Night Time Daydream.

di Melie Devour
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A good day ***
Capitolo 2: *** Moist ***
Capitolo 3: *** All in a rush ***
Capitolo 4: *** Tries ***
Capitolo 5: *** Surrender ***
Capitolo 6: *** Relentless love ***
Capitolo 7: *** Crack ***
Capitolo 8: *** Bare feet in the snow ***
Capitolo 9: *** No coming back ***



Capitolo 1
*** A good day ***


 

[Il nome della protagonista si pronuncia ˈjuːnɪs, iu-ni-s.]

 

Cap.1 ~ A good day.

 

Due di notte. Gli occhi fissi ma disinteressati davanti allo schermo catodico le bruciavano, quando li chiudeva. Se li strusciò premendoseli con i polpastrelli. Forse era abbastanza stanca per provare a dormire. Magari stanotte sarebbe stata quella giusta. Magari non si sarebbe svegliata una volta ogni ora e magari non si sarebbe alzata più stanca del giorno prima. Ormai erano tre giorni che andava avanti così.

Svogliata appoggiò un ginocchio sul fondo del letto e si buttò in avanti appoggiandosi sulle braccia. La testa le ciondolava dalle parti come se le pesasse una tonnellata. Tirò con tutte le sue forze il bordo del piumone che copriva il cuscino e vi infilò sotto le gambe.

Un'ora dopo era accucciata, curva su se stessa, con le mani sulla faccia. Non c'era niente da fare, anche quella notte sarebbe stata un inferno.

 

Cammina per le strade del suo paese, con la stessa fatica con cui si cammina con l'acqua fino alla vita. Addosso ha solo una maglietta leggera, e intorno a lei c'è la neve. Ha freddo e si tiene le mani strette intorno al petto. Sente rumori fastidiosi e striduli provenire dalla finestra di una casa, in un piano alto, da una finestra illuminata. Sì, ora era buio. Lei si ferma e guarda in su, e i suoi occhi che ancora frizzano sfidano i fiocchi di neve pesanti come sabbia. Poi un accordo di chitarra, suonato forte, deciso, le graffia i timpani da dietro le spalle. Lei si gira, e davanti si trova un uomo accucciato a terra, che abbraccia la sua chitarra, con la testa china in avanti ed i capelli lunghi e biondi che gli cadono sul viso. Era caduto, o si era buttato, o era planato, chissà, dall'alto. Non l'aveva visto, ma lo sa. Lei muore dal freddo, e con a voce tremante gli scandisce «Canta Something In The Way» 

L'uomo alza lo sguardo, e un lato della sua bocca sorride. Suona qualche accordo ma non è Something In The Way. A dire il vero la sua chitarra classica suona come una chitarra elettrica. E quelli non sono accordi e non sono note, sono suoni distorti. Sembra che stia uccidendo la chitarra. Merda, sembra l'inizio di Tourette's. Allora lei si tappa le orecchie e corre via, corre più forte che può in mezzo a quell'aria densa come catrame, dove la neve si muove delicata mentre lei non può. La musica non diminuisce di volume, e lei continua a scappare. Batte contro un muro che le taglia la strada, e cade a terra. La musica non c'è più. E nemmeno il ragazzo biondo. Lei non stacca le mani dalle orecchie, ma si alza in piedi, e con le spalle al muro, riprende fiato. Un respiro profondo, un altro, e poi comincia a urlare, a urlare a squarciagola, anche se dalle corde vocali esce solo vapore e poco altro «È triste, non è giusto! È troppo triste! Io sono triste e mi fa male, non è giusto!»

Un attimo dopo i suoi polmoni vanno in cortocircuito, e l'aria non entra più dalla sua bocca. Lei spalanca le labbra e gli occhi, si pietrifica contro il muro dietro a lei. Morirà, lo sente. Morirà di non respiro.

 

"Aria. Dentro i polmoni. Presto." E allora il suo cervello decise di svegliarla. In un millisecondo si era messa a sedere sul letto, reggendosi dritta con le mani, appoggiate dietro di lei. Poté respirare, riempirsi i polmoni. Apnea notturna, nuovo sintomo "Quale gioia." Si prese qualche minuto per godersi l'aria attorno a sé e poi girò il capo verso il comodino. La sveglia al LED segna uno sbiadito 04:48.

Incrociò le gambe e appoggiò il mento sulla mano. "Sarà un anticipo di ansia da esami", se la spiegava così, quell'impossibilità di riposarsi che l'aveva affetta.

"Kurt". Il Kurt del sogno che le faceva il dispetto di cantargli Tourette's. Con una chitarra acustica che suona come un'elettrica. "Così imparo a farlo piangere cantando le sue canzoni." pensò lei storcendo la bocca. Sospirò, era tempo di risdraiarsi e provare a richiudere gli occhi, sempre più in fiamme.

 

"Cazzo è tardi, cazzo se è tardi!" pensava Unice a denti stretti mentre correva tenendosi stretta tra le braccia la tracolla. Pregava dentro di sé che il professore di anatomia non fosse ancora arrivato. La porta dell'aula era chiusa. "Merda". Si fece coraggio, abbassò la maniglia. Prese con filosofia il rimprovero del docente. Aveva la netta impressione che la odiasse a morte. Andò a sedersi senza aggiungere una parola, non si sarebbe messa a discutere con quell'odioso uomo, sfinita com'era.

«Ehilà, come va, zombie?»

«Come ti sembra che vada, Sam?»

«Cazzo, ancora niente sonno? Ma hai provato con dei sonniferi?»

«Sì. Mi addormento e faccio incubi pazzeschi.»

La sua compagna di banco e migliore amica sospirò guardandola. Unice fece spallucce sconsolata e dalla tracolla tirò fuori l'astuccio, un quaderno e un libretto più piccolo. Il suo fedele sketchbook, con il quale mandava a farsi fottere ore e ore di spiegazioni e lezioni.

lo aprì svogliatamente, alla prima pagina. Le fece scorrere con le dita della mano destra. Due dozzine di pagine piene di scritte, disegni, schemi, ritratti. Mostri, facce, animali di fantasia, lettere ghirigorate, vignette e fumetti. Estrasse la bic dall'astuccio, e tenendola tra l'indice e il medio, girò un'altra pagina, che doveva essere bianca. Invece c'era uno scarabocchio, sopra. Sbatté le palpebre un paio di volte, giusto per assicurarsi non fosse una conseguenza dell'insonnia, poi trattenendo un impeto d'ira si voltò verso l'amica.

«Sei tu questa simpaticona?»

La ragazza lì per lì non le diede retta, era presa a scrivere degli appunti. Unice le tirò un pugno sulla spalla.

«Che c'è?»

«Bella trovata. Hai imparato a falsificare gli autografi?»

«Perchè, è un autografo, quello? Sembra uno scarabocchio.» Disse lei inclinando la testa e osservando la scritta sullo sketchbook.

«Davvero non l'hai fatto tu?» Chiese Unice. 

«Eh no.» Concluse Sam.

Unice scorse il polpastrello sulla scritta, avvicinando gli occhi. Sembrava fatta con un pennarello indelebile nero. K grande, u piccola, r piccola, D grande, t piccola. Poi una C grande e una serie di riccioli tutti di seguito. Alzò gli occhi, si guardò intorno. Controllò se qualcuno la stesse guardando e ridendo. Nessuno se la filava, invece. Si chinò nuovamente sul libretto e prendendo in mano la penna, al lato della scritta, provò a ridisegnarla. Le lettere erano abbastanza sovrapposte e non si capiva quale linea era stata scritta prima. Non le riuscì granchè bene. Allontanò la faccia da foglio per vedere la pagina nel suo intero. L'amica di tese verso di lei e anche lei guardò il libretto. Ridacchiando fece «L'insonnia fa brutti scherzi. Ma è la firma del drogato?»

Due giorni prima Sam, ragazza simpatica ma abbastanza bigotta, le aveva preso dalla cartella il lettore CD, durante l'intervallo, e aprendolo aveva trovato In Utero. Da quel momento aveva cominciato a chiederle cose tipo "Ma davvero ti piace Cobain? Ma lo sai che è un drogato? Quand'è che è morto? Sono passati già due anni? Ma l'hai sentita quella che canta "Stuprami?" Ti sembra normale?". Era dovuta ricorrere a tutto il suo autocontrollo, in quell'occasione. Quell'uomo era stato ricoperto di luoghi comuni e maldicenze gratuite, e la cosa si era amplificata dopo che il 5 aprile di due anni prima, era stato trovato con un foro in testa nella sua casa di Seattle. Quei pregiudizi erano impossibili da guarire per chi non conosceva Kurt da abbastanza tempo da capire la profonda depressione e il senso dei suoi testi. La sua inadeguatezza per questo mondo.

Si era limitata a contraddirla, senza esporsi più di tanto. Il primo anno al college era iniziato da poco, non voleva già mettersi contro qualcuno. E meno ancora Sam, ragazza con cui si era trovata bene fin dal primo momento. Strano anche a dirsi, dato i caratteri opposti. Di qua la ragazza studiosa, casa e chiesa, educata e socievole, e dall'altra parte.. Unice. Atea dalla nascita, solitaria e esperta sognatrice ad occhi aperti. Timida ed introversa a livelli imbarazzanti, difficilmente trovava qualcuno con cui si sentisse a suo agio. Ma Sam era una di quelle persone.

«Sam, non ti chiedo di amarlo, ma potresti almeno non chiamarlo così?»

«Ma lo è!» rispose lei. Unice le regalò l'ultima parola. Cercò di dimenticarsi della faccenda dell'autografo e cominciò a scarabocchiare la copertina di Incesticide nella pagina accanto.

 

Era tardi, le otto e mezzo, quando rientrò a casa dall'accademia. Buttò le chiavi sul tavolino di fianco all'ingresso e prese tra le dita il bigliettino di sua madre "Ci sono gli avanzi del pollo di ieri nel frigo", era già uscita per andare a fare il turno di notte all'ospedale. Accese il fuoco nella piccola stufa di metallo, e ci spostò una sedia davanti. Tirò fuori gli avanzi, li scaldò nel fornetto elettrico. Mentre aspettava i due minuti che scorrevano in countdown sulla manopola del forno, le tornò in mente lo sketchbook. Voleva riguardare quella misteriosa scritta. Si chinò sulla poltrona dove aveva buttato la tracolla e ne estrasse il quadernino nero. Scorse velocemente all'ultima pagina. Eccolo lì, l'autografo di Kurt. "Merda" rimase in piedi, immobile, fissando la pagina. C'era un altro disegno, adesso, accanto alla firma. Era un cerchio con una Y rovesciata nel mezzo, un cazzo di segno della pace come quelli che Kurt disegnava accanto agli autografi. La rabbia le montò dai piedi fino alle mani, che strinsero lo sketchbook fino a incrinare le pagine. Furiosa, tirò il libretto contro il muro, dall'altra parte della stanza, con tutta la forza che aveva. "Chi cazzo è che mi prende in giro?! Appena lo scovo gli spacco la faccia!". Perchè cazzo qualcuno avrebbe dovuto farle uno scherzo del genere? Chi è che si diverte così male? Lei era una ragazza riservata, come faceva qualcuno che non fosse Sam a conoscere il suo amore per i Nirvana? Non poteva essere stata lei, sembrava sincera, quella mattina. E non poteva essere stato nessun altro, aveva tenuto lo sketchbook con lei per tutto il giorno. Attanagliata da mille pensieri estrasse gli avanzi dal forno e si sedette sulla sedia davanti alla stufa, mentre la testa cominciava a farle 

 

 

"Che posto è questo?" Si chiede Unice guardandosi attorno. I suoi piedi scalzi poggiano sul cemento caldo di sole e sporco di pioggia. Su di lei, l'ombra di un ponte. Davanti le scorre un canale di acqua marrone. Le piante inselvatichiscono il calcestruzzo ed escono fuori da ogni foro o crepa, in orizzontale e in verticale. Si voltò, dietro di lei c'era un muro pieno di graffiti, di tutti i colori. Lei fa due passi in avanti, e subito le appare, sopra le altre, una scritta in particolare, bianca, tracciata con un pennello da parete.

God is gay.

«Unice?» chiama una voce alla sua sinistra. Ma lei non si volta, sa chi è.

«Kurt. Siamo a casa tua?» chiede.

«Beh, sì. In realtà non ho mai realmente vissuto sotto un ponte.» dice lui portandosi la mano sui capelli e tirandoseli indietro.

«Lo so.» dice lei, osservando ai suoi piedi tante piccole creature, coniglietti batuffolosi e bianchi, topi di fogna sporchi e puzzolenti. Ci sono anche gatti, più in là. Può sentire un cane abbaiare. Alza la testa verso il soffitto lurido del sottoponte. Ci sono stallattiti di sporco e muschio che penzolano dal soffitto. Lei allunga la mano, e nonostante fossero molto lontano da lei, ne tocca una, che si rompe e cade a terra. Quando riabbassa lo sguardo Kurt è di fronte a lei.

«Ti fa piacere se ti mostro la mia città?»

«Certo che mi fa piacere. Ti fa piacere se sto con te?»

«Sì, mi fa piacere.»

Kurt sfiora la schiena di lei con una mano, la fa voltare dall'altra parte, iniziano a camminare. Sono in una strada di Aberdeen, e Unice guarda tutti i fast food e le case che Kurt aveva conosciuto. La ragazza però non riesce a mettere a fuoco ciò che vede. Le succede sempre, nei sogni. Ciò che vede si riduce a una fessura sfocata, e lei procede a tentoni. Appena riesce a vedere di nuovo, si trovano su di un prato. Un prato anonimo, con nessuno all'orizzonte, solo alberi e colline verdi. Unice si sdraia a terra, Kurt incrocia le gambe seduto accanto a lei. Le posa la mano sugli occhi, e le dice «Dormi.»

 

Suonò la sveglia. Unice si alzò a fatica e si mise a sedere sul letto. Si strusciò gli occhi con i pugni, poi con estrema lentezza tirò le braccia al cielo e si stirò la schiena con estrema soddisfazione. Solo dopo qualche secondo si rese conto che era completamente, estremamente riposata. Sorrise, tra sé e sé. Quella sarebbe stata una bella giornata.

 

***

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Capitolo 2
*** Moist ***


La mattinata passò allegra e spensierata, con Sam, su e giù per le classi del college. Fu all'ora della pausa pranzo che un po' di inquietudine si rimpossessò di lei, quando cercando il portafogli tirò fuori dalla borsa lo sketchbook. Una volta ordinato il pasto e posato il vassoio su uno dei tavoli, accanto ad altri ragazzi del suo corso, senza farsi notare aprì sotto al tavolo il libretto e scorse alle famigerate ultime due pagine. I tratti di pennarello nero erano ancora lì, immacolati. Non si erano più mossi. O aggiunti. Questo la tranquillizzò un po', mentre finiva il pranzo tra due chiacchiere con gli amici.

 

Sera. Unice era sdraiata sul divano, in una posizione a dir poco scomposta. Accanto a lei, sul bracciolo del divano, c'era la scatola di carta del riso cantonese take away, con le bacchette buttate dentro. Lei stava sdraiata diagonalmente con la testa poggiata sul pugno guardando la TV, con le gambe coperte da un plaid rosso.

Girò su Mtv. Scorrono scene di concerti live di vari artisti. C'è Madonna, ci sono i REM, i Red Hot Chili Peppers, c'è Micheal Jackson, c'è Bon Jovi. Chi in un club, su un palco con dei tappeti, chi in mezzo a fuochi d'artificio e luci abbagliati in un'arena. Ricky Martin, Depeche Mode. "Ah, guarda chi c'è". 

C'hanno messo nel mezzo pure lui. In quel live unplugged in New York. Qualche scena dove sembrava stesse cantando Polly. Unice fece un'impercettibile smorfia con la bocca. Era passato un annetto appena, da quando Mtv aveva smesso di trasmettere ogni santo giorno un qualcosa in memoria di Kurt, che fosse un video, un live, un'intervista. Immagini dei suoi fan riuniti alla sua veglia, dove Courtney aveva parlato a tutti i suoi fan. Lo odiava. Le rinnovava ogni volta il dolore di quella mattina del 6 Aprile, quando la notizia del suo suicidio era sbattuta in ogni angolo, dai giornali alle emittenti TV. Unice ebbe anche un lieve dubbio che il coccodrillo di Kurt fosse già bello e pronto. E, cosa ancora peggiore, si era innescata una teoria complottista documentata scrupolosamente da vari special e documentari, secondo la quale quello di Kurt avrebbe dovuto essere un omicidio.

Non sopportava queste stronzate. Cos'è, i fan si sarebbero sentiti meglio potendo avere qualcuno da incolpare? Serviva un capro espiatorio, seppur non identificato? Era così impensabile che un ragazzo ipersensibile, emotivo e perennemente depresso come Kurt avesse deciso di togliersi la vita, come aveva già tentato altre volte?

Unice non stava a dire che aveva fatto bene o che fosse giusto così, ma dopotutto, e purtroppo, non era rimasta sorpresa dalla notizia. Solo molto triste. Un po' svuotata. Interdetta.

Rannicchiò le gambe e i piedi scalzi sotto il plaid, strizzando gli occhi stanchi di TV. Puntò il telecomando e la spense. Si stirò allungando le braccia all'indietro, si rilassò e si immobilizzò un attimo.

All'improvviso sentì freddo. In tutto il corpo, sotto al plaid. Cacciò un brivido che la scosse tutta, e di furia si tolse la coperta di dosso e si alzò in piedi, tenendosi le braccia al petto per riscaldarsi. Rimase impalata a guardare il plaid accasciato sul divano. D'istinto si voltò velocemente dall'altra parte, guardando alle sue spalle, la stanza vuota. Per la prima volta sentì un po' di paura pervaderle le gambe.

Turbata corse verso la camera e si buttò sotto le coperte, infilandovisi fino agli occhi, stretta a sé stessa.

 

"Un giorno ucciderò questa sveglia." Ancora in posizione fetale, con l'odioso allarme ancora inserito, aprì gli occhi e fece mente locale. Sì, aveva dormito. Seconda notte libera da insonnia, la paranoia che potesse tornare era tanta. "Aspetta". Altro sogno su Kurt, quella notte. Stavolta Unice non ci aveva parlato, ma come una presenza l'aveva seguito in un backstage surreale, vedendolo mettersi il pigiama ed arrabbiarsi perchè suonare la chitarra nel verso giusto proprio non gli riusciva. E fuori dal bus pioveva fortissimo. I fulmini la spaventavano, nel sogno. Poi ricordò un particolare. La chitarra era a forma di Y rovesciata. Era una chitarra elettrica con il corpo a forma di segno della pace.

Per un attimo i suoi pensieri ammutolirono, poi concluse che la causa di questi sogni ricorrenti era il troppo ascolto dei Nirvana. Decise di non badarvi, dopotutto sognare Kurt non le dispiaceva.

 

A testa bassa, Unice disegnava una pianta rampicante con teste sorridenti al posto dei frutti. Era immersa nella sua creazione con così tanto impegno che Sam dovette scuoterla malamente per farle accorgere che il professore stava richiamando la sua attenzione.

Fu distratta tutto il giorno, fino al pranzo. Fuori era una bella giornata, così Sam e Unice decisero di consumare il pasto fuori, nel porticato interno, sedute su una panchina di marmo con le zampe piene di muschio verde. Sopra le loro teste il vento pettinava le lunghe foglie di un bellissimo salice. Sam addentava un panino ricavato da dell'insalata e un po' di roastbeef infilate a forza in una pagnotta sottodimensionanta tagliata a metà con un coltellino di plastica. Unice faceva a pezzi la sua omelette di verdure. Ne stava addentando uno quando alla sua destra, dalla parte di Sam, sentì una voce chiamarla. Sembrava venire da lontano, ma la sentì molto chiaramente. Non era la voce di Sam, era un uomo. Che però aveva sussurrato. Con il pezzo di omelette sospeso a mezz'aria infilzato alla forchetta, Unice fissò negli occhi Sam, che quando se ne accorse, a bocca piena chiese «Che c'è?» La fissò per qualche altro secondo, poi chinò la schiena in avanti, guardando in lontananza, dietro di Sam. Il prato era pieno di gente che badava ai fatti suoi, mangiando o leggendo. Sam guardò a sua volta alle sua spalle, poi si voltò di nuovo verso Unice, con sguardo interrogativo.

«Non l'hai sentito?» Chiese lei.

«Cosa?»

«Ehm.. non lo so che cos'era» Lanciò un'altra occhiata alla gente sul prato. «È l'insonnia.» mentì.

«Dovresti vedere un dottore.» Concluse Sam. Unice annuì, addentando il pezzo di omelette. "Uno bravo."

 

"Unice?"

"Dove sei?"

"Qui"

La ragazza vede solo nero attorno a sé.

"Kurt?"

«Ehi» Kurt è lì, davanti a lei. Unice alza lo sguardo. È più alto di quanto pensasse.

«Che ci fai qui?» Chiede lei.

«Do fastidio?» lui alza le sopracciglia.

«No, ma mi fai paura.» Lei sente le labbra impastate, e i polmoni non si dilatano abbastanza da permetterle di respirare con serenità.

«Lascia parlare me.» Fa lui «Non sono un chiacchierone. Il disegno nel tuo sketchbook l'ho fatto io.» Si ferma, guardandola. «Ti piace?»

Lei annuisce.

«Unice, io sono morto. Tu lo sai, no?»

«Sì.»

«Ma tu senti la mia voce nel cortile della scuola.»

«Cosa? Eri tu?»

«Già.»

«Però non ha senso.»

«Non deve averne. È come se per te fossi ancora.. vivo.»

«Ma tu vivi qui nel mezzo al niente?» Lei ha lo sguardo vacuo e non concepisce pensieri logici. Quello è un sogno.

«Unice devi sforzarti e concentrarti. Se non ti convinci che questo è reale non andiamo da nessuna parte.»

«Ma questo non è reale.»

«Ah no?»

«Dimostramelo.»

«L'hai voluto tu.» Kurt le si avvicina, e con un gesto rapido le agguanta il braccio destro, con l'unghia del pollice fa pressione sulla sua pelle. Non la taglia, ma le fa male. Lei si impaurisce, con tutta la sua forza tira a sé il braccio. L'unghia ancora premuta sulla sua pelle le lascia una scia graffiata dal gomito al polso. Sente un dolore contorto e incoerente. Indietreggia, vuole allontanarsi da lui e fa un passo indietro. Ma dietro a lei non c'è niente, e il suo piede fa come un buco nell'acqua. E lei cade.

 

Cadde così in fretta da trovarsi già dritta sul letto, quando si svegliò. Gli occhi spalancati, senza fiato. "Dolore. Dove? Al braccio". Abbassò gli occhi, ma era buio pesto. A tentoni raggiunse l'interruttore dell'abat-jour, e da questa venne accecata. Qualche secondo per recuperare la vista, il braccio sotto il paralume. E c'era un segno rosso sulla pelle. Spaventata a morte portò la sua schiena a contatto col muro accanto al letto ed abbracciò i suoi ginocchi. Non trattenne un pianto. Un pianto impaurito. Tra le lacrime spuntò un sussurro che fu una supplica «Kurt».

 

Quella mattina, a scuola, Unice non prestò attenzione alla lezione, come suo solito. Ma nemmeno si dedicò alle sue solite attività alternative come disegnare o leggere un libro sottobanco. Se ne stette tutto il tempo con il mento appoggiato al pugno. Durante l'intervallo, quando l'aula si era svuotata della maggior parte delle persone, lei si era guardata attorno, e piano, aveva chiamato Kurt, sussurrando. Si sentiva così stupida. Il segno rosso sul suo braccio era andato via, ma lei lo ricordava, insieme al dolore, come se fosse stato secondi prima. Aveva sbirciato lo sketchbook più volte, richiudendolo subito dopo in un misto di sollievo e delusione dopo non aver trovato niente di nuovo oltre le due scritte di pennarello.

Una volta a casa, si liberò in fretta della tracolla e della giacca e dall'armadio prese l'occorrente per la doccia. Posò tutto sul lavandino del bagno, e accese l'acqua calda. Il suo sguardo cadde nei suoi stessi occhi, riflessi nello specchio. Le sue iridi nere erano circondate da pelle come livida, ed aveva un aspetto stanco. Si pettinò via i nodi dai capelli, e poi si tolse i vestiti. 

L'acqua calda era arrivata, e lei chiuse lo sportello di vetro opaco della doccia dietro di sé. Con immensa soddisfazione posizionò il viso sotto il getto bollente. Si sparse addosso del sapone, strusciandoselo più volte sulla pelle, e poi di nuovo via, sotto l'acqua.

La bottiglietta di plastica versò un po' di shampoo nella sua mano sinistra, che lo sparse tra le lunghe ciocche scure. Unice chiuse gli occhi mentre con le dita si grattava via l'ansia dai capelli. All'improvviso avvertì qualcosa alle sue spalle, nella stanza. Unice si voltò verso lo sportello. La porta del bagno era chiusa a chiave per abitudine, la finestra anche. Attraverso il vetro appannato e opaco tutto appariva normale, e le sfumature sembravano al loro posto. Chiuse il getto dell'acqua e tese le orecchie. Ma non era con le orecchie che aveva sentito qualcosa. Non c'erano stati rumori. Niente si era mosso. E nonostante questo, lei continuava a percepire.. qualcosa. Nella stanza con lei. Fece un blando tentativo, ad alta voce chiamò «Mamma?» ma ovviamente non ci fu risposta, lei era a lavorare. Il cuore cominciò a batterle più forte. Si sentì così stupida a pensare ciò che pensò. Esitò, e poi a mezza bocca, con lo sguardo chino, chiese «Kurt?». Per i secondi che seguirono poté avvertire il suo cuore spingere sangue nelle arterie. Ma non successe niente. Lei sospirò e il suo viso assunse un'espressione arrabbiata. Si voltò ed aprì il getto d'acqua, rudemente si sbarazzò della schiuma che aveva in testa. "Questa cosa mi farà uscir pazza". Il sogno della notte precedente le aveva fatto un brutto effetto, pensò. Con un colpo chiuse il rubinetto e scorse i capelli tra le mani per liberarli dall'acqua. Allungò la mano verso la maniglia della doccia, ma quando gli occhi misero a fuoco lo sportello cacciò un urlo di terrore. "Sono Kurt"

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Capitolo 3
*** All in a rush ***


Istintivamente Unice portò le mani sulla bocca, soffocando la sua paura. Appoggiò la schiena sul muro della cabina e scorse verso il basso. Le gambe le tremavano e sembravano molli, incapaci di tenere il suo peso. Inspirò aria nei polmoni dopo una breve apnea e scoppiò in un singhiozzo. Le lacrime passavano dai suoi occhi alla pelle bagnata delle sue guance, invisibili. Con le mani si coprì gli occhi. Aveva paura.

Non aveva il coraggio di uscire da quella doccia. Non si sentiva in grado di asciugarsi e vestirsi. Le sue mani scorsero dagli occhi sulla fronte e poi portarono i suoi capelli indietro, e lei tornò a guardare il vetro di lato alla maniglia. Incredula leggeva la scritta bagnata in mezzo alla condensa. Quella scrittura che aveva visto in libreria, quando aveva sfogliato le pubblicazioni del diario che Kurt scriveva. Quella scritta che stava già scomparendo nell'umidità della stanza, e gocciolava in giù. Sotto alla prima, un'altra scritta era apparsa. "Non piangere". Soffocò un sobbalzo. Il suo corpo era assalito da scosse e tremiti, e il suo respiro era irregolare. Con la voce rotta e soffocata pianse «Com'è possibile tutto questo? TU SEI MORTO!» urlò in preda al panico. Si alzò di scatto, con rabbia passò la mano dove le scritte apparivano tra la condensa, spinse lo sportello ed uscì velocemente. Le mattonelle di marmo scuro erano gelate, sotto il suo piede scalzo. Con uno strattone sfilò l'asciugamano dal manico e se lo avvolse intorno al busto. Subito dopo sentì il bisogno di sedersi, si appoggiò al bordo della vasca da bagno. Con una mano teneva i lembi dell'asciugamano sul suo petto, con l'altra si reggeva la fronte. Gli occhi erano chiusi e nella mente continuava a ripetersi "Non è possibile, non è possibile."

Qualche minuto, poi alzò di nuovo lo sguardo, e si guardò intorno, nella stanza calda e immersa di vapore. Si alzò in piedi, e si mise davanti allo specchio. Si guardò negli occhi. I capelli bagnati le ricadevano in piccole onde sulla fronte e sulle spalle. Resti di occhiaie resistevano sotto al suoi occhi. Sospirò. Guardò il riflesso del muro dietro di lei. E al riflesso della sua sinistra. Alla sua destra. Quasi si aspettasse che i fantasmi, al contrario dei vampiri, apparissero solo negli specchi. Ma dietro l'appannatura non c'era niente di strano. Si voltò verso sinistra, guardando la stretta stanza vuota, tra lei e la finestra. Il suo sguardo fu attratto da una pozza d'acqua, sul pavimento. Dell'acqua nel mezzo alla stanza vuota, dove non sarebbe dovuta essere. Piano, si avvicinò, guardando fissa le mattonelle. Subito sopra a quella pozza, qualcosa stava facendo condensare il vapore di cui era piena la stanza. S'immobilizzò guardando la pozza lentamente allargarsi. Poi fu sicura di vedere una goccia formarsi a mezz'aria, e poi cadere creando una piccolissima increspatura sul pelo dell'acqua. Portò la mano a coprirsi la bocca, sgomenta. Guardò la figura immaginaria che se ne stava in piedi davanti a lei. Ricordò che era diceria comune che le apparizioni di fantasmi (a cui di sicuro non aveva mai creduto) fossero sempre accompagnati da una concentrazione di aria fredda spesso inspiegabile. Scosse la testa, tra sé e sé. Esitò, poi allungò la mano in avanti. Quando arrivò a cinquanta centimetri da lei, avvertì un improvviso gelo alle punte delle dita. Le ritirò subito. Con la voce tremante, sussurrò «Kurt, sei davvero tu?»

Guardava nell'aria, nel niente che aveva preso la forma di una persona. Gli occhi che cercavano disperatamente qualcosa di diverso, dei tratti e un volto familiare, in mezzo a quel vapore che stava già scemando, in quella stanza che andava raffreddandosi. Qualcosa che la aiutasse a provare a sé stessa che non era in preda ad una dilagante schizofrenia. Ma un rumore la fece sobbalzare, mandandole il cuore dritto in gola. La porta principale si apriva cigolando un po', e poi era stata chiusa non troppo gentilmente, e una voce squillante aveva detto «Ciccia, sei a casa?»

Unice deglutì e d'un fiato disse «Sì, sono in bagno, arrivo.»

 

Le due donne erano sedute al piccolo tavolo traballante, e consumavano una cena a base di una bella insalata, del pollo e della frutta. Unice aveva ancora i capelli bagnati, e mangiava silenziosamente, col capo chino. Sua madre allora, dopo essersi schiarita la voce, debuttò «Beh? Raccontami qualcosa!»

«Che cosa vuoi sentire?» 

«Non lo so, tra la scuola e il lavoro, coi turni di notte, non ci siamo viste per due giorni di fila!» Disse ridendo.

«Già, è vero.»

«Insomma, come ti va l'accademia?»

«Ahm, tutto bene.»

Dopo qualche secondo di silenzio, Unice esortì «Mamma, tu ci credi ai fantasmi?»

Lei la guardò storto e chiese «Perchè me lo chiedi?»

«Così»

«Mh, non lo so. Non ho mai visto niente del genere.» Fece una piccola pausa con aria pensante, poi continuò «Tuo nonno raccontò a me e ai tuoi zii di averne visto uno.»

Unice posò la forchetta sul tavolo «Davvero?»

«Sì. Nella casa in campagna che al tempo avevamo. Disse.. vediamo.. di aver visto un cavaliere in groppa ad un cavallo.»

Unice annuì, non lo sapeva. La madre sospirò «Non ricordo altro.. Immagino non sapremo mai cosa vide.»

La ragazza annuì tristemente e tornò al suo piatto, mentre la donna si alzava e riponeva il suo nel lavabo, dicendo «Asciugati i capelli, che non è mica così caldo.»

 

Unice corre per le scale d'acciaio dismesse e arrugginite di una fabbrica abbandonata. I suoi passi creano echi inquietanti rimbalzando tra le mura ammuffite. Sarebbe stato molto buio là dentro non fosse per il tetto mezzo collassato, là infondo. Lei cammina su una grata che la sorregge sopra un vuoto alto.. beh, razionalmente sarebbero stati 5 metri, ma sembravano un precipizio. Smette di guardare attraverso la maglia del metallo sotto ai suoi piedi, le gira la testa. Agilmente salta su di una sedia con un piede e si da lo slancio per salire sopra un'enorme cassa di legno chiaro. Da quel punto di vista soprelevato può vedere tutto l'edificio. Prende aria nei polmoni e il suo urlo le ritorna addosso da ogni direzione. «Kurt?»

Nessuna risposta, un nuovo urlo «Kurt!»

Una voce leggera dietro di lei dice «Shh, rischi di far cadere un muro se urli così forte.»

Unice si volta, e sorride. Con un balzo scende dalla cassa e il metallo fa un brutto rumore. Corre verso di lui felice, e gli si ferma davanti. Lui e sorride da dietro i capelli a dir poco sconvolti, tutti sulla fronte e sul viso bianco. Indosso ha un maglione a strisce orizzontali rosse e nere, che gli sta grande, dei jeans un po' logori e ai piedi delle Chuck Taylor vecchie.

«Scusami per tutto quanto.» Dice lui, guardandola negli occhi.

«Per che cosa?»

«Beh, la notte scorsa ti ho graffiato un braccio, e oggi pomeriggio ti ho fatto quasi venire un infarto.»

«Un infarto? Come hai fatto? Che è successo?» Unice è confusa.

Kurt sembra ragionarci un po' su, poi realizza «Probabilmente non sei ancora in grado di sognare lucidamente. Non ricordi cos'è successo nei giorni scorsi?»

Unice tenta di rammentare, ma la sua mente le propone solo scenari fantastici e niente di quel che lei cerca. Nessun ricordo. Non è neanche sicura di ricordare correttamente il suo nome. Alza lo sguardo deluso verso quello speranzoso di lui, e quando incontra i suoi occhi è come se avesse dimenticato cosa stava per dire. La porzione precedente di conversazione è dimenticata, superflua. Guardandolo negli occhi, sorride. Allunga la mano e gli sposta le ciocche dal viso. Rimane impressionata dall'integrità del suo volto. Non è solcato da occhiaie o provato da un'espressione stanca. È il Kurt che lei ricordava in cuore, non quello che avevano trasmesso alla TV nei mesi passati, adornandolo di parole come "eroina", "suicidio", "drogato" e "depressione". Lui le restituisce il sorriso, poi si volta ed inizia a camminare.

Lei lo segue, a passi lunghi per tenere il suo ritmo. Si avvicinano ad una scala fatta di tubi d'acciaio saldati insieme, e la salgono raggiungendo il tetto. La luce abbagliante del giorno li investe. Unice si accorge di non camminare su cemento o tegole di ceramica, ma su qualcosa di più morbido, verde. C'era uno strato di erba e muschio, sotto i loro passi.

Kurt si siede su una ex conduttura dell'aria, e le fa cenno si sedere accanto a lui.

«Come mi hai trovata?»

Lui non risponde, ma chiede «Perchè odi Tourette's?»

Lei rimane attonita, non si aspettava una domanda del genere.

«Ma non è che la odio.. Solo che mi mette tristezza.»

«Mi hanno detto tante cose su Tourette's, ma mai che metteva tristezza. Non è una canzone malinconica!»

«No, infatti.» Kurt continua a guardarla negli occhi, aspettando una risposta.

«Come l'ho capito io, il testo è triste. Ma nessuno, che io sappia, ha capito bene cosa dice il testo.»

Poi è colta da una specie di buddha, un'illuminazione. «Cosa dice il testo?» chiede entusiasta e curiosa.

Lui ride e scuote la testa «Eh no, così è troppo semplice. Ognuno da la sua interpretazione. Io potrei solo darti la mia.»

Unice alzò un sopracciglio «Ma l'hai scritto tu quel testo.»

Lui sorridente le chiede «Tu come l'hai interpretato?»

Lei ci pensa, era stato veramente difficile estrapolare delle parole o frasi sensate da quelle urla strazianti. «Per quanto ho capito io dice qualcosa su un attacco di cuore, una richiesta d'aiuto. Un'ingiustizia…»

Lui sembra pensarci su «Capisco.»

Di fronte a loro il sole sta tramontando affogandosi nel rosso fuoco.

«Si sta bene, da morti.»

Unice lo guarda quasi incredula.

«Davvero, sono serio. Da vivo stavo male, avevo dolori e soffrivo per tutto. Ora va meglio.»

«Ah... beh, meglio così.»

Lui la guarda di nuovo. La squadra un attimo, poi sorride «Guarda, sei un ragazzo adesso.»

Unice abbassa lo sguardo e per un attimo poté giurare di essersi vista in terza persona. Del suo aspetto non cambiava molto, solo i capelli erano evidentemente più corti. Non c'erano prove tangibili della sua trasformazione, ma lei ne era perfettamente cosciente, ne era consapevole. Nei sogni non serve vedere qualcuno un faccia per sapere chi sia, né guardarsi allo specchio per conoscere il proprio aspetto.

Intorno a loro la luce diminuisce sempre di più. Nella strada sotto al palazzo passano macchine tutte nere e fumose, facendo molto rumore. Non c'è gente a passeggio, non ci sono parchi né cani che corrono su e giù, nessuno in bicicletta o a fare jogging. Un secondo prima che l'ultima sezione di sole oltrepassasse orizzonte lineare e tutto diventasse scuro, Unice si volta verso di lui, incontrando il suo sguardo, la sua espressione serena e tranquilla. All'improvviso sente l'impulso di dirgli, urlargli quanto significasse per lei potergli parlare, sentirlo, vederlo nei suoi sogni, e fa per avvicinare una mano a lui, per non perderlo nell'oscurità. Appena le sue parole escono dai polmoni, però, sono coperte da un suono forte che rimbomba nell'aria, un suono tanto familiare quanto odioso. 

 

Un secondo, un attimo infinitesimale, e i suoi occhi si aprirono verso il soffitto del salotto. Si issò a sedere contro lo schienale del divano e sbuffò contro il suono della sua odiata sveglia che veniva dall'altra parte del corridoio. Si era addormentata a tarda notte, stravaccata sul sofà, con in mano il suo sketchbook e una penna a sfera.

Sulla faccia le si era scolpito un broncio spaventoso. Si alzò in piedi, raggiunse la camera e con una manata fermò il piccolo pendolo di metallo che batteva sul campanello della sveglia. Aveva ancora i jeans del giorno prima addosso e decise che andavano bene. Si sfilò la maglietta, raggiunse il bagno e si dette una rinfrescata.

Dieci minuti dopo aveva agguantato la cartella dal suo posto, attaccata per la tracolla alla maniglia del termosifone di fronte all'entrata, e si era buttata di fretta sulle scale per non perdere il pullman.

 

***

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Capitolo 4
*** Tries ***


Quella mattina non aprì bocca una sola volta. L'interruzione del sogno con Kurt proprio sul più bello l'aveva messa in uno stato di profonda angoscia. Si sentiva irascibile, e si tenne lontana da Sam. Si sedette dall'altra parte dell'aula, entrando più tardi possibile, di soppiatto. Saltò del tutto un paio di ore di lezione, andando invece a sedersi sulle panchine del giardino interno sotto il sole, a disegnare con le cuffie del CD player nelle orecchie. Fu così che poté arrivare tra i primi alla mensa alla pausa pranzo così da guarnire il suo piatto ed allontanarsi subito dopo, ancor prima che gli altri ragazzi potessero avere il tempo di raggiungere la sala. Non stava lontano dalla sua amica per fare un torto a lei, né perché la considerava fastidiosa. Aveva paura di metterla di cattivo umore, rattristarla o inavvertitamente risponderle male o in modo freddo e distratto. Unice richiedeva del tempo in solitudine, a volte anche giorni interi, e Sam lo aveva imparato e anche se non comprendeva a fondo questa necessità, la rispettava. Tanti, vedendo una ragazza da sola, magari taciturna e impacciata come Unice, si fermavano alla prima impressione di ragazzina disadattata, asociale e depressa. Solo chi aveva la buona volontà di conoscerla e la fortuna di trovarsi in sintonia con lei scopriva che poteva trasformarsi in un'incessante chiacchierona, tutt'altro che triste. Unice, dal canto suo, non sentiva necessità di essere considerata popolare né le importava cosa gli altri pensassero. Non aveva interesse nello sforzarsi per piacere a chi non piacesse a lei.

Dopo il pranzo le rimanevano ancora quattro ore di lezione, e partecipò a tre di queste. Decise di saltare l'ultima per approfittare della splendida giornata di sole ancora per un po'.

Mentre usciva dall'aula per recarsi di nuovo nel giardino le riaffiorò alla mente un particolare del sogno di quella notte. Una frase. Kurt aveva detto "Non sei in gradi di sognare lucidamente". Questo l'aveva fatta pensare. Non poteva non voler dire qualcosa. Le parole "sogni lucidi" le innescavano qualcosa, e invece di raggiungere il prato imboccò il corridoio che portava all'ala est del campus.

La grande biblioteca era un ambiente enorme, quasi sproporzionato col resto delle stanze. Il soffitto era alto come due piani, e delle scale portavano ad un soppalco che circondava il centro della sala. Le pareti erano ricoperte interamente da legno e scaffali pieni di libri. Agli angoli c'erano spazi dedicati alla lettura "non di studio", con pesanti divani e poltrone di pelle un po' raggrinzita intorno a tavolinetti con fogli e matite a disposizione. Unice era impazzita dall'entusiasmo, afferrando la manica di sua madre ed urlando "Guarda, guarda, matite e fogli sparsi per la biblioteca, è fantastico!" la prima volta che le aveva viste, quando mesi prima era venuta a visitare l'istituto per decidere se fare richiesta d'iscrizione. Aveva dovuto superare un test abbastanza duro arrivando tra i primi 30, cosa che le aveva permesso di essere ammessa in quella scuola.

Si avvicinò al banco dove sedevano le due bibliotecarie e con un sorriso gentile di cui non era avida, chiese «Scusate, avete qualche libro sull'onirica?»

Una donna coi capelli raccolti e un'aria vissuta ma rassicurante le rispose «Ne abbiamo molti, cosa ti serve, in particolare?»

«Volevo informazioni sui sogni lucidi.»

La donna ragionò, e si abbassò sulla tastiera del grosso computer, digitando qualche carattere nel campo della ricerca. Pochi secondi dopo sentenziò «Ne ho trovati tre.» e prendendo un foglietto e una matita in mano scandì, mentre scriveva, «Scaffale H, terza mensola dal basso, numeri 105, 112, 138. Da quella parte!» aggiunse, indicando con l'indice alle sue spalle, sorridente.

Unice le restituì il sorriso, ringraziò e si avvicinò agli scaffali dietro di lei.

Tirò fuori i tre libri che la bibliotecaria le aveva scritto: "Sogni Lucidi" e "Mente Cosciente, Cervello Dormiente" di LaBerge e "Il Paradosso della Coscienza Durante il Sonno" di Green e McCreery.

"Persino io avrei potuto trovare titoli migliori" pensò divertita Unice mentre raggiungeva una delle poltrone nell'angolo sotto una grande vetrata spessa ed alta.

Cominciò a sfogliare il primo libro, e in men che non si dica era rimasta ipnotizzata. In due ore lesse capitoli sparsi di tutti e tre i libri, affascinata.

La tecnica dei sogni lucidi era un modo di plasmare e vivere consciamente i sogni. Partiva con la consapevolezza di trovarsi nel sogno, per poi arrivare a riuscire a decidere il sogno stesso. In teoria, una volta appresa confidenza con la tecnica dei sogni lucidi, si poteva crearsi intorno un mondo proprio, ideale, una propria realtà onirica, ogni volta che ci si addormentava. I libri raccontavano le implicazioni psicologiche, spiegavano le tecniche e illustravano gli usi in medicina.

Unice si concentrò sui modi di "rendersi conto di essere in un sogno". Lesse i diversi metodi, spiegati nel dettaglio. Tutto partiva, comunque, dallo sviluppo della memoria. Il primo passo era sempre tenere un "diario dei sogni". Il passo successivo era effettuare i test di realtà. Nel sogno si agisce come durante il giorno. Perciò se si acquisisce un'abitudine durante il giorno, è probabile che questa si manifesti durante il sonno. Perciò bisognava abituarsi ad effettuare test di realtà, ovvero cercare di fare cose possibili solo nei sogni. Saltare per volare, guardare l'orologio che segna ore sbagliate, cercare l'orizzonte che non si vede nei sogni, spegnere la luce. Nei sogni non si riesce mai a spegnere la luce, neanche distruggendone la fonte. 

I mille pensieri di Unice vennero interrotti bruscamente dalla bibliotecaria che battendole la mano sulla spalla le disse «Stiamo chiudendo, cara.»

Unice si guardò intorno, uscendo dallo stato di trance metafisica in cui era sprofondata.

La bibliotecaria sorrise «Sei rimasta solo tu!» Il grande orologio segnava le 18:56. Si era trattenuta due ore oltre la fine delle sue lezioni.

«Mi scusi, ora me ne vado. Posso prendere questi due?» Disse la ragazza indicando i libri di LaBerge.

«Certo, vieni, che li registriamo.»

 

Quella sera, dopo cena, Unice stette fino a notte fonda sul divano a leggere. Mentre tornava a casa si era fermata in una cartoleria a prendere un nuovo sketchbook che avrebbe usato per annotare i suoi sogni. Lo aveva riposto insieme a quello vecchio, nella cartella. Aveva recuperato nel mobile del bagno un vecchio beauty-case, dove aveva trovato una scatolina di ombretto quasi finita. Aveva preso un cacciavite nella scatola degli attrezzi e facendo leva aveva scollato il piccolo specchio tondo, scheggiandolo un po' sul bordo.

Lo avrebbe tenuto in tasca, gli sarebbe servito per effettuare il suo test di realtà. Ricorreva nei suoi sogni che non riuscisse a vedersi allo specchio. La sua immagine era deformata, irriconoscibile, o a volte neanche c'era.

Guardò l'orologio, erano le 2:47. Effettuò ufficialmente il primo test di realtà. Estrasse dalla tasca lo specchietto e guardandosi nello specchio, scandì nella sua testa "Non sto sognando."

Si alzò e trascinò i suoi piedi fino alla camera da letto. Buttò jeans e maglia sulla sedia di legno della scrivania e si mise addosso una maglia larga. Si sentiva stanca morta, situazione ottimale per provare la tecnica WILD.

 

Wake Initiated Lucid Dream. Unice si sdraiò a pancia in su sul letto, con le braccia lasciate abbandonate in su, ai lati della testa. Chiuse gli occhi, stanchi di ore e ore di lettura. Ma passò giusto qualche secondo prima che si addormentasse di sasso.

 

Unice apre gli occhi verso un sole splendente e più grande che mai. È sdraiata, e sotto la sua schiena nuda sente freddo e umido. Si mette a sedere, si guarda intorno. La sabbia della spiaggia non le rimane attaccata alla pelle bianca. Un mare silenzioso e quasi immobile si agita alla sua destra, e un'alta scogliera rocciosa e scura le si erige a sinistra. E non si vede nessuno all'orizzonte. Si spinge con la mano e si alza in piedi. Cammina tra le onde e la scogliera, cammina più veloce, inizia a correre in quel corridoio sterile e innaturale che muta forma mano a mano che lei si muove, diventando un tunnel, oscurando il sole, e poi di nuovo fuori alla luce. All'uscita dei quella galleria c'è un salotto, con grandi poltrone di vimini, un divano e un camino. Si trovava nella casa di campagna dei suoi nonni. La stanza che ricorreva negli incubi di Unice. Una volta, proprio in quella casa, sua madre aveva cercato di ucciderla, in un duello all'ultimo sangue con una bomba a mano stretta nel pugno, mentre lei piangeva. Un'altra volta l'intero paese era stato assediato da delle giganti creature lungiformi simili ad elefanti e dinosauri, e lei ed qualche componente della sua famiglia si erano barricati dentro. La casa era stata venduta quando lei era ancora una bambina, e si era portata via tanti bellissimi ricordi di suo nonno ormai scomparso, trattori guidati a zig zag, le estati passate con i genitori e le notti sdraiata sul porticato sotto una coperta a cercare le stelle cadenti.

Il salotto era aperto sul grande corridoio pavimentato di grandi mattonelle di cotto, che portava, ancora più in là, ad un grosso tavolo di legno massiccio e una cucinetta di lato.

Unice si guarda attorno in quella casa che per qualche motivo non ha più decorazioni e quadri alle pareti ma si trova scarna e semplice. Sono spariti anche molti mobili, insieme al parapetto della scala che porta al piano di sopra.

La ragazza si ferma un attimo, e pensa. Doveva fare qualcosa, cercare qualcosa. Trovare qualcosa. Qualcuno. Non dovrebbe essere sola. Però è sola, in quella grande casa deserta e abbandonata sotto un telo di polvere. Prova a cercare al piano di sopra, ma salito qualche gradino si rende conto che non può andare. Non può salire più in alto di così.

Corre giù e spalanca il grande portone dell'entrata, uscendo a piedi nudi sulla pietra del lastricato freddo. In quel momento alza gli occhi, e la luna le sta a un palmo dal naso. Istintivamente mette le mani in tasca, e con sorpresa ne tira fuori un oggetto piatto e freddo. Lo guarda rifletterle negli occhi la luce della luna, lo inclina e lo guarda più da vicino, così vicino che copre tutto il suo spettro visivo. Ma dentro non appare niente. Allora delle parole vengono a mente a Unice "Questo non è un sogno".

«Questo è un sogno!»

 

Un pensiero così forte che bastò a svegliarla. Aprì gli occhi di colpo, ancora sdraiata a pancia in su sul letto. Svelta lesse le cifre sulla sveglia. Era passata mezz'ora da quando si era addormentata. Era delusa. C'era andata così vicina. Con il viso tra le mani buttò di nuovo la schiena sul letto. Poi tirò le coperte a sé e ci s'infilò sotto, rannicchiandosi su se stessa. Chiuse gli occhi, cercando di disegnare nella sua mente il viso di Kurt. Era così difficile, non vi si era mai focalizzata, era sempre stata più attenta ai particolari, ai suoi dettagli. Abbandonata allo sconforto, si addormentò qualche minuto dopo, in un sonno privo di sogni.


 
***

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Capitolo 5
*** Surrender ***


Unice teneva una tazza di thè tra le mani tremanti, accovacciata in un angolo del divano. Da una settimana Kurt era sparito dalla sua vita. O meglio, dai suoi sogni. Ma non dai suoi pensieri. Al contrario, da due giorni questa mancanza si era manifestata in lei come un certo malessere, che lei cerco di arginare provando a contattarlo nell'unico modo che conosceva: dormire. Aveva passato le ultime 48 ore per quanto potesse a letto, cercando di addormentarsi e sperimentando le varie tecniche di induzione dei sogni lucidi. Ma il sonno era troppo lieve e disturbato.
Quando si soffre d'insonnia non si è mai completamente addormentati, né completamente svegli.
E ormai le faceva male la schiena a stare sdraiata, così si era trasferita sul divano. Tutto il tempo passato a dormire l'aveva scombussolata moralmente, psicologicamente e fisicamente, e si era arresa all'idea che fosse stato tutto inutile. Se ne stava tremante sul divano, senza aver mangiato niente di solido da troppo tempo. Arrabbiata con sé stessa e con quell'uomo che l'aveva fatta ridurre in quello stato. Sentiva l'ira ribollire ad ogni sorso di insipido thè che buttava giù attraverso la gola ruvida. I suoi occhi socchiusi, abbagliati dalle pareti troppo bianche della stanza si posarono sul suo diario dei sogni abbandonato giorni prima sul divano accanto a lei. Lo prese con la mano destra e lo avvicinò agli occhi. Sulla copertina di cartone aveva disegnato con una penna a sfera il volto di Kurt, ispirato alla foto che lei riteneva la sua più bella in assoluto.

Una delle sue foto più recenti, trovata mesi prima in una rivista e subito copiata su un foglio a matita, durante una lezione all'accademia. Aveva gli occhi bordati di nero e i capelli corti, tagliati alla meno peggio. Sorrideva. Si vedeva poco, ma sorrideva.

Uno sprizzo di rabbia la invase. Strinse più forte tra le mani quel quaderno, per poi alzarsi di scatto dal divano e tirarlo addosso al muro, dall'altra parte della stanza.

«Perchè te ne sei andato?!» Urlò al niente intorno a lei. Prese un respiro, poi d'un tratto si coprì la faccia con le mani, piangendo. Piano, si sedette a terra, lì, in mezzo alla stanza, singhiozzando tra le dita bagnate di lacrime.

Un rumore la spaventò. Veniva dalle sue spalle, qualcosa era caduto a terra, si voltò a guardare.

Sul pavimento di legno un po' graffiato c'era il suo sketchbook. La ragazza rimase senza respiro. Dalle pagine uscivano uno stelo e dei petali bianchi e soffici, un piccolo dente di leone da segnalibro. Allungò la mano, e si rigirò il piccolo quaderno tra le dita, incredula, senza emettere un fiato. Piano, scorse le dita all'interno, sulla pagina che il fiore divideva dalle altre. Appoggiò il fiore a terra accanto a lei ed aprì il libro. Nelle due pagine che aveva davanti agli occhi non c'era niente, se non una scritta a lapis, molto leggera, di lato. "Sono qui, chiudi gli occhi."

Unice sentì una fitta allo stomaco. Chiuse il libro, lo posò a terra e dopo un sospiro chiuse gli occhi. Attese, qualche secondo. Attorno a lei c'era un silenzio profondo, nessuna macchina che passava per le strade, uccellini che cantavano sugli alberi né vicini che urlavano. Poteva sentire il rumore del suo cuore battere e il sangue far pressione nelle arterie. Qualche secondo ancora, dopodiché avvertì qualcosa toccarle la guancia. Sfiorarla. Qualcosa che quasi non aveva massa, non aveva corpo. D'istinto trattenne il respiro, ma si impose di non muoversi. Aveva paura di metter fine a quella carezza che le stava infondendo un certo benessere. La carezza continuava, leggera scorreva dalla guancia al collo, sulla spalla e giù per il braccio, per poi avvolgersi intorno alla sua mano. Non aprì gli occhi, perché sapeva che non avrebbe visto niente. Una voce si fece largo nella sua mente.

“Riesci a sentirmi?”

Lei trasalì, ed esitante sussurrò «Sì.»

“Smettila di torturarti.”

«Tu mi stai torturando.»

“È per questo che me ne sono andato.”

«Bel lavoro.» sbottò lei sarcastica, sempre ad occhi chiusi.

“Sono andato a cercare mia moglie. E mia figlia.”

Lei rimase in silenzio per qualche secondo, pensando a cosa dire e come soppesare le parole. Risaliva a poche settimane prima la notizia che Courtney, girando un nuovo film, si era messa insieme al comprotagonista «E le hai trovate?»

“Sì.”

«Gli hai parlato?»

“No. Non ho potuto.”

«Posso chiederti perché?»

“Sì.” disse lui, senza aggiungere niente. Unice rimase in attesa, poi esordì «Perché?»

“Perché avrei rovinato loro la vita. Sia da vivo, figurarsi ad andargli tra i piedi da morto.” fece pausa qualche secondo, ed aggiunse, con un po' di amarezza “Stanno meglio, adesso. Frances è cresciuta molto. Courtney sembra felice.”

«Sono certa che non è così.»

“Sono stanco di far star male le persone. È colpa mia se sei ridotta in questo stato.”

«Non è colpa tua.»

“Dovrei andarmene.” Il panico s'insinuò in Unice.

«Non puoi!» Urlò più forte di quanto avesse voluto.

“Ho fatto male a raggiungerti.”

«Non capisco nemmeno perché tu l'abbia fatto.»

“Che devo fare?”

«Rimani con me. Torna nei miei sogni.» Lo supplicò.

Kurt le accarezzò i capelli. “Devi rimetterti in sesto.”

«Lo prometto.»

 

Quella mattina Unice si era fatta coraggio ed era andata all'accademia. Ma la forza di volontà non era abbastanza da permetterle di prestare attenzione alle lezioni. Niente di diverso dal solito.

Sam era stata contenta di vederla di nuovo, e quando le chiese che fine avesse fatto lei tirò corto dicendo che aveva preso l'influenza.

«In effetti ti vedo più pallida del solito. E di solito sei marmorea.»

«Già. Avevo una mezza idea di passare nell'aula di pittura e colorarmi un po' il viso.»

La mattinata passò tranquilla, e Unice resistette pressoché sveglia fino al pranzo. Ma nonostante la stanchezza, si sentiva rinata, ed era allegra e sorridente.

Durante l'ultima ora di lezione del pomeriggio, però ebbe l'infelice idea di appoggiare la fronte sul braccio e riposare gli occhi.

 

«Uuunice?» Una voce la chiama, e lei apre gli occhi. Non saprebbe definire la posizione in cui si trova, intorno a lei scorge solo del blu.

«Kurt! Ehi, guarda, sei tornat..» Ma il suo entusiasmo viene interrotto da un gesto di lui, che la fa ammutolire e dopo qualche secondo le sussurra «Guarda nella tua tasca.»

Bella cosa, la ragazza non è neanche sicura di avere un corpo, figurarsi dei vestiti addosso. Ma con dei movimenti indefiniti raggiunge qualcosa di tangibile sotto il suo tatto. Lo avvicina agli occhi, è un vetro. No, uno specchio. E mentre ci guarda dentro il suo pensiero è espresso in contemporanea dalla voce del biondino a lei di fronte.

«Questo è un sogno.»

D'un tratto Unice si sente sprofondare, quasi risucchiata in un vortice e poi in caduta libera, ma Kurt scattante le afferra la mano. Non c'è bisogno di tirarla, né di stringerla. La gravità è scomparsa.

Lui le afferra anche l'altra mano, e le muove nell'aria, fluttuando, come immerso nell'acqua.

«Sei ancora con me?»

«Penso di sì.» risponde lei insicura.

«Bene. Ora, Unice, questo è il tuo sogno. Puoi fare ciò che vuoi, portarmi dove vuoi.»

«Ma io non ho dove portarti..» fa lei titubante, dopodiché le viene un'idea.

«Anzi, un posto ce l'ho.» senza lasciare le sue mani, inizia a camminare su qualcosa di umido e stopposo.

«Attento a non scivolare. A terra c'è il muschio.»

«Non scivolerò.» Fa lui a mezza voce, con un tono bambinesco.

Nel momento in cui Unice alza le mani a coprirsi la testa, una doccia d'acqua li investe leggera e schiumosa. E dall'altra parte della tenda trasparente c'è un corridoio scavato nella roccia, con pozze d'acqua e pietre coperte di fine muschio verde sotto i loro piedi scalzi. Qualche passo ancora, dopodiché si ritrovano sotto un'imponente cascata. Il rumore è assordante, l'acqua scroscia accanto a loro e poi sulla pietra, e giù lungo tutta la parete rocciosa. Quand'era solo una bambina, Unice aveva visitato un posto come quello con i suoi, trovandolo quasi per caso, in una sosta durante un viaggio in montagna. Chissà se ciò che ricordava corrispondeva minimamente alla realtà.

«Questo posto è fantastico.» Dice Kurt avvicinandosi al muro d'acqua. La sua voce arriva ad Unice senza fatica, nonostante il fracasso.

La ragazza gli si avvicina, lui la prende per mano. «Sai cos'è ancora più fantastico?»

Non le da tempo di rispondere, perché appena un secondo dopo si è buttato in avanti ed ha trascinato lei con sé, tuffandosi nella cascata.

Quello è un sogno, ma Unice è lucida, ed ha paura. Lui la tiene per il braccio, e lei lo afferra e si tira a lui, lo abbraccia e lo stringe. Lo stomaco le sta uscendo dalla bocca. Chiude gli occhi e spera di non morire. Ma qualche secondo dopo, quando li riapre, loro fluttuano nell'acqua cristallina. Kurt si stacca da lei ma le rimane vicino, le prende il viso tra le mani. Lei lo guarda ma non lo vede, la vista le si è appannata. La sua lucidità le fa realizzare che sott'acqua non riesce a vedere niente, nella realtà. E in più, sott'acqua non è mai riuscita a respirare. Lui se ne accorge, e la trascina verso la superficie, senza tirarla, solo tenendole le guance tra le mani. Non riemergono dall'acqua, ma semplicemente questa si vaporizza intorno a loro e il prato si materializza sotto i loro piedi. Per Unice lo spavento è stato troppo forte, e ora sente fatica e dolori ovunque. La vista non le è tornata, e sente di non riuscire a insufflare aria nei polmoni. Stava nuovamente affogando, merda. Sente che ora è sdraiata, e sente il tocco gentile di Kurt sulla sua pelle nuda, e una voce soffusa.

 

Kurt le sta accarezzando i capelli e in ansia le ripete «Non svegliarti, Unice, non svegliarti!» ma teme che ormai quel piccolo mondo fantastico che era riuscita a creare sarebbe andato perso, almeno per quel sogno. Intorno a loro niente è più definito, le rocce si sciolgono o prendono fuoco, e si è alzato un forte vento. Lei è in apnea notturna, e lui è preoccupato.

«È colpa mia, non dovevo spingerti ad uno spavento simile! Svegliati se vuoi, ma respira, cristo!»

Si guarda attorno mentre quel sogno collassa su se stesso e addosso a loro. Poi guarda lei, ferma immobile, gli occhi socchiusi e vacui, senza respiro.

Le afferra le spalle e la tira su a sedere, delicatamente le tiene la testa dritta tra le dita e posa la sua bocca su quella di lei. Apre le labbra di lei con le proprie. Poi prende fiato e le soffia aria nei polmoni, tutta quella che può.

 

«Oh mio dio, non respira!» Sam scuoteva Unice per le spalle, sollevandole la testa dalla superficie fredda del banco. Dapprima l'aveva guardata divertita addormentarsi, e poi anche borbottare qualcosa e fare un paio di sobbalzi, vegliandone il sonno e controllando che il professore non se ne accorgesse. Sapeva quanto bisogno avesse di dormire, e quanto le risultasse difficile riuscirci. Ma quando per l'ennesima volta si girò a guardarla si accorse che stava immobile forse da un po' troppo tempo, ed avvicinandosi si rese conto che non stava respirando più.

L'aveva chiamata per nome, le aveva alzato la testa e poi aveva gridato allarmata di chiamare l'infermeria.

Molti studenti si erano alzati in piedi per sporgersi e vedere, altri intrepidi si erano avvicinati ed un paio avevano persino prestato aiuto a sollevarla dalla sedia e sdraiarla a terra nell'attesa di una barella e di un'infermiera. Sam era sull'orlo delle lacrime per lo spavento e anche quando la barella arrivò non ne volle sapere di abbandonare il suo fianco. Mentre veniva portata via dall'aula Sam poté vederla cercare di respirare, contrarre polmoni e trachea invano, come se qualcuno stesse cercando di rianimarla. La bocca della ragazza era aperta e la testa scattava sporadicamente verso l'alto alla ricerca di un respiro, a nonostante tutto non era sveglia.

Quando finalmente Unice aprì gli occhi, scattando in avanti riuscì a inalare preziosa aria fresca, facendo prendere un colpo a tutti i presenti, che stavano trasportando la barella. L'infermiera li fece fermare e si accostò alla ragazza che riprendeva fiato.

«Come ti senti?» Le chiese apprensiva portandole la mano intorno al polso.

«Bene.. credo.» si guardò intorno e aggiunse «Sam? Cos'è successo?»

L'amica la guardò con gli occhi pieni di lacrime ed abbracciandola le disse «Non respiravi più ed io ho avuto tanta paura!»

Unice era confusa. Pensava di essersi semplicemente addormentata durante la lezione. Forse l'apnea era stata causata dallo shock del sogno lucido?

Ora lo ricordava, il sogno. Kurt che si getta insieme a lei nel vuoto di una cascata. Tutto le scorreva davanti agli occhi in modo così reale, come un ricordo e non un sogno. Solo a ripensarci le gambe le si irrigidirono.

 

***

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Capitolo 6
*** Relentless love ***


L'infermiera aveva finito di controllarle polmoni e battito cardiaco con lo stetoscopio freddo, e sentenziò «Sembra tutto a posto, ma vedi di fare una visita più approfondita da un medico specialista.»

Unice si chiese per un attimo di che genere di specialista stesse parlando l'infermiera, ma sorvolò e si rivestì. Sam era seduta fuori dalla porta dell'ambulatorio, l'aveva aspettata tutto il tempo. Sarebbero dovute andare a casa un'ora prima.

Quando la vide uscire le corse incontro e le chiese come stesse.

«Va tutto bene, ora però voglio andare a casa.»

 

A naso all'insù Unice guardava le ultime nuvole del giorno farsi sempre più arancioni. Si strinse più stretta nel pullover, riparandosi dalla brezza fredda che le entrava dal colletto.

Se ne stava seduta con le gambe incrociate sopra il tetto del suo palazzo ormai da un'oretta. Alzò verso il cielo le braccia e stirò la schiena. Rilassò le spalle, chiuse gli occhi. Sgombrò la mente. Attese qualche secondo.

Poi con la voce del pensiero lo chiamò.

«Kurt, sei qui?» Attimi di silenzio dentro e intorno a lei.

“Sono qui, sempre.” Una voce parla dentro di lei, e ad occhi chiusi lei potrebbe giurare che quel ragazzo dai capelli biondi e spettinati fosse lì accanto.

“Sei qui da molto, che stai facendo?” Chiede lui.

«Rifletto un po'. Puoi spiegarmi cos'è successo stamattina?»

“Quando?”

«Non ci provare, sai quando.»

“È normale subire un forte shock le prime volte in cui si riesce a sognare lucidamente. Io ho esagerato, ti ho fatta spaventare, mi dispiace.”

«Non ti preoccupare, non è successo niente.»

“Mi sento terribilmente in colpa.”

«Allora fatti perdonare e raccontami cos'è successo quando ho perso conoscenza.»

“Ma.. In che senso, cosa vuoi che sia successo?”

«Cos'hai visto? Sento come se non riuscissi a ricordare qualcosa di importante.»

“Bello o brutto?”

«Bellissimo.» sorrise lei.

Unice sentì chiaramente una risata lieve da parte di Kurt, che subito dopo si schiarì la voce e proseguì

“Non è successo niente. Ho cercato di tenerti nel sogno, ma non ha funzionato.”

«E poi?» fece la ragazza, incalzante.

“E poi niente, ti sei svegliata!” evase lui.

Unice emise un brontolio di insoddisfazione a denti stretti, e fu scossa da un brivido di freddo subito dopo.

“Hai freddo.” Non era una domanda.

Lei era ancora ad occhi chiusi, e poté percepire chiaramente il contatto caldo e rassicurante che Kurt le stava infondendo. Forse, da qualche parte in un qualche universo lontano o mondo parallelo, la stava abbracciando.

Non resistette, quella sensazione fu per lei così reale da spingerla ad aprire gli occhi. Cercò di seppellire dentro di sé il po' di delusione che scoccò in lei. Si accorse che si era immersa nei suoi pensieri più profondamente di quanto pensasse, si sentiva quasi uscita da un profondo dormiveglia.

Non avvertiva più Kurt intorno a lei, ma sapeva che era lì.

 

Quella sera, dopo cena, aiutò la madre a pulire la cucina e se ne andò direttamente a letto. Era presto per lei, e non aveva sonno, ma si impose di sdraiarsi sotto le coperte, a pancia in su, e tenere gli occhi chiusi. Com'era scritto in uno dei tanti articoli che aveva letto sui sogni lucidi, ignorò impulsi come pruriti o voglie di muoversi o cambiare posizione. Gli articoli li definivano come stimoli che il cervello inviava al corpo per capire se si sta dormendo o meno.

Poté godersi a pieno il tepore fresco delle lenzuola, mentre sentiva la mente cominciare a divagare.

 

Una nuvola. Due nuvole. Vento sul corpo. Bianco neve tutto intorno. Bianco neve che le viene incontro e le si posa sulle guance. Gira la testa alla sua destra, un altro viso pallido e orizzontale accanto a lei, che si volta e le sorride.

I loro corpi sorretti dalla tiepida neve e nient'altro. Unice non ha voglia di parlare, neanche Kurt. Unice lo guarda e col cuore colmo di serenità gli passa la mano sulla fronte e tra i capelli.

Lui si gira di fianco, la guarda negli occhi, mentre un ciuffo dorato si contorce nelle dita di lei. Lui le prende la mano, e la porta a posarsi sul suo cuore. Unice ride, batte un ritmo strano. Una piccola spinta e si avvicina a lui, i loro nasi vicini. Si guardano negli occhi senza osare batter ciglio, per paura della fragilità di quell'attimo perfetto. Kurt prende tra le mani il viso di lei, con una carezza scende sul collo, sulla spalla, sulla scapola, giù per la spina dorsale, e più che scende e più la tira a sé, avvicinandola. Altri secondi immobili a scrutarsi con faccia da poker, a studiarsi l'un l'altra.

Unice sorride, porta le braccia attorno al suo collo, facendo per abbracciarlo. Ma lui è più veloce, e quando lei si avvicina, ne approfitta per portare le labbra su quelle di lei. Un bacio che vive a rallentatore, secondi che sembrano secoli prima che le labbra di entrambi si dischiudano e le loro lingue possano finalmente trovarsi, come dopo un'attesa lunga un'eternità. E così, uniti da un bacio lungo quanto il tempo, abbracciati rotolano sulla neve, in su, in giù, Unice non sa dirlo con certezza. D'un tratto non sono più sdraiati, ma volteggiano con passo di danza girando senza sosta, e le sembra di fluttuare. Unice guarda a terra, sotto di loro uno specchio di ghiaccio. Kurt le sorride, le accarezza il viso. Con un filo di unghie le percorre i fianchi, trasmettendole brividi ed elettricità. La gravità non esiste più, come non esiste materia intorno a loro. O luce. Od ombra.

Uniche creature dell'universo, i due ragazzi non perdono il contatto, non sia mai che quell'idillio avesse a finire.

Le labbra di Kurt sfiorano le sue, il suo bianco mento, la trachea, la gola, il petto, il seno, il busto, la pancia, il ventre, le sue mani scivolano giù con lui in una lunga carezza.

 

Una bolla di sapone e un freddo e pungente ago. Così d'un tratto la bolla esplode e Unice si sveglia, col sole negli occhi, nel suo letto. In posizione fetale, teneva la coperta stratta a sé. Fu sopraffatta da un impeto d'ira. L'espressione si tese di rabbia e frustrazione, i denti si serrarono intorno al piumone che le mani stringevano e tiravano. Una lacrima esasperata le scese dalla cornea smeraldina. Si accorse addirittura di ringhiare.

Buttò la coperta da parte, giù dal letto, e si alzò in piedi. Si trattenne a stento dal tirare un calcio all'armadio, prevedendo l'eventuale seccatura di un piede rotto.

Si sedette di nuovo sul letto, con la testa nelle mani, imprecando a bassa voce. Maledicendo il mondo.

Maledicendo Kurt ed il giorno in cui era entrato nella sua vita, e pentendosene subito dopo un secondo. Per un attimo pensò di non andare all'accademia, di rimanere a casa, a letto, cercando di dormire tutto il giorno. "Tutti i prossimi giorni, ma sì, che importa?"

Ma in quel momento sentì la voce di quell'uomo, nella sua testa come alle sue spalle.

“Calmati, Unice.”

La ragazza alzò il capo, fissando un punto imprecisato nella stanza. Si sentì un mostro.

«Mi dispiace, non volevo… io… È tutto così intenso.»

“Sdraiati, per favore. Solo un attimo.” Rimase interdetta, un po' incuriosita dalla richiesta.

«Ok…» disse esitante mentre scorreva indietro e si stendeva sul copriletto.

Anche la voce di Kurt era insicura, mozzata da un sogno interrotto anche per lui, da un'emozione spezzata all'improvviso. «Non ho mai provato a fare niente di simile, prima d'ora.» disse.

«Ma… che vuoi fare, scusa?» sussurrò Unice, all'improvviso cosciente che per sua madre fosse comunque da sola, in camera.

«Chiudi gli occhi.» il suo sussurro sembrava provenire da due centimetri più in là del suo timpano. Obbedì.

Sentì il suo tocco caldo sulla pelle della pancia, carezzarla e poi scendere verso le gambe. D'istinto le piegò, un po' in imbarazzo. Non era come in un sogno, adesso aveva un mondo intorno a lei. Che poteva sentirla o entrare dalla porta in qualsiasi momento.

Tastò oltre il bordo del letto, in basso, per trovare il piumone, e portarlo di nuovo sopra di lei. Pensandoci due volte, si coprì fin sopra il viso. Si era quasi distratta, immersa in mille pensieri ed ansie tipiche di lei e dei suoi momenti d'intimità, quando fu riportata bruscamente coi piedi per terra da un brivido che dall'inguine la percorse fino ai capelli. Si sentì avvampare, strinse le palpebre e arricciò il naso. L'istinto la sua mano cercò quella di lui, più in basso, all'altezza del fianco, stringendo solo tessuto. Un'altra scossa le contorse lo stomaco. Il vapore del suo stesso respiro, intrappolato dalla stoffa, cominciava a farle sudare il viso.

«Kurt.. mi spieghi come questo sia poss..» Strinse i denti. Il cuore le faceva quasi male, sembrava volesse fuggirsene.

Si impose di star zitta, di concentrare i suoi pensieri su Kurt e ciò che stava facendo. E le sembrava incredibile. Raggiunse l'apice dell’idillio pochi secondi dopo. Inarcò la schiena all'indietro e un piccolo spasmo le fece tremare le gambe. Portò l'incavo del gomito sopra gli occhi, e cercò di riprendere fiato, di far rallentare il cuore. Sentì un contatto sulle sue labbra accaldate e dischiuse, breve e leggero. Rise, imbarazzata.

«E questo come sei riuscito a farlo?»

Lui era impacciato “Non ne ho idea. Ho provato.”

«Beh, complimenti. Funziona.»

 

In qualche minuto, Unice si era ricomposta. Il piumone se ne stava liscio sul letto, le cose cadute dal comodino erano di nuovo al loro posto. Lei si era vestita velocemente e dopo essersi sciacquata il viso, aveva raggiunto sua madre in cucina per la colazione.

«Ehi, tutto a posto?» Disse lei, guardandola con un misto di amore ed apprensione.

Unice simulò sorpresa «Certo! Perché?»

«Niente, ho sentito un po’ di trambusto, in camera tua, poco fa.»

«Aah! No, tranquilla, è che.. ho avuto un sonno molto agitato. Sono quasi caduta dal letto, al risveglio.» dentro di sé pregava di essere risultata lontanamente convincente.

«Ah, ok.»

La ragazza tirò un sospiro di sollievo, mentre si sedeva a tavola davanti ad una grossa tazza di cereali e latte, mescolandone il contenuto con un cucchiaino da thè. Ne portò un po’ alla bocca.

«Parli anche molto, ultimamente, nel sonno.» Aggiunse la madre.

A Unice per poco non andò di traverso il boccone. Tossì appena e quando butto giù chiese, alzano le sopracciglia «Davvero? E che dico?»

Sua madre rise «Non si capisce niente, e poi non è che ti sto ad ascoltare!»

“Grazie al cielo” pensò la ragazza.

«Ah, mamma.. non so se vado all’accademia, oggi.»

“Perché?” una voce maschile le replicò, nella mente, e per un attimo lei alzò gli occhi, sorpresa.

«Perché?» Chiese, stavolta sua madre.

Lei prese tempo. «Ehm.. Perché.. Ho un po’ di cose da fare.. compiti arretrati.» Fu la scusa migliore che riuscì a trovare, poiché non era sicura su chi fosse il destinatario.

“Non penso proprio. Tu ci vai, all’accademia.” Asserì Kurt, autorevole più di quanto poteva permettersi.

«Non puoi proprio finirli in un altro momento? Non ti fa bene saltare tutta una giornata di lezioni, non credi?»

“Infatti. Non ti fa affatto bene stare a casa.” Unice si chiedeva perchè Kurt pretendesse di decidere per lei.

«Beh, se non è oggi sarà un altro giorno, però.»

«Ormai siamo a venerdì. Puoi metterti in pari nel weekend!»

«Nel weekend avrò altro lavoro, da fare.»

“Unice smettila, perché mai dovresti rimanere a casa?!”

«Posso decidere da sola, penso!» “Ok, questo dovevo solo pensarlo”

La madre rimase stranita, e un po’ risentita rispose «Fa’ come vuoi.»

La ragazza si morse la lingua. Era lì lì per rimangiarsi le parole, ma ormai era troppo tardi. Sparecchiò le colazioni di entrambe e tornò in camera.

Piano, senza farsi sentire, sussurrò «Kurt, ma che cazzo.»

“Che pensi di fare tutto il giorno a casa?”

«Non capisco perché questo dovrebbe essere affar tuo!»

“Non prendermi in giro.” Fece lui, facendole chiaro che sapeva benissimo cosa voleva fare.

«Oh, andiamo, Kurt, non ti metterai a cercare di farmi fare la cosa giusta!» disse Unice enfatizzando le ultime due parole.

“Ciò che vuoi fare è malsano. E io non ne sarò complice.”

«E cosa hai intenzione di..» ma mentre pronunciava la frase, già lo aveva capito.

Non lo sentiva più. Non era lì vicino a lei, dove era rimasto per giorni.

Un senso di inquietudine la pervase. Decise di ignorarlo.

«Ripensandoci hai ragione, mamma. Io vado!»

«Brava bimba!» Le disse sua madre, riservandole un largo sorriso.

 

***

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Capitolo 7
*** Crack ***


«Ehi, Unice! Come ti senti?» Le chiese una ragazza con la quale in comune aveva solo un corso di tre ore alla settimana.

«Ehm.. bene, grazie. Non era niente.» “Deve aver assistito al bello spettacolo della mia semi-morte”

«Menomale, ci siamo spaventati tutti. Ciao!» Salutò continuando per la sua strada.

La ragazza per un attimo rimase lì in piedi, stranita. Non conosceva neanche in suo nome. Strana, la gente.

Entrò in classe, trovò Sam con gli occhi e la raggiunse, sedendosi accanto a lei.

«Come stai?» Chiese lei, ansiosa.

«Bene, molto bene!» Rispose Unice, celando un velo di entusiasmo di troppo.

«Sono contenta che stai meglio.» Sam le riservò un sorriso sincero, che Unice ricambiò felice.

 

Durante la pausa pranzo, le due ragazze si avviarono chiacchierando verso i locali della mensa, per prepararsi un vassoio da consumare nel giardino interno. Era più forte di loro, non avrebbero mai resistito ad una bella giornata di sole. Si accaparrarono uno spazzo di erba verde e morbida, accuratamente tagliata, dove si sistemarono insieme al loro pranzo.

A gambe incrociate, Unice punzecchiava qualche foglia di insalata da una vaschetta di plastica e se le portava alla bocca, “sgranocchiando come un criceto”, le disse Sam, che invece mangiava un tentativo di lasagna poco saporito.

Quel momento, nella sua discreta perfezione, appariva bellissimo, alla ragazza. La cosa più bella che potesse chiedere, in quel momento.

Fu forse per questo che, dopo una breve riflessione interna, si fece coraggio, ed esordì «Sam, tu ci credi ai fantasmi?»

«Cosa intendi?»

«Cose tipo apparizioni, gente che vede gente morta.. cose così.»

«Mi fanno paura, queste cose. Credo che siano tutte cavolate fatte per spaventare la gente.» disse lei con un sorriso sghembo «Perché me lo chiedi?»

Unice per un attimo esitò, ma non si fece spaventare da quella risposta non proprio positiva. Sam era diventata una persona importante, per lei, ed era sicura che avrebbe potuto confidarle anche quella parte di sé. A lei avrebbe fatto piacere, se Sam le avesse confidato un suo intimo segreto.

«E se ti dicessi che io ne ho visto uno?»

«Maddai, e quando, sentiamo?»

Unice guardò altrove brevemente «Beh, non è che l’ho visto e via.. si tratta di Kurt.»

Sam continuava a guardarla, in silenzio, con la forchetta ed un pezzo di lasagna bloccato a metà strada tra la vaschetta e la bocca. Allora Unice continuò.

«Lo vedo.. ogni tanto. E lo sento. Nel senso che riesco a parlarci. Lui.. è come se entrasse nei miei sogni, è partito tutto così.» Incrociò lo sguardo con quello di lei, congelatosi in un’espressione glaciale.

«Stai scherzando, mi prendi in giro vero?»

Unice rimase interdetta, senza sapere cosa dire.

«Non quel Kurt, spero.»

«Beh, veramente.. Sì, lui.» Disse lei, sempre meno convinta che la sua fosse stata una bella trovata.

Seguì qualche secondo di silenzio, e Sam scoppiò a ridere.

«Per un momento ti ho anche creduto! Che scema, mi ci hai fatto cadere in pieno, brava!» fece, tappandosi la bocca semipiena e continuando a mangiare.

Il volto di Unice di graffiò di delusione. La guardava ricominciare a mangiare. Decise di insistere, non era possibile che Sam si comportasse con tanta superficialità. Non lei.

«Sam, ti prego. Non ti sto prendendo in giro.» disse seria.

A quel punto, seria divenì anche la sua amica, con cui scambio un’occhiata lunga secoli.

«Mi stai dicendo che tu parli nei sogni con il fantasma di un drogato morto due anni fa.» rimarcò l’amica, sottolineando troppo il penultimo sostantivo.

«In realtà, posso parlarci anche da sveglia.» puntualizzò lei, decisa ad andare fino in fondo.

Vide Sam posare la vaschetta di lasagna a terra, e dopo aver afferrato la sua borsa alzarsi ed andarsene a passo spedito.

«Aspetta, dove vai?!» le urlò Unice prima di alzarsi a sua volta e correrle dietro.

Le prese un braccio, la fece voltare verso di lei «Davvero non mi credi?» le chiese.

«Io.. non voglio avere a che fare con certe cose.» tirò corto lei, facendo per andarsene di nuovo, ma Unice la trattenne di nuovo, fermamente.

«Sam, ti ho fatto la confessione più intima della mia vita, e tu che fai? Scappi via? Pensavo fossimo amiche!»

«Lo.. eravamo. Ma non voglio avere a che fare con gente assatanata.»

“Assatanata”. L’aveva chiamata “assatanata”. Non poteva credere alle sue orecchie.

«C-cosa?»

«Lasciami andare, Unice.» così dicendo tirò a sé il braccio che la ragazza teneva nella mano, e voltandosi camminò via, senza voltarsi indietro.

Poté vederla posare due dita attorno al piccola croce argentata che portava al collo.

Sentì un paio di lacrime risalirle dall’anima per farle pressione sugli occhi. Strinse le labbra, indietreggiò lentamente.

Non ci poteva credere. Tutto era così.. assurdo. 

Non poté affrontare di incontrare altre persone, non poteva neanche solo concepire di recarsi a lezione, quel pomeriggio.

Si recò nell’ala ovest, quella in rifacimento, piena di aule vuote, polverose e di sgabuzzini chiusi a chiave pieni di materiali ed attrezzi inutilizzati.

Forzò la serratura della porta che si apriva su un bell’atelier, che all’inizio dell’anno, prima dell’inizio dei lavori di messa a nuovo, era stata la sua aula del corso pomeridiano d’incisione. Rimase lì fino a tardi, impegnandosi a creare piccole sculture con colla da legno e scarti di materiali vari.

Quando si diresse verso casa, non fece in tempo ad oltrepassare il cancello dell’accademia, che una pioggia melanconica cominciò a cadere sui suoi capelli, perfetta analogia del suo turbamento.

 

Unice sbatté più violentemente del voluto la porta di casa. Chiuse gli occhi infastidita dal rumore del colpo, e farfugliò nervosamente.

Ascoltò intorno a sé per qualche secondo, e concluse che sua madre non c’era.

Senza aprire bocca si tolse la tracolla di dosso, si sfilò la giacca e buttò entrambe più in là sulla poltrona.

Raggiunse il bagno, aprì il rubinetto dell’acqua calda, che cominciò a scrosciare sul piatto della doccia. Le sue ciocche stavano abbarbicate sulla fronte e sulle guance, circondando il suo ovale liscio. Non si guardò negli occhi, mentre davanti allo specchio lottava contro i nodi umidi dei suoi capelli.

Una doccia era quello che le serviva. Ne uscì solo quando cominciò ad avvertire i morsi della fame. Avvolta in un asciugamano camminò fino in camera sua. Lasciò una lunga scia di pedate e gocce d’acqua sulle piastrelle del pavimento, e le fughe si coloravano di un grigio più scuro.

Addosso si mise solamente dei pantaloncini da ginnastica e una t-shirt più che sovraddimensionata.

Raggiunse la cucina, cercando con lo sguardo un biglietto lasciato da sua madre con su scritto l’indizio di caccia al tesoro per trovare la propria cena. Niente sul piano di cucina, niente accanto ai fornelli né sotto una calamita attaccato al frigo.

Si sedette su di una sedia e scocciata lasciò cadere la sua testa e la sua criniera fradicia di lato sulla superficie del tavolo da pranzo. L’ultima cosa di cui aveva voglia era mettersi ai fornelli. Rialzò il capo e riflesse. Aveva quasi deciso di fare a meno della cena e di mettersi a disegnare o a leggere. Ma poi un sonoro brontolio direttamente dal suo stomaco la costrinse alla resa.

 

«Come ti senti?» La voce di Kurt spezzò il silenzio nel suoi pensieri.

«Mbehne.» borbottò la ragazza a bocca piena, senza alzare lo sguardo o cambiare espressione.

Unice rimase concentrata sul piatto davanti a sé.

«Hai visto che è successo, non è vero?»

«No.» replicò Kurt, con semplicità.

«Ma lo sai comunque, cos’è successo. Non è vero?» puntualizzò, prima di un altro boccone.

«Sì.» fece lui, stavolta più sconsolatamente «Mi dispiace tanto, so cosa provi, in questo momento.»

Lei non rispose. Rischiava di inondare la sua cena di lacrime, se l’avesse fatto.

Avvertì una carezza sulla guancia, ed i suoi sforzi di rimanere col viso asciutto andarono in frantumi in pochi attimi. Poteva sentire la braccia di lui attorno a sé, mentre sommessamente sprofondava in un pianto straziante. Le ci vollero lunghi minuti per riuscire a calmarsi, e per riuscire a farlo dovette chiedere a Kurt di “allontanarsi da lei”, solo per un po’. Lui sapeva cosa intendesse.

Lei sistemò il piatto e le posate sporche nel lavandino, senza la benché minima voglia di lavarle. Decise di procrastinare, per quella volta. Forza maggiore.

 

«Sai, non dovresti andare a dormire.» Le fece lui, notandola pronta ad infilarsi sotto le coperte.

«Kurt, lo sai che giornata infernale ho avuto. Ti prego, ho bisogno di dormire.»

Lui sembrava preoccupato «Lo so, Unice. Ma ti assicuro che sarebbe meglio stare sveglia. Non sei nelle condizioni di riposare.»

«Ma che razza di discorso è?» sbottò lei incredula «Piantala con queste idiozie, ti prego.»

Così dicendo raggiunse il letto e strappò via il piumone dal materasso, sedendosi sul bordo.

Kurt provò l’ultima persuasione «Unice, dammi retta. Rimani sveglia, fammi un po’ compagnia. Possiamo parlare un po’, andare a fare un giro di notte. Magari possiamo andare a vederci l’alba da qualche parte o..»

«Kurt adesso basta.» sentenziò lei, più dura e severa di quanto non avesse voluto.

«Fammi dormire, ti prego.»

Lui fece un lungo e profondo sospiro.

«Buonanotte.» gli disse lei, prima di chiudere gli occhi, la guancia immersa nel cuscino di piume.

 

Non fa in tempo a chiudere gli occhi, che questi si riaprono su uno scenario desolato. Una immensa distesa di roccia spoglia e grigia la circonda, e a lei non rimane che camminare. Ma qualcosa le corre dietro. Lei indietro non può voltarsi, perché sa che verrebbe mangiata viva da quel mostro che ha alle calcagna. Corre fino a non avere più fiato, fino a che la sua vista non si appanna. Tutto ciò che riesce a vedere è a di poco raccapricciante. Tutto intorno a lei una foresta va in fiamme. Il cielo è nero, e la cenere le entra persino nei polmoni. Si arrampica su di un tronco, scivoloso come olio, per arrivare ad una casa sull’albero, che si rivela essere casa sua. No, non è casa sua. Lo sembra e basta. Dentro si respira cattiveria e malessere. E l’incubo continua, ancora, ancora, in luoghi e tempi diversi, con la stessa costante. Lei scappa. Lei corre. Lei fugge.

 

Unice si svegliò di soprassalto, a dir poco sconvolta. La sveglia al LED accanto a lei segnava le 4:30.

La voce di Kurt fu come acqua fresca per la ragazza.

«Come ti senti? Stai bene?»

Ma lei era troppo tramortita per rispondere. Si portò una mano alla bocca, gli occhi socchiusi che si riempivano di lacrime. Sentì l’abbraccio del ragazzo attorno a lei, e non poté più trattenere il pianto.

«Tranquilla, sei sveglia, adesso. Ci sono io.» Disse Kurt, cercando di tranquillizzarla, ma lei scivolò via dalla sua presa, alzandosi dal letto.

«Perché cazzo non c’eri prima, nel sogno?!»

«Avevo provato ad avvertirti.» Si difese lui, e l’avvicinò di nuovo, ma lei indietreggiò ancora.

«Hai una vaga idea di cosa abbia passato là dentro? Non ti sarebbe costato niente venire da me o svegliarmi!»

«Non potevo. Sei tu che provochi i tuoi stessi incubi. Sarei finito ammazzato.»

«Kurt, tu sei morto

«E non voglio morire di nuovo. Quello non è solo un sogno per me, è la mia vita, adesso! Soffro, se mi ferisco, e la sofferenza è ciò da cui fuggivo quando mi sono sparato in testa!» urlò l’ultima frase con rabbia, tanto da far rabbrividire Unice, che ammutolì, immobile al centro della stanza. Altre lacrime si fecero spazio sulle sue guance.

«Perdonami.» fu tutto quello che riuscì a dire.

Sentì una carezza sulla guancia e le sue labbra fresche sulle sue.

«Ho bisogno di stare con te. In un sogno.»

«Adesso non è possibile, piccola, ma ti prometto che starò con te quanto vorrai, prima possibile.»

La ragazza rabbrividì per la vicinanza della proiezione dell’uomo.

«So che è un abbraccio squallido, così, ma non posso fare molto altro.»

«Grazie, Kurt.» disse lei piano, guardando il pavimento.

«Perché non prendi il tuo sketchbook? Disegniamo qualcosa a quattro mani.»

Lei sorrise, carina come idea. Ma non era esattamente in vena di disegni.

«Che ne dici di un po’ di TV?»

«Sai che riesco ad accenderla?»

Unice rise di gusto «E com’è possibile?»

«Non chiedermelo! Guarda.» Unice aprì piano la porta della camera, sgattaiolando lungo il corridoio verso il salotto. Sentì Kurt passarle accanto, poco dopo il piccolo schermo catodico si accese. Il rumore di un film d’azione riempì tutta la casa, e la ragazza corse verso il divano, in cerca del telecomando sparito tra i cuscini.

«Kurt, abbassa il volume, c’è mamma che dorme!» Sussurrò all’aria.

«Tua mamma non è qui.» disse lui perplesso, ma lei non l’ascoltò. Trovò finalmente il telecomando, e come una pistolera lo puntò verso il ricevitore, innescando il muto.

«Cosa?» chiese Unice, rendendosi conto solo allora di cosa avesse detto Kurt.

«Tua mamma. Non è in camera sua.» ripeté lui.

«Ma che stai dicendo, com’è possibile che..» lasciò la frase in sospeso, mentre si avviava di nuovo nel corridoio. Piano posò la mano sulla maniglia, spingendo verso il basso. Nella camera regnava il buio.

«Mamma?» sussurrò la ragazza. Non ricevendo risposta, allungò la mano verso l’interruttore accanto alla porta. La luce illuminò un letto rifatto e vuoto.

Unice aggrottò la fronte, turbata. “Ma dove diavolo è?”

«Hai idea di dove possa essere?» Chiese Kurt da dietro le sue spalle.

«Sarà stata trattenuta in ospedale, a volte capita. Magari è successa una strage e non ne so niente.» Liquidò lei, allontanando le paranoie.

«E TV sia, allora.» Esclamò Kurt allegro.

 

Unice di sdraiò distesa sul divano, coperta dal suo enorme morbido plaid preferito. La TV spifferava a bassa voce, per non richiamare le lamentele di tutti i vicini. Kurt doveva essere seduto per terra, davanti a lei. Avevano testato assieme la sua validità come telecomando. In qualche modo era in grado di accendere e spegnere la TV e cambiare canale, ma non regolare il volume.

«A me sembra già abbastanza.» Si era difeso lui.

«Siamo sinceri, non hai fatto la guerra.» sbottò lei, ridendo.

Lei poteva sentire le carezze del ragazzo sulla pelle del suo viso, mentre la voce della televisione le cullava la testa, affondata in un cuscino. Gli angoli della sua bocca erano paralizzati in un sorriso.

Spalancò la bocca in un profondo, lungo sbadiglio.

«Kurt, sono stanca.»

«Puoi dormire, bado io a te.» Le sussurrò.

Un ampio sorriso di sollievo si allargò ancor di più sul suo viso, per poi rilassarsi in un’espressione neutra, serena ed abbandonata ad un leggero, tranquillo sonno senza sogni.

 

***

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Capitolo 8
*** Bare feet in the snow ***


«Svegliati. Unice, svegliati!»

Lei emise un verso di disappunto, impiastricciato di sonno, senza neanche aprire gli occhi, ma un’improvvisa ondata di freddo le percorse tutto il corpo fino alle ossa, facendola svegliare in un brivido.

«Cosa c’è?» Biasciò lei strusciandosi gli occhi.

Lui esitò «Niente di buono.» fu tutto quel che disse. Unice stava per chiedere spiegazioni, quando lo squillo del pesante telefono di metallo trillò, ad un volume che mai le era sembrato così alto, squarciando la pace della notte.

Drin drin, drin drin, drin-

Lei si alzò di scatto e si affannò verso il corridoio, rischiando di inciampare più volte.

«Pronto?»

«Signorina Bryant? Unice Bryant?» gracchiò una voce seria dall’altra parte del cavo.

la ragazza esitò. Solo in quel momento aveva realizzato che di solito ricevere una telefonata in piena notte non voleva dire niente di buono.

«Sì, sono io. –si schiarì la voce con un colpo di tosse soffocato– È successo qualcosa?»

«Qui è il General Hospital. Sua madre è morta.»

Le parole che seguirono caddero indistinte in un angolo della sua mente, offuscate dalle vertigini che si impossessarono di lei. Non era sicura che l’interlocutore avesse finito di parlare, quando aveva attaccato la chiamata. Non le interessava molto. Tutto ciò che riuscì a fare fu evitare di cadere a terra come un sacco di patate, sforzandosi di tendere i muscoli giusti per accasciarcisi senza aprirsi il cranio contro il pavimento.

Poi ancora un ultimo piccolo sforzo, per portare le mani davanti agli occhi, tirare a sé i ginocchi e ritrovarsi in posizione fetale.

Non ebbe neanche modo di avvertire il tocco di Kurt, che con tutta la delicatezza di questo e di altri mondi posò la mano sulla sua testa, intrigando impercettibile le sue dita tra i capelli morbidi e spettinati.

 

Non seppe dire quanto tempo era rimasta immobile, arrotolata sul pavimento, gli occhi spalancati che neanche si erano degnati di versare una lacrima, quando scorse il primo filo d’alba attraversare la stanza e puntarle il viso.

Quando provò ad issarsi a sedere si accorse del dolore che le arrivò dall’anca e dalla spalla sui quali si era appoggiata. Un verso di dolore le sfuggì dalla gola.

«Unice.» una voce dolce sussurrò, ma lei non rispose. Si mise a sedere, portò le gambe al petto e le circondò con le braccia, poggiando il mento sui ginocchi. Si prese qualche minuto per convincersi che il tempo non si fosse fermato, che un mondo pieno di persone stesse ancora rivoluzionando su sé stesso, che lei ne facesse ancora parte.

«La vedi?» Fu la domanda che istintivamente rivolse al ragazzo, vicino a lei da qualche parte.

«N-no.» Esitò lui.

«Mh.» Rispose lei, con un alzata di spalle accennata, prima di tirarsi in piedi.

«Cosa hai intenzione di fare?» fece lui con voce cauta.

«Mh, non posso rimanermene qui. Dovrò andare a… firmare qualcosa, immagino.»

Non ricevette risposte, così continuò, mentre infilava il primo paio di jeans che incontrò «Faccio un salto all’ospedale.»

«Vuoi… che venga con te?»

«Come vuoi.» fu la fredda risposta. Indossò una delle felpe che pendevano dall’attaccapanni e una volta infilate le chiavi in tasca uscì di casa.

 

L’ospedale non le era mai sembrato così silenzioso. Erano le sette ed il sole era appena sorto. Buttò uno sguardo alle poltroncine colorate dove usava sedersi, anni addietro, aspettando che sua madre finisse il turno pomeridiano per andare a mangiare qualcosa fuori casa. Una ragazza da dietro il bancone agitò la mano con un’espressione compassionevole dipinta in faccia nella sua direzione, e lei ricambiò con un cenno della testa.

In quel reparto, dove lavorava sua madre, la conoscevano quasi tutti. Tenne lo sguardo basso, per non ritrovarsi intrappolata in discorsi poco sensati da parte di persone delle quali neanche conosceva il nome, su di una cosa di cui non voleva parlare. Si appoggiò su un bancone, selezionando tra le tre ragazze dietro di esso la faccia più sconosciuta che poté, così da chiederle «Mia madre è morta stanotte… dove devo…» ma si rese conto che non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare, cosa doveva chiedere, perché avesse deciso di andare lì.

«Mi dispiace, tesoro.» rispose la donna di colore con aria spiacente «Vieni con me.»

 

Il corpo di sua madre era steso sul piano d’acciaio di un cassetto dell’obitorio. La faccia era coperta di graffi, e tagli, alcuni molto profondi. Strinse le palpebre solo qualche secondo dopo aver messo a fuoco quell’immagine tremenda, facendo cenno al ragazzo in camice che poteva richiudere il cassetto.

«Posso chiederle che cos’è successo?» fece, sorprendendosi da sola della propria voce atona «Devono avermelo spiegato stanotte al telefono, ma non sono riuscita a capire niente.»

«Un incidente d’auto.» disse il ragazzo, prendendosi la mano nella mano e raddrizzando la schiena «Un pazzo ubriaco le è andato addosso a tutta velocità mentre usciva dal turno serale.» si schiarì la voce, aggiungendo poi esitante «È morta sul colpo.»

Lei annuì abbassando gli occhi. Solo un secondo dopo gli voltò le spalle, spingendo la porta dell’obitorio e lasciandolo solo.

 

Le poche volte che ritornava coi piedi per terra, aveva l’impressione di non aver battuto le ciglia per tutto il tempo. Aveva raggiunto l’accademia in orario, dato che le lezioni erano iniziate alle nove. Si era accaparrata l’ultimo posto in fondo all’aula, al riparo dagli sguardi di chiunque, una barricata di schiene davanti a lei mentre il professore farfugliava di qualcosa che non le interessava.

Si era rigirata una matita tra le mani per l’intera lezione, gli occhi spalancati verso un punto indefinito, mentre più avanti, con la coda dell’occhio scorgeva Sam voltarsi verso di lei una volta ogni tanto, per poi tornare ai suoi appunti subito dopo. Teneva d’occhio la figlia di Mefistofele, pensò.

La storia si ripeté per un’altra lezione, fino ad arrivare alla pausa pranzo, quando senza ripensamenti andò a rintanarsi nell’atelier formalmente inagibile. Ma una volta varcata la soglia chiese a sé stessa cosa diavolo ci fosse andata a fare. Cosa diavolo fosse venuta all’accademia a fare.

Sul tavolo riposava ancora la piccola composizione di legno e fili metallici dell’ultima volta. Una piccola gabbietta di cavi intrecciati intorno a un piccolo uccellino di legno impressionista. Molto impressionista, convenne riguardando la sua piccola opera. Si guardò intorno, non c’era niente per lei, lì. Si era ripromessa di distrarsi, e non avrebbe potuto fallire in modo più clamoroso. Infilò la piccola scultura nella tracolla, prima di uscire dall’atelier polveroso.

Non poteva andare a casa, non poteva rimanere in quella dannata scuola.

 

Camminava a piedi nudi nella neve. Stavolta però non era un sogno, e il freddo che le invase le vene glielo ricordò. Ma le andava bene, era quello che aveva sperato, quando se le era tolte e messe in borsa.

Aveva raggiunto il parco cittadino, un surrogato di orto botanico che nessuno visitava mai, senza che lei ne capisse il motivo. A lei e a tutti gli spacciatori della città piaceva molto, invece. Ma sotto tutta quella neve era anche più bello del solito. Uscì dal sentiero per salire sul manto erboso, cosa che dedusse da un paio di ciuffi d’erba che spuntavano dal bianco e nient’altro, per avvicinarsi alla riva del laghetto, completamente ghiacciato. Si sedette sul manto gelido, i piedi posati sul ghiaccio immacolato della superficie.

«Tu lo sapevi, vero?»

“Non potevo saperlo.”

«Lo sapevi.» insistette lei, mettendo un piccolo broncio al niente intorno a lei.

“No.” sussurrò l’uomo, abbracciandole le spalle. “Devi essere forte, adesso.”

«Nah, non devo.» sbottò lei con un alzata di spalle.

“Crollerai tutto insieme, se non cominci a sfogarti.”

«A chi importa, Kurt?»

“A me. A tua madre.”

Avrebbe voluto rispondergli che a sua madre non importava più di niente, ormai, ma si accorse in tempo del paradosso di dirlo ad un fantasma.

«A meno che non si presenti pure lei nei miei sogni…» fece lei, lasciando la frase in sospeso speranzosa.

Kurt rispose in ritardo e frettolosamente “No, non credo proprio.”

«Allora niente.»

Kurt sembrò sospirare, prima di proporre “Ehi, senti. Andiamo fuori città. Vai a casa, prendi un po’ di soldi, andiamo alla stazione e prendiamo un treno, il primo treno. Ti piace come idea?”

«No.» ribatté lei, istantaneamente e senza traccia di emozione. Si morse la lingua subito dopo, e lasciando cadere la testa indietro affrettò un «Scusami. Davvero, scusami.»

Lui non rispose, ma neanche lasciò la presa sulle sue spalle.

«Sei tutto ciò che mi rimane, Kurt.» confessò lei.

“Sono felice di essere con te.”

«Kurt. Io voglio stare con te sempre.» dichiarò lei, la voce appena incrinata.

“Se lo vuoi sarà così.”

«Intendo… del tutto insieme. Per sempre.»

Lui rimase qualche secondo in silenzio, poi la realizzazione lo raggiunse come un pugno in faccia “Non pensarci neanche.”

«Kurt…» cercò di argomentare lei in modo calmo e diplomatico, ma lui sovrastò la sua voce.

“No, no e poi no. Unice, no.” sentenziò lui appena dispotico, irremovibile e severo.

Lei ritornò lo sguardo alla superficie del lago, che le rifletteva il bianco accecante del cielo negli occhi.

“Tu sei forte! Sei una guerriera!” sentì il bisogno di precisare lui “Sarebbe una scelta da codardi. Sei meglio di così.”

«Ok, basta, Kurt, ho capito.»

“No, continuò, perché quel che hai detto è una cosa stupida.”

«Ancora ti sanguina la tempia e vuoi darmi lezioni di morale, Kurt?!» strillò allora lei, sull’orlo di una crisi di nervi.

In tutta risposta, lui prese il suo viso tra le mani, lasciandole un bacio sulle labbra fredde “Non vorrai fare a gara di stupidità, spero. Non hai speranze contro di me.”

«Mia madre se n’è andata.» riuscì a borbottare lei, una realizzazione improvvisa e lancinante, ed ancora non le era uscita neanche una lacrima.

Chiuse gli occhi, e si lasciò chiudere in un abbraccio. 

“Rimettiti le scarpe, hai i piedi blu.”

 

I giorni che seguirono furono un piatto altalenarsi di lezioni che non ascoltava, pranzi mordicchiati o saltati del tutto, commissioni in uffici municipali e agenzie funebri e cene a base di pizza surgelata. I soldi che sua madre teneva da parte, tutti quanti, sarebbero bastati sì e no per la cremazione.

Dopodiché avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, per pagarsi da mangiare, senza contare il fatto che la loro casa era in affitto.

Andò all’obitorio, per assistere alla cremazione e ritirare le ceneri due giorni dopo, e il becchino le aveva fatto pagare solo quello che aveva, che formalmente non sarebbe bastato.

Lei e sua madre erano sole. I suoi nonni materni erano morti qualche anno addietro, ed erano stati seppelliti nel cimitero della chiesa dove si erano sposati, due stati più in là. Di certo non avrebbe potuto permettersi di pagare una zolla al camposanto accanto alla loro.

Optò per una soluzione più semplice, che sapeva sarebbe piaciuta a sua madre.

Raggiunse a piedi il vivaio ai bordi del paese, e comprò un piccolo vaso con una talea di quercia appena piantumata.

Aspettò ancora una settimana, come consigliato dalla commessa, per andare a piantarla, per darle modo di mettere radici in un terreno soffice.

Prese l’autobus appena uscita dall’accademia, raggiungendo un bosco dove da piccola lei e sua madre andavano a fare i barbeque qualche saltuaria domenica d’estate, e camminò fino a raggiungere un ampio spiazzo libero da alberi, dove il prato si riempiva di fiori colorati ed il sole ne illuminava il centro, sbiadendo ad ombra con l’avvicinarsi alle fronde.

Individuò il centro esatto, e con un piccolo trapiantatore scavò una piccola buca.

Vi svuotò all’interno l’urna, ricoprendo poi con uno strato sottile di terra. Dalla tracolla tirò fuori la piccola catenella che sua madre portava sempre al collo, uno degli effetti che le avevano restituito all’obitorio qualche giorno prima, e una bottiglia di vetro di coca cola, con al suo interno un foglio arrotolato. Niente di elaborato o altisonante, solo un foglio A4 con scritto a penna il testo di “Simple Twist of Fate”, la sua canzone preferita. Adagiò entrambi gli oggetti sul fondo della buca, per poi estrarre dal vaso di plastica la piccola quercia, ed insieme alla terra rimasta, andare a riempire del tutto la buca, aggiustando con attenzione il terriccio attorno al fragile stelo.

Approfittò del fatto che il sole sulle spalle rendesse sopportabile la temperatura, e rimase a sedere di fronte alla piccola pianta per qualche minuto.

«“They sat together in the park /as the evening sky grew dark, /she looked at him and he felt a spark tingle to his bones. /'twas then he felt alone and wished that he'd gone straight /and watched out for a simple twist of fate.”» cantò a mezza voce. Una carezza discreta si fece strada tra i suoi capelli.

“Hai avuto un pensiero bellissimo”

Annuì. Ne era abbastanza soddisfatta, sì. Si alzò in piedi, infilandosi la tracolla sulle spalle. Un ultimo sguardo alla piccola pianta verde, la speranza che potesse crescere indisturbata fino ad essere un bell’albero secolare, prima di riaddentrarsi nel bosco, reso surreale dal canto degli uccellini sulle fronde.

 

***

 

Comunicazione di servizio. In occasione di questo penultimo capitolo prima del gran finale, invito chi ha avuto la voglia e la passione di seguirmi in questa piccola avventura chiamata 'Night Time Daydream' a leggere un'altra delle mie FF, sempre nella sezione 'Nirvana'.
'And What If You...?', link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=914259&i=1

Grazie delle letture, delle recensioni e delle dolci parole, come anche a chi ha deciso di leggere questa storia in silenzio.
Grazie a tutti.

~melie

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Capitolo 9
*** No coming back ***


Nessuno dei datori di lavoro a cui aveva lasciato il curriculum l’avevano ancora richiamata. Quando aveva provato a rispondere a degli annunci su un giornale trovato sul tavolino di un bar, le avevano risposto che il posto era già stato assegnato, salvo poi scoprire che il giornale era della settimana prima. Tutto ciò che potesse fare ancora era prendere un giornalino all’agenzia di collocamento, ed è quello che fece. Ne sfogliava le pagine mentre addentava senza entusiasmo l’ennesimo pezzo di pizza surgelata.

“Ancora niente?”

«Nah. Cercano tutti persone con esperienza, oppure con disponibilità a tempo pieno.» rispose lei «Domani passo in centro e lascio un recapito a tutti i bar e ristoranti, qualcuno prima o poi chiamerà.»

“Ce la farai, vedrai.”

«Tu non è che puoi prestarmi qualche soldo?» chiese lei con umorismo amaro.

“È un po’ complicato.”

Qualche secondo dopo il piccolo giornalino si chiuse di scatto sotto ai suoi occhi, e lei alzò istantaneamente lo sguardo.

«Ehi!»

“Basta con questa roba, puoi cercare domani.” propose lui “Piuttosto andiamo a farci una passeggiata, forza.”

«Sono le undici e mezza, e fuori fa meno cinque.»

“Ah,” sussurrò lui “Già. TV, allora.”

Lei sbuffò, infondo infondo divertita «D’accordo.»

Passarono qualche ora a guardare tutti i documentari che Discovery Channel offriva, finché Unice non si accorse che le palpebre le si facevano pensanti.

«Mi sto addormentando.» informò.

“No, dai, stai sveglia con me.” pregò lui, e il televisore cominciò a cambiare canale “È questa roba che è soporifera. Cerchiamo un bel film horror.”

«Perché invece non spegni ed andiamo a letto?» butto lì lei, con un tono più sibillino del dovuto.

“Ma—” cominciò lui, interrompendosi.

Lei si era già alzata dal divano, buttando la coperta di lato, e si avviava verso la camera, chiudendo dietro di sé la porta.

Sbucciò il letto e vi s’infilò dentro.

«Kurt.» chiamò, la voce ridotta ad un filo, gli occhi chiusi.

Un corpo d’aria si parò con leggiadria sopra il suo corpo steso, delle dita s’intrecciarono ai suoi capelli e delle labbra umide e fresche si posarono sulla sua tempia per un bacio fuggiasco, sulla fronte per un altro, in mezzo al naso, sulla punta. Unice impaziente cercò le labbra con le sue, unendole in un bacio passionale, così passionale e così reale che il cuore le martellò in petto.

«Voglio sognarti.» mormorò in uno dei momenti in cui le loro labbra non erano sigillate l’una all’altra.

Lo sentì ridacchiare “Ancora un attimo.”

Lei allora si tirò su a sedere, riprendendo fiato per un attimo «Così non mi addormenterò mai.»

Le labbra di Kurt non smisero di cercare quelle della ragazza, racchiudendole in un altra serie di baci, finché lei non si lamentò debolmente «Kurt, voglio addormentarmi. Sul serio.»

Qualche secondo durante il quale l’immobilità del ragazzo lo rendeva impercettibile, poi un morso leggero sulla pelle del collo. “Prova a fermarmi.”

Lei rise «Sei un bastardo.»

“Sta zitta.” ribatté lui attraverso un sorriso soffocato dalla vicinanza della pelle pallida di lei.

Si sdraiò indietro sul materasso, la testa immersa nel cuscino morbido, gli occhi tenuti sistematicamente chiusi. Kurt continuava a ricoprirle la pelle di baci languidi, con sporadiche pause per posare un caldo bacio sulle sue labbra.

Sentiva una sua mano scorrere dalla spalla al fianco, un filo di unghie, fino a raggiungerle il ventre. Il suo sussulto venne soffocato dalle labbra di lui, che lo catturarono e lo insonorizzarono.

Il respiro della ragazza si fece più pesante, mentre muoveva il bacino per assecondare il tocco del ragazzo.

«Ti prego, fammi dormire.» supplicò lei, i denti stretti «Ho bisogno di poterti toccare.»

Dire una cosa del genere le sarebbe sembrato assurdo in ogni altra occasione, ma non in questa. Perché il senso era letterale.

Lui non rispose alla sua supplica, se non continuando il loro bacio senza fine, finché degli spasmi di piacere s’impossessarono del corpo della ragazza, che contrasse la schiena e la testa all’indietro, prima di rilassare l’intero corpo.

«Sei un bastardo.» sussurrò riacquistando fiato, il cuore che lentamente riprendeva fase.

“Ti amo.” furono le parole che dalla gola del ragazzo arrivarono alle orecchie di Unice, che rimase interdetta per un attimo, prima di sorridere e rispondere «Ti amo.»

Prese un bel respiro, e si voltò di fianco. Adesso era stanca sul serio.

 

Chiude gli occhi sul panorama della sua camera buia e li riapre su quello di un deserto arancio e azzurro. Si volta, e in piedi accanto a lei c’è Kurt.

«Ehi, ciao.» dice lei, gli occhi sorridenti.

«Bentornata.» la saluta lui, non ha lo sguardo così felice «Guardati nelle tasche.» aggiunge.

«Questo è un sogno.» scandisce lei in risposta, e come trasportata da quella frase in mondi lontani, sorride rapita, e gli prende la mano «Questo è un sogno!»

Non le piacciono i deserti. Troppo… deserti. E caldi. A lei piace il fresco, e dove si trovavano adesso era il suo habitat ideale. I loro piedi posano sul morbido muschio, e ogni qua e là delle pietre rotonde spuntano dal verde scuro. Sopra le loro teste si estendono le chiome intrecciate in fantastici disegni geometrici. I tronchi intorno a loro sono dritti, irrealmente levigati ed unicolori, e le radici si fondono al terreno zigzagando in tutte le direzioni.

«Dove siamo?» chiede il ragazzo, guardandosi intorno.

«Vediamo se indovini.» propone lei, e comincia a correre all’impazzata, come quasi mai riesce a fare nei sogni. All’improvviso prende lo slancio e salta. Salta più in alto di quanto sperasse di saltare, e senza fatica si aggrappa ad uno dei rami più bassi di un albero. Vi si issa su, e voltandosi verso il basso incita «Forza, vieni qui!» prima di voltarsi e arrampicarsi in alto per il poco di lunghezza che le serve per spuntare al di sopra della chioma. Il bosco crea un livello agibile al di sopra del terreno, ed è lì che trova Kurt, già lassù, che scruta il panorama.

Attorno a loro catene montuose in lontananza, e sporadiche città dai tetti colorati e tutti uguale, che si estendono per chilometri e chilometri quadrati, creando dipinti puntinisti di surreale bellezza.

«Mi hai portato in Giappone?» sorride lui, con una mano tra i capelli «Non me lo ricordavo così.»

«Tu ci sei stato?» lo raggiunge lei, sguardo strabiliato. Poi fa due più due ed autoconclude «Ci sei già stato.»

«Tu no.» autoconclude lui a sua volta, sorridendole.

«Forse dovrei lasciare a te le redini del sogno.» propone lei con una punta di sarcasmo «Così mi porti in un Giappone più verosimile.»

«Questo mi piace di più.» ammette lui, e con un braccio le cinge la vita e la tira a fianco a sé.

«È così che immagino il monte Fuji. Non razionalmente, intendo. Come mi piacerebbe, insomma… hai capito.»

«Ho capito.»

Si voltano entrambi verso destra, in risposta a un ridondante suono di tempesta.

Una nuvola grande quanto il cielo e nera come la pece si fa strada lenta, inghiottendo nell’oscurità qualunque cosa sotto di sé.

La ragazza non ci bada più di tanto, e propone «Andiamo a farci un giro in città.»

«D’accordo.»

Mentre intorno a loro scorrevano dapprima tronchi, poi cespugli, prati e case, Kurt si fece coraggio e le chiese «Come ti senti?»

«Bene.» rispose lei istintivamente, poi rettificò con un sorriso «Sono felice!»

«Davvero?»

«Perché no?»

«Niente.» tagliò corto lui, passandole il braccio sulle spalle, e dandole una leggera scossa affettuosa.

La città è un insieme simmetrico di case a due piani, tetti di tegole marroni coperte a tratti di muschio, dalle finestre di legno a quadratini e le pareti colorate dei più bei colori, con decori ghirigorati pitturati sopra.

«È bellissimo, qui.» Si fa sfuggire lei, mentre col naso all’insù adocchia i fili del tram. Ma sì, a lei piacevano i tram. Non c’erano, dove viveva lei.

«Le vedi tutte queste decorazioni, questi dipinti? Anche i colori. Li hai creati tu.»

Un sorriso soddisfatto si disegna sul volto di Unice.

Davanti a loro la strada si allarga in una piazza assolata, circondata da ciliegi in fiore e una grande spirale che dagli estremi si unisce in un vortice al centro.

Unice corre, come avrebbe fatto nella realtà, perché visitare posti nuovi è quello che le piace fare di più. Raggiunge il centro esatto e gira su sé stessa.

Kurt la raggiunge, ma guarda oltre le sue spalle, verso il cielo, che dal lato opposto della piazza sta diventando nero.

«Continuiamo!» lei lo tira per una manica della camicia che indossa, gentile concessione del sogno della ragazza.

Si incamminano proseguendo nella stessa direzione, verso un grande arco giapponese rosso.

«Forse dovremmo andare da qualche altra parte, Unice.» fa lui, non il più casual dei toni.

«Quella è una Torii!» fa lei, indicando la grande struttura di legno scarlatto.

«Perché lo dici al femminile?» Lei si ferma e si volta, l’aria pensosa. Poi si stringe nelle spalle con una risata «Suona meglio!» prima di riprendere a camminare.

«Non dovremmo passare sotto ad una Torii.»

«Perché no?» si volta di nuovo indietro verso di lui, lo sguardo torvo. «Andiamo!»

Comincia a correre e raggiunge i piedi dell’arco. Kurt le corre incontro, e lei lo aspetta un attimo prima di oltrepassare la sua volta.

Oltre la Torii le case sono fatte di legno scuro, e più si addentrano in quella strada buia e più le pareti vengono mangiate dall’umido e dalle piante rampicanti.

L’aria è fredda e pungente, tanto che Unice di porta le mani alle braccia.

«Torniamo indietro.» propone lui, ma senza successo, e lei continua a camminare. Sul suo volto però il sorriso sta scemando lentamente.

«Quella è la mia casa.» fa, senza distogliere lo sguardo dalla villa che si staglia contro il cielo pesto proprio di fronte a loro.

«La casa di mio nonno, ci andavo quando ero piccola.»

«Non dovremmo andare.»

Lei sentì le lacrime risalirle gli occhi «Lo so.»

Cammina verso l’entrata, un grande portone di legno e ferro battuto ed una porta vetrata subito dopo, e dentro è quasi buio.

Fa qualche passo all’interno e l’oscurità la inghiotte. Si spaventa, e chiama.

«Kurt! Dove sei?» la voce spaventata.

«Sono qui, torna indietro.»

«Credevo che nei sogni non potesse esserci buio.»

«Infatti.» ringhia lui allarmato, e la tira a sé per un braccio, fino ad estrarla dalla casa e chiudere la porta dietro di lei.

Lei ha la faccia sgomenta e atterrita «Che è successo?»

«Non lo so, ma è meglio tornarcene indietro.» fa lui, ma quando si voltano, la Torii non c’è più. Kurt rimane a cercarla con lo sguardo, e un filo di voce dipinge uno “shit” nel silenzio.

«Unice!» una voce chiama la ragazza alle sue spalle. Una voce familiare. Una voce astiosa «Unice, guarda chi si vede.»

Lei si volta, speranzosa «Sam! Sei qui!» grida di gioia, ma prima di scattare verso di lei s’interrompe sospettosa «Che ci fai, qui?»

«Sono venuta a fare visita al drogato.» risponde la ragazza con un cenno verso Kurt.

«Smettila.» impone Unice.

«Ehi, stronzo, perché non te ne sei rimasto nel tuo buco?» Sam sbotta, acida, cattiva.

Kurt non reagisce, e Unice gli afferra il braccio protettiva «Sam, per l’ultima volta, smettila.»

«È tutta colpa sua.» sibila la giovane, la piccola croce argentata che luccica sul suo petto.

«Vaffanculo, Sam.» si fa sfuggire Kurt, e lei sparisce. Sparisce sotto ai loro occhi.

«Dobbiamo andarcene.»

«Dove?» chiede lei, il respiro più affannoso.

Camminano veloci tornando da dove erano venuti, ma l’oscurità sembra inseguirli. Allungano il passo, cominciano a correre. Kurt è più svelto, e la tira per la mano.

Unice invece perde tempo a guardarsi intorno, tenendo d’occhio il panorama che cambia, che s’ingrigisce.

«Forza, Unice!» la incita, ma si rende conto che non serve a niente correre. Decide di tentare. Indica davanti a sé un punto qualsiasi, mentre lei è ancora voltata, e le urla «Guarda, un lago!»

Lei si volta, ed il lago c’è davvero. Ha l’aria spaventata, lui la tiene stretta in un braccio, le bacia i capelli.

Camminano vicini verso la sponda del lago che sembra incontaminato dalla tristezza della città, ma qualcosa attira l’attenzione di Unice. Qualcuno, seduto su una panchina a qualche decina di metri da loro.

Sua madre.

«Mamma!» urla, e fa per correrle incontro, ma lui la trattiene.

«Lasciami, Kurt! MAMMA!» urla più forte e la donna si gira. È sua madre, ma non è lei. La fissa con aria iraconda, piena d’odio.

«Non è tua madre.» gli sussurra lui, senza staccare gli occhi dalla donna.

La ragazza rimane atterrita, guarda quella donna sulla panchina quasi ringhiarle contro.

Quando quest’ultima si alza, lei si spaventa. Si nasconde dietro le spalle di Kurt.

«Ho paura.»

Lui si volta verso di lei, le aggrappa le spalle con una presa salda, la scuote appena «Questo è il tuo sogno, piccola, non può farti del male.»

La donna intanto si avvicina, lo sguardo che non promette niente di buono. Lui la tiene d’occhio e poi si volta di nuovo verso gli occhi terrorizzati della ragazza.

«Perché sta succedendo questo?» piange lei.

«Ascoltami bene. Ti ricordi quando ti ho detto che se non ti fossi sfogata saresti crollata, prima o poi?»

Lei annuisce, buttando uno sguardo oltre le spalle di Kurt.

«Sta succedendo adesso, Unice.»

Lei punta i suoi occhi colmi di lacrime di paura in quelli azzurri e profondi di lui.

«Cerca di calmarti.»

Una lacrima scende sulla guancia, lei piange un «Non ce la faccio.»

Lui si volta, la donna li ha quasi raggiunti, senza troppa fretta, perfetto remake di un film di zombies «Dobbiamo allontanarci.»

Lei tira su col naso, e indica l’acqua. «Mamma non sa nuotare.»

Lui annuisce, ed insieme corrono verso la riva, scavalcando con un salto la recinzione di legno. Si tuffano dalla sponda come da un trampolino olimpionico, entrando in acqua senza suoni né schizzi. Ritornano a galla, senza bisogno di muovere mani o piedi per tenersi su, e sulla riva non c’è più nessuno. A dire il vero non c’è neanche la riva. Attorno a loro c’è solo acqua, e un cielo che diventa sempre più scuro, da tutti i lati.

«Unice, sei tu che crei tutto questo.» Kurt la scuote, cercando di farla rinsavire. Ma quando lei lo guarda non c’è paura nei suoi occhi, solo tristezza e lacrime che si confondono con l’acqua del lago.

«Unice.» la chiama, il tono basso «Smettila.»

Lei tira su col naso e scuote la testa.

Un lampo di terrore s’impossessa del ragazzo, e cerca di afferrare la mano di lei, che però all’improvviso è troppo lontana. La faccia gli si incrina in una supplica «Ti prego.»

È troppo tardi, lei ha fatto la sua scelta. Un ultimo sguardo triste, e poi giù, finché anche i suoi capelli scompaiono per ultimi nell’acqua.

«NO!» urla Kurt, nuota verso il punto dove lei è sparita, e poi s’immerge anche lui. Lei è lì, poco più sotto del pelo dell’acqua, la stessa espressione in viso se stesse aspettando il bus alla fermata. L’avvicina, le prende il viso tra le mani, le parla, poco importa se sono sott’acqua.

«Piccola, respira.» Lei non reagisce. Lo guarda, accenna un sorriso.

«Siamo in un sogno! Puoi farlo! RESPIRA!» urla, scuotendola premendo coi pollici sui suoi zigomi, senza ricevere risposta.

In preda al panico, si lascia sfuggire una lacrima. «Unice…» sussurra con voce rotta, prima di appoggiare le labbra sulle sue, fresche. Non si schiusero. Ma lei gli portò le mani attorno al collo, e lo strinse a sé, senza interrompere il bacio.

Kurt tenne gli occhi aperti, mentre attorno a loro, come inchiostro di seppia il buio li circondava. Pianse un’altra lacrima nell’oceano, prima di chiudere gli occhi e stringere le sue braccia attorno a lei. Un tentativo di protezione senza troppe pretese. 

Il buio arrivò ad inghiottirli.

 

L’alba arrivò entrando dalla finestra, scorrendo dal muro giù fino al cuscino dove il viso di Unice era posato. La coperta ormai finita per terra, il suo corpo in posizione scomposta, la bocca appena dischiusa. Nessun respiro.

L’espressione serena dipinta sul viso come un’opera d’arte.

 

Lei alza lo sguardo dalla pagina del suo sketchbook. Inclina la testa, poi sorride soddisfatta. Un piccolo uccellino, un usignolo o un pettirosso svolazza in mezzo alla pagina, ogni piuma disegnata a parte, e nel becco un dente di leone che perde petali lungo il tragitto.

Chiude lo sketchbook con la matita in mezzo, e lo posa sull’erba accanto a sé.

«Di solito quando disegno nel prato quando finisco mi ritrovo ricoperta di formiche.» sussurra all’uomo sdraiato a fianco a lei. I suoi capelli biondi e sbarazzini si perdono in tutte le direzioni fino a confondersi con gli steli dei fiori.

Poco distante da loro, il maestoso tronco di un platano si alza da terra, ospitando tra le sue immense fronde la loro casa sull’albero.

Lei si sdraia, posa la nuca sulla spalla dell’altro.

In silenzio guardano il cielo limpido e le nuvole d’avorio sopra di loro.

«Ti amo.»

 

*** Fine ***

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