La Letterina a Babbo Natale

di Black Feather
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

Mio padre guida da far venire i nervi. Capisco che adotta questo ritmo per via dei trenta centimetri di neve là fuori, però mi necessita arrivare in paese al più presto. «Andiamo, papà, non puoi sbrigarti?» lo esorto. Tuttavia sembra non avermi sentito, così ripeto: «Papà, ti puoi sbrigare?»
Silenzio.
Dico ancora una volta: «Papà, ti puoi sbrigare?» Ma sembra davvero concentrato sulla guida. Delle goccioline di sudore gli colano lungo il collo. Sbuffo, rassegnato all’idea che finché la strada non sarà più sgombra di neve, lui continuerà a ignorarmi. Volgo la sguardo verso il finestrino. La strada che stiamo percorrendo si arrampica intorno a una collina, e vista dall’alto somiglierebbe a una vena di cioccolato che pervade un enorme spruzzo di panna. Conduce in paese ed è lì che siamo diretti. Vedo i fianchi innevati della collina scorrere lenti oltre il vetro, e io detesto tutto ciò che è lento; lo testimonia l’eccidio di lumache da me provocato due anni fa, quando avevo cinque anni.
Così guardo altrove. Lascio che il mio sguardo scorra verso il basso, lungo i vasti campi innevati che si stendono ai piedi della collina. Poi lo lascio indugiare sul quartiere di periferia in cui abito, arroccato su un piccolo rialzamento in mezzo alla campagna.
Tutto questo è davvero idilliaco, ma ora non me ne può fottere di meno. Mi piace ammirare il paesaggio che mi circonda, e mi fa piacere che tu, sì, hai capito bene, stronzo!, proprio tu, ti sia figurato la fisionomia dell’ambientazione di questa storia del cazzo, ma credimi: adesso sono preso da altri pensieri. Quella che sto stringendo in mano è la letterina, la letterina per Babbo Natale, e nella mia mente adesso c’è posto solo per questa. Ma pare che quello stronzo dell’Autore non lo capisca. Non avendo nulla di meglio da fare o inventare, evidentemente, ha voluto che questa storia fosse raccontata dal mio punto di vista, causandomi non poco fastidio. E vaffanculo!
Be’, almeno questa mia sfuriata è servita a qualcosa, grazie al cielo: è passato qualche minuto e adesso io e mio padre stiamo finalmente attraversando un tratto di strada ricoperto da una pellicola di neve liquida, segno che ci stiamo avvicinando alla nostra meta, e quel cerebroleso del mio vecchio accelera.
Una scarica di eccitazione attraversa il mio corpo. Mi metto a saltellare sul sedile mordendomi il labbro e stringo convulsamente la carta che ho in mano.
«Ehi, Ni’, sei contento, finalmente spedirai la letterina» mio padre si gira con un sorriso ebete stampato in faccia. Gli rispondo con una smorfia di disgusto.
«ATTENTO!»
Quell’idiota fa appena in tempo a voltarsi e a riprendere il controllo dell’automobile prima che questa vada a sfondare la recisione che cinge la strada.
Tiro un sospiro di sollievo. Possibile che sia circondato da gente tanto idiota? Possibile che sia uscito da gente tanto idiota?
Per grazia di Gesù Cristo finalmente giungiamo in paese. Mio padre sta ancora guidando e, senza prendere in considerazione l’incidente in cui per poco non incappavamo, si volta verso di me ancora una volta, gestendo il volante con una sola mano – ma quale capra gli ha dato la patente? Mi fissa con occhi colmi di gioia. Gli rispondo con un cenno impertinente del mento. Minchia guaddi?
«Sai, Ni’, quest’anno ti sei comportato davvero bene, sono sicuro che Babbo Natale ti porterà il regalo che desideri!»
«Sì, mi sto sforzando di essere più buono. Anche se non ho mai capito cosa avessi fatto di male gli anni passati. Quel cazzo di obeso in rosso farà meglio a comportarsi bene questa volta, o giuro che lo vado a scovare fino in culo al mondo e lo ammazzo.»
«Già, hai proprio ragione. Davvero non capisco come mai non ti abbia elargito dei doni negli ultimi anni.» Elargito, tz! – ma dove ha imparato a parlare, quell’imbecille? «Oh guarda, siamo arrivati.» La sua voce è talmente sognante e languida da provocarmi il voltastomaco.
Oltre il finestrino c’è la piazza principale del paese, coperta da un vaporoso manto di neve.
Il papà sterza bruscamente. La macchina fa un giro su se stessa, invadendo la neve vergine della piazza, e io sbatto il naso contro il sedile davanti a me. Per quanto tenti di trattenermi, un paio di bestemmie mi sfugge dalle labbra, ma perlomeno risparmio Santa Claus. Con gli occhi ridotti a fessure per il dolore, scendo dalla macchina e sbatto la portiera. Le ruote hanno scavato solchi neri nella neve, scoprendo il cemento sottostante. Anche mio padre scende.
La piazza è deserta. Perfetto. Stringo di nuovo la letterina.
Sopra la mia testa si sviluppa un intreccio di tubi di un azzurro diafano, che serpeggiano verso l’alto e man mano si uniscono in un groviglio di budelli di vetro sempre più fitto. Questi tubi si innalzano fino a perdersi nell’immensità del cielo, come una versione esile e azzurra della torre di Rachele o quello che cazzo è. Davanti a me si trova quello che viene definito l’ufficio postale natalizio: una lunga schiera di cabine azzurre, disposte una accanto all’altra come l’avanguardia di un esercito. Da ciascuna cabina parte uno di quei tubi azzurri che poi insieme salgono, si uniscono, si aggrovigliano e spariscono nel cielo. Proprio sotto l’attaccatura di ciascun tubo scorre una lunga fessura orizzontale.
Saltellando come un coglione mi avvio verso la cabina più vicina a me. Le mie gambe affondano nella neve, ma nonostante ciò proseguo piuttosto spedito. Sento un formicolio sulla nuca. Mi giro e realizzo che lo sguardo compiaciuto di mio padre grava su di me. Apprezzo che quell’uomo sia fiero di suo figlio, ma non dovrebbe guardarmi con occhi carichi d’orgoglio proprio nei momenti un cui cammino come una checca che ha esagerato col suo lavoro la sera prima.
La cabina postale è a pochi passi da me. Varco con irrequietezza la breve distanza che ci separa e allungo la mia mano guantata. Mi vedo balzare a rallentatore. Riesco a inserire la lettera nella stretta fessura al primo colpo.
Aspetto qualche istante lì fermo, ascoltando il rumoreggiare dei congegni all’interno della cabina. Poi un’ombra quadrata attraversa rapida il tubo, e io, con la mano a ripararmi la fronte, getto la testa all’indietro e la osservo sfrecciare in alto fin dove riesco a spingere lo sguardo.
Poi sento un peso che mi si posa sulla spalla. Mi giro e trovo mio padre con la mano sulla mia spalla. Sta seguendo con un dito il percorso della lettera attraverso il cielo, anche se ormai è sparita. Che cazzo di idiota!
«Ehi, possiamo anche tornare, adesso.» Gli schiocco le dita davanti al viso. Si riscuote, come trasalendo da una trance.
«Oh, sì, Ni’, andiamo.» E parte verso l’automobile. Lo seguo. Prima di montare, getto un’occhiata all’intreccio di tubi alle mie spalle. Non è che abbia paura o sia ansioso, certo che no, ma spero davvero che nulla vada storto e che la lettera arrivi al suo destinatario. Soprattutto, spero che l’obeso in rosso esaudisca il mio desiderio, quest’anno, che mi porti il regalo che gli ho chiesto. Lo spero per lui, è chiaro.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

 
   Saliamo in macchina e presto ci lasciamo il paese alle spalle. Impieghiamo un quarto d’ora per arrivare a casa. Mio padre rischia più volte di farci sfondare la recinzione che borda la strada intorno alla collina, e frena spesso lungo il percorso che attraverso i campi conduce a casa nostra. Ma questo almeno è comprensibile: le ruote sdrucciolano pericolosamente sull’asfalto ghiacciato, minacciando di spedirci fuori controllo e farci scivolare sulla strada come un dischetto da hockey. Alla fine giungiamo sani e salvi.
   Per tutto il viaggio mio padre non ha spiccicato una parola; in compenso, però, indossa un sorriso talmente ampio che sta per smagliargli le guance. Evidentemente il pensiero che suo figlio abbia spedito la letterina a Babbo Natale lo rende contento. Ciò rende molto più contento me che lui, in realtà, anche se io, per principio, non lo do a vedere. A dirla tutta, è dall’inizio del viaggio che mi sono trincerato sotto la mia solita espressione stizzita, che si è acutizzata sempre di più a ogni brusca frenata di mio padre e a ogni conseguente colluttazione del mio naso col sedile davanti me; posso vantarmi di aver sperimentato una trentina di infarti nel giro di quindici minuti, e di esserne uscito incolume ma parecchio incazzato.
   Ora ci troviamo davanti casa. Papà spegne l’auto e scendiamo. Quel sorriso languido indugia ancora sul suo viso. Sono invaso dalla voglia di mollargli un pugno e mandarglielo in frantumi, quel sorriso, insieme a tutti i denti retrostanti.
  «Ciaoooo!» Poco più avanti, la porta di casa si apre e mia madre si precipita fuori – deve aver udito il rombo del motore. Ci raggiunge balzando come una scema, e per poco non perde l’equilibrio; quando ormai è vicina a me spicca un salto un po’ troppo azzardato. Atterra con le gambe strombate e si aggrappa al mio giubbotto per evitare di scivolare sul ghiaccio, e per poco non mi trascina giù. Poi si raddrizza, esala un sospiro, sorride: le mancano tre denti, e i restanti sono uno verde e l’altro giallo. Uno spettacolo davvero indecoroso.
  Mi guardo intorno per accertarmi che nessuno abbia assistito alla scena di mia madre che è quasi caduta.
   Poi guardo di nuovo mia madre e vedo che lei sorride ancora, lanciando occhiate carezzevoli a mio padre, forse aspettandosi da lui un bacio sulla guancia. Il suo sorriso è così fastidioso che potrebbe uguagliare solo quello di mio padre. To’! Che sorpresa che siano sposati!
  No, sul serio, la vera sorpresa è che abbiano un figlio come me. Non avete idea di quanto sia frustrante essere un genio malefico nato da due sottosviluppati del genere.
   Mio padre si protende verso mia madre e le sfiora uno zigomo con le labbra. Lei sorride e arrossisce da vera sciocca, manco fosse una scolaretta. Poi il papà le cinge la vita con il braccio e prende a guidarla verso la porta di casa, che lei prima ha lasciato socchiusa nella sua tempestività. Mio padre sbircia al di sopra della sua spalla a guardarmi, facendomi cenno di seguirlo. Non appena si volta, alzo il dito medio contro la sua schiena, e poi per buona misura sbatto la mano al centro del braccio sollevando l’avambraccio. In realtà non so perché l’ho fatto. Mi andava e basta. Per un attimo sperimento una strana sensazione, come se qualcuno avesse osservato i mie movimento finora, ma svanisce subito.
   Alla fine varco la soglia di casa e mi sbatto dietro la porta. Il calore della casa ha subito un effetto corroborante sulla mia pelle congelata. Nonostante i miei innumerevoli strati di vestiti, ho sofferto il freddo là fuori. Mi tolgo i guanti e il giubbotto e lo lancio sull’attacca-abiti, sul quale si appende da solo. Sono un grande.
   Mentre i miei genitori si eclissano in cucina per preparare la cena, suppongo, io vado a sedermi in salotto accanto al focolare, attirato dalla fonte di calore come una falena verso la luce. Mi sistemo su una poltrona imbottita, con i braccioli le cui estremità si arrotolano su se stesse, e nel frattempo penso a quanto mi piaccia ascoltare il crepitare del fuoco. Stimola i miei istinti violenti. Mi ricorda i rumori dei videogiochi di guerra.
   D’un tratto mia madre irrompe nella stanza. Sono stato troppo ottimista a pensare che entrambi i miei genitori avrebbero cucinato. Afferra un’altra poltrona e si siede accanto a me.
  «Allora…» esordisce. Oh no! Per Dio, no! “Allora” annuncia una conversazione senza fine se a pronunciarlo è mia madre. Prima ancora che continui so già che mi torchierà su come sia andata la gita in paese. Stringo le mani intorno ai braccioli della mia poltrona e mi ci accomodo meglio, preparato all’imminente ondata di domande.
   Ma mia madre si blocca e le domande non vengono. Nel giro di un secondo, proprio davanti ai miei occhi, diventa rigida come una statua di gesso, le dita improvvisamente artigliate intorno ai braccioli della sua poltrona. Un istante più tardi, scivola giù e stramazza sul pavimento priva di sensi.
   Salto in piedi bruscamente; la mia poltrona gratta sulle mattonelle dietro di me e si schianta a terra. Osservo il corpo di mia madre, immobile sotto il mio sguardo. Lo stomaco mi si gela ed è come se le mie budella stessero precipitando nel vuoto. Mi guardo intorno, come a cercare un aiuto. Tento di urlare, ma non riesco ad articolare alcun suono. Le pareti della testa pulsano dolorosamente; mi scopro incapace di pensare.
  Ah-ah! Ci siete cascati, idioti! Vi ho preso per il culo! Tutta una bufala, mia madre non è morta, ma purtroppo è ancora qui davanti a me, seduta nella poltrona, viva e vegeta.
  Ritorno serio … a proposito, dov’ero rimasto? Ah, sì, certo, stavo per parlare del terzo grado sulla gita in paese cui mia madre era sul punto di sottopormi. Già.
   «Consegnata la letterina?» domanda nel più zuccheroso dei toni, stringendo gli occhi in due irritanti fessure.
    «Donna, parli come se ti stessi rivolgendo a un ritardato, ma mi occorre illuminarti: sta avvenendo l’esatto contrario!» Ma pare che quella scema non mi abbia capito davvero. Ciò dimostra la veridicità dell’ultima frase che ho pronunciato. Ché, io mica parlo a vanvera.
   «Sì, è andata bene», sospiro, la rassegnazione che trapela dalla voce.
  La mamma mi risponde con un sorriso carico di contentezza. Poveraccia, dopotutto è così scema che mi fa una gran pena.
  Vedo la prossima domanda formularsi nei movimenti delle sue labbra, ma per fortuna la porta della stanza si apre cigolando e papà entra. Ci raggiunge e si accomoda su un bracciolo della poltrona di mia madre. «Ho appena chiesto a Nicuccio come fosse andata la gita su in paese», spiega lei.
   “Nicuccio”? “Nicuccio”? Qualcuno mi trattenga, o giuro che le sputo in un occhio.
   Mio padre annuisce in direzione di mia madre e poi mi scruta con aria comprensiva. «Quest’anno non c’è ragione di credere che non avrai il tuo regalo, caro.»
   Sbuffo. Poi esplodo. «Porco cane, me l’hai già detto in macchina questo. Ma dico, con chi credi di parlare? Ho afferrato il concetto, cazzo! È inutile che continui a ribadirlo, anche perché so di per certo che stavolta il regalo me lo porterà, Babbo Natale! Non c’è bisogno che mi rassicuri ogni mezz’ora! E finiscila ‘na buona volta!»
  Entrambi i miei annuiscono con aria imbecille, e appaiono addirittura leggermente intimoriti. Proseguo, questa volta con tono più pacato: «Spero di averlo chiarito: non sono affatto preoccupato. Quest’anno avrò il mio regalo di sicuro, come tutti gli altri bambini! Non sono preoccupato, oh!» La fronte di mio padre si arriccia mente mi sorride in risposta. Mia madre dice: «Non devi essere preoccupato, sono certa che Babbo Natale ti porterà il regalo che hai chiesto. Non devi essere preoccupato», e sorride pure lei.
   Ting! Cos’è stato? Probabilmente il rumore di un mio nervo che salta. Inspiro ed espiro, inspiro ed espiro, e mi calmo.
   Mi alzo della sedia. «Be’» dico, mentre un’idea mi si affaccia alla mente. «Vado a trovare un po’ Cicco.»
   «Perché no!» approvano i miei all’unisono, e dopodiché si guardano scioccamente, scambiandosi sguardi svenevoli.
   Corro fuori dalla stanza, deciso a sfuggire all’ondata di sdolcineria che attraversa il posto.
    Riprendo il mio giubbotto pesante dall’appendi-abiti e me lo getto addosso. Mi rinfilo i guanti. Apro la porta di casa ed esco, stanco della presenza di mia madre e mio padre. Sì, lo so, è da cinque minuti che ci siamo riuniti, ma questo è un lasso di tempo che mi basterebbe per tutta la vita.
   Una raffica di vento gelido mi investe, scagliandomi un ventaglio di neve in piena faccia. Non serve che mi pulisca il viso: una rabbia cieca eleva la mia temperatura corporea ben oltre il normale, facendo evaporare la neve all’istante. La giornata sta assumendo una brutta piega.
   Un’altra raffica mi frusta, ma quest'ultima non reca neve con sé. Mi stringo nel giubbotto e mi avvio verso casa di Cicco, il mio migliore amico. Confido che lui mi servirà per risollevare il mio umore.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 



L’abitazione di Cicco dista a malapena cento metri dalla mia. Viviamo nello stesso isolato. Avanzo contro il vento e la neve con il cappuccio tirato sulla testa, come un eschimese in pellegrinaggio, e raggiungo casa sua in mezzo minuto. È un edificio a più piani, con pareti color del burro che mettono in risalto il tetto rosso fiammante, di cui ora spuntano solo i vertici sotto un manto di neve.
   Allungo la mano verso il citofono ma prima che possa toccarlo il cancello accanto a me squilla e si apre. Alzo gli occhi verso casa di Cicco e vedo la sua sagoma stagliata dietro la porta-finestra. Deve avermi visto arrivare.
   Spingo il cancello e avanzo verso la porta di casa, che mi si apre davanti immettendomi nell’abitazione. Cicco è in piedi proprio qui davanti. Alla luce artificiale, la forfora che ha fra i capelli brilla come polvere di diamanti, e i suoi occhialetti rotondi riflettono un bagliore bianco. Non posso fare a meno di notare l’orribile maglietta che indossa. Sembra fatta di sacchi della spazzatura cuciti insieme, e al centro spicca una scritta di un arancione carico, che recita: GEEK.
   Mi sorride, rivelando la dentatura da castoro; io sono ancora incorniciato nella soglia. «Zao, Ni’» mi saluta. Mi inoltro all’interno senza rispondere e lui chiude la porta, escludendo fuori il rumore del vento. Mi getto sul divano che campeggia al centro del locale. Schiocco le dita, dicendo: «Coca-cola», e Cicco sparisce dalla stanza. Qualche attimo più tardi eccolo di ritorno, che veleggia verso di me reggendo un vassoio con una lattina di coca-cola sopra. Me la porge e si siede accanto a me, e pinza il vassoio fra le gambe.
   Stappo la lattina e trangugio un sorso della bevanda all’interno, che mi incendia la gola e le narici con un’esplosione di bollicine.
   Cicco si agita un po’ sul divano. «Allora, Ni’, come va?»
   Bevo un altro sorso di coca-cola senza guardarlo.
   «Spazzola», ordino.
   «Come, scusa?», chiede allungandosi verso di me, come se non avesse colto qualche sillaba. «Spazzola la neve via dal mio giubbotto, e poi, già che ci sei, appendilo da qualche parte.»
   Cicco si schiaffeggia la fronte. «O, zì, certo! Capito!» e detto ciò prende a spazzolare la neve giù dal mio giubbotto e ad agitarne il colletto. Quindi me lo sfila di dosso e sparisce alle mie spalle, per poi ritornare dopo un po’ senza. Intanto, io ho finito la mia lattina di coca-cola, perciò la scaravento a terra, dove rotola fin sotto un mobile, lasciando una scia di liquido appiccicoso lungo il pavimento. Cicco sospira e, come un servo obbediente, si rialza e va per raccoglierla: si abbassa fino a poggiare l’orecchio contro il pavimento e allunga il braccio sotto il mobile, setacciando alla ricerca della lattina. La trova, si rialza e la rimette sul suo vassoio. Poi si siede di nuovo vicino a me sul divano.
   La coca-cola mi si sta rimestando nello stomaco – devo averla ingollata troppo in fretta. Mi giro verso il mio amico e gli rutto in faccia. Un ciuffo di capelli gli si agita nella corrente d’aria rancida e il viso gli si irrigidisce. E ce credo!
 Fisso Cicco per un attimo, soffoco un conato, e dopodiché scoppio a ridere, e presto lui, superato lo sconcerto di essere stato spazzato da un rutto alla coca-cola, mi segue a ruota. Sì, il mio umore è decisamente migliorato!
   Sto ancora ridendo insieme a Cicco quando lui viene colto da un attacco di asma che trasforma le sue risate in un concerto di abbai rauchi. Gli batto la schiena con la mano – con molta più forza del necessario, in realtà. Ciò nonostante, dopo che la sua tosse convulsa si quieta, mi mormora un: «Grazie» con gli occhi umidi per la gratitudine. No, stronzo, non è come pensi: la tosse non c’entra!
   «Allora», dico quando Cicco si è ristabilito completamente. «Hai qualcosa di interessante da farmi fare?»
   Lui stringe i pugni e agita gli avambracci come una checca isterica, quasi non avesse aspettato altro che quella domanda. Che essere patetico. Quei suoi occhialetti rotondi intercettano un raggio di luce artificiale mandando un bagliore bianco e mi abbagliano – tutto ciò perché si agita. Mi strofino gli occhi. Quando li riapro, Cicco si sta ancora dimenando come se avesse un palo appuntito in culo. Finalmente posa le braccine sulle cosce e parla: «Ho-ho … mi hanno regalato un nuovo gioco per la play station!» Mi ha sputato parlando. Ma non è questo il problema.
   È come se una morsa d’acciaio si fosse improvvisamente chiusa sulle mie interiora. «Come sarebbe?» Detesto ammetterlo, ma il mio tono suona spaesato. «Un regalo? Di quel livello? Ti hanno regalato un gioco per la play station nonostante manchi così poco a Natale?»
   Cicco rimane interdetto e abbassa lo sguardo. So che si sente in colpa – glielo leggo nei suoi piccoli, patetici occhi da topo –, anche se non ne ha motivo... ma questo riesce solo a farmi incazzare di più. Deglutisco e scopro di avere la gola arsa. Il mio stomaco sta ribollendo di rabbia e invidia. Vengo assalito dall’istinto di strappargli di dosso gli occhiali, gettarli a terra e saltarci sopra, e poi magari restituirgli i frammenti per via anale. Però mi contengo e invece dico: «Be’, allora che aspetti a prenderlo? Muoviti, razza di idiota!»
   Lui balza giù dal divano e corre via per prendere il videogioco. Io intanto formulo un pensiero che di solito non mi apparterrebbe: ho dissimulato il mio impeto di invidia per evitare di apparire fragile davanti a Cicco che, chissà perché, è l’unico amico che ho. Un pensiero che suona strano, è vero, soprattutto adesso, dopo che ho apostrofato Cicco con i primi insulti che mi sono venuti in mente senza remora alcuna, e che l’ho pettinato con un rutto. Ma, dopotutto, so che quest’ultimo comportamento – insultarlo – non presenta rischi, non si configura come un problema: ho sempre insultato Cicco – quello che gli ho detto finora è niente –, e lui è sempre stato un bravo schiavo. Ciò si spiega attraverso quel principio … com’è? Più tratti male le persone, più esse sbavano nella tua scia. Ed è evidente nel caso di Cicco. Insomma, mi venera come fossi un feticcio. Oppure, ora che ci penso, la ragione per cui nonostante gli insulti continui a farmi da schiavo magari risiede nel fatto che nemmeno lui vuole perdere il suo unico amico. L’opzione del principio tratta male ché ti trattano bene, però, mi pare decisamente più ragionevole.
   Il vero problema, comunque, consiste nella facilità con cui lui ottiene ciò che vuole. So che ha chiesto quel videogioco ai genitori quattro giorni fa, e adesso ecco che butta lì candidamente la notizia che lo ha ricevuto in regalo – e siamo in periodo Natalizio! Significa che per la sera del 24 avrà come minimo altri tre videogiochi, mentre a me non solo i miei genitori idioti non ne comprano, ma neanche quel cazzo di Babbo Natale ne porta. Be’, almeno così è stato negli ultimi anni. Pare infatti che l’obeso in rosso consideri di prassi saltare casa mia e volarci sopra come se non esistesse.
  Sono certo, tuttavia, che quest’anno anch’io sentirò un tonfo proveniente dal salotto e troverò il regalo di Babbo Natale nel camino, e non dovrò inventare scuse con gli altri bambini e pestarli e appenderli per le mutande ai ganci per i giubbini, quando subito dopo le vacanze mi chiederanno cosa abbia ricevuto per Natale. Quest’anno mi sono comportato bene e riceverò ciò che mi spetta.
   Cicco si ripresenta con una sottile scatola quadrata che contiene il videogioco. Dieci minuti dopo, ci stiamo scannando sullo schermo della televisione. Sparo contro il suo avatar il più micidiale dei colpi che ho a disposizione e lo schermo riluce di un abbagliante lampo bianco.
   «Senti, Ni’, cosa hai chiesto a Babbo Natale quest’anno?», se ne esce.
   Metto in pausa il videogioco.
   Mi schiarisco la gola con fare importante. «Considerati privilegiato, insetto, sei il primo a cui lo dico.»
   Cicco ridacchia divertito. «Quindi hai consegnato la letterina?»
   «Certo che sì, stupido, proprio questa mattina. E non osare più interrompermi.»
   Cicco mi lancia un’occhiata di scuse. Per questa volta gliela faccio passare liscia.
  Gonfio il petto come un tacchino. «Ho chiesto un amico decente.»
  Nel breve silenzio che segue, Cicco aggrotta le sopracciglia e il suo viso si incupisce, come se stesse soppesando con attenzione le mie parole. Gli pianto i miei occhi addosso, per niente imbarazzato. Riesco quasi a vedere gli ingranaggi del suo cervello macchinare dietro la fronte. «Be’, che hai da dire?»
  Piega le labbra in una strana smorfia. Poi prende a ridacchiare.
  Sono sconcertato.
  «’Cazzo ridi?»
  Ha le lacrime agli occhi e singhiozza, scoprendo ogni tanto gli incisivi smisurati. Il petto gli si gonfia e sgonfia mentre ride.
  «Zei divertente, Ni’.»
  Stringo la mascella. «Credi che stia scherzando?»
  Nel medesimo istante, la porta di casa di Cicco si apre e sua madre entra caracollando sotto il peso di grosse buste, distraendomi. È brutta quanto il figlio, anche se non ha gli stessi dentoni da castoro. Mi scorge e si ferma, deponendo giù le buste stracariche, che si afflosciano sul pavimento.
  «Ehilà, Nico!» mi saluta.
  «Salve, signora.»
  La madre di Cicco avanza verso di me, ostentando un sorriso accogliente. «Come va?» «Tutto bene, signora.» «Ti va di rimanere per pranzo?» Solleva un sopracciglio, indicando le buste alle sue spalle. Manco mi stesse inducendo in un’irresistibile tentazione; ha avanzato una proposta a malapena appetibile!
  «No, grazie, i miei genitori stavano già cucinando quando sono venuto.» Per una volta le rifilo una scusa vera. La mamma di Cicco sembra leggermente offesa. Sta quasi per mettere su il broncio. «Oh, be’», sospira. «Sarà per un’altra volta.» Con entrambe  mani, solleva le buste da terra, barcolla fino in cucina e si chiude dietro la porta con un calcio.
   Mi alzo dal divano. «Devo andare.»
   Cicco alza lo sguardo. «Di zà?» Annuisco. E poi un’idea mi fiorisce in testa.
  «Vai a prendere il mio giubbotto!» Gli impartisco l’ordine in fretta.
  Cicco si alza dal divano e corre via per eseguirlo.
  Un ghigno mi storce le labbra, tramutando il mio viso in una maschera crudele. Tendo le orecchie per accertarmi che Cicco sia lontano, quindi mi avvicino alla play station, che ci ha intrattenuto finora. La console, sorretta da un piano di vetro sotto la televisione, emana un basso ronzio. Pigio alcuni pulsanti e il disco che era all’interno esce roteando dalla fessura dell’apparecchio. Lo afferro.
  Accertandomi che nessuno mi stia osservando, infilo l’altra mano in tasca e ne estraggo un pacchetto di gomme da masticare. Me ne caccio una in bocca e mastico forsennatamente, quindi me la sputo nella mano: ecco un impasto grande quanto un polpastrello, viscido e azzurrino, che si arriccia su se stesso e trasuda bollicine di saliva.
   Il mio ghigno si allarga.
   Sollevo il disco del videogioco e la gomma da masticare alla stessa altezza. «Di’ addio al tuo bel nuovo giochino, Cicco.» E spiaccico la gomma sul retro disco. Usando il pollice, la stendo con forza lungo la superficie traslucida. Non è facile, perché mi rimane appiccicata ed è come spianare un grumo di pomata indurita. Allungo e appiattisco la gomma, schiacciando più e più volte i punti dove l’impasto si è coagulato, e alla fine ottengo una striscia appiccicosa che ricopre la maggior parte del retro del disco.
   Sollevo e osservo il mio lavoro, in preda all’euforia e all’adrenalina. Reinserisco il disco nella fessura e lo spingo. Presto la play station comincia a fumare dagli angoli. Un odore di plastica bruciata e mirtilli riempie la stanza.
   Il vento scuote brevemente la porta.
   Ancora una volta provo quella strana sensazione, e mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi osservi, ma la stanza è deserta a parte me.
   Un attimo più tardi arriva Cicco. Gli vado incontro. Gli strappo di mano il giubbotto e me lo infilo in fretta e furia, rifiutando il suo aiuto. Lo saluto con un cenno del mento e mi precipito fuori da casa sua. Una volta all’esterno, la soddisfazione estende ancora di più, se possibile, il mio ghigno.
   Mi incammino verso casa, immaginando la reazione di Cicco quando scoprirà che il suo video-gioco nuovo di zecca è stato distrutto insieme alla sua amata play station, e mi diverto ancora di più immaginando la sua faccia atterrita e stravolta.
   Il vento ulula lungo la strada. È talmente forte che quasi mi sento sollevare da terra. Osservo la neve che turbina trascinata dal vento e sento un calore improvviso che mi si scioglie nello stomaco. Lo associo all’adrenalina che si disperde. Poi scorgo un’immagine in mezzo alla bufera. Somiglia a un uomo formato da un intreccio di vento e neve. Pare sfumare via nelle raffiche, eppure continua a fluttuare poco distante da me. Scuote la testa, rasentando dispiacere. Se i tizi apparsi tra i fiocchi di neve possono sembrare amareggiati e delusi, be’, questo lo è. Tento di osservarlo meglio e quello si dissolve. Devo averlo immaginato. Le folate di neve assumono strane forme e possono ingannare.
   Il rumore di uno scoppio mi raggiunge. Esulto in silenzio, stillando una gioia folle da tutti i pori. Neppure nella più rosea delle prospettive avrei sperato che la play di Cicco sarebbe esplosa. Proseguo verso casa, ripensando a tutto quello che ho fatto dal mio amico; soprattutto ripenso allo scherzo della gomma e mi spunta un sorriso. È vero, durante la mia permanenza a casa di Cicco il mio umore ha toccato picchi alti e bassi, ma come si sol dire, tutto è bene quel che finisce bene, non è così?

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