Canary Wharf

di rosie__posie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La metropolitana ***
Capitolo 2: *** Canary Wharf ***
Capitolo 3: *** Di discorsi tra fratelli e amici ***
Capitolo 4: *** Il tuo intero "io" a contatto della mia mano ***
Capitolo 5: *** Wolfe & Goodwin ***
Capitolo 6: *** Di baci e carezze, di soap-opera e telefonate ***
Capitolo 7: *** Bello bello in modo assurdo ***
Capitolo 8: *** Sonata per violino ***
Capitolo 9: *** Moondance ***
Capitolo 10: *** Beyond the Sea ***
Capitolo 11: *** Pont de l’Archevêché ***



Capitolo 1
*** La metropolitana ***


L’ispirazione per questa fic mi è venuta dopo uno splendido sogno. Non so bene se definirla una AU o una What if, giudicate voi. Spero che i personaggi mi siano usciti abbastanza IC, ma, essendo giovani, è difficile dirlo! Grazie a Doralice e melian_eresseie per la beta!
 
 
La prima volta che si erano intravisti alla fermata di Bank, Sherlock sulla banchina in direzione ovest, John sulla banchina in direzione est, era un piovoso pomeriggio di fine marzo. Sherlock indossava la sua uniforme scolastica perfettamente stirata, blazer nero con camicia bianca e cravatta a strisce rosse e nere. John faceva invece mostra di un blazer rosso palesemente di seconda mano, una cravatta slacciata e scolorita e pantaloni scuri un po' corti, zuppi di pioggia fin quasi a metà di una gamba.
 
John aveva notato Sherlock quando una folata d’aria sollevata dal treno in partenza aveva scompigliato i suoi riccioli neri, ricordandogli uno di quei personaggi romantici di cui aveva letto spesso nei suoi libri.
 
Sherlock aveva notato John per il libro di fumetti che teneva stretto stretto in mano come se fosse la cosa più importante di questo mondo.
 
John aveva diciassette anni e Sherlock un paio di meno, ma non sarebbe stato facile stabilirlo.
 
Rimasero a osservarsi e studiarsi ogni giorno per una settimana buona, separati dagli inanimati binari della tube. Un giorno era Sherlock a ingannare l'attesa del treno con un fumetto e John con un libro, il giorno dopo il contrario. Spiderman e Batman, oppure L'ultimo dei Mohicani e I viaggi di Gulliver. Al contrario della maggior parte dei ragazzi della loro età che si ammassava in gruppetti al di qua della linea gialla in attesa dell'arrivo del treno, preferivano entrambi rimanere in disparte, trovando sempre più interessante la compagnia di una buona lettura a quella del contatto umano.
 
Un pomeriggio di inizio aprile, scendendo le scale che portavano alla fermata e svoltando a destra verso le obliteratrici, Sherlock si era trovato di fronte a John, che aveva utilizzato un ingresso laterale. Si erano bloccati entrambi ed erano rimasti un attimo a guardarsi a vicenda, mentre venivano investiti dal traffico dell'ora di punta che correva verso i treni.
 
-Ciao…-, disse Sherlock, con voce profonda.
 
-Ciao!-, ribatté John, con tono più vivace.
 
Non si dissero altro e ognuno si avviò verso la propria banchina. Sherlock si era voltato indietro un paio di volte prima di vedere il ragazzino biondo scomparire giù dalle scale.
 
Il giorno seguente si incontrarono di nuovo. Sherlock trovò John ad aspettarlo davanti alle obliteratrici.
 
-Ciao.
 
-Ciao.
 
-Io mi chiamo John.
 
-Io mi chiamo Sherlock.
 
-Che nome buffo…
 
-Già…-, convenne il ragazzino con aria sconsolata, prendendo l'abbonamento dal portadocumenti dentro la tasca esterna dello zaino.
 
-Cosa hai fatto all'occhio?-, chiese John, indicando un leggero livido nero sopra l'occhio destro.
 
-Ho fatto a pugni.
 
-Con chi?
 
-Un compagno di scuola.
 
-Perché?
 
-Perché gli ho detto che ha un quoziente intellettivo pari a quello di un bradipo.
 
-E perché?
 
-Perché è vero.
 
John sbatté un paio di volte le palpebre, incredulo alla meravigliosa stranezza del suo giovane interlocutore.
 
-Frequenti la CLS?
 
-Tu fai troppe domande.
 
-Me lo dice anche mia sorella…
 
-È noiosa come mio fratello?
 
-Può darsi.
 
Si separarono di nuovo giunti ciascuno al proprio bivio, senza aggiungere altro.
 
Il giorno successivo fu John a trovare Sherlock ad aspettarlo, il blazer buttato distrattamente su un braccio e le maniche della camicia arrotolate. Iniziava a fare caldo.
 
-Ti va un gelato?
 
-Devo ancora pranzare.
 
-Allora ti va un panino?
 
Si sedettero a un tavolino di plastica del bar di fronte al punto informativo. John prese un hotdog perché era il piatto più economico sul menu e Sherlock ordinò il suo gelato alla crema.
 
-Ti piace Batman-, disse Sherlock, nell'attesa che venissero serviti.
 
-Questo è Spiderman-, ribatté John, indicando il fumetto che aveva riposto sulla sedia accanto alla sua.
 
-Ma la settimana scorsa leggevi Batman.
 
-Come lo sai?
 
-Io osservo. Anche se alla gente non piace.
 
-Ed è per questo che ti ritrovi con un occhio nero.
 
John riuscì a strappare un mezzo sorriso all'altro ragazzino.
 
La cameriera portò le loro ordinazioni con un Ecco qui, ragazzi. Rimasero in silenzio per un po'.
 
-Comunque a me piace di più Robin…
 
-L'avevo intuito.
 
Il giorno dopo fu ancora Sherlock a trovare John ad aspettarlo. Era in ritardo di mezz’ora rispetto al solito.
 
-Sei in ritardo.
 
-Sono stato dalla preside…-, spiegò Sherlock, lo sguardo basso.
 
-Non vedo occhi neri…
 
-L’altro ragazzo sì, però.
 
-Un tuo amico?
 
-Io non ho amici.
 
-Hai mangiato?
 
-Non mi va.
 
-Ti va di andare al parco a leggere?
 
-Non sei in ritardo?
 
-Mia sorella è a scuola e mia mamma lavora sino a tardi il mercoledì.
 
-OK.
 
John prese Sherlock per mano. Solitamente, non era un tipo che prendeva gli amici per mano, tutt’altro, ma con Sherlock era diverso: era come se una vocina dentro di lui gli dicesse di prenderlo sotto la sua ala, di occuparsi di lui. Si avviarono verso la banchina del treno per Ealing Broadway, verso Marble Arch. Trascorsero il pomeriggio sdraiati a leggere ai bordi della Serpentine, circondati da baby-sitter, bambini di ogni età e coppie di fidanzatini adolescenti. Ogni tanto commentavano ciò che stavano leggendo, ma per la maggior parte del tempo rimasero in silenzio a godersi la pace di quella giornata e i tiepidi raggi di sole che accarezzavano la pelle delicata dei loro giovani volti.
 
Poi, con i primi caldi, arrivarono anche le prime sudate e le prime correnti d’aria nei tunnel della metropolitana, e John si ritrovò con una faringite acuta che lo costrinse a letto per una settimana, nonostante le sue proteste. Era la prima volta in anni che si sentiva contrariato dall’essere costretto a letto. Per cinque giorni, John alternò il letto al divano, con Harriet incaricata della sua sorveglianza pomeridiana affinché non uscisse di casa contro le indicazioni del medico.
 
Si sentiva come un uccello in gabbia privato della sua libertà, mentre leggeva e rileggeva i fumetti di Superman di Sherlock che aveva scambiato con due di Batman dei suoi.
 
Arrivò il weekend, che lo vide finalmente sfebbrato. Come premio (almeno secondo l'opinione della madre), John ottenne una passeggiata al parco prima del pranzo domenicale a casa della nonna. La Serpentine aveva improvvisamente perso tutto il suo fascino, privata del suo nuovo amico a fargli compagnia.
 
Il lunedì successivo John uscì di casa prima del solito, mosso dall’eccitazione dell’attesa di ritrovarsi, dopo le lezioni, a Bank. Ma tutti i suoi entusiasmi furono subito smorzati quando non vide Sherlock ad aspettarlo come al solito. E questo anche il giorno seguente e quello dopo ancora. Il giovedì John fece di tutto per costringere la madre a firmargli un permesso di uscita anticipata, adducendo la scusa di essere atteso a casa del suo compagno Morgan, malato, per ripassare algebra, a Greater London. Ma si ritrovò tristemente ad aspettare Sherlock per due ore seduto al tavolino del loro bar sotto la metropolitana, invano.
 
John fece di tutto nei giorni successivi per auto convincersi che ci fosse una spiegazione giustificata e assolutamente positiva dietro l’assenza del suo nuovo amico. Forse il suo piano lezioni era stato leggermente modificato nell’ultimo trimestre. Forse anche Sherlock era stato colpito dai malanni di stagione. O più semplicemente, nonostante gli apparisse inaccettabile e crudele, Sherlock aveva trovato noioso e senza molto senso continuare ad aspettare fino a quando un ragazzetto introverso e per giunta più grande di lui incontrato per caso a una fermata.
 
Il suo cuore era pieno di tristezza, esattamente come qualche Natale addietro, quando aveva ricevuto in dono un maglione fatto a mano al posto dei soldatini che tanto desiderava.
 
Il lunedì successivo decise, dopo la scuola, di salire a St Paul’s invece che a Bank. Se prendeva il treno una fermata prima non poteva rimanerci male se non avesse incontrato Sherlock.
 
Si comportò così anche il martedì. Poi, il mercoledì, essendo in ritardo per l’appuntamento dal dentista dopo essersi attardato a parlare con il professore di letteratura, decise di salire ugualmente a Bank.
 
Appena scese i gradini dell’ingresso della fermata venne travolto dalla fiumana di studenti che si recavano a casa. Perse tempo a cercare l’abbonamento che si era smarritotra tutti i vari oggetti che appesantivano il suo zaino.
 
-Ciao…
 
La voce profonda di Sherlock lo raggiunse distintamente anche in mezzo a tutto quel vociare e alla musica suonata dagli altoparlanti. Alzò lo sguardo, l’abbonamento ritrovato serrato tra i denti, le mani sulla cerniera dello zaino e i suoi occhi incontrarono quelli dell’amico.
 
-Come stai?
 
John si era dimenticato di tutta la sua fretta. Con movimenti rallentati, chiuse lo zaino e si tolse l’abbonamento dalla bocca.
 
-Bene. Meglio. Sono stato ammalato.
 
-Lo so.
 
John guardò l’amico con aria interrogativa.
 
-Lo capisco dai tuoi occhi-, spiegò.
 
-Sei stato ammalato anche tu?
 
Sherlock scosse la testa un paio di volte.
 
-No. Un impegno di lavoro all’estero di mio padre. Ha voluto portare tutti con sé.
 
Rimasero lì a guardarsi ancora senza aggiungere altro, poi John si ricordò improvvisamente del suo appuntamento.
 
-Io devo… andare. Il dentista-, disse, indicando le scale mobili che portavano al suo treno.
 
-D’accordo.
 
Ma John non si muoveva.
 
-Ho ancora i tuoi fumetti-, aggiunse. Non aveva proprio voglia di andarsene.
 
-Me li darai domani.
 
-A domani, allora.
 
-A domani.
 
Il giorno successivo diluviava. Sherlock arrivò a Bank quasi completamente zuppo nonostante l’ombrello. Quando lo vide arrivare, John, che era lì già da un buon quarto d’ora, gli si avvicinò sorridendo, pensando a quanto gli ricordasse un micino bagnato con il pelo arruffato dalla pioggia. Gli scostò delicatamente il ciuffo scuro e fradicio dagli occhi, con una tenerezza che fece tingere di un lieve rossore le guance solitamente pallide di Sherlock.
 
-Grondi acqua da tutte le parti…-, commentò, la mano ancora indugiante sui suoi capelli neri.
 
-Niente parco oggi, direi.
 
-Vieni a casa mia. C’è il camino.
 
Durante il tragitto in metropolitana, non spiccicarono parola. John stava leggendo i suoi fumetti, Sherlock studiava le persone accanto a loro. Era visibilmente imbarazzato. Non si sentiva totalmente a suo agio nel dare all’amico tutto quel disturbo; aveva persino il timore di incontrare la sorella o, peggio, la madre, ma desiderava seguirlo a casa sua più di ogni altra cosa al mondo.
 
Una volta giunti a destinazione, Sherlock non trovò nessuna signora Watson e nessuna Harriet ad attenderli. L’appartamento della famiglia Watson era molto piccolo in confronto alla sua grande casa vittoriana con giardino. Ne era piacevolmente incuriosito.
 
John accese il fuoco, poi portò Sherlock in bagno. Si chinò e aprì gli sportelli del mobiletto sotto il lavabo, da cui estrasse un paio di asciugamani blu. Appoggiò il più piccolo di essi sul capo dell’amico, sistemando l'altro sul bordo della vasca. Gli frizionò i capelli, tirandoli leggermente, ma esercitando in ogni momento tutta la delicatezza e la dolcezza di cui era capace, il ciuffo normalmente riccioluto ora dritto e liscio che copriva parte di uno dei suoi occhi. Poi lo aiutò a togliersi i vestiti; mentre John si muoveva deciso, Sherlock studiava tutti i suoi movimenti con attenzione. Nessuno di loro parlò.
 
Quindi, John sparì per un attimo in camera sua. Tornò in bagno qualche minuto dopo con un paio di pantaloni e una camicia. Appoggiò anch'essi al bordo della vasca. Sherlock era rimasto immobile durante la sua assenza, con le mani appoggiate curiosamente all'asciugamano più piccolo, che ancora copriva i suoi capelli ribelli.
 
-Non saranno proprio della tua taglia, ma almeno avrai addosso qualcosa di caldo mentre i tuoi si asciugano.
 
Prese i vestiti bagnati di Sherlock e sparì in soggiorno, per sistemarli su una sedia di fronte al camino.
 
Sherlock lo raggiunse poco dopo, con i vestiti asciutti addosso e i capelli ancora un po' bagnati.
 
-Non ridere.
 
-Non ho intenzione di farlo.
 
-Tu non ridere comunque.
 
-Va bene.
 
Si sedettero entrambi davanti al camino e per un po' nessuno di loro aprì bocca.
 
-Ti preparo un panino. Non ho altro in frigorifero.
 
-Non sei tenuto a disturbarti ancora.
 
-Devo mangiare anch'io. E, poi, qualcuno deve pur occuparsi di te.
 
Così dicendo, John si alzò e sparì in cucina, lasciando Sherlock a guardare il fuoco con lo sguardo perso nel vuoto e le mani allacciate attorno alle ginocchia piegate.
 
Mangiarono un panino con tacchino e insalata, in silenzio, incollati entrambi al camino.
 
-Quale indirizzo hai deciso di seguire, una volta terminata la scuola?-, fu la prima cosa che domandò Sherlock quando finirono di mangiare.
 
-Voglio fare il dottore.
 
Il ragazzino più giovane annuì con decisione, come mostrando la sua approvazione.
 
-E tu cosa vuoi fare da grande?
 
Sherlock scosse la spalle.
 
-Non saprei… I miei insegnanti dicono che sono abbastanza intelligente da fare qualsiasi cosa voglia. Persino il musicista, lo scienziato o il fisico.
 
Parlavano senza guardarsi negli occhi.
 
-Ma a te cosa piacerebbe fare?
 
-Il pirata o il poliziotto-, proferì con decisione.
 
-Il pirata sarà un po' dura…
 
-Già… sembra che, dopotutto, mi rimanga una sola opzione...-, commentò Sherlock, con un'aria un po' perplessa.
 
-Ti preparo un the-, disse poi John, cambiando completamente discorso.
 
-Non è il caso, davvero.
 
-Invece sì.
 
John sfiorò delicatamente con una mano quelle dell'amico, tenute ancora strette alla ginocchia. Sherlock ebbe un sussulto e, per la prima volta da quando se ne stavano lì seduti, si voltò verso di lui, fissando le sue iridi di ghiaccio in quelle più scure di John.
 
Rimasero a guardarsi per un attimo.
 
-Sei ancora gelato…-, spiegò John, prima di alzarsi per andare in cucina.
 
Trascorsero il resto del pomeriggio facendo ognuno i propri compiti assieme, seduti al tavolo del soggiorno, chiedendosi a volte consiglio reciproco. Poi, si fecero le sei del pomeriggio e il cielo, già appesantito dalle nuvole cariche di pioggia, si tinse di un grigio ancora più scuro.
 
-Devo tornare a casa. È quasi ora di cena…
 
I vestiti di Sherlock erano ormai asciutti. Il ragazzino si chiuse in bagno a rivestirsi, mentre John ripose i suoi libri nello zaino, con le stesse attenzioni di una mamma.
 
Sherlock spuntò poco dopo fuori dal bagno e notò John che armeggiava con le sue cose.
 
-Non c'era bisogno…
 
-Ottimizzo il tempo!
 
Con quella battuta, John riuscì a farlo sorridere. Sorrise anche lui.
 
-E poi, te l'ho già detto. Qualcuno deve pur occuparsi di te.
 
-Qualche volta ci pensa mio fratello Mycroft, ma non sempre-, disse, avvicinandosi alla sedia e infilandosi il blazer. –È molto più grande di me.
 
Aveva pronunciato le ultime parole con un tono di chi volesse scusarlo.
 
-Già… Ti considera un po' una seccatura…-, convenne John. -Anche mia sorella a volte lo è.
 
Sherlock si infilò entrambe le bretelle dello zaino sulla spalla destra, annuendo.
 
-Non so che linea devi prendere per tornare a casa tua. Però da qualche parte qui in giro dovrei avere una piantina della tube
 
-Non disturbarti. Conosco tutto il percorso della metropolitana a memoria. Di tutte le linee. E anche dei trasporti in superficie.
 
John pensò che il suo amico era davvero strano a volte, ma la cosa non gli dispiaceva. Tutt'altro.
 
-Allora non dovresti perderti! Spero arriverai a casa tutto d'un pezzo.
 
-Lo spero anch'io…
 
Si avviarono verso la porta.
 
-Mi avvisi quando arrivi?
 
-E come?
 
-Telefona!
 
John tornò di nuovo verso il tavolo e prese una delle sue penne. Poi, iniziò a cercare un foglietto di carta vuoto su cui scrivere il numero del telefono di casa.
 
-Scrivi qui.
 
Sherlock gli mostrò il palmo della sua mano sinistra.
 
-Lì?
 
-Così dovrei essere abbastanza sicuro di non perderlo.
 
Sorrise.
 
Con la penna nera nella sinistra, John prese la mano di Sherlock nella sua destra, trovandola questa volta piacevolmente calda. Provò una piccola scossa che gli fece battere forte il cuore per un attimo. Probabilmente anche l'altro l'aveva sentita, ma se fu così non lo dette a vedere. Scrisse i numeri delicatamente, tenendogli aperta la mano con il pollice e facendo attenzione a non fargli male, calcando quel giusto per far scendere l'inchiostro. Gli occhi di John saltavano dalla mano a quelli di Sherlock, che invece tenne per tutto il tempo il suo sguardo indecifrabile incollato al volto di John.
 
-Ecco. Se tieni la mano in tasca e non la inzuppi ancora, dovrebbe resistere.
 
John attese un attimo prima di lasciare andare la mano di Sherlock. Forse per controllare bene che i numeri fossero leggibili. O forse perché la sensazione della sua mano tra le sue era stranamente piacevole.
 
Appena lo fece, Sherlock strinse bene il palmo e infilò la mano dritta dritta in tasca.
 
-Agli ordini!
 
Risero. Poi John infilò anche lui il suo blazer, prese l'ombrello e lo accompagnò alla fermata più vicina.

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Capitolo 2
*** Canary Wharf ***


Sherlock telefonò dopo cena, quando John si era già fatto divorare abbastanza dall’ansia dell’attesa. La madre gli aveva passato il telefono e lui, voltandosi per dare le spalle agli altri, si era schiacciato il più possibile contro il muro alla ricerca di un po’ di intimità.
 
-Ciao.
 
-Ciao.
 
Come capitava di sovente tra loro, il saluto fu seguito da una pausa di silenzio.
 
-Sei arrivato senza problemi?
 
-Sì. Ci ho messo un po’. L’autobus aveva ritardo.
 
-Stai bene?
 
-Sì, ma mia madre mi ha sgridato perché i vestiti erano un po’ sporchi di fango.
 
-Non è colpa tua se pioveva.
 
-Già… beh, domani dovrebbe essere bello.
 
-E possiamo stare fuori!
 
-Ti va di andare a Canary Wharf? Possiamo andarci col traghetto turistico.
 
E John riattaccò, iniziando immediatamente a contare le ore che lo separavano dal pomeriggio seguente.
 
Il giorno dopo, come previsto, il sole era tornato a illuminare allegramente i cieli di Londra. Impiegarono quaranta minuti buoni per raggiungere Canary Wharf. Stranamente, non c’era molto traffico a quell’ora, anzi. Fatta eccezione per le vicinanze della fermata del metrò, la gente riversata per le strade era davvero poca. Camminarono un po’, poi scelsero un molo deserto per sedersi e tirare fuori i loro libri.
 
Sherlock, appassionato di musica, aveva iniziato a leggere la biografia del compositore e violinista Antonio Vivaldi. John aveva invece scelto qualcosa di decisamente diverso.
 
-Cosa leggi?
 
-Lawrence…-, rispose vago John.
 
Sherlock alzò il capo dal suo libro.
 
-L’amante di lady Chatterly?
 
John lo guardò con aria interrogativa.
 
-Non dirmi che l’hai letto?
 
-No. Non ho il permesso.
 
Sherlock appariva dispiaciuto. Indicò il libro con l'indice.
 
-Quando venne pubblicato, l'editore finì sotto accusa. Quindi, le autorità decisero di giudicare se vi fossero effettivamente delle oscenità in quelle pagine conducendo un test empirico su un gruppo di uomini e donne, che dovevano leggere il libro in un’aula di tribunale, in un tempo di sei giorni, senza il permesso di portare il libro con sé al di fuori di quelle aree protette.
 
Aveva pronunciato più delle sue solite cinque parole di fila e John non riusciva a capacitarsene. Per un piccolissimo attimo aveva creduto che a Sherlock potessero interessare le tematiche a sfondo erotico contenute nel libro, ma poi si rammentò di quanto fosse fuori dall'ordinario il suo giovane amico.
 
-Dovrebbero condurre più spesso test del genere sui libri e gli altri materiali stampati.
 
Altre quattordici parole, un record. John pensò che, dopotutto, erano innegabili gli effetti che quel libro aveva sulla gente.
 
-Beh, credimi, ti stai perdendo davvero un bel libro. Ma non sono molto sicuro che potrebbe poi interessarti, in definitiva. Consolati, però, non dovrai ancora aspettare molti anni prima di leggerlo.
 
John aveva parlato dandosi importanza, come a voler sottolineare il vantaggio che aveva sull'amico.
 
Sul viso di Sherlock si dipinse una smorfia di broncio appena accennata.
 
-Spero che almeno a te piaccia…
 
Sherlock tornò con gli occhi alla sua biografia.
 
-Oh, sì, su questo ci puoi scommettere! È davvero un libro utilissimo.
 
John soffocò un mezzo sorriso malizioso, mentre Sherlock tornò a guardarlo, questa volta con aria interrogativa.
 
-Utile per cosa?
 
-Per…ehm, conoscere meglio ciò che vogliono le ragazze.
 
John non era più sicuro di voler continuare la conversazione in quella direzione.
 
-Oh, quello-, commentò Sherlock con noncuranza.
 
Tra loro tornò il silenzio, che spinse John a credere che la conversazione fosse finita lì, conversazione che indubbiamente era stata la più articolata che avevano avuto sino a quel momento. Riuscì a leggere ancora un paio di pagine prima che l'amico parlasse di nuovo.
 
-Hai mai baciato una ragazza?
 
John trasalì a quella domanda, piovuta dal nulla.
 
-Come?-, sollevò la testa dal libro e fissò Sherlock incuriosito.
 
-Hai mai baciato una ragazza, John?-ripeté.
 
Il panico iniziava a crescere dentro di lui.
 
-Sì, beh, certo. Ovviamente sì.
 
La domanda lo aveva preso davvero alla sprovvista.
 
-E anche più di una volta-, tenne a precisare.
 
-E come è stato?
 
Sherlock teneva ancora lo sguardo basso sul libro appoggiato alle sue ginocchia, le gote tinte di una leggera sfumatura di rosa più intenso rispetto al suo normale pallore.
 
John rifletté un po' sulla domanda, cercando di andare col pensiero al suo primo bacio. Una ragazza dell'ultimo anno, più grande di lui. Ci sarebbero state diverse definizioni che avrebbe potuto dare all'amico, ma non era sicuro di quante tra essere gli sarebbero giunte comprensibili.
 
-Oh, beh… umido, direi.
 
Ecco, sì, umido era proprio la prima sensazione che aveva provato. La descrizione era riuscita a catturare la curiosità di Sherlock, che ora lo stava guardando.
 
-Umido?-, l'amico sembrava un po' deluso. La sua espressione sembrava significare Tutto questo cancan solo per un po' di umido?
 
-Sì, beh, umido e bello.
 
Ecco, così andava meglio. Due parole potevano essere considerate una spiegazione più che esauriente e John sperava di chiudere lì l'argomento, in quanto la conversazione rischiava di diventare seriamente imbarazzante. Tornò a concentrarsi sul libro.
 
-A me non è mai capitato-, asserì Sherlock poco dopo.
 
-Che cosa?
 
-Di baciare una ragazza. Di baciare qualcuno, insomma.
 
-Di sicuro avrai baciato tua mamma. O tua zia. O una cugina.
 
John aveva parlato senza voltarsi, facendo finta di continuare a leggere, mentre in realtà cercava di far lavorare velocemente le sue celluline grigie, come avrebbe detto Agatha Christie, alla ricerca di un modo per spostare il discorso su qualcos'altro.
 
Sherlock fece spallucce.
 
-Mi sembra ovvio che non intendevo in quel senso.
 
-Sei ancora troppo giovane. Esattamente come per il libro-, proferì, indicandolo.
 
Sherlock sbuffò. Detestava sentirsi troppo piccolo o troppo giovane per qualsiasi cosa. Ma prima o poi sarebbe cresciuto e allora finalmente avrebbe potuto fare tutto quello che voleva, quando e come preferiva.
 
-Esiste un'età stabilita in cui poter dare il primo bacio, forse? E, se è così, chi l'avrebbe stabilito?
 
Sherlock non accettava proprio di darsi per vinto, non lo faceva mai. In nessun campo.
 
-Io… non lo so…
 
John sentiva di essere sempre più vicino a perdere la bussola.
 
-Tu quando hai dato il tuo primo bacio?-, insistette Sherlock.
 
Molto probabilmente alla sua età, ma John non era disposto ad ammetterlo. Avrebbe preferito cimentarsi in una lunga e dettagliata disquisizione sul cricket, piuttosto che su baci e, possibilmente, sesso.
 
-Non sono sicuro di ricordarlo…-, mentì. -È stata una cosa imprevista...
 
-Quindi sono cose che possono accadere senza che siano programmate nei dettagli?
 
John posò lo sguardo su Sherlock e notò nei suoi occhi un lampo di terrore. Un po' ne era divertito.
 
-Non è mica una guerra. Non è necessario presentarsi armati!
 
-Un po' di programmazione è sempre utile, invece!-, protestò Sherlock.
 
John ci pensò un po' su.
 
-Beh, forse, con alcune ragazze potrebbe esserlo!-, convenne, ridacchiando. Aveva la sensazione di avere un certo potere sull'amico, in quel momento, e la cosa aveva un certo fascino.
 
-Allora ritengo senza dubbio che dovresti mostrarmi come si fa.
 
-A fare cosa?
 
-A baciare, ovvio.
 
John ebbe un leggero sussulto, sufficiente a far cadere il segnalibro per terra, mentre la leggera brezza primaverile fece muovere le pagine del libro, aprendole su due capitoli dopo quello che stava leggendo.
 
-Scherzi?
 
Sherlock si strinse di nuovo nelle spalle.
 
-Sono serissimo. Non mi piace trovarmi impreparato nelle situazioni.
 
John lo fissava consapevole che la sua pelle stava pian piano attraversando tutte le gradazioni del rosso, dal rosa al bordeaux.
 
-Tu sei il mio unico amico e sai come si fa. Non avrei nessun altro a cui chiederlo. Di certo non a mio fratello!
 
Il segnalibro era finito due o tre assi di legno più in là rispetto a dove erano seduti loro, sul pontile, e John lo osservava come se sperasse che, da un momento all'altro, potesse tornare indietro da solo e fornirgli un utile suggerimento su come comportarsi.
 
Sherlock si alzò per prendere il fuggitivo segnalibro, un po' per cortesia, un po' per dare tempo all'amico di rimuginare sulla sua richiesta. Poi si avvicinò a John e glielo porse, osservandolo in attesa di una sua risposta, o di una sua azione.
 
Titubante, John allungò il braccio per prendere il segnalibro, sfiorando inavvertitamente con le dita il dorso della mano di Sherlock. Provò di nuovo lo stesso sussulto al cuore che aveva sentito il giorno prima, mentre teneva la mano di Sherlock tra le sue. E, ancora, l'amico non aveva dato segni visibili di aver avvertito la stessa sensazione.
 
-Va bene-, accettò infine. Tornò indietro alle pagine fin dove era arrivato nella lettura, ripose il segnalibro, chiuse il libro e lo appoggiò accanto al suo zaino. Il tutto con movimenti lentissimi per guadagnare tempo il più possibile.
 
Sherlock era ancora in piedi di fronte a lui e continuava a fissarlo. John prese tra le sue la mano con cui l’amico gli aveva porto poc'anzi il segnalibro, tirandola dolcemente per esortarlo a sedersi di nuovo accanto a lui.
 
-Va bene-, ripeté. –Anche se non credo di disporre di grandi doti didattiche, in qualsiasi campo...
 
-Ritengo che, in questo caso, possano essere considerate tranquillamente superflue. Sarà sufficiente una rapida dimostrazione pratica.
 
Il cuore di John iniziò a correre come un treno e lo sentì giungere fino in gola, mentre una strana sensazione stava pian piano prendendo possesso del suo petto. Adesso era certo che le sfumature del rosso sul suo viso erano arrivate al bordeaux intenso.
 
-Una dimostrazione pratica?-, ripeté, rendendosi conto solo in quel momento di quanto l'amico preferisse i fatti alle teorie.
 
Sherlock annuì convinto, come a sottolineare il fatto che la pratica fosse da intendersi sempre preferibile della teoria.
 
-Esatto. Baciami, John.
 
Baciami, John. Queste parole iniziarono a rimbombargli nella testa peggio di uno strumento a percussione. Socchiuse la bocca per un attimo, poi la richiuse subito, riflettendo sul da farsi.
 
Forse non sarebbe poi stata una cosa così disgustosa.
 
Forse non sarebbe stato nemmeno difficile da fare.
 
John cercò di formarsi davanti agli occhi l'immagine della sua bocca unita a quella di Sherlock.
 
Forse sarebbe stato persino piacevole.
 
La sua mente e i suoi pensieri furono avvolti da un turbinio di emozioni e interrogativi, mentre il suo sguardo andava a posarsi sulle labbra di Sherlock, perfettamente scolpite e a forma di cuore, accarezzandone il contorno, millimetro dopo millimetro, e cercando di immaginarsi i sapori e gli odori.
 
Forse sarebbe stato addirittura incantevole.
 
Cercò di farsi coraggio e di ricordare come avesse fatto a trovarlo quando aveva dato il suo primo bacio. Ma non gli riuscì di trovare suggerimenti utili: per quanto si sforzasse di ricordare, quella volta non ne aveva avuto bisogno. Era stata una cosa meccanica, un normale susseguirsi di azioni. Non c’era il stato il cuore che gli scoppiava nel petto, la confusione nel suo cervello o la pelle che pulsava peggio di una scottatura, come invece gli stava capitando adesso.
 
Si rese conto solo in quel momento che la sua mano era ancora posata su quella di Sherlock. La strinse e attirò l’amico a sé. Se lo trovò improvvisamente vicino, troppo vicino. Gli sfiorò appena una guancia con le labbra e i loro nasi si toccarono. Quella cosa che si stava lamentando nel suo petto si agitava sempre più, reclamando spazio. Poi, Sherlock si staccò di colpo da lui e lo osservò preoccupato. John si sentì sorprendentemente dispiaciuto che fosse finita lì.
 
-Aspetta! Come si devono tenere i nasi?-, domandò, allarmato.
 
John sorrise, sollevato, pensando a quanto apparisse teneramente fanciullesco il suo amico, in quel momento. D’improvviso, la paura che lo aveva attanagliato fino a pochi istanti prima, sembrava iniziare a scemare.
 
-Ti faccio vedere-, disse.
 
Prese dolcemente il suo viso tra le mani, inclinandolo leggermente e attirandolo di nuovo a sé. Appoggiò le labbra alle sue, delicatamente, quasi in una carezza, trovandole piacevolmente morbide e fresche. Con fare incerto, depositò pian piano un paio di baci timidi e piccoli sulle labbra di Sherlock. Con una mano, lasciò la presa sul suo viso, mentre teneva ancora l’altra appoggiata alla sua guancia. Ne tracciò gentilmente il contorno con il pollice, mentre dischiuse leggermente le labbra in un bacio più lungo, questa volta più sicuro.
 
Il cuore non cessava di martellare nel suo petto, quasi come se fosse pronto a esplodere da un momento all’altro. Avrebbe voluto intrufolarsi in quella bocca invitante, esplorandone ogni millimetro, quasi come alla ricerca di un caldo abbraccio in una giornata di pioggia. Al solo pensiero tornò a provare paura. Di se stesso e di ciò che stava provando.
 
Si staccò a malincuore dalle labbra di Sherlock e appoggiò la fronte alla sua, senza aprire gli occhi, quasi come volesse riassaporare ogni attimo di quanto appena successo. Poteva udire il respiro dell'amico, affannoso quasi quanto il suo. Poi, socchiuse appena un occhio, trovando finalmente il coraggio di tornare alla realtà. Riaprì anche l'altro, vedendo Sherlock che teneva i suoi ancora ben chiusi.
 
-Credo… credo che tu possa riaprire gli occhi, adesso.
 
Tutto intorno a lui sembrava girare leggermente.
 
-Perché si tengono gli occhi chiusi, quando ci si bacia?-, chiese Sherlock, senza riaprirli; sul suo viso un'espressione di estrema concentrazione, come se stesse studiando tutte le informazioni che erano pervenute al suo cervello fino a quel momento, attraverso i suoi sensi.
 
-Non lo so… Non ci ho mai pensato, in effetti. È una cosa naturale, tu li hai chiusi senza che te lo dicessi. Forse per... dare più spazio agli altri sensi-, ipotizzò John, stupendosi di come fosse riuscito ad articolare bene le frasi nonostante la bocca ancora impastata e il lieve senso di vertigine.
 
Alla fine, Sherlock aprì gli occhi e lo fissò, con serietà, in silenzio.
 
-Come… come è stato?-, chiese John, con molta titubanza. Non pretendeva di sentirsi dire Sei il miglior baciatore del mondo, ma si trovò a pregare il Signore di non sentirsi nemmeno rispondere Uno schifo.
 
-Umido-, dichiarò Sherlock, deciso.
 
-Ti avevo avvisato-, convenne John, un po' deluso.
 
-E istruttivo-, aggiunse.
 
John si lasciò andare a un leggero grugnito di assenso, cercando di non pensare che, se fosse stato Sherlock a fargli quella domanda, lui avrebbe come minimo risposto Meraviglioso.
 
-E, direi, anche piacevole, sì. Decisamente.
 
John cercò distrattamente il suo libro, capendo di stare arrossendo furiosamente. Tornarono entrambi alle loro letture, comportandosi come se non fosse successo niente.
 
Ogni tanto, non visto, Sherlock scrutava John, cercando di dare un’interpretazione a quanto era accaduto e chiedendosi se, qualora lo avesse baciato altre volte, in una sorta di test empirico esattamente come era stato svolto per il libro, avrebbe provato le stesse sensazioni (che, per altro, non era ancora riuscito bene a definire).
 
Ogni tanto, non visto, anche John scrutava Sherlock, osservandone di nuovo le linee decise, ma al tempo stesso delicate, del viso e ammirandone i riccioli scuri, che gli ricordavano le fattezze della folta criniera di un giovane puledro. Al contrario dell’amico, lui era riuscito bene a dare una definizione alle sensazioni provate e la cosa lo spaventava a morte.
 
Tre quarti d’ora più tardi, erano di nuovo sul traghetto, diretti a casa.
 
 

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Capitolo 3
*** Di discorsi tra fratelli e amici ***


John trascorse la sera seduto sul muretto fuori casa, osservando gli amici del quartiere giocare a pallone e riflettendo sui suoi sentimenti. La sua testa era un vero e proprio fardello sotto il peso di tutti i pensieri che stavano facendo visita alla sua mente, andando e venendo come palloncini colorati trasportati dal vento.
 
Sherlock trascorse la sera registrando in un taccuino tutti gli avvenimenti della giornata, cercando di dar loro un senso, mentre teneva sott'occhio una piccola colonia di lombrichi che aveva catturato e relegato in una scatola sul davanzale della camera sua e di suo fratello per studiarne il comportamento.
 
John arrivò inaspettatamente alla conclusione che si stava affezionando troppo a Sherlock, in un modo che lui definiva "non molto salutare". Decise che l'unica soluzione sensata fosse dare un taglio alla cosa.
 
Sherlock arrivò ponderatamente alla conclusione che si stava anche lui affezionando a John, in un modo che lui definiva "una sorta di completamento di se stesso". Decise di non agire in alcun senso, perché, se aveva inquadrato bene John, sarebbe stato lui a fare qualcosa.
 
Così, a seguito della sua decisione, per altro sofferta, di non incontrare più l'amico, dal giorno successivo John prese a salire alla fermata prima, come già accaduto in precedenza. Si sentiva un po' anche lui come se avesse perduto una parte di se stesso, ma credeva fosse la cosa più giusta da fare e pensò che questo potesse bastare, a lungo andare, a mitigare il dolore della perdita.
 
A Sherlock furono sufficienti solamente un paio di giorni per capire esattamente come stavano le cose. Lo sentiva nelle ossa che questa volta non c'entrava nessuna malattia. Ne ebbe conferma il lunedì della settimana successiva quando decise di prendere il coraggio a due mani e, dopo cena, telefonare a casa di John.
 
Rispose una voce di donna, molto probabilmente la madre.
 
-Ma certo, te lo passo subito!
 
Varie voci di sottofondo, tra cui alcune probabilmente provenienti dalla televisione.
 
-Ehm, mi spiace ma… credo sia fuori con gli amici. Non me ne ero accorta.
 
Sherlock trovò difficile credere che non se ne fosse accorta in un appartamento così piccolo. Riattaccò e boccheggiò, sentendosi mancare l’aria. Rimase a fissare il telefono per alcuni minuti, immobile, senza dire nulla ma provando di tutto. Per un attimo aveva davvero creduto che fosse possibile anche per lui avere qualcuno che gli volesse bene e si preoccupasse per lui. Per un attimo si era sentito completo, felice.
 
Per un attimo, era stato bello.
 
Mycroft lo trovò più tardi in giardino, seduto su una panchina, intento a osservare l'aiuola, in cui aveva piazzato delle bottigliette contenenti dell’acqua zuccherata come esca nel tentativo di catturare alcune formiche, in modo da studiarne il comportamento dopo quello dei lombrichi.
 
Gli si sedette accanto, rimanendo in silenzio alcuni minuti prima di parlare. Aveva sette anni in più di lui e sperava di sapere un pochino come trattarlo.
 
-Formiche, questa volta?
 
Sherlock annuì senza guardarlo.
 
-Va tutto bene?
 
Il ragazzino annuì di nuovo.
 
-Mamma e papà sono un po' preoccupati per te… Va tutto bene?-, ripeté.
 
Mycroft parlava evitando di guardare il fratello negli occhi, apparentemente interessato anche lui alle formiche. Conosceva già la risposta alla domanda: lo sguardo vacuo e distante, il lanciarsi addirittura in una telefonata...
 
-Perché le persone ci feriscono?-, volle sapere Sherlock.
 
Mycroft si lasciò andare a un sorriso amaro. In cuor suo, aveva sempre saputo che, prima o poi, si sarebbe sentito porre una domanda del genere. Aveva cercato di prepararsi, ma con scarso successo. Avrebbe voluto dare mille risposte al fratello. Oppure nessuna.
 
-Sai, non sempre gli altri si comportano come noi vorremmo. E la stessa cosa vale girata al contrario: non sempre noi ci comportiamo come gli altri si aspettano.
 
Si voltò verso il fratello e notò che Sherlock serrava entrambe le mani a pugno, con una forza che gli parve eccessiva.
 
-E preparati, perché questa potrebbe essere la prima delusione di una lunga serie…
 
Così dicendo, prese con fare protettivo le mani di Sherlock tra le sue, girando il palmo verso l'alto e aprendogli le dita delicatamente. Il ragazzino aveva affondato così forte le unghie nel palmo che un solco nella mano sinistra stava iniziando addirittura a sanguinare.
 
-La mamma dice sempre che i sentimenti sono una bella cosa, un dono di Dio…-, mormorò Sherlock, sentendo uno strano calore nella mano e notando per la prima volta il sangue.
 
-Voler bene alle persone non è sempre un vantaggio, fratellino. Avanti, su, torniamo dentro e diamo una sistemata a questa mano-, disse Mycroft, deciso.
 
-E le mie formiche?-, replicò Sherlock, allarmato.
 
-Tranquillo, non andranno da nessuna parte.
 
 
 
§§§§
 
 
 
La televisione era accesa su un programma di cronache sportive, con l'audio tenuto al minimo. John era raggomitolato sul divano. I suoi occhi guardavano lo schermo, ma la mente era distante. Accanto a lui era appoggiato distrattamente il libro di Lawrence. Non l'aveva più aperto da quel pomeriggio a Canary Wharf.
 
Harriet entrò in casa in quel momento e si fermò davanti al frigorifero. Si lasciò andare a un Ciao che assomigliava più a un mugugno che a un vero saluto, quindi si preparò una porzione di gelato, senza offrirne al fratello. A John poco importava se lei lo avesse visto con il libro, che per altro era suo.
 
La sorella mangiò un paio di cucchiai di gelato, seduta al tavolo della cucina.
 
-Come mai passi così tanto tempo in casa, ultimamente?
 
Gli aveva posto la domanda senza sapere bene se la cosa le importasse veramente o se volesse solamente una risposta da riferire alla madre qualora si fosse rivolta a lei, in qualità di sorella maggiore, per ottenere informazioni su John.
 
Il ragazzo fece spallucce, senza rispondere e senza staccare gli occhi dal televisore.
 
-Quello è il mio libro…-, indicò Harriet con il mento e sistemando una ciocca di ricci ribelli dietro un orecchio.
 
John guardò il libro accanto a sé.
 
-Avevo iniziato a leggerlo, ma poi ho perso l'interesse.
 
-Hai perso interesse per quel libro?
 
Aveva voglia di raccontare, di chiedere consiglio. Non era sicuro che la sorella fosse la persona giusta, ma gli amici del quartiere e i compagni di scuola erano senza dubbio fuori questione.
 
-Mi sono capitate delle… cose…
 
-Aspetta!-, lo bloccò Harriet. –Questa è la parte "fratello minore si confida con sorella maggiore"?
 
-Ehi, non sei mica obbligata a starmi a sentire. Anzi, fai finta che non ti abbia detto niente-, ribatté John, alzandosi dal divano, risentito.
 
-Siediti, idiota-, lo ammonì la sorella.
 
John fece come gli era stato intimato. Aveva disperatamente bisogno di un consiglio e, se lo cercava nella sorella, significava una sola cosa: che era davvero disperato.
 
Appoggiò i gomiti alle ginocchia, incrociò le mani e iniziò a mordicchiarsi un labbro, non sapendo bene da che parte iniziare.
 
-Allora?
 
-Ecco… ho incontrato una persona…
 
-Com'è questa persona?
 
-Oh, particolare. Decisamente particolare!
 
-E cos'è successo di brutto?
 
John sentiva che la sua pelle stava di nuovo diventando di tutti i colori, esattamente com'era successo a Canary Wharf.
 
-Ci siamo... sì, insomma, ci siamo baciati.
 
Harriet allargò le braccia, come per chiedere Dov'è la notizia?. Qualche goccia di gelato cadde inavvertitamente per terra dal cucchiaino che teneva in mano.
 
-Il fatto è che… questa persona è un lui.
 
Bene, adesso che l'aveva detto ad alta voce si sentiva meglio ed era pronto per sentire tutti i rimbrotti della sorella.
 
-E dov'è il problema?-, lo sorprese Harriet.
 
-Dov'è... dov'è il problema?
 
La voce di John era uscita stridula dalla sua bocca, con un'intonazione di diverse note più alta del solito.
 
-Ho baciato un ragazzo! E mi è anche piaciuto!-, sbottò.
 
Ora sapeva di essere diventato completamente bordeaux in viso. Avrebbe voluto sprofondare, andare a nascondersi in un tombino.
 
-Tutto qui? A me capita tutti i weekend!
 
Harriet appariva completamente a suo agio.
 
-Sì, beh, scusa, ma penso sia normale per te baciare dei ragazzi-, replicò John, gesticolando con la mano sinistra.
 
La sorella scosse la testa.
 
-Non ho mai parlato di ragazzi, io.
 
John rimase in silenzio per un attimo, poi finalmente capì cosa intendesse la sorella.
 
-Oh, mio Dio…-, mormorò.
 
Per una frazione di secondo, si sentì quasi rincuorato. Poi, si fece di nuovo prendere dal panico. C’era forse qualcosa di sbagliato nella sua famiglia? Era tutta questione di genetica, magari? O invece c’era una spiegazione molto più semplice a tutto, che lui preferiva invece ignorare? Una vocina dentro il suo cuore gli stava sussurrando che forse l’ultima risposta era quella giusta.
 
Ma John non voleva dare ascolto a quella vocina. Per tutta risposta, si alzò di scatto e si diresse verso la camera da letto.
 
-Dove stai…
 
-Non ti voglio ascoltare. Non ti voglio ascoltare-, proferì a denti stretti e facendo un cenno con la mano, come se volesse cacciare via Harriet e tutti i suoi pensieri. Sbatté la porta dietro di sé, senza nemmeno avere il coraggio di guardare la sorella in faccia.
 

§§§
 
La signora Holmes regalò un gattino al figlio minore, nella speranza che un piccolo animale domestico potesse aiutarlo a sviluppare meglio i suoi rapporti sociali. Si pentì praticamente subito di quella scelta. I gatti si affezionano di più alla casa che al padrone e forse, con il senno di poi, un cagnolino sarebbe stato meglio. Ma ormai era andata così e la signora Holmes si ritrovò a sperare che Sherlock non lo utilizzasse troppo nei suoi esperimenti. O, almeno, che non lo utilizzasse in esperimenti troppo estremi.
 
Sherlock decise subito di chiamare il nuovo arrivato John. Poi volle provare a vedere se gli riusciva di andare contro a tutte le teorie che sostenevano l'impossibilità di insegnare qualcosa a questi piccoli felini. Dovette subito ricredersi: non era proprio possibile insegnare qualcosa al suo nuovo amico. Per lo meno lo trovò utile per cacciare i topi in giardino e quelli sì che potevano essere utili nei suoi esperimenti.
 
Un giorno, decise addirittura di portarselo a scuola. Non essendo ovviamente consentito l’ingresso in aula ai quadrupedi, Sherlock lo lasciò dentro il suo armadietto, sistemandolo in una, a suo dire, comoda scatola delle scarpe. La sua sopravvivenza era, sempre a suo dire, garantita da una piccola ciotola di latte che aveva lasciato accanto alla scatola e, soprattutto, dal fatto che la serratura dell’armadietto fosse rotta e che il lucchetto che utilizzava al suo posto lasciasse lo sportello sufficientemente socchiuso da consentire il passaggio dell’aria.
 
Rimase dunque alquanto contrariato quando alla fine della terza ora si ritrovò per l’ennesima volta nell’ufficio della preside. Pensava di aver previsto tutto meticolosamente, ma non aveva fatto i conti con il rumoroso miagolare dell’animaletto e, soprattutto, con i suoi bisogni fisici.
 
La preside lo osservava confusa e incerta sul da farsi. Aveva già provato la strada dell’empatia e quella delle punizioni, ma ancora brancolava nel buio in merito al modo migliore per trattare quel ragazzo.
 
-Signor Holmes, le è noto, non è vero, che non è consentito introdurre animali all’interno degli edifici scolastici? I gatti vanno bene per cacciare i topi, non per portarli a scuola e rinchiuderli in un armadietto.
 
Sherlock alzò le spalle.
 
-Volevo solo un po’ di compagnia durante il viaggio in metropolitana…
 
-Ci sono gli amici, per quello.
 
-Io non ho amici. Non piaccio molto alle persone.
 
-Oh, ragazzo mio…
 
Sul volto della preside si dipinse un’indescrivibile espressione di tenerezza.
 
-Posso riavere il mio gatto, ora?
 
Così, Sherlock decise di seguire il consiglio della preside e limitare lo sfruttamento del gatto alla caccia di topi che, successivamente, avrebbe potuto utilizzare nei suoi esperimenti, assieme alle formiche e ai lombrichi.
 
La signora Holmes pensò che, dopotutto, non era poi tanto male osservare il figlio minore correre per il giardino dietro il suo gattino, in quei pomeriggi primaverili insolitamente caldi. Magari l’aria aperta e quella piccola palla di pelo avrebbero potuto contribuire a migliorare, anche solo di poco, le sue capacità di relazionarsi con il prossimo.
 
Almeno, questa fu la sua opinione fino a quando, una sera, all’ora di cena, si rese conto che nessuno aveva più visto Sherlock dalle 3 di quel pomeriggio. Disperata e aiutata da Mycroft, iniziò a cercare il figlio in ogni dove della grande casa e del giardino annesso. Verso le 9, anche il signor Holmes si unì alle affannose ricerche.
 
-Da questa parte!
 
L’acuta voce di Mycroft, assieme a un insistente miagolio, proveniva dai pressi del gabbiotto degli attrezzi verso il limitare del giardino sul lato nord. E lì trovarono Sherlock, che era rimasto chiuso nel cantinino sotto il gabbiotto (nel tentativo di acciuffare un ratto per i suoi esperimenti) e che esibiva una bruciante ferita alla gamba destra.
 
La signora Holmes, quando finalmente riuscirono ad aprire la porta bloccata della piccola cantina, non sapeva se ricoprire il figlio di baci o di schiaffi. Se non altro, per una volta, la piccola palla di pelo che rispondeva al nome di John si era rivelata utile tanto quanto un cagnolino.
 
La ferita di Sherlock venne pulita, disinfettata e fasciata. Nel giro di un paio di giorni la sua gamba era tornata ad avere un aspetto quasi normale. Di certo, non si poteva dire altrettanto del suo proprietario, che giaceva in uno stato di crescente sconforto e la cui autostima era ben lungi dal riprendersi dal brutto colpo subito. Sherlock detestava il fatto di aver avuto bisogno di qualcuno per riuscire a cavarsi dagli impicci.
 
Ma, soprattutto, ciò che lo angustiava era il fatto di essersi reso conto, mentre era bloccato nella quasi totale oscurità di quel metro per due e con i pensieri che andavano e venivano, che gli mancava terribilmente qualcuno. Che forse, con l'aiuto del suo amico, non si sarebbe messo nei guai e, anzi, i suoi esperimenti avrebbero anche potuto diventare più divertenti.
 
Il terzo giorno, appena sveglio, Sherlock capì subito che qualcosa non andava. Oltre a un evidente rash cutaneo sulle mani e sui piedi, aveva i brividi, un forte desiderio di vomitare e dolori pulsanti alle articolazioni. Per l’ora di pranzo, a questi sintomi si era aggiunto anche un febbrone da cavallo. Fu così costretto a rivelare alla madre che, bloccato nel cantinino, era stato morso dal ratto che stava cercando di catturare. Tutto questo gli fece guadagnare un’insperata visita al PS, qualche giorno di degenza in ospedale e una bella cura di procaina penicillina.
 
§§§

I Giardini Botanici Reali di Kew erano un vero e proprio spettacolo in quella stagione. Le serre con i loro vetri scintillanti colpiti dai raggi del sole, la splendida Pagoda con i tetti pensili e i grandi decori a forma di dragone, gli edifici minori in stile vittoriano o i romantici laghetti rendevano quei giardini esotici il luogo ideale per rilassarsi o studiare botanica e altre meraviglie.
 
John aveva sempre atteso con impazienza le gite scolastiche, ma questa volta si sentiva meno elettrizzato del solito. In particolare, durante la visita all’Herbarium, la vista delle collezioni di piante dalle quali era possibile ricavare medicinali e veleni colmò il suo cuore di tristezza, al pensiero di quanto Sherlock avrebbe trovato interessanti tutte quelle informazioni.
 
Già se lo immaginava all’education centre nel Museo n. 1, intento a esplorare con avidità tutte le risorse digitali informative messe a disposizione dei visitatori, perso nei suoi pensieri. Gli mancava la sua mente e la sua presenza silenziosa. Gli mancavano i suoi discorsi talvolta fuori dall’ordinario, o la scelta bizzarra delle parole che utilizzava, come “test empirici”. Gli mancava osservarlo di nascosto mentre aveva il naso incollato su un libro o un suo fumetto. Gli mancava il contatto con le sue mani o la vista delle sue splendide labbra.
 
A mezzogiorno l'insegnante concesse loro tre quarti d'ora di libertà per il pranzo, tempo che John e i suoi compagni più stretti decisero di trascorrere al self-service dell'Orangery. Più che altro, John, privo di ogni sorta di volontà personale quel giorno, si era unito silenziosamente al gruppo, esattamente come una fedele pecorella che segue il suo pastore.
 
Scelsero un tavolo da sei accanto alla vetrata. Il sole allo zenit picchiava insistentemente contro i vetri, facendo dell'Orangery una serra altamente degna del suo nome. John prese un bagel con salmone affumicato, crema di formaggio e un succo d'arancia.
 
La discussione tra i suoi compagni saltava dalla buffa giacca che indossava quel giorno il loro insegnante ai chili che aveva messo su Elisabeth Plum della quarta fila o a cosa avrebbero fatto quel weekend.
 
Aveva mangiato tre quarti del suo bagel quando sentì una mano scivolare sulla sua coscia sinistra e un ciuffo di capelli rossi solleticargli l'orecchio.
 
-Cinema o luna park, domenica?
 
Violet si era avvinghiata a lui come se fossero in pieno dicembre e avesse bisogno di essere scaldata un po'.
 
-Oh, sì, così voi due potete farvi un paio di giri nel Tunnel dell'amore!
 
Mark e Charles, seduti di fronte a loro, se ne uscirono in una fragorosa risata d'intesa. Poi Charles appallottolò i suoi tovaglioli di carta e lanciò con forza la pallina. John si piegò di scatto, lasciando che la pallina colpisse Violet sulla fronte.
 
-Ehi, scemo! Mi hai fatto male!-, abbaiò la ragazza, toccandosi la tempia e stringendosi ancora di più a John, quasi chiedendo protezione.
 
-Chissà che male ti avrò mai fatto!-, ribatté Charles.
 
-Chiedi assistenza al futuro dottor Watson-, la canzonò Mark.
 
-Come siamo musoni, oggi-, disse di nuovo Charles, questa volta rivolto a John.
 
John stava osservando i prati fuori dalla vetrata. Non era molto in vena di scherzi, quel giorno.
 
-Non ho niente. Ero solo... assorto nei miei pensieri.
 
-Ci penso io ai tuoi pensieri-, gli sussurrò Violet nell'orecchio.
 
Lo afferrò per un braccio e lo attirò a sé. Prese a baciargli la guancia. All'inizio, si trattava di piccoli baci, ma l'intensità aumentava man mano che saliva. Arrivò all'orecchio e Violet iniziò a mordicchiare il lobo con decisione.
 
-Ehi, ehi, ehi!
 
John la allontanò di colpo da sé, come se fosse stato improvvisamente morsicato da una tarantola e non da una bella ragazza.
 
-Siamo in un ristorante!-, protestò.
 
-Un ristorante pieno zeppo di gente-, convenne Mark.
 
-Appunto, chi vuoi che faccia caso a noi due?-, ribatté Violet, prendendogli il mento tra le dita e voltandolo verso di lei.
 
-Nessuno, a parte noi! Ma non fatevi problemi: ci piace guardare!-, commentò Charles, ridendo.
 
-Altrimenti, potete sempre farvi un giro nel boschetto di sequoia!
 
Ma John non sentì il suggerimento di Mark. Le sue labbra erano già serrate contro quelle di Violet, che sapevano dell'insalata di pollo che aveva appena finito di mangiare. Chiuse gli occhi e, infischiandosene della gente che li circondava, decise di concentrare i suoi sensi e tutto se stesso in quel bacio.
 
La bocca di Violet era come una di quelle piante carnivore che aveva ammirato poc'anzi nell'Herbarium. Si avventava sulla sua con voracità, quasi come volesse sbranarlo, nonostante le labbra piccole. Non erano di certo calde, carnose e ben disegnate come quelle del giovane Sherlock.
 
Oh, quelle labbra, morbide come more, perfette come un disegno all’acquerello...
 
Sollevò la mano sinistra per accarezzarle i capelli. Erano così voluminosi e crespi da percepire appena la cute sottostante. Niente a che vedere con i setosi riccioli scuri del suo amico.
 
Oh, quei riccioli, ribelli come la criniera di un puledrino smossa dal vento
 
La bocca della ragazza si spalancò ancor di più, una cosa che, fino a un attimo prima, John non avrebbe ritenuto umanamente possibile. Sentì la lingua di Violet introdursi non richiesta nella sua bocca, esplorando e tastando.
 
Aveva bisogno di prendere fiato, di respirare. Alzò la mano quasi come in segno di resa, ma la ragazza lo ignorò. Finché sentì la mano di Violet intrufolarsi tra le sue gambe, un morso alla lingua e il sapore metallico del sangue farsi strada nella sua bocca.
 
-Ehi!
 
Trovò finalmente la forza di protestare e di spingerla da parte.
 
-Mi hai fatto male-, disse, passandosi il dorso della mano sinistra sul labbro.
 
Violet non aprì bocca, ma lo osservò ridacchiando.
 
-Ma come, già finito? Proprio adesso che si faceva interessante!-, commentò Mark.
 
John lanciò un'occhiata al suo orologio da polso.
 
-Dieci minuti all'Una, siamo in ritardo-, disse. Si alzò per riportare il vassoio alla cassa, provando in quel momento un intenso senso di abbandono.

 
 
Nota dell’autrice: grazie a tutte per gli splendidi commenti. Non avevo idea che questa storia potesse piacere così tanto. Io mi sono affezionata molto a questa versione teenager di Sherlock e John, ed evidentemente non solo l’unica. Spero continuerete a seguirmi, anche se gli aggiornamenti non saranno frequenti… ^__^

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Capitolo 4
*** Il tuo intero "io" a contatto della mia mano ***


Procaina penicillina. Fino a quel momento, Sherlock non ne aveva mai sentito parlare, ma il nome suonava davvero bene. Chiese alle infermiere se fosse possibile leggere il foglietto illustrativo di quel medicinale che gli stavano somministrando e loro, una dopo l'altra, lo guardarono stralunate. Chiese allora alla dottoressa che lo stava seguendo se potesse procurargli una dispensa su quel tipo di penicillina, sperando che il suo interesse non venisse travisato per una folle paura adolescenziale di essere avvelenato. La dottoressa Marino lo accontentò perché Sherlock era uno dei pochi pazienti, tra tutti quelli che aveva avuto, la cui mente riusciva a essere vivace anche con oltre 40 di febbre.
 
Nei primi due giorni di degenza ospedaliera, Sherlock aveva dormito tantissimo. Troppo per i suoi gusti. A lui non piaceva dormire, preferiva concentrare la sua mente su attività più interessanti e appaganti, anche durante le ore normalmente dedicate al sonno. Invece, molto probabilmente per l'effetto dei farmaci, da quando si trovava lì aveva dormito notte e giorno.
 
In verità, una buona metà delle ore di sonno giornaliere erano solo una finzione da lui messa in atto quando la madre veniva a trovarlo, per evitare di vedersi costretto a cimentarsi in conversazioni non gradite. Suo fratello Mycroft aveva intuito benissimo la verità, ma se lo era tenuto per sé, rispettando la sua volontà.
 
Oltre a dormire, durante la forzata degenza sognava molto. Altra cosa insolita per lui. Aveva rivissuto diverse volte nei suoi sogni l'accaduto che lo aveva poi condotto in ospedale. È del tutto fisiologico, gli aveva spiegato la dottoressa Marino. Non credeva, però, che fosse molto fisiologica la presenza di John in buona parte dei suoi sogni: nella caccia al famigerato topo, nella permanenza forzata nel cantinino (che nei sogni aveva assunto una dimensione sufficiente da contenere entrambi i ragazzi) e negli esperimenti sui punti di combustione di vari materiali, come la pelliccia della signora Holmes (uno dei pochi sogni ricorrenti di Sherlock, che già faceva prima di finire in ospedale).
 
Il finale dei suoi sogni era quasi sempre lo stesso: lui e John si cavavano dagli impicci; John salvava Sherlock; Sherlock salvava John; Sherlock e John commentavano ridendo le loro avventure. Almeno nei sogni, lavorare in coppia sembrava essere una cosa decisamente divertente.
 
Ciò che non era altrettanto divertente era il risveglio. La seconda notte aveva aperto gli occhi di soprassalto, trovandosi madido di sudore. Dovevano essere circa le due del mattino perché poteva sentire il vociare divertito delle infermiere al cambio turno.
 
Aveva fatto un altro sogno. Lui era Wolfe, John era Goodwin. Avevano appena risolto il caso della rara orchidea dell’Himalaya dal ramo spezzato trovata nella serra all’ultimo piano della casa del famoso detective. Non un caso difficile da risolvere, in quanto era parso chiaro fin dall’inizio che il ramo era stato spezzato dall’incauto ma fedele cuoco Fritz, che era salito nella serra a portare il the al suo capo.
 
Era sembrato un sogno divertente, mentre era ancora addormentato, ma quando aveva aperto gli occhi, Sherlock si era subito reso conto di ciò che era in realtà, un sogno. Solamente uno stupido sogno riguardante una persona a lui cara che non avrebbe rivisto mai più. Si sentì invadere da un senso di tristezza.
 
Si coprì il capo con il lenzuolo, avvolgendosi al suo interno come se fosse una mummia. Si sentiva mancare un po’ l’aria, ma andava bene così. Si girò su un fianco e pregò intensamente che le infermiere smettessero presto di fare tutto quel baccano.
 
Prima o poi sarebbe cresciuto e avrebbe finalmente imparato ad accettare l’idea di rimanere da solo, disse a se stesso.
 
§§§
 
Il terzo giorno, Sherlock si sentiva decisamente meglio e iniziò a fremere affinché venisse dimesso.
 
-Potrai farlo non appena i marcatori rientreranno in valori accettabili, mio caro-, rispose la dottoressa.
 
-Posso almeno visitare il laboratorio di analisi?-, le chiese allora Sherlock. Il pensiero di essere solo a un paio di piani da una ricchissima fonte di provette, imbuti, becker e microscopi lo ricompensava almeno in parte del senso di solitudine che iniziava a farsi sentire.
 
La dottoressa Marino lo guardò allibita, esattamente come in occasione della sua prima richiesta riguardante la penicillina.
 
-La prego, la prego, la prego…
 
Di solito Sherlock non supplicava. Di solito Sherlock nemmeno sfruttava i suoi occhioni chiari per ottenere qualcosa. Ma il letto d’ospedale lo faceva sentire un po’ disperato e capiva di avere un certo ascendente sulla donna. E doveva essere davvero disperato per avanzare certe richieste davanti a suo fratello Mycroft, seduto in quel momento nella poltrona della camera d’ospedale.
 
-Non è una cosa che normalmente concediamo ai degenti, ragazzo mio.
 
La dottoressa provò un tuffo al cuore vedendo l'espressione di totale delusione che si dipinse sul viso del ragazzo.
 
-Ma magari potrei fare un’eccezione, prima che torni a casa…
 
Soddisfatto della risposta come se avesse ricevuto un garantito, Sherlock tornò a sdraiarsi nel letto, voltandosi su un lato sospirando, dando la schiena al fratello.
 
Mycroft era rimasto a studiarlo qualche minuto in silenzio, prima di parlare.
 
-Desideri che avvisi qualcuno che ti trovi qui in ospedale?
 
-Credo che mamma abbia avvisato gli insegnanti già martedì.
 
-Intendevo se ci sia qualcuno in particolare a cui desideri far sapere che ti trovi qui.
 
Sherlock trasalì, mentre si sentiva invadere da un senso di abbandono. Era grato di dare le spalle al fratello, in quel momento, in modo che non potesse vederlo in faccia. Ma sapeva anche che Mycroft era un maestro nell’intuire le cose non dette.
 
-No, non c’è nessuno.
 
Il giorno seguente Sherlock decise di far finta di avere appetito. Non amava granché il cibo, ma sapeva bene che appetito era sinonimo di guarigione vicina. Sapeva inoltre che aveva bisogno di tornare in forze se voleva uscire presto da lì. Sfortunatamente, il cibo altamente leggero e altamente scondito dell'ospedale non era un grande alleato.
 
-Posso avere del pollo arrosto?
 
-Pollo arrosto?-, ripeté incredula l'infermiera, appoggiando il vassoio sul tavolino di fianco al letto. Petto di pollo bollito, patata bollita, grissini e una bottiglietta d'acqua. Sherlock si sentì deprimere dopo una sola occhiata al vassoio.
 
-Esatto, pollo arrosto. Ho sentito il profumo.
 
Quel profumo arrivava dall'ala opposta dell'ospedale, due piani sopra, e l'infermiera si chiese quanto fosse affinato l'olfatto del giovane degente.
 
-Il pollo arrosto è per i bimbi di cardiochirurgia pediatrica, caro. Vedrai che gradirai ugualmente il tuo pollo bollito.
 
Sherlock si lasciò andare a una smorfia di disgusto.
 
-Posso almeno avere un pizzico di sale per condire la patata?
 
Scese a fatica dal letto e, pian piano, andò a sedersi al tavolino. Una pioggia scrosciante batteva contro i vetri della finestra, la veneziana abbassata. Difficilmente in vita sua si era sentito così depresso e annoiato. L'infermiera tornò poco dopo con un po' di sale e olio.
 
Fece del suo meglio e si sforzò di mangiare la patata e mezzo petto di pollo. Poi, sempre a fatica, reclinò leggermente lo schienale del letto, si sdraiò e socchiuse gli occhi. Pregò che un bel sogno venisse a trovarlo nella sua mente.
 
Era caduto in un pozzo, questa volta. Un pozzo senza fine, buio come la notte e umido come una catacomba. Le sue grida di aiuto cozzavano contro le pareti e rimbombavano, non trovando tuttavia risposta. La flebile luce sopra la sua testa diventava via via più lontana mentre precipitava nell'abisso sotto di lui. Poi, improvvisamente, la griglia metallica che ricopriva l'ingresso al pozzo volò via e lui riuscì a intravedere, nei raggi di sole improvvisi, il volto di un amico. Il volto di John.
 
-Perché ti sei gettato qua dentro da solo? Perché non mi hai chiamato?
 
La voce di John era risuonata lontana, come un’eco.
 
Improvvisamente, tutto divenne troppo chiaro e distante per distinguere qualcosa, mentre Sherlock pian piano si svegliava e tornava alla realtà.
 
-Io ti ho chiamato, ma tu non hai risposto…-, biascicò, con la voce ancora impastata dal sonno. Si sentì stringere forte una mano e, d'istinto, ricambiò quella stretta. In lontananza, risuonava il cicalino dell'interfono in una camera vicina.
 
Aprì gli occhi a fatica e sbatté un paio di volte le palpebre, ancora pesanti dal sonno. Si guardò attorno, mentre ogni cosa nella stanza tornava di nuovo a prendere forma e ad apparirgli familiare. Poi, il suo sguardo si posò su John, seduto sulla sedia accanto al letto, le braccia appoggiate sul materasso e una mano stretta alla sua.
 
-Va tutto bene, Sherlock, è stato solo un incubo.
 
Ottimo, adesso aveva anche le allucinazioni, pensò Sherlock. Invece di migliorare, stava peggiorando a vista d’occhio. Ma la mano calda stretta alla sua gli ricordò amorevoli e premurose sensazioni che aveva già provato. John era lì ed era reale, che lo fissava con tenerezza mista a una buona dose di preoccupazione.
 
Sherlock non replicò, ancora confuso. Di tutta risposta, cercò solo di tirarsi a sedere nel letto.
 
-Aspetta, ti do una mano con i cuscini.
 
John si alzò dalla sedia e aiutò l’amico a sistemarsi. Si guardò intorno alla ricerca di un telecomando o di qualcosa del genere.
 
-C’è… c’è una manovella in fondo al letto…-, disse Sherlock, indicandola. Non aveva ancora riacquistato totalmente possesso delle sue facoltà mentali e, per essere sinceri, credeva ancora che John fosse solo una proiezione della sua mente che poteva scomparire dalla sua vista da un momento all’altro.
 
-Non è un ospedale molto tecnologico, questo-, aggiunse.
 
Se manteneva la conversazione non sul personale, sarebbe forse stato più facile.
 
-E io non sono molto esperto di ospedali-, ribatté John, con un timido sorriso, mentre girava a fatica quella manovella.
 
-Ti toccherà diventarlo, se vuoi fare il medico.
 
Una volta alzato lo schienale del letto, John riprese posto sulla sedia. Appoggiò le braccia alle cosce e congiunse le mani, lo sguardo che correva dalle sue scarpe a Sherlock, poi di nuovo alle scarpe.
 
La tensione era alquanto palpabile, nella camera. Quasi come fosse una persona in carne e ossa, seduta su un'altra sedia al bordo del letto. Era un po' come se le lancette dell'orologio fossero tornate indietro nel tempo, al loro primo incontro a Bank. La loro amicizia era scomparsa, riportando la verginità dov'era. Avevano di nuovo bisogno di studiarsi, osservarsi, corteggiarsi e imparare a conoscersi daccapo.
 
Sherlock fu il primo a rompere il silenzio.
 
-Come facevi a sapere che mi trovavo in ospedale?
 
-Me l'ha detto tuo fratello.
 
Pausa.
 
-In effetti, l'ha detto a mia sorella. Ha telefonato ieri e ha parlato con Harriet. E lei ovviamente lo ha detto a me.
 
Altra pausa. Gli splendidi ingranaggi che formavano il cervello di Sherlock iniziarono a mettersi in moto. Non voleva nemmeno sapere come accidenti avesse fatto Mycroft a venire a sapere di John e come contattarlo. O, meglio, di idee su come avesse fatto ne aveva eccome, ma preferiva ignorarle. Facevano entrambi Holmes di cognome e questo bastava.
 
-Mio fratello che parla con tua sorella…
 
-Inquietante, vero?
 
-Abbastanza.
 
Sherlock si lasciò andare un mezzo sorriso, che contagiò anche John. Dio, quanto gli erano mancati i sorrisi trattenuti e appena accennati del suo moro amico…
 
-Mi spieghi che accidenti ti è successo?-, chiese John, iniziando a fregarsi le mani, in una sorta di tic nervoso.
 
Sherlock alzò le spalle, come per sminuire ciò che stava per dire.
 
-Sono caduto in quel disgustoso e umido pozzetto sotterraneo che mia madre usa in estate per stoccare i sacchi di terra che non riesce a infilare nel capanno degli attrezzi. Mentre inseguivo un topo…
 
-Un topo?
 
-Guarda che i topi sono animali più furbi di quello che si pensa! Era riuscito a scappare dalla trappola che gli avevo preparato. L'ho seguito per tutto il giardino, prima di cadere là dentro… Poi mi ha morso ed è scappato, di nuovo. Nemmeno John è riuscito ad acciuffarlo...
 
-John?
 
-Il mio nuovo gatto…
 
Le gote di Sherlock si tinsero di porpora. Non gli capitava mai di arrossire, ma da quando conosceva John era già la seconda volta che succedeva.
 
John si morse il labbro inferiore per non ridere, inclinando leggermente la testa da un lato. Il suo cuore iniziò a battere forte. Sherlock aveva dato il suo nome a un gatto. Si sentiva emozionato come una ragazza che riceveva da un giovanotto infiniti complimenti per i suoi occhi.
 
-E perché mai volevi catturare un animale disgustoso come un topo?
 
-Volevo farci degli esperimenti.
 
-Non oso nemmeno chiederti che razza di esperimenti siano…
 
-Allora non farlo.
 
Ennesima pausa.
 
-Sono divertenti, almeno?
 
-Stando alla nostra vicina di casa, non molto... L'ultima volta avevo usato il suo porcellino d'India...
 
John sorrise, evitando però di guardare l’amico in volto.
 
-Non è che per caso vuoi offriti volontario per i prossimi, adesso che sono rimasto senza cavia?-, chiese Sherlock, esitante. Che cos’era quella cosa che gli stava stringendo la gola come una morsa? Il suo giovane cuore che reclamava di essere ascoltato?
 
Sherlock aveva buttato lì la domanda come se fosse uno scherzo, sperando tuttavia che John la interpretasse per ciò che era in realtà, un timido ehi, perché non riprendiamo a giocare da dove ci eravamo interrotti? In verità, per un attimo aveva pure accarezzato l’idea di porgere le sue scuse a John: forse aveva fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa che aveva infastidito l’amico al punto di farlo allontanare, anche se non aveva la benché minima idea di che cosa. Non era molto bravo con i rapporti interpersonali e non era sicuro di come dovesse procedere. Forse era semplicemente lui a essere sbagliato.
 
Il cuore di John iniziò a palpitare come quello di un puledro al galoppo, non essendo ben sicuro di come interpretare la domanda. Sollevò lo sguardo dalle mani intrecciate, sulle quali era rimasto fisso per buona parte di quella conversazione assurda, e lo posò sul viso dell'amico. Quanto gli erano mancate anche le sue eccentricità! Gli sorrise, iniziando a pensare a quanto fosse stato stupido imponendosi di non volerlo più rivedere.
 
-È l’ora della cena! Minestrina, prosciutto e spinaci.
 
La stessa infermiera che gli aveva portato il pranzo quel giorno li interruppe con il vassoio della cena. Sherlock pensò di avere dalla sua tutte le attenuanti per commettere un omicidio.
 
-Buon appetito!-, augurò giovale la donna, prima di lasciarli di nuovo soli.
 
Tra loro cadde di nuovo il silenzio e, dopo un paio di minuti, fu John a spezzarlo, guardando l’orologio e alzandosi.
 
-Dovrei andare, ora-, disse, un po’ titubante, evitando di rispondere alla domanda, che rimase sospesa nell’aria. Sarebbe rimasto lì ancora, se avesse potuto, a guardare Sherlock mangiare. Gli piaceva molto osservarlo mentre mangiava, perché gli dava un senso di quotidianità e di certezza.
 
Sherlock lo osservò con aria delusa.
 
-Sei appena arrivato-, mormorò.
 
-In realtà sono qui da quasi un’ora e mezza, ma tu dormivi.
 
Le pallide guance di Sherlock tornarono di nuovo a tingersi di un lieve rossore, al pensiero di John che lo osservava mentre giaceva addormentato.
 
-Perché non mi hai svegliato, allora?
 
-Stavi dormendo tranquillo, ecco perché. Fino all’incubo, ovviamente. E poi il sonno è spesso meglio di mille medicine.
 
-Sei irritante quando giochi a fare il dottore.
 
-Però ho ragione.
 
-Quando hai ragione sei ancora più irritante.
 
-E tu vuoi sempre avere l’ultima parola!
 
John aveva pronunciato l’ultima frase ridendo, coinvolgendo Sherlock al punto che anche lui si lasciò andare a una mezza risata. Spensieratezza, serenità, nessun senso di turbamento. Era la prima volta che si sentivano entrambi così distesi, dopo giorni. Era sorprendente come John fosse riuscito, nelle poche settimane di conoscenza, a renderlo meno timido.
 
Lo sguardo di Sherlock si posò sul vassoio della cena, poi si tirò a sedere nel letto e ruotò le gambe in fuori.
 
-Minestrina… come accidenti pensano che possa rimettermi in forze…
 
-Mangia almeno il secondo.
 
-Avrei voglia di cioccolato…
 
-Il cioccolato è decisamente poco indicato. Non serve essere dottori per capirlo.
 
-Una barretta ai cereali e cioccolato. È sana, ti dà energia ed è più interessante di una mi-ne-stri-na-, bofonchiò Sherlock, osservando la sua cena con aria di chi avesse voglia di litigare. Aveva assunto la stessa espressione che hanno i bambini piccoli quando mettono il broncio e John si sentì invadere da una profonda tenerezza.
 
-Non credo servano barrette ai cereali, in ospedale.
 
-In cardiochirurgia pediatrica servono pollo arrosto, però!-, ribatté Sherlock, a cui la storia del pollo proprio non era andata giù.
 
-Allora la prossima volta, invece di giocare a guardia e ladri coi topi, fatti somministrare del potassio puro per simulare l’arresto cardiaco e farti ricoverare in cardiochirurgia!
 
Quando Sherlock si voltò a guardarlo con interesse, John si pentì immediatamente delle sue parole, temendo che l’amico potesse realmente mettere in atto ciò che aveva proposto.
 
-Fa niente, dimentica quello che ho detto-, aggiunse, facendo un gesto con la mano. –Devo proprio andare, ora, o arriverò a casa tardissimo.
 
Così dicendo, fece il gesto istintivo di chinarsi leggermente verso l’amico, quasi come volendo essere sicuro che le parole pronunciate giungessero meglio alle sue orecchie. In un gesto altrettanto istintivo, Sherlock lo bloccò appoggiandogli una mano nel centro del petto.
 
-Ho avuto la febbre streptobacillare da morso del ratto, potrei essere ancora infettivo.
 
La mano di Sherlock sul suo petto e quelle parole pronunciate a raffica lo fecero trasalire. Più la mano delle parole. Rimasero così un attimo, come in una scena di un film d’azione americano improvvisamente vista allo slow-motion. John chino su Sherlock, immobile, gli occhi fissi sulla mano aperta nel centro del suo petto. Sherlock seduto sul suo letto, il braccio disteso a bloccare l’altro, immobile. Anche i suoi occhi erano fissi nello stesso punto.
 
Sherlock riusciva ad avvertire la pelle calda del petto di John attraverso la leggera camicia bianca in cotone. Poteva quasi sentire addirittura le costole. Sicuramente, riusciva a percepire il battito del cuore, che si stava facendo via via più accelerato. John era lì, di fronte a lui, vivo e con un ricchissimo bagaglio di informazioni che stava trasmettendo con l'intero suo essere. Tutte sensazioni nuove per Sherlock. Tutte sensazioni interessanti.
 
-Non volevo mica baciarti…-, mormorò John, un po’ stranito. Alla parola baciarti i suoi occhi si posarono sulle labbra di Sherlock, a cui aveva tanto pensato in quei giorni. Andò inevitabilmente con la memoria a Canary Wharf e si sentì di nuovo prendere dal panico.
 
-Lo so, ma è sempre meglio non correre rischi.
 
La sua mano era ancora sul petto di John. Nessuno dei due accennava a muoversi.
 
-Cioè, non che essere baciato da te sia un rischio, tutt’altro.
 
-Tutt’altro?
 
Sherlock chiuse gli occhi e scosse la testa, cercando di trovare in qualche angolino del suo cervello delle istruzioni per uscire da quel tremendo imbarazzo in cui si era cacciato.
 
-Mi stavo solo preoccupando per te-, disse, ritraendo la mano.
 
Al terminare di quel contatto, ripiombarono entrambi nella realtà, come se fossero appena scesi da un vagone di una ruota panoramica. Li accompagnava un leggero senso di vertigine e una lieve nausea allo stomaco.
 
-Lo so e mi piace questa cosa.
 
Sherlock abbassò lo sguardo, nell’attesa che l’imbarazzo lo lasciasse, lanciando a John delle timide occhiate di sottecchi.
 
-Devo andare-, disse poi John, cercando di infilarsi lo zaino in spalla. Dovette ripetere l’operazione un paio di volte prima di riuscirci, a causa della confusione in cui versava la sua testa.
 
-Allora ciao. E grazie per essere passato-, mormorò Sherlock, arrendendosi al fatto di dover lasciare andare l’amico.
 
-Figurati. Ciao. E mangia.
 
Sherlock annuì. Lo vide scomparire al di là della porta e lo lasciò andare così, senza aggiungere altro, mentre invece avrebbe voluto dirgli mille cose, chiedergli se sarebbe tornato, se potevano rivedersi. Non sapeva se quello sarebbe stato un nuovo inizio, o solo un finale più elaborato che avrebbe messo il punto alla loro amicizia. Chiuse gli occhi e cercò di rivivere ogni attimo dell’ultimo quarto d’ora. Per imprimerselo bene nella mente, per essere certo di poterlo avere sempre lì a disposizione in un angolino della sua mente, qualora avesse voluto riviverlo, ancora e ancora. Un piccolo pezzo di lui e John, assieme, da tenere sempre con sé.
 
-Sei un idiota-, disse a se stesso, prendendo la vestaglia blu dai piedi del letto e infilandosela.




Angolo dell'autrice: vorrei ancora ringraziare tutte le splendide persone che stanno seguendo questa storia, per tutti i loro meravigliosi commenti. E mi auguro che abbiate provato anche voi, come me, in questo capitolo, il desiderio di essere ricoverate in ospedale per far compagnia al povero Sherlock!^^ Un grazie particolare ad Alice e Melian per lo splendido lavoro di betaggio.

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Capitolo 5
*** Wolfe & Goodwin ***


La pastina era quasi indistinguibile, dentro tutto quel brodo in cui stava affogando. Un brodo denso, dal colore quasi grigiastro: Sherlock dubitava che avesse mai visto da vicino un vero pezzo di carne. Quella poca voglia che aveva di mangiare scomparve del tutto.
 
Alzò invece la mano destra, distese bene le dita e prese a osservarla con interesse. La stessa mano che poco prima era rimasta premuta con insistenza contro il petto di John. Si sentiva ancora scosso per quel gesto, in apparenza banale e con una giustificazione del tutto plausibile, ma al tempo stesso così carico di significato. Non solo non era un grande esperto di rapporti interpersonali, ma non era nemmeno abituato a percepire le persone come esseri viventi con un proprio bagaglio di odori, sensazioni, aromi ed emozioni. Aveva sentito tutto questo in quegli attimi, che erano sembrati un'eternità, in cui era entrato in contatto con il corpo di John, quasi come se la sua mano avesse agito da amplificatore, non solo dei battiti cardiaci, ma di tutto l'essere dell'amico. Era tutto così insolito. E tutto così dannatamente seducente.
 
Rimase lì a osservare il suo palmo per un periodo indeterminato di tempo. Solo qualche secondo, o addirittura diversi minuti. Non sarebbe stato capace di dirlo. Poi, quando finalmente decise di abbassare la mano, vide John che lo stava fissando sulla porta.
 
-Non hai ancora mangiato niente-, constatò l'amico.
 
Sherlock ebbe un sussulto. Era la seconda volta, quel pomeriggio, che John si materializzava davanti ai suoi occhi, quasi come se fosse una proiezione della sua mente. O del suo cuore. Guardò l'amico, poi la sua mano, di nuovo l'amico e, infine, il vassoio di fronte a sé.
 
-Io… No, stavo pensando.
 
-Tu pensi troppo e vivi poco. Non è molto salutare.
 
Erano state solo poche parole, ma a Sherlock bastarono per rendersi conto di come John fosse in grado di comprenderlo meglio di tutti.
 
-Già… Non posso farci niente-, commentò, chinando il capo con aria un po' mesta.
 
John gli si avvicinò.
 
-Tieni-, disse, tendendo la mano.
 
Sherlock alzò lo sguardo e notò che l'amico gli stava porgendo una barretta ai cereali e cioccolato incartata in una bella confezione di plastica nera e rossa.
 
-La parte di medico che c'è in me si sta già pentendo, ma in questo momento credo che sia più opportuno che tu butti comunque giù qualcosa in quel tuo piccolo stomaco-, aggiunse John, osservando il viso di Sherlock, più scavato del solito.
 
L'amico riuscì solamente ad annuire, incapace di trovare le giuste parole per ringraziarlo o per dire qualsiasi cosa. John era riuscito a sorprenderlo. Alzò una mano per prendere la barretta e, in quell'attimo, le loro dita si sfiorarono appena, così come i loro sguardi. Una carezza quasi impercettibile, come un battito d'ali di farfalla, ma sufficiente a far palpitare il cuore di John.
 
-E poi, come ti ho già detto, qualcuno deve pur occuparsi di te.
 
A quelle parole, Sherlock si lasciò andare a un mezzo sorriso, mentre scartava la barretta e dava un primo morso.
 
Rimasero a guardarsi in silenzio ancora per un minuto, poi John ripeté che doveva proprio andare.
 
-Aspetta-, disse Sherlock, alzandosi. –Ti accompagno fino all’ascensore. Tanto la barretta non rischia di raffreddarsi. E quella roba non la mangio proprio…-, aggiunse, indicando con il mento la minestra.
 
Sherlock trotterellò silenziosamente al fianco dell’altro fino all'ascensore, immerso nei suoi pensieri. Che, nello specifico, consistevano nel decidere se fargli o non fargli quella domanda.
 
-Cerca di mangiare qualcosa-, ribadì John, premendo il pulsante di chiamata. –Va bene anche una fetta di pizza portata da tua madre, ma mangia!
 
Il moro annuì con decisione, pensando a tutto fuorché al cibo, in quel momento. Le porte dell'ascensore si aprirono e vide John entrare. Capì allora che era arrivato il momento di parlare, o di tacere per sempre.
 
-Allora…-, iniziò John, avvicinando esitante la mano alla pulsantiera, ma senza premere alcun pulsante.
 
-Allora torni domani?-, chiese Sherlock, d'un fiato e con una crescente tachicardia.
 
-Certo che torno.
 
-Solo se ti va, eh?
 
-Ho detto che va bene.
 
-D’accordo. Allora a domani...
 
-A domani.
 
John trovò finalmente il coraggio di premere il pulsante e la porta si chiuse davanti a lui. L'ultima immagine che conservò nella mente fu quella di Sherlock che gli faceva timidamente ciao con la mano.
 
 §§§



Il crescente ritardo che aveva già accumulato aumentò ulteriormente quando perse il primo treno in partenza. Lo vide proprio arrivare, arrestarsi, aprire le porte, far salire gli altri viaggiatori dell'ora di punta, richiudere le porte e partire. Il tutto senza che John muovesse un muscolo, immerso com'era nelle sue riflessioni.
 
-Dannazione-, imprecò, quando si rese conto che il suo treno era ormai lontano, dentro il tunnel. Altri cinque minuti buoni d'attesa.
 
Finalmente arrivò un secondo treno, con una ventina di secondi in anticipo su quanto avesse previsto. Salì nel vagone e prese posto su un sedile libero sotto i finestrini. Fu anche fortunato perché quel treno era decisamente più vuoto del precedente. Si passò un paio di volte la mano sulla fronte. Era sudato. Nelle gallerie della tube faceva un caldo insopportabile. Era sudato e terribilmente agitato.
 
Appoggiò gli avambracci alle cosce e chinò il capo, immergendosi di nuovo nelle sue elucubrazioni. Portò la mano sinistra al centro del petto, cercando di ritrovare il punto esatto dove, poco prima, aveva sostato la mano del suo moro amico. Pensò di averlo individuato, all'incirca laddove batteva con veemenza il suo cuore. Chiuse gli occhi e cercò di rivivere quel momento, nel tentativo di imprimerselo bene nella memoria.
 
Non volevo mica baciarti, gli aveva detto.
 
Di certo, non erano state quelle le sue intenzioni, ma era altrettanto innegabile che gli sarebbe piaciuto. Una parte di sé, nascosta chissà dove, lo desiderava sopra ogni altra cosa. Altrettanto innegabile era quanto aveva amato la sensazione prodotta dal contatto con la mano di Sherlock, calda e rassicurante.
 
Strinse gli occhi con una forza maggiore e si ritrovò a pensare ai suoi genitori, ai suoi amici, persino a Violet, con la quale aveva scambiato quel bacio controverso, e a Harriet. Ecco, quando il pensiero si posò sulla sorella provò un brivido, al ricordo della sua dichiarazione inattesa. Avrebbe voluto rivolgersi di nuovo a lei, per sapere di più, non solo su di lei, ma anche su sé stesso. Tuttavia, il solo pensiero lo terrorizzava. Non avrebbe voluto deludere nessuno, ma aveva la sensazione di star deludendo tutti.
 
Non volevo mica baciarti
 
Che stupido.

§§§

Oltre alla barretta ai cereali, era riuscito a sforzarsi sufficientemente da mangiare anche il secondo. La cosa lo fece sentire realizzato e in pace con il mondo intero. Era ancora seduto a tavola quando arrivarono sua madre e Mycroft.
 
-Sta ricominciando a piovere-, disse la donna, levandosi il soprabito e appoggiandolo alla sedia rimasta libera. –Se fa tutta questa umidità già adesso, non oso pensare quando inizierà il torneo di Wimbledon…
 
Si rassettò la gonna e si lasciò andare sulla sedia, mentre il figlio maggiore rimase in piedi, appoggiato alla finestra.
 
-Come andiamo stasera?
 
-Meglio.
 
-Hai mangiato?
 
Sherlock annuì.
 
-La minestra non era granché-, disse, rimanendo sul vago.
 
-Beh, l’importante è che hai mangiato il resto.
 
Così dicendo, si alzò per sistemare il vassoio del figlio, da brava mamma.
 
-E questa da dove arriva?-, chiese, prendendo la carta vuota della barretta e appallottolandola tra la mano.
 
-Una barretta ai cereali. Me l’ha portata un mio amico. Il cibo dell’ospedale fa schifo.
 
E così dicendo recuperò la carta dalla mano della madre, rimasta a mezz’aria alla parola amico.
 
-Un amico?-, ripeté.
 
Sulle prime, Sherlock aveva creduto che la nota di disapprovazione nella voce della madre fosse dovuta alla discutibile scelta nutrizionale, e intuì solo in quel momento come la donna fosse invece rimasta catturata più da quella parola che dalla barretta in se stessa. Si sentì avvampare ed evitò di guardare il fratello. Poteva, tuttavia, sentire lo sguardo di Mycroft su di sé.
 
-Un amico, sì…
 
Cercò di parlare come se si trattasse della cosa più naturale di questo mondo, visto tutti gli amici che aveva. Pensò anche che potesse sfruttare la cosa a suo vantaggio.
 
-Un amico il cui padre è medico-, mentì. –E che presto inizierà anche lui a studiare medicina. Ha detto che potresti anche portarmi da casa qualcosa da mangiare che mi piaccia. Pur di rimettermi in forze…
 
Così dicendo, fingendo una forzata naturalezza e continuando a evitare di incrociare lo sguardo di Mycroft, ripose l’involucro della barretta nella sua rivista a fumetti, a mo’ di segnalibro. Con tutta probabilità, si sarebbe sentito meno a disagio se il fratello avesse pensato che la ragazza con cui aveva parlato al telefono fosse oggetto di un suo interesse sentimentale.
 
-Oh… d’accordo, va bene. Va bene…
 
La signora Holmes rimase lì a guardare il figlio minore con fare stupefatto, probabilmente con lo stesso atteggiamento che avrebbe avuto se le avesse detto di essere in partenza per la Luna.


§§§


-Allora? Vi siete baciati?
 
Il piatto che stava cercando di asciugare gli sgusciò dalle mani per ben due volte prima che riuscisse, a fatica, a riafferrarlo.
 
John e Harriet erano da soli in cucina e stavano riordinando le stoviglie della cena dopo averle lavate.
 
Rosso in volto ed evitando di guardare la sorella negli occhi, John riprese a passare lo strofinaccio con decisione attorno al piatto.
 
-No…
 
E, ad accompagnare quelle due semplici lettere, un mesto e sommesso purtroppo gli uscì subito dopo dalle labbra, non sfuggendo alle vigili antenne di Harry. Per la prima volta, John aveva abbassato un po’ la guardia.
 
-Sai, forse dovresti…
 
-Non sono sicuro di volerne parlare, Harry-, la interruppe il fratello, richiamando tutte le sue legioni difensive sull’attenti.
 
-D’accordo, come vuoi-, borbottò lei, risciacquando una scodella e passandogliela.
 
Rimasero in silenzio giusto il tempo che servì a John per asciugarla, poi Harriet tornò di nuovo alla carica.
 
-Ma ne avete parlato, almeno?
 
John sbuffò e mise da parte la scodella, arrendendosi.
 
-No, lui ha dormito buona parte del tempo. E poi non credo che avremmo affrontato l’argomento. Non c’è niente di cui parlare, dopotutto-, disse, portandosi una mano al fianco e appoggiando l’altra sul piano di lavoro, lanciando uno sguardo vacuo ai piatti già asciugati e impilati.
 
Harriet chiuse il rubinetto, nonostante fossero rimasti i bicchieri da lavare.
 
-E come pensi di comportarti se vi doveste baciare di nuovo?
 
John scosse la testa.
 
-Non capiterà. Non c’è questo rischio.
 
Sorrise a quella parola, ripensando a come l’avesse usata Sherlock solo poche ore prima. Si voltò verso la sorella e incrociò le braccia al petto.
 
-È come… è come se avessi un motorino e lui si fosse mostrato interessato e mi avesse chiesto di provarlo. Non vuol mica dire che abbia intenzione di chiedermi di venderglielo.
 
Harriet sgranò gli occhi e questa volta fu lei a scuotere la testa.
 
-Non riuscirò mai a comprendere i tuoi paragoni, fratello.
 
John si strinse nelle spalle.
 
-È stato solo un gioco, una concomitanza di eventi. Una… prova. A lui probabilmente quel bacio non ha fatto né caldo né freddo.
 
Si voltò nuovamente verso i piatti già asciutti e distese le braccia, appoggiando questa volta entrambe le mani al piano di lavoro.
 
-E poi… ho paura. Di quello che potrebbe dire la gente.
 
-Fregatene della gente-, sibilò Harriet.
 
-Ho paura anche di poterlo perdere. Di non poter più… stare lì con lui a sentirgli dire quelle cose… assurde che dice sempre-, disse, gesticolando con una mano. -O semplicemente guardarlo mentre legge i suoi libri, in silenzio.
 
Ci fu una lunga pausa, durante la quale Harriet studiò il fratello minore negli occhi, con profondo e vivo interesse.
 
-Ommioddio…
 
-Hai capito che sono un’idiota, vero?
 
John si lasciò andare a un triste sorriso amaro.
 
-Ho capito che ti stai innamorando-, ribatté la sorella, con aria grave.
 
Il ragazzo aprì la bocca e la richiuse. Per un attimo si sentì mancare il respiro. Quelle parole, pronunciate così ad alta voce, gli fecero per la prima volta capire come fosse tutto così reale. Era come se, fino ad allora, niente lo fosse stato davvero, perché ogni cosa era rimasta taciuta. Ma ora che si stava iniziando a dare un nome a tutto, la realtà iniziava a prendere forma. Per il momento era solo poco più di un accenno, sei semplici parole pronunciate da Harriet, ma era lì, tangibile, ed era consapevole che, prima o poi, non avrebbe più potuto negarla.
 
-Finiamo di lavare quei bicchieri e non pensiamoci più-, proferì, in un ultimo tentativo di scacciare via i pensieri.
 
Il mattino seguente non sentì la sveglia. Harriet aveva dovuto chiamarlo diverse volte prima che finalmente aprisse gli occhi. E quando, a fatica, lo fece sprofondò nell’imbarazzo più totale rendendosi conto dello stato di eccitazione in cui si trovava.
 
Aveva sognato Sherlock.
 
Aveva sognato di essere con Sherlock.
 
Aveva sognato di essere con Sherlock e di ballare assieme Moondance.
 
Well, it's a marvelous night for a moondance
With the stars up above in your eyes
A fantabulous night to make romance
'Neath the cover of October skies


Davanti ai suoi occhi volteggiava l’immagine un po’ confusa di Sherlock abbracciato a lui, una mano stretta alla sua e l’altra posata delicatamente su un fianco, i corpi che si sfioravano appena e si muovevano in risposta alle note che si libravano nell’aria. Un’immagine che gli faceva infiammare la pelle, nonostante i ripetuti tentativi di scacciarla. Si era trattato di un sogno poco più che innocente, che aveva ben poco di erotico, ma sufficiente ad avere pressoché lo stesso effetto sul suo corpo.
 
Si chiuse in bagno per un periodo di tempo indeterminato, in cui dovette subire anche i rimbrotti della sorella e i suoi colpi decisi sulla porta chiusa.
 
Can I just have one a' more moondance with you, my love
Can I just make some more romance with a-you, my love

 
Il ritornello del romantico brano cantato da Van Morrison gli martellava nella mente e non dava cenno di volerlo lasciare.
 
Dopo dieci minuti di bussare incessante alla porta del bagno, Harriet si era arresa ed era andata a sedersi al tavolo per la colazione.
 
-Oh, bene, finalmente hai deciso di unirti a noi! Sei in ritardo-, fu il commento della madre, quando John prese posto assieme a loro, in cucina.
 
-Hai un aspetto orribile, figliolo…-, fu invece il commento del padre, intento a bere una tazza di caffè nero fumante.
 
John si era seduto al tavolo, ma non aveva ancora iniziato a consumare la sua colazione, le braccia stanche lungo i fianchi, lo sguardo vuoto e fisso davanti a sé.
 
-Ha fatto sogni agitati, per così dire-, proferì Harriet, le braccia conserte e uno sguardo di sfida, ancora arrabbiata per essere stata esclusa dal bagno.
 
John le lanciò un’occhiata carica di risentimento che aveva tutto l’aspetto di una promessa di omicidio. Desiderò ardentemente che apparisse seduta stante una bella fatina in grado di avverare il suo sogno di possedere una casa più grande con tre belle camere da letto – una grande per sé, una piccola piccola per Harriet e una ancor più grande per i loro genitori – che gli permettessero di fare tutti i sogni voluttuosi che voleva senza dover sottostare al pungente controllo notturno della sorella. Ovviamente nessun spiritello alato si materializzò in suo aiuto.
 
-Ci siete a cena, ragazzi?
 
Era sabato e la signora Watson iniziava a fare programmi.
 
-Io vado al cinema dopo cena-, rispose Harriet, ripulendo in un attimo la tazza con il latte e i cereali. Li trovava disgustosi, ma la madre ci teneva che li mangiasse e a lei piaceva ancora accontentarla.
 
-Scommetto che tu vai in ospedale, dopo la scuola…-, disse al fratello, con un sorrisino divertito.
 
-In ospedale?-, domandò la madre, osservando il figlio senza capire.
 
John si sentì avvampare.
 
-Un mio amico è al St. Mary’s. Ha contratto un’infezione.
 
Così dicendo, si alzò, si infilò il blazer e prese lo zaino.
 
-Non ho fame. E non aspettatemi per cena, non so a che ora verrò via dall’ospedale.
 
Prima di andarsene, John lanciò alla sorella uno sguardo con cui le rinnovava la precedente promessa di omicidio. Per tutta risposta, Harriet puntò indice e medio prima verso i propri occhi, poi verso il fratello.
 

§§§


Quando John mise piede nella camera all’ospedale, la trovò vuota. Vedendo il letto perfettamente rifatto, per un attimo pensò che l’amico fosse stato dimesso e provò un senso di frustrazione, che passò immediatamente non appena notò i libri e i fumetti di Sherlock ancora in bella mostra sul comodino.
 
-Stupido-, si disse.
 
Prese una delle due sedie e la spostò sotto la finestra per meglio sfruttare la poca luce che filtrava dalle cupe nuvole di quella fresca giornata piovosa. Si mise a sedere e iniziò a leggere un libro che si era portato dietro per ingannare l’attesa. Trascorsero dieci minuti buoni prima che Sherlock piombasse rumorosamente in camera, così elettrizzato da far sussultare John sulla sedia.
 
-Ciao, che cosa succede?
 
-Oh, sei qui? Non ti avevo visto.
 
John richiuse il libro, un po’ dispiaciuto per quell’affermazione.
 
-Sono qui da una mezz’oretta-, mentì, risentito. Ma subito si pentì e si morsicò il labbro inferiore: era un piacere, dopotutto, vederlo di nuovo in forma.
 
-Ti dimettono?-, chiese, alzandosi e raggiungendo Sherlock, che stava trafficando con il cassettino del comodino.
 
-Non credo, no. Forse domani.
 
-Che cosa sono quelli?
 
-Vetrini! Per il mio microscopio. Vetrini veri, non giocattolo!-, rispose Sherlock, tutto entusiasta, mettendoli al sicuro in una scatola e chiudendo il cassetto.
 
-La dottoressa mi ha portato a visitare il laboratorio di analisi. Oh, John, dovevi esserci, è stato meraviglioso!
 
Gli occhi gli brillavano né più e né meno come quelli di un bambino al luna park. Per quanto si sforzasse, John non riusciva proprio a capire cosa ci trovasse di così eccitante in un laboratorio clinico, ma poco gli importava. Vederlo così felice gli scaldava il cuore; sentire che avrebbe voluto averlo al suo fianco gli scaldava l’anima.
 
-Pipette! Centrifughe! Oh, e c’era pure un incubatore! Non ne avevo mai visto uno!
 
Sherlock si sedette sul letto, sospirando felice.
 
-Peccato non aver avuto con me una macchina fotografica…
 
-Non penso te l’avrebbe lasciata usare.
 
-Già, forse no… Devo scrivere tutto, ora, prima di dimenticarmelo.
 
Prese un quaderno da sotto i fumetti e si mise a cercare una penna.
 
-Lascia, ti presto la mia.
 
Tornò alla sedia, aprì lo zaino, ci frugò dentro e tornò con una penna.
 
-Grazie-, disse Sherlock sorridendo.
 
John fece del suo meglio per evitare di sfiorargli le dita mentre Sherlock gli sfilava la penna dalle mani. Aveva disperatamente bisogno di resettare il cervello sui suoi sentimenti e di certo il contatto, anche il più lieve, con la sua pelle dalle tonalità della porcellana non avrebbe giovato. Sfortunatamente, non riuscì a evitarlo.
 
-Hai la mano ancora fredda, non sei qui da mezz’ora-, constatò Sherlock, iniziando a scrivere velocemente sulle pagine.
 
John trasalì e si sentì arrossire per essere stato sorpreso a dire una bugia.
 
-Minuto più, minuto meno… Cosa vuoi che sia?-, bofonchiò.
 
-I dettagli, talvolta, possono essere essenziali-, sentenziò l’altro, senza guardarlo negli occhi.
 
Cercando un modo per uscire dall’imbarazzo, John decise di cambiare decisamente argomento.
 
-I tuoi genitori?-, gli chiese, tornando a sedersi sulla sedia sotto alla finestra.
 
Sherlock si strinse nelle spalle.
 
-Non vengono?
 
-Mamma verrà all'ora di cena, credo-, rispose, continuando a scarabocchiare sul quaderno.
 
-E tuo padre?
 
-Non lo vedo quasi mai. Lavora. E molto.
 
A quelle parole, John fu pervaso da un senso di tenerezza e non poté fare a meno di pensare a quanto fossero profondamente diverse le loro esistenze.
 
Per diversi minuti, tra loro regnò il silenzio, ciascuno preso dai propri interessi. L'orologio sembrava essere tornato prepotentemente indietro ai loro pomeriggi alla Serpentine. Era piacevole. Era tranquillo. Era la normalità.
 
Fu Sherlock il primo a spezzare quel silenzio, dopo un po'.
 
-Cosa leggi?
 
-Uh?... I quattro cantoni-, rispose John, distrattamente, lanciando uno sguardo alla copertina dell'edizione economica del romanzo che aveva con sé.
 
-Rex Stout?
 
Sherlock lo guardò sorpreso.
 
-Sì…
 
Di rimando, John lo osservò con titubanza.
 
-Stai leggendo Nero Wolfe.
 
-Sì…-, ripeté, cautamente. -È un bene o un male?
 
-Uno dei migliori detective della narrativa poliziesca! Certo che è un bene!
 
John si lasciò andare a un sospiro di sollievo. Le domande di Sherlock in merito ai suoi argomenti di lettura ormai lo turbavano un po'.
 
-Nero Wolfe è una delle menti investigative più brillanti mai uscite dalla penna di qualcuno. Magari esistessero detective così anche nella vita reale…
 
Sherlock scosse il capo, trattenendo a stento l’eccitazione.
 
-Più brillanti e irritanti, vorrai dire. Praticamente faceva tutto Goodwin, lui nemmeno usciva dalle mura di casa-, ribatté John, quasi punto sul vivo.
 
-Non è vero. Le ha lasciate in Alta cucina e La guardia al toro, come minimo…
 
-Beh, non penserai sul serio che qualcuno voglia essere davvero come lui? Un grasso ed eccentrico investigatore privato… Io scelgo Archie su tutta la linea: aitante, di gradevole aspetto, un misto tra Bogart e McQueen…-.
 
John fece un cenno con la mano e assunse un’espressione sognante, quasi immaginando di essere una di quelle affascinanti stelle del cinema.
 
-Ovvio, a te piacciono gli assistenti romantici e alquanto ottusi-, borbottò Sherlock. Questa volta era lui a essere stato punto sul vivo. Non avrebbe mai rivelato, nemmeno sotto tortura, che lui era uno di quei qualcuno. –E comunque vorrei farti notare che Goodwin nutriva un’ammirazione estrema per il suo capo!
 
-Su questo ti do ragione, per arrivare a documentare tutti i suoi casi con così tanta passione e così tanto fervore…
 
E, così dicendo, affondò di nuovo il naso nelle pagine, per poi farlo riemergere subito.
 
-E comunque sempre meglio fare il biografo di Wolfe che di Philo Vance…
 
-Oh, ho letto Il caso della canarina assassinata!
 
Gli occhi di Sherlock brillavano; quasi non gli pareva vero di essere entrato in quella che era una piacevole discussione delle sue passioni con il suo migliore amico. Il suo unico amico.
 
-Bello, sì, ma insomma… c’è questo tizio che descrive in modo così asettico le avventure del suo amico. A volte se ne sta lì e gli altri personaggi nemmeno gli parlano, quasi fosse un fantasma. Dal canto mio, se dovessi scrivere la biografia di qualcuno, penso che non potrei fare a meno di arricchirla con qualche dettaglio interessante vissuto in prima persona.
 
Scrollò le spalle e tornò di nuovo con lo sguardo al libro, lasciando Sherlock a riflettere sulle sue parole.
 
-Sei un inguaribile romantico-, mormorò, una volta terminate le sue riflessioni.
 
John si sentì arrossire e si impose di non alzare lo sguardo.
 
-Se mai facessi qualcosa di importante nella vita… vorresti essere il mio biografo?
 
Sherlock aveva posto la domanda con il tono di un ragazzo che invita la ragazza che gli piace al ballo annuale della scuola: titubante e speranzoso. Allorché, John fissò con un’intensità ancora maggiore le pagine davanti ai suoi occhi, quasi nella speranza che Archie Goodwin gli desse istruzioni su come procedere. Aveva la sensazione che l’amico gli stesse comunicando qualcosa di preciso, ma non aveva la minima idea di che cosa.
 
-Uh, beh… sì, certo. Va bene-, farfugliò.
 
Per la seconda volta, ciascuno tornò a fare ciò che stava facendo e, sempre per la seconda volta, fu Sherlock a rompere il silenzio.
 
-Ti è mai capitato di fare sogni su noi due?
 
John alzò lo sguardo e lo riabbassò subito. Panico. Panico intenso e totale che, in meno di un secondo, si diramò in tutto il suo corpo. Avvampò e si strozzò con la sua stessa saliva, aggrappandosi con una mano al bracciolo della sedia. Prese a tossicchiare e ripeté mentalmente la domanda di Sherlock per essere assolutamente certo che non avesse aggiunto la parola erotici dopo sogni.
 
-Sai, l’altra notte ho sognato di essere Nero. E tu Archie. E Mycroft Fritz.
 
John sospirò e inspirò profondamente, allentando la presa sulla sedia e lasciandosi andare a un gemito di sollievo. Ringraziò Dio almeno tre volte in altrettanti secondi.
 
-Cucina bene tuo fratello?
 
-Per niente!
 
Risero entrambi e questa volta John alzò il capo senza paura e posò lo sguardo sull’amico. Era felice anche lui di scoprire nuovi punti di intesa tra loro. Rimasero così per un po’, occhi negli occhi, ad assimilarsi l’un l’altro. Poi, Sherlock riprese in mano il suo taccuino e John ripiombò nuovamente nella lettura.
 
 
Note dell’autrice: finalmente sono riuscita ad aggiornare questa storia! Scusatemi ma sono stata in vacanza ^_^ Ho scelto anche in questo capitolo di parlare di Wolfe e Goodwin, un’altra coppia investigativa che adoro. Almeno fino a quando ho letto su wikipedia che esiste una corrente di pensiero che sostiene che il celebre detective montenegrino trapiantato a New York sia in realtà il figlio segreto di… coff coff… Sherlock e Irene… Stendo un grandissimo no comment su questo. Avevo deciso di non usare più il personaggio di Harry, ma non ce la faccio proprio. È troppo forte! In versione teenager me la immagino come Chidori di Full Metal Panic. Senza i capelli azzurri, possibilmente! Sempre parlando di Goodwin, il riferimento cinematografico avrebbe dovuto essere a Gary Cooper (secondo le affermazioni dello stesso Stout), ma ho voluto sostituirlo come McQueen in onore di Martin e di questo post su tumblr (grazie Marica, ti lovvo come sempre <3). Ancora grazie di cuore a chiunque continui a leggere la mia storia! Mi rallegrate le giornate!
 
 
 

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Capitolo 6
*** Di baci e carezze, di soap-opera e telefonate ***


-Ciao! Io sono la madre di Sherlock, è un grandissimo piacere conoscerti.
 
La signora Holmes era apparsa sulla porta della camera poco dopo le 18:30, con una teglia di pizza, un sorriso a trentadue denti e una mano tesa in segno di saluto.
 
-Uh, ecco io… Mi chiamo John-, farfugliò il ragazzo, riponendo il libro e stringendo la mano della donna.
 
-Davvero un grande piacere!-, ripeté lei.
 
-Sì… altrettanto.
 
John sorrise imbarazzato.
 
-Ci tenevo davvero tanto a conoscerti e sono lieta di averti trovato ancora qui, Anche se è un po' tardi. In che zona abiti di Londra, esattamente? Sherlock mi ha detto che vuoi studiare medicina… Oh, e vedo che ti piacciono i libri gialli! Anche al mio bambino piacciono tanto. I tuoi autori preferiti?
 
Lo sguardo di John, imbarazzatissimo, continuava a saltellare dalla signora Holmes (che stava ancora reggendo fieramente la teglia di pizza come se fosse una preziosissima scatola di Tiffany) a Sherlock, che teneva lo sguardo incollato sui suoi fumetti, ancora più a disagio di lui, se possibile.
 
-Mamma, John non è qui per chiederti la mia mano. E, se anche fosse, rischieresti di farlo fuggire con questo assillante interrogatorio. Faresti scappare chiunque fosse venuto qui per qualsiasi motivo.
 
John arrossì violentemente alla scelta delle parole usate da Sherlock e prese a osservarsi insistentemente le scarpe, sentendosi troppo in imbarazzo per rischiare di incontrare lo sguardo di uno dei due.
 
-Oh, d’accordo. Non volevo essere invadente…
 
-Nessun problema, signora Holmes, davvero.
 
-Beh, in ogni caso, se ti andasse di fermarti, ho portato la pizza-, disse, appoggiando finalmente il cartone sul tavolo e allontanando le bottiglie d'acqua e le posate, in modo da fare più spazio. -Ne ho presa in più, perché speravo di trovarti ancora qui.
 
John osservò indeciso la pizza, poi il suo orologio. Prima che potesse rispondere, riuscì a percepire chiaramente lo sguardo dell'amico su di sé.
 
-Mi farebbe davvero piacere se ti fermassi, John.
 
Le parole uscirono dalla bocca di Sherlock e raggiunsero John come una delicata carezza, un soffio di brezza fresca in un pomeriggio afoso.
 
-Volentieri, sì. Farebbe piacere anche a me…
 
Sollevò il capo dall’orologio e affondò lo sguardo negli occhi dell’amico, dove si soffermò qualche attimo, sentendosi cullato da quelle iridi soavi, nonostante apparissero a prima vista fredde come il ghiaccio.
 
-Purtroppo qui abbiamo solo acqua naturale, ma se ti va dell’altro posso andare a prendertelo al bar all’ingresso.
 
-L’acqua andrà benissimo, signora Holmes-, rispose John, allontanando a fatica lo sguardo da Sherlock.
 
-Ottimo! Allora io vi lascio soli, a mangiare e chiacchierare indisturbati. Ci vediamo più tardi, tesoro.
 
La signora Holmes si chinò per lasciare un bacio veloce sui capelli del figlio, che per tutta risposta si ritrasse, a metà strada tra l’infastidito e l’imbarazzato. John non poté fare a meno di sorridere.
 
-Tesoro…-, lo canzonò, non appena rimasero soli.
 
-Piantala!
 
-Tranquillo, mia madre avrebbe fatto la stessa cosa.
 
Sherlock si sistemò a gambe incrociate sul letto, mentre John si sedette di fronte a lui con le sue che ciondolavano in fuori, dopo una veloce incursione in bagno per prendere un asciugamani pulito da utilizzare a mo' di tovaglia. Tra loro, la teglia di pizza calda e ancora fumante.
 
-Io adoro la pizza-, commentò John, con la bocca piena, masticando.
 
-Io non la mangio praticamente mai. Mamma non la considera molto salutare-, ribatté Sherlock, iniziando a mangiucchiare una fetta e trovandola di gusto sorprendentemente piacevole.
 
-Sono solo carboidrati!
 
-Mamma è fissata con le calorie.
 
-Non mi sembri un tipo soggetto a ingrassare.
 
Sherlock si strinse nelle spalle e per qualche minuto rimasero in silenzio, intenti a consumare la loro pizza.
 
-Io adoro soprattutto uscire a mangiarla con gli amici, il sabato sera. È divertente.
 
-Mai fatto. Lo sai che non ho amici.
 
Sherlock aveva parlato chinando il capo e tenendo lo sguardo fisso sulla pizza, evitando di incrociare gli occhi dell’altro. Lui non possedeva i gusti e gli interessi di un normale adolescente della sua età. Era semplicemente diverso. Tuttavia, spesso si chiedeva se, avendo una persona con cui poter sperimentare nuove cose – le stesse che sembravano interessare alla gente comune – non potesse finire anche lui per apprezzarle.
 
John notò una nota di tristezza appena percettibile nelle parole dell'altro e si morsicò il labbro, pentendosi per quanto aveva detto.
 
-Non è vero che non hai amici, hai me. Stiamo mangiando una pizza, è sabato sera e ciascuno di noi è indiscutibilmente non a casa propria. Quindi, d'ora in poi, non puoi più dire di non essere mai uscito il sabato sera a mangiare una pizza.
 
Sherlock si lasciò andare a un sorriso divertito e John si sentì sollevato per aver apparentemente riparato al danno che avevano forse causato le sue parole sconsiderate.
 
-E, dopo che sarai uscito di qui, ci possiamo andare davvero un sabato sera. A mangiare la pizza, intendo. O qualsiasi altra tu cosa gradisca.
 
-Mi piace il cibo cinese.
 
-Il cinese va bene.
 
-È una promessa?
 
Sherlock lo fissò intensamente negli occhi, con aria grave. John ebbe la sensazione che cercasse di penetrargli nella mente per accertarsi della sincerità delle sue parole. Per un attimo, poté quasi percepire una connessione mentale con l'altro. E la cosa gli piacque terribilmente.
 
-È una promessa.
 
Nessuno di loro capì bene come accadde. Accadde e basta. Forse a suggellare nel migliore dei modi quella promessa. D'improvviso, la camera attorno a loro non esisteva più. Sparì il lieve odore secco di disinfettante emanato dalle pareti attorno a loro, come pure il profumo piacevole e ancora invitante della pizza che si stava ormai raffreddando. La pioggia non batteva più così incessantemente contro la finestra; e, se ancora lo stava facendo, le loro orecchie smisero di registrarne il rumore. Il vociare di pazienti e visitatori che passeggiavano in corridoio, misto al fruscio dei carrelli spinti dalle infermiere che stavano finendo di distribuire la cena, iniziò pian piano a scemare, fino a diventare poco più di un lontano brusio. Scomparvero la voglia di mangiare, la voglia di parlare e, da ultimo, anche lo spazio tra loro, rimpiazzati dall'istinto naturale di lasciar parlare i propri sensi da quel momento in avanti.
 
Nel silenzio ovattato che li avvolgeva, le loro bocche si incontrarono timidamente in un bacio poco più che accennato, le labbra dell'uno accostate appena a quelle dell'altro, con la delicatezza mista a riverenza di una farfalla che si posa su un fiore appena sbocciato.
 
Gli occhi di John rimasero aperti, per timore che, se li avesse chiusi, tutto sarebbe svanito in una bolla di sapone.
 
Anche gli occhi di Sherlock rimasero aperti, perché voleva riempirli di John, dei suoi lineamenti, della sua dolcezza.
 
Il sapore che John stava gustando dalle labbra di Sherlock era gradevole. La sua bocca non aveva il gusto amarognolo lasciato dai farmaci; sapeva di buono, di pizza, era fresca e leggermente dolce. Ci sarebbe morto su quelle labbra, succose come un frutto nel pieno della maturazione.
 
Sherlock era invece bombardato da una miriade di informazioni, provenienti non solo dalle labbra di John, ma da tutto il suo corpo. Percepiva il sapore salato della pizza, ma anche le sfumature del the agli agrumi che aveva bevuto in mattinata durante l'intervallo delle lezioni. Dalla sua camicia, sentiva forte e chiaro il lieve aroma agrodolce del tabacco, probabilmente lasciato da una sigaretta fumata da un amico che gli era stato troppo vicino. Avvertiva perfettamente dalla sua pelle il fresco profumo del sapone che aveva usato quella mattina per sciacquarsi il viso, misto a una leggera traccia di sudore, che non gli dava fastidio, tutt'altro.
 
La spina dorsale di John fu percorsa da un lieve fremito, prima di abbassare le palpebre e abbandonarsi a quelle sensazioni, fiducioso.
 
Sherlock attese un attimo, poi lo imitò, con un po’ di timore. Ma gli piacque. Ogni cosa che sentiva e provava gli piacque. Lasciarsi andare nel buio all’immaginazione, guidato dai sensi. Pensò anche se fosse un ottimo esercizio, quello: chiudere gli occhi, farsi baciare da John e lasciare che il suo giovane cervello partisse per la tangente deduttiva, cercando di ricostruire tutte le attività compiute dall’amico partendo da ciò che percepiva dal suo corpo.
 
D’istinto, strinse ancor di più gli occhi già chiusi e premette intensamente le proprie labbra serrate contro quelle di John, il quale dovette far forza su se stesso per impedirsi di cedere alla bramosia di fare alla bocca di Sherlock ciò che Violet aveva fatto alla propria: mordicchiarla, intrufolare dolcemente al suo interno la propria lingua per accarezzarla e scoprire se era davvero così morbido come se lo immaginava, assaporandone meglio la saliva.
 
Il suo cuore urlava e si dimenava nel suo petto, ma qualcosa di più forte lo teneva ancora fermo ai blocchi di partenza. Paura? Vergogna? O l’enorme rispetto che provava nei confronti del ragazzo di cui si stava innamorando? Sherlock non solo era un ragazzo; era un ragazzo più giovane di lui. Cosa che implicava che dovesse essere lui quello che doveva ragionare con la testa, non con altro.
 
Tutto quello che John fece fu artigliare una mano al materasso, per non cedere al suo istinto. Come in una sorta di altalena in equilibrio, l’altra si alzò di riflesso verso il viso dell’altro, ma si riabbassò immediatamente. Un rapido movimento silenzioso, che tuttavia non sfuggì agli iperattivi sensi di Sherlock, che di colpo aprì gli occhi e si staccò dalla bocca dell’amico.
 
John trasalì e spalancò le palpebre, sentendosi come se avesse perso improvvisamente l’equilibrio dopo aver camminato lungo un cornicione senza parapetto. Ogni cosa attorno a lui iniziò a riprendere forma, gettandolo di nuovo nella realtà.
 
-Che cosa pensavi di fare?-, chiese Sherlock, aggrottando perplesso le sopraciglia.
 
-Uh… ecco, io…-, farfugliò John, diventando bordeaux in viso.
 
-Con quella mano, intendo.
 
John lanciò un’occhiata furtiva alla mano che poco prima aveva alzato, arrossendo ancor di più, se mai fosse stato possibile.
 
-Volevi fare qualcosa, ma poi hai cambiato idea perché non hai trovato il coraggio-, sentenziò Sherlock.
 
John si sentì punto sul vivo e leggermente infastidito, oltre a domandarsi come cavolo facesse l’altro a intuire certe cose. A occhi chiusi, per giunta.
 
-È così che ti comporti con gli altri ragazzi a scuola? È per questo che fate a pugni?
 
-È questo che volevi fare con quella mano? Prendermi a pugni?
 
-No…
 
John sentì che stava sprofondando rovinosamente in un pozzo di imbarazzo totale, senza intravederne il fondo da nessuna parte.
 
-Volevo accarezzarti i capelli…
 
-Allora che aspetti? Fallo.
 
John alzò titubante la mano, esercitando nel movimento tutta la lentezza di questo mondo. Non aveva mai accarezzato i capelli a nessuno prima di quel momento, ragazza o ragazzo che fosse. Semplicemente, non ne aveva mai sentito il desiderio, ma stavolta era diverso. Con Sherlock ogni cosa era diversa. Si domandò che cosa avrebbero fatto gli eroi dei suoi fumetti preferiti in quella stessa circostanza. Robin certamente non avrebbe mai fatto una cosa del genere con Batman, ne era sicuro. Ma come si sarebbe comportato Archie Goodwin con la vivace ereditiera Lily Rowan, ad esempio? Di sicuro sarebbe stato dolce e delicato. E magari dopo lei gli avrebbe offerto uova e pancetta per colazione.
 
Gli tornò improvvisamente alla mente la prima volta che aveva sfiorato i capelli dell'amico, quando, fradici di pioggia, glieli aveva asciugati alla bell’e meglio con una salvietta. Aveva ancora ben nitida di fronte agli occhi l'immagine delle goccioline che imperlavano i suoi ciuffi, normalmente ribelli, in quel momento insolitamente domati, così come era ancora vivido il loro profumo.
 
I capelli di Sherlock erano morbidi e docili, sotto la sua mano. Se li era immaginati che potessero essere pesanti e ruvidi dopo tutti quei giorni in ospedale, invece scorrevano che era un piacere sotto le sue dita. E non poté fare a meno di pensare a quanto fosse dannatamente bello il viso affilato del moro e a quanto desiderasse ancora e ancora baciare le sue labbra, le gote e persino gli occhi, facendosi solleticare dalle lunghe ciglia nerissime. John sarebbe andato avanti per ore ad accarezzargli i capelli e a nutrirsi della sua bellezza.
 
-Quando ero piccolo e non riuscivo a prendere sonno, mamma mi accarezzava sempre i capelli e le tempie. Lei pensa che me lo sia dimenticato, ma non è così.
 
-Tu ti ricordi sempre tutto, vero?
 
La mano di John indugiò teneramente sulla tempia destra.
 
-Sì. A volte è terribile.
 
-Anche i torti?
 
Sorrise mentre lo chiese, massaggiandogli teneramente la tempia con il pollice. Poteva sentire nitidamente le pulsazioni sotto il suo polpastrello. Gli sembrava di aver stabilito, quasi come aveva fatto Sherlock poco prima, una connessione con il suo cuore e la cosa gli piacque terribilmente.
 
-Soprattutto quelli. Nel caso fosse utile rivangarli all'occorrenza.
 
John perse immediatamente la voglia di sorridere, pensando a come ci fosse anche lui dentro il calderone dei torti subiti da Sherlock.
 
-Sei peggio di una donna!
 
Risero e John fu lieto di aver portato la conversazione su altri binari.
 
Un attimo dopo il cigolio della porta che si apriva fece tornare entrambi con i piedi per terra e John ritrasse velocemente la mano, allontanandosi con uno scatto dall'amico, imbarazzato. Sherlock invece non distolse lo sguardo da lui nemmeno per un attimo, incurante dell'arrivo della madre.
 
-Il caffè del bar qua sotto è davvero buono-, disse la signora Holmes nel tentativo di rompere il ghiaccio. –Hanno una Cimbali-, aggiunse, sfregando le mani sul soprabito rosso. Si appoggiò al tavolo e guardò i ragazzi, sorridendo. John si mordicchiò il labbro inferiore e si lasciò andare anche lui a un forzato sorriso di educazione, senza proferire parola. Sherlock non disse nulla e non fece nulla, a parte un grande sforzo su se stesso per non dire alla madre di levarsi dalle scatole. Ma la signora Holmes era tutt'altro che un'ingenua.
 
-A ogni modo, fate pure finta che io non ci sia-, disse, mettendosi a sedere sulla sedia sotto la finestra, in fondo alla stanza, dopo aver messo da parte lo zaino di John. Prese anche lei un libro dalla propria borsa e si mise a leggere. O, per lo meno, questo è ciò che tentò di fare. Riuscì a leggere solo un paio di righe, prima di cedere.
 
-Era buona la pizza?-, domandò, con un altro sorriso.
 
Sherlock alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, mentre John sogghignò: era un piacere vederlo fremere così per il comportamento della madre.
 
-Sì signora Holmes, grazie-, John fissò i suoi occhi in quelli dell'amico, che ricambiò lo sguardo con intensità. -La migliore della mia vita.
 
Sherlock gli sorrise, dimenticandosi tutto d’un tratto dell'invadenza della madre. Allungò con titubanza una mano verso quelle di John, appoggiate sul materasso accanto alla scatola della pizza, e gli sfiorò timidamente le dita.
 
-Grazie-, gli sussurrò.
 
Cinque minuti dopo, John se n'era andato, lasciandosi alle spalle uno Sherlock per la prima volta consapevole della propria felicità.
 
 

§§§
 

 
Erano le 7 quando, l'indomani, Sherlock fu svegliato dall'infermiera e dalla sua inseparabile siringa.
 
-Buongiorno! Ultimo piccolo prelievo poi, se va tutto bene, sarai a casa prima di pranzo.
 
Sherlock grugnì, sollevando a fatica la testa da sotto il cuscino e girandosi lentamente a pancia in su. Era molto contrariato con se stesso: da quando John era tornato a trovarlo, non l'aveva più sognato e la cosa lo dispiaceva alquanto. Era come se i sogni fossero stati un meccanismo di sopravvivenza messo in atto dal suo cervello per superare la perdita ed evidentemente, ora che l'amico era nuovamente al suo fianco, il suo muscolo pensante aveva pensato bene di distruggere la sua versione onirica in quanto superflua e non più necessaria.
 
Non gli era mai piaciuto sognare, lo aveva sempre considerato uno spreco inutile di energie, ma i sogni con John sapevano di speciale. Sebbene al risveglio venisse spesso assalito dal senso di tristezza dovuto alla solitudine, erano sempre stati contraddistinti dal sapore dell'avventura, del divertimento e della vitalità. E ora, nella banalità del sonno piatto e senza sogni, ne sentiva la mancanza.
 
L'infermiera rimosse il laccio emostatico in lattice e lo ripose assieme alla siringa nel contenitore di acciaio che aveva portato con sé. Premette con vigore un batuffolo di cotone nel punto in cui aveva appena effettuato il prelievo e piegò il braccio di Sherlock.
 
-Tieni ben premuto, al solito. La mia collega sarà qui alle 8 con la colazione.
 
A metà mattinata ricevette i risultati delle analisi. Valori perfetti, permesso di uscita accordato. La prima cosa che Sherlock fece una volta ricevuta la notizia fu balzare giù dal letto, aprire il cassetto del comodino e prendere alcune monete dal borsellino lasciato dalla madre. Quindi, si infilò la vestaglia e uscì in corridoio. La sua premura era quella di informare l'amico della lieta novella. Ricordava il numero a memoria. 
 
-Casa Watson.
 
La voce giovanile di Harriet era squillante ma tradiva una nota di insofferenza. Come sempre del resto.
 
-Ciao. C'è John?
 
-No, è fuori.
 
La nota di insofferenza aumentò.
 
-Oh...
 
-Credo che sia con quella sua sottospecie di ragazza.
 
La nota di insofferenza toccò, a questo punto, il picco massimo e Sherlock ripeté un altro Oh, ancora più desolato del primo, se possibile.
 
-Vuoi lasciargli un messaggio?
 
Ce n'erano tanti di messaggi che avrebbe voluto lasciargli, ma si limitò al più essenziale.
 
-Solo che stamattina mi dimettono. Che non c'è più bisogno che venga a trovarmi in ospedale-, rispose con voce piatta, tradendo tuttavia un leggero disappunto.
 
-Oh cazzo...-, imprecò Harriet, capendo solo in quel momento con chi stesse parlando. Perché accidenti non si era presentato? Così avrebbe forse evitato di fare una tremenda frittata.
 
-Grazie e ciao.
 
Un attimo dopo Sherlock aveva riattaccato e Harry aveva solo voglia di picchiare la testa contro il muro per la sua stupidità.
 
Il ragazzo rimase un attimo a fissare il telefono, mentre il suo giovane cuore andava silenziosamente di nuovo in frantumi. E questa volta, dopo tutta la felicità che aveva conosciuto solo la sera prima, faceva più male. Decise che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe provato a telefonare a John.
 
Infilò le mani nelle tasche della vestaglia e iniziò a camminare lungo il corridoio, lo sguardo basso, incurante degli altri pazienti o del personale attorno a lui. Un’infermiera lo urtò malamente e si lasciò andare a un Ehi alquanto irritato, mentre lui nemmeno rispose, né mosse un muscolo. Non esisteva più niente o nessuno. Non sentiva più nulla, odori o rumori. Niente contava o era importante.
 
Cinque minuti dopo si ritrovò, senza sapere bene come, seduto su una poltrona nell’area comune di svago, gli occhi fissi sul televisore acceso, la mente altrove. Sul divano accanto a lui erano sedute altre due persone, una signora anziana, intenta a guardare con interesse il programma che stavano trasmettendo, e un uomo più giovane, intendo a svolgere un cruciverba. I protagonisti della soap-opera stavano litigando animatamente.
 
Una ragazza, John aveva una ragazza. Non gliel'aveva mai detto. O forse l'aveva fatto, ma lui non aveva capito bene la portata della cosa. Non era abituato a questo genere di... cose. Cose che aveva il sentore potessero portare solo disgrazie. Non ci vedeva nulla di buono nell’avere una ragazza.
 
O, meglio, non ci vedeva nulla di buono in John che aveva una ragazza.
 
Per essere esatti, non ci vedeva nulla di buono per se stesso.
 
I due protagonisti ora sembravano aver fatto pace. Lui aveva preso lei per mano ed erano scappati correndo nello sgabuzzino di quella che sembrava essere una scuola. E ora si stavano baciando appassionatamente, come se la distruzione dell’intero Universo fosse prossima alle porte.
 
Erano tutti labbra, lingua e mani. Più si baciavano e più Sherlock non riusciva a staccare loro gli occhi di dosso. Si sentì avvampare e terribilmente accaldato, mentre la sua mente lasciava quelle quattro mura e vagava nel tempo fino al castissimo bacio che si era scambiato con John, la sera prima.
 
Si disse che era proprio uno stupido.
 
Desiderò ardentemente che John fosse lì con lui, in quel momento. Lo avrebbe trascinato nella sua camera, si sarebbero chiusi nel bagno e lo avrebbe baciato, con la stessa passione e lo stesso trasporto che ci stavano mettendo i due attori sullo schermo. Non avrebbe avuto bisogno di recitare, non avrebbe avuto bisogno di fingere. Avrebbe avuto solo bisogno di allentare un po’ le redini, togliere i blocchi che fino ad allora lo avevano tenuto fermo alla partenza.
 
L’unico problema era che, vista la sua totale inesperienza, avrebbe fatto schifo e, con tutta probabilità, John avrebbe rimpianto la sua ragazza.
 
Si disse di nuovo che era proprio uno stupido.
 
Lui, sempre così sveglio e veloce a comprendere le cose, ci aveva messo settimane a intuire un concetto così evidente: si era innamorato di John.
 
Fatto.
 
E avrebbe voluto con ogni muscolo, osso e centimetro di pelle del suo corpo essere lui il suo ragazzo.
 
Altro fatto.
 
Dopotutto, forse era il giunto il momento di prendere in mano le armi e iniziare a combattere per il suo amore. Come un giovane cavaliere che, munito della sua cotta di maglia lucida e di una spada splendente, si getta nel fuoco per salvare la vita della damigella amata.
 
Fatto inequivocabile. È così che andava il mondo. O, per lo meno, era così che c’era scritto nei libri. E se lo dicevano i libri…
 
-Non sei un po’ troppo giovane per guardare questi programmi, giovanotto?
 
La voce della signora anziana lo riportò con i piedi per terra. La cotta lucente e la spada splendente erano sparite.
 
-E lei non è troppo vecchia?
 
La donna borbottò qualcosa circa la maleducazione dei giovani d’oggi e se ne andò.
 
 

§§§

 
 
-Che cosa succede quando ti trovi una ragazza, My? Cambia la tua vita?
 
La testa di Mycroft emerse per un attimo dall’armadio in cui era immersa, assieme a buona parte del resto del suo corpo, per sistemare il borsone di Sherlock.
 
Il maggiore degli Holmes pensò che, in quel momento, avrebbe gradito più che volentieri una bella sigaretta. Sarebbe stato più semplice spiegare al fratello minore il rapporto tra teorie relativistiche e pensiero filosofico del Novecento piuttosto che quello tra ragazzi e ragazze.
 
-Se è un rapporto sano, la propria vita può cambiare, sì. Se non lo è, allora è tutto un altro discorso.
 
Sherlock era seduto sul letto, ma questa volta pigiama e vestaglia avevano lasciato il posto a bermuda scuri e camicia color panna, arrotolata sulle maniche. Aveva appena finito di farsi una doccia e ora i capelli umidi incorniciavano il viso dalla pelle leggermente arrossata dai getti d'acqua calda. Aveva sempre amato le docce bollenti e questa volta aveva aumentato la temperatura al massimo, per rinvigorire il suo corpo – e la mente – il più possibile dopo gli avvenimenti della mattinata. Guardava con attenzione i movimenti del fratello, mentre metteva via le sue cose. La risposta appena udita non gli piacque molto.
 
-E in che modo può cambiare?-, chiese, una gamba piegata e l'altra che ondeggiava giù dal letto con finta noncuranza.
 
Mycroft iniziava a sentirsi parecchio a disagio, soprattutto perché conosceva bene a che cosa miravano esattamente le domande del fratello.
 
-Le persone, quando si fidanzano – quando trovano l'anima gemella o semplicemente qualcuno con cui passare il proprio tempo – tendono a diventare esclusivi con il resto del mondo. Almeno nella fase iniziale di passione.
 
Passione. Questo termine associato a John e un'altra persona che non fosse lui gli piaceva molto poco.
 
Esclusivo. Questo gli piaceva ancora di meno.
 
-E fin quanto durerebbe questa fase di esclusione?
 
In tutta onestà, Sherlock non si aspettava di ottenere grandi risposte dal fratello maggiore, simile a lui in molte più cose di quante potesse immaginare, ma sapeva bene di non avere molte risorse a sua disposizione in quel momento.
 
Per la prima volta, Mycroft smise di concentrarsi sul borsone, appoggiò entrambe le mani alla sponda del letto e fissò seriamente il fratello negli occhi.
 
-Se credi di essere per lui un vero amico, non devi aver paura di perderlo. La vera questione è: pensi di essere per lui solo un amico?
 
Nel tempo di un battito di ciglia, Mycroft vide una moltitudine di pensieri affollarsi dietro le iridi di ghiaccio di Sherlock, che danzavano da una parte all'altra del suo magnifico cervello come un mare di palloncini colorati, scoppiando uno dopo l'altro fino a quando ne rimase uno solo. L'unica risposta plausibile.
 
-Oh, stamattina c’è un sole davvero cocente! E pensare che per domani è prevista di nuovo pioggia…
 
La signora Holmes fece la sua comparsa sulla porta della camera, con il solito tempismo che la caratterizzava.
 
-L’auto è giù che ci aspetta. Voi siete pronti, ragazzi?
 
Mycroft chiuse la lampo del borsone e Sherlock, perso nelle sue considerazioni silenziose, scese dal letto e seguì meccanicamente la madre, senza dire nulla. Improvvisamente, non aveva più molta voglia di tornare a casa, alla vita di tutti i giorni. Le mura dell’ospedale – con un interessante laboratorio di analisi a portata di mano e John che veniva a trovarlo – non gli erano mai apparse così rassicuranti. Fuori, c’era la vita normale, una vita che si stava evolvendo. Le carte in gioco erano cambiate e sussisteva il pericolo di non essere più in controllo della situazione. E Sherlock detestava non avere il controllo.
 
 
§§§
 
 
Erano le due del pomeriggio e Sherlock era sdraiato in ozio sul letto, in camera sua e di Mycroft, le braccia incrociate sotto la nuca, i piedi scalzi l’uno agganciato all’altro. La finestra e la porta erano aperte, nel tentativo di far correre un po’ d’aria e rinfrescare l’ambiente. Teneva gli occhi chiusi, un ciuffo ribelle che copriva leggermente una palpebra e gli faceva un po’ di solletico. Si stava allenando a riconoscere gli odori che lo circondavano: il profumo del gelsomino in giardino, l’aroma del caffè bollente appena fatto proveniente dalla casa dei vicini, l’odore della terra innaffiata da poco nell’aiuola delle formiche.
 
Accanto a lui, sul materasso, una penna e il diario di scuola aperto alla pagina del giorno seguente. E, in un angolino, le lettere S e J scritte solo un minuto prima e separate da un bel cuore.
 
Il trillo del telefono al piano di sotto ruppe la pace pomeridiana. Sherlock si tirò di colpo a sedere e spalancò gli occhi. Un paio di squilli, poi sentì il fratello rispondere. A quel punto, con il cuore in gola, si precipitò giù dalle scale.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:come avete visto, ho modificato la descrizione della storia per includere anche Mycroft e Harriet che sono ancora, e continueranno per un po’ a essere attivamente presenti nella storia. Tanto amore per chi di voi continua a seguire con pazienza questa storia, che è in assoluto la mia preferita e che purtroppo sta volgendo al termine.
 
 

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Capitolo 7
*** Bello bello in modo assurdo ***


-Abbiamo del lavoro da fare e tu mi devi aiutare.
 
Harriet era seduta a gambe incrociate sul divano a casa della sua, per così dire, amica del cuore. Erano sole, quel pomeriggio, i genitori di Meredith usciti per assistere a una partita di cricket. E il pomeriggio che aveva come programma originale qualche ora di teneri sbaciucchiamenti si era trasformato nel poco divertente gioco “Chiama al telefono tutti gli Holmes presenti nell’elenco telefonico (non proprio piccolo) di Londra”.
 
-Tu prendi nota di tutti i numeri che ti detto e poi li spunti, man mano che li chiamo. Quanto sono stata stupida, stupida stupida...
 
E gli Holmes presenti nell'elenco non erano esattamente un paio. Ad alcuni numeri, come se non bastasse, Harriet non ottenne risposta e, con la testardaggine che la distingueva, chiamò e richiamò finché qualcuno non rispose.
 
-Ma perché semplicemente non chiedi a tuo fratello se ti dà il numero?- chiese Meredith ingenuamente, dopo quasi un'ora trascorsa in quel modo.
 
-Perché non voglio che sappia che cosa ho combinato! Ecco perché!-, sbottò Harry. -Dettami di nuovo il numero che abbiamo provato prima.
 
-Quello prima quale?
 
-Quello prima prima!
 
-Quello della via che ha il nome di una varietà di ortaggi?
 
-No, quell'altro.
 
-Quello della via che ha un nome tipo un gruppo rock?
 
Harriet fece cenno di sì con la testa, sbuffò e pensò che, forse, avrebbe dovuto trovarsi una ragazza meno sciocca. Però Meredith baciava bene, fatto non del tutto trascurabile. Suo fratello prima o poi questa avrebbe finito per pagargliela, eccome se lo avrebbe fatto. Di nuovo nessuna risposta.
 
-Forse il telefono è registrato sotto il cognome della madre-, azzardò Meredith.
 
-Non ci voglio nemmeno pensare! Dettami l'ultimo numero dell'elenco.
 
L'indice di Harry corse veloce sulla tastiera del portatile. Un paio di squilli, poi il clic e una voce profonda di uomo. Una voce interessante e familiare, se solo a Harry fossero interessate le voci d'uomo.
 
-Pronto, casa Holmes. In che cosa posso esserle utile?
 
A Mycroft piaceva tanto fingersi il maggiordomo di casa quando il vero domestico era impegnato in cucina o in giardino. Lo trovava un gioco perversamente divertente, perché spesso la persona dall'altro capo del filo, ignorando la reale identità dell'interlocutore, esibiva un comportamento diverso dall'ordinario, degno di essere studiato.
 
Harriet sospirò, i muscoli del suo corpo che iniziavano finalmente a rilassarsi. Grazie al cielo.
 
-Ciao, sono la sorella di John.
 
-Oh, quella dal nome da uomo.
 
Se Harriet fosse stata un fumetto, in quel preciso istante una nuvoletta di fumo si sarebbe sollevata con decisione dalla sua testa e le sue tempie avrebbero iniziato a pulsare con l'intensità degna di un toro inferocito.
 
-Sarà bello il tuo, di nome. E poi il mio è soltanto un soprannome-, ringhiò la ragazza.
 
Dall'altro capo del telefono, Mycroft si lasciò andare a un sospiro annoiato.
 
-Due telefonate in pochi giorni, ti stai forse innamorando?
 
Harriet pensò che, se avesse avuto a disposizione un bazooka, avrebbe volentieri fatto saltare casa Holmes in aria. Con tutti gli Holmes dentro. Con questo John le doveva un favore davvero molto ma molto grosso, trascurando volontariamente il fatto che il casino iniziale era stata lei stessa a combinarlo
 
-Ah-ah-ah! Complimenti per il sarcasmo. Comunque, per inciso, non sei assolutamente il mio tipo.
 
Silenzio al di là del filo. Non un silenzio del tipo "Sei riuscita a ferirmi", ma piuttosto uno di tipo "Vieni al dunque perché mi stai terribilmente annoiando".
 
-C'è tuo fratello?
 
-Sì.
 
Ancora silenzio.
 
-Beh, me lo passi sì o no?
 
-Bastava chiedere.
 
-Sei sempre un tipo così socievole?
 
-Così mi dicono...
 
-Allora saresti un cognato quasi perfetto.
 
-Saresti anche tu una cognata quasi perfetta.
 
-Bene, vedo che noi due abbiamo già deciso...
 
Senza aggiungere altro, Mycroft passò la cornetta al fratello minore, che si era materializzato di fianco a lui poco dopo aver risposto al telefono e saltellava impaziente da un piede all'altro in attesa che il fratello maggiore gli passasse la chiamata (perché sapeva che era per lui, che riguardava John) e che era arrossito violentemente alla parola cognata. Ormai aveva perso il conto delle volte che era inesorabilmente arrossito da quando John era entrato nella sua vita.
 
-Ciao, sono Harriet, la sorella di John, ma puoi chiamarmi Harry...
 
Harriet temporeggiava, perché non era ben sicura di come intavolare l'argomento.
 
Sherlock avrebbe voluto farle notare che si erano già parlati, e per di più quella stessa mattina, ma temeva potesse trovare la cosa alquanto scortese. Normalmente, non si curava minimamente di queste cose, ma qui si parlava della sorella maggiore di John. Era dunque tutto un altro discorso e, tutto sommato, era pur vero che non si erano presentati ufficialmente.
 
-Io sono Sherlock. E mi puoi chiamare...er... Sherlock.
 
Dall'altro capo del filo, Harriet chiuse gli occhi e si massaggiò l'attaccatura tra naso e fronte. Iniziava ad avere mal di testa e la giornata era ancora lunga...
 
- Ho chiamato per dirti... Sì insomma, per dirti che stamattina John non era con la sua ragazza, ma a vedere una partita di cricket con papà.
 
-Cricket?
 
-Giá, cricket, quel gioco che dura ore e ore in cui tutti i giocatori sono vestiti di bianco, e che, diciamoci la verità, è un gran brutto gioco1.
 
Silenzio. Harry pensò che questo ragazzo era davvero poco loquace; cercò di immaginarsi come potesse essere fisicamente e, in ogni caso, le faceva tenerezza e trovava la sua voce alquanto sexy. Dannatamente sexy. Del tipo "più sexy di quella di Meredith".
 
-Ma...  ce l'ha sul serio una ragazza, non è così?
 
La percentuale di tenerezza che Harriet stava provando in quel momento aumentò esponenzialmente, così come tutta la sua disapprovazione nei confronti del fratello per non avere ancora giurato eterno amore ed eterna fedeltà a questo ragazzo tanto insolito quanto degno di nota.
 
-Beh, sì, ma non è una cosa seria. Non stanno realmente insieme. Diciamo che...uhm...a volte fanno quelle cose...sì, beh, quelle cose che a volte fanno ragazzi e ragazze alla vostra età. La loro... Anche la mia...
 
Harriet avrebbe voluto sprofondare volentieri da qualche parte. Non ricordava di essersi sentita più in imbarazzo in vita sua. E la bramosia verso il bazooka aumentava
 
-Lo sai, no?
 
-No, non lo so.
 
E Sherlock era sincero. Harry sospirò e pensò che suo fratello non poteva scegliersi un ragazzo più strano al mondo. Quanto meno, per compensare il livello stratosferico di stranezza, si augurava fosse bello bello in modo assurdo2.
 
-Fanno...esperimenti... su baci, coccole, altre cose...
 
-Oh, esperimenti!
 
La parola preferita di Sherlock! John che conduceva esperimenti era una cosa altamente apprezzabile, anche in via di una prospettiva futura. La voce di Sherlock appariva ora un po' più sollevata. Harriet non era tuttavia sicura che il ragazzo avesse ben compreso, quindi decise di essere più chiara.
 
-Quello che intendo dire è che non è innamorato di lei, capito?-, disse, con tutta l'intensità di cui era capace.
 
Sherlock annuì dubbioso, pur sapendo che Harriet non poteva vederlo.
 
-Hai capito?-, ripeté.
 
-Credo di sì.
 
Harry sospirò, capendo che forse forse, sotto sotto, ce l'aveva fatta.
 
-Perché John ci tiene davvero a te. Capito capito?
 
-Uh, okay...
 
Sherlock non era del tutto sicuro di aver compreso fino in fondo, ma comunque la situazione gli appariva un po' più rosea di come gli era suonata quella mattina.
 
Harriet, dal canto suo, non era del tutto sicura che il ragazzo avesse compreso fino in fondo ciò che aveva cercato di dirgli, ma comunque poteva ritenersi soddisfatta del lavoro svolto e iniziare a pensare alla rivalsa sul fratello.
 
-E poi, non è nemmeno bella. Nemmeno un po’. Se la vedessi…
 
Sherlock aggrottò le sopraciglia.
 
-Non ci penso proprio-, bofonchiò.
 
-Per la precisione, non la trova minimamente bella, rispetto a quanto invece trova bello te.
 
Harriet pensò che calcare un po’ la mano non avrebbe fatto poi male. Sherlock arrossì sino alla punta delle orecchie.
 
-Sì, insomma, questo è quanto… Allora ciao.
 
-Ciao.
 
Riattaccarono.
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Mamma, papà e nonna stavano discutendo di cricket. Ancora. Patate e stufato rischiavano di raffreddarsi sotto le animate discussioni di carattere sportivo. Harriet ne approfittò per chinarsi maliziosa verso il fratello, seduto accanto a lei e che si stava bevendo un bicchiere d'acqua.
 
-Avevo dimenticato di dirti che stamattina ha chiamato il tuo amico Sherlock.
 
John rischiò seriamente di strozzarsi con quell'acqua. Tossì forte un paio di volte e i suoi genitori nemmeno se ne accorsero.
 
-Tu non c'eri, ovviamente. Mi ha detto di dirti che è stato dimesso. Era... ehm... convinto che fossi assieme alla tua ragazza. E la cosa non gli è piaciuta per niente.
 
John tossì di nuovo, questa volta più forte. Era già abbastanza dispiaciuto di essere stato costretto ad assistere a un'interminabile e noiosa partita di cricket che lo aveva tenuto lontano dall'ospedale e ora veniva anche a sapere che Sherlock ci era rimasto male.
 
-Tu hai… hai parlato con Sherlock…-, farfugliò John, che aveva tipo un migliaio di domande da porre alla sorella, tra cui Come diavolo fa a sapere di me e Violet?
 
-Ebbene sì. Due volte, in verità.
 
Stavano bisbigliando, per non far sentire i loro discorsi ai genitori e alla nonna, anche se, data l’animosità della discussione, non ce ne sarebbe stato granché bisogno.
 
-È po’ un tipo strano, te ne rendi conto, non è vero?
 
Harriet aveva posto la domanda guardandolo fisso negli occhi, con intensità.
 
-Come? Sì, beh un po’…
 
-È bello, per lo meno, no? Deve essere molto bello, come minimo…
 
-Cosa? Oh, sì, certo che lo è!-, rispose John, punto sul vivo. Aveva così tanto alzato la voce che gli adulti si voltarono un attimo a guardarlo. Arrossì, quindi si coprì la bocca con il tovagliolo prima di tornare a parlare con la sorella.
 
-Gli hai detto che non ho nessuna ragazza, vero?
 
-Beh, ecco, in verità…- Harry temporeggiava, guardandosi attorno.
 
-Noooo, Harry!
 
Altra occhiataccia da parte di mamma, papà e nonna.
 
-Ma tu ce l’hai una ragazza! E a mio avviso dovresti mollarla al più presto-, constatò la ragazza, addentando una patata.
 
-Harry…-, mormorò John, sconsolato. Gli era passata totalmente la fame.
 
-Comunque, sta tranquillo, fratello. Gli ho detto che non è una cosa seria, che è soltanto una cosa così, senza sentimenti. E lui ha capito. Tutto sistemato.
 
O almeno credo, ma questo se lo tenne per sé.
 
John osservò il suo piatto, senza vederlo realmente. Provava un disperato bisogno di attirare Sherlock a sé e di abbracciarlo, senza ritegno. Un bisogno fisico ed estremo.
 
-Avrei così voglia di sentire la sua voce. Non lo vedo da un sol giorno e già mi manca… Se solo avessi il suo numero… Lui ha il mio, ma io non ho il suo.
 
La mano di Harriet si intrufolò sotto la tovaglia e appoggiò un pezzettino di carta sul grembo di John.
 
-Quanto mi vuoi bene, fratello?
 
Le mani di John aprirono il bigliettino con fare stanco e subito gli occhi vispi si posarono su una Harriet sorridente e maliziosa.
 
-Ho passato più di un’ora a spulciare l’elenco del telefono. Mi devi un favore, fratello. Un favore bello grosso!
 
-Grosso tipo?
 
-Tipo mettere una bella parola con mamma e papà per il concerto di sabato prossimo-, reclamò Harry, nascondendosi anche lei dietro il tovagliolo.
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
-Ciao.
 
-Ciao...
 
-Non posso stare molto purtroppo, sono da mia nonna.
 
-Okay...
 
Silenzio. John avrebbe voluto chiarire la sua posizione con Violet, ma non trovava il coraggio. Sherlock avrebbe voluto chiarire la loro, di posizione, ma nemmeno lui, con il cuore fuori controllo, trovava il coraggio per farlo.
 
-Finalmente ti hanno dimesso...
 
-Già...
 
-Ti senti bene?
 
-Ovvio che mi sento bene.
 
John tergiversava, mentre Sherlock saltellava nervoso sul posto: sentiva di avere lì a portata di mano un'occasione preziosa, ma era incapace di sfruttarla. Gli stava scivolando via dalle dita e lui detestava sentirsi incapace e impotente. Il cuore martellava prepotente nel suo petto, riecheggiando nella gola, mentre avrebbe voluto solo trovare il coraggio di rivelare al mondo intero quanto John fosse importante per lui.
 
-Mi spiace che non siamo riusciti a vederci, oggi...-, mormorò John, la cornetta stretta al viso.
 
-Anche a me.
 
-Mia sorella ti ha rotto esageratamente le scatole?
 
-Che cos intendi dire?
 
-Non ha cercato di farti fare una generosa donazione al partito delle lesbiche,vero?
 
Sherlock rise e smise di saltellare su una gamba. La tensione stava iniziando un po' a scemare.
 
-Tua sorella è simpatica!
 
-John! Il pudding è in tavola!
 
La voce penetrante e mascolina della signora Watson arrivò indisturbata sino a casa Holmes.
 
-Ti chiamano...-, mormorò Sherlock. La sua occasione era definitivamente scemata.
 
-Già. Devo andare...
 
La voce di John non era molto più allegra. Al diavolo quello stramaledetto pudding!
 
-Mi spiace davvero tanto per oggi.
 
-Non importa.
 
Si azzittirono entrambi, nessuno di loro che voleva davvero andarsene.
 
-Ho voglia di vederti, Sherlock...
 
Le parole uscirono dalle labbra di John con naturalezza, senza forzature. 
 
-Anch'io John.
 
Il cuore di entrambi correva come un puledro impazzito e i respiri erano affrettati.
 
-Allora, a presto-, disse John, titubante.
 
-Ciao.
 
Ma nessuno dei due accennava a riattaccare.
 
-John! Mi hai sentito?- urlò più forte la signora Watson.
 
-Sì mamma, arrivo!-, sbuffò.
 
-Scusami...
 
-Non fa niente. Chi riattacca per primo?
 
-Riattacca tu.
 
-No, fallo tu.
 
-Va bene, Sherlock, lo faccio io.
 
-Ciao.
 
Silenzio. La linea era ancora presente.
 
-Stai riattaccando, John?
 
-Sì, ora lo faccio.
 
-Ciao.
 
-Guarda che riattacco!
 
-Sul serio?
 
-Sul serio.
 
-Allora ciao.
 
-Ciao!
 
Click.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Le previsioni della signora Holmes risultarono azzeccate: il giorno dopo pioveva a dirotto.
 
-Sbrigati, Sherlock. Siamo in ritardo, l’auto aspetta.
 
-Non voglio andare in auto, prendo la metropolitana, come al solito-, borbottò Sherlock, infilandosi lo zaino sulle spalle e cercando il suo ombrello tra gli altri mille appartenenti al fratello presenti nel portaombrelli.
 
-Non fare lo stupido, sta diluviando. Hai avuto la febbre, non voglio che ti ritorni.
 
-Mamma, la mia febbre era dovuta al ratto, non ha nulla a che vedere con gli sbalzi termici!-, ribatté il ragazzo, adirato.
 
-Non si discute, ragazzino! Oggi vai e torni in auto.
 
Il che significava, in altre parole, niente John.
 
Sherlock rimase silenzioso per tutto il tempo del viaggio verso la scuola con il viso incollato al finestrino, le gocce di pioggia che scivolavano sul vetro sovrapposte alla sua pelle chiara.
 
A scuola le uniche parole che pronunciò furono un secco Sto bene, la ringrazio a tutti gli insegnanti, che, con più o meno reale interesse, gli chiedevano come si sentisse. Nessuno dei suoi compagni gli riservò lo stesso trattamento o la stessa, per così dire, educazione. Ma a Sherlock la cosa non importava. Il suo piccolo cuore stava diventando ogni giorno più forte, distaccato. E poi, dopotutto, a lui interessava esclusivamente il pensiero di una sola persona.
 
Durante il tragitto di ritorno, Sherlock rimase ancora con il viso incollato al finestrino posteriore della berlina nera di famiglia, le strie dei goccioloni di pioggia sul vetro che si riflettevano implacabilmente sulla sua pelle. Il suo silenzio, questa volta, era frammentato da tristi sospiri. Erano le due del pomeriggio, l’ora in cui solitamente si incontrava con John alla fermata.
 
Trascorse il pomeriggio con il capo incollato sui suoi libri, senza applicarsi più di tanto.
 
-Robaccia-, sbottò a un certo punto.
 
Studiare da soli, senza la silenziosa ma piacevole compagnia di John, non aveva per lui il benché minimo interesse.
 
Quella sera, a tavola, erano seduti tutti e quattro (una delle rare occasioni in cui riuscivano a mangiare tutti assieme). Sherlock stava cincischiando con il riso ormai freddo nel suo piatto. Di fame, non ne aveva per niente. Il suo piccolo e vivace cervello era focalizzato sul suo interesse primario: quale metodo poteva usare per dare una svolta al loro rapporto? Di telefonargli non se ne parlava proprio, visti i suoi ultimi due insuccessi.
 
-Perché non lo inviti a cena da noi, una sera?
 
La voce gioviale di mamma Holmes gli penetrò non richiesta ma stimolante nella mente, quasi come se fosse riuscita a intuire i suoi pensieri più reconditi. O non erano affatto tali?
 
Era riuscita a lanciare bene la sua bomba, mamma Holmes. Già, perché di un vero e proprio attacco si trattava: ovvero, sfidare Sherlock nella disciplina in cui era maggiormente carente, le relazioni interpersonali.
 
-E come si fa?-, domandò il ragazzo, a metà tra il perplesso e l’atterrito.
 
A quella domanda, papà Holmes si scolò tutto il suo calice di vino rosso, ancora completamente pieno, mentre Mycroft abbassò lo sguardo e lo tenne ben incollato sulle fette di arrosto alla Robespierre nel suo piatto e fiondandosi subito dopo alla loro conquista, pronunciando un Oh cielo appena sussurrato.
 
-Beh, ecco…-, iniziò la madre, un po’ titubante. –La prossima volta che vi incontrate potresti chiedergli Ti andrebbe di venire a cena da noi una di queste sere, John? Ci farebbe molto piacere.
 
-Oh…-, Sherlock chinò il capo sul suo piatto, mentre le sue celluline grigie iniziavano a muoversi rapide.
 
-D’accordo, mamma, ma per poterlo fare, mi sa tanto che domani mi toccherà andare a scuola in metropolitana.
 
-Va bene, caro.
 
-Anche se piove?
 
-Anche se piove.
 
-Promesso?
 
-Promesso.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Sherlock era imbambolato da almeno quindici minuti davanti alla propria immagine riflessa nella specchiera da terra in ferro battuto. Era salito di corsa nella camera sua e del fratello subito dopo cena, saltando, con immensa sorpresa di tutti, la regolare visita serale alle sue colture della muffa che teneva nell'ormai famigerato capanno degli attrezzi.
 
Gli sembrava quasi che, da un momento all'altro, lo specchio potesse mettersi a vorticare su se stesso e inghiottirlo per portarlo a correre dietro a un coniglio ritardatario in quell’orrendo Paese delle meraviglie.
 
-Ti andrebbe di venire a cena da me... da noi?
 
Pollice verso.
 
-John...
 
Si schiarì la voce.
 
-Che ne diresti di venire a cena da noi, domani?
 
No, no, decisamente peggio. Scosse la testa.
 
-John, mi farebbe piacere se una di queste sere venissi a cena a casa mia.
 
Ecco sì, questa era decisamente la formula migliore. Si guardò con interesse allo specchio, compiaciuto con se stesso, e si infilò le mani in tasca. E dopo cosa avrebbe dovuto fare? Rimanere semplicemente in attesa di una risposta, o sottolineare magari il suo invito unendo le proprie labbra a quelle dell'amico? Non poté fare a meno di chiedersi se quello fosse davvero amore; ci pensava in ogni momento e proprio non riusciva a smettere. Lui non sapeva proprio nulla dell'amore, nemmeno se esistesse una medicina per curarlo o se fosse semplicemente possibile voltare le spalle per farlo scomparire.
 
Chiuse gli occhi, serrando bene le palpebre, lasciando fuori ogni più piccolo accenno di luce e facendosi avvolgere dallo stimolante incitamento promosso dalle tenebre; quindi, sempre con le mani affondate nelle tasche e i pugni serrati, si sporse in avanti, appoggiando delicatamente le labbra sul fresco e inanimato specchio di fronte a sé. Andò con la mente al bacio scambiato con John quel sabato sera, cercando di rivivere nel migliore dei modi ogni sensazione provata, in modo da farla propria e rielaborarla. Era un po' difficile far pratica di baci con quella cavia troppo fredda e troppo esanime, che nella scala dei piaceri si trovava al polo opposto rispetto alle labbra calde e morbide di John.
 
-Cosa stai facendo, perdiana?
 
Sherlock trasalì a quella pesante intrusione nella sua mente, vacillò sui propri piedi e si dovette appoggiare alla specchiera per non inciampare. Mycroft era sulla porta socchiusa, una mano appoggiata alla maniglia e l'altra al muro. Odiava con tutto se stesso quelle invasioni di privacy non annunciate. Sicuramente il fratello maggiore non aveva bussato. Certo, quella era anche la sua camera, ma la cosa non lo giustificava minimamente. Scartò totalmente l'ipotesi che avesse in realtà bussato, ma che lui fosse stato troppo immerso nei corridoi del suo "palazzo mentale" per accorgersene.
 
-Io stavo... non sono affari tuoi, My-, proferì, asciutto.
 
-Probabilmente hai ragione. Volevo solo avvisarti che sono arrivati gli Smithers per la partita di bridge. Quindi... vedi di contenere le tue...ehm, attività di studio serali limitandoti a fare ciò che farebbe un normale adolescente della tua età.
 
Sherlock sbuffò oltremisura. Detestava ancora di più quando gli altri cercavano di mettere dei paletti ai suoi esperimenti.
 
-Sì, insomma, lascia le muffe al loro posto, stasera, e non dare fuoco a niente.
 
-E i pipistrelli?
 
-Lasciali in pace, almeno una serata libera a settimana se la meritano.
 
Mycroft chiuse la porta, riaprendola mezzo secondo dopo.
 
-Solo un consiglio. I baci sono più belli quando sono guidati dalla spontaneità.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Il giorno seguente non ci fu nemmeno bisogno del passaggio in auto fino a scuola: il sole troneggiava sui cieli di Londra, quasi ad augurare a Sherlock la migliore delle giornate. Con il capo quasi sempre chino sui libri ma la mente altrove, il ragazzo ringraziò il suo santo protettore – perché era sicuro che ne avesse uno – per la clemenza che stavano dimostrando gli insegnanti lasciandolo tranquillo in quei primi giorni di rientro, in quanto, se lo avessero interrogato, quasi sicuramente quella mattina non avrebbe saputo nemmeno dire quale fosse il nome di battesimo della madre.
 
 
 
Alle 2 del pomeriggio, il cuore iniziò a martellargli prepotentemente nel petto mentre scendeva piano le scale della fermata di Bank, un mano che sfiorava appena il corrimano. Nessuna traccia di John alle obliteratrici, al loro bar o d'altra parte. Era logico, si disse: il giorno prima lui non si era presentato, quindi John non poteva essere sicuro che oggi ci sarebbe stato. Sherlock si ripeté questo concetto più e più volte, quasi fosse stato un mantra, mentre scendeva col capo chino le scali mobili che conducevano alla banchina.
 
Infilò entrambe le mani in tasca e mosse i propri passi molto lentamente tra i gruppi di studenti accalcati al di qua della riga. Di tanto in tanto, sollevava il viso e buttava un'occhiata di sottecchi all'altra banchina, alla ricerca di John. Poi lo vide, seduto sulla panchina in fondo, subito all'uscita della galleria opposto, assieme a due ragazzi e a una ragazza. Il suo cuore sussultò e iniziò a galoppare come un cavallo. John aveva gli occhi incollati a una rivista, probabilmente un fumetto, che teneva aperta sulle sue cosce. Sherlock accarezzò il suo profilo con lo sguardo, partendo dai capelli corti color biondo cenere fino ad arrivare al mento affusolato. Avrebbe voluto correre su per le scale, scendere altrettanto di corsa sulla banchina opposta e andarlo ad abbracciare.
 
Poi il suo cuore sembrò fermarsi quando vide la ragazza seduta di fianco a lui chinarsi per lasciare un bacio veloce sulla sua guancia prima di alzarsi in piedi. Doveva essere lei. Sherlock deglutì un paio di volte, nel tentativo di far riprendere al suo muscolo pompante il suo normale ritmo. Un attimo dopo, John, che sembrava non essersi nemmeno accorto di quel bacio, chiuse il fumetto, prese il suo zaino e si tirò in piedi. Fu allora che i suoi occhi si incrociarono con quelli tristi di Sherlock.
 
John gli sorrise caldamente, mentre il suo sguardo sembrava trasmettere una genuina contentezza di vederlo. Sherlock si lasciò andare a un timido sorriso sghembo mentre pian piano alzava una mano per salutarlo. In quell'attimo, il treno per Epping uscì a tutta velocità dalla galleria e si interpose prepotentemente tra loro, sottraendo John alla vista speranzosa di Sherlock. Un getto d'aria calda avvolse il suo viso e gli scompigliò i capelli, facendogli bruciare gli occhi e costringendolo ad abbassare lo sguardo. Quando lo rialzò, prese a cercare John tra la gente che occupava i vagoni, senza tuttavia trovarlo. Detestava quando perdeva il controllo di qualcosa. Poco dopo, le porte si chiusero, il treno ripartì e Sherlock si trovò a guardare intensamente una banchina vuota.
 
Sospirò, si morse il labbro inferiore, allungò le braccia lungo i fianchi e chinò il capo, trovando più interessante le sue scarpe piuttosto della banchina senza John. Sentì il suo treno arrivare, arrestarsi, aspettare e ripartire, senza che lui muovesse un muscolo. A parte tirare su col naso un paio di volte e pensare che il problema di come invitarlo a cena aveva finito col risolversi da solo.
 
Quella doveva essere la sua ragazza. Non la trovava minimamente bella, aveva ragione Harry. Beh, per essere onesti, non l'aveva poi guardata per più di mezzo secondo: se l'avesse fatto, molto probabilmente avrebbe vomitato. Che diritti poteva mai accampare su John che lui non avesse? Solo perché poteva baciarlo? Pure lui lo aveva baciato. Anche se solo un paio di volte... Molto probabilmente, lei lo aveva baciato di più. E magari baciava pure bene. Lui di sicuro no. Due soli baci in tutta la vita non lo rendevano sicuramente un grande baciatore. Sicuramente avrebbe avuto bisogno di più allenamento, esattamente come si allenava a far crescere muffe nello scantinato per studiarne le diverse specie. Sfortunatamente, lui non aveva a disposizione molte persone da baciare. Oltretutto, Sherlock voleva baciare solo John. E poi non...
 
Polpastrelli freschi e delicati gli sfiorarono timidamente la mano sinistra, facendogli provare un brivido lungo tutta la spina dorsale.
 
-Ehi, ciao!
 
John era accanto a lui e gli stava sorridendo. Sherlock si lasciò andare a un'espressione attonita, contentezza mista a stupore totale.
 
-Credevo... credevo fossi salito sul treno. Mi sembrava proprio che lo avessi fatto.
 
-Come potevo andarmene se tu eri qua?
 
-Uffa, mi sono sbagliato. Detesto sbagliarmi. È noioso!-, borbottò Sherlock, guardandosi le scarpe, imbarazzato e contrariato al tempo stesso con se stesso.
 
-Benvenuto nel mondo dei comuni mortali!
 
Il tono di John era allegro e gioviale, felice di avere finalmente di nuovo accanto il suo amico. –Ti va di sederti?
 
Sherlock annuì. Presero posto sulla panchina dietro di loro. Non c’era nessun altro sulla banchina in quel momento.
 
-Pensavo di vederti, ieri...
 
-Mamma non ha voluto assolutamente lasciarmi andare a scuola a piedi. Quattro gocce e si è spaventata!-, bofonchiò.
 
-Erano un po' di più di quattro gocce, Sherlock!
 
-È comunque troppo apprensiva-, insistette l'altro.
 
-La capisco. Lo farei anch'io se dovessi occuparmi di te.
 
Il cuore del più giovane ebbe un sussulto, pensando a come gli sarebbe piaciuto davvero che John si occupasse di lui. Sempre, costantemente. Iniziò a far oscillare distrattamente i piedi, cercando di radunare a sé tutte le forze e il coraggio per invitarlo a cena.
 
-Scusami, avrei voluto telefonarti ieri sera, ma gli allenamenti di calcio sono andati per le lunghe e ho pure perso l'ultimo autobus. Sono tornato a casa tardissimo.
 
-Giocate anche con la pioggia?
 
-Ovvio che sì! Siamo professionisti.
 
Si guardarono negli occhi e sorrisero entrambi.
 
-Non fa niente. Avrei voluto chiamarti anch'io ma... ultimamente non sono molto fortunato quando lo faccio-, ammise Sherlock, lo sguardo perso di fronte a sé. Un gruppetto di persone iniziò a far loro compagnia sulla banchina.
 
John sentì una morsa poco piacevole allo stomaco, a quella frecciatina. Era sicuro si riferisse alla telefonata tra lui e Harriet. E, soprattutto, a Violet. La pelle iniziò a scottare e capì di stare arrossendo.
 
-Oh, beh... in effetti, se lo avessi fatto non mi avresti trovato.
 
-Per l'appunto.
 
Rimasero in silenzio per un po'. Una folata di aria calda li colpì in pieno volto, preannunciando l'arrivo di un altro treno.
 
-Non sali?
 
-Non ho fretta. Preferisco rimanere qui un altro po' con te. Se non devi andare tu...
 
-Non ho fretta neanch'io! E ho voglia di chiacchierare ancora.
 
Sherlock gli sorrise. Era davvero contento di essere di nuovo assieme all'amico, nella rassicurante normalità della metropolitana. Sarebbe stato tutto perfetto – quasi – se non fosse per quella ragazza. Ripensò alla decisione presa domenica mattina, a come volesse combattere per il sentimento – sentimento, che parola strana! – che provava nei confronti di John.
 
Parla o taci per sempre!
 
Il suo cuore iniziò a palpitare all'impazzata, mentre gli sembrava che la testa avesse deciso di iniziare a roteare, senza il suo permesso.
 
-Quella ragazza... quella di prima-, iniziò, indicando l'altra banchina con il mento.
 
Oh Dio no... John intuiva con facilità dove Sherlock stava andando a parare. E la cosa non gli piaceva molto. Non gli piaceva proprio per niente.
 
-Quella che prima ti stava baciando...
 
Sherlock mise una buona dose di enfasi sulla parola "baciando", costringendo John a deglutire a vuoto un paio di volte, preso dal panico.
 
-È la tua ragazza, non è vero?-, terminò infine Sherlock. Si sentì il cuore in gola. O forse no. Non poteva dire con esattezza dove si trovasse il suo cuore in quel momento, perché stava vagando in preda alla confusione per tutto il suo giovane corpo.
 
-Ecco, sì... no... Non proprio-, farfugliò John, che inspirò ed espirò un paio di volte, stringendo forte la panchina su cui erano seduti, fino a far cambiare colore alle nocche. Prese a guardare con decisione per terra. Si sentiva addosso lo sguardo insistente dell'amico, che lo stava penetrando e spogliando di tutte le sue difese. Sherlock necessitava di una spiegazione, ne aveva pieno diritto. In tutta onestà, John aveva bisogno di chiarire la situazione anche con se stesso.
 
-Non stiamo proprio insieme... Non so nemmeno bene se lo siamo mai stati.
 
-Tua sorella dice che non è una cosa seria-, lo incalzò l'altro.
 
-Non è proprio "una cosa", diciamo.
 
-Insomma, pomiciate e basta.
 
-Sherlock!
 
John diventò bordeaux, imbarazzatissimo da quella parola.
 
-Fate degli esperimenti
 
-Ecco, sì… Abbiamo provato a uscire assieme qualche volta-, convenne John, a metà strada tra la verità e l’occultare qualche particolare di troppo. –Ma come hai detto tu, non è una cosa seria. Insomma, mi sono reso conto che non mi piace mica poi tanto.
 
-E a lei? Tu le piaci?
 
Sherlock non riusciva a pensare proprio che potessero esistere persone a cui John non piacesse. Inaspettatamente, l’amico smise di guardarsi le scarpe e fissò gli occhi nei suoi.
 
-Oh, non saprei. Non mi sono posto il problema.
 
-E gliel’hai detto, che non ti piace? Che non è una cosa seria?-, incalzò Sherlock.
 
-Ecco, no…
 
-Perché? Una persona ti piace o non ti piace.
 
Sherlock non capiva sinceramente il motivo. Per lui, una cosa era nera o bianca, positivo o negativo, sì o no. Non esistevano le sfumature, le mezze misure.
 
-Perché non è facile comunicare alle persone qualcosa di negativo, Sherlock-, rispose John, con dolcezza.
 
-Io lo faccio sempre!
 
-E infatti rimedi sempre un sacco di pugni in faccia!
 
-Già…
 
Risero. Un po’ di tensione era finalmente scemata via.
 
-Ma forse ti converrebbe proprio dirglielo…
 
-Già, penso proprio che dovrei.
 
-Attenzione però a schivare i pugni!
 
-Tu eri carino con quell’occhio nero…
 
Le parole di John sgusciarono fuori dalle sue labbra in un sussurro appena accennato, mentre con il pensiero andava a quel giorno. Credeva sinceramente che Sherlock fosse carino con un occhio nero. Sherlock sarebbe stato carino in ogni modo. Titubante, alzò la mano sinistra e accarezzò timidamente la guancia di Sherlock, indugiando con la nocca dell’indice piegato sullo zigomo dell’amico. Le gote del ragazzo più giovane si tinsero di porpora sotto il tocco soffice della mano dell’altro.
 
Sherlock provò l'impulso, finora a lui quasi sconosciuto, di abbracciarlo, di stringerlo al suo petto per riempirsi le narici di tutti i profumi  della pelle dell'altro. Aveva ancora bene impresso nella mente il ricordo di tutti gli odori che aveva percepito e analizzato quando si erano baciati in ospedale.
 
Ma si trattenne, impacciato e titubante com'era. Sperava ardentemente che qualcuno di molto intelligente avesse scritto un libro sui sentimenti e come gestirli. Se così fosse, lo avrebbe cercato in tutte le librerie di Londra e lo avrebbe imparato a memoria.
 
Titubante e con un livello notevole di tachicardia, Sherlock allungò una mano verso quella di John, sfiorando il mignolo con il proprio. Era un contatto piacevole, leggiadro e che gli fece provare ardentemente il desiderio di prolungarlo il più possibile.
 
In quel momento, John fu sopraffatto da un'intensa tenerezza verso l'amico, a seguito dei suoi modi tanto impacciati quanto sinceri. Ricambiò quella carezza appena accennata, intrecciando il proprio mignolo con quello dell'altro, mentre avrebbe potuto affermare con certezza di sentire tutto il suo stomaco girarsi sottosopra e chiudersi su se stesso, sotto il peso dell'indescrivibile emozione che stava provando in quegli attimi.
 
-Nemmeno mi piace come bacia Violet. Troppo viscida-, mormorò John, impegnandosi a guardare dappertutto fuorché il viso dell'amico.
 
-Tu invece baci così bene...
 
Le parole erano uscite da sole dalla bocca di Sherlock, senza che lui potesse esercitare su di esse il benché minimo controllo. A John, nell'ordine, mancò il respiro un numero indefinito di volte, il cuore perse un numero altrettanto indecifrato di battiti, la gola si seccò e iniziò a provare ogni sorta di crampi alla bocca dello stomaco, già pesantemente provato. Si domandò se Sherlock lo stesse osservando in quel momento, ma di voltarsi verso di lui per scoprirlo non se ne parlava proprio.
 
-Oh, beh... anche tu baci davvero bene, per essere un novellino.
 
-Non sei obbligato a essere cortese.
 
-Lo so, ma non si tratta di cortesia, sto dicendo la verità.
 
John sentì le dita di Sherlock cercare il proprio anulare, l’indice e via via tutta la sua mano, finendo per avvolgerla completamente. Strinse forte la mano dell’amico, scoprendo che si trattava della cosa più bella che avesse mai fatto in vita sua.
 
Rincuorato dalla stretta fresca e morbida dell'amico, John iniziò un po’ meno titubante ad aprirsi.
 
-Volevo dirti che... dopo quella volta a Canary Wharf...
 
-Non sei tenuto a darmi spiegazioni, John-, lo interruppe Sherlock, stringendogli forte la mano, come per dirgli che andava realmente tutto bene.
 
-E invece sì, ti devo delle scuse-, protestò l'altro, con vigore, voltandosi a guardarlo finalmente negli occhi. Quel volto fresco e giovane, dai lineamenti decisi ma aggraziati, in quel momento teneramente sorridente e rischiarato da un paio di occhi chiari e vivaci erano indubbiamente la cosa più bella che John avesse mai visto.
 
-Non mi devi proprio niente.
 
La voce di Sherlock era dolce e rassicurante.
 
-Conosco bene le tue ragioni. Non ha più importanza, quello che conta è che siamo insieme, ora.
 
Si morse la lingua e si dette mentalmente dello stupido.
 
-Non insieme "insieme"-, farfugliò imbarazzato. -Insieme nel senso di andare avanti.
 
John si sentì come se Sherlock gli avesse tolto dalle spalle un macigno di proporzioni indescrivibili. Era davvero piacevole e confortante avere con una persona, con lui in particolare, un rapporto di quel tipo, che non implicava giustificazioni, che gli permetteva d'essere libero. Rimasero in silenzio per alcuni attimi, durante i quali John non smise mai di accarezzare il mignolo di Sherlock con il proprio.
 
-A mia mamma farebbe piacere che venissi da noi una di queste sere.
 
Dannazione, si era preparato così bene! John lo guardò altamente perplesso, mentre Sherlock prendeva un profondo respiro prima di spiegarsi.
 
-Cioè, anche a me ovviamente. Intendevo dire, mi farebbe molto piacere se una di queste sere venissi a cena da noi, John-, disse, molto lentamente e cercando di ricordare ogni termine dell'espressione che credeva di aver imparato a memoria.
 
-Oh, certo, volentieri!
 
-Quando preferisci.
 
-Domani no, ho un impegno. Ho promesso di dare ripetizioni di biologia a un mio compagno di classe. Ti va bene giovedì?
 
Sherlock provò per un attimo una leggera gelosia nei confronti di questa persona a lui totalmente sconosciuta.
 
-Vada per giovedì, allora.
 
Una folata di vento e le persone intorno a loro che iniziarono ad avvicinarsi di più al bordo della banchina suggerirono loro che un treno era in arrivo. Sherlock guardò verso l'orologio sopra le scale mobili.
 
-Devi andare?-, chiese John, con una nota di dispiacere.
 
-Forse è meglio. Mamma è iper-apprensiva in questi giorni.
 
A malincuore, John lasciò libera la mano dell'amico. Avrebbe tanto voluto portarsela a casa, se solo fosse stato possibile. Si alzarono e Sherlock si avvicinò agli altri gruppetti di pendolari e studenti, mentre John mosse un paio di passi verso la scala mobile. Nessuno dei due aveva molta voglia di lasciare andare l'altro.
 
-Sto qua finché non te ne sei andato-, decise John. Rimase a guardarlo e a riempirsi gli occhi di Sherlock fino a quando il treno non scomparve dentro al tunnel. Se ne tornò a casa con un’indicibile felicità che elettrizzava tutto il suo corpo, iniziando a fantasticare su quanto sarebbe accaduto due giorni dopo.
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: 1. Citazione da La vita, l’Universo e tutto quanto di Douglas Adams, terzo libro della serie Guida galattica per gli autostoppisti. 2. Citazione da Zoolander, che trovo adattissima per Sherlock. Ho fatto di tutto per cercare di dare al dialogo tra Harry e Sherlock un’imprint simile a quello usato negli anime in stile Abenobashi e Full Metal Panic, spero l’abbiate trovato divertente. Spero di riuscire a infilarci tutto il fluff di questo mondo da qui alla fine, a cui manca davvero poco, purtroppo, Grazie a tutte coloro che mi seguono!
 
 

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Capitolo 8
*** Sonata per violino ***


-Perché non ti porti una camicia di scorta? O una bella cravatta...
 
-Sta zitta!
 
-Ecco, sì, una bella cravatta! Quella della divisa scolastica è un po' vecchia.
 
-Sta zitta, ho detto! Sono già abbastanza nervoso così!-, borbottò John, allontanando Harriet che si era pericolosamente avvicinata per guardare meglio la cravatta da vicino.
 
-Passerai tutto il pomeriggio a casa sua a studiare e anche gran parte della sera. Io suggerirei di metterti nello zaino una bella camicia di scorta. O una maglietta. Quella azzurra: mette in risalto i tuoi occhi.
 
-Harry, non è un appuntamento-, precisò John, mettendo nello zaino il libro di biologia.
 
-Sì che lo è!
 
-L'idea è partita da sua madre.
 
-Uff, allora non ci andare, se devi essere così irritante!
 
-Non dire cretinate, non me lo perderei per nulla al mondo...
 
John si sedette sul bordo del letto, incrociando le mani e sospirando.
 
-È un'ottima occasione per parlare di voi.
 
-Non è che così mi aiuti, sai?
 
Si lasciò andare a un mezzo sorriso, mentre guardava la sorella negli occhi. Harry sospirò e si sedette accanto a lui, appoggiando una mano sulle sue.
 
-Sii te stesso e comportati con naturalezza. E vedrai che andrà tutto bene! C'è lui che ti aiuterà, sua madre già la conosci... Mancano solo il padre e il fratello.
 
-Suo fratello non c'è, è via per studio.
 
-Uff, peccato, mi sarebbe davvero piaciuto sapere che tipo era-, bofonchiò Harriet con una smorfia.
 
-Harry, è un uomo!
 
-Grazie per avermelo fatto notare, fratello, da sola non ci sarei arrivata!-, la smorfia di Harriet si accentuò decisamente. -Ero solo curiosa.
 
-Ragazzi! È tardi!
 
La voce della signora Watson li raggiunse da dietro la porta.
 
-Non oso pensare alle pene dell'inferno che mi farai passare il giorno del tuo matrimonio...
 
-Sposarmi con chi?-, gemette John, allarmato.
 
-Uffa, con chiunque! Parlavo in generale!-, Harriet alzò gli occhi al cielo, in segno di stizza. -Andiamo, su, o mamma darà il via alle sue assillanti domande.
 
 
 
 
 
Il quaderno di biologia di John, girato sulle ultime pagine bianche, non sembrava sufficientemente spazioso per contenere tutti gli scarabocchi, i disegni senza senso e la scaletta degli argomenti di cui avrebbe potuto parlare con Sherlock che annotava man mano che gli saltavano in mente. Cancellava, scriveva, poi ancora cancellava. E sudava, sudava, sudava. Forse Harriet non aveva tutti i torti quando gli aveva suggerito di portarsi una maglietta di scorta. Sarebbe arrivato a casa Holmes sudato e dal profumo sgradevole, mentre Sherlock avrebbe profumato di lillà e aloe, di fresco e di buono, come al solito. Forse avrebbe proprio dovuto...
 
-Watson!
 
Sussultò sulla sedia come se, all'improvviso, fosse comparsa una raggiera di chiodi sotto il suo sedere.
 
-Quanti tipi di colorazioni batteriche esistono?
 
La voce della professoressa era pungente tanto quanto quei chiodi immaginari, se fossero stati reali.
 
-Uhm... ecco... due...?
 
-È una domanda o un'affermazione?
 
-Un'affermazione...
 
Aveva tirato a caso e questa volta gli era andata bene.
 
 
 
 
 
Sherlock aveva fatto tutto il tragitto verso casa in metropolitana con lo sguardo incollato sul suo fumetto di Batman. Tuttavia, di tanto in tanto, alzava un filino il capo per lanciare una sbirciatina a John, seduto tre posti più in là, in una fila perpendicolare alla propria. Era nervoso e poteva chiaramente intuirlo dal costante mordicchiarsi il labbro inferiore e dal tamburellare ritmico su una coscia con tutte le dita della mano. Lo sguardo di John era costantemente rivolto alla cartina della Tube, appesa sopra le porte, quasi avesse voluto impararla a memoria.
 
Sherlock si lasciò andare a un lieve sorriso rilassato, tre quarti del viso ancora nascosti dalle pagine del fumetto. Non era dunque l'unico a essere sulle spine. Si sentiva insolitamente normale, un ordinario e comune adolescente alle prese con problemi altrettanto ordinari. Non si era mai sentito così simile alle persone attorno a lui come in quel momento. Per essere precisi, non si era mai sentito così simile a John. E, soprattutto, per la prima volta in vita sua, avevo smesso di considerare noiosa la normalità. Non sarebbe stato in grado di dire se e quanto sarebbe durata questa sensazione, ma sapeva che avrebbe fatto il possibile per goderne ogni minuto.
 
Era ancora immerso in questi pensieri quando l'amico decise di staccarsi dalla griglia di righe colorate per voltarsi verso di lui. John sembrò non sorprendersi di scoprire li sguardo dell'altro su di sé. Rimasero così, silenziosi e occhi negli occhi, per qualche attimo, prima che Sherlock alzasse una mano e mostrasse a John indice e medio. Ancora un paio di fermate, prima di iniziare ad agitarsi per davvero.
 
 
 
 
 
-È questo qui? È davvero questo qui?
 
John era inginocchiato accanto al capanno degli attrezzi, mani e occhi puntati sulla botola che dava su quella specie di cantinino in cui era rimasto bloccato Sherlock.
 
-Mhm, sì...
 
-Ma è uno sputo di spazio! Un adulto non ci entrerebbe mai!-, commentò, voltandosi a guardare l'amico. -E nemmeno un ragazzo sano di mente...
 
Il più giovane dei due arricciò le labbra, come per dargli ragione sulle proprie condizioni mentali.
 
-Non riesco a immaginare una cosa più ridicola e insensata-, aggiunse John, tirandosi in piedi e pulendosi i pantaloni all'altezza delle ginocchia.
 
-Io sì, invece. E anche mia mamma. Quando ho dato fuoco alla sua pelliccia-, ribatté Sherlock, con tutta la calma e la naturalezza di questo mondo. John non poté fare a meno di sorridere, gli occhi scintillanti come due preziose gemme.
 
-Tu sei maledettamente fantastico...-, mormorò, le labbra appena dischiuse.
Le gote di Sherlock si tinsero di un rosa appena più acceso del suo normale pallore e lui si impose, per non arrossire ulteriormente, di guardare altrove, verso il gruppetto di cedri del Libano che delimitava il lato occidentale del parco di casa Holmes.
 
-Nessuno me lo dice mai.
 
-Te l'ho già detto, la gente è stupida e tende a sbagliarsi.
 
Si alzò una leggera brezza, che scompigliò il ciuffo di Sherlock e fece provare a John un lieve brivido. In lontananza si poteva udire il canto dei primi grilli della sera.
 
-John! John! Latte e croccantini!
 
La voce della signora Holmes risuonò alle loro spalle.
 
-Sta dicendo al tuo gatto, vero?
 
-Me lo auguro, altrimenti non verrai più a cena da noi.
 
Si lasciarono entrambi andare a una risata divertita, poi Sherlock indietreggiò di un paio di passi, senza dare le spalle all'amico.
 
-Vieni? Tra poco sarà pronto anche per noi. Daube alla provenzale.
 
John non aveva la più pallida idea di che cosa stesse parlando l'amico, ma adorava il suono di quelle parole pronunciate dalle sue labbra perfette.
 
 
 
 
 
Lo spezzatino di manzo era morbido, succoso e si scioglieva in bocca. John pensò che questi francesi erano proprio bravi a dare nomi interessanti ai piatti e, forse forse, gli sarebbe convenuto studiare un po' meglio questa lingua se voleva essere all'altezza di Sherlock.
 
-E così tuo padre fa il medico?-gli chiese a bruciapelo il signor Holmes con la sua voce profonda ma interessante.
 
Il pezzo di pane con cui stava facendo la scarpetta del sugo, sotto lo sguardo dubbioso della signora Holmes, rimase a mezz'aria.
 
-Mio padre?
 
John sobbalzò appena sulla sedia quando Sherlock lo colpì delicatamente a una gamba da sotto il tavolo. Si voltò per una frazione di secondo verso l'amico, incrociando i suoi occhi che sembravano dire Per favore stai al gioco.
 
-Mio figlio ci ha detto che vuoi seguire le orme di tuo padre e diventare medico.
 
-Oh, beh, sì ecco... vorrei proprio seguire le orme di... ehm, della mia famiglia e diventare medico. Sento di esserci portato-, disse, incollando lo sguardo sul sugo rimasto.
 
A John sembrò un po' scortese cercare di far finire lì la conversazione, anche se solo Dio sapeva quanto lo avrebbe voluto, così cercò di arricchire la sua risposta con dei particolari.
 
-Soprattutto, mi piacerebbe seguire le orme di mio nonno. Era medico militare.
 
Il ragazzo continuò a tenere lo sguardo fisso sulla ciotola, mentre poteva sentirsi vagamente addosso lo sguardo perplesso dell'amico.
 
-Che splendida idea, che ragazzo coraggioso!-, fu il commento estasiato del signor Holmes.
 
-Oh, che cosa pericolosissima e sconsiderata. Al fronte si rischia di morire...-, fu invece il commento ansioso della signora Holmes, che aveva reagito quasi come se John le avesse detto che stava per partire in quello stesso momento per l'Iraq, magari portandosi dietro il figlio minore.
 
-Mia cara, si può morire anche qui in Gran Bretagna. Magari durante la caccia al salmone in Scozia. Ad esempio, un mio amico una volta...
 
John nemmeno ascoltò le parole del signor Holmes, lieto che la conversazione fosse stata dirottata sulla pesca. Alzò il viso su Sherlock, seduto di fronte a lui, che guardò per un attimo al cielo come per chiedergli di perdonare la stranezza dei suoi genitori. Per tutta risposta, John disse un muto Da qualcuno devi pur aver preso, prima di mordicchiarsi il labbro per evitare di ridere.
 
-Gradite bere qualcosa di caldo come fine pasto?-, domandò la cameriera, mentre entrava con un carrellino e iniziava a sparecchiare.
 
I signori Holmes presero un caffè, John si lasciò convincere (non seppe bene come) a prendere un infuso di tiglio e Sherlock non volle nulla.
 
-È un vero peccato che tu non abbia ancora avuto modo di conoscere mio figlio maggiore. Mi sarebbe piaciuto. Ti sarebbe piaciuto-, disse la signora Holmes, mescolando con vigore lo zucchero di canna.
 
-Sarà per un'altra volta-, disse John, soffiando per raffreddare la tisana. Non è che morisse dalla voglia di conoscere Mycroft, in tutta sincerità, ma gli era ovviamente sembrata la cosa più appropriata da dire.
 
-Mhm, visto che tornerà domani...-, iniziò la donna, con un lampo di luce che le baluginava negli occhi, asciugandosi le labbra con il tovagliolo rosso.  -Potresti passare la notte qui.
 
Il sorriso della signora Holmes sembrava rischiarare tutta la stanza, mentre John la guardava imbambolato con la bocca aperta, la tazza a due centimetri dalla bocca.
 
-In che... cioè, in che senso?
 
-Nel senso che c'è un letto libero in camera mia, John-, spiegò Sherlock, chinandosi leggermente in avanti e abbassando la voce. -Puoi anche abbassare il piattino.
 
John guardò Sherlock poi i suoi genitori, a turno, con tazza e piattino ancora ben saldi nelle sue mani e il terrore che si era impossessato in modo evidente dei suoi occhi e di tutto il suo corpo. L'idea di passare la notte con Sherlock, nella sua stessa stanza, pur non essendo altro che per dormire, appunto, lo elettrizzava e lo spaventava fino al midollo.
 
-Se pensi che per i tuoi non sia un problema, ovviamente.
 
La signora Holmes lo guardava sfoderando il migliore dei suoi sorrisi, così apparentemente rassicurante quanto enigmatico, che John non poté fare a meno di paragonarla alla Regina cattiva di Biancaneve. Da un momento all'altro, gli avrebbe offerto una bella mela matura e succosa, che lui avrebbe addentato con avidità, finendo per piombare in un sonno perenne che gli avrebbe impedito di lasciare casa Holmes, per sempre. Cosa che, pensandoci bene, non era del tutto uno svantaggio.
 
-Uh, no, non credo che lo sia...-, biascicò, bevendo un sorso della sua tisana così velocemente da scottarsi la lingua.
 
-Ottimo, il telefono è nell'ingresso. Chiama pure tua mamma quando vuoi!-, cinguettò la signora Holmes, indicando la porta della sala da pranzo.
 
La camera dei due fratelli era senza dubbio una delle cose più belle che John aveva mai visto. Un misto tra la cameretta dei sogni che ogni bambino di questo mondo vorrebbe avere e il romanticismo d'altri tempi tipico delle abitazioni in stile coloniale che ci si aspetterebbe di trovare in una cittadina sulla costa della Florida. I bauli di legno che contenevano i vecchi giocattoli al posto dei cestoni in plastica con cui era cresciuto, i due bow-window con la romantica vista sull'aiuola impreziosita da gigli di tonalità che variavano dal giallo pallido al rosso acceso, lo scrittoio a ribalta in legno di mogano su cui poteva notare quaderni e block-notes di tutte le grandezze, i due letti alti e ampi dai freschi copriletto di pizzo che ricadevano fin sul pavimento creando curve armoniose, il tavolino con il microscopio e i vetrini che già conosceva sistemato in bella mostra al centro della stanza, un telescopio astronomico assai potente da far invidia a chiunque sistemato sul suo treppiedi davanti a uno dei due bow-window. Alle pareti, cartine nautiche d'altri tempi e spartiti musicali incorniciati in cornici di legno di tutti i colori. Da ultimo, ma non meno importante, John notò sul comodino del letto di sinistra violino e archetto appoggiati con apparente noncuranza sopra una pila di libri. In tutto l'ambiente aleggiava una fresca e tenue fragranza d'agrumi, che gli inebriavano leggermente la mente.
 
-Sherl... Dio, è bellissimo qui-, seppe dire solo, guardandosi attorno a bocca aperta e col naso all'insù.
 
-È soltanto una camera da letto.
 
Il demoralizzante pragmatismo di Sherlock lo riportò subito coi piedi per terra.
 
-Oh, ti ho portato una cosa...-, disse John, mentre le sue labbra si aprivano in un tenero sorriso e gli occhi iniziavano a luccicare. -Dove possiamo sederci?
 
-Il mio letto è quello.
 
John si sedette molto lentamente sul bordo del letto di sinistra, quasi avesse paura di sgualcire il copriletto. Appoggiò il suo zaino e iniziò a frugarci dentro.
 
-Che cos'è?-
 
Sherlock si parò alle sue spalle, sdraiandosi sul letto senza prestare il benché minimo riguardo al copriletto o a quant'altro.
 
-Ehi, aspetta! Impaziente!-, fece John, fingendo un falso broncio e allontanando la mano curiosa e invadente dell'amico dal suo zaino. -Ehm, ho dimenticato di incartarlo...-, si scusò, voltandosi con fare dispiaciuto verso Sherlock.
 
-Le cose o si fanno per bene o non si fanno-, borbottò.
 
-Se la metti su questo piano, niente regalo!-, lo punzecchiò John.
 
-Come sarebbe? Lo voglio comunque!
 
-Allora chiudi gli occhi.
 
-Mpf, va bene...
 
Sherlock ubbidì e chiuse gli occhi di malavoglia.
 
-Non sbirciare. Non si bara.
 
-Io non baro mai-, puntualizzò il ragazzo più giovane, aggrottando la fronte per sottolineare il proprio disappunto. Privato della vista e con l'udito iperattivo, Sherlock sentì John spostarsi e allontanarsi da lui sul materasso.
 
-Certo, come no! Fatto, ora puoi aprire gli occhi.
 
John concesse il permesso con un po' di rammarico, perché sarebbe rimasto lì per ore a cibarsi della vista dolce e tenera dell'espressione assunta dal viso di Sherlock in quel momento, con le sopracciglia e la fronte aggrottate, il labbro arricciato e il capo inclinato leggermente a destra, che conferiva al suo collo una curva più sensuale del solito. Probabilmente stava cercando di indovinare quale fosse il misterioso regalo, ma John era sicuro che non ci sarebbe mai arrivato.
 
Una volta aperti, gli occhi del ragazzo più giovane si posarono increduli sulla rivista appoggiata di fronte a lui.
 
-Batman...
 
-Ah-ah!
 
La voce di John era allegra, gli occhi luccicanti.
 
-Harley Quinn...
 
Lo sguardo di Sherlock si incollò con fare sognante al fumetto, che avvicinò poi a sé con mani tremanti per l'emozione.
 
-Cosa noti ancora?-, lo canzonò.
 
-Copertina di Alex Ross!
 
-Ti piace?
 
John aveva posto quella domanda con una dolcezza che ci si aspetterebbe di trovare nel tono di voce di un uomo mentre fa l'amore con la propria donna. Ma forse, in definitiva, non sarebbero due situazioni poi tanto diverse.
 
-Certo che mi piace, John. Mi piace tantissimo. Ma ti sarà costato una fortuna!-, mormorò Sherlock, girando le pagine con delicatezza, quasi come avesse timore di "far male alla carta".
 
-Il mio fumettista di fiducia mi ha fatto un buon prezzo. L'avevo ordinato mentre eri in ospedale ma è arrivato solo ieri.
 
John si sdraiò sul letto, appoggiandosi sul fianco destro, alzando leggermente il capo per vedere meglio l'amico. Anche i suoi occhi luccicavano, esattamente come i propri.
 
-È bellissimo...
 
La voce di Sherlock si abbassò ulteriormente, diventando poco più di un sussurro.
 
-Tu sei bellissimo.
 
Non aveva potuto farci niente, gli era venuto totalmente spontaneo. Glielo avrebbe ripetuto per ore oltretutto, ma la cosa non impedì a John di arrossire come un peperone, soprattutto dopo che Sherlock alzò lo sguardo da Batman per posarlo nei suoi occhi.
 
-Ecco... volevo dire che... è bellissimo vedere che lo trovi bellissimo... Cioè, sono contento che ti piaccia-, farfugliò. Si dette mentalmente dello stupido, pensando che, molto probabilmente, Sherlock lo stesse considerando un idiota.
 
-È bellissimo vedere che tu pensi a me-, lo sorprese l'altro, guardandolo seriamente.
 
-Oh, lo faccio in continuazione.
 
Ecco che mi sto rovinando con le mie stesse mani, si disse John.
 
Sherlock ripose il fumetto laddove si trovava poco prima, appoggiò entrambe le mani sul materasso, si sporse in avanti e lasciò un bacio tanto timido quanto veloce sulla guancia di John, che arrossì leggermente sotto quel contatto.
 
-C'è qualcosa che ti piacerebbe che io facessi per ricambiare il regalo?-, chiese, tirandosi di nuovo indietro con la schiena e ripristinando quei quaranta centimetri di spazio tra loro.
 
John cercò di non pensare al fatto che si trovava da solo con Sherlock, in camera sua, sul suo letto e che iniziava a fare un caldo degno dell'Inferno.
 
Pensa alla veglia funebre di nonno Watson, pensa alla veglia funebre di nonno Watson, iniziò a ripetersi mentalmente. Dopo aver scartato tutti i favori sessuali che avrebbe immensamente desiderato chiedergli e che andavano dalle cose più caste e semplici di questo mondo come accarezzargli nuovamente quei favolosi riccioli neri ad altre assai meno caste che avrebbero fatto arrossire persino l'intrepida Violet, rimaneva una cosa sola che avrebbe voluto avere da Sherlock.
 
-Suona qualcosa per me, con il tuo violino...-, mormorò, trovando il coraggio di alzare l'indice per dargli un tenero buffetto sul naso.
 
La richiesta sembrò, sulle prime, spiazzare Sherlock, che non si sarebbe mai aspettato una risposta del genere, ma che la trovava tuttavia fantastica.
 
-Va bene, suonerò per te-, disse, scendendo dal letto e dirigendosi verso il comodino, dove si trovavano violino e archetto. Lo prese, se lo rigirò un po' tra le mani, tese le corde allentate, lo appoggiò sulla spalla e impugnò l'archetto. Poi si girò verso l'amico. -Con che cosa desideri essere intrattenuto?
 
John ci pensò un po' su. Non era un grande esperto di musica classica e, in verità, sarebbe stato contento di ascoltare qualsiasi cosa, più o meno conosciuta. Ciò che gli importava veramente era sentire Sherlock suonare, ammirare il suo corpo che produceva musica, danzandole assieme, solo per lui.
 
-Che ne dici dei Beatles?
 
-Qualche cosa di particolare?- chiese l’altro di rimando, iniziando a suonare un paio di note giusto per assicurarsi di aver accordato bene lo strumento.
 
-Mhm, Hey Jude? La sai suonare?
 
-Io so suonare di tutto-, precisò Sherlock, con tutta la superbia che spesso lo contraddistingueva.
 
-Oh, aspetta aspetta!
 
John si alzò di scatto e iniziò a frugare nella tasca esterna del suo zaino, dove teneva le chiavi di casa, il borsellino e altre piccole cose.
 
-Con questa compro i suoi servigi!-, disse, lasciando una monetina sul cuscino di Sherlock. –Adesso dovrà suonare per me fin quando lo comanderò!
 
Il ragazzo più giovane sorrise, leggermente imbarazzato e iniziò a suonare. John si distese a pancia in giù di traverso sul letto, con il viso appoggiato a entrambe le mani e i piedi che oscillavano distrattamente avanti e indietro. Le note uscivano da quell’incontro tra corde e archetto con una leggiadria degna di una farfalla che ha appena abbandonato il suo bozzolo. Sherlock suonava a occhi chiusi, dondolandosi appena seguendo il ritmo della musica John lo osservava estasiato, non potendo fare a meno di pensare che stava assistendo all’avvenimento più romantico e, al tempo stesso, più erotico che avesse vissuto fino a quel momento.
 
John si sentì in estasi e in pace con il mondo intero per tutto il tempo in cui le note uscivano leggiadre dalle corde dello strumento, impregnando l'aria di una sensualità agrodolce. Chiuse anche lui gli occhi, facendosi sedurre dall'oscurità. Si ritrovò a pregare Dio di lasciarlo rimanere amico di quella persona tanto fantastica quanto stramba per il resto dei suoi giorni, perché era sicuro che sarebbero stati sempre pieni di vita e meraviglie. Anche nei momenti bui, sarebbe riuscito a trovare qualcosa per cui sorridere e sperare, se lo avesse avuto al suo fianco.
 
 
 

Hey Jude, don't make it bad
 
 Take a sad song and make it better
 
Remember to let her into your heart
 
Then you can start to make it better

 
 
 

Hey Jude, don't be afraid
 
You were made to go out and get her
 
The minute you let her under your skin
 
Then you begin to make it better

 
 
 
Sherlock aprì gli occhi all'ultima nota e si mise a guardare l'amico con vivo interesse e curiosità.
 
-È finita, John.
 
-Mhm...
 
-Puoi riaprire gli occhi.
 
-Zitto, non parlare. Lasciami godere il momento.
 
Il ragazzo più giovane sorrise, appoggiò violino e archetto laddove era il loro posto e si sedette sul letto di fianco all'amico, infilando le mani giunte nelle cosce strette. Rimasero così, senza parlarsi, per qualche attimo. Poi Sherlock spezzò il silenzio.
 
-È davvero lungo, questo momento-, lo punzecchiò.
 
A suo malgrado, John dovette riaprire gli occhi.
 
-Tu hai grande lacune in fatto di romanticismo-, lo rimbeccò l'altro.
 
-Non sono d'accordo. Credo che questo sia appena stato il momento più romantico di tutta la mia vita.
 
Sherlock aveva parlato con una naturalezza estrema e disarmante, come se avesse recitato la formula chimica dell'acetone, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé e costringendo l’amico ad arrossire fino alla punta dei capelli. Voltò appena il capo a sinistra, quel tanto che gli permetteva di guardare John con la coda dell'occhio.
 
-Vuoi una maglietta? Dormirai più comodo. Magari una di mio fratello.
 
Se possibile, John arrossì ancor di più.
 
 
 
 
 
 
 
Erano sdraiati ciascuno sul fianco opposto rispetto all'altro, in modo da potersi guardare negli occhi. Sherlock teneva le mani sotto il cuscino, John sopra. La finestra era socchiusa e la brezza notturna faceva ondeggiare appena la lunga tenda bianca di voile. In lontananza si sentiva ancora qualche grillo cantare allegramente.
 
-Sicuro che non vuoi dormire nel letto di Myc?
 
-No, no, no, no, no!-, sobbalzò John, come se fosse stato punto da qualcosa. -Non vorrei mai che tornasse a casa prima e mi trovasse nel suo letto. Sarebbe quanto meno... imbarazzante!
 
-Oh, decisamente! Estremamente imbarazzante!-, disse Sherlock, immaginandosi la faccia del fratello.
 
Risero entrambi di gusto. John si coprì la bocca con una mano, cercando di non fare troppo rumore.
 
-Sempre che non ti dia fastidio.
 
Scosse la testa.
 
-È un letto queen size, ci stiamo in due.
 
Poi, Sherlock puntellò il gomito sinistro sul cuscino, sostenendosi il capo con la mano.
 
-Non ho mai dormito con qualcuno, prima d'ora.
 
-Nemmeno con tuo fratello in campeggio?
 
-Noi non facciamo campeggio.
 
Sherlock aveva risposto con un'aria un po' schifata.
 
-È divertente, sai? Fai gli scherzi alle ragazze, di notte non dormi e ti fai tante risate.
 
-Continua a non sembrarmi molto interessante.
 
-Come vuoi...
 
-Meglio una vacanza in un comodo hotel in qualche bella città d'arte.
 
John corrugò la fronte e iniziò a pensare seriamente.
 
-Potremmo mettere via i soldi e andare in vacanza assieme, l'estate prossima. Magari a Parigi. Io sarò maggiorenne.
 
Sherlock non disse che lui non aveva bisogno di mettere via i soldi e nemmeno che sarebbero stati seguiti e strettamente controllati in incognito da sua madre o, peggio, da Mycroft.
 
-Sarebbe bello, sì...-, si limitò a dire, perché lo pensava davvero. Abbassò le palpebre e tornò ad appoggiare la testa sul cuscino, nascondendo la mano che fino a un attimo prima l'avevo sorretta. Iniziava ad assopirsi. Era notte fonda, avevano parlato davvero a lungo e ora iniziava a sentirsi stanco. Sarebbe volentieri andato avanti fino all’alba a chiacchierare con John ma sembrava che il suo fisico non fosse d’accordo.
 
-Comunque...
 
-Mhm?
 
-Sherlock, sei sveglio?
 
-Sì….
 
-A parte Harry, nemmeno io ho mai dormito con qualcuno...
 
Sherlock sentì la mano di John intrufolarsi sotto il suo orecchio, per agganciare la propria, tirarla fuori con delicatezza estrema quasi fosse delicata come il più pregiato dei cristalli e intrecciare le dita alle sue. Aprì gli occhi.
 
-...e credo sia in assoluto la cosa più bella del mondo.
 
-Più bella di Batman e Superman?
 
-Mille volte più bella.
 
-Del calcio?
 
-Ovvio che sì.
 
Pausa.
 
-Di diventare dottore?
 
Il respirò di John si smorzò in gola e il ragazzo provò un sussulto. Diventare dottore era sempre stato per lui il desiderio di una vita, la spinta che più di tutte lo faceva alzare al mattino e dava un senso alle sue giornate.
 
-Anche di questo, sì...
 
John strinse forte la mano di Sherlock, incurante di potergli fare un po' male.
 
-E del cricket?
 
-Troppo facile! Qualsiasi cosa è migliore del cricket!
 
Scoppiarono entrambi in una fragorosa risata.
 
-Shhh! I miei dormono nella camera di fronte!
 
John si morsicò con decisione il labbro inferiore, per riuscire a smettere di ridere. Poi, attirò Sherlock un po' più a sé, facendogli posare il capo sulla sua spalla e circondandolo teneramente con entrambe le braccia. Gli accarezzò la schiena dolcemente, prima con movimenti alquanto insicuri, poi via via più fermi. Gli sembrò la cosa più spontanea e sensata da fare. E, soprattutto, cioè che desiderava più di tutto, per la prima volta realmente incurante dei dettami della società. Sherlock si abbandonò a un mugolio di approvazione, sotto quelle carezze quasi sconosciute che fino ad allora solo sua madre gli aveva concesso, quand’era piccino, scoprendole meravigliose come immergersi in un bagno caldo e profumato dopo una lunga camminata. Si addormentarono così, il viso di Sherlock immerso in quel nido caldo e accogliente che era la spigolosa ma confortevole spalla di John. La luce delicata e pigra del mattino seguente li sorprese ancora abbracciati.
 
 
 
 
 
 
 
-Mamma avrà fatto preparare i pancake con lo sciroppo d'acero. È fissata con le colazioni all'americana, ultimamente.
 
La voce di Sherlock era ovattata da dietro la porta chiusa del piccolo bagno della camera. John si era già lavato e vestito (Sherlock aveva insistito che fosse lui a usare per primo il bagno, in qualità di ospite). Adesso se ne stava seduto nervosamente sul bordo del letto sfatto. Si massaggiò energicamente un paio di volte la zazzera di capelli biondo cenere.
 
 -I pancake andranno benissimo...-, mormorò.
 
 -Cosa hai detto?
 
 -Ho detto che i pancake andranno benissimo!-, ripeté, questa volta più forte. Si alzò, iniziò a passeggiare freneticamente per la stanza, aprì il suo zaino per controllare per l'ennesima volta se c'era tutto, quindi tornò a sedersi sul letto. Un attimo dopo, Sherlock uscì dal bagno. Mezzo nudo. E il cuore e il respiro di John andarono in vacanza.
 
 -A me lo sciroppo d'acero non piace. Preferisco la panna.
 
Aprì l'armadio e iniziò a cercare una camicia pulita, dandogli le spalle e ignorando quindi l'espressione da ebete che si era dipinta sul volto di John. Era così magro che, quando si chinò per aprire i cassetti, John avrebbe potuto contargli le costole e gli anelli della colonna, ma questo, anziché fargli impressione, gli piacque terribilmente: si sarebbe volentieri accostato a lui per contarli realmente, toccandoli delicatamente con un dito uno dopo l'altro. La sua pelle era così candida da ricordare le vecchie bambole di porcellana dal sapore d'altri tempi che John aveva visto una volta in un mercatino dell'usato e che aveva sempre considerato sinonimo di “bellezza pura”. E che dire di quei nei così piccoli e carini che Madre natura aveva sparpagliato a caso qua e là? Prima d'ora, non aveva mai pensato che un neo potesse trasformarsi in modo così perfetto in un sinonimo della parola sexy.
 
 -Cosa c'è?-, domandò Sherlock, voltandosi improvvisamente verso di lui e iniziando a slacciare i bottoni della camicia perfettamente stirata e piegata che teneva in mano.
 
 -Io... niente. Pensavo.
 
 -Questo lo vedo-, ribatté il più giovane. Indossò velocemente la camicia, quindi iniziò a infilarsela nei pantaloni dopo aver slacciato il bottone e aperto la lampo, lasciando intravedere l'elastico scuro dei boxer con tutta la disinvoltura di questo mondo. -A cosa?
 
L'attenzione di John si focalizzò su quell'elastico, che aveva vinto di colpo il concorso di “Oggetto più erotico dell'anno”, mentre iniziò a iperventilare. Nonno Watson, ripensa a nonno Watson!
 
 -Ho lasciato Violet-, disse, tutto d'un fiato ed esercitando tutta la forza di questo mondo per alzare lo sguardo dai pantaloni di Sherlock e incollarlo nei suoi occhi.
 
-Oh...-, fu tutto quello che l'amico riuscì a mormorare, abbandonando le braccia lungo i fianchi e dimenticandosi della camicia ancora aperta, dopo aver allacciato solamente gli ultimi due bottoni. John non aveva il coraggio di aggiungere altro. Non sapeva se sentirsi autorizzato ad aggiungere altro.
 
 -E lei come l'ha presa?
 
 -Mhm, bene, mi sembra. Non avrà problemi a trovarsi un altro ragazzo. Credo non le sia importato poi molto, alla fine.
 
 -Io non potrei mai-, borbottò Sherlock, quasi come se gli fosse stata appena fatta un'offesa personale.
 
 -Non potresti mai fare cosa?
 
 -Essere lasciato da te e accettare la cosa così pacificamente.
 
Il cuore di John prese a pompare come un forsennato, mentre il cervello intraprese il difficile compito di cercare di interpretare bene cosa l'amico stesse in realtà comunicando.
 
-Voglio dire, sempre che fossi io il tuo ragazzo. Ma non lo sono. Però...-, riprese Sherlock, incerto sulle parole, cosa che gli accadeva assai di rado. Abbassò lentamente il capo, tenendo i propri occhi inchiodati a quelli di John.
 
-Però?-, ripeté John, abbassando il capo a sua volta per seguire in tutto e per tutto i movimenti dell'altro.
 
-...se lo fossi...
 
Sherlock si sentì improvvisamente disidratato mentre poneva quella che non aveva per niente l'aspetto di una proposta, ma lo era davvero a tutti gli effetti. E iniziò ad avere terribilmente caldo. Secchezza delle fauci e bollori a seguito di una dichiarazione d'amore: ecco qualcosa che valeva davvero la pena studiare.
 
-È una… ehm… proposta questa?
 
-Sì, credo proprio di sì-, rispose, uscendosene in un sorriso sghembo che lo fece sentire un po’ idiota. -Che cosa ne dici?
 
Gli occhi di John si posarono di nuovo sul petto magro e candido dell'altro, sui suoi capezzoli, i piccoli nei e le costole appena visibili. In quel momento gli avrebbe risposto di sì a qualsiasi cosa, anche all’offerta di andare a fare una rapina in banca. Figuriamoci diventare il suo ragazzo.
 
-Oddio, sì.
 
Sherlock sospirò: si sentiva improvvisamente come se stesse fluttuando su una nuvoletta, completamente nudo e armato di un’arpa. Se avesse saputo che sarebbe stato così facile, lo avrebbe fatto prima. Forse il difficile sarebbe arrivato adesso.
 
-Bene-, disse. Titubante, fece un paio di passi verso John. Poi, vedendo che l'altro non lo respingeva, si chinò su di lui, strofinando il proprio naso contro il suo e aspirando il suo odore. -Ti ho appena baciato all'eschimese-, spiegò, notando l'espressione smarrita dell'altro. -L'ho letto in un libro...
 
Sherlock fece per allontanarsi, ma John lo bloccò, prendendolo piano per le braccia.
 
-Vieni qui-, mormorò, tirandolo dolcemente di nuovo a sé e abbracciandolo. Affondò il viso nella massa di riccioli scuri e vi depositò un tenero bacio, iniziando a cullarlo, un po' impacciato. Strofinò la guancia contro la sua tempia, senza tuttavia accorgersi che le pulsazioni e il respiro di Sherlock erano diventati prepotentemente irregolari, impegnato com'era a ripetersi che era tutto reale, che finalmente stava succedendo davvero. E che non doveva avere più paura. Doveva solo imparare a vivere quel momento e molti altri ancora, a Dio piacendo, assieme a quel ragazzo che stava tenendo tra le braccia, senza timore di ciò che sarebbe capitato, perché lo avrebbero affrontato in due.
-Com'è che ti chiama tua mamma, "tesoro"?-, lo punzecchiò.
 
-Non chiamarmi così!
 
-Mai nemmeno una volta?-, la voce di John simulava un finto, ma neanche poi troppo, disappunto.
 
-Mpf, magari solo in casi di estrema necessità...
 
John si fece un elenco mentale dei casi che avrebbe potuto considerare di estrema necessità e non riuscì a trovarne nemmeno uno che fosse al di sotto del rating PG-13.
 
-Sherly...
 
-E niente soprannomi!
 
-Oh, ma dai! I fidanzati si attribuiscono ogni genere di soprannomi!-, protestò John con decisione.
 
Sherlock provò un sussulto alla parola "fidanzati". Si strinse di più all'altro, quasi come cercasse rassicurazione, e affondò di più il viso contro il suo collo, respirando il piacevole profumo della sue pelle.
 
-Su questo sono intransigente. E poi Sherly è da donna!
 
John rise e gli dette un buffetto sulla guancia. –Siamo assieme da due minuti e sei già così intransigente! Non oso pensare al primo anniversario!-, lo canzonò.
 
Lasciò poi che il silenzio si interponesse un attimo tra loro, godendosi il momento e soprattutto la piacevole sensazione lasciata dalle parole “essere assieme”, prima di parlare di nuovo.
-Oggi siamo in gita tutto il giorno, all'osservatorio…
 
-Greenwich?
 
-Mhm…-, confermò, accarezzando di nuovo la folta chioma dell’altro. –E alla Cutty Sark.
 
-Al di là di Canary Wharf…
 
-Il nostro posto speciale-, confermò John, lasciando un altro tenero bacio in mezzo a quei riccioli belli come un cestino di more.
 
Sherlock strofinò il naso contro il collo di John, desideroso di un altro contatto. -Vuol dire che oggi non ci vediamo.
 
Era dispiaciuto e non riusciva nemmeno bene a nasconderlo; trovava la cosa alquanto irritante. John lo strinse di più a sé.
 
-Tornerò a casa tardi ma prometto di telefonarti.
 
-A qualunque ora?
 
-A qualunque ora, promesso. Tu però avvisa i tuoi che potrei disturbarli.
 
-Non è una cosa che potrebbe minimamente disturbarli-, lo rassicurò Sherlock, pensando a come sua madre, contenta com'era che avesse trovato qualcuno, avrebbe ben volentieri accettato telefonate anche in piena notte.
 
-Scendiamo a far colazione?
 
Sherlock ruppe a suo malgrado quella stretta, tirandosi in piedi. Gli girava un po' la testa. Si chiese se era sempre così che succedeva, tra fidanzati. John lo bloccò prendendolo per una mano prima che si fosse allontanato del tutto da lui e, osservando l’espressione sorpresa completata dallo sbattere delle lunghe ciglia scure, non poté fare a meno di pensare quanto quel viso, nella sua bellezza adolescenziale, gli rammentasse la fragilità di un cerbiatto.
 
-Aspetta!-, disse, sfiorandogli il naso con il proprio, per poi fare lo stesso con le guance. -Voglio baciarti anch'io come fanno gli eschimesi.
 
Le delicate gote di Sherlock si imporporarono leggermente per l'emozione: aveva appena ricevuto quello che per molto tempo considerò il bacio più sensuale della sua vita.
 
 
 
 
 
Nota dell’autrice: è quasi arrivato il momento di lasciare andare questi due per la loro strada ^__^ Purtroppo… Il prossimo capitolo sarà l’ultimo; sarà un po’ più corto, credo, ma non arriverà prima di un mesetto perché sto andando in vacanza. Bacioni a tutte coloro che mi seguono con tanta pazienza! <3

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Capitolo 9
*** Moondance ***


Le gite di fine anno erano sempre state per John una fonte di divertimento estremo. Le ultime occasioni per svagarsi con i compagni o provare a ottenere il numero di telefono delle ragazze più belle delle altre classi. Ma esattamente com'era accaduto in occasione della gita ai Kew Gardens, anche questa volta la mente di John veleggiava altrove. L'unica differenza era che, al posto di un mare di abbandono e rimpianti, questa volta si trovava sperduta su una nuvoletta rosa di amore e fantasticherie che sapevano di zucchero filato e canditi colorati.
 
Poco gli importava dei telescopi, dei cronometri marini o dei modellini della Victory e dell’Endeavour in mostra al museo reale dell’osservatorio o di farsi stampare un attestato personalizzato della sua presenza nel punto di passaggio del meridiano zero. Né tanto meno dei tre alberi maestri o della rivoluzionaria carena della Cutty Sark. Per non parlare di giocare a pallone nel parco assieme agli amici o di ottenere numeri di telefono flirtando con le ragazze più belle.
 
Mente e cuore erano monopolizzati dalla notte appena trascorsa, dagli abbracci e dalle carezze. In breve, dal suo nuovo e meraviglioso ragazzo. Il profumo della sua pelle, la morbidezza dei suoi riccioli, il calore del suo corpo si erano impossessati di tutto il suo essere e non avevano molta intenzione di lasciarlo libero presto. 
 
Ogni tanto si perdeva via nelle sue fantasie, iniziando a fare l'inventario mentale di tutto ciò che avrebbero potuto fare assieme. Sarebbero usciti una volta il sabato sera a mangiare la pizza. O magari cinese, come piaceva a Sherlock. Anzi, più di una volta. Poi una domenica pomeriggio lo avrebbe portato al cinema, a guardare un bel film giallo. E magari anche al luna park. Sì, il luna park era perfetto. Sarebbero andati sulle montagne russe, avrebbe vinto al tiro a segno un pallone da regalargli (pur non essendo molto sicuro che un pallone potesse costituire una qualche forma di interesse per Sherlock) e magari sarebbero andati anche sulla ruota panoramica. Oh, sarebbe stato così terribilmente romantico... Si sarebbero tenuti per mano, mangiando lo zucchero filato e...
 
-Hai un perfetto sguardo da ebete.
 
-Co... Co... Come?
 
La voce lamentosa di Violet fece scomparire la nuvoletta zuccherata sulla quale si trovava John con la stessa facilità disarmante di chi è in possesso di una bacchetta magica nascosta da qualche parte, facendolo ripiombare nella scomoda e calda realtà dei vagoni ferroviari della DLR.
 
-Io... Ehm, stavo solo pensando... -, farfugliò John, diventando rosso come un peperone.
 
-Nuova ragazza?
 
La domanda proveniva invece dalla voce invadente di Mark, che era apparso dietro di loro balzandogli sulle spalle con uno slancio degno di un felino.
 
-Non credo siano affari vostri!-, borbottò John, preparandosi a scendere mentre il treno si arrestava a Canary Wharf.
 
-Lo prendo come un sì, Watson!- gli urlò dietro il compagno, mentre John, non appena si aprirono le porte, si affrettò a scendere e a correre verso la fermata della tube, lontano da quegli avvoltoi.
 
 
 
 
 
-Interessante la gita?
 
-Mhm... Sì... In un certo senso...
 
-La Cutty Sark?
 
-La Cutty Sark cosa?
 
Uno sbuffo. A Sherlock non piaceva molto doversi ripetere.
 
-Ti è piaciuta? Assomiglia un po' ai velieri dei pirati?
 
John si schiacciò un po' di più contro la parete, chiedendosi quando i suoi genitori si sarebbero finalmente decisi a prendere un cordless che lui e Harriet avrebbero potuto usare per telefonare in santa pace.
 
-Può essere. Non ci ho fatto molto caso, sinceramente.
 
-Ecco come vengono spesi i soldi dei contribuenti. Male!-, borbottò Sherlock, che non era mai salito sulla Cutty Sark ed era desideroso di sapere se ricordasse almeno in parte le navi dei pirati di cui aveva letto nei libri da bambino.
 
-Se ci tieni così tanto a vederla, possiamo andarci assieme una volta o l'altra, durante le vacanze-, suggerì John, con voce dolce.
 
-Uh, va bene...
 
-E poi, per essere sinceri... Pensavo a te... 
 
John era di nuovo arrossito sino alla radice dei capelli. Una confessione imbarazzante ma che teneva a fare. -Tu non hai pensato a me? Almeno un po'?
 
Silenzio dall'altro capo del filo.
 
-Uhm... Non so... Sono stato molto occupato con gli esperimenti di chimica. Acidi e basi.
 
Il cuore di John ebbe un tonfo e il sorriso che aveva addolcito le sue labbra fino a quel momento si spense silenziosamente.
 
-Sai, ci tenevo a portarli a termine per bene, senza troppi disastri come le ultime volte-, proseguì Sherlock con naturalezza -Così stasera avrei potuto parlartene e tu saresti stato fiero di me.
 
A queste parole un sorriso tornò a dipingersi sulle labbra del  ragazzo più grande, mentre il cuore iniziava a fare qualche capriola, perché aveva capito che, in modo tutto suo, anche Sherlock lo aveva pensato.
 
-Io... Ehm, devo andare purtroppo. Papà ci porta a cena fuori.
 
John si lasciò andare a un sospiro di delusione. Sarebbe andato avanti per ore a chiacchierare con Sherlock, fino a quando Morfeo sarebbe venuto a sorprenderlo per portarlo via con sé tra le sue braccia, anche in quella scomodissima posizione schiacciato tra poltrona e credenza.
 
-Ha un importante annuncio da farci. Sarà qualcosa di noioso che riguarda il suo lavoro-, si giustificò Sherlock, ponendo l'accento su quel "noioso" quasi a volersi scusare per la sua scarsa disponibilità.
 
-Non fa niente... Tanto ci vediamo domani, vero?
 
Questa volta fu il turno di John a porre l'accento su una parola, che nel suo caso fu "vero".
 
-Ovvio che sì.
 
Sherlock avrebbe tanto voluto aggiungere "perché già mi manchi" ma il solo pensiero fu sufficiente a fargli provare un fremito lungo il corpo che bloccò le parole sul nascere.
 
-Stiamo assieme tutto il pomeriggio?
 
-E anche la sera... Se ti va...
 
-Certo che mi va! Vorrei stare con te ogni minuto di almeno i prossimi... due anni, Sherlock!
 
John si morsicò il labbro inferiore sorpreso in prima persona da tutta l'irruenza delle sue parole così come erano uscite senza controllo dalla bocca. Temeva che tutta la sua passione, che stava cercando in tutti i modi di controllare, potesse finire per spaventare il ragazzo che, ebbene sì, amava.
 
-Oh...
 
-Cosa c'é?
 
Ecco, l'aveva spaventato.
 
-Non so se sarà possibile, John... Dobbiamo anche trovare il tempo di andare a scuola, tu mangiare e dormire, io invece solo qualche volta e anche...
 
John non poté proprio fare a meno di scoppiare a ridere a quelle parole così sconsolate ma altresì così dolci e ingenue che giungevano al suo orecchio.
 
-È un modo di dire Sherlock...
 
-Oh... Quindi non vuoi stare realmente così tanto con me...
 
Dio, come avrebbe voluto essere inghiottito dal telefono per sgusciare fuori dalle linee fino a casa Holmes, dove avrebbe preso tra le braccia il suo ragazzo e lo avrebbe soffocato di baci e carezze. Riusciva facilmente a immaginarsi quegli occhioni grigio-azzurri incupirsi di tristezza, quasi fossero stati proprio lì di fronte a lui.
 
-Certo che ci voglio stare con te, non sai quanto...-, sussurrò John, cercando di infondere nel tono di voce tutto l'amore e la sicurezza di cui era capace. -Non hai idea di come mi senta quando penso che non è umanamente possibile rimanere appiccicati per il resto della vita come due siamesi!
 
John si augurò che Sherlock avesse capito almeno questa metafora...
 
-Non hai idea...-, continuò -di quanto ci tenga a te...
 
Avrebbe voluto con tutto il cuore, con tutto se stesso, dirgli che lo amava, ma in quei diciassette anni di vita le parole Ti amo non avevano ancora lasciato la sua bocca e farlo per la prima volta lo spaventava da morire.
 
-Anch'io...ehm... Ci tengo tanto a te-, bisbigliò Sherlock, appiccicando la cornetta alla bocca nella speranza che il concetto venisse recepito come doveva.
 
John chiuse gli occhi, si umettò il labbro inferiore e inspirò profondamente, cercando di combattere l'eccitazione che stava prendendo possesso del suo corpo.
 
-Devo proprio andare, John.
 
Le parole di Sherlock sapevano di scuse e di promesse.
 
-Ci vediamo domani, allora.
 
-A domani. Buonanotte.
 
 
 
 
 
 
 
Il tuono fu così vicino che i vetri delle finestre tremarono così tanto che John dovette osservarli bene un paio di volte per sincerarsi che fossero ancora in piedi. Una volta stabilito che non correvano alcun pericolo, si alzò dal tavolo, aprì il frigorifero e prese la bottiglia di latte. Bevve un paio di sorsi poi si risedette, tornando ai suoi compiti.
 
-Pioggia! Pioggia! Pioggia!-, ridacchiò. Ecco cosa si meritava Harriet per aver fatto casino con Sherlock. Annuì deciso, bevve un altro po', poi ficcò nuovamente la testa in mezzo ai libri. 
 
 Il campanello squillò. Due volte, seguito da alcuni colpi decisi sulla porta. John si alzò per aprire e il suo giovane cuore si sentì soccombere sotto un'ondata di tenerezza immensa alla vista di uno Sherlock zuppo dalla testa ai piedi, le braccia distese lungo i fianchi, i capelli dritti e appiccicati alla fronte e lo sguardo triste come un cucciolo bastonato.
 
-Sei... sei completamente bagnato, tesoro-, mormorò John, scostandosi per lasciarlo entrare e dimenticandosi di aver involontariamente utilizzato una delle parole proibite. Sherlock entrò in casa, tenendo lo sguardo basso e gocciolando dappertutto. John lo fece sedere, poi scomparve un attimo in bagno, da cui emerse poi in compagnia di un paio di asciugamani da doccia.
 
-Tieni, datti un'asciugata con questi, intanto che metto su un buon the caldo.
 
John riempì il bollitore fino all'orlo e accese il fuoco.
 
-Sei proprio pazzo a uscire di casa senza un ombrello, con questo tempo!-, lo sgridò bonariamente.
 
Sherlock si ostinava ancora a non parlare, lo sguardo sempre incollato al pavimento. Nell'attesa che l'acqua fosse pronta, John prese una sedia, l'avvicinò al compagno e si sedette accanto a lui, prendendogli dolcemente le mani tra le proprie. 
 
Non era la prima volta che lo vedeva così, tenero e zuppo come un gattino dal pelo arruffato. E non era nemmeno la prima volta che doveva combattere contro il suo istinto primordiale di attirarlo a sé e di baciarlo fino a far arrossare senza ritegno quella pelle così candida che lo faceva impazzire. Gli accarezzò il profilo con un dito poi, non riuscendo più a sopportare quello sguardo distaccato, usò quel dito per tirargli su il mento e costringerlo a farsi guardare negli occhi.
 
-Ehi, guardami... Che cosa c'è?
 
Le parole di John sembravano in realtà dire "ricorda che di me ti puoi fidare, sempre". Sherlock tirò su col naso prima di decidersi finalmente di incastrare i suoi occhi chiari in quelli più scuri di John.
 
-Vado a Parigi...-, mormorò.
 
John sorrise, non intuendo fino in fondo la portata di quella rivelazione.
 
-Ehi, guarda che finora sono riuscito a mettere da parte solo una sterlina!
 
Ma Sherlock non aveva molta voglia di ridere.
 
-Ci sto andando senza di te.
 
Il bollitore iniziò a fischiare prepotentemente, penetrando con autorità nella mente di John e sconquassandola totalmente, mentre i suoi occhi si andavano a posare su una lacrima silenziosa che stava rigando lentamente il viso di Sherlock.
 
-Come a Parigi? Io... Non capisco.
 
John si alzò di istinto per andare a spegnere il bollitore, ma non fece un sol passo. Rimase lì, con lo sguardo incollato al viso di Sherlock e l'indice sul suo mento. Poi il fischio aumentò di intensità: con un balzo fu davanti ai fuochi, spense quello acceso sotto il bollitore e con un altro balzo si sedette nuovamente di fronte a Sherlock.
 
-Io non capisco...-, ripeté ancora. L'unica cosa che era chiara era il fatto che non c'era proprio nulla di buono in quella dichiarazione. Sherlock si asciugò la lacrima con il dorso della mano, quindi le allungò entrambe in avanti per cercare quelle di John, intrecciando le dita lunghe e lisce a quelle più corte e ruvide dell'altro.
 
-Papà ha accettato un importante lavoro presso l'ambasciata di Parigi.
 
-Oh...
 
John iniziava finalmente a capire, tuttavia la situazione che stava iniziando a prendere forma davanti ai suoi occhi era sempre assai poco promettente. I suoi occhi erano ancora costantemente incollati a quelli chiari del suo moro compagno, in particolare sulle ciglia lunghe e folte come quelle di una sensuale ragazza, ora imperlate da lacrime ribelli.
 
-E quanto... quanto...
 
-Sei, otto mesi.
 
 -Sei... otto mesi...
 
-Almeno. Ma con ogni probabilità saranno di più.
 
John inspirò con decisione a pieni polmoni, cercando di risucchiare quanta più aria gli fosse possibile, perché aveva come la sensazione che da lì a breve l'ossigeno che riempiva la stanza sarebbe scomparso e lui non sarebbe più riuscito a respirare.
 
-Okay... E da quando...
 
Deglutì un paio di volte. Proprio gli risultava impossibile formulare una frase elementare di senso compiuto. Grazie a Dio Sherlock non sembrava aver perso per strada le sue capacità, anche in virtù del fatto che in quel momento John Watson sarebbe apparso a tutti come un libro aperto. E uno stupido. Non necessariamente in quest’ordine.
 
-Lunedì.
 
-Cosa? Lunedì dopodomani?
 
La voce di John risuonò più stridula di quella di una donna.
 
-Papà lunedì. Io e mamma credo tra un paio di settimane. Il tempo di finire la scuola.
 
John allentò la presa dalle dita di Sherlock e si lasciò andare con un sospiro contro lo schienale della sedia, lo sguardo perso nel vuoto. Un paio di settimane ancora. Per prepararsi a salutare l'amore appena trovato.
 
-Mio fratello ha deciso di rimanere qui. Lui è maggiorenne, può farlo. 
 
John aveva smesso di ascoltare, lo sguardo rivolto a un punto indistinto del divano di pelle, che sembrava aver catturato tutta la sua attenzione.
 
-E poi mamma di lui si fida, sa che può lasciarlo da solo perché mangerà le verdure!
 
Sherlock sorrise appena, nella speranza che la sua battuta fosse sufficiente a stemperare un po' la tensione, ma fu subito smentito: il corpo di John gli stava comunicando con ogni millimetro di pelle, muscolo o nervo che c'era ben poco da scherzare. Non aveva la minima idea di quale fosse il comportamento più consono tenuto normalmente dalle persone in situazioni analoghe. Si maledisse mentalmente per non aver cercato seriamente nelle librerie di Londra un manuale decente sulla gestione più appropriata dei sentimenti umani. Ora non si sentirebbe così impotente come una nave in preda al Maelstrom.
 
-John?
 
Titubante, sfiorò con una mano l'avambraccio di John, sentendo distintamente i muscoli tesi sotto la maglietta di Batman lievemente macchiata di marmellata.
 
-John guardami...
 
Aveva un disperato bisogno di un contatto. Questa era forse l'unica cosa di cui era certo, senza l'ausilio di manuali di alcun genere. John si voltò a fatica, rivelando l'espressione da cane bastonato che ora si era trasferita sul suo, di viso.
 
-Abbiamo ancora qualche giorno. E poi... Passerà in fretta, non é per sempre. 
 
Sherlock non sarebbe stato proprio capace di dire dove stava trovando la forza di parlare cosí, di apparire rassicurante e distaccato. Non aveva urlato, non aveva protestato e, fatta eccezione per quel paio di lacrime che avevano abbandonato i suoi occhi da quando aveva messo piede in casa Watson, non aveva nemmeno pianto. Si era limitato, da quando erano rincasati la sera prima dal ristorante, a starsene barricato in camera sua, raggomitolato sul letto con il viso affondato nel guanciale. Non aveva più parlato e si era persino rifiutato di mangiare. Davanti agli occhi aveva solo le immagini della sua vita così com'era prima di incontrare John, che si susseguivano l'una dopo l'altra in un tormentato e ripetitivo carosello.
 
Gli era sempre piaciuta, la sua vita, non si era mai lamentato di nulla, più o meno. Gradiva la sua solitudine, l'essere privo di amici, riprendere i compagni per la loro frequente e marcata ignoranza. Gli piacevano pure le scazzottate con gli altri ragazzi, perché aumentavano i livelli di adrenalina. Ma, analizzando bene il tutto, quella vita gli era sempre piaciuta perché non aveva conosciuto altro. Con John aveva scoperto tanti piccoli piaceri prima sconosciuti, come la gioia del confronto e l'allegria della condivisione. Il dolore della separazione e la felicità del ritrovarsi. E ora proprio non avrebbe potuto sopportare di ritrovarsi di nuovo senza tutto questo. C'era una parte di lui che voleva liberare il Maelstrom dentro di sé, dar sfogo all'uragano di emozioni violente che attendevano solamente di mettere il naso fuori dalla sabbia e di essere lasciate andare a briglia sciolta, libere di correre a perdifiato.
 
E probabilmente l'avrebbe pure fatto, se solo avesse saputo come si faceva. L'unica cosa che sapeva bene era che desiderava all'inverosimile un contatto fisico con John, quasi come a voler dire "Ehy, siamo qui, siamo ancora qui. Noi due", avvalendosi della propria pelle e scartando le parole. E, così, si chinò in avanti, affondando il viso nell'incavo tra la spalla e il collo di John, bagnandolo leggermente con le ciglia ancora umide. Un'altra cosa di cui era certo era che avrebbe passato volentieri in quella posizione  metà del resto della sua vita (ovvero quella metà che non avrebbe dedicato ai suoi bizzarri esperimenti) e guai a chi avrebbe osato anche solo cercare di portargli via quel rifugio accogliente e certo. Sentì poi le dita di John intrufolarsi quatte tra i suoi capelli umidi e iniziare ad accarezzargli piano la cute.
 
-Ogni minuto è prezioso, allora...-, mormorò John, cercando di ricacciare indietro il magone.
 
Sherlock non aggiunse nulla, limitandosi a sfregare il naso contro la maglietta di John in cenno di assenso.
 
-I miei non ci sono. Hanno accompagnato mia sorella al concerto.
 
Ormai nemmeno il pensiero che la giornata di Harry fosse stata in parte compromessa dalla presenza dei genitori al seguito lo faceva più sorridere come prima.
 
-Allora mi fermo a cena-, proferì Sherlock, deciso. La pelle di John si increspò di piacere sotto il respiro fresco di Sherlock.
 
-Cinese?
 
 
 
 
 
 
 
-È tutto così... ordinato-, constatò Sherlock arricciando il naso e increspando lievemente le labbra, mentre si muoveva piano e a piedi nudi per la camera di John e Harry.
 
-Di certo qui non troverai penne e pennarelli riposti all'interno di un paio di vecchie scarpe!-, lo canzonò John, mentre raccoglieva i cartoni vuoti del cinese sparpagliati per terra con l'intento di buttarli via.
 
-Stai forse insinuando che sono disordinato?
 
-Io non 'insinuo'!-, disse John di rimando, sparendo per un attimo in cucina.
 
-Io riesco sempre a trovare tutto!
 
-Coda di paglia?-, urlò l'altro dalla stanza attigua, mentre apriva la pattumiera per buttare via gli avanzi (che appartenevano quasi tutti a Sherlock).  Il coperchio della pattumiera si richiuse con un tonfo sordo, mentre John alzava lo sguardo sull'orologio da parete appeso sopra il frigorifero e si chiese quanto tempo gli rimanesse quella sera prima che Sherlock gli comunicasse che era giunto il momento di rincasare. Si sentiva pressoché come un paziente nella sala di attesa del dottore: divorato dall’ansia crescente.
 
Sherlock si stava guardando intorno, con il naso che andava in su e in giù, la testa a destra e sinistra, quando notò che John era tornato e lo stava fissando sotto l'arco della porta con le braccia abbandonate lungo i fianchi e le iridi solitamente di un blu acceso ora tristemente spento. Gli sorrise timidamente, come se volesse infondergli coraggio. Proprio lui, che per raccapezzarsi nei rapporti umani normalmente avrebbe avuto bisogno di una bussola grande quanto Trafalgar Square. Ma con John sentiva che avrebbe potuto essere diverso. Non facile, ma diverso sì. E a piccoli passi avrebbe anche potuto arrivarci.
 
-Se avessi con me il mio violino, suonerei ancora per te...-, mormorò Sherlock, accarezzando il suo ragazzo con lo sguardo. John si sentì avvampare e registrò nella mente che ascoltare di nuovo Sherlock suonare sarebbe stata una priorità da mettere in cima alla lista di cose da fare prima della partenza.
 
-Ecco io....-, farfugliò imbarazzato, sentendo il desiderio crescere dentro sé. -C'é sempre il mio stereo, se vuoi ascoltare un po' di musica.
 
Non era proprio la stessa cosa. Non era "decisamente" la stessa cosa, ma con un po' di fantasia e tutto l'affetto che legava i due ragazzi sarebbero ugualmente riusciti a creare qualcosa di magico.
 
Sherlock si inginocchiò un po' dubbioso davanti allo stereo posto sotto la finestra e iniziò a esaminare la collezione di CD di John, scorrendo con le dita le custodie riposte ordinatamente in un bel portacd di legno a forma di distributore di benzina.
 
John lo osservò con attenzione, accarezzando con lo sguardo quelle dita lunghe e affusolate che tanto amava, non potendo fare a meno di chiedersi se Sherlock conoscesse anche uno solo dei cantanti e gruppi che lo emozionavano. 
 
-Che cosa ti piacerebbe ascoltare, John?-, gli chiese, voltandosi per guardarlo in viso ma tenendo la mano ancora sul portacd. John gli si inginocchiò accanto, sfiorandolo con una spalla.
 
-Mhm... Che ne diresti di un po' di swing jazz?
 
Allungò il braccio per prendere il CD di Van Morrison, non prima di essersi soffermato un attimo per sfiorare dolcemente il polso di Sherlock. Provò un brivido lungo la spina dorsale a quel contatto fuggevole, mentre il suo cuore tornava a intristirsi al pensiero dell'imminente separazione. Accese lo stereo, prese il CD dalla custodia e lo infilò nel lettore, evitando accuratamente il contatto con gli occhi grigio-azzurri dell'altro, perché sapeva che il candore di quelle iridi affilate come pugnali avrebbe finito per farlo cedere sotto un fiume di lacrime.
 
Le prime note della canzone tanto amata da John iniziarono a riempire la camera, divorando le pareti e mescolandosi alle tende e alla tappezzeria, nel disperato tentativo di mitigare la tensione con un po' di allegria. Alla seconda strofa Sherlock si tirò lentamente in piedi e, con fare decisamente incerto e a tratti un po’ goffo, allungò la mano destra verso il suo ragazzo, ancora seduto ai suoi piedi.
 
-Balla con me, John-, mormorò, le labbra increspate in un sorriso sghembo. John alzò piano il viso verso Sherlock, trovando finalmente il coraggio di agganciare i suoi occhi in quelli dell'altro e si sorprese di trovarvi sentimento, fiducia e sicurezza. 
 
-È così che fanno le coppie, non è vero?
 
John spalancò la bocca per la sorpresa e rimase a guardarlo annichilito per qualche attimo, la mente che saltellava dalla sua camera al sogno semi-erotico che aveva fatto tempo addietro.
 
-Mi stai... Mi stai invitando a ballare, Sherlock?
 
-Sono sorpreso dal tuo acume, John-, rimbeccò l'altro, facendogli cenno con la mano di sbrigarsi. -Mamma e papà a volte lo fanno e... Beh, sembrano felici...
 
John si alzò anche lui e, tentennando, si mise davanti a Sherlock, incerto su come procedere. In altre parole, su chi avrebbe condotto e chi avrebbe fatto la donna. Gli cinse timidamente i fianchi e lo attirò a sé, provando una scossa lungo tutta la pelle al contatto con il corpo caldo dell'altro. Per un attimo, i loro sguardi si incontrarono ancora, mentre gli occhi di Sherlock sembravano dire "Sono nelle tue mani". John prese la mano destra di Sherlock tra le sue e appoggiò l'altra contro la propria spalla, prima di iniziare a muoversi titubante seguendo il ritmo della musica.
 
Sherlock si lasciò guidare completamente da John lungo le note della canzone, acquistando via via sempre più sicurezza. Con le parole romantiche sembrava scivolare via anche tutta la tristezza che fino a poco prima aveva avvolto i loro cuori.
 
 
 

Well, it's a marvelous night for a Moondance
With the stars up above in your eyes
A fantabulous night to make romance
'Neath the cover of October skies
And all the leaves on the trees are falling
To the sound of the breezes that blow
And I'm trying to please to the calling
Of your heart-strings that play soft and low
And all the night's magic seems to whisper and hush
And all the soft moonlight seems to shine in your blush

 
 
 
John atteggiò le labbra a un sorriso un po' malizioso prima di stringere la mano di Sherlock, allontanare leggermente il suo corpo e facendolo girare su se stesso in una rapida piroetta. Poi una seconda e un'altra ancora.
 

Can I just have one more Moondance with you, my love
Can I just make some more romance with you, my love
 

 
 
Si guardarono negli occhi una volta che furono di nuovo l'uno di fronte all'altro, prima di scoppiare entrambi in una sentita risata di divertimento.
 

Well, I wanna make love to you tonight
I can't wait 'til the morning has come
And I know that the time is just right
And straight into my arms you will run
And when you come my heart will be waiting
To make sure that you're never alone
There and then all my dreams will come true, dear
There and then I will make you my own
Any time I touch you, you just tremble inside
And I know how much you want me that you can't hide

 
 
 
Poi John prese tra le sue anche la mano libera di Sherlock e lo attirò a sé in un abbraccio quasi soffocante, la guancia dell’uno che sfiorava appena quella dell’altro, mentre scemavano le note conclusive della loro danza al chiaro di luna.
 
 
 

My love, my love
I just want one more moondance with you
Yes I do

 
 
 
Senza sapere bene come fosse accaduto, si ritrovarono sdraiati sul letto, ancora avvinghiati nell'abbraccio, respiro contro respiro, così vicini da potersi quasi sfiorare con le ciglia o la punta dei nasi.
 
Timidamente John cercò con la propria la bocca di Sherlock, il quale ricambiò goffamente aggrottando la fronte e premendo forte le labbra contro quelle dell'altro. Erano morbide e invitanti, pronte ad accoglierlo, esattamente come se le ricordava. Erano passati alcuni giorni dal bacio che si erano scambiati in ospedale, ma John ricordava benissimo ogni sensazione provata, esattamente come se risalisse solo a poche ore prima. La loro forma, la loro consistenza, persino il turbamento provocato dallo sfiorare della piccola fossetta sul labbro superiore.
 
Una serie di piccoli e timidi baci seguiti da altri sempre più lunghi e sicuri da parte di entrambi. Tenendolo sempre stretto tra le braccia, John prese il carnoso labbro inferiore di Sherlock tra i denti, mordicchiandolo appena. Il lieve mugolio di piacere che il moro emise gli fece capire che era cosa gradita. Sapeva -sentiva - che ogni cosa per Sherlock era una novità, una scoperta, e l'essere stato eletto suo maestro gli trasmetteva piacere ma al tempo stesso un forte senso di responsabilità.
 
Le labbra di Sherlock erano molto probabilmente la cosa più dolce e morbida che John avesse mai assaporato. No, la seconda. Decise che senza dubbio dovessero essere la seconda dopo che dei benevoli gli concessero l'onore di assaggiare la sua lingua, quella lingua soffice e carezzevole che sembrava essere stata appositamente creata per lui. Sherlock aveva dischiuso appena le labbra e lui l'aveva interpretato come un "Fa tua la mia bocca". Si era tuffato con il cuore che galoppava come un forsennato e il resto del corpo scosso da brividi di piacere e paura.
 
Quest'ultima scemò non appena si rese conto che nulla aveva a che vedere con quanto aveva provato con Violet. Non c'era nulla di viscido o di indesiderato. C'era solo l'esplorarsi piano e timido, non solo di lingue e labbra, ma anche di due anime che si scoprivano, si conoscevano, si appartenevano. Saliva, tanta saliva.  E carezze, calde e avide carezze. 
 
John lo teneva stretto al proprio corpo, timoroso di vederselo sparire da un momento all'altro, mentre gli respirava addosso. Abbandonò per un attimo le labbra, mentre le sue dita cercavano i suoi riccioli ormai tornati ribelli e la sua bocca scendeva lungo il collo in tensione lasciato scoperto dai bottoni slacciati della polo scura.
 
-Mhm...-, si lasciò andare Sherlock, sotto un morso leggero.
 
-Scusami Scusami Scusami!-, si affrettò a dire John, alzando il viso per incrociare i suoi occhi, allarmato.
 
-Non c'è bisogno che ti scusi. Credo tu possa fare con me tutto ciò che desideri-, gli rispose Sherlock, guardandolo con serietà.
 
Gli occhi di John si posarono sulle labbra del suo ragazzo, gonfie e arrossate sotto l'ondata dei baci che aveva riservato loro. Morbide e invitanti come le fragole, avevano di nuovo surclassato la lingua di Sherlock nella hit parade delle cose che John considerava più sexy al mondo.
 
"Tutto ciò che voleva"... La lista delle cose che John avrebbe voluto fare a Sherlock era indubbiamente molto lunga ma altrettanto indubbiamente in contrasto con i suoi quindici anni e mezzo.
 
-Vieni qui, tesoro...
 
Sherlock aggrottò la fronte in un evidente segno di disapprovazione per quel vezzeggiativo.
 
-Mi stai per lasciare da solo per un periodo lunghissimo! Ho tutto il diritto di chiamarti come mi pare!-, lo canzonò John.
 
Sherlock borbottò qualcosa di simile a un “non farci l'abitudine però” prima di lasciarsi avvolgere completamente dalle braccia forti e amorevoli di John, cingendogli le gambe con la sua destra. I muscoli della schiena di Sherlock erano tesi sotto i palmi di John, pur celati dalla trama della polo. Dio, come avrebbe voluto sfilargliela, quella maglietta. Ogni fibra del suo corpo richiedeva a gran voce il contatto pelle contro pelle. Avrebbe voluto accarezzarla non solo con le dita, ma anche con una guancia, le labbra e, chissà, magari persino con la punta del naso. Farla aderire alla propria in un intreccio di carne e sudore. Sarebbe arrivato il momento per quello. Pian piano, sarebbe arrivato il momento per ogni cosa.
 
Adesso, a John bastava semplicemente avvolgerlo con il calore del proprio corpo e tenerlo stretto in quell'abbraccio il più a lungo possibile, in modo che entrambi potessero riuscire a imprimersi bene nella mente la consistenza e i profumi dell'altro. Sherlock portò una mano dietro la schiena, tastandogli piano un braccio alla ricerca della sua, di mano, e, quando la trovò, intrecciò le dita lasciando cadere il braccio lungo i fianchi.
 
-La distanza sarà una dura prova, ma ci fará crescere-, mormorò Sherlock, desideroso di bruciare le tappe della vita. Gli aveva parlato accarezzandogli timidamente con i polpastrelli il dorso della mano, come se fosse una formichina in esplorazione.
 
-Mhm...-, bofonchiò John, chiudendo gli occhi e affondando il viso in quei capelli corvini che tanto amava. Si sentì invadere dal delicato profumo dello shampoo ancora presente mischiato a quello più fresco della pioggia. Un ciuffo gli solleticò il naso e lo fece sorridere. Dal canto suo, non era altrettanto ansioso di crescere. Quanto meno, non in quei termini. Alzò piano la mano libera e l’appoggiò con trepidazione sulla pancia di Sherlock, che prese ad accarezzare non senza timore. Poteva sentire distintamente il calore della sua pelle, pur celata dallo spesso cotone della polo.
 
-Promettimi che starai attento alle parigine!
 
Il ragazzo più giovane aggrottò perplesso le sopracciglia, non arrivando a comprendere cosa intendesse l'altro.
 
-Che cos'hanno le parigine? Sono forse persone poco raccomandabili?
 
John rise appena prima di lasciare un bacio leggero in mezzo a quella criniera scura.
 
-Intendevo non cedere alla corte di qualche affascinante ragazza! O ragazzo...
 
Sherlock fece spallucce.
 
-Non mi interessa la corte degli altri. Lo sai che c'è solo una persona che mi interessa.
 
Per un attimo John si sentì il cuore in gola, mentre si sentiva avvampare.
 
-Intendi...
 
-Sei tu, sciocco! Piuttosto...
 
Sherlock si puntellò su un gomito per guardare bene John negli occhi, allentando in parte l'abbraccio. -Credo sia opportuno comprarci dei cellulari.
 
-E scegliere un piano telefonico vantaggioso per le chiamate oltreoceano.
 
-Perché pensi sempre ai soldi?
 
-Perché non ne ho! E devo risparmiare per l'università!
 
Sherlock si distese meglio, affondando il viso nel guanciale e iniziando a riflettere seriamente. -Allora vedrò di chiamare io più spesso, con il telefono di papà. Così le spese saranno a carico dell'ambasciata.
 
John sorrise: gli piaceva l'idea di sottrarre un po' di soldi al Governo. Alzò una mano e accarezzò dolcemente il viso di Sherlock, indugiando con il pollice sullo zigomo. Trascorsero alcuni minuti in silenzio, in cui si divorarono l'un l'altro con gli sguardi, quasi a voler imparare reciprocamente il viso di ciascuno a memoria. In questo modo sarebbe stato più facile raffigurarselo davanti agli occhi quando sarebbero stati lontani, la sera prima di addormentarsi, ognuno nel proprio letto, magari prima di incontrarsi nei sogni.
 
-John, Promettimi una cosa...
 
Sherlock piegò il viso in avanti, catturando le labbra sottili del suo ragazzo tra le proprie e mordicchiandole appena prima di lasciarle andare.
 
-Tutto quello che vuoi...
 
John ricambiò con un bacio leggero lasciato a fior di labbra sul collo, appena sotto l'orecchio. Seguito da un secondo bacio e un altro ancora, che costrinsero Sherlock ad abbandonarsi a timidi gemiti di apprezzamento, prima di ritrarsi con un brivido e costringerlo a fermarsi.
 
-È una cosa seria, John!
 
-D’accordo, va bene. Che cosa vuoi che ti prometta?
 
Con estrema fatica, Sherlock prese il viso di John con entrambe le mani e lo allontanò da sé, per guardarlo seriamente negli occhi.
 
-Promettimi che andremo a vivere assieme.
 
Erano così vicini da respirarsi addosso, le mani di Sherlock che stringevano forte la testa di John all'altezza delle tempie, gli occhi dell'uno che puntavano dritto in quelli dell'altro. Era quasi come se Sherlock stesse cercando di penetrare nella mente di John, che invece lo stava osservando leggermente sbigottito.
 
-Promettimi che non appena compirò diciotto anni andremo a vivere assieme, John.
 
Vivere assieme, condividere le stesse mura, magari pure lo stesso letto. La smania di diventare adulti si era d'improvviso impossessata anche di John. Svegliarsi al mattino con una persona accanto e coricarsi con lei la notte. Rincasare dopo il lavoro e sapere di trovare qualcuno con cui condividere le proprie gioie o le proprie frustrazioni, o semplicemente il silenzio. Guardare la tivù assieme, magari anche un programma idiota, ma sdraiati l'uno nelle braccia dell'altro. Leggere un buon libro o suonare il violino. Sherlock gli stava chiedendo di fare assieme tutte queste cose e mille altre ancora. John allontanò le mani di Sherlock delle proprie tempie, prendendole dolcemente tra le sue e sfiorando appena i polpastrelli con le labbra, quindi appoggiò la fronte a quella dell'altro. Chiusero entrambi gli occhi, lasciandosi avvolgere dal buio e cullare dalle emozioni, sulle note dei loro respiri affrettati.
 
-Te lo prometto, Sherlock. Fosse l'ultima cosa che farò nella mia vita, ma te lo prometto.
 
Lo sentì annuire contro la propria spalla e lasciarsi andare a un sospiro che finalmente esprimeva sicurezza. John cercò con il pollice della mancina la tempia di Sherlock e prese ad accarezzarla con movimenti lenti e circolari, esattamente come era solita fare sua madre quand’era piccolo, mentre lo cullava tra le sue braccia accoglienti. Decise che avrebbe iniziato a contare i giorni, le ore e i minuti che avrebbe trascorso in compagnia del suo ragazzo a partire da quel momento sino a quello della separazione. Poi avrebbe comprato un calendario da muro bello grande, lo avrebbe appeso sopra il suo letto e avrebbe iniziato a segnare con un pennarello rosa i mesi e i giorni che li separavano dall’attimo in cui si sarebbero finalmente rincontrati, con la stessa trepidazione di un bambino che aspetta con ansia le vacanze estive.


 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  se siete arrivate fin qui, vuol dire che siete finalmente giunte alla fine della storia. O no?? *si scansa per non essere colpita dai pomodori* Così era come avrebbe dovuto finire la storia, quando l’ho concepita sei mesi fa. Ma leggendo sempre le vostre splendide recensioni ho fatto un po’ miei i vostri commenti e desideri. C’è chi vorrebbe che Mycroft e Harriet si incontrassero, chi vorrebbe che si iniziasse a parlare dell’arruolamento… Così mi è balenata un’idea per continuare la storia con un altro capitolo o due. Non dico che esaudirò tutte le vostre richieste, ma magari ci proverò!! ^___^ Può essere che nel prossimo capitolo Sherlock risulti un tantino OOC, ma se così sarà incolperò la romantica aria che si respira sulla Rive Gauche! Come sempre, grazie mille a Melian e Doralice per il loro aiuto <3
 
 

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Capitolo 10
*** Beyond the Sea ***


-Sei riuscito a far cambiare idea a vostra madre? Dimmi che ci sei riuscito.
 
Uno sbuffo annoiato.
 
-Perché se non ci sei riuscito, allora... Accidenti, mio fratello...
 
Un altro sbuffo, se possibile ancora più annoiato del precedente.
 
-La situazione é rimasta invariata. Esattamente come le altre volte che hai chiamato questa settimana-, la voce di Mycroft era pacata e apparentemente disinteressata all'altro capo del telefono.
 
-Oh, andiamo Myc! Sembra tu abbia potere su tutto! Vuoi rifilarmi questa panzana di non averlo su tua madre?
 
Mycroft aggrottò la fronte, cercando di ricordare da quando Harriet Watson si era impossessata di tutta quella confidenza nei suoi confronti.  Probabilmente in un momento imprecisato dopo la quarta telefonata di quella settimana.
 
-Mi dispiace deluderti, Harriet, ma se sei convinta che io sia il Governo inglese avrai una bella delusione.
 
Un sospiro triste lo raggiunse all'orecchio, facendogli provare quasi tenerezza. Quasi.
 
-Nostra madre desidera avere il suo cucciolo vicino. Ha paura di lasciarlo troppo solo.
 
-E che cosa potrebbe mai accadergli?
 
-Potrebbe diventare adulto tutto d’un tratto. Sono sicuro che non devo dirtele io queste cose, Harry-, aggiunse poi, attribuendo alla sua voce un tocco di dolcezza per lui decisamente insolita.
 
-Mhm..
 
-La lontananza li aiuterà a crescere e diventare più forti.
 
-Suppongo si dica così... Esattamente come quando pesti gli escrementi di un cane e ti dicono che porta fortuna-, borbottò la ragazza.
 
Mycroft non replicò. Si limitò ad arricciare le labbra e a grattarsi la punta del naso, sconsolato.
 
 
 
 
 
 
 
Alla signora Holmes non andavano proprio giù i due musetti tristi nell'area check-in della British Airways, uno al suo fianco (sguardo basso, capelli più scarmigliati del solito e continuo tirare su con il naso) e l'altro seduto qualche metro più in là sulle poltrone di finta pelle (sguardo vacuo, dita artigliate al sedile, gambe oscillanti in avanti e indietro).
 
-Ecco le vostre carte d'imbarco. L'Executive Club si trova svoltato l'angolo, poi ancora a destra. Buon viaggio e grazie per aver scelto di volare con British Airways.
 
La signora Holmes sorrise forzatamente alla voce asettica dell'hostess di terra, poi prese il figlio per mano, che stranamente non oppose resistenza, e si allontanò dal banco della first class.
 
-Io... uhm, vado a bere un caffè, tesoro. Tu resta pure qui con John, ci vediamo dopo.
 
E così dicendo scappò via, perché proprio non riusciva a sostenere più a lungo quegli occhioni tristi. Le labbra di John si atteggiarono a un accenno di sorriso quando Sherlock si sedette di fianco a lui. Aprì la cerniera della tasca esterna del suo trolley, ne estrasse un libro (Tutti i racconti del mistero, dell’incubo e del terrore di Poe) e lo appoggiò sulle ginocchia, senza tuttavia aprirlo.
 
-Papà ha telefonato stamattina. A Parigi si soffoca.
 
Il ragazzo più giovane aveva parlato tenendo lo sguardo fisso sui banchi del check-in di fronte a sé. Non aveva proprio il coraggio di confrontare gli occhi di John, ma poi sentì la mano calda cercare la sua e stringerla forte, così forte da infondergli il coraggio necessario per voltarsi.
 
-Non andare però troppo in giro mezzo nudo. Se no le parigine...-, disse, con aria maliziosa e sforzandosi di fare lo spiritoso. Ebbe successo, perché riuscì a strappare a Sherlock un mezzo sorriso.
 
-Non mi salteranno addosso, le parigine!
 
-Io se fossi una parigina lo farei!
 
-Intendi se tu fossi una ragazza o un wafer?-, anche Sherlock voleva fare lo spiritoso, per mitigare la tensione, ma non era granché bravo a fare le battute.
 
-Non meriti neanche una risposta!-, lo canzonò l'altro, stringendo di più la mano. Divennero poi entrambi seri. -Vorrei tanto baciarti...
 
Le gote di Sherlock si imporporarono a quelle parole e lo costrinsero a distogliere lo sguardo.
 
-Mi manche...
 
-No, non dirlo, non dirlo!-, protestò John, sentendo le lacrime salirgli prepotentemente agli occhi. Voltò il capo verso i finestroni, posando gli occhi sugli aerei parcheggiati e quelli che rullavano piano sulla pista. Respirò a pieni polmoni, nel tentativo di calmarsi. -Non dirlo-, mormorò ancora.
 
Rimasero così, a guardare in direzioni opposte ma stringendosi forte le mani, così forte da far male, fino a quando la signora Holmes riapparve di fronte a loro. Aveva i capelli scomposti e una strana luce negli occhi.
 
-Vieni anche tu, John-, se ne uscì tranquillamente la signora Holmes, aggrottando la fronte e arricciando le labbra, la mano stretta al fianco destro avvolto nel pregiato tessuto del suo abito color cremisi.
 
John aprì la bocca per ribattere, senza che uscì alcun suono. Sherlock strinse di più a sé il libro di Poe che si era programmato di leggere in volo, schioccando le dita di una mano come a significare "perché non ci ho pensato io, prima?".
 
-Io... io-, balbettò, colto alla sprovvista. -Adesso?
 
Un misto di stupore, paura e desiderio si dipinse sul volto di John.
 
-Quando sarai pronto. Il tempo di informare i tuoi genitori e di prepararti. 
 
John notò la sottigliezza: informare i genitori, non chiedere loro il permesso.
 
-John! Pensa a tutte le cose che potremmo fare assieme!
 
Gli occhi di Sherlock brillavano di luce propria. Se John ci avesse guardato bene, vi avrebbe visto riflessa la luce del sole, di almeno un paio stelle e magari anche di tutto il firmamento.
 
-Ho un esame quest'anno... L’AS… [1]
 
Gli occhi straniti di John saltellavano invece dal viso di Sherlock a quello della signora Holmes. Da quello ipereccitato dell'uno a quello risoluto dell'altra, senza più capirci realmente un granché.
 
-Le catacombe....
 
-Ci raggiungerai non appena li avrai finiti.
 
-...i gargoyles...
 
--Chiamerò personalmente i tuoi genitori appena arriveremo a Parigi, se la cosa ti può far piacere. Dirò loro che mi prenderò in persona cura di te.
 
-...potremmo persino mettere un lucchetto su Ponteveche...
 
John non aveva la minima idea di ciò che Sherlock stesse parlando; il lieve rossore che si dipinse sulle gote del suo giovane ragazzo alla parola "lucchetto" non gli fu di aiuto. Riusciva solo a pensare che si sentiva un po' travolto da tutte quelle parole. Che non riusciva proprio a immaginare come l'avrebbero presa i suoi genitori. E, beh, anche al fatto che mettere lucchetti su un ponte gli suonava come un rischio di arresto imminente da parte della Gendarmerie. Anche se, doveva ammettere, l’idea di essere ammanettato con Sherlock aveva un certo fascino.
 
-Potrai fermarti un mese, tutta l'estate o quanto vorrai.
 
Il tono della signora Holmes era sempre più risoluto, del tipo che non ammetteva contraddizioni. Esattamente come quello che usava spesso il figlio. D'improvviso, John sentì le dita lunghe di Sherlock cercare le proprie e intrecciarle in una calda stretta che sapeva di rassicurazioni e promesse.
 
-Sarebbe bellissimo, John, se tu mi raggiungessi.
 
Ecco, le paroline magiche in grado di aprire tutte le serrature di questo pianeta! Bastava solo che Sherlock lo chiedesse.
 
-D'accordo, sì. Se i miei acconsentiranno, sì. Grazie-, disse John alla signora Holmes, guardandola negli occhi e sorridendo con fare impacciato. Poi, strinse forte la mano di Sherlock tra la sua, voltandosi meglio verso di lui. -Lo sarà, sarà davvero bellissimo-, gli sussurrò all'orecchio, solleticandogli il lobo con il respiro.
 
-Bene, allora è deciso!-, cinguettò la signora Holmes, impugnando il trolley per la maniglia e accarezzando teneramente il figlio sulla schiena con l'altra mano. -Io inizio ad avviarmi, tesoro. Vi lascio salutarvi in santa pace. Allora arrivederci, John.
 
John seppe solamente annuire nervosamente un paio di volte mentre arrossiva sino alla radice dei capelli.
 
-Allora...-, balbettò nervosamente, una volta rimasti soli.
 
-Allora!-, lo canzonò Sherlock, arricciando le labbra. -Mi accompagni alla security?
 
-Sto morendo dalla voglia di abbracciarti...-, se ne uscì John con un filo di voce, agganciando gli occhi blu in quelli più chiari dell'altro.
 
-Lo so, John. Per questo ti ho appena chiesto di accompagnarmi.
 
Percorsero la rampa mobile con passo svelto, sfrecciando tra gli altri passeggeri come se fossero in procinto di perdere il proprio volo. Poi una svolta. E un'altra svolta. Una seconda rampa mobile seguita da una terza e da un'ennesima svolta.
 
-Di qui!-, sibilò Sherlock, afferrando con forza John per il polso e costringendolo a seguirlo.
 
-Ma la gente sta andando...
 
-Fidati di me.
 
-Ma qui c'è scritto Accesso riservato al personale...-, commentò perplesso John col naso per aria.
 
-Uffa, ti ho detto di fidarti!-, borbottò Sherlock, strattonandolo.
 
-Ok, ok!
 
John gli corse dietro, ridendo e divertendosi come un bambino appena scappato di casa. Il corridoio curvava e sbucarono in un vicolo cieco, dove notarono un'uscita di emergenza e, in un angolo, una rigogliosa pianta sempreverde in un bel vaso rosso. Nessuno in vista.
 
-Eccoci-, comunicò Sherlock fermandosi e lasciando andare contemporaneamente la presa sul trolley da una parte e John dall'altra. 
 
-Non c'è proprio... nessuno...-, commentò John a fatica, il respiro corto, le mani appoggiate sulle ginocchia, la schiena leggermente curva. 
 
-Sbrighiamoci, non abbiamo molto tempo.
 
John si tirò dritto, mentre si raffigurava già davanti agli occhi l'immagine di una guardia della security che li avrebbe colti in flagrante e ammoniti.
 
-Non ho… non ho più fiato. Tra poco... sputo un polmone, Sherl.
 
-Ti ho già detto di non affibbiarmi soprannomi-, borbottò il più giovane, appoggiando una mano sulla spalla del compagno.
 
-Oh piantala! Mi stai mollando qui per otto mesi!-, ringhiò John.
 
-Mhm, allora vedi che ce l'hai, il fiato?
 
John si sentì indeciso se prenderlo a schiaffi o abbracciarlo. Optò per la seconda.
 
-A volte sai essere un po' irritante-, commentò con poca convinzione, schiacciando Sherlock tra le braccia.
 
-Ti mancherò lo stesso?-, gli chiese l'altro, respirandogli sul collo.
 
-Da morire-, rispose John, affondando una mano nel cespuglio di riccioli neri e accarezzando lievemente la cute di Sherlock. Sentì le parole Ti amo salirgli dal cuore, entrargli nella gola ma morirgli di nuovo sulle labbra. Non perché non corrispondessero a verità. Tutt'altro. Amava Sherlock da morire. Avrebbe voluto dirglielo e questo era probabilmente il momento migliore, ma quelle due parole lo terrorizzavano sino al midollo. Improvvisamente, sentì le labbra del suo giovane ragazzo posarsi su quel pezzettino delicato e altamente sensibile di pelle appena sotto il lobo dell'orecchio, per depositarvi un bacio leggero. Lo strinse forte a sé, strofinando il naso contro la tempia dell'altro, mentre una lacrima silenziosa iniziò a rigargli il viso, senza che le avesse accordato il permesso di scendere.
 
-Devo andare, John.
 
Sentì che l'aria gli veniva meno, mentre le sue orecchie furono costrette a udire quelle parole. Ancora un'altra carezza tra i riccioli neri. Non era capace di dire nulla.
 
-Sei in grado di tornare indietro o devo farti una piantina?-, scherzò Sherlock per mitigare la situazione.
 
-Dovrei riuscire a non perdermi-, rispose John, mordicchiandosi il labbro inferiore nel tentativo di non piangere.
 
Sherlock si staccò da lui, eccezion fatta per la mano destra, che cercò la mancina di John per un'ultima stretta. Nessuno dei due stava guardando l'altro negli occhi.
 
-Ricorda, ti aspetto tra due settimane, John.
 
Sherlock lasciò andare la mano di John, sfiorandola appena con il mignolo. Prese il trolley e si avviò verso la security e da lì al suo terminal. Non si voltò mai indietro.
 
 
 
 
 
 
 
-Gradisce una coppa di champagne?
 
La voce vellutata della hostess di bordo penetrò invadente nella testa di Sherlock, mentre teneva gli occhi chiusi e il viso schiacciato contro il finestrino freddo. Sentì la madre ringraziare cortesemente. Annoiato, si tolse le scarpe, aprì la custodia gentilmente offerta dalla compagnia aerea, prese le pantofole che vi trovò all'interno, le indossò e, al loro posto, ci infilò dentro le scarpe. Sbuffò. Due volte.
 
-Smettila, ti stai comportando da bambino. Tanto tra due settimane lo rivedi-, commentò la madre, sfogliando svogliatamente la rivista di bordo.
 
-E se non venisse?
 
-Non contemplo minimamente questa opzione, caro.
 
Il ragazzo reclinò completamente lo schienale ed estese al massimo il poggiapiedi, trasformando la poltrona in un piccolo lettino. Che spreco, per un viaggio di un'ora, pensò.
 
-Ti suggerisco di ascoltare un po' di musica. Distende i nervi. Sui canali dodici e tredici troverai qualcosa di tuo gradimento, Sherly.
 
Sherlock sbuffò, sempre due volte, prima di infilarsi le cuffie e premere il pulsante per scorrere tra i canali audio di intrattenimento. Si fermò al dodici. Musica swing. Il pensiero corse immediatamente a John e a quando avevano ballato assieme. Sentì un calore sconosciuto infiammargli il petto. Stavano suonando Beyond The sea.
 
 
 

Da qualche parte oltre il mare
Da qualche parte, mi sta aspettando
Il mio amore è rimasto sulla sabbia dorata
E guarda le barche che si allontanano



 

Da qualche parte oltre il mare
È la che mi cerca
Se potessi volare in alto come gli uccelli
Poi dritto tra le sue braccia navigherei
È lontano oltre le stelle, vicino oltre la luna
Senza dubbio, lo so
Il mio cuore mi condurrà presto là



 

Ci incontreremo oltre la riva
Ci baceremo proprio come prima
Felici saremo oltre il mare
E mai più salperò

 
 
 
Decise che avrebbe fatto il possibile affinché quella sarebbe stata l'ultima volta in cui sarebbe partito lasciando John da solo. Chiuse gli occhi e reclinò la schiena, lasciandosi abbracciare dalle curve morbide della poltrona di pelle. La musica si arrestò per un secondo, lasciando spazio a un fastidioso gracchiare.
 
-Personale di bordo, prepararsi al decollo.
 
 
 
 
 
 
 
Sono arrivato. Piove. Papà ha mentito. SH
 
Pensavo stessimo all'ambasciata e invece no. Ritz, Place Vendome. Prendi nota SH
 
Quello di Lady Diana, mi dicono. Presumo tu sappia che cosa intendono. Io no. SH
 
Preparati che tra poco mia mamma chiamerà tua mamma. SH
 
Non è una minaccia, è una promessa. SH
 
Tu dovresti rispondere qualche volta. È noioso parlare da soli al telefono. Anche con gli SMS. SH
 
 
 
 
 
 
 
John aveva sentito ogni vibrazione del cellulare rimbombare contro la sua coscia, dalla tasca dei bermuda dove l'aveva riposto. Tuttavia, preso com'era dall'interrogatorio che gli stavano facendo i genitori sul perché e il per come volesse andarsene a Parigi, aveva optato per ignorarli, non senza una certa sofferenza, fino a quando il suddetto interrogatorio non fosse giunto al termine.
 
-Come mai proprio a Parigi? Ma per quanto tempo? Tutta l'estate?
 
-E questa famiglia Holmes? È affidabile?
 
-Beh, se il padre lavora all'ambasciata, lo sarà, caro!
 
La testolina bionda saltellava dal padre alla madre, mentre ogni tanto si voltava per lanciare un'occhiata implorante d'aiuto a Harry, seduta al tavolo della cucina intenta a leggere un libro e ad ascoltare musica con le cuffie. Contemporaneamente.
 
-Non sapevo nemmeno che avessi questo nuovo amico, John.
 
-Tze, "amico"!
 
Questo fu il commento di Harry, che le fece guadagnare un'occhiataccia da parte del fratello. Non era proprio il momento di intavolare con i genitori un'estenuante e difficile conversazione sulla sua identità sessuale. Quello che voleva era solo finire in fretta gli esami e volarsene via a Parigi dal suo... ragazzo. Già il solo pronunciare quella parola nella sua mente lo faceva sentire bene. 
 
Detto questo, lo sguardo di entrambi i genitori si catapultò interessato su Harry, mentre John alzò gli occhi al cielo domandandosi quali santi avrebbe dovuto ingraziarsi per avere un po' di fortuna. Dopo il cielo, gli occhi si posarono sulla sorella, con uno sguardo che sembravano promettere di ricacciarle in bocca il segnalibro appena si fosse avvicinato a lei.
 
-Intendevo... Più che amico gli farà da mentore, essendo John più grande...
 
Harry ricambiò lo sguardo assassino verso il fratello, prima di immergersi nuovamente nella lettura, non senza aggiungere ancora qualcosa: -Sarà un'ottima occasione per migliorare il suo francese...
 
L'idea sembrò piacere alla signora Watson, il cui viso si illuminò tutto come se avesse appena ricevuto la visita di un arcangelo. 
 
-Non hai tutti i torti, Harry. John ne avrebbe proprio bisogno! Quand'è che chiama questa signora Holmes?
 
Fu così che, prima di scapparsene in camera a leggere i suoi messaggi con il cuore in gola, John decise che avrebbe portato a Harriet un bel regalo da Parigi.
 
 
 
 
 
 
 
Ben arrivato! Scusa, non sono riuscito a risponderti prima. I miei volevano sapere per filo
 
INVIO
 
Intendevo: per filo e per segno di te e Parigi. Non ho ancora preso la mano con questo telefono! JW
 
Il Ritz? Che fondoschiena che hai! Certo che so chi era Lady Diana! JW
 
PS. Ma è proprio necessario firmarsi negli sms? Te ne ho già mandati tantissimi, mi costerà una fortuna questo tuo viaggio a Parigi! JW
 
PS2. Ci tengo a precisare che i soldi non sono un problema, pur di comunicare con te spenderei qualsiasi cifra JW
 
 
 
 
 
 
 
Sherlock era sdraiato sul suo letto singolo nella cameretta a lui riservata della suite executive dei suoi genitori, il fresco copriletto di pizzo color crema che gli solleticava le braccia nude. Teneva le mani intrecciate dietro la nuca, lo sguardo rivolto agli stucchi e ai fregi che decoravano il soffitto, probabilmente intento a studiarne lo stile per ricavare il maggior numero di informazioni.
 
Bip.
 
Il cellulare vibrò contro il cuscino. Messaggi di John. Era ora. Si tirò a sedere per leggere meglio, lanciando distrattamente un’occhiata alla portafinestra, da cui si godeva un panorama mozzafiato su Place Vendome. Correzione. Panorama che avrebbe mozzato il fiato a chiunque, tranne ovviamente a lui. Dopo aver letto i messaggi, indugiò con lo sguardo sopra il nome John, così come appariva sul display del cellulare. Era una bella sensazione, leggere quel nome.
 
 
 
 
 
Non è richiesto dal codice firmarsi. Non chiedermi quale codice. Io preferisco farlo. Ci sentiamo stasera, così mi dici che impressione ha fatto mia mamma a tua mamma. Chiamo io SH
 
PS. Dovresti iniziare a comprare una guida turistica di Parigi. E studiartela. Soprattutto gli itinerari meno conosciuti dalle masse. SH
 
PS2. Cosa intendevi dire riguardo al mio fondoschiena? SH
 
 
 
 
 
Mamma è entusiasta di tua mamma. Ha dato l’OK. Inizia a contare i giorni!
 
Perfetto. Inizia a scrivere le X sul tuo calendario SH
 
Come sai del mio calendario e delle X?
 
Banale e prevedibile. Oltre alla guida turistica, leggiti anche I delitti della Rue Morgue di Poe. Ti chiamo dopo. SH
 
 
 
 
 
-Sei andato sulla torre?
 
-Quale torre?
 
-La Tour Eiffel, sciocchino.
 
-Non chiamarmi “sciocchino”.
 
-Non è nell’elenco della parole proibite, ho controllato bene. Due volte.
 
-E invece c’è. Abbiamo concordato per una nuova aggiunta.
 
-E quando l’avremmo concordato?
 
-Domenica.
 
-Ma domenica non ci siamo sentiti…
 
-Problema tuo, John.
 
-Mpf.
 
Pausa di silenzio sconsolato.
 
-Beh, insomma, ci sei andato o no?
 
-Mia mamma ci ha provato ma non ho ceduto.
 
-Allora ci andiamo assieme quando arrivo.
 
Sbuffo.
 
-Se proprio insisti…
 
-Insisto.
 
 
 
 
 
Ho comprato la guida. Me la sto studiando.
 
Forse dovresti studiare altro, non credi? SH
 
C’è una sezione dedicata agli itinerari romantici! Facciamo il picnic negli Champs de Mars?
 
I picnic sono noiosi. Piuttosto, inizia a pensare a quali catacombe vuoi visitare. SH
 
Io vengo alle catacombe solo se tu vieni a fare il picnic al parco.
 
E va bene… SH
 
 
 
 
 
-Sono libero! AS level fatto!
 
-Sai già i risultati?
 
-Tra tre giorni. Comunque io parto lo stesso, in ogni caso. Cosa hai fatto ieri?
 
-Libreria, museo, museo, galleria, cena all’ambasciata. L’apoteosi della noiosità.
 
-Non hai ancora fatto qualcosa che ti piaccia?
 
-Una cosa c’è stata. Un concerto di musica classica all’ambasciata. L’unica che si è salvata.
 
-E le catacombe? Non ci sei ancora andato?
 
-Ovvio che no. Dobbiamo andarci assieme.
 
Silenzio.
 
-John? John, sei ancora lì?
 
-Sì, credo di stare per implodere di dolcezza.
 
-Che cosa significa?
 
-Niente, lascia perdere. A proposito di dolcezza, la guida che ho comprato parla di un bellissimo e gustosissimo itinerario del cioccolato! Potremmo…
 
-Non ci pensare neanche.
 
 
 
 
 
Nella suite dei miei c’è proprio di tutto. Frigobar, TV satellitare, telefono (anche in bagno), frutta, cioccolatini, spazzolini da denti, lettore cd con selezione di cd, pantofole, accappatoi leopardati, preservativi, lubrificante SH [2]
 
CHE COSA?!
 
Devo ripetermi? SH
 
Perché cercavi preservativi e lubrificante?
 
Non li cercavo, mi sono capitati sott’occhio mentre esploravo SH
 
Che cosa esploravi? SH
 
I cassetti dei miei genitori SH
 
Non si ficca il naso nelle cose altrui, Sherlock!
 
Ah no? SH
 
 
 
 
 
-Che cosa stai facendo?
 
-Sto suonando il violino. Mi annoiavo, fuori piove.
 
-Cosa darei per ascoltarti suonare…
 
-Ho comprato delle partiture nuove.
 
-Davvero?
 
-Già, ho trovato una bancarella su Pont Royal che vende vecchi spartiti musicali.
 
-Non vedo l’ora di rivederti con il violino in mano.
 
-Suonerò per te lunedì sera, quando sarai qui, prima che tu vada a dormire.
 
-È una promessa?
 
-È una promessa.
 
 
 
 
 
-Sei agitato?-, chiese Harry, mentre osservava il fratello con la testa immersa nel grande trolley nero della madre, in quanto non possedeva una valigia tutta sua sufficientemente capiente per contenere tutto ciò che voleva portare a Parigi. –Ovvio che lo sei, stai andando dal tuo ragazzo…
 
-Da quando ti rispondi da sola?-, chiese John, sollevando la testa dalla pila di t-shirt che non sapeva bene come sistemare. Harry sbuffò.
 
-Uff, Parigi dev’essere così romantica…-, commentò lei, sistemandosi meglio sul suo letto e incrociando le gambe. John aggrottò le sopracciglia.
 
-E da quando sei diventata romantica?-, domandò, non senza un alone di preoccupazione mascherato nella voce. Harriet fece spallucce, ma John poté quasi giurare di aver intravisto una sfumatura di porpora passare per le sue gote piene.
 
-Piuttosto, ti sei portato tutto?
 
John allungò una mano verso il suo comodino, per prendere la lista delle cose da mettere in valigia. Dette una rapida occhiata alle voci spuntate e alle poche che rimanevano da spuntare.
 
-Mhm, tanto so già che dimenticherò qualcosa-, rispose, con un po’ di sconforto. –Beh, tanto non vado in Uganda, penso di trovare tutto ciò che mi serve a Parigi-, e così dicendo ripose la lista dov’era.
 
-Tshirt? Qualche camicia bella per la sera? Vai al Ritz, qualcuna senza tasche, possibilmente, e non a scacchi. Pantaloni puliti? Guida turistica? Macchina fotografica? Caricabatterie della macchina fotografica? Cellulare? Caricabatterie del cellulare?
 
A ogni parola John annuiva nervosamente, saltellando con lo sguardo dal grande trolley alla piccola borsa da usare come bagaglio a mano.
 
-Qualcosa da leggere in volo?
 
-Sì, i fumetti. E il libro di Poe.
 
-Preservativi?
 
-Pres… cosa?!
 
John sgranò gli occhi e avrebbe volentieri fatto un balzo in piedi, se non lo fosse già stato.
 
-Mhm, capisco, li compri là.
 
-Cosa diavolo dici, Harry?-, chiese, mentre la sua pelle passava attraverso tutte le tonalità del rosso (Pantone, Cartier e affini), –Non li porto, né li compro.
 
John fece uno sforzo sovraumano su se stesso per non pensare ai preservativi e al lubrificante del Ritz.
 
-Non lo vedi da una vita!-, commentò Harriet, stringendosi nelle spalle.
 
-Due settimane, sono solo due settimane!-, protestò John, aprendo e chiudendo le mani a pugno, mentre il rosso non accennava ad andarsene.
 
-E non desideri… ehm… copulare con lui?
 
-Harry, è piccolino…-, rispose John in un sussurro, prendendo posto accanto a lei sul letto. Harry lo guardò con un’espressione dubbiosa, come se volesse dire “Non colgo il nesso”.
 
-È giovane-, ripeté John. Il suo tono si fece ancora più flebile, tradendo una nota di ansia mista a incertezza. –Ho solo voglia di stringerlo al petto, soffocarlo di baci, farmi raccontare ogni minuto e secondo trascorso finora e programmarne altre migliaia insieme. Voglio stargli accanto e allietarmi del suo viso sereno mentre vive ogni nuova esperienza…
 
Gli occhi di Harriet si strinsero in poco più di una fessura.
 
-Smettila, o rischi di farmi venire un attacco di glicemia acuta-, proferì a denti stretti.
 
John sbuffò insofferente.
 
-E in mezzo a tutto questo vorresti dirmi che non vuoi fare l’amore con lui? Non me la bevo, fratello.
 
-Non ho detto che non voglio. Lo desidero sopra ogni cosa, in verità. Solo che è così giovane che ho paura di… spezzarlo, se non rispetto i suoi tempi.
 
Lo sguardo di John vagava lontano e Harriet si fece più seria, iniziando a intuire solo in quel momento il reale stato d’animo in cui versava il fratello. Titubante, gli mise una mano sulla spalla. Erano rare le sue manifestazioni d’affetto in questi termini nei confronti del fratello minore, ma in quel momento Harry sentiva che doveva farlo, che doveva esserci per John.
 
-Arriverà il vostro momento…
 
-Se non mi molla prima.
 
Le parole di John furono appena più di un bisbiglio malinconico.
 
-E perché dovrebbe? Non ha nessun altro all’infuori di te-, gli fece notare.
 
-Proprio perché ha solo me, cosa accadrebbe se mai dovesse arrivare un’altra persona che gli dica quanto sia meraviglioso? Incredibile?
 
Gli occhi di John erano così sconsolati da ricordare quelli di un cagnolino abbandonato. Harry aveva davvero voglia di stritolarlo e sbaciucchiarlo, se non fosse stata troppo imbarazzata per farlo. Si limitò ad aumentare la stretta di fiducia sulla spalla.
 
-Se mai questa persona dovesse arrivare, sono sicura che Sherlock le dirà, con tutta la formalità del caso, “La ringrazio ma non si disturbi a dirmi quanto io sia incredibile; John me l’ha già espresso in ogni possibile variante esistente della lingua inglese”.
 
Il fratello sorrise, appoggiando la sua fronte a quella della ragazza.
 
-Grazie, Harry. Ti devo un favore-, bisbigliò.
 
-Posso accompagnarti in aeroporto, domani? C’è una persona che desidero conoscere.
 
 
 
 
 
 
 
-Ti credevo più basso…-, commentò Harry con aria indagatrice, sporgendosi un po’ in avanti per soppesare meglio il profilo del giovane uomo seduto due poltroncine più in là, nell’area check-in a Heathrow.
 
-E io ti immaginavo vestita da uomo-, sentenziò Mycroft, aprendo il Financial Times davanti al suo viso, senza voltarsi a guardarla.
 
-Che cos’hanno i miei abiti che non va?-, borbottò la ragazza, controllando ciò che aveva indosso: scarpe da ginnastica e calzettoni bianchi di cotone lunghi fino al ginocchio (che aveva indossato all’allenamento di pallavolo), minigonna a pieghe e blusa chiara con cappuccio a maniche corte.
 
-Niente. Ti mancano solo i capelli azzurri e poi potresti anche trasformarti nell’eroina di un cartone animato giapponese [3]-, rispose Mycroft, lanciandole un’occhiata distratta. –Credo non farebbe male neanche a te una gita a Parigi. Magari impareresti a vestirti…
 
-Ha parlato colui che si mette il doppio petto anche con trenta gradi!-, bofonchiò Harry, diventando viola acceso in viso.
 
-Non si sa mai cosa ti riservi la giornata, mia cara. È sempre meglio farsi trovare prontamente eleganti.
 
Harriet trattenne a stento un sorriso divertito, mentre scuoteva il capo. Pensò che le sarebbe davvero piaciuto conoscere il ragazzo di suo fratello, per controllare con mano se fosse strambo quanto il maggiore degli Holmes.
 
-No, non lo è-, disse Myc, quasi conversando con i suoi pensieri, gli occhi sempre incollati sul quotidiano.
 
-Prego?
 
-Sherlock non è strano come me. O meglio-, aggiunse, inclinando il viso da un lato come per ponderare meglio le parole. –Lo è molto di più, ma in modo tutto suo.
 
La testa della ragazza prese a scuotere con ancora più decisione, valutando la bizzarria della famiglia con cui si stava andando a impegolare suo fratello.
 
-Okay, senti, ora parliamo di cose serie-, proruppe all’improvviso, avanzando di un paio di posti per andare a sedere proprio accanto a Mycroft. Gli mise una mano sul braccio, costringendolo ad abbassare il Financial. Lui sbuffò.
 
-Mio fratello ha tanta… no, estrema, paura di volare. Da piccolino, tutte le volte che abbiamo preso un aereo… beh, in effetti sono state solo un paio... comunque, vomitava dal decollo all’atterraggio-, spiegò Harry, accostandosi meglio al viso di Mycroft e bisbigliando come se gli stesse rivelando l’esistenza di piani militari classificati Top Secret.
 
-Hai detto una cosa giusta, ragazza.
 
-Cosa? Che cosa ho detto?
 
-Da “piccolino”. Ora probabilmente sarà diverso. Comunque sta tranquilla: se dovesse vomitare vedrò di sorreggergli la busta di carta e farlo respirare per bene-, risposte Mycroft, sarcastico. Quindi, alzò di nuovo il quotidiano di fronte a sé, ma di nuovo Harry gli abbassò il braccio.
 
-Intendevo semplicemente dire: fai in modo che non gli accada nulla. I nostri genitori non ti hanno mica sottoscritto una dichiarazione di affido per niente-, ribatté Harry, indicando il taschino della giacca di Mycroft.
 
-Non ho intenzione di tradire tutta questa fiducia che la famiglia Watson ha riposto nella mia persona. Ma, dimmi, come mi dovrei comportare in caso ci sparassero addosso un missile terra-aria?
 
Harry sgranò gli occhi e impallidì, mentre Mycroft ridacchiava per l’effetto provocato dalla sua battuta.
 
-La selezione di fumetti che avevano da WH Smith faceva un po’ pena…-, John si materializzò di fronte a loro, con un fumetto in una mano, un bicchiere formato large di Coca-cola nell’altra e la borsa nera da viaggio a tracolla. –Di che cosa parlavate?
 
Se era nervoso, non lo dava minimamente a vedere.
 
-Tua sorella è preoccupata per come affronterai il volo-, spiegò Mycroft, tornando finalmente ad affondare gli occhi nel giornale.
 
-Tranquilla, Harry, non sto partendo per l’Afghanistan!-, scherzò John, sedendosi di fianco a lei e infilando il fumetto tra i denti. Appoggiò la Coca sul sedile accanto e iniziò a trafficare con la borsa per rimettere via il portafogli. –Non ancora, almeno-, aggiunse, muovendo appena le labbra.
 
-Come sarebbe a dire “non ancora”?-, proruppe Harry, che stava inaspettatamente iniziando a sentire gli effetti dell’imminente distacco fraterno.
 
-Stavo scherzando, Harry.
 
-Tu scherzi, ma questo qua…-, indicò Mycroft con il pollice, il quale alzò perplesso un sopracciglio alle parole “questo qua”, -…mi ha parlato di missili terra-aria!
 
-Missili?-, ripeté John, le mani ancora sulla borsa. Ora sì che iniziava a innervosirsi.
 
-Pensavo fosse superfluo specificare che si trattava di una battuta, ma evidentemente mi sono sbagliato-, borbottò Mycroft, ripiegando il giornale con meticolosità estrema e alzandosi. –Credo sia giunto il momento di incamminarci, John. Ti aspetto ai controlli della security. Arrivederci, Sailor Moon!
 
-Diceva a me?-, chiese Harry, basita, mentre osservava Mycroft prendere l’ombrello e allontanarsi con tutta la calma di questo mondo.
 
-Sì, diceva proprio a te, Harry-, convenne John, sorridendo.
 
Una piccola pausa di silenzio.
 
-Bene, okay, è giunto il momento per te di andare…
 
Si alzarono. La ragazza prese a sistemare nervosamente la tshirt bianca e grigia stropicciata dei Ramones che indossava il fratello quella mattina.
 
-Mi raccomando, non fare nulla che io non farei! E vedi di tornare… il più tardi possibile.
 
Harriet tirò su col naso e John fu mosso dal desiderio di abbracciarla forte a sé.
 
-Farò il possibile, te lo prometto!
 
-Giurin giuretta?-, chiese lei, il viso schiacciato contro la spalla del fratello minore.
 
-Giurin giuretta-, promise John, scompigliandole i capelli ricci in una sorta di carezza di saluto. –Ehi, non rovinarmi la maglietta!
 
-È già tutta sgualcita… non potrei fare molto di più-, Harry soffocò una risata triste.
 
-Te l’ho già detto, non sto partendo per la guerra. Sto solo andando a trovare… la mia persona cara-, mormorò John.
 
-Lo so, ma tornerai diverso.
 
-Diverso come?-, John aggrottò sorpreso la fronte.
 
-Più maturo. Più innamorato. Più desideroso di vivere la tua vita, insomma.
 
La mente di John non fu capace di articolare una risposta, mentre rimase un attimo a ponderare in silenzio quelle parole.
 
-Devo andare, ora. Mycroft sarà già abbastanza irritato per l’attesa.
 
Harry tirò nuovamente su col naso.
 
-Mandami un SMS quando atterri.
 
-Un SMS? Hai comprato un cellulare anche tu?
 
-Ce l’ho già da un po’, fratello!
 
-Ma mamma e papà lo sanno?
 
-Sparisci!-, sentenziò Harry, soffiandosi il naso con un fazzoletto azzurro di stoffa leggera. John si chinò per lasciarle un bacio veloce sulla tempia.
 
-A presto, sorella, e sta tranquilla.
 
-Au revoir!
 
Gli occhi di Harriet seguirono fin dove le fu possibile la figura di John che si affrettava lungo le rampe mobili.
 
-Au revoir-, mormorò ancora, fra sé e sé.
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  [1] AS Level, un esame dell’istruzione secondaria inglese previsto da alcune scuole, all’età di 17 anni. [2] Non so dirvi se il Ritz offra tutte queste cose, ma per esperienza personale posso dirvi che ci sono al The Argonaut di San Francisco (tranne il telefono in bagno) ^__^. [3] Perché mi immagino la “mia” Harriet come Kaname Chidori di Full Metal Panic.
 
E…. il prossimo capitolo dovrebbe essere finalmente l’epilogo. So, stay tuned!
 
 

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Capitolo 11
*** Pont de l’Archevêché ***


John aveva trascorso l’intera durata del volo con gli occhi fissi sull’unico fumetto che era riuscito a comprare e le orecchie tappate dalle cuffie della filodiffusione di bordo. Semisdraiato nella poltrona reclinabile – che personalmente riteneva troppo comoda, troppo lussuosa e troppo tutto – aveva fatto il possibile per ridurre la conversazione con Mycroft a un solo paio di scambi formali. C’era una parte di sé che avrebbe dato volentieri la milza pur di carpire informazioni – qualsiasi informazione – riguardante il suo giovane e bizzarro ragazzo, ma gran parte del suo corpo e del suo cervello era letteralmente atterrita da Mycroft e dall’aura di spaventosa magniloquenza che emanava la sua figura. Avrebbe avuto modo di scoprire un “po’ di Sherlock” in prima persona, ogni giorno. E sarebbe stato ancora più bello. La filodiffusione lasciò posto a un gracchiare sordo.
 
-Gentili passeggeri, vi informiamo che abbiamo iniziato la discesa su Parigi. Vi preghiamo di rimanere seduti e di allacciare le cinture.
 
John si riempì i polmoni con tutta l’aria che riuscì a ficcarci dentro, sforzandosi di non pensare troppo che a breve avrebbe potuto riabbracciare il suo ragazzo. Stritolarlo al petto, annusare la sua pelle, affondare il viso nei riccioli scuri, baciargli il naso e…
 
-Tieni. Ho notato che la tasca portaoggetti del tuo sedile ne è sprovvista.
 
Mycroft Holmes entrò non invitato nei suoi pensieri, porgendogli una busta di carta, che John prese titubante tra le mani.
 
-Durante la discesa potresti accusare un lieve disturbo allo stomaco, visto il pranzo tutt’altro che modesto che hai appena ingurgitato…
 
-Non è vero che soffro di mal d’aria!- borbottò John. –Non devi credere a tutto ciò che Harry…
 
Ma Mycroft era già tornato a concentrarsi sul suo giornale.
 
-Va bene. Grazie.
 
John appoggiò la busta in grembo, inspirò di nuovo e artigliò le mani ai braccioli della poltrona. Mancava poco.
 
 
 
 
 
 
 
Mentre scendevano le scale mobili che conducevano all’uscita, John saltellava nervosamente da un piede all’altro, con una mano avvinghiata alla borsa da viaggio stretta contro la sua coscia e l’altra all’ingombrante trolley della madre. Mycroft era di poco dietro di lui, sempre con la testa immersa nelle notizie di borsa. Ai piedi delle scale mobili c’era un gruppetto di hostess e autisti privati che, nelle loro uniformi dozzinali ma perfette, esibivano cartelli bianchi di varia grandezza su cui erano scritti cognomi, in pennarello o inchiostro da stampa. Gli occhi di John si posarono distrattamente su un ragazzo giovane in pantaloni blu, camicia bianca e berretto blu con visiera, sul cui cartello alzato all’altezza del viso notò scritto il suo cognome, Watson.
 
-Wow! Una macchina privata…-, mormorò, trattenendo a stento un sorriso. Una towncar, il Ritz, magari pure la possibilità di essere ricevuto all’ambasciata. Iniziava a sentirsi ricco. E, tempo di buttare le braccia al collo di Sherlock, si sarebbe addirittura sentito più ricco della Regina Elisabetta.
 
-Ehm, sono io Watson-, disse a bassa voce mentre si avvicinava al giovane autista, alzando una mano. –E anche lui. Cioè, lui non si chiama Watson, ma sta con me. Cioè, non con me “con me”, ma nel senso che siamo… in due…
 
John sentì di stare arrossendo violentemente, mentre si sforzava di non guardare Mycroft per non sentirsi dare tacitamente dello stupido dai suoi occhi ridotti a due fessure.
 
-Sei quasi più carino del solito quando fai lo sciocco in questo modo, John.
 
La mandibola di John si spalancò senza permesso e così rimase per un po’, mentre osservava Sherlock togliersi il berretto da autista, liberare i riccioli selvaggi che erano diventati un po’ più lunghi e atteggiare le labbra in quello che voleva essere un dolce sorriso sghembo.
 
-Era un complimento, John, nel caso non te ne fossi accorto. E, sì, sono io e puoi chiudere la bocca, adesso-, sentenziò Sherlock, strattonandolo per un braccio verso l’uscita.
 
-Ma sembri… più alto-, seppe solo dire John, ancora un po’ confuso.
 
-È il tuo unico commento?-, chiese Sherlock leggermente deluso mentre le porte si spalancavano di fronte a loro, senza che si curassero di controllare se Mycroft li stesse seguendo.
 
-Beh, vorrei tanto baciarti…
 
-Dove?-, chiese il moro, non riuscendo a mascherare una certa trepidazione nella voce.
 
-Dietro l’orecchio, dove ti piace tanto-, bisbigliò il biondo, sentendosi la pelle infiammare.
 
-Desolato di disturbare il vostro istruttivo tubare ai quattro venti, ma mi sembra di notare la limousine laggiù-, si intromise Mycroft, dividendoli con il suo ombrello mentre indicava un’auto di marca americana e dai vetri oscurati parcheggiata poco più avanti.
 
-Vieni! Ti piacerà quella macchina.
 
I fratelli Holmes erano già seduti quando finalmente John giunse all’auto, rallentato dal trolley pesante e con una rotella rotta. L’autista (quello vero) gli riservò un cenno del capo, prima di prendere la sua valigia e infilarla nel baule. John entrò nell’abitacolo esibendo la stessa reverenza che avrebbe riservato alla Basilica di San Pietro. Stava salendo su una vera limousine. Sedili di pelle nera a destra e sinistra, telefono, minitelevisore con lettore DVD, minibar.
 
John guardò da una parte e dall’altra, un po’ indeciso su cosa dovesse fare, vedendo i due fratelli seduti l’uno opposto all’altro. I suoi occhi erano rivolti a sinistra, sul maggiore degli Holmes che era già tornato a concentrarsi sul suo Financial Times, quando Sherlock lo afferrò per un polso e lo fece sedere di prepotenza accanto a sé, giusto mentre la limousine partiva a tutta velocità.
 
-Ho già predisposto un piano-, gli comunicò Sherlock, con gli occhi luccicanti.
 
-Oh, bene, abbiamo un piano-, mormorò John, tentando, non senza fatica, di tirarsi meglio a sedere e trovare la cintura di sicurezza. –E un piano per che cosa, esattamente?
 
-Per che cosa fare durante il tuo soggiorno qui. Ovvio-, sentenziò l’altro, sottintendendo A volte sei proprio sciocco.
 
-OK. E che cosa desideri fare? Turismo?
 
Mycroft, un metro e mezzo più in là, non riuscì a trattenere una risatina. John si voltò a guardarlo incuriosito, mentre Sherlock riservò al fratello maggiore un’occhiata che, a definirla gelida, sarebbe stato quanto meno riduttivo.
 
-Ascolta! Ascolta bene, John, i punti di interesse turistici che ha scelto il mio fratellino!-, e così dicendo il volto di Mycroft sparì nuovamente tra le pagine stampate.
 
-So già delle catacombe!-, sentenziò John, cercando di darsi importanza di fronte a Mycroft, il quale, tuttavia, si esibì in una scrollata di spalle.
 
-Fossero solo quelle...-, ribatté l'altro, senza degnarlo di uno sguardo.
 
-Voglio fotografare i gargoyle!-, proferì Sherlock, con occhi luccicanti. -E non solo quelli a Notre Dame. Ce ne sono decine, sparsi per tutta la città in luoghi meno noti- e, per sottolineare meglio il concetto, fece un ampio gesto con la mano abbracciando lo spazio attorno a sé.
 
-A me, onestamente, suscitano un po' di impressione quelle statue-, disse John, senza che Sherlock gli prestasse la benché minima attenzione.
 
-E poi voglio andare in Rue Morgue.
 
-Che cosa c'è in Rue Morgue?
 
-Senti! Senti bene questa, John.
 
Se avesse potuto, Sherlock avrebbe incenerito il fratello con lo sguardo.
 
-I delitti di Rue Morgue, John! Non ti avevo forse detto di leggerti i racconti di Poe?
 
-Ehm, ho letto quello del tizio sepolto vivo e mi è bastato...-, confidò titubante John, che non aveva molta voglia di fare visite turistiche a strade che avevano fatto da sfondo ad atroci delitti, reali o immaginari che fossero. Lui aveva solo in mente la Tour Eiffel, il picnic al parco e il tour del cioccolato. Si sarebbe anche azzardato a proporre un giro sul bateaux mouche, ma conoscendo bene Sherlock, sapeva già che si sarebbe trattato solo di fiato sprecato.
 
-Non voglio perdermi nemmeno passage Jouffroy, dove hanno ucciso lo storico Nataniel de Cantaussel. Ho letto che organizzano veri e propri giochi d’investigazione sul luogo del delitto! [1]
 
Con l’entusiasmo che avrebbe fatto concorrenza a quello di un bambino, Sherlock cercò la mancina di John e la strinse forte. Il ragazzo biondo sospirò: aveva la netta impressione che avrebbe dovuto dire addio ai suoi itinerari romantici.
 
-Finito?
 
-Più o meno sì. Ho letto che ci sono delle agenzie che organizzano tour a case infestate e altri luoghi macabri ma non mi sono ancora informato bene.
 
Grazie al Cielo, pensò John.
 
-Ma non c’era anche qualcos’altro di cui mi avevi parlato? Qualcosa riguardante… lucchetti, mi sembra.
 
Quelle parole avevano in apparenza gettato Sherlock nel panico, che lo guardò con occhi imploranti e scuotendo la testa, mentre Mycroft, incuriosito, aveva alzato finalmente lo sguardo dal suo quotidiano.
 
-No, no. Ti sei sbagliato, decisamente-, proferì il ragazzo moro, con decisione. John si strinse nelle spalle.
 
-Meglio così. Non ero sicuro che fosse una cosa del tutto legale… A me piacerebbe portare un mazzo di fiori sotto Pont de l’Alma, dove è morta Lady Diana-, azzardò John.
 
-Non se ne parla proprio!-, sibilò Sherlock.
 
-Ma Sher…
 
-Non ti lascio vagare come un’idiota sotto un tunnel con il rischio di vederti poi spiaccicato anche tu contro un pilone-, borbottò l’altro con decisione. Allorché, John si lasciò andare a un sorriso felice, consapevole che quello era il modo migliore di Sherlock per esprimere il suo affetto.
 
Un paio di minuti dopo, l’auto svoltò in Place Vendome, per poi fermarsi davanti all’ingresso principale dell’hotel Ritz. Un portiere in livrea aprì lo sportello dell’auto e, dopo che Mycroft e Sherlock scesero con noncuranza, anche John li seguì, posando le sue scarpe da ginnastica sopra il tappeto rosso, non senza una certa titubanza. Dopo il tappeto, fu la volta dell’ingresso vero e proprio e, una volta messo il naso nella hall, John fu letteralmente inghiottito dall’atmosfera magica delle fiabe che quasi gli fece girare la testa. In un batti baleno, perse di vista Sherlock e iniziò dunque a guardarsi intorno in preda al panico, notando tuttavia solo statue, stucchi, specchi principeschi e persino una giovane musicista intenta a suonare l’arpa con la leggiadria degna di una fata.
 
-Ti sei già imbambolato dopo due minuti? Stiamo perdendo tempo-, borbottò Sherlock, apparendo al suo fianco come per magia e tirandolo verso la reception prendendolo per il polso.
 
-Buongiorno e benvenuto all’Hotel Ritz!
 
Il giovane receptionist gli rivolse un sorriso caldo e sincero. Indossava un elegantissimo completo scuro e non doveva avere più di venticinque anni.
 
-Ehm, grazie…-, farfugliò John, cercando il documento d’identità. Notò allora che Mycroft si stava attardando poco lontano da loro a parlare con un giovane uomo più o meno della sua età.
 
Il receptionist scambiò il documento con una chiave elettronica. Quindi, premette il campanello per chiamare un valletto, al quale dette l’ordine di prendersi cura dei bagagli di John.
 
-Camera 221, secondo piano. Gli ascensori sono lì in fondo, girato a destra. Per qualsiasi cosa, chieda pure di me. Io mi chiamo Dedè.
 
John spalancò la bocca con stupore quando udì quel nome.
 
-Mi dica per cortesia che il suo cognome non è Martìn [2]-, mormorò, prendendo la chiave. Il receptionist rise, mentre Sherlock alzò un sopracciglio e prese a guardarli entrambi alquanto confuso e infastidito.
 
-Oh, no, glielo posso assicurare!-, rispose il ragazzo, ridendo. -Ma vedo con piacere che anche lei è un appassionato di Polanski!
 
-In verità, sono solo un appassionato di Harrison Ford e Frantic è uno dei miei film preferiti-, spiegò John, arrossendo leggermente.
 
A quel punto, Sherlock soffiò aria dal naso con decisione e incrociò le braccia: era davvero contrariato, stavano perdendo tempo prezioso per parlare di cinema.
 
-Un film bellissimo, uno dei miei preferiti. So buona parte delle battute a memoria-, rivelò Dedè, gli occhi luccicanti.
 
-Invece io, la prima volta che l'ho visto, ho deciso sarei dovuto venire a Parigi, un giorno o l’altro-, rilanciò John, con gli occhi che, in fatto di luccichio, facevano concorrenza a quelli di Dedè.
 
Sherlock sbuffò, roteando gli occhi al cielo.
 
-Comunque, le rivelerò una cosa-, mormorò il giovane receptionist, inclinando il capo leggermente in avanti, quasi come volesse confidare al ragazzo un clamoroso segreto. -Qui a Parigi normalmente non rapiamo le donne americane con così tanta facilità! E non abbiamo nemmeno un night-club di nome Blue Parrot in cui poter comprare droga… [3]
 
-Peccato, quello sì che sarebbe stato interessante!
 
Risero. Solo loro due, ovviamente.
 
-Avete finito di parlare di Polanski?-, borbottò Sherlock, la cui pazienza si era già esaurita da un pezzo.
 
-Potresti partecipare anche tu! Ti basterebbe solo sapere chi sia Polanski-, gli fece notare John. -Dovresti guardare dei film, qualche volta, così avremo qualcos'altro di cui poter parlare!
 
-Ma io so benissimo chi sia Polanski-, lo sorprese Sherlock, increspando le labbra.
 
John lo guardò a bocca spalancata.
 
-Davvero?-, bisbigliò, con lo stesso stupore che avrebbe avuto se Sherlock gli avesse confidato di aver preso il the con il Dalai Lama. [4] -Hai visto qualcuno dei suoi film?
 
-Nessuno. Ma so tutto su Charles Manson [5], il mandante di uno dei più efferati delitti della storia degli Stati Uniti.
 
Anche il giovane receptionist prese a osservare Sherlock con una buona dose di stupore e sgomento.
 
-Tra cui quello di sua moglie, Sharon Tate. E la cosa più interessante fu che Manson non vi partecipò nemmeno di persona. Davvero brillante...
 
-Sherlock!-, lo riprese John, mezzo sconvolto e terrorizzato dalla pessima figura che poteva potenzialmente aver fatto il suo ragazzo. -È una cosa orribile invece!
 
-Ovvio che lo è. Sharon Tate era incinta di otto mesi.
 
John avrebbe quasi potuto giurare di aver udito una nota di sincera tristezza nella voce di Sherlock. Si mosse il labbro inferiore, dispiaciuto e arrabbiato con se stesso per aver pensato per un attimo, anche lui come facevano in tanti, che Sherlock fosse un brutto scherzo della natura. [6]
 
-Dio, Sherlock, tu sei... meraviglioso!-, sussurrò, con la voce e gli occhi che trasudavano amore. Il ragazzo moro arrossì lievemente sulle gote, mentre Dedé li guardò entrambi, prima l'uno poi l'altro, sorridendo come un bambino davanti a una cesta piena di cuccioli appena nati.
 
-Credo che ora sia meglio salire in camera-, farfugliò Sherlock, strappando imbarazzatissimo la chiave dalle mani dell'altro e voltandosi verso gli ascensori. Tuttavia, la sua fretta venne smorzata sul nascere andando a sbattere contro Mycroft, che si apprestava solo in quel momento a fare il check-in.
 
-Discutevate di qualcosa di interessante?-, chiese rivolto al fratello, con un sorriso sghembo di chi la sa lunga.
 
-Niente che possa essere di tuo gradimento-, replicò freddo Sherlock, mentre allungava una mano verso il braccio di John nel tentativo di tirarselo dietro, il quale obbedì in gran fretta e senza protestare. Mentre aspettavano l'ascensore, Sherlock decise che si sarebbe messo di impegno per trovare un dispetto da perpetrare nei confronti del fratello maggiore. Se lo meritava tutto. Se non altro anche solo per il fatto che Mycroft aveva avuto il privilegio di viaggiare in aereo con John, privilegio che a lui era stato negato.  Magari gli avrebbe tenuto in ostaggio per un po' il suo prezioso ombrello. Oppure, una volta rimesso piede in patria, gli avrebbe rigato tutta la fiancata della sua bella auto con il tappo di una bottiglia. Di champagne. Un sorrisetto beffardo si dipinse sul suo viso mentre le porte dell'ascensore si chiudevano di fronte a lui.
 
 
 
 
 
 
 
Entrando nella camera, l'atmosfera fiabesca non abbandonò di certo John, che si fermò a guardare imbambolato non tanto i suoi bagagli, arrivati ben prima di lui, ma soprattutto l'intonaco color salmone delle pareti, i pesanti tendaggi damascati, il piccolo camino sulla parete che incrociava la finestra, il tavolino su cui troneggiava un ricco cesto di frutta, i due letti singoli dalle testate dorate e la manciata di cioccolatini sparsi su entrambi i guanciali.
 
-Immagino che per una persona che sia sempre andata in campeggio questo possa essere definito un bel vedere. Ciononostante, è pur sempre una camera, non eccitarti troppo-, disse Sherlock, sedendosi sul bordo del letto più vicino.
 
-Guarda! Cioccolatini Godiva, i miei preferiti!
 
Gli occhi di John scintillavano, mentre prendeva in mano un cioccolatino e subito lo riponeva al suo posto in una sorta di timore reverenziale.
 
-E ci sono pure due letti-, si sedette sul bordo di quello più vicino alla porta del bagno e iniziò a molleggiare. -C'è persino un secondo letto che posso usare come divanetto!
 
-Spiacente. Non lo puoi usare: qui ci dormirò io.
 
John rimase a bocca aperta, mentre, incredulo, si voltava a guardare il compagno negli occhi.
 
-Ma se non mi vuoi qui, tornerò a dormire in camera dei miei-, borbottò Sherlock , fingendo  un po' di irritazione.
 
-Ma certo che ti voglio qui, stupidino!-, disse John, attirandolo a sé per poi buttarsi entrambi su un letto. -Certo che lo voglio...-, ripeté, sdraiandosi sul corpo dell'altro e affondando il viso nell'incavo tra spalla e collo. Il più grande tra i due si trovò a chiedersi come mai, nonostante l'afa e il caldo elevati, la pelle di Sherlock sembrasse sempre fresca e asciutta. John, al contrario, si sentiva sudato dalla testa ai piedi. 
 
-Va bene, allora se insisti rimango.
 
-Insisto!
 
John sollevò piano il viso per andare ad accarezzare con le labbra quel quadratino di pelle tanto pallido quanto sensibile che si trovava appena dietro l'orecchio. Sherlock si lasciò andare a un mugolio di apprezzamento. 
 
-Credevo... mhm... che fossi tu quello a cui piaceva farsi baciare dietro le orecchie....
 
-Ama il prossimo tuo come te stesso! O no?-, sentenziò John. 
 
Un altro bacio, un altro mugolio.
 
-E poi mi sembra tu stia apprezzando. Di che cosa ti lamenti, dunque?-, ridacchiò John, tirandosi a malincuore in piedi e cercando con gli occhi la porta del bagno. Pure le sue scarpe da ginnastica stavano sudando in quel momento e, se voleva proseguire nello scambio di effusioni con il suo ragazzo, aveva prima bisogno di un incontro con acqua e sapone.Sherlock intrecciò le braccia dietro la nuca, indicando il bagno con un cenno del mento.
 
-Fa in fretta!-, gli gridò poi dietro, iniziando a contemplare il soffitto.
 
-Starò qua un paio di mesi, possiamo prendercela comoda, Sherly.
 
-Ti ho detto...-, iniziò l'altro, tirandosi meccanicamente a sedere nel letto.
 
-Di non chiamarti Sherly. Sì, sì...-, completò la frase John, chiudendo la porta dietro di sé, mentre Sherlock tornava a sdraiarsi.
 
Aveva appena ripreso a osservare il soffitto che la porta si aprì di nuovo.
 
-Così mi sembra sia un po' troppo...
 
-C'è il telefono in bagno, Sherlock!-, disse John con un fil di voce.
 
-Mi sembrava di avertelo già detto, infatti.
 
-Ma c'è pure la televisione!-, aggiunse il biondo, sgranando gli occhi. [7]
 
-Oh! Adesso però non sentirti autorizzato a starci ore, in bagno!-, borbottò il moro.
 
John richiuse la porta al rallentatore, ancora sotto l'effetto dello stupore, giusto un attimo dopo aver udito Sherlock gridargli dietro " E manda un SMS ai tuoi per avvisarli che sei arrivato bene, prima che inizino a tempestarci di telefonate". John riemerse dal bagno meno di una decina di minuti dopo, con le scarpe da ginnastica in mano. Trovò Sherlock seduto al tavolo davanti alla portafinestra, intento a sfogliare un libro di fumetti.
 
-La rubinetteria...
 
-Che cos'ha la rubinetteria, adesso?-, sbuffò il più giovane.
 
-È a forma di cigno!
 
Sherlock chiuse il suo libro, producendo un rumore sordo, e si alzò in piedi.
 
-Vuoi rimanere qui a dissertare tutto il pomeriggio sugli optional di questa camera o possiamo uscire?
 
-Di già? Credevo saremmo rimasti un po' qui...
 
-A fare che cosa?
 
-Un po' di coccole, magari...-, buttò là John, con aria dolce. Dall'espressione che si dipinse invece sul volto di Sherlock, sembrava invece che gli avesse appena proposto di mettersi a caccia di scarafaggi. -Va bene, come non detto-, borbottò, infilandosi di nuovo le scarpe.
 
-Mi avevi promesso, però, di suonare il violino!- aggiunse, mettendo il muso.
 
-Avevo anche detto stasera, prima di dormire-, precisò l'altro, già quasi fuori dalla porta. -Prendi la chiave!
 
 
 
 
 
 
 
Arrète! C'est ici l'empire de la mort!
 
-Non sono più sicuro di volerle poi vedere, queste catacombe...-, mormorò John, con un fil di voce, imbambolandosi davanti alla scritta che sovrastava l'ingresso alle catacombe del Museo Carnavalet.
 
-Si chiama "ossario municipale", monsieur-, precisò la loro guida.
 
Sherlock borbottò qualcosa che aveva tutta l'aria di essere una via di mezzo tra "sei una donnicciola" e "abbiamo già pagato il biglietto", mentre si accostò al compagno, sfiorandogli il polso quasi a voler ribadire la sua presenza al fianco dell’altro.
 
-OK, va bene, va bene...-, si arrese John alla fine, iniziando a seguire la loro guida (un signore basso, grasso e mezzo calvo sulla cinquantina) assieme a Sherlock e a una coppia di anziani giapponesi.
 
-Credo di aver fatto bene a portare la mia torcia-, bisbigliò poco dopo, toccandosi una tasca dei pantaloni mentre si addentravano sotto terra scendendo una ripida scala formata da pesanti massi di pietra. Sherlock lo guardò con occhi scintillanti, quasi come se John gli avesse appena detto di aver risolto il problema della quadratura del cerchio.
 
-Che c'è?
 
-Non ti facevo così lungimirante.
 
-Faccio finta di prenderlo come un complimento...
 
Le uniche fonti di luce nelle cave sotterranee erano delle piccole ma suggestive torce appese agli angoli delle diverse sale.
 
-Per far fronte alla saturazione di alcuni cimiteri e in particolare quello degli Innocenti (vicino Saint-Eustache, nel quartiere des Halles) che causava il diffondersi di epidemie, il Consiglio di Stato decise di spostare le ossa contenute nelle fosse comuni in delle cave sotterranee-, stava sentenziando la loro guida.
 
Il freddo e l'umidità nella Parigi sotterranea erano così pungenti che John si rammaricò ben presto di non essersi portato dietro una felpa. In tutta onestà, era assai poco interessato a quella gita turistica che ai suoi occhi presentava ben poca attrazione. Ciò che lo allietava era invece voltarsi di tanto in tanto verso Sherlock che, al suo fianco, se ne andava in giro per quelle gallerie dai bassi soffitti con il naso per aria e deliziato come un bambino nel paese dei balocchi.
 
-Ma hai idea di quanti malviventi, contrabbandieri, assassini si siano aggirati per questi cunicoli, John?-, gli aveva bisbigliato a un certo punto all'orecchio, elettrizzato come non mai.
 
No, non ne aveva per niente idea, ma gli dispiaceva alquanto contrariare il suo compagno, quindi si limitò a pronunciare un flebile "Tantissimi, immagino".
 
-E chissà quanti ancora oggi...
 
Gli occhi di Sherlock scintillavano così tanto da poter rischiarare i cunicoli, qualora le torce si fossero spente tutte improvvisamente.
 
-Suppongo che ciò avvenga anche a Londra-, constatò John, proprio mentre svoltavano dentro una stanza dove si trovavano alcune vecchie lapidi. Sherlock si bloccò di colpo, osservandolo con vivo interesse.
 
-Tu credi?
 
-Beh, non saprei... Forse... Le fogne, cose così...-, tentennò l'altro.
 
-Devo fare una ricerca su Internet. Così, quando tornerò a casa, saremo ben organizzati per una visita alla Londra sotterranea-, sentenziò Sherlock con decisione.
 
-Oh Gesù...-, mormorò John, sconsolato e pentito per la sua uscita infelice.


 
 
 
 
 
-Uffa, non c'era niente di niente!-, borbottò Sherlock, stringendosi le braccia al petto in un abbraccio.
 
-Che cosa pensavi di trovare? Resti di cadaveri scuoiati o sminuzzati?
 
Erano appena tornati da Rue Morgue e Sherlock aveva messo il broncio perché in quella via dove erano stati ambientati alcuni dei delitti più atroci nati dalla penna di Edgar Allan Poe non avevano visto, beh, nulla di interessante.
 
-Era solo un libro, Sherlock-, disse John, dolcemente, mentre buttava nella pattumiera le due bustine del the che aveva preparato. -Dai, possiamo sempre brindare al mio esame brillantemente superato!-, aggiunse poi gioviale, nel tentativo di contagiare l'altro. Prese le due tazze dal vassoio sopra il tavolino, porse quella con il the rosso a Sherlock (che la prese con titubanza) e si sedette per terra accanto a lui, iniziando a sorseggiare il suo the nero.
 
Erano nella loro camera. Avevano alzato i condizionatori al massimo e poi avevano acceso il caminetto, in modo da far finta di trovarsi ancora nella loro bella Londra.
 
-Dai, domani andiamo a caccia di gargoyle. Sono certo che saranno più interessanti!-, lo spronò John, sottolineando la proposta dandogli una leggera pacca sulla spalla usando la propria. Sherlock sembrò apprezzarlo, perché si lasciò andare a un sorriso sghembo.
 
-Grazie-, mormorò.
 
A John andò quasi di traverso il the.
 
-Grazie? E per che cosa?
 
-Per sopportarmi anche quando sono di umore inverso.
 
John decise che quella mattina non si era probabilmente pulito a dovere le orecchie, perché proprio non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. Sherlock Holmes che ringraziava. Ma la cosa gli fece non poco piacere, tant'è che arrossì fin sulla punta delle orecchie.
 
-Oh, beh... te l'ho già detto. Occuparsi di te è un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo!
 
Questa volta fu Sherlock a dargli una pacca sulla spalla con tutto il suo (esile) busto, in segno d'intesa.
 
 
 
 
 
 
 
Pian piano, era trascorso già un mese da quando John era atterrato nella Città dell'amore. Alla mattina, solitamente, si svegliavano presto, sotto le pressioni di Sherlock (che sosteneva di dormire troppo da quando l'altro lo aveva raggiunto) e le proteste di John (che avrebbe voluto dedicare più tempo a poltrire sotto le lenzuola, possibilmente facendosi le coccole). Scendevano poi a far colazione all'Espadon, dove John metteva le mani e, soprattutto, la bocca su tutto ciò che fosse commestibile, mentre Sherlock si limitava a un the e a un croissant. Poi uscivano per le strade della capitale, camminando fino al tramonto, travolti dai profumi che fuoriuscivano dai negozi o dalla musica suonata nei bistrot.
 
Le passeggiate lungo la Senna erano divenute un must, così come pure le pennichelle pomeridiane ai Giardini di Lussemburgo, in compagnia di un buon libro, in ricordo dei pomeriggi passati trascorsi davanti alla Serpentine. Anche le domeniche avevano i loro rituali (giornata in cui John riusciva finalmente a ottenere un'ora in più di dolce far niente sotto le lenzuola), con le visite a Notre-Dame e il sunday tea pomeridiano alla libreria Shakespeare and Company [9] sulla Rive Gauche, dove entrambi potevano trascorrere ore intere a cercare la lettura desiderata negli scaffali zeppi di vecchi libri in lingua inglese o seduti sui divanetti ad ascoltare letture di poesie. Ma la parte migliore della giornata, secondo John, era indubbiamente la sera, quando, prima di coricarsi, Sherlock prendeva in mano il suo violino e suonava per lui, solo per lui.
 
I mercatini lungo la Senna, di domenica mattina, erano qualcosa di molto vicino alla migliore definizione di romanticismo. Le campane di Notre-Dame che echeggiavano di lontano, i bateaux mouches che disegnavano linee ondulate sull'acqua, il vociare di famiglie e turisti o il profumo delle baguette appena sfornate che usciva dai numerosi panettieri incorniciavano la giornata nell'atmosfera tipica di un quadro dei pittori impressionisti. Gli occhi di John erano costantemente attratti da qualsiasi bancarella che vendesse fumetti o libri d'epoca, mentre quelli di Sherlock erano per lo più interessati a quelle che vendevano vecchi spartiti musicali o chincaglieria di tutti i tipi.
 
Una domenica accadde che John, dopo diversi minuti buoni di fitta conversazione, si rese conto di aver in realtà parlato da solo per tutto quel tempo, quando, voltandosi improvvisamente, notò Sherlock che era rimasto un paio di bancarelle più indietro, il naso immerso in un grande scatolone grigio di cui non riusciva a vedere il contenuto. Lo sguardo di John si illuminò e le sue labbra si atteggiarono a un sorriso carico d'amore, quando si rese conto di quanto fosse bello Sherlock in quel momento, con i riccioli scompigliati dal vento, la polo bianca sbottonata, i bermuda neri e il maglioncino grigio buttato distrattamente sulle spalle. John pensò che, con un timido raggio di sole che andava ad accarezzargli la nuca, Sherlock avrebbe potuto tranquillamente essere il ragazzo-copertina di Teen Vogue. Si sentì pervadere il cuore e tutto il corpo da un’immensa voglia di abbracciarlo.
 
-Che cosa hai comprato?-, gli domandò, accostandosi a lui e limitandosi ad accarezzargli un braccio. Le gote del ragazzo più giovane si imporporarono leggermente, mentre metteva via frettolosamente in tasca un lucchetto d’argento e farfugliava qualcosa a proposito del Pont de l’Archevêché, che John non comprese bene.
 
-Attraversiamo il ponte e andiamo a vedere i gargoyle a Notre Dame?-, propose Sherlock, sviando molto intelligentemente il discorso.
 
 
 
 
 
 
 
Quando Sherlock mise piede all’Hemingway’s, il bar dell’hotel Ritz intitolato al famoso scrittore spesso ospite in quelle mura, dovette guardarsi un po’ intorno prima di scorgere il fratello maggiore. Lo trovò seduto a un divanetto in fondo al bar, sotto la finestra, il giornale ben disteso sul tavolino basso rettangolare di fronte a sé. Mycroft si stava massaggiando il mento ed esibiva un'aria molto concentrata. I tendaggi color beige erano semichiusi e la luce di un'applique montata sui pannelli di legno che rivestivano le pareti creava buffe ombre sul viso del maggiore dei fratelli Holmes.
 
-Myc, ho bisogno di parlarti-, proferì Sherlock deciso, sedendosi su una poltrona di pelle dall'alto schienale proprio di fronte al divanetto.
 
-Lo so-, disse Mycroft di rimando, senza staccare gli occhi dal suo quotidiano.
 
-Sapevi che ti volevo parlare?-, chiese il fratello, aggrottando la fronte.
 
-Sapevo che mi volevi parlare e so già anche di cosa-, rispose Mycroft, girando una pagina.
 
Sherlock borbottò qualcosa su quanto lo irritasse il fatto che suo fratello ne sapesse sempre una più di lui.
 
-E allora? Quale è la tua risposta?
 
-La mia risposta è... va bene-, disse Mycroft, con una pausa a effetto. Poi, abbandonò per un attimo il suo quotidiano per bere un sorso del suo Martini dal bicchiere appoggiato poco più in là sul tavolino.
 
-Ne sei davvero sicuro?-, chiese ancora Sherlock, con un fil di voce.
 
-Mi sembra sia quello che ho detto.
 
Mycroft bevve un altro sorso e, per la prima volta, alzò gli occhi per guardare il fratello minore in volto.
 
-E comunque lo avevo già capito quando sei venuto a prenderci in aeroporto.
 
Sherlock grugnì mentre si sentì arrossire leggermente. Trovava tanto detestabile quanto noioso essere così un libro aperto per il fratello.
 
-E sei d'accordo...
 
-Sì, ma non credere che ti farò da balia!-, intimò Mycroft, alzando l'indice in segno di monito.
 
-Tu che mi fai da balia? Fossi matto!-, borbottò Sherlock, alzandosi in piedi. Ma il fratello lo bloccò lì dov'era.
 
-Ricordati di comunicare la tua decisione alle parti interessate, piuttosto.
 
Sherlock appoggiò la mano sinistra sullo schienale della poltrona e sospirò. -Lo so, ma lo farò il più tardi possibile. Solo quando sarà il momento.
 
-Domani torno a Londra-, aggiunse il maggiore, tornando a occuparsi del suo giornale. Sherlock si limitò ad annuire, prima di lasciarsi il bar e il fratello alle spalle.
 
 
 
 
 
 
 
-Però vediamo di non metterci più di dieci minuti, eh?
 
-Non puoi fare un picnic in dieci minuti, Sherlock!-, borbottò John, mentre stendeva il plaid sul prato verde e rigoglioso nei pressi di una fontana, ai Giardini di Lussemburgo. Attorno a loro, turisti o famigliole parigine si stavano concedendo un po' di relax o uno spuntino veloce. -Lo facevamo alla Serpentine! Possiamo benissimo farlo anche qui...-, disse, lisciando meglio le pieghe della coperta. -E poi... a Parigi è più romantico...-, aggiunse, bisbigliando appena.
 
Sherlock si sedette sulla coperta, incrociando le braccia al petto e assumendo un'espressione seria in volto.
 
-E poi che picnic dovrebbe essere? Hai portato solo una coperta e da bere-, obiettò. -Potevamo comprare dei panini in hotel.
 
-Non voglio mangiare dei panini. Dedè mi ha suggerito che qui c'è un chioschetto che prepara crepês deliziose-, disse John, prendendo due bottigliette d'acqua dal suo zaino. [10]
 
-Dedè?
 
Sherlock alzò un sopracciglio, perplesso.
 
-Sì, Dedè. Il receptionist! Siamo diventati amici.
 
-Tu riesci a farti amici da tutte le parti-, commentò Sherlock, un po' imbronciato.
 
-E tu invece no-, ribatté John, stizzito. Le parole gli erano uscite dalla bocca senza pensarci e se ne pentì immediatamente, non appena vide un'ombra di tristezza passare attraverso gli occhi chiari che tanto amava.
 
-Io faccio fatica. E poi a me non interessa avere "amici"-, sentenziò, facendo un cerchio con le braccia come a sottolineare il concetto di moltitudine. John pensò che Sherlock era davvero bellissimo quando metteva il broncio in quella maniera. -Non se ho...
 
-Non se hai me?-, concluse John al suo posto, avvicinandosi a lui con slancio per baciarlo sulla bocca. Ma sbagliò mira e centrò il naso.
 
-Non hai paura che la gente parli?-, chiese Sherlock, pulendosi il naso con la mano.
 
-Mhm, forse... Ma ormai è fatta!! E tu non pulirti così dai miei baci!-, protestò l'altro, scompigliandogli i capelli prima di tirarsi in piedi. -Che crepê vuoi mangiare?
 
-Devo proprio?
 
-Sì! Devi proprio! Non ammetto digiuno oggi-, proferì John, pulendosi i pantaloni.
 
-Una alla Nutella.
 
John tornò dieci minuti dopo con una crepê salata per lui e una dolce per Sherlock. Nonostante le proteste, Sherlock divorò la sua crepê, sdraiato a pancia in giù sul plaid, puntellandosi con i gomiti. John mangiò la sua (al prosciutto e formaggio) rimanendo sempre seduto, con le ginocchia piegate e ben strette al petto, lanciando di tanto in tanto un'occhiata al suo ragazzo e sorridendo divertito quando lo vedeva oscillare leggermente i piedi di tanto in tanto.
 
Bip
 
Sherlock si mise a sedere per riuscire a prendere più facilmente il cellulare dalla tasca dei pantaloni.
 
-È Mycroft.
 
-Arrivato a casa?-, chiese John, a bocca piena.
 
-Già. Harry gli ha dato uno strappo dall'aeroporto.
 
-Harry chi?
 
-Tua sorella.
 
A quella risposta, un boccone di crepê gli andò per traverso e John iniziò a tossire pesantemente.
 
-Mia so... mia sorella? Non è possibile!-, protestò, tra un colpo di tosse e l'altro. Sherlock abbassò lo sguardo sullo schermo del cellulare, rileggendo bene il messaggio.
 
-Ha una Skoda Octavia? [11]
 
L'abbronzatura che John si era guadagnato in quei giorni estivi di passeggiate sotto il sole parigino scomparve tutto d'un colpo.
 
-È l'auto di nostra madre...-, bisbigliò, trovandosi a desiderare improvvisamente di mettere le mani su un buon bicchiere di alcol.
 
-Allora era proprio tua sorella-, commentò Sherlock con naturalezza, rimettendosi in tasca il cellulare. -E adesso sbrigati! Dobbiamo andare a passage Jouffroy a investigare sul delitto di Nataniel de Cantaussel. 


 
 
 
 
 
 
 
-Ti ricordi, caro, la nostra prima vacanza assieme? Da soli?
 
La signora Holmes aveva parlato sfogliando le pagine dell'ultimo numero di Vogue, sdraiata nel letto con le lenzuola di seta color crema che la coprivano fin poco oltre la vita, la schiena appoggiata a un numero pressoché indefinito di cuscini.
 
-Oh, l'Irlanda! È passata una vita.
 
La voce del signor Holmes la raggiunse dal bagno, la porta socchiusa.
 
-Non appena tornati a casa, abbiamo deciso di sposarci.
 
-Già, non ce la facevamo più a stare separati.
 
Una pausa.
 
-Come mai questi ricordi?-, chiese poi il signor Holmes, uscendo dal bagno. Spense la luce e si chiuse la porta alle spalle, rimanendo per un attimo lì dov'era fissando la moglie con curiosità.
 
--Niente... È solo che Sherly e il suo amico me li hanno riportati alla mente.
 
-Davvero? E perché mai?-, domandò di nuovo il marito, senza intuire dove la moglie volesse arrivare.
 
La signora Holmes alzò lo sguardo dalla sua rivista, aggrottò la fronte e osservò l'uomo con un'espressione che voleva essere il sinonimo di "Se non ci arrivi da solo, non vale nemmeno la pena spiegartelo".
 
-Niente, caro, lascia perdere-, borbottò, tornando a occuparsi di moda.
 
-Sai, tesoro, stavo pensando...-, iniziò il signor Holmes, intrufolandosi sotto il lenzuolo. -Che prima che se ne torni a Bruxelles, dovremmo andare a cena con l'ambasciatore americano.
 
-Uff...-, borbottò stancamente la moglie.
 
-Che cosa c'è?-, chiese il marito, prendendo un libro dal suo comodino.
 
-C'è che la famiglia Adler non rientra nelle mie simpatie-, rispose la donna, cercando volutamente di non scendere nei particolari.
 
-Robert è un uomo di spirito e di compagnia-, obiettò il signor Holmes, rimuovendo il segnalibro.
 
-Lui lo è, indubbiamente. Quanto alla moglie e alla figlia...
 
-Rachel e... Ilaria?
 
-Irene, caro, Irene-, lo corresse fredda la moglie.
 
-Una cena sola, cara. Hanno insistito.
 
La signora Holmes fece spallucce e annuì di controvoglia, pensando in cuor suo che anche una sola cena con la famiglia Adler sarebbe stata una cena di troppo.
 
 
 
 
 
 
 
-Hai mai fatto sesso?
 
La domanda di Sherlock era piovuta giù senza preavviso dal ciel sereno che troneggiava sulla testa di John da costringere quest'ultimo a sputare un po' della Coca cola che stava bevendo. Stavano mangiando un hamburger (o, per essere più corretti, lui lo stava mangiando, Sherlock invece si limitava a spizzicare un po' il suo Royal con formaggio [12]) da McDonald e John si guardò intorno con circospezione, spaventato dalla strana occhiata che aveva rivolto loro una biondina francese seduta al tavolo accanto.
 
-Co... come, scusa?-, farfugliò, pulendo con un tovagliolo il danno che aveva appena fatto.
 
Sherlock sbuffò, nel suo modo più caratteristico di dire "non farmi ripetere".
 
-In che senso?
 
Domanda idiota, ovviamente, ma John aveva un grande bisogno di temporeggiare. La mente era saltata inevitabilmente a quel pomeriggio a Canary Wharf, in cui Sherlock si era informato se avesse mai baciato una ragazza e subito dopo gli aveva domandato una dimostrazione pratica come se niente fosse. Avrebbe acconsentito più che volentieri a una dimostrazione pratica, ma possibilmente non in pubblico.
 
-Uno dei primi giorni che mi trovavo qui a Parigi...-, iniziò a spiegare Sherlock, avvicinandosi a John con aria complice. -...ho deciso di fare un esperimento.
 
A quel punto, il ragazzo biondo iniziò a deglutire a vuoto, imponendosi di fare del suo meglio per non guardare l'altro negli occhi e ripetendosi nella mente "Ti prego, ti prego, ti prego fa che non centrino quei preservativi e quel lubrificante".
 
-Cioè constatare se la televisione francese fosse davvero peggiore della nostra.
 
John alzò di colpo lo sguardo verso Sherlock. -Non dirmi che ti sei messo a guardare filmini hard!-, sentenziò, capendo dal calore che stava provando che la pelle del suo viso era diventata di colpo bordeaux. Sherlock sbuffò di nuovo.
 
-Ovviamente no!-, borbottò, guardandolo con un'espressione che sembrava dire "la tua mancanza di arguzia mi annoia". -Era un esperimento sulla TV di stato, mi sembrava di essere stato chiaro.
 
John si sentì sollevato, molto sollevato. O forse no? -Non credo che ci sia bisogno di un esperimento per averne la certezza-, scherzò, nel tentativo di mitigare la tensione. La sua.
 
-Comunque, mi sono messo a fare zapping tra i canali e mi sono imbattuto in...
 
Il biondo pendeva dalle sue labbra, ancora un pochino ansioso.
 
-...in questo film di Marlon Brando...
 
Sospiro di sollievo. Brando non avrebbe dovuto costituire una grossa preoccupazione. Ma avrebbe anche potuto sbagliarsi.
 
-...Ultimo tango a Parigi-, continuò Sherlock, prendendola alla larga. John, essendo che quel film non era presente nella sua videoteca personale, rimase tranquillo in attesa, riprendendo a sorseggiare la sua bibita.
 
-Così mi chiedevo... È prassi normale usare il burro per i rapporti anali? [13]-, chiese Sherlock alla fine, con una semplicità disarmante al pari di chi si informerebbe su ingredienti e dosi per una torta di mele.
 
Questa volta il raggio d'azione della Coca sputata da John fu così ampio da investire il proprio vassoio e quello di Sherlock. Il ragazzo prese a tossire così forte che il più giovane si sentì in dovere di aiutarlo picchiettandolo sulla schiena, sotto gli occhi curiosi delle persone sedute ai tavoli vicini. John avrebbe voluto sprofondare per l'imbarazzo, farsi piccolo piccolo o comunque essere catapultato mille miglia da lì. Il respiro gli mancava, si sentiva le gote pulsare, la gola bruciare e gli occhi pungere.
 
-È tutto okay?-, chiese Sherlock con una dolcezza insolita.
 
-No, non è tutto okay...-, rispose John a fatica, con voce stridula, mentre si massaggiava gli occhi. La mano di Sherlock era ancora lì, incollata alla sua schiena, e la cosa non lo aiutava affatto. Tossì ancora per mezzo minuto, fino a quando non riuscì a riprendere il normale ritmo di respirazione. Poi, silenzio.
 
-Non mi hai ancora risposto-, insistette Sherlock, spezzando quel silenzio.
 
-Io... beh... suppongo che... - Avanti, John, ce la puoi fare -Che non esista qualcosa che possa essere definita "prassi normale" nei rapporti sessuali-, rispose John a fatica. -Mangi ancora il tuo panino?-, aggiunse in fretta, desideroso di riportare la conversazione su binari meno scabrosi.
 
Sherlock scosse la testa. -No, puoi portare via anche il mio vassoio.
 
Due minuti dopo mettevano il piede fuori dal fast-food, senza più toccare l'argomento.
 
 
 
 
 
 
 
Prima che Sherlock partisse per Parigi, John gli aveva raccomandato di prestare molta attenzione alle parigine che avrebbero cercato di corteggiarlo. Non aveva avuto idea, il povero John, che, invece delle parigine, avrebbe dovuto guardarsi dalle americane. In particolare le figlie di ambasciatori.
 
Irene Adler era una ragazzina sveglia (fin troppo, secondo l'opinione di John), snella, pressoché dell'età di Sherlock e dai lunghi capelli neri fluenti da far invidia a Brooke Shields in Laguna Blu. La sua bocca carnosa a forma di bocciolo in fiore parlava molto (troppo, sempre secondo l'opinione di John), ma la sua voce civettuola non era poi così irritante se paragonata ai suoi occhi verdi e lucenti da cerbiatta, costantemente incollati a quelli di Sherlock, per rubargli un cenno di approvazione o uno sguardo di complicità e ammirazione.
 
John aveva sempre amato gli occhi di Sherlock perché parlavano sempre molto di più della sua bocca. Spesso, gli riservava intere conversazioni articolate proprio dallo sguardo ed era forse questo - quello sguardo tagliente, dalle sfumature che viaggiavano costantemente dall'azzurro ghiaccio al grigio intenso - che lo aveva fatto innamorare più di tutto. Più dell'eccentricità del suo compagno, o delle sue timidezza e reticenza verso il prossimo. Più dei gusti in comune o delle richieste sconsiderate e un tantino lascive su un molo solitario in un caldo pomeriggio di tarda primavera. E ora John temeva seriamente di perdere quel privilegio, di dover condividere quegli occhi tanto amati con la ragazzetta seduta dall'altra parte del tavolo, se non addirittura di dover dire loro addio per sempre.
 
Stavano cenando a uno dei tavoli migliori de La tour d'argent, forse il ristorante più famoso ed elegante di tutta la città, con una vista invidiabile su Notre-Dame. Il signor Holmes e il signor Adler erano impegnati in una conversazione di carattere politico poco comprensibile ai più, le due signore in una discussione di moda comprensibile a un numero ancora più ridotto di persone, Irene e Sherlock in una dissertazione che riguardava il rapporto tra musica classica e opera, infine John in un confronto silenzioso tra se stesso e l'anitra di Challans che aveva nel piatto e che non aveva più la minima voglia di mangiare.
 
Irene raccontava di quanto adorasse Wagner, Verdi e andare all'opera con i genitori e i loro amici altolocati. Sherlock ribatteva sostenendo come invece trovasse l’opera noiosa: c'era stato una volta sola, l'anno prima, e si era vergognosamente (almeno, nell'opinione di suo padre) addormentato sulla comoda poltroncina nel loro palco privato.
 
Irene diceva di essere davvero brava a cantare, tant'è che la sua insegnante privata di canto riteneva che da grande sarebbe stata una perfetta soprano. Sherlock sosteneva che non c'era niente di meglio di una sonata per violino eseguita nell'intimità della propria camera, magari davanti a un bel camino scoppiettante.
 
I discorsi tra i due ragazzi erano andati avanti per un periodo interminabile che si era esteso dall'antipasto al main course, estraniando tutti gli altri attorno a loro. John compreso. Soprattutto John. Il quale iniziava a sentirsi a disagio e, soprattutto, nauseato.
 
Nauseato dai camerieri in livrea che si avvicinavano a riempire il bicchiere, d'acqua o vino che fosse, non appena il suo contenuto scendeva sotto le due dita.
 
Nauseato dal pianoforte che una giovane e bella pianista stava suonando al centro del salone.
 
Nauseato dalla romantica vista su Notre-Dame.
 
Nauseato dagli abiti da sera eleganti e dai preziosi gioielli che sembravano adornare ogni persona presente nel ristorante quella sera. Fatta eccezione per la sua, di persona.
 
Nauseato da ciò che riempiva il suo piatto.
 
Ma, soprattutto, dalla monopolizzazione da parte di Irene delle attenzioni di Sherlock, la cui preoccupazione primaria sembrava fosse diventata la necessità impellente di contraddire la ragazza in tutti i modi conosciuti. Ovvero, la migliore rappresentazione di corteggiamento, nell'opinione di John.
 
Fu verso la fine della cena, quando il cameriere si era presentato con il carrello dei formaggi, che avvenne.
 
John aveva smesso di ascoltare le conversazioni che si stavano snodando attorno a lui già da una buona mezz'ora, estraniandosi in una dimensione mentale tutta sua, fatta di fumetti, nuvolette di zucchero filato e vecchi ricordi. Stava spiluccando senza troppa convinzione l'insalata verde nel suo piatto quando udì Irene esclamare "Sei fantastico!".
 
Eccole là, le parole che temeva più di tutte. Eccola là, la seconda persona che riteneva Sherlock meraviglioso. Esattamente come aveva tristemente predetto a Harry, solo un mese prima. Spalancò la bocca alla ricerca disperata d'ossigeno, perché l'aria sembrava essergli venuta improvvisamente meno nei suoi polmoni. Il cuore iniziò a pompare a dismisura, graffiando contro il suo petto nell’angosciato tentativo di aprirsi un varco. Percepì una morsa allo stomaco e un conato di vomito. Le orecchie iniziarono a fischiare prepotentemente, impedendogli di udire una sola parola di ciò che diceva la gente. Sembrava che ogni cosa, ogni persona accanto a lui si fosse fermata d'improvviso, come per l'effetto di un colpo di bacchetta magica. Un'istantanea in bianco e nero della sua vita che subiva un duro arresto, per poi andare in frantumi davanti ai suoi occhi.
 
D'improvviso non c'era più nulla. Non c'erano più i colori degli abiti della gente o quello della notte parigina fuori dalle ampie finestre. Non c'erano più i profumi costosi delle signore, o quelli invitanti delle pietanze. Non c'era più la musica del pianoforte, né il vociare irritante dei commensali.
 
Non c'era più John.
 
Non c'era più Sherlock.
 
Non c'erano più loro.
 
Un attimo dopo, che parve infinito, la forchetta gli scivolò dalle mani, cadendo per terra in un tintinnio che sembrò spezzare l'incantesimo e riportare John alla realtà.
 
Gli sembrò che Irene stesse sorridendo maliziosa.
 
Gli sembrò che gli occhi di Sherlock scintillassero come quelli di una ragazza al primo complimento d'amore.
 
Gli sembrò sentire il proprio cuore accartocciarsi su se stesso e smettere di battere.
 
 
 
 
 
Dopo il dessert, l'ambasciatore Adler propose una passeggiata sul Boulevard Saint-Germain. A John non parve vero poter finalmente uscire di nuovo all'aria aperta per riempirsi i polmoni di ossigeno. Aveva evitato ogni contatto sia con Sherlock che con tutte le altre persone a tavola, chiudendosi come un riccio nel proprio mutismo. Nessuno sembrò preoccuparsi per lui. E il suo cuoricino doleva sempre più. La brezza della notte giovane proveniente dalla Senna investì la Quai de la Tournelle, costringendo John a tirarsi su il colletto della camicia e a infilarsi le mani in tasca. Prese a camminare dietro agli altri, tenendosi sempre almeno a un metro e mezzo da Sherlock e Irene e facendo il possibile per non ascoltare i loro discorsi.
 
Non appena svoltarono in Boulevard Saint-Germain, furono investiti dalla folla di turisti rumorosi e improbabili artisti di strada. John venne travolto da un paio di ragazzini che giocavano a rincorrersi, che lo spinsero contro il muro e lo costrinsero a domandarsi come mai non fossero già a letto a quell'ora. Americani, probabilmente. Sbuffò, si ricompose e, quando tornò a guardarsi attorno, non riuscì più a scorgere nessuna delle persone che conosceva. Nessuna traccia dei coniugi Holmes, dei coniugi Adler. Né tanto meno di Sherlock e Irene. I suoi occhi vagavano da un lato all'altro del Boulevard, spaesati. Si avvicinò a un gruppetto di gente attorno a un improvvisato giocoliere, saltellando un paio di volte per riuscire a vedere davanti. Niente. Nessuno.
 
Destra o sinistra?
 
Scelse la destra. Percorse qualche metro guardandosi sempre attorno. Attraversò il Boulevard e passò sull'altro marciapiede. Ancora niente. Da un bistrot con i tavolini sul marciapiede echeggiavano le note di  Our Last Summer degli Abba.
 
 
 

Mi ricordo ancora della nostra ultima estate
La vedo ancora chiaramente
Nella ressa dei turisti, attorno a Notre-Dame
La nostra ultima estate
Camminando mano nella mano

I ristoranti parigini
La nostra ultima estate
I croissants al mattino
Vivendo alla giornata, le preoccupazioni lontane
La nostra ultima estate
Potevamo ridere e giocare

 
 

 
Iniziava a sentirsi male, gli occhi a pizzicare. Il cuore faceva del suo meglio per scoppiargli nel petto e lo stomaco attorcigliarsi su se stesso. Alla tristezza per il modo in cui si stava evolvendo la serata andava ora a sommarsi il fatto che si era smarrito in quella città di cui dopo un mese aveva imparato solo i nomi di due strade e che stava iniziando seriamente a odiare con tutto se stesso.
 
A un certo punto, si sentì toccare il braccio destro.
 
-Sherlock...-, mormorò, voltandosi con un sorriso. Invece, si ritrovò di fronte un uomo - o forse un ragazzo, non avrebbe saputo dirlo - uno di quei mimi di strada vestito con una tuta bianca molto aderente, passamontagna bianco e volto dipinto dello stesso colore. Gli sorrise, congiunse le mani come a pregarlo di fermarsi e iniziò a ballare. John lo fece, si fermò, semplicemente perché non aveva più molta voglia di andare da qualsivoglia parte. Un gruppetto di gente si radunò attorno a loro. Gli occhi del ragazzo biondo erano fissi sull'artista di strada, ma la mente era lontana e il cuore inesistente. Quando il mimo terminò la sua esibizione, tutti iniziarono ad applaudire. Tutti tranne John, che rimase lì immobile per qualche minuto, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo lontano. Qualcuno lanciò qualche monetina, che l'uomo raccolse nel suo cappello, poi tutti se ne andarono. E John rimase dov’era.
 
Iniziò a piovere, i capelli corti di John sembravano luccicare a contatto delle prime goccioline. A quel punto il mimo si accorse della presenza di John e, in particolare, della sua tristezza. Allora gli si avvicinò, appoggiò delicatamente gli indici alle due estremità della bocca del ragazzo e tirò piano, riportando per un attimo il sorriso sul suo volto. Quando si staccò da lui, John sbatté un paio di volte le palpebre, poi indicò le tasche dei pantaloni e allargò le braccia, a indicare che non aveva soldi con sé. Il mimo scosse la testa, si batté il pugno sul cuore e indicò John, il quale annuì, prima di rimettersi le mani in tasca e voltarsi.
 
Quando finalmente trovò una fermata della metropolitana, stava piovendo a dirotto e John era bagnato fradicio. Corse nella stazione sotterranea come un profugo in cerca di un rifugio e rimase diversi minuti buoni con il naso incollato alla piantina delle linee. La metropolitana parigina era ancora un mistero irrisolto per lui, così come la cartina stradale. Sapeva solo che doveva andare in Place Vendome che si trovava al di là della Senna. Fu fortunato a trovare una giovane coppia di turisti americani che lo aiutarono. Quando un quarto d'ora dopo mise piede al Ritz, dovette combattere contro l'impulso di prendere a pugni un ospite francese che lo guardò male da capo a piedi per com'era conciato.
 
-Serataccia?
 
La voce allegra di Dedé lo fece desistere. Si voltò verso il giovane receptionist e, incrociando il suo sguardo amichevole, per poco non scoppiò a piangere. Si morsicò il labbro inferiore nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime.
 
-I signori Holmes sono già rientrati?-, domandò a fatica.
 
-No, signor Watson, mi spiace.
 
-E nemmeno... il mio amico?
 
-Mi spiace-, ripeté, scuotendo la testa.
 
John si guardò intorno sconsolato.
 
-Avete litigato? Se posso permettermi...
 
Fu il turno di John a scuotere la testa.
 
-No, no. Credo sia... peggio.
 
-A volte può capitare-, disse Dedé, tamburellando la penna stilografica sul registro degli ospiti. -L'importante è chiarirsi.
 
Chiarirsi... Già, se fosse riuscito a trovare Sherlock magari lo avrebbe anche fatto.
 
-Ha la chiave, signor Watson?-, si sincerò il receptionist.
 
John si toccò le tasche dei pantaloni, sentendola sotto la stoffa di quella sinistra, quasi zuppa.
 
-Sì. Spero che sia ancora utilizzabile...
 
-Mi chiami, se non funziona. Buona notte.
 
-Buona notte.
 
Il ragazzo si avviò verso l'ascensore, sapendo in cuor suo che sarebbe stata una pessima notte.
 
 
 
 
 
 
 
John si svegliò molto presto dopo una notte agitata e senza sogni. Entrando in camera, la sera prima, si era sfilato le scarpe, abbandonandole ai piedi del letto, e si era buttato a pancia in giù sul materasso. Aveva faticato a prendere sonno, lo sguardo che saltellava costantemente dalla sveglia sul comodino alla porta della camera, che rimase ben chiusa nella sua antipatia fino a quando Morfeo non venne pietosamente a prendere John verso l'1:30 del mattino.
 
Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide, essendo il capo girato verso sinistra, fu la radiosveglia, che segnava le 7:05. La seconda, voltandosi verso destra, fu il letto di Sherlock. Vuoto e perfettamente rifatto dal giorno prima, i suoi tre cioccolatini ancora sul cuscino. John si mise in ginocchio nel letto, mentre una lacrima silenziosa gli rigava il viso. Si impose di non fare cattivi pensieri ma non ci riuscì: Sherlock + Irene + Fuori per la notte non equivalevano a nulla di buono. Si asciugò la lacrima con il dorso della mano e scese dal letto. Si sentiva svuotato di ogni forza.
 
Si recò in bagno e rimase qualche minuto a osservare la sua immagine riflessa nello specchio. Gli occhi erano spenti, le venuzze rosse e ben visibili, le occhiaie accentuate. Aprì il rubinetto dell'acqua fresca, lasciandola scorrere per un po'. Il cigno di acciaio non gli era mai stato così antipatico. Si sciacquò il viso, si massaggiò un po' le guance nel tentativo di riprendere colore e tornò a guardare il riflesso nello specchio. Ripensò alle parole di Dedé: l'importante è chiarirsi. Sherlock era il suo ragazzo, quindi forse John aveva qualche diritto, un po' di voce in capitolo. Sospirò e si asciugò il viso con il morbido asciugamano color panna.
 
In tutta onestà, non aveva voglia di avercela, la voce in capitolo: spettava solo a Sherlock scegliere, era semplicemente giusto così. Lui non voleva proprio costringere nessuno a fare nulla. Anche se dubitava che Sherlock potesse mai prendere qualche decisione controvoglia. Dopotutto, il suo giovane ragazzo era ben a conoscenza dei sentimenti di John nei suoi confronti, quindi doveva e poteva essere lasciato libero. Buttò in qualche modo l'asciugamano sulla gruccia e uscì dal bagno.
 
Scostò la tenda della portafinestra che dava sul piccolo terrazzino: il sole illuminava gioioso la colonna di Place Vendome. Il suo gesto sembrò infastidire un piccione sulla ringhiera del terrazzino che borbottò qualcosa nel suo linguaggio da volatile e volò via. John si cambiò finalmente d'abito, indossando jeans e una t-shirt leggera. Rimase per qualche minuto seduto a bordo letto, i piedi scalzi e la testa tra le mani, pensieroso.
 
Irene era bellissima. Lei e Sherlock avrebbero senz'altro formato una coppia perfetta. Erano fatti l'uno per l'altra, decisamente. Qualcuno avrebbe dovuto produrre a loro immagine le statuine degli sposini spesso utilizzate come decorazione delle torte nuziali. Sì, li avrebbe lasciati liberi di stare assieme e magari un giorno avrebbe visto la loro foto mentre si esibivano assieme all'Opera di Sidney o alla Royal Albert Hall. Irene era splendida, ricca e talentuosa, con un cervello molto simile a quello di Sherlock. Lui non aveva nulla da offrirgli, invece, a parte le mani vuote e un cuore gonfio d'amore.
 
Sospirò e decise che era giunto il momento di utilizzare il suo biglietto aperto per tornare a Londra. Si alzò e lo sguardo cadde sul violino di Sherlock, appoggiato disordinatamente sul tavolinetto accanto alla portafinestra. Lo accarezzò con la delicatezza che si riserverebbe alla pelle di una donna, desiderando con tutto se stesso di poterlo sentire ancora una volta suonato dal suo proprietario. E pensò che, in fin dei conti, era una fortuna che non avessero mai fatto l'amore: così Sherlock avrebbe avuto ancora qualcosa di speciale da regalare alla sua persona speciale.
 
Le sue dita scivolarono via dal violino e John si recò all'armadio a muro. Lo aprì, sospirò di nuovo e appoggiò il capo all'anta destra. Decise che, prima di tornare a Londra, c'era ancora una cosa che doveva fare. Richiuse l'armadio, tornò al tavolinetto, trovò la guida turistica di Parigi in mezzo a tutto quell'ammasso di spartiti e libri, si cacciò a fatica il cellulare in tasca e uscì.
 
 
 
 
 
 
 
Questa volta ebbe molta più fortuna con la metropolitana e John riuscì facilmente ad arrivare a destinazione. Ovvero, il ponte dell’Archevêché (l'Arcivescovado), sul braccio della Senna tra la Rive Gauche e i giardini di Notre-Dame. Con le pagine della cartina stradale incollata alla terza di copertina della guida della città, prima di lasciare la capitale francese John voleva vedere con i propri occhi l'unica meta che Sherlock voleva tanto visitare assieme a lui ma alla quale non avevano ancora avuto occasione di recarsi. Uscendo dalla stazione della metropolitana, attraversò la strada così incautamente che quasi un autobus non lo investì. Alzò la mano per scusarsi con l'autista e imboccò il ponte.
 
Gli ci volle mezzo secondo per rendersi conto di dove fosse finito e uno per cercare di ricacciare indietro le lacrime: si trovava nel centro del romanticismo parigino. Il parapetto del ponte era pieno zeppo di lucchetti, promesse d'amore di coppie più o meno giovani che scrivevano i loro nomi su un lucchetto, lo agganciavano alla rete e gettavano le chiavi nella Senna, a suggellare il loro amore eterno. John percorse il ponte con il fiato sospeso, tirando su con il naso e annaspando di tanto in tanto alla ricerca d'aria. Giunto a metà, vide una coppia di giovani della sua età, inginocchiati davanti al parapetto. Avevano appena agganciato il loro lucchetto. Si baciarono ridendo poi per il loro gesto. Poi, si tirarono in piedi, lui strinse lei forte al petto e, insieme, gettarono le chiavi nel fiume. Un attimo dopo, erano spariti mentre John era ancora lì, a osservare la lieve increspatura sull'acqua prodotta dalle chiavi. Dio, quanto avrebbe voluto avere Sherlock lì con se. Stringerlo al petto e affondare il viso nei riccioli corvini. Strinse forte una mano a pugno e tirò di nuovo su con il naso. Aveva un disperato bisogno di parlare con qualcuno.
 
Percorse correndo il resto del ponte e, quando lo abbandonò, si ritrovò nuovamente in Quai de la Tournelle. La Tour d'argent si trovava a un passo da lui. Si sentì invadere da un nuovo conato di vomito, al solo ricordo della sera precedente. Si sedette sul marciapiede, proprio di fronte a un semaforo, incurante delle auto che sfrecciavano e dei pedoni che passavo accanto a lui. Tirò fuori il cellulare: doveva chiamare Harry. Voleva sentire una voce amica. Compose il numero con il cuore che gli sconquassava il petto e le mani leggermente tremanti. Accostò il telefono all'orecchio ma lo trovò muto. Se lo portò davanti agli occhi e lo fissò bene. Poi si rese conto che era spento. Era spento dal giorno prima. In effetti, lo aveva lasciato in camera da chissà quanto. Si dette mentalmente dell'idiota e lo accese.
 
Il tempo di trovare la rete e il cellulare iniziò a suonare e ricevere messaggi come un pazzo, tant'è che John si spaventò e lo lasciò cadere tra le gambe. Lo riprese in mano e iniziò a scorrere le notifiche. C'erano tre chiamate perse di Sherlock (rispettivamente alle 22:30, alle 23:15 e a mezzanotte) e un numero imprecisato di suoi messaggi.
 
 
 

Siamo a Saint Michel. Tu dove sei finito? SH
Sta piovendo e non abbiamo ombrelli SH
Non ne posso più, vieni. Se non puoi, vedi di venire lo stesso SH
Devo iniziare a preoccuparmi? SH
Tra poco rientriamo in hotel SH
Non riesco ancora a capire perché i francesi siano così noiosi SH
Per lo meno so che respiri ancora, me lo ha detto il TUO amico Dedè SH
Ho bisogno di farmi una doccia: puzzo come una ciminiera per colpa del sigaro del signor Adler. Dormo in camera dei miei per non svegliarti SH
Un giorno mi piacerebbe provare a fumare ma i sigari decisamente no SH
Buonanotte John SH
Buongiorno. Sei sempre vivo? SH
Non capisco l'utilità di avere un cellulare se poi lo tieni sempre spento SH



 
John iniziò a piangere sommessamente e a ridere assieme. Si sentiva un idiota. In tutto quel suo commiserarsi non aveva nemmeno contemplato la possibilità che Sherlock avesse pensato a lui. Dopo il sentirsi idiota, si dette anche dell’insensibile egoista, perché aveva messo in dubbio i sentimenti che il suo giovane compagno nutriva verso di lui senza nemmeno dargli una possibilità di appello. Sospirò, boccheggiò un paio di volte, poi decise di chiamarlo.
 
Il telefono squillò diverse volte prima che all’altro capo Sherlock rispondesse e John lo considerò una (giusta) forma di punizione nei suoi confronti.
 
-Sì?
 
Silenzio accompagnato da un intenso massaggiarsi della zazzera bionda.
 
-Ciao!
 
-Ciao. (Freddo)
 
-Sono io.
 
-Anch’io. (Glaciale)
 
-E respiro ancora! (Risata)
 
-Buon per te. (Sbuffo)
 
-Volevo solo… rompere il ghiaccio.
 
-Restiamo sul ghiaccio, mi sembra più appropriato.
 
John non si sarebbe capacitato mai abbastanza della bravura di Sherlock di girare ogni situazione a suo favore. Era persino riuscito a far sentire lui il colpevole.
 
-Oh, andiamo, smettila!-, sbottò John. –Non me ne sono andato apposta. Mi sono perso!
 
-E non ti sei preoccupato di controllare se fossi rintracciabile-, ribatté l’altro, con una punta di risentimento nella voce.
 
-No. Ero preoccupato di ben altro!
 
Silenzio. Chissà se aveva capito? Il semaforo divenne verde e auto di tutti i colori e marche presero a sgommare davanti agli occhi lucidi di John.
 
-Mi sono sentito… escluso-, aggiunse un attimo dopo, per essere certo di mettere chiarezza tra loro.
 
-Sei un idiota…-, sussurrò Sherlock. John sorrise, perché gli pareva di aver udito un pizzico di dolcezza in quelle parole. –Dove sei?
 
-Sono vicino al… al ponte dell’Archevêché.
 
-Dove?!
 
John si morsicò la lingua per non ridere, in quanto questa volta era davvero sicuro di aver riconosciuto una nota di gelosia.
 
-Tranquillo, sono da solo!-, rispose, asciugandosi un’ultima lacrima solitaria con il dorso della mano. –Però se devo tornare indietro al Ritz…
 
-No, sta fermo lì, prima che ti perdi di nuovo. Ti raggiungo io. Vediamoci fuori dalla fermata di Notre-Dame. Riesci ad arrivarci senza perderti?-, lo canzonò.
 
-Sì, credo di sì-, John provò un impulso irrefrenabile di tirargli i capelli in segno di protesta.
 
-Allora ci vediamo lì tra dieci minuti circa.
 
 
 
 
 
 
 
John lo stava aspettando all’ombra sotto un albero, la schiena appoggiata al tronco. Sherlock non lo vide subito quando spuntò dagli scalini che conducevano alla fermata del metrò. Con i capelli scompigliati, lo sguardo che vagava a destra e sinistra, la fronte imperlata di sudore e le gote leggermente arrossate, John si ritrovò a pensare che Sherlock fosse bellissimo in quel momento. E lui un grandissimo idiota sul serio.
 
Finalmente Sherlock lo notò, in ombra sotto le fronde dell’albero. Arricciò le labbra e scosse la testa, senza muovere più un altro passo. Aspettò che John attraversasse la strada e lo raggiungesse. Il ragazzo biondo si fermò davanti al ragazzo moro, proprio sotto l’insegna art nouveau della metropolitain. Rimasero lì fermi, a guardarsi negli occhi per qualche secondo, mentre la gente andava e veniva accanto a loro. Nelle loro menti, così come nei loro cuori, ripassavano le immagini dei mesi vissuti assieme, di quanto erano cambiati e di come erano cresciuti, l’uno a fianco dell’altro.
 
-Irene?-, chiese John, spezzando il silenzio.
 
Un lampo di consapevolezza passò attraverso gli occhi di Sherlock.
 
-Credo tornasse oggi a Bruxelles assieme alla sua famiglia.
 
-Così non la rivedrai più?
 
-Perché dovrei rivederla?
 
-Io… non saprei…
 
-Sei proprio un idiota!
 
Sherlock allungò timidamente una mano verso John, fermandola a metà strada prima di distendere il braccio del tutto.
 
-Già, forse hai ragione.
 
John strinse la mano che gli veniva offerta, attirando il ragazzo più giovane a sé e stringendolo in un forte abbraccio che sapeva di certezze e promesse. I capelli ricci gli solleticarono il naso quando vi depositò un bacio leggero.
 
-La gente ci guarda…
 
-Lascia che guardi.
 
 
 
 
 
 
 
Camminarono fianco a fianco senza fretta e senza dirsi una parola, con le dita dell’uno che a volte sfioravano quelle dell’altro, in un volersi cercare senza fine. Cinque minuti dopo si ritrovarono all’ingresso del ponte. Sherlock sospirò: si sentiva nervoso come se si stesse recando a sostenere un esame. O, peggio, in chiesa.
 
Dovettero percorrere tre quarti del ponte prima di trovare uno spazio libero nella rete. Si inginocchiarono entrambi evitando di guardarsi negli occhi, con lo sguardo rivolto a un battello turistico che stava passando proprio in quell'attimo sotto di loro.
 
-Quindi...-, esordì Sherlock.
 
-Quindi...-, lo imitò John, evitando ancora il contatto con il grigio-azzurro degli occhi del moro.
 
-Solo se sei d'accordo.
 
-Certo che lo sono!-, ribatté il biondo, rivolgendo finalmente lo sguardo verso il suo giovane ragazzo.
 
Pensando che nella propria memoria quel momento sarebbe rimasto impresso come "il giorno in cui non era se stesso", Sherlock prese un piccolo pennarello tascabile dal taschino della polo bianca e tirò fuori il lucchetto argentato che aveva comperato lungo la Senna da quella dei pantaloni. Tolse il cappuccio al pennarello, lo infilò tra i denti e scrisse il nome di John sul lato posteriore del lucchetto. Quindi, porse il tutto a John affinché facesse altrettanto, il quale quasi sbagliò a scrivere il nome di Sherlock, per via di un leggero tremore che aveva deciso proprio in quel momento di andare a trovare la sua mano sinistra e, soprattutto, dello sguardo pungente dell'altro che si sentiva addosso e, addirittura, sotto la pelle. Una volta scritta quella "k" finale che sembrava aver richiesto gli sforzi di una vita, John sospirò e consegnò di nuovo lucchetto e pennarello a Sherlock, il quale rimise il cappuccio a quest’ultimo e lo rificcò in tasca. Agganciò il lucchetto alla rete di sicurezza e lo chiuse con le chiavi. Sospirò anche lui. L’inviolabilità dei loro gesti era palpabile, nell’aria. Poi John si voltò verso Sherlock, guardandolo negli occhi con aria seria.
 
-Io non ho niente di speciale.
 
-Ma fai sentire speciale me-, ribatté Sherlock, con altrettanta serietà. Le labbra del ragazzo biondo si lasciarono andare a un sorriso sereno e felice.
 
Si alzarono in piedi e, tenendo ben strette le chiavi nel palmo, Sherlock prese piano tra la sua la mano di John. Sentì che era calda e tremava ancora. Poi, con la mancina e la destra ancora unite, lanciarono le chiavi nella Senna. Rimasero così qualche attimo a guardarle affondare, con le mani ancora unite e gli occhi che accarezzavano le increspature prodotte sulla superficie del fiume.
 
-Quindi questa cosa è... per sempre?-, domandò John, arrossendo leggermente sulla punta delle orecchie. Sherlock annuì.
 
-Certo, a meno che tu un giorno non decida di tuffarti nella Senna per andarle a recuperare, sciogliendo il legame. Che a quel punto meriterebbe d'essere sciolto, dopo un tale atto di coraggio. O stupidità...
 
John sorrise e Sherlock non poté esimersi dal fare altrettanto.
 
-Se volessi sciogliere questo legame, credo lo farei solo per ribadirlo più intensamente-, disse il biondo, con il cuore che iniziava prepotentemente a farsi sentire nel petto. -Come nel sequel di Koda fratello orso. [14]
 
Sherlock aggrottò la fronte, ignorando totalmente a che cosa John si stesse riferendo.
 
-Niente, lascia perdere.
 
Il più giovane si sporse leggermente dal parapetto in modo da avere una migliore visuale sul fiume. Le chiavi non erano più in vista. -Allora, vogliamo andare al tuo famoso Museo del cioccolato?-, propose.
 
John sorrise e strinse forte la mano del suo compagno. Si sentiva ancora un mezzo idiota, ma almeno era un idiota felice. Abbandonarono il ponte proprio mentre il battello attraccava alla fermata di Notre-Dame, per far scendere un gruppo di turisti giapponesi muniti anche loro dei propri lucchetti. [15]


 
 
 
 
 
-Non hai più risposto a quella mia domanda.
 
Spossato da tutti gli avvenimenti della giornata, John era sul punto di addormentarsi, cullato dal dondolio della metropolitana, quando le parole di Sherlock lo riportarono alla realtà.
 
-Mhm? Quale domanda?-, chiese, stropicciandosi gli occhi.
 
-Hai mai fatto sesso?
 
John rischiò di strozzarsi con la saliva, mentre la vecchietta seduta di fianco a lui tossì, quasi a volerlo incoraggiare. Dire che divenne improvvisamente bordeaux in viso sarebbe riduttivo. Aveva dimenticato che, al contrario di lui, Sherlock non scordava mai nulla. Deglutì un paio di volte prima di rispondere, perché decise che, con la promessa che si erano scambiati solo poche ore prima, il suo ragazzo se la meritava una risposta, possibilmente sincera.
 
-Sì-, disse, sentendosi terribilmente e stupidamente in colpa, quasi come se lo avesse tradito. -Una sola volta. E non è che sia stato un granché, si affrettò ad aggiungere, mitigando la cosa. Ma Sherlock non appariva né colpito, né tantomeno dispiaciuto. Si voltò invece a osservarlo con interesse.
 
-Come il primo bacio?
 
-La prima volta raramente è perfetta...
 
John rispose con dolcezza: voleva rassicurarlo, proteggerlo. Non sapeva con certezza da cosa o se ne avesse veramente bisogno, ma voleva farlo. Come sempre, per sempre.
 
-Magari la prossima sarà migliore-, commentò il moro, tornando a guardare davanti a sé, mentre il treno si arrestava.
 
E John dette addio al suo cuore alla fermata dell'Opéra.
 
 
 
 
 
 
 
Quando tornarono in hotel quella sera, erano già le nove passate. Dedè era di turno come concierge e li salutò con un caldo sorriso.
 
-Buonasera, sa per caso se i miei genitori sono in camera?-, chiese Sherlock, avvicinandosi al bancone.
 
-Bonsoir, messieurs. Sì, hanno ordinato qualcosa dal servizio in camera giusto mezz'ora fa.
 
Il ragazzo, che non andava molto d'accordo con i "grazie", ringraziò con un tirato cenno del capo, prima di avviarsi agli ascensori.
 
-Allora, avete fatto pace?-, domandò Dedè, abbassando la voce.
 
-Sì, avevamo solo bisogno di chiarirci, come suggeriva lei-, rispose John, un po' imbarazzato.
 
-John, sbrigati!-, chiamò Sherlock a gran voce, mentre teneva premuto il pulsante per l'apertura delle porte.
 
La prima cosa che John fece entrati in camera fu sfilarsi le scarpe. La seconda buttarsi a pancia in su sul suo letto, sfinito.
 
-Ahi…-, bofonchiò, sentendosi sotto la testa i cioccolatini che la cameriera lasciava sul cuscino ogni sera. -Sono davvero distrutto, credo di aver bisogno di una bella doccia-, disse, scartando un cioccolatino e infilandoselo in bocca.
 
Sherlock era rimasto accanto alla porta, con una mano ancora sulla maniglia.
 
-Allora, mentre tu sei in bagno, io vado un attimo dai miei-, annunciò, con aria grave.
 
-Mhm, d’accordo.
 
John si tirò a sedere giusto in tempo per vederlo scomparire in corridoio.
 
Quell’attimo si trasformò in minuti e poi in un’ora intera. John si era raggomitolato sotto il lenzuolo, con indosso solo i boxer e la tshirt del pigiama, quindi aveva acceso la TV, iniziando a fare zapping tra i canali. Quando il faccione di Marlon Brando apparve sullo schermo, gli mancò per un attimo il respiro, ripensando a Ultimo tango a Parigi e, soprattutto, al burro, ma fortunatamente era solo l’innocente Fronte del porto. Girando tra i vari canali, si imbatté in un film con Harrison Ford e, soddisfatto, si sistemò meglio nel letto, aspettando il ritorno di Sherlock. Quando questi finalmente tornò, John si era mezzo assopito, ma il rumore della porta che si chiudeva cigolando lo riscosse del tutto dal dormiveglia.
 
-Mhm, che ore sono?-, farfugliò, cercando la sveglia con gli occhi.
 
-Le dieci e mezzo. Non volevo svegliarti.
 
-Non fa niente. Non stavo dormendo-, proferì John, con decisione, tirandosi a sedere. Osservò Sherlock sedersi sul bordo del suo letto e sfilarsi a sua volta le scarpe.
 
-Che cosa hai fatto lì?
 
-Lì dove?
 
-Sulla guancia destra-, rispose John, indicandola. –È tutta arrossata.
 
Sherlock non rispose subito. Si girò verso John per guardarlo meglio in viso, allacciandosi le mani in grembo. Soppesava la situazione.
 
-È stata mia madre.
 
Per un attimo il cuore di John sembrò fermarsi, sentendosi vagamente in panico.
 
-Ti ha picchiato?
 
-Ma no, che sciocchezza!-, borbottò l’altro. –Ha solo cercato di uccidermi di baci.
 
John sospirò di sollievo, quindi tirò giù il lenzuolo e gattonò fino al bordo del letto, avvicinandosi meglio a Sherlock. Gli sfiorò la guancia arrossata con un dito. Riuscì a percepire un leggero tremore nel corpo dell’altro a contatto con la sua pelle.
 
-Che cosa è successo? Sei stato via un’eternità.
 
Sherlock agganciò i suoi occhi chiari, ora un po’ più grigi nella penombra della camera, a quelli blu del suo compagno, assumendo un’aria più seria di quanto già non lo fosse.
 
-Sei sempre il solito esagerato con le parole-, esordì. Una pausa. -Ho detto ai miei che non rimango. A settembre torno a Londra, per l’inizio del nuovo anno scolastico.
 
John rimase in silenzio, ponderando bene ciò che le sue orecchie avevano appena udito.
 
-Beh, mi sembra una decisione sensata. Iniziare l’anno qui e terminarlo a casa non sarebbe il massimo-, fu il commento del ragazzo più grande. Un mese e mezzo e Sherlock sarebbe stato di nuovo a Londra. Avrebbe voluto mettersi a gridare a squarciagola, ma si trattenne, non volendo apparire esageratamente infantile o sentimentale. Per contro, il più giovane arricciò labbra e naso, in un’espressione di supponenza.
 
-È tutto qui ciò che hai da dire?
 
John aprì la bocca e la richiuse subito dopo. Sentì la pelle del viso farsi sempre più calda e capì di essere arrossito.
 
-Ehm, io…
 
-Sei proprio un idiota… Non lo faccio per la scuola, lo faccio per noi-, borbottò, incrociando le braccia al petto.
 
-Tu che hai paura di sentire la mia mancanza?-, John si morsicò il labbro inferiore, trattenendosi a fatica dal non ridere soddisfatto per la sua piccola vittoria.
 
-Io non ho paura proprio di niente-, brontolò. –È solo per… praticità-, proferì deciso Sherlock, che proprio non voleva saperne, di darla vinta a John.
 
–È così! Tu non vuoi sentire la mia mancanza!
 
Sherlock si strinse ancora di più a se stesso, sbuffò e guardò verso il soffitto. Detestava dover ammettere le sue debolezze.
 
-Vieni qui…-, mormorò John, scendendo dal suo letto e fermandosi in ginocchio ai piedi di quello del suo ragazzo. –Ora chi fa l’idiota?
 
La voce di John era dolce e vellutata, mentre si arrampicava sul materasso, prendeva il viso di Sherlock tra le mani e lo ruotava delicatamente, costringendolo a guardarlo. Poi, con dolcezza, scese con le mani a cercare quelle dell’altro, liberandole e portandole sui propri fianchi.
 
-Una sola guancia arrossata non ti dona…
 
-No, infatti. Direi che devi rimediare, John.
 
Sherlock chiuse gli occhi, nel desiderio di farsi guidare esclusivamente dalle sensazioni che avrebbe provato il suo corpo. Sentì il respiro caldo di John avvicinarsi, che gli solleticava prima il naso poi il lobo dell’orecchio. Sentì le labbra sottili e screpolate del suo compagno cercare le proprie, catturando il suo labbro inferiore in una sorta di saluto sensuale. Sentì saliva, denti, lingua e tutto questo, una volta abbandonato le proprie labbra, partì alla ricerca della guancia ancora nivea, al fine di marchiarla in un’espressione dell’amore che John provava nei suoi confronti.
 
Fu in grado di ripercorrere ogni attimo di quella giornata grazie alle informazioni che i suoi sensi riuscivano a percepire da John. L’odore di fumo che impregnava la metropolitana, il profumo dei muschi che crescevano alle fermate dei bateaux mouches lungo la Senna, l’essenza dei bastoncini alla papaya bruciati nel ristorante cinese in cui avevano cenato, il residuo del colorante chimico del pennarello usato per incidere la loro promessa d’amore, la fragranza del bagnodoccia alla calendula che aveva lavato via tutta la stanchezza della giornata. Ogni bacio gli comunicava qualcosa in più di John, del suo John.
 
Poi, quando fu soddisfatto delle informazioni ricevute, Sherlock aprì gli occhi, staccandosi piano da John. Li incastonò in quelli dell’altro, lasciandoli che si esprimessero in una mutua richiesta. John sollevò piano la macina e l’appoggiò sulla guancia ancora arrossata, iniziando ad accarezzarla dolcemente con il pollice. Si sporse in avanti quel tanto che bastava per appoggiare la fronte a quella di Sherlock, sfiorandogli la punta del naso con la propria.
 
-Lo so che non sei pronto. E, credimi, non è un problema per me. Aspetterò tutto il tempo che ci vorrà-, mormorò, respirandogli addosso.
 
Di tutta risposta, Sherlock mise una mano sulla nuca di John, attirandolo ancora di più a sé, annullando gli ultimi due o tre centimetri di spazio rimasto tra loro. Appoggiò le sue labbra carnose a quelle sottili dell’altro, con il cuore che iniziava a martellargli nel petto. Un piccolo bacio, poi un altro e un altro ancora.
 
-Però voglio dormire assieme a te, stanotte.
 
-Dormiamo già, assieme.
 
-Intendo nello stesso letto, stupido.
 
-Oh…
 
-Lo so, staremo stretti, ma…
 
-Va bene, va benissimo!-, si affrettò ad asserire John, che avrebbe volentieri dormito abbracciato a Sherlock anche in un fazzoletto.
 
-E nudi.
 
Questa volta la bocca di John si limitò ad atteggiarsi a “oh”, perché sfortunatamente da essa non uscì alcun suono, così come nessun respiro, in effetti.
 
-Nu… nudi?-, chiese poi, non appena gli fu tornata la facoltà di parola.
 
-Nudi, sì. La scienza spesso procede per gradi per capire il funzionamento delle cose. Consideralo un… esperimento. Ti va bene anche questo?
 
John fu costretto a boccheggiare un paio di volte nella disperata ricerca di ossigeno per riuscire a emettere un sommesso “sì”, quindi si portò una mano sul petto per essere assolutamente certo che il suo cuore stesse battendo ancora e non fosse un’illusione. La suddetta disperata ricerca di ossigeno venne bruscamente interrotta dalle labbra di Sherlock, che intrappolarono le sue con avidità. Sentì quei denti perfetti morsicargli la pelle, la lingua piccola intrufolarsi a sorpresa nella sua bocca accarezzandogli il palato e trattenne a fatica un mugolio di dolore misto al piacere di constatare che i baci di Sherlock stavano via via diventando meno casti.
 
-Andiamo…-, bisbigliò John, ponendo fine a quel contatto solo per prendere una delle sue mani tra le proprie e aiutarlo ad alzarsi. Salirono sul letto di John e si sistemarono al centro, affondando con le ginocchia nel materasso, l’uno di fronte all’altro. Questa volta fu Sherlock ad appoggiare la fronte a quella del compagno, trovandola leggermente imperlata di sudore. Con il respiro affrettato per l’emozione che solleticava appena il viso di Sherlock, John iniziò a spogliare lentamente il suo compagno, tenendo costantemente gli occhi fissi in quelli dell’altro, senza quasi battere ciglio, nel tentativo di infondere sicurezza e certezza.
 
Dopo un attimo d’indecisione, le mani di Sherlock si aggrapparono alla tshirt di John, sfilandogliela. John gli sollevò lentamente le braccia verso l'altro, aiutandolo a sfilare la polo. Allorché, il naso di Sherlock rimase incastrato nello scollo, graffiandosi con un bottone.
 
-Ahi...
 
-Perdono, perdono!-, si affrettò a dire il biondo, sottolineando le sue scuse con un bacio veloce sull'occhio destro. Le lunghe ciglia nere di Sherlock gli fecero il solletico. Era una sensazione così piacevole che John decise di porre le labbra anche sull'occhio sinistro.
 
A un indumento di Sherlock ne seguiva uno (dei pochi, per altro) di John, fino a quando tutti i vestiti si ritrovarono a farsi compagnia sulla moquette, felicemente dimenticati.
 
-Sei bellissimo…-, mormorò John, contemplando di sfuggita il corpo del suo ragazzo. La pelle candida come il latte e i piccoli nei che spuntavano qua e là gli portavano alla mente le gustose scaglie di cioccolato affogate nel gelato gusto stracciatella. Gli fu inevitabile arrossire fino alla radice dei capelli. –E… magrissimo.
 
-Uff, adesso non rovinare tutto dicendo come il tuo solito che dovrei mangiare di più-, bofonchiò l’altro, inclinando leggermente il capo.
 
-Ma è la verità! Avrei quasi paura ad affondare le unghie nella tua carne.
 
-Perché mai dovresti farlo?-, domandò Sherlock, tradendo una nota di timore.
 
-Nessun motivo in particolare, adesso… Ma è una cosa che si potrebbe fare… durante… ehm… mentre si fa l’amore-. John sentì la pelle diventare sempre più bollente e si sorprese a raggiungere un livello d’imbarazzo fino a quel momento per lui inimmaginabile. -Dai, vieni qui.
 
Lo prese per mano, si infilarono sotto le lenzuola e si strinsero l’uno all’altro. John infilò una mano tra i riccioli scuri dell’altro, iniziando ad accarezzarli dolcemente.
 
-E, comunque, anche tu sei bellissimo…-, sussurrò Sherlock, affondando il viso nella spalla di John e sfiorandola appena con le labbra. Il proprietario della suddetta spalla arrossì violentemente.
 
-Tu sei un po’ freddo, invece...-, mormorò John, stringendo teneramente il suo compagno tra le sue braccia.
 
-Mi stai facendo proprio un sacco di complimenti-, si lagnò Sherlock, solleticandogli il collo con il naso.
 
-Sei ingiusto, ti ho appena detto che ti trovo bellissimo!-, protestò l'altro, sollevandogli piano il capo e catturandogli le labbra in un bacio veloce. -È meglio se sei freddo, così posso scaldarti.
 
Sherlock affondò di nuovo il viso nella spalla di John, sentendo la mano forte e calda carezzargli dolcemente i capelli. Rimasero in silenzio qualche minuto, l'uno nelle braccia dell'altro. Poi il biondo tornò a parlare, con una guancia appoggiata alla nuca del moro.
 
-Così... starai assieme a tuo fratello, nella vostra grande casa...
 
-Mhm... sì.
 
Dalla posizione in cui si trovava, Sherlock non riusciva a scorgere il viso di John, ma riusciva a intuire un certo dispiacere nel tono di voce dell’altro. Inarcò un sopraciglio.
 
-Lo sai che siamo ancora troppo giovani per andare ad abitare assieme-, gli fece notare.
 
-Certo che lo so! Però...
 
Sherlock si puntellò con un gomito sul cuscino e si sollevò appena, giusto per riuscire finalmente a guardare l'altro negli occhi.
 
-Però ti ricordo che mio fratello passa di sovente la notte fuori. Quindi, se in quelle occasioni vorrai stare a casa mia...
 
-Le prove generali di quando andremo a vivere assieme!
 
John sorrise, avvicinò il viso al suo ragazzo per catturargli il naso in un bacio e lo strinse di nuovo a sé.
 
-Sai, improvvisamente vorrei tanto che i tuoi genitori rimanessero qui a Parigi qualche anno-, disse, scompigliando di nuovo i riccioli neri.
 
-Anch'io-, convenne l'altro, baciandogli la spalla. -Anch'io...
 
Sherlock chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi completamente, cullato dal calore del corpo di John e dai battiti dei loro cuori, che sembravano pompare all'unisono. Era sul punto di addormentarsi, quando la voce del ragazzo più grande lo riscosse.
 
-Sai, fino a pochi mesi fa, pensavo...
 
-Mhm?
 
John si sistemò meglio nel letto, piccolo ormai per loro.
 
-Avevo pensato seriamente di arruolarmi, una volta terminata la scuola di medicina.
 
Sherlock spalancò di colpo le palpebre. D'improvviso, non si sentiva più così assonnato. Trattenne per un attimo il respiro, certo che John non se ne sarebbe mai reso conto.
 
-Ripeti?
 
-Arruolarmi, sì. Diventare un medico militare.
 
Il respiro era ancora trattenuto, le orecchie invece in allerta come due antenne.
 
-Come mio nonno-, proseguì John, la mano costantemente ad accarezzare la nuca dell’altro. –Ti ricordi?
 
-Mpf, bene. Sparirai per qualche anno in qualche per posto tranquillo, dal quale forse non farai più ritorno-, mugugnò Sherlock. Ce la mise tutta per non infondere il suo disappunto in quelle parole, ma fallì miseramente.
 
-Ehi, guardami!
 
John gli tirò leggermente i capelli, senza fargli davvero male, quel tanto che bastava per sollevargli il viso e guardarlo negli occhi. Si fissarono intensamente per qualche attimo. Le iridi blu di John erano lucide.
 
-Adoro quando metti il broncio…-, mormorò John, con aria sognante, mentre ripassava il profilo affilato di Sherlock con i polpastrelli. L’altro provò un brivido e distolse lo sguardo, a rimarcare ancora di più il suo broncio.
 
-Comunque, non ne sono più tanto sicuro, adesso-, aggiunse John, avvicinando il viso a quello leggermente voltato dell’altro. Gli sfiorò il naso, aspirando il suo odore. Una volta, due volte.
 
-Sei bravo a baciare all’eschimese-, commentò Sherlock, ridacchiando.
 
-Ho avuto un bravo maestro.
 
John sorrise, giusto prima che le sue labbra venissero catturate da quelle di Sherlock, che gli mordicchiarono il labbro inferiore.
 
-Anche io.
 
Sherlock tornò a sdraiarsi semi abbracciato a John, cingendogli i fianchi e con il viso appoggiato alla forte spalla. Si addormentò serenamente sotto le tenere carezze del suo ragazzo, consapevole di aver compiuto un passo importante verso l’età adulta.
 
 
 
 
 
 
 
L’ultimo giorno del mese di agosto fu quando John decise di utilizzare il suo biglietto aperto per Londra. Sherlock rimase molto contrariato dalla cosa, in quanto anche quella volta avrebbe dovuto rinunciare al piacere di condividere lo stesso volo. Sfortunatamente, nella settimana seguente si sarebbero festeggiati i compleanni di Harriet e della signora Watson e John teneva tantissimo a essere presente.
 
-Dai, sono solo quindici giorni. E poi saremo di nuovo assieme.
 
Questa volta fu John a fare del suo meglio per sembrare il forte della situazione, mentre Sherlock persisteva a rimanere chiuso nel suo silenzio contrariato. Il cielo di Parigi era grigio e qualche goccia di pioggia iniziava a rigare le vetrate del terminal dell’aeroporto.
 
-Sai, credo che Parigi sia più bella sotto la pioggia. [16]
 
-Anche la nostra Londra.
 
Le prime parole di Sherlock dopo ore. Acide e scontrose.
 
-Già, anche la nostra Londra…
 
-Ce l’hai la carta d’imbarco?
 
-Certo che ce l’ho, ho appena fatto il check-in-, rispose John, un po’ contrariato, come succedeva tutte le volte che Sherlock gli dava velatamente dello stupido.
 
-Ma magari l’hai persa.
 
-Da lì a qui?
 
Quiera WH Smith, il giornalaio. Sherlock scrollò le spalle, guardando altrove. Avevano vissuto assieme per due mesi e sarebbe stata dura tornare a essere soli, sebbene la solitudine era stata la sua migliore amica per anni. John lo capiva e, man mano che il momento di salutarsi si avvicinava, la tristezza iniziò a farsi sentire anche in lui.
 
-Dai, due settimane passeranno in un lampo.
 
Gli cercò le mani con le proprie, incrociando le lunghe dita di Sherlock alle sue, più corte ma forti.
 
-Basta che non dimentichi più di accendere il cellulare-, bofonchiò Sherlock, corrugando la fronte.
 
-Promesso, non lo farò più.
 
Poi lo attirò a se e lo strinse forte in un abbraccio, incurante dei turisti e degli uomini d’affari attorno a loro. Adorava il suo Sherlock quando metteva il broncio e, sì, avrebbe sentito anche lui la sua mancanza, il non poterlo baciare per giorni, scompigliare quei riccioli ribelli o addormentarsi con la melodia del suo violino che lo traghettava nel mondo di Morfeo. Ma poi si sarebbero riuniti e sarebbe stato un nuovo inizio. Diverso, più bello.
 
-Promettimi anche che cresceremo assieme. Che diventeremo adulti insieme-, incalzò Sherlock, con il volto schiacciato per metà tra i capelli di John e per l’altra metà nel suo collo. Non poté esserne sicuro, ma a John sembrò sentire una lacrima inumidire la sua pelle; probabilmente fu solo frutto della sua immaginazione, ma scelse di pensare che fosse una lacrima vera, reale, tutta per lui.
 
-Te lo prometto-, disse, accarezzandogli i riccioli scuri. Adesso, due settimane sembravano insormontabili anche per lui. Scostò un ciuffo ribelle dalla fronte di Sherlock e vi depositò un bacio. –Ti amo.
 
John non avrebbe saputo proprio dire come gli uscì dalla bocca. Gli uscì e basta, con naturalezza, dopo mesi di tentativi non andati a buon fine. Sospirò, dandosi dell’idiota perché si rese conto che, in definitiva, si era rivelata la cosa più semplice del mondo.
 
-Lo so. [17]
 
Con il cuore un po’ gonfio di tristezza ma soprattutto avvolto nella speranza, John sciolse quell’abbraccio, le labbra screpolate atteggiate a un sorriso tenero.
 
-Devo andare.
 
-Chiamami appena arrivi.
 
-Ovvio che sì.
 
-E controlla bene di non perdere alcun bagaglio.
 
-Sherlock! Non sono così sbadato.
 
Mescolandosi nel miscuglio di colori, nazionalità e bagagli, i due raggiunsero il punto di controllo della security. John si infilò la carta d’imbarco tra i denti mentre si apprestava a togliere ogni oggetto metallico dalle sue tasche.
 
-Le monetine…
 
-Non ne ho più. Le ho lasciate come mancia alle cameriere.
 
-Magari hai qualche penny…
 
-Oh, è vero. Non dovrei avere nient’altro.
 
-Il cellulare…
 
-Ah, già! Hai ragione.
 
-Ovvio che ce l’ho…
 
John mise tutto in un cestino di plastica azzurra, poi si voltò verso Sherlock per l’ultimo saluto, tirando su col naso.
 
-Suppongo che ora tocchi a me, tenere uno di quegli stupidi tuoi… aggeggi-, borbottò Sherlock.
 
-Quali aggeggi?
 
-Quel calendario su cui segnavi i giorni che mancavano a quando ci saremmo rivisti.
 
John arrossì leggermente, imbarazzato.
 
-Beh, se ti va…
 
-Su, avanti, vai-, lo interruppe Sherlock, sbrigativo, facendo un cenno con la mano.
 
-Okay, giusto, altrimenti mi metto a piangere. E anche tu-, convenne John, facendo un passo avanti.
 
-Io non piango!-, bofonchiò l’altro.
 
-Invece sì!
 
-Invece no!
 
Scoppiarono entrambi a ridere, proprio come due idioti. Due idioti che, grazie a quella risata, si sentirono inspiegabilmente meglio. Sherlock allungò una mano verso il polso di John, accarezzandolo rapidamente.
 
-Muoviti, ci vediamo presto…
 
Lo vide superare il metal detector, rimettere a posto le sue cose, raccogliere il cellulare che fece goffamente cadere per terra, recuperarlo, salutarlo ancora una volta con una mano e scomparire verso il suo terminal. Sherlock affondò entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni e si incamminò verso l’uscita. Iniziò a scegliere mentalmente quale sarebbe stato il calendario migliore da acquistare sul quale iniziare a tracciare le sue X. Lo avrebbe cercato in una delle tante bancarelle lungo la Senna. E poi avrebbe comprato anche qualche nuova partitura da suonare al suo John.
 
 
 
Fin
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:  siamo giunti alla fine. Ormai non ho più nulla da aggiungere a questa storia, è tempo di lasciare andare questi Sherlock e John che ho amato tanto, così come spero anche voi. Mille grazie a voi per avermi seguita fino alla fine, a Doralice e Melian per il betaggio e a tutte le ragazze del TCATH, vi voglio bene! E ora se avete voglia, un po’ di note:
 
 [1] sembra organizzino questi tour solo ad Halloween, ma perdonatemi la licenza. [2] Dede Martin è il nome del cadavere in Frantic. [3] il night-club di Frantic e, perché voglio spammarmi da sola, titolo di una mia fic! [4] citazione da La casa vuota di Conan Doyle. [5] uno dei più noti serial killer americani, mandante dell'omicidio della moglie di Polanski. [6] traduzione di "freak", appellativo rivolto da Donovan a Sherlock nella serie. [7] non so se al Ritz ci sia la TV in bagno, ma per esperienza vi dico che c'è allo Sheraton di New York. [8] il famoso ristorante del Ritz. [9] il mio luogo preferito di tutta Parigi; è la vecchia libreria frequentata da Hemingway e altri scrittori famosi; se ne vede uno scorcio nel film Midnight in Paris. [10] c’è davvero questo chioschetto che fa crepes alla Nutella deliziose, se vi capita di andarci. [11] piccolo omaggio a David Tennant, una delle sue prime macchine. [12] omaggio a Pulp Fiction. [13] in Ultimo tango a Parigi c’è una scena di sesso anale in cui si utilizza il burro. [14] film di animazione della Disney. [15] questa cosa dei turisti giapponesi è vera, mia mamma ha assistito a una scena del genere pochi mesi fa! ^_^ Tant’è che presto i lucchetti verranno rimossi interamente, in quanto sono così numerosi che il ponte rischia ormai di crollare sotto il loro peso. [16] semi-citazione da Midnight in Paris. [17] citazione da Star Wars.
 
 
 
 
 
 
 
 

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