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Ogni
storia che si rispetti inizia con un “c’era una volta”, soprattutto se quella
determinata storia riguarda personaggi mai esistiti o appartenenti al mondo
dell’immaginario.
Ho
letto molte favole da piccola, e non solo. Essendo sempre stata particolarmente
dotata, le mie letture sono divenute nell’arco di poche settimane più… complicate.
Tuttavia
ricordo perfettamente che ogni racconto inizia con quella famosa frase. Perciò,
trattandosi di una storia che riguarda vampiri, licantropi, mutaforma
e altre specie sconosciute all’uomo, non posso esimermi dall’inserirlo nella
mia storia, quindi…
C’era
una volta una bambina che si chiamava RenesmeeCarlie Cullen.
Ogni
bambina si presentava agli estranei ripetendo il proprio nome e svelando
qualcosa di sé, ma lei lo faceva in un modo tutto suo e piuttosto insolito.
«Mi
chiamo RenesmeeCarlie
Cullen, sono una mezzosangue, figlia di Edward Anthony Masen
Cullen e Isabella Marie Swan-Cullen. I miei parenti
sono vampiri vegetariani e il mio migliore amico, Jacob, è un lupo mutaforma. Ah, dimenticavo… sono
una cacciatrice di Fiare».
Lanciai
l’ennesimo diario contro il muro. Cadde con un rumore sordo sul pavimento.
Era
tutto inutile. Li avevo letti e riletti fino all’esasperazione, conoscevo ogni
maledetta parola di quelle vecchie pagine ingiallite dal tempo. E come ogni
volta, appena il volto di mio padre affiorava nella mia testa, la rabbia
ribolliva in me e la tentazione di distruggere la sua stanza era troppo forte
perché potessi riuscire a controllarla. A quel punto, come adesso, era
intervenuto mio zio Jasper a “iniettarmi”, per così dire, una dose invisibile
di camomilla.
Strinsi
i pugni fino a far diventare le nocche bianche. Sollevai il capo e puntai lo
sguardo in direzione della porta. Come già avevo intuito anche soltanto
dall’odore, mio zio stava appoggiato allo stipite della porta con le braccia
incrociate.
Nei
suoi occhi non c’era pietà, né compassione. Lui sapeva che odiavo chiunque mi
guardasse così, lo sentiva ogni volta che mi era vicino.
«Va
tutto bene, zio Jasper, non preoccuparti» dissi.
Inarcò
un sopracciglio, lanciando una rapida occhiata al diario che avevo gettato lì.
Scrollai
le spalle. «Lo sai, questa stanza mi fa uno strano effetto».
Altro
che strano, direi furioso, pensai.
«Se
è così» guardandomi con l’aria di uno che non se la beveva «dovresti evitare di
entrarci».
Come
se non ci avessi già provato…
«Sì,
forse…» replicai poco convinta.
«Leggere
quei diari non ti sta aiutando ad andare avanti».
M’irrigidii.
«Forse non voglio andare avanti, non trovi?»
Si
scostò dallo stipite e avanzò fino alla grande vetrata, poggiando un palmo su
di essa. «Dovresti farlo, invece, anche se aggrapparsi al passato sembra la via
più facile. I ricordi belli resteranno tuoi anche quando volterai pagina. Non
preoccuparti di questo».
Abbassai
il capo. Aveva ragione, ma il passato non era fatto solo di ricordi belli ed
era proprio questo il problema: erano quelli brutti a prendere il sopravvento
ogni volta che il pensiero volava a mio padre.
«Lui
non sa che aspetto ho, adesso. O se lo conosce, è solo per merito delle foto
che mi avete scattato durante questi anni. Capisci? Foto che avete fatto voi,
perché lui non c’è mai stato». Riescia sentire l’amarezza che si cela dietro
queste parole?, avrei voluto dire ad alta voce se si fosse trattato di
qualche altro Cullen, ma con Jasper non ce n’era bisogno. Era un empatico, il
suo era sia un dono che una maledizione, proprio come la sua incontrollabile
sete.
Anche
se si era esercitato molto negli ultimi anni, non era ancora riuscito ad eguagliare
lo straordinario controllo che aveva ottenuto mia madre sin dall’inizio.
Il
nonno era giunto alla conclusione che la forza di volontà di Jasper non aveva
raggiunto l’apice e che ci doveva lavorare sopra. Il periodo passato con i
vampiri del Sud non lo aiutava, anzi… lo tormentava.
«Tu
sai perché tuo padre non è qui. E sai anche che se lui ci dicesse dove si trova
in questo momento, non esiteremmo a partire» disse.
Sì,
lo sapevo, ma questo non faceva meno male. Anche i miei zii sarebbero stati
lontani, no? Altre persone che mi lasciavano indietro perché mi ritenevano
troppo fragile, delicata come un fiore, per poter aiutare nella ricerca di mia
madre.
Erano
passati dieci lunghi anni dalla sua scomparsa e ancora adesso brancolavamo nel
buio. Nessun indizio di dove cercarla.
Sapevamo
solo che un giorno era uscita a caccia con me, Jacob e Seth.
Qualche
ora dopo, di lei e Seth si erano perse le tracce.
Io
e Jacob avvertimmo mio padre e il resto dei Cullen, che si precipitarono lì
dove si erano diretti il giovane lupo e mia madre.
I
loro odori erano svaniti non appena capitammo in una piccola radura.
Mio
padre dovette riconoscerla, così come mia zia Alice, perché si irrigidirono e
si scambiarono una breve occhiata.
Era
la prima volta che vedevo mio padre in quello stato. Non che io fossi messa
meglio, ma non avrei più dimenticato quell’espressione: un misto di
smarrimento, paura e rabbia.
Si
era diretto verso il centro della radura, cadendo in ginocchio sotto lo sguardo
preoccupato dei Cullen e aveva gridato il nome di mia madre, accompagnato
dall’ululato straziante del branco di La Push che
probabilmente stava chiamando per via telepatica il loro compagno disperso.
Quel
giorno capii che ciò che era accaduto qualche mese prima con i Volturi era
stato solo una piccola scheggia conficcata nel palmo della mano.
Un
dolore che ero riuscita a superare quasi subito, perché tutto si era risolto
per il meglio. Ma non la volta successiva. Ancora adesso il coltello piantato
nel cuore sanguinava e l’unica in grado di cacciare via il dolore era colei che
lo aveva piantato.
Mia
madre.
Ritornai
al presente. Ripensare a quel maledetto giorno era come rigirare quel coltello
nella ferita aperta.
Mi
voltai verso mio zio e notai che mi stava fissando adesso.
«Ma
è proprio qua che sta il nocciolo della questione» sollevai dal pavimento il
diario e glielo porsi. «Mio padre è un egocentrico. Contano solo i suoi
sentimenti, solo lui sta soffrendo per una perdita».
M’incamminai
verso l’uscita. «Ha mai capito cosa significa essere padre, secondo te? Io
direi proprio di no».
Stavo
scendendo le scale, quando sentii l’odore di biscotti al cacao. Seguii il
profumo che proveniva dalla cucina e restai in piedi, appoggiata allo stipite
della porta.
Mia nonna sapeva benissimo che ero dietro di lei, ma cercò di darmi il tempo
che mi era necessario per stamparmi in viso la solita maschera di ragazza
rabbiosa con crisi adolescenziali. Se si voltava ora, avrebbe intravisto un’ombra
di nostalgia sul mio volto.
Ricordai quelle poche volte in cui, invece della figura di mia nonna, c’era
quella di mia madre, indaffarata tra i fornelli a preparare i miei biscotti
preferiti.
Ricordi in cui mia madre teneva uno sguardo corrucciato e le labbra increspate
in una smorfia di disgusto, tipico di un vampiro vicino ai cibi umani. Accanto
a lei, mio padre si occupava del forno, portandolo alla giusta temperatura.
Poi, lui si voltava a osservarla con sguardo intenso e profondo.
La abbracciava, e questo era il ricordo più bello che portavo nel cuore, uno
degli attimi più felici della mia vita. Entrambi ruotarono, fino a incontrare
la mia figura.
Io, ancora piccola, con una mano mi stropicciavo gli occhi. Il pigiama rosa
che, ancora una volta, si era ridotto. O forse no.
Ero io che diventavo sempre più grande.
«Buongiorno, amore mio, i biscotti saranno pronti tra poco» m’informò la mamma.
Mi sorrise
serena, avvolta nella stretta di mio padre, che teneva il viso poggiato sulla
sua spalla. Anche lui era di ottimo umore, anche lui era felice.
Ecco il ricordo più felice e doloroso: una famiglia che non esisteva più.
Come per magia, tutto si fece sfocato, le immagini sbiadirono sempre più
velocemente, finché si dissolsero in una nuvola di rimpianto.
Al suo
posto, il viso di mia nonna mi osservava sorridente e tesa.
Un sorriso forzato, il suo, perché anche lei non riusciva più a sorridere
amorevolmente come prima.
«Ti ho preparato i biscotti che ti piacciono tanto. Sono fatti con la stessa
ricetta di tua madre, spero siano venuti bene».
Estrasse con cura il vassoio dal forno e lo ripose sulla tavola imbandita. Il
tavolo era ricco di tante altre prelibatezze che in un altro momento avrei
apprezzato, ma ora il solo guardare quei biscotti mi faceva chiudere lo
stomaco.
Per fortuna potevo vivere anche solo di sangue, così mi risparmiavo il sapore
di quei ricordi al cacao.
Il mio sguardo restò impassibile, mentre quel vassoio faceva bella vista al
centro del tavolo. Una piccola smorfia di sufficienza sul mio viso.
«Non ho fame» affermai con voce incolore, afferrando alcune mele dal cesto
della frutta. Con la coda dell’occhio la vidi sospirare e scuotere la testa
silenziosamente. I suoi capelli color caramello ondeggiarono qua e là e inalai
l’essenza dolce e delicata di mia nonna.
«Però le mele te le stai portando» notò con un lieve accenno d’ironia.
Sì, me le
stavo portando via e non era chiaro quello che volevo o non volevo? Mi bloccai, rigida in tutto il mio corpo.
Il mio
sguardo si fece sempre più tagliente, tanto che l’aria si caricò subito di
elettricità. Restò immobile, captando il cambiamento, ma non accennò a
continuare. Voleva una risposta? L’avrebbe avuta, per quanto fosse stata acida
e velenosa.
«Le mele, fortunatamente, non sono state create da nessuno, se non dalla
natura. Quei biscotti sono una brutta imitazione di qualcosa creato da una
persona che non voglio ricordare» dissi, sempre dandole le spalle. Una folata
di vento irruppe nella cucina e l’odore intenso maschile arrivò alle mie
narici.
Un profumo che avevo sempre riscontrato sul corpo di mio padre, come se lui ne
facesse parte, come se il veleno si fosse trasformato in sangue, dichiarando al
mondo l’unione fisica e mentale di questi due esseri.
Carlisle, mio nonno, mi guardò con dispiacere, senza risparmiarmi un’occhiata
di rimprovero. Alla sua velocità, si avvicinò a mia nonna, rimasta dietro di
me. Decisi di voltarmi, per sentire cosa aveva da dire, ma ciò che sentii mi
fece esitare un attimo: mia nonna, stretta nell’abbraccio di mio nonno,
singhiozzava, incapace di piangere.
Ancora una volta, avevo ferito chi mi stava intorno. Cercai di reprimere i miei
sentimenti di fronte a quella scena sotto una pesante maschera di freddezza, ma
una frazione d’istante bastò a mio nonno per notare che io non ero così
impassibile come volevo far credere.
«Renesmee, chiedi scusa a tua nonna e cerca di mangiare. Questi biscotti li ha
fatti per te. Sa che impazzisci per loro, perciò vedi di fare uno sforzo» mi
invitò bonariamente, eppure il tono autoritario non svanì dalla sua voce
melodiosa e calma.
Era divenuto un’altra persona.
Questo bastò per farmi scattare qualcosa all’interno: tutti potevano cambiare,
soffrire, ma chi lo faceva maggiormente non lo notavano?
Io soffrivo più di loro. Tanti sentimenti, emozioni si alternavano in me, prima
di tutti la rabbia e il rancore. Riposi l’ultima mela nello zaino e lo fissai
negli occhi.
«Di cosa dovrei scusarmi? Del fatto che cercate di occupare il posto di
qualcuno che non è qui? Del fatto che anche tu, anzi, soprattutto tu ti atteggi
a ricoprire il ruolo di padre perfetto e senza macchia?».
Finalmente, dopo anni, ero riuscita a dirlo ad alta voce.
Qualcosa che non mi sarei mai sognata di dire nei primi mesi di vita, perché
lui era stato davvero un secondo padre.
«Renesmee! Che cosa stai dicendo? Nessuno qui vuole occupare il posto dei
tuoi…» cominciò a dire.
Subito con un gesto della mano gli feci cenno di tacere, incapace di sentire
ancora quella parola. Non poteva davvero definirli così, quando io stessa
faticavo a pronunciarla ad alta voce.
«Non dire quella parola. Hanno perso il diritto di definirsi in tal modo molto
tempo fa, e voi non ne occuperete il posto. Nessuno può farlo, per quanti
sforzi facciate» finii con un soffio di voce, sentendo le mie parole incrinarsi
sotto il peso di tutte quelle accuse che ingoiavo giorno dopo giorno, in attesa
di essere urlate ai veri destinatari.
«Nessie, so quello che stai passando…».
Un’altra frase che non doveva essere detta.
«Non dire neanche questo» iniziai con
tono alterato e piuttosto alto, poi mi accorsi che altri si erano aggiunti alla
piccola riunione di prima mattina. Alice e Jasper. Strinsi con forza lo zaino e
me lo misi sulle spalle. «Nessuno sa quello che provo, neanche Jasper, anche se
possiede proprio il potere adatto. Ora vado a scuola. Se dovete contattarmi,
fatelo solo se è strettamente necessario. Ne ho abbastanza di queste stupide
scenate» e uscii dalla stanza, incurante dello sguardo dei nuovi arrivati. La
prima mi fissò torcendosi tra le mani un mazzo di fiori; le campanule, le mie
preferite. L’altro, invece, mi guardò con comprensione.
«Renesmee! Non ho ancora finito!» urlò. Io sì, nonno.
«Lasciala andare, Carlisle. Soffre più di quanto immagini». È vero, nonna, molto più di tutti voi.
Grazie, anche dopo ciò che ti ho fatto. «Nessie…» iniziò zia Alice.
No, non potevo sopportare anche la sua voce. Lei era la persona più vicina a
lei e il dolore dei ricordi mi sovrastava sempre in sua presenza. Era come se
lei esistesse per torturarmi.
«Non perdere
la speranza» continuò, consapevole che io fossi in ascolto, ma inconsapevole
delle lacrime che tornarono a fare capolino sul mio volto.
C’era mai stata speranza per me?
Uscii da casa senza guardarmi alle spalle, senza mostrare il dolore che
loro si ostinavano a voler comprendere, quando in realtà non avevano la più
pallida idea di cosa significasse soffrire davvero.
Forse era un comportamento egoistico da parte mia, ma… Lo è, senza ma o forse, m’interruppe una
vocina.
Tuttavia loro non facevano strettamente parte di quella famiglia distrutta.
Rallentai il passo fino a fermarmi davanti al garage, indecisa se utilizzare la
Volvo o la Ferrari, quella macchina che non era mai stata realmente di mia
madre.
Presi il telecomando dalla tasca e cliccai il pulsante. Nell’attesa che si aprisse
del tutto, con la manica del maglione mi asciugai quelle maledette lacrime che
non accennavano a lasciarmi in pace.
Perché ogni volta dovevano riaffiorare? Non era ancora giunto il momento di
dire basta?
I miei pensieri furono interrotti dal click
della saracinesca che si era aperta del tutto, mostrandomi la prima auto in uscita,
un’Audi tt-rs.
Sorrisi malinconica, osservando il muso elegante della macchina. Con un dito
sfiorai la carrozzeria bianca. Il mio pensiero volò nuovamente a mio padre e
alle giornate passate insieme prima del giorno che aveva distrutto per sempre
la nostra bolla di felicità. «Nessie, la vedi questa?» domandò papà
soffiandomi nell’orecchio. Mi trovavo seduta sulle sue gambe, con un dito
sfiorava un’immagine sul giornale. Si trattava proprio dell’Audi che voleva
regalarmi non appena avessi compiuto l’età per poterla guidare.
«Sì, papà» risposi, lasciandomi cullare dalla sua bellissima voce. Una di quelle che amavo
sempre ascoltare, ancor prima di nascere.
«Quando sarai diventata adulta…» cominciò a dire.
«Quando sarò grande come te?» chiesi interrompendolo.
Fece una smorfia, non
riuscendo a mascherare bene l’accenno di un sorriso. Si accomodò meglio sul
divano, gettando sul tavolino la rivista di macchine sportive all’ultimo grido,
ed io mi trovai a cavalcioni sopra di lui.
«Be’, per diventare grandi cosa intendi? Nel mio caso è meglio distinguere,
sai?» scherzò, arrotolandosi una ciocca dei miei boccoli ramati attorno le dita.
Il volto era sereno, tranquillo. Non aveva mai avuto sete del mio sangue, mai,
anche quando i suoi occhi a volte si coloravano di nero per il troppo digiuno.
«Grande… ehm… come te!».
Indicai con il mio
piccolo indice il suo petto, nascosto da una maglietta grigia a maniche lunghe,
arrotolate fin sopra gli avambracci.
Per stare più comodo, a
sua detta.
Una volta lo sentii parlare sul fatto che adorava il mio calore, perché gli
ricordava i tempi in cui mia madre era umana e la stringeva tra le braccia.
«Mmh, grande intendi l’età fisica, suppongo. Perché se intendi quella
effettiva, tesoro, non credo che tu sarai contenta di guidare non appena
scadono i tuoi primi cento anni di vita» puntualizzò, scoppiando poi a ridere a
crepapelle.
Avevo sempre adorato la risata di papà, ancor di più della sua voce. Risi anch’io
e denegai col capo. Poggiai una mano sulla sua guancia, anche se non era necessario
con lui, e gli mostrai cosa intendevo. Lui si fermò appena la visione finì e mi
guardò con intensità.
«Davvero vuoi che t’insegni a guidare?»
Annuii alla sua domanda
e poggiai il capo sul suo petto, portando le mie braccia dietro il suo collo. “Ti voglio bene, papà.”
«Anch’io, Nessie. Tu e la mamma siete tutto per me».
All’improvviso, tutto scomparve. Dinanzi a me vi fu solo un’auto parcheggiata,
con le chiavi già riposte nel quadro.
«Non è vero, mi hai mentito. Io non sono importante quanto la mamma per te»
mormorai fissandola un altro po’.
Mi allontanai da quelle vetture con un enorme peso sul cuore.
Non potevo guidare nessuna di quelle macchine, proprio nessuna.
Richiusi il garage e, nell’attesa, intravidi dalla finestra la figura di zia
Alice, che mi osservava scuotendo la testa.
Non era d’accordo sulla mia scelta? Non approvava il mio comportamento?
Peggio per lei. Non cercavo per niente la loro accondiscendenza. Preferivo
leggere irritazione e disapprovazione nei loro occhi piuttosto che la pietà o
sentimenti simili.
Il mio sguardo si caricò d’odio, perché lei e anche gli altri avevano
sentito la frase, e come sempre negavano
ciò che era ovvio. Zia Alice più di tutti.
«Lo sai che ciò che dico è vero. Non mentire anche tu» dissi, sapendo che lei avrebbe
colto ogni singola parola.
Mi voltai e mi lanciai nel fitto della boscaglia, in direzione di La Push,
l’unico posto dove potevo essere me stessa, dove potermi sentire libera di
tirar fuori tutta la mia rabbia, la mia frustrazione.
Dove abitava il mio migliore amico, Jacob.
Mentre correvo, avvertii la scia di alcune alci vicino a una pozza d’acqua e
una morsa allo stomaco mi fece capire che prima avrei dovuto fare uno spuntino.
Mi acquattai in posizione d’attacco, proprio come mi aveva insegnato papà,
e studiai la mia preda.
Si trattava di una coppia, maschio e femmina, piuttosto vecchi.
Fissai con insistenza il maschio, cercando di non far rumore.
Come avevo ben imparato, i sensi degli animali erano ben sviluppati quando
si trattava di fuggire di fronte al predatore. Perciò aveva captato la tensione
che circondava la zona intorno a loro. Gli uccelli avevano smesso di cinguettare
ed era calato un silenzio innaturale nel bosco. Cominciò ad osservarsi intorno,
indietreggiando verso la compagna, anch’ella avvertiva il richiamo silenzioso e
spaventato del compagno.
Accadde tutto in un lampo.
La femmina iniziò a correre, nella direzione opposta alla mia, lontana dal
pericolo. Il maschio la seguì, ma era troppo tardi. Il grande cacciatore ha intrappolato la sua preda. [Cit. Il Re Leone 2]
Lo afferrai per il collo, scagliandolo contro il tronco di un albero. L’osso
del collo, però, rimase intatto. Senza dargli il tempo di capire che fine avesse
fatto il predatore, affondai i canini nella giugulare, succhiando con bramosità.
Iniziò a dimenarsi, a scalciare nel tentativo di allontanarsi da me, ma era
tutto inutile. Dopo qualche minuto, ogni funzione vitale dell’animale cessò.
Avvertii dopo qualche istante dei pesanti tonfi sul terreno. Erano ritmati,
la corsa di un animale piuttosto grosso e che si avvicinava sempre più.
Mi alzai e fissai il punto da cui provenivano. Aguzzai la vista e scorsi una
macchia marrone-rossiccia sfrecciare tra gli alberi con agilità, nonostante la
grande mole. Il battito del suo cuore martellava sempre più forte e la corsa si
faceva sempre più veloce, finché non mi raggiunse.
Il grosso lupo mi scrutò con i suoi grandi occhi neri. Sfiorò con il muso
la mia guancia accaldata per la lotta. Abbassai lo sguardo, puntandolo sul mio
maglione, e notammo entrambi una piccola macchia rossastra.
«Avevo sete e mi sono fermata a fare uno spuntino» spiegai.
Jacob avvicinò il naso e odorò lo stesso. M’irritai un po’ per la sua mancanza
di fiducia. Forse vuole assicurarsi
che non ti sia fatta male, azzardò la vocina.
«Immagino mi debba cambiare per non spaventare i bambini della riserva»
riflettei, ottenendo un cenno del capo da parte sua.
Sbuffai, andando a raccogliere lo zaino.
Poggiai una mano sulla sua schiena, accarezzando il manto morbido.
«Oggi non mi va di correre. Portami tu».
Se risultai patetica, questo non ebbi modo di saperlo.
Jacob si chinò e mi lasciò salire, senza emettere alcun suono.
Intuiva subito quando c’era qualcosa che non andava, ma sapeva rispettare i
miei tempi.
«Grazie, Jake. Ti voglio bene»
lo ringraziai.
Dopo tanti anni, quelle parole uscirono come un sussurro dalla mia bocca.
Era l’unico a cui lo avrei continuato a ripetere, l’unico che desideravo
avere al mio fianco sempre.
Quel ti voglio bene continuava a pesare come un macigno, ed
essermi esposta con tanta naturalezza davanti a qualcun altro che non fosse
stato uno dei miei genitori, mi riempieva di tristezza.
«Non deludermi anche tu, Jake, non lo sopporterei» gli confidai, poco prima che
si lanciasse in direzione di La Push.
Jake corse veloce come il vento attraverso
il sottobosco silenzioso. Gli animali cambiarono direzione al nostro passaggio,
intimoriti da qualcosa di così grande e pericoloso.
Ma qualcosa lo era più di lui; io.
Per quanto tempo i Volturi avevano tentato di far credere che io fossi
qualcosa da distruggere?
La risposta si era prolungata negli anni, sotto il peso di svariate visite da
parte di alcuni membri della guardia.
A volte lo stesso Aro s’intratteneva per circa una settimana.
Evento rarissimo quando ciò avveniva.
La sua insistenza verso alcuni membri dei Cullen stava sfiorando
l’ossessione.
Lo sguardo calcolatore che possedeva si era più volte soffermato sulla mia
figura, non captando mai il suo desiderio di distruggermi. Mio zio Jasper aveva
avvalorato la mia tesi ogni qualvolta glielo avevo chiesto, sostenendo che in
lui non vi era altro che sete di potere, e che per questo motivo noi eravamo
liberi. Non eravamo mai stati colti in fallo.
Quante volte ero scoppiata a ridere di fronte allo sguardo sdegnato e schifato
di Caius? Quante volte mi ero beffata di lui, pur sapendo che avrebbe voluto
vedermi morta? Io non facevo altro che irretirlo e istigarlo a farlo.
Tuttavia Aro perdonava – o eclissava – ogni mio atteggiamento irrispettoso,
convinto che un giorno o l’altro avrei fatto davvero parte di quella guardia
che lui si ostinava a sfoggiare come un trofeo di caccia.
Davanti a noi si stagliò il fiume che divideva i due territori. Con un enorme
balzo, spiccò il volo, atterrando sul selciato fresco di pioggia. La corsa
ricominciò e, accanto a noi, comparvero altri due lupi, che mantenevano la
stessa andatura qualche metro dietro.
Quil ed Embry.
Dopo un po’, arrivammo nella piccola radura, dove si trovava collocata la casa
rossa di Jake e suo padre. Jake si chinò sulle zampe anteriori per permettermi
di scendere, anche se non era affatto necessario.
Sbuffai. «Jake, non sono umana del tutto. Posso permettermi di saltare
dalla tua schiena senza tutta questa riverenza» gli feci notare.
Emise un piccolo ringhio e mi diede un colpetto col suo muso peloso.
M’incamminai in direzione della casa, seguita solo dagli altri due. Jake scomparve
tra gli alberi per riprendere le sembianze umane. Dopo pochi minuti comparve di
nuovo. Indossava soltanto un paio di jeans strappati all’altezza delle
ginocchia.
Qualcosa nel suo sguardo che mi fece presupporre che non fosse di ottimo umore.
La mascella era serrata, le labbra tirate in una linea dritta e sottile;
difficilmente mi rivolgeva quello sguardo.
Lo fissai senza capire, fermandomi quasi al centro della radura.
Si voltò un istante verso gli altri due lupi, facendo loro un cenno col
capo e invitandoli a lasciarci soli.
Probabilmente quello che aveva da dire, non doveva riguardarli. Sparirono tra
gli alberi in un batter d’occhio.
«Sei andata a caccia» disse.
Aspettai che finisse la frase, ma questo non avvenne.
Sembrò quasi una domanda dal tono, ma capii che si trattava di una semplice
constatazione. Adesso dovevo dar conto anche a lui?
Annuii distrattamente, passandomi una mano fra i capelli.
Con la coda dell’occhio lo vidi deglutire a disagio e distolse lo sguardo da
me, puntandolo verso un punto imprecisato della boscaglia ai margini della
radura.
Non capii, in un primo momento, poi un flash. La mia mano si bloccò. Strinsi
alcune ciocche fino a farmi male.
Lui non aveva dimenticato, ed io lo facevo come niente fosse.
Ritrassi la mano, congiungendola all’altra dietro la schiena, come se i capelli
scottassero.
Non erano i capelli in sé il problema, ma il gesto che inconsciamente avevo
ereditato da mia madre. Lui lo ricordava come fosse ieri, io con il tempo avevo
rimosso quel dettaglio. O forse lo avevo semplicemente dimenticato per non
soffrire?
«Sei arrivato poco dopo. Non capisco questo tono da padrone del castello,
quando con me non l’hai mai usato» replicai seccata.
Cosa gli era preso? Forse era preoccupato per me dopo quello che era
successo dieci anni fa, ma era passato tanto tempo, non pensavo di essere
ancora in pericolo.
Sbuffò esasperato, allargando le braccia e guardandomi con fare ovvio.
«Non puoi capire o non vuoi capire, Nessie?» domandò.
«Secondo te?» lo provocai.
«Dimmelo tu. Non ti chiedi il perché ti sia venuto incontro?».
«Perché pensavi che fossi in pericolo?» azzardai, sicura della risposta.
«Esatto. Dopo quello che è successo, non c’è bisogno di tentare la sorte e
vedere se capita anche a te». Impossibile che accada, pensai con sarcasmo.
«Jake, tu vieni sempre con me. Non potrei tentare la sorte neppure volendo»
sorrisi innocente.
Incrociò le braccia, borbottando qualcosa d’incomprensibile, mischiati a insulti
e bestemmi su chi sa chi, che decisi di ignorare.
Trattenni a stento una risata. Più volte papà mi aveva detto di non
ascoltarlo e di non ripetere quello che diceva. Non si adattava all’educazione
di una ragazza – mezzosangue – come me.
Mamma lo definiva “linguaggio da scaricatore di porto”, che con gli anni non si
era mai affievolito. Tutt’altro.
Doveva aver trovato un manuale nuovo di zecca, perché adesso era ancor più
ricco.
«Accidenti! A volte sei proprio uguale a tua madre» sussultai a quella frase,
ma continuò imperterrito. «Non vi rendete conto di ciò che è ovvio. Ora capisco
Edward quando si esasperava».
Non bastava tirare in ballo mia madre. Anche mio padre?
Ancora una volta, era riuscito a farmi perdere le staffe. Avrei voluto
rispondergli per le rime, ma ci ripensai e lo fulminai con lo sguardo.
Mi allontanai a grandi falcate, come un toro inferocito. «Sei proprio la copia della mamma» affermò papà sorridendo e abbracciandomi
forte. Ogni volta era una gioia essere stretta
fra le sue braccia. Avevo la sensazione che nessuno potesse distruggere il mio
mondo. «Chi è la copia della mamma?». Mamma comparve dalla porta della mia camera con una finta faccia arrabbiata.
Io mi accoccolai meglio addosso a papà, guardandola sorridendo. Lui m’intimava
con gesti di tacere. «Papà dice che a volte siamo così ingenue da cadere nei tranelli più stupidi»
spiegai.
Mio padre nascose il volto dietro i miei capelli, sussurrando: «Nessie, non ci
tieni al tuo papà?». «Certo che ci tiene. È mio marito che non è interessato a entrare in camera,
stanotte. Resterai fuori, poiché mi ritieni ingenua» sogghignò con una luce negli
occhi. Mi strappò dalle braccia di papà, ignorando le sue scuse. Il litigio – o per meglio dire finto
litigio – durò circa pochi minuti, perché l’amore fra i miei genitori era così
profondo da abbattere qualsiasi barriera.
O forse era quello in cui speravo.
Una mano mi afferrò il polso, riportandomi al presente. Fui costretta a
fermarmi, anche se avrei potuto benissimo utilizzare tutta la mia forza per
liberarmi, ma restai lì.
«Perdonami. È vero, a volte parlo troppo, senza rendermi conto di ciò che dico.
Non avrei dovuto dirlo, semplicemente. Il fatto è che mi ricordi tantissimo
lei. Vederti oggi da sola a cacciare, mi ha turbato e preoccupato» disse impacciato.
Mi voltai e vidi le sue guance tingersi di rosso.
Per quanto mi sforzassi di avercela con tutti, lui era uno dei pochi con cui
riuscivo a parlare, liberarmi di tutto ciò che mi opprimeva il cuore. Sollevai la
mano, accarezzandogli la guancia leggermente ispida.
I suoi occhi neri s’incatenarono ai miei.
«Tu eri preoccupato per me, vero?».
Domanda inutile, ma la posi ugualmente.
Annuì e strofinò la guancia sulla mia mano, come un gatto in cerca di
coccole.
«Allora perdonami tu. Non sono stata molto gentile con te. Il fatto è che oggi
ho litigato di nuovo con loro e… e… Jake?».
Intensificai lo sguardo in cerca di un appiglio, qualcosa che mi potesse aiutare
a non rivivere quei momenti. Non avrei potuto sopportare di tornare in quella
casa e affrontarli. Proprio non me la sentivo.
«Sì?».
«Posso restare qui, stanotte?». Leggi la muta richiesta
nei miei occhi? Dimmi di sì. Mi scostò una ciocca di capelli dal viso e sorrise, mostrando un accenno
dei suoi denti perfetti. Un sorriso da
far concorrenza al sole per luminosità, come diceva mamma.
«Certo che puoi. Cercheremo anche qualche vestito per farti stare a tuo agio».
Avrei potuto sempre contare su di lui, questa era una delle poche certezze che custodivo
gelosamente dentro di me.
Prese la mia mano e se la portò alla bocca. Sembrava un formale baciamano,
a prima vista, ma le sue morbide labbra si limitarono a solleticare la pelle.
Il rombo di un tuono riecheggiò nell’aria e subito dopo alcune gocce d’acqua caddero
dal cielo, danzando sull’erba lussureggiante.
Anche i nostri volti furono investiti dalla pioggia scrosciante.
Alcune di queste gocce si raccolsero sulle punte dei suoi capelli, arrivando a
bagnarmi le labbra per l’improvvisa vicinanza. Le sue ciglia sembrarono
infittirsi con l’acqua e le sue labbra abbracciare sensualmente quelle piccole
birichine.
Distolsi lo sguardo dalla sua bocca e lo fissai negli occhi.
Anche lui fu rapito dalle mie.
«Credo sia meglio andare, Jake» balbettai un po’ imbarazzata.
Perché lo ero, d’altronde? Era Jake, il mio migliore amico, cosa doveva
mettermi in imbarazzo? Non era la prima volta che mi soffermavo a guardarlo, a
studiarne i lineamenti del viso o i muscoli possenti del corpo. Allora perché
improvvisamente mi sentivo a disagio essendo così vicina a lui?
Il suo respiro s’infranse contro il mio orecchio. La guancia strofinò con la
mia, e fu in quell’istante che fui investita da un ricordo, o almeno credetti
che fosse tale, invece che frutto della mia fantasia.
Un altro respiro, stavolta freddo, sfiorava la mia pelle come una carezza, anch’egli
accostato al mio orecchio. Sussurrava qualcosa che non riuscii a sentire.
Cercai di guardarlo dritto in viso, ma lui me lo impedì, tenendomi inchiodata
in quella posizione con una mano sulla nuca.
Strinse con forza e decisione e avvertii una scarica elettrica attraversare il
mio corpo quando sentii la pressione delle sue labbra sulla mia giugulare. Vuole mordermi?, fu questo il primo
pensiero che attraversò la mia mente. L’altra mano, invece, s’intrufolò sotto
il mio maglione, percorrendo lentamente la mia colonna vertebrale. Trattenni il
fiato per la sorpresa.
Cos’era questo languore che sentivo dentro? Perché all’improvviso sentivo
tanto caldo?
Tracciò ogni vertebra; percorse la mia spina dorsale quasi con riverenza,
dall’alto verso il basso, fino ad arrivare al mio fondoschiena per cingermi con
una stretta possessiva. Sembra quasi che io gli
appartenga, pensai spaventata.
Un ringhio feroce proruppe dalla sua bocca e capii che non si trattava di un
uomo.
Nessun uomo poteva avere quella temperatura gelida.
Nessun uomo poteva ringhiare a quel modo.
Si trattava di un vampiro.
I nostri corpi furono costretti a incastrarsi come pezzi di un puzzle, i miei
occhi si serrarono, ma non fu per paura.
Quello fu l’unico sentimento che non riuscii a provare nei suoi confronti. La
sua voce non l’avrei mai dimenticata.
«Perché gli permetti di toccarti a quel modo? Ricordati a chi appartieni!».
La rabbia permeò da ogni parola, sputata come un veleno mortale.
Una promessa, una minaccia.
«Nessie! Nessie! Che ti succede?» domandò una voce preoccupata.
I miei occhi si aprirono di scatto e davanti a me trovai Jake, che mi fissava
preoccupato, le mani poggiate sulle mie braccia. Evidentemente aveva provato a scuotermi
senza molto successo.
Chi era quel vampiro sconosciuto? Perché mi parlava come se io lo
conoscessi?
Una strana sensazione s’impossessò del mio corpo, facendomi rifiutare qualsiasi
contatto con il mio migliore amico.
«Non è niente, stai tranquillo» borbottai e mi scostai bruscamente da lui,
dandogli le spalle.
Mi sfregai le braccia, avvertendo una sorta di gelo avvolgermi come una
coperta. Io che avevo freddo? Sì, nel mio corpo vi era sangue, ma vivevo in una
casa zeppa di vampiri che avevano la stessa temperatura. Era innaturale che
avessi i brividi come se mi trovassi al Polo Nord.
Cercai di riscaldarmi ma i miei movimenti furono bloccati da quelli di Jake
che mi afferrò da dietro avviluppandomi nel suo forte e caldo abbraccio.
«Come fai a sentire freddo? Non siamo in inverno. Però hai le guance arrossate,
forse hai la febbre» rifletté, come se un attimo prima non fossimo stati sul
punto di gettare alle ortiche la nostra amicizia. Era questo il suo modo di
eclissare ciò che era successo prima?
E poi quell’essere, quel vampiro. Non ero ancora sicura che lo fosse, ma il
tocco freddo della sua pelle non poteva ingannarmi. O forse sì?
No, doveva trattarsi per forza di un vampiro, uno che non avevo incontrato
nemmeno quando i Volturi erano giunti a Forks per uccidere me e i miei
familiari.
Tuttavia la cosa che mi aveva colta di sorpresa era che io avessi ricordi di
lui e me insieme, quando ero certa di non averlo mai visto prima. Che fosse il
suo dono?
Sfiorai con i polpastrelli una gota, accorgendomi di un particolare: Jake
continuava ad avere la stessa temperatura, il mio corpo lo percepiva, perciò
non poteva trattarsi di febbre. Anche per non l’avevo mai avuta nei miei dieci
anni di vita. Forse, anzi sicuramente, noi ibridi possedevamo molto più dei
vampiri che degli umani, e le malattie o influenze non potevano scalfirci.
Era la mia mente a provare gelo, non il mio corpo.
«È tutto a posto, Jake. Entriamo in casa» feci una smorfia. «Non mi piace
la pioggia, lo sai» finii storcendo il naso.
Un’altra caratteristica che avevo ereditato dalla mamma: l’odio viscerale
nei confronti della pioggia e tutto ciò che umido o bagnato.
Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi senza dire una parola e mi seguì.
Sul porticato, vidi il vecchio Billy Black, i cui anni pesavano sempre più.
Adesso i suoi capelli non erano più del colore della pece, ma bianchi,
quasi argentei. Stava fumando la sua vecchia pipa intarsiata.
Mi salutò con un cenno della mano e poi mi rivolse un sorriso, scrutando
con la coda dell’occhio suo figlio dietro di me.
«Bentornata, Nessie. Sono felice che tu sia venuta a farci visita. Jake non
vedeva l’ora che arrivassi» finì strizzandomi un occhio, mentre Jake sbuffava
alle mie spalle.
«Basta, vecchio! Torna a fumarti la tua pipa».
«Lo sto già facendo, figliolo» ridacchiò Billy, sollevando l’oggetto e
accarezzandolo.
Scossi la testa dinanzi all’imbarazzo di Jake e ricambiai il sorriso.
«Posso immaginarlo» risi. «Jake» lanciai uno sguardo di rimprovero a quest’ultimo
«mi ha portata qui pur sapendo che siamo in ritardo per le lezioni» poi mi
rivolsi di nuovo a suo padre. «Sai, Jake non è poi così portato per insegnare
educazione fisica a scuola. Credo che i suoi alunni lo odino». «Cosa? Non è
vero!» esclamò Jake, sbigottito.
Gli feci una linguaccia. «Eccome se lo è!».
«Vado a recuperare il borsone e un asciugamano per te. Aspettami qui con papà e
non spettegolate su di me alle mie spalle. Voglio essere presente quando si
tratta di dovermi difendere» borbottò imbronciato, entrando in casa. Lo sentii
trafficare con qualche cassetto nella sua stanza, una cerniera che si apriva e
poi si chiudeva.
«Novità?» domandò d’un tratto il grande capo anziano, scrutando gli alberi
lontani. Un sottile velo di nebbia ricoprì il sottobosco, donandogli un aspetto
misterioso.
Sospirai, giocherellando con la cerniera della felpa. «Nessuna che già non
conosciamo. È raro che si mostrino in giro».
«Nuove indagini?».
«Sto tentando altre strade e no» vedendo che stava per parlare «i Cullen non
sanno nulla».
Billy non era un grande fan dei Cullen, ma quando si trattava di me,
sarebbe sceso a patti anche con i visi pallidi. Jake mi aveva raccontato di
quando Carlisle gli spezzò le ossa per salvarlo dopo un attacco di vampiri
neonati.
Si era instaurato una sorta di flebile legame. E non avevo intenzione di
sottovalutarlo. Il fatto che avessi coinvolto Jake in queste ricerche, aveva
rassicurato Billy, e questo mi faceva stare più tranquilla.
«Non dovrebbero saperlo?» azzardò.
Risi sarcastica. «E per quale motivo? Per impedirmi di agire come voglio? Già qualcuno sta
agendo per conto proprio, senza aver interpellato nessuno. Non ci trovo nulla
di male se anch’io faccio di testa mia. Lui non è l’unico ad aver perso
qualcuno».
Billy ascoltò e rimase silenzioso per un po’ di tempo, prima di parlare. «Devi
capire che un vampiro ama una sola volta nella vita e prima di allora, è come
se il mondo vestisse di bianco e nero. L’ho capito guardando tuo padre il
giorno del matrimonio. Guardava tua madre come se vedesse la luce per la prima
volta. Non ho mai preso in considerazione i sentimenti dei vampiri, lo sai, ma
i Cullen hanno un’anima, riescono a provare sentimenti profondi, come l’amicizia,
il dolore, l’amore. Dubito che tuo padre abbia avuto molta scelta dieci anni
fa» cercò di farmi spiegarmi.
Mi appoggiai alla balaustra di legno, fissando un punto imprecisato tra gli
alberi.
«Ieri è stato il giorno del mio compleanno...».
«Lo so» m’interruppe, «proprio per questo motivo sono felice che tu sia qui. Volevo
farti gli auguri di persona. Non è bello farlo da un apparecchio telefonico se
abbiamo la possibilità di vederci quando vogliamo».
Sorrisi. Non sapevo cosa dire. Sarebbe bastato un “grazie”?
Mi schiarii la voce, adesso un po’ rauca. «Lui non mi ha chiamato, sai? Ha preferito scrivere un
messaggio – molto freddo, del resto – piuttosto che sentire la voce di sua
figlia. Niente male per uno che vuole comunque essere chiamato “papà”, non
trovi?» domandai retorica.
Non mi sarei dovuta aspettare proprio niente da lui. Era questo il punto.
Ed io come una stupida ci ero cascata ogni anno.
Ecco il perché di quelle lacrime, il perché di quel rancore che una volta
all’anno usciva fuori con tutto il dolore della lontananza che lui stesso aveva
imposto.
Era in questi frangenti che odiavo il mio lato umano, perché le mie
debolezze comparivano agli occhi di tutti, gridando silenziosamente “eccomi,
calpestatemi!”. Soprattutto lui.
«E tu? Gli hai risposto?» volle sapere.
Lo fissai, inarcando un sopracciglio.
«Secondo te, merita una risposta quel vigliacco?».
«È pur sempre tuo padre, Nessie. A volte anche ai padri capita di
sbagliare».
Come se non lo sapessi. «È vero. Ma quanto tempo occorre affinché capisca
di aver sbagliato, questo cosiddetto padre?».
A quella domanda, Billy non rispose. Dall’interno della casa intravidi Jake
fermo sullo stipite della porta del bagno, che fissava il pavimento stringendo
in mano un asciugamano bianco.
Restammo in silenzio: Billy continuò a fumare la pipa, Jake ritornò in camera
ed io stetti seduta a cercare di sbollire la rabbia. È un vigliacco, un grandissimo
vigliacco. Forse il peggiore. Ti odio, Edward Cullen.
Jacob comparve dopo qualche minuto con una
t-shirt verde in mano. «Ecco qui una maglietta. È una delle mie, perciò sarà un po’ grande per te». Figuriamoci se avrei fatto storie per una maglia di qualche taglia più
grande.
«Ti ringrazio, Jake» dissi, prendendola. «Non ti preoccupare se sembrerà un
pigiama, per oggi andrà più che bene» sorrisi.
«Fila a cambiarti, adesso. Più tardi passiamo da Emily e ci prestare dare
qualche vestito più femminile» mi rassicurò, dandomi un piccolo buffetto sulla
guancia. Annuii e mi avviai all’interno.
Scelsi la camera di Jake per cambiarmi. Non mi sorpresi di trovarla in quello
stato pietoso. Il mio amico non era certo uno stacanovista della pulizia. Il caos mi sovrastò fino alla radice dei capelli. Tuttavia non l’avevo mai vista in quello stato. Sembrava essere passato un
uragano forza 5. «Complimenti, Jake» mormorai, «mi meraviglio come tu sappia orientarti tra»
sollevai alcuni calzini sporchi «questi nauseabondi», con l’altra afferrai magliette appallottolate «e queste». Arricciai il naso. «Se così si possono definire queste schifezze». Le lasciai cadere di nuovo sul pavimento, schiaffeggiandomi la fronte. Se l’avessero visto i Cullen…
Decisi di ignorare tutto il resto per tutelare la mia precaria salute mentale e
cominciai a sfilarmi il maglione. Mi avvicinai allo specchio per controllare se
le mie guance fossero ancora accaldate, tuttavia un piccolo segno alla base del
collo attirò la mia attenzione. Che diavolo…? Lo sfiorai con i polpastrelli, aggrottando le sopracciglia. Era il punto in
cui le labbra di quell’essere si erano poggiate sulla mia pelle. Quindi non si era trattato di un sogno? Era stato tutto vero?
Non si poteva trattare di un tatuaggio, anche perché non avrei potuto farne, ma
una piccola macchia rossastra faceva bella mostra di sé. Spaventata, lanciai un urlo agghiacciante e, dopo qualche istante, Jake entrò
tutto trafelato, tremando in preda agli spasmi della trasformazione. Era pronto
a difendermi da qualsiasi essere, vivente o non.
«Nessie» cominciò, usando il mio soprannome «cosa succede?». Con gli occhi esplorò la stanza alla ricerca del pericolo, avvicinandosi a
me e stringendomi tra le sue braccia. Costatando che non vi era alcun pericolo, mi fissò confuso, per poi seguire
il mio sguardo e puntarlo sullo specchio. Quest’ultimo rifletteva l’immagine di
un uomo e una donna, stretti in una morsa d’acciaio. La mia pelle rosata spiccava
in confronto a quella scura del mio amico. I nostri occhi s’incrociarono nello
specchio.
Solo in quel momento ci rendemmo conto della situazione: io, con la mano che reggeva
la sua maglietta che profumava di muschio, indossavo solo il reggiseno. Il mio
corpo fasciato da quel piccolo pezzo di stoffa si offriva alla sua vista che,
come incantato, guardava con minuziosità. Improvvisamente, il fatto che eravamo
amici, passò in secondo piano.
Le mie gote si tinsero di rosso e feci per sciogliere l’abbraccio, imbarazzata,
quando il suo sguardo si posò sul mio collo. La sua reazione fu inaspettata.
S’irrigidì, dalle sue labbra sfuggì un ringhio gutturale, un suono così tetro e
raccapricciante che non avevo mai sentito prima. Perché diamine si stava
comportando così? Era forse una minaccia quel piccolo segno? Eppure non mi sentivo male… Stavo morendo ed io non lo sapevo ancora? Sussultai impaurita per il suo comportamento e le mie congetture. Tentai,
inutilmente, di allentare la presa che, al contrario, si rafforzò.
Con un braccio mi strinse per la vita, con la mano sollevò i miei capelli per
esporre quel segno. Sfiorò con il pollice la zona incriminata, notando le sue
sopracciglia contrarsi. La sua testa si chinò fino a toccarlo delicatamente con le labbra. Rimasi senza fiato, quando fissai le nostre figure allo specchio. Sembrava
un altro spaventoso deja-vù.
«Dimmi, Nessie. Qualcuno ti ha toccata?» berciò con voce furiosa, come se
faticasse a pronunciare qualsiasi cosa. Gli spasmi stavano aumentando, in lui, lo sentivo.
Ma sapevo anche che non avrebbe mai fatto del male, qualsiasi cosa fosse
accaduta. Era una delle poche certezze che custodivo gelosamente. Sì, qualcuno mi aveva toccata, ma come potevo spiegare a Jake quello che
neanche io riuscivo a capire? Mi avrebbe presa per pazza, o peggio. Mi avrebbe
creduta una bugiarda. Ma lui è il tuo Jake,
no? Ti crederà ciecamente, affermò la mia vocina. Allora perché un’altra parte di me non ne era assolutamente convinta?
Tentai di farmi chiarezza prima di parlare, cercando di dare una risposta alla
sua domanda ed evitare qualsiasi litigio. Tuttavia nulla mi venne in mente che potesse aiutarmi, tranne l’essere
sconosciuto.
No, non poteva essere! Jake era stato lì, con me. Era stato lui a toccarmi,
nessun altro. Nessuno mi si era avvicinato che non fosse un membro dei Cullen o
qualcuno del branco. Forse qualcuno della riserva, ma nessuno mi aveva mai sfiorato proprio lì,
una zona troppo intima per chiunque non avesse quel tipo di
confidenza con me, e Jake era il primo che potesse avvicinarsi a ciò. Rimasi in silenzio, fissandolo negli occhi, alla ricerca di una spiegazione
che non potevo dare a quel segno misterioso, né intuire cosa fosse. Ciò mi metteva
in allarme.
Se Jake ha reagito in quel modo, vuol dire che sa cosa significa. Allora perché
non me lo dice e basta? È necessario
sapere chi o cosa l’avesse provocato?
Portai una mano alla bocca, per evitare di urlare ancora, ma Jake fece qualcosa
che non mi aspettai: con una mano fermò il mio movimento, costringendosi a
sorridere, teso, come se si stesse sforzando di mostrare quella gentilezza
sepolta sotto strati rabbia.
«Non è qualcosa di cui aver paura, non temere» disse, leggendo il terrore nel
mio viso. «Se tu non sai chi te l’ha lasciato, dubito possa saperlo io. Tuttavia
un odore così stucchevole dubito possa appartenere a un umano, questo è poco ma
sicuro. Questo» e lo sfiorò di nuovo con le labbra, arricciandole disgustato,
«proviene da un vampiro». Cosa? Un vampiro?
Chiusi gli occhi, rilasciando un sospiro. Era tutto vero.
«Io… non so… come…» balbettai, cercando una scusa, qualcosa che gli impedisse di
farsi strane idee su quella specie di… marchio.
M’interruppe con un gesto della mano. «Certe cose avvengono
solo in un modo, Nessie». Cosa stava cercando di insinuare? Che io avevo lasciato fare chiunque
fosse? E perché si era arrabbiato tanto? Tante domande che avrei voluto porgli, ma il suo viso cupo mi fece
desistere dall’intento. Un muscolo gli guizzò sulla guancia, segno che era così
nervoso da poter spezzare un blocco di cemento sotto tutta quella forza.
In un gesto repentino, presi la maglietta e mi coprii il più possibile, senza
indossarla, perché in questo momento lo shock era talmente forte da non
riuscire a pensare ad attività semplici come vestirsi.
Il rumore di una sedia a rotelle che si faceva via via più forte – e quindi più
vicino – mi fece entrare in panico. Ero mezza nuda, cavolo! Mi rifugiai dietro il corpo possente di Jake, immobile dinanzi allo
specchio.
«Jake, Nessie. Tutto bene? Ti ho sentita urlare e non capisco cosa è successo»
esordì Billy, comparendo sulla soglia, con lo sguardo a metà tra l’allarmato e
il confuso.
Feci per rispondere, ma Jake mi precedette, nascondendo meglio il mio corpo alla
vista del padre. «Niente di cui preoccuparsi. Nessie è rimasta stupita dal
disordine nella mia stanza». Lo immaginai sorridere, pur mantenendo una posa rigida.
Billy lo scrutò dubbioso, non credendo sicuramente a quella scusa, ma non riuscì
a replicare che un odore simile a quello di Jake mi giunse alle narici. Un altro lupo del branco. Mi voltai di scatto verso la fonte.
A cavalcioni sulla finestra, con le braccia incrociate, se ne stava Leah, che
ci osservava annoiata. Indossava giubbotto e pantaloni di pelle nera. Una
maglietta bucherellata bianca sotto, con un piccolo nodo all’estremità. I
capelli arrivavano a malapena a coprirle le spalle.
«Jake, Jake» sospirò scuotendo la testa, «cosa devono vedere i miei poveri
occhi. Devo sopportare già i pensieri tuoi e quelli di Quil, totalmente
smielati, ma non è necessario lasciarmi i residui delle tue effusioni in bella
vista».
E dopo quell’uscita di Leah potevo anche sotterrarmi.
«Leah!» la richiamò Jake alzando la voce e dirigendosi verso la finestra,
lasciandomi davanti agli occhi attenti del vecchio Black.
«Non c’era bisogno di urlare, Nessie. Per così poco» mi rimbrottò. Io lo guardo con occhi sgranati. Per così poco? Ma puntualmente ecco tornare Leah alla carica.
«Accidenti, come fai per un succhiotto!».
Jake avanzò veloce ma Leah lo fu di più, saltando fuori e allontanandosi di
qualche passo.
«Vi aspetto sul portico, piccioncini» terminò con ironia, scomparendo dalla
nostra vista. Fissai il punto in cui si trovava prima la ragazza, perplessa e confusa.
Cos’era un succhiotto?
Rimasi bloccata sul posto, del tutto
incredula.
Oddio, Leah aveva pensato che io e Jake…?
No, scossi mentalmente il capo, non avrebbe potuto pensare niente di più sbagliato
tra me e lui.
Eravamo Nessie e Jake, amici da sempre, legati da molte sofferenze e bei
ricordi. Certo, prima era accaduto qualcosa, ma era dovuto probabilmente a quel
vampiro, come affermava Jake, che mi aveva scombussolata con la sua presenza e
la sua rabbia. Leah non poteva paragonare quel breve momento a una vita all’insegna
dell’amicizia.
Mi aggrappai con una mano allo spigolo del tavolo dietro di me, ignorando il
disordine che vi era sopra. Strinsi la maglietta, coprendo tutto ciò che potei,
anche se alcuni lembi di pelle restarono scoperti.
Jake emise un sospiro frustrato e si strofinò il pollice e l’indice contro la
base del naso, massaggiandoselo e imprecando a più non posso, com’era tipico di
lui in quei momenti.
«Papà, sarà meglio che andiamo, Nessie deve cambiarsi» disse alla fine, rimanendo
di spalle. Non potei vederlo in viso, ma immaginai che fosse evidente tutto il
suo disappunto. Scosse il capo, come per schiarirsi le idee, poi si voltò verso
il padre e lo guidò verso la porta. «Ti aspetto fuori. Fai presto».
Rimasta sola, mi accasciai sulla sedia prendendomi il volto tra le mani.
«Cavolo, anche Leah doveva intromettersi? Non bastava lo strano comportamento
di Jake?». D’altronde non ci avrei nemmeno dovuto rifletterci su. Leah aveva inteso
male l’intera situazione. Indossai velocemente la maglietta. Come predetto da Jake, era fin troppo grande per me, così feci un nodo
comodo sul davanti, facendola aderire al mio corpo. Legai i capelli in una
lunga coda di cavallo e diedi mentalmente il via all’operazione “pulire la
stanza di Jake”. Avrei perso un po’ di tempo, ma quel caos doveva assolutamente
sparire.
In un batter d’occhio, tutte le magliette e i calzini si trovarono dentro la
cesta dei panni sporchi, poi fu la volta della polvere annidata in ogni angolo.
Anche quella andò via immediatamente. Cambiai le lenzuola del letto e sistemai
i libri sugli scaffali. Poi, per ultimo, raccolsi le cartacce delle merendine.
Avevo sempre riso dell’ingordigia dei lupi di La Push, il loro stomaco non
conosceva limiti, non rifiutavano mai un invito a cena. Persino la rivalità con i Cullen veniva messa in secondo piano. Persa nei ricordi lontani, non avvertii la presenza alle mie spalle. Una
mano si posò delicatamente sulla mia spalla. Spinta dall’istinto, il mio corpo
reagì, proprio come zio Jasper mi aveva insegnato. Scivolai via dalla sua
presa, spostando il mio peso verso la gamba sinistra. Mi acquattai e spiccai un
piccolo balzo, roteando a mezz’aria, fino a quando non lo ebbi di fronte. Un lampo di stupore comparve sul viso del mio migliore amico. La sua mano rimase protesa fra noi, mentre il mio viso si tingeva di rosso. Da quando scattavo così? Da quando non riconoscevo più chi era alle mie
spalle anche soltanto captando il suo odore?
Niente di tutto ciò era accaduto. Una parte di me aveva capito che si trattava
di Jake, l’altra si era rifiutata di ascoltare. Il mio corpo ribadiva che lui
era il nemico, che doveva essere abbattuto. Dovevo attaccarlo a qualsiasi
costo.
Mi morsi il labbro, imbarazzata, e abbassai il capo, fissando ostentatamente le
mie mani, chiedendomi cosa mi stesse accadendo. Come avevo fatto a reagire così? E soprattutto, perché l’avevo fatto?
«Nessie, stai… bene? Ti avevo detto di far presto» mi ricordò, «non pensavo di
averti spaventata. Scusami».
Lo fissai negli occhi. Qualcosa mi sfuggiva dalla sua espressione, ma era chiaro che non l’avrebbe
espresso ad alta voce. Dopo si guardò intorno, rimanendo scioccato.
«Hai sistemato tutto?». Annuii un po’ rigida. Nel mio corpo scorreva ancora l’adrenalina che anticipava
la lotta.
«Oh, ehm… grazie, Nessie, ma non era necessario. Adesso andiamo, altrimenti
rischi di far tardi a scuola, ed io a lezione» ammiccò sorridendo. Lo seguii fuori
senza parlare, trovando Leah appoggiata sulla moto che un tempo era appartenuta
a mia madre.
Da quando era diventata vampira, la moto non l’aveva più utilizzata, perciò
mamma aveva voluto regalarla a lei. Jake fu costretto ad impartirle un ordine,
affinché accettasse quella moto, perché era così ostinata e testarda che le
avrebbe dato fuoco dopo nemmeno un’ora.
Ora Leah si mostrava indifferente a quel regalo, anche se Jake mi aveva
confidato che entrando nella sua mente durante il periodo in cui erano
trasformati, era riuscito a captare la passione segreta per quel pezzo di ferro
arrugginito, come lo definiva mio padre.
Quella gioia si era tuttavia spenta nell’esatto istante in cui Seth scomparve
insieme a mia madre.
La rabbia che provava nei confronti dei Cullen non si era dissolta nel tempo.
Quella volta, erano sfuggite parole pesanti, dettate perlopiù dalla preoccupazione
di un attacco non preannunciato dei Volturi. Ma non fu così. Stavolta i Volturi non c’entravano affatto con quella
scomparsa. Esisteva al mondo qualcosa o qualcuno più terrificante del clan dei
Volturi.
Otto anni fa...
«Mamma? Mamma, dove sei?» urlai, sfrecciando da una parte all’altra della
casa. Ero alla ricerca di una tuta con cui andare a caccia, ma in quel vasto
guardaroba non riuscivo a distinguere gli odori. I miei genitori erano diventati
degli esperti, e per tale motivo mi ritrovavo spesso ad invidiarli e ammirarli
al tempo stesso.
Percepii una folata di vento e in un battito di ciglia mia madre comparve
aprendo un’anta dell’armadio ed estraendo ciò che mi serviva. Mi sorrise, accarezzandomi la guancia.
«Tesoro, evita di girare per casa nuda. Se ti vedesse Jake? Lo sai che entra ed
esce da questa casa come se fosse sua. Arriverà a momenti e tu ti fai trovare
così?» mi rimproverò.
Mi aggrappai alle sue spalle, bagnandole la maglietta. «Jake mi ha già visto nuda». Ero una bambina. Cosa c’era di male?
Lei scosse il capo, sorridendo e abbracciandomi stretta, facendomi volteggiare
per la stanza.
«Se ti sentisse papà, dubito che Jake resterebbe vivo» scherzò.
Continuò a sorridere, ma avvertivo qualcosa di diverso in lei. Una tensione che
avevo ignorato quel giorno.
«Ma è vero!» ribattei, mettendo il broncio.
Mi baciò la punta del naso e mi osservò con i suoi occhi dorati. Scorsi qualche piccola macchia nera, segno che la fame si stava facendo
sentire.
«Eri piccola prima, non aveva molto importanza. Adesso sei una signorina, e non
è giusto farti vedere così da Jake, oltretutto è un maschietto». Giusto, ormai tutti affermavano che stavo per entrare nella fase dell’adolescenza,
quindi la scusa che ero ancora una bambina, non reggeva più.
Annuii nella sua direzione. Mi mise giù e mi prese per mano. «Ora prepariamoci per andare a caccia, d’accordo?». Le sorrisi in risposta, stringendole la mano, inconsapevole del fatto che
quella sarebbe stata l’ultima volta.
***
«Jake, aspetta! Non correre, sei troppo veloce, non vale!».
Mentre inseguivo il mio amico nel fitto della boscaglia, mia madre si fermò di
colpo, osservando un punto lontano oltre le montagne.
Era quasi il tramonto e c’era ancora il sole, perciò i miei genitori non potevano
allontanarsi troppo. C’era il rischio che qualcun altro li vedesse. Mio padre si trovava con il nonno Carlisle. Lo stava aiutando in un caso in
cui il potere di mio padre, unito alla conoscenza medica, gli poteva esser utile.
Insieme a me, mamma e Jake, c’era anche Seth che, stanco di stare alla riserva
- a sua detta, tetra e noiosa, a volte -, ci seguiva trotterellando.
In testa al gruppo c’era Jake, che cercava di seminarmi e farmi divertire,
piuttosto che continuare a cacciare. In realtà mi ero saziata abbastanza, ma
come affermava mia madre, la prudenza non era mai troppa quando vicino a noi vivevano
esseri umani.
«Nessie?». Mi avvicinai non appena avvertii la voce di mia madre chiamarmi. La guardai
in attesa. Per un attimo vidi il suo volto farsi triste, malinconico.
Tuttavia fu solo una frazione di secondo, perché subito dopo mi sorrise come
nulla fosse.
Seth si trovava alle sue spalle.
«Io vado con Seth verso quella direzione», indicò con un cenno della mano la
sua destra, proprio dove un attimo prima l’avevo trovata intenta a osservare
con intensità un punto lontano. «Tu procedi verso la direzione presa da Jake e
non ti allontanare troppo da lui, mi raccomando» mi ricordò.
Sfrecciò nella mia direzione, finché non mi sfiorò con una carezza la gota, per
poi scendere verso il collo, dove faceva mostra di sé la collana regalata il
Natale della venuta dei Volturi.
Sembrava tranquilla, ma qualcosa mi diceva non lo era per niente. Si voltò
verso Seth, che al cenno del capo di mia madre, si lanciò nel fitto del bosco.
***
«Ho vinto! E tu hai perso, merito una ricompensa. Appena torniamo a casa,
mi faccio preparare i biscotti da mamma» esclamai, dopo essermi saziata con un
altro cervo. Jake scrutò silenzioso il bosco ormai buio.
Un ruggito cupo proruppe dal suo petto e si chinò sulle zampe posteriori, facendomi
segno di salire. Che stava accadendo? Mi aggrappai con forza al suo pelo, tirandone alcune ciocche. Iniziò a correre proprio in direzione di mamma e Seth. Avvertii dei latrati
sinistri intorno a noi e dopo qualche secondo altri lupi ci affiancarono.
«Che succede, Jake? Dove stiamo andando? Dove sono mamma e Seth?» urlai,
consapevole che non avrei potuto capire niente finché non fossimo arrivati dove
si trovavano. Sperai con tutta me stessa che stessero bene, che non fosse
accaduto nulla e che Jake si fosse sbagliato. Ma quante probabilità c’erano che il mio amico si sbagliasse? Nessuna, purtroppo.
All’improvviso ruggirono simultaneamente e capii che era successo qualcosa di
brutto, molto brutto.
Poche centinaia di metri più avanti, un bagliore dorato si espanse come una
macchia d'olio: gli animali nel bosco si ammutolirono. Dinanzi a noi una grande
radura si stagliò in tutto il suo splendore. Le prime luci dell’alba illuminarono
i fili d’erba, su cui s’intravedevano alcune gocce di rugiada.
Tutto brillava, tranne il corpo di mia madre. Nella radura dove un tempo i Volturi stavano per ucciderci tutti, ora non
vi era più nessuno. Scesi con salto e mi fermai proprio nel bel mezzo del
campo.
I raggi solari colpirono qualcosa nascosto nell’erba. Jake si diresse verso
quella direzione e, con un cenno del muso peloso, indicò un oggetto luccicante.
M’inginocchiai, incredula e stordita. Tra le mie dita tenevo l’anello dalla
forma ovale che portava sempre la mamma. Sentii un guaito dietro di me, ma non ci feci minimamente caso. La mia attenzione era stata catturata da quell’oggetto.
«Mamma» sussurrai. Jake mi sfiorò la guancia. Mi voltai dopo un tempo infinito verso di lui e
vidi che stava piangendo. Tuttavia non eravamo i soli. Anche gli altri tre lupi piangevano
sconvolti, guaendo senza sosta. Alcune lacrime caddero proprio sull’anello, facendolo brillare ancor di
più. Quella notte, lacrime e diamanti si fusero
insieme.
Nei suoi
occhi scorsi tutto il rancore e l’odio nei confronti della mia famiglia,
come se la colpa di ciò che era
accaduto otto anni fa fosse nostra.
Il suo allegro fratellino, come mi aveva raccontato Jake mentre Leah urlava
il suo dolore quella volta. Non avevo mai capito il loro legame, o forse non
riuscivo a coglierne le sfumature perché non avevo mai avuto fratelli.
Ciononostante, ero riuscita a comprenderla un po’.
Non era
affatto quella persona fredda che voleva mostrare agli altri. Era vero,
l’acidità che sfoggiava ogni qualvolta decideva di aprire bocca, mi aveva lasciata
interdetta, ma a distanza di anni, era un aspetto che era entrato a far parte
della routine di una tipica giornata di La Push.
Le giornate
sui libri scolastici per i membri più grandi dei due branchi era finita da un
bel pezzo e si occupavano di aiutare all’interno della riserva la scuola.
Questo implicava, naturalmente, essere a stretto contatto con i nuovi arrivati,
i più giovani e, di conseguenza, quelli più imprevedibili, soprattutto da
quando questi erano diventati lupi da poche settimane.
Erano i più
irascibili, pertanto i più pericolosi per la gente comune.
Jake e gli altri si erano proposti
di gestire le liti scolastiche che avrebbero potuto innescare trasformazioni
indesiderate.
Insomma, una
sorta di “bidelli-barra-bodyguard”.
«Dacci un taglio, Leah. Hai già
combinato più casini di quanto credi» l’ammonì Jake, lanciandole un’occhiata
che difficilmente si poteva ignorare, in un tacito avvertimento a non tirare
troppo la corda.
Leah schioccò la lingua, senza
nascondere la stizza per essere stata apostrofata così, poiché lei era la beta
del gruppo comandato da Jake e perciò pretendeva un trattamento più morbido.
In un’altra vita, forse, pensai ironica.
In questi dieci anni, anche i suoi
abiti erano cambiati. Da ragazza con canottiere e pantaloncini corti, si era
trasformatain una moderna e selvaggia
Cat Woman, indossando sempre tute in pelle nera.
Era stata
una scelta davvero innovativa, ma molto azzeccata.
Quegli abiti
così aderenti, non facevano altro che mettere in risalto il suo corpo snello e
atletico.
Non mi era
sfuggito lo sguardo sognante e al tempo stesso spaventato dei ragazzi più
giovani. Chissà cosa diceva loro per farli scappare a gambe levate.
Raccolse il
giubbotto di pelle e lo indossò con eleganza, lasciando intravedere, per una
frazione di secondo, il suo decolté. Con un’abile mossa, si mise in sella,
afferrando con decisione il manubrio e togliendo il cavalletto.
Jake la imitò, facendo un gesto col
capo per invitarmi a salire.
Dopo cinque minuti passati a
sfrecciare lungo il litorale, arrivammo nella scuola della riserva, dove i
nuovi piccoli “lupi” giocavano e scherzavano sotto la supervisione di Jared,
Quil ed Embry.
Leah si fermò, a pochi passi
dall’entrata. Mise il cavalletto e scese con un’altra delle sue splendide mosse.
Gli altri ragazzi, quelli ancora troppo piccoli per la trasformazione, la
osservarono con lo sguardo tra il sognante e l’imbarazzato.
Senza salutare nessuno, si diresse
all’interno della piccola struttura.
Ecco chi è
Leah, la strafica della scuola!,
era il borbottio dei ragazzi giovani che scherzavano con Jared.
«È arrivata la maschiaccia» rise Embry,
appoggiato su un tronco d’albero con gambe e braccia incrociate.
Quil, invece, si era avvicinato a
Claire, una bambina che frequentava le elementari.
C’era
qualcosa di strano nel suo sguardo quando fissava la bambina.
Certo, era
gentile e simpatico con tutti i bambini, ma con lei lo era in maniera
particolare. Per non parlare del fatto che ogni volta che qualcuno la nominava,
gli si illuminavano gli occhi.
Avevo
cercato di spiegarlo a Jake, ma lui aveva sempre risposto in maniera molto
vaga, dicendo che si sentiva molto affezionato a lei, tanto da sembrare un
fratello maggiore. Non mi aveva convinta molto, ma non ritornai di
nuovo sull’argomento. In qualche modo sapevo che non avrei ottenuto niente di
più e il mio istinto mi diceva che c’era molto altro dietro.
«Hai visto,
Jake? Quil è di nuovo in compagnia di Claire. Non ti sembra un po’ eccessivo il suo comportamento?» sussurrai
nell’orecchio mentre ci avvicinavamo a Jared ed Embry.
Lui s’irrigidì un po’, ma sorrise, tirato.
«Ancora con questa storia? Ti ho già detto che la vede come una sorella minore,
tutto qui. Non c’è niente di strano, credimi» e si voltò per
guardarmi.
I suoi occhi
erano limpidi, puri e dichiaravano il vero, eppure non era tutto.
Feci per
replicare ma Embry m’interruppe, salutandoci.
«Ehi Jake,
Nessie! Finalmente. Vi siete persi per strada con Leah? Non deve essere stato
piacevole, immagino» ridacchiò sotto i baffi, dandomi un piccolo buffetto
affettuoso sulla spalla.
Oh, tutt’altro, pensai sarcastica.
Mi tornò in mente anche ciò che era
successo prima del suo arrivo: il corpo di Jake vicino al mio insieme alle labbra,
quella voce cupa che mi rimbombava nella mente, la reazione di Jake a quel “succhiotto”,
come l’aveva chiamato Leah.
Già, in tutta questa baraonda mi ero
dimenticata di chiedere di cosa si trattava.
«Ehm, Jake, non dovevi controllare
delle scartoffie in segreteria?» ricordando solo in quel momento che il giorno
prima mi aveva accennato a delle pratiche da sistemare e che richiedevano presenza
e firma.
Si schiaffeggiò la fronte, borbottando
altri improperi come suo solito. «Accidenti! Menomale che me lo hai ricordato.
Devo proprio scappare prima che comincino le lezioni, e devo anche parlare con
Sam. Quante cose da fare» continuò a dire mentre a grandi falcate si fiondava
dentro l’edificio scolastico, Io rimasi con Embry che mi scrutava, divertito.
Inarcai un sopracciglio. «Cosa c’è
di divertente?».
Lui scosse il capo e scoppiò in una
fragorosa risata.
Lo fissai
senza capire e un po’ scocciata, così si riprese e disse qualcosa che fu capace di accelerare i battiti del mio cuore:
«avete l’aria di una coppia di sposini fresca fresca di matrimonio».
Che cosa aveva detto? Io, sposare
Jake? Era impazzito?
Io e Jake ci
conoscevamo da tanto tempo, come poteva pensare che un giorno ci saremmo
sposati? Quello che ci legava era amicizia e basta, nient’altro.
Sicura?, domandò una vocina, scettica.
Non risposi e
il mio silenzio sembrava confermare che c’era qualcosa di più tra me e il mio
migliore amico, però non riuscivo ad ammettere il contrario.
Fortunatamente
Embry non infierì. «Sarà meglio andare…» cominciò «signora Black, i banchi di
scuola la attendono».
Avevo parlato troppo presto. Lo
fissai truce e mi avviai impettita sia per il nomignolo sia per ciò che aveva
detto.
Da quando avevo iniziato a
frequentare la scuola della riserva, loro continuavano a ripetere che era
inutile, poiché sapevo già tutto quello che avrebbero spiegato gli insegnanti e
probabilmente avrei potuto anche sostituirli, ma non mi andava di restare con i
Cullen, né di sentirmi sola. Dentro di me nutrivo la necessità di sentirmi
uguale agli altri, di non patire costantemente il peso di questa natura
d’ibrido.
Né vampiro, né umano. Un incrocio.
Tuttavia ero proprio questo, anche se facevo di tutto per soffocare quella del
vampiro quando ero tra gli umani.
Il mio vero posto dov’era tra i due
mondi? Ancora non lo avevo capito.
Una domanda che mi ero posta molte
volte negli anni, costatando la mia crescita vertiginosa, come predetto da
Nahuel.
La giornata trascorse tranquilla,
nella più totale normalità, per quanto si potesse definire normale una classe
composta di umani e mutaforma.
Nel pomeriggio, Jacob mi portò nel
piccolo negozio di vestiti vicino la sua abitazione, poi tornammo nella sua casa.
Avevamo deciso di guardare la tv e mangiare la pizza come due vecchi amici che
trascorrevano una serata insieme.
Jake, come sempre, si addormentò sul
divano.
Presi il
cellulare per controllare se vi erano chiamate, ma vidi che invece ne era
partita una. Avevo chiamato zia Alice?
Lo osservai
accigliata, chiedendomi quando avevo eseguito la chiamata e cliccai sul
pulsante.
L’orario era quello dell’intervallo
scolastico.
Avevo
dimenticato il telefono sul banco perché ero scappata in bagno, dopo che i miei
compagni avevano fissato per alcuni minuti il mio collo, sorridendo
maliziosamente.
Avevo dovuto
prendere in prestito dallo zaino di una mia compagna la borsetta con i trucchi,
coprendo quel segno misterioso e imbarazzante.
Che qualcuno
dei miei compagni l’avesse preso?
Non era mai
successo, e poi perché chiamare proprio lei?
L’unico che poteva averlo fatto era
proprio il ragazzo che stava russando qui accanto, ma non me la sentii di
svegliarlo, anche se un moto di collera si faceva strada dentro di me. Mi
appuntai mentalmente di interrogarlo il giorno dopo e rimproverarlo di non
avermi avvertito di aver chiamato i Cullen.
Poteva usare
il suo cellulare, no?
Mi diressi in camera di Jake e
m’infilai sotto le coperte, prendendo il diario di mio padre tra le mani e
quello vuoto.
Il mio sguardo si soffermò sul primo.
Lo strinsi
al petto e chiusi per un istante gli occhi, inspirando forte.
Poi,
un’illuminazione. Presi il cellulare e fissai il numero di papà, ruotando il
pollice attorno al tasto di chiamata e mordendomi il labbro inferiore, indecisa.
«Papà?».
Si voltò
verso di me.«Dimmi tesoro» rispose, abbracciandomi.
«Potrò
sempre parlare con te di ogni cosa?» gli chiesi, stringendo più forte la presa
sul suo collo.
Anche la sua s’intensificò.
«Io voglio che tu mi parli di ogni
cosa» corresse sorridendo. Immaginai le sue sopracciglia aggrottarsi un po’.
Cliccai il tasto, ripensando a quel
momento di pace scolpito nella mia mente.
Uno. Due. Tre squilli. Poi una voce
melodiosa mi arrivò alle orecchie: «pronto?».
Pronto? Hai cancellato anche il mio numero?
Sospirai pesantemente, non sapendo
cosa dire.
L’avevo
chiamato, e adesso? Probabilmente il mio respiro e la mancanza di risposta lo innervosì,
perché lo sentii digrignare i denti.
Poi, il suo respiro si bloccò. Hai capito chi sono?
Tuttavia non riuscii a domandarglielo,
perché un suo sussurro spezzò il silenzio della camera. «Nessie».
Stavo per rispondere, ma qualcosa, o
per meglio dire una frase, mi tornò in mente. Alcune lacrime mi scesero sul
viso, leggendole nel diario qui accanto.
Che cosa mi era saltato in mente di chiamarlo?, pensai
frustrata.
Non posso
più stare fermo ad aspettare un tuo ritorno.
«Vigliacco. Sei solo uno stupido
vigliacco innamorato» mormorai e riagganciai.
Avrei voluto gridare, invece poggiai
il mio viso sul cuscino, stringendo tra le mani il cellulare.
Questo
cominciò a vibrare ma lo ignorai.
«No, papà. Stavolta no» balbettai
incoerente.
Lo spensi,
incurante delle scuse e del perdono che avrebbe inutilmente cercato di ottenere.
Presi il diario nuovo e scrissi la
data in primo piano. Nel bel mezzo della pagina, invece, scarabocchiai:
È tardi per
le scuse. Hai sbagliato. Mi hai lasciato sola.
Non puoi
pretendere il perdono così facilmente adesso.
Una
folata di vento scompigliò i miei capelli e alcune ciocche nascosero il mio
viso. Con gli occhi ancora chiusi, scacciai con la mano quei boccoli sbarazzini
e la poggiai nuovamente sul letto. Non ero
mai stata calma la notte. Tendevo ad agitarmi, rigirarmi tra le lenzuola e,
solo dopo qualche ora, riuscivo ad arrivare alla fase REM. Tuttavia
questa volta notai che c’era qualcosa d’insolito. I
polpastrelli percorsero un tratto del tessuto della coperta e mi resi conto che
era troppo soffice perché fosse la coperta che ricordavo. Ruotai
con tutto il corpo, fino a mettermi in posizione supina, e accarezzai con la
guancia il cuscino. Subito
una lampadina si accese nella mia testa: il cuscino, la coperta e anche il
copriletto, erano di seta. Che
cosa stava succedendo? Da
quando Jake dormiva con tessuti di seta? Una
vocina si fece largo nella mia mente: mai. M’irrigidii,
capendo che forse non mi trovavo più nella stanza del mio migliore amico, bensì
in un’altra stanza a me sconosciuta. Aprii
gli occhi lentamente e con cautela, prima uno, poi l’altro. Ciò che
vidi mi lasciò interdetta e anche un po’ scioccata, in effetti. Il
letto, come ormai avevo intuito, non era quello di Jake, semplice a una piazza
ma un enorme letto a baldacchino in ferro battuto. Vi era
una finestra socchiusa da cui entrava quella brezza che mi aveva destato dal
sonno e da cui adesso filtravano anche i pallidi riflessi lunari. Accarezzai
ancora una volta la finissima seta, incredula. Il mio
primo pensiero fu che si trattava di un sogno, uno particolare e terribilmente
confortevole. Il
secondo, invece, fu più razionale: non stavo affatto sognando, quando mi
pizzicai la guancia e tutto sarebbe dovuto svanire. Il
letto a baldacchino era ancora lì, così come la seta, la finestra e degli stivali
neri che erano illuminati dal fascio di luce lunare. Mi
paralizzai quando incontrai lo sguardo blu elettrico di colui cui
appartenevano. Non
riuscivo a scorgere molto da dove mi trovavo, eppure dedussi da quel poco che
intravidi, che era seduto, portava indumenti scuri e che era un uomo. Su
questo, in particolare, non ebbi dubbi, perché poco dopo disse: «Spero che lei
abbia dormito bene». Era una
voce ipnotica, calda e sensuale che riuscì a provocarmi un brivido lungo la
spina dorsale. E non
era per niente di paura. «Dove
mi trovo?» gli chiesi, e mi sorpresi del mio tono di voce disinvolto. Come se
fosse una cosa del tutto normale trovarsi nella camera di uno sconosciuto con
indumenti intimi. D’istinto,
alzai la coperta fino al mento, per celargli il mio corpo. Mi
sentii sciocca, però. I suoi occhi seguirono il mio gesto e scorsi nel buio il
bagliore dei suoi denti, accompagnati da un rumore soffocato. Una
risata? Lui stava ridendo… di me? D’un
tratto, la mia pudicizia fu soffocata da un altro sentimento: la rabbia. Non gli
avrei permesso di ridere di me, decisi. «Qualcosa
ti diverte?» sorrisi. «Perché non la condividi con me?». Lui
rise di nuovo, stavolta senza premurarsi di mantenere un contegno. Non
seppi dove trovai il coraggio, ma sgusciai fuori dal letto con indosso solo la
leggera canottiera bianco-panna che lasciava scoperte le gambe quasi del tutto. Quegli
strani occhi blu percorsero ogni centimetro del mio corpo ed ebbi l’impressione
di sentire le sue dita accarezzare le mie braccia fino alla vena pulsante del
collo, proprio dove lui si era soffermato maggiormente. Vampiro, gridò la mente e il
mio intuito. «Non
hai risposto a nessuna delle mie domande» gli feci notare, piccata. «Vero,
chiedo perdono» ironizzò. Incrociai
le braccia al petto. Un po’ perché pensavo mi desse un aspetto più battagliero,
un po’ perché quello sguardo stava scalfendo il mio scudo d’impassibilità. Da
quando ero diventata così sfacciata da restare in biancheria intima dinanzi a
uno sconosciuto? «Non so
che farmene delle tue scuse. Vorrei che tu rispondessi alle mie domande
precedenti». «In che
ordine, vostra altezza?» domandò abbozzando un sorriso. Portai
un dito sotto il mento, fingendo di pensarci. «Che dici dalla più semplice?
Dove mi trovo?». «Tecnicamente,
siamo nella vostra mente» rispose, picchiettandosi la tempia. «In pratica,
siamo ancora in casa del vostro cagnolino da salotto». «Non
capisco…» riuscii a dire, confusa. A malapena registrai l’insulto riferito a
Jake. Che
cosa significava “siamo nella tua mente”? Stavo ancora sognando? Allora
perché non riuscivo a svegliarmi? «Semplice:
non puoi svegliarti se me ne vado dalla tua bella testolina» disse con
disinvoltura, come se il discorso che aveva fatto equivalesse a un “oggi c’è il
sole” oppure “sembra che domani pioverà”. No, non
era per nulla una risposta alle previsioni del tempo, bensì del suo potere. «Manipoli
i sogni» sussurrai con sgomento. Esisteva
addirittura questo potere tra i vampiri? Accavallò
le gambe. «Diciamo di sì, anche se posso spingermi oltre. In questo caso, volevo
solo farvi una visitina senza che qualcuno ci interrompesse». «Per
quale motivo hai scelto proprio me?» indagai. Se
davvero era capace di spingersi oltre, poteva benissimo uccidermi nel sonno,
quindi non era il caso di farlo arrabbiare se i suoi propositi erano pacifici.
Ero sola, lì, in balìa di un vampiro che sprigionava potere anche stando seduto
in poltrona. Chissà
di cosa sarebbe stato capace se avesse deciso di entrare in azione. Qualcosa
nei miei occhi lo incuriosì e, intuendo qualcosa, strinse le labbra. «Non
deve aver paura di me. Non vi farei mai alcun male» mi assicuro. Risi
con scherno. «E perché dovrei fidarmi? Ve l’ho detto: non vi conosco,
continuate a darmi del “voi” come se fossi chissà quale persona di spicco nella
società e poco fa mi avete pure chiamata “vostra altezza”. Devi essere
piuttosto vecchio e affezionato al tuo tempo, per non voler gettare alle
ortiche il galateo imparato». Annuì
con solennità e ponendosi una mano all’altezza del cuore. «Quale vero uomo
getterebbe con tanto sgarbo un così bel dono fatto dalla famiglia?». «Lo
apprezzo, sul serio, ma siamo ormai in un’epoca in cui non è più necessario
parlare in questa maniera. Ciò non toglie che non mi hai ancora spiegato il
perché mi hai definita “vostra altezza”» insistetti. La
prima volta l’aveva detto come se fosse naturale chiamarmi così, adesso invece sembrava
quasi un vezzeggiativo carino. Sventolò
la mano pallida. «Non farci caso. Come vedi posso anche darti del tu e
dimenticare il galateo, se ne ho voglia. Non capita tutti i giorni qualcuno che
apprezzi le mie buone maniere, non credi?». Sapendo
com’era nei giorni nostri l’umanità, non ne dubitavo. «E
dimentica pure quel “vostra maestà”. Mi è venuto in mente quando vi ho
osservato dormire in quel grande letto» continuò «sembravi davvero una
principessa». L’ultima
parte la sussurrò al mio orecchio. In un battito di ciglia era arrivato a pochi
centimetri dal mio viso e le sue labbra fredde premettero sul lobo. Mi
ritrovai ad ansimare, uno strano torpore avvolse il mio corpo. Sentivo
dolere i capezzoli, premere attraverso la stoffa, come se si volessero donare a
quel vampiro sconosciuto. Avevo
ancora le braccia incrociate al petto e, a quella strana reazione del mio
corpo, le avvolsi più forte intorno al busto. Che
cosa mi stava accadendo? Perché
all’improvviso la sua vicinanza mi turbava in questo modo? «Si
chiama attrazione fisica, piccola. Un’attrazione che esiste sin dall’inizio dei
tempi, forse ancor prima che fosse creata la Terra sui cui ci troviamo» mormorò
con voce carezzevole. Mi
stava prendendo in giro? Ero
abbastanza grande da sapere cosa fosse l’attrazione fisica, ma non pensavo
fosse così destabilizzante. Mi
umettai le labbra, improvvisamente secche. «Leggi anche nel pensiero, per
caso?». Inarcò
un sopracciglio. Non ero riuscita ancora a vederlo bene in viso. Il fascio di
luce illuminava una porzione della stanza alle sue spalle, per cui era più
facile a lui distinguere i miei lineamenti, al contrario della sottoscritta. Quello
che potei capire, invece, era che il vampiro – ormai non avevo più dubbi che
fosse tale, notando i canini affilati come piccoli pugnali – fosse piuttosto
alto, un metro e ottanta circa. I
capelli erano neri, non troppo corti, con le punte un po’ arricciate. «Non
proprio. Non ho l’abilità straordinaria di tuo padre» rispose, sorprendendomi.
Stavo per ribattere quando lui continuò, accennando un sorriso: «Mi farebbe
comodo in battaglia un potere simile». Scacciai
malamente la mano che si era poggiata sul mio braccio, non senza prima
avvertire una piccola scossa. Sembrava che l’aria intorno a noi si fosse
caricata di elettricità, invisibile tuttavia a miei occhi. Ciononostante,
sentir parlare di mio padre da questo individuo mi aveva sbalordita. Era
diventato così famoso il potere di mio padre? Evidentemente,
dopo l’incontro con i Volturi di dieci anni fa, tutti erano informati delle
abilità dei membri della famiglia Cullen, e perciò doveva essere a conoscenza
anche del mio potere. «Conosci
mio padre?» chiesi con cautela. Eppure
non sapevo se questa cautela fosse rivolta a lui o a me. Parlare
di quel vigliacco di mio padre non era mai una grande idea, in mia presenza. Ma
se ero io a tirarlo in ballo… Si
allontanò e cominciò a passeggiare per la stanza. «Tutti
conoscono Edward Cullen, anche persone di cui ignorate l’esistenza. Non è un
tipo che passa inosservato. D'altronde, è lui stesso ad attirare l’attenzione
di persone indesiderate. Se dovessi sentirlo, digli di smettere di cercare tua
madre» si fermò, guardandomi con serietà «è per il suo bene e quello della
famiglia Cullen». «Sei un
povero illuso se credi che mio padre darà retta a me» sorrisi con amarezza «mi
ha lasciata subito dopo che lei è sparita nel nulla. Cosa ti fa pensare che io
possa convincerlo?». Fece
spallucce. «È nel tuo interesse farlo desistere da questa ricerca. Non vorrei
che gli capitasse qualcosa di brutto» poi mi parve di sentirlo borbottare “come
se non se lo meritasse”, ma non ne fui certa. Sembrava
quasi una minaccia, la sua. Sobbalzò,
sorpreso, voltandosi di scatto verso di me. «No,
non è affatto una minaccia» specificò alzando la voce. «Un avvertimento, più
che altro». Socchiusi
gli occhi, cercando di pensare a ritornelli di canzoni infantili o ripetendo
come una filastrocca parti di libri classici. Lo vidi
scuotere il capo, sorridendo. «Beccato!». «Allora
è così? Per tutto il tempo hai curiosato nella mia testa!» lo accusai. «Posso
entrare solo nella tua, se ti fa piacere saperlo» puntualizzò. «Perché
dovrebbe farmi piacere sapere che oltre a mio padre, c’è un altro ficcanaso che
vuole controllare ogni mia mossa?» rimbeccai acida. Forse
aveva un carattere diverso da mio padre, ma c’erano punti in comune.
Evidentemente erano geni insiti in ogni uomo, vampiro o altro essere che avesse
capacità intellettive, supposi. «Alle
donne non piace che un uomo conosca i loro desideri più intimi e li possa
assecondare?» domandò innocente. Come si
permetteva! «Non so
quale genere di donne frequenti, ma di certo non rientro nella categoria che
pensi. Tra l’altro, hai detto di apprezzare le buone maniere, eppure non
conosco ancora il tuo nome, vampiro». Uno a
zero per me. Chissà se sarei riuscita a scoprire qualcosa in più su di lui e
sul perché si era messo in contatto con me. E m’interessava anche capire perché
fossi l’unica cui poteva leggere la mente. C’era
qualche legame a me oscuro di cui dovevo essere informata? Tuttavia
dubitavo che avesse risposto a ogni mia domanda. Si manteneva sul vago, anche
se gli piaceva chiacchierare, ma non dava risposte se non era sicuro di non
compromettere se stesso o magari il clan di cui, forse, faceva parte. «È
importante sapere come mi chiamo?». «Direi
di sì» allargai le braccia, esasperata. «Tu sembri sapere tutto su di me, anche
se non mi hai chiamata per nome, sono sicura che tu lo sappia perfettamente». Sembrò
riflettere sulle mie parole, o sul fatto che fosse quasi sicuro rivelarlo, e si
avvicinò lentamente alla finestra. Rimasi
senza fiato. Anche
se era di profilo, rispetto alla mia posizione, potei scorgere finalmente i
lineamenti. Era davvero bellissimo. Il
mento volitivo, le sopracciglia marcate, naso aquilino. Con quell’espressione
assorta assomigliava a mio padre, anche se fisicamente erano diversi. Chi era
questo vampiro? Perché era venuto a cercare me? E soprattutto: perché poteva
leggere soltanto nella mia mente? D’un
tratto la sua voce mi parve familiare, come se l’avessi già sentita. Era la
voce che aveva ruggito nella mia testa quando Jake ed io ci trovavamo nel prato
dinanzi casa sua, stamattina. Non ci
avevo fatto molto caso, perché adesso era tranquillo, calmo e addirittura in
vena di scambiare quattro chiacchiere, invece di ruggiti raccapriccianti e
promesse di morte. Non mi
aveva ancora risposto, ma decisi di tentare un’altra strada. «Eri tu
stamattina, nella mia mente?». Un
muscolo guizzò nella mascella, il suo sguardo s’indurì, ma non si volto. «Forse»
si limitò a rispondere. «Sì o
no?» insistetti imperterrita. Ci mancava soltanto che sbattessi i piedi per
terra come una bambina capricciosa che non aveva ricevuto il regalo di Natale
richiesto. «Sì»
sbottò a denti stretti. «Posso
chiedere il per…?». «Perché?»
m’interruppe, teso. Si voltò nella mia direzione e vidi che teneva i pugni
serrati. Le nocche erano divenute ancor più pallide. «Mi chiedi perché?» domandò
allibito. M’irrigidii,
pronta a reagire se avesse deciso di passare alle maniere forti. Lo notò
e un’espressione d’indignazione si stagliò su quel volto perfetto. Sventolò
una mano, come segno d’impazienza. «Non ti farei mai del male. Se ne avessi
avuta l’intenzione, ora non staremmo più discutendo» s’infilò le mani nelle
tasche «in ogni caso, riprendendo il discorso e, lasciamelo dire, anche la
frase di stamattina “«Perché gli
permetti di toccarti a quel modo? Ricordati a chi appartieni!»”, direi che
queste poche parole racchiudano il mio modo di vedere il nostro rapporto, e la
mia rabbia, invece, il mio modo di vedere il rapporto tra te e il cagnolino che
sta prendendo una piega che non mi piace per niente». Ah, ora capivo. Lui mi considerava sua proprietà
e Jake un usurpatore del suo legittimo
diritto. Peccato che io non gli avessi assegnato alcun diritto su di me o le
persone che mi circondavano. «Mi dispiace» non lo ero affatto e si capiva dal
mio tono acido, «ma quella frase, nonostante la sorpresa iniziale, adesso la
trovo più vuota che mai, ora che ti conosco e so che sfoggi un atteggiamento da
signore del castello. Parli tanto di buone maniere, ma quando si tratta di
donne…». Sfrecciò nella mia direzione, afferrandomi
saldamente ma con delicatezza, per le braccia e gettandomi sul letto, che
scricchiolò sotto il nostro peso. Mi sfuggì un gemito di sorpresa, che lui soffocò
imprigionando le mie labbra con le sue. Spalancai gli occhi, incontrando quelli del
vampiro. Adesso che li vedevo da vicino, li trovai ancora più incredibili. Tuttavia i miei pensieri si concentrarono poco su
quel colore insolito. Le sue labbra si muovevano decise, sicure su quel
terreno che per me era ancora inesplorato. Stavo ricevendo il mio primo bacio. All’improvviso, le braccia che lui mi teneva
strette in una morsa, furono libere e le mie mani, come se avessero ricevuto
ordini da qualche altra parte del corpo che non era il mio cervello,
afferrarono quelle morbide ciocche corvine. Era ciò che aveva provato la mamma quando papà la
stringeva tra le braccia? No, non poteva essere. I miei genitori erano
follemente innamorati l’una dell’altro. Io no. Eppure
non riuscivo a smettere di accarezzarlo, di desiderare che lui mi toccasse, che
le sue labbra non smettessero di cercare, assaggiare le mie. Impacciata,
decisi di seguire l’istinto e ricambiare quel bacio ardente. La sua
risposta non tardò ad arrivare: la punta della sua lingua tracciò il contorno
delle mie labbra, che schiusi prontamente. Volevamo
entrambi di più, ma non sapevo definire esattamente quanto. «Nessie!»
gridò una voce. Ci
colpì come la forza di uno schiaffo in pieno viso e ci fece fermare entrambi. Nel frattempo
le sue labbra si trovavano sul mio collo, e riuscii a mormorare soltanto: «Jake…». Il
vampiro sopra di me ringhiò, sdraiandosi al mio fianco, una mano a coprire il
viso. «Il cagnolino sa come rovinare momenti delicati» affermò con una disinvoltura
che mi lasciò basita. Io
avevo il respiro ansante per via dei baci, il cuore che batteva a mille, mentre
lui non era per nulla turbato o affaticato. Ecco
uno dei vantaggi dell’essere vampiri completi. «Nessie,
svegliati! Avanti, dormigliona» continuò a spronarmi il mio amico. Sospirai
e mi strinsi tra le braccia, in un gesto istintivo e allo stesso tempo difensivo.
Era ridicolo, in effetti, dopo averlo assecondato in quel bacio di fuoco, ma la
mia timidezza restava. C’era poco da fare. «Sarà
meglio che vada, non vorrei che il tuo amichetto ricorra al vecchio trucco del
secchio d’acqua gelata» scherzò, anche se lo sguardo che riuscii a scorgere era
tutt’altro che divertito. Annuii.
«Sì», poi mi resi conto che non sapevo come tornare indietro. Mi voltai verso
di lui, ma era svanito nel nulla. Percorsi
con lo sguardo l’intera stanza, nella speranza che avesse usato la super
velocità, ma già sapevo che non l’avrei trovato. D’un
tratto la stanza cominciò a sfocare, i contorni degli oggetti sembrarono
sciogliersi come neve al sole. La parete opposta al letto scomparve poco a
poco, sostituita dal nulla. Un enorme buco nero mi stava inghiottendo. Chiusi
gli occhi per non guardare e, quando li riaprii, ero di nuovo nella stanza di
Jake. Lui era
in piedi vicino al letto, immobile con una statua, gli occhi fissi poco più
sotto del mio volto. Seguii il
suo sguardo e capii cosa aveva attirato la sua attenzione, facendomi paonazza
in viso. Accidenti,
che figura!
Pov
vampiro
«Allora?»
domandò una voce femminile. Ero di
nuovo nella mia stanza, sdraiato nel letto con una ciocca di capelli ramati in
mano. La portai al naso, annusando il suo buon profumo. «Sta
bene. Almeno per il momento, s’intende» chiarii. «Bene,
era quello che vol… aspetta un attimo. Cos’è quel sorriso compiaciuto?» chiese
all’improvviso, notando il cambiamento sul mio viso. Cercai
di soffocarlo e di celare il mio turbamento. «Niente, stai tranquilla. Stavo costatando
quanto ti somigliasse tua figlia». «Spero
per te che tu non ti sia spinto troppo oltre» soffiò con aria minacciosa. Con uno
scatto mi misi seduto, stiracchiando i muscoli delle spalle. Un gesto molto
umano e che trovavo molto divertente imitare. «No, te
l’ho detto: puoi dormire sonni tranquilli». Ovviamente
la mia, era una battuta. I vampiri non sognavano, perché non dormivano. Si voltò
e s’incamminò verso la porta. Prima di
uscire, mi disse: «la sua felicità prima della tua, ricordatelo». Certo
che lo ricordavo. In sostanza non faceva che ripeterlo ogni giorno da quando
era arrivata qua da noi. E non potevo di certo biasimarla: si trattava di sua
figlia. Io mi sarei comportato in maniera peggiore, supposi, guardando la
ciocca che stringevo tra le mani. Mi alzai
e mi diressi verso lo specchio ad altezza uomo che si trovava in fondo alla
stanza. Mi guardai allo specchio. Avevo ancora
i capelli scompigliati, gli occhi guizzavano come pesci e… sfiorai con i
polpastrelli le labbra, un sorriso si dipinse sul mio volto. «Hai il
fuoco nelle vene, mia cara Renesmee».
«Te lo ripeto: io non ho la
minima idea di cosa stai farneticando» sbotto in preda all’isteria da più di
mezz’ora, afferrandomi i capelli con entrambe le mani e fissando le assi del
pavimento con un interesse da far rabbrividire.
Qualsiasi cosa pur di evitare il suo sguardo accusatorio.
Continua a camminare per la stanza, a tratti inquieto avanti e indietro, a
volte meditabondo, facendo cerchi sul pavimento. Mi sorprendo di come ancora
non si sia formato un solco o qualcosa che facesse intuire che aveva calpestato
quel pavimento quasi con ferocia.
Una ferocia che non ho mai intravisto fino a ieri.
Fisso stancamente le mie mani, domandandomi più volte se sia stato un sogno o
qualcosa di reale. In fondo il vestito lo indosso, ed è un suo regalo, qualcosa
di caldo e bagnato l’ho sentito tra le mie gambe, ritrovandomi stranamente
stanca, affannata e piacevolmente intorpidita.
A un tratto si ferma, fissandomi con rabbia, «non sei mai uscita da questa
stanza, stanotte, vero?».
Questa è l’ennesima volta che me lo chiede ed io rispondo sempre con un “no”
secco e deciso. Ricordo di essermi addormentata dopo quella chiamata,
di aver pianto molto, da far invidia a una fontana, ma sono certa di essere
sprofondata nel mondo dei sogni. E che sogni, Jake…
Emette un sospiro, vedendo il mio sguardo farsi truce e costatando che non
intendo rispondere nuovamente a una domanda già posta. Si siede anche lui, ma
sulla sedia, borbottando qualcosa d’incomprensibile e cercando di attutire i
tremori antecedenti la trasformazione.
Con le mani stringo la coperta, cercando di coprire tutto ciò che si trova sotto
il mio collo. Il suo sguardo penetrante nel momento in cui è entrato era
davvero qualcosa d’intenso, ma non sarei riuscita a ricambiarlo, nonostante
l’avessi visto nudo con i soli pantaloncini parecchie volte.
L’incontro con lo sconosciuto di questa notte mi ha sconvolto tanto, che ogni
altra emozione è stata messa da parte, soppiantata da questa emozione primitiva,
quasi.
Sono state le mie mani a toccarmi in un modo nuovo, ma lui ha sentito come ha
reagito il mio corpo, e la soddisfazione e il compiacimento sul suo viso non
lasciavano spazio ai fraintendimenti.
Era come se entrambi non avessimo aspettato altro che il contatto dell’altro,
lo strusciare dei nostri corpi l’uno contro l’altro.
Dei brividi mi scuotono tutto il corpo, e Jake lo nota.
Con voce incolore, mi dice: «vai in bagno e fatti una doccia, immagino ti farà
sentire ancora meglio».
Sbatto le ciglia, confusa. Perché ho avvertito una strana inclinazione
nell’ultima parola? È stata solo una mia impressione?
Mi passo una mano sul volto, sospirando stancamente e scuotendo la testa,
«Jake, perché ti comporti così? Non ho ancora capito cosa ti è preso. Ti ho già
detto che sono stata qui, che motivo avrei per mentirti? E poi, cos’è quest’odore
di eccitazione che avverti nell’aria? Proprio non capisco».
Lui mi lancia un’occhiata in tralice, distogliendo lo sguardo, il viso ormai
rosso.
«Niente, dimentica quello che ho detto, va bene?» sussurra poi, incespicando su
ogni parola, come se quello che pensa fosse troppo imbarazzante per lui.
Indignata per il suo comportamento, mi volto stizzita.
«Al diavolo tu, i tuoi pensieri e qualsiasi cosa si avverte nell’aria! Vado a
farmi una doccia e passo da Emily prima di tornarmene a casa, tanto è di
passaggio. Tu vai a fare quello che devi fare con il branco, per oggi ne ho già
abbastanza dei tuoi sbalzi d’umore» afferro l’accappatoio che ho comprato ieri
e mi avvio verso il bagno, chiudendo per il momento la conversazione.
Mentre m’insapono i capelli, continuo a domandarmi come possa essere accaduto
stanotte quell’incontro inaspettato. Che lui possa introdursi nei miei sogni?
Impossibile, se fosse un mio sogno, la stanza non l’avrei mai immaginata così.
Aveva un che di austero, di antico e forse si trattava di uno di quei castelli
di cui mia madre mi parlava, di quelli in cui abitano i principi azzurri.
Tuttavia lui non è un principe azzurro, ed io non sono la principessa da
salvare.
Una risata beffarda mi arriva alle orecchie, «interessante visione. Chi ti
da la certezza che io non sia un principe?».
Il flacone del bagnoschiuma mi scivola dalle mani, cadendo sul piatto doccia.
Mi volto in tutte le direzioni, comprendo le parti più intime. Poi, colta da un
fremito e da una folata di vento, guardo verso la finestra, dapprima chiusa,
ora spalancata.
Sul davanzale, una rosa rossa come il sangue è poggiata su una busta di colore
nero. Deglutisco a vuoto, avvicinandomi tremante e afferrando quella busta. La
giro e rigiro, indecisa su cosa fare, finché la mia curiosità prende il
sopravvento.
All’interno della busta, un foglio bianco con disegni floreali in rilievo fa
capolino alla mia vista. Vi è un’unica frase stampata sopra con una calligrafia
bellissima e ordinata:
Non
andare mai in giro da sola.
«Pff, ed io dovrei fare ciò
che mi hai scritto in questo foglietto uscito da chissà quale secolo addietro?»
domando ad alta voce con un malcelato scetticismo.
Lo so che mi sta sentendo, avverto ancora la sua presenza, ma sento anche che
via via si fa più flebile.
Un sospiro di esasperazione, «ti viene così difficile accettare una
richiesta fatta con cotanta gentilezza?».
«Sì, specialmente se a porgermela è uno sconosciuto che mi ha messo le mani
addosso» rispondo piccata, continuando a spalmarmi il gel del bagnoschiuma
sopra il mio corpo.
Lui scoppia in una fragorosa risata, che mi fa irritare sempre più, «se ti
ricordi, sei tu che ti sei toccata da sola. Io apprezzato il tuo volermi
mettere a mio agio».
Mi prende anche in giro! Io volevo che si mettesse a suo agio? Ma se è stato
lui che mi ha trascinato nel suo sogno perverso!
«Sai bene cosa intendo: tu hai preso non so come il controllo del mio corpo»
sbotto acida e rossa come un pomodoro, ricordando quel tocco. No, non sono
state solo le mie mani.
«Non mi chiedi come faccio a parlare con te, adesso?» mi domanda
ancora, deviando il discorso su altri argomenti. Qualcosa da nascondere, uomo
misterioso?
Scrollo le spalle con indifferenza, come se davvero potesse vedere il mio
gesto.
«Immagino si tratti di telepatia, o roba simile. Non sei qui, probabilmente sei
molto lontano perché sento che fatichi a parlarmi nella
mente, ma non riesco a spiegarmi come fai a usare il corpo altrui come fosse il
tuo» spiego le mie conclusioni, inarcando le sopracciglia e strofinando con più
forza nel punto in cui è rimasto il segno rosso.
Passano alcuni secondi prima che ricominci a parlare, ma c’è
qualcosa di diverso nel suo tono, esitazione?
«Mmh, sei molto sveglia, piccola».
«Non dici altro?» lo provoco, cercando di strappargli altre informazioni.
«Che cosa vorresti sentirti dire, piccola?» mi domanda con tono ilare,
ma sicuramente ha alzato la guardia, valutando a cosa rispondere e cosa no.
«Smettila di chiamarmi “piccola”. Non lo sono per niente. Se dici di conoscermi
dovresti sapere che ormai ho superato da qualche an…» e mi blocco, impaurita di
aver rivelato troppo.
Da quando la mamma è scomparsa, i miei familiari mi hanno proibito di rivelare
la mia natura particolare, perché temono che possa accadere qualcosa anche a
me. Ancora una volta, lui zittisce tutti i miei dubbi e le mie incertezze,
sorprendendomi.
«So cosa sei,Renesmee. So molte cose di te. So
che da circa due anni la tua crescita si è fermata, so che non hai mai baciato
un uomo – ed è un bene per chiunque sia –, so che i tuoi genitori…» ma lo
interrompo bruscamente. Forse lui sa più di quanto possa sembrare.
«Conosci mia madre? L’hai mai vista negli ultimi otto anni?» e attendo con
impazienza la sua risposta, fermando i miei movimenti. Ti prego, dimmi
che sai qualcosa.
«Come si chiama?» mi domanda ancora, ma il suo tono è mutato
ancora. Allora la conosci! Stringo il flacone fino a
gettarne una grande quantità sul piatto doccia. Forse sono a una svolta, forse
riavrò la mia famiglia.
«Isabella Cullen è il nome da sposata, Isabella Swan è il nome che portava
prima» gli spiego.
La sua risposta arriva dopo un po’, forse troppo, «non conosco nessuna
vampira con questi nomi, me ne rammarico molto, davvero».
Ecco, ancora una volta i miei sogni sono infranti. Mi accascio sulle ginocchia,
mentre l’acqua continua scorrere sulla mia pelle. I capelli scivolano via dalle
spalle e ricadono davanti ai miei occhi, come un lungo velo castano,
nascondendomi agli occhi del mondo.
«Renesmee…» indugia, come una carezza sulla pelle, ma non riesco più a
sopportarlo. Mi porto una mano alla bocca per soffocare i singhiozzi.
«Vattene…» balbetto incoerente.
Sento che trattiene il respiro, per poi riprendere, «Renesmee, ti prego,
ascolta…».
«Vattene!» urlo con tutto il fiato in gola, rannicchiando nell’angolo,
poggiando la mia schiena nuda contro le mattonelle. Stavolta ho creduto davvero
di trovarla, di avere un indizio che mi conducesse da lei, dalla persona più
importante per me.
«Mamma… mamma… torna, ti prego…»
«Scusami» un sussurro carico di amarezza, e questa volta la sua
presenza svanisce, la sua mente si allontana dalla mia, fluttuando lontano,
verso il luogo in cui risiede il suo corpo.
***
«AH!» lancio un grido che rimbomba
nelle fredde pareti della mia camera, ritornando indietro come un bumerang, uno
schiaffo capace di farmi cadere in ginocchio, soffrendo insieme a lei.
Vorrei poter alleviare il suo dolore, vorrei che capisse… ma capire cosa?
Che sono un bugiardo? Che le ho mentito su qualcosa di così importante?
Una porta si spalanca, e la luce del corridoio penetra come una saetta, una
lama incandescente.
«Chiudi immediatamente» sibilo come un serpente. Lei sembra non essere
intimorita, ma fa comunque ciò che le ho ordinato.
Si volta, e si appoggia proprio alla porta, in una posa rigida e severa. Inarca
le sopracciglia, segno che attende una spiegazione per il mio comportamento.
Scoppio a ridere istericamente, come uno di quei pazzi schizofrenici che sono
rinchiusi nel manicomio. Guardo le mie mani, e noto con mio disappunto di aver
conficcato le unghie nei palmi.
Rivoli di sangue sgorgano incessanti sul pavimento di marmo, imbrattandolo con
il suo colore vivo e intenso. Osservo le ferite con intensità, e queste si
richiudono dopo pochi istanti.
«Neanche il dolore fisico mi è concesso, non trovi sia piuttosto deprimente?»
le confesso, mentre mi sollevo in piedi e mi guardo allo specchio.
I miei capelli neri sono ancor più spettinati del solito. Afferro il lungo soprabito
nero e lo indosso, sentendo il suo sguardo trapassarmi la schiena.
«Non fissarmi così, rischio di prendere fuoco, sai?» scherzo con ilarità, ma si
tratta d’ilarità fasulla, priva di vita… come me.
«Non esiste solo il dolore fisico. Per noi esiste quello mentale…» e una folata
di vento mi avverte che lei è qui, alle mie spalle. Si sposta, fino ad
accostarsi alla mia sinistra, allungando un braccio, e indicando proprio il
punto in cui dovrebbe battere un cuore, ma non il mio, «…ed esiste quello del
cuore. Quello è il più forte, il più intenso. Oggi hai sofferto, lo sento
ancora adesso. Qualunque cosa sia successa, non…».
La interrompo con un’occhiata, e riprendo io, sprezzante, «non importa?
Dimenticherà? Lei mi ha chiesto che fine abbia fatto sua madre, se la
conoscevo. Ho mentito… ho mentito a lei».
E la lascio lì, immobile, mentre io mi affretto a raggiungere l’uscio. I suoi
occhi si trasformano in una maschera di freddezza, e nel frattempo si appresta
seguirmi, dato che non può fare altrimenti. Tu sai meglio di me cosa significa soffrire, e imparerò da te a sopportare
tutto questo dolore che mi pervade. Ne sono lieta. Anche tu hai bisogno di tornare a vivere.
È in questi momenti che il dolore prende il
sopravvento. Un dolore lancinante, profondo che si espande come una macchia
d’olio dentro il mio cuore.
E tutto ciò che ho intorno, perde di significato.
Perde di significato il fatto che queste mattonelle sono fredde.
Perde di significato il fatto che sono nuda dentro la doccia.
Perde di significato il fatto che un essere misterioso mi torturi con la sua
presenza persino nei miei pensieri.
Perde di significato il fatto che Billy bussa incessantemente alla porta del
bagno per capire cosa è accaduto.
Tuttavia ciò che davvero non perde di significato è il dolore di una figlia che
ha creduto di poter riabbracciare la madre.
Un solo istante, uno solo, e le speranze che quell’essere fosse giunto per
concedermi un barlume di speranza si sono in frante come un oggetto di
cristallo, così forte all’apparenza ma debole al primo urto.
Perché? Perché questo essere misterioso, è comparso all’improvviso nel momento
più triste della mia esistenza?
Quando l’ho cacciato, ho sentito qualcosa, qualcosa di profondo scuoterlo.
E ho visto cosa ci cela nell’animo di quell’essere.
Buio, talmente nero da sembrare una fantasia.
Ha mentito davvero su mia madre? Sul serio non l’ha mai incontrata? «Mamma, cos’è una bugia?» le domando, mentre mi acciglio leggendo quella
parola scritta nel libro che sto leggendo.
Lei si volta verso di me, i suoi capelli si colorano di un rosso intenso, denso
e scuro.
Un fiume color cioccolato si staglia sull’erba del prato dinanzi la nostra
casa. Mi sorride, mentre scosta una ciocca dietro l’orecchio.
«Be’, io credo di essere l’ultima persona per poterti spiegare come si fa, ma
tu mi hai chiesto il significato, perciò…» e con un gesto fluido mi solleva e
poggia sulle sue gambe, giocando con i miei capelli.
«Mentire è qualcosa che non si deve fare mai, solo alcuni casi si può chiudere
un occhio. Significa mentire, dire qualcosa che non corrisponde alla verità, ed
io non sono mai stata capace di mentire» termina arricciando le labbra in una
smorfia buffa, segno che non deve essere contenta di ciò. Un odore forte e
maschile s’innalza nell’aria, e subito dopo la figura di papà compare davanti
ai nostri occhi.
Sorride, piegando le labbra all’insù, in un sorriso obliquo. Un sorriso
sghembo, come ripete sempre mamma.
«Per mia fortuna non lo sei per niente. Se fossi stata una grande attrice, i
guai che abbiamo passato si sarebbero moltiplicati a dismisura. Avrei avuto
difficoltà maggiori nel proteggerti».
Mia madre sorride di rimando, restando con gli occhi chiusi, «davvero? Chissà
se in questa vita non prenda lezioni dall’esperto di casa, o magari andando in
una scuola di recitazione. Non mi piace essere un libro aperto per te, anch’io
voglio saperlo fare».
Mio padre inarca un sopracciglio e si stende anche lui sul prato, con un
braccio a reggergli la nuca. «Non ti basta avere una mente simile a una
cassaforte? È già frustrante per me non sapere cosa pensi…».
Stavolta mia madre ride spensierata, mettendosi seduta e avvolgendomi in un
abbraccio. Il capo poggiato sulla spalla. Entrambe osserviamo papà che ci
guarda senza capire, mentre sorridiamo insieme.
Tutte e due rispondiamo all’unisono, «meglio così. Siamo noi a dover sopportare
continue intrusioni mentali e indesiderate».
Mio padre ci osserva stupito, mentre noi ridiamo a crepapelle del suo
sbigottimento, che però dura poco. Con un guizzo minaccioso e divertito allo
stesso tempo, si lancia su di noi, lasciando baci a entrambe.
«Questa è la vostra punizione per esservi prese gioco dell’uomo di casa»
scherza, avvolgendoci entrambe in un abbraccio soffocante e caldo, nonostante i
loro corpi fossero freddi per me.
Il caldo avvertito s’irradiava dal cuore fino a raggiungere l’esterno. Ora il
mio cuore è un freddo iceberg che si va sempre più cristallizzando.
«Papà?» lo chiamo.
«Dimmi, tesoro».
«Hai mai raccontato una bugia a qualcuno d’importante?» e qualcosa cambia
nell’atmosfera. La stretta si fa più intensa, i loro respiri si bloccano.
«Sì, Nessie. Si è rivelato il più grande errore della mia esistenza. Qualsiasi
bugia, detta per il bene di una persona, porta delle conseguenze, ricordalo
sempre».
«Nessie! Nessie, mi senti? Va tutto bene?» la voce di Billy mi arriva ovattata
da fuori, le ruote cigolano di continuo, producendo uno stridio fastidioso. È
preoccupato, molto, forse troppo.
Mi asciugo le lacrime e mi schiarisco la gola, «va tutto bene, tranquillo»
cercando inutilmente di rassicurarlo.
«Non direi» risponde una voce alle mie spalle. Mi volto sussultando spaventata,
riconoscendo la voce e la figura. I suoi gomiti sono poggiati sul davanzale
della finestra, le braccia incrociate, il mento poggiato su di esse.
Aggrotto le sopracciglia, squadrandola truce e coprendomi con l’accappatoio.
Non rispondo, perché non ne trovo il motivo.
Chissà da quanto tempo è lì.
«Perché hai urlato, allora?» mi domanda ancora Billy, fermando i movimenti e
dando alle mie orecchie un po’ di pace.
Decido di accampare una scusa, forse un po’ troppo banale, ma che può
funzionare, in fondo i ricordi dolorosi sono tornati alla luce, ma non è
proprio quello il motivo per cui ho urlato.
Per fortuna Leah non ha notato la rosa e il biglietto, così li nascondo
all’interno dell’enorme tasca dell’accappatoio. Ci manca solo dare spiegazioni
a miss acidità.
Lei mi squadra silenziosa, soffermandosi sulle lacrime che hanno lasciato
comunque due scie simili sul volto, «datti una sciacquata al viso e fallo bene,
così nasconderai i segni senza bisogno di trucco».
Per la prima volta, l’acidità che accompagna le sue parole resta nascosta in
chissà quale angolo oscuro della sua mente, lasciando trapelare un’altra Leah,
forse quella di cui mi ha parlato Jake tempo fa.
Jake. Come mai è venuto Billy e non lui? Conoscendolo, avrebbe buttato la porta
a terra con una spallata, o si sarebbe trasformato dentro casa, ignorando i
danni che avrebbe provocato.
«Jake se n’è andato già da un pezzo, se stai cercando quell’idiota» mi spiega
con fare annoiato, «e ha lasciato me per farti da babysitter. A volte è davvero
uno…».
La interrompo stizzita e infuriata, se l’avrebbe detto, a quest’ora non avrei
più risposto di me e addio a Leah, «scusami tanto se Jake si preoccupa tanto
per me. Non ho chiesto io la balia, né tantomeno la tua presenza. Lo sai quanto
è asfissiante con questa idea della protezione ventiquattro ore su
ventiquattro. Non esiste un interruttore per mettere fuori uso questo suo lato
da supereroe?».
Un sorriso amaro si disegna sul suo volto e scuote la testa come colta da
pensieri malinconici e lontani, «se esiste, fammi un fischio. Dovrei spegnerlo a
un’altra persona, ma dubito che basti uno stupido bottone per interrompere
questa magia assurda».
Magia? Di quale magia sta parlando?
Faccio per parlare, ma un altro colpo alla porta mi riporta bruscamente l’attenzione
a Billy, che continua a preoccuparsi della mia prolungata doccia.
Mi passo una mano fra i capelli umidi ed emetto un sospiro, «comincia proprio
bene la giornata».
***
«È da parecchio che non mi vieni a fare visita, sai?
Mi sento offesa» mi riprende Emily, con un tono finto offeso. Le labbra
incurvate in una smorfia che dovrebbe essere un sorriso, se non fosse per
quelle lunghe cicatrici.
I suoi lineamenti si sono fatti più marcati con il tempo, e il corpo dopo la
gravidanza si è riempito un po’. Nonostante l’aspetto sia diverso rispetto a
prima, il suo volto irradia la stessa luce, se non più forte e intensa.
Diventare madri illumina davvero le donne.
Mi passo una mano fra i capelli, nervosa, «è che ho avuto da fare negli ultimi
tempi».
Lei sorride, accomodandosi meglio sulla sedia, versando il tè verde che adoro
tanto e porgendomi i suoi famosi muffin al cioccolato.
Eh già, sono una golosona quando si tratta di dolci. Papà mi ha rivelato che
lui in vita ne andava pazzo, perciò una nuova caratteristica da aggiungere alla
lista di particolarità ereditate da lui.
«Tu hai sempre da fare da quel triste giorno…» mi rammenta con voce flebile. La
tazza da tè comincia a sballottare tra le sue mani tremanti. Anche lei teme per
mia madre e Seth.
Si è affezionata a entrambi, e ora è convinta che siano ancora vivi, rinchiusi
forse da qualche parte. Lo afferma con certezza, come se fosse una verità
indissolubile, ed anche l’unica che tiene mio padre in vita.
So già cosa succederà nel caso in cui lei non ci sarà più.
So già cosa farà mio padre. Ha già tentato una volta, dubito che cambi idea.
Stringo la tazzina di ceramica tra le mani così forte che con uno schianto si
frantuma ai miei piedi. Il liquido caldo si cosparge sul pavimento di legno e
lo osservo mentre s’insinua sotto le assi.
Una mano si poggia delicata sulla mia che tiene in mano il manico rotondo, che
ondeggia avanti e indietro. Mi volto verso il suo viso incontrando dei profondi
occhi scuri che mi osservano con compassione, cosa che odio profondamente.
Poi una carezza sulla mia guancia, e le sue sopracciglia si aggrottano,
assumendo uno sguardo confuso.
Sposta i miei capelli e il segno rosso fa capolino alla sua vista. Cerco di
scostarmi, ma lei me lo impedisce: potrei liberarmi facilmente dalla sua
stretta, ma non lo faccio, assecondandola.
«Sbaglio, o qualcuno sta passando in modo diverso il suo tempo? Ora capisco
perché hai altro da fare…» e lascia la frase in sospeso, sorridendo con
malizia. I miei occhi la squadrano stralunata e mi affretto a coprire quel
segnetto così insignificante per me, ma un chiaro segno per gli altri. Che cosa
dimostra questo segno? Questo… succhiotto!
«No, non è come pensi» cerco di arrampicarmi sugli specchi inutilmente.
Accidenti! Perché non posso essere un vampiro vero e proprio?
«Tesoro, quello è un succhiotto. Non si può sbagliare, e significa che qualcuno
ti ha baciata con troppo veemenza, ecco» mi spiega, cercando di non
ridere della mia faccia sconvolta.
Jake mi ha sfiorato, ha lievemente toccato le mie labbra, ma poi è
arrivato lui e si è insinuato a forza in quella specie di
limbo transitorio.
Lui che è entrato a forza nella mia vita sconvolgendola con le sue fantasie, la
sua voce incantevole, bassa, profonda, a volte cupa.
«Non vuoi dirmi chi ti ha lasciato questo bel ricordo?» mi domanda,
riportandomi con i piedi per terra. Sbatto le ciglia, notando una sorta di
consapevolezza, di certezza nella risposta che attende, così rispondo su due
piedi.
«Nessuno… o meglio… non lo so» balbetto incoerente. Come faccio a spiegarle che
qualcuno è in grado di creare illusioni che sembrano vere? Al tal punto da
lasciare ricordi indelebili come questo?
«Non è stato Jake?» mi chiede ancora più confusa. Lei sa benissimo che non mi
sono avvicinata a nessuno della riserva, tanto meno al di fuori di essa. Solo
Jake e i ragazzi del branco mi parlano, ma ognuno è come se cercasse di
mantenere delle distanze invisibili ai miei occhi.
«No» rispondo decisa e sicura.
All’improvviso, il cellulare squilla, rompendo quella quiete che si è
instaurata.
Lo afferro con uno sbuffo, senza osservare il numero sul display, credendo si
tratti di un membro dei Cullen che desidera ricevere notizie. Clicco sul tasto
verde e subito dopo, una voce carica di rabbia mi scuote e mi fa sobbalzare.
«Dove sei?» un ringhio, più che altro. Rabbia, furia e… preoccupazione? Papà.
Papà.
So che alla fine avrei dovuto affrontarlo, ma avrei preferito farlo di
presenza, e non tramite un apparecchio telefonico mentre lui si trova a
girovagare senza una meta precisa in Europa, senza uno straccio d’indizio.
Perché è andato in Europa, allora?
Bella domanda, anzi ottima. Dovrei domandarlo a lui, perché zia Alice, stranamente,
non ha visto nulla. Mi chiedo se non abbiano preferito tenermi all’oscuro di
tutto.
Conoscendoli, ed essendo informata del loro smisurato senso di protezione, non
mi stupirei se mi avessero mentito.
Certo, sarei ancor più arrabbiata e delusa, ma non sorpresa. Questo no, quando
si tratta dei Cullen.
Mio padre in primis.
Emetto un sospiro di frustrazione, chiudendo momentaneamente gli occhi. Tutto pur
di evitare quello sguardo che mi sto immaginando.
I suoi occhi che diventano neri, dove la pupilla non si distingue più
dall’iride, il suo volto candido sferzato da ciocche ramate ancor più ribelli,
un eco che fa da sottofondo alla sua voce tonante.
Basta! Se crede di intimorirmi si sbaglia di grosso. Non mi conosce, non sa che
ormai sono in grado di fronteggiarlo come qualsiasi altro membro della
famiglia.
«T’importa?» gli domando a mia volta, con voce da bimba innocente, sapendo che
si sarebbe irritato ancor di più.
«Sei mia figlia! Certo che m’importa di te!» ribatte con tono duro e con una
certa ovvietà, che io proprio non riesco a capire.
«Ma davvero?» continuo con tono cantilenante.
Se c’è una cosa che mio padre non sopporta, è quando qualcuno cerca di
rabbonirlo, di aggirare l’argomento principale facendogli perdere la pazienza.
«Smettila di fare domande di cui sai già la risposta» ed emette un sospiro,
come per calmarsi.
Tu devi calmarti? Non credo proprio. Quello che sbaglia sei sempre e solo tu!
«A dire il vero, ignoro la risposta già da parecchi anni, sai?» si nota la vena
ironica? Immagino di sì, altrimenti questo rumore sordo non si spiegherebbe, e
nemmeno le interferenze nella rete.
Qualcuno, qui, è un tantino nervoso. Mi alzo in piedi e mi dirigo sulla porta sul
retro, lasciando Emily che raccoglie le schegge di ceramica sul pavimento. Con
la coda dell’occhio la vedo scuotere la testa.
Sa bene che la sto guardando. Mi acciglio un po’, ma decido di non lasciarmi
influenzare.
Vorrebbe che capissi l’importanza e la profondità dell’amore che lui prova per
mia madre, come se io già non sapessi di cosa è capace quello stupido.
Il semplice fatto che non si fa vedere da anni la dice lunga sull’importanza
che rivesto io perché figlia, e mia madre perché moglie. Per non parlare degli
altri membri Cullen.
Loro sono piuttosto irrilevanti per il mio caro papino.
Solo mia madre è il fulcro della sua esistenza, mi sembra già di averlo intuito
a mie spese.
«Sai benissimo perché sono dovuto andare via» cerca di spiegarmi con un tono di
voce calmo, ma dietro di ciò, avverto una nota d’inclinazione che cresce sempre
più.
Il dolore ritorna prepotente a investirlo come un’onda. Non sei l’unico, papà.
«Sì. Certo che lo so. Mi sorprende, però, che ti rammenti di avere una figlia,
con tutti i pensieri autodistruttivi che ti affollano la mente. Dubito ci sia
spazio per la sottoscritta» ecco l’ho detto. La mia voce è ancor più acida
delle battute idiota di Leah.
«Ricordo benissimo di avere una figlia, una e una soltanto. Non potrei averne
altre» ribatte con tono secco, digrignando i denti per la mia battuta pungente.
Peccato che io sappia esserlo ancora di più.
«Chi me lo dice che non puoi averne altre? Puoi trovarne un’altra umana con cui
fare figli. Uno o l’altro che differenza fa? Per te i figli sono indifferenti»
non sono riuscita a trattenermi. Qualsiasi cosa pur di ferirlo almeno un minimo
di ciò che ho sofferto io. È vero, quello che ho detto è orribile, perché in
qualche modo infanga il loro amore, il rispetto verso l’altro, e soprattutto
infango ciò che io rappresento.
Afferro il corrimano di legno che si trova sul porticato, strisciando con i
piedi fino a rannicchiarmi contro le sbarre lignee. Appoggio la fronte contro
di esse.
Mi sento davvero in una prigione.
Una prigione di sentimenti aggrovigliati in una massa indistinta, che nessuno
riesce a sciogliere.
«Ti rendi conto di quello che hai detto?» mi domanda dopo un po’ con voce
incolore.
Ecco la risposta: sì, me ne rendo conto, ma non riesco a dispiacermi del dolore
che provi.
Silenzio da parte mia, perché voglio lasciare che s’insinui il dubbio di quello
che penso davvero nella sua mente.
È così difficile per te ammettere che non conto niente? Non ho mai contato
nulla per te.
Solo la mamma avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, tutto pur di non lasciarmi
in balia di me stessa.
Solo lei non avrebbe permesso che crescessi senza le figure più importanti
nella vita di un bambino. Perché papà, prima di essere un’immortale, sono stata
bambina.
E si sa, i bambini per crescere bene desiderano l’affetto smisurato che un
genitore può dare.
«Tu non ti sei mai sentito padre, tu non hai mai compreso fino in fondo cosa
significhi dare alla luce un figlio. Solo la mamma si è comportata come tale,
anche se per poco tempo» e sfilo dalla tasca la collana che mi ha regalato la
donna più importante della mia vita, colei che in un giorno lontano mi regalò quest’oggetto,
dicendomi che mi avrebbe salvato a qualsiasi costo.
Questo è ciò che dovrebbe essere un genitore: qualcuno su cui contare in
qualsiasi situazione, perfino la più tragica.
Come quella che vivo io da otto anni.
«Renesmee… io…» balbetta incoerente. Non trovi le parole? Io so il
perché. Le mie parole sono state la chiave che ti hanno mostrato la realtà che
di negare con qualsiasi scusa.
Non c’è scusa che tenga, adesso. Non più.
«Credo di sapere perché hai chiamato. Immagino che zia Alice ti abbia riferito
che ho trascorso la notte alla riserva, da Jake» dico con voce fredda.
So per certo che è così. Ricordo ancora il giorno in cui è scomparsa la mamma,
e ricordo con più particolari ciò che è successo dopo in casa Cullen. «No, non è possibile» continua a ripetere mio padre come una mantra. I suoi
occhi si fanno via via più vacui, finché non s’inginocchia davanti a tutti. Non si preoccupa di dimostrarsi debole dinanzi a tutti, né sente le mie mani
afferrargli le spalle e scuoterlo inutilmente. «Jacob, avete cercato bene? Magari si sono allontanati troppo, magari Seth
si è trasformato e voi non lo sentite» cerca di ragionare nonno Carlisle,
mentre tenta di spiegare, trovare una soluzione che non c’è. Sul mio volto le lacrime continuano a scendere e dalla tasca sfilo via
l’anello di mia madre. Tutti mi guardano sconvolti e impauriti, mentre lo porgo a mio padre. Con
mani tremanti si allunga per prenderlo, ed io lo lascio cadere sulle sue. Lo
osserva per attimo infinito, finché un nuovo sentimento si fa largo sul suo
viso. Rabbia, follia pura. I suoi occhi cambiano colore, per una frazione
incrociano i miei e poi si scaglia contro Jake. Gli altri lupi e i Cullen tentano di fermarlo, di mettere un freno all’ira,
ma sembra tutto inutile: il suo potere l’ha sempre reso pericolo, più di zio
Jasper. Tuttavia ciò che non dimenticherò mai, sono le parole di disprezzo e rancore
che gli fuoriuscirono dalla bocca, con un ringhio gutturale e prolungato: «se
credevo di potermi fidare di te, ora ne ho avuta un’amara delusione. Adesso io
andrò alla ricerca di mia moglie, e prega affinché io la trovi. Nel frattempo,
ti consiglio di non avvicinarti mai più alla mia famiglia, e soprattutto a mia
figlia».
Una sorta di ultimatum per il mio amico Jake, che con il passare del tempo è
stato impartito dal fondatore fino a diventare una sorta di legge per i Cullen.
Una legge che loro non hanno mai condiviso, perché la rabbia è stata sostituita
dal dolore e la voglia di vedermi sorridere dopo tutti questi anni.
«Non devi avvicinarti a lui né a qualsiasi altro cane per il resto della tua
esistenza. Questo è un ordine, Renesmee».
La sua voce è tagliente, mentre altri oggetti s’infrangono dall’altro capo del
telefono.
Ordine.Credi davvero che obbedirò?
Un sorriso per nulla felice affiora sul mio volto, «sei troppo accecato dalla
rabbia e dal dolore per ragionare come si deve. Torna a giocare alla tua caccia
al tesoro, non obbedirò mai a nessun ordine, sappilo».
«Sei proprio la copia a tua madre» ammette con un gemito soffocato nella voce.
Mi volto, sentendo i passi di Emily farsi più vicini, «e ti dispiace, papà?» e
riaggancio, senza lasciargli il tempo di rispondere.
Fisso il cellulare per un po’, mentre Emily mi guarda rammaricata.
«Vuoi un’altra tazza di tè?» mi domanda gentile.
«Sì, ne ho proprio bisogno» e insieme ritorniamo in casa, scacciando
quell’unica lacrima che è riuscita a sfuggire al mio controllo.
***
«No, non mi dispiace» sussurro, sapendo già che
nessuno dall’altro capo del ricevitore mi ascolterà.
Ha già riagganciato. Premo con più forza sul cellulare, indeciso se farlo a
pezzi oppure no. Ancora una volta ho sbagliato, mentre mi afferro delle ciocche
e le tiro, come se volessi staccarmi i capelli. Poco ci manca.
Sollevo sguardo, e mi guardo intorno: nient’altro che alberi. Proprio come il
luogo dove è cominciata la mia vita.
Non posso credere che Nessie abbia davvero detto quelle cose. «Chi me lo dice che non puoi averne altre? Puoi trovarne un’altra umana con
cui fare figli. Uno o l’altro che differenza fa? Per te i figli sono
indifferenti».
Avere altre donne? È impazzita? Io amare un’altra donna che non sia sua madre?
Considerarla una figlia come tante? Come può pensare quelle cose!
Se sto facendo tutto questo è anche per lei. È mia figlia, l’amo moltissimo.
Perché non riesce a capirlo? «Tu non ti sei mai sentito padre, tu non hai mai compreso fino in fondo cosa
significhi dare alla luce un figlio. Solo la mamma si è comportata come tale,
anche se per poco tempo».
Io non mi sono mai sentito un padre?
Fisso le mie mani, quelle che hanno stretto in una morsa gentile un piccolo
fagotto ricoperto di sangue. Quel piccolo fagotto che urlava con tanto fiato
nei polmoni nell’istante in cui ha visto la luce.
Io che ho fatto nascere mia figlia. Io che l’ho anche abbandonata.
Bella non l’avrebbe fatto se fossi scomparso io. Sarebbe rimasta con la nostra
bambina.
Non sarebbe venuta qua, in un paese sconosciuto senza mai tornare indietro
neanche per il compleanno di nostra figlia.
Ha ragione lei, mia figlia. Sono davvero un pessimo padre.
Eppure la determinazione scaccia momentaneamente i miei pensieri riguardanti la
mia telefonata. Ripongo il cellulare nella tasca, e attendo poggiato a un
tronco seminascosto dalla vegetazione.
Forse stavolta posso ottenere qualcosa di più di un pugno di sabbia.
Mi trovo nei pressi delle scogliere Klint, sull’isola di Mon. Sono nel
territorio danese alla ricerca di quel misantropo, Alistair, ma ogni volta che
sembra che riesca ad avvicinarmi, mi sfugge grazie al suo potere.
Il suo potere di segugio è forte, ma anch’io posso affidarmi al mio potere,
all’ultima tattica per la quale avrei preferito fare a meno.
Ho attirato un’umana, grazie al mio fascino, una ragazza bionda dagli occhi
chiari, stordendola per evitare che scopra tutto.
Il suo sangue è un richiamo per qualsiasi vampiro abbia un buon olfatto, e poiché
inseguo quel tenace vampiro già da parecchi giorni, immagino che la sete lo
stia divorando senza sosta, facendogli commettere alla fine delle imprudenze,
proprio come uno spuntino fuori del previsto.
Sul bosco è appena calata una fitta nuvola di nebbia, che si espande fino a far
diventare sfocati i tronchi degli alberi secolari. I primi raggi solari
cominciano a filtrare dalle alte fronde degli alberi, finché dei pensieri
chiassosi e letali si avvicinano attratti da qualcosa, o meglio qualcuno. La
ragazza distesa su un piccolo sprazzo d’erba fresca di rugiada, che giace
svenuta.
Tuttavia non permetterò ad Alistair di nutrirsi, perché la vita di
quell’innocente ricadrebbe inevitabilmente sulla mia coscienza.
Strofino, contro il mio corpo, il pelo di alcuni animali che ho trovato nei
dintorni, senza averli uccisi, altrimenti qualcosa potrebbe insospettirlo
ulteriormente, come l’odore di un animale vivo il cui cuore non batte.
Capirebbe immediatamente che si tratta di una trappola, e perderei l’unica
occasione davvero ghiotta che ho potuto escogitare in così poco tempo.
Una macchia indistinta sfreccia veloce, finché non si ferma a pochi passi dalla
ragazza. Continua a girarle intorno, come un avvoltoio con occhi avidi, finché
un lampo di consapevolezza guizza nei suoi occhi. Troppo tardi, Alistair.
Alistair
si mette in posizione d’attacco, flettendo leggermente le gambe e
scivolando sul terreno come un serpente. Le sue mani si curvano, simili
ad artigli di un animale selvatico.
I suoi occhi guizzano, ma non accenna a muoversi. E questo mi blocca sul posto.
Il suo naso si arriccia, digrignando i denti. «Non ho ben capito
perché un novellino come te deve stressarmi l’esistenza in
questo modo».
La donna rotola su un fianco. Si sta svegliando, devo darmi una mossa.
Sfreccio lateralmente alla sua sinistra, nel tentativo di intrappolarlo
nella presa delle mie braccia, sapendo che nonostante il mio dono, le
possibilità che riesca a metterlo in difficoltà sono
esigue.
Lui è un vampiro antico, con qualche decennio in più sulle spalle, rispetto a Carlisle.
«Tu sei il solo che possa aiutarmi» gli rivelo in un
sussurro talmente basso, che neanche le labbra sembrano essersi mosse.
Lo vedo ritornare in posizione eretta, le labbra incurvate in un sorriso. Cosa ti fa credere che io sappia qualcosa di cui io ignoro l’esistenza? Mi domanda con il pensiero, consapevole del mio potere.
«Tu sei un misantropo, Alistair. Ma essere ciò non
significa che tu non veda e non senta» gli faccio notare con
pacatezza nella voce. So per certo che lui sappia chi si nasconde
dietro la scomparsa di mia moglie, sa chi sta tramando nell’ombra.
Non posso lasciarmi sfuggire l’unico appiglio.
Una risata beffarda riecheggia nel silenzio dei boschi, mentre la
ragazza comincia a prendere conoscenza sempre più in fretta.
Si domanda a chi appartiene quella voce, e a chi appartiene quella risata.
Comincia già a distinguere che si tratta non di una, ma due presenze.
Con uno slancio, cerco di afferrare il suo braccio per trascinarlo
giù, e poi condurlo lontano. E nonostante lui riesca con un
passo felpato e calcolato a spostarsi in tempo, ottengo il risultato
sperato. Credi che anche io non mi sia accorto che la ragazza abbia ripreso conoscenza?
«Allora perché stai fuggendo via?» gli domando con
tono canzonatorio mentre corriamo veloci, sfiorando foglie e superando
vari ostacoli sul nostro cammino. Perché sono un tipo molto timido, sai? Preferisco fare colazione da solo, e non con un pubblico piuttosto rumoroso. Mi dice con acidità.
Stavolta il sorriso spunta a me, ma sembra più una smorfia.
Non riesco più a sorridere da quando lei non è più al mio fianco.
Non riesco più a sorridere da quando la donna che amo mi è stata strappata e portata via, in un luogo sconosciuto.
«Allora imploro il vostro perdono, Alistair, ma gradirei fare
quattro chiacchiere con voi, se mi permettete» dico scherzando, e
lui lo intuisce, ringhiando e voltandosi verso di me.
Arresta la corsa, di colpo, «non te lo permetto, giovane Cullen.
Non ho nulla da raccontare che tu voglia ascoltare, perciò vedi
di andare a pedinare qualche altro immortale meno restio di me ai
ficcanaso».
Il suo sguardo si fa più cupo. Se prima è stato per la sete, ora lo è per la rabbia… e per la paura.
La fiuto, nei suoi pensieri e nell’aria che lo avvolge. Il suo
corpo così come i suoi pensieri sono avvolti da una patina di
paura, ma ciò che davvero cerco non riesco a vederlo.
Solo alcuni membri della mia famiglia sono in grado di celarmi i
pensieri in questo modo, tra cui Alice. Ma per lei ci sono voluti anni
per imparare a tenermi lontano, e il suo potere è stato una
marcia in più per mettere fuori uso il mio.
È incredibile come un vampiro capace di seguire le scie sia in grado di eludere persino il mio infido potere, come più di una volta l’ha definito mia moglie.
Bella, la mia Bella. Il suo viso, i suoi pensieri, il suo profumo non mi abbandonano mai neanche dopo anni di lontananza.
Ma oltre a questo, anche fare l’amore con la donna della mia vita
è diventato qualcosa di necessario, di primaria importanza per
me.
Se prima che ci sposassimo ho potuto sopportare certi istinti, ora so di non poterne più fare a meno.
Mi manca tutto di lei, anche l’unione delle nostre anime.
No, sono io a non permettere a lui di nascondermi indizi per ritrovarla.
Perché ogni giorno in più che passa, è una
sofferenza ben maggiore del dolore fisico, e questo vampiro che ho di
fronte non potrà mai capire che significa annullare tutto se
stesso e vivere del respiro, dell’anima di un altro essere.
Perché io vivo per Bella, in funzione di lei e lei soltanto.
Persino allontanarmi da mia figlia non è stato così difficile, e di questo mi disprezzo ogni singolo giorno.
Le sue parole e il suo odio li merito in tutta la loro
intensità, ed io non posso fare altro che annegare nel dolore di
aver perso le donne che hanno condizionato per sempre.
«Se avessi qualcun altro da torturare con il mio tormento che non
mi da pace, non sarei venuto da te» e sorrido con amarezza. Ormai
non posso più tornare indietro, non c’è vita se mi
volto a guardare dietro di me.
Solo una figlia che mi odia con tutta se stessa, una famiglia che
incita a tornare e cercare insieme il pezzo del puzzle perduto.
Perché Bella è parte di un puzzle, un puzzle chiamato Cullen.
Un barlume di pietà sfiora i suoi pensieri, ma viene respinto,
ricacciato indietro in un recesso nascosto della sua mente.
«Credimi, non sono l’unico che può aiutarti» dice ad un certo con voce impassibile.
Sollevo il volto di scatto, che ho tenuto abbassato per nascondere al
mondo quanto davvero mi hanno distrutto con questa lontananza forzata.
Lui sa, conosce chi si cela dietro il fautore della mia sofferenza.
Sfreccio davanti ai suoi occhi, fino a fermarmi a pochi passi da lui,
afferrandolo per i lembi della giacca.
«Tu devi dirmi dove posso trovarla» gli ordino e allo stesso tempo lo supplico con voce roca.
Vorrei piangere, urlare il suo nome e come per magia lei compare
davanti ai miei occhi. L’ho fatto tante di quelle volte mentre
attendevo i giorni seguenti la sua scomparsa che mi sono convinto che
l’unica soluzione sarebbe stata una ed una soltanto: andare alla
sua ricerca.
Una decisione che ho preso un giorno tenendo stretto tra le braccia mia
figlia, in attesa che si addormentasse dopo l’ennesimo incubo. E
tante altre lacrime.
Afferra i miei polsi, stringendoli nella sua morsa.
«Smettila di cercarla, Cullen, lo dico per il tuo bene».
Il mio bene? Allora non lo vedi il mio dolore? Non scorgi nella mia voce la disperazione? Questo ragazzo è completamento impazzito…
«Lo sono, Alistair, lo sono ormai da otto anni. Solo tu puoi
liberarmi da questa pazzia che si è attaccata a me come una
seconda pelle. Quello che vedi è un uomo distrutto» soffio
queste parole come un alito di vento, come la brezza marina che ci
arriva alle narici, avvertendoci che la costa non è lontana.
Lui distoglie lo sguardo dalla mia figura, ma non scorgo nessuna indulgenza, nessun appiglio a cui io possa aggrapparmi.
«Sono legato a Carlisle da moltissimo tempo, tengo alla sua
amicizia, ed è per questo che non mi sono schierato contro di
lui dieci anni fa. So che lui tiene molto ad ogni membro della sua
famiglia… mi dispiace, rivolgiti a qualcuno che non sia
così coinvolto come me» questa è la sua risposta,
la sua sentenza.
Perché io mi sento come un condannato a morte, e lui mi ha
giustiziato. Mi alzo irato, pieno rabbia repressa, di paura nel non
vedere realizzato il mio unico sogno: riavere mia moglie.
Riassemblare quei cocci che costituiscono la mia famiglia.
Stringo la mano sinistra attorno la sua gola, e con l’altra mi preparo a sferrare un pugno.
Se non vuole aiutarmi con le buone, dovrò far ricorso alla
violenza, quella che mi accompagna ogni qualvolta vorrei mettere
sottosopra il mondo pur di riuscire a trovarla.
È questo il mio unico obiettivo da otto anni, la mia unica speranza.
La morte, l’unica soluzione se dovessi scoprire che è morta, per sempre.
Lui sembra sorpreso da questa mia reazione, ma non si lascia
intimorire. Blocca il mio pugno a pochi millimetri dal suo viso,
sorridendo compiaciuto. Allora un po’ del vostro istinto di vampiro non è defunto insieme alla vostra stupida dieta. Constata con sorpresa.
Crede davvero che oltre a nutrirci di animali, le nostre
capacità di guerrieri si siano ammorbidite per lasciar spazio
alla nostra bontà d’animo.
Sciocco, non hai idea del demone che tenta di uscire, che cerca una vittima, anzi: la vittima.
Colui che mi ha spinto verso il baratro della distruzione.
Solleva una gamba, tentando di colpirmi con una ginocchiata, ma riesco
a scansarla con un salto. Poi ci separiamo, e comincia una serie di
colpi senza sosta, tra cui pugni e calci, finché ad un certo
punto arriviamo proprio ai margini della scogliera.
Il vento soffia forte, il sole appare e scompare tra le nuvole grigie,
dense di pioggia. I gabbiani fanno la loro comparsa, facendo udire i
loro schiamazzi striduli.
Ci osserviamo per un tempo infinito, in cui avverto tra i suoi pensieri la stanchezza dovuta alla sete non saziata.
All’improvviso, tra i suoi pensieri scorgo un’immagine,
nella quale figurano delle montagne ricche di vegetazione. In
lontananza, s’intravedono delle rovine, rovine di un castello. Oh, no! Il suo urlo mentale mi desta da quelle rovine così sfocate alla vista, quasi una macchia indistinta.
E se prima di questo urlo ho potuto ascoltare normalmente i suoi
pensieri , ora non li sento più. Resto immobile sul posto,
domandandomi che significato possano avere quelle rovine, quando
Alistair mi afferra per il collo, spingendosi verso il promontorio. Ora
le sue dita si serrano con più forza.
Tento di liberarmi, di scalciare ed allontanare. Tento persino uno spiraglio nella sua mente, ma il vuoto mi attende.
Solo una persona in tutta la mia vita ha avuto il potere di farmi sentire così frustrato.
Bella. Lei è qui. L’unica certezza, prima di essere
scaraventato giù, e sprofondare negli abissi più bui.
******************
«È riuscito a scorgere qualcosa nella mente di Alistair?» domanda una voce coperta da un cappuccio bianco.
Tre figure si trovano appollaiate come uccelli sui rami alti degli
alberi del bosco. Osservano con interesse il vampiro biondo che resta
in piedi sul promontorio di una delle tante scogliere Klint, dove il
vento sferza i suoi capelli sbarazzini, mentre il volto nasconde
segreti che molti vampiri ignorano.
«Non ne ho idea, ma ho fatto il possibile. Non è colpa mia
se è riuscito a vedere qualcosa di troppo» e, da sotto il
cappuccio, lancia un’occhiata raggelante al primo. Questi solleva
le spalle, per nulla intimorito.
«Per adesso Alistair è riuscito a toglierselo di torno.
Questo è ciò che conta. Credo comunque che qualcosa abbia
visto, ma non so dirvi con esattezza cosa, ma l’ha lasciato
sorpreso» dichiara con assoluta certezza.
Nessuno dei due ribatte e contraddice la terza figura, ma si limitano ad un religioso silenzio, denso di pensieri e idee.
«Spero che il bagno fuori programma sia di suo gradimento»
dice ridacchiando il primo, non riuscendo a trattenere una battuta.
La seconda figura lo afferra per il collo, in una morsa micidiale,
«hai esagerato. Questa non te la faccio passare liscia,
sappilo».
«Basta voi due, è ora di dirigerci verso il nostro vero
obiettivo. I vostri battibecchi risparmiateli per quando non ci sono
io. Sono soddisfatto del risultato, e dovevamo allontanarlo da Alistair
in qualsiasi modo, e questo è stato il più facile e
veloce» e con un cenno, la terza figura si lancia tra gli alberi,
saltando da un ramo all’altro.
La seconda figura, digrignando i denti, lascia andare la presa con
riluttanza, e senza degnare il compagno di un’occhiata, si lancia
anche questo nel fitto della boscaglia.
La prima figura osserva soddisfatto la scena della scogliera,
finché il suo sorriso svanisce, «questo è un
piccolo assaggio, Edward Cullen. Non dimentico il male che hai inferto
a Renesmee» e vai via, dopo aver pronunciato quelle parole al
vento, o forse no.
Solo una figura ha ascoltato, solo un vampiro, che lo conosce da tempi immemori.
Alistair. Il suo migliore amico.
Buona parte delle luci di casa Cullen è spenta, segno che alcuni componenti sono andati a caccia nei boschi qui vicino.
Tiro un sospiro di sollievo, sapendo che non dovrò incontrare tutti fino a domani mattina.
Ho passato tutta la giornata a casa di Emily, e di tanto in tanto
facevo qualche passeggiata nei pressi della scuola della riserva, nella
speranza di incontrare qualcuno del branco.
Persino Leah sarebbe andata bene, purché tenesse per sé le sue battute sarcastiche.
Ma colui con cui avrei voluto discutere non l’ho neanche intravisto. Jake.
Chiacchierare con Emily mi è servito. Non solo mi ha ribadito il
concetto che mio padre è follemente innamorato di mia madre e
che io non potevo cambiare in alcun modo questa realtà, ma mi ha
anche incitato a chiarire con Jake la questione.
Ma per me c’è poco da chiarire, dato che non è stato lui a toccarmi, né a lasciarmi quel succhiotto.
Eh sì, parlare con Emily mi ha fatto proprio bene. Non posso
coinvolgere Jake in discussioni così imbarazzanti. Nessuno dei
due riuscirebbe a spiccicare parola, pur sapendo il grado di confidenza
che ci lega.
Parliamo sempre di tutto, ma quando entriamo nel campo della sfera che
supera l’affetto familiare o l’amicizia, una pesante
barriera invisibile cade su di noi, rendendoci simili a statue.
Ha ragione Emily quando mi spiega che non sono cose che può
spiegare Jake, anche se mi è molto vicino come persona.
È in questi momenti che la figura di mia madre nella mia vita sarebbe fondamentale per me.
Non ho mai dato un bacio a qualcuno, che non sia papà , i miei
nonni o i miei zii. Forse nella lista potrei includere anche Jake, ed
altri ragazzi del branco e della riserva, ma si sono trattati di
semplici ed innocui baci sulla guancia. Niente a che vedere con quello
che stavamo per scambiarci io e Jake se quell’essere non fosse
intervenuto per bloccarci.
E ogni volta che penso a quest’ultimo, mi tornano in mente le
parole di Emily, mentre mi spiega cosa rappresenta il succhiotto e che
cosa significa per qualcuno di esterno alla coppia.
Già, proprio coppia, perché a quanto sembra non è
un gesto lasciato da un amico, bensì da un amante, da un uomo
che vuole altro oltre all’amicizia.
Ne ho letto di amori, quelli semplici e quelli complicati, e quello a
cui faccio riferimento ogni volta che vedo un uomo ed una donna
scambiarsi carezze, è il rapporto esistito tra i miei genitori.
E ogni altro amore, che sia umano o vampiro, perde di significato.
Nessuno è mai riuscito ad amare con la stessa intensità di mio padre e mia madre.
Bastava guardare nei loro occhi, e capivo di essere nata da qualcosa
d’importante. Da un sentimento che non conosce confini.
I loro sguardi dicevano tutto, come quelli che si scambiano tutt’ora i miei familiari.
È vero, ora molto è cambiato da otto anni fa. Oltre
all’amore che sembrava un sentimento di routine in questa casa,
il dolore per la perdita di un membro della famiglia ha incrinato un
equilibrio che pensavo sarebbe durato per l’eternità.
Varco la soglia di casa, sperando che Alice faccia parte del gruppo che
è andato via, ma questa speranza dura pochi istanti,
perché il suo odore diventa più intenso man mano che mi
dirigo in cucina.
«Sei tornata» constata, appollaiata sul ripiano dove vi
sono i fornelli, le gambe si muovono ritmicamente avanti e indietro.
Le lancio un’occhiata indifferente, e mi siedo a tavola, la quale
imbandita come se dovessero arrivare ospiti, fa bella vista.
Nonna Esme…
Afferro un pezzo di pane e avvicino un piatto di brodo di pollo, cercando di ignorare quella presenza scomoda dinnanzi a me.
«È buono?» mi domanda lei. È una mia impressione o noto dell’ironia pungente?
Faccio una smorfia, ma non rispondo.
Lei non demorde, sedendosi al mio fianco ed afferrando una mela tra le mani.
Mi scappa un risolino e lei lo nota, voltandosi nella mia direzione, incuriosita.
«Hai deciso di cambiare gusti alimentari?» le domando a mia volta, continuando a masticare svogliatamente.
Sorride, anche se tristemente, «ogni volta che ti vedo mangiare
rivedo lei. È normale che io voglia riavvicinarmi a quel mondo
di cui faceva parte. Anche se alcuni aspetti proprio non li
rimpiango» e solleva una mela annusandola, per poi allontanarla
con una smorfia di disgusto.
Mi blocco di colpo, rendendomi conto del peso e del significato delle sue ultime parole.
Rivedono anche gli altri mia madre nei miei gesti?
Anche loro mi stanno affianco per poter scorgere un pezzetto della sua vita?
Scosto il piatto bruscamente, rovesciando parte del contenuto sulla
tovaglia bianca, inzuppandola. Mi alzo in piedi, mentre Alice mi fissa
senza capire.
Come fa, come fa a non capire che ha ferito ancora con questa frase?!
«Perciò, voi mi state vicino per alleviare il vostro
dolore, non perché io soffro più di voi e volete aiutarmi
con la vostra vicinanza…» constato con amarezza nella voce.
Non riesco nemmeno più a guardarla in viso, le lacrime mi offuscano la vista.
Cerco di allontanarmi da quella stanza, ma una mano poggiata sulla mia spalla, trattenendomi lì. La sua mano.
«Perdonami, non volevo dire quello. Mi dispiace, hai frainteso.
Io…» cerca di spiegare, ma non intendo attendere oltre.
Forse vuole intendere altro, e dico forse, perché c’è solo un modo di interpretare le sue parole.
Io sono l’unico strumento per soffrire meno. Che io stia male non importa a nessuno.
Scaccio la sua mano senza rispondere, afferrando lo zaino e dirigendomi
verso la camera di papà. Appena entro, mi rendo conto dei nuovi
cuscini sparsi sul letto.
È tutto come prima…
Persino il mio dolore viene cancellato in questa casa. Qui, dove tutto
è cominciato, io ritorno, con le lacrime che sgorgano come un
fiume in piena.
Mi getto nel letto scalciando ed urlando, ma so che lei o chiunque mi abbia sentito non verrà.
Voglio soffrire da sola, voglio annegare nel tormento che loro si ostinano a negare.
Una folata di vento improvvisa irrompe nella stanza. Una grande aquila
con le piume castane si posa sul divano nero e mi fissa. Nel becco
tiene una rosa rossa ed una busta nera chiusa.
Mi asciugo le lacrime alla svelta e prendo tra le mani quegli oggetti.
In un istante, l’aquila apre le ali e spicca il volo.
Resto confusa per un po’, continuando ad osservare quel bellissimo rapace che vola via verso est.
Guardo la busta scura e i miei pensieri si concentrano su di lui. Perché mi perseguita ancora?
Apro la busta, come sempre curiosa, e prendo tra le mani il piccolo biglietto.
Stai soffrendo molto in questo momento. Non mentirmi, perché proprio non puoi.
Come fa a saperlo? Come fa a sentire le mie emozioni?
Ma so già che non otterrò risposta. Perché lui non è qui.
Frustrata, getto quel pezzo di carta per terra, e mi sdraio sul letto, cercando inutilmente di dormire.
*************
«Sei
sicuro di quello che stai per fare?» mi domanda lei, fissando lo
specchio davanti a noi. I suoi lineamenti delicati si induriscono, la
mascella si contrae, sentendola distintamente scricchiolare.
Sorrido mellifluo, «tu ti preoccupi troppo. Prima o poi ti verranno le rughe e i capelli diventeranno bianchi».
«Mi preoccupo troppo perché lo devo fare per entrambi,
visto che sei un idiota che non teme nulla» ribatte sarcastica.
Mi volto dandole le spalle, mentre mi poggia sulle spalle il cappotto
nero, che contribuirà a rendere la mia figura ancor più
nascosta agli occhi di lei.
«Sai che con me è al sicuro. E poi, dove la sto portando,
non ci sono pericoli di alcun genere. L’unico pericolo può
arrivare al di fuori di questo specchio, perciò sorveglia. Non
muoverti per nessun motivo» le ordino mentre con alcuni gesti
delle mani creo l’incantesimo adatto.
«Non hai tutto questo potere, perciò vedi di abbassare la
cresta, Sebastian. Falle trascorrere una bella serata e falle
dimenticare per una notte ciò che crede di aver
perduto» nelle ultime parole risuona una tristezza e rimpianto
senza eguali, che non le permettono di nascondere come desidera dei
sentimenti così distruttivi.
Le accarezzo una guancia, e lei chiude gli occhi. È questa la solitudine?
Allora cos’è l’oscurità che si annida nel mio cuore? Solo una misera imitazione?
Sospiro, «bene, vado da lei e ti posso giurare che sarà una delle migliori notti della sua vita» e sorrido malizioso.
Prima che riesca ad afferrare i lembi della mia camicia, entro dentro
lo specchio, richiudendolo dietro di me. Lei mi fissa infuriata, con
gli occhi che luccicano di un bagliore letale e un sorriso diabolico.
«Sebastian, non sfidarmi, potresti scoprire cosa significa
davvero aver paura, e non è affatto una sensazione piacevole,
sai?» bercia con voce piatta, quasi inumana, anzi, del tutto
inumana.
Deglutisco a vuoto, «voi donne siete terrificanti quando volete» sussurro con un filo di voce.
Lei sorride compiaciuta, «lo so, perciò bada a ciò
che fai» mi dice prima di allontanarsi dalla superficie dello
specchio e sdraiandosi sul mio letto come se niente fosse.
Digrigno i denti, irritato dalla sua spavalderia, ma decido di lasciar correre, almeno stavolta.
«Sto venendo da te, piccola Renesmee».
Angolo autrice:
Lascio
questo piccolo avviso per i capitoli futuri. Dato che per me ormai si
tratta di periodo d’esame, non potrò aggiornare ogni
giorno come ho sempre fatto. Tutto il periodo di luglio è
impegnato, perciò se non sarò più regolarissima,
sapete il motivo. Inoltre, la storia si inoltra sempre più, e
ogni capitolo preferisco scriverlo con calma, magari in più
giorni, per non scrivere qualche schifezza. Spero che capirete il mio
punto di vista, dato che prima di essere scrittrice sono una lettrice,
perciò so cosa significa aspettare e farò il possibile
per aggiornare quanto prima.
Nel
fitto dei boschi della penisola olimpica aleggia una nebbia fitta, che
striscia indisturbata simile a quella che avvolge il sottobosco,
nascondendo gli animali ancora dormienti e proteggendoli dai cacciatori
troppo mattinieri.
La nebbia si arresta dinnanzi ad una casa, disposta su vari piani, l’unica così nascosta ad occhi umani.
L’unica nel raggio di molte miglia abitata da vampiri.
Avvolge l’intera casa, ma di vampiri nessuna traccia. Poi avviene qualcosa.
La nebbia si addensa nella stanza in cui riposa la piccola Renesmee; la ragazza si agita nel sonno, ma non riesce a svegliarsi.
L’incantesimo dello specchio è riuscito. Ora in quella
stanza immersa nell’oscurità, una figura avvolta in un
mantello nero osserva la figura dormiente. Si accosta al letto,
sfiorando una mano la chioma rossastra, ed annusa la ciocca che tiene
nell’altra. L’odore sta svanendo, pensa la figura,l’incantesimo durerà meno del previsto.
Si sdraia nel letto insieme a lei, e tramite un richiamo mentale ad un
suo compagno, capace di alterare i fenomeni atmosferici, il chiarore
lunare viene coperto da fitte nubi grigiastre.
Ora nella stanza l’oscurità è più
consistente, e gli unici suoni che si odono sono il battito del cuore e
il respiro di lei.
Un sussurro carezzevole, «apri gli occhi, mia piccola Renesmee».
E così accade. La ragazza apre gli occhi, accorgendosi di non essere più sola.
**************
I
miei occhi si intrecciano in quelli di un ragazzo, il cui volto mi
è celato dal buio che risiede nella stanza. Sobbalzo, impaurita
e cacciando un grido di paura. Chi è questo tipo?
Non mi aspetto, di certo, di addormentarmi e ritrovare nel letto dei
miei genitori uno sconosciuto. Lui scuote la testa, o almeno è
quello che mi sembra che stia facendo.
Il mio urlo avrebbe dovuto allarmare Alice, ma nessuno sbuca come un
razzo dalla porta. Mi allontano il più possibile da lui,
coprendomi con la coperta di seta, fino a rannicchiarmi contro la
testiera, cercando di captare rumori provenienti dalla casa, ma
l’unico che avverto è il rimbombare incessante del mio
cuore, e un risolino soffocato da parte sua.
Mi alzo in piedi, fissandolo truce. Lui, invece, rimane sdraiato sul letto con una mano a sorreggersi la nuca.
Nonostante il suo viso mi sia nascosto, intravedo i lineamenti e noto
con mio stupore che si tratta di un uomo abbastanza giovane, i capelli
sono scuri, non saprei dire se neri o castani.
Ma ciò che più mi colpisce, e che mi provoca un brivido lungo la schiena, sono i suoi occhi.
Un blu elettrico che irradia forza, brutalità, ma anche
eleganza. Occhi che esprimono freddezza, ma mentre mi scruta
incessantemente, l’unico sentimento che proprio non riesco a
trovare è proprio quest’ultima. C’è calore
mentre si sofferma sulla mia figura.
È lui che decide di spezzare il silenzio, parlando con voce
bassa e musicale, «dovresti tornare qui e stenderti. Trovo che
sia più comodo che rimanere in piedi. Non sei del mio stesso
avviso?». Quella voce… È lui, il tizio del
succhiotto, quello della veste, quello che mi ha toccato dove nessun
altro si è mai avventurato.
Istintivamente porto le braccia al petto, stringendomi per le spalle e cercando di regolare il mio respiro accelerato.
Rallenta, stupido cuore impazzito!
Lui aggrotta le sopracciglia, con aria pensosa, «forse dovremmo
avvertire un dottore, il tuo cuore ha deciso di uscire dal tuo petto e
farsi una passeggiata altrove».
Ma che spiritoso! Mi prende anche in giro.
Dovrò sembrargli una stupida bambinetta impaurita che non sa
affrontare un problema senza dover chiamare qualcuno o morire
d’infarto, anche se per me risulterebbe un po’ difficile,
data la mia natura.
«Il mio cuore sta benissimo. È la tua presenza a farlo
battere così…» mi tappo immediatamente la bocca,
rendendomi conto di ciò che ho detto.
Oddio! Quella frase può anche essere intesa in un altro modo. E che modo…
Lui sembra riflettere sulle mie parole e sorride compiaciuto, mostrando
una fila di denti bianchi, con canini appuntiti al punto giusto.
Sì, sembra proprio un vampiro. D’altronde il suo cuore non emette alcun suono, perciò…
«Ne sono felice, vorrà dire che ogni volta che lo
sentirò battere impazzito mi ricorderò della mia
vicinanza e dei suoi effetti collaterali».
Lo fisso con astio e con un’acidità senza precedenti,
rispondo «non era quello che volevo dire. È la presenza di
uno sconosciuto come te a provocarmi questo effetto».
Si volta, mettendosi a pancia in su sul letto, ponendo le mani dietro la nuca ed intrecciandole.
«Allora spero di rimanere l’unico sconosciuto a provocarti
simili palpitazioni» dice con voce indifferente, ma scorgo sempre
una nota di derisione che mi fa infuriare ancor di più.
Ancora mi domando come mai zia Alice non arriva.
Non mi ha sentito dialogare con questo qui?
Mi fissa per alcuni secondi, come se mi scrutasse dentro, poi
interviene, dicendo «non c’è nessuno, se è
questo che ti stai domandando. Siamo solo io e te qui».
Lo guardo con occhi sgranati, rendendomi conto che quello che dice non
può essere vero. Starà scherzando. I miei parenti abitano
qui, e poco fa Alice era in cucina. Abbiamo litigato ancora, ma sono
sicura che sia ancora qui.
Faccio per avviarmi verso la porta, ma la sua voce mi blocca di nuovo sul posto, raggelandomi.
«Vai pure, ma sarà inutile. Non vi è proprio
nessuno nella casa dei tuoi familiari, devi rassegnarti al fatto che
stasera la passeremo soli».
Stringo i pugni ed irrigidisco le spalle, ma senza voltarmi. Emetto un
respiro profondo e decido di ignorare un suo probabile proseguimento.
Scendo le scale, guardandomi intorno. Provo ad accendere le luci, ma
non succede nulla. Riprovo svariate volte, sbuffando e maledicendo
quell’essere nella stanza di mio padre.
Se avesse voluto farmi del male l’avrebbe già fatto, non
si sarebbe perso in chiacchiere inutili come quelle di poco prima. La
casa è immersa nel buio, ma solo passando dalla cucina noto la
tavola nuovamente imbandita.
Stavolta con pietanze ben diverse. Non capisco…
Il profumo che mi penetra le narici è delizioso, invitante, ma
resisto perché so che si tratta di un altro trucco di quel
vampiro – se così si può dire, dato che gli occhi
fanno intendere ben altro – e ritorno su, trovandolo nella
posizione in cui l’ho lasciato.
«Mmh, sei tornata vedo…» constata lui, non muovendosi di un millimetro.
«Che significa quella tavola imbandita in cucina?» gli
faccio notare, indicando con un gesto svogliato il piano di sotto.
Lui scrolla le spalle, «pensavo avessi fame, così ti ho portato qualcosa con cui chiudere lo stomaco».
Lo scruto dubbiosa, domandandomi come fa a sapere tante cose. Cose che riguardano me.
Mi avvicino cauta, sedendomi sul divano e poggiando i gomiti sulle ginocchia, «tu sai troppo, ma ti guardi bene dallo spiegarmi come fai» pronuncio ogni singola parola con una calma studiata, ed osservando ogni suo movimento.
Vedo la sua figura irrigidirsi, e subito si mette seduto anche lui sul bordo del letto.
Ora che scorgo meglio la sua figura, seppur a tratti indefiniti, posso
dire che è abbastanza slanciato il suo corpo. Sembra alto, ma
non posso dirlo con certezza finché resta sul letto.
Le sue braccia sono lunghe, ma appoggiate dietro rispetto al busto e mi guarda con quei suoi occhi ipnotici.
«Devi mangiare, non puoi bere solo sangue animale» mi
ordina perentorio. Sembra l’ordine di uno di quegli ufficiali
dell’esercito che si vedono in tv.
Sorrido e scuoto il capo, sfidandolo con lo sguardo, «non faccio
nulla di ciò che mi dirai d’ora in poi. Primo,
perché io non so nulla di te, neppure il tuo nome. Secondo, non
ho mai – e ribadisco mai - preso ordini da nessuno, figuriamoci
dal primo essere venuto dal nulla» e continuo a sorridere, fiera
di non aver balbettato di fronte a quegli occhi che via via si
scuriscono in preda a chissà quali emozioni.
Solleva una mano dal letto e se la passa tra i capelli, proprio come fa
sempre mio padre. Deve essere una prerogativa degli uomini quando
qualcosa li innervosisce parecchio.
«Mi chiamo Sebastian, ma non ti dirò di più, mi
spiace» e mi trafigge ancora con quegli occhi. Le sue parole
sembrano un balsamo, che lentamente scivola via accompagnando il suono
di ogni singola parola.
Annuisco, più a me stessa che a lui, «bene, Sebastian, forse cominciamo a capirci».
Lui sorride, sollevandosi in piedi e offrendomi una mano. La fisso, e
poi sposto lo sguardo verso il suo viso, accigliata. Ho detto che non
farò nulla di quello che mi avrebbe ordinato? Perché
insiste?
Sbuffa con fare annoiato, e con un gesto veloce si abbassa fino a
prendere la mia mano destra e tirandomi verso di lui. Mi irrigidisco
non appena il mio corpo si scontra con il suo e porto la sinistra sul
suo petto, cercando di scostarmi.
O perlomeno è ciò di cui sto cercando di convincermi,
dato che il mio corpo non reagisce al richiamo mentale della mia mente
che urla incessantemente pericolo. E questo accade non appena lui si
avvicina troppo a me. Eppure so con certezza che con lui non ho nulla
da temere.
Una sua mano si poggia sul mio fianco, accarezzandolo delicatamente.
Faccio per scostarmi, stavolta con determinazione, ma è lui a
separarsi per primo.
Dentro di me qualcosa si agita, qualcosa mista a delusione.
Perché si è allontanato?
«Vieni, andiamo giù. C’è un tavolo pieno di
prelibatezze che ti aspetta» mi sussurra come una carezza
delicata sulla mia pelle.
Ma cosa mi succede? Perché questo essere sembra soggiogarmi con una semplice frase? Renesmee, non è
da te perdere il controllo così! Datti un po’ di contegno
o sembrerai una di quelle smorfiose che girano intorno a Jake in attesa
di un suo sguardo. Il mio stomaco brontola, dando ulteriore conferma e soddisfazione a Sebastian.
Un brivido percorre la mia schiena non appena lo pronuncio mentalmente. Un nome antico, proprio come quello del mio papà.
Lui mi prende per mano, ignorando il mio sguardo truce, e mi porta
giù. Perché non voglio fermarlo? Perché non mi
impunto restando sui miei passi? Perché hai davvero fame, Renesmee.
Ah! Che coscienza fastidiosa. Deve sempre ricordarmi i miei
limiti. Quando ho fame neanche l’orgoglio può far
nulla.
Scosta la sedia come un gentiluomo e mi fa cenno di sedermi. Titubante
e imbarazzata per la sua galanteria, annuisco ancora. La voce
evidentemente deve avermi abbandonata.
Comincio a mangiare proprio come fanno quegli ingordi di Jake e i suoi
amici, non curandomi se do prova dei miei modi rozzi. La fame è
troppa per comportarmi in maniera civile.
Lui resta nella parte poco illuminata della stanza, con sguardo impassibile.
«Certo che per una che dichiara di non avere fame, mangi davvero tanto» constata mentre sto per assaggiare il dolce.
«Tu già sai che mangio tanto, perché sorprenderti?» gli domando acida.
«Non sono sorpreso di questo, ma del fatto che la tua reazione
appena mi avresti trovato nel letto a pochi centimetri da te, sarebbe
dovuta essere più energica» nota con vero stupore. Forse davvero si aspetta una crisi di panico, magari anche in ritardo.
Giro e rigiro la forchetta, sentendo il mio stomaco contrarsi non appena si sposta, camminando con fare svogliato nella stanza.
«So mantenere il controllo. Mio zio Jasper mi ha insegnato che
non serve a nulla lasciarsi sopraffare dallo spavento. Diventeremmo
prede troppo facili» gli spiego, mentre lui annuisce con fare
saccente.
«Tuo zio sa il fatto suo. È stato addestrato bene, proprio come si vocifera in giro»
«Come si vocifera in giro?» ripeto senza capire. Chi
è che conosce le abilità di Jasper oltre noi della
famiglia?
«Nessuno ti ha mai accennato il passato del tuo caro
zietto?» mi chiede con voce innocente sedendosi al lato opposto.
Incrocia le mani sotto il mento, sorridendomi sbieco.
Una smorfia, la mia risposta.
Lui scuote la testa con finto rammaricato. «Ah Renesmee, quante
cose non sai della tua famiglia. Il loro passato a volte ti sfugge, non
è così?».
«E con questo? Cosa vorresti dire?» gli domando sulla difensiva allontanando il piccolo piatto.
Lui scosta la sedia, sollevandosi in piedi e con un dito spinge di
nuovo il piatto verso di me, poi si mette alle mie spalle, accarezzando
il mio orecchio con le labbra, «sei ancora ingenua, piccola, e
non sei affatto brava a mentire, né a tenere il broncio, almeno
non con me. In questo sei proprio come tua madre, piccola
Renesmee».
Sussulto, lasciando cadere la forchetta. Allora è vero, lui la conosce bene.
«Rifletti sulla parola passato in questi giorni e in quelli a venire».
Mi volto di scatto, ma lui non c’è più. «Ci rivedremo presto, Renesmee» sussurra come un alito di vento. Le candele di colpo si spengono e il buio piomba come un’ombra ad abbracciare la stanza. No! Urlo mentalmente e apro gli occhi, stupendomi di un particolare abbastanza rilevante.
È ancora notte ed io mi trovo sul letto dei miei genitori, con piccole gocce di sudore che imperlano la fronte.
Ma il mio stomaco non brontola più. Sul cuscino, un’altra piccola busta nera.
Spero che la cena sia risultata di tuo gradimento.
Angolo autrice:
Ok, premetto che il capitolo non ho idea di come sia venuto,
perciò lascio il verdetto a voi. Forse avrei potuto scriverlo
meglio, ma la sostanza è quella. Alla fine ciò che volevo
lasciar in sospeso è stato scritto, lascio a voi le
considerazioni, e dire anche se vi è piaciuto o meno.
Sfioro con i polpastrelli quella grafia elegante e delicata messa in rilievo, sorridendo leggermente.
Lui è stato qui, e non è stato affatto un sogno. Affino i
sensi e sento la presenza di Alice che si aggira per casa, portando con
sé profumo di fiori freschi.
Probabilmente li sta sistemando nei vari vasi della casa.
Poggio una mano sulla pancia, sentendomi sazia. Solo ora un particolare
mi torna in mente: tutto ciò che ho mangiato sono i miei piatti
preferiti.
Come fa a conoscere anche questo?
Ma certo! Lui conosce mia madre. Mi ha mentito quella volta, si
è preso gioco di me, così come farà in futuro. E
questo non posso permetterlo.
Stringo i pugni, la coperta si attorciglia tra le mie mani, alcune
ciocche disordinate cadono sulla mia fronte, nascondendo i miei occhi
pieni di rabbia.
E speranza.
Finalmente una traccia, finalmente una speranza. Perché so che
se lui continuasse a sostenere il contrario non gli crederei più.
Non sono solo le sue parole a convincermi che questa volta mi abbia
detto il vero, ma il fatto che io sia ingenua ai suoi occhi come mia
madre può voler dire una cosa sola: lui la conosce bene. Molto
bene.
E forse è con lui, in chissà quale stato e impossibilitata a tornare da noi.
E se fosse Sebastian a tenerla prigioniera? Se fosse stato lui a
rapirla e portarla via insieme a Seth? Conoscerà anche lui?
Sbuffo, rendendomi conto che queste domande sono inutili se lui non mi risponderà.
E saranno ancor più inutili se non si farà più sentire.
Porto una mano sulla fronte, prendendo respiri profondi. Calma Renesmee, non correre troppo.
Ha detto di conoscerla, non di tenerla prigioniera. Eppure non mi
sembra cattivo, non mi sembra un pericolo. Con me non lo è
stato, mi ha anche fatto cenare! Certo, forse obbligandomi, ma
l’ha fatto per il mio bene.
Oh! La mia testa comincia a scoppiare, non riuscirò a chiudere
occhio dopo la sua mezza rivelazione, e forse è questo il suo
piano: non farmi dormire.
Bene, è riuscito nel suo intento.
«Spero tu sia soddisfatto, Sebastian» borbotto acida
fissando truce il biglietto che testimone sembra farsi beffa di me e
della mia intelligenza.
Dei passi delicati e ritmici si avvicinano alla porta, fermandosi di
colpo. Due colpi leggeri, e la porta si apre, lasciando entrare uno
spiraglio di luce.
«Nessie, tutto bene? Ti ho sentita parlare…» mi dice confusa.
Cavolo, mi ha sentita! «Si, tutto bene. È che non riesco a
dormire, ho avuto un incubo» le spiego, ben sapendo che lei non
indagherà oltre.
Tutti ormai sono a conoscenza dei miei incubi, e non possono in alcun modo evitare che li abbia.
Nessuno di loro ha il potere di proteggermi nel mondo dei sogni.
Un mondo dove sono l’unica a dover combattere i mostri, a scacciare dolore e sofferenza con la sola forza.
No, ribadisce la mia mente, nessuno si azzarderebbe a violare quel
mondo dove gli incubi si contrappongono ai bellissimi sogni dove io
sono una bambina, e i miei genitori sono al mio fianco, uniti in
quell’abbraccio mancato che desidero da otto anni.
«Ok, allora vado» mi risponde titubante, vacillando sulla
sua decisione, finché non chiude la porta definitivamente.
Dopo qualche secondo la sento allontanarsi, e io ricado tra le lenzuola
morbide, abbracciando un cuscino ed affondandoci il viso. Un unico
pensiero affolla incessantemente i miei pensieri, prendendo il
sopravvento su altri.
Devo rimettermi in contatto con Sebastian.
Mormoro le parole del rituale e lo specchio si richiude davanti a me.
Se non fossi un essere soprannaturale, giurerei che nella stanza non ci
sia nessuno. Ma la calma che regna è sinonimo della presenza di
un cacciatore, uno dei più pericolosi e potenti qui.
«Non so se esserti grata oppure ucciderti con le mie mani. Tu che
proponi, Sebastian?» mi fa notare, piccata, una voce alle mie
spalle.
Mi volto contemplando due gambe racchiuse in un paio di pantaloni di
pelle nera e una giacca del medesimo tessuto. La giacca lascia
intravedere una canottiera bianca molto stretta.
Inarco un sopracciglio, squadrandola dalla testa ai piedi, ed emettendo
un fischio d’approvazione. «Come mai questo look da
motociclista? È successo qualcosa in mia assenza?»
I suoi occhi si socchiudono leggermente, «non ancora, ma succederà presto. Dobbiamo muoverci».
Mi appoggio alla parete vicino lo specchio, incrociando le braccia e le
gambe, «be’, solita routine, allora» le faccio
notare, mentre nella mia mente si affollano pensieri ben più
rilassanti e piacevoli.
Una stanza immersa nell’oscurità della penisola olimpica,
un letto a baldacchino con striature dorate e rosse, una chioma bronzea
sparsa a ventaglio sul cuscino, un volto delicato con le guance tinte
di rosa, una bocca socchiusa da baciare.
Sospiro, passandomi una mano tra i miei capelli corvini. Devo smetterla
con questi pensieri, altrimenti rischio di tornare indietro e mandare
al diavolo qualsiasi missione assegnata.
Un fruscio di stoffa, e il suo odore si fa più intenso. Si
avvicina, soffermando il suo sguardo sulle mie mani che stringono una
ciocca di capelli di quella piccola che dorme beata nel letto dei suoi
genitori.
«Ancora? Vuoi farla diventare calva, per caso?»
Scoppio a ridere mentre il suo volto crucciato mi osserva, «no,
mi piacciono troppo i suoi. Credo che entrambi abbiamo gli stessi
gusti, in fatto di colore dei capelli».
Uno spostamento d’aria, e un pugno si assesta ben bene nella
parete dove fino a qualche istante mi trovavo io. Scuoto il capo,
divertito.
«Sebastian, la mia pazienza ha un limite. Smettila di provocarmi,
e smettila di fare riferimento a chi non devi» bercia lei,
furiosa. Scosta la mano dal muro, e un crepa profonda compare ai miei
occhi.
Se mi avesse colpito, quella crepa sarebbe ora sul mio volto. Deglutisco a vuoto.
Questa vampira fa sempre più paura.
«D’accordo, cercherò di diminuire le mie battutine
in tua presenza, ma non sono sicuro di riuscire a resistere quando se
ne presenterà l’occasione» le concedo, consapevole
che alla prima occasione avrei punzecchiato ancora i suoi nervi.
«Cosa avete fatto stanotte?» mi domanda, sedendosi sulla
sedia dinnanzi lo specchio. Il suo corpo è disteso in una posa
che grida relax da tutti i pori.
Sorrido malizioso nella sua direzione, prima di voltarmi e dirigermi
verso la porta. «Non credo ti farà piacere saperlo».
«Sebastian!» ruggisce lei, sorpassandomi e afferrandomi per la gola.
Stringe la presa, mentre i suoi occhi si scuriscono. Anche i suoi sono
lo stesso colore dei miei, anche i suoi sono più freddi del
ghiaccio.
Sospiro, anche se con un po’ di difficoltà, dato che questa mano voglia davvero mettere fine alla mia esistenza.
«Non aveva cenato, perciò le ho fatto trovare in cucina i suoi piatti preferiti»
La fisso negli occhi con uno sguardo intenso ed eloquente. Davvero mi crede capace di altro?
Non so cosa legge nei miei occhi, ma annuisce a se stessa, senza
neanche più rivolgermi la parola. Scrollo le spalle di fronte
all’ennesimo sbalzo d’umore.
A volte non la sopporto quando si comporta così!
«È già andato con il cervello» sussurra tra
sé, mentre si avvia alla porta. Ah, prima mi offende e poi va
via?
«Cosa hai detto? Ripeti se hai il coraggio!» le intimo digrignando i denti.
Lei si volta, sorridendo, «mi spiace, non ho il coraggio,
perciò non ripeto proprio nulla» e sfreccia via, alla sua
velocità, un attimo prima che la afferrassi per un braccio.
Chiudo la porta e corro anche io per i corridoi, scendendo
l’ampia scalinata in marmo rossastro, ricoperta da un tappeto
sottile di colore rosso.
La via è deserta, questo significa che molti sono già in missione in chissà quale parte del mondo.
Comincio a rallentare in prossimità di una grande porta, con
rifiniture floreali dipinte con colori sgargianti. Un simbolo spicca
vicino la maniglia: una rosa nera con spruzzi scarlatti tra i petali,
fino ad arrivare ad uno di essi da cui sgorga una piccola cascata.
Il simbolo che ci identifica come membri di questo clan ignoto alla maggior parte degli immortali.
Mi fermo proprio davanti all’uscio, senza bussare. Sanno già chi è alla porta.
«Vieni avanti, Sebastian» pronuncia una voce maschile, quella voce.
La voce del membro più forte, più importante: il fondatore di questo clan.
Apro la porta e la richiudo alle mie spalle, constatando la presenza
della mia collega. Le lancio un’occhiataccia. Ancora non ho
dimenticato, sono passati solo pochi secondi!
Lei accenna un sorriso, ma ritorna subito seria, rivolgendo lo sguardo
sull’essere che si trova in piedi dinnanzi la finestra che scruta
le ombre della notte con indifferenza. Le mani sono intrecciate dietro
la schiena, nella classica posa da generale dell’esercito.
Visto così, incute davvero timore e una forza oscura senza pari.
«Non ha senso perdersi in chiacchiere, perciò
arriverò al punto della questione» dichiara senza mai
voltarsi.
Io e la vampira al mio fianco annuiamo, scambiandoci un’occhiata densa di significati.
Che si tratti di…
«Edward Cullen sta diventando un problema, e non uno qualsiasi».
Ecco, sarebbe dovuto arrivare il momento in cui avrebbe pronunciato
quelle parole. Serro la mascella, e mi trasformo in una statua. Per
quanto lo detesti, non posso permettere che gli capiti qualcosa.
E la vampira al mio fianco sembra pensarla come me.
«E con questo?» chiede lei guardinga. Brava, non
precipitare le cose. Basto io come soggetto impulsivo della squadra.
«Con questo voglio dire che non si deve sottovalutare,
soprattutto ora che le sue ricerche sembrano essere ad una
svolta» e finalmente si volta verso di noi, congelandoci con
quello sguardo di ghiaccio. I suoi capelli castano-dorati risplendono
sotto il chiarore lunare, la sua pelle bianca riflette il candore
pallido del satellite.
Il lungo soprabito scuro nasconde i muscoli possenti delle braccia e
delle gambe, solo le mani restano scoperte, oltre al volto. Mani con
cicatrici e tagli ovunque.
«Lo sai che…» sibila lei, simile come un serpente,
ma lui la interrompe brusco, sollevando una mano con un gesto secco e
veloce.
«Non dobbiamo ucciderlo, lo so perfettamente. Ma come ben
sappiamo…» e le lancia un’occhiata eloquente, per
poi proseguire, «è caparbio nella sua ricerca. È
riuscito perfino ad arrivare ad Alistair, senza che noi potessimo
intervenire prima».
Scrollo le spalle, indifferente, «e allora? Non ha visto nulla di importante».
Chiude gli occhi, portandosi una mano a coprirsi il volto, come se
volesse cancellare una stanchezza che non comparirà mai.
«Qualcosa ha visto» sussurra mesto, dandoci le spalle e poggiando la fronte sul vetro della finestra.
Ci scambiano un’altra occhiata e decido di prendere la parola, «cosa ha visto?».
Un sospiro, la sua risposta. In un secondo il vetro si appanna a causa del suo respiro gelido.
Dietro di noi, uno spostamento d’aria. Ci voltiamo mettendoci in
posizione di difesa, e una nuvola di fumo ci colpisce in pieno.
Alexander.
«Rispondo io, se permette il grande capo», spostando i suoi
occhi chiari sulla figura appoggiata alla finestra che da sul grande
cortile, «ha visto le rovine. Le rovine di quel castello».
Spalanco gli occhi, sorpreso e preoccupato. Sposto i miei occhi verso lei, che resta immobile, rigida, la mascella serrata.
«Quelle rovine?» balbetto senza distogliere lo sguardo dalla sua figura.
Alexander si alza dalla poltrona in pelle, avvicinandosi a noi. Si
posiziona davanti a lei, senza mai guardarmi negli occhi, ma risponde
comunque, ironico.
«Non sapevo che avessi perduto anche l’udito, Sebastian.
Si, non ci sono altre rovine che potrebbero condurlo a noi».
«Cosa facciamo, allora?» domando, voltandomi di poco verso
la figura alla finestra, che non accenna a parlare, né a
muoversi.
«Semplice: gli andremo incontro. Dobbiamo impedirgli di
proseguire oltre nelle ricerche» mi risponde, invece, Alexander,
puntando per la prima volta gli occhi su di me.
Sorrido scuotendo la testa. La fa facile lui, non gli importa di
mostrarsi in pubblico. Al contrario di noi che per ovvie ragioni
dobbiamo restare nascosti nell’ombra e agire con un mantello
addosso.
Ma anche lui ha qualcosa da nascondere: gli occhi blu elettrici.
Qualcosa di così strano e misterioso che deve rimanere tale, affinché persista il nostro anonimato.
«Ah sì? E come pensi di fare?» gli domando, incrociando le braccia al petto.
Lui sorride con ironia, ma il suo viso rimane fisso in quello di lei.
«Nigel si è offerto di accompagnarci, sempre se sei d’accordo, Sebastian».
Anche del sarcasmo? Ruggisco infastidito di fronte alla sua voglia di
prendermi sempre in giro. Questo perché sembra il preferito del
grande “capo”, colui che viene nominato rare volte ad alta
voce e nella mente, per paura che qualcuno possa risalire alla sua
identità. «Mettiamo
in chiaro una cosa, caro Alexander. A me non importa nulla di come
desideri mettere a tacere quel vampiro, mi è del tutto
indifferente il tuo modo di risolvere il problema. Portati chiunque ti
aggradi, non è a me che spetta approvare i tuoi metodi, lo
sai» gli dico, spostando lo sguardo sulla vampira al mio fianco,
restando in attesa di una sua mossa.
È lei che deve prendere questa decisione, non io. Ma quello che
non può scegliere è di restare indifferente al fatto che
lui deve smettere, mettere un freno alle sue ricerche, altrimenti
potrebbe scoprire cosa sia davvero una guerra, quella che lui non ha
mai combattuto.
Si schiarisce la voce, sussurrando «approvo la tua scelta,
Alexander, ma voglio esserci anche io. Nigel non deve fallire o
sbagliare qualcosa, altrimenti provvederò personalmente a
sistemare te e lui».
Alexander sorride, compiaciuto e soddisfatto del suo risultato,
«non temere. Hai la mia parola. Tutto andrà secondo i miei
piani, Bella».
Una folata di vento ci arriva alle spalle, cogliendoci di sorpresa. La
finestra, dapprima chiusa, ora è spalancata, la figura che vi
era accanto ora si trova fuori, che sorseggia un calice contenente un
liquido rosso scuro, denso ed inebriante.
Sangue.
«Potete andare» ci ordina.
Ci inchiniamo, per poi scomparire tutti e tre alla nostra velocità da quella stanza.
Angolo autrice: Buonasera, eccomi tornata.
Come avevo già anticipato, gli aggiornamenti non sarebbero stati
regolarissimi, sia per il periodo d’esami, sia perché
stiamo entrando ormai nel vivo della storia, e mi occorre più
tempo per strutturare i capitoli successivi. Questo, per esempio,
è stato scritto in più giornate, quindi più fasi.
Spero che vi sia piaciuto anche questo.
Mi
allontano a passo svelto da quella stanza, cercando di reprimere gli
istinti omicidi che si sviluppano nel mio corpo ogni volta che incontro
quel viso da angioletto di Alexander.
Lui è tutto, fuorché un angelo.
Dietro di me, Bella mi segue senza dire una parola. Non voglio neanche
voltarmi per capire che sensazioni si stanno scatenando dentro il suo
corpo di pietra.
Ma so perfettamente che ogni parola sarebbe superflua. Qualsiasi cosa
sarebbe accaduto di lì a poco, avrebbe cambiato tutto, me lo
sento.
Arrivo davanti la porta della mia stanza, congedando Bella con un gesto
della mano e subito dopo la vedo sparire dietro l’angolo.
Sospiro, continuando ad osservare proprio in quella direzione.
Vorrei aiutarla, vorrei esserle di conforto. Significa molto per me, non è solo un membro della mia squadra.
Mi ha aiutato molto, mi è stata vicina nonostante la lontananza
dalla sua famiglia le costasse un dolore immenso, ed io la ripago con
il silenzio.
«Il silenzio, a volte, è la medicina migliore, credimi».
Sussulto a quella voce, voltandomi di scatto. Non mi sono neanche accorto della sua presenza alle mie spalle.
Alexander scruta fuori da una finestra, con fare disinvolto, ma il suo
corpo sembra non obbedire alla sua mente. I pugni sono ben serrati
sotto le braccia, lasciandone intravedere una piccola parte.
Sorrido, ma non per divertimento.
«Tu sei un maestro del silenzio, non è vero? Allora
perché hai proposto una soluzione del genere?» gli domando
piccato, incrociando a mia volta le braccia al petto.
Lui non si volta nemmeno per guardarmi, ma un muscolo guizza sulla sua mascella.
«Non ci sono altre soluzioni, e come ho già detto, è quella più veloce e indolore».
Allora non sei così indifferente, eh, Alexander?
«Per chi, Alexander? Per te?»
Mi lancia un’occhiata di fuoco, sibilando lentamente, «Per
tutti, soprattutto per lei. L’alternativa era quella di
ucciderlo» e sorride, per poi voltarsi e incamminarsi verso le
scale, «avrei preferito quest’ultima opzione, ma William si
è mostrato riluttante all’idea. Che peccato, non
trovi?» e senza aspettare una risposta, si allontana, in
direzione dell’ingresso principale.
La mia espressione furiosa non lascia spazio ad alcun dubbio.
Alexander è davvero privo di sentimenti, figuriamoci quando non lo riguardano di persona.
***
Finalmente una traccia, finalmente ho qualcosa di concreto a cui aggrapparmi per non impazzire ancor di più.
Non avrei mai pensato che le rovine di questo castello avrebbero
racchiuso il segreto per poter arrivare a lei, la donna della mia vita.
In mezzo ai boschi della Transilvania si ergono queste mura, usurate dal tempo.
Dalle ricerche che ho fatto è emerso che si trattava di un
castello appartenuto ad una famiglia misteriosa, su cui aleggiavano le
famose storie sui vampiri.
Nessuno sa, però, che questi vampiri esistono davvero, da tempo
immemore in queste terre. La Transilvania è un territorio che si
trova in Romania, proprio dove vivono due dei più potenti della
nostra specie.
Vladimir e Stefan.
Ho provato a rintracciarli, nel caso fossero a conoscenza di chi
risiedesse tempo fa qui, ma non sono riuscito a trovarli, e questo mi
ha insospettito parecchio.
Come fanno due vampiri come loro a non essere a conoscenza della mia presenza nel loro territorio?
L’unica spiegazione plausibile è che loro sanno che io girovago per la regione, ma non fanno nulla per fermarmi.
Anzi, sono loro a fuggire da me.
Ho tentato di risalire nuovamente ad Alistair, ma è risultato
tutto inutile: è sparito, e con lui le informazioni che cerco da
un bel po’.
Ancora mi domando come sia riuscito a scaraventarmi con tutta quella forza.
È vero, ero in una sorta di trans, ma la sua forza era superiore
a quella di qualsiasi altro vampiro, persino superiore a quella di
Emmett.
Ma tutto passa in secondo piano, perché ciò che non
potrò mai dimenticare è quello scudo che è sceso a
proteggere la mente del misantropo.
Stringo i pugni. Lei era lì, ne sono sicuro, lei era lì a nascondermi il luogo in cui è stata rinchiusa.
No, non voglio credere che lei se ne sia andata di sua iniziativa. No, la mia Bella non l’avrebbe mai fatto.
E se invece l’avesse fatto? Se mi avesse lasciato per volere suo?
Che senso avrebbe proteggere i pensieri di Alistair se lei non fosse
d’accordo?
No, no!
Lei non può averlo fatto, forse costretta sì, ma di sua spontanea volontà proprio no.
Accidenti, perché, perché proprio a noi?
Mi inginocchio a terra, sprofondando nel terriccio, tastandolo con le
mani, come se servisse ad alleviare il dolore per la distanza che mi
separa da lei.
«Perché mi hai lasciato, Bella?» bisbiglio al nulla,
mentre le mie parole riecheggiano, infilzandosi nel mio cuore morto
come lame acuminate.
All’improvviso, una folata di vento sferza le mie narici, trasportando un odore acre.
Arriccio il naso, disgustato, mentre una voce sussurra flebilmente «seguimi».
Mi alzo in piedi, lasciandomi condurre da quell’odore strano,
disgustoso, ma che sembra appartenere a qualcuno… o qualcosa.
Appoggio una mano sulla parete adiacente, svoltando l’angolo. Mi
blocco non appena scorgo un mosaico tra le rovine più nascoste,
in direzione nord.
Spalanco gli occhi, incurante del calare delle tenebre improvviso. Tra
i boschi l’ululare dei lupi si espande, fino a raggiungere le mie
orecchie.
Le fronde degli alberi si scuotono a causa di questo vento insolito.
Grandi nubi nere e grigie si addensano fra di loro, nascondendo il
manto scuro macchiato da puntini dorati.
Sfioro con delicatezza quella scena raffigurata, costatando che si
tratta forse della famiglia che ha abitato il castello. Sono nel bel
mezzo di una cena, con i calici d’argento fra le mani.
Stanno brindando, mentre una donna tiene tra le braccia un bambino al centro della sala.
I volti sono indistinti, sbiaditi e informi, solo un simbolo sembra non essere stato toccato e distrutto dal tempo.
Una rosa nera, screziata di rosso, appare sul mantello dell’uomo
seduto sul trono, che osserva la scena insieme agli altri invitati.
Vi sono anche delle figure familiari al fianco di quest’ultimo, ma non riesco a riconoscerli.
Sbuffo frustrato, passando inutilmente una mano sul mosaico.
«Se solo potessi…» inizio a dire, prima che una voce
m’interrompe, proseguendo «capire chi vi è nel
mosaico».
Mi volto di scatto, arricciando le labbra e lasciando intravedere i
miei canini affilati come rasoi. Scruto il bosco, in cerca della sua
figura, ma i miei occhi non scorgono proprio nulla.
Una risata beffarda, che si espande nel silenzio spettrale. Persino gli animali tacciono impauriti.
«Cosa ti turba, giovane Cullen?»
«La tua presenza!» ruggisco, acquattandomi al suolo, mettendomi in posizione d’attacco.
Non riesco a vederlo, perciò dovrò aspettare che venga fuori allo scoperto.
Anche i suoi pensieri sono celati, proprio come quelli di Alistair.
Allora Bella è qui? È qui e non viene ad abbracciarmi, a farsi stringere da me?
I miei occhi saettano su più punti, di albero in albero, ramo in
ramo, mentre una strana foschia si propaga nel sottobosco,
avvicinandosi sempre di più.
Strano per un vampiro, ma comincio a sentire un formicolio alla schiena. Paura?
Non ho il tempo di capire di cosa si tratta, perché un movimento veloce alla mia destra mi mette in allarme.
Alla luce fioca della luna, un ragazzo, della mia età suppongo,
sta seduto con le gambe incrociate su una roccia, osservandomi con un
ghigno diabolico. I suoi capelli sono corvini, lunghi sino alle spalle.
Alcuni ciuffi ricadono sulla sua fronte, sulla quale spicca uno strano
simbolo nero, una specie di tribale.
I suoi vestiti sono anonimi, anche se posso intravedere tracce di fango
in alcuni punti. I suoi occhi sono neri, tenebrosi come la notte che ci
avvolge con la sua oscurità.
«Ed io che volevo rendermi utile» mi dice, scuotendo con
finto rammarico il capo, per poi continuare «è così
che mi ripaghi, piccolo Cullen?»
Sorrido sprezzante, «piccolo? Cullen? Se ti dessi il certificato di nascita, capiresti che definire mepiccolorisulterebbe falso, e poi non capisco come fai a sapere chi sono».
Sorride con sguardo furbo, schioccando la lingua «tutti conoscono
il piccolo Cullen» faccio per replicare, ma lui è
più veloce di me «rispetto a me, tu sei solo un moccioso,
che crede di aver capito tutto della vita, o meglio
eternità».
Moccioso io? Non ho capito niente della vita?
Scrollo le spalle, ridendo con isteria, «ma di che diavolo stai parlando? Io cerco mia moglie»
Lui smette di sorridere, fissandomi intensamente. In un attimo,
scompare dalla mia vista, e l’odore acre torna prepotente ad
infiammare l’aria che mi circonda.
Un alito caldo, nauseante, sfiora il lobo del mio orecchio «lo
sanno tutti chi cerchi, Edward, devi proprio star loro sulle scatole,
visto che stanno arrivando qui con uno scopo ben preciso…»
Cerco di afferrarlo per un braccio, ma schizza via lontano da me, per ritornare sulla roccia.
«Che intendi dire? Chi sta arrivando?» gli chiedo sulla difensiva.
Storce il naso, annusando l’aria. Sfila le mani dalle tasche e curva le dita, fino a farle sembrare degli artigli.
Solo ora mi rendo conto di un piccolo particolare: questo essere qui non è vampiro, né umano.
Cos’è questo ragazzo che ringhia feroce come un animale selvatico?
Che sia… no, sono estinti, e anche se fosse, i rumeni lo avrebbero già ucciso.
«Troppo tardi per le spiegazioni, piccolo Cullen. Il tempo è scaduto» sibila come un serpente.
Dalle sue dita vedo spuntare degli grandi artigli neri, affilati,
mentre i denti si allungano, fino a diventare simili a coltelli.
Indietreggio fino a sbattere contro un masso, cadendo all’indietro.
Sorrido tra me e me: in che cosa mi sono ridotto? Persino i miei sensi di vampiro sembrano essere scomparsi.
«Buonasera a voi, signori. Come ve la passate?» saluta
cordialmente lui, lanciando uno sguardo alle sue spalle, come se si
sentisse circondato.
E i suoi timori sono più che fondati.
Dietro di lui, dal fitto dei cespugli, una figura incappucciata avanza senza mostrare segni di indecisione, né timore.
Anche davanti all’essere compare qualcuno: altre tre figure incappucciate.
Solo i loro occhi sono liberi di mostrarsi a me, un colore blu elettrico che mi destabilizza.
Senza una ragione precisa, sussurro un nome, fonte dei miei tormenti da otto anni, «Bella»
Una delle tre figure sussulta, distogliendo lo sguardo dalla mia figura.
No, non ci credo! È lei! Perché sussultare a quel modo, se non fosse lei?
Sfreccio veloce nella sua direzione, ma vengo imprigionato da due
braccia robuste, simili a catene d’acciaio, molto più
forti di un vampiro normale.
«Bella! Lo so che sei tu! Lo sento. Come puoi restare
indifferente a me? Guardami, ti scongiuro. Sono io, Edward. Non
riconosci neanche tuo marito?» urlo disperato e furioso allo
stesso tempo.
Mi dimeno come una furia tra quelle braccia, ma niente, non riesco a sfuggire a quell’essere che mi tiene imprigionato.
Perché? Perché si rifiuta di parlarmi, di tornare da me?
So che è lei, anche coperta da quello stupido mantello, anche
con quegli occhi così diversi dall’oro che ho imparato a
distinguere da quelli della mia famiglia.
Perché riconoscerei i suoi occhi ovunque, perché sono lo
specchio della disperazione che infesta come un morbo i miei.
Possono restare impassibili agli altri, non a me. Non all’uomo che ha giurato di amare per tutta l’eternità.
Riesco con uno sforzo immane a liberare un braccio, ma la mia vita viene avvolta da una stretta ben più salda.
Infilo la mano all’interno della camicia, estraendo da essa una
collana, a cui vi è attaccato un oggetto che esprime qualcosa di
più che un semplice legame.
È la sua promessa, la mia, la promessa di un insieme.
Un anello tempestato di diamanti brilla alla luce fioca della luna,
attirando l’attenzione di tutti i presenti, compresa la sua.
«Non ricordi più l’impegno che hai preso? Non
ricordi più la promessa che entrambi abbiamo giurato l’uno
all’altro?» le chiedo con voce dura.
Lei abbassa lo sguardo, cercando di guardare tutto tranne me.Non mi arrendo, Bella, non ora che ti ho a pochi passi da me.
«Ti amo, Bella, ti amo ancora. Se speravi che mi sarei dato per
vinto, vuol dire che non conosci la mia ostinazione fino in fondo. Ti
amo, è il motivo per il quale sono qui» non
m’importa se gli altri sentano, non m’importa se risulto
ridicolo o un vampiro idiota.
Sono un uomo in questo momento, un uomo che ha davanti l’unica
donna che ha mai amato, che ha perduto. E la rivuole con sé.
Angolo autrice:
Vorrei ringraziare l'autrice Red_Rose per aver creato il video per questa storia che troverete QUI.
Il video è bellissimo, perciò lo consiglio vivamente se
siete ancor più curiosi. Si tratta di una specie di trailer,
atto a fornirvi un assaggio della storia, e spero che vi
emozionerà come ha emozionato me guardarlo.
«Lasciatelo dire, piccolo Cullen: sei patetico» sghignazza quel ragazzo dietro di me.
Ma non me ne curo, voglio che la donna che amo tolga quel cappuccio,
che mi mostri il viso che io amerò per tutta
l’eternità.
La vedo stringere i pugni, mentre la presa su di me aumenta, fin quasi a stritolarmi.
«Bella, togli quello stupido mantello e guardami, smettila di nasconderti» la incito duro e inflessibile.
Lei scuote il capo freneticamente e io ruggisco frustrato, dimenandomi
sempre più. Perché fa così? Si diverte a vedermi
soffrire? Non vede la sofferenza acuta nei miei occhi?
«È inutile che ti agiti tanto. Non riuscirai a muoverti di
qui» sibila al mio orecchio colui che mi tiene prigioniero.
Lo fulmino con lo sguardo, «se ti sei stancato di me, allora
lasciami andare. Non svelerò nulla dei vostri segreti, voglio
solo mia moglie indietro».
Lui scoppia a ridere, come gli altri due incappucciati, «tu
conosci i nostri segreti? Non dire sciocchezze, Cullen, non ti abbiamo
svelato proprio nulla».
«Allora perché siete venuti qui per me?» lo sfido.
I suoi occhi blu cobalto sembrano indurirsi, accecati dalla rabbia, ma non è lui a rispondermi.
L’essere incappucciato che resta in disparte, vicino al ragazzo
dai capelli corvini, decide di mostrarsi in viso. Getta via il
mantello, e un ragazzo dai capelli castani e occhi chiari compare alla
mia vista.
Sorride, aggiustandosi il colletto della giacca di pelle.
«Chi ti dice che siamo venuti per te?»
Indico con un cenno del capo l’altro ragazzo, il quale sbuffa annoiato.
«Andiamo Alexander, prima o poi avrebbe saputo. Ho solo accelerato i tempi. Non serve a nulla nascondersi»
Ma il tizio chiamato Alexander non sembra apprezzare quest’ultima
uscita. Si lancia a grande velocità su di lui, atterrandolo.
Con una mano gli stringe la gola, con l’altra gli tiene prigionieri i polsi sopra la testa.
Avvicina la testa al collo di lui, sussurrando e strofinando i canini
appuntiti, «potrei farti fuori in questo momento, e non sai da
quanto ho atteso di adempiere ad un compito che risale a secoli
fa».
L’altro lo fissa impassibile, prima di venire scosso da tremori
ben visibili. Gli artigli delle mani si curvano, simili ad uncini.
Alexander sgrana gli occhi, aumentando la presa sul collo, quasi a
spezzarglielo sotto la mole di tutta quella forza. Si volta verso di
noi, per poi guardare la luna.
Il cielo si ottenebra di molto, la nebbia s’infittisce, e un bagliore rossastro illumina l’intero bosco.
«Dovrai aspettare altri secoli, allora, Alexander, a meno che tu
non voglia trasformarti in uno di noi» pronuncia il ragazzo con
voce gutturale, roca, con ruggiti cupi in sottofondo.
I vestiti si strappano, mentre il suo corpo si ricopre di peli. La sua
massa muscolare aumenta, e con una forza smisurata scaraventa Alexander
lontano. I suoi occhi s’incendiano, sono come un fuoco che
divampa da dentro il corpo.
«Dannazione!» impreca Bella. Ritorno a guardarla e vedo che
quel fastidioso mantello non c’è più.
I capelli sono più lunghi di quanto ricordassi, leggermente
mossi. Indossa uno strano vestito nero, con striature blu e viola, gli
stivali sono alti, di pelle. Una parte delle gambe è scoperta.
È mai stata così bella?
L’unica cosa che mi turba non poco sono i suoi occhi, il colore delle iridi: blu cobalto, elettrico, magnetico.
E che ora mi fissano ansiosi.
«Bella…» un gemito, il mio.
Vorrei poterla accarezzare, stringerla a me, sentirla ancora contro la mia pelle.
Neanche i ringhi di quell’essere dietro di noi m’importano.
Solo Bella conta in questo istante, solo il fatto che adesso lei
è qui, vicino a me, ma allo stesso tempo lontana.
«Scappa Edward, scappa lontano, ritorna da Nessie, e non cercarmi mai più» mi dice.
No, no! Non può chiedermi questo, non può.
«Non andrò da nessuna parte senza di te!» ringhio.
«Devi, invece!» urla, mentre la presa su di me svanisce.
Lancio uno sguardo alle mie spalle, constatando che i due incappucciati
stanno combattendo contro quella bestia metà uomo, metà
animale.
«Devi, Edward, è pericoloso per te» sussurra al mio
orecchio. Prima che si allontani la afferro per la vita, affondando il
viso nel suo collo.
Gemo, il suo odore non è più quello di un tempo, è cambiato, ma è sempre la mia Bella.
Lei mi accarezza i capelli con una mano, l’altra scorre dal basso
verso l’alto la mia schiena, coperta dal soffice tessuto della
camicia.
«È ancor più pericoloso stare lontano da te».
La sento sorridere, mordicchiando scherzosamente il lobo del mio orecchio.
«Quanto mi sei mancato, amore mio» mi dice.
Stringo la presa, cercando di prolungare quel momento che sa di ritorno, lei, la mia casa.
«Non ci separeremo più. Non ti permetterò di lasciarmi di nuovo» ribatto deciso.
Si scosta di poco dal mio abbraccio per potermi guardare negli occhi e
sussurrare «amami, Edward, ti chiedo di amarmi con un ultimo
bacio».
Le nostre labbra si dischiudono, mescolando i nostri respiri.
Faccio per ribattere, ma le sue labbra delicate me lo impediscono. Si
muovono disperate sulle mie, ricche di quella passione che giaceva
morta nei nostri cuori distanti.
Le sue mani si chiudono sul mio viso, costringendolo a non
allontanarsi, a non reprimere questo gesto d’amore ritrovato. Le
mie, invece, esplorano tutto il suo corpo, voluttuose.
È lei, Bella, la donna che mi ha riportato alla vita, ancora una volta.
Non so per quanto restiamo così, abbracciati l’uno all’altra, ma qualcosa di sinistro la blocca.
Si scosta da me con forza, come se fosse ancora una vampira neonata.
«Bella, ti prego…» e le porgo la mano, in attesa.
«Alexander, no!» urla, voltandosi verso di lui. Lo faccio anche io, non capendo.
Ai piedi di una grande quercia, il corpo inerme di Alexander viene
scosso da tremori simili a quelli dell’altro, ma c’è
qualcosa di diverso: i suoi occhi sono completamente spalancati, vuoti
che fissano la luna.
È una notte di luna piena, e il corpo di quel ragazzo si ricopre di peli argentei.
Si avverte lo strappo dei muscoli, della pelle, del cambiamento
radicale che sta avvenendo in lui. Denti aguzzi e ancor più
lunghi dell’altra bestia spuntano dalla sua bocca, il muso lungo
e arricciato in un’espressione feroce. Orecchie tese e una coda
che falcia il terreno, dispettosa.
Ed ecco che per la prima volta scorgo l’acerrimo nemico dei vampiri.
Un licantropo.
«E bravo Alexander, quando si mette d’impegno riesce anche lui» commenta ironico uno dei due incappucciati.
Il licantropo ringhia nella sua direzione, scattando con velocità verso l’altra bestia, squarciandogli il petto.
Bella tenta di avvicinarsi, ma riesco ad afferrarla per un braccio, stringendola nuovamente a me.
«Che fai? Sei impazzita? È pericoloso, non puoi avvicinarti a quell’essere!»
Lei non si muove, rimane rigida tra le mie braccia, mentre gli altri due ci osservano silenziosi.
«Lasciami, Edward, devo andare da lui» pronuncia con voce
incolore, mentre con un cenno della mano richiama l’attenzione
dei due.
«Cosa…» mi afferrano da dietro, tenendomi per le braccia, mentre Bella si avvicina a quelle bestie.
«No, Bella! Non farlo!» le grido, ma lei non mi ascolta. Mi
volto verso i due che mi tengono prigioniero, «voi state fermi
qui per tenermi lontano da lei, quando è lei ad essere in
pericolo. Vi sembra un comportamento sensato?» domando loro,
sprezzante.
Si lanciano una breve occhiata e scoppiano a ridere, beffandosi delle
mie parole. Do l’ennesimo strattone, ma sembrano di lottare
contro un vampiro neonato.
È impossibile che io riesca a liberarmi. Fisso di nuovo Bella,
notando un particolare nuovo: alla luce lunare, i capelli di lei
sembrano assumere bagliori argentei, lucenti.
«Ma cosa…?» balbetto.
«Sarà il caso di procedere, non credi?» bisbiglia uno dei due, aumentando la presa.
«No, forse è meglio aspettare e vedere come si mette.
Bella deve prima far tornare Alexander in sé» sussurra
l’altro.
La lotta tra quei due animali prosegue, mentre sprazzi di sangue
imbrattano l’erba scura. I fendenti di entrambi sono così
forti che alcuni brandelli di carne finiscono a terra.
Se fossi stato un essere umano, ma sarei disgustato, ma essendo un vampiro, ciò risulta meno nauseante da osservare.
Bella s’inginocchia non appena il lupo atterra l’altro, scostando i capelli e mostrando la gola pallida.
«No, Bella!» esclamo. Cosa vuole fare? Lasciarsi uccidere per salvare in qualche modo lui?
No, a costo di vederlo rimanere lupo, lei non sarebbe stata morsa. Mi
accascio inerme, privo di forze tra le loro braccia. Loro, stupiti,
allentano la presa, ed è in quel momento che sfuggo loro,
strappando la camicia.
Corro nella sua direzione, grato di essere così veloce, ma non appena arrivo a pochi centimetri da lei, vengo atterrato.
«Bravo, Cullen, quando ti sforzi di ragionare, riesci anche a
cogliere di sorpresa gli altri. Usa questa tua stupefacente
intelligenza per tornare da chi attende il tuo ritorno da anni…
tua figlia!» uno dei due mi volta, e finalmente riesco a vederlo
in volto.
È un ragazzo, forse di qualche anno più grande di me, i
suo capelli sono lunghi fin sopra il mento, neri, gli occhi sono blu
come quelli di Bella. Un ghigno obliquo si disegna sul suo volto.
«Non ti azzardare a nominare mia figlia!» gli ringhio,
afferrandolo per la gola, ma lui sembra non curarsene, guardando con
indifferenza il mio braccio.
«Perché non dovrei nominarla? In fondo sei stato tu ad
allontanarti da lei, non io. È colpa tua se soffre. Ma purtroppo
non può farci nulla: suo padre è davvero un bambino
capriccioso. Come fai a ritenerti ancora padre quando non sai
più che aspetto abbia?» mi domanda con freddezza.
Distolgo lo sguardo, sentendo i miei occhi pizzicare. È vero, io
non sono stato mai un padre modello, sono il peggior padre del mondo, e
neanche l’eternità mi basterà per ottenere il
perdono di mia figlia.
«Questi non sono affari tuoi…» mormoro.
«Non lo sono?» mi chiede sprezzante. Afferra il mio polso,
allontanandolo da sé, e mi solleva in piedi. Mi volta verso
Bella, che fissa con determinazione quel lupo che si sta avvicinando.
Allungo il braccio libero nella sua direzione, ma viene bloccato anche quello.
«Allora ti farò soffrire, perché è questo che meriti, stupido vampiro innamorato»
«Perdonami» sussurra Bella, prima che il lupo affondi i denti nella sua carne.
«Bella!» urlo, ma non succede nulla, se non il fatto che io resto a guardare la scena impotente.
Da lontano avverto un mormorio, una cantilena, insieme ad un odore di
incenso. La vista si annebbia e quello che riesco a scorgere sono
figure indistinte, esseri che raccolgono il corpo di quell’altra
bestia.
La voce di Bella mi arriva alle orecchie, ovattata, «ritorna,
Edward, ritorna da nostra figlia. Forse un giorno tornerò, ma
non è ancora il momento» e mi bacia sulle labbra con
delicatezza.
Poi il buio mi avvolge, e tutto quello che è successo in questa radura svanisce.
Angolo autrice:
Se le
scene d'azione ritenete siano state scritte male, ditemelo,
cercherò di cambiare qualcosa. Ricordo come sempre il video,
metterò il link ad ogni capitolo, per non doverlo sempre cercare.
Il corpo inerme del giovane Cullen è riverso in terra, con una smorfia di sofferenza a sfigurare il volto fiero e deciso.
Il licantropo poco a poco perde le sue sembianze animalesche, i lunghi
peli argentei scompaiono per lasciare posto al corpo di un ragazzo
giovane, ricoperto di schizzi di sangue e ferite che si rimarginano
velocemente.
Dopo essere tornato in sé, questo lecca la ferita della vampira,
richiudendola. La fissa negli occhi, distogliendo lo sguardo subito
dopo.
«Grazie».
Lei sorride in risposta, senza aggiungere nulla. Nei suoi occhi
c’è affetto verso quel ragazzo dai vestiti strappati,
quasi nudo. Nigel si avvicina, poggiando sulle sue spalle il mantello.
Alexander lo afferra, alzandosi in piedi e coprendo le sue
nudità.
La vampira rilascia un sospiro,prima di voltarsi verso colui che un tempo è stato suo marito.
Si avvicina lentamente, senza fretta, cercando di prolungare quel momento.
«Nigel, ci sei riuscito?» domanda Sebastian, senza allontanarsi dal corpo del vampiro che tanto odia.
«Certo, sono riuscito ad accedere ai suoi ricordi e ho rimosso
quelli che riguardano noi. Nient’altro è stato minimamente
toccato» risponde celere, raccogliendo e distruggendo tutte le
tracce lasciate dalla lotta tra le due bestie.
Storce il naso, osservando nella direzione in cui gli altriZversono
spariti, portandosi via il corpo martoriato del compagno. Non vi
è alcun dubbio sul fatto che Taylor sarebbe ritornato in forma
perfetta. Molti lo hanno sfidato senza riuscire a metterlo in
difficoltà, ma stavolta ha incontrato pane per i suoi denti.
Alexander è uno dei migliori, e neanche lui è mai
riuscito a ridursi il quel modo. Nigel lo sa, è il suo miglior
amico da molti secoli addietro ormai.
«Taylor ritornerà per vendicarsi, Alexander, e non credo
che sarà più facile la prossima volta. Più viene
ferito, più aumenta la sua rabbia» proferisce, fermandosi
a scrutare tra i rami oscuri degli alberi, che si agitano portando gli
ululati del vento.
Tutto tace,persino gli animali del bosco.
«Che venga, io lo aspetto. Non vedo l’ora di scontrarmi di
nuovo con lui per poterlo distruggere una volta per tutte» bercia
furioso come non mai. È raro che lui perda la pazienza, raro
vedere quel volto imperturbabile scalfito da emozioni così forti
e demoniache.
«Sarà meglio andare, non voglio restare qui sapendo che
loro sono così numerosi e vicini. Potrebbero anche tornare
indietro e decidere di combattere contro di noi. Per quanto siamo molto
esperti, siamo inferiori di numero. Preferisco non rischiare
così stupidamente» dichiara con fare risoluto Sebastian,
chinandosi ad osservare il corpo di Edward Cullen.
Bella si china a sua volta, lasciando una carezza sulla gota bianca del consorte.
«Dobbiamo riportarlo a Forks, non può venire con noi e non
possiamo lasciarlo qui da solo» dichiara lei, mentre i tre
annuiscono solamente, senza emettere alcun suono.
In lontananza, un grande animale si avvicina al luogo in cui si trovano
i quattro, correndo ad alta velocità. Le zampe si alternano con
rapidità, divora metri senza fatica, sbucando dai cespugli in
tutto il suo splendore.
Un enorme lupo color sabbia trotterella fino ad annusare il corpo del
vampiro Cullen. Si trasforma dopo essersi allontanato un po’, e
un ragazzo che dimostra circa venticinque anni incrocia le braccia al
petto, sorridendo tristemente a Bella.
«Lo porterò io a casa, stai tranquilla. William mi ha
affidato questo compito» le confida, con la sua voce bassa, roca
da uomo maturo. I muscoli delle spalle guizzano, mostrando quanto sia
teso il mutaforma.
«Grazie, Seth, so che dovrai fare attenzione per evitare che ti sentano i tuoi vecchi compagni»
Schiocca la lingua, divertito, «tranquilla, appena
raggiungerò una certa soglia, mi trasformerò in forma
umana, così da non far trapelare i miei pensieri a Jake o mia
sorella» conclude la sua arringa sorridendo trionfante per il
piano appena ideato.
Prende Edward e se lo carica sulle spalle, per poi iniziare a correre lontano.
«Dobbiamo fare rapporto. Andiamo» i quattro
s’incamminano nella direzione opposta al mutaforma, divenendo
delle macchie indistinte nell’oscurità della notte.
Due vampiri osservano il campo di battaglia con espressione neutra, da
uno dei rami più alti dei cipressi lì vicino.
Si guardano negli occhi simili a rubini, annuendo solamente. Un attimo dopo, questi scompaiono.
Solo le rovine di quel castello dimenticato da molti resterà
testimone di quel giorno, a raccontare una storia che risale a molte
centinaia di secoli prima.
Ancor prima dell’avvento dei Volturi e dei rumeni Vladimir e Stefan.
***
Un
tocco delicato mi sfiora la spalla, facendomi sbuffare vistosamente.
Immergo il viso nel cuscino, ignorando quella risatina soffocata che mi
giunge alle orecchie.
Sembra così soffice, così leggero, come una piuma.
Poi un fruscio di coperte e quel tocco arriva a solleticarmi le narici.
Sorrido: sì, si tratta di una piuma. La scaccio malamente,
finendo per far precipitare colui o colei che teneva quella dolce
tortura tra le mani.
Mi metto a pancia in su, avvertendo il materasso abbassarsi da entrambi
i lati, vicino ai miei fianchi. Un respiro caldo soffia sulle mie
labbra, per poi deviare verso il lobo del mio orecchio.
«Sveglia, dormigliona» sussurra una voce familiare.
Inspiro a pieni polmoni l’aria circostante, rendendomi conto che si tratta proprio del mio Jake.
Il suo odore forte, intenso, simile a quello della natura che ci circonda mi avvolge, facendomi dimenticare tutto il resto.
Poggio una mano sul suo viso, accarezzandolo. Muovo ritmicamente il pollice su e giù, sempre ad occhi chiusi.
«Sei arrabbiato con me» mormoro con voce roca. La mia è una constatazione, non una domanda.
Lo sento irrigidirsi, per poi emettere un sospiro, «perdonami».
«Perché?» gli chiedo, aprendo gli occhi di scatto e immergendoli nei suoi, neri come la pece.
Lui distoglie lo sguardo dal mio, puntandolo in un punto imprecisato
alla mia destra, «non volevo, però…»
«Però, cosa?!» sbotto, scostando il cuscino. Non
può sempre fuggire, non lo permetterò anche stavolta.
Lui poggia la sua fronte sulla mia, respirando faticosamente.
«Ricordi che giorno è oggi?»
«No» dico con sincerità. Non ric… oh! Certo che lo ricordo.
La mia espressione deve essere eloquente anche per lui, che annuisce vigorosamente.
«Sarà meglio rinviare la discussione ad un momento
migliore. Siamo già in ritardo. Non vorrai complicare
ulteriormente le cose, spero».
«No, hai ragione, continuiamo più tardi» gli dico,
scostando le coperte e dirigendomi in bagno. Chiudo la porta, poggiando
la mia schiena su di essa.
Oggi andrò da nonno Charlie, come faccio ormai da otto anni.
***
La casa del nonno è sempre la stessa, niente è cambiato da quando mamma non è più con noi.
L’auto dello sceriffo non è più nel vialetto umido di pioggia. C’è solo l’auto di Sue.
Da quando mia madre non è più con noi, mio nonno è cambiato, è morto dentro.
Ricordo la devastazione che lo ha lacerato, lo ha annientato giorno
dopo giorno, rendendolo un’ombra, una macchia indistinta sulla
terra.
I suoi occhi sono perennemente spenti, vuoti, fissi in punti imprecisati, a volte.
I primi tempi sono stati una continua lotta, il non voler accettare che
lei fosse scomparsa dalla sua vita così, insieme a Seth.
Anche Sue soffre molto, ma tra i due, è quella più forte,
colei che non si arrende, che attende con la speranza nel cuore che suo
figlio ritorni, o che quantomeno stia bene.
Mentre busso alla porta, mi accorgo con la coda dell’occhio che
Jake è dietro di me, chiuso nel suo mutismo da quando siamo
usciti da villa Cullen.
Ad aprire è proprio Sue, con il grembiule da cucina e uno strofinaccio in mano.
Il suo volto è radioso, ma non appena si rende conto che siamo
noi, gli angoli della bocca si piegano verso il basso, sorridendo
tristemente.
«Ciao ragazzi, siete in ritardo oggi» ci rimprovera bonariamente.
Io sorrido, anche se in maniera forzata, intrecciando le mani e
torturandomele. Jake decide di spezzare il silenzio imbarazzante, con
il suo fare giocoso.
«Colpa della dormigliona qui presente» risponde, indicando con un dito la sottoscritta.
Sbuffo, lanciando un’occhiataccia a quello stupido e abbracciando Sue.
«Scusa il ritardo, ma ho dormito male questa notte».
Lei stringe la presa sulla mia vita, sussurrando: «non
preoccuparti, ti capisco benissimo. Non devi giustificarti con me. Tuo
nonno ha chiesto di te quando ha visto che…»
«Ero in ritardo» concludo per lei.
Anche il nostro rapporto è cambiato: la paura che anche io
svanisca nel nulla lo rende ancora più folle, più incline
ad oltrepassare quel sottile confine che lo porterebbe alla pazzia.
«È davanti alla tv, come sempre del resto» mi dice,
e con una mano poggiata sulla schiena, mi invita a raggiungerlo.
Dietro di me, Jake indugia, consapevole delle domande che gli porrà Sue.
Ogni volta che vi è qualche minimo indizio, lei vuole saperlo, essere tenuta informata sempre.
Mentre loro si dirigono in cucina, io mi avvio verso il salotto, dove
le tende sono tutte chiuse, la stanza è impregnata di alcol.
Solo una flebile luce arriva dalla televisione accesa.
Sullo schermo compare una bambina, con capelli castani, lunghi, con gli
occhi del medesimo colore, che sorride alla telecamera. Vi è
anche una donna, colei che ho visto solo in fotografia o in questi
video: Renée Dwyer, mia nonna.
Davanti ad essa, vi è una poltrona vecchia, dai colori sbiaditi.
Mio nonno fissa con sguardo assente il volto di mia madre, mormorando
il suo nome senza sosta. In mano, tiene una bottiglia di liquore, ma
non riesco a vedere quale.
Ma che importanza ha? Qualunque sia, per mio nonno è una
liberazione: l’alcol lo aiuta. Almeno così diceva fino a
qualche anno fa.
La coperta che lo teneva caldo è ai suoi piedi. La sollevo, sfiorando il suo viso con le nocche della mia mano.
«Ciao, nonno».
Non mi guarda, non mi risponde, continua a pronunciare il nome “Bella”, come se la mia presenza fosse di troppo.
Vorrei piangere, vorrei alleviare il suo dolore, ma anche io soffro, anche io ho perso qualcuno.
So che non dovrei essere egoista, ma è più forte di me:
non riesco a confortare qualcuno quando io stessa sono prossima a
trasformarmi in un vegetale.
«Non voglio che prendi freddo, ecco la coperta».
Lo avvolgo fino alla vita, evitando di avvicinarmi troppo. Sul tessuto
soffice della coperta cadono delle gocce. Mi tocco il viso: sto
piangendo anche io.
Una mano sfiora la mia, per poi allontanarla. Charlie adesso mi guarda,
raccogliendo con un dito quella perla d’acqua e assaggiandola.
Poi una sua frase mi lascia interdetta: «hai lo stesso sapore di Bella».
Il mio corpo trema, mentre torna a fissare lo schermo illuminato e beve un sorso della sua bottiglia.
«Ma tu non sei la mia Bella».
Mi allontano da lui, singhiozzando.
Perché? Perché deve anche lui ricordarmi che non sarò come mia madre?
Chi crede che le somigli, chi ritiene che io non sono lei… qual è la verità?
Io sono Renesmee o l’ombra dei ricordi di mia madre?
Mi dirigo nella vecchia camera di mia madre, e buttandomi sul suo letto.
La camera che ha visto nascere, crescere e maturare l’amore dei miei genitori.
Stringo il cuscino tra le braccia, cercando di attutire i singulti violenti.
«Charlie!» urla Jake dal piano inferiore.
Non so quanto tempo è trascorso, ma sicuramente un bel po’, dato che mi sono addormentata.
Scendo con il cuore che mi martella nel petto e trovando davanti ai miei occhi una scena che mi lascia senza fiato.
Il corpo di Charlie è riverso in terra, in preda alle convulsioni.
«Chiama un’ambulanza, Sue» grida ancora Jake. Sue si
precipita nuovamente in cucina, sentendo la sua voce agitata che tenta
di fornire l’indirizzo dell’abitazione.
Mi inginocchio vicino al corpo di mio nonno, prendendo una sua mano fra le mie.
«Nonno…»
***
«Lei
è un parente del paziente?» mi domanda una signora anziana
che si trova nella sala d’aspetto. Jake non mi lascia neanche per
un istante, tenendo per mano anche Sue.
«Sì, sono la nipote» rispondo con voce roca. I miei occhi sono gonfi, pieni di lacrime.
«Oh, pensavo fosse la figlia, Isabella Swan. Comunque dovrebbe
firmare questi documenti, anche se so perfettamente che non è il
momento opportuno. Purtroppo è la burocrazia, e non possiamo
farci nulla. Alcune parti sono già state compilate tempo fa, per
alcuni accertamenti effettuati anni addietro dal signor Swan» mi
dice, porgendomi i fogli da compilare e scrollando le spalle.
Faccio un cenno a Jake che intuisce il mio stato d’animo,
prendendo quei fogli di carta tra le mani e portando sia me che Sue
lontano da lei, sedendoci sulle panchine che si trovano nella parte
opposta.
Sue si offre di compilarli al posto mio, dato che conosce mio nonno
come se fosse già sua moglie, anche se con la scomparsa di mia
madre, questo impegno non rientra tra le sue priorità.
Mi alzo in piedi, incapace di stare ancora un attimo in quella posizione.
«Che succede, Sue?» sussurra Jake ad un certo punto.
Mi volto, incuriosita, e vedo le sopracciglia di Sue aggrottarsi. È perplessa, mentre scruta quei fogli.
Mi avvicino, cercando di capire cosa c’è che non va, e lei
solleva il capo nella mia direzione, porgendomi quel plico di fogli.
Lo afferro e leggo la pagina sulla quale lei si è soffermata, sgranando gli occhi.
Scuoto ripetutamente il capo. Non può essere vero, ci sarà stato sicuramente un errore.
Mi allontano da loro, ignorando il richiamo di Jake e dirigendomi verso
il banco dive si trova l’infermiera che mi ha fornito quella
cartella.
«Mi scusi, ci deve essere un errore» le dico, dirottando la
sua attenzione sul mio dito che picchietta su un punto preciso. Lei
legge, annuendo fra sé, per poi rispondermi: «nessun
errore, signorina. I dati di cui siamo in possesso sono del tutto
corretti. Dovevate solo compilare la parte che riguarda il familiare
che accompagna il paziente».
Tremo, e con me anche quel plico, non riuscendo ancora a crederci.
«Isabella Swan è stata…» soffio con le lacrime che mi inumidiscono gli occhi.
«Sì, signorina. Non lo sapeva?» mi domanda perplessa l’infermiera.
La cartellina trema tra le mie mani, mentre Jake mi poggia una mano
sulla spalla, stringendomi a sé. La afferra dalle mie mani e la
porge con un movimento secco alla donna anziana.
«Non è più necessaria, grazie» con tono distaccato.
La signora si allontana con quei fogli che mi hanno sorpreso come non mai.
«Jake, io…» sussurro «voglio andare a casa» aggrappandomi alla sua maglietta.
«Ok, ti riporto a casa, tranquilla» mormora, sfiorando con le labbra i miei capelli e lasciandoci un dolce bacio.
Mi conduce verso l’uscita dell’edificio, dalla quale sbucano alcuni dei ragazzi del branco.
Tra loro c’è anche Emily, che tiene per mano Sam. Il suo
volto è una maschera di sofferenza, non appena incrocia il mio
sguardo vacuo e velato di lacrime.
«Ci ha avvertiti Sue. Cos’è successo?» mi
domanda, prendendo le mie mani tra le sue, mentre Jake spiega la
situazione agli altri.
«Charlie» biascico tremante.
Lei mi accarezza una guancia, e inducendomi a sedermi nelle panchine
alla nostra destra. Lo faccio, prendendo la testa fra le mani.
«Sì, so che si tratta di Charlie, ma Sue non è
riuscita a dirci come sta adesso. Tu e Jake sapete più o meno
qualcosa?»
«Sì, è in coma. I medici non si sbilanciano, temono
che sia stazionario» la informo con voce lontana, come se la mia
mente non fosse più con loro, in quell’ospedale anonimo di
Forks.
«Oddio!» e si porta entrambe le mani alla bocca, per soffocare i suoi singhiozzi.
Anche lei sta piangendo, ma lei non sa, non ha idea di quello di cui sono venuta a conoscenza.
Ma è una donna troppo sveglia per non accorgersi che qualcosa mi
turba, e non è solo quello che è avvenuto al nonno.
«Mi hai detto tutto o c’è dell’altro?» mi chiede con voce roca, strozzata.
Emetto un sospiro, prima di dire quella verità di cui io non sono mai stata a conoscenza.
«Ho appena scoperto che mia madre è stata adottata» le dico, lanciandole una breve occhiata.
Lei strabuzza gli occhi, pronunciando uno stridulo «cosa?»
Ed è a questo punto che ti domandi se conosci davvero i tuoi
genitori, perché io ho la sensazione di essere nata da una
coppia diestranei.
Angolo autrice:
Non
avete idea della difficoltà che ho avuto nel concluderlo, per
questo non lo avete avuto prima. Mancava una parte, che ha richiesto
del tempo. Tutt’ora non idea di cosa ne sia uscito fuori, e mi
affido al vostro giudizio, dato che non so se si avvertano le emozioni.
Spero vivamente di sì. Con questo capitolo, metto in evidenza
qualcosa, e pongo altrettanti dubbi. Ma prima o poi i tasselli dovranno
essere assemblati, riuniti e messi al posto giusto. Bene, da questo
capitolo immagino che la vostra mente partorirà diverse idee, e
chissà che non azzeccherete.
Il prossimo capitolo non so quando arriverà, dato che ancora non ho scritto nulla. Comunque non prima di giovedì.
«Non stai dicendo sul serio, no, non può essere» continua a mormorare come un sermone Emily.
Siamo ancora nella sala d’aspetto, insieme a molti componenti del
branco di La Push. Dai loro volti si capisce quanto soffrono per le
condizioni del nonno, ma il medico è stato chiaro, purtroppo:
è in coma, e non sanno se e quando ne uscirà.
Se penso già al fatto che non vedo mia madre da anni, e non so
minimamente che fine abbia fatto, non oso pensare cosa farò se
anche Charlie dovesse andarsene.
Lui è l’ultima persona che mi lega a lei, il mio unico
contatto, la mia ancora nei momenti di sconforto. So che sta male,
forse più di me, ma non posso fare a meno di essere egoista.
Sono orribile, mentre lui sta in quel letto freddo e non familiare, io
penso che debba guarire per alleviare le mie sofferenze, per non
perdere anche quel pezzetto che fa parte della vita umana di mia madre.
Porto le mani a coprire il volto, mentre i singhiozzi mi scuotono il corpo.
«Sono un mostro».
«Perché dici questo, Nessie?» mi domanda Emily,
abbracciandomi. Mi lascio cullare dalle sue braccia esili, mentre
un’ombra si staglia davanti a me.
«Nessie, non dirlo mai più. Tu non sei un mostro» sibila Jake, avvicinandosi sempre più.
Sollevo di poco il capo, notando che si è inginocchiato ai miei
piedi. Afferra le mie mani, scostandole dal mio viso, guardandomi con
una serietà che mai ha sfiorato il suo volto.
«Ti prego, non pensarlo mai più». Stringe più
forte la presa, e con uno strattone, mi attira a sé,
avvolgendomi nelle sue braccia forti e muscolose.
«Mi dispiace…» sussurro con la bocca che preme sulla
sua t-shirt. Mi aggrappo a quel morbido tessuto, con una forza tale che
potrei anche strapparla, se facessi più pressione con le mie
dita.
Scosto di poco il capo, notando Emily sorridere, nonostante le lacrime
che solcano le sue guance ambrate, tipiche della tribù di La
Push. Si alza, facendomi un gesto con la mano, e si dirige verso Sam,
che sta discutendo con il dottore che si occupa di Charlie.
Quil ed Embry cercano di confortare Sue, che non smette più di singhiozzare.
Tutta la tensione che ho accumulato in questi anni sembra essersi dilagata in questo luogo.
«Hai chiamato i Cullen?» mi chiede Jacob.
Diniego con il capo, lasciandomi accarezzare dalle sue mani grandi, seduti nelle sedie più distanti dagli altri.
«Non dovremmo dir loro quello che abbiamo scoperto?» incalza lui con le domande.
Già, oltre alla tragedia che vede protagonista Charlie, persino questa nuova e sconvolgente verità.
Mia madre è stata adottata.
Se l’avessi scoperto in circostanze diverse, magari me ne
avrebbero parlato, sarei scoppiata a ridere, denigrando la notizia.
Perché avrei ritenuto folle chiunque avrebbe fatto un minimo
accenno o avrebbe dato conto a questa scoperta.
Eppure, qui in ospedale, senza lasciar spazio a dubbi o menzogne, ecco
che questa verità viene a galla, facendomi tremare come non mai.
Nonostante Emily continua a ripetersi che non può essere vero,
io comincio ad assimilare e far mia questa inaspettata notizia.
Adozione… non ho mai pensato a mia madre come una figlia adottata, come un essere estraneo anche a Charlie.
Perché a questo punto, quell’uomo disteso nel lettino, non
è più mio nonno, ma un uomo che non ha nulla a che vedere
con le mie origini.
«Tu dici che dovremo dirlo anche a loro?» gli rispondo di rimando, chiudendo gli occhi.
In questo momento vorrei solo correre via, lontano da tutto e tutti,
magari nella radura in cui mi ha portato mio padre diverse volte.
Lì, soltanto in quel luogo, io mi sono sentita in pace, con nessun pensiero angosciante a sfiorarmi la mente.
Invece mi trovo qui, in un ospedale, con un nonno che non risulta
davvero tale, una famiglia con cui non riesco più a dialogare
senza scatenare una lite, un vampiro che si intrufola nei miei sogni
ogni qualvolta lo desidera, e un migliore amico che sembra nascondermi
certi suoi sentimenti.
«Beh, Nessie, non è unacosache
puoi nascondere ai tuoi familiari. Credo che debbano saperlo,
no?» mi fa notare, asciugandomi con i pollici le lacrime sul mio
viso.
«Cosa credi che servirà saperlo o meno? Rischierei di
turbarli ancor di più. Preferisco tenere per me questa notizia,
se non ti spiace. Ti prego, non dirlo agli altri. Lo sa solo Emily, e
probabilmente lei lo dirà a Sam. Fai in modo che gli altri non
lo sappiano»
Lui annuisce, anche se il suo sguardo dubbioso la dice lunga su come dovremmo agire.
«In fondo non cambia molto, no? Tua madre resterà sempre
figlia di Charlie, e tu resterai sua nipote… non cambierà
il legame che vi unisce, Nessie, non dimenticarlo mai» mi dice,
scostandomi di poco per poter puntare i suoi occhi scuri nei miei.
Vorrei potergli credere, ma sento che qualcosa è pur sempre
cambiato, anche se l’affetto che provo per quell’uomo con
la barba pungente resterà sempre nei miei ricordi, nei miei
momenti di felicità, scolpiti nella mia memoria indelebile.
«È vero, resterà mio nonno, ma ciò non
toglie che mia madre a conti fatti è un’estranea per lui,
così come lo sono io»
Lui sorride, scuotendo la testa. «Secondo te, un uomo che vede
scomparire un giorno sua figlia, anche se adottiva, si comporterebbe
così? Entrerebbe in coma per una ragazza che considera
estranea?»
Mi mordo con forza il labbro inferiore, non sapendo cosa dire. Ha ragione, ha maledettamente ragione…
«Cos’è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» scherza lui, dandomi un buffetto sulla guancia.
Sorrido, inconsapevolmente o meno, e avvolgo in un abbraccio le
ginocchia, dondolandomi sulla sedia proprio come facevo da piccola.
«Oh, finalmente un sorriso! Vedrai che tuo nonno si riprenderà presto, stai tranquilla»
Appoggio il capo sulla sua spalla, sentendo le palpebre chiudersi per la stanchezza.
«Ti voglio bene, Jake».
Lo sento tremare, e poi emettere un sospiro. «A… anche io… ti voglio bene, Nessie»
Mi allontano sempre più da quell’ospedale con la mente,
scivolando nel dolce torpore del sonno, ma riesco comunque ad udire una
voce lontano…
«Ma forse quel “ti voglio bene” che intendi tu, non è quello che intendo io…»
***
Un
odore di legno bruciato mi giunge alle orecchie, destandomi dal sonno.
Mi accorgo di un peso, una coperta poggiata sopra il mio corpo.
Mi trovo distesa su un divano arancio, non uno qualunque, ma quello che
vi è nella casa dei miei genitori… la casetta nel bosco.
Stropiccio gli occhi, mentre la mia attenzione viene attirata da una
schiena, una nuda, vicino al camino, intenta a sistemare i pezzi di
legno.
Sembra non essersi accorto del fatto che io sono sveglia.
«Jacob?» lo chiamo.
Al suono della mia voce, si volta di scatto, sorridendomi gentile. «Vedo che ti sei svegliata…»
«Sì, credo di aver dormito parecchio…» constato, osservando le nubi filtrare i raggi lunari.
È sera, probabilmente anche notte inoltrata. Ed io sono qui, sola con Jake.
«Perché siamo qui?» gli chiedo, esitante. È
da molto tempo che non metto piede in questa casa, probabilmente da un
paio d’anni, ma è molto dura tornare in un luogo in cui la
nostalgia mi getta nello sconforto più totale.
Ed io non voglio sentirmi così, non voglio soffrire più di quanto già non faccio adesso.
«Avevi bisogno di riposare, così ti ho portata qui. I
Cullen non sanno ancora che Charlie è all’ospedale, e
probabilmente non era il caso che lo dicessi io a loro. Tocca a te, no?
Io ti potrò accompagnare, sostenere, ma spetta comunque a
te»
Già… tocca a me dir loro delle condizioni di Charlie. Mi
passo una mano tra i capelli, portandoli indietro. Jacob mi fissa
serio, senza proferire parola.
Lo scuto interdetta, scrollando le spalle. «Beh? Cosa c’è? Perché mi fissi in quel modo?»
Apre la bocca per parlare, ma poi la richiude, scuotendo la testa e sorridendo.
«Parla!» sibilo a pochi centimetri dal suo volto.
«Anche tuo padre faceva quel gesto quando era nervoso. Sai, tua madre lo raccontava…»
«Spesso, lo so» lo interrompo brusca. Non ho bisogno dei
suoi ricordi. So perfettamente cosa mio padre faceva, e cosa raccontava
mia madre.
«C’ero anche io, Jacob. Grazie per avermi rinfrescato il
fatto che ho molto in comune con quel vampiro» sputo sarcastica.
Ci manca solo lui per ricordarmi che mio padre non è qui, ma
chissà dove, a fare chissà cosa, in questo momento.
Ecco gli svantaggi di un padre vampiro: quando si innamora, i figli vengono al secondo posto. Inutile sperare di cambiarlo.
«Forse è meglio che lo contatto io, allora…»
dichiara, poi osserva il mio sguardo truce e si corregge. «Si, lo
contatterò io. Evitiamo una strage in famiglia».
Evito di rispondere al suo ultimo commento pungente, e scosto le
coperte. Sono ancora vestita come prima, perciò sarà
meglio andare ad indossare qualcosa di nuovo.
Mi avvio verso la cabina armadio, quella che mia madre guarda sempre
con occhio critico e incredulo. Apro l’anta dove si trovano i
miei e prendo un paio di jeans e una maglia di lino.
Dopo qualche minuto, entrambi corriamo in direzione della villa Cullen, senza parlare.
Arrivata davanti all’ingresso, mio nonno si appresta ad aprirci, dopo avermi lanciato uno sguardo di rimprovero.
Sicuramente è infuriato del fatto che non mi sono fatta sentire per tutta la giornata.
Lo sorpasso senza guardarlo negli occhi, anche se so di aver sbagliato.
Non voglio dare loro spiegazioni di quello che faccio. Sono adulta
ormai, e gli unici che avrebbero dovuto avere voce in capitolo sono
andati via.
Non possono proprio obbligarmi a comportarmi come una nipote modello,
anzi, l’unica nipote per… si, per l’eternità.
«Qual buon vento ti porta da queste parti, Nessie?» mi
riprende zia Rose. Rare volte l’ho vista arrabbiata con me, e
questa è una di quelle.
Mi volto nella sua direzione, deglutendo e cercando una risposta da
maschiaccio degna delle mie, ma lei è più veloce di me.
«Non ti sforzare di trovare qualche patetica scusa. Con me non
attacca. Ti rendi conto che è da questa mattina che non chiami?
So che eri da Charlie, o almeno è quello che sappiamo che fai da
un po’» e incrocia le braccia al petto, restando ai piedi
delle scale, con lo zio Emmett dietro di lei, che cerca inutilmente di
calmarla.
«Voi non siete i miei genitori, non pot…» ma vengo interrotta.
«Sempre la solita. Ripeti fino allo sfinimento che non siamo i
tuoi genitori, che non possiamo prendere il loro posto e sai una
cosa?» sibila zia Alice, comparendo dietro di me, con sguardo
duro, «noi non vogliamo essere i tuoi genitori. Non vogliamo
prendere il loro posto. Vogliamo esserti vicino, proprio come dovrebbe
fare una famiglia. Ma tu non vuoi una famiglia… non è
così?» conclude, abbassando lo sguardo.
Stringe i pugni, mentre, come un lampo, compare Jasper, che
l’avvolge tra le braccia, guardandola preoccupato. Lei scosta le
braccia con forza, dirigendosi come una furia verso il piano superiore.
Jasper non dice nulla, mi guarda, avvertendo le mie emozioni. Sale alla
sua velocità le scale.
E l’ultima cosa che sento sono un singhiozzo soffocato e una
finestra che si apre. Poi due figure si allontanano velocemente.
Jacob è dietro di me, il nonno e la nonna sono alla mia destra.
Non oso guardarli, ancora una volta li ho delusi con il mio
atteggiamento.
«Siamo venuti per un motivo preciso, Carlisle. Litigare è
l’ultima cosa che ci serve, in questo momento» dice Jake,
rompendo quell’atmosfera di tensione che si è venuta a
creare.
Mio nonno si avvicina a noi, mentre io sprofondo nel divano del
salotto, cercando di trovare il coraggio di pronunciare quelle parole.
«D’accordo, diteci cosa ti porta qui. Con Nessie ne
discuteremo dopo…» sbuffo alle sue parole, ma non rispondo.
«Ecco, noi stamattina siamo stati da Charlie e…»
Interrompo Jake con un gesto della mano, facendogli segno di sedersi.
«Charlie si è sentito male questa mattina, l’abbiamo
portato in ospedale»
«Cosa?» sussurra il nonno, strabuzzando gli occhi. Mia
nonna comincia a singhiozzare, mentre Emmett si avvicina per farle
forza e sorreggerla.
Zia Rose resta lì davanti, senza muoversi. Nei suoi occhi scorgo un lampo di comprensione per me.
«Come sta, adesso?» domanda Emmett per tutti.
«Lui è…» ma vengo interrotta dallo squillo di un cellulare.
Subito il nonno lo sfila dalla tasca, accigliandosi. Lo fissa per
diversi secondi, mentre continua a squillare. Mia nonna si avvicina,
fino a sfiorargli il tessuto del maglione.
«Chi è, Carlisle?»
«È Edward» le risponde. Subito mi irrigidisco, e stringo le mani a pugno.
E così mio padre si fa sentire… cos’è? Ha un sesto senso per le disgrazie?
Sa quando accadono e decide di tornare?
«Rispondi, no?» lo incita la nonna, ma dopo un millesimo di secondo, il telefono smette di suonare.
Mio nonno compone il numero di mio padre e resta in attesa. Lancio
un’occhiata a Jake, che mi stringe una mano, aprendo il palmo e
facendomi calmare almeno un po’.
Nel silenzio, scandito solo dal battito del cuore mio e di Jake, unito
ai nostri respiri, un cellulare che squilla fuori dalla villa.
«Questo è il cellulare di Edward…» fa notare
zia Rose, scattando verso l’uscita. Emmett la segue a ruota,
preoccupato per la zia e insospettito da tutto questo. Poi escono il
nonno e la nonna. Jake si alza e trascina fuori anche me, nonostante i
miei occhi parlino chiaro: non lo voglio sentire, né vedere, se
si trova qui.
Nell’oscurità della foresta alle spalle della villa, una
figura sta inginocchiata a pochi passi dal fiume. La luna illumina solo
metà del suo profilo.
I capelli sembrano proprio quelli di mio padre… ribelli come sempre.
Ci avviciniamo cauti, con Jake, il nonno e Emmett davanti, per proteggerci nel caso si trattasse di un altro essere o vampiro.
Dal fitto della boscaglia dietro di noi, due odori familiari giungono alle nostre orecchie.
Zio Jasper e zia Alice corrono verso di noi. Lui teso e preoccupato, lei con la mascella serrata.
Ci sorpassano, fino a raggiungere la figura inginocchiata.
«State attenti» sussurra mia nonna, consapevole che loro possono sentirla anche a quella distanza.
Zia Alice poggia una mano sulla sua spalla, mentre zio Jasper osserva la scena guardingo.
Il cellulare è per terra, che continua a squillare.
La zia lo fa voltare, e ci rendiamo conto che finalmente mio padre è tornato a casa.
Tutti i Cullen, tranne io e Jake, corrono ad abbracciarlo, eppure sento che c’è qualcosa di strano.
Mio padre li osserva in modo strano; tutti, nessuno escluso.
Lo sguardo di Alice si fa vacuo, finché non porta entrambe le mani alla bocca, sino a coprirla del tutto, terrorizzata.
Mio padre si alza, fino ad incrociare il mio sguardo. Infilzo le unghia
nella pelle di Jake, ma non urla, non dice una parola. Sente anche lui
che c’è qualcosa che non va in lui, finché non si
pone a pochi centimetri da me.
«Ti conosco, forse? Hai un volto familiare, ma non mi ricordo di te?» dice, ed io sbarro gli occhi.
Mi accascio a terra, sotto lo sguardo sconvolto di tutti, persino Jake, che boccheggia peggio di un pesce.
Mio padre si prende la testa fra le mani, fino a sprofondare anche lui nel terriccio.
«La mia testa… sta scoppiando. Ho una grande confusione,
ma sento che tu puoi aiutarmi» e punta il suo sguardo sofferente
sul mio, «ti prego… aiutami» e mi stringe in un
abbraccio, poggiando la sua testa sul mio grembo.
La mia mano si muove da sola, finendo tra i suoi capelli, accarezzandoli.
Dovrei odiarlo… odiarlo come mai prima d’ora ho fatto. Lui
mi ha abbandonato, mi ha lasciata sola, e adesso mi chiede aiuto.
Dovrei cacciarlo, allontanarlo da me, urlandogli contro tutto quello che mi sono tenuta per anni. E invece…
«Non temere, ci sono io adesso» e solo in questo momento mi
accorgo delle lacrime che scivolano giù dai miei occhi, bagnando
i suoi capelli.
Angolo autrice:
Già, sembra un miracolo, ma sono tornata.
Mi scuso per non aver risposto a tutte le recensioni, ma questo
significava non aggiornare oggi, perciò ho preferito postare e
non farvi aspettare ancora. Ho risposto a circa la metà, nel
precedente capitolo, martedì risponderò alle restanti.
Sapete che rispondo sempre, perciò vi chiedo scusa.
Spero che questo capitolo vi piacerà e stupirà alla fine, il mio intento è proprio questo. :-P
Per qualsiasi avviso, andate nel mio blog, troverete il link nella mia
pagina autrice, oppure mi potete contattare su facebook, anche
lì metto gli avvisi.
Per ultimo, non meno importante, vi auguro buon Ferragosto anticipato, dato che io non ci sarò in questi giorni.
A presto.
«Aiutami… ti
prego…» le uniche parole che mio padre continua a ripetere
da quando è caduto tra le mie braccia. Il mio corpo è
stretto con forza, ma non così tanto da farmi male.
Come se si rendesse conto della diversità delle nostre specie, o
forse è semplicemente la differenza di temperatura a farglielo
notare.
Con il viso affondato nella mia pancia, accarezzo i suoi capelli,
ramati come i miei. Lo so, dopo tutto quello che mi ha fatto passare,
dovrei urlargli contro chissà quali cattiverie, ma non ho la
forza, non ne ho il coraggio.
Non nelle sue condizioni.
Potrei anche dirgli che è il peggior padre del mondo, no, dell’universo, ma cosa cambierebbe?
Non ricorda nulla, neanche di stringere disperatamente il corpo di sua figlia.
Sotto lo sguardo compassionevole di mio nonno, anche le angherie dei giorni passati scompaiono.
Tutto il peso dei loro sguardi, carichi di aspettative nei miei
confronti, mi fanno dimenticare quei momenti di dolore quando alla
riserva incontro bambini che corrono, all’uscita della scuola,
tra le braccia dei genitori.
Quanto avrei voluto correre ad abbracciare i miei…
Quanto avrei voluto che ogni mio minimo cambiamento loro lo avessero registrato nelle loro menti indelebili…
E invece… sono io a dovermi fare forza per superare anche questa nuova sfida.
«Non ti lascio solo, stai tranquillo» gli sussurro, scostando quelle ciocche ribelli dal viso.
Lui lo solleva di poco, quel tanto per osservarmi. Nel suo volto scorgo
un’acuta sofferenza, un dolore che difficilmente riuscirò
a scacciare.
«Perché mi ricordo di te?» mi domanda con voce soffocata.
Faccio per parlare, ma la voce mi viene meno. Jake appoggia una mano
sul suo braccio, richiamando la sua attenzione. «Siamo amici
tuoi, Edward, è normale che ti ricordi di noi…»
Papà lo osserva attentamente, finché non si allontana di
scatto. Scruta il suo braccio, stretto nella morsa di Jake, ed è
come una scintilla, una scarica elettrica che lo avvisa del pericolo. I
suoi occhi si scuriscono, fino a diventare due pozzi neri di ossidiana.
Neppure la pupilla si distingue più dall’iride.
Le braccia sono in avanti, le dita curvate come artigli affilati. Le
gambe sono piegate, in posizione di difesa, dalla sua bocca fuoriesce
un suono basso, roco e prolungato. Il ringhio di un animale feroce e
pronto a colpire.
Jake si alza in piedi, mostrando le mani in segno di resa.
«Vogliamo aiutarti, Edward, ma devi lasciarci capire cosa ti
è successo».
Mio padre osserva attentamente ogni suo movimento, ma non sembra curarsi o fidarsi delle parole del mio amico.
«Ti basta leggere nei miei pensieri per capire che ti sto dicendo la verità» continua lui.
I miei parenti osservano la scena, attoniti, con lo sguardo pieno
d’ansia, soprattutto quello di mia nonna, che inutilmente tenta
di chiamare papà.
Il nonno tenta di avanzare qualche passo nella sua direzione, ma Emmett
lo blocca, fissando con sguardo corrucciato il fratello. Anche lui sa
che mio padre attaccherebbe anche loro, convinto che vogliano fargli
del male.
Zio Jasper tenta invano di calmarlo con il suo potere, ma viene
stordito dall’intensità delle sue emozioni. Evidentemente
mio padre sta messo peggio di quanto dia a vedere.
Zia Alice si porta le mani alle tempie, sfregandole energicamente. Non
sa come andrà a finire, a causa della presenza di Jake, e di
questo ne è consapevole, ma cerca comunque di non arrendersi, di
portare al limite il suo potere.
«Jake, sarà il caso che tu torni alla riserva. Non credo
che potremmo discutere con Edward o quantomeno aiutarlo se si trova in
queste condizioni. La tua lontananza potrebbe farlo calmare e tornare
in sé» lo fa ragionare il nonno.
Ma Jake scuote il capo, avvicinandosi a me. «Non lascio Nessie in
compagnia di questo Edward. Non è lo stesso di sempre, e
potrebbe farle del male. Non glielo permetterò».
Nel dirlo, si avvicina a me, che nel frattempo ero rimasta in
ginocchio, stringendo le mani tra loro e torturandomele in preda
all’isteria.
I due uomini più importanti della mia vita potrebbero ferirsi a
vicenda, davanti ai miei occhi. Senza che me ne renda conto, alcune
lacrime scendono dai miei occhi. Tento di asciugarmele, ma sembrano non
avere fine. Jake mi afferra per un braccio, cercando di allontanarmi da
mio padre nel caso scoppi una rissa tra lupo e vampiro, ma mio padre
incendia con lo sguardo il punto in cui il mio amico mi ha afferrata.
Quello che succede dopo, non lo dimenticherò mai.
Mio padre scatta dopo un ringhio che non è più quello di
un animale, ma di una bestia sconosciuta e rabbiosa, che cerca di
proteggere qualcosa di suo.
Non mi sono mai resa conto di quanto potesse essere veloce, ma ora,
mentre tenta di azzannare il mio amico, ne ho un quadro ben preciso.
Sprazzi di sangue cadono sull’erba, macchiandola di rosso. Zio
Jasper, Emmett e il nonno, accorrono a scongiurare la lite tra i due,
ma mio padre sembra liberarsi di tutti con estrema facilità.
Più lontano del punto in cui si trovano zia Alice e la nonna,
scorgo la figura di zia Rose, i cui occhi sfrecciano ad ogni movimento
delle parti. Di tanto in tanto la sua bocca si piega leggermente
all’insù, nel momento in cui mio padre ferisce Jake. Le
lancio uno sguardo di fuoco, anche se sono consapevole che non riescono
ancora a sopportarsi dopo parecchi anni, l’ostilità di zia
Rose sembra immutabile nel tempo, così come le acide risposte
che il mio amico le riserva ogni volta che s’incrociano in casa
Cullen.
In un frangente ristretto, spunta alle mie spalle, facendomi sollevare
e barcollare. Mi afferra per la vita e mi allontana, scomparendo dietro
le figure delle altre due donne della famiglia.
Che strano, chissà perché mio padre non ha letto i pensieri di Jake…
Avrebbe già dovuto rendersi conto di quello che voleva
spiegargli il mio lupo, ma è come se non li sentisse, o non li
volesse sentire. Opto per la prima che hai pensato, Nessie.
Sussulto a quelle parole, rendendomi conto che arrivano proprio dalla mia mente.
Mi volto di scatto in tutte le direzioni, mentre zia Rose mi tiene nascosta alle sue spalle.
Non scorgo nulla intorno a noi, solo il bosco con i suoi grandi abeti
secolari. Le ampie fronde vengono mosse dal vento che aumenta sempre
più, come se qualche strana forza li stesse alimentando.
Soltanto i ringhi di mio padre e le urla del resto dei componenti
maschili della mia famiglia si odono in quella piccola porzione di
pianura. Alle mie spalle, il fiume scorre tranquillo, come se la sua
forza non venisse intaccata dalla battaglia che sta avvenendo a pochi
metri da esso. Chi sei?Domando, inconsciamente, sperando in una qualche risposta.
Questa non è la voce profonda, sicura e decisa di Sebastian,
l’avrei riconosciuta ormai, dopo averla sentita più volte. Non è ancora arrivato il momento delle presentazioni. Rimandiamo ad un’altra volta.E
questa volta sento questa presenza gentile quanto fredda e scostante
uscire dai miei pensieri,come un’ombra nella mia mente che si
dissolve.
Strofino con le mie mani le braccia, improvvisamente gelate. Oppure il
gelo è solo un’impressione che mi ha lasciato quella
strana presenza nella mia testa?
Non lo so, ma la prima frase continua a rimbombarmi come un eco
lontano, facendomi intuire una verità che i miei familiari non
hanno notato.
Mio padre sta combattendo, ma sembra non percepire i loro pensieri. Non
anticipa le loro mosse, bensì le schiva, o risponde. Di tanto in
tanto qualcuno va a segno, tanto che vacilla, ma non sembra ascoltare
le loro menti. Non è come quando combatte zia Alice con zio
Jasper per gioco. Non è come gli scherzi che zio Emmett cerca di
fare a mio padre quando anni fa cercava di coglierlo di sorpresa.
Adesso è solo un combattente, senza alcun dono di leggere nel
pensiero. un combattente simile a Jasper, se non più forte.
Evidentemente, durante gli anni passati lontano da noi, si è
perfezionato nella tecnica, eppure alcune mosse sono strane, lo stesso
zio Jasper non riesce ad intuirle ed evitarle. Come se non le
conoscesse.
Jake, che nel frattempo cade a terra dopo l’ultimo assalto di mio
padre, sembra perdere la pazienza. Dopo uno sbuffo, si solleva di
scatto, afferra il resto della propria maglietta e se la strappa di
dosso. Dopo che i tremori diventano sempre più evidenti, il suo
corpo esplode, al suo posto compare un enorme lupo rossiccio, con le
fauci spalancate e le orecchie tese, per captare ogni minimo
spostamento d’aria.
Mio padre è troppo veloce per lui, per questo motivo deve far affidamento sul suo udito e sull’olfatto.
Papà si accuccia, pronto a balzare, ma questa volta non posso
restare a guardare. Se mio padre non riesce più a leggere nel
pensiero, allora Jake potrebbe fargli molto male, senza sapere che mio
padre al momento è un vampiro come un altro.
Comincio a correre verso di loro, ignorando le urla delle mie zie e di
mia nonna. Tentano di afferrarmi, ma riesco a schivare i loro placcaggi
degni di un giocatore di football.
«Papà! Jake! Fermatevi, vi prego!» queste sono state
le mie ultime parole, prima che entrambi scattassero proprio nel
momento esatto in cui io mi sono messa in mezzo ad entrambi, con le
mani aperte, protese verso i loro visi trasfigurati dalla rabbia.
Mio padre mi afferra per la vita, osservando Jake avvicinarsi
velocemente e guaire nella mia direzione. Con un balzo, mio padre
finisce dietro le sue spalle, sferrandogli un calcio e spezzandogli una
zampa posteriore. I suoi guaiti si propagano per tutta la zona, tanto
da avvertirne altri.
Gli altri lupi del suo branco stanno arrivando.
Sempre aggrappata a mio padre, alzo il viso per incrociare i suoi occhi. I miei sono pieni di lacrime e di accusa.
Ha ferito Jake volutamente, non si è fermato nonostante glielo
avessi chiesto, anzi, urlato. Chi è questo vampiro che mi
stringe in questa morsa senza scampo?
«Perché?» solo una parola, solo una domanda.
È questo ciò che voglio sapere dopo tutto questo caos.
Lui mi stringe più forte, cominciando a correre lontano, lontano dal territorio del parco olimpico.
«Perché voleva allontanarti da me, quando tu sei
l’unica di cui ricordo qualcosa e di cui mi fido ciecamente. Tu
non mi faresti mai del male, lo sento».
Come una frustata, quelle parole arrivano a toccare la mia anima.
Io non gli farei mai del male, anche se quella volta per telefono
l’ho fatto. Adesso, qui, con un vuoto di memoria senza
precedenti, non posso che dargli ragione.
Non potrei mai ferire mio padre più di quanto non stia soffrendo adesso.
E se ha attaccato Jake, lo ha fatto soltanto per quell’istinto
innato che spinge queste due razza, vampiri e mutaforma, ad odiarsi.
Lui non ha potuto leggergli nella mente, lui non ha potuto fare a meno
di ferirlo perché lo considera il nemico numero uno.
Ma l’unico ricordo sbiadito che continua a conservare, seppur inconsciamente, sono io. La figlia che lui non sa di avere.
L’unica persona in cui ha riposto una fiducia senza limiti.
Affondo il viso nell’incavo del suo collo, stringendomi a lui
sempre più forte.
Quanto ho desiderato essere stretta ancora così da lui, quanto ho desiderato che tornasse da me…
E adesso è qui, ma non come avrei voluto. Tocca a me fargli
recuperare il tempo perduto e quegli affetti che adesso non ricorda.
Tocca a me ricordargli che io sono un legame troppo forte, che neanche
una stupida perdita di memoria può cancellare.
Perché lui è mio padre, ed io sono sua figlia. Soltanto questo conta.
***
«Ben fatto, Nigel» sorride compiaciuto Alexander, con il
busto appoggiato al tronco di un altissimo abete, mentre si gode la
scena dei Cullen confusi e disorientati per la reazione del Cullen
appena ritornato chissà da quale luogo.
«Ho fatto come mi hai detto tu, i suoi ricordi sono stati
rinchiusi in un angolo della sua mente. Solo io posso rimuoverli»
dichiara con voce asciutta, mentre con la coda dell’occhio
osserva la piccola Renesmee e Edward fuggire via lontano.
Alexander accenna una smorfia, osservando la figura della piccola
mezzosangue aggrappata a quella del padre, per poi scuotere la testa.
Nigel lo scruta curioso, in attesa. «Non credo che solo tu possa
fargli recuperare la memoria. La piccola è forte, molto e forse
troppo. Riuscirà con la sua forza di volontà a fargliela
tornare, prima o poi. Certo, tu farai prima, ti basta uno schiocco di
dita, ma lei pian piano riuscirà nell’impresa».
«Stai scherzando? È già in grado di annullare il
mio potere?» domanda sorpreso Nigel, drizzandosi di colpo. La sua
figura snella ed elegante, il suo volto deciso e a volte tormentato dai
fantasmi del passato. Tra le mani, un orologio d’oro da taschino,
che ondeggia ad ogni movimento.
L’altro sorride, per poi scoppiare a ridere. «Quella
ragazza è già arrivata ad un ottimo livello. Spero che
Sebastian faccia attenzione, d’ora in poi… non vorrei che
il suo potere di entrare nei sogni altrui si trasformasse in
un’arma a doppio taglio» conclude serio, passandosi una
mano tra i folti capelli castani.
Nigel socchiude le palpebre, sospettoso, fermando l’orologio tra
le mani. «Potrebbe riuscire lei ad entrare nei sogni suoi?»
sembra rifletterci un istante, ma poi scuote il capo vigorosamente.
«No, non può riuscirci. Dovrebbe avere qualcosa di suo,
come fa Sebastian. Lui utilizza sempre una ciocca dei suoi capelli, lei
non ha niente di suo, tale da creare un legame».
Alexander gli lancia un’occhiata penetrante, piena di sottintesi,
ma decide di parlare comunque. «Ti ricordo che i sogni che
condivide con lei Sebastian, sono una realtà parallela, una
specie di limbo creato dal suo potere oscuro. Per quanto sia attento,
potrebbe non accorgersi che lei possa sfruttare questa realtà
proprio come fa lui. È una mezzosangue, nelle realtà
parallele può acquistare più potere, come ben sai»
e Nigel abbassa lo sguardo, riflettendo sulle parole dell’amico e
compagno di battaglie.
«Come stai? Le ferite ti fanno ancora male? Taylor ci è
andato giù pesante ieri…» gli domanda
quest’ultimo sorridendo di sbieco, consapevole di far innervosire
il diretto interessato.
Questo sbuffa annoiato, allargando le braccia e indicandosi. Sul viso,
un sorriso beffardo. «Sono o non sono Alexander? Dovresti sapere
che non mi lascio uccidere dal primoZverche mi mette i bastoni fra le ruote».
Nigel ride, mentre da alcune pacche sulla spalla dell’altro,
«allora lo ammetti che Taylor ti ha dato filo da torcere,
eh?»
Alexander digrigna i denti, volgendo lo sguardo verso lo spicchio di
luna, «solo un po’, ho vinto, ti ricordo. Il fatto che
abbia subito ferite non vuol dire nulla».
«Ma se lei ti ha dovuto nutrire per farti tornare in perfetta
forma!» sbotta incredulo Nigel, che scappa non appena
l’altro lo trucida con lo sguardo.
Dopo aver lanciato uno sguardo di esasperazione al cielo, osserva per
l’ultima volta i Cullen, che sconvolti si disperdono: Emmett,
Jasper, Carlisle e Jacob all’inseguimento di Edward e Renesmee,
le donne verso la villa.
Nell’oscurità della foresta, compare
un’ombra indistinta. Si avvicina ad Alexander per poi
posizionarsi alle spalle di quest’ultimo. Il licantropo assume
uno sguardo da uomo deciso, fiero e anche cupo.
«Anche tu hai fatto un ottimo lavoro con Edward Cullen, ti
ringrazio, Kaele. Il tuo potere è riuscito ad inibire quello
della lettura del pensiero».
In risposta, un inchino regale e una fila di denti scintillanti compare
come un faro nella notte, per poi scomparire senza far alcun rumore.
Subito dopo, anche Alexander si allontana da quel luogo, dirigendosi verso la prossima missione da svolgere.
Un’altra delle tante che ha compiuto nei suoi lunghi secoli di vita.
Angolo autrice:
Eccomi di nuovo qui, con un altro
capitolo. Stavolta ci ho impiegato meno rispetto a quello scorso, e
questo dipende dalla difficoltà che incontro a seconda del
capitolo che devo scrivere. Stranamente, come accade di rado, sono
soddisfatta del risultato di questo, e spero che piaccia anche a voi. QUItrovate
i volti dei personaggi che ho scelto per la storia, solo quelli nuovi,
ovviamente. Vi basta cliccare sul personaggio che vi interessa vedere e
comparirà l'immagine. QUIinvece trovate il video realizzato dall'autrice Red_Rose per "Scomparsa". Buona visione, per chi non l'ha ancora visto.
In
un'altra occasione avrei apprezzato il paesaggio che scorre come un
film davanti a noi. Avrei assaporato quella straordinaria sensazione
che crea il vento ogni volta che sferza i miei capelli, facendoli
ondeggiare come un mare in tempesta.
Sì, sicuramente avrei gradito di più.
I miei piedi non toccano neanche per un misero istante il terreno, come
se avesse paura di una mia fuga improvvisa. Le braccia mi tengono
strette al suo corpo, proprio come una principessa avvolta nella morsa
protettiva del suo principe.
Peccato che lui non sia il mio principe, ma mio padre.
Un papà che adesso sta fuggendo dalla mia e dalla sua famiglia come un ricercato.
«Credo che sia meglio fermarci» mormoro con la voce
attutita dalla stoffa della sua camicia. La sua presa si rafforza, ma
evita di rispondermi.
Non sposto lo sguardo verso il suo viso, non ce n’è
bisogno. So per certo che non ascolterà il mio consiglio. Beh, Renesmee, cosa ti aspetti? Non sarebbe tuo padre se non fosse così testardo. Dietro di noi posso
avvertire il fruscio degli alberi prodotto dagli altri che ci stanno
inseguendo un centinaio di metri più in là.
Un sorriso fugace attraversa il mio volto, una consapevolezza si fa strada in me, qualcosa che avrei già dovuto intuire.
Mio padre è uno dei vampiri più veloce della storia,
forse il migliore, e per quanto gli altri possano starci dietro, mio
padre presto riuscirà seminarli.
Sì, papà sembra essere della mia stessa opinione,
perché il suo sorriso compiaciuto è tutto un programma.
E il fatto che adesso si sia diretto a nord, verso il confine con il Canada, ne è un esempio.
Attraversa senza esitazione i ruscelli d’acqua, fiumi, persino
laghi di dimensioni abbastanza considerevoli. Ed io, come un koala, mi
accoccolo meglio, sfregando il naso contro il tessuto sottile.
È strano vedere mio padre indossare camicie scure, addirittura
nere, eppure eccolo qui, simile ad un demone oscuro, con quei capelli
scompigliati dal vento che non fanno altro che donargli un’aria
tetra, lugubre.
Proprio come i vampiri delle leggende raccontate dagli esseri umani.
Già, questa versione dark non l’ho mai notata. Che debba cominciare a farci l’abitudine?
«Edward, fermati!» urla il nonno, ma mio padre non sembra voler sentire ragioni.
«Andate via, non si fermerà finché non saremo
lontani da voi» rispondo loro. Mi basta alzare la voce di poco,
loro sentiranno comunque.
«Edward non si ricorda di te, Nessie, non possiamo lasciarvi
andare in giro da soli. Guarda anche i suoi occhi: è affamato.
Non lo vedi?». Zio Jasper prende la parola, cercando anche di
scatenare una qualche reazione su papà, ma lui non demorde.
Sento il suo petto vibrare, un ringhio tenta di fuoriuscire, ma resta
incatenato, proprio come la bestia da cui ha origine.
In lontananza, vedo le luci della città, probabilmente Seattle,
a giudicare dall’afflusso di palazzi e grattacieli. Luci colorate
si alternano sullo sfondo magico che ci propone questa notte di luna
piena.
Rosse, gialle, verdi, blu… una miriade di colori vivaci
irradiano calore ed energia, ed è lì che mio padre si sta
dirigendo a grande velocità. Sa benissimo che lì la scia
da seguire sarà più difficile.
Si ferma di colpo, in cima ad un precipizio. Ormai la foresta è
giunta al termine. Una strada di periferia spunta ai piedi di questa
grande scarpata.
«Adesso li mettiamo alla prova». Detto questo, si lancia
nel vuoto, atterrando come niente fosse sulla strada poco illuminata.
Le case ai lati sembrano deserte, come se non vi abitasse nessuno.
Si tratta di una zona residenziale, una sorta di ghetto. Sono edifici
malconci, color rosso-mattone, con scale antincendio che scricchiolano
ad ogni minimo rumore, balconi piccoli e ristretti, con ringhiere
arrugginite dalla pioggia tipica di questo stato.
I portoni d’ingresso sono grandi, alti e con vetri impolverati, altri invece dipinti da scritte con bombole spray.
Papà mi poggia a terra, tenendomi comunque per mano, e insieme
entriamo in un vicolo buio, stretto tra due palazzine. Non so che
intenzioni abbia, ma non appena lo vedo saltare su una scala
antincendio, il pensiero più logico che mi possa venire in mente
è quello di nasconderci qui.
Niente di più errato.
Si avvicina a una finestra aperta, entra ed esce dopo pochi secondi,
con in mano alcuni vestiti. Sono anonimi, dall’odore nauseabondo.
Mi porge un cappotto marrone, pesante, con qualche strappo qua e là. Lo guardo schifata, mentre diniego con il capo.
«Che ne dovrei fare di questacosa?»
Lui inarca un sopracciglio, sorridendo di sbieco. Me lo getta addosso. «Secondo te?»
Socchiudo gli occhi, sospettosa, mentre allontano quello straccio,
gettandolo per terra. «Illuminami, perché proprio non ci
arrivo»
Lui abbassa il capo, soppesando la scelta di quale di quei indumenti
indossare. «Dobbiamo confondere le nostre tracce, non basta
essere in mezzo a tanta gente. Bisogna quantomeno mitigare i nostri
odori. Per i vampiri risulta facile rintracciare una scia,
perciò dobbiamo indossare questi per evitare che il nostro odore
venga riconosciuto».
Incrocio le braccia al petto, sbuffando per le sue idee stupide. Ok, è mio padre, ma adesso sta esagerando. Si comporta come se ad inseguirci ci fossero i Volturi, invece che i Cullen! «È
assurdo quello che stai blaterando». Getto un’occhiata
sprezzante a quei vestiti, per poi tornare a guardarlo negli occhi. Lui
ferma i suoi movimenti, irrigidendosi.
«Perché dici questo?» la sua voce non è mai
stata così raccapricciante. Sembra un animale selvatico pronto a
sferrare l’attacco decisivo.
«Quelli che ci stanno inseguendo sono la nostra famiglia. Non
vogliono farci del male, vogliono evitare che tu ne faccia agli esseri
umani. Hai sete, ogni vampiro saprebbe riconoscere questa verità
dietro i tuoi occhi neri», lo vedo distogliere lo sguardo,
pensieroso. Perché non capisce che vogliamo aiutarlo? Perché? Forse Jake ha
complicato tutto, ma se riusciamo a convincerlo che lui non vuole farmi
del male, forse papà tornerà indietro.
Devo tentare di farlo tornare su i suoi passi, almeno finché non
arrivano gli altri. È riuscito a confonderli soltanto con
piccoli ma astuti accorgimenti. Il fatto che saltasse anche sopra gli
alberi per evitare di toccare il terreno, è uno di questi.
«Non sono la mia famiglia quei vampiri, non ricordo nulla di
loro, solo di te porto ancora memoria» sussurra d’un
tratto. Il suo viso mostra i segni della sofferenza, le mani poggiate
sulle tempie che compiono movimenti circolari, cercando altre
informazioni che lo possano aiutare.
Mi avvicino e lo trascino fino a farlo sedere su quell’anonima
scala antincendio. Mi accomodo al suo fianco, stringendo le gambe al
petto.
«Proprio nulla ricordi di loro?»
Scuote il capo, perdendosi con la mente nell’oscurità
della notte. Gli occhi sembrano fissare un punto lontano, e non
soltanto dal punto di vista fisico.
«Di me cosa ricordi?» azzardo questa domanda con molta
paura, perché so già che probabilmente non ricorda il
legame di parentela che ci lega.
Lo vedo riflettere sull’ultima domanda con molta attenzione, poi osserva i palmi aperti delle sue mani.
«Ricordo del sangue… del sangue che ha macchiato le mani
tempo fa. Era parecchio, inbrattava anche il pavimento. E ricordo un
letto, non uno qualunque… un letto ospedaliero».
Vuoto, o perlomeno è questa la sensazione più vicina al mio stato d’animo attuale.
Il sangue della mamma, il letto sul quale ha dato la vita a me, quel
letto dove lei ha cessato di vivere la sua vita umana. Stringo le
braccia al petto, scossa e infreddolita.
Sì, in questo momento il gelo sembra avvolgere la mia anima.
Dovrei essere felice del fatto che lui ricordi qualcosa, anche se
così poco, ma altri ricordi indistinti tornano prepotenti nella
mia mente.
Un luogo caldo, assolato. Colori vivaci che si alternano proprio come
le luci di questa città, ma un dettaglio importante li rende
diversi come contesti.
Nel mio ricordo vi è silenzio, pace, qui in città il
rombo dei motori delle macchine, il vociare assordante dei passanti
ubriachi, la musica dei locali… tutto contribuisce a rimandare
con la mente a tempi passati, quando ancora ero nel grembo di mia madre.
Quella volta, la paura della mamma era divenuta mia, ci eravamo fuse in
unico essere quando mio padre pronunciò una frase che credevo di
aver sepolto in un angolo remoto della mia mente. «Dobbiamo tirare
fuori quella cosa prima che possa farti del male. Non temere. Non
permetterò che ti faccia del male». Come un flash, la scala
antincendio, il palazzo e il mondo circostante svaniscono, sostituiti
da una foresta, una sorta di giungla tropicale. Immersa tra i cespugli
e palme, osservo una casa bellissima, che si affaccia su una sorta di
laguna semicircolare. L’acqua del mare si abbatte sulla battigia,
il rumore delle onde mi arriva chiaro, forte. Alcuni gabbiani
zampettano sulla sabbia dorata, altri volano in cerca di cibo.
Dalla mia posizione, posso scorgere la finestra sulla cucina. Mio padre
tiene per le spalle mia madre, mentre le dice cosa ha in mente di fare.
«Quellacosa?» ripete mia madre incredula. Un ramo si spezza fra le mie mani. Non
sento dolore, e questo mi stupisce. Avrei dovuto sanguinare, perlomeno,
il ramo in questione non è di piccole dimensioni,
tutt’altro. Come se non fosse il mio corpo questo, come se in
realtà questi ricordi non siano miei, eppure li sento parte di
me.
Cerco di avvicinarmi alla casa, desiderosa di abbracciare mia madre,
parlarle, anche se si tratta solo di un ricordo o un sogno, non saprei
dire esattamente cosa sia, ma all’improvviso tutto svanisce.
Qualcuno mi scuote violentemente. Sbatto le palpebre disorientata, e
nell’oscurità di un posto sconosciuto – o quasi
– mio padre mi guarda con freddo distacco, tipico di chi ha
bisogno di mantenere la lucidità, di non cedere ad emozioni
negative.
«Indossa quel cappotto, forza. Si stanno avvicinando. Dobbiamo
allontanarci di qui, attraverso un tunnel sotterraneo. Lì non ci
verranno a cercare», mentre lo dice, me lo infila con forza, ed
io mi rigiro le maniche troppo lunghe, ancora frastornata. Che razza di sogno ad occhi aperti ho
fatto? Possibile che io fossi lì quando i miei genitori erano
insieme per la luna di miele?
Io dovrei essere dentro la sua pancia, non una spettatrice esterna. Come ho fatto ad osservarli da fuori la casa?
Mentre mi chiedo tutto ciò, mio padre mi trascina dentro
l’edificio. Si avvicina ad armadio vecchio e lo apre. Rimango
sorpresa nel notare un passaggio segreto all’interno di esso.
«Come facevi a sapere che c’era questo passaggio, questa
scorciatoia segreta?» gli chiedo mentre ci inoltriamo per queste
scale che scendono sempre giù. Sembra un vecchio tunnel, di
quelli realizzati dall’uomo, ma non avrei mai sospettato questo
nascondiglio.
«Questi edifici sono molto vecchi. Sono stati costruiti sotto dei
tunnel creati durante la guerra di secessione. Li usavano per sfuggire
all’esercito nemico, un tempo. Adesso rappresenta la via di fuga
per i criminali che sono andati a scuola», e mi schiaccia un
occhio con fare complice. Fa per procedere, ma io mi blocco come una
statua.
Prima o poi questa fuga deve volgere al termine. Anche se lui non vuole
avere niente a che fare con loro, non posso fuggire ed assecondarlo.
Devo farlo ragionare, prima che ci trascini entrambi chissà dove.
«Non m’importa se ricordi solo me, dobbiamo tornare dagli
altri. Quanto ancora dobbiamo scappare? Ti sei diretto verso il Canada,
hai attraversato il confine perché credevi che i fiumi e le
grandi foreste ti fossero d’aiuto, ma poi hai pensato bene di
tornare indietro, a Seattle, dove nascondersi tra gli umani e far
perdere le tue tracce è ancor più facile…»,
non riesco a continuare, il suo sguardo duro e i denti serrati mi fanno
desistere dall’andare avanti.
Si appoggia alla parete, dove una vecchia lampada da miniera riflette il suo bagliore pallido e letale.
«Forse saranno anche i miei familiari, ma come ti ho già
ribadito, non ricordo nulla di loro, proprio niente. Il tuo viso,
invece, mi ricorda qualcosa, sento di averti già incontrata da
qualche parte, forse lo sei sempre stata… intendo una costante
della mia vita. Sento che tu mi puoi aiutare, mi puoi far ricordare
ogni cosa del mio passato, e non riesco a farlo se quel licantropo ti
ronza intorno», conclude, scricchiolando la mascella per lo
sforzo immane. Tenta di controllare la sua rabbia, la delusione e
l’impotenza che prova nel non sapere nulla di ciò che era.
«Possiamo parlare quanto desideri, ma non c’è
bisogno di fuggire da loro. Possiamo benissimo tornare indietro e tutto
si risolverà, ma devi aver fiducia in me». Lo supplico con
lo sguardo e appoggio una mano sulla sua spalla, in attesa di un suo
cenno affermativo, che dopo mille ripensamenti avviene.
Mio padre ha deciso di tornare.
«Bene, sono contenta che finalmente tu abbia capito. Però
tu non devi temere quel licantropo. Si chiama Jake, eravate amici, lui
ha condiviso delle battaglie con te. È molto protettivo nei miei
confronti perché è il mio migliore amico, a lui confido
molte cose, è parte di me, come lo sei tu», gli spiego
sorridendo gentile.
So che non devo forzarlo, ed è per questo motivo che tengo a
spiegargli le parentele o i legami di amicizia che lo legano a noi.
Sembra riflettere sulle mie parole, ma non accenna a muoversi.
«Quindi… mi stai dicendo che non voleva farmi del male?
Quello che ho visto è stato frutto della mia fervida
fantasia?» mi domanda con voce calma, piatta, senza alcuna
inclinazione.
Vorrei potergli dire che sì, è stato frutto della sua
fantasia, ma sotto quella pelliccia Jacob ha nascosto del rancore
profondo, almeno quanto il mio.
Alle volte lo ha odiato molto, forse più di me, per il male che mi ha inflitto con la sua lontananza.
Più di una volta l’ho sentito imprecare a bassa voce quando i ricordi della mia infanzia sono tornati a galla.
«Vedi… Jake non vuole vedermi soffrire e…»
Lo vedo digrignare i denti e poi sbuffare esasperato, passandosi una
mano tra i capelli. «Lo hai già detto. Dimmi qualcosa che
non so…» Tu sei il mio papà.
Vorrei dirgli questo, ma le parole mi muoiono in gola. È
così difficile avere una conversazione con lui? Prima ero la sua
bambina, adesso non so neanche se ho il diritto di definirmi tale.
Dischiudo le labbra, ma un frastuono assordante mi fa desistere.
Papà si avvicina a me, stringendomi nel suo abbraccio e sfreccia
veloce attraverso il tunnel, lontano dalla nostra famiglia.
«No! Dobbiamo tornare indietro, non possiamo scappare via
così. Loro non ti faranno del male» urlo, dimenandomi tra
le sue braccia.
Qualcosa nella sua espressione muta, gli occhi diventano simili a ghiaccio nero, un pozzo oscuro di tenebra infinita.
«Non sono quelli che tu definisci “famiglia”.
C’è qualcun altro che ci insegue, o forse è meglio
direqualcos’altro» la sua voce è un sussurro, un’arma affilata che serpeggia silenziosa in questo tetro sottopassaggio. «È inutile che tentate di scappare, non siamo dei novellini da seminare quando volete»una
voce gutturale penetra nei miei pensieri e anche in quelli di mio
padre, che mi stringe più forte, sibilando di continuo come un
animale in gabbia. Ma chi diavolo è? Perché riesce ad entrare nelle nostre menti e parlarci come niente fosse? Una risata maschile e beffarda irrompe di nuovo, provocandomi un moto di stizza.
«Smettila di ridere a squarciagola! Non so chi sei e non m’interessa. Lasciaci in pace!».
Un silenzio raccapricciante è quello che segue le mie parole.
Passano secondi, minuti o forse ore, prima che la sua voce bassa e
stranamente melliflua ritorni. «Non ti stai domandando che fine hanno fatto i Cullen e il cagnolino?»
Il respiro si blocca per un istante, le mie dita si chiudono a pugno,
stringendo la camicia di papà, poi il cuore riprende a battere
come un treno in corsa. «Fermati».
Mio padre mi lancia un’occhiata incredula, come se le mie parole
fossero chissà quale eresia, ma non accenna a rallentare la sua
corsa folle. «Ti prego, fermati» lo supplico.
Non so cosa i miei occhi stiano trasmettendo, ma sicuramente è
un dolore che lui non riesce a sopportare. Si ferma in un attimo, i
miei piedi toccano nuovamente il suolo. Stringo le braccia al petto, in
un chiaro segno di protezione verso la minaccia che ci sovrasta con la
sua indole malvagia.
Il suono regolare di alcuni passi ci mette in allarme, l’essere
è alle nostre spalle e cammina con tranquillità, come se
non avesse paura di noi.
E probabilmente è così.
Papà si volta arricciando il labbro superiore e mostrando una
fila di denti bianchissimi, un ringhio basso prorompe dalla sua gola.
Un’ombra scorgo dietro l’angolo, finché una parte
dei suoi vestiti viene illuminata dalla luce fioca della lanterna
lì vicino.
Indossa un cappotto scuro, forse nero, molto lungo, quasi a sfiorare le caviglie.
Il suo volto rimane nella penombra, ma alcuni tratti del viso
s’intravedono nonostante la poca luminosità di questo
cunicolo. Poggia il capo sulla parete rocciosa, inclinandolo. Incrocia
sia le braccia che i piedi, in una posa degna di un uomo che incute
potere, forza e anche intelligenza.
«Direi che le mie parole abbiano sortito l’effetto desiderato» e sorride debolmente.
Lo fisso con astio. «Dove sono i Cullen e Jake?»
Lui distoglie lo sguardo, palesemente divertito dalla situazione.
«Potrei anche dirvelo, ma dubito che possano comunque comunicare
con voi. Dicono che i vampiri non dormono mai, non è
così?» nota il mio sguardo confuso e scoppia a ridere,
sfacciato. «Si dia il caso che li ho mandati a nanna per un
po’. Non che io abbia paura di loro, sia chiaro, ma non voglio
interruzioni mentre porto a termine il mio compito».
«E quale sarebbe il tuo compito, sentiamo!» ruggisce mio
padre. Mi avvicino a lui, tentando di trattenerlo per un braccio, ma
con la schiena mi fa indietreggiare, in un chiaro segno di tenermi a
debita distanza da quella figura malvagia.
Lui sospira, abbassando il capo e scuotendolo con fare rassegnato. Con
una leggera spinta si scosta dalla parete, avanzando lentamente e con
fare svogliato verso di noi. Mio padre, teso, non accenna a perdere un
solo movimento di quell’essere, nell’attesa di poterlo
cogliere in fallo.
I suoi occhi sono scuri, neri come quelli di papà. Eppure delle
macchie rosse qua e là donano al suo sguardo un aspetto
sinistro, lugubre. I suoi capelli sono biondo-cenere, abbastanza corti.
È di bell’aspetto, nonostante tutto. È alto,
più di papà, la corporatura è un po’ meno
pronunciata di quella di zio Emmett.
Solleva il braccio, fino a quando l’indice della sua mano destra
non tocca la parete. «Edward Cullen, non fai altro che provocare
danni e guai ai tuoi simili» comincia, senza guardare mai in viso
l’interlocutore. «Più di una volta sei stato una
spina nel fianco per parecchi di noi; non è il caso che tu ci
dia un taglio?» e gli lancia un’occhiata eloquente, come se
mio padre dovesse essere a conoscenza dell’argomento.
Non riesco a vedere l’espressione di papà da questa
posizione, ma di certo deve essere frastornata almeno quanto la mia, se
non di più.
L’essere si acciglia un po’. «Ah, capisco. Immagino
sia opera di Nigel se il caro Edward Cullen ha dimenticato ogni
cosa… ora si spiega perché avvertivo quello strano
vuoto» riflette tra se e se, non curandosi momentaneamente della
nostra presenza.
Nigel? Chi è Nigel? Quello che ha cancellato i ricordi di papà?
Forse se riesco a rintracciarlo, papà potrà riacquistare
i suoi ricordi, non dovrà sforzarsi se riusciamo a convincerlo a
restituire il suo passato.
«Chi è Nigel e dimmi dove posso trovarlo!» gli
ordino. Lui mi guarda come se fossi matta, ma resta ammutolito per un
po’.
Quando riprende a parlare, il suo tono è chiaramente derisorio e
ilare. «Tu credi che se io sapessi dove si trova lui e il resto
della sua squadra, perderei tempo con te?»
«Non sei un suo compagno? Non stai con lui?» gli domando sospettosa.
Lui accenna una smorfia risentita, «non mi confondere con quel
branco di inetti. Io non sono loro compagno, né mai lo
sarò in futuro. Non si sono neanche resi conto che Edward
Cullen» e lo indica con un cenno svogliato della mano, «si
è involontariamente reso utile per me».
In un lampo lo vedo sfrecciare davanti a me, sferrando un pugno nello
stomaco di papà, che finisce atterra, con il fiato corto, e mi
sussurra: «un bello smacco per il potente Sebastian, non
trovi?» Sebastian… Lui lo conosce, sa chi è
Sebastian, e cosa ancor più terrificante, lui sa che io ho
già conosciuto quella specie di vampiro dagli occhi blu cobalto.
Mio padre si riprende e si volta con l’intenzione di attaccarlo,
ma il suo pugno viene bloccato a mezz’aria. Il suo corpo
s’irrigidisce, il volto dell’essere si fa più
corrucciato, finché la terra non inizia a tremare sotto i nostri
piedi.
Trascino mio padre vicino ad una roccia, aggrappandoci insieme. Ci manca solo il terremoto, accidenti! Lui si allontana, mettendo distanza tra noi e se stesso. «Troppo tardi».
Subito dopo la terra sopra di noi si apre lungo una crepa, fino a
quando non cede completamente. Comincio a tossire, mentre mio padre
senza sforzo e senza dire una parola, mi riporta in superficie.
«Sì, lo penso anch’io, Raze» mormora una voce
familiare. Sollevo lo sguardo e i miei occhi s’incrociano con
quelli di Sebastian che mi scrutano preoccupati. Poi riporta lo sguardo
su quel tizio che a quanto sembra si chiama Raze.
Quest’ultimo si alza in piedi, battendo le mani sul cappotto
nero, poi lancia un’occhiata sprezzante verso Sebastian.
«Questo è un capo di qualità, adesso è
soltanto un vecchio straccio».
Due figure affiancano Sebastian che, per nulla intimorito, risponde:
«avrai altro di cui preoccuparti adesso. Credimi, Raze, tu non
sai di cosa sono capace. Ti conviene sparire finché io non perda
del tutto il controllo».
Gli occhi di Raze brillano di un bagliore rossastro. Getta per terra il
lungo cappotto, la camicia di seta lascia intravedere i muscoli
possenti del petto. «Beh, non è cosa di tutti i giorni
imbattersi nell’ira del grande e illustre Sebastian. Ti dispiace
se declino l’offerta? Non ho altri impegni per stasera,
preferisco restare e farvi compagnia», schiocca due dita e dietro
di lui appaiono due bestie simili a lupi, ma con una forma che ricorda
l’essere umano. Ringhiano, emettono guaiti da far rabbrividire.
«Naturalmente ho portato due amici con me, altrimenti dove
sarebbe la festa?» conclude con tono ironico.
Sebastian sospira, mentre con un gesto secco indica me e papà.
Subito le due figure incappucciate ci affiancano e ci sorreggono. Mio
padre si dimena tra le braccia dell’altro, che prontamente lo
libera e corre verso colui che mi tiene per le braccia. Lo guarda in
cagnesco, pronto a sferrare l’attacco.
«Non è il momento di certe scenate, Edward Cullen, porta
tua figlia lontano da qui. Non voglio ripetermi due volte» gli
dice con voce piatta, sfidando con lo sguardo Raze.
La mano di mio padre s’intreccia con la mia, stringendola forte.
I suoi occhi neri e sorpresi fissano il viso di Sebastian. Io abbasso
il capo, non appena papà si volta verso di me.
«Mia figlia?»
Con la coda dell’occhio vedo Sebastian sussultare sorpreso, e voltare lentamente il capo verso papà.
«Sì, tua figlia…» parla lentamente, come se la situazione sembri assurda anche per lui.
«Ma come, Sebastian, non sai che il caro Edward Cullen non
ricorda più nulla? Non vi facevo così crudeli» lo
beffeggia Raze, sorridendo con malignità.
«Davvero non ricordi più nulla del tuo passato?
Rispondi!» lo incita l’altro con una certa veemenza,
avvicinandosi a lui e osservandolo meglio.
«Non ti riguarda la faccenda!» risponde mio padre con disprezzo.
Sebastian posa lo sguardo su di me. È caldo, sa di casa, ma
avverto tanta sofferenza per me. Annuisco senza dire una parola.
È strano incontrarlo per la prima volta dal vivo proprio in
questa situazione. Avrei preferito affrontarlo in un altro momento, ma
purtroppo non posso farlo.
La luna gli conferisce un aspetto regale, quasi magico. Il potere che emana non è umano, è quello di un vampiro.
La sua mascella si irrigidisce, gli occhi freddi s’infuocano, i
capelli neri vengono travolti da una forte folata di vento. Il corpo
diventa una statua, mentre un silenzio cupo scende su di noi.
«Sebastian, che scenetta commovente, non trovi? Scommetto quello
che vuoi che Nigel ha agito su commissione, e credo anche di sapere chi
sia stato il mandante di questa sciagura». Sebastian sembra non
sentire le parole di Raze, fino a quando non riprende a parlare,
«povero Sebastian, ingannato persino dai membri della sua
squadra…» ma non riesce più a terminare la frase.
Sebastian incombe su di lui, la bocca aperta sul suo collo, i denti
scintillano come un faro nella notte. «Un ultimo desiderio,
bastardo?»
Raze non si muove, o almeno sembra così, finché non dice:
«si, desidero la tua sofferenza e la tua morte, ma se devo
scegliere… beh, la seconda è decisamente più
allettante».
Con una mano afferra i capelli di Sebastian, scagliandolo contro un
albero ai confini con il bosco. «Che si dia inizio alle danze,
cara Renesmee» sorride mellifluo, prima di dirigersi verso
Sebastian.
Angolo autrice:
Capitolo lunghissimo per i miei standard xD
Ho raggiunto le undici pagine di word. Non è un miraggio, ma il
capitolo è più lungo dei precedenti, spero che
apprezzerete. In questo capitolo c’è molta azione, e
qualche pezzo del puzzle l’ho inserito.
Vorrei approfittare di questo spazietto per pubblicizzare il nuovo
gruppo su facebook dove si pubblicizzano le storie di tutto il sito.
Trovate molte storie appartenenti a diversi fandom e sezioni originali.
Se vi va, potete darci un’occhiata, il gruppo è aperto, i
post potete guardarli tranquillamente. Vi sono già parecchi
iscritti:-)
«Dobbiamo andarcene» mormora mio padre, tirandomi per un braccio e facendomi indietreggiare.
Il mio sguardo, invece, resta fisso sul corpo di Sebastian, inerme al limitar del bosco.
Due figure bianche sfrecciano davanti a noi, nel chiaro tentativo di sbarrarci la strada e farci da scudo.
Raze arriva a toccare con la punta dei suoi stivali di pelle nera il vampiro, sbuffando con fare annoiato.
«Ah, povero Sebastian, messo alle strette da uno Zver… che diranno i tuoiamici?»
L’ultima parola esce fuori dalla sua bocca come un insulto, uno
scherno nei confronti del suo avversario, quasi a volersi beffare di
chi si circonda.
Un rantolo sfugge dalle labbra di Sebastian, seguito da un gorgoglio
prolungato e gutturale. I suoi occhi blu cobalto adesso sono puntati
sulla figura minacciosa dinnanzi a lui, lanciando bagliori sinistri.
Gli altri due esseri si posizionano davanti alle due figure
incappucciate. I loro guaiti si espandono nel silenzio della notte,
carichi di promesse di morte.
«Sarà meglio che tu segua il consiglio di tuo padre,
Renesmee. È pericoloso stare qui» dichiara con voce
spettrale uno dei volti mascherati.
Le loro voci, così come quella di mio padre, mi giungono
ovattate, lontane anni luce da me. Soltanto Sebastian la mia mente
registra come un eco che si ripete di continuo.
Sebastian… Sebastian… Sebastian…
In un attimo, qualcosa si accende in me, una strana consapevolezza si fa largo nelle mie viscere.
Sebastian potrebbe morire sotto i colpi di quel tizio chiamato Raze.
Non so cosa mi spinge, forse il mio spirito altruistico o forse la
riconoscenza per quel vampiro che sembra capire quando ho bisogno di
lui e quando invece preferisco star sola, sta di fatto che se lui
dovesse morire, qualcosa si frantumerebbe dentro di me.
Ma non riesco a definire cosa sia.
SEBASTIAN!
È come un grido, stavolta, un urlo lancinante che mi spinge a
non abbandonarlo, a lottare affinché ritorni sano e salvo a casa. O da te?, sussurra una vocina nella mia testa.
Scuoto la testa, mentre con uno strattone mi divincolo dalle braccia di mio padre.
«Renesmee!» urla quest’ultimo, cercando di venirmi dietro.
Scatto verso sinistra, tentando di aggirare le due figure e correre ad
aiutare Sebastian, ma quella più vicina a me mi acchiappa per la
vita, stringendomi in una morsa senza via di scampo.
«Lasciami, dobbiamo aiutarlo…devoaiutarlo» sbotto tutto d’un fiato.
Queldevosuona come un’imposizione, tanto che li sento vacillare, come se rispondessero a un ordine di un superiore.
«Tenetela, non lasciatela avvicinare» bofonchia una voce rauca che ormai ho imparato a riconoscere tra tutte.
Sebastian si solleva sui gomiti, il suo sguardo danza in quello del suo nemico.
«Giù le mani da lei. Ora!» ringhia mio padre.
Una mano bianca avvolge all’improvviso la gola del mio carceriere, stritolando sempre più quella vesta. Potrebbe ucciderlo, Renesmee.
No, qualcosa mi dice che quella stretta non provoca alcun dolore al tizio che mi tiene tra le sue braccia.
Al massimo potrà provare fastidio.
Infatti un sibilo fuoriesce dalle labbra. Solo al di sotto di quelle il viso è scoperto.
Il mento mascolino si nota benissimo alla luce del bagliore lunare.
La pelle è bianca, pallida, proprio come quella di un qualsiasi vampiro.
Con l’altro braccio afferra la mano che lo stringe in modo
convulso e con un gesto secco lo scaraventa contro un muro di mattoni
rossi dietro di noi.
«Papà!».
Lo schianto riecheggia come lo scoppio di una mina, ma nessuno sembra averlo udito in quel quartiere. Come mai?, mi domando.
«Tuo padre non conosce le buone maniere, a volte. È una
testa calda» e scuote la testa, come se la cosa lo avvilisse. Invece voi ne avete fin troppe di buone maniere, penso, mentre il muro si sgretola sempre più.
«Come sempre, del resto» ridacchia l’altro, facendo scrocchiare le nocche delle mani.
Mi volto di scatto, colpita da quelle parole. «“Come sempre”? Che significa? Lo conoscete già?»
Il mio carceriere si volta verso l’altro, ma dal modo in cui si
è irrigidito, immagino che non sia contento né
dell’uscita del compagno né delle mie domande.
«Sì, be’… tutti conoscono la famiglia Cullen.
E tuo padre è stato il primo dei figli di tuo nonno. È
normale che ormai si è sparsa la voce sul suo
caratteraccio»
È una mia impressione o la sua voce calma sembra stonare con la sua postura del tutto innaturale?
Probabilmente non ricaverò un ragno dal buco, vedendo già
come passano alla posizione di difesa. Decido che è inutile
cercare di tirare la corda, rischierei solo di farli allontanare ancor
di più.
Devo aspettare un altro momento di disattenzione da parte di uno dei
due, anche solo una frase ambigua come quella potrebbe fare la
differenza e smascherarli.
Cerco di forzare quella prigione d’acciaio, ma nulla; con un
sospiro mi volto verso papà, che cerca di rimettersi in piedi
dopo la botta ricevuta.
Non dovrebbe essere un problema per lui, il suo corpo è ancor
più resistente del muro che è riuscito a distruggere. Si
rialzerà in pochi secondi.
«Sì, immagino si riferisca al modo in cui mio padre si
è ribellato ai Volturi» ipotizzo, stando al loro gioco di
parole.
I due distolgono lo sguardo dall’altro, anche se non capisco come
riescano a vedersi attraverso quel mantello che li rende
irriconoscibili dalle labbra in su, e trafiggono la mia figura, in
qualche modo.
L’altro, quello con la battuta sempre pronta, sfreccia verso mio
padre, pronunciando qualcosa che non riesco a cogliere, e mio padre
finisce a terra come niente fosse. Dal respiro capisco che sta…
dormendo? Mio padre dorme?, mi domando mentalmente, incredula.
Probabilmente è lo stesso trucchetto che ha usato Raze per addormentare i miei familiari e Jake.
«Naturalmente» pronunciano nello stesso istante con tono
secco, che equivale a dire “niente più domande,
ragazzina!”. La loro risposta mi riporta con i piedi per terra,
cercando di camuffare la mia sorpresa, il mio disprezzo verso di loro
e, perché no, anche l’ammirazione per ciò che
riescono a fare con i loro poteri incredibili.
«Be’, tuo padre ne combina di casini, mocciosetta, e a
volte è difficile non perdere la pazienza con lui…»
e indica il vampiro nemico che tenta di sollevarsi alle sue spalle,
«d’altronde anche lui si caccia nei guai. Anche il migliore
a volte fallisce, lo sanno tutti» e scrolla le spalle come se
niente fosse.
«Piantala, Raze. Invece di parlare a sproposito, perché
non usi le tue energie per tenermi testa? Ti ci vorrà tutto
l’aiuto possibile per riuscire a farmi cambiare idea».
Barcollando, appoggia una mano insanguinata sul tronco
dell’albero secolare alle sue spalle, lasciando una traccia
evidente dell’impronta della sua mano.
Il rosso del suo sangue…
I vampiri non possono sanguinare!
Sono come delle pietre: dure, fredde… indistruttibili.
Se non quando vengono fatti a pezzi da un altro della loro razza.
Solo i mezzosangue possono sanguinare, dato che siamo per metà umani.
Il mio sguardo stralunato e confuso deve essere tutto un programma,
dato che Raze scoppia a ridere per la mia scoperta, mentre Sebastian
con un gesto brusco tenta di spazzarlo via, consapevole di avermi
mostrato troppo.
«Che sguardo da pulcino spaventato… sul serio, è
davvero divertente tutta questa scena. Avrei dovuto portare più
amici» e si volta a osservare i due… mostri, sì,
non riesco a trovare un’altra parola adatta per descrivere quegli
esseri, che adesso sembrano ridere, da quanto il loro corpo vibri,
sotto tutto quel pelo fulvo. « Ah, dimenticavo… quale idea
dovrei farti cambiare, caro Sebastian?» squadrandolo con un
sorriso che non ha nulla di rassicurante.
I suoi canini si allungano, parola dopo parola, secondo dopo secondo, i
suoi capelli si estendono fino ad arrivare a metà schiena. Il
viso sembra adombrarsi e l’addome sembra contrarsi in spasmi
violenti, come se stesse per trasformarsi.
Ma ciò che più mi fa paura in tutto quello che sta mutando, sono i suoi occhi.
È un fuoco, lento e inesorabile, che sembra incendiare le sue iridi, trasformandole in due veri e propri tizzoni ardenti.
Persino il colore del sangue che gli cola dalle fauci sembra meno vivo.
È il colore degli occhi di quella bestia che bisogna temere.
«Be’, ormai è tardi. Se prima pensavo che lasciarti
andare fosse un gesto di magnanimità, ora ritengo che sia il mio
più grande errore», apre il lungo soprabito nero, dal
quale spunta una katana, tipica dei samurai giapponesi, con
l’impugnatura nera, «non posso permettere che tu torni a
casa e racconti di lei» e mi indica con la spada ancora riposta
nel fodero, «mi spiace, l’hai voluto tu»
La bestia emette un gorgoglio, ormai incapace di pronunciare una
singola parola in quella nuova forma. Eppure, qualcosa di inaspettato
riesce a sconvolgere sia me che Sebastian e i suoi amici mascherati.
Con un artiglio, spazza via il rivolo di sangue, accovacciandosi sul
terreno. Traccia con i lunghi “coltelli” delle linee sul
suolo, finché non si ferma di colpo.
Un cerchio di sangue, con alcuni simboli simili a scarabocchi, giace a
terra, un fascio di luce proviene dal cielo, colpendo i singoli disegni
con precisione millimetrica.
Il sangue sembra pulsare, come se vivesse una vita a sé, lontano da quella bestia.
Con un ronzio, il sangue si muove, restringendo il cerchio, fino a
raggiungere le zampe posteriori dell’animale, che fissa con
sguardo diabolico Sebastian.
Quest’ultimo rimane senza fiato, mentre il cerchio comincia a
risalire attraverso la sua pelliccia. I simboli si accendono,
finché non cominciano a bruciare.
I lineamenti cambiano, il pelo svanisce, un uomo prende il posto di quella bestia.
Un uomo che non è Raze.
L’uomo è nudo, completamente nudo. I simboli di sangue
sembrano essere riassorbiti dalla pelle, finché non svaniscono
completamente.
Le braccia che mi tengono prigioniera si sciolgono. Mi volto, sorpresa,
verso il tizio con la mantella. Le sue labbra si muovono, ma non esce
alcun suono.
La tipica espressione di chi è appena rimasto a bocca aperta, proprio come l’altro suo amico mascherato.
A quanto sembra, neanche Sebastian si aspettava questa nuova svolta.
Eppure, oltre a quella parvenza di incredulità, scorgo agitazione, mista a paura.
Una paura devastante.
I suoi occhi incrociano per una frazione di secondo i miei, come per
darsi forza, perché dopo lo vedo assumere un nuovo atteggiamento.
Non più aggressivo, semmai quasi di soggezione.
L’uomo nudo mi da le spalle, mentre i due mostri si avvicinano a
lui, annusandolo e piegandosi a suoi piedi, in segno di sottomissione
più ferrea possibile.
Questo allunga una mano fino ad accarezzare la folta criniera di uno
dei due, il gesto così lento, calmo e pacato, sembra una velata
minaccia.
«Sono alquanto rammaricato, mio caro Sebastian, che il tuo
tentativo di uccidere una delle mie più belle creature sia
andato in fumo…» pronuncia con voce melodiosa il nuovo
arrivato.
Una delle sue bestie porge il lungo cappotto nero che Raze aveva
gettato a terra, perché rovinato. Lo indossa con gesti agili,
sinuosi, coprendo le sue nudità.
Ora solo un collo taurino e un taglio di capelli a spazzola riesco a scorgere.
Sebastian sembra non gradire quelle parole, perché risponde
gelido: «non ha avuto il coraggio di affrontarmi, dato che sei
arrivato tu. La sua spavalderia è stata tutta una
sceneggiata?»
Una risata, simile ad un coro di angeli, si espande nell’aria.
«Suvvia, Sebastian, non mi porterai rancore per uno scontro non avvenuto, spero…»
Sebastian serra le labbra, con un’espressione indecifrabile sul viso, «potrebbe essere».
L’altro emette un sospiro di rassegnazione, «anche a me
piacciono gli scontri, lo sai benissimo», lo sento sorridere, lo
capisco dalla rabbia che passa attraverso gli occhi del vampiro,
«ma tengo molto a Raze, è come un figlio per me. Non posso
proprio lasciarti compiere un simile gesto. Mi ferirebbe nel
profondo» finisce con un tono talmente costernato e affranto, che
giurerei fosse tutto vero, ciò che fuoriesce dalle sue labbra.
Dallo sguardo serio e colmo di astio di Sebastian, deduco che non sia proprio così.
«Non hai mai avuto questa impressione nei secoli passati, quando
i generali dei tuoi eserciti perivano uno dopo l’altro per mano
mia o dei miei compagni. Mi suonano come una menzogna ben camuffata, le
tue parole, se non ti conoscessi già da un bel po’».
Un’altra risata, seguita da un movimento. L’uomo si
è spostato, camminando lentamente in direzione di Sebastian.
Quest’ultimo sfodera la katana, mettendosi in posizione d’attacco, proprio come un vero samurai.
«Tengo molto ai mieifigli, ma non riesco ad affezionarmi se poi voi li uccidete non appena li creo» conclude con un ringhio animale.
Tremo, stringendo un lembo della tunica del tizio mascherato.
Quello non è un uomo, ne sono sicura adesso. L’alone di tenebra che emana è terrificante.
I due tizi mascherati mi nascondono dietro le loro figure, in caso dovesse iniziare la lotta.
«Be’, i tuoifiglinon
sanno come ci si comporta. E sono terribilmente aggressivi. Ti stupisci
se poi noi li uccidiamo? Se insegni loro quello che ègiustoe quello che èsbagliato,
allora potremmo anche smetterla, io e miei compagni» quelle tre
parole le sottolinea con enfasi, con una certa ostilità che
anche il suo nemico riesce a scorgere.
Arresta il suo passo, come se le parole dell’avversario lo
avessero scosso, ma poi il suo sguardo indugia un po’ più
in basso.
«È da molto tempo che la tua katana non viene fuori. Ah, che dico… quella non è latuakatana».
Come un lampo sfreccia verso di lui e Sebastian si prepara al
contraccolpo che sorprendentemente non avviene. Il tizio svanisce un
istante prima di sfiorare la punta della spada.
I miei occhi inchiodano quelli di Sebastian, che si spalancano
inorriditi. Un folata di vento gelido arriva da dietro le mie spalle.
La tunica dell’incappucciato si strappa, come se l’altro si
sia allontanato in fretta.
Cerco di voltarmi, per capire come mai in mano tengo solo un pezzo di
stoffa bianco, in un attimo un alito caldo mi soffia
nell’orecchio.
Il respiro si mozza e le parole mi muoiono in gola. Un tocco caldo, seguito dall’odore di morte, mi percuotono.
Sebastian grida il mio nome, mentre lo fisso atterrita. Corre verso di me, ma i due mostri lo costringono ad affrontarli.
«Toglietevi dai piedi, se non volete fare una brutta fine!»
La lama ruota, fendendo l’aria e provocando sibili di vento.
È abile con quell’arma, non ho mai visto nessuno
utilizzare una spada così, neanche in tv.
«Che ne pensi, Renesmee? Non trovi che quel vampiro
dall’aria tenebrosa meriti una lezione per aver osato prendersi
qualcosa che appartiene a me?» mi domanda una voce suadente.
È dietro di me e mi costringe a non guardarlo in viso, ma i suoi
polpastrelli scorrono su e giù sulle mie braccia. Sembrano le
carezze di un amante, come quelle che si scambiano i miei zii o i miei
nonni, eppure non sono semplici carezze d’amore.
Cerco di scostarmi, di correre lontano da questa presenza malvagia, ma
quelle dita gentili si sono trasformate: due ceppi caldi, roventi, mi
tengono ferma sul posto.
Qualcosa di umido mi sfiora il collo. Un urlo è tutto ciò
che mi concede prima di tapparmi la bocca con una mano. Con
l’altro braccio mi tiene stretta a sé.
«Non la toccare!» ruggisce Sebastian, con gli occhi che ardono, nonostante il blu sia un colore freddo.
In questo momento, sono talmente caldi e vivi che li sento trafiggere con crudeltà quelli del mio aguzzino.
«Perché, Sebastian? Tu hai preso quell’arma. Ricordi che spettava a me?»
Sebastian, per tutta risposta, colpisce allo sterno una delle due
bestie, e uno spruzzo di sangue schizza con ferocia e rapidità
sul terreno, come a volersi imprimere nella memoria di questo luogo.
«Guarda come lotta, piccola. È bravo, io non l’ho
mai messo in dubbio, ma sai, lui non vuole schierarsi dalla mia parte.
Crede che quello per cui combatte sia giusto», lo sento scuotere
la testa, «dovremmo fornirgli un motivo più che valido per
passare dalla mia parte, non trovi? Dell’arma, alla fine,
m’importa così poco che… preferisco avere sia
l’arma che colui che la sa maneggiare. Meglio entrambi che
accontentarsi di uno stupido pezzo di metallo».
Cerco di guardarlo, ma il mio viso si volta verso sinistra e si blocca. Lui non mi permette di andare oltre.
Vuole Sebastian, non solo la spada, qualunque cosa sia in grado di fare quell’arma.
Il terrore che Sebastian passi dalla parte di questo essere mi coglie
alla sprovvista, ma più quest’idea si annida in me,
più sento crescere la paura.
Non può prendersi Sebastian, colui che mi tiene prigioniera
incarna il male più profondo. È qualcosa di corrotto.
«Tu potresti aiutarmi, Renesmee, potresti essere la chiave per portarlo tra le mie file».
«Scordatelo! Non te lo permetto, tu non le farai del male»
scandisce con forza una voce familiare. Riporto lo sguardo su Sebastian
e noto che le due bestie sono a terra, con sembianze umane, entrambi i
corpi nudi esposti alla fievole luce lunare.
«Vuoi mettermi alla prova?» ringhia il mio aguzzino, stringendomi fino a farmi mancare il respiro.
«Sì, ma non lui. Sono io che ti metto alla prova!». Questa voce…
Le mie gambe tremano, il mio corpo vuole accasciarsi al suolo, tante
sono le emozioni che lo percorrono. Ma è la voce che ho sentito
un attimo fa a farmi vacillare.
La mano sulla mia bocca scompare, per posarsi sul mio collo e
stringerlo, in un chiaro tentativo di non compiere mosse azzardate.
«Mamma!».
Di tutti i modi in cui avremmo potuto incontrarci, questo è sicuramente l’unico che non mi ha sfiorato la mente.
Angolo autrice:
Eccomi tornata, spero che anche questo capitolo vi piaccia. Se ci sono
errori, fatemeli notare, li correggerò al più presto.
Grazie.
Cliccate sul link qui sotto se volete vedere il video della storia.
«Mamma» grido sempre più forte.
Cerco di voltarmi, di divincolarmi da quella stretta così soffocante, ma i miei tentativi sono del tutto inutili.
L’essere che mi tiene prigioniera sembra non tenere in
considerazione la mia forza, ma ugualmente stringe la presa, mozzandomi
il respiro in gola.
Una risata maligna riecheggia nelle mie orecchie. Non si è ancora voltato verso mia madre.
«Hai visto, Sebastian? Sono arrivati i tuoi amati rinforzi…»
La mia vista comincia ad annebbiarsi, mentre la figura sfocata del vampiro dagli occhi blu si avvicina sempre più.
«Te lo ripeto: lasciala andare» ripete con calma, come se
stesse parlando ad un rapinatore con una pistola puntata contro la mia
tempia.
Con uno strattone si volta per metà, così da tenere d’occhio sia Sebastian che mia madre.
Cerco di mettere a fuoco il suo volto che tanto mi è mancato, ma è difficile. Maledetti occhi! Non riesco a
distinguere bene i contorni del viso, ma posso affermare con certezza
che quel poco che vedo sembra non essere mutato. Logico, Renesmee. Tua madre è una vampira! Il vestito che
indossa mi sembra strano, nuovo e fuori dall’ordinario. Sembra un
miscuglio tra il blu notte, il nero e il viola. Una parte delle cosce
sono nude, degli stivali alti le arrivano fin sopra il ginocchio. I
capelli sferzano nell’aria come un lungo velo scuro.
È nella penombra, appoggiata al muro di uno degli edifici rossi
vicino a noi, gli occhi sono avvolti nell’oscurità.
Due tuniche volteggiano ai lati, altri due esseri.
«Hai problemi di udito, Andrew?» rincarò la dose mia madre, non avvicinandosi di un passo. Perché?, mi chiedo mentalmente.
Per un attimo, una fitta mi trafigge il cuore, pensando che lei non voglia combattere per me, ma subito la caccio via.
Sa che l’essere che mi tiene fra le sue grinfie non è uno
qualsiasi, e forse cerca una soluzione per tirarmi fuori da questa
situazione.
Andrew sorride, facendo ondeggiare la testa. Sento le ossa del collo scricchiolare per via di quei movimenti forti e decisi.
«Ah, che momento indimenticabile. Non trovi, Renesmee? Finalmente
incontri la tua mammina, la donna che ha sempre dichiarato che per lei
tu e tuo padre siete le persone più importanti, e invece guarda:
lì, nascosta nell’ombra, lontana da te e da me. Paura o
semplicemente disinteresse verso la sua unica figlia?» domanda
infine il mio aguzzino.
Avrei dovuto aspettarmi quella domanda, o forse no?
O forse quello che più mi ha scioccata dopo la sua arringa
è stato il dubbio viscerale che si è insinuato in me?
È qui per salvarmi oppure per sconfiggere Andrew? Entrambe le cose, amore mio.
Un sussurro mentale, il suo, ma capace di farmi sobbalzare dalla sorpresa. Anche lei…
Sollevo il viso di scatto, scrutando una figura slanciata venire verso
la nostra direzione. I suoi movimenti sono fluidi come l’acqua
che scorre inarrestabile, la grazia che sprigiona non è
paragonabile a quelle degli altri vampiri, licantropi o qualsiasi altra
cosa essi siano.
Emana un potere simile a quello di Sebastian d’intensità. Forse insieme possono batterlo.
Il suo volto viene illuminato da un lampione lì vicino. I suoi
capelli scuri ondeggiano sinuosi per via della brezza leggera che
aleggia nell’aria. Gli sono identici a quelli di Sebastian: due
pozzi glaciali, due abissi freddi, che in qualche modo riescono a
riscaldarti con la loro intensità.
«O andiamo, Isabella. Stavamo facendo una semplice chiacchierata
io e il caro vecchio Bastian… niente che possa farti
infuriare» prosegue con voce ingenua Andrew.
Nonostante sembri sicuro di sé, indietreggia ad ogni nuovo passo
di mia madre, mantenendo comunque le distanze da Sebastian.
Quest’ultimo cerca con insistenza d’incrociare i miei
occhi, d’incatenarli ai suoi e non lasciarli fuggire via, e
proprio per paura che commetta qualche stupidaggine, decido di
concentrarmi su mia madre.
È da molti anni che non la vedo, distogliere lo sguardo da lei
sarebbe come rinnegare me stessa, annullare, distruggere tutto
ciò per cui lotto disperatamente: ricostruire quella famiglia
felice che eravamo un tempo.
«Invece ciò che hai ottenuto è proprio questo».
Scatta in avanti nella mia direzione. La sua velocità mi mozza
il respiro: mai visto nessuno correre con tanta rapidità.
Persino mio padre, uno dei vampiri più veloci del mondo,
è niente in confronto a lei.
Andrew scoppia a ridere sguaiatamente. I suoi occhi svettano verso l’alto, come attirato da un movimento improvviso.
Un’ombra oscura la luna, come un manto. I miei occhi fanno fatica
a seguire i movimenti di mia madre, ma sia Andrew che Sebastian non
sembrano sorpresi dalla ultra velocità che sta dimostrando.
«Accidenti!» esclama il primo, mettendomi una mano intorno
alla gola, stringendo sempre più. Cerco di parlare, ma neanche
un filo di voce esce. «Sono impressionato, davvero,
Isabella».
Un’inclinazione derisoria nella voce, capace di farmi tremare di paura.
Ciò che a me sembra incredibile, per lui è roba di poco conto.
Chi diavolo è questo Andrew che tutti, compresa mia madre, sembrano temere come un appestato?
«Dovresti esserlo, perché non finisce qui». La voce
di mia madre aleggia nell’aria, la tensione comincia a
diffondersi intorno a noi.
Se lo scontro avrà davvero luogo, di certo sarà diverso da quelli giocosi che ho visto tra i miei zii e mio padre.
Una vera battaglia, una vera guerra tra vampiri e creature orribili.
Nel silenzio che segue gli istanti successivi, vedo Sebastian
scomparire alla stessa velocità della mamma, e Andrew
indietreggia, fino a quando i due suoi scagnozzi sottoforma di bestie,
ringhiando contro le due figure incappucciate che avanzano.
Il corpo del mio aguzzino si rilassa, fino ad allentare la tensione dei
muscoli delle spalle, braccia e gambe, finché d’un tratto,
il mio udito capta qualcosa di strano.
Arcuo un sopracciglio: dei vestiti che si lacerano, stoffa che viene fatta a brandelli. Il rumore proviene dalle mie spalle.
Cos’è? Di cosa si tratta?
Un altro mostro si sta trasformando? Possibile che non l’abbia ancora visto?
Ma niente di tutto ciò avviene.
Qualcosa di ruvido e bagnato mi sfiora il lobo dell’orecchio destro, denti appuntiti giocano, stuzzicano la mia pelle.
Cosa fa? Vuole mordermi?
In preda alla paura, comincio a divincolarmi, ma la presa sul collo
s’intensifica sempre più. Scalcio, cerco di morderlo,
graffiarlo, ma è come un macigno indistruttibile.
Come se io fossi un piccolo gattino innocuo.
«Ferma. Non puoi proprio perderti lo spettacolo ora che la
situazione si fa interessante», appoggia il mento
sull’incavo del mio collo, costringendomi a guardare le figure
incappucciate davanti a lui, «cominciamo da loro».
Due ombre sfrecciano ai lati del mio viso, ma non riesco a capire di
cosa si tratta. Almeno finché non si spiegano, mostrando la loro
sconcertante ampiezza.
Due grandi ali, simili a quelle di un pipistrello, mi ricoprono come
una coperta. Tutto intorno a me svanisce. Persino il cielo è
oscurato da quelle mostruosità.
La presa sul mio collo e sulla mia vita scompaiono e io mi ritrovo ad
incespicare in avanti. Mi volto di scatto indietro, ma Andrew non
c’è più. Al suo posto, le ali sembrano creare una
perfetta, stretta e buia prigione.
Allungo una mano per toccarle, ma subito una scarica elettrica mi attraversa il corpo, facendomi rabbrividire.
L’elettricità non dovrebbe farmi effetto, allora perché questa volta la sensazione è stata diversa?
Alle mie spalle, un ronzio attira la mia attenzione: alcune scariche
elettriche si sono concentrate in un punto, fino a creare un cerchio.
All’interno di esso, intravedo la figura alta, muscolosa e
spigolosa di Andrew.
Come una finestra, la figura imponente di quell’uomo si staglia
nell’oscurità, risplendendo di un alone rossastro. Sul
cappotto, vedo due lunghi squarci. Sussulto non appena vedo sfrecciare
mia madre e Sebastian su di lui.
Piega la gambe e ruota su se stesso, stringendo tra le braccia il collo di entrambi, che gemono in preda al dolore.
Batto i pugni una volta, prima che le scariche mi percuotano. «Mamma! Sebastian!».
Finalmente Andrew solleva il volto nella mia direzione. Gli altri due sembrano non aver sentito le mie urla, ma lui sì.
Il viso è spigoloso, forse europeo dai lineamenti, di certo non
americano. Il naso è dritto, come la lama di una spada, la bocca
piegata in una smorfia crudele e malvagia.
Gli occhi… occhi che ti perforano l’anima, che
l’annegano in un bagno di sangue, perché sì: i suoi
occhi sono di un rosso scuro, striati di nero. Occhi terrificanti.
«Non ti piace quel che vedi, Renesmee?» mi domanda sorridendo mellifluo.
Pronuncia qualcosa, senza aspettare una risposta alla sua domanda, e
subito la terra inizia a tremare. Incredula, osservo la pietra
ricoprire come uno strato i corpi dei due vampiri. Solo le teste e le
mani sono libere.
Andrew si allontana, cominciando a massaggiarsi il collo indolenzito, anche se il combattimento è durato pochissimo.
Sospira, scuotendo il capo in una finta espressione rammaricata.
Mi madre si contorce, cercando invano di liberarsi, ma niente accade. Lo trucida con uno sguardo di fuoco.
«Risparmiati qualsiasi battuta di spirito. È facile per
te, avendo a disposizione il controllo degli elementi. Sappi, comunque,
che non sei l’unico».
Andrew fa una smorfia, storcendo il naso, infastidito dalle sue parole,
ma non sorpreso. «Immagino si tratti di quel vampiro egiziano.
Come si chiama?» le domanda ingenuamente.
«Benjamin» pronuncia una voce.
Andrew si volta, alla ricerca di quella voce, così come tutti,
tranne mia madre che mantiene lo sguardo fisso verso il suo nemico.
Socchiudo gli occhi, cercando di capire. Non sembra sorpresa, e
fissando la pietra che la tiene prigioniera, noto che la roccia via via
si va sbriciolando lentamente.
Rimango a bocca aperta, ma taccio, nel caso lui sentisse le mie parole. Deve essere opera di Benjamin, era sua la voce.
«Mostrati, piccolo Benjamin» dice Andrew, cominciando a
contorcere le mani. Artigli prendono il loro posto. Lunghi coltelli
scuri brillano sotto il grande occhio di luna.
Mentre piega le ginocchia per spiccare il volo, si blocca, dilatando le narici e ringhiando come un animale feroce.
«Non sei solo…» sussurra con voce piatta.
«No, non lo sono». Benjamin adesso è più
vicino, la voce è meno profonda e più chiara. Sollevo lo
sguardo, fino a portarlo sul tetto di uno degli edifici rossi.
Un lungo mantello svolazza. Al suo fianco, grandi lupi si ergono su due
zampe, molto più alti del vampiro. Il loro muso si arriccia in
una smorfia grottesca e, sotto il cenno di quella mano bianca,
schizzano ruggendo verso Andrew.
Lui si raddrizza, nascondendo di nuovo gli artigli acuminati. Stavolta
non sorride, l’espressione indecifrabile sul viso non lascia
spazio ad emozioni quali la paura, al contrario di me.
Solleva una mano, e subito un muro invisibile si pone davanti ad esso.
C’è qualcosa di strano nel suo sguardo, come se volesse verificare qualcosa con quella tecnica…
I lupi si abbattono sul muro, rimbalzando indietro. Solo quello
più distante, dal pelo bianco, resta in disparte, studiando
l’avversario. I suoi occhi color blu cobalto si fissano sullo
scudo invisibile e sulla mia prigione.
Alza una zampa, mettendola nella stessa posizione di Andrew. Quest’ultimo socchiude gli occhi.
Dopo un lungo istante, Andrew abbassa la mano, sussurrando un
“dovevo aspettarmelo”, e subito dopo la mia prigione
esplode in mille pezzi.
Cado in ginocchio a terra, gli occhi fissi su quello strano licantropo
– perché non può non essere tale – e poi
sugli altri lupi, che ondeggiano il capo, come se si fosse trattato di
una brutta batosta anche per loro.
Quel lupo, a differenza degli altri, non ringhia, non si comporta da
stolto. Sicuramente è molto più esperto degli altri suoi
compagni. È l’unico che ricordo non essersi mosso subito
dopo il cenno di Benjamin, come se lui fosse in gradino più in
alto nella scala gerarchica.
«Ho sentito parlare di un lupo che abbatte le barriere
fisiche… devi essere tu, suppongo» mormora Andrew,
incatenando gli occhi in quelli del lupo.
Nel frattempo, mamma e Sebastian vengono liberati dalla prigione di
pietra. Quest’ultimo corre nella mia direzione, inginocchiandosi
accanto a me.
Mi afferra per un braccio, rinfoderando la spada. «Tutto bene?» mi domanda preoccupato.
Lo fisso negli occhi e il suo sguardo così intenso mi fa vacillare.
Non voglio ammettere davanti a lui di essere debole, frignona o
altro… ma non ce la faccio. Mi getto tra le sue braccia,
soffocando le lacrime che premono per uscire copiosamente. Una leggera
carezza sul capo mi fa ridestare quasi subito.
Subito il mio primo pensiero va a Sebastian, ma devo ricredermi.
Adesso mia madre è accanto a me e mi sorride amorevole e
comprensiva. Scosto via il corpo di Sebastian con una forte spinta, il
quale infastidito sbotta un “ehi!”.
Stringo fino a farle mancare il respiro la sua vita, mentre lei continua ad accarezzarmi.
«Non mi sembra vero…» biascico con voce incrinata dal pianto.
«Lo è, piccola mia, ma adesso è meglio che tu dimentichi ogni cosa per il tuo bene».
Sollevo il volto di scatto, pronunciando un secco “no”, che
non viene tenuto in considerazione, perché subito dopo tutto si
fa buio, e l’ultima cosa che ricordo sono due labbra che si
accostano al mio orecchio.
«Ricordati:più della mia stessa vita».
Angolo autrice: Sei tornataaaaa???
Sì, nessun miraggio, nessuna oasi nel deserto. È il nuovo capitolo, fresco fresco.
Mi sono presa una vacanza da questa storia che è durata
più di un mese, ma era necessario, per me, per i protagonisti,
per la storia in sé.
Quando arriva il prossimo capitolo? Non lo so, non l’ho ancora
scritto, ma spero entro un mese, invece di quest’ultimo.
Ringrazio chi legge soltanto e chi mi lascerà il proprio parere.
A presto.
PS: alle recensioni del capitolo scorso, risponderò nei giorni successivi. Mi scuso anticipatamente.
«Era necessario?» le domando, scostando dal volto di Renesmee una ciocca ribelle.
Vedere il suo sorriso rilassato dopo tutto quello che è accaduto
è un sollievo, come se il mio cuore si fosse alleggerito di un
macigno.
Intorno a noi regna il silenzio, spezzato solo dal combattimento che sta avvenendo poco più in là.
I due sottoposti di Andrew stanno dando battaglia ad alcuni nostri
compagni, mentre quest’ultimo studia con circospezione il grande
licantropo dal pelo quasi argenteo.
Andrew non conosce il volto di Alexander, e questo è per noi un netto vantaggio sul loro clan.
Ogni volta che Alexander si è scontrato contro di loro, nessuno
della squadra avversaria è mai ritornato indietro per
raccontarlo, a parte Taylor, di cui ancora non abbiamo notizie.
Probabilmente si trova in qualche altro continente a causare morte e distruzione, com’è tipico suo.
«Certamente. Non permetterei mai che mia figlia corra dei
pericoli» risponde piccata, mentre scruta con attenzione il corpo
di Renesmee in cerca di escoriazioni. D’altronde si tratta pur
sempre di una mezzosangue: è normale rimanere feriti nel suo
caso, e queste non si rimarginano velocemente come le nostre.
La fulmino con un’occhiataccia e stringendo più forte a me quell’esile corpo.
«Arrivi un po’ tardi con i rimorsi di coscienza, non trovi,
Bella?» le domandai con tutto il sarcasmo di cui sono capace.
Che si risparmi i suoi sensi di colpa. So che quel che facciamo
è rischioso per lei, ma continuare a mentirle, ingannarla
così, non è corretto.
Io non lo vorrei al posto suo.
La vedo trasalire leggermente, il volto oscurato da quella lunga chioma
castano scuro. Si volta lentamente verso il bosco, rimanendo sempre
accovacciata vicino a noi.
«Ti ringrazio, Nigel. Credevo che aspettassi un qualche ordine
diretto per intervenire… non ti ho mai visto agire di tua
iniziativa».
Socchiudo gli occhi infastidito. Io sì, invece.
Non è uno spettacolo a cui partecipo volentieri. Riportare alla
memoria scene con Nigel protagonista mi fa rabbrividire fino alla punta
dei piedi.
Se all’apparenza risulta calmo e pacato, all’occorrenza
sfodera un lato di sé che preferirei non vedere mai, a costo di
tenerlo lontano dalla battaglia.
Proprio come William spesso gli impone.
Tranne in casi estremi, come se in gioco ci fosse la sua stessa vita.
Dall’oscurità, un’ombra si muove lenta, sinuosa,
come a volersi beffare dell’eleganza degli abitanti del bosco.
Lui ne sembra il sovrano assoluto.
Nel suo lungo cappotto nero, Nigel appare come il braccio destro della
morte, quella simpatica figura con il mantello del medesimo colore che
impugna con le mani trasparenti la falce, l’arma che rappresenta
sia la fine di una vita, che il raccolto di un mietitore con progetti
molto più grandi per coloro che si trovano sul suo cammino.
Sul suo viso spigoloso e un po’ smunto, compare il solito sorriso
di circostanza, quello che riserva a tutti coloro che gli rivolgono
anche solo una parola.
Le braccia sono incrociate dietro la schiena, proprio come un perfetto
soldato dell’esercito, pronto per ricevere l’ennesimo
comando.
Una vera macchina per uccidere, non c’è che dire.
Mentre lo osservo incamminarsi verso di noi, flashback del passato tornano prepotenti nella mia mente.
Sangue, urla, uomini con petti squarciati, gole da cui fuoriescono
fiotti di sangue, capanne di paglia che bruciano… il tanfo di
morte che aleggia nell’aria.
Cerco di scacciare queste immagini terribili che appartengono al
passato, concentrandomi sul presente. Ricordare non è mai un
piacevole viaggio.
Mai.
«Preferisco astenermi dal combattere. È un modo barbaro di
affrontare le questioni…» conclude con tono mellifluo, al
che io sbuffo scocciato. Lui odia i modi barbari… Che battuta scadente, detta da quel tipo.
Si appoggia al tronco di un albero, salutandomi con un cenno del capo e un sorriso compiaciuto.
Sa benissimo l’ostilità che nutro nei suoi confronti, e se
ne compiace ogni volta che il mio sguardo cupo si posa su di lui.
Non sono l’unico a fissarlo con sospetto.
«Capisco, rispetto la tua decisione» ribadisce lei, voltandosi finalmente a guardare me, con sguardo impassibile.
«Tsé!» borbotto, aprendo un lembo del mio soprabito e avvolgendo il caldo corpo di Renesmee.
«Sebastian!» mi richiama la vampira al mio fianco. Non la
degno di uno sguardo, continuando a nascondere i miei occhi alla sua
vista.
Non riesco a sopportare il suo modo freddo di agire. Si tratta di sua
figlia, accidenti, come fa a “spegnere” i suoi sentimenti
così rapidamente e con altrettanta facilità?
«Sebastian… cosa?»
«Smettila, litigare o cercare un pretesto per provocare guai non
rientra nei nostri piani» e mi lancia un’occhiata della
serie “stai zitto, altrimenti te la vedrai con me”.
«Chi ti dice che litigare con lui non sia una fonte di
divertimento per me?» le chiedo sorridendo apertamente e
mostrando due coltelli acuminati che spuntano dalle mie gengive.
Lei mi sorride di rimando, mostrando le sue altrettante affilate zanne.
«Non giocare con me, capito?»
Mi sollevo, con Renesmee stretta al petto. La sfido con gli occhi.
«Altrimenti? Sei più giovane di me, sei tu quella che dovrebbe temermi, non il contario…»
Si avvicina, quel tanto che basta che i nostri respiri ghiacciati si
mescolano. Nessuno dei due sembra voglia tirarsi indietro. Io non lo
farò di sicuro.
«Siamo stati alleati per alcuni anni, Sebastian, ti conosco
ormai. So quali sono i tuoi vantaggi e i tuoi svantaggi. Provocarmi,
nonostante tu sia più “vecchio”, non ti
porterà molto lontano».
Sogghigno, incurante dello sguardo di rimprovero di Nigel che,
avvertendo la rigidità dei miei lineamenti, tenta di evitare che
il vero vampiro che è in me ritorni alla ribalta.
Dubito che Isabella Cullen possa riuscire a tenermi testa.
Lo stesso Alexander, una volta visto all’opera, si è
guardato bene dal provocarmi. In quel periodo ero una mina vagante al
pari del Nigel di oggi. Dovrei non accusarlo, giudicarlo… ma mi
riesce difficile quando scorgo quella scintilla rossastra nei suoi
occhi.
È come se Nigel incarnasse il mio lato più oscuro, come una finestra sul mio triste e sanguinoso passato.
Una finestra che non deve mai essere aperta.
«Isabella…» comincia Nigel.
La vampira distoglie lo sguardo da me solo per un breve istante, quello
che serve per raggelare sul posto un qualsiasi essere, soprannaturale o
meno. Se non si fosse trattato di quel vampiro, avrei creduto bastasse
un misero incontro di pupille, ma parliamo del tenebroso Nigel…
Dubito si sia fermato per volere di Bella, tutt’altro… lo ha voluto lui, lo ha ritenuto necessario.
«Tranquillo, Nigel. Isabella non sa contro chi si sta confrontando, meglio che continui a non saperlo».
Rilasso le spalle, voltandomi per metà.
Quest’ultima inarca un sopracciglio, leggermente scettica. Sa che
sono molto potente, ma non conosce quel lato oscuro e malvagio che si
annida in ognuno di noi. Il mio, forse, è uno dei più
terrificanti della storia dei vampiri.
Nel frattempo, noto che Andrew squadra la figura di Nigel con
curiosità e anche come uno che cerca di ricordare un volto
già intravisto, ma a quanto sembra, non sembra riuscirci, tanto
che scuote la testa, sorridendo verso Bella.
«Dovresti prestare ascolto, mia giovane vampira, a
quell’individuo. Sebastian non è quel tenero e
addomesticato agnellino che ti mostra sempre. C’è stato un
tempo in cui…»
Lo interrompo prima che possa svelare chissà quale episodio del
passato. «Evita, Andrew. Ricordare non è una buona
idea».
Boccheggia, credendo che stia scherzando. «No, non puoi dire sul
serio», si colpisce con una mano la fronte, sollevando gli occhi
al cielo, «quello era il più bel periodo che io abbia mai
vissuto. Non rinnegare certi eventi».
Chino il capo, per via delle sue parole. Dovrei rispondergli?
No, affronterò dopo la fronte, sicuramente aggrottata, che ho alle mie spalle.
«Riporto Renesmee a casa. pensate voi a Cullen e agli altri. Mi raccomando, discrezione come sempre».
Dicendo questo, spicco il volo, allontanandomi da loro e dai problemi che ci saranno al mio ritorno a casa.
Per il momento, la sicurezza di questa donna tra le mie braccia conta più di tutto il resto.
***
Pov Andrew
«Che
peccato, Sebastian è andato via…» sussurro, mentre
osservo quella figura imponente e scura allontanarsi tramite balzi
enormi sul terreno.
«Già, un vero “peccato”» ripete quel tizio vicino a Isabella.
Non ho idea di chi sia, ma a quanto ho avuto modo di ascoltare, si
chiama Nigel. Eppure quel volto non è nuovo. Sento di averlo
già visto… qualcuno di potente, da temere.
Incrocio le braccia al petto, e con la coda dell’occhio seguo i movimenti del lupo bianco.
«Mmh… non ci siamo già visti da qualche parte, tu
ed io? Forse è la mia immaginazione…», faccio una
lunga pausa, «ma sono sicuro di non sbagliarmi». Con la mia
velocità, lo raggiungo in meno di un secondo, pochi centimetri
ci distanziano, ma lui non sembra essere turbato, mantiene la stessa
espressione pacata, impassibile di prima.
«Chi sei davvero?» domando infine.
Abbassa per un attimo gli occhi e, credendo che stia per sferrare un
attacco a sorpresa, i miei muscoli si tendono. Nel frattempo, sia il
lupo che Isabella si avvicinano: il primo ringhiando sommessamente, la
seconda si posiziona alla mia destra, pronta a scattare.
Il tizio di nome Nigel decide di prendere la parola, forse per evitare
uno spargimento di sangue, o forse perché crede di sminuire se
dovesse attaccarmi insieme a tutti loro.
«Non c’è bisogno che intervenite, Andrew sta giusto andando via… non è vero?»
Solleva lo sguardo fino ad incatenarlo al mio. Rimango senza fiato:
quegli occhi blu cobalto sono spariti, lasciando posto a due iridi
rosse, la sclera completamente nera.
Subito nella mia mente ritornano immagini di un guerriero, un vampiro
che si aggirava nelle lande desolate della Siberia lasciando dietro di
sé urla di terrore, di sofferenza. Colui che uccideva licantropi
con uno scopo preciso: sterminare l’intera razza di canidi
giganti.
Adesso il suo aspetto è cambiato, non porta più capelli
lunghi fin sotto il mento, ma un taglio elegante, il completo dona
un’aria sofisticata a quel nuovo vampiro.
Schiudo la bocca, ma sembra che ogni parola sia trattenuta da catene invisibili.
Un’idea comincia a farsi strada in me, e un sorriso accondiscendente e denso di sottintesi spunta sulle mie labbra.
Ma è questione di un attimo. Mi volto di nuovo verso il lupo bianco, lanciandogli un’occhiataccia.
Se non fosse per lui, a quest’ora avrei fatto prigioniera la
piccola mezzosangue, e forse sarei riuscito a distruggere qualche
membro dei seguaci di William.
Sbuffo scocciato. Dovrò fare più attenzione d’ora
in poi, quel licantropo non preannuncia nulla di buono, per non parlare
di quel moccioso vampiro lassù, il dominatore degli elementi.
Nonostante anche io riesca a manipolare la natura, quello che so fare
è nulla paragonato al dono innato di un vampiro. Il mio è
frutto di esperimenti ed esercizi, ma lui può riuscirci quando
vuole, se un giorno avrà una perfetta padronanza delle sue
capacità.
Anche Benjamin deve morire, se non vogliamo vedere dimezzate le nostre truppe prima ancora di iniziare a fare sul serio.
«Sì, devo proprio andare via», comincio con un finto
tono rammaricato, «mi duole lasciare questa piacevole rimpatriata
tra vecchieconoscenze, ma il lavoro chiama». Non mi volto nemmeno per guardarlo, sa bene che l’ho riconosciuto.
Mi porgo in un finto inchino, il tempo di afferrare dalla cintola dei
pantaloni il coltello che tengo nascosto. Piego le ginocchia, nel
silenzio che si protrae sempre più, finché non scatto
verso il lupo, che tenta all’ultimo millesimo di secondo di
schivarmi.
Davanti a me si pone una figura, Nigel con la mano sinistra blocca il
mio braccio destro, pronto a conficcare la lama nel petto di quel
licantropo. Tutti ci osservano con occhi sgranati. Un movimento alle
mie spalle mi avverte che Isabella si sta avvicinando per aiutare il
suo compagno, ma Nigel è più veloce: la sua mano destra
trapassa il mio corpo, proprio nella parte sinistra della cassa
toracica.
Mentre la sua mano tenta di afferrare il mio cuore e strapparmelo dal
petto, sussurro al suo orecchio «pensi davvero che ti lasci
entrare nel mio corpo e cercare il mio organo vitale per strapparmelo
via?»
Sorrido, notando lo sgomento momentaneo di Nigel. Finalmente
un’emozione diversa e soprattutto vera lo coglie, ma è
questione di secondi.
«Proiezione…» mormora scioccato, per poi voltarsi verso il lupo e chiamandolo per nome.
«…astrale» continuo io, tagliando via un pezzo di pelle dell’amico e stringerlo nella mano.
Spicco un balzo, un attimo prima che gli altri lupi, incoraggiati dai
poteri di Benjamin possano nuocermi in qualche maniera. Appena atterro
sul tetto, cerco con gli occhi i miei due sottoposti. A qualche metro
di distanza da dove mi trovavo io, due grosse palle di pelo giacciono
in una pozza di sangue scuro, quasi nero. Lentamente riprendono le
sembianze umane.
Pazienza. Anche se ne ho persi due, stanotte non tornerò a mani
vuote, e soprattutto non senza informazioni di un certo rilievo.
La vibrazione del telefono nella mia tasca mi avvisa della chiamata in arrivo.
Pronuncio una formula antica e sul campo di battaglia cala una fitta
nebbia, l’ideale per fuggire senza avere qualcuno alle calcagna.
Controllo il display illuminato. Taylor.
«Che notizie mi porti? Spero che siano buone per la tua salvezza» rispondo, ancor prima di sentire la sua voce.
Una profonda voce gutturale risponde ridacchiando.
«Tranquillo, tutto è andato secondo i piani… l’abbiamo presa».
«Ottimo. Dove siete?»
«Già in viaggio verso casa, signore».
Sorrido, incrociando sulla mia strada una BMW grigio metallizzata che
procede a velocità sostenuta. I finestrini sono abbassati,
l’odore dei due umani mi solletica le narici.
«Perfetto. Fai rapporto a lui, quando arrivi. Dì che anche io sono di ritorno».
Lo sento trattenere il respiro, forse anche rilassare la tensione.
«Con la mezzosangue?»
«No», abbasso il capo, fissando il lembo di pelle che
è ritornato ad avere sembianze umane, «ho qualcosa di
più importante da mostrare… il sangue di un certo
Alexander».
«Ah. Allora si è imbattuto in lui, signore?» domanda
con una certa preoccupazione. Aggrotto le sopracciglia, pensieroso.
«Sì. Lo conosci per caso?» gli chiedo.
«Sì… è il lupo bianco, quello che mi ha
quasi ucciso l’altra volta, quando sono tornato con tutte quelle
ferite».
Mi lascio sfuggire una smorfia. «Capisco. In quell’occasione lo hai visto abbattere barriere fisiche?»
«No. Cavolo, è in grado di farlo?» domanda sbigottito.
«Sì, lo è».
Lo sento bestemmiare dall’altra parte del telefono, ma lascio
correre. So per certo che non mi mancherebbe mai di rispetto, conosce
bene la sua punizione, nel caso dovesse anche solo pensarci.
«Signore?»
«Sì?»
«Appena torna le racconterò qualcosa che è meglio
non dire al telefono. Di presenza sarebbe più opportuno».
Una strana sensazione mi coglie di sorpresa. Cosa sarà mai di così importante da non poterlo dire adesso?
«D’accordo. Posso almeno sapere il fulcro
dell’argomento in questione?» gli chiedo ancor più
esasperato.
«Alexander… e Isabella».
La mia mano stringe con forza il cellulare. Prendo un respiro profondo,
congedo Taylor, rinviando quella strana discussione per quando
rientrerò al quartier generale.
Con un balzo atterro sul cofano della BMW, provocando le urla di
terrore dei due, un maschio e una femmina, e facendo andare fuori
strada l’auto. Osservo la scena dalla cima del pendio, mentre la
vettura rotola fino a fermarsi a pochi metri dal ruscello.
L’odore della benzina aleggia nell’aria, mentre mi
precipito verso i due umani.
Li estraggo dall’auto, facendo a pezzi i due sportelli.
Un’esplosione, e la macchina diventa una grande palla di fuoco.
Un gemito, alle mie spalle. La donna si è appena ripresa, dalla fronte alcune gocce di sangue cadono giù.
Con sguardo confuso osserva la scena,poi posa gli occhi sulla mia figura.
«Ci hai salvati. Grazie».
«Non ringraziarmi, tesoro» sorrido, chinandomi e con
l’indice raccolgo una di quelle gocce cremisi, portandomela alle
labbra. Succhio, assaporando il grande potere che sprigiona questo
liquido denso.
Li riapro di scatto, sotto gli occhi stralunati e spaventati della mia
preda. «Deliziosa. Non potevo trovare di meglio per
stanotte».
Con una mano le afferro la gola, con l’altra le scosto i lunghi capelli color oro e affondo i miei denti nella sua carne.
Ah. Finalmente la droga più dolce e squisita al mondo scorre dentro il mio corpo.
«Bon appétit, Andrew» mormoro nella notte, illuminata dal chiarore pallido della luna.
Angolo autrice:
Salve,
eccomi tornata così presto. Non vi abituate a questi
aggiornamenti lampo, perché non saranno sempre così.
Allora…
In questo capitolo succedono alcune cose e scopriamo qualcosa in più di alcuni personaggi.
Non sono proprio tutti buoni come avevamo pensato… almeno non
degli agnellini. Nel prossimo capitolo si scoprirà chi ha rapito
Taylor.
Intanto vi lascio rimuginare su questi nuovi aspetti. :P Ps:alle recensioni risponderò domani.
Buio. È questo ciò che i miei occhi vedono.
Se non fosse per la luce della luna che filtra dalla finestra della
stanza, l’oscurità avrebbe inghiottito ogni cosa,
rendendomi impossibile riconoscere il luogo in cui mi trovo.
Eppure di due cose sono certa: sono in un letto, e soprattutto sono in casa mia.
Comincio a muovere le dita, chiudendo ed aprendo i palmi. Stranamente,
questa strana sorta di intorpidimento non accenna a svanire.
I miei arti sembrano fatti di pietra, qualsiasi movimento mi risulta impossibile.
Perché?
Cerco di fare mente locale su tutto ciò che è accaduto,
ma è come uno schermo bianco, come se qualcuno avesse cancellato
una parte dei miei…
«Ricordi».
Sussulto per quanto possibile. Quella voce carezzevole, vellutata come
poche altre la riconoscerei tra mille. Il mio cuore comincia a battere
forte, forse per via dello spavento, non so, ma è come se non
volesse saperne di arrestare la sua corsa. Sebastian.
«Ti ho già ribadito di non ficcare il naso nella mia
testa, ricordi?» gracchio con voce roca. Sarà il pisolino
che ho fatto?
Tra i pensieri che mi affollano la mente e le domande senza risposta,
questa è l’unica sensata che mi è fuoriuscita dalla
bocca.
Soffoca un risolino, rimanendo comunque in un angolo della stanza.
«Sì, ricordo. Ma sai anche che non sono molto bravo ad
eseguire un ordine» mi risponde, ma è come se quella frase
nascondesse un altro significato.
«Mi stai dicendo che sei un tipo ribelle?» lo sfido.
Nel frattempo, cerco di mettermi seduta, ma una forza invisibile mi
costringe a stare sdraiata. Ansito in preda alla fatica e stringo i
denti, tentando ancora una volta.
Una folata di vento improvvisa mi distoglie dai miei propositi.
Sul letto, al mio fianco, una figura alta, scura e possente, si staglia
in tutta la sua bellezza. Il gomito poggiato sul cuscino, il palmo
sotto il mento, mi scruta silenzioso per qualche secondo. I suoi
capelli neri sono più scompigliati del solito. Chissà
perché…
Gli occhi blu scuro riflettono il bagliore pallido della luna e intanto
accarezzano il mio corpo. È come sentirsi nuda, completamente
senza difese dinnanzi a quel suo sguardo intenso. Mi accorgo solo in un
secondo momento che in mano tiene una rosa rossa.
L’odore fresco e profumato mi arriva come uno schiaffo alle
narici; deve averla raccolta questa notte, a giudicare dalla
brillantezza dei petali.
«Dipende dai casi».
Solleva la mano dove tiene la rosa e l’avvicina alla mia guancia.
Una goccia, simile ad una perla, cade da uno dei petali bagnando la mia
guancia. Si china lentamente verso di me e poggia le sue labbra proprio
nel punto in cui è caduta.
Un calore inaspettato si sprigiona dal mio corpo, le guance sicuramente
sono di rosso porpora così vivido che anche nella notte
più tetra si riuscirebbe a distinguere il mio imbarazzo.
E anche qualcos’altro.
Indugia sulla mia pelle, come se si trattasse di una punizione, o
almeno è così che la vedo io. Perché quel calore,
quell’intenso fuoco che ho dentro di me non accenna a svanire,
anzi, è come se quelle dannate labbra scatenassero istinti
sopiti o mai svegliati. Le sue labbra sfiorano la parte destra del
viso, in un andirivieni continuo, senza sosta, mentre con la rosa
percorre con delicatezza il mio braccio nudo. Comincio ad ansimare
sfacciatamente, come se mi mancasse l’aria.
E infatti è proprio questa la sensazione.
Neppure la vicinanza con Jake ha scatenato tutto questo, nonostante
anche lui sia un ragazzo bello e che fa strage di cuori nella riserva.
Il suo tocco ardente non mi invia cariche elettriche come quello di
Sebastian, né mi accende – ormai non riesco a definire in
alcun modo questo fuoco – come questo vampiro misterioso che ho
al mio fianco.
Perché con lui accade?
«Dovresti saperlo» riecheggia la sua voce nella mia mente.
Con un alito di voce, rispondo: «invece non riesco a comprenderlo».
Si blocca di colpo, sospirando e imprecando in un lingua che non conosco.
Non riesco a capire le sue intenzioni, finché per un istante non
incrocio il suo sguardo: è nero, più oscuro di quello che
hanno i miei parenti quando sono in astinenza.
Persino la sclera è completamente nera, proprio come le pupille.
Schiudo le labbra, ma non riesco a dire nulla. È come essere
risucchiati in quel vortice tenebroso. Dovrei temere questo vampiro, mi
dice il mio intuito, eppure una parte, quella più nascosta di
me, mi incita a fidarmi, di lasciarlo fare perché non
sarà mai capace di farmi del male.
Si tuffa con una smorfia nella piega del mio collo, aspirando il mio
odore. Mi scappa un urletto non appena due punte acuminate mi graffiano
la pelle. Il mio urlo potrebbe essere scambiato per paura di
quest’essere, ma soltanto io conosco la verità. È
un urlo, un incitamento a proseguire, a mordermi. E questo mi spaventa
ancor di più.
«Perché lo hai fatto?» mi chiede, sempre con il viso
nascosto nell’incavo tra il collo e spalla. Adesso la rosa non mi
accarezza più, giace vicino al mio viso. Il suo braccio mi
stringe in maniera possessiva, come se io gli appartenessi.
La sua domanda mi coglie di sorpresa. A cosa si riferisce?
Forse ha a che fare con quel muro bianco che vedo ogni volta che cerco di ricordare gli eventi scorsi?
Ricordo mio padre, nei pressi della riva del fiume, inginocchiato e che
ci da le spalle. Poi la corsa folle verso Seattle, inseguiti come dei
fuggiaschi dai miei familiari. Subito nella mia mente si fa strada una
preoccupazione folle, che mi atterrisce e mi costringe a porre una
domanda per me fondamentale.
«Mio padre! Dov’è?» urlo in preda al terrore. No, non può essergli successo qualcosa di nuovo.
L’ho appena ritrovato, non può avermi abbandonata ancora
una volta. È vero, ha perso la memoria, non è quello di
un tempo, ma posso riuscirci. Ricorda me, questo è più
che sufficiente.
«È al sicuro, puoi stare tranquilla» pronuncia poco
dopo lui, strascicando le parole, come se cambiare argomento lo avesse
reso più indisposto.
Solleva lo sguardo, adesso tornato normale, respirando a fatica, come se si stesse trattenendo dal fare qualcosa di terribile.
«Davvero?»
Non riesco a trattenere quella parola, che schizza via come un fulmine
dalla mia bocca e lui, dal suo canto, mi inchioda con i suoi occhi
imperscrutabili.
«Dubiti della mia parola, piccola?» Certo, perché non dubitare di uno sconosciuto?!, grido nella mia mente e lanciandogli uno sguardo di fuoco.
Scuote la testa, trattenendo a stento un altro di quei suoi stupidi sorrisi.
«Strano, quando sorrido, ti piaccio ancor di più» mi
fa notare con nonchalance, mentre si solleva sulle braccia e mi
intrappola sotto di sé.
Tento ancora di muovermi, ma soltanto il capo obbedisce. La posizione
in cui ci troviamo è molto ambigua agli occhi di un estraneo, e
forse anche per me.
Il battito del mio cuore si fa irregolare, un cavallo al galoppo al
posto di quello stupido organo che non accenna a diminuire la sua corsa.
Che mi abbia bloccata lui in questa posizione?
Faccio per domandarglielo, ma un sorriso malizioso spunta sulle sue
labbra, mostrando per giunta una lunga fila di denti bianchissimi e
affilati come rasoi.
Annuisce, senza aggiungere una parola. Ma è questione di un attimo. Si avvicina fino a far toccare le nostre fronti.
«Non farlo mai più» sussurra, e il suo alito freddo
mi perfora le narici, stordendomi con il suo aroma. Sa di salvia,
betulle, menta.
«Di cosa stai parlando? Continui a ripeterlo, ma non ho la minima idea di…»
Con uno scatto in avanti, preme su tutto il mio corpo. Avverto tutti i
suoi muscoli contrarsi per aderire alle mie forme, incastrarsi come se
fossimo un unico corpo. Il mio cuore non vuole saperne di starsene
all’interno della gabbia toracica, come se volesse fondersi con
il suo.
«Fermo!» urlo, ma lui sembra non sentire le mie parole.
I suoi occhi blu incontrano i miei, e li vi rimangono.
«Non metterti più in pericolo. Non devi permetterlo»
«Ma di che parli?!»
«Tu fai come ti ordino, Renesmee, e non dovrai mai assistere ad
un terribile spettacolo» mi rivela, scomparendo da sopra il mio
corpo e ricomparendo sullo stipite della porta.
Con un cenno della mano mi libera da quella prigione invisibile,
così che io possa mettermi finalmente seduta. Con una mano mi
massaggio il collo indolenzito, e noto con la coda dell’occhio
che Sebastian accenna una smorfia per poi voltarsi, stringersi nelle
spalle e serrare i pugni fino a far sbiancare le nocche.
Sbuffo scocciata, nonostante le mie guance sono ancora accaldate per il suo tocco e mi posiziono alle sue spalle.
Prendo un bel respiro.
«Tu non mi ordini proprio nulla. E inoltre, non ho la più
pallida idea di cosa tu stia parlando. Immagino che debba ringraziare
te se al posto di avere ricordi delle ultime… ore?... Giorni?
Ah, chi lo sa, dato che adesso vedo solo uno schermo bianco simile a
quello di un cinema!».
Si volta di scatto, afferrandomi per le spalle e spingendomi verso
l’armadio a muro. Quest’ultimo trema non appena mi sbatte
con forza, agitandosi insieme alle mie emozioni.
Sostengo i suoi occhi per tutto il tempo, anche la presa sulle braccia
comincia a farmi male, tanto che lui se ne accorge e mi lascia andare,
non spostandosi di un millimetro.
«Se l’unico modo che ho per tenerti in salvo è darti
ordini precisi, allora lo farò, Renesmee. Che ti piaccia o no,
dovrai fare quello che dirò».
Socchiudo gli occhi, «se non volessi “obbedirti”?»
Questa, poi… lui vuole comandarmi a bacchetta?
Alza le braccia, ponendole ai lati delle mie braccia, poggiando i palmi sull’armadio dietro di me.
«Credi di potermi sfidare, Renesmee? So bene che non sei avvezza
alle regole, almeno quanto me, ma su questa proprio non transigo: non
devi cacciarti nei guai» mi dice serio. Ah, davvero? Se non accetti le regole che ti impongono, cosa ti fa credere che lo faccio io?, penso mentalmente con rabbia.
Come attirato da qualcosa, si dirige verso la finestra, liberandomi da
quella gabbia di braccia. Le incrocia dietro la schiena, congiungendo
le mani.
Un angelo della morte, forse più terrificante e bello di esso.
Schiocca la lingua con fare annoiato, ma il suo sguardo corrucciato la dice lunga sul suo vero stato d’animo.
«Il tuo cagnolino è vicino. Il suo zampettare sul terreno
è simile al rumore di un trattore. Può andare bene per
inseguire una preda che sa della sua esistenza», poi lancia
un’occhiata nella mia direzione, «ma non può certo
svolgere il ruolo di spia. Troppo rumoroso, così come gli altri
tre cagnolini al seguito».
Lui è in grado di percepirli? Neanche io riesco a farlo, come può lui sentirli da così lontano?
Allunga le braccia e poi si sente riecheggiare lo schiocco dell’osso del collo.
«Hai molti poteri. Dovrò fare attenzione sulle pseudo
amicizie che stringo» gli rivelo, poggiandomi a braccia
incrociate sulla porta.
Scrolla le spalle e poi solleva un indice, agitandolo in segno di diniego.
Si avvicina con grande rapidità a me, prendendomi il viso tra le
mani e sussurrandomi: «cosa ti ha fatto credere nel mio
comportamento che è una pseudo amicizia ciò che voglio da
te?»
Subito dopo le sue labbra sono sulle mie. Voraci, veloci e sicure. Non
conoscono la sconfitta, né accettano repliche da parte delle
mie, che dotate di una volontà a me sconosciuta lo assecondano,
in quel vortice di emozioni destabilizzanti.
Persino le mie mani tendono a disobbedire ai miei comandi: afferrano
con forza i suoi morbidi capelli neri, li tirano, facendolo mugolare
come un gatto.
Potrei pensare di avergli fatto del male, se non fosse per ciò
che dice adesso: «stringimi, abbracciami, baciami. Lasciati
andare alle sensazioni che stai provando, mia piccola Renesmee»
E così faccio: le nostre bocche continuano a deliziarsi delle
soffici labbra di entrambi, finché lui non osa di più. La
sua lingua preme sulle mie serrate, fino a quando non schiudo la bocca
desiderosa di poter andare oltre.
Accarezza la mia lingua, ci gioca, la stuzzica. Poi si allontana di
pochi centimetri, appoggiando successivamente la fronte sulla mia.
Entrambi teniamo gli occhi chiusi e respiriamo con affanno, i nostri corpi sono percorsi da tremiti convulsi.
«Non dimenticare né il bacio, né le emozioni che
hai provato qui, tra le mie braccia mentre stai con lui. Potrai anche
essere il suo imprinting, ma quello che c’è tra noi va ben
oltre quella magia».
Imprinting? Magia?
Ma di cosa diavolo sta parlando?
Non si tratterà per caso di…
«Sì. Mi raccomando, ricorda tutto ciò che ti ho
detto, e tieniti lontana dai guai. Io farò il possibile, ma tu
non remarmi contro», si avvicina alla finestra, accovacciandosi
sul davanzale, «ah, dimenticavo. Tuo padre si trova nella sua
stanza da letto. Sta riposando, dovrebbe riprendere conoscenza a breve.
A presto, Renesmee».
E così dicendo spicca un volo altissimo, dissolvendosi dopo in nebbia.
Rimango a bocca aperta per alcuni istanti, poi porto due dita alle labbra, toccandole.
Il sapore delle sue labbra è ancora qui, penso tra me e me,
mentre in lontananza comincio anche io ad avvertire lo scalpiccio delle
zampe del mio lupo e dei suoi compagni.
Sorrido, ripensando alle sue parole e dirigendomi verso la camera dei miei.
Sembra davvero di udire un trattore nel bosco.
Angolo autrice:
Eccomi
tornata con un altro capitolo. Come avete potuto notare nel capitolo,
non vi sono nuove scoperte sul piano d’azione, ma su quello
sentimentale. Direi un bel passo avanti e magari inaspettato, ma prima
o poi doveva succedere, no? xD
Piccola nota: nello scorso capitolo vi era un errore. Si tratta della
prima parte. Non era narrato dal punto di vista di Alexander,
bensì di Sebastian. Ho già corretto l’errore, visto
che probabilmente vi sarete confusi durante la lettura.
Altro punto: avevo promesso di rivelare l’identità della
vampira rapita da Taylor… be’, dovrete aspettare il
prossimo capitolo, nel caso non cambi di nuovo idea, ma non credo. Ma
posso anticiparvi che questa vampira ha un dono e che non è una
nuova new entry. Già in Breaking Dawn ha fatto il suo ingresso
risultando abbastanza importante nel rivelare le vere intenzioni dei
Volturi, perciò vi lancio la sfida. Chi è questa vampira?
Adesso, l’ultima cosa, poi la smetto di rompervi. Ho notato che
negli ultimi capitoli le recensioni sono diminuite, così mi
domando se per caso la storia vi annoia, se per caso ci sono errori o
magari qualcosa che non va nei personaggi. Fatemi presente anche in via
privata se volete cosa c’è che non va.
Be’, adesso vi lascio. Pubblicherò fra un poco una
copertina speciale per la mia storia nel mio blog. Per chi è
interessato, fateci un salto. È la mia prima creazione di questo
genere.
A presto.
Se qualcuno mi avesse detto che stanotte avrei ricevuto il mio primo bacio, non ci avrei creduto.
Sensazioni strane si agitano in me, mai sentite prima d’ora.
Ripercorro con la mente quel momento in cui Sebastian mi afferra per le
spalle in maniera decisa, ma senza mai farmi del male. Le sue labbra
fredde che sfiorano con delicatezza le mie, indugiano con timore, come
se io fossi il cacciatore e lui la preda che si avvicina, rischiando il
tutto.
E il mio corpo!
Come dimenticare ciò che quello sciagurato mi ha trasmesso,
facendomi dolere parti che non mi sarei mai aspettata. Perché
sì: quel vampiro mi ha stregata in qualche modo, rendendomi
succube di quel piacevole piacere che solo un suo tocco è in
grado di trasmettermi.
Mentre cammino con passo malfermo per la casa, in direzione della
camera dei miei, le mie dita non ne vogliono sapere di allontanarsi
dalle mie labbra, toccandole più volte, nel tentativo di
simulare altre più invitanti.
È questo che provano i miei zii e i miei nonni? È questo
strano senso di pace e serenità che anela mio padre da anni?
Forse adesso riesco anche solo ad intuire cosa si prova, perché
da quando Sebastian è andato via, scomparendo
nell’oscurità della notte, è subentrato un
sentimento di malessere fisico, come se ad ogni mio passo un vuoto mi
accompagnasse.
I miei occhi schizzano sia a destra che a sinistra, alla ricerca di
qualche segnale, di qualcosa che mi possa aiutare ad attenuare questo
gelo improvviso, ma l’unica cosa che riesco a fare è
stringermi tra le braccia.
«Smettila, Renesmee. È solo una stupida sensazione. Non
puoi essere diventata così dipendente da quell’arrogante,
spocchioso vampiro che ti ha baciata!»
Mi mordo il labbro inferiore, cercando di trattenermi dall’urlare
a squarciagola. Vorrei gridare, emettere uno strillo così acuto,
che persino al polo Nord mi sentirebbero. Chi se ne importa! Che mi sentissero anche sulla luna. E così faccio,
un urlo liberatorio fuoriesce dalle mie labbra e, subito dopo, una
grande massa di pelo rossiccio si scaraventa contro la porta,
riducendola in frantumi.
Schegge di legno svolazzano per il salotto, altri due lupi infrangono le finestre.
Vetro e frammenti lignei giacciono per terra, tre lupi alti come
cavalli ringhiano a pochi passi dall’enorme divano a forma di
“L”.
Sospiro pesantemente, incrociando le braccia al petto e fulminando con
lo sguardo i tre che adesso osservano intorno a loro con sguardo
interrogativo.
«C’era bisogno di sfondarmi la porta di casa e anche le
finestre?» domando con tono ironico, ma con una velata minaccia
nei miei occhi.
Uno sbuffo esce dal lupo grigio, simile all’argento, che si volta
verso il camino, accucciandosi lì e ignorandomi bellamente.
Stringo i denti, pronta a dirgliene quattro a quella bisbetica di Leah,
ma il mio cammino viene interrotto da Jake che prontamente afferra la
mia maglietta da dietro e mi spinge dalla parte opposta.
Mi volto infuriata verso di lui, pronta a rimproverarlo, ma appena
incrocio i suoi occhi neri, grandi come palle da golf – a detta
di mia madre – la voce del vampiro dagli occhi cobalto irrompe
nei miei pensieri. «Non dimenticare
né il bacio, né le emozioni che hai provato qui tra le
mie braccia mentre stai con lui. Potrai anche essere il suo imprinting,
ma quello che c’è tra noi va ben oltre quella magia». Potrai anche essere il suo imprinting…
Schiudo le labbra, ma nessun suono esce dalla mia bocca.
Cos’è l’imprinting? Sarei io l’imprinting di Jake?
Perché non ho mai sentito niente di simile alla riserva? Forse
sono l’unica, l’unico “imprinting” del luogo.
Ma allora perché non dirmelo?
È una cosa brutta essere l’imprinting di Jake?
Dovrei chiederglielo, domandargli di spiegarmi cos’è un
imprinting, ma questo comporterebbe spiegare anche chi mi ha messo al
corrente di quest’altro segreto.
Come reagirebbe il mio Jake, sapendo che un vampiro conosce questa verità?
Come reagirebbe se sapesse che quell’arrogante vampiro mi ha
baciata e io non mi sono allontanata, anzi, l’ho incoraggiato?
Probabilmente allo stesso modo di mio padre. Su questo sembrano andare
d’accordo, o almeno fino al giorno in cui non hanno litigato per
la scomparsa della mamma e poi papà è fuggito via.
Ah, quante domande senza risposta…
Scuoto la testa. Al momento non posso pensare a questa nuova scoperta.
Di là c’è mio padre, disteso su un letto, il quale
sembra non aver ripreso conoscenza.
Con tutto questo baccano avrebbe dovuto, mi ripeto mentalmente, mentre esco dal salotto e mi avvio verso di lui.
Ancora mi risulta inverosimile che un vampiro possa perdere conoscenza.
È vero, può essere ferito, rimanere danneggiato per un
po’, ma mai così a lungo e alla stregua di un essere umano
comune.
Qualunque cosa gli abbiano fatto, Sebastian ne è al corrente,
altrimenti come avrebbe fatto a sapere delle sue condizioni?
Lui ci ha riportati a casa? Lui ha fatto perdere conoscenza a mio padre? È capace anche di questo?
Mi domando inoltre se è un bene avvicinarmi così tanto ad un vampiro di cui non so nulla.
Mentre sono persa in questi pensieri, non mi rendo conto di essere
arrivata alla porta della camera da letto finché una mano si
appoggia alla mia spalla destra. Mi volto, riconoscendo quella grande
mano color ruggine e mi immergo in due pozzi neri come
l’ossidiana.
Due occhi che mi fissano preoccupati, che mi sostengono anche in momenti difficili come questo.
«Andrà tutto bene. Ci sono io con te» mi rassicura,
attirandomi tra le sue braccia e stringendomi con delicatezza. Immergo
il viso nella maglietta scura che indossa, constatando che si tratta di
una marca troppo costosa per lui.
Un sorriso affiora sul mio volto. «È di mio padre, vero?»
Sento il suo cuore accelerare il battito. Sollevo lo sguardo
incuriosita per la sua reazione, trovando due guance rosse come un
pomodoro e uno sguardo sfuggevole.
«Be’, non volevo turbarti, dato che lo sei già abbastanza» mormora impacciato, allontanandosi di poco.
Sorrido, cercando di smorzare quell’imbarazzo che aleggia
nell’aria. Porto le mani sui fianchi, fissandolo truce.
«Jacob Black, da quando siamo diventati timidi? Se non sbaglio,
non lo sei mai stato da quando ti conosco»
Scoppia in una fragorosa risata, piegandosi sulle ginocchia, finché non mi unisco anche io.
Torna serio dopo non so quanto tempo. «Volevo farmi perdonare per
essere entrato in quel modo in casa. A proposito…»,
incrocia le braccia al petto e si appoggia con la schiena allo stipite
della porta, «perché ti sei messa ad urlare in quel
modo?»
Porto un dito sotto il mento, corrucciando le labbra in una smorfia.
«Vediamo…», inclino la testa di lato, guardandolo
come se fosse palese, «forse perché è una
situazione frustrante?»
Inarca un sopracciglio, rimanendo sbigottito. «Vuoi dire che hai urlato in preda alla frustrazione?»
«Non capita mai a te?» gli chiedo con tono scocciato, afferrando la maniglia della porta.
Mio padre è lì dentro, su un letto, svenuto, e lui mi chiede perché mi metto ad urlare?
«Sì, mi capita. Ma mi hai fatto prendere uno spavento! Non
fare mai pi…» si interrompe di colpo, annusando
l’aria con circospezione. Aggrotta le sopracciglia, borbottando
tra sé e sé qualche insulto ai succhiasangue,
alternandoli con insulti a chi invece li ha creati.
Si muove a scatti, come se l’odore, per lui nauseabondo, lo conducesse in una direzione ben precisa.
«Jake? Hai captato qualche odore nuo...», ma non riesco a
continuare la frase, che bruscamente mi afferra per le braccia, mi fa
arretrare fino al muro e mi fa appoggiare su di esso.
Il respiro mi muore in gola non appena vedo un muscolo guizzare sulla
sua mascella. Chiude gli occhi, con un’espressione sofferente sul
viso si avvicina. Con la punta del naso sfiora il mio collo, il suo
alito caldo mi solletica, accendendo un fuoco simile a quello che ho
sentito con Sebastian. Chiudo gli occhi a mia volta, tentando di
ripescare nella mia mente quelle sensazioni destabilizzanti. Al posto
di Jake compare Sebastian, in tutta la sua fierezza. I suoi pollici
sfregano con dolcezza le mie braccia, i suoi capelli neri e folti mi
accarezzano il mento, mentre due labbra umide si poggiano sulla mia
vena palpitante.
Ripercorre con le labbra tutti i movimenti di prima, indugiando sugli
stessi punti, per poi sussurrare: «perché non riesco a
sentirlo come quello di qualunque altro succhiasangue?»
La voce roca, bassa e profonda, di Jake, ben diversa da quella del
vampiro, mi giunge lontana, ma è abbastanza per farmi ritornare
nel pieno delle mie facoltà. È stata solo
un’allucinazione, tento di convincere me stessa.
Deglutisco a disagio, tentando di respingerlo. Mi domando perché
mi senta in dovere di farlo, perché sto allontanando il mio
lupo, ma non riesco a trovare una risposta soddisfacente. «Perché lui non è me»sussurra una voce soave, ma con tono fermo, nella mia mente.
Apro gli occhi di scatto, sbarrandoli non appena vedo il viso di Jake adombrarsi.
«Chi è Sebastian, Renesmee?» mi domanda con voce fredda. Renesmee, non Nessie.
Le sue mani non sono più una prigione per le mie braccia, mai la
sua voce è stata tanto fredda. D’istinto, porto le mani
alle braccia, sfregandomele come in preda alla pelle d’oca.
Qualcosa mi dice che non è per via del freddo, non è per
via di quella frase sussurrata e scagliata nella mia mente come a ciel
sereno.
È stato il tocco del mio lupo a farmi sentire strana, a disagio come mai prima d’ora.
Ma ciò che più mi ha sorpreso è sentire il nome di quel vampiro misterioso dalle labbra di Jake.
E ora?
***
Pov Sebastian
«Ma quando imparerà quel cucciolo da salotto a tenere le mani a posto?»
Senza accorgermene, il grande abete al mio fianco viene sradicato dalla
mia mano, ma prima che possa toccare il suolo, accompagno la sua caduta
con entrambe le braccia.
«Accidenti!» impreco tra me e me. Per colpa sua rischio di
farmi scoprire e mandare all’aria tutti i propositi di William di
tenere nascosta la nostra identità.
Faccio un respiro profondo e appoggio la schiena su un altro tronco
lì vicino, osservando dalle finestre infrante ciò che
avviene nella casetta.
Perché Renesmee non l’ha fermato prima? Non è
così debole da non riuscire ad allontanarlo, o semplicemente
intimargli di non farlo.
Dovrò sempre intervenire io per evitare che quel lupetto da quattro soldi la tocchi?
Afferro con forza alcune ciocche dei miei capelli, tirandomeli,
cercando di provocare un dolore che annulli quello che sento dentro.
Un sfruscio di foglie attira la mia attenzione. Alla mia destra
qualcuno si sta avvicinando, ben sapendo di trovare qualcosa. Riprendo
la mia compostezza e, con un balzo, salto uno dei rami più alti,
mettendo in allerta i miei sensi.
Chiunque sia, non è di certo uno sprovveduto o un novellino.
Forse riesco ad intuire tramite l’odore di chi si tratta. Faccio
un respiro profondo, e un odore acre e muschiato mi arriva alle narici.
Lupo di La Push.
Per fortuna, grazie alla mia esperienza, riesco anche a distinguerli
l’uno dall’altro. Riconoscerlo non sarà un problema.
Faccio un altro respiro profondo e questa volta la puzza che li
contraddistingue si mescola con l’odore tipico dei vampiri.
È ben celato, ma chiunque sia del clan di William riconoscerebbe subito una simile fraganza.
Si tratta di Seth. Dai cespugli vedo comparire una sagoma corpulenta,
degna di un lottatore di wrestling. I suoi capelli neri splendono per
la loro lucidità, i muscoli guizzano sui pettorali, indice della
sua tensione.
Ad un tratto, solleva la testa scura, mostrando una sfilza di denti
bianchissimi e sorridendomi come si saluterebbe un vecchio amico.
«Scendi, vecchietto!» ridacchia, incrociando le braccia al petto.
Sbuffo scocciato. Questi lupi non imparano mai le buone maniere?
«Non rientra nelle buone norme dell’educazione far notare
la mia età» lo rimprovero bonariamente, saltando e
atterrando silenziosamente sul terreno morbido di aghi di pino.
Scrolla le spalle, dandomi una pacca sul braccio. «E da quando sono educato?» mi domanda ironico.
Scuoto la testa, sospirando. Per quanto lo trovi oltraggioso da parte
sua, questo suo carattere allegro e spontaneo mi piace, mette di
buonumore chiunque gli stia intorno. Un grande dono, per un ragazzo
così giovane, paragonato ai tanti secoli d’età.
«Un giorno di questi ti darò una lezione
indimenticabile» gli prometto, puntandogli un dito al petto e
riducendo gli occhi a due fessure.
Solleva un sopracciglio, divertito, allontanando con una mano la mia e
battendogli dei colpetti. «Lo dici sempre, ma non lo fai
mai».
Incrocio le braccia al petto, scocciato. «Perché si da il
caso che tu non sia senza “protezione”».
Mi fissa indignato, portandosi le mani ai fianchi. «Ehi! Non sono sotto la protezione di nessuno».
«Sicuro?» domando divertito.
«Sicurissimo» mi risponde, sfidandomi con lo sguardo.
Scrollo le spalle, ritornando ad osservare la casetta e i suoi
abitanti. Un sorriso, senza rendermene conto, spunta sulle mie labbra.
«Mamma mia quanto sei… schifosamente cotto!» sghignazza Seth.
Sobbalzo a quell’affermazione, voltandomi nella sua direzione.
Dire che è completamente andato di testa, è poco.
«Davvero?» cerco di mantenere un tono indifferente, ma risulta più stridulo che mai.
«Hai l’aria compiaciuta e, forse non ci hai fatto caso, ma
ti sei sfiorato le labbra con due dita», sorride schiacciando un
occhio, poi continua, «be’, quella è proprio la
faccia di chi ha appena baciato qualcuno…»
Porto l’indice alle labbra. «Davvero le ho sfiorate? Come ho fatto a non accorgermene?»
Mi passa un braccio attorno al collo, inducendomi a voltarmi insieme a
lui verso la casa. «Forse perché i tuoi pensieri sono
catalizzati su qualcuna in particolare, non è così?»
Scosto bruscamente il suo braccio. «Ti sbagli».
«Io non ne sono tanto convinto».
Mi passo una mano fra i capelli, stranamente a disagio. Non voglio
parlare di quello che è successo tra me e Renesmee. È
qualcosa che vorrei tenere per me, una manifestazione d’affetto,
ecco. Affetto?, mi domanda una vocina nella mia testa.
Okay, forse chiamarlo affetto non rende bene l’idea. Ah, quel bacio…
È come la scena di un film: ripercorro con la mia mente ogni
istante, ogni sfioramento, ogni piccolo bacio. La sua pelle sembra
scottare sotto le mie mani, le sue mani calde accarezzano il mio corpo,
scorrono tra i capelli facendomi rabbrividire.
«Ah, amico mio… sarà meglio andare. Prima che ti afflosci qui in mezzo al bosco».
«Posso ucciderti qui?» domando innocentemente. Perché non evita di interrompere i miei pensieri su Renesmee?
Schiocca la lingua, sorridendo. «No, Bella ha bisogno di me, e anche voi».
Lo fisso falsamente indignato. «Non so chi altri ha bisogno di te
oltre Bella, ma sappi che io non necessito affatto dei tuoi servigi,
perciò fila via».
Alza gli occhi al cielo, mentre tende i muscoli delle gambe, pronto a correre via. «Vedremo».
Sì, vedremo…
Lo trucido con lo sguardo, ma mentre stiamo per allontanarci, la
vibrazione del mio cellulare mi blocca sul posto. I miei occhi
incrociano quelli del giovane lupo che con un gesto della mano mi dice
di rispondere, e così lo estraggo dalla tasca.
Sul display compare il numero di Bella. Sicuramente mi dirà di affrettarmi per fare rapporto al grande capo.
«Dimmi» rispondo. Non ha senso perdersi in convenevoli, quali il saluto.
«Abbiamo un problema». Chiara e concisa. Qualsiasi cosa sia
accaduta, dal suo tono incolore, si direbbe più che un problema.
«Di che si tratta?» le chiedo, mentre Seth si fa più
vicino, tentando di capire cosa sta accadendo. Il suo sguardo attento
ne è la prova.
«Maggie. L’hanno presa questa notte».
Un’imprecazione fuoriesce dalle mie labbra. Faccio per scagliare
il telefono nel fitto della foresta, ma il giovane mutaforma me lo
sfila via in tempo. Stringo i pugni e mi lascio cadere sul manto erboso.
«Sebastian? Che succede? Seb…», la voce di Bella viene interrotta da Seth.
«Tranquilla, è qui con me. È meglio che parli io
con te. Parlavi di Maggie, che l’hanno rapita. Ma esattamente
quando?» domanda lui, aggrottando le sopracciglia.
In effetti, Andrew stava combattendo contro di noi stanotte. Mi
è sembrato una cosa inusuale che scendesse proprio uno come lui
in campo, quando di solito manda scagnozzi di infimo livello, magari
accompagnati da qualcuno con un po’ di esperienza.
Poi, come un lampo, tutto appare chiaro ai miei occhi.
Raze che cerca di farmi infuriare. L’apparizione improvvisa di
Andrew. Il coinvolgimento di Renesmee per spingere me e Bella a restare
lì, a combatterlo ben sapendo di non avere molte
possibilità con uno come lui. L’intervento di Nigel,
mandato da William per fare piazza pulita di ogni ricordo. Tutti i
membri maschili dei Cullen in stato catatonico.
«È stato un diversivo» sussurro senza fiato, gli occhi dilatati per lo stupore e per la rabbia.
Perché non l’ho capito prima? Ci ha preso in giro tutti!
«Cosa?» domanda stupito il lupo alle mie spalle. Dall’altro capo del telefono non si ode più nulla.
Anche Bella ha capito.
È appena iniziata la seconda fase della guerra.
Angolo autrice:
Eccomi
tornata, diciamo abbastanza in fretta, rispetto alle volte precedenti.
Questo capitolo, all’inizio, mi è sembrato banale, freddo
e distaccato, ma andando avanti sono riuscita ad apprezzarlo nonostante
questa sensazione non sia svanita. Spero che piaccia anche a voi.
Ringrazio tutti quelli che mi leggono, per il sostegno che mi fornite e
che mi da la forza di dare sempre il meglio per questa storia a cui
tengo davvero moltissimo. Grazie davvero!
Ringrazio, in particolare, Betrayed_89, per la creazione della nuova copertina di “Scomparsa”.
Ps: sul mio blog ho aperto un piccolo sondaggio sulla storia. Se vi va, fatemi sapere la vostra opinione.
Nell’oscurità
della notte, la luce proveniente dalla casetta della neo-famiglia
Cullen risplende come un faro in mezzo ad una tempesta.
All’interno, una lupa sieda accovacciata dinnanzi al camino accesso, scodinzolando di tanto in tanto la coda argentea.
L’altro lupo, Embry, nel frattempo gira tra i boschi lì vicino, in attesa di un ordine del maschio alfa, Jacob.
Quest’ultimo sembra non voler lasciar correre, stavolta, le
scappatoie della ragazza, che evita accuratamente di incrociare i suoi
occhi.
Nella stanza accanto, un vampiro si agita nell’incoscienza.
***
Anno 1918
Plick… plick… Il rumore di alcune
gocce risuona come un eco nell’enorme stanza bianca nella quale
vi sono tante tende color panna tirate, in segno di riservatezza.
S’intravedono le sagome dei letti, dai quali provengono gemiti soffocati.
La vista è appannata, velata da una patina invisibile. Mi
stropiccio gli occhi, tentando di rimuoverla, di prendere coscienza del
luogo in cui mi trovo, ma è come scavare nel fango.
I miei ricordi sono sprazzi improvvisi di immagini, persone di cui non rammento assolutamente nulla.
Ad un tratto, come catturato da un’intuizione, volto di scatto la
testa, osservando il letto posto nell’angolo più remoto
del grande salone.
La tenda che dovrebbe difenderlo da occhi indiscreti, ironia della
sorte, non è tirata. Sul letto giace un ragazzo dai capelli
bronzei, le mani strette ai lati del letto. Sul volto, goccioline di
sudore che stanno ad indicare la temperatura corporea elevata.
Con movimenti lenti mi avvicino al letto. Il silenzio regna sovrano,
come se questi gemiti di dolore dovessero essere ascoltati fin sopra le
vette delle Montagne Rocciose.
Cerco di stringere la mano a quel ragazzo dal volto così
familiare, ma appena tento di sfiorare la sua pelle, ecco che il
contatto non avviene. Le mie dita attraversano il suo corpo, come se io
fossi un fantasma.
Schiudo le labbra per svegliarlo, ma nessun suono esce dalla mia bocca.
Porto la mano alla gola, stringendola leggermente in un gesto
automatico. Aggrotto le sopracciglia.
In che razza di posto sono capitato? Chi è questo ragazzo sofferente?
Resto al suo capezzale per non so quanto tempo, finché non odo
dei passi nel corridoio fuori la porta. Faccio per alzarmi e
nascondermi da qualche parte, anche se non capisco perché dovrei
allontanarmi alla stregua di un fuggitivo, ma mi rendo conto che
è troppo tardi.
L’uomo dai capelli biondi lucenti fissa costernato il volto del
ragazzo moribondo e, lanciando veloci occhiate alla cartella che tiene
in mano. Scuote la testa, afflitto, poggiandola sul comodino a lato del
letto e, senza degnarmi di uno sguardo, si avvicina, scostandogli
qualche ciocca ribelle.
Quest’ultimo, con grande fatica, solleva le palpebre, mostrando due occhi verdi velati.
«Come ti senti oggi, Edward?» domanda l’uomo con il camice bianco.
Probabilmente si tratta di un medico, ma ciò che mi lascia senza
fiato è la sua bellezza, il viso che sembra irradiare luce e
calore. Gli occhi sono di un oro caldo quasi innaturale, ipnotico. La
pelle è candida come la neve.
«Meglio» risponde il giovane, sorridendo e camuffando una smorfia di dolore.
Il medico gli afferra una mano, avvolgendola nella sua. Il ragazzo
rabbrividisce non appena viene a contatto con lui, ma non si allontana,
anzi, la stringe con vigore.
L’uomo sorride a sua volta, ondeggiando di poco il volto. «Stai mentendo».
Edward volta il capo dall’altro lato, sospirando pesantemente.
Tossicchia, stringendosi nelle spalle e nascondendo il viso sul cuscino.
«Quanto mi resta?»
«Poco» risponde desolato il medico.
Segue un silenzio stranamente rilassante, nel quale il dottore resta a contemplare il paesaggio esterno alla finestra.
Persino io non mi sento a disagio, nonostante entrambi non riescano a
vedermi né sentirmi. È come se stessi rivivendo questa
scena, come se quel ragazzo in realtà fosse…
Spalanco gli occhi di scatto, indietreggiando fino a toccare con le
spalle la parete opposta a quel quadretto troppo familiare, troppo
vissuto.
Corro verso la porta, ringraziando chiunque l’abbia lasciata
aperta. Attraverso il corridoio senza fermarmi un attimo, finché
non arrivo nei pressi di un locale igienico. L’odore di
medicinali e disinfettante aleggia nell’aria, mentre tremante mi
avvicino allo specchio incassato a muro sopra il lavabo.
Stringo i pugni mentre mi appoggio ad esso con entrambe le mani. Non
oso guardare per paura di cosa lo specchio rifletterà, eppure
devo farlo, devo capire.
Sollevo lentamente il capo, notando con orrore che quel ragazzo ed io
abbiamo lo stesso volto, gli stessi capelli, ma un colorito differente.
La mia pelle è lattea, proprio come quella del dottore, ma i miei occhi…
Porto due dita vicino ad un uno di essi, credendo che si tratti di uno
scherzo, di un trucco di quello specchio diabolico, ma non è
così.
Sono dannatamente rossi, come il sangue. A quella parola, qualcosa si
scuote dentro di me, facendomi accasciare sulle ginocchia. Una morsa
improvvisa mi fa gemere dal dolore, dei crampi mi colpiscono simili a
schegge di vetro acuminate.
Un ruggito profondo e gutturale fuoriesce dalle mie labbra. A tentoni,
cerco di rimettermi in piedi e, appena fisso nuovamente la mia immagine
riflessa, i miei occhi si sono trasformati in due pozze nere
d’ossidiana.
Un vuoto freddo si scorge dietro essi.
Inorridito dal mio aspetto cupo e tenebroso, corro con una
velocità sovrumana in direzione del dottore e di Edward, il
ragazzogemello.
Appena varco l’uscio, un urlo straziante si espande
nell’aria, congelandomi sul posto. A pochi metri da me, il medico
biondo è chino sul ragazzo, al quale ha afferrato il collo,
cercando di tenerlo fermo. Appena si allontana da Edward, sul viso di
entrambi la sofferenza appare evidente, ma c’è qualcosa di
strano.
Dalle labbra sottili dell’uomo scorre un rivolo di sangue,
così come dal collo del ragazzo, sul quale spuntano adesso due
piccoli forellini.
Come un lampo, nella mia mente compaiono immagini di altri come il medico, altri vampiri.
Una donna dai capelli color caramello, che sorride dolce nella mia
direzione, e che nasconde un dolore che le strazia l’anima da
sempre.
Una ragazza della mia età circa, con una cascata di capelli
biondo oro, lucenti e con uno sguardo perennemente scocciato. Pozze di
sangue la seguono come un’ombra, mani imbrattate di
quell’elisir denso e delizioso.
Un ragazzo enorme, con il fisico di un lottatore, che viene trascinato
dalla ragazza bionda, il petto squarciato da graffi profondi e
terrificanti.
E poi altri due volti, stavolta senza ferite, ma con vestiti sporchi,
sudici. Lui ci guarda sospettoso e diffidente, mentre lei sorride
radiosa e saltella nel bosco come un piccolo folletto. Sono i Cullen, Edward Anthony Masen.Coloro che ti daranno ciò di cui hai bisogno, ciò che hai perso. Questa voce…
dove l’ho già sentita? Perché mi sembra di
conoscerla ancor meglio di quei volti, di quelli che si fanno chiamare
Cullen?
Perché quel ragazzo disteso sul letto sta soffrendo allo stesso modo mio? Perché tu
sei quell’Edward che adesso giace in un letto che trasuda di
morte, in attesa che la trasformazione lo cambi per sempre. Chiudo gli occhi, stringendo tra le mani alcune ciocche di capelli e scivolando sul pavimento, gemendo disperato.
«Basta! Smettila, non posso sopportare più questo dolore.
Uccidimi, Carlisle!» grida quel ragazzo che altri non è
che me, sicuramente prima della trasformazione. La sua richiesta mi
arriva come un colpo di cannone, insieme a ricordi sepolti che nemmeno
pensavo di custodire.
Ma il nome di quel medico mi riporta ancor più indietro nel tempo, a qualche settimana prima del ricovero in ospedale.
Davanti ai miei occhi, si erge una villetta a due piani, con un
grazioso giardino sul davanti, ben curato. Il viale su cui è
affacciata la casa, è ben pulito, con tanto di aiuole decorative
ogni dieci metri. Lampioni grigi e alti fanno bella mostra di
sé, insieme a grandi alberi da cui filtrano alcuni raggi solari,
nonostante le nuvole siano molto dense attorno ad esso, segno
dell’arrivo di un temporale con i fiocchi.
Dalla casa arrivano alcuni rumori, come i gemiti soffocati dei suoi
abitanti. Come niente fosse, mi ritrovo nel salotto buio, le tende che
oscurano la vista ai passanti curiosi.
«È in pericolo anche lui, William» sussurra una voce femminile dal piano di sopra.
«C’è ancora tempo. La febbre spagnola ha appena
intaccato il suo organismo» le fa notare una voce maschile,
sicuramente quel William a cui ha accennato poco prima la donna.
Senza far rumore, mi dirigo verso le scale, aggirandomi silenzioso,
come se la mia presenza potesse essere percepita. So che non può
avvenire, che a quanto pare è come rivivere attimi del passato,
ma il terrore inspiegabile che possano scoprirmi prende il sopravvento,
inducendomi a camminare con cautela.
«Mi dispiace, non l’ho saputo prevedere» mormora con voce incrinata la donna.
«Non caricarti di colpe futili, Misha. La natura si è
dimostrata più furba e veloce di noi» le dice con tono
rassicurante William.
Ora che sono arrivato al piano superiore, percorro il breve corridoio,
trovandomi dinnanzi ad una porta socchiusa. Dallo spiraglio della porta
intravedo due figure abbracciate, un uomo e una donna stretti
l’uno all’altro, come se cercassero conforto di fronte ad
una sciagura avvenuta.
L’uomo, William, mi da le spalle, i capelli sono castani,
abbastanza lunghi, un taglio comune. È alto, le spalle sono
larghe e possenti, emana un potere incredibile. Persino stando fermo
così riesce a incutere una strana sensazione di disagio,
ammirazione forse, non saprei affermarlo con certezza.
Anche la donna ha un colore simile di capelli, ma più scuro,
mogano direi. Gli arrivano fino alla vita, con morbide onde a coprirle
la schiena minuta. Il corpo di lei, a confronto con quello del
compagno, sembrerebbe appartenere ad una bambina.
Misha si scosta di poco, mostrandomi il suo sguardo affranto. Sulle guance, due scie umide scendono dagli occhi socchiusi.
«Come ci comportiamo adesso? Vuoi trasformarlo ora tu?» gli chiese lei speranzosa.
Si avvicina al letto che è alle sue spalle, sedendovisi sopra e accarezzando la fronte di qualcuno con i capelli ramati.
Sgrano gli occhi, constatando che si tratta proprio di me. Subito
capisco dove mi trovo: questa è stata la casa in cui ho vissuto
da umano con i miei genitori.
Ma allora chi sono questi due?
Dalla pelle chiara, direi che sono vampiri, proprio come il medico, ma
hanno qualcosa di strano. Sono blu, intensi e ipnotici, al contrario di
quelli di Carlisle, color del grano, e molto più inquietanti.
Deglutisco a vuoto, cercando di trattenere la sete che mi divora. Anche
se volessi, non potrei bere il sangue di nessuno nelle mie condizioni.
Troppo debole anche solo per affondarvi i denti.
William scuote il capo, accogliendo la mano dell’amata tra le sue e baciandone il palmo.
«No, ci penserà Carlisle a trasformarlo in uno di noi».
«E se qualcosa dovesse andare per il verso sbagliato?» domanda ancora lei, timorosa.
Lui inclina il viso di lato. «Ti ho mai delusa, mia cara?»
A giudicare dal tono di voce ironico, direi che il tizio sta sorridendo
in direzione della compagna, che ricambia ancor più radiosa.
«No, ma c’è sempre una prima volta, razza di vampiro arrogante e presuntuoso».
William porta entrambe le braccia sui fianchi. «Ehi!
Cos’è questo tono irrispettoso?», il tono falsamente
indignato.
Misha balza in piedi e allaccia le braccia al collo del suo uomo,
sfiorando con delicatezza quelle di lui. «Quello che si addice ad
un uomo come te».
William fa scivolare le braccia dai suoi fianchi a quelli di lei,
avvolgendola in un abbraccio soffocante e coinvolgendola in un bacio
molto focoso. È evidente che si amano, quei due, e
quell’intimità così forte mi costringe a
distogliere lo sguardo.
Se potessi, arrossirei per l’imbarazzo.
Faccio per arretrare, ma un piccolo movimento di William mi fa desistere dall’intento.
«Cosa è stato?» domanda, volgendosi per la prima volta verso di me.
In quel momento, al suo viso, al suo ricordo, tantissimi aghi mi perforano il cranio, facendomi accasciare al suolo, esanime.
«Non avverto nulla. Tu hai sentito qualcosa?» gli chiede
Misha, mettendo in allerta tutti i sensi e osservando con circospezione
la stanza, soffermandosi sulla finestra aperta alla sua destra, come se
da un momento all’altro dovesse entrare qualcuno o qualcosa.
Socchiudo gli occhi, raggomitolandomi sul pavimento. Ad un tratto, la
figura di quel vampiro si trova sull’uscio della porta, la mano
sul pomello. Guarda nel corridoio, concentrandosi sulle scale, e mi
rendo conto che anche lui, nonostante il suo istinto gli indichi la mia
presenza, non riesce a vedermi, né a sentirmi.
Un silenzio cala su di noi, soltanto i lamenti e il respiro soffocato dell’altro me riecheggiano nella casa.
«Mmh…»
«Sicuro di non esserti sbagliato?»
William aggrotta le sopracciglia, ma resta fermo sul posto, non convinto.
«No, non mi sono sbagliato. Per un attimo ho davvero avvertito la
presenza di qualcuno» afferma, sciogliendo la presa dal pomello
della porta e indietreggiando verso il centro della stanza.
Misha scrolla le spalle esili. «Magari era la madre che si è svegliata» suppone.
Sul viso del vampiro si dipinge una smorfia, per poi rispondere con voce bassa: «non un umano, cara. Uno di noi».
Lei scuote il capo vigorosamente, sorridendo gentile.
«Impossibile, l’avrei visto, non ti pare?», e si
picchietta la tempia con un dito.
«Sì, forse hai ragione» conviene lui a quelle parole, mentre in me sorge un dubbio.
Perché lei lo avrebbe visto? Perché ha indicato con un dito la testa? Forse un qualche potere mentale?
Possibile che quella vampira così minuta nasconda un potere talmente potente da rintracciare i vampiri?
Con fatica, poggio i gomiti a terra e cerco di sollevarmi,
aggrappandomi allo stipite della porta. La sete mi sta consumando, mi
sta letteralmente rubando via ogni briciola di forza rimasta.
Mentre i due vampiri si voltano di nuovo verso l’altro me ancora
umano, io mi accascio su una sedia vicino. Restare in piedi mi costa
energie che non ho più.
«Comunque non possiamo lasciarlo qui a casa. Anche se la natura
ha agito prima di noi su di lui, il nostro veleno dimostrerà
ancora una volta chi è il vero vincitore» conclude
William, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi alla parete,
vicino al comodino de letto.
«Almeno questa malattia gioca a nostro favore. Senza di essa, lui
sarebbe partito per la guerra, tornando qualche mese dopo dentro una
bara, freddo e senza vita» mormora lei, accarezzando la mano
dell’altro me.
«Sciocchezze. Avrei falsificato il suo certificato medico,
rendendolo non idoneo per l’esercito e sarebbe stato costretto a
rimanere qui in America», chiude gli occhi per un secondo,
riaprendoli e gettando un’occhiata fuori dalla finestra,
«non avrei mai permesso che Edward gettasse la sua vita
così. La felicità di Isabella è troppo importante
per me. Se lo tengo in vita, è perché non voglio veder
spegnere quella luce che illumina il suo sguardo».
Cosa?
Lui mi avrebbe impedito a qualsiasi costo di coronare il mio sogno di portare onore alla mia patria?
Se il mio sguardo fosse un’arma, lui sarebbe già finito incenerito sul pavimento.
Come si permette di decidere della mia vita, di tutto ciò in cui
credo, del mio sogno di diventare un grande soldato ricordato da tutti?!
E soprattutto… chi è questa Isabella, che tiene talmente
tanto a me, da mettere la mia vita nelle mani di questo vampiro?
Non l’ho mai incontrata nei miei miseri diciassette anni!
Cerco nuovamente di alzarmi, di concentrare tutte le mie forze su
quelle gambe che sembrano essere diventate dei blocchi di cemento, e
stranamente riesco ad avvicinarmi a loro, soprattutto a quel William.
Sto per sfiorargli il colletto della camicia bianca, al di sotto del
lungo cappotto scuro, quando la voce di Misha, o meglio la frase
successiva, mi gela sul posto.
«Già, la sua amata sposa. Colei per cui lui ha sacrificato la vita…»
A quelle parole, mi volto lentamente verso di lei, tentando
d’incrociare i suoi occhi, invece assisto ad una scena
inverosimile.
Edward, l’altro me stesso umano, è sveglio e sorride alla
vampira, accarezzandole una guancia rigata da una lacrima.
«Non piangere, Misha» sussurra lui.
Lei sobbalza, abbracciandolo stretto. «Allora ricordi?»
«Ogni singolo istante della mia lunga esistenza» risponde con tono stanco, ma incrinato da una strana emozione.
Un’emozione che ho sentito solo nello scambio di parole tra i
miei genitori. Un amore sconfinato che hanno riversato in me.
«Ne sono felice, e ti dirò: dovrai aspettare ancora un bel
po’ di tempo prima di ricongiungerti a lei» gli rivela con
malinconia e sofferenza lei.
Edward chiude gli occhi, continuando a sorridere beato nonostante il dolore lo fiacchi nel corpo.
«Attenderò persino lo stesso arco di tempo vissuto, pur di
incontrarla di nuovo e non lasciarla più andare via».
«Sei stato tu a lasciarla, morendo per mano dei rinnegati»
gli fa notare con tono ironico William e sollevando un angolo della
bocca, in una sorta di sorriso obliquo.
«Tu che avresti fatto al posto mio?»
William chiude gli occhi, come se stesse rivivendo quella scena, e una ruga profonda gli solca la fronte.
«Ciò che hai fatto tu, Edward, ed è anche per
questo che sono qui», con una leggera spinta, si stacca dalla
parete e si inginocchia dinnanzi a lui, sfiorando con le labbra la
fronte imperlata di sudore dell’altro me, «ti sono
debitore, figliolo, e non riesco a credere di esser riuscito a trovare
una guida come quel medico. Segui Carlisle, abbi fiducia in lui, come
lui l’avrà in te».
«Nigel» bisbiglia Misha, e subito dopo compare un vampiro
con una barba corta, il pizzetto nero, capelli scuri corti. Il volto
è spigoloso, la corporatura smilza, ma i muscoli che si
intravedono, indicano un fisico forte e scattante.
«Ditemi».
«È giunto il momento. Rimuovi ogni traccia di noi, dilei»
pronuncia solenne il comando William all’altro vampiro che,
inchinandosi, si avvicina al ragazzo e tocca la sua mano.
D’un tratto vengo riportato davanti allo specchio del bagno
angusto dell’ospedale in cui sono stato ricoverato, poi il mio
corpo viene teletrasportato nella stanza bianca dove giace
l’altro me stesso in via di trasformazione, ed infine comincio a
fluttuare a mezz’aria, fino a svanire.
Riprendo conoscenza su un letto morbido, alcune candele illuminano la stanza.
Porto una mano alla gola, rendendomi conto che la sete non è
affatto svanita, proprio come prima, solo che stavolta sento di
trovarmi in un posto diverso, nuovo ma altrettanto conosciuto.
Mi alzo, riflettendomi allo specchio nella parete di destra.
Da dietro la porta arrivano chiare e forti due voci: una di un ragazzo
e l’altra è di una ragazza. Uno di loro emana un odore
nauseabondo, l’altro è una fragranza leggera, delicata.
Un odore che richiama quello del sangue.
Le zanne cominciano a dolermi, il veleno m’impasta la bocca, i miei occhi sono neri.
La bestia ruggisce, annullando l’ultima briciola di razionalità.
Solo un comando:porre fine al mio tormento.
Angolo autrice:
Eccomi di nuovo qui a rompervi le scatole! xD
Se siete arrivate alla fine, significa che in qualche modo il mal di
testa non vi ha impedito di chiudere la pagina. Per chi non avesse
capito, ho anche messo la data, ma lo spiego comunque in poche parole.
Edward l’abbiamo lasciato nel letto in stato di incoscienza,
durante il quale fa uno strano sogno, o forse no. Ritorna nel passato,
nel momento che precede la trasformazione, e successivamente qualche
giorno prima del ricovero. Dopo la scena della casa, ritorna per
pochissimo tempo nel bagno ed infine di nuovo al capezzale
dell’altro se stesso umano in via di trasformazione.
Dopo questo viaggio rivelatore, ritorniamo al presente, dove ad attenderlo ci sono Renesmee, Jacob e gli altri due lupi.
Ringrazio Meredhit89 per la sua disponibilità nel leggere il
capitolo per prima, perché senza il suo benestare, senza il suo
appoggio, non sarei arrivata fin dove sono adesso.
Credo che il prossimo aggiornamento non arriverà prima di giorno
19, per via di un esame che devo sostenere, perciò ho postato
prima. Spero che vi sia piaciuto questo capitolo.
Fino
a oggi mi sono detta di poter affrontare ogni tipo di dolore,
perché quello più grande e opprimente l’ho vissuto
anni fa. La scomparsa di mia madre ha gettato nello sconforto e nella paura tutti noi, ma soprattutto me e mio padre.
Ma se ho creduto di non poter più abbracciare mia madre…
be’, mi sono sbagliata di grosso. Veder scomparire anche
l’altro genitore è stato un altro brutto colpo. È
difficile dimenticare quell’espressione di sofferenza mentre mi
stringeva fra le sue braccia, cantando la ninnananna che aveva composto
per la mamma.
Non avrei mai pensato che quella maledetta notte mi abbandonasse.
Perché in cuor mio so che lei non l’avrebbe mai fatto,
come invece quel vampiro dai capelli ramati è stato in grado di
fare. È stato facile come bere un bicchiere d’acqua,
suppongo.
Spesso mi sono domandata quanto ci tenesse a me nei giorni successivi,
lasciando trasparire tutta la sofferenza attraverso le lacrime. Avrei
dovuto mandarlo al diavolo la mattina dopo che è sgattaiolato
via come un ladro, lasciando un stupido biglietto nel cuscino. Ancora
adesso lo porto con me per ricordarmi che lui non merita niente, se non
altra sofferenza. E ogni volta che lo tiro fuori dalla tasca, lacrime
di frustrazione sgorgano dai miei occhi.
Tutti i miei familiari invidiano la mia capacità di poter
piangere, di potermi sfogare come un qualunque essere umano. Eppure non
ho mai odiato questo mio caratteristica umana come quelle volte.
È come ammettere che lui abbia un peso non indifferente nella
mia vita, cosa che sto cercando con tutte le mie forze di nascondere
agli altri. Le
lacrime sono la dimostrazione di quanto male mi ha procurato quello
sciagurato di mio padre e non sono più disposta a mostrarle.Ho
cominciato una dura lotta in cui tutti quei sentimenti autodistruttivi
sono rimasti celati dentro il mio cuore facendo emergere tutta la mia
rabbia e il mio rancore.
Rare volte riaffiorano prepotenti per ricordarmi che non sono del tutto
un vampiro, ma una mezzosangue nata da un amore folle da parte della
mia mamma, masochista, da parte del mio papà. E
ora, dinnanzi allo sguardo tetro, buio come una notte senza luna di mio
padre, resto impietrita. Il pianto mi rende debole di fronte alla
verità, ma non posso impedirgli di fare capolino sul mio viso. Quello non è mio padre, non sa che io sono sua figlia, carne della sua carne. Lo è mai stato?, domanda con acidità una vocina interiore.
Jake si frappone tra me e lui, intuendo in quegli occhi cupi un
bagliore sinistro, inquietante. E dentro di me, una nuova realtà
mi balza alla vista.
Quelli sono gli occhi di un vampiro desideroso di sangue.
Altre volte è stato assetato, ma mai da guardarci come un vampiro cattivo.
Davvero c’è mio padre dietro quella maschera crudele?
La mia bocca si spalanca in una O muta, ma prima che possa fare o dire
qualcosa, Jake si schiarisce la gola. «Ehi, Edward. Vedo che ti
sei svegliato…».
Che fai, Jake? Temporeggi?
Non riesco a vedere il viso del mio amico, ma posso avvertire la
rigidità dei suoi muscoli. Teso, con l’aria apparentemente
disinvolta, lo fronteggia come se si trattasse di un nemico da non
sottovalutare. Osservo gli occhi di papà oltrepassare la sua
figura e posarsi sul mio collo. Istintivamente porto una mano in quel
punto, respirando affannosamente.
Non può avere sete di me, no, mi rifiuto di credere che anche
solo l’idea di affondare i denti nella mia gola lo abbia
stuzzicato e reso un nemico imprevedibile.
Un sibilo roco e prolungato fuoriesce dalla sua bocca e Jake si mette
in posizione di difesa, allargando le braccia. È questione di un
attimo: papà svanisce letteralmente dalla nostra vista e subito
ci mettiamo in allerta. Dov’è?, il mio primo pensiero. Persino i miei sensi non riescono a captarlo.
Mi volto in ogni direzione, ma di lui nessuna traccia. Possibile che se ne sia andato?
Non ricorda nulla, non saprebbe neanche come arrivare alla casa dei nonni.
«Jake, dov’è andato mio padre?» sussurro agitata.
Se uscisse nel bosco in quelle condizioni da solo i cacciatori, oppure
semplici campeggiatori, potrebbero morire e non possiamo permetterlo.
È chiaro che il suo primo bisogno è quello del sangue.
Finché non si sarà dissetato, anche io rischio grosso.
Allungo il braccio verso Jake, nel tentativo di richiamare la sua
attenzione. Dobbiamo rintracciarlo subito, fermarlo prima che sia
troppo tardi.
Accidenti! Perché anche questa doveva capitarci? Anzi, doveva capitare a me?
Con uno scatto repentino afferra il mio polso e cerca di tirarmi verso
di sé. Si volta per metà busto, non appena una stretta
gelida mi trattiene dall’altra parte. Quel tocco… Mi giro anche io, scorgendo un volto rabbioso e zanne affilate che promettono fiumi di sangue. Ilmio. Papà, davvero sei tu? Che fine ha fatto il papà dolce e premuroso di tanti anni fa? «Leah!
Embry!» grida Jake, prima di lasciare il mio polso per fare un
passo indietro e trasformarsi nel gigantesco lupo dal pelo rossiccio.
Forse ora mi lascerà andare, capirà che è stupido
cercare di affrontarli tutti insieme e getterà la spugna.
Sì, proprio così. Non può fare altrimenti. O sbaglio?
Nel volto di mio padre passa un lampo di indecisione, riflettendo su
chi deve attaccare per primo tra me e lui. Nel frattempo, due lupi
balzano alle sue spalle, tentando di artigliargli le spalle.
Ma cosa fanno?! Si tratta comunque del mio papà, anche se in
questo momento dubito sia in grado di ragionare con lucidità.
Perché lo stanno attaccando? Se gli parliamo, forse riusciremo a
farlo tornare in sé. Se mi concedono del tempo per parlargli,
riuscirò a farlo desistere e andremo a caccia per placare la sua
sete.
«Fermi! È mio padre, non sa quello che fa!» urlo,
cercando di strattonare il polso da quella presa d’acciaio e
salvarlo dai tre lupi. Lo fisso implorante per una frazione di secondo,
incontrando per la prima volta un ghigno raccapricciante.
Non ho mai visto questo lato di mio padre. Quello sadico, cattivo, privo di scrupoli…
Non può essere solo la fame a farlo reagire così.
Si appiattisce contro la parete del corridoio, facendo tremare i muri
della casetta. Un quadro vicino a lui cade per terra, il vetro si
frantuma e i ruggiti dei tre lupi si espandono nell’aria, pronti
a lottare.
Jake evita il pugno che mio padre tenta di sferrargli, cercando di
staccargli con un morso il braccio. Ci sarebbe riuscito se mio padre
non mi avesse afferrato per la gola e mi avesse usato come scudo per
difendersi dai loro attacchi. Il mio amico continua a ringhiare, mentre
lotto invano nel tentativo di districarmi da quelle dita che stringono
sempre più.
Jake non esiterebbe ad ucciderlo pur di salvarmi e proteggermi.
Dimenticherebbe persino che si tratta del mio papà. Non gli
importa niente di lui, solo a me. Devo impedir loro di uccidersi,
perché è chiaro che papà non sarebbe l’unico
a riportare ferite. Mio padre potrebbe ucciderlo con un solo morso.
«Papà… sono io».
La mia voce si affievolisce sempre più e alcune immagini di noi
due distesi su un prato mi tornano alla mente. C’era anche la
mamma quella volta. Accarezzai con le
dita dei petali di alcuni fiori raccolti nella radura. Mio padre mi
portò lì per la prima volta circa due mesi dopo la venuta
dei Volturi, l’antica famiglia reale italiana.
Chiesi più volte quel giorno a mia madre di quale sorpresa
parlasse papà, ma nessuno dei due disse alcunché. Si
limitarono a sorridere complici, rispondendo che era un bellissimo
posto nel bosco, lontano da sguardi indiscreti e soprattutto da umani.
Un luogo in cui ci saremmo potuti rilassare, liberi da
quell’immensa bugia che era diventata la nostra vita in mezzo
agli uomini.
Infatti fu una vera sorpresa quel posto. Rimasi incantata, ammirando la
bellezza di quel prato fiorito e la calma che sprigionava. Ero in pace
con me stessa, scoprii con sorpresa.
«È bellissimo qui, papà».
Lui sorrise, abbracciando la mamma da dietro e poggiando la testa
nell’incavo del suo collo. «Ne sono felice, tesoro
mio».
La mamma rise, attirando l’attenzione di entrambi. Fu papà
ad intervenire per primo: «fai ridere anche noi».
Mamma scrollò le spalle, liberandosi dalla stretta di
papà che la guardò contrariato per
quell’interruzione e, sedendosi sul prato, giocherellò con
il gambo di un fiore. «È qui che tuo padre mi ha mostrato
il suo aspetto tenebroso e cupo».
«Davvero?» domandai curiosa.
La loro storia era sempre affascinante per me. La conoscevo ormai a memoria, ascoltandola anche dagli altri mieizii
e nonni. Ognuno mostrava qualche tassello nuovo, divertente nel caso
dello zio Emmett, e questo non faceva altro che incuriosirmi come non
mai. «Sì» sorrise mamma, afferrando per un lembo dei pantaloni papà e trascinandolo giù.
Lui rise, accucciandosi sul mio grembo. «Mamma era spaventata, ma
non lo ammetterà mai davanti a nessuno» bisbigliò,
anche se era inutile.
L’udito della mamma ormai era fin troppo fine per poter parlare
senza la sua intrusione. Afferrò una ciocca di capelli di
papà e la tirò indietro.
«Chi è che faceva la parte dell’agnello?» rimbrottò.
«Ehm…». Papà finse di pensarci, ma io fui più veloce di lui nel dare una risposta.
«Lui!» ridacchiai, indicandolo con l’indice.
Papà mi trucidò con lo sguardo. Con uno scatto improvviso
mi ritrovai a cavalcioni sopra di lui che mi tenne prigioniera tra le
sue braccia.
Ridemmo entrambi, mentre la mamma ci osservava con sguardo sereno.
«Secondo te, il tuo papà era l’agnello? Mamma era
un’umana sola con un vampiro in questo posto sconosciuto…
io ero il leone cattivo, altroché!»
Ci riflettei su, ma più cercavo di immaginarmi la scena di loro
due soli, con papà simile a quei Volturi, più la scena si
trasformava in qualcosa di magico Poggiai una mano sulla guancia di
papà e, tramite il mio potere, gli mostrai quello che sarebbe
successo in ogni caso lì.
Si trattava dei miei genitori, coloro che avevano sfidato tutte le leggi dei mortali e immortali pur di stare insieme.
«Non avresti mai portato mamma qui senza essere sicuro che non le
avresti fatto del male» gli rivelai un attimo dopo aver
allontanato il palmo della mia mano.
Lui non disse nulla sul momento, come scosso da chissà quale verità, finché non ripeté il mio gesto.
Poggiò una mano sulla mia guancia, accarezzandola con il pollice. «Hai ragione, non avrei potuto».
«Lui era convinto del contrario, sai? Si credeva il grande leone…» scherzò mamma.
«Ero un grande leone!» si difese papà, lanciandole
uno sguardo. «Un leone testardo, masochista e…»
«Innamorato della mamma!» lo interruppi, ridendo e abbracciandolo forte.
Era il mio papà, non avrebbe mai fatto del male alla mia mamma,
ma ciò che mi colpì di più fu quello che disse
dopo.
«Non soltanto, sai? Di recente ho tradito la mamma…» mi rivelò con indifferenza.
Il respiro mi si bloccò e cercai i suoi occhi perché mi rifiutavo di credere a quelle parole.
«L’ho tradita innamorandomi anche di te». «Possibile che tu abbia dimenticato tutto?» gli domando piangendo.
Quanto vorrei tornare indietro, avere il potere di far scorrere le
lancette nel verso opposto e rivivere quei momenti di pace e
serenità, dove il male sembrava non poterci in alcun modo
attaccare.
Smetto di strattonarmi, coprendo il viso con le mani e singhiozzando.
Perché, perché tutto è andato perduto? Non basta averlo avuto lontano per così tanti anni?
Persino il ricordo che ha di me è scomparso come se fossi una persona qualunque.
Cavolo, sono sua figlia! La sua unica figlia! E maledette queste odiose
lacrime! Se fossi un vampiro fatto e finito non avrei il problema di
nascondere questa stupida debolezza. Come si può spezzare un legame del genere? Come?, mi domando ancora.
Non mi accorgo nemmeno della stretta che si affievolisce. Solo quando
scivolo sul pavimento in ginocchio, mi rendo conto che qualcosa
è accaduto.
Non mi domando neanche cosa possa essere.
Qualunque cosa sia, vorrei evitarla. Vorrei tornare nella mia camera,
chiudere a chiave e tuffarmi nel mio mondo fatto di ricordi felici e
con la presenza di entrambi i miei genitori.
Ma tutto ciò non è possibile e lo capisco quando,
voltandomi verso mio padre e sperando che abbia finalmente visto nei
miei pensieri, sbarro gli occhi.
No, non può essere! Che cosa ci fa lui qui?
Era andato via, no?
Mio padre è a terra, una mano a massaggiarsi il collo come se lo
avessero afferrato per la gola e strattonato con forza fino a fargli
perdere le residue forze.
Dalla parete spunta un braccio candido come la neve. Si ritrae poco a
poco, fino a lasciare un piccolo buco nella parete. Questo comincia ad
espandersi sempre più, finché non prende la forma di una
sagoma umana.
Accidenti! Come ha fatto? Esiste qualcosa che non sia capace di fare? «Ne dubito, cara»mormora tranquillamente nella mia mente.
Da quella fessura sbuca Sebastian, le mani incrociate dietro la
schiena, il viso duro ma con un lieve sorriso ad incurvargli le labbra.
Un sorrisosfacciato, oserei dire, asciugandomi le lacrime con gesti frenetici.
Jake gorgoglia alle mie spalle, fino a quando non si frappone tra me e
il nuovo arrivato. Un ruggito potente prorompe dalle sue fauci, in
segno di avvertimento. Sebastian getta la testa all’indietro e
scoppia in una fragorosa risata.
Osa persino ridere di fronte al tentativo – sì, tentativo,
dubito che Jake possa anche solo sfiorarlo - di difendermi?
Porto le mani ai fianchi, ostentando uno sguardo fiero che non mi
appartiene. «Ti ringrazio per il tuo intervento,
straniero», sperando che dalla mia occhiata eloquente capisca
cosa voglia dire in realtà, «ma non era necessario».
Non voglio che gli altri sappiano che io e quel vampiro ci siamo già incontrati più di una volta e che…
Ah, accidenti! Solo al ricordo di quelle labbra decise che danzavano
sulle mie fino a qualche momento fa e divento rossa come un pomodoro. E
sicuramente le mie guance lo sono, a giudicare dal sorriso malizioso
che mi lancia quello sciagurato.
Dovrei odiarlo, temerlo proprio perché si tratta di uno sconosciuto. Uno sconosciuto che hai baciato, Renesmee. Grazie tante, vocina irritante. Pff, odiarlo… davvero merita un sentimento così passionale quello“sconosciuto”?
Ecco, ci manca solo lei a beffeggiarsi di me nei miei pensieri. Anche il tuo corpo ti beffeggia, sai? Basta!
Scuoto mentalmente il capo dopo questo battibecco interiore. Se mi sentissero gli altri…
Probabilmente diventerei lo zimbello di tutta La Push e dintorni. Per non parlare dei miei parenti.
«No?» sorride beffardo. «Mi era sembrato che avessi
bisogno di aiuto, piccola Renesmee», indicando con un gesto me e
il corpo di mio padre stramazzato al suolo, agonizzante.
Non ha capito che voglio nascondere la nostraamicizia?
Scocco un’occhiata infuocata nella sua direzione, prima di
piegarmi su mio padre e controllare il suo stato. Nel frattempo sento i
denti di Jake tirarmi la maglietta leggermente, nel chiaro segno di non
avvicinarmi.
Mi volto mostrando un sorriso tirato e molto falso. Sì, falso,
come tutta la tua vita negli ultimi giorni. Chissà cosa direbbe
Jake se sapesse che non solo lo conosci da un po’, ma che ti
anche baciata? A quella domanda non rispondo. Non so davvero come potrebbe prenderla, ma in fondo perché dovrebbe arrabbiarsi?
È un amico, il mio migliore amico. Dovrebbe essere felice per
me, no? Tutti gli amici dovrebbero mostrare felicità quando
qualcosa – o qualcuno, in questo caso – ti rende tale.
Ma dentro di me so che se dovessi dirgli del bacio, lui non la
prenderebbe bene. O forse sì, ma si tratterebbe di pura
apparenza, cortesia nei miei confronti. E questo non ti fa aprire gli occhi? O preferisci eludere l’argomento? Forse sto scappando o semplicemente cercando la vicinanza di qualcuno per non sentirmi più sola.
Un piccolo guaito mi ridesta da quel turbinio di pensieri e vedo Jake
fissarmi in attesa. Nel suo sguardo scorgo apprensione per me e anche
qualcos’altro di indecifrabile. Non è il momento, mi
impongo, papà ha la precedenza. Persino quel vampiro arrogante
che sta in piedi avvolto da un lungo cappotto nero non è
più in cima alla lista delle mie priorità.
«Tranquillo, Jake. Non credo che papà si riprenderà
subito. Sarà meglio che vada a cacciare per lui. Non possiamo
permetterci che resti ancora in queste condizioni» gli spiego.
Scuote l’enorme testa pelosa, richiamando con un piccolo ruggito
Leah. Quest’ultima sbuffa, probabilmente scocciata –
inutile cercare qualcosa che le stia a genio – e corre via, in
direzione della foresta. Mi volto confusa verso il mio amico.
«Che cosa…».
«È andata a cacciare qualche cervo per tuo padre,
così non sarai costretta ad andare tu» mi interrompe una
voce. Sullo stipite della porta noto Embry con le braccia incrociate e
vestiti nuovi, probabilmente presi dalla cabina armadio dei miei
genitori.
«Mmh, ottima idea. Finalmente qualcuno che si degna di ragionare».
Posso strozzarlo? Perché si intromette ancora?
«Se non ti dispiace, qui abbiamo un mucchio di cose da
fare» faccio notare a quello stupido di un vampiro con una punta
di acidità. «Perché stupido?»sghignazza
mentalmente. Sobbalzo a quell’intrusione e lo fisso, notando che
la sua espressione è seria, quasi finta come la mia.
«Comunque vedo da me che avete da fare, perciò direi che
davvero posso togliere il disturbo» dice ad alta voce. Infila le
mani nelle tasche e comincia a dondolarsi con i talloni, senza muoversi
di un centimetro.
Aggrotto le sopracciglia. Non deve andar via? «Impaziente di mandarmi via, piccola?».
«Sì, decisamente. Sei d’intralcio e non voglio che sospettino di noi».Prima che possa rimangiarmi quest’ultima frase, dato che potrebbe essere fraintesa, lui mi batte sul tempo. «Uhm, “noi”… mi piace, suona bene, anche se non capisco perché usarlo adesso…»sorride allusivo, guardandomi intensamente.
Distolgo lo sguardo imbarazzata e, impacciata, gli rispondo:«non volevo intendereproprioquello…» «Lo so, piccola. Stavo scherzando. So perfettamente che ti riferisci a quel bacio da maestro». Da maestro!? Un
po’ presuntuoso da parte sua definirlo tale. La sua arroganza non
ha limiti neanche in situazioni inopportune come questa. «Vuoi dirmi
che non ci pensi ogni istante? Ti ho baciato poco fa. Dubito tu possa
dimenticarti tanto facilmente di me»continua con voce soave e leggermente roca, tanto che un brivido mi sale attraverso la spina dorsale.
Stizzita, sollevo mio padre, aiutata da Jake che continua a guardarsi le spalle nonostante Embry lo tenga sott’occhio.
«Chiunque tu sia, sappi che…» comincia Embry.
«Che non avevate bisogno del sottoscritto, lo so. Renesmee
è stata cristallina. Non c’è bisogno di ripeterlo
mille volte. Ero in zona e sono intervenuto, tutto qui» continua
Sebastian.
«Visto che sei di passaggio, perché non torni da dove sei venuto?»
Sono in salotto, sto sistemando mio padre sul divano. Non riesco a
vederli da qui, ma sentirli sì. Il silenzio che segue quella
domanda mi fa presagire che forse se n’è andato per
davvero, ma invece mi sbaglio.
«Sì, vado. Ero venuto a trovare un amico» spiega il vampiro.
Un amico? Che amico? Non conosco nessuno che abbia parlato di lui qui.
«Hai detto che eri in zona. Per incontrare questo tuo amico,
immagino. Lo conosciamo?» gli domanda Embry, guardingo. Un
amico… chissà chi è.
Jake nel frattempo è tornato umano e resta in silenzio, probabilmente ascoltando la conversazione che avviene fuori.
Come mai non se ne occupa lui di Sebastian? Di solito queste cose rientrano nei compiti del maschio alfa…
«La domanda giusta che in realtà dovresti pormi è:
chi è questa persona che ha taciuto sulla mia
identità?»
Di chi diavolo sta parlando? Vuol dire che qui a Forks qualcuno l’ha sempre conosciuto ma non ne ha mai fatto parola? «Proprio così».
«Cosa nascondi?»
«Cose che non è il momento che tu conosca».
«E quando sarebbe il momento opportuno?» lo sfido.
«Questo lo deciderò io, piccola. Continua la tua vita senza crucciarti troppo». Non dovrei crucciarmi? La fa facile, lui. Sono io che ho perso mia madre e mio padre giace sul divano di casa mezzo morto. «Tu tienilo lontano dai guai e farò tornare tuo padre come prima»mi consiglia sorridendo.
Aggrotto la fronte.«Ne sei capace?». «Io no»comincia con tono elusivo.«Ma un mio conoscente può interagire meglio, non appena tornerò a casa»mi rassicura.
«Un’ultima cosa…» lo trattengo. Devo sapere,
non posso lasciarlo andar via senza un indizio da cui partire.
«Cosa, piccola?» mi chiede con tono incerto.
È ovvio che, a seconda della mia domanda, lui potrebbe non rispondermi. «Chi è questo tuo amico?» Attendo per un po’, ma capisco che ha interrotto la nostra chiacchierata di proposito.
Schizzò fuori dalla casetta, ma è troppo tardi.
Nella piccola radura davanti alla casa non vi è più
nessuno a parte Embry, il quale sembra non avermi notata per via di
quella rivelazione.
«A questo punto non resta che scoprire chi è che ci
nasconde qualcosa» dichiara Jake sbucando alle nostre spalle.
«Quello non è un vampiro comune. Dubito che sia
all’oscuro della sparizione di Bella».
Ci ho riflettuto anche io da quando è entrato nella mia vita
all’improvviso, ma c’è molto altro che nasconde.
Qualcosa di compromettente, evidentemente.
«Lo penso anche io» concorda l’altro, battendo una pacca sulla spalla del amico.
Nella mia mente continua a ripetersi la sua domanda come un disco rotto:chi è questa persona che ha taciuto sulla mia identità?
Angolo autrice:
Dopo
un’assenza piuttosto lunga – perché l’ultimo
aggiornamento risale al lontano primo Dicembre – eccomi tornata
dopo il periodo natalizio. Questo capitolo era pronto già da un
po’, per chi avesse letto il blog in questi giorni, lo
saprà. Infatti l’avevo proposto in anteprima
nell’altro, il blog-archivio ad accesso limitato, nel caso
qualcuno dei miei lettori non volesse attendere il ritorno degli altri.
Perciò spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.
Ringrazio infinitamente Meredhit89, senza il suo sostegno e il suo
incoraggiamento non sarei qui e non avreste avuto questo capitolo. Il
capitolo posso dire che sia stato betato in quanto mi ha aiutato a
modificare parole, virgole di troppo e alle volte frasi. Ultima cosa:
non ho risposto ancora a tutte le recensioni, ne mancano ancora alcune
e siccome il mio tempo è quello che è - ovvero poco -
e non voglio rispondervi frettolosamente, spero che
chi aspetta una mia risposta pazienti ancora. Non
svanirò né mi dimentico di voi. Vi leggo,
apprezzo il vostro entusiasmo per la storia e perciò
l'unico modo che ho per dimostrarvelo è quello di
rispondervi sempre. Grazie a chi ha letto questo papiro di note
che a poco supera persino la lunghezza del capitolo xD
Sono
sconvolta.
Avete
capito bene: sono assolutamente sconvolta e boccheggio ripetutamente come un
pesciolino fuori dall’acqua.
Lui
ha un amico qui, qualcuno che sa di lui già da molto tempo.
Possibile
che nessuno di noi ne ha mai fatto parola?
Possibile
che io debba dubitare di tutti adesso?
Come
posso fidarmi dei miei amici, dei miei familiari se tra questi c’è qualcuno che
conosce Sebastian da mesi, o addirittura anni?
Questa
proprio non me lo sarei mai aspettato. Anni alla ricerca del minimo indizio per
rintracciare mia madre e qualcuno di così vicino a me si beffa della mia
sofferenza.
Stringo
i pugni fino a far sbiancare le nocche.
Cosa
devo fare adesso?
Avverto
un leggero spostamento d’aria alle mie spalle e subito dopo una mano si poggia sulla
mia spalla. È calda, terribilmente calda.
È
strano, i lupi hanno la mia stessa temperatura. Perché allora sento questa
netta differenza?
«Hai
la pelle congelata» sussurra Jake, «sarà meglio entrare in casa».
Congelata?
Sono io ad essere diventata un ghiacciolo.
Sussulto
non appena mi accorgo che il mio corpo trema. E dubito sia per la brezza che
aleggia nell’aria.
Mi
volto pronta per tornare indietro, ma senza incrociare il suo sguardo.
Cosa
ci troverei? Non lo so, ma qualcosa mi dice che non è il momento di parlare.
Tante
cose sono accadute, troppi per essere ignorati.
Non
abbiamo avuto il tempo di parlare di quel succhiotto che lo ha mandato in
bestia, né dell’odore del vampiro sulla mia pelle.
Scommetto
che prima o poi mi domanderà cosa stia accadendo, cosa stia nascondendo e
allora dovrò dirgli ogni cosa.
Basta
bugie, basta segreti. Gli parlerò di Sebastian e di quei sogni in cui lui
riesce a materializzarsi senza invito.
Eppure
chi mi garantisce che proprio lui non fosse l’amico segreto di Sebastian?
No,
non può essere. Da come si osservavano prima, dalle domande rivolte, non può
essere lui.
Posso
fidarmi di Jake, non mi terrebbe mai all’oscuro di qualcosa.
O
forse sì?
«Allora?
Che ha detto quel succhiasangue?»
Leah
spunta dal limitar del bosco con uno sguardo guardingo. Scruta nel punto in cui
prima vi era il vampiro, constatando che non c’è più. Sulle spalle tiene due
grosse alci stordite. Riesco a sentire il battito lento del loro cuore.
Per
fortuna non li ha uccisi.
«Dopo
ne parliamo alla riunione del branco», chiudendo lì il discorso.
«Quale
riunione?» gli chiede Leah corrugando le sopracciglia. Evidentemente non le va
già che sia stata organizzata una riunione senza che lei sia informata per
prima.
Forse
anche io rimarrei un po’ stizzita essendo la beta del branco di Jake. Essere
una donna in un branco di soli uomini deve essere terribile.
«Immagino
quella che Jake vuole indire il più in fretta possibile per aggiornare gli
altri di alcuni risvolti inaspettati» le spiega Embry sospirando. Si volta
verso Jake, «dico bene, capo?»
Non
risponde, ma immagino un cenno affermativo del capo. «Andate da Sam e ditegli
di riunire il suo. Quando sono pronti chiamami, arriverò subito».
Con
la coda dell’occhio vedo Leah serrare le labbra – probabilmente tempesterà
Embry di domande fino al loro arrivo da Sam – ed Embry togliersi la maglietta
per trasformarsi in lupo. Subito dopo scompaiono tra gli alberi e in lontananza
si avvertono ringhi e passi pesanti sul terreno.
Prendo
un alce e la trascino dentro casa, ai piedi del divano su cui riposa mio padre.
“«Tu tienilo lontano dai
guai e farò tornare tuo padre come prima» «Ne sei capace?»
«Io no… ma un mio conoscente
può interagire meglio, non appena tornerò a casa»”
Mi
inginocchio accanto al suo viso e scosto una ciocca di capelli che gli è caduta
sulla fronte. Un pensiero del tutto nuovo mi attraversa la mente: non ho mai
visto mio padre dormire.
Un
piccolo sorriso si disegna sulle mie labbra. Di solito sono io quella che ha
bisogno di riposare, invece adesso è il contrario.
«Perché
sorridi?»
Lancio
un’occhiata a Jake che si trova in piedi con le braccia incrociate appoggiato
sullo stipite della porta. Ai piedi l’altro alce. I suoi occhi scuri sembrano
tornati quelli di sempre, tranquilli, ma con un pizzico di vivacità.
Occhi
che nascondono una tenerezza infinita. Ed io lo so bene.
In
quella posa potrebbe benissimo assomigliare a uno di quei modelli che ho visto
nelle riviste delle mie zie. Mascella forte, braccia muscolose, capelli
morbidi, un corpo che invidierebbe chiunque. Chissà perché non ha ancora
trovato una ragazza adatta a lui…
Sussulto
a quell’ultimo pensiero. Da dove mi è saltato fuori? E soprattutto: perché
sento una fitta allo stomaco quando lo immagino abbracciato a una ragazza
qualunque?
Jake
è un mio amico, il migliore che abbia mai avuto. Merita una ragazza magnifica
che lo ami in maniera incondizionata.
Allora
perché non riesco ad essere felice per lui?
Distolgo
lo sguardo dalla sua figura, sentendomi improvvisamente a disagio.
Non
dovrei esserlo. Non dovrei esserlo. Non dovrei esserlo.
Anche
se me lo ripeto come una mantra, non riesco a scacciare l’immagine di Jake con
le braccia strette attorno alla vita di una bionda, oppure bruna.
Neanche
so quale sia il suo tipo ideale di donna. Non ne abbiamo mai parlato. Mai.
«Perché
sei arrossita?» domanda ancora.
Persino
le mie guance sono rosse. Guance traditrici!
«Niente.
Probabilmente è il camino che è troppo vicino. Comincio a sentire caldo».
Eludere,
sempre e comunque. Almeno evito di una fare una figura imbarazzante.
Con
un colpo di spalla si allontana dalla porta, chiudendosela alle spalle e
avvicinandosi a me. Mi afferra una mano nascondendola tra le sue.
Sono
così grandi, calde, delicate…
«Sei
ancora fredda» mormora con voce… roca? Perché?
Se
le porta alle labbra con la mia nascosta all’interno e vi soffia piano. Il suo
alito caldo accarezza la mia pelle. Un gemito mi sfugge dalle labbra.
Perché
trovo così intimo questo semplice gesto.
Ha
solo soffiato per riscaldarmi. Non farti strani pensieri, Renesmee.
«Come
fai a dire di sentire caldo se ancora la tua temperatura non è tornata quella
di sempre?» Perché tu sei accanto a me e
sentire caldo diventa normale. Può andare come risposta?
Non
la prenderebbe male, no? Oppure risulterei una stupida?
Mi
ha vista nascere, ha aiutato mio padre a farmi venire al mondo. Perché dovrebbe
vedermi sotto una luce diversa? E poi… io voglio che lui mi veda
diversamente? Da quando desidero qualcosa di più che semplice amicizia tra di
noi?
Deve essere la tensione di questi ultimi
giorni a farmi dare di matto.
Da quando vedo Jake come uomo e non più
amico?
«Non so. Io sento comunque caldo»
insisto. Be’, non sarò io a fare una figura… di cacca, sì!
Qualcosa di caldo mi avvolge da dietro
e le sue dita mi sfiorano le spalle facendomi irrigidire. Sembrano tante
piccole scariche elettriche.
«Mmh».
Un gemito soffocato esce dalle labbra
di mio padre. L’altra mano, quella che tengo sulla sua guancia, la blocco a
quel suono. Mio padre si sta svegliando oppure soffre pure nei sogni?
«Forse è meglio che ti allontani da
lui, almeno finché non avrà… bevuto un po’» suggerisce, sollevandomi da dietro.
Scuoto la testa, cercando di liberarmi.
Proprio ora che si sta svegliando? No, devo restare al suo fianco.
Anche dopo quello che ti ha fatto?, mi domanda
una vocina.
Sì, rispondo senza esitare. È mio padre
e in questo momento ha bisogno di me come non mai.
Non c’era quando tu hai avuto bisogno
di lui, continua la vocina.
È vero, non c’è stato in questi anni.
Ma anche se potessimo tornare indietro e lo implorassi di non andarsene, lui
non mi ascolterebbe.
Non posso cambiare il passato
semplicemente perché non posso chiedere a mio padre di amare meno la mamma e
restare con me.
Sono nata da un amore impossibile,
forte e indissolubile. Chi sono io per spezzarlo?
«Voglio restare» dichiaro con fermezza.
Non mi farai cambiare idea, Jake. Non questa volta.
Sospira, allentando la presa di
quell’abbraccio. «Almeno resta dietro di me nel caso dovesse attaccarti come
prima».
«Non lo farà». Ne sono certa.
«Ho qualche dubbio in proposito»
ribatte lui.
Scrollo le spalle. Conosco mio padre
meglio di lui, cosa crede!
«Assecondami, o ti porto via comunque»
dice impettito, poi mi volta per guardarlo negli occhi, la mascella indurita,
«cosa scegli?»
È irremovibile, devo fare come dice.
Annuisco sconfitta.
Passano alcuni minuti in cui restiamo
in silenzio, gli unici rumori sono i nostri cuori che battono e il respiro
regolare di papà, ancora addormentato. Durante questo breve periodo si è
voltato da una parte all’altra, agitato. Qualsiasi cosa stia sognando, lo rende
inquieto.
«Cosa ne pensi di quel vampiro?» mi
ritrovo a dire per spezzare quel silenzio.
Di tanto in tanto Jake ha lanciato
qualche occhiata nella mia direzione, senza aprire bocca. Qualcosa nel suo
sguardo mi ha indotto al mutismo.
«Cosa dovrei pensare secondo te?»
sbotta seccato.
Perché è arrabbiato? Inarco un
sopracciglio. Che abbia capito qualcosa su noi due?
Noi due? Ma che mi succede? Perché
parlo di me e Sebastian come un noi?
Solo un bacio, Renesmee, solo uno. Ed è
bastato per farti toccare il cielo con un dito.
Per non parlare quando viene a farmi
visita nei sogni.
Un brivido risale lungo la schiena, che
non ha niente a che vedere con il freddo.
Ma perché adesso comincio a guardare
sia Jake che Sebastian in modo differente? Non mi era mai capitato prima,
accidenti! Con nessuno, per giunta.
Mi schiarisco la gola, rispondendo alla
sua domanda con un’altra ancora: «Chi pensi che sia il suo amico?»
«Non ne ho idea. Ma devo cominciare a
pensarci e guardarmi intorno. Può essere qualcuno che conosciamo», si
picchietta il mento con fare pensieroso, «dubito che l’abbia detto con lo scopo
di farci cercare questa persona».
Qualcuno che conosciamo? Ci ho pensato
anche io, ma chi può mai essere questo qualcuno?
Uno dei miei familiari?
Jake sembra leggermi nel pensiero e
scuote la testa, «non credo sia uno dei Cullen. Troppo scontato e soprattutto
nessuno avrebbe nascosto qualcosa di così importante per la nostra ricerca».
Se non sono loro, allora può esserlo il
nonno Charlie. Ma ora che ci penso, non può essere in contatto con lui adesso,
visto che è entrato in coma. Come un flash, ritorna il discorso sull’adozione
di mamma. Possibile che sia tutto collegato? Che ci sia un nesso con la sua
sparizione?
«Jake, hai mai riflettuto sul fatto che
l’adozione di mia madre sia connessa alla sua sparizione?»
Si volta verso di me, tamburellando con
le dita sul tavolino, rimuginando qualche secondo sulla mia domanda.
«Be’, anche se è stata adottata, non
significa che chi l’ha presa lo sapesse» mi fa notare.
È vero, non ha tutti i torti, eppure
c’è qualcosa di strano. La mamma ha sempre saputo di essere stata adottata?
Nonno Charlie lo ha mai detto a lei?
Perché non dirlo anche a noi della sua
adozione? Perché nonno Carlisle non l’ha mai letto sui documenti?
«Carlisle avrebbe dovuto saperlo…» dice
ad un certo punto lui.
È quello che non capisco, infatti. E se
invece…
«Non se il nonno ha fatto di tutto per
nascondere la cosa».
«Vuoi dire che Charlie ha omesso questa
notizia?» mi chiede perplesso. In effetti non c’è motivo di nasconderlo, a meno
che non ci sia altro sotto. Magari qualcosa che nessuno doveva scoprire.
«Sì, l’ha fatto».
Più ci rifletto, più la risata isterica
che cerco di tenere a bada tenta di venir fuori. Mia madre non è la vera figlia
del nonno. Assurdo, quanti anni abbiamo trascorso insieme senza sapere la
verità e chissà se mia madre l’ha mai scoperto.
Secondo Jake lei non lo sa, non si può
certo dire che la differenza si noti. In fatto di carattere sembra proprio la
figlia di Charlie, ma ora che ho visto quei documenti non si può più negare la
realtà.
Se solo il nonno non fosse in coma…
Sospiro stropicciandomi gli occhi. Da
quant’è che non chiudo occhio? Chi se lo ricorda più.
«Vai a riposare un po’, ti chiamo se
tuo padre si riprende» mi consiglia Jake.
Cerco di ribattere, ma prontamente
poggia un dito sulle mie labbra per zittirmi.
Caldo, tanto caldo. Come può un
semplice tocco scaldarmi tanto?
I miei occhi si posano sull’indice, le
labbra si schiudono di propria volontà e un piccolo respiro affannoso esce
fuori. Alzo lo sguardo verso il suo, trovando due occhi neri lucidi e fissi
sulla mia bocca. Anche il pollice imita l’altro dito, cominciando a percorrerne
i contorni.
Senza rendermene conto, le mie mani
finiscono sulle sue spalle e lentamente mi avvicino.
Tutto nella mia mente sembra andare in
cortocircuito. Quello che conta e sentire le sue labbra sulle mie. Non importa
del dopo, m’importa solo del presente.
L’altra mano finisce sui miei capelli e
scende sempre più giù, fino ad afferrarmi la nuca saldamente.
Ti ho mai detto quanto sei bello, Jake?
No, non l’ho mai fatto. Allora perché non riesco a smettere di accarezzarti le
braccia, il petto, la schiena…
Cosa mi succede? Perché adesso sembra
che non desideri altro che un tuo bacio?
«Jake, io…»
Quella è la mia voce? È
irriconoscibile! No, no, no.
«Nessie…», il suo alito caldo e
inebriante entra nella mia bocca senza neanche toccarci.
Manca poco, qualche centimetro e
assaporerò quelle labbra scure, carnose. Almeno una volta.
«Baciami, Jake…»
E un attimo dopo lo fa. Le nostre
bocche si sfiorano quasi impercettibilmente, l’aria intorno a noi si carica di
elettricità. I miei seni si fanno via via più sensibili, mentre si sfregano
contro il petto duro e muscoloso del mio Jake.
Poi premono sulle mie, prima piano, poi
con più audacia. Il pollice dietro la nuca traccia ghirigori sulla mia pelle,
facendomi gemere e ansimare sulla sua bocca. L’altra mano stringe il mio
fianco, cercando di avvicinarmi di più, cosa impossibile dato che ormai
sembriamo un tutt’uno.
Proprio mentre la punta della sua
lingua preme sulle mie labbra per chiedere di più, una voce roca giunge alle
nostre orecchie.
«Avrei preferito ricevere una botta più
forte, così mi sarei risparmiato questa scena».
Accidenti!, impreco tra me e me,
barcollando lontano da Jake per riprendere un po’ del mio autocontrollo.
«Papà, come ti senti?»
Inarca un sopracciglio, gli occhi neri.
«Prima ero confuso, ora sono nauseato se davvero sei mia figlia». Cominciamo bene, mormora la vocina nella mia mente, mentre io arrossisco e corro verso
il bagno tenendomi le mani sulle guance. Ora sì che sono rosse come un
pomodoro.
Angolo autrice: Eccomi tornata! Il capitolo… be’,
immagino che molti di voi se lo aspettavano e come vedete è arrivato anche per questa
coppia. Renesmee è confusa? In effetti direi di sì, visto che prima aveva
baciato l’altro. E come ciliegina sulla torta, il papà si sveglia.
Sono perfida, vero? xD
Bando alle ciance, spero via sia
piaciuto.
Fatemi sapere cosa ne pensate, i vostri
commenti mi aiutano e mi stimolano molto :)
Ringrazio tutti quanti voi per il
sostegno che mi date.
Grazie, grazie, grazie. Non smetterò
mai di dirvelo :D
«Era
necessario che ti esponessi così tanto a loro?»
Non
ha tutti i torti Seth, ma quel che è fatto, è fatto.
«Cosa
vuoi che succeda se mi vedono?»
Inarca
un sopracciglio, allargando le braccia «che arrivino più vicino a te di quanto
pensi, non credi?»
«E
allora?»
Non
vedo dove stia il problema. Se non fossi intervenuto, quello stupido di Cullen
si sarebbe attaccato alla giugulare di Renesmee senza neanche aspettare una
cannuccia!
Magari
sarei dovuto restare in disparte e dirgli solo “goditi la cena”?
Gli
è andata bene perché Renesmee era lì, altrimenti non lo avrei trattato con i
guanti.
Con
gli stivali lo avrei trattato, ma piantati nel suo didietro!
«Capiranno
prima o poi chi è quello che ti copre», gli occhi ridotti a due fessure, «Jake
non è stupido».
Ma
va’? Lo so perfettamente che quel cagnolino sa far lavorare quel cervello
peloso che si ritrova. Dubito che cambi qualcosa in ogni caso. Le mie origini
sono più vicine a lui di quanto si immagini, ma non intaccano in alcun modo il
clan di William.
Non
ci sono più collegamenti che possano collegarmi a lui o altri. Solo Andrew e il
resto della sua combriccola possono svelare il mistero, ma anche loro tengono
alla loro privacy almeno quanto noi.
Quindi
William non potrà dire nulla al riguardo. Che scavino quanto vogliono,
troveranno solo una sconcertante verità su di me semmai dovessero riuscirci.
Un
sorriso fa capolino sul mio volto. «Ci conto, sai? Sarà divertente vedere le
loro facce allibite e incredule una volta tanto».
Sarei
dovuto essere lì il giorno che fosse successo. Meglio tenere un angolino
nell’agenda degli impegni per quando accadrà.
Seth
sbuffa divertito. Nonostante gli dia fastidio che mi prendo gioco del suo
branco e del suo eroico capo, non può
fare a meno di immaginarsi un’ipotetica scena di quel giorno.
Ci
sarebbe stato da ridere almeno per una settimana. Quando l’ho detto a lui ha
fatto una smorfia davvero ridicola. Poi si è fatto un rapido calcolo con le
mani fino a quando non ha capito che non gli sarebbero bastate le dita per
stabilire i miei anni.
«Già»
mormora imbarazzato, «quella volta mi ha colto di sorpresa e, a pensarci,
ancora adesso stento a crederci».
Gli
do un buffetto sulla spalla, come due vecchi amici «c’è sempre una prima volta,
no?»
Borbotta
qualcosa, simile a un grugnito in risposta.
Siamo
in macchina, diretti verso la residenza islandese dove ormai viviamo da
parecchi secoli.
Essendo
un’isola molto a largo dal continente europeo – e soprattutto nell’emisfero
boreale – ci garantisce maggiore discrezione tra i pochi umani presenti.
I
villaggi sono tutti al margine della costa, dato che la corrente del Golfo
permette un clima temperato. Nell’entroterra vi è un altipiano desertico,
composto da montagne e ghiacciai, dai quali nascono alcuni fiumi glaciali che
sfociano direttamente a mare.
Il
castello si erge proprio tra quelle montagne poco ospitali.
Nonostante
il turismo dovuto al fatto che si tratta di un’isola vulcanica, con la presenza
di geyser, il nostro clan non desta alcun interesse, se non per le ingenti
donazioni che offriamo per le attrazioni del luogo.
Gli
esseri umani più vecchi sanno dell’esistenza del castello e vi sono pure
entrati anni fa, ma adesso non più, per evitare che le nostre differenze
fossero ancor più evidenti.
Difficile
che non salti all’occhio umano il fatto che non mangiamo, che la nostra pelle è
fredda e che non necessitiamo di dormire.
«Siamo
arrivati» m’informa ad un certo punto il mutaforma.
Entrambi
scendiamo dal fuoristrada. L’autista, Fay, una donna licantropo della schiera
di Alexander, ci sorride e con un gesto della mano ci invita a entrare.
Il
grande portone in legno si spalanca dinnanzi ai nostri occhi.
Ad
attenderci nel gradino più basso dell’imponente scalinata c’è Bella, seduta con
una gamba tesa verso di noi e l’altra piegata verso il petto, il braccio
appoggiato su di esso.
«Ho
litigato con Nigel» rivela con un tono monocorde.
Ahi,
litigare… dubito che ne abbia ricavato qualcosa di buono, a giudicare dalla sua
voce.
Mi
fermo a pochi passi da lei, mentre Seth si siede accanto a lei, portando
entrambe le ginocchia al petto.
«E?»
domando.
«E niente, Bastian! Non vuole
restituirgli i ricordi» ribatte infervorata, «e non credo che sia per suo
volere» mormora fra sé e sé. Su questo non ci piove,
ma evito di dirlo ad alta voce.
Che
ci sia un ordine diretto di Alexander è più che ovvio. Nigel non ha alcun
interesse nel tenere per sé quella valanga di ricordi che non gli appartengono.
Purtroppo
il suo potere, per quanto sia utile, costituisce un’arma a doppio taglio.
Non
solo cancella i ricordi di un evento, ma li rimuove completamente facendoseli
suoi.
Se
poi gli viene ordinato – come nel caso di Cullen – di asportare una buona fetta
di eventi importanti, allora si ritrova nei guai. «È come andare in tilt»
mi aveva spiegato una volta quando gli chiesi cosa succedeva nel caso fossero
troppi i ricordi, «hai presente un
computer sovraccarico di dati? Dopo un po’ il computer muore».
Lì
per lì non ci ho creduto, o almeno mi sono rifiutato di farlo. Un vampiro non
può morire per un motivo del genere, è fuori dagli schemi che regolano la
nostra razza.
Ma
quando li ha rimossi in quel lontano 1918, ho capito che non scherzava affatto.
Nigel
rischia davvero grosso se li assorbe tutti in una volta.
Non
solo può morire per via del fuoco come noi, ma c’è anche questo modo carino per
lasciare questo mondo.
Una
sorta di “stacca la spina e buonanotte”. Terribile.
«Quell’Alexander
dei miei stivali!» inveisce Seth. Trattengo un sorriso: Seth detesta con tutte
le sue forze quel licantropo ultra centenario.
Alexander
sostiene che Seth e i suoi amici pelosi sono una brutta copia dei veri lupi
mannari. Una specie di fenomeno da
baraccone, aveva sputato con disprezzo.
Quella
volta niente salvò l’arredamento dell’ufficio di William dove tutti eravamo stati
convocati. Era una delle prime missioni, e già Alexander aveva trovato il modo
per rendergli la vita impossibile denigrando le sue azioni sul campo di
battaglia.
«Perché
si comporta così?» sbotta Bella, portandosi entrambe le mani fra i capelli. Singhiozzi
soffocati scuotono il suo corpo.
Cavolo,
adesso che posso dirle?
Potrei
provare a intercedere io per lei con Alexander, ma dubito che quell’idiota di
un lupo mi darà ascolto. Fa sempre quello che gli passa per la testa, senza
dare conto e ragione a nessuno. Persino William non gli rema contro.
Qualsiasi
decisione prenda, lo appoggia sempre.
Un’idea
assurda si fa largo nella mia mente: e se questa volta non fosse d’accordo?
Se
quest’intromissione da parte di Nigel non fosse nei piani di William?
Forse
stavolta posso mettere i bastoni tra le ruote a quello spocchioso e aiutare
Bella e Renesmee.
Mi
ricordo che oggi quell’imbecille di Cullen ha già fatto troppi casini. Davanti al
mio sguardo scorrono come un cortometraggio le immagini crudeli della stretta
al collo di Renesmee e i suoi occhi colmi di lacrime e dolore.
E
adesso la sofferenza soffocata di Bella. Lacrime che non usciranno mai dai suoi
occhi.
«Perché
è uno stron…» comincia a dire Seth, avvolgendola in un abbraccio.
Una
voce irritante e familiare lo interrompe. «Ma quanti complimenti, cucciolotto»
lo schernisce Alexander.
Solleviamo
tutti e tre lo sguardo e, appoggiato al margine destro dell’enorme vetrata che
da sul ghiacciaio Vatnajokull, sorride con
freddezza. Da quanto è lì?, questa è la domanda che mi
ronza da quando ho sentito la sua voce.
Non mi sono neanche reso conto che fosse
lì. Riesce anche a mascherarla bene, persino l’odore, constato con una smorfia.
«Non fare quella faccia, Sebastian»,
scorgendo il mio stupore dietro quella smorfia appena accennata, «quelli come
me», indicandosi il petto mentre trucida con lo sguardo Seth, «sono in grado di
fare questo e altro».
Davvero?, mi domando mentalmente. Finora è
il primo licantropo che incontro che riesce a stupirmi con effetti speciali del
genere.
Chi sei davvero, Alexander?
«Come ti permetti!».
Furioso, Seth scatta in piedi e si strappa
di dosso la maglietta. Il corpo viene scosso da violenti tremolii. Bella lo
afferra dalle spalle, avvolgendo le braccia e sussurrando un «calmati, Seth».
Se si trasforma per azzannare Alexander
finirà nei guai, accidenti!
È proibito attaccarci tra di noi al di
fuori della sala degli allenamenti. Equivale a un atto di insubordinazione
bello e buono.
Proprio quello che desidera ardentemente
quell’arrogante lassù.
Certo, io difenderei Seth dicendo che è
stato l’altro ad attaccare per primo, ma non siamo soli.
Con la coda dell’occhio vedo Fay
avvicinarsi, seguita da altri due licantropi maschi.
Sicuramente loro non tifano per Seth,
questo è poco ma sicuro.
Mi schiarisco la voce, attirando
l’attenzione dei presenti. Meglio su di me che sul mutaforma. Bella almeno
riuscirà a farlo tornare in sé, anche se la vedo combattuta quanto me.
Se prima il comportamento di Alexander le
era indifferente, ora c’è solo rabbia e disprezzo per quel ghiacciolo. Altro
che licantropo: i suoi sentimenti sono sepolti sotto chili e chili del ghiaccio
islandese. Evidentemente stare qui non gli giova per nulla.
«Bella, porta Seth a fare un giro» le dico
in tono eloquente. E non obiettare, o
finisce male qui. Ma questo è meglio tenerlo per me.
Tentenna, mentre il suo sguardo si alterna
tra me e Alexander, che con sguardo divertito sembra istigare Seth alla
violenza. Se solo non ci fosse questo dannato codice da rispettare! Io stesso
lo metterei al tappeto.
«Dai, Sebastian. Non fare il guastafeste»
inizia con tono lamentoso, scuotendo il capo. «Lasciaci divertire. Non vedi che
il cucciolotto desidera il culo a strisce?»
Oh oh. Questo non doveva proprio dirlo.
Seth si libera con uno strattone dalla
morsa d’acciaio di Bella, la quale urla il suo nome, prima che uno strappo di
muscoli e ossa si ode nell’atrio.
«Cavolo, no!» impreco, scattando in avanti
e ponendomi tra Alexander e Seth. Quest’ultimo ringhia e comincia a spingermi
da dietro con il muso.
Non mi sposto, stupido.
Chissà se William è nel suo ufficio.
Probabilmente sì, e starà per piombare qui con il fumo che gli esce dalle
orecchie. È un vero rompiscatole quando si tratta di rispettare le regole del
clan.
Capisco che le ha create lui per il quieto
vivere, ma Alexander se l’è cercata. Merita almeno un morso, magari nelle
palle, ecco.
«Stai indietro, Seth!» ordino al ragazzo
senza neanche voltarmi, senza interrompere lo scambio di sguardi tra me e quel
licantropo bianco.
Lui, dal suo canto, sghignazza senza
contegno, lanciandomi una muta sfida a unirmi al mio amico mutaforma e
attaccarlo. Sì,
speraci. Così William richiama me e lui, e tu ti togli di torno anche me.
Troppo bello per essere vero, giusto? Inarco un sopracciglio nella sua direzione,
facendogli intuire che la mia compostezza non è stata scalfita dalla sua
risata.
Ridi quanto vuoi, coglione. Prima o poi ti
darò una lezione che non dimenticherai mai.
Una promessa è una promessa, anche se
silenziosa. Sono sicuro che lui l’abbia colta nel mio sguardo infuocato.
Sicuramente i miei occhi saranno chiari e freddi proprio come il ghiaccio che
circonda questo luogo sperduto.
«Perché l’hai fatto, Alexander?» domanda a
un tratto Bella con voce incrinata. Sussulto a quel tono, non voltandomi.
Voglio proprio vedere cosa le risponde quello spocchioso e, soprattutto, che
sentimenti si alternano nel suo sguardo.
Alexander si asciuga le lacrime ai lati
degli occhi, un lampo guizza in quelle iridi azzurro cielo.
Assume una posa rigida, incrocia di nuovo
le braccia, ma stavolta c’è qualcosa di diverso. La mascella è serrata, le mani
strette a pugno.
Inusuale per lui irrigidirsi così, a meno
che non ci sia molto di più sotto. Che nasconde per odiare così tanto Cullen?
Io ho i miei motivi, lo sanno anche le
pietre qui, ma lui?
Che gli importa di farlo soffrire? Che cosa
lega Alexander e Edward Cullen a parte l’odio del primo?
«Quelli come lui meritano di morire».
Ecco, se voleva creare un’atmosfera da
film, ci è riuscito. Tutt’intorno a noi cala un silenzio tombale, persino Seth
smette di ringhiare. Solo il rombo incessante del suo cuore batte come il
rintocco di un orologio.
Se mi voltassi adesso, cosa vedrei in
Bella? Io stesso mi sento turbato, non tanto dalle parole, perché avrebbe
potuto dirle chiunque abbia un conto in sospeso con lui, ma questo gelo, questa
calma assassina nel suo tono… be’, mette in allarme.
È la voce di un sicario spietato.
«Dammi un motivo». La stessa calma. Brava, Bella, combatti con le sue stesse
armi!
Un sorriso sarcastico si disegna sul volto
di lui. Cosa ci trova di divertente?
«Ne potrei elencare parecchi, ma tutti sono
riconducibili a uno solo» mormora pacato.
E sarebbe? Sono curioso anche io a questo
punto. Di lui si sa così poco, dubito persino che Nigel ne sappia qualcosa in
più, o forse Alexander è loquace solo con lui. In fondo sono simili, non mi
sorprendo se quei due abbiano legato così tanto, nonostante l’odio viscerale
tra vampiri e licantropi.
A quanto pare quel sentimento è stato
accantonato, buon per loro.
«È quello che ti sto chiedendo, maledetto!»
Okay, Bella sta per perdere le staffe. Altro
che Seth! Tenere a bada Bella è tutto un altro paio di maniche. Arretro in
silenzio fino ad accostarmi a lei e poggiarle una mano sulla spalla, quando la
voce del licantropo mi lascia senza fiato.
«Ha quasi ucciso mia sorella».
***
Pov
Andrew
«Bentornato a casa, signore» mi saluta
Taylor inchinandosi ai miei piedi.
«Alzati, Tay» gli ordino con un sorriso.
L’obbedienza e la disciplina prima di
tutto. Non sopporto chi non è in grado di stare ai miei comandi.
L’insubordinazione è causa di sconfitta, di mancanza di potere.
Cosa di cui non manco di certo. Il potere è tutto, penso squadrando le
celle di contenimento dove risiedono i vampiri catturati.
Le condizioni di queste celle sono a dir
poco sconcertanti. Il degrado, l’odore nauseabondo mi fanno inorridire oggi. Un
tempo non ero così, quando ero rinchiuso nelle celle del carcere a Mosca.
Queste sembrano penetrare le mie barriere
mentali. Ricordi che assolutamente preferisco tenere sepolti.
Scaccio con forza quelle immagini dalla mia
mente, come se anche le urla strazianti potessero svanire allo stesso modo.
L’unica differenza tra questi vampiri e me di quell’epoca è che loro sono già
morti. Io ero ancora vivo e preferivo marcire in una tomba, piuttosto che
essere torturato.
«Come se la passano i nostri prigionieri?»
domando con nonchalance, passeggiando con le braccia incrociate dietro la
schiena e lanciando occhiate di tanto in tanto dentro le celle.
Incatenati con catene al titanio. L’unico
modo per tenerli a bada. A quest’ora sarebbero già fuggiti via.
«Direi bene, signore» sghignazza Taylor
sputando ai piedi della porta della prima cella.
Alzo gli occhi al cielo. Cosa devono vedere
i miei occhi: sottoposti senza la benché minima educazione.
Un affronto per me. Fortunatamente siamo in
pochi a notarlo qui, dato che i prigionieri resteranno tali direi… per sempre.
«Dov’è la nostra ultima ospite?»
«È nella cella in fondo al corridoio,
signore. È insieme a Raze».
Raze. Bene, o dovrei dire: male per lei.
Sogghigno sentendo già da qui dei gemiti soffocati e un odore inconfondibile:
sesso. Raze ci da dentro fin da subito, a quanto pare.
Scambio un’occhiata con Tay, vedendo che
sbuffa scocciato. «Ha detto che voleva essere il primo. Tocca a me dopo, se non
vuole divertirsi lei, signore».
«No, tranquillo. Tutta tua dopo che l’avrò
vista e ci avrò parlato un po’» dico, accompagnando le parole con un gesto
della mano. Nel frattempo ci siamo incamminati nella direzione da cui
provengono quei suoni.
Anche singhiozzi soffocati. Mmh. Raze ci va
giù pesante, oltre che alla svelta. Aggrotto le sopracciglia: se quell’idiota
la uccide, poi farà la stessa fine.
«Non succederà, signore» esordisce l’altro,
intuendo i miei pensieri. Mi volto, incoraggiandolo con uno sguardo, «è
arrabbiato per essere stato messo alla fuga da Sebastian» fa spallucce.
Sospiro. L’orgoglio per un maschio è tutto.
Per Raze ancor di più, visto che ci basa tutta la sua vita.
Mi soffermo sulla soglia della porta,
guardando dalla piccola finestrella con barre d’acciaio rinforzato.
Su una brandina sudicia e sporca, la
schiena di Raze luccica per via delle goccioline di sudore, i pantaloni di
nylon abbassati fino a metà coscia, le braccia sono piegate ai lati di una
testa riccioluta. Una mano premuta sulla bocca di lei e la testa scura di lui
china sui capezzoli rossi ed eretti. Spinte energiche che sconquassano entrambi
i corpi. Non
dovresti guardare,
mi rimprovera quel sentimento di pudore che giace da qualche parte in me.
Eppure…
«Muovi di più quel culo, Raze. Devo parlare
con Maggie».
Non posso farne a meno. Depravato?
Assolutamente sì.
Angolo autrice: L’ho
promesso nel blog e l’ho fatto. Eccomi con il nuovo capitolo.
Due
pov interessanti e ben lontani da Forks.
Ho
spostato l’attenzione sugli altri personaggi perché come avete ben capito, non
è solo Renesmee a svelare tramite i suoi occhi nuovi tasselli del grande
puzzle.
Anche
Sebastian nasconde e allo stesso tempo ne ignora altre.
Bella?
Be’, avete appena visto che non ha davvero dimenticato Edward e il suo amore
per lui. Ma una figura abbastanza contorta sembra prendere campo. Alexander con
il suo passato oscuro a suoi compagni.
Per
non parlare dei cattivi della storia!
Non
dimentichiamoci affatto di loro. Hanno rapito Maggie del clan irlandese per uno
scopo, no? E non la stanno trattando con i guanti.
Andrew
è… be’, un cattivone fatto e finito forse ancor peggiore di Raze perché
mantiene il sangue freddo a simili scene, partecipando passivamente.
Spero
che anche questo capitolo vi sia piaciuto e vi inviti a riflettere sulle parole
di Alexander. Chi sarà mai la sorella?
Per
il prossimo aggiornamento, tenetevi informati guardando il calendario che ho
stilato nel mio blog, nella colonna “Pages” – quella arancione – sotto la voce “Data
aggiornamenti storie in corso”.
Alla
prossima!
«E
così… continui a dire a sostenere di essere mia figlia».
Avrò
sentito quell’ultima parola almeno una trentina di volte uscire dalla sua
bocca. Oddio se mai una volta è stata detta senza incredulità. Neanche una
volta ha creduto al fatto che io lo sia.
«Sì,
papà» sputo a denti stretti. Manca poco, davvero poco e la sedia su cui sono
seduta arriverà nella parete opposta in frantumi.
È
mai stato testardo o lo è diventato nell’ultimo periodo?
Tamburella
con le dita sul tavolo della cucina, dove ci siamo messi a spiegare la
situazione io e Jake dopo che mio padre si è dissetato con i due animali.
«Lui»
facendo un cenno del capo in direzione di Jake, «è il tuo… ragazzo?»
Probabilmente
anche una rana sarebbe stato un genero migliore per il mio caro genitore.
Non
appena ha fiutato la sua scia i suoi occhi sono diventati neri. Non per la
rabbia, ma per il disprezzo.
In
qualche modo è riuscito a ricordarsi dei licantropi di La Push ma non di me, i
Cullen o la mamma.
A
quella parola arrossisco ma subito mi riprendo senza voltarmi in direzione del
mio amico. «No, non lo è».
«Capisco»
dice pacato.
Lo
guardo negli occhi ma qualcosa di indecifrabile mi lascia interdetta. Che cosa
significa quello sguardo impassibile e quella bocca serrata in una linea
dritta?
«Pa…»
«Non
dirlo» mi interrompe con fermezza.
Cosa?
«Di
che stai parlando, pa…» non finisco la frase. Papà non me ne da il tempo.
Come
un lampo getta la sedia su cui era seduto a terra e mi solleva per le spalle
sospingendomi fino alla parete dietro di me.
Jake
comincia ad avvicinarsi e viene scosso dai tremiti. Oddio… si trasformerà
un’altra volta. Non posso permetterlo.
Faccio
un respiro profondo, inchiodando il vampiro davanti a me. Se mi dimostro
spaventata, potrebbe agire in modo imprevedibile, ma se gli dimostro che non lo
temo, magari tornerà a essere quantomeno civile.
Almeno
lo spero.
«Cos’è
che non vuoi che dica?» Se c’è un modo per farlo calmare, lo userò.
«Non
sono tuo padre».
Non
vuole ferirmi, non vuole ferirmi, non vuole ferirmi. Ha solo perso la memoria,
Renesmee. Allora perché credo davvero che l’abbia fatto di proposito?
«Sei
un bastardo! Ti sta dicendo la sacrosanta verità» sbotta il mio amico da dietro
le sue spalle.
Jake,
ti prego, non farlo arrabbiare. Spero che i miei occhi comunichino proprio
questo, perché adesso sta serrando la mia gola proprio come prima. Solo che
adesso è pienamente cosciente di quello che fa, prima non lo era.
Che
lo abbia perso del tutto?
No,
mi rifiuto.
Con
uno scatto del polso afferro il suo braccio e lo giro, sentendolo imprecare. Se vuoi giocare pesante, avrai proprio
questo, papà. Sono stanca di farmi trattare come una
pezza. L’altra mano blocca l’altro braccio facendolo finire in ginocchio per
terra. Sferro una ginocchiata in direzione del viso. Cade sul pavimento, sul
naso si intravedono alcune crepe.
Se
fosse stato umano a quest’ora avrebbe il naso rotto, penso soddisfatta. Alla
fine l’addestramento con zio Jasper ha dato i suoi frutti. Persino mio padre
sono riuscita a mettere al tappeto.
Jake
osserva stupefatto la scena, la bocca spalancata. I suoi occhi alternano tra il
mio sorriso trionfale e quello scocciato di mio padre. Ti
ho sorpreso, eh?, gli domando mentalmente. Ovviamente non può sentirmi, ma in
cuor mio spero di sì.
Scosto
una ciocca di capelli ramati dal mio viso e la porto dietro l’orecchio,
fissando il mio avversario.
«Saresti
così gentile da tornare lì?» e gli indico con il pollice la sedia che Jake ha
alzato su.
Vorrei
parlargli, dirgli che quel bacio non cambierà nulla tra noi, che saremmo sempre
amici ma… da quando gli amici si baciano in quel modo? Da quando tu hai voluto qualcosa in più di una semplice amicizia, cara
Renesmee.
È
vero, non dovevo farlo. Avrei dovuto ignorare quella voce che mi diceva di
baciarlo, di provare almeno una volta che sapore hanno quelle labbra.
Ma
ciò che sto cercando di cancellare è il viso serico di qualcun altro. Un
vampiro da capelli neri folti e gli occhi cobalto.
Più
ripenso a quel bacio, più mi ritorna in mente l’altro dato al vampiro. Un bacio
che mi ha fatto perdere lucidità subito, un torpore che sembrava superiore
persino a quello provato con Jake.
Basta,
non devo pensarci per il momento. Papà ha la precedenza e devo pure aver
fiducia in quel vampiro misterioso e affascinante.
Ma
chi mi garantisce che lo aiuterà davvero? Non lo conosco così bene da potermi
fidare di lui. Perché allora l’ho fatto a
occhi chiusi?
«Chi
ti ha insegnato quella mossa?» mormora mio padre mentre si rimette in piedi e lanciandomi
un’occhiata bieca si risistema al suo posto.
Non
c’è più diffidenza ma rispetto.
Porto
le mani ai fianchi, «mio zio, o anche tuo fratello se ti decidi a crederci. In
ogni caso vedo che ha funzionato» socchiudo gli occhi, «almeno ho ottenuto un
po’ rispetto, accidenti. Potevi dirmelo prima che volevi essere messo al
tappeto».
Mi trucida con lo sguardo, ma non commenta la mia ultima affermazione. Per quanto
sia testardo, ammette la sconfitta. In questo sembra non essere cambiato.
«Ad
ogni modo: sono davvero tua figlia, che ti piaccia o no. Anche se non capisco
perché tu debba disprezzarmi dato che non mi conosci, giusto?»
Beccato
in contropiede. Tipico dei detective in tv quando cercano di mettere in
svantaggio il prigioniero in un interrogatorio. Peccato che non siamo in tv e
che questa sia la vita reale.
«I
vampiri non possono avere figli».
Sulla
stanza scende un silenzio tombale, spezzato solo dai battiti e respiri di me e
Jake.
Quindi
non si tratta proprio di disprezzo verso la mia persona…
Si
sente preso per i fondelli? Per questo mi ha attaccato prima?
Jake
sembra pensarla come me e il suo sguardo perde l’ostilità che gli ha riservato
fin da quando si è scagliato contro di me. Non mi disprezza,
continua a pensare la mia mente mentre tiro un sospiro di sollievo.
Un
conto è odiare la propria figlia, un altro è essere scettici alla possibilità
che esistano mezzosangue come me.
«Perché
non ricordi di averne visto uno. In realtà ne hai visti due: me e Nahuel».
«Ah,
addirittura un altro come te!» ridacchia amaramente, «credi davvero che io sia
così stupido?» mi domanda furente alla fine.
Non
rispondo, anche se la voglia di lasciarlo in questa casa da solo è tanta. Mi
rammento come sempre che deve sentirsi spaesato, solo e anche sul chi va là.
Combinazione esplosiva per un vampiro.
«Io
lo penso da quando ti ho visto la prima volta».
Jake,
perché non stai zitto per una buona volta?!
Un
gemito mi sfugge dalle labbra non appena vedo papà voltarsi lentamente nella
sua direzione. «Puoi ripetere di nuovo, cane?» gli domanda con un sorriso
agghiacciante.
Okay,
meglio finirla qui. Mio padre sembra in vena di zuffe negli ultimi tempi.
«Dateci
un taglio tutti e due», mi frappongo tra di loro, allargando le braccia e
corrugando le sopracciglia, «ne ho abbastanza di strangolamenti, sedie e
tavolini rotti. E mi sono scocciata di questa situazione» concludo guardando
malamente mio padre.
Sembra
che sia lui mio figlio ed io la madre. Per certi versi, è unasituazione imbarazzante.
«Se
tu sei mia… figlia» comincia lui,
«dov’è tua madre?»
Ecco,
a questa parte non ci sono ancora arrivata. Aggirare l’argomento o rispondere
sinceramente?
Meglio
la seconda. «È stata rapita».
Tutto
mi sarei aspettata, ma non una risata fragorosa. Jake si gratta la nuca,
sillabando la parola “matto”, per poi sedersi sul divano in salotto. Dalla sua
angolazione può vedermi, per questo motivo si è allontanato. Magari senza la
sua presenza risulta più facile convincerlo che non sto raccontando una
barzelletta.
«E
da chi? Dal lupo cattivo?» mi chiede con scherno.
Se
pensa di strapparmi un sorriso si è sbagliato. E di grosso anche.
«Tu
credi che stia scherzando, non è così?»
Smette
immediatamente di ridere e si sporge verso di me, «non lo stai facendo?»
Sì,
certo. Mia madre scompare nel nulla e ci scherzo pure su. Se lo trova
divertente, buon per lui. Sempre meglio del cadavere di dieci anni fa che è
fuggito da tutto e da tutti per andare alla sua ricerca.
«Sai
spiegarmi allora perché ti ritrovi senza uno straccio di memoria?», mi sporgo
verso di lui, sorridendo sardonica, «è stato il lupo cattivo?»
Colpito.
Non è l’unico a saper giocare. Increspa le labbra, divertito per la domanda.
Stavolta rivolta contro di lui.
«Be’,
per certi versi mi ricordi me stesso, questo lo ammetto». Un passo avanti,
oserei dire, inarcando un sopracciglio.
«Pensavo
che il mio aspetto parlasse per me anche senza doverti convincere con le
parole» ribatto. L’ho pensato subito, perché lui no? Diamine, siamo
praticamente simili!
Socchiude
gli occhi, ritirandosi sulla sedia e poi alzandosi lentamente. Gira intorno al
tavolo, mentre con la coda dell’occhio osservo Jake scrutarlo con sguardo
assassino.
Papà
si ferma alle mie spalle, io non mi volto e resto seduta con i pugni stretti.
Potrei
atterrarlo di nuovo, ma prima l’avevo colto di sorpresa, ora si difenderebbe
dai miei colpi.
Un
dito freddo percorre la mia guancia e sussulto. Che cosa vuole fare?
«Il
colore dei tuoi capelli è… simile al mio» sussurra assorto.
Ora
ho capito: mi sta studiando. O forse l’ha fatto prima e non ha voluto dirlo?
Annuisco
in silenzio.
«Gli
occhi non sono quelli di un vampiro, però».
«No,
infatti. Sono quelli della mia mamma quando era ancora umana». E ogni volta che
mi guardo allo specchio immagino lei con quegli stessi occhi. Sospiro, meglio
non ricordare per adesso.
«Si
chiama…» continuo, ma vengo interrotta da un suo sussurro.
«Isabella.
Ma preferisce essere chiamata Bella».
Mi
volto di scatto verso di lui e lo trovo con i palmi premuti sulle tempie eun’espressione di dolore gli attraversa il volto.
Subito dopo un urlo riecheggia nell’aria.
Allora
non ha davvero dimenticato…
***
Pov Sebastian
«Che
significa? Chi è tua sorella?»
Non
capisco, perché non è mai trapelato nulla qui nel castello?
Eppure
io e Alexander siamo in questo clan da parecchi secoli. Com’è possibile che non
abbia mai detto una parola su questo argomento?
Persino
quando Cullen faceva parte del nostro clan sembrava diverso. Non era poi così
irascibile, ma sicuramente non come lo è diventato negli ultimi secoli.
In
effetti, il suo umore è peggiorato da quando Bella ha lasciato il clan secoli
fa. Quando è morta, Alexander sembrava essere entrato in una spirale
autodistruttiva.
Litigava
con tutti e abbiamo rischiato veramente di doverlo mettere in isolamento. Aveva
intenzione di svelarsi agli umani in tutto il suo lato selvaggio, trasformarsi
e uccidere ciò che restava umano in lui.
Non
avrei mai pensato che la morte di Bella lo sconvolgesse tanto.
Subito
dopo è entrato Nigel nel clan, in seguito a una missione suicida contro Andrew
e i suoi e tra loro c’era proprio lui.
Nigel
non parlava, non beveva il sangue necessario a tenerlo in vita. Un giorno seppi
che Alexander scese nelle prigioni e parlarono. Non so ancora oggi cosa si sono
detti quel giorno, ma Nigel entrò a far parte della nostra squadra.
«Non
mi sembra di aver stretto così tanta confidenza da poterci dichiarare amici,
Sebastian» mormora con voce annoiata.
«Allora
perché una rivelazione del genere proprio a noi?»
Sorride
nel modo che io odio tantissimo. «Perché mi piacciono tremendamente le vostre
facce confuse e smarrite». Si scosta dalla parete e comincia a percorrere la
scalinata verso l’alto. Tanta
fretta di andartene, licantropo?
«Non
abbiamo ancora ottenuto quello che volevamo, Alexander» gli faccio notare, e
lui si ferma appoggiando una mano sulla balaustra di marmo.
Usando
un tono indifferente, risponde: «Non mi sembra di aver concordato con voi su
qualcosa». Be’, non si può mai dire che i suoi modi siano cortesi. Sembra quasi
che ci stia concedendo già fin troppo del suo prezioso tempo.
«Mi
devi la vita tante volte, Alexander» ruggisce Bella.
Ha
ragione, Alexander, cosa rispondi?
«Davvero?»
domanda scettico.
Ha
anche il coraggio di negarlo?
«Tutte
le volte che ti ho donato il mio sangue…»
«Poteva
benissimo fornirmelo Nigel. Non era necessario il tuo» la interrompe
prontamente e con uno sguardo di ghiaccio. La sua affermazione è chiara e
precisa: non le deve la vita e men che meno i ricordi di Cullen.
Detto
ciò riprende a salire con passo deciso. Poco dopo la sua figura scompare.
«Avresti
dovuto lasciarlo a me, Bastian. Lo avrei riempito di buchi quel pallone
gonfiato!» inveisce Seth, una volta ritornato in forma umana.
Siamo
ancora nell’atrio, ma almeno i seguaci di Alexander sono spariti dalla
circolazione.
«Seth»
alzando gli occhi al cielo, «forse è meglio che resti con i piedi per terra.
Neanche tra un migliaio di anni saresti stato in grado di ridurlo a pezzi».
«Questo
lo dici tu, vampiro» borbotta mentre si infila una t-shirt verde prato.
«Non
posso lasciarlo in questo stato» biascica Bella, cadendo inginocchiata sul
pavimento.
Vorrei
aiutarla, ma notando la sicurezza di Alexander dubito che William sia contrario
alla sua decisione. Forse è partito da lui l’ordine di cancellargli i ricordi e
non direttamente da quel lupo.
Mi
avvicino alla figura di Bella, mettendomi in ginocchio davanti a lei e
scostandole le mani dal volto. Vorrebbe piangere, sfogarsi. Ma non può.
«Troveremo
un modo per farglieli tornare, puoi starne certa» la rassicuro.
Mi
sorride appena. «Sebastian, tu lo odi. Perché dovresti aiutarmi?»
«Già.
Me lo sono chiesto anche io» la incalza Seth. «Perché?»
Li
guardo entrambi e poi rispondo fissando Bella: «perché lui è una parte di
Renesmee, così come lo sei tu. Siete interconnessi, e lo sono anche io allora».
Accarezzo
la sua guancia sorridendo sereno, per la prima volta da quando ho baciato
Renesmee.
***
Pov esterno
«E così sia, allora» sospira nell’ombra una voce. «A quanto pare mi tocca tornare
negli Stati Uniti con il primo volo disponibile».
«Stavolta
Alexander ha esagerato. Perché lo hai lasciato fare e non ti sei opposto,
Nigel?» gli chiede Fay incuriosita.
L’altro
appoggia un braccio sulla colonna davanti a sé, appoggiandovisi la fronte e
guardando dall’oscurità che avvolge le loro figure quelle dei tre nell’atrio.
«Perché
Alexander ha già sofferto abbastanza, non trovi?»
«Di
che parli? Sai che io sono nel vostro clan da molto meno di tutti voi…» gli fa
notare Fay sorridendo triste.
La
donna licantropo ricorda ancora le sofferenze patite di quando è
stata
trovata dalla squadra di Alexander e, quando ha visto il suo volto, ha
capito che non sarebbe stato solo il suo salvatore. Era - ed è -
l’uomo che le avrebbe fatto battere il cuore per
il resto dell’eternità.
«Parlo
del fatto che adesso abbia pareggiato i conti» dice fissando quel viso
incorniciato da folti capelli color mogano, «non è più solo Edward Cullen a
soffrire, ma molti di più. È tempo di mettere fine ai tormenti di quel povero
vampiro».
Si
volta verso Fay mostrandole un sorriso che farebbecadere
ai piedi qualsiasi donna con il cuore libero. Picchiettandosi la fronte, le
dice: «d’altronde tutti questi ricordi cominciano a darmi la nausea e fastidio.
Se Alexander dovesse scoprirlo prima che ritorni, digli questo».
Detto
questo si allontana, scomparendo tra le ombre buie del palazzo.
«Come
ci sei riuscito?» Se si tratta di esercizio, allora ne
faremo parecchio. Adesso
si trova con entrambe le mani davanti al viso e la sua espressione di
sofferenza è nascosta. Jake nel frattempo ha acceso la tv e segue attentamente
la giornalista.
Strano,
lui non si è mai interessato molto di ciò che accade al di fuori di Forks e La
Push, a parte per le partite di basket e football.
Lui
e Emmett stanno ore e ore a commentare, offendere o elogiare i giocatori. Alle
volte fanno tutte e tre cose insieme.
«Non
lo so» risponde papà, riportando l’attenzione su di sé.
Se
già ricorda il nome della mamma, forse possiamo cominciare proprio da lei.
Non
mi sorprende che i primi pensieri che siano tornati alla luce siano incentrati
su di lei.
Dovrei
arrabbiarmi, inveire contro di lui perché sono un buco oscuro come tutti gli
altri, ma sarebbe tutto inutile.
Devo
accettarlo per com’è, con tutti i suoi difetti.
Allungo
esitante una mano ma a metà strada mi blocco esitante.
E
se mi scansa via? Se non vuole che io lo tocchi?
Oh,
Renesmee. Hai appena detto che devi accettarlo così. Toccalo e basta. Se si
dovesse allontanare allora andrai a rintanarti nella tua stanza a piangere
tutto il giorno.
Sì,
non devo tirarmi indietro proprio adesso.
Accarezzo
il dorso della sua mano tremante, vedendolo sussultare.
Ti
prego, fa che si fidi di me!
Non
si ritrae e questo mi fa sospirare di sollievo. Con delicatezza cerco di
scostarla dal viso e ciò che incontro mi fa venire le lacrime agli occhi.
«Papà,
io…» Io che cosa, Renesmee?
«Raccontami
di lei».
No,
questo no. Fa troppo male ricordare quello che non c’è più. Non farmi rivivere
tutto.
«Era
altruista» risponde Jake mettendosi dietro di me con le mani sulle mie spalle.
Ti
ringrazio, vorrei dirgli, ma mi limito a posare le mie sulle sue stringendole.
«Davvero?»
sorride triste papà. È malinconia quella che vedo nel suo sguardo?
O
è amarezza nel non poter ricordare la donna che entrambi amiamo tantissimo?
«Certo.
Più di una volta ha rischiato la vita per salvare te, i Cullen e anche
Renesmee», prende un respiro profondo, «e sono sicuro che anche stavolta l’ha
fatto».
Solleva
la testa. «Come fai a dirlo con certezza?»
Incontra
i miei occhi sorridendo, «si è sempre comportata così. Dubito che chiunque sia
stato l’abbia rapita e poi ha fatto sparire anche Seth», un lampo di dolore
attraversa il suo viso nominando il nome del giovane lupo, «ci sono troppi
conti che non tornano e l’unico che forse può dirci davvero qualcosa è…» lancia
uno sguardo a papà, «…lui».
Ma
come può farlo? A malapena ricorda il suo nome, figuriamoci aiutarci con le
ricerche. E poi credo sia un azzardo supporre fin dall’inizio che abbia voluto
lasciarci di sua volontà.
Non
è che sei tu che ti rifiuti di crederlo?
Ha
provato ad attirare anche i Volturi su di sé dieci anni fa.
«Non
può averlo fatto. No, significa che lei ha deciso di lasciarci!» urlo
scostandomi le mani di Jake di dosso e balzando in piedi.
Lo
so che è una reazione stupida e irrazionale, ma questa versione dei fatti non
riesco a sopportarla. Neanche per il bene di papà.
«Mi
dispiace» balbetto nella sua direzione. Ricambia il mio sguardo e capisco che
se i suoi occhi sono asciutti, allora lo sguardo velato e umido è il mio.
Ancora
una volta non sono riuscita a trattenere il mio lato umano.
Con
uno scatto rapido spalanco la porta principale e corro verso il bosco, lontano
da tutti.
Lontano
da tutto.
Pov Edward
«Era
necessario?»
Probabilmente
la mia preoccupazione lo farà ridere dato che prima non le ho creduto e ci
siamo messi a combattere.
O
meglio: lei lo ha fatto, io sono rimasto scioccato dalla sua forza. Anche se è
una mezzosangue – la prima e unica che io abbia mai visto finora – resta il
fatto che nasconde un potenziale davvero enorme dentro di sé.
Ottimi
riflessi, una discreta velocità e astuzia nel scegliere le mosse più adatte in
base alle caratteristiche del suo avversario. Per questo ho sospettato dopo che
mi stava dicendo la verità fino a qualche minuto fa.
Il
suo amico a quattro zampe sospira indurendo la mascella. Strano, penso, avrei
scommesso sul fatto che la seguisse fuori subito.
Oltre
a questo, un nuovo profondo sentimento distruttivo si agita in me. L’ho visto
baciarla, l’ho visto stringerla. Perché adesso è qui invece che là fuori?
Le
mie mani prudono, i miei occhi saranno sicuramente neri dalla rabbia. Devo assolutamente
calmarmi o al suo ritorno quella ragazza troverà spezzatino di cane per cena.
«Sì.
Non possiamo escludere questa possibilità», scosta la sedia e si accomoda
poggiando una mano sulla fronte, «ne è assolutamente capace tua moglie».
Non
so perché ma sentirgli dire quelle ultime due parole mi rendono orgoglioso e
compiaciuto. Decido di ignorare quella strana sensazione ritornando
sull’argomento.
«Questo
significa che non si è preoccupata di noialtri – se davvero ci sono altri – ed
è fuggita via» rifletto ad alta voce. E più ci penso, più mi sento male.
Non
mi stanno mentendo questi due: sanno davvero chi sono e chi è la mia famiglia,
il mio clan. Presto dovrò incontrarli di nuovo e la cosa mi rende nervoso. Li
ho visti quella misera volta ai margini del fiume, mentre scappavo via dai
maschi e da questo mutaforma qui. Avevo quella ragazza stretta al petto.
Sentivo
che era parte di me e dovevo proteggerla. Ora capisco il perché.
È
mia figlia, anche se non ho alcun ricordo di lei.
«Purtroppo
Bella è fatta così. Probabilmente l’hanno minacciata di far del male a qualcuno
di noi – magari te o Nessie – e questo deve averla fatta andare fuori di testa»
mi risponde, girandosi verso il frigo e prendendo una bottiglia di birra.
Birra
in una casa di vampiri?, mi domando mentalmente sollevando un sopracciglio.
Lui
nota la mia perplessità perché scrolla le spalle come fosse normale, «sono un
ospite molto assiduo di questa casa, specialmente da quando tu», mi lancia
un’occhiata furibonda, «te la sei data a gambe levate».
Che
cosa? Ma come si permette di…
«Chi
è che fuggito, cane?» ruggisco fuori di me.
È
assodato: spezzatino di cane per cena. Alla ragazza non farà piacere ma non
posso tollerare che un quadrupede canino mi parli così.
«Tu»
ribatte irremovibile. Sorseggia senza indugi la sua birra e alza il volume del
telegiornale, improvvisamente interessato.
«È
me che devi guardare, cane!».
Lo
afferro per la maglietta e lo avvicino a me. I nostri sguardi furiosi sono a
pochi centimetri di distanza.
Potrei
spezzargli il collo con facilità e poi andarmene via da questa casa. Nessuno mi
troverebbe se corressi alla massima velocità. Sarei lontano, probabilmente in
Canada a cercare di riordinare quelle poche immagini che mi ronzano intorno.
In
una di queste c’è una ragazza distesa sull’erba tra le mie braccia. Gli occhi
sono chiusi, la pelle è quasi della stessa tonalità della mia, ma le guance
arrossate la tradiscono. I capelli castano scuro ricadono sul mio petto mentre
con il braccio sinistro la stringo a me.
La
sto guardando come ipnotizzato, incurante di tutto il resto del mondo.
Come
se lei fosse il centro di tutto.
È
lei mia moglie? Lei è… Bella?
«Un
enorme squarcio nel terreno è stato scoperto dai residenti della zona
periferica ovest di Seattle» spiega una voce femminile. Vengo di colpo
catapultato nel presente.
Nella
mano stringo la t-shirt del cane. La sollevo di poco sgranando gli occhi, prima
di fiutare l’aria e seguire la sua scia fino al divano. È completamente nudo
dalla vita in su e non mi degna nemmeno di un’occhiata.
Come
a fatto a sfuggirmi?
Sventola
una mano senza lasciare con lo sguardo le immagini alla tv. «Tienila pure se ti
piace. La baratterò con una delle tue che trovo nella cabina armadio». Molto spiritoso,
penso con sarcasmo.
«Cosa
c’è di così importante da distogliere l’attenzione dal sottoscritto?»
O
è innamorato pazzo della giornalista o adesso si intende di lavori pubblici in
città.
Se
si tratta della prima opzione lo uccido su due piedi senza preoccuparmi di
quanto ci rimarrebbe male mia figlia. Prima la bacia come se fosse l’aria che
respira e poi guarda un’altra? Spero per lui che siano i lavori pubblici il suo
hobby.
Guardo
attentamente la scena descritta dalla giornalista e noto una cosa strana.
Non
è quella la scala antincendio dove ho parlato con mia figlia prima che il buio
calasse sui miei ricordi?
«Ma
quello è…»
Annuisce.
«È dove eravamo l’altra notte. A quanto pare», indica con il telecomando lo
schermo dove si vede il buco enorme sulla strada, «non eravamo soli».
Aggrotto
le sopracciglia, «chi è stato secondo te? Di certo non è stata un’esplosione».
Lo
sento sospirare mentre mi accomodo affianco a lui.
«Non
lo so. Ma è sicuramente la stessa persona – o essere, ci scommetto tutto quello
che vuoi – che ha messo a nanna me, Carlisle, Jasper e Emmett».
Lo
penso anche io, anche se questa è la prima volta che sento questa parte della
storia. Mi ero preoccupato di seminarli quella notte, ma evidentemente non sono
riuscito a nascondere bene il mio odore.
«C’era
un tunnel lì sotto» gli spiego mentre la giornalista scompare dallo schermo
lasciando scorrere le immagini che percorrono tutto il tragitto nel sottosuolo.
Per terra si trova una lampada a olio, di quelle antiche e degli stracci –
probabilmente vestiti.
«Lo
conoscevi?» mi chiede con una strana intonazione nella voce. Sospetto?
Potrei
mentire, ma a che pro? Vogliamo sapere entrambi cos’è accaduto e non credo di
essere stato messo fuori combattimento subito, nella scala antincendio.
Il
tunnel mi sembra un ricordo sfocato, come se del fango ci fosse stato versato
sopra per oscurarlo.
Comincio
a massaggiarmi le tempie, improvvisamente doloranti. «Sì, lo volevo usare per
poter attraversare la città insieme a mia figlia, ma non ricordo di esserci
entrato. Qualunque cosa è successa lì», sospiro stanco per lo sforzo, «io non
ero più cosciente».
Rimaniamo
per qualche istante in silenzio mentre la voce della giornalista prende spazio
tra noi. Poi si alza in piedi, facendo scrocchiare le nocche delle mani. Mi
alzo anche io, non sapendo quali sono le sue intenzioni e questo più di tutti
mi fa innervosire.
Come
se fosse una cosa abituale non domandare nulla, come se sapessi sempre quello
che passa per la testa delle persone intorno a me.
«Bene.
Finalmente qualcosa da cui iniziare» borbotta afferrando la maglietta che gli
ho sottratto prima e infilandosela.
«Che
intendi dire? E dove stai andando?», un’illuminazione improvvisa, «vai da lei?
La raggiungi?»
Si
ferma di colpo sulla porta, la mano sulla maniglia. Mi fissa con sguardo
triste.
«No.
Ha bisogno di stare da sola, in un posto che possa scacciare questo dolore per
un po’…» si ferma non appena vede il mio sguardo confuso, «non mi ha mai
portato lì. Diceva che era solo suo… solo vostro. Credo intendesse te e Bella».
Mmh.
Un posto nostro? Quale può essere? I miei ricordi sono troppo confusi per
capirci qualcosa.
«Capisco»
borbotto riluttante. La cosa non rende felice neanche lui perché sa che è sola
lì.
«Perché
l’hai lasciata andare se sei così preoccupato?»
Sorride
di nuovo triste. «Perché mi fido di lei anche se non lo crede» ammette, «e
perché ha bisogno di qualcuno che non sono io. Ha bisogno del suo papà».
***
Nello stesso istante, in Islanda…
Pov Nigel
«Gentile
da parte tua, Crystal, utilizzare il tuo potere per portarmi in America» le
sorrido ironico socchiudendo gli occhi. «Non devi, davvero».
Crystal
si arriccia una ciocca bionda attorno al dito, leccandosi sensualmente uno dei
canini. Il suo sguardo apparentemente svogliato non mi inganna nemmeno un po’.
Sta
escogitando qualcosa. Che sia una ricattatrice lo sanno tutti in questo
castello. Forse può mettere nel sacco i novellini, non il sottoscritto.
«William
mi ha ordinato di teletrasportarti dai Cullen. Non mi metto a discutere come
fate voialtri» ribatte.Ci
troviamo sul sentiero dove dovrebbe arrivare il nostro contatto umano
dell’isola, un certo Jill, un uomo sulla cinquantina che mette a nostra
disposizione macchine e moto per spostarci all’interno dell’isola senza
attirare l’attenzione.
Questa
volta avrebbe svolto il ruolo d’autista, così da non dover lasciare la macchina
da qualche parte. Si è persino offerto di prenotarmi un biglietto sul primo
volo per gli Stati Uniti. Avrei fatto scalo a New York e poi a Seattle. Di lì
avrei corso a piedi verso il Canada per poi scendere nuovamente verso la
penisola olimpica.
Non
male il luogo che si sono scelti i Cullen da dieci anni. Circondato da boschi e
laghi che consentono di ospitare una selvaggina davvero vasta e inesauribile.
Se poi la giornata li avesse premiati con un animale carnivoro, allora si
sarebbero potuti ritenere più che soddisfatti.
«Strano,
William non l’ho visto». In realtà, non avrei potuto vederlo nemmeno volendo.
Aveva lasciato il castello qualche ora prima dell’arrivo di Sebastian dicendo
che sarebbe tornato entro l’alba.
Sta mentendo la ragazza,
penso, mascherando un sorriso di scherno. Di norma l’avrei uccisa senza
pensarci due volte, strappandole prima gli arti – come punizione per aver
cercato di raggirarmi – e dopo la testa. Normale procedura per un vampiro,
vero?Non
se la testa la lascio intatta e con gli occhi trafitti da spilli di titanio. A
quanto pare i vampiri che non seguono più la semplice dieta di sangue umano
diventano intolleranti a quel metallo. E
io ne so qualcosa.
«Be’,
f-forse non hai c-controllato bene» balbetta inizialmente, per poi riprendersi,
«ti assicuro che…»
«Non
devi assicurami nulla perché lui non c’era» la interrompo spazientito. Mi
avvicino fino ad afferrarle la nuca con la mano e avvicinarla a me. Tenta di
ritrarsi, spaventata.
E fai bene ad avere paura.
«Sono
stato io a vederlo per ultimo. È inutile che continui a raccontare fandonie».
«Va
bene… va bene. Ho mentito, sì. Ti prego, non uccidermi!» urla disperata e
cominciando a scalciare, finché non afferra la mia camicia.
Ah,
no, mia cara. È costosa questa, più della tua vita.
Le
blocco entrambi i polsi e mettendomi dietro di lei. Potremmo essere scambiati
per una coppia di amanti, se i miei canini non stessero sfiorando la sua pelle.
Si
irrigidisce prendendo un respiro profondo. No,
basta urla. Tolgo una mano dal suo polso e la porto alla sua bocca. Con la
punta della lingua tocco lì dove un tempo c’era stata una giugulare palpitante
di sangue.
Ah,
bei tempi quelli.
«Forse
in preda all’isteria ti sei dimenticata che non posso ucciderti altrimenti
rischio l’espulsione dal clan».
«No,
non l’ho dimenticato» sussurra ansante e scossa quando allontano di pochi
centimetri la mano.
Non
capisco. Se ne è al corrente e non è uscita di senno… perché supplicarmi di non
farla fuori?
«E
allora perché credi che lo voglia fare?»
Sorride
poggiando la testa riccioluta sulla spalla. Una cascata bionda mi accarezza la
schiena. «Ammettilo che l’idea ti ha sfiorato la mente».
Be’,
in effetti sì, ma è stato dettato da un passato in cui quei pensieri erano
all’ordine del giorno. Uccidi se vuoi
sopravvivere. Era questo il motto.
Ben
diverso da quello che insegnano qui sotto la guida di William.
«Okay,
te lo concedo. Le vecchie abitudini sono dure a morire, ma ho fatto i compiti a
casa», accosto la bocca al suo orecchio, «imparo in fretta, sai?»
La
sento tremare tra le mie braccia, una zaffata di odore speziato mi giunge alle
narici.
Ah,
si tratta di questo? Inarco un sopracciglio lasciandola andare lentamente.
«Immagino
che lo senti».
Eccome
se lo sento. Cerco di scacciare dalla mente il fatto che siamo soli, con un
umano che sta per arrivare con cui banchettare e che i nostri corpi parlano da
sé.
«Che
mi desideri? Be’, questa è una novità, Crystal». Ho creduto che volesse
Alexander o Sebastian, invece mi sono sbagliato.
A volte capita, Nigel,mi ricorda la mia voce interiore.
Non a me, però. Io non sbaglio mai
sulle persone.
Porta
entrambe la mani ai seni, stringendoli forte. Con i pollici accarezza i
capezzoli mentre dischiude le gambe. Una gonna e degli stivali di pelle.
Perché
diavolo non mi sono fatto una corsa direttamente al paese e tanti saluti alla
discrezione?
Certo,
una sveltina in fretta e furia potevo farla, ma riflettendoci potevo averla
anche dopo, no?
Alexander
è al palazzo e di lì non può muoversi finché William non torna. Se non voglio
che mi metta i bastoni tra le ruote devo andare adesso, i miei bisogni di
maschio possono anche essere messi a tacere per un po’.
Chiudo
gli occhi, i pugni stretti e il mio amico lì sotto e svettante e sull’attenti,
proprio come un soldato chiamato all’azione.
Non stavolta, amico mio. Non ora.
«Non
ti trattenere, Nigel. Sono tua, prendimi» bisbiglia languida.
No!, urla la mia
mente, non posso.
«Cosa
hai detto? Perché non puoi?»
Oh
cazzo, l’ho detto davvero? Non importa.
Ti
segno sulla mia agenda personale come prossimo impegno urgente da portare a
termine, tranquilla.
In
lontananza avverto il rumore di un motore… no, una macchina. Deve essere Jill.
Perfetto, un tempismo davvero impeccabile.
Comincio
a pensare alle cose orribili del passato a cui ho dovuto assistere e la tenda
canadese lì sotto si sgonfia rapidamente e con essa il dolore va scemando.
Ah, sospira di
sollievo la mia mente. Pace.
Afferro
per un braccio Crystal e ci avviciniamo al furgone, «non una parola, capito?»
Non
attendo una risposta e sorrido a Jill che accosta il furgone sul ciglio della
strada.
«Scusami,
Jill, per non averti avvertito prima, ma non parto più. Puoi disdirmi il
biglietto aereo?»
L’uomo
sorride e scrolla le spalle, «stia tranquillo, signor Nigel, penso a tutto io»,
lancia un’occhiata maliziosa in direzione di Crystal. «Be’, vi auguro di
passare una buona notte. Arrivederci».
Da
un colpo di gas e il motore del furgone riprende vita. Qualche minuto dopo
rimane solo un enorme polverone che aleggia come una fitta nebbia sul sentiero.
Mi
volto verso una Crystal imbronciata e ancora eccitata, «portami subito a
Forks».
«D’accordo,
ma guarda che non dimentico…», mi afferra la nuca e con forza infila la lingua
nella mia bocca, saccheggiandola voracemente. Svaniamo così dal territorio
islandese, per riapparire in un bosco con sequoie altissime.
«…il
mio premio» conclude, staccandosi definitivamente da me e sfiorando –
casualmente, eh! – il cavallo dei pantaloni.
«Salve!»
saluta allegra prima di svanire.
Ma
stava salutando me?
«Entra
in casa, mamma» ringhia una voce femminile alle mie spalle, «devo dare il
benvenuto a questo succhiasangue». Che bel nomignolo, penso sorridendo.
Mi
volto lentamente finché non intercetto un paio di occhi neri che mi fissano
carichi di disprezzo. Annuso l’aria circostante, sbuffando scocciato.
«Devi
essere uno di quei mutaforma di cui mi ha parlato Sebastian».
E
io che ho pensato stupidamente di fare un lavoro veloce e pulito…
Maledetta Crystal, te la scordi la
scopata!
«Non
sarebbe meglio se tu ritornassi alla riserva?»
Meglio
lì che qui senza protezione. Non dovrei preoccuparmi di un’altra persona da
proteggere.
Non
dovrei perdere nessun altro.
«E
chi baderebbe alla casa di Charlie mentre lui è in ospedale?» ribatte
stancamente.
Poggia
due piatti sul tavolo in cucina, per poi tornare alla pentola.
Sono
appoggiata allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto e la
tensione sulle mie spalle è alle stelle.
Al
minimo odore di sanguisuga scatto e guai chi si trova sul mio cammino.
Negli
ultimi anni è sempre stato così. Da quando Seth è sparito insieme a
quell’idiota di Bella mi sono sentita portar via una parte di me.
È
vero, ho altri fratelli ai quali sono legata, ma loro non sono di sangue come
Seth.
Viviamo
nella riserva tutti insieme, con qualche eccezione da parte di Jake che dorme
spesso nella casetta dei Cullen insieme al suo imprinting, ma non significa che
siamo davvero imparentati. O almeno io la vedo così. Tutti noi siamo discendenti
dei primi mutaforma, ma il legame tra me e mio fratello è sempre stato forte,
nonostante sembriamo cane e gatto.
«I
vicini. Non c’è un prato da tagliare o fiori da innaffiare, solo pesci rossi»
scrollo le spalle «non credi che siano in grado di badare a loro?»
«Non
è solo questo, Leah, lo sai…» sospira mentre mescola il sugo.
Ancora
Charlie…
Per
carità, non ho nulla su quell’uomo che mamma ha scelto come compagno; è
simpatico, un tipo alla mano e sempre con la battuta pronta. Inoltre tifa i
Lakers di New York.
Potrei
mai trovare un tizio migliore di lui nei dintorni?
Assolutamente
no.
Per
giunta essendo il “ragazzo” di mia madre la accompagna alle riunioni attorno al
fuoco e ascolta le leggende della nostra tribù.
È
un rito che si è consolidato negli anni per permettere ai nuovi e giovani
ragazzi dei due branchi di conoscere qualcosa in più sui loro poteri e le loro
origini.
Ogni
volta che ci sediamo attorno al fuoco restiamo in silenzio per almeno un minuto
per ricordare mio fratello e la cosa mi fa imbestialire come non mai.
È
come se fosse morto per loro, un nome già inciso sulla lapide che non attende
più il suo proprietario poiché il corpo non è mai stato trovato. Figuriamoci i
resti di quella succhiasangue.
Molti
hanno perso le speranza di poter riabbracciare il piccolo Seth, tra questi vi è
anche Sam. Avrei preferito non sentirlo la notte in cui Jared gli aveva
domandato cosa ne pensasse.
«È chiaro che l’abbiamo perso» mormorò
sconsolato. «Non so nemmeno come comportarmi con Leah. È diventata ancora più
scontrosa di prima» sospirò a quel punto mentre io sedevo sulla roccia sopra di
loro. Ero immersa nell’oscurità, impossibile vedermi, forse il mio odore
avrebbe potuto tradirmi se non fossi stata sottovento.
«Soffre, Sam. Prima perde te e ora
Seth» gli fece notare Jared.
«Ho paura che…» deglutì Sam, ma non riuscì
a finire la frase.
Io lo interruppi con una risata amara
e beffarda, «paura di cosa, Sam? Che voglia farla finita? Che il mio cuore non
reggerà ancora per molto?»
Si voltarono entrambi, due maschere di
stupore sui loro volti invecchiati dal dolore.
Ci trovavamo sulla spiaggia e i miei
capelli neri erano sferzati dal vento.
Poteva anche essere l’inverno più
freddo di sempre ma i miei quarantadue gradi corporei non mi avrebbero
abbandonata mai, proprio come accadeva a loro. Tutto il mio essere si stava
incendiando per la collera nei loro confronti.
«Non dovresti essere di turno, oggi?» domandò
Sam, caustico.
Già, avrei dovuto. Peccato che
qualcuno si fosse offerto di andare al mio posto. Almeno ora sapevo cosa pensavano
tutti della sorte di Seth.
Ero rimasta sola a sperare nel suo
ritorno, sola a credere che avrei rivisto il suo sorriso solare e goduto della
sua vivacità che caratterizza i giovani di oggi.
Le mie labbra tremarono, ma non fu
certo per il temporale in arrivo.
A Seth sarebbe piaciuto cavalcare
quelle onde gigantesche, oppure gettarsi dalla scogliera a strapiombo insieme
agli altri. Magari con Jake.
Stravedeva per lui, era il suo eroe,
il modello di uomo da cui trarre esempio nella vita sovrannaturale che aveva
condotto fino a dieci anni fa.
Mi schiarii la voce, gli occhi pizzicarono.
«Che bella sorpresa, non trovi?» scossi il capo con amarezza. «Io vengo
rimpiazzata da Quil e trovo voi che già date per spacciato mio fratello».
«Non è com…» cominciò a dire Jared,
prima che un gesto secco della mano di Sam lo interrompesse.
«Esatto. Cos’altro dovremmo pensare,
secondo te?» inarcò un sopracciglio non vedendomi rispondere, perciò continuò:
«sappiamo tutti che non sarebbe fuggito, non ne aveva motivo. E c’era anche
Bella con lui…» lasciò la frase in sospeso per un po’, poi concluse rassegnato
«non possiamo fare altro che pensare che siano morti entrambi. Mi spiace, Leah.
È ora che guardi in faccia la realtà e continui per la tua strada. Tuo fratello
non avrebbe voluto vederti triste come lo sei adesso».
Già, continuare per la mia strada…,
penso mentre mamma spegne i fornelli, sorride nella mia direzione e sistema le
polpette nei piatti.
Arranco
fino alla sedia, strascicandola sul pavimento e sedendomici.
Comincio
a giocherellare con il cibo. Non ho molta fame, soprattutto quando i ricordi
affiorano nella mia mente e mi colpiscono dritta al cuore.
Nonostante
i miei compagni – o fratelli – non credano nella possibilità che sia Seth che
Bella siano ancora in vita, io e mia madre non viviamo che per quel giorno in
cui mio fratello busserà alla nostra porta, sorridendo ed esclamando
“sorpresa!”.
«Come
va nella riserva?» mi domanda dopo un po’, probabilmente per porre fine a
questo silenzio opprimente. Se ti dicessi che va male, che non
abbiamo notizie nuove… come la prenderesti? Sollevo
le spalle inghiottendo un pezzo di carne. Se mi sforzo per mangiare, avrò meno
forze per parlare e anche meno possibilità con la bocca piena.
«Come
al solito». Non è una bugia né la verità, ma una via di mezzo.
«Capisco».
Non
volendo continuare, mi dedico alle mie polpette, come se ne andasse della mia
vita.
Appena
finiamo entrambe, cominciamo a lavare le stoviglie sporche.
Mentre
sto asciugando la pentola, mi chiede: «Ti è arrivata la notizia dell’adozione
di Bella?»
Quella
volta non sono stata presente perché era il mio turno di guardia del territorio
della riserva insieme ad altri fratelli, ma appena Nessie l’ha raccontato a
Emily la voce si è sparsa a macchia d’olio. A quanto ne so, solo i Cullen
ancora non ne sono al corrente.
Il
che è strano, conoscendo Nessie.
O
forse no. Negli ultimi quattro anni le cose non vanno poi granché bene fra
loro.
Be’,
fatti loro. Non che possa o voglia intromettermi nelle questioni di quei
succhiasangue. Forse svuoterà il sacco Jake, come fa sempre del resto.
Ormai
è diventato pappa e ciccia con quei disgustosi parassiti.
«Sì»
le rispondo solamente.
«Cosa
ne pensi tu?»
Io?
E cosa dovrei pensare, sentiamo?
«Ehm…»
faccio roteare gli occhi per la stanza fino a incrociare nuovamente i suoi,
«che forse non suona poi così strano, mamma. Lui è okay, lei per niente».
«Leah!»
mi rimprovera severamente.
«Okay
okay… comunque è una bomba questa cosa. Sul serio, nessuno si aspetta che Isabella
Swan non sia proprio Swan, ecco».
«Povero
Charlie…» sospira.
Annuisco
ma rispondo ugualmente con un “già”.
«Senti,
mamma, io adesso devo andare. Ho una riunione con gli altri» le comunico,
cominciando a mettere la giacca di pelle sulle spalle.
Ogni
volta che ci incontriamo per pranzare o cenare insieme è una sorta di tomba.
Lei cerca di scoprire qualcosa in più, magari sapere filo e per segno delle
nostre ricerche, io devio le sue domande rispondendo a monosillabi o cambiando
argomento.
Non
posso certo riferirle che Sam e probabilmente anche Jake credono siano morti
entrambi. Sarebbe un colpo troppo brutto per mia madre. Persino quell’idiota di
Bella le è entrata dentro.
Anche
se sembra essersi ripresa dalla morte di mio padre, l’improvviso ricovero di
Charlie e la scomparsa di Seth dieci anni prima l’hanno distrutta nello spirito.
Se le confidassi che anch’io comincio a dubitare del fatto che sia vivo,
potrebbe finire in ospedale, magari ricoverata insieme a Charlie.
Con
un po’ di fortuna riuscirei anche a metterli nella stessa stanza.
«Va
bene, vai. Mi raccomando, informami se… se ci sono novità» mormora con voce
tremolante.
Do
un assenso con il capo e mi avvio alla porta, quando la sua voce mi richiama.
Mi
volto e vedo che in mano tiene un sacco della spazzatura.
Probabilmente
vuole che glielo metta fuori.
Lo
afferro e mi accompagna fino alla porta. Appena la apre, uno strano odore mi
giunge alle narici. Lascio cadere il sacco, cominciando a tremare e sibilare.
Cazzo,
qui ci deve essere un vampiro. Anche se l’odore mi lascia un attimo interdetta
sul posto.
Non
è il solito dolciastro che fiuto a occhi chiusi. È più lieve, meno forte di
quello che ho imparato a distinguere.
Ma
che significa? Perché è così diverso?
Non
mi prude neppure il naso per l’avversione, anzi. Sembra persino sopportabile!
«Che
succede?» chiede allarmata mia madre.
Non
ora, mamma. C’è un vampiro che sembra indossare una colonia da uomo. E forse ce
n’è anche un altro, percependo una fragranza meno accentuata, più femminile.
Annuso
l’aria e seguo la scia fino a dietro l’abitazione.
Quello
che vedo mi blocca sul posto: due vampiri, un maschio e una femmina sono
stretti l’uno all’altra mentre si scambiano un bacio che potrebbe incendiare la
foresta qui attorno.
Lui
porta i capelli neri, corti. È alto, forse più di un metro e ottanta, un fisico
asciutto fasciato da un lungo trench nero di velluto. Da quel poco che vedo del
volto ha mascella spigolosa, zigomi pronunciati ma non troppo, un pizzetto
appena accennato sul mento.
Se
fosse un essere umano, sarebbe stato il classico playboy che lascia dietro di
sé una scia di cuori infranti.
Lei
invece è minuta rispetto a lui. Capelli biondi ondulati le incorniciano il viso
pallido, i seni prosperosi e due gambe snelle e slanciate, coperte fino al
ginocchio da stivali di pelle con il tacco. La minigonna inconsistente fa
capire subito che tipo di femmina sia.
Sarebbe
stato divertente rovinarle trucco e faccino delicato come quello di una fata.
Appena
la vedo spostare la mano sul petto di lui, un ringhio fuoriesce dalle mie
labbra. Non c’è bisogno che continuiate questo
spettacolo, parassiti! Fra poco avrete altro da fare che slinguazzare tra voi. Dietro
di me avverto una presenza. Mamma mi ha seguito fino a qui e ora fissa la scena
a bocca aperta.
«Entra
in casa, mamma. Devo dare il benvenuto a questo succhiasangue» ringhio a denti
stretti.
Finalmente
il parassita si degna di guardarmi in faccia. Meglio così, attaccare alle
spalle non è nel mio stile. Lo vedo annusare l’aria.
Probabilmente
si starà domandando come mai io abbia questo odore raccapricciante.
Subito
avverto dei passi veloci allontanarsi: mamma ha seguito alla lettera il mio
ordine, per fortuna. Litigare davanti a un succhiasangue non rientra nei miei
piani.
Dopo
quella che sembra un’eternità, ma invece sono solo pochi secondi, comincia a
parlare: «devi essere uno di quei mutaforma di cui mi ha parlato Sebastian». Cosa? Sicuramente
adesso il mio sguardo è stralunato.
Come
fa a sapere che sono un mutaforma? Sì, posso anche capire che il mio odore ha
qualcosa di diverso da quello di un semplice essere umano, ma arrivare a dire
che sono un mutaforma… mi sembra troppo!
Chi
è questo Sebastian, poi? Come fa a sapere cosa siamo?
«Chi
sarebbe questo tizio? Un altro tuo amico sanguisuga?»
Adesso
i nostri segreti sono sbandierati ai quattro venti? Possibile che dieci anni fa
la nostra copertura sia saltata così in fretta?
È
vero, c’erano parecchi vampiri e anche se avessero fatto passaparola, significa
che tutti sanno che noi siamo qui e potrebbero farci il culo quando vogliono se
radunano un numero considerevole di parecchi di loro.
Incrocia
le braccia al petto e si appoggia a un tronco dietro le sue spalle. Sul volto
un sorriso sprezzante e cinico. «Cosa ti costa chiamarci con il nome più
comune?»
«Intendi
vampiri?»
«Sì».
Risposta semplice e secca.
La
mia di risposta? Una bella risata sarcastica.
«Pensi
che m’importi se ti sia offeso, morto?»
«Allora
non ti dispiacerà se ti do della cagna selvatica» ribatte divertito.
Peccato
per lui che io non lo trovi affatto divertente. Lo fulmino con lo sguardo. «È
finito il tempo delle battute», il corpo comincia a tremare «passiamo ai
fatti».
Un
sorriso mellifluo fa capolino sul suo volto pallido. Le braccia scendono lungo
i fianchi, i pugni da serrati si trasformano in dita affusolate simili ad
artigli ricurvi.
È
pronto ad attaccare.
Un
ruggito sordo prorompe dalla mia bocca. Fisso per l’ultima volta da umana gli
occhi freddi e risoluti del vampiro, prima che strappi di vestiti e tendini
spezzino quel silenzio spettrale che preannuncia l’inizio della battaglia.
Un
ghigno malefico sul volto, «bella pelliccia, sai?»
Scatto
immediatamente verso sinistra, ricordando seppur controvoglia gli avvertimenti
del vampiro biondo con la faccia da funerale, il tizio che sta che fa coppia
con quella sottospecie di nana, la preveggente: mai attaccare un vampiro
neonato frontalmente.
Anche
se questo qui non lo è affatto, a giudicare dal suo portamento misurato e non
goffo e rude di un cucciolo, il mio istinto mi suggerisce che non ne uscirò
viva se non gioco d’astuzia.
Lui
resta immobile con i piedi ben piantati nel terreno, solo gli occhi si muovono
seguendo minuziosamente i miei movimenti laterali.
«Devo
ammettere che mi aspettavo meno materia cerebrale da voi mutaforma.
Evidentemente qualcuno ha cercato di evolversi dal proprio stato di
quadrupede».
Che
cosa? Fa pure dello spirito?
Non
appena noto che i suoi occhi non riescono più a seguirmi perché mi da le
spalle, sfreccio verso la sua figura. La prima cosa che devo fare è
rallentarlo, la sua velocità può mettermi nei casini. Cerco di azzannare la
gamba destra e in un battito di ciglia mi ritrovo lanciata in direzione di un
tronco d’albero.
Accidenti,
se fa male. Quel succhiasangue picchia forte, proprio come piace a me.
Strano
che ancora nessuno si sia precipitato qui, a quest’ora avrei dovuto avere il
supporto di Quil ed Embry. Possibile che non si siano trasformati ancora.
Quando
inizia il loro turno di perlustrazione della zona?
Che
sia cambiato ed io non sappia nulla?
Ah,
inutile pensarci mentre un vampiro ti si avvicina mantenendo quel sorriso
sfacciato di superiorità. Vediamo se quel vecchio trucco che uso con i miei
fratelli funziona anche con lui.
Chiudo
gli occhi ed emetto un rantolo di – finta – sofferenza. Se devo giocare sporco
per sconfiggerlo, ben venga. Non sia mai che per salvarmi la pellaccia non
ricorra a simili mezzucci da quattro soldi.
Da
come ha abbassato la guardia, sembra proprio che ci sia cascato con tutte le
scarpe firmate. «Già vinto?» sbuffa scocciato.
Deve
essere uno di quelli che adora tirarla per le lunghe. Eccoti accontentato!
Con
un movimento repentino affondo gli artigli delle zampe anteriori nella carne
dura sotto le ginocchia, strappando il tessuto nero che a brandelli cade giù.
Un
gemito a metà strada tra il dolore e la sorpresa riecheggia nel bosco e mentre
mi appresto a sollevare la testa per azzannarlo al braccio che si sta
pericolosamente avvicinando alle mie zampe, l’altra mano estrae qualcosa dalla
tasca.
Una
mano pallida mi afferra per la gola, costringendomi a mollare la presa sulle
sue gambe che a velocità impressionante si rigenerano. Ma ciò che davvero si
rispecchia nei miei occhi non è la rabbia, il disprezzo o magari la paura di
sapere che probabilmente questi sono i miei ultimi istanti, no.
È
lo sgomento.
Dalle
ferite che gli ho inferto esce del sangue, proprio come se si trattasse di un
essere umano, ma senza quel rimbombo nella cassa toracica.
Com’è
possibile che perda sangue? I vampiri non perdono sangue, lo sanno pure le
pietre!
«Sorpresa,
vero? Non capita tutti i giorni di incontrarne uno che perda quel prezioso
nettare dal proprio corpo».
Hai
fatto centro, sanguisuga.
Un
ringhio la mia risposta. Non gli darò mai la soddisfazione di avermi uccisa
senza averlo messo un tantino in difficoltà.
Ma
lui è stato più veloce, nonostante i miei artigli gli lacerano la camicia
mostrando un petto glabro e perfetto, o come direbbe sicuramente quell’idiota
di Bella Cullen: il corpo di un dio greco. Dai lineamenti cesellati, spigolosi
ma ben proporzionati, occhi di ghiaccio che mi cercano dentro quell’ammasso di
peli in cui si rifugia il mio essere umana.
«Mi
dispiace». Le ultime sue parole che sento prima di scivolare nell’oblio e
riprendere la forma originaria.
Una
fitta al petto l’unico dolore.
Buffo.
Ho imprecato fino a un attimo fa pur di trovarmi solo come lo sono adesso.
La
presenza di quel Jake è stata rilassante, anche se il suo odore è disgustoso.
Sa
di muschio, di erba bagnata, di natura. Proprio quello di cui non ho alcun
bisogno.
C’è
così tanta confusione nella mia testa, così tante immagini sfocate che
saltellano qua e là dandomi una visione distorta della realtà. Dalla quantità
di ricordi, che sembrano scorrere come un torrente nel bel mezzo di una tempesta,
deduco di non essere un vampiro novellino. Chissà quanti anni mi porto alle
spalle, quanti posti ho visitato, quanti altri della mia specie ho conosciuto…
Ma
tutto sembra convogliare nell’unica figura che mi sembra davvero familiare,
davvero mia.
L’immagine
di Bella, mia moglie.
Abbasso
lo sguardo verso l’anello che porto al dito, giocherellandoci. Questo piccolo
pezzo di metallo è la prova che io sono davvero legato a qualcuno, che lo sono
stato tempo fa e che da… be’, neanche ho la più pallida idea di quanto tempo
sia passato da quando mia moglie sia scomparsa. Sempreche lo sia, aggiunge una vocina mentale.
Già,
sempre che lo sia.
Come
può una moglie abbandonare un marito se ama la sua famiglia così tanto?
Come
posso aver permesso che lei mi lasciasse così, senza dir nulla ad alcuno?
Sfilo
l’anello dall’anulare e leggo il nome di mia moglie inciso a chiare lettere:
Isabella
Marie Swan
Questo
è il suo nome completo, a quanto pare.
Chiudo
gli occhi pronunciando mentalmente quelle parole, cercando di associarle alle
svariate immagini che scorrono veloci, ma tutto è confuso, come se vi fosse
stato spruzzato sopra del fango.
«Noi ci apparteniamo» sussurra. Il suo
corpo è immerso fino al seno nell’acqua scura dell’oceano. Alle sue spalle vi
è una spiaggia desertica illuminata da fiaccole che brillano per lingue
rosso-arancio.
Sul fianco destro della collina si
trova una casa, da cui s’intravedono gli interni moderni ma che s’intonano con
la natura tropicale del luogo.
«Per sempre» mi sento rispondere, mentre
i nostri corpi allacciati si spingono verso il largo e sempre più giù. Un lungo
bacio accompagna la nostra discesa, mentre le nostre intimità si sfiorano e
accarezzano come se combaciassero.
Tessere di un puzzle, direbbero in
molti. E avrebbero ragione. Le sue mani arrivano alla mia nuca e
afferrano ciocche di capelli fin quasi a strapparli. Nessuna barriera fisica
tra di noi, nessuna barriera emotiva.
Quella notte è la prima di una lunga
serie. La prima che vede protagonista un “noi” nella sua totalità.
Sussulto
non appena quel ricordo si dissolve come una nube di polvere e al suo posto
compaiono altre sequenze dove io e lei siamo in un letto, aggrovigliati in ciò
che resta delle lenzuola.
Una
vampata di calore si irradia nel mio animo quando le sue labbra si poggiano
sulle mie e quando porto le dita alle labbra le trovo stranamente tiepide.
La
mia bocca si distende in un sorriso e alcune fitte di desiderio si concentrano
nel mio basso ventre.
Bella,
la mia Bella.
La
donna che ho amato in assoluto irrompe nei miei pensieri con la forza
devastante di un colpo di cannone.
Mi
meraviglia che il suo ricordo sia riuscito ad emergere tra tutti quelli di una
vita intera, ma suppongo che anche se mi avessero costretto a dimenticare il
mio passato Bella non sarebbe mai andata via dalla mia mente, dal mio corpo,
dalla mia essenza.
«Chiunque
sia stato a fare tabula rasa nel mio cervello…» sollevo l’anello che brilla al
cospetto di un raggio di sole «…non è stato poi così bravo».
E
nel gesto di rimetterlo al proprio posto nel mio anulare, un altro ricordo mi
colpisce.
C’è
sangue dappertutto: pavimento, camicia che indosso, qualche macchia bagna anche
le pareti e macchinari ospedalieri.
È
buio, le vetrata di una casa moderna illuminano il bosco con la propria luce
artificiale.
Ci
sono altri vampiri che si aggirano nella casa, ma non riesco a capire come
faccio a esserne a conoscenza.
Istinto
di vampiro? Forse gli odori?
No,
è come se li sentissi… come se sentissi i loro pensieri nella mia testa e non
riuscissi a cacciarli via.
E
cosa ben più importante: trasudano di paura e morte.
Qualcuno
sta per morire.
Guardo
verso il basso e noto la figura di una ragazza gracile come uno scheletro che
giace nelle mie braccia. I suoi capelli castani ormai privi di vitalità sono
scuri, tendenti al nero.
Le
labbra di solito rosee ora sono bianche. Ma è l’anello al dito che attira la
mia attenzione: la donna tra le mie braccia è mia moglie, Bella.
Com’è
possibile? Perché sta morendo? Perché tanto sangue?
Un
brivido serpeggia lungo la mia schiena, le gambe scattanti adesso sono molli
come gelatina mentre la sistemo sul lettino.
Le
accarezzo i capelli, le bacio la fronte, le sussurro che andrà tutto bene, che
salverò entrambi.
Ma
entrambi chi? È lei che devo salvare, lei che devo tenere stretta a me, non
permetterle di lasciarmi.
Le
sue mani scattano verso il basso e si poggiano protettive verso il grembo e
quando seguo la traiettoria di quel gesto capisco cosa sta accadendo.
È
il momento del parto, sto ricordando la nascita di nostro figlio.
No.
La
nascita di nostra figlia.
Srotolo
dal divano a rallentatore, i miei movimenti non sono mai stati così lenti come
adesso e mentre i ricordi di una vita si accavallano tra di loro alla rinfusa,
capisco che c’è solo un posto dove può esser andata mia figlia.
Un
luogo che ho condiviso prima con mia moglie e dopo con mia figlia.
Chiudo
gli occhi e mi avvicino alla porta. La spalanco, annusando la brezza che mi
scompiglia i capelli.
Lascerò
che i miei sensi mi guidino. Lascerò scivolare il passato come un cappotto
caldo sul mio corpo freddo. Solo così riuscirò a riscaldarmi e ritrovare ciò
che mi appartiene.
Pov Renesmee
Stupida.
Ti sei comportata come una bambina stupida e capricciosa.
Ho
lasciato ancora una volta che il mio dolore trasparisse dai miei occhi e dalle
mie parole, quando invece mi sono ripromessa di non farlo più, di non
permettere a chiunque sia di scrutare oltre la superficie.
Altro
che maschera di freddezza, altro che indifferenza.
Che
mi veda Jake è un conto, ma mio padre è un altro. Soprattutto quando di me non
si ricorda proprio nulla.
Mi
avrà preso per una sciocca quando sono scappata via come se mi rincorressero i
Volturi.
Ha
già visto le mie lacrime quando mi ha attaccato non appena sveglio e affamato,
ma dubito che si rammenti di quel momento.
Seduta
sull’erba, fisso gli steli dei fiori che ondeggiano sotto l’azione del vento.
La
radura si presenta a tratti scura, ad altri chiara per via delle nuvole.
Mi
distendo sul soffice manto erboso e resto in silenzio ad ascoltare il
cinguettio degli uccelli, il ronzio delle api che cercano il fiore più adatto
da impollinare, le fronde degli alberi dibattersi come se una musica inudibile li
costringesse a ballare, sinuosi.
Non
so per quanto tempo resto in quella posizione, ma a un certo punto qualcosa cambia
nell’aria.
Gli
uccelli e gli altri animali si zittiscono, un silenzio inquietante scende come
un velo ad avvolgere il territorio.
Un
odore familiare mi arriva alle narici: miele, lillà, sole.
Sospiro
frustrata, ma non mi muovo di un millimetro. Se crede che ricominci a
comportarmi come prima, si sbaglia di grosso.
Un
leggero fruscio mi avverte che anche lui si è disteso sull’erba, proprio
accanto a me.
Be’,
finché sta in silenzio, direi che non ci sono problemi.
Ma
dubito che sia qui solo per brillare come un diamante o per godersi un po’ di
pace.
Eppure
non riesco a capire: la memoria rimossa non può portarsi via anche la sua
capacità di leggere nel pensiero. Ci è sempre riuscito da quel che ne so.
Non
capisco…
«È
una bella giornata, non trovi?» spezza il silenzio.
I
soliti convenevoli, eh!
«Abbastanza»
rispondo indifferente.
Che
sia poco loquace? Be’, spero che se ne accorga subito e la faccia finita.
Passano
alcuni minuti, nei quali l’avrò sbirciato con la coda dell’occhio almeno tre
volte.
«Abbiamo
parlato un po’, prima, eppure non so ancora il tuo nome…» scandisce lentamente,
come se questa rivelazione lo avesse sconvolto.
Rido.
«Che importanza ha il mio nome? Non mi credi, no?»
«M’importa,
invece» aggrotto le sopracciglia «comincio a ricordare alcune cose».
Cosa?
Apro
un occhio e lo guardo di sottecchi. Adesso è voltato nella mia direzione, con
un gomito si sorregge il mento e i piedi intrecciati. Il volto è serio, nessuna
traccia di divertimento o derisione.
Quindi
non mi sta prendendo in giro, forse non è andato tutto perduto.
Ma
in fondo avrei dovuto intuirlo da quando ha pronunciato il nome della mamma.
«Quali
cose?» domando cauta.
Meglio
andarci piano.
«Il
parto, tanto per cominciare».
Il
parto. È sempre qualcosa, no?
«
E che altro?»
«Tua
madre, io, persino il tuo amico Jake è presente».
Sì,
questo lo so. Ho sentito la sua voce insieme a quella degli altri quando ero
ancora dentro la pancia della mamma. Ha aiutato papà a farmi nascere, ricordo
di sfuggita il suo viso sporco di sangue, i suoi occhi sbarrati mentre osserva
quelli vitrei di mia madre.
«Hai
visto anche me?»
«Tecnicamente…
no».
Sorrido
amara. «Allora hai visto la pancia della mamma e hai dedotto che forse non
mentivo».
Annuisce.
«Esatto».
«Almeno
adesso abbiamo fatto un passo avanti, ora so di potermi fidare di te» continua
lui.
Già,
ora che ricorda questo è tutto risolto, vero?
Troppo
facile uscirsene così.
«Cosa
ti fa credere che ricordare la mia nascita cambi la situazione? D’accordo, ora
sai chi sono, sai che hai una moglie ma non è qui con noi, ma ricordare solo
questo evento non mi fa sorridere e correre tra le tue braccia, papà».
Decisamente no, non dopo quella fuga di dieci anni. «Puoi crogiolarti nel tuo
malumore per il fatto di essere stato gettato via da tua figlia proprio come
hai fatto tu con me».
Ho
sempre immaginato di potergli rinfacciare tutto questo, ma adesso che è
accaduto davvero dov’è quella soddisfazione che dovrei sentire?
Dov’è
quella gioia mista a vendetta che dovrei gustare giustamente?
«Di
cosa stai parlando? Quale situazione, quale fuga…» ma subito s’interrompe. Un
lampo improvviso di consapevolezza gli balugina negli occhi e irrigidisce la
mascella. «Sono… scappato anni fa?»
A
quella domanda spalanco gli occhi e mi sollevo, mettendomi seduta. Non so cosa vede
nei miei occhi e non saprei definirlo nemmeno io, ma arretra il capo.
«Sì,
l’hai fatto. Non so se ricorderai mai il giorno in cui mi hai lasciato quello
stupido biglietto e quelle maledette parole che vi erano scritte, ma se lo
farai non saranno di certo allegri ricordi del passato. Almeno per me,
s’intende». Porto le mani sui fianchi. «È facile abbandonare tutto e tutti
quando non si hanno responsabilità. Sfido chiunque a dire il contrario. Ma tu
no, tu non eri certo privo di responsabilità. Avevi una figlia, un’unica,
piccola e fragile bambina» la voce mi s’incrina, ma non mollo. Manca il colpo
finale, quello che lui si rifiuta di ammettere. «Tu non eri e non sei ancora
pronto per fare il padre», mi alzo in piedi, lisciandomi il vestito con fare
noncurante, mentre dentro di me qualcosa va in frantumi. «Avrei dovuto capirlo
quando hai detto alla mamma che volevi uccidere quella cosa che le cresceva
dentro. Dentro al tuo cuore sono sempre rimasta una cosa, non tua figlia».
Mi
permetto di lanciargli un’ultima occhiata, scorgendo il suo viso atterrito e
sofferente, per poi lanciarmi nella foresta.
Ci
vuole ben più che stralci indistinti di ciò che è stato. Il passato bisogna
abbracciarlo per poter guardare a un qualche tipo di futuro e lui non lo sta
facendo.
Pov Edward
Dovrei
seguirla?
Ne
sarei capace, potrei raggiungerla in un batter d’occhio e costringerla ad
ascoltarmi.
Ma
ascoltare cosa? Frammenti di un passato che non riesco a incastrare tra loro?
No,
non merita questo da parte mia. Non dopo quel rancore di cui erano intrise le
sue parole.
Ogni
singola sillaba stillava di dolore e odio profondo verso la mia figura.
È
così che l’ho abbandonata? Con un misero biglietto?
Davvero
ho avuto il fegato di mollare tutto e tutti e fuggire via alla ricerca di mia
moglie?
Tante
domande che vorticano nella mia testa ma a cui non so dare una risposta.
Quanto
vorrei poter ricordare ogni singolo istante della mia vita, eppure dentro di me
so che lei ha ragione. Non troverei solo bei momenti, scelte giuste, no.
Tutt’altro.
Ritornare
a ricordare significa attraversare tutti gli istanti della mia lunga esistenza.
Non importa quanto siano stati belli o brutti, teneri o crudeli: la via della
reminescenza non fa da giudice, solo da testimone.
Porto
le mani a circondare le ginocchia e avvertendo un lungo brivido attraversare la
schiena.
Un
sorriso amaro si distende sul mio volto. Gli occhi mi pizzicano ma so già che
niente uscirà da loro, nessuna traccia di umanità su un volto scolpito per
sempre nella sua gioventù.
Ma
nonostante tutto, ciò che davvero mi ha colpito come un macigno è stata la sua
ultima frase detta con una freddezza e schiettezza senza eguali:
Dentro
al tuo cuore sono sempre rimasta una cosa, non tua figlia.
Come
darle torto se ho addirittura considerato l’idea di ucciderla?
Passano
minuti, anche ore visto che il cielo comincia a imbrunire. I raggi del sole si
rifugiano oltre le montagne per lasciar posto alla luce fioca della luna.
I
gufi iniziano a farsi sentire con i loro versi cupi monosillabici.
In
lontananza, presso le acque di uno stagno da cui sono passato qualche ora fa,
si odono le lingue di alcune alci che sbattono contro la superficie,
raccogliendo preziose gocce d’acqua per dissetarsi.
Mi
alzo in piedi, colto da una sete improvvisa. Spero che almeno… ah, non so
nemmeno il suo nome. Scoppio a ridere, quando in realtà meriterei di essere
picchiato – se fossi ancora umano anche fino a sanguinare, non importa.
Non
mi sono mai considerato un padre ed è la verità. Ma un pensiero me lo concedo:
spero almeno che sia tornata a casa, o magari dai Cullen, la mia famiglia
adottiva.
Lì
sarebbe al sicuro e non sola, vagante nel bosco notturno.
Accelero
il passo in direzione di quei cuori pieni di vita. Respiro a pieni polmoni
l’odore della carne viva e subito il veleno mi impasta la bocca. Sicuramente i
miei occhi bruceranno di un colore simile all’ossidiana.
Appena
arrivo al limitar della boscaglia, mi accuccio e scruto verso quel battito
palpitante.
Ovviamente
non hanno avvertito i miei passi da predatore, ma di colpo la zona si è fatta
silenziosa. Le orecchie delle due alci si muovono ritmicamente mentre si
abbeverano, ma in un istante sollevano il capo e guardano sia a destra che a
sinistra.
E
poi all’improvviso un’ombra scura piomba su uno dei due animali, quello più
piccolo, afferrandolo per il collo e trascinandolo lontano da me.
Indossa
un mantello che nasconde buona parte del viso. Solo la bocca sottile e rosea fa
capolino alla luce lunare.
Esco
fuori dal cespuglio dietro il quale mi trovo, scattando verso l’altra alce e
facendola cadere a terra con un colpo. Non è morta, il sangue lo preferisco
caldo e pieno di vita.
Fisso
la figura incappucciata, dilatando le narici per captarne la fragranza che la
contraddistingue e mi pietrifico non appena abbassa il cappuccio.
Bella.
Mia
moglie.
È
qui.
Sto
sognando? Allora non mi sono ancora ripreso, sono disteso nel letto della
casetta in attesa di aprire gli occhi?
«Edward».
No,
non posso stare sognando proprio ora. Non mentre lei mi sta chiamando con voce
roca e addolorata.
Stringo
i pugni e maledico la mia mente e i suoi stupidi trabocchetti per farmi del
male.
Non
può essere vero, non può essere tornata.
O
forse sì?
Allora
perché lo ha fatto? Perché ha deciso di farlo dopo parecchi anni?
«Edw…»
«Perché».
Dovrebbe essere una domanda, ma invece è più un ringhio.
Sono
felice che lei sia tornata da me, ma perché ora?
Ma
soprattutto: perché ci ha lasciato senza una benché minima spiegazione anni fa?
Una
parte di me vorrebbe correre da lei, non preoccupandosi di parlare, di spiegare
alcunché, l’altra vuole, esige risposte esaustive. Una motivazione più che
valida per averci fatto soffrire così tanto e nonostante esista, so per certo
che qualsiasi tirerà fuori non basterà a contenere la mia rabbia e il mio
dolore.
Con
dita tremanti la vedo attorcigliare lembi della mantellina, denti bianchi come
perle torturano il labbro inferiore e mi ritrovo a reprimere un sorriso a
quella vista.
Anche
da umana era solita farlo. Anche molti anni fa appena vampira lo faceva spesso
quando era nervosa.
Sussulto
a questo nuovo frammento del passato, sfregandomi con due dita le tempie, come
se questo potesse alleviare il caos che pervade la mia mente.
«Sembri
lo stesso di sempre» sussurra piano, «ma so che non è così».
«Ti
sbagli» le rispondo freddamente.
Vorrei
non doverlo fare, ma fa così male quella cavità nel petto dove un tempo giaceva
un organo pulsante. Ora solo un freddo e inutile organo di pietra.
«Davvero?»
l’ombra fugace di un sorriso compare per un istante sul suo viso.
Scatto
in avanti con tutta la mia velocità, chiudo a coppa i miei palmi sulle guance e
sfioro le sue labbra morbide con le mie.
«Davvero»,
e catturo la sua bocca con la mia.
I
miei movimenti sono audaci, voraci per via di anni di astinenza. Nonostante i
vuoti ancora presenti nella mia memoria, posso affermare con certezza quanto il
dolore fisico mi abbia dilaniato dall’interno come un cancro oscuro, invisibile
per certi versi.
«Non
posso… non posso farlo» mormora angosciata.
«Perché?»
le chiedo roteando la lingua contro quelle labbra succose.
Non
può allontanarsi, non può fuggire via di nuovo. Serro le braccia, uno alla vita
l’altro dietro la sua schiena con il palmo della mano che la accarezza
voluttuosamente. Quanto ho aspettato questo momento… «E
me lo chiedi pure, Edward?» sbotta risentita cercando di districarsi dalla mia
presa.
«Certo
che te lo domando. Sei mia moglie, Bella, posso farlo eccome».
Si
irrigidisce alle mie parole ed io sollevo il capo per incontrare i suoi occhi.
Sono spalancati, la bocca aperta in una “O” muta.
«Cosa…?»
«Sai
chi sono?» dice velocemente, interrompendomi. Come potrei non saperlo, amore mio? In
questo momento vorrei che tu potessi leggere nella mia mente per poter sentire
quanto ti amo, quanto ho sofferto negli ultimi anni senza di te.
Le
accarezzo la guancia dolcemente, regalandole uno dei miei sorrisi che le
piacciono tanto.
«Nessun
uomo, vampiro o altro essere di qualsiasi specie, potrà cancellare il ricordo che ho
di te», i suoi occhi s’illuminano, «sei troppo radicata in profondità dentro di
me perché qualcuno possa anche solo pensare di poterti strappare via da me».
Senza
che me ne renda conto, mi ritrovo completamente nudo, i vestiti lacerati sparsi
sull’erba scura, le mani vagano senza sosta sul suo corpo ancora nascosto alla
mia vista.
La
sua pelle è morbida come la ricordavo. Prendo una ciocca di capelli e la porto
alle narici, respirando a fondo il suo aroma. Così seducente, così intenso e
delizioso.
Mentre
assaporo le sue labbra, un ringhio gutturale fuoriesce come un gorgoglio dalla
mia e con un secco gesto lacero la stoffa della mantella. Non ne posso più di
questi ostacoli, non ne posso più di barriere tra di noi.
Sgrano
gli occhi dinnanzi al suo vestito e subito dopo il mio corpo brucia dal
desiderio di unirmi nuovamente a lei. È stupenda, la regina della notte.
Indossa
un abito nero, con striature blu e viola. Lacci s’intersecano sopra e sotto il
seno formando ragnatele intricate. Le ginocchia e una esigua porzione di coscia
è esposta alla vista. Stivali alti con tacco spesso fasciano quelle gambe
snelle, bianche se illuminate dalla luce pallida della luna.
Mi
inginocchio ai suoi piedi e con dita febbrili comincio a sfilarli. Mano a mano
che scendo, lascio una lunga scia di baci, alternati da morsi peccaminosi.
La
sento trattenere un gemito e subito dopo mi ritrovo a dire con voce roca: «non
trattenerti, Bella. Ho aspettato troppo a lungo per poterti sentire così per
me, solo per me».
E
così segue il mio consiglio: gemiti e urla soffocate nella notte si espandono
come un eco nella foresta.
Con
il mio corpo la spingo nell’acqua dello stagno dopo aver gettato via quello
strano vestito. Continuiamo a baciarci, lambire il palato dell’altro con le
nostre lingue che si rincorrono, giocano, riacquistano familiarità con l’altra,
proprio come i nostri corpi.
Avverto
le sue braccia stringersi dietro alla mia nuca, le dita arruffare i miei
capelli e tirarli forte. Un movimento rotatorio del suo bacino fa sussultare e
gemere me adesso, tanto che aspettare diventa impossibile.
«Ora»
la sento bisbigliare contro il lobo del mio orecchio, mordicchiandolo.
La
trascino verso riva, fino a quando solo dal bacino in su i nostri corpi sono
fuori dall’acqua. Con delicatezza accompagno la sua discesa verso il terreno:
io sopra di lei.
Ci
fissiamo negli occhi: entrambi sono neri come il carbone per il forte desiderio
che arde come non mai.
E
mi faccio strada dentro lei, dentro il mio amore senza tempo.
«Edward…»
«Bella…»
sospiro, «amami».
E
lei lo fa. Comincia a muoversi secondo il ritmo da me dettato, le sue gambe
toccano con decisione le mie, su e giù, finché dopo una mia spinta più energica
delle altre le fa gridare il mio nome. Le aggroviglia dietro la mia schiena,
spingendomi sempre più verso di lei, incoraggiandomi a cancellare quella
distanza inesistente tra i nostri corpi.
Abbasso
la testa continuando a muovermi dentro di lei, soffiando sui capezzoli che si
inturgidiscono non appena roteo la punta della lingua su uno di essi.
«Non
smettere…»
Mi
scappa una risata di gioia stavolta.
Come
potrei farlo? Ora che sono con lei, che ci siamo uniti in un’unica entità?
«Bella,
ti amo, anche se tu dovessi ricomparire nella mia vita dopo un centinaio
d’anni, anche se dovessi aspettare un’eternità, continuerò ad amarti» passo il
pollice sulla sua guancia. Se fosse ancora umana, avrebbe pianto a giudicare
dai suoi occhi lucidi. «Mi stai amando, lascia che lo faccia anche io».
Appoggio
la fronte sulla sua chiudendo gli occhi insieme a lei.
Scariche
di pura elettricità si diffondono nell’aria e nei nostri corpi freddi.
Potrei
anche dire che siamo senza vita, ma mentirei in questo istante: non mi sono mai
sentito più vivo di questo momento. È come essere stati smarriti per molto,
moltissimo tempo ed ora si è di nuovo a casa.
Perché
la mia casa è Bella, la mia adorata moglie.
Dopo
altre spinte raggiungiamo l’apice del piacere, i nostri muscoli si
irrigidiscono e sento i denti di Bella conficcarsi nella mia carne. Sorrido
nell’estasi: non solo per aver fatto l’amore con la mia Bella, ma anche per
questo gesto possessivo nei miei confronti.
Perché
le cicatrici di morso di vampiro restano indelebili nella pelle, qualsiasi cosa
accada e lei lo sa perfettamente. Ringhio mentre i miei canini si allungano e
faccio la medesima cosa.
Rotoliamo
sul prato, io sotto di lei con un braccio a cingerle la vita, l’altro ad
accarezzarle i capelli.
«Ricordi
la lista delle dieci mie migliori notti?» le domando, sorridendo beato.
«Sì»
anche lei sorride, rammenta ancora quel momento felice.
«Questa
è la seconda migliore notte della mia esistenza, amore mio».
«Vorrei
trovare le parole per descrivere questa gioia incontenibile che sento dentro di
me, ma non ci riesco» le mormoro nell’orecchio, il mio respiro si infrange
nella sua folta chioma bruna.
Accarezza
pigramente il mio petto tracciando ghirigori, «allora non trovarle. Non
m’importa se restiamo qui senza parlare. Non m’importa se questo istante non
durerà a lungo… non m’importa nemmeno delle conseguenze che ricadranno sulla
mia testa per questo atto dettato dal cuore…»
Mi metto seduto in un lampo, portando anche il suo corpo nella medesima posizione.
Nonostante i suoi seni chiamino a gran voce la mia bocca, i suoi fianchi
gridino di essere stretti tra le mie mani e l’odore del suo desiderio che si
erge con bramosia sempre maggiore, il suo discorso mi scuote fin nello spirito.
Cosa
significa “non durerà a lungo”? E quali conseguenze ricadranno su di lei?
Mi
posa un dito sulle labbra prima che io possa anche solo formulare quelle
domande a voce alta, come se già la mia espressione turbata e cupa fosse già
sufficiente.
«Ci
sono cose che tu non sai…»comincia a
dire.
«Ma
che posso sapere» ribatto duramente scostandole la mano in modo brusco. Non per
volerla ferire, no. Questo mai.
È
il modo in cui pronuncia l’ultima frase a farmi infuriare, come se lei
possa decidere per me cosa possa o non possa sapere. E questa è l’ultima cosa
che avrebbe dovuto dirmi dopo il suo ritorno.
«No.
È meglio che tu e gli altri restiate fuori da tutto questo» la vedo stringere i
pugni, ma prosegue con tono incrinato, «non saprei neanche da dove cominciare
per spiegarti tutto quello che sta accadendo», una scrollata di spalle, «e non
voglio rischiare che qualcuno della mia famiglia si faccia male o peggio…»
deglutisce, allontanando gli occhi dai miei, «possa morire».
Morire?
Crede davvero che mi importi di vivere se lei non è accanto a me in ogni
istante della mia esistenza?
Scuoto
il capo ripetutamente e sollevo un braccio per poggiare la mano sulla sua
guancia liscia, morbida come la seta, ma dura come l’acciaio.
«Guardami,
Bella».
Fissai
per un tempo che mi è sembrato infinito, ma niente. Rimane nella stessa
posizione. Premo un po’ sulla sua guancia per farle incontrare i miei occhi ma
rinuncio sentendo l’intensità del suo rifiuto.
Rilascio
un sospiro a metà tra frustrazione e delusione.
Possibile
che l’amore che circa dieci anni fa sembrava scolpito nel tempo ora si sia
affievolito?
Ritiro
la mano riluttante dalla sua guancia e la fisso come scottato, come anche solo
toccarla fosse doloroso per me.
I
miei sentimenti non sono cambiati, anche se i buchi nella mia memoria sembrano
talmente profondi da farmi indugiare dal pormi l’unica domanda che mai mi sarei
aspettato di fare a me stesso: un vampiro innamorato come lo sono io, può
smettere di amare così di colpo?
Esiste
un interruttore che fa cessare questo grande cambiamento interiore?
Un
flash improvviso mi colpisce improvvisamente, aghi sottili e fitti come una
rete irrompono tra i miei pensieri e il volto di un uomo dai lineamenti
scolpiti nella pietra si focalizza dinnanzi a me.
Una
parte di me, quella del subconscio, suppongo, sembra sapere chi sia, quanta
importanza riveste la sua figura, ma non è ciò che più mi colpisce.
Mi
catapulto in quella mente, mentre il mio corpo sembra essere devastato da un
evento catastrofico: la morte della mia amata.
Nei
pensieri di quell’uomo senza tempo riecheggia più volte un nome femminile,
accompagnato dal volto di una vampira sorridente e piena di vita, nonostante è
una non-morta.
Didyme,
questo il nome della vampira.
Marcus,
il nome del vampiro dai lunghi capelli neri e gli occhi vacui persi nel ricordo
dell’unica donna amata.
Che
mai avrebbe rivisto. Era lo stesso sentimento che esprimeva il mio viso?
Ne
dubitavo. Perché non sarei mai voluto esistere senza di lei.
Perché
non sarebbe mai esistito Edward senza Bella.
Mai.
Avrei preferito la morte, come stavo dimostrando il quel momento, piuttosto che
ridurre il mio essere a vivere in uno stato di apatia e dolore perenne.
Che
fosse stato un modo di raggiungerla o meno, poco importava.
Era
una sorta di imperativo che mi ero imposto come data di scadenza per la mia
esistenza: la morte dell’amore della mia vita corrispondeva alla mia, punto.
E
adesso, ritornando al presente, non posso che essere d’accordo con l’Io di un
tempo: il mio amore per lei sarebbe durato per sempre.
Indurisco
lo sguardo e mi alzo in piedi, cominciando a camminare avanti e indietro. «Puoi
anche non guardarmi, come preferisci. Ma non credere che questo mi scoraggi dal
discorso che sto per farti», l’avviso e lanciandole un’occhiata la vedo
sussultare e avvicinare le gambe al petto, stringendosi nel suo abbraccio.
Se
fosse stata umana, avrei creduto che fosse dovuta al freddo quella posizione,
ma è una vampira e si sa, i vampiri non lo temono.
No,
è una sorta di scudo, una protezione contro di me.
Una
fitta allo stomaco, la risposta del mio corpo.
Prendo
un grosso respiro. «I pochi ricordi che sono venuti a galla in queste ultime
ore riguardano te: direttamente o indirettamente. Questo significa che anche se
hanno provato a fare piazza pulita nella mia mente, il nostro legame è
indissolubile», mi fermo per prendere fiato – come se ne avessi bisogno – e
volgo gli occhi verso Bella, i cui capelli le ricadono in morbide onde scure
sulle braccia e sulle ginocchia, nascondendo il suo bellissimo viso, «tu credi
di proteggermi, di proteggere gli altri – credo si chiamino Cullen, non saprei
– e anche nostra figlia. Posso anche capire il tuo istinto di genitore, di
madre nei suoi confronti, ma non puoi chiedermi di fammi da parte e lasciarti
andare via così, senza alcuna spiegazione».
Si
solleva di scatto e con la velocità tipica dei vampiri me la ritrovo a pochi
centimetri dal mio viso, i suoi nuovi occhi blu cobalto risplendono di una luce
furiosa e al tempo stesso di dolore.
«Soffro
ogni dannato secondo questa lontananza, cosa credi. Non hai idea di quanto
faccia male sapervi qui, a Forks, tristi e preoccupati per me» la sua voce si
affievolisce, «ma sapere che siete vivi e al sicuro mi da conforto, Edward».
Scuoto
il capo, ma scoppia in una risata isterica, afferrando ciò che resta dei suoi
vestiti. Mi avvicino, mentre lei si passa una mano tra i capelli. «Anelo sempre
di stare tra le tue braccia, di poter sentire sulla mia pelle il tuo profumo,
di perdermi nei tuoi occhi…» porta una mano alla bocca per cercare di soffocare
i singhiozzi, «di sentirmi amata».
Di
slancio l’abbraccio da dietro, affondando il viso tra i suoi capelli.
«Ora
lo sei e lo sarai sempre. Non ti permetterò di lasciarmi di nuovo».
«Dovrò
farlo» sussurra.
Sorrido.
«Allora dovrai essere più veloce di me nel correre, perché non puoi certo
svanire nel nulla».
Si
irrigidisce, ma non risponde a quell’ultima mia affermazione e ciò mi lascia
interdetto, finché la sua risposta mi gela sul posto.
«Solo
perché non hai mai visto qualcuno svanire nel nulla non significa che non
esista».
A
quelle parole stringo la presa sul suo corpo, consapevole della verità.
Avrebbe
potuto andarsene in qualunque momento, ma è ancora qui. E sicuramente per un
motivo preciso.
Ripercorro
con la mente questi ultimi momenti, i nostri baci ardenti, vogliosi, i nostri
corpi uniti in uno soltanto, come due tessere di un puzzle finalmente completo.
E solo ora capisco che aveva pianificato tutto, si è presa gioco di me, mi ha
fatto credere che…
«Perché?»
ruggisco.
«Riavrai
tutti i tuoi ricordi, tutti, nessuno escluso».
«Non
mi hai risposto!» la volto nel mio abbraccio e finalmente siamo faccia a
faccia. La sua bocca è tirata in una linea dritta, inflessibile, rendendosi
conto che sono arrivato alla sua conclusione, già decisa da quando è uscita
allo scoperto palesandosi a me.
«Credi
davvero che fare l’amore sia stato programmato?» anche il suo livore riecheggia
in ogni parola.
«Cosa
dovrei pensare, secondo te?»
Con
un gesto inaspettato si libera dalla mia presa, indossando ciò che resta del
suo vestito. Sorride, ma capirebbe chiunque che non è di felicità.
«In
questo momento in me ci sono due Bella: una che è felice di averti ritrovato,
di aver ritrovato un noi, l’altra che mi rimprovera di essermi lasciata andare
con te, perché sapevo che sarebbe stato più difficile chiederti di smettere di
cercarmi».
Incrocio
le braccia al petto, digrignando i denti. Bene, proprio un bel colpo.
Una
moglie che felice di stare con me e un’altra che lo vede come un errore.
Cadere
più in basso di così? Non credo proprio, visto che il mio cuore sembra si sta
sgretolando poco a poco.
«Oh,
che felicità. Ho due mogli. Mi ritengo fortunato, allora. Peccato che una delle
due non veda l’ora di scappare via dopo aver fatto l’amore. Ah, giusto: vuole
persino chiedermi di lasciarla andare…»
«Edward…»
mi interrompe, ma io proseguo.
«Vuoi
che ti dia il mio consenso?» domando sprezzante.
Socchiude
gli occhi, sicuramente infastidita dal mio tono di voce.
«Non
spetta a te decidere se io debba rimanere qui oppure no, chiaro?»
Ah,
non tocca a me. Io, l’uomo a cui si è legata per l’eternità, non ha nessun
diritto?
«Allora
a chi devo strappare la testa dal collo?»
Fa
per rispondere, quando un rumore alla mia destra mi mette allerta. Non può
trattarsi di un animale, perché loro sentono la minaccia insita in noi e si
tengono ben lontani dall’abbeverarsi nel laghetto qui vicino e non avverto
alcun battito cardiaco.
Un
altro vampiro ci osserva.
Mi
metto in posizione di difesa, pronto a difendere mia moglie da qualsiasi
pericolo ci minacci. «Bella, stai dietro di me».
Non
udendo alcuna risposta, do una fugace occhiata nella sua direzione e rimango
impietrito.
Bella
non c’è più.
«Bella!»
urlò a squarciagola, sfrecciando nel punto in cui si trovava. Il suo odore è
forte, intenso, così inizio ad annusare intorno, alla ricerca di qualche
traccia da seguire.
Non
le permetterò di allontanarsi da me di nuovo. Raccolgo i pantaloni e li
indosso. Nel frattempo fiuto nel fitto della boscaglia al limitar del lago.
Niente di niente.
Colto
dalla rabbia, mi fiondo nella direzione in cui avevo avvertito quel rumore e
scorgo per terra un rametto spezzato. E in quel frangente noto una cosa strana:
non ci sono altri rametti lì, non può esserci finito per caso e le impronte di
un paio di scarpe è ben evidente. Per non parlare della scia.
Chiunque
ci sia stato in questo punto, non si è soffermato all’ultimo istante
scoprendoci e rimanendo sorpreso, no.
Era
lì già da un bel pezzo.
Tiro
un pugno contro la corteccia dell’albero vicino,che si abbatte al suolo creando un gran
frastuono. L’eco dell’urto si avverte così distintamente che uno stormo di
uccelli si libra in volo, creando un fitto mantello scuro che oscura il cielo,
proprio come il mio cuore.
Ancora
una volta mi ha lasciato, e senza guardarsi indietro.
Angolo autrice:
Sì,
sono tornata. Non è un grandissimo capitolo, in tutti i sensi.
Non è lungo e si può definire di "passaggio", ma succede
comunque qualcosa di importante. Ora voi vi chiederete: ma come mai non
hai postato per più di un mese? Ebbene, i motivi sono due:
primo, quest'ultimo periodo ho avuto un esame importante, secondo,
erano ricominciate le lezioni e il periodo del tempo libero si era -
non ridotto - dissolto nel nulla. Quando si esce di casa la mattina
presto e si torna a casa alle sette di sera, credetemi, non si ha
voglia di far nulla se non dormire. Mi dispiace se avete atteso a
lungo, ma eccolo qui. Il prossimo capitolo non l'ho ancora scritto,
perciò non vi darò date, ma tenetevi aggiornati dando di
tanto in tanto un'occhiata al blog, nella sezione "Date aggiornamenti
storie". Ps: risponderò alle recensioni dello scorso capitolo
nei giorni avvenire, intanto vi ringrazio tantissimo :D. A presto.
Plick… plick… plick…
La
prima domanda che una sana di mente dovrebbe porsi è: dove accidenti mi trovo?
Oppure: cosa mi è successo?
Invece
mi esce un semplice e inutile «Ugh…»
Sbatto
le palpebre, cercando di mettere a fuoco qualcosa ma il buio totale mi
circonda.
Niente.
Non si vede un cavolo. Neppure il mio corpo.
Cerco
di portare le mani al viso, in un gesto di difesa puramente istintivo, ma un
formicolio percorre tutto il mio braccio.
Un
brivido corre lungo la mia spina dorsale e un pensiero che prima non mi aveva
sfiorato la mente ora mi colpisce come una palla di cannone: non riesco a
percepire nulla del mio corpo se non un torpore universale.
Che
mi succede? Perché non riesco a muovermi?
Come
un flash nella mia mente ripercorro gli ultimi istanti in cui il mio cervello è
stato funzionante al cento per cento e il volto pallido di un vampiro con il
pizzetto e gli occhi di un blu elettrico si piazza davanti.
Quel
tizio…
Frammenti
di una scintilla compaiono in una sequenza sfocata: la mano del succhiasangue
che scatta verso l’alto, una siringa dall’aspetto super tecnologico affonda nella
mia pelliccia.
«Dannato
bastardo!» sibilo a denti stretti.
È
riuscito a mettermi ko come niente fosse.
Che
razza di…
«Vedo
che qualcuno si è svegliata» mormora sornione una voce.
Serro
la mascella, irritata. Non mi sono neppure accorta della sua presenza. Come ci
è riuscito?
Ah,
già… il suo odore non è così nauseante come quello dei suoi simili. Ma almeno
uno scricchiolio nella sua andatura?
«Cosa
mi hai iniettato, maledetto?» ringhio furiosa.
Purtroppo
non riesco a scorgerlo, nonostante sia dannatamente vicino, così fisso il vuoto
– o quello che è – dinnanzi a me.
Probabilmente
il soffitto di qualche caverna scavata nella roccia.
Ride.
«Non sai proprio trattenerti dall’insultarmi, eh?»
Sbuffo
scocciata. «Non mi trattengo affatto, mi viene naturale».
«Immagino.
Quelli della tua specie avranno creato un vocabolario solo per calunniarci in
tutti i modi possibili».
Un
leggero fruscio di stoffa mi avverte che si è spostato e ora si è fatto più
vicino. Forse addirittura seduto sul pavimento roccioso.
«Già,
be’, non è che voi meritiate una benché minima forma di riguardo. Non siete
altro che sanguisughe, vi nutrite degli essere umani, razza di parassiti!».
«Mmh,
altri due nomignoli graziosi, altrettanto azzeccati come “maledetto”, in
effetti. I miei complimenti».
Se
non fossi completamente cieca, giurerei che ci sia un sorriso sfacciato
disegnato sul viso.
Ritorno
sull’argomento “iniezione”. «Allora, si può sapere che cosa c’era in quella
siringa?»
Silenzio.
Poi lo sento emettere un sospiro, indeciso su cosa dire e cosa no. Almeno è
quello che suppongo.
«Qualcosa
adatto a quelli come te». Sì, che grande risposta. Mi svela
parecchio., penso sarcastica.
«E
chi sono quelli come me?»
Meglio
fare la finta tonta, piuttosto che consegnargli su un vassoio d’argento le
teste dei miei fratelli. Magari bleffa e io posso ancora giocare d’anticipo.
Probabilmente i miei fratelli saranno alla ricerca di qualche traccia. Deve
essere così, mia madre era presente quando lui è comparso abbarbicato a una
bionda tutta tette e culo.
Una
strana fitta mi colpisce allo stomaco, mentre ripenso a quella mano poggiata
noncurante sul petto di Pizzetto – sì, lo chiamerò così – come se intendesse “lui
è mio, cocca”.
Una
smorfia si dipinge sul mio viso: anche tra i vampiri esistono le ochette senza
cervello.
Associo
la fitta alla mia attuale condizione di inabilità, riportando l’attenzione su
Pizzetto.
«Allora?»
incalzo, non udendo risposta.
Strano,
per essere un tizio dalla battuta pronta, è anche abbastanza restio a parlare.
«Ti
ha mai detto nessuno che hai la lingua lunga?» scherza. Sì, molti, e in senso dispregiativo
anche., penso stizzita.
Ma
non gli avrei dato la conferma, piuttosto mi sarei suicidata.
«Perché
continui a evitare la mia domanda?» ribatto, inarcando un sopracciglio, certa
che lui possa vederlo perfettamente.
D’altronde
i vampiri nell’oscurità sono più avvantaggiati di noi e questo è un fattore
molto rilevante in posti bui come questo.
«ти сивеомалепа,знаш?» sussurra, al che aggrotto le sopracciglia.
Che
razza di lingua è? Mi prende in giro?
«Dacci
un taglio. Sai perfettamente che non ho capito un fico secco di quello che hai
blaterato».
Cavolo,
se solo potessi vederlo in faccia! Anche se sono bravi a mascherare le
emozioni, sarebbe una chance per intuire qualcosa.
Dicono
che gli occhi sono lo specchio dell’anima – anche se ritengo impossibile che i
vampiri ne abbiano ancora una, nascosta in qualche cassetto – e in questo caso
sarebbe molto comoda persino una flebile fiammella per scorgere i suoi
lineamenti.
La
disperazione dei Cullen e di quell’Edward è impossibile da non notare.
Specialmente per me, dato che anche io ho perso qualcuno.
Mio
fratello Seth.
«Non
sono sicuro che ti farebbe piacere».
«Lascia
che sia io a deciderlo, eh!».
«Un’altra
volta, magari, quando non sarai distesa su una roccia e non ci sarà l’oscurità
a proteggere entrambi» dice, con una strana inclinazione nella voce che mi
lascia perplessa.
«Ma
tu mi vedi benissimo. Sei un vampiro!» gli faccio notare l’ovvietà della cosa.
«Io
vedo qualcosa sì, ma un vampiro non può vedere proprio tutto se l’altro non è
d’accordo» mi risponde con tenerezza, poi il tono diventa piatto «e tu non lo
sei».
Ed
è in questo momento che capisco che non si riferisce all’oscurità della grotta.
«Sono
limpida come l’acqua di un ruscello alpino» sorrido forzatamente.
Scoppia
a ridere e stranamente la trovo una risata genuina, bella, musicale… Leah! Che diavolo ti sta succedendo? Lui
è il tuo nemico naturale, quello che devi ammazzare una volta per tutte.
Cancellarlo dalla faccia della terra!,
mi rimprovera quella che deve essere senza ombra di dubbio la mia coscienza.
Già,
non posso permettermi di paragonarlo anche solo lontanamente a quegli strani
occhi gialli dei Cullen.
Lui
li ha blu, non rossi, ma non significa che non sia un difetto isolato. Chissà,
magari una nuova “razza nella razza”?
Come
un flash, mi compare davanti il vampiro che ha bloccato Edward Cullen contro la
parete e poi scaraventato fuori.
Anche
quello aveva gli occhi del medesimo colore e la cosa non aveva sconvolto solo
me, ma sicuramente anche Jake e Embry che erano lì davanti.
«Ah,
a proposito…» continuo con tono disinvolto, «per caso il tuo amico è nei
paraggi?»
L’aria
intorno a noi diventa subito elettrica e capisco che qualcosa nella mia ultima
frase l’ha messo in allerta.
«Amico?» chiede guardingo.
«Certo.
Il tizio con i capelli neri, alto e dall’aria tenebrosa» sghignazzo al pensiero
«scommetto che è molto “in” tra i vampiri vestirsi con un lungo trench e abiti
scuri. Molto alla MIB».
«MIB?»
Dal
tono, giurerei che è stato colto di sorpresa.
Senza
pensarci, faccio per alzare una mano, ma impreco non appena mi rendo conto che
l’intorpidimento non è passato.
«Ma
sì, Men in Black. Il film».
«Ah».
Che risposta!
Deve
essere abbastanza vecchio per non riuscire a cogliere certe battute. E anche
film, a quanto pare.
«Ecco
uno dei numerosi motivi per cui dovreste scomparire dalla faccia della terra»
dichiaro laconicamente.
«Perché
non ho visto il film?» sogghigna, ma noto una certa irritazione nella voce. Offeso?
«È
un classico, strano che tu non ne abbia mai sentito parlare».
«Evidentemente
perché passo il tempo a salvare altri, piuttosto che divertirmi» lo sento
borbottare tra sé e sé, ma abbastanza da udirlo.
Non
sarò un vampiro, ma è chiaro che vuole rendermi partecipe, o forse a causa
della stizza non si è reso conto di parlare a voce troppo alta.
«Chi
è che salvi, se già voi vampiri siete tutti dei morti viventi?»
Silenzio.
Un lungo interminabile silenzio, finché qualcosa di caldo e umido accarezza il
lobo del mio orecchio.
Mi
irrigidisco. Forse è uno di quei insetti pelosi, magari un ragno o altro. Eppure
dentro di me so che non si tratta di un animaletto, soprattutto quanto due
piccoli pugnali strofinano sul mio collo.
Canini.
I suoi denti, la sua bocca.
Arriccio
le labbra, ma è stupido da parte mia. Se non posso trasformarmi, i miei denti
saranno sempre quelli di un’umana. Ridicoli se paragonati ai suoi.
«I
Cullen. Umani. Licantropi. I miei compagni» ogni frase scandita dai movimenti
della sua bocca sul mio collo, su e giù. Attendo che mi morda, che mi
prosciughi la vita, che mi renda vuota, ma lui non lo fa.
Continua
la sua tortura finché raggiunge senza rendermene conto la mia bocca.
«Te»
soffia a pochi centimetri.
«Allontanati»
gli ordino e subito sobbalzo al suono della mia voce.
Tremante,
fioca e… roca.
«Paura
di me, bellezza?»
Indignata,
gli rispondo: «questo mai!».
«Non
esserne tanto sicura» mi dice monotono, «posso fare spavento, se lo ritengo
necessario».
E quando
mai lui non dovrebbe sforzarsi di fare spavento? I soli canini dovrebbero
costituire un lasciapassare per la via della paura e del terrore.
«I
vampiri non devono sforzarsi di essere creature spaventose».
Un
dito si poggia sulle mie labbra, premendo quel tanto da non lasciarmi
divincolare e scacciarlo.
«Invece
ti posso giurare che alcuni si sforzano per un bene supremo».
Rido
con sarcasmo. «Bene supremo…»
«Che
tu ci creda o no» mi interrompe, «io e i miei compagni lottiamo per tutti voi:
umani e non. Ci sono esseri ben peggiori dei semplici vampiri e ragioni ben più
radicate nell’animo di un essere vivente
che tu ti rifiuti di capire».
Ignoro
la sua battuta velenosa, «e contro chi lottate, sentiamo?»
Voglio
proprio vedere chi tira fuori. Magari il bianconiglio di Alice nel Paese delle
Meraviglie. Chissà…
«Non
è importante di chi si tratta. Ce ne occupiamo noi».
«Se
è vero che combattete per noi, allora è anche vero che dovete lasciarci
partecipare. Ne va della nostra vita, non trovi anche tu?»
«Vero»,
mormora lentamente, come se stesse riflettendo sulle mie parole, ma poi
prosegue «ma non siete capaci di fronteggiare questo nemico. I Volturi sono
semplici giocattolini che si possono spezzare, per questo non siamo mai
intervenuti in questi secoli per liberare i vampiri da questa famiglia avida di
potere».
Volturi…
Parla
di quei spietati succhiasangue che circa dieci anni fa sono venuti da noi per
portarsi via qualche trofeo e sterminare tutto il resto.
Se
già quelli ci avevano costretti a unire le nostre forze – e avremmo incontrato
parecchie difficoltà – questi di cui parla adesso devono essere mostri ben
peggiori. Forse nemmeno vampiri, perché mi rifiuto di credere che esista
qualcuno ben più forte di quei vampiri italiani. Loro non avrebbero permesso
che si creasse qualcosa di ben più potente di loro.
O forse
no?
«Fammi
capire» borbotto, «tu e i tuoi amichetti non lavorate per quei tre vampiri
mummificati?»
Ride.
«Ovviamente no».
«E
loro sanno che voi esistete? Siete vampiri anche voi, com’è che non si sono
scomodati come hanno fatto con Nessie, la figlia di Bella e Edward, per venirvi
a prendere?»
Una
breve pausa anticipa la sua risposta, che ha il potere di lasciarmi senza fiato
per lo stupore e la leggerezza.
«Lo
hanno sempre saputo che noi esistiamo. È stato uno di noi a crearli dal nulla».
Angolo autrice:
Eccomi tornata con un nuovo capitolo. Non è lunghissimo, come al
solito ho lasciato un altro pezzo del puzzle che andrà ad
incastrarsi nel grande "mistero" che aleggia sull'intera storia.
Ringraziamo Nigel per le sue frasi enigmatiche e a volte molto utili. ;)
Be', spero che nonostante non siano mai lunghissimi i miei capitoli, la storia e i personaggi vi continuino ad emozionare.
Ps: se ritenete che Leah si distacchi molto dal personaggio dei libri,
ditelo pure. Ho scritto solo una shot su di lei perciò non sono
molto ferrata con il suo modo di pensare. Vi ringrazio come sempre per
il vostro appoggio e sostegno in questa avventura. Senza di voi, non
sarei arrivata fin qui. *_*
Ps: la nuova copertina l'ho realizzata io, spero che vi piaccia. :)
PPs: la frase in azzurro è serbo, significa "Sei molto bella, sai?"
«Stai
scherzando».
Sì,
deve essere per forza così. Mi rifiuto di pensare che possano esistere esseri
al di sopra di quei vampiri italiani.
Non
l’avrei mai ammesso pubblicamente – nessuno dei miei fratelli lo aveva fatto –
ma sapevamo che quella volta avevamo rischiato tutto.
La
nostra stirpe di mutaforma sarebbe stata spazzata via insieme ai Cullen e i
loro amichetti se non fosse intervenuto quell’altro mezzosangue brasiliano e la
chiaroveggente.
«Perché
dovrei scherzare, secondo te?» mi domanda sorpreso.
Scrollo
le spalle, fingendomi indifferente. «Erano già forti loro, tu e i tuoi amici di
pietra non potete essere più forti. Sarebbe terribile».
«Per
te o per gli altri vampiri?» scherza.
«C’è
ben poco su cui ridere. Hai detto che uno di voi ha creato i Volturi… quindi è
più vecchio?»
Deve
esserlo e probabilmente è il capo di questo qui.
Sento
un fruscio nell’aria, sicuramente si è spostato ancora.
Mi
sono resa conto che si muove quando elude le mie domande e forse ora lo farà di
nuovo.
«Abbastanza».
Infatti,
come avevo pensato.
Ma
io non demordo, devo sapere di più, magari sa che fine ha fatto Seth.
«Abbastanza
non è una risposta» ribatto pacata.
«Fattela
bastare, allora» dichiara con un tono che vorrebbe dire “la discussione si
conclude qui”, ma non ha capito con chi ha a che fare.
Uno
strano formicolio si diffonde sulla pianta dei piedi. Forse sto riacquistando
le mie capacità motorie. Meglio tardi che mai,
penso sarcastica.
«Dovrei
farmi bastare qualcosa di poco chiaro?» lo fulmino con lo sguardo, o almeno ci
provo. È troppo buio per distinguerlo. «Perché è ovvio che non mi hai spiegato
un fico secco».
D’un
tratto, alcune candele si accendono intorno a noi. Intravedo un cerino fumante
tra le sue dita. Fasci di flebile luce ondeggiano sul suo viso d’alabastro e
scorgo un ghigno sfacciato.
«Perché
hai acceso le candele? Dove lei hai prese? Cos’è, la tua vista fa cilecca?»
«Quante
domande!» esclama esasperato.
Lo
fisso truce e mi accorgo che il lungo trench nero di velluto è sparito chissà
dove.
Al
suo posto compare una camicia bianca, forse di seta, con una cravatta scura
annodata a regola d’arte.
Se
non fosse stato pallido come un cencio e con occhi meno iridescenti, l’avrei
potuto scambiare per un giovane avvocato, con tanto di ventiquatt’ore a
braccetto.
O per
un commercialista, chissà. L’aspetto da uomo tutto d’un pezzo c’è, da quel che
posso vedere, ma non come quei succhiasangue italiani che erano venuti qui in
America per farci tutti fuori.
Quelli
portavano ancora la mantella da setta segreta come nel Medioevo. Lui è della
stessa razza dei Cullen: vestiti costosi, atteggiamento pacato ma risoluto, un
forte carattere nascosto.
O forse
è tutto finzione quella che sta mostrando adesso.
Bah,
tutte cazzate.
È
solo un vampiro che non vede l’ora di farmi fuori, ma aspetta che io lo
supplichi di non farlo.
Pff,
ha scelto il lupo sbagliato. Anzi, il fenomeno da baraccone sbagliato.
«Ti
piace quel che vedi?»
La
sua domanda mi spiazza. Piacermi cosa?
Lo
fisso confusa, rendendomi conto solo ora del suo sorrisetto compiaciuto.
Socchiudo
gli occhi. Non vorrà forse insinuare che…
E proprio
in quel momento scoppia a ridere. «Dovresti guardarti. Hai l’aria di chi ha
trovato uno scarafaggio nel piatto».
«Lo
scarafaggio almeno non ruba la vita agli esseri umani» replico con stizza.
Sbuffa.
«Ancora con questa storia! Non sai quante volte l’ho sentita dire. È tutto
basato sul pregiudizio, diamine».
Ah,
questa poi. Solo pregiudizio?
E mio
fratello, allora? Chi diavolo l’aveva rapito? Un marziano?
«Voi
siete solo cadaveri che calpestate un suolo che non vi appartiene più, almeno
da questo lato. Dovreste marcire nel sottosuolo, come ogni essere che muore. Il
fatto che il vostro cuore non batte dovrebbe aprirvi gli occhi sull’abominio
che rappresentate. Non c’è niente di peggio che essere un vamp…»
«C’è
di peggio, credimi» mi interrompe lui, glaciale.
«Davvero?»
Lo
nota il mio sarcasmo? Perché ho usato tutto il veleno che ho in corpo per
instillare quella piccola domanda d’incredulità.
«Si
dia il caso che essere un vampiro – o succhiasangue come dici tu – sia sempre
meglio che essere considerati stupratori, molestatori o qualsiasi altro
spregevole essere che ha il diritto di camminare su questa terra. E… no, non mi
interrompere» mi trafigge con lo sguardo, al che rimangio gli epiteti poco
carini, «gli esseri umani possono scegliere, così come noi. Un tempo lo ero. Gli
umani scelgono da che parte schierarsi ancor prima di essere trasformati. Poco importa
se in vampiri o licantropi. Erano già malvagi nella loro fragile forma».
«Ma
voi togliete la vita in ogni caso» ribatto cocciuta.
Okay,
il suo discorso ha un senso, lo ammetto, ma come la mettiamo che loro succhiano
via il sangue?
È
la linfa vitale che anima gli esseri umani e loro gliela vogliono privare. È
omicidio questo.
«Ci
sono quelli che bevono sangue umano, sì, ma ce ne sono altri – come i Cullen –
che cercano alternative».
Il
sospetto dilaga nella mia mente.
«Hai
detto “ci sono”, non ti sei incluso nel club…»
Scrolla
le spalle e alza gli occhi al cielo. «Avrei avuto gli occhi rossi, no?»
Giusto.
«Ma non bevi neanche sangue animale, altrimenti li avresti gialli, proprio come
i Cullen». Che a quanto pare li conosci
bene.
L’ultima
parte non l’ho detta, ma ormai è chiaro che lui sa molto sui vampiri di Forks. Be’,
ma in fondo nell’inverno di dieci anni fa c’erano molti vampiri, tra cui quelli
più vecchi. La notizia di chi sono e quanti sono i Cullen deve essere circolata
come una pallina impazzita.
Per
non parlare dei mutaforma di La Push.
«Hai
visto giusto. Non bevo sangue animale, né umano,» si ferma, rimuginando un po’,
poi conclude «non proprio umano».
Sbarro
gli occhi a quelle tre parole.
Non
le ha dette a caso, intendeva dire davvero “non proprio umano”.
Nella
mia testa si accavallano immagini di esperimenti condotti da vampiri, che
vedono protagonisti umani stesi su un tavolo d’acciaio freddo, gli arti
attaccati da cinghie di pelle per impedir loro di scappare. Siringhe con
liquidi viscosi e bisturi acuminati che giacciono in piccoli contenitori.
«Oddio…»
sussurro.
Lui
lo sente e aggrotta le sopracciglia. «Oddio… cosa?»
«Voi
usate gli umani come cavie!» grido inorridita.
Un
brivido mi corre lungo la spina dorsale. E se anche lui volesse usarmi per
incedermi come un albero? Il mio sangue non ha un brutto sapore per loro? Sono in
grado di separare il gene animale?
«Ma
che stai dicendo!» esclama stupito. «Noi non usiamo proprio nessuno. Come fai
sempre a saltare a simili conclusioni?»
«Tu
e i tuoi discorsi enigmatici, ecco come!».
Che
cavolo! Da un lato tiro un sospiro di sollievo – anche se non dovrei, visto che
è un vampiro e potrebbe avermi mentito – e dall’altro mi sento insultata.
Come
se la mia mente fosse voltata alla catastrofe non appena sente nominare la
parola “vampiro” associata a “umano”. In effetti lo è,
ribatte la mia coscienza.
Increspa
le labbra, come se volesse trattenersi dall’affondare i denti nel mio collo –
sì, perché ormai dubito che il mio sangue possa anche solo disgustarlo – e invece
ride. Ride ancor più di prima.
Se
fosse umano avrebbe persino avuto le lacrime agli occhi.
«Cosa
c’è di tanto divertente?» sbotto.
Che
stia ridendo di me?
E perché
mi da parecchio fastidio che lo faccia?
«Rido
perché non sei la prima a dirmi che sono un tipo enigmatico e misterioso».
Ah.
Quindi non rideva di me.
Non
so cosa vede adesso sul mio volto, ma il suo volto – se possibile – si addolcisce.
Proprio come i Cullen. O perlomeno alcuni di essi.
Il
biondo, Jasper, non sembra per niente un tipo affettuoso.
«Ponimi
la domanda da un milione di dollari» mi suggerisce pacato.
«Wow.
Un milione?» domando scherzosa.
Strano,
io e un vampiro che per una volta non combattiamo fino a strapparci ossa…
Se
mi vedessero i miei fratelli, non mi riconoscerebbero.
«Sto
aspettando» risponde serio, eludendo il mio tono leggero.
Sospiro,
facendo uscire le parole una dopo l’altra troppo velocemente:
«Dichecosatinutriallora?»
«Più
lentamente. Non mordo mica» e strizza l’occhio per sottolineare la battuta.
Chiudo
gli occhi per un istante, ma non per paura.
«Di
cosa ti nutri, allora?», gli occhi ancora chiusi.
Qualcosa
di freddo e delicato sfiora la mia guancia. Un dito, forse?
«Sangue
clonato,» apro gli occhi di scatto, mentre lui specifica «sangue umano
clonato».
***
Islanda.
Castello di William.
Pov Alexander
«Ehi,
Alex, amico!» mi saluta un vampiro che nemmeno conosco.
Chi
cazzo è?
Come
fa a dire che sono suo amico se non mi ricordo la sua faccia del cavolo?
Salta
sul ramo di un albero secolare e vi si siede. Prego,
accomodati. Guardami mentre faccio uno spuntino.
Lascio
cadere la carcassa del puma e passo il pollice sul labbro inferiore.
Una
striscia di sangue vola via.
«Vai
sempre a cacciare a torso nudo?»
«I
vestiti sono d’impaccio» rispondo sbrigativamente.
Meglio
impiccarmi che stare a parlare con un novellino.
«Ti
capisco… anche io vorrei andare in giro a cacciare a torso nudo» sospira il
vampiro senza-nome.
Possibile
che di questi tempi nessuno ha l’ardire di presentarsi?
«Tu
sai chi sono, ma io non so chi sei tu. Prima di continuare a sentirti blaterare
su ciò che desideri – e di cui non m’importa un cavolo – sarebbe bene che mi
rifili un nome,» mi volto verso di lui, «almeno so contro chi imprecare nel
frangente».
Il
vampiro arriccia le labbra, stizzito e offeso, restando finalmente in silenzio.
Oh,
bastava così poco?
Osservo
le mie mani: sporche di sangue. Le unghia acuminate sono incrostate. Non andrà
via se non strofino per bene.
Stiro
i tendini delle dita e poco a poco le unghia si ritirano a grandezza naturale. L’accenno
di pelliccia scompare, così come i capelli tornano di nuovo castani.
Chiudo
gli occhi e mi concentro sulle unghia dei piedi. Ora anche quelle sono
ritornate al loro posto.
Adesso
la trasformazione è completa, ho sembianze umane.
«Gabriel».
«Come?»
Accidenti,
mi sono pure dimenticato del vampiro-ombra. I vampiri sono sicuramente più
pazienti di noi licantropi. A quest’ora un altro lupo avrebbe fenduto l’aria
con le sue fauci spalancate e gli artigli scintillanti in mostra.
«Ho
detto che il mio nome è Gabriel».
«Carino»
commento sarcastico.
Il
vampiro rimane in silenzio mentre io mi dirigo verso l’entrata della serra. All’interno
abbiamo raccolto molte specie di animali, dato che l’isola è piccola e
scarseggia. Per i licantropi come il sottoscritto è di vitale importanza averne
sempre una scorta a portata di mano – o di zampa – in questo caso.
Mi
fermo sul posto appena avverto uno spostamento d’aria. E bravo il nostro
Gabriel…
Anche
se è entrato da poco, dovrebbe sapere che sono molto più vecchio del cucco per
poter anche solo pensare di potermi mettere KO.
Appena
si avvicina alle mie spalle, mi sposto lateralmente verso destra, piegando le
gambe e accovacciando.
Poggio
i palmi sul terreno dietro di me e con uno scatto faccio una ruota, fino a
portare i piedi all’altezza del suo collo.
«Ma
cosa…?» A nulla valgono le sue proteste di sorpresa.
Riesce
ad afferrarmi per le caviglie, ma io sorrido incurante.
Figuriamoci
se riesce a farmi provare dolore questo nanerottolo.
Stringo
le gambe attorno al suo collo e con un’impennata all’indietro, lo sollevo e
ruotiamo entrambi.
Ora
io gli do le spalle sopra il suo corpo disteso, ma in un attimo mi giro e lo
afferro per la gola, dove prima avevo le caviglie tese come tenaglie.
Scopro
i denti che per l’eccitazione della lotta e la rabbia si allungano.
Adesso
sembrano proprio le zanne di un lupo. I miei occhi blu risplendono di bagliori
rossi.
È
il segnale, devo assolutamente darmi una regolata.
Per
fortuna non ci sono esseri umani nelle vicinanze della serra, altrimenti sarei
nei guai.
«Dammi
un motivo per non staccarti la testa dal collo» ringhio.
«Non
è come pensi…» comincia a dire, ma soffoco le sue inutili parole.
Era
un attacco in piena regola, e per di più alle spalle del nemico.
Codardo.
«Non
vi è alcun margine di dubbio sulle tue intenzioni» ribatto con livore.
Vuole
davvero negare l’ovvio?
«Volevo
solo mettermi davanti a te per impedirti di andare via».
Socchiudo
gli occhi, sospettoso. «Perché?»
«William
sta cercando Nigel. È saltato fuori un imprevisto e aveva bisogno di lui. Mi ha
mandato qui da te per portarlo da lui, ma vedo da me che non è con te. Sai dove
potrebbe essere?»
Confuso,
allento la presa sulla gola.
«Non
lo so, pensavo che fosse dentro il castello a spassarsela con Crystal. Quella lì
ci prova da una vita a portarselo a letto,» sorrido a quella scena, «magari è
la volta buona per la pupattola».
«Non
c’è. Crystal non sa neanche reggere il gioco, si vede. Lo copre» spiega.
Mi
alzo in piedi e lo lascio a terra, mentre mi dirigo verso l’uscita.
Apro
la porta e miliardi di odori mi arrivano alle narici. Intercetto quello di
Crystal e a grandi falcate la raggiungo.
Mi
da le spalle e parla di pieghe per i suoi capelli.
Le
afferro una ciocca, ignorando le sue proteste e i denti affilati come pugnali e
la sbatto contro il muro. L’altra vampira sembra volerla aiutare, ma appena
sente il mio ringhioso «vattene», si dilegua in fretta e furia.
Ritorno
a guardare la vampira, che mi osserva furiosa e spaventata.
Appoggiato
alla balaustra dell’imponente scalinata, ci sta Gabriel, che osserva la scena
rigido.
«Dov’è
Nigel?»
«N-non
lo s-so…» balbetta.
«D-I-M-M-E-L-O»
scandisco – o per meglio dire – ruggisco quell’unica parola.
Deglutisce,
constatando dal mio viso che sono prossimo alla trasformazione. «A Forks».
«Cosa?»
sbotto incredulo.
Che
cazzo ci fa a Forks? E senza avvisarmi?
«È
a Forks» ribadisce dura, «ce l’ho portato io».
Ormai
la rabbia trasfigura i miei lineamenti, ma prima che la trasformazione avvenga,
Crystal interviene ancora. «Probabilmente per rimediare a ciò che ha causato il
suo potere».
Un
ruggito terribile esplode come un boato nel castello.
Gabriel
sfreccia tra me e Crystal. Trascina per un braccio la vampira un attimo prima
che il muro dietro di lei crolli sotto un mio fendente.
Ululo
non appena incrocio gli occhi inespressivi di mio padre, William.
Angolo autrice: Per
non farvi aspettare, posto adesso. Mancano ancora alcune recensioni a cui
rispondere. Lo farò nei giorni avvenire.
Un
saluto veloce a tutti quelli che mi seguono.
Grazie
per il vostro sostegno! :D
«Razza
di traditore!» ruggisco sbattendo la porta in legno massiccio dello studio di
mio padre.
Lui
mi aveva preceduto invitandomi con un rigido cenno del capo a seguirlo in un
luogo più appartato.
E
quale luogo migliore del suo preziosissimo studio?
Era
il suo nido, il suo angolo di “meditazione” per riflettere su come agire in
circostanze di vitale importanza.
E
l’intervento di restituire i ricordi a Cullen da parte del mio amico – ormai
ex, soprattutto dopo che lo avrò preso a pugni fino a cambiargli i connotati da
angelo caduto – rientrava tra queste priorità.
L’espressione
tesa di mio padre parla chiaro: Nigel non aveva richiesto udienza formale,
pertanto rischia una punizione esemplare.
«Non
sappiamo come stanno le cose, Xander, aspettiamo prima di accusarlo di
tradimento» spiega tranquillo.
«Cosa?»
sbotto incredulo. «Ci ha traditi agendo senza un ordine impartito!».
Sospira,
passeggiando per la stanza con le mani incrociate dietro la schiena. «Be’, si
dia il caso che se non fosse già lì per suo conto, glielo avrei mandato io
stesso appena rincasato».
Inarco
le sopracciglia. «Perché?»
Mio
padre che cambia idea?
Impossibile.
Punta
il suo sguardo nel mio e dice: «Non gli sono stati rimossi solo i ricordi di determinati eventi, vero?»
Dal
modo in cui calca sulla parola “determinati”, capisco che lui sa.
Sa
ogni fottutissima cosa.
«Non
ho idea di cosa tu stia parlando, padre» rispondo, volgendo il capo in
direzione della finestra.
Meglio
morire piuttosto che ammetterlo ad alta voce.
«Ah
no?» domanda ironico.
Scrollo
le spalle. La finestra che è ormai divenuta la mia ossessione si spalanca di
colpo. Sobbalzo non appena una raffica di aria gelida entra nella stanza
trascinando con sé fiocchi di neve.
Non
mi volto. Non c’è motivo.
La
rabbia e il disappunto di mio padre li annuso anche da questa posizione.
«Non
mentirmi. Non lo sopporto quando sei tu a farlo».
Rido.
«Qui mentono tutti, che differenza fa se mi unisco anche io al resto della
comitiva?»
«Il
resto della comitiva – come lo definisci tu – non sono miei figli. Tu sì»
ribatte glaciale.
Mi
volto di scatto, i miei occhi lanciano saette. «Per fortuna, direi…».
«Cosa
vorresti insinuare?».
Mi
avvicino, ignorando la tensione elettrica che si è avviluppata intorno a noi.
«Non
avresti dovuto darla in adozione».
Sbuffa
esasperato allargando le braccia. «Ancora con questa storia?».
«C’èmai stata una fine? Ah, certo che c’è stata. Quella
che hai deciso tu senza consultarti con nessuno» prendo un respiro, «neanche
con me».
«Sai
benissimo perché l’ho fatto. E tua madre era d’accordo. Era…» sibila.
«Non
avresti dovuto farlo!» ruggisco interrompendolo, ma prosegue come se non avesse
sentito.
«…perfettamente
al sicuro» conclude alzando la voce.
«Già,
che il suo sangue fosse una tentazione per Cullen ti era sfuggito ai tempi, non
è così?» gli domando sarcastico.
Resta
in silenzio per un tempo infinito finché non dice: «Sapevo che tu le stavi incollato
peggio di un francobollo».
Spalanco
gli occhi, sorpreso. Sapeva anche questo?
Possibile
che non potessi agire senza che lui venisse a sapere in quale situazione stessi
interferendo?
Evidentemente
no, tenere d’occhio tutti è una specialità e caratteristica di mio padre. Il
fatto che Nigel sia sfuggito al suo controllo sta a significare che mio padre
gli aveva già fatto intendere di essere a conoscenza del nostro segreto sulla
rimozione totale dei ricordi di Cullen.
Diamine,
è mai possibile poter dare un ordine senza che questo venga reiterato da un
altro, anche se si tratta di mio padre?
«Quindi
è per questo motivo che i due vampiri di guardia erano raddoppiati come per
magia qualche giorno dopo le mie incursioni a Forks. Non erano nemmeno dei
pivellini i due sopravvenuti in seguito».
Annuisce,
compiaciuto del fatto che ci sia arrivato da solo.
Gli
altri due vampiri erano specializzati nella cattura di licantropi. I migliori
tra le schiere di mio padre, e l’unico vero licantropo nella zona ero io.
«Anche
io ero sorvegliato, dunque» sorrido amareggiato.
«Esattamente»
conferma, «non sei un esempio di autocontrollo, lo sappiamo entrambi, proprio
come sapevo che non ci avresti impiegato molto a staccare la testa a Edward.
Non è una novità il fatto che tu lo detesti».
«Chissà
perché…» mugugno. Forse staccargli la testa non sarebbe bastato.
«Ad
ogni modo, ritornando alla questione “Nigel”, direi che non è necessario
applicare alcuna punizione», scrolla le spalle con nonchalance accarezzando la
scrivania di mogano con due dita, «ha solo anticipato ciò che io avrei preteso
da lui».
«Ciò
che ordino io non conta, non è così?»
«Ti
sbagli» mi contraddisse, voltandosi e posando il palmo sulla mia guancia,
«tutto ciò che pensi conta moltissimo per me».
«Non
si direbbe» ribatto, allontanandomi.
«Quando
commetti errori, è mio dovere fartelo notare».
Esasperato,
passo una mano fra i capelli, gesto che denota sempre il mio pessimo umore.
Io
errori? E lui allora?
«Meritava
una punizione» è tutto ciò che riesco a dire.
«Perché
le ha fatto del male o perché lei tiene a lui più di chiunque altro?»
A
quella domanda lo fisso negli occhi, ma capendo che non vi avrei risposto, con
un gesto della mano mi congeda.
Mettendo
su una maschera d’impassibilità, esco fuori dallo studio.
Mi
lascio cadere sul pavimento, circondando le ginocchia con le braccia. Chino il
capo e mi ritrovo improvvisamente a tremare. Uno strano suono soffocato riecheggia
nel corridoio deserto. Sono i miei singhiozzi.
Pov Bella
Alcune ore dopo
«Cosa?»
sussurro incredula.
Ancora
stento a credere a quello che ho appena sentito.
Nigel,
il braccio destro di Alexander, si trova a Forks per restituire i ricordi al
mio Edward.
Chi
l’avrebbe mai detto: Nigel, il ribelle.
Io,
Seth e Sebastian ci troviamo nello studio di William, il quale ci espone i
fatti concernenti la delicata situazione.
A
quanto pare Alexander non ne sapeva nulla di ciò che aveva in mente di fare
Nigel, e ora si spiega la sua faccia incazzata di poco prima quando lo abbiamo
incrociato nel corridoio.
Mi
aveva rivolo un’occhiata malevola, seguita da un commento sarcastico: «spero
che tu sia soddisfatta, ora».
Poi
aveva dato uno spintone a Sebastian per allontanarsi.
Inutile
dire che Sebastian aveva serrato la mascella e ricambiato la cortesia
spingendolo a sua volta.
Se
non fosse stato per il mio intervento, a quest’ora se la sarebbero data di
santa ragione.
«In
effetti» comincia a dire Sebastian lisciandosi il mento «è da un po’ che non si
vedeva in giro. Certo, la sua presenza non è mai così eclatante quando entra in
una stanza mettendosi in un angolo, ma ormai so riconoscere il suo flusso di
energia. Per non parlare del fatto che di solito tallona Alexander come uno
stalker di primo livello».
William,
con i gomiti poggiati sulla scrivania e le dita delle mani incrociate tra loro,
gli risponde: «Xander è una mina vagante quando i suoi accessi d’ira prendono
il sopravvento. Nigel, in un certo senso, funge da tranquillante».
Seth
scoppia in una fragorosa risata. «Ecco a cosa serve quell’avvoltoio vestito da
pinguino: è una camomilla!».
Io
e Sebastian ridacchiamo alla sua battuta, mentre William rimane più contenuto.
Solo
gli angoli della sua bocca hanno tremato.
Che
sia l’equivalente di un sorriso? Probabile.
«Comunque
sia, adesso Nigel è lì già da un po’. È strano che non sia già rientrato. Porta
sempre il cellulare satellitare con sé. Avrebbe potuto chiamare Crystal e farsi
teletrasportare, ma ciò non è ancora avvenuto. Mando voi tre a recuperarlo».
Annuiamo
rigidi.
Nigel
è uno dei migliori combattenti che abbia mai visto. Non credo proprio che
qualcuno sia riuscito ad avere la meglio su di lui.
A
meno che non siano stati in tanti.
Scaccio
subito l’idea. Due dei nostri stazionano lì in segreto per salvaguardare la
situazione in caso gli Zver facciano una visitina ai miei familiari.
Ma
sembra che i Cullen non rientrino nel mirino di Andrew e i suoi.
Meglio
così, per noi. Non dobbiamo proteggerli costantemente, anche se l’idea di non
aver più rapporti su quello che accade a Forks non mi lascia ovviamente di buon
umore.
Quando
stiamo per uscire, la voce di William mi blocca sul posto.
«Bella,
vorrei che ti fermassi qui ancora un po’» comincia dire con uno strano timbro
di voce, poi si rivolge a Sebastian e Seth, perentorio. «Da sola».
I
miei compagni annuiscono, non senza lanciarmi occhiate guardinghe. Anch’io come
loro sono sorpresa.
Di
cosa vuole parlarmi che non può dire in pubblico.
Appena
la porta si chiude alle mie spalle, allargo le braccia. «Allora?» domando
fissando la sua imponente ed elegante statura.
William
ha il fascino dell’uomo inglese: educato, di classe, con una grazia innata nei
movimenti persino superiore a quella di un vampiro.
Simile
a un dio pagano, direbbe qualcuno.
«Durante
la mia assenza, mi è giunta una voce piuttosto spiacevole. Non volevo
informarti finché non fossi tornato a casa ed essermi messo in contatto con i
miei a Forks, perciò…»
«Non
ti seguo» lo interrompo, con uno strano presentimento. «È successo qualcosa a
Edward? A mia figlia? Ai Cullen?» domando tutto d’un fiato.
La
testa sembra esplodermi per la quantità di catastrofi che mi trasmette nel giro
di millesimi di secondi.
Forse
Renesmee sta male, le è successo qualcosa o Edward.
No,
non è possibile…
Mi
afferro il capo con entrambe le mani, in preda al panico. Subito un paio di
braccia mi afferrano i polsi, scostandomeli.
Incrocio
lo sguardo affranto di William.
Che
cosa sta leggendo nei miei occhi?
«Non
si tratta di tua figlia, né di Edward o un altro Cullen».
«Allora
Jake…» sussurro, ma lui scuote il capo.
«Si
tratta di tuo padre, Bella» spalanco gli occhi «ha avuto un infarto e ades…».
Non
lo lascio finire che mi ritrovo immediatamente in corridoio.
Sento
le voci di Sebastian e Seth dietro di me, chiamandomi a gran voce. Tutti e due
erano rimasti vicini allo studio ad aspettarmi, ma non posso curarmene ora.
Corro
in direzione della mia stanza. Spalanco la porta e afferro lo zaino con il
passaporto e tutti i documenti che mi servono per partire.
Un
odore familiare giunge alle mie narici.
Sebastian
mi ha raggiunto grazie alla super velocità.
«Si
può sapere che cosa ti ha detto? Sai che in quella stan… Bella!» mi chiama,
notando che non lo sto affatto ascoltando.
Sfreccio
da una parte all’altra della stanza raccogliendo lo stretto indispensabile. Una
mano bianca mi afferra il polso e mi fa voltare.
Gli
occhi color ghiaccio di Sebastian sono duri, determinati.
«Dimmi
subito cosa ti ha detto».
«Seb,
io…» pregandolo con gli occhi di non continuare, ma appena mi accarezza la
guancia, comincio a singhiozzare.
Se
ancora fossi umana, avrei già bagnato tutta la camicetta.
«Ssh.
Shh. Lo risolveremo insieme, ricordi? Qualsiasi cosa capiti l’uno o all’altro,
siamo una squadra, una famiglia».
All’ultima
parola mi stringo a lui, tremando come una foglia.
Dopo
un tempo infinito, i miei singhiozzi si placano, ma la mia angoscia no.
«Adesso
mi dici cosa ti ha riferito di così tragico William?» chiede. «Devo provare ad
indovinare?»
Scuoto
la testa, sospirando. «Si tratta di mio padre, Charlie» appoggio il viso sul
suo petto, «ha avuto un infarto. E quello che più mi fa arrabbiare è che io non
sono stata con lui negli ultimi dieci anni e che probabilmente quello che sto
per fare è la decisione più egoistica che io abbia mai preso».
«E
sarebbe? Sai, mi sembra di sentir parlare tuo marito» sorride, anche se adesso
mi accarezza i capelli per confortarmi.
Sorrido
anch’io, mio malgrado alla battuta, non senza avergli rifilato comunque un
buffetto sulla guancia.
«Andrò
a trovarlo in ospedale e non so quanto tempo resterò lì».
«Non
mi sembra egoista da parte tua» ribatte, probabilmente con le sopracciglia
aggrottate di chi non capisce qualcosa.
Mi
sollevo in piedi, ponendo sulla spalla lo zainetto.
Sebastian
ancora seduto sul pavimento dove io l’avevo trascinato poco prima.
«Sì,
invece. Ho fatto scorrere dieci anni e l’unico modo per farmi uscire allo
scoperto è stato un infarto. Sono o non sono una figlia indegna del suo
affetto?».
Ma
non aspetto una risposta alla mia domanda, sapendo già quale sia.
Mi
fermo davanti la porta, indugiando con lo sguardo sul panorama selvaggio che s’intravede
al di là della finestra.
«Avevo
promesso di non scomparire dalla sua vita. E non l’ho mantenuta» spiego a Seb.
«Scusami,
papà» bisbiglio dopo.
Pov Alexander «Dannazione!
Rispondi, razza d’idiota!» impreco con il cellulare in mano, mentre con l’altra
preparo un borsone in fretta e furia. Ho
sentito prima la discussione avvenuta in camera di Bella. Partiranno fra poco,
meno di un’ora, e per giunta Charlie Swan si trova in un letto d’ospedale per
via di un infarto. Quando
si dice “colpo di fortuna”. Sicuramente
Bella e gli altri due si fermeranno per accettarsi delle condizioni dell’uomo,
ed io invece agirò indisturbato. «Bastardo!»
digrigno i denti, stringendo così forte il telefono che si sbriciola tra le mie
mani. Non
avrebbe dovuto farlo, non senza prima averne parlato con me. Non
avrei mai creduto che fosse capace di tradirmi, pugnalarmi così impunemente
alle spalle. Dopo
tutto quello che abbiamo passato insieme… Ah, che tu sia maledetto, Nigel!,
penso passandomi una mano tra i capelli e stringendo forte una ciocca. «Razza
di…». «Ancora
che imprechi contro il tuo amico?» domanda beffarda una voce alle mie spalle. Il
resto del telefonino si schianta a pochi centimetri dal volto dell’intruso. Non
sa che è pericoloso arrivare alle spalle di un licantropo? La
lezione di prima non gli è bastata? Gabriel
continua a tenere quel sorrisetto, indifferente ai resti del telefono che si
trovano ai suoi piedi. Incrocia le braccia al petto, in attesa. E
adesso? Che diavolo vuole? «Alza
i tacchi e vattene». «Spiacente»
solleva un piede «non porto i tacchi». «Sparisci!»
ruggisco. Si
beffa di me? Non ha ancora capito con chi ha a che fare. Scuote
il capo, dirigendosi sulla poltrona più vicina e sedendovisi. «Il
capo» spiega, marcando appositamente
la parola “capo” «mi ha incaricato di tenerti d’occhio». Sbuffo.
«Non mi serve un babysitter con i canini». Ritorno
al mio borsone. Non avrebbe potuto fermarmi neanche se si fosse impegnato sul
serio. «Non
sono qui per mettere un freno ai tuoi movimenti» specifica tranquillo. Incrocio
il suo sguardo, bloccandomi. «Allora che ci fai qui, esattamente?» Sorride,
scrollando le spalle. «Eseguo gli ordini di William, il resto non deve
riguardarti». Con
un movimento repentino, lo raggiungo afferrandolo per il colletto. «Nessuno
– e sottolineo “nessuno” – deve azzardarsi a parlarmi in questo modo.
Soprattutto un pivellino di basso rango come te. Ho molti più secoli di te e…». Un
fischio acuto irrompe nella mia mente, destabilizzandomi. «Ahhh!»
urlo in preda al dolore. Qualunque
cosa sia, è a livello mentale ed io non posso contrastarlo con il mio scudo
fisico. Cado
in ginocchio reggendomi la testa con le mani. «Fa
male, vero?» domanda con scherno Gabriel. La
sua voce, tuttavia, mi giunge ovattata. Sempre
più lontana. «Credi
davvero che William avesse scelto me come tuo babysitter se non fossi stato in
grado di mandarti a cuccia quando lo avrei ritenuto opportuno?». Annaspo
in cerca d’aria. L’ossigeno sembra essere svanito dalla stanza. «Se
vuoi andare a Forks, libero di muoverti, non mi metterò in mezzo. Ma bada bene:
io verrò con te, e se dovessi attaccare Nigel o qualche altro “essere” lì, sarò
costretto a usare nuovamente questo trucchetto. E ti assicuro che quello che ti
sto facendo adesso, è nulla in rapporto a ciò che posso ancora farti». Un
attimo dopo le sue parole, il dolore martellante svanisce e ricomincio a
respirare. Una mano pallida agguanta una ciocca di capelli, issandomi su. Mi
fissa serio. «Se hai inteso, annuisci». Col
cazzo, penso incenerendolo con lo sguardo. Un’altra
fitta lancinante mi fa tremare. «Allora?» Sconfitto
e a pezzi, annuisco. Soddisfatto,
Gabriel molla la presa. «Finalmente riusciamo a capirci. Non trovi?». «Staremo
a vedere, stronzo» sibilo. Lui
sorride, mostrando un accenno dei canini acuminati. «Sono certo che andremo
d’accordo. Forse però, dovremmo lavorare un po’ sul tuo caratterino». *** Pov
Sebastian «Con
Crystal saremmo già arrivati da un pezzo» sbuffo scocciato. Detesto
viaggiare per tanto tempo. Essere a stretto contatto con gli umani in un posto
piccolo come l’aereo, richiede una pazienza infinita di cui non sono provvisto.
E ancora non vi eravamo saliti. «Ma
Crystal non era disponibile, Seb» replica Seth. Anche
lui è visibilmente stanco, ma tiene duro. Bella
invece… È
assente. E non parlo di un’assenza da adolescenti con la testa sulle nuvole. Assente
nel senso letterale del termine. Solo
il suo corpo si muove, passa il check-in, afferra il piccolo zaino, sale in macchina. Insomma,
forse neanche si rende conto di dove si trovi, e la cosa non mi rassicura. Seth
si è messo al volante, mentre io e Bella sediamo dietro, direzione aeroporto. Lei
è intenta a osservare il paesaggio. Le
afferro una mano. «Bella…». «Ti
prego…» mi supplica, guardandomi triste e ritirando la mano. «Mi
dispiace di non aver captato qualcosa dalla mente di Renesmee. Se fossi stato
più attento, avrei scoperto prima delle condizioni di Charlie». «Lascia
stare, Bastian. Non si può cambiare il passato, per quanto doloroso sia il
presente» sussurra. «Hai
ragione» replico, poi mi volto verso il finestrino come lei. «Muoviti, Seth. Non
abbiamo tempo da perdere». Come
risposta avvertii la velocità dell’auto aumentare e nella macchina scese il
silenzio. Pov
Nigel «Non
può essere…» continua a ripetere senza sosta la ragazza-lupo. In
un altro momento avrei sbuffato annoiato di spiegare tutte queste cose, ma con
lei tutto sembra diverso. Come
se parlargliene sia una sorta di dovere. Ma
che dico!, risi mentalmente. Dovere nei suoi confronti? Tuttavia
è così. «Perché
no? Esistono i vampiri, esistete voi Quileute ed esistono i veri licantropi»
scrollo le spalle «perché ti sembra così impossibile una cosa così vicina alla
realtà?». Continua
a scuotere la testa. «Non esiste ancora il sangue clonato. È impossibile! Mi stai
prendendo in giro». Sbuffo
esasperato. «Che tu ci creda o no, è così. I nostri occhi non possono mentire
sulla dieta che seguiamo. Perciò non c’è scelta: o beviamo sangue animale o
quello umano. In entrambi i casi, sai come diventano i miei occhi. Pertanto non
ti consiglio di escludere a priori qualcosa che ancora gli esseri umani non
sono riusciti a ricreare in laboratorio». Mi
fissa per qualche secondo prima di pormi l’ultima domanda che mi sarei
aspettato da lei: «vieni dal futuro, per caso?». Scoppio
a ridere. Io dal futuro? Semmai
dal passato! Un passato molto remoto. «Ridi
di me?» ringhia indispettita. Sollevo
una mano. «Non posso non ridere per quest’assurdità. Comunque no, non vengo dal
futuro. Ma non t’illudere: Carlisle è un bambino-vampiro in confronto a me». «Capisco»
si limita a rispondere. Restiamo
in silenzio per un po’ di tempo, fuori il sole comincia a tramontare. Mi alzo
in piedi, battendo una mano sul soprabito. «Dove
vai?» chiede la ragazza. «A
sistemare qualcosa che ho cambiato» rispondo. «E
sarebbe?» domanda ancora, aggrottando le sopracciglia. Guardo
l’orologio. «Dì un po’, ma tu fai sempre domande?» «Solo
quando un succhiasangue mi rapisce e poi mi racconta mezze verità». Mi
blocco sull’entrata della grotta. «Cosa?» «Vuoi
forse dirmi che non è vero?» È
molto sveglia, ma d’altronde le mie risposte sono troppo vaghe per non destare
sospetti su quello che realmente c’è dietro. Sospiro,
tornando indietro e piegandomi fino a essere viso contro viso. Lei tenta di
indietreggiare per evitare la mia vicinanza, ma il muro dietro le sue spalle
glielo impedisce, per non parlare della sostanza paralizzante che le ho
iniettato prima. Una
strana morsa allo stomaco mi colpisce appena il mio sguardo si posa sulle sue
labbra. Sembrano
morbide, color bordò per via della pelle scura. E
se provassi a baciarla? «Certe
verità sono scomode anche per me, credimi. Vorrei non sapere tutto ciò che so»
sussurro. «Allontanati!»
sibila, in preda alle convulsioni. In
un altro momento i suoi vestiti sarebbero esplosi e al posto di una donna
rannicchiata contro il muro ci sarebbe un lupo dalle zanne simili a coltelli
affilati. «Perché?
Non dirmi che puzzo di dolciastro…» la punzecchio. «No,
non puzzi. E questo m’irrita parecchio». Sorrido
spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio prima che lei possa
impedirmelo. «Vorresti odiarmi». «Ti
sbagli. Ti odio già» dichiara scocciata. Agito
un dito davanti a lei. «Stavolta stai mentendo. Ed io non sopporto chi mente». «Sai
quanto me ne frega di non piacerti? Anzi, non mi sforzo per niente di essere
antipatica né di odiarti. Mi viene naturale quando incontro uno della vostra
specie» ribatte ghignando. Non
si direbbe. Non sarebbe stata disposta a scambiare neanche una singola parola
con il sottoscritto se non fosse interessata a ciò che avevo da dire. «A
volte bisogna accettare dei compromessi per andare avanti nella vita. E tu ne
hai appena accettato uno scambiando qualche parola con me». Ride
con sarcasmo. «M’interessano solo le informazioni che puoi fornirmi, nient’altro». Mi
avvicino ancor di più, sfiorando con le labbra la vena che ha sul collo.
«Sicura?» soffio. «Che
diavolo fai?» grida, dimenandosi. Inspiro
profondamente e m’irrigidisco per un secondo. Un
sottile odore speziato mi giunge alle narici. Eccitazione. La
sua. «Abbatto
uno dei tuoi più grandi pregiudizi sulla mia specie» le rispondo, prima di poggiare
la mia bocca sulla sua, gli occhi ancora incatenati l’uno all’altro. Dapprima
è solo uno sfioramento di labbra, poi, sentendo che lei non risponde al mio bacio,
cerco di ritrarmi. Tuttavia
è solo questione di un attimo. Chiude gli occhi e, titubante, comincia a
muovere le sue labbra sulle mie e una scarica di adrenalina mi colpisce da capo
a piedi. Poggio
una mano sulla sua guancia, accarezzandola con il pollice. Mi
ritraggo quel poco per mormorarle: «ci sono riuscito?». La
sento sorridere sulle mie labbra, prima che un basso ringhio le fuoriesce dalla
gola, spezzando ogni parola. «No, non ci sei riuscito e mai ci riuscirai!». Non
ho neanche il tempo di riprendermi dallo shock che una fila di artigli mi
squarcia il petto e brandelli del mio abito svolazzano insieme ai restanti
della ragazza. Adesso
un lupo dal pelo argenteo mi fissa con occhi rabbiosi. «Ci
risiamo» sospiro, preparandomi ad affrontarla.