sentii sussurrare.
Voltai la testa, pensando di aver capito male.
«…Prego?»
Il dio rise sommessamente e si alzò dalla poltrona.
«Perdonami, non sto ridendo di lui. Trovo solo che sia dolce il modo in cui cerca di attirare la tua attenzione.»  Mi diede un buffetto sulla testa mentre ancora lo stavo fissando un po’ meravigliata. «Fossi in te gli farei capire che tieni a lui, o la sua parte inquieta potrebbe prendere il sopravvento su quella gentile.»
«Ah… Ehm, lo farò, grazie.» Non sapevo davvero cosa rispondere, quindi mi limitai a un altro sorriso e raggiunsi con una corsa Emile, che mi aspettava davanti all’ascensore.
«…Almeno sappiamo dov’è finita Eleuse» disse cupo, per poi chiudersi in un silenzio tombale.
Tormentare il braccialetto/arco non servì affatto ad alleviare la tensione che si era creata dentro l’ascensore, Emile sembrava terribilmente di cattivo umore e non riusciva a venirmi in mente niente da dire per rallegrare l’atmosfera.
«Sono sicura che sia lei, sia mamma stiano bene… E poi, una settimana passa in fretta, giusto?» Aspettai un po’, ma ricevendo solo un silenzio in risposta, continuai. «…È un vera fortuna che Kimon abbia acconsentito a darci una mano per raggiungerle.»
Il ragazzo sospirò rumorosamente con insofferenza.
«Sì, una vera fortuna. Peccato che sia stato in grado solo di portare Eleuse negli Inferi e non di farla tornare indietro… Non mi fido di quello.»
Adesso ero io ad essere infastidita.
«Emile, sei troppo sospettoso. Dagli almeno una chance, a me è sembrato sincero quando ha detto di volerci aiutare!»
Speravo di non aver alzato troppo la voce, ma ero stanca della sua diffidenza.
Era sempre scontroso con Raven, che avevo invece scoperto essere una brava persona, e anche Luke non mi era sembrato così male. Iniziavo a pensare che fosse lui ad avere problemi di relazione con gli altri.
L’occhiata ferita che mi rivolse fu come una pugnalata al cuore.
«Certo… Ho notato come ti abbia fatto una buona impressione, non vi staccavate gli occhi di dosso!»
«…Cosa?!»
Con un “dindon”, le porte dell’ascensore si aprirono e mi trovai a seguire il ragazzo in silenzio, un tumulto crescente nel mio cuore.
«Emile. Hai frainteso tutto.»
Lui mi degnò appena di un’occhiata, tornando a voltarmi le spalle.
«Non importa, era affascinante quel dio, in fondo.»
Fu molto difficile trattenermi dal tirargli uno scappellotto e rimanere calma per tentare di farlo ragionare. Si era messo a trafficare col bloccadisco della moto, dopo avermi dato i caschi in custodia.
«Ehi… Non sarai per caso geloso?»
Alzò la testa di scatto, andando a sbattere contro il manubrio.
«Ouch…C-cosa? Cosa te lo fa pensare?!» balbettò mentre si massaggiava il capo. Soffocai le risate e gli sorrisi: aveva ragione Kimon, Emile era adorabile.
«Beh, se lo fossi, sappi che non ne avresti motivo» dissi, mentre gli porgevo il casco con un’occhiata colma di affetto. Lui arrossì abbassando lo sguardo e mise il casco, forse per nascondere l’imbarazzo.
«…Okay.»
Indossai il casco anch’io, preparandomi psicologicamente a un nuovo viaggio travagliato in moto, quando notai dall’altro lato della strada un’anziana signora passeggiare col suo cane. La scena di per sé non sarebbe stata strana, se non fosse che la signora era proprio quella che il giorno precedente stava guardando me ed Emile prima che entrassimo a casa sua, e che il cane ‒un chow chow‒ ci stava fissando.
Ora che lo osservavo più attentamente, quel cane mi sembrava avere qualcosa di strano… Avevo sempre pensato che i chow chow somigliassero a dei leoni in miniatura, ma quello più che in miniatura sembrava un chow chow troppo cresciuto. Anzi, più lo guardavo e più mi convincevo che pareva un leone vero e avevo l’impressione che stesse crescendo a vista d’occhio sotto il mio sguardo attonito.
Alzai la voce per farmi sentire sopra al rumore del motore della moto, appena accesa.
«…Emile? Non ti sembra che quel cane sia un po’ strano?» Doveva essere la mia immaginazione, gli occhi del chow chow erano addirittura due dardi fiammeggianti!
«…Oh, merda!»
Il cane (che ormai si era trasformato del tutto in un leone fuori misura) scattò nella nostra direzione con un ringhio bestiale e io feci appena in tempo ad aggrapparmi ad Emile, che partì a tutto gas con un rombo assordante.
 
 
 
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Kimon, alias Ipno:


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Capitolo 13
*** Cap. 11 - Capriccio ***


[Drive it like you stole it - The Glitch Mobe]
[The World Calling - There for Tomorrow]
[Sunrise - Norah Jones]
[Due Respiri - Chiara]
 
Avevo dimenticato di tirare giù la visiera e, a contatto col vento, gli occhi mi si stavano appannando di lacrime.
«Emile! Cosa diamine è quel coso che ci sta inseguendo?!»
La moto aveva di certo superato gli 80km/h, cosa non molto saggia in un centro cittadino, eppure la belva continuava a tenerci testa senza perdere terreno.
«Non ne sono sicuro... Ma ho paura che quello sia il Leone di Nemea!» urlò Emile per sovrastare il rumore della moto.
«Beh… Qualunque cosa sia, non pare per niente amichevole!»
Certo, l’unico posto tranquillo per i semidèi era il Campo Mezzosangue, dove i mostri mitologici attratti dal nostro sangue divino non potevano entrare... Non essendo ancora mai stata importunata da questi (tralasciando il rapimento di mia madre da parte di uno Stinfalide) non mi ero resa conto di quanto potesse essere pericoloso per un semidio lasciare il Campo.
«…Tieniti forte, Thara!» Mi strinsi di più a lui mentre passava col rosso, evitando per un pelo un camioncino proveniente da destra.
«Spero che non ti tolgano la patente…» Non potei fare a meno di pensare anche alle eventuali multe che sua madre si sarebbe ritrovata a pagare.
A dispetto della situazione assurda in cui ci trovavamo, scoppiammo a ridere entrambi.
«Speriamo piuttosto di arrivare vivi a casa…» commentò lui, scartando un’altra macchina.
Grazie alla sua guida spericolata, finalmente il Leone pareva aver rallentato l’andatura per non finire la propria corsa addosso a un veicolo.
«Non possiamo continuare così per sempre!» disse Emile imprecando.
Ci eravamo allontanati dal centro cittadino, e adesso la moto sfrecciava lungo una larga strada costeggiante un parchetto col campo da calcio. Senza preavviso Emile sterzò rapidamente verso il giardino, facendomi prendere un colpo. Grazie agli dèi non c’era nessuno nei paraggi: un morto sulla coscienza era l’ultima cosa che volevo!
Il ruggito infuriato del Leone mi fece intuire che non aveva gradito il nostro cambio di rotta, gelandomi il sangue nelle vene.
«Benvenuta al West River Memorial Park, Thara!» fece lui, rallentando leggermente.
«River? Dove sarebbe il fiu…?» La domanda mi morì in gola quando vidi davanti a noi il fiume avvicinarsi a velocità vertiginosa.
Speravo che Emile sapesse cosa stava facendo, perché avevo la maledetta impressione che saremmo volati dritti dentro l’acqua se non avesse frenato o sterzato in fretta. Forse intuendo i miei pensieri, il ragazzo virò e prese a fiancheggiare il fiume.
Feci in tempo a chiedermi cosa fosse quell’ombra scura che si stava avvicinando da destra prima di realizzare che il Leone ci era piombato addosso, facendo perdere il controllo della moto ad Emile.
Urlai con gli occhi sgranati dal terrore mentre volavo al rallentatore verso il fiume, finché non entrai a contatto con l’acqua gelida e tutto divenne buio.
Dopo essermi ripresa dallo shock iniziale, trafficai con la cinghia del casco per non morire annegata. L’acqua aveva cominciato a riempirlo e non avevo più aria da respirare.
Appena lo tolsi, una mano dalla stretta sicura mi prese per il braccio, tirandomi in superficie a forza.
«Thara! Stai bene?» Emile era bagnato fradicio, con la spada di Chirone in mano e un’espressione preoccupata sul volto. Lì per lì mi chiesi se era più ansioso per lo scontro col Leone che si sarebbe svolto di lì a poco o per la sorte della moto, abbandonata al suo destino verso i cespugli del campo.
«Più o meno…» annuii con poca convinzione, tentando di riprendere fiato.
Il ruggito del Leone interruppe il nostro discorso e impallidii nel realizzare quanto grande fosse. Sarà stato alto almeno tre metri, con una fila di denti aguzzi come pugnali, una coda fiammeggiante e uno sguardo decisamente poco cordiale.
Ruggì di nuovo, avvicinandosi alla nostra postazione, e questa volta Emile non si fece intimidire, partendo all’attacco. Il Leone scartò i primi fendenti con facilità, continuando ad emettere un roco borbottio dalla gola e menando artigliate.
Mentre mi apprestavo a riportare alla forma originale di arco il mio braccialetto, pensai fosse davvero una fortuna che l’acqua dov’eravamo caduti fosse così bassa (anche se arrivava alla cinta, rallentando un po’ i movimenti) e la corrente non fosse abbastanza forte da trascinarci con sé.
«Hyaaa!!!» La spada andò finalmente a cozzare con la pelle del mostro, producendo però un clangore non molto rassicurante. Giusto, il Leone di Nemea era famoso per la sua pelle impenetrabile.
Emile sbuffò frustrato, parando una zampata  e indietreggiando.
Cercai di uscire dall’acqua mentre pensavo a una strategia di attacco per non sprecare le sei frecce contro la pelle adamantina del mostro, quando realizzai che il gorgoglio della sua gola si era fatto più insistente.
Alzai lo sguardo preoccupata e mi paralizzai nel sentire l’urlo di Emile. Il Leone aveva appena sputato una fiammata nella sua direzione, bruciandogli parte della camicia.
«…Ma il Leone di Nemea sparava fiamme?!»
«Non mi sembrava!» Eppure non c’era dubbio, quello doveva essere il Leone di Nemea.
Il ruggito fu seguito da un’altra fiammata ed Emile fu costretto ad allontanarsi verso l’acqua per cercare riparo. Io ero già uscita dal fiume e continuavo a guardarmi attorno alla ricerca di una soluzione.
Il mostro tentò un paio di agguati al ragazzo, costringendomi a usare tre frecce per deviare la sua attenzione su di me e lasciare ad Emile il tempo di riprendersi e tornare a fronteggiare il Leone.
«Non credo resisteremo a lungo se non troviamo un’idea» fece lui. Aveva ragione, mi doleva ammetterlo ma sembravamo spacciati!
Poi ricordai. Ercole lo aveva eliminato strangolandolo con la sua innumerevole forza, che noi non possedevamo, ma l’unica parte vulnerabile del corpo del mostro rimaneva sempre quella.
«… Emile, il punto debole è la bocca, mira lì!»
Non potevo essere certa che avrebbe funzionato (d’altronde il vero Leone di Nemea non avrebbe dovuto lanciare fiamme, quindi chi mi assicurava che il suo punto debole fosse lo stesso dell’originale?) ma tanto valeva provare.
“O la va, o la spacca.”
«…È una parola…!» rispose lui, parando al meglio le artigliate.
Era madido di sudore e immaginavo avesse paura di avvicinarsi troppo all’essere per la fiammata di prima. Il braccio leso doveva ancora bruciargli.
Quando il Leone ruggì nuovamente, tirai una freccia verso le fauci aperte ma il mostro la deviò coi denti e mi rivolse uno sguardo carico di odio. Ebbi l’inquietante sensazione che avesse capito il mio obiettivo e che non avrebbe più aperto la bocca senza motivo.
Cosa potevo fare per indurlo a mostrare il suo punto vulnerabile…? Mi restavano due frecce (non volevo arrischiarmi a raccogliere quelle cadute, troppo vicine alla belva) e sembravano pressoché inutili contro la bocca serrata del Leone.
«… Provo ad arrampicarmi sulla sua groppa!» mi urlò Emile.
«Ok, ma…» Già, ma a cosa poteva servire se non apriva le fauci?
Continuai a guardarmi attorno fino a quando lo sguardo non mi cadde sul tubo di plastica usato per annaffiare le piante del giardino. Forse…
Tornai a voltarmi dopo aver sentito un ruggito di protesta: Emile era inaspettatamente riuscito a saltare sul Leone! Stava tentando di rimanere aggrappato alla sua criniera mentre questo si scrollava senza sosta.
Trascinai l’irrigatore il più vicino possibile al Leone infuriato, correndo poi ad aprire la valvola dell’acqua.
«Emile? Tieniti forte e stai pronto con la spada!»
«Cosa…?»
Presi il tubo tra le mani e lo alzai verso il mostro. Il getto d’acqua fu talmente violento da travolgerlo del tutto, tanto che ebbi paura che Emile cadesse dalla sua groppa.
Il Leone cominciò a ruggire e cercò di vomitare qualche lingua di fuoco, subito spenta dall’acqua, allora tornò a divincolarsi dalla stretta di Emile.
«Maledetto… E stai un po’ fermo!» sentii urlare il ragazzo.
Tra gli spruzzi, vidi baluginare la spada alla ricerca della bocca del Leone.
«GAAAAAAAHHHH!!!» …Doveva averla appena trovata.
Buttai a terra il tubo per tornare a imbracciare l’arco. Incoccai entrambe le frecce, tirandole verso le fauci spalancate del Leone, l’elsa della spada appena visibile che spuntava dalla gola tra i fiotti di sangue.
Con un ultimo ruggito, l’animale si scrollò nuovamente in un grido di dolore, lanciando Emile nel fiume prima di scomparire in una nuvola di fumo.
«Emile!!!» urlai, correndo verso il punto in cui era caduto.
“E se fosse caduto male? E se avesse battuto la testa su un sasso sul letto del fiume?” La spinta era stata piuttosto violenta… Ma perché diamine non riaffiorava?!
Le lacrime iniziavano già a salirmi agli occhi quando finalmente la sua testa bionda apparve dall’acqua.
Gli saltai letteralmente addosso, senza lasciargli il tempo di riprendere fiato e abbracciandolo con foga.
«…Idiota!!! Mi hai fatto prendere un colpo! …Avevo paura di averti ammazzato!»
Lo sentii ridere accanto al mio orecchio.
«In effetti l’idea dell’irrigatore è stata un po’ azzardata e rischiosa…. Ma ha funzionato.»
Non ne volevo sapere di staccarmi dal suo abbraccio per non fargli vedere le lacrime sul mio viso, così lui iniziò ad accarezzarmi i capelli bagnati fino a quando non ebbi ripreso un po’ di contegno.
«…Sei stata stupenda. Ti rendi conto che siamo riusciti a sconfiggere un mostro mitologico?» In effetti, pareva molto più importante di vincere una Caccia alla Bandiera, forse anche perché c’era stata in ballo la nostra vita.
Annuii sorridendo.
«…Siamo una bella squadra.»
Il tocco di Emile si fermò per spostarsi sotto l’attaccatura dei capelli, sulla nuca, causandomi un brivido.
«…No, siamo una bella coppia.» Mi sembrò quasi che il cuore si fosse fermato.
Sciolsi l’abbraccio per poterlo guardare negli occhi e capire se aveva realmente detto ciò che avevo sentito.
Incontrai lo sguardo e il sorriso più dolci del mondo, perché sì, avevo capito bene.
«Thara… Mi piaci da impazzire.»
Aveva tentato di dirmelo molte volte e in tanti modi e finalmente ci era riuscito, ma soprattutto, finalmente io ero pronta a dare una risposta. Ormai ne ero sicura, lo sapevo già la prima volta che mi aveva fatto da istruttore al tiro con l’arco, quando le sue braccia avevano cinto le mie. Quando lo avevo curato e quando era venuto a proteggermi, nonostante tutto, durante la Caccia. E ancora, in camera sua e la sera prima, quando mi aveva dato la buonanotte.
Ero totalmente innamorata di Emile.
Non aveva senso dare una risposta a parole, quindi lasciai i miei soliti freni inibitori, decisa a fregarmene di tutto, e lo baciai.
…In realtà non avevo mai baciato nessuno prima, non ero troppo sicura della tecnica da adottare, ma nello stesso momento in cui le mie labbra toccarono quelle di Emile capii che non c’era bisogno di farsi tutte quelle domande.
Ero con Emile, tra le sue braccia, consapevole del suo corpo contro il mio e delle sue mani calde sul mio bacino. Null’altro mi importava che sentire le sue labbra avide sulle mie, forse inesperte ma altrettanto bramose.
Ci staccammo brevemente per concederci una risata di gioia e lui mi baciò sulla punta del naso.
«Sei la cosa più bella che mi sia capitata.»
Lo baciai ancora sulle labbra, inebriata da questo nuovo tipo di contatto fisico, prima di rispondere.
«…Non dovrei dirlo prima di aver riabbracciato mamma ed Eleuse, ma… Sono quasi felice che sia iniziata tutta questa storia, perché mi ha permesso di incontrarti.»
«Oh Thara…» Quando posò la fronte sulla mia chiusi gli occhi, assaporando la sua voce. «…Finirà tutto bene. Ne sono certo.»
Strinsi di più le braccia attorno a lui, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo per  nascondere il rossore delle guance.
«Grazie per essere sempre al mio fianco, Emile.»
Mi abbracciò forte, cullandomi.
Stava per sussurrarmi qualcosa all’orecchio, ma un misterioso bagliore di luce al nostro fianco attirò la mia attenzione.
«Oh, ehm… Capito al momento sbagliato?» Il mezzobusto di Chirone galleggiava sull’acqua accanto a noi grazie alla magia dell’Iride-phone.
Io ed Emile ci allontanammo quel tanto che bastava per avere un’aria composta, rimanendo però mano nella mano.
«No, no…  È successo qualcosa?» rispose Emile, più pronto di me.
Il centauro annuì con aria grave.
«Dovete subito tornare al Campo, sembra che sia troppo rischioso uscire dalle sue barriere protettive. I mostri si sono fatti più forti. Piuttosto… Stavate cercando refrigerio dall’afa estiva?» ci chiese con un sopracciglio alzato. Eravamo stati così presi dai nostri sentimenti da dimenticarci di uscire dal fiume, dovevamo apparire ridicoli ammollo nell’acqua, con i vestiti e i capelli fradici!
«Abbiamo incontrato un mostro e…»
«…È stata una battaglia un po’ travagliata» conclusi con un mezzo sorriso.
«Capisco» disse Chirone, accondiscendente. «A maggior ragione, vi consiglio di tornare il più presto possibile. Il permesso di 72 ore vi è stato revocato, dovete essere al Campo per stasera al massimo.»
Annuimmo all’unisono, salutandolo. Non era nemmeno ora di pranzo, darci un lasso di tempo così lungo per tornare era stato molto gentile ‒anche se un po’ sconsiderato per la nostra incolumità‒ da parte sua. Probabilmente aveva intuito qualcosa, notando le nostri mani intrecciate.
Una volta scomparso Chirone in una nuvola arcobaleno, io ed Emile scoppiammo a ridere uscendo dal fiume.
«Sembra che non vogliano lasciarci in pace!» mormorai tra le lacrime, aggrappandomi a lui.
«Però una cosa buona c’è… Abbiamo un po’ di tempo per noi.» Lo disse con la sua voce provocante e l’espressione maliziosa che mi ricordava il tempo passato all’infermeria dopo quel bacio sulla guancia.
«Uhm… Prima dovrei medicarti la bruciatura» feci, accarezzando il suo braccio destro.
Il sorriso si allargò sul suo volto e mi domandai se avessi forse detto qualcosa di provocante.
«Hai ragione… A proposito, ti ho accennato che mamma non sarà a casa prima delle 17, oggi?» sussurrò al mio orecchio, abbracciandomi.
Avvampai all’istante all’idea di noi due da soli a casa sua. Per un attimo ripensai alle parole di Martha e l’idea di fermarmi in farmacia non mi sembrò così assurda, poi tornai alla realtà.
«Sempre a fare lo scemo tu…» dissi, ma lo baciai premendomi contro di lui.
Emise un sospiro.
«Tu mi farai morire, credi a me…» Lo guardai senza capire mentre si allontanava con un sorriso, per andare a recuperare la moto.
Per fortuna aveva finito la sua folle corsa contro un cespuglio e non era ridotta poi così male, escludendo qualche graffio e un po’ di fango. Non sapevo quanto l’avesse danneggiata la volta precedente ma di sicuro adesso se l’era cavata bene.
Presi i caschi abbandonati vicino al fiume e mi accostai ad Emile
«Ora sì che avremo freddo…» borbottò, alludendo agli abiti bagnati. Se avessi saputo che ci saremmo ridotti in questo stato, avrei optato per i jeans piuttosto che rovinare il vestito.
Saltai in sella dietro di lui, cingendogli la vita.
«Resisti, pensa alla doccia calda che faremo a casa!» Mi accorsi troppo tardi di come la mia frase potesse sembrare una proposta sexy.
Lo sentii ridere dentro il casco, le spalle scosse dal freddo e dalle risa.
«Uh uh… Mi piace come idea… Se intendi dire di farla assieme allora preparati a varcare l’uscio in meno di cinque minuti!»
Battei i pugni sulla sua schiena ma tornai subito ad aggrapparmi a lui quando mise in moto.
Inutile dire quanto il rossore al volto avesse già provveduto ad innalzare oltre il necessario la mia temperatura corporea.
---
«Piccola? … Siamo arrivati.»
Il dolce sussurro di Emile e il suo bacio mi svegliarono dallo stato di torpore in cui ero caduta.
Dovevo essermi addormentata quasi subito nel taxi, perché ricordavo qualche strascico di discorso e l’abbraccio rassicurante di Emile, dopo c’era stato soltanto un calore piacevole.
Scesi dalla vettura ancora un po’ intontita, mano nella mano con lui, e ci dirigemmo verso la foresta alla ricerca dell’ingresso del Campo Mezzosangue.
«Avrei voluto avere più tempo…» si lamentò, attardando il passo alla vista della barriera e stringendomi più forte a sé.
Riflettendoci, come ci saremmo dovuti comportare al Campo? Avremmo potuto continuare a stare vicini come adesso, ignorando le occhiate sospettose di alcuni nostri fratelli, o avremmo dovuto fingere, vivendo una “storia clandestina”?
Questi pensieri mi causarono una sensazione spiacevole all’altezza dello stomaco, quindi decisi di lasciar cadere il discorso.
«Io non potrei desiderarne di più, Chirone è stato già troppo buono.»
Lo sguardo che mi lanciò Emile mi fece arrossire.
«…Vuoi dire che ti sarebbe dispiaciuto stare ancora un po’ a casa mia? …Nella mia camera?» Si avvicinò al mio orecchio. «…Nel mio letto?»
In realtà la descrizione più appropriata sarebbe stata “SUL mio letto”, ma non glielo feci notare. Nascosi il volto nella sua maglietta e gli assestai uno schiaffetto sulla spalla.
«Ovvio che mi sarebbe piaciuto, scemo...»
Ridacchiò debolmente, avvicinando il suo viso al mio per cercare le mie labbra.
Era stata davvero una bella giornata, non potevo negarlo… Una volta tornati a casa, avevo convinto Emile a rendere presentabile la moto mentre mi facevo la doccia e, dopo essersi lavato a sua volta, si era arreso all’idea di farsi medicare la bruciatura prima di fare alcunché. Poi… Beh, poi tutto era intriso del profumo di Emile, delle sue carezze e dei suoi baci. Avevamo passato il pomeriggio accoccolati sul suo letto, raccontandoci qualche aneddoto di quando eravamo piccoli o del Campo, anche se la maggior parte del tempo eravamo semplicemente rimasti abbracciati a baciarci. La verità è che sarei rimasta volentieri in quella stanza, dimenticandomi di tutto e di tutti.
«…Piccioncini?» Una vocina invadente che ben conoscevo mi riportò al presente, urlando al di là della barriera.
Sospirai scrollando la testa, senza avere la forza di lanciare un’occhiataccia a Martha: ed ecco che l’ipotesi della “storia clandestina” e di un po’ di riservatezza per me ed Emile andava in fumo. Quanto ci sarebbe voluto, prima che l’intero Campo venisse a conoscenza della nostra relazione?
Lui la salutò piuttosto allegro, trascinandomi per mano verso il Campo.
«Scusate, non volevo interrompervi ma il Signor D. si stava spazientendo…» disse mia sorella, sinceramente dispiaciuta.
«Figurati… Ehm, magari la prossima volta però evita di urlare quella parola ai quattro venti quando ci vedi…» cercai di obiettare.
«Quale? “Piccioncini”?» …Senza risultati.
Emile rise, abbracciandomi.
«A me non dà fastidio! Adesso ho te, perché dovrebbe importarmi di essere preso in giro dai miei fratelli?»
Abbassai lo sguardo imbarazzata quando mi baciò sulla guancia.
«Uff… È solo una questione di discrezione.»
Martha mi sorrise.
«Oh, ma tanto lo avevano capito già tutti che vi piacevate! Non siete tanto bravi a dissimulare i vostri sentimenti.»
Ora era il mio turno di ridere. Come se Emile avesse mai cercato di dissimularli!
«…E va bene! Adesso però sarà meglio andare da Chirone a fare rapporto.»
Emile convenne con me e ci allontanammo assieme, lasciando una Martha felice come una pasqua a saltellare vicino alla barriera.
 
Il colloquio con il centauro era sembrato un vero e proprio interrogatorio. Fino all’ora di cena eravamo rimasti a rispondere alle sue domande, raccontando per filo e per segno quello che era successo da quando avevamo messo piede a New Haven.
Alla fine, io ed Emile avevamo deciso di non rivelare il dettaglio della profezia. Se Eleuse non l’aveva fatto doveva aver avuto i suoi motivi e noi ci fidavamo di lei, quindi perché avremmo dovuto dirlo?
Dopo aver mangiato coi miei fratelli (ed essermi sorbita pure le occhiate maliziose di Martha e quelle diffidenti di Raven, alleviate solo dal supporto morale di Loren), andai direttamente in camera, seguita a distanza da Emile. Mi ero appena adagiata sul letto, distrutta dalla giornata faticosa, quando lui entrò socchiudendo piano la porta e venendosi a sedere accanto a me.
«È stato un giorno pieno di emozioni, eh?» disse in tono affabile, carezzandomi il viso.
Posai la mano sulla sua e gli sorrisi.
«Decisamente! Diciamo che credo di essere a posto per un bel po’…» Purtroppo non avevo dimenticato che trascorsa una settimana, volenti o nolenti, saremmo dovuti tornare da Kimon per andare a salvare Eleuse e mamma. In effetti, non avevamo detto nemmeno questo particolare a Chirone.
Emile si chinò a baciarmi e dopo poco si stese al mio fianco. Il suo cuore risuonava come una dolce melodia sotto la mia mano…
«…Come riuscirai a filartela da questa stanza senza farti notare?» gli chiesi, sottovoce.
«Mmm, pensavo di andarmene di soppiatto una volta che ti fossi addormentata… Potrei uscire dalla porta a notte fonda e…» Con le dita cominciò a mimare dei piccoli passi sul mio braccio «… Scivolare lungo il corridoio buio e poi aprire piano piano il portone…» Le dita si spostarono dolci verso il mio collo. «…Per correre verso la mia Casa.» Avvicinò le labbra dove prima mi aveva accarezzato, deponendo una serie di baci che mi fecero ridere per il solletico.
«Uh uh… Allora spero tu riesca a non farti beccare da quelli di guardia! Non so quanto siano indulgenti riguardo le infrazioni del coprifuoco…»
«Ehi, ho detto che me ne andrò solo una volta che ti sarai addormentata! Ma non credo lo farai molto presto…»
Sorrisi stretta nel suo abbraccio, decisa a godere di tutta la felicità donata da quel piccolo momento d’intimità.
Relegai i problemi in un cassetto della mia mente: avevo ancora a disposizione sette giorni da passare senza troppe preoccupazioni. Di certo non potevo immaginare che proprio la notte, il periodo della giornata in cui cercavo rifugio per rilassarmi, sarebbe diventata la mia maggiore fonte di angosce assieme ai sogni, in quei sette giorni.
 
 
 
---
Nota dell’Autrice:
Ciao a tutti! Piaciuto il capitolo? :) Insomma... Finalmente questi due poveri ragazzi si sono dichiarati!!! XD
Bene bene, pensavo di condividere con voi qualche disegno partorito durante la stesura della storia.


Emile e Thara ripresi durante il loro volo al rallentatore verso il fiume. Lo so, nella storia hanno i caschi, ma disegnando ho preferito l'effetto swissh dei capelli, rendono meglio l'idea!;) Ah... Ecco cosa stava realmente pensando Emile, altro che Leone!X'D


Thara ed Emile dopo essersi dichiarati... Li trovo così dolci. :')


...E ancora, un'altro disegno di loro due. (E' una mia impressione o sembrano più grandi?)
 
Remiel

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Capitolo 14
*** Cap. 12 - Minuetto ***


[A Dream Within A Dream - The Glitch Mob]
[Falling Inside the Black - Skillet]
[The Pure and the Tainted - Blue Stahli]
 
«…Cithara, ti senti bene? Sei pallida.»
Raven aveva smesso di battere il tempo per la banda quando si era accorto che non stavo suonando, e mi si era avvicinato con aria preoccupata.
«Scusa, mi gira un po’ la testa… Ma sto bene.»
Non era affatto vero, stavo da schifo. La mia occhiata apatica dovette allarmarlo, perché mi mise una mano sulla fronte per controllare se avessi la febbre.
«Non sembri calda ma… Senti, lascia perdere le prove per oggi e vai a riposare, ok?»
Annuii senza obiettare, misi nella custodia il violino e lasciai la stanza dopo aver salutato con un cenno i miei fratelli.
Il caldo vento estivo mi investì una volta fuori dall’edificio, facendomi desiderare una bella rinfrescata sotto la doccia.
Cosa mi stava succedendo?
Erano almeno tre notti che non riuscivo a dormire decentemente, tutti i miei sogni sembravano popolati da incubi che al risveglio mi lasciavano una sensazione orrenda. Non riuscivo a ricordare i dettagli e, anzi, per la maggior parte delle volte si trattava solo di immagini molto confuse, ma sentivo l’inspiegabile urgenza di provare a tenerli a mente. Avevo tentato con un sonnifero naturale a base di valeriana, senza nessun risultato, e la tensione di tutte quelle notti insonni si stava facendo sentire.
…Stavo impazzendo.
Sospirai rumorosamente, imboccando il corridoio verso la mia stanza. Quando ero entrata nella Casa numero sette? Avevo addirittura fatto le scale senza accorgermene…!
Posai lo strumento sopra la scrivania, accanto al libro sui mostri mitologici preso in prestito da Loren e, quando lo sguardo mi cadde sulla pagina aperta sul Leone di Nemea, aggrottai le sopracciglia. Emile aveva ragione, sembrava che le fiammate sparate dal felino non fossero previste, visto che non erano menzionate in nessuno scritto.
Mi sedetti sul letto con prudenza, per via del giramento di testa, e aspettai un poco prima di coricarmi.
Avevo il terrore di rivivere ancora quei sogni senza senso o  di scoprire che non sarei più riuscita a dormire serenamente. Era una paura stupida, lo confesso, eppure era più forte di me: cadere nel panico per una situazione sulla quale non ho il controllo fa parte del mio essere.
Provai a chiudere gli occhi e ignorare la luce che filtrava dalle tende, inspirando profondamente.
Il mio ultimo pensiero cosciente fu per Emile, il primo (per ovvi motivi) ad accorgersi del mio indebolimento di quei giorni. Era stato tutto così repentino, e pensare che mancava poco a quando saremmo dovuti andare da Kimon! Non era davvero il momento di abbandonarsi alla stanchezza…
Il sonno arrivò all’improvviso e tutto divenne buio.
 
L’aria aveva qualcosa di stantio, così come la stanza incavata nella roccia, pregna di umidità, e la luce debole delle candele che tremolava, minacciando di spegnersi da un momento all’altro.
Avanzai di qualche passo nell’oscurità, incerta, con le mani dritte davanti a me, finché non incontrai la fredda superficie della pietra. “Dove sono…?”
Un rantolio alle mie spalle mi fece rabbrividire e mi voltai di scatto. Adagiate per terra c’erano delle figure femminili; quelle di cui riuscivo a scorgere il volto sembravano piuttosto sofferenti.
Mi avvicinai per osservarle meglio e notai che i polsi e le caviglie delle donne erano ancorate al muro tramite delle catene che emanavano un bagliore sinistro. Non dovetti dar loro un’altra occhiata per capire che si trattava di manette intrise di magia.
Contai rapidamente le sagome femminili: uno, due, tre… erano otto in tutto. Possibile che fossi finita nel luogo dove tenevano prigioniere le donne rapite?
Il cuore prese a battermi forte mentre mi abbassavo all’altezza dei loro visi, cercando quello di mia madre. Lo trovai.
I lunghi capelli ebano, mossi come i miei, le cadevano scomposti davanti agli occhi. Aveva il volto emaciato e teneva il braccio attorno alle spalle di un’altra prigioniera più giovane che le si era accoccolata accanto per trovare conforto.
«Mamma!!! Mamma, sono io!» urlai, cercando di abbracciarla. Rimasi atterrita quando vidi che le mie braccia le stavano passando attraverso. Sembravo aver preso la consistenza di un fantasma.
«Mamma… Puoi sentirmi almeno?» mormorai speranzosa, provando anche a scuotere una mano davanti ai suoi occhi.
Le sue iridi ambrate non diedero segno di avermi vista e rimasero annebbiate, rivolte verso il pavimento. Tirando su col naso, portai le mani al viso per asciugare le lacrime che avevano iniziato a scorrere copiose. Le ero così vicina ma non potevo fare niente per farle sentire la mia presenza…! Mi sentivo dannatamente impotente.
Un lampo di luce illuminò per un secondo la stanza e un brivido gelido percosse la maggior parte delle prigioniere, mentre dei passi lievi riecheggiarono nell’aria.
«…Vi siete decise a parlare?» La voce femminile della nuova arrivata suonava fredda e aggressiva. Non riuscivo a vederla in viso, ma mi parve di distinguere un bagliore rosso nella penombra.
Fu mia madre a parlare.
«Anche se sapessimo dove si trova, non te lo diremmo mai! Non riuscirete nel vostro intento.»
Ero totalmente rapita dal barlume di determinazione negli occhi di mia madre, non l’avevo mai vista con un’espressione così determinata.
La donna rise sarcastica, portandosi la mano davanti alle labbra.
«…Devo dire che mi colpisce la tua caparbietà, Ca… No, aspetta. Com’è che ti fai chiamare adesso…? …Ah giusto, Lynette. Proprio un bel nome, si riferisce forse al Linnet, il Fanello, uccellino canterino? Trovo che ti doni!»
Lo sguardo di mia mamma s’indurì.
«Vi fermeranno.»
«Ancora con questa storia? Guarda in faccia la realtà. Nessuno sa nulla. Nessuno verrà a liberarvi.» La donna prese un respiro profondo. «…E nessuno potrà fermarci. Il piano è già stato messo in atto.»
Mia madre non rispose e le altre prigioniere non sembravano intenzionate ad aprir bocca.
«Nem? Quei due ti hanno detto qualcosa?» Non mi ero accorta della presenza di un’altra figura alle spalle della nuova venuta fino a quando  non si rivolse a lei.
Anche questa era una donna, avvolta da un lungo abito nero che la rendeva quasi invisibile nell’oscurità della stanza. Alla domanda dell’altra, scosse la testa.
«Niente di sicuro, ma sono sulle sue tracce. Dovrebbero essere in grado di portarla qui entro la luna piena.» A differenza della prima, la voce della donna nell’ombra era più grave, con una nota di mestizia.
L’altra sorrise compiaciuta.
«Visto? Tutto procede secondo i piani. Ovunque si sia nascosta la prenderemo e completeremo il rituale.»
Si allontanò verso quello che mi pareva uno specchio a figura intera dalla superficie acquosa e si voltò un’ultima volta.
«Buonanotte, uccellino!» Poi, con un lampo, lei e la donna nell’ombra passarono attraverso lo specchio e la stanza ripiombò nell’oscurità.
Il sospiro provato di mia madre mi strinse il cuore.
«…Secondo te abbiamo davvero qualche possibilità di sventare i loro piani?» le chiese la ragazza di fianco a lei, quella stretta nel suo abbraccio protettivo.
«Sono certa che ci troveranno. Non sono stupidi sull’Olimpo, non lasceranno che le cose si compiano, creerebbero problemi anche a loro.»
La ragazza annuì, leggermente rincuorata, e tornò a poggiare la testa sulla spalla di mia madre.
Sembrava che si conoscessero, eppure non riuscivo a ricordare di aver mai visto quel volto…
La stanza intorno a me cominciò a tremolare, i contorni si fecero più labili.
«Mamma….!» Allungai la mano verso di lei, tentando per l’ultima volta di attirare la sua attenzione. Questa volta alzò lo sguardo nella mia direzione e mi sembrò consapevole della mia presenza.
Durò solo un attimo.
 
Mi svegliai di soprassalto. “Solo un sogno, era solo un sogno” continuavo a ripetermi, ma ormai non ne ero più tanto sicura.
Se quella che avevo avuto era una visione reale, allora c’era da preoccuparsi. A quanto avevo capito, mancava solo una donna all’appello e tra pochi giorni i rapitori avrebbero avuto campo libero nell’attuazione del loro piano. Il problema era che ancora non avevo la più pallida idea di cosa intendessero fare.
Almeno mamma stava bene… Eleuse però non era con lei, e questo pensiero mi provocò una fitta allo stomaco. D’altro canto, potevano averla imprigionata da qualche altra parte, se era stata catturata…
Scossi la testa. Forse ero semplicemente troppo stanca e la mia mente aveva sublimato i brutti presentimenti in quel sogno molto vivido, simile a una visione. Mi ripromisi di chiedere a uno dei miei fratelli se fosse possibile per un semidio avere dei sogni premonitori o cose del genere, tanto più se figlio di Apollo, il dio dei grandi Oracoli.
In quel momento Emile aprì di soppiatto la porta della mia stanza dopo aver bussato.
«Oh, sei sveglia? …Come stai? Raven mi ha detto che avevi una brutta cera alle prove.»
Sorrisi mentalmente: da quando stavo con Emile, tra lui e mio fratello si era stabilita una sorta di tacita tregua. Certo, continuavano a scambiarsi battutine acide e occhiate torve di tanto in tanto, ma non si erano più sfidati apertamente e tentavano di mantenere un atteggiamento di neutra tolleranza.
Emile si sedette sul letto, affianco a me, accarezzandomi i capelli lentamente, come se avesse paura che potessi spezzarmi sotto il suo tocco. Posai la testa sul suo petto e lo abbracciai.
«Non preoccuparti, sono solo un po’ stanca… Non ho dormito molto bene le ultime notti.» L’ultima volta che mi era stato concesso un sonno ristoratore era stato quattro giorni prima, quando eravamo tornati dalla missione.
Alzai lo sguardo su Emile e sorrisi, vedendolo accigliarsi.
«…E prima che tu possa dire qualcosa, no, non è assolutamente colpa tua! Anzi, la tua presenza mi tranquillizza, dovresti saperlo.»
Anche la sua espressione si distese e mi rivolse un timido sorriso rassicurato.
«Ne sono felice.» Quando si chinò a baciarmi, rimase qualche secondo a fissarmi negli occhi. «Thara… Se hai un problema sentiti libera di parlarne con me. Vorrei poterti aiutare…»
Socchiusi le palpebre e rabbrividii leggermente al ricordo di mia madre in catene, costretta in quella grotta buia.
«…Lo so. Grazie, Emile» dissi, rispondendo al suo bacio con dolcezza. Non ero ancora pronta a rivelare a qualcuno del sogno, perché volevo convincermi che fosse solo frutto della mia fantasia.
«Che ore sono?» gli chiesi, cambiando argomento.
Lui mi sorrise.
«È ora di cena. Gli altri ti hanno tenuto il posto al vostro tavolo, come al solito. Erano preoccupati perché non ti avevano più vista da dopo le prove ma non volevano venire a svegliarti, così hanno chiesto a me.»
Immaginavo che Martha c’entrasse qualcosa con la delega ad Emile, doveva aver convinto lei Raven a raccontargli di oggi pomeriggio.
«Allora andiamo, non vorrei farli aspettare!»
Lo presi per mano e uscii dalla stanza assieme a lui, lasciandomi alle spalle quel brutto sogno.
 
La cena fu piuttosto tranquilla, e con la pancia piena le sensazioni sgradevoli della visione mi parvero più lontane. Avevo rassicurato Martha, Loren e Raven sulle mie condizioni di salute e adesso stavo tornando verso la casa di Apollo con Emile.
«Oggi vai a letto presto, mi raccomando.» Sorrisi.
«Va bene, papà.»
Emile si mise  a ridere, stringendomi di più a sé.
«Ehi, non sto scherzando! Hai bisogno di riposo…»
Avevo troppa paura di tornare a sognare mia madre... Nascosi il viso nella sua maglietta con un sospiro.
«…Solo se rimarrai con me fino a quando non mi sarò addormentata.»
Le dita di Emile presero ad accarezzarmi dolcemente i capelli.
«Ma certo.»
Chiusi gli occhi, assaporando la brezza estiva.
«…Ti dispiace se prima di andare in camera ci sdraiamo un po’ sull’erba?» Avevo bisogno di aria fresca, un cielo stellato e la presenza di Emile al mio fianco. Con lui accanto a me, tutto il resto perdeva di significato.
Emile annuì e ci adagiammo supini su uno spiazzo d’erba, lontano dai rumori del Campo. Lasciai cadere la testa sul suo petto, socchiudendo gli occhi.
«…So che sei tesa, ma non devi avere paura» disse lui, dopo avermi baciato i capelli. «Ti proteggerò a qualunque costo e torneremo tutti a casa.»
Era proprio quello che mi preoccupava…! Quel “a qualunque costo”. La profezia parlava di un qualcosa che sarebbe andato perduto, e avevo la terribile sensazione che potesse benissimo trattarsi di una persona.
Non potevo sopportare di perdere Emile, mia mamma o Eleuse… Era un’idea inconcepibile.
«Lo so, Emile… Solo, non voglio che tu faccia follie.»
Lui mi sorrise in modo dolce, e a un tratto arrossì.
«Thara… Io ti amo. Sarò all’antica, ma non permetterò che ti sfiorino, nemmeno con un dito.»
Nella penombra della sera ero arrossita anch’io, perché era la prima volta che Emile pronunciava quelle parole. Aveva sempre detto “Mi piaci moltissimo, mi fai impazzire”… Mai “Ti amo”.
Lo baciai, un po’ intimidita, e sorrisi a mia volta.
«… Anch’io ti amo.»
Il suo volto s’illuminò e mi abbandonai tra le sue braccia, dimentica di tutto, venendo completamente avvolta dal suo profumo. Intorno a me, il mondo divenne buio.
 
Ero sdraiata su qualcosa di scomodo e freddo. Sbattei le palpebre un paio di volte, prima di aprirle e realizzare di essere sulla panchina di un parco.
Mi guardai attorno spaesata: l’ultima cosa che ricordavo era di essere sull’erba accanto a Emile, come avevo fatto a uscire dal Campo?
Mentre facevo queste considerazioni, realizzai che c’era qualcosa che non andava nei miei occhi. Riuscivo a vedere ma le cose mi apparivano come sfocate, dai contorni evanescenti, e in un attimo capii di essere di nuovo in un sogno e seppi che era diverso da quello in cui avevo visto mia madre. Lì i profili erano ben definiti e avevo osservato i fatti nello stesso momento in cui stavano avvenendo, mentre adesso… Avevo la certezza che si trattasse di un sogno premonitore e che tutto dovesse ancora accadere.
L’ansia della consapevolezza di poter cambiare il futuro mi prese il petto in una morsa, spingendomi a guardarmi nuovamente intorno per recuperare qualche indizio. Dove mi trovavo?
Un grande orologio che  torreggiava su di un palo segnava le 22:43 e mi stupii del fatto che il parco fosse totalmente deserto a quell’ora. In alto, una pasciuta luna piena brillava sinistra: doveva essere il giorno del plenilunio, quello in cui io ed Emile saremmo dovuti andare da Kimon.
Mi mossi circospetta sui ciottoli, cercando di fare meno rumore possibile. In teoria nessuno avrebbe dovuto potermi vedere, ma la prudenza non era mai troppa.
Il silenzio era innaturale, come se non aspettasse altro che di essere spezzato. Avanzai ancora qualche passo nell’ombra, verso la fine del parco, fino a trovare una targhetta di bronzo.
Aguzzai gli occhi per leggere: delle lettere in corsivo recitavano la scritta “Seward Park”. Ero passata qualche volta in quel parco con mia madre!
“Bene, adesso so che siamo a New York” pensai, troppo timorosa di esprimere qualcosa ad alta voce.
A un tratto, il silenzio venne riempito da un suono, prima lontano e poi sempre più insistente, di zoccoli e ruote.
“Cavalli..?!”
Il rumore era tutto attorno a me, come un rombo, non aveva una provenienza precisa.
Mi guardai alle spalle, improvvisamente conscia che qualunque cosa stesse producendo quel frastuono sarebbe spuntata da lì, e vidi ‒come al rallentatore‒ una sagoma di donna sbucare tra gli alberi, inseguita da quello che sembrava un carro trascinato da quattro cavalli neri espiranti fiamme dalle narici.
Quasi urlai dal terrore quando questi presero a venire verso di me, la donna sempre in testa che correva a  perdifiato, voltandosi di tanto in tanto per constatare che la distanza tra lei e gli inseguitori stava pericolosamente diminuendo.
«Aha, è inutile che scappi mia cara, ormai ti abbiamo in pugno!» urlò uno dei due uomini sulla biga, quello più magro. Un minaccioso bagliore rosso scaturiva dai suoi occhi ed ebbi la sensazione che, se lo avessi guardato troppo a lungo, sarei potuta essere ingoiata da quelle pupille inquietanti.
L’altro, un omone enorme dalle fattezze di un marines dei film d’azione, guidava i cavalli ridendo in modo sguaiato, come se il fatto di inseguire una povera donna indifesa lo eccitasse.
Il gruppo mi raggiunse passandomi attraverso, proprio come quando avevo provato ad abbracciare mamma nella visione, e continuò la propria corsa ancora per poco. La donna inciampò con un grido e i due le furono addosso in un attimo, caricandola sul carro e mettendola a tacere con un colpo ben assestato dietro la nuca.
Il cocchio ripartì a una velocità sovrumana, lasciando dietro di sé una scia di polvere.
Il parco sprofondò nuovamente nel silenzio.
---
Dopo essermi svegliata dal sogno premonitore, non ero più riuscita a riposare. Avevo passato le restanti ore a fissare il soffitto della mia camera ‒dove probabilmente mi aveva portata Emile, in braccio (ancora arrossivo al pensiero e all’idea che qualcuno potesse averci visto)‒ e ora avevo gli occhi cerchiati dall’ennesima nottata insonne.
Avevo intenzione di correre da Emile per raccontargli tutto e chiedere aiuto, ma dovetti aspettare dopo colazione per potergli parlare con calma.
«Cithara… Stai bene? Sei ancora più pallida di ieri» mi chiese Raven, decisamente preoccupato.
Elusi la domanda con un sorriso e un cenno del capo.
«Sono solo un po’ stanca, tutto qui.»
Lui non insistette, ma per il resto della colazione continuò a lanciarmi occhiate circospette di sottecchi.
 
«Ehi bella addormentata, ti sei riposata un po’?» fece Emile, portando un braccio attorno alla mia vita.
«Scusa per ieri sera, credo di essermi addormentata su di te…»
Lui ridacchiò.
«A quanto pare ho un effetto soporifero o qualcosa del genere, perché quando ti sei poggiata a me sei quasi svenuta! …Se è servito a farti dormire, però, sono contento.»
«Ecco, in realtà…»
Gli raccontai del sogno.
Mentre scendevo nei dettagli, Emile assunse un’espressione pensierosa. Annuiva di tanto in tanto, passandomi una mano distratta tra i capelli.
«…Penso di aver intuito chi sono quei due sulla biga, ma non capisco perché dovrebbero essere invischiati in questa faccenda» disse infine, cadendo in un mutismo che non era da lui.
«Secondo te cosa dovremmo fare?»
Sapevo già quale sarebbe stata la sua risposta.
«...Andare a Seward Park.» Aveva omesso di dire “da soli, di sera, uscendo senza permesso dal Campo”. Chissà perché, avevo la sensazione che Chirone non ne sarebbe stato affatto contento.
«E da lì riusciremo ad arrivare da Kimon in tempo?» Era piuttosto ovvio che usando i mezzi convenzionali non ne saremmo stati in grado.
Emile mi rivolse un sorriso enigmatico, forse un po’ sarcastico.
«Sono sicuro che sarà lui a venire da noi. Mi era sembrato abbastanza annoiato e volenteroso di aiutarci, l’altra volta… Sì, verrà lui.»
Non capivo perché fosse così certo, ma l’alternativa era di lasciare la donna al suo destino e addentrarci negli Inferi senza un piano. Magari, se fossimo riusciti a salvarla o catturare uno degli inseguitori, avremmo potuto sapere qualcosa in più sui piani di Ade… Sempre che si trattasse di lui. Dopo le visioni iniziavo a nutrire qualche dubbio.
Sospirai, abbandonando la testa sulla spalla di Emile.
«Spero tu abbia ragione.»
Restammo per un po’ così, in silenzio, seduti di fronte al laghetto in cui erano solite specchiarsi le figlie di Afrodite, finché lui non riprese a parlare.
«Alla fine sarebbe domani sera.»
«Già.» Non avevo la più pallida idea di come saremmo riusciti a sgattaiolare fuori dal Campo senza farci scoprire.
«…Devo andare a completare i preparativi, allora» disse, alzandosi con aria assorta. Aveva in mente qualcosa. «Tu non strafare, ci vediamo a pranzo!» concluse infine, schioccandomi un bacio sulla fronte e lasciandomi da sola a pensare.
 
Nonostante la stanchezza, l’idea di rimanere con le mani in mano non mi allettava per niente, quindi avevo deciso di esercitarmi un po’ col tiro con l’arco prima di rilassarmi suonando il violino.
Finalmente riuscivo a padroneggiare l’arma con destrezza: le frecce colpivano tutte il bersaglio e le braccia non si intorpidivano più così facilmente. Non brillavo di certo per potenza (i dardi scagliati da me non penetravano a fondo nell’obiettivo, come quelle di Raven o Loren), ma avevo acquisito una certa velocità nell’incoccare la freccia e prendere la mira. Speravo che queste mie abilità sarebbero potute tornarmi utili contro i due tipi del carro, anche se non sarei stata al massimo delle mie capacità.
Per suonare il violino decisi di rifugiarmi in camera, lontano da tutto. Lasciai libero sfogo alle emozioni, premendo i polpastrelli fino a sentirli pulsare e rimanere senza fiato per il bruciore.
“Posso farcela… Ho Emile, noi due insieme possiamo farcela” continuavo a ripetermi per calmare il battito del cuore, che minacciava di impazzire ogni volta che pensavo a cos’avremmo fatto una volta salvata la donna e raggiunti gli Inferi. Se fossimo riusciti a salvare la donna.
Scossi la testa, sedendomi davanti alla scrivania con un sospiro. Dovevo smetterla di preoccuparmi a quel modo o, una volta davanti al pericolo, avrei ceduto al panico senza sapere cosa fare.
Il ramoscello d’alloro, regalatomi da Raven in segno di benvenuto dopo che avevo accettato di far parte della banda, giaceva sul tavolo, ormai quasi rinsecchito. Lo accarezzai dolcemente, attenta a non staccare le fragili foglie accartocciate, iniziando a intonare un motivetto a labbra chiuse.
“Padre… Non ti ho mai chiesto nulla in particolare, ma adesso… Ti prego, dammi la forza di tornare vittoriosa.”
La Melodia che stava prendendo forma mi risultava estranea, eppure, sentivo di conoscerla in qualche modo. Come se fosse intrisa del mio essere e scorresse da me, in un flusso di note che spingevano prepotentemente dalla gola per venire alla luce. Per essere liberate.
Chiusi gli occhi, continuando a carezzare l’alloro, il flebile motivetto che cresceva d’intensità fino a diventare una vera e propria canzone, e delle parole s’insinuarono nella musica.
 
«Melo̱día,
Óla eínai éna kai éna eínai óla
I̱ zo̱í̱ mou, i̱ zo̱í̱ sas.
To rév̱ma roí̱ mésa sto Sýmpan,
af̱thórmi̱ti̱.
Epistrofí̱ sto Néa Zo̱í̱.»
♫♪♫
 
Sapevo che dovevano suonare qualcosa come:
“Melodia,
Tutto è Uno e Uno è Tutto
la Mia Vita, la Tua Vita.
Il Flusso scorre nell'Universo,
spontaneo.
Torna a nuova Vita.”
…Ma cosa significavano?
Riaprii gli occhi, improvvisamente spossata, per trovarmi davanti a uno spettacolo sconcertante.
L’alloro era tornato verde e rigoglioso come appena tagliato dall’albero, c’erano addirittura alcune gemme di foglie nuove, appena nate.
 
Ero rimasta imbambolata a fissare il ramoscello d’alloro per non so quanto, prima di decidermi a uscire dalla stanza e andare a pranzo. Dovevo avere un’espressione ancora scossa, perché a tavola Raven non la smetteva di fissarmi, a metà tra l’incuriosito e l’ansioso. Avevo deciso tra me che non avrei parlato con nessuno dell’accaduto, speravo forse che si trattasse solo di un’allucinazione da mancanza di sonno.
Quando finalmente mi ritrovai con Emile al solito posto, rimasi colpita nel notare la presenza di una terza persona.
«…Raven?» Aveva abbandonato il tavolo abbastanza in fretta rispetto ai suoi standard, ma di certo non immaginavo fosse per incontrare Emile.
Stava discutendo sommessamente con il biondo, aggrottando le sopracciglia.
«Thara! Spero non ti dispiaccia, gli ho raccontato del tuo sogno.»
«N-no, è che…» Potevo comprendere la tregua che si era stabilita tra loro da quando stavo con Emile, ma addirittura arrivare a tanto…!
Raven mi sorrise beffardo.
«Il caro Noir si è accorto di non essere in grado di risolvere tutto da solo e ha deciso di chiedermi aiuto.»
Emile lo guardò torvo, sbuffando.
«Consiglio, prego. Volevo solo avere una conferma.»
Continuai a spostare lo sguardo da uno all’altro, mentre i due perseveravano nel punzecchiarsi cercando di chiarirmi il significato del sogno, finendo solo col fare ancora più confusione nella mia povera mente rallentata dal sonno. Alla fine, decisi di zittirli.
«Scusate… Non credo di aver capito molto. Chi erano i due sulla biga?»
Mio fratello sospirò.
«Te l’ho già detto… Da come l’hai descritta, sembrerebbe essere la biga di Ares. Quelli erano senza dubbio Phobos e Deimos, anche se non riesco a spiegarmi cosa dovrebbero c’entrare con Ade. A meno che…»
«…A meno che Ade non si sia alleato con Ares, cosa non del tutto improbabile» concluse Emile.
«Phobos e Deimos?» Dal canto mio, ero ancora rimasta ai nomi delle due divinità minori. Alzai uno sguardo imbarazzato su Emile, chiedendogli spiegazioni.
«Uh, non te li ricordi? Te ne avevo parlato in una delle prime lezioni del corso accelerato…» No, non li ricordavo. I primi giorni ero ancora troppo impegnata a deprimermi per mia madre e osservare Emile intimidita, per badare alle sue parole. Scosse la testa e riprese a parlare. «Phobos incarna la Paura e destabilizza le persone utilizzando le loro fobie. Deimos invece è il Terrore, con i suoi poteri può gettare le folle nel panico. Sono entrambi figli di Ares e hanno l’incarico di guidare la sua biga… Tutto chiaro?»
«Oh.» Bene! A quanto pareva, erano dei tipi tosti da abbattere. Mi sfuggì un anso di frustrazione quando abbandonai le spalle, demoralizzata.
«È per questo che, nonostante la mia indubbia forza sia abbastanza da sopperire alla mancanza di talento di Noir, ho pensato fosse meglio chiedere la partecipazione di qualcun altro!»
«Ma cosa…?! Se l’altro giorno ti ho battuto all’Arena!»
«È stata solo fortuna, non vantarti.»
Il bisticcio sarebbe di certo continuato se Alyssa non fosse apparsa, quasi evocata dalle parole di Raven.
«Eccoti! Stavo giusto parlando di te.»
La rossa si scostò i capelli con una mano, posando i suoi occhi di ghiaccio sui miei prima di sciogliersi in un sorriso.
«Finalmente si passa all’azione! Sono felice che tu abbia mantenuto la promessa.»
Raven non perse tempo a spiegarle che non era stata una mia idea quella di chiamarla (cosa della quale gli fui grata), e passò a spiegare il piano per l’indomani.
«In realtà non è così complicato. Tutti e quattro faremo in modo di sparire dalla circolazione senza destare sospetti, l’importante è riuscire a trovarsi per le 22:15 vicino all’albero di Talia ed evitare sguardi indiscreti. La dracma d’oro la porterai tu Noir, sono sicuro che riuscirai a recuperarne una in qualche modo…»
«Per quello non ci sono problemi… È in questi casi che risulta utile essere figli di Ermes» annuì il biondo.
«…Nel dubbio, prendine alcune in più. Forse vorranno un’aggiunta, visto che siamo in quattro.»
Interruppi Raven, incuriosita.
«A cosa serve la dracma?»
Alyssa ‒che era rimasta in silenzio fino a quel momento‒ si mise a ridere come se avessi appena fatto una battuta molto divertente.
«Ahahah… Dai, non è ovvio? Non andremo mica a piedi fino a New York!»
Emile le lanciò un’occhiataccia.
«Smettila, non è mai salita sul taxi delle Sorelle.»
La ragazza sollevò le spalle con una finta espressione dispiaciuta e mi fece l’occhiolino.
«Allora è meglio non rovinarti la sorpresa, lo vedrai domani.»
---
«Eh? Vai già a letto, Thara?»
Sorrisi a Martha, sperando che la mia agitazione non trasparisse dal volto.
«Sì, ho un po’ di sonno.» Sbadigliai platealmente, a conferma delle mie parole.
Mia sorella mi passò una mano sulla fronte per poi accarezzarmi i capelli in modo affettuoso.
«E va bene, allora riposati pure… Vedi di rimetterti in fretta che non manca molto al grande Concerto di fine estate! Non vorrai mica ammalarti proprio adesso» rise lei.
Mentre le davo la buonanotte, deglutii al pensiero di non tornare viva dalla spedizione e mettere a repentaglio anche la vita di Emile, Alyssa e Raven. “Mi auguro che riusciremo ad assistere al Concerto ancora vivi e vegeti…”
Aspettai l’avvicinarsi dell’orario stabilito in camera e uscii di soppiatto, ben attenta a non farmi notare dai miei fratelli. La brezza serale mi accolse, scompigliandomi i capelli sciolti e facendomi rabbrividire.
Trovai Emile e Alyssa già pronti sotto l’albero di Talia, rivestiti entrambi di un’armatura leggera di cuoio, che fissavano l’oscurità in silenzio.
«Greenwood… Metti questo, ti proteggere» fece la rossa, porgendomi un corpetto simile al suo. Rimasi colpita dal suo gesto, non mi aspettavo sarebbe stata così premurosa nei miei confronti.
«Ti ringrazio! Sei molto gentile Alyssa.»
«Di niente, Greenwood. Devi essere ben equipaggiata in uno scontro, o rischierai di essere solo d’impiccio se non sarai in grado di proteggerti.» Lasciai correre l’ultima frase, che suonava più come un insulto velato che un consiglio, e le sorrisi.
«Ehm, hai ragione… Comunque puoi chiamarmi per nome, mi farebbe piacere» le dissi, affrettandomi poi ad aggiungere «Sempre che non ti dia fastidio!»
Mi parve di vederla arrossire nell’abbassare gli occhi al terreno.
«Oh, uh, okay… Allora va bene, Cithara.» Sembrava un po’ tesa anche lei. Non credevo che l’avrei mai vista agitata, i figli di Ares mi erano sempre sembrati solo esaltati davanti alle nuove imprese, come se fossero tutti un branco di incoscienti.
“Un momento… Alyssa è figlia di Ares, ma lo sono anche Phobos e Deimos!”
«Alyssa? Forse è un po’ tardi chiedertelo adesso ma… Sei sicura di voler affrontare due tuoi fratelli?»
Sulle prime non sembrò capirmi, poi le si illuminarono gli occhi.
«Ah, intendi Phobos e Deimos? …Figurati. Può solo che farmi piacere dare una lezione a quei due, li ho visti un paio di volte e li detesto dal profondo.» Prese un respiro. «…Grazie per l’interessamento comunque, non devi preoccuparti.»
Annuii, poco convinta, tornando a cercare con gli occhi Raven, nelle tenebre della sera.
«…Dove diamine si è cacciato quel corvaccio?» borbottò Emile, dando voce ai miei pensieri. A dispetto della circostanza spiacevole, mi ritrovai a sorridere del soprannome affibbiato a mio fratello.
«Ehi Noir, chiama il taxi. L’orario è già passato da un pezzo, se non ci muoviamo rischiamo di mandare tutto all’aria.» Alyssa aveva ragione.
Emile ci fece cenno di seguirlo e uscire dalla barriera, sussurrando qualcosa in greco antico e gettando la dracma  a terra con un gesto insofferente. Mi aspettavo che la moneta tintinnasse, invece questa venne letteralmente inglobata dal terreno, che iniziò ad emettere sinistri gorgoglii, finché una grande pozza liquida dal colore simile al sangue non andò a formarsi lì dove prima era caduta la dracma.
Sussultai impaurita arretrando, quando uno strano taxi color fumo ‒o meglio, della consistenza del fumo!‒ affiorò dalla pozza.
Una testa brizzolata, dai lunghi capelli selvaggi, si sporse dal finestrino.
«Serve un passaggio?» chiese la vecchia signora, con voce roca. Non sapevo perché, ma il non poter vedere i suoi occhi, coperti dalla massa di capelli, mi inquietava.
«Tre per Seward Park, New York» rispose Emile, aprendo lo sportello posteriore per farmi salire.
Lo guardai a occhi sgranati, ancora un po’ allarmata, prima di decidermi a salire sulla macchina e stringermi per far posto a lui e alla rossa.
«Perdonatemi, possiamo aspettare un minuto prima di partire? Dovrebbe arrivare un’altra persona…» bisbigliai una volta seduta. Mi rispose un’altra voce rauca, realizzai così che la vecchietta non era sola: ce n’erano ben tre!
«Il tassametro scorreee!»
«Tempesta!!! Non urlarmi nell’orecchio! …Per il trasporto di un’altra persona ci vuole un pedaggio extra, un pedaggio extra! Giusto Vespa?»
«Un’altra dracma, sì, Rabbia!» rispose quella che pareva l’autista, muovendo energicamente la testa avanti e indietro.
«Sì sì, ce l’abbiamo… Sempre che arrivi quell’altro» sbuffò Emile, accanto a me. «Si sta così stretti qua dentro…! Ehi, e se lo facessimo mettere nel bagagliaio?»
Mi scappò una risata e anche Alyssa si fece sfuggire un sorriso.
«Non credo che Raven sarebbe d’accordo!» replicò la rossa.
La portiera dalla sua parte si aprì, e la testa corvina di mio fratello fece finalmente capolino.
«Scusate, ho avuto qualche problema a eludere la sorveglianza di Martha… Certo che quella ragazza sa essere davvero caparbia!»
Emile diede la seconda dracma alla vecchietta di nome Tempesta, che iniziò a litigare con le altre due su chi dovesse tenerla, mentre Raven prendeva posto nel taxi, non senza qualche difficoltà.
«È piccolo qui… Noir? Hai pensato a metterti nel bagagliaio per farci un po’ di spazio?» fece lui, beffardo.
Emile sogghignò.
«Stavamo proprio riflettendo, prima che entrassi, che forse quello dovrebbe essere il tuo posto in quanto ritardatario! Si stava meglio senza di te.»
«Ah, ti sei forse pentito di aver chiesto il mio aiuto?»
«Non ti ho chiesto di accompagnarci, hai fatto tutto tu.»
«Uhm, io la ricordavo diversamente… “Oh, Lionhard, devi aiutarmi! Si tratta di Thara!”…» fece Raven, scimmiottando Emile, con un tono di voce quasi femmineo. Il biondo avvampò.
«Cooosa?!? …Ringrazia solo che non posso prenderti da qui, quando scendiamo ti faccio vedere io!»
I due continuarono ad azzuffarsi per tutto il tragitto e ormai non sapevo se essere più impensierita dal loro battibecco o dalla guida pessima della vecchietta Vespa. Specialmente da quando Alyssa, per giustificare l’andatura spericolata del taxi, mi aveva sussurrato che le Sorelle Grigie avevano a disposizione un solo occhio per tutte e tre.
Disperata, chiusi le palpebre e mi raggomitolai nel mio sedile, pregando silenziosamente di arrivare sana e salva a Seward Park.
 
 
 
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Nota dell’Autrice:
Perdonatemi se vi ho fatto aspettare un mese, prima di aggiornare! çAç Sono stata totalmente inghiottita dalle giornate frenetiche universitarie.
Spero tanto che questo capitolo non sia risultato troppo deprimente (insomma, dopo la parte felice e allegra del cap. precedente qui si scende in una depressione pazzesca...!XD) e che abbiate potuto apprezzarlo. :')
Ho aggiornato il cap.10, aggiungendo un disegno di Kimon (Ipno), se siete interessati a vedere le fattezze del mitico dio del sonno!:D
Vi lascio con un disegno della mamma di Thara.
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Un bacione, al prossimo aggiornamento! ;) 

Remiel

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Capitolo 15
*** Cap. 13 - Marcia ***


[Kara Kul - Mark Petrie]
[The Last Firstborn - Celldweller]
[Group Four - Massive Attack]

Il grande orologio sul palo ‒lo stesso della visione‒ segnava le 22:40. Di lì a qualche minuto si sarebbe sentito il rumore della biga…
Deglutii nervosamente, spostando lo sguardo verso le postazioni degli altri. Alyssa e Raven si erano nascosti con le armi sguainate dietro agli alberi che Phobos e Deimos avrebbero attraversato con la biga, mentre Emile era acquattato tra me e loro, i luccichii della spada che aveva in mano coperti dalle foglie dei cespugli.
Il piano era piuttosto semplice: dovevo mirare al carro e rallentarlo con le mie frecce, per fare in modo che la donna riuscisse a fuggire intanto che gli altri attaccavano le due divinità minori. Più che semplice, continuavo a ripetermi che il piano fosse stupido, ma non avendo avuto un’idea migliore da suggerire mi ero dovuta adeguare a quella di Raven.
…La verità? Avevo una paura terribile. Temevo di mancare il bersaglio o mandare tutto all’aria.
Non avevo ben compreso perché mio fratello si fosse intestardito nel voler portare quel makaira, una specie di largo coltello curvo, piuttosto che l’arco; a quanto pareva, nonostante fosse figlio di Apollo, si sentiva più a suo agio con il corpo a corpo. Alyssa, poi, mi aveva colpita particolarmente: ero rimasta sbalordita quando il fermaglio che aveva tolto dai capelli si era trasformato in una scure dall’aria pericolosa.
Emisi l’ennesimo sospiro e rilassai le spalle. Speravo davvero che il nostro gruppo mal assortito potesse fare la differenza, quella notte.
Il rumore delle ruote e degli zoccoli ruppe il silenzio, costringendomi a irrigidirmi nella posizione di tiro. La freccia incoccata, sentivo il sudore che iniziava a colarmi lungo la schiena e il cuore minacciava di scoppiarmi nel petto dalla forza con la quale batteva.
Ero protetta dall’ombra, non mi avrebbero vista…
Il fragore si fece più forte, finalmente iniziai a scorgere le figure del carro e della fuggiasca che procedevano a tutta velocità verso di me.
Ecco che il più magro, Phobos, iniziava a canzonare la donna…
«Aha, è inutile che scappi mia cara, ormai ti abbiamo in pugno!»
“Ora!”
La freccia sfiorò la criniera di uno dei cavalli e si conficcò nella spalla di Phobos, strappandogli un urlo di dolore. Deimos cercò di riprendere il controllo della biga, mentre gli equini cominciarono a nitrire come impazziti.
«Ma che diamine…?!» L’icore dorato, il sangue degli dèi, prese a scorrere dalla ferita quando estrasse la freccia con un sussulto.
La donna non perse tempo a domandarsi cosa fosse successo e continuò a correre, le lacrime agli occhi e il fiatone. Raven e Alyssa assaltarono il carro proprio mentre Phobos ne balzava giù furioso, puntando verso di me.
«Grazie agli dèi, qualcuno è venuto ad aiutarci!» bisbigliò la donna abbracciandomi, una volta che mi ebbe raggiunta.
«Cercheremo di fare il possibile, lei intanto si allontani da qui…» Le parole mi si fermarono in gola nel vedere l’espressione stupita della fuggitiva. Mi aveva preso il volto tra le mani, passando le dita tra i miei capelli.
«Ma tu sei…» Non riuscii a sentire se aveva terminato la frase o meno, perché dovetti scansarla di lato per evitare il giavellotto lanciato da Phobos.
«Fugga!» Le urlai, scoccando un’altra freccia. Emile era uscito allo scoperto e adesso si stava confrontando proprio col dio della Paura a colpi di spada.
Gli occhi rossi di Phobos brillarono sinistri nell’ombra.
«Di cos’hai paura…?» Lo sentii sussurrare al biondo. Avrei tanto voluto poter essere d’aiuto, ma temevo di colpire Emile…
«Non c’è nulla che mi faccia paura!» urlò il ragazzo, parando un fendente. In realtà il dio non sembrava molto forte ‒i colpi che aveva diretto ad Emile non erano precisi‒ ma i suoi occhi continuavano a infondermi un inspiegabile senso di inquietudine.
La risata di Phobos mi gelò all’istante il sangue nelle vene.
«…Io so, so di cos’hai paura!» gongolò trionfante.
Nello stesso momento, Emile prese a urlare e indietreggiare, come in preda a un incubo terribile, e lasciò cadere a terra la spada crollando in ginocchio in preda ai singulti.
«N-no… No, è un’illusione! Basta…»
«Ahahah!!!» Phobos si stava avvicinando con la lama in mano, pronto a finire Emile una volta per tutte.
Non aspettai oltre, fremente di rabbia, tirai una freccia nella sua direzione.
«Qualunque cosa tu gli stia facendo, smettila. Subito.»
Il dio voltò lentamente la testa verso di me, con un sorriso perverso sulle labbra.
«Deimos? Pensaci tu a questi tre.»
Il bestione, che nel frattempo se la stava vedendo con Alyssa e Raven, aveva trasformato la biga in una specie di trincea e si era barricato al suo interno, impossibilitato a muoversi. La risata e il grugnito che seguirono l’invito di Phobos non preannunciavano niente di buono.
Emile sembrava essersi ripreso da quando avevo distolto l’attenzione del dio della Paura da lui, ma adesso stava guardando verso il carro con espressione atterrita.
«Per tutti gli dèi...!»
Anche mio fratello e la rossa avevano cominciato ad allontanarsi da Deimos, scuotendo le armi in aria come per scacciare dei mostri invisibili.
«Non fatevi ingannare… È di certo una delle loro allucinazioni!» udii gridare Alyssa. Non avevo idea di cosa Deimos stesse mostrando loro, ma doveva trattarsi di una cosa orribile, vista la titubanza della rossa che pur sapeva di cosa erano capaci i suoi fratelli.
Phobos non mi lasciò il tempo di pensare ai miei compagni, e si avvicinò con fare minaccioso.
«Tu, invece… Di cosa hai paura?»
Indietreggiai, scoccando un’altra freccia. Di cosa avevo paura? …La domanda giusta sarebbe stata “Di che cosa NON hai paura?”!
Non risposi.
Imprecai mentalmente quando realizzai che la donna non era ancora scappata ma si era limitata a nascondersi titubante dietro di me. Le iridi del dio continuavano a emanare bagliori rossi come il sangue, era difficile non rimanerne ipnotizzati.
«Credevo fossi stata rapita…» mormorò la giovane.
Replicai continuando a tenere gli occhi fissi su Phobos, pronta a scattare se avesse cercato di attaccare.
«Mi perdoni, credo che mi stia confondendo con qualcun altro.» E se mi avesse scambiata per mia madre? A parte per gli occhi, somigliavo a una sua versione più giovane. Ma il tempo era passato, anche se avesse conosciuto mia madre all’età di diciott’anni era ovvio che non avrebbe potuto mantenere questo aspetto per tutti quegli anni… O forse no?
Un lampo attraversò le iridi di Phobos, che sorrise.
«…Trovato!»
Non capii a cosa si riferisse finché non vidi mutare il parco in un luogo scuro e freddo, pregno di aria stantia. Mi si seccò la gola e il cuore smise di battere per alcuni secondi nel capire dove mi trovavo: era la grotta dov’era rinchiusa mia mamma assieme alle altre donne.
C’era una differenza, però, rispetto al sogno. Il luogo sarebbe sembrato deserto se non fosse stato per un impercettibile rantolio…
«C’è qualcuno?» chiesi sottovoce.
«Thara…»
«…Mamma!» Poco distante, mia madre era distesa supina, gli occhi rivolti al soffitto di roccia.
La raggiunsi in lacrime, prendendo la sua mano tra le mie.
«Mamma… Mamma, cosa ti hanno fatto?...» I capelli erano una massa aggrovigliata attorno al suo viso esangue, le dita gelide prive di forza.
«Thara… Scappa…»
Adesso il cuore stava esplodendo, sembrava aver raggiunto la gola e, assieme al groppo che si era formato, mi impediva di respirare. Scoppiai in singhiozzi sconnessi nel sentirla esalare quello che credevo essere il suo ultimo sospiro.
Ero ancora scossa dai singulti, quando mi accorsi di un altro corpo privo di vita accanto al suo, quello di Eleuse.
«No… NO!!!» Le carezzai i capelli paglierini, col fiato mozzo. «Non è vero…»
Rimasi accovacciata su di lei, finché un’altra presenza apparve alle mie spalle.
«Thara…» Mi voltai verso la voce sofferente di Emile. Si era appoggiato contro la parete, tenendo una mano stretta al fianco ferito dal quale fuoriusciva una quantità preoccupante di sangue.
Si accasciò al suolo e fui subito accanto a lui, guidata più da gesti meccanici che dalla mia volontà. Era come se i pensieri si fossero bloccati, nella mia mente.
«Thara, mi dispiace… Non sono riuscito a salvarle…»
Poggiai la testa sul suo petto, senza essere in grado di pronunciare alcunché.
Non poteva essere vero, doveva trattarsi di un incubo.
«Perdonami…» Fu scosso da un attacco di tosse. «…Ti amo.»
Sollevai lo sguardo sul suo.
«Emile…» Feci per accarezzarlo, quando una voce femminile s’insinuò nei miei pensieri. Dapprima ovattata, stava diventando via via più insistente, fino a trasformarsi in un urlo che mi perforò i timpani.
«…Svegliati Greenwood, è solo un’illusione! Noir è vivo!»
Alzai la testa e, nel momento in cui decisi di capire da dove proveniva la voce, il mondo attorno a me mutò.
Fu come se qualcuno stesse strappando un enorme telo per rivelarmi che, no, non ero nella grotta, ma piuttosto a Seward Park e, sì, quella visione così vivida era solo un trucco di Phobos. Lo stesso che, adesso, guardava con odio Alyssa ‒la figura in piedi davanti a me‒ mentre ringhiava  e si tamponava la nuova ferita da scure, ben più profonda di quella che gli avevo inflitto io con la freccia.
Non poteva morire (era pur sempre un dio), ma sembrava che l’idea di provare dolore non lo allettasse affatto.
«Stupidi Semidèi… Non potete fermarci! Deimos, smettila di giocare!» fece Phobos, all’indirizzo di suo fratello.
Emile e Raven erano piuttosto malconci eppure avevano continuato a tentare di forzare la barriera di Deimos, rischiando più volte di venire impallinati da uno dei fucili dell’arsenale della biga. Lo scimmione non se lo fece ripetere due volte e, con una risata volgare, si alzò dalla sua postazione.
«Peccato, stavo iniziando a divertirmi… Alla prossima, poppanti!» Così dicendo toccò il carro-trincea, che prese a trasfigurarsi in una Harley-Davidson nera e rossa dal motore rombante.
«Merda!»
Ero ancora troppo intontita dalla visione per capire realmente cosa stava accadendo e Alyssa mi tirò su di peso, spostandomi rapidamente dalla traiettoria della moto, senza che potessi replicare.
«Prendi la donna!» urlò il dio della Paura.
Il grido che seguì subito dopo, mi fece presupporre che la fuggitiva non fosse andata troppo lontano. Perché diamine non era scappata prima, quando eravamo appena arrivati?
Il boato della moto si fece di nuovo più vicino: Deimos stava tornando a prendere suo fratello.
Alyssa si alzò di scatto, pronta a lanciare la scure contro Phobos, quando un forte profumo d’incenso si diffuse per tutto il parco.
«Accidenti, accidenti! Come siamo focosi.»
La voce suadente di Kimon ci fece sussultare e il tempo parve fermarsi. Phobos sgranò gli occhi, terrorizzato.
Deimos inchiodò, fissando per qualche interminabile secondo suo fratello e il dio del Sonno, prima di voltarsi e darsela a gambe a tutto gas, con la donna svenuta stretta tra le braccia.
«Idiota! Non lasciarmi!» inveì Phobos, anche se il suo sembrava più un piagnucolio. «…Traditore» sussurrò infine, mordendosi il labbro. A vederlo così, faceva pena.
Mi alzai, scuotendo la testa e scacciando dalla mente l’ipotesi di tranquillizzarlo. Nonostante si comportasse come un bimbo abbandonato dai genitori, si trattava del dio che fino a qualche minuto prima mi aveva fatto vivere l’incubo peggiore della mia vita.
«Bene… Che ne dite di venire a prendere un tè a casa mia?» propose Kimon con fare pacato, dopo essersi presentato ad Alyssa, appropinquandosi al tremante dio della Paura. «…Anche tu, caro Phobos, sei invitato. Anzi, oserei dire che sarai l’ospite d’onore!»
Emile e Raven si avvicinarono a noi, un po’ frastornati.
«Thara, stai bene?»
«Sì…»
«Di certo non grazie a voi»  mi interruppe Alyssa. «Si può sapere dove avevate la testa? Non avevate capito che quella visione infernale era una delle illusioni di Deimos?!» Era parecchio contrariata, a nulla valse il mio tentativo di calmarla.
Dopo un po’, sbuffò.
«Non ne volevate sapere di svegliarvi… Non sapevo come fare. Questo qui» fece, indicando Phobos «stava per decapitare Cithara e voi continuavate a lanciarvi come due scemi contro il bestione, da bravi  aspiranti suicidi senza cervello.»
I due ragazzi abbassarono lo sguardo, afflitti. Raven pareva piccato nell’orgoglio, mentre Emile aveva un’espressione sofferente.
«Grazie» le rispose quest’ultimo, posando delicatamente una mano sulla mia schiena. Notai che evitava di guardarmi negli occhi.
«Non succederà più» borbottò mio fratello, anch’egli con lo sguardo basso.
Io le sorrisi, accarezzando i capelli di Emile per confortarlo.
«Grazie, Alyssa. Ti sono debitrice.» La rossa mugugnò qualcosa come un “figurati” con aria forzatamente infastidita, e mi chiesi se il suo atteggiamento distaccato non fosse solo una tattica per allontanare le persone. Chissà cos’aveva contribuito a farla diventare così cinica…
«Scusate, non vorrei mettervi pressione ma… Possiamo continuare il nostro discorso a casa? Avevo attrezzato la stanza a New Haven, ci metterò un po’ per effettuare di nuovo i preparativi… Specialmente visto che i viaggiatori sono aumentati» concluse con uno dei suoi soliti sorrisi affabili, alludendo alla presenza non prevista di Raven e Alyssa.
«Ha un appartamento anche a New York?»
Kimon annuì mentre prendeva sotto braccio Phobos, ormai piegato in due dalla stessa paura della quale era il dio, facendo strada.
Scambiai uno sguardo sorpreso coi miei compagni e mi apprestai a seguirlo.
---
«Ci vorranno una decina di minuti… Voi intanto mettetevi a vostro agio.»
L’appartamento sembrava una copia in piccolo di quello di New Haven, il profumo sonnolento che aleggiava per le stanze e la rilassante musica soffusa erano gli stessi.
Il dio del Sonno ci fece cenno di accomodarci e gustare le tazze di tè che erano magicamente apparse sul tavolino, lasciandoci in soggiorno con Phobos per andare a trafficare nel suo ufficio. Approfittai dell’attimo di calma e medicai le ferite dei miei amici.
«Lascia perdere, a me basterà un po’ di ambrosia» mi scostò Alyssa. Dopo aver bevuto la sua razione di rigenerante si allontanò in disparte, ignorando la tazza di tè destinata a lei.
Raven si era accostato a Phobos e aveva iniziato a porgli delle domande, ben attento a non fissarlo per troppo tempo negli occhi. Ero interessata a quello che avrebbe potuto raccontare, ma decisi che era più importante occuparmi di Emile.
Da quando era tornato in sé dalla visione di Deimos, non mi aveva guardata nemmeno una volta, riducendosi solo a rispondere in modo debole ai miei gesti d’affetto.
Mi sedetti al suo fianco con la scusa di controllare le ferite e, con la mano sulla sua guancia, gli sollevai dolcemente il viso per incontrare il suo sguardo.
«Emile? Cosa c’è che non va?» Ancora una volta, distolse gli occhi dai miei.
Rimase un po’ in silenzio a contemplare la tazza di tè tra le mani, accigliato, prima di rispondere.
«…Non sono riuscito a proteggerti, ecco cosa. Se non ci fosse stata Alyssa, a quest’ora la visione che ho avuto a causa di Phobos si sarebbe realizzata.» Allora il dio della Paura gli aveva mostrato la mia morte!
Gli scostai una ciocca bionda dal volto e poggiai la fronte sulla sua.
«È anche per questo che Raven e Alyssa sono con noi, tra compagni ci si aiuta. Non eravamo preparati a quello che abbiamo affrontato, siamo stati degli incoscienti… Ma l’importante è essere arrivati sani e salvi fin qui.»
Emile mi bloccò la mano, prendendola nella sua.
«L’ultima donna è stata rapita, e abbiamo Phobos solo perché Kimon è venuto in nostro soccorso…! È stato un fiasco totale.»
«Ma tu avevi previsto che Kimon ci avrebbe aiutato» replicai. Emile scosse la testa.
«Lo avevo ipotizzato, è diverso… Inizio a chiedermi se saremo in grado di portare a compimento qualcosa di positivo, negli Inferi.»
Prima che potesse aggiungere qualcosa e minare pure la mia determinazione, appena ritrovata, lo zittii con un bacio.
«Thara…» cercò di protestare lui.
In realtà anche io ero preoccupata e conscia del fatto che non fossimo forti abbastanza, ma ritirarsi a così poco dal traguardo era impensabile. Specialmente dopo la scena terribile che Phobos mi aveva mostrato: non volevo che le mie paure si avverassero.
«Tu… Non devi fare promesse che non puoi mantenere. Se fosse dipeso da te io non avrei corso alcun pericolo, però ci sono cose che non si possono controllare, come il potere di Deimos e Phobos.»
«Alyssa ci è riuscita.»
“Certo che, in quanto a ostinazione, Emile fa davvero concorrenza a Martha! …Nel bene e nel male.”
Cercai di mantenere la calma per farlo ragionare.
«Lei ha già avuto a che fare con loro… È diverso. Io non te ne faccio una colpa.»
«Scusa ma… Sono io che non riesco a perdonarmi.» Non mi lasciò aggiungere altro e mi abbracciò. «…Giuro che non permetterò a nessun altro di farti del male»
«Emile… Te l’ho già detto, non puoi avere il controllo su tutto.»
Lui non rispose.
«…Ti amo» fece dopo poco, come se con quelle parole stesse suggellando la promessa tra sé.
«Anch’io.»
Lo baciai senza aggiungere altro, e mi alzai dal divano solo dopo aver ricevuto un suo sorriso rassicurante.
Posai lo sguardo su Raven, ancora intento a cercare di estrapolare informazioni utili a Phobos che era però caduto nel mutismo più totale. Mio fratello era talmente preso dal suo compito che sembrava avesse deciso di rendersi utile con l’interrogatorio per lavare l’onta di essere stato superato da Alyssa, o qualcosa del genere.
A proposito della rossa… Voltai la testa verso l’angolo dove si era ritirata la ragazza, fuori in terrazza.
Stava contemplando le luci colorate della città newyorkese seduta con aria assorta, forse un po’ malinconica. In silenzio, mi avvicinai con prudenza per paura che mi allontanasse con un’occhiataccia.
«…Com’è tua madre?»
Rimasi interdetta dalla domanda a bruciapelo e ci misi qualche secondo a rispondere.
«Ehm… Buona e giusta, una brava madre. Tranquilla, fino a quando non la fai arrabbiare… In quel caso ti conviene scappare, è un’abile lanciatrice di pantofole.»
Alyssa rise divertita, lasciandomi ancora una volta sorpresa.
«Uh, scusa. Stavo pensando che forse vi somigliate, dai l’impressione di essere un osso duro se ti arrabbi.»
Le sorrisi.
«Hai ragione! …E tu invece? Tua madre dev’essere una tosta, è stata scelta da Ares!» Credei di aver detto qualcosa di male, perché lei abbassò gli occhi tornando a osservare il panorama notturno.
«Mah, non saprei. Sono stata cresciuta in un orfanatrofio.»
«Scusa» riuscii solo a dire, per poi nascondere tra le ginocchia il volto arrossito dalla vergogna.
«Non preoccuparti, non potevi saperlo. È che a volte mi chiedo come sia avere una famiglia…»
Dopo un attimo di riflessione in silenzio, si alzò, portando una mano sulla testa a scompigliarmi i capelli.
«Forza, entriamo. Ormai Kimon avrà finito i preparativi.»
Mi alzai anch’io, stupita da quell’attimo di confidenza che la rossa mi aveva concesso. Per l’ennesima volta da quando ero entrata al Campo, mi chiesi come avevo potuto avere avuto una brutta sensazione riguardo a una persona del genere.
In salotto, anche Emile si era messo di buona lena ad aiutare Raven con quella sorta di interrogatorio. Inutile dire che Phobos aprì bocca solo dopo l’arrivo di Kimon e sotto le sue velate minacce.
«Caro Phobos, non hai bevuto il tè? Prego, mettiti comodo… Ci sono anche i biscotti di pastafrolla, se desideri.»
Il dio della Paura si rannicchiò sulla poltrona con la tazza in mano, spostando gli occhi a destra e a sinistra in cerca di una via di fuga che sapeva inesistente. I dardi fiammeggianti che erano i suoi occhi, ora si erano ridotti a due tizzoni consumati.
«Io non so nulla… Eseguo solo gli ordini. Lasciatemi andare…»
Per tutta risposta, Kimon gli allungò il piatto dei biscotti.
«Serviti pure.» Sorrise. «Allora? Chi ti ha dato questi ordini?»
Phobos soffocò un gemito di apprensione.
«…Mio padre.» Alle nostre occhiate insistenti, si eclissò nella tazza di tè prima di continuare. «…Ma lui non c’entra direttamente nella faccenda. Pensa solo che sia un piano interessante…»
«Insomma, chi c’è dietro a tutto questo?» sbottò Emile, colpendo il tavolo con un pugno. Phobos si acciambellò ancor di più, come se volesse sparire, e Kimon (seppur comprensivo) scoccò un’occhiata severa al biondo.
«A te non importa, ma io devo salvare mia madre. Se fossi così gentile da darci qualche informazione in più sulle donne rapite, ti sarei grata» gli dissi con tutta la calma di cui ero capace, imitando l’approccio tranquillo di Kimon.
Phobos spalancò gli occhi, fissandomi incredulo.
«…Madre?!» Cominciò a ridere in modo folle, fermandosi di tanto in tanto per riprendere fiato.
«Cosa c’è di tanto divertente?» Adesso iniziavo a spazientirmi anch’io.
Finalmente, il dio smise di ridere e tornò a guardarmi negli occhi. I dardi avevano ripreso a bruciare, divertiti.
«Wow, era da un po’ di tempo che non si vedeva una cosa del genere… E sentiamo, quale sarebbe tua madre?»
«Si chiama Lynette ma… Di cosa stai parlando?»
Phobos mi sorrise mellifluo.
«Come, non dirmi che non sai chi è tua madre!» Prese un respiro teatrale e mostrò ancora di più i denti bianchi, quasi affilati come rasoi. «Giovane Semidea… O no, non saprei nemmeno come definirti. Allora, ti chiamerò semplicemente fanciulla… Bene, cara la mia fanciulla, sappi che tua madre è una delle nove Muse.»
 
 
 
---
Nota dell’Autrice:
Come vi è sembrato il capitolo? Ho preferito separare la parte dello scontro con Phobos e Deimos da quella dell'Ingresso agli Inferi... Insomma, faceva figo chiudere con una rivelazione shock! XD
Quanti di voi avevano già intuito l'identità delle donne rapite?:) Probabilmente non è stato uno schock così grande, ma voglio credere lo stesso che alcuni di voi non ci avessero pensato.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguire l'avventure di Thara e i suoi compari, fino alla risoluzione del mistero...
 
Un bacione!:D
Remiel

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Capitolo 16
*** Cap. 14 - Cadenza ***


[St John - We Are The Fallen]
[Shadow of Doubt - Yoko Kanno]
[Reset - Cryptex]
 
«… Non è divertente» disse Raven, con voce ferma.
Phobos scoppiò nuovamente a ridere come a contraddire le sue parole, mentre gli altri erano rimasti in silenzio allibiti. Una Musa?!
“Tutto questo non ha senso… O forse sì?” Le donne rapite avevano una peculiarità, quella di essere Muse, e l’ultima doveva avermi scambiato per mia madre perché, proprio come le divinità, anche lei avrebbe potuto cambiare il proprio aspetto mantenendo quello di quando aveva la mia età. Avevo sempre trovato che non mostrasse i suoi quarant’anni, ma di certo non immaginavo fosse questo il motivo.
“Se mia madre è una Musa e mio padre è Apollo, allora io… COSA sono?”
Emile aveva preso Phobos per il bavero, intimandogli di smetterla.
«Io…?» Mi voltai frastornata verso Kimon.
Il dio del Sonno si era allontanato un poco a braccia conserte, tenendosi il mento tra l’indice e il pollice.
«Lo immaginavo. Anche Eleuse lo aveva intuito cercando informazioni… Hai detto che si chiama Lynette, giusto? Se il suo ragionamento per trovare un nomignolo è stato simile al mio, allora credo che si tratti di Calliope. Il suo nome significa “bella voce”.»
Bene. Dunque non c’erano più dubbi, mia madre era davvero una delle Muse.
…Non che sapere che fosse Calliope mi rasserenasse più di tanto.
Kimon interpretò il mio silenzio come un invito e continuò il suo discorso, tra lo sbigottimento dei miei compagni.
«Da tempo ormai alcune delle Muse, stanche di essere coinvolte nelle diatribe degli dèi e in cerca di tranquillità, hanno deciso di allontanarsi dall’Olimpo, facendo perdere le proprie tracce… Calliope è una di queste.»
Decisi di esprimere il mio dubbio al dio.
«Quindi mia madre è una Musa… Immortale. Mio padre, invece, è addirittura un dio. Io… Cosa sono?»
Finalmente Phobos aveva smesso di ridere e si fece più attento nel sentire la mia domanda. Tutti stavamo fissando Kimon, in attesa.
Si passò una mano tra i capelli, sospirando rumorosamente prima di parlare.
«In realtà… Ci sono stati altri casi come il tuo nella storia. Calliope stessa ha avuto altri figli con Apollo, il più famoso penso che sia Orfeo, ne hai sentito parlare?»
«Il ragazzo che eccelleva nel suonare la lira, se non erro…»
Sussultai leggermente nel sentire la mano di Emile posarsi sulla mia schiena.
«Aveva anche una voce meravigliosa. Entrò negli Inferi per riprendere la sua sposa Euridice, morta accidentalmente, e commosse Persefone e Ade con la sua musica» aggiunse lui.
«…Sappiamo tutti che non andò a finire bene. Quell’idiota si voltò a guardare Euridice prima di essere uscito dagli Inferi, rompendo la promessa fatta ad Ade, e così la perse per sempre.» Il tono di Alyssa suonò duro e pieno di risentimento. Pareva che le desse molto fastidio l’idea di perdere un qualcosa a così poco dal traguardo.
Kimon annuì, sorvolando sull’epiteto colorito di Alyssa, e continuò.
«Orfeo, così come altri figli di Muse e divinità, era mortale. Probabilmente sarebbe vissuto più a lungo se non avesse fatto infuriare le Menadi… L’unica caratteristica che distingue questi figli dagli altri Semidèi è un potere particolare dovuto alla maggior presenza di sangue divino.» A questo punto, il dio del Sonno si bloccò per guardarmi intensamente. «…Immagino tu sappia a cosa mi sto riferendo.»
Ci fu un attimo di silenzio nel quale il mio cuore saltò qualche battito. L’immagine dell’alloro rinverdito grazie al mio canto tornò prepotente nella mia mente.
«…Allora avevo ragione! Ti avevo detto che hai qualcosa di speciale… Suoni in modo unico. Sei come Orfeo!» sobbalzò Raven. Mi stava osservando con occhi pieni di emozione, come se si trovasse davanti a una bestia rara.
Anche Emile mi fissava, ma in modo diverso. La sua occhiata di amorevole stupore rasente l’adorazione mi metteva in imbarazzo, quindi distolsi lo sguardo con le guance in fiamme.
Non avevo detto a nessuno dell’ipotetico potere curativo della mia voce e non me la sentii di svelarlo nemmeno in quel momento. Era una cosa che ancora non comprendevo, parlarne avrebbe significato rimettere la mia voce al giudizio degli altri… Finché non sarebbe stato necessario, l’avrei tenuto per me.
«Okay, alla fine non c’è niente che può tornarci utile in questa missione nel tuo Dono. A meno che tu non voglia suonare per distrarre gli ipotetici nemici.» Le parole della rossa mi ferirono un po’, la simpatia che mi aveva mostrato qualche minuto prima aveva lasciato il posto alla sua solita freddezza.
Raven le scoccò un’occhiata torva.
«Certo, un dono del genere non può capirlo una figlia di Ares.»
«No, Alyssa ha ragione» intervenni subito. Un battibecco era l’ultima cosa che ci serviva, in un momento delicato come quello. «Scusate, avevo solo bisogno di qualche rassicurazione… Adesso possiamo andare.»
Avevo notato come lo sguardo di Kimon non si fosse mai staccato da me, sondando il mio comportamento. Forse era a conoscenza del mio segreto.
«Bene ragazzi! Venite pure, il passaggio è pronto» disse mentre lo seguivamo nel suo studio, Phobos sempre con aria più abbacchiata.
«Non avremo perso troppo tempo…?» chiese Emile, rivolto a nessuno in particolare. In effetti, da quando avevamo lasciato il parco era passata almeno una mezz’ora.
Kimon gli batté una mano sulla spalla.
«Non preoccuparti, hanno aspettato fino ad adesso per il momento propizio del plenilunio, non  sprecheranno mai l’opportunità di effettuare il rito a mezzanotte.»
…Speravo davvero che avesse ragione.
Il portale altro non era che uno specchio a figura intera dalla superficie lattiginosa. Appena Kimon allungò la mano verso la superficie del vetro, questa si increspò formando dei curiosi giochi di luce.
«Che dire… Buon viaggio! Unica raccomandazione, per tornare indietro dovete passare dallo specchio dal quale uscirete. Terrò il passaggio aperto nella speranza di vedervi ricomparire al più presto.»
Calò un silenzio denso di significato. Guardai Emile, Alyssa e Raven con il cuore in gola nel considerare l’ipotesi del fallimento e incontrai i loro sguardi determinati.
«Andiamo» ordinò la rossa, portandosi davanti allo specchio. Si voltò solo una volta a controllare che la stessimo osservando e poi balzò nel portale, seguita subito da Raven.
Emile mi strinse teneramente la mano.
«…Andiamo anche noi?»
Annuii con un sorriso che voleva essere rassicurante e feci per accodarmi a lui, quando Kimon mi bloccò prendendomi per un polso.
«Figlio di Ermes, gentilmente potresti precederla?»
Emile gli rivolse uno sguardo ostile e sospettoso: ancora non riusciva a fidarsi.
«…Cos’è quell’aria cupa? Non la rapisco, vorrei solo scambiare qualche parola con la tua fanciulla! Sarò breve.» Non capii se fu il fatto di avermi riconosciuto come la sua ragazza a tranquillizzarlo o cosa.
«Va bene. Ti aspetto di là, Thara» fece Emile senza degnare più di uno sguardo Kimon, sfiorandomi con le labbra il dorso della mano prima di passare a sua volta al di là dello specchio.
Una volta soli (senza tener conto di Phobos, rannicchiato in un angolino), il dio del Sonno tornò a fissarmi intensamente.
«Cithara… Qualunque cosa accada, abbi fiducia in te stessa. I Doni sono molto potenti, spesso paragonabili ai poteri di noi divinità, e per questo sono anche pericolosi. Nel momento del bisogno cercherò di esserti di supporto, ma tutto dipende da te! Non abbandonare la speranza e credi anche negli altri, ricorda solo questo.» Nel parlare, mi aveva cinto le spalle con le mani e aveva abbassato la voce. Non sapevo a cosa alludesse, ma le sue raccomandazioni mi avevano in parte tranquillizzata.
Un sorriso di gratitudine mi affiorò alle labbra.
«Grazie, lo terrò a mente.»
«Bene… Allora vai! Ci vediamo presto.»
Gli strinsi la mano e mi voltai verso il portale a testa alta.
“Mamma, Eleuse… Sto arrivando.”
---
L’attraversamento dello specchio fu un’esperienza senz’altro particolare.
Erano passati alcuni minuti dal mio passaggio, eppure la sensazione di viscido che avevo provato a contatto con la barriera non accennava a sparire e non riuscivo a fare a meno di sfregarmi la pelle di tanto in tanto, per accertarmi che fosse pulita.
Appena arrivata, ero stata avvolta dal tipico profumo di incenso che ormai avevo imparato ad associare a Kimon. Quando gli occhi si furono abituati alla penombra, realizzai che mi trovavo in una versione molto più ampia e bizzarra dello studio che ci eravamo lasciati alle spalle. La stanza era un tripudio di colori caldi e oggetti esotici, i cuscini disposti sul letto a baldacchino ‒che occupava gran parte dello spazio‒ avevano l’aria di essere molto comodi…
«Ancora non riesco a crederci, siamo nel palazzo di Ade!» La voce di Raven mi riportò alla realtà.
Mi divertì constatare che di noi quattro proprio lui, di solito dall’aria così seria e controllata, sembrava il più eccitato.
«Siamo qui, ok. E adesso da dove si parte?» fece Alyssa, guardando verso di me.
Sentii tutta la sicurezza acquisita da Kimon abbandonarmi di botto: non avevo idea di dove andare.
«Nella mia visione, le donne erano rinchiuse in una stanza dalle pareti rocciose con un portale simile a questo. Deve trovarsi qui, da qualche parte nella dimora di Ade…» Abbassai gli occhi senza riuscire a sostenere lo sguardo dubbioso della rossa.
«Direi di uscire da questa stanza, innanzitutto. Non so voi, ma mi sta venendo una sonnolenza…» sussurrò Emile mentre soffocava uno sbadiglio.
Dovemmo superare vari usci, prima di trovarci definitivamente fuori dalle camere riservate al dio del Sonno. Uno sbuffo d’incenso agli agrumi sfuggì pigramente dall’ultima porta che chiusi, una volta nel corridoio.
Mi girai lentamente, conscia all’improvviso di essere in un territorio sconosciuto e potenzialmente pericoloso. Sembrerà stupido, ma l’idea di poter riabbracciare mia madre e la mia Custode aveva allontanato momentaneamente l’ansia dettata dall’istinto di sopravvivenza, che mi avrebbe suggerito piuttosto di raccontare tutto a Chirone o chi di dovere.
“…Cosa sto facendo? Ormai siamo qui. Non posso tornare indietro.”
Ma il portale era lì, dietro la porta che avevo appena chiuso, e sarei potuta correre al Campo con la coda tra le gambe invocando l’aiuto del centauro.
“Sto perdendo tempo… Le Muse hanno bisogno di noi.”
Giusto… Le Muse! Perché mia madre mi aveva nascosto la sua identità? Perché Eleuse non aveva avvertito Chirone? Kimon aveva alluso al fatto che le Muse avessero tagliato i ponti con l’Olimpo…
“…Mamma non mi ha detto nulla perché non si fida di me?”
…Che assurdità! L’unico motivo per il quale avrebbe dovuto tacere la sua natura divina era di sicuro per proteggermi. Ma allora perché continuavo a sentire quel peso sul cuore, come una triste disillusione, premermi nel petto?
«…Thara?»
Mi voltai verso Emile con quella che doveva essere un’espressione frastornata.
«Stai tremando, ti senti bene?» continuò lui, allungando le mani verso la mia fronte. Chiusi gli occhi per assaporare il contatto con la sua pelle e riprendere il controllo.
“Abbi fiducia in te stessa”, aveva detto Kimon ed era quello che avevo intenzione di fare. Ma avere fiducia in me stessa significava credere anche in mia madre e nelle persone che avevo accanto.
«Non è nulla, non è nulla» ripetei più convinta. La sensazione di disagio si dissolse, così come si era insinuata impercettibile nella mia mente, tanto che iniziai a sospettare ci fosse lo zampino di un dio. Non sapevo se questa mia convinzione fosse un modo per esorcizzare la paura o se fosse effettivamente fondata.
Presi per mano Emile e feci cenno a Raven e Alyssa di seguirmi.
«Ragazzi, purtroppo non so con certezza dove dobbiamo andare, il sogno non è stato così chiaro. Però ho l’impressione di conoscere la strada…» Le parole mi morirono in gola. Come facevo ad avere la minima idea di che percorso prendere se fino a qualche secondo prima dubitavo perfino di me stessa?
Mi aspettavo una replica sarcastica di Alyssa, invece lei mi fissò comprensiva e annuì. Anche Raven non obiettò, chiedendomi piuttosto se non si trattava di uno dei Doni avuti dai miei genitori divini.
Sorrisi tra me e me: il mio senso dell’orientamento aveva sempre fatto cilecca, quindi dubitavo si trattasse di uno dei miei poteri. Altrimenti, si sarebbe potuto risvegliare molti anni prima per tornarmi utile nella caotica New York!
Camminammo in silenzio per alcuni minuti attraverso i corridoi della residenza di Ade, pronti a scattare in caso di attacco. La cosa più inquietante, oltre agli scheletri posti ai lati di ogni ingresso vestiti con abiti militari di vari periodi storici, era l’assoluta assenza di rumori, fatta eccezione per i nostri passi. Tutto taceva, anche le fiamme delle torce appese alle pareti guizzavano sinistre senza emettere un suono.
Continuavo a procedere guidata da una forza invisibile. Cos’era questa presenza che mi attirava inesorabilmente a sé…?
Non avevo preso in considerazione nemmeno per una volta che fosse una trappola, per qualche oscuro motivo ero sicura che ci stavamo avvicinando al luogo dov’erano tenute le prigioniere. Sembravo in trance, la vista si era offuscata e anche l’eco delle nostre scarpe mi giungeva attutita, quando avvertii un cambiamento avvenire nella Melodia circostante.
Fino a quel momento non ero riuscita a percepirla in modo conscio, forse a causa dell’atmosfera del luogo, ma c’era una lieve nenia nell’aria. Qualcuno stava cantando.
«La sentite anche voi…?» sussurrai, rapita da quella Voce.
Mi bastò una rapida occhiata preoccupata di Emile e gli altri per comprendere che non riuscivano a sentirla.
Eppure, adesso che le mie orecchie l’avevano captata, mi sembrava così nitida!
Tornai a camminare nella direzione dalla quale proveniva la canzone.
«…Dormi bimba, dormi cara,
la tua mamma non si allontana.
Dormi tanto, dormi Thara,
ascolta la voce che ti chiama.
Del buio non avere paura,
perché in te ne hai la Cura.
Quando sei triste o ti senti sola
c’è una Voce che ti consola.
Il mondo è una grande Melodia
che io trasformo in Rapsodia.
Ora è tardi per cantare,
ascolta il mio canto e vai a riposare.
Piccola mia, non farti del male,
conserva la Voce e non ti destare.»
♫♪♫
 
…Era la voce di mia madre! Stava intonando la ninna nanna che mi cantava da bambina.
Avanzai senza indugi verso la porta chiusa, così anonimamente uguale alle altre, e la spalancai.
«…Per tutti gli dèi! Cos’è questa stanza?» esclamò Raven, portandosi una mano alle labbra.
Le pareti erano disseminate di schermi che riprendevano vari luoghi degli Inferi, mentre al centro della camera c’erano cinque specchi a figura intera disposti a semicerchio.
«Si direbbe la sala di controllo di Ade, o qualcosa di simile!» mormorò Emile in risposta senza riuscire a nascondere il suo stesso stupore.
Alyssa mi superò, avvicinandosi agli specchi.
«Ehi… Questi sembrano come il portale di Kimon.» Sfiorò la superficie opalescente di quello più a destra e la sua immagine cominciò a ondeggiare fino a scomparire, lasciando spazio a una grotta scura.
Era lo specchio dal quale proveniva la Voce di mia madre.
Mi accostai ad Alyssa, accompagnata dai ragazzi, per osservare più da vicino la scena. Come nel mio sogno, le donne giacevano a terra, agganciate alle pareti tramite lunghe catene, e anche da lontano si potevano intuire i loro volti smunti.
Contai mentalmente le figure, erano otto. Deimos doveva essere già arrivato a destinazione, non capivo dove potesse trovarsi la nona Musa se non assieme alle altre. Forse…
«Sono loro?» Il respiro di Emile mi solleticò l’orecchio.
Annuii.
«Sì. Ma sono solo otto, l’ultima Musa non è stata ancora portata qui…»
«Forse Deimos non è libero di muoversi come vorrebbe. Oppure… Deve evitare di farsi notare. Per questo ci sta mettendo più tempo del previsto» concluse Raven, dando voce ai miei ragionamenti.
Pensavo che Ade fosse all’oscuro di quello che stava avvenendo, in quel caso avrebbe avuto senso il ritardo di Deimos. Trasportare una donna svenuta non doveva essere una cosa semplice da nascondere al padrone di casa.
Ero ancora presa nei miei pensieri quando, a un tratto, la Voce si azzittì e un rumore di passi cominciò a provenire dal corridoio. Alzai gli occhi su Emile, terrorizzata, mentre Raven correva a chiudere la porta.
«…Stanno venendo qui!» dissi in un soffio, le parole ridotte a un sussurro strozzato.
Cercai di rimanere lucida e non cedere al panico, ma il suono sempre più vicino dei passi e delle voci femminili che avevo sentito nella visione mi fecero balzare il cuore in gola.
Emile si frappose tra me e la porta, con la mano pronta a trasformare il pendente della sua collana in un gladio.
«Entriamo nel portale!» Non ebbi il tempo di riflettere più di tanto sull’idea di Alyssa ‒non che avessimo altre alternative tra l’entrare in uno specchio o l’affrontare il nemico‒ e mi trovai a spingere Emile oltre il portale delle Muse.
«Veloce…!» sussurrai a denti stretti, preparandomi ad attraversare la superficie traslucida a mia volta.
Prima che potessi seguire Emile e Raven però, una mano forte mi agguantò per il corpetto di pelle.
Guardai Alyssa con aria interrogativa, senza capire.
«Che succede?»
Rabbrividii nell’incontrare i suoi occhi di ghiaccio: non erano mai stati così distanti.
«…Perdonami Cithara» disse, prima di scagliarmi con indifferenza verso un altro specchio.
Mentre cadevo all’indietro attraverso il portale, i suoni si spensero e attorno a me tutto venne inghiottito dal colore della notte.
 
 
 
---
Nota dell'Autrice:
Chiedo scusa per la brevità del capitolo ma sembra che ci stia prendendo gusto a terminarli con colpi di scena! O meglio, spero che il gesto di Alyssa sia stato almeno un po' inaspettato.
Per saperne il motivo, naturalmente dovrete aspettare il prossimo capitolo!:) ...Che vorrei riuscire a scrivere il più presto possibile.
Ringrazio ancora una volta tutti voi che state continuando a seguire la storia di Thara e spero che vogliate accompagnarci fino alla fine di questo viaggio! ♥
 
N.B. Riguardo alla ninna nanna: premetto che è stata partorita dalla mia mente carente di sonno alle 2 della notte, quindi è legittimo il fatto che alcuni non ne abbiano compreso il senso. :)
Tolte le rime astruse, il succo del discorso è che in realtà Lynette/Calliope non aveva davvero nascosto le sue origini a Cithara. Non le aveva di certo detto di essere una Musa o le aveva parlato del suo Dono da Semidèa, ma nella ninna nanna che le cantava quando era bambina ci sono tanti piccoli indizi velati che riportano all’identità di Lyn e Thara.
La “Voce” che consola Thara altri non è che il Dono dentro di lei, la “Cura” che è in grado di dissipare le tenebre che tanto la impauriscono.
“Il mondo è una grande Melodia”: all’inizio della storia si capisce che Cithara associa alle persone una determinata Melodia (da qui il nome della storia), per questo il mondo intero inteso come natura è Melodia. “Rapsodia” è un altro modo per definire la Poesia Epica della quale Lynette/Calliope è la Musa.
Il “non farti del male” è riferito al Dono di Thara, ricordate che quando ha ridato vita al ramoscello di alloro ha sentito le forze venire meno? Il suo è un Dono che -per dirla alla “Fullmetal Alchemist”- necessita di uno scambio equivalente. Se usa la Voce, Thara perde energia vitale per trasferirla al soggetto che sta curando. Per questo dice “conserva la Voce” e il “non ti destare” sta lì perché si tratta pur sempre di una ninna nanna.XD
…Ok, spero tanto che questa spiegazione sia realmente servita a chiarire il significato ermetico della canzone e non abbia creato più confusione che altro. ^^’
 
Baci,
Remiel ♥

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Capitolo 17
*** Cap. 15 - Tacet ***


[Redemption - Zack Hemsey]
[Crawl - Superchick]
[The Requiem - Linkin Park]

Buio.
Freddo.
Dolore.
Riuscivo a pensare solo a questo, massaggiandomi le tempie dopo essere rinvenuta.
Aprii gli occhi con cautela, richiudendoli subito a causa delle fitte atroci che mi attraversarono la testa come scariche elettriche; rimasi ancora un po’ a terra, cercando di riprendere lentamente coscienza del mio corpo.
La schiena doleva da morire, sembrava che avessi sbattuto su qualcosa di molto duro. Dovevo essere caduta male, perché la testa continuava a girarmi e urlare dal dolore.
Mi lasciai sfuggire un rantolio di sofferenza nel mettermi finalmente a sedere per cercare di capire dove fossi finita.
Tutto era immerso nell’oscurità, solo qualche lieve bagliore azzurro di tanto in tanto rischiarava il luogo in cui mi trovavo. Provai ad alzarmi, ma trovai una superficie liscia e fredda a costringermi in una posizione accovacciata. Dov’era lo specchio dal quale ero entrata…?
L’ultima cosa che ricordavo era il volto di Alyssa, più severo che mai, mentre mi gettava al di là del portale vicino a quello delle Muse, dove si erano diretti Raven ed Emile.
«…Perché?» fu la domanda che mi salì alle labbra in un sussurro.
Non poteva averci tradito. Non poteva fare anche lei parte del piano. Tutto questo non aveva senso!
L’avevo vista combattere contro Phobos e Deimos con i miei occhi. Si era ferita anche lei, anzi, mi aveva addirittura salvata. Per quale motivo avrebbe dovuto tradirci?
“Il modo migliore per far abbassare la guardia agli altri è fare in modo che si fidino di te… Il gruppo non penserà mai di covare una serpe in seno.”
Scossi la testa violentemente, tanto che le tempie ricominciarono a pulsare.
«No. No, non può essere vero!»
Ero sicura di aver visto la vera Alyssa, seduta fuori dal terrazzo di Kimon. Aveva abbandonato per un attimo la corazza, permettendomi di scrutare nel suo cuore, e la Melodia che avevo sentito era pura e chiara come il suono di un’ocarina. Un anima con quel suono non poteva di certo fare una cosa del genere.
“Mentire, mentire… Le persone sanno solo mentire. Menti sapendo che anche gli altri mentono.”
«Cosa…?» Ci misi un po’ a capire che la voce che credevo appartenere ai miei pensieri era invece quella di Alyssa.
“Non fidarti di nessuno. Aspettano solo il momento buono per usarti a loro piacimento. Non farti usare, usali.”
Le strette pareti tra le quali ero rinchiusa, rilucevano di un pallido azzurro a ogni parola. Mi guardai attorno ansiosa allungando le mani verso le pareti. Ora che controllavo meglio, parevano proprio fatte di ghiaccio.
“Madre… Madre, Riconoscimi. Dai un senso alla mia esistenza. Io sto facendo come mi hai insegnato.”
Aveva detto di essere stata cresciuta in orfanatrofio… Perché appellarsi alla madre umana? Credevo fosse più logico rivolgersi ad Ares, per quanto non riuscissi a immaginare il dio della guerra nei panni di un bravo padre.
“Madre… Sono nel giusto?”
Le pareti cominciarono a vibrare.
“Madre… Perché non rispondi?”
La voce di Alyssa si incrinò in quello che sembrava un pianto sommesso, mentre il ghiaccio brillava in modo malinconico per poi far sprofondare nuovamente la mia gabbia nel buio più assoluto. Aspettai qualche secondo prima di cadere nel panico.
«Alyssa? Alyssa, mi senti? ...Maledizione, c’è qualcuno?!»
Iniziavo a credere che sarei rimasta rinchiusa lì dentro per sempre quando un’altra voce familiare mi solleticò l’orecchio.
«…Cithara, puoi sentirmi?»
«Kimon?» Non mi chiesi come era riuscito a raggiungermi, il solo fatto di sentire una voce amica mi tranquillizzò.
«Wow, allora questo gingillo funziona… Ecate non si smentisce mai.»
«Ecate, la dea della Magia?» domandai dubbiosa, dimentica per un momento della mia situazione.
«Lascia perdere… È una faccenda lunga da spiegare. L’importante è che sia riuscito a stabilire un contatto con te.»
Decisi di sorvolare l’argomento Ecate e tornai a tastare le pareti circostanti.
«Kimon… Sono bloccata al di là di uno specchio. Non so dove mi trovo o cosa fare per uscirne, non riesco a trovare il portale.»
Dall’altra parte, mi rispose la sua risata cristallina.
«Eppure te lo avevo detto prima che partissi… Devi usare il Dono.»
Abbassai le mani, portandole attorno al corpo per abbracciarmi. Faceva sempre più freddo lì dentro.
«…Non so come fare. Mi è capitato di usarlo solo una volta, senza volerlo.»
In quel momento, una voce femminile s’intromise e Kimon tacque.
“È giusto che tu veda.” Era la seconda donna della visione, quella dal tono mesto.
La parete davanti a me tornò a brillare di un azzurro gelido fino a generare un vortice argenteo. Quando la superficie del ghiaccio si fu placata, mi ritrovai a osservare la scena che si stava svolgendo nella grotta delle Muse come se la stessi guardando da un televisore.
Allungai la mano verso lo schermo ma, nel sentire le dita congelarsi, la ritirai con uno scatto. Per ora dovevo limitarmi a osservare.
Le Muse erano state tutte riunite, prive di forze e legate una accanto all’altra a una lunga catena magica che emetteva gli stessi bagliori colore del ghiaccio che mi circondava. Sentii un peso sul cuore quando mi accorsi che Emile e Raven erano trattenuti per le spalle da Deimos.
Entrambi stavano fissando Alyssa avvicinarsi alla donna che aveva interrogato mia madre nel sogno, attoniti.
«…Cosa significa?» ebbe la prontezza di dire Raven. Notai che gli tremava la voce.
La rossa lo fissò in silenzio, fu la donna a parlare.
«Sei stata brava, bambina… Sono fiera di te» mormorò in tono affettato, carezzandole i capelli.
«Questo e altro per Voi, madre.»
Mi lasciai scappare un verso di stupore e anche i ragazzi sgranarono gli occhi.
Emile non poté far altro che ripetere la domanda di mio fratello.
«Cosa significa? Alyssa, cosa sta succedendo?» Sentivo la sofferenza nella sua voce. Aveva pur sempre combattuto al suo fianco nella Caccia alla Bandiera e, a quanto avevo capito, potevano considerarsi se non amici almeno degli alleati comprovati.
«Ve lo spiego subito… Alyssa è mia figlia» fece la donna. Realizzai che il bagliore rosso che avevo intravisto nella visione, altro non era che il riflesso dei suoi lunghi capelli: lo stesso colore di quelli di Alyssa. «Trovo riprovevole che non mi conosciate ma vi svelerò lo stesso la mia identità. Io sono Eris, la dea della Discordia.»
«…Ma Ares ti ha Riconosciuta! Ho visto il suo simbolo volteggiare sulla tua testa, l’estate scorsa!» sbottò Raven, cercando di divincolarsi dalla presa marmorea di Deimos.
Eris portò un braccio attorno ad Alyssa e rise. Sentii la pelle accapponarsi a quel suono.
«Strano che nessuno si sia chiesto perché Ares ci abbia messo così tanto a Riconoscere una bimba valente come lei! E nessuno avrebbe mai pensato che un dio avrebbe accettato di Riconoscere una figlia non sua per un bene superiore… Ovvio.»
«Ares l’ha Riconosciuta perché faceva parte del vostro piano?!» Raven non poteva credere alle sue orecchie. D’altronde, nemmeno io ed Emile riuscivamo a crederci.
La dea sorrise sinistra, assottigliando gli occhi da volpe.
«Io e Ares abbiamo un legame particolare… Credo che almeno questo ve lo abbiano spiegato a scuola. Ci è voluto un po’ per recuperare le informazioni sulle nove Muse e, quando abbiamo scoperto che una di loro aveva avuto una figlia, abbiamo pensato che sarebbe stato utile avere una spia tra le fila del Campo Mezzosangue. Chi meglio di mia figlia?» Fece una pausa e si voltò a guardare Alyssa con uno sguardo amorevole che mi pareva trasudare falsità. «Sarebbe stata accettata  meglio se fosse stata Riconosciuta da un dio… E Ares ha pensato che il nostro piano fosse abbastanza interessante da darci il suo appoggio.»
«…Cosa hai fatto a Thara?» ringhiò Emile, in direzione di Alyssa. Non sembrava aver posto particolare attenzione al discorso della dea. «Alyssa, cosa le hai fatto?!»
La ragazza alzò gli occhi su di lui e rispose con espressione noncurante.
«Ho fatto in modo che non possa interferire. Dovresti ringraziarmi, è più al sicuro di voi.»
Rabbrividii nella mia prigione ghiacciata, il respiro condensato in nuvolette. Forse ero al sicuro da una eventuale battaglia ma se fossi rimasta ancora a lungo avrei rischiato di cadere in ipotermia!
«Quale sarebbe il vostro piano?» Il tono di Raven era di accettazione. Si era arreso senza lottare?
La donna che mi aveva permesso di assistere alla scena, avanzò dall’ombra. Dei lunghi boccoli ebano dal colore opaco le incorniciavano il viso, gli occhi all’ingiù le davano un’espressione triste.
«Eris, è ora…»
«C’è tempo, Nemesi. Non voglio privare i valenti Semidèi giunti fin qui della spiegazione che bramano!» le rispose la dea della Discordia.
Tornò a osservare i ragazzi con sguardo di sfida e cominciò a parlare.
«È da tempo immemore che Zeus relega alcuni di noi a ruoli secondari, come se fossimo divinità di poca importanza, comportandosi da despota. Stanca di essere bistrattata, mi sono messa alla ricerca di un modo per fargliela pagare, assieme ad alcuni complici. Ho pensato e ripensato a cosa potesse creare seriamente problemi al povero Zeus… Cosa può mai temere un dio così potente come lui? Non riuscivo a trovare una soluzione, finché non ho compreso.» Parlando, aveva preso a camminare verso Emile e Raven e, adesso che era arrivata davanti a loro, si abbassò per fissarli negli occhi. «La cosa di cui un re ha paura è il Caos. Lo stravolgimento dell’Equilibrio. Or dunque, sapete che le Muse si sono allontanate dall’Olimpo? La versione ufficiale è che, estenuate dai numerosi problemi che derivano dal contatto giornaliero con divinità importanti, hanno deciso di vivere tra gli umani limitando al minimo le interazioni con l’Olimpo. Ma la realtà è che la loro Linfa è in grado di sovvertire l’Ordine.»
«Cosa?!» Sapevo che non poteva sentirmi, ma portai lo stesso le mani alle labbra per ammutolirmi.
Davvero le Muse erano così importanti?
Eris rise ancora davanti alle espressioni sempre più allibite dei ragazzi. Sembrava che ci godesse nello stupire gli altri.
«Non dovete essere così meravigliati! Le Muse, in quanto padrone delle Arti, sono le protettrici dell’Armonia del Mondo. Di comune accordo, vedendo l’insofferenza che s’impadroniva di una divinità dopo l’altra, si sono allontanate dall’Olimpo per preservare l’Equilibrio. Anche dopo aver scoperto la potenzialità della loro Linfa, è stato difficile risalire alle loro identità umane. Ce n’è voluto di tempo… Ma finalmente il giorno è giunto. Credo che alcuni di voi Semidèi abbiano già potuto saggiare la forza degli archetipi rinvigoriti con la forza delle Muse.»
Emile alzò la testa e vidi la sua espressione passare dallo stupore alla consapevolezza.
Il Leone di Nemea! Quel mostro, a differenza della sua forma originaria descritta nei libri, sputava fiamme. Il loro grande piano consisteva nel creare mostri con dei poteri speciali in modo che diventassero imbattibili?
«Avete intenzione di creare degli archetipi ancora più potenti?» chiese Emile, un’ombra di nervosismo nella voce.
«Oh no, vogliamo fare molto, molto di più.» La dea della Discordia gli alzò il mento con le dita e si avvicinò ancora di più al suo volto (forse, anzi, decisamente un po’ troppo per i miei gusti). «…Con la Linfa libereremo dal Tartaro tutti gli archetipi, più potenti di prima, in una volta sola. Creeranno il Caos sulla Terra, ne puoi stare certo!» aggiunse con un sorriso melenso.
«Eris…» le ricordò Nemesi. Iniziavo a capire perché fosse così mesta; credo che stesse vivendo una sorta di lotta interiore. Dev’essere difficile essere al contempo la dea della Vendetta e della Giustizia, quasi un controsenso.
Eris si allontanò dai ragazzi, lasciandoli alle “cure” di Deimos mentre si avviava verso lo specchio, trascinando dietro si sé la catena delle prigioniere. Le Muse sembravano esauste, camminavano come spinte da una forza invisibile lamentandosi di tanto in tanto senza opporre una vera e propria resistenza. Mia madre non era da meno, i capelli un tempo lucenti erano diventati un groviglio indistinto e camminava come le altre con le spalle incurvate. Durò qualche secondo ma vederla in quello stato mi distrusse.
«Deimos, Nemesi. Pensate voi a tenerli a bada. E Alyssa… Mia cara, occupatene assieme a loro. Grazie ancora per quello che hai fatto.» Sorrise alla figlia prima di scomparire attraverso lo specchio con le Muse.
Subito, Emile e Raven fecero del loro meglio per sfuggire alle grinfie dell’energumeno, sotto lo sguardo vigile della rossa e di Nemesi.
In realtà, la dea dai capelli ebano sembrava disinteressata; diede le spalle ai due ragazzi, guardando dalla mia parte. Alyssa assisteva ai tentativi dei ragazzi con aria di superiorità, i suoi occhi di ghiaccio ancora una volta insondabili.
«Lasciate perdere… Se aspettate buoni fino alla fine non dovrete temere niente.»
Con una testata, Raven destabilizzò Deimos facendogli mollare la presa. Entrambi i ragazzi corsero a recuperare le armi a terra ma il dio si riprese subito, assaltando Emile che era più vicino.
Un grido mi scappò dalle labbra quando lo vidi su di lui ma ‒fortunatamente‒ Emile aveva già la spada in mano ed era riuscito a trapassare la spalla del dio, strappandogli un ululato di dolore.
«Non dovremo temere niente, dici?» La voce affannosa di Raven mi costrinse a cercarlo con gli occhi. Stava fronteggiando la scure di Alyssa con il suo coltello curvo e la fissava come se fosse stata un’idiota. «Ti rendi conto di cosa vogliono fare questi pazzi?! Non saranno in pericolo solo gli dèi o i Semidèi, anche gli esseri umani rischiano la vita! Hai idea di cosa potrebbero fare dei mostri impazziti in giro per la Terra?!»
Alyssa non gli rispose subito, preferendo allontanarlo da sé con un colpo rovescio della scure.
«…Tu non sai cosa significa» sibilò tra i denti con gli occhi che mandavano scintille.
«No, TU non sai cosa significa tutto questo casino!» ribatté mio fratello, tornando alla carica.
La rossa parò il colpo, cercando di aprirsi un varco nella difesa di Raven. Il suo grido risuonò tra le pareti della grotta e le fece tremare.
«Cosa c’è di sbagliato nel voler essere amata dalla propria madre?!»
Fui costretta a tornare a guardare verso Emile per accertarmi che stesse bene. Dopo aver provato  un altro assalto, Deimos era infine scappato dal portale uggiolando come un cucciolo ferito.
«Alyssa! Dove hai portato Thara?!» si rivolse con rabbia alla rossa.
Lei schivò l’affondo.
«Te l’ho già detto, è al sicuro. Di certo, tu non la puoi raggiungere.»
Avrei voluto urlargli “Sono qui!” o fargli capire in qualche modo che ero ancora viva. Certo, forse ancora per poco visto che la temperatura continuava a diminuire.
Furente, Emile tentò un altro attacco ad Alyssa, ma la sua lama cozzò inaspettatamente contro quella di Raven.
«Non fare il cretino, Noir. Eris si è portata dietro le Muse e ha intenzione di compiere quella pazzia, credo che sia più importante seguirla che rimanere qui ad accanirsi contro di lei» fece, indicando Alyssa con un cenno del capo.
«Raven ma… Thara potrebbe essere in pericolo!»
Intervenne Nemesi, con il suo tono sommesso.
«…La ragazza ha detto la verità. La vostra amica si trova in un posto che non può essere raggiunto, deve trovare il modo di uscirne da sola.» Rabbrividii nel constatare che la mia unica via di salvezza consisteva in me stessa.
Vidi l’indecisione farsi spazio sul volto di Emile, le sopracciglia corrugate in un’espressione combattuta. Alla fine, con uno sbuffo di frustrazione, corse verso lo specchio. Nemesi non tentò di fermarlo, anzi lo osservò incuriosita.
«Lascio tutto a te, Lionhard.»
«Dove pensi di andare?» Alyssa stava per lanciarsi al suo inseguimento ma Raven le si parò davanti col coltello ricurvo ben stretto nella mano.
«Mia cara, mi concederesti questo ballo?» le disse, tornando al suo solito fare baldanzoso e mimando un inchino.
Non potevo esserne sicura, eppure mi sembrò che Alyssa fosse arrossita.
«Sei fastidioso, Lionhard.»
«Oh, forse intendevi dire fascinoso!»
La situazione mi sarebbe sembrata divertente se non avessi avuto parte della mente occupata a escogitare un modo per uscire dalla mia prigione e un’altra in ansia per mia madre ed Emile. Per non parlare di Eleuse, non l’avevo ancora incontrata da quando eravamo entrati negli Inferi! Non potevo credere che fosse scomparsa nel nulla.
A un tratto la visuale sulla grotta dove si stavano affrontando Alyssa e Raven divenne sfocata.
“Adesso sai.” sussurrò al mio orecchio la voce di Nemesi, mentre la visione scompariva del tutto.
Rimasi un attimo in silenzio, tornata al buio gelido del ghiaccio, poi mi ricordai di Kimon.
«Kimon…? Ci sei ancora?»
Un lungo fischio di stupore mi segnalò la sua presenza.
«Oh sì, ci sono. Credo di aver capito più o meno la situazione… Si fa interessante. Piuttosto, non credi sia arrivato il momento di uscire?»
Non sapevo davvero cosa fare.
«Pensi che la tua amica ti abbia realmente tradito?» La domanda a inaspettata mi lasciò confusa.
«Alyssa? …Non credo lo abbia fatto per cattiveria.» All’inizio mi ero sentita tradita dal suo gesto ma, quando aveva urlato “Cosa c’è di sbagliato nel voler essere amata dalla propria madre?!” a Raven, mi si era stretto il cuore. La stessa ragazza che mi aveva confessato di essere vissuta in un orfanatrofio: quella era la vera Alyssa.
«Bene. Dunque credi negli altri. Ora, se ti dicessi che una tua cara amica sta aspettando che ti liberi da queste catene per liberare anche lei e portarla a casa?»
“…Eleuse!” Il cuore accelerò i battiti per l’emozione.
«…Eleuse è qui?»
«Probabile. Lo scoprirai solo se riesci a liberarti! Io in…ce dev…» La voce del dio andava e veniva, come quando il cellulare non prende campo.
«Kimon? Kimon?!»
«…tire gli altr…on preoc…sa il Do…amo dop…» riuscii solo a sentire, finché il rumore cessò del tutto e mi lasciò davvero sola. Al silenzio e nel buio.
Strofinai le mani contro le braccia per cercare di trasmettere un po’ di calore al mio corpo ormai congelato.
“Il Dono, il Dono… Devo cantare. Ma cosa devo dire…?”
Con il ramoscello di alloro non avevo pensato davvero alle parole, erano semplicemente uscite dalla mia bocca come se fosse la cosa più naturale del mondo. Provai a riportarle alla mente.
«Melo̱día,
Óla eínai éna kai éna eínai óla…
I̱ zo̱í̱ mou, i̱ zo̱í̱ sas...»
♫♪♫
 
Non sembrava funzionare più di tanto. In realtà, non stava funzionando affatto.
Feci dei respiri profondi per non cedere al panico.
E se non fossi riuscita a usare la Voce? E se fossi rimasta rinchiusa lì dentro per sempre? E se…
I pensieri andavano a briglia sciolta.
Forse Emile ce l’avrebbe fatta anche senza di me, immaginavo che Kimon fosse andato ad informare le altre divinità dell’accaduto e che sarebbero arrivati presto i soccorsi. Ma sarebbero riusciti a ritrovare Eleuse? Davvero sarei dovuta morire lì dentro, senza poter riabbracciare mia madre? Ed Emile… Non potevo immaginare di non sentire più il suo profumo, di non poter più godere dei suoi baci e delle sue carezze. Avevo paura che se mi fosse successo qualcosa avrebbe potuto fare una qualche pazzia, sentendosi in colpa.
“…Fa freddo”, pensai ancora una volta. Ero così stanca… “Padre, ti prego… Aiutami.”
…Lentamente, una Melodia mi affiorò alle labbra.
«Krýo, kánei krýo.
Skotádi, eínai skotádi.
Fo̱ní̱ gínetai Fo̱s mou.
Fo̱s, gínetai Flóga.
Lió̱sei o págos kai ta fó̱ta to drómo.
Libera ména apó ti̱ fylakí̱!»
♫♪♫
 
“Freddo, fa freddo.
Buio , è buio.
Voce, diventa la mia Luce.
Luce, diventa Fiamma.
Sciogli il ghiaccio e illumina la via.
Liberami dalla prigione!”
Sentendola ardere, portai le mani alla gola. Sembrava che ne scaturisse una luce che stava rischiarando le tenebre, più nere della pece fino a un momento prima. Il gelo iniziò poco a poco ad abbandonarmi, lasciando posto a una sensazione di tepore, e il bagliore azzurro del ghiaccio si dissolse, sciogliendosi.
Dovette passare qualche minuto prima che potessi riprendermi dalla sensazione di bruciore delle corde vocali, talmente forte da togliermi il respiro.
Alzai lo sguardo mentre cercavo di tirarmi a sedere dalla posizione carponi in cui ero caduta, alla ricerca di qualcosa di familiare. Delle mani gentili mi presero per le spalle e mi aiutarono ad alzarmi.
«Sorella… Ti sei sforzata troppo» mi sussurrò una morbida voce maschile.
Un uomo sulla quarantina dall’aria saggia, con una barba grigia e i capelli mossi, mi stava fissando benevolo, posandomi più volte la mano sulla gola. A contatto con la sua pelle, il dolore diminuiva.
«Lei chi è…?»
Il sorriso si fece più ampio.
«Dammi del tu, sono un tuo fratello. Mi chiamo Asclepio.» Ricordavo qualche racconto di Emile al riguardo: doveva essere il dio della Medicina, come me figlio di Apollo. Era nato Semidio ma Zeus gli aveva poi concesso l’immortalità. Cosa ci faceva un dio così, a zonzo per gli Inferi?
Quasi indovinando la mia domanda, si mise a ridere.
«Ah, questo è un luogo dove molte anime sono costrette a sopportare terribili sofferenze. Quando posso vengo a lenire il loro dolore, ma mai mi sarei immaginato di imbattermi in una giovane satiro.»
Allora era vero che Eleuse si trovava lì!
«Satiro? Per favore, puoi dirmi dov’è adesso?» chiesi con trepidazione, ripresami del tutto dallo stordimento del freddo.
«Oh, ma è proprio dietro di te.»
Mi voltai lentamente, come in un sogno. Non feci in tempo a vedere il biondo paglierino dei suoi capelli, che Eleuse mi fu addosso, abbracciandomi.
Scoppiai in lacrime come una bambina, rilasciando tutta la tensione accumulata in quei giorni in un pianto liberatorio.
«Thara… Oh tesoro! Mi sei mancata!...»
Il suono della sua voce mi sembrava la cosa più bella del mondo, in quel momento. Volevo parlare e dirle quanto era mancata anche a me, ma le lacrime non mi lasciavano respirare e i singhiozzi continuavano a mozzarmi il fiato.
«Ele… Avevo paura di non vederti più!» riuscii alla fine a dire, col naso semi tappato.
«La tua amica è davvero coraggiosa, è resistita tutto questo tempo senza mangiare il cibo degli Inferi» fece Asclepio.
Quando mi convinsi a lasciare per un attimo il riparo protettivo delle braccia di Eleuse, la guardai. Era dimagrita, il volto era un po’ incavato e il caschetto paglierino aveva un colore molto più spento del suo solito biondo. Gli occhi, però, erano rimasti quelli vivaci di sempre.
«Cos’hai mangiato in queste settimane» le chiesi allibita.
«Mi ha aiutata il Maestro Asclepio. Senza di lui non credo che ce l’avrei fatta» rispose, sorridendo radiosa. Avevo paura che scomparisse da un momento all’altro e la sfiorai più volte per accertarmi che fosse realmente davanti a me.
«Sorella, non voglio interrompere questo incontro… Ma adesso hai altro a cui devi pensare.» Sembrava essere già al corrente della situazione.
Osservai il dio con gratitudine e annuii.
«Lo so. Ho bisogno del tuo aiuto per raggiungere l’ingresso del Tartaro.»
Asclepio scosse la testa.
«Prima bisogna avvertire Ade. Con l’aiuto dei suoi demoni sarà più facile contenere l’ondata degli archetipi.» Non mi lasciò aggiungere altro e mi indicò lo specchio ‒presumibilmente quello dal quale ero uscita io. «Torna nella stanza dei portali e entra in quello centrale, è collegato direttamente alla sala del trono.»
Ero un po’ dubbiosa: possibile che Ade non si fosse ancora accorto del pandemonio che stava accadendo nella sua dimora? Poi, Asclepio era un dio mentre io una semplice Semidea. Sarebbe potuto andare lui a parlare con Ade.
…La verità era che continuavo a pensare a mia madre trascinata verso il Tartaro e a Emile, solo ad affrontare Eris. Sempre sperando che la dea non fosse già riuscita a compiere il rito, perché a quel punto Emile avrebbe dovuto combattere anche contro dei mostri semi invulnerabili.
«Non potresti andare tu…?» provai a convincerlo, ma Asclepio fu irremovibile.
«Ho passato già troppo tempo negli Inferi, devo informare Zeus di quello che sta avvenendo qui. Spero di essere di ritorno in tempo utile, ma è giusto che vada tu da Ade.»
Eleuse mi strinse la mano nella sua con fare protettivo.
«Andremo assieme.» Avrei preferito che si tenesse fuori dalla battaglia, malconcia com’era, e mi ripromisi di farla tornare a casa il più in fretta possibile.
Salutai con un inchino Asclepio, imitata da Eleuse, e mi diressi verso lo specchio con la mia Custode al fianco.
«…Andiamo.»
“Emile, mamma, resistete ancora un po’.”
 
 
 
---
Nota dell'Autrice:
Aaaahem... Come vi è sembrato il capitolo? Sarebbe dovuto essere breve, e invece... XD
Spero non siano state troppe informazioni da digerire tutte assieme! E spero soprattutto che vi sia sembrato credibile il falso Riconoscimento di Alyssa da parte di Ares., con annessa storia delle Muse.
... Devo ammettere che Emile non sta facendo bella figura ultimamente. u_u Si deprime, fa promesse che non può mantenere, perde le staffe facilmente, aggredisce Alyssa (seppur a ragione)... Povero ragazzo, bisogna rimediare. Raven invece si è ripreso alla grande e brilla come non mai nella sua figaggine! Uhm, sento odore di Raven x Alyssa o sbaglio...?;)
Comunque, in questo capitolo si è svelato tutto! Più o meno.
...Restate con noi fino allo scontro finale!
 
Remiel ♥
 
P.S. Ecco uno schizzo di Eris e Nemesi, per dare un'idea vaga di come le immagino.
Eris
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Nemesi
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Capitolo 18
*** Cap. 16 - Crescendo ***


[Kingdom - Anathema]
[So Cold - Ben Cocks]
[Dissolved Girl - Massive Attack]
 
Posai la mano leggermente tremante sulla maniglia della porta in onice nero, incerta.
Una volta uscite dal portale, io ed Eleuse eravamo arrivate in quella che sembrava essere un’anticamera dall’aspetto lugubre. La stanza era piccola e circolare, con le pareti scure; solo due lumi posti ai lati della porta ‒davanti allo specchio‒ a rischiarare le tenebre.
Come sarebbe stato incontrare uno dei Tre Pezzi Grossi? Il dio della Morte, per giunta…
Deglutii rumorosamente, cercando di scacciare i brutti pensieri.
“Al diavolo, non può essere così terribile! Devo sbrigarmi e correre ad aiutare Emile.”
Il braccio di Eleuse attorno alle mie spalle mi infuse il coraggio necessario a girare la maniglia, quindi aprii la porta. Non avevo pensato alle regole basilari della buona educazione e mi chiesi se non fosse stato meglio bussare quando era ormai troppo tardi.
A destra, un enorme trono di ossa fuse torreggiava nella stanza, ancora una volta circolare, e sopra di esso era rannicchiata una figura dall’aria annoiata. Nel momento in cui aprii la porta, Ade (chi altri poteva essere?) si voltò verso di noi con un’espressione confusa.
«Ma cosa…?!»
Durò solo un attimo e il dio si riprese, rabbuiandosi. Si alzò imperioso e puntò contro di noi un dito affusolato.
«Chi diamine siete e cosa ci fate nel mio palazzo?»
Rimasi atterrita per qualche secondo nel cercare di escogitare una risposta decente.
Ade era diverso dalle altre divinità che avevo incontrato fino a quel momento, irradiava una potenza spaventosa. Era destabilizzante. Alto e magro, con la pelle tanto pallida da essere quasi livida, i lunghi capelli neri gli attorniavano il volto fino a giungere alle spalle.
«Divino Ade» cominciai, una volta riavutami «Io sono Cithara Greenwood, figlia di Apollo, e vengo per informarla di un grave fatto che sta avvenendo nel suo territorio…»
Il dio non mi lasciò terminare la frase e schioccò le dita.
«Furie…! Com’è possibile che abbiano oltrepassato la sorveglianza? Maledizione, questo posto non è un parco divertimenti…» Adesso, sembrava più scocciato che adirato, come se avesse avuto a che fare altre volte con la violazione del proprio domicilio.
Alle sue parole, tre esseri dalla testa di donna e il corpo d’uccello giunsero dall’alto. Non mi ero accorta che non ci fosse il soffitto, lì sotto terra era così buio che era difficile da notare.
Prima che potessi replicare, Eleuse mi spinse da parte, parandosi davanti a me.
«…La prego! Divino Ade, ci ascolti. Ne và della sicurezza dell’equilibrio!»
Ade scosse la testa ancora più seccato di prima, sbuffando.
«Pff, adesso ci si mettono anche i satiri… Non ho intenzione di perdere altro tempo. Lasciatemi alla mia tristezza e andatevene!» concluse, facendo cenno alle Furie di portarci fuori e non degnandoci più di uno sguardo.
Le donne si avvicinarono con aria poco amichevole ad Eleuse, che indietreggiò scalpitando impaziente con gli zoccoli.
«Divino Ade, rifletta! Se siamo qui è solo perché vogliamo evitare una catastrofe, non è certo per recarle disturbo.»
Il dio voltò impercettibilmente gli occhi verso di me.
«…Cosa può esserci di peggio degli ultimi tristi giorni in attesa della mia consorte?» sussurrò con voce grave.
Era di cattivo umore perché gli mancava Persefone? Sondai la sua espressione in silenzio, ragionando velocemente. Avevo aperto una breccia, ma adesso cosa potevo fare per farmi ascoltare?
«Andate a infastidire qualcun altro.»
Alzai lo sguardo puntandolo sul suo, profondo e melanconico. Quando una Furia mi prese per il braccio, mi divincolai con fermezza.
«…Eris ha radunato le Muse e si sta dirigendo all’ingresso del Tartaro per compiere un rito.»
Finalmente Ade si voltò del tutto verso di me con aria guardinga ma interessata.
«Continua» disse, fermando le Furie con un gesto della mano.
Presi un respiro profondo prima di proseguire.
«Ha intenzione di compromettere l’equilibrio e far uscire gli archetipi, potenziati rispetto agli originali, tutti in una volta.»
Rimase a fissarmi per un po’, tentennante.
«Può controllare lei stesso nella stanza degli specchi!» continuai, nella speranza di convincerlo.
Forse fu un passo falso, perché si irrigidì sentendo nominare la stanza.
«Bene! Avete bighellonato nella mia dimora e pretendete anche di dettar legge! Direi che ho ascoltato abbastanza.» Si alzò dal trono e fece per andarsene.
«Cosa posso fare affinché lei mi creda?» Ero sicura che avesse percepito la disperazione nella mia voce, ma non lo diede a vedere. Anzi, mosse una mano nell’aria volgendomi la schiena, a simulare disinteresse.
«Oggi mi sento magnanimo, vi farò solo rispedire a casa dalle Furie.»
Stavo per perdere la pazienza ‒la voglia di urlargli contro come una pazza era incontenibile‒ ma sapevo che avrei ottenuto solo l’effetto contrario.
“Sto perdendo tempo…!”
Poi, un’idea mi balenò nella mente.
Orfeo era riuscito a convincere Ade e Persefone con la sua musica, perché non ci sarei dovuta riuscire anch’io?
Chiusi gli occhi e iniziai a pensare a come raggiungere la Melodia di Ade, in pena per la lontananza della moglie. Lentamente, delle immagini cominciarono a delinearsi nella mia mente…
«Mátia tou violetí,
ta malliá tou kalampokioú pou.
Ta chéria me pétala,
triantáfyllo sto stóma.
Áro̱ma ánoixi̱s,
Áro̱ma Zo̱í̱s.»
♫♪♫
 
“Occhi di violetta,
capelli di grano.
Mani di petali,
bocca di rosa.
Profumo di Primavera,
profumo di Vita.”
Dal fruscio della veste intuii che Ade si era girato a guardarmi. Continuai a cantare con le palpebre chiuse, la figura di Persefone ora era talmente vivida che riuscivo a sentirne quasi la presenza accanto a me.
«Eímai polý makriá,
mazí me ti̱n mi̱téra mou,
allá eínai í̱di̱ Kalokaíri
Ptó̱si̱ érchetai.
Na échete apachtèí
Kai me ti̱n sti̱n pláni̱ écho̱ éthrepse:̱
Éxi spórous rodioú,
éxi mí̱nes mazí sas.
Edó̱ ta pánta eínai zo̱í̱,
edó̱ ta pánta eínai Í̱lios ...
Ómo̱s mou leípei
To í̱sycho apó to spíti mou,
Skótous tou mou toméa,
i̱ sio̱pí̱ tou vasileíou mou.
Kai metá apó af̱toús tous mí̱nes
Mou leípeis pára polý.
Periménete Ádi̱,
Tha epanéltho̱ sýntoma,
na s 'agapó̱
kai diépoun mas vasíleio mazí.»
♫♪♫
 
“Sono lontana,
assieme a mia madre,
ma ormai è già Estate
l’Autunno sta arrivando.
Tu mi hai rapita
E con l’inganno mi hai nutrita:
Sei semi di melograno,
sei mesi insieme a te.
Qui tutto è Vita,
qui tutto è Sole…
Eppure mi manca
La quiete della mia casa,
il Buio del mio campo,
il silenzio del mio Regno.
E dopo questi mesi
Mi manchi anche tu.
Aspettami Ade,
tornerò tra poco,
per amarti
e governare il nostro Regno assieme.”
Aprii gli occhi e subito li abbassai per l’imbarazzo. Tutti ‒le Furie, Eleuse e soprattutto Ade‒ mi stavano guardando a bocca aperta.
Ignorai il bruciore alla gola derivato dal canto, e tornai a parlare.
«…Ma non ci sarà nessun regno su cui dominare se lasciamo che Eris compia il rito. Anche l’Oltretomba potrebbe venire sopraffatto dall’ondata degli archetipi, oltre alla Terra.»
Il dio mi fissò in silenzio con le iridi lucide.
«…Sei figlia di una Musa. Ricordo un ragazzo col potere simile al tuo…» disse, gli occhi persi nei pensieri. «Non mi sarei dovuto fidare di Eris e Nemesi. Le ho accolte in casa mia per solidarietà, perché anch’io non sono ben visto sull’Olimpo, ed è così che mi ripagano?!»
Da arrabbiato incuteva davvero timore, alto quasi tre metri e con la sua scura aura divina.
Si diresse di gran carriera verso la stanza dalla quale eravamo uscite io ed Eleuse, chiedendoci di seguirlo.
«Non sapevo avessi quel potere…» mi sussurrò la mia Custode, dopo essersi avvicinata. Il suo tono tradiva l’emozione.
«L’ho scoperto anch’io solo qualche giorno fa» decisi di liquidare velocemente la faccenda, senza cogliere la sua muta ammirazione.
Ormai pensavo di aver capito il meccanismo: cantando in greco antico potevo sprigionare tutto il potere della mia Voce e utilizzare veramente il Dono, mentre il canto in inglese non ne era che una pallida imitazione.
Sospirai, conscia infine delle mie capacità, e deglutii per saggiare la gola. Aveva ricominciato a dolere come in fiamme, ma non avevo il tempo di preoccuparmi anche di quello.
Quando attraversammo il portale per tornare nella stanza degli specchi, la figura di Ade torreggiava ancora davanti a me, impedendomi la vista.
«Nemesi, credo che tu mi debba delle spiegazioni.» La voce del dio fece quasi tremare le pareti e gli specchi attorno a noi cominciarono a vibrare.
Mi sporsi di lato per cercare di vedere qualcosa. Nemesi stava guardando Ade di sottecchi, forse con aria dispiaciuta, in piedi accanto ad un’Alyssa e un Raven decisamente malconci. Notai che Raven le teneva le braccia dietro alla schiena per impedirle di muoversi liberamente, non che Alyssa sembrasse desiderosa di combattere.
«…Non sono riuscita a fermarla» rispose la dea.
«Non mi sembra che tu ci abbia provato. Un bel ringraziamento, davvero, attuare il vostro folle piano a casa mia… Spero solo di chiarire al più presto la mia estraneità a tutto questo!»
Nemesi abbassò il capo in silenzio, sempre guardando Ade dritto negli occhi.
«Divino Ade, credo che il tempo sia agli sgoccioli…» Non avevo certo intenzione di interferire in una diatriba divina, ma il pensiero fisso di mia madre e Emile in balìa di Eris minacciava di mandarmi in tilt. Avrei dovuto fare qualcosa prima di cedere totalmente al panico.
Finalmente Raven si accorse di me e mi sorrise. Il sorriso si fece ancora più largo quando vide anche Eleuse.
«State bene entrambe!»
«Per fortuna state bene anche voi» dissi, spostando lo sguardo su Alyssa. Lei voltò il viso dalla parte opposta per non incontrare i miei occhi. Avrei voluto farle capire che non provavo risentimento, che non la ritenevo responsabile.
«Sì, abbiamo avuto uno scontro un po’ movimentato ma ora è tutto sottocontrollo» fece Raven, liberando i polsi di Alyssa e posandole una mano sulla spalla. Ora che guardavo meglio, un taglio abbastanza profondo gli percorreva il braccio sinistro. Mi chiesi come avesse fatto a combattere, essendo mancino…
«Giovane Semidea, come hai detto non abbiamo tempo da perdere. Devo chiamare la mia armata infernale a raccolta, chi è in grado di combattere mi segua» ci interruppe Ade, perentorio. Era tornato lucido.
Raven fece per accodarsi a me trascinando Alyssa, quando mi ricordai delle condizioni di Eleuse.
«Raven… Forse avresti bisogno di riprenderti. Quella ferita sembra seria.»
«Questa?» Alzò il braccio con fare non curante. «È solo un graffio. E poi non penserai che lascerò tutta la gloria a te e Noir, vero?» ridacchiò.
Lo presi da parte, sotto lo sguardo vigile di Ade.
«Devi farmi un favore. Torna nelle stanze di Kimon e porta con te Eleuse. Necessita di cure, ma sai meglio di me quanto sia testarda.»
«Thara? Che succede?» Eleuse doveva aver capito.
«Ti prego!»
Mio fratello mi guardò in silenzio, incerto.
«…Tornerò coi rinforzi, puoi scommetterci. Aspettami e vedi di non fare niente di stupido!» mi rispose infine, prendendo sottobraccio la mia Custode e Alyssa.
«Ehi, che fai?! Thara ti prego, non andare da sola!» Mi faceva male separarmi da Eleuse dopo averla rincontrata, ma era per il suo bene. Annuii per convincermi e sorrisi.
«Grazie Raven.» Mi voltai verso Ade. «Possiamo andare.»
«Bene.»
Nemesi era rimasta in disparte, in religioso silenzio. Sapevo che non avrebbe interferito.
Mentre seguivo Ade nello specchio di sinistra e mi lasciavo alle spalle la stanza, mi accompagnarono le ultime parole di mio fratello.
«…Stai tranquilla, sono certo che Noir sta bene e non aspetta altro che mettersi in mostra.»
“Spero che tu abbia ragione…”
---
Mi guardai attorno disorientata.
Lo specchio ci aveva portato in quella che sembrava una steppa desolata, eccezion fatta per alcuni raggruppamenti di alberi neri dall’aria sinistra. Portai le mani alle braccia per trasmettere un po’ di calore al resto del corpo, rabbrividendo.
«Sono le Praterie degli Asfodeli» mi spiegò Ade.
Camminava con sicurezza sull’erba secca, invece per me era difficile tenere il passo delle sue gambe lunghe, tanto che rischiai spesso di inciampare.
Rialzandomi per l’ennesima volta, vidi in lontananza una struttura che riconobbi come il castello dov’eravamo fino a qualche minuto prima, quando un particolare attirò la mia attenzione.
«Il Tartaro è in quella direzione?» chiesi allarmata.
Un orrendo bagliore violaceo scaturiva da una foresta in lontananza, rifrangendosi sulle pareti della caverna che conteneva l’intero Oltretomba.
«Sì. Ma quella boscaglia non dovrebbe esserci! Che sia un effetto collaterale della linfa delle Muse…?»
Non ascoltai oltre le parole di Ade, perché la paura mi ottenebrò la mente.
“Emile è lì!”
Iniziai a correre.
«Aspetta! È pericoloso per te!»
“Emile, Emile, Emile…”
Corsi come non avevo mai fatto in vita mia. La luce viola si fece sempre più intensa, finché un rombo mi fece tremare la terra sotto i piedi.
«Emile!» gridai con quanto fiato avevo in corpo.
Sapevo che nonostante corressi il mio passo non sarebbe bastato a raggiungerlo in tempo.
Mi scorrevano davanti agli occhi tutti gli avvertimenti che mio padre mi aveva lanciato in quei giorni, avvertimenti che avevo deciso di ignorare troppo ebbra della felicità di aver trovato nuovamente qualcuno da amare. Qualcuno di cui potermi fidare.
“Non posso perderti così… Non posso perdere sia te che mia madre!”
Mentre la lacrime cominciavano a scorrere dagli occhi appannandomi la vista, un urlo disumano si levò dal fondo della foresta e mi ferì le orecchie.
“…Ti prego, non morire!” ebbi il tempo di pensare, i polmoni in preda alle fiamme e avidi d’aria.
 
 
 
---
Nota dell'Autrice:
...Vi chiedo infinitamente perdono! *si genuflette* Sono stata totalmente assorbita dalla preparazione ai terribili esami universitari e non sono più riuscita ad andare avanti con la storia... Avete tutto il diritto di odiarmi.
So che il capitolo non è assolutamente lungo, ma dopo un'attenta riflessione ho deciso di separarlo dal resto della battaglia. Vorrei tanto che fosse una cosa epica! Ok no, so che sarà assai difficile riuscire a scrivere qualcosa di epico... Ma io ce la metterò tutta!
Per farmi perdonare, pubblicherò anche dei disegnini extra. °v°
Mi scuso ancora una volta e, se potete perdonare la mia lentezza, vi prego di rimanere con noi. <3
 
A presto,
Remiel ♥
 
P.S. Sì, l'ultima parte è il Prologo. Siamo arrivati alla fine! Mi fa strano, sono eccitata e triste allo stesso tempo...
P.P.S. Intanto, un disegno di Thara nel cap.12, quando scopre il suo Dono. :D


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Capitolo 19
*** Cap. 17 - Eroica ***


[Call your name - Sawano Hiroyuki]
[Code Name Vivaldi - The Piano Guys]
[Immortalis - Future World Music]
[Robot Koch ft. John LaMonica - Nitesky]

“Resisti, manca poco!” continuavo a ripetermi per spronarmi a correre. “Più veloce… Più veloce!”
Nel frattempo portai la mano al bracciale, tramutandolo in arco. Sentendo il peso rassicurante dell’arma mi confortai: avevo pur sempre solo sei frecce ma almeno non ero disarmata.
Mano a mano che mi avvicinavo, la boscaglia si infittiva e rallentava la mia corsa.
«Maledizione!» urlai disperata, accanendomi contro un cespuglio di rovi che mi bloccava la strada. Quanto avrei voluto avere una spada in quel momento, invece che un arco…!
Ebbi l’impressione che il passaggio si stesse restringendo, tanto che mi sembrò di trovarmi in un tunnel piuttosto che nell’immensa grotta dell’Oltretomba. “Un tunnel senza uscita, immagino… Magnifico.”
All’improvviso, un bagliore accecante mi costrinse a chiudere gli occhi.
Ero arrivata.
Rimasi stordita per qualche secondo mentre cercavo di riprendermi dalla visione paradossale che si stagliava davanti a me.
Eris era protesa su di una grande voragine e stava versando al suo interno un liquido dorato dalla coppa che teneva stretta tra la mani. Era proprio la coppa a rilucere di viola, così violentemente da essere abbagliante. Come se non bastasse, da quello stesso burrone si stava levando una nube dall’aspetto venefico che aveva preso ad avanzare verso di me ‒o meglio, verso l’uscita.
Vidi la follia nello sguardo di Eris rivolto all’abisso, assieme all’odio covato per chissà quanti millenni, ed ebbi paura. La sua risata cupa fece tremare le pareti della grotta.
«Finalmente! Dopo tutto questo tempo…»
Come in trance, cercai con lo sguardo le nove Muse.
Stese prone in semicerchio dietro ad Eris e col volto smunto rivolto a terra, erano ormai prive di forze. A vederle così risultava difficile sperare in una loro ripresa, pareva che le catene avessero risucchiato loro ogni forza vitale. Gli anelli erano stretti attorno ai polsi e alle caviglie di ciascuna, collegando tra loro le donne, mentre i due capi delle catene erano ben saldati in un grosso cerchio, agganciato allo stelo del calice tra le mani della dea della Discordia.

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“Ma certo… Le catene!” Dovevano essere quelle la causa delle loro sofferenze!
Il calice sembrava senza fondo, il liquido scorreva inesorabile. Era la Linfa delle Muse?
Mi concessi un’ultima occhiata alla massa indistinta ch’era mia madre e avanzai. Ora come ora mi chiedo come avessi potuto dimenticare un dettaglio così importante, il vero motivo della mia corsa folle…
Incoccai una delle mie preziosissime frecce per scagliarla contro la dea.
“Non si è ancora accorta di me, è la mia occasione. Se le strappassi quel calice dalle dita…”
Le mani mi tremavano dalla tensione. Fu allora che una dolce voce familiare riemerse dai miei pensieri per tranquillizzarmi.
“Rilassa le spalle…
Prendi bene la mira…
Tendi l’arco…
…E scocca!”
«Emile!»
Non riuscii a cambiare la traiettoria della freccia quando Emile mi si parò davanti all’ultimo. Il mio cuore perse un battito credendo di averlo colpito, ma tirai un sospiro di sollievo nel realizzare che l’aveva deviata da solo, con la lama della sua spada.
«Dèi, grazie…» sussurrai, ricacciando indietro le lacrime che minacciavano di uscire.
Ci misi un po’ a capire che qualcosa non andava.
«…Emile?» Cercai il suo sguardo, senza risultato.
I suoi occhi verdi erano vitrei.
“Sono inutile.”
Lo guardai confusa. Non aveva parlato, ma era sua la voce che avevo sentito.
“Cerco sempre di aiutare gli altri… Perché? Per sentirmi dire grazie? No, forse è per provare quella sensazione di forza che segue la resa degli altri. Se mi chiedi aiuto, allora riconosci che sono più forte di te. È appagante...”
Stava succedendo la stessa cosa che mi era capitata con la Voce di Alyssa nella prigione di ghiaccio.
“Sono sempre stato debole. Come può qualcuno amare un debole? Anche lei… Vuole proteggermi perché sa che sono debole. Ma io non voglio essere inferiore a nessuno!”
Alzò il suo sguardo spento sul mio e giurai di aver visto una scintilla rossa baluginare in quel verde.
«Emile, cosa succede?» Cercai di suonare sicura ma mi tremavano le gambe.
“Io… Non voglio essere debole.”
In un lampo mi fu addosso. Non tentai nemmeno di evitarlo, era tutto troppo assurdo per essere vero.
«Uccidila, sai che quando ti guarda amorevolmente in realtà ai suoi occhi non sei altro che un gingillo da proteggere. Ora che sa di essere la figlia di una Musa e di un dio non avrà più bisogno di te! Si beerà del suo potere come tutti gli altri e ti sottometterà.» Le parole di Eris mi giunsero ovattate, l’unica cosa di cui ero consapevole erano le mani di Emile strette attorno al mio collo.
Ora avevo la certezza che era stata la dea della Discordia a instillarmi il dubbio appena uscita dalle stanze di Kimon. Il suo era un potere subdolo, forse peggiore anche di quello di Phobos, capace di entrarti dentro e minare la tua volontà con l’odio, la paura e il rancore.
«Non è vero…! Emile, sai che mente!» mormorai tentando di riprendere fiato, le mie dita avvinghiate ai suoi polsi.
A cosa era servito scoprire il piano di Eris in anticipo? A cosa era servito correre, disperarsi in quel modo?
“Non sono debole. Sono forte. L’ho promesso a me stesso.”
«E…mile…» Quando allontanò una mano dalla mia gola, una flebile speranza si riaccese in me, per poi lasciar posto all’angoscia nel vedere quella stessa mano raccogliere la spada da terra, al suo fianco. Le lacrime che avevo tentato di cacciare indietro scendevano copiose, impregnandomi i capelli e le orecchie.
Raccolsi le ultime forze in un grido disperato.
«…Ti amo!»
La lama riflesse la luce viola del calice prima di attaccare. Chiusi gli occhi d’impulso, preparandomi al dolore.
“È la fine.”
Sentii il rumore della lama penetrare nella carne. “Credevo facesse più male… O no, forse sto solo perdendo conoscenza.”
Un liquido caldo mi bagnò il volto e il collo mentre un forte odore metallico mi riempì le narici.
«Ahahah…» La risata sofferente di Emile mi costrinse a riaprire le palpebre. «…Sarei stato davvero un debole se ti avessi fatto del male. Ho giurato che ti avrei protetto da tutto, e questo significa proteggerti anche da me.»
Stringeva ancora la spada nella destra, la lama conficcata nell’altro braccio. Si era ferito per riprendere il controllo!
Ancora troppo scossa per dire alcunché, mi limitai a spostare le dita sul taglio.
«Emile…»
«Non potrei mai colpirti, Thara» disse, posando rapidamente le sue labbra sulle mie.
Un mugghio aggressivo ci interruppe e mi fece balzare il cuore in gola. Emile fu più lesto di me, si alzò in fretta parando il colpo del Minotauro appena uscito dalla voragine.
Rimasi paralizzata per un attimo nel realizzare quanto fosse enorme: alto poco meno di tre metri con delle corna appuntite come rasoi, gli occhi brillavano di un viola intenso. L’intero corpo del mostro era ricoperto da peluria ispida ma più di tutto mi preoccupavano i suoi muscoli rigonfi e pronti a scoppiare, quasi che grazie al rito di Eris avesse fatto il pieno di steroidi.
E noi avremmo dovuto cercare di tenere a bada altri mostri forti come ‒se non più‒ di quello?
“Padre, fa che i rinforzi arrivino in fretta. Altrimenti non ce la faremo mai.”
Mi sollevai anch’io, recuperando velocemente l’arco e incoccando una freccia, pronta all’attacco. Mi restavano solo cinque frecce…
“Sono stata un’idiota a non prendere una faretra seria dall’armeria. Non l’avrei rubata, si sarebbe trattato solo di ‘prendere in prestito’…” Sorrisi tra me e me, perché stavo cominciando a ragionare come una figlia di Ermes. Forse stare con Emile aveva iniziato a influenzare anche il mio modo di pensare.
«È inutile combattere! Arrendetevi, miserabili Semidèi, non avete speranze di vincere!» gridò Eris dall’altra parte della caverna, il calice sempre stretto tra le mani. Dovevo sottrarglielo ad ogni costo…
“Una cosa alla volta.”
Emile evitò l’ennesimo pugno lanciato dal Minotauro, sgusciando dalla sua presa, e mirò alle gambe con la spada. La lama rimbalzò all’indietro contro la sua pelle coriacea.
«Porca… Non può essere come quel maledetto Leone!» imprecò Emile.
«Non lo è infatti…» sussurrai, tendendo l’arco. In realtà non ne ero per niente convinta, ma avevo bisogno di infondermi coraggio.
Il Minotauro non si era allontanato molto dal luogo dal quale era uscito, la fenditura era proprio dietro ai suoi enormi zoccoli. Se solo fossi riuscita a farlo indietreggiare appena ‒quel tanto che bastava per farcelo cadere dentro‒ almeno sarei riuscita a prendere un po’ di tempo. Attualmente sembrava l’idea migliore, soprattutto perché dei ruggiti provenienti dalla bocca del Tartaro preannunciavano l’arrivo di nuove creature altrettanto desiderose di ridurci a brandelli.
Scoccai la freccia.
«Gwoooooh!!!»
«Bel colpo, Thara!»
L’uomo toro arretrò di qualche passo tra le grida di dolore, tenendosi l’occhio ferito con entrambe le mani artigliate. Un fiotto di sangue e materia gelatinosa prese a scorrergli attraverso le dita e a impregnargli la barba incolta.
“Non è abbastanza…!” pensai mentre cercavo di rimanere lucida e trattenevo i conati.
Emile lo colpì al basso ventre facendolo retrocedere ancora, finché non decisi di sacrificare un’altra freccia.
Questa volta mirai al naso taurino. Con un ultimo muggito, il Minotauro cadde all’indietro e scomparve nell’abisso.
Non ebbi il tempo di esultare, che degli occhi serpentini attirarono la mia attenzione. Dapprima un paio, gli occhi parvero moltiplicarsi in mezzo alla nube viola sempre più fitta, tanto che mi chiesi se non si trattasse di un’allucinazione. La risata malefica di Eris tornò a risuonare attorno a noi, rimbombando tra le pareti.
Emile si voltò verso di me gridando.
«Sta’ giù!»
Prima che potessi correre al riparo, una raffica di spilli piombò su di noi.
«Scusate, è qui la festa?» Profumo d’incenso.
«Ehi Noir, smettila di fare il figo. Pensavi che ti avrei lasciato tutto il palcoscenico?»
Sussultai.
«…Kimon! Raven!»
«Guarda che ci siamo anche noi!» mi rispose la calda voce di Loren.
Allontanai la testa dall’abbraccio protettivo di Emile, che si era buttato su di me all’attacco del mostro, e sorrisi ai nostri compagni. Grazie al tempestivo arrivo di Raven e Loren con due larghi scudi davanti a noi non eravamo stati colpiti dagli aculei velenosi.
«Alla buon’ora eh?» fece Emile, aiutandomi a rialzarmi.
Qualcuno replicò in tono sgarbato.
«La colpa è vostra, avreste potuto invitarci subito!» Non credevo Kimon avesse annoverato tra i rinforzi anche i figli di Ares Lena e suo fratello energumeno (che avevo scoperto chiamarsi Garrit).
Da lontano, Martha mi mandò un bacio e strizzò l’occhio, alludendo probabilmente alla mia vicinanza con Emile. Stavo per farle la linguaccia quando il sibilo stizzito del mostro mi fece accapponare la pelle.
Giusto, non era ancora finita.
Quello che si parava davanti a noi era uno scenario da incubo: dal baratro era appena uscita l’Idra in tutta la sua magnificenza, con le nove teste che continuavano a fissarci con aria davvero poco cordiale.
«Ehm… Non la ricordavo così grande» fu l’unico commento che fece Kimon, prima di eclissarsi. Era un dio, certo, ma non credevo che avesse qualche potere particolare oltre la sua aura assopente. Immaginavo avrebbe cercato di essere utile dalle retrovie.
«Bene, dobbiamo resistere solo fino a quando non arriveranno gli dèi, giusto? Poi ci penseranno loro» chiese conferma Loren. Anche in una situazione del genere non lasciava da parte quel pizzico di svogliatezza che lo caratterizzava.
Di tutta risposta Raven caricò una delle teste dell’Idra, spalleggiato dalle frecce di Martha.
«Per tutti gli dèi, abbiamo l’occasione di entrare nella storia Loren! Sii serio per una volta!» lo rimbrottò nostra sorella.
Dentro la caverna si era creato un putiferio, eliminare l’Idra si stava rivelando più difficile del previsto.
«Thara… Forse è meglio se vai via. Qui è pericoloso» mi sussurrò Emile, prendendomi da parte. La ferita che si era inflitto doveva fargli male perché era diventato pallido, con la fronte imperlata di sudore. Strappai un lembo della mia maglia per stringerla attorno al suo braccio e scossi la testa.
«Devo raggiungere Eris e toglierle quella dannata coppa dalle mani, solo così gli archetipi smetteranno di uscire dal Tartaro.»
“Solo così riuscirò forse a salvare mia madre.”
Abbassò lo sguardo, pensieroso, prima di rispondere.
«…Ho capito. Tu vai, ti copro io.»
Gli accarezzai la guancia e poi iniziai a correre, abbassandomi di tanto in tanto per evitare gli attacchi fulminei dell’Idra. Dietro di me sentii la lama di Emile cozzare contro quella che immaginavo essere la pelle del mostro.
Con un’ultima capriola e un’agilità che non credevo di possedere, raggiunsi un punto abbastanza tranquillo da permettermi di mirare al calice e dargli la giusta traiettoria per allontanarlo da Eris.
La Discordia sembrava inconsapevole di quello che le stava accadendo attorno, teneva gli occhi rossi fissi sulla bocca del Tartaro mentre mormorava qualcosa di incomprensibile. Poteva un dio cedere alla follia?
“Niente distrazioni, tira!”
«Aaaargh!»
La coppa rimbalzò sul terreno roccioso con un tintinnio, scaraventata lontano dalla freccia. Eris si voltò di scatto e mi fissò furente, le iridi iniettate di sangue.
«Tu… Hai idea di cosa hai fatto?! Hai interrotto il rituale!»
Deglutii, imponendomi di mantenere la calma e mostrarmi decisa nonostante l’aura omicida emanata dalla dea. Le puntai contro l’ultima freccia che avevo a disposizione.
«Divina Eris, è finita. Le altre divinità saranno qui tra poco... Ha perso.»
Lei cominciò a ridere in modo sgraziato, come se avessi detto qualcosa di molto divertente.
«Ti credi tanto grande perché hai più sangue divino degli altri tuoi compagni, eh? Sì, è questa la verità. Ma mi dispiace, arrivati a questo punto nemmeno Zeus in persona può fermare il corso degli eventi. Anche se non tutta la Linfa delle Muse è finita nel Tartaro… Buona parte di essa è già stata assorbita dalle creature.»
Prese un respiro e mi sorrise, mostrando i suoi affilati denti bianchi.
«Il Caos è giunto. Ho vinto.»
Un nuovo terremoto scosse la terra, quasi a conferma delle sue parole. Rabbrividii con orrore quando un paio di artigli cercarono appiglio tra le rocce e la testa leonina della Chimera sbucò dall’abisso, seguita dalla quella bicefala dell’Ortro e di non so quale altro archetipo.
La nebbia viola che non era riuscita a sfociare dall’imboccatura del tunnel, ora stagnava nell’aria rendendola irrespirabile.
«Merda, questi cosi non finiscono più!» sentii gridare Lena.
Purtroppo non fu necessario dare un’occhiata attorno per capire che aveva dannatamente ragione e che eravamo in una situazione disperata.
Eris rise ancora, di gusto, avvicinandosi a me. Speravo che fosse l’effetto allucinogeno della nube o qualcosa del genere, ma sembrava che stesse aumentando di statura avvolta nella sua aura rosso granato.
«Dovresti ringraziarmi, non farai nemmeno tanta strada per raggiungere l’Eliseo al momento della  tua morte! Quando avrò finito con te troverai i tuoi amici ad aspettarti all’altro mondo.»
Il panico mi assalì e mollai la presa sulla cocca della freccia, lanciandola involontariamente verso la dea.
Lei rimase imperturbabile anche con l’icore dorato che le scendeva in un rivolo dalla nuova ferita sulla guancia, con quel suo sorriso perfido stampato sul volto.
Indietreggiando mi trovai a toccare con la schiena le pareti della grotta e realizzai di non avere vie di fuga.
Senza un’arma e con le spalle al muro.
Ero spacciata.
Il terreno tornò a tremare ma questa volta anche Eris trasalì, fino a quando qualche spiraglio di luce comparve dall’entrata dov’era nata la foresta.
«FUORI DAL MIO REGNO!!!» La voce tonante di Ade risuonò all’interno della caverna sovrastando tutti gli altri rumori. «Eris, sarai punita severamente per le tue colpe! Arrenditi!»
«Questo mai! …Ade, proprio tu dovresti capirmi!» sibilò lei, dimentica della mia presenza.
L’armata degli Inferi era finalmente arrivata a dare man forte.
«Desiderare il Caos è qualcosa di malato, Eris! Sconvolgere l’ordine è sbagliato. Anche il Regno dei morti ha un ordine, tutto deve averlo!»
«…Zeus deve pagare!» Scandì ogni parola con odio.
Cercai di rendermi invisibile per non interferire con il loro diverbio. Assistere a uno scontro tra divinità era terribile, la tensione nell’aria quasi soffocante. Lanciai un’occhiata ansiosa a mia madre, ma da quella distanza non riuscivo a capire se si stesse riprendendo.
«Combatti contro di me, se ne hai il coraggio. Zeus non è privo di colpe però questo non ti dà il diritto di venire a casa mia e coinvolgermi nella tua vendetta personale!»
Eris si allontanò da me procedendo a grandi falcate verso Ade, più rabbiosa che mai.
«Io sono la Discordia!»
«…E io sono la Morte!»
La terra tremò ancora.
Ignorai i brividi e i crampi allo stomaco provocati dall’agitazione e ne approfittai per correre da mia madre, rischiando di inciampare sul terreno disconnesso.
«Mamma… Mamma come stai?» sussurrai dopo averle preso la testa fra le mani. Sostenere il peso morto del suo corpo abbandonato mi provocò il magone e lo sguardo spento che mi rivolse fu come una pugnalata. «Mamma…!»
Anche le donne al suo fianco avevano smesso da tempo di lamentarsi, giacevano in pose scomposte con gli occhi chiusi e il volto contratto in un’espressione sofferente.
Mi rannicchiai su di lei per farle scudo col mio corpo dai rumori della battaglia, mentre le lacrime tornarono ad appannarmi la vista.
“Ci dev’essere qualcosa che posso fare… Non può morire così!”
«Thara… Bambina mia…»
«…Mamma! Sono qui!» risposi, con rinnovata speranza. «Cosa posso fare?!» Mi spaventai della foga con cui glielo chiesi, sembrava più un’imprecazione rivolta alla sorte piuttosto che una richiesta disperata.
Mia madre riuscì solo a biascicare qualcosa prima di tornare incosciente.
«…Le catene…»
Subito, presi le catene in mano saggiandone la consistenza e le battei sulla roccia più vicina. Come era ovvio che fosse, il metallo azzurrino non diede cenno di volersi rompere.
Mi guardai intorno alla disperata ricerca di qualcosa di contundente finché non vidi luccicare una delle mie frecce. Corsi a prenderla e tornai da mia madre, cominciando a picconare gli anelli con violenza sempre maggiore.
«Perché non ti rompi?! Perché?!» Un altro colpo. La punta della freccia s’incrinò. «Perché…»
Eppure il bronzo divino avrebbe dovuto rompere con facilità quelle catene!
Stavo per abbandonarmi alla disperazione, non riuscivo nemmeno più a vedere dove stavo colpendo per colpa delle lacrime e finii per ferirmi alla mano.
«Mamma…»
Un boato proveniente dall’ingresso mi obbligò a voltarmi di scatto.
«Mi sembra un po’ troppo affollato qui dentro!» osservò una voce maschile in tono scherzoso.
«Tu e le tue solite manie di protagonismo…»
Questa volta era stata una ragazzina sui dodici anni a parlare.
«Meritavamo un’entrata in scena spettacolare. Siamo divinità, sorellina» le rispose lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Una donna con un’armatura lucente, una lancia in mano e l’aspetto molto più serio di loro li affiancò, mettendo fine al loro battibecco.
«Smettetela di blaterare e proteggete i Semidèi!»
Dietro di lei si delineò la figura massiccia di un uomo con la barba nera e grigia e un cipiglio severo, una saetta sprizzante piccoli lampi stretta nella destra. La sua aura, in quanto a potenza, non aveva nulla da invidiare a quella di Ade.
«Nessun archetipo generato dal tuo rituale uscirà di qui, Eris!»
Forse sarei dovuta rimanere affascinata dalla forza emanata da Zeus, ma in quel momento ero troppo impegnata a osservare il ragazzo che era entrato per primo.
Non dimostrava più di vent’anni e, perfino nella penombra in cui era caduta la caverna, il biondo dei suoi capelli era così chiaro da abbagliare. Nella sua armatura dorata era magnifico, la perfetta incarnazione del Sole.
Quello che avevo davanti agli occhi era mio padre.
Il cuore palpitò quando i suoi occhi incontrarono i miei. Mi aveva riconosciuta? Erano anni che non lo vedevo. Anzi, era la prima volta che lo vedevo nella sua versione giovanile.
«Thara… Vai via…» Mia madre aveva riaperto gli occhi e ora mi stringeva il braccio con debolezza.
Scossi la testa con vigore, riprendendo a colpire le catene.
«Non me ne andrò senza di te.»
Una mano calda mi bloccò il polso a mezz’aria, mentre stavo caricando un altro colpo.
«Lascia stare, qui ci penso io.»
Non mi chiesi come avesse fatto a raggiungermi così in fretta ‒d’altronde era un dio‒ e rimasi a osservare Apollo spezzare le catene di tutte le prigioniere con facilità grazie a un pugnale. Le manette che stringevano i polsi e le caviglie delle Muse si aprirono, cessando di rilucere di azzurro.
«Ora va meglio» mormorò soddisfatto.
Tornai a guardare mio padre, in silenzio, rapita dalla sua figura simile a un’apparizione. L’aura scintillante della sua armatura era dannatamente ipnotica.
Apollo diede un bacio sulla fronte a mia madre, mi carezzò la testa e si alzò sorridendo, per poi tornare alla battaglia e sparire nella mischia velocemente, così come era giunto.
Restai a fissare il vuoto che aveva lasciato per qualche secondo prima di concentrarmi nuovamente su mia madre. Pur non avendo delle ferite visibili, tutte le Muse versavano in condizioni preoccupanti.
«Stai meglio?» le chiesi.
Vedendola annuire mi rilassai e sospirai di sollievo.
«Tesoro… Hai usato il Dono?»
«Credo di sì… Sì.» Ormai non aveva senso nasconderlo.
Inaspettatamente l’espressione di mia madre si  rabbuiò.
«…Quante volte?»
La domanda mi lasciò spiazzata, ci misi un po’ a rispondere.
«Io… Non lo so. Un paio di volte. Perché?» Presa dall’ansia e dalla foga del momento avevo dimenticato il male alla gola, che tornò subito a farsi sentire.
«Non devi più usare la Voce! Altrimenti tu…»
«Thara! Attenta!» urlò qualcuno.
Riuscii a girarmi in tempo per vedere una coda gigantesca dalle scaglie adamantine venire a tutta velocità verso di me, prima di venire scaraventata contro la parete rocciosa.
«Aaahhh!»
Soffocai un gemito mentre il dolore si propagava lungo l’intero corpo come una scarica elettrica, la vista appannata. Portai la mano alla testa e la osservai: stavo sanguinando.
Una figura mi si parò davanti a tutta velocità, fronteggiando il mostro per difendermi.
Quando finalmente riuscii a rialzarmi, misi a fuoco i capelli biondi del mio salvatore.
«Papà…?» sussurrai, per poi correggermi subito. «…Emile!»
Non so da quanto stesse combattendo in quelle condizioni ma era ovvio che non sarebbe resistito a lungo. Alcuni dei lunghi aculei velenosi vomitati dall’Idra spuntavano dalle parti scoperte dal corpetto di cuoio, sulla schiena, e una lunga ustione gli copriva parte della gamba destra.
Presi la prima cosa che mi capitò tra le mani, una roccia, e la scagliai contro il Pitone con tutta la forza che mi rimaneva.
«Emile, ti prego scappa!»
Lui non rispose e rimase stoicamente a difendere la sua posizione, senza cedere di un passo.
Non stava proteggendo solo me, si era messo davanti alle Muse esanimi per non lasciarle in balìa del mostro. Stava proteggendo anche mia madre.
Arrancai verso di lui, urlando tra le lacrime.
«Padre! Aiutami!»
Possibile che nessuno potesse arrivare in suo soccorso?!
«Stai lontana!»
Il Pitone emise un sibilo minaccioso e inarcò la schiena per prepararsi all’assalto. Quando vidi i suoi denti acuminati lacerare il braccio di Emile il tempo parve rallentare.
La lama del gladio aveva passato da parte a parte la fauce superiore del mostro, rubandogli un grido di dolore, ma questo aveva arpionato il braccio di Emile e non sembrava intenzionato a lasciarlo andare. Il sangue del Pitone andò a mescolarsi a quello del Semidio.
«Emile!!!»
Un dardo dorato perforò la gola del mostro, che dimenò le spira in modo convulso fino a sparire in una nube di fumo. Sapevo che era stato mio padre a scagliare quella freccia.
Con un clangore metallico, la spada rimbalzò a terra mentre Emile cadde in ginocchio prima di accasciarsi al suolo.
Mi gettai su di lui e lo presi tra le braccia.
«…Emile! Ti prego, resisti…» Asciugai con violenza le lacrime che mi ostacolavano la vista, portando le mani al suo viso. L’odore acre del sangue mi penetrò le narici.

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«Ehi… Cos’è quell’espressione triste?» mormorò con un sorriso. Il morso del Pitone gli aveva lacerato il braccio riducendolo a brandelli e il sangue usciva abbondante. Mi accarezzò la guancia con la sinistra.
«Immagino non sia una bella visione, eh…?» cercò di sdrammatizzare riferendosi alla ferita. «Per te che hai così paura del sangue…» Fu scosso da un colpo di tosse.
Avrei voluto dirgli di smetterla, che quello non era un problema adesso e che sarebbe andato tutto bene, ma non riuscivo a parlare. Continuavo solo a singhiozzare.
Improvvisamente, come un raggio di sole si fa spazio tra le nuvole dopo la tempesta, così la mia mente si rischiarò e compresi.
Le ultime strofe della Profezia…
“Una cosa cara di certo andrà perduta,
ma la sua importanza dipenderà dalla funzione adempiuta”
Una cosa cara… O meglio, una persona cara. Avevo ritrovato Eleuse e mia madre sembrava essersi ripresa, senza le catene ad assorbirle la Linfa vitale.
I rumori della battaglia si fecero improvvisamente lontani, simili a una debole eco.
Colui che avrei perso era Emile.
Tornai al presente e osservai con nuova lucidità le sue ferite, per cercare una conferma.
«Thara, devi ascoltarmi…» biascicò mentre lo giravo su un fianco per estrarre gli aculei dell’Idra.
«Non parlare. Devi mantenere le energie per quando ti porteranno in infermeria.»
Sussultando a ogni ago estratto, continuò.
«…Non mi importa cosa succederà. Voglio solo che tu sappia… Questi giorni al Campo, con te… Sono stati i più belli della mia vita.»
Ignorai il nodo alla gola che mi si era formato nel sentire le sue parole e gli rivolsi un sorriso.
«Lo sono stati anche per me.» Pregai con tutto il cuore che non riuscisse a leggere nella tristezza dei miei occhi il mio vero intento.
Nonostante avessi cercato di tamponare la ferita, il sangue non accennava a fermarsi.
«…Ti amo.»
Lo baciai sulle labbra, assaporando quello che sapevo sarebbe stato il mio ultimo bacio.
«…Ti amo anch’io» sussurrai.
Lui chiuse gli occhi con espressione soddisfatta. Poteva finalmente riposare.
«Sono felice di averti conosciuta…»
Rallentai il ritmo del respiro, socchiudendo le palpebre. Mia madre mi aveva intimato di non usare ancora il Dono, probabilmente avrei rischiato la vita.
“La persona per la quale vivere, è anche la persona per la quale morire?”
Lo guardai per un’ultima volta e gli passai le dita fra i capelli.
“…Sì, lo è.”
«…Non ti dimenticherò mai, Emile.»
Riportai alla mente le parole che avevo cantato al ramoscello di alloro. Che buffo, erano passati solo alcuni giorni eppure pareva fosse trascorsa un’eternità da quel giorno!
Cantai.
«Melo̱día,
Óla eínai éna kai éna eínai óla
I̱ zo̱í̱ mou, i̱ zo̱í̱ sas…»
♫♪♫
 
Una luce calda mi pervase le braccia, irradiandosi dalla gola, e andò ad avvolgere le ferite di Emile.
Il flusso del sangue si interruppe, la bruciatura alla gamba iniziò a guarire.
Sentii qualcuno gridare il mio nome, forse era mia madre.
«…To rév̱ma roí̱ mésa sto Sýmpan,
af̱thórmi̱ti̱.
Epistrofí̱ sto Néa Zo̱í̱.»
♫♪♫
 
La carne tornò a ricoprire il suo braccio, solo il sangue sul terreno era rimasto a ricordare la ferita del Pitone. Lentamente, il colorito stava riapparendo sul volto di Emile.
Continuai a cantare finché non sentii le energie abbandonarmi e la testa cominciò a girare.
 
Il dolore alla gola si era fatto lacerante, oltre ad ardere ora era come se mi avessero costretta a ingoiare una miriade di spilli.
Con le ultime forze, mi stesi al suo fianco. Osservai il suo volto sereno e sorrisi.
«…Spero tu possa essere felice.»
Ancora, udii più voci chiamare il mio nome.
Poi, il mondo attorno a me divenne buio e la Melodia scomparve per lasciare spazio a un rassicurante Silenzio.
 
 
 
---
Nota dell'Autrice:
...Quanto ho faticato per scrivere questo capitolo!ç_ç Spero che non risulti come un'accozzaglia di cose a caso, ma che abbia un nesso logico anche per voi lettori. Mi è dispiaciuto non poter dare molto spazio ai ragazzi del Campo ma, essendo la storia dal punto di vista di Thara, mi è sembrato più naturale che corresse ad aiutare la madre senza prestare troppa attenzione alla battaglia.
Se qualcuno si chiede il perché dell'arrivo dei ragazzi, ebbene ecco la spiegazione: Raven (con Eleuse e Alyssa al seguito) è stato accompagnato da Kimon al Campo tramite uno dei suoi portali. Lì, hanno spiegato la situazione a Chirone e al Signor D. e mentre questi decidevano il da farsi Raven è andato a recuperare le persone di cui si fida di più (Loren e Martha) per portarle con lui e soccorrere Cithara. Lena e Garrit lo hanno seguito perché adorano Alyssa e volevano farla pagare ad Eris per come l'ha trattata.
Inutile dire che l'hanno tutti perdonata. :)
 
Riguardo questo capitolo... Non dirò nulla oltre a "non disperate". C'è ancora l'Epilogo. ♥
 
Che dire... Spero che i disegni e il capitolo vi siano piaciuti! Restate con noi per l'ultimo, vero round finale!
 
 
Remiel ♥

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Capitolo 20
*** Epilogo - Ensemble ***


[Because - Yoko Kanno]
[Teardrop  - Massive Attack]
 
Non immaginavo fosse così morire.
Immersa in un mondo tranquillo, nessun dolore, nessuna sensazione spiacevole. Solo un dolce, calmo oblio.
Ma ecco che, proprio quando stavo cominciando a pensare che sarebbe stato bello poter rimanere per sempre in quella nera quiete, una Voce si fece spazio nel Silenzio.
“…Thara…Cithara…”
‘No! Non interrompere questa perfezione. Questo posto è sicuro, qui niente può ferirmi…’
“Cithara… Non dovresti essere qui. Tutti ti stanno aspettando.”
‘Tutti…? Io conosco solo il Nulla. Non c’è un Tutto.’
Un’altra Voce, questa volta più dolce.
“Siamo in pensiero per te, Thara… Ci manchi.”
Un’altra, più decisa.
“Torna con noi.”
Una piccola luce iniziò a brillare nel buio pulsando, dapprima debole e poi più insistentemente, quasi invadente.
‘Vi prego, no… Il Nulla è confortante, ho paura di conoscere il Tutto.’
“Ma tu lo conosci già, devi solo ricordarlo. A volte è fonte di sofferenza, ma è anche una gioia immensa. Se rimarrai nel Nulla non potrai provare la bellezza del Tutto.”
‘Io…’
Nel Rumore creato dalle Voci, si insinuò una Voce calda che non aveva ancora parlato, prendendo il sopravvento.
“Thara, ho bisogno di te.”
‘Emile…?’
La luce divenne accecante mentre dei flash attraversavano il buio e i ricordi cominciavano a fluire.
“…Ti stiamo aspettando.”
Finalmente, il Rumore si fece Melodia e il Tutto prese il posto del Nulla.
 
Riprendere coscienza del mio corpo fu doloroso.
Prima le spalle, le braccia e le mani, irrigidite e sofferenti; poi il petto, il ventre, le gambe e i piedi intorpiditi. Da ultimi, aprii gli occhi.
Mi accolse il soffitto della tenda dell’infermeria del Campo.
«…Si è svegliata!» trillò Eleuse, dopo essere entrata nel mio campo visivo con un’espressione radiosa.
Portai involontariamente le mani alle orecchie (il tono squillante della mia Custode sembrava troppo alto per essere sopportato dai miei sensi intontiti) e provai ad alzarmi.
Una mano sicura ma gentile mi spinse nuovamente le spalle verso la branda.
«È troppo presto per rialzarsi, aspetta ancora un po’» mi sussurrò mio padre.
Decisi di ascoltare il suo consiglio e richiusi un attimo gli occhi, massaggiandomi le tempie. Tornai con la mente a quello che era successo nell’Oltretomba…
Il tradimento di Alyssa, la follia di Eris, l’assalto degli archetipi, l’arrivo delle divinità, il salvataggio di mia madre… Il ferimento di Emile e la mia drastica decisione. La Voce e il Silenzio.
Deglutii cautamente al ricordo della sensazione orribile che mi aveva attanagliato la gola durante il mio ultimo canto, ma il dolore sembrava essere svanito. Degli spilli acuminati restava solo un lieve formicolio.
“Cos’è successo dopo?” mi domandai, senza la forza per parlare. Voltai gli occhi per cercare un responso e, prima che dovessi dar voce al mio quesito, mia madre mi rispose.
«Dopo aver usato il Dono sei svenuta. Se ci fosse stato Asclepio…»
Apollo le poggiò una mano sulla spalla.
«…Se la sarebbe cavata lo stesso. La nostra bambina è molto forte e coraggiosa.»
Abbozzai un sorriso abbassando lo sguardo, certa di essere arrossita.
Era davvero bizzarro vedere mio padre nella sua versione giovanile, assieme alla mamma con il suo solito aspetto da donna adulta ma senza età. Accanto a lui, adesso anche mia madre sembrava più giovane.
Provai a mettermi a sedere ancora e questa volta Eleuse mi aiutò.
Una lieve agitazione si impadronì di me quando notai che attorno al letto c’erano solo loro tre, degli altri nessuna traccia.
“Gli altri stanno bene?” Inevitabilmente, il mio pensiero volò di nuovo ad Emile.
Eleuse si accorse della mia ansia.
«Oh Thara, stai tranquilla! Nessuno ha riportato ferite gravi…» mi passò una mano tra i capelli con sguardo dolce «Hai perso un po’ di cose, sei stata addormenta per una settimana.»
Sgranai gli occhi e aprii la bocca per lo stupore.
“Una settimana!”
«…Forse dovremmo ringraziare anche Kimon se ti sei risvegliata. È stato lui a guidarti nel sonno, cercando di mettersi in contatto con te. Ha sprecato molte energie» aggiunse poi, volgendo la testa di lato verso una delle tende che dividevano il mio letto dagli altri.
Un sentore di incenso si sparse per la stanza quando una mano scostò la tendina e la testa di Kimon fece capolino. Era steso sulla branda vicino alla mia e aveva un’espressione provata, nonostante il sorriso che gli rallegrava gli occhi.
«Non si abbandona una principessa in difficoltà, era il minimo che potessi fare» disse, facendo l’occhiolino.
Eleuse sbuffò divertita e si alzò per richiudere la tenda e intimargli di riposare.
Sorrisi anch’io, rilassandomi: gli altri stavano bene. E…
«…Ah, anche Emile sta bene. È stato accanto al tuo letto per tutti questi giorni, l’ho dovuto mandare via letteralmente a calci per obbligarlo a prendere una pausa!» mi anticipò Eleuse.
Tirai un sospiro di sollievo. Avrei voluto chiedere tante altre cose, ma continuavo a sentirmi spossata...
“Cosa n’è stato di Eris?”
Mio padre mi fissò intensamente, prima di rispondere alla mia tacita domanda.
«Eris è stata punita da Zeus con l’incarcerazione in un luogo sperduto dell’Oltretomba. Sta progettando una pena esemplare che le faccia passare la voglia di mettersi contro di lui. Nemesi, invece, se l’è cavata con l’esilio momentaneo dall’Olimpo.»
Ricordai che anche Ares era implicato nel piano e ripensai ad Alyssa.
«Ares è stato solo redarguito» continuò, con espressione torva «Con lui nostro padre è stato troppo buono… Sono sicuro che creerà ancora problemi in futuro, come ha sempre fatto d’altronde.»
Speravo con tutto il cuore che almeno non li avrebbe più creati a noi.
Aprii la bocca per parlare, decisa a chiedere qualche altra informazione su quella settimana passata nell’oblio, ma mi bloccai all’istante. Ingoiai un po’ di saliva e provai ancora, l’ansia che tornava a crescere dentro di me.
Al terzo tentativo fallito, abbassai lo sguardo confusa, portando le mani alla gola.
Nonostante non provassi alcun dolore, il formicolio che avevo sentito appena ripresi i sensi c’era ancora e avevo decisamente qualcosa che non andava. Non riuscivo ad emettere alcun suono.
Rialzai gli occhi e incontrai quelli tristi di mia madre.
«Hai usato troppo la Voce, Thara. È un miracolo che tu sia con noi qui, sana e salva.»
Eleuse si limitò a continuare a carezzarmi i capelli con fare protettivo, mentre prese la parola mio padre.
«Sei in grado di trasferire la tua energia agli altri, tramite il tuo Dono. Quando Asclepio ti ha curato eri in una situazione disperata e ha dovuto concentrarsi sul ripristinare le funzioni dei tuoi organi vitali… Il ragazzo che hai curato era sull’orlo della morte per questo la Voce ti ha prosciugato ogni risorsa.»
Assunsi uno sguardo deciso, pronta ad assorbire il colpo delle sue prossime parole.
«…Mi dispiace, ma sembra che per ora le tue corde vocali siano inutilizzabili.»
Ecco il vero prezzo di cui parlava la profezia: la mia voce. Ero diventata totalmente muta.
Mi ripresi, scossi la testa e sorrisi ai miei genitori e ad Eleuse per tranquillizzarli. Ero stata pronta a morire per Emile, perdere la voce era il minimo che potesse accadermi.
«…Ma Asclepio ha detto di non disperare! Il tuo è un potere curativo, quindi se starai a riposo le corde vocali potrebbero guarire da sole» cercò di rassicurarmi Eleuse, piena di ottimismo.
Poggiai la fronte sulla sua e la ringraziai con gli occhi.
«Perdonatemi, ma adesso devo andare. Mi chiamano i miei doveri di dio» fece Apollo, avvicinandosi a me per un’ultima volta. Chissà quando avrei potuto rivederlo…
Rimasi colpita dal suo abbraccio inaspettato e risposi in ritardo, un po’ in imbarazzo. Mi baciò la fronte e si rialzò.
«Forse non è molto, ma ricorda che potrai sempre continuare a parlare al cuore degli altri con il tuo violino» mi disse sibillino, prima di allontanarsi.
«Devo andare anch’io per sistemare le ultime cose con le altre Muse. Mi mancherai tanto…» mormorò mia madre con aria dispiaciuta. Mi abbracciò deponendomi un dolce bacio sulla guancia. «Tornerò tra qualche giorno a prenderti, fai la brava.»
Avevo quasi dimenticato che la stagione estiva era ormai finita, era ovvio che la maggior parte dei Semidèi sarebbe tornata dalle rispettive famiglie, ma nel realizzarlo mi prese un moto di tristezza.
Guardai i miei genitori sparire dalla mia vista e tornai a concentrarmi su Eleuse.
«Forse dovrei raccontarti quello che è successo in questi giorni…» cominciò, sedendosi più comodamente su parte del mio letto. «Si è generato un bel trambusto quando siete tornati al Campo. Tu ed Emile eravate incoscienti ma, mentre lui sembrava stare bene, il tuo battito era molto debole. Ho creduto di morire quando ti ho vista così pallida, quasi non respiravi…» asciugò una lacrima furtiva sfuggita dalle palpebre e si concesse un attimo per riprendersi.
«Gli altri stavano bene. L’unico ferito più gravemente era Raven, penso che abbia dato tutto se stesso per farsi notare da vostro padre. Non lo aveva mai visto prima…»
Sperai che Apollo avesse salutato anche i miei fratelli, uscendo dal Campo.
«…Comunque, tu non davi segno di volerti svegliare anche dopo essere stata curata dal divino Asclepio. Ha detto che eri caduta in un sonno profondo indotto dal tuo Dono per non farti soffrire, dal quale ti saresti potuta destare da sola. Allora, Kimon ha deciso di provare ad aiutarti e ha passato tutti questi giorni accanto al tuo letto per mettersi in contatto con te e spronarti a tornare da noi. Emile si è ripreso dopo un giorno di riposo e da quel momento non si è più mosso dal tuo capezzale… Non ho esagerato quando ho detto che l’ho mandato via a forza. Se n’è andato solo dopo aver parlato con tuo padre, è stata dura convincerlo.» A questo punto mi sorrise. «Sono contenta che stiate assieme. Emile è un ragazzo d’oro e non potevo sperare di meglio per la mia protetta» fece, schioccandomi un sonoro bacio sulla guancia.
Risi, afona, e tentai di chiederle di Alyssa. Assunsi un’aria corrucciata e mi lisciai i capelli, tirandoli con le mani, per simulare una buffa caricatura della rossa.
Eleuse scoppiò a ridere.
«…Intendi dire Alyssa? Anche lei sta bene. Non è stata punita e sembra che rimarrà nella Casa di Ares, visto che ormai il dio l’ha riconosciuta. Si è già ambientata e farla tornare come Indeterminata in quella di Ermes non avrebbe senso… Finché saranno solo dodici le Case divine, resterà lì.»
Annuii, compiaciuta della scelta di Chirone.
La mia Custode rimase per un attimo a guardarmi amorevole e poi si alzò dal letto.
«…Vado a chiamarti Emile?»
Scossi la mano, portandola al petto e alzandomi a mia volta. Ora mi sentivo bene, sarei andata io da lui.
Roteò gli occhi per dimostrare il suo dissenso ma mi sostenne con un braccio attorno alla vita.
«Okay, ma non sforzarti troppo. Forse è nella sua stanza.»
La ringraziai, separandomi da lei all’uscita dell’infermeria. Sapevo dove lo avrei trovato.
 
La calda brezza estiva s’infilò furtiva tra le pieghe del vestito, minacciando di alzarmi la gonna. La rassettai con la mano libera dalla custodia del violino e un sorriso mi affiorò alle labbra.
Avevo deciso di andare a prenderlo nella mia stanza prima di raggiungere Emile, per dare ascolto a mio padre. Già una volta avevo suonato per lui e il mio violino aveva accarezzato la Melodia del suo cuore, se adesso non potevo esprimermi a parole allora lo avrei fatto con la Musica.
Procedetti con calma verso il nostro luogo d’incontro, quello dove mi allenava in segreto, certa di trovarlo lì.
“…Infatti.”
Era steso sull’erba, all’ombra di un albero, con lo sguardo pensoso rivolto al cielo. Il biondo dei suoi capelli brillava, e la sua espressione assorta lo rendeva ancora più bello di come lo ricordavo, molto simile a una di quelle malinconiche statue greche che avevo visto nei libri di Arte.
Avanzai di qualche passo  e lui mi sentì. Spostò gli occhi su di me in silenzio, alzandosi subito per raggiungermi anche se all’inizio un po’ titubante.
Negli interminabili secondi in cui mi guardò, vidi diverse emozioni attraversargli il viso: sorpresa, sollievo, preoccupazione, sofferenza, amarezza, vergogna. Ma l’ultima, quella che illuminò il suo volto quando gli sorrisi, mi fece sentire davvero al sicuro. Amore, oltre ogni limite.
Abbandonai ogni remora e gli corsi incontro, saltandogli al collo.
«Thara…!» Non disse altro, continuando a stringermi tra le sue braccia e pronunciando il mio nome in un sussurro sempre più debole, finché non fu costretto a tacere per trattenere le lacrime.
Sciolsi l’abbraccio e portai la mano alla sua guancia, baciandolo dolcemente.
«Io… È colpa mia, ancora una volta ti ho messa in pericolo.»
Scossi violentemente la testa, per fargli capire che era nel torto. Lasciai la custodia del violino e gli presi il volto con entrambe le mani, guardandolo negli occhi e cercando di trasmettergli tutto il mio amore.
“Tu mi hai salvata.” dissi con le labbra.
Nel Nulla, la Voce portante era stata quella di Kimon tra quelle degli altri, ma senza la sua Voce probabilmente non sarei mai uscita dall’oblio. Gli dissi tutto questo con un sorriso, sollevata nel vedere il tormento nel suo sguardo lasciare spazio alla speranza.
Appoggiò la fronte sulla mia, le sue mani calde sulla mia schiena.
«Non ringrazierò mai abbastanza Asclepio e Kimon… E non ringrazierò mai abbastanza te.» Poi mi guardò severo. «Sei stata sconsiderata a usare il tuo Dono su di me, avresti dovuto lasciarmi morire.»
Chiusi le palpebre, avvicinando di più il mio viso al suo. L’attesa mi rese febbrile.
«…Ma se posso stare ancora al tuo fianco lo devo a te, e sono felice che tu lo abbia fatto» concluse, baciandomi con maggiore ardore e stringendomi come se avesse paura che fossi un sogno e potessi svanire da un momento all’altro.
Mi adagiai sull’erba con lui, dimentica del resto. Quando il mio piede sfiorò il violino lo allontanai con premura, soffocando una risata assieme ad Emile.
“Oh beh… Forse ci sono anche altri modi per toccare il suo cuore ed esprimergli il mio amore.”
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La folla proruppe in un applauso e in fischi di approvazione, alcuni chiesero addirittura il bis.
Leggere la soddisfazione negli occhi di Raven mi rallegrò, tanto che anch’io mi lasciai andare allo stato di euforia in cui era caduta l’intera Banda del Campo. Insomma, il Concerto di fine estate era stato un successone.
Emile, Eleuse e mia madre si avvicinarono, complimentandosi con me e i miei fratelli per l’ottima esibizione, nel mentre si formarono dei piccoli gruppi di Semidèi che si salutavano e si davano appuntamento all’estate successiva, tra lacrime e abbracci.
Per quanto assurdo che fosse, mi era sembrato di aver scorto Apollo tra la folla e credo che pure Raven se ne fosse accorto. Forse anche per quello aveva suonato in modo eccellente, ancora di più rispetto alla sua solita perfezione.
“Devi essere fiero dei tuoi figli, padre, sono dei ragazzi meravigliosi. Anzi, tutti dovrebbero essere fieri dei propri figli. Nessuno di noi dovrebbe rimanere Indeterminato.” Mi ritrovai a pensare che sarebbe stato bello se un giorno ogni Semidio sarebbe potuto essere riconosciuto dal proprio genitore divino.
Ero persa in queste riflessioni quando Alyssa mi venne in contro.
Emile mi cinse la vita con le braccia, squadrandola a lungo, ma lo tranquillizzai carezzandogli una mano e rivolsi un sorriso accomodante alla ragazza.
Lei distolse lo sguardo.
«…Volevo chiederti scusa» iniziò. «Mi dispiace di aver tradito la vostra fiducia. Non mi aspetto il tuo perdono, Cithara, e nemmeno la tua comprensione, io… Ecco, volevo solo scusarmi e augurarti un buon ritorno a casa» mormorò in un soffio.
Le presi una mano tra le mie, facendola trasalire, e la portai al cuore.
“Non hai colpe. Io ti perdono e, anzi, spero che potremo diventare amiche.”
Ora fui io a sussultare, vedendo i suoi occhi velarsi di lacrime. Fu un attimo, poi Alyssa nascose il volto dietro a un braccio con fare un po’ stizzito.
«…Io rimarrò qui. Se venissi a trovarmi ogni tanto, anche prima della prossima estate, ne sarei felice.»
La lasciai ancora senza fiato, sfuggendo alla stretta di Emile e abbracciandola.
Da lontano, Lena urlò leggermente irritata mentre si avvicinava con Garrit.
«Piccoletta, smettila di dare fastidio a nostra sorella! Non vedi che la stai soffocando?»
Liberai Alyssa dall’abbraccio e sorrisi di più.
Martha ‒da bravo gazzettino del Campo Mezzosangue‒ mi aveva avvertita di come Lena e Garrit si fossero stretti ancora maggiormente attorno ad Alyssa da quando avevano scoperto la verità. Per loro era un’amica a tutti gli effetti, quasi una sorella, e non l’avrebbero lasciata da sola per niente al mondo.
«…Resteremo anche noi al Campo» aggiunse Garrit, a conferma delle parole di Martha.
Potevo stare tranquilla che non si sarebbe annoiata durante l’inverno.
«…Rimarrò anch’io al Campo ad allenarmi. La prima Caccia alla Bandiera della prossima estate la vinceremo senz’altro noi figli di Apollo, così come tutte le altre!» fece Raven, sbucando da dietro     Alyssa e posandole il braccio attorno alle spalle, con uno sguardo beffardo a Lena e Garrit.
La rossa scostò il braccio di mio fratello e tornò l’Alyssa ostinata che mi aveva placcato nei bagni del padiglione di tiro con l’arco.
«Dovranno passare secoli prima che tu possa battermi, Lionhard. Negli Inferi sono stata magnanima, ma non ti lascerò vincere qui al Campo!»
Raven scoppiò a ridere e le cinse nuovamente le spalle.
«Non è quello che hai detto l’altra sera…!»
La voce gentile di Loren mi distolse dalla zuffa che stava per scatenarsi tra gli avvelenati Lena e Garrit, un Raven sbruffone e un’Alyssa rossa come un peperone (a detta di Martha, per l’imbarazzo piuttosto che per la rabbia).
«Qui ci separiamo… Hai suonato stupendamente Thara» fece Loren. Lui era stato magnifico, mentre suonava il violoncello sembrava un’altra persona e abbandonava la propria indole svogliata come fosse stata una crisalide, mettendoci tutto se stesso e divenendo una meravigliosa farfalla.
Quando riuscì a capirmi, si grattò la testa un po’ impacciato per il complimento e mi sorrise. «Mi mancherai tanto, compagna di arco.»
«Divertiti con Emile! Ma sempre con le dovute precauzioni, non vorrei diventare zia troppo presto» scherzò Martha. Le diedi uno schiaffetto prima di abbracciarla assieme a Loren e vederli uscire dalla barriera, verso le proprie macchine.
“Mi mancherete tutti.” pensai, mentre qualche lacrima già mi rigava le guance.
Emile non mi aveva detto nulla riguardo l’inverno, non sapevo quali sarebbero stati i suoi piani.
Mi voltai in tempo per vederlo confabulare con mia madre ‒perso in un imbarazzo adorabile‒ ed Eleuse, poi la mia custode annuì ed Emile mi si avvicinò raggiante.
Gli restituii uno sguardo perplesso, in attesa.
«Sai, era da tempo che pensavo di stabilirmi a New York… È che è difficile trovare un appartamento ad un prezzo accessibile, lo sai anche tu.»
Gli presi la mano per incalzarlo a proseguire, già col sorriso sulle labbra.
«Ehi, non essere impaziente!» disse lui, ridendo. Gli feci una linguaccia. «Dicevo… È difficile trovare un appartamento con un affitto a buon prezzo. Ma si dà il caso che Eleuse abbia una camera in più nel suo appartamento, accanto al tuo…»
Non lo lasciai finire e lo abbracciai entusiasta.
«Sembra che non ti libererai di me così facilmente» mi disse in un dolce sussurro, ricambiando l’abbraccio e baciandomi.
Ero sicura che non sarebbe riuscito a leggere il labiale, quindi mi lasciai andare.
“Vorrei che ci fossero tante sere come quella dell’altro ieri…”
Lui mi sorprese e ridacchiò.
«…Tante quante ne vuoi.»
Sorrisi.
Sarebbe stato un lungo e interessante inverno anche per me.


 
 
 
 
 
THE END.
THE BEGINNING.
 
 
 
 
 
 
---
RINGRAZIAMENTI
...E' assurdo pensare di essere arrivata davvero a scrivere i ringraziamenti, per la prima volta nella mia vita. Se in passato qualcuno mi avesse detto "un giorno riuscirai a completare una storia seria, dall'inizio alla fine", probabilmente sarei scoppiata a ridere prima, e poi a piangere per arrendermi alla mia evidente e tristissima lentezza.
"Non sarò mai in grado di scrivere una storia che abbia un capo e una coda, che riesca a invogliare qualcuno a leggerla fino alla fine", mi dicevo.
E invece no, adesso posso finalmente dire che non bisogna arrendersi mai, si deve continuare a lottare e credere in se stessi!
 
...Ma naturalmente, tutto questo non sarebbe stato possibile senza il supporto di molte persone che sono state al mio fianco.
E' d'obbligo ringraziare per prima la persona che ha permesso la nascita di questa storia e dei personaggi, chiedendomi di inventare un'OC che mi rappresentasse nel mondo di Percy Jackson. E' solo grazie a te, Tinkerbell92, che è nata Thara, accompagnata da Emile ed Eleuse, seguiti da tutti gli altri. Proprio come Emile non riuscirà mai a ringraziare abbastanza Thara per averlo salvato da morte certa, io non riuscirò mai a mostrarti tutta la mia gratitudine per aver risvegliato la mia voglia di scrivere, assopita dalle troppe critiche ricevute dalla mia prof di italiano negli ultimi anni. Ti ringrazio infinitamente, per essere sempre stata al mio fianco e avermi invogliato a prendere di nuovo in mano una penna, invece della solita matita. Un grazie enorme.
 
Ringrazio con tutto il cuore coloro che hanno commentato i capitoli, sia chi mi ha accompagnato fino alla fine, sia chi si è perso per strada o mi ha donato parte del suo tempo per commentarne anche soltanto uno:
Ailea Elisewin, BlackKay97, Ciacinski, cristy_black, Cup_Cake, eragarattini99, Lisajackson, nemi23, P e r s e f o n e
Ringrazio anche chi non ha commentato, ma ha aggiunto la storia alle preferite, alle seguite o alle ricordate: sia che vogliate lasciare un commento alla storia, anche solo a questo capitolo finale, o che preferiate rimanere dei ninja nell'ombra, grazie di cuore per aver seguito Thara fino alla fine.
 
A proposito di ninja, uno dei grazie più grandi va obbligatoriamente ad Arashi21, la migliore supporter che si possa avere! Grazie per aver ceduto alla mia richiesta di leggere questa storia nonostante non conoscessi Percy Jackson, e scusa per le attese e le ansie che ti ho riversato addosso durante la stesura. Spero tu possa perdonarmi per tutte le volte in cui ti ho mandato un messaggio in piena notte con scritto "Scusa l'orario ma.... Ho pubblicato il nuovo capitolo!!!" (come quello che hai appena ricevuto XD), facendoti pressione per avere un tuo parere. Davvero, grazie per supportarmi (e sOpportarmi!) sempre e comunque. Ti voglio tanto bene. <3
 
Grazie a tutti coloro che cominceranno a leggere la storia ora che è finita e che magari la commenteranno dopo la pubblicazione di questo ultimo capitolo: anche a voi, grazie per aver deciso di seguire Thara fino alla fine nonostante il numero dei capitoli potesse sembrare proibitivo! <3
 
Un altro grazie enorme va a mio padre, che è riuscito a resistere fino ad adesso nonostante gli abbia rotto le scatole per sapere cosa pensava di ogni capitolo. Grazie papà, per avermi sempre incoraggiato a scrivere ed essere stato al mio fianco in questo percorso. Le tue critiche giuste mi hanno fatta crescere, spero che tu possa continuare a starmi vicino, sempre.
 
 
 
... E dopo questa sfilza di grazie, posso annunciare con una soddisfazione mista a tristezza che la storia è davvero conclusa.
Questa è la Fine, o meglio l'Inizio.
Sì, perché questo capitolo della vita di Thara si è concluso, ma i personaggi continueranno a vivere dentro di me e -spero- anche dentro di voi. Non me la sento di escludere una raccolta di brevi storie su di loro o una nuova storia... Tutto è possibile!
 Spero di non aver dimenticato di ringraziare nessuno (in tal caso mi scuso çAç) e che i disegni vi piacciano. Ancora una volta,

GRAZIE.
 
Remiel


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