Anestetico

di DewPrincess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ali scure ***
Capitolo 2: *** L'ultima Risposta ***
Capitolo 3: *** Nei Nostri Luoghi ***
Capitolo 4: *** Incantevole ***
Capitolo 5: *** Piombo ***
Capitolo 6: *** Strade ***
Capitolo 7: *** Come Se ***
Capitolo 8: *** Albe Meccaniche ***
Capitolo 9: *** Eden ***
Capitolo 10: *** Perfezione ***
Capitolo 11: *** Il Mio D.J. ***
Capitolo 12: *** Il Vento ***
Capitolo 13: *** Sole Silenzioso ***
Capitolo 14: *** Ain't No Sunshine ***
Capitolo 15: *** La Glaciazione ***
Capitolo 16: *** Dentro I Miei Vuoti ***
Capitolo 17: *** Il Centro Della Fiamma ***
Capitolo 18: *** Stagno ***
Capitolo 19: *** Atmosferico ***
Capitolo 20: *** L'odore ***
Capitolo 21: *** Livido Amniotico ***
Capitolo 22: *** Dormi ***



Capitolo 1
*** Ali scure ***


ALI SCURE
Scosse, grida, ecco le bombe, 
guerra, foto mentre sorridi, 
padre, madre, giorni distanti, 
la sirena grida coi suoi denti.
(Subsonica)

 

Niente mai ci dividerà. Per sempre. Sempre. Ogni giorno, in ogni momento, in ogni ora, in ogni secondo, in modo che ogni mio pensiero sia impostato sulle tue frequenze e in modo che i nostri impulsi si incontrino. In modo che non ci siano che strade a doppia corsia, sedili a doppia seduta, porte a doppia entrata. Vite double, fit per due.
Erano tutte cose a cui non avevamo mai badato. Voglio dire, troppo scettici, troppo consumati dentro, troppe funzionalità cariate per poter credere in questi sogni o false verità. Troppo scuri, cupi, affacciati alle  nostre finestre senza mai scendere in strada.
Però a causa del mio personalizzare le favole, questo vetro mi fa proprio incazzare. Io non sono un tipo violento, ma mi viene voglia di buttarlo giù, di prenderlo a martellate, di... oh, cazzo. Non sono nemmeno che sia vetro, magari è solo maledetta plastica. Ma questo sì che ci divide.
Non è il tuo sonno a separarci, ti sei spesso addormentata, non sempre accanto a me o addosso a me o contro di me. Magari in macchina, mentre ti portavo al mare, col sedile quasi del tutto reclinato che sbatteva sul frigo da campeggio con dentro la tua Pepsi e la nostra birra e le tue mele e la mia pizza. Oppure dopo una festa, buttata sul divano, coi tuoi vestiti luccicanti ancora addosso e le scarpe col tacco vicino alla porta, che te le togli appena entri perché ti fanno male, ma una donna ogni tanto deve anche vestirsi da donna. Oppure sui libri, quando è tardi, ma non vuoi mai andare a letto e io devo spegnere la luce della lampadina, sfilarti gli occhiali, spostare le penne e i pastelli, riordinare le pagine, scuoterti un po' e poi prenderti in braccio e hai gli occhi chiusi, sigillati di sonno. Più di tutti mi piace quel sonno di quando sei nuda e hai le labbra più rosse e le ciglia più scure, la pelle più lucida e l'abat-jour sul comodino ti disegna una specie di aura lungo la schiena.
Non è la mia impotenza a dividerci. Mi hai fatto credere di poter fare per te qualunque cosa. Dalla pasta fatta proprio come dici tu, senza mai assaggiarla, regolandosi con la luce e il colore, ad insegnarti ad usare quel programma per registrare, con te che ti arrabbi perché non sei capace e ti scoccia non saper fare le cose, ma non vuoi avercela con me perché da me sei disposta ad imparare. Certe volte penso che il nostro stare insieme funzioni perché tu, Wonder Woman, hai scelto me per insegnarti quello che non sai e io, Superman, ho scelto te per curare in segreto le ferite del supereroe. Perché tu hai scelto me per chiudere gli occhi, per arrenderti, per lasciarti andare e io ho scelto te per sentirmi concretamente responsabile di qualcuno, per sentire che qualcuno avesse davvero bisogno di me e del mio aiuto e non mi avesse trovato lì di turno, per caso. Certe volte penso che dovrei smetterla di ragionarci così tanto e accettare che i due nostri meccanismi si adattino alla perfezione l'uno all'altro e non c'è serratura, non c'è chiave, ci sono solo due splendide ruote dentate che muovono il nostro mondo.
Non è l'ambiente a dividerci. Lo conosco come le mie tasche, mi ci muovo come in pochi altri posti al mondo (casa mia, casa nostra, il tuo corpo, la tua testa, meglio anche che nel mio corpo e nella mia testa, quello è compito tuo, per fortuna). Anche se ci sono persone che non ho mai visto, so perfettamente dai loro vestiti, dai loro visi e dai loro gesti chi sono, cosa ci fanno qui, cosa pensano di me e di te e di quella cosa che siamo insieme, cosa sperano che accada, cosa credono che succederà. Li conosco come le battute di un film visto molte volte, per questo i loro discorsi sono noiosi e sono costretto a dire che ho sete e vado a prendermi uno di quei bicchieri di plastica di acqua troppo fredda.
Non sono le tue persone a dividerci. Tua madre continua a dirmi di andare a riposare, ma ha degli occhi intelligenti e so che sa che riposare non si può, che la pace c'era prima e ora non c'è, anzi secondo me secondo lei non c'è mai stata pace. Un giorno ne abbiamo parlato, io e te, della normalità. L'altro giorno con tua madre ho fatto più o meno lo stesso discorso. Probabilmente se fossi nato quei trent'anni prima, avrei sposato lei. Anche se è un po' troppo gelidina per i miei gusti. Ha un qualcosa in quell'intelligenza degli occhi che mi fa paura.
Come se lei sapesse dei segreti che non so, come se lei fosse Dio o un suo assistente personale molto preciso nel suo lavoro. Tuo padre invece mi macella il cuore. Quel suo invecchiare snello e asciutto, quel suo percorrere su e giù il corridoio a passi misurati e pesanti... è un silenzio che vuol dire tanto. Molto più di quello che riesce a dire. E tu questo di lui forse non l’hai mai capito, scusa se mi impiccio. Mi rendo conto di guardarli coi tuoi occhi, oltre che coi miei. Di vederci dentro quello che tu mi hai detto, più un'aggiunta mia personale, una postilla, quei particolari che mai avresti potuto notare.
A dividerci è quello che non ci riguarda, quello che non abbiamo deciso, quello non scritto sulle tue liste della spesa, sulle tue tabelle di marcia, sui tuoi menù, sui tuoi appunti, nei tuoi quaderni. Nemmeno quello che c'è scritto sui tuoi diari, nel tuo pc, sul tuo blog, fra le tue note. E nemmeno fra la mia roba. Della mia roba parlo poco. Ma non c'è nemmeno lì, sono sicuro. Tanto lo sai, sono capace di cercarci solo io, nel mio caos. Dove non arriva la tua luce, mi ci ritrovo da solo e ci sono anche adesso. Seduto al buio.
Non è lei a dividerci. Nemmeno quando me la ritrovo nel letto di notte e mi domando come fa ad arrivare così in silenzio. Quando premo il naso contro i suoi capelli e penso che il mondo è perfetto così e non riesco a sentirmi lontano da te. Non riesco a sentirmi distante, nemmeno di notte.
Non ho voglia di pregare, mi fa sentire stupido, tu non ci credi. Però io sì. Facciamo così. Io ci credo, quindi io lo faccio per me e per te, cioè per quella tua parte su cui ho una percentuale. Insomma, io qua sono disperato e faccio quello che mi pare per risolvere la faccenda. Quello che serve, anche quello che non faccio quasi mai. Ehm, tu. Sì, tu. Dio, lì, o come ti chiami, i tuoi miliardi di nomi. Se non ci sei, va bene anche un sottoposto. Tipo quel tuo figlio masochista oppure anche la tua assistente personale, che mi pare in gamba. Mi accontento anche dei tuoi altri titoli nobiliari decaduti, tipo i santi o gli angeli e arcangeli, questi impiegati ordinari qua.
Ti racconto questa storia, poi facci quello che vuoi. Allora, ci sono io che cammino, da solo. Senza che scendo nei dettagli, capisci che non solo non è divertente, ma non è nemmeno appagante, proprio niente. Zero. Poi c'è lei che mi si affianca, per caso, che ancora non ho capito se sono stato io o se è stata lei, ma mi sa che è stata lei e poi, solo dopo, sono stato io. Comunque è stato un caso, proprio una botta di culo assurda. Se c'entri tu, bella mossa. Perché da lì la strada è diventata una discesa, con attorno un sacco di erba tagliata fina che è divertente camminarci scalzi. Con il mare e l'alba. Ora, non so se con questo c'entri tu, ma un camion ci si è parato davanti. Parato. Non so l’origine esatta di questa parola, ma nemmeno il più abile degli illusionisti avrebbe potuto farlo apparire così magicamente e all'improvviso davanti a noi. Lei non guida come un uomo (e chissà cosa avrebbe potuto fare un uomo, in fin dei conti), ha paura. Si è propriamente congelata. Ed eccola qui. Non del tutto rotta, le sue ossa sono incredibilmente dure, pensa che quando mi si siede sulle gambe mi danno quasi fastidio, tanto sono appuntite. Però dorme e non si sveglia. Non si sveglia. Tipo che proprio non mi riesce di capire perché. Potrei sciorinarti tutta la mia esperienza sull'aspirazione delle emorragie e non lo farò, che tu in queste cose non credi, come chi pratica la medicina più difficilmente crede in te. Dorme, capisci? Dorme e così non si può, perché chi dorme non parla, non vive, non ride, non mangia, non si copre gli occhi con le mani, non sorride, non cammina, non corre, non inciampa, non cade, non fa l'amore, non legge, non scrive, non cucina, non pulisce, non usa il pc la radio l'aspirapolvere, non ... Dai. Trascendiamo. Non devo spiegarti il senso. Lo sai, è la tua legge l'amore, no? Dici così. Dicono che dici così.
Amen. 

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Capitolo 2
*** L'ultima Risposta ***


L’ULTIMA RISPOSTA
Forse quel silenzio d'immondizia in cortile 
Forse quel destino spento da incatenare 
Dentro un giorno sempre uguale 
Quelle luci fredde o una corsia d'ospedale.
(Subsonica)

 
Se non ti muovi, entro quarantotto ore siamo nella merda. Vorrei avere qualcosa di migliore da dirti, ora che non c’è più il vetro, ma mi sento ridicolo causa equipaggiamento. Mi hanno dato una cuffia, delle pantofole di carta e un camice che mi va leggermente stretto. Sono abituato a ben altre situazioni. Insomma, cercavo di buttarla sul ridere, non so nemmeno io perché. Forse sono sopravvissuto per arrivare a questo giorno e scoprire che quelle che credevo fossero le mie forze in realtà si riducono alla mia spiritosaggine e alla mia capacità di dire stronzate in qualunque momento. Persino in questo. Questo bip è allucinante. Non ti dà fastidio? Io alzerei questo fantastico braccio abbronzato e lo zittirei con un bel cazzotto ben assestato. Poi mi sorriderei, se fossi in te. Mi farebbe sentire proprio meglio. Invece tu non mi ascolti. Che palle. Mi sembra uno di quei giorni in cui sei di malumore, che di mattina sembrano dei giorni inutili. Ti spiego. Tu ti alzi e vieni in cucina seguendo la scia del caffè. Io sono già vestito perché vado al lavoro prima, per questo ti faccio la colazione. Tu arrivi e ti stropicci gli occhi con le mani e premi in mezzo alle sopracciglia, per cercare di far passare il sonno. Se dici “Buongiorno” e chiudi lo sportello dello zucchero con la caviglia, posso strapparti alla tazzina di caffè e baciarti, perché è un buon giorno. Se non parli, ti guardo con la coda dell’occhio e aspetto di capire perché. Magari sul calendario c’è l’asterisco. Allora è tutto chiaro. Ma se l’asterisco non c’è, fingo di leggere la Repubblica e intanto indago. Fuori piove? Devi vedere quello stronzo del tuo dannato editore che io ucciderei a mani nude? Vai a lavorare al museo dall’altra parte della città e devi farti quindici minuti di bus in cui ti viene voglia di dormire? Ma, abbi pazienza, contessa, io che ne so del perché ti girano? Quando ti girano mi sento escluso. Così succede che passo tutta la giornata ad orbitarti attorno, studiandoti col mio telescopio. Poi la sera, quando ritorno, tu hai apparecchiato la tavola e mi hai cucinato il pollo al curry e stai in silenzio, però fai tutte le piccole cosa che dicono che mi ami lo stesso.
Mi sento contento come un bambino.
Chissà a che punto esattamente ho perso la dignità e sono diventato un tuoamoredipendente. A te succede? No, tu sei la stoica. La donna del silenzio. Mannaggia a te. Insomma, io ti inseguo, facendo operazioni inutili come tagliare il pane e condire l’insalata, in realtà cerco solo di sfiorarti, di entrare come un meteorite nella tua atmosfera. Ti serve l’olio. Lassù. Entro in azione e lo prendo, molto più agilmente di te, te lo passo. Tu mi sorridi, anche se non mi guardi e l’olio rimane lì tra le punte delle nostre dita che si sfiorano e finisce che mangiamo parlandoci sopra, come sempre, come se il silenzio non esistesse, come all’inizio. Venire a cercarti dove ti rinchiudi in quei giorni all’inizio era faticoso. Porca, se lo era! Non trovavo strade, vie, indicazioni e tu non mi hai aiutato mai, nemmeno per un secondo. Poi un giorno ho capito. L’hai scritto in uno dei tuoi libri, il terzo per esattezza. “Quel malessere che le donne si portano dentro nei giorni e che gli uomini non afferrano mai”. Roba di seni e ovaie, che richiede una sensibilità sopraffina e supersonica, capace di una visuale a 360°. Sono stato felice di non poterlo fare per natura, intendo, capire che cos’è quel malessere. Per fortuna, non sei quasi mai di malumore. È proprio raro. Non credo riuscirei a vivere diversamente, è proprio che l’allegria mi serve come contrappeso, come sottofondo, come scenografia.
Bip. Ancora. Dai, ti svegli? Oggi è venuta perfino tua nonna. Mi ha messo ancora più tristezza. Non si ricordava il mio nome, non si ricordava il tuo, non capiva che l’avevano portata a fare, eppure era stata lei a chiederlo, stranamente. Non esce mai tua nonna. Come un tuo malumore perpetuo. Si è trovata venticinque malattie e le cura tutte, contemporaneamente. E dice di non vedere l’ora di morire. Da quindici anni, lo dice. Mi sa che prima era un tipetto. Prima che si deprimesse e cominciasse a pensare solo alla morte e a guardare tutto il giorno la tv spazzatura, deve essere stata un soggetto.
Allora, ti svegli? Tra un po’ devo andarmene. Bip. Sai cosa dice il bip? Che sei viva. Perché se uno non fosse allenato al tuo respiro, come lo sono io che lo sento forte e chiaro sempre,  potrebbe anche pensare che non sei più viva. È proprio un suono flebile. Assomiglia ad un qualche tipo di vento caldo e carezzevole. Di certo non assomiglia a un bip.
Ecco, sta per scadere il tempo e devo uscire. Mi sa che stasera torno a casa. Domani ti porto un po’ dei tuoi oggetti, così questa specie di caverna bippante diventa un posto un po’ più carino, colorato, accogliente. E tu per l’occasione magari ti svegli. Vero, Bip?

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Capitolo 3
*** Nei Nostri Luoghi ***


NEI NOSTRI LUOGHI
Forse non lo sai che quei giorni non tornano più 
Tornerà a cercarti ancora lì 
Mentre insegui sogni che oggi non bastano più 
Nei nostri luoghi e nei ricordi.
(Subsonica)

 
Oggi è un giorno fortunato. Ho deciso una serie di cose. Numero uno, chiamarti Bip è terribilmente sentimentale e mi sa che fa anche un po’ ridere. Quindi ci piace. Numero due, ho deciso che bisogna essere speranzosi e non fare come te, che pensi sempre al peggio perché tanto il peggio succede e poi almeno quando arriva uno è preparato. Proprio no. È una logica che non tiene. Sono sicuro che se al tuo posto ci fossi stato io, tu me l’avresti tirata alla grande, immaginandoti il mio funerale, la tua vedovanza, mezzo letto vuoto eccetera. Però io sono quello rimasto illeso e tu sei qui che dormi, quindi si fa come dico io. Questa era la decisione numero tre.
Ho aperto le tende, anche se fuori fa un po’ schifino. Ti dico cosa si vede. Allora, un po’ di pini. Almeno credo, aspetta che mi alzo e vado a controllare. Sì, sono pini. Ecco perché la macchina ieri sera era piena di resina. Dietro, tra gli aghi, si vede l’intonaco giallognolo di alcune case. Niente di eccezionale, solo qualche appartamento. Poi, ma solo se ti avvicini, sotto vedi il percorso che porta all’ingresso dell’ospedale, dove passano tantissime persone.
Credevi di essere l’unica ad avere un problema? Guarda, tu dormi e va bene, ti sveglieremo in qualche modo, ma c’è gente che sta veramente soffrendo tantissimo. Ora, l’appendicite fa male finché non ti tolgono l’appendice, poi hai solo una cicatrice che ti prude. Ci sono i malati di tumore, i malati terminali, i malati di malumore, quelli ricoverati in psichiatria. Ci sono quelli che hanno problemi di cuore, quelli a cui il sangue non arriva bene al cervello, eccetera. E poi ci sei tu. Che con tutti questi problemi e queste storie tristi non c’entri niente. Sei qui che dormi, tranquilla, mentre attorno a te si muore. Solo tu potresti farlo con tanta nonchalance, cara la mia donna silente.
Dire “la mia donna” è strano. Mi fa sempre pensare di essere uno di quei maschilisti che rinchiudono le farfalle a lavare, stirare, cucire, cucinare e tutte quelle noie assurde casalingoidi che esigono essere sbrigate perfettamente e che io non farei mai. Le faccio solo perché almeno tu finisci prima e poi possiamo stare insieme.
In realtà le faccio anche perché mi diverte troppo osservarti, ma a te non piace essere osservata. Te lo dico, quando riempio la lavastoviglie è perché se mi piego appena per sistemare meglio la padella del sugo, il tuo sedere è uno spettacolo. Oppure quando spolvero la mensola in alto, quella con le candele. Non ho proprio scuse. Lo faccio perché da lassù i tuoi capelli sembrano ancora più lunghi e tutta la polvere che alzo sembra neve e… non lo so. Mi fa sentire strano, ho bisogno di farlo, di vederti alzare gli occhi, di vederti guardare in su.
Dire la mia donna mi fa sempre pensare di essere un artista. Tutti quei cantanti capelloni e hippie e magri come gli stecchi che avresti voluto sposare al posto mio. Quei gran parolieri, quei gran suonatori, quei gran passeggiatori di questo mondo. Mi sa che alla fine è andata meglio così. Non so se ce lo vedo un fattone in piedi qua dentro che ti guarda e decanta telepaticamente le tue lodi sperando di raggiungerti nell’oblio.
La prima volta che ho detto la mia donna eri un po’ più giovane, ma non significa niente. Ancora non hai nemmeno una ruga, potremmo essere benissimo a cinque anni fa e sembreremmo gli stessi. Certo, a parte che ora siamo sposati e tutto il resto. Come se fosse un dettaglio. Per me lo è. L’ho capito al volo. Cazzo, se l’ho capito. Non poteva andare a finire proprio in nessun altro modo. Lì per lì, non ho riconosciuto questo pensiero. L’ho visto dopo, quando mi sono messo a cominciare a pensarti. E un po’ mi sento in colpa, come se ti avessi attratto in una trappola, come se il destino non fosse una giustificazione più che sufficiente per volerti ad ogni costo e io non ti avessi chiesto il permesso di timbrarti con un bel “Proprietà privata” a lettere cubitali e scarlatte.
Però lo so che anche per te è così. Quindi mi sento meno in colpa, quando realizzo che siamo in due. Amarsi può essere molto deleterio, se uno non sta attento.
La prima volta che ho detto la mia donna e che la mia donna eri tu, tu lo sapevi almeno quanto me, forse un po’ di più (giusto perché sono un gentiluomo). Però ero io ad essere in vantaggio, perché tu avevi paura. Io ero sicuro e tu invece eri lì, col tuo freno a mano tirato, con le tue quattro frecce belle lampeggianti a scoraggiare il mondo, con il triangolo a cento metri dalla macchina, bello rosso e allarmante. Non con me, bimba. Io ho raccolto il triangolo e l’ho lanciato via, sono entrato in macchina, ho spento le quattro frecce e tolto il freno a mano e se non fosse stato per il cazzo di camion saremmo filati lisci chissà per quanto ancora.
Insomma, tu hai sempre avuto paura in quella tua macchina. Non ti piaceva la carrozzeria, non la sapevi guidare, ti incazzavi con tutti quelli che incontravi e che non seguivano le regole del codice stradale, alcuni ti venivano a sbattere di proposito, altre te le cercavi. Fortuna che mi hai incontrato, ma dico, dove saresti se no? Ancora lì ferma. Spero. L’idea che qualcun altro avrebbe anche potuto raccoglierti e sostituirmi in tutto e per tutto senza che tu potessi mai sentire la differenza del tocco mi annienta.
Mi hai reso un po’ egoista, Bip. 

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Capitolo 4
*** Incantevole ***


INCANTEVOLE
Se destino ti farai 
io sarò pronto 
per tutto ciò che è stato 
a non rimpiangere mai.
(Subsonica)

 
Una delle cose che più mi fa morire è che non ci accorgiamo di noi. Insomma, tutti si chiederanno come cavolo è possibile che ci amiamo così perfettamente eccetera, ma in realtà io non saprei spiegarlo a nessuno. Semplicemente succede che io e te facciamo qualcosa, anche separatamente, poi ci giriamo a guardarlo e vediamo che l’azione di ognuno si accorda perfettamente con quella dell’altro, come se tu suonassi la melodia e io i bassi. E tu sgrani gli occhi e mi guardi, pensando: “Cavolo! È perfetto!”. E non ci credi, anzi, peggio, credi che sia merito mio. Io non te lo dico, perché mi piace che tu creda un po’ nei miei poteri a prescindere, ma in realtà io non ho idea di come funzioni tutto questo. Nessuno mi ha dato ricette, pozioni, stratagemmi, rituali e magie. Tutto è successo ed è successo con noi due che ci rendiamo conto soltanto dopo della perfezione imperfetta che ci contraddistingue, senza minimamente pensare di starla realizzando.
Come quella volta che. La prima volta che ti ho visto tu pensi sia quella. Invece no. Già immagino le proteste, tutta la tua lezione sulla sincerità eccetera. Ma no, capiresti. Camminavi sotto i portici di Bologna. La tua immagine di te preferita, credo, per questo te lo racconto. Camminavi là sotto e avevi adottato tre modi per nasconderti: i tuoi lunghi capelli a coprire più o meno tutta la faccia, i tuoi Ray-Ban a coprire gli occhi, una grande borsa per i libri a coprirti i fianchi (ora so che si tratta esattamente della fascia che riguarda il tuo sedere, come se il tuo sedere avesse qualcosa che non va. Sei proprio tonta). Inoltre, il giubbetto era regolato in modo che il tuo difetto alla schiena fosse coperto, le tue scarpe erano messe in modo che le caviglie non risaltassero perché sono larghe e le tue mani erano strette a pugno, perché non è bello vedere le unghie corte e le pelli mangiate. Ti rendi conto di quanto fosse maniacale tutto questo? Spero di sì. O non avresti smesso.
Io fumavo. Tu pure. In realtà non fumi, non ti serve. Ogni tanto però senti il bisogno di avere una dipendenza, di aggrapparti, di essere un po’ stupida, di fare qualcosa di insensato, di spendere i tuoi soldi inutilmente. Allora compri il pacchetto e l’accendino e ci dai dentro. Insomma, fumavi, con l’aria di chi fuma da un sacco di tempo e continuerà ancora per molto, con l’aria di una donna che ha un problema tipo un parente malato o un litigio in sospeso o troppi pochi soldi. Ti piace pensare di apparire vissuta. Sì, come no. Pura rugiada.
Io ti guardavo, tu no, non sapevi nemmeno che ci fossi, là dietro, da lontano. Mi piace pensare che mi stessi pensando, ma non l’ho mai saputo. Appena ti svegli me lo dici, eh?
Io invece guardandoti pensavo: No. No. No. Scappa. Mi dicevo: cazzo (con tutto quello che sottintende), ti sei bevuto per caso il cervello? No, l’ho probabilmente inavvertitamente perso, come tutte le mie cose importanti e poi l’ho rimpianto per il resto dei giorni. Lo rimpiango anche adesso. È orribile, ma magari non sarei finito qui.
Insomma, eri uno spettacolo. Un autentico spasso. Lo sapevo che in un modo o nell’altro, quando davvero ci saremmo visti, me l’avresti fatta grossa. Ora, di sposarmi con te addirittura proprio non mi veniva di immaginarlo in nessun modo. Però … che poi, immaginare, insomma … non ha molto senso. Puoi passare trilioni di secondi a fissare il vuoto e spararti i tuoi film, il problema è quando arriva la realtà. Tutti hanno sempre creduto l’immaginazione migliore del reale. Mica vero. Io trovo molto più interessante il secondo. L’immaginazione è mia, è ovvio che mi piaccia, ci metto dentro quello che mi pare, esce bene, mi soddisfa. Il reale è come un pranzo dai suoceri, speri che tutto ti piaccia. C’è stata la volta che tua madre ha fatto la sua ottima parmigiana e la volta che mi ha cucinato i carciofi. Succede che te la gusti o che devi dire di no o, peggio ancora, che devi far finta che ti piaccia. Ma il bello è che non sarà mai come ti aspetti, mai.
Ecco, io ti immaginavo splendida e … mi hanno servito una parmigiana coi fiocchi. Formaggio ben fuso, melanzane croccanti, carne e pomodoro ben saporiti e amalgamati. Uno spettacolo. Mi sta anche venendo fame, a forza di descriverti la vita con queste succulente metafore.
Oh, mi manchi.
Stanotte è stata proprio uno schifo. Che c’entra, mi manchi anche quando sei in giro per il mondo alle tue conferenze, ma so dove sei. In che albergo, in che nazione, con chi. Almeno posso mangiare le patatine in camera, che se sbriciolo non rompi. E mi guardo il calcio e tutta quella roba che ti fa sbuffare perché c’è tutto un mondo fuori e che gusto c’è a fissare miliardari immeritevoli che inseguono un pallone, eccetera. Stanotte invece continuavo a farmi milioni di domande, a chiedermi se tu riaprirai gli occhi, se io ci sarò quando lo farai, se … Oh, non si può andare avanti così. Altre cinque o sei notti e mi gioco quel poco di senno che mi è rimasto.
Ti dicevo che quella lì, della ragazza sotto i portici che appare e scompare dietro le colonne, è la mia immagine di te, la prima. Quella che non si scorda mai, dicono. Bah. Ce ne ho in mente altre tremila. I picnic con le tovaglie a quadri che ci fanno sembrare appena usciti da un film. I tuoi occhi spalancati di fronte alla vista dall’alto dell’Empire State Building. Te, vestita da cowboy a carnevale, quando non potevo guardarti senza sentirmi un dodicenne con le eruzioni cutanee e una vita sessuale solitaria. Tu, livida e urlante, con la mano stretta nella mia, mentre mi mandi a quel paese a intervalli regolari di cinque minuti.  Oh, divago, eh? Pure a scuola andavo sempre fuori tema. Dicevo. Una volta mi hai detto, premettendo come al solito che era una cosa stupida e senza senso e che ti sentivi anche stupida a dirlo, che quando eri all’università ti sentivi osservata. Che quando camminavi in mezzo a tutta quella gente, in mezzo ad un nulla di facce, ti sembrava che qualcuno, lì, in mezzo al casino, si fosse appostato a guardarti. Ma non era una brutta sensazione. Qualcuno che conoscevi o che non conoscevi ancora era lì per te. Quando me l’hai raccontato io ho sorriso e sono rimasto zitto un po’ e ti accarezzavo i capelli, mentre decidevo glielodico-nonglielodico e tu ti sei accoccolata fra le mie braccia e ti stavi addormentando, come al solito, ho fatto appena in tempo a dirti che non era una cosa stupida, hai mugolato. Chissà se hai capito. Chissà se mi hai sentito e se mi senti. Domani non posso venire.
Devo accompagnare Francesco a Milano, una delle sue mille audizioni. Gliel’avevo promesso, non ha i soldi per il treno, non può rimandare perché sente che è l’occasione della sua vita e non ha ancora preso il coraggio a due mani per prendere la patente. Mi tocca. Poi ti racconto. Ovviamente, preferirei trovarti sveglia, Bip. 

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Capitolo 5
*** Piombo ***


PIOMBO
Se un sogno non raggiunge neanche il mattino 
Se le illusioni sono scorie di umanità 
Come fare a coniugare un verbo al futuro 
Quando il futuro è solo appalto di tenebra.
(Subsonica)

 
L’altro ieri non te l’ho detto per non metterti fretta, ma le quarantotto ore sono scadute. Altro che bip. Preferirei un gong o una bella canzone sparata a tutto volume. Lo so che i decibel non c’entrano niente, ma ogni volta che vengo qua dentro mi viene voglia di fare tanto di quel casino … così magari ti sollevi sui gomiti, mi guardi cercando di farmi sentire stupido e mi dici di smetterla, che tu domani devi essere a Madrid. Bla bla bla. Quanto sei acida!
Bip, svegliati. Adesso. Io chiudo gli occhi e conto fino a dieci, molto lentamente, lo giuro. Non come quando si gioca e conto veloce e tu ti incazzi che non rispetto il tempo. Piano, però conto. Al dieci apri gli occhi. Okay?
Allora. Li chiudo anch’io. Così se li riapro e tu mi guardi mi mettono in cardiologia. Scommetti? Mi concentro, eh. Ti prendo la mano, casomai non mi sentissi abbastanza connesso con te.
Uno.             Due.                      Tre.             Quattro.                 Cinque.                  Sei.     Sette.                                   Otto.                                  Nove.
Diodiodiodiodio, chissà perché si domanda sempre a te, Dieci.
Niente, Bip. Palpebre immobili. Cazzo, che delusione.
Cristo, Bip. Questi tubi ti stanno proprio male. Sembri una specie di robot in fase di sperimentazione. Chissà quali funzionalità perdi, mentre dormi. Più tardi ti svegli e più sarai tonta, lo capisci, Bip? Devi devi devi sbrigarti. Abbiamo fretta.
Ti racconto dell’audizione intanto. Francesco è proprio scemo. Mi fa troppo ridere. Stavolta era per un Amleto. Si era imparato la parte alla perfezione, in macchina mi ha fatto due palle così, ha recitato per tutto il tempo. Non ha voluto che mettessi la musica, eccetera. Io tentavo di fargli notare che magari avrebbe finito la voce, ma figurati. Non mi calcolava proprio. Quando mi sono fermato a fare pipì stava per vampirizzarmi, temendo che quel nanosecondo ci avrebbe fatto arrivare tardi. Insomma, arriviamo a questo teatro e io entro con lui, mi siedo in platea. C’erano altre persone, molto diverse fra loro, che non saprei dirti esattamente che tipo di persone c’erano. E considera che un buon 90% del mio pensiero era seduto qui, quindi … Solo Francesco ha la faccia di chiedere ad uno con la moglie in coma di andare a Milano. Cazzo, ho detto coma. Scusa. Okay. Insomma, ero seduto lì e lui declamava questo Amleto, secondo me era bravo, stava proprio per farcela. Tutti nella commissione lo guardavano, pendevano dalle sue labbra. Un po’ mi stava venendo voglia di essere contento.
Poi sto cretino sviene. Ma non che si sia sentito male, ci ha fatto apposta. Sul copione ovviamente non c’era. Sai, Amleto … non lo si vede cadere come una pera cotta per un calo di zuccheri dopo aver urlato: “Essere o non essere?”, che non è proprio come chiedere che ore sono. Dopo svariate frasi sospese e declamate a gran voce, per una sorta di climax ascendente percepito soltanto da lui, il buon Francesco cade. Bom. Secondo me si è fatto anche male, ma non lo ammetterebbe mai. I tipi seduti a giudicarlo hanno pensato che fosse impazzito e gli hanno gentilmente riportato oralmente solo metà dei loro pensieri. Insomma, fuori. Ma lui no, si è dovuto lamentare. Voi di qua, voi di là. Ha piazzato un casino assurdo. Mi sono alzato e sono andato ad aspettarlo di fuori. Quasi mi volevo posizionare in modo da fermare il suo volo da calcio nel sedere. Invece si è salvato, è uscito sulle sue gambe. Che cretino. In macchina non parlava più. Così mi sono sparato i miei cd in pace. Ad un certo punto ha farfugliato qualcosa sull’improvvisazione e sulla libertà dell’artista. Forse ho sentito anche “genio incompreso”, ma mi rifiuto di crederlo, preferisco pensare di aver capito male.
Gli ho chiesto se voleva passare a trovarti, uno di questi giorni, ma ha detto di no. Per l’esattezza ha detto che sa perfettamente di starti sul cavolo (come sei poco eloquente, tesoro) e che sarebbe a disagio, come quando ha visto il cadavere del nonno. Al che l’ho mandato a fanculo, che erano dieci ore che se lo meritava e avevo fretta di farmi una doccia e lavarmi di dosso il viaggio stancante.
Bip, essere o non essere? Non so che fare. Continuano a dirmi che è utile che io venga tutti i giorni, che ti parli, che … lo so. Ovvio, che è utile. E poi che faccio ti lascio qui? Mica che non c’è nessuno. Alla faccia di Francesco e dei suoi antenati mummificati. Mi sa che compro un gatto, mentre non ci sei. Lo so che li odi, ma magari il felino ti irrita e così ti svegli. Non capisco se per agitarti devo adorarti o farti arrabbiare. Tu che dici? Ovviamente, dici bip. 

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Capitolo 6
*** Strade ***


STRADE
Se tutto ciò che cerco nasconde un movimento 
Quale destinazione può incontrarci 
Se in tutto ciò che inquadro il senso è già sfocato 
Qual è l'angolazione per fissarci.
(Subsonica)

 
Stamattina ho parlato con il medico. Ha detto che le tue funzioni sono stabili, che dovresti solo svegliarti. Aaaah. Utile come il parere di un archeologo o di uno zoologo, per quello che mi riguarda. È quasi una settimana che ti imploro il risveglio, lo so che sarebbe meglio che ti svegliassi. Tua madre l’ha linciato con gli occhi. L’abbiamo insultato un po’ tutti mentalmente.
Oggi c’è il sole e fuori c’è proprio quell’aria un po’ calda e un po’ no che fa tutti felici. La luce è chiara, ma c’è il vento che scompiglia i vestiti e i capelli. Dovresti metterti qualcosa di svolazzante e venire a fare un giro con me. Una bella passeggiata in riva al mare, per l’esattezza.
Così possiamo dire quello che ci pare, le onde fanno rumore e facciamo tutti quei giochi stupidi. Tu che provi a camminare nelle mie orme ma sono troppo grandi, tu che cerchi di evitare l’acqua, tu che le alghe ti fanno schifo e saltelli, tu che ti pungi con i sassi e i gusci delle conchiglie. Hai sempre un problema, eh?
Questo qui poi non è tanto facilmente risolvibile. Mi stai succhiando via l’ottimismo, Bip. Proprio non sto capendo che succede e non mi sento a mio agio. Lo sai, aspettare mi dà sui nervi. Passeggio su e giù, guardo milioni di volte il cellulare, dico cose senza senso, mi metto a fissare la gente. Non è proprio per me. Quando hai fatto tardi (l’unica volta, per la verità, sei schifosamente puntuale), è stato una specie di infarto vedere che eri tu in mezzo alla folla. Insomma, uno guarda sempre nella folla perché spera di vedere arrivare chi vuole, in quelle immagini da film un po’ rallentate e coi contorni sfumati. E tu c’eri sul serio, ho alzato gli occhi e camminavi, veloce e sicura, senza mai guardare dritto negli occhi, con la tua timidezza come primo vestito. Che spettacolo, Bip. Oh, approfittane, che mai in vita mia ho fatto tante smancerie. È molto più bello vivere i miei momenti con te e mandarti qualche frecciatina, una frase ambigua, un sottinteso, un gesto, una canzone. Input, segnali che so che solo tu puoi decifrare. E quando alzi gli occhi dal tuo lavoro e mi sorridi, oppure quando capisci e annuisci, quando gli sguardi si incontrano da un capo all’altro di una stanza piena di gente perché sta andando quella canzone, quando arriva la tua mano da non so dove e mi trova … molto meglio che le chiacchiere e le rose e gli anelli e i brillanti. Ha molto più senso per me.

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Capitolo 7
*** Come Se ***


COME SE
Son giorni che ti stan passando attraverso 
in giorni che nessun colore é diverso.
(Subsonica)

 
Non sono geloso. Essenzialmente, sei talmente roba mia e allo stesso tempo questo mi sembra così da uomo primitivo che non ne ho nessun bisogno. Il matrimonio basta e avanza. La fiducia basta e avanza. Le speranze non so più dove metterle, credo di dover comprare un mobile apposta.
Benché però io sia così ligio al mio dovere di uomo che ti ama, non sono santo. Eh, no. Perdonami immensamente se questo in qualche modo manca di rispetto anche a te, ma ora ha un occhio nero. Mi dispiace, io non faccio queste cose, anche se per nobili motivi, però è evidente che sono sotto stress e che quindi posso essere meno principesco e un po’ più ancestrale. L’ho incrociato che usciva dalla stanza, io ero appena arrivato. Tua madre lo guardava con lo sguardo amorevole con cui si fissa un capello nel piatto al ristorante. Tra il disgusto e la fregatura. Tua cugina era composta, Serena anche. Lo ha salutato. Comprensibile. Lui ha alzato lo sguardo (è parecchio più basso di me, fra le altre cose. E poi, scusa, ma quelle sarebbero spalle? Tu sei matta) e mi ha fissato come se mi avesse pescato a rubare nel suo caveau. O forse sono io che quando ho capito chi era non ci ho visto più. So solo che la mia mano destra è partita, veloce e precisa e gli ha fatto un signor Livido. Splendido, luccicante, violaceo e doloroso. Mai abbastanza, ma doloroso. Qualunque cosa sia venuto a controllare, non c’è niente di cui debba interessarsi. Niente. Dio, mi sento un idiota e allo stesso tempo mi sento come quella sua moglie con le orecchie a sventola che escono dai capelli lisci. Preso per il culo. Okay, tu non gli hai nemmeno risposto, forse non l’hai visto, se Dio esiste non l’avrai neppure sentito, però io sono pazzo lo stesso e ho voglia di rompere tutto quello che c’è qua dentro, dai macchinari ai vetri e finti tali, alle mie nocche contro il muro.
Io sono quello importante, io solo ho il diritto di venire qua dentro ed uscire soffrendo come un cane, perché sono io che ti sto perdendo, io che mi sto aggrappando alla vita nostra con una forza che so di non avere, ma che mi costringo a tirare fuori. Una rabbia possente, violenta, come poche volte l’ho sentita in vita mia. Non mi fa onore, mi fa vergognare e mi fa schifo, come l’idea di stare qui dentro ancora, anche oggi e tu non ti muovi. Cambia solo il colore del tuo pigiama, e ogni tanto ne ritorna uno già visto. Cambia la flebo, cambia il colore dell’ago, cambia l’area di quel brutto segno viola e nero che ti ha lasciato un’iniezione sbagliata sul braccio sinistro. E tu sei immobile, ferma indecentemente al nulla. I tuoi stupidi grafici sono immutati e non c’è niente che si possa fare per migliorare la situazione. Niente. Bip bip e bip del cazzo, che non mi dicono più niente, che non mi danno più nessun aiuto. Bip che non ti appartengono, non sono suoni della tua vita. Quindi smettila. Smettila!
Smettila di tenermi qui incollato ad un letto di ferro con le ruote, smettila di costringermi a fissarti mentre non ci sei mentre non funzioni mentre non vali, smettila di essere così importante, smettila di mancarmi, smettila di essere legalmente mia moglie e tornatene da dove sei venuta, smettila di profumare casa in modo che non va più via smettila di far piangere la gente in maniera così indegna, smettila di farmi male male male male.
Smettila di vivere senza vivere.
Smettila di morire.
Non è giusto. Non è umano. Non è democratico. Non è rispettoso. Non è educato. Non è normale. Non è nemmeno originale. Sai quanti ne muoiono? MILIONI. Ogni giorno e per mille ragioni, tra cui anche la dissenteria. Quindi non sarebbe nulla di grandiosamente meraviglioso.
Mi hanno ridato la macchina. Ha delle ferite inguaribili, ma me l’hanno restituita. Abbozzata e intristita, quasi dispiaciuta, come se fosse colpa sua, ma il meccanico me l’ha ridata con una pacca sulla spalla dicendo che ancora può durare. Mi hanno ridato i soldi dell’assicurazione, credo. Così dice il commercialista, ma per me parla una lingua sconosciuta. Dopo “Buongiorno” mi perdo. Mi hanno restituito tutto e non te. E di tutto, allora, me ne faccio ben poco. 

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Capitolo 8
*** Albe Meccaniche ***


ALBE MECCANICHE
Nell'amara litania delle solite cose ci si può morire sai 
Nel conforto eutanasia delle solite cose ci si può finire.
 (Subsonica)

Ieri ho perso un po’ la calma. Scusami, ma in certi giorni proprio non riesco ad essere... normale. Non capisco poi cos’è che li differenzia così tanto, i miei giorni. Non capisco perché non posso essere sempre sicuro e felice oppure sempre insicuro e infelice. Perché un giorno mi alzo credendo che tutto sia possibile, che io sia capace di fare le cose che vorrei, che nulla potrebbe fermarmi, che tutto andrà bene e in altri invece mi sento un completo fallimento?
Sono lì, nel letto, apro gli occhi, torno alla coscienza e subito mi si appoggia questo peso sul cuore, il peso di qualcosa di insopportabile, come un memento. Ricordati che devi soffrire. Ricordati che qualcosa nella tua giornata non va, non andrà, forse non solo nella giornata ma anche nella vita. Mi alzo e mi ricordo che piove, cammino male, i miei vestiti non sono comodi, le mie scarpe fanno un rumore strano, le mie mani sono tozze, il fumo mi va di traverso o mi brucia gli occhi.
Mi alzo e bevo anche i fondi del caffè, dimentico le chiavi, scopro che in realtà il mio progetto non era poi così brillante.
Mi alzo e vorrei sprofondare di nuovo nell’oblio, ricadere nel sonno profondo di quando rincasi all’alba e dormi fino a dopo pranzo, un sonno che non ti fa ricordare gli incubi, che ti rigenera, che ti fa sentire pronto per altro, quasi per tutto il resto.
Ma mi alzo e le ciabatte sono dall’altra parte del letto, la macchina non parte, prendo una multa, sbaglio strada, mi dimentico di comprare il pane, il registratore non si avvia e tutti mi dicono com’è finito il Motomondiale ancora prima che io possa constatare di non averlo registrato. I cd non partono, il telefono si scarica nel bel mezzo delle conversazioni, la ruota della bici si sgonfia.
La verità è che nessuna di queste piccole catastrofi è il vero problema. Il vero problema è quella patina di fondo, quel vuoto da qualche parte nel nostro puzzle, quel cercare il pezzo mancante spostando i divani e controllando negli angoli. Quei disegni senza cielo, quei soffocamenti, quei mozziconi di respiri che riesci a emettere. Il problema è che l’unica cosa che avremmo voglia di fare è sdraiarci in cima ad una collina e rotolare nell’erba, giù fino alla strada, con l’unico pensiero di ritrovare l’azzurro del cielo ad ogni giro e di controllare che gli altri stiano scendendo con noi. L’unica cosa che davvero cercheremmo con ardore è un casolare di campagna in pietra, di cui occuparsi come di un figlio, con un camino e una vasca da bagno, con lenzuola fresche da stropicciare d’amore, amici e parenti. La verità è che non ci servirebbe altro che la possibilità di affacciarci e vedere il mare più spesso, possibilmente tutte le mattine. Un allenamento alle onde, all’infrangersi della schiuma, al rumore sottile del mondo, alla vastità di tutto il resto e non a quella del nostro ego. Il mio unico pensiero vorrei che fosse un grande cane nero, possibilmente un Terranova. E poi tu, vestita di fresco e con i capelli sciolti. Buon cibo e una bella musica. Scusami, Bip, se non so rinunciarci. 

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Capitolo 9
*** Eden ***


EDEN
E se alla fine riusciremo a credere 
Nelle nostre promesse 
Avremo pace, le risposte incognite 
Da sempre le stesse.
 (Subsonica)

Eri una silenziosa e splendida sbronza che giocherellava con un bicchiere di carta e canticchiava, persa in un suo modo proiettato fra le strade della città, nel maggio di qualche anno fa. Eravamo ad una delle tante feste di primavera, organizzate per celebrare il rito dell'amore che rinasce con la stagione. Avevi un vestito blu scuro, fino, che seguiva i capricci dell'aria. Io ti ho visto, tra due tende svolazzanti, riflessa sui sedici quadrati di vetro delle finestre spalancate. E ho deciso (poi) che è in quel momento, proprio mentre sembravi più piccola, fragile e inaffidabile... che io mi sono innamorato di te. Ti ho guardato e avevo voglia di spettinarti i capelli e di raccontarti tutta la mia vita.
Mi sono avvicinato e ti ho chiesto se era tutto ok. E tu hai sorriso, con un sorriso che diceva (senza averne paura): Dio, mi piace che tu sia qui. E hai esclamato. "La luna è vuota."
L'ho cercata, fra i tetti dei palazzi e ti ho chiesto dov'era finita. Sembrava che fosse lì fino a qualche minuto fa.
"Magari non c'è mai stata. Forse l'hai appesa tu, come una pallina di Natale ad un albero. Io appendevo sempre quella fucsia con i ricami d'oro. Tu avevi una pallina?"
Ho annuito. "Era trasparente. Si vedeva andare la neve su e giù e fuori aveva uno sbaffo rosso, come una specie di ferita. Ma la luna non è opera mia."
Tu mi hai guardato con serietà, come a cercare di capire se stessi mentendo oppure no. "Credevi davvero che lo fosse?"
Hai scosso la testa e hai chiuso gli occhi. Hai capito che stava salendo su la verità. Ti sei voltata, ti sei appoggiata alla ringhiera. "Mi sembra tutto opera tua. Come se tu fossi in realtà centenario e avessi bevuto un elisir di giovinezza. Poi, come un piccolo dio, hai costruito la mia esistenza e l'hai orchestrata fino all'ultimo dettaglio. Incluso il gin lemon di stasera. Ma non è brutto così come l'ho descritto. Non mi sento un burattino, non mi sento inutile, non mi sento in tuo potere. Mi sento come se non potesse andare diversamente, come se io fossi vissuta appositamente per essere un briciolo di note sui tuoi accordi. Quindi, eccomi qua".
Non so se mi piaceva o no la tua visione, ma riuscivo a valutarla alla luce della patina di autocommiserazione che l'alcool causa in ognuno di noi.
"E perché stasera è vuota la luna?"
Hai piegato la gamba destra e il tuo polpaccio si è teso. Ti sei sporta ad annusare i fiori che erano cresciuti fino a pendere nel vuoto. "Aveva altro da fare. Forse non si rende conto che se lei se ne va, noi ce ne accorgiamo. Che se si allontana, il filo si tende."
Hai iniziato a pizzicare nell’aria delle corde immaginarie, come se ti fosse dischiusa agli occhi la vista di tutti i fili che legano le persone al mondo. Come se potessimo fare della luna un nostro palloncino. Eri lì e avresti potuto iniziare a correre via da un momento all'altro, per il puro piacere di voltarti e di vedere che io ti avrei rincorso e che, conoscendo la tua resistenza, in poco tempo saresti crollata e ti avrei acchiappato al volo. Eri lì con me e avresti potuto abbandonarmi in qualunque momento. Ero consapevole che trattenerti sarebbe stato impossibile. Che non potrò averti per sempre. E forse facciamo questo. Anestetizziamo la nostra vita fino al punto di non sentire più il dolore della sua fine. Fino al punto di scordarci quanto leggera ed effimera sia, scendiamo a continui compromessi. Per alleviare la definitività, per non affrontare il dolore del fatto che quando qualcosa inizia è pressoché inarrestabile, continua per sempre e raramente tradisce la sua intrinseca natura. Quante storie ci raccontiamo e creiamo per superare tutto questo! Sono sacche, flebo che ci si inietta nel cuore e nell’anima, che fanno effetto giusto il tempo di contare all’indietro da dieci a zero, ma che durano poche ore. Che vanno rinnovate nel tempo, negli anni, con le abitudini. Ti sei riscossa e te ne sei tornata dentro, non prima di guardarmi con una tristezza infinita negli occhi. Forse il nostro filo si era teso e io non me ne ero accorto. O tu avevi iniziato la tua corsa e io non ti stavo inseguendo. O qualcosa era iniziato, tra di noi, ed era dunque inarrestabile.  
Non che poi tu sia andata molto lontano, ti hanno trovata che dormivi, rannicchiata su una sedia con dei fogli di carta stretti tra le mani. E quelle mani erano così sigillate attorno a quei fogli che non riuscivano a toglierteli. Mi hanno chiamato dicendo che forse potevo farcela io, piccoli megalomani che si illudono di aver creato atmosfere perfette, di aver unito alchimie compatibili e coppie da manuale, solo con brevi intuizioni come quella. Non avevo voglia di vedere dov'eri finita per colpa del mio non-rincorrerti, ma sono accorso lo stesso. Mi sono piegato e il mio sguardo era all'altezza precisa delle tue mani con le nocche bianche dallo sforzo, delle tue gambe rannicchiate, della tua testa abbandonata contro la parete.
Ti ho chiamato. Non so in che modo ho detto il tuo nome, ma deve essere successo qualcosa, perché la platea si è dileguata in un baleno. Non reagivi. Ti ho preso in braccio, un po' a fatica, e sono riuscito ad arrivare nella tua stanza. Ti ho posato sul letto e mi pesavi, non per averti dovuto portare, ma perché sapevo che il giorno dopo non avresti ricordato assolutamente nulla. Ti sei subito raggomitolata. Ti ho sfilato le scarpe. Non avevi rifatto il letto, quindi ho preso le lenzuola e le ho tirate fino alle tue spalle. Sotto, si vedevano ancora le mani che stringevano i fogli. Non riuscivo ad andarmene, per quanto avrei voluto esserne capace.
"Mi racconti una storia?"
Un foglio ha fatto capolino dalle coperte.
"Solo una volta, basta una volta sola, poi puoi andartene, se vuoi. Ma ho bisogno di sentirlo dire da te."
Mi sono seduto più comodo e ho aperto il semplice pezzo di carta bianca. Era stampato e denso di parole. Mi sono allungato sopra di te per accendere la lampada sul comodino e ho iniziato a leggere. Ho riconosciuto subito di che cosa si trattava. E la mia voce suonava orribile, era troppo stridula, non riuscivo a respirare bene e le parole incespicavano.
"Scusami, non sto leggendo granché bene". Hai buttato via le coperte e hai ruotato su te stessa, hai appoggiato la testa sulla mia gamba e mi hai fatto cenno di non fiatare. Hai afferrato i fogli, ti sei stropicciata gli occhi e hai proseguito tu. Con voce incredibilmente bassa e posata.
 
"Ordunque, allorché la forma originaria fu tagliata in due, ciascuna metà aveva nostalgia dell'altra e la cercava; e così, gettandosi le braccia intorno e annodandosi l'una all'altra per il desiderio di ricongiungersi nella stessa forma, morivano di fame e anche di inattività, poiché l'una non intendeva far nulla separata dall'altra."
 
Ti sei grattata il naso e mi hai ridato il foglio. Sono saltato anch'io alla parte evidenziata.
 
"E dunque da tempo così remoto è innato negli esseri umani l'amore degli uni per gli altri, anzi esso è restauratore dell'antica natura in quanto cerca di curare e di restituire all'unità, di doppia che è divenuta, l'umana natura. Pertanto ciascuno di noi è la metà, il contrassegno, di un singolo essere; e naturalmente ciascuno cerca il contrassegno di se stesso."
 
Te l'ho restituito.
 
"E questi sono coloro che rimangono insieme per tutta la vita, senza neppure saper dire che cosa vogliono che l'uno riceva dall'altro. Infatti non sembra assolutamente trattarsi del rapporto sessuale, come se stessero insieme l'uno accanto all'altro con tanta passione in vista di questa soddisfazione; in realtà è chiaro che l'anima di ciascuno dei due desidera qualcos'altro, che non sa esprimere, eppure vaticina ciò che desidera e lo manifesta per enigmi."
 
Toccava di nuovo a me.
 
"Dunque al desiderio e alla ricerca dell'intero si dà nome amore."
 
Hai sospirato e sorriso. Il giorno dopo ti ricordavi tutto.

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Capitolo 10
*** Perfezione ***


PERFEZIONE
Sono ossessionato dalla perfezione che risiede in ognuno di noi.
(Subsonica)

 
Il tuo gioco preferito era invertire i ruoli. Era consolarmi, massaggiarmi le tempie o le spalle, abbracciarmi e dedicarmi il tuo tempo, ascoltarmi con attenzione, dimostrarmi ogni secondo che c'eri e che eri disponibile a fare qualunque cosa per me. Eri davvero buffa.
E io tornavo un po' normale. Mi scrollavo di dosso tutto quello che mi era passato davanti agli occhi, le ferite, le morti. Sotto la doccia mi sembrava di vedere le gocce di sangue colarmi via dalle mani, come se non le lavassi mai abbastanza. In piedi, davanti allo specchio, perquisivo i miei occhi per cercare di capire dove fossero andate a finire le mie personali tragedie. Mi chinavo a bere dal rubinetto e quando mi rialzavo e sputavo il dentifricio ripetevo il numero del giorno. Il numero di vite salvate. Il numero di vite perdute. Avevo deciso di giocare con la vita degli altri? Ero stato così meschino da pensare di guadagnarmi da vivere perquisendo corpi umani? Chiudevo il rubinetto e i miei pensieri tornavano silenti, nei tubi, scorrevano nelle pareti senza allagare. Poi venivo in camera e tu, solitamente, eri seduta sul letto, con addosso una mia maglietta e poco altro, i capelli raccolti e lo sguardo indagatore. Mi sdraiavo, spegnevo la luce e ti raccontavo che cosa provavo.
 
Oggi è stata colpa mia.
 
Non sei programmato! L’errore umano è previsto in ogni statistica..
 
Ho ucciso un uomo.
 
Stavi cercando di salvargli la vita! Tu… non puoi sempre farcela. Doveva andare così.
 
Che vuol dire “Doveva andare così”? Tu non credi in Dio.
 
Ma credo in te. Hai seguito tutte le procedure, non hai commesso nessun errore di valutazione, sei stato efficiente. Non posso saperlo, ma ne sono certa. Hai commesso qualche errore?
 
Forse sì. Come farò a fare questo per il resto della mia vita?
 
Senza mai perderne di vista l'importanza, ma imparando a cucirti addosso i tuoi doveri. Hai appena cominciato, non puoi ancora sapere con certezza di cosa hai bisogno per andare avanti. Ci vuole abitudine, adattamento, esperienza.
 
Non significa che non devo essere responsabile.
 
Ma significa che puoi limitarti alle tue di responsabilità. Tu mi parli di vita e di morte, te ne rendi conto? È normale che ti scompensi così.
 
A sentirti sarei una specie di supereroe. Se ho sbagliato, ho sbagliato.
 
Ma tu non sei un supereroe. Sei umano. Il mio umano preferito. Sei terribilmente fallibile. Cerchi la perfezione, anche se sai che potresti non trovarla mai. È una speranza.
 
È una speranza a cui non so rinunciare. Neppure con te.
 
E fai male.
 
Perché?
 
Ricordi Anna Magnani e Aldo Fabrizi? Ecco, anche il nostro film finisce male, con un matrimonio.
 
Presuntuosa.
 
Scommetti?
 
Sapere sempre tutto dovrebbe renderti forte.
 
Al contrario. Mi fa sentire terribilmente in pericolo.
 
Lo sapevi, vero, Bip? Sentivi che la nostra macchina andava troppo veloce? Come hai fatto? Quando l'hai scoperto? Perché non me l'hai detto?
Ma questa non è la fine del film. Non siamo nel cinema in bianco e nero, siamo nel verdastro asettico dell'ospedale. Non siamo ricchi, né famosi, né troppo belli. Siamo umani, l'hai detto tu. Normali, fallibili, non superiori a niente di niente. Comincio ad avere paura che tu non ti sveglierai. Comincio a immaginare come farò a lottare con tutto quello che non abbiamo potuto fare insieme, da Sydney agli sport estremi. Mi immagino mentre invecchio cercando di dimenticarti e riuscendo soltanto a ricordarti più di prima. Forse ho già iniziato.
Dove sei? Qualunque posto sia e per quanto meraviglioso sembri, ho bisogno che tu torni indietro, da noi esseri umani. Scordati i superpoteri e non venirmi a raccontare cazzate sulle luci in fondo ai tunnel. Io in questo ci vedo solo smog e fumo. Forse fuoco. E fuori piove, Bip.
 

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Capitolo 11
*** Il Mio D.J. ***


IL MIO D.J.
Non c'è pazienza per l'estetico 
né più passione per l'ermetico 
quaggiù se credi in un contatto 
qualcosa atterrerà.
(Subsonica)

 
Quando finiva una storia con qualche ragazza transitoria e di passaggio, canticchiavo la solita vecchia canzone. Dicevo a me stesso che era così che doveva andare perché mancava quel quid, quella cosa fondamentale che avrebbe reso la lei in questione diversa rispetto a tutte le altre. Non una qualunque dopo la ragazza appena andata. Ma LEI. Con tutte le qualità e tutti i difetti. Io che mi nutro dell'errore e dell'imperfezione.
Labbra perfette, fisici da statua rinascimentale, menti brillanti. Ma. Coordinate avversative come tante ne metti nei tuoi libri, con le frasi troppo brevi e l'abitudine ad essere veloci. Mi piacciono i tuoi libri, ma mi stordiscono. Ti danno la sensazione di esserti perso qualcosa, di dover rileggere meglio e più a fondo. Di dover tornare sui tuoi passi, a riconsiderare, ad approfondire. Che fastidio!
Beh, la mia canzoncina non serve più, dato che ti ho stanato. Devo trovarne un'altra, anzi più di una. Necessito un motivetto per quando ti sveglierai, qualcosa di molto pubblicitario, tipo "Good morning, good morning to you!". Poi ho bisogno di una canzone per quando ti dovrò raccontare tutte le cose che sono successe, un'altra per dirti quanto mi sei mancata. Sono stonato, quindi cerca di essere comprensiva. Lo dico a te, poi, che sei più stonata di me. Mai dimenticherò i litigi per stabilire chi avesse sbagliato di più, chi fosse andato più lontano dalla nota originale. La ricerca dell'errore. A proposito di questo, cerco da ormai un mese e mezzo di capire quale parte di questo meccanismo è quella errata, quella che ci permetterà di chiudere il cerchio gridando alla giustizia divina (o pagana, se preferisci), ma non la trovo.
E ho bisogno di una nuova pentola per la pasta, quella vecchia ha fatto un po' di muffa. Si è anche rotta la Play Station, il che aggrava il mio problema di ingannare il tempo quando non sono qui. Certe volte riesco perfino a dormire un sonno più o meno profondo, ma comunque inutile. Sogno. Portoni pesanti che sbattono, scenari gotici, edera selvatica che infesta vecchie pietre di castelli. Sogno in grigio, bianco e nero, senza colore e senza speranza. Mi sveglio affannato e con un senso di oppressione, come se avessi passato la notte sveglio a cercare di risolvere un copricapo di logica. Il brutto è che non ho risolto niente. Non ho trovato chiavi di lettura o soluzioni, soltanto un po' più di viola attorno agli occhi.
Ho sentito una mia ex qualche giorno fa. Non so come, ha saputo di te e mi ha telefonato per dirmi che, per qualunque cosa, potevo contare su di lei. Io ho ascoltato educatamente, ho ringraziato. Devo dire che ne sono felice, dopo tutto quello che è successo. Lo so che la vorresti in versione Rosaspina, addormentata per l'eternità salvo Principe Azzurro, ma non posso cancellare tutto quello che mi è accaduto prima dell'età adulta. E poi, perché mi sto giustificando? Forse sto diventando un po' paranoico. Non saprei cosa chiederle, comunque.
Mia madre lava, stende, stira, cucina e mi dà pacche sulle spalle che mi mandano i bocconi di traverso. La vedo che, come al solito, non sa cosa dire in questi casi e allora si fa in quattromila, diventa un intero e salvifico esercito. Ti è venuta a trovare spesso.
Non ho ancora capito se le piaci oppure no. Ti ricordi la prima volta che l'hai conosciuta? Allucinante. Eri nervosissima, vestita troppo elegante e avevi passato i due giorni precedenti a preparare una complicatissima torta, la quale, naturalmente, non corrispondeva alle tue aspettative da gourmet della cuscina fronscese. Continuavi a ripassare l'albero genealogico e a domandarmi quale dei tanti zii era quello da non nominare perché... Non lo sapevo nemmeno io. Alla fine è filato tutto liscio, ma non sapevo come convincerti. Dicevi di essere stata noiosa, di essere apparsa sciocca, di non aver avuto buoni argomenti di conversazione. Nulla di tutto ciò. Ma l'espressione sulla faccia di mia madre in merito a questa nostra tormentata vita insieme mi resta tuttora indecifrabile. Se glielo chiedo, lei mi risponde che è felicissima per me, che mi vede felice, che sei straordinaria. Però il suo sguardo non cambia. Inizio ad odiare la preveggenza femminile. A quanto pare sono circondato da donne che la sanno più lunga di me, ma evitano di rendermi partecipe e mi guardano con aria strafottente e superiore. Da sempre.
Mia madre stendeva i lenzuoli in giardino. Dove vai? Io sulla mia vecchia bici che faceva più rumore di un bombardamento spiegavo che andavo a chiamare Lorenzo, un mio amico. Lei mi diceva di non andare, che tanto Lorenzo non c'era. Io ci andavo lo stesso, scendevo dalla bici dopo venti minuti di strada sterrata e, tutto sudato, suonavo al campanello. Non rispondeva nessuno. Provavo due o tre volte, ma niente. Se mamma diceva che tanto non c'era, farsi la strada era inutile. Ma io la facevo lo stesso, perché non riuscivo a spiegarmi il fenomeno. Non poteva vedere la casa, non sapeva quali fossero gli orari, ma aveva sempre ragione.
Chissà se tra i suoi enigmi risolti in anticipo su di me c'è anche la spiegazione di questo calvario. Hai sete, Bip?

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Capitolo 12
*** Il Vento ***


IL VENTO
Nel vuoto per mano a immaginarci unici.
(Subsonica)
 

Sai Bip, dovresti renderti conto di quanto sei dimagrita. Non si mangia granché da queste parti, probabilmente è a causa di tutta quella roba lessata e senza sale. O forse del fatto che tu non riesci nemmeno a sentirne l'odore e ti alimenti con la flebo. L'altro giorno stavo ripensando alla prima volta che ti ho baciato. Nel modo più stupido dei modi, cioè quando tu non te l'aspettavi. Ho fatto fatica a coglierti di sorpresa perché quando ti ho davanti so che tu sai perfettamente cosa penso e cosa sto per fare e... come potevo spiazzarti?
Ci ho pensato su per parecchio tempo e intanto mi gustavo la sensazione di seguire le tue labbra soltanto con gli occhi, di guardarle curvarsi mentre disegnavano le vocali o irrigidirsi con le consonanti. Seguirle mentre si stringevano o si aprivano in un sorriso e spuntava appena il bianco dei denti. Cercare di codificare i tuoi pensieri seguendone semplicemente i movimenti. Mi ci incantavo e tu te ne accorgevi e mi lasciavi fare. Magari nel frattempo ti facevi un giro nei miei occhi. Quanto tempo abbiamo passato a perquisirci senza usare le mani? Ognuno ritirato nel suo angolo, nessuno dei due che si azzardava ad allungare la mano. L'aria diventava satura, elettrica. La conversazione si interrompeva e faceva accomodare il silenzio e questa strana e diabolica creatura si sedeva accanto a noi e io ne sentivo la presenza come una benedizione. Senza le parole, ti osservavo osservarmi. Era così perfetto, così fissato nell'eternità, che un qualunque movimento o una qualsiasi interruzione avrebbero spezzato l'incanto. Generalmente suonava un telefono oppure il campanello. Riuscivamo a stare in silenzio per delle ore intere, quasi quanto riuscivamo a parlare per ore intere. Non so decidere se mi manca di più il tempo trascorso a condividere, ad annuire, a litigare, a fare rumore. O il tempo in silenzio.
Ho sempre avuto paura del silenzio. Credevo che il mio respiro fosse sotto osservazione, che si capisse cosa stavo pensando dalla mia respirazione più o meno rilassata. Il silenzio mi ha dato fastidio. Mi ha impedito di infrangerlo, di sconfiggerlo, di scavalcarlo e di farmi valere. Spesso mi ha messo in imbarazzo. Mi è sempre sembrato un'interruzione, qualcosa di sgradevole, qualcosa da combattere. Da solo non avevo problemi, non mi interessava il silenzio, non lo cercavo, ma se c'era mi teneva quasi compagnia. Era quando interveniva con gli altri che non sapevo come considerarlo. Una sorta di ospite troppo speciale, troppo importante. Forse anche sgradito. Qualcuno con cui devi fingere di saper trattare, quando in realtà non sai minimamente da che parte cominciare. Magari, per non saper che fare, fai il contrario di quello che vorresti e allora finisce male. Il silenzio poi ti biasima. Ti chiede che cosa puoi pretendere di dire al silenzio, se tu stesso non sai fare altro che accoglierlo benevolmente, lasciare che si faccia strada nelle tue situazioni, che ne prenda il sopravvento.
Non dico che mi hai insegnato il silenzio, ma non esagero se penso che me lo hai regalato. Lì per lì mi sono sentito come tua nonna quando le avete dato il lettore dvd. Come se ci fosse stato un errore. Poi tu mi hai fatto cenno di avvicinarmi e io non ho resistito. Da qui è stato come superare la paura dell'acqua o dei cani. All'improvviso, in un istante, succede qualcosa di incredibilmente banale, ma che ti colpisce come un proiettile e tu smetti di essere irrigidito sulle tue ansie e... ti lasci andare. Fai il morto a galla. Raggiungi la schiena del cane e trovi la forza di staccare la mano e avvicinarla di nuovo al muso, per ricominciare con un'altra carezza. Improvvisamente ti senti al sicuro e terribilmente stupido per avere avuto tanto timore di qualcosa di così naturale come galleggiare o legarsi ad un animale. L'ho preso in braccio e non sapevo come tenerlo, il silenzio. Il più debole tra noi due mi è sembrato lui. Volevo quasi scusarmi per tutte le volte che il mio comportamento l'aveva messo a disagio.
Poi mi ha stretto la mano e da lì è sorta un'alleanza, col timbro del tuo sorriso.
Adesso non so cosa darei per riavere tutte le serate passate in giardino, seduti sul dondolo, con i tuoi piedi con le unghie smaltate che si grattano le bolle di zanzara e che penzolano nel vuoto e ci spingono su e giù. Con le tue braccia che si allungano ad indicare una stella cadente. Con l'odore dell'erba tagliata, le coperte che ci proteggono dall'umidità, i tuoi capelli che mi fanno solletico al collo e i tuoi pensieri che mi fanno solletico alla mente. Le lucciole che si posano poco lontano. Il buio completo, nessun chiarore, nessun appiglio. Solo... silenzio. Mi faceva sentire invincibile, perché senza battaglie da dover combattere. Mi faceva sentire forte, perché la mia forza era inutile.
Ora però assomiglia più ad una maledizione tutta questa assenza di rumore. Odora di tristezza, di malinconia, di... morte. Hanno iniziato a pronunciare questa parola. Da riferirsi, più precisamente, al lento deterioramento delle tue funzioni cerebrali. Come una fetta di pane nell'acqua. Come una parete corrosa dall'umidità. Cadi a pezzetti e non c'è stucco, non c'è calce. A guardarti così sembri perfetta, al tuo posto, come se non ci fosse nulla di sbagliato. Dentro di te però, c'è silenzio. Non fanno più rumore le tue ciglia, le tue unghie, la tua pelle. Nemmeno un piccolo fruscio, nemmeno un alito di vita. E parlare al tuo silenzio è il mio anestetico. Posso credere che ci sia risposta, anche se non ne odo nessuna. Posso pensare che tu mi senta, anche se non ci sono tracce d’ascolto. Posso raccontarmi ancora qualcosa, posso ripercorrere il nostro cammino ancora per un po’, prima che l’effetto finisca.  
Cos'è che mi fa credere ancora? L'amore? No. Lui esigerebbe molto di più, richiederebbe un'azione, un risvolto. La speranza? Nemmeno. Non mi sento così bene, così in salvo. Al contrario, la disperazione più nera. La fiducia che ho sempre riposto in te. La fede che ho sempre garantito a una qualunque cosa là fuori, anche se non so dirne il nome. Me stesso. Capacità di adattamento e sopravvivenza.
Se sopravvivo a questo, sarò immortale.
L'altro giorno ho avuto paura di non ricordare la tua voce. Poi è squillato il telefono di casa e io non avevo nessuna voglia di rispondere. Si è inserita la segreteria.
"Ehi, non siamo in casa o, se ci siamo, siamo troppo occupati. Oppure, non troviamo il telefono. Magari dormiamo. Lasciate un messaggio, mi diverto ad ascoltarli!"
E poi, indovina? Bip.

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Capitolo 13
*** Sole Silenzioso ***


SOLE SILENZIOSO
Nebbia di mercanti 
Di nuovi traffici e farisei, 
Di gendarmi riverenti. 
Dentro di te un sole silenzioso.
(Subsonica)

 
Buongiorno. Che inutile spreco di voce! Che inutile spreco di momenti, di fremiti. Che inutile la mia presenza qui! Non hai bisogno di me, in nessuno dei ruoli che rivesto nella mia vita. Entro qui dentro e non contano più i miei abiti, i miei accessori, i miei doveri, i compiti che mi sono scelto, ciò che mi classifica, le informazioni scritte sulla mia carta d’identità. Non hanno nessuna importanza i miei occhi, le mie mani, le mie azioni, i miei movimenti. Potrei essere una foto appesa al muro, un macchinario, una modanatura in legno scheggiato in fondo al bianco di una parete.
Non fai più caso a me, non mi noti più. Comincia a sparire la sensazione che tu ci sia ancora. La mia impressione di un motore ancora caldo si sta affievolendo. Mi sembra come quando ti trovi di fronte a qualcosa di tecnologico che non funziona e cerchi di applicare al problema della macchina la cosa più umana del mondo: l’istinto. Sento che funzionerà. Sento che questa è l’azione giusta. Sento che c’è ancora vita in questo marchingegno. Ecco, ti guardo e la tua pelle ormai è grigia, i tuoi capelli hanno perso ogni luce, sei magra come molte sognano e come tu stessa ti vorresti, sei pericolosamente in off. Faccio fatica a districarmi tra milioni di impegni, poi entro qui dentro e il tempo si ferma, si blocca. Questa tua stanza sembra un pianeta, un’isola, dove l’orologio non gira o dove si muove al contrario. Sembra incontrollabile e allo stesso tempo immobile. Un muoversi inesorabile contro la distruzione, un precipitare al ralenti. Sto aspettando che me lo chiedano. Sto aspettando che mi chiamino per nome, mi tocchino il braccio con fare amichevole, con fare intimo, con fare che è soltanto professionale. Attendo di scrutare i loro visi tirati, i loro occhi veloci nel lanciare sguardi leggeri, fugaci. Aspetto che mi arrivino le loro parole, morbide come se fossi un po’ più sordo del normale e leggere e irreali, parole che vedrò svolazzare attorno alla mia testa, senza riuscire a farle entrare.
Come farò? Come farò a guardare quelle parole ronzanti e moleste e poi a chiudere gli occhi? Come potrò avere la forza di muovermi in una qualunque direzione, senza avere anche io voglia di sdraiarmi e dormire, senza decidere, senza compromettermi?
Dovrò contemplare la possibilità di tenerti attaccata a queste macchine come una farfalla ad uno spillo. Viva apparentemente, pronta a polverizzarsi. Fragile come questa attesa, facile come tutte le promesse che si fanno e che non si possono mantenere, soprattutto quelle che non hanno la data di scadenza sulla confezione e sanno di frutta sciroppata, con troppo zucchero.  
Ti ricordi quanto zucchero, quel giorno? Quello in cui ci siamo vestiti un po’ più eleganti del solito e abbiamo deciso che da lì in poi si faceva sul serio. Quello in cui tu hai messo un paio di margherite fra i capelli, ti sei vestita con i tuoi colori preferiti, ti sei armata di tutta la pazienza del mondo e mi hai detto sì. E per Dio non eravamo nessuno, ma per il mondo, per tutte le città, metropoli e paesini, io e te eravamo marito e moglie. Quel giorno in cui c’erano pochissime persone, quelle davvero indispensabili. Io e te. E l’aria d’aprile, quella ancora bagnata di pioggia. I tuoi occhi che non la smettevano di girarsi e guardarmi felici, umidi come un prato alle sei di mattina. Io che prendo quel piccolo cerchio d’oro bianco e che giuro e prometto che qualunque cosa succeda ci sarò, come è vero che stamattina sono qui seduto. Qualunque cosa. Oltre ogni immaginazione, oltre ogni stele d’argilla, geroglifico, pergamena, affresco, dipinto, testimonianza, romanzo, racconto, verità, attestazione. Oltre ogni dimensione, in un tempo immobile che si spalma su millenni e millenni di vite, che si sono inseguite senza un perché. Lo zucchero degli sguardi altrui, soddisfatti o scontenti o invidiosi o mia madre. Lo zucchero delle nostre vite future, replicate nei sogni. Lo zucchero kitsch della torta ipercalorica, con le nostre caricature sopra. Lo zucchero dei violini e tutte le altre diavolerie che avevi architettato in quattro e quattr’otto con molta semplicità.
Non credo ci sia una spiegazione, neanche a cercarla, Bip.

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Capitolo 14
*** Ain't No Sunshine ***


AIN’T NO SUNSHINE
Ain't no sunshine when she's gone 
Wonder if she's gone to stay 
Ain't no sunshine when she's gone 
And this house just ain't no home 
Anytime she goes away.

 (Cover by Subsonica)
 

Nell’attesa c’è molta solitudine. All’inizio, sembra che la speranza sia in grado di tessere dei fili d’argento sottili, dei fili minuscoli e incantati. Come nei film americani, quando, con un semplice interruttore, l’intera veranda di una casa si illumina di bianco. All’inizio, abbiamo poche piccole certezze che ci tengono lì, in piedi, che ci inchiodano ai muri, alle auto, a tutti i luoghi dove sentiamo il bisogno di appoggiarci. E non c’è sigaretta, non c’è gomma da masticare, non c’è passatempo di sorta che riesca a ridurre il desiderio bruciante di sfruttare quel tempo in un modo migliore.
Comunque vada, la nostra vita, la mia e la tua, sarà rovinata per sempre.
Lo so. So che dei due io sono quello ottimista, quello che crede che, con un po’ di sforzo, le cose possano cambiare. Sono io quello che dice che nulla è realmente vissuto se immaginato. È tutto nella nostra mente e finché non diventa realtà non appartiene a nessuna dimensione. Ma quanta sconfinata solitudine ci viene a trovare la mattina quando ci alziamo, Bip? Riesci a sentirla? Devi sentire anche tu questa morsa che mi prende lo stomaco, l’intestino, l’intero mio corpo, qualcosa che non lascia scampo. Ho abbandonato la mia ragnatela luccicante d’attesa. L’ho lasciata lì, in un angolo lontano della stanza, a metà tra il soffitto e la parete e cerco di viverle attorno, senza farci troppo caso. Cerco di aggirarla, ma sembra che non possa fare altro che impigliarmi. Milioni di volte al giorno mi dibatto nei suoi fili trasparenti, sono lì e mi trattengono, ma non riesco neppure a vederli. Agito le braccia e le gambe come un neonato e vorrei anche piangere come un neonato, regredire, dover solo bere dello strano latte da un bel seno e fare versacci con la saliva. Invece ogni giorno devo ingannare il sistema, premere un pulsante che mostri dove sono i raggi laser per poi piegarmi, abbassarmi, strisciare, saltare, scavalcare, imitare movimenti sinuosi, produrmi in mirabolanti acrobazie per non urtarli e uscire sano e salvo, arrivare dall’altra parte.
Ti assomiglia tutto. Le persone che camminano per strada, le foto sui giornali, i manifesti di concerti, gli alberi. Sei dovunque, ogni forma, ogni colore mi dà fastidio agli occhi. Non posso più togliere gli occhiali da sole. Mi servono per nascondermi, per non sottoporre gli occhi ad uno sforzo eccessivo, per non lacrimare ad ogni raggio di sole che punta contro il vetro dell’auto. Soprattutto, ti assomigliano tutte le donne.
Quelle ferme nelle auto accanto alla mia, quelle nei cataloghi pubblicitari, quelle che camminano per strada, che servono nei negozi, che fanno la fila al supermercato, che portano al parco i figli. Anche se più o meno castane, alte, abbronzate, magre, enigmatiche, tese, nervose, serie, a me ricordano tutte che la mia non c’è. Non mi aspetta a casa. Non è in fila con le altre macchine, lei che si spazientisce subito e usa tantissimo il clacson. Non è alla cassa della Coop, dove compra sempre le caramelle perché non può resistere, come i bambini. Io sono lì che sistemo la spesa nelle buste e vedo la confezione che arriva sul nastro trasportatore. Ogni volta che le vedo arrivare e sono sempre di un gusto diverso penso a quanto sono stato incredibilmente fortunato in questa mia esile vita e mi chiedo come ho fatto a non pensarti prima. Come ho potuto farti aspettare. Come ho potuto bloccare il mio nastro e dimenticare le caramelle lassù, in mezzo alle buste di plastica e ai rasoi. Ora almeno puoi rendermi pan per focaccia, Bip.
Anche tu avevi le tue ragnatele con cui combattere mentre mi aspettavi? Ti so immaginare in piedi su una sedia, con in mano una scopa, che cerchi di distruggerle. Pensi di esserci riuscita, ma poi ritornano. I ragni sono incredibili, hanno una pazienza davvero invidiabile. Ti sei sentita anche tu così sconfinatamente sola mentre aspettavi che io smettessi di guardare nel vuoto e mi accorgessi di te, che saltellavi lungo il mio perimetro con l’aria di avere qualcosa di importante da dirmi?

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Capitolo 15
*** La Glaciazione ***


LA GLACIAZIONE

Quando il vuoto esploderà, esploderà 
perché il vuoto esploderà, esploderà 
questo vuoto esploderà, esploderà 
questo vuoto esploderà, esploderà.
(Subsonica)




A quanto pare è molto più semplice parlare con la tua versione muta, che con i tuoi occhi che mi frugano il viso. È molto più semplice raccontarti tutto quello che succede, dall’ascensore che si blocca alle minacce nucleari, ora che so che non puoi rispondermi. Forse è codardo, ma riconosco che è davvero molto più facile parlare, se si sa di non poter avere nessuna risposta. Non ti vergogni, non ti intimidisci, non devi nasconderti, dici quello che vuoi, quando vuoi e perché ti va. Non stai ad aspettare nessun feedback. È come parlare all’orizzonte o ai ritagli di cielo multicolori o al tuo cane. È un volersi proteggere.
Come quando non riuscivo a starti lontano. Avevo un bisogno fisico di incontrare il tuo sguardo, di muovermi in un posto e tracciare con la mente tutte le traiettorie possibili, fare in modo di incrociarti sul mio cammino e provare di nuovo, magari ininterrottamente, la sensazione che io e te avessimo un segreto. Qualcosa che pervadeva i nostri sorrisi, i nostri gesti, come un codice, una chiave di lettura. Qualcosa che costituiva un linguaggio tutto nostro, fatto del reciproco esitare, inciampare, sentirsi stupidi e in imbarazzo. Un linguaggio fatto del reciproco soppesare ogni gesto, chiedendosi quanto pericoloso fosse, quanto significasse sporgersi oltre il bordo della normalità. Un nascondersi e ritrarsi in se stessi o un incontrarsi, un andare a sbattere. Ti sei divertita a codificare i miei sorrisi? Hai capito tutto quello che c’era nei miei occhi? Chissà quanti discorsi sui discorsi avrai fatto! Mi ha detto che … secondo te significa che … oppure che …? E la faccia confusa delle tue amiche, dalle risposte standard delle buone amiche, pronte a dirti che ti stavi preoccupando ma che non c’era nulla da temere.
Ecco forse è questo che mi manca di più. Questi piccolissimi momenti prima che io e te ci innamorassimo. Quello che tutti descrivono come la parte migliore di una storia d’amore. E forse hanno ragione. Perché è solo un gioco, nessuno rischia niente. Nessuno si fa male, nessuno si è compromesso, ha perso o dato o sacrificato qualcosa. Si tratta soltanto di vivere dei giorni sospesi, con questi infiniti secondi in cui lo sguardo si dilata, il cuore rallenta i battiti (chi l’ha detto che batte più veloce?), i muscoli del corpo sono intorpiditi o non rispondono ai comandi. Dura pochissimo e si ricorda per una vita.
Non come il matrimonio, che ti si ripresenta nel letto ogni mattina appena apri gli occhi, sotto forma di angolo di corpo di tua moglie incastonato in una tua articolazione. Non come l’innamoramento, che ti colpisce come un fulmine, scatta una foto e la appende alle pareti della tua mente e ti inietta nel sangue quel sapore di nostalgia, di liquefazione d’intenti che si sente quando si alza il vento.
Soffia molto vento in questi giorni. I miei pensieri si aggrappano forte ai pilastri della mente, sperando di non volare via, ma non riesco a trattenerli. Si staccano, svolazzano un po’ poi cadono, atterrano e rotolano, rotolano fino ai tuoi piedi. E ti vedo chinarti e raccoglierli, rigirarteli tra le mani un po’ incredula, con quel tuo timore di non meritare la felicità stampato sul volto. Ti vedo agitarli, portarli all’orecchio, sentire i miei folli e stupidi discorsi sulla vita, sullo spirito, sui libri, sulle poesie, sui morti e sui vivi e sugli eroi. Ti vedo corrugare la fronte, sorridere, ridere. E allora resisto, Bip. 

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Capitolo 16
*** Dentro I Miei Vuoti ***


DENTRO I MIEI VUOTI
Se c'è un motivo trovalo con me 
Senza ingranaggi senza chiedere perché. 
Dentro i miei vuoti puoi nasconderti, 
Le tue paure addormentale con me.
(Subsonica)

 
È il nostro diritto ad essere amati, Bip. Il nostro diritto ad essere ammirati, coccolati, nutriti con cibi invisibili, che ci spinge a cercare, con un’insistenza quasi malsana, tutto quello che ci manca. Quello che non sappiamo dove si trovi, ma che continuiamo a inseguire. E la dea della caccia non ci aiuta. Confonde gli odori, i colori. Ci mimetizza tutti in un’unica folla e ogni persona che passa potrebbe essere quella giusta, ma novantanove volte su cento non lo è. Quella giusta passa una volta sola. Puoi andarci a sbattere. Puoi accorgerti che se ne sta immobile sul marciapiede a fissarti. Puoi spiarla mentre cerca un libro in una vetrina. Ma è lei. Sai che non può che essere lei. In un qualche modo che ti fa venire voglia di correre via.
In un modo che ti ricorda tutte le volte che hai controllato chi era seduto accanto a te e ti sei accorto che qualcosa non andava, che qualcuno vi aveva associato per sbaglio, la slot-machine vi aveva avvicinato, ma eravate una ciliegia e una campana e insieme non potevate fare nulla di buono. Un gettone sprecato, tempo perduto, un giro a vuoto.
Quante strade solitarie e piovose hai attraversato prima di incamminarti nella mia? Mi piacerebbe pensare per te che la tua vita sia stata una collina, da cui tu sei discesa a piccoli passi verso la valle, tranquilla e posata. Alle volte è stata piuttosto una corsa affannata, a rotta di collo, senza frenare mai, con le ginocchia che si spappolano per il carico e il cuore che si frantuma nell’attrito. Vorrei che accorgermi di te fosse stato più dolce, più immediato. Oggi, vorrei che non avessimo passato nemmeno un secondo ad avere paura. Hai sempre amato l’indugio, la possibilità. Di notte, nel letto, ti accoccolavi a me e mi svegliavi piano, come una bambina, strofinando la testa contro il mio braccio o il naso contro la mia guancia.
 
Che c’è che non va?
 
Ho paura.
 
Hai avuto un incubo?
 
No… Ho paura.
 
Del buio?
 
No. Ho paura.
 
Perché?
 
…Le possibilità. Se… non sono io la tua possibilità? Magari ora che mi hai al dito ti sembro un palloncino di piombo piuttosto che di elio.
 
Ascoltami.
 
 
 
Ti sto ascoltando.
 
 
 
Non dici niente…
 
Sto respirando. Siamo, tra tutte le milioni di possibilità che avevamo, la migliore. Quella esatta. Non credevo avessimo dei dubbi in proposito…
 
 
Perché ho paura, allora?
 
 
Per abitudine.
 
 
La tua abitudine a svegliarti di notte, pensando con orrore che quel diritto imprescindibile ad essere amati non ti fosse concesso. Sentendo con certezza, con infallibilità, tutta la paura di non poter avere ciò che era comunemente degli esseri umani: una sola, ultima, minima, sicura speranza. La forza di pensare di potercela fare. Qualcosa che non hai mai avuto. Incredibile come la tua corazza, apparentemente così dura, fosse facilmente distruttibile con un semplice schiocco di dita. Alcuni ti hanno trafitto, felici di vederti china a terra, a cercare di raccogliere tutti i vetri, anche quelli più piccoli, per non perdere nessuna possibilità.
La tua abitudine a svegliarti di notte, in preda ad incubi reali, incubi in forma di pensieri, senza poter chiedere conferma a nessuno, tantomeno a te stessa.
La tua abitudine a non considerare nulla che venga da te degno di essere considerato. Tu sei la prima detrattrice di te stessa. Il nemico numero uno sul libro nero della lista lunga di tutte le persone che, coltello tra i denti, tagliano i fili ai tuoi palloncini.
E io sono qui per far applicare una legge già stabilita. Sono qui per ascoltare i tuoi bisbigli notturni e dirti che anche tu sei qui, nel mondo, e alle sue regole sei soggetta. Che non sei un’eccezione, un alieno. E che se lo fossi, io lo sarei assieme a te e allora siamo almeno in due a giocare da questo lato del campo. Per i propri diritti si deve combattere. Armi alla mano, Bip.

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Capitolo 17
*** Il Centro Della Fiamma ***


IL CENTRO DELLA FIAMMA
Il centro della fiamma è un livido, 
È un peccato acceso che danzerà 
riscaldando ombre dietro di noi.
(Subsonica)

 
La verità è che bene e male sono due adesivi che hanno perso la colla. Continuiamo ad attaccarli da ogni parte, ma loro ricadono giù e noi restiamo lì, con inutili decorazioni in mano, a chiederci chi ha nascosto la bussola. Io, personalmente, non ho mai capito molto in proposito. Quando ero ancora un fervente cattolico, credevo che il bene fosse quello che ci permettesse di avvicinarci a Dio e il male fosse ciò che invece più ci allontanava da Dio. Ma sulla mia mappa nessun punto portava la dicitura "Dio" e a me sembrava di vagare senza meta e senza nessuna speranza di poter fare qualcosa di buono. Poi il mio ateismo ha preso il sopravvento e, in uno slancio positivista, ho iniziato a pensare che non riuscivo a credere che l'uomo nascesse già marchiato dal male. Ho iniziato a dire che avrei voluto che almeno le intenzioni fossero le migliori. Oggi penso che queste due definizioni abbiano lo stesso potenziale di un colore secco e prosciugato. Non ne sappiamo niente e mai potremo saperne. Cerchiamo di spremerne le ultime gocce rimaste, ma senza risultato. Ciò che più ci allontana dall'intuizione di queste due "categorie" è quello che fa bene e che fa male a noi stessi. Non riusciamo a capirlo, a deciderlo, a stabilirlo. Non abbiamo parametri. Non so mai esattamente se dovrei scatenarmi o frenarmi, se dovrei vivere o morire, approfittare o lasciar perdere, prendere al volo o far passare gli altri, sedermi ad aspettare o passeggiare nervosamente su e giù. Il risultato è che finisco sempre col farmi del male, con il non rendermi conto del rischio e della gravità delle mie azioni, col valutare davvero poco l'aspetto fondamentale: è tutto appeso a un filo. E mi vedo, come un folle, strattonare quel filo come fosse una spessa corda invece che una stella filante qual è. Mi vedo torcerlo e tirarlo e... non riesco mai a capire se si è spezzato ed è finito lo scotch oppure se, in un qualche mirabolante modo al di fuori della mia comprensione, io possa essermi salvato.
La verità è che sento il bisogno impellente di chiedere scusa a me stesso, per tutte le volte che ho premuto l'acceleratore e non il freno, per tutte le volte che avrei dovuto guardare di fuori e invece non ho nemmeno acceso la televisione, per tutti i nomi e le informazioni che ho scordato in fretta, per le promesse che ho sempre fatto e mai mantenuto. Per ogni volta che sono rimasto in silenzio ad ascoltare i miei pensieri, senza riuscire a dar loro una forma, un senso, una conseguenza. Per tutti quei momenti in cui ho chiuso gli occhi e allungato le mani e le ho immerse nel fiume fangoso che mi serpeggiava attorno, senza pensare che avrei potuto affogare, che tutto sarebbe potuto finire in un ultimo singulto, in una bolla superficiale.
La verità è che mai come ora sono costretto a chiedermi cosa sia il mio bene, il tuo bene, il nostro bene, il mio male, il tuo male, il nostro male. Se in un qualche modo tra di essi sono legati o identici o associabili. Se spostando o cancellando l’uno, succede qualcosa anche all’altro. Se sono particelle slegate di un unico discorso senza senso, che io ripeto a me stesso e a te, Bip, oppure se sono mattoni di un qualcosa che sta per crollarmi sulle spalle, talmente imponente e rovinosamente enorme, che io non riesco neppure a distinguerne l’ombra, il limite. Sono avvolto dalle sue tenebre e scoprirò il disastro solo quando lo sentirò scricchiolare.
Oggi ti hanno fatto una sorta di prova dei riflessi, un test che avrebbe fatto luce sulle autentiche condizioni della tua dura testolina. Non è andato granché bene, a quanto pare. Così, ti ho portato una candela e l’ho accesa. Ora è qui, sul comodino, accanto a te. La cera si scioglie e piano piano cola lungo le pareti cilindriche. È una candela rosa, bassa e tozza. Profuma appena di un qualche aroma di cui non mi importa assolutamente niente. L’ho comprata e l’ho accesa, perché è così che la mia speranza vive adesso. La mia forte e tozza e rosa e cilindrica e resistente speranza ha preso fuoco, lambita da questo immenso casino che non hai deciso di combinarmi. E le fiamme scendono sempre più a fondo, sempre più nel cuore della candela e un giorno non rimarrà che uno stoppino nero e corto, null’altro che un rifiuto. Un giorno non resteranno che ceneri e polveri da spazzare, pensieri appoggiati su mensole alte, che non si toccano mai, perché lì ci sono le cose più vecchie e più care. Superfici di legno su cui passare il dito per rialzarlo coperto di grigio. Un grigio che ci fa sentire sporchi, ma vivi.
Un grigio che ha lo stesso odore di quel fango in cui spesso ho immerso le mani. E ha lo stesso sapore amaro del giorno dopo, di quando ti svegli in preda ai perché, chiedendoti a cosa ti è servita l’intera vita precedente, se non per evitare il fango quando ne senti l’odore. E ha lo stesso rumore, basso e sommesso, di un macchinario interiore che lavora incessantemente, cercando di seppellire l’odore nauseabondo e il sapore del fango sotto milioni di rotonde palline colorate. Un grigio di cui non ho saputo mai fare a meno e in cui mi sono sempre nascosto. Per evitare il bianco accecante del bene e il nero paralizzante del male.
Lei è entrata, poi, a passi felpati, nemmeno si potrebbe, e ho provato un orrore folle nel vederla qua dentro. Ogni volta che la guardo negli occhi mi trema la mente. Sorrido, penserà che sono diventato scemo, perché non faccio altro che sorridere da quando tu stai male. Si è avvicinata e ti ha stretto la mano. Diceva che, se mi era d’aiuto, potevo appoggiare l’orecchio alla tua mano, perché si sentiva il rumore del sangue che scorreva, come per un fiume. Secondo lei, significava qualcosa. Doveva significare qualcosa. 

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Capitolo 18
*** Stagno ***


 
STAGNO
Lo stagno pronto a specchiarmi 
E' un abisso per me 
Che ricambia lo sguardo 
Che mi parla di te.
(Subsonica)

 
Oggi non ho in realtà molta voglia di parlarti. Mi sento stanco, provato. Vengo qui a guardarti e a prendermi cura di te, ma non so cosa dirti. Non trovo belle frasi, novità da raccontarti, raccomandazioni, preghiere. Ho paura che tutto il mio amore, tutto quel mio tergiversare e parlarti spassionato se ne stia andando. Certo, bisogna essere in due. Senza di te, come potevo illudermi di tenere vivo e intatto il nostro legame? Ci sono solo io, che parlo come ad un muro, senza aspettarmi risposta e sapendomi folle. Non ho energie, Bip. Sono stanco da morire, stanco della strenua lotta che conduco ogni giorno per trascinarmi fino al giorno seguente. Stanco di non poter mai riporre le armi. Oggi, non posso parlarti, Bip. Non trovo le parole, non trovo le frasi, non trovo i silenzi, le pause, gli argomenti. Riesco solo a guardarti e a sentire quel senso di vuoto, come uno strapiombo che si spalanca a lato della mia strada. Riesco solo a guardarti e a domandarmi di nuovo, per l’ennesima volta, tutti i miei perché, solo che lo faccio in maniera più intensa, più disperata. Riesco solo a guardarti e a non crederci, ancora, nonostante sia passato molto tempo. Ti guardo e mi rivengono in mente i momenti migliori, che in un qualche lacerante modo si trasformano nei pensieri peggiori.
Come quel giorno, fuori dall’ospedale. Seduti sui gradini di marmo, vicini, ma non abbastanza. Tu eri rannicchiata su te stessa e continuavi a parlare, parlare, parlare, sperando che tutte quelle parole portassero via la paura, l’angoscia, la tristezza. Sperando di trovare, in quel labirinto di suoni, un qualche pensiero a cui aggrapparti. Qualcosa che fosse riuscito a farti sopravvivere a quella giornata, a far scorrere le tue azioni, nonostante l’enorme diga di cemento piazzata nel mezzo del corso, nel tratto più difficile. Nonostante quello spartiacque a ricordarti che la tua vita sarebbe stata divisa da quella giornata, esattamente in tutto quello che era successo prima e in tutto quello che era successo dopo. Era un tre ottobre, era già freddo, ma non abbastanza per poter rabbrividire. Tu, in ogni caso, tremavi come una foglia, continuavi a giocare con una ciocca di capelli e i tuoi occhi vagavano dappertutto, senza vedere niente. Poi, di botto, ti sei alzata e sei entrata. Come d’accordo, io sono rimasto di fuori. Ho fumato un bel po’ di sigarette. Ho ascoltato un po’ di musica. Ho preparato accuratamente tutto ciò che ti avrei detto quando saresti tornata. E sei uscita. Con i capelli affievoliti, le scarpe lente, i vestiti sbiaditi, la pelle scolorita, gli occhi spenti, le mani inerti. Un po’ di vita in meno. Tanto dolore, da qualche parte là in fondo, in uno dei tanti zaini che hai sempre portato dappertutto con te. Zaini pesantissimi, ma invisibili, dal cui carico non ho mai potuto liberarti. Mi hai guardato e non hai pianto. Avrei preferito che ti fossi sciolta in lacrime, che avessi gridato, che avessi avuto almeno un accenno di disperazione. Invece te ne stavi lì, in piedi sui gradini, con l’aria di chi aveva risolto un grosso problema e ora avrebbe voluto soltanto morire. Riuscivo a immaginare i tuoi pensieri galoppare furiosamente ai “se” e ai “ma” di quel capitolo della tua storia. Ho buttato la sigaretta e salito gli ultimi due gradini, poi ti ho abbracciato e tu non ti sei mossa. Le braccia lungo il corpo, il collo abbandonato, debole eppure di granito. Hai sussurrato: “Perdonami”. Poi sei scappata via. Io mi sono seduto, di nuovo. Non potevo aiutarti in nessun modo. Non era colpa mia. Non era un mio errore. Quel bambino buttato nel secchio avrebbe avuto occhi scuri, mani ossute da pianista, la tua chioma fluente, poca pazienza, i piedi piatti, i denti dritti, la scoliosi. Figlio di un errore commesso in una notte d’estate, figlio di una zingara venduta come schiava a trafficanti di donne, figlio di una solitudine inasprita dalla sconfitta, figlio della vendetta. Figlio di una donna che non poteva portarlo con sé. E io lì, su quei gradini, inutile, mentre tu correvi verso una casa qualunque, a cercare un riparo dalla realtà in cui ti eri cacciata. A cercare un percorso non tracciato, una soluzione alternativa, una negazione che ti aiutasse a sopravvivere. A iniettarti una flebo dell’anestetico che ti avrebbe fatto in qualche modo andare avanti. Lo facevi anche tu.
Non credo di poter descrivere la paura che ho provato quando, poco tempo prima, tu arrivasti di corsa, ciondolando un po’ sulle tue Converse. Ti sei fermata dritta di fronte a me, tiravi il fiato. Io stavo studiando al parco, ero circondato da evidenziatori e libri e non ti guardavo neppure in faccia, perché avevo capito e ti odiavo. Mi hai detto: “Potremmo tenerlo. Ha una casa, vicino al fiume”. Ho tremato, come una scossa di terremoto, come un lampo, la sensazione della catastrofe, il panico cieco della distruzione immediata e totale, il panico cieco delle scelte avventate. Ti immaginavo passeggiare lungo il fiume, per mano con un piccolo te a parlare dei pesci e degli alberi, con lui che vi guardava sorridendo soddisfatto da lontano, probabilmente dell’unica cosa buona mai combinata in vita sua. Non sono stato sollevato quando sei tornata qualche giorno dopo dicendo che la cosa migliore che ti potesse capitare sarebbe stata diventare lesbica e perdere ogni interesse per l’eterosessualità. Dicendo che non riuscivi a fare altro che inciampare e sbucciarti le ginocchia. Dicendo che la tua vita era stata un continuo rimediare agli errori, per poi commetterne altri, diversi. Dicendo che avevi probabilmente vissuto tutta la casistica mondiale dell’errore, che forse avresti fatto domanda al Guinness World Record. E io iniziavo ad ammirarti. Proprio per tutti gli sbagli che avevi fatto. Perché non ti si poteva guardare e dire: “Sembra un angelo”. Bastava un colpo d’occhio per vedere l’inferno nei tuoi capelli indemoniati, nei tuoi occhi troppo grandi, nelle tue mani nervose, nella tua impossibilità di annoiarti con calma.
Mi spiace, Bip, per il tuo figlio di zingara. Ma ce l’hai fatta. Io non ho parlato, ma ero lì, seduto. Non ti amavo ancora, non ne ero capace, non l’avevo ancora imparato, ma ero un tuo amico, seduto a fumare mentre tu decidevi per due.
Ed ora sento la stessa impotenza. Seduto a fissarti, mentre tu te ne vai. Solo molto piano. Quasi uno stillicidio. Dopo essere sopravvissuta a quel giorno, dopo essere riuscita a compiere anche quel passo, dopo aver sostenuto quella ed altre lotte. Come se non ci fosse altro che un dialettico mettersi alla prova. Come se il tuo spirito bramasse il rischio, la possibilità di guardare la morte da vicino e scappare senza farsi prendere. Corri. Non farti acchiappare, Bip.
 

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Capitolo 19
*** Atmosferico ***


 
 
ATMOSFERICO
This is where we gather 
To feed our whishing souls.
(Subsonica)

 
Dicono che la paura ci protegga dal male. Dicono che sentire di rischiare, di poter perdere tutto quello che abbiamo, possa aiutarci a tenercelo stretto, ad attaccarci disperatamente ad esso. A lottare per esso. Ognuno ha le sue teorie, Bip.
Io? Io credo che la paura ci aiuti. Credo che il puro terrore che ogni cosa possa un giorno esistere e il giorno successivo esplodere ci serva a guardarla con occhi diversi. E non sto parlando di scemenze come “Ora apprezzo molto di più una giornata di sole o il verde intenso dell’erba”. Mi sto riferendo a qualcosa di ben più grande. Intendo quella sensazione di brivido, quella sospensione, quella zona liminare che sta in ogni nostra follia, quella che sta tra l’inizio e la fine, tra la morte e la vita, tra l’abbandono e il ritrovo.
Nel mezzo c’è quella fetta di realtà che più si spinge verso il nulla. Un momento di totale caos in cui niente è come era. Particelle sospese nell’aria. Oggetti scombussolati da una qualche misteriosa magia che aspettano, immobili a mezz’aere, di trovare nuova collocazione.
Mi sono svegliato, un marzo di alcuni anni fa. Non ho aperto gli occhi, però. Mi sono svegliato e sono rimasto immobile esattamente così com’ero. Nell’aria, nel letto, attorno a me, non c’era niente. Nessun odore, nessun rumore, nessuna manifestazione di vita. Era tutto immobile, tutto incerto. Non sapevo che ore fossero, quando sarebbe suonata la sveglia, se il sole fosse sorto o no, se era sabato o domenica. Sono rimasto immobile anche io, ad attendere di capire cosa fare. Poi ho aperto le palpebre, piano. Le luci rosse della sveglia indicavano le tre e cinque, ma io ero sveglissimo. Mi sono alzato, lentamente, mi sono stiracchiato. Ho preso i jeans del giorno prima dalla sedia, una felpa e sono andato in bagno. Mi sono lavato, mi sono fermato solo un secondo a guardarmi allo specchio e mi sono visto: nudo. Ho sorriso ad un pensiero e ho lavato i denti. Poi ho preso le chiavi della macchina e sono sceso per le scale a trotto leggero. Sono uscito nella notte e fuori faceva ancora un freddo un po’ invernale, gli alberi erano appena ricoperti di brina. Tutti dormivano. Qualcuno magari stava allattando un bambino o leggendo o facendo sesso o cercando di risolvere i propri casini o immaginando una vita completamente diversa. Le cose che si fanno di notte. Sono salito in macchina e l’ho messa in moto, con una carezza leggera, nemmeno fosse viva. Ho acceso il riscaldamento, ho regolato il volume della musica e sono partito all’indietro. Ho ingranato la prima, ho svoltato per una, due, tre curve. Ho acceso il navigatore e ho lasciato che trovasse la mia posizione sul pianeta. Ho impostato un indirizzo che avevo imparato a memoria, come fanno i bambini, nel caso mi fosse capitato, nella vita, di perdermi. Ho tolto il suono della voce metallica e ho continuato ad andare. Dopo tre ore e quattordici minuti ero arrivato. Erano le sei e mezzo. In strada non avevo trovato quasi nessuno. Il fiato si condensava e le suole delle mie scarpe facevano uno strano singhiozzo a contatto con l’asfalto. Il mio cavallo bianco era parcheggiato da qualche parte un po’ lontano, gratuitamente perché era ancora notte. Di notte si può. Ho raggiunto il portone di legno massiccio e mi sono guardato attorno. Un ragazzo di colore stava scaricando degli scatoloni. Gli ho chiesto se aveva da accendere. Ho analizzato la scena e ho scelto un gradino. Ho guardato ancora l’ora. Poi ho tirato fuori il cellulare. Ho scritto qualcosa tipo: “Ehi”. Ho cancellato. Ho scritto: “Scendi?”. Ho cancellato. Ho scritto: “Sono qui”. Ho cancellato. L’ho rimesso in tasca. Ho fissato intensamente quella che avrebbe anche potuto non essere la tua finestra. Da un po’ di tempo speravo che ogni finestra fosse la tua. Ogni tanto passava un bus. Ogni tanto passava la tua immagine nella mia testa. Ogni tanto passavano pensieri, gli uni peggiori degli altri. Tutto quello che riuscivo a sentire era … paura. Profonda e paralizzante. Un terrore come mai provato in vita mia. Il terrore che tutto quello che avevo sempre avuto potesse svanire in un momento. Con uno sguardo, con un cenno. Il terrore che tutto quello che credevo tu fossi mi si sgretolasse tra le mani. Il terrore che mi guardassi e pensassi un no, forte e chiaro nella tua mente. Ma allora perché? Perché lo facciamo? Perché blocchiamo il flusso e ritagliamo momenti di solo caos, momenti in cui decidere di non decidere? Momenti in cui è l’assenza di gravità, momenti in cui è la pura essenza del rischio a guidare le nostre azioni? E cosa sarei se non lo avessi fatto?
Le mani mi tremavano, gli occhi mi tremavano, tremavano tutti i miei organi. Le ginocchia, le palpebre. Potevo sentirmi tremare la pelle. Se ascoltavo bene, la sentivo vibrare, come la custodia di un demone. Non so cos’avevo dentro, alle sei della mattina in cui ho deciso che era ora di venire da te, sperando che non fosse troppo tardi, che mi volessi ancora. Ho ritirato fuori il cellulare e … il resto lo sai. Ti ho telefonato. Tu hai risposto: “Chiunque tu sia, se hai il mio numero dovresti sapere che questa è una cosa pericolosa da fare prima che io abbia bevuto il caffè!!”

Alzati.

Ma chi è?!
 
Scendi? Sono… venuto da te.

Ma… tu, io, sono le sei, io stavo dormendo, che giorno … Oh, cristo.

Dai.

Sono in pigiama, non… sono, non - non sono pronta.
 
Questo non è vero.

Io …
 
Sul serio.



Scendi o mi fai salire o tutte e due o me ne vado… ti prego, sto per finire il coraggio.


Dopo due secondi eri da me. Avevi la faccia bianca e un po’ pesta di chi si è appena svegliato. Avevi le labbra un po’ secche e gli occhi lucidi. I capelli legati appena, tutti in disordine. La porta si è aperta e tu c’eri e io c’ero. Eravamo lì, uno di fronte all’altra. Ti ho sorriso e tu hai scosso la testa. Mi sono sporto appena per scendere dal gradino, ma tu hai fatto cenno di non muovermi. Siamo rimasti così finché non siamo più riusciti a fissarci, come lupi che fanno a gara a chi abbassa lo sguardo per primo. Hai vinto tu. Mi sono avvicinato e non ho più avuto alcuna speranza.
La mia paura conduceva qui. La paura non ci preserva dal male. Ma mi ha portato da te. 

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Capitolo 20
*** L'odore ***


L’ODORE
Quanti graffi da accarezzare
per tutti i cieli che possiamo tracciare
Tutte le reti del tuo odore
Dentro gli oceani che dobbiamo affrontare.
(Subsonica)


Riesci a crederci, Bip? Il mio stipendio è aumentato e sono diventato caporeparto. Non so se devo attribuire tale avanzamento di carriera ad un gesto dettato dalla compassione delle esimie cattedre per cui sgobbo. O se posso prendermi i meriti di essere andato in aspettativa, di essere stato un medico molto mediocre, di non aver saputo salvare nessuna vita. Di non aver tranquillizzato più nessuno, nemmeno me stesso. Posso prendermi questi meriti e metterli nelle tasche, come un pesante mazzo di chiavi che mi dà accesso ad uno stipendio migliore, a beni di lusso, a fantasticherie economiche. Potrei comprare un sacco di oggetti nuovi, sedermi in mezzo al cerchio di futilità che ho tracciato e attendere. Attendere che torni il vero centro di ogni mia circonferenza. Mi sento solo e perso, Bip. Vedo questa linea precisa di punti, ordinati, vicini gli uni agli altri e non so come raggiungerli. Provo a spiegare, a cercare di rendere partecipe qualcuno, a contattare persone che si sono trovate in questa situazione prima di me, che possono aiutarmi. La verità è che nessuno che non ti abbia veramente amato può capire fino in fondo cosa provo. Sono completamente solo in questo dolore, perché solo io so cosa vuol dire perderti e solo io riesco a provare un tale terrore all’idea che accada. Ecco cosa succede a incontrarsi per caso. Mi si chiude lo stomaco, mi si gelano i pensieri. È orribile. Non riuscire neppure a spiegare a sé stessi cosa si prova. Cercare solo di andare avanti inesorabilmente, seguendo un flusso in cui non ci si riconosce. La corrente è forte, Bip. Prende e trasporta lontano tutto. Hai sempre avuto paura delle cause di forza maggiore, dei massimi sistemi, delle emergenze, delle unità di crisi. Paura di ciò che riesce a travolgere il resto in maniera sottile, infima, disprezzabile. Le mode. Le convenzioni. I consumismi. Il tuo non saper riconoscere le auto e il tuo disegnarti sempre una mappa prima di andare in un posto che non conosci. La tua mania dei fogli A4 bianchi. Di averne tanti come appoggio, anche se devi scrivere solo un biglietto di auguri, per sentire il peso della carta, per avere sulle dita l’istinto della creazione. La tentazione di trasformare tutto quel bianco in qualcosa di vero, di utile, di bello. In qualcosa che potesse avere un valore universalmente riconosciuto. Hai scritto storie d’amore, storie di difficoltà, storie dagli intrecci statici e dai pensieri contorti. Hai scritto con il computer portatile sulle gambe, una matita in testa a tenerti su i capelli, bottiglie vuote di tè alla pesca ovunque e i piedi sollevati, come suggeriva Italo Calvino per la lettura. Hai scritto piegata sul tavolo, tutta storta, tenendo il foglio in diagonale, mischiando stampatello e corsivo, con le gambe incrociate, l’abat-jour accesa e lo sguardo perso nei tuoi mondi inventati. Hai scritto in giro, dovunque, capace di estrarre carta e penna in qualunque momento. Il giorno del matrimonio, nel bagno, appoggiata contro il muro, a scrivere di me e di te, chissà che cosa. Sono quasi deciso a leggere i tuoi ventisette diari. Sono lì, sullo scaffale, colorati, numerati, con le pagine intrise delle tue cose più intime. Spazi che non ho mai esplorato, confini mai varcati, una parte di te irraggiungibile. Lo farò perché mi manchi. Perché non ti arrabbieresti, me li leggeresti tu stessa, ad alta voce, carezzandomi il braccio. Ma hai sempre avuto paura di annoiarmi. Mi manca tanto la tua paura, palpabile, fisica, inguaribile. Mi manca prenderla e lanciarla dalla finestra e vederti sorridere come una bambina, felice che i mostri sotto al letto siano stati sconfitti dalla luce, che le streghe abbiano deciso di rapire qualcun altro. Il tuo principe ha una vecchia bici rossa e la passione per il calcio, ma che importa. Lo hai scelto così. L’ultima volta che ti ho visto davvero, Bip, avevi i capelli lunghissimi. Fino al sedere, come precisavi orgogliosa. Ondeggiavano al vento. Eri ferma sul binario della stazione di Bologna, in piedi. Guardavi verso il cielo. Seguivi le rotaie con lo sguardo, sperando che tutto filasse liscio. Ricontrollavi gli oggetti nella borsa ad ogni minuto. Diffidavi degli sconosciuti. Scappavi dai piccioni. Aiutavi dei turisti stranieri perduti. Mi hai visto arrivare e hai sorriso. Non te n’è fregato più niente della borsa, dei piccioni, degli sconosciuti, dei binari, del cielo. Il tuo intero mondo si è ristretto a me,che in fondo sono ben poca cosa. Poi non t’ho vista più, avevo il naso nei tuoi capelli e il tuo profumo nelle narici e gli occhi dietro le tue piccole spalle e le tue mani sulla schiena. Hai sempre avuto uno strano odore di prodotti per capelli, profumo, donna, appena un velo di sudore. Era un odore comodo, morbido, che poteva sentire solo chi si avvicinava davvero al tuo corpo. Un odore che mi rendeva orgoglioso di non dover rispettare nessuna distanza. Di poterle annullare tutte. Di non porne nessuna. Di aver incontrato qualcuno che mi era più che accanto e vicino, ma che era in me e con me. Perché da quel momento in poi penetrasti in ogni mia particella. Non mi aspettavo di incontrarti, ma di averti sempre in una tasca del cuore abbastanza capiente. Senza doverti guardare. Ora so che quella fu l’ultima volta che ti vidi, Bip. Perché da quel momento in poi sei diventata parte di me e non c’è stato più bisogno di aggiungere altro. 

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Capitolo 21
*** Livido Amniotico ***


LIVIDO AMNIOTICO
Sono soltanto parole per me, che la distanza ora complica 
io vorrei tanto capirne di più, vorrei che non pensassi al male 
che perso nel sonno più chiuso che c'è, lascia soltanto un impronta nell'aria 
oltre a un respiro d'amaro per noi, ci resta solo il disegno del tempo.
(Subsonica)

 
Sedevo nel parco con tua madre, l’altro giorno. Questo qui sotto è proprio un bel giardino, pieno di stradine, di prati verdi, di cespugli di fiori. Quando non avrò più nulla da pensare, mi chiederò come mai tanto sforzo per un posto dove sì, nascono i bambini, ma dove la gente essenzialmente muore. Che abbia un senso dare decoro alla fine? Addobbare l’inevitabile? È l’ultima flebo d’anestetico? Quella che ci fa decidere i colori delle bare e quali fiori e quali canti? Quella che congela i dettagli per non guardare il quadro generale? Che bei fiori. E mia moglie, lassù, è un vegetale. Ma ora che ci penso, ha sempre adorato le orchidee. E gli iris.
Ci siamo seduti su una panca di pietra e io l’ho guardata un attimo, di sfuggita.
Mi è sembrata così vecchia e triste e distrutta, che non credevo di avere la forza di parlare.
“Secondo lei ce la farà?”
“Devi darmi del tu. Quante volte te l’ho detto?”
“Non ci riesco!”
“Non che avremo più molto da dirci, d’ora in avanti, eh? Niente che non serva a distruggerci ulteriormente.”
“Non ne parli come se fosse già … “
“Possiamo parlarne ancora e ancora e ancora, ma prima o poi qualcosa dovrà accadere. Non potremo più nasconderci nel parco. Dovremo salire lassù, guardarla e prendere una qualche forma di decisione.”
“Ma come può parlare così? Accettare l’idea che tutto…”
“Accettare? Io non ho accettato proprio niente! Potremmo sedere qui il resto del nostro tempo senza che riesca a spiegarti il dolore che... Ma… vedi, lo shock alle volte fa effetti strani. Alcuni di noi ci si tuffano dentro, perdono il senno, non tornano più. Io so che lei mi credeva molto forte. So che mi credeva ragionevole, invincibile, adatta ad ogni situazione. Mi sto comportando come lei mi ha sempre visto fare. Sono… sua madre. Che altro posso fare? Poi, quando e se tutto questo finirà, mi trascinererò miseramente alla fine, vivrò quel che manca, magari impazzirò anche io. Ma non avrò mai più pace, per aver sentito ogni giorno quel suo respiro meccanico.”
 
Qualcosa mi morì dentro all’idea di dover ascoltare il tuo ultimo respiro. Qualcosa si oscurò nei miei occhi quando pensai che tu non avevi più potuto dire nulla, che per mesi avevo parlato da solo, soltanto di me e di te, senza riuscire a capire la cosa peggiore. Il tuo silenzio. Tu che cosa avresti fatto? Tu che cosa avresti detto? Cosa faresti, Bip, se lì ci fossi io? Non riesco a rinunciare all’idea di un miracolo. Non riesco a rinunciare all’idea che tu possa un giorno guardarmi di nuovo negli occhi. Finché sei in quel letto posso sperare di riaverti, posso sperare di vederti parlare ancora, posso sperare di sentirti viva. Un sogno così impossibile da fare male in tutto il corpo. Il cuore pompa disperazione, nera e crudele, perché ogni mia speranza è vana, ogni sogno è irrealizzabile, ogni risvolto di questa storia è destinato ad esistere soltanto nella mia mente e a non diventare mai vero. Se decido di darti la fine dignitosa che meriti, dovrò dormire da solo per tutte le notti della mia vita. Dovrò tornare a casa da solo, girare le chiavi nella toppa e vivere con la consapevolezza che non sei più tornata. Mettere via i tuoi vestiti nel fondo di qualche baule. Solo io e Laila, in quella casa. A vivere nella colpa di non essere morto.
 
“Io credo che dovrebbe farlo lei.”
“Tu vuoi che io lo faccia al posto tuo.”
“Voglio che lei lo faccia e basta, perché immagino che voglia farlo lei.”
“Io immagino solo che tu abbia paura.”
“Paura?”
“Guardati. Guarda dove siamo e di cosa stiamo parlando. Come farai domani, tra due giorni, tra un mese ad essere ancora te stesso? Ti odierai, odierai quel camion che andava contro mano. Magari cercherai l’autista e lo ucciderai, così! Solo per morire, per esserle più vicino nel nulla. Resterai da solo con un vuoto così enorme e incolmabile che lo rigirerai nel piatto di ogni cena, nel brodo di ogni Natale, ad ogni vacanza.! Odierai Laila semplicemente guardandola, quante storie di gente che si comporta così?! Odierai me, così come ancora mi vuoi bene. Vorrai che tutto ciò che è stato lei potesse svanire con un click. Sperererai che sia un libro a cui chiudere la copertina, un film di cui leggere i titoli di coda. Questa è la fine, ma il danno è che qualcosa dopo c’è. Oltre la fine c’è il modo in cui l’avrai affrontata a trascinarti per i capelli fino alla vecchiaia. Dove andrai stasera, quando non dormirai più su quella sdraia accanto al letto, come hai fatto nelle ultime settimane? Dove andrai? A lavorare, operando e incontrando di continuo donne e uomini come lei, con lo stesso problema? Dove andrai quando dovrai spiegare cosa è successo? Dove andrai quando per vederla avrai bisogno di prendere la macchina e raggiungere il cimitero? E il lato del letto freddo ti trafiggerà come una punizione, come un rimorso... Tu… Tu hai paura ed è sacrosanto, hai una paura folgorante di prendere questa decisione, di accettare che è tutto miseramente finito. Non c’è più niente che possiamo fare per lei. Tutto quello che stiamo facendo ora lo stiamo facendo soltanto per noi stessi. Per … egoismo! Non è sotto anestesia, non è una frattura, non è un raffreddore. Lei non tornerà! Ha gli occhi chiusi, le mani inerti, le gambe immobili. Quei piccoli impercettibili movimenti che vedi, fissando il suo volto anche per trenta ore consecutive non significano niente, non sono vita, non è lei. E non devo spiegartelo io, ma … i medici sono i pazienti peggiori, no? Potrai illuderti quanto vorrai, ma non la riavrai indietro. Mai più.”

Sono stato zitto, Bip. Non voglio. Non posso. Non ci riesco, non ancora. Voglio che decida tu. Voglio che sia tu a provvedere a te stessa. Non avresti voluto che io interferissi e lo so che sembra idiota, ma … il destino è il mio motivo. Il destino che quel giorno lontano ci ha connessi, il destino che ci ha fatti schiantare l’uno con l’altra ed esplodere come un fuoco d’artificio. Lo stesso destino che ci ha messo contro quel camion, il destino che ci ha permesso di essere così tanto e immensamente felici, il destino che ha voluto che tu fossi ridotta così e io vivo … ecco, dovrebbe pensarci lui. Non è giusto che pensi lui a scombinare le carte e noi a fare il lavoro sporco. Sarà quel che sarà, Bip. Ti tengo solo ancora un po’, prometto. Sperando che nessuno arrivi a trascinarmi via. 

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Capitolo 22
*** Dormi ***


DORMI
Non immagini quanto sia dolce sfiorare 
dai tuoi incerti sorrisi la felicità. 
Anche solo per pochi secondi capire 
che qualcosa di buono c’è in me. 
Dormi che è meglio pensarci domani 
alla muta distanza che scorre tra noi 
quando non sei vicino a scaldare i miei sogni, 
quando i sogni nemmeno son qui.
(Subsonica)

 
Con una mano ti sfioro le palpebre. Con l'altra ti sistemo i capelli con grazia, con dolcezza. Con lentezza. Come un'eternità. Come una domanda lunga una vita. Ti guardo e cerco di radunare le tue parti, di stabilire nella mia mente un ordine preciso. Parto dalle tue mani grassocce e salgo lungo le braccia ormai pallide. Vedo il collo, il viso, i capelli, una punta di orecchie. Scendo giù, sui tuoi seni nascosti dal camice, sul tuo microscopico ombelico e giù per le tue gambe, le ginocchia, i polpacci, i piedi. E ora che ti ho ricomposto, che ti ho ricostruito, chiudo gli occhi. Prendo la tua mano sinistra, la sollevo e ti rimetto quell'anello, per la seconda volta. Per giurare a me stesso che ci sarai sempre, che non scapperai, che la buona e la cattiva sorte non avranno alcun significato, che consacrerò almeno un'ora della mia giornata alla mia salute e alla tua malattia. Sfioro le scarpe da tennis consumate, rovinate, mi ricordo in dieci secondi tutti i suoli che hanno calpestato. Mi sfilano attorno come frecce, appuntite e letali. Il mio fuoco greco. Sono così disarmato. Il verde della tua t-shirt mi fa male come un pugno, come una verità. I blue jeans mi fanno pensare ad un film, ad una commedia.
 
Istericamente, rido. Riso nichilista. Decostruisco. Annullo, non considero, non esisto. Sono morto. Per me non esiste altro che questo naufragare poco leopardiano e affatto dolce. O peggio. Per me esiste il mio coma, che comincia oggi e durerà per sempre. La mia lenta perdita di funzioni, il lento deterioramento della mia esistenza. Il logorio, la tarma del mio legno che credevo erroneamente consumato.
 
Per me esiste un paesaggio da dipingere con rabbia, a secchiate violente di colori primari. Blu, rosso e giallo, in un miscuglio micidiale e accecante. Per me esiste il cammino lento della formica che fa provviste per quando il regno dei cieli verrà e qualcuno dovrà giudicarmi, vivo o morto che io sia, e io allora potrò levarmi e gridare: Smettila, fottuto pezzo di merda, non puoi permettertelo, non con me, me l’hai portata via.
 
Per me esiste un orologio dal ticchettio lieve e intollerabile, senza lancette, che non indica nessun momento preciso, ma li indica tutti, tutti insieme. Per me esiste un muro alto, di pietra, da grattare fino a consumarmi le mani, fino a vederle sanguinare del mio sangue, fino a raggiungere le ossa. Fino a cercare un perché che non mi è concesso chiedere.
 
Buffo che per avere le risposte fondamentali non sia lecito domandare. Buffo che per le domande più ardue nessuno sia riuscito a dare spiegazioni abbastanza convincenti. Buffo che io sia qui a chiedere disperatamente un rewind impossibile, una grazia retroattiva, un miracolo in slow motion. Da assaporare come l'idea di te nella mia vita. Da assaporare come i tuoi baci lenti. Da assaporare come i tuoi scatti d'ira, le tue voglie, le tue prudenze. Da assaporare come un viaggio, una canzone lenta, note di pianoforte, battiti cardiaci irregolari, il tuo orecchio posato sul mio cuore. Da assaporare come con i sogni, i desideri, gli obiettivi.
 
La tua canzone preferita diceva che “We are all so fragile, we are all so scared. So go on and cry, Ophelia, everybody cries.”
Abbi coraggio, nel tuo dolore. Sii fragile, piccolo, insignificante. Sii umile, dolente. Un tuo cristianesimo senza resurrezione. Semplicemente, la modestia e l'umiltà, la dignità anche nel dolore, non potevano che fortificarti e renderti più sensibile. Potrei scrivere anche io una Bibbia e fare le nostre rivelazioni.
Ma cosa scrivo nei Vangeli? Non ho buone novelle. Il Messia non deve arrivare, se ne è già andato e risparmiatemi la storiella della resurrezione in Cristo. Il mio Messia è passato in silenzio, senza fare rumore. Ha vissuto nel terrore di non essere amato, di non poter dare amore abbastanza. Ha solleticato gli altri, alcuni ne ha scossi, altri li ha attirati a sé come se il corpo e la mente non avessero confini. Il Messia non ha potuto lasciare nessun messaggio, non ha avuto una morte in grande stile, non c'è nessuno qui dentro a testimoniare, a parte me. E mi sembra una stanza piena di nulla, ora che lei l’ha lasciata. Ora che lei mi ha lasciato. Così.   
 
Un povero e stupido uomo. Ofelia, puoi piangere. Tutti piangono. Siamo tutti così fragili e spaventati. Il Messia non aveva idea di cosa sarebbe successo a tutti gli altri. Il Messia era allergico alla muffa. Il Messia aveva le dita leggermente storte e un seno meravigliosamente più piccolo dell'altro, come tutte le donne. Il Messia era folle, ma disperatamente bisognoso di quello che tutti fingevano di avere: la più normale delle felicità. E dietro sé ha lasciato una scia di amarezza, di schiuma, di bava alla bocca, di contaminazione, di inquinamento dell'anima. Una scia di fiori, di polvere, di vita vissuta con la punta delle dita.
Una scia di grandezza invisibile, una scia di asteroidi.
Di puntini uniti che formano strane e vincolanti figure, dentro di me.
 
E Laila. Piccola e indifesa, qui, in piedi. Con un viso solenne e disperato. Le donne capiscono al volo. Ti guarda come si guarda un film dell'orrore, un incubo, un brutto voto scritto con la penna rossa in fondo ai suoi temi, un rimprovero, un giocattolo rotto. Leggo rabbia e dolore. Non ha capito perché. Posso forse spiegarglielo io? Non lo so. Siamo qua, tutti e due bambini, figli sconvolti della tua morte, attaccati al tuo corpo con cordoni ombelicali che nessuno si è mai ricordato di recidere. Ti osserviamo con le nostre lenti verdi e non riusciamo davvero a capire che esperimento tu sia stata. Si aggrappa ai miei pantaloni, mi chiede di andare. La afferro e la stringo a me, non dovrei, dovrei essere forte per entrambi. Ma come faccio, se so che sarà lei, con i suoi lunghi capelli neri, la depositaria di tutto ciò che siamo stati? La stringo a me e le affido la missione di tenerti, tenersi, tenermi, tenerci in vita. Di cullarci con le sue ninne nanne. Di ricordare a tutti che sei esistita. Speriamo ti assomigli. La stringo e ti guardo e... non so. Mi sono perso. Questa volta non ho capito. Non ti seguo. Non ho potuto farci niente. Te ne sei andata da sola.
 
 
 
Con un ultimo
stanco
assordante
e lunghissimo
 
 
 
 
 
Bip
 
 
 



NDA: chiedo scusa per aver pubblicato gli ultimi capitoli tutti assieme interrompendo il ritmo creatosi, ma sto partendo per un lungo viaggio e non avrei potuto più pubblicare per un po'.
       

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