Ecco chi amavo

di Nihal_Ainwen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Family and Reaping ***
Capitolo 2: *** Kyle Jones ***
Capitolo 3: *** The First Met ***
Capitolo 4: *** Annie Cresta, Poor Mad Girl ***



Capitolo 1
*** Family and Reaping ***


Johanna era seduta sulla spiaggia del distretto quattro e guardava il riflesso della luna sul mare incresparsi ad ogni alito di vento. Si trovava nel villaggio dei vincitori. Le era stato concesso di andare a trovare l’unica persona per cui forse provava ancora qualcosa. Le verità, è che era stato concesso a lui, di poter ospitare lei nel suo distretto. E chissà che cosa aveva dovuto fare per farsi accordare il permesso. La ragazza non ci voleva nemmeno pensare. Le dava fastidio, un fastidio tremendo, immaginare con quante donne doveva essere stato per salvare sé stesso ma soprattutto per proteggere Lei, Annie Cresta.
Mentre rimuginava su tutto ciò, non si era accorta che Finnick era uscito di casa e l’aveva raggiunta sulla riva. Si accorse di lui, solo quando le si sedette affianco e le sfiorò la spalla con il braccio. La ragazza sobbalzò sorpresa, per poi lanciargli un pugno di sabbia umida addosso.
-Ehi, io non ho fatto niente per meritarmelo!- si lamentò lui guardandosi il petto insabbiato.
Johanna si domandò perché avesse quel maledetto vizio di andare in girò mezzo nudo: la distraeva.
-Mi andava, stacci.- gli rispose lei alzando le spalle. La verità è che l’aveva un po’ spaventata, ma non l’avrebbe mai ammesso.
-Allora, a cosa devo la tua gentile visita?- le chiese lui guardando la spuma delle onde.
-Potrei morire. O meglio, potremmo morire entrambi.- cominciò lei.
-Non moriremo, né io né te. C’è il piano e... – lei lo interruppe con un gesto della mano.
-Dico solo che ho bisogno che qualcun altro conosca la mia...”Storia”, se così si può definire.- gli spiegò tracciando disegni astratti nella sabbia.
-Fammi capire, vorresti parlarmi di te?- domandò Finnick incredulo.
Lei lo guardò e semplicemente annuì.
 
 
La casa era piccola, due stanze, fatta completamente in legno. Una era la camera da letto dei suoi genitori, con l’enorme e morbido letto matrimoniale, sul quale si divertiva spesso a saltare. L’altra era tutto il resto: salone, cucina, la sua “cameretta”. Il bagno era fuori, in una specie di capannone a parte, aveva solo lo stretto indispensabile. Non erano certo ricchi, ma chi lo era nei distretti?
Nella camera principale, c’era una donna intenta ad apparecchiare il vecchio tavolo di legno. Intanto controllava che non bruciasse nulla di quello che stava cuocendo e fischiettava. Mentre prendeva tre bicchieri, dalla porta di casa entrò un uomo sorridente e con due asce in mano: una era grande, l’altra molto più piccola.
La donna si girò verso di lui con sguardo raggiante. Erano entrambi castani, anche se lei aveva i capelli molto più chiari. E mentre lui aveva due grandi occhi nocciola, lei li aveva verdi e con un taglio allungato. Lui alto e ben piazzato, lei bassina e minuta.
Proprio quando la porta stava per chiudersi, sgusciò all’interno una bambina. Doveva avere al massimo sette anni e non poteva che essere loro figlia. Era magra e aveva i capelli castano scuro, legati in una coda. Al centro del viso pallido, campeggiavano due occhi verde smeraldo, grandi e vispi. Aveva il nasino all’insù, qualche lentiggine sugli zigomi e la boccuccia rosea atteggiata in un ampio sorriso.
-Ciao mamma!- esclamò andando a sedersi a tavola.
-Ciao tesoro.- ricambiò la donna. -Mark, non dirmi che l’hai portata di nuovo al lavoro con te.- continuò riferendosi al marito, che si era seduto a sua volta.
-Beh, sì. Che c’è di male in fondo.- rispose lui grattandosi la testa.
-C’è che è una ragazza! Anzi, una bambina! Ti sembra normale che se ne vada in giro a cercare di abbattere alberi?- lo sgridò la moglie poggiando le mani sui fianchi.
-Ma siamo nel distretto sette. Qui tutti abbattono alberi.- si difese lui incerto.
-Tutti gli uomini caro. E lo sai.- ribatté la donna mettendo i piatti in tavola.
-Ma mamma, a me piace! E poi sono brava, l’ha detto anche Jon.- si intromise la bambina incrociando le braccia la petto.
-Johanna, non fare storie e mangia per favore.- tagliò corto la madre agitando la mano, come a voler scacciare un moscerino fastidioso.
-Melanie, ascoltami, tu lo sai perché lo faccio.- le disse il marito, fattosi d’un tratto serio.
La donna si adombrò, guardò il marito negli occhi e annuì. La bambina si chiese cosa significasse tutto ciò. Poi capì.
Si tenevano tutti gli anni. Venivano scelti, in una pubblica mietitura, due tributi tra i dodici e diciotto anni per ogni distretto, un maschio e una femmina. In tutto, ventiquattro. Solo un vincitore, solo uno usciva dall’arena. Solo uno sopravviveva. Erano i giochi di Capitol City, fondati dopo la ribellioni dei tredici distretti. L’incubo di ogni famiglia dei dodici distretti. Lo svago di ogni abitante di Capitol City.
Gli Hunger Games.
 
 
-Stavamo meglio di tanti altri.- affermò Johanna annuendo.
-E i tuoi... Beh, che fine hanno fatto?- le chiese Finnick inclinando la testa di lato e guardandola con la coda dell’occhio.
-Mia madre è morta tre anni dopo. Un incidente, schiacciata da un tronco pericolante.- minimizzò lei scuotendo la testa. –Almeno non ha assistito alla mia Mietitura  e non è stata costretta a guardare il miei Hunger Games.- continuò tranquillamente. –Mio padre non è stato così fortunato.-
 
 
Aveva tredici anni, la sua seconda Mietitura. Il suo nome era in quella boccia di vetro solo due volte mentre altri molte di più. Era fortunata, poteva permettersi il lusso di non dover chiedere le tessere. Non sarebbe capitato a lei, come l’anno scorso. O almeno era quello che le aveva detto suo padre. In quel momento lui si trovava con tutti gli altri adulti, con tutti quelli con più di diciotto anni. Lei invece stava in fila dietro altre ragazze, in attesa di sapere a chi sarebbe toccato andare in quell’inferno quest’anno. Poteva anche essere lei in fondo. Per un anno si era salvata, certo, ma chi le assicurava che oggi sarebbe andata allo stesso modo? Non c’era niente di più falso nelle parole di suo padre, ora se ne rendeva conto. Nessuno sapeva chi sarebbe stato estratto dall’accompagnatore.
Mentre pensava alle inutili rassicurazioni che le erano state fatte, l’accompagnatore del suo distretto era salito sul palco ed aveva fatto partire il solito filmato sulla guerra. Johanna si asciugava di continuo le mani sudate sulla gonna color panna, sgualcendola sempre di più senza curarsene. Aveva la forte tentazione di scrocchiarsi le dita, ma evitò: sua madre le diceva sempre che era una forma di maleducazione.
-Bene!- esclamò Monet. –Che ne dite se cominciassimo dalle dolci ragazze?- chiese come tutti gli anni con la sua orribile voce affettata.
Ovviamente, gli rispose solo il silenzio. Indi per cui, s’incamminò a passi corti verso la boccia. Aveva cambiato colore di capelli rispetto all’anno scorso: era passato dal verde all’arancione. Li portava corti ma evidentemente dovevano essere eccessivamente cotonati perché sembravano il nido di un uccello. Era vestito completamente di giallo canarino, con lustrini applicati su giacca e pantaloni. Portava delle strane scarpe a punta arancioni, in tono con i capelli. In fondo, lui sembrava proprio un uccello. Infilò la mano all’interno e, prolungando il supplizio di Johanna, sfiorò vari foglietti, solo per poi rimescolare tutto. Dopo qualche manciata di secondi, che alla ragazzina parvero eterni, Monet si decise ad afferrare un biglietto e ad estrarlo dalla boccia.
Quello che avvenne dopo, sembrava estremamente irreale. Non poteva essere vero, ci doveva essere un errore. Sì, doveva per forza essere uno sbaglio. Non poteva toccare a lei.
-Johanna? Su tesoro, vieni qui.- la incitò Monet, notando lo spazio che si era creato intorno a lei. A quel punto, la ragazzina non poté far altro che deglutire e muovere il primo passo verso la morte.
-No!- urlò suo padre, squarciando il silenzio gelido che era caduto dopo l’enunciazione del nome del primo tributo. – Non porterete via mia figlia! Non posso permettervelo.- sbraitò portandosi davanti al palco.
A quel punto due pacificatori gli si avvicinarono, lo afferrarono per le braccia e lo portarono via con la forza.
Johanna sentiva suo padre gridare, dimenarsi e imprecare. Avrebbe voluto aiutarlo, sarebbe voluta scappare. Eppure non poteva. L’unica cosa da fare ormai, era salire su quel maledetto palco e fare buon viso a cattivo gioco.
 
 
-Cosa fecero a tuo padre?- chiese Finnick, incapace di trattenersi.
-Beh, semplice: gliene diedero parecchie e non lo fecero passare a salutarmi.- cominciò lei, per essere interrotta quasi immediatamente dal ragazzo.
-Tutto qui? E’ stato fortunato a... Che c’è?- chiese vedendo l’occhiata spazientita che la ragazza gli rivolgeva.
-C’è che non mi fai finire, testa di pigna.- esclamò lei tirandogli altra sabbia umida.
-Ops, scusa. Continua pure allora.- rispose annuendo.
-Bene. Comunque, tornando a mio padre, finito il mio tour della vittoria, lo ammazzarono come esempio per tutti gli altri. Ovviamente, questo non l’hanno trasmesso in televisione.- concluse Johanna sbuffando.
-Immaginavo che avrebbero fatto qualcosa del genere. E’ nello stile del presidente Snow. In fondo, quest’edizione della memoria, non serve più o meno alla stessa cosa? Vuole eliminare la “ragazza in fiamme”, la famosa “Ghiandaia Imitatrice”, solo per stroncare la speranza e per dare un esempio a chi osa opporsi a lui. Tutto qui. Noi siamo...sacrificabili. Purché raggiunga il suo scopo.- disse Finnick alzando lo sguardo verso il cielo per poi riportarlo sul mare.

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Capitolo 2
*** Kyle Jones ***


Il mare, calmo fino a poco fa, cominciava ad agitarsi formando sempre più onde. Niente di preoccupante: da piatto come una tavola, ora sembra più un prato con i fili d’erba mossi dal vento. Il riflesso della luna ondeggiava e si disgregava in strisce argentee. La bianca spuma vaporosa era in netto contrasto con il blu scuro dell’acqua.
-Bene... Ora siamo arrivati ad un argomento bello delicato.- disse Johanna sospirando.
-Mi stai dicendo che quello di cui mi hai parlato fin’ora non lo era?- chiese Finnick alzando un sopracciglio con aria perplessa.
-Forse ma... Beh, qui si parla anche di te. Più o meno... – gli spiegò la ragazza alzando gli occhi verso il cielo trapuntato di stelle.
-Ah, ma allora mi interessa!- esclamò lui sorridendo.
-Come vuoi tu, per me non fa alcuna differenza.-
 
 
Il fruscio dei rami scossi dal vento, aveva da sempre il potere di tranquillizzarla. Le piaceva ascoltare quel suono tipico del suo distretto, sentire quel profumo di resina e lavanda. Non viveva più nella casa che era stata della sua famiglia, sul confine est del bosco. Ora abitava nel villaggio dei Vincitori, riservato a chi, come lei, era sopravvissuto agli Hunger Games. Non erano certo in molti a vivere in quelle case lussuosissime e con tutti i comfort possibili nel suo distretto. Ma almeno non stavano messi come nel dodici, in cui era rimasto un solo vincitore ancora in vita. Non che a Johanna importasse molto del vicinato, ovvio. Solo uno contava qualcosa per lei: Blight, quello che fu il suo mentore durante i suoi Hunger Games.
In quel momento era seduta sotto il portico di casa sua, guardando il tramonto attraverso le chiome dei pini che circondavano la villa. L’allertò un rumore di rametti spezzati proveniente dalla schiera di tronchi. Sorrise quasi senza rendersene conto. Afferrò una pigna, caduta lì vicino, con finta noncuranza e cominciò a rigirarsela tra le mani. Quando fu convinta che il suo visitatore non sospettasse nulla delle sue intenzioni, la lanciò verso gli alberi con un movimento veloce del braccio. Dal bosco provenne una sonora imprecazione e subito dopo una risata soffocata. Dalla massa di pini, sbucò un ragazzo, intento nell’operazione di togliersi di dosso aghi e foglie. Era alto e robusto con un bel fisico modellato dall’esercizio con l’ascia. Aveva un bel viso, incorniciato da folti capelli color castano scuro che gli sfioravano appena la linea della mascella. I suo occhi dorati trasmettevano alla giovane un senso di sicurezza e pace, mentre il suo sorriso un’allegria unica. Si chiamava Kyle ed aveva solo un anno più di lei.
-Fai più rumore tu di uno orso Grizzly indemoniato.- lo canzonò Johanna alzandosi in piedi.
-E tu sei più fuori di un balcone.- le rispose lui a tono, dirigendosi verso di lei.
Appena lui si fu avvicinato a sufficienza, la ragazza si tuffò tra le sue braccia gettandogli le braccia al collo.
-Vedo che ti fa piacere la mia visita in fondo.- le sussurrò lui all’orecchio.
Lei si lasciò ricadere a terra con un tonfo leggero e lo guardo dal basso verso l’alto con aria di sfida.
-Lascia che ti mostri quanto.- mormorò scoprendo i denti in quello che doveva sembrare un ringhio.
Poi si alzò sulle punte dei piedi e gli stampò un tenero bacio sulle labbra. Subito dopo, si voltò ed entrò nell’abitazione, lasciandosi la porta aperta alle spalle. Il ragazzo la seguì a ruota, premurandosi di chiudere l’uscio.
Erano passati quattro anni da quando aveva vinto gli Hunger Games. Aveva conosciuto Kyle due anni fa. Precisamente nel bosco doveva andava a martoriare gli alberi, pur di sfogare in qualche modo la sua rabbia repressa. Anche lui usava lo stesso sistema e da lì avevano cominciato a conoscersi, fino a che non erano diventati amici. Solo dopo un anno di chiacchierate, si erano resi conto di essere qualcosa di più che semplici amici.
Johanna si era accomodata sul divano del salone, proprio davanti al camino che però era ancora spento. Prima di raggiungerla, il ragazzo accese il fuoco, consapevole che da li a pochi minuti si sarebbe fatto buio. Ovviamente sarebbe stato più semplice accendere la luce, ma la ragazza preferiva il crepitare delle fiamme e quel lieve tepore che da esse proveniva.
-E’ domani.- disse Kyle sedendosi affianco a Johanna.
-Vorrei dirti che è la tua ultima Mietitura e che non toccherà a te, sai quanto vorrei farlo. Ma è stupido ed inutile.- gli rispose lei guardandolo dritto negli occhi e tirando le gambe sul divano.
-Lo so come la pensi.- mormorò lui abbassando lo sguardo, non riuscendo a reggere quello di lei.
-Kyle, posso dirti una cosa però.-  cominciò la vincitrice alzandogli il viso con un tocco leggero della mano. –Che se uscirà il tuo nome, ti farò da mentore e farò di tutti per farti uscire vivo dall’Arena.- continuò con sguardo deciso. –Qualsiasi cosa, lo giuro.- concluse baciandolo dolcemente.
 
La mattina dopo, accade proprio ciò che Johanna temeva: Kyle divenne il tributo maschio del Distretto 7.
E lei mantenne la sua promessa. Chiese a Blight di potersi occupare del tributo maschio quell’anno. Lui non ebbe nulla da ridire e la ragazza lo ringraziò con lo sguardo. Lui sapeva che lei nutriva un sentimento particolare per quel giovane: era diventato le sue radici, ciò che le teneva in piedi e le permetteva di non crollare.
Alla sfilata dei carri fece una bella figura, anche se vestito da albero, sorridendo a tutti e salutando a destra e a manca. Durante la sezione di allenamento, seguì il consiglio del suo mentore: non mostrare quanto in realtà fosse bravo con l’ascia. La usò solo una volta durante i quattro giorni, tutto il resto del tempo lo impiegò ad imparare e migliorare le tecniche di sopravvivenza. Alla fine, gli strateghi gli diedero un soddisfacente nove che fece salire le aspettative nei suoi confronti. Johanna avrebbe preferito un otto: più si ha un punteggio alto, più è semplice essere presi di mira dai Favoriti. In effetti, il punteggio ideale per non farsi notare sarebbe sette, o al massimo otto. In questo modo, i Favoriti non l’avrebbero visto come un rivale a tutti gli effetti, ma nemmeno come un agnellino mandato al macello. Kyle invece sembrava quasi euforico, e ciò non fece altro che far salire l’ansia alla ragazza. Alle interviste fece veramente furore, se lo immaginava in fondo. Scherzò con Ceaser, parlò del suo distretto, di come era rimasto orfano e svelò che era motivato a tornare a casa per via di una ragazza. Prima di salutarlo, il maestro di cerimonie di Capitol City, gli augurò buon fortuna con la sua “fanciulla”. A quel punto a Johanna scappò una risata tra il compiaciuto e l’isterico.
 
Ormai era arrivato il momento di entrare nell’Arena, il vero inizio dei Giochi.
Johanna riuscì ad entrare di nascosto nella camera di lancio di Kyle, dove gli ripetè per l’ultima volta di non andare verso la Cornucopia ma di afferrare lo zaino più vicino a lui e scappare. Alla fine il ragazzo la mise a tacere con un bacio da togliere il respiro. La ragazza assaporò con quel momento con tutta sé stessa: il suo profumo della sua pelle, i suo capelli arruffati, il battito del suo cuore, il colore delle sue iridi e il sapore delle sue labbra. C’era una possibilità su ventiquattro che si sarebbero rivisti. Quando si separarono, mancavo solo dieci secondi al lancio, per cui il tributo si affrettò ad entrare nel tubo. La mentore poggiò una mano sul vetro freddo, appannandolo col suo respiro.
-Farò di tutto per vincere, te lo prometto.- disse lui attraverso la lastra che li separava.
-Ti manderò più aiuto possibile.- lo rassicurò lei, cominciando a sentire le lacrime pizzicarle gli occhi.
-Ti amo Johanna Mason.- le mormorò prima di cominciare a salire verso l’altro.
-Ti amo anch’io Kyle Jones.- sussurrò lei guardandolo sparire e iniziando a piangere.
Mantennero entrambi le loro promesse. Ma non bastò. Quell’edizione avrebbe avuto un altro vincitore.
 
 
L’unico rumore era quello delle onde che s’infrangevano sulla spiaggia. L’acqua tiepida raggiunse i due ragazzi seduti sul bagnasciuga che però non si mossero.
-Quindi si chiamava Kyle.- mormorò Finnick puntando lo sguardo verso il mare punteggiato dal riflesso delle stelle.
-Già. Te lo ricordi?- gli chiese la ragazza con una punta di malcelato rancore nella voce.
-Me li ricordo tutti. Quelli che ho ucciso io almeno.- rispose lui, mentre gli tornavano in mente quegli interminabili giorni nell’Arena.
-E’ morto il dodicesimo giorno. O sarebbe meglio dire che l’hai ucciso, il dodicesimo giorno.- puntualizzò Johanna.
-Io non volevo…- cominciò il ragazzo con voce incerta.
-Tu non volevi?! Ma fammi il piacere!- esclamò lei interrompendolo a metà frase. –Io ti ho odiato e forse una parte di me ti odia ancora, non è giustificandoti che cambierai le cose.- gli continuò lei, sentendo la prima lacrima scorrerle sul viso.
-Lo sapevo che sicuramente qualcuno avrebbe sofferto per la sua morte, ma non potevo morire. Non avevo scelta: la sua vita o la mia. E tu lo sai bene.- cercò di spiegarle lui addolcendo il tono della voce.
-Basta! Non ti voglio ascoltare.- gli urlò cercando di non singhiozzare. Odiava piangere.
-Johanna, ti prego. Voglio solo chiederti di perdonarmi. Ti prego.- la supplicò Finnick con gli occhi lucidi di lacrime trattenute.
-Mi dispiace. Non ero venuta qui per discutere con te.- sussurrò lei cercando di sorridergli.
E non c’era cosa più vera. La ragazza non aveva nessun’intenzione di farlo soffrire, anche perché questo faceva star male anche lei. Anche se forse una parte di lei lo odiava ancora, l’altra parte provava esattamente il sentimento opposto. Per questo gli dava fastidio saperlo ogni notte con una donna diversa, per questo che saperlo innamorata di Annie Cresta la uccideva.
Lui l’abbracciò di slancio, senza pensarci. Johanna sentì il suo respiro irregolare sulla pelle sensibile del collo, il suo profumo di mare e sabbia, la consistenza dei muscoli del suo petto nudo, il battito del suo cuore leggermente accelerato. E non poté che bearsene fino a che lui non si staccò lentamente da lei.
-Mi ha perdonato quindi?- le domandò lui guardandola dritta negli occhi verdi.
-Sì Finnick Odair, ti ho perdonato.- le rispose lei lanciandogli l’ennesimo pugno di sabbia e scoppiando a ridere.
-E che diamine! E’ già la terza volta!- si lamentò lui, per poi essere contagiato dalla risata della ragazza.
 

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Capitolo 3
*** The First Met ***


Il mare si stava calmando di nuovo, sotto lo sguardo dei due ragazzi seduti a riva. La luna e le stelle splendevano fulgide sullo sfondo color ossidiana del cielo. L’acqua si faceva pian piano più calda, grazie al calore accumulato durante le ore del giorno.
-Ma il mare fa sempre così?- domandò Johanna smettendo definitivamente di ridere.
-Così come?- le chiese Finnick un po’ perplesso.
-Prima mosso, poi calmo...- gli rispose lei guardando le piccole onde che si infrangevano sulla spiaggia, solo ombre di quelle di prima.
-Beh sì. È nella sua natura.- disse lui alzando le spalle. –Ed è bello anche per questo. Almeno secondo me.- conclusse sorridendo.
-Capriccioso. Capisco perché alcuni ne hanno paura.- rifletté ad alta voce la ragazza. -Io no, sia chiaro.- si affrettò ad aggiungere, raccogliendo una conchiglia trasportata lì dalla corrente.
-Comunque... Dov’eravamo rimasti?- la incalzò Finnick, sempre più curioso di sapere altro sull’emblematica amica.
-Diciamo che non nulla da dirti se non cose che già sai.- taglio corto lei abbassando lo sguardo.
-Ma come! Tutto qua?- esclamò un po’ deluso.
-E va bene, ma non te la prendere.- sbuffò lei arrendendosi.
-Prendermela? Perché me la dovrei prendere?- domandò il ragazzo.
-Zitto e fammi parlare, se ti interessa.- lo rimproverò Johanna lanciandogli un’occhiataccia.
 
 
Erano passati già tre anni dalla morte di Kyle e Johanna non era ancora riuscita a superarla. Ogni giorno doveva sfogarsi facendo a pezzi qualcosa, prendendosela con il mondo intero. Lei lo amava, lo amava così tanto. E lui amava lei. Cosa c’era di sbagliato? Perché Capitol City le aveva portato via anche lui? Perché si accaniva con lei?
Erano queste le domande che la ragazza si poneva senza sosta, ogni minuto del giorno, ogni giorno dell’anno. Eppure non c’era una risposta, lo sapeva.
Questo però le era servito a prendere una decisione: non si sarebbe più affezionata a nessuno. Non avrebbe più corso il rischio di soffrire così tanto, consapevole che non esisteva nessun rimedio per quel dolore.
Aveva continuato a fare la mentore anche negli anni successivi, ma era inevitabilmente cambiata e se ne rendeva conto anche Blight.
Quel giorno, era un giorno particolare: era “Quel” giorno. Il dodicesimo giorno degli Hunger Games, l’anniversario della morte di Kyle. Erano proprio tre anni precisi.
Johanna si vestì, afferrò la sua ascia e uscì dell’appartamento al settimo piano che occupava durante l’intera durata di quei maledetti Giochi. Prese l’ascensore e scese fino al piano terra, per poi dirigersi verso la sala dell’addestramento dei Tributi. Ovviamente ora era vuota e spesso la ragazza la usava per allenarsi, o meglio, per sfogarsi. Solo Blight ne era al corrente, visto che l’aveva vista più di una volta fare a pezzi manichini in quella sala.
La ragazza si diresse con passo deciso verso uno dei tanti fantocci, pronta a compiere la sua opera di distruzione. Stava per sferrare il primo colpo, quando si accorse di non essere sola. Appoggiato alla parete di fronte a lei, c’era un ragazzo. Alto, atletico, ben fatto, muscoli definiti e scattanti: un fisico da far invidia alle statue degli dei greci in pratica. Portava un semplice paio dei pantaloni neri e una maglietta bianca. Aveva i capelli rosso rame e un viso così bello da mettere in soggezione. Sulla carnagione chiara risaltavano due profondi occhi verde intenso, che in quel momento erano puntati su di lei. La guardava senza muoversi o dire nulla. A quattordici anni la sua era una bellezza ancora acerba, quei tre anni l’avevano reso definitivamente il ragazzo più bello di Panem.
Finnick Odair, Distretto Quattro. Vincitore dei 64° Hunger Games.
Gli stessi Hunger Games di Kyle.
Era stato proprio lui ad ucciderlo. L’aveva catturato con una rete e poi trafitto con un tridente, il paracadute più costoso mai visto ai Giochi. Era solo da un anno che il Presidente Snow aveva potuto mettere le mani su di lui, ma si diceva che avesse già trovato il mondo da farlo fruttare una fortuna. In fondo, non era poi così difficile da immaginare.
-Johanna Mason giusto?- disse ad un tratto il ragazzo sorridendole.
-Non mi ammalierai con un sorriso Odair.- gli rispose lei dando finalmente il colpo al manichino.
-Non voglio ammaliarti, solo conoscerti.- affermò lui senza smettere di sorridere. –Per ora almeno.- aggiunse staccandosi dal muro.
Lei lo ignorò, mettendo sempre maggior forza nei suoi colpi. I tonfi rimbombavano nell’intera sala.
-Allora, che ci fai qui?- le chiese lui che ormai l’aveva raggiunta.
-A te che importa?- lo liquidò lei mozzando la testa del fantoccio, che rotolò fino a piedi di Finnick.
-In verità nulla, era una domanda come un’altra.- disse scavalcando il pezzo del manichino.
Johanna si fermò, abbassò l’ascia e gli lanciò uno sguardo di fuoco. Già aveva deciso che non lo sopportava.
-Senti, si può sapere che diamine vuoi da me?- sbottò continuando a guardarlo dritto negli occhi.
Lui non abbassò lo sguardo, dimostrando di essere in grado di sostenere quello della ragazza. Poi, inaspettatamente, scoppiò a ridere. La giovane si spazientì e cominciò a digrignare i denti dall’irritazione.
-Che hai da ridere?- esclamò lei scocciata e offesa allo stesso tempo.
-Niente. E’ evidente che non mi sopporti, solo che non riesco proprio a capire il motivo.- le spiegò lui smettendo di ridere, ma mantenendo un alone di sorriso sulle labbra. -Magari ci siamo già incontrati e non  me lo ricordo...  E’ così?- le domandò inclinando la testa di lato.
-No, non è così.- lo corresse lei. –Però su una cosa hai ragione: non ti sopporto.- aggiunse rialzando l’ascia, pronta a colpire di nuovo. –Perciò, sparisci.- concluse mozzando il braccio destro al fantoccio.
-Come siamo acidi di prima mattina...- la provocò Finncik ridacchiando. –Comunque tranquilla, tolgo il disturbo.-
-Grazie al cielo!- mormorò lei ignorandolo mentre si avviava verso la porta.
-Alla prossima Mason.- la salutò lui mentre usciva.
-Alla prossima? A mai più rivederci semmai, Odair.-
 
Dopo l’incontro con Finnick, si accorse che sfogarsi non le serviva a nulla. Quel sorriso le si era impresso in mente, e più ci pensava, più le veniva il nervoso. La cosa che la dava più fastidio, era che se non fosse stato per lui, ora Kyle sarebbe ancora vivo. E avrebbe potuto godere del suo sorriso, non di quello del suo assassino. La rabbia straripava come un fiume in piena, perciò decise di tornare al settimo piano. Magari parlare con Blight le sarebbe stato utile, anche se ne dubitava fortemente.
Appena entrata si buttò a peso morto sul lungo divano verde pallido al centro del salone. I Tributi del Distretto Sette erano morti entrambi nel bagno di sangue, per cui lei e Blight non avevano più nulla da fare. Eppure erano costretti a rimanere a Capitol City comunque. Ora che ci pensava, anche il Tributo del Quattro era morto. Il primo tributo di Odair... Mentre pensava a come potesse sentirsi Finncik ad essere mentore per la prima volta, sentì chiaramente la porta che si chiudeva. Bene, finalmente era tornato quello che era stato il suo, di mentore.
-Blight?- lo chiamò tirandosi su a sedere.
-Sei già tornata?- chiese lui sorpreso, accomodandosi su una poltrona dello stesso verde del divano.
-C’è stato un piccolo imprevisto…- cominciò lei con voce un po’ sommessa.
-E’ successo qualcosa di grave pulce?- domandò lui preoccupato.
-No. E quante volte te lo devo dire non chiamarmi così?- sbuffò lei, anche se sotto sotto le faceva piacere.
-Un’altra ancora... Pulce.- le rispose lui ridacchiando.
La ragazza gli lanciò un cuscino dritto in faccia, che lui non fece in tempo ad intercettare.
-Comunque, oggi l’ho visto.- riprese lei tornando seria.
-Visto cosa?- disse l’uomo in attesa di un qualche chiarimento.
-Semmai chi.- lo corresse lei annuendo.
-Fatto sta che se non me lo dici, io non so di chi tu stia parlando Johanna.- spiegò lui sospirando.
-Finnick Odair.- disse lei in tono asciutto.
-Lo sapevi che prima o poi avresti dovuto conoscerlo, no?- minimizzò Blight cercando di sorriderle. –Non è così male, ci ho parlato un paio di volte dall’inizio degli Hunger Games.- aggiunse annuendo.
-Non è così male?!- sbraitò la ragazza. –Ha ucciso Kyle!- esclamò indignata.
-Non aveva altra scelta Johanna. Nessuno a scelta nell’Arena.- cercò di farla ragionare l’uomo.
-Al diavolo! Io lo odio!- sbottò irritata, alzando la voce.
 
 
-Lo sapevo io che c’era una qualche ragione!- la interrupe Finncik schioccando le dita.
-Mi vorresti spiegare che diamine stai dicendo?- gli domandò Johanna scocciata a causa dell’interruzione.
-Mi sono sempre chiesto perché all’inizio mi trattavi così male.- le spiegò lui annuendo. –Una volta sono arrivato addirittura ad ipotizzare che ti piacessi. Assurdo vero?- aggiunse per poi sorridere passandosi una mano tra i capelli.
-Ma fammi il piacere Odair. Ti sopravvaluti.- affermò lei tirandogli di nuovo della sabbia umida addosso.
-Si corre questo rischio quando si è adulati da un’intera città.- ribatté lui alzando le spalle.




Angolino dell'autrice schizzata
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Prima di tutto, grazie a tutti voi che leggete questa modestissima storia.
Spero tanto che vi piaccia. c:
Secondo poi grazie a chi ha recensito il primo capitolo e chi ha inserito la storia tra le seguite o ricordate. 
Vi adoro, siete la forza che mi spinge a continuare. *^*
In terzo luogo, mi scuso per i possibili errori e per la scarsa lunghezza dei capitoli.
So che a molti piacciono più lunghi ma a me vengono così. D:
Detto ciò, vi ringrazio nuovamente e vi invito a farmi sapere cosa ne pensate (tramite un messaggio o una recensione, come preferite voi insomma).
Baci, vostra Nihal_Ainwen <3

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Capitolo 4
*** Annie Cresta, Poor Mad Girl ***


Il mare era diventato veramente mosso e tirava un vento molto forte, sebbene non fosse freddo. Le onde erano alte anche un metro quando arrivavano alla riva e gli schizzi raggiungevano Johanna e Finnick, seduti sul balconcino della casa di quest’ultimo. Si erano ovviamente dovuti spostare della spiaggia, non appena era cominciata la bufera. Fecero appena in tempo a ripiegare sotto il portico del balcone che cominciò a piovere a dirotto. E pensare che quando Johanna era arrivata, il mare era piatto come una tavola!
-Ma è insopportabile vivere così!- esclamò lei osservando lo scrosciare della pioggia.
-A me piace il mare mosso.- la informò il ragazzo.
Detto questo sporse una mano oltre il parapetto del balcone, una semplice ringhiera bianca che arrivava a malapena sotto il seno della ragazza. In realtà, tra la sabbia della spiaggia e loro, c’era meno di mezzo metro. Alla giovane quella casa sembrava parecchio strana. Era costruita a nemmeno un kilometro dal mare, incastonata in una baia alla quale si poteva accedere solo dal balcone dove si trovavano ora. Oltre che la villa, si poteva dire che Finnick avesse vinto anche un pezzo di mare.
-Vado a prendere un paio di sedie dentro.- la informò il ragazzo mentre ritraeva la mano bagnata. –Se vuoi puoi aspettarmi qua.- aggiunse avviandosi vero la porta-finestra fatta di vetro.
Proprio mentre Johanna stava per rispondergli, a largo un fulmine colpì l’acqua e illuminò a giorno la caletta e la casa. Alla ragazza scappò un grido, più di sorpresa che di paura. Finnick invece scoppiò a ridere.
-Non ho avuto paura.- precisò la ragazza mettendosi le mani sui fianchi.
-Diciamo che ci credo.- rispose lui continuando a ridacchiare. -Comunque, il tuo urlo non ha guastato lo spettacolo.- concluse annuendo.
-Lo spettacolo?! Quella cosa era degna di un film horror!- esclamò lei spalancando gli occhi.
-Allora vedi che hai avuto paura?- la canzonò lui voltandosi ed entrando nell’abitazione.
Lei gli fece una linguaccia, ben contenta che lui fosse di spalle e che non potesse vederla. Poi puntò di nuovo lo sguardo sul paesaggio e dovette ammettere con sé stessa che lo trovava abbastanza inquietante. Quando senti la porta-finestra scorrere, non si voltò sicura che fosse Finnick. Le piaceva far credere alle persone di non essersi accorta della loro presenza. Rimaneva sempre divertita dalla loro reazione quando si rendevano conto che li aveva presi in giro. Questa volta però aveva preso un abbaglio.
-Affascinante vero?- domandò una delicata voce femminile alle sue spalle.
Johanna si voltò di scatto, pensando che fosse una delle tante oche giulive che arrivavano da Capitol City. Possibile che nemmeno la notte prima di tornare in quell’inferno gli lasciassero tregua?
Invece si sbagliava, si sbagliava di grosso.
Davanti a lei, c’era una ragazza che sarebbe potuta arrivare solo dal profondo degli abissi marini. Magra, pallida, scalza e con i capelli aggrovigliati che le ricadevano sulle spalle. Aveva addosso solo un leggerissimo vestito celeste che le arrivava poco sopra le ginocchia. I capelli neri incorniciavano un viso dai lineamenti delicati quanto lo era la sua voce. I grandi occhi verdi era puntati su di lei, ma aveva uno sguardo assente, come se potesse vederle attraverso. Ad un tratto inclinò la testa di lato e fu come se avesse spezzato una sorta di incantesimo. Johanna la conosceva, se così si poteva dire.
Era Annie Cresta, vincitrice dei settantesimi Hunger Games.
-Io direi inquietante,- le rispose. –ma sono punti di vista.- aggiunse sorridendole.
-A me piacciono le tempeste. Credo che mi rispecchino.- affermò lei ricambiando timidamente il sorriso.
-Comunque... Io sono Johanna Mason.- si presentò l’altra ragazza.
Si erano già viste alcune volte a Capitol City in occasione dei Giochi,  ma dubitava che Annie potesse ricordarsi di lei.
-Oh, lo so. Mi ricordo di te. Ti vesti spesso di verde.- la sorprese annuendo. –Ti piace il verde?- le chiese subito dopo.
-Beh, diciamo di sì. Mi ricorda il mio distretto più che altro.- le spiegò.
In verità era un pensiero formulato al momento, visto che non ci aveva mai pensato prima. Nessuno l’aveva mai notato, nemmeno lei stessa.
Mentre ancora rifletteva sul motivo per cui non se n’era mai accorta, Finnick comparve alle spalle dell’altra ragazza, trascinando malamente due sedie.
-E tu che ci fai in piedi?- esclamò sorpreso rivolgendosi ad Annie.
-Mi ha svegliato la pioggia.- rispose lei voltandosi.
Johanna non poté far a meno di notare, come bastasse la sola presenza di Annie ad accendere nel ragazzo qualcosa che senza di lei nemmeno esisteva. Una punta di invidia le pizzicò la mente, ma si affrettò a sopprimerla.
-Ora me ne torno su e vi lascio parlare.- aggiunse la ragazza, alzandosi sulle punte dei piedi per baciarlo sulle labbra.
Era un bacio leggero, delicato. Fragile quanto lei.
Prima di entrare, si voltò verso l’altra ragazza e le rivolse un cenno di saluto con la mano. Johanna ricambiò sorridendo e la guardò salire le scale con la mano poggiata sul corrimano.
Quando rimasero soli, il ragazzo porto le sedie fuori e non appena le lasciò andare, la ragazza ci si abbandonò a peso morto. Non era certo famosa per la sua delicatezza e nemmeno per la sua grazia, anche se sapeva essere agile e silenziosa come un giaguaro a caccia.
-Allora, dov’eravamo rimasti?- le domandò Finnick accomodandosi a sua volta sulla sedia rimasta libera.
 
 
Johanna era seduta sugli spalti insieme a tutti gli altri mentori di quell’anno. Da una parte aveva Haymitch Abernathy, l’unico mentore dei tributi del Distretto 12, mentre dall’altra c’era Finnick. Alla fine, dopo un primo periodo in cui la ragazza l’aveva trattato veramente male, aveva cominciato a piacerle. Era spiritoso, autocritico ma soprattutto non voleva niente da lei se non che fosse sé stessa. E questa sì che era una cosa rara, nei confronti di una persona scontrosa e irritabile come lei. Però c’era qualcosa in lui che proprio non andava. Quella sera era lampante, ma era stato così per tutta la durata di quell’edizione dei Giochi. Non tanto davanti alle telecamere, ma quando era sicuro di non essere osservato da Capitol, si comportava in modo strano. Era nervoso, come se qualcosa gli desse il tormento perennemente. E non era da lui, proprio no.
Mentre Johanna era persa nei suoi pensieri, Caeser Flickerman aveva presentato la vincitrice dei settantesimi Hunger Games. Era la ragazza del Quattro, il tributo di Finnick. Aveva vinto grazie all’allagamento dall’Arena e si dicesse che fosse opera proprio del suo mentore. Solo che non avevano mai trasmesso il momento della sua vittoria, quando erano morti gli ultimi due tributi che come lei non erano affogati. Era anche per questo che la ragazza non si spiegava il comportamento dell’amico. Insomma, era il primo tributo che era riuscito a far vincere! Avrebbe dovuto essere contentissimo del suo lavoro.
La ragazza si chiamava Annie Cresta e aveva quindici anni. Indossava un splendido vestito che ricordava molto il mare del distretto da cui proveniva. Lo strascico e l’orlo dell’ampia gonna erano di un blu scurissimo che sfumava verso l’alto, fino ad arrivare ad un celestino quasi bianco intorno alla scollatura. L’intero abito era punteggiato da dei piccoli brillantini luccicanti, che si avvolgevano a spirale anche sul braccio destro. Aveva i capelli semiraccolti, acconciati in morbidi boccoli neri. Sul suo capo spiccava una corona argentea, simbolo della sua vittoria. Intorno all’occhio sinistro erano stati applicati altri brillantini celesti, in tinta con il delicato ombretto azzurro.
Quella ragazza era davvero stupenda.
C’era solo una cosa che stonava con tutta quelle bellezza: lo sguardo.
Non guardava Caesar, non sorrideva al pubblico, non faceva guizzare gli occhi tra la gente di Capitol che l’acclamava. Era fisso nel vuoto, spento, vacuo.
Quando il maestro di cerimonie fece partire il filmato che conteneva i momenti salienti dei suoi Giochi, qualcosa si accese nel suo sguardo. Ma non era certo quello che Johanna si sarebbe aspettata. Alcuni tributi, riguardando i loro Hunger Games, assumevano un’aria fiera, altri spaesata ma la maggior parte esibivano un falso sorriso di circostanza.
Invece Annie sembrava terrorizzata, come se qualcuno le camminasse davanti senza più la testa attaccata al collo. E mentre Johanna stava per chiedere a Finnick cose aveva il suo tributo, dal palco provenne un urlo tremendo, da mettere i brividi. La ragazza spalancò gli occhi sorpresa e si voltò, trovandosi davanti uno spettacolo orribile. La vincitrice aveva la mani poggiate sopra le orecchie e scuoteva furiosamente la testa, distruggendo la complicata acconciatura. Aveva serrato gli occhi e continuava ad urlare. Caesar era sconcertato, così come tutto il pubblico. Quando la ragazza tornò a girarsi verso l’amico, sempre più decisa ad avere spiegazione, si trovò davanti un’altra persona. Sul suo volto era dipinta l’espressione più sofferente che avesse mai visto, una maschera di dolore e rassegnazione. Intanto le urla continuavano: nessuno riusciva a far smettere Annie di gridare.
Finnick scattò in piedi senza alcun preavviso. Johanna dovette spostarsi all’indietro con un movimento repentino e sbatté addosso ad Haymitch che si rovesciò il liquore sulla camicia. Il bellissimo dio del mare acclamato da tutta Capitol, si fiondò giù per la scale ad una velocità impressionante. La ragazza lo seguì sconcertata con lo sguardo finché non sparì totalmente dalla sua visuale. Pochi minuti dopo, il ragazzo ricomparve sul palco e si avvicinò al suo tributo. Si chinò davanti a lei e le prese il viso tra le mani per cercare di calmarla. Le stava dicendo qualcosa a voce bassissima, tanto che i microfoni non riuscivano ad amplificarla. Quando si smise di parlare, Annie annuì e gli gettò le braccia al collo cominciando a singhiozzare sul suo petto. Lui la sollevò di peso da terra, dove si era inginocchiata durante il delirio, e la prese in braccio cullandola. E quella fu l’ultima immagine che Panem ebbe della vincitrice fino al suo Tour della Vittoria.
Ma le voci già giravano e la conferma sarebbe arrivata presto.
Annie Cresta era diventata pazza.
 

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