Liverpool. I always followed my heart, and I never missed a beat.

di Blackbird_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Now you're coming, you're coming on home. ***
Capitolo 2: *** I can't forget the time or place that we'd just met. ***
Capitolo 3: *** When it rains and shines it's just a state of mind. ***
Capitolo 4: *** Some of that Rock'n'Roll music. ***
Capitolo 5: *** Somebody spoke and I went into a dream. ***
Capitolo 6: *** Tell me, oh what can I do? ***
Capitolo 7: *** I never realised what a kiss could be. ***
Capitolo 8: *** You better wait a minute. ***
Capitolo 9: *** Beneath this mask I am wearing a frown. ***
Capitolo 10: *** Go with him. ***
Capitolo 11: *** In the END the Love you take is equal to the Love you made. ***



Capitolo 1
*** Now you're coming, you're coming on home. ***


I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore.
(Jacques Prévert - 1946)


Con la stilografica poggiata fra il naso e le labbra continuavo a rileggere questa poesia. Mi piaceva quando a scuola analizzavamo poesie recenti, le trovavo decisamente più coinvolgenti, a volte anche più vicine ai miei stati d’animo. Gli esercizi di analisi ero riuscita a completarli in un batter d’occhio in classe, era il componimento che mi metteva in crisi. Pensavo e ripensavo a cosa poter inventarmi, lasciando vagare lo sguardo per la mia camera. Sbuffando tornai a rileggere la traccia del tema.
“Racconta della tua esperienza, del tuo primo amore”
Avrei dovuto escogitare qualcosa al più presto. Non potevo trascorrere un intero pomeriggio dietro a uno stupido esercizio di letteratura. Proprio non sapevo cosa inventarmi, quello era il mio problema. La signorina Parr di certo si sarebbe informata presso le nostre famiglie per sapere se i nostri racconti erano realtà o meno. Secondo lei le nostre famiglie dovevano essere costantemente aggiornate sulla nostra vita sentimentale, forse era per questo che ci lasciava questo genere di lavori per casa. Che ragionamento antico ed impostato. Non la sopportavo, proprio no. Mrs Parr, inoltre, odiava le bugie. Se avessi scritto qualcosa di mia totale fantasia di certo mi avrebbe punito in qualche modo. Ebbi un sussulto al solo pensiero.
Presi la matita e scrissi in un carattere enorme ma decisamente molto poco marcato “Zitellaccia acida perché diamine non si fa gli affari suoi e non pensa a trovarsi un marito?”. Sorrisi ad immaginare la faccia dell’insegnante se mai avesse dovuto leggere una cosa del genere al posto del suo desiderato componimento ordinato. Lo cancellai immediatamente.
Guardai fuori della finestra. Pioveva, che novità.
Tornai sul foglio. Incredibile quanto fosse scarsa la mia capacità di concentrazione.
Quando il mio sguardo finì nuovamente oltre la finestra mi alzai in piedi, arresa. Non era proprio il momento per eseguire quel compito. Il mio cervello si rifiutava di produrre qualcosa di vagamente leggibile. Semplicemente mi rifiutavo di far sapere le mie vicende sentimentali alla signorina Parr. O forse era più il fastidio di esserne totalmente sprovvista? Non volevo di certo spifferare al mondo intero di essere una zitella senza speranze che in breve tempo sarebbe diventata acida come la professoressa.
Raggiunsi il salone e occupai il telefono prima che ci potesse arrivare qualcun altro della famiglia.
“Pronto?” la voce incuriosita della mia amica mi fece sorridere. Ero stata fortunata che mi avesse risposto proprio lei, mi metteva sempre in imbarazzo dover dialogare con i suoi genitori.
“Sun, sono io…”
“Oh Ray! Sai ti stavo proprio per chiamare, ho una notizia bomba”
Mi faceva impazzire l’esuberanza di Sun, riusciva sempre a mettermi di buon umore. Poi era sempre piena di notizie bomba, lei.
“Bè, spero che stavolta sia davvero una bomba, non come l’ultima volta che la tua ‘grande notizia’ era il fatto che avessi imparato a cuocere le uova al tegamino” le risposi con il mio solito tono sarcastico.
“Antipatica. No stavolta è una bomba bella grande, viene direttamente da Ted”
Ted era il suo adorabile fratellone. Si passavano tre anni ed in casa erano come cane e gatto, ma lui le permetteva sempre di uscire con la sua comitiva. E dato che io e lei eravamo inseparabili, Ted permetteva anche a me di stare con loro. In fondo le voleva un mondo di bene, ed era decisamente iperprotettivo nei confronti della sorella. E anche nei miei. Dopotutto eravamo le più piccole della compagnia. Eravamo quasi diventate le loro mascotte.
“Allora è qualcosa di buono, sputa il rospo” ero curiosa, ma non volevo darglielo a vedere. Ma se n’era accorta, riusciva a leggere ogni minima sfumatura della mia voce, chissà come faceva.
“Indovina un po’ chi sono tornati ieri da Amburgo?” il suo tono di voce semi ammiccante mi fece ridere. Ma quando realizzai cosa mi aveva detto rimasi senza parole.
“Non è che conosco molta gente che è partita per Amburgo, sai com’è” forse se avessi utilizzato il mio solito tono sbeffeggiante avrebbe capito che non m’interessava più di tanto. Ma lei sapeva bene che m’interessava, m’interessava eccome.
“E’ inutile che mi smonti le notizie, io sono serissima”
“Maddai, sono tornati davvero?”
La sentii sorridere oltre la cornetta.
“Che non ti fidi? Certo che sono tornati! Proprio ieri. E oggi Teddy e gli altri hanno deciso di uscire e di andare in non so che locale per festeggiare”
Ero raggiante. Era passato tantissimo tempo da quando erano partiti. Chissà stavolta per quale stupido motivo erano tornati in Inghilterra. L’ultima volta li avevano praticamente riportati indietro a calci gli sbirri tedeschi. Speravo che non avessero combinato di nuovo qualche danno.
“Ho anche preso la briga di auto invitarci, ho fatto male?”
Feci di no con la testa, come se potesse vedermi. “Al contrario, hai fatto benissimo”
“Bene…” continuò “… ora dimmi per quale arcano motivo m’hai chiamata prima tu”
Me ne ero completamente scordata tanto scossa dalla novità. “Giusto” replicai “sono in crisi componimento per quella zitellona della Parr. Tu cosa ci hai scritto?”










Questa è una storia che ho iniziato a scrivere nell'estate 2010. Paradossalmente la considero la storia a cui sono più affezionata, nonostante io abbia scritto, fin'ora, solamente i primi quattro capitoli.
Ma ora che l'ispirazione è tornata, a quasi due anni di distanza, spero di riuscire finalmente a darle una fine.
So che come primo capitolo è abbastanza breve. ma all'epoca ero abituata a scrivere capitoli brevi e concisi... non me ne vogliate :)
Spero che quest'inizio vi incuriosisca.
Un bacio a tutti,
Blackbird_

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Capitolo 2
*** I can't forget the time or place that we'd just met. ***


Pioveva, ancora. E faceva decisamente molto freddo per essere solamente a settembre. Mi appoggiai al portone del mio palazzo per non bagnarmi e mi strinsi su me stessa per evitare che il calore si disperdesse troppo.
Erano in ritardo. La cosa non mi sconvolgeva affatto, quando si trattava di Sun erano sempre in ritardo. Poi questa sarebbe stata una serata speciale, e di certo quella pazza avrebbe perso ancora più tempo nei preparativi.
Quando finalmente riconobbi i fanali dell’automobile di Ted mi fiondai in strada e salii a bordo. Nemmeno dieci secondi sotto la pioggia ed ero già zuppa. Maledetta pioggia inglese. Salutai con un frettoloso ‘ciao’ tutti i passeggeri della vettura ed iniziai a guardarmi nello specchietto retrovisore per cercare di salvare il salvabile. Sembravo un pulcino bagnato, maledizione.
Stavo inutilmente cercando di eliminare i segni della matita nera che colava dagli occhi quando Sun infilò la sua cara testolina riccioluta fra me e lo specchietto. “Sei bella ma non invisibile, mia cara” puntualizzai con una smorfia, e la feci spostare. “Mi spieghi da quando in qua ti conci così per uscire con la comitiva? E da quando sei diventata una maniaca dello specchio, soprattutto” mi rispose incrociando le braccia. Ero irrecuperabile, ormai quel poco trucco che mi ero messa era decisamente andato a quel paese. Ci rinunciai e mi sedetti comoda sul sedile, guardando la mia amica. “Ho messo la prima cosa che ho trovato nell’armadio” la sua faccia da bambina capricciosa mi lasciò intuire che finché non avrei risposto alle sue domande non avrebbe proferito parola. Mi indicai i capelli gocciolanti “E per lo specchio… a te piacerebbe uscire con i tuoi amici conciata così? Mi scambieranno tutti con un panda con un ammasso di stoppa in testa, stanne certa”. Dai sedili posteriori Ted ed il suo amico iniziarono a sghignazzare. Mi affacciai leggermente oltre il sedile per appurare chi fosse l’altro passeggero. Prima ero stata troppo occupata a sistemarmi per notare chi fosse.
“Richard Starkey sei pregato di non ridere delle mie disgrazie” sapevo quanto gli desse fastidio essere chiamato per nome e cognome, ed io mi dilettavo ad infastidirlo. Ted iniziò a ridere ancora più forte, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada bagnata, mentre Ringo si voltò a guardarmi. "Comunque hai ragione, sembri uno spaventapasseri con questi capelli" Gli feci la linguaccia e gli diedi una botta affettuosa sulla testa. "Oh grazie tante, Richie" gli risposi, e tornai rapidamente alla mia amica "Lo dice pure lui che sono orribili, e se lo dice lui vuol dire che sono inguardabile sul serio". "Cosa vorresti dire con questo?" borbottò Richard col suo vocione, ma non ricevette alcuna risposta né da me né da nessun altro e, sconsolato, tornò a fare compagnia all'amico guardando la strada. Nel frattempo Sun, raggiante, iniziò a darmi una mano nel rendermi accettabile. Si divertiva spesso a canzonarmi per i miei capricci, ma quando si trattava di darmi una mano era sempre la prima. Saperla sempre pronta ad aiutarmi mi trasmetteva sicurezza, e lei sapeva bene che anch'io avrei fatto lo stesso per lei.
Alla fine del tragitto potevo ritenermi soddisfatta del risultato. E aveva anche smesso di piovere, ma guarda un po'.
L'entrata del Cavern era semi vuota ed esistevano solo due possibili motivazioni a questo strano avvenimento: o per quella sera non era prevista alcuna esibizione particolare, o erano già tutti dentro. Speravo vivamente che la prima opzione fosse quella giusta. Non sopportavo stare in mezzo alla gente, mi rendeva ansiosa e spesso avevo come l'istinto di uccidere tutti. Un ragionamento poco consono per una ragazza della mia età, ne ero totalmente consapevole, ma io ero diversa da gran parte delle ragazze. Mi piaceva distinguermi, e come me anche Sun. Dopotutto già il fatto che uscissimo con dei ragazzi più grandi di noi e non con i nostri fidanzati-quasi mariti ci differenziava da chiunque altra. Ma noi eravamo così, preferivamo divertirci finché possibile. L'amore era una questione che non ci riguardava.
"Teddy sono già arrivati gli altri?" chiese la mia amica al fratello tirandolo per una manica. "Cosa vuoi che ne sappia io?" rispose quello, vistosamente scocciato "Mica ho la palla di vetro". Sconsolata Sun tornò al mio fianco e si appoggiò alla parete di mattoni rossi come me. Ci raggiunse Ringo che, molto più cordiale dell'amico, iniziò a consolarla. "Perchè non scendete a controllare se sono già dentro?" ci propose. Ovviamente non glielo facemmo ripetere due volte.
Camminammo fino all'ingresso buio del locale e scendemmo lungo delle scalette strette. In poco tempo ci trovammo sottoterra, nel cuore del Cavern. L'aria era indubbiamente pesante e pervasa da una perenne puzza di sudore e muffa. In un angolo del soffitto gocciava acqua in abbondanza, dall'umidità che c'era. Cercai di non farci caso, respirando con la bocca e cercando di tranquillizzarmi. Sbuffai. "Non sopporto questo posto" mi lamentai. "Non capisco proprio cos'hai contro il Cavern, è così bello". Cos'era che avevo contro il Cavern Club? Soltanto che era: brutto, sporco, squallido e ci girava gente “poco raccomandabile”. Ma forse tutto ciò non bastava per fermare Sun.
Iniziammo a guardarci intorno frettolosamente. Proprio come temevo il locale era pieno di ragazzi sudaticci che bevevano e ballavano senza sosta. Trovare gli altri di certo non sarebbe stata cosa facile. Posai di sfuggita lo sguardo su Sun e notai che si era vestita meglio del solito, fra il casual e l’elegante. Scelta piuttosto bizzarra per una serata in un locale del genere.
“Come mai ti sei acchittata stasera?” le chiesi ammiccante, dandole delle leggere gomitate sul fianco. Arrossì. Me ne accorsi nonostante la cupezza del Cavern. “Come se non lo sapessi” mi rispose con un filo di voce. Aveva ragione, sapevo esattamente del perché di quella scelta. “Per Paul?” domandai retoricamente e mi accontentai di un suo sguardo per capire che avevo indovinato.
Paul era un ragazzo della comitiva di Ted, nonché uno dei nostri quattro amici di ritorno da Amburgo. Dai profondi occhi fra il verde ed il nocciola era il classico belloccio della situazione, sempre circondato da decine di ragazze, ma dall’egocentrismo spropositato. Sun era cotta di lui fin dalla prima volta che eravamo uscite con loro. Ovviamente lui non la considerava più di una amica, o una delle tante che gli morivano dietro. Ted non sopportava il fatto che alla sua dolce sorellina piacesse un ragazzo tre anni più grande di lei, ed ogni volta che iniziavano a parlarne finivano col litigare. Lui tirava fuori il concetto dell’età, e lei puntualizzava che gli anni di differenza non erano tre, ma solamente due. A quel punto Ted, stizzito, lasciava puntualmente cadere il discorso, e non se ne parlava più per giorni. Effettivamente vedendo le loro litigate dal di fuori era abbastanza divertente, ma conoscendo abbastanza la mia amica sapevo perfettamente quanto ne soffrisse ogni volta. La sua unica valvola di sfogo era parlarne con me.
“Chissà se un giorno mi ascolterai e lascerai perdere quel cretino” la ammonii. Non che lui non mi andasse a genio, anzi lo adoravo, ma vedere come stava inconsapevolmente distruggendo la mia amica mi mandava letteralmente il sangue al cervello. “Guarda Ringhie, lui ti tratta come una principessa, perché non gli dai una chance?” proseguii. “Ted non vorrebbe” mi rispose automaticamente. Come se le fossero mai interessate le decisioni del fratello.
Lasciando cadere il discorso proposi alla mia amica di dirigerci verso il bancone con l’idea che da lì avremmo avuto la marmaglia di gente sotto controllo e avremmo di certo trovato gli altri più facilmente. In realtà avevo solamente una gran voglia di birra. Quella era decisamente l’unica cosa che mi andasse a genio di quel locale. Che ragazza scapestrata, se qualche componente della mia famiglia mi avesse vista mi avrebbe di certo disconosciuta e diseredata immediatamente.
Sun prese il suo solito succo di frutta continuando a guardare fra i ragazzi presenti mentre io bevevo avidamente la mia birra. “Non credi che bere birra come uno scaricatore di porto sia un comportamento poco consono ad una dolce donzella come te, Rebecca?”. Quel modo di chiamarmi, quel tono sbeffeggiante e quella voce vagamente roca apparvero inconfondibili alle mie orecchie. Poggiai sul bancone il mio boccale ormai semi vuoto e mi voltai a fissare gelida il ragazzo che aveva appena parlato. Ovviamente avevo indovinato. “Non credo che questi siano affari che ti riguardano, Lennon” replicai, fredda come ogni volta che venivo presa di mira. Il trasformarmi in un cubetto di ghiaccio era la mia unica via di difesa, un po’ come il riccio quando si appallottola su sé stesso alla vista di un potenziale predatore. Come al solito aveva il suo stupido sorrisetto stampato su quella faccia da schiaffi. Sembrava davvero molto divertito. “E mi sembra anche di averti detto circa un centinaio di volte che non devi chiamarmi in quel modo”. Come se gli avessi appena raccontato una barzelletta scoppiò a ridere. Pur di non rispondergli in malo modo ripresi la mia birra e la finii in un unico sorso. Maledizione a lui e alla sua risata snervante. Nel frattempo la mia amica, stufa di cercare qualcuno che nemmeno era certa fosse lì, si voltò verso di me per dirmi non so cosa. Appena notò il mio disturbatore gli si attaccò letteralmente al collo. I loro soliti convenevoli ‘come stai?’ e ‘come è andato il viaggio?’ mi davano la nausea, e cercai di evitarli il più possibile fissando i due bicchieri vuoti poggiati sul bancone. Forse avevo bevuto troppo in fretta, lo stomaco stava iniziando a bruciarmi. O forse era semplicemente il nervoso. Dopo pochi minuti passati totalmente immobile con lo sguardo perso nel vuoto mi voltai verso i due. “Allora, come mai sei qui tutto solo? Gli altri che fine hanno fatto?”. Come se glielo avessi appena fatto ricordare, John scoppiò nuovamente a ridere. “Ted mi ha mandato a cercarvi, noi siamo tutti su. Conoscendo i soggetti immaginavo di trovarvi qui” mi fece l’occhiolino e tornò a ridere. Sun, ovviamente, lo seguì a ruota. “Non sei affatto spiritoso, sai?” puntualizzai incenerendolo con lo sguardo. “Suvvia Rebecca, Sun sta ridendo. Forse sei tu quella con poco senso dell’umorismo, qui in mezzo?”. Non gli risposi nemmeno e mi alzai dal mio sgabello, invitando la mia amica a fare lo stesso. Nel frattempo quella sottospecie di impiastro si mise alla guida della ciurma, continuando ad urlare “Coraggio Raggio di Sole, seguitemi!”, ridendo come un pazzo. Raggio di Sole, era così che ci chiamava quando era in vena di scherzi ed io e Sun stavamo insieme, quindi la cosa accadeva molto spesso. Ed io, ovviamente, non lo sopportavo.
Quando John fu abbastanza lontano da non poter ascoltare i nostri discorsi la mia amica mi diede una gomitata per attirare la mia attenzione. Quando posai il mio sguardo su di lei mi guardava con fare sospetto. “Ma che ti piace Lennon?” mi chiese indiscreta. “Meno lo vedo e meglio sto, dovresti saperlo” replicai, scioccata da quella domanda. “E allora perché sei tutta rossa?” continuò lei, senza sosta. Involontariamente portai le mani sul viso. Sun scoppiò a ridere ed io la incenerii. “Sarà la birra, o il nervoso che mi sta facendo prendere”. La sua occhiata mi lasciò intuire che le mie stupide giustificazioni di certo non l’avrebbero soddisfatta. Doveva e voleva avere ragione lei su tutte le mie questioni amorose, come sempre. Le sorrisi timidamente e finalmente fummo fuori dal Cavern.
A pochi passi dall’entrata, poggiati sui gradini di una villetta, c’erano gli altri. John, arrivato pochi istanti prima di noi, era già intento ad infastidire Paul, cosa che gli riusciva sempre perfettamente. Ted, Ringo, Maxwell e Pete erano impegnati in un discorso di non so quale natura, mentre George li ascoltava trangugiando biscotti. Quel ragazzo era incredibile, la sua capacità di mangiare ovunque mi faceva sempre sorridere. In effetti la comitiva non era stata la stessa, senza quei quattro. Senza l’egocentrismo spropositato di Paul, George e il suo appetito cronico, la solarità di Pete e l’invadenza di John. Mancava solo Stuart e poi saremmo stati al completo, peccato che lui fosse ormai partito per Londra per inseguire il suo sogno di pittore all’accademia di arte. Anche Astrid, la ragazza/quasi moglie di Stu, ci mancava un sacco. Lei e le sue strambe idee sulla moda. Era per causa sua che ora quei quattro pazzi liverpooliani appena tornati da Amburgo presentavano il medesimo bizzarro taglio di capelli. Erano davvero buffi a guardarli.
Senza pensarci troppo io e Sun ci sedemmo vicino a George che, sorridendoci, ci porse i suoi biscotti. Gentilmente rifiutai, mentre la mia amica ne agguantò velocemente uno. “Come mai siete già tornati dalla Germania? Spero non abbiate combinato guai come l’ultima volta” gli chiesi. Lui mi guardò, raggiante per il mio interessamento, e si ficcò in bocca un altro biscotto. “No stavolta niente del genere” mi rispose masticando e sputacchiando briciole da tutte le parti “il nostro manager si era stufato del nostro scarso successo e ci ha abbandonati a noi stessi. E poi il proprietario del Cavern ci aveva proposto qualche serata dedicata a noi, non ci siamo lasciati scappare l’opportunità”. “Magari così trovate un nuovo manager che vi farà fare qualche provino per le etichette discografiche, no?” aggiunse Sun. George annuì sorridente e tornò a guardare gli altri. “Non sarebbe affatto male un provino, magari è la volta buona che sfondiamo sul serio” ammise. Come se fosse stato il cucciolo di un qualsiasi animale iniziai a carezzarlo sulla testa. “Sfonderete sicuramente e magari diventerete famosi in tutto il mondo e cambierete la storia della musica e…” “Frena, frena Ray!” mi interruppe lui ridendo “non starai correndo un po’ troppo?”. Non gli risposi. Vedendomi pensierosa proseguì “Ora a noi basta avere un’etichetta sulle spalle per poter produrre qualcosa di nostro, tutto qui”. La sua infinita pacatezza tranquillizzò la mia mente che, fino a un attimo prima, vorticava come una trottola producendo dei film da Oscar.
Iniziai a guardare gli altri, in silenzio. Pete stava raccontando degli aneddoti divertenti provenienti da Amburgo, ma non riuscivo a capire se gli altri ridessero più per quelli o per John se si stava dilettando a fare il cretino intorno a loro. Paul era l’unico in disparte, silenzioso, che guardava il cielo nero e senza stelle. “Cos’ha Paulie?” chiese Sun fingendosi poco interessata. George scrollò le spalle. “Probabilmente gli manca Barbara” le rispose senza pensarci troppo. Alle nostre occhiate incuriosite scoppiò a ridere. “Sono stati insieme praticamente tutto il tempo che siamo stati in Germania, sembrava una cosa seria. Giuro di non aver mai visto il Macca così preso da una ragazza”. Istintivamente guardai la mia amica che, piano piano, si stava incupendo sempre più. “Si sono dovuti lasciare per via della distanza. Poi lei aveva paura che avessimo troppo successo. Fatto sta che, a mio avviso, se lei fosse venuta a vivere a Liverpool poco ma sicuro si sarebbero sposati” terminò lui posando a terra la busta dei biscotti ormai vuota e accendendosi una sigaretta. Strozzatici, con quella sigaretta, Harrison! Per un millesimo di secondo lo odiai per averci raccontato il tutto così dettagliatamente. Mi ripresi subito, in fondo non era colpa sua. Nessuno, oltre a me e a Ted, era a conoscenza dell’infatuazione di Sun per Paul. Dovevo fare assolutamente qualcosa per far tornare su di morale la mia amica. Dopo pochi istanti ebbi l’illuminazione.
“Ehi voi, non vorrete mica mettere le radici qui davanti, spero! Perché non andiamo a farci un giro?” urlai all’intera compagnia. Tutti mi fulminarono con lo sguardo. “E, sentiamo, dove vorresti andare?” mi minacciò Ted. Feci finta di pensarci un po’ su “Una passeggiatina in spiaggia?”. Sun saltò in piedi ed iniziò a saltellare senza sosta intorno al fratello, insistendo di andare. Le era improvvisamente tornato il sorriso. Ted era molto titubante, ma alla prima parola di Ringo per convincerlo ad andare sorrise. “E andiamo, il Cavern sembra un ovile questa sera!”. Scoppiammo tutti a ridere e ci dirigemmo verso la spiaggia.




Ecco qui finalmente anche il secondo capitolo! Non me ne vogliate ma avendo mille impegni e non riuscendo a scrivere molto sono costretta a pubblicare con cadenza settimanale (ogni sabato, quindi)
So' bene che Ringo non era amico dei ragazzi da prima che entrasse nella band, ma avevo bisogno di metterlo in qualche modo nella storia: lo adoro troppo per lasciarlo in disparte solo perchè nell'anno in cui è ambientata la fic ancora non era un Beatle anche lui! :3
Bè... Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
Grazie a tutti per le recensioni ricevute... sono davvero un tesoro per me che mi faccio mille problemi su quello che scrivo!
A presto :)

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Capitolo 3
*** When it rains and shines it's just a state of mind. ***


La spiaggia era immensa. Le grandi onde si infrangevano su di essa senza fatica, spinte inesorabilmente dal forte vento, facendo un gran baccano. La sabbia era intonsa, sembrava di stare camminando sulla luna. Saranno state ore che nessuno passeggiava da quelle parti. Il terreno scuro era più soffice del solito, dovuto alle mareggiate e all’incessante pioggia dell’intera giornata. Di tanto in tanto qualche piccolo gruppo di gabbiani planava faticosamente sul bagnasciuga per riposarsi e cercare qualcosa da mangiare. Stridevano come pazzi, e se non fosse stato per loro avremmo di certo creduto di trovarci in un pianeta totalmente disabitato. Le loro erano le uniche impronte presenti sulla sabbia, oltre a quelle che stavamo creando noi. Persino il porto, sempre saturo di gente, appariva stranamente vuoto da lontano. Il cantiere navale era evidentemente chiuso perché non c’era ombra del fumo grigio che era solito uscire da quegli enormi comignoli.
Stupidamente saltellavamo da un angolo all’altro della spiaggia per smuovere la sabbia e fare più impronte possibili. Quando la terra è inesplorata, inabitata, si ha come la necessità di renderlo tuo, per dire “ei, mi dispiace non siete i primi ad aver scoperto questo paradiso, sono arrivato prima io!”. Solo tu hai la voglia e il bisogno di conoscere l’aspetto incontaminato di quel posto. Tanta è la gelosia di quel ricordo da volerlo rendere diverso a chi verrà dopo di te. Forse in futuro l’uomo farà così anche con lo spazio: scoprirlo e lasciare un proprio ricordo di sé, per le generazioni a venire.
“Ray, a cosa pensi?” mi domandò Pete mentre, pensierosa, continuavo a saltellare e a creare piccole impronte. “A quando l’uomo andrà sulla luna. Dici che farà come stiamo facendo noi qui?” risposi sorridente. Lui scoppiò a ridere “Togliti questa strana fantasia dalla testa, piccola pazza, l’uomo non andrà mai sulla luna”. Senza lasciarmi tempo di rispondere si allontanò rapidamente. Forse avevano ragione tutti quanti, la mia fantasia era decisamente sempre troppo libera.
Mi voltai verso Sun che, stranamente, non era al mio fianco. Non era arzilla come al suo solito, passeggiava svogliatamente guardando gli altri saltare. Di tanto in tanto la sua bocca si contraeva in un piccolo sorriso, ma sapevo benissimo che quella non era la mia amica. Mi fermai immediatamente e la raggiunsi. “Ehi porchetta, che cos’hai?” le chiesi prendendola sottobraccio. “Sono stanca” mi rispose sbuffando. Magari fosse stato solo quello. Ma se in quel momento preferiva non parlarne, non avevo alcuna intenzione di forzarla. Odiavo quando creava quella corazza inattaccabile attorno a sé, ma non potevo farci niente. Ridendo mi misi dietro di lei ed iniziai a spingerla “Coraggio bella addormentata nel bosco, Stump è qui vicino”. Stump, come lo chiamava gran parte della popolazione di Liverpool al di sotto dei trent’anni, era un enorme tronco portato fino in spiaggia dalle correnti di molti anni prima. Dopo essersi arenato sulla nostra battigia, nessuna tempesta era più riuscita a portarlo via. Dopo molti anni dal suo arrivo era reputato uno dei simboli della città, per noi giovani, nonché un punto di riferimento per tutti. Lo si utilizzava anche per dare indicazioni ‘porto alle spalle, poco prima di Stump’. In fondo era divertente poterlo infilare in ogni conversazione. ‘Stump di qua’, ‘Stump dillà’. Erano soprattutto i ragazzi a nominarlo spesso. Dandogli un nome un po’ ambiguo si divertivano a scherzare fra di loro con frasi a doppio senso che, spesso e volentieri, né io né Sun capivamo. E quando erano anche particolarmente in vena di scherzi, lo chiamavano Stu, prendendo in giro Stuart.
Ai piedi di Stump c’erano i resti di un falò. Evidentemente la sera precedente qualche pazzo aveva sfidato la sorte ed il meteo per stare in compagnia dei propri amici. In fondo noi non eravamo tanto lontani da quell’idea, quella sera. Sun si sedette sull’enorme tronco, divenuto quasi bianco per via della salsedine e delle insistenti precipitazioni inglesi. “Voi continuate pure, io e Sun restiamo un po’ qui” dissi sorridente agli altri. “Ehm… Ray?” era la prima volta che sentivo Paul pronunciare parola da quando era arrivato al Cavern. “Se vuoi continuare a passeggiare vai pure, faccio compagnia io a Sun”. “Sicuro?” insistetti. “Sicurissimo, stavo aspettando di arrivare qui per fermarmi comunque”. Dopo uno sguardo d’intesa con la mia amica, lasciai spazio a Paulie alla sinistra di Sun e mi affiancai a Ted che, borbottando, riprese a camminare. Né io né lui ci fidavamo troppo a lasciarli lì soli. Lui perché temeva che l’amico potesse fare il Don Giovanni con sua sorella come con tutte le ragazze che le capitavano sotto tiro, ed io perché non volevo che la mia amica si illudesse troppo. Ma, dopotutto, due chiacchiere innocenti con lui non le avrebbero di certo fatto male. Peggio di così quella sera non poteva andare, in fin dei conti.
Lungo la nostra passeggiata incontrammo due gabbiani che si contendevano un pezzo di pesce puzzolente. Molto probabilmente venivano dal porto. Chissà cosa ci trovavano di così buono in quel pezzo rancido di cibo. Magari era la cosa più buona del mondo, per loro, ma a me continuava a disgustare. Accelerai il passo fino a raggiungerli, e li guardai mentre, terrorizzati, volavano via. Il pesce era rimasto lì sulla sabbia, forse non era poi così prelibato. “Ehi Reb, perché spaventi i piccioncini?” mi urlò contro John. Mi fermai e lo guardai sconcertata. “Erano gabbiani, John”. Mi mise il braccio sulle spalle e tornò a camminare. “No, no, erano due piccioncini. Proprio come noi!”. Lo fulminai con lo sguardo e tentai con tutte le mie forze di togliermelo di dosso, con scarsi risultati. “Lennon non fare il cretino e lasciami stare”. Eravamo parecchio distanti dagli altri, forse avevo esagerato nel correre dietro a quei due stupidi uccellacci, ed ora per mia sfortuna mi ritrovavo con numero uno dei rompiscatole, senza che nessuno potesse aiutarmi. Ogni mio tentativo di liberarmi di lui fu vano. La cosa che più mi innervosiva era il fatto che, nonostante la poca resistenza che stesse facendo, riusciva comunque a sovrastarmi. E non smetteva un attimo di ridere. Se ne avessi avuto l’occasione l’avrei picchiato molto volentieri. Ma quello, ovviamente, sarebbe stato un comportamento poco consono per una dolce donzella. Dannato maschilismo inglese. Speravo davvero con tutto il cure che le donne, un giorno, avessero potuto essere alla pari degli uomini, senza dover sottostare a loro o preoccuparsi dei comportamenti poco adeguati. Così avrei potuto picchiarlo. Sarebbe successo molto spesso, poco ma sicuro.
Dopo molti minuti passati nel tentativo di liberarmi mi arresi e continuai a camminare al suo fianco esausta. “Ce l’hai fatta, finalmente. Hai molta resistenza per essere una cosina così piccola” mi canzonò il ragazzo al mio fianco. Non gli risposi e cambiò argomento. Iniziò a raccontarmi alcune delle storie che stava scrivendo. Potevo dire di tutto a quel ragazzo, tranne che non fosse creativo. Quando mi trovai a ridere di gusto per una storiella decisamente molto divertente mi resi conto che, in fondo, non avevo alcuna motivazione per rovinarmi la serata. Dopotutto mi stavo divertendo più con lui in quei momenti che a saltellare per riempire di impronte la spiaggia, insieme agli altri. “Visto che in fondo un po’ di senso dell’umorismo ce l’hai anche tu?” Stavo per replicare quando, guardando il mare e lasciando ciondolare la testa a destra e a sinistra, riprese “Mi chiedo cosa tu abbia di diverso da tutte le altre”. Lo guardai piena di interrogativi. “In genere le ragazze muoiono per i musicisti. Devi vedere ad Amburgo come ce la spassavamo!”. Tornò a ridere, evidentemente molto divertito dalla sua affermazione. “John non ho voglia di sapere i dettagli delle vostre nottate tedesche, grazie. E poi non vedo perché dovrei essere come tutte le altre”. Scrollò le spalle. “Ti conosco abbastanza per sapere quanto sei idiota e per non cedere al tuo fascino da musicista e…” “Ferma, ferma, ferma!” mi interruppe “Hai appena detto che ho fascino!”. Mi sentii avvampare. Molto probabilmente ero diventata rossa come un peperone, se non di più. Mi guardava ridendo, molto compiaciuto dall’avermi totalmente colta di sorpresa. Non capitava spesso che non avessi la risposta pronta. Boccheggiavo come un pesce fuor d’acqua alla ricerca di una qualche risposta gelida da dargli. “Ehm… bè…” “Ehi John, è inutile che ci provi con Ray! Non ci starà mai!” Mi voltai e guardai oltre il braccio di Lennon che ancora mi cingeva le spalle. Dietro di noi gli altri se la stavano ridendo come matti. “State tranquilli, ancora un po’ e vedrete come cade ai miei piedi” rispose lui, facendo loro l’occhiolino. Come pervasa da un’improvvisa furia omicida spinsi John talmente forte da togliermelo di dosso. “Vai al diavolo, idiota!” gli urlai contro, raggiungendo gli altri. Quando li fulminai con lo sguardo smisero improvvisamente tutti di ridere. Continuavo ad insultare quel cretino a voce alta, quando qualcuno mi poggiò la mano sulla spalla. “Dai Ray, si scherza” mi voltai di scatto. Paul. Sempre in mezzo nei momenti meno opportuni, era davvero così egocentrico da credere di avere le parole giuste in ogni momento? Stupido Paul. Continuavo ad urlare queste parole nella mia testa quando mi accorsi che qualcosa non andava. “Tu cosa ci fai qui? Hai lasciato Sun da sola, eh? Lo sapevo che non dovevo lasciarla con te. Possibile che tu sia così idiota?” feci dietro front e iniziai a camminare a passo sostenuto verso Stump. Dovevo capirlo da subito che quella serata sarebbe stata un disastro. Chissà in che condizioni avrei trovato la mia amica. Qualcuno mi trattenne per un braccio. Era Ted e, nonostante sua sorella si trovasse da sola seduta su un tronco sulla spiaggia nel bel mezzo della notte, aveva lo sguardo stranamente tranquillo. “Ray, datti una calmata. E’ andato Ringo a farle compagnia”. Mi pietrificai. Avevo fatto la mia solita figura. “Ah, occhei”. Teddy raggiunse gli altri e tutti quanti, ridendo come pazzi, tornarono a passeggiare verso il porto. Chissà se ridevano di me.
Silenziosamente li raggiunsi. Tenevo lo sguardo basso, e quando qualcuno provava a rivolgermi la parola lo liquidavo abilmente con uno sguardo furioso od un cenno della mano. Stavo seriamente iniziando ad odiarli tutti. Tanto per cominciare odiavo le loro risate. Non capivo cosa ci trovassero di tanto divertente in quella situazione. Odiavo Ted per avermi invitato a quella rimpatriata. Se non fosse stato per lui a quell’ora sarei stata a finire tranquillamente i compiti per la settimana successiva, come il mio solito, e mi sarei evitata un’enorme arrabbiatura e un’ancora più enorme figuraccia. Odiavo George perché, se non fosse stato per lui e la sua mania di raccontarci sempre tutto, in quel momento sarei stata a passeggiare sulla spiaggia con Sun, evitando di ascoltare le conversazioni dei ragazzi. E, nuovamente, mi sarei evitata incavolatura e successiva figuraccia. Odiavo John per avermi fatto credere, anche solo per un momento, che quella serata non fosse poi così male. Odiavo il suo stupido sorrisetto strafottente e il non riuscire mai a capire quando fosse serio e quando stesse scherzando. Odiavo Pete per averci urlato quella cosa, poco prima. Forse se non fosse stato per lui e la sua stupida mania di trovare dei doppi fini in qualsiasi cosa in quel momento sarei ancora a pensare che quella sera, dopotutto, non fosse tutta da buttare. Ma, soprattutto, odiavo me stessa. Per essere uscita, quella sera. Per aver lasciato Sun da sola. Per essere corsa a spaventare quei due maledetti gabbiani. Per essermi arresa così in fretta alla presa di Lennon e per aver riso alle sue battute. Ma, soprattutto, per aver creduto anche solo un momento di essere riuscita a risollevare la serata solo grazie ad una risata. Come era possibile che tutto quello mi fosse mancato, mentre gli altri erano ad Amburgo? Avrei dato qualunque cosa, in quel momento, per trovare una qualsiasi stupida scusa per dileguarmi dagli altri e tornarmene a casa. Qualunque cosa. Purtroppo, però, in quel momento la mia mente era impegnata a maledire chiunque e qualsiasi cosa si trovasse nell’arco di miglia.
Improvvisamente, come se le mie preghiere fossero state esaudite, iniziò a piovere. Quella fu l’unica dannatissima volta in cui ringraziai la variabilità del meteo inglese. E la sua pioggia. Come se un acquazzone fosse seriamente dannatamente divertente scoppiarono tutti a ridere e a rincorrersi sotto la pioggia. Pietrificata rimasi a guardarli, e in un attimo fui di nuovo bagnata fino alle ossa. “Oh diamine ragazzi avete una certa età per fare questi stupidi giochi sotto la pioggia, perché non torniamo a casa invece di prendercela tutta?” intimai. Per la prima volta da quando li conoscevo mi obbedirono immediatamente senza obiettare o guardarmi storto. Iniziarono a correre verso Stump ridendo, come i bambini che giocano ad evitare le gocce d’acqua. Io, soddisfatta, mi avviai dietro di loro. Correre sarebbe stato un inutile spreco di energie, tanto ormai ero bagnata completamente. Sun e Ringo erano seduti tranquillamente dentro al tronco. Dopotutto era molto comodo avere un tronco cavo nel bel mezzo della spiaggia. Li invitammo ad uscire e raggiungemmo velocemente le vetture. Come all’andata io e la mia amica eravamo sedute al sedile posteriore dell’auto di Ted, e Richard si trovava nel sedile del passeggero. Non sapevo gli altri come sarebbero tornati a casa e, francamente, non m’interessava.
“Cosa hai fatto? Sembri sconvolta” mi chiese Sun guardandomi fissa negli occhi. Con la coda dello sguardo notai che il fratello ci stava ascoltando quindi le feci un cenno con la mano, bisbigliando il mio classico “Te lo racconto la prossima volta”. Non era affatto soddisfatta della mia risposta, ma le lasciai capire che quello non era il momento adatto per parlarne. “Te cos’è successo con Paulie e Richie?”. Poggiò l’indice sulla bocca e mi indicò i due ragazzi con lo sguardo. “Te lo racconto la prossima volta” mi imitò, facendomi l’occhiolino.



Ecco qui anche il tezo capitolo! Spero vi piaccia e vi incuriosisca sempre di più :)
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Un bacio grande grande a tutti quanti

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Capitolo 4
*** Some of that Rock'n'Roll music. ***



La nostra “prossima volta” fu, proprio come temevo, il pomeriggio successivo. Avevo deciso di aiutare Sun con gli esercizi di matematica, in vista del test della prossima settimana. Detestavo la signorina Root quando ci annunciava dei test così complicati con così poco preavviso. Fortunatamente ormai ci avevamo fatto l’abitudine.
Copiavo accuratamente i miei appunti di teoria mentre la mia amica, con le mani fra la folta chioma riccioluta, guardava sbigottita l’intestazione dell’esercizio che le avevo appena segnato sul libro. “Questo è uno di quegli esercizi dove si usa la formula diversa, giusto?” mi chiese speranzosa. Con molta disinvoltura guardai per un attimo il suo quaderno e, senza nemmeno alzare gli occhi, tornai alla mia copiatura. “Giusto” le risposi, sottolineando il titolo dell’argomento che avevo appena finito di copiare. Soddisfatta Sun tornò a guardare l’esercizio, ancora con le mani fra i capelli come una perfetta disperata. Dopo qualche minuto speso immobile così afferrò la penna ed iniziò a scarabocchiare istericamente la pagina, ancora quasi totalmente bianca, del suo blocco. “E’ inutile, non ci riesco!” iniziò ad urlare come una pazza “La matematica mi fa schifo. E poi perché devo studiarla, è una materia inutile”. “Serve ad affinare la mente, Sun” le risposi io tranquillamente, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Afferrai i fogli con gli esercizi che avevo svolto poco prima ed iniziai a copiare anche quelli. La matematica mi piaceva. Tutto quell’ordine e quei numeri mi rilassavano terribilmente. Spesso, quando ero particolarmente nervosa o su di giri, prendevo il mio quaderno ed iniziavo a copiare gli esercizi. Catalogare perfettamente tutte quelle cifre sui quadretti faceva sì che anche tutte le idee che mi frullavano per la testa tornassero al loro posto nell'enorme cassettiera del mio cervello. “Bè, io non ho voglia di affinare la mia mente” rispose quella indispettita, chiudendo di scatto il suo quaderno. Si alzò e mi guardò sbuffando. “Vuoi qualcosa? Sto andando in cucina”. Feci di no con la testa. “Mi chiedo proprio come ti faccia a piacere così tanto scrivere tutti quei numeri senza senso” mi chiese, dirigendosi verso la cucina. Quella era una domanda che mi ripeteva molto spesso. Tanto spesso che avevo smesso di risponderle da un bel po’ di tempo. “E comunque” riprese non appena fu di nuovo seduta alla sua postazione “non mi hai ancora raccontato cos’è successo ieri sera. Avevi una faccia”. Si versò thè nella sua solita tazza dalle delicate decorazioni floreali e iniziò a berlo avidamente. “Credevo lo avessi chiesto a Ted” replicai io, cercando di evitare il discorso. “No che non l’ho chiesto a Teddy, anche se lui voleva raccontarmelo stamattina e…” Senza ascoltarla mi allungai per prendere il suo quaderno che, sigillato, giaceva a pochi centimetri dalla teiera ancora piena. “Ti dispiace se ti copio gli esercizi?” le chiesi, finalmente alzando lo sguardo verso di lei. “Fai pure” mi rispose con la sua solita franchezza. Arricciai il naso ed aprii il quadernino mentre la indicavo con la penna. “Immagino che la tua serata, comunque, sia stata migliore della mia. Visto che non stai facendo niente almeno potresti raccontarmi cosa hai combinato” intimai sfogliando le pagine, alla ricerca di quella giusta. Si mise comoda sulla sua sedia, incrociando le gambe, ed iniziò il suo resoconto. "Occhei, lo ammetto, ieri più che stanca ero un po' giù per quello che ci aveva detto Geo su Paul." Ma va, non si era mica capito. Evitai però di interromperla, continuando ad ascoltare le sue parole e a riscrivere per l'ennesima volta l'esercizio. "Quando siamo rimasti da soli su Stump non ha fatto altro che sospirare e guardare il cielo. Giuro non l'avevo mai visto così. Allora dopo qualche minuto mi sono avvicinata e gli ho fatto -Che cos'hai?- e lui -Niente, pensavo-. Allora io mi sono avvicinata un po' e gli ho detto -A Barbara?- e lui m'ha guardato come se avesse appena visto un fantasma. Poi però ha iniziato a raccontarmi di Amburgo e di questa ragazza. Credimi, aveva gli occhi che gli brillavano, mentre ne parlava. Mi ha detto che si erano conosciuti ad uno dei loro concerti e che in breve tempo erano diventati inseparabili. Poi mi ha raccontato che ogni sera passeggiavano alle rive del fiume e guardavano le stelle insieme". Si, proprio le stelle guardavano. Avrei tanto voluto puntualizzare realmente questo concetto, ma Sun era talmente presa dal suo racconto che preferii non disturbarla. "Poi però, di punto in bianco ha iniziato a farmi i nomi di tantissime altre ragazze. Allora io gli ho chiesto chi fossero e lui m'ha risposto -Le mie amichette-" Paul, il solito donnaiolo. "E allora io gli ho fatto -E Barbara che diceva di queste tue amichette?- e lui -Lei non sapeva niente, ovviamente. E comunque se anche lo avesse saputo cosa avrebbe dovuto dire? Non eravamo mica sposati, nulla mi vietava di andare con altre ragazze!-. Ti giuro ci sono rimasta malissimo. Mi è calato proprio di brutto. Cioè la amava ma la cornificava più di un cervo a primavera, capisci? Non ce lo facevo così insensibile". Piccola ed innocente Sun. "Chissà come faceva a piacermi..." "A piacerti?" la interruppi "ti ricordo che ieri eri vestita tutta in tiro solo per lui". "Sì" riprese lei "ma ora, per la gioia tua e di Teddy, ho intenzione di dimenticarlo. Ammetto che fisicamente mi attizza ancora però ora, dopo quello che m'ha detto ieri, manco lo considero più". Prese nuovamente la teiera e riempì nuovamente la sua tazzina. "Comunque appena finito questo discorso s'è alzato e mi ha detto se volevo andare con lui dagli altri. A me non m'andava e lui se n'è andato lo stesso, e dopo nemmeno mezzo minuto è arrivato Rings di corsa. Sinceramente mi aspettavo di vedere te anziché lui, quindi gli ho chiesto cosa stavi facendo e lui mi fa -Ray è leggermente occupata, al momento, dovrai accontentarti di me-. Non gli ho chiesto in cosa fossi occupata perchè poi l'avrei chiesto a te ma tu, ovviamente, non vuoi dirmelo". Afferrai la frecciatina al volo e le risposi solennemente "Dai se finisci di raccontarmi poi forse ti dico cosa ho fatto io". Sottolineai particolarmente il forse, ma Sun sorrise e riprese il suo resoconto, certa che poi avrei sputato il rospo. "Abbiamo chiacchierato tantissimo e poi mi ha chiesto di Paul. Ci sono rimasta di sasso, solo tu e Ted sapete di questa storia, e immaginavo non si capisse così tanto. Vabbè comunque gli ho raccontato di quanto Paulie m'avesse riferito poco prima e gli ho fatto sapere che non aveva più quel fascino su di me. Lui allora, tutto carino, mi ha detto che la mia era la decisione giusta e che ci stava male a vedermi soffrire per quel donnaiolo e così via". "Quant'è tenero Richie" affermai, finalmente chiudendo il quaderno di matematica. "Sì, proprio tanto. Sono stata proprio bene con lui ieri sera. Poi a stare dentro a Stump... non ti immagini le risate che ci siamo fatti lì dentro!" “Sì, l’avevo notato” mi affrettai a sottolineare, fredda. Sun posò la piccola tazza sul tavolo e riprese il suo quaderno. “Bene ora è il tuo turno” mi ordinò battendo le mani a mo’ di foca “devi dirmi assolutamente in cosa eri impegnata ieri sera”. Feci finta di pensarci un po’ su e poi sbottai “Ho passato praticamente tutto il tempo con Lennon avvinghiato e…” “Oh ste rivelazioni fammele più gradualmente che sennò ci rimango!” “Non fare la stupida. Abbiamo solo passeggiato e…” “Abbracciati?” esplose lei con un’espressione scioccata. “Sì, ma non è rilevante la cosa. Dicevo…” “Non è rilevante? Vedi che ti piace John? L’ho sempre saputo!” saltò in piedi ed iniziò a saltellare come una scema. Era decisamente troppo esuberante per i miei gusti, quel pomeriggio. La incenerii con lo sguardo. “Se non la smetti non continuo il mio racconto” “Ok, scusa”mi disse tornando composta al suo posto. “Brava! Comunque dicevo… quando a un certo punto Pete ci urla contro una delle sue solite frasette ambigue e lui si gira e gli dice che presto cadrò ai suoi piedi. Come se passeggiare un po’ e farmi ridere con una delle sue stupide storielle gli potesse bastare, capito? Forse non gli è ancora ben chiaro il concetto che meno lo vedo e meglio sto! Vabbè comunque l’ho insultato e sono tornata dagli altri. Quando ho notato che c’era anche Paul non c’ho visto più, gli ho sbroccato e volevo venire da te. Poi Ted m’ha detto di Ringo ed io mi sono completamente isolata dagli altri. Ah, e poi mi sono anche bagnata fino all’osso con quella maledetta pioggia. E poi… credo basta”. Sun scoppiò a ridere come una pazza. “Non è divertente” la congelai. “Lo dici tu!” mi fece contorcendosi sulla sedia.
Stavo per ribattere quando entrò in salone anche Ted. “Cosa vi raccontate di tanto divertente? Su dai che voglio sentirlo anch’io” si sedette al tavolo con noi ed iniziò a far altalenare gli occhi fra me e la mia amica. “Ray mi stava raccontando di ieri sera” “Ah… sì” anche lui iniziò a ridacchiare delle mie disgrazie insieme alla sorella. Iniziai a guardarmi intorno per cercare una qualsiasi ancora che mi portasse in salvo da quei due pazzi che ridevano di me a più non posso. Mi soffermai, infine, sull’abbigliamento del ragazzo. “Hey Teddy, dove te ne vai conciato così?”. Si era ‘impomatato’ il ciuffo e come al suo solito portava una canottiera bianca e un giubbotto di pelle nera. Era davvero un perfetto Teddy Boy. Fortunatamente, però, sia io che Sun sapevamo perfettamente che, almeno di cervello, lui non era come tutti gli altri. Vestiva così perché gli piaceva, non di certo per seguire la massa. “Al Cavern, stasera suonano i Beatles” annunciò con il tono di un egregio presentatore televisivo. “Volete venire?” ci propose infine. “Sinceramente preferirei di no…” “Fico! Certo che veniamo!”. Guardai la mia amica più sconcertata che mai. “Ma…” “Ma, ma, niente ma signorinella. Non vorrai mica lasciarmi andare al Cavern tutta sola, in mezzo a tutti quei ragazzi. Ricorda che loro sono come dei lupi. E io sono un povero, piccolo, dolce e tenero agnellino. E loro sono molto affamati, decisamente troppo affamati. Non vorrai mica…” “Ok, ok, va bene. Verrò anch’io. Contenta?” tagliai corto. Quando partiva con i monologhi assecondarla era l’unico modo per farla smettere. Lei, in tutta risposta, mi saltò al collo, ringraziandomi fino allo sfinimento.

Arrivammo al locale con netto anticipo. Nonostante fosse ancora molto presto e mancassero un paio d'ore all'inizio del concerto c'era molta gente. Moltissima. Decisamente troppa per i miei gusti. Avrei giurato che, in quel momento, ci fosse più gente della sera prima. E, ovviamente, stavo iniziando a risentirne. La voce della mia coscienza stava già iniziando a sussurrarmi nell'orecchio di prendere uno sgabello e darlo in testa a qualcuno. Fortunatamente, però, il mio autocontrollo era sempre stato più forte di quella stupida vocina.
Io, Sun, Ted e Ringo ci sedemmo ai nostri soliti posti ed ordinammo il nostro solito: tre birre ed un succo di frutta. La mia amica era decisamente una drogata di succhi, mi chiedevo spesso come facesse. Mentre aspettavamo che il barista ci portasse le nostre ordinazioni si avvicinò a noi una ragazzina molto pimpante, con due grandi occhi neri e una folta capigliatura corvina. Molto buffo incontrare una ragazzina di quell'età in un posto malsano come quello. Quanto avrà avuto? Quattordici anni? Sia io che la mia amica la guardammo curiose, e con un leggero tocco di superiorità. Si appoggiò faticosamente al bancone che rispetto a lei era davvero alto e chiamò il tizio del bar. Richard, molto gentilmente, si alzò e le fece cenno di sedersi al suo posto. Lei ne fu ben felice e si accomodò lì, ringraziandolo molto delicatamente. Sembrava davvero un povero agnellino in mezzo a tutti i brutti ceffi che frequentavano quel posto. Dopo qualche minuto passato in silenzio, finalmente si presentò. “Comunque io sono Mary, piacere”. Ci strinse la mano proprio come una brava bimbetta perbene. “Oh però, vi prego, non chiamatemi con quel nome. Chiamatemi Mitch. Oppure Maureen. Sapete, ho intenzione di cambiarmi il nome così, all’anagrafe, non appena me ne andrò di casa. Mary proprio non mi piace” . Parlando scoprimmo che, effettivamente, aveva davvero quattordici anni, ma presto ne avrebbe compiuti quindici. Era lì perché aveva deciso di accompagnare la sorella maggiore che, però, l’aveva abbandonata per andarsi ad appartare con il proprio ragazzo. Entrambe le ragazze, comunque, era state attratte al Cavern dall’idea che, quella sera, suonassero i Beatles. “Jojo dice che sono forti e secondo lui faranno un sacco di successo” ci fece, dal tono entusiasta. “E chi sarebbe Jojo?” chiese Ted, divertito. “Il ragazzo di mia sorella” replicò, proprio come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Sarebbe Joseph, ma tutti lo chiamano Jojo. Non è un nomignolo buffissimo?” continuò, cinguettando. Tutti e quattro restammo serissimi, la questione del soprannome divertiva solamente lei. “Comunque, Mary” fu Sun a prendere in mano la situazione “finché tua sorella non si fa viva puoi anche stare con noi, tanto anche noi siamo qui per ascoltare i Beatles”. “Davvero? Fico! Grazie!” rispose quella, iniziando a canticchiare una canzone che, in quel momento, non riconobbi. Dopotutto quella ragazzina non era poi così male.
“Ehi Teddy” Sun diede una gomitata al fratello che si era incantato a guardare due ragazze vestite in maniera decisamente poco adeguata al luogo in cui si trovavano. “Quante volte te l’ho detto che non devi chiamarmi così quando non siamo a casa?” si alterò leggermente lui, voltandosi frettolosamente verso la sorella, in attesa di sapere il motivo per cui quella l’avesse chiamato. Lei indicò le scale del locale, dal quale scendeva un ragazzo tutto in tiro. Mi sembrava di averlo già visto da qualche parte, ma non riconoscendolo fino in fondo mi avvicinai alla mia amica per ascoltare ciò che stesse per dire. “Ma quello non è Brian? Il ragazzo del negozio di dischi?” ecco dove l’avevo già visto. Scoppiai a ridere. “Oddio Ted, ma non è quello che ti faceva il filo?” gli dissi ridendo. “Oh mio Dio, sì è lui!” si coprì il volto con la giacca, ridendo come un matto. In quegli anni anche solo nominare la parola “gay” o “omosessuale” faceva tremare tutti, o, più spesso, li riempiva di disgusto. Ovviamente annunciare alla società il proprio orientamento sociale non era una cosa così comune, quindi non sapevamo se quel ragazzo fosse veramente quello che pensavamo. Era solamente una stupida credenza che avevano messo su i ragazzi della comitiva. Guardai Brian muoversi spaesato fra tutta quella gente. Non ricordavo di averlo mai visto lì al Cavern, né tanto meno in altri locali di Liverpool. Effettivamente era un ragazzo elegante, sofisticato e incredibilmente stonante in quel contesto. Forse quella era l’unica volta che lo vedevo lontano dal bancone del negozio dei suoi genitori. “Chissà cosa ci fa qui” mi chiesi, grattandomi il mento come un perfetto investigatore. Ma perché i pensatori vengono sempre rappresentati con una mano sul mento? “Mi ha seguito, ne sono certo. Vuole violentarmi! Nascondetemi!” continuò Ted, ridendo. “Non fare il cretino, Ted” lo pregò Sun. “Forse è venuto ad ascoltare il concerto” intervenne Mary molto astutamente. “Non credo, lui conosce molto bene tutti i generi e gli artisti in voga al momento. Cosa se ne fa del concerto di quattro scemi senza fama?” spiegai io. “Ma, alla fine, cosa ce ne importa? Noi siamo qui per il concerto, non per guardare Brian Epstein!” chiarì Ringo. Dopotutto non aveva tutti i torti. Mi dispiaceva ammetterlo, ma ogni tanto anche lui aveva ragione.
Il tempo passò in fretta. Senza alcun preavviso, sentimmo un urlo isterico. Mi voltai immediatamente verso il palco. Quando tutte le luci si spensero, fuorché quelle del palco, ne rimasi quasi sorpresa. “Eccoli” sussurrò Sun al mio orecchio, dandomi una leggera gomitata ad un fianco. Il primo a salire sul palco fu Pete, accompagnato da decine di urla. Lo seguirono a ruota Paul e George, ed infine John. “Siete pronti a scatenarvi?” urlò quest’ultimo, invasato come un pazzo furioso. Tutta la sala gridò all'unisono, come in un'unica voce. La sua voce graffiante pervase il locale. Iniziarono con Rock’n’roll music di Chuck Berry. Era una delle mie preferite e nonostante mi stessi sforzando di continuare a detestarli, in breve tempo allentai la corda ed iniziai ad ascoltarli con molta più tranquillità. “E’ inutile che cerchi di odiarlo, lo so che ti piace” mi urlò la mia amica all’orecchio, a causa del volume assordante. “Smettila o giuro che non ti parlo più” la minacciai. In tutta risposta scoppiò a ridere e tornò composta sul suo sgabello. Dovevo ammetterlo: nonostante fossero i ragazzi più sballati, irresponsabili e fastidiosi della terra avevano davvero un grande talento. Tutto il pubblico ballava scompostamente a ritmo di quel sano rock’n’roll, come pervasi dalla musica fin dentro le vene. Io avevo sempre detestato ballare, non era mai stata una delle mie occupazioni preferite, ma dimostrai tutto il mio apprezzamento ondeggiando la testa e il piede a suon di batteria. In quel momento era come se anche il mio cuore stesse battendo seguendo il groove della grancassa. Quando terminarono la loro esibizione con Besame mucho, circa un’ora più tardi, la grande folla iniziò a scemare. “Sono stati grandiosi!” ci urlò contro Mary, elettrizzata al massimo. Effettivamente quello era stato uno dei loro migliori concerti, da quando li conoscevo. E li conoscevo da quando la band era nata. Dopo qualche istante si avvicinò un’altra ragazza, che correva furiosa verso la nostra nuova amica. “Mitch dov’eri finita? Ti ho cercata ovunque!” “Sono stata qui tutto il tempo. Non volevo disturbare te e Jojo” rispose quella tranquillamente. “Poi ho conosciuto loro e mi hanno fatto compagnia” ci indicò con disinvoltura. La maggiore ci guardò compassionevole. “Mi dispiace. Spero non vi abbia infastidito” “Affatto, stia tranquilla” la rassicurò Ringo. “Menomale. Bene, piccola bestiolina, saluta i tuoi nuovi amici che dobbiamo tornare a casa”. Mary ci salutò con la mano ed allontanandosi ci promise che, quando sarebbe stata abbastanza grande, sarebbe tornata in quel posto, con la speranza di rincontrarci. Che cara ragazza. Noi di sicuro non saremmo mai andati via da quel maleodorante locale, per mia grande sfortuna.
“Che ne dite di andare fuori anche noi? Tanto appena si saranno sistemati ci raggiungeranno di certo” proposi io, desiderosa di guadagnare un po’ d’ossigeno. Detto fatto arrivammo all’aria aperta, dove tantissima gente era in attesa che uscissero. Possibile che volessero un loro autografo? Dopotutto erano ragazzi come tanti altri. Quando, dallo strano movimento della folla, capimmo che erano usciti sospirammo tutti e quattro in contemporanea. “Possibile dover aspettare così tanto anche per stare insieme ai nostri amici?” borbottò Ted. “Teddy impara a farci l’abitudine, credo proprio che la cosa accadrà molto spesso in futuro” fece finta di sollevarlo la sorella. Nell’attesa riuscii a scroccare una sigaretta da Richard ed iniziai a fumarla con molta disinvoltura. Effettivamente fumare non era una delle mie attività preferite, ma spesso era uno dei pochi rimedi validi contro lo stress e la stanchezza. E in più mi toglievano il sonno. Sun mi incenerì con lo sguardo. Non le era mai piaciuto che fumassi, anche se la cosa accadeva molto di rado. Assunsi la faccia più angelica che potei “Oh e dai, stasera sono stressata”. Lei mugugnò qualcosa di incomprensibile e me la tolse dalle dita. “Va bene per stasera te l’abbono, ma solo se fai fare un tiro anche a me”. Come se le avessi concesso il patto prese una bella boccata di fumo a mi restituì la cicca come se nulla fosse. Dopo aver sputato tutto il fumo in faccia al fratello a mo di sfida guardò verso il vuoto ed iniziò a salutare. “Ma che saluti, i fantasmi?” disse Ted ridendo come un pazzo. “Ma no, stupido. C’è Cyn lì, non la vedi?” rispose lei. Effettivamente poco lontana da noi camminava spaurita Cynthia, alla ricerca di John o, perlomeno, di qualche faccia conosciuta. Molto probabilmente non aveva visto Sun salutarla, orba com’era, quindi la mia amica le si avvicinò e la portò da noi. “Come mai sei arrivata così tardi?” domandò Ringo preoccupatissimo. “Hai perso un concerto fantastico” proseguì l’altro interrompendo l’amico. “Oh, dannazione, lo so” fece lei battendo i piedi a terra “E’ che non portando gli occhiali ho visto male il numero dell’auto ed ho preso quello sbagliato. Mi sono accorta di essere arrivata all’altro capo di Liverpool quando avevamo percorso già molti chilometri e per tornare indietro ho dovuto aspettare la coincidenza. Detesto i mezzi pubblici di questa città!”. Mi trattenei il più possibile dallo scoppiarle a ridere in faccia. Subito si precipitarono da noi le quattro star. Erano decisamente di buon umore e ridevano come pazzi.
“Ragazzi, non immaginerete mai chi abbiamo incontrato dentro” strepitò George. “E’ finalmente arrivato il nostro momento!” continuò Pete.
il nostro discorso venne interrotto dall’arrivo di Dorothy, la ‘ragazza’ di Paul. Ci salutò tutti all’unisono, entusiasta, e corse al fianco del ragazzo, che con un braccio le cinse il fianco e la strinse a sé. Probabilmente Paul non aveva raccontato nulla a Dot riguardo le sue avventure tedesche, e la loro vita insieme era ripresa da dove era stata interrotta il giorno della partenza per Amburgo. Lanciai un’occhiata fugace alla mia riccioluta amica per cercare in lei una qualsiasi reazione. Una reazione che, per la gioia mia e di Ted, non avvenne. Quest’ultimo mi guardò sorridente, orgoglioso tanto quanto me del sorprendente comportamento della sorella, e tornò a guardare le quattro star, come se nulla fosse successo.
“Insomma? Chi avete incontrato? Fate meno i criptici e diteci tutto” sbuffai, curiosa come una pazza di sapere cosa fosse successo. “Rebecca stai proprio diventando una vecchia acida, lo sai?” mi sbeffeggiò John. Mi voltai per incenerirlo con lo sguardo e lo vidi sbaciucchiarsi allegramente con la sua ragazza. “Tu continua a fare quello che stai facendo e non mi scocciare, Lennon. Mi sono stufata di risponderti”commentai. “Dicevi, Geo?” mi interruppe Sun. La ringraziai con un’occhiata che afferrò subito, ed entrambe tornammo ad ascoltare ciò che George avesse da dire. “Bè, abbiamo incontrato Brian Epstein e ci ha chiesto di essere il nostro manager” ammise un eccitatissimo George. “E’ rimasto colpito dall’enorme seguito di ragazze che abbiamo avuto questa sera” prese per la prima volta la parola Paul. “Vabbè Paul non te la credere troppo” lo interruppe Pete, dandogli una pacca sulla spalla. “La verità è che stasera siamo stati fantastici” “Poi sarei io quello che se la crede troppo, Best?”
Scoppiammo tutti a ridere. Era davvero una meravigliosa notizia. Chissà, magari il mio sogno ad occhi aperti della sera prima non era poi così lontano dalla realtà.



Non so bene perchè ho deciso di mettere la loro foto in cima al capitolo... ma i loro faccini sono così teneri che prima o poi avrei dovuto metterli :3
Mi piacerebbe tantissimo leggere vostri pareri, critiche... quindi forza, smontatemi pure!
In ogni caso spero vi piaccia questo capitolo,
un bacio grande a tutti (:

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Capitolo 5
*** Somebody spoke and I went into a dream. ***


“Sun non mi va, davvero” mi guardai intorno per controllare che nessuno fosse nei paraggi. “Sono due giorni di filato che andiamo al Cavern,” bisbigliai “direi che per oggi possiamo anche passare oltre, no?”. “Rebecca sei davvero insopportabile quando fai così” piagnucolò la mia amica, incrociando le braccia e battendo i piedi a terra. Sembrava una perfetta bambina capricciosa. “Non chiamarmi in quel modo” cercai di dosare al meglio l’irritazione. Sapevo che Sun non si sarebbe mai arresa con così poco. Sbuffai al solo pensiero che quella conversazione sarebbe proseguita probabilmente fino alla sera, e che avremmo continuato a battibeccarci per avere ragione. Lei non se ne accorse e diede il via ad un infinito monologo dei suoi. Non faceva che muovere su e giù la sua testa riccioluta a tempo con il suo solito dito ammonitore. Era proprio vero: ogni riccio è un capriccio. Utilizzò nuovamente la metafora dell’agnello e dei lupi, la sua preferita.
Solita metafora ma non solito risultato. Quel giorno ero troppo stanca anche per starla a sentire, accontentavo le sue lamentele con un vago cenno del capo ma dentro di me esplodevo. Per una volta volevo fare come dicevo io.
“Senti Sun, davvero. Non penso che i lupi decidano di mangiare il piccolo agnellino se, a difenderlo, c’è un mastino come Ted. Per stasera passo” ripetei. “Ma dai Ray, stasera suonano i ragazzi, ho voglia di andarli a sentire” sembrava non volersi arrendere. “Ma li hai sentiti ieri, di certo non cambieranno scaletta solo perché tu vai a sentirli anche stasera” “Ma…” “No, e basta”. La campanella mi venne incontro, trillando.
Fine della discussione.
Abbandonammo il nostro angoletto preferito del corridoio e ce ne tornammo in classe. Per tutto il tempo, durante la lezione, Sun non proferì parola. Mi dispiaceva che si fosse offesa, sinceramente, ma non poteva sempre vincere lei. Non ero affatto abituata a tutto quel silenzio da parte della mia compagna di banco e decisi di stare a sentire la professoressa Parr che spiegava, prendendo appunti.
Fortunatamente la nostra acidissima professoressa non aveva accennato ai compiti di analisi che le avevamo consegnato la mattina precedente. Probabilmente ancora non aveva iniziato a correggerli. Una donna impegnata come lei sicuramente non aveva trovato tempo per iniziare la lettura dei compiti di ciascuno suo studente. Sperai che non li correggesse mai. Magari aveva trovato un uomo con cui passare il suo tempo, occupando quelle ore che, fino a quel momento, aveva utilizzato solamente per inventare qualche nuova tecnica per torturare i suoi poveri alunni. Rabbrividii al pensiero della Parr con un uomo.
“Knowall, è tra noi o è sulle nuvole?” mi rimproverò la mia insegnante. Mi accorsi solo in quel momento di essermi incantata verso la finestra, immersa com’ero nei miei terrificanti pensieri. “No signorina, ci sono, ci sono. Mi scusi” balbettai frettolosamente. Con un cenno della mano quella distolse l’attenzione da me e riprese la sua noiosissima lezione. “A cosa stavi pensando?” mi sussurrò Sun, troppo curiosa per ricordarsi che era ancora arrabbiata con me. “Alla professoressa con un fidanzato” risposi con una smorfia. “Che brutti pensieri” ridacchiò lei. Con una botta sulla cattedra la Parr riacquistò la nostra attenzione, e tornammo a seguirla in silenzio.


Avendo ufficialmente rifiutato di uscire, per quella giornata, potei finalmente dedicarmi alla scuola. In quella lunga giornata avrei potuto avvantaggiarmi lo studio di qualche materia. Stranamente non iniziai dagli esercizi di matematica: non avevo abbastanza grattacapi da sciogliere.
Francese era la scelta migliore: era la materia in cui avevo più carenze. Detestavo il francese e, più di tutto, detestavo la mia insegnante. La signorina Camionneure era una donna sulla quarantina, più larga che alta, che aveva avuto l’onere di sfornare ben cinque frugoletti che la rendevano stressata ed assolutamente intrattabile. Erano tre anni che cercava di inculcarci la grammatica della sua lingua, senza risultati soddisfacenti. Il mio problema fondamentale, il mio blocco mentale più grande era la paura infondata che avevo di quella donna. I suoi metodi poco fini e i suoi continui insulti provocavano in me una paralisi dalla quale non riuscivo a guarire, nonostante mi impegnassi al massimo per migliorare.
Mentre sistemavo ordinatamente tutti i libri e tutti i quaderni sulla scrivania della mia camera sbucò dalla porta mia madre. “Ti vogliono al telefono” disse con tono scocciato. “Chi è?” domandai senza nemmeno voltarmi. “Cosa vuoi che ne sappia?” replicò, ancora più scocciata. “Sei inutile, lo sai?” sbuffai, abbandonando i libri ed i buoni propositi e seguendo la mia seccatrice lungo il corridoio, fino a raggiungere il tavolino con su l’unico telefono che avevamo in casa.
“Pronto?” “Ray, sono Ted”
Perché, in un certo senso, avevo temuto fosse lui?
“Oi Teddy! Dimmi tutto” dissi fingendo entusiasmo. Di fronte a me mia madre mi fece cenno di sbrigarmi col telefono ed io, in tutta risposta, le feci cenno di dileguarsi.
“Ma veramente stasera non vieni al Cavern?” dal tono sembrava preoccupato. “Sun mi ha detto che ti sei opposta categoricamente. Ma stai male? Ti è venuta l’influenza, un giramento di testa, sei incinta?”. Scoppiò a ridere. “Teddy fai meno il deficiente. Non vengo perché non ne ho voglia, tutto qui” risposi pacatamente. “Ma tu sei sempre la prima a voler uscire, cosa ti è successo? Sei entrata in depressione?”. Sbuffai, già stufa di quella conversazione a senso unico. “Non ci vuoi vedere?” “Ho forse detto che non esco perché non vi voglio vedere? Ho detto che non voglio uscire perché non mi va: sono due cose diverse”. La mia pazienza stava iniziando a dare i primi segni di cedimento. “Poi devo studiare” conclusi, lapidaria. Era forse l’unico motivo valido per cui avrei potuto rinunciare ad una serata fra amici.
“La scusa dello studio non attacca, Ray. Non è che non esci con noi perché te la sei presa della faccenda con John? Guarda che noi…” “Ted ti ho detto che non ho voglia di uscire” lo interruppi “E Lennon non c’entra niente. Non tirar fuori questioni chiuse e non inventare situazioni che non esistono, d’accordo?”. Addio pazienza.
“Vabbè io lo dicevo per te, ma fai come ti pare” sembrava finalmente arreso. “Infatti” replicai soddisfatta. “Ci vediamo domani sera” continuai improvvisamente di nuovo tranquilla. “Va bene, a domani”. E riagganciammo.
Perché era così difficile capire che avevo semplicemente bisogno di una serata per starmene da sola, lontano da tutti, senza bisogno di perché? Senza volerlo mi misi a pensare alla serata in spiaggia. Mi morsi il labbro: forse avevano ragione, forse avevo esagerato un po’. Mi sentii in colpa, per un attimo, per aver provato tutto quell’odio nei confronti dei miei amici senza colpa. Dopotutto la colpa di tutto quello erano solamente i miei stupidi atteggiamenti da riccio in pericolo. Sbuffai. In ogni caso, sensi di colpa o no, quella sera non sarei andata al Cavern e non avrei visto nessuno di loro. Mi avrebbe fatto bene stare una serata lontana da loro; magari una nottata in più mi avrebbe portato ulteriore consiglio.
Me ne tornai in camera mia, ancora pensierosa. Mi sedetti composta alla scrivania ed aprii il libro di francese alla pagina delle regole grammaticali che iniziai a leggere come se fosse la prima volta. Esattamente come la prima volta non capii assolutamente nulla di come andassero coniugati i verbi al passato. Passai oltre, sperando in un miracolo, sperando di capire la lettura assegnata e di riuscire a completare tutti gli esercizi. Cercando all’incirca una parola su due sul dizionario riuscii a captare il senso del testo. Arricciai il naso in segno di disapprovazione: i tre protagonisti della stupida storiella stavano decidendo cosa fare quella sera. Era una persecuzione o cosa? Anche il libro sembrava essersi coalizzato con i miei amici contro di me.
Avevo appena iniziato a leggere l’intestazione del primo esercizio quando mia madre sbucò nuovamente dalla porta della mia camera. “Ti vogliono al telefono… di nuovo”. Non sembrava molto entusiasta del fatto che quel pomeriggio io ricevessi più telefonate di lei. Sorridendo a fior di labbra le diedi una pacca sulla spalla e raggiunsi l’apparecchio in corridoio.
“Pronto?” il mio tono era più svogliato del solito. “Ma ho disturbato?” riconobbi immediatamente la voce da trombone di Richard. “No, assolutamente” lo rassicurai. “Che ne so, fra te e tua madre non si sa chi mi ha risposto peggio” continuò, quasi lagnandosi.
“Guarda tu se questa non mi deve tenere il telefono occupato per tutto il pomeriggio” borbottò mia madre tornandosene in cucina, provocando in me una discreta ilarità.
“Ma veramente stasera non vieni al Cavern?” mi domandò il ragazzo all’altro capo del telefono. “Ma Sun ha messo i cartelloni pubblicitari, per caso?” domandai sarcastica. Ero stanca di rispondere in malo modo, il sarcasmo era l’ultima carta che mi restava. Ringo scoppiò a ridere. “No affatto, povera Sun. Me lo ha detto Ted qualche minuto fa e volevo solo sapere se…” “Sì, ti confermo che stasera non ci sono, se è questo che volevi sapere e no, non ho intenzione di cambiare idea, se questo è lo scopo della tua telefonata” replicai.
“Ma davvero lasceresti Sun sola in quel postaccio del Cavern?” anche il giovane Starkey conosceva bene la carta vincente del vittimismo. “Ma Richie, Sun non sarà sola! Ci sarai tu, ci sarà Ted, ci saranno i meravigliosi Beatles” realtà batte vittimismo. “Sì, lo so, ma sarà comunque l’unica ragazza: Cyn e Dot hanno detto che non verranno stasera. Non vorrei che si annoiasse o che qualcuno le dia fastidio” ammise. “Nessuno le darà fastidio, con voi due alle calcagna, né tantomeno si annoierà ad ascoltare la sua band preferita, stanne sicuro” lo rassicurai. “Lo spero” sospirò.
“Starkey, ma non è che hai una cotta per Sun? Ti preoccupi per lei più di quanto non faccia il fratello” domandai ironica. Il silenzio che ricevetti in risposta mi spiazzò. Mi diede da pensare che la mia ironia britannica non era stata colta o che, in qualche modo, avessi ragione. “Richie? Ci sei o è caduta la linea?” chiesi, preoccupata. “Ci sono, ci sono” mi rassicurò il mio amico. “Ma che si vede così tanto?” mi domandò all’improvviso, con uno slancio assolutamente inaspettato. “Si vede cosa?” “Che, insomma, trovo Sun molto carina” sentenziò balbettando. Scoppiai a ridere, mettendo seriamente in imbarazzo il mio interlocutore. “Se la smettessi di ridere e mi dessi una risposta non mi offenderei, davvero” mi rimproverò. Mi asciugai con il polso una lacrima che era uscita dal troppo ridere e mi ricomposi. “No Rings, non si vede affatto. Sei tu che me l’hai appena detto, la mia domanda era ironica” confessai. “Merda” urlò. Scoppiai di nuovo a ridere. “Promettimi che non glielo dirai” mi scongiurò. “Tranquillo Richie, sarò muta come un pesce morto nel porto di Liverpool”. Mi ringraziò circa un migliaio di volte e attaccò.
Tornandomene in camera iniziai a ponderare riguardo alla sconvolgente notizia che mi si era appena presentata davanti. A Richard piaceva Sun. Ecco perché la trattava sempre in modo impeccabile. Mentre mi sedevo nuovamente sulla mia sedia, davanti al libro aperto di francese, lasciai che la mia mente divagasse come al suo solito. Immaginai Ringo che si dichiarava ad un’imbarazzatissima Sun che non sapeva come rispondere; immaginai Ted che, venuto a conoscenza della cosa, picchiava il povero Starr che, data la sua indole pacifista, le prendeva di santa ragione senza muovere un dito. Scossi la testa: non volevo finali tragici nelle mie storie. Immaginai di nuovo Ringo che si dichiarava alla mia amica imbarazzatissima che non sapeva come rispondere; immaginai Ted che, venuto a conoscenza della cosa, dava una pacca sulla spalla dell’amico e gli concedeva di stare con la sorella. Sorrisi: stavolta il finale della mia storia m’aggradava molto di più. La mia amica non aveva mai fatto commenti sul suo “neo” spasimante e iniziai a chiedermi come avesse preso la notizia. Ero curiosa ma, purtroppo, non potevo farne parola: avevo promesso, e non ero mai stata persona che non mantiene le promesse.
Ripresi finalmente la lettura dei miei barbosissimi compiti di francese.
Guardai fuori dalla finestra. Era già quasi buio. Il tempo era passato in fretta e io non ero riuscita a terminare nemmeno un esercizio.
“Rebecca oggi fai la centralinista della comitiva?” domandò mia madre, sbucando da dietro le mie spalle. Sobbalzai, non avendo sentito il suo passo felpato. “No, perché?” “Ti vogliono al telefono” ripetè, per la terza volta in quel pomeriggio, con il medesimo tono scocciato.
Stavo iniziando a detestare il tragitto fra la mia camera e il telefono, quel pomeriggio. Il telefono, invece, era un apparecchio che detestavo da sempre.
“Pronto?” “Ray?”
La voce nasale di George mi sorprese. Non era sua abitudine telefonare a qualcuno: detestava il telefono tanto quanto me, se non di più.
“Sì, è vero che non vengo al Cavern e no, non ho intenzione di cambiare idea se questo è lo scopo della tua telefonata” mi autocitai. Avrei potuto utilizzare quella frase come segreteria telefonica, così avrei anche risparmiato a mia madre l’onere di rispondere per prima e venirmi a chiamare in camera per farmi rispondere.
“Ah, perché, non vieni?” mi domandò il giovane, dall’altro capo del filo. “No, non vengo. Pensavo lo sapessi e mi avessi chiamata per convincermi a venire, come hanno già fatto i tuoi amichetti. Scusami” mi diedi una botta in testa, sentendomi una grande stupida. “Per quale motivo mi hai chiamato, allora?” chiesi, improvvisamente curiosa. “Volevo chiederti se ti andava di prepararci dei panini da mangiare dopo il concerto, ma se non vieni la mia proposta è inutile” dal tono di voce sembrava dispiaciuto. “Chiama Sun e fatteli fare da lei, no? Lei e Ted vengono sicuramente” “No ma lei non è capace a fare i panini”. Effettivamente incaricare la mia amica di preparare la cena ai ragazzi equivaleva ad una richiesta consapevole di pluriomicidi per avvelenamento. O, per lo meno, equivaleva ad una corsa in ospedale per una lavanda gastrica a tutti quanti. Per quanto mi facessero arrabbiare continuamente, volevo comunque loro troppo bene per condannarli a morte prematura. “Allora niente panini Georgie, mi dispiace” mi scusai con un sussurro. Mi dispiaceva davvero, ma per quella serata avevo altro da fare. Deluso dalla mia risposta negativa mi salutò e attaccammo.
Ebbi l’istinto di staccare la spina al telefono, ma se mia madre se ne fosse accorta mi avrebbe decapitata all’istante, quindi lasciai stare e me ne tornai in camera.
Il libro sembrava implorarmi di dargli finalmente delle attenzioni, ma con un rapido gesto della mano lo richiusi. Le pagine fecero un tonfo insoddisfatto. Maledizione a te, libro di francese, non è destino che ti dia retta, questa sera. Poi mi chiedevano il motivo per cui non mi applicassi in quella materia: erano sempre forze maggiori ad eliminare del tutto i miei (sempre ottimi) propositi.
Posai tutto il necessario nella mia libreria e tirai fuori il quaderno di matematica. Ted e le sue arrabbiature senza senso, le rivelazioni di Richard e i sensi di colpa per non aver esaudito il desiderio di George: ora avevo decisamente abbastanza grattacapi per mettermi a fare qualche esercizio.
La precisione con la quale stavo scrivendo l’espressione la rendeva più un’opera d’arte che un banalissimo esercizio, e ne ero profondamente orgogliosa. Un urlo di mia madre dalla stanza opposta, però, mi spaventò e, con un gesto involontario, sbavai tutto l’inchiostro della penna sul foglio sul quale stavo scrivendo. Maledissi me stessa, la mia penna stilografica, il foglio che non assorbiva velocemente, mia madre che urlava e, in uno scatto, arrivai in corridoio.
La cornetta mi fissava minacciosa, sorretta dalla mano della donna che stava continuando ad urlare il mio nome come una dannata. Ero davvero diventata il centralino della situazione? Sbuffai e corsi a rispondere.
“Pronto?” ringhiai. “Quanta acidità, donzella” mi sbeffeggiò la voce di John.
“Lennon hai appena rovinato i miei perfetti esercizi di matematica e mi prendi anche per i fondelli?” sbraitai. Farfugliò due, tre parole in maniera così veloce che non riuscii a captarne nessuna. “Lennon scandisci bene le parole e non farmi perdere tempo, d’accordo? Ho delle espressioni da salvare” “Mi dispiace per l’altra sera” borbottò in un fiato. Quasi lasciai cadere la cornetta per la sorpresa. Quella era decisamente una delle pochissime volte in cui sentivo John parlare seriamente. Scuse uscire dalla sua bocca, poi, non ne avevo mai sentite. “E mi dispiace che tu stasera non venga per colpa mia, ecco” aggiunse, in un soffio. Scoppiai a ridere. “Mi prendi in giro, vero?” “No, sono serissimo” “John, non sei affatto credibile quando sei serio” “Vabbè” bofonchiò. Il mondo non gira intorno a te, Lennon. Questa probabilmente sarebbe stata una tipica risposta alla me, ma in quel momento davvero non me la sentii di rispondergli in malo modo. “John, tranquillo, non vengo, stasera, perché devo avvantaggiarmi con i compiti, non per colpa tua né tantomeno perché non voglio venire a sentirvi, d’accordo?” risposi tranquillamente. Come se le mie parole l’avessero aiutato ad allentare la tensione, tornò il Lennon burlone e scherzoso che conoscevo. Con una delle sue vocine stupide mi annunciò che era in ritardo per la serata ed in tutta fretta ci salutammo ed attaccammo.
Un sorriso genuino era comparso nelle mie labbra. Quella brevissima conversazione mi aveva fatto più piacere di quanto non volessi ammettere. La realtà era che volevo veramente un gran bene a quel ragazzo, anche se per me era difficile confessarlo. E sì, mi doleva riconoscerlo ma esercitava assolutamente un enorme fascino su di me, sebbene non ne sbandierassi gli effetti al mondo intero.
Raggiunsi la cucina, dove mia madre era impegnatissima a seguire una ricetta da un enorme librone posto sul tavolo. Alzò un attimo lo sguardo e, sbuffando, tornò ad occuparsi dell’intruglio indefinito che stava bollendo all’interno dell’enorme pentolone posto sul fuoco. Sorrisi di nuovo e mi avvicinai per abbracciarla: avevo in serbo per lei una proposta che sicuramente non avrebbe rifiutato per nulla al mondo.

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Capitolo 6
*** Tell me, oh what can I do? ***


La gente presente al Cavern, quella sera, era anche maggiore della serata precedente. Continuando di questo passo prima o poi non saremmo più entrati lì dentro. Feci letteralmente a gomitate con ragazzi ubriachi e sgualdrinelle di bassa lega per riuscire a scendere la gradinata che mi portava verso il cuore del locale. L’odore nauseabondo mi provocò un improvviso e momentaneo capogiro. La musica era assordante; lanciai un’occhiata sul palco: i ragazzi erano già su a suonare. Per quanto cercassi non riuscii a trovare gli altri della comitiva fra il pubblico. Non che sperassi davvero di trovarli, considerando la piccola statura di Sun e Richard in confronto ai colossi liverpooliani che in quel momento animavano il locale. Ted era il più alto, ma anche cercare di scorgere lui si dimostrò un’impresa ardua.
Mi arresi pressoché immediatamente e presi la via verso il bancone del bar, da dove grossi boccali di birra urlavano il mio nome e mi pregavano di raggiungerli e svuotarli. Non potevo dir loro di no, le loro grida erano troppo disperate anche per una col cuore di ghiaccio come me. Mi sedetti su uno sgabello ordinando da bere e mi misi a seguire il concerto. Quella sera sembravano molto più sciolti della sera precedente, probabilmente ci avevano preso gusto.
Appena il barista mi fece passare sotto il naso la mia profumatissima birra abbandonai la mia ammirazione momentanea verso i quattro sul palco e diedi il via alla mia degustazione.
“Dling dlong, annuncio di servizio. La signorina Ray Knowall è pregata di smettere di fare la camionista bevendo birra e di raggiungerci immediatamente sul palco, grazie” per tutto il Cavern si levò una grossa risata. Cercando di evitare di soffocare a causa di una sorsata andata pericolosamente di traverso, fulminai i ragazzi sul palco che mi guardavano ridendo. Mi fecero all’unisono segno di avvicinarmi ed io declinai con un secco no con la testa. “Ray hai portato i panini? Ho una fame da lupo, ti prego vieni a portarmene uno” mi supplicò George al microfono. Alcune ragazze scoppiarono a ridere, anche se non riuscivo a cogliere il lato divertente di quella frase. Sbuffando abbandonai la mia povera birra al suo triste destino e raggiunsi il palco, sgattaiolando fra la folla che mi guardava incuriosita. Non conoscevo quasi nessuno lì in mezzo ed ora, grazie ai Beatles, la mia dignità era andata a farsi friggere prima ancora di essersi creata.
Porsi un panino al povero ragazzo affamato che, in tutta risposta, anziché prendere il suo spuntino ringraziandomi, mi afferrò per un braccio e mi fece salire a forza. “Facciamo tutti un applauso a Ray che ci ha portato la cena” urlò John. Per mia grande sfortuna il suo carisma lì sul palco era assoluto, e tutti fecero ciò che lui aveva richiesto. Sentivo il sangue ribollire nella faccia, probabilmente ero diventata paonazza in pochi istanti. Mi portai le mani sul viso, per coprire i segni del mio imbarazzo. In quel momento l’unica cosa che desiderassi era scendere da quel palco infernale e tornare a farmi gli affari miei, aspettando la fine della performance per poterli strangolare con le mie stesse mani. “Voi siete pazzi” sussurrai scuotendo la testa, senza ricevere risposta da nessuno. George prese il sandwich che gli stavo porgendo poco prima, lo scartò e gli diede un morso, affamatissimo. Per loro era una cosa normale rendere il palco la loro ‘casa’: passandoci gran parte delle loro giornate erano abituati a non avere limiti e fare sempre di testa loro. “Posso scendere, ora?” domandai, liberandomi dalla mia stessa presa, smaniando come una ragazzina che vuole essere presa in braccio. “Questo è il panino più buono che abbia mai mangiato in vita mia, grazie Ray!” commentò George, senza nemmeno degnarsi di darmi una risposta. Si avvicinò e mi schioccò un bacio sulla guancia, che rimbombò per tutto il locale a causa della nostra vicinanza al microfono. Le ragazzi sotto al palco non sembrarono particolarmente felici di quella mossa azzardata ed io, più imbarazzata che mai, abbandonai il palco senza aspettare il permesso per farlo.
Paul si accertò che l’amico avesse terminato di cibarsi e diede il via alla canzone successiva con un abile virtuosismo col suo basso. Lo amai improvvisamente, per un attimo, per avermi tolto l’attenzione di tutti da dosso ed essersela prepotentemente ripresa. Le smanie di protagonismo del giovane McCartney non avevano sempre risvolti negativi. Lo ringraziai lanciandogli un’occhiata fugace che captò immediatamente, rispondendomi con un occhiolino che avrebbe fatto sciogliere qualsiasi ragazza. Effettivamente mi fece un certo effetto, ma non potevo starmene a gongolare sotto al palco: dovevo dare un senso a quella serata.
Cercai disperatamente di tornare alla mia birra, al bar, ma ero quasi paralizzata dai troppi sguardi addosso e dall’eccessivo numero di persone fra me e la mia meta. Urtai più di una persona, senza mai fermarmi a chiedere scusa, finché non venni bloccata da un ragazzo alto e muscoloso. “Hey bella, come va la vita?” domandò, sfacciato. Era un classico teddy boy, col ciuffo impomatato, la giacca di pelle e il cervello grosso quanto una noce. Cercai di evitare il contatto visivo, sviando dalla conversazione fingendo di non averlo ascoltato. “Oh, dai, stammi a sentire, voglio solo sapere come ti chiami” mi urlava contro, seguendomi, non notando i miei disperati tentativi di ignorarlo. Chiusi gli occhi e continuai ad annaspare fra la gente, sperando di arrivare al bar il prima possibile, seminando il disturbatore. “Senti, bella moretta, è inutile che fai la difficile. Non sono mica un pervertito, voglio solo sapere il tuo nome” continuò, afferrandomi per un braccio e ponendo fine alla mia disperata fuga. Mi voltai a fissarlo, indispettita da quel gesto insolente. Più che altro ero assolutamente terrorizzata di lui. Il mio sguardo si posò per un attimo sui suoi occhi: erano azzurri, cristallini. Erano talmente belli che mi spaventarono ancora di più. “Mi chiamo Ray” mi arresi. L’altro, finalmente soddisfatto, mi porse la mano libera e strinse la mia destra. “Bill, piacere” sorrise. “Ora scusami, ma ho una certa fretta” sostenni, cercando di dimenarmi dalla sua presa, senza risultati. “Non sono il tuo tipo, eh? Senti, dimmi un po’, con quale di quei quattro te la fai? Ti ho vista sul palco, poco fa” “Ma che…” “Ray!”riconobbi immediatamente la voce preoccupata che mi chiamava. “Senti tu, coso, lasciala in pace o ti ritroverai presto il mio pugno giù per la gola” urlò Ted, annullando la forte presa di Bill sul mio braccio con un abile gesto. Appena mi sentii finalmente libera corsi fra le braccia del mio salvatore che mi cinse con le sue braccia, continuando a guardare in modo crudo lo sconosciuto. “Calma bello, stavamo solamente scambiando due chiacchiere” lo intimò quest’ultimo, fingendosi un angelo. “Ciao, ciao Ray, ci si vede in giro” continuò, con un cenno della mano, e si dileguò fra la folla.
Balbettai con difficoltà numerosi grazie, tremando come una foglia. Non mi era mai capitato di vivere un’esperienza simile, ma sapevo di per certo di non volerne più vivere alcuna. Insieme a Ted, che continuava a brontolare maledizioni contro il tipo, raggiunsi Sun e Ringo, che ci aspettavano al bar. “Cosa è successo, perché ci avete messo tanto?” chiese Sun, dimenando la mano che stringeva il suo bicchiere di succo di frutta. Senza dare una risposta alla sorella, Ted si voltò verso di me, con sguardo serio. “Cosa ti è venuto in mente? Potevi avvertirci che saresti venuta da sola, ti saremmo venuti a prendere a casa. Vedi cosa succede in posti come questo se non sei in compagnia?” mi sentivo una sciocca, una perfetta idiota. “Hai ragione Ted, scusami. Pensavo di potermela cavare a venire qui sola e farvi una sorpresa, ma evidentemente mi sbagliavo” “Ma cosa è successo?” chiese Richard, cadendo letteralmente dalle nuvole. “Niente Rich, un cretino stava infastidendo Ray. La sorpresa l’avrebbe avuta lei, presto, se non fossi arrivato in tempo”. Sun, sentendo il mini racconto del fratello, aprì le braccia per abbracciarmi, ed io mi tuffai su di lei. Non sarei stata nulla senza l’aiuto dei miei amici. Ringo, con un dolce sorriso stampato sulle labbra, mi porse il suo boccale di birra. Accettai la sua tenera offerta e diedi una sorsata avida.
“Ti ho vista sul palco” commentò Sun dopo aver slegato l’abbraccio. Sorrideva, anche se dal suo sguardo si leggeva nitidamente che sarebbe tanto voluta salire lei, al mio posto. “E’ stata una mossa a tradimento, io non volevo salire” replicai, incrociando le braccia. “Ma perché sei completamente vestita di nero?” le domandai, cercando di cambiare discorso. “Ero in lutto per la tua assenza” scoppiò a ridere. La seguii a ruota e, dopo una pacca sulla spalla, l’abbracciai nuovamente.
 


Appena il concerto fu finito i ragazzi proposero di spostarci ad un altro locale, poco lontano dal Cavern. Lì, per quella sera, era in programma una serata di alcool no stop a poche sterline e noi non ci saremmo mai potuti perdere una serata simile. Sun era l’unica astemia, ma Ringo le teneva compagnia con la scusa del dover guidare e riaccompagnare tutti a casa. Immaginai, più che altro, che quella fosse una scusa per non fare cose stupide da ubriaco: tutti conoscevamo l’impulsività di Richard Starkey quando alzava troppo il gomito. Prima o poi avrebbe combinato qualche guaio, ma non quella sera: via impulsività, via figuracce con la ragazza che ti piace, matematico.
Quella sera si beveva per festeggiare: i Beatles avevano deciso di accettare la proposta di Brian Epstein di diventare il loro manager. L’indomani sarebbero andati nel suo negozio di dischi per annunciargli la loro decisione. Quale motivazione migliore per poter passare una nottata allegra in compagnia dei propri amici?
In una manciata di minuti erano tutti partiti: Ted stava dando il meglio di sé imitando in maniera pessima Elvis Presley e il suo movimento pelvico in Jailhouse Rock, Pete, caduto a terra dalle troppe risate, continuava a sbellicarsi rotolando su e giù per il pavimento lurido della bettola in cui ci trovavamo, George fissava il vuoto come se avesse appena avuto una mistica apparizione, John e Paul discutevano su chi dei due fosse il più figo del gruppo e io mi limitavo ad osservare tutto e tutti. Ogni sensazione era amplificata, sentivo il battito del cuore rimbombarmi in testa, e tutto intorno a me si muoveva in modo vorticoso. Sembrava di stare su una giostra che gira velocissima. Forse avevo esagerato. Continuai a guardarmi intorno; forse avevamo esagerato tutti quanti.
Sun continuava a parlarmi ininterrottamente credendo e pretendendo che io la stessi a sentire. Evidentemente non le era ben chiara la mia situazione. Continuavo ad annuire ad ogni cosa che dicesse, senza capire davvero i suoi discorsi.
Avevo dimenticato quanti bicchieri avevo bevuto. Avevo già dimenticato persino cosa avevo bevuto. Continuavo a pensarci, evitando che le parole della mia amica facessero presa sui pochi neuroni ancora attivi del mio cervello.
“Senti, Sun, tutto questo è davvero molto interessante ma non è che potresti spegnerti anche solo per un attimo? Mi stai facendo venire il mal di testa” la supplicai, infine. Da astemia non poteva certo capire la mia situazione, tant’è che, apparentemente offesa, incrociò le braccia e cominciò a parlare con Richard, evitandomi totalmente. In un altro momento mi sarebbero venuti i sensi di colpa, ma nelle condizioni in cui mi trovavo non avevo nemmeno la forza per chiederle scusa.
Senza badare troppo alla reazione di Sun mi alzai e raggiunsi Ted. Terminata la sua esibizione impeccabile di poco prima, era ora impegnato a cantare teatralmente Love Me Tender alla cameriera più giovane. La biondina, in tutta risposta, non capendo quanto fosse ubriaco il ragazzo, si era fermata ad ascoltarlo rapita. Forse era così stupida da credere che quello fosse davvero un imitatore qualificato di Elvis , o che so io. “Ray, non vedi che sono occupato?”mi rimproverò non appena mi sedetti al suo fianco. La tipa fece un cenno della mano per farsi notare, sorridente. “Anzi, non è che potresti dire alla cameriera bionda che è davvero il mio tipo?” mi domandò. Il mio sguardo e quello della ragazza si incrociarono per un attimo. “Ted, questo puoi anche dirglielo tu, guarda che ci sente” dissi, dandogli una pacca sulla spalla. “No, non mi sente. E poi se glielo dico sembra che ci sto provando. Certo, ci sto provando, ma non voglio che se ne accorga” ammise. Il suo sguardo perso metteva quasi paura. “Ted dice che sei il suo tipo” dissi, una volta in piedi, alla cameriera, dandole delle pacche affettuose sulla spalla. Quella mi sorrise e me ne andai.
Mi recai, barcollando, verso il bancone del bar. Ero io a dare i numeri o la Terra si era improvvisamente inclinata pericolosamente? Durante quel viaggio che mi sembrava sempre più interminabile ad ogni passo che facevo, cercai di contare mentalmente il numero di bicchieri di birra, di whiskey e di gin che avevo bevuto fino a quel momento. Quattro, cinque? Oppure erano sette, otto?
“Georgie, tutto ok?” gli chiesi passandogli vicino, poggiando una mano sulla sua spalla. Pete, al tavolo con lui, era letteralmente crollato dal troppo ridere e ora se ne stava a dormire come un sasso, stringendo con una mano un bicchiere mezzo vuoto di non so cosa e sbavicchiando sul tavolo di legno. “Buon appetito!” rispose Harrison, continuando a guardare il vuoto avanti a sé. Posò poi improvvisamente le sue iridi nocciola su di me. “Ray, ti ho già ringraziata per tutti i panini che mi hai fatto?” domandò sorridendo. Ridacchiando e annuendo gli diedi un bacio sulla fronte e me ne tornai a percorrere il mio infinito viaggio verso il bar.
George ubriaco era davvero di una dolcezza unica. Tirava fuori quel lato adorabilissimo di sé che, di solito, teneva nascosto con l’aria da ragazzo tenebroso e misterioso che indossava ogni giorno.
“Hey Ray, vieni un po’ qui” urlò Lennon appena passai affianco al loro tavolo. Mi afferrò per un braccio e mi fece sedere a forza tra lui e Paul. L’effetto dell’alcool mi impose di non ribellarmi. Puzzavano entrambi di birra. In uno dei loro tipici slanci di competitività reciproca si erano sfidati a berne il più possibile ma, dall’odore che emanavano, la loro gara era terminata con un pareggio. “Noi ora ti facciamo una domanda, ma tu promettici che sarai sincera” mi spiegò Paul, cingendomi le spalle con un braccio. “D’accordo. A cosa dovrei rispondere?” replicai, mentre John, apparentemente infastidito, cercava di togliermi il braccio dell’amico di dosso. Nelle loro sfide era assolutamente vietato barare e, più che mai, era vietato cercare di comprare il giudice con mezzucci da quattro soldi. “Chi di noi due è più utile alla band, secondo te?” continuò il McCartney. “Siete tutti e due fondamentali” risposi senza pensarci troppo su. Non sembrarono affatto soddisfatti della mia risposta.
“Ray, vuoi un’altra birra? Te la vado a prendere?” il Macca avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sentirsi dire che era lui il più utile della band, anche offrirmi da bere. “Paolino non scomodarti, vado io” insistette John, parlandogli sopra. Senza badare all’improvvisa galanteria dei due ragazzi mi alzai. “Posso cavarmela anche da sola ragazzi, grazie”.
Arrivai al bar con qualche difficoltà ed ordinai un altro bicchiere di rossa. Fissavo incantata quella bevanda degli dei che lentamente colava nel bicchiere. Appena ricevetti la mia scorta di alcool tornai al tavolo di John e Paul. Poggiai la mia birra sul tavolo. “Guai a voi se ne prendete anche solo un goccio” li rimproverai ridendo. Feci per sedermi ma una mano sulla spalla mi trattenne. Mi voltai. “Ciao Ray”. Nonostante avessi visto quegli occhi una sola volta, li riconobbi subito. Erano paurosamente meravigliosi. “Bill?”
“Che coincidenza vederci anche qui, eh?” sostenne, con un sorriso beffardo stampato in faccia. “Ci hai seguiti?” domandai, terrorizzata. “No, non vi ho seguiti. Ti ho seguito” il suo sorriso era sempre più fastidioso.
“Tu saresti?” asserì John con tono minaccioso, alzandosi in piedi e posizionandomi al mio fianco. “Cosa vuoi da Ray?” continuò Paul imitando l’amico.
“Ma quante guardie del corpo hai?” chiese Bill, infastidito da quelle due presenze inaspettate. “Non sono affari tuoi, lasciami in pace” lo sfidai, incrociando le braccia. Con i miei due angeli custodi intorno mi sentivo improvvisamente invincibile. Mi scansai e mi liberai della presa del mio molestatore.
“Spiegami perché non vuoi venire con me a farti un giro” fece quello, alzando le spalle. Il suo tono innocente non la diede a bere né a me né ai miei due amici. “Si dia il caso che io sia…” “fidanzata!” m’interruppero in coro i miei due bodyguard improvvisati. "E quale fra voi due..." li squadrò dalla testa ai piedi con faccia schifata "...scarafaggi... Sarebbe il suo fidanzato?" accentuò con tono strafottente quest'ultima parola. Era chiaro che non ci credesse nemmeno un po'. "Io" urlarono all'unisono sia Paul che John. Guardai quest'ultimo arrossendo improvvisamente; i nostri sguardi imbarazzati si incrociarono per un attimo. "Lui" si corresse Lennon indicando il Macca, mentre questi continuava ad indicare sè stesso. La gaffe era chiara, ma evidentemente Bill era troppo ubriaco per accorgersene. "Bene" commentò dopo qualche secondo di silenzio. Paul, continuando a recitare, mi strinse al suo fianco cingendomi la vita con un braccio. Trassi un sospiro di sollievo: il pericolo era scampato, tutto grazie alla bizzarra idea dei miei due bodyguard improvvisati.
"E l'anello?" insistette il teddy boy. Cavolo. "Nessun anello, ancora non abbiamo ufficializzato nulla" replicò il mio 'fidanzato' senza mostrare alcun tipo di titubanza. "E io come faccio a sapere che state insieme veramente?" domandò impudente. Ci fece un cenno con una mano e si allontanò, alla ricerca di una sedia. Non si teneva più in piedi e voleva godersi la scena del nostro smascheramento seduto comodamente.
"Che cazzo faccio adesso?" chiese nervoso Paul a John. Ci eravamo invischiati in un bel guaio, altro che idea geniale. "Che ne so io, sei tu il fidanzato" rispose quello, fingendo disinteresse. Si sedette nuovamente al suo posto ed iniziò a sorseggiare la mia birra, pensieroso.
Bill si stava avvicinando. In uno slancio di teatralità e di disperazione abbracciai Paul. "Amore mio, ti prego, andiamo via. Quel tipo m'infastidisce" urlai, appurando che il disturbatore mi avesse sentito. Ci guardava incuriosito mentre sistemava lo sgabello di legno che aveva rimediato e vi ci sedeva su. "Amore, stai tranquilla. Quel tipo non deve nemmeno azzardarsi ad avvicinarsi a te" continuò la recita il mio complice.
"Ray, sei poi credibile" mi sussurrò Paulie all'orecchio, continuando ad abbracciarmi. "Cosa dovrei fare?" chiesi disperata, sottovoce. "Lascia fare a me”.
Non feci nemmeno in tempo a realizzare cosa mi avesse detto che sentii la presa del suo abbraccio svanire. Le sue mani raggiunsero velocemente il mio volto e lo avvicinarono prepotentemente al suo, fino a che le nostre labbra non s'incontrarono. Non potei fare a meno di chiudere gli occhi, sperando con tutta me stessa che ne fosse valsa la pena.
Dopo un tempo indefinito, ma che mi parve spaventosamente lungo, ci dividemmo. La prima cosa che andai a controllare, non appena riaprii gli occhi, fu la faccia di John. Non dovrebbe essere stato lui il mio primo pensiero, ma l'istinto prevalse. Sembrava sorpreso, sicuramente non si sarebbe mai aspettato un esito simile. Aveva posato il bicchiere di birra e mi fissava con gli occhi sgranati, incapace di dire qualsiasi cosa.
"Hai capito che non c'è trippa per gatti, mio caro? Lei è la mia ragazza e non ti devi più permettere di infastidirla, chiaro?" urlò Paul. Distolsi finalmente lo sguardo da Lennon e tornai a preoccuparmi di Bill. "Bè, Ray, peggio per te. Io sarei stato molto meglio di questo scarafaggio qui" disse alzandosi in piedi. "Ci becchiamo in giro" continuò, andandosene.
D'istinto abbracciai nuovamente Paul, ringraziandolo. Quando notammo entrambi che la nostra eccessiva vicinanza era nuovamente divenuta fuori luogo ci lasciammo, evitando ogni tipo di contatto visivo. Fissai il bicchiere sul tavolo: ora era vuoto.
"Ray?" la voce di Sun mi riportò alla realtà. Mi voltai verso il luogo da dove proveniva quella voce. La mia amica sembrava scossa. "Ehm, andiamo? Richie è stanco e vorrebbe tornare a casa". La sua voce era stranamente spenta. Annuii silenziosamente e la raggiunsi. I due ragazzi ci seguirono fuori.
Erano tutti all'esterno del locale ad aspettarci. "Cos'ha Pete?" chiese John appena fummo fuori. Notai che Best si teneva malamente in piedi, appoggiato con entrambe le mani sulla parete, con la testa china. "L'abbiamo svegliato bruscamente" replicò George, atono. Il suo sguardo era ancora terribilmente perso. "Ci sta dando giù pesante" continuò Ted, mentre Pete dava di nuovo di stomaco sull'asfalto già bagnato.
Sentii i conati di vomito salirmi addosso con la stessa velocità dell'odore acre proveniente dal mio amico. "Ragazzi davvero, non è per cattiveria, ma preferisco non salire in auto con lui" proferii con molto poco tatto. "Vado a piedi, tanto casa mia non dista molto da qui" conclusi, portandomi entrambe le mani davanti al naso e alla bocca.
"Da sola? Sei sicura?" mi domandò Richard, preoccupato. La sua indole paterna e protettiva era alle stelle. "Tanto qualcuno doveva andare a piedi, non entravamo tutti in macchina" lo zittì Sun. "Ma non mi fido a lasciarla andare sola, ha bevuto parecchio, si tiene a malapena in piedi!" la ammonì Ringo. "Richie, davvero, posso cavarmela benissimo da sola..." "La accompagno io" prese la parola Paul. John, Sun e Richard lo sguardarono stupefatti. Persino Ted smise per un attimo di dare man forte all'amico dallo stomaco debole, incredulo di ciò che aveva appena sentito. "Casa mia e quella di Ray non sono molto distanti, non vi preoccupate" continuò il Macca. "D'accordo allora, andiamo?" troncò fredda Sun.
“Stavolta nel bagagliaio ci va Geo!” “Ma perché sempre io nel bagagliaio?” “Fate i bravi e mettetevi a fare la conta”.
Le voci di tutti quanti divennero inudibili non appena svanirono al primo angolo. Silenziosamente io e Paul ci incamminammo verso casa. Il silenzio che inondava ogni nostro passo era talmente imbarazzante che mi pentii di aver accettato di essere accompagnata da lui. L’improvviso rumore di un barattolo che rotolava lungo la strada mi spaventò. Un cucciolo di cane corse incontro alla lattina che ancora si muoveva, giocandoci tranquillamente.
“Paulie… ehm… senti” “Dot non saprà niente, tranquilla” mi precedette. “Siamo tutti talmente ubriachi che domani non ricorderemo niente” mi rassicurò. Mi morsi le labbra, non ero completamente certa di quello che stesse sostenendo. “Sei stato davvero gentile a proteggermi, comunque” sussurrai, fissandomi le mani che si contorcevano vorticosamente. Calò nuovamente il silenzio.
“Mi dispiace di averti presa alla sprovvista, è stata la prima cosa d’effetto che mi sia venuta in mente” si scusò. Avevamo appena passato Sefton Park, mancava poco a casa. “Era il tuo primo bacio?” mi domandò. Strabuzzai gli occhi e lo guardai, per la prima volta da quando eravamo usciti dal locale. “Sì” ammisi in un sospiro, tornando a fissarmi le mani che, nonostante il freddo, stavano sudando copiosamente. “Immagino te l’immaginassi più romantico, credo di aver distrutto i tuoi sogni di ragazza perbene” sembrava si sentisse davvero in colpa. “Oh, tranquillo, non importa” tagliai corto. Quello decisamente non era un buon argomento di conversazione. Lo capì, e il silenzio si impossessò nuovamente di entrambi.
Arrivammo a casa pochi minuti dopo. Mi fermai sull’uscio della porta e mi volta per salutarlo. Per una volta non era più alto di me: il gradino di fronte al mio portone mi permetteva di annullare ogni differenza. “Grazie per avermi accompagnata fino a qui. E ancora grazie per avermi salvata da quel tipo” “E’ stato un piacere” disse con una scrollata di spalle, come se la cosa non gli importasse. Mi avvicinai per salutarlo ma la situazione si capovolse in pochi istanti. Mi prese totalmente alla sprovvista, proprio come la prima volta. Sapeva di birra, come la prima volta. Socchiusi gli occhi e lasciai inconsapevolmente che le mani scivolassero fra i suoi capelli, scompigliandoli. Improvvisamente mi girò la testa e il nostro contatto si sciolse. Lo guardai senza sapere cosa dire. Lui sorrideva. “E’ stato divertente essere il tuo fidanzato per una sera” pronunciò beffardo. Non gli risposi. “Spero solo di aver riaggiustato i cocci del tuo sogno infranto, dolce fanciulla”. “Sei totalmente ubriaco” fu l’unica cosa che riuscii a dire, scuotendo la testa. “Per questo l’ho fatto. Domani non ricorderemo niente, rammenti?”.
Domani non ricorderemo niente.




Ok, ok lo so che è una vita che non aggiorno. Avevo promesso che avrei aggiornato una volta a settimana ma fra esami univeritari, ispirazione svanita, concerti e impegni vari sono stata troppo occupata per scrivere questo capitolo.
La "svolta" finale ha sorpreso anche me, se devo essere sincera. I miei personaggi fanno sempre di testa loro, non li sopporto quando fanno così. Boh, spero solo che almeno adesso Paulie sembre più carino e coccoloso e un po' meno "ce-lìho-solo-io" ahahah
Voi che ne pensate? Fatemi sapere con un commento, pliiis. Senza le recensioni non riesco a trovare la motivazione giusta per continuareee ç___ç (occhei, così sembro una pazza psicopatica alla ricerca di attenzioni).
Spero di poter aggiornare presto. Il prossimo capitolo è già in lavorazione ;)
Baci baci

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Capitolo 7
*** I never realised what a kiss could be. ***


Domani non ricorderemo niente.
Quelle quattro parole mi rimbombavano in testa ad un volume assordante. Di certo non mi aiutavano a superare il tremendo mal di testa post sbronza. E di certo non mi aiutavano a non ricordare niente sul serio.
Ogni istante della sera precedente era stampata nitidamente nella mia mente, come fosse una fotografia. Come in una polaroid i ricordi sfocati si erano fatti più chiari col passare del tempo.
Mi alzai faticosamente dal letto e raggiunsi la cucina a tastoni. Ancora barcollavo. Presi due biscotti al cioccolato da dentro la credenza e mi buttai a peso morto su una sedia, sgranocchiando. Come ogni volta che finivo per bere così tanto, mi maledissi, promettendo a me stessa che non avrei mai più bevuto in una tale quantità. Sapevo benissimo che non avrei mai mantenuto quella promessa, ma cercare di auto convincersi a rispettarla mi dava un motivo in più per riprendermi.
Sentivo ancora in bocca il sapore della birra, tanto che il biscotto che mangiucchiavo pur di tapparmi un po’ lo stomaco mi fece nausea. Finii di mangiarlo, faticosamente, e riposai il suo compagno nella scatola. Guardai l’orologio, erano appena le dieci. Erano passate appena cinque ore da quando ero rientrata a casa, eppure mi sembrava un’eternità.
Le speranze di dimenticare le ultime vicende della serata erano totalmente vane. Rivedevo nei miei ricordi ogni momento trascorso all’interno del locale. Ero ancora talmente sbalordita dal comportamento di Paul da credere, per un momento, di aver sognato tutto. Le immagini oniriche del nostro saluto davanti casa mia erano terribilmente nitide. Non poteva essere un sogno. L’alcool non era riuscito ad intaccare nessun particolare, li aveva, anzi, amplificati all’ennesima potenza. Non ero certa di voler davvero dimenticare tutto quello che fosse successo anche se, probabilmente, sarebbe stata la cosa migliore.
In passato non mi ero mai sbilanciata a pensare a come sarebbe stato il mio primo bacio. Il mio totale antiromanticismo non me lo aveva mai permesso. Non avevo mai nemmeno immaginato di essere in grado di vedere tutto così rosa. Ritrovandomi a sorridere come una completa idiota scrollai la testa per togliermi dalla testa quei pensieri così infantili. Era stato tutto un gioco, non dovevo dare troppo peso a tutto ciò che era successo.
Il trillo del campanello di casa mi fece sussultare, distogliendomi dai miei pensieri. Mi portai pesantemente alla porta, cercando di stilare una lista di possibili visitatori. I miei erano a lavoro quindi cancellai a priori ogni loro amico. Forse era la vicina che aveva bisogno dello zucchero, o del sale, o di chissà cosa. Oppure era un poliziotto che veniva ad arrestarmi per aver bevuto pur non avendo ventun'anni. Oppure... "Richard?!" affermai sorpresa aprendo la porta. Mi squadrò da capo a piedi, sorpreso anche lui di trovarmi ancora in tenuta da notte. "Cosa ci fai qui?" domandai, lasciandolo sull'uscio. Anche la migliore educazione inglese va a farsi benedire dopo una nottata alcolica. "Posso entrare?" mi chiese cortesemente, cercando il più possibile di passare sopra il fatto che fossi in camicia da notte. Gli feci cenno di accomodarsi e richiusi la porta alle sue spalle. "Dobbiamo andare ad accompagnare gli altri al negozio di Epstein, te ne sei dimenticata?" tornò pacatamente al discorso, dopo che gli ebbi offerto una tazza di te che rifiutò con garbo. Mi ero dimenticata di una delle cose più importanti decise la serata precedente. Forse Paul aveva ragione dicendo che avremmo scordato tutto, una volta passata la notte.
"Dio, hai ragione! A che ora era l'appuntamento con gli altri?" risposi agitata. Ringo, facendo il finto tonto, posò lo sguardo sull'orologio appeso sulla parete della cucina. "All'incirca un'ora fa, Ray" sorrise, facendomi sentire ancora più in colpa. Anche la mia puntualità inglese era andata a farsi benedire. "Cazzo, Richard, e tu me lo dici così?" corsi in camera mia per potermi preparare nel minor tempo possibile. "Gli altri dove sono?" chiesi al mio amico che, impassibile, mi fissava, appoggiato al ciglio della porta, mentre io ero occupata a svuotare l'armadio, alla disperata ricerca di qualcosa da mettermi. "Sono tutti qui sotto ad aspettarti, in realtà" rispose, tranquillo. "Perché sei salito tu, allora, e non Sun?" mi sfilai la camicia da notte dalla testa, rimanendo praticamente nuda davanti al mio amico. Questi, dopo aver assunto una faccia pressoché sconvolta per via della mia indifferenza nello spogliarmi di fronte ad un ragazzo, si voltò dalla parte opposta per non vedermi. "Sai, credo che Sun sia lievemente in collera con te per quello che è successo ieri sera" affermò, fissando il muro di fronte a sé. "Lievemente in collera? Cosa le ho fatto? Non ho passato la serata con lei, lasciandola sola con un provolone come te?" domandai ironica, fingendo che quello fosse tutto ciò che ricordassi della serata precedente. Attendendo una risposta da Ringo terminai di vestirmi, gli diedi una botta sulle spalle e corsi in bagno. "Non credo che la piccola Sun abbia apprezzato più di tanto ciò che è successo ieri sera fra te e il Macca" mi rimproverò seguendomi come un segugio fino in bagno. "Paul è questione chiusa per lei, perché dovrebbe pesarle ciò che è successo ieri sera? Poi è stata una cosa per gioco, niente di serio" mi giustificai mentre mi infilavo le scarpe e mentre mi avvicinavo al lavabo per potermi lavare i denti. "Anche il farsi riaccompagnare a casa e continuare qui, sotto casa tua, era un gioco?" "Sotto casa mia?" finsi di non capire. Sbuffando Richard fece cadere il discorso. In silenzio mi guardai allo specchio, diedi una velocissima sistemata ai capelli ribelli e mi misi il cerchietto per domarli. "Sono pronta" affermai soddisfatta.
Seduti sugli scalini del mio portone, tutti con una sigaretta in mano, i Beatles mi attendevano impazienti. Con loro anche Ted e Sun che, appena mi vide, mi liquidò con un cenno della mano. Erano tutti troppo spenti per essere una band che si apprestava a firmare una sottospecie di contratto col loro primo manager ufficiale. "Buongiorno a tutti! Scusatemi per il ritardo" pronunciai entusiasta salutando uno per uno i ragazzi. "È un'ora che ti aspettiamo, pensavamo non arrivassi più" disse Pete, preoccupato. Dalla faccia non sembrava particolarmente provato dalla nottata precedente. "Cosa ti è successo?" continuò, gettando la cicca a terra. "Amnesia alcolica" mi giustificai scrollando le spalle. Lanciai un'occhiatina fugace a Paul: sembrava non aver colto la mia allusione.
"Ragazzi vogliamo stare a cincischiare per tutta la mattina? Brian vi aspetta" ci interruppe Sun, seccata. Come improvvisamente svegliati da un torpore sconosciuto, tutti si alzarono e si avviarono verso il negozio di dischi di Epstein. "Te l'avevo detto che era arrabbiata con te" mi sussurrò all'orecchio Richard, per poi allungare il passo ed avvicinarsi a Pete per fare due chiacchiere. Mi scrollai nuovamente nelle spalle e raggiunsi George, impegnatissimo ad accendere un’altra sigaretta, in sostituzione a quella che aveva gettato a terra nemmeno mezzo minuto prima. "Agitato?" chiesi sorridente. "Non sai quanto" rispose quello aspirando avidamente una boccata di fumo. "Ma non dirlo agli altri" il suo sguardo, un misto fra l'eccitato e il terrorizzato, mi lasciò di stucco. "Sarò muta come un pesce" lo rassicurai cucendomi la bocca. Un suo sorriso, anche solo accennato, mi riempì di gioia. "Oggi poi non dovrete fare niente di che, non c'è bisogno di essere così tesi" il mio amico, in tutta risposta, mi abbracciò affettuoso, scompigliandomi i capelli che avevo domato con tanta difficoltà.
Continuando a parlottare allegramente con Geo notai, con la coda dell'occhio, Sun che rideva e scherzava con John. Ogni tanto mi lanciava qualche occhiatina veloce, come a voler controllare che io l'avessi notata. A che gioco stava giocando? Era davvero così rancorosa da volersi vendicare per una cosa talmente stupida? Finsi di non curarmi troppo di lei, ma dentro stavo letteralmente bruciando di rabbia. Non poteva capire, non aveva il diritto di comportarsi così nei miei confronti. Non aveva il diritto di sfoderare le sue migliori armi e utilizzarle contro di me, sfruttando i miei punti deboli. Odiavo ammettere che il mio tallone d'Achille fosse così evidente.
"Ma ti stai frequentando con qualcuno e non ce l'hai mai detto?" domandò curioso George, distogliendomi dai miei pensieri. "Harrison ma cosa vai dicendo? La sbronza di ieri ti ha lasciato qualche postumo" risposi divertita. In realtà non potei fare a meno di chiedermi da quale imput scaturisse un quesito simile. E Richard come faceva a sapere che, una volta sotto casa mia, io e Paul ci eravamo baciati nuovamente? Geo si scrollò nelle spalle e continuammo a proseguire verso il negozio di dischi in silenzio. Ringo, Pete e Paul erano impegnati in un discorso infinito riguardo al metodo che Pete aveva per suonare la batteria. Ted, Sun e John ridevano a crepapelle per una battuta che non avevo sentito. Guardai George che, pensieroso, continuava a camminare tenendo un braccio sulla mia spalla. Ero contenta di ritrovarmi a fare il viaggio con lui. La sua indole riservata e silenziosa era tutto ciò di cui avevo bisogno quella mattina. Quella mattina che era già iniziata così male.
Dopo una manciata di minuti arrivammo finalmente al negozio di dischi Epstein. Era assolutamente il più fornito di tutta Liverpool in quel settore. Io e Sun ci addentravamo spesso fra quegli scaffali, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo o, il più delle volte, per il puro gusto di stare lì dentro e respirare l'odore dei vinili. Entrammo; il campanello alla porta trillò allegramente non appena fummo tutti dentro e l'avemmo chiusa alle nostre spalle. Sembrava non ci fosse nessuno. George mi lasciò e raggiunse i suoi tre compagni che, titubanti, si avvicinarono al bancone. Noi quattro accompagnatori, al contrario, ce ne restammo in disparte. I componenti della band iniziarono a rumoreggiare: chi tossiva, chi spostava una pila di dischi, chi batteva i piedi a terra. Erano troppo in imbarazzo per chiamare Brian. Il loro metodo, in ogni caso, funzionò. Da una porticina dietro al bancone sbucò Brian, con in mano una grossa pila di vinili da catalogare e sistemare negli scaffali. “I famosi Beatles nel mio negozio” sostenne compiaciuto, sorridendo, appena notò gli unici clienti presenti in negozio in quel momento. Poggiò il suo carico sul bancone, attendendo una mossa da parte dei ragazzi. “Oh, ciao Ted” disse infine, notando il fratello della mia amica. Un cenno della mano del fratello della mia amica bastò come risposta. “Ve l’avevo detto che aveva una cotta per me” sostenne sussurrando Teddy, indietreggiando impercettibilmente. “E’ semplicemente un ragazzo educato, non vuol dire che sia un deviato” lo rimproverò Ringo.
Durante il battibecco a voce flebile fra i due, i quattro della band si avvicinarono al bancone ed iniziarono a chiacchierare amichevolmente con il giovane Epstein. Dalle loro risate sembravano essersi sciolti, e ne ero assolutamente felicissima. Non riuscendo ad ascoltare i loro discorsi iniziai a dare un’occhiata fra gli scaffali del negozio. Sun, al contrario delle nostre abitudini, non mi seguì, ma anzi restò a conversare col fratello e l’amico come se io non fossi minimamente presente. Sbuffai, ma continuai a perlustrare quei dischi che, ormai, conoscevo a memoria.
Non contai il tempo che restammo lì dentro ma mi sembrò un’eternità. Stare lì dentro praticamente da sola era assolutamente noiosissimo. La testa, poi, ogni tanto riprendeva a vorticare, ricordandomi degli errori alcolici della sera precedente. Ricordandomi di tutti gli errori della sera precedente. Errori?
Quando i ragazzi salutarono entusiasti Brian capii che era arrivato il momento di uscire. Li seguii all’esterno del negozio, in silenzio. La pioggia battente che aveva cominciato a scendere durante la nostra pausa all’interno dell’esercizio non fece affatto diminuire l’entusiasmo generale. John, Paul, George e Pete erano vistosamente emozionati. Sprizzavano gioia da tutti i pori, non sembravano nemmeno gli stessi ragazzi che, poco prima, erano entrati nel negozio di dischi. Le proposte di luoghi adatti a poter festeggiare fioccarono ma, date le pessime condizioni meteorologiche, decidemmo di passare il resto della mattinata a Mendips, la casa di John. Prendemmo il primo auto, scendendo a Penny Lane, e raggiungemmo di corsa l’abitazione. La pioggia, più simile a nevischio per temperatura e consistenza, non risparmiò nessuno di noi. Entrammo in casa completamente fradici, ma almeno eravamo finalmente al caldo.
John, da bravo padrone di casa, ci fece accomodare in salotto. La zia era uscita per delle compere e per questo trasse un bel sospiro di sollievo. Sistemati lì, liberi da ogni genere di disturbo, iniziammo a gioire finalmente per l’accordo fra i Beatles e il loro nuovo manager. Tutti e quattro erano rapiti dai modi di fare e di ragionare di Brian che, da come raccontavano, era già pieno di idee e di agganci per riuscire a farli sfondare. Erano sicuri che le conoscenze di Brian li avrebbero aiutati ulteriormente e il loro ottimismo era letteralmente alle stelle. Vederli felici, soddisfatti del loro lavoro e proiettati positivamente verso il futuro non poteva che rendermi felicissima e orgogliosa di loro. Io, Sun, Ted e Ringo, con le nostre domande e il nostro orgoglio nei loro confronti, non facevamo che incrementare la loro eccitazione.
Sebbene Sun continuasse a non calcolarmi nemmeno, per un attimo dimenticai tutto quanto, trascinata com’ero da quell’ondata di allegria e di novità. Mi scoprii più volte intenta a fissare Paul, pur sovrappensiero. Era un riflesso più che incondizionato, spesso non me ne rendevo nemmeno conto. Sperai solamente che il mio atteggiamento ‘sconsiderato’ non venisse notato da nessuno.
“La risposta è no” mi disse John con un sorrisetto quando ci incontrammo in corridoio. Io ero di ritorno dal bagno, dove avevo tentato di sistemare i capelli zuppi, lui dalla cucina, dove aveva posato i bicchieri ormai vuoti del tè che ci aveva offerto poco prima. Gli schiamazzi degli altri provenienti dal salotto erano assordanti, era difficile che ci sentissero. “Cosa vai blaterando?” chiesi, ignorando l’allusione che, secondo lui, avrei dovuto cogliere. “Se ciò che ti stai chiedendo è se Paul si ricorda di ieri sera stai tranquilla che la risposta è no” mi rispose, alzando le spalle, fingendo indifferenza. Credevo, speravo, che anche lui non ricordasse nulla. E invece, a quanto pareva, nemmeno con lui l’alcool aveva un effetto amnesico. “Non sono affari tuoi, John. E comunque non mi stavo chiedendo proprio un bel niente” mentii. “E allora perché non fai che fissarlo da quando sei uscita di casa?”. Colpita e affondata. “Ora mi controlli anche?” dissi, sperando di deviare in qualche modo il discorso. “Da quando in qua ti piace il Macca, Reb? Ero convinto che fossi io il tuo preferito” “Tu il mio preferito? Ma non dire sciocchezze, Lennon” replicai repentinamente. “Perché stai arrossendo, allora?” sghignazzò. Mi sentii avvampare. Portai le mani sul viso per nascondere il mio vistoso imbarazzo. “Sei un egocentrico” lo attaccai. Scrollò le spalle, totalmente disinteressato ai miei insulti. Scocciata e vulnerabile feci per avviarmi verso gli altri. La mia fuga disperata venne fermata dalla sua mano che, ferma, teneva il mio braccio. “Sei pregato di lasciarmi” “Ray, sono serio: non voglio che tu stia male per lui”pronunciò in un soffio. I suoi occhi erano terribilmente sinceri, talmente tanto che per un attimo m’incantai a fissarli, senza pronunciare parola. Arrossii nuovamente, ma stavolta non mi preoccupai di nasconderlo, stordita com’ero. “Grazie” balbettai infine. Con un sorriso mollò la presa e fui nuovamente libera. “Ma so cavarmela anche da sola” conclusi acidamente, tornando in me. Mi avviai finalmente verso il salone. “Non ti smentisci mai, eh?” mi chiese mentre mi allontanavo a grandi passi.


“Disturbo?” domandò Sun. La sabbia ancora bagnata dalla pioggia della mattina aveva attutito i passi della mia amica, rendendoli talmente silenziosi da permetterle di spaventarmi con le sue parole. Ero in spiaggia; ero sola, fino ad un attimo prima. Il freddo di dicembre era pungente, ma il mare in tempesta era uno spettacolo mozzafiato. L’enormità della distesa d’acqua di fronte a me era, in quel momento, l’unica cosa più grande delle novità che mi stavano assalendo in quegli ultimi giorni. Mi sentivo così piccola ed impotente davanti a tutto ciò. “Siediti pure” le risposi, atona, battendo su Stump a pochi centimetri da dove ero io. Ero sorpresa di vederla lì, nonostante il mio tono di voce non lo dimostrasse. “Devo dirti una cosa” pronunciò, senza rispondermi. Abbandonai per un attimo la visione del mare per guardarla negli occhi. Sembrava arrabbiata, nervosa, ferita.
“Perché mi hai fatto questo?” entrò subito nel discorso. “Questo cosa?” domandai.
“Ray, davvero, non c’è bisogno che mi prendi in giro. Ti conosco troppo bene per credere alla storia dell’amnesia alcolica, anche perché so benissimo che a te l’alcool non fa questo genere d’effetto. Quindi ora smettila di prendermi in giro e rispondi sinceramente alla mia domanda: perché mi hai fatto questo?”.
Scossi la testa sotto il suo occhio vigile.
“Io non ti ho fatto proprio un bel niente, Sun. Perché pensi che sia stata una cosa contro di te?” “Perché di tutta la gente che esiste sulla faccia della terra tu proprio con Paul ti sei dovuta andare a baciare? Cazzo, Ray, sai bene quanto io ci sia stata male, quanto mi piacesse” sbottò.
“Mi sembra che sia stata proprio tu a dirmi che non provi più interesse per lui” dissi, in un momento di infantilità. “Dovresti sapere meglio di me che quella era una frase per autoconvincermi di ciò. Io non potrò mai perdere l’interesse per Paul, è stata la mia prima cotta!”. Prese fiato. “Chissà da quanto ti piaceva, ed io non me ne sono mai accorta. Da te non mi sarei mai aspettata una cosa del genere, davvero, ti credevo un’amica sincera. Pensavo stessi dalla mia parte. E invece appena ti sei trovata la strada spianata verso di lui, senza me in mezzo, sei subito corsa a prendertelo”.
“E’ stato un gioco, solo uno stupido gioco. E di certo non sono stata io a cominciare. Non farei mai nulla che ti potesse far male, Sun, lo sai” “Ma lo hai fatto!” sbraitò sedendosi finalmente al mio fianco. Come una molla mossa da un istinto incondizionato mi alzai in piedi, per poterla vedere negli occhi.
“Io non ho fatto un bel nulla, come faccio a fartelo capire?” continuai, iniziando a spazientirmi. Lei non sapeva un bel niente di quello che era successo la sera prima, ogni tentativo di farla ragionare, in quel momento, era vano. “Lui e John stavano cercando di proteggermi da un maniaco, dovevano convincerlo in qualche modo che ero impegnata e…” “E quello sotto casa tua?”. La mia faccia sorpresa e sconvolta la soddisfarono. “Come...” “La tua vicina di casa è uscita mentre noi eravamo davanti al tuo portone ad aspettarti. Ha visto i ragazzi e ha chiesto chi di loro fosse il tuo fidanzato, dato che la mattina verso le cinque ti aveva visto davanti casa mentre ti ci stavi baciando. Miope com’è non ha visto la faccia del tuo ‘fidanzato’ ma io di certo non sono stupida. Paul ti ha accompagnato a casa, non ci sono molti dubbi sul fatto che era lui”
“CAZZO!” fu il mio unico commento. La faccia di Sun divenne paonazza, gli occhi iniziarono a farsi lucidi. Ciondolò la testa in segno di disappunto, lasciando che i suoi bei ricci si scompigliassero. “Ti credevo mia amica” si ripeté. “Sun tu sei la mia migliore amica. Non volevo ferirti, né tantomeno era mia intenzione litigare con te per un motivo così stupido!” “Stupido? Questo sarebbe un motivo stupido? Ray mi hai spezzato il cuore. E non lo dico per dire. Vederlo con Dot è occhei, ci ho fatto l’abitudine, è la sua ragazza. Sapere di Barbara era accettabile. Sentire di tutte le altre anche, so benissimo che quel ragazzo è un don Giovanni. Ma vederlo e immaginarlo con te, bè, fa male”.
“Cosa avrei dovuto fare? Eravamo ubriachi entrambi, non ho mai preso l’iniziativa. Mi sono semplicemente mossa di conseguenza a ciò che ha fatto lui!” “Non avresti dovuto farlo! Scansarsi non è difficile, anche se sei ubriaca” “Non sai di cosa stai parlando, non è come pensi tu” “Ah già, scusa, io sono la cretina che ancora non ha mai baciato nessuno. Giusto, io sono la bimbetta inesperta della situazione, non posso capire queste cose”
“Ma cosa stai dicendo? Non ho mai detto una cosa del genere!” urlai. “Ma la stai pensando, lo so che è così”.
Cercai di calmarmi. Urlare e sbraitare non aveva senso. Eravamo entrambe troppo confuse.
“Stai sragionando, Sun. Io ti voglio bene. Ho baciato Paul e ora la cosa fa male anche a me, quindi non hai nessun diritto di farmi sentire ancora peggio rigirando il coltello nella piaga. Lui, in ogni caso, non ricorda nulla, quindi di certo non potrai più vederci fare certe cose. Ora, per favore, cerca di tornare in te”.
“Tornerò in me, col tempo, forse. L’unica cosa che so ora è che non voglio più nella mia vita” “Sei impazzita?” “Assolutamente no. Non voglio più parlarti, né vederti”.
Si alzò in piedi, si sistemò il vestito e si avviò verso casa, passando per la spiaggia. Io, dal canto mio, rimasi lì, paralizzata. Una lacrima silenziosa scese giù per la mia guancia, mentre le permettevo allontanarsi in modo così prepotente dalla mia vita.
Avrei dovuto sapere prima cosa sarebbe stato un bacio. Ora mi ritrovavo senza la mia migliore amica. Il mio complice era vittima di amnesia alcolica, e di certo non avrebbe mai immaginato di essere la causa di una separazione simile. Non m’importava nulla di Paul, non avevo mai desiderato stare con lui né tantomeno baciarlo. Ma era successo, ed ora era arrivato il momento, per me, di pagare le conseguenze.




Eccomi finalmente! Scusate per la lunghissima attesa ma fra connessione zero e ispirazione altalenante ho avuto qualche problemino a scrivere.
Chiedo perdono in anticipo per ogni genere di errore ma questo capitolo è stato scritto interamente fra le 2 e le 3 di svariate sere, quindi magari la stanchezza può aver giocato qualche scherzetto eheh
Ringrazio tantissimissimo tutti i recensori di questa storia: well, thank yooou. Leggere i vostri pareri mi da sempre una carica in più!
Spero di poter tornare ad aggiornare presto, voi nel frattempo ditemi che ne pensate :D
With Love From Me to You.

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Capitolo 8
*** You better wait a minute. ***


Ovviamente l’intento di Sun di evitarmi totalmente andò a buon fine. Dopotutto mancava solo una settimana prima dell’inizio delle vacanze di Natale, quindi non le fu difficile sopportare la mia vista per solo cinque giorni. Per sua fortuna Kate Johnson si era presa l’influenza ed il suo banco, decisamente molto lontano dal mio, era libero. Senza farselo ripetere due volte si trasferì lì senza preavviso, con un’infinita gioia di tutti i professori che, per la prima volta da quando insegnavano nella nostra classe, non erano costretti a riprenderci ogni due per tre.
In questa settimana, che mi parve infinita, non riuscii mai a vedere gli altri della comitiva. Ted ci permetteva di uscire con lui ed i suoi amici, ma ora che la sorella non voleva vedermi non mi chiamava nessuno per chiedermi di andare con loro da qualche parte. Sembravano tutti sottomessi alla volontà di Sun che, come una ragazzina viziata, faceva i capricci se non veniva accontentata in tutto. Tutti pensavano che fossi rinchiusa in casa per colpa di qualche colpo di freddo o cose del genere. Solo Ted e Richard erano a conoscenza della litigata in spiaggia fra me e Sun. In ogni caso non ricevetti nessun bigliettino di pronta guarigione da parte di nessuno, ma non biasimai affatto i miei amici che, in quel momento, erano decisamente più impegnati a pensare al loro futuro.
Il primo giorno di vacanze natalizie equivaleva per me, come ogni anno, al giorno del viaggio della morte. Possedere una casa a più di centocinquanta miglia da Liverpool ed una madre ostinata a passarci più tempo possibile era da sempre la mia più grande tortura da quando ero nata. Non avevo mai sopportato le vacanze proprio per questo motivo.
Partimmo intorno a mezzogiorno, cercando di viaggiare nelle ore più calde della giornata. Nessuno venne a salutarmi, ma non mi sorprese. L’auto di mio padre viaggiava lentamente, ci avremmo impiegato più di sei ore, quello era certo. Trascorsi la maggior parte del tempo a fissare fuori dal finestrino le lande desolate inglesi. Era tutto così triste d’inverno. E la mia meteopatia, ovviamente, non mi permetteva di pensare a niente e nessuno in maniera positiva. Altro che La vie en rose, ultimamente la mia era una vera e propria Vie en gris. Wow, la signorina Camionneure dovrebbe essere stata orgogliosa di me, iniziavo addirittura a pensare in francese.
Iniziai a leggere il libro che la signorina Parr ci aveva affibbiato come compito delle vacanze. To kill a Mockingbird, la professoressa adorava la letteratura recente, grazie al cielo. Era decisamente più appassionante.
“Sai, Rebecca, ieri mattina ho incontrato Mary” interruppe il silenzio mia madre. Lei detestava parlare durante i viaggi in macchina, aveva sempre preferito fissare silenziosamente la strada per poi far notare, a fine viaggio, tutti gli errori di guida che aveva commesso mio padre. “E come sta?” replicai disinteressata, sfogliando le pagine del libro che già mi stava prendendo. Mary era la nostra vicina di casa e, ovviamente, mi importava ben poco che mia madre l’avesse incontrata né tantomeno mi stava a cuore la sua situazione di salute. “Tutto bene, anche se mi ha detto che continua a soffrire d’insonnia” continuò. “Probabilmente è colpa dell’umidità” richiusi il libro. Era chiaro che mia madre avesse un’improvvisa voglia di conversare con me e cercare di leggere era assolutamente inutile. Mio padre sembrava finalmente felice di avere un po’ di compagnia, di sentire che c’eravamo anche noi in auto con lui. “Liverpool non è la città adatta a lei” scherzò. “Pensa a guidare tu!” mia madre lo fulminò con lo sguardo, lo pregò di concentrarsi sulla strada e si voltò a guardarmi. “Sai, mi ha detto di averti vista qualche sera fa, mentre tornavi dal pub con gli amici” “Non bastavate voi due, ora anche lei mi controlla?” la interruppi acidamente. Abituata alle mie reazioni poco garbate mia madre non si arrese. “Mi ha anche chiesto per quando è fissata la data del fidanzamento” “Fidanzamento?”. Il mio più grande timore era appena stato confermato: la vicina aveva detto ai miei di avermi vista mentre mi baciavo con Paul. Bene. Cercai di continuare a fare la vaga. “Sì, mi ha detto di averti vista con un ragazzetto niente male” “Avrà sbagliato persona, mamma. Sai meglio di me quanto sia miope quella donna” la sviai. “Ma in fondo alla nostra via viviamo solo noi e lei” si intromise mio padre. “Pensa a guidare tu!” lo ripresi. “Magari erano due ragazzi che passavano da quelle parti” ipotizzai. Speravo che mi credessero. “Rebecca, davvero, non siamo nati ieri” disse mia madre scuotendo la testa e tornando a guardare la strada. “Chi era?” domandò. Più che arrabbiata probabilmente era curiosa fino al midollo. La conoscevo bene: le era sempre stata a cuore la mia situazione amorosa, e reputava impossibile che a diciotto anni non mi fossi mai innamorata di nessuno. Dopotutto lei e mio padre si erano sposati a diciannove anni, era ora che mettessi la testa a posto anch’io. Se solo avessi voluto mettere la testa a posto.
“Uno che non conosci. E non ci stiamo frequentando, è solo… capitato. Quindi tieni a bada le tue fantasie e non cominciare ad organizzare il matrimonio” mi arresi. “Cosa vuol dire che è capitato? Rebecca sai bene che dalle nostre parti la gente parla e non…” “Non m’interessa quello che pensa la gente, mamma. È stata una cosa così e basta. Erano le cinque di notte, chi diamine può averci visto oltre quella psicopatica e insonne della nostra vicina? Quella vecchia del cavolo non ha nessuno con cui parlare oltre a te, quindi non ti preoccupare che non lo saprà nessuno” sbottai. Non volevo che s’intromettesse nelle mie questioni. La zittii.
Il viaggio continuò silenzioso e potei continuare tranquillamente a leggere il mio libro in santa pace fino all’arrivo.

 
Whitby era una cittadina tranquilla, la gente si faceva i cavoli suoi, tutti erano amici di tutti ed ero libera di andarmene in giro quando e come volevo senza restrizioni. Questi erano gli unici aspetti che apprezzavo delle vacanze. Senza dire una parola lasciai i miei genitori svuotare l’automobile ed andare a salutare i vicini e mi diressi verso il cimitero. Da quando avevo letto Dracula ero leggermente titubante a rimanere in quel tetro posto da sola, ma la vista del meraviglioso paesaggio lasciava andare via qualsiasi tipo di paura. Mi sedetti sulla panchina che affacciava sul mare e lessi senza sosta. Faceva così freddo che persino la pioggia si rifiutava di scendere. Probabilmente chi mi avesse vista mi avrebbe preso per una perfetta idiota: sciarpa di lana, giaccone pesante, scalda orecchie, guanti di lana… ma comunque al freddo, solo per leggere un libro in tutta tranquillità. E non avrebbero avuto tutti i torti, dopotutto.
Quando mi spazientii totalmente del vento gelido che non faceva che impossibilitarmi la lettura, sfogliandomi a caso le pagine, me ne tornai a casa. I miei erano ancora fuori per salutare tutti ed annunciare il nostro arrivo. Approfittai della solitudine per prendere della carta e dell’inchiostro. Scrivere senza loro fra i piedi era decisamente più liberatorio.
Quella fu la lettera più intensa e piena di emozioni che ebbi mai scritto fino a quel momento. La indirizzai a Richard: in quel momento era l’unico a conoscere la mia situazione senza giudicare troppo. Era leggermente di parte, d’accordo, ma mai quanto Ted. E non potevo certo dire quello che era successo a George o a Pete, figuriamoci a Paul. John fu la prima opzione che scartai per ignote ragioni che, in quel momento, mi sembravano più che soddisfacenti. La chiusi in fretta ed uscii a spedirla, in modo che arrivasse il prima possibile.
Raggiunsi il bar dove ero certa si trovassero i miei genitori ed entrai. Li trovai seduti ad un tavolino in compagnia di due loro amici di cui non ricordavo il nome. Controvoglia mi aggiunsi al loro tavolo. “Rebecca, come sei cresciuta! Sei sempre più grande e più carina” continuava a ripetere la signora, mentre il marito la assecondava annuendo. Quella era la classica prima conversazione con un qualsiasi abitante di Whitby. Erano banali, da quelle parti. Ed i suoi complimenti non facevano che mettermi in imbarazzo. “Stavamo giusto proponendo ai tuoi genitori di venire a cena da noi, questa sera. Sicuramente dopo il lungo viaggio sarete stanchi e non vorrei che tua madre si stancasse ulteriormente preparando la cena. Queste sono vacanze, dovete rilassarvi. Tu che ne pensi?” disse tutto d’un fiato, con un tono che una qualsiasi persona avrebbe utilizzato per parlare ad una bambina di due anni. La mia voglia di andare a cena da quei due era pari alla voglia che ha un gatto di farsi una bella doccia fredda. “E’ molto gentile, grazie mille” replicai, con il sorriso ed il tono più amichevole che riuscii a fingere. “Allora andiamo a prepararci” disse mia madre alzandosi. “Fate pure con calma, noi vi aspettiamo in casa”.

 
“Reb, è appena arrivata una lettera per te!” urlò mia madre rientrando in casa. Fuori aveva iniziato a nevicare e le mie giornate erano diventate più piatte del necessario. Non potevo uscire, non potevo andare al cimitero a leggere in santa pace il mio libro, non potevo far nulla. Mi sentivo una prigioniera in casa mia.
Corsi nell’ingresso e le tolsi la busta dalle mani. “E’ di un certo Richard Starkey. Chi è?” “Non sono affari tuoi, mamma” le dissi, e me ne tornai in camera mia, richiudendomi rumorosamente la porta alle spalle.
 
Liverpool, 23 dicembre 1961
Cara Ray,
ammetto che la tua lettera mi abbia un po' sorpreso: non mi aspettavo minimamente che ti aprissi con me in un simile modo. Ma mi fa piacere, vuol dire che ti fidi di me e ne sono contento.
Concordo con te nel considerare la questione di Sun molto scomoda, e per questo non posso che dispiacermi tantissimo per te. Per quel che mi riguarda, per quanto sia la mia priorità vedere Sun felice, dovrei ringraziarti. Ora non guarda più Paul nemmeno di striscio, se non fosse stato per te starebbe ancora a sbavagli dietro, e magari ho qualche possibilità in più per essere "notato" da lei. Oddio non che ci creda troppo, eh. Non sono il suo tipo, vero? Mi sento così stupido ad avere certi pensieri, sembro una donnicciola innamorata! È da qualche tempo, però, che pensavo di "dichiararmi" farle capire qualcosa, anche se non so minimamente da dove cominciare.
Qui a Liverpool non si muove una paglia. Qui non succede mai niente, dovresti saperlo. "In confronto alla mia la vita di Giacomo Leopardi era un vortice di allegria!" ahah ti ricordi quando lo dicevamo? Prima o poi dovrò infilarla da qualche parte questa frase!
Brian Epstein ha organizzato ai ragazzi un provino per una casa discografica a Londra per il giorno di capodanno. Loro ovviamente sono agitati (ma non troppo, sono abbastanza sicuri delle loro possibilità) ed eccitatissimi al tempo stesso. Noi siamo felicissimi per loro e OVVIAMENTE passeremo tutta la notte di San Silvestro a bere. Figurati se ci facciamo mancare un'occasione del genere per alzare il gomito!
Oltre a questo stiamo tutti bene. Si sente la tua mancanza, quello è certo. Tutti chiedono a Sun ma lei non risponde mai. Ora finalmente potrò dire a tutti quanti che sei viva e che tornerai presto ad uscire con noi.
Lì a Whitby come va? La gente è banale come al solito? In ogni caso pensa che il tempo passa in fretta e che tornerai presto a casa!
Dato che probabilmente non potrò scriverti in questi due giorni ti auguro un buon Natale. Spero che ti porti un po' di serenità, ne hai bisogno.

Un abbraccio
Richard Starkey

 
Caro, dolcissimo, Richard! Non appena terminai di leggere quelle parole scritte con la sua inconfondibile e precisissima calligrafia decisi di rispondergli. Probabilmente, col Natale di mezzo, non gli sarebbe arrivato nulla prima del 26, ma avevo comunque una gran voglia di scrivere. Avevo bisogno di tornare, anche solo col pensiero, a Liverpool.

 
Whitby, 24 dicembre 1961
Caro Richard,
le tue parole non fanno che riempirmi di gioia e di un minimo di speranza. Spero di poter tornare, una volta a Liverpool, ad uscire di nuovo con voi: non puoi capire quanto mi manchiate. È davvero snervante restare a casa ed immaginarvi felici mentre io me ne sto da sola a crogiolarmi nel mio dolore. Magari le vacanze di Natale faranno cambiare idea a Sun. Lo spero tanto.
Anche qui a Whitby non si muove una paglia. Il massimo dell'entusiasmo è stato andare a cena con i miei da due loro amici che hanno avuto la brillante idea di presentarmi loro figlio Nicholas. Immagino che mia madre sarebbe entusiasta se decidessi di fidanzarmi con quel mammalucco. Bah, non capisco perchè non accetti la mia voglia di divertirmi e di godermi la giovinezza finchè posso. Valla a capire quella donna!
Ma tu? Addirittura DICHIARARTI? Wooo Richie era ora che ti dessi una svegliata. Secondo me potresti essere il suo tipo. Cioè, fin'ora sei l'unico di cui non mi ha mai elencato i difetti, credo sia una cosa positiva, no? Poi secondo me siete perfetti insieme! A Sun servirebbe davvero un ragazzo tenero e dolce come te, dopo la batosta con quel don Giovanni di Paul. Mi fa così strano scriverlo.
Credo che più che Sun dovresti convincere Ted, comunque. È lui quello che ha l'ultima parola sulle scelte della sorella. Ma credo che anche in questo versante tu sia molto avvantaggiato quindi... Cosa stai aspettando?
Fai un grandissimo in bocca al lupo ai ragazzi da parte mia. Sono così fiera di loro, sapevo che sarebbero riusciti ad arrivare da qualche parte! A capodanno penserò a loro, incrociando le dita, e spero di trovare, al mio ritorno in patria, la bellissima notizia della loro ottima riuscita!
Buon Natale anche a te Richie, e grazie di tutto!

Un bacio
Ray

 
Approfittai del momento di tranquillità per scrivere altre quattro lettere, per George, Pete, Paul e John. Augurai loro un buon Natale e tanta fortuna per il provino a Londra. Mentre le sigillavo mi immaginai le loro facce mentre leggevano ciò che avevo scritto loro. Probabilmente avrebbero apprezzato, lo speravo. Mi mancavano così tanto.
Era quasi pronta la cena ed usai quei pochi minuti che mi rimanevano per scrivere anche a Sun. La indirizzai anche a Ted, per evitare che la stracciasse prima ancora di leggere. Quello era davvero un suo comportamento tipico. Le scuse non servivano, quindi mi limitai a raccontarle la mia versione dei fatti, sperando che, finalmente, capisse. Niente di troppo melenso e strappalacrime, a lei non piacevano quel genere di cose. Trascrissi i miei pensieri, le mie sensazioni: se mi conosceva davvero, se mi voleva davvero bene come proclamava fino a poco tempo prima, bè, probabilmente avrebbe apprezzato e compreso.
Non appena conclusi mi imbacuccai nel miglior modo possibile ed uscii per imbucare tutte le mie fatiche.

 
Per il pranzo di Natale eravamo invitati, di nuovo, in casa degli amici dei miei genitori. Trascorrere la giornata in loro compagnia era l’ultima cosa che desiderassi ma, come al solito, non potevo ribellarmi.
Ero in camera mia a cercare il vestito più adatto all’occasione quando mia madre entrò, bussando leggermente sulla porta. “Cerca di fare la brava oggi, d’accordo?” mi scongiurò. “Io sono sempre brava” replicai, continuando a cercare. “Nicholas è un bravo ragazzo, non trovi?”. Le risposi con un mugolio. “E’ anche carino” proseguì. “Se lo dici tu” sbuffai. “Secondo me stareste davvero bene insieme” “Fortuna che il matrimonio combinato non esiste più, al giorno d’oggi. Altrimenti sarei già col vestito bianco con quel tipo che mi aspetta sull’altare, vero?”. Rabbrividii al solo pensiero. “Non fare la sciocca, ti sto solo dicendo che è davvero un bravo ragazzo e che potresti dargli una possibilità” cercò di dissuadermi mia madre. “Mamma, se il tuo scopo è quello di convincermi a farmi piacere quel tipo, non hai alcuna possibilità di vittoria. Quindi lascia stare” cercai di chiudere il discorso.
“Non ti stai frequentando con nessuno in questo periodo?” mi chiese, sedendosi sul mio letto, continuando a fissare la mia disperata ricerca. “Nessuno. Sto bene così” risposi, fredda. “Non c’è nessuno che ti piace? Dai, è impossibile alla tua età! E poi ancora non mi hai detto chi era il tipo dell’altra sera” “Mamma, non sono affari tuoi”. “Non sarà mica il fratello di Sun, vero? E’ carino ma non lo vedo bene con te” “Ma cosa vai blaterando? Ted è un mio amico e basta, così come tutti gli altri quelli della comitiva. Questo è un discorso inutile” sbuffai.
“E Sun come sta?” cambiò nuovamente discorso. “Bene” la assecondai. Sebbene m’infastidisse parlare della mia amica, quello era sicuramente il discorso più piacevole tirato avanti fino a quel momento. “E’ da un po’ che non me ne parli, è successo qualcosa?”. Scossi la testa. “Niente, sempre le solite cose. Non posso raccontarti cose che non succedono, e non è colpa mia se non mi succede mai niente”. “Capito” si arrese. Si alzò dal letto e mi raggiunse vicino all’armadio. Tirò fuori un vestito rosso, tenendolo per la gruccia. “Credo che questo sia perfetto” disse. Mi sorrise, lo poggiò sul letto e uscì dalla stanza.
In un attimo l’avevo tempestata di bugie: con Sun era successo il finimondo e, in fondo, qualcuno che mi piacesse c’era. Questa però, dopotutto, era una bugia a metà: non volevo ancora ammetterlo a me stessa che ci fosse qualcuno che mi interessasse.
Indossai il vestito poggiato sul letto. Mi stava bene e dovetti ammettere, con malincuore, che per una volta mia madre aveva avuto gusto. Sistemai i capelli con un nastro rosso e truccai leggermente gli occhi.
Uscimmo di casa e raggiungemmo la villetta degli amici dei miei a piedi: con tutta quella neve era pericoloso prendere la macchina. Suonammo il campanello. Chiusi gli occhi. Immaginai di essere a Liverpool, insieme ai miei amici. Sorrisi. Quel sorriso sarebbe dovuto restare per tutta la giornata stampato sul mio volto, quindi lasciai che le immagini della mia città continuassero a vagare per la mia testa.
Mancava poco al mio rientro a casa e già non vedevo l’ora.


Voilà, ecco finalmente nata la mia ultima fatica (:
Scusate se ci ho messo tanto! E scusate se non ho potuto rispondere alle recensioni, provvedo immediatamente!
Questo capitolo è così... piatto. Diciamo che mi è stato necessario come ponte per tenere unita la storia, spero non vi faccia troppo schifo xD
Ora scappo... c'è un aereo per Londra che mi attende! Cercherò di scrivere anche da lì, in modo di tornare con un altro capitolo fresco fresco... vedremo! Nel frattempo fatemi sapere cosa ne pensate :D
Un bacione

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Capitolo 9
*** Beneath this mask I am wearing a frown. ***


“Mamma, io esco!” le urlai dal corridoio, correndo verso la porta per non darle il tempo di raggiungermi e bloccarmi. “Dov’è che vai?” sbraitò. Troppo tardi: la sua presenza era già fra me e la mia unica via d’uscita da quella casa. “In giro” sbuffai, cercando di svincolare via. Ovviamente non ci riuscii: era anche peggio di un carro armato, non si sarebbe tolta di lì nemmeno se l’avessi pregata. “Ma siamo appena tornati da Whitby! Devi sistemarti, devi darmi una mano a svuotare le valigie. Non sei stanca?” cercò di dissuadermi. Scossi la testa. “Mi sono fatta una doccia e sono fresca come una rosa. E la mia valigia l’ho già svuotata. Quindi ora levati e fammi uscire” la minacciai. Si mosse di mezzo millimetro: dava già i primi segnali di cedimento, grandioso. “Dai, prometto che non farò tardi. E non tornerò a piedi, mi farò accompagnare da Ted in macchina così non dovrò fare tutta questa strada da sola” cercai di convincerla. Mugugnò: le mie promesse non bastavano. “Domani penso io al pranzo e alla cena e finisco tutti i compiti delle vacanze, promesso!” continuai. Mugugnò nuovamente. Sbuffai. “Se ti togli di mezzo e mi fai uscire domani mattina ti racconto tutto quello che vuoi”. Ero davvero disperata per promettere una cosa simile. Come se avessi azionato una molla mia madre si tolse improvvisamente da davanti alla porta, mi diede un bacio sulla fronte augurandomi una buona serata e se ne tornò in cucina.
Fortunatamente riuscii a prendere l’ultimo autobus della sera per raggiungere il centro. Un solo minuto in più e avrei dovuto fare tutta quella strada a piedi da sola. Mi sedetti al primo posto libero che trovai. Sorridevo come una perfetta idiota all’idea di rivedere tutti i miei amici dopo più di due settimane. Non ero più riuscita a scambiare lettere con nessuno di loro: i miei, i loro amici e il loro stupido figlio erano riusciti ad occuparmi ogni minuto possibile delle mie giornate a Whitby, impedendomi quasi anche solo di pensare a casa.
Nonostante l’ultima lettera ricevuta risalisse alla giornata di Santo Stefano, sapevo esattamente dove trovare gli altri. Scesi alla fermata del porto e con un passo decisamente più sostenuto del solito raggiunsi in pochi minuti Mathew Street.
E proprio come immaginavo li trovai lì, seduti su una panchina a pochi passi dall’entrata del Cavern Club. Erano solo Pete, George e Richard, evidentemente stavano aspettando gli altri.
“Ray?” urlò George, sorpreso di vedermi lì. Non riuscendo a far altro che sorridere mi avvicinai e li abbracciai uno per uno. “Bentornata!” mi disse Pete, scompigliandomi i capelli. “E’ così bello rivedervi! Dove sono tutti gli altri?” chiesi, presa dall’euforia. “Paul e Dot sono scesi a prendere da bere, John è andato alla fermata dell’autobus a prendere Cyn e Ted e Sun saranno qui a momenti” mi riassunse perfettamente Richard. “E il provino? Come vi è andato il provino di Londra?” feci ai due della band. Entrambi si rabbuiarono. “Una merda” commentò Pete. “Non gli siamo piaciuti” proseguì George, scuotendo la testa. “Go back to Liverpool, Mr. Epstein. Groups with guitars are out” ripetè con voce stridula Pete, cercando di assomigliare al tipo della casa discografica.
“State di nuovo raccontando la storia della Decca?” li interruppe John, sbucando da non so quale angolo. “Ray ci ha chiesto come è andata e noi le stavamo rispondendo” rispose scocciato Pete. Sentendomi nominare si voltò. “Oh, ciao” mi salutò con poco entusiasmo. Non mi aveva notato, impegnato com’era ad infastidire i suoi amici. “Ciao” risposi atona. Sorrisi a Cyn, la abbracciai e la salutai in maniera decisamente più affettuosa.
Ero ancora occupata a scambiare due chiacchiere con lei quando, dalle nostre spalle, sbucò Dot, sorridentissima. “Ray! Bentornata!” mi fece, dandomi due bacetti. Un attimo dopo sbucò anche Paul che mi salutò con un cenno della mano, prese la mano della sua ragazza e cercò di portarla via. Si sedette sulla panchina e fece accomodare Dot sulle sue gambe e, insieme, iniziarono a seguire i discorsi degli altri. Erano così carini insieme che per un attimo un brivido mi corse per la colonna vertebrale. Probabilmente erano i sensi di colpa che iniziavano ad impossessarsi di me. Sebbene Dorothy non fosse a conoscenza di quanto fosse successo fra me ed il suo ragazzo mi sentivo enormemente in colpa per averle fatto un simile torto: lei era sempre terribilmente carina con me e di certo non si sarebbe mai meritata una cosa simile da parte mia.
Cercai di non pensarci e, insieme a Cyn, mi unii nuovamente alla conversazione dei ragazzi. “Buonasera a tutti” dissero in coro Ted e Sun, sbucando anche loro dal nulla. Li salutai entrambi con la mano ed un enorme sorriso, ma ricevetti solamente un cenno del capo di Ted e la totale indifferenza di Sun. Probabilmente non aveva apprezzato la mia lettera. Sentendomi leggermente ed improvvisamente fuori luogo decisi di scendere un attimo giù al Cavern per prendermi qualcosa da bere: l’alcool sicuramente mi avrebbe aiutata a non pensare troppo. Richard si propose come mio accompagnatore. Probabilmente dopo l’esperienza passata durante la mia ultima uscita voleva controllare che nessuno m’infastidisse.
“Allora? Ti sei dichiarato con Sun?” gli chiesi mentre scendevamo con difficoltà le scale del locale. Alla prima rampa già iniziava a sentirsi quell’odore nauseabondo, quel mix micidiale di birra, sudore e detergente, che tanto detestavo ma che tanto mi era mancato. “Lasciamo stare” replicò, alzando i suoi enormi occhi azzurri verso il cielo. “Cosa hai combinato?” sghignazzai, divertita dal suo imbarazzo. Si allontanò un attimo per lasciar passare una coppietta che saliva decisamente troppo euforica e si riavvicinò per raccontare. “Eravamo alla fermata dell’autobus quando mi sono fatto coraggio. Le ho chiesto se potevo dirle una cosa importante e alla sua approvazione le ho detto ‘Mi piaci’. Non so cosa sia stato, se i suoi occhi sorpresi o il mio improvviso imbarazzo, fatto sta che appena le ho detto quella cosa ho concluso la frase con un ‘come persona’”. Scoppiai a ridere come una pazza. “Cosa c’è da ridere? Ho fatto la figura del cretino! Ora non riesco nemmeno a guardarla! Sono un completo idiota!”. Non riuscivo assolutamente a smettere di ridere. Mi diede una leggera botta sulla spalla per farmi zittire ma non funzionò. "Possibile che sia così stupido?". Mi uscivano le lacrime dagli occhi dal tanto ridere. "Dai, smettila!". Notai che era davvero mortificato per la sua pecca e mi fermai. Gli poggiai una mano sulla spalla. "Non farti troppe paranoie. Sicuramente ha apprezzato lo sforzo. Magari ci sta solo pensando, che ne sai?” lo rassicurai. “Dal ‘Grazie’ che mi ha detto dopo questa mega figura di merda e dopo il modo in cui mi evita questi giorni non ne sarei così sicuro” rispose, coprendosi il viso con le mani come un perfetto disperato. “Tempo al tempo, Richie. Tempo al tempo” gli dissi sorridente, continuando a dargli delle pacche affettuose sulla spalla.
Prendemmo qualcosa da bere e ce ne tornammo su in un batter d’occhio. Persino il barista mi riconobbe e mi diede un allegro bentornato. Era evidente che gli era mancata una delle poche donne camioniste della città. Di sopra, ovviamente, i ragazzi non si erano spostati di un millimetro. Ci unimmo agli altri. “Di cosa parlate?” chiesi, sorseggiando la mia birra. Per ascoltare meglio mi feci spazio fra di loro. Sun, trovandosi decisamente troppo vicina a me, si spostò per sistemarsi qualche centimetro più in là. John approfittò del mio attimo di distrazione per togliermi il bicchiere dalle mani e bere una sorsata. “Niente di importante” rispose infine, restituendomi ciò che era mio.
Passammo la serata così, lì fuori al Cavern. Nessuno spostamento, nessuna novità epocale o avvenimento eccezionale. Solo una panchina, una birra, quattro chiacchiere e tante risate. Era questo che più mi piaceva dei miei amici: mi bastava semplicemente stare in loro compagnia per stare bene davvero, senza bisogno di fare tante cose. Togliendo le occhiatine strane di Sun, probabilmente quella sarebbe stata una serata perfetta.
Ero così felice di essere tornata a casa da loro.

 
Proprio come promisi a mia madre tornai presto a casa e, di conseguenza, la mattina seguente ero già in piedi di buon’ora. M’impegnai al massimo per finire tutti gli esercizi di francese durante la mattina e, come promesso, preparai con le mie mani un pranzo coi fiocchi.
Fortunatamente mentre mangiavamo mia madre era troppo occupata a lamentarsi delle poste britanniche per ricordarsi che avrebbe potuto farmi tutte le domande che voleva. Fuggii da tavola prima che se ne potesse ravvedere e mi chiusi nuovamente in camera per finire di leggere il libro che la Parr ci aveva affibiato e rispondere al questionario a riguardo. Questa operazione richiese più tempodi quanto immaginassi.
erano quasi le sei quando mia madre entrò in camera, senza nemmeno bussare. “Vieni dillà? Abbiamo ospiti” disse tutta eccitata. Mi squadrò da capo a piedi nei pochi istanti che impiegai a raggiungere l’uscio. “Magari fatti più presentabile, prima”commentò, storcendo il naso. “Chi è l’ospite, la regina madre?”risposi indispettita, facendo una smorfia e cambiando la mia traiettoria dalla porta all’armadio. Non ricevetti risposta. Scelsi il primo vestito che mi capitò a tiro e glielo mostrai. “Perfetto, sbrigati!” ponunciò con impazienza, richiudendo la porta alle sue spalle. In quattro e quatt’otto ero pronta per ‘l’ospite’ del quale ero seriamente incuriosita. Mia madre mostrava tanta impazienza di rado, tanto da rendere questo suo comportamento motivo della creazione di decine di film mentali.
Raggiunsi il salone in tutta velocità, seguendo il suono del chiacchiericcio di mia madre. “Oh, eccoti finalmente” mi annunciò. “Buonasera” mi salutò garbatamente Nicholas. “Nicholas?” replicai, sorpresa di trovarlo lì. Si alzò, mi prese la mano, finse di dargli un bacio e si sedette nuovamente. Che modi antiquati. “Potresti anche salutare più garbatamente” mi rimproverò mia madre. La incenerii con uno sguardo e mi sedetti al suo fianco, sul divano. “Nicholas ci stava giusto raccontando il motivo della sua venuta a Liverpool” lo introdusse mio padre, dando un taglio al fastidiosissimo silenzio imbarazzante che si era venuto a creare. Il ragazzo annuì, riprendendo il discorso da capo: “Mi sono arruolato nella marina e mi hanno assegnato qui a Liverpool”. “E a Whitby non c’è la marina?” lo interruppi. La gomitata sul fianco proveniente da mia madre mi fece zittire. Il ragazzo scoppiò a ridere. “Certo che c’è la marina a Whitby. Ci sono anche stato per tre mesi, più o meno. Solo che ho deciso di fare domanda per questa città. È decisamente la migliore d’Inghilterra, sotto questo punto di vista”. Mio padre non faceva che annuire, orgoglioso della propria città e di quel ragazzo che la pensava esattamente come lui. “Quando ti devi presentare?” gli chiese. “Domani pomeriggio, alle due. Sono partito prima per potermi ambientare un po’” rispose.
Continuammo a cincischiare per un bel po’. Non che m’importasse veramente di tutte le storie che si era messo a raccontare il nostro ospite. Durante il lungo periodo trascorso a Whitby in sua compagnia e con i suoi genitori non aveva mai accennato alla volontà di trasferirsi a Liverpool. Ad un solo giorno di distanza dal nostro rientro, poi.
Improvvisamente squillò il telefono. “Vado io” annunciai, scattando in piedi. Non potevo di certo perdermi un’occasione simile per fuggire da lì. Corsi in corridoio ed alzai la cornetta. “Pronto?”. Silenzio. Ero quasi tentata di riagganciare quando sentii dei rumori dall’altra parte dell’apparecchio. “Pronto?” ripetei.
“… Ray?” “SUN?” domandai, sorpresa all’ennesima potenza. Di nuovo silenzio. “Ho bisogno di parlarti”disse infine, tutto d’un fiato. “Ora?” replicai istintivamente, mordendomi il labbro. Me ne pentii immediatamente. “Disturbo?” chiese la mia amica. Aveva sentito l’indecisione nel mio tono di voce. “Non è esattamente un buon momento per parlare, mi spiace” mi giustificai. “Ah, d’accordo”. La sua voce sembrò improvvisamente spenta. “Però stasera esco, quindi magari parliamo più tardi, in giro, che ne dici? Tanto non credo che gli altri si offendano se ci isoliamo un attimo” mi ripresi. Speravo di cuore che mi dicesse di sì. “Sì, sì. Perfetto! Allora ci vediamo dopo all’Albert. A dopo” e riagganciò prima che potessi augurarle una buona serata.
Rientrai in salone ma non feci in tempo a sedermi nuovamente sul divano che mia madre mi aveva già ordinato di andare in cucina per preparare la cena. Per quattro, ovviamente. Sul tavolo trovai un foglietto microscopico. ‘E’ tutto già pronto. Tira fuori le cose dal frigo e mettile a scaldare. Mi raccomando: quando apparecchi la tavola usa il servizio buono! Mamma’. Ora era chiaro come la luce del sole che i miei sapevano perfettamente che, per quella sera, avremmo avuto un ospite e che, per inspiegabili ragioni, non me lo avevano detto. Come ordinatomi misi a scaldare la cena. Era un’enormità di roba. Era affar tipico di mia madre voler fare le cose in grande anche con un solo ospite a cena. Mentre il fuoco lento lavorava per me, andai in salone ed apparecchiai in maniera impeccabile, come richiesto, sotto lo sguardo vigile di mia madre. Non faceva che controllarmi con la coda dell’occhio mentre continuava a parlare con Nicholas, noncurante dei suoi doveri di donna di casa.
La cena fu un successo. Il nostro ospite non faceva che congratularsi con me per le mie grandi doti culinarie, mettendomi assolutamente in imbarazzo. “Hai intenzione di uscire, questa sera?” mi domandò mia madre nel bel mezzo del pasto. “Certo che esco” le risposi, leggermente interdetta, mentre mi versavo da bere. Cosa pretendeva, che rimanessi in casa solo perché un ragazzo montato di Whitby era venuto a far carriera nella mia città? “Perfetto allora, così potrai far vedere a Nicholas come si divertono i giovani liverpooliani!” era raggiante. Io decisamente meno. Quasi mi strozzai con il sorso d’acqua che stavo bevendo. “Davvero, signora, non ce n’è bisogno. Non vorrei creare disturbo a Rebecca” la pregò il ragazzo, schierandosi incomprensibilmente dalla mia parte. “Ma no caro, figurati! A Rebecca farebbe davvero un gran piacere se ti unissi a lei ed ai suoi amici. Non è vero?”. Il suo sguardo agghiacciante mi congelò. Se non avessi fatto come diceva sarebbe stata in grado di farmela pagare in qualsiasi modo. “Certo” risposi annuendo, con la voce ancora roca per colpa dell’acqua andata di traverso.
E fu così che mi ritrovai a percorrere la lunga strada tra casa mia e l’Albert in compagnia di Nicholas. Eravamo entrambi così imbarazzati che non pronunciammo parola per un bel pezzo. Più che imbarazzata, ero assolutamente seccata della sua presenza. Si trovava decisamente nel posto sbagliato al momento sbagliato, e lo detestavo per questo. Non facevo che sbuffare, pensando in che modo avrei potuto parlare con Sun, liberandomi della zavorra.
“Mi dispiace essere un peso per te, questa sera” pronunciò, sincero, al mio ennesimo sbuffo. Sembrava davvero dispiaciuto. “Tranquillo, non sei affatto un peso”. Non sei solo un peso, se è quello che vuoi sapere. Gli sorrisi, cercando di sembrare il più sincera possibile. “Sei davvero una pessima attrice. Ma apprezzo lo sforzo” mi spiazzò, sorridendo. “Nicholas, io…” “Nick, chiamami Nick. Te l’ho detto tante volte, a Whitby”. Davvero? Probabilmente non ero mai stata ad ascoltarlo seriamente quando ero in sua compagnia. “D’accordo, Nick” annuii, cercando di stamparmelo per bene nella mente. E per troncare il discorso, soprattutto. “Se mi indichi un posto poco costoso, posso anche andarci da solo, senza che mi imbuchi nella tua uscita tra amici. L’importante è che poi ci rivediamo in un posto che conosco, per tornare a casa” mi disse, continuando a fissare avanti a sé. Ora puntava anche sui sensi di colpa? Scossi la testa. “Stai tranquillo. Sono sicurissima che ai miei amici piacerai un sacco” risposi, sperando di essere leggermente più convincente. Mi guardò con un sopracciglio alzato. “Ok, in tutta sincerità non sono stata molto entusiasta quando mia madre mi ha imposto di portarti in giro per Liverpool. Ma ormai ci stiamo, no? Devo farti amare questa città tanto quanto la amo io, dato che ora diventerà la tua casa. E poi devo ricambiare il favore, no? Non mi sono mica già scordata le scampagnate in giro per Whitby che mi hai fatto fare” continuai, più schietta che mai. Mi sorrise. “Sapevo che dentro di te c’era un po’ di dolcezza, Ray” mi canzonò, dandomi una pacca sulla spalla. “Allora ti ricordi come devi chiamarmi!” deviai il discorso, sorpresa che si ricordasse ciò che gli avevo detto. “Certo che me ne ricordo. Io ascolto, mica come te” replicò divertito, ed entrambi scoppiammo a ridere.
Quando arrivammo dai miei amici, all’Albert, guardarono il mio compagno come fosse un alieno. Lo presentai a tutti. Quando arrivò il turno di Sun mi guardò perplessa. Anche lei si stava chiedendo come avremmo fatto a parlare, probabilmente. Alzai semplicemente le spalle per giustificarmi. Sapevo perfettamente che, quella serata, sarebbe stata un limitarsi a tener compagnia al nuovo arrivato per non farlo annoiare. E mi pentii amaramente di aver detto a Nick quelle cose. Avrei dovuto accettare la sua proposta di andarsene da solo. Ma perché pensavo sempre e solo prima al bene degli altri, e poi al mio?
Ci infilammo nel primo bar che trovammo e ci sedemmo ad un tavolo gigantesco. Capitai seduta fra il tipo di Whitby e Lennon. Sun era ad una certa distanza da dove mi trovavo e, dai suoi sguardi torvi, immaginai che non avremmo chiarito nemmeno per quella serata. Ringo, decisamente il più espansivo fra tutti, iniziò a fare due chiacchiere con il nuovo arrivato, rompendo il ghiaccio. Lo seguirono a ruota tutti gli altri. Nick sembrava decisamente più spontaneo con i miei amici di quanto non immaginassi.
Per non sfigurare decisi di non prendere nulla di alcoolico da bere. Non conoscevo abbastanza Nicholas da giurare che non avrebbe detto ai suoi o ai miei genitori che ero una grande bevitrice di birra, quindi evitai. “Ray, come mai non ti sei presa da bere?” mi domandò beffardo John, facendomi passare il suo boccale sotto al naso. Mi stava tentando e, in quel momento, non riuscii a capire se era più grande la voglia di bere tutta la sua birra o di ucciderlo. Guardò di traverso il ragazzo seduto affianco a me e mi diede una botta. “Cosa hai combinato su a Whitby con questo mammalucco qua?” mi domandò John, sussurrandomi ad un orecchio. Gli diedi una gomitata e scoppiò a ridere. “Sei insopportabile” dissi a denti stretti, cercando di non farmi sentire. Il volume della sua risata non fece che aumentare ed abbandonai l’impresa di farlo smettere.
Erano tutti occupati a parlare delle possibilità che offre Liverpool ai giovani, una barba mortale. Cercai di far capire alla mia amica, con lo sguardo, che potevamo uscire dal locale per parlare, ma mi evitò per tutta la serata. Non riuscivo a capirla.
Stufa di quel noioso chiacchiericcio e di John che continuava a farmi passare il suo boccale di birra sotto al naso mi alzai per andare in bagno. In realtà era solo una stupida scusa, e tutti lo capirono.
Mentre ero intenta a fissarmi allo specchio per testare il mio stato, Sun sbucò alle mie spalle. "Chi è quel tipo?" mi chiese. Non ci parlavamo da settimane e tutto quello che aveva da chiedermi era chi fosse quel tipo? "Il figlio degli amici di Whitby dei miei" risposi, senza voltarmi, continuando a guardarmi allo specchio. "È carino" disse, sforzando un sorriso. La guardai attraverso lo specchio. Era tutto ciò che aveva da dirmi? "Abbastanza" replicai, alzando le spalle. Possibile che parlare di quell'impiastro di Nicholas era il massimo che riuscissimo a fare? Ero troppo codarda per fare il primo passo. E, conoscendo Sun, probabilmente era così occupata a prepararsi un discorso articolato da non rendersi conto che il tempo passava e noi continuavamo a fissarci dal riflesso dello specchio, in silenzio. La sua espressione era così concentrata che sicuramente nella sua testolina io e lei stavamo conversando.
Sospirando mi voltai. Poggiai entrambe le mani sulle spalle della mia amica. "Domani dopo pranzo Nick dovrebbe andarsene da casa mia, dato che si deve presentare agli ufficiali. Ci vediamo nel pomeriggio? Dove vuoi, a qualsiasi ora" le dissi senza mai riprendere il respiro. "Alle quattro al Sefton? Solito angolo, solita panchina?" chiese. Annuii. "Mi dispiace per non aver avuto abbastanza tempo, oggi" mi scusai, ed uscii dal bagno.
Tornai a sedermi al tavolo ma erano già tutti in piedi. Aspettavano solo noi per poter uscire e fare una passeggiata lungo il porto. "Ma fa troppo freddo!" si lagnò Sun appena mise il naso fuori dal locale. Ted si avvicinò alla sorella per non farla lamentare, senza risultati. Quando Sun si metteva in testa qualcosa non c'era niente e nessuno in grado di farle cambiare idea. Richard, dal canto suo, si avvicinò semplicemente, le disse sottovoce qualcosa e cinse le sue spalle con un braccio. Ted lo guardò torvo, ma almeno la sorella non faceva più i capricci.
Non si sa per quale miracolo divino in quel momento non stesse piovendo. Ci incamminammo e, già dopo due passi, non potei fare a meno di notare che mi trovavo isolata da tutti. Paul, Pete, George, John e Ted erano a pochi passi da me a discutere insieme a Nicholas di non so quale spassosissimo argomento, mentre leggermente più indietro di me c'erano Sun e Ringo che chiacchieravano tra di loro. Io ero nel mezzo, e mi sentivo una cretina.
Ero già stufa di quella serata e non vedevo l'ora che finisse. Più che altro non vedevo l'ora che arrivasse la serata seguente, dove avrei riavuto finalmente tutti i miei amici per me. Ero assolutissimamente una ragazza fin troppo possessiva.
Quando finalmente Nicholas si rese conto di che ora fosse, indietreggiò e mi raggiunse. "Direi che hai visto abbastanza di Liverpool, per questa sera" gli feci, scocciata. Tutti i ragazzi scoppiarono a ridere. Non ci feci caso e li andai a salutare. Un bacio sulla guancia per ciascuno sarebbe dovuto bastare, ma quella sera sentii la necessità di abbracciarli tutti. Forse per ricordare a me stessa che, dopotutto, nonostante conoscessero sempre gente nuova, in fondo mi volevano sempre bene. Considerando che prima o poi sarebbero diventati famosi, credo avrei dovuto abituarmi a quest'idea.
Lungo la strada del ritorno Nick non fece altro che ripetermi mille e mille volte quanto fossero straordinariamente simpatici i miei amici. Li adorava. E già programmava di andare a sentire il loro prossimo concerto, nonostante fosse consapevole che sarebbe uscito raramente dalla caserma. "Fammi indovinare..." cominciò, portandosi la mano sul mento per sembrare un arguto pensatore "Tu e Sun eravate migliori amiche ma avete litigato per colpa di uno dei ragazzi". "Non sei molto scaltro, sai? Potrebbe avertelo detto Ted, o Ringo" lo smontai. "Hai poca fiducia nelle mie capacità, sai? Ci sono arrivato da solo. Però non sono riuscito a capire per quale di loro avete litigato" rispose. Alzai le spalle. "Hai delle ipotesi, Sherlok?" domandai, incuriosita. "Elementare, Watson, elementare. Ti dirò: sono indeciso fra due" rispose, canzonandomi. "Ovvero?" ero seriamente curiosa di sapere quante delle mie sensazioni trapelassero all'esterno. "Considerando lo sguardo spento con cui entrambe guardate Paul, il mio primo sospetto è lui" cominciò. Tombola."Però ammetto che anche il modo in cui guardi John è abbastanza ambiguo, quindi il mio secondo sospetto è lui" concluse il suo ragionamento. Scoppiai a ridere. Una risata nevosa. “Sei davvero un pessimo detective, mio caro” dissi, dandogli delle pacche sulla spalla. Scrollò le spalle. “Oh bè, ci ho provato”.
”Che dici, abbiamo tempo per una piccola tappa al parco?” domandò, indicandomi il cancello di entrata del Sefton Park. Annuii e ci avviammo. Il parco era assolutamente inquietante, privo di qualsiasi fonte di illuminazione ed incredibilmente vuoto. Dopo una breve passeggiata trovammo una panchina e ci sedemmo su.
”Senti, Ray, dovrei dirti una cosa” disse, fissandomi negli occhi. “Certo, dimmi tutto”.


Ok, ammetto di averci messo davvero troppo anche stavolta. Perdonatemi ç___ç
Ma in tutto questo tempo ho fatto in tempo a farmi un bel viaggetto a Liverpool, ispirarmi il più possibile, e tornare a casa con la sensazione che quella città sia davvero la mia casa. Mmm occhei, forse questo non c'entra niente con la storia.
Nuovo personaggio! Zan zan zan! Ammetto che mi sta antipatico, e nemmeno poco ahaha voi cosa ne pensate?
Spero di essere riuscita a riportare la storia in carreggiata!
Fatemi sapere oooooogni vostro pensiero a riguardo, son davvero curiosa, e mi farebbe davvero molto piacere conoscere i vostri pensieri, che siano pareri positivi o non.
Un bacio a tutti, al prossimo capitolo!
(:

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Capitolo 10
*** Go with him. ***


La pioggia incessante del giorno dopo impedì a me e Sun di trascorrere del tempo insieme sulla nostra amata panchina di Sefton Park. Ma non potevamo arrenderci, non di nuovo, e per questo decidemmo di vederci comunque, ma di spostare il luogo dell'incontro al tea room vicino casa sua. Un buon the era l'ideale per risolvere ogni questione in sospeso.
"Allora, cosa è successo ieri? Richard mi hai detto che hai delle grandi novità" insistette, senza nemmeno darmi il tempo di togliermi la giacca e di sedermi al tavolo. "Non è questo di cui dovremmo parlare" la rimproverai, storcendo il naso. "Abbiamo abbastanza tempo per parlare di qualsiasi cosa, quindi siediti e raccontami". La accontentai e mi misi a sedere. La cameriera, una signora sulla sessantina con i capelli grigio topo, prese le ordinazioni e se ne andò con i menù. Non riuscendo a resistere alle occhiate ammiccanti della mia amica, tirai fuori dalla tasca della giacca una cosa che le mostrai subito.
"Perchè non lo indossi?" mi domandò Sun. I suoi occhi brillavano quasi quanto l'anello che tenevo in mano. La sua indole terribilmente romantica era rapita da quel gingillo che, per me, non aveva alcun significato. Nessuno, se non quello di essere un grosso problema da risolvere nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile. "Perchè non gli ho detto di sì" risposi, riposando in tasca quel maledetto anello. Lo possedevo da nemmeno dodici ore e già lo detestavo. "Non gli hai detto di sì? Lo hai lasciato così come uno scemo? E perchè?" mi tempestò di domande. Scrollai le spalle, a mo’ di giustificazione. "Bè, d'accordo, è un ragazzo carino, simpatico, tutto quello che vuoi tu, ma sta decisamente correndo un po' troppo. E poi non mi piace, non voglio sposarmi con lui solo perchè è il primo ad essersi dichiarato. Ho solo diciotto anni ed un'intera vita davanti, non voglio arrendermi alla prima occasione". La mia amica non faceva che annuire, ascoltandomi attenta. "Non dirmi che ti stai convertendo al romanticismo" ammiccò sorridente. Arrossii, ma scossi la testa. "Ormai ci ho rinunciato a quello, dato i miei precedenti" ammisi. "E ha provato a baciarti? O ad avere un qualsiasi contatto fisico?" domandò curiosissima, ignorando il fatto a cui facevo riferimento. Scossi nuovamente la testa. "Certo che no! Penso di avergli tolto ogni impulso strano con il mio rifiuto!". Scoppiai a ridere, e Sun mi seguì. "Povero Nicholas" pronunciammo in coro, e continuammo a ridere. La situazione, benché scomoda, era abbastanza ilare e non potemmo fare a meno di riderne di gusto.
La signora dai capelli grigio topo arrivò a piccoli passi, cercando di non far cadere il vassoio. Poggiò al centro del tavolino l'enorme teiera piena di thè bollente, il piattino con i pasticcini e la piccola brocchetta con il latte freddo, e ci servì ad entrambe lasciando le due tazze già stracolme di infuso vicino ai nostri tovaglioli. Il profumo di vaniglia m'inebriò.
"Senti, Sun..." cominciai. "Mi dispiace" concluse, interrompendomi, la mia amica. Le sorrisi. "Sei tu che devi scusare me" dissi, fissando il mio thè. Sun scosse la testa. "Sono stata una bambina capricciosa e non ho voluto nemmeno ascoltare quello che avevi da dirmi. Ero... Furiosa. Ed invidiosa. Perché erano anni che morivo dietro a Paul, ma non avevo mai avuto l'occasione che invece a te è capitata senza nemmeno volerlo" si aprì. Feci di no con la testa, lievemente. "È colpa mia. Avrei dovuto evitare di creare tutto questo trambusto, avrei dovuto evitare Paul. E soprattutto avrei dovuto provare a farti capire quello che era successo, senza giustificarmi solamente dicendoti che eravamo entrambi ubriachi" mi sfogai.
"Ray, io ti voglio bene. Promettimi che mai più nessun ragazzo si metterà fra me e te" disse, porgendomi la mano. Gliela strinsi. "Promesso!" la assecondai, sorridendo.
"Bene! E ora... Buon appetito!". Prese un biscotto dal piattino e lo inzuppò nella sua tazza. Scoppiai a ridere, di nuovo. Mi era mancato enormemente il suo entusiasmo.
"Cosa ti ha fatto capire?" le domandai, bevendo una sorsata di thè. Mandò giù un boccone troppo grande persino per lei. "Principalmente la tua lettera, quella che mi hai mandato a Natale". Annuii, addentando un biscotto. "Poi diciamo che una buona parte l'ha fatta anche Richard" "Richard?" "Sì, Richard" arrossì. "C'è qualcosa che devo sapere?" chiesi, ammiccante. Divenne ancora più rossa. "Ehm, sì... Diciamo che... Ci... Frequentiamo? Boh, più o meno. Da l'altro ieri sera, quindi niente di che. Però, boh. È carino" balbettò. Feci un sorriso che probabilmente mi arrivò fino alle orecchie. "Devi assolutamente raccontarmi tutto!" la pregai.
"Sì... Bè. Allora. Si è semi dichiarato alla fermata del bus" cominciò. Conoscevo già questa minima parte ma ascoltarlo da lei, entusiasta com'era, era decisamente tutta un'altra musica. "Mi ha fatto talmente tanto strano che oltre a ringraziarlo non sapevo che altro dirgli, tant'è che ho continuato a evitarlo per qualche giorno. Si è sempre comportato in maniera impeccabile con me, ed io gli ho sempre voluto bene, quindi non ho fatto altro che pensare e ripensare alle sue parole. Se n'è accorto persino Ted! Ne ho parlato anche con lui e mi ha consigliato di fare ciò che credevo migliore, aggiungendo che avrebbe approvato una relazione tra noi due, dato che Richie è una persona seria, e così via. Quindi la sera che tu sei tornata da Whitby, mentre Teddy ti riaccompagnava a casa, ho parlato con Ringo e... Vabbè quello che siamo ora è il risultato". Applaudii come una foca al circo, contentissima. Mi tornarono in mente il film che avevo girato nella mia testa quando Richard aveva ammesso di avere una cotta per Sun: ero felice che, nella realtà, avesse vinto la versione piena d’amore, e non quella in cui Ted picchiava Ringo.
"La prima volta che ci siamo baciati ho pensato a te, sai?" ammise. Prese la tazza e ne diede una sorsata, continuando a scrutarmi. "E perché?" domandai, sorpresa. "Perché sono stata una sciocca a pensare che tu mi reputassi una stupida bimbetta inesperta solo perché non avevo ancora mai baciato nessuno" disse, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo da me. Mi misi a ridere di cuore. "Cioè il tuo primo bacio lo hai sprecato pensando a me invece di concentrarti sul momento?" le domandai, continuando a ridere. Annuì ed iniziò a ridere anche lei. "Mi sono concentrata sui successivi, tranquilla" ammise, arrossendo leggermente, ma continuando a ridacchiare.

 
La più grande questione in sospeso che avevo, la litigata con Sun, era stata risolta nella maniera più divertente e pacifica che potessi immaginare, e ne ero felice. Tornando a casa sotto la pioggia, però, capii che ora mi si presentava davanti una questione che mi premeva ancora di più. Non potevo non trovare una soluzione alla faccenda in cui Nicholas mi aveva invischiato.
Detestavo avere delle questioni in sospeso. Dovevo assolutamente risolvere in qualche modo.
Dopo una minuziosa analisi del problema decisi che, effettivamente, essere sincera era il modo migliore per uscire da quella situazione così scomoda.
Una volta a casa passai tutto il tempo chiusa in camera mia. Sdraiata sul letto, giocherellando con l’anello che il ragazzo di Whitby mi aveva regalato, continuavo a pensare al modo migliore per poterglielo restituire senza sembrare una ragazza senza cuore. Ogni discorso che cercavo di prepararmi, però, appariva troppo duro e crudele persino alle mie orecchie. Il piccolo diamante mi fissava severo, ascoltando e rimproverando i miei pensieri. Mi faceva sentire talmente tanto in colpa che fui costretta a riporlo nella tasca della giacca.
Non sapevo come avrei fatto, sapevo solamente che avrei dovuto farlo quella sera stessa. Non volevo lasciargli covare speranze vane, a costo di sembrare troppo frettolosa.
Dopo cena mi vennero a prendere Ted e Sun, come di vecchia abitudine. Ora che la sorella era tornata a parlarmi, anche Ted era tornato ad essere spiritoso ed affettuoso nei miei confronti.
Il pub poco lontano del Cavern era la nostra meta. Il pub del misfatto. Entrando venni percorsa da brividi inspiegabili al solo pensiero di quella serata che già mi sembrava terribilmente lontana.
Al tavolo già ci aspettavano tutti gli altri. Sun si sedette al fianco di Ringo. Si guardarono senza dirsi niente per qualche istante ed entrarono nella conversazione aperta da Pete. Erano adorabili.
Un improvviso ed inaspettato crollo emotivo mi fece prendere in considerazione l'idea di sposare Nick. Iniziò a ronzarmi fastidiosamente per la testa l’idea che probabilmente quello sarebbe stato l'unico ragazzo che avrebbe mai potuto volermi bene, dati i disastrosi precedenti. Volevo essere libera ancora per qualche anno, godermi la giovinezza, ma improvvisamente, vedendo quella scena così dolce, sentii l’irrefrenabile impulso di legarmi a qualcuno. Mi sentii improvvisamente sola, incapace di amare e di essere amata. Probabilmente quel posto influiva molto negativamente su di me.
Mi alzai di scatto dal tavolo, provocando una grande curiosità fra i miei amici. “Esco a farmi una passeggiata” annunciai. “Dove te ne vai con questo tempaccio?” domandò George, preoccupato. Alzai le spalle senza rispondere; uscii dal tavolo e raccolsi il mio ombrello da terra. “Ma dove vai da sola? Che per due minuti che sei stata senza di noi sei stata in grado di rimorchiare un maniaco, l’ultima volta” mi rimproverò John. “Davvero?” domandò Paul sottovoce a Pete. Quello, non sapendo cosa rispondere, si limitò ad un’alzata di spalle. “Invece di rompermi le scatole accompagnami, no? Così potrai stare tranquillo” replicai, acidamente. “D’accordo” acconsentì alzandosi e raggiungendomi. Non mi sarei mai aspettata una reazione simile. Lanciai un’occhiata spaventata a Sun che venne accolta con un sorrisetto divertito, decisamente poco d’aiuto.
“Dove mi porti di bello?” chiese John, sistemandosi la sciarpa e infilando le mani nelle tasche per evitare che congelassero. “Io non ti porto proprio da nessuna parte, al massimo sei tu che mi stai seguendo” replicai. La mia acidità delle volte sorprendeva anche me. “Mi hai chiesto tu di venire, te lo ricordo” mi zittì, divertito.
"Epstein vi ha organizzato qualche altro provino?" domandai, tanto per non dargli la soddisfazione di avere l'ultima parola. Ad ogni passo mi avvicinavo sempre di più a lui, quasi impercettibilmente, per evitare che si bagnasse troppo. "Non che io sappia. Ci sta lavorando, però. Ma da domani fino a non so quando non penso ci servirà". "Perchè?" non coglievo l'allusione nelle sue ultime parole. "Amburgo, presente? Domani ripartiamo". Ero sconvolta. "Domani? Così presto? Siete tornati a Liverpool a malapena un mese fa!". Ripensai al lungo periodo in cui i ragazzi avevano vissuto in Germania: era stato assolutamente orribile senza di loro. "Abbiamo solo bisogno di un po' più di pratica, torneremo presto" mi rassicurò. "Non ti strappare i capelli dalla disperazione durante la mia assenza" concluse, ridacchiando. Gli feci la linguaccia e non risposi. "Non lo abbiamo ancora detto a Stu ed Astrid, domani andiamo a fargli una sorpresa a casa" continuò, raggiante. Stu era uno dei suoi migliori amici, non mi sorprendeva affatto di sentire una punta di nostalgia e di entusiasmo in quella frase. Per quanto non lo dimostrasse apertamente, era molto affezionato ad i suoi amici, e la lontananza da Stu era stata una grande sofferenza per John.
Continuammo a chiacchierare di tutto e di niente, percorrendo il bagnato Albert Dock sotto il mio striminzitissimo ombrello. Ogni istante che passavo con lui lo rendeva sempre più irritante, ma al contempo irresistibile. La sua risata era terribilmente contagiosa.
Arrivammo di fronte al cancello principale della marina di Liverpool, e mi arrestai di colpo. Ero arrivata a destinazione, ed ora era arrivato il momento di abbandonare il buonumore che il ragazzo insieme a me mi aveva trasmesso e riprendere la versione responsabile e matura di me. "Fammi indovinare, ti sei voluta fare tutta questa strada per parlare con quel mammalucco di ieri, non è così?" chiese, retoricamente. Sapeva benissimo che eravamo lì perchè dovevo vedere Nicholas. Annuii e mi avvicinai alla vedetta di turno. Domandai di poter parlare con il mio amico. Mi spacciai per la sua fidanzata che doveva dargli una grave notizia riguardante la sua famiglia e la guardia si precipitò dentro. "Fidanzata?" fece John, alzando il sopracciglio. "Dovevo pur inventarmi qualcosa" risposi per giustificarmi. Potevo considerarmi la fidanzata di Nick anche se non avevo accettato la sua proposta? "Qualcuno lassù non è stato molto generoso con te nel donarti le doti recitative, sai? Sei davvero pessima" ridacchiò. Appena scorse Nick da lontano, però, cambiò decisamente espressione. Mi poggiò una mano sulla spalla, si raccomandò che non facessi troppi danni e scappò verso il pub dall'altra parte della strada. "Prenditi almeno l'ombrello" gli urlai dietro, ma con un cenno della mano mi liquidò.
Ero ancora intenta a scuotere la testa, interdetta dal suo comportamento, quando finalmente il ragazzo di Whitby mi raggiunse. Dovevo ammettere che la divisa gli donava. "Non mi aspettavo di vederti qui" era piacevolmente sorpreso, il che rendeva ancora più difficile tutto ciò che avevo da dirgli. Non poteva oltrepassare il cancello, né io potevo entrare. Il problema del contatto fisico era quindi risolto facilmente. Speravo anche ci fosse un rimedio per evitare anche il contatto visivo: i suoi occhi raggianti mi studiavano e mi rendevano decisamente più nervosa del solito.
"Mi fa davvero piacere" continuò. Balbettai qualcosa di incomprensibile persino a me, fingendo un sorriso sincero. Infilò le mani fra le grate del cancello e strinse le mie. Maliziosamente immaginai che avesse fatto quella mossa solo per verificare che indossassi l'anello, sotto i guanti. Dopo qualche istante lasciai la presa ed infilai le mani in tasca.
"Senti, Nick, devo dirti una cosa importante" dissi seria, cercando nella tasca della giacca il gingillo che mi aveva lasciato la sera precedente. Annuì, senza che la mia serietà spegnesse il suo entusiasmo. Tirai finalmente fuori l'anello e glielo mostrai. "Senti, io..." "Ma non è John, quello?" m'interruppe, indicando il pub dalla parte opposta della strada. In uno scatto rinfilai le mani in tasca e mi voltai. Effettivamente, sull'uscio della porta d'entrata, John si stava sbracciando per farsi notare. Appena fu sicuro che mi fossi girata per guardarlo, m'indicò un piccolo boccale di birra e subito dopo m'indicò. "Vuoi?" urlò. Sorrisi. "Sì, arrivo subito! Grazie!" urlai anch'io. Tirò su il pollice per dare segno che avesse recepito il messaggio e se ne tornò dentro. Mi voltai nuovamente verso Nicholas, ancora sorridente.
"È incredibile quanto i tuoi occhi dicano molto più di quanto tu voglia" disse, lasciando che il suo sorriso svanisse. "Cosa vuoi dire?" non capivo questo suo improvviso cambio di umore. Credevo che il suo sorriso svanisse dopo il mio discorso, non prima, per ragioni ignote. "Niente, lascia stare. Cosa dovevi dirmi?" sorrise nuovamente. Stavolta, però, non era sincero.
Spinsi il tasto del rewind e tornai indietro di qualche minuto. Tirai fuori l'anello dalla tasca e glielo mostrai. "Non so bene da dove cominciare...". Non ero mai nemmeno stata davvero con nessuno, e già mi ritrovavo a dover trovare le parole per liquidare qualcuno. Era davvero tutto più difficile di quanto immaginassi e per un attimo mi pentii di essermi fatta avanti così presto. Avrei dovuto aspettare qualche altro giorno per poter preparare un discorso anche solo vagamente ascoltabile.
Per tranquillizzarmi strinse nuovamente le mie mani. Tutto ciò non mi aiutò affatto. "Sei un ragazzo fantastico, anche se non sembra ti voglio bene..." esordii. "Ma non sono quello giusto per te" m'interruppe. Il suo flebile sorriso aveva lasciato spazio ad una faccia terribilmente seria, che quasi stonava col suo solito modo di fare. Scossi la testa. "Sono io quella sbagliata per te, Nick. Ti meriti di molto meglio. Non sono pronta per queste cose, voglio essere libera" il mio tono era mozzato. Qualcosa dentro di me quasi si opponeva di pronunciare tali parole. Probabilmente erano i sensi di colpa. La felicità degli altri era sempre stata una priorità per me, ma non quella sera. Per una volta volevo pensare a ciò che rendeva me felice.
Gli restituii l'anello e infilai per l'ennesima volta le mani in tasca. Stette lì a guardarlo che brillava nella sua mano per un po'. "Sono contento che tu sia stata sincera con me" ammise. Anche la sua voce era mozzata. "Mi dispiace davvero tanto" ammisi, in un sussurro. "Anche a me" sorrise amaramente.
Poggiò la mano libera sulla mia spalla. "Sai, sono uno di quei tipi che non si innamora con poco, ma che si dedica con tutta l'anima alla ragazza che gli fa battere il cuore. Avrei fatto davvero di tutto per farti sentire libera e felice proprio come sogni di essere" cercai di interromperlo ma con un cenno mi zittì "e spero davvero con tutto il cuore che tu possa trovare, quando sarai pronta, un ragazzo che ti adori anche solo la metà di quanto non lo faccia già io". Le sue parole erano una continua coltellata al cuore. Non sapevo come replicare, quindi me ne rimasi in silenzio a guardarlo, incapace di concludere un discorso che avevo avuto tanta fretta ad aprire.
"È incredibile quanto i tuoi occhi dicano molto più di quanto tu voglia" ripeté. Sbuffò. Non lo capii, di nuovo. "Vorrei tanto essere guardato da te nello stesso modo con cui guardi John, sai?" ammise. "John?". Annuì. "I tuoi occhi diventano più splendenti del solito quando lo guardi". Arrossii. "Ammetto di essere un po' invidioso" ridacchiò. "Ma invidioso di cosa? È un insopportabile spocchioso. Non lo sopporto" "Non vuoi ammetterlo nemmeno a te stessa. Ti piace, e non poco. I tuoi occhi non mentono. E nemmeno il tuo sorriso e il colorito del tuo volto" sorrise. Storsi la bocca, assolutamente in disaccordo con lui. "Devo andare, non voglio rischiare di prendere un ammonimento il primo giorno" troncò il discorso. "Mi dispiace tantissimo" ripetei tornando in me, incapace di trovare parole più adatte. "Non importa" alzò le spalle "mi passerà. Col tempo, ma mi passerà. Potremmo anche rimanere amici, chi lo sa". "Lo spero" confessai, a bassa voce. "Ora và da lui, ti sta aspettando" e corse via, senza nemmeno un cenno di saluto.
Mi allontanai dal cancello ancora pensierosa. Mi dispiaceva immensamente per Nicholas, ma non comprendevo il suo discorso. Ciò che aveva detto su John non aveva assolutamente senso. Cercavo di immaginare cosa significasse avere uno sguardo luminoso, ma nessuna immagine raggiungeva la mia mente. Non riuscivo ad immaginare i miei occhi come specchio della mia anima. E non comprendevo in quale modo Nick fosse riuscito a leggere nel mio cuore con così poco tempo. Era sbalorditivo: nemmeno io ero mai riuscita a leggermi dentro. L'avevo sempre reputata un'attività ardua; ero decisamente troppo complicata persino per me stessa. Ed ora arrivava un tipo qualunque che non solo mi chiedeva di sposarlo dopo così poco, ma che mi insegnava, a modo suo, a decifrare le idee contorte nella mia testa. E i miei veri desideri, soprattutto.
Entrai nel pub dove il mio amico mi aspettava. Era un piccolo localino, frequentato quasi unicamente dai lavoratori del porto e dai marinai che avevano il permesso di uscire per una sera. Non ero mai entrata lì dentro, da quanto ricordavo, anche se la similarità rispetto a tutti gli altri locali della città me lo rendeva particolarmente familiare.
John era seduto all'angolo più luminoso. Il resto dei clienti era piantato davanti al bancone, quindi sistemarsi al tavolo più confortevole non doveva essere stato difficile, per lui. Quano mi vide mi fece un cenno con la mano e lo raggiunsi. Appena mi sedetti mi porse il mio bicchiere di birra. Lo ringraziai e diedi subito una sorsata. Sarebbe stato bello bere a tal punto di cancellare dalla mia mente tutto ciò che era accaduto, ma la consapevolezza che l'indomani dovessi tornare a scuola non me lo permise.
"Hai la faccia distrutta! Che hai fatto, hai combattuto una guerra?" mi domandò ridacchiando. Annuii. "Più o meno. Però ho vinto io" risposi sorridente. "Aia. Sento puzza di cuore di marinaio infranto" continuò, divertito. Scoppiai a ridere, assolutamente divertita. "E il tuo senso dell'umorismo sta anche iniziando ad affiorare. Sono sconvolto. Ecco perchè piove" proseguì. "Io ho sempre avuto il senso dell'umorismo. È semplicemente troppo inglese perchè tu lo capisca" risposi a tono, dando un'altra sorsata. Mi fece una smorfia buffa, cercando di farmi ridere ancora. Contro ogni sua previsione ci riuscì, facendomi quasi strozzare. Soddisfatto del risultato, finì di scolarsi la sua birra e si alzò. Era decisamente arrivato il momento di raggiungere di nuovo gli altri. Probabilmente ci credevano persi. Probabilmente qualcuno fra i più maliziosi avrebbe creduto che John avesse provato ad appartarsi: era sempre stato parecchio famoso per le sue enormi doti di rimorchio. Ma forse il mio atteggiamento acido e schivo nei suoi confronti era anche più famoso.
Anche sulla via del ritorno cercai di tenere John all'asciutto sotto al mio ombrello, ma senza riuscirci. Ad ogni accenno di avvicinamento si faceva più in là. Faceva il gradasso sostenendo che ormai la pioggia non poteva più scalfirlo, facendomi divertire. Passeggiare sotto quell'acquazzone terribile sarebbe stato molto piacevole, se solo avessi avuto la mente sgombra.
"Ho come l'impressione che fra Sun e Richard ci sia qualcosa" ipotizzò, all'improvviso. Chissà quali pensieri lo avevano portato ad una simile conclusione. "Wow. Mille punti per la scaltrezza, signor Lennon" lo guardai con un sopracciglio alzato. "Cosa ho vinto?" ridacchiò. Aveva sempre utilizzato questo comportamento perennemente giocoso e spesso ambiguo nei miei confronti, ma per la prima volta gli diedi spago. Scrollai le spalle. "Boh. Lascio scegliere a te". Il suo improvviso sguardo da maniaco mi terrorizzò. "Ma niente di indecente, per favore". Scoppiò a ridere, più divertito che mai. "Rebecca, hai paura di me?". "Assolutamente" annuii, provocando una grande ilarità nel mio compagno.
Arrivati sotto alla tettoia dell'entrata del locale dove gli altri ancora ci aspettavano ci bloccammo. L'indomani i ragazzi sarebbero partiti ed io non li avrei rivisti per chissà quanto tempo, ma in quel momento restare lì fuori mi allettava di più. Tirai fuori il fazzoletto di stoffa che tenevo sempre nella giacca e lo porsi a John. "Datti un'asciugata, sei zuppo. Non vorrei che gli altri pensassero che sono così cattiva con te da lasciarti sotto la pioggia" risposi alla sua domanda inespressa. Sorridente lo accettò ed iniziò ad asciugarsi.
Mi avvicinai alla porta per aprirla. "Dimmi che ti piaccio". Mi fermai. Lo guardai con un'espressione interrogativa stampata sul volto. Probabilmente ero anche arrossita. "Il mio premio. Mi accontento di una tua confessione" fece spallucce, guardandomi con non chalance. Sembrava fosse la richiesta più ovvia del mondo. "Cosa vai blaterando?" domandai. Scrollò di nuovo le spalle. "Non mi pare una richiesta indecente, quindi devi accontentarmi". Spocchioso egocentrico. Ma, in fondo, aveva ragione. Gli avevo promesso di scegliersi da sé il premio, ed ora dovevo accontentarlo. Sbuffai. "John Winstan Lennon, sei la persona più egocentrica, presuntuoso ed irritante che io conosca. Ma sei, in ogni caso, anche la più divertente, intelligente, creativa ed irresistibile. Ti voglio bene, davvero e... Mi piaci. Come persona". Avrei potuto dire qualunque cosa, ma decisi di essere sincera. Silenzio. Non ricevetti nessuna risposta repentina, e questo mi spaventò. Sentii un calore improvviso raggiungermi le gote e, con uno scatto, mi portai le mani in viso. "Soddisfatto?" domandai, disorientata e spiazzata da quel terribile silenzio. Sorrise lievemente. "Anche tu mi piaci, sai? Il mio cuore è per un'altra, ma dopo di lei tu rimani la mia preferita" rispose. Ora si che ero davvero diventata paonazza. "E ammetto che vederti con Paul e con quel marinaretto da quattro soldi m'infastidiva" concluse, alzando gli occhi al cielo.
"Mi piace che tu pensi queste cose di me" disse annuendo. Il suo ego era stato nutrito in maniera spropositata dalle mie parole. Si era accorto della mia sincerità e mi aveva ripagato con altrettanta sincerità. Nella mia testa iniziarono a rimbombare le sue parole. Ero lusingata e piacevolmente sorpresa: non avrei mai potuto immaginare che pensasse una cosa simile di me. Non feci in tempo a gustarmi i toni rosa di quel momento che tutto tornò nuovamente grigio. La mia indole a vedere tutto sotto una luce negativa era più forte di qualunque altra cosa. "D'accordo, ma ora che senso ha questo discorso?" domandai. Probabilmente le mie parole erano terribilmente divertenti, perchè scoppiò a ridere. "Nessuno" rispose. Certo, ovvio. Trovare uno stupido modo per farmi dichiarate e ammettere di ricambiare - seppure un minimo - per lui era un discorso senza senso. "Detesto la Lennonsense" scossi la testa.
"Perchè rovini un momento tanto profondo cercandogli un senso? Sei troppo legata al reale, sei troppo quadrata. Le cose non devono necessariamente avere un senso". Storsi la bocca, interdetta. "È che non ti capisco, tutto qui" mi morsi il labbro, assolutamente imbarazzata. "Sono un genio incompreso" sdrammatizzò. Sorrisi, finalmente.
Si avvicinò pericolosamente. La velocità dei battiti del mio cuore era inversamente proporzionale alla distanza che ci separava. Lo fissavo ad occhi sbarrati, incapace di muovermi o di fare qualsiasi altra cosa. Le sue labbra fine sfiorarono la mia pelle, a metà strada fra la guancia e le labbra. Fu un attimo, che terminò in un istante.
Continuando a guardarlo stupefatta, involontariamente portai la mano nel punto esatto un cui ci eravamo appena sfiorati. "Te l'ho detto, mi piaci, ma non vorrei mai tradire la mia Cyn. Questo è il senso". Scossi la testa. "Mi piace essere tua amica, non ho mai chiesto altro" sussurrai. Mossa da una forza invisibile lo abbracciai. Dai suoi comportamenti meccanici capii che non si aspettava una cosa del genere da parte mia. Furono pochi secondi, ma che mi parvero un'eternità. Non avevo mai pensato che sarebbe mai successo qualcosa del genere; non credevo fosse possibile, per una come me. Ogni pensiero tornò al proprio posto, improvvisamente, senza troppa fatica. Incredibile quanto fosse grande il potere di un abbraccio.
"Posso ritenermi soddisfatto del mio premio. Mi congratulo con lei, signorina" sciolse l'abbraccio.
"Solo un'ultima cosa". Lo guardai, curiosa di sapere cosa avesse ancora in mente. "Aggiungi alla lista delle cose in cui sono migliore di Paul la 'delicatezza', per cortesia" disse sghignazzando, ponendo fine definitivamente al 'momento profondo'. Annuii e scoppiai a ridere.


Finalmente ecco anche questo capitolo. La storia sta volgendo al termine, ahimè: manca l'epilogo e poi qusta fan fiction potrà dirsi conclusa :(
Scrivere questo capitolo è stato più difficile del previsto, fra anacronismi e indecisioni varie (trovare una giusta via di mezzo è così complicato, dannazione!). Spero sia valsa la pena aspettare un po' :)
Spero vi piaccia! Fatemi sapere oooogni cosa, sono curiosa!
A presto, con l'ultimo capitolo :)

 

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Capitolo 11
*** In the END the Love you take is equal to the Love you made. ***


Ogni cosa, prima o poi, torna al suo posto. Mi era bastato poco per capirlo. Ciò che fino a poche ore prima mi sembrava la fine del mondo si era finalmente conclusa, tornando tutto in ordine. Come un espressione infinita di matematica: con i passaggi giusti, con le giuste formule, si è in grado di risolvere i problemi più grandi fino a renderli dei numeri microscopici ed apparentemente insignificanti. Comunque una soluzione c’è sempre, si arriva sempre a qualcosa.
Io a cosa ero arrivata? Ero sempre me stessa, forse con qualche consapevolezza in più.
Ora sapevo che potevo essere amata da qualcuno, sapevo che ogni litigio poteva essere risolto, sapevo che non era sempre necessario trovare un senso a tutto ciò che mi accadeva. In poco più di un mese ero riuscita a capire qual’era il prezzo di un bacio e quanto i miei occhi fossero in grado di dire più cose di quanto immaginassi. Avevo imparato ad apprezzare e a temere gli effetti amnesici dell’alcool e a maledirne gli esiti inaspettati.
La vera insegnante era la vita, non la scuola. Quella maledetta scuola in cui ero rinchiusa.
Non era difficile ritrovarsi a sognare di partire con i propri amici per la Germania, dove se la sarebbero spassata per un po’, quando ci si trovava rinchiusa fra quattro mura insidiose dopo delle vacanze così cariche di avvenimenti e novità.
Per le prime due ore era prevista letteratura inglese, un motivo in più per ritrovarsi costantemente a fissare la finestra, cercando fra le nuvole minacciose un aereo diretto ad Amburgo.
“Ho qui i vostri compiti” annunciò soddisfatta la signorina Parr, sorridente come un’oca giuliva. Tutte quelle produzioni scritte succose e cariche di gossip probabilmente le avevano reso le vacanze natalizie più emozionanti. “Quando vi chiamerò venite qui a prendervi il vostro compito. Io vi commenterò gli errori come sempre” era raggiante. Probabilmente più che commentare gli errori avrebbe iniziato a fare domande su domande per ciascuno, per cercare di carpire maggiori informazioni riguardo al nostro primo amore o roba simile.
Diedi una serie di testate sul banco. Il giorno del giudizio era arrivato. Perché non ci aveva acceso il camino la notte di Natale con quei fogli, cuocendoci le castagne, invece di mettersi a correggerli? Sun mi guardò divertita, ma la sua risatina silenziosa venne interrotta dalla professoressa che la chiamò alla cattedra. Non mi resi conto del tempo che trascorse lì, occupata com’ero a prendere a capocciate il mio banco tutto scarabocchiato, ma di sicuro mi resi conto di quando tornò. La sua poca grazia nel risedersi al suo posto mi risvegliò dal mio momento di trance.
“Ho preso B+” commentò entusiasta, sventolandomi il suo foglio davanti al naso. “È buffo di quante cose siano cambiate in così poco tempo, no? Qui parlo di un amore impossibile, parlo di Paul, ora starei a parlare del mio primo vero amore” aveva gli occhi a forma di cuore. Prese il lapis e con disinvoltura scrisse Richard sul banco, con affianco un cuoricino. “Come sei mielosa e melensa” commentai, tornando a dare testate sul banco. Eravamo fatte così, e questo non lo avrebbe cambiato nessuno. I nostri punti di vista riguardo all’amore erano sempre stati contrastanti. Lei era la ragazza romantica e sognante, io quella realista e più pratica. “Quando incontrerai uno come Richie e diventerai ‘mielosa e melensa’ anche tu te lo rinfaccerò a vita, sappilo” disse incrociando le braccia, fingendosi offesa. Ridacchiai.
“Knowall?”. Il sangue mi si gelò. Sun era sempre più divertita da tutta quella situazione, non comprendendo la mia reazione esagerata per uno stupido compito. Non le avevo detto cosa avevo scritto in quel componimento, quindi era anche assolutamente curiosissima. Mi alzai meccanicamente e raggiunsi la cattedra. Mi chinai leggermente in modo da essere il più vicino possibile al disgustoso viso della Parr, in modo di non farla urlare per far sapere a tutti del mio tema. “Non ho niente da commentare, Rebecca” trassi un sospiro di sollievo “anche perché sei andata fuori tema. Questo compito è un disastro! È chiaro che tu non abbia capito la traccia, anche se è ben scritto. Peccato, questo voto pessimo ti abbassa un bel po’ la media” disse, praticamente lanciandomi addosso il foglio. Lo guardai. F. Una fottutissima F. Il mio esercizio era ben scritto, ma non conteneva abbastanza gossip per poter prendere anche una semplice C. Mi sarei accontentata anche di una D.
“Fanculo” sussurrai, buttandomi di peso al mio posto. “Una F?” Sun era sorpresissima, e fissava il mio foglio come se fosse tutta una finta. Non era mai successo che prendessi un voto più basso di lei ad una composizione, dato che la Parr generalmente apprezzava parecchio il mio stile di scrittura. “Sono fuori tema”  sospirai, facendo spallucce. “Ma cosa diamine ci hai scritto?” continuò, sconvolta. Per farla contenta le diedi il permesso di leggere la mia composizione, e me ne tornai a prendere a testate il banco, pensando ad un modo valido per poter recuperare quel pessimo voto.
Dopo qualche minuto il mio foglio mi venne restituito. “E’ bello, a me non sembri fuori tema. Forse non accetta il fatto che tu non le abbia dato modo di farsi un po’ gli affari tuoi” suppose Sun. Scrollai di nuovo le spalle. Rilessi il mio compito, per l’ennesima volta.

“Credo che l’amore non sia solamente un sentimento che unisce un ragazzo ed una ragazza, come la maggior parte della gente tende a considerare. Sono sempre stata abituata a reputarlo un sentimento ampio, aperto ad ogni genere di legame. È per questo che sono solita scambiare l’amore, quello vero, con quell’unione indissolubile che mi tiene legata alle persone più speciali della mia vita.
Se per amore si intende tenere per mano qualcuno, sentire le farfalle nello stomaco e scambiarsi baci alle porte della notte, credo di non aver mai provato nessun sentimento simile per nessuno.
Se per amore si intende provare il bisogno irrefrenabile di vedere qualcuno, riuscire a sorridere solamente in compagnia di questo qualcuno, stare bene qualsiasi cosa si faccia – anche restare semplicemente seduti ad una panchina a parlare –, allora, in questo caso, credo di essere innamorata.
Sono innamorata, sì, di quattro ragazzi meravigliosi. Chi lo dice che l’amore sia riservato ad una sola persona?
Molte persone della città li conoscono, li chiamano Beatles, vengono ad ascoltarli suonare al Cavern o al Casbah, li applaudono e battono i piedi al ritmo delle canzoni che suonano. Io li chiamo semplicemente Paul, George, John e Pete, e passo con loro ogni minuto possibile.
Loro sono i primi ragazzi che sono stati in grado di far scoprire in me quell’angolo caldo del mio cuore, quello pieno di vero amore. Sono gli amici migliori che una ragazza potesse sognare, e sono così orgogliosa di poter sventolare a tutto il mondo l’affetto che ci lega. Se potessi lo urlerei a squarciagola.
Nonostante la loro infinita diversità, ognuno è riuscito a conquistare una parte del mio cuore.
Pete è probabilmente il più tenebroso, all’apparenza. Si mostra scontroso, buio, ma con il tempo riesce a tirare fuori e donarti il meglio di sé. Con un po’ di confidenza si trasforma in una persona spiritosa e solare. È adorato dalle ragazze, e sul palco da sempre il massimo per compiacere le sue fan. È assolutamente un ragazzo adorabile.
George è un divoratore cronico, di cibo e di vita. Il suo carattere un po’ schivo nasconde un lato dolce e tenerissimo che pochi riescono a vedere. È un ragazzo sentimentale, facilmente emozionabile, che si nasconde dentro ad un guscio, uscendo di rado. La sua curiosità e voglia di sperimentare è a livelli esponenziali, così come la sua infinita creatività. Conoscendolo, non si può non amare.
Paul è il latin lover della situazione. Sempre concentrato a migliorarsi e ad imparare nuove cose, spesso e volentieri anche solo per lasciar accrescere il proprio ego. Mi piace considerarlo come una crostata di miele: dolcissimo, vellutato, ma con una forza ed una determinazione indescrivibile. Nonostante molte siano attratte dal suo faccino da bravo ragazzo, in poche riescono a vederne anche la bellezza interiore.
Infine John. È un ragazzo fragile, ma in grado di nascondere le proprie debolezze in maniera eccellente. L’umorismo e il buonumore sono le sue carte vincenti, così come la fantasia sconfinata. Forte, talentuoso, deciso e grande intrattenitore, è probabilmente il più grande trascinatore che conosca.
Loro sono probabilmente gli unici quattro ragazzi che non mi abbandoneranno mai. I soli quattro ragazzi che non mi spezzeranno mai il cuore, che non mi deluderanno mai.
Ecco, il mio primo e unico vero amore sono loro, sono i Beatles.”




Bene, ok, ok, finalmente questa storia volge al termine. Ce l'ho fatta finalmente!
Spero che vi sia piaciuto leggerla quando è piaciuto a me scriverla. Immaginarsi anche solo un po' in loro compagnia è stato meraviglioso... ma tutto volge al termine!
Grazie a tutti quelli che hanno seguito questa FF, a tutti quella che l'hanno recensita, a tutte quelle persone speciali che mi hanno spronato a continuare anche quando mi prendevano le crisi.
Grazie, grazie davvero a tutti :D
Alla prossima fan fiction!
With love, J.

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