Whatever it takes

di Adrienne Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** What's happened? ***
Capitolo 2: *** Five month ***
Capitolo 3: *** Live or survive ***
Capitolo 4: *** Black and White ***
Capitolo 5: *** False steps ***
Capitolo 6: *** Feelings ***



Capitolo 1
*** What's happened? ***




1. What's happened?


Avevo urlato con quanto più fiato avessi in gola, tanto da sentire i polmoni bruciare per lo sforzo.
 
“Sei la persona più meschina che abbia mai conosciuto! Mi chiedo come tu possa essere circondato da tante persone… Ah già, forse lo so”avevo sputato quelle parole con tutto il risentimento accumulato in anni di litigi. Provavo fastidio al solo pensiero di averlo a meno di un chilometro di distanza, era come se mi mancasse l’aria per la troppa vicinanza perché la sua cattiveria mi rubava l’ossigeno.
“Tieni d’occhio le tue vittime come se fossero prigionieri di una fortezza di massima sicurezza, le bracchi quando assapori la loro debolezza e li manipoli con la tattica del terrore” avevo continuato imperterrita, nonostante vedessi la sua ira crescere parola dopo parola. “Hai bisogno di minacciare le persone per tenertele strette. Non ti sembra patetico?”domandai sarcasticamente con sguardo compassionevole.
 
“Attenta Bratz, potrei non rispondere più delle mie azioni…”
 
“Sai Dario, le tue particolari attenzioni non mi fanno paura. Sei solo un ragazzino troppo cresciuto che crede ancora di potersi comportare come se avesse quindici anni, perché papà a quel tempo ancora correva in tuo soccorso no? Ciò di cui non ti rendi conto è che le cose sono cambiate, i tuoi genitori ti hanno sbattuto fuori di casa e la polizia ti tiene sotto controllo in attesa del primo passo falso per sbatterti dentro. Quindi tra i due quello che dovrebbe prestare più attenzione a come si comporta sei tu, non certo io”provocatoria fino all’ultima sillaba, sapevo di essere sulla buona strada per scatenare la bestia che era in lui.
Eppure ero così stanca di quella situazione da non riuscire a trattenermi. Ero un fiume in piena, stavo rompendo consapevolmente ogni argine straripando in zone ancora a me sconosciute ma poco importava: dovevo sfogare la rabbia repressa per tutto quel tempo oppure mi sarei dovuta trovare una buona psicologa perché di quel passo lo stress mi avrebbe inghiottita senza via di scampo.
 
“Ti avevo sottovalutata, nanerottola. Non ti facevo così temeraria, ma devo ricredermi. Sarebbe davvero un peccato se ti capitasse qualcosa di brutto, magari proprio per questo nuovo lato del tuo carattere che ho appena scoperto. Mi dispiacerebbe. Certo, non al punto da venire al tuo funerale ma mi dispiacerebbe non avere più tempo per conoscerlo a fondo e vedere fin dove si spinge la tua pazienza. Potrei metterti uno dei miei scagnozzi alle spalle, sai giusto per evitare che qualcuno meno tollerante mi rovini il divertimento prima del previsto! Ho delle priorità quando si tratta di te…”La sua risata era finta, un semplice oggetto d’arredo per rendere più efficaci le sue minacce se pur con scarsi risultati, vista la mia testardaggine nell’andare fino in fondo a questa storia.
Con gli anni però avevo imparato che Dario non si spingeva mai oltre un certo limite né mai l’avrebbe fatto, soprattutto con me. Il nostro rapporto era sempre stato molto strano, costellato da periodi di odio reciproco a momenti di quasi tolleranza; non eravamo mai approdati all’indifferenza reciproca, però.
In molti si erano divertiti a giocare a Cupido, facendo scommesse su di una possibile storia d’amore tra me e il mio acerrimo nemico, ma vinceva solo chi scommetteva contro dal momento che dopo cinque anni di convivenza forzata nella stessa classe l’unica voglia che avevamo era quella di prenderci per i capelli.
 
“Priorità? Forse non hai capito che sei l’ultima persona che può avanzare diritti su di me. Sparisci, prima che il desiderio di denunciare la tua ennesima stronzata si faccia troppo prepotente!”
Questa volta la vittima era un povero scivolo situato in un parco giochi per i bambini della scuola materna del quartiere. Quel teppista si era armato di bomboletta spray e aveva imbrattato tutte le scalette con frasi poco consone ad un luogo pubblico, per di più se adibito allo svago dei più piccoli.
Ero arrivata in tempo per impedirgli di beneficiare della sua arte l’ultimo scalino, precipitandomi a strappargli di mano l’arma del crimine. Lui non l’aveva certamente presa bene, tanto da scaraventarmi contro la panchina lì di fianco un po’ per la rabbia di essere stato interrotto ma anche perché non si aspettava che qualcuno si prendesse una tale confidenza.
Non gli era passato per la mente che potessi attraversare quel ciottolato e trovarmi lì proprio mentre lui compiva l’ennesimo misfatto.
 
“Denunciare per cosa? Aver dato un po’ di allegria a queste scale di legno? Dovrebbero solo ringraziarmi, i bambini amano i colori…” ghignò soddisfatto, come se il suo gesto fosse tutt’altro che illegale.
 
“Prima o poi avrai ciò che meriti e quando quel momento arriverà, sarò lì in prima fila a godermi la scena. E’ una promessa, ragazzino.”
 
“Sei quasi riuscita a farmi venire un brivido” mi strizzò l’occhio, prendendosi gioco di me come sempre.
La verità è che sapevamo entrambi di avere un qualche strano potere l’uno sull’altra e nessuno dei due avrebbe avuto la forza di combattere il proprio nemico, perché non eravamo nessuno da soli.
Il nostro non era certo amore né tanto meno odio, ma era come se una corda invisibile non ci permettesse di allontanarci troppo per paura di perdersi.
 
“Non scherzerei tanto se fossi in te, ho appena composto il 112 e sono sicura che qualcuno avrà riconosciuto la tua voce da imbecille” sorrisi sorniona. Era questo il tipo di rapporto che ci accomunava da qualche anno, una provocazione dopo l’altra finivamo per vendicarci chi prima chi dopo senza mai lasciarci scappare l’occasione. In questo caso, io mi ero vendicata prima.
 
“Che stronza! Che c’è? Essere stata scaricata da Tironi ti frustra a tal punto da volerti rifare su di me? Avremmo potuto risolvere il tuo problema in ben altro modo, se solo me lo avessi chiesto…”
Ammiccava il bastardo, sapendo bene come colpire il mio orgoglio già ferito.
 
“Ti odio”
Tutto quello che sentii dopo furono solo rumori confusi di cui non capivo la provenienza. Urla che si sovrapponevano tra loro, voci differenti tra cui riconobbi subito la sua a me ormai così familiare, un grido più acuto di altri… “Barbara, no!”
E il buio.

 
 
La luce era di un bianco accecante, mi ricordava gli abbaglianti di quelle macchine che in un attimo di confondevano la vista perché i conducenti si erano dimenticati di spegnerli all’occorrenza.
Quello che m’infastidiva maggiormente però era non riuscire a capire dove mi trovassi e il perché di quei fari puntati addosso che m’impedivano di aprire gli occhi per mettere a fuoco ciò che mi circondava.
Si rincorrevano molti bisbigli, quei pochi che riuscivo a percepire parlavano di regolamento di conti, polizia e Dario… A quel punto sbattere le palpebre e lasciare che la luce inondasse le mie iridi dietro due piccole fessure non fu più tanto difficile. Mi era chiaro ben poco di quello che potesse essere successo ma ricordavo con certezza che lui fosse con me e che mentre litigavamo ai giardinetti pubblici per quella bomboletta, fossimo stati bruscamente interrotti da un gruppo di ragazzi molto più alti di me che avevano cominciato ad urlargli contro. La mia memoria aveva di certo subito un grave trauma tanto da sembrare apparentemente vuota degli ultimi avvenimenti, ma aveva registrato un dettaglio non trascurabile: la sua voce che gridava il mio nome.
 
“Guardate, si sta svegliando” La voce di mia madre era giunta ovattata alle mie orecchie, ma la stretta della sua mano mi avevano confermato  ciò che avevo sentito. Così presi coraggio e con un ‘Bentornata al mondo, Barbara’ avevo completato l’opera spalancando i miei occhioni nocciola scorgendo la gioia ed il sollievo delle persone sedute attorno al mio letto.
 
“Come ti senti, tesoro?” mi aveva subito domandato mio padre, l’uomo più apprensivo che conoscessi. Sebbene non fossi a conoscenza dei fatti, ero sicura di averlo fatto stare molto in pensiero e la cosa mi dispiacque non poco visto il suo animo immensamente buono.
 
“Mmm…” avevo mugugnato in risposta, essendo ancora sprovvista delle forze per sostenere una vera conversazione, ma dando comunque loro modo di apprendere quanto poco gravi fossero le mie condizioni. Per cosa poi, questo ancora non mi era dato di saperlo.
 
“Perché sono…in ospedale?”domandai quando finalmente ne fui in grado.
 
“Oh tesoro, ci sono così tante cose da raccontare! Ora, però, non è il momento. Il dottore ci ha detto di non farti stancare, anche se può sembrare assurdo visti i tre giorni di sonno che ti sei fatta.”
Mia madre era capace di sorridere in qualsiasi situazione, anche la più drammatica, e questo lo doveva a mia nonna che le aveva insegnato la capacità di apprezzare la vita assaporandola in ogni suo attimo con le labbra distese in un sorriso. Non a caso era una delle persone che più mi mancava.
 
“Tre giorni? Ma…ma come è possibile? Mi volete spiegare cosa è successo, per favore?” Avrei voluto sollevarmi da quella posizione scomoda in cui ero costretta dalla rigidità delle lenzuola che sapevano di disinfettante; ma i miei genitori furono più veloci nell’impedirmelo, aiutandomi comunque a trovare un compromesso.
 
“Devi prometterci che non ti farai prendere dall’ansia come tuo solito, però, o interromperemo subito il discorso fino a che non sarai sufficientemente lucida da non preoccuparci per le tue condizioni” si raccomandò mia madre, mentre mia sorella annuiva al suo fianco.
 
“D’accordo.” E il racconto ebbe inizio.
 
 
“Ti odio”avevo sussurrato con tono amareggiato. Non mi feriva tanto il suo essere spietato, quanto il fatto che lo fosse stato su una cosa che mi era così a cuore.
No, non ero innamorata di Samuele ma un tradimento non era mai semplice da affrontare e Dario questo lo sapeva bene perché nonostante i nostri continui battibecchi mi era stato vicino più di qualunque altra persona.
 
“Ti fai mettere i piedi in testa da una ragazzina adesso? Sei caduto proprio in basso eh” si era intromessa una voce a me sconosciuta proveniente da un punto non ben definito, probabilmente nascostomi dalla figura del mio interlocutore.
 
“E’ sempre un piacere, Abram” aveva risposto Dario voltandosi verso di lui con un sorriso strafottente, lo stesso che usava ogni qual volta volesse mostrarsi forte.
 
“Non ne sarei così convinto, Maltese, a meno che tu non abbia risolto quella questione…”
Per un attimo mi era parso di vedere il ragazzo in difficoltà, ma così fu non potei dirlo con certezza perché assunse in breve la sua solita espressione sprezzante, da duro.
 
“Come sei fiscale, Giac…”Non ebbe nemmeno il tempo di finire che quel tizio aveva già estratto una pistola dalla tasca della giacca e l’aveva puntata contro di me.
 
“Non uccido te solo perché poi non potrei riscuotere ciò che mi spetta; ma la tua amichetta non sarebbe un grande spreco. Forse così capirai che con Abram non si scherza.”
Non riuscii a realizzare le sue parole finché non vidi Dario fiondarsi su di me gridando: “Barbara, no!” E uno sparo, un solo rumorosissimo sparo.
 
Fui scaraventata a terra nello stesso istante in cui un dolore lancinante mi colpì al braccio, trasformandosi in fuoco vivo sulla mia pelle pochi secondi dopo.
Avevo sbattuto la testa nel brusco atterraggio e un peso non ben definito mi schiacciava il corpo contro il ciottolato di quel viale dove fino a poco prima stavamo discutendo animatamente io e lui. Già, lui. Un brivido mi percosse mentre la consapevolezza di non aver traccia di quel ragazzo dilagava in me imperterrita. L’ultima volta che lo avevo visto si stava precipitando verso di me. Poi ero caduta… E in quegli ultimi istanti di lucidità realizzai una cosa: Dario mi aveva protetta con il suo stesso corpo.
 
 
“No tesoro, non fare così…” L’abbraccio di mia madre si strinse di poco lasciandomi libera di dar sfogo ai singhiozzi repressi nel minuti precedenti, mentre le voci dei tre componenti della mia famiglia si alternavano per rendere il racconto ancor più dettagliato. Probabilmente era stato in quell’arco di tempo, tra un respiro mozzato e l’altro, che alcune lacrime silenziose mi avevano rigato il volto trasfigurato dall’ansia per la sua sorte.
 
“Lui…lui dov’è?” chiesi un istante prima di scoppiare di nuovo a piangere convulsamente.
 
“Al piano di sotto, in camera intensiva. I dottori hanno detto che preferiscono accertarsi che l’intervento sia andato per il meglio e che il risveglio non gli causi problemi prima di procedere. Quindi per ora è bene tenerlo sotto stretto controllo” aveva risposto questa volta mio padre, mentre mia sorella si era avvicinata ad accarezzarmi i capelli lasciandosi stringere morbosamente la mano libera.
 
“Appena ti sarai ripresa un po’ potrai andare a trovarlo, Barbie. So che vorresti precipitarti da lui subito, ma devi riguardarti anche tu per il momento” mi sorrise bonaria quell’angelo di sorella maggiore che avevo, Roberta.
Annuii, consapevole di non poter ottenere di più. In fondo il proiettile mi aveva colpita solo di striscio e il trauma cranico dovuto alla caduta non sembrava poi così grave; quindi non sarebbe passato molto tempo da lì alla mia guarigione. Entro uno, massimo due giorni, sarei andata a fargli visita: glielo dovevo e ne avevo bisogno, inutile negarlo.
Erano passati cinque anni da quando per la prima volta Dario Maltese ed io ci eravamo rivolti la parola e da allora non era passato giorno in cui non ci scambiassimo anche solo uno sguardo, una battuta sarcastica o un sorriso complice. Non ci eravamo mai scambiati i numeri di telefono -anche perché, conoscendolo, mi avrebbe tormentata con i suoi stupidi scherzi- né ci eravamo mai cercati sui social network più in voga al momento; mai un bigliettino in classe per accordarci sul vederci quel pomeriggio eppure inevitabilmente ci incontravamo ogni giorno, fuori o dentro la classe che fosse. Eravamo assuefatti dalla presenza altrui, seppur non sopportandola che per pochi secondi e a volte neanche quelli bastavano a non farci litigare come cane e gatto. Antitetici era l’aggettivo giusto che descriveva cosa fossimo: io bionda, lui moro; io occhi marroni, lui occhi verdi; io bassa, lui alto. Magri entrambi, questo era forse l’unico elemento che avessimo in comune; ma anche qui le discussioni non erano mai abbastanza e Dario più volte aveva tentato di offendermi dandomi del pompelmo anche per via della sfumatura rossastra che assumevo quando perdevo la pazienza.
Insomma, mai coppia di nemici fu più diversa di noi. Eppure mai coppia di nemici fu più di qualsiasi cosa fossimo noi.

 
 
I giorni trascorsero lenti e inesorabili e, a dispetto di ciò che avevo creduto possibile, non mi era stato permesso di allontanarmi dal letto di ospedale sul quale stazionavo ormai da tempo immemorabile. Altri due giorni e non ero riuscita a vederlo, mi sembrava quasi una mancanza nei suoi confronti perché lui mi aveva salvato la vita ed io non l’avevo ancora ringraziato a dovere. Era con questa stupida scusa che cercavo di convincere dottori e parenti a lasciarmi libera di scendere al piano di sotto anche solo per qualche minuto; in realtà sentivo la necessità di andare da lui perché mi mancava, non era mai passato così tanto tempo senza che ci vedessimo e soffrivo ogni ora di più all’idea di dover posticipare di nuovo quella visita.
 
“Toc, toc! E’ permesso?” Roberta fece il suo ingresso nella stanza accompagnata da un peluche e da un mazzo di fiori, probabilmente un regalo di pronta guarigione, l’ennesimo che ricevevo in quei giorni.
 
“Ciao, Robi” sorrisi incapace di proseguire i miei pensieri di fronte a lei.
 
“Come va stasera? Mi sembri più in forma… Riesci anche a stare seduta finalmente!”
 
“In effetti ho riacquistato quasi tutte le forze e il braccio fa molto meno male, quindi credo di essere sulla retta via per uscire da questa camera a breve, non credi?” smorfia innocente di chi fa conversazione solo per passare il tempo.
 
“Credo di sì, forse anche stasera stessa stando a quello che mi hanno appena detto i dottori” buttò lì così, rischiando di farmi venire un colpo al cuore e prolungare la mia permanenza in ospedale.
 
“Davvero?” Dovevo avere gli occhi lucidi per l’agitazione e forse fu per questo che mia sorella mi poggiò una mano sulla spalla, delicatamente, spingendomi verso il cuscino; se non mi fossi calmata, il medico non avrebbe ritenuto opportuno farmi compiere un tale sforzo più che per la mia salute fisica, per quella mentale.
 
“Più tardi però, quando l’ospedale sarà meno caotico e se mi prometti che non ti farai prendere dall’ansia. Sono stata a trovarlo oggi e non è proprio lo stesso ragazzo che mi aspettavo di trovarmi di fronte; quindi mi devi promettere che manterrai la calma e che ti farai accompagnare da me, o da mamma e papà.” E anche in quel caso non mi restò che accettare le sue condizioni: avrei fatto di tutto pur di riuscire finalmente ad andare da Dario.
 
Un paio d’ore dopo stavo attraversando il lungo corridoio del mio reparto su di una sedia a rotelle spinta da mio padre; le pareti erano così lucide da sembrare di cartongesso e il silenzio che aleggiava contribuiva a quell’atmosfera tesa che si era creata attorno a noi, costringendoci a ingannare gli sguardi indagatori che tra di noi ci posavamo addosso.
L’odore di disinfettante sembrava non essere una prerogativa esclusiva delle lenzuola del mio letto, ma un elemento caratteristico di tutto l’ospedale come la prevalenza del colore bianco. Non c’era molto traffico in quel frangente, forse perché avevano scelto apposta quel momento della serata per accompagnarmi fino al primo piano dove avrei trovato il mio acerrimo nemico, lo stesso che qualche giorno prima mi aveva salvato la vita.
 
“Sei sicura di sentirtela? Non è in buone condizioni, nonostante sia fuori pericolo ormai. Non si è ancora ripreso dal coma e non me la sento certo di mentirti su quanto i dottori siano preoccupati all’idea che il risveglio possa essere ancor più difficile del sonno.” Era stata diretta mamma Lucia, probabilmente per evitarmi lo shock del primo impatto; quello che non sapeva però era che nulla mi avrebbe impedito di stare accanto a quel ragazzo per i pochi minuti che mi erano stati concessi dopo richieste su richieste di accordarmi tale permesso. No, non avrei rinunciato.
 
“Non ti preoccupare, mamma”mi limitai a rispondere mentre varcavamo le porte dell’ascensore.
Da lì alla sua camera il passo fu breve.
 
“Noi restiamo qui fuori… Chiama per qualsiasi cosa, tesoro.”
Le parole dei miei genitori furono attutite dal suono incessante del mio cuore che batteva all’impazzata, tanto da farmi temere un attacco cardiaco da lì a pochi secondi.
Dario era straiato subito con le braccia stese ai fianchi con una miriade di tubicini addosso che lo tenevano collegato ad altrettanti macchinari, alcuni più imponenti e spaventosi di altri. Il volto era sfregiato da alcuni graffi dovuti probabilmente alla brusca caduta nel tentativo di salvare me, ma la mia attenzione fu catturata da quei tratti, solitamente distesi in smorfie sprezzanti o provocatorie, adesso completamente tumefatti. E quella importante fasciatura che il camice lasciava intravedere, la quale celava sicuramente la traccia dei punti di sutura dovuti a quella rischiosa operazione che aveva avuto come protagonista un polmone. Il polmone sinistro, per la precisione.
 
“Dario…” sussurrai come se temessi di poterlo svegliare. Naturalmente non ottenni risposta.
“Dario” alzai di poco la voce, nervosa. Se i miei genitori mi avessero vista in quel momento, avrebbero sicuramente ritenuto opportuno riaccompagnarmi in camera e non avrebbero voluto sentir ragioni. Come dargli torto, in fondo?
“Dario… Dario… Dario!” Mi resi conto di aver alzato troppo la voce quando voltandomi incrociai gli sguardi preoccupati dei miei genitori e di mia sorella. Decisi quindi di tentare un sorriso rassicurante che li convinse ben poco a giudicare dalla smorfia scettica di Roberta, ma che li fece desistere dal trascinarmi via da lì prima del tempo.
Trascorsi i minuti restanti accanto a quel corpo inerme nella vana speranza di vederlo reagire a contatto con la mia mano che stringeva delicatamente la sua; ero rimasta in silenzio, un silenzio assordante per un rapporto conflittuale come quello che c’era tra me e lui, ma che non avevo la forza di spezzare se lui non fosse stato il primo in grado di farlo.
 
“Barbara, è ora di andare.” E il silenzio proseguì anche durante il viaggio di ritorno alla mia stanza.

 
 
Quei pochi minuti divennero ore con il passare dei giorni senza che mi stancassi di premere il pulsante con il numero uno e scendere al piano sottostante il mio per far visita al paziente lì ricoverato. Per dieci volte avevo visto quelle ventiquattro ore ripetersi uguali le une alle altre, senza poter godere del sorriso sbeffeggiatore di quel ragazzo che si era preso il peggio di me trasformandolo in una carica di dinamite pronta ad esplodere all’occorrenza. Lui si era preso il peggio di me senza chiedere il permesso, non preoccupandosi di portare via anche il meglio perché quello sarebbe stato riservato per sempre alla mia famiglia e a chi avrebbe lasciato un ricordo effimero in me, i miei ex e futuri fidanzati o amici. Lui si era preso ciò che sapeva nessuno avesse mai scoperto in me, la ragazza più gentile e dolce della scuola a detta di tutti; la più scontrosa ed orgogliosa, a detta sua. Lui si era preso un pezzo raro, non si accontentava mai lui.
 
“Dario…” Anche quel giorno ripetei il suo nome, come sempre d’altronde, attendendo una sua risposta che ancora una volta non arrivò.
 
“Sai, oggi il medico mi ha detto che se continuo così a breve potranno dimettermi. Non so se esserne triste o felice… Chi verrà qui ad assillarti con queste chiacchiere inutili cinque volte al giorno poi? Consumerei più benzina così che per andare e tornare dagli States!” ridacchiai della mia stessa battuta, ormai abituata a non stupirmi del suo mutismo di fronte ad una oscenità del genere. “Sei patetica, Bratz” sarebbe stata la sua risposta.
I dottori mi avevano invitata a parlare con lui tutte le volte che ne avessi la possibilità; dicevano lo aiutasse a mantenere i contatti con il mondo esterno e che continuando così presto si sarebbe svegliato. Inutile dire che non me lo fossi fatto ripetere due volte, cogliendo l’occasione per stare il più vicino possibile a quell’odioso ragazzino che si era cacciato in un pasticcio più grande di lui rimettendoci quasi la vita… Per salvare la mia.
E con questi pensieri, la sua mano stretta nella mia e la testa appoggiata accanto al suo corpo, sprofondai in un sonno pesante popolato da sogni movimentati.

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Capitolo 2
*** Five month ***



2. Five month


Il cinguettio allegro dei passerotti e i caldi raggi del sole ormai alti nel cielo mi diedero un buongiorno inaspettato.
L’ultima volta che ricordavo un contatto con la realtà risaliva alle fredde temperature di un inverno arrendevole, prossimo a lasciare il posto alla primavera ancora troppo timida per ricordare alla città della nebbia il sopraggiungere della bella stagione.
Aprii gli occhi ancora preda della confusione per quell’evidente salto temporale, decisa a scoprirne di più.
Tutto in quella stanza lasciava intendere che la stagione estiva fosse ormai avanzata, a cominciare dall’assenza di piumoni e coperte di lana nelle quali ero solita avvolgermi fino a Marzo inoltrato.
Il termostato appeso alla parete segnava venticinque gradi; poco sopra il climatizzatore sbuffava aria fredda senza sosta.
Raccolsi distrattamente il cellulare, rovinato a terra dopo essere stato travolto dal tornado nel quale mi trasformavo durante la notte.
Con non poco stupore, mi accorsi della data che troneggiava al centro del display: 20 Luglio 2008.
Possibile che l’ultimo dato registrato dalla mia memoria risalisse a Febbraio?
Non mi restava altro che ricorrere all’unica fonte certa a cui sapevo di potermi rivolgere senza sembrare preda di una crisi esistenziale, mia madre.
 
Recuperai velocemente le infradito abbandonate accanto al letto e scesi le scale, preda di un’ansia sempre più prepotente.
Indossavo un semplice baby-doll, probabilmente un regalo di mia sorella dal momento che non ero solita fare acquisti del genere. Comunque, non poteva essere certo definito un cattivo affare vista la semplicità della trama, la qualità e lo spessore soddisfacente della stoffa; un completino rosa e bianco per niente male.
Questo però confermava che ci trovassimo in piena estate, dove nemmeno una ragazza freddolosa come me riusciva ad indossare qualcosa di più pesante.
Giunsi all’ultimo scalino con il fiatone, dettaglio che non sfuggì a Roberta, mia sorella.
 
“Ehi, tutto bene?” domandò guardinga, la voce carica di un’ansia pari alla mia ma di cui non conoscevo l’origine.
 
“Ho avuto risvegli migliori. Sai dov’è la mamma?”
 
“Lavanderia, alle prese con la programmazione della nuova lavatrice che sembra non voler collaborare” m’informò con rinnovata tranquillità, eccetto poi per ciò che ne seguì. “Se hai bisogno, Barbara, basta un piccolo cenno. Sono qui, quando vorrai parlarne”.
E si chiuse la porta di casa alle spalle, probabilmente diretta all’università.
Inutile dire quanto le mie perplessità fossero aumentate in seguito a quella conversazione priva di senso, almeno per me.
Decisi comunque di accantonare il problema per il momento e di andare a cercare mia madre in lavanderia, desiderosa di riempire quel vuoto di memoria al più presto.   
 
La signora Gaiti, Lucia per gli amici, era una donna dai mille contrasti.
La pelle chiara e gli occhi color cioccolato che ci accomunavano passavano in secondo piano quando l’attenzione ricadeva sulla fluente chioma rossastra.
In famiglia, ero l’unica ad avere i capelli biondi ma la somiglianza con la mia genitrice era inconfutabile. Persino quei fili lisci color del grano avevano la stessa consistenza della sua capigliatura infuocata.
La trovai in lavanderia come mi aveva detto Roberta, impegnata ad inveire contro la lavatrice che sembrava decisa a scioperare.
 
“Mamma?” tentai, intimorita dalla reazione che avrebbe potuto avere se interrotta.
Lei però sembrò tutt’altro che arrabbiata quando finalmente mi riservò la sua attenzione.
Era cauta e dubbiosa, come se la mia apparizione l’avesse lasciata perplessa. Il suo sguardo vagava su tutto il mio corpo, alla ricerca di una conferma sebbene io non sapessi quale.
 
“Tesoro, ben svegliata” mi sorrise dolce.
Stentavo a riconoscere la donna che mi aveva messa al mondo, piena di grinta e con la battuta sempre pronta.
Le domande si affollavano sempre più nella mia testa, le risposte scarseggiavano.
Avrei voluto dare voce a tutti i dubbi che mi tormentavano da quando avevo aperto gli occhi, ma c’era ancora quella tremenda sensazione di aver perso qualcosa. Giorni trascorsi e di cui non ricordavo nulla.
Decisi quindi di accantonare il resto, focalizzando l’attenzione sulla risposta che più mi premesse, mentre mia madre mi fissava paziente e indecisa sul da farsi.
Non l’avevo mai vista in difficoltà, mai.
 
“Che giorno è oggi?”E nel dirlo, fui la prima ad avere seri dubbi circa la mia sanità mentale.
Tutti i più degni film che avevano come protagonisti persone con qualche disturbo cominciavano così.
Anche lei mi guardò, la stessa espressione perplessa di poco prima, per poi rispondermi semplicemente “Il 20 Luglio, amore”.
Ed ecco la conferma che qualcosa non andava come avrebbe dovuto. In primis, lo sguardo addolorato di mia madre.
 
“Buffo, mi sono svegliata con la convinzione di trovarmi in pieno inverno” cominciai. “Febbraio, per la precisione”.
Fu poco più di un sussurro che parve comunque chiaro alla donna che avevo di fronte.
 
“Oh, tesoro” mi abbracciò, la voce rotta per qualche strano motivo.
Non mi era sfuggito quell’inusuale utilizzo di nomignoli affettuosi o del mio nome completo da parte di mia madre e mia sorella.
In casa, con gli amici ero sempre stata abituata ad essere chiamata Barbie.
Solo io vantavo quel diminutivo, quindi non c’era mai stato motivo di distinguersi con altri vezzeggiativi inutili. Tutti mi conoscevano come Barbie, tutti eccetto uno.
Chissà dove si era cacciato Maltese.
 
Ancora una volta, decisi di dare la priorità a quella strana quanto inquietante verità: avevo un vuoto di cinque mesi.
A Dario avrei pensato più tardi.
 
Con mille pensieri che vorticavano nella testa, tornai in camera dove con mia grande sorpresa trovai il climatizzatore spento e la finestra spalancata.
Un caldo profumo estivo invadeva la stanza, tanto da annebbiare per un attimo tutte quelle preoccupazioni.
Amavo particolarmente l’estate perché mi permetteva di camminare con il viso rivolto al sole, seppur attenta a non esporre troppo la mia carnagione lattea ai suoi potenti raggi.
Finalmente potevo indossare il vestitino ormai consunto con cui ero solita girovagare per il centro durante le vacanze estive.
 
Di nuovo, però, la mia attenzione fu catalizzata da altro.
Una bambolina di pezza se ne stava comodamente seduta sulla scrivania, gli occhi puntati su di me.
E la mente volò a due anni prima.
 
Era il 9 Aprile, il giorno del mio diciassettesimo compleanno.
La primavera era ormai sbocciata e il mio umore era positivamente influenzato dai ciliegi in fiore.
Purtroppo però la tranquillità non poteva durare che un solo attimo.
Maltese si era presentato a scuola con un pacchetto malconcio in mano, sicuramente opera sua a giudicare dalla poca femminilità della carta regalo, e si era avvicinato a me con il suo solito ghigno.
 
 
“Buondì Bratz! Dov’è il bastone? Te lo sei mangiato per colazione?” aveva esordito senza smettere di sorridere, perfido.
 
“No, ho pensato fosse meglio lasciarlo a casa oggi: sapevo che la tentazione di infilartelo in un occhio sarebbe stata troppa” risposi incamminandomi verso il laboratorio di scienze. Non gli avrei permesso di rovinarmi anche quella giornata, la mia; quindi era meglio allontanarsi dal pericolo che incombeva.
 
“Quanta fretta, ma dove corri? Dove vai?” cominciò a canticchiare mentre mi raggiungeva con due falcate. “Sbaglio, od oggi è il tuo compleanno?”
 
“Ma non mi dire! Anche tu hai un cervello dove immagazzinare dati… Ah no, la tua è solo una memoria espandibile da mezzo giga!” sghignazzai fiera della mia battuta.
Dario stranamente ignorò la mia acidità: questo avrebbe già dovuto mettermi in allarme, ma alla mattina ero troppo poco presente per stare dietro alla mente perfida di quel ragazzo.
 
“Ti ho preso un regalo”disse tutto d’un tratto, lasciandomi interdetta a fissare il vuoto nel tentativo di capire dove volesse andare a parare. “Dovresti almeno ringraziarmi, non credi? Oppure cominciare accentando il pacchetto che ti sto porgendo”.
“Hai perso l’uso della parola?”continuò in tono beffardo, non ricevendo risposta.
Finalmente mi decisi a prendere, o meglio strappargli dalle mani quel sacchettino colorato.
E dentro trovai lei, Bibì, una bambola di pezza che avrebbe dovuto ricordarmi giorno dopo giorno quanto il nome ‘Barbie’ fosse poco adatto ad una ragazzina insulsa come me.
Almeno questa era stata la sua giustificazione a quel gesto inaspettato.
 
Ricordavo come fosse ieri quel giorno.
Il primo regalo di Maltese. E l’ultimo.
Quella mattina però vedere quella piccola bambola aveva risvegliato in me uno strano presentimento, qualcosa di negativo che forse avrei dovuto sapere.
Era come se la mia memoria avesse cancellato i dettagli più importanti di un tempo ormai passato.
 
Infastidita da quella strana sensazione ma altrettanto incapace di metterla a tacere, aprii l’armadio alla ricerca del mio vestitino di cotone azzurro.
 
L’afa che si respirava quel giorno era insopportabile quasi quanto i miei pensieri sconnessi.
Forse avrei dovuto semplicemente lasciar correre e accettare di aver rimosso cinque mesi della mia vita, finiti chissà dove. In fondo, se la mia memoria aveva operato una simile selezione un motivo doveva pur esserci.
Poi però ripensavo allo strano presentimento, alle domande che si rincorrevano furiose.
Come era andata la maturità? Perché non ero in vacanza con le amiche come già a Febbraio progettavamo? E perché mia sorella e mia madre mi trattavano con tanto riguardo?
Infine lui, Dario.
Quel ragazzino riusciva a farmi impazzire anche senza ronzarmi fastidiosamente intorno.
Ancora una volta era riuscito a disturbare la mia quiete, con quella stupida bambolina che per qualche strano motivo avevo deciso di custodire con tanta cura.
 
Con la testa affollata di domande a cui raramente trovavo risposte, camminavo tra le vie del centro quando m’imbattei nel gruppo di teppisti della zona, gli scagnozzi di Dario insomma.
 
“Guarda un po’ chi si vede!” Il tono sarcastico con cui il comandante in seconda della ciurma aveva esordito non mi era piaciuto per niente.
Tentai invano di superarli senza essere costretta ad uno scontro frontale; ma evidentemente non era ciò che volevano loro, dal momento che mi sbarrarono la strada con un’espressione ben poco amichevole.
 
“Sparisci, Longeri” sbuffai. “Ho già troppi problemi a cui pensare. Non mi serve anche un ragazzino che giochi a fare il bulletto.”
 
“Problemi? Tu?” Si avvicinò impercettibilmente, lo sguardo infuocato. “Sei l’ultima che può lamentarsi!”
Ci fu un momento di silenzio, dove i suoi amici sembrarono perdere la parola e io mi persi tra altre mille domande che invasero la mia mente.
Perché era così arrabbiato con me quell’imbecille? Di solito il peggio me lo riservava Maltese.
Ancor più strano mi parve l’assenza di quest’ultimo: quei due erano inseparabili e il gruppo a seguire.
“Mi chiedo ancora perché non abbia lasciato che ti tappassero quella fogna per sempre” concluse infine Longeri, tra sé e sé.
 
“Non so di che disturbo tu soffra, ma qualsiasi cosa sia non voglio saperne niente. Perché non vai dal tuo amico a raccontargli del problema che affligge il tuo povero cervello, eh?”
I miei occhi non ebbero il tempo di registrare quanto stava accadendo, tanto fu la rapidità con cui quel ragazzo mi si fiondò addosso.
Mancavano poco più di due centimetri quando i suoi compagni lo afferrarono per impedirgli di stringere le sue mani attorno al mio collo.
Dal canto mio, le parole mi morirono in gola.
Tutti gli insulti che avrei voluto vomitargli addosso per aver osato tanto vennero offuscati da quello sguardo carico d’odio che mai avevo visto sul volto semisconosciuto di Longeri.
Per lo più, i miei gentili improperi erano indirizzati a Maltese.
 
Non mi restò che allontanarmi sempre più velocemente da tutte le offese che quel teppista mi stava rivolgendo.
Scappai verso la metro, per niente certa sulla meta da raggiungere ma sicura di voler fuggire per qualche ora da quel mal di testa ormai insopportabile.
Troppi pensieri, idee inespresse. Troppi dubbi irrisolti, nessuno a cui chiedere spiegazioni.
Così saltai sopra il primo treno disponibile con l’intenzione di scendere alla fermata successiva, magari in cerca di un parco dove poter riposare all’ombra di un albero.
 
Vagai per la periferia per venti minuti senza trovare un ambiente soddisfacente.
Fino a che non scorsi un parchetto, quasi una radura, al centro di un boschetto sopravvissuto alla cementazione di ogni angolo verde della città.
Man mano che mi addentravo, mi accorgevo di quanto paradisiaco fosse quel posticino dimenticato da tutti.
Lo smog naturalmente avrebbe impedito a chiunque di scordare dove ci si trovasse, in una città abitata da milioni di persone e con altrettante automobili pronte ad inquinare.
I raggi del sole però sembravano contenti di riscaldare quell’ambiente e di lasciare agli animaletti che lo popolavano un po’ di tranquillità.
Quando ormai mancavano pochi passi, mi bloccai.
Al centro di quel piccolo prato, una figura maschile puntava il suo sguardo verso di me, immobile come mai l’avevo vista.
 
“Maltese, qual buon vento?”
Dario sembrò riflettere un attimo sul da farsi, indeciso forse se attaccarmi o lasciare che la nostra conversazione per una volta prendesse una piega quantomeno neutrale.
 
“Potrei farti la stessa domanda, Bratz. Anche se sono convinto che la tua brillante spiegazione mi annoierebbe a morte” ridacchiò sulle ultime parole, di una battuta che probabilmente a me non era dato di capire.
Capitava spesso che quel ragazzino facesse dell’ironia a me incomprensibile, al solo scopo di farmi innervosire. Mi ero chiesta molte volte se poi dell’ironia nelle sue parole ci fosse davvero o se si trattasse solo di uno stupido gioco.
 
“Si da il caso che io non abbia la minima intenzione di illuminarti su tale motivo” ghignai a mia volta. “Quindi il problema non sussiste.”
 
“Ti stavo aspettando.”
Breve, chiaro e conciso. Impeccabile, quasi.
Peccato che io non avessi idea di cosa stesse farneticando. E avrei presto scoperto che avrei rimpianto amaramente quel momento, dove ancora tutto non aveva un senso.
 
“Mi hai pedinata?” fu la mia geniale trovata. “Anche se, in quel caso, saresti arrivato dopo di me” conclusi, senza dargli modo di ribattere.
“O forse mi hai messo una cimice nella borsa?” Lo vidi gonfiare il petto, probabilmente prossimo a rispondermi. Anche questa volta, però, fui più veloce. “Impossibile. Non ho espresso a voce i miei pensieri, altrimenti avresti dovuto aspettarmi all’ospedale psichiatrico.”
“Oppure…”
 
“Zitta, zitta, zitta!” E io mi ammutolii di riflesso, stupita da una reazione tanto energica quanto vagamente educata.“Ma quanto parli, nanerottola?” sbottò infine, esasperato.
 
In tutto ciò che era successo quel giorno, Dario sembrava l’unico immune alle novità.
Mi trattava come sempre, o quasi. Mi chiamava con gli stessi nomignoli dispregiativi.
Mi stava aspettando, però. Così aveva detto.
E a questo ancora non avevo trovato spiegazione razionale.
 
“Devo mostrarti una cosa, anche se preferirei prima parlarne con te” interruppe la mia catena di pensieri. “Seguimi.”
Non mi aveva toccata, neanche per un attimo. E questo non mi stupì certo, vista la limitatezza con cui i nostri corpi entravano in contatto.
A lasciarmi perplessa fu il suo sguardo perforante, così potente da costringermi a seguirlo seppur il motivo per cui ero giunta a quell’isoletta verde era un altro.
Volevo veder chiaro in tutta quella folle situazione e Dario sembrava sapere più di me.
Per questo non opposi resistenza quando lui si incamminò nella stessa direzione da cui ero giunta solo qualche minuto prima.
O questa era solo la banale scusa con cui tentavo di giustificare il desiderio di seguirlo.
 
Quel giorno nessuno avrebbe potuto rimproverarmi di non aver fatto esercizio fisico, dal momento che camminai per altri venti minuti prima di tornare al punto di partenza.
La metro stava arrivando ed io ero ancora in fila per comprare il biglietto.
 
“Non capisco tutta questa necessità di rispettare la legge…”  Dario sbuffava come una locomotiva, le mani nelle tasche dei jeans che per chissà quale legge della fisica riuscivano a reggersi da soli, impedendo a me come ad altre duecento persone di vedere parti del corpo poco adatte ad un luogo pubblico.
 
“Mi sembrerebbe strano se tu capissi qualcosa, Maltese” sorrisi ironicamente. “Comunque lo faccio per evitare di sprecare altro tempo inutile. Fortunata come sono, mi prenderebbero in due secondi. E in quel caso, sbuffare ti servirebbe a poco.”
Non servì aggiungere altro, anche perché Dario era ben consapevole del fatto che essere fermati dalle autorità per lui non sarebbe stato conveniente. Era pur sempre un teppista che di guai con la legge ne aveva collezionati un po’.
Naturalmente dovemmo aspettare il treno successivo.
L’attesa fu qualcosa di innaturale per me e quel ragazzino che condivideva con me ormai cinque anni di odio profondo.
Quei dieci minuti durante i quali io sporsi più volte la testa alternando uno sguardo a destra e uno a sinistra, ansiosa, trascorsero in un insolito silenzio da parte nostra.
Non eravamo mai stati abituati alle chiacchiere rumorose, se non quando si trattava di insulti. Eppure sentivo di non trovarmi a mio agio con quel ragazzo adesso così silenzioso, immerso in pensieri che a me non era dato di conoscere.
Chissà, forse stava progettando qualche stupido scherzo o forse quella giornata stava diventando troppo anche per me e il mio cervello reagiva in maniera quantomeno spropositata.
E pensare che solo qualche ora più tardi avrei desiderato con tutta me stessa quelle mezze bugie, piuttosto che la realtà contro cui mi sarei scontrata.
 
La metro procedeva a gran velocità.
Il buio avvolgeva il mezzo su cui viaggiavamo, così come i miei pensieri brancolavano alla ricerca di un palliativo per il dolore che li assillava da quando avevo aperto gli occhi quella mattina.
Dario portava avanti la sua politica del silenzio.
 
In più di un’occasione, tentai di sciogliere il gelo che era sceso tra di noi.
Una parola, un gesto, persino una frase intera senza ingiurie nei suoi confronti per cercare di comunicare con lui.
E in cambio ricevetti solo silenzio.
Anche la gente attorno sembrava d’accordo con lui. C’era chi mi guardava perplesso, chi preoccupato. Altri sembravano addirittura seccati, come se intorno a loro non regnasse il caos più totale.
E Dario in tutto ciò non fece altro che voltarsi verso di me e avvicinare l’indice alla sua bocca, intimandomi chiaramente il silenzio.
Ormai in dirittura d’arrivo alla nostra fermata, rischiai di cadere in avanti per la brusca frenata; ma quello stupido ragazzino si spostò a sinistra giusto in tempo per evitare che mi aggrappassi al suo braccio in cerca di salvezza.
Fortunatamente, uno dei paletti mi salvò dalla rovinosa caduta.
 
Dopo quel quasi incidente, decisi di non rivolgere più la mia attenzione a Dario che peraltro sembrava assorto in chissà quale pensiero.
Mi limitai a camminargli affianco, lo sguardo rivolto in direzione delle luci cittadine e della nebbiolina che le avvolgeva.
 
“Nanerottola?” Maltese interruppe così la mia attenta analisi di una coppia di anziani signori intenti a badare al nipotino di poco più di un anno.
Mi voltai indignata, ignara del luogo davanti a cui ci trovavamo.
 
“Non mi degni di considerazione per più di mezzora e poi ti permetti anche di chiamarmi con uno di quegli stupidi nomignoli?” Mi sporsi verso di lui, nel tentativo di spintonarlo.
Quell’impertinente doveva capire una volta per tutte che non ci si poteva prendere gioco di Barbara Gaiti.
Purtroppo però fu più veloce anche questa volta, evitando che le mie mani entrassero in contatto con le sue spalle.
“Sei solo un gran maleducato, uno stronzo a dirla tutta!” continua imperterrita.
Un signore poco distante m’intimò il silenzio, ma non capii bene in rispetto di cosa o chi. E forse avrei fatto bene a prestargli più attenzione, piuttosto che continuare a sibilare frasi minacciose nei confronti del mio acerrimo nemico.
 
“Ehi Bratz, chiudi quel becco! Devo dirti una cosa…” Ma le mie orecchie avevano raccolto solo l’ultima delle provocazioni, quel ‘Ehi Bratz’ che mi stava troppo stretto.
L’ennesimo.
Raccolsi tutte le forze che avevo, caricai le braccia come se fossero due molle pronte a scattare e liberai la frustrazione accumulata in quelle ultime ore, le prime di una giornata ancora molto lunga.
Ciò che ne seguì mi lasciò senza fiato.
Gli arti superiori scattarono in avanti, decise e pronte a scontrarsi con un muro di cemento armato.
Quello che non avevo previsto era coglierlo di sorpresa.
Dario puntò il suo sguardo allarmato su di me. Io barcollai in cerca di un appiglio dove sorreggermi, in mancanza di quello su cui avevo fatto riferimento.
Le mie mani sul suo petto. Oltre il suo petto, attraverso.
E la sua espressione, adesso rammaricata, in cerca di una spiegazione plausibile da darmi poiché io non gli avevo lasciato il tempo necessario ad elaborarla.
Non gli avevo dato modo di dirmi quella cosa.
 
Un solo dolce sussurro che risuonò in me come il più rumoroso dei tuoni.
“Mi dispiace, Bratz.”
 
 
 
 

Avrei voluto aggiornare sabato, ad essere sincera, ma il capitolo è pronto da qualche giorno e non mi sembrava giusto lasciarvi attendere. Non do però notizie certe sulla pubblicazione del terzo, anche se già in fase di scrittura.
Sono anche consapevole del fatto che chi è arrivato fin qui, sarà propenso a fare di me un sandwich di pollo; non che non lo immaginassi, eh!
Vi chiedo solo di aspettare qualche altro capitolo per capire se valga la pena davvero di darmi in pasto -la battuta squallida non era voluta, giuro- così brutalmente a una morte lenta e dolorosa.
In fondo, tenete presente i generi -non casuali- che ho scelto:

  1. Romantico, per il più banale dei motivi;
  2. Introspettivo, perché affronta faccende piuttosto delicate e -molto limitatamente- autobiografiche;
  3. Commedia, perché le battute non mancano, come avrete potuto notare, e perché si tratta pur sempre di qualcosa senza troppe pretese che ha lo scopo di farvi sorridere o di lasciarvi con il fiato sospeso a seconda dei casi.

Non si tratta di una fantasy/sovrannaturale & co.Capirete poi perché, promesso.
Posso anticiparvi una cosa però. Non amo i non-lieto fine.
Questo non significa che durante il racconto delle vicende di Barbara e Dario non vi verrà voglia di tirarmi un pomodorino in un occhio. Magari in entrambi, per soddisfazione personale.
Concludo rassicurandovi sul fatto che presto -tra due capitoli- vi verrà spiegato questo salto temporale e come procederà lo stile narrativo -su cui ho cambiato idea tra una lezione di italiano e una di latino-.
Ringrazio le due splendide persone che hanno recensito il primo capitolo, nonché le altre che hanno inserito la storia tra preferite, seguite e ricordate.
 
Un bacio grande,
Adrienne

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Capitolo 3
*** Live or survive ***



2. Live or survive


Sebbene fosse il 20 Luglio, il gelo che aveva avvolto il mio piccolo corpo era pari a quello di una giornata di fine Novembre.
I cipressi che avvolgevano quella enorme distesa di prato e marmo che di riservato aveva ben poco erano scossi dal vento caldo che si era alzato nel pomeriggio.
Sì, perché non ero riuscita a mettere piede in quel posto se non dopo essermi rifugiata in un fast foodpieno di gente pronta a sostenermi materialmente se il mio fisico avesse ceduto per il troppo stress accumulato. E poi avevo bisogno di assumere zuccheri, anche se il mio stomaco era inevitabilmente chiuso.
Dario nel frattempo era scomparso.
Le persone che passavano di lì mi lanciavano sguardi pieni di comprensione, come se tutti fossero a conoscenza del tormento che si agitasse dentro me e lo condividessero in parte.
Forse era così. In fondo, quale era il motivo comune che ci spingeva a recarci in quel luogo di sofferenza? La nostalgia, il vuoto, il freddo di un assolato Luglio.
Trascorsi delle ore di fronte a quello che credevo fosse solo frutto della mia fantasia più macabra.
Non volevo credere alla realtà contro cui mi ero scontrato solo poco prima, quando Dario si era mostrato dispiaciuto nell’impossibilità di impedire che la verità bruciasse la mia grinta in così poco tempo.
Avrebbe voluto prepararmi gradualmente a tutto ciò, glielo avevo letto in viso.
O nell’immagine che i miei ricordi trasmettevano di lui.
 
Avevo cercato una spiegazione plausibile a quella assurda situazione, per concludere con una mia possibile pazzia.
In fondo, dopo cinque anni trascorsi a rincorrere Maltese con battute piccate o manate tutt’altro che gentili, era plausibile che il mio cervello cominciasse a darmi un’immagine distorta della realtà.
Ancor più giustificato era il desiderio di vederlo fuori gioco almeno per un po’.
Nulla però sembrava sufficiente a spiegarmi come la mia mente mi trasmettesse fotografie del marmo freddo e liscio ricoperto da numerose composizioni floreali accompagnate da messaggi di affetto che promettevano memorie indelebili.
E quella lacrima solitaria ne era la testimonianza, la consapevolezza certa che non era quello il destino che avevo assegnato a Barbara e Dario.
Avevo bisogno di lui, non potevo neanche immaginare la mia vita senza.
Eppure la data che affiancava quella di nascita sembrava non essere d’accordo con la mia idea di futuro.
Lei si prendeva gioco di quella lacrima salata, del dolore che il mio sguardo trasmetteva. Dello squarcio nel petto che gelosamente custodivo.
Lei, che segnava incurante la fine.
 
“Si staranno chiedendo che fine hai fatto…” Sobbalzai nell’udire quella voce a pochi metri di distanza.
Non risposi, non dovevo cedere assolutamente alla follia che stava prendendo il sopravvento.
“Sappiamo bene entrambi che mi senti, quindi è inutile che fai finta di niente” continuò imperterrito.
 
“Sparisci” sussurrai dura, asciugandomi con il dorso della mano le lacrime ormai copiose.
 
“Avremo modo di parlare di tutto questo” rispose, credendo forse che la mia rabbia fosse dovuta alla mancanza di spiegazioni di fronte a quella che sembrava inevitabilmente pazzia. “Ora però dovresti rientrare a casa, Bratz.”
 
“Sparisci, ho detto! Lasciami in pace, stupido ragazzino” sbottai. “Almeno questo me lo devi…”
La voce si affievolì man mano che sconosciuti di ogni età si voltavano verso di me con sguardi di rimprovero o preoccupati, a seconda che dessero più importanza al luogo dove ci trovavamo o all’assenza di una reale figura contro cui scagliare la mia ira.
 
“Non capisco” ammise lui, turbato dalla mia improvvisa suscettibilità. In effetti, era la prima volta che Dario assisteva ad una scenata del genere; con quello che mi ostinavo a definire mio nemico mai ero arrivata a tanto.
Mi arrabbiavo certo, dando sfogo a mille frustrazioni; ma il sentimento che traspariva da quelle parole era rabbia. La rabbia più nera.
 
“Cosa non capisci? Perché sono così arrabbiata, frustrata, delusa?” La mia voce salì nuovamente di qualche ottava, incurante degli altri ospiti del cimitero sicuramente spaventati e infastiditi dallo spettacolo che stavo dando. “Non mi stupisce, sai? Tu non hai mai capito gli altri, non ci hai mai provato. Sei così egoista da non pensare ad altri se non a te stesso.”
“Sei così egoista da lasciare che io soffra anche ora, dopo che te ne sei andato senza badare alle conseguenze.”
Dario parve essere sempre più sconcertato dalle mie parole, frasi sconnesse che testimoniavano quanto il mio cervello fosse provato dalla situazione che stavo vivendo.
Non il cuore, il cervello.
Non avrei mai potuto provare dispiacere per essermi liberata di un peso così grande come la presenza costante e snervante di Maltese.
Non ero una di quelle sciacquette che seguivano ogni suo movimento, senza preoccuparsi di quella che io ero solita chiamare ‘dignità’.
 
“Stai piangendo” mormorò incredulo lui, dopo che i minuti di silenzio si fossero rincorsi tra la consapevolezza della mia rabbia e l’inspiegabile fitta al petto. “Stai piangendo, Bratz” aveva ripetuto pochi istanti dopo, ancor più colpito.
Mi portai lentamente una mano al viso, indecisa se provare la veridicità di quelle parole o lasciare che il mio volto si ricoprisse di lacrime salate.
O, forse, sarebbe stato meglio dire amare.
Le mie dita si poggiarono inconsapevolmente sulla superficie morbida delle gote, facendomi sussultare al contatto con le tante piccole goccioline che le rigavano.
Stavo piangendo.
 
“Non è vero” sussurrai, per puro spirito contraddittorio.
Poi cominciai a correre.
 
La villetta dove, da diciannove anni, abitava la famiglia Gaiti aveva le pareti gialline e le finestre tipiche di una casetta di montagna.
Le persiane marroni servivano a coprire dalla calura estiva le stanze interne, colpite insistentemente durante il giorno dai raggi del sole dello stesso colore dell’abitazione in via Carducci, al numero civico 27.
La vidi poco dopo aver svoltato l’angolo, correndo a perdifiato verso l’unico posto che consideravo mio. Avevo bisogno di certezze in quel momento e la villetta gialla a metà di quella viuzza poco affollata era l’unica dove sapevo di averne.
Suonai il citofono, rispondendo con un atono ‘Sono io’ quando mia madre chiese chi fosse e sentendo subito scattare la serratura.
Salii con piccoli salti frettolosi i gradini che separavano il cancello in ferro battuto dal portone di ingresso e mi precipitai in casa.
 
Trovai mia madre all’ingresso, nella sua tenuta casalinga che mi ricordava tanto quando, ancora bambina, rispondevo da grande avrei voluto essere proprio come lei: bella anche con un vestito consunto addosso. E di professione avrei fatto la mamma, naturalmente.
Mentre io mi perdevo in brevi pensieri, lei continuava a fissarmi inespressiva.
Sembrava stesse soppesando ogni mia reazione.
E così continuò a fare fino a quando non le precipitai addosso, singhiozzando.
 
“Barbie, amore” mi sussurrò comprensiva, accarezzandomi i capelli.
 
“Non è giusto. Non è giusto, mamma!”
Sollevai di scatto la testa, implorando mia madre con lo sguardo senza sapere effettivamente cosa chiedere.
Non avrebbe potuto far nulla contro quel vuoto, il freddo che si era impossessato di me. Non avrebbe potuto niente neppure contro la rabbia che cresceva lentamente, alimentata dall’impossibilità di sfogarla su chi ne fosse la causa.
 
“Lo so, tesoro. Purtroppo però non sempre quello che accade rispetta i nostri piani, i nostri affetti o le nostre abitudini.” Mi asciugò una lacrima, per poi proseguire. “Questo non significa che dobbiamo smettere di credere in un futuro, di programmarlo al meglio. E sono certa che in questo anche lui sarebbe stato d’accordo con me.”
M’invitò con la testa a seguirla, offrendomi un bicchiere di tè per affrontare il discorso comodamente sedute in cucina.
Sapeva che, una volta sciolto il nodo in gola, le domande avrebbero preso il posto delle lacrime, intervallate da qualche commento poco carino su ciò che non mi fosse gradito.
“Non credo sia un caso che quella bambolina si trovi sulla tua scrivania, in bella vista e pronta a ricordarti cosa le si nasconde dietro” continuò, dopo aver appoggiato il bicchiere di fronte a me.
 
“Cosa è successo negli ultimi cinque mesi? Cioè, da quando…”
 
“Hai smesso di vivere, insieme a lui” mi sorprese mia madre. “Sembravi sospesa tra sogno e realtà. Non volevi accettare quello che era accaduto, ma eri ben conscia dell’impossibilità di ritrovartelo di fronte. Sapevi che non ti avrebbe più stuzzicata con le sue battute, a volte offese anche piuttosto gravi a cui tu però sembravi non dar troppo peso. Eri consapevole che se ne fosse andato e tu hai deciso di seguirlo.”
Ascoltavo quella voce a me tanto familiare come se da lei dipendesse qualsiasi mia azione futura.
Non sapevo cosa fare, quindi mi limitavo a raccogliere informazioni sul tempo trascorso di cui sembravo non ricordare più nulla.
Probabilmente il mio cervello aveva rimosso le tracce di dolore, era stanco di soffrire.
Il motivo di tutta questa sofferenza poi? Se n’era andato da eroe, ruolo che non gli si addiceva di certo. Aveva vinto, barando.
E io ero arrabbiata con lui, perché mi aveva lasciata qui a logorarmi da sola.
Non volevo stare male per uno stupido ragazzino che si era cacciato nei guai e che ora lasciava che tutte le conseguenze si abbattessero su di me.
Ero arrabbiata perché soffrivo. Avevo voglia di piangere, ora che finalmente mi ero liberata di lui.
Avrei voluto tanto prenderlo a pugni, spintonarlo fino a farlo cadere.
Ma non potevo fare niente di tutto questo. E io non lo sopportavo.
“Andavi a scuola,” continuò“ma i professori dovevano fare un grande sforzo per riuscire a catturare la tua attenzione in classe. Hai smesso di frequentare le lezioni di religione, dopo che un giorno la professoressa ti si è avvicinata per sapere come stessi.”
Mi accorgevo dal suo tono spezzato che soffriva mentre ricordava ciò che l’avevo costretta a vivere con me, consapevole di non poter far nulla.
E odiavo Dario ancor di più per quello.
“Hai spostato la sedia all’indietro, ti sei alzata e sei uscita dall’aula come un automa. I tuoi compagni l’hanno rassicurata dicendo che, per quanto strano fosse, era diventata routine.
Hai persino smesso di frequentare l’oratorio. Ti rifiutavi di andare al cimitero, dopo esserci stata di seguito al funerale a cui hai pianto silenziosamente tutte le lacrime che non ti ho visto versare in cinque anni di frustranti battibecchi.”
 
“Non parlavo con nessuno?” chiesi con un filo di voce, incredula davanti a tutte le verità che stavo conoscendo solo in quel momento.
 
“Con tua sorella. Roberta era l’unica che avesse accesso a parte dei tuoi pensieri.
Un giorno ti ha chiesto cosa stessi facendo, trovandoti come al solito in camera tua ad ascoltare per l’ennesima volta la stessa canzone. Sai cosa le hai risposto? Sopravvivo.”
 
“Mi dispiace, mamma.”
 
“Non importa, tesoro. La cosa che più mi preme ora è che tu mi prometta di lasciare che ti aiuti a ricostruire la tua vita. Dobbiamo andare avanti, devi fartene una ragione. Devi ricominciare a vivere, non esistere semplicemente. D’accordo?”
Mi limitai ad annuire.
Non riuscivo ancora a capacitarmi di essermi comportata così scioccamente nei mesi precedenti.
Non era da me e non riuscivo a capire perché avessi avuto un atteggiamento del genere con tutti, la mia famiglia in particolare.
Giocare con quell’imbecille al gatto che rincorre il topo mi aveva mandata fuori di testa probabilmente.
Per fortuna adesso avrei avuto tutto il tempo necessario per disintossicarmi da quello stupido gioco. Perché, adesso, l’imbecille non avrebbe più potuto giocare con me.
 
“Senti Barbie, oggi dovrei andare a fare un giro in centro. Tuo padre, dopo che l’ho chiamato per dargli la buona notizia,” accennò a me con un segno del capo “ha deciso di portarci fuori a cena domani sera…”
 
“E tu non hai niente da mettere” finii per lei, accennando un sorriso.
 
“Proprio come te” ribatté lei, strizzandomi l’occhio e sorridendo con me. “Un pomeriggio di shopping sfrenato credo che non ci farebbe poi tanto male.”
 
“E shopping sia!” distesi le labbra, trasformando la precedente smorfia in un ampio sorriso.
Avevo bisogno di una giornata con mia madre.
L’avevo trascurata troppo, mentre lei aspettava pazientemente che mi riprendessi dallo stato catatonico in cui sembravo esser caduta.
 
Ritornai in camera, dopo aver messo qualcosa sotto ai denti.
Mia madre aveva continuato a raccontarmi aneddoti divertenti e non che mi ero persa in quell’arco di tempo dalla morte di Dario.
Morte. Mi era ancora difficile pronunciare quella parola ad alta voce.
Non riuscivo a crederci. O forse, non volevo farlo.
Maltese, oltre ad essere uno stupido ragazzino, era pieno di sé e con la battuta sempre pronta. Temeva che chi fosse in sua compagnia si annoiasse, sentendosi quindi in dovere e diritto di trovare sempre nuovi giochi da testare su delle povere vittime -oggetti o persone, indifferentemente-, attendendo poi con gran pazienza che io lo scovassi e lo rimproverassi per l’ennesima bravata.
Mi provocava di continuo, a volte con battute che sapeva mi avrebbero fatta diventare rossa dall’imbarazzo, altre offendendomi.
Cercava sempre una reazione da parte mia e, la maggior parte delle volte, la trovava.
Ricordavo bene i giorni in cui ero rimasta a casa perché avevo la febbre alta e la gola in fiamme.
Al mio ritorno, una settimana dopo, avevo trovato la scuola tappezzata di volantini e le lavagne di ogni classe al cui centro troneggiava la scritta gessata “Scomparso bassotto di diciotto anni da una settimana. Si attendono notizie”.
Impossibile per me non capire a chi si riferisse, dal momento che la mia ‘bassezza’ sembrava essere il suo argomento preferito.
Ecco perché quel giorno decisi di portarlo alla mia altezza, a tal punto da fargli rimpiangere di essere nato.
 
Lo incontrai per i corridoi durante la pausa dalle lezioni, non avendo avuto modo di parlare in classe, la mia espressione angelica ma determinata sembrò divertirlo.
Nulla in confronto però allo sguardo sorpreso che mi rivolse quando mi avvicinai a lui afferrandolo per il colletto e rivolgendogli uno dei sorrisi più sadici.
 
“Bratz, quale piacere!”ghignò il bastardo.
 
“Mai quanto il mio, Maltese” risposi serafica, mettendo un ginocchio tra le sue gambe leggermente divaricate e stringendo la presa sul colletto della t-shirt.
Poi misi in atto il mio piano.
La mia gamba si mosse senza preavviso, lasciandolo quasi senza respiro.
 
“Sei ancora convinto di volere notizie del bassotto ora?” sputai tra i denti, velenosa come poche volte.
Se c’era una cosa che mi facesse imbestialire era essere presa in giro di fronte ad altri. E Maltese lo aveva appena fatto di fronte a mille studenti.
 
“Mi piaci quando fai l’aggressiva, Bratz” rispose imperterrito, tentando di nascondere il dolore che il mio ginocchio a stretto contatto con le sue parti basse gli provocava. “Questo però non ti salverà dall’essere una nanerottola morta non appena sarò riuscito a liberarmi dalla tua presa.”
Ma la mia gamba si era già mossa, spingendo ancor più verso l’alto e costringendo Dario ad abbassarsi di almeno dieci centimetri.
C’ero quasi…
 
“Chiedimi scusa, adesso. O la prossima mossa ti spedirà direttamente tre metri sotto terra.”
Stavo perdendo la poca pazienza racimolata nelle ore di lezione precedenti e quello stupido illuso non stava certamente perorando la sua causa.
“Sta scadendo il tempo, Maltese” lo avvertì un’ultima volta.
E lui lo lasciò scadere.
Completai il mio piano, portandolo al di sotto del mio sguardo fino a quando non si dichiarò perdente con il solito sorrisino beffardo.
 
“Non ti trovi a tuo agio, nanerottolo?” gli sorrisi a mia volta, lasciandolo poi andare e guardandolo mentre lentamente si ricomponeva. “La prossima volta non avrai neanche la forza per rialzarti.”
 
“La prossima volta mi supplicherai di lasciare che tu perda, Bratz” mi sfidò. “Non finisce qui, puoi starne certa.”
 
Non avevo mai dubitato della serietà delle sue parole, né lui mi diede modo di farlo.
Il giorno dopo infatti lo avevo trovato nel giardino della scuola con un guinzaglio nelle mani e un bassotto all’altro capo del cordoncino.
Non mi avrebbe mai neanche sfiorata con un dito, di quello ero certa; ma si sarebbe impegnato con tutto sé stesso per rendermi la vita impossibile.
Infatti, sul piccolo cappottino dell’animale, troneggiava in bianco la scritta ‘Bratz’.
 
In quello stesso istante, fui distratta dal movimento della maniglia che si abbassava.
Una piccola figura a quattro zampe varcò di corsa la soglia della stanza, saltellando sul posto poco sotto il mio letto, incapace di salire sulle coperte da solo.
Mi abbassai lentamente, sollevandolo e portandomelo in grembo per poterlo accarezzare.
Nel frattempo, al seguito di quella piccola peste, comparve anche mia madre che mi ricordò di prepararmi perché a breve saremmo uscite per la passeggiata tra negozi.
Decisi quindi di scendere dal letto, liberando il cucciolo di bassotto che si mostrò poco entusiasta dell’improvvisa assenza di coccole.
Mi strappò un sorriso, uno dei pochi sinceri che avevo liberato dopo tanto tempo passato in compagnia dell’apatia più soffocante.
E ancora una volta, davanti alle ante aperte dell’armadio, mi persi nei ricordi più sfocati di una fredda mattina di Febbraio.
 
Erano le sette del mattino quando il leggero picchiettio sul portone d’ingresso mi spinse a curiosare oltre le tende della finestra, in direzione del porticato.
Ero ormai sveglia da ore, incapace di riprendere sonno per i troppi pensieri che mi vorticavano nella testa.
Nelle ultime due settimane non avevo quasi chiuso occhio e il mio fisico ne risentiva parecchio.
Le occhiaie erano sempre più profonde, lo sguardo vitreo perennemente arrossato; le forme femminili asciugate da quel male incurabile, il dolore di una perdita.
Quindi fui costretta a strizzare le palpebre più volte prima di riuscire a mettere a fuoco la figura che attendeva al di fuori della nostra abitazione.
E la loro somiglianza lasciò spazio ad una lacrima silenziosa.
La prima, per me. La prima per lui.
 
Decisi, come sempre, di non scendere a fare conversazione. Anche perché in quel caso, non ne sarei stata proprio in grado.
Quindi mi limitai ad accasciarmi ancora sul letto, carpendo qualche parola spezzata proveniente dal piano di sotto ma nulla più.
Fu solo dopo qualche ora che mia madre, avendo udito della musica provenire dalla mia stanza, si convinse a bussare alla porta e a presentarmi la nuova arrivata.
 
“Tesoro, lei è…” tentennò per un attimo, “Bratz” concluse mostrandomi il piccolo fagotto che teneva tra le braccia.
 
“Cosa…” La voce, ancora spezzata dalle lacrime scese fino a poco prima, mi rimase in gola.
 
“Voleva che fosse tuo. Avrebbe trovato il modo di fartelo avere, perché si era stancato di avere intorno questo ‘piccolo sacco di pulci’ come te” mi spiegò. “Almeno, questo era quello che diceva agli altri…” aggiunse, poi, sottovoce. 
 
“Lo odio.”
Fu un sibilo sfuggito alle mie labbra mute da giorni. Un bisbiglio che mi era impossibile contenere.
 
“Cosa, tesoro?” chiese mia madre, probabilmente più sbalordita del fatto che avessi proferito parola piuttosto che per ciò che avevo detto.
 
“Ti odio. Ti odio. Ti odio!”
Mi ero catapultata giù dal letto, dirigendomi a passo spedito verso la finestra. Avevo urlato quelle parole al vento, dietro a un vetro chiuso e con lo sguardo rivolto al cielo.
 
Alla fine comunque, quella piccola palla di pelo nera era entrata a far parte della famiglia e separarmene sarebbe ormai stato un dolore fisico.
In fondo, avevamo qualcosa che ci accomunava: lui.
 
Il pomeriggio era assolato, al contrario del mio umore uggioso che pareva alternarsi a qualche schiarita di tanto in tanto.
I negozi che incontravamo per le vie del centro erano poco affollati, al contrario dei bar e delle gelaterie i cui tavolini riempivano le strade gremite di passanti.
Mia madre ed io ci eravamo fermate davanti a qualche vetrina, ammirando capi di alta sartoria dai prezzi poco abbordabili o vestiti troppo succinti per i nostri gusti.
Eravamo a spasso da poco più di un’ora ormai. Il mio fisico ancora debilitato e la mente poco libera da pensieri agitati richiedevano un grande sforzo per sopportare la calura estiva affiancata dal caos cittadino a cui ancora non ero abituata.
 
“Mamma, mamma!” Una bambina mi passò affianco, cercando di attirare l’attenzione della madre. “Guarda che bel vestito!” continuò imperterrita, costringendo la donna a voltarsi nella direzione da lei indicata e avvicinandosi insieme alla vetrina di un negozietto tanto carino quanto semplice.
 
“Molto carino, tesoro” accondiscese la donna, un po’ dispiaciuta per aver passato la giusta età per potersi permettere abiti del genere.
 
 “Quando sarò grande, me lo compri?” La bambina le si aggrappò all’orlo della maglietta, enfatizzando la richiesta con un piccolo broncio e gli occhioni lucidi.
 
“Quando sarai grande…” fu la sottile bugia con cui rispose la donna, invitando la bimba a prendere lo zucchero filato da un camioncino poco distante.
 
Una bugia a fin di bene, perché la signora sapeva bene che quel vestito non sarebbe rimasto a lungo indosso a quel manichino.
Certo, non si sarebbe nemmeno aspettata di vederlo sparire in così poco tempo, né che la ‘colpa’ fosse proprio della sua bambina tanto esuberante quanto genuina.
 
“Ehi, mamma” chiamai a mia volta. “Che te ne pare di quell’abitino?” proseguii, indicando il vestito adocchiato poco prima dalla bimba.
 
“Te lo vedrei proprio bene addosso” mi sorrise mia madre, spingendomi verso l’ingresso del negozio.
La commessa ci accolse cordialmente, chiedendoci poi se avessimo bisogno.
Purtroppo per lei, firmò la sua condanna a morte mostrandosi così disponibile con mia madre che non se lo fece ripetere due volte.
Provammo una decina di abiti a testa, dal più corto e sbarazzino al più ampio ed elegante, fino a quando non riuscii ad indossare quello che mi aveva rapito il cuore alla prima occhiata.
 
Ero nel camerino di prova, dove invano tentavo di far scivolare la cerniera dell’ultimo mini dress indossato.
Avevo capito quanto inutile fosse ostinarmi a voler fare da sola, così mi convinsi a chiedere aiuto.
O almeno, fu ciò che tentai di fare.
La voce parve mancarmi all’improvviso, accompagnata da un forte capogiro per il quale fui costretta a sostenermi alla tenda che mi copriva.
Aldilà della stoffa, sentivo confusamente delle voci che richiamavano la mia attenzione, probabilmente in ansia per le mie mancate risposte e i movimenti sospetti.
 
“Signorina?” sentii poco chiaramente.
Poi una luce bianca mi ferì gli occhi, come se stessi precipitando a terra con lo sguardo rivolto verso l’alto.
Chissà, forse inconsciamente avevo deciso di seguirlo davvero.
 
“Signorina, si svegli…”
E i miei occhi si spalancarono.
 
 
 
 

Chiedo scusa per il ritardo, ma non mi è stato possibile finire il capitolo -piuttosto sofferto, tra l’altro- prima di oggi.
Gli impegni sono sempre troppi e il tempo per scrivere scarseggia. Ho comunque fatto del mio meglio ed eccoci qua, adesso, alla fine di questo terzo capitolo di ‘Whatever it takes’.
Ho voluto portare la storia un passo avanti, tra i pensieri confusi di Barbara e un Dario poco presente fisicamente, ma costantemente nei ricordi della nostra protagonista.
Suppongo che ancora non sia ben chiaro quale sarà lo stile di narrazione che ho intrapreso, come porterò avanti la storia e come rispetterò il genere originale romantico.
Non diffidate. Se ancora non l’avete capito da questo finale -un po’ ambiguo, senz’altro- il prossimo capitolo chiarirà ogni cosa, o quasi.
Intanto godiamoci i piccoli ricordi di Barbara, attraverso i quali possiamo capire qualcosa in più sul nostro Dario, e la presenza di questo ragazzo piuttosto particolare.
Per il resto, ogni cosa a suo tempo. Promesso ;)
 
Intanto, ringrazio di cuore le persone che hanno impiegato del tempo a recensire, coloro che hanno inserito me e la mia storia tra le preferite, seguite, ricordate e ancora quelle che leggono silenziosamente ma che mi accompagnano comunque con quel numerino nelle visite.
Grazie mille, davvero!
Per ultimo, vorrei porvi una domandina di tipo tecnico:
secondo voi, ho bisogno di una beta?
Sapete, sono pigra come pochi e quindi difficilmente rileggo ciò che scrivo. Perciò chiedo un vostro parere a riguardo, sperando di avere riscontri -sia positivi che negativi, naturalmente!-
Ora scappo a rispondere alle meravigliose recensioni.
 
Un bacio grande,
Adrienne

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Capitolo 4
*** Black and White ***



4. Black and White


Bianco. Era quello il colore predominante all’interno di quella che la mia vista appannata mi permetteva di identificare con una stanza.
Quattro pareti bianche, tapparelle bianche non del tutto abbassate, una fastidiosissima luce bianca filtrava attraverso le fessure.
Se non fosse stato per il tepore che la mia mano percepiva al contatto con qualcosa di morbido, poco distante dal viso, avrei detto di essere in paradiso.
E, a ben pensarci, non sarebbe stato poi tanto male poter abbandonare finalmente quel corpo che nell’ultimo periodo mi aveva costretta a versare fin troppe lacrime.
Non ero mai stata quel genere di ragazza che si lascia andare ai sentimenti, se non all’amicizia delle persone a me più care o l’amore smisurato che provavo per la mia famiglia. Odiavo le lacrime, ancor più chi ne era la causa.
Sono salate, ma vengono definite amare. Non sanno scegliere un’emozione, scelgono sia gioia che dolore. Sono figlie di reazioni involontarie, spesso frustranti.
Non sopportavo l’ambiguità di quelle piccole gocce, talvolta umilianti, che non servivano ad altro se non a urlare il dolore che una persona voleva tenersi stretto dentro sé.
Era passato così tanto da quando avevo regalato il mio ultimo sorriso sincero a qualcuno. Non riuscivo più a vivere senza pensare che tutto sarebbe potuto cambiare da un momento all’altro.
In quel parco non avevo perso solo una pezzo di cuore, che si era spento con gli occhi di Dario, ma anche la convinzione che ogni uomo è fautore del proprio destino.
Insomma, a ben pensarci era vero che Maltese si era cacciato da solo in quel guaio. Ma era altrettanto vero che, se non si fosse messo in mezzo, sarei stata io a ricevere quel proiettile e a pagare con tanto di interessi il debito di qualcun altro.
Ciò che non mi riuscivo a spiegare poi era perché. Perché io, l’acerrima nemica di Maltese? In fondo, non avrebbe fatto altro che fargli un favore.
Più volte Dario mi aveva augurato le sorti peggiori, sebbene io fossi sempre stata attenta a non dargliela vinta. Prestavo grande attenzione nell’attraversare persino la strada meno trafficata del quartiere, evitavo di andarmene in giro senza una meta ben precisa raggiungibile a passo spedito o senza una compagnia con cui sentirmi protetta.
La cosa strana era che non avevo mai pensato a quel ragazzino come alla causa di qualche possibile incidente che mi avrebbe coinvolta. Le maledizioni che mi tirava dopo una lite mi spingevano a pensare che da lì a poco, se non fossi stata attenta, mi sarebbero potute accadere le peggior cose; ma queste non prevedevano mai Maltese come artefice del mio triste destino.
Certo, non avevo neppure mai pensato che, tra la mia vita e la sua, avrebbe scelto la mia.
Anche in questo caso, non ero riuscita a trovare una risposta soddisfacente.
Ci conoscevamo da cinque anni, di vista qualcuno in più, e non eravamo mai riusciti a stare nella stessa stanza per più di due minuti senza discutere animatamente.
Spesso litigavamo per delle sciocchezze come il mio colore preferito o l’auto dei suoi sogni. Lui mi dava spesso della bambina, io dello stupido. Il motivo? Non lo sapevamo nemmeno noi.
Quello di cui ero certa in quel momento era perché odiassi ancor di più lacrime e litigi. Le prime, deboli traditrici, strisciavano lungo la mia guancia silenziosamente senza alcuna autorizzazione. I secondi invece avevano sottratto troppo tempo alle vite mia e di Maltese, impedendoci di discutere di argomenti molto più seri piuttosto che di un taglio di capelli dettato dall’impulsività.
Non avrei nemmeno saputo dire quali fossero quali argomenti potessero essere considerati seri, ma sapevo che il tempo intransigente ci aveva privato della possibilità di scoprirlo.
 
“Signorina, si svegli”.
Una voce femminile mi distrasse da quella catena di pensieri filosofici, costringendo i miei occhi ad aprirsi nuovamente. Il biancore di quella stanza continuava ad essere fastidioso per la vista ancora addormentata. L’abitudine al buio m’impediva di far chiarezza sul luogo in cui mi trovassi, mentre quel tempore sembrava voler essere un monito a qualcosa che non riuscivo ancora a ricordare.
 
“Signorina, l’orario di visita è terminato da molto e lei dovrebbe rientrare nella sua stanza” riprese quella voce che adesso pareva spazientita. “Deve riposare e dormire seduta su di una poltroncina non mi pare il modo migliore per farlo”.
Nell’udire quelle parole, i miei occhi si spalancarono, incuranti della luce abbagliante.
Orario di visita. Stanza. Riposare.
E i pezzi del puzzle tornarono ognuno al proprio posto, ricomponendo così anche quelli del mio cuore. O quasi.
Alzando lo sguardo, notai la mano di Dario avvolta nella mia dove poco prima era adagiata la mia testa. Era quella la fonte di calore che percepivo addosso nel dormiveglia.
Mi diedi mentalmente della stupida, asciugando rapidamente con il dorso della mano la lacrima solitaria che stava solcando il mio volto ancora inespressivo per via del lungo riposo.
Mi ero addormentata, vinta dalla stanchezza di giorni frenetici in cui avevo fatto la spola tra il mio letto e la camera 27, quella di Maltese. E, probabilmente, quella stessa stanchezza mi aveva lasciata scivolare in un sonno così profondo da scatenare la fantasia e l’inconscio a briglia sciolta.
Più volte, in quelle lunghe giornate trascorse a chiacchierare con Dario, mi ero chiesta come avrei reagito se lui non ce l’avesse fatta.
Inizialmente ero piuttosto positiva, soprattutto grazie alle parole incoraggianti dei dottori che lo avevano dichiarato fuori pericolo. Non gli sarebbe accaduto nulla di brutto e tanto bastava a convincermi a non pensare ad eventualità così catastrofiche.
Poi però le sue condizioni erano peggiorate al punto da spingere i medici a mantenere il coma farmacologico e qualche giorno di camera intensiva. Il danno riportato al polmone non era poi tanto grave, ma quel ragazzo aveva perso troppo sangue e questo indeboliva il fisico già provato dal proiettile ricevuto.
Era rimasto in quella stanza, completamente intubato, per poco più di una settimana. E ogni giorno ripetevo la stessa procedura, nascondendo i miei indumenti sotto al camice e il viso coperto dalla mascherina.
Il risultato era stato tanto stress psicologico per me e per sua madre, l’unica dei due genitori ad essere tornata sui suoi passi per stare accanto al figlio in pessime condizioni.
E da lì poi quel maledetto incubo che mi aveva lasciata senza fiato e con una terribile paura di poter vederlo avverarsi.
 
“Lo ripeterò un’ultima volta, poi sarò costretta a chiamare il dottor Bianchi” riprese l’infermiera che era venuta a svegliarmi, ormai al limite della sopportazione. “Deve…”
Ma non la lasciai finire, alzandomi da quella posizione scomoda in cui ero riuscita comunque ad assopirmi e lasciando scivolare la mia mano su quella di Dario in un’ultima carezza.
 
“Non ce ne sarà bisogno. Mi scusi, torno subito nella mia stanza”. Mi avviai alla porta,
fermandomi ad un tratto, colta da un pensiero improvviso. La donna che mi seguiva si arrestò di colpo lanciandomi uno sguardo prima sorpreso, poi spazientito.
 
“Niente più scherzi, ragazzino” lo ammonii, guardando oltre la spalla dell’infermiera. “Torno più tardi”. E uscii.
 
I giorni si rincorsero frenetici in un limbo di agonia e aspettative, tra un peggioramento e una buona notizia, tra la speranza di vedere gli occhi di Dario riaprirsi e la voglia sempre più dolorosa di mettere dietro le sbarre il bastardo che lo aveva costretto in quel lettino d’ospedale.
A tal proposito, la polizia non mi dava tregua da quel giorno, domandando l’impossibile e pretendendo che scavassi in ricordi ancora troppo lontani da me per lasciare che riaffiorassero.
Avrei tanto voluto aiutarli, come avevo detto loro in più di un’occasione; ma la verità era che permettere a quelle immagini sfocate di invadermi il cervello sarebbe stato troppo doloroso.
La mia mente e il mio cuore si rifiutavano di patire una tale sofferenza ancora una volta, non dopo così poco tempo dall’averla vissuta attivamente. Un biglietto in prima fila per uno spettacolo talmente cruento avrebbe spezzato il sottile filo che teneva uniti corpo e anima, un lusso che ancora non potevo concedermi.
Nel frattempo anche mia madre mi aveva chiesto informazioni, seppur con più riguardo rispetto agli agenti delle forze dell’ordine che avevano tentato di estrapolarmi quelle verità con intense ore di interrogatorio in più sedute. Ma neanche lei aveva ottenuto grandi risultati.
Puntualmente mi chiudevo in me stessa, il corpo percosso da grandi brividi. Le gambe raccolte al petto e il respiro irregolare spingevano mia mamma a desistere e a lasciare che mi chiudessi in un silenzio devastante, interrotto solo da qualche singhiozzo solitario.
E gli incubi che non mi abbandonavano.
 
“Buonasera, signorina Gaiti” sorrise affabile il dottor Bianchi, il medico che mi aveva in cura, entrando in stanza. “Come stiamo quest’oggi?”
Era un bell’uomo nonostante i suoi quarant’anni -o qualcuno in più, non lo sapevo con certezza-, carismatico e capace di trasmettere a chiunque la passione con cui svolgeva quel lavoro. Era esattamente quel tipo di persona che riconoscevi a distanza, quello di cui si sapeva sin dalla culla che carriera avrebbe intrapreso. Era una di quelle persone di cui ti fidavi ciecamente perché sapevi che non ti avrebbero delusa.
 
“Un po’ stanca, ma piuttosto bene dottore”.
 
“Bene, allora il tempo di un rapido controllo e la lascerò libera di riposare” rispose, senza mai smettere quel sorriso contagioso.
Il dottor Bianchi si adoperò per misurarmi la pressione e il battito cardiaco, leggermente irregolare a causa del troppo affaticamento -stando a quanto diceva lui.
 
“Ma dottore, passo tutto il giorno confinata in uno scomodo lettino a contare i quadratini di questa coperta” protestai, indicando il plaid che mi copriva fino a metà busto. “Riconosco a distanza di metri il rumore dei suoi passi e di tutti quelli delle infermiere del piano. So persino quale bevanda stia scegliendo in questo momento la signora in sosta al distributore automatico, ne percepisco il suono”. Era frustrante restare chiusa in una stanza per ore intere, senza la possibilità di uscire a godersi i raggi tiepidi del sole di fine Febbraio. Se fosse dipeso tutto da una mia scelta, avrei trascorso quel tempo in compagnia di Dario, raccontandogli il colore delle foglie fuori dalla finestra o il sapore della neve scesa poche settimane prima.
Non volevo che si perdesse quanto di più bello ci fosse al mondo, non per colpa di quel bastardo.
 
“Barbara, lei ha fatto già tutto quanto fosse in suo potere per il signor Maltese. Adesso deve solo avere fiducia in me e pensare anche a se stessa” sorrise bonario il dottor Bianchi.
 
“Ha bisogno di me” una risposta che non ammetteva repliche. “Se no chi gli racconta cosa succede fuori da quella stanza fastidiosamente bianca? Chi gli spiega le lezioni affrontate quel giorno a scuola? Chi mantiene attiva la sua mente? Io sono la sua mente, dottore”.
Il medico si accomodò sul lettino, accanto a me mentre mi torturavo le labbra in preda all’ansia. Non lo avrei lasciato andare, dovevo restare con Maltese finché lui non si fosse ripreso; dovevo solo aspettare che riaprisse gli occhi, poi tutto sarebbe tornato alla normalità.
Se lo avessi abbandonato in quel momento, me ne sarei pentita per il resto dei miei giorni. Non dopo che lui si era frapposto tra me e un proiettile che mi avrebbe uccisa sul colpo.
Per quanto volessi continuare ad odiarlo, non potevo nascondere a me stessa che quello che era successo qualche settimana addietro avesse cambiato molte cose, tra cui il mio rapporto con lui. Anche se, in effetti, parlare di rapporto non fosse del tutto corretto dal momento che mi applicavo in monologhi -speravo che almeno lui potesse sentirmi-, gli stringevo la mano senza sentire le sue dita avvolgere le mie, gli raccontavo aneddoti del passato e del presente con il dubbio che lui potesse non ricordarli al suo risveglio.
La mia vita assomigliava ad un’altalena, dove i giorni tristi e cupi erano eccedevano rispetto a quelli sereni dove il mio cuore poteva tornare a battere a ritmi regolari.
 
“Sai Barbara,” il dottor Bianchi abbandonò per la prima volta le formalità, rivolgendosi a me come se fossi una bambina a cui insegnare come si conti fino a dieci “quando siete arrivati qui, entrambi intubati e coperti da chiazze rosse, ho creduto si trattasse della solita lite tra fidanzati finita in tragedia. Me capitano casi di questo tipo quotidianamente, quindi non mi sarei stupito se la situazione fosse stata la medesima”.
Era la prima volta che ascoltavo la descrizione realistica delle condizioni in cui io e Maltese fossimo stati trasportati all’ospedale. Mia madre non si era mai spinta oltre a quel proiettile che aveva perforato il polmone del mio compagno di classe; sapeva che i dettagli mi avrebbero trascinata nell’ennesimo turbinio di immagini confuse e pensieri furiosi contro colui che aveva osato tanto.
Eppure il dottore che mi seguiva da quando ero giunta lì, in quella struttura ospedaliera, utilizzò tutta la sua razionalità per raccontare i fatti oggettivamente.
“Quando mi spiegarono cosa fosse accaduto in quel parco, stentavo a crederci. Lui, un ragazzo per niente raccomandabile e indebitato con uno spacciatore, si era offerto come scudo per proteggere la vita di una compagna di classe? Quasi surreale.
Per quale motivo si sarebbe dovuto prendere un proiettile in petto, evitandolo così ad una ragazzina con cui pareva avere molte discussioni?
Quella notte sono rimasto in ospedale per monitorare le vostre condizioni fisiche.
Ho riflettuto a lungo, seduto su di una poltrona girevole piuttosto scomoda e un caffè in mano. E sono giunto ad una conclusione” lasciò in sospeso il discorso, incuriosendomi.
 
“Cioè?”
I suoi occhi vennero attraversati da un lampo di furbizia e consapevolezza, per poi assumere nuovamente un’espressione di professionalità inconfutabile.
 
“Questo lo dovrà capire da sé, signorina Gaiti” tornò al tono formale di consuetudine. Poi si levò dal letto e uscì dalla stanza per continuare il suo giro di visite pomeridiane.
 
Rimasi a fissare il soffitto bianco a lungo, rimuginando sulle parole del dottor Bianchi.
In parte, mi arrabbiai con lui. Non poteva lui, che conosceva me da così poco tempo e Dario per niente, aver trovato la risposta ad una domanda che io mi riproponevo ogni singolo giorno, senza trovarvi una soluzione soddisfacente.
E non poco mi stupì anche l’arguzia del medico nello studiare quei piccoli dettagli conosciuti attraverso parole d’altri per estrapolarne poi una sua teoria. Era frustrante.
Aveva detto che la risposta avrei dovuto trovarla da me. Come, però, non aveva voluto spiegarmelo.
Le scelte possibili erano due. Avrei potuto fingere di non essere stata salvata da Maltese, così da non avere la necessità di scoprire perché lo avesse fatto. Oppure mi sarei introdotta in punta di piedi nella testa sempre attiva del dottore che mi aveva in cura, per scoprire quali preziose informazioni possedesse.
Restava solo da capire quale fosse il progetto più accessibile.
Sarei riuscita ad accantonare in un angolino della mente il momento in cui avevo sentito il corpo immobile di quel ragazzo sopra il mio? La risposta era chiara, anche se mi rifiutavo di ammettere una simile sconfitta. Insomma, non potevo di certo essere caduta così in basso!
Da quando avevo memoria di Maltese, odiavo ogni suo singolo ghigno, ogni suo respiro intriso del fumo di dieci sigarette. Litigavamo, tra noi non esistevano riappacificazioni; solo insultarci a vicenda poteva aiutarci a sopravvivere alla presenza dell’altro.
Era così da sempre, da quando avevo mosso il primo passo nel lungo e claustrofobico corridoio del liceo Saba e lui aveva alzato uno sguardo di sufficienza su di me. Da quel momento in poi, tra di noi era stata guerra aperta; e ciò non sembrava di troppo peso a nessuno dei due.
Quindi, in quel momento sigillato nel lettino di un ospedale, non avrei dovuto neanche mettere in discussione quell’ipotesi. Sarebbe dovuto essere un gioco da ragazzi dimenticare la prima e ultima volta in cui Maltese si fosse comportato da persona educata. Peccato che così non fosse.
Certo, quel ragazzino si era aperto le porte dell’inferno per sé e, non contento, aveva deciso di trascinarci anche me. Aveva scelto quella vita fatta da atti vandalici e una famiglia assente.
Eppure lui era lì, quando quella pistola stava per zittire ogni mio insulto o lamentela nei suoi confronti. Dario mi aveva protetta, a costo della sua stessa vita, e questo cambiava le cose.
Come se non bastasse poi, c’era quello strano incubo ricorrente e tanto realistico da lasciarmi senza fiato per più minuti ad ogni risveglio.
Restava quindi la seconda proposta, quella di appropriarmi dei pensieri del medico.
Anche quella, però, non sembrava essere una grande idea. Come sarei riuscita a convincere quell’uomo a rivelarmi le sue supposizioni, senza sembrare troppo interessata?
Semplicemente facendo finta che quella conversazioni non avesse mai avuto luogo e continuando a dedicare una fugace - se così possa essere definita - attenzione a quelle domande senza risposta.
Qualsiasi cosa avessi deciso, non avrebbe comunque risolto il mio problema con quei sogni che mi costringevano fuori dalle coperte, completamente sudata, almeno una volta a settimana.
Avevo pensato di parlarne con il dottor Bianchi, ma temevo potesse considerarmi pazza.
 
Dopo un paio d’ore, mia sorella Roberta comparve sulla porta, con sé un pacco di biscotti al cioccolato.
 
“Ho dovuto corrompere l’infermiere all’ingresso, sai?” sventolò in aria il sacchetto, orgogliosa.
 
“E cosa gli avresti promesso, in cambio di una sua svista?” marcai l’ultima parola, sorridendo per l’ennesima marachella di mia sorella.
Quella ragazza, di qualche anno più grande di me, era una vera forza della natura. Era lei che mi accoglieva ad ogni disastroso rientro dalla scuola, quando le discussioni con Dario erano insostenibili. Di solito mi aspettava ai piedi della scalinata in noce, quella che portava alla zona notte, appoggiata al corrimano con il gomito, mentre il pugno chiuso sorreggeva la testa; e, senza che le dicessi nulla, ogni volta si avvicinava di qualche passo, poggiava le sue mani sulle mie spalle e le stringeva. Mi scuoteva leggermente, ricordandomi che lui non aveva nessun diritto di ridurmi in quello stato; io ero e dovevo essere più forte di lui.
E, anche in quel caso, avevo dovuto esserlo. Prima ancora, lui lo era stato per me.
 
“Beh, non è per niente male…” mi strizzò l’occhiolino. “Passa a prendermi alle otto, sabato sera”.
 
“Sei incorreggibile, Robi! Non ho ancora approvato e tu hai già un appuntamento con lui. Fossi in te, mi vergognerei per un simile affronto alla tua sorellina convalescente”. Era sempre così naturale scherzare con lei, ritrovare la serenità perduta tra un miglioramento ed un peggioramento.
Forse era per questo che, in quegli strani incubi, tra i temi ricorrenti c’era lei. La mia mente, incosciente, aveva lasciato che mia madre mi informasse di come l’unica in grado di parlare con me fosse proprio mia sorella.
Pensai di parlarne con lei, la sola che avrebbe potuto capirmi. O forse, no.
Questa volta il mio subconscio mi spingeva in una direzione che avrei dovuto prendere da sola, per scoprire finalmente cosa intendesse dire il dottore con quelle parole. Mi aveva suggerito che, dietro allo strano comportamento di Maltese, ci fosse qualcos’altro. Cosa, però, non aveva voluto spiegarmelo.
Per questo, e perché probabilmente ero l’unica in grado di capire cosa attraversasse la mente di quello stupido ragazzino, avrei dovuto affrontare le mie paure da sole. Come la sua morte.
 
“Ehi, Bella Addormentata, dimentichi forse quando hai accettato di uscire con quel tipo… Samuele, se non sbaglio, senza dirmi niente? Come credi che l’abbia presa io? Mi sono disperata per un giorno intero, non ho mangiato nulla, ho tentato di annegare la paperella di gomma nella vasca per sopperire all’immenso sconforto inflittomi dalla tua negligenza. Ho ascoltato…”
 
“Ok, ho capito! Ora smettila però, ti prego. Altrimenti, al suo ritorno, il dottor Bianchi mi legherà al letto convinto che io abbia corso la maratona di New York nei corridoi. E non mi permetterà di andare da…” mi bloccai, consapevole di starmi esponendo troppo. Non che non fossi abituata a confidarmi con Roberta, assolutamente; ma l’imbarazzo era grande.
Non era facile ammettere come quell’abitudine fosse diventata dipendenza, come non lo era stato di fronte al medico che aveva entrambi in cura. Significava rispondere a domande mute a cui nemmeno io avevo ancora risposta.
Perché, ad ogni occasione, mi precipitavo al piano inferiore e parlavo per ore con Maltese? Lui non rispondeva, io parlavo. Lui mi odiava, io anche. Lui non poteva sapere fossi lì, io c’ero.
Eppure l’idea che lui fosse da solo nella stanza 27, a lottare tra la vita e la morte, mi rendeva stranamente inquieta. E gli incubi non mi erano di certo d’aiuto.
 
“…lui. Puoi dirlo, Barbie. Sai benissimo che con me puoi parlarne, non ti giudicherò mai. Sei la mia sorellina e sarei solo una stupida se mi permettessi di giudicare un comportamento esemplare come il tuo. Ha bisogno di te, tu hai bisogno che lui abbia questa necessità; non sarò io a negarti tutto questo”. E, in quel preciso istante, mi ricordai perché fosse la mia migliore amica.
 
Finalmente, verso le nove, mi fu concessa una rapida fuga al piano di sotto.
Dario era come sempre avvolto da un lenzuolo bianco e da un leggero panno di cotone, che si era sostituito alla pesante coperta di lana che lo aveva avvolto fino alla settimana precedente.
 
“Buonasera, ragazzino” sussurrai, entrando nella stanza. “Come stai stasera?”
Attesi per alcuni minuti la risposta, invano. Mi resi conto della stupida illusione di poter sentire la sua voce riempire lo spazio tra quelle quattro mura.
“I dottori dicono che tu sia sulla buona strada per riprenderti, ma non mi lascio ingannare troppo dalle false speranze. Che, poi, non dovrei neppure sperare qualcosa per te.
Guarda in che stato mi hai ridotto, stupido ragazzino. Parlo da sola, con un macchinario che ti permette di respirare e un sonoro bip che si alterna ad ogni mia parola” interruppi il mio sproloquio udendo dei passi nel corridoio avvicinarsi.
Toc toc.
“Sì?”
 
“Signorina Gaiti, volevo ricordarle che tra poco deve tornare in camera. La pregherei di non addormentarsi qui, in posizioni poco comode che non la facciano riposare a sufficienza” l’infermiera, affacciata alla porta, mi ricordò che quella concessione mi era stata fatta solo perché la credevano importante ai fini di una nottata di sonno pieno. Sapevano che, se me lo avessero impedito, avrei vagabondato nel dormiveglia, poco raccomandabile ad una persona in convalescenza e già fortemente stressata.
 
“Certo, la ringrazio”. E la donna sparì, chiudendo dietro di sé la porta.
“ Hai sentito? Mi devono persino raccomandare di rientrare in camera, altrimenti c’è il rischio che metta radici qua. Incredibile, sto calpestando la mia dignità; la sto tagliando con coltello e forchetta, portandomene enormi bocconi alle labbra.
Sono anche ingrassata, ora che ci penso. Anche se, forse, quella è colpa dei biscotti che Roberta mi porta di nascosto”le parole uscirono a fiumi, come mio solito. Non ero capace di trattenermi, soprattutto nelle situazioni di disagio dove io stessa faticavo a comprendermi.
E, in quel periodo, ero sospesa proprio nella più totale incoscienza che mi lasciava ore ed ore a rimuginare su fatti presenti, futuri e passati.
Come quel 2 Giugno dell’anno precedente, alla festa organizzata da Floriana.
 
“Barbie!” mi sentii chiamare mentre salivo le scale.
 
“Ciao, Flo. Siamo di buon umore oggi? Di solito varchi la soglia con una faccia da funerale e la situazione migliora di ben poco durante le successive cinque ore” le sorrisi debolmente, dal momento che il mio ingresso all’inferno di solito non era migliore.
 
“Diciamo che ho un buon motivo per essere felice oggi. I miei genitori questo fine settimana saranno via e mi hanno permesso di organizzare una festa in piscina. Sei dei nostri, vero?”
 
“Oh, ad essere sincera…” avevo rifiutato ogni invito ad uscire in quell’ultimo periodo, in verità. Ero sempre impegnata con lo studio; e, quando non lo ero, Maltese pensava bene di rovinarmi l’umore cosicché la mia voglia di mettere il naso fuori casa fosse pari a zero.
Quindi non mi sorpresi quando Floriana, ancor prima di ascoltare la mia pronta scusa, mi interruppe.
 
“Non m’interessa la sincerità, Barbie. Ti aspetto domani, alle otto a casa mia. Portati il costume, al resto ci penso io” mi diede un veloce bacio sulla guancia e si defilò, lasciandomi insofferente ai piedi della rampa di scale che avrei dovuto salire per raggiungere la mia aula.
 
La giornata era trascorsa rapidamente, trascinandomi con sé nel turbinio di preoccupazione all’idea di dover seriamente andare a quella festa.
Varcai la soglia di casa Lisi con un broncio per niente incoraggiante; ma le mie amiche sapevano sempre come sollevarmi il morale.
Mi tuffai in piscina, lasciandomi scattare fotografie nelle pose più variopinte, mentre saltavo agilmente dal trampolino. Schizzai acqua ovunque, risi a crepapelle con Floriana e le altre ragazze che erano presenti alla festa.
L’unica nota dolente era la presenza di Maltese.
 
“Guarda, guarda! Una Bratz ad una festa in piscina. Non ti si restringe il cervello a contatto con l’acqua?” fece la sua plateale entrata in scena, mettendo in mostra gli addominali scolpiti che -ahimè!- facevano impazzire l’intera fauna femminile. Me esclusa, naturalmente.
 
“Se tu invece lo avessi un cervello, sapresti che è l’acqua calda a provocare il restringimento di indumenti e simili; ma non pretenderei mai tanto da quell’involucro vuoto che ti ostini a spremere nella vana speranza di una battuta quantomeno accettabile” sorrisi, perfida come solo lui era capace di rendermi.
Quello che non avevo tenuto in considerazione, però, erano le posizioni in cui ci trovavamo.
Io ero sospesa sulla tavola pieghevole celeste dalla quale sarei dovuta saltare prima che lui m’interrompesse; lui, invece, era in piedi poco distante da me.
Ignorò placidamente la mia risposta, rivolgendosi ai suoi fidati compagni di malavita.
 
“Ho voglia di…” drizzai le orecchie, incuriosita dalla mia stessa natura di ficcanaso.
Maltese mi guardò di sbieco, sogghignando. Poi prese la rincorsa e… Quando capii le sue intenzioni, fu troppo tardi.
Mi catapultò con sé in acqua, facendomi sbattere un ginocchio contro il trampolino e rischiando di annegarmi per tutta l’acqua che ingurgitai.
Tentai di divincolarmi da quella stretta ferrea che aveva sui miei fianchi, ma lui non sembrava deciso a mollare la presa.
Si avvicinò rapidamente, strofinando leggermente le sue labbra sulla mia gota destra. Poi risalì in superficie.
 
Chiesi più volte spiegazioni, sia quella sera che nei giorni seguenti. Inutile dire che non ricevetti risposta. Puntualmente m’interrompeva, ridacchiando beffardo e umiliandomi di fronte a tutti.
“Non confondermi con i sogni erotici che popolano le tue notti. Io non mi abbasserei mai a tanto”.
Il quinto anno, però, gli avrebbe dimostrato quanto si sbagliasse.
 
Dopo aver ricordato quel piccolo aneddoto anche a Dario, che quella volta ebbe tutte le ragioni per la mancata giustificazione, decisi di non far spazientire troppo l’infermiera e tornare in camera.
Stranamente il sonno mi vinse di lì a poco. Dovevo essere davvero molto stanca, come diceva il dottore, anche se io non ne percepivo troppo il carico fisico. Non quanto quello psichico.
Nel sonno, varie volte mi agitai per scostare la coperta. Avevo caldo, non riuscivo quindi a dormire serenamente, sebbene la piena stanchezza di quelle lunghe giornate.
 
Quando riaprii gli occhi, ancora accaldata dopo quel lungo sogno, non riuscii a mettere a fuoco quasi nulla, se non la bambolina di pezza sopra la scrivania e una figura nera che si stagliava sopra di me.
Il resto era completamente buio ai miei occhi e nella mia mente.
 
“Chi c’è?” la voce rotta dal panico che lentamente cresceva, mentre tentavo di nascondermi meglio sotto le coperte, come se queste avessero potuto in qualche modo proteggermi da un aggressore.
La figura si mosse, sorpresa.
 
“Chi c’è?” ripetei in un soffio, sempre più consapevole di non essere sola in quella stanza.
Quel contorno sfocato allora si spostò leggermente indietro, dandomi modo di appurare che non volesse farmi del male. O almeno così speravo.
Poi, d’un tratto, vidi l’ombra sedersi stancamente sulla poltrona avorio ai piedi del letto.
 
“Sta’ tranquilla, non posso farti niente” un sonoro sbuffo, prima di riprendere. “Sono io, Bratz”.


Perdonate la mancanza di note e delle risposte alle recensioni.
E' già tardi e, se avessi voluto aggiornare per bene, non sarei riuscita a farlo oggi; ma non mi sembrava corretto vista la grande attesa per cui mi scuso.
Domani sistemo note e recensioni, intanto auguro a tutti voi Buona lettura e vi ringrazio per avermi aspettata finora!

Un bacio grande,
Adrienne

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Capitolo 5
*** False steps ***



5. False steps


Betato da Gnesina

 
Mi era sempre piaciuto pensare che chi non fosse più fisicamente raggiungibile, continuasse a vegliarmi dal luogo in cui si trovasse. Questa speranza era una magra consolazione al grande vuoto che queste scomparse, improvvise o previste, fossero solite lasciare.
L’esempio più banale della sofferenza che queste perdite lasciano è l’ostinazione di chi resta nel continuare a non voler utilizzare il termine appropriato, Morte, conciso ed efficace.
Eppure la maggior parte delle persone lo snobba in favore di un più generico “scomparsa”, “perdita”, o “mancanza”.
 Non è certo difficile capirne il motivo, ma io credo di averlo compreso appieno quella notte, quando finalmente mi decisi ad elaborare il lutto.
Nei giorni precedenti, mi ero decisa a ignorare la presenza costante di quello sguardo familiare e stranamente reale, intorno a me; Ma non potevo permettermi di abbandonarmi a una simile illusione, perché lui non poteva essere lì e io non avrei dovuto crederci. Tutto ciò, però, si era rivelato molto più complicato di quanto potessi immaginare.
Dario appariva nei momenti meno opportuni, mentre cercavo di concentrarmi su di una qualsiasi mansione domestica oppure mentre sfogliavo il giornale in cerca di lavoro. E il risultato era sempre lo stesso.
La mia testa scattava come una molla, così come le gambe, che si sollevavano leggermente da terra per lo spavento; Il secchio con l’acqua si rovesciava, e le pagine venivano immeritatamente chiuse con violenza.
Di solito mi risparmiava chiacchiere di circostanza; evitava accuratamente l’argomento “pistola, proiettile, decesso” e mi teneva compagnia nei pomeriggi in cui ero sola in casa. Le uniche eccezioni erano dettate da una mia disattenzione o da un capriccio; a quel punto interveniva Maltese e nei panni di un perfetto moralista mi spiegava dove avessi sbagliato.
Tutto questo era assurdo. Avevo accettato la sua silenziosa presenza con un grande sforzo, senza via d’uscita dal momento che quel ragazzino era ormai una costante ingestibile.
Voleva esserci, perché o per quanto tempo ancora non mi era dato sapere. Era una situazione frustrante, odiavo non capire e, ancor di più, non potergli impedire di partecipare alla mia vita, seppur passivamente.
Non mi restava altro da fare se non ignorarlo, un atteggiamento che lui sembrava a tratti apprezzare. Preferiva essere preso in considerazione quando s’impegnava in una delle sue filippiche su quanto viziata fossi e sullo scarso valore che davo alla vita; discorsi, insomma, dove faticavo a riconoscere lo stesso Dario Maltese che aveva reso gli ultimi cinque anni della mia vita un incubo. Proprio quello che stavo vivendo in quella estenuante situazione di irrealtà, come se aver rimosso i precedenti cinque mesi non fosse stato sufficiente a dimostrargli qualsiasi cosa egli volesse che gli fosse dimostrato.
Il momento in cui però, entrambi preferivamo il silenzio era quello dei pensieri confusi, delle frasi mozzate in gola, della curiosità inespressa. In quei casi, averlo vicino era meno fastidioso e lui sembrava gradire la mia mancata voglia di considerarlo.
Non voleva fornirmi spiegazioni coerenti, niente più di un “Non posso farti niente” o “Mi dispiace”, immancabilmente accompagnato da quello stupido soprannome che sembrava ancora in grado di donargli quel ghigno di scherno che tanto odiavo. Lì ero certa di aver di fronte Dario Maltese, e la cosa non mi era per niente di conforto.
La routine voleva che quel ragazzino impertinente arrivasse nei momenti più imprevedibili e che sparisse quando più gli convenisse. Quello che più mi spaventava, però, era la sensazione di tranquillità che m’invadeva in sua presenza; le mie giornate sembravano costruite attorno alle sue improvvise apparizioni, come se aspettassero solo lui per poter avere inizio.
Ad ogni modo, non avevo smesso di odiarlo. Continuavo a farlo, nonostante lui fosse diventato quella misera figura evanescente, solo per salvare me; scaricavo addosso a lui ogni tensione, ogni più piccola arrabbiatura sebbene spesso non avesse colpe. E, forse, era proprio per questo motivo che riversavo su di lui ogni mia frustrazione.
Avrei voluto litigare con lui per un valido motivo, prenderlo a pugni per essersene andato senza una parola; Ma lui continuava imperterrito nel suo totale rifiuto a raccontarmi come stessero realmente le cose.
La prima domanda che avevo pensato di porgli era perché?, ma anche quella era stata risucchiata dalla strana sensazione di dover parlare con una figura inconsistente, alla quale mi ostinavo a credere, pur consapevole del suo essere irreale e frutto della mia fantasia.
In cuor mio, a dire il vero, ero sicura che nemmeno lui avesse delle risposta chiare da darmi. Quando sarebbe stata pronta, la mia immaginazione gli avrebbe fatto pronunciare la soluzione tanto attesa;
Ma era ancora troppo presto.
Comunque, anche quella notte ero decisa più che mai ad ignorare la sua presenza.
Mi ero ovviamente chiesta cosa lo portasse lì in quell’ora buia del giorno, quando fuori dalla finestra i lampioni rischiaravano le strade e la città risplendeva sotto la luce della luna che dominava il cielo; ma non volevo dargli soddisfazione anche questa volta, abbassandomi a chiedere nuove spiegazioni. Una soddisfazione che lui era convinto, avrebbe prima o poi ottenuto.
 
“Non volevo svegliarti, anche se non ho intenzione di scusarmi per averlo fatto” esordì con i suoi soliti modi educati, un tipo affabile insomma. “Ero solo curioso di sentire cosa farneticassi durante il sonno”.
Non sarebbe stato Maltese se non avesse ucciso quella poca dignità che ancora gelosamente preservavo al fine di non impazzire del tutto. Come sarei mai più riuscita a dormire ora, sapendo che ci sarebbe stato lui in ascolto?
Mi aspettava una notte in bianco, naturalmente.
Ad ogni modo, non demorsi e continuai ad ignorare la sua presenza - un po’ meno le sue parole - fino a che non udii un leggero rumore alla porta. Qualcuno o, per meglio dire, qualcosa stava tentando di rovinarne la vernice con le sue unghiette.
“Credo che Bratz voglia la tua attenzione” fece eco ai miei pensieri Dario. “Sentirà il richiamo del bellissimo nome che porta” continuò imperterrito, deciso ad uccidere la poca pazienza che ancora mi restava.
Per non rischiare di sputargli addosso tutto il veleno accumulato in quei pochi minuti, e quello ancor precedente, mi alzai diretta alla porta. Abbassai lentamente la maniglia per evitare di fare troppo rumore e svegliare così i miei genitori, affacciando solo la testa al di là dell’uscio.
Bratz - e solo Dio sa quanto odiassi pronunciare quel nome, soprattutto se rivolto ad una bestiola - aveva smesso di graffiare la porta e mi fissava con le zampe anteriore sospese per aria. Lo sguardo da cucciolo indifeso, lo stesso che sfoderava ogni qualvolta volesse ottenere qualche coccola.
Lo lasciai trotterellare fino al mio letto, richiudendomi la porta alle spalle. Nel frattempo la piccoletta aveva raggiunto il letto e stazionava lì di fianco, in attesa che la sollevassi per portarla con me sul materasso.
“Non vorrai mica viziarla come te, spero. Potrei pentirmi di avertela affidata, o quasi” ghignò l’infame, consapevole di quanto lo avessi odiato nel momento esatto in cui avevo scoperto la verità su quel bassotto. “Certo, riconosco la mia parte di responsabilità. Dovevo immaginare che sarebbe andata a finire così quando ho deciso di dare alla bestiaccia quel nome, ma non che…” s’interruppe, allargando il sorriso.
Sarebbe stato meglio dire che fui io ad interromperlo, con un piccolo sbuffo. Purtroppo mi resi conto tardi di quel tremendo errore, quando sul suo viso faceva già capolino un’espressione vittoriosa.
Non avrei dovuto lasciarmi coinvolgere a tal punto dal suo ennesimo tentativo di esasperarmi; dovevo sottostare alle regole che mi ero autoimposta per quei momenti, quelli dove Maltese sembrava di buon umore e in vena di chiacchiere.
I am the champion, mmm” canticchiò, osando profanare la famosa canzone dei Queen. “Non lo sento, ma sono sicuro che il profumo di vittoria aleggia nell’aria. Ti sta accarezzando proprio adesso l’orecchio e sta per urlarti…” rimasi immobile, cercando di ignorare quei passi nella mia direzione, “vincerò!”ululò poi, stordendomi. Una pessima imitazione di Luciano Pavarotti, inconcepibile per me e per il mio povero udito.
Balzai all’indietro, sbattendo contro il letto e cadendo pesantemente sul materasso. Intanto quel vigliacco se la rideva, tenendosi la pancia e non trattenendo la voce grossa che riempì la stanza. Se avesse potuto, ero sicura che avrebbe pianto per quei violenti spasmi che lo pervadevano da cima a fondo. Maledetto, gliel’avrei fatta pagare cara.
In quel momento, mi balenò per la testa un’idea per niente rassicurante.
Maltese voleva la guerra, questo era un dato di fatto. Fisicamente presente o meno, era tutto ciò che aveva sempre voluto e ottenuto da me. Quindi, lo avrei accontentato ancora una volta.
 
“Sai Bratz,” esordii lasciando che il cucciolo di cane si accoccolasse sulle mie gambe, “in queste settimane mi sono affezionata a te contro ogni pronostico.
Piccola e indifesa, trotterelli per casa in cerca di grattini e di qualcuno che giochi con te; in particolare, sembri desiderare le mie attenzioni, e questo mi riempie di una strana soddisfazione”.
Mentre parlavo, mi accorsi che quell’assurda presenza che mi sostava di fronte aveva di poco allungato il collo, in ascolto. E io non avrei potuto chiedere di meglio.
“Mi sono spesso chiesta”,continuai quindi, “se ciò fosse semplicemente dovuto alla tua giovane età oppure se questo dipendesse da una precedente mancanza di affetto. Insomma, posso solo immaginare cosa volesse dire vivere con quel ragazzino; non deve essere stato per niente facile dover condividere con lui gioie e dolori” terminai, sfoderando lo sguardo più commiserevole che avessi in repertorio.
 
“Stronza” lo sentii mugugnare in risposta. E il sorriso si allargò sul mio viso.
 
Al termine di quella piccola schermaglia e decisa più che mai ad ignorare la presenza ingombrante di Maltese, mi riaddormentai con Bratz accoccolata ai piedi del letto.
Inizialmente non era stato facile fingere che Dario non fosse seduto sulla poltrona, poco distante da me; poi, però, non avevo avuto scelta e il sonno mi aveva vinta, ancora troppo stanca per poter restare vigile.
Stranamente, non avevo sognato alcunché. La mia mente era svuotata di ogni pensiero e turbamento, il mio cervello aveva deciso di concedermi un riposo sereno e certamente meritato.
“Barbie” udii una voce distante chiamarmi. “Barbie, alzati o faremo tardi”.
Mia madre irruppe in camera, spegnendo il pesante sbuffo di aria fredda che rendeva quell’estate afosa sopportabile e spalancando la finestra, lasciando che i caldi raggi del sole mi svegliassero definitivamente.
 
“Mmm, ancora dieci minuti” tentai, invano, di girarmi dall’altro lato; ma la signora Gaiti non era così facilmente intortabile e mi fece rotolare senza remora giù dal materasso.
 
“Li hai sprecati cadendo dal letto, che peccato” esclamò, falsamente dispiaciuta per avermi riservato un risveglio tanto crudele. “Adesso alzati e scendi a far colazione. Così poi potremo uscire” ed abbandonò la mia stanza, lasciandomi a terra, ancora avvolta nel lenzuolo.
Fortunatamente, quella mattina Maltese sembrava aver deciso di non voler violare la mia privacy, qualcosa che avevo ormai perso da tempo, viste le sue continue ed improvvise incursioni nel mio mondo.
Da quando erano cominciate quelle strane visite, lo stress psicologico a cui ero stata sottoposta mi aveva impedito persino di ricavarmi un angolino privato tra i miei pensieri. Avevo il terrore che lui potesse entrare anche nella mia testa, oltre che apparire dal nulla comodamente adagiato sulla poltrona che avevo in camera; e se così fosse stato, avevo paura di cosa avrebbe potuto leggervi.
Per evitare di soffermarmi troppo su questioni angoscianti o pensieri che riguardassero quegl’ultimi cinque mesi, avevo persino cominciato a scrivere un diario. Annotavo ogni cosa, i particolari più minuziosi di cui volevo ricordarmi a distanza di tempo; tutto aveva un senso e tutto andava incastrato tra carta e parole.
Riuscii a portare avanti questo progetto per pochi giorni; poi subentrò il terrore di essere scoperta.
Mi comportavo come una criminale in latitanza, scrutando la stanza alle mie spalle una decina di volte prima di piegare la testa sulla pagina bianca e risollevandola pochi secondi dopo per un ultimo rapido controllo.
Ero spaventata da un suo possibile arrivo, le solite improvvisate che mi lasciavano con il fiato sospeso e il cuore appeso alle corde vocali. Odiavo essere presa alla sprovvista e questo sembrava renderlo euforico; la nuova capacità di comparire dal nulla lo entusiasmava a tal punto da indurlo ad attentare alla mia sanità mentale più e più volte durante il giorno. Insopportabile.
Il più delle volte mi era capitato di pensare a Maltese come ad un bambino troppo cresciuto. Età cerebrale pari a due anni e fisico di un ventenne.
Purtroppo quel suo aspetto era l’unico che non avevo mai potuto mettere in discussione. Era un bel ragazzo, tenebroso e affascinante come il peggiore degli stronzi; i muscoli erano fasciati da una carnagione olivastra che si scontrava con il verde di quegl’occhi furbi e penetranti. La bocca leggermente carnosa era da sempre un invito esplicito per tutte quelle oche che amavano sguazzare nel suo stagno; stagno nel quale sicuramente avrei fatto anch’io un tuffo se solo non si fosse trattato di quel ragazzino insolente.
Forse era per questo, che alcune voci insistenti mi volevano protagonista di una bizzarra infatuazione nei confronti di Maltese. Chi non lo sarebbe stata a prima vista?
Qualche temerario aveva persino azzardato il termine amore, prima di incorrere nella mia ira funesta e nello sguardo ammonitore del mio compagno di classe. Oltre a questo, però, Dario aveva sempre mostrato indifferenza di fronte ad ipotesi del genere. Probabilmente era cosciente dell’odio reciproco che ci impediva di comportarci come due persone civili; e io non potevo che trovarmi d’accordo con lui, sebbene il mio spirito battagliero mi impedisse di mostrare lo stesso grado di noncuranza.
 
Naturalmente, come in fondo ogni altro essere umano, Dario non era perfetto.
Aveva la tendenza ad ingrassare non appena allentasse un po’ i ritmi della dieta, cosa che lo aveva portato a passare gli anni del liceo più in palestra che sui libri. La carnagione scura e lo spigoloso taglio del viso gli conferivano un aspetto duro e un poco più adulto della sua età, cosa che ero convinta gli facesse un gran piacere. Il calcetto della domenica pomeriggio era la sua unica debolezza sociale.
tutto sommato, però, non si trattava di nulla che compromettesse la sua immagine di “bello e dannato” che tanto mandava in brodo di giuggiole le ragazzine assatanate.
Il problema era solo uno. Nessuna di loro lo conosceva.
Con questo non volevo certo proclamarmi unica intenditrice della specie Maltese, lungi da me farlo.
Solo che, con il passare degli anni e con il maturare dei nostri battibecchi, ero arrivata al punto di poter dire di conoscerlo per come fosse veramente.
 
 “Se non scendi subito, inforco la scopa e ti costringerò a stringere amicizia con il manico. Sono stata chiara, Barbara?” Forse era giunto il momento di lasciare quel lenzuolo a cui ero ancora aggrappata e, con lui, i pensieri per raggiungere mia madre al piano di sotto. Non mi piaceva molto l’idea di essere suonata come un tamburo da quella donna, soprattutto appena sveglia. 
Così mi trascinai svogliatamente fino in cucina, dove mi attendeva la colazione pronta in tavola. E mia madre, con il piede che batteva furiosamente a terra.
 
“Ho dormito male questa notte, avevo bisogno di recuperare” tentai di inumidire gli occhioni e di sbattere le palpebre più del necessario.
 
“Mi pareva ti chiamassi Barbie, non Bambi” mi sorrise lei, fintamente.
 
“E questo cosa…? Oh, hai mangiato pane e simpatia per colazione, mamma?” L’assurdità delle battute di mia madre a volte mi lasciava esterrefatta. Solo lei poteva ricollegare il soprannome con cui erano soliti chiamarmi tutti al modo da cerbiatta indifesa con cui avevo agitato le ciglia lunghe. E, in questo caso, non si era nemmeno impegnata per dare il peggio di sé!
 
“Sbrigati a mangiare, altrimenti faremo tardi come al solito. E sempre per colpa tua, naturalmente” sentenziò mia madre, chiudendo definitivamente il discorso. Peccato che ancora mi sfuggisse un particolare…
 
“Posso sapere dove siamo attese, signor colonnello?”
La donna che avevo di fronte mi riservò dapprima un’occhiataccia, probabilmente infastidita dalla mia sbadataggine; poi sembrò rifletterci sopra e ammorbidì lo sguardo. Me lo aveva detto lei stessa, poche settimane prima. “Sai cosa le hai risposto? Sopravvivo.”
Quindi non era poi così strano che la mia mente avesse rimosso anche quel dettaglio.
 
“Dai signori Maltese, per accudire la figlia mentre loro sono a lavoro”.
La figlia, la sorella di Dario che io non sapevo neppure esistere.
Forse allora non era così corretto dire di conoscere quel ragazzino, perché in realtà nemmeno io sapevo molto di lui e della sua vita al di fuori della scuola e della gang.
“Ci prendiamo cura di lei da qualche mese. Prima era Dario a pensare a lei, quando i genitori non potevano. Giada ha quattro anni e frequenta la scuola materna; quindi per lui non era un problema frequentare le lezioni la mattina e poi occuparsi di lei. Naturalmente adesso l’asilo è chiuso per le vacanze estive e la bambina necessita di qualcuno anche alle prime ore della giornata” finì di spiegarmi mia madre, consapevole del fatto che non ricordassi nulla dei mesi precedenti.
 
“Oh” mi limitai ad annuire.
Tornai in camera, dove finii di prepararmi per raggiungere casa Maltese. Poi raggiunsi nuovamente mia madre e, insieme, ci dirigemmo verso la nostra meta.
Durante il tragitto, rimuginai molto su quanto scoperto solo poco prima. Ripensai a quanto ipocrita fossi stata nel credermi una di quelle persone vicino a Dario, anche se negativamente. A quell’idea, ebbi uno strano vuoto allo stomaco, come se mi avessero privata di una certezza sino ad allora consolidata.
In fondo, con Maltese non avevo mai stretto un legame da grandi amici; banalmente, ero la sua peggior nemica… forse.
Se non potevo dire di conoscerlo, come avrei potuto pretendere di sapere chi rientrasse nella categoria di persone da essere tanto importanti da meritare un superlativo relativo?
L’unica cosa di cui fossi certa al momento era l’inspiegabile desiderio che lui confermasse quel pensiero; avevo bisogno disapermi la sua peggior nemica.
“Essere stata” probabilmente sarebbe stato più corretto, ma questo proprio non riuscivo ad accettarlo. Lui continuava a vivere nei miei pensieri, questo non sarebbe mai cambiato. Se anche io non fossi stata la sua peggior nemica, lui sarebbe sempre rimasto il mio peggior nemico. Di questo ero stranamente certa.
 
“Sai, l’altro giorno, mentre tu eri a casa per via di quel capogiro nel camerino” mia madre interruppe la catena di pensieri che mi aveva accompagnata per gran parte della strada, “la signora Maltese mi ha confessato una cosa” si voltò a guardarmi negli occhi, in cerca probabilmente di un cenno d’assenso per continuare o di un lampo di curiosità sfuggito al mio sguardo. Trovò qualcosa, perché continuò.
“Mi ha detto quanto sia felice che tu ti prenda cura della piccola Giada, insieme a me. Averti per casa, anche se per poco tempo al suo rientro, le fa bene al cuore. Le ricordi piacevolmente quello scapestrato di suo figlio e le dai la certezza di aver insegnato a suo figlio…”
Non ebbi modo di ascoltare le ultime parole di mia mamma perché qualcosa mi distrasse.
Maltese si era silenziosamente accostato a me e, nel momento meno opportuno, aveva urlato qualcosa che non compresi. Il difficile venne quando dovetti spiegare alla donna che mi stava affianco a cosa fosse dovuto l’urlo di rimando che aveva provocato il forte spavento.
 
“Scusa, un insetto” le sorrisi fintamente, sperando che mi credesse.
 
“Santo cielo, Barbie! Così finiranno per rinchiuderti in un manicomio, altro che ricovero di qualche giorno per esami di routine” sospirò lei, alzando gli occhi al cielo e deviando su di un vialetto.
Non capivo di che esami stesse parlando, ma decisi di rimandare a dopo. In quel momento, mi premeva concludere il discorso iniziato poco prima.
 
“Dicevamo?”cercai di riprendere il filo della conversazione . Fu in quell’istante che mi ricordai del ragazzino impertinente che avevo accanto. Maledetto, pensai prima di rivolgere nuovamente l’attenzione a mia madre.
 
“Un’altra volta, Barbie. Siamo arrivate” mi rispose la signora Gaiti, prima di suonare il citofono a cui rispose una gentile voce femminile.
 
“Entrate pure” e il cancello all’ingresso si aprì.
 
“Tratta bene mia sorella. Buon divertimento, Bratz” Dario le strizzò l’occhiolino e svanì nel nulla, così come era apparso. Ed io mi trovai costretta a seguire mia madre all’interno di quella villetta che mai avevo veduto in vita mia. Stavo entrando nella casa del mio peggior nemico.
 
L’interno di casa Maltese si presentava come un ambiente accogliente, completamente differente dallo stile poco curato di Dario. All’ingresso spiccavano diverse fotografie appese e incorniciate da piccoli quadretti, molte delle quali raffiguravano una donna di giovane aspetto con in braccio due bambini. La più piccola indossava sempre eleganti abitini di raso e cotone; il bambino aveva i jeans sporchi di fango e i capelli disordinati. Solo un’istantanea sembrava aver immortalato un raro momento in cui tutta la famiglia Maltese fosse composta ed unita, dove i sorrisi fossero spontanei e contagiosi.
Nessuno scatto nel quale Dario fosse più grande dei quindici anni; solo fotografia della sorella più piccola che pian pianino cresceva sotto gli occhi di genitori orgogliosi a cui però sembrava mancare qualcosa. Il figlio probabilmente, sebbene fosse stato il padre stesso a cacciarlo di casa.
La signora Maltese ci attendeva in cucina, dove era intenta a preparare il pranzo che avrebbe lasciato per la figlia.
 
“Salve, signora Gaiti. Scusi il caos, ma sono in un tremendo ritardo e stamattina abbiamo un’importante riunione di lavoro” sorrise lei a mia madre, scusandosi. “Barbara” aggiunse poi a mo di saluto, passandomi affianco ed allargando il sorriso.
 
“Signora Maltese” risposi quindi io, titubante.
 
“Oggi temo ritarderemo entrambi nel rientrare a casa. Se per voi è un problema, potete lasciare Giada a casa della signora Belli, qui di fronte. Passerò a prenderla non appena arrivo”.
Si leggeva nel suo sguardo, lasciare la figlia in mani pressoché sconosciute la rendeva inquieta; purtroppo però non poteva farne a meno, non dopo quel maledetto 9 Febbraio. Quel giorno, l’unica persona a cui la signora Maltese avrebbe affidato la figlia se n’era andata per sempre.
 
“Mi spiace, ma oggi proprio non…”
 
“Me ne occupo io”. Mia madre s’interruppe e tre paia di occhi si puntarono su di me.
La mia genitrice mi guardò dubbiosa, chiedendomi una silenziosa conferma che ricevette dal mio sorriso accennato; la signora Maltese traboccava di riconoscenza, non smettendo un solo secondo di domandarmi se ne fossi certa e ringraziandomi ad ogni “sì”.
Dario, riapparso all’improvviso alle spalle delle due donne, mi fissava con sguardo indecifrabile. Sembrava impegnato a capire cosa mi avesse spinta ad accettare di occuparmi di sua sorella, nonostante mia madre stesse per rifiutare. In verità, nemmeno io ero sicura del motivo per cui l’avessi fatto.
Le parole erano uscite da sole; indipendenti e libertine, avevano ignorato i pensieri di fuga che mi affollavano la mente. Qualcosa, un sentimento sconosciuto, mi aveva indotta a prendermi quell’impegno senza esitazione. Volevo avere un po’ di tempo per capire quel mondo a me sconosciuto; il mondo nemico, che solo allora capivo essere tutt’altro. Non mi piaceva essere una ragazzina ipocrita che pretendeva di conoscere la sua vita e di farne parte senza esserlo stata davvero. Dopo quel pomeriggio, avrei potuto finalmente dire di conoscere, anche se infinitamente poco,  il mondo Dario Maltese.
E, senza rendermene ancora una volta conto, avevo lasciato che un’altra crepa solcasse la corazza che mi ero costruita intorno. Stupido impiccione!
Avevo notato il suo sguardo e, anche se involontariamente, avevo fatto un altro passo falso rendendolo partecipe del mio interno turbamento.
 
La giornata si svolse tranquillamente fino all’ora di pranzo, quando mia madre mi chiese di far mangiare la piccola Giada. La bambina aveva quattro anni, quindi era in grado di imboccarsi da sola; nell’ultimo periodo però, da quando il fratello l’aveva lasciata sola, lei sembrava non avere un grande appetito.
Per questo motivo la signora Maltese si raccomandava spesso di tenerla sotto controllo durante le ore dei pasti, per evitare che questa li saltasse completamente o che giocasse con il cibo per evitare di nutrirsi.
 
“Ehi Giada, il pranzo ti aspetta” la incitai, entrando in salotto dove lei stava guardando i cartoni animati alla tv. “Forza, andiamo di là, altrimenti si raffredda” continuai sorridendo, sperando di convincerla.
 
“Non posso. Sto guardando questo” mi rispose lei, indicando lo schermo illuminato.
 
“E’ un vero peccato, sai? Perché oggi la mamma ti ha preparato il pollo che piace tanto a te”.
Due grandi occhi verdi si puntarono addosso a me che, sorridendo vittoriosa, la invitai con la mano a precedermi; lei, non potendo resistere al richiamo della sua pietanza preferita, scese a tentoni dal divano e afferrò il telecomando per spegnere la televisione. Prima di compiere quell’ultimo gesto, però, mi fissò ancora una volta e mi disse: “Tu accendi la tele in cucina, così io spengo qui”.
 
“Ma non si mangia con la tv accesa tesoro. Ne guardi già tanta la mattina e durante la merenda delle quattro.” tentai di dissuaderla, abituata ai rimproveri di mia madre che mai aveva permesso una libertà simile se non per guardare lei il telegiornale con mio padre.
 
“Dario guardava sempre i cartoni con me, quando mangiavamo”. E, per l’ennesima volta in quella stessa giornata, un peso all’altezza dello stomaco mi impedì di replicare e finii per accontentare la piccola.
Dario mi avrebbe rovinata di quel passo; la sua assenza-presenza non era affatto salutare per me, ma ancor meno lo erano tutte quelle persone di cui mi ero circondata e che non facevano altro che ricordarmelo.
Mia madre aveva ragione. Il manicomio mi avrebbe presto accolta a braccia aperte.
 
Nel pomeriggio la mia genitrice si affrettò verso il supermercato, dove aveva promesso che avrebbe fatto un po’ di spesa per i Maltese prima di scappare dai miei nonni, l’impegno per cui era stata costretta a rifiutare di occuparsi della piccola Giada, oltre il solito orario.
Così decisi di visitare la casa, mentre la sorella di quel ragazzino dormiva beatamente nel suo lettino.
M’introdussi nella camera di Dario in punta di piedi, sperando che Giada non si svegliasse proprio in quel momento. La stanza si affacciava su di un fazzoletto di erba verde, probabilmente mantenuta in vita da un irrigatore; avevo da poco scoperto della passione del signor Maltese per la botanica, un hobby che mai avrei ricollegato al padre di un teppista come Dario.
La madre invece si limitava a coltivare i gerani sul balcone, non senza il tempestivo intervento dell’uomo di casa nel caso di un improvviso peggioramento.
La tapparella era di poco alzata, il giusto per lasciare intravedere il tronco dell’albero in giardino e nulla più. Era evidente la silenziosa gelosia con cui la signora Maltese custodisse quella stanza, lì dove aveva dormito, giocato e pianto il suo primogenito. Lì dove non era stata casa sua, nemmeno  prima di andarsene per sempre.
L’armadio a muro era stato lucidato di recente, probabilmente il giorno prima al rientro dal lavoro. Gli indumenti erano perfettamente ordinati al suo interno, lasciando quasi intendere che qualcuno li avrebbe potuti usare in qualsiasi momento. In realtà, entrambe sapevamo che nessuno avrebbe più toccato una sola maglia tra quelle riposte nei cassetti.
La scrivania era lucida e vuota, fatta eccezione per un portapenne appoggiato sul lato sinistro del piano, al suo interno un pennarello indelebile e una penna nera. Un classico indizio di quella che era stata la vita di Dario.
Quel ragazzino non era mai stato avvezzo alle fotografia e nessuno era così legato a lui da spedirgli cartoline dai luoghi di villeggiatura dove trascorreva le vacanze. Quindi non mi stupii troppo nel non trovare tracce di colla sui muri o sull’armadio, dove io ero solita attaccare gli scatti fatti in compagnia.
A catturare la mia attenzione fu l’angolo colorato di un cartoncino che spuntava dall’agenda pasticciata appoggiata accanto al portapenne. Mi avvicinai per indagare meglio e scoprii l’unica istantanea presente in quella bolla privata di caos e maniacale disperazione.
La fotografia ritraeva Dario con una buffa espressione e i capelli scompigliati ad incorniciargli il viso. Il colletto della sua maglia era sollevato verso l’alto, strattonato da due mani molto più piccole delle sue, che stringevano a loro volta le dita sottili della ragazza che gli stava di fronte nel vano tentativo di strapparle la stoffa dalle grinfie.
Leinel frattempo sembrava agguerrita, poco intenzionata a restituirgli l’aria che, con quella morsa al collo, gli stava togliendo. Un sorriso sadico dipinto sulle labbra, la determinazione negli occhi.
Avrei potuto anche indovinare chi si nascondesse dietro l’obiettivo. Floriana aveva immortalato quel momento, convinta che avrei voluto avere un ricordo di quella clamorosa vittoria contro Maltese. Peccato che quest’ultimo le avesse strappato di mano l’istantanea non appena libero della mia stretta e del mio ginocchio tra le gambe che lo costringeva quasi a terra.
Da quel momento in poi, non avevo più saputo che fine avesse fatto quella fotografia.
Proseguii l’ispezione della camera con un peso all’altezza del petto, una sensazione inspiegabile per me. Rovistavo con lo sguardo tra i pochi soprammobili e i numerosi poster appesi sopra la testiera del letto, senza mai toccare nulla per paura che qualcuno se ne accorgesse. In realtà, la paura più grande e inconscia che avessi era quella di risvegliare le allucinazioni che mi accompagnavano da settimane ormai.
Mi ero abituata a quell’insolita presenza, una costante nella mia vita che aveva cambiato molte cose. Avevo affrontato un periodo di assestamento, in cui mi ero dovuta convincere di non essere uscita di senno; poi tutto era tornato più o meno nella norma quando mi ero decisa ad ignorare la sua figura.
Se fosse scomparso all’improvviso, così come era riapparso nella mia vita dopo quel tragico incidente, non avrei saputo come reagire; Non avrei potuto sopportare una seconda volta lo stesso sordo dolore, non dopo che la prima fosse già risultata sufficientemente disastrosa per me e le persone al mio fianco.
Fu mentre pensavo a tutto questo, continuando a guardarmi distrattamente intorno, che notai un piccolo pacchetto adagiato sul comodino accanto al letto. Probabilmente la signora Maltese non aveva avuto il coraggio di toccare niente se non per dare una leggera spolverata e richiudere così la porta di quel piccolo tempio.
Mi accostai al mobile e sfiorai con la punta delle dita la carta regalo rossa, diversa dal verde spento del mio diciassettesimo compleanno. Quella piccola scatola sembrava essere stata impacchettata con maggior cura, come se custodisse qualcosa di importante agli occhi di chi l’avesse incartata.
 
“Il regalo per i tuoi diciannove anni”, la voce di sempre alle spalle. “Perdona il ritardo. Auguri, Bratz”.
E, ancora una volta, era ritornato da me. Un altro passo falso, l’ultimo in quello strano e altalenante rapporto di odio reciproco.
 




Non è un miraggio, giuro!
Ho aggiornato (non so come, ma l’ho fatto) e adesso sono pronta a farmi tirare le uova.
Dunque, qui vediamo qualcosa in più del rapporto tra Dario e Barbara, ma scopriamo anche che questo bel fanciullo ha lasciato una mini-Maltese tutta sola soletta e di cui adesso deve occuparsi Barbie.
Inoltre ci sono diversi passi falsi che la protagonista commette e che, nel prossimo capitolo, la porteranno a reagire in un determinato modo (che, naturalmente, non spiegherò adesso. Sono sadica, sì!)
Passando alle questioni più pratiche, ogni tanto noto dei piccoli cambiamenti tra seguite, preferite &co. Mi piacerebbe sapere, anche per via privata, cosa vi spinge a cambiare idea. Giusto per averne un’idea e migliorare in ciò che non vi piaccia, se possibile.
I pareri lasciati sottoforma di recensione fanno sempre piacere, sarei un’ipocrita a negarlo, ma mi accontento tranquillamente di un messaggino privato in cui mi dite “Mi fa schifo questo, questo e quest’altro!” ;)
 
Intanto un grazie speciale ad Agnese, che ha betato il capitolo, e a Greta che ormai vanta la nomina di mia consulente personale nonché fanciulla che ascolta le mie paranoie. Sante donne, io e la mia pigrizia ve ne siamo grate!
Grazie anche alle 16 persone che hanno inserito la storia nelle preferite, le 6 nelle ricordate, le 32 nelle seguite e le 5 che mi hanno tra gli autori preferiti. Per me è tantissimo, come tante sono le 21 recensioni che mai mi sarei aspettata.
Spero di continuare a meritare tanto.
 
Alla prossima, sebbene un po’ in ritardo per via della maturità.
Un bacio grande,
Adrienne

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Capitolo 6
*** Feelings ***


Capitolo 6. Feelings

 

A Greta e Leandra,
perché se oggi questo capitolo è qui lo devo anche a loro.
E alle altre ragazze, che sabato mi hanno regalato una giornata stupenda.
 

‹‹Cosa vuoi da me, Dario?›› sbottai esasperata da quella situazione, che si ripeteva ormai da troppo tempo. ‹‹Perché non ti godi la beatitudine e mi lasci ricominciare a respirare?››
Non avrei retto quella situazione un minuto di più.
Da quanto mi aveva raccontato mia madre, avevo trascorso gli ultimi cinque mesi in uno stato di apatia tanto anomalo in me da spingere anche lei a preoccuparsi. E io non accettavo che Maltese, dopo avermi rovinato l’esistenza mentre era ancora in vita, mi inseguisse con quegli stupidi giochetti da illusionista adesso che tutto sembrava finito.
Non era da me neppure pensarla in quel modo. Non lo credevo possibile fino a pochi istanti prima, quando l’ennesima apparizione di quel ragazzino impertinente non mi aveva condotto al punto critico di ogni mio equilibrio psico-fisico.
Insomma, svegliarmi un giorno e scoprire quanto successo qualche mese addietro era un prezzo sufficientemente alto da pagare per scontare una pena di cui non mi era dato di conoscere l’origine.
Avevo litigato con lui così tante volte da averne perso il conto. Gli avevo rivolto i peggiori insulti mai usciti dalle mie labbra; avevo cercato di provocargli del dolore fisico, dal momento che ogni mia parola, se rivolta a quel ragazzo dall’orgoglio spropositato, sembrava non sortire alcun effetto. Ma non avevo mai fatto tanto da credere di dover meritare una punizione tanto grande, come il perdere la certezza che lui - sebbene quasi sempre nel “male” - ci sarebbe sempre stato.
Invece, dal giorno di quel dannato sparo, i pensieri mi avevano inghiottita impedendomi così di continuare a vivere. E la sua costante presenza non mi aiutava di certo.
 
‹‹E impedirmi di vederti sbuffare come un caminetto, nel mese di Dicembre? Non ci penso neanche!›› Ed eccola, l’ennesima testimonianza di quanto quello stupido un cervello non ce lo avesse. Era nato per infestarmi l’esistenza con le sue marachelle, i capricci di un bambino che pesta i piedi per ottenere sempre ciò che vuole.
Il peggio è che tutto questo mi mancava, forse troppo.
Avrei dato qualsiasi cosa per tornare a fronteggiare quello sguardo dispettoso, quel ghigno malefico che mi accoglieva ogni giorno a scuola e ogni volta che lo incrociavo accidentalmente per strada o nel luogo di ritrovo per i più giovani. Avevo bisogno di sapere che, qualunque cosa fosse successa, uscendo avrei ritrovato quella certezza di saperlo lì, pronto a farmi pensare a tutt’altro.
Era questo che, probabilmente, invece Maltese non capiva.
Per lui si trattava di un gioco, una partita solo un po’ più intrigante di una semplice sfuriata faccia a faccia, come spesso accadeva tra noi. Adesso lui poteva barare, in modo tanto sleale quanto doloroso, perché faceva male. Un male pazzesco, di cui lui non si accorgeva.
 
‹‹Perché non mi hai lasciata morire, invece di fare l’eroe e sacrificarti per me? Sei così stronzo da…››
 
‹‹Ah!›› esclamò, interrompendo la mia arringa e lasciandomi infervorata ad attendere una spiegazione a quella brutale esclamazione. ‹‹Le parole, Bratz. Sei pur sempre di fronte ad un defunto, più vicino all’Onnipotente di quanto lo sia tu!››
La mia mascella per poco non si frantumò contro il pavimento di quella stanza.
Non era possibile. Quel ragazzino insolente non poteva davvero aver pronunciato quelle parole, non senza sapere che attacco d’ira avrebbe causato nel suo interlocutore.
‹‹Non sai quanto Lui sia suscettib…››

‹‹Taci, imbecille!›› lo rimbeccai, furiosa come poche volte in vita mia. ‹‹Come ti permetti, eh? Non solo mi tocca sopportare di vederti apparire e sparire come un illusionista ogni qualvolta tu ne abbia voglia. No, secondo quei due neuroni malati che fanno compagnia al milligrammo di materia grigia che hai nel cervello, ti arroghi anche il diritto di prenderti gioco di me!››
Parlare con lui era del tutto inutile. Lo sapevo prima e avrei dovuto ricordarmene anche in quel momento.
Infatti, nascosto dallo sguardo confuso che mi lanciava da quando lo avevo interrotto arrabbiata, aleggiava quel sorriso impertinente da grandissimo stronzo quale era. Forse una parola pesante da dire in riferimento ad una persona morta, ma pur sempre vera.
Lo odiavo profondamente, come mai mi era successo. Una volta glielo avevo anche detto, quando la pazienza aveva raggiunto il suo limite e la rabbia aveva preso il sopravvento.
Quelgiorno. Glielo avevo detto quel giorno.
Mai però mi era successo di sentire quel sentimento così prepotente dentro me, come se tenerlo segreto mi stesse costando anima e corpo. Anche se, forse, odio non era.
‹‹Sono stanca, frustrata e dispotica. Stai rendendo la mia vita un inferno, peggio che se questa fosse stata brutalmente stroncata alla giovane età di diciannove anni. Se la cosa ti gratifica, sono a pezzi per colpa tua e della tua stupida impulsività.››
Lo vidi rabbuiarsi, come se stesse riflettendo seriamente su ciò che gli avevo appena detto e questo lo turbasse. Forse c’era una piccola speranza anche per lui, non tutto era perduto. Forse si sarebbe finalmente convinto a comportarsi da persona matura e ad ascoltare le mie preghiere - seppur esternate sempre sottoforma di frasi acide e scontrose.
‹‹Avresti dovuto rimanere dov’eri, lasciare che quel proiettile mi colpisse. Adesso sarebbe più facile odiarti.›› E, alla fine, lo avevo ammesso.
 
‹‹Non sapevo di queste tue manie suicide, Bratz. Avresti potuto dirmelo prima, non credi?›› aveva risposto, ritrovando quella verve con cui era solito prendermi in giro.
Era incredibile come anche in situazioni delicate, per non dire drammatiche, riuscisse a fare dell’ironia spicciola. ‹‹Comunque tranquilla, non ti sei persa molto. Il Paradiso non è tutto nuvole di zucchero filato e la loro Costituzione è scritta su due tavole di pietra che non potresti portarti a scuola nemmeno con una carriola. Per non parlare della fissa per le parolacce! Impronunciabili, più di Voldemort›› aveva sbuffato, evidentemente scocciato per tutte quelle regole comportamentali da seguire. Lui, che non sapeva neppure allacciarsi una stringa senza imprecare!
Quel discorso però, del tutto sconclusionato e piuttosto buffo se pronunciato in quella circostanza, aveva sortito in me un effetto che sembrò lasciare basito persino Maltese.
‹‹Ehi, Bratz, si è sciolto il ghiaccio al Polo?›› aveva domandato con un sorriso beffardo, osservando gli angoli della mia bocca alzarsi.
 
‹‹Ti odio, stupido ragazzino›› avevo prontamente replicato io, cercando di nascondere le risa che mi scuotevano febbrilmente tutto il corpo.
Non volevo dargli la soddisfazione di un mio sorriso, dopo che nei precedenti cinque mesi non ne avessi regalato uno sincero nemmeno alla mia famiglia. Non poteva prendersi anche quello, oltre al mio precario equilibrio emotivo e al mio rancore per avermi fatto quello.
 
‹‹Guarda che ti cresce il naso come Pinocchio, Pelm›› mi aveva ammonita, puntandomi contro l’indice con atteggiamento materno.
Nel frattempo, io mi ero fermata un attimo, perplessa.
 
‹‹Pelm?››
 
‹‹Pompelmo. Abbreviato “Pelm”.››
Lo avrei ucciso con le mie stesse mani, se solo fossi riuscita ad afferrare quel corpo evanescente a cui non mi ero più avvicinata da quel tentativo di spintonarlo che mi aveva fatto scoprire qualcosa che ancora mi rifiutavo di credere. Perché doveva essere tutto frutto della mia mente, anche se questo avrebbe significato finire in un ospedale psichiatrico. E avere la certezza che lui non ci fosse più, davvero.
‹‹Credevo che alle ragazze piacessero queste cose sdolcinate, alla “Romeo e Giulietta”. Certo, non che tu sia una ragazza…›› E il braccio si era mosso prima che me ne rendessi effettivamente conto.
Il libro che avevo visto appoggiato alla scrivania era volato senza esitazioni verso il muso di Maltese, finendo con lo schiantarsi contro il muro retrostante. Ancora una volta quel gesto mi lasciò senza fiato, quasi si trattasse di una conferma di quello che cercavo con tutte le forze di dimenticare - nonostante le battute poco cortesi di poco prima. Eppure lo sguardo esterrefatto che mi aveva rivolto quel ragazzino e l’espressione dolorante che gli si era dipinta sul volto mi avevano aiutata parecchio a fingere ancora, per quella volta.
 
‹‹Cazzo›› aveva infatti esclamato, indignato e spaventato dal mio gesto del tutto inaspettato. ‹‹Mi hai fatto male qui, proprio qui›› si era indicato il petto, all’altezza del cuore.
 
‹‹Zitto, o riferisco al tuo Superiore che usi un linguaggio scurrile in sua assenza!››
 
‹‹Stron…››
 
‹‹Ah!›› avevo sorriso trionfante, cercando di mantenere uno sguardo severo con scarsi risultati. ‹‹Bene, ora passiamo ad argomenti più seri.››
‹‹Cosa vuoi da me?›› avevo sfiatato, di nuovo, ormai rassegnata. L’ennesimo cambiamento repentino aveva confuso anche lui. ‹‹Ti diverte così tanto farmi impazzire? È questo che vuoi? ››
Si erano rotti gli argini, sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Ed ero consapevole anche del fatto che, il giorno in cui sarebbe successo, non sarebbe bastato il cemento armato a richiudere quella frattura.
‹‹Il tuo ego è così smisurato da godere nel vedermi in questo stato pietoso, magari mentre mi maledico per quelle lacrime traditrici che non mi danno tregua? Non ti credevo così meschino, Maltese›› avevo proseguito, imperterrita.
La rabbia era evidente, la frustrazione ancor di più. Se fossi stata realmente una ciminiera, probabilmente avrei emesso fumi di scarico così tossici da devastare l’intera foresta amazzonica, il polmone del mondo.
‹‹Oppure è per vendetta che fai tutto questo? Vuoi che crepi di infarto, in uno delle tue tante apparizioni dall’oltretomba? Come ho fatto a non pensarci prima? Che sciocca, dovevo immaginarlo che non mi avresti salvato la vita senza chiedere lo scotto››.
Alla fine ci era riuscito, aveva ottenuto la reazione tanto attesa. Forse, però, nemmeno Maltese credeva che, quando mi sarei decisa a parlare, sarei esplosa con tanta irruenta disperazione.
Ad ogni parola, sembrava che una pugnalata al cuore m’incrinasse la voce. La stanchezza aveva preso il posto della determinazione che mi aveva sempre distinta dalle oche che giravano per il corridoio del nostro liceo, la stessa che mi aveva sempre impedito di cadere ai piedi dell’indiscutibile fascino dello stronzo.
‹‹Perché…?›› E la rabbia era stata inghiottita dalle sabbie mobili dell’incertezza, del bisogno di una verità, una risposta a cui aggrapparmi per sopravvivere.
 
‹‹Mi dispiace, Bratz›› rispose Dario, stranamente sincero.
 
‹‹L’hai già detto››. Ricordavo perfettamente il giorno in cui avevo scoperto la verità su quanto fosse successo, il giorno dello stravolgimento di ogni equilibrio costruito fino ad allora. Quel giorno avevo capito che l’equilibrio su cui tanto avevo fatto affidamento se l’era portato via lui, trascinando con sé una parte di me non indifferente.
 
‹‹Vorrei spiegarti perché sono qui, ma non posso›› aveva continuato lui, nel tentativo di consolarmi probabilmente.
Quelle due parole mi avevano costretta ad abbassare ulteriormente il capo, ormai coperto da quelle gocce di rabbia e confusione che avevano inondato il mio viso. Oramai era mia abitudine lasciarmi andare a emozioni contrastanti, in particolar modo da quando sapevo che Maltese non avrebbe più potuto deridere quelle esternazioni sincere. Non avevo più alcun motivo per trattenermi dal mostrare la mia debolezza, il mio tallone d’Achille, e questo non sapevo se potesse essere positivo o meno. In fondo, a cosa avevo dovuto rinunciare per ottenere un po’ di libertà? Alla sua fastidiosa, impertinente, esasperante presenza. Avevo avuto ciò che da tempo desideravo, rinunciando a lui.
 
‹‹Non potresti semplicemente andartene? ›› avevo ripreso un po’ del coraggio perduto, facendo quella richiesta bugiarda e borbottata, mentre invano tentavo di fermare le lacrime.
 
‹‹Credo tu sappia meglio di me che questo non è possibile›› mi aveva risposto, con quella smorfia presuntuosa che era solito sfoggiare per darsi importanza.
E, in effetti, lo sapevo. Inspiegabilmente, dentro me sentivo che dietro a questo suo strano atteggiamento ci fosse dell’altro, qualcosa che ancora non mi fosse dato di scoprire. A dir la verità, non ero sicura di voler sapere cosa si celasse dietro alle sue improvvise apparizioni, perché avevo paura che la confusione, già regnante nella mia testa, aumentasse.
Ero sempre stata una ragazza a cui la parola “certezza” piaceva tanto, forse era il termine più ben costruito che avessi mai conosciuto. Da quando Dario passeggiava tra il mio passato e il mio presente però, la tranquillità di quelle sillabe mi era divenuta sconosciuta.
Forse era colpa mia, della mia capacità di lasciarmi condizionare da eventi e sensazioni, soprattutto quando avrei dovuto solo indossare una di quelle mascherine per dormire e proseguire per dove l’istinto mi avrebbe condotta. Eppure non ne ero capace, non quando si trattava di perdere qualcosa di più solido di una semplice abitudine, come lo poteva essere la completa inattitudine alle lacrime per me, prima.
 
‹‹Tua madre››. L’ormai familiare voce maschile, che da qualche tempo mi perseguitava nei miei incubi più segreti, interruppe la solita catena di pensieri che invadeva la mia mente in sua presenza, o quando il pensiero di lui mi sfiorava. ‹‹Sai, è più simpatica ed educata di te, Bratz. Possibile che tu non sia stata capace nemmeno di apprendere le regole più semplici della buona convivenza da una donna esemplare come lei? Male, Bratz, molto male…›› sogghignò il bastardo, nel vano tentativo di farmi infuriare.
 
‹‹Sii positivo, Maltese. Se non avessi appreso proprio nulla, al cimitero ci saresti finito molto tempo fa››. Voleva giocare? Bene, non mi sarei tirata indietro solo perché adesso…
Beh, forse non sarebbe stato proprio così facile. Solo quella battuta maligna, sfuggita dalle labbra, mi aveva provocato un senso di vertigini che non avevo mai provato in vita mia.
Lo sguardo di Dario si era spento per un attimo, colpito dalla sfrontatezza di quella risposta, di cui probabilmente ancora non mi credeva capace.
Abbozzai un sorriso di scuse, ma ne uscì una smorfia di nero dolore, che non gli sfuggì. Infatti sfoderò il suo solito ghigno, replicando con un “touchè”, prima di volatilizzarsi nel nulla.
 
 
‹‹Barbie? Dove sei?›› udii la voce di mia madre farsi sempre più vicina; così decisi di sgattaiolare fuori dalla stanza proibita e di andarle incontro, prima che si accorgesse del tempo trascorso lì dentro.
 
‹‹Shhh! Giada sta dormendo, non vorrai svegliarla proprio ora che sono riuscita a farla addormentare!››
 
‹‹Quella bambina è un vulcano in continua eruzione, non si stanca mai›› disse lei, sovrappensiero, riducendo il volume della voce di qualche ottava. ‹‹Chissà quanto deve essere difficile continuare a vivere la sua infanzia senza fratello.››
La malinconia di quel pensiero mi pervase in una frazione di secondo, costringendomi ad abbassare lo sguardo ancora una volta e a fuggire lontano con la mente dalla preoccupazione di mia madre.
Non volevo che si sentisse costretta a non toccare l’argomento, ero abbastanza grande da poter gestire quegli strani vuoti al petto quando si trattava di lui. Solo che ancora non ero pronta ad affrontarli serenamente di fronte ad “estranei” che non fossero Dario, Bratz ed io.
Chissà perché, poi…
 
‹‹Non solo per lei›› mi limitai a sussurrare, consapevole di attirare tutta l’attenzione di mia madre su di me.
Forse parlarne con lei, confidarle il mio malessere interiore, mi avrebbe aiutato a elaborare il lutto. ‹‹Sì, insomma, non credo sia facile per nessuno di quelli che in qualche modo abbiano avuto a che fare con lui. Sai, conoscere una persona che poi…”
Vuoto. Non sapevo proprio come continuare e il nodo in gola andava intensificandosi, portandomi sull’orlo delle lacrime.
 
‹‹Manchi anche a lui, ne sono certa tesoro››.
E, con quella strana speranza nel cuore, abbandonai la conversazione con un assenso poco convinto.
          
 
Le giornate trascorrevano frenetiche, tra un pensiero e l’altro, tra un dubbio e le poche certezze rimaste.
Mia madre mi aveva messa di fronte ad una realtà da cui non sarei potuta fuggire ancora per molto, essendo ormai Agosto ed essendo la scadenza tanto vicina. Le iscrizioni alle diverse facoltà non sarebbero rimaste aperte in eterno, e io ancora non sapevo cosa fare del mio futuro.
Se me lo avessero chiesto solo qualche mese prima, avrei saputo rispondere con certezza che sarei diventata un avvocato e che avrei quindi intrapreso la carriera universitaria del corso di giurisprudenza. Ma, ad oggi e dopo tutto ciò che era accaduto, non sapevo che decisione prendere. Il mio futuro era precario, così come l’equilibrio interiore che avevo cercato di ricostruire con qualche abbraccio e del nastro biadesivo con scarsi risultati.
 
‹‹Barbie, devi prendere una decisione. Non puoi vivere continuamente tra passato e presente, è giusto che tu vada avanti e devi cominciare a farlo adesso›› erano le parole che mia mamma mi rivolgeva quasi ogni giorno, nel tentativo di convincermi a prendere in mano l’opuscolo con le diverse università per sceglierne una che facesse al caso mio. Inutile dire quanto vani si rivelassero i suoi sforzi, che si scontravano inevitabilmente con la mia proverbiale testardaggine.
Da quando poi avevo perso quella piccola parte di me, sepolta metri e metri sotto terra insieme ad ogni mia certezza, si era spenta anche la determinazione che mi spingeva ad essere sempre meglio. Non avevo più nessuno a cui dimostrare che valevo qualcosa, anche se mi rendevo conto di quanto quel pensiero fosse assurdo e sbagliato, soprattutto nei confronti di chi, come la mia famiglia, mi avesse sempre sostenuto in ogni scelta.
Nel frattempo, la presenza di Maltese si era fatta meno costante e, ogni volta che veniva a farmi visita, sembrava sempre assente e pensieroso.
Ma la cosa maggiormente preoccupante era la totale mancanza di spiegazioni a questo suo comportamento evasivo. Quando gli domandavo - perché ormai era chiaro che io non potessi più fingere che lui non ci fosse - a che cosa stesse pensando, lui si limitava a guardarmi per un attimo e a scuotere poi la testa senza darmi risposta alcuna.
Era come se combattesse con se stesso per l’eventualità di riferirmi ciò che lo tormentava, ma che quella possibilità lo spaventasse e questo lo spingesse ad ignorare le mie continue proteste spazientite. Vivere con quel cruccio, non poter sapere cosa passasse per la testa a quel ragazzino testardo mi faceva impazzire.
Nell’ultimo periodo poi aveva preso poi una strana abitudine, che mi mandava su tutte le furie e che serviva solo a destabilizzarmi più di quanto già non lo fossi per gli avvenimenti di qualche mese prima.
Ogni qualvolta provassi a chiedergli spiegazioni sul suo comportamento, Dario si limitava a rivolgermi uno sguardo frustrato, quasi preoccupato, prima di sparire nel nulla così come era apparso.
Quell’atteggiamento non era da lui, sempre ironico e malizioso, dispettoso e capriccioso, tanto che avevo cominciato a evitare qualsiasi domanda che potesse farlo scappare senza un motivo a me comprensibile. Non volevo che si allontanasse da me, anche se fino a poco tempo prima avevo bramato per quegli attimi di pace in cui lui non mi imponeva la sua presenza.
Era come se il non vederlo attorno a me, ai miei gesti, mi rendesse ansiosa. Inconsciamente, avevo paura di saperlo solo chissà dove, come se potesse davvero accadergli qualcosa di peggio di ciò che già gli era successo. Cosa poteva esserci più della morte?
Questa condizione di continua apprensione, unita al dolore che ancora non ero riuscita a metabolizzare, mi impediva di prendere in mano il mio destino e di farne qualcosa di concreto che potesse giovare a me e al mio futuro.
L’unica certezza a cui mi aggrappavo era la tranquillità che mi infondeva la sua vicinanza. Un assioma del tutto nuovo e stravolgente per me.
 
 
Un giorno, dopo che per l’ennesima volta Maltese era fuggito in terre a me sconosciute, vinta dallo sconforto per quella paradossale situazione, decisi di prendere il telefono e composi un numero che ancora ricordavo bene.
 
‹‹Pronto?›› sentii rispondere la voce dall’altra parte della cornetta.
 
‹‹Ehi, Greta, sono Barbara.››
Non ero certa che si ricordasse ancora di me, visto il tempo trascorso dall’ultima volta che ci eravamo sentite. A dire il vero, non ero nemmeno certa che volesse ricordare chi fossi, dal momento che non mi ero comportata da amica sparendo all’improvviso senza una spiegazione.
 
‹‹Barbie, tesoro! Come stai?›› esclamò invece lei, facendomi capire che per lei non era cambiato niente. Forse qualcuno le aveva spiegato, e lei aveva rispettato i miei tempi. Aveva capito, come sempre.
 
‹‹Eh,›› sospirai, ‹‹potrebbe andare meglio. Tu invece, che mi racconti?››
 
‹‹Le solite cose. Continuo a frequentare l’università, torno a casa non appena ne ho la possibilità e tra qualche giorno dovrei essere in zona, vado da Lea.››
 
‹‹Davvero? Magari possiamo pranzare insieme, un giorno di questi!›› strillai, forse un po’ troppo esaltata all’idea di rivedere quelle due ragazze che incontravo poche volte all’anno ma a cui ero molto legata.
 
‹‹Certo, ne parlo con Lea così poi ci mettiamo d’accordo›› assentì lei, facendomi sorridere sinceramente per la seconda volta in quell’ultimo periodo.
Riagganciai felice di aver preso quella decisione e della notizia appena appresa. Quando avevo deciso di telefonare a Greta, volevo sentire una voce amica che mi ascoltasse e consigliasse in quella che per me era oramai una situazione insostenibile.
Ma, una volta saputo del suo imminente arrivo, avevo dimenticato tutto ed ero stata ben contenta di poter riabbracciare presto sia lei che Lea, due persone che sentivo più vicine di molte altre che mi giravano quotidianamente attorno.
Avevo bisogno di parlare con loro, di ridere e scherzare. Dovevo distrarmi, far chiarezza in tutto quello e farmi raccontare anche qualcosa di nuovo. Qualcosa di loro.
E poi, avevo anche un tremendo bisogno di tuffarmi su di un panino ipercalorico, che avrei sicuramente trovato nel fastfood dove ci saremmo rifugiate per qualche ora.
 
Trascorsi quindi il resto della giornata a bearmi di quella rinnovata gioia, un sentimento che non provavo da troppo tempo ormai e di cui avevo persino dimenticato la consistenza. Avrei dovuto ringraziare quelle due ragazze, anche se loro non potevano sapere quanto avessero fatto per me quel giorno.
Peccato che la tranquillità non durò molto, una costante incostante a cui mi ero abituata nei mesi precedenti, seppur sempre con qualche effetto non poco rilevante.
 
‹‹Bratz›› avevo infatti sentito sussurrare al mio orecchio, mentre Morfeo già mi chiamava a sé. ‹‹Bratz›› aveva insistito la voce fastidiosa, ma familiare che m’impediva di dormire.
 
‹‹Mmm›› mi ero costretta a rispondere, nella vana speranza che quel seccatore mi lasciasse in pace.
 
‹‹Ho bisogno del tuo aiuto.››
E, dopo quella tanto desiderata ammissione, sprofondai nell’oblio con il cuore gonfio d’orgoglio.


 

Okay, so che in questi mesi avrete fatto scorta di ortaggi da lanciarmi.
Ma, vi prego, non tutti insieme!
Dunque, non ha senso stare qui a giustificarmi. Mi limito solo a dirvi che sono stata risucchiata dalla quotidianità e da mille altri impegni che mi hanno impedito di essere qui prima - complice anche la totale assenza di ispirazione.
Passando al capitolo, credo che il titolo si spieghi già da sé. “Sentimenti”, perché questo capitolo 6 ne è pieno, anche se spesso tra loro contrastanti.
Poi scopriamo qualcosa in più sui due personaggi, come la lingua lunga di Barbara quando si impegna per essere acida e la stupidità di Dario, che si diverte con battute davvero imbecilli!
So che molti potrebbero pensare che questo scambio tra i due sia impossibile e di cattivo gusto, soprattutto considerata la condizione del protagonista, ma posso assicurarvi che io non lo vedo così surreale.
Mi è capitato spesso - perché sì, questa storia ha un vaghissimo riferimento a qualcosa che mi è successo anni fa - di alzare la testa al cielo e di “insultare” il Dario in questione.
Ma questo non c’entra molto con la storia, quindi chiudo la parentesi velocemente come l’ho aperta.
Diciamo che le cose si sono un po’ sbloccate tra i due. Già qui vediamo un po’ più di azione e di dialogo, e nei prossimi capitoli capiremo di che tipo di aiuto abbia bisogno il nostro bad boy ;)
 
Spero di non tornare nuovamente tra sei mesi, ce la metterò tutta per scrivere il settimo capitolo di fretta e furia.
Un bacione, e un grazie immenso a chi è rimasto ad aspettarmi per così tanto tempo. Spero di non avervi deluso!
 
Adrienne

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